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Anno 327 dopo la caduta della Fortezza

Scogliere vicino a Hedenport, Repubblica Amaniana.


Deverell Von Storm - cavaliere del Sacro Sigillo e maestro d’armi della famiglia Thunderion.

Non è da tutti i giorni sentire che il proprio spirito è appagato. La brezza marina mi riempiva i polmoni men-
tre il tiepido sole dei mesi del Risveglio scaldava gli scogli e faceva brillare le placide onde. Potevo sentirlo
nel dolce brivido sulla mia pelle, appoggiato al tronco ricurvo di uno dei tanti pini marittimi: ero sereno.
Sopra la voce dell’acqua sentivo il chiacchiericcio allegro dei miei giovani soldati, stanchi dopo una mattina-
ta di allenamento e marcia. Li avevo lasciati finalmente intenti a divorare le loro razioni per godermi un
momento di silenzio e solitudine.
Ero contento di quel gruppo: bravi combattenti che avrebbero vestito entro pochi giorni la loro armatura di
protettori della Repubblica. Venivano dalle molte cittadine della costa meloriana ed erano figli di pescatori,
piccoli artigiani o ex-soldati. Tutti nati per guadagnare il pane con il proprio sudore e mostrare gratitudine
per il privilegio di essere in vita in uno dei luoghi più meravigliosi dell’Universo.
Li avevo addestrati a combattere senza paura, ad obbedire senza sottomettersi, a rispettarsi senza smette-
re mai di voler essere i migliori. Dopo tre anni sapevo di aver fatto un buon lavoro.
Vagai con la mente al giorno in cui mi era stato ordinato di diventare maestro d’armi della famiglia Thunde-
rion, dieci anni prima. Avevo pensato che fosse la punizione più dura che potessero infliggermi. Bruciavo
ancora di dolore per la perdita di Lysia e Skylar. Volevo smarrirmi in qualche conflitto di confine, votarmi
alla morte, finire i miei giorni in battaglia. Non ero forse un ottimo guerriero? Un soldato capace e senza
paura, decorato con l’ordine del Sacro Sigillo.
Invece lord Evek mi aveva salvato la vita. Il mio vecchio compagno d’arme, erede del seggio di suo padre nel
consiglio della Repubblica, aveva capito che c’era dell’altro in serbo per me. Prendermi cura di quei giovani
è stata da allora la mia medicina.
Sorrisi malinconicamente e lisciai i miei lunghi baffi striati di grigio.
Quanti uomini sono stato? Quante vite ho cambiato?
Innumerevoli. Povero figlio di un fabbro errante, soldato di ventura sui pianeti coloniali, cavaliere della Re-
pubblica, eroe di guerra celebrato dal popolo e dai potenti, uomo solo e disperato, maestro d’armi di una
nobile casa consolare. Solo due cose sono sempre rimaste le stesse: la mia spada e il mio onore.
Mi sedetti su una delle pietre scaldate dal sole ed estrassi Ultima dal suo fodero. Era stato mio padre a for-
giarla per me, in un’umile fucina di paese. Non aveva che una piccola e impura parte di drakite nella sua le-
ga metallica ma, ogni volta che una lama più “degna” mi era stata offerta durante la mia lunga carriera mili-
tare, avevo ricordato la gioia di mio padre nel crearla e il mio orgoglio nel riceverla.
“Questa lama sarà sempre con te” mi aveva detto con gli occhi lucidi “Non ti tradirà mai e sarà l’ultima ad
abbandonarti se il mondo dovesse crollare”.
Siamo uguali io e te. Semplici e capaci solo di una cosa: mantenere le nostre promesse.
Mentre osservavo i lampi di luce che si riflettevano sulla lama di Ultima sentii alzarsi il tono di alcune delle
voci dell’accampamento alle mie spalle. Forse c’era un piccolo litigio in corso. Cose che capitano fra soldati.
Non ero solito intervenire subito durante le discussioni. I ragazzi dovevano imparare che difendere le pro-
prie ragioni ha un prezzo.
Cercai di ritornare ai miei pensieri nostalgici ma non potei fare a meno di notare che il chiasso stesse au-
mentando e che altre voci si fossero unite alle prime. Le parole non erano comprensibili ma forse l’alterco
stava coinvolgendo tutto il gruppo.
Poi udii l’inconfondibile rumore di lame che si scontrano.
Questo è troppo!
Mi alzai e corsi verso le grida impugnando Ultima. Qualcuno avrebbe pagato caro il suo ardore!
Mentre i colpi si susseguivano rumorosi attraversai la macchia marittima e sbucai sul grande prato dove a-
vevo lasciato i ragazzi. Il gruppo era tutto riunito attorno ai contendenti. Non riuscii a vedere chi fossero ma
il duello era ancora in pieno corso.
Nessun urlo sarebbe stato sufficiente, così attraversai di forza il pubblico spostando i soldati con forza ed
emersi al centro del combattimento con Ultima a farmi da araldo.
Klarion Growson stava colpendo ripetutamente lo scudo di Enk “il rosso”. Il poveretto stava subendo un as-
salto furioso, aveva perso completamente il baricentro e sarebbe finito a terra in pochi secondi. Balzai in
avanti e intercettai la spada di Klarion. Il metallo sprigionò scintille mentre tutti intorno a noi si rendevano
conto di quello che stava per succedere e mormoravano ansiosamente. Fissai Klarion: era carico di esaltata
soddisfazione e una luce crudele gli brillava negli occhi.
Osò assumere una posizione di guardia davanti a me. Forse lo fece di riflesso, senza pensare, ma non a-
vrebbe dovuto.
Insolente!
Senza dire una parola attaccai dall’alto, lui parò come avevo previsto scoprendo la guardia bassa. Feci rote-
are la spada per confonderlo e riprendere posizione e poi, con un calcio a spazzata sotto le ginocchia, lo sbi-
lanciai. Indietreggiò a fatica mentre la sua spada annaspava verso il centro della guardia.
E’ già nel panico.
Lo incalzai incontrando la sua arma e costringendolo ad abbassarla per poi sollevare Ultima e scaricare
l’elsa fra il suo collo e la spalla destra. Gli occhi di Klarion si dilatarono per il dolore. Lasciò cadere la spada e
crollò in ginocchio, gemendo.
Lo presi per i capelli e gli parlai ad un palmo dal volto: “Credo che tu sia nei guai soldato”.

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In quel momento.
Tana di Samyra, sulle alture di Hedenport.
Feanor di Granwald - Prima ammaliatrice della famiglia Thunderion.

Entrare nella tana di una draghessa che sta covando il suo unico, preziosissimo uovo è un compito pericolo-
so. Mi voltai a guardare i soldati che si erano fermati sul ciglio del grande cunicolo d’ingresso e li vidi lan-
ciarsi occhiate preoccupate. Ne avevano tutte le ragioni.
Cercai di sembrare sicura e mi girai di nuovo verso la mia destinazione. Deglutii per l’ennesima volta. La sa-
liva continuava a riempirmi il palato e i palmi delle mani erano fradici, come se tutto il sudore del mio corpo
si fosse concentrato lì. Li asciugai di fretta sulle maniche della mia lunga veste viola. Quel colore assomiglia-
va ai riflessi dei quarzi preferiti dai draghi della specie di Samyra, avrebbe dovuto rilassarla e darmi qualche
momento in più per iniziare il canto.
Avanzai lungo il tunnel, rischiarato dai bracieri con il simbolo della lancia alata e della bilancia, le due effigi
della famiglia Thunderion. Probabilmente ero la più giovane prima ammaliatrice di tutta la Repubblica, e
sicuramente la più inesperta. Il fato mi aveva giocato un pessimo scherzo e ora sulle mie spalle gravava un
peso che non credevo di poter sopportare. Non ero in grado di gestire uno stormo imponente come quello
di lord Evek, lo sapevo bene. E lo sapevano tutti dannazione! Troppe cose da organizzare, troppi dettagli da
tenere a mente e persone con cui discutere. Non avevo la stoffa per quelle cose!
Sul ciglio del pozzo discendente fui presa da un fugace mancamento.
Dei! Aiutatemi!
Solo sei mesi prima ero una felice venticinquenne alle prese con Flarion, il mio giovane e docile drago da
accudire. Avevamo creato un legame meraviglioso e dovevo a malapena cantare per capire di cosa avesse
bisogno o addestrarlo a nuovi compiti. Sognavo di partire con lui e il prode cavaliere che lo avrebbe scelto
entro i tre anni seguenti e che sarebbe stato coraggioso e forte e mi avrebbe sicuramente considerata indi-
spensabile, capace … e magari bellissima. Avremmo creato un’intesa straordinaria e ci saremmo sposati e
avrei visitato terre lontane, pranzato con ricchi signori e accompagnato il mio drago fino alla mia morte,
dopo molto … moltissimo tempo. Flarion avrebbe pianto sulla tomba e tutti mi avrebbero ricordata con un
fiore delicato e gentile come me.
E poi era accaduto.
Lady Ariana, la bellissima moglie di lord Evek, prima ammaliatrice, donna misteriosa e di grande fascino,
nonché maestra di tutte le ammaliatrici di Hedenport, aveva dato alla luce due gemelli. La notte dopo il
parto, lord Evek l’aveva lasciata a riposare vicino alla culla dei piccolini. Al suo ritorno non l’aveva più trova-
ta. La guardia cittadina e i migliori cavalieri della famiglia erano stati inviati alla sua ricerca. Ma dopo una
settimana ci dovemmo rassegnare: lady Ariana era scomparsa nel nulla.
Tutti ad Hedenport sapevano che la moglie di lord Evek soffriva di una rara malattia per la quale avrebbe
dovuto essere incapace di generare prole per il suo nobile marito. Alla notizia della gravidanza molte male-
lingue avevano cominciato a spargere per la città le voci più disparate, prima fra tutte quella secondo la
quale la mia maestra avesse fatto ricorso alle arti oscure della negromanzia nella speranza di non deludere
lord Evek e vedersi rimpiazzata. Io ero fra le più intime delle sue discepole e sapevo bene quanto i due si
amassero, ma non potevo negare di averla vista assentarsi per lunghi periodi di tempo in passato. Al ritorno
dai suoi viaggi era sempre scossa ed incapace di cantare per giorni. I draghi la evitavano e si allontanavano
da lei come da un appestato. Quali che fossero i suoi problemi, tutto sembrò finire con l’inizio della gravi-
danza. La luce era tornata nei suoi occhi e la gioia sembrava non abbandonarla mai. Lord Evek la copriva di
attenzioni e lavorava alacremente ai progetti per le stanze dei nascituri chiamando a palazzo le migliori le-
vatrici e i più grandi educatori.
La nascita dei gemelli fu un evento straordinario. La gioia, la curiosità, la commozione per quella coppia così
importante … e poi il disastro. Ricordo che piansi per una notte intera.
Tre sere dopo fui convocata al cospetto di lord Evek. Nessuno l’aveva più visto dopo la sparizione della mo-
glie e lo trovai provato dal dolore e prosciugato dal digiuno e dagl’incubi. La stanza dei ricevimenti odorava
di cibo andato a male e le finestre erano sprangate. La sua barba sempre curata era ispida e disordinata e
solo il consigliere Patrizio gli stava al fianco.
Mi disse che Hedenport aveva bisogno di una nuova prima ammaliatrice. I draghi erano inquieti e non si la-
sciavano cavalcare. Io pensai che volesse chiedermi di proporre un nome e stavo per parlare a favore di Zo-
rilda, quando lui si alzò e disse le parole che da quel momento popolarono le mie notti insonni: “Lady Aria-
na ha sempre detto che sei la sua allieva più dotata, Feanor di Granwald. Il gravoso compito di preparare i
draghi di Hedenport è ora sulle tue spalle. Non deludere me e la memoria della tua maestra”.
Non deludere me e la memoria della tua maestra … Il gravoso compito è ora sulle tue spalle …
Avrei volentieri rifiutato se fosse stato possibile. Sarei scappata quella sera stessa se le leggi non avessero
previsto la mia morte sotto la ghigliottina. Mi sarei offerta di partire per una missione suicida nei sette infe-
ri per riportare indietro lady Ariana se avessi avuto anche solo la più pallida idea di dove potesse essere
sparita. Invece mi inchinai tremante e mi ritirai nelle mie nuove e lussuose stanze. Solo il cuscino di piuma
d’oca conobbe le mie lacrime quella notte.
La tana di Samyra era una delle più grandi. Vi entrai con grande rispetto perché la draghessa aveva più di
duecento anni, aveva combattuto in innumerevoli guerre e dato alla luce ben tre cuccioli. Lei mi fissava
nella semioscurità. Il suo grande corpo azzurro era avviluppato attorno ad un uovo delle dimensioni di un
bambino umano. Era meravigliosa.
Sicuramente sapeva del mio arrivo da quando avevo imboccato il tunnel d’ingresso. I sensi dei draghi sono
sviluppatissimi ed in particolare udito e olfatto non hanno eguali nel regno naturale. Al suo cospetto sicu-
ramente puzzavo di paura e la cosa mi faceva cedere le ginocchia.
Samyra alzò la sua bella testa affusolata allungando il collo possente. I suoi occhi neri come la notte mi fis-
sarono minacciosi e un ringhio vibrante le rimbombò nel petto.
Non voleva essere disturbata. Il suo piccolo era tutto quello che voleva vedere e io rappresentavo
un’intrusione fastidiosa o peggio, un pericolo per l’uovo.
Se non si è mai stati al cospetto di un drago adulto non si può capire il terrore ancestrale che queste creatu-
re sono in grado di instillare. Avevo studiato a lungo ma con Flarion era come andare a trovare un amico.
Qui mi sento come il ladro che ruba in casa del boia …
Avanzai di qualche passo e lei fece schioccare la grande coda come una frusta mortale. Tutto il mio corpo
mi gridava di scappare a gambe levate. Invece cominciai a cantare.
I draghi sono antichi. Più primitivi di quasi tutte le creature e persino della magia. Sono collegati con il
mondo da un’armoniosa consonanza che gli esseri umani non hanno mai posseduto e non sapranno mai
comprendere. Solo una cosa ci permette di comunicare con loro: la musica.
Cantai una delle melodie sacre, codificate in secoli di studi dagli ammaliatori di draghi. Samyra rimase im-
mobile ad ascoltare. Sapevo che quei suoni avrebbero denudato la mia mente. Se le parole sono fatte per
essere manipolate a nostro uso e consumo, la musica ci spoglia di ogni finzione: è lei che ci consuma fino a
lasciare esposto il nostro nucleo più genuino. Quello che siamo e basta.
Il collo di Samyra iniziò a dondolare ritmicamente.
Cosa vede dentro di me? La paura? L’insicurezza?
Per un attimo la mia voce tremò e le ali della draghessa sembrarono allargarsi, i suoi artigli affondarono nel
terreno, lacerando la pietra. Cercai di sgombrare la mente e lasciare ogni preoccupazione alle spalle. Per un
momento ci riuscii e fummo solo io e il mio canto. Chiusi gli occhi e quando li riaprii Samyra era rilassata e
mi guardava con curiosità.
Presi la campana di rilian purissimo, strumento delle prime ammaliatrici. La suonai tre volte, lasciando che
l’eco dell’ultimo rintocco riempisse l’aria e si espandesse fino a confondersi con il silenzio, poi mi avvicinai e
sfiorai il muso di Samyra con la mano. Mi sentivo in paradiso!
Era bellissimo sentirsi accettate e complici di una creatura così antica, potente e sensibile. Speravo che lei
capisse quanto mi sentissi onorata di quel momento di amicizia.
Cercai di concentrarmi sul mio compito. La visitai brevemente per accertarmi del suo stato di salute. La tro-
vai in perfetta forma. Poi estrassi dalla mia borsa a tracolla il calice d’oro che dovevo consegnarle. Era un
dono del suo cavaliere: lord Evek in persona. Samyra lo annusò e ne ammirò la squisita fattura. Ne vedeva
le forme ma ancora di più poteva apprezzare il lavoro degli artigiani che lo avevano costruito, ne sentiva
l’odore, ne udiva le voci. I cavalieri erano soliti mandare dei doni ai loro draghi per rinsaldare il loro legame
di amicizia. In questo caso il prezioso calice rappresentava anche un modo per congratularsi con Samyra per
il suo uovo. Un nuovo drago era una cosa rara e di incommensurabile valore.
La draghessa prese il calice fra le affilatissime zanne e lo depose sul suo tesoro personale. Come tutti sanno
i draghi dormono sull’oro e ci passano sopra talmente tanto tempo parti del loro bottino finiscono incasto-
nate nel ventre. Mi concesse un ringhio squillante e divertito. Sembravamo quasi amiche!
A quel punto mi feci coraggio e tentai la parte più rischiosa. Mi avvicinai all’uovo per controllarne lo stato di
salute.
Non riuscii a fare un passo che Samyra drizzò il collo e fece guizzare la testa davanti a me. I suoi occhi ribol-
livano di irritazione e fra le zanne si vedeva il rosso acceso delle fiamme con cui poteva incenerirmi.
Fui sul punto di cadere all’indietro per lo spavento e sentii la gola seccarsi e il mio corpo diventare freddo e
rigido. Mi tremavano le mani. Cantai qualche accenno di melodia e suonai la campana. Un tentativo malde-
stro e cacofonico. Lei però sembrò intenerirsi … e le fiamme scomparvero dalle fauci. Sbuffò un alito roven-
te dalle narici che mi fece rizzare i capelli in testa bruciacchiandone le punte. Poi si scostò.
Visitai l’uovo con attenzione senza che lei mi perdesse un attimo di vista. Sentivo i suoi occhi su di me.
La forma sembrava buona, lo spessore del guscio eccellente. Presi il corno per ascoltare il battito interno e
lo appoggiai all’uovo. Lei si avvicinò. Paradossalmente nonostante siano perfettamente consapevoli di tutti
i rumori interni all’uovo, i draghi non hanno conoscenza per capire se un battito sia regolare o se ci siano
sintomi di qualche malattia o deformità … in più nessuna madre sa accettare un fato infausto per il proprio
cucciolo.
Accostai l’orecchio e sentii il cuore del piccolo: era debole, scostante e poco chiaro. Un brutto segno. Sam-
yra mi fissò preoccupata. Aveva capito tutto: il suo quarto figlio era fragile e avrebbe potuto non reggere
allo sforzo della nascita. Ma la vita di un drago era preziosa e gli umani avevano a lungo studiato i modi di
preservarla. Con un po’ di cure il cucciolo sarebbe nato senza problemi: unguenti, magie e canti speciali lo
avrebbero protetto e guarito. La fissai lungamente e capii di averle trasmesso la mia sicurezza. Me ne fu
grata. Non so come lo percepii ma fu una chiara consapevolezza fra di noi. Quel cucciolo sarebbe nato e
niente al mondo lo avrebbe strappato alle nostre cure.
La lasciai con un sorriso, lei mi rispose con un inchino. Non so dire quanto mi fece felice.
Quando uscii dalla grotta i soldati mi fissarono con un rispetto nuovo. Io li oltrepassai con un sorriso solare
e il passo di una vera lady. Solo dopo mi accorsi di avere ancora i capelli dritti e il volto chiazzato di fuliggi-
ne. Dovevo dire a lord Evek che l’uovo del suo drago aveva bisogno di cure. Gli avrei spiegato come accudir-
lo e dimostrato la mia ottima conoscenza medica di ammaliatrice. Lui si sarebbe congratulato con me e …
Dannazione Feanor … stai di nuovo sognando! Concentrati!
Era primo pomeriggio e presi la via del castello.

