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Smettiamo di parlare sempre di valori

di Umberto Barizza

Mercoledì 28 febbraio dalle ore 15 alle 19.30 ho partecipato al terzo incontro voluto dal
Sindaco di Padova dedicato al mondo giovanile in preparazione agli Stati Generali del Comune che si
terranno nella prima settimana del giugno prossimo.
Ho ascoltato decine di interventi, forse più di 50, molti fatti da anziani come me, alcuni da autorevoli
sacerdoti, tutti sui giovani, sulle Istituzioni e Associazioni giovanili.
La notte successiva ho fatto un sogno.
Mi trovavo in un contesto di studio con una ventina di persone e alcuni sacerdoti. Le riflessioni di
natura pedagogica, psicologica, forse anche religiosa, si erano incanalate in questioni di principio,
tanto che l’aria era diventata pesante perché si era in un vicolo cieco.
Ad un certo punto, forse per un senso di reazione, mi sono rivolto ai partecipanti con forza interiore,
con gli occhi chiusi e parole scandite, dicendo:
“Smettiamola di parlare di valori, ma trasmettiamo VALORE, specialmente voi preti smettetela di
parlare sempre di valori, ma donate valore.
I nostri giovani hanno la testa piena di valori, ma pochi li aiutano a scoprire il loro valore”.
Preso dall’ansia di questa comunicazione intensa mi sono svegliato; non riuscivo a riprendere sonno,
continuavo a seguire questa riflessione.

I ragazzi di Novi Ligure sono come tanti giovani che non ne possono più di sentire parlare di valori
perché cercano il loro valore.
Erika vedeva il valore tutto nella mamma e nel fratello , li ha uccisi perché non accettava di non avere
valore.
Ora comunque il dramma della sua vita sarà la sofferenza di aver distrutto ciò che per lei aveva un
valore straripante, a cui pure lei tendeva e da cui dipendeva anche troppo.
Se il valore esterno ci annulla e quello interno diminuisce, prima o poi c’è da aspettarsi la reazione di
tutto il nostro essere. Spesso l’intelligenza cresce, ma il cuore resta piccolo.

Ma come si fa a trasmettere VALORE?

Non certo con le sole parole fatte di consigli, raccomandazioni, rimproveri, ma soprattutto con la 
comunicazione permanente del valore che si sperimenta in se stessi.
Se ho simpatia per quello che sono, per quello che posso essere, per quello che posso diventare, lo
trasmetto con il mio sguardo prima che con le parole.
Molti di noi, cresciuti in un mondo di rapporti che ci ha abituato a far dipendere la nostra riuscita da
ciò che proveniva dall’esterno, fatica di più a credere che è dall’interno che si sperimenta la bontà
delle proprie risorse.

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Tutti noi abbiamo vissuto momenti, periodi della nostra esistenza, in cui abbiamo sperimentato che
cosa significa la gioia interiore; sono stati questi i momenti in cui ci siamo sentiti interiormente più
liberi.
Non ci è forse capitato di ammirare persone che lavorano con passione, che sono entusiasti di quello
che fanno, che esprimono soddisfazione vera per ciò che i sensi e la sensibilità comunicano?
Abbiamo anche sperimentato che queste persone risvegliano in noi il desiderio: “come mi
piacerebbe”?
Malgrado il frastuono e la malinconia del quotidiano, malgrado tutti i nostri complessi e disordini
psichici; l’intimo del nostro essere non si risolleva e non cerca forse una ragione di vita, un motivo che
fa tutt’uno con il nostro bisogno di valere?
Se non fossimo persone dotate non saremmo capaci di godere ciò che è bello in natura, nell’arte, nelle
persone, ciò che è immenso nell’universo.
Non restiamo forse affascinati quando lo scienziato ci comunica con entusiasmo la sua scoperta,
quando veniamo a contatto con la persona che ci fa intuire la sua forza d’animo, il suo coraggio di
generosità totale?
Ognuno di noi ha sperimentato momenti di forte commozione, tanto da sentirsi unificato
interiormente.

