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UN RACCONTO CHE PARTE DA LONTANO..

Foto scattata a Bellano nel 1931

di Mario DALLA VENEZIA (Rimini, 1.10.1909 07.06.2003)

UN RACCONTO CHE PARTE DA LONTANO..


Era da tempo che mi ero ripromesso di portare a compimento questo racconto scritto con passione e tenacia da Mario, in parte con la gloriosa Olivetti Lexicon 80 ed in parte a penna e matita. Purtroppo non si trovava mai il tempo.... Prima di me ci hanno provato anche Milena e Chiara, ma non era una cosa cos semplice. Lunico rammarico quello che il suo autore non abbia potuto vedere lo sforzo del suo lavoro in veste per cos dire tipografica, anche senza pretese. Apprezzer comunque! La speranza, per chi avr occasione di leggerlo, quella di non far dimenticare mai le nefandezze della guerra e che possa far ricordare, in questo mondo dove, col tempo, tanti valori sono andati perduti, di apprezzare anche le piccole cose.

Paolo (maggio 2008)

Paolo Bezzi e Anna Rosa Dalla Venezia - Via Flavia Casadei, 12 Rimini Tel. 0541 774281 e-mail: paolobezzi@alice.it

UN RACCONTO CHE PARTE DA LONTANO..


Cominciato, cos per caso, questo racconto il 28 luglio 1969 in localit FRIZZON a tre km da Enego (VI) fra le montagne del Vicentino. Dopo il ritorno dalla prigionia, anno 1945, attendevo sempre, avendone fatto domanda, di beneficiare come tanti altri invalidi di guerra, delle cure montane per malattia contratta durante la prigionia ed il lavoro coatto in Germania. Per la prima volta (tutti gli altri ne beneficiarono subito) nel 1963, ebbi la fortuna di essere chiamato alla visita a Forl, superati esami e radiografie, fui ammesso alle cure di media montagna, per un periodo di trenta giorni da effettuarsi fra i mesi di giugno e settembre. Consultatomi con limpiegato dellAssociazione Mutilati di Rimini -Stramacciincaricato per conto dellorganizzazione di Forl -- naturalmente lui era molto addentro a queste cose-- e conoscendo bene il segretario di Vicenza, scelsi il paesino di Enego, sullAltipiano di Asiago, consumando cos i trenta giorni a disposizione dal 15 luglio al 14 Agosto del 1963. La localit prescelta era stata teatro della guerra 1915/18. Da Enego (altezza: 800 m), quasi tutte le mattine, con la macchina (avevo la 500) mi portavo a Frizzon che era a mille metri sul mare. La strada che porta da Enego a Frizzon e poi al Colle dei Meneghini, era una mulattiera che serviva ai montanari, poi per la guerra 1915/18 servita alle truppe italiane per il trasporto di materiali bellici a dorso dei muli verso il fronte. Intorno o forse prima del 1970 la mulattiera venne allargata, vennero rettificate le curve, prima si passava a mala pena con una piccola macchina o un piccolo autocarro. Di l portavano a valle i recipienti del latte che provenivano dalle malghe ed anche il legname verso il paese di Enego. Dopo il 1970 la strada stata asfaltata. Come al solito, dopo aver passeggiato per il bosco, mi sedevo su un tronco di pino a leggere e respirare la buona aria. La zona era buona per il pascolo, le mucche nel loro vagare, brucando lerba mi si avvicinavano sempre pi; pur non avendo paura mi alzavo per allontanarmi e trovare un posto pi tranquillo. Chi conduceva le mucche era unanziana donna montanara, che camminando si appoggiava ad un robusto bastone, la quale vedendomi allontanare mi disse nella sua parlata veneta: nol gabia paura, nol ghe fa niente ( spero si scriva cos), cos mentre le mucche si spostavano, incominciammo a conversare e ad un certo momento mi disse: iu nol se del posto, el vien qu par riposarse e respirar laria bona, naturalmente era cos e camminando ci avvicinammo ad una chiesetta e mi raccont: vede nellanno 1937 circa, da queste parti infestava la lebbra, tanti morti, ci fu un miracolo, lepidemia fin ed allora tutti i montanari per la grazia ricevuta si unirono e come voto eressero questa chiesetta. Cos, seguendo landare delle mucche arrivammo ad una vecchia casa, qui cera la residenza delle guardie di confine, pi avanti mi indic un canalone, mi fece notare sul fondo (si scorgono ancora i resti in cemento armato) da una parte cera la garitta delle sentinelle italiane e dallaltra quella austriaca; la distanza era poca, tanto vero che potevano parlare tra loro. Questo naturalmente prima che scoppiasse la prima guerra mondiale. E una localit bellissima, da Frizzon al canalone, circa un chilometro e si accede con una mulattiera con a sinistra la montagna sempre pi alta; sullo sfondo si vede Primolano con
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la stazione FF.SS. e il centro del paese dove inizia la salita, che porta a Feltre, dove esistono ancora le fortificazioni costruite dagli austro-ungarici; a destra un forte declivio che finisce a lambire il fiume Brenta, che fiancheggiato dalla ferrovia e dallla strada che da Bassano-Primolano porta a Trento, la cosiddetta Valsugana (il fiume, la ferrovia, la strada sono parallele). Guardando dallalto del canalone si erge il Colle dei Meneghini. Fu cos che a seguito di una gita con lAssociazione dei Mutilati di Rimini nella ricorrenza del Cinquantenario della guerra del 1915/18-1968 con itinerario RIMINI-TRIESTE-GRADOAQUILEA-REDIPUGLIA-NERVESA-BASSANO DEL GRAPPA-RIMINI, mentre mi stavo godendo quei giorni di vacanza, mi venne la nostalgia di scrivere vecchi ricordi e li cominciai nella seconda vacanza di cura, nel Luglio-Agosto 1964, nella medesima localit, incominciando dalla prima guerra mondiale. Allora abitavo a Padova, ma si proveniva da Paola (Reggio Calabria). Nativo di Rimini, padre ferroviere -macchinista- i primi traslochi furono Rimini, Ravenna, Rimini, Paola e Padova. Avevo sei anni, la guerra era gi iniziata, poi venne la disastrosa rotta di Caporetto ed il fronte si attest a circa una trentina di km (forse meno in linea retta) da Padova, che era un nodo ferroviario di grande importanza; le linee da Milano e Venezia-Bologna e Venezia, la linea Padova Bassano e viceversa, una ferrovia a scartamento ridotto Padova-Limena. Cera uno smistamento di treni viaggiatori e treni merci impressionante. Oltre alla ferrovia cera un groviglio di strade per lo smistamento per le suddette localit di carriaggi di ogni tipo che trasportavano materiali per il fronte. Mio padre nel luglio del 1916 venne chiamato alle armi per prestare servizio, sempre come macchinista, dal deposito locomotive di Padova a quello di Mestre, per effettuare trasporti militari verso il fronte. Anche Mestre era un nodo importantissimo di smistamento. Sul finire del 1916 con mia madre, dovemmo andare a Venezia pi volte, sia al Comune (mio padre era nativo di Venezia) sia al distretto, per ottenere alcuni documenti e per vedere se mio padre poteva ritornare in servizio come civile. Cos, un pomeriggio di ritorno da Venezia (il treno era gi partito in ritardo), cominci la mia prima avventura che aveva sapore di guerra. Il treno che ci doveva portare a Padova venne fermato al disco di entrata di Mestre, ci fu una lunga sosta, poi finalmente piano piano entrammo nella stazione di Mestre. Cera una confusione indescrivibile, donne, uomini, bambini e soldati a non finire, a fianco del nostro treno, un treno militare con i suoi vistosi segni della croce rossa, carico di feriti proveniente dal fronte. Dai finestrini si potevano vedere i feriti adagiati sui lettini, si notavano le bianche bende di garza intrise di sangue nelle varie parti del corpo, chi era immobile, chi a stento si muoveva, lamenti a non finire, crocerossine e dottori che si prodigavano senza sosta in quei vagoni pieni di dolore. Un fischio e quel lungo treno si avviava lentamente verso il nord per scaricare quegli infelici negli ospedali. Finalmente anche il nostro treno si mosse, ma dopo un chilometro si ferm di nuovo: dai numerosi fasci di binari si pot capire che era un centro di smistamento dove stazionavano treni viaggiatori e treni merci carichi di materiale bellico. Dallunico binario libero transit una tradotta carica di soldati e materiale destinato, forse, al fronte. Intanto cominciava a farsi sera, il nostro treno era affollatissimo, le fermate erano lunghe ed estenuanti, nessun perch, i viaggiatori erano poco tranquilli, molti venivano dalle vicinanze del fronte ed erano profughi veneti, dal loro parlare lasciavano capire che la situazione al fronte era piuttosto critica. Anche questa sosta si prolungava sempre pi, la sera avanzava, il cielo era sereno e cominciava a far fresco. Dentro il vagone avevano gi acceso le luci, ma oscurate. Il tempo passava, cominciava a fare buio, in cielo si vedevano le prime stelle.
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Mentre mia madre, previdente, stava nascondendo, come facevano le donne a quei tempi, il portamonete nel reggiseno, ebbe inizio il finimondo, un susseguirsi di scoppi: aperti gli sportelli per scendere, si doveva fare un bel salto per scendere e una buona parte della gente ruzzolava gi nella scarpata; un caos, donne che urlavano, bambini che piangevano. Si attravers un fossato fortunatamente senza acqua, si risal, ma una rete abbastanza alta ci impediva di fuggire nella campagna. Mia madre, spingendomi, mi fece passare dallaltra parte della rete, poi alla belle e meglio riusc a raggiungermi, ma ci rimise una coda di pelo che portava sulle spalle, che rimase nellalto della rete. In fretta cercammo di allontanarci il pi possibile da quellinferno, gli scoppi si succedevano sempre pi potenti, sembrava un bombardamento, poi divamp un incendio furioso. Intanto era sopraggiunta la notte, ma fra lilluminazione proveniente dallincendio, quella degli scoppi e la luce della luna alta nel cielo, sembrava fosse giorno. Ci trovammo davanti a un canale dirrigazione, lo affiancammo, camminando finch ci imbattemmo in un ponticello, lo attraversammo allontanandoci sempre di pi da quellinferno, lasciandolo alle nostre spalle. Stanchi ed esausti, finalmente arrivammo in una grande casa colonica, dove tutta la famiglia stava sullaia a guardare quellinconsueto spettacolo. Ci fecero entrare e, dopo averci fatti sedere vicino ad una grande tavola, ci rifocillarono con latte, pane e formaggio. La notte la passammo coricati alla meglio su materassi di foglie di granoturco, fuori continuava il finimondo. Io naturalmente mi addormentai. Al mattino mia madre mi raccont che per tutta la notte dovette stare sempre sveglia a causa dei topi che affamati saggiravano in ogni dove. Al mattino ripartimmo, da lontano si vedeva ancora il fumo, poi con mezzi di fortuna arrivammo a Padova. Del fatto, alcuni giorni dopo si venne a sapere che il macchinista del treno viaggiatori, sembra corrisponda a verit, invece di allontanare tutto il treno, sganci la locomotiva allontanandosi. Si parl di sabotaggio al treno merci carico di materiali bellici. Dopo alcuni giorni passando dalla stazione di Padova potei vedere cosa rimase del treno viaggiatori; di tutte le vetture rimase solo lo scheletro di ferro. Pi tardi seppi che il macchinista del suddetto treno fu processato e condannato. Al fronte la cose peggioravano sempre di pi. Abitavo vicino alla stazione e quasi ogni giorno andavo sul cavalcavia dove sotto passava la ferrovia: tutti i fasci di binari erano invasi da treni di tutte le specie; la precedenza assoluta era data ai treni ospedalieri che andavano verso il nord e ai treni merci carichi di materiali e truppa destinati al fronte. A tutte le ansie del momento se ne aggiunse unaltra, laviazione nemica, la quale in un primo momento si accontent di girare indisturbata sulla citt, forse per fotografare alcuni obbiettivi (volavano talmente bassi che si vedeva il pilota). Non tardarono molto a farsi rivedere, incominciarono gli allarmi, cos la popolazione si rifugiava in ogni dove. Cominciarono a lanciare le prime bombe , cercando di colpire la stazione e i relativi nodi ferroviari. Malauguratamente una delle bombe cadde a cinquecento metri dalla stazione, in Piazza Mazzini, colpendo il serbatoio dellacqua che riforniva la citt, alto una trentina di metri; sotto il serbatoio, credendo di essere al sicuro, avevano trovato rifugio uomini, donne e bambini e non tutti fecero in tempo a mettersi in salvo cosicch vi furono diversi morti sia per il crollo che per affogamento. Nel disastro per anche una famiglia che portava le stesse nostre generalit, i parenti lontani leggendo i giornali credettero fossimo noi, poi si chiar il tutto, erano degli omonimi. Il cavalcavia che era vicino alla stazione, da una parte (la linea verso Bologna e Milano Bassano Montebelly) aveva un grande palazzo di circa otto piani; dallaltra si dominavano tutti i binari che portavano alla stazione (non so in quale anno il palazzo stato demolito ed stato allargato il ponte per far posto al grande traffico dei veicoli). Su quel cavalcavia, le cui strade portavano verso il fronte, era un andar e venire di carri e autocarri (fra civili e militari) da e per il fronte, giorno e notte. Ad un certo momento, al culmine del cavalcavia, per il continuo traffico si apr un largo buco, rendendo inutilizzabile per un certo periodo il cavalcavia, cosicch in fretta e furia dovettero fare una strada parallela al ponte e far passare tutto il traffico rotabile attraverso la ferrovia. La situazione al fronte era sempre meno rosea, mio padre si trovava a fare servizio vicino al fronte, lavanzata nemica era sempre in atto, mia madre, deciso di lasciare la casa, racimolava le poche cose necessarie per partire.
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Alla stazione di Padova, prendemmo il treno per Bologna, era talmente affollato che tutto il tragitto lo facemmo in piedi fra il soffietto che univa le vetture. A Bologna restammo qualche giorno presso la sorella di mia madre, Ida. Ripartimmo per Ancona, dove ci attendeva unaltra sorella di mia madre, Anita. Mia zia ci fece ottenere un appartamento; nel frattempo mio padre ebbe una breve licenza, fece caricare tutto il mobilio a Padova e a mezzo ferrovia lo sped ad Ancona. Labitazione era un grande palazzo davanti alla stazione spostato un po verso Falconara; proprio alla fine del palazzo vi era una cancellata che arrivava al muro della ferrovia con al centro un massiccio cancello chiuso di notte e aperto di giorno che serviva per il controllo del Dazio. Ancona non che fosse una zona tranquilla: di fronte a noi la stazione con dentro un numeroso fascio di binari, poi il mare, verso destra il porto con il monte e la chiesa di S.Ciriaco. Dietro il palazzo, a poche decine di metri inizia la montagna, ad una certa altezza uno spiazzo per una lunghezza di circa un chilometro; l vennero sistemati alcuni cannoni a lunga gettata rivolti verso il mare per combattere le incursioni navali, che avevano per oggetto il bombardamento della stazione ferroviaria, il deposito locomotive, il porto dove cera una parte delle nostre navi da guerra, ed una fortezza circondata dallacqua sempre dentro il porto di Ancona, che serviva come deposito di munizioni, rifornimento di siluri per i nostri sottomarini, e dove erano ormeggiati i famosi pontoni armati con potenti cannoni di marina, che a loro volta davano man forte alle batterie, quando le navi nemiche venivano bombardate dal mare. Questi pontoni, a forma di una chiatta rettangolare, con poco pescaggio, non troppo veloci, erano muniti di uno o due cannoni da marina a lunga gittata e pattugliavano la costa adriatica da Ancona verso Senigallia e Pesaro, per controbattere le incursioni delle navi da guerra nemiche, in concomitanza delle grosse batterie poste sui monti a poca distanza dalla stazione di Ancona. Uno di questi pontoni, per un repentino cambiamento di tempo e di mare in burrasca, venne sospinto verso la riva, dove rimase incagliato nei pressi di Senigallia. Nel frattempo si verific un grosso episodio, che poi pass alla storia: lo sbarco di un gruppo di irredentisti. Questo avvenne a cinque chilometri da Ancona e pi precisamente in localit Palombina. Sbarcati di notte, a piedi si portarono verso Ancona e arrivarono alla famosa cancellata del Dazio di Ancona: tutti parlavano bene litaliano, ingannarono i dazieri, si fecero aprire i cancelli e, passando davanti alla stazione, si diressero verso la citt e precisamente (questo si seppe pi tardi) allisoletta su citata per distruggerla. Fortunatamente il colpo non riusc per una spiata di uno che si era infiltrato nel gruppo e che caus lallarme: il gruppo venne circondato da forze militari e ne venne furori un piccolo combattimento con morti e feriti: lepisodio si esaur subito con larresa del gruppo. La guerra al fronte continuava, lungo la costa adriatica le navi nemiche ogni tanto facevano incursioni con relativo scambio di fuoco a suon di proiettili che mietevano danni, paure e vittime. Ad Ancona la vita andava avanti, con pi o meno tranquillit, tanto che mia madre mi portava a Palombina (dove avvenne lo sbarco) alla spiaggia: si prendeva il trenino che effettuava il servizio al mattino e si ritornava alla sera col medesimo. In questo frattempo iniziai la scuola elementare e andai ad abitare a Senigallia, perch mio padre, dal servizio come macchinista nei pressi del fronte, venne trasferito a Senigallia con il treno formato di appositi carri ferroviari su cui erano installati cannoni per controbattere i bombardamenti dal mare di navi nemiche (quindi questo treno veniva spostato lungo la ferrovia, che era naturalmente parallela alla costa). Ritornammo di nuovo a Padova, mio padre aveva ripreso servizio al deposito locomotive, io continuai le scuole elementari di Piazza Mazzini, dove di rimpetto cera una fabbrica di birra (gi demolita da tempo, oggi ci sono grandi palazzi); poco distante esiste lacquedotto gi menzionato e che era stato bombardato (l vicino c tuttoggi il cavalcavia). A Padova ho abitato prima di andare ad Ancona: sul finire del cavalcavia, in via Pietro Liberi, poi ritornammo in via Pietro Selvatico, sempre verso lArcella, infine andammo ad abitare allArcella e precisamente nel viale che porta alla chiesa di S.Antonio. Finite le elementari, passai allistituto tecnico, feci la prima, bocciato tentai di fare due anni in al Collegio Solitro come esterno, ma agli esami mi and male. Presi poi un diploma alle scuole Industriali di Padova, vicino ai
