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LA LEZIONE DI GADAMER

Due maestri

In questa cupa alba di millennio, si sono succedute a distanza di qualche mese, e quasi fatte eco l’una all’altra, le
scomparse di due grandi maîtres à penser, vale a dire Carlo Bo e Hans Georg Gadamer.
Si tratta di due figure che hanno sviluppato i rispettivi percorsi culturali e speculativi l’una indipendentemente
dall’altra, e senza scambi o contatti diretti e documentabili. Tuttavia, al cuore del lunghissimo e assai incisivo magistero
di entrambi, sembra si possa cogliere lo stesso nucleo essenziale: una ostinata fedeltà al Linguaggio, ai linguaggi
letterari, filosofici, artistici, visti come tramiti e come spie rivelatrici per poter giungere ad una conoscenza autentica e
pura, libera da ostacoli e da condizionamenti di natura contingente, siano essi legati all’ideologia, alla politica,
all’industria della cultura e della comunicazione.
Conviene rileggere, alla luce di Gadamer, Letteratura come vita, la celebre conferenza tenuta da Bo nel 1938.
Letteratura e vita apparivano entrambe al teorico dell’ermetismo come “strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per
raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con
coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi”. E poco oltre: “La caccia all verità deve (…) svolgersi (…) in un golfo
di attesa metafisica”.

Interpretazione e autocoscienza

Da un lato, dunque, “sapere qualcosa di noi”, indagare e conoscere noi stessi, rispecchiando nelle opere letterarie
il nostro io più profondo; dall’altro, andare incontro ala verità e all’Essere attraverso il linguaggio e nel linguaggio.
Se ci soffermiamo su alcune definizioni di Verità e metodo, il capolavoro di Gadamer – opera imponente ed
impervia, e nondimeno affascinante, malgrado qualche tecnicismo, per qualunque lettore, con il suo respiro vasto e il
suo incedere sicuro e pacato -, ecco che ci troveremo immersi in un orizzonte di pensiero non dissimile.
Spuntano a tratti, dal fitto tessuto dell’argomentare del filosofo, formulazioni come scolpite nel diamante, che
hanno quasi la nettezza tagliente dell’aforisma.
“La vita dello spirito (…) consiste (…) nel riconoscere, nell’altro, se stesso”. “In quanto dissolve la resistenza
della positività” – cioè della presunta oggettività e indubitabilità dei dati storici e scientifici – “lo spirito si concilia con
se stesso”.
Non è difficile cogliere, qui, l’eco di una concezione presente nell’idealismo tedesco, da Fichte ad Hegel: quella
dell’Io e dello Spirito che conoscono pienamente se stessi, che giungono alla propria autocoscienza ed autotrasparenza
attraverso il confronto con l’altro da sé nelle sue molteplici forme – nella fattispecie storiche, letterarie, artistiche.
Oltre che termine di confronto e tramite prezioso per il raggiungimento dell’autocoscienza, il linguaggio è anche
via d’accesso alla conoscenza dell’Essere, strumento di rivelazione della verità più profonda.
Ed appare evidente come i due aspetti (autocoscienza e rivelazione della Verità nel linguaggio) siano strettamente
collegati, poiché è proprio nell’uomo e attraverso l’uomo, grazie alle sue facoltà raziocinanti ed interpretative, che lo
Spirito – il quale si manifesta anche e proprio nel linguaggio e nei testi - raggiunge l’identità con se stesso e perviene
alla propria autocoscienza.
Proprio per questo, la famosa formulazione, che Gadamer eredita da Schleiermacher, secondo cui l’interprete deve
“comprendere l’opera meglio dell’autore stesso”, non si risolve in un anarchico e capriccioso soggettivismo
interpretativo, ma piuttosto in un rapporto di immedesimazione e di scambievole arricchimento – la cosiddetta “fusione
di orizzonti” – tra opera ed interprete, resa possibile dall’essere entrambi compartecipi, e per così dire ospiti, di uno
stesso linguaggio e di una stessa tradizione letteraria, linguistica, culturale: l’opera riceve nuovi significati ad ogni
nuova interpretazione, e l’interprete accresce, nel contatto con il testo, la propria conoscenza di sé e la propria acutezza
di sguardo.

La Parola e la chiacchiera

“Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache”: “L’essere, che può venir compreso, è linguaggio”. In questa
formulazione, destinata a restare fra le più feconde e più profondamente fondanti di tutto il pensiero novecentesco, è
stata ravvisata quasi la sintesi essenziale dell’ermeneutica, la corrente filosofica cui la speculazione di Gadamer ha
impresso una svolta decisiva: il linguaggio – in particolare quello poetico ed artistico – come spia e rivelazione dei
fondamenti più duraturi ed essenziali del reale e come supremo strumento di conoscenza.
“La poesia”, scrive Gadamer, “in parole apparentemente logorate e consunte, sa svegliare la vita nascosta che
contengono, e ci rivela a noi stessi” Il poeta, come diceva Mallarmé, “dona un senso più puro alle parole della tribù”,
vivifica le parole logorate dall’uso destando in esse nuove potenzialità di significato e illuminandone le profondità
nascoste.
Una concezione, questa, che Gadamer eredita dal Romanticismo tedesco, non senza la mediazione del suo
odiosamato maestro Heidegger. E proprio una stupenda pagina della Lettera sull’umanismo di Heidegger può fungere
da chiosa a quel passo di Gadamer: quella in cui il linguaggio poetico è definito come “casa dell’essere”, come
luminosa dimora verso cui l’uomo, “pastore dell’essere”, si protende per carpirle il suo segreto.
Ed è anche qui la lezione che possiamo trarre dalla speculazione di Gadamer: in quest’epoca largamente
contraddistinta – per ricorrere ancora ad una terminologia heideggeriana – dalla “chiacchiera”, dalla “vita inautentica”,
dall’”oblio dell’essere”, dagli infingimenti e dalle persuasioni occulte del mercato e della comunicazione, cercare
ancora di aprirci ad una Parola lucida e pura, acuminato strumento di conoscenza e consapevolezza di noi stessi e del
mondo.

Matteo Veronesi

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