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METALLICA

Master of Puppets
1986 - Elektra Records

voto

10
Giacomo & Lorenzo

del 2 settembre 2014


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Tempo stimato di lettura: 24:30 min

9012,58 chilometri. Così tanto spazio hanno dovuto percorrere i Metallica nel 1985 per recarsi agli
“Sweet Silence Studios” di Copenaghen, Danimarca, la terra natale di Lars Ulrich. Non era certo
la prima volta che i Four Horsemen scavalcavano la barriera dell’Atlantico e facevano visita al
Vecchio continente: durante la promozione di “Kill’em All” (1983) avevano infatti supportato i
Venom nella tournée “Seven Dates of Hell”, esibendosi sui palcoscenici di mezza Europa (tra cui
la data al Teatro Tenda di Milano, il 5 febbraio 1984). I Metallica avevano già avuto occasione di
testare gli studios danesi quando registrarono “Ride the Lightning” (1984), uno degli episodi più
stratosferici della loro discografia, album che confermò quanto di buono era stato annunciato nel
debut e che, anzi, lo moltiplicò per cento. Soddisfatti dall’ottimo risultato, i Nostri ripeterono
l’esperienza un anno dopo, nel 1985, non appena che il materiale fosse già pronto per essere inciso.
Tutto era iniziato il quel garage di El Cerrito, California, dove James Hetfield e Lars Ulrich
solevano riunirsi ogni giorno per metter giù dei riff, scrivere roba e farsi qualche birretta in
compagnia. Solo in un secondo momento si aggiunsero anche gli altri due componenti, Kirk
Hammett e Cliff Burton. Al momento del loro apporto le canzoni erano decisamente abbozzate,
tanto che si era già fermamente convinti del titolo del nuovo album: "Master of Puppets". Stando
a quanto scrive Tom King, autore della biografia “Metallica: Nothing Else Matters”, la band stava
toccando gli apici compositivi della loro carriera, e la cosa era già parecchio tangibile in quello
stesso momento. Causa di tutto questo, sempre stando a King, fu la pregevolissima attività da
cesellatore di Cliff Burton, che seppe impreziosire quanto di ottimo era già uscito dalle sessioni di
prova di quell’umido garage di El Cerrito. Il procedimento era più che consolidato e si avvaleva
comunque della partecipazione di tutti i membri della band. Un giovanissimo Hetfield dichiarò ai
cronisti del NY Times che tutto cominciava da un processo di assemblaggio dei riff, almeno fino a
che questi non cominciassero a legarsi bene fra loro, suonando all’incirca come una canzone. A
questo punto la band intera proponeva un tema ed un ipotetico titolo, dal quale poi Hetfield
estrapolava le parole per la canzone. Il resto veniva da sé. Immediata conseguenza di questa
fecondissima – seppur cortissima – sessione di scrittura furono i quattro biglietti di sola andata per
Copenaghen, dato che la band aveva nuovamente scelto gli studios di cui sopra per ripetersi con
un’altra eccezionale uscita discografica. Quell’estate fu insomma qualcosa di fantastico, di
estremamente produttivo, ma fu anche l’estate in cui i Metallica s’esibirono al rinomato festival del
“Monster of Rock” a Castle Donington, Inghilterra. Forti di un nuovo contratto con l’ “Elektra”,
siglato appena l’autunno precedente, la band viaggiava sull’onda dell’entusiasmo e veniva ormai
acclamata da orde di fan anche in Europa: leggendario fu appunto il megaconcerto in terra
d’Albione, quando divisero il palco con Bon Jovi e Ratt. Quel 17 agosto fu anche la giornata della
memorabile frase di Hetfield, che recita "If you came here to see spandex, eye makeup, and the
words 'Ooh baby' in every fuckin' song, this ain't the fuckin' band. We came to bang some heads."
(“Se siete venuti qua per vedere spandex, make-up agli occhi e le parole “oh baby” in ogni cazzo di
canzone, noi non siamo quel tipo di band, cazzo. Noi siamo venuti qua per far saltare in aria
qualche testa.”). I Metallica erano questo: erano la rottura rispetto al passato, erano i brutti ceffi
emarginati tra le tante permanenti, erano quattro ragazzi in jeans e t-shirt che però spaccavano
dannatamente i culi con la loro musica muscolare ed energica. Neanche quindici giorni dopo – era il
1 settembre 1985, giorno in cui entrarono in studio –, i Nostri forse non sapevano che stavano per
ergersi sugli scranni degli Dei: solo questi possono infatti dettare le loro leggi che poi vengono
scolpite nella pietra da noi poveri mortali, a preservare il Verbo fino alla fine dei tempi. Ebbene,
quel giorno, dai Metallica in persona fino all’ultimo dei fonici, tutto servì per (ri)creare una magia,
una sorta di congiunzione astrale che diede come frutto il disco che più significò per il Metal a
venire, l’album che gettò le basi di tutto ciò che in seguito sarebbe stato definito come “estremo”:
“Master of Puppets”. Dalla genesi del rock’n’roll negli anni Cinquanta con Elvis, il rock ha poi
subito numerose evoluzioni che lo hanno sfaccettato in molteplici sfumature. Sono stati però gli
anni Settanta a dare i natali al grande Hard rock, quello dei Led Zeppelin, dei Black Sabbath, dei
Deep Purple. Nel 1982 gli Iron Maiden con The Number of the Beast sconquassarono tutto questo,
generando una scossa tellurica capace di far traballare circa trent’anni di storia: l’asticella della
musica rock si era appena spostata ancora più in avanti. I vecchi fan sostenitori delle sonorità
seventies gridarono al complotto, annunciarono mestamente che il rock era morto. Ma si
sbagliavano, il rock duro, che ora si faceva chiamare “Metal”, era più vivo che mai. Se il 1982 era
stato l’anno dei Maiden, capaci di surclassare l’intera proposta della NWOBHM, il 1986 vide
ripetersi più o meno lo stesso copione, dato che i Metallica pubblicarono “Master of Puppets”.
