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quadernoLATHUILE2009.

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ESPERIENZA:
LO STRUMENTO PER UN
CAMMINO UMANO
Assemblea Internazionale Responsabili
di Comunione e Liberazione

LA THUILE, AGOSTO 2009

TRACCE
Supplemento al periodico Tracce - Litterae Communionis, n. 8, Settembre 2009. Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004, n° 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

In collaborazione con
EspEriEnza:
lo strumEnto pEr un
cammino umano

Assemblea Internazionale Responsabili


di Comunione e Liberazione

LA THUILE, AGOSTO 2009

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

In copertina: Vasilij Kandinskij, Il lago, (1910), Galleria Tret’jakov, Mosca

Supplemento al periodico Tracce - Litterae Communionis, n°8, settembre 2009


Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004, n°46)
art. 1, comma 1, DCB Milano
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Reg. Tribunale di Milano n. 57 – 3 marzo 1975
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Stampa: Arti Grafiche Fiorin - Via del Tecchione 36, Sesto Ulteriano (Mi)

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Introduzione Julián Carrón

18 agosto 2009, martedì sera

Di niente abbiamo più bisogno, all’inizio di un gesto come


quello che stiamo per incominciare, l’Assemblea Internazionale
dei Responsabili, che della potenza dello Spirito, di quella energia
di Cristo, unica in grado di potere cambiare, introdurre la novità
nelle nostre ossa, in ogni fibra del nostro essere.
Tutti noi sappiamo quanto siamo bisognosi di questa energia:
quanto più siamo consapevoli della sproporzione delle nostre ri-
sorse, tanto più siamo consapevoli che abbiamo bisogno di qual-
cosa di più grande delle nostre intenzioni e della nostra buona
volontà, e per questo urge dentro di noi questo grido allo Spirito
che l’energia di Cristo entri nella nostra vita e ci renda disponibili
a quella grazia che il Signore ci vorrà dare in questi giorni.

Discendi Santo Spirito

Ripensando al percorso che abbiamo fatto lungo questo anno e


al contenuto degli Esercizi della Fraternità per capire quale sia l’ur-
genza più grande che sento per tutti noi, per il movimento a tutti
i livelli, e guardando la situazione in cui ci troviamo, in cui siamo
chiamati a vivere la fede, il contesto culturale in cui siamo immersi,
la parola sintetica che mi veniva continuamente in mente è “confu-
sione”. Abbiamo capito qualcosa dell’origine di questa confusione
quando abbiamo detto, agli Esercizi della Fraternità, che ciò non
è altro che la conseguenza di quel crollo di «antiche sicurezze» che
porta sempre di più a uno smarrimento1. Quante volte ci sentiamo
smarriti, senza sapere come affrontare certe cose o come vivere da-
vanti a certe situazioni!
Solo se siamo in grado di aiutarci a capire questa situazione e
1
J. Carrón, «Dalla fede il metodo», Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini
2009, suppl. a Tracce-Litterae Communionis, n. 5, maggio 2009, p. 18.

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a rispondere all’urgenza che essa provoca in noi, possiamo andare


via da questi giorni con un po’ più di chiarezza, in modo da potere
vivere noi meglio tutto quanto la vita ci chiede di affrontare, e da
potere anche contribuire al bene dei nostri fratelli uomini. Davanti
a questa situazione tutti ci rendiamo conto che non ci basta più,
come non basta a tanti dei nostri fratelli, una ripetizione, pur giu-
sta, di un discorso. Per dirla con un’espressione di don Giussani: la
ripetizione di un discorso corretto e pulito. Lo diceva anni fa: «Si
tramanda un discorso corretto e pulito, alcune regole su come esse-
re cristiani e uomini. Ma senza amore, senza il riconoscimento del
Mistero vivificante, il singolo si spegne e muore. La nostra speranza,
la salvezza di Cristo non può essere qualcosa che abbiamo letto e
sappiamo ripetere bene. Un discorso più o meno edificante o mo-
ralistico, ecco, a questo viene ridotto spesso l’annuncio»2.
E questo lo sappiamo anche noi: non ci basta sapere che cosa è
il matrimonio perché stia in piedi, non ci basta sapere che cosa è
il lavoro perché non diventi una tomba, non ci basta sapere che le
circostanze sono una occasione perché non diventino una sconfit-
ta… Non ci basta più, e questo noi lo sappiamo: questo dualismo
non risponde al vero bisogno che abbiamo! Noi abbiamo ripetuto
tante volte la cosa giusta, ma questo non ci fa stare in piedi, non ci
fa respirare.
Abbiamo bisogno di vedere davanti a noi persone che nel loro
porsi, nel modo di affrontare il reale, di reagire davanti alle provo-
cazioni della vita introducono una luce, una chiarezza in mezzo alla
confusione nel modo in cui vivono gli affetti, il lavoro, le circostan-
ze. Diciamo che è lì, nel modo di affrontare le sfide quotidiane, che
noi verifichiamo se abbiamo qualcosa che ci aiuta a vivere, che ci dà
un gusto più intenso del vivere, oppure se siamo disarmati come gli
altri. Abbiamo bisogno di uomini che incarnino nella loro vita una
possibilità reale di vivere oggi la vita umana da uomini. Quando
ci troviamo davanti ad alcune di queste persone è come se questo
smarrimento, questa confusione incominciasse a essere vinta: que-
2
L. Giussani, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, Milano, Rizzoli 2004,
pp. 173-174.

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INTRODUZIONE

ste persone cominciano a farci compagnia anche se vivono lontane,


diventano veramente una compagnia reale.
La ragione è quella che ci ha sempre insegnato don Giussani e che
ha ripetuto in una delle ultime interviste, che ha fatto al Corriere della
Sera il giorno del suo ultimo compleanno: «Anzitutto bisognerebbe
correggere l’impostazione solita con cui si concepisce la fede. Tutto
l’inizio nuovo dell’esperienza cristiana - e quindi di ogni rapporto -
non si genera da un punto di vista culturale, quasi fosse un discorso
che si applica alle cose, ma avviene sperimentalmente [sperimen-
talmente: sono le persone che in questi anni abbiamo chiamato te-
stimoni]. L’inizio della fede non è una cultura astratta, ma qualcosa
che viene prima: un avvenimento. La fede è presa di coscienza di
qualcosa che è accaduto e che accade, di una cosa nuova da cui tutto
parte, realmente. È una vita e non un discorso sulla vita»3. Una vita
che vediamo vivere davanti a noi, che vediamo respirare davanti a
noi, nelle circostanze, nella trama normale dell’esistenza.
Ma il testimone non basta. Il testimone ci mostra una reale pos-
sibilità più umana di vivere nelle circostanze cui siamo chiamati, e
per questo ci colpisce; ma non basta, perché ciascuno di noi (io, tu)
ha bisogno che accada nella sua vita, nelle circostanze che è costret-
to ad affrontare, cioè ha bisogno di fare l’esperienza personale di
ciò che il testimone mostra. Perché diventi mio! Abbiamo bisogno
dell’evidenza nella nostra propria esperienza, perché ciascuno di noi
deve affrontare personalmente le circostanze, la vita, e ha bisogno di
vedere lì che essa può essere vissuta in un altro modo, che la confu-
sione può essere sconfitta, che la morte non è il destino di ogni cir-
costanza. Altrimenti affondiamo nelle circostanze e usiamo le frasi di
don Giusssani come epitaffio sopra la nostra tomba… L’ho visto, per
esempio, nel modo nel quale tante volte ho sentito parlare del pas-
saggio degli Esercizi della Fraternità riguardante le circostanze («Le
circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non
secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama»4):

3
G.G. Vecchi, «Io e i ciellini. La nostra fede in faccia al mondo», in Corriere della Sera, 15 ottobre
2004.
4
L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 63.

