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ESPERIENZA:
LO STRUMENTO PER UN
CAMMINO UMANO
Assemblea Internazionale Responsabili
di Comunione e Liberazione
TRACCE
Supplemento al periodico Tracce - Litterae Communionis, n. 8, Settembre 2009. Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004, n° 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
In collaborazione con
EspEriEnza:
lo strumEnto pEr un
cammino umano
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G.G. Vecchi, «Io e i ciellini. La nostra fede in faccia al mondo», in Corriere della Sera, 15 ottobre
2004.
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L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 63.
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L. Giussani, Certi di alcune grandi cose (1979-1981), Bur, Milano 2007, p. 148.
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mento è che diventi nostra, che diventi mia e tua!]: la chiave di volta
di questo passaggio è il giudizio. Infatti, come avviene questo passag-
gio? Investendo tutto quello che facciamo del confronto ideale, cioè
di un giudizio. […] Perché è il giudizio che rende esperienza una
cosa che si fa. […] Cosa vuole dire giudicare? Vuole dire paragonare
quello che si fa con l’ideale riconosciuto. È investire quello che si
fa dell’ideale, della coscienza ideale. Come avviene questo? Avviene
quando l’ideale è come un peso, nel senso del peso specifico di un
metallo. È un peso, una memoria, un gusto che uno ha dentro quan-
do bacia una ragazza o quando adocchia una cosa al supermercato
che può rubare, quando torna a casa e il papà e la mamma litigano o
quando mancano dieci giorni all’esame ed è tutto il giorno sul libro.
[…] Occorre seguire le persone vive. Chi è una persona viva? Per-
sona viva è uno che, sapendolo o non sapendolo, coscientemente o
non coscientemente, ha dentro questo peso [questo gusto]»6.
Nel corso di tutto quest’anno la Scuola di comunità, le vicende
che abbiamo dovuto affrontare, gli Esercizi della Fraternità, sono
stati davanti a noi come peso specifico, come gusto che ci è stato co-
municato: che esperienza abbiamo fatto di questo? Siamo qua per
aiutarci a giudicare, a capire di più, a renderci testimonianza gli uni
gli altri di questa esperienza, perché si incrementi questo gusto, per
sconfiggere insieme questa confusione, non aggiungendo parole a
parole, ma come testimonianza di questa vittoria, di questo gusto
che Cristo introduce nella vita. Perché senza che questo diventi ve-
ramente esperienza noi non cresciamo nella certezza della fede, la
fede non diventa per noi quella conoscenza verificata nell’esperien-
za che introduce una novità in qualsiasi cosa viviamo.
Dunque, questi giorni sono giorni di lavoro, di lavoro personale,
di lavoro tra amici, di lavoro insieme. Sarebbe un peccato sprecarlo.
Il tempo è tutto lavoro ed è tutto tempo libero, perché siamo qua
affinché diventi sempre più nostro quello che ci diciamo.
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Ibidem, pp. 149-150.
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1. La riduzione dell’esperienza
Che aiuto impressionante dà la Chiesa a ciascuno di noi ogni
istante! Basterebbe che fossimo presenti a quello che accade, a
quello che diciamo perché imparassimo un altro modo di rap-
portarci al reale, un altro sguardo all’esperienza. Perché tutte le
difficoltà emerse, che adesso guarderemo in faccia, sono sfidate
dalla testimonianza che i profeti hanno dato nella storia, che la
Chiesa ci ripropone ogni mattina per spalancare i nostri occhi a
guardare il reale così come è.
Guardate - non so se ve ne siete resi conto -, quando abbiamo
letto questa mattina il secondo salmo del profeta Osea abbiamo
detto: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto
ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano
da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi.
Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano [è que-
sto quello che mi interessava: non che non siano bravi, non siano
aderenti], ma essi non compresero che avevo cura di loro [non è
che non fossero davanti ai fatti, come noi siamo davanti ai fatti,
ma non capivano che aveva cura di loro]. Io li traevo con legami di
bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bim-
bo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»7.