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In quel momento
Tenda da campo di Deverell Von Storm
Deverell Von Storm - cavaliere del Sacro Sigillo e maestro d’armi della famiglia Thunderion.

Klarion Growson ed Enk il rosso stavano sull’attenti davanti a me. La fresca ombra della tenda offriva ai no-
stri occhi un po’ di quiete dal sole accecante del pomeriggio. I due ragazzi erano pieni di lividi che comincia-
vano ad annerire dopo il rossore iniziale. Ansimavano per la fatica, la rabbia repressa e l’imbarazzo.
Mi concessi un lungo attimo di silenzio per dare più gravità alle parole: “Quello che avete commesso è im-
perdonabile”.
“Signore io …”
“Silenzio Klarion! Qualsiasi motivazione possiate accampare dovreste vergognarvi!” mi avvicinai: “Mancano
pochi giorni alla vostra investitura a soldati della Repubblica e per giunta stasera la console Lucilia sarà ospi-
te di lord Thunderion con la sua guardia d’onore. Volete che presenti due dei miei uomini in queste condi-
zioni?!”
Si guardarono. Enk fece un passo avanti: “Signore, io non ho fatto altro che difendere l’onore di lady Aria-
na”
Klarion si fece acido: “Sì … certo”.
“Silenzio!” Non potevo proprio sopportare i modi arroganti di Klarion: “Enk. Cosa intendi?”
“Klarion Growson ha osato diffamare la memoria della nostra amata lady”
“Ho detto quello che sanno tutti”
Cominciavo ad arrabbiarmi: “E cos’è che sanno tutti?”
Klarion avrebbe potuto stare zitto, ma era uno sbruffone e mi sfidò: “Che è una strega”.
Sentii le vene del mio collo pulsare intensamente: “Lady Ariana non praticava le arti oscure. Ed è morta”.
“Molti dicono di no”.
Ne avevo abbastanza. Stare lì a discutere con un soldatino sbarbato che aveva la metà dei miei anni non a-
vrebbe portato a nulla: “Siete entrambi in punizione”. I loro occhi si fecero imploranti: “Non posso tollerare
scontri fra i miei uomini. Un soldato della Repubblica deve imparare a tenere per sé le proprie opinioni. I
consoli rappresentano il popolo e noi dobbiamo difendere la loro dignità” diedi loro le spalle perché non
intuissero il dubbio che albergava nel mio cuore: “Soprattutto dalle menzogne”. Ci fu silenzio: “Al ritorno in
caserma sarete confinati per tutta la sera nelle vostre camerate. Le pulirete con cura e poi farete lo stesso
… con le latrine”.
Avvertii chiaramente i loro gemiti di preoccupazione, ma i due erano giovani, non pazzi e così non commen-
tarono. Dopo il saluto militare si affrettarono ad uscire.
Quando finirà?
Erano passati sei mesi dalla scomparsa di Ariana e ancora le voci non si erano acquietate. Naturalmente
nulla giungeva direttamente alle orecchie di Evek, ma le calunnie e i pettegolezzi strisciano ovunque e così
lui riusciva ad intuire tutto negli sguardi e negli accenni dei suoi sottoposti.
Eravamo stati addestrati per sconfiggere nemici in carne ed ossa. Questo spettro venefico però si faceva
beffe delle nostre spade e del nostro coraggio. Eppure Evek era riuscito ad andare avanti. Da qualche tem-
po il suo sguardo era tornato luminoso e i suoi pensieri erano di nuovo indirizzati al futuro. Tutto merito dei
gemelli, un maschio e una femmina. Ricordai la mia gioia immensa alla nascita di Skylar, avrei spiccato il vo-
lo per l’orgoglio quasi fossi stato l’unico padre sul pianeta. Ero davvero felice che il mio vecchio amico aves-
se ritrovato un po’ di pace ma sapevo bene come quella fitta che sentivo nel cuore ogni volta che ci incon-
travamo potesse essere una cosa sola: invidia. A entrambi era stato strappato l’amore, ma a lui era rimasto
il futuro.
Sono un ingrato!
Non dovevo permettere a quei pensieri di albergare nella mia mente. Mi lavai il volto con l’acqua fresca
della bacinella, piccolo privilegio del capitano, poi uscii nell’accampamento.
I miei duecento uomini stavano smontando il campo. Un lavoro ben fatto. I carristi stavano riposizionando i
cristalli di Valnim nelle pance d’acciaio dei cingolati e tutte le armi da addestramento venivano riposte con
cura nei trasporti minori trainati dai grandi bufali da guerra. Normalmente avremmo passato anche tutto il
tardo pomeriggio a provare manovre e a simulare combattimenti ma la visita della console richiedeva una
bella ripulita alla soldataglia.
Inalai la brezza marina e lasciai che le mie orecchie inseguissero il rumore delle onde oltre il chiasso metalli-
co del campo. Sarebbe stata una serata noiosa.
Sopra la mia testa sfrecciarono due draghi bardati con i loro cavalieri. Li seguii nelle traiettoria che traccia-
vano verso Hedenport. Non erano dei nostri.
E’ arrivata l’avanguardia delle truppe della console.
Lady Lucilia apparteneva ad una famiglia consolare minore. Avevo saputo che stava spostando delle truppe
per imbarcarle verso Azumoth, in difesa delle nostre popolazioni, su quel pianeta che stava subendo fre-
quenti attacchi. Le orde era sicuramente armate dall’impero di Parnia Solaris.
Commercio, guerra, espansione, risorse, esplorazioni, spionaggio. Le vecchie parole che avevano guidato la
mia vita di soldato fino a dieci anni prima. Una vita che non rimpiangevo per nulla. Ad Hedenport avevo
trovato la pace e, viste tutte le cicatrici che portavo sulla pelle e sull’anima, era davvero tempo di gustarla.
I due draghi incrociarono uno dei nostri che si era alzato in volo dalle torri di guardia. Girarono in cerchio
per scambiarsi il loro saluto ruggente. Probabilmente avevano combattuto assieme in qualche conflitto, in
passato. Dopo alcune vigorose evoluzioni, il nostro drago guidò i due visitatori verso il castello.
Li vidi sorvolare il grande porto marittimo, passare fra le torri, planare sul quartiere degli artigiani e poi spa-
rire in direzione del possente castello dei Thunderion.
“Signore, siamo pronti a partire”. La voce di Jaroth mi riportò a terra. Era al mio fianco assieme agli altri uf-
ficiali.
“Bene. Dai ordine di mettersi in marcia” ci scambiammo un’occhiata complice: “stasera dovremo fare i ma-
nichini, signori. Portatevi un grembiulino”. Con una risata ci dirigemmo verso il carro degli ufficiali e fa-
cemmo rotta verso Hedenport mentre il cielo cominciava a tingersi del caldo colore della sera.

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Un’ora dopo.
Sala del consiglio di Hedenport – Castello della famiglia Thunderion.
Lord Evek Thunderion - console maggiore della Repubblica di Aman.

La riunione del consiglio andava avanti ormai da due ore. Dopo aver trattato della costruzione di un nuovo
grande molo per le navi del sale e aver ascoltato i rappresentanti delle gilde mercantili, i tesorieri avevano
iniziato a rendicontare le spese sostenute per lo stormo nei quattro mesi precedenti. Nuove bardature per i
draghi che avevano raggiunto l’età adulta, spese per i terreni di caccia a loro riservati, costose cure ed un-
guenti per il povero Gromdel, ormai divorato dalla scabbia rossa rettiliana, lavori di scavo per ricavare un
altro complesso di tane sul versante est del Picco di Kador ed assicurarsi un posto per i draghi che sarebbe-
ro nati dalle tre uova attualmente in procinto di schiudersi.
Avrei dovuto prestare attenzione, ma la mia mente aveva iniziato a vagare.
Ariana … Ariana … Amore mio.
Stavo riuscendo a far credere ai miei consiglieri di aver recuperato serenità e vigore dopo la sua scomparsa,
ma non c’era momento del giorno in cui il mio pensiero non tornasse a lei. Il suo viso stravolto ma felice
dopo il parto era come impresso a fuoco sullo sfondo di ogni mio pensiero.
Sei mesi! Già sei mesi senza di te. Ad affrontare le voci, le maldicenze, i silenzi e gli sguardi sfuggenti.
“ … ma non sono sicuro delle capacità della nuova prima ammaliatrice. Console?” La voce di Baros Gardner
mi riportò alla fredda superficie del mio scranno di pietra.
“Sì consigliere Baros. Stavo ascoltando” non avrebbe osato metterlo in dubbio: “Ma vorrei che specificaste
meglio le vostre perplessità”.
“Beh, mio lord, Feanor di Granwald è troppo giovane a mio parere. Il suo carattere sembra risentire delle
pesanti responsabilità legate al ruolo che ricopre”.
Scrutando gli altri consiglieri mi resi conto che più della metà di loro era d’accordo con Baros, così decisi di
non osteggiarlo: “E voi cosa suggerite?”
“La farei sostituire con una ammaliatrice più esperta e matura”.
Sorrisi: “Come la vostra consorte?”. Dal tavolo si levò qualche risata sommessa. Baros aveva sbagliato a pe-
rorare quella causa in prima persona. I suoi interessi personali in merito erano fin troppo chiari.
Lui incassò il commento senza scomporsi: “Zorilda sarebbe di certo perfetta per quel ruolo, ma non oserei
mai fare dei nomi o avanzare pretese … per quanto ragionevoli. Spetta a voi decidere”.
“Ed è quello che ho fatto quattro mesi fa. Mi pare che i draghi stiano bene e che tutto proceda come al soli-
to”. Le ultime parole le dissi con grande fatica.
Tutto è diverso invece.
Toriias Finnergan, il consigliere che gestiva i contatti con Aman, si mosse a disagio sulla sedia: “Devo far no-
tare al mio lord che presto arriverà il tempo del Grande Volo. Fino ad ora non ci sono stati problemi ma la
gestione quotidiana è nulla in confronto”.
Baros annuì: “Dare ad una ragazzina il compito di curare lo stormo durante le battaglie per la supremazia
con i draghi di tutto il continente mi sembra quasi folle”.
L’aveva detto. Aveva detto “folle”. Ecco quello che cercava di comunicare al consiglio. Il console Evek è im-
pazzito. La perdita della moglie lo ha piegato irreparabilmente e potrebbe anche già essersi immischiato
con gli oscuri affari di lady Ariana. Potrebbe essere un necromante adesso. Tutto per quell’assurda creden-
za! Le mie mani tremarono per la rabbia sui braccioli del seggio di pietra e un fremito violento mi percorse
dalla testa ai piedi. Il peso oscuro dell’impotenza mi schiacciò il petto.
Come si possono contrastare le mezze parole? Come si vince contro i fantasmi?
“Consigliere Baros non tollererò altre insinuazioni!”
Baros sembrò genuinamente sorpreso: “Non ho insinuato nulla mio lord. Facevo solo delle considerazioni,
come il mio ruolo mi impone”. Forse aveva ragione. Forse stavo esagerando. Il consiglio ammutolì e io capii
di aver sbagliato tattica. Ero sempre stato ragionevole e saggio: una simile reazione non era da me. Era
questo che stavano pensando.
Cercai di ritrovare la calma, mi alzai e sorrisi in modo disteso: “Nella Repubblica di Aman, tutti serviamo il
popolo. Nessuno può ricoprire una carica se non merita di farlo. Né io, né voi … né tantomeno Feanor di
Granwald. Qualora si dimostrasse incapace di curare lo stormo sarei il primo a revocare la sua nomina, po-
tete starne certi”.
Toriias Finnergan sembrò soddisfatto: “Sagge parole”. Anche Baros si rilassò sulla sedia. Di certo pensava
che un giorno avrebbe potuto rivoltare quei principi contro di me.
Non ne avrai occasione.
Un console maggiore apparteneva al consiglio della Repubblica in modo permanente ed ereditario. Rappre-
sentava la propria regione e veniva incaricato di gestire aspetti particolari del governo amaniano. La mia
famiglia da sempre amministrava la costa meloriana ed in particolare gli interessi di Hedenport. La nostra
città aveva due grandi fortune: era un porto naturale straordinariamente protetto per i grandi pescherecci
che navigavano sull’Oceano di Myron ed era circondata da montagne alte e costellate di grandi caverne che
nei secoli avevano attratto molti draghi azzurri, divenendo la casa di uno degli stormi più importanti della
Repubblica.
Come accadeva per tutti i rampolli delle famiglie consolari, io ero stato affidato sin da piccolo alle cure di
tutori scelti da Aman ed avevo affrontato un percorso estremamente severo che mia aveva formato per il
ruolo che ero nato per ricoprire. Avevo studiato le leggi, la diplomazia e la storia della Repubblica, servito
nell’esercito ed ero poi stato assegnato a ruoli amministrativi sempre più complessi. Si potrebbe dire che
un console maggiore sia una proprietà del popolo amaniano. Un uomo o una donna che viene cresciuto per
un solo scopo: gestire le risorse e i problemi della propria gente.
Nonostante questa ferrea educazione, non mancavano casi di consoli che si rivelassero poi inadatti al loro
ruolo. La Repubblica di Aman poteva rimuoverli e sostituirli secondo un’articolata serie di leggi per cui il
console rimaneva tale solo in via onoraria e trasferiva tutti i suoi poteri ad un politico eletto direttamente
dal popolo. Se il vecchio console avesse avuto dei figli ad essi sarebbe stata data la possibilità di recuperare
il titolo. In caso contrario, o nell’eventualità che anche i suoi eredi si rivelassero inadatti, la famiglia sarebbe
stata privata del rango consolare e rimpiazzata.
Nessun trono è comodo.
Il consiglio si era rilassato e piccole conversazioni iniziarono a frammentare l’attenzione dei presenti. Io mi
concessi un attimo di pausa e mi rivolsi a Patrizio, cerimoniere e responsabile delle tesorerie del castello.
Come sempre stava in piedi al mio fianco e durante il consiglio riceveva i messaggi dai servitori che non po-
tevano disturbarmi direttamente. “Notizie della console Lucilia?”.
“Sono arrivati al castello due draghi del suo seguito. Hanno consegnato la richiesta di ospitalità e avanzato
piccole questioni per la sistemazione delle truppe e della console”.
Tutte cose che poteva gestire senza il mio intervento: “Bene. Congedati e vai ad accoglierla”
“Sì mio lord”. Patrizio era un uomo avvezzo alle corti della Repubblica. Paffuto e dall’espressione mansueta,
nascondeva in realtà una spiccata capacità di raccogliere voci e umori dalle fonti più disparate. Era stato lui
il primo ad informarmi delle subdole accuse contro Ariana. Nel tempo queste sue capacità gli erano valse la
mia considerazione e lo avevano reso influente quasi quanto un consigliere. “Se permettete vorrei ricordar-
vi che al tavolo principale questa sera siederà anche il reverendo Morgodel. Da tempo vuole che finanziate
la sua missione lungo i confini orientali”.
“Che ci pensino i suoi fedeli a farlo”. Morgodel era un fanatico e le sue insinuazioni riguardo ad Ariana lo
rendevano se possibile ancora più indigesto.
Patrizio mi si avvicinò all’orecchio perché nessuno ci udisse: “Potrebbe forse mettervi in imbarazzo davanti
alla console Lucilia”.
Mastro Hagostinus cominciò a richiamare l’attenzione dei presenti perché ci concentrassimo sugli ultimi
punti all’ordine del giorno. Decisi di chiudere la conversazione: “Lucilia è una console minore. Starà al suo
posto e si godrà il banchetto senza interferire nei miei affari con il culto dei Profeti”
“Come credete mio lord”. Con un inchino si congedò, lasciandomi alle considerazioni dei consiglieri sui ce-
dimenti strutturali delle strade consolari di nostra competenza.
Negli ultimi tempi i pareri di Patrizio erano sempre più diretti e ben farciti di pettegolezzi e dettagli sulle se-
grete aspirazioni delle parti in causa. Forse sbagliavo a confidarmi così spesso con lui.
Mi racconta i segreti degli altri … ma cosa ne fa dei miei?
Ero in una situazione delicata. Ariana era stata per anni la mia unica e vera confidente e consigliera. La mia
solitudine mi rendeva debole e dovevo espormi per trovare nuovi equilibri. Avrei dovuto concentrarmi sulla
sfida del potere, difendere il mio onore e il nome della famiglia Thunderion. Ma dentro di me sapevo di non
averne le forze. Per quanto potevo simulare di aver superato la scomparsa di mia moglie e di essere di nuo-
vo in grado di governare Hedenport e la costa meloriana? Per quanto potevo fingere di credere che nessu-
na delle voci sul suo conto fosse vera?
Mi concentrai sulle proposte di manutenzione della strade. Il trono era scomodo e freddo. Quella sera avrei
dovuto recitare ancora. Avrei mangiato e discusso amabilmente. Mi sarei mostrato interessato ai futili ten-
tativi di Lucilia di scalare la gerarchia consolare con la sua piccola spedizione militare su Azumoth. Poi avrei
fatto visita ai gemelli e chiesto alla balia se stavano bene. Infine avrei chiuso le porte della mia stanza e fi-
nalmente sarei stato libero di essere quello che ero.