L’educazione presuppone di credere al VALORE  della persona

In astratto ci è sempre stato parlato di valore, ma per riuscire a costringere il nostro mondo interiore ad
adattare il comportamento alle regole, meno per sprigionare la nostra qualità umana.
Abbiamo forse ridotto l’educazione alla sola funzione di sostegno e di mantenimento, non di sviluppo
della nostra essenza tipicamente umana che vibra di esigenze ed aspirazioni che non si riducono al
dominio della propria istintività, ma che nell’istintività prendono energia e spinta per offrire al mondo
la nostra parte di creatività.
L’uomo non ha nella vita altre energie che quelle inconscie, ed è questo oceano di impulsi, da cui
emergono le nostre passioni essenziali, che trasforma le nostre attività in autentici capolavori.
L’uomo è “molto buono”, non perché qualsiasi cosa faccia con passione è buona, ma perché quando
indirizza le sue passioni verso ciò che dà valore a sé e agli altri, realizza le aspirazioni più tipicamente
umane.
Non si tratta di uccidere la passione, ma di armonizzarla. Uccidere la passione è uccidere l’uomo.
E come non ammettere che le aspirazioni del cuore umano, quando sono indirizzate a fare sempre il
meglio di quello che si può fare, hanno un potenziale di entusiasmo che va oltre il senso del vivere?
Trasmettere valore comporta essere entrati in questa lotta tra bene e male dentro di sé ed aver
sperimentato che “il buono” dentro di noi ha possibilità di riuscita e se ciò avviene in me, può
avvenire anche negli altri.
Una volta sperimentato dentro di sé che le virtù non sono altro che passioni ordinate e che i vizi non
sono che passioni in disordine, l’educatore deve credere che neanche la santità si può realizzare senza

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passioni e che le passioni diventano pericolose quando le si realizzano a metà e sono ancora più
pericolose quando le si schiaccia, diventano creative quando le si porta fino alla fine.
Credere al proprio valore, comporta recuperare la fiducia in queste nostre risorse interiori che il
vecchio insegnamento ci ha portato a disprezzare, frenare, comprimere, ignorare.
Per vivere con passione dobbiamo uscire dal nostro guscio, entrare in relazione con la natura,
l’universo, la musica, l’arte, la scienza, la santità, con il nostro mondo interiore, con tutto ciò che la
passione umana ha prodotto di entusiasmante attorno a noi.
L’insegnante non può più trasmettere le conoscenze se prima non le ha fatte diventare vita dentro di
sé, perché chi ascolta sente che quelle conoscenze sono frutto di passione.
Va comunicato ciò che ci prende per davvero, ciò che mette in moto le nostre passioni.
Il nostro mondo è tutto da scoprire, quello intorno a noi stessi, l’universo, il passato che ci ha
accompagnati fino qui, la natura che ci attornia, le persone che incontriamo.
La sete di conoscere di più, sapere di più, gustare di più, è presente in tutti.
E’ giusto che gli adolescenti si ribellino a chi appiattisce le cose grandi, i bisogni interiori che sono
infiniti dentro di loro.
Si appiattiscono le grandi verità quando si comunicano senza entusiasmo, quando si impongono come
obbligo, quando si insegnano i grandi progressi fatti dall’uomo nella storia, le grandi scoperte del
genio umano, come righe da leggere, da memorizzare per portarle agli esami.
Eppure il nostro valore era evidente quando mamma e papà ammiravano il nostro corpicino
espressivo, armonico, perfetto, addormentato e sveglio nella culla; quando più grandicelli
esprimevamo tutta la nostra meraviglia per il mondo di cose e di persone che ci attorniava.

Basta parlare di valori; ne abbiamo tutti la testa piena!


