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60 L’intervista - Elvio Fassone TRACCE 1/2018

Con quel di più d’anima


Paola Bergamini

Il maxiprocesso alla mafia catanese. E gli oltre trent’anni di corrispondenza con un


ergastolano, che è entrato a far parte della sua esistenza. Abbiamo incontrato l’ex
giudice ELVIO FASSONE. Per capire perché fare giustizia è molto di più di
condannare a una pena__br__

Autunno 1988. Dalla cucina, la signora Annamaria osserva il marito aggirarsi per
casa. Qualcosa non va, un’irrequietezza che non è da lui, come se qualcosa lo
tormentasse dentro. Proprio ora che è tutto finito. Il giorno prima, infatti, si era
concluso, dopo quasi due anni, il maxiprocesso alla mafia catanese. E lui, Elvio
Fassone, presidente della Corte d’Assise, aveva letto ai 242 imputati i capi
d’accusa e le relative sentenze. Gli si avvicina: «Non sei contento?». «Mi sento
sollevato da questa fatica immane, ma triste per gli ergastoli che ho dovuto
infliggere. Ho “tolto” la vita a tanti ragazzi, soprattutto a Salvatore (nome di
fantasia, ndr ). Ho in mente le parole che mi ha detto durante un colloquio: “Se
io nascevo dove è nato suo figlio...”». «Scrivigli. Tra voi è nato qualcosa che va
oltre la normale relazione tra giudice e imputato». E il giudice gli scrive.
Inizia così una corrispondenza che va avanti da oltre trent’anni. Nel 2015, dopo il
tentativo di suicidio di Salvatore, il magistrato ora in pensione ha deciso di
raccontare questa storia, attraverso le lettere, in un libro, Fine pena: ora (ed.
Sellerio). Una storia particolare, intrisa di umanità, che ha suscitato un
movimento di opinione sui giornali e in altri ambiti sul tema dell’utilità
dell’ergastolo nel nostro sistema giudiziario e sul valore della detenzione. Cioè
sul fatto che la persona, nel tempo, attraverso un percorso rieducativo possa
cambiare. Non a caso, in appendice del libro c’è una lunga e accurata riflessione
proprio sull’ergastolo e la sua validità.
Ad agosto, con l’ex pm di Mani Pulite, Gherardo Colombo, Fassone è stato
relatore di uno degli incontri più gremiti del Meeting di Rimini. Al punto che
alcuni ragazzi, dopo, hanno voluto incontrarlo. A novembre, al Piccolo Teatro di
Milano, è andato in scena lo spettacolo teatrale di Paolo Giordano liberamente
tratto dal libro. Un successo di pubblico, tanto che la programmazione è stata
allungata di cinque giorni. Una storia particolare tra due persone che dal giorno
della sentenza, praticamente, non si sono più viste, ma che ha cambiato
entrambi. Un di più di umanità che interroga tutti. Ne abbiamo parlato con il
giudice Fassone nella sua casa di Pinerolo, vicino a Torino, dove continua i suoi
studi di fine giurista appassionato della sua materia.

Partiamo proprio da quella frase di Salvatore: «Se io nascevo dove è nato


suo figlio, magari facevo l’avvocato». Lei ha detto e scritto che in quelle
parole ha sentito come il desiderio di una figliolanza spirituale.

Io così l’ho intesa. Ma per comprendere è necessario ripercorrere i fotogrammi


di questa vicenda. Innanzitutto la mia decisione, all’inizio del processo, di
rendermi disponibile per colloqui post-udienza con gli imputati, per parlare e,
nel caso, affrontare problemi di ordine pratico. Avevo informato i miei superiori
e richiesto la presenza degli avvocati, in modo che tutto fosse alla luce del sole.
Non volevo certo che si dicesse che il giudice estorceva dichiarazioni. Tutto per
me è sempre stato secundum legem , o tutt’al più praeter legem, mai contra
legem. Volevo attenuare il clima di guerra che si stava vivendo. Era un modo per
non mettermi in trincea contro di loro. Durante uno di questi colloqui, Salvatore
disse quelle parole sulla “lotteria della vita”, come la chiamo io. E poi arrivò la
risposta alla mia prima lettera: «Io so che l’ergastolo nel suo cuore non me lo
voleva dare, ma ha seguito la legge. Per questo io farò quello che lei mi
consiglia». Ecco ancora la figliolanza spirituale. Se lui si rammaricava di non
essere stato mio figlio, io dovevo fare il possibile per essere suo padre. Fin dalla
prima lettera il mio messaggio è stato: tu sei al di là dell’abisso, mi hai buttato la
corda, io la tengo, tu aggrappati e cammina. Io ti aspetto. Questo è avvenuto in
trent’anni. Una sorta di tacito patto: «Tu resisterai: io ti accompagnerò». Ma
anche prima, durante il processo. Per me voleva dire seguire le cose con un
supplemento d’anima.