Questa volta erano i cultori dell’heavy classico a piangere a lutto la morte prematura di quel genere
ancora così giovane, che stava presagendo così tante belle speranze. Ma ancora una volta la gente si
sbagliava: il Metal non era morto nella culla, bensì si era evoluto di colpo, era sbocciato
all’improvviso, aveva distrutto la propria crisalide e si era presentato come una creatura che si
pensava essere finita, ma che in realtà non lo era affatto. Riallacciandoci al discorso di cui prima, i
Metallica entrarono in studio a Copenaghen e lì ci rimasero per circa quattro mesi, coadiuvati da
Flemming Rasmussen, fondatore e proprietario degli “Sweet Silence Studios”, nonché produttore
ed ingegnere del suono. Quasi quattro mesi dopo, il 27 dicembre, il disco era ultimato. Come
testimoniato dallo stesso Rasmussen, la band aveva fatto centro praticamente sempre. Tutte le
canzoni erano già state registrate in una demo, risultando ben congegnate, ben arrangiate, ben
suonate. Si resero necessarie solo poche e superficiali modifiche affinché il lavoro potesse
considerarsi completato. Il segreto di tanta perfezione può imputarsi alla tranquillità con cui i
ragazzi avevano a che fare: i Metallica stavano semplicemente scrivendo “un altro disco”, senza
preoccuparsi di malsane pressioni. Tradotto in altre parole, si può dire che la band, pur avendo
lavorato in modo più che soddisfacente durante la composizione, non si rendeva bene conto della
portata che avrebbe poi avuto Master of Puppets, considerata indubbiamente la loro opera
migliore. Tuttavia qualcosa poi s’incrinò nel rapporto con Rasmussen ed allora la band decise di
rivolgersi a Michael Wagener (Mötley Crüe, Accept, Dokken), che ultimò egregiamente il
lavoro: il 24 febbraio 1986 uscì nei negozi “Master of Puppets”. L’accoglienza fu incredibile: 72
settimane consecutive nella Billboard 200 e primo disco d’oro per la band. Dalla data d’ingresso in
classifica (29 marzo 1986), l’album volò dalla posizione 128 a quella 29 in pochissimo tempo,
senza quasi airplay da parte delle radio. Trecentomila copie in tre settimane, cinquecentomila nel
primo anno. Quasi due decenni dopo, nel 2003, l’Associazione Americana dell’Industria
Discografica (RIAA) certificò il sei-volte disco di platino per le 6 milioni di copie vendute nei soli
States. “Master of Puppets” consentì alla band di ricalibrare le coordinate del Metal stesso,
spezzando definitivamente qualsiasi vincolo che gli impedisse di spiccare per sempre il volo verso il
mainstream. Tra le numerose testimonianze degli addetti ai lavori, i Metallica ne uscirono come
assoluti “innovatori del genere”, come una band “underground messa d’improvviso alla cima del
«monte metallico»” (C. Knowles), autrice di un album “assolutamente classico, che dovrebbe
essere preso come termine di paragone per ogni altro album metal” (K. Anderson). Tralasciando
curiosità varie, è importante analizzare anche come il disco si presentava al metalhead che,
nell’inverno del 1986, andava nei negozi dei dischi per acquistare l’ultima fatica dei Metallica. Le
mitiche croci bianche della copertina risultano quasi impercettibilmente collegate tramite dei fili a
delle mani che spuntano da un cielo rosso come il sangue raggrumato. L’immagine, che richiama il
concetto che sta alla base della title-track, venne ideata dai Metallica stessi e da Peter Mensch,
mentre a Don Brautigam toccò l’onore di trasportarla su carta. Il lavoro originale fu poi messo
all’asta nel 2003, venendo venduto per una cifra compresa tra i 20-30.000 dollari. Chi l’avrebbe mai
pensato che tutto sarebbe nato da un garage?

Come recitava un noto spot televisivo italiano anni Ottanta, per una grande parete non ci vuole un
pennello grande, ma un grande pennello. Traslitterato nel discorso per il nostro disco, per un grande
disco ci vuole una grande opener. Per questo motivo la band ci regala subito “Battery”. Il più delle
volte tradotto banalmente come “batteria” (che resta comunque l’accezione principale, sinonimo di
pila), la “battery” del titolo fa parte del lessico legale e significa “percossa”. Usato spesso in inglese
come “assault and battery” (preso dall’ambito giudiziario dove significa “violenza e percosse”), il
titolo incentra la canzone sul tema dell’aggressione, ma qua si apre un dibattito. Il versetto
"Smashing through the boundaries/Lunacy has found me/Cannot stop the battery” (“Sfondando le
linee di confine/la pazzia mi ha beccato/Non si può fermare la batteria”) schiuderebbe nuovi
scenari, dove la “batteria” potrebbe essere un manipolo di soldati lanciati all’assalto. Come sia
effettivamente la corretta interpretazione non ci è dato saperlo con certezza al 100%, ma comun
denominatore rimane comunque la rabbia e la distruzione. Interpretazioni più moderne ardirebbero
addirittura a sostenere che Hetfield, voce della “pazzia distruttrice”, sia la personificazione della
stessa, così come potrebbe vestire i panni di un ossessionato stratega militare intento in un’azione di
aggressione. Musicalmente il brano viene introdotto da un arpeggio di chitarra acustica cupo e
disteso, ma pur sempre inquietante. Come la calma prima della tempesta, l’arpeggio viene
ulteriormente addolcito da un bellissima parte melodica, ma è solo questione di attimi: dopo circa
quaranta secondi qualsiasi chitarra acustica viene spazzata via da un muro del suono a dir poco
impressionante, con le chitarre che scrivono melodie ormai entrate nella storia. Basso e batteria
strutturano il terreno su cui le asce di Hetfield ed Hammett si muovono, con quella del chitarrista