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giardini e al canale Bacchiglione che porta a Venezia. Con i compagni di scuola, alla sera, ci si trovava dai frati di Via Santa Agnese a giocare a pallone, in un cortile di poco pi di cento metri quadrati, fra i muri delle case. Si fece una squadretta sotto il nome dellAntenore, lallenatore (si chiamava Bonini) era un appassionato di calcio ed era la maschera del teatro Garibaldi, cos quando cera loperetta ci faceva entrare gratis. Un giorno mi chiamarono allAssociazione Calcio Padova, mi visionarono e per due anni giocai nella terza squadra. Dopo finii in una squadra di rione, la Bonservizi dove vincemmo per tre anni consecutivi la Coppa. Il primo ottobre 1930 compivo 21 anni e fui chiamato al servizio di leva. Figlio unico e con la premilitare avrei dovuto essere esentato, ma non fu cos. Al mattino del primo di ottobre, mio padre e mia madre mi accompagnarono al distretto militare (allora si usava cos), era vicino alla chiesa degli Eremitani. Ad uno a uno ci chiamarono nellufficio, la prima cosa che mi chiesero era se avevo la patente (in quel tempo la rilasciavano solo a 21 anni), io lavevo presa alla scuola di Carbonin, naturalmente dissi di s e subito lo scrivano mi disse: Sei uno dei pochi fortunati, - allora i patentati non erano molti - vai a star bene! e mi assegnarono al terzo Centro Automobilistico di Milano. In queglanni si andavano formando i centri automobilistici e infatti veniva considerato di fronte alle altre armi il corpo dei privilegiati. Alle prime ore del pomeriggio ci portarono alla stazione di Padova a l trovai anche mio padre e mia madre, ci fecero salire sul treno, nel frattempo mia madre mi consegn un bel pacco con un pollo arrosto con un buon contorno di patate. Il treno cominci a muoversi, qualche lacrima, in quei tempi partire soldato era quasi una tragedia. A Milano arrivammo che ormai era sera, ci portarono al comando tappa della stazione vecchia, ci vennero a prendere con gli autocarri, si attravers la grande Milano e arrivammo alla Caserma CARACCIOLO. Allarrivo ci attendevano degli anziani, quelli che dopo poco tempo andavano in congedo, e purtroppo ci accolsero con qualche urlo e le solite prese in giro. Ci portarono al magazzino e ci consegnarono le cose di prima necessit: branda, lenzuoli, coperte, cuscino, gavetta, gavettino e cucchiaio. Data lora tarda, per mangiare andammo a spendere i primi soldi al refettorio, ritornammo, prendemmo posto in un immensa camerata e passammo la prima notte da recluta. Da notare che la caserma prima era adibita a caserma di artiglieria a cavallo. Cominci la prima dolente nota con la sveglia mattutina con la tromba: pulizia, rifare la branda, lasciare tutto a posto e infine la prima brodaglia, mezzo gavettino, chiamato caff; mezza pagnotta poi adunata in cortile. La caserma internamente, adibita prima alla cavalleria, aveva una dimensione molto vasta, quattrocento metri (di lunghezza) per cinquanta, con una pista tutta lunga il fabbricato, divisa da una siepe dove allinterno vi era terreno di gioco regolare per il pallone, pi un altro appezzamento per gli attrezzi ginnici, a fianco di questi unimmensa cucina, nel retro del lungo fabbricato, al di l dei campi da gioco, in formazione perpendicolare vi erano quattro o cinque capannoni per i vari autocarri, un capannone officina ed infine un capannone per il ricovero delle vetture per i vari comandi. Dentro ai capannoni vi erano le mangiatoie e gli anelli per attaccare i cavalli e cos pure anche fuori quando i cavalli venivano portati fuori per la pulizia e brusca-striglia. La prima adunata viene effettuata da un Cap. Magg., un bel cicciotto, tutte le reclute messe in riga per la suddivisione per compagnia, a me tocc la sesta e il Comandante era un Tenente che proveniva dalla fanteria, al centro del berretto, sopra i fucili incrociati, vi era sovrapposto una automobilina dorata per il passaggio al corpo degli automobilisti. Il comandante si chiamava BARSALONA alto e asciutto, elegante e con la voce rauca, era della fattura del Principe Umberto. I primi approcci furono veloci, cos si fece subito il trapasso dagli abiti borghesi a quelli della naia e la prima divisa fu quella di tela chiara la quale era abbastanza pesante e dura. Il secondo giorno cominciarono ad intervalli le adunate, istruzione, ginnastica e primi approcci in aula per la conoscenza automobilistica (io ero uno dei pi aggiornati), ci al mattino, poi alle ore undici il rancio, al pomeriggio nei garage per la conoscenza degli autocarri (nessuno aveva il parabrezza), i quali erano tutti residuati della guerra 1915/18Isotta Fraschini- Fiat 18BL e Fiat 18BLR; i primi si differenziavano per le ruote posteriori alte e basse dal secondo tipo, vi erano i 15 Ter Fiat con ruote alte dei quali alcuni erano carrozzati a autoambulanza-Lancia Z con ruote molto grandi, queste erano le pi veloci ma
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bisognava fare attenzione, a detta degli anziani, che era facile uscire di strada. Listruzione a piedi al mattino non la riuscivo a mandare gi, i gambali mi stringevano troppo, gli scarponi mi facevano male ai piedi e specialmente sotto la nocella del collo del piede. Ho subito cercato di squagliarmela: di solito dal circolo mensa ufficiali veniva gi laddetto per avere un aiuto in cucina o per le pulizie e io ero sempre il primo a saltare fuori. Tutti gli ufficiali provenivano da diversi corpi, giovani e meno giovani. Il mio comandante fu di parere contrario alla posizione da me assunta e cominci un braccio di forza tra me e lui, e nonostante fossi appoggiato da un altro Ten., il Conte Pull di Riccione (io ero nato a Rimini) non ci fu niente de fare, il comandante mi lesse il libro del tornaconto, fare il lavoro di compagnia al mattino, aiutare alla mensa, e siccome ero uno dei migliori come conoscenza di macchine e guida mi fu comandato di uscire al pomeriggio a fare istruzione ai nuovi ufficiali arrivati. Alla sera finivo tardi quindi al mattino ero autorizzato a non alzarmi alla sveglia, non mangiavo nella gavetta ed ero esentato dallistruzione. Il Comandante aveva adocchiato i migliori, uno ero io per gli autocarri, questo lo potei ottenere perch da ragazzo lavorai in officina di auto, destate da mio zio, laltro un certo LONGONI Enrico di Seregno o Saronno, meccanico di motociclette. Da notare che oltre al Cap.Magg. cicciotto, cera un altro Caporale, MARIANECCI, di Follonica, piccolino, bravissimo, ma oltre a quello, il comandante dalle finestre che davano sul grande parco, assisteva a quanto si faceva intorno alla pista, sia con gli autocarri, sia con le moto. Al Marianecci si avvicinava il giorno del congedo e lasciava fare tutto a noi due. Nei momenti di sosta ci raccontava qualche episodio dei suoi lunghi mesi di naia, sulle autocolonne sia estive che invernali, per trasporto materiali e truppe. Mi raccont di un campo invernale in montagna: trasportate le truppe e loro materiali, durante il campo dovevano fare la spola nei magazzini della sussistenza con la citt e trasportare tutto ci che i comandanti giorno per giorno avevano bisogno. Fu in questo campo invernale che se la cav per il rotto della cuffia: faceva servizio con un 18BLR e come al solito, discendendo dalla montagna, sempre con la solita precauzione, frenando, la velocit non diminuiva, le curve si susseguivano ed ad un certo punto tent di rallentare spingendo pi a fondo il pedale del freno, ma con poco risultato, cerc di aiutarsi con il freno a mano, ma il beneficio non fu un granch. Da notare che i freni non gravavano sulle ruote, ma due grosse ganasce con ferodo esercitavano lazione sullalbero di trasmissione; per evitare il peggio pigi sul pedale della frizione e con violenza riusc ad innestare la marcia-indietro, diminuendo la velocit, e nello stesso tempo, per evitare guai maggiori, sterz verso la montagna; cos pot fermarsi alla belle meglio, fu un grande sollievo anche per i militari di Corv che erano dentro il cassone del camion, purtroppo se lerano vista brutta anche loro. Lautocarro poi venne rimorchiato per le riparazioni del caso nellofficina militare del centro a Milano. Non appena un autiere era in condizioni di portare un autocarro, veniva mandato ed aggregato ad altri corpi, una pacchia, non cerano turni di guardia, ramazza, si doveva solo curare la macchina e controllare che fosse sempre efficiente, sempre pronto per i servizi del reparto a cui era aggregato. Nei primi giorni di Aprile 1931, io e Longoni fummo chiamati in fureria, perch designati per il grado di allievo caporale. A noi due questo non interessava, desideravamo solo avere i nostri mezzi in consegna e non avere altre responsabilit; tutti e due ci mettemmo daccordo di rifiutare e il giorno dellesame, per noi era un proforma, di dare risposte sbagliate. Il giorno prima dellesame, sotto il porticato dellentrata della caserma, cera il mio Comandante ed il Maggiore, il quale era incaricato per i nostri esami, e fra laltro erano molto amici. Il mio comandante mi fece chiamare da una guardia, e mi incaric di andare al guardaroba del circolo ufficiali a prendere il mantello del maggiore. Andare e venire cerano due lunghe rampe di scale: feci in un lampo. Seppi poi che il comandante aveva messo al corrente delle nostre intenzioni durante lesame il quale fu solo un proforma, era gi stato tutto deciso prima fra loro. Non tardarono ad arrivare quei due straccetti neri da attaccare al braccio, si ebbe cos l primo aumento sulla decade, poi tutte le volte che si usciva con lautocarro per un qualsiasi servizio veniva aggiunta al foglio duscita unaltra somma, se non si rientrava in tempo per il rancio, veniva conteggiata la perdita di rancio e la cifra veniva ritirata come tutte le altre cose a fine decade. Si veniva a ritirare una bella sommetta, e poi quando si rientrava tardi, si faceva una scappata in cucina e si rimediava
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sempre qualcosa da mangiare. I servizi da fare non ce nerano sempre e siccome la volont di girare non mi mancava, cominciavo al mattino a girare per Milano a fare la spesa alla sussistenza per militari e ufficiali, al pomeriggio nelle ditte per i pezzi di ricambio per lofficina, mentre alla sera cera da andare con lautoambulanza nelle varie caserme per prelevare qualche soldato ammalato e portarlo allospedale militare. Per me era un bel passatempo. In libera uscita ci andavo poco, specialmente nel periodo invernale, freddo pioggia e nebbia a non finire e poi cera sempre la ronda ed in centro era sempre pieno di ufficiali o sottufficiali, bisognava sempre portare la mano alla visiera per salutare e se non lo facevi cera sempre qualche bellimbusto che ti fermava e ti faceva rapporto. Era tanta la fiducia dei superiori che eravamo due intoccabili. Al pomeriggio due o tre volte alla settimana fra noi si facevano, dentro in caserma, partite di calcio. Io prima di partire soldato, a Padova, avevo giocato sia con la terza squadra, gli allievi, poi in unaltra buona squadra, cosicch un bel giorno, non so come lo fossero venuti a sapere, un signore mi fece chiamare in parlatorio e mi chiese se volevo giocare con una squadra del rione vicino alla caserma e cio la MARIO ASSO ma purtroppo dopo qualche partita dovetti lasciare perdere, il Comandante non dava pi nessun permesso, un boxeur ritorn da un combattimento cos pesto che non furono pi concessi permessi per attivit sportive fuori dalla caserma. Si arriv al Maggio del 1931, da tempo si parlava di un approntamento, per istruzione ed addestramento, di una numerosa colonna di macchine di vario tipo, per un periodo di circa una ventina di giorni, da effettuarsi in pianura, collina e montagna. Nella prima decade di maggio mi chiamarono in fureria, dovevo recarmi a Fornovo Taro a sostituire un autiere che si era fatto male. Mi prepararono il foglio di viaggio, io preparai il mio bottino (cos era chiamato, era di tela molto robusto e dentro conteneva tutta la biancheria). Il mattino dopo mi accompagnarono alla stazione con un autocarro; nel tardo pomeriggio arrivai a destinazione. Il malcapitato che andavo a sostituire era quel boxeur, che da maldestro aveva riempito il suo accendino di benzina per accendere le sigarette, con le mani ancora impregnate di benzina fece funzionare la pietrina, la scintilla provoc una fiammata che si propag alle mani e alla giacca, anchessa impregnata di benzina. Fortuna volle che poco distante ci fossero altri militari che con le coperte riuscirono subito a domare il fuoco. Presi tutto in consegna ed il giorno dopo lo accompagnai in stazione dove a Milano lo portarono allospedale. Questa volta ebbi una buona fortuna ed inoltre incominci la mia prima avventura da solo con un vecchio autocarro Fiat 18 BL residuato della grande guerra, ancora efficiente. Il pesante automezzo era in buon ordine, lo controllai da cima a fondo, poi mi presentai al comando per gli ordini: dovevo seguire o anticipare tappa per tappa i bersaglieri di Milano che stavano effettuando il campo. Mentre stavo tornando allautocarro, con grande sorpresa incontrai tre riminesi, Carloni Carlo, Castellani e De Lucia: loro erano tre allievi ufficiali ed io un povero caporaletto, comunque fu gran festa e alla sera mangiammo insieme alla loro mensa. A Fornovo io non avevo nulla da fare, come camera da letto era linterno del cassone dellautocarro, era maggio e si stava bene. Per passare il tempo ero sempre vicino ai bersaglieri ed assistevo a tutto ci che facevano, marce, corse, tiri. Per mangiare era una pacchia, ero sempre alla mensa con loro. L si rimase fermi una settimana, poi un mattino venne lordine di spostamento, i bersaglieri incolonnati con le famose biciclette pieghevoli, con le gomme piene e il pignone fisso e senza parafanghi. Mentre loro erano pronti per la partenza, io con lautocarro attendevo finissero di caricare le loro cassette con gli indumenti, il materiale di fureria e tutto il necessario per i tiri, le munizioni e qualche mitragliatrice. Il trombettiere in testa alla colonna fece squillare la tromba: tutti salirono in bicicletta, cominciarono a pedalare e con il cappello alla sbarazzina con le piume al vento cominciarono a pedalare per la strada polverosa. Finito di caricare tutti i materiali, con il maresciallo, il magazziniere e la corv misi in moto e mi avviai per la strada polverosa che potava da Fornovo a Berceto, inoltre nel cassone avevo due allievi ufficiali che si erano infortunati cadendo con la bicicletta nel trasferimento precedente. Mentre la colonna dei bersaglieri ciclisti saliva, in mezzo al polverone il trombettiere, sempre in testa, ogni tanto faceva sentire il suono della sua tromba per incitare la colonna ad essere pi veloce. Qualche chilometro prima di arrivare a Berceto, con cautela
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sorpassai la colonna, e per tutto il sorpasso, con gesti e grida, mi facevano capire che per loro era molto dura. Arrivai a Berceto, mi portai al luogo indicato, poi arriv la colonna: erano tutti stanchi, impolverati, sudati ed affamati. Solita sistemazione e per altri quattro giorni solita vita militare. Per me era una vita da signore. Ripartimmo e attraverso il passo dei Giovi si arriv a Chiavari dove sostammo in un capannone vicino al mare. Di qui poi ci trasferimmo a LA SPEZIA presso la caserma della marina, assieme ai marinai, ci dettero da mangiare, non nella gavetta, ma in recipienti suddivisi, dove ci mettevano la razione di minestra, secondo, contorno ed anche del vino; loro effettivamente avevano un altro trattamento, non pagnotta ma pane bianco. Dormire alla marinara. Si part da LA SPEZIA, si fece breve tappa ad Arquata Scrivia, Genova ed infine Voghera. Una tappa lunga e faticosa. Qui ci fu un riposo molto lungo, una settimana; io con lautocarro ero in sosta in un cortile dove poco distante si erano alloggiati in capannoni i bersaglieri con il comando e tutti i materiali, poco distante vi era un grande deposito di legna. Io durante il giorno, sempre vestito in tuta, perdevo il mio tempo vicino allautocarro. Per tutti fu una vera settimana di riposo. Si ripart finalmente per lultima tappa, Milano. Dentro la caserma allarrivo ci fu gran festa al suono della fanfara e alla presenza di alti Ufficiali. Lautocarro fu scaricato di tutto il materiale, salutai i miei amici riminesi e attraversando la citt di Milano, ritornai al centro automobilistico, cos portai a termine la mia prima missione. Il giorno dopo ebbi gli elogi dal mio comandante. Chiesi di esser inviato in licenza, non fu possibile. Nel frattempo era arrivato il secondo scaglione delle reclute e mi venne consegnato un autocarro Lancia Z al quale era stata sostituita la testata e applicati degli iniettori a Nafta: furono i primi esperimenti per i futuri motori a DIESEL. Questo autocarro che avevo in consegna lo conduceva il Capitano Conte CORNAGGIA di Como il quale, quando cera la gara militare Coppa delle Alpi lui con un autocarro 25000 SPA vinceva sempre la corsa. Quando si usciva per la prova della nuova trasformazione al motore, al suo fianco sedeva un ingegnere, io stavo nel cassone a fare compagnia a dodici sacchetti di sabbia, i quali servivano come zavorra. Le prove venivano fatte partendo al mattino da Milano, si faceva il giro del lago di Como, poi ci si fermava prima di entrare nella citt di Como: verso mezzogiorno si andava a mangiare nel ristorante, io naturalmente da solo (pagavano loro!). Era ancora il mese di maggio io dentro il cassone con il telone arrotolato mi godevo tutto il paesaggio in continuo sali e scendi delle colline e lungo il lago di Como. Finito di mangiare passando per Lecco ritornavamo allautocentro. Nel giugno del 1931 venne allestito il campo estivo dellautocentro, il quale serviva per addestramento delle reclute arrivate in Aprile assieme agli anziani, si partiva da Milano si toccava Erba, Lecco, Bellano, Introbio, Colico, Chiavenna e lo Spluga. Un giro bellissimo fra colline lago montagne - strade in terra battuta che quando si arrivava a destinazione, il parabrezza allora non esisteva, si arrivava tutti bianchi di polvere. Per mia disgrazia mi fu affidato un autocarro 18 BL al quale al fianco del guidatore era stato applicato un apparecchio il quale, bruciando legna, produceva gas che serviva a far funzionare, con altri dispositivi, il motore in sostituzione della benzina. Era un altro esperimento, il momento dellautarchia, per risparmiare la benzina.