Ma: «Il mio popolo è duro a convertirsi [cioè non sottomettevano
la ragione all’esperienza, non capendo]: chiamato a guardare in
alto nessuno sa sollevare lo sguardo [è come se restassero intrap-
polati e nessuno sollevasse lo sguardo per cogliere tutto quanto c’è
in quello che stanno vivendo; e non sollevando lo sguardo, non
guardando bene, non entrando fino in fondo in quello che stan-
no vivendo, non capiscono, e perciò la realtà ultima rimane loro
7
Os 11,1-4.
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L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 119.
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Cfr. L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 157.
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L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 127.
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3. La traiettoria dell’esperienza
Allora è inevitabile richiamarsi a quello che rimarrà sempre il
testo capolavoro sull’esperienza, il decimo capitolo de Il senso re-
ligioso, perché è proprio lì che abbiamo la descrizione completa di
che cosa è l’esperienza umana, dove non si riduce l’esperienza al
primo impatto, ma si documenta che il primo impatto è il primo
passo di una strada, di una traiettoria, e che per spiegare quel pri-
mo impatto occorre arrivare a ciò che è implicato in quell’impat-
to, cioè Dio, cioè il Tu. Ma se l’esperienza è questo, domandiamo-
ci, amici: quante volte facciamo veramente esperienza? Ciascuno
può guardare nell’ultimo mese, nell’ultima settimana quante vol-
te ha fatto veramente esperienza, quante volte ha preso consape-
volezza del reale secondo tutti i fattori coinvolti in quell’impatto
iniziale: così ci rendiamo conto di che razza di riduzione facciamo
dell’esperienza, di quello che chiamiamo esperienza, per cui alla
fine non c’è conoscenza, non arriviamo a conoscere. Possiamo av-
vicinarci, ma sempre alla fine è come un salto nel vuoto: non è co-
noscenza, e perciò diventa volontaristico, appiccicato, lo sentiamo
forzato. E lì incomincia il dualismo: si vede che l’io non rinasce,
cioè che io non acquisto una conoscenza vera, non giudico. Per
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L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 148.
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L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 129.
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L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 7.
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16
L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 157.
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L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 126.
18
L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 155.
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L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 130.
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L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», in Tracce-Litterae Communionis, n. 10, novembre 2008,
p. 1.
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L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.
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Ibidem, pp. 131-132.
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prendere è se noi vogliamo fare una strada in modo tale che tutto
quello che viviamo diventi veramente esperienza oppure se ci ac-
contentiamo di una qualsiasi delle riduzioni di cui abbiamo par-
lato in questi giorni. Vediamo tra di noi, lo tocchiamo con mano,
che non serve ripetere un discorso, pur giusto, che non basta una
“logica di gruppo” (come diceva don Giussani nell’ultimo libro
delle équipe pubblicato23). Abbiamo bisogno di fare un’esperienza
personale. Ma quello che impressiona - amici - è che questa era
la convinzione di don Giussani fin dalla prima ora: «Fino dalla
prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi
riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un
metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi
dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila
anni”»24. Era consapevole fin dall’inizio che non bastava neppure
tutta l’imponenza della sua persona, della sua testimonianza: oc-
correva mettere in moto l’io perché esso stesso potesse giudicare,
fin dal primo istante. In un giovane che si sente dire questo, quello
che accade è l’esaltazione del soggetto. Altro che il venire meno
dell’io per esaltare un certo meccanicismo o soltanto una apparte-
nenza di gruppo; è proprio prendere sul serio il soggetto, in modo
tale che possa avere in mano un metodo che consenta di giudicare
ciò che viene proposto. E prosegue: «Il rispetto di questo metodo
ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, in-
dicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della
fede alle esigenze della vita [ecco il perché dell’insistenza sul giu-
dicare]. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima,
per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che
una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza
presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze,
non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove
tutto, tutto, diceva e dice l’opposto […]. Mostrare la pertinenza
della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo “quindi” è im-
portante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un
23
L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), Bur, Milano 2009, pp. 269-337.
24
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 20.
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2. Allora, c’è qualche chance per noi? C’è una chance, amici, c’è
una chance: partire dall’esperienza. Guardiamo insieme - come
abbiamo detto un minuto fa - l’esperienza vissuta in questi giorni.
Tutta la confusione non è stata in grado di evitare di riconoscere
25
Ibidem, pp. 20-21.
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dall’esperienza.