solista che lavora un terzo di tono sopra rispetto a quella ritmica. Cinque stacchi e comincia il
macello. La chitarra di Hetfield è vigorosa nel tracciare un riff spaccaossa, contorto, cervellotico ma
assolutamente potente. Quando entra tutta la band, il basso di Burton riempie come un rumore
costante ogni buco d’aria nella canzone, sicché non si riesce quasi più a prendere fiato. Le vocals di
Hetfield sembrano aver raggiunto una maturità totale, bilanciandosi sempre tra la verve degli esordi
e tonalità degne di un navigato cantante. Liriche di estrema – e poco lucida – rabbia sono un input
in più per la canzone, che riesce a coinvolgere totalmente l’ascoltatore. Il ritornello, coi tipici cori
thrasheggianti ad urlare il titolo della canzone, è ipnotico, s’insinua troppo facilmente in testa per
potersene poi andare via. Come una squadra di commando lanciata in missione, che dove passa
lascia solo terra bruciata, la canzone scorre piacevolmente via, lasciandoci distrutti per l’intenso
ritmo che sta sprigionando. Emblematicamente il ritornello recita che “Non si può uccidere la
compagnia/Non si può uccidere la famiglia, la compagnia è parte integrante di me” (“Cannot kill
the Battery/Cannot kill the family, battery is found in me”), a sottolineare l’invincibilità della task
force, dal momento che, benché venisse recisa un testa dell’idra, le altre si metterebbero subito ad
attaccare, aspettando che quella lesa si ricrei. L’energico drumming di Ulrich, tirato fin dall’inizio,
pare prender fiato prima del terzo minuto, quando le chitarre pure si rilassano con lunghi accordi. È
solo il basso di Burton a tirare sempre come un matto. Riffing melodici provano a svettare dal
groove intenso partorito dalla band, prima che a 3:18 il primo assolo dell’album, ad opera di
Hammett, faccia il suo debutto. Note veloci, tanto wah-wah e fischi urlanti riescono ad occupare
circa mezzo minuto di canzone, prima che la doppia-cassa di Ulrich cominci a sgretolare i timpani
del malcapitato ascoltatore, sottintendendo un deciso inspessimento del riffing. Un chorus ha il
compito di chiudere una canzone fantastica, che spiana la strada alla title-track, nonché una delle
migliori metal song di tutti i tempi. “Master of Puppets” significa “mastro marionettista”, termine
qui usato per mascherare qualcosa che ben riesce a pilotare le persone: la droga. La dipendenza da
cocaina, una delle più letali e provanti per il fisico, era all’epoca un tabù bello e buono di cui non si
poteva parlare, nei confronti del quale riusciva persino difficile trovare articoli e men che meno
canzoni disposte a farlo. Interessante è soffermarsi sul testo della canzone, costellato da doppi-sensi
e riferimenti più o meno velati. I primi tre versetti “End of passion play/crumbling away/I'm your
source of self-destruction" (“Fine della passione/si sbriciola/sono la fonte della tua
autodistruzione”) alludono chiaramente alla dipendenza dalla sostanza e dal suo impatto
inizialmente appagante: una volta svanito l’effetto euforico, si rivela la droga per quello che: un
mezzo letale per avviarsi all’autodistruzione. “Veins that pump with fear/sucking darkest
clear/Leading on your death's construction” rimarcano velatamente il concetto di cui sopra con le
“Vene che pompano con paura/succhiando la più tetra chiarezza” (dove il vocabolo “the darkest”,
letteralmente “il più scuro”, lascerebbe intendere altresì all’eroina nera). L’ultimo versetto della
prima strofa rivela chiaramente il tragitto intrapreso non appena si inizia con gli stupefacenti:
costruire il proprio destino fatto unicamente di morte. Il bridge rivela le intenzioni della droga,
quasi come se fosse lei a parlare. “Taste me you will see/More is all you need/Dedicated to/How I’m
killing you” (“Assaggiami e vedrai/Ne hai bisogno sempre più/Osserva/Come ti sto uccidendo”)
sono versi a cui non servono spiegazioni. Il pre-chorus è pauroso per quello che rivela: la droga è
come un serpente che s’avvicina strisciando (“Come crawling faster”), con la sua voglia che
s’insinua nella testa diventando un chiodo fisso. L’ordine è imperativo: devi obbedirgli (“Obey your
Master”), con il termine “master” chiara personificazione della droga. Facendo questo però “la tua
vita brucia più veloce” (“Your life burns faster”) e poi, in ultima istanza, quasi come se fosse un
sabba maledetto, si ripete ancora una volta: “Ubbidisci al Maestro. Maestro” (“Obey your Master,
Master”). Parole che sono passate alla storia e che sono rimaste scolpite nella mente di ognuno di
noi. In quello che è il ritornello, la cocaina ci controlla, proprio come un marionettista comanda coi
fili le sue “creature” (“Master of puppets I'm pulling your strings”, “Marionettista, io sto tirando le
tue fila”). L’impatto con la droga è pur sempre duro (“Twisting your mind and smashing your
dreams”, “Travisando la tua mente e distruggendo i tuoi sogni”), tanto che non ci si accorge
nemmeno che la sostanza ci sta lentamente uccidendo (“Blinded by me, you can't see a thing”,
“Reso cieco da me, non riesci a vedere nulla”). Terribili sono gli ultimi versi del chorus: dovrai
“solo chiamarmi per nome/perché io ti sentirò gridare/Maestro/Maestro” (“Just call my
name/’cause I’ll hear you scream/Master/Master”). In altre parole, quando si è in astinenza da
droga, basta pensarla, basta “chiamarla” col pensiero, affinché il suo delirante bisogno accompagni
– quasi meccanicamente – i gesti corporei verso l’assunzione. Allucinante. Agendo sempre in questa