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In quel momento.
Forte Azzurro – sulla strada di collegamento fra Hedenport e le tane dello stormo.
Feanor di Granwald - Prima ammaliatrice della famiglia Thunderion.

Il mia giornata stava per concludersi. Ero entrata in tutte le tane e avevo controllato le altre due uova, che
per fortuna erano in ottima salute. La parte più triste era arrivata come sempre nella dimora di Gromdel.
Era stato un drago magnifico. In gioventù il nonno di lord Evek lo aveva eletto come sua cavalcatura e tutti
pensavano che avrebbe superato i trecento anni, età critica per la sua razza. Potenzialmente un drago può
vivere migliaia di anni, ma nel sangue di queste creature si mescolano magia antica e un destino di battaglie
e guerra. Il loro corpo segue delle leggi molto particolari. Se un drago rimanesse da solo in un territorio di
grandi dimensioni potrebbe crescere a dismisura, invecchiando senza perdere vigore e raggiungendo età
incalcolabili. Al contrario, più contendenti si trovano in un unico territorio, minore sarà il loro sviluppo fisi-
co. Se un drago non continua a crescere, intorno ai trecento anni di età possono presentarsi gravi problemi
fisici: malattie, debolezza, demenza, progressivo arresto di tutte le sue funzioni vitali. Né il canto, né la ma-
gia possono contrastare questa sorte. D’altra parte non è nella loro natura … e siamo stati noi a infliggere
questa condanna.
Secondo gli storici le prime grandi ondate di navi che fuggirono dall’Impero solariano giunsero ad Aman
tremila anni fa. Erano vascelli rudimentali e approdarono sul pianeta dopo un viaggio che doveva essere
stato rischiosissimo. In quel tempo Aman era un territorio selvaggio e lussureggiante. I draghi dominavano
tutti e tre i continenti e le forze magiche erano ancora libere da qualsiasi giogo. L’equilibrio naturale si fon-
dava su continue lotte e grandi cataclismi intervallati da periodi di relativa stabilità. I draghi combattevano
per la supremazia e i più forti crescevano e creavano veri e propri stormi di discendenti e avversari sconfitti
al loro comando.
Quando studiai per la prima volta i resti dei draghi antichi rimasi esterrefatta. Erano enormi. Avrei dato
qualsiasi cosa per vederne uno vivo! Purtroppo l’arrivo dei nostri antenati cambiò le cose. Dopo secoli di
scontri sanguinosi, gli esseri umani riuscirono finalmente ad addomesticare i primi draghi. Scoprimmo il
canto e imbrigliammo le forze selvagge della magia naturale. Lentamente cominciammo a vincere.
I draghi non sono in grado di creare alleanze. Sono nati per combattere e quando gli stormi addomesticati
dai coloni iniziarono a crescere in forza e numero nessuno dei grandi dragoni riuscì ad opporre resistenza.
Terminò così l’era antica e l’equilibrio di forze che ne sosteneva il peso fu irreparabilmente alterato. I gio-
vani draghi furono abituati a vivere assieme senza combattere, ad accettare di essere cavalcati, nutriti e cu-
rati dagli umani. La loro forza declinò e nessun esemplare riuscì mai più a superare i seicento anni.
Tutta la mia vita ruota attorno a loro. Li amo, mi affascinano e trovo la loro indole molto più nobile e since-
ra di quella degli uomini. Ma quando sono davanti ai loro occhi fieri non posso che provare un velo di tri-
stezza e vergogna: cosa abbiamo fatto a queste magnifiche creature? Quale enorme responsabilità ci siamo
accollati nel mutare così drasticamente la loro natura?
Come posso dire di amarvi se ogni giorno appesantisco con le mie cure il fardello della vostra schiavitù?
Con questi pensieri in testa camminavo veloce per i grandi saloni del forte azzurro. Speravo che nessuno mi
fermasse chiedendomi istruzioni. In teoria sarebbe stato mio compito dirigere tutti i soldati e le altre am-
maliatrici, i giovani apprendisti dell’accademia di magia che venivano a prestare servizio alle tane e gli at-
tendenti … ma tutti sapevano esattamente cosa fare e probabilmente non desideravano che una ragazza
desse loro ordini. Dal canto mio, cercavo di sgattaiolare inosservata e di tirare avanti fino a sera.
C’ero quasi riuscita quando sentii la voce tagliente di Zorilda alle mie spalle: “Prima ammaliatrice”.
Doveva essere una specie di saluto ma io trasalii per lo spavento voltandomi di scatto: “Oh … Zorilda”
Guarda che figura che ho fatto!
Aveva più di cinquant’anni ma le polveri con cui truccava il viso la mascheravano sapientemente. Sorrise:
“Spero di non avervi disturbata”.
Ogni volta godeva della mia insicurezza: “No … non preoccuparti … stavo pensando a … come organizzare …
l’addestramento di domani”.
Mi parve che uno strano bagliore malevolo le attraversasse lo sguardo: “Sono sicura che farete tutto al me-
glio prima ammaliatrice. Se permettete avrei un problema da sottoporvi”.
“Dimmi pure” mi si fiaccarono le ginocchia dall’agitazione.
“Questa sera sarò di veglia alle tane e so che c’è la festa per questa console … come si chiama?”
Eh … come si chiama?
Esitai: “Non so”.
“Ah … mi pare si chiami Lucilia”
Ti pare? Che insolente! Lo sapevi già … e io no. Naturalmente …
“Vuoi partecipare Zorilda? Ti sostituisco se vuoi”. Sarebbe stato un sollievo.
“No” di nuovo quel lampo nello sguardo: “Ma visto che arriveranno diversi draghi degli stormi dell’est vor-
rei il permesso di chiudere i cancelli. Una precauzione per evitare incidenti”.
Non ci avevo pensato. In effetti ci sarebbe stata una certa agitazione e qualche maschio particolarmente
aggressivo avrebbe potuto causare problemi. Zorilda era un’ottima ammaliatrice e aveva almeno il triplo
dei miei anni di pratica sulle spalle. Dovetti ammettere a me stessa che l’idea era buona.
Cercai di guardarla con genuina approvazione: “Hai ragione. Hai il mio permesso e la mia lode per averci
pensato”. Qualcosa nella sua espressione mi disse che le mie lodi le interessassero quanto lo sterco di bue
delle steppe. Presi la chiave dei cancelli e gliela porsi: “Ecco Zorilda. Me la restituirai domani mattina”.
“Sarà mia premura consegnarvela al sorgere del sole”. Si inchinò freddamente e si allontanò.
Ero in uno dei camminamenti laterali del forte. Le ampie arcate davano un’ottima vista sulla città. Nel breve
svolgersi della mia conversazione con Zorilda le luci del tramonto avevano ceduto il posto al primo velo del-
la notte. La temperatura si era abbassata e le correnti d’aria agitavano i lembi del mio mantello. Le luci di
Hedenport iniziarono a brillare come stelle sulla riva del mare e i grandi pescherecci si accesero di lanterne
e lumi ondeggianti. Cosa c’era negli occhi di Zorilda? Avrebbe potuto essere lei la prima ammaliatrice.
Avrebbe dovuto essere lei.
Alcune prime ammaliatrici rimanevano in carica per tutta la vita. Questo per Zorilda avrebbe significato la
fine di ogni ambizione. E dire che avrei dato qualsiasi cosa per essere al suo posto. Passare la notte con i
miei draghi, senza pensare ad altro. Invece dovevo andare a quella stupida festa e vestire quello scomodis-
simo abito da cerimonia …
L’abito!
Dovevo ancora arrivare a casa, lavarmi via l’odore dei draghi e la fuligine del fiato di Samyra. Indossare
l’abito, arrivare al castello …
Non ce la farò mai!
E corsi via come un fulmine, lasciandomi Zorilda e i suoi sguardi alle spalle.

Giunta a casa, nel piccolo e tranquillo borgo dei tessitori vicino alla porta orientale, entrai come un ciclone
puzzolente senza neanche salutare i miei genitori. Con i proventi della mia nomina ero riuscita a farli trasfe-
rire a Hedenport dal paesino interno dove vivevamo. Erano brave persone. Orgogliosi della loro figlia fino
all’eccesso.
“Non vestirti di fretta!” mia madre sbucò nella stanza tutta emozionata.
“Se non faccio alla svelta non ci sarà più nessuno a vedere il vestito!”.
Mio padre giunse a darle man forte con ancora il grembiule da lavoro addosso: “Non devi arrivare di fretta.
Che aspettino dannazione!”
“Padre, non sono una console!”
“Beh la prima ammaliatrice conterà pura qualcosa no?”
Sì, vai a chiedere a Zorilda.
“Certo padre. Conto i draghi. Al mattino e alla sera. E prega che non me ne perda mai uno altrimenti tor-
niamo tutti a Elfgrund”.
Il mio paese natale era arroccato fra le nebbiose valli dell’entroterra. Gli avi di mio padre erano tessitori da
generazioni e vivevano a Granwald, ricca capitale dei Balzi Verdi, la soleggiata e mite regione nelle pianure
meridionali del continente. Due generazioni prima della mia nascita ci eravamo trasferiti a Elfgrund in cerca
della lana migliore della Repubblica, che purtroppo veniva dai greggi delle terre piovose e umide alle spalle
di Hedenport. Quindi, pur conservando l’altisonante Granwald nel mio nome e nonostante fossi passata
dalle pecore ai draghi, ero in fin dei conti la semplice figlia di un artigiano che andava a scegliere i capi sotto
la pioggia e passava le serate a far girare il fuso e a filare fino a tardi. Questo non sarebbe mai cambiato.
Non nel mio cuore.
Lo ero stata mentre mi allontanavo sul carro per raggiungere Hedenport piena di speranza in un futuro av-
venturoso, nel momento in cui avevo incontrato il mio primo drago, quando mi avevano eletto prima am-
maliatrice di Hedenport. E anche in quel momento: mentre mia madre stringeva senza alcuna pietà i lacci
del corsetto riducendo la mia cassa toracica alla metà delle dimensioni necessarie per farmi respirare ade-
guatamente. “Così sì che stai bene!”.
“Grazie madre” rantolai.
Il nitrito dei cavalli fuori dalla finestra mi disse che la mia piccola scorta era arrivata. Un soldato della guar-
nigione consolare e la carrozza con il nocchiero. Per i miei genitori valeva quanto un grande vascello porta
draghi con vessilli e trombe al seguito. Uscii dalla porta con i conati di vomito per la tensione. La luce di casa
si rifletteva calda sui ciottoli anneriti dalle ombre della notte. Mi voltai. Erin e Naralio di Granwald stavano
sulla soglia a guardarmi carichi di orgoglio. Sarei tornata dentro. Lo avrei fatto davvero.
Al diavolo tutto. Sono solo una ragazza!
Eppure non potevo tradire le aspettative di quella coppia quasi anziana che mi considerava una regina.
Il soldato tossì e io capii che eravamo veramente in ritardo. Salii sulla carrozza e partimmo.
La gente guardava dalla strada il mio passaggio. Qualcuno commentava chissà cosa. Non mi voltai neppure
ad ammirare lo splendido profilo del castello consolare illuminato a festa con le sue molte torri svettanti.
Mentre le mie narici si riempivano dell’odore del mare, avevo occhi solo per quella porticina che si perse
quasi subito fra le strade di Hedenport. La porta di casa mia.
Ecco. Stai di nuovo sognando …

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Poco dopo.
Sala del Mare - Castello della famiglia Thunderion.
Deverell Von Storm - cavaliere del Sacro Sigillo e maestro d’armi della famiglia Thunderion.

