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Il mercato della violenza: dal monopolio alla libera concorrenza.

Un programma scientifico
di Fabio Armao

Introduzione. La civilizzazione della violenza Ancora oggi esistono nel mondo milioni di uomini, e sempre pi di frequente anche di donne e di bambini, che si guadagnano da vivere uccidendo altri uomini, altre donne, altri bambini. Inquadrati in istituzioni statali, in gruppi (a base etnica, religiosa, criminale), in corporation, vengono addestrati per svolgere al meglio il proprio mestiere, ovvero per eliminare il maggior numero di nemici subendo il minimo delle perdite. Sono individui che, per convinzione o per necessit, accettano di essere socializzati alluccidere, quando non addirittura alla propria stessa morte. Sono tutti soldatii: forza-lavoro al servizio di cause nobili e meno nobili, di attori pubblici e privati. Tutti concorrono a determinare i confini e le regole di un mercato della violenza che si soliti per definire della sicurezza, ottenendo con luso di questo eufemismo un doppio effetto: rendere pi accettabile la pratica dellassassinio, arrivando a giustificarla come un male necessario a garantire la tutela della propria comunit e, al tempo stesso, distogliere lattenzione dal fatto che questo genere di attivit contribuisce in maniera significativa a determinare la distribuzione delle risorse (materiali e immateriali) tra attori in competizione tra loro. E invece proprio questa sua funzionalit ai fini dellallocazione autoritativa delle risorse rende la violenza una delle possibili, e delle pi frequentate, forme di agire sociale. Porre la violenza al centro dellanalisi si giustifica anche con il fatto che, per quanto possa apparire paradossale, la parola guerra si dimostra sempre pi inadeguata a comprendere i modi di esercizio della forza armataii; e lo stato sempre meno il termine che compendia ed esaurisce ogni forma di conflitto, inevitabilmente o civile o internazionale. Gli attori privati di ordinaria violenza, che sembravano destinati a rimanere un ricordo di un passato neanche pi tanto recente, stanno infatti riconquistando fasce di mercato sempre pi consistentiiii. Il mercenariato attivit corrente nei teatri di molte guerre del continente africano e in alcune periferie asiatiche e dellAmerica latina, dove reclutatori al servizio dei nuovi warlord assoldano i bambini, con false promesse di ricompense future o pi frequentemente minacciando o uccidendo i loro genitori, per poi costringerli a combattereiv ma scene non molto dissimili si interpretano nelle periferie delle citt globali, dove il crimine organizzato smercia per poche lire i servizi di tanti piccoli assassini. La pirateria, poi, tornata ad essere attivit lucrosa soprattutto in Asia e nel Pacifico; in un regno, quello del mare, che ancora oggi
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sfugge a qualunque tentativo di controllo e di regolamentazione e che offre, a qualsiasi nave che parta da qualunque porto, la possibilit di cambiare durante il viaggio nome, carico, equipaggio, destinazione e paese di registrazione, scomparendo e ricomparendo come tra le mani di un abile prestigiatorev . Il riaffacciarsi sullo scenario mondiale di questo genere di comparse e quindi, a maggior ragione, di gruppi di gran lunga pi strutturati e a carattere transnazionale quali le mafie, le reti terroristiche e le corporation militari concorrenti dello stato rispetto alluso della violenza, complica oggi il quadro e invalida ipotesi cui si cominciava ad attribuire un certo credito, prima fra tutte il presunto carattere universalistico dellesperienza statualistica, quasi che questa forma di organizzazione politica non potesse pi conoscere rivali. Il fatto che non vi fosse terra emersa non appartenente ad uno stato evocava limmagine di un mondo ormai stabilizzato o che, comunque, aveva ultimato una fase necessaria e decisiva del suo consolidamento. E il lento, ma costante progresso nel numero dei regimi democratici successivo al crollo del muro di Berlino nel 1989, la conclamata fine degli scontri tra ideologie contrapposte, la globalizzazione delleconomia, tutto contribuiva a rafforzare questa idea. Non solo. La constatazione che tra gli stessi stati andava rafforzandosi la propensione a privilegiare gli strumenti pacifici del diritto, testimoniata dalla rete sempre pi fitta di organizzazioni internazionali, sembrava confermare che in tempi brevi la violenza sarebbe stata confinata in aree residuali del pianeta dove, alla fine, la stessa guerra avrebbe ceduto il posto alla pi mite azione di polizia internazionalevi. Non ancora detto che si trattasse di una nuova grande illusionevii, ma certamente le ripetute irruzioni della violenza nella vita quotidiana, persino del privilegiato occidente, stanno mettendo a dura prova la fiducia anche dei pi ottimisti. Molti autori interpretano questa evoluzione come il ritorno allo stato di natura; e non soltanto nella sfera internazionale, in cui peraltro, almeno a sentire i difensori dellortodossia realista, lanarchia era ancora la regola e non leccezione. Anche dentro molti stati, secondo costoro, sembrano tornare in gioco i presupposti stessi della convivenza civile e, in particolar modo, quel pactum subiectionis su cui si basa la pretesa dellautorit sovrana di detenere il monopolio legittimo della forzaviii. Non a caso il lessico politologico si arricchito di espressioni quali stati falliti e stati canagliaix ; e non manca nemmeno chi teorizza il declino dellautorit statale e chi, con il neomedievalismo, il ritorno a fedelt e principi organizzativi di tipo feudalex . A questo genere di ipotesi, che evoca in definitiva lidea di un ritorno alla condizione prepolitica delle origini, in questo saggio se ne intende contrapporre unaltra, secondo cui quella dei nostri giorni una violenza sempre pi civile, non nel senso tradizionale di guerra intestina, ma nel significato letterale di violenza prodotta direttamente da attori della societ civile intesa, gramscianamente, come sfera privata o dei rapporti economici; e una violenza sempre meno politica, poich non pi del tutto gestita dai protagonisti della sfera pubblica o dei rapporti politicixi. come dire che la caduta del muro di Berlino e limprovvisa apertura di nuovi immensi mercati, ben pi che la retorica della globalizzazione, hanno improvvisamente resa manifesta la volont della politica di ritrarsi a vantaggio di uneconomia liberisticamente ritenuta in grado di autoregolamentarsi. O, ancora in altri termini, che il fenomeno della privatizzazione della politica gi da tempo ben noto anche alle democrazie occidentali, oltre
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che ai tanti regimi autoritari dei paesi in via di sviluppo ha infine prodotto anche la privatizzazione delluso della forza. Con buona pace di Clausewitz, il cui fondamentale assunto sulla guerra come prosecuzione della politica non viene in realt minimamente scalfito: la guerra cambia natura, ma come diretta conseguenza di un mutamento prima intervenuto nel dominio della politicaxii.

1. Il trucco della natura Ogni tipo di societ, nel corso della storia, ha sviluppato al proprio interno strutture pi o meno complesse composte da individui specializzati nelluso delle armi, che si trattasse dei cacciatori delle trib primitive o delle mille professioni militari prodotte dalla modernit. Ed ogni tipo di societ ha anche ripetutamente impiegato questo genere di specialisti per difendersi o per attaccare altri gruppi. La storia umana anche storia della violenza, della sua evoluzione e dei tentativi di imbrigliarlaxiii. Questo evidente dato di fatto ha indotto la stragrande maggioranza degli studiosi, anche nel campo delle scienze sociali, a sostenere che la violenza meglio, laggressivit abbia un carattere naturale; che sia inscritta, diremmo oggi, nel corredo genetico delluomoxiv . Qualunque discorso sulla guerra, ad esempio, si sempre arenato su questo assunto antropologico, che soltanto gli idealisti hanno cercato di contrastare, ma opponendovi largomento della altrettanto naturale socievolezza delluomo xv . Il fatto che, proprio come dimostra la genetica, entrambe queste affermazioni sono vere; ma insieme a milioni di altre riferite ai pi diversi aspetti del carattere umano. Posto in questi termini, largomento dellaggressivit si rivela talmente ovvio da risultare del tutto irrilevante ai fini della spiegazione della violenza: luomo aggressivo (o socievole) in alcune circostanze e non in altre. Ma questo ci riporta inevitabilmente al contesto che, relativamente alla violenza collettiva, appunto la societ nelle sue pi diverse manifestazioni storiche. Su questo pregiudizio naturalistico si costruita la pretesa, in particolare dei moderni statinazione, di definirsi in contrapposizione agli altri e, quindi, in potenziale conflitto con essi. Da questo punto di vista, la metafora dello stato di natura hobbesiano come condizione originaria di guerra di tutti contro tutti risultava molto pi efficace, ad esempio, dellopposta e altrettanto plausibile metafora rousseauviana del buon selvaggio, proprio perch lasciava sopravvivere la violenza al di fuori dei confini del pactum societatis: prima e fuori dalla societ, prima e fuori dallo stato, prima e fuori dalle relazioni di mercato. Non soltanto, infatti, Hobbes rivendicava al Leviatano il diritto di tenere i propri sudditi in soggezione e di vincolarli con la paura al rispetto dei patti, ma al tempo stesso sosteneva che inerisce alla sovranit il diritto di fare la guerra e la pace con le altre nazioni e gli altri stati; vale a dire di giudicare [] quando luno o laltra convenga al bene pubblicoxvi. Per Hobbes, e per tutta la successiva tradizione realista, non c contraddizione nel fatto di abbandonare lo stato di natura per garantirsi la sopravvivenza per poi ritrovarsi costretti, proprio in quanto membri di quella specifica societ, a rinverdire le proprie passioni naturali per combattere una guerra voluta dalla propria autorit. In fin dei conti, anzi, la violenza esterna alla sfera statale il pretesto maggiormente usato per rafforzare la coesione interna: nel processo di state-building, la piena realizzazione