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tutti lo ripetono, ma quante volte avete visto e sentito documenta-


to che le circostanze sono state davvero fattore essenziale della cre-
scita dell’io, della possibilità del respiro della vita e non soltanto un
lamento, la tomba cui sopra si mette l’epitaffio della frase? Perché
se noi non facciamo esperienza di questo, diventeremo sempre più
scettici. Invece, io devo potere vedere nella mia esperienza l’evidenza
della verità: non mi basta l’esperienza del testimone, devo fare espe-
rienza io in prima persona, ho bisogno che accada a me.
E mi colpiva, rileggendo in questi giorni qualche pagina di Cer-
ti di alcune grandi cose (1979-1981), uno dei libri delle équipe che
abbiamo pubblicato negli ultimi anni, l’insistenza di don Giussani
su questo già nel 1980, quando afferma che se ciò che intuisco e
pre-sento come un valore attraverso la testimonianza di un altro,
io non mi impegno a verificarlo, presto o tardi me ne vado; se non
lo vedo riaccadere in me, se non mi impegno a verificarlo, a fare
realmente esperienza di questo, prima o poi non mi interessa. E in-
sisteva su una delle preoccupazioni fondamentali, cioè che la vita
diventi veramente un cammino e che tutto quanto serva per la cer-
tezza, per raggiungere sempre di più una certezza che faccia crescere
la vita: «Uno, a sessant’anni, può avere provato tutto il provabile,
ma non per questo è necessariamente una persona “sperimentata”;
l’esperienza è la capacità di paragone con l’ideale. Altrimenti non si
fa esperienza di niente, si ha il caratteristico atteggiamento di tanti
vecchi, pieno di vuoto, di niente»5.
Quanto desidero per me e per ciascuno di noi è che non ci ritro-
viamo vecchi pieni di vuoto. E l’unica possibilità è fare esperienza
di quello che ci diciamo, perché la vita non passi invano. Sentite che
correzione faceva don Giussani già nel 1980: «Finora abbiamo detto:
“Dall’esperienza al giudizio”. Propongo che questa formula si sosti-
tuisca con lo slogan: “Passiamo dal fare il movimento all’esperienza
del movimento”. Dire: “Passiamo dal fare il movimento all’esperien-
za” coincide con tutto il discorso della personalizzazione. Che il fare
il movimento diventi esperienza mia e tua [il suo costante struggi-

5
L. Giussani, Certi di alcune grandi cose (1979-1981), Bur, Milano 2007, p. 148.

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INTRODUZIONE

mento è che diventi nostra, che diventi mia e tua!]: la chiave di volta
di questo passaggio è il giudizio. Infatti, come avviene questo passag-
gio? Investendo tutto quello che facciamo del confronto ideale, cioè
di un giudizio. […] Perché è il giudizio che rende esperienza una
cosa che si fa. […] Cosa vuole dire giudicare? Vuole dire paragonare
quello che si fa con l’ideale riconosciuto. È investire quello che si
fa dell’ideale, della coscienza ideale. Come avviene questo? Avviene
quando l’ideale è come un peso, nel senso del peso specifico di un
metallo. È un peso, una memoria, un gusto che uno ha dentro quan-
do bacia una ragazza o quando adocchia una cosa al supermercato
che può rubare, quando torna a casa e il papà e la mamma litigano o
quando mancano dieci giorni all’esame ed è tutto il giorno sul libro.
[…] Occorre seguire le persone vive. Chi è una persona viva? Per-
sona viva è uno che, sapendolo o non sapendolo, coscientemente o
non coscientemente, ha dentro questo peso [questo gusto]»6.
Nel corso di tutto quest’anno la Scuola di comunità, le vicende
che abbiamo dovuto affrontare, gli Esercizi della Fraternità, sono
stati davanti a noi come peso specifico, come gusto che ci è stato co-
municato: che esperienza abbiamo fatto di questo? Siamo qua per
aiutarci a giudicare, a capire di più, a renderci testimonianza gli uni
gli altri di questa esperienza, perché si incrementi questo gusto, per
sconfiggere insieme questa confusione, non aggiungendo parole a
parole, ma come testimonianza di questa vittoria, di questo gusto
che Cristo introduce nella vita. Perché senza che questo diventi ve-
ramente esperienza noi non cresciamo nella certezza della fede, la
fede non diventa per noi quella conoscenza verificata nell’esperien-
za che introduce una novità in qualsiasi cosa viviamo.
Dunque, questi giorni sono giorni di lavoro, di lavoro personale,
di lavoro tra amici, di lavoro insieme. Sarebbe un peccato sprecarlo.
Il tempo è tutto lavoro ed è tutto tempo libero, perché siamo qua
affinché diventi sempre più nostro quello che ci diciamo.

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Ibidem, pp. 149-150.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

Lezione Julián Carrón

20 agosto 2009, giovedì mattina

1. La riduzione dell’esperienza
Che aiuto impressionante dà la Chiesa a ciascuno di noi ogni
istante! Basterebbe che fossimo presenti a quello che accade, a
quello che diciamo perché imparassimo un altro modo di rap-
portarci al reale, un altro sguardo all’esperienza. Perché tutte le
difficoltà emerse, che adesso guarderemo in faccia, sono sfidate
dalla testimonianza che i profeti hanno dato nella storia, che la
Chiesa ci ripropone ogni mattina per spalancare i nostri occhi a
guardare il reale così come è.
Guardate - non so se ve ne siete resi conto -, quando abbiamo
letto questa mattina il secondo salmo del profeta Osea abbiamo
detto: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto
ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano
da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi.
Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano [è que-
sto quello che mi interessava: non che non siano bravi, non siano
aderenti], ma essi non compresero che avevo cura di loro [non è
che non fossero davanti ai fatti, come noi siamo davanti ai fatti,
ma non capivano che aveva cura di loro]. Io li traevo con legami di
bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bim-
bo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»7.
Ma: «Il mio popolo è duro a convertirsi [cioè non sottomettevano
la ragione all’esperienza, non capendo]: chiamato a guardare in
alto nessuno sa sollevare lo sguardo [è come se restassero intrap-
polati e nessuno sollevasse lo sguardo per cogliere tutto quanto c’è
in quello che stanno vivendo; e non sollevando lo sguardo, non
guardando bene, non entrando fino in fondo in quello che stan-
no vivendo, non capiscono, e perciò la realtà ultima rimane loro

7
Os 11,1-4.

8
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LEZIONE

estranea, il fondo ultimo che si rende presente in quei gesti rimane


sconosciuto; e qual è questo fondo ultimo?]. Come potrei abban-
donarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei
trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore
si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione»8.
Il fondo ultimo dell’esperienza che fanno è questo, ma essi non
comprendono che Egli ha cura di loro.
Se prendiamo il canto di Adriana Mascagni, è lo stesso. Tutti
noi ci siamo alzati questa mattina, e ciascuno può fare il paragone
con quel che è successo da quando si è svegliato a quando è arri-
vato qua. «Mio Dio, mi guardo ed ecco scopro che non ho volto;
guardo il mio fondo e vedo il buio senza fine. Solo quando mi ac-
corgo che tu sei»9… Non che non ci sia, c’è; ma nel modo con cui
ci guardiamo non ce n’è la consapevolezza: non mi accorgo che ci
sei, e siccome manca questo non rinasco, siccome non risento la
voce non rinasco. Il segno è che io rinasco. Il test che per me non è
soltanto una cosa “pia” bensì qualcosa di reale: io rinasco.
È soltanto per fare due esempi di come la Liturgia o i canti che
facciamo costantemente ci sfidano. Ma è come se non fossero in
grado di penetrare la crosta con cui noi li abbiamo già ridotti.
Perché l’io che legge o che canta è già ridotto, è già in un rapporto
con il reale che gli impedisce di cogliere tutta la portata di quello
che c’è!
Allora la questione è: come ci aiutiamo a capire tutto quanto
c’è nell’esperienza in modo tale che il nostro io rinasca? Perché
lo scopo - amici - non sono disquisizioni intellettuali; lo scopo di
questo sguardo vero su tutto, sul reale, è che l’io rinasca.
Il guaio è che noi fatichiamo veramente a fare esperienza (una
delle parole più usate tra di noi, ma meno capite). Tutti usiamo
la parola “esperienza”, ma, insieme all’altra, la parola “corrispon-
denza”, sbagliamo nel modo in cui la usiamo, e dobbiamo aiutarci
a sviscerare dove sorgono le riduzioni affinché incominciamo a
rendercene consapevoli. E per capirlo occorre partire dall’espe-
8
Os 11,7-8.
9
A. Mascagni, «Il mio volto», in Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 203.

