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Massimo Citi
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appena dotata del raziocinio necessario a porre una firma per libe-
rarsi della casa estiva dov'erano scomparse. Non fu così.
Durante il breve viaggio avevo immaginato il mio imbarazzo, la
mia fatica, il mio tentativo di dimenticare di essere anch'io padre di
una bambina, ma sapevo anche che avrei desiderato interrogarlo,
sondare i confini del suo dolore per sapere cosa si prova a tornare
improvvisamente sterili, ad avere visto svanire in un unico istante il
proprio futuro.
Giunsi all'incontro nervoso, salutai il giovane e impaziente notaio
e mi sedetti sulla poltrona di pelle rossa.
Mi salutò con un cenno ed un buongiorno appena sussurrato.
Aveva gli occhi fissi sullo spigolo di legno ben lucidato della scri-
vania del notaio, lo sguardo di un uomo con un pensiero fisso, un
pensiero che non lo abbandona neppure per un istante. Era
distratto, era evidente, ma stranamente sicuro, sbrigativo, come se
avesse altre cose più importanti da terminare.
Il prezzo della costruzione era già stato fissato dalle agenzie e a
noi non restava che ratificare il passaggio di proprietà.
Firmai in fretta, con uno scatto nervoso della mano mentre lui lo
fece con una leggera esitazione, sufficiente a creare una punta di
imbarazzo nel notaio e in me.
Ci scambiammo le parole strettamente necessarie ma non riuscii
minimamente a definire il suo stato d'animo.
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– Distratto, ecco, non potrei dire altro, di lui.
– Beh, è ciò che ci si potrebbe aspettare, non credi? Anche la
moglie avrà i suoi problemi... così, non so...
Mi strinsi nelle spalle. – No, hai ragione, ma a essere sincero non
avrei detto che stesse preoccupandosi, o ritornando per l'ennesima
volta con la mente sul luogo dell'incidente. Aveva i modi di chi è alle
prese con un grosso problema e non vuole distrazioni.
– Sarà il suo modo di superare lo choc, di sopravvivere.
– Certo, è possibile.
Non avrei saputo come descrivere a mia moglie la curiosa impres-
sione che quell'uomo mi aveva fatto, così non mi ostinai e, dopo un
breve bacio, mi girai dall'altra parte per addormentarmi.
Nervosismo, probabilmente, non altro che una punta di eccita-
zione. La mattina dopo avremmo raggiunto la casa. Un'ora d'auto,
una veloce puntata all'agenzia immobiliare a prendere le chiavi e
poi. La casa era in buone condizioni, ero già stato là con un impie-
gato dell'agenzia. Sapeva di umidità, di polvere, di vento rinchiuso,
di salsedine.
Dal ricordo scivolai inavvertitamente nel sogno.
Nella luce di un pomeriggio di inizio primavera. Le due bambine
correvano sul piccolo prato in pendenza. La più piccola aveva un
modo particolare di sorridere, socchiudeva gli occhi mentre faceva
un piccolo scatto con la testa. Alla ricerca di complicità, di simpatia
forse, ma soprattutto di ammirazione. Provai per lei un'immediata
avversione, mentre la sorella più grande, vestita con lo stesso scami-
ciato scozzese verde e rosso, non aveva per me lineamenti riconosci-
bili.
Nell'immobilità del sogno le vidi scomparire ridendo oltre il
limite del piccolo prato, scendere la scalinata di pietra che condu-
ceva ad una minuscola caletta avvolta nell'ombra. Me l'aveva
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mostrata l'impiegato dell'agenzia, in un goffo tentativo di alzare il
prezzo dell'immobile. Lo gelai chiedendogli: «È da lì che le bam-
bine...?»
Nell'aria ferma, nella luce abbagliante seppi che non sarebbero
mai ritornate. Non udii grida, soltanto il rotolare delle onde e il mor-
morio delle pietre smosse.
Poi fui di nuovo dentro la casa, nel sottotetto. Sul pianerottolo,
dove terminavano le scale. A destra e a sinistra due massicce porte
sprangate che non ricordavo di aver veduto durante la precedente
visita. Un remoto odore di decomposizione giungeva fino a me,
tanto debole da lasciare il sospetto di essere una semplice illusione.
Spinsi la porta alla mia sinistra. La luce pallida che veniva da un
abbaino non riusciva a giungere al termine della lunga fuga di
ambienti triangolari, le travi di legno scuro si ripetevano alla mede-
sima distanza, come in un oscuro, deforme viale alberato.
La casa non mi era sembrata così grande, ma forse era soltanto
l'oscurità a disorientarmi. Feci qualche passo. Nel primo ambiente,
ammucchiato nel piccolo spazio tra il pavimento e lo spiovente del
tetto c'era un mucchio di stracci colorati, vecchi tessuti fantasia, a
pois, spigati, floreali, parzialmente scoloriti. In un angolo del muc-
chio, nascosto alla luce, un brandello di stoffa scozzese: verde e
rossa.
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moglie mi accolsero, ma, come capita talvolta quando i sogni sono
particolarmente vividi, passarono alcuni istanti prima che riuscissi a
capire dove mi trovavo.
Mi alzai e raggiunsi la cucina. Bevvi un bicchiere d'acqua presa
dal frigorifero e subito dopo un altro. Entrai nella cameretta della
bambina e accesi la luce. Dormiva, parzialmente scoperta come era
sua abitudine. Le rimboccai le coperte con mani tremanti e la fronte
coperta di sudore freddo. Aprì gli occhi, senza tuttavia vedermi.
– Ciao, tutto bene? – Le dissi.
Mi rispose con un brontolìo e sporse le labbra per offrirmi un
bacio. Le accarezzai i capelli mentre il suo bacio fioriva sulle labbra e
suonava stranamente sonoro nel silenzio della casa.
Tornai a letto ma riuscii ad riaddormentarmi soltanto molto
tardi.
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voce tremare. – Un tafano, non ti preoccupare tesoro... ho visto un
tafano che... – Mi voltai verso mia moglie precipitosamente uscita
dall'acqua. – C'era un tafano, almeno mi è parso, che voleva pun-
gerla. Strano, qui al mare, di questa stagione, eppure... magari mi
sono sbagliato.
