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Albanese
Lenticchie
alla julienne
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione digitale 2017
da prima edizione in “Varia” novembre 2017
Ho 38 anni o forse 46, c’è chi dice 50, chi 48... comunque io sono
Alain Tonné e lavorerò da grande.
GABBIANO IN CROSTA
CON LENTICCHIE ALLA JULIENNE
Che noia, essere l’uomo del momento, il più richiesto, a ogni santo
Salone del Mobile di Milano. Non era solo tutta quella popolarità a
manciate, che puzzava di ovvio. Era anche che ogni anno, per tutta la
durata dell’evento, Alain Tonné era costretto a lavorare
ininterrottamente, di più, senza sosta, di più, a lavorare. Alcuni
vociferavano che ce la facesse solo iniettandosi fiale di magnesio, le
malelingue insinuavano che invece fosse bergamotto coltivato da un
suo giovane assistente in un bunker sulla Sila, con mezzi di fortuna. In
ogni caso, durante la settimana dedicata al Mobile, Alain riusciva, solo
grazie alla sua irrefrenabile determinazione e al desiderio di non
sfigurare, a raggiungere l’uno e ottantacinque di altezza, con bicipiti e
tricipiti da gladiatore, carapace addominale, abbronzatura illegale,
occhi castani e capello scuro corto. Non c’era da stupirsi che le sue
performance venissero così acclamate dal suo pubblico, peraltro nobile
e distaccato come piaceva a lui.
“A-le-lain, A-la-là, faccelo vedè, faccelo toccà...!”
“Se lancio il perizoma lo prendi?”
“Vogliamo il tuo hot dog!”
Gente seria, i fan di Alain Tonné, gente di un certo livello che non
per questo rifuggiva dal turbamento della quiete pubblica, dai rumori
molesti, dagli insulti alla bandiera e dall’apologia di regime. Quando si
spingevano ai danni a cose e persone, poteva capitare che venissero
arrestati, ma immediatamente sostituiti con altri, grazie ai programmi
educativi per adolescenti che il mondo del cibo offre in abbondanza.
Una vergine di Domodossola lo inseguiva da anni in motorino,
inseguita a sua volta dai genitori, dagli zii e da una manciata di nonni
ancora in salute.
Una maestra di yoga sosteneva di essere la madre dei suoi tre figli.
Un designer di interni sosteneva di essere il padre dei suoi tre figli.
Un critico gastronomico, ex guardapesca del fiume Adige,
considerava Alain l’anello mancante.
Un plotone di professionisti sparsi in mezzo mondo si sarebbero
dannati l’anima per vederlo anche solo di sfuggita, e a tal scopo
dedicavano le loro vacanze a inseguirlo in posti dove lui,
invariabilmente, non si trovava. Anche perché per far perdere le
proprie tracce pagava una pierre costosissima, che era anche fashion
blogger, trendsetter e a tempo perso educatrice.
Le rare volte in cui Alain decideva di manifestarsi, la sua presenza
veniva annunciata da centinaia di copertine di settimanali e mensili, da
radio e televisioni, troppo spesso obbligati dalla pierre costosissima
che disponeva di dossier compromettenti quanto incompleti sui
principali direttori di media internazionali e sui loro animali da cortile.
Quell’anno, all’apertura del Salone del Mobile, Alain era su ogni
possibile prima pagina, comprese quelle di alcuni libri di algebra per la
scuola secondaria superiore. Questo era dovuto anche al fatto che – e
sia chiaro che nessuno vuol giudicare le scelte artistiche di un grande
artista – negli ultimi tempi era diventato il testimonial di campagne
pubblicitarie di aziende irreprensibili, legate al suo mestiere, al centro
del suo mondo e quindi del mondo di tutti: whisky, patatine, cucine,
giacche da cuoco, timer da forno, tende, ombrelloni, cavi per la
batteria e scovolini per il water. Onnipresente e con buone probabilità
onnipotente, Alain Tonné non era solo uno chef ma un pensatore, un
sociologo, l’uomo dell’anno, secondo alcuni del decennio, secondo altri
il decennio era ormai finito e occorreva passare al successivo. Con
tutto questo, come farsi bastare un solo Salone del Mobile?
Così, Alain aveva deciso di farsi promotore, assieme a tre vedove di
Sondrio, del Fuorissimo Salone, che si teneva in contemporanea nella
città valtellinese. Mai toccati da un evento di tale portata, gli abitanti
avevano sviluppato rapidamente per l’illustre ospite un divismo che
rasentava il culto pagano. In onore di Alain erano stati composti
canzoni, litanie, cori da stadio e salmi, ed erano state create
coreografie che prevedevano sacrifici umani. Da parte sua lo Chef,
ambizioso come uno chef, non si era montato la testa, limitandosi a
chiedere che i sacrifici umani fossero al sangue, i salmi al dente, e di
tanto in tanto che qualcuno gli scattasse un selfie in posa da dittatore
coreano mentre elargiva perle di saggezza.