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Non fu una soluzione felice, ci voleva legna adatta che sempre non si trovava, il cassone conteneva solo legna e non vi era posto per soldati e materiali, in colonna non si teneva mai il passo con quelli a benzina, ed in salita il pi delle volte si fermava perch di gas non se ne produceva a sufficienza. Non dur molto, fu subito accantonato. Il giro doveva durare allincirca una ventina di giorni, fermandosi sempre nei paesi gi elencati. La tappa pi movimentata e pericolosa fu quella da Chiavenna allo Spluga, circa una ventina di chilometri tutti in salita da farsi con quei bestioni in colonna, salendo sulla sinistra la scarpata che finiva al fiume e chi sbagliava faceva un bel volo, sulla destra la montagna, lultimo tratto molto tortuoso con frequenti gallerie che purtroppo erano allo scuro anche di giorno, per mancanza di illuminazione. Il mio amico motociclista era sempre su e gi per la collina per riferire al comandante come procedevamo. Arrivammo allo Spluga il 21 giugno 1931, posteggiammo tutti gli autocarri in uno spiazzo, lungo un corso dacqua limpida e fredda, poi la strada, un unico e vecchio albergo ITALIA dove alloggiavano gli ufficiali, tutto intorno le alte montagne. La notte a quella altezza faceva abbastanza freddo, nonostante fossimo in giugno, e le giornate limpide e bellissime. Il nostro lavoro era nullo, passeggiate e qualche escursione. Un mattino mentre lungo una strada pietrosa ci recavamo per una passeggiata a piedi, ci imbattemmo in un FIAT 509 targato Milano n. 19913 (questi dati li ho presi da una foto mandatami dagli occupanti): pi tardi lauto, per lo scoppio di una ruota anteriore era finita ai bordi della strada. Incontrarci fu la loro fortuna, inesperti, cambiammo la ruota danneggiata e rimettemmo lauto in carreggiata. Per i giorni, circa una settimana, che rimanemmo allo Spluga, non cera sveglia e quando ci alzavamo si andava a lavarsi nellacqua limpida e fredda; era impossibile adoperare il sapone perch non riuscivamo pi a toglierlo, poi si andava dai montanari che erano al pascolo con le mucche e l ci compravamo una mezza gavetta di latte appena munto; lo facevamo bollire, ma non riuscivamo mai a finirlo, tanto era Foto scattata il 22 giugno 1931 a Montespluga, poco distante dallalbergo Italia (Prop. Buzzetti Antonio) denso che faceva un dito di panna. Il 24/6/1931 ripartimmo dallo Spluga, rifacemmo la lunga discesa e facemmo tappa a Chiavenna. Il 25/6/1931 partimmo per Menaggio e ci fermammo lungo la strada per attendere che si facesse scuro. Dovevamo fare una colonna notturna. Occorreva sistemare i fanalini posteriori: questi avevano lo stoppino che ad una estremit era immersa nellolio, mentre laltra si accendeva prima di partire. Quando tutti fummo pronti, il motociclista con le sue solite scorribande lungo la colonna, si port vicino alla vettura del comandante il quale diede il via allavventura notturna. Era necessario stare n troppo vicini, n troppo lontani, perch lunico riferimento, non cera nemmeno la luna che rischiarasse un p, era la massa dellautocarro precedente ed il fanalino di coda per il riferimento; soprattutto non bisognava perdere il contatto. Quando si arriv a Porlezza il 26.6.1931, proprio in riva al lago di Lugano, era ancora notte. Parcheggiammo le macchine e per non dormire nel

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cassone prendemmo le coperte e andammo a dormire nelle famose barchette alla Renzo Tramaglino descritte nel romanzo dei Promessi Sposi che ci cullavano ormeggiate in riva al lago. Ci risvegliammo appena si fece giorno con il cinguettio degli uccelli ed i pescatori che con quelle barche andavano anche a pescare. Venne lora delladunata per la distribuzione del caff che venne fatto davanti allunica trattoria, sotto un grande pergolato. L si rimase molto poco, peccato, era un posto incantevole. A malincuore si dovette ripartire il giorno dopo per rientrare allautocentro. Fu unesperienza bellissima! Ricominci il solito tran-tran di caserma, ma purtroppo quei gradi di caporale non mi andavano gi, cera da fare il caporale di giornata, curare le pulizie delle camerate, istruzione alle nuove reclute e di giunta montare di capo posto per 24 ore al portone della caserma, pi i soliti servizi con gli autocarri. Comunque il tempo passava veloce e non cera da annoiarsi. Pass cos qualche giorno, poi venni incaricato, assieme a due autieri, di trasferire tre nostri autocarri pesanti ISOTTA FRASCHINI sempre a gomme piene, presso la sussistenza di Piacenza per trasportare i viveri nelle varie caserme. Purtroppo quei due autieri che dovevano rimanere a fare quel servizio non erano sufficientemente preparati per la guida, cerano strade strette e i portoni per quei bestioni non erano sufficientemente larghi e per entrare e uscire bisognava fare manovre su manovre, urtavano continuamente portoni e muri, rovinando i pur solidi cassoni del camion. Il colonnello della sussistenza fra i disastri interni ed i reclami che venivano da fuori, decise di far rientrare i due malcapitati ed io rimasi da solo a fare il servizio. Per me era una pacchia sebbene al mattino mi dovessi alzare alle cinque per iniziare il servizio, che finivo alle prime ore del pomeriggio, poi ero libero. Mangiavo dove mi trovavo nelle cucine dei vari corpi e ci che di meglio si potesse trovare. Anche questa pacchia non dur molto, fra il mio comandante e quello della sussistenza ci fu uno scambio di telefonate, cosicch mandarono altri due autieri ed io ritornai a Milano. Solito andazzo, sempre in attesa di nuovi ordini e servizi che non tardarono ad arrivare. Con tutti gli autocarri portammo il 7 e 8 fanteria di Milano a S. Pellegrino o San Giovanni in Bianco non ricordo bene- per il loro campo estivo, poi da Milano andammo a Como a prendere il 69 fanteria per fare poi il campo allAprica. Lundici agosto 1931 a Morbegno venni aggregato, questa volta con una macchina pi leggera un 25000 SPA, alla mensa ufficiali per i quali dovevo rimanere a disposizione. Il 12/8/1931 andammo a Colico, il 13/8 a Delebio, il 16 e 17 agosto 1931 a Talamona, il 21/8 a Sondrio, il 23/8 a Tresenda e a S. Giacomo di Teglio, il 26/8 a Villa di Tirano, il 27/8 a Teglio ed il 29/8/1931, nel ritorno, di passaggio a Lecco. In tutti i paesini sopra elencati facevo soste per i servizi in quanto i reggimenti erano accampati ad Aprica per le esercitazioni. Molti ufficiali, non in servizio, non dormivano sotto la tenda, cos alla sera li portavo a Villa di Tirano in un albergo, io naturalmente essendo sempre fuori in servizio, mangiavo alla mensa. La spesa si andava a farla a Tirano ed io tutte le mattine saltavo, assieme ai due militari di corv, il caff , ma buon per tutti noi, perch durante la spesa ci rifocillavamo con dei buoni panini e vino offerti dagli ufficiali. Un giorno il mio comandante mi fece chiamare motivo- avevano fatto rapporto perch alla sera rientravo tardi. Gli feci capire che dalla sveglia alla sera ero a disposizione degli ufficiali e che anche il pi delle volte non arrivavo in tempo per il rancio. Ci fu confermato dagli ufficiali al mio comandante, loro avevano bisogno di me, con questo potei ottenere la perdita rancio e qualche uscita in pi con lautomezzo che comportava una maggiore entrata di denaro. Alla sera rientravano sempre tardi allalbergo ed io dormivo sempre nel cassone della macchina e malgrado fosse estate, anche se era media montagna, faceva frescolino durante la notte. Da Villa di Tirano ad arrivare nellaccampamento dellAprica cerano allincirca una decina di chilometri. Una notte, per istruzione, venne dato lallarme al campo, un motociclista ci venne a svegliare per poter essere in tempo alladunata. Disgraziatamente quella notte fu talmente umida che il motore non voleva partire. Pulite le candele ed asciugate con un accendino, il motore non ne voleva proprio sapere di partire. Con laiuto di tutti misi la macchina verso la discesa,feci salire tutti, mollai il freno e quando raggiunse una certa velocit innestai la marcia e finalmente si mise in moto. Era ancora notte, senza fari, gi per la discesa, abbastanza veloce per arrivare in tempo al posto delladunata prima che arrivassero gli
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ufficiali superiori i quali volevano constatare il tempo impiegato dallallarme allo schieramento della truppa. Anche questo campo ebbe termine e rientrai di nuovo al Centro di Milano per i soli servizi interni. La naia era sul finire ed il 19 dicembre 1931 venni congedato ritornando a Padova, chiudendo cos la parentesi militare. Nellanno 1932 mio padre fu trasferito al deposito locomotive di Rimini, quindi ci trasferimmo a Rimini. Io dal distretto di Padova passai a quello di Forl. Saltuariamente trovai da lavorare, la disoccupazione era tanta, nello stesso tempo trovai da giocare a calcio con il Dopolavoro Ferroviario di Rimini. Nella prima decade di settembre 1935 fui richiamato e inviato al 6 Centro Automobilistico di Bologna, dislocato in un secondo tempo a Castenaso, dove fummo alloggiati in una vecchia fabbrica di pomodori. Rimasi pochi giorni, venne formato un drappello di 35 conduttori che al momento era comandato da un sergente maggiore siciliano che si chiamava CURMACI e di l ci trasferirono al distaccamento di Ancona, a disposizione della Divisione Metauro. Alla fine di settembre tutti equipaggiati tranne gli automezzi- si part alla volta di Napoli, dalla stazione ci trasferirono al porto ove ci attendeva per limbarco una grossa e vecchia nave chiamata Cesarea (ho una foto, ex nave inglese venduta allItalia come rottame: lItalia aveva bisogno di navi da trasporto). Pi tardi questa nave venne trasformata in nave ospedale. In un primo momento si seppe che la destinazione era Africa Orientale, conquista Foto scattata il 28 settembre 1935 dellimpero.

