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Tre momenti diversi, di tre film non così diversi come potrebbe sembrare ad una prima occhiata.

Partiamo da qui e vediamo dove arriviamo. 1983, le sale cinematografiche americane vengono
invase dallo Scarface di Di Palma. Non ci interessa soffermarci sul film nella sua totalità, ma solo
su una delle sue sequenze, quella che probabilmente risulta essere la più utile per il discorso che
stiamo per affrontare. Siamo grossomodo alla metà del secondo atto, Tony Montana, dopo essersi
liberato del rivale Lopez, inizia la sua ascesa del sottobosco criminale di Miami. Il compito di
sottolineare l’acquisizione di un potere e di una ricchezza sempre crescente da parte dell’ex esule
cubano spetta ad un montaggio che unisce diverse scene unite dal comun denominatore dato dalla
disinvoltura con cui Montana ed i suoi muovono di volta in volta i grandi quantitativi di denaro
derivati dal traffico di droga. Questa sequenze è quasi completamente muta, e tuttavia ogni
appassionato ce l’ha ben presente nei propri ricordi perché a farle da sottofondo c’è Push It To The
Limit, un pezzo di Giorgio Moroder che è anche il primo tassello nel nostro percorso verso il senso
profondo di A Most Violent Year. La “morale”, potremmo chiamarla così, alla base della canzone
scritta da Moroder consiste in un invito a lasciarsi andare, a sfidarsi e a sfidare, a sfondare i limiti
che ci si era dati in un primo momento o che la stessa società ci aveva imposto, in un continuo,
edonistico e ottimistico miglioramento di sé e del proprio rapporto con il mondo che ci circonda.
1984, nelle sale ora c’è Rocky IV, il Rocky più politico della saga (se mai si possa definire un film
di Rocky realmente politico), quello con Ivan Drago che uccide Apollo Creed, quello con Rocky
che si allena spaccando legna quasi a mani nude in Russia. Anche qui, non ci interessa parlare del
film, ci interessa solo notare l’utilizzo che il film fa di un brano della soundtrack. Il perno della
colonna sonora di Rocky IV è No Easy Way Out di Robert Tepper, una sorta di inno hard-rock alla
necessità di combattere, di affrontare le avversità, di non tirarsi indietro di fronte agli ostacoli, un
pezzo, in sostanza, che potrebbe funzionare benissimo anche come commento morale alla stessa
saga di Rocky. Terzo film, terzo spunto di riflessione: è il 1985, è l’anno di Beverly Hills Cop, è il
momento storico in cui il pubblico americano fa conoscenza per la prima volta con il poliziotto
sboccato Axel Foley. Ripensiamo per un attimo ai titoli di testa del film: i nomi delle maestranze e
dei tecnici che hanno realizzato la pellicola scorrono su una cornice di immagini della vita cittadina
di Detroit, in cui si susseguono comuni americani, negozianti, artigiani, bambini, neri dei quartieri
popolari, ciascuno di essi colto nella propria autenticità, ciascuno di essi protagonista di questa sorta
di breve documentario dedicato al lato più autentico della città. A fare da sottofondo alla sequenza,
questo è il dettaglio che ci interessa maggiormente, c’è The Heat Is On di Glenn Frey, un pezzo
veloce, vivace, carico, direbbero alcuni, e che soprattutto contribuisce ad ammantare le immagini
della vita quotidiana della Detroit popolare di una dignità ed originalità tutta nuova. Tre sequenze,
tre film, tre canzoni che in un modo o nell’altro ciascuno di noi ricorda, che, possiamo dirlo senza
problemi, sono entrate nell’inconscio collettivo, o meglio, nella cultura pop non soltanto nostra ma,
anche e soprattutto, di coloro che entrarono per la prima volta in contatto con questi prodotti negli
anni ’80. Il secondo tassello del nostro cammino è proprio qui, è in una sola, singola domanda:
cos’è la cultura pop?