“Io sono il vostro direttore d’orchestra, ma anche il vostro
compositore, editore e suonatore, e voi siete solo strumenti.”
“Sì, Maestro.”
“No, no, NO Maestro... Chef!”
“Chef! Ma come si diventa un grande chef?”
“Si diventa.”
“Grazie, Chef!”
Un seguace di Alain, il giovane Kantor, figlio di una delle tre
promotrici del Fuorissimo Salone – la signora Svetlana vedova
Fumagalli, unica erede di quello che è stato forse il più grande
produttore al mondo di bresaola –, da circa tre mesi era in missione,
in cerca di un rarissimo quadrifoglio rosa che secondo le leggende
cresce solo in determinate radure dei boschi valtellinesi frequentate
principalmente da scambisti. Il giovane Kantor non era più tornato a
casa, bivaccava tra le felci e conviveva ormai da parecchio tempo con
un branco di lupi alsaziani.
Perché il quadrifoglio rosa? Perché Kantor, deciso a diventare uno
chef ricco e famoso come Alain, soffriva di una rara forma di allergia
guarda caso proprio ai salumi e soprattutto alla bresaola, che lo aveva
portato a nutrirsi principalmente di petali e foglie. Nel corso delle sue
ricerche si era imbattuto nella notizia – alcuni sostengono nella
leggenda, altri la chiamano fake news e altri ancora bufala – del
quadrifoglio rosa della Valtellina. E aveva deciso di impossessarsene
per creare il piatto più originale, il più cool, il più trendy, il più stellato,
degno dell’attenzione del Maestro.
“Ma le sembra giusto, signor Chef Alain, perdersi per mesi in una
foresta per cercare un quadrifoglio?” si lamentava ora l’unica madre di
quell’unico figlio. Era preoccupata, non vedeva il rampollo da troppo
tempo e dei lupi alsaziani non si era mai fidata granché.
“Sì.”
Stimando Alain Tonné come un salvatore della patria, la signora
Svetlana si sentì più serena e decise che, se il giovane Kantor si fosse
ripresentato alla porta, lo avrebbe prontamente rimandato dai lupi in
paziente attesa.
“Ma tra un mese il giovane Kantor deve fare la mappatura dei nei,”
obiettò un’amica importuna, nonché vedova, della signora Svetlana.
“Perché, quanti ne ha?”
“Parecchi, lo chiamano il Dalmata.”
“Non c’è problema cara signora, i lupi conoscono i dalmata e, anche
se li considerano i cani più stupidi del mondo, ne terranno conto.”
Il giovane Kantor, in effetti, all’insaputa di molti era da poco
diventato maggiorenne e aveva festeggiato i suoi diciott’anni con il
capobranco alsaziano, forse il lupo più crudele d’Europa ma
infinitamente buono con i suoi simili e con un debole per i dalmata,
anche in senso biblico.
“Cara la mia signora, le faccio un esempio,” proseguì Alain, ispirato.
“Per la mia ricetta dei Tortelli al colombaccio impotente ho ricevuto
premi e onorificenze, e Dio solo sa quanto ho faticato per trovare quel
tipo di colombaccio.”
“Allora, inimitabile Chef, brindiamo all’alta cucina e che Dio ce la
mandi b... Voglio dire, cosa realizzerà oggi per noi, umili commensali?”
Tutti gli occhi, compresi gli zigomi, i nasi, le orecchie e varie altre
protuberanze, più o meno addizionate al silicone, del Club delle
Vedove Valtellinesi si puntarono con evidente eccitazione sul Grande
Chef. Erano felici e orgogliose di esserci, di essere di fronte al sublime
Alain Tonné, e qualcuna provò anche ad azzardare una palpatina.
“Signori e sopra ogni cosa Signore, siamo a due passi da cime e
vette innevate e l’ecosistema di questi luoghi è nobilitato da secoli dal
grande cervo,” esordì ispirato Alain. “Un amico mi diceva che esiste in
queste zone un esemplare albino, forse l’unico cervo albino della
Valtellina, e quindi per rendere indimenticabile e unico questo
Fuorissimo Salone preparerò per voi la Mousse di cervo albino. Vi
aspetterò in cucina con i miei assistenti, voi andate e portatemi il
cervo albino, senza dimenticare di donare il palco del mammifero ai
più poveri con i miei auguri.”