La grande sala del mare era stracolma di invitati. Le immense finestre spalancate lasciavano entrare la fre-
sca brezza notturna che portava refrigerio fra i tavoli. Attorno ad essi la servitù si aggirava con vassoi pieni
di carpaccio di pesce spada e polpo, frutti di mare in varie salse e alici marinate. Era tradizione che le luci
del porto fossero tutte accese durante i ricevimenti consolari e lo spettacolo risultava davvero notevole.
Ogni ornamento della sala, dalle grandi luminarie ai fregi sulle colonne portanti, richiamava le onde, la vita
sottomarina o le conchiglie e grazie ai riflessi danzanti delle numerose piccole vasche, dentro le quali brilla-
vano sfere di luce magica, si aveva quasi l’impressione di cenare sul fondo del mare.
Il mio tavolo era proprio accanto a quello patronale dove Evek stava discutendo con la console Lucilia, i
consiglieri maggiori, i rappresentanti delle gilde mercantili che gestivano il porto e i grandi sacerdoti del
tempio di Elorian e del culto dei Profeti. Chiacchiere da politici.
Assieme a me sedevano gli ufficiali delle nostre guarnigioni e quelli del contingente che la console Lucilia
stava portando ad Azumoth. Il vino era buono e la conversazione presto si perse fra mille racconti di batta-
glie. Forse non sarebbe stata una serata tanto noiosa dopotutto.
Mentre i camerieri iniziavano a portare i primi piatti nella sala entrarono altri invitati. Erano soldati e dopo
qualche parola con Patrizio, il maestro di sala, si diressero al nostro tavolo. Il mio sguardo si piantò
sull’uomo che guidava il gruppo. Lo conoscevo.
Dramsal il sanguinario!
Anche Jaroth, che aveva combattuto a lungo al mio fianco, lo riconobbe subito: “E quello cosa ci fa qui?”.
“Non ne ho idea. Ma non mi piace”.
Dramsal era un mercenario gigantesco, dal volto squadrato e brutale, perennemente sporcato da un velo di
ispida barba incolta. Persino ad un ricevimento consolare indossava spalline e parte della sua corazza. Non
si faceva problemi neppure per l’enorme spada a due mani che pendeva dai lacci imbragati alle spalline. Un
cane randagio.
Notai con stupore che i soldati della console Lucilia si spostarono sulle panche per fargli spazio. Proprio di
fronte a me.
Dramsal si fermò al nostro tavolo e venne salutato dagli ufficiali con sorrisi e cenni di rispetto. Mi rivolse un
sorriso beffardo torreggiando dai suoi due metri di altezza: “Deverell. E’ incredibile che tu sia ancora vivo!”.
Se pensava di provocarmi con le sue battute da accampamento aveva sbagliato uomo. “Ti darei il benvenu-
to al nostro tavolo, Dramsal il sanguinario” lo dissi in modo che il suo soprannome fosse udito chiaramente
da tutti i presenti. “Ma non accolgo volentieri gli assassini. Ne è passato di tempo da quando ti ho visto nel-
le celle di Galaris su Rezian”. Era stato condannato per aver trucidato tre suoi soldati che avevano osato
contraddire un ordine.
“Le prigioni non fanno per me, e i reziani si sono convinti che sarei stato più utile sui loro campi di battaglia
che in un lurido sotterraneo”. Qualcuno dei suoi rise a bocca piena.
“A quanto pare una buona spada vale più della vita di un soldato”.
“E’ sempre stato così” si sedette rumorosamente davanti a me: “Solo gli idioti non lo sanno”.
La mente di un cavaliere del Sacro Sigillo si addestra alla calma. Soffocai la voglia di aggredirlo: “Cosa ci fai
qui Dramsal?”
“Sono al soldo della console. Guido delle truppe speciali. Sai … io ci vado ancora in guerra”.
“Va in guerra chi ha qualcosa per cui combattere. Tu uccidi e basta”.
“Ma lo faccio bene”.
“Spero che ti diverta nei pantani di Azumoth” era un luogo davvero inospitale.
Dramsal mi fissò a lungo con uno sguardo di sfida che non mi piacque per niente: “Mi divertirò di sicuro,
vedrai”. Scambiò una risata ferina con uno dei suoi soldati. Chissà che compito avrebbero avuto in quella
spedizione. Per divertire e attrarre un macellaio come lui la missione doveva essere davvero crudele.
Avevo combattuto nel suo stesso contingente durante la mia vita come mercenario. Ci eravamo scontrati
spesso, una volta persino con le spade in pugno. Da cavaliere avevo fatto parte della giuria militare che lo
aveva condannato su Rezian e questo aveva spezzato per sempre qualsiasi vincolo di rispetto fra di noi. Io
pensavo che lui fosse un cane assetato di sangue e lui mi avrebbe chiamato infame per il resto dei suoi
giorni.
Un essere spregevole come Dramsal, nato per uccidere e godere della sofferenza altrui, non avrebbe mai
capito cosa significano onore e giustizia. Era scandaloso che una console della Repubblica si servisse di un
simile assassino. Lo avrei fatto presente a Evek. Se Lucilia fosse stata al corrente del passato del comandan-
te delle sue truppe “speciali” allora avrebbe infranto il codice militare che vieta a chi è stato condannato da
una corte ufficiale di guidare soldati repubblicani. Come cavaliere del Sacro Sigillo non potevo tacere da-
vanti ad una simile eventualità.
Ma qualcosa non tornava. Dramsal conosceva bene il codice della Repubblica. Sia io che lui avevamo com-
battuto sotto le insegne amaniane e sapeva alla perfezione di essersi seduto davanti ad un esponente del
Sacro Sigillo. Mi voleva sicuramente provocare, ma avrebbe dovuto capire che stava mettendo a rischio la
propria posizione … lo avrei potuto far esonerare o forse mettere in cella per qualche tempo. Eppure conti-
nuava a ridere e a parlare spavaldamente, incurante del mio sguardo ostile.
Al tavolo patronale la conversazione stava continuando. Non potevo disturbare Evek per una cosa del gene-
re. Non fino all’indomani, quando avrei sicuramente fatto rapporto su questa strana incongruenza.
Jaroth e gli altri si accorsero del mio scuro cipiglio e una cappa di strana tensione calò fra i miei ufficiali e i
soldati della console. Qualcosa non andava. Sembrava che non fossimo più dalla stessa parte.
Poco dopo.
Sala del Mare – Castello della famiglia Thunderion.
Lord Evek Thunderion - console maggiore della Repubblica di Aman.

La cena stava terminando. Al tavolo avevo appreso dalla console Lucilia che la sua missione su Azumoth sa-
rebbe stata fulminea. Un avamposto di orchi Hokuten doveva essere distrutto per evitare la costruzione di
un ponte di appoggio per le loro orde razziatrici entro i nostri confini.
Lucilia era un bella e giovane donna. Capelli biondi, lisci e luminosi come seta, incorniciavano un volto se-
ducente dagli azzurri occhi ammiccanti. Mi aveva guardato con interesse per tutta la sera e temetti che a-
vesse in mente qualcosa di diverso per la sua visita ad Hedenport. Mi aveva fatto le condoglianze per la
morte di Ariana, ma da quel momento il discorso non era più caduto sull’argomento. Neppure il reverendo
Morgodel aveva accennato ad alcun tipo di pretesa per le sue crociate. Tutto si era mantenuto sul più for-
male dei piani, eccetto lo sguardo della mia ospite. Era emozionata, lo si capiva chiaramente. Le sue mani
tremarono leggermente quando brindammo al futuro e la sua attenzione si spostò frequentemente per tut-
ta la sala. Osservava gli invitati e mi era sembrata in più momenti assorta nei propri pensieri. Forse la sua
imminente partenza per la guerra la spaventava, forse la presenza ad Hedenport le faceva sognare un posto
più alto nella gerarchia politica repubblicana … o forse qualche altro fine le occupava la mente. Era quasi
trent’enne. Una rampolla del potente console Valdisar, rappresentante del Triarcato di Redisburg, uno dei
ruoli strategicamente più importanti nel consiglio repubblicano, per via di grandi catene montuose ricche di
minerali e della presenza di vie commerciali insostituibili, sia nelle rotte interne che in quelle interplaneta-
rie. A lei era stato affidato un piccolo territorio nelle regioni fluviali del Triarcato: un compito modesto ma
che la teneva in costante contatto con Valdisar.
Mentre i musici accompagnavano l’ingresso dell’uva dei Balzi Verdi e le pregiate bottiglie dei liquori fruttati
di Redisbridge, dono di Lucilia, cominciarono a circolare, la console cambiò espressione. D’un tratto il suo
sguardo si fece deciso e mandò il suo attendente a chiamare un grosso soldato seduto al tavolo con Deve-
rell e gli altri. L’uomo pareva più un mercenario che un cavaliere e portava in modo sfrontato parti di arma-
tura e una grande spada a due mani. Trovai quel particolare alquanto offensivo: partecipare ad un banchet-
to fra alleati in quella guisa non costituiva certo un atto di fiducia. Fu ancora più insolente il modo in cui Lu-
cilia sussurrò all’orecchio dell’uomo, senza nemmeno chiedere permesso di conferire con lui o scusarsi. Il
soldato non si inchinò e non rese omaggio alle autorità presenti, girò i tacchi e si diresse verso l’uscita con
spavalderia. Per un attimo i miei occhi incontrarono quelli di Deverell. Non mi piacque la strana espressione
dipinta sul volto del mio amico.
“Se permettete console Evek, vorrei conferire con voi in privato”. Le spalle e il petto di Lucilia tradivano un
respiro più concitato.
Che cosa le succede?
Nonostante lo stupore non potevo negarle un colloquio, anzi … a quel punto la mia curiosità e il mio disagio
esigevano un chiarimento immediato. “Certo Lucilia. Se vorrete potremo parlare nel mio studio privato. So-
no a vostra disposizione”. Lo dissi con gentilezza ma i miei occhi si socchiusero e lei se ne accorse. Mi sem-
brò che volesse indietreggiare, ma si contenne e mi seguì. I nostri commensali rimasero in silenzio, tutti si-
curamente intenti a chiedersi che genere di conseguenze potesse avere quell’atteggiamento così inatteso.
Percorremmo i corridoi e due soldati della guarnigione consolare ci scortarono fino al mio studio. Non capii
perché, ma avvertivo un’irrefrenabile voglia di vedere i gemelli. Forse era solo il desiderio di evitare le
chiacchiere di quella giovane console insolente, ma quando aprii la porta dello studio non ero tranquillo.
I lampadario era illuminato da nuclei di luce magica, leggera e rilassante. Lo studio era semplice e acco-
gliente. Oltre il mio tavolo era appesa con cura Heinander, la leggendaria lancia magica dei miei progenitori,
forgiata in drakite purissima secondo una struttura che le conferiva il potere di vibrare come le campane
degli ammaliatori. Il suo suono era in grado di ispirare in qualsiasi drago desiderio di battaglia e rispetto per
chiunque la impugnasse degnamente. Questo aveva conferito alla mia famiglia un’aura mitica di rispetto e
autorevolezza in ogni questione che riguardasse gli stormi. Volevo che conferisse con me in presenza di
Heinander. Qualunque cosa avesse da dirmi, doveva ricordare bene con chi stava parlando.
Mi voltai. Nella tiepida luce dello studio Lucilia era bellissima. Ma non potei fare a meno di sentirmi a disa-
gio.
“Mio console. Devo comunicarti un messaggio del nobile Valdisar”.
Ecco infine il motivo di queste stranezze.
“Sono qui ad ascoltarvi mia signora”. Eravamo tornati alla cortesia?
“Egli ha seguito a lungo il vostro travaglio ed è enormemente rattristato per gli eventi che vi hanno funesta-
to”.
“Ho già avuto modo di ricevere le sue condoglianze. Ma lo ringrazio per aver rinnovato la sua vicinanza”.
Dove diavolo voleva arrivare? Lucilia iniziò a vagare per la stanza sfiorando gli oggetti esposti come se fosse
interessata agli arazzi e alle semplici opere d’arte con cui la adornavo. “C’è di più in realtà. Il nobile Valdisar
ha saputo delle voci riguardo ad una presunta accusa di stregoneria contro vostra moglie”.
“Sono voci di popolo”.
“Davvero?”. Si voltò a fronteggiarmi. “Valdisar ha indagato a fondo sulla figura di lady Ariana”.
Come si è permesso!
Lucilia diventava ogni secondo più minacciosa: “Nel vostro interesse e per fugare ogni dubbio ha cercato
prove dell’innocenza di vostra moglie con ogni mezzo a sua disposizione. Ma quello che ha scoperto lo ha
sconvolto oltre ogni dire”.
Oh cielo! “Dove vuole arrivare console Lucilia? Stia attenta a quello che ha da dire e si ricordi chi ha davan-
ti”
Lucilia puntò un dito accusatore contro di me: “Abbiamo in mano prove inconfutabili che dimostrerebbero
la colpevolezza di lady Ariana e il suo coinvolgimento in tenebrosi rituali demoniaci e sacrileghi!”.
“Voi mentite!”
“Credete che il console Valdisar farebbe una cosa del genere? Lo state accusando di calunniarvi?”
Ma questa è guerra!
“E’ inaudito!” Cosa potevo rispondere?
“Vostra moglie era una strega della peggior specie e ha dato se stessa ai demoni più oscuri per partorire i
vostri figli!”.
Il furore si impadronì di me. Mi feci avanti fino a fronteggiarla come si fa con un nemico: “Queste parole
sono pesantissime e foriere di pessime conseguenze!”.
“Per voi, console!”
“Voi mentite e lo sapete bene! Mia moglie era una donna incapace di simili nefandezze e io difenderò con il
sangue il suo onore”.
“Siete uno sciocco, console” il suo viso si fece viscido come quello di una serpe: “Noi non vogliamo questo.
Abbiamo pensato che voi non poteste essere a conoscenza del cuore nero che pulsava nel petto di vostra
moglie” mi sorrise: “Voi siete una vittima”.
Provai a parlare ma lei continuò: “Avete occasione di fare ammenda, di accusare lady Ariana per i crimini da
lei commessi e non farvi coinvolgere dai suoi gesti perversi”.
“Così è questo che vorrebbe Valdisar! Che stesso accusassi mia moglie e chiedessi perdono per lei?”
“Fatelo console. E non sarete travolto dai terribili eventi che seguirebbero a questa accusa. Dovreste chia-
mare a vostro testimone Elorian stesso e disconoscere la strega Ariana. Vi salvereste e potreste ricomincia-
re una nuova vita” fece una pausa troppo teatrale: “Naturalmente dovreste consegnare ai sacerdoti
l’oscuro frutto dei suoi sacrilegi”.
I miei figli!
Un brivido d’ira mi squarciò il petto. L’avrei uccisa in quel momento se non fossi stato consapevole delle
conseguenze. Urlai con forza: “Consegnare i miei figli alle fiamme del rogo? Siete forse impazzita?”.
“Non sono i vostri figli Evek. Aprite gli occhi! Sono frutto del sangue di un demone!”.
“Questo è assurdo! Hanno i miei occhi, i miei tratti. Sono miei!”.
“Il demone sa irretire la mente usando l’amore come una trappola mortale”.
“E’ questa l’unica trappola mortale che vedo”.
Lucilia si allontanò: “Avete una sola possibilità console. Fate ammenda. Chiedete perdono. Consegnate i fi-
gli del demone”. Lo disse come un generale che elenca le condizioni della resa. Ormai era tutto chiaro.
Vladisar sapeva bene che non avrei mai fatto una cosa del genere.
E Lucilia non era partita per combattere su Azumoth. Ma per distruggere me.

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Poco dopo.
Sala del Mare - Castello della famiglia Thunderion.
Deverell Von Storm - cavaliere del Sacro Sigillo e maestro d’armi della famiglia Thunderion.