La cultura pop è un insieme cristallizzato di simboli, significati, input che ciascuno di noi,
attivamente o passivamente, archivia nel proprio inconscio nel corso della nostra vita. Siamo noi a
“formare” la cultura pop, scegliendo alcuni degli stimoli, evitandone altri, creandone di nuovi
partendo da spunti preesistenti. Noi siamo gli unici individui “autorizzati” ad agire sulla cultura
popolare, a modellarla, anche inconsciamente, il percorso al contrario non funziona, la cultura
popolare non potrà mai agire su noi, sarebbe contro natura. La domanda giusta da porsi ora è: è
sempre stato così? C’è mai stato un momento storico in cui la cultura popolare, l’inconscio
collettivo, si è arrogata la responsabilità di agire sulle coscienze, di modificare il comportamento
dell’essere umano ed il suo rapporto con la società che lo circonda? La risposta è sì, ovviamente, e,
aggiungiamo noi, è abbastanza istintivo ritrovare proprio negli anni ’80, il regno di quella che
potremmo chiamare come “La Grande Illusione” (vedremo poi il perché) questo particolare
momento storico. Abbiamo appena analizzato tre sequenze in cui quell’entità che gli studiosi di
cinema chiamano istanza narrante interrompe la sua azione sul film e lascia spazio ad una serie di
scene che hanno al proprio centro una soundtrack che non sarebbe troppo sbagliato definire
“enunciativa”, nella misura in cui essa si rivolge in prima persona allo spettatore. Tre colonne
sonore, tre canzoni, tre messaggi diversi che vanno ad agire sull’inconscio collettivo del pubblico in
sala. Prendetevi un attimo per riflettere: Push It To The Limit è un inno alla volontà, quella volontà
che nella sua massima espressione pone sempre nuovi traguardi e costituisce il primo motore
necessario ad infrangere nuove barriere; No Easy Way Out pone invece l’accento sul coraggio,
sull’abnegazione, sul desiderio di affrontare e polverizzare ogni ostacolo che ci si pone di fronte;
infine The Heat Is On o meglio il montaggio della vita quotidiana nella periferia di Detroit a cui il
pezzo di Glenn Frey fa da sottofondo sottolinea la purezza del popolo americano, la sua genuinità,
soprattutto, la sua capacità di costruirsi il proprio cammino, il proprio destino, da solo. Purezza,
coraggio, volontà, tre input che si cristallizzano all’interno dell’inconscio collettivo del pubblico
così come nella cultura pop americana e mondiale arrivando a ridefinire da zero l’idea stessa che
degli Stati Uniti avevano quelle persone in quegli anni. Non ci troviamo infatti di fronte a tre
semplici concetti ma ai tre capisaldi di quella che potremmo definire come la facies degli U.S.A.,
come l’atteggiamento con cui gli Stati Uniti si mostravano al resto del mondo. L’idea che
cominciava a farsi strada nell’inconscio collettivo attraverso il cinema (come in questo caso) ma
anche attraverso la pubblicità, la stampa, la tv, era che gli U.S.A. erano la terra delle opportunità, il
luogo in cui ognuno, se armato della giusta volontà e di abbastanza coraggio poteva essere “fabbro
delle proprie fortune”, in cui l’ultimo degli ultimi, il reietto della società, poteva diventare
milionario se si fosse dimostrato abbastanza abile nel cogliere le opportunità che gli si ponevano di
fronte. Questo meccanismo, quest’idea, resse per tutti gli anni ’80, poi, vuoi per alcune manovre
politiche azzardate, vuoi perché tutte le cose belle prima o poi finiscono, tutto il castello cominciò a
scricchiolare. Nessuno negava che gli Stati Uniti offrissero la possibilità di ribaltare il proprio
destino a chiunque, ma pian piano ci si cominciò a domandare a che prezzo fosse possibile ottenere
tutto ciò. Uno dei primi a mettere in luce l’illusorietà di questo sistema fu Oliver Stone con il suo
Wall Street. Il cammino di Gordon Gecko, rampante yuppie che un giorno, di punto in bianco, si
mette in testa di conquistare la borsa di New York, finisce con la procura che inizia un’inchiesta sui
suoi movimenti d’investimento e con lui dietro al banco degli imputati, accusato di insider trading.
Dunque non tutto è oro quel che luccica, non tutti coloro che desiderano rivoluzionare il proprio
destino alla fine ci riescono, non a tutti gli Stati Uniti concedono le stesse possibilità. La critica di
Stone per certi versi è efficace, ma è anche vero che non è, potremmo dire “universale”. In fondo
Gecko è riuscito a diventare miliardario, si certo…magari poi subisce un processo in cui deve
rispondere dei suoi errori ma forse questo non è un giusto prezzo da pagare rispetto all’immensa
ricchezza che con il tempo il broker è riuscito ad accumulare? Qualcuno tra il pubblico potrebbe
farsi questa domanda, e dunque per lui lo spunto di riflessione di Oliver Stone varrebbe meno di
zero. No…Stone ha fatto un ottimo lavoro in fondo, ma c’è qualcosa che manca al suo
ragionamento. Uno dei romanzi più belli di Brett Easton Ellis è American Psycho, che attraverso le
vicende dello yuppie Patrick Bateman, finanziere di giorno e spietato serial killer di notte, mette alla
berlina uno degli aspetti principali dell’infrastruttura attorno a cui si organizzano gli Stati Uniti
negli anni ‘80: l’edonismo. American Psycho è splendido, e splendida è soprattutto l’ironia caustica
con cui l’autore satireggia la superficialità che regnava in quegli anni, e tuttavia, il romanzo di Ellis
trova il suo limite proprio nella narrazione grottesca che costituisce la sua cifra distintiva. American
Psycho è semplicemente troppo assurdo per essere vero e per alcuni, quelli meno recettivi, quelli
che si soffermano alla superficie delle cose, l’insensatezza di alcune delle situazioni raccontate
costituiscono una barriera alla ricezione del messaggio che l’autore vuole trasmettere con il suo
romanzo. Anche American Psycho per certi versi dunque, fallisce nel suo obiettivo di mostrare il
vero volto degli anni ’80 e non riesce a riempire questo vuoto di senso che quasi grida il suo
desiderio di essere colmato. Questo percorso ci ha portato fin qui: da un lato c’è la volontà di dare
ad un fenomeno (l’infrastruttura adottata dagli U.S.A. negli anni ’80) il suo vero nome, dall’altro
c’è un vuoto che non accenna a volersi fare pieno, accanto a tutto ciò, A Most Violent Year, cioè il
prodotto che finora riesce ad essere all’altezza di questo compito.