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rienza, aiutarci a capire perché la riduciamo, perché la usiamo


male, guardando quello che accade. Altrimenti prevale la confu-
sione, e la confusione in cui viviamo si evidenzia proprio nella
riduzione che operiamo dell’esperienza, riduzione grave, ci ha
sempre ricordato don Giussani, perché indebolisce o vanifica il
metodo fondamentale dello sviluppo umano, perché l’esperien-
za è la strada dello sviluppo della persona. Cioè: l’esperienza è lo
strumento che abbiamo nelle nostre mani per il nostro sviluppo,
per la nostra crescita; ma se noi lo usiamo male o lo riduciamo,
tutto quanto capita nella vita è inutile, è sterile, non serve, non
incrementa il nostro io, non sviluppa la nostra persona. Come
dicevamo nell’Introduzione: si può diventare vecchi e vuoti pur
avendo vissuto tante cose, ma senza avere fatto esperienza.
Io questo - l’ho raccontato ormai tante volte - lo toccavo con
mano quando facevo il professore di liceo. La mattina in classe
gli alunni riempivano la lavagna di domande; e alla sera, quando
ricevevo per appuntamento gli adulti, mi ricordo ancora uno che
avremmo potuto definire un uomo “di esperienza”, tra virgolette,
perché aveva girato il mondo, non era stato chiuso in cucina tutta
la vita, ma aveva fatto di tutto. E mi stupiva che avesse le stesse
identiche domande dei ragazzi, come se non gli fosse accaduto
niente nella vita. Ma i ragazzi avevano tutta la vita davanti; l’al-
tro, invece, era lì, dopo avere vissuto tante cose, ma tutto era stato
come inutile per rispondere alle domande dell’esistenza. Vedete?
Non si tratta di espressioni che usa don Giussani in astratto; è che
poi te le trovi pari pari davanti nelle facce concrete di persone
che sono veramente smarrite dopo anni di un vissuto “intenso”.
Perché? Per una riduzione dell’esperienza: se il metodo dell’espe-
rienza è indebolito, tutto quanto accade non serve e cresce la con-
fusione, cresce lo smarrimento o, peggio ancora, la nostra testa è
riempita dai contenuti imposti dal potere. «La definizione delle
parole più importanti della vita, se viene determinata dalla men-
talità comune assicura la schiavitù totale, l’alienazione totale»10.

10
L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 119.

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LEZIONE

Noi non ne siamo esenti.


E quali sono le riduzioni dell’esperienza? L’abbiamo visto in
questi giorni, lo diciamo quasi spontaneamente, quasi senza una
consapevolezza adeguata. Tante volte per noi l’esperienza è ridotta
semplicemente all’impatto che le cose mi provocano: raccontiamo
dei fatti, ma rimane tutto lì, e dopo non resta più niente. Questo
perché generalmente anche da noi l’esperienza è identificata con
la somma degli “impatti”, la quantità di momenti vissuti, gli shock
o le “impressioni avute” - che sono tutte reali (non è che non siano
reali), parliamo di cose reali e per questo tante volte pensiamo che
stiamo percorrendo la strada che ci proponiamo, perché nessuno
sta facendo delle astrazioni, racconta dei fatti reali; su questo qual-
che passo l’abbiamo fatto, grazie a Dio, ma rimaniamo lì! -, op-
pure con le emozioni soggettive, le “ripercussioni sentimentali”11.
L’esperienza, per noi - cioè, per meglio dire, quello che noi chia-
miamo esperienza -, o è cieca (esperienza come sinonimo di mero
provare), meccanica (mere sensazioni senza intelligenza, senza
giudizio: riduzione empiristica), o è “soggettiva” in senso deterio-
re, cioè qualcosa di sentimentale, è il soggettivo opposto all’og-
gettivo, come se dicessimo: «Io sento che…» e questo diventa la
misura su quello che ci capita (riduzione soggettivistica: il motivo
del “sospetto” o dell’accusa di “modernismo”): tot capita tot sen-
tentiae. Così, oggi, si è tanto saturi di emozioni quanto poveri di
esperienza.
L’incomprensione della parola “esperienza” è resa evidente dal
modo in cui siamo soliti opporla a “giudizio” (o “conoscenza”):
dove c’è l’una non c’è l’altro, sono alternativi. È il segno più chiaro
che si è confusi sull’uno e sull’altro termine. Per questo tante volte,
se per noi l’esperienza è ridotta a questa sorta di impatto, di shock
meccanico, il giudizio ci sembra qualcosa di intellettuale, quasi
appiccicato. E proprio per questo tante volte sentiamo il giudizio
come una forzatura, come qualcosa che noi imponiamo al reale,
che creiamo noi. Guardate quante volte ci chiediamo perché dob-

11
Cfr. L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 157.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

biamo arrivare a dire Cristo: Lo sentiamo così estraneo, Lo sen-


tiamo così esterno all’esperienza che ci sembra di fare un salto nel
vuoto, tanto ci sembra aggiunto, non appartenente all’esperienza
che facciamo. Diventa una forzatura, punto! E perciò un qualco-
sa di intellettuale, aggiunto come un cappello all’“esperienza”, tra
virgolette, che facciamo.
Abbiamo davanti queste due riduzioni, quella dell’empirismo
e quella dell’intellettualismo: l’esperienza ridotta a empirismo e
il giudizio ridotto a intellettualismo. Una concezione intellettua-
listica della conoscenza e del giudizio è l’altra faccia di una con-
cezione empiristico-sentimentale dell’esperienza. Intellettualismo
ed empirismo vanno sempre a braccetto.
Uno di noi, intervenendo a un raduno di responsabili, osservava
che a noi il giudizio sembra una forzatura, come a dire: ma se dob-
biamo giudicare anche le cose belle, le cose intense, questo rovina
l’incantesimo di quello che viviamo, in qualche misura “spoetizza”
l’esperienza, quasi ce la rovinasse. Perciò quando le cose sono state
interessanti, belle, persuasive, che bisogno c’è di giudicarle? Ce la
siamo goduta. Perciò tante volte - diceva - l’istigazione a giudicare
che ci rivolgiamo sembra quella del rompiscatole. Insomma, vi-
viamo una cosa bella e dobbiamo anche giudicarla? Cioè, ci sem-
bra di compiere una operazione artificiosa e faticosa, che va fino a
scavare all’origine di quello che ci è accaduto.

2. Il giudizio come contraccolpo dell’essere


Invece per don Giussani le cose sono, in certo modo, più sem-
plici e più unite, perché per lui (una delle cose che mi aveva col-
pito tanti anni fa e che ho ripetuto tante volte) il giudizio non è
qualcosa di aggiunto, ma è il contraccolpo dell’essere. Il giudizio
non è qualcosa di aggiunto, ma è contemporaneo al contraccolpo.
Non è che prima le montagne vi fanno una certa impressione e
poi dovete riflettere per arrivare a dire che sono belle: chi ha fatto
questa operazione mentale in questi giorni? Nessuno. Quello che
avete detto, quello che vi siete sorpresi a dire è stato: «Che belle
queste montagne!», «Che bella giornata!», sì o no? Ciascuno può

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LEZIONE

fare il paragone con l’esperienza che ha fatto. Cioè: il giudizio,


dire che le montagne sono belle (ma vale anche per le cose brutte
o pesanti o dolorose), non è una operazione mentale artificiosa:
è in contemporanea. La bellezza la cogliamo nell’atto stesso della
conoscenza, perché la realtà si rende trasparente nell’esperienza, e
perciò, siccome si rende trasparente, rende capace l’io di ricono-
scerla, perché in questo contraccolpo dell’essere il reale, la bellez-
za, fa venire fuori il mio io in modo tale che io possa riconoscerla.
Non è che prima accuso l’impatto e poi devo andare a cercare
qualcuno che mi dica se sono belle le montagne. Non è che io non
sono in grado di giudicare. Qualcuno è andato oggi dal capofila
della gita a chiedere, dopo l’impatto delle montagne, se erano bel-
le o no? Diciamo delle cose che non stanno né in cielo né in terra!
Nella stessa natura dell’esperienza c’è questa contemporaneità,
tanto è vero che se non arrivo a formulare questo giudizio, non do
ragione di tutto quello che sto vivendo in quel momento. Se non
dico: «Sono belle», non dico tutta l’esperienza che sto facendo,
come se non dico: «È brutto» davanti a qualcosa di brutto, non
esprimo tutta l’esperienza di repulsione che il mio io sta facendo.
Il giudizio non è appiccicato, è la lealtà con l’esperienza che faccio
(pensate a come è corrispondente il modo in cui cantiamo quan-
do stiamo insieme).
«Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo sco-
prirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso
delle cose»12. E quando le capisco? Quando do ragione di tutti i
fattori implicati nell’esperienza. Per questo quando diciamo che
è artificioso, diciamo qualcosa che è contro l’esperienza. Occorre
guardare questa esperienza elementare che facciamo davanti al re-
ale, davanti alle montagne, davanti al canto, per imparare. Gli ar-
tificiosi siamo noi che non ci rendiamo conto veramente di quello
che succede quando facciamo esperienza. Siamo noi sleali nel dire
l’esperienza che facciamo in quello che veramente viviamo. Scu-
sate, davanti a queste montagne è artificioso dire che sono belle?