Sorridevo muovendo le braccia come fossi leggermente brillo. –
Vieni, amore, andiamo a bagnarci i piedi. – Presi la bambina per
mano e la condussi sul limite sassoso della battigia. – Sentiamo
quanto è coraggiosa la mamma... – Infilai il piede nell'acqua e lan-
ciai un ululato. – È coraggiosissima, cazzo!
La bambina rise e mi imitò. – Coraggiosissima!
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stati di gocce disseccate, l'odore di chiuso e di salsedine. Ricordavo
l'ultimo settore della scala, i gradini con la vernice bianca screpolata.
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potenzialmente nociva per il mio equilibrio.
Ma non era mia intenzione disturbarla soltanto per metterla al cor-
rente dei miei stati d'animo. Le ho scritto – il suo indirizzo di posta elet-
tronica mi è stato fornito dall'impresa per la quale lavora – ubbidendo a
un curioso impulso e per farle una semplice domanda.
Lei ritiene che non vi sia scampo alla causalità?
Ovvero: se è vero che la nostra vita è determinata da migliaia di scelte
irrevocabili compiute minuto per minuto, secondo per secondo, esiste
secondo lei un modo per ripercorrere controcorrente quest'albero di deci-
sioni fino a sovvertire la cieca causalità?
Delirio, dirà lei, ma in sogno non accade di avere una seconda possi-
bilità? Di compiere nuovamente, mutandolo, un gesto, una frase, un
impulso?
Ma il sogno è sogno e la realtà è realtà, non avrà difficoltà a rispon-
dermi.
E io dal canto mio: ne è così certo? La realtà non è forse un costrutto
di percezioni? I nostri occhi non sono forse in grado di percepire soltanto
un ristretto spettro di radiazioni? La nostra opinione del mondo non è
forse fatta di immagini mentali determinate da sensi insufficienti? Chi
può dire se, durante il sogno, non siamo nelle condizioni di attingere a un
grado superiore di realtà? Provi a immaginare un tempo fermo, nel quale
sia possibile muoversi in ogni direzione. Esiterei a definire una simile
condizione una latenza di realtà. E se si trattasse di un grado ulteriore di
reale? Il tempo del sogno è forse questo.
Il nostro problema è probabilmente quello di essere incapaci di rima-
nere in quel tempo, operare in esso. Ma altri sono riusciti in
quell'impresa, altri hanno vissuto nel tempo del sogno.
Giulio Miccoli
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Lessi la lettera una sola volta prima di cancellarla. Non chiamai
mia moglie a leggerla, vincendo la tentazione. Sentivo vergogna per
lui, un'imbarazzata pena che mi induceva – chissà perché – a difen-
derlo da sguardi impietosi.
L'apparente distrazione del padre delle bambine nascondeva sol-
tanto questo: una metodica e contorta follia che si nutriva di cattiva
scienza e pessima letteratura.
E poi perché mettermi a parte dei suoi deliri? Il mio unico legame
con lui nasceva e terminava con la vecchia casa sul mare.
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soffitta.
– Ma non c'è nessuna soffitta, lo sai. – mia moglie si strinse nelle
spalle – c'era già tuo padre che...
La interruppi in malo modo. – Com'erano fatte le scale, te lo
ricordi?
– Bianche, di legno. Finivano su un pianerottolo.
– E c'erano due porte...
– Due porte, una a destra, l'altra a sinistra. Una era aperta. Quella
a... aspetta... sì, quella a sinistra.
– Sei entrata?
– Sì, sono entrata. Era lungo, il corridoio. E scuro.
La presi per la mano appoggiata sulla tovaglia. – Sì, è così. E c'era
una finestra, un abbaino.
– E sotto...
– Sotto c'era un mucchio di stracci. Arrivava quasi alla finestra.
C'era silenzio, non si sentiva nemmeno il mare. Poi ho sentito una
voce, ma non capivo che cosa diceva. Si allontanava, andava via.
Come se cadesse... anzi come se arrivasse dal mare. – Un sorriso
incerto, da adulto impaurito, piuttosto che da bambino spaventato –
Ho avuto paura, mi sono svegliata.
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Se all'epoca vi avessi riflettuto e non fossi stato in preda
all'emozione mi sarei reso conto che la via migliore sarebbe stata
quella di chiedere direttamente all'ex-proprietario, ma in quei giorni
sembrava che qualunque cautela, qualsiasi capacità di riflettere mi
avessero abbandonato.
Probabilmente il fatto che Gaia avesse avuto la mia stessa visione
mi aveva colpito come una minaccia fatta direttamente a lei e così
mi comportavo come una gatta il cui piccolo fosse stato minacciato.
Mi presi un giorno di ferie senza dire nulla a mia moglie per
andare a fare qualche domanda in paese. Andai a suonare ai campa-
nelli delle case vicine alla mia. Inutilmente: si trattava di case di
vacanza, in quel periodo vuote.
L'unica esile conferma la ebbi da una vecchia che possedeva una
conigliera a mezza costa che ricordava di lavori fatti nell'inverno
precedente. Ma non era troppo sicura dell'anno, soltanto della sta-
gione. «È che alla mia età i ani no se contano ciù» disse quasi per
scusarsi, prima di raccontarmi dell'ultima guerra.
Me ne tornai a casa stanco ma ancora più deciso a risolvere il pro-
blema delle soffitte.
Fui evasivo con mia moglie e la bambina e dopo cena mi sedetti al
computer per controllare la posta, nella speranza vaga di trovare un
messaggio utile.
Fui accontentato.
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mente compiuto lavori di ristrutturazione sulla casa, nel periodo succes-
sivo alla scomparsa di Eva e Monica. Ho fatto eliminare le soffitte, troppo
basse per essere realmente utili, e accorpato il sottotetto con le camere al
piano superiore.
Sono convinto con questo di aver migliorato le condizioni dello sta-
bile, rendendolo più adatto alla sua bella famigliola.
Con osservanza
Giulio Miccoli
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Mi interruppi. Ero arrivato al limite di quanto avrei potuto dire
senza rischiare di passare per un malato di mente.