Prima di partire da Ancona avevo avvisato i miei genitori della partenza ed infatti mi vennero a salutare poco prima dellimbarco. La sera del 29 settembre, finito limbarco, partimmo dal molo Beverello di Napoli; passammo lo stretto di Messina, mare sempre calmissimo, tempo bello, la nave aveva preso la rotta verso il canale di Suez, se non ch, ad un certo momento, fece una larga conversione e si diresse verso la Tripolitania. Al terzo giorno fummo in vista della costa: eravamo diretti a Tripoli.
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Era di mattino ed il caldo si faceva sentire e noi eravamo vestiti con il solito grigio-verde, di africano avevamo solamente il casco, sbarcammo e a piedi lungo la costa, dopo circa sei chilometri di marcia, arrivammo alla caserma denominata la Busetta. Ci fermammo alcuni giorni. Al pomeriggio si faceva la lunga passeggiata a Tripoli, si andava a mangiare in un ristorante, ma rimanemmo subito male, guardammo attraverso una tenda e vedemmo che in cucina rimestavano gli spaghetti con le mani, loro scuri di pelle, sopra erano nere e sotto rosee: l si mangi un secondo alla belle e meglio. Nelle sere seguenti optammo per una latteria gestita da italiani-riminesi con uova fritte, patate e latte. Con il drappello rientrammo nel centro di Tripoli e precisamente alla caserma dei Cacciatori, data 19/10/1935, ma purtroppo ci dovemmo allestire le tende. Era ottobre e in Africa la notte umida e fredda e il giorno si crepa dal caldo. Purtroppo il rancio non era un gran che, il secondo era sempre spezzatino con patate con abbondanza di cipolla e quando il vento spirava dal deserto, la sabbia finissima condiva abbondantemente, penetrando in ogni dove, quindi non ci restava che buttar via tutto. Il comandante della caserma, ad un certo momento, pretese che noi automobilisti al mattino facessimo la marcia, 10 chilometri, assieme alla fanteria. Noi eravamo equipaggiati in divisa di panno grigio verde, loro in tela tenuta africana. Lo facemmo una prima volta, ma ritornammo con un paio di ore di ritardo e dopo la seconda dovettero desistere, quando rientrammo facemmo notare le nostre divise inzuppate di sudore e talmente puzzolenti da doverle fare lavare. Una sera, mentre passeggiavamo lungo il lungomare di Tripoli, notammo che si erano ormeggiati dei piroscafi di grosso tonnellaggio, dicemmo, vuoi vedere che c in programma un nuovo viaggetto? Infatti quando rientrammo in caserma tutta la divisione aveva avuto lordine di approntarsi. Il mattino seguente, molto presto, i reparti si portarono al porto incominciando a salire sulle navi. Noi fummo gli ultimi e ci imbarcammo sul piroscafo PRINCIPESSA GIOVANNA, navi passeggeri che erano state adibite a trasporto truppe, dentro tutte incastellate per dormire. Si pensava di dover andare, come doveva essere in un primo momento, in Africa Orientale, perch quando si salp la direzione era quella, ma poi si cambi rotta, si ritornava in Italia. Sorpassammo la punta di S. Maria di Leuca, lasciandoci dietro il mar mediterraneo e cominciammo a risalire il mare adriatico. Il mare nella grande distesa sembrava calmo, le lunghe onde facevano ondeggiare la nave ed io fra i tanti, dovetti sdraiarmi al centro della nave per evitare il pi possibile londeggiamento ed il mal di mare. Il giorno 7 novembre 1935 arrivammo a Bari ed il mattino seguente cominci lo sbarco. Lungo il lungomare, a piedi, ci portammo alla stazione ferroviaria e partimmo alla volta di Ancona, viaggiando tutta la notte e poich la linea era a binario unico, si doveva sostare a lungo nelle stazioni in attesa che il treno che proveniva in senso contrario liberasse la linea. Ritornammo cos nuovamente in Ancona. Continuammo ad oziare al distaccamento il quale era nel centro citt e noi eravamo sul retro di un grande palazzo che era delle PP.TT. la cui facciata era rivolta su piazza Cavour, a met strada tra il porto e il Passetto. Istruzione non se ne faceva, solo lunghe passeggiate in una localit chiamata PINOCCHIO. Quellinverno 1935/36 fu veramente cattivo, neve in quantit, strade ghiacciate, la citt costruita sui fianchi della montagna aveva strade che arano tutto un salire e scendere, le camerate erano gelide e al mattino, quando ci si doveva lavare, bisognava uscire sotto un porticato dove la corrente daria ci gelava ancora di pi. Una domenica ebbi la sventura di essere quasi solo in distaccamento, tutti erano in libera uscita, venne un ordine dal Comando Divisione di approntare una vettura, una Fiat Balilla, per andare a prendere un generale da portare a far visita allOspedale Militare. La macchina era nuova, ma con quel freddo non voleva andare in moto, finch a forza di spingere riuscimmo ad avviare il motore cos andai al comando a prendere il generale ed il suo aiutante. Arrivare a destinazione fu unimpresa a causa della neve e della strada ghiacciata ed in salita. Io dovetti starmene fuori ad attendere il ritorno ed ogni tanto dovevo rimettere in moto lauto perch lacqua non gelasse. Nel momento di ripartire il motore cominci di nuovo a fare i capricci e fermarsi: dovetti mettere la vettura in discesa, una spinta e si ripart. Il commento degli occupanti fu: partenza felice! Il sabato e alla domenica, quando non ero di servizio, facevo qualche scappatella a casa.
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Una mansione che mi fu affidata in quel periodo era quella di andare a prelevare i soldati analfabeti e accompagnarli dopo il rancio in una scuola per imparare a leggere e scrivere. Pass linverno, la primavera, venne la festa del 24 maggio, ci fu la parata con uomini, autocarri e altri materiali; restammo l in piedi per ore per vedere passare velocemente un generale. Nel frattempo venne il colonnello Boscassi dellautocentro di Bologna per sottoporci agli esami per passare caporal maggiore. A fine maggio 1936 mi congedarono con la proposta ai gradi di sergente per i quali mi venne la comunicazione dopo qualche tempo a casa. Lavventura del primo richiamo era finita. Ritornato a casa ripresi a lavorare presso una ditta di laterizi di Gorini Pietro. Nel 1937 o 1938 (non ricordo bene) ebbi il secondo richiamo. Avevo ricevuto la cartolina precetto e dovevo presentarmi direttamente al porto di Napoli, in abiti civili, per essere trasferito poi in zona oltremare, destinazione Spagna. Qualche ora prima di recarmi alla stazione per partire, i carabinieri vennero a casa, in via Gambalunga, 42 a Rimini, trovarono i miei genitori e ritirarono la cartolina precetto: non dovevo pi partire perch ero stato in Tripolitania, richiamato. Successivamente passai in una azienda di autotrasporti, Semprini Giuseppe, continuai a giocare anche il pallone, ma questa volta nella Libertas Rimini, nello stesso tempo mi misi in societ con un mio amico e comprammo un autocarro Bianchi Mediolanum per trasporti, ma la fortuna non era dalla mia parte; il 1 settembre 1939 venni richiamato unaltra volta, destinazione autocentro di Udine. Dopo pochi giorni ci venne requisito lautocarro: il mio socio mi inform subito ed io riuscii a fare una scappata di qualche giorno, ma lautocarro, che fra laltro non era ancora completamente pagato, bisogn portarlo al centro di requisizione. Ci liquidarono alla maniera militare, i soldi che si racimolarono una parte li diedi a mio padre che precedentemente me li aveva prestati, ne deve avere ancora. Ci rimase il rimorchio, con il quale sistemammo le ultime pendenze. Ripartii per Udine, cera in approntamento la divisione VICENZA, la guerra era gi nellaria ed anchio, come automobilista, dovevo essere aggregato. La ridda delle destinazioni erano tante: Albania, Grecia, Russia. Di servizi in caserma non ce nerano da fare, lunica scocciatura a turno era la ronda e cos alla libera uscita, con due fanti, si girava la citt e i locali pubblici al fine di trovare qualche disgraziato non in regola per fare poi rapporto. Questo servizio per me era talmente indigesto che quando rientravo riferivo che tutto era regolare oppure falsavo le generalit o lappartenenza al corpo, tanto dicevo sono un richiamato e non devo fare nessuna carriera. Un giorno fui richiamato dallaiutante maggiore il quale mi disse che se continuavo cos avrebbe preso provvedimenti in quanto per lui era impossibile che non trovassi mai militari fuori posto. I sottufficiali mangiavano alla mensa e naturalmente tra firmaioli e richiamati non correvano buoni rapporti, loro si attenevano alletichetta, noi con i mille pensieri di casa non avevamo voglia di nulla. Chi controllava il tutto era un maresciallo, fra laltro la posta veniva messa sotto il piatto e non si poteva leggere a tavola; io, in attesa che servissero da mangiare mi misi a leggere lo stesso la corrispondenza. Il maresciallo piomb come un falco e mi impose di nascondere immediatamente il tutto. Da parte mia mi alzai, uscii a leggere la mia corrispondenza allaria aperta, poi andai a mangiare nel refettorio. Successivamente mi recai in fureria, mi feci togliere dalla mensa e con gavetta e gavettino incominciai a prendere il rancio in fila con i soldati. Qualche mese prima del richiamo feci domanda alle Ferrovie per concorrere ad uno dei tanti posti da fuochista e nel mese di novembre fui chiamato a Bologna per le prove scritte, ebbi una licenza breve, ma mi rimase il tempo per fare anche una scappata a casa. Con me agli esami cera anche il fratello del mio amico Gianni il quale mi chiese di aiutarlo nelle prove scritte perch era un p scarso, e mi adoperai al caso, sebbene il sorvegliante mi avesse detto attento lui pu essere scarso nello scritto e buono nel capolavoro, ma merito mio super lo scritto e nel capolavoro ebbe una grossa raccomandazione, cos entr in graduatoria, io no, e fu assunto. Se stavo a sentire sarei potuto entrare in graduatoria e se fossi stato chiamato in Ferrovia avrei evitato il richiamo del 1940. Ci ritrovammo molti anni dopo al circolo dei marinai, al porto di Rimini, con suo fratello il quale disse: lui che ti aiut agli esami. Non grad troppo la cosa, ma purtroppo era la verit. Il 16 dicembre 1939 mi rimandarono a casa in licenza straordinaria. Il mondo non era tranquillo. Ritornai a lavorare dove ero
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precedentemente occupato, naturalmente il denaro non era sufficiente, si pu dire che ero sulle spalle dei miei genitori. E giunse cos il settembre 1940 il terzo richiamo; da notare che ricevetti due cartoline precetto contemporaneamente, una con destinazione Udine e laltra Bologna. Mi presentai a Bologna, ero pi vicino a casa, senonch, dopo due giorni che ero a Bologna, a casa dei miei genitori si presentarono i carabinieri dicendo che io ero un disertore per non essermi presentato allautocentro di Udine, ma i miei spiegarono come erano andate le cose. A Bologna fui smistato al deposito di Casalecchio dove rimasi circa sei mesi, fu un inverno brutto, neve a non finire, in quei capannoni immensi e freddi, bisognava andare a dormire vestiti, il rancio lasciava sempre pi a desiderare, tutti rubavano, Di giorno si andava a fare lunghe camminate per la campagna di Casalecchio, se il tempo era soleggiato, si raggiungeva qualche agglomerato di case e se cera unosteria si andava a prendere qualcosa per riscaldarsi. Si sapeva sempre in anticipo se il sabato o la domenica si era di servizio, cosicch il sabato o la domenica, con o senza il permesso, si scappava a casa. Il luned si cercava di rientrare prima della sveglia per essere puntuali allappello. Durante il servizio i controllori del treno e la milizia facevano finta di niente, ma se capitava che il controllo veniva effettuato dallufficiale di ronda cera il verbale con tutte le sue conseguenze. Il sabato e la domenica andava bene per chi restava, inoltre cera chi faceva incetta di pagnotte, minestra da dividere con famiglie e poveri che aspettavano allentrata del distaccamento. Giunse la primavera ed il comando aveva dato ordine di approntare i reparti. Il mio era il 43 autoreparto pesante formato da quattro sezioni 519-520-521-522 pi una sezione autofficina: ogni sezione era composta da un ufficiale, un sergente, due caporal maggiori, quattro caporali, un attendente, un meccanico, un magazziniere che faceva anche da cuoco, in tutto trentacinque uomini. Lufficiale era di Porretta Terme, ingegnere, proveniva dallartiglieria, si chiamava NANNI COSTA, era una nullit nel ramo automobilistico, sar stato bravo come ingegnere.., era ricco, aveva terreni, quindi figlio di pap, mi sono spiegato? Fu furbo, girando per i capannoni che fungevano da camerate, chiedeva a tutti la posizione da borghese e tutti denunciavano la propria attivit e nel suo taccuino finirono autisti di vetture e autocarri e al comando iscrissero nel suo ruolino tutti i nominativi da lui presentati, cos la sua sezione, la 520 non gli dava nessun grattacapo. Alla fine del febbraio del 1941 venne approntato il 43 autoreparto pesante, senza gli automezzi. Il 15 marzo 1941 lautoreparto venne mobilitato, grande adunata e il colonnello BOSCASSI ci fece il discorsetto. Sarei anchio orgoglioso di partire con voi per adempiere il mio dovere, ma lui rimase sempre al centro, ben imboscato. Con gli autocarri ci portarono nel centro di Bologna a piazza del Duomo e a piedi, con la musica in testa, corso Indipendenza e stazione ferroviaria. Lungo il tragitto, dalle finestre gettavano fiori, qualche battimani , soliti urli di commoventi genitori dei figli che affiancavano la colonna. Arrivammo alla stazione ove ci diedero da mangiare poi consegnarono le razioni per il viaggio, infine ci portarono allinterno, dove era allestito il convoglio, carri merci, prendemmo posto. Quando tutto fu pronto la fanfara militare dopo tre squilli di tromba cominci a suonare, il capo stazione alz la paletta e dopo i fischi della locomotiva il convoglio si mosse. Ultimi saluti, il convoglio partiva da Bologna per Mestre ed infine dopo circa sei ore di viaggio arrivammo a destinazione, Cervignano del Friuli, nel pomeriggio dello stesso giorno.Dalla stazione alla caserma la distanza non era molta, lungo la strada sulla sinistra cerano ancora delle casette prefabbricate, io le ho chiamate baracche, sono servite per i profughi della guerra 1915/18 e che ancora erano abitate da povera gente. La caserma era vastissima e di recente costruzione, rimanemmo in attesa di nuovi ordini. Nellattesa ci fecero visite e dovemmo sottostare a vari tipi di punture, una fatta sopra la mammella che a tutti fece un gran male, con febbre alta, si dovette rimanere chiusi in camerata per una settimana, a me poi, appena fatta la puntura mi dovettero portare a braccia in camerata. In questo periodo la Germania in guerra spadroneggiava e dilagava su tutti i fronti. Arrivarono gli autocarri, erano 24 tutti nuovi fiammanti Citroen di preda bellica pi 2 motociclette Guzzi 500. Cominci lassegnazione ad ogni autiere del suo autocarro. Nel frattempo arriv anche la signora del tenente Nanni Costa. In questo tempo si scoprirono tutte le carte, avevamo un comandante che non era capace di andare n in biciclettamotocicletta, figuriamoci con lautocarro. Nellattesa di ordini cercammo in tutti i modi di ambientarlo, di andare in bicicletta per poi passarlo alla motocicletta. Allinterno della
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caserma cera una pista in terra battuta che circondava il campo di calcio, ci dislocammo uno ogni 100 metri correndogli di fianco affinch non cadesse, ma non ci fu nulla da fare, era negato su tutta la linea. E pensare che eravamo stati mobilitati in attesa di entrare in zona di operazione in terra Jugoslava. Venne il momento di spostarsi e da Cervignano partimmo per Trieste, poteva essere la prima decade di maggio 1941. Fu la prima autocolonna della sezione, fu un caos. Si part con un tempo bruttissimo, temporale e acqua a catinelle. Il tenente sal sul primo autocarro, part come se fosse lui solo, senza curarsi del resto dellautocolonna. Durante il tragitto, autocarri, anche se nuovi, ma fermi da molto tempo, accusavano qualche guaio. I due motociclisti, causa il maltempo, non riuscivano a mantenere i collegamenti. Io ero a bordo dellultimo autocarro con il meccanico per soccorrere qualche autocarro che si fermava, la maggior parte erano cose da poco e si riusciva a farli ripartire. Quelli per i quali non si riusciva a metterli in efficienza, con un cavo li facevamo trainare da un altro autocarro. Con tutta la sezione arrivammo dentro il porto franco di Trieste, alloggiammo nei vasti magazzini dove vi erano i castelli in legno con pagliericci per dormire, un inferno, il rancio era pessimo,non parliamo poi della pulizia, i gabinetti una cosa impossibile, era tutto un letamaio, vi era truppa di tutti i corpi. Non si vedeva lora che venisse il momento della libera uscita per andare ai bagni pubblici a fare una doccia e andare in qualche osteria dove si mangiava discretamente spendendo poco. Nella camerata da noi occupata, bisognava a turno lasciare due piantoni di guardia per evitare che al rientro non trovassimo nulla del corredo da notare che oltre ai militari cerano borghesi che si travestivano da soldati per razziare indumenti che poi vendevano alla popolazione. Inoltre vi erano persone di pochi scrupoli che a causa del porto franco cercavano anticipando anche del denaro di portare allesterno materiale di contrabbando. Ma in precedenza erano finiti nella rete anche dei militari, cos, anche se le offerte in denaro erano alle volte allettanti per il valore della merce, cera da rischiare la galera. Restammo l un paio di settimane e venne finalmente dato lordine di spostarsi, con grande gioia lasciavamo quel letamaio, cosicch da reparto di approntamento diventammo reparto per zona operazioni, la guerra con la Jugoslavia era stata dichiarata, linvasione italiana era gi in corso ed una nostra sezione operava per i trasporti nella zona di monte NEVOSO. Da Trieste ci portammo a Fiume, attraversammo lunico ponte sul fiume ENEO ex confine italo-jugoslavo. Erano i primi giorni di giugni 1941, ci portammo sulla sinistra del fiume, naturalmente il fiume divideva come confine FIUME da SUSAK, verso il mare dove cerano enormi depositi di legname e capannoni per riparo dei mezzi, mentre una baracca ci serv da ricovero. Rimanemmo fino al gennaio 1942, un inverno duro, neve a non finire e freddo intenso. La baracca che era di legno, fra una fessura e unaltra con il vento che spirava dal mare, la neve entrava dentro che era un piacere. In questo periodo venne allestita una autocolonna di circa un centinaio di macchine per trasporto materiali e benzina verso Zara e Spalato ed anchio dovevo parteciparvi. Era un grosso problema perch alla sera, quando si arrivava in una certa
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localit, bisognava togliere lacqua dai radiatori causa il gelo, ed al mattino rimetterla nuovamente, allora non cera lantigelo, una perdita di tempo non indifferente. Ebbi la fortuna dalla mia, un sottufficiale fece una grossa marachella ed il comandante per non punirlo e per calmare un p le acque gli consigli di partire come volontario: fu la mia fortuna. Passarono diversi giorni, purtroppo a causa della strada, del ghiaccio, di incidenti, le strade in Jugoslavia in quel periodo lasciavano molto a desiderare e a destinazione arrivarono solo i due terzi degli autocarri. Per tutto il tempo che rimanemmo in quel baraccamento, qualche volta alla sera si andava in centro a FIUME o al cinema oppure se si decideva di andare a mangiare al ristorante ci portavamo dietro le nostre pagnotte, il pane bianco al mercato nero costava troppo e cera la tessera, e una buona parte le regalavamo con loro grande gioia, ai vicini di tavolo. Due volte alla settimana, al pomeriggio, si andava ai bagni pubblici a fare una buona doccia calda, a pagamento. Da SUSAK dove eravamo alloggiati nei baraccamenti, ci spostammo a circa un chilometro pi in alto e precisamente in localit TERSATTO e con tutte le sezioni occupammo il campo sportivo. Era un posto sicuro perch gli jugoslavi partigiani incominciarono a dare segni di irrequietezza, inoltre al di l delle mura che recintavano il campo cera un grosso deposito di benzina e olio al quale la guardia era affidata la fanteria. Vi erano pi sentinelle dislocate in vari punti, ma si dovette raddoppiare per maggior sicurezza. Cominciai a fare delle autocolonne allinterno, Longatico, Presid, Gerovo e Ciabar, si portava materiali di vario tipo che venivano caricati dalle navi al porto di Fiume e trasportati nei presidi dei paesi suddetti. Le strade non erano gran che, strette e polverose e a met strada il posto pi pericoloso era MRZIE VODICA chiamato in italiano il bosco nero, difatti ci si addentrava in una folta vegetazione di alberi, pini, abeti altissimi dove il sole non penetrava, poteva essere una bella passeggiata, ma si temeva sempre qualche agguato, perch naturalmente la strada in mezzo alla montagna con il salire e scendere, con curve e contro curve, si poteva incappare in qualche grosso tronco dalbero che ostruisse la strada: bisognava fermarsi, scendere per spostarli e magari i partigiani ben appostati ci facevano fuori tutti, tanto sopra gli autocarri cerano solo gli autieri. Le macchine variavano da quattro a sei o dodici a seconda dei materiali che si dovevano trasportare. Da una cartolina datata 11 agosto 1941: fui comandato con una decina di autocarri a trasportare truppa, prima di arrivare in fondo al paesino di BUCCARI, era stata ripristinata con allargamento ed asfaltata la strada che porta fino al paesino. La truppa venne schierata tutta lungo la strada: a met percorso vi era un grande pennone ed una targa ricordo, forse per quella famosa Beffa di Buccari eroica gesta compiuta nelle prime ore dell11.2.1918 da trenta marinai italiani su tre mas, penetrando dal Carnaro ed il canale di Fara nella stretta baia di Buccari, colpendo con siluri 4 piroscafi austriaci. Linaugurazione venne fatta dal Comandante Generale Ambrosio della 2^ armata; oltre alla truppa vi erano rappresentanze della milizia di Fiume e civili.
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Da una cartolina del 12 agosto 1941: fui comandato sempre con gli autocarri a recarmi a CLANA presso un ospedale militare, qui si caricava tutto il materiale per allestire un ospedale da campo-tenda, facendo la spola da Clana ad una stazioncina distante circa 30 Km da Fiume. Il materiale veniva caricato sui vagoni ferroviari. I militari seguivano il materiale dentro il cassone dellautocarro, per lo scarico e carico; la distanza fra il paese e la stazioncina (forse MATULY MATULIE?) era di circa 10 Km ed il loro divertimento era di contare le curve, che erano tante, 99. Alla sera gli autocarri venivano parcheggiati a fianco della stazione. Gli ufficiali medici, alla sera desideravano andare a mangiare al ristorante, poi divertirsi. Mi chiesero se era possibile usufruire di un autocarro e mandare un autiere ad accompagnarli ad Abbazia, oggi Opatija, e precisamente Volosca (vedi cartolina datata 12 agosto 1941, anno XIX per lera fascista). Io non potevo prendermi la responsabilit e ordinare il servizio, ma il loro comando si prese tutte le responsabilit, cos io mi assunsi lincarico. Per quei pochissimi giorni tutte le sere con loro, loro ospite, in un tavolo a parte loro erano ufficiali-; si mangiava risotto con scampi e pesce, una pacchia e pagavano loro! Il ristorante era davanti al mare e mentre si mangiava, poco lontano, le barchette con la luce lampara (lampada a carburo) pescavano il pesce. Finito il trasporto di tutti i materiali, ritornai al reparto.