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della sovranit stata raggiunta attraverso un tormentato percorso di centralizzazione dei mezzi di coercizione, nonch delle funzioni amministrativa e giudiziaria, reso possibile anche, se non soprattutto, dalle esigenze belliche. Uno stato nascente, per diventare effettivamente sovrano, doveva ottenere il riconoscimento delle potenze dellepoca; il che, spesso, finiva per coincidere con il superamento della prova di una grande guerra, con il vedersi cio riconosciuto lo status di belligerante dai propri nemici, oltre che dagli alleatixvii. Ma, pi in generale, il riferimento alla natura ritornava utile, al singolo individuo come alla collettivit, per esorcizzare o rimuovere il problema delle proprie colpe e delle proprie responsabilit; e questo quanto pi la violenza diventava intollerabile. Che altro rappresenta laffermazione la guerra un inferno, con la quale si soliti giustificare anche i pi orrendi crimini, se non il tentativo ultimo di salvaguardare quella via di fuga, ovvero la possibilit di tracciare comunque un confine al di l del quale tutto diventa lecito? Alla fine, il tentativo delle scienze sociali di farsi forti dei risultati ottenuti dalla biologia e dalletologia, o persino del contributo della psicanalisi sulla distruttivit umana, per riproporre uninterpretazione naturalistica della violenza suona come un ostinato rifiuto del compito di studiarla per quello che essa realmente , ovvero un problema tutto interno alle societ, che hanno dedicato al suo esercizio risorse ed energie senza limiti, rivelando in quel campo capacit di pianificazione sconosciute in qualunque altro settore: persino regimi inadeguati a produrre sviluppo economico e sociale hanno pi volte dimostrato di saper condurre validamente delle guerrexviii. E questa pianificazione si sempre estesa a tutti i possibili impieghi della violenza, sia interni sia esterni. La societ non smette di essere tale al di fuori dei propri confini territoriali. I soldati di qualunque esercito non interrompono i rapporti con il proprio paese e con il proprio stato maggiore quando oltrepassano la terra di nessuno; e non si confrontano con la natura, ma con altri gruppi di individui altrettanto organizzati. Si pensi alle due guerre mondiali, per fare lesempio pi significativo, quando per equipaggiare, nutrire e rifornire di armamenti (oltre che seppellire) milioni di soldati fu necessario non soltanto stravolgere lintera struttura sociale e produttiva dei pi importanti stati belligeranti, ma arrivare a pianificare una vera e propria divisione internazionale del lavoro tra alleatixix . Ma si consideri anche il livello organizzativo raggiunto dalle mafie nella loro pratica quotidiana della violenza a fini di estorsione, o anche soltanto il coordinamento richiesto per portare a termine attentati terroristici come quello dell11 settembre 2001. 2. La costruzione politica del nemico Se la violenza un agire sociale, la politica intesa letteralmente come il governo della polis la sfera che rivendica, tra gli altri, il diritto di definire di volta in volta chi siano il nemico e lamicoxx . Che cosa ben diversa dallaffermare che la politica possiede una carica irrimediabilmente antagonistica e che deve necessariamente vivere allombra della guerra o addirittura identificarsi con essaxxi. Dire che la guerra il presupposto della politica, ci che attribuisce alla vita delluomo la sua tensione specificamente politicaxxii, costituisce nientaltro che una riformulazione del pregiudizio naturalistico. Al contrario, sostenere che il sistema politico, una volta legittimata la propria autorit, decide chi sia il nemico, cio contro
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chi usare la violenza, non che la logica conseguenza del riportare la violenza dentro la societ, invece di lasciarla al di fuori di essa. In altri termini, ci che qualifica la violenza come politica e ci permette di distinguerla da altre forme di violenza collettive ma spontanee la pretesa di tracciare autoritativamente anche i confini della sicurezza, stabilendo concretamente chi e che cosa vada protetto e quali siano le minacce esterne, ma anche interne: non bisogna dimenticare, infatti, che chi governa ha il potere di delineare i confini della legalit, ovvero di attribuire a tutti fuorch a se stesso il titolo di criminale (ad esempio, di terrorista) e di stabilire quali siano i loro comportamenti illeciti, non facendo invece apparire tali i proprixxiii. Regimi politici e modelli di ostilit Tutti i governi hanno fatto ampio uso di questa prerogativa sovrana, attribuendo tuttavia caratteristiche differenti al nemico, a seconda dei tempi e del tipo di regime. possibile dare un pi preciso contenuto al concetto di nemico, valutando il rapporto di ostilit a partire da due variabili: lintensit e lestensione. La prima dimensione rinvia alla dicotomia nemico realenemico assoluto ed evoca la distinzione classica tra lo xenos, che si colloca in una posizione di estraneit che ha una valenza esclusivamente politica e il brbaros, straniero due volte, perch connotato da due forme di alterit, che lo rendono estraneo sia sul piano politico sia sul piano della consanguineit e della culturaxxiv . Si potrebbe anche dire che essa richiama lintensit ideologica dello scontro, che pu vedere contrapposte entit omogenee o, viceversa, radicalmente eterogenee: ad esempio, stati che, per quanto ostili, condividono i medesimi principi di sovranit monarchica, oppure che rivendicano valori inconciliabili, com il caso dei paesi democratici e capitalisti contrapposti prima al nazi-fascismo e poi al comunismo (e oggi, almeno per qualcuno, al fondamentalismo islamico). La seconda dimensione pu essere resa con laltra tradizionale dicotomia nemico privato-nemico pubblico, ma adottandone unaccezione semplificata e pi strettamente attinente allidea sostanziale e non formale di legittimazione collettiva. Il nemico pubblico quando almeno una maggioranza della popolazione ritiene valga la pena combatterlo, a rischio della propria vita; il nemico privato quando a concepirlo una ristretta lite del potere (o del contropotere)xxv . I sovrani assoluti dancien rgime, ad esempio, erano soliti identificare il nemico nellomologo rappresentante di una casa regnante ostile e non certo nei suoi sudditi; e per regolare i propri conti si servivano, non a caso, per lo pi di mercenari, cio di combattenti privati che chiedevano soltanto di essere retribuiti in maniera adeguata e regolare. Soltanto manifestazioni estreme come la dittatura, potere monocratico non di rado afflitto da paranoie di persecuzione, e i gruppi terroristici o rivoluzionari, che condividono lambizione di trasformarsi in vettori di un processo collettivo di sovversione dellordine vigente, riescono a concepire forme assolute di ostilit. Il nemico diventa davvero pubblico soltanto quando la politica si apre concretamente alla partecipazione delle masse che, se vogliono godere dei diritti politici e sociali, non possono sottrarsi al dovere di difendere la propria nazione con la leva in massa. In teoria, soltanto in un perfetto stato totalitario o in unaltrettanto perfetta democrazia assembleare potrebbe darsi il caso prefigurato da Schmitt di un intero popolo schierato antagonisticamente contro un altro intero popolo. Ma la differenza fondamentale che la democrazia dovrebbe, per definizione, rifiutarsi di dare una connotazione etica allo
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scontro con i propri avversari. In quanto regime basato, tra laltro, sui principi dellindividualismo e della tolleranza dovrebbe essere immune da qualunque tentazione sia di identificare grossolanamente le responsabilit dei leader con quelle delle masse la cui volont essi pretendono di incarnare, sia di dare alla lotta la valenza di scontro di civilt o di religioni. Nella vita reale, la costruzione del nemico si manifesta in forme miste pi che pure e, inoltre, facilmente soggetta allescalation indotta da due condizioni: la tendenza ad attribuire allavversario intenzioni comunque peggiori delle proprie e la volont di non dimostrarsi meno determinati di lui nelluso della forza. Si gi verificato pi volte nella storia che persino la democrazia che tra tutti i regimi politici quello che ha maggiori possibilit di affrontare il conflitto sforzandosi di attenuare il pi possibile il livello di ostilit inseguisse il totalitarismo sul suo stesso piano, arrivando ad emularne le prestazioni: durante la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, anche gli anglo-americani non hanno esitato a fare massiccio ricorso al bombardamento terroristico sia contro le citt tedesche sia contro quelle giapponesi, per non parlare poi del duplice impiego dellarma atomica ad esito del conflitto ormai scontato. Il ruolo degli apparati militari Unulteriore conferma della pretesa della politica di rivendicare per s la prerogativa di definire il nemico giunge dallevoluzione delle istituzioni cui il sovrano ha, nel tempo, delegato le funzioni militari. Titolarit ed esercizio del potere non competono al medesimo individuo e, ci che pi conta, chi ne rivendica il titolo prevale su chi effettivamente lo esercita: lo stato non si struttura semplicemente sulle relazioni diadiche sovrano-sudditi [] ma sulla triangolazione di rapporti sovrano-apparati amministrativi-sudditixxvi. Persino il pi autocratico dei regimi si affida ad un apparato coercitivo e alla delega ad esso del potere di vita o di morte: il re e il carnefice, che sia il boia o il soldato, non sono mai la stessa persona. stato osservato che il passaggio dallantichit alla modernit segnato dallespulsione della violenza dalla sfera privata e dal suo ingresso nella sfera pubblica: il potere del pater familias sugli schiavi (e sulla famiglia) lascia il posto al potere prima del sovrano sui sudditi e poi del governo sui cittadinixxvii. Ma la trasformazione della violenza da privata a pubblica ha richiesto secoli e un processo immensamente complesso contraddistinto, in estrema sintesi, da due fasi principali: la prima, quella della formazione dei monopoli, caratterizzata dallaccumulazione delle risorse nelle mani di poche e infine di una sola autorit; la seconda, quella della redistribuzione delle risorse, in cui il sovrano avvia la trasformazione del proprio potere da privato a pubblico appunto, assumendo perci la funzione di ripartire le chance se si vuole diritti e obblighi tra gruppi sociali sempre pi estesi, senza mai rinunciare per al monopolio del dominioxxviii. stato anche sostenuto che, nella realt, laccumulazione delle risorse viene inizialmente realizzata da niente pi che dei banditi: alle origini dello stato ci sarebbe una competizione tra gruppi che vede prevalere quelli tra essi che abbandonano per primi il nomadismo per stanziarsi in un territorioxxix . Ci che certo, comunque, che la gestione della violenza collettiva produrr una crescente separazione dei ruoli tra limprenditore politico, cui spettano le funzioni di mediazione e di rappresentanza dei diversi soggetti sociali, e gli specialisti nellimpiego della violenzaxxx . La fuoriuscita dallet feudale segnata da una doppia procedura: di assoggettamento, da