In un attimo tutto cambiò. Stavo ascoltando “La dama dagli occhi dorati” interpretata magnificamente dai
musicanti invitati da Evek, quando lui ricomparve sulla porta che conduceva ai suoi alloggi privati. Era palli-
do, teso e il suo sguardo tradiva rabbia trattenuta a stento. Accanto a lui la console Lucilia fissava il vuoto
con un cipiglio disgustato e carico di furore. C’era qualcosa di terrificante in quegli occhi. D’un tratto un bri-
vido di tensione mi avviluppò le interiora. Evek alzò levò la mano con gesto autoritario.
“Concittadini di Hedenport” l’intera sala del mare cadde nel più assoluto dei silenzi: “sono stato fatto og-
getto di ingiurie imperdonabili da parte dell’ospite con cui ho diviso il mio cibo e alzato il calice questa sera.
La console Lucilia non è più persona gradita fra le nostre mura”. Un mormorio spaventato si diffuse fra gli
astanti. Solo una situazione gravissima poteva giustificare un gesto di quel genere: “In nome delle sacre
leggi dell’ospitalità, questa donna potrà uscire dalla città con il suo seguito senza che ad alcuno venga fatto
alcun male. Ma contro qualsiasi truppa che provi a riavvicinarsi alle mura o si rifiuti di uscirne entro i minimi
tempi richiesti invoco fin da ora … lo stato di guerra”.
Tutti si levarono in piedi e il vociare generale rese impossibile distinguere qualsiasi altra cosa. Fu il caos. In
un attimo Jaroth fu al mio fianco con la spada sguainata. I cavalieri della guarnigione consolare si schieraro-
no al fianco di Evek. I soldati di Lucilia si alzarono in piedi e si avvicinarono gli uni agli altri, ma senza estrar-
re le loro armi. Alcuni consiglieri tentarono di avvicinarsi a Evek ma furono respinti.
Baros Gardner si alzò di fretta seguito da altri e uscì dalla sala con passo spedito.
“Comandante. Aspettiamo vostri ordini”. Jaroth era stupito quanto me, ma non tradiva alcuna confusione.
Avremmo dovuto scendere alle caserme, spostare le truppe verso le mura e formare pattuglie che scortas-
sero fuori i soldati di Lucilia. Avevamo pochissimo tempo.
Vidi la console attraversare la sala come un demone. Le sue guardie la seguirono formando uno scudo tutto
attorno a lei. Mi voltai verso gli altri: “Noral, Berronio e Morrak prendete quanti più soldati potete e assicu-
ratevi che la console lasci la città. Jaroth, tu occupati di spostare le truppe verso la porta del sale. Falkirk, tu
fai armare le reclute più esperte e prepara i carri a spostarsi verso la piazza degli eroi”. Tutti annuirono cu-
pamente: “Io cercherò di capirci qualcosa, poi vi raggiungerò con quanti più soldati riuscirò a racimolare.
Che la luce di Elorian guidi i nostri passi. Ora andiamo”. Senza aggiungere altro ci separammo.
Potrei non rivedere più alcuni di loro. O nessuno. E’ tempo di onorare i nostri giuramenti con l’acciaio.
La folla di mercanti, consiglieri, rappresentanti del popolo e attendenti si era tramutata in un fiume agitato
e tempestoso. Tutti cercavano di uscire o di capire cosa stesse accadendo. Sguainai Ultima e mi feci strada a
spintoni fino al tavolo patronale. Evek stava parlando con il generale Ganor Hederlian, comandante in capo
delle truppe della città e con una piccola delegazione di consiglieri guidata da Toriias Finnergan. Dal gruppo
si stava allontanando a passo spedito Sir Gwalor, nobile capitano dei cavalieri di draghi. La guarnigione con-
solare mi fece passare. Al mio arrivo, Evek congedò i consiglieri.
“Mio console” mi inginocchiai rapidamente.
“Non c’è tempo per queste formalità amico mio” la sua voce era carica di rabbia e … paura.
Mi rialzai: “Che cosa succede Evek?”
“Una cosa che non avrei mai immaginato. Il console Valdisar mi vuole morto”. Ci fu attimo di silenzio, quasi
quelle parole avessero bisogno di tempo per essere comprese: “Lucilia mi accuserà di aver praticato la ma-
gia oscura e cercherà di mettermi al rogo”.
“Questo è assurdo!”
“Forse. Ma il consiglio della Repubblica potrebbe anche crederle”.
“Cosa facciamo?”
“Ci prepariamo ad un assedio dall’esterno, e ad un’insurrezione dall’interno. Lucilia leggerà pubblicamente
le sue accuse contro di me … e qualcuno potrebbe crederle e appoggiarla. Ho già discusso con il generale
Ganor. Il tuo compito è questo: con le reclute e i carri dovrai sorvegliare la porta del sale ma anche la via
per il forte azzurro. Posso contare su di te?”.
Il mio onore è tutto ciò che mi resta Evek. Se mai lo perdessi, sarei dannato in eterno.
Misi Ultima ai suoi piedi: “La mia vita per la tua” mi rialzai: “Non temere Evek. Ne usciremo … e appena il
Sacro Sigillo saprà quello che è accaduto, Valdisar dovrà pregare che la console Lucilia sappia tenere ben
nascosti i propri mandanti”.
Nel suo sguardo non lessi la mia stessa fiducia, scosse il capo: “La verità la fanno i vincitori”.
“Allora vinceremo”.
Lo lasciai alla sua difficile posizione e corsi a dirigere i miei soldati.
Scendemmo nelle caserme e ci armammo quanto più rapidamente potemmo. In città risuonavano i corni e
le campane di allerta alla porta del sale. I cortili del palazzo brulicavano di soldati e cavalli. Indossai
l’armatura degli ufficiali di Hedenport e lo scudo del Sacro Sigillo, la cui runa magica pulsava al centro di una
placca di rilian, finemente venata per ampliarne il potere.
Mentre uscivo insieme alla prima guarnigione, vedemmo i carri da guerra accodarsi alla nostra colonna dai
depositi della piazza d’armi. Falkirk aveva fatto in fretta: ognuno dei poderosi cingolati era stato caricato
con riserve di valnim cristallizzato e le balliste sopra di essi erano pronte a fare la loro parte. Se ce ne fosse
stato bisogno, avremmo sfondato le loro linee e portato truppe nel cuore della formazione di Lucilia. Ave-
vano solo un pugno di draghi e della fanteria da assalto. Come speravano di prendere Hedenport?
Entrammo nella grande Piazza dorata, sede del grande mercato del pesce e del sale, e la trovammo piena
della nostra fanteria. Anche Jaroth era presente con la seconda guarnigione e le reclute più giovani.
Dannazione dovevano già essere alla porta!
Poi mi si gelò il sangue nelle vene. Erano tutti fermi davanti ad un carro da guerra sul quale stavano in piedi
il consigliere Baros Gardner e una figura vestita con i paramenti argento e oro di un mago da battaglia della
Repubblica. Insieme a loro, con un sorriso sadico stampato sul volto, c’era Dramsal il sanguinario! Baros
stava leggendo qualcosa ad alta voce.
“… sacrilegio contro il popolo della Repubblica. La prove a suo carico sono inconfutabili, ma il console Evek
Thunderion si ostina a sottrarsi al suo giusto processo. Pertanto, a difesa delle leggi amaniane, ci accolliamo
il dovere di restituire ai tribunali repubblicani questo rivoltoso adoratore delle forze oscure”.
Falkirk mi raggiunse di corsa dalla colonna dei carri: “Che sta succedendo?”
Considerai quanto avevo appena udito: “Prendi i carri e aggira la piazza”.
“Ma dovevamo andare alla porta!”
“La porta è già presa!”
Mi guardò con sgomento: “Cosa? Ma se non sono neppure usciti!”
“Non usciranno Falkirk”. Proprio in quel momento le truppe cominciarono a riorganizzarsi. Come temevo i
soldati del generale Ganor aprirono un varco senza combattere e vidi la fanteria di Lucilia attraversare la
piazza nella nostra direzione. Jaroth ripiegò.
Onore e morte!
Sollevai Ultima al cielo e lasciai che il mio cavallo si impennasse per la tensione: “Truppe fedeli alla famiglia
Thunderion! Serrate i ranghi! Non cedete!”.
E in quel momento scoppiò l’inferno. Un fulmine argenteo esplose nel mezzo della mia guarnigione semi-
nando il caos e la fanteria nemica ci caricò urlando. Spronai il mio destriero e la mia mente si liberò da ogni
pensiero.
Cavalcai in mezzo alla prima linea dell’assalto travolgendo i soldati assieme ai miei giovani cavalieri. Ultima
si muoveva come un’onda sinuosa, non colpivo alla testa ma all’attaccatura del collo fra corazza e gorgiera.
Non avevo il tempo di uccidere. dovevo ferire, sbilanciare, travolgere. Colpivo e avanzavo per sfruttare la
massa poderosa del cavallo e rompere il loro schieramento. Sentivo il sangue caldo cadere a pioggia sui
miei schinieri e grondare dalla lama di Ultima quando la rialzavo per brandire un nuovo colpo. Ero di nuovo
in battaglia, e la drakite della spada, legata alla mia vita per sempre, reagiva vibrando di potere ad ogni af-
fondo. Spostavo gli scudi scalciando dalla sella e tenevo alto il mio per proteggere il fianco sinistro. La piaz-
za era vasta ma non mi avrebbe permesso una seconda carica. I nemici strinsero bene i loro ranghi nelle re-
trovie e mi fermarono, ma non avevano fatto in tempo. Ero al centro del loro schieramento: avevamo
sfondato. Fu un vortice di sangue, urla e metallo stridente. Un fante cercò di bloccare le mie staffe e affon-
dai la spada dall’alto della sella nella sua gola fin dentro alla cassa toracica. Usando il suo corpo come ap-
poggio scesi da cavallo e liberai Ultima scontrando i bracciali di altro un soldato che cercava di avvicinarmi.
Attraversai il mare nemico. Il ritmico esporsi e ritrarsi dietro allo scudo, la visione periferica che prende il
sopravvento su quella focale, la lama della spada che rimbalza, si incastra, stride, si insinua prima nelle le
giunture del metallo, poi fra le ossa. Non sentivo più niente, il tempo rallentava e accelerava d’improvviso
assieme al mio respiro. Le braccia e le gambe cominciarono a bruciare. Poi smisero di mandare segnali al
mio cervello. Probabilmente mi avevano ferito, ma non c’erano altro che il battito del cuore e il sangue dei
nemici. I corpi si mostravano nella loro cruda debolezza. Tendini, sangue pompato a fiotti, interiora dagli
odori sgradevoli e visi contorti dalla paura. Molti cedevano, esitavano. Io no. Sono un cavaliere: la mia de-
terminazione vale più di qualsiasi arma. Tolsi la vita a molti uomini.
D’un tratto venni sbalzato in aria e una luce abbagliante mi accecò. Caddi prono e rotolai su me stesso. Sen-
za i molti anni di guerra che avevo alle spalle non sarei riuscito a recuperare in tempo l’equilibrio e la lucidi-
tà … invece fui in piedi fra molti cadaveri e corpi striscianti in preda alle convulsioni. Il mago stava avanzan-
do sul carro. Era giovane, anche se non riuscivo a distinguere bene il suo volto nel buio della notte. Un arco
di fiamme bianche lo precedeva come una lenta onda di morte e i suoi strali di luce piombavano sulle mie
truppe in lontananza. Ora però stava guardando me. Con un gesto automatico ruotai leggermente lo scudo
per scoprire il petto e avanzai con Ultima ad aprirmi la strada. Non sorrise, non urlò nulla. Le sue mani si
mossero veloci. Corsi verso il carro tenendo lo scudo distante e seminascosto. Vidi le rune balenargli davan-
ti mentre condensava l’energia misteriosa di cui era padrone. Sentii formicolare tutto il corpo. Doveva esse-
re un mago promettente. Ma aveva un problema. Non mi aveva riconosciuto.
Sono stato addestrato ad individuare gli istanti in cui un incantesimo sta per liberarsi. Quando è troppo tar-
di per fermarlo e i più hanno solo il tempo per rivolgersi al proprio dio prima di incontrarlo. Io invece solle-
vai lo scudo. E allora vidi paura nei suoi occhi.
La vibrazione luminosa si scatenò mentre le correvo incontro. Tutto divenne sfocato mentre l’intero oriz-
zonte, distorto dai fasci energetici, sembrava catapultarsi contro di me. Portai lo scudo davanti al volto e lo
sentii vibrare con forza. La potenza dell’incantesimo fu come risucchiata in un vortice dalla runa che pulsava
nelle profondità del rilian. Un calore intenso pervase il mio braccio e il petto e dovetti fermarmi per assorbi-
re l’urto. Poi rialzai la testa e vidi il mago formulare un altro incantesimo. Forse gli avevano detto che un ca-
valiere del Sacro Sigillo combatteva per il console Evek … ma non si aspettava certo di incontrarlo così pre-
sto. Abbattei due soldati prima che si riprendessero dallo stupore e balzai sul carro. Avevo solo una possibi-
lità. Il suo prossimo incantesimo non sarebbe stato un attacco diretto. E io sarei morto. Le rune comincia-
rono a splendere attorno a lui. Mi aggrappai con forza mentre il carro manovrava per cambiare rotta. Con
un doloroso strattone scavalcai la cappotta metallica: ero davanti a lui, immerso nella danza dei simboli
magici. La struttura si condensò in legami brucianti. Sentii una fitta di dolore. Ci guardammo negli occhi: gli
mancava un attimo.
Mi bastò per trafiggerlo. Ultima gli attraversò il cuore e il suo corpo si afflosciò sul carro. Le rune scintillaro-
no vibranti e poi si spensero. Non avevo più fiato e le gambe bruciavano per lo sforzo.
Mi voltai a guardare la battaglia. Jaroth stava tenendo l’ingresso alla piazza e i carri di Falkirk erano riusciti
ad aggirare i nemici sulla grande via del porto vecchio. Le truppe di Lucilia cominciarono ad arretrare. Ma la
città era un dedalo di vie e piazze: avrebbero trovato un’altra strada. Dovevamo ripiegare al castello.
Proprio in quel momento sentii le urla dei draghi rimbombare sopra i rumori della battaglia. Alzai lo sguar-
do al cielo, pronto a vedere il nostro potentissimo stormo oscurare le stelle e piombare sulle truppe di Luci-
lia come morte alata. Invece non accadde nulla. Le urla erano ruggiti di frustrazione … e venivano da oltre il
Forte Azzurro. Dalle tane. I draghi non erano in volo.

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Poco dopo.
Torre Vecchia – Castello della famiglia Thunderion.
Lord Evek Thunderion - console maggiore della Repubblica di Aman.

Hedenport era nel caos. Battaglie fra le mie truppe e quelle di Lucilia infuriavano ovunque e nel porto i va-
scelli si affrettavano a prendere il largo. Dall’alto della Torre Vecchia potevo vedere ogni ferita che i miei
nemici stavano infliggendo alla città che avevo giurato di proteggere e far prosperare.
Tutto era accaduto troppo in fretta.
Lucilia aveva alleati fra le mura di Hedenport ed era certo che il suo piano fosse in movimento da molto
tempo in mezzo ai miei. Mi appoggiai alla fredda balaustra di pietra del balcone dal quale osservavo
quell’inferno. Sentii le forze abbandonarmi.
Perché combattere? Che mi prendano e brucino il mio corpo! Cosa me ne faccio da quando Ariana è scom-
parsa?
Eppure c’era più di un motivo per resistere: il futuro di Hedenport, l’onore mia famiglia … e la vita dei miei
figli.
Impugnai saldamente Heinander e salii oltre la botola che mi condusse sul tetto piatto della Torre Vecchia.
Al centro si trovava una grande placca d’argento, cava all’interno e collegata a quattro poderosi corni bron-
zei orientati verso i punti cardinali. Quello era il trono del drago, creato dai miei antenati per amplificare il
potere di Heniander e generare un richiamo così perentorio da invocare ogni esemplare nel raggio di miglia
e miglia. Si sarebbero levati in cielo! Lucilia avrebbe tremato sotto le loro ali furibonde.
Presi la lancia magica e la sollevai sopra la testa. Non avevo mai tentato un gesto simile prima di allora ma
non potevo aspettare che i cavalieri bardassero i draghi e volassero in battaglia. Dovevo richiamare la loro
furia come un grande dragone dell’antichità.
Rimasi per qualche secondo fermo, mentre l’aria fredda della sera mi portava il lezzo degli incendi e dei
morti. Presi un respiro profondo e lasciai cadere Heinander. La lancia colpì il metallo e la sentii vibrare. A
quel punto la appoggiai al centro della placca e la vibrazione si trasmise ai quattro corni emettendo un suo-
no cristallino che riecheggiò per tutta la baia e le montagne.
Ci fu un lungo momento di silenzio. Poi i draghi cominciarono a ruggire. Potevo sentire il loro furioso desi-
derio di battaglia. Volevano radunarsi attorno al grande potere che li aveva richiamati. Ma nessuno si levò
in volo. I ruggiti si fecero più strazianti e furiosi, poi divennero ringhi silenziosi … e più niente.
C’era solo una spiegazione a quel silenzio. Le tane erano state chiuse.
Caddi in ginocchio e piansi sommessamente. Molte persone di cui mi fidavo mi avevano tradito. Le truppe
di Lucilia stavano dirigendosi al castello. I draghi non rispondevano al mio richiamo. Potevamo resistere
qualche tempo chiusi fra le mura del castello, ma prima o poi sarebbero entrati.
Tutto era perduto.
Ma avevo ancora una cosa da fare.
Scesi fino alle mie stanze e chiamai Patrizio. Era sparito. Allora presi due delle guardie della mia scorta e
diedi l’ordine più importante della mia vita: “Uno di voi vada a chiamare Devell von Storm. L’altro scenda-
nella cantina e prenda l’unica bottiglia di vino rosso di Narayan che trovà”. I due sembrarono incerti, ma
davanti al mio sguardo capirono che era meglio non fare troppe domande e si affrettarono ad eseguire.
Li lasciai ai loro compiti e mi diressi verso la sala del mare. Pregai silenziosamente Elorian affinchè mi aiu-
tasse. Avevo bisogno di un segno.