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Il 28.8.1941 fui comandato per un altro servizio di trasporti, come sempre a mezzo treno con tre autocarri, da Fiume, Gorizia il 31.8 1941 ed infine arrivo alla stazioncina di S. Lucia di Tolmino, dove rimasi circa una settimana. Si trattava di trasportare delle munizioni da un deposito, anzi una polveriere, situato a circa 2 Km, in mezzo alla montagna, alla stazione ferroviaria sui vagoni ferroviari. Gli autocarri, finito il servizio giornaliero, venivano parcheggiati a fianco della stazione ferroviaria. Per il mangiare facevo il prelevamento giornaliero al magazzino poco lontano dalla polveriere, lo facevo personalmente, eravamo solo in quattro, mentre caricavamo gli automezzi al mattino al primo viaggio. Ci rifornivano abbondantemente e per cucinare il tutto, un manovale della stazione ci indic unosteria distante poche centinaia di metri, difatti ci recammo a sentire, erano marito e moglie e due ragazzini: immediatamente ci accordammo su tutto, lora per mangiare, mezzogiorno (noi avevamo unoretta) tutto era preciso e la moglie si subito dimostrata molto brava. Il mangiare era anche troppo, rimaneva, cos pure le pagnotte. Al momento di alzarci da tavola per ritornare al lavoro, veniva la signora a chiederci se tutto andava bene e se volevamo portare via ci che era rimasto. Chi ci aveva indirizzati l, era un cantoniere della stazione ferroviaria dicendoci che facevano fatica a tirare avanti sia per la penuria dei viveri, il costo e loccupazione militare, a parte che l di truppe non ce nerano. Tutto ci che rimaneva a mezzogiorno e alla sera per loro era una pacchia. Proprio dopo circa quattro giorni mi mand a chiamare un ufficiale che comandava sia i magazzini che la polveriera, mi mise in allerta perch il marito che conduceva losteria assieme alla moglie poteva essere un corriere dei partigiani, in modo particolare di stare attenti al ritorno dopo aver cenato, prima che facesse buio, perch lo stradino per il ritorno era fiancheggiato da un terrapieno da un lato e da una siepe dallaltro, per cui , specialmente al buio e non avendo noi armi, potevamo andare incontro a qualche rappresaglia da parte dei partigiani. Riflettemmo un p e per non andare incontro ad inconvenienti, autorizzazioni non ne avevamo avute quindi il pericolo era a nostro rischio, anzi il mio. Prendemmo una scusa dicendo che con tutta probabilit saremmo dovuti ripartire, pagammo il disturbo, largheggiando, pur vedendo il loro dispiacere perch alla fine dei conti riuscivano anche a sfamarsi di pi e ci congedammo da loro. Dormire alla notte dentro il cassone della macchina o sul cuscino al posto di guida, anche se era agosto, in mezzo alle montagne alla notte faceva abbastanza fresco. Gli ultimi giorni ci dovemmo accontentare di scatole di carne, gallette e pagnotte. Ad un centinaio di metri dalla stazione finiva una strada che veniva dallinterno snodandosi attraverso la montagna ed in una delle tante curve un autocarro civile con operai fin fuori dalla sede stradale per parecchie decine di metri: nellincidente morirono tutti. Dopo lincidente si vocifer che gli occupanti dellautocarro fossero invece partigiani che dovevano scaglionarsi lungo il percorso perch, come venni a sapere dopo, un forte contingente di Alpini, comandati da un generale, dallinterno dovevano scendere da quella strada a piedi e raggiungere la stazione ferroviaria e salire sui carri ferroviari destinazione, con tutta probabilit Russia. Anchio ero in attesa di caricare gli autocarri per rientrare in sede, Susak. Mentre stavo confabulando con i miei autieri vicino agli autocarri, in merito allincidente, mi si avvicina un sottotenente degli alpini chiedendomi di utilizzare gli autocarri per andare incontro agli alpini per caricare materiali e alpini ammalati, ma io risposi negativamente in quanto dovevo attenermi agli ordini ricevuti dal comando trasporti di Susak. Lufficiale era laiutante del Generale e ritorn subito alla carica ricordandomi che ero al servizio delle forze armate, purtroppo risposi ancora negativamente. Nuovamente lufficiale torn da me, il Generale voleva parlarmi personalmente. Quellufficiale dalla paura tremava, incontrai lalto ufficiale sotto la pensilina della stazione, non che avessi timore, tutti i giorni sia per i servizi ai comandi sia per i trasporti ero a contatto con ufficiali di grado elevato: mi chiese immediatamente se potevo mettergli a disposizione gli autocarri, naturalmente gli risposi di no cercando di fargli capire i motivi. Disse: siamo in guerra e le necessit son necessit e avrebbe firmato lui lordine. Gli ribattei che lui avrebbe potuto telefonare o telegrafare dalla stazione al mio comando, ma lui rispose che non si poteva fare per la segretezza del movimento del grosso contingente di truppa; allora gli dissi lo faccia in codice ma la risposta fu che ci voleva troppo tempo. Lo misi a conoscenza di ci che era successo a quellautocarro due giorni prima, avrei potuto mettere a repentaglio autieri e mezzi e se mi fossi assunto la
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responsabilit, senza un ordine scritto sarei andato incontro a grossi guai, inoltre ci voleva un foglio di viaggio firmato dal comando e non era sufficiente nemmeno lordine del comando dove facevo servizio. Lui, il Generale, io un semplice sottufficiale, cercava tutte le scappatoie per convincermi e dopo un lungo tira e molla, dimostrandogli tutto il mio dispiacere per non poterlo accontentare, ci salutammo. Questo successe nelle prime ore del mattino. Al pomeriggio cominciarono ad arrivare gli alpini, fuori dalla stazione era gi allestita una cucina da campo per il rancio, sfilando davanti alle marmitte i cucinieri riempivano le capaci gavette di minestra, poi la pagnotta ed infine il secondo ed il vino. Infine, attraversando i binari, salivano sui vagoni ferroviari. Verso sera il lungo convoglio part, destinazione Albania, Grecia o forse Russia? Nella notte sentimmo colpi a non finire e al mattino, al ritorno del primo autocarro, seppi dallautiere che i partigiani avevano tentato un colpo ad un capannone della polveriera facendolo saltare, ma ormai non cera pi gran che. Finito di scaricare andai anchio sul posto; distante un paio di chilometri, una pianura abbastanza vasta in mezzo i monti, poco lontano un laghetto, una folta vegetazione, ebbi la ventura di vedere scendere un branco di caprioli che andavano a bere al laghetto, ma uno scoppio di una bomba, forse originato dal calore dellincendio, fece fuggire di gran carriera i caprioli nella fitta vegetazione. I trasporti sono finiti, si caricano gli automezzi sui pianali e si ritorna nuovamente in sede a Susak. Nel 1941 andammo al poligono con tutto il reparto a fare i tiri: gli autieri avevano in dotazione il moschetto che dal momento della consegna non era mai stato usato. Il sottufficiale aveva in dotazione una vecchia rivoltella a tamburo che era stata data in dotazione ai carabinieri faticosa in tutti i sensi da manovrare. Con tutte quelle autocolonne che erano state fatte, con quelle strade polverose, larma mai pulita n controllata, venne data con una veloce pulita a base di nafta. Il poligono di tiro, forse improvvisato, era fra il confine di Fiume e Susak; in effetti il fiume divideva i due luoghi ed il poligono era a monte del ponte ferroviario dove i treni transitavano e andavano verso il sud della Jugoslavia. Sotto il ponte stradale e ferroviario scorreva il fiume ENEO, in effetti questi era il confine tra Italia e Jugoslavia. Il poligono era a un chilometro oltre il ponte della ferrovia. Sagome a posto, grandi quadrati di cartone alti oltre due metri, fondo giallo con la sagoma di un uomo, con vari circoli numerati, che nessuno riusciva a colpire, il motivo: quei vecchi moschetti mai revisionati o revisionati male e mal tenuti, erano tutti sbalestrati. Quando ci si appostava, sia in ginocchio o sdraiati, per terra o in piedi, non si riusciva neanche per sbaglio a colpire la sagoma. Un giovane ufficiale, incredulo di ci, volle provare, mirava alla sagoma e colpiva il terreno, finch dovette desistere e darci ragione. Alcuni moschetti avevano un marchio, dove cera il meccanismo di caricamento, era il segno del collaudo di precisione del tiro e che era stato collaudato. Se invece delle sagome avessimo avuto di fronte il nemico, sarebbe stato meglio buttare via il moschetto e alzare le mani. Come eravamo equipaggiati bene!!!? Sempre nel 1941, quando si andava al porto di Fiume sui binari della ferrovia dove venivano caricati e scaricati i vagoni ferroviari, a volte sostavano treni composti da vetture piene di militari tedeschi, destinazione interno Jugoslavia e Grecia partendo da Fiume; naturalmente i militari tedeschi viaggiavano su vetture di II classe, gli ufficiali in prima classe e noi poveri italiani si viaggiava stipati in carro bestiame. Durante la sosta al porto tutti i militari scendevano per comperare un p di tutto, ma soprattutto tornavano al treno carichi di bottiglie e fiaschi di vino e birra; in qualche negozio fecero le botte perch non volevano pagare e alla partenza del convoglio erano gi tutti ubriachi.