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un lato, e di distinzione dei ruoli, dallaltro. Fino ad allora, il cavaliere non era stato che un ufficiale di se stesso, uno specialista addestrato fin dallinfanzia alluso delle armi e ricompensato con la concessione di un feudo, sul quale era libero di esercitare il proprio dominio ricavandone i mezzi di sostentamento. Lobbligo di fedelt lo vincolava al suo diretto concedente e non al re, che a sua volta era ancora considerato il primus inter pares di una moltitudine di poteri confederati. Lo stato comincia a delinearsi nel momento in cui il sovrano riesce a emanciparsi dai legami di vassallaggio e ad affermare definitivamente la propria superiorit sui potentati locali; ma questo grazie al fatto di poter accedere a nuove risorse di violenza. La costituzione di un tesoro centrale procede di pari passo con la comparsa di nuove figure di veri e propri imprenditori militari in grado di vendere al monarca reparti armati di mercenari, addestrati nelluso delle nuove tecnologie: fanterie abili alluso delle picche e a manovrare nella formazione compatta del quadrato; arcieri e poi archibugieri in grado di produrre un disciplinato fuoco di fila; persino truppe di cavalleria con cui sostituire le sempre meno affidabili reclute ottenute con il ban e larrire banxxxi. Completato lassoggettamento, pu iniziare la redistribuzione dei ruoli. La creazione di una burocrazia civile rende il sovrano potenzialmente autonomo anche nellamministrazione del regno; ma dei vecchi competitori avr ancora bisogno per consolidare quel regime disciplinare su cui fonda la propria autorit. Di qui la scelta di non escludere definitivamente gli sconfitti dalla condivisione del potere ma, al contrario, di farli partecipare alla spartizione degli utili sia in termini di status sociale sia in termini di ricchezze; ad esempio, attraverso la creazione della nobilt di corte, con tutto il suo apparato di lussi e privilegi. Il loro principale compito sar poi quello di andare a riempire i ranghi di un nuovo corpo ufficiali, cui verr offerto da quel momento lo sbocco della guerra contro un nemico esterno xxxii. Lambizione di tutti i sovrani assoluti dellepoca, da Carlo V in poi, sar poter affidare loro un esercito sempre pi permanente, privo di quei difetti costituzionalmente associati alle truppe mercenarie: lassoluta mancanza di fedelt al sovrano, la scarsa affidabilit in battaglia, la pratica del saccheggio del territorio come legittima integrazione del soldo. Ma limpresa si riveler pi difficoltosa del previsto: per il costo stesso del mantenimento di truppe da retribuire tutto lanno e da acquartierare in appositi presdi collegati tra loro da una complessa rete logistica; nonch per le spese crescenti imposte dallo sviluppo dellartiglieria e, conseguentemente, dalla scienza delle fortificazioni. Questo, oltre a giustificare le frequenti bancarotte dei governi centrali, spiegher come mai i reggimenti del Re Sole risultino ancora composti per lo pi da volontari il cui reclutamento alimenta corruzione e speculazione, e perch persino le mitiche armate federiciane, fondate inizialmente sullobbligo del servizio militare per contadini e artigiani, col tempo si vedranno costrette a fare sempre maggior ricorso al reclutamento di mercenari stranieri, vanificando limpiego delle sofisticate tattiche che avevano fatto la fortuna di Federico il Grande. Il corpo ufficiali si riveler anche in seguito, per chi governa, uno straordinario strumento di integrazione sociale e di cooptazione a fini di dominio. Nellepoca dellascesa e del trionfo della borghesia, come si gi accennato, i sovrani ricorreranno ampiamente alla cosiddetta vendita dei brevetti, col doppio risultato di alimentare le stremate casse dello stato e di riequilibrare i rapporti tra le forze sociali: non escludendo del tutto, ma ridimensionando, il
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vecchio ceto nobiliare ormai impoverito a vantaggio di una classe borghese che rivendica uno status adeguato alla propria ricchezza. Successivamente, il diffondersi delle Accademie militari a partire dalle maggiori potenze europee, prefigurer la nascita della carriera militare come professione aperta a tutti e la graduale trasformazione del corpo ufficiali in una burocrazia fondata, analogamente a quella civile, sul senso di appartenenza e sulladozione di competenza e competitivit quali criteri di selezione e avanzamento. Ma questo non implicher affatto la rinuncia al proprio specifico ruolo di principali agenti del potere politico. Semmai, la professionalizzazione si riveler ancora pi funzionale allesercizio della violenza collettiva, adattandosi alle esigenze dei pi diversi regimi; offrendo il necessario supporto tanto al militarismo prussiano di fine Ottocento quanto ai governi golpisti latino-americani del Novecento, e alle democrazie liberali tanto quanto ai totalitarismixxxiii. La violenza come fonte di legittimit La violenza riveste una funzione di legittimazione del potere innanzi tutto perch produce sofferenze fisiche: le ferite subite dal corpo del soldato rappresentano la pi esplicita fonte di convalida per qualunque tipo di autorit; e questo per il fatto che il soldato acconsente a mettere il proprio corpo a disposizione di un processo di verifica di obiettivi politicixxxiv . Le motivazioni che lo hanno spinto ad arruolarsi si rivelano, allora, discriminanti ai fini della valutazione non certo della giustizia di una causa, ma di quanto essa sia stata ritenuta valida: se, in ultima analisi, un potere pu definirsi legittimo soltanto se efficace, cio se ottiene obbedienza, allora il grado e la qualit di quella obbedienza diventeranno davvero significativi. Ai due estremi di un continuum potremo quindi immaginare di collocare rispettivamente il mercenario e il cittadino-soldato: venalit e interesse personale versus idealit e partecipazione, la violenza come merce e la forza liberamente concessaxxxv . E allinterno di questo secondo gruppo potremo operare ulteriori distinzioni a seconda che la decisione di mettere a repentaglio la propria vita sia il risultato di una scelta realmente consapevole o, piuttosto, il frutto di un processo di indottrinamento. Se si accetta di ricondurre la violenza dentro lambito della societ, alla fine sar proprio lesperienza storica che restituendo il giusto peso alla vita e, soprattutto, alla morte ci aiuter a spiegare perch i regimi si differenziano cos tanto relativamente a quali forme e agenti della violenza essi sponsorizzano, legittimano, tollerano o proibisconoxxxvi. Lintelligenza dellautorit sta nel non affidare lamministrazione della violenza a un apparato dal quale non sarebbe sicura di ricavare lobbedienza necessaria a rendere efficace il proprio potere di comando. E, se si guarda al lungo periodo, possibile affermare che raramente un simile errore stato commesso. La paura delle monarchie assolute di armare il popolo era, in questa prospettiva, assolutamente giustificata. Un esercito di mercenari, pur con tutti i suoi limiti, rappresentava una risorsa molto pi adeguata alla natura dei loro regimi. E quando qualche sovrano relativamente pi illuminato, come Gustavo Adolfo di Svezia ai tempi della guerra dei Trentanni, cominci a immaginare un sistema basato sulla coscrizione obbligatoria, lo concep a lunghissima ferma: ci si arruolava nellesercito da adolescenti, per uscirne o da morti o da vecchi, dopo aver percorso anche tutti i gradi della riserva e della milizia territoriale. La fedelt, in questo caso, era garantita, oltre che dalladdestramento, dal
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non aver conosciuto altra vita che non fosse quella del proprio reparto. Inoltre, forme diffuse di esenzioni e di autorizzazioni a pagarsi un sostituto sopravvissero nelle forze armate delle maggiori potenze europee fino allimmediata vigilia delle guerre mondiali; quasi a volersi tutelare dalle possibili rimostranze con lalleggerimento dellobbligo al servizio almeno ai benestanti. Basterebbe ricordare alcuni episodi di renitenza collettiva alla leva in Italia meridionale ai tempi della Prima guerra mondiale, negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam per dedurne la fondatezza di quei timori. La coscrizione universale unesperienza tutto sommato molto rara per tutta let moderna e contemporanea. E si ritrova associata, non a caso, a forme di governo assembleare o chiaramente rivoluzionarie: la sperimentano i comuni medievali italiani del Quattrocento, ad esempio, e lInghilterra negli anni della dittatura cromwelliana e del New Model Army (165358); e poi pi nulla, fino alla nation arme, nella Francia del 1792. E questa esperienza tanto pi significativa ai fini del nostro discorso se si considera che, certo, la leva in massa viene adottata (verrebbe da dire: per necessit) anche da potenze conservatrici come la Prussia; ma per poi essere abolita con una rapida controriforma immediatamente dopo la vittoria su Napoleone. Essa si dimostra perci effettivamente compatibile soltanto con la concessione di quei diritti sociali e politici che siamo soliti associare soprattutto allesperienza novecentesca dei regimi di massa; e, in quelle circostanze, produce gli eserciti pi affidabili e determinati che si conoscano. Purch, tuttavia, la guerra venga percepita come necessaria. Il ricorso alla leva in massa, proprio perch costituisce la forma pi pubblica concepibile di esercizio della violenza, ha un ritorno senza confronti in termini di legittimazione sulllite al potere; e tanto maggiore, occorre ribadirlo, quanto pi la sua partecipazione ottenuta in maniera trasparente e democratica. Daltra parte, il coscrittoxxxvii, proprio perch non motivato dal denaro o dallorgoglio professionale, deve poter contare su convinzioni ideologiche molto forti per reggere i traumi e le sofferenze inferte dalla violenza al corpo suo e dei suoi commilitoni. Meriterebbe una pi attenta valutazione il fatto che la coscrizione universale, introdotta dalle democrazie anche per soddisfare un principio di equit (la condivisione dei rischi) e con lesplicito intento di ridurre la tradizionale distanza delle istituzioni militari dalla societ civile, sia stata da esse stesse pi o meno repentinamente abolita non appena si profilata la possibilit di estendere alle truppe quel modello di professionalit che si era gi dimostrato cos efficace per il corpo ufficiali. Questa autentica nuova rivoluzione militare, resa possibile (e giustificata) dallinnovazione tecnologica che permette una certa riduzione degli organici ma, al tempo stesso, richiede loro una maggiore competenza ha certamente restituito ai governi interessati una libert di impiego della violenza impensabile con un esercito di coscritti. In questo senso, essa pu essere considerata unulteriore dimostrazione della capacit dei sistemi politici di scegliere apparati militari che non mettano in discussione il loro potere di comando: il professionista, per cultura, meno predisposto del cittadino-soldato a porsi domande sulle cause della guerra. Il fatto, poi, che al generalizzato abbandono della leva si sia aggiunta la propensione a subappaltare ad attori privati quote sempre pi consistenti di violenza collettiva persino in tempo di guerra, prefigurando un ritorno massiccio al mercenariato, sembrerebbe dimostrare che la legittimazione politica del proprio uso della forza non sia pi una priorit
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nemmeno per le democrazie occidentali.