Per questo mi sono reso conto sempre di più questa estate, nei
diversi incontri, che c’è una confusione tra l’intenzione di seguire
e la sequela reale di don Giussani. Tutti noi abbiamo la buona in-
tenzione di seguire (siamo addirittura qui). Ma non basta, perché
una cosa è l’intenzione e un’altra cosa è quel paragone serrato, che
esige la sequela, tra quello che noi facciamo e quello che lui dice.
Mi si è chiarito in modo imponente quando una ragazza ha
raccontato come ha preso sul serio il decimo capitolo de Il senso
religioso e ha cominciato a fare il paragone: era uno spettacolo!
Cioè, non genericamente, «leggo il capitolo e poi, in fondo, un
istante dopo che ho finito continuo a prendere la mossa da ciò che
mi viene in testa», che è quello che facciamo noi stando qui dopo
aver letto il capitolo; aveva proprio incominciato a fare una verifi-
ca serrata tra come si muoveva e il testo, e ritornava a leggere per
vedere, per giudicare, per fare il paragone tra come si era mossa
e ciò che dice don Giussani. E lei stessa era allibita da quello che
stava succedendo, perché in pochissimo tempo aveva fatto una
strada enorme. E io mi sono reso conto: allora noi tante volte pen-
siamo di seguire perché abbiamo l’intenzione di seguire, ma l’in-
tenzione di seguire non è seguire, è un requisito per seguire, ma
non basta. Ciascuno deve prendere posizione su questo, perché
altrimenti tutte le difficoltà che abbiamo visto non si superano, le
rimandiamo solo al futuro.
Seguire don Giussani è fare esperienza umana, cioè non soltan-
to provare, ma emettere un giudizio. E perché don Giussani con
noi (che siamo come tutti gli altri, intrisi della mentalità monda-
na come tutti) insiste così tanto su questo? Perché si rende conto
che solo «l’evidenza dell’esperienza»26 ti può convincere, ti può
aiutare a capire un’altra modalità e a non percepirla come estra-
nea a te, come se dovessi seguire qualcuno semplicemente come
strappandoti dalla tua libertà e dalla tua ragione. No. Soltanto se
tu vedi l’evidenza che viene fuori nell’esperienza puoi sorpren-
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L. Giussani, L’avvenimento cristiano. Uomo Chiesa Mondo, Bur, Milano 2003, p. 56.
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3. Ieri uno di voi mi ha detto: «Tanti dei nostri amici non sono
definiti dall’incontro fatto: la loro “appartenenza” e mentalità di
origine definisce di più il proprio io che l’incontro fatto». Dentro
questa nostra difficoltà a comprendere la necessità del giudizio
emerge qualcosa di più profondo, che è una concezione di fede
per cui essa, nonostante tutto, non è un’esperienza, non è un’espe-
rienza in grado di incidere. A volte ho l’impressione che è come se
auspicassimo che la fede fosse qualcosa di simile a una trasfusione
di sangue, dove non ci sia l’io, qualcosa di meccanico. Ma questo
è contro la prima ora di don Giussani! Immaginatevi tutte le ore
dopo! Cioè, non basta neanche stare insieme, non basta la logica
di gruppo, perché come mentalità apparteniamo altrove.
Allora - dicevo nella Prefazione che ho scritto per Qui e ora,
citando Dostoevskij -, in questa situazione possiamo capire la
portata della domanda: «“Un uomo colto, un europeo dei nostri
giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio,
Gesù Cristo?” Forse nessuno più di Dostoevskij ne I fratelli Kara-
mazov ha posto in modo sintetico e perentorio la sfida davanti alla
quale si trova il cristianesimo nella modernità. Don Giussani ha
avuto il coraggio di misurarsi con questa sfida storica, radicaliz-
zandola, se possibile. Infatti, scommette tutto sulla capacità della
sua proposta educativa di generare un tipo di soggetto cristiano
per cui “anche se andassero via tutti - tutti! -, chi ha questa di-
mensione di coscienza personale [che la fede genera] non può fare
altro che ricominciare le cose da solo”»27.
27
J. Carrón, Passare da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale, in L. Giussani,
Qui e ora (1984-1985), op. cit., p. I.
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L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.
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L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 309-311.
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