Ciò che per me aveva un enorme significato – l'aver sognato le
stesse soffitte, il mucchio di abiti, l'odore, la voce – per mia moglie
non significava nulla. – Scusa, scusa. Non so...
– Sei un po' stanco, ultimamente. Lavori troppo? Ti è capitato
qualcosa?
Mi sedetti accanto a lei e le raccontai qualche stupida vicenda
dell'ufficio, colorandola di risvolti antipatici e noiosi. Al termine del
racconto ci abbracciamo e facemmo l'amore.
Avevo la sensazione che, fuori dalla porta chiusa a chiave, Gaia ci
stesse ascoltando. E che questo fosse accaduto molte altre volte.
«effettivamente»
Avevo evidenziato quella parola in giallo. Perché «effettiva-
mente»?
L'unica spiegazione possibile era che Miccoli avesse appreso delle
mie ricerche e volesse in qualche modo precedermi, pacificarmi.
– Non vieni a letto?
Elena, mia moglie, aveva il viso inscritto tra i battenti della porta.
Non entrava, mi fissava dall'esterno come volesse sottolineare la sua
distanza.
Prima, forse anche solo qualche mese, sarebbe entrata e mi
avrebbe poggiato le mani sulle spalle. Avrei allungato la mano per
accarezzarla e le avrei detto «arrivo».
Strinsi più forte il mouse. – tra poco.
– Va bene. Buonanotte.
«…Sfuggite alla sorveglianza dei genitori le due bimbe hanno disceso la scala
di pietra fino al mare. Da questo momento in poi è possibile soltanto fare ipotesi.
Probabilmente un'onda improvvisa o un gioco dalla tragica conclusione hanno
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strappato le piccole Eva di sei anni e Monica di nove all'affetto dei genitori. Le
ricerche delle due bambine sono continuate per alcune settimane, ma le correnti,
particolarmente forti nella zona, devono averne trasportato i corpi al largo…»
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Tutta quella concordanza di opinioni non faceva altro che aumen-
tare la mia diffidenza. Ma non riuscivo a trovare nulla a cui aggrap-
parmi.
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moderna, vedo. Ma ci sono molti che non sono affatto moderni. Per-
sone che non guardano troppo per il sottile. Capisce?... Gente per cui
l'ossessione della carne viene prima di tutto, prima di tutto. Che non
sa trattenersi né nascondersi. E un corpo nudo è sempre... Non è
un'opera di Dio.
– Cosa vuol dire? – Ero affascinato e nauseato insieme. Nella
voce, nei modi del parroco c'era il piacere contorto e ipocritamente
moralista di chi racconta il peccato e la nudità per poterne trarre un
filo di piacere. Anche solo immaginare ciò che sottintendevano le
sue parole mi dava una sensazione di malessere. All'improvviso mi
sentivo incastrato nel suo mondo fatto di miserabili appetiti, ma era
l'unico che avesse qualcosa di diverso e di nuovo – o forse di spaven-
tosamente vecchio – da dirmi.
– ... Persone che vedono il peccato anche dove non c'è. D'altro
canto l'innocenza è una grazia, non uno stato. – Vuotò il bicchiere di
bianco con un gesto lento, pensieroso. – L'innocenza può essere per-
duta molto presto.
Si riferiva alle due bambine, non c'era dubbio. E sorrideva tra sé,
assorto da un pensiero che non avrei voluto conoscere.
– Ha qualche prova? Qualche testimonianza? – Fui brusco
all'improvviso, forse minaccioso. Mi alzai.
– No, no, che diamine! – Pallido, doveva tenere il viso reclinato
all'indietro per guardarmi.
– E allora perché mi dice queste cose?
Il bar era vuoto. Sapeva di vino e di fumo. I tavolini avevano il
piano di fòrmica screpolato e segnato dalle bruciature di sigaretta.
La proprietaria si affacciò attraverso la tenda fatta di trecce rossa-
stre di plastica.
– Lina? – la chiamò lui.
– Che c'è, Franco?
Lo chiamava per nome. Un'antica confidenza, fatta di noia e di
stanca tolleranza. Mi sentii del tutto estraneo, sbagliato.
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– Il dottore qui vuole sapere delle bambine. Le bambine di Mic-
coli. – sogghignava guardandomi, come a dire: «adesso vedi»
– Piantala Franco, sei ubriaco. Torna in chiesa.
– Eh no, Lina. Diglielo. Devi dirglielo.
L'ostessa mi guardò a lungo senza parlare. Sollevò le sopracciglia
e ripetè:– Torna in chiesa, Franco.
– No. Lo sa, dottore? Gli facevano delle foto. Lo so. In questo
paese nessuno ne vuole parlare, ma è vero. Qualcuno le ha viste.
Sono un paese di vermi, di schifosi bugiardi.
– Piantala, Franco! Vattene!
– No. Lo so, ne sono sicuro. È che me l'hanno detto. Un prete sa
molte cose. Anche quelle che nessuno vuol ripetere. Un prete le
sente e poi assolve. Ego te absolvo. Facile no? Perdonato, pulito. –
Rise, stranamente sollevato e vuotò il bicchiere.
In confessione. Pensare che qualcuno potesse confessarsi con
quell'uomo mi pareva impossibile.
– Ma lei cosa vuole qui? Chi ce l'ha mandato? – L'ostessa aveva
riguadagnato la sua posizione abituale, appoggiata al bancone,
davanti alla macchina del caffé. Del prete conosceva miserie e
difetti, ma di me nulla. Non mi ero accorto di quanto fosse densa
l'aria del paese, non avevo capito che lì storie e parole erano reali e
tangibili quanto le case e le vie. Ero un estraneo. Come Miccoli. Un
turista, uno di città, un fesso presuntuoso.
Scossi la testa. – Non importa. Avevo cominciato a parlare con
Don Franco e non so… – Farfugliavo, parlavo troppo piano, mi ver-
gognavo.
– Ma va', va' – Diceva l'ostessa.
– Quanto devo?
– Niente.Vai adesso. – Ripeté quasi con dolcezza.
Raggiunsi l'auto con la sensazione di essere spiato e disprezzato.
Me ne andai con l'auto che procedeva a balzi come ai tempi del
foglio rosa.