Cosa significa?

Il processo è, appunto, un procedere dal reato all’accertamento o esclusione


della responsabilità. Ma questo “cammino” temporalmente non è lineare, può
subire degli intoppi. Basta che un avvocato sia chiamato per un altro
procedimento e chieda il rinvio dell’udienza in atto e tutto si ferma. Durante il
maxi processo, ad esempio, gli imputati - quasi tutti siciliani -, avendo una
quantità di altri processi in corso, venivano chiamati a giudizio in altre città.
Questo significava dover fermare l’udienza in attesa che ritornassero a Torino.
Grazie a quei colloqui e ai rapporti umani che erano nati, ho potuto fare questa
proposta agli imputati: quando non ci siete, io mi impegno con la garanzia degli
avvocati che saranno presenti, che durante l’udienza non si parlerà di quanto vi
riguarda. Loro hanno rinunciato a fare ostruzionismo, il processo è continuato in
un clima più disteso. Teniamo presente che io ero responsabile della vita dei
giudici popolari che non avevano la scorta. Bastava una scintilla, e ci poteva
scappare il fatto di sangue.

Possiamo dire un supplemento d’anima e di umanità?

E di responsabilità, aggiungo. Cosa che non sempre avviene nel mondo


carcerario. L’esempio lo peschiamo proprio nella vicenda di Salvatore. A un
certo punto della sua detenzione, dopo mesi di osservazione, aveva maturato
un giudizio positivo per essere ammesso al lavoro esterno. Ma proprio in quei
giorni avvenne un cambio nella direzione del carcere. Cosa fece il nuovo
direttore? Nonostante avesse sottomano il cospicuo dossier frutto
dell’osservazione già disposta dal carcere, ritenne di farla ripetere e così il
detenuto dovette attendere altri mesi per usufruire del beneficio.

Durante uno dei primi colloqui, Salvatore richiese un permesso per andare
a trovare la mamma ammalata. Non solo, voleva presentarsi senza
manette e senza guardie. Lei lo concesse. Cosa l’ha indotto a fidarsi di lui?

Ricordo bene quel giorno. Ci siamo guardati a lungo negli occhi. Anche l’uomo
più razionale sa che ci sono delle forme di comunicazione che non passano
attraverso le parole. Ho pensato che quell’uomo, che era stato capace di delitti
efferati, aveva un suo codice d’onore, rigoroso come il mio. In quel lungo
sguardo, ognuno chiedeva all’altro di uscire dal proprio ruolo: io, se mi fossi
attenuto all’ordinamento penitenziario, avrei dovuto rifiutarmi di concedere il
permesso, e lui d’altro canto poteva approfittarne per scappare. Era una
richiesta d’onore per entrambi. Inoltre sapevo che il rischio che correvo avrebbe
garantito un clima di non belligeranza, un di più di rispetto nei confronti della
Corte.

Perché, dopo la lettera di Salvatore in cui le comunicava il tentativo di


suicidio, lei ha deciso di scrivere questa storia

Raccontare una storia di sofferenza è in piccola parte risarcirla. Il fatto che


qualcuno che ti è vicino sappia che tu soffri non toglie nemmeno un grammo
del tuo dolore, ma fa sì che questo pesi di meno: c’è qualcuno che partecipa alla
tua vicenda, che ha compassione nel senso etimologico della parola: “patisce
con te”. Questo è accaduto. Dopo quella lettera non era più sufficiente la mia
compassione. Io gli avevo offerto la mia pietà, i miei consigli giuridici, ma
occorreva una compassione comunitaria che poteva diventare una spinta per
superare una situazione. E così è stato: un movimento d’opinione.