3. Il gioco delle parti tra stato e capitalismo La costruzione degli apparati militari nella sfera politica procede parallelamente allevoluzione del mercato nella sfera economica. La metafora contrattualistica, anche in questo caso, non rappresenta che un tentativo (riuscito) di celare laccumulazione originaria delle risorse operata dal sovrano, facendolo apparire come colui che, tertius super partes, ha saputo trasformare un caos dominato dallappropriazione [] in un cosmos regolato dalla distribuzione e orientato alla produzione, consolidando in tal modo la legittimazione della propriet privataxxxviii. Lo stato, invece, direttamente coinvolto nelle vicende del capitalismo, quanto meno quello dalta quota delle grandi famiglie (oggi delle grandi corporation) e dei monopoli: il capitalismo pu trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando lo stato, afferma Braudel, fermo restando che lo stato talora agisce a suo favore, talaltra ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi distrugge le sue risorsexxxix . Come tutti i sistemi, quello politico e quello economico hanno ciascuno una propria gerarchia, proprie regole e propri valori; ma le loro vicende si intrecciano al punto da apparire a volte inestricabili. E questo tanto pi vero nella sfera della violenza. Basterebbe pensare al ruolo avuto da potenze come la Spagna nel mettere in moto, allepoca delle prime grandi imprese transoceaniche, quelle catene commerciali sulla lunga distanza basate sullimportazione dei nuovi metalli, largento e loro; o alle successive epopee colonialiste di Inghilterra, Francia e Olanda nelle quali fu compito della politica anche delineare il modello di nemico: il selvaggio privo di cultura da ridurre in schiavit, delegando semmai alle chiese e ai liberi pensatori il compito di giustificare la violenza con la dottrina della missione civilizzatricexl. Il mercato, del resto, ricompensava ampiamente questa collaborazione, fornendo allo stato quello di cui aveva pi bisogno: contante da investire nelle guerre, e armamenti e soldati da bruciarvi dentro. La violenza come merce, bene, servizio Se la politica ci che determina lintensit del concetto di violenza insegnandoci chi dobbiamo odiare e perch, il mercato offre una chiara misura della sua estensione, arricchendo il termine di pressoch infinite accezioni. La violenza, sotto forma di armi o di soldati, merce che pu essere scambiata con denaro; il soldato che la esercita produce la morte come bene diretto, ma ricchezza e potere come beni strumentali, e il suo impiego si configura come un servizio per il sovrano o per chiunque sia disposto a pagarlo. E poi c la violenza come produzione degli armamenti, con la sua forza-lavoro civile qualificata come bersaglio legittimo in tempo di guerra; come investimenti per la ricerca scientifica e tecnologica; e, ancora, come speculazione borsistica sulle prospettive future di morte e di distruzione. E, infine, c il mercato nero, clandestino e criminale, che immancabilmente accompagna lo svolgersi degli eventi bellici, cio la violenza in attoxli. come dire che gli attori privati hanno sempre saputo mantenere ampi margini di manovra, e di profitto, in tutte le
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attivit connesse alla gestione della violenza. A partire dal suo esercizio diretto. La gestione privata di eserciti talvolta anche di vaste dimensioni si pensi al caso di Wallenstein nel XVII secolo, colonnello molto richiesto ma altrettanto temuto dalle potenze dellepoca unattivit che non soltanto ha garantito lavoro e reddito a molti specialisti nelluso delle armi, ma ha contribuito anchessa in maniera significativa alla distribuzione delle risorse a livello collettivoxlii. La protezione ha rappresentato per secoli un costo variabile a seconda delle aree geografiche e delle congiunture, generando anche dei vantaggi competitivi per quelle autorit che si fossero trovate nelle condizioni di poter pagare meno (o non dover pagare affatto) quel servizio; producendo sviluppo o, pi spesso, drammatiche recessioni; decidendo della salvezza delle popolazioni civili o viceversa condannandole senza appello ai saccheggi, agli stupri, alle epidemie. A ulteriore dimostrazione del carattere privatistico della prestazione, lacquisto dei mercenari non era (e non tuttora) regolato da leggi, bens da contratti che specificavano di volta in volta il numero di soldati richiesti, la paga convenuta (da elargire per lo pi in contanti) e la durata della prestazione; e che potevano prevedere anche delle clausole, ad esempio relative alla prolunga della ferma. La condotta era il contratto tipo nellItalia rinascimentale, dove si dava per scontato che il reclutatore (il condottiere) dovesse anche guidare le proprie truppe in battaglia; in Germania, invece, esistevano gi dei reclutatori-imprenditori capitalisti che delegavano ad altri il comando della compagniaxliii. Una distinzione di ruoli, questa, probabilmente favorita dal fatto che spesso chi reclutava gli uomini doveva anche essere in grado di anticipare il capitale necessario a vestirli ed armarli. La situazione in mare non era poi cos diversa, se soltanto si considera che nella battaglia del 1588 tra lArmada di Filippo II e gli inglesi, entrambe le flotte erano ancora in maggioranza composte da navi mercantili di propriet di commercianti. Ma anche qui non mancavano forme pi sofisticate di subappalto della violenza. Una pratica tra le pi diffuse era quella del privateering, con la quale il sovrano autorizzava vascelli armati di propriet privata ad attaccare il naviglio nemico in tempo di guerra (e non solo). Il vantaggio, in questo caso, era duplice perch agli introiti economici che lo stato si garantiva intascando una parte del bottino, si aggiungeva la possibilit di non apparire come il diretto responsabile dellazione. Tra la guerra di corsa, cio legittimata da una lettera a firma del re, e la pirateria il confine era molto labile, sia perch poteva capitare che il privato decidesse arbitrariamente di ampliare i termini del proprio mandato, sia perch lo stato poteva ritirare improvvisamente la propria delega qualora ci gli servisse per alleggerire le tensioni con il nemicoxliv . Un eroico comandante di sua maest poteva trasformarsi, da un giorno allaltro, in un pericoloso criminale da catturare e impiccare al pennone pi alto della sua stessa navexlv . La natura e i costi stessi delle imprese marittime, e in particolare di quelle transoceaniche, rendevano il contributo dei privati assolutamente inevitabile. Ogni viaggio costituiva unimpresa a s stante, il che facilitava un calcolo attendibile dei ricavi in rapporto ai costi; ma, oltre tutto, le finalit commerciali finivano con il prevalere su quelle strettamente militari. Al contrario, ogni campagna terrestre sembrava sottrarsi a qualunque previsione sui costi, lunico limite rimanendo quello della disponibilit delle casse dello stato, e non offriva alcuna garanzia di un reale ritorno dellinvestimento. I soli attori che fossero in grado di finanziare simili iniziative
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erano i grandi banchieri italiani o tedeschi; imprese a carattere dinastico pi che familiare, che erano state capaci di innovare radicalmente il credito e di garantire ai commercianti e alle truppe dei re il contante necessario ai pagamenti praticamente in qualunque parte del mondo, sollevandoli cos dai rischi che avrebbero corso portando il denaro con loro. Ma persino per queste una guerra poteva facilmente trasformarsi in catastrofe, soprattutto in caso di bancarotta delle monarchie cui erano stati concessi i prestitixlvi. Ci contribuisce a spiegare perch fino al diciannovesimo secolo il commercio marittimo e la navigazione di corsa rimasero intimamente vincolati: persino dopo lavvento delle marine militari regolari nella seconda met del diciassettesimo secolo i premi in denaro corrisposti per la cattura di naviglio nemico erano rimasti una parte preponderante del reddito sul quale potevano contare ufficiali e uomini di marinaxlvii. Lesperienza delle compagnie commerciali Ben diverso il ruolo avuto dalle compagnie commerciali privilegiate, che rimangono a tuttoggi le pi autentiche interpreti della violenza privata al pubblico servizio. Per il mercato hanno incarnato un modello ideale di autogestione del potere; per lo stato si sono dimostrate un partner da legittimare, tollerare, contrastare a seconda dei tempi. Riservate ai mercanti professionisti che, come nelle vecchie gilde, accettavano di pagare una retta e di sottostare ad un rigido regolamento, esse non coprivano i rischi individuali di impresa, ma certamente erano in grado di garantire privilegi senza precedenti. Per quanto vengano solitamente distinte a seconda del carattere pi decisamente privatistico, come nel caso delle compagnie olandesi, o viceversa statalistico, come nel caso delle compagnie francesi e portoghesi, tutte indifferentemente possedevano i requisiti tipici della sovranit. Stato indipendente dallo stato (staat buiten die staat ), come vengono definite, le compagnie reclutano eserciti e armano flotte, creano insediamenti nei quali hanno potere di governo sui propri connazionali, battono moneta, possono dichiarare guerra e firmare trattatixlviii. Tra i vantaggi che derivano da questa loro peculiare costituzione, oltre al fatto di operare in condizioni di quasi-monopolio, di avere un forte ascendente sulla corona e di dimostrare ampie capacit di condizionamento (quando non di corruzione) del governo, vi soprattutto quello di gestire come un normale costo razionale di impresa la violenza necessaria a difendere i propri traffici e a implementare le proprie politiche: risorse autofinanziate, sempre disponibili, nel numero e con gli armamenti necessari; da dispiegare senza dover rispettare i riti della grande politica o le lungaggini imposte dalla mobilitazione di grandi contingentixlix . A volte alcune compagnie entreranno in conflitto tra di loro per il controllo di specifici mercati; ad esempio, inglesi e olandesi tra il 1618 e il 1620 nellOceano indiano. Quasi mai, tuttavia, replicheranno nelle colonie le guerre combattute in Europa dai propri sovrani. Nel sistema internazionale dellepoca la loro anomalia consiste proprio nel fatto che non si lasciano condizionare dagli interessi immediati di difesa e di espansione territoriale della madrepatria, preferendo piuttosto perseguire il proprio prioritario interesse statutario: la tutela e lincremento del capitale. Nel caso della East India Company inglese, lindipendenza dalla madrepatria si spinger al punto da suscitare una violenta protesta parlamentare che si concluder nel 1794 con lapprovazione dell India bill, proprio nel tentativo, destinato a