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Dalle finestre penetrava il suono del mare e se mi svegliavo la trovavo
sveglia, a fissare il soffitto.
In paese ho conservato qualche conoscenza non superficiale. Dovesse
averne necessità me lo faccia sapere. Farò ben volentieri da tramite.
Giulio Miccoli
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trandola, di immaginare al suo posto un'altra donna, una collega che
conoscevo soltanto superficialmente. Non la desideravo, che io
sapessi. Avevo simpatia per lei, ma nulla di più. Era bionda, bassa di
statura. Non ho mai provato sensi di colpa nell'immaginarla al posto
di Elena. Era Elena a eccitarmi, era il suo corpo, il suo odore a scate-
nare il desiderio. L'altra mi appariva in mente, inevitabile come uno
spot pubblicitario. Compariva a tratti, immaginavo la grana scono-
sciuta della sua pelle, l'odore del suo sesso mentre mi abbandonavo
alla pelle e all'odore di Elena.
Sua moglie tiene gli occhiali neri, disturbata dalla luce del
giorno, ha gli occhi sbarrati nell'oscurità, puntati al soffitto. Gra-
dini bianchi, sbrecciati, salati che conducono alla soffitta. Le bam-
bine dormono nella stanza accanto. Ci sono delle fotografie
nell'ultimo cassetto in basso della scrivania, dentro una scatola di
metallo verde, con un maniglia. La chiave è da un'altra parte.
Appesa nel piccolo armadietto portachiavi che c'è dietro la porta.
Si alza, la moglie fissa l'oscurità senza vedere. Arriva nel sog-
giorno, apre la cassetta. Guarda le foto ancora una volta. Gli tre-
mano le mani.
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Lei si copre il busto. – Non disturbarti: faccio da me.
– Scusami, Elena.
Non mi sente. Si copre il viso con l'avambraccio rovesciato. Le
dita semiaperte come un fiore. Ha allungato la mano verso la clito-
ride senza terminare il gesto. Rimane così per una manciata di
secondi poi si alza e si chiude in bagno.
Dovrei alzarmi, spiegare, ma non riesco.
Qualcuno in paese copre Miccoli. Un suo complice, qualcuno che
si preoccupava di far circolare le fotografie. Doveva esistere un traf-
fico, omertà, silenzi interessati. In paese si sospettava qualcosa, ma
nulla di certo. In compenso circolavano voci. Qualcuno si era confes-
sato a Don Franco.
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quando sei lì. Non mi piace il paese. Non mi piace la gente. Non mi
piacciono le lettere che ti scrive quello là...
– Le hai lette? – Avevo un tono ridicolo, scandalizzato.
Sorrise stancamente – non sono la solita moglie curiosa. Per
quanto... potevo anche credere a un'amante. Quello è matto,
secondo me. Un matto quieto, affascinante. Un pericolo, soprattutto
se gli dai retta.
– Spera di riportarle in vita.
– Eh?
Un'assurdità, ma mi era salita alla mente spontaneamente, come
il frutto assurdo di un nodo di pensieri altrettanto assurdi maturati
dentro di me.
– Pensa di riportarle in vita. Di invertire il flusso del tempo. Di
percorrere un altro ramo della possibilità.
Elena raccolse le gambe davanti a sè e si abbracciò le ginocchia. Il
suo sesso incorniciato dalle cosce sollevate mi ipnotizzava senza
risvegliare il desiderio. Pensai per un istante che stavo davvero
impazzendo.
– E come pensa di fare? È forse un mago? Un negromante? –
Elena avrebbe voluto esibire un tono scettico, maligno ma riusciva
soltanto a mostrare stanchezza.
– Non stiamo parlando di qualcosa di reale, Elena.
Scosse la testa – ma gli effetti sono reali. Guarda noi, guardaci
ora. Ti arrivano lettere folli, vai in paese a interrogare la gente, tra-
scuri il lavoro, sei lontano, distratto. Ti sei fissato su qualcosa e
nemmeno tu sai su cosa. Non ti ho mai visto così.
Voleva essere rassicurata? Voleva che giurassi che nulla era cam-
biato tra noi? Non potevo. Non avevo il coraggio di reggere il suo
sguardo ma non riuscivo nemmeno a distogliere lo sguardo dal suo
sesso. Mi emozionava senza che riuscissi a sentire in me il desiderio
di toccarla o di accarezzarla. Questo mi faceva sentire forte, come un
adolescente che si scopre virtuoso rinunciando a comprare una
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rivista pornografica. Ciò che stavo inseguendo mi nauseava e mi
faceva vergognare di me. Non volevo che lei o la bambina ne fossero
coinvolte.
Qualche istante di silenzio, interminabile e vischioso. Poi sbuffò
ed uscì dalla stanza.
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– Non andiamo più al mare?
– Più avanti, quando arriverà l'estate.
– In quella casa là?
– Certo.
Gaia camminava curva sotto il peso dello zaino e come tutte le
mattine mi aveva affidato la sua mano. La tenevo senza esserne del
tutto conscio. Un tempo ne ero stato orgoglioso. Mi faceva sentire
bene che una creatura si fidasse così incondizionatamente di me.
Adesso quella fiducia mi schiacciava, il suo abbandono mi terroriz-
zava. Un uomo di porcellana non può reggere nulla, non può affron-
tare nessuna prova.
– Ci abitavano due bambine, in quella casa, vero papà? Poi sono
morte.
– Come lo sai? Chi te lo ha detto?
– Papà, lasciami! Mi fai male!
Staccò la mano dalla mia e se la prese nell'altra.
La afferrai per la spalla: – Come lo sai? Dimmelo!
Sollevò gli occhi e riconobbi la paura nel suo sguardo. Cercò di
staccarsi da me mentre io rinforzavo la stretta. – Allora? Dimmelo!
– Buongiorno!
La maestra più giovane di Gaia era apparsa alle nostre spalle
ostentando un sorriso perfettamente professionale. Approfittando
della mia sorpresa la bambina scivolò via dalla stretta e corse ad
abbracciarla.
– Ciao, Gaia. Tutto bene?
Fece segno di sì con il capo e mi guardò con lo stesso smarri-
mento indurito dalla delusione che avevo riconosciuto nello sguardo
di sua madre. – Ciao papà. Io vado con la maestra.