maniera (“Needlework this way”) mai si tradiranno le proprie aspettative (“Never you betray”) nei
riguardi dell’effetto gratificante della droga. Però, così facendo, “una vita fatta di morte si sta
delineando sempre più chiara” (“Life of death becoming clearer”). Il momento dell’assunzione si
caratterizza ormai per due cose: “monopolio del dolore, [e] miseria rituale” (“Pain monopoly/ritual
misery”), sottolineando quanto sia degradante il doversi drogare perché non se ne riesce a fare a
meno. Ed allora arriva una delle immagini più desolanti, con te che “ti prepari la colazione su uno
specchio” (“Chop your breakfast on a mirror”), superficie liscia che permette di individuare bene
tutti i grani da assumere, senza che questi vengano dispersi. Non c’è che dire: liriche assurdamente
nude e crude, ma fottutamente evocative. Musicalmente parlando, invece, gli stacchi che
introducono la canzone si potrebbero riconoscere fra altri mille. Tutti urlerebbero subito
“MASTER!!”. A partire dall’inconfondibile riff d’apertura, la canzone si struttura con dei poderosi
stacchi che danno il la ad un groove a dir poco leggendario, indelebilmente inciso nel cuore di
ognuno di noi. Il tiro è deciso, ma non troppo veloce, marcato piuttosto sugli stacchi di batteria. Il
cambio di tono permette alla canzone di variare e non stufare, sebbene non si discosti dalla
medesima resa sonora. Il chorus è impreziosito da alcune sferzate melodiche di chitarra, mentre la
voce di Hetfield viene affiancata da un eco che riprende i fine versi. Il chorus acquisisce maggiore
velocità e traghetta la canzone verso la sua seconda sezione, identica alla prima. A metà traccia la
mitica risata viene letta, alla luce dei fatti di cui sopra, come una voce che si perde nei meandri della
testa di un tossicodipendente. La droga pare essere finalmente arrivata, dopo tanto tempo passato ad
invocarla. L’arpeggio pulito di chitarra è la sostanza che si diffonde, superando la superficie delle
vene: la soavità del musica che si sprigiona è quasi paradisiaca e l’assolo seguente – oltre che storia
– è zuccheroso miele, un orgasmo indotto dalla droga. Se la prima parte della canzone può essere
intesa come una disperata richiesta di assunzione, la parte centrale e l’assolo come l’effetto
stordente ed appagante, la terza parte (dal post-assolo fino alla fine) può essere il tragico lascito
degli effetti della cocaina sul corpo del protagonista, uomo già segnato nel suo destino. Il resto della
canzone – da 4:47 in poi – è la nuova caduta nell’oblio: un nuovo viaggio nel dolore e nella triste
sofferenza di essere dipendenti. Un potente crescendo di tamburi apre una sezione in cui le chitarre
procedono strascicanti, talmente pesanti da far male alle orecchio, così abrasive nel loro incedere.
Bellissimi i cori di supporto ad Hetfield che rimarcano l’incredulità del drogato: “Maestro,
maestro/dove sono i sogni che prima avevo?” (“Master, Master/where’s the dreams/that I’ve been
after?”) s’interroga il disgraziato. Poco ci passa prima che avvenga una lucida constatazione dei
fatti (“Master, Master/you promised only lies”, “Maestro, maestro/Tu hai promesso solo
menzogne”). Ma ormai è troppo tardi, giacché “Risate, risate/tutto quello che posso sentire o vedere
sono risate/Risate, risate/Ridendo delle mie grida” (“Laughter, Laughter/all I hear or see is
laughter/Laughter, Laughter/laughing at my cries”): il tragico passo è stato compiuto ed oramai è
inutile qualsiasi rimedio: si è irreparabilmente persi nella propria miseria. A questa splendida
sezione s’accompagna uno speditissimo assolo di Hammett, che fa correre la sua ascia come meglio
sa fare. Irripetibili i fraseggi a salire e poi a scendere che sono dal minuto 6:19 in poi. L’ultima
strofa della canzone è a coronamento di questo viaggio infernale nella droga: domandandosi se
l’inferno è valso tutto questo, il protagonista si ritrova in un labirinto senza fine, fatto di parole
senza un senso, ma con i giorni ben contati, giacché la sua vita sta volgendo al termine (“Hell is
worth all that/natural habitat/Just a rhyme without a reason/Neverending maze/drift on numbered
days/now your life is out of season”). Il bridge finale è la dichiarazione d’intenti della droga: lei
s’impossesserà di te, ti aiuterà a morire, scorrerà al tuo interno ed, infine, ti controllerà (“I will
occupy/I will help you die/I will run through you/Now I rule you too”). Otto minuti e trentacinque di
viaggio negli anfratti della droga, un dedalo da cui è difficile uscire e che strema – quasi – come una
dose vera. Canzone pazzesca. E siamo solo alla seconda traccia. “The Thing That Should Not Be”
è la terza canzone ed è ispirata al racconto di H. P. Lovecraft La maschera di Innsmouth (1936), uno
dei suoi lavori più riusciti. Il protagonista della vicenda si trova nella cittadina portuale di
Innsmouth e qui scopre come gli anziani del posto abbiano stretto un patto con delle creature
abissali. Quando queste mostruosità provano a catturarlo, il giovane capisce che sono gli abitanti
stessi ad essere frutto di un abominevole incrocio tra esseri umani e marini. Il finale è però sinistro:
il protagonista scopre di essere egli stesso un discendente di quella stirpe infernale e, guardandosi
allo specchio, riconosce sul suo volto la stessa espressione tipica di quei mostri, la “maschera di
Innsmouth”, appunto. Anche nella canzone i collegamenti con il mito di Cthulhu sono molti. Per chi
non lo sapesse, il personaggio di Cthulhu fa parte del ciclo di racconti più importante di Lovecraft.