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fallire, di riportare sotto controllo reale almeno la politica estera della compagnia. Fino al 1857, lanno dello scoppio in India della Grande ribellione, lInghilterra possieder di fatto due eserciti: uno al servizio dello stato e laltro schierato dalla compagnia. In realt, per, lesercito indiano si emanciper anche da questultima: determinato a difendere la propria indipendenza dallapparato militare britannico, ma anche a riaffermare la propria supremazia sullamministrazione civile della compagnia, finir per danneggiarne irrimediabilmente gli interessi economici e per determinarne la scomparsal. Il fallimento delle altre compagnie sar provocato, a seconda dei casi, dalla bancarotta, dalla fusione con altri gruppi, dalla semplice revoca della concessione decisa dal governo, anche per rispondere alla crescente domanda di liberalizzazione del mercato da parte dei nuovi attori economici. Pi in generale, tuttavia, la rinuncia alla violenza privata sar imposta dal sistema internazionale pi che dalle esigenze di politica interna. Per quanto riguarda il mercenariato, il fatto che dei cittadini di uno stato partecipino a una guerra, seppure a titolo personale, sar considerato con sempre maggiore frequenza incompatibile con la pretesa di quello stesso stato di mantenersi neutrale. La fine della guerra di corsa, invece, verr determinata dal timore che essa possa dare luogo a conflitti di pi ampia portata; e ufficialmente sancita, nel 1856, dalla firma della Dichiarazione di Parigi da parte di Francia, Gran Bretagna, Russia, Austria, Prussia, Sardegna e Turchia, che ne rispetteranno lapplicazioneli. Lindustrializzazione della morte Se nel campo della gestione della violenza, alla fine dellOttocento, gli attori privati sembravano aver fatto un significativo passo indietro, nel campo della produzione degli armamenti invece, proprio nello stesso periodo, essi riuscivano a conquistare un vantaggio competitivo nei confronti dei vecchi arsenali militari di propriet dello stato che a vrebbe consentito loro di conquistare una leadership che nulla e nessuno sembra ancora oggi in grado di minacciare. Di quellepoca si soliti ricostruire la storia, appropriatamente, a partire dallidea che abbia conosciuto unautentica rivoluzione tecnologica. Si pensi allinvenzione dei fucili a retrocarica nella met dellOttocento, per citare lesempio pi significativo di innovazione nel campo delle armi leggere, o allevoluzione delle navi, dalla vela al vapore e dal legno allacciaio, che procede ad un ritmo talmente incalzante tra il 1830 e la fine del secolo che spesso i vascelli di nuova progettazione diventano obsoleti gi prima del loro varo. E poi, sempre negli stessi anni, la febbre delle ferrovie e la scoperta del telegrafo sconvolgono lidea stessa di logistica, mentre scoperte in campo medico quali il chinino abbattono il tasso di mortalit delle truppe impegnate nelle imprese coloniali. Questo, secondo Headrick, spiega limpressionante progressione dellespansione europea nel mondo pi di qualunque ideologia: nel 1800 gli europei occupano o controllano il 35% della superficie terrestre; nel 1878, il 67%; nel 1914, pi dell84%lii. Tutto ci non sarebbe nemmeno pensabile senza unattenta pianificazione della ricerca, che produrr negli anni tra le due guerre mondiali altre continue innovazioni: lautocarro e il carro armato, laeroplano, il radar, la bomba atomica. E non sarebbe poi realizzabile senza ladozione di massicce economie di scala, la standardizzazione della produzione (delle
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munizioni, ad esempio, ma anche degli imballaggi), la creazione di unlite tecnocratica in grado di amministrare il lavoro di milioni di operai e la guerra di milioni di soldati. Tra i risultati di questa evoluzione, tuttavia, bisogna comprendere anche gli accordi collusivi tra imprese di paesi diversi e talvolta persino belligeranti, la sistematica attivit di lobbying esercitata su ufficiali delle forze armate e politici che talvolta degenera in aperta corruzione, la disponibilit dei parlamenti a coprire i deficit di bilancio creati da una spesa militare fuori controlloliii. Insomma, quello che viene definito complesso militare-industriale (ma che sarebbe pi corretto chiamare industrial-militare). Basta un semplice confronto a chiarire lentit di questa rivoluzione: stato calcolato che nel XVII secolo quando ancora lo stato non aveva i mezzi per condurre guerre di sterminio, ma certamente poteva gi combattere per anni e su pi fronti tra i dieci e i dodici milioni di europei siano stati soldati; e molti di loro fuori dal continente: il soldato nomade era la principale merce di esportazione dellEuropa preindustriale verso il resto del mondoliv . Ma, allinizio del Novecento, il numero dei mobilitati nelle due guerre mondiali stato, rispettivamente, di 65 e 80 milioni di uominilv . Questo incremento nelle dimensioni degli eserciti offre gi unidea di quale fosse il livello di produttivit raggiunto dagli apparati industriali delle grandi potenze. Gli 8,5 milioni di morti della Prima guerra mondiale e i 50 milioni, 30 dei quali civili, della Seconda guerra mondiale ci dicono, invece, del livello di distruttivit raggiunto dagli armamenti. Di fatto, il momento di pi elevata partecipazione pubblica a un evento bellico, in cui le masse coinvolte offrono alle potenze vincitrici con il proprio sacrificio una legittimazione politica tale da metterle in grado di garantire al mondo fino al 1989 uno dei periodi pi pacifici della sua storia, coincide con il trionfo della privatizzazione nel campo della produzione degli armamenti. Questa forzata convivenza tra logica politica e logica di mercato destinata inevitabilmente a creare delle tensioni relativamente alle priorit da perseguire: non detto che la sicurezza pubblica coincida con gli interessi dei produttori darmi. Ne sono prova, da un lato, le cosiddette guerre molecolari che affliggono le grandi citt globali del Nord e del Sud del mondo, non certo provocate, ma sicuramente rese pi letali dalla crescente diffusione fra i civili di vere e proprie armi da combattimentolvi; e, dallaltro, la stessa strategia di lotta al terrorismo, che insiste sul rischio rappresentato dal fatto che piccoli gruppi o stati canaglia possano entrare in possesso di ordigni di distruzione di massa e sulla necessit di limitarne la proliferazione, senza nemmeno ipotizzare un preventivo intervento alla fonte: imponendo in sede internazionale la sede, si ricordi, dove si era contrattata nellOttocento la marginalizzazione dei gestori privati di violenza maggiori controlli in fase di ricerca e di produzione anche delle singole componenti, se necessario rinazionalizzando le imprese considerate a rischio e che, per lo pi, sono localizzate proprio in quei paesi sviluppati che si ritengono pi esposti alla minaccia. del tutto plausibile sostenere, se si guarda in particolare allesperienza statunitense e alla capacit della National Rifle Association di bloccare qualunque tentativo di limitare la vendita persino delle armi leggere, che le odierne lobby degli armamenti abbiano un potere di condizionamento della politica superiore a qualsiasi altro attore del passato. Ma ci, a meno di non fare proprie le tante visioni complottistiche che fioriscono sui libri e sui siti web, non sufficiente a determinare interamente il loro successo. In termini razionali, essendo impossibile
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un raffronto empirico tra lOttocento e oggi in termini di costi (politici) e ricavi (economici) legati al settore della violenza privata, dovremmo supporre che i vantaggi economici del sistema odierno, persino per lo stato, siano maggiori di quelli che erano in grado di produrre le vecchie compagnie o, a maggior ragione, mercenari e corsari; e che questo basti a giustificare lattuale politica globale degli armamenti, anche a fronte dei rischi crescenti per la sicurezza. Il risparmio, in termini sia di ricerca scientifica e tecnologica sia di produzione, un argomento molto pi valido oggi di quanto non lo fosse due o quattro secoli fa, quando le monarchie non avevano alcun bisogno di giustificare le proprie spese ai sudditi. Nel Seicento, Luigi XIV poteva destinare alla guerra, senza eccessivi problemi, il 75% del proprio bilancio; Pietro il Grande l85%; lInghilterra fino al 90%lvii. Il graduale abbandono dello stato patrimoniale e lo sviluppo del parlamentarismo, da un lato, e, dallaltro, i processi di urbanizzazione e modernizzazione hanno suggerito una, seppur graduale, differenziazione della spesa pubblica. Oggi, nessun governo potrebbe permettersi di accantonare quote simili per usi militari: gli Stati Uniti destinavano nel 1955, in piena Guerra fredda, il 10,8% del prodotto interno lordo alle spese militari; la percentuale era scesa al 5,2% nel 1990 e, dal 1999 ad oggi, variata tra il 33,5% ed previsto rimanga a questi livelli fino al 2008. E il dato che assume pi significato riguarda, semmai, la ripartizione planetaria delle spese militari, da cui risulta che i primi 15 paesi compratori, tra i quali ovviamente vanno annoverati i governi di tutte le maggiori potenze occidentali, contano per l82% del totale della spesa mondiale per gli armamenti; e, tra questi, gli Stati Uniti contano per il 47%lviii. La plausibilit dellargomento del risparmio si basa, tuttavia, pi che su studi di settore in grado di comparare costi e qualit della spesa pubblica e della spesa privata nel campo degli armamenti, sullassunto del tutto indimostrato che il mercato, smithianamente inteso come il luogo del perfetto equilibrio di domanda-offerta, possa garantire il prodotto migliore al prezzo pi basso. Lesperienza della privatizzazione in altri tradizionali settori della spesa pubblica quali la sanitlix e le carcerilx non sembra confermare questa ipotesi, mentre la quotidianit riporta notizie di azioni collusive tra aziende, di creazione di cartelli, di corruzione finalizzata al controllo degli appalti pubblici: tutti interventi destinati ad alterare profondamente le ipotetiche virt del libero mercato. Il fatto che sulla base di questo secondo pregiudizio, dopo quello hobbesiano, si sta progettando e realizzando, nel nome dell outsourcing, una nuova massiccia cessione ai privati di risorse di violenza che potrebbe infine mutare davvero la forma istituzionale che abbiamo imparato a conoscere come stato.