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Met settembre, forse il giorno 13, da Tersatto sopra Susak dove c il nostro campo base, con 8 autocarri, sempre i soliti Citroen di preda bellica, presi in Francia dai tedeschi e passati a noi, alla stazione di Fiume, come al solito carichiamo gli automezzi, via Trieste Gorizia, Aidussina stazione scarico degli autocarri,ci si incolonna con destinazione Montenero dIdria; sono circa 20 Km tutti in salita, lultimo pezzo tutto asfaltato.

E un piccolo paesino in mezzo ai monti, mi presento al comando delle guardie di frontiera, di fronte c un grande spiazzo con tre o quattro grandi capannoni dove dentro erano gi allestiti i soliti castelli in legno per dormire, il rancio lo consumavamo con le guardie di frontiera. Il sevizio consisteva: andare a caricare al mattino il materiale ferroso in vari punti della zona dove erano stati smantellati fortini jugoslavi, nei dintorni di Montenero dIdria, passando da Zolla si arrivava alla stazione di Aidussina qui il materiale dallautocarro veniva caricato sui vagoni ferroviari da uomini reclutati sul posto. I viaggi venivano effettuati dal mattino fino a mezzogiorno, ora del rancio, al pomeriggio fino al rancio della sera sicch automezzi e uomini di guida alla sera erano tutti radunati ai capannoni. Generalmente io partivo al mattino con i primi automezzi carichi, arrivavo in stazione e mentre veniva effettuato lo scarico a piedi mi portavo con qualche autiere, era bene non essere mai soli, nel centro del paese di Aidussina, in mezzo alla vallata e circondato dalle montagne.

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In un angolo della piazza, (vedi cartolina del 25/9/41) vi era una trattoria con annesso caff, che a seconda dei momenti era frequentato da giovani o anziani, al banco una giovane e bella ragazza.

Qui sono ritornato il 24 aprile 1977 (vedi foto):

Mario

(Mario, Marzia, Milena)

la piazza stata rimpicciolita, nuovi fabbricati con un supermercato, la fila di case con losteria rimessa a nuovo, vi sono ancora i vecchi alberi; prima l stazionavano vecchi autobus, ora quegli spazi sono occupati da autovetture. Ritornando al caff, venni informato qualche giorno dopo che, sia di giorno che alla sera, era ritrovo di spie e partigiani jugoslavi ed era meglio non frequentarlo e non starci troppo a lungo. Difatti dopo il secondo giorno notai che sia la ragazza che qualche civile cercavano qualche approccio con gli autisti. Si decise di non frequentare pi il locale.

La storia di un paio di scarponi nuovi: di fianco alla palazzina del comando cera un capanno in legno dove dentro lavorava un bravo calzolaio per riparare scarponi e stivali. Avevo un paio di scarponi nuovi e mi recai da lui perch avevo saputo che applicava una o due suole in pi ben cucite con lo spago. In quel tempo per quel lavoro lui voleva 100 lire, erano molte, ma da me non voleva soldi bens due fiaschi di benzina, questo gi lo sapevo perch uno degli autieri mi aveva messo al corrente. Tentai laffare con il denaro, ma non ci fu nulla da fare, la benzina o il lavoro non andava in porto, finii per accettare, un fiasco di benzina per linizio del lavoro ed il secondo a lavoro finito. Non chiesi il motivo per cui mi chiedesse in alternativa la benzina, ma era logico o la vendeva a qualche civile oppure andava ai partigiani per collegamenti
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con moto, non valeva la pena approfondire. Quando mi consegn gli scarponi, un lavoro da vero artigiano, mi disse: questi farai fatica a finirli. Da quel fine settembre 1941 li portai fino a met anno 1945. Il fatto dei due fiaschi di benzina ha avuto un certo che di strascico. Partiti da Susak con un certo numero di fusti di benzina, gli autocarri a sei cilindri, per la portata che avevano non erano adatti a quei trasporti e ben presto, fatti i conti, anche a seguito di un mio dettagliato rapporto di chilometraggio, consumo, carico vuoto per pieno, occorreva, per finire celermente, almeno il raddoppio delle macchine ed altri fusti di benzina. Al mio rapporto venne allegato quello del comando di Montenero dIdria e inviato al comando dellintendenza dei trasporti di Susak: Quello che mi dava da pensare, che in effetti della benzina venisse a mancare, a parte quei due fiaschi presi da me per il calzolaio, ci poteva essere qualche talpa pi grossa. Sta di fatto che andando a vedere nel capannone che a noi serviva da magazzino, il vetro di una finestra era rotto allaltezza della maniglia e a terra era rimasto qualche piccolo pezzo di vetro. Questo mi insospett talmente che, senza dir niente a nessuno, feci spostare due castelli letto in quel capannone facendovi dormire quattro autieri. Non avevamo la sentinella. Pensai subito al caff di Aidussina dove ancora qualche autiere, di passaggio, si fermava e poteva avere qualche amicizia supposizioni o no- fatto sta che tutto poteva essere. Unaltra pulce allorecchio mi era stato riferito che nei pressi di Zolla, in un largo spiazzo sulla destra, discendendo, vi era un capanno in muratura. Un mattino lasciai partire le macchine meno una, dissi che era necessaria al comando. Tutti partirono, li lasciai andare avanti e dopo qualche minuto partii a fianco del guidatore e vedemmo che stava arrivando allo spiazzo un autocarro mentre un borghese si allontanava verso il capanno. Feci dirigere velocemente lautocarro verso il capanno, in quel mentre il borghese non si era accorto del nostro arrivo, scesi dallautocarro dirigendomi di corsa verso di lui, mi vide e lasci cadere una tanica di benzina, circa 5 litri, per terra e correndo attraverso un sentiero spar in mezzo al bosco. Feci raccogliere la tanica ed assieme allautiere andammo dentro il capanno, ma non riscontrammo nulla di particolare allinterno, ma certamente quel posto serviva ai partigiani come centrale per osservazione, perch convergeva su pi di una mulattiera. Cercai di indagare, volevo parlarne al comando, ma infine decisi di non smuovere niente, se fossi arrivato qualche istante prima e prendere sul fatto il borghese, quindi al momento lasciai tutto in sospeso.. Dopo due giorni, mentre ero fuori con gli autocarri, mi dissero di rimanere allaccampamento perch un ufficiale doveva arrivare da Susak per accertamenti. Difatti al mattino arriv nellunico e piccolo albergo il mio comandante di reparto, il cap. Alemanni (fra laltro era avvocato a Milano), era stato inviato ad indagare a seguito della mia relazione. Mi mand a chiamare e dopo poco mi presentai, appena mi vide si mise a ridere, era un bonaccione, lui la guerra l ha vista solo dal comando, mai visto in una colonna anche se doveva essere presente, mi apostrof dicendomi: cosa hai combinato, il comando mi ha fatto spostare fin qui, io che a muovermi non ci tengo, perch vuol vederci chiaro. Parlammo di tutto un p, ma dato che era ormai mezzogiorno, ci demmo appuntamento per il pomeriggio. Alle due del pomeriggio mi trovai davanti allalbergo, era gi pronta una Fiat 1100, arriv il capitano, prendemmo posto e incominciammo a fare il tragitto, il primo tratto in salita tutta asfaltata ottimamente, strano per quel periodo in jugoslavia, ma forse era stata fatta dagli italiani per motivi bellici, larga, si arrivava oltre i 1200 metri; eravamo arrivati al culmine della salita, avevamo fatto si e no un terzo della strada che si era gi stancato, voleva ritornare allalbergo. Da notare che lui era un accanito donnaiolo e lalbergo a disposizione degli ufficiali era frequentato anche da belle donnine che erano l per motivi diversi, pensai che il suo pensiero corresse pi allalbergo che ai motivi per cui era stato inviato. Io naturalmente puntai i piedi e continuammo fino allo scalo merci dove arrivavano gli autocarri. Dopo di che ci portammo alla stazione, ci sedemmo nella sala daspetto e gli dettai gli appunti necessari per il rapporto, dai Km di andata e ritorno, la pendenza della strada, autocarri adatti solo per carichi leggeri con motori a 6 cilindri che succhiavano benzina che era un piacere, con lautarchia che avevamo era necessario avere autocarri che caricassero molto e una cilindrata pi ragionevole. Finito di stilare il rapporto, salimmo in macchina per il ritorno, cos gli feci notare ancora di pi che la compensazione fra la salita e la
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discesa non cera. Era gi sera quando si arriv, prima al comando per far presente il tutto, poi il capitano ritorn allalbergo ed il giorno seguente ripart. Dopo quattro giorni mi arrivarono altri sei autocarri, di cui due carichi di fusti di benzina. Il mio rapporto aveva centrato in pieno. Venni a sapere nel frattempo chi rubava la benzina, era un autiere, la consegnava lungo la strada, poco prima del citato capanno, poi veniva passata ad un partigiano che la portava a destinazione. Lautiere naturalmente era nelle pesche e gli dissi che al momento non gli avrei fatto niente, ne avremmo riparlato al rientro a Susak; la sua posizione non era certamente allegra e chi doveva decidere erano i superiori. Il poveretto aveva moglie e figli, forse lo faceva per racimolare qualche soldo da mandare a casa, il suo pentimento era visibile, rimaneva sempre in disparte e a dire il vero, nonostante tutto al tempo stesso mi faceva pena, infine dopo tanto pensare lo rassicurai dicendogli che al rientro non avrei fatto menzione di ci che aveva fatto, ma una tirata dorecchi lavrebbe avuta comunque, se non altro sul comportamento disciplinare, e cos fu. Ebbi fortuna, subito dopo il rientro, di non averlo pi nella mia sezione perch, essendo contadino, lo mandarono a casa in licenza per lavorare la terra. Ritorno ancora un momento su quella capanna pi volte menzionata prima. Un mattino, facendo il solito servizio constatammo che nel piazzale vi erano parecchie persone e guardie di frontiera, notammo che la baracca era stata distrutta da uno scoppio, si disse che qualcuno nella notte armeggiava per preparare qualche ordigno per i soliti attentati che facevano i partigiani, in quello spiazzo convergevano delle mulattiere che portavano in varie direzioni nel mezzo del bosco, in mezzo la montagna. Si parl di qualche morto e ferito, ma i partigiani non fecero trovare niente. Verso la fine di settembre 1941 termin il trasporto dei materiali, caricammo gli autocarri alla stazione di Aidussina sui carri ferroviari e dopo un lungo viaggio fra i monti, il 30 settembre 1941, rientrammo a Susak nel campo sportivo di Tersatto, dove lautoreparto era di stanza. Poi mi inviarono in licenza. In una delle tante colonne effettuate allinterno fra il gennaio ed il marzo 1942, in pieno inverno la neve era caduta in abbondanza, inoltrandosi allinterno, dopo un falso piano, la strada cominci a salire verso la montagna e nel bel mezzo di un gruppo di case un autocarro slitt mettendosi per traverso a causa del fondo ghiacciato; nonostante tutti i tentativi per rimetterlo al centro della strada, slittando finiva verso destra dove era stata ammassata la neve. Eravamo solo in due e non riuscivamo a rimetterlo in strada, uomini, donne e bambini erano usciti dalle case a guardare; ad un certo punto gli uomini ci si avvicinarono, incominciava a fare scuro, in quel momento pensammo anche male, eravamo alla fine dei conti dei loro nemici, invece con il loro aiuto rimettemmo lautocarro al centro della strada. Essendo la strada ghiacciata ed in salita, poteva succedere ancora di zig zagare, quindi decidemmo di fare piano piano retromarcia, portandoci allinizio della salita, poi altri cento metri finch la strada era pianeggiante. A questo punto prendemmo la rincorsa superando il luogo ove eravamo rimasti fermi, i civili erano ancora l per vedere la nostra manovra, and bene, e passando ci salutarono. Il loro aiuto fu provvidenziale. Continuammo cos la nostra corsa in mezzo alla montagna, fra i sobbalzi si seguiva la traccia appena visibile lasciata dagli altri autocarri, neve dappertutto e molto alta. Ad un certo punto sentimmo un colpo, o un blocco di neve o qualcosaltro che era stato messo di traverso sulla strada, forse dai partigiani per bloccarci e prendere lautomezzo con i rifornimenti di carburante ed olio ed altro materiale che avevamo nel cassone. Dopo paurosi zig e zag e sobbalzi, fortunatamente rimanemmo in carreggiata, non osammo fermarci, eravamo in due io ed il guidatore. Era difficile raggiungere gli altri automezzi, una notte dinferno, finch riuscimmo ad arrivare a destinazione e a congiungerci con tutti gli altri.