Annuii. – Buona giornata.
Gaia disse forte alla maestra: – Ho detto una bugia a papà, per
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questo si è arrabbiato.
L'altra annuì, sollevata, – non si devono dire bugie ai genitori.
– Non lo farò più. Te lo prometto, papà.
Feci un gesto con la mano come a dire: «non importa» e la salutai
di nuovo.
Gaia diede la mano alla maestra e si avviò verso la scuola. La vidi
allontanarsi, e, fatti pochi passi, iniziare a parlare muovendo il capo
e le spalle.
Qualunque fosse stato il mio peccato ero stato, temporanea-
mente, perdonato. Intuii che non sarebbe stato così per sempre.
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Ma vorrei che non finisse per essere vittima anche lei della fama di
morbosità che ha finito per accompagnare i miei soggiorni in quella casa.
La scomparsa delle mie bambine non ha chiuso definitivamente quel capi-
tolo e ne sono insieme disgustato e spaventato.
Da alcuni piccoli indizi sono certo che ciò che il mare mi ha strappato
mi sarà presto restituito, Non si stupisca, quindi, della mia apparente
facondia.
La doppia natura del mare, solo alcuni l'hanno compreso. Ciò che è
nato da esso non può morire.
Ma cosa accadrà quando Eva e Monica mi saranno infine restituite
dal mare? Come sarà possibile per loro tornare ad una vita normale in un
luogo tanto misero?
Così, mio buon amico, la prego di continuare a frequentare la casa. Io
sono certo di avvertire il preciso momento nel quale loro ritorneranno,
ma sarei più sicuro e certamente confortato se sapessi che ad attenderle
potrebbero sempre trovare la sua simpatica famiglia.
Cordialmente
Giulio Miccoli
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rigida a braccia conserte, fumando.
– Allora, cosa dici? Non è pazzo?
– Sì. – ammise. – Parla seriamente, ne è assolutamente convinto.
Ma c'è qualcosa di più forse... qualcosa di più di un semplice dolore
che conduce alla follia.
– Cosa?
– Aspetta. Prima... Perché non me ne hai mai parlato? Delle bam-
bine, del paese?
Perché?
Scuotevo la testa senza rispondere. Tenevo in mano un tramez-
zino al pomodoro, prosciutto e mozzarella senza nemmeno accen-
nare a morderlo.
Perché
perché
perché
perché
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sione. Quello è pazzo, completamente pazzo. E tu? Hai paura di per-
dere Gaia? Di perderla come lui ha perduto le sue figlie? Hai paura
di desiderare tua figlia? Quanto hai paura di perderla? – mi guardò
con una strana serenità che, lo capii soltanto dopo molto tempo,
dovette costarle molto. – Tu, provi ammirazione per Brun?
Ammirazione.
Sì. E paura. Se quell'uomo fosse mai stato capace di riportare in
vita le proprie figlie... Dopo averle, forse, uccise.
Dar loro la vita per la seconda volta. Ciò che nemmeno una madre
può fare. Qualcosa che io o lui, uomini, maschi non possiamo fare.
da: miccoli@postel.it
a: brun@sitema.com
subj.: il mare restituisce
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Diverse, ricche di possibilità, potranno essere quasi ogni cosa mentre lei
resta così uguale a se stessa. Non può che consumarsi restando fedele alla
propria mente, al proprio passato, alla propria storia. Non perdeva occa-
sione per umiliarle, per ricordare loro che la direzione della loro vita era
già segnata e sarebbe stata simile a quella percorsa da lei.
Non potevo perdonarla. Avrei dovuto esserne complice, ma riuscivo
solo ad esserne spettatore. E lei ne era stupita. Dov'era la lealtà che, in
quanto sposo, le dovevo?
...
– E il sogno?
– Quale sogno?
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– Il sogno della soffitta. Quello che avete fatto tu e Gaia...
– Una fantasia, una sciocchezza.
Elena si stringe nelle spalle. – Se ne sei certo...
– Ne sono certo. È stato un incidente. E mi fa pena, Miccoli. Odia
la moglie ma non può separarsene. Le figlie erano la sua unica con-
solazione. Le lasciava fare quello che volevano e loro lo amavano...
quanto sarebbe durato?
Era tutto facile, finalmente, chiaro, evidente. Elena era bellissima
e non desideravo altro che lei. La casa era ottima: una fortuna averla
acquistata a un prezzo tanto basso. Certo, certo, il motivo per il
quale l'avevo pagata tanto poco era terribile, ma, in fondo, non era
certo colpa mia...
– Però dei lavori sono stati fatti. L'ha ammesso anche Miccoli.
– Elena? Ma sei tu adesso a farti le paranoie?
Aveva addosso un mio vecchio maglione dalle spalle troppo
larghe e il collo consumato. Averlo voluto rimettere è stato un pic-
colo segno di riappacificazione.
Ma non si fida, non si fida ancora.
– Non è una questione di paranoie. Ci ho pensato, tutto qui. E le
sue lettere sono orribili. Ti ho detto che c'è qualcosa di più del
dolore...
– Certo, è diventato matto. Lo sai anche tu.
– No. C'è qualcos'altro, qualcosa di terribile e contorto. Il
rimorso. Nessun padre desidera così intensamente che i propri figli
ritornino. Sa che sono morte, ne è certo. Ma scrive che il mare le
restituirà. Che il tempo può essere percorso al contrario.
– Lo scrive a me, a noi. Cerca di convincersene.
– Cerca di convincere chi lo legge. Scuote, spaventa. Parla delle
proprie figlie al presente, come se fossero vive. Si preoccupa del loro
futuro.
– È soltanto una prova che il poveretto è completamente impaz-
zito. Nulla di più.
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– Sì. E perché è impazzito? Impazzito così, intendo.
– Ti prego, Elena. Ne sono appena uscito...
– No, Federico. Non è strano che tu abbia reagito così. Sei padre
di una femmina anche tu. E quell'uomo è così abile... Hai smesso di
farti domande, hai smesso di pensare, lo capisci? Io no, io non ho
smesso di pensare.