Egli è un dio “morto ma sognante” nel suo reame, R’lyeh, abbandonato sotto l’oceano Pacifico. Il
termine “great old one”, citato nel chorus, è un riferimento allo stesso Cthulhu, dato che con questo
termine Lovecraft identificava sia la divinità che la stirpe di esseri che vivevano nell’Antartide e
che combattevano la progenie malefica del dio. Il titolo è riportato una sola volta nella canzone,
quasi a sottolineare l’impronunciabilità dell’orrore che rappresenta. Tutte le liriche sono infatti
contornate dal mistero e dal terrore che evoca la strana città di Innsmouth, anche se mai
direttamente pronunciata. Molte linee del testo sono riferimenti al mondo di Cthulhu: il
“Messaggero della paura in vista” (“Messenger of Fear in sight”) è Nyarlathotep, il Caos
Strisciante, uno degli “Dei Esterni”. I “bambini ibridi che osservano il mare” (“Hybrid children
watch the sea”) sono i mostruosi abitanti di Innsmouth, che pregano il loro padre – Cthulhu –
affinché vaghi libero (“Pray for Father, roaming free”). Un altro riferimento a Nyarlathotep è
presente nei versetti “Caos strisciante, sottoterra/Il culto è stato convocato, suono contorto”
(“Crawling Chaos, underground/cult has summoned, twisted sound”). I versetti “Non morti che
riposano in eterno/eoni sconosciuti – la morte può morire” (“Not dead which eternal lie/stranger
eons Death may die”) fanno il verso al distico del Richiamo di Cthulhu, racconto eponimo del
celebre ciclo lovecraftiano, che recita invece “That is not dead which can eternal lie, for with
strange aeons, even death may die”. La somiglianza è molta. Le righe del testo che citano il titolo
(“Drain you of your sanity/face The Thing That Should Not Be”) fanno riferimento ad un altro mito
dello scrittore americano. Nel suo universo la Fonte di Ogni Cosa è Azathoth, un dio cieco e
piuttosto stolto. Gli umani che s’avvicinano troppo a questa verità assoluta rischiano di diventare
folli, in quanto la nostra mente non è capace di sopportare tali rivelazioni. La parola “Insanity”
(“Follia”) ricorre tre volte nel testo ed è, solitamente, il destino ultimo di ogni protagonista dei
racconti di Lovecraft. La canzone di per sé è ambigua, pare mai decollare, mantenendosi sorniona
ma pur sempre minacciosa. L’intro è affidata ai pochi accordi della chitarra acustica, mentre quando
entra tutto il pieno d’orchestra, la musicalità assume degnamente i toni di una colonna sonora di un
horror, rivisitata in chiave metal ovviamente. La canzone si struttura come un mid-tempo, dal ritmo
deciso ed incalzante. Tutta la composizione sarà caratterizzata da stop ‘n’ go che spezzano
l’andamento – anche emotivo – della canzone. I break acustici che caratterizzano i versi servono per
farci prendere fiato, mentre le parti elettriche infiammano il cupo mood di questa song. Il ritornello
è poco melodico, decisamente martellante per i giochi sui tom di Ulrich, mentre Hetfield si fa
portatore di verità dimenticate e che, forse, era meglio tenere nascoste sotto l’oceano (“Immortal/in
madness You dwell”, “Immortale/Nella pazzia tu dimori”). Prima e seconda strofa costituiscono,
assieme ai rispettivi chorus, la prima parte della canzone, spezzata a metà da un bellissimo assolo di
Hammett, che ben s’adagia su pattern non estremamente veloci, ma pur sempre pesantissimi. Dopo
di che la song s’avvia verso la fine, non prima di un lunghissimo fade-out faccia lentamente
tramontare la minaccia di Cthulhu, anche se siamo consapevoli che questa non cesserà mai del tutto.
Un’ultima curiosità riguardo di questa canzone: nel 1998 i Primus (band in cui milita il bassista Les
Claypool, amico di Hetfield) rilasciarono una cover della canzone, contenuta nell’EP Rhinoplasty,
in cui alcune linee del testo venivano variate, mantenendo pur sempre la medesima struttura. Da
segnalare l’intro eseguita con un basso effettato, piuttosto che con la chitarra acustica. A questo
punto troviamo la ballata “Welcome Home (Sanitarium)”, che riprende l’idea del quarto posto
come quello della traccia riflessiva, più intimista, escamotage felicemente riuscito già nel
precedente “Ride the Lightning” con la stupenda “Fade to Black”. La canzone qui in questione è
ispirata al romanzo del 1962 Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Ken Kesey. Considerato uno dei
migliori romanzi in lingua inglese del Novecento, dal libro è stato tratto anche il celebre – ed
omonimo – film interpretato da Jack Nicholson, uscito nelle sale nel 1975, vincendo ben cinque
premi Oscar. Nicholson veste i panni di Randle Patrick McMurphy, un carcerato che deve essere
“vagliato” all’interno di un manicomio, affinché sia stabilito se la sua malattia mentale fosse reale o
simulata. All’interno della struttura, McMurphy si rende protagonista di un atteggiamento
anticonformista che desta le ire della signora Ratched, la caporeparto. Durante un momento di
confusione, McMurphy si scaglia contro un infermiere e come punizione viene sottoposto ad
elettroshock. Sul suo esempio, i degenti ivi rinchiusi cominciano ad aspirare ad una maggiore
libertà, rendendosi consapevoli di esser sì malati, ma pur sempre persone umane degne di rispetto.
Architettata la fuga con il compagno di origini indiane “Grande Capo” Bromden, il tentativo non ha
buon esito ed anzi succede che si suicida Billy, il giovane ed introverso amico di McMurphy.
Questi, arso dalla rabbia nei confronti della caporeparto, cerca di strangolarla, ma viene fermato. La
pena per questa aggressione diventa la lobotomia. Pesantemente danneggiato, McMurphy è ridotto a
semi-vegetale, incapace di decidere e volere. “Grande Capo” Bromden, vedendolo senza forza di
volontà, così diverso da prima, decide di soffocarlo con un cuscino, per poi scappare dall’istituto,
