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CULTURA

LETTURE/ Ada Negri, il "segreto" del tempo

Valerio Capasa

mercoledì 25 settembre 2013

Non t'ho perduta»: così poté dire Ada Negri alla sua giovinezza. Aveva, in quel momento, settant'anni.
Eppure molte volte le era sembrato di averla persa. Come quando, sulla quarantina, si voltò a riguardare la sua
adolescenza, quando si sentiva «frutto che attendeva il morso. / Oh, vivere la piena vita!... Oh, fra le / avide
mani stringerla, per sete / di spremerne ogni succo, ed anche il male, / e le più aspre verità segrete!...».
Quell'impeto di pienezza sembrava indistruttibile. Partire dal suo paese, tuffarsi nel mondo, avrebbe compiuto il
suo sogno entusiasta: «Vide paesi, vide ampie città. / Pulsar sentì nel suo fraterno cuore / il cuore enorme
dell'umanità. / Le parve d'esser cento e d'esser mille». Ma, chissà perché, la promessa non fu mantenuta e,
chissà quando, la giovinezza se n'era andata: «Ma a poco a poco si trovò smarrita, / né seppe come. – Ognuno
era scomparso. – / Si trovò sola, a mezzo della vita, / fra le sterpaglie d'un campo riarso».
Come avrebbe potuto far ritornare quel tempo perduto? Chi potrebbe ridarsi gli occhi un tempo infiammati di
speranza? «Ora vorrebbe, ma non può tornare / al tempo di sua fiera adolescenza». La giovinezza non si
mantiene per forza di volontà, per autoconvinzione, perché lo si decide o ce lo si propone. E basta essere sinceri
per affogare nella vergogna: «Che direbber, vedendola, i cancelli / arrugginiti?... "Ohimè, come diversa!... / Sei
tu colei che aveva occhi sì belli, / labbra sì rosse, e qui tra fronda e fronda / crebbe, ed il lembo del suo cielo
scorse?"» (Il giardino dell'adolescente).
Irriconoscibile, così lontana dallo slancio con cui era venuta al mondo; in fondo in fondo, sola. La solitudine
diventa una scorza, a cui poco a poco ci si abitua, perché tanto non c'è niente da fare, non c'è nessuno che possa
travolgerla: «Non gridi / "Son sola" per chiamar chi ti s'accosti / e t'accompagni. Forse uno verrebbe / se lo
chiamassi: o, se tu andassi a lui, / nel suo sorriso leggeresti il cuore. / Ma non lo vuoi. Non credi più. Non sai /
più abbandonarti alla tremante luce / della speranza». La giovinezza si perde, appunto, così: quando si allenta
la speranza, e il cinismo la soppianta; quando non c'è più niente da chiedere o, peggio, quando non c'è più
qualcuno a cui chiedere, e ci si rassegna alla propria condizione.
Indipendentemente dall'età, uno è vecchio quando considera eccessive le domande e illusorie le risposte:
«Ancora illuderti potessi / d'essere creatura necessaria / ad altra creatura, e quella a te! / Posare il capo su la
spalla d'uno / che di te tutto sappia, anche le colpe, / e tutto ami, anche il male, anche i crudeli / segni del
tempo; e tutta ti raccolga / nelle sue braccia!» (Deserto).
Ma chi potrebbe amare «tutto» di un altro? Esiste qualcuno capace di abbracciare anche il male dell'altro? Un
fidanzato non lo può, di certo. O, almeno, non fu così nella vita di Ada Negri: «Notte, divina notte, / dimmi ove è
nascosto il mio amore: / ch'era mio e le mie braccia / non bastarono a custodirlo, / ch'era mio ed io ero sua / e
adesso non ho più nulla / e non sono più di nessuno» (Notturno della luna). Quali braccia possono custodire un
amore? che cosa lo salva? come si può promettere l'eterno? di chi si può davvero, sinceramente, dire «mio»?
Per non naufragare tra le onde di questa impotenza, ci si può aggrappare al misero scoglio di una saggezza
agghiacciante: «più / nel tempo inoltri e più t'ostini in questa / tua superba miseria, e più comprendi / che
meglio forse era non esser nata» (Deserto). Tanto il tempo porta via tutto, corrode la giovinezza: «Giorno per
giorno, anno per anno, il tempo / nostro cammina!». «Non è sorta l'alba / che piombata è la notte; e già la
notte / cede al sol che ritorna, e via ne porta / la ruota insonne» (Tempo).
Il tempo lavora contro, senza che l'attesa della giovinezza venga mai realizzata: «Il dono eccelso che di giorno in
giorno / e d'anno in anno da te attesi, o vita / (e per esso, lo sai, mi fu dolcezza / anche il pianto), non venne:
ancor non venne. / Ad ogni alba che spunta io dico: "È oggi": / ad ogni giorno che tramonta io dico: /"Sarà
domani"». Eppure nulla accade.
Proprio qui, tuttavia, accade l'intuizione imprevedibile: quando Ada Negri realizza che il dono che attende
invano, in realtà, l'ha già ricevuto. Non è qualcosa che forse verrà, chissà quando, chissà se; è qualcosa di cui
accorgersi: «e forse il dono che puoi darmi, il solo / che valga, o vita, è questo sangue: questo / fluir segreto
nelle vene, e battere / dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti / unicamente perché sei la vita» (Il dono).
Eccolo, il dono: il fatto di esserci. Il dono è la vita, che – proprio perché è data – serve per essere a sua volta data:
«Vita, dono di Dio: che ho dunque fatto / di te?». Un dono gratuito, paradossalmente, esige una responsabilità,