Al centro di A Most Violent Year c’è Abel Morales, un immigrato latino che nel 1981 decide di
ampliare la sua già ben avviata attività di commerciante di carburante per rafforzare e consolidare
quella ricchezza che sente di meritare da anni. I propositi di Morales, tutto sommato nobili, si
scontreranno però con il contesto sociale in cui nasce e si sviluppa la sua stessa attività, un ambiente
fatto di violenza e corruzione dilagante che in un primo momento cambierà il suo modo di
rapportarsi con esso e che, successivamente, non potrà fare a meno di sancire il vero e proprio
fallimento di tutti i suoi obiettivi. Se ci si sofferma su alcuni dei dettagli attorno a cui si organizza A
Most Violent Year è chiaro che l’obiettivo di J.C. Chandor è quello, né più né meno, di fare in mille
pezzi ognuna di quelle che potremmo definire come le linee guida attorno a cui si organizzava
l’ideologia Americana dominante negli anni ’80. Abel è un immigrato che desidera farsi da solo,
inseguendo quell’ideale di self-made man che magari si è cristallizzato in lui attraverso i programmi
tv o gli spot americani che vedeva in Messico, al contempo però, alcuni particolari della sua
psicologia, alcune scelte che compie nel corso dell’intreccio contribuiscono a definirlo come una
vera e propria anomalia di quello stesso sistema di cui vorrebbe fare parte. Abel ha talento, ma ha
anche una straordinaria paura di compiere scelte difficili (ha paura, citando il pezzo di Moroder da
cui siamo partiti, a “spingersi oltre i propri limiti”), gli manca il coraggio di confrontarsi seriamente
con gli ostacoli che si ritrova sul proprio cammino, preferendo nascondersi alle spalle della moglie
(che è anche la figlia di un potente e temuto mafioso e che, si capirà col tempo, è anche colei che
l’ha aiutato maggiormente ad arrivare dov’è ora). Non ha coraggio Abel, ma paradossalmente non
sembra avere neanche la forza di volontà necessaria per sopravvivere efficacemente nel sistema. In
quegli anni girava una regola non scritta, una massima che è anche il principio su cui si formavano
gli imprenditori rampanti pronti a guadagnare milioni di dollari al giorno senza colpo ferire, una
regola che ruota attorno alla massima “homo homini lupo” e che vede nella volontà di ottenere una
ricchezza sempre crescente, a costo di mandare in rovina i propri rivali, il suo primo ed ultimo
motore; una regola, in buona sostanza, che al netto dei fatti sembra non aver fatto presa nell’animo
del protagonista. Alla fine del film, Abel è riuscito nel suo obiettivo: ha estinto il debito
precedentemente contratto con degli imprenditori ebrei e può stringere tra le mani il contratto di
proprietà del suo nuovo deposito automezzi, il primo tassello della sua personale scalata al
successo. Tuttavia per ottenere tutto ciò egli è arrivato ad indebitarsi pesantemente con i suoi rivali,
le ultime persone con cui avrebbe dovuto fare affari in questo senso e che, per questo, hanno una
sorta di “leva”, di vantaggio competitivo nei suoi confronti, un vantaggio che possono far valere in
qualsiasi momento, arrivando anche a distruggere tutto il suo impero commerciale con uno schiocco
di dita. Abel ha vinto, ma la sua è indubbiamente una vittoria di Pirro. Ha risolto un problema ma
nel fare ciò ha attivato una reazione a catena che ha contribuito a crearne almeno altri cento.