Tutti si esaltarono e cominciarono a lanciare i cappelli in aria, subito
prima di dirigersi alla porta con intenzioni bellicose, gridando: “Al
cervo! Al cervo!”. Tutti tranne uno, un vecchio ben vestito che rimase
immobile, annichilito dall’orrore: era Enrico Pirola, noto animalista e
sindaco per quarantasei anni di un discreto paesello limitrofo a
Sondrio. Il saggio uomo di Stato tentò con esperienza di trattenere le
persone, alzando mani e fulminando con lo sguardo come un vecchio
generale, ma la sua voce era ormai flebile, anche il labiale si era
dissociato, e le parole del signor Enrico risuonavano fuori sync dalla
parte opposta della sala, peraltro suonando così:
“Pirola... va’ a dar via il cû!”.
Come in una partenza olimpionica dei cento a ostacoli, i presenti
cominciarono dunque a correre verso le proprie case per procurarsi
armi e se necessario protesi atte a stanare e abbattere il raro
mammifero. Ma il grande Alain, dando prova di nerbo da condottiero,
li bloccò urlando dalla finestra:
“Vi prego, amici e sopra ogni cosa amiche, fermi! Amo questo vostro
raro e antico entusiasmo, e che Dio lo benedica, ma il cervo lo voglio
in cucina vivo, stanco quanto basta ma vivo”.
Si produsse poi in una giravolta come fanno gli attori nelle pièce di
Schnitzler, ma nessuno tra il suo pubblico aveva mai visto una pièce e
di Schnitzler sapevano solo che in teoria andrebbe cotto nello strutto,
in ogni caso il fascino di Alain era unico e tutti, tranne il signor Pirola,
si precipitarono verso il bosco.
I più esperti conoscevano la zona frequentata dal cervo, i meno
esperti seguirono i più esperti, nessuno pensò di portare dei cani e
come risultato tutti si persero senza speranza dopo la seconda svolta
a destra. Per fortuna passava da quelle parti il giovane Kantor che a
gesti – la vita selvatica lo aveva ormai privato della parola – indicò
loro una freccia marrone con scritto CERVO ALBINO sia in italiano sia in
dialetto valtellinese.
Dopo un lungo inseguimento, il cervo fermò la sua corsa per
sfinimento. Gli orgogliosi abitanti di Sondrio consegnarono al Maestro
Chef il nobile animale in preda a un forte infarto. Suonarono a festa le
campane di tutte le chiese della valle, i clacson di tutti i fuoristrada e i
fuorissimostrada, i campanacci di tutte le mucche vicine e lontane, e
ancora una volta Alain Tonné avrebbe potuto dirsi soddisfatto, se
fosse stata sua abitudine sprecare fiato in lodi fuori tempo massimo.
Il Fuorissimo Salone di Sondrio era entrato nella storia.
Per nobilitare ulteriormente l’evento, le tre vedove promotrici e una
commissione di alcolisti non tanto anonimi della zona decisero di
accompagnare la ricetta non con un banale vino, ma con una birra
prodotta in una baita situata a 4000 metri di altitudine, di proprietà di
un ex cantante postmelodico valtellinese. Si tratta di una bevanda
composta da acqua, malto di muschio e stella alpina, una vecchia
ricetta del cantante d’alta quota apprezzata da tutti gli abitanti delle
valli. Se bevuta a 5000 metri, raggiunge un tasso alcolico superiore a
quello di Spirytus, la famosa vodka russa che tutti i piloti si portano in
missione in Siberia perché se rimangono a secco col carburante
possono sempre versarla nel serbatoio.
Fu così che il Fuorissimo Salone riuscì a portare sotto i riflettori,
all’attenzione del mondo intero, una valle fin troppo dimenticata.
Da allora, qualcosa è cambiato.
Alcuni dei cacciatori si sono resi conto di aver eliminato l’ultimo
cervo albino e non escono più di casa, il giovane Kantor è tornato a
casa ma la signora Svetlana vedova Fumagalli si è rifatta una famiglia
con il capobranco dei lupi alsaziani, il signor Pirola dirige il traffico con
il linguaggio dei gesti, il prete ha fatto una rapina in banca e il resto
della comunità aspetta il Fuorissimo Salone 2018 per ridare un senso
alla propria esistenza.
E Alain Tonné? Di ritorno da Sondrio e dopo una veloce visita in
banca, come ogni anno atterrò trionfante con il suo timido elicottero
sulla Terrazza Martini: il suo compito non era finito. Milano lo
attendeva comunque. Capace di sfruttare ogni attimo, ogni momento,
ogni spazio, dall’elicottero lo Chef aveva rilasciato interviste
radiofoniche e lanciato volantini che lo ritraevano in perizoma
perlinato e con in mano una celebre bibita cancerogena, sì, ma a suo
dire divertente perché capace di sviluppare i più potenti e spaventosi
rutti biodegradabili del mondo.