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Nellaprile 1942 venni trasferito a RAGUSA-DUBROVNIK a sostituire un sottufficiale della 321^ sezione, un certo Giovanetti di S. Arcangelo di Romagna. Zona bellissima: gli automezzi erano parcheggiati davanti al porto. Gli automezzi erano 24 pi le due motociclette. Solo 11 autocarri erano efficienti, gli altri vuoi per mancanza di pezzi di ricambio, vuoi per incompetenza di chi li guidava che li metteva fuori uso, colpa dei complementi che venivano inviati con inadeguata preparazione. Vi erano autocarri 621 sia a benzina che a nafta ed erano 12 6 Citroen e 6 Panard, tutti autocarri francesi predati dai tedeschi in Francia. Il servizio avveniva al porto per scarico dei piroscafi sia italiani che tedeschi o grossi battelli i cui materiali erano destinati ai magazzini della sussistenza, materiale bellico per truppe tedesche. Noi eravamo aggregati al 42 Autoreparto Pesante, ma per il mangiare eravamo autonomi ed il magazziniere era anche provetto cuoco. Con gli autocarri che facevano servizio alla sussistenza e allungando qualche pacchetto di sigarette si poteva ottenere carne, farina, pane, pasta, condimenti, cos sia al mezzogiorno che alla sera si facevano ottimi pasti. Quando eravamo liberi si andava a vedere la citt vecchia di Dubrovnik e qualche volta si andava al Caff dove a mercato nero facevano panini al prosciutto, patate fritte e birra nera. Il porto era una lunga insenatura da una parte e dallaltra costeggiata da strada; dietro il parcheggio iniziava la montagna dove a circa 500 metri correva una strada lungo il costone roccioso, che da nord si portava al sud verso lAlbania, sempre pi alta. Di fronte a noi la strada che costeggiava il porto, poi cerano i binari della ferrovia a scartamento ridotto, il porto aveva una larghezza di 400 metri, al di l della strada, poi incominciava la collina che era fitta di alberi dulivo, con stradine tortuose che gli autocarri superavano a fatica: l cera accampato il 42 Autoreparto Pesante dove io quasi tutti i giorni andavo a prendere ordini e buoni per i nostri prelevamenti di qualsiasi genere. Un giorno mi avventurai per quelle stradine con la moto, arrivai in un posto incantevole chiamato il LAPAD, una piccola spiaggia lambita dalle colline che si specchiavano nel mare limpidissimo dove i civili oltre che nei giorni festivi, durante la settimana, si recavano a pescare, a prendere il sole e a fare il bagno. Da quel giorno, finito il rancio alle 11, la sola tuta, il costume, la bandoliera e con un permesso di viaggio fasullo, inforcavo la moto che avevo a disposizione, andavo a prendere il sole, mi facevo un bel bagno, ma per quanto caldo facesse, lacqua era sempre piuttosto fredda, e dopo circa due ore ritornavo allaccampamento, giusto giusto che gli autocarri uscissero per il lavoro. La situazione in tutto il settore balcanico si faceva sempre meno tranquilla e tutto intorno al porto, circondato da montagne, in certi punti, nella notte, i fal dei partigiani facevano intendere che erano presenti. La sentinella dentrata verso il porto veniva effettuata dalla fanteria e venne rinforzata di unulteriore unit di notte da un nostro autiere, cos pure dal lato monte, in due punti diversi, vi erano due coppie di sentinelle. Le dolenti note al porto di DUBROVNIK con il sottotenente BOLDRINI Remo, per lo scarico di piroscafi a mezzogiorno. Dalle 12 alle 14 gli autisti dovevano andare al rancio ed i tedeschi non intendevano fare la sospensione dello scarico dei materiali. Al porto cera il comando dei tedeschi e con loro il Boldrini cosa facesse non lo si mai saputo-. Lui era di Rimini e ci conoscevamo bene, era un fascista sfegatato e nonostante ci tentai, attraverso lui, di far capire ai tedeschi i motivi di quella sosta a mezzogiorno. Aspettai che uscisse dagli uffici del comando tedesco, lo affrontai, ma sprezzante mi fece capire che non cera nulla da fare, eravamo in guerra e se ne and senza salutarmi. Da quel giorno non lo vidi pi.
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Mi dovetti sacrificare per quelle due ore non facendo mancare gli autocarri per lo scarico in modo che mentre caricavano, io con un autocarro gi carico andavo ai magazzini, riprendevo un autocarro scarico, facevo la spola in quelle due ore fino a che riprendevano servizio gli autieri. Finita la guerra ci rivedemmo a Rimini, ma a debita distanza. Per le elezioni lui girava per i paesi del circondario a fare propaganda fascista e al ritorno da una di queste riunioni, ritornando da Riccione, nei pressi di Miramare, per la forte velocit, ebbe un grosso incidente di macchina, morendo. Quando era ora di rancio, al mezzogiorno o alla sera, ci mettevamo a mangiare su una lunga tavola fatta da noi. Io, a volte, arrivavo tardi ed ero solo. Un giorno mentre stavo consumando il rancio mi si avvicin una ragazzina, 10 anni circa, e mi disse: vuole che gli lavi la gavetta? La pasta asciutta era ben condita e sempre abbondante, ne avevo mangiato circa la met e nel sentirmi dire cos la guardai meglio: era esile e pallida, le diedi la gavetta. Mentre stavo ancora seduto, ritorn con la gavetta che non era stata mai cos pulita, la ringraziai e le allungai un pezzo di pagnotta. Si allontan tutta contenta. Naturalmente tutti i giorni a lei si aggiunsero altri 5 o 6 bambini e cos ciascuno di noi aveva qualcuno da sfamare. Ci dur qualche mese e cio fino al nostro rientro da Dubrovnik a Susak. Finito il carico degli automezzi venne lora della partenza, la ragazzina era l a salutarci. Durante la permanenza a Dubrovnik ho perso un autocarro Renault RE 99704 che rimasto bruciato il 17/05/1942 mentre era sotto carico di materiali allinterno di una raffineria. Non si potuto sapere nulla dellepisodio, ma potrebbero essere stati i partigiani. La carcassa stata riportata allaccampamento. Un altro autocarro, sempre nel 1942, mentre faceva servizio dalla raffineria ai vari comandi, la strada costeggiava linsenatura del porto, per una manovra errata fin in mare, il fondale era basso e lautiere riusc a salvarsi. Lautocarro venne recuperato a mezzo di un pontone. Durante la permanenza a Dubrovnik si venne a sapere che dai magazzini centrali della sussistenza partivano degli autotreni carichi di farina, pasta ed altri viveri che non arrivavano mai a destinazione: era tutta una combine fra comandanti italiani e partigiani. In questo periodo i nostri autisti non erano da meno, pi di qualcuno vendeva qualche litro di benzina sottratta dal serbatoio ed anche olio, vendendo a quelli che facevano servizio di Taxi, naturalmente a mercato nero. Nel periodo maggio-giugno-luglio una volta fui mandato in licenza di quindici giorni pi sei giorni di viaggio, il piroscafo partiva dal porto di Dubrovnik al mattino sul fare dellalba e la prima tappa la faceva a Spalato rimanendo fermo alla notte, il secondo giorno faceva una piccola sosta a SEBENICO per i passeggeri e lo scarico di materiali di poco conto, si ripartiva e alla sera si arrivava a Zara, qui generalmente scendevo sempre perch facevo rifornimento di sigarette da portare a casa, per venderle o fare cambio alimentari, in pi portavo qualche bottiglia del posto; il terzo giorno ripartiva per Fiume. Appena sbarcato, tramite telefono militare avvisavo il comando che mi mandassero il motociclista al quale consegnavo la lettera con la nota dei materiali necessari per ritirarli al ritorno. Allentrata in stazione la finanza mi lasciava sempre passare, ero vestito da militare e alle 16 prendevo lelettrotreno per Trieste dove subito cera la coincidenza per Mestre, di qui altro treno, tradotta con vetture che viaggiando tutta la notte alle prime ore del mattino arrivavo a RIMINI. Oltre a ci che compravo durante il tragitto, portavo olio doliva e pasta, pi le razioni di pagnotte che riuscivo ad ottenere al comando tappa. Cera la tessera, cos per quei giorni si poteva contare su qualcosa di pi. Fino a che rimasi a Ragusa feci tre viaggi di andata e ritorno. Il rischio maggiore era il tragitto da Dubrovnik a dopo Sebenico, perch in quel tratto di mare aperto e poco coperto dalle isole, i sottomarini inglesi ogni tanto siluravano tutto ci che gli capitava e se non riuscivano a silurare, emergevano e affondavano a suon di cannonate; infatti alcuni relitti di navi, che viaggiavano sempre pi vicino alla costa, vi si andavano ad arenare, cos molti passeggeri, anche se feriti, potevano poi raggiungere la riva. Il trenino che partiva da Ragusa verso linterno, oltre ai passeggeri portava anche materiale bellico che non arrivava quasi mai a destinazione: i partigiani facevano saltare i binari poi attaccavano, ammazzavano e depredavano tutto nonostante ci fosse la scorta armata che comunque non era mai sufficiente. Allestirono dei vagoni blindati con mitragliatrice ma anche questi servirono a
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ben poco. Un giorno di giugno del 1942 fui comandato anchio per scortare il treno con la fanteria, ma la fortuna volle che nella notte in pi punti i partigiani facessero saltare la ferrovia e cos furono sospese le partenze. Un giorno, mentre ero al porto per il carico degli autocarri, vidi un grosso barcone che assomigliava a quelli che cerano nel porto di Rimini per i trasporti, sono andato vicino, si chiamava ANNA MARIA, fra di loro parlavano romagnolo, chiesi di dove erano e alla risposta che erano di Rimini salii a bordo, fra loro mi sembrava di essere a casa mia, il capitano era CASSANDRINI, ci raccontammo di tutto un p. Si faceva sera e loro stavano preparando la cena e a tutti i costi mi vollero con loro a mangiare. Chiesi quando ritornavano, mi dissero che appena scaricato il materiale rientravano a Rimini, quindi domandai se potevo dar loro degli alimentari da consegnare ai miei, naturalmente mi dissero di si. Il giorno dopo mi diedi da fare per cercare un p di tutto, andai alla sussistenza e con soldi e sigarette riuscii ad avere formaggio grana, qualche scatoletta di carne e latte condensato, feci un bel pacco e lo stesso giorno portai il tutto. Mi dissero che sarebbero partiti allalba del giorno dopo. Per un paio di mesi riuscii tramite loro a mandare sempre qualcosa in pi perch avevo pi tempo per accaparrarmi il necessario. (Con il capitano Cassandrini ci rincontrammo per caso a Rimini nel 1971 nel caff ad angolo di via Castelfidardo, aveva compiuto i 90 anni da poco e ricordando un p di tutto mi disse che il suo barcone, carico di materiali da guerra, con tedeschi ed equipaggio salt in aria tra Pesaro e Cattolica, vi furono parecchi morti, ma n lui n suo figlio erano fortunatamente a bordo. Siccome gli alberi del barcone erano fuori dallacqua, gli inglesi, con cariche di profondit, finirono di distruggere il mercantile; non fu improbabile, come disse il Cassandrini, che furono loro a silurarlo precedentemente. In un secondo tempo i palombari andarono a fare una perlustrazione per recuperare del materiale, ma le cariche furono cos potenti che non trovarono che frammenti). Venne lordine di rientrare a Susak, poteva essere il maggio del 1943, caricammo autocarri e materiali su una nave da trasporto di discrete proporzioni, a dire il vero rimpiansi un p di dover lasciare quella localit, ma la situazione con i partigiani si faceva pi pesante ed anche i tedeschi, di stanza poco lontano da noi, diventavano sempre pi cattivi a seguito di qualche rovescio sul fronte russo. Partimmo da Dubrovnik come al solito al mattino presto, gli autocarri erano tutti sopra coperta, e noi pensavamo che con le spie che cerano in giro e i pattugliamenti che facevano gli apparecchi inglesi dallalto ed il continuo sorvegliamento dei sottomarini inglesi nelladriatico, che il ritorno non fosse del tutto tranquillo. Qui mi incontrai con il mio amico BELARDINELLI Guido, lui era al comando marina, cos ebbi la fortuna di andare a mangiare alla mensa. Appena pronta la nave, ripartimmo per Zara, ci fermammo un paio di giorni; comperai una valigia di sigarette e qualche bottiglia di liquori, ripartimmo per il primo percorso in mare aperto, era tutto un percorso a zig zag per ingannare i sottomarini ed infine arrivammo a PUNTE BIANCHE, unisola; attraccammo in uninsenatura tutta folta di vegetazione ed alberi alti, infine dopo tre giorni venne lordine di ripartire questa volta un altro tragitto rischioso in Adriatico diretti al porto di Ancona. Naturalmente tutti a occhi bene aperti sul mare, aiutavamo cos le vedette, di una nave, sebbene di non grosse dimensioni, se centrata con un siluro od un cannoneggiamento, non che ne rimanesse molto, ma un allarme dato tempestivamente poteva essere molto utile sui movimenti della rotta. La giornata era limpida, il mare calmo ed un siluro lo si poteva individuare dalla scia e se la distanza non era troppo ravvicinata, con un tempestivo cambiamento di direzione si poteva evitare il peggio. Arrivammo cos in vista della costa, si cominciava a pensare di avercela fatta, ma purtroppo ad un certo momento ci accorgemmo di navigare su un banco di mine, il comandante aveva sbagliato rotta. Eravamo a qualche miglia dal porto di Ancona, la fortuna questa volta ci fu benigna, la nave era di piccolo tonnellaggio e le stive erano vuote, cos dato il poco pescaggio passammo su quelle mostruose palle dacciaio che data la limpidezza dellacqua erano visibilissime. Arrivammo finalmente nel porto, la prima cosa che feci mi informai dove fosse il magazzino della sussistenza. Feci scaricare una motocicletta, perch la distanza dal porto ai comandi e da tutti gli altri giri da fare era notevole. Mi recai subito al Comando Tappa e l, con i buoni, ottenni le pagnotte, scatolette di formaggio ed altri viveri di conforto, nonch razioni di pasta e condimenti. Al pomeriggio si fece una riunione: fra lo scarico degli autocarri e il carico sui vagoni