mette sulle spine. Ed è lancinante la puntura del Rimorso: «In nome / di qual sogno t'offersi, per qual fede / a
perderti fui pronta, a chi passai / la tua fiaccola ardente? Sol per questo / data mi fosti; e adesso è tardi, o vita.
/ Quando misera e sola innanzi al Padre / sarò, che gli dirò, qual luce in terra / avrò lasciata, a gloria sua?».
Questa vita può essere davvero mia solo quando mi rendo conto che non è mia: va data, perché diventi mia. Solo
che urge sapere per che cosa dare la vita; altrimenti il tempo ce la porta via. «Ma forse / ancora è tempo di
donarti, o dono / di Dio. Fin ch'io respiri, ancora è tempo». L'offerta della vita è possibile in questo istante,
qualunque passato morda di amarezza. Offrirla, però, per cosa? C'è qualcosa che vale quanto la propria vita? C'è
qualcosa per cui lo slancio del cuore non va sprecato, sparpagliato, disperso? «Ogni atto / di vita, in me, fu
amore. Ed io credetti / fosse per l'uomo, o l'opera, o la patria / terrena, o i nati dal mio saldo ceppo, / o i fior, le
piante, i frutti che dal sole / hanno sostanza, nutrimento e luce; / ma fu amore di Te, che in ogni cosa / e
creatura sei presente». Ada Negri ha amato, ha dato la vita per la gente, per la poesia, per la patria, per la natura,
per alti ideali: ma tutto era troppo poco. Dentro ognuno di questi amori ce n'era un altro, in agguato, che si
nascondeva. E si è svelato piano piano: non che Ada Negri a un certo punto sia arrivata a capire questo Tu (per
progressione mentale), ma sempre di più è stata lei a non potersi nascondere a questo amore che la precedeva, e
la leggeva dentro: «Non seppi; – ma a Te nulla occulto resta / di ciò che tace nel profondo» (Atto d'amore).
Voleva inoltrarsi nel profondo, ma fece prima il suo profondo a trovarsi trapassato: «A Te solo non posso /
celarmi. Oscuro smisurato è il fondo / dell'essere. Non v'ha pupilla umana, / s'io lo nascondo, che a scrutarlo
arrivi. / Ma nulla al tuo tremendo / potere è tolto. Sta l'anima ignuda / sotto il divino sguardo / che la
trapassa» (La verità).
È lo sguardo che l'ha sempre aspettata, paziente affinché lei lo percepisse, si rendesse conto di ciò che già era
stata tutta la sua vita: «Or – Dio che sempre amai – t'amo sapendo / d'amarti; e l'ineffabile certezza / che tutto
fu giustizia, anche il dolore, / tutto fu bene, anche il mio male, tutto / per me Tu fosti e sei, mi fa tremante /
d'una gioia più grande della morte». Sono stoccate di una gravità abbacinante: il dolore è stato giusto, il male
commesso è stato un bene. E poi quel «tutto», senza attenuanti, senza parentesi: non è il "quasi tutto" che
ciascuno potrebbe dire a un altro. L'altro, infatti, sarà sempre, per forza di cose, un "quasi", perlomeno perché
non può salvare la giovinezza di chi ama: non può ridarla indietro, non può aggiungerle niente. Ma se c'è
qualcuno che rinnova la giovinezza, allora sì, glielo si può dire: «tutto».
Infatti l'esito di questo rapporto è incredibile: «Non t'ho perduta. Sei rimasta, in fondo / all'essere. Sei tu, ma
un'altra sei: / senza fronda né fior, senza il lucente / riso che avevi al tempo che non torna, / senza quel canto.
Un'altra sei, più bella. / Ami, e non pensi essere amata: ad ogni / fiore che sboccia o frutto che rosseggia / o
pargolo che nasce, al Dio dei campi / e delle stirpi rendi grazie in cuore» (Mia giovinezza). Abissale questa
indifferenza all'avere, questo bastare del dare, che non vuole niente indietro, né una corrispondenza né, almeno,
un grazie.
Che strano, questo scoppio di gratitudine. Che non è ingenuo, perché sboccia come un fiore nel campo del
dramma e del male, dentro una battaglia che ha lasciato i segni. Ma è un fiore che, davvero, non si può strappare.
Perché non è "mio", non è stato seminato, insomma non è nato per uno sforzo di volontà. Esige rispetto, proprio
perché è stato dato. Alla domanda tutta personale e tremante dell'adolescenza («"Non verrà mai / un meriggio
che sia senza tramonto?" / E quando il sole, al suo sparir, all'orlo / della cimasa mi diceva "addio", / sempre
quel dubbio m'assaliva: "O luce, / e se domani non tornassi più?"»), a questa domanda disarmante, ma tutta
umana, smisuratamente umana, la risposta è venuta da fuori. Come un bene che non si cancella mai: «Fedele,
ogni alba, a me tornò la luce / lungo il fiume degli anni; e fu il mio bene / più grande: il bene che non si cancella
/ mai, per volger di tempo e di vicende» (Il sole sul muro). La realtà, ripresentandosi ogni mattina, offrendosi
ancora una volta allo sguardo, non l'ha mai tradita. La sua speranza si è offuscata ma, fedelissima, l'alba tornava
ogni giorno a riprenderla. Ed è per questo che Ada Negri può gridare quel «mio», alla puntualità con cui si
riaffaccia l'alba e alla sorpresa con cui riesplode la giovinezza: perché nulla è tanto nostro come quello che non
facciamo noi, che non ci diamo noi, ma che risponde a una domanda che è tutta, intimamente, nostra. E a cui non
sapremmo mai risponderci.

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