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Giulia Rodano - Assessore alla Cultura, Spettacolo e Sport della Regione Lazio -

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SANITA’ DEL LAZIO: UN SISTEMA CHE NON SOLO


SALVI LA VITA, MA CHE AIUTI ANCHE A VIVERE
MEGLIO

Tra i giornali di proprietà degli Angelucci, in prima fila nell’


attacco a Emma Bonino, il suo “patriarca” Antonio che
denuncia, secondo il più puro stile berlusconiano, una
campagna di “persecuzione politica” delle sue cliniche da
parte della Regione Lazio e le sortite di Renata Polverini in
materia di sanità, la destra romana e laziale non sembra
avere molte idee riguardo alla salute dei cittadini e alla
riorganizzazione del sistema sanitario regionale.
Di ciò, ovviamente, non ci si può sorprendere: alla prova del
Governo, sotto la presidenza Storace, le uniche cose di cui
è stata capace la destra sono state quelle di portare ad un
livello stratosferico il debito della sanità laziale e di spartirsi
brutalmente, fuori da ogni logica di competenza e di
professionalità, tutti i livelli di decisione delle strutture
sanitarie.
In occasione della campagna elettorale la candidata del
centro-destra, del cui entourage sono parte integrante gli
stessi uomini del passato, sembra essere interessata
soltanto al tema dell’assetto di potere delle ASL.
Io penso, invece, che il problema, oggi, non è la forma o il
numero delle ASL o il dare più potere a questa o quella
categoria.
La giunta di centrosinistra, stretta tra la necessità di fare
fronte al debito ereditato e i vincoli crescenti dei patti di

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stabilità e dei piani di rientro imposti dal Governo nazionale,


in questi anni si è concentrata nello sforzo di risalire la
china. Così ha posto le condizioni per cambiare finalmente il
volto della sanità del Lazio.
Ma il sistema sanitario va anche cambiato. E per cambiarlo
sono necessarie politiche pubbliche autorevoli e
investimenti. Investimenti e non tagli.
La destra parla genericamente di lotta agli sprechi ma non
dice mai di quali sprechi si tratta. Le uniche proposte che
avanza sono quelle della reintroduzione dei ticket sui
farmaci e perfino sul pronto soccorso, individuando
evidentemente nei cittadini i responsabili degli sprechi.
L’esperienza insegna invece che il taglio indiscriminato
produce spreco e non rimuove le cause strutturali del
disavanzo.
Solo un sistema pubblico forte, competitivo, fortemente
rivolto alla appropriatezza delle prestazioni e degli interventi,
può essere in grado di imporre all’intero sistema –
accreditato, universitario, ecc. – costi contenuti,
appropriatezza e correttezza di comportamenti. Per ottenere
questi risultati occorre essere in grado di investire sul
miglioramento del sistema pubblico, in termini di nuova
edilizia sanitaria, di tecnologie, di personale, di competenze
sanitarie e organizzative. Anche Barak Obama si sta
muovendo negli Usa in questa direzione.
Il problema più importante ora è leggere le tendenze nei
bisogni di salute e concentrare su queste gli sforzi di
sollecitazione, incentivazione e indirizzo della regione.
Il SSN è spesso iniquo, concentra le prestazioni su coloro
che sono in grado di chiederle e sono in grado di usarlo,
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mentre settori della popolazione non sono in grado, se non


prese in carico, di riconoscere i propri bisogni e rivendicare i
propri diritti. E contemporaneamente, anche grazie alla
rigidità della sua struttura, il sistema sanitario del Lazio, in
tutte le sue componenti – regionali, nazionali, universitarie,
private – è in grado di salvare la vita, ma non è in grado di
aiutare a vivere chi è fragile e bisognoso. E così rischia di
diventare ancora più ingiusto.
Rispondiamo in modo adeguato a bisogni primari dei
cittadini? Rispondiamo efficacemente al bisogno primario
della sicurezza, alle necessità della prevenzione, al bisogno
e alla solitudine di chi si trova di fronte a una malattia
cronica?
Troppi cittadini si trovano soli di fronte alla malattia, o anche
soltanto alla paura della malattia e della morte. Basta
pensare alle persone anziane che passano da sole l’estate
nelle città. Non devono essere sempre i cittadini a cercare la
risposta ai loro problemi. Deve essere il SSR e gli operatori
che ne sono i protagonisti e sono pagati per questo a farlo.
Ogni medico di famiglia avrà tra i propri pazienti non più di
50 persone fragili, anziane o malate. Deve poter farsene
carico in modo permanente. Occorre offrire servizi di
consulenza, tenere sotto controllo le persone fragili, non
solo attendere la loro richiesta di aiuto e magari non esserci
quando serve. Altrimenti la risposta al bisogno di sicurezza,
alla paura, alla solitudine sarà l’ospedale, con il corollario di
spesa eccessiva, segregazione solitudine del paziente,
perdita di giornate di lavoro.
Abbiamo per fortuna ancora un sistema di emergenza in
mano pubblica, forte, imparziale, fortemente
professionalizzato e “ricco” di risorse tecnologiche e di
personale. Ma continuare a pretendere di bloccare le
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assunzioni o tagliare gli investimenti al sistema di