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In quel momento.
Sala del mare - Castello della famiglia Thunderion.
Feanor di Granwald - Prima ammaliatrice della famiglia Thunderion.

Il panico si era impadronito di me. E’ orribile non avere il controllo delle proprie azioni … ancora di più
quando sai che sono importanti. Ma non ebbi la forza di fare altrimenti.
Quando il console Evek dichiarò la sua ostilità per la console Lucilia mi balzò chiaro in mente il progetto di
Zorilda. Quella luce negli occhi, il suo consiglio di chiudere i cancelli, la freddezza con cui mi aveva trattata.
Lei sapeva! E io ci ero cascata …
E come avresti potuto fare altrimenti, sciocca! Chi poteva immaginarlo?
Ma ora i draghi non sarebbero accorsi in aiuto di colui che aveva creduto in me. Io dovevo prepararli, io do-
vevo fare in modo che la loro forza servisse Hedenport … invece ero stata manipolata come una stupida ra-
gazzina!
Perché lo sei!
Avrei dovuto correre al Forte Azzurro, portare con me dei soldati e far imprigionare Zorilda con chiunque
l’avesse aiutata. Avrei dovuto avvertire il console o il generale Ganor. Compiere il mio dovere e liberare i
draghi. Avrei dovuto compiere il gesto che ci avrebbe fatto vincere quella battaglia … invece questo fu quel-
lo che feci: andai a nascondermi.
Avevo fitte forti alla pancia, le gambe mi tremavano e sentivo il sudore congelarsi sul mio corpo. Dovetti al-
lentare il corpetto per respirare. In mezzo alla confusione, senza pensare, corsi in una delle piccole stanze
senza finestre dove venivano tenute tovaglie e posate per le feste.
Perché non corri a combattere?
Mi chiusi dentro, vomitai in un secchiello ancora pieno di ghiaccio poi, stremata dai dolori all’addome, mi
lasciai cadere a terra e piansi. Piansi di disperazione, di vergogna e di paura. Soffocai le mie grida su una to-
vaglia che sapeva di lavanda mentre i singhiozzi mi spezzavano il respiro. Nella testa i pensieri pulsavano
come martellate.
Cosa ne sarà di me? E dei miei genitori? Flarion? Il piccolo uovo di Samyra? Come faccio a proteggerli se non
sono neanche capace di alzarmi e uscire da questo ripostiglio? Cosa sta succedendo là fuori per colpa mia?
Passò un lasso di tempo che non saprei calcolare. Versai tutte le lacrime e persi ogni forza negli spasmi del
pianto. Lentamente ritornai a percepire il mondo esterno. C’era silenzio. Un silenzio innaturale e terribile.
Come uno spettro, mi alzai. Aprii la porta della stanza e mi ritrovai nella grande sala del mare. Era deserta.
I piatti abbandonati a terra, il cibo sparso ovunque. Pozzanghere di vino punteggiavano il bel mosaico di
onde sul pavimento. Solo le luci magiche continuavano a brillare come prima, inconsapevoli e rasserenanti.
Vagai fra i tavoli come in un sogno. Dovevo uscire … trovare i miei genitori. Ma cosa mi aspettava là fuori?
Poi udii un rumore e la porta dietro al tavolo patronale si aprì.
Sulla soglia comparve Evek Thunderion, il suo volto era simile a quello di un morto. Sulle prime fui tentata
di scappare.
Mi ucciderà!
Ma lui spalancò gli occhi e mi corse incontro: “E’ Elorian che ti manda! Feanor di Granwald”. Pareva che a-
vesse visto un angelo. Rimasi immobile. Incapace di proferire parola. Lui si fermò davanti a me e si rese
conto della mio stato di confusione.
“Che ti è accaduto?”.
Cercai di trovare le forze per confessare la mia inettitudine. Almeno questo glielo dovevo: “Io … mio conso-
le … ho fallito”.
“Chi ha chiuso i cancelli dei draghi?”
“E’ stata Zorilda”.
Non mostrò alcuno stupore: “Ma certo. Baros e la sua consorte” poi mi fissò con determinazione: “Vieni
con me. Devo affidarti la più grande fra le responsabilità”. Detto questo si voltò e tornò alla porta da cui era
emerso.
Responsabilità?
Non volevo. Pensai di voltarmi e scappare. Che mi uccidesse pure!
Ora basta! Non deve succedere di nuovo!
Invece lo seguii. Forse fu allora che compresi che la mia vita non sarebbe stata felice. Alcune persone vivo-
no. Altre invece vengono travolte dal loro destino.
Salimmo per delle scale decorate con i simboli dei Thunderion e giungemmo ad una graziosa porta intaglia-
ta con disegni di piccoli animali e alberi da frutto. Il console la aprì con deferenza, quasi fosse l’ingresso di
un tempio. Era una bella stanza piena di teli colorati e statuette di legno. Una donna stava seduta
nell’angolo vicino ad una larga e bellissima culla. Il suo volto era inespressivo. Era sconvolta.
Così siamo in due.
Evek Thunderion le si avvicinò: “Grazie Gilenia. Ora puoi andare. Fuggi dalla parte delle stalle e non tornare
mai più ad Hedenport. Accuserebbero anche te di stregoneria”.
La donna non disse nulla. Si capiva che il terrore di quell’eventualità la paralizzava. Si alzò, prese il mantello
e corse via senza neanche guardare la culla. Lo feci io: due splendidi neonati avvolti in fasce dormivano bea-
ti uno vicino all’altra.
Il console si avvicinò alla culla e li baciò con tenerezza. Poi mi guardò carico di orgoglio: “Atrax ed Estelia”.
“Sono bellissimi, console”.
Lui si voltò e aprì una finestra che dava su un piccolo balcone di pietra. Da fuori entrò il pungente odore dei
roghi. “Le truppe Lucilia sono alle porte del castello. A quanto pare il generale Ganor mi ha tradito e così
hanno fatto Baros Gardner e altri consiglieri. I draghi sono imprigionati nelle loro tane e probabilmente i
cavalieri di Sir Gwalor saranno già stati uccisi o messi in catene”. Lo disse freddamente, quasi la cosa non lo
riguardasse.
“Siamo spacciati?”.
“Io sì. Sono vittima di una congiura dalle motivazioni misteriose. Ma nessuno si darà la pena di spiegarmi
alcunché. Lucilia entrerà e mi farà uccidere”. Le fitte all’addome ricominciarono.
“Non ti nascondo che potresti arrenderti e forse avere salva la vita, raccontando qualche falsa storia su di
me o mia moglie … ma tu eri la sua pupilla. Non so perché ma ti riteneva davvero promettente”. La paura
aveva completamente soffocato il mio orgoglio, così lessi subito nelle sue parole la terribile verità. Io non
c’entravo nulla … ma ero comunque spacciata.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. Il console si voltò: “Entra, amico mio”.
Deverell von Storm era coperto di sangue dalla testa ai piedi. La sua armatura era ammaccata in molti punti
ma lo scudo sembrava ancora perfetto e brillava di una luce soprannaturale. Attraversò la stanza con passo
deciso e puntando la spada a terra si inginocchiò davanti al console.
E’ così che entra uno a cui si possono affidare delle responsabilità.
Doveva avere quasi quarant’anni. Era bello, con un volto dai tratti forti e i baffi folti che contornavano la
bocca sottile scendendo fino al mento. I suoi occhi neri brillavano di una determinazione incrollabile. “Evek.
Prima di arrivare a te, moriranno a centinaia. Li manderò all’inferno dei traditori prima di cadere”.
“Alzati Deverell. Questa notte moriranno in molti … ma non tu”.
Il cavaliere si levò in piedi e fissò prima l’amico, poi la culla, poi me: “Non mi chiedere questo”.
“Non mi fido più di nessuno, se non di te. Ti manderei verso una morte da eroe … ma questa è una notte di
tradimenti, sotterfugi e trappole. Questi stolti non meritano il tuo sangue”.
Deverell chinò il capo pieno di tristezza: “E non meritano il sangue dei tuoi figli”.
Oh cielo!
Il console prese dolcemente il primo involto e lo porse a Deverell: “Questa è Estelia. E’ stata Ariana a deci-
dere il suo nome. Giurami che la proteggerai a costo della tua vita”.
“Dovranno sorgere e cadere i cieli per mille volte prima che abbandoni il sangue del tuo sangue”. Il cavalie-
re prese la bimba con una dimestichezza insolita per un soldato.
E’ stato un padre amorevole prima di oggi.
Per un attimo fra i due regnò il silenzio. Potevo percepire l’amicizia e il rispetto che sentivano l’uno per
l’altro. Era una scena commovente e carica di forza. Ma poi Evek Thunderion si voltò verso di me.
E adesso?
Prese l’altro bimbo e me lo porse: “Prendi Feanor di Granwald. Questo è Atrax Thunderion: mio legittimo
discendente ed erede del titolo consolare dei miei avi. Giura di proteggerlo a costo della tua vita”.
Ma io sono un’incapace! Sono una ragazzina! Rovinerò tutto!
“Lo giuro”. La voce tremò di emozione. Avevo pronunciato un altro voto, come il giorno in cui giurai di
prendermi cura dei draghi come prima ammaliatrice. In cuor mio sperai di non fallire anche quella volta.
Senza dire una parola di più mi consegnò il piccolo. Cercai di prenderlo con la stessa disinvoltura di Deverell
ma riuscii solo a rigirarlo in modo impacciato e rischiai di svegliarlo. Per fortuna il bimbo dormiva profon-
damente e io feci in tempo a raggiungere una posizione di relativa stabilità stringendolo al mio seno.
“Ora venite con me”. Il console prese una delle lanterne della stanza ed uscì dalla stanza.
Io e Deverell rimanemmo soli per qualche secondo. Lui mi guardò con rispetto: “Hai fra le braccia il futuro
dei Thunderion. Sii forte”.
Scendemmo per quella che mi sembrò un’eternità. Prima gli appartamenti consolari, poi le sale comuni,
quindi le cucine per finire su una scaletta angusta e buia che ci portò nelle cantine. Attraversammo una sala
piena di grandi botti di vino e arrivammo ad una piccola cantinetta buia in un angolo sporco dove bottiglie
vecchie e probabilmente di scarso valore erano impilate nei loro alloggiamenti. Con mia grande sorpresa
notai che una delle pareti su cui erano conservate era completamente aperta e lasciava entrare un’aria ge-
lida che sapeva di muffa e muschio vecchio. Un soldato era in piedi vicino all’apertura.
Il console si voltò verso di noi: “Questo passaggio conduce ai tre luoghi di fuga che i miei avi prepararono in
casi come questo. Seguitelo fino a che non si dividerà. Il cunicolo a sinistra porta ad una caletta nascosta ol-
tre le mura del porto. Lì si trova una barca sempre pronta con provviste e denaro”. Poi guardò Deverell: “Ci
andrai tu, amico mio. Naviga lungo la costa fino ad uno dei porti a nord e poi fuggi nelle terre selvagge. Tro-
va un luogo sicuro dove nascondere Estelia”.
Il cavaliere annuì: “Che cosa devo attendere?”.
L’altro non disse nulla ma si rivolse a me: “Tu Feanor prenderai il cunicolo a destra insieme a questo solda-
to. Salirete fino ad un ingresso segreto fra le tane dei draghi. Sei la prima ammaliatrice. Scegline uno e vola
via di qui. Vai ad Aman e racconta tutto quello che hai visto. Presenta mio figlio al consiglio e denuncia
pubblicamente l’intrigo di Lucilia e Valdisar”.
Mi tremarono le gambe: “Mio console … è un compito molto difficile. Perché non date la bimba a me e la-
sciate che sia sir Deverell a parlare al consiglio?”
“Perché tutti sanno della nostra amicizia e penserebbero che lui voglia difendermi contro ogni evidenza. In
più tu conoscevi lady Ariana e potrai parlare a sua discolpa. No: ho deciso. Tu penserai ad Atrax”. Il suo
sguardo tornò su Deverell: “Il tuo compito sarà altrettanto difficile. Terrai le orecchie aperte in attesa che
l’accusa di Feanor sia resa pubblica. Sarà questione di qualche giorno da oggi. A quel punto cavalcherai fino
al tempio del Sigillo e perorerai la sua causa, invocando i cavalieri e marciando sul castello di Valdisar per
avere giustizia”.
“Ho capito”.
“Perché non fuggite con noi, console?” azzardai.
I due uomini mi guardarono con freddezza: “Non fuggirò. Voi state salvando il mio sangue. Io devo salvare il
mio onore”.
Rimanemmo in silenzio e per un attimo sentii di essere parte di qualcosa di grande. Era solo questione di
qualche giorno. I miei genitori avrebbero creduto che fossi morta per poi vedermi tornare insieme agli e-
serciti repubblicani per scacciare gli invasori!
Feanor … non ricominciare. Sai che non funziona così.
Ma dovevo comunque salvare quel bambino.
Non c’era bisogno di dire altro. Il soldato prese una fiaccola e si addentrò nel passaggio segreto. Io lo seguii
in silenzio. Mi voltai solo un momento per scorgere l’ultimo abbraccio di due amici prima della fine. Poi an-
che Deverell ci raggiunse. I due bambini dormivano serenamente.
Il console Evek era lì. All’inizio del tunnel … a vederci sparire con i suoi figli. La sorte aveva scelto un modo
davvero crudele per toglierli prima l’amore e poi il futuro. Chissà in che modo avrebbe perso la vita, quella
notte. Il mio assurdo romanticismo mi fece desiderare che fosse un evento tragico: degno di un vero eroe.
Evek Thunderion si meritava un posto in qualche ballata … e perché succedesse dovevo dire al mondo che
era stato tradito e raggirato. Dovevo farlo io.
Fu in quel momento che giurai davvero. Non a parole, come avevo fatto molte volte in passato, ma con il
cuore.

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Un’ora dopo.
Sala del gran consiglio - Castello della famiglia Thunderion.
Lord Evek Thunderion - console maggiore della Repubblica di Aman.