– E quindi? È un assassino? Impazzito dal rimorso, ossessionato
dal ricordo? – Sorrisi. – Ho fatto quanto desiderava, fino a oggi.
Adesso sono uscito dal romanzo. – Eravamo seduti l'uno accanto
all'altra sul divano: la trassi verso di me, cercai di baciarla. Distolse
il capo con un movimento leggero, con un'apparente distrazione che
mi ferì.
– Adesso no. Non posso – disse – E se si trattasse di una confes-
sione, un'ammissione di colpa? Ci hai pensato?
– No. Non ci ho pensato. – cercai ancora una volta di ridisporre
nella mente le frasi e i pensieri di Miccoli secondo questa nuova
traccia. Ma non trovai nessun elemento definito, nulla che non sia,
come ora, ancora una volta, ambiguo.
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stato. «Il bagno dopo mangiato fa male» le avevo risposto, attiran-
domi un'occhiataccia e una replica a fior di labbra che non avevo
udito.
Elena era in casa. «A dare una pulita» mi aveva detto. Aveva
declinato la mia offerta di aiuto senza nessuna spiegazione. «Prefe-
risco fare da sola».
Nelle faccende di case non ero tanto inetto da costituire un osta-
colo. Ma mi ero rifiutato di sospettare, stancato di pensare. Mi limi-
tavo a fissare la staccionata e il mare allungato fino all'orizzonte,
interrotto dalle sbarre di metallo verniciate di azzurro e parzial-
mente arrugginite.
Nuvole e pensieri mi attraversavano la testa.
Con gli occhi socchiusi non mi accorgevo di nulla.
– Papà?
– Cosa?
– C'è una luce, su, nel bosco.
– Una luce? Di giorno?
Gaia si strinse nelle spalle. – Se non mi vuoi credere...Però è vero.
Mi estrassi dallo sdraio, indolente. Con gli occhi bruciati dal sole
cercai di mettere a fuoco la superficie verde, quasi verticale, alle
spalle della casa.
Per qualche istante non vidi nulla poi, dovuto a un leggero movi-
mento, un riflesso di luce si liberò da una superficie di vetro o di
metallo lucidato. Un binocolo o un teleobiettivo, pensai, raggelato.
– Visto? – disse Gaia.
Entrai in casa di corsa. – Elena! Elena!
Mi raggiunse di corsa dal piano superiore. Perfettamente vestita,
con gli occhiali da lettura sul naso.
– Che cosa c'è? Che hai?
– Guardoni. Ho visto i riflessi dei binocoli. Sono qui dietro, sulla
collina.
Lei strinse le labbra. – Andiamo.
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– Va bene, andiamo.
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Lei ritrasse i piedi e si alzò in piedi. – Il signore era il proprietario
della casa. Mi ha detto che se scendevo con lui non c'era pericolo...
– Cosa fa qua, lei?
La voce di Elena, alle mie spalle, era carica di rabbia ma assoluta-
mente gelida. Miccoli si alzò a sua volta. – Buongiorno, signora
Brun. Sono passato per sapere se tutto andava bene. Ho incontrato
la vostra simpaticissima bambina...
– Se ne vada! Non ha il diritto di stare qui! – Elena fece un passo
indietro per lasciarlo passare. – La strada la conosce.
Miccoli annuì, fissandola. Come se l'intera scena non l'avesse stu-
pito, come se avesse già letto tutto, ogni nostro gesto, ogni parola in
qualche vecchio ritaglio di giornale. Aveva occhi quasi incolori e por-
tava i capelli pettinati all'indietro, fitti e regolari. Un viso massiccio,
perfettamente sbarbato. Si scosse i pantaloni. Lo fissavo con le
braccia abbandonate sui fianchi. Mi passò davanti, scuro e massiccio
ma agile come un vecchio orso.
– Buongiorno, allora. A presto.
L'acciottolìo del mare mi sembrava assordante.
da: brun@sitema.com
a: miccoli@postel.it
subj.: Re: il mare restituisce
sig. Miccoli
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Distintamente
Federico Brun
Elena Ramorino
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Gaia andò a letto subito dopo cena. Spiammo la sua luce attra-
verso la porta chiusa: lesse soltanto poche pagine prima di addor-
mentarsi.
– Ha scritto ancora.
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una bambina.
– Solo questo?
– Cosa significa «solo»? Ti pare poco?
– Hai ragione. Dov'è...
– L'ho stampato.
da: miccoli@postel.it
a: brun@sitema.com
subj.: R: Re: il mare restituisce
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Non preoccupatevi: quando Eva e Monica torneranno io lo saprò e
sarò là ad attenderle. Non datevi quindi pensiero di avvisarmi.
Bruno Miccoli
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Riuscimmo a trovarla. Di lei conoscevo il cognome da nubile,
Lorenzetti, e naturalmente il nome di battesimo, Irma.
Avevo pensato a cliniche svizzere, a centri privati nascosti in
qualche località salubre e sperduta, a luoghi discreti, introvabili per
qualsiasi ricerca superficiale. A passarci una segnalazione il cognato
di Elena, impiegato amministrativo in un'ASL. Un elenco di pratiche
di ricovero nelle cliniche della regione, recuperato nella rete ammi-
nistrativa dell'assessorato regionale alla sanità.
Una semplice scheda priva di particolari «Lorenzetti Irma, di
anni 42. Coniugata. Ricovero presso Villa Zagara il 25.9.1997. Lun-
godegente»
Nessun accenno al motivo del ricovero. E mio cognato non aveva
accesso alle cartelle cliniche.
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zetti. Dopo un ragionevole lasso di tempo avevano trasferito la linea
nella sua stanza. Due squilli e poi la sua voce. Non so cosa mi aspet-
tassi, forse una voce provata, stanca, balbettante o esaltata. Nulla di
tutto ciò: il «pronto» di Irma Lorenzetti era guardingo ma fermo,
quasi professionale.
«Sono Federico Brun, parlo con Irma Lorenzetti?»
«In persona, mi dica»
Ebbi la sensazione che la mia telefonata fosse attesa.
«Io sono l'aquirente della casa di mare...» mi interruppe.
«Lo so, mio marito mi ha fatto avere l'atto. Cosa desidera da
me?»