12
L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 127.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

È aggiunto? Accusare il contraccolpo e tutto quello che scatena in


noi è artificioso? No, l’artificioso è fermarsi.
Mi raccontavano che in una vacanza del Clu, durante una gita,
vedendo la fila di ragazzi in silenzio, qualcuno che li ha incontrati
ha chiesto: «Ma voi chi siete?». «Siamo universitari. Siamo qua in
vacanza». «Ma no, no, no, no: voi chi siete?». «Siamo qui in Valle
d’Aosta…». «No, no, no, ma voi chi siete?». «Siamo di Comunione
e Liberazione». «Ah! È impressionante vedervi salire in silenzio!».
Continuare a domandare era artificioso per quel signore? Qualcu-
no gli aveva detto che doveva fare il percorso? Qualcuno gli aveva
spiegato che non c’è esperienza se non si arriva al giudizio? No, è
che non poteva fermarsi. L’artificioso sarebbe stato fermarsi e non
domandare oltre.
Che cosa è questa esperienza? Il paragone velocissimo che fac-
ciamo di quello che proviamo con le esigenze che costituiscono
il nostro cuore; e quanto più bello è quello che vediamo o più
brutto è quello che vediamo, tanto più facile è il giudizio, più in
fretta vengono fuori tutte le esigenze e facciamo questo paragone
velocissimo; e quanto più l’umano è presente, quanto meno sia-
mo dei sassi, tanto più è facile fare questo paragone velocissimo. È
semplice. Don Giussani, nella sua genialità, ci descrive un cammi-
no, una strada piena di ragionevolezza e allo stesso tempo di una
semplicità disarmante; non occorrono percorsi strani, è normale
per chiunque, anche per uno che sta osservando dei ragazzi in
gita; è l’esperienza di questo paragone velocissimo con quello in
cui ci imbattiamo, che fa venir fuori tutte le esigenze del cuore con
tutta la sua curiosità e che ci porta al giudizio.
È come se don Giussani ci avesse aiutato a renderci conto, come
in un video a camera lenta, di tutti i fattori implicati nell’esperien-
za che facciamo così velocemente, tanto velocemente che non ce
ne rendiamo conto, a tal punto che poi lo riduciamo, perché il
contraccolpo di qualcosa ridesta tutte le nostre esigenze in modo
tale che con queste esigenze possiamo giudicare subito quello che
abbiamo davanti; ma è così veloce che non ci rendiamo conto di
tutto quello che c’è. Per questo - come abbiamo detto agli Esercizi

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LEZIONE

della Fraternità - l’io impegnato in ciò che prova fa emergere con


questa semplicità il giudizio. Dobbiamo guardare - come lui ci in-
segna sempre - l’immediatezza dell’esperienza per avere presente
tutti i fattori. Altrimenti, a seconda della moda di ogni momento,
dello slogan del momento, prendiamo un fattore o un altro: dopo
“il giudizio” verrebbe “la contemporaneità”, poi “la corrisponden-
za”… ogni volta una parola, ma senza cogliere tutto l’insieme. La
genialità di don Giussani è che invece di spiegarci come stanno
insieme le parole, ci fa partire dall’esperienza, dove tutto è unito!
Non dobbiamo cercare di metterle insieme, stanno già insieme!
È più semplice di quello che facciamo noi. E quanto più vengono
fuori le esigenze di fronte al reale, tanto più uno si rende conto che
Dio è l’ultima implicazione dell’umana esperienza (la religiosità
come dimensione inevitabile di autentica esperienza).

3. La traiettoria dell’esperienza
Allora è inevitabile richiamarsi a quello che rimarrà sempre il
testo capolavoro sull’esperienza, il decimo capitolo de Il senso re-
ligioso, perché è proprio lì che abbiamo la descrizione completa di
che cosa è l’esperienza umana, dove non si riduce l’esperienza al
primo impatto, ma si documenta che il primo impatto è il primo
passo di una strada, di una traiettoria, e che per spiegare quel pri-
mo impatto occorre arrivare a ciò che è implicato in quell’impat-
to, cioè Dio, cioè il Tu. Ma se l’esperienza è questo, domandiamo-
ci, amici: quante volte facciamo veramente esperienza? Ciascuno
può guardare nell’ultimo mese, nell’ultima settimana quante vol-
te ha fatto veramente esperienza, quante volte ha preso consape-
volezza del reale secondo tutti i fattori coinvolti in quell’impatto
iniziale: così ci rendiamo conto di che razza di riduzione facciamo
dell’esperienza, di quello che chiamiamo esperienza, per cui alla
fine non c’è conoscenza, non arriviamo a conoscere. Possiamo av-
vicinarci, ma sempre alla fine è come un salto nel vuoto: non è co-
noscenza, e perciò diventa volontaristico, appiccicato, lo sentiamo
forzato. E lì incomincia il dualismo: si vede che l’io non rinasce,
cioè che io non acquisto una conoscenza vera, non giudico. Per

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

questo, per capire tutta la portata del decimo capitolo de Il senso


religioso occorre un io in grado di riconoscere nel contraccolpo
del reale tutto ciò che c’è, perché questo capitolo - come dicevo
- è la spiegazione piena dell’esperienza. Perché per don Giussani
dire: «Io sono» con tutta la consapevolezza, significa dire: «Io sono
fatto» - «Allora non dico: “Io sono” consapevolmente, secondo
la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con
“Io sono fatto”»13 -, cioè implica Dio. Dunque l’esperienza non è
caratterizzata da una accumulazione di impatti, di impressioni,
di emozioni, ma da un acquisto di conoscenza, da una scoperta,
da una comprensione del senso. Senza un aumento di coscien-
za, di conoscenza delle cose e di sé, non si può dire che si è fatta
esperienza. «Di qui tante inadeguate, anche se frequenti, accezioni
della parola esperienza: dove cioè per esperienza s’intende [guar-
date che nell’elenco che segue c’è posto per tutti noi!] reazione
immediata a cose proposte, o il moltiplicarsi di legami per mera
prolificazione di iniziative, o l’improvviso fascino o disgusto delle
cose nuove, o l’affermazione di una propria elaborazione o di un
proprio schema, o un ricordo del passato che non rivive come va-
lore del presente, o addirittura un avvenimento citato per bloccare
un’aspirazione o per mortificare ideali»14. È come se don Giussani
facesse una fotografia, non perché abbiamo a bastonarci, ma per
imparare. A me interessa sviscerare dove ci incastriamo, perché
se non lo capiamo, non facciamo un cammino umano e alla fine
usiamo le parole con il significato non dell’esperienza che faccia-
mo, ma del potere.
«Senza una capacità di valutazione infatti l’uomo non può fare
alcuna esperienza [se non c’è veramente conoscenza io non fac-
cio esperienza]. […] L’esperienza coincide, certo, col “provare”
qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che
si prova»15. Guardate che sono frasi che abbiamo ripetuto molte
volte, ma c’è ancora tanto da imparare. E ancora, ne Il cammino

13
L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 148.
14
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 129.
15
L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 7.

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LEZIONE

al vero è un’esperienza ci ricorda come «in un’autentica esperienza


siano impegnate l’autocoscienza e la capacità critica (la capacità
di verifica!) dell’uomo»16. Altro che puro meccanicismo! L’auto-
coscienza.