fuggiasco verso il Canada, come aveva esattamente progettato con McMurphy stesso. “Welcome
Home” tratta così della pazzia mentale ed affronta le vicende del protagonista, che è stato rinchiuso
ingiustamente in un manicomio. All’interno della struttura di cura il tempo perde significato, quasi
come se si vivesse in un limbo, costituito da persone dimenticate dai propri famigliari, che mai
riusciranno a tornare ad un vita vera (“Welcome to where time stands still/No one leaves and no one
will”). Nelle notti angosciate dal sentirsi rinchiuso in questa prigione fisica e mentale, il
protagonista sogna sempre di riottenere la libertà (“Dream the same thing every night/I see our
freedom in my sight”): nessuna porta serrata, nessuna finestra sprangata potranno mai ostacolarlo,
anche se la sua mente sembra ormai provata (“No locked doors/No windows barred/No things to
make/my brain seem scarred”). Il pre-chorus rivela che la rabbia del protagonista si origina dal
momento stesso in cui egli viene costretto nel manicomio, ma pare che nessuno lo capisca (“They
keep me locked up in this cage/Can’t they see it’s why/my brain says rage”). Il ritornello sembra
segnare la lucida rassegnazione del protagonista che, anche se non riuscirà a fuggire, chiede almeno
di essere lasciato in pace (“Sanitarium, leave me be/Sanitarium, just leave me alone”). A forza di
stare recluso, le cose cominciano a cambiare, dal momento che egli viene indotto a pensare che al di
fuori di quelle mura ci sia solo un mondo minaccioso, di cui bisogna aver paura, tanto che non
riesce nemmeno più a respirare l’aria del cortile (“Build my fear of what’s out there/And cannot
breathe the open air”). I metodi violenti contro i degenti sono all’ordine del giorno ed allora nel
secondo pre-chorus pare di vedere lo stesso McMurphy del racconto ad esortare gli altri pazienti a
farsi rispettare (“No more can they keep us in/Listen, damn it, we will win”). A questo punto, come
vedremo, la canzone vira decisamente ed anche i testi si fanno più risoluti, come se fosse arrivato il
momento d’agire. I “nativi” (cioè i pazienti, così chiamati perché è da una vita che vivono qui
isolati) cominciano ad agitarsi, avendo paura di continuare a vivere così per il resto della loro vita:
la rivolta è nell’aria (“Fear of living on/Natives getting restless now/Mutiny in the air”). Nemmeno
uccidere pare tanto difficile, se questo servirà a raggiungere la tanto agognata libertà (“Kill, it’s such
a friendly word/Seems the only way/For reaching out again”). Una canzone tanto amara, specie se
si pensano alle migliaia di soprusi perpetrati da sempre negli ospedali psichiatrici, possiede
conseguentemente una musicalità cupa e funerea. All’intro di chitarra, con i suoi arpeggi che sono
entrati nell’immaginario comune di noi metallari, segue una lunga sezione pulita, in cui Hammett
esordisce con un intenso assolo di chitarra. La sua distorsione corrode gentilmente i dolci arpeggi
che fluttuano nell’aria, ma poi è la voce di Hetfield a spazzare via questa magia, decantando le tristi
vicende del manicomio. Possedendo un verso principalmente suonato con la chitarra pulita, il
ritornello cozza molto con la struttura melodica della canzone, grazie alla pesante distorsione. Il
basso di Burton è sempre ben distinguibile e dona al brano maggiore profondità. L’assolo di
Hammett che inizia a 2:08 è altrettanto pieno di feeling come il primo, forse ancora più bello, come
una gemma di luce immersa nell’oscurità. Dopo il secondo ritornello, a 3:40, la canzone acquista
velocità all’improvviso, mentre la ritmica di Hetfield schizza riff assassini. Il basso sta dietro alla
ritmo di Ulrich che, dopo aver accarezzato i tamburi per quasi quattro minuti, ora pesta come un
dannato. A 4:26 si presenta il terzo assolo di Hammett, completamente diverso dagli altri e sulla scia
del secondo solo di Master of Puppets. Questa parte solistica si distingue per la grande velocità
d’esecuzione, prima che intervengano prepotentemente gli stacchi di batteria. Poco dopo, un
bellissimo intreccio di chitarre sfocia nell’ultimo splendido assolo di Hammett. È ancora la volta
Ulrich con dei poderosi stacchi e finalmente la canzone si chiude in un marasma generale, davvero
caotico, a coronamento di una canzone fenomenale. Quando ci apprestiamo a fare il giro di boa,
possiamo tirare le prime conclusioni: ognuna delle quattro canzoni finora ascoltate, nessuna esclusa,
è potenzialmente una hit, un singolo devastante. In effetti, siamo al cospetto di un masterpiece
assoluto del Metal. Incastonata alla quinta posizione troviamo un altro dei brani più lunghi ed
intensi di tutto l’album, “Disposable Heroes” (Eroi da Buttare): la batteria da guerra suonata da
Ulrich comincia fin dai primi attimi a tartassare i nostri animi col suo ritmo trascinante e possente,
mentre il duo chitarra/batteria di Hammett/Burton macina chilometri musicali come se non ci
fosse un domani. L’intero plot della canzone, che dura ben otto minuti di follia omicida a colpi di
note, è, senza alcun freno, l’estro e la fantasia dei Metallica nello scrivere testi che si scatena in
tutta la sua potenza, accompagnato da una “colonna sonora” magistralmente orchestrata; ogni
tassello della canzone è bilanciato e dosato con grande sagacia, ogni membro del gruppo ha la
propria occasione di “mettersi in mostra” sopra gli altri, con la rara eccezione forse proprio di Kirk
Hammett, che qui, probabilmente per mantenere il profilo musicale più cupo e oscuro possibile
(dato l’argomento difficile e triste del pezzo), non si lancia come suo solito in complessi ed
estroversi riff dal sapore Thrash, piuttosto rimane li, a vomitare ritmi martellanti come una
macchina da guerra, per farci anche prestare più attenzione possibile al testo. Con “Disposable..”