emergenza vuol dire accrescere il pericolo per i cittadini e i
costi per il sistema. Un sistema di emergenza debole è fonte
di spreco e di ingiustizia. Metterlo a rischio non è risparmio,
è spreco.
Dal sistema sanitario dipende promuovere politiche di
prevenzione del rischio delle malattie la cui prevenzione è
possibile o la cui diagnosi precoce può favorire la guarigione
o evitare gravi invalidità. Oggi vi sono cittadini che
usufruiscono dell’offerta pubblica di politiche di prevenzione
persino in forma sovrabbondante rispetto alle loro reali
necessità, mentre ci sono cittadini che ne sono
completamente esclusi perché a volte non conoscono
neppure la necessità della prevenzione e non ne sentono il
bisogno. Il SSR deve favorire la consapevolezza della
necessità della prevenzione e deve prendere in carico gli
uomini e le donne a rischio per favorirne l’accesso alla
prevenzione. Ma come lo può fare se i servizi di
prevenzione vengono sguarniti, se non è possibile
rafforzarli, dotarli delle tecnologie necessarie, renderli
insomma efficaci? Anche in questo caso chi risparmia senza
criterio, finisce per spendere di più, finisce per sprecare.
Il sistema sanitario non riesce ancora ad aiutare a convivere
con la malattia e la fragilità. Eppure questa è una condizione
con la quale sempre più cittadini, magari affannati dagli anni
e dall’età, si trovano a dover fare i conti. Ormai è sempre più
frequente che si lasci l’ospedale senza essere guariti. Ci si
salva la vita, ma sempre più spesso si deve continuare ad
essere curati, riabilitati, assistiti, per lunghi periodi o per
tutta la vita. Oggi la possibilità di proseguire il proprio
percorso di assistenza in modo accettabile e positivo
dipende troppo spesso dal reddito, dal livello culturale, dalle
conoscenze e dalle relazioni. Chi può, chi ha soldi, potere,
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famiglia, sarà assistito; chi non può, chi non ha, rischia di
non farcela. Oggi, la mancata presa in carico delle persone
che hanno bisogno di cure e assistenza prolungate è causa
di ingiustizia, di lesione di diritti fondamentali. E nello stesso
tempo è una grande fonte di inappropriatezza del sistema,
di spreco di risorse, perché provoca ripetizione di analisi e
ricoveri evitabili, fa vagare i pazienti da una struttura per
acuti ad una di riabilitazione, da una lungodegenza ad una
RSA. Occorre definire e stabilire, come livello essenziale di
assistenza, il diritto alla continuità assistenziale, con tariffe
appositamente studiate e modalità di funzionamento
stabilite e incentivate. Nessuno si deve trovare a lasciare un
ospedale senza sapere dove andare per essere assistito.
Affrontare questi nodi significa avviare quella ristrutturazione
del sistema, quella incentivazione di comportamenti virtuosi
essenziali per affrontare il disavanzo strutturale della sanità
del Lazio.
Se sappiamo quali sono i nostri obiettivi possiamo avviare
un accreditamento credibile, un sistema tariffario equo e
finalizzato a favorire le strutture, le prestazioni, i
comportamenti migliori.
Se sappiamo che dobbiamo investire possiamo creare un
sistema in cui l’ospedale svolga il suo ruolo e i cittadini
trovino risposte al di fuori di esso.
Se sappiamo cosa vogliamo possiamo mettere in opera un
sistema di controlli efficace su base non soltanto ispettiva,
ma epidemiologica, basata sugli scostamenti dai risultati
che è possibile credibilmente attendersi e da un sistema di
sanzioni efficace e effettivamente temibile da parte degli
erogatori.

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Così potremo uscire da una discussione ideologica, quanto


sterile tra la maggior efficienza del privato rispetto al
pubblico, della minore disponibilità del privato ad assumersi
realtà sanitarie onerose, e così via. Avere chiari gli obiettivi
ci consentirebbe di lavorare con serenità, fermezza e
trasparenza nel mettere in chiaro le diverse componenti
della spesa e non solo delle strutture direttamente gestite.
Ciò consentirebbe una azione programmata di
razionalizzazione del sistema, di assunzione dei costi
indispensabili e di rimozione progressiva di quelli riducibili.
Una seria “operazione verità” che metta in luce i costi
aggiuntivi derivanti dal peso della spesa storica, dalla
supplenza a difficoltà e carenze sociali, di cui le strutture
sanitarie si fanno carico, dalla complessità di cure
costosissime ma necessarie, dalle condizioni di morbilità
rara od estrema e, naturalmente, invece quelle derivanti
dalle inefficienze, dalla cattiva organizzazione, dalla pigrizia
di fronte alle novità. E che finalmente non si limiti a gridare
allo spreco e finire per negare diritti fondamentali.

Articolo completo di Giulia Rodano, inviato alla redazione


dell'Unità

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