4. I nuovi marchi della violenza Le mafie, le reti terroristiche e le multinazionali del mercenariato rappresentano oggi i principali marchi di una rinnovata industria privata della violenza: le mafie riproducono incessantemente laccumulazione originaria (e violenta) delle risorse a livello locale, investendo poi i propri profitti sul mercato globale, dove assumono il ruolo, fondamentale per leconomia capitalistica, di commercianti sulla lunga distanza, in grado di far circolare merci (per lo pi illecite) e denarolxi; i terroristi contribuiscono ad alimentare il mercato della sicurezza
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vendendo a gruppi marginalizzati lillusione di un futuro accesso allarena politica e ottenendone in cambio un sacrificio immediato; le corporation militari producono reddito per s, attraverso la vendita dei servizi dei propri soldati, e per i propri clienti, ad esempio ogni qual volta la difesa degli interessi di una multinazionale d luogo a pratiche di vero e proprio sfruttamento delle risorse naturali. Tra questi attori, com ovvio, si danno delle differenze che, oltre tutto, fanno s che non entrino in concorrenza tra di loro: mafiosi e mercenari fanno un uso tendenzialmente pi strumentale della violenza, lasciando ai terroristi la prerogativa di finalizzarne limpiego a fini pi tipicamente sovversivi (di volta in volta, a livello interno o a livello internazionale). Ma non mancano le analogie, in particolare legate alla struttura compartimentata (per clan, cellule o unit di combattimento) di tutte queste organizzazioni; e cos pure non sono rare le invasioni di campo, come nel caso dei clan mafiosi che praticano strategie stragiste o dei gruppi terroristici che si finanziano con il narcotraffico. Nel suo complesso, questa industria privata della violenza pu contare su una serie di vantaggi competitivi rispetto alla gestione pubblica della forza affidata agli stati; vantaggi che tendono a rafforzarsi a vicenda generando un circolo dal loro punto di vista sicuramente virtuoso. Il primo consiste in una disponibilit pressoch illimitata di risorse finanziarie, praticamente tax free perch sottratte a qualsiasi potere di controllo delle autorit nazionali e internazionali, che facilita lacquisto delle armi e il reclutamento di uomini in grado di impiegarle. Il secondo vantaggio rappresentato dalla natura (in tutto o in parte) occulta della loro organizzazione e, quindi, dalla possibilit di operare al di fuori della legge, nascondendo se necessario lidentit dei propri membri. Per quanto riguarda in particolare lesercizio della forza, ci li pone in una condizione di indiscussa superiorit strategica nei confronti di chiunque tenti di contrastare le loro attivit alla luce del sole e nel rispetto della legalit. Il mafioso, il terrorista o il mercenario che voglia colpire un nemico, che sia un cittadino inerme o un rappresentante delle istituzioni, potr avvantaggiarsi della propria invisibilit per sfruttare al massimo grado il fattore sorpresa. Al contrario, la potenziale vittima, non sapendo come, quando e dove verr colpita, potr anche dispiegare un imponente e costoso apparato di sicurezza senza mai, tuttavia, arrivare a garantirsi lincolumit. Il terzo e pi considerevole vantaggio che ciascuno di questi attori si trova nelle condizioni di poter controllare il mercato della violenza tanto dal punto di vista dellofferta, quanto dal punto di vista della domanda. Tutti, seppure in settori differenti, vendono il bene protezione: il mafioso si presenta alla vittima dellestorsione come garante, a pagamento, dellincolumit sua e dei suoi beni; il terrorista pretende di difendere le masse ottenendone comunque in cambio tributi in denaro o, eventualmente, in natura (le vite umane dei suicidi); il mercenario si offre come professionista al servizio di qualunque causa, purch adeguatamente remunerata. Ma tutti, al tempo stesso, contribuiscono a generare e ad alimentare quellinsicurezza che allorigine della domanda di protezione. Il clan mafioso anche lautore dellestorsione; il gruppo terroristico mette a repentaglio la convivenza civile esaltandone le contraddizioni ed espone la propria stessa comunit di riferimento ai rischi della rappresaglia; il reparto mercenario, con abili cambi di fronte, pu riprodurre allinfinito il conflitto che stato chiamato a risolvere. Nessuno di questi attori fa un uso irrazionale della violenza; al contrario, tutti hanno nel tempo ampiamente dimostrato di saper perseguire con efficacia gli interessi del gruppo di
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appartenenza, adottando una logica in tutto e per tutto economica. Tra questi protagonisti della nuova ondata di privatizzazione della violenza, le mafie sembrano in particolare i soggetti di gran lunga pi attrezzati a rinverdire le gesta delle compagnie commerciali: al di l della mitologia che accompagna la storia di organizzazioni come Cosa nostra, pure tra i mafiosi ha onore chi produce profitto. In primo luogo le mafie, come le compagnie, hanno una concezione monopolistica e non concorrenziale del mercato e a tal fine rivendicano il potere di reclutare soldati e di governare un territorio. La disponibilit di risorse militari consente loro di non doversi rivolgere ad autorit esterne per garantire la sicurezza dei propri traffici e, quindi, di razionalizzare, internalizzandoli, i costi della protezione. Forti di questa loro prerogativa, in secondo luogo, potranno di volta in volta decidere in che misura reinvestire i profitti per espandere il proprio potere territoriale o, viceversa, per ampliare le proprie quote nel mercato locale dei lavori pubblici come in quello globale dei traffici illeciti: una scelta sbagliata in questo campo pu avere conseguenze negative sia nei rapporti con le istituzioni statali, sia nella competizione diretta tra clanlxii. Il ricorso ripetuto alle stragi da parte dei corleonesi in Sicilia nei primi anni Novanta del secolo scorso pu essere interpretato proprio come un tentativo di accentuare il controllo del territorio da parte di Cosa nostra; cos come la successiva scelta di inabissamento pu esser letta come la logica conseguenza della decisione di dedicarsi maggiormente al rafforzamento del potere economico. Infine, le mafie capaci di produrre un surplus di violenza possono utilmente reimmeterlo sul mercato offrendolo a chi, politico o imprenditore, disponga di beni di cui esse invece sono carenti: da un lato, risorse legislative e amministrative necessarie a garantire loro limpunit e a facilitare laccesso al settore dei grandi appalti; dallaltro, attivit di copertura per il riciclaggio del denaro sporco, canali preferenziali per laccesso al sistema creditizio e al mondo finanziario in generale e, non ultimo, risorse di status necessarie per ampliare le basi del proprio consenso. Come ai tempi della compagnie, la pretesa della politica di chiamarsi fuori appare infondata e non scevra da rischi: piuttosto che sforzarsi di spostare (hobbesianamente) il problema al di fuori dei propri confini accontentandosi di definire la mafia un anti-stato, dovrebbe interrogarsi sulle cause endogene del suo diffondersi. Lattivit di mafiosi, terroristi e mercenari non si esaurisce, ovviamente, nellimpiego della violenza. Ma la violenza , da un lato, ci che essi hanno in comune e che li rende perci comparabili; dallaltro quel che li distingue da altri gruppi non statali in grado di esercitare potere agendo illegalmente o, quanto meno, sfruttando le zone dombra presenti nel sistema economico e/o politico. La disponibilit a uccidere fa la differenza tra i mafiosi e i cosiddetti criminali dei colletti bianchi, tra i terroristi e gli oppositori politici radicali che si limitano a scegliere la clandestinit, tra i mercenari e i lobbisti disposti a tutelare i propri investimenti anche servendosi della corruzione. E non solo. La violenza come agire sociale costituisce il solo contesto in grado di rendere intellegibile lo scenario di morte entro il quale essi oggi si muovono: mafiosi, terroristi e mercenari, come tanti prima di loro nella storia, sono individui in grado di garantirsi un reddito, e non sempre di mera sopravvivenza, sfruttando la propria abilit nelluso delle armi e la propria mancanza di remore a impiegarle contro uomini, donne o bambini. Ci che li distingue dagli altri soldati, quelli inquadrati in istituzioni nazionali, il fatto di dipendere da autorit private cui essi, mettendo a disposizione la propria vita,
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riconoscono una legittimit che negano, di conseguenza, allo stato di appartenenza.