Nel corso della Settimana del Mobile, come sempre, si guardò bene
dal cucinare, ma non per questo non era occupatissimo: fu fotografato
eroicamente seduto su una poltrona di design talmente esclusiva che
provocava una scoliosi anche solo a guardarla. Si fece immortalare in
piedi sul piano di cottura in titanio, acceso, di una cucina che costava
quanto un quartiere di Dubai, circondato da ragazze in bikini con in
mano pentole a forma di cristalli dell’Himalaya. E nella serata
conclusiva del Salone, finalmente, si concesse alle folle in uno show
cooking allo stadio San Siro di fronte a tutti i produttori di mobili del
mondo. In sei giorni dormì appena cinquantasette minuti, e anche
quelli in piedi, facendosi lavare il sangue ogni quarantott’ore e
rigenerandosi all’alba con la rassegna stampa delle lodi cantate in suo
onore da ogni possibile mezzo di comunicazione.
Purtroppo, il settimo giorno, lo storico critico gastronomico di “La
cometa” si infortunò cadendo dal palco di una discoteca per nudisti a
Brera, e fu sostituito da un giovane stagista, l’unico sobrio in tutta la
redazione perché alle feste del Salone avevano evitato di invitarlo
depistandolo.
Questo giovane di belle speranze, intossicato dall’improvviso potere,
volle entrare nella storia e nel suo articolo ebbe il coraggio di insultare
la cucina di Alain Tonné, definendolo più volte un cuoco.
Dopo pochi minuti dall’uscita del pezzo vennero convocati tutti gli
avvocati delle aziende sponsor del Grande Chef. Il giornale si dissociò
dall’articolo, dal giornalista, da tutta la politica editoriale dei cinque
anni precedenti e dalla sede legale della testata. Il giovane fu
processato per direttissima, gli venne tolta la cittadinanza italiana e
subì varie operazioni chirurgiche tra le quali la vasectomia senza
anestesia per sicurezza – da allora vive in un campo profughi alle
falde del Kilimangiaro.
Alain, nonostante tutte le meritate glorie e questi piccoli e dolorosi
inconvenienti, è rimasto il ragazzo semplice che non è mai stato: un
educatore nato, un esempio per i figli di tutti, una dimostrazione
vivente che questo nostro secolo, che doveva essere il secolo del
sesso, grazie ai maestri di cucina e di vita come lui è meritatamente
diventato, senza se e senza ma, il secolo dei cuochi.
Pardon, degli chef.
ALGHE SFERIFICATE ALL’ALITO DI
CERNIA
Pescate la cernia all’amo dalla barca, al largo delle Isole Tremiti, usando come
esca un totano pescato pochi minuti prima con una nassa.
Cromate il pesce sul posto (fatevi aiutare da un cromatore di professione, se
rinuncia al lavoro non comprate più le pentole da lui).
Durante la cromatura, inabissatevi per la raccolta delle alghe.
Marinate le alghe sul posto (fatevi aiutare da un marinatore di professione).
Dilatate la bocca della cernia e inserite al suo interno le gocce di alginato, il
cucchiaio di calcio e quel niente di lecitina di soia.
Lasciate riposare il pesce una notte nella stiva.
Se durante la notte il pesce subisce alterazioni del carattere, svegliatevi con foga
per evitare l’ammutinamento.
Sferificate le alghe sul posto (fatevi aiutare da uno sferificatore qualunque, alle
Isole Tremiti non mancano).
Avvicinate la cernia cromata alle alghe amalgamate e ventate il piatto con il sale
(fatevi aiutare da un ventatore di sale).
Consigli dello Chef
Per rendere antiaderente la pentola si usa cromarla ma io lo trovo banale, lo fanno
tutti, molto più originale è cromare il pesce.
Ma informatevi: se tra gli invitati alla cena in barca c’è un allergico al cromo si può
morire – tutto qui.
Difficoltà
Ingaggiare uno sherpa disposto a raccogliere la ventata di sale dell’Himalaya.
L’ultimo raccoglitore di vento di sale lo hanno scongelato poche settimane fa al
Museo di Scienze Naturali di Londra.
Consigli del nutrizionista
Al largo delle Isole Tremiti vive il branco di cernie più stupide del Mediterraneo, si
nutrono di bottiglie e piatti di plastica e soffrono quasi tutte di alitosi. Il loro
passatempo preferito è raggiungere la superficie in branco e fermare le petroliere
alitando contro di loro.
ABBACCHIO DI PETALI
CON SEGATURA DI PATATE