4. Il test dell’esperienza: accorgersi di crescere


Se l’esperienza è un provare giudicato, cioè giudicato secondo
i criteri originali e oggettivi immanenti alla nostra struttura uma-
na - come abbiamo detto agli Esercizi della Fraternità -, da che
cosa si vede - domandavamo ieri - che è stato emesso un giudizio,
cioè che è avvenuto il passaggio dal provare all’esperienza? Da che
cosa si vede che ho fatto veramente esperienza? Qual è il test che
si è compiuta un’esperienza? Guardate quello che dice don Gius:
il test dell’esperienza è che mi fa crescere. «La persona prima non
esisteva: perciò quello che la costituisce è un dato, un prodotto
d’altro. Questa situazione originale si ripete a ogni livello dello
sviluppo della persona [io sono già un dato-da, dato-da-un-al-
tro]. Ciò che provoca la mia crescita non coincide con me, è altro
da me. [Allora che cosa è l’esperienza?] Concretamente esperienza
è vivere ciò che mi fa crescere [è ciò che sviluppa la mia persona,
è l’incremento dell’io che dicevamo ieri]. L’esperienza realizza
quindi l’incremento della persona attraverso la valorizzazione di
un rapporto obiettivo. Nota bene. L’“esperienza” connota perciò il
fatto dell’accorgersi di crescere»17.
Accorgersi di crescere. Per questo non basta che noi continuia-
mo a raccontare dei fatti, perché possiamo continuare a racconta-
re dei fatti e non crescere, non accorgerci di crescere, e questo lo si
vede dal fatto che siamo smarriti davanti alle questioni che emer-
gono, perché non c’è vera esperienza. L’esperienza non è soltanto
raccontare delle cose, dei fatti: l’esperienza connota l’accorgersi
di crescere. «Per questo non è esperienza se l’uomo in essa non
si accorge di “crescere”»18. Vale a dire, non è esperienza se non c’è

16
L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 157.
17
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 126.
18
L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., p. 155.

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crescita, incremento, inveramento delle dimensioni che qualifica-


no un io, il suo rapporto con la realtà, la conoscenza di sé e delle
cose (coscienza e certezza del significato), la capacità di adesione e
di manipolazione creativa.

5. Il triplice fattore dell’esperienza cristiana


Siamo consapevoli e certi di fare esperienza se c’è questo incre-
mento della persona. L’alternativa a questo incremento del mio
io è ritrovarmi vecchio e vuoto. Questo è quello che ci giochiamo
in tale questione: o un cammino umano che ci porta sempre di
più a partecipare all’avventura della conoscenza con tutto quel-
lo che implica, o il vuoto, il niente, e perciò la noia. Non si trat-
ta di rompere l’“incantesimo”, bensì di non perdere la possibilità
dell’“incantesimo” per sempre. Perché quello che noi chiamiamo
“incantesimo” è l’aspetto più fugace, che svanisce subito. Per que-
sto tante volte - come abbiamo detto agli Esercizi della Fraternità
- abbiamo visto delle cose bellissime, ma un istante dopo, quando
sopraggiunge la fatica, tutto svanisce, tutto. È come se noi - come
diceva il profeta Osea - non capissimo. E da che cosa si vede che
non capiamo? Dal fatto che, poi, pensiamo che svanisca. Poiché
non abbiamo colto, non abbiamo giudicato, non abbiamo capito
che cos’è l’esperienza che facciamo - infatti nella conoscenza non
è implicato per noi il Mistero -, pensiamo che svanisca. Ma que-
sto non è perché non siamo bravi o perché non siamo veramente
buoni, no: avviene per una mancanza di conoscenza.
Tutto ciò che abbiamo detto finora - che è vero dell’esperien-
za in generale, a cominciare dall’avvenimento come fattore gene-
rativo dell’esperienza - è vero al massimo grado per l’esperienza
cristiana: «L’esperienza cristiana ed ecclesiale emerge come unità
d’atto vitale [unità d’atto vitale, prima di tutto: è impressionante
questa capacità di don Giussani di cogliere le cose nel loro mo-
mento sorgivo e poi rendersi consapevole di tutto quello che è
implicato in questo punto sorgivo, in questa unità d’atto vitale
(pensiamo all’incontro)] risultante da un triplice fattore:
a) «L’incontro con un fatto obiettivo originalmente indipen-

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LEZIONE

dente dalla persona che l’esperienza compie; fatto la cui realtà


esistenziale [fin dal caso degli apostoli] è quella di una comunità
sensibilmente documentata così come è di ogni realtà integral-
mente umana; comunità di cui la voce umana dell’autorità nei
suoi giudizi e nelle sue direttive costituisce criterio e forma [così
descrive questa oggettività di quello che io incontro, qualcosa di
indipendente dalla persona]. Non esiste versione dell’esperienza
cristiana, per quanto interiore, che non implichi almeno ulti-
mamente questo incontro con la comunità e questo riferimento
all’autorità»19. Si tratta di una precedenza assoluta del reale. Don
Giussani parlava dell’urto con qualcosa di esteriore, come l’urto
dei discepoli con Qualcosa fuori di sé, l’incontro con Gesù: «L’im-
battersi della persona in una diversità umana, in una realtà umana
diversa»20. Non diamo per scontato questo urto, perché, come mi
ha raccontato di sé uno dei responsabili del movimento in Italia,
noi a volte pensiamo: «Ah! L’incontro: già saputo», e scivoliamo
a parlare di altre cose, tutte vere, ma saltando questo imbattersi,
questo urto. Questo primo impatto con il reale è quello che noi
saltiamo in continuazione, ciascuno di noi potrebbe riconoscer-
lo in se stesso. Ebbene: non possiamo permettercelo neanche per
sogno come metodo, neanche per sogno! Perché uno può anche
avere fatto un cammino, ma poi quando lo spiega, siccome non si
è accorto di crescere, lo racconta già ridotto, cambiandone i con-
notati: l’esperienza era vera tale e quale, ma noi la spieghiamo, la
raccontiamo, la riflettiamo in un altro modo. Questo vuole dire
che non c’è stato l’accorgersi di crescere.
b) «Il potere di percepire adeguatamente il significato di
quell’incontro [e questo si dà - dice Giussani - nell’unità dell’atto
vitale, non in un rendersene conto successivo]. Il valore del fatto
in cui ci si imbatte trascende la forza di penetrazione dell’umana
coscienza, richiede pure un gesto di Dio per la sua comprensio-
ne adeguata. Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente

19
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 130.
20
L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», in Tracce-Litterae Communionis, n. 10, novembre 2008,
p. 1.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

all’uomo nell’avvenimento cristiano [attenzione!] esalta anche la


capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo
umano alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della
fede»21. La grazia della fede è questo avvenimento che ho davanti,
con cui io sono coinvolto in questo atto vitale, in cui la Presen-
za esalta la mia capacità conoscitiva, per adeguare l’acume del-
lo sguardo umano a quella realtà eccezionale che ho davanti, per
coglierne il significato. È impressionante. Si chiama «grazia della
fede», che non è una cosa che cade da non si sa dove: la grazia è
questa Presenza, è questa contemporaneità di Cristo ora, che è in
una realtà umana, in una diversità umana; ha la capacità di esal-
tare la mia capacità conoscitiva, allarga la ragione per adeguarla a
quella eccezionalità che ho davanti e potere cogliere il significato
di questa eccezionalità; perché senza cogliere il significato di que-
sta eccezionalità io non capisco che cosa è l’incontro. E siccome
non l’abbiamo capito, per questo, poi, ci viene quasi la voglia che
sparisca, perché non abbiamo capito che cosa abbiamo incontra-
to.
c) «La coscienza della corrispondenza tra il significato del Fatto
in cui ci si imbatte [cioè della Presenza eccezionale che io colgo] e
il significato della propria esistenza - fra la realtà cristiana ed ec-
clesiale e la propria persona -, fra l’Incontro e il proprio destino. È
la coscienza di tale corrispondenza che verifica quella crescita di sé
essenziale al fenomeno dell’esperienza [umana]. Anche nell’espe-
rienza cristiana, anzi massimamente in essa, appare chiaro come
in un’autentica esperienza siano impegnate l’autocoscienza e la
capacità critica dell’uomo, e come una autentica esperienza sia
ben lontana dall’identificarsi con una impressione avuta o dal ri-
dursi a una ripercussione sentimentale. È in questa “verifica” che
nell’esperienza cristiana il mistero della iniziativa divina valorizza
essenzialmente la ragione dell’uomo [esalta la capacità conosciti-
va dell’uomo]. Ed è in questa “verifica” che si dimostra l’umana li-
bertà: perché la registrazione e il riconoscimento della corrispon-

21
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.