Ero preparato a un altro genere di risposte, non a quel tono sbri-
gativo e a quei modi da segretaria di un professionista affermato.
Esitai.
«È per le bambine? Mi chiama per quello?», riprese lei.
«... Sì. Non esattamente, ma...»
«Lo so. Non esattamente. Non che ci sia molto da dire, ma ad
ogni modo... l'aspetto domenica, tra le dieci e trenta e mezzogiorno.
L'orario di visita.»
– Buongiorno.
Irma Lorenzetti era seduta su una panchina a metà di un colon-
nato chiuso da lastre di vetro. Appena oltre i cristalli c'era il giar-
dino, delimitato e attraversato da esili sentieri fatti di pietruzze ros-
sicce. Nel corridoio, attraversato da una corrente fredda profumata
di terra bagnata, c'era soltanto lei.
– Fa fresco qui, vero? Ma è un bel posto.
– È vero. – Elena dedicò meno di un secondo al giardino fradicio
di pioggia. – Possiamo sederci?
La mano pallida di Irma Lorenzetti scivolò fuori dallo scialle di
lana bianca e fece un piccolo segno. Prendemmo posto accanto a lei,
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uno per lato.
– Ho avvisato mio marito che sareste passati a trovarmi. Ha detto
che siete persone molto gentili. Davvero gentili.
– Vi siete sentiti? – la frase, sfuggita a Elena, non ebbe nessun
effetto sulla nostra interlocutrice.
– Ci sentiamo almeno una volta al giorno. Non ho molte visite,
qui. Quelle poche sono quasi un avvenimento.
Irma Lorenzetti quel giorno non portava gli occhiali da sole. Oltre
allo scialle che le avvolgeva le spalle indossava una gonna nocciola al
ginocchio, calze scure e scarpe scollate dal tacco sottile. Non era
truccata, e il viso, nella luce fredda della pioggia, appariva pallido e
statico. Ma la voce, in contrasto, era vivace e animata.
– Come sa, signora Lorenzetti... Lorenzetti o Miccoli?
Un sorriso appena accennato. – Lorenzetti. Qui mi hanno abi-
tuata così.
– Signora Lorenzetti, noi abbiamo acquistato la vostra casa a
Ponteggi. Qualche mese dopo. – La guardai attentamente, in attesa
di qualche segno. Lasciai passare qualche secondo. Irma Lorenzetti
non aggiunse nulla, non trasalì, non scoppiò in pianto. Si limitò ad
annuire e a fissare il giardino bagnato di pioggia. – ... abbiamo
saputo dei lavori compiuti nella casa soltanto una volta firmato
l'atto. Ma non siamo venuti fino qui solo per questa piccola dimenti-
canza... – Procedevo a tentoni, sperando che fosse lei a fornirci una
traccia, qualche elemento per capire cos'era accaduto in quella casa.
– Vi piace così? Né io né mio marito amavamo quel sottotetto. Ma
alle bambine piaceva. Ne avevano fatto il loro rifugio segreto.
Ammucchiavano lì dentro vecchi giocattoli, pezzi di stoffa e non so
cos'altro. Noi non controllavamo, mio marito perché con le bambine
è sempre stato fin troppo tollerante, io perché non ne avevo… – Si
interruppe. – Vada avanti.
– Sì. Ci piace. Forse anche nostra figlia avrebbe desiderato un sot-
totetto tutto per lei. – Risi malamente, imbarazzato. – Ma anche così
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di spazio per lei ce n'è più che abbastanza.
– Avete una bambina. Si chiama Gaia ed ha nove anni. Lo so. Mio
marito l'ha incontrata. Me l'ha detto. Una bambina simpatica e
intelligente.
Le ultime parole che aveva pronunciato erano suonate mono-
cordi, assenti. Se per qualche istante ero riuscito a ottenere la sua
attenzione, ora la stavo perdendo.
– Ma in paese circolano strane voci, forse lo sa...
– Lo so benissimo. Venivano a spiarci con binocoli e cannocchiali,
prendevano fotografie. Mio marito aveva deciso di ignorarli, di fare
come se non esistessero. Quando andavamo in paese c'erano chiac-
chiere, sguardi e commenti. Li odiavo, non scendevo neppure dalla
macchina per non incontrarli.
– È quello che ci ha raccontato anche suo marito... – Intervenne
Elena.
Annuì leggermente senza staccare lo sguardo dal giardino. –
Vivevamo in pubblico. Qualsiasi nostro gesto era pesato, giudicato,
interpretato, commentato. Avevamo timore di lasciare le luci accese
in casa senza chiudere gli scuri. Qualcuno vedeva, qualcuno giudi-
cava. Con mio marito è cessata qualsiasi intimità. Mi chiedevo se
anche la mia voce, i miei e i suoi sospiri sarebbero diventati la preda
di qualcuno. Volevo dargli il meno possibile, ma sapevo che stavano
costruendo un profilo della nostra vita. Una foto, una registrazione,
uno sguardo. Qualsiasi cosa contribuiva a comporre il quadro. Ci
pensavo spesso, ne parlavamo quando le bambine non c'erano o si
erano addormentate. Abbiamo imparato a compiere gesti ambigui, a
pronunciare frasi che avessero senso soltanto per noi. – Distolse lo
sguardo dal giardino per fissarmi. Non gesticolava, non aveva nep-
pure aumentato il tono di voce. Come se stesse ripetendo per la mil-
lesima volta una serie di frasi che abitualmente ripeteva a se stessa.
– Ma abbiamo preteso troppo. Non riuscivamo più a comprenderci.