Lo spettacolo si conclude con questa sua battuta a Salvatore: «Mi sentirei


più solo senza di te». Una frase che non c’è nel libro...

Ho apprezzato Paolo Giordano che l’ha inserita. Per me è più facile esporre i
pensieri che non i sentimenti. Dopo trent’anni di frequentazione, in un modo
così atipico ciascuno fa un po’ parte della vita dell’altro. Forse più io della sua.
Una volta Salvatore mi ha scritto: «Nella mia vita io ho avuto solo due cose belle:
Rosy (la fidanzata, ndr. ) e lei». Io, per benevolenza della vita, di cose belle ne ho
avute tante. Ma la sua vicenda innegabilmente occupa un posto importante
nella mia esistenza. Mia moglie dice che quando ricevo le lettere di Salvatore mi
si accendono gli occhi, sono più contento. C’è stato un momento in cui ho
pensato che lo sconforto in lui avrebbe preso il sopravvento, ho temuto che
ritentasse il suicidio. Se questo gesto fosse andato in porto per me sarebbe
stata una grande sofferenza, avrei avuto dei sensi di colpa, il rimorso di non
averlo aiutato, nella speranza che qualcosa di buono potesse accadere.

Proprio lei, il giudice che lo ha condannato. Cosa significa speranza, anzi


«il lievito della speranza» come lei ha scritto?

È ciò che ci permette di vivere. Anche nella situazione più disperata la speranza
è fidarsi che le cose possano evolvere positivamente. Perché questo avvenga
abbiamo bisogno di un altro che stia con noi, che ci aiuti.

Speranza è una virtù cristiana. I suoi studi non si rivolgono solo al Diritto,
ma anche alla Bibbia, in particolare ai Vangeli. Quanto hanno inciso sulla
sua attività di giudice?

Da oltre vent’anni studio i Vangeli in chiave storico-critica. Sono tante le


domande che mi sono posto e che continuano a sorgere. Cosa voleva dire Gesù
quando ha detto una certa frase? Come mai Matteo lo presenta in un modo e
Luca in un altro? È una continua ricerca, pur non potendo io definiermi cattolico,
ma credente sì. Sul mio lavoro penso che abbia avuto un riscontro sul “tratto”,
cioè sul modo di rapportarmi con le persone. Dopo un processo, mi sono
sentito dire: «Mi ha condannato, ma mi ha trattato come persona, mi ha
rispettato».

proposito, cosa dice Salvatore di tutto questo movimento nato attraverso


il libro sulla sua vicenda?

Salvatore è stato sin dall’inizio, e continua ad essere, piuttosto scettico sugli


effetti concreti del libro. È indubbiamente appagato della popolarità che gliene è
derivata e si dichiara contento del successo per me. Ma mi lascia capire che tutte
queste cose per lui contano poco, perché il suo scetticismo è ormai
immodificabile quanto alla possibilità che venga abolito l’ergastolo ostativo.
Purtroppo la cosiddetta riforma Orlando, recentissima, gli dà ragione, e io non
replico più finché non avrò qualche cosa di solido in mano. Per intanto mi tengo
in contatto con il suo avvocato per una domanda di grazia che intende
presentare a breve (sono 34 anni e mezzo di galera!). Infine raccolgo materiale
per consolidare il movimento di opinione che si sta formando al riguardo nel
mondo accademico.

Che cosa ha suscitato questo libro, secondo lei?

Innanzitutto, si è parlato di questa tematica dell’ergastolo. Recentemente sono


stato nel carcere di Opera a un incontro dove erano presenti avvocati e
magistrati. Alcuni detenuti con il “fine pena mai”, partendo da un lavoro sul
libro, hanno detto: «Ci siamo macchiati di gravi delitti, ma in questi anni di
carcere siamo cambiati. Abbiamo fatto un cammino. Chiediamo solo di metterci
alla prova». Sta formandosi un’opinione pubblica che comincia a condividere
questa richiesta.

Chi è
Elvio Fassone, classe 1938, è stato magistrato e componente del Consiglio superiore
della magistratura e senatore della Repubblica per due legislature. È autore di
numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e processual-penale e su temi
politico istituzionali, tra cui Piccola grammatica della grande crisi, Una costituzione
amica, Dieci anni a Palazzo Madama.

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