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LEZIONE

denza esaltante tra il mistero presente e il proprio dinamismo di


uomo non possono avvenire se non nella misura in cui è presente
e viva quella accettazione della propria fondamentale dipendenza,
del proprio essenziale “essere fatti”, nella quale consiste la sempli-
cità, la “purità di cuore”, la “povertà dello spirito”. Tutto il dramma
della libertà è in questa “povertà di spirito”: ed è dramma tanto
profondo da accadere quasi furtivo»22.

22
Ibidem, pp. 131-132.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

Sintesi Julián Carrón

22 agosto 2009, sabato mattina

1. Neanche tutta la confusione o tutto lo smarrimento che ci


portiamo dentro può sconfiggere la bellezza di quello che abbia-
mo ascoltato e vissuto in questi giorni, tanto è vero che eravamo
tutti presi davanti all’imponenza della bellezza. E tutta la possi-
bilità di speranza che abbiamo è che questo riaccada, che riacca-
da sempre qualcosa che possa vincere questa confusione e questo
smarrimento, perché - come abbiamo detto - tutta la confusione e
tutto lo smarrimento hanno una ragione d’essere: la mancanza di
giudizio, l’esperienza ridotta soltanto a prova e a semplice reazio-
ne davanti a quello che si prova. Perché questa mancanza di giu-
dizio prevale continuamente in noi, malgrado le tante esperienze
di liberazione, come quella che abbiamo vissuto in questi giorni?
Lo dico subito: per una mancanza di metodo.
Mi ha colpito per sempre un episodio accadutomi in casa di
una amica professoressa di Barcellona, dove ho trovato due ragaz-
ze dell’ultimo anno delle superiori. Ho domandato loro: «Ma voi,
adesso che finite gli studi, avete qualche certezza sulla matematica
da potere comunicare?». Subito mi hanno risposto: «Sì». «E sulla
vita?»… Zitte, sono rimaste zitte. Non è che non avessero vissuto,
anzi, avevano vissuto molte più ore di tutte le ore di matematica
che avevano fatto, ma qual è la differenza? Che nella matemati-
ca avevano imparato un metodo che consentiva di costruire pian
piano una conoscenza tale per cui, alla fine di un percorso, po-
tevano avere certezze da comunicare; ma sulla vita no, nessuno
aveva messo nelle loro mani uno strumento per fare il percorso,
per raggiungere questa certezza. Perciò già alla loro giovane età
cominciavano a diventare vecchie e vuote, perché tutto quello che
era capitato non le rendeva certe.
Perciò, davanti alla domanda: «È possibile vincere la confu-
sione o dobbiamo rassegnarci a vivere smarriti?», la decisione da

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SINTESI

prendere è se noi vogliamo fare una strada in modo tale che tutto
quello che viviamo diventi veramente esperienza oppure se ci ac-
contentiamo di una qualsiasi delle riduzioni di cui abbiamo par-
lato in questi giorni. Vediamo tra di noi, lo tocchiamo con mano,
che non serve ripetere un discorso, pur giusto, che non basta una
“logica di gruppo” (come diceva don Giussani nell’ultimo libro
delle équipe pubblicato23). Abbiamo bisogno di fare un’esperienza
personale. Ma quello che impressiona - amici - è che questa era
la convinzione di don Giussani fin dalla prima ora: «Fino dalla
prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi
riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un
metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi
dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila
anni”»24. Era consapevole fin dall’inizio che non bastava neppure
tutta l’imponenza della sua persona, della sua testimonianza: oc-
correva mettere in moto l’io perché esso stesso potesse giudicare,
fin dal primo istante. In un giovane che si sente dire questo, quello
che accade è l’esaltazione del soggetto. Altro che il venire meno
dell’io per esaltare un certo meccanicismo o soltanto una apparte-
nenza di gruppo; è proprio prendere sul serio il soggetto, in modo
tale che possa avere in mano un metodo che consenta di giudicare
ciò che viene proposto. E prosegue: «Il rispetto di questo metodo
ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, in-
dicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della
fede alle esigenze della vita [ecco il perché dell’insistenza sul giu-
dicare]. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima,
per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che
una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza
presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze,
non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove
tutto, tutto, diceva e dice l’opposto […]. Mostrare la pertinenza
della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo “quindi” è im-
portante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un
23
L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), Bur, Milano 2009, pp. 269-337.
24
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 20.

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la raziona-


lità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali
e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della
parola “razionalità”, usa la parola “cuore”»25.
Fin dalla prima ora… Colpisce risentirlo dopo anni, dopo
quanto abbiamo visto in questi giorni. Don Giussani era consa-
pevole che se lui non fosse riuscito a mettere in moto l’io, tutto
sarebbe stato inutile; era consapevole che non basta il testimone,
ma che il test della grandezza del testimone è la capacità di met-
tere in moto il soggetto, cioè la ragione e la libertà. Tutto quello
che voleva allora - e che vuole da noi oggi - è proprio la rinascita
dell’io in ciascuno di noi, perché Cristo è venuto proprio per que-
sto, perché il nostro io rinasca. Era il suo continuo, quasi ossessivo
struggimento: che diventi nostro tutto ciò in cui ci ha coinvolti.
E la chiave di volta è il giudizio; è il giudizio che rende esperienza
una cosa che si fa.
Ma abbiamo visto come fatichiamo a comprendere che cosa
sia l’esperienza e che cosa sia il giudizio. Diciamo continuamen-
te “giudizio” senza renderci conto di darlo: per esempio, non ci
accorgiamo che dire: «Nemmeno questo mi basta» è un giudi-
zio, cioè ha implicato un paragone, per quanto velocissimo, tra
qualcosa che ci è accaduto e il nostro cuore. E se io non me ne
rendo conto, allora è inutile per la vita. E dire: «Ho visto un uomo
contento» è, ancora, un giudizio; e dire: «Questo corrisponde fi-
nalmente alle esigenze del mio io» è, di nuovo, un giudizio. Non ci
accorgiamo nemmeno che essere qui ha richiesto una miriade di
giudizi! Vediamo, tocchiamo con mano questa riduzione in atto
dell’esperienza.

2. Allora, c’è qualche chance per noi? C’è una chance, amici, c’è
una chance: partire dall’esperienza. Guardiamo insieme - come
abbiamo detto un minuto fa - l’esperienza vissuta in questi giorni.
Tutta la confusione non è stata in grado di evitare di riconoscere

25
Ibidem, pp. 20-21.

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SINTESI

la bellezza delle montagne, o dei canti, o delle testimonianze, o


l’imponenza di certi gesti. Niente. Sembra poco dire questo, ma è
tantissimo, è una crepa nella confusione: la confusione può essere
sconfitta, e in alcuni momenti in questi giorni e in quest’anno
noi abbiamo vissuto questa vittoria. Non abbiamo soltanto as-
sistito a certe lezioni o a certe cose, a una serie di iniziative con
cui abbiamo riempito il tempo: abbiamo vissuto l’esperienza di
questa vittoria sulla confusione. È possibile fare un’esperienza che
abbia dentro il giudizio di riconoscimento cui noi possiamo ade-
rire come a qualcosa di vero. Perché il giudizio - come abbiamo
visto - non è qualcosa di intellettuale, per persone che si compli-
cano la vita, ma è il riconoscimento di ciò che abbiamo davanti
agli occhi fino alla sua implicazione ultima, è la forma umana di
rapporto con la Presenza che ci accade. Il giudizio è una risposta, è
l’avvenimento della risposta alla provocazione della Presenza, è il
modo con cui la ragione coglie la realtà nel suo significato. Perciò
la mancanza di giudizio equivale alla mancanza dell’io, del mio
sguardo, della mia coscienza, e perciò non c’è conoscenza, ma c’è
soltanto reazione.
Si vede la difficoltà che facciamo perché il giudizio ci sembra
ancora un atto intellettuale, che parte da zero, come una produ-
zione autonoma e spontanea dell’intelletto, non come il contrac-
colpo dell’essere che implica già la mossa dell’io, ridestato dall’ir-
rompere di qualcosa d’altro. E - come vedete - questa esperienza
elementare che noi abbiamo fatto in questi giorni è quello che
don Giussani ci propone. Non è che don Giussani abbia qualche
pozzo segreto da dove prende le idee; semplicemente è così leale
con l’esperienza che fa, coglie così potentemente tutti i fattori, è
così uomo, è così presente a quello che fa che aiuta noi a cogliere
questo, tanto è vero che se non fossimo con lui, probabilmente
non prenderemmo consapevolezza di quello che accade in quel
velocissimo avvenimento, in quella unità. Questa è la compagnia
che don Giussani continua a farci. Ma quello che don Giussani ci
dice è l’esplicitarsi, il rendersi consapevole a lui, e quindi a noi, di
quello che accade, di quello che sperimentiamo tutti, se partiamo