Siamo diventati troppo consci dei nostri gesti, dei nostri pensieri. Io
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ero già in cura, questo non mi aiutato. Poco prima che le bambine
scomparissero l'ho compreso, ma era troppo tardi. Mio marito non
poteva più distinguere ciò che era realmente diretto a lui dalle frasi
pronunciate a beneficio di chi ci osservava. Neppure io sapevo più
trovare le parole, parole che non avessi già consumato per reggere la
finzione, parole che non significassero altro. Mantenevamo le
distanze, qualcosa ci univa ancora – come adesso. Il peso del pas-
sato o la necessità di alimentare la reciproca avversione. – Si acca-
rezzò un sopracciglio con la punta delle dita. Aveva unghie brevi,
pallide e mani spoglie ed eleganti. – Avviene anche qui. Mi inducono
a parlare, a raccontare e io lo faccio volentieri. Ma il senso di ciò che
dico non dura mai più di qualche ora. A ogni colloquio, a ogni giro
della ruota mi sembra che tutto ciò che racconto abbia un nuovo
significato. Ho la sensazione che i frammenti che descrivo si pos-
sano accostare diversamente da quanto avevo fatto finora, a com-
porre un quadro definitivamente chiaro. Li illudo, poveretti. Si con-
vincono di aver aperto un'altra porta, di aver fatto luce in qualche
altro angolo di me. Ma mentre aprivo quelle porte altre si chiude-
vano. – Annuì con convinzione, con un sorriso soddisfatto. – Anche
questa convinzione, quella che qualcuno ci spiasse, non è forse altro
che il frutto di una nostra innocua fissazione. Forse ne siamo stati
ben felici e ci è piaciuto recitare ogni momento della giornata,
tenendo accuratamente nascosti i nostri veri io. Come alberi fatti di
sola corteccia. Via uno strato, via l'altro, via l'altro. Si cerca la polpa
bianca, il centro, ma si incontra soltanto corteccia, un altro strato,
un altro. Fino all'ultimo, fino ad ammettere che sotto, al centro, non
c'è nulla. Non c'è mai stato nulla. – Si interruppe per trarre un pro-
fondo respiro. Tacque per qualche secondo e infine si alzò. – Adesso
devo andare. – Ci guardò a turno, come una madre alcolista in un
momento di lucidità. – Dovete andare, anzi. Da me non si ottiene
nulla. Nessuno ottiene nulla.
La guardammo allontanarsi senza riuscire ad aggiungere una
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parola. Arrivata davanti alla porta che portava alla scale esitò per un
istante – o forse fummo soltanto noi a pensarlo – ma non si voltò
prima di scomparire.
– Cos'é?
– Un disegno.
– Lo vedo, ma chi sono... due bambine?
– Sì, due bambine. Una è più grande e l'altra ha due anni di
meno.
– E dove sono?
– Nella nebbia. C'è la nebbia, intorno.
– Per quello non c'è il sole.
– Il sole non c'è. – Gaia solleva il disegno per guardarlo ancora. –
Non c'è proprio il sole. C'è solo la nebbia. Vedi è tutto grigio. L'ho
fatto tutto grigio. – Adesso guarda me corrugando la fronte. – È un
brutto disegno. Ci sono pochi colori.
– È normale. Se non c'è il sole non ci sono i colori.
– È vero. A te piace?
– Sì, è un bel disegno.
– A me non piace. Tienilo tu.
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Si allontana per tornare nella sua stanza. La vedo trafficare nel
cassetto ed estrarre il walkman. Se lo infila e preme il tasto play.
Le due bambine del disegno hanno i tratti del viso confusi, come
se, dopo averle disegnate, Gaia avesse passato un dito sui tratti di
matita. Il grigio che le circonda scende dall'alto del foglio e le rac-
chiude completamente. Sono sospese nella nebbia e non sorridono.
Bruno Miccoli era seduto davanti alla porta finestra. Aveva tolto
la giacca ma portava ancora camicia e cravatta. Era sbarbato di
fresco e mandava un buon odore di dopobarba. Teneva un dito infi-
lato nel libro che stava leggendo, a segnalibro.
Gaia lo ignorò e uscì sul prato.
– Glielo avevo detto. Sono qui.
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Dalla finestra aperta arrivavano voci, scoppi di risa, rumore di
passi affrettati.
– Sono di nuovo qui. Sono ciò che il mare mi ha restituito.
Elena si scosse prima di me e corse all'esterno.
– Questa è la mia casa. – Fu tutto ciò che riuscii a dire.
Lui annuì. – È vero. Ma in questo tempo non è così.
Oltre le tende mosse dalla brezza passarono veloci alcune ombre.
Riconobbi soltanto la voce di Gaia.
Elena era rientrata. – Sta giocando. – Si appoggiò alla parete e
chiuse gli occhi.
Miccoli mi guardò ancora una volta, soddisfatto. Appoggiò il libro
nello spazio compreso tra il bracciolo della poltrona e la sua gamba
senza togliere il dito dalle pagine.
– Se dovesse uscire e rientrare nuovamente potrebbe non tro-
varmi più. Questo è il tempo del mio sogno. Ricorda? Siamo nel
tempo fermo, alla radice del tempo.
Gaia rientrò trafelata dalla porta-finestra. Ci guardò per un
istante, rossa e sudata. Fece un piccolo sorriso ed uscì nuovamente.
Alzai una mano, forse per fermarla.
– Le bambine... lei le ha tenute nascoste, per tutto questo tempo.
Non sono mai... scomparse.
Scosse il capo. Aveva i capelli rigorosamente ben pettinati, immo-
bili come un disegno fatto su un manichino.
– Sono ciò che il mare mi ha restituito. Gliel'ho detto.
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degli schizzi e dell'urto delle braccia e delle gambe contro l'acqua.
– Dove?
Gaia indicò un punto del lungo strascico dorato del sole. – Sono
là.
– Sì. Sono là.
Gaia annuì acquietata e tornò a fissare lo sguardo sull'orizzonte.
Piccole onde morivano sulla riva, muovevano i sassi. Le voci
impallidivano, deformate, spostate dalla brezza.
– Se n'è andato. – Disse Elena, arrivata silenziosamente al mio
fianco.
– Lo so.
– Anche...
– Sono dove è lui. E dov'è il mare.
Gaia si voltò verso di noi. Il vento le spingeva i capelli negli occhi.
– Se ne sono andate, ora.
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tuisce.
Sarebbe tornato, quando noi fossimo partiti. Si sarebbe seduto
davanti alle finestre aperte, ascoltando le voci delle acque in un tran-
quillo pomeriggio. Le avrebbe avute nuovamente, avrebbe ricono-
sciuto le loro voci. Pronto ad aiutarle, a stare loro vicine.
Lo sapevamo, ne eravamo certi.
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