Conclusioni Di queste tre autorit private il clan mafioso, il gruppo terroristico e la corporation militare gli scienziati sociali dovrebbero sforzarsi di studiare le origini e levoluzione nel contesto territoriale di appartenenza, come pure la loro capacit di espandersi a livello internazionale. Ci si dovrebbe chiedere, innanzi tutto, come adottando quali regole e quali valori, dandosi quale struttura riescano ad alimentare nei propri membri un cos forte senso di appartenenza e di identificazione con le finalit del gruppo, ricevendone in cambio una fedelt che va ben oltre la mera obbedienza. Tanto pi che fin qui soltanto lo stato, e in particolar modo la nazione in armi, aveva saputo rivendicare con pari successo la prerogativa di comandare ai propri uomini di uccidere e, se necessario, di sacrificarsi fino alla propria stessa morte. In secondo luogo, si dovrebbe indagare come il fatto di agire in gruppo possa trasformarsi in potere di intimidazione e, di conseguenza, in una garanzia di immunit per i singoli membri; e, inoltre, come quella stessa dimensione di gruppo permetta di sfuggire facilmente al confronto diretto e in campo aperto con lavversario, rendendo vana la guerra e superflua la massa durto anche del pi potente degli eserciti. In terzo luogo, ci si dovrebbe interrogare sui differenti processi di radicamento di questi attori nel territorio di origine, analizzando quali relazioni sviluppino con quei componenti del sistema politico e del mondo imprenditoriale che non sono pregiudizialmente contrari ai loro metodi violenti; nonch su quali siano i fattori potenziali o reali su cui possono contare per ampliare le proprie basi di consenso. Infine bisognerebbe approfondire le diverse strategie commerciali adottate per imporsi sul mercato globale, dove oggi mafiosi, terroristi e mercenari riescono ad esprimere un dinamismo e un cinismo non inferiori a quelli dimostrati dalle potenze europee ai tempi della competizione coloniale. Come dovrebbe risultare evidente, quello appena delineato non altro che un progetto di ricerca che implica, tuttavia, una vera e propria rivoluzione metodologicalxiii. La ricerca sulla violenza non pu pi accontentarsi di elaborare delle graduatorie di efferatezza, stabilire con certezza se i morti di oggi siano pi di quelli di ieri. Lo studio puramente statistico dei conflitti potrebbe rivelarsi utilissimo per colmare quel naturale difetto di percezione che fa s che la violenza del mondo nel quale siamo immersi ci appaia comunque maggiore e peggiore di quella di qualunque altro mondo, cronologicamente o geograficamente distante. Ma il tragico computo dei morti, anche qualora si riuscissero a scontare gli errori indotti dalle pratiche tuttora frequenti di occultamento o manipolazione dei dati, non ci aiuterebbe da solo a interpretare la realt. Daltra parte, non ha neppure senso continuare a parlare della violenza contemporanea rimanendo ancorati al presupposto hobbesiano relativo al carattere naturale dellaggressivit umana o alla definizione weberiana di monopolio della forza fisica legittima. Sarebbe meglio, piuttosto, proporre dei modelli interpretativi o, se si preferisce, degli scenari, verificandone poi la plausibilit attraverso lo studio di alcuni casilxiv . Tali modelli dovrebbero, appunto, dare il giusto risalto alle dinamiche interne ai singoli gruppi e approfondire come
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questi si avvantaggino dei processi di globalizzazione del mercato in atto. Senza dimenticare, tuttavia, che se oggi ci ritroviamo catapultati in una realt segnata dalla crisi di un numero crescente di autorit statali e la violenza privata riconquista spazi dai quali, gradualmente e a fatica, la politica laveva espulsa, proprio a questa che bisogna anzitutto chiederne conto; evitando di incorrere nella tentazione di giustificare le ragioni del successo di mafiosi, terroristi e mercenari con un semplice rinvio alla fine dello stato o agli scontri di civilt o, addirittura, con lennesima evocazione di un Occidente minacciato alle proprie frontiere. Semmai, proprio il Nord democratico che deve qualche spiegazione in pi, avendo potuto disporre per secoli di vantaggi competitivi immensi che non soltanto non ha saputo sfruttare appieno per ridurre le diseguaglianze al proprio interno, ma che soprattutto non ha voluto investire per ridurre le distanze con gli altri popoli. La pretesa dei suoi maggiori rappresentanti politici di sfuggire ancora una volta alle proprie responsabilit, semplicemente proiettando allesterno dei propri confini il problema delle cause della violenza, oltre ad essere priva di qualunque fondamento teorico e storico, rischia davvero di rivelarsi fatale per la sicurezza dei regimi che essi affermano di voler difendere.

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Note

i Uso qui questo termine nel suo significato letterale, a identificazione dellintero genere di soggetti

pagati per usare la violenza e non, come pi consueto, della specie comprendente soltanto quelli al servizio di unautorit legittima. ii Lo testimonia in modo evidente il bisogno degli studiosi di affiancare alla guerra sempre nuovi attributi: privatizzata, degenerata (sic!), post-moderna, a bassa intensit o, pi semplicemente, nuova. Cfr. M. Kaldor, New and Old Wars. Organized Violence in a Global Era , Polity Press, London 1999 (trad. it., Le nuove guerre. La violenza organizzata nellet globale, Carocci, Roma 1999, in particolare p. 12). iii Si veda, da ultimo, D. D. Avant, The Market of Force. The Consequences of Privatizing Security, Cambridge University Press, Cambridge 2005. iv Cfr. P. W. Singer, Children at War, Pantheon Books, New York 2005; e D. M. Rosen, Armies of the Young: Child Soldiers in War and Terrorism, Rutgers University Press, New Brunswick, N. J.-London 2005. v Cfr. W. Langewiesche, The Outlaw Sea: A World of Freedom, Chaos, and Crime , North Point Press, New York 2004 (trad. it., Terrore dal mare, Adelphi, Milano 2005). vi E non mancato chi ha sostanziato questa ipotesi in termini tuttaltro che astrattamente utopistici. Cfr. L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, Bruno Mondadori, Milano 2001; e, sullevoluzione del sistema internazionale dopo l11 settembre e le guerre in Afghanistan e Iraq, Id., La politica internazionale tra terrorismo e guerra , Laterza, Roma-Bari 2004. vii Dopo quella ottocentesca che il libero commercio avrebbe reso obsoleta la guerra, ribadita da N. Angell, The Great Illusion, Heinemann, London 1913 (trad. it., La grande illusione, Voghera, Roma 1913). Per una completa e sintetica visione delle teorie sulla guerra cfr. L. Bonanate, La guerra , Laterza, RomaBari 1998. viii Cfr. R. D. Kaplan, The Coming Anarchy: Shattering the Dreams of the Post Cold War, Random House, New York 2000. ix Questultima espressione in particolare, come noto, stata coniata da N. Chomsky con riferimento agli Stati Uniti dAmerica, ma poi stata utilizzata proprio dallamministrazione americana soprattutto per identificare i regimi accusati di mirare a dotarsi di armi di distruzione di massa e di sostenere le organizzazioni terroristiche internazionali. Cfr. N. Chomsky, Rogue States. The Rule of Force in World Affairs, South End Press, Cambridge, Mass. 2000 (trad. it., Egemonia americana e stati fuorilegge, Dedalo, Bari 2001). x Cfr., rispettivamente, S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy , Cambridge University Press, Cambridge 1996 (trad. it., Chi governa leconomia mondiale? Crisi dello stato e dispersione del potere, il Mulino, Bologna 1998); A. Minc, Le nouveau Moyen Age, Gallimard, Paris 1993 (trad. it., Il nuovo Medioevo, Sperling & Kupfer, Milano 1994). xi Cfr. N. Bobbio, Stato, governo, societ. Per una teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1985; e P. Farneti, Lineamenti di scienza politica, Franco Angeli, Milano 1994. xii Cfr. K. von Clausewitz, Vom Kriege, Berlino 1832 (trad. it., Della guerra , Mondadori, Milano 1970). xiii Cfr. H. Popitz, Phnomene der Macht. Autoritt - Herrschaft - Gewalt - Technik , J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tbingen 1986 (trad. it., Fenomenologia del potere, il Mulino, Bologna 1990, pp. 70-71). Per unintroduzione al tema della violenza, si veda inoltre P. P. Portinaro, Violenza , in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, pp. 352-364. xiv Le opere classiche di riferimento rimangono ancora oggi K. Lorenz, Das sogenannte Bse: Zur Naturgeschichte der Aggression, Dr. G. Borotha Schoeler Verlag, Wien 1963 (trad. it., Laggressivit, il Saggiatore, Milano 1994); e R. Ardrey, The Territorial Imperative, Atheneum, New York 1966 (trad. it., Limperativo territoriale, Giuffr, Milano 1984). xv Nemmeno un illuminista come Voltaire riuscito a sfuggirvi quando scriveva nel suo Dizionario 20

filosofico alla voce Guerra : che diventano e che mimportano lumanit, la beneficienza, la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la piet, mentre mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a ventanni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, che saprono per lultima volta, vedono la citt dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo?; ma per poi aggiungere subito dopo e il peggio che la guerra un flagello inevitabile (Voltaire, Guerre, in Id., Dictionnaire philosophique , Ginevra 1769; trad. it., Guerra , in Id. Dizionario filosofico, Garzanti, Milano 1981, p. 216). xvi T. Hobbes, Leviathan , London 1651 (trad. it., Leviatano , Laterza, Roma-Bari 1989, p. 150). xvii Ancora oggi, la sovranit di uno stato non pu considerarsi compiuta se alla legittimazione da parte dei propri cittadini non segue il riconoscimento, formale o di fatto, da parte dellintera comunit internazionale o, quanto meno, di una parte significativa dei suoi membri. E non sempre questo avviene pacificamente. Si pensi, per fare un esempio recente, alla vicenda del riconoscimento di Croazia e Slovenia al momento dello scioglimento della federazione jugoslava, nel gennaio 1992, e alle conseguenze che ha avuto sulle successive guerre balcaniche. xviii proprio Fromm, del resto, a sostenere che la tesi secondo cui la guerra provocata dallaggressivit umana non soltanto non-realistica, soprattutto dannosa. Distoglie lattenzione dalle cause reali, indebolendo cos lopposizione contro di esse (E. Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness, Holt, Rinehart and Winston, New York 1973; trad. it., Anatomia della distruttivit umana, Mondadori, Milano 1995, pp. 265-266). xix Cfr. W. H. McNeill, The Pursuit of Power. Technology, Armed Forces, and Society since A.D. 1000 , The University of Chicago Press, Chicago, Ill. 1982 (trad. it., Caccia al potere. Tecnologia, armi, realt sociale dallanno Mille, Feltrinelli, Milano 1984, cap. 9). xx Cfr. G. Carnevali, Dellamicizia politica. Tra teoria e storia, Laterza, Roma-Bari 2001. xxi Al punto da ritenere, schmittianamente, che un globo terrestre definitivamente pacificato sarebbe un mondo senza pi la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica (C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972, p. 118). xxii Ibid. xxiii Cfr. V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri, Torino 1999, in particolare la Conclusione. xxiv M. Moggi, Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in M. Bettini (a cura di), Lo straniero. Ovvero lidentit culturale a confronto, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 51-76; le citazioni si trovano a p. 53 e a p. 54. xxv Cfr. P. P. Portinaro, Materiali per una storicizzazione della coppia amico-nemico, in G. Miglio (a cura di), Amicus (inimicus) hostis. Le radici concettuali della conflittualit privata e della conflittualit politica, Giuffr, Milano 1992, pp. 221-274. xxvi P. P. Portinaro, Stato, il Mulino, Bologna 1999, p. 81. xxvii Cfr. H. Arendt, On Violence, Harcourt Brace and World, New York 1970 (trad. it., Sulla violenza , in Id., Politica e menzogna, SugarCo Edizioni, Milano 1985). xxviii Cfr. N. Elias, ber den Prozess der Zivilisation, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1969-1980 (trad. it., Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna 1988. xxix Cfr. M. Olson, Power and Prosperity: Outgrowing Communist and Capitalist Dictatorships, New York, Basic Books 2000 (trad. it., Potere e mercati: regimi politici e crescita economica, Egea, Milano 2001); e C. Tilly, War Making and State Making as Organized Crime , in P. B. Evans, D. Rueschemeyer, T. Skocpol (eds.), Bringing the State Back In , Cambridge University Press, London-New York 1985, pp. 16991. xxx C. Tilly, The Politics of Collective Violence, Cambridge University Press, Cambridge 2003. xxxi Il sistema che obbligava i feudatari a concedere al sovrano un certo numero di combattenti. Cfr. P. Contamine, La guerre au Moyen Age, Presses Universitaires de France, Paris 1980 (trad. it., La guerra nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1986). xxxii La discesa di Carlo VIII di Francia in Italia nel 1494 viene solitamente vista come limpresa che segna questo salto di qualit, ovvero il passaggio dalla guerra come conflitto per la supremazia sui 21

potentati locali a vero e proprio evento internazionale. Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, Le relazioni internazionali. Cinque secoli di storia: 1521-1989 , Bruno Mondadori, Milano 1997. xxxiii Non a caso c chi ha distinto il professionismo militare in classico, pretoriano e rivoluzionario. Cfr. A. Perlmutter, The Military and Politics in Modern Times. On Professionals, Praetorians, and Revolutionary Soldiers, Yale University Press, New Haven-London 1977. xxxiv Cfr. E. Scarry, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, New York 1985 (trad. it., La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, Il Mulino, Bologna 1990). xxxv Adotto questi termini nella loro accezione puramente descrittiva non attribuendo loro alcun significato valutativo. xxxvi Tilly, The Politics of Collective Violence cit., p. 28. xxxvii Come pure il combattente irregolare di una guerra di liberazione. xxxviii P. P. Portinaro, Stato cit., pp. 77-78. La propriet privata osserva ancora lautore ha in Hobbes origine da un atto di distribuzione sovrana: ma da dove ha preso il sovrano la terra e i beni oggetto della spartizione? (Ivi, p. 77). xxxix F. Braudel, Afterthoughts on Material Civilization and Capitalism, Johns Hopkins University Press, Baltimore, Md. 1977 (trad. it., La dinamica del capitalismo , il Mulino, Bologna 1988, p. 65). xl Cfr. D. K. Fieldhouse, Die Kolonialreiche seit dem 18. Jahrhundert, Fischer Bcherei KG, Frankfurt am Main und Hamburg 1965 (trad. it., Gli imperi coloniali dal XVIII secolo, Feltrinelli, Milano 1967); e V. G. Kiernan, European Empires from Conquest to Collapse, 1815-1960 , Collins-Fontana Paperbacks, London 1982 (trad. it., Eserciti e imperi. La dimensione militare dellimperialismo europeo 1815-1960 , il Mulino, Bologna 1985). xli Si veda, a titolo di esempio, W. Allison, War for Sale: The Black Market, Currency Manipulation and Corruption in the American War in Vietnam, in War & Society, XXI, 2003, 2, pp. 135-164. xlii Cfr. F. C . Lane, Profits from Power: Readings in Protection Rent and Violence-Controlling Enterprises, State University of New York Press, Albany 1979. xliii Cfr. M. Mallett, Mercenaries and their Masters. Warfare in Renaissance Italy, The Bodley Head Ltd, London 1974 (trad. it., Signori e mercenari. La guerra nellItalia del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1983, cap. 4). Si veda, inoltre, J.-C. M. Vigueur, Cavaliers et citoyens. Guerre, conflits et socit e dans lItalie communale, XIIe -XIII sicles, ditions de lcole des hautes tudes en sciences sociales, Paris 2003 (trad. it., Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e societ nellItalia comunale, il Mulino, Bologna 2004). xliv Cfr. J. E. Thomson, Mercenaries, Pirates, and Sovereigns. State-Building and Extraterritorial Violence in Early Modern Europe, Princeton University Press, Princeton, N. J. 1994. xlv Laffermazione tuttaltro che retorica. Si veda R. C. Ritchie, Captain Kidd and the War against the Pirates, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1986 (trad. it., Capitan Kidd e la guerra contro i pirati, Einaudi, Torino 1988); e M. Rediker, Between the Devil and the Deep Blue Sea, Cambridge University Press, Cambridge 1987 (trad. it., Sulle tracce dei pirati. La storia affascinante della vita sui mari del 700 , Piemme, Casale Monferrato (Al) 1996). xlvi Basti ricordare il caso della potentissima famiglia dei Fugger, le cui vicende accompagnano lascesa e il declino degli Asburgo di Spagna: dallelezione di Carlo V a Sacro romano imperatore, da essi interamente finanziata, alla bancarotta di Filippo II nel 1557, dovuta proprio ai costi crescenti delle campagne militari. xlvii McNeill, Caccia al potere cit., p. 87. xlviii Cfr. Thomson, Mercenaries, Pirates, and Sovereigns cit. xlix Cfr. N. Steensgaard, Violence and the Rise of Capitalism: Frederic C. Lanes Theory of Protection and Tribute, in Review, V, 1981, 2, pp. 247-73; e Id., The Asian Trade Revolution of the 17th Century: The East India Companies and the Decline of the Caravan Trade, The University of Chicago Press, Chicago 1975. l Cfr. P. Lawson, The East India Company: A History, Longman, London-New York 1993. li Cfr. Thomson, Mercenaries, Pirates, and Sovereigns cit. lii Cfr. D. R. Headrick, The Tools of Empire. Technology and European Imperialism in the Nineteenth 22

Century, Oxford University Press, New York 1981 (trad. it., Al servizio dellimpero. Tecnologia e imperialismo europeo nellOttocento, il Mulino, Bologna 1984, p. 7). liii Cfr. McNeill, Caccia al potere cit. liv G. Parker, The Military Revolution. Military Innovation and the Rise of the West, 1500-1800 , Cambridge University Press, Cambridge 1988 (trad. it., La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dellOccidente, il Mulino, Bologna 1990). lv Il calcolo relativo alla Seconda guerra mondiale molto pi approssimativo, non comprendendo tutte le forze irregolari coinvolte sui diversi fronti. lvi Cfr. H. M. Enzensberger, Aussichten auf den Brgerkrieg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1993 (trad. it. Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994). lvii Cfr. Parker, La rivoluzione militare, cit., pp. 104-105. lviii Sipri Yearbook. Armaments, Disarmament and International Security, Oxford University Press, Oxford-New York 2004, rispettivamente p. 314 e pp. 311-312. LItalia, in questa particolare graduatoria si colloca al settimo posto, con il 2% della spesa mondiale; la Gran Bretagna e la Francia al terzo e quarto posto, con il 4%; la Germania al sesto posto, con il 3%. lix Negli Stati Uniti in corso da anni un dibattito relativo alla riforma di Medicare, il programma di assistenza pubblica immaginato da Truman alla fine della Seconda guerra mondiale, ma varato soltanto nel 1965. Gi nel 2002, tuttavia, la privatizzazione non appariva pi un modello attraente, e in particolare proprio per lincapacit dimostrata dal sistema privato di controllare la crescita dei costi. Cfr. J. Oberlander, The Political Life of Medicare, The University of Chicago Press, Chicago-London 2003. lx Sempre negli Stati Uniti, il settore privato entrato da anni a pieno titolo nella gestione del sistema carcerario, arrivando a configurare un triangolo dacciaio, o complesso correzionale-commerciale dove tutte le parti del processo decisionale penale (ad esempio, legislatori, lobbisti, industria privata, professionisti del sistema correzionale) lavorano insieme e a proprio esclusivo vantaggio, con scarso o nessun controllo pubblico, tagliando perci i costi del personale, riducendo i programmi di rieducazione, risparmiando sui pasti e sullassistenza sanitaria (T. G. Blomberg, K. Lucken, American Penology. A History of Control, Aldine De Gruyter, New York 2000, p. 221). lxi Cfr. F. Armao, Il sistema mafia. Dalleconomia-mondo al dominio locale , Bollati Boringhieri, Torino 2000. lxii Questo genere di decisioni strategiche, e soprattutto la capacit di mantenere bassi i costi della protezione, era anche ci che determinava il successo di una compagnia nella competizione con le dirette concorrenti. Cfr. N. Steensgaard, Violence and the Rise of Capitalism, cit. lxiii Su questo tema delle autorit private si veda R. B. Hall, T. J. Biersteker (eds.), The Emergence of Private Authority in Global Governance, Cambridge University Press, Cambridge 2002; e D. Josselin, W. Wallace (eds.), Non-State Actors in World Politics, Palgrave, New York 2001. lxiv Ho approfondito i presupposti metodologici di questa scelta in F. Armao, Who Is the Enemy? Scenarios of War in Times of Globalization, in M. Evangelista (ed.), Peace Studies: Critical Concepts in Political Science, 4. voll., Routledge, London-New York 2005; e Id., Relazioni internazionali: il nome e la cosa , in G. J. Ikenberry e V. E. Parsi (a cura di), Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 3-22.

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