La battaglia nel castello stava infuriando da più di un’ora. Le truppe di Lucilia avevano trovato le porte spa-
lancate e solo le reclute addestrate da Deverell avevano cercato di opporre una improbabile resistenza.
Cinque draghi volavano sopra il palazzo e dilaniavano chiunque osasse sporgersi sui camminamenti delle
mura o da una delle torri di guardia. Le stalle furono le prime a prendere fuoco, seguite da molte altre
strutture minori, fino a che tutta la casa dei miei avi non fu invasa da fuliggine e rossi bagliori di fiamma.
Dopo aver dato le ultime disposizioni ordinai a Jaroth e agli ultimi ufficiali rimasti fedeli di non rischiare le
loro vite e di arrendersi quando le loro postazioni fossero state prese. Mi ero infine congedato dai soldati
della guardia consolare, silenziosi compagni della vita che stava per terminare, invitandoli a dirigersi al por-
to e trovare un imbarco su qualche mercantile.
I corridoi del castello e gli arazzi della gloriosa storia della mia famiglia mi apparivano come monumenti fu-
nebri e nel mio cuore una profonda tristezza prese il posto della rabbia e della sorpresa.
Seduto sul mio scranno, nella sala del gran consiglio cominciai a realizzare quello che era accaduto. Avrei
potuto pensare che fosse la maledizione di una notte d’inferno. Ma in realtà tutto era iniziato con la morte
di Ariana. O molto prima, chissà. Quali oscure trame stavano prendendo forma alla corte di Valdisar?
Ricchi o miserabili, potenti o dimenticati, siamo tutti fragili e vacui come la nebbia. Un sospiro, e quanto di
più grande abbiamo costruito svanisce senza lasciare alcuna traccia.
Tutto. Tranne i miei figli. Non ero un abile guerriero come Deverell, ma sarei morto con la lancia dei miei avi
in pugno per guadagnare qualche secondo in più alla fuga di quei due bambini. Heinander era al mio fianco,
pronta ad accompagnarmi fino alla soglia degl’inferi.
La porta si spalancò e una dozzina di soldati pesantemente armati irruppero nella sala. Con amarezza notai
che fra loro c’erano anche fanti del generale Ganor. Dietro di loro, con passo deciso, avanzarono Lucilia e
Patrizio. La giovane console aveva sul volto un sorriso malizioso e terribile: “Ci si rivede, Evek. Non è passa-
to molto tempo”.
Vedere al suo fianco il mio paffuto consigliere mi riempì il cuore di tristezza e repulsione. Lui sapeva tutto.
Aveva conosciuto me e Ariana. Aveva tutte le prove per comprendere quanto le accuse contro di me fosse-
ro infondate e pretestuose. Eppure mi guardava dritto negli occhi senza mostrare alcuna vergogna.
Non potei trattenermi: “Ho visto creature orribili e malvagie nella mia vita. Ma quelli che ho davanti agli oc-
chi in questo momento sono di certo i peggiori fra i demoni”.
“Tu dovresti saperlo bene” Lucilia era tagliente: “Visto che sei un adoratore delle tenebre”.
Patrizio si fece largo fra i soldati, alzò le braccia e puntò contro di me un dito accusatore: “Guardate che
mostro ci viveva accanto. E noi non lo sapevamo!”.
“Vedi Evek. Patrizio può testimoniare contro di te. Chi meglio di lui, che ti ha servito e ascoltato in questi
mesi, saprebbe descrivere le nefandezze di cui ti sei macchiato, nell’ombra di quella strega della tua consor-
te”.
La mia rabbia saliva di secondo in secondo, mi levai in piedi e li guardai negli occhi. Uno per uno. “Per te
non ho parole da sprecare, Lucilia. Ma a Patrizio, mio fido consigliere e amico, faccio una promessa solen-
ne”. Ero furibondo. Di certo era stato lui a dare ogni informazione a Valdisar: “Pagherai per il male che hai
causato”.
Patrizio sembrò vacillare per un attimo, ma subito recuperò la sua espressione di sdegno e furore: “Avete
sentito? Persino ora mi maledice! E’ come sua moglie, concubina di demoni!”.
Un impeto di rabbia inarrestabile mi pervase. Il mio corpo agì da solo. Sollevai Heinander urlando: “Ariana!”
tutto il mio corpo si tese in un attimo e la scagliai contro di lui! La lancia volò fra i soldati attoniti come un
fulmine d’acciaio e trafisse il basso ventre del verme, trapassandolo da parte a parte. Mai avevo inferto un
colpo così poderoso in vita mia. Patrizio cadde a terra gorgogliando di dolore.
Lucilia non si scompose, anzi sorrise malignamente: “Prendetelo!”.
I soldati mi furono addosso. Cercai inutilmente di allontanarli a mani nude ma in pochi istanti mi immobiliz-
zarono le braccia e la testa. Altri stavano trascinando Patrizio in un angolo. La console mi si avvicinò: “Hai
firmato la tua condanna a morte, Evek Thunderion. Uccidere il tuo vecchio amico Patrizio è certamente
prova che tu sia posseduto da forze malvagie”.
Le sputai in faccia: “Tu e Valdisar pagherete per quello che state facendo!”
“Ah sì? E come?” Sembrava davvero divertita, si asciugò il volto e mi si avvicinò suadente: “Ti dico io cosa
avverrà. Tua moglie verrà dichiarata impura, i tuoi figli verranno bruciati al rogo come progenie demoniaca,
il casato dei Thunderion cadrà in disgrazia e io sarà eletta console di Hedenport. Berrò il tuo vino, darò or-
dini ai tuoi servi, riceverò giuramenti dai tuoi cavalieri e guiderò i tuoi draghi in battaglia. E farò in modo
che il tuo nome venga pronunciato come una maledizione da tutti coloro che ti hanno conosciuto. Sarai E-
vek Thunderion l’oscuro. Ladro, assassino, adoratore del male. Vedrai. La gente fa in fretta a odiare”.
“Non ci riuscirai”. Non volevo che intuisse la mia flebile speranza e così lo dissi a testa bassa.
Lei mi si fece ancora più vicina e sussurrò al mio orecchio: “Muori nel disonore verme. Non hai idea del po-
tere che mi ha mandata”. Poi si scostò: “Soldati. Portatelo in una stanza qualsiasi e tagliategli la testa. Non
voglio sangue nella sala del consiglio”. Si diresse verso l’uscita
Mi presero e cominciarono a sospingermi verso una delle porte laterali. Feci resistenza. La morte si stava
avvicinando e la paura mi attanagliava il petto con la sua stretta possente. Raccolsi le mie ultime forze e ur-
lai: “Il male non trionfa mai!”.
Lucilia si voltò: “Giusto. Dirò proprio questo al consiglio della Repubblica alla fine del mio rapporto sulla tua
morte”. Un soldato porse Heinander a Lucilia, lei la prese con noncuranza: “Ora però non ho tempo per i
vaneggiamenti di un morto. Devo andare a prendere i tuoi figli”. Mi girò le spalle e uscì trionfante. Non fece
in tempo a vedermi sorridere.
Mi trascinarono attraverso la sala del mare. Non sentivo fatica, dolore, tristezza. All’improvviso tutto si era
fatto insignificante. L’unico mio pensiero fu per Atrax ed Estelia. Un pensiero di speranza. Poi anche il loro
destino si allontanò dal mio e ogni cosa divenne opaca. Mi portarono in un ripostiglio disordinato, una to-
vaglia era appallottolata sul pavimento vicino a posate sparse e ai grembiuli dei camerieri.
Nessuno mi minacciò. Non mi chiesero di pronunciare le mie ultime parole. Fui messo frettolosamente in
ginocchio nella penombra e sentii il rumore metallico di una lama sguainata e sollevata.
Lucilia voleva che morissi senza gloria. Ma in quel momento capii che non avrebbe fatto differenza: la mor-
te è soltanto … morte.
La mia fu quella notte ad Hedenport.

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In quel momento.
Tane dei draghi – alture di Hedenport.
Feanor di Granwald - Prima ammaliatrice della famiglia Thunderion.