Curiosamente, la destrutturazione degli ideali degli anni ’80 e della figura dell’imprenditore
rampante coinvolge anche l’ambiente in cui la storia di Abel si dipana. La New York di A Most
Violent Year assomiglia molto di più ad un non luogo bloccato in un tempo che si ripete
continuamente più che alla città patinata e carica di vita che i mass media mostravano in quegli anni
con orgoglio. Non ci sono i locali notturni, non c’è la cordialità, l’amicizia, la solidarietà e la
speranza che ci si aspetterebbe di trovare in una città dove tutto è possibile. Al contrario c’è la neve
che copre costantemente i vialetti delle villette residenziali, il freddo che ti prende alle ossa, le
nuvole che incombono minacciose, c’è, soprattutto, una profonda indifferenza reciproca. Insomma,
in buona sostanza, New York, l’America, sembra essere ben lontana da quell’ideale di perfezione e
solidarietà che l’ideologia anni ’80 si sforzava di trasmettere. A questo punto è chiaro che la storia
di Abel può essere letta in modo duplice, a seconda di quanto si voglia scendere in profondità nella
sua anima: egli potrebbe essere l’anomalia del sistema, l’eccezione che conferma la regola,
l’imprenditore fallito ed incapace, agnello sacrificale necessario al funzionamento di un
meccanismo altrimenti perfetto ma al contempo, alternativa più difficile da accettare ma anche più
autentica, Abel non è altro che un ritratto impietoso e reale dell’imprenditore medio americano di
quegli anni. Attraverso di lui, Chandor sembra dirci che su cento imprenditori attivi in quegli anni, a
malapena una decina di loro erano i Gordon Gecko della situazione, gli altri erano esattamente
come Abel: spesso immigrati, desiderosi di entrare in un sistema più grande di loro ma al contempo
incapaci di affrontare fino in fondo le difficoltà che questa scelta comportava e dunque per questo
costantemente in bilico sul baratro che poteva inghiottire loro e la loro attività da un momento
all’altro. A Most Violent Year è soprattutto questo: è una destrutturazione lucida, aggressiva ed
altamente efficace degli ideali che muovevano gli Stati Uniti negli anni ’80 ma forse, oltre a ciò,
dietro al progetto di Chandor c’è qualcosa di più profondo. Se si analizza la biografia del regista, si
scopre che è figlio di un broker finanziario e che dunque, presumibilmente è stato a contatto con
l’economia e con il mondo imprenditoriale fin da piccolo, anzi, potremmo dire che forse proprio la
sua vicinanza con la dimensione economica lo ha guidato nella scrittura del suo primo
lungometraggio, Margin Call. Margin Call è la lucida cronaca dei fatti che hanno portato allo
scoppio della crisi economica mondiale del 2008 ma è, anche e soprattutto, un modo per
razionalizzare questo momento così difficoltoso per il mondo dell’imprenditoria ma anche per i
comuni cittadini. I broker protagonisti del film sono personaggi spietati, incapaci, parassiti nei
confronti della società che li circonda, sono degli elementi dannosi che devono essere estirpati dal
loro contesto per fare in modo che l’America possa tornare alla normalità. Con A Most Violent Year
è chiaro che il ragionamento di Chandor si è arricchito di qualche passaggio in più: il nucleo
primario della psicologia di quegli intermediari finanziari nasce nel clima ottimistico degli anni ’80
e Abel è, per certi versi, il loro progenitore: la sua incapacità, le sue debolezze, la sua inadeguatezza
al contesto in cui opera sono quegli stessi fattori che caratterizzeranno i broker di inizio anni ’00 e
che fondamentalmente condanneranno a morte l’economia americana e mondiale. Osservato da
questo punto di vista A Most Violent Year funziona come un passaggio di una vera e propria analisi
dei soggetti economici attivi negli U.S.A. in età contemporanea. Nel primo film Chandor ha
individuato coloro che possono essere definite come le radici sociali della crisi, nel terzo
lungometraggio ha indagato il background ideologico di questi stessi personaggi, tra le due pellicole
ha poi inserito All Is Lost, sorta di prontuario del “perfetto americano”, che dovrebbe, secondo
Chandor, sostituire i disonesti broker finanziari, essendo guidato, come il personaggio interpretato
nel film da Roberto Redford, da quella sana abnegazione e spirito di sacrificio necessari a risanare
una situazione al limite. Questa è ovviamente una nostra lettura personale delle intenzioni di J.C.
Chandor, non sappiamo se egli sia stato così lucido e diretto nella sua analisi dei fatti e se abbia
voluto comportarsi un po’ come colui che, non potendo cambiare il passato, fa di tutto per contenere
i danni del presente, tuttavia lo speriamo. Al contempo, è chiaro, al di là di ciò, che il regista, con
questo suo progetto, è riuscito, coscientemente ed in maniera efficace, a colmare quel vuoto di
significato che da tempo implorava di essere colmato, a ridefinire, in maniera spietata ed al
contempo straordinariamente concreta la “Grande Illusione” dell’ideologia dominante degli anni
’80 a cui prima accennavamo.

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