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TRACCE

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Esperienza: lo strumento per un cammino umano

dall’esperienza.
Per questo mi sono reso conto sempre di più questa estate, nei
diversi incontri, che c’è una confusione tra l’intenzione di seguire
e la sequela reale di don Giussani. Tutti noi abbiamo la buona in-
tenzione di seguire (siamo addirittura qui). Ma non basta, perché
una cosa è l’intenzione e un’altra cosa è quel paragone serrato, che
esige la sequela, tra quello che noi facciamo e quello che lui dice.
Mi si è chiarito in modo imponente quando una ragazza ha
raccontato come ha preso sul serio il decimo capitolo de Il senso
religioso e ha cominciato a fare il paragone: era uno spettacolo!
Cioè, non genericamente, «leggo il capitolo e poi, in fondo, un
istante dopo che ho finito continuo a prendere la mossa da ciò che
mi viene in testa», che è quello che facciamo noi stando qui dopo
aver letto il capitolo; aveva proprio incominciato a fare una verifi-
ca serrata tra come si muoveva e il testo, e ritornava a leggere per
vedere, per giudicare, per fare il paragone tra come si era mossa
e ciò che dice don Giussani. E lei stessa era allibita da quello che
stava succedendo, perché in pochissimo tempo aveva fatto una
strada enorme. E io mi sono reso conto: allora noi tante volte pen-
siamo di seguire perché abbiamo l’intenzione di seguire, ma l’in-
tenzione di seguire non è seguire, è un requisito per seguire, ma
non basta. Ciascuno deve prendere posizione su questo, perché
altrimenti tutte le difficoltà che abbiamo visto non si superano, le
rimandiamo solo al futuro.
Seguire don Giussani è fare esperienza umana, cioè non soltan-
to provare, ma emettere un giudizio. E perché don Giussani con
noi (che siamo come tutti gli altri, intrisi della mentalità monda-
na come tutti) insiste così tanto su questo? Perché si rende conto
che solo «l’evidenza dell’esperienza»26 ti può convincere, ti può
aiutare a capire un’altra modalità e a non percepirla come estra-
nea a te, come se dovessi seguire qualcuno semplicemente come
strappandoti dalla tua libertà e dalla tua ragione. No. Soltanto se
tu vedi l’evidenza che viene fuori nell’esperienza puoi sorpren-

26
L. Giussani, L’avvenimento cristiano. Uomo Chiesa Mondo, Bur, Milano 2003, p. 56.

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TRACCE

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SINTESI

derti a dire: «Ma questa è la convenienza umana per me, questo


è quello che è ragionevole fare, questa è la corrispondenza». Al-
trimenti, come succede sempre, noi manteniamo l’intenzione di
seguire, ma la mentalità è quella di tutti: abbiamo l’intenzione di
seguire Giussani, ma la mentalità è quella di tutti, e ne abbiamo
tantissimi indizi (dal caso di Eluana, a tutti i problemi emersi in
questi giorni di confronto e che riguardano tutti i continenti).

3. Ieri uno di voi mi ha detto: «Tanti dei nostri amici non sono
definiti dall’incontro fatto: la loro “appartenenza” e mentalità di
origine definisce di più il proprio io che l’incontro fatto». Dentro
questa nostra difficoltà a comprendere la necessità del giudizio
emerge qualcosa di più profondo, che è una concezione di fede
per cui essa, nonostante tutto, non è un’esperienza, non è un’espe-
rienza in grado di incidere. A volte ho l’impressione che è come se
auspicassimo che la fede fosse qualcosa di simile a una trasfusione
di sangue, dove non ci sia l’io, qualcosa di meccanico. Ma questo
è contro la prima ora di don Giussani! Immaginatevi tutte le ore
dopo! Cioè, non basta neanche stare insieme, non basta la logica
di gruppo, perché come mentalità apparteniamo altrove.
Allora - dicevo nella Prefazione che ho scritto per Qui e ora,
citando Dostoevskij -, in questa situazione possiamo capire la
portata della domanda: «“Un uomo colto, un europeo dei nostri
giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio,
Gesù Cristo?” Forse nessuno più di Dostoevskij ne I fratelli Kara-
mazov ha posto in modo sintetico e perentorio la sfida davanti alla
quale si trova il cristianesimo nella modernità. Don Giussani ha
avuto il coraggio di misurarsi con questa sfida storica, radicaliz-
zandola, se possibile. Infatti, scommette tutto sulla capacità della
sua proposta educativa di generare un tipo di soggetto cristiano
per cui “anche se andassero via tutti - tutti! -, chi ha questa di-
mensione di coscienza personale [che la fede genera] non può fare
altro che ricominciare le cose da solo”»27.
27
J. Carrón, Passare da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale, in L. Giussani,
Qui e ora (1984-1985), op. cit., p. I.

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Questa coscienza personale, questa dimensione di coscienza


personale si può descrivere come la coscienza di una apparte-
nenza, dell’appartenenza a Cristo. È evidente per Giussani che se
capitasse quel che lui dice - che tutti se ne andassero -, nessuno
potrebbe poggiare su una logica di gruppo. Rimanendo da solo,
per potere affrontare quella sfida occorrerebbe il «passaggio dal-
la logica di gruppo alla dimensione di coscienza personale come
appartenenza»28. Perché tante volte noi, in certi posti, dobbiamo
incominciare da capo da soli, o dobbiamo essere nel lavoro da
soli, o dobbiamo affrontare tante situazioni da soli; ma lì la per-
sona sta in piedi o no, o dobbiamo portarci il gruppo? È possibile
generare una creatura nuova, che abbia una coscienza che nasce
dall’incontro fatto, un soggetto cristiano in grado di ripartire da
capo?
Don Giussani, che è così consapevole della sfida storica e così
consapevole delle nostre riduzioni dell’esperienza e delle nostre
riduzioni della fede - perché questa è la questione -, sfida tutte
queste resistenze (di allora e di ora) al termine “esperienza”, per
riproporre il cristianesimo nella sua originalità, nella sua natura,
nei suoi aspetti elementari. Attraverso la parola “esperienza” sono
affermati e difesi gli elementi essenziali del cristianesimo e della
fede, contro la riduzione fideistico-spiritualistica ed etica.
Come abbiamo visto, il punto di partenza della fede è un av-
venimento, l’incontro con un fatto oggettivo, non una dottrina
o una cultura astratta oppure un passato, ma una presenza reale,
qui e ora, un fenomeno di umanità diversa, che è l’unica che cor-
risponde alla natura di quello che è successo all’inizio. Pensiamo
a come don Giussani ci rimanda continuamente a quello che sarà
per sempre il canone di che cos’è il cristianesimo: l’incontro di
Giovanni e Andrea. La loro è stata un’esperienza perché hanno
potuto dire: «Abbiamo trovato il Messia»29. Hanno dato un giu-
dizio davanti a quella eccezionalità. C’è un’apparente sproporzio-
ne tra quello che accade e quel giudizio di eccezionalità. Perché è
28
L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), op. cit., p. 307.
29
Gv 1,41.