Comunichiamo invece l’esperienza del nostro valore e diamo valore almeno a coloro che ci vivono
accanto, di fronte, che andremo ad incontrare.
Attenzione però, se il nostro valore sovrasta l’altro, è orgoglio narcisistico, non è gioia di vivere, è
convinzione di essere perfetti, non mistero inconoscibile a noi stessi.
La simpatia per quello che sono è commozione, quasi che tutto mi fosse donato, è coscienza di valere
perché una storia di bontà mi ha accompagnato fino ad oggi, come è avvenuto per tutti coloro che mi
vivono attorno, che sono tutti diversi da me, ed è per questo che hanno valore.
Non si realizza la coscienza del proprio valore perché lo si vuole con la mente, in un certo momento,
ad una certa età, ma con la progressiva apertura del cuore a tutte le presenze:
- la bontà della nostra mamma è diventata la certezza intima che anch’io sono buono;
- la guida benevola (che vuole bene) di chi ci ha guidato nell’infanzia a dare una prospettiva, una
soddisfazione maggiore alle pulsioni che portavano al piacere immediato, egoistico;
- la gioia di vivere sperimentata nel gioco condiviso con i coetanei;
- la curiosa attenzione di quegli educatori (genitori, insegnanti, allenatori, sacerdoti) che si fidavano
di me;

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- la quotidiana scoperta delle mille cose del mondo circostante che allenavano il mio cuore allo
stupore: il bosco, la montagna, il mare, i piccoli animali domestici, gli amici nuovi, le persone il
cui volto mi dava sicurezza.
La simpatia per quello che sono è un deposito di presenze che mi hanno fatto sentire qualcuno per
qualcuno, in mezzo agli altri, che pure sono qualcuno, diversi da me e a cui io ricorro per mantenermi
in equilibrio quando il male dei determinismi psicologici mortifica la mia gioia di vivere.
Avere simpatia per sé, sperimentare la coscienza del proprio valore, della propria dignità, non è frutto
della mia perfezione (in un percorso di vita che io so essere pieno di compromessi nascosti, spesso più
interiori che esteriori), ma il ripetuto ricorso:
- alla nostalgia della gioia interiore già sperimentata ,
- all’aspirazione intima di diventare io la sorgente, l’origine di ciò che è meglio per me e per gli
altri,
- alla voglia di agire per rendere gli altri più felici per merito mio.

Scrive Maurice Zundel:


“Si tratta di allenarci a coltivare il rispetto dell’inviolabilità della persona poiché in ciascuno di noi
c’è un luogo intimo e personale che non appartiene che a noi, dove nessuno può penetrare senza il
nostro consenso.
L’inviolabilità è depositata in noi come un valore. Ma nello stesso tempo essa è una vocazione che
implica un rispetto universale, poiché si tratta di non lasciare che nessuno offenda la nostra stima,
costringa il nostro giudizio, violi il nostro cuore.
A ciascuno è dato di scoprire un giorno la traccia della sua identità profonda iscritta nell’intimo del
suo essere, di cominciare a percepire il proprio nome come unico, di fare l’esperienza di dire io, non
in maniera stereotipata, ma con un sapore personale.
Se ogni uomo è inviolabile, se è una persona da rispettare infinitamente, per quello che è e per ciò che
può diventare, su  che cosa fondare questo valore che comporta dei tratti infiniti?
Non potrà essere sulla persona stessa, perché essa lo riceve prima ancora di averne la chiara
intuizione. Potrà essere allora sugli altri, la famiglia, gli amici, la società? Tutti hanno un ruolo
decisivo, perché permettono al bambino, all’adolescente, all’adulto di scoprire il suo valore unico,
mediante quel rispetto – o a volte , il non rispetto – che si ha per lui.
L’inviolabilità infatti non si impara che sotto lo sguardo degli altri. Ma questo non sarebbe ancora
sufficiente per fondarlo, perché anche gli altri sono limitati. Anche essi ricevono il valore personale
che è dato loro di scoprire. Per fondare l’essere unico che io sono, non dovrebbe forse essere una  
Persona il cui valore e rispetto siano sempre infiniti?
Vale la pena di porre l’interrogativo con tutta la sua forza”.

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