veniamo catapultati insieme ai Metallica su un campo di battaglia, durante una sanguinosa guerra,
fiumi di violenza e proiettili intorno a noi, nessuna risata o gioia, solo lo straziante grido lamentoso
dei soldati che stanno morendo, che si sono immolati per una causa in cui probabilmente neanche
credono, sono lì perché qualcuno ha mandato una lettera alle loro famiglie dicendo loro di
presentarsi “al comando”, e loro, come formiche in un mondo apparentemente perfetto, si sono
presentati alle armi con la convinzione di stare lottando “per qualcosa di più grande”. “Vedo i corpi
riempire i campi, agognata fine da eroi, nessuno gioca a fare il soldato ora, e nessuno lo pretende
correndo alla cieca per i campi che uccidono, addestrato ad ucciderli tutti sono vittima degli ordini
che vengono impartiti, servitore finchè non cadrò”, così recita l’intro della canzone, e fin dalle
prime parole capiamo subito quale sarà l’andamento del pezzo, una critica feroce e senza schemi
prestabiliti alle controversie di ogni maledetta guerra che macchia di sangue il mondo, che costringe
migliaia e migliaia di persone ad abbandonare le proprie case e gettare le proprie vite in un angolo,
dimenticate da tutto e da tutti; soprattutto è una critica incessante al meccanismo “di leva”, che
ogniqualvolta si presenta un conflitto, strappa centinaia di giovani alla loro quotidiana vita, e li
piazza impauriti e inconsapevoli di tante cose su un campo di battaglia con un fucile in mano, con
l’unico ordine di “combattere il nemico”. Purtroppo l’animo umano, quando si tratta di guerra,
sembra diventare qualcosa di dannatamente oscuro, sembra tingersi sempre e solo dei colori della
notte, lo spirito combattivo e sanguinario prende il sopravvento, e allora magari per il capriccio di
un solo uomo potente, si muove un intero stato; del resto però l’animo dell’uomo è anche fra le cose
più corruttibili che esistano in natura, esso viene trascinato nelle guerre quasi con la promessa di
uno “strato” più alto della società, e i Metallica questo lo sanno bene, esprimendo il concetto con
parole semplici, ma al tempo stesso dure come macigni: “Più sei un uomo, più esibisci le medaglie,
mode da cacciatore di gloria”. Proseguendo in ordine troviamo un altro masterpiece del disco (ma
anche del gruppo stesso), “Leper Messiah” (Messia Lebbroso): “Meravigliati dai suoi trucchi, hai
bisogno della tua razione domenicale per la tua cieca devozione, il cervello sta marcendo sempre
più”, così recita l’inizio della seconda strofa del pezzo, e apparentemente potrebbe sembrare
un’invettiva contro Dio o contro la religione in generale, in realtà poi, scorrendo pian piano il testo,
scopriamo che la violenza musicale che viene scatenata è contro una classe in particolare di uomini
religiosi, che in America riscuotono un enorme successo, i predicatori. La struttura musicale di base
del pezzo è il più Thrash possibile, il ritmo cadenzato e continuo della chitarra e della batteria la
fanno da padrone, mentre il caro vecchio Cliff continua con le sue slappate di basso a ricordarci che
“là in mezzo” esiste anche lui, e che il suo lavoro lo sa fare davvero bene. Il ritmo incessante però
viene bruscamente fermato verso il terzo minuto da un’accelerata improvvisa da parte di tutto il
gruppo, ed ecco che il tipico sound dei Metallica, fatto di cascate di note ed interminabili partiture
di voce e chitarra ritmica insieme (ad opera di Hetfield), viene fuori in tutta la sua potenza,
ricordandoci come mai, ad oggi, “Master Of Puppets” sia considerato una pietra miliare del
genere Thrash Metal, ogni piccolo ritocco che è stato fatto in pre e post – produzione, rende questo
disco un lavoro davvero perfetto, senza la minima sbavatura o imperfezione, con un lavoro di
mixaggio egregio, e una composizione di base unica e irripetibile. Perché il Thrash alla fine lo
possiamo definire così, come il “fratello” matto, ma dotato di un gran cervello, del Metal classico,
quella parte apparentemente irrazionale, ma ricolma di tecnica, che all’inizio degli anni ’80 si è
distaccata dai canoni rigidi dell’Heavy tradizionale, e ha deciso di darsi all’estro artistico più
incontrollabile mischiando i suoni Metal con i ritmi Hardcore (la parte razionale/tecnica del Punk),
creando qualcosa che, ad oggi, è considerabile fra i generi più tecnici e complessi nell’intera
ramificazione della musica estrema. Il pezzo come abbiamo detto è un’invettiva contro i predicatori,
quei piccoli ed insignificanti uomini, che però ad ogni loro seduta raccolgono migliaia e migliaia di
persone, incantati dalle (vane) promesse che escono dalle loro bocche, promesse di guarigioni e
miracoli, promesse di un futuro migliore e del Paradiso; soprattutto la canzone si scaglia contro il
denaro che i predicatori “pretendono” (non con la forza, ma con la intrinseca mielosità e
accondiscendenza delle proprie parole) dai loro fedeli, fiumi di soldi che entrano nelle loro tasche,
fiumi che i Metallica esprimono con “Mandami soldi, mandami delle banconote, andrai in
Paradiso, fai un’offerta e avrai un posto migliore, inchinati di fronte al Messia lebbroso”, un
discorso semplice ma di grande impatto, come il definire il predicatore “il Messia lebbroso”, fa
capire quanto questi esseri siano subdoli, quanto essi promettano la “pulizia” nell’animo dei fedeli
che si raccolgono intorno a loro, quando in realtà chi ha l’anima nera, sporca e corrotta, sono
proprio loro, mani macchiate di peccati indicibili, e ricolme dei soldi elargiti dalla speranza delle
persone. Ricordiamo tutti la triste e tragica storia di Cliff Burton, bassista e forse una delle menti
più geniali che il Metal abbia mai prodotto; qualche mese dopo l’uscita di “Master Of Puppets”,
ebbe un brutto incidente con il tour bus ufficiale del gruppo, e perse la vita, l’intero mondo della
musica si strinse attorno ai Metallica, ma anche alla famiglia di Cliff stesso, e molti artisti all’epoca
lo omaggiarono in vari modi (gli stessi Anthrax ad esempio, “fratelli” dei Metallica e membri dei
Big 4, gli dedicarono per intero quello che è considerabile il loro “Master Of Puppets”, “Among
the Living”). Cliff però, prima di lasciare questo mondo, ebbe il tempo di comporre, proporre al
gruppo, e registrare, forse il brano più malinconico e trascinante di tutto il disco, l’unica traccia
strumentale presente, “Orion” (Orione): qui ogni membro da fondo alla propria fantasia fin dai
primi accordi, Kirk Hammett ci delizia con le sue partiture che prendono spunto dalle migliori
tradizioni Metal anni ’70, ’80, il sound tipico che riesce a tirare fuori dalle mani ormai, negli anni, è
diventato un vero e proprio marchio di fabbrica; Lars, dietro le pelli, se all’inizio e per una buona
metà del pezzo suona una batteria quasi accennata, morbida e setosa come un vestito da notte, dalla
seconda metà in poi tira fuori il suo classico carisma, mettendosi a martellare la batteria come un
fabbro martella il pezzo di ferro appena uscito dal crogiuolo, pronto a trasformarsi in un’arma
letale. In tutto questo, l’autore del brano, si lascia trasportare dal suo istinto, e improvvisa ritmi di
basso che ci ricordano le grandi tradizioni Funk degli anni ’70, genere in cui il basso la faceva
praticamente da padrone; Cliff continua imperterrito a picchiare sulle grosse corde dello strumento,
ma mai rimanendo in disparte rispetto agli altri membri, sempre ritagliandosi un suo spazio in cui
esprimersi. E per quanto riguarda il vecchio capitano del gruppo, James Hetfield, beh, anche lui
qui, pur spesso e volentieri rappresentando la sezione di chitarra ritmica, come era accaduto qualche
traccia fa per “Master Of Puppets”, Hetfield qui esegue il secondo assolo del pezzo, che si
differenzia e si rende riconoscibile da quello eseguito da Hammett per la sua morbidezza, mentre
Hammett infatti tende spesso ad eseguire riff duri (anche se tecnici e pensati), Hetfield, che è meno
“abituato” ad avere il suo momento di assolo, quando gli capita decide di darsi a riff molto più
“spessi”, rinunciando magari alla violenza musicale per lasciare spazio alla poesia del momento.