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ferroviari, ci voleva circa una settimana. Decidemmo di fare una scappata a casa dividendoci in due turni, con la parola di essere puntuali. I pi lontani partirono subito ed il rientro doveva essere entro il quinto giorno dalla partenza. Con le sigarette comperate a Zara riuscimmo al Comando Tappa a farci dare un foglio di viaggio e i biglietti ferroviari. Intanto io, aiutato dai rimasti, iniziai a scaricare le macchine dalla nave e a caricarle sui vagoni ferroviari: ci vollero proprio sette giorni. Puntuale, tutto il primo scaglione ritorn ad Ancona in tempo utile. Io tutti i giorni andavo a ritirare tutte le razioni alla sussistenza, cosicch rimaneva parecchia roba che dividevo con i rimasti, ma ne rimaneva una buona parte. Durante i giorni che si rest fermi al porto di Ancona, alla sera prendevo il treno per Rimini, cos portavo pagnotte, scatolette di carne e tutto ci che rimaneva, in pi cercavo ogni volta di portare un buon numero di pacchetti di sigarette. Nel frattempo lavorai per permettere al secondo gruppo di fare una scappata a casa, mio padre era in pensione come ferroviere del deposito di Rimini, lo feci parlare con un suo amico allo smistamento, lo informai di quando si sarebbe partiti da Ancona e chiesi se era possibile far rimanere due o tre giorni fermi i vagoni con gli autocarri, in un binario morto. Difatti siccome i treni merci a Rimini venivano allestiti al completo, potei ottenere i giorni richiesti. Cos dalla partenza da Ancona allarrivo a Rimini a conti fatti tutto andava bene, cos potei far partire il secondo scaglione dando appuntamento alla stazione di Fiume entro i 5 giorni dalla partenza da Ancona. Purtroppo il mio comando chiedeva al compartimento delle FF.SS. di Ancona dove fosse finito il treno con il carico degli automezzi, risposero che il treno, fermo a Rimini era in allestimento con altri vagoni per il completamento del convoglio e che sarebbe partito in nottata. Purtroppo a quella richiesta si dovette anticipare la partenza, ma un p di tempo lo recuperammo a Mestre per lo smistamento di alcuni vagoni. Si arriv a Fiume, si scaricarono gli autocarri e nel frattempo arriv tutto il secondo scaglione al completo. Rientrammo a Susak-Tersatto dove eravamo accampati nel campo sportivo, mi chiesero spiegazioni sul ritardo, ma noi ci trincerammo nel pi assoluto silenzio dando la colpa alle ferrovie dello Stato. Tra il finire del 1942 e linizio del 1943 fu un p dura, la neve, le notizie poco allegre che giungevano dal fronte Russo le unit italiane e tedesche erano in enorme difficolt- il fermento delle nazioni occupate, difficolt in Albania e Grecia, battaglie navali perdute, affondamenti di piroscafi, bombardamenti a non finire, mentre le nostre radio strombazzavano vittorie su tutti i fronti e il tam-tam di radio Londra diceva ben altro. E tutte le sere ci era imposto di ascoltare Lily Marlene. Intanto i partigiani in Jugoslavia cominciavano a lavorare sodo, attaccavano le truppe tedesche e italiane ovunque fossero dislocate. La ferrovia da Fiume-Zara-Spalato-Sebenico veniva fatta sempre saltare ed i treni venivano sempre attaccati nonostante avessero carri blindati e scorta di truppa. I genieri non facevano in tempo a riparare che i partigiani distruggevano, cos pure lunghe strade. Io avevo autocarri dislocati a Ogulin-Gospic-Otocac, zone caldissime con coprifuoco notturno, vi erano truppe italiane e tedesche, dove i partigiani non davano tregua, cos pure Karlovac. Per me il ritorno a Susak da Dubrovnic, mese di maggio 1943, cominci ad essere molto duro: si partiva al mattino con una colonna di 10 macchine, carichi di materiali, Lomgatico-Presid-Ciabar-Gerovo, cera sempre da passare a met strada fra i monti il famoso posto chiamato da noi italiani BOSCO NERO, MARZIE VODICA in jugoslavo, si partiva al mattino e si tornava il giorno dopo e di notte non si viaggiava mai. In quei momenti i partigiani attaccavano sempre e su quella strada attaccavano solo le camicie nere, ce lavevano a morte, e quando li intercettavano pochi autocarri e pochi uomini ritornavano alla base. A noi militari, chiss perch ed a me soprattutto, and posso dire sempre bene. Solo una volta, ero con due macchine, ci trovammo la strada sbarrata da borghesi con berretto alla militare con le armi puntate su di noi, pensai, questa volta ci fanno fuori. Ero io con due conduttori, scesi dalla cabina e mi vennero incontro due persone vestite molto bene mi vennero vicino, non ero armato tanto non ne valeva la pena, li salutai alla militare e mi risposero. In perfetto italiano mi chiesero che servizio facessi, naturalmente spiegai le mie mansioni e che purtroppo ero un richiamato, vollero vedere dentro ai cassoni che cosa ci fosse, purtroppo spiegai che ero di ritorno e che solo di mattino trasportavo farina, pasta ed altri generi per le truppe dislocate nei paesi sopra descritti. Quello che secondo me era il capo mi disse che avrebbero avuto bisogno di armi, munizioni e benzina, che io non avevo, anche se gli dissi che saltuariamente facevo anche quei
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trasporti: in quel momento feci un p il furbo, si discusse a lungo, poi si allontan da me, and a parlottare con un altra persona, mentre coloro che avevano sbarrato la strada erano sempre fermi con i fucili imbracciati. In quei momenti quali e quanti pensieri mi passarono per la mente, quale sarebbe stata la fine. Ad un tratto ritornarono vicino a me, cosa si saranno detti non lo so, fatto sta che mi tesero la mano e cordialmente mi salutarono, fecero un cenno a quelli di liberare la strada, quindi salii sulla prima macchina e dal finestrino vidi che si dirigevano verso il bosco. Quello che guidava lautocarro a cui sedevo vicino tremava come una foglia e disse che se lera vista molto brutta. Al rientro andai al comando e riferii laccaduto. Qualche giorno dopo una colonna di corriere dallinterno, sempre per quella strada con in testa e in coda un autoblindo, trasportava civili, uomini, donne e bambini che allinterno parteggiavano per le camicie nere e che per non essere uccisi chiedevano asilo politico allItalia: essi venivano raccolti come profughi ed inviati in un campo di raccolta in unisola poco lontano da Fiume, forse lisola di Veglia. La colonna venne intercettata, lungo la strada che frequentavo anchio, dai partigiani e gli autoblindo ad un certo momento, non potendo tenere testa allattacco, vigliaccamente fuggirono e i malcapitati, assaliti da tutte le parti, si salvarono in pochissimi e tanti furono orrendamente mutilati e uccisi ed infine la maggior parte delle corriere incendiate: il giorno successivo vennero rimorchiate nel nostro accampamento, erano rimaste solo le carcasse. Da notare che tutte le strade di comunicazione verso linterno erano molto strette e quando si incrociava un autotreno con rimorchio carico di tronchi che venivano portati in Italia la Jugoslavia era ricca di legname- bisognava retrocedere fino a che si trovava un posto pi largo per passare. Non appena lItalia invase la Jugoslavia, specialmente le strade di montagna interne, furono tutte allargate. Ricchi di bestiame, cavalli, maiali, bovini, questi giungevano a Fiume con carri bestiame, lItalia occupante faceva man bassa di tutto. Quelle povere bestie arrivavano stremate dal lungo viaggio, dalla fame e dalla sete. Una parte di buoi e mucche venivano scaricate e portate al macello pubblico di Fiume. Alle volte, quando andavo a prelevare carne macellata per portarla alle truppe dislocate allinterno, vedevo quel macabro spettacolo di macellazione. Quelle povere bestie quando entravano nel mattatoio presagivano la loro fine e a volte tentavano di fuggire, ma erano in troppi a tenerle. Bendavano loro gli occhi e fino a che adoperavano la rivoltella con un colpo al cervello stramazzavano subito a terra, ma per non consumare le pallottole a volte davano loro un colpo alla fronte con una mazza, ma se non era ben assestato, cadevano a terra, si rialzavano e dovevano fare in fretta a finirle, perch il dolore le faceva impazzire e le loro forze si centuplicavano. Venivano poi issate con delle carrucole e gli inservienti, facendole scorrere su di un binario, cominciavano le operazioni di squartamento e di smembramento. Un giorno mi trovai che un toro non ne volle sapere di entrare nel reparto di macellazione, riusc a scappare correndo come un forsennato con grande pericolo di tutti, finch un carabiniere riusc a centrarlo con una carabina. In un giorno che ora non ricordo, poteva essere il mese di luglio o di agosto 1943, un pomeriggio venni chiamato dal comandante del reparto, capitano ALEMANNI, un avvocato di Milano, che mi diede disposizione di preparare quattro macchine per andare al mattino del giorno successivo per un servizio alquanto delicato e importante: mi ribellai dicendo che essendo il sottufficiale al quale accollavano sempre autocolonne, sarebbe stato bene che anche altri avessero fatto qualche turno. Non ci fu nulla da fare, al mattino dopo mi dovevo recare in fureria per ritirare i documenti per ci che dovevo fare. Al mattino alla sveglia andai a ritirare il plico e con le quattro macchine pi viveri per tre giorni ed un fusto di benzina a testa, mi dovevo trovare a Fiume notare- casa del fascio: ho sentito subito odore di bruciato. Al mattino allora stabilita mi trovai con gli autocarri al posto indicato, arrivarono circa una ventina di borghesi con berretto fascista e armati di vecchi moschetti, altrettanti vestiti con la divisa dei battaglioni MM. anchessi armati di moschetto, ed una quindicina di sbarbatelli intorno ai 18 anni ed infine arrivarono niente popodimenoche i gerarchi del fascio di Fiume, il federale LAMBERTINI ed il vice federale. Il saluto fu fra un militare alquanto scontento in divisa grigio verde e due gerarchi elegantissimi con fascia littoria. Larmamento era composto di una mitragliatrice leggera e circa una sessantina di moschetti, e quando, la chiamiamola truppa, fu salita nei cassoni,
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io mi accingevo a salire nella cabina della prima macchina, il federale mi si avvicin dicendomi che il comando della colonna lo prendeva lui. Tentai di fargli capire che il responsabile degli automezzi ero io, ma per evitare telefonate al comando lasciai perdere e mi misi nella cabina dellultima macchina. Ero appena salito nella cabina che mi vedo aprire lo sportello ed uno dei civili di media et vuole salire vicino a me. Gli dico subito che era impossibile ma lui sale e si mette a sedere dicendo: guardi, io a casa ho moglie e 2 figli, sono un dipendente di quel complesso, prima di arrivare a Fiume, dove ci sono tutti quei serbatoi di benzