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Autunno 1988. Dalla cucina, la signora Annamaria osserva il marito aggirarsi per
casa. Qualcosa non va, un’irrequietezza che non è da lui, come se qualcosa lo
tormentasse dentro. Proprio ora che è tutto finito. Il giorno prima, infatti, si era
concluso, dopo quasi due anni, il maxiprocesso alla mafia catanese. E lui, Elvio
Fassone, presidente della Corte d’Assise, aveva letto ai 242 imputati i capi
d’accusa e le relative sentenze. Gli si avvicina: «Non sei contento?». «Mi sento
sollevato da questa fatica immane, ma triste per gli ergastoli che ho dovuto
infliggere. Ho “tolto” la vita a tanti ragazzi, soprattutto a Salvatore (nome di
fantasia, ndr ). Ho in mente le parole che mi ha detto durante un colloquio: “Se
io nascevo dove è nato suo figlio...”». «Scrivigli. Tra voi è nato qualcosa che va
oltre la normale relazione tra giudice e imputato». E il giudice gli scrive.
Inizia così una corrispondenza che va avanti da oltre trent’anni. Nel 2015, dopo il
tentativo di suicidio di Salvatore, il magistrato ora in pensione ha deciso di
raccontare questa storia, attraverso le lettere, in un libro, Fine pena: ora (ed.
Sellerio). Una storia particolare, intrisa di umanità, che ha suscitato un
movimento di opinione sui giornali e in altri ambiti sul tema dell’utilità
dell’ergastolo nel nostro sistema giudiziario e sul valore della detenzione. Cioè
sul fatto che la persona, nel tempo, attraverso un percorso rieducativo possa
cambiare. Non a caso, in appendice del libro c’è una lunga e accurata riflessione
proprio sull’ergastolo e la sua validità.
Ad agosto, con l’ex pm di Mani Pulite, Gherardo Colombo, Fassone è stato
relatore di uno degli incontri più gremiti del Meeting di Rimini. Al punto che
alcuni ragazzi, dopo, hanno voluto incontrarlo. A novembre, al Piccolo Teatro di
Milano, è andato in scena lo spettacolo teatrale di Paolo Giordano liberamente
tratto dal libro. Un successo di pubblico, tanto che la programmazione è stata
allungata di cinque giorni. Una storia particolare tra due persone che dal giorno
della sentenza, praticamente, non si sono più viste, ma che ha cambiato
entrambi. Un di più di umanità che interroga tutti. Ne abbiamo parlato con il
giudice Fassone nella sua casa di Pinerolo, vicino a Torino, dove continua i suoi
studi di fine giurista appassionato della sua materia.
Cosa significa?
Durante uno dei primi colloqui, Salvatore richiese un permesso per andare
a trovare la mamma ammalata. Non solo, voleva presentarsi senza
manette e senza guardie. Lei lo concesse. Cosa l’ha indotto a fidarsi di lui?
Ricordo bene quel giorno. Ci siamo guardati a lungo negli occhi. Anche l’uomo
più razionale sa che ci sono delle forme di comunicazione che non passano
attraverso le parole. Ho pensato che quell’uomo, che era stato capace di delitti
efferati, aveva un suo codice d’onore, rigoroso come il mio. In quel lungo
sguardo, ognuno chiedeva all’altro di uscire dal proprio ruolo: io, se mi fossi
attenuto all’ordinamento penitenziario, avrei dovuto rifiutarmi di concedere il
permesso, e lui d’altro canto poteva approfittarne per scappare. Era una
richiesta d’onore per entrambi. Inoltre sapevo che il rischio che correvo avrebbe
garantito un clima di non belligeranza, un di più di rispetto nei confronti della
Corte.
Ho apprezzato Paolo Giordano che l’ha inserita. Per me è più facile esporre i
pensieri che non i sentimenti. Dopo trent’anni di frequentazione, in un modo
così atipico ciascuno fa un po’ parte della vita dell’altro. Forse più io della sua.
Una volta Salvatore mi ha scritto: «Nella mia vita io ho avuto solo due cose belle:
Rosy (la fidanzata, ndr. ) e lei». Io, per benevolenza della vita, di cose belle ne ho
avute tante. Ma la sua vicenda innegabilmente occupa un posto importante
nella mia esistenza. Mia moglie dice che quando ricevo le lettere di Salvatore mi
si accendono gli occhi, sono più contento. C’è stato un momento in cui ho
pensato che lo sconforto in lui avrebbe preso il sopravvento, ho temuto che
ritentasse il suicidio. Se questo gesto fosse andato in porto per me sarebbe
stata una grande sofferenza, avrei avuto dei sensi di colpa, il rimorso di non
averlo aiutato, nella speranza che qualcosa di buono potesse accadere.
È ciò che ci permette di vivere. Anche nella situazione più disperata la speranza
è fidarsi che le cose possano evolvere positivamente. Perché questo avvenga
abbiamo bisogno di un altro che stia con noi, che ci aiuti.
Speranza è una virtù cristiana. I suoi studi non si rivolgono solo al Diritto,
ma anche alla Bibbia, in particolare ai Vangeli. Quanto hanno inciso sulla
sua attività di giudice?
Chi è
Elvio Fassone, classe 1938, è stato magistrato e componente del Consiglio superiore
della magistratura e senatore della Repubblica per due legislature. È autore di
numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e processual-penale e su temi
politico istituzionali, tra cui Piccola grammatica della grande crisi, Una costituzione
amica, Dieci anni a Palazzo Madama.