Sul finale il pezzo subisce una ulteriore accelerata, ed esplode in tutta la sua interezza, consentendo
ai membri , che prima di questo momento rappresentavano ognuno un tassello ben definito, di unirsi
fino a formare un unico suono, una unica e metallica macchina da guerra per l’ultimo, disperato e
deflagrante, attacco al nemico. Non è mai semplice scegliere l’outro di un disco, specialmente
quando si è dato fondo a quasi tutte le proprie forze nei brani precedenti, si rischia spesso di
scegliere una conclusione abbastanza fiacca. I Metallica però, consapevoli di questo, decidono di
dare fondo a quell’ultimo slancio di energia distruttiva per concludere il disco nella maniera più
Thrash possibile, e lo fanno con “Damage .Inc” (Danno. SPA): l’inizio quasi accennato ci fa
pensare ad un altro pezzo trascinante come quello che abbiamo appena sentito, ma dopo neanche un
minuto la furia distruttiva dilaga nelle nostre orecchie, e il brano assume il sapore che ormai i
Metallica conoscono molto bene, la prestanza ed il ritmo del Thrash Metal (che qui ricorda molto il
sound che il gruppo aveva nel suo primo disco) sono una delle armi più potenti a disposizione di un
musicista; ecco allora che la mitraglia di note suonate da Hammett comincia a piovere sulle nostre
povere teste, Heitfield infiamma il microfono quasi fosse anche lui uno dei predicatori di “Leper
Messiah”, ma a differenza di loro, egli non fa vane promesse o chiede soldi, semplicemente arringa
il mondo con la sua voce, parlandoci, nel caso di “Damage .Inc”, di distruzione e violenza. “Ti
mastichiamo e poi ti sputiamo, noi ridiamo, tu urli e ti sgoli, scappano via tutti, in preda alla paura
corri via ,saprai solo da dove veniamo”, così recitano i Metallica verso la metà del brano, ed è
facile intuire come mai: il pezzo parla, come accennato prima, di morte e distruzione, di momenti in
cui l’umanità non vede più la luce del sole, di armi e stupri, di guerre combattute contro un nemico
che non arriva mai, di clima di terrore e dell’incubo di un inverno nucleare. Questo ormai è un tema
che nei dischi Thrash è stato usato più e più volte, sempre però con quel filo rosso mai troppo sottile
di Humor Nero (proveniente dalle tradizioni Hardcore) che rende il tutto davvero cinico e senza
troppi fronzoli attorno. Dunque il gruppo ci parla anche di violenza che alberga nascosta come un
lupo famelico nel cuore degli uomini, pronta a venire fuori e ghermire la propria preda, quasi fosse
un mostro che risucchia la felicità dal mondo; perché alla fine il destino di noi esseri umani è
sempre quello di arrivare ad un punto in cui quello che abbiamo non ci basta più, esiste sempre quel
piccolo, ma presente soggetto, che vuole di più, di più e di più, e allora raduna altri come lui, o
comunque con una mente fuorviabile in qualsiasi momento, così nascono dittature e climi da incubi
più spaventosi, così si crea la violenza necessaria ad uno scopo che magari, dopo anni, viene
scordato, ma ormai si è troppo invischiati nella propria orgia di potere per accorgersene. Se nessuno
però ferma queste atrocità, la “Damage .Inc” continuerà ad essere sempre più florida, diventerà
un’azienda leader nel settore della produzione di violenza, e a noi, stolti esseri umani che non
l’abbiamo fermata in tempo, non ci resterà che vedere il Danno e la violenza diventare quasi marchi
registrati.

Credo che non ci siano abbastanza parole per definire questo disco, qualsiasi concetto che uno
potrebbe provare ad esprimere, non si avvicinerebbe neanche all’importanza e al peso storico che
“Master Of Puppets” ha rappresentato sia nella storia del Thrash Metal, ma anche della musica in
generale. “Master…” ha consacrato per sempre i Metallica nell’Olimpo dei vincitori, ha fatto
capire al mondo che il Thrash non è solo cacofonia senza senso, ma è piuttosto l’esatto contrario, è
l’esaltazione più alta e celebrale della tecnica, è dedicarsi alla musica che si ama con tutto sé stessi,
è comporre un intero brano dando sfogo alla propria fantasia musicale, togliendo il piede dal freno,
e soprattutto, Thrash Metal vuol dire amare un dualismo che solo in apparenza sembra inutile e
controverso, ma che in realtà è un equilibrio quasi perfetto, la raffinatezza del Metal, e la violenza
linguistica e di impatto dell’Hardcore Punk. Dunque “Master Of Puppets”, ad oggi, è considerato
(e considerabile) come la vetta più alta mai raggiunta dal gruppo di Hetfield e soci, una montagna
che sono riusciti a scalare fino alla sommità solo in quel magico 1986, quando i fan storici del
gruppo pensavano che dopo “Kill’em All” e “Ride the Lightning” non si potesse fare di meglio,
ecco che quelle croci sormontate da fili bianchi mosse da mani diaboliche, fece capolino nel mondo
della musica, ed allora il mondo stesso capì che i Metallica sarebbero stati per sempre ricordati.

Tracklist:

1) Battery
2) Master Of Puppets
3) The Thing That Should Not Be
4) Welcome Home (Sanitarium)
5) Disposable Heroes
6) Leper Messiah
7) Orion (Instrumental)
8) Damage, Inc.
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