Il passaggio segreto ci condusse ad un varco fra le rocce degli avvallamenti a nord delle tane. Il soldato che
mi accompagnava si chiamava Narik ed era un membro della guardia consolare legato ad Evek Thunderion
da lontani vincoli di sangue.
Forse è per questo che si è fidato di lui … ma perché si è fidato di me?
Mi ero fatta un’idea ben precisa in merito: la situazione era precipitata troppo rapidamente e lui aveva scel-
to la persona che gli era capitata davanti nella sala del mare. Forse Elorian mi aveva davvero guidato si lì. La
mia crisi di pianto, la paura … Io ero la prima ammaliatrice: l’unica a possedere le chiavi di tutte le tane e
probabilmente mi considerava troppo ingenua per essere implicata nella congiura contro di lui. La persona
giusta al momento giusto. Forse lo ero realmente.
Dalle alture scorsi i segni delle battaglie in corso. Molte navi stavano lasciando il porto con manovre di e-
mergenza e dal castello si levavano alte colonne di fumo, così nero da risaltare persino sul velo scuro della
notte. Solo poche ore prima Hedenport mi era sembrata così bella …
Scendemmo con cautela verso le tane, ma non trovammo nessuno sui sentieri secondari. Dopo aver chiuso
i cancelli e bloccato il Forte Azzurro, Zorilda doveva sentirsi al sicuro. Forse qualcuno dei cavalieri dei dra-
ghi, ancora fedele al console Evek, stava tenendo occupate le forze di Lucilia in quella zona … ma non sem-
brava probabile. Il loro piano era stato terribilmente efficiente. Se non avessi accettato di far chiudere a Zo-
rilda le tane quella sera, mi sarei probabilmente ritrovata in catene … o sottoterra. Invece ero viva e avevo
fra le braccia l’unico erede della casata che servivo. Un bel problema per quei traditori! Il brivido della mia
nuova missione mi stava facendo riconsiderare gli eventi.
Forse non sono così inutile e incapace!
In qualità di prima ammaliatrice avevo sempre con me le chiavi delle tane. A Zorilda avevo lasciato quella
che agiva sul meccanismo centrale, ma ogni tana ne aveva una che permetteva di aprire manualmente il
suo cancello. In quei mesi avevo odiato con tutta me stessa il peso di tutte quelle chiavi, costantemente at-
taccate alla mia cintura.
Ovviamente condussi Narik verso la tana di Flarion. Era lui il mio drago: mi avrebbe portata ad Aman e sul
suo dorso avrei fatto ritorno ad Hedenport come giustiziera e salvatrice. Proprio mentre scivolavamo sui
sentieri pietrosi fra gli enormi ingressi sentimmo avvicinarsi delle voci.
Narik sguainò la spada e mi fece cenno di tacere, poi si nascose dietro ad un alto cespuglio di ginestra spi-
nosa. Io strinsi il bambino e mi appiattì vicino ad un masso, confidando nell’oscurità.
Mi sudavano le mani dalla tensione. Dall’imboccatura del sentiero vidi emergere Zorilda assieme ad un sol-
dato corpulento e brutto, che reggeva una lanterna. Cercai di scivolare quanto più in basso potei.
“… Ma domattina sarebbe più sicuro” l’uomo sembrava inquieto.
“Ora basta!” Zorilda si fermò sul sentiero a pochi passi dal mio nascondiglio. Tremavo come una foglia. “Ri-
peterlo in continuazione non cambierà le cose. Fosse per me, ti darei retta … ma serve subito. Per loro è di
estrema importanza”.
“Almeno chiamiamo qualcun altro”.
“Sono tutti impegnati e ti posso assicurare che una o due spade in più non cambierebbero la situazione”.
Detto questo i loro passi si allontanarono. Potei sentirli riprendere la conversazione, ormai incomprensibile
ma sempre più concitata. Dopo qualche istante Narik uscì dal suo nascondiglio. Tornai sul sentiero con il
bambino, che incredibilmente dormiva beato.
Narik mi fece cenno di proseguire, ma io lo fermai bruscamente: “Hai sentito cosa dicevano?”
Lui scosse la testa: “Che importa. Noi dobbiamo andarcene”.
“Ma ha parlato di una cosa importante!”
“Quella che portate fra le braccia lo è sicuramente di più!”. Il suo tono non ammetteva repliche ma qualco-
sa mi suggeriva che valesse la pena insistere, così lo affrontai: “Hanno detto che non ci sono altri soldati qui
intorno. Forse seguirli ci darà qualche prova in più per presentarci al consiglio”.
Dal suo sguardo capii che stava valutando la cosa. Forse accarezzò persino il desiderio di aggredire Zorilda,
traditrice del suo signore. Qualunque cosa avesse pensato, alla fine annuì e si incamminò cautamente die-
tro ai due. Non mi aspettavo che acconsentisse. Deglutii sonoramente.
Ma perché voglio peggiorare la mia situazione?
Li pedinammo fino ad un ingresso. Lo riconobbi immediatamente: era la tana di Samyra. Zorilda estrasse
una chiave e la applicò nella serratura a lato del grande cancello. Girò cinque volte e la pesante grata si sol-
levò con un cigolante rumore metallico.
Quella serpe le copie delle mie chiavi!
Ma ad un tratto avvenne qualcosa di imprevisto. L’uomo vicino a lei sfilò un’ascia imbrigliata fra le cinture
incrociate attorno al suo petto e la fronteggiò minaccioso: “Io non entro. Mi hanno detto brutte cose delle
draghesse che covano!”.
Zorilda sbuffò: “Tutte cose vere. Ma io sono un’ammaliatrice e non hai di che preoccuparti”.
“Non lascerà il suo uovo”.
Quasi lasciai cadere il bambino dalla sorpresa. Volevano prendere l’uovo di Samyra!
“Ho preparato un infuso che la ucciderà”. Sentii l’impulso di urlare di rabbia.
“Ne hai una vasca? Perché non credo che bastino poche gocce per abbattere un drago!”.
“Il difficile sarebbe farglielo bere, ma si fida di me. Quando farà effetto le prenderemo l’uovo”.
Narik mi guardò perplesso: “Credo che questo sia sufficiente” la sua voce era appena un sussurro: “la cosa
non ci riguarda. Andiamo prima che si accorgano di noi”.
Proprio in quell’istante Zorilda alzò il tono di voce: “Bada che verrai accusato di diserzione!”
“Tu fai quello che vuoi donna, io sono solo un mercenario. E non ci sono paghe abbastanza alte per farmi
entrare in quella tana”. Mi sporsi a guardare e lo vidi indietreggiare con l’ascia in pugno, minacciando Zoril-
da. Percorso qualche metro si voltò e si mise a correre.
La mia sottoposta traditrice pestò il piede a terra per la rabbia, poi sembrò fermarsi riflettere. Voltò la testa
in più direzioni poi i suoi occhi sembrarono carichi di paura. La mano di Narik mi si posò sulle spalle per
spingermi ad indietreggiare. Poi Zorilda scosse la testa ed entrò nella tana di Samyra. Il mio cuore perse un
battito.
Vuole uccidere Samyra e prendersi l’uovo! Lo porterà a Lucilia … che cosa ci vorranno fare?
Narik mi strattonò: “Dobbiamo muoverci adesso!”.
Io mi alzai in piedi e mi diressi al cancello della tana. Lui, dopo un momento di incredulità, si mise a rincor-
rermi e mi fermò: “Non costringetemi ad usare la forza”.
“Senti soldato. Tu sei al servizio del console Thunderion e sai quanto ami i suoi draghi”. Lui non mi parve
contento della piega che stavo dando al discorso, ma continuai: “Non si strappa un uovo di drago alla ma-
dre senza delle ragioni più che valide … e una di queste è la magia. Forse vogliono usare l’uovo per costrin-
gere lo stormo a seguire i suoi nuovi padroni, o potrebbe avere qualcosa a che fare con la lancia dei Thun-
derion! Ci sono mille modi di usare la potente energia racchiusa nella vita di un drago … ma sono tutti sacri-
leghi e vietati dalle nostre leggi” stavo parlando senza nemmeno prendere fiato: “Il mercenario se n’è anda-
to. Entriamo anche noi e catturiamo Zorilda! Salveremo l’uovo e le faremo confessare gli intenti dei suoi
mandanti davanti al consiglio”. Capii che anche Narik trovava rischioso entrare nella tana di Samyra, ma
non potevo permettere che si perpetrasse un simile crimine! E il tempo stava scorrendo. Gli porsi il bambi-
no: “Aspettami qui”.
“Cosa?!?” il soldato era esterrefatto.
“Dammi il tuo pugnale. Entrerò nella tana e fermerò Zorilda … a qualsiasi costo”.
Narik sembrò incapace di reagire. Forse avrebbe voluto obbligarmi a seguirlo, ma non poteva aggredirmi.
Era in preda ad una forte indecisione: “Se voi morirete lì dentro, io non potrò salire su un drago e volare via
con il figlio del console”.
“Invece sì”. Dovevo giocarmi il tutto per tutto. E in fretta. Misi una mano nella tasca interna del mio bel ve-
stito ormai logoro e sporco. Alle vere signore sarebbe servita per portare del trucco e qualche fazzoletto
maliardo, io invece ci custodivo una piccola clessidra. Narik la guardò sospettoso. “Cos’è questa?”
“E’ un oggetto molto prezioso. L’ho usato come dono la prima volta che incontrai il mio drago, Flarion. Ora
un po’ rimane nel suo tesoro, un po’ nella mia tasca. Se entrerai nella sua tana con questo, lui capirà e si la-
scerà cavalcare”.
“Ma io non ho mai guidato un drago”.
Gli sorrisi: “Nessuno guida un drago. E’ lui che accetta di portarti. Assicura la sella e digli il nome Aman: co-
nosce quasi tutti i centri più grandi del continente. Ti ci porterà”. Lui sembrò incerto … ma per la prima vol-
ta in vita mia sapevo esattamente cosa era giusto fare e non potevo perdere altro tempo. Gli lasciai la cles-
sidra e mi addentrai nella tana. Sapevo che non mi avrebbe seguita.
Il buio era mitigato dai resti ardenti dei bracieri che ardevano durante il turno di controllo delle ammaliatri-
ci. Ripercorsi il grande passaggio d’ingresso che avevo attraversato quel pomeriggio. La mia mente era tutta
centrata su Samyra. Ero molto brava a creare infusi e unguenti, e conoscevo bene la terribile pozione che
Zorilda intendeva somministrale. Estratto di loto di Garicus e polvere di una roccia alcalina chiamata Jaujau
dagli orchi, che la usavano per sedare i loro enormi animali da guerra. Insieme ad essi venivano mescolate
alcune gocce di veleno del Cobra degli abissi. A parte il jaujau, gli ingredienti erano costosissimi e rari … solo
un committente ricco e influente sarebbe riuscito a procurarseli.
La voce di Zorilda giunse dalla grotta: “Su Samyra. Non preoccuparti”. Udii il brontolio della draghessa che
doveva essere ancora agitata per il trambusto della notte. Non sarebbe stato facile ammansirla, ma Zorilda
era esperta e scaltra. Il suono della campana si diffuse rimbalzando fra le rocce. La mia tensione crebbe ad
ogni passo fino a diventare quasi insostenibile. Tenni pronto il pugnale di Narik e mi affacciai nella grotta.
Samyra era ferma a fianco del suo uovo. Dondolava ritmicamente il collo davanti a Zorilda che aveva inizia-
to a cantare accompagnata dal suono della campana. Gli occhi della draghessa erano calmi, ma non sotto-
messi.
“Sono venuta a darti una pozione per rafforzarti in preparazione alla schiusa dell’uovo” le parlava lenta-
mente e con voce affettuosa … ma qualcosa nel suo tono tradì della malizia perché Samyra smise di dondo-
lare e fece scattare le poderose mascelle a meno di un metro da lei. Zorilda scattò all’indietro: “Cosa fai! Lo
faccio per il tuo bene” ma la paura cominciava a trasparire anche ai miei occhi umani.
Samyra si alzò sulle zampe e spalancò le ali. Una visione che terrorizzò sia me che Zorilda! Lei indietreggiò.
Ma subito estrasse un’altra campana e intonò un canto che non avevo mai sentito. La draghessa piegò il
collo in preda ad un forte dolore e iniziò a indietreggiare fino al muro. I suoi occhi si iniettarono di rabbia.
E’ finita! Appena potrà assalirà chiunque le si pari davanti.
“Mi spiace. Avrei voluto darti una morte dolce ma devo assolutamente prendere il tuo uovo!”. Zorilda si
chinò lentamente e imbragò l’uovo con una serie di cinghie che aveva con sé … forse quello era il compito
per il quale aveva portato il mercenario … nel farlo da sola perse leggermente la concentrazione. Non a-
vrebbe dovuto farlo.
Samyra divenne furiosa. In un impeto di forza inaudita infranse il controllo del canto e spalancò le ali rug-
gendo. Io rimasi paralizzata dal terrore. Zorilda cantò disperata mentre indietreggiava con l’uovo, ma ormai
aveva davanti un drago rabbioso. Samyra avrebbe soffiato! Avrebbe ucciso Zorilda ma anche distrutto il suo
uovo!
Se non può averlo lei non lo lascerà a nessun’altro!
L’istinto mi spinse fuori dal nascondiglio. Corsi in avanti mentre l’aria diventava rovente e il collo di Samyra
cominciava a brillare, carico di fiamme. Zorilda non si accorse neanche di me e le piombai addosso spingen-
dola da parte con tutta la forza che mi era rimasta.
Poi fu tutto luce e fiamme. Sentii che in un secondo tutto il mio corpo si ustionò e il vestito prese fuoco. Ero
saltata fuori dal cono del soffio ma l’aria rovente era mortale. Strisciai contro le fiamme, respirai le fiamme,
mi aprii un varco nel calore e rotolai sulla pietra. Mi voltai verso l’alto e sentii sul viso il dolore più atroce
che si possa descrivere.
La roccia ardente, fusa dal soffio di Samyra zampillava intorno a noi e una parte mi cadde sul lato sinistro
del viso. L’occhio si fuse e tutta la pelle lanciò milioni di segnali di dolore. Urlai così forte che sentii qualcosa
rompersi in gola. Mi sentii mancare … ma l’istinto di sopravvivenza fu più forte. Samyra ci avrebbe uccise
senza pietà. Mi tirai in piedi, non vedevo quasi nulla e tutto il mondo mi arrivava a intermittenza fra fitte di
sofferenza che cancellavano ogni percezione. Zorilda era per terra illesa ma immobile per il terrore. Guar-
dava me, e il drago ruggente alle mie spalle. Chissà come avevo ancora il pugnale fra le mani. Era caldissimo
ma il dolore era talmente confuso e sterminato da non farmi fare distinzioni. Arrancai verso di lei ma pro-
prio in quel momento fui scaraventata contro la parete da una zampata di Samyra. Non mi colpì con gli ar-
tigli, ma con il dorso squamoso. Forse aveva intuito che non volevo farle del male. Vidi la sua enorme massa
muscolosa scagliarsi su Zorilda. La scena delle sue carni straziate dalle fauci poderose della draghessa fu
terribile, ma provai quasi un senso di giustizia. Poi vidi l’uovo. Era intatto, in un angolo.
Samyra aveva vinto. Ma se Zorilda non c’era riuscita, qualcun altro l’avrebbe fatto al posto suo. In quel
momento capii di avere solo un’alternativa. Mentre il dolore prendeva il sopravvento fin quasi al manca-
mento raccolsi l’uovo ancora involto nell’imbrago e lo misi sulle spalle. Il banchetto furibondo stava assor-
bendo tutta l’attenzione dell’enorme rettile.
Cercando di non svenire mi allontanai lungo la grotta. Piansi amaramente di dolore e vergogna. Stavo ru-
bando un figlio a sua madre. Quasi persi i sensi ma il ruggito di rabbia di Samyra mi raggiunse.
Si è accorta di me!
Iniziai una corsa folle verso l’uscita. Sentivo le sue urla furibonde e il suono stridente dei suoi artigli contro
la pietra mentre avanzava. Sempre più vicina. Alle mie spalle avvertii di nuovo il calore del suo soffio. Poi
uscii nella luce della luna e con un balzo disperato tolsi la chiave dalla serratura.
La grata cadde immediatamente e Samyra le piombò contro, furibonda, in un urto assordante. Mi ero ap-
piattita contro la parete laterale esterna, dove il suo soffio non sarebbe potuto arrivare. Sentii il suo muso
rabbioso avvicinarsi al mio angolo. Ringhiò con forza e mi assordò completamente. Poi si fermò ad annusa-
re. Mi stava assorbendo. Registrava ogni singolo odore del mio corpo per non scordare la ladra che le aveva
tolto il tesoro più prezioso. Non si sarebbe data pace finché non mi avesse trovata.
Singhiozzai di paura e disperazione: l’avevo tradita. Avevo giurato di prendermi cura di lei e del piccolo e
invece glielo stavo portando via. Non avrebbe mai capito le mie motivazioni. Per lei ora ero peggio di Zoril-
da. Peggio del più malvagio fra i demoni.
Continuò a percuotere la grata e ad annusare l’aria. Mi allontanai strisciando contro la roccia mentre il viso
pulsava come se fosse stato punto da migliaia di spilli ghiacciati. Raggiunsi a fatica un anfratto abbastanza
distante e presi un lungo e doloroso respiro. In quel momento mi accorsi che qualcosa non andava.
Narik. Non era lì. E nemmeno il bambino!
Questo è un incubo! Ti prego Elorian svegliami! Fammi aprire gli occhi nel mio letto! A casa mia! Ti prego!
Ma non accadde. Mi guardai intorno con un senso di panico crescente. Il sentiero riecheggiava dei ruggiti di
Samyra e si allungava fra stralci di luce lunare e bagliori di roghi lontani. Mossi qualche passo incerto fino
alla prima svolta e vidi più in basso un gruppo di una ventina di soldati. Erano vicini alla tana di Flarion. La
paura prese il sopravvento. Non riuscivo a distinguere bene le sagome … ma a terra vidi il corpo immobile di
un uomo. Uno dei guerrieri aveva qualcosa fra le braccia.
Atrax!
Avevano ucciso Narik. Avevano catturato il bambino mentre io ero nella tana di Samyra. In un attimo il do-
lore, la fatica e la paura persero ogni significato. Avevo fallito.
Un parte di armati si mise in marcia verso la mia posizione. Non riuscivo a muovermi, a pensare, a respirare.
Ora avrebbero ucciso il bambino per colpa mia. Avrei voluto urlare e piangere fino a consumarmi.
Ma una voce parlò dentro di me. Emerse misteriosamente fra le accuse e lo stordimento che si inseguivano
nella mia testa.
“Feanor, alzati e fuggi via. Per questa notte la tua parte è conclusa”.
Ho le allucinazioni!
“Vai al passaggio segreto e prendi il cunicolo centrale. Ti condurrà alla foresta”.
Chi sei?
“Se non vai ora ti prenderanno e morirai … tutto sarebbe più difficile”.
Hanno il bambino! Ho fallito!
“Solo se lo deciderai tu: perirai, il tuo uovo verrà distrutto e Atrax resterà solo ad affrontare il suo destino”.
Ma non c’è modo di aiutarlo!
“Tu non lo vedi adesso, come non vedi il drago nell’uovo che porti con te. Alzati o muori”.
La voce si dissolse nei miei pensieri.
Alzati o muori. Mi era rimasto solo quello. Così lo feci: mi alzai a fatica, nonostante il dolore al volto e alle
gambe, e zoppicai verso il passaggio segreto. Davanti ai miei occhi c’era l’immagine del neonato che stavo
abbandonando, dietro la schiena l’uovo di drago che avevo sottratto con l’inganno, all’orizzonte la città che
non ero riuscita a proteggere e in fondo alla mia coscienza una voce misteriosa che osava ordinarmi di con-
tinuare a credere in me stessa.
Entrai nel cunicolo. Arrancai faticosamente fino all’incrocio sotterraneo e imboccai la via che il console Evek
aveva scelto di non farci percorrere. La mia coscienza continuava a traballare, non saprei dire quanto im-
piegai ad uscire. Ad un tratto mi ritrovai nella foresta. Il primo sole cominciava a tingere di rosa il cielo che
intravedevo a sprazzi fra le querce. L’odore di muschio e di terra umida mi riempì le narici liberandole dal
pungente lezzo della mia stessa carne ustionata. Il corpo aveva perso ogni energia. Zoppicando raggiunsi
una piccola altura dalla quale un ruscello scendeva placido. Lasciai l’uovo e caddi stremata.
Non avevo cibo, forza e speranza … sarei morta volentieri per fermare il dolore. Strisciai fino all’acqua e
cercai di bere, ma i muscoli della mia faccia erano in parte inutilizzabili e riuscii solo a sorbire poche prezio-
sissime gocce. Presi un lungo respiro e allungai il corpo fino a portare il volto sopra il ruscello.
I miei sogni di ragazza finirono lì: davanti all’immagine mossa del mio nuovo viso deforme.
Mi sdraiai con l’intento di lasciarmi morire. E la voce parlò di nuovo.
“Sei stata molto brava Feanor”.
Silenzio! Fammi morire in pace.
“Hai molte cose da fare”.
Non voglio.
“Io so che lo vuoi. Non nasconderti dietro alle tue insicurezze”.
Chi sei tu?
“Ciò che si prenderà cura di te. Ora dormi Feanor di Granwald e recupera le forze. Dovrai accudire il tuo
drago … e preoccuparti di Atrax”.
Non sono in grado di farlo.
“Forse no. Ma lo sarai. Ti mostrerò la via e imparerai canti che nessuno più ode da secoli”.
La console Lucilia ha vinto! Non ci sono canzoni che riportino indietro il tempo.
“Noi lo faremo avanzare. Dovrai affinare la tua pazienza: vedrai molte stagioni susseguirsi nell’attesa che il
tuo momento giunga di nuovo. Per allora sarai pronta”.
La voce continuò a parlare ma la mia mente non riuscì a cogliere altro. Il mio unico occhio rimasto si chiuse
come se fosse l’ultima volta.
Con l’ultima scintilla di consapevolezza mi vidi come dall’alto. Ero ancora viva …
Poco prima dell’alba.
Una piccola imbarcazione nelle vicinanze della costa a Nord di Hedenport.
Deverell Von Storm - cavaliere del Sacro Sigillo e maestro d’armi della famiglia Thunderion.

Faceva freddo ma non lo sentivo. Le mie braccia dovevano essere stanche di remare ma non avevo tempo
neppure per rendermene conto. Il passaggio segreto mi avevo condotto ad una piccola grotta, scavata dal
mare sul fondo delle scogliere a nord delle mura marittime. Non un glorioso assalto finale, non una eroica
difesa per Deverell Von Storm. La fuga. Silenziosa e strisciante.
Dal quartiere del castello i fuochi brillavano sfidando le primissime luci del sole. I draghi di Lucilia ruggivano
nel cielo e probabilmente le mie truppe si stavano arrendendo in quegli istanti. Evek era morto, lo sentivo.
Il mio piccolo carico dormiva serenamente cullato dalle onde.
In che mondo sei capitata piccola Estelia …
Mi concessi un attimo di tregua. Eravamo lontani ormai e non c’era ancora abbastanza luce per distinguere
una piccola barca così vicina agli scogli. Prima dell’alba avremmo girato attorno al Corno Bussola, la scoglie-
ra appuntita che ci avrebbe definitivamente nascosto alla vista dei nostri nemici.
Avevo gettato l’armatura alle onde prima di salpare. Mi era rimasta solo Ultima.
E’ così che deve andare. Io e te, fino alla fine.
Feanor doveva già essersi involata sul suo drago. Avevo sperato di cogliere qualche guizzo nel cielo, ma sa-
pevo che non avrebbe mai scelto una rotta così evidente.
Fissai lungamente Hedenport, mentre la tristezza inondava la mia mente.
E’ questione di pochi giorni. Feanor porterà il piccolo Atrax ad Aman e poi marceremo su questi traditori. Al-
lora avrò la mia battaglia!
Fino ad allora avrei dovuto nascondermi come un ratto impaurito. Avrei volentieri barattato tutto quello
con le fauci ardenti di un demone antico. La piccola Estelia piagnucolò nel sonno. Forse cercava sua madre.
Siamo uguali io e te bimbetta. Tutti e due vogliamo ricongiungerci con quelli che amiamo.
Rividi il cadavere di Lysia, devastato dalla furia dei suoi assassini. Con le sue ultime forze era strisciata fino
al corpo esanime di Sky per dargli un ultimo bacio, prima di volare via con lui. Li avevo trovati così.
Quel terribile giorno non avevo pianto. Lo feci lì, davanti alla piccola Estelia. Piansi tremando. Poi giunsi allo
stremo: quando non hai più lacrime, parole, ricordi da bruciare.
Presi i remi e girai attorno al Corno Bussola, virando verso ovest. Il sole sorgeva e noi scappavamo inse-
guendo la notte.
Io volevo solo morire con onore. Varcare a testa alta la soglia e tornare da Lysia e Sky. “Ho fatto il mio dove-
re amore mio” gli avrei detto: “Ora mi riposerò per sempre al vostro fianco”.
Avrei fatto il mio dovere. Avrei conservato il mio onore.
E’ questione di pochi giorni …
Non sapevo nulla di quello che era successo a Feanor. Non sapevo che non sarebbe mai comparsa davanti
ai consoli di Aman.
E’ questione di pochi giorni … poi avrò la mia battaglia … sorgerà un sole rosso sangue e lo attraverserò
ruggendo con Ultima in pugno.
Volevo uccidere Dramsal, riabbracciare Evek, addormentarmi accanto a Lysia. Volevo baciare Sky sulla fron-
te. Volevo abbracciare mio figlio e baciarlo sulla fronte.
Ma non sapevo nulla quella notte ad Hedenport.

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