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possibile dare un giudizio così in fretta (come abbiamo detto in


questi giorni davanti alle montagne)? Perché quanto più è ecce-
zionale, tanto più è facile dare questo giudizio di eccezionalità;
perché quanto più è eccezionale, tanto più vengono fuori tutte le
esigenze della mia ragione, della mia libertà (di bellezza, di verità,
di giustizia), per cogliere quella eccezionalità. Proprio perché il
cristianesimo è un fatto oggettivo così eccezionale davanti a noi,
e che esalta l’io, scatena tutta la criticità che dicevamo in questi
giorni, tutta la capacità della ragione. Addirittura è questa esal-
tazione della ragione e della libertà a documentare che c’è l’ecce-
zionalità (davanti a quello che non è eccezionale non mi disturbo,
non faccio neanche una piega). Cioè, si dimostra che è eccezionale
perché mi muove, mi afferra e mi porta, mi facilita il giudizio, cioè
esalta il mio io, perché - e questo è impressionante - l’interlocuto-
re di questa eccezionalità è il cuore, non è quello che penso io, non
è la mia cultura, le mie idee o tutto quello che io sovrappongo,
cioè la mia confusione. Nulla può impedire il dialogo, la sfida che
quella eccezionalità provoca nel cuore, facendo piazza pulita. Se
non fosse così, sarebbe inutile stare qua, dovremmo rassegnarci a
non potere uscire da questa situazione.
Guardare quello che è successo in noi durante questi giorni è
ciò che potrà convincerci della chance, cioè che è possibile il ge-
nerarsi di un soggetto proprio se ciascuno è leale a quell’avveni-
mento che gli consente di fare questa esperienza. Questa Presenza
eccezionale si rivolge al cuore, lo provoca, lo sfida, mobilita tutta
la nostra umanità, la mette in gioco, impegna la nostra ragione
fino al punto da esigere un nostro giudizio. L’artificioso sareb-
be fermarlo. Senza questo giudizio l’incontro non può diventare
esperienza nostra, non può essere ragionevole l’adesione di fede.
«Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo
nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva
della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà
eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede»30. Espresso

30
L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.

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in forma più teologica: «La fede è il “riconoscimento” che Dio è


diventato fattore dell’esperienza presente. In quanto “riconosci-
mento”, è un atto della ragione, un giudizio, non un sentimento
o uno stato d’animo. La fede rappresenta il compimento della ra-
gione umana»31, reso possibile dalla presenza contemporanea di
Cristo che si rende sperimentabile attraverso una realtà umana.
Se non è un giudizio, la fede è o uno spiritualismo o un senti-
mentalismo. È una fede, in fondo, senza motivi adeguati, cioè non
è umana, e si vede che non è umana perché crolla subito, perché
non mi determina, perché non incide, perché la mia collocazio-
ne originale (la mia tradizione religiosa o familiare o culturale o
della tribù) è più decisiva di essa. Alla fine non c’è la possibilità
di un soggetto diverso. Questa eccezionalità non è che ti colpisce
e ti lascia come eri prima, ma ti ridesta tutte queste esigenze e ti
facilita il riconoscimento. Per questo il giudizio è la chiave di volta
dell’esperienza: se quella eccezionalità è stata in grado di desta-
re l’io con tutta la sua capacità per arrivare al giudizio. Perciò si
vede chiaramente che non basta il testimone, ma che l’io non può
arrivarci senza il testimone. Non si possono mettere in contrap-
posizione, perché il test è che il testimone mi ridesta (e in questo
sta tutta la concezione autenticamente cattolica della fede): se la
presenza di Cristo è in grado di ridestare l’io e di mettere in moto
tutta la capacità umana per generare una creatura nuova oppure
se c’è in noi semplicemente un’affermazione di Cristo per cui Egli,
pur essendo continuamente e insistentemente affermato, risulta
incapace di cambiare l’io. Qui si vede l’incidenza frequente di una
certa mentalità protestante. Se la fede non è cattolica, se non è
secondo la perfezione che coincide con la natura dell’avvenimen-
to così come è stato, è inutile, cioè possiamo andarcene a casa e
non perdere altro tempo. Allora è lì, quando uno compie questo
cammino, che registra la convenienza umana, la corrispondenza
di quell’avvenimento alla sua umanità. Ma noi, di nuovo, possia-
mo stare davanti a fatti imponenti e non camminare, e alla fine è
31
L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998,
p. 32.

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come se ciò non servisse, perché non fa crescere l’io.

4. Il test della fede (questa esperienza umana in cui è implicato


e coinvolto tutto l’io) è la memoria. Voglio finire con lo sguardo
di tutti noi rivolto a questo grande passo della Scuola di comuni-
tà: «Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza in
una Presenza sperimentabile: quando erano là, nel primo capitolo
di san Giovanni, a casa sua seduti, verso sera, a guardarlo parla-
re, era una certezza in una Presenza sperimentabile di una cosa
eccezionale, del divino in una Presenza sperimentabile. Poi - io
aggiungo - per dormire sono andati a casa loro: da sua moglie,
Andrea; da sua madre, Giovanni. Sono andati a casa loro, hanno
mangiato a casa loro, hanno dormito a casa loro, si sono alzati,
sono andati a pescare insieme agli altri compagni. Quello che ave-
vano visto il pomeriggio antecedente, dominava nella loro testa, sì
o no? Sì. Lo vedevano? No. Ma l’uomo sperimenta, fa l’esperienza
di una presenza, non solo quando la tocca, naso con naso; anzi,
questo modo di voler sperimentare una presenza normalmente
fonda una cosa inutile, fonda un rapporto che non sta - come tra
tutti i ragazzi e le ragazze -, anche quando sta, non sta. Invece, fra
il giorno prima e il mezzogiorno quando sono tornati a casa con
le barche piene di pesci e si son messi là sulla spiaggia e ancora
raccontavano della giornata precedente, il segmento che mette in
rapporto la sera precedente e il giorno dopo si chiama memoria, e
la memoria è la continuità dell’esperienza di un presente, la con-
tinuità dell’esperienza di una persona presente, di una presenza
che non ha più le qualità e l’immediatezza di quando uno prende
il naso di uno e tira tira tira, oppure prende i capelli e tira i capelli,
come fanno i bambini con la mamma; quella immediatezza non
decide affatto della profondità e della sicurezza del rapporto. Non
l’avessero visto più per tre settimane, il desiderio dominante quei
due era quello di ritrovarlo, perché era chiaro che era Lui, che
Lui era Lui; non sapevano chi fosse, ma era Lui. La memoria è la
coscienza di una Presenza. Di questa Presenza bisogna distingue-
re quando è incominciata dal seguito. Quando è incominciata si

31
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vedevano i capelli, e siccome c’era vento e i capelli andavano da-


vanti agli occhi, uno istintivamente tirava i capelli da parte. Ma il
giorno dopo non c’era più il vento e non avevano là davanti quel
volto, eppure era presente, e dopo una settimana quella Presenza
era presenza ancora, e dopo un mese era presenza ancora; fossero
campati tre anni senza rivederlo, tutta la loro vita sarebbe stata
stracciata dal desiderio di rivedere i capelli agitati dal vento: ma
quello era Lui, una sicurezza assoluta. L’ultimo […] pensiero che
sarebbe venuto in mente a quei due, non l’avessero visto più per
sei mesi, sarebbe stato il dubbio che fosse stata un’illusione. Non
sarebbe mai venuto in mente a loro che fosse stata un’illusione:
uno che l’ha visto così… impossibile che venisse in mente questo
[uno che ha fatto un’esperienza così… impossibile: se ci viene in
mente, che sia solo un’illusione, è perché questa esperienza non
l’abbiamo fatta]. Invece che Lui coi capelli al vento, invece di guar-
darlo parlare con la bocca che si apre e si chiude, ti arriva addosso
con le nostre presenze, che siamo come le fragili maschere, la fra-
gile pelle, le fragili maschere di qualcosa di potente che è Lui che
sta dentro, che non sono né io né lui né te, eppure passa attraverso
me, passa attraverso te, passa anche attraverso lui e le cose di oggi
non te le dice nessuno. Non sono mie, sono di Colui che Andrea e
Giovanni quel pomeriggio eran là a guardare che parlava; parlava,
e parlava, così vincendo tempo e spazio ha parlato oggi a te; e ti
parlerà dopodomani e fra dieci anni»32.

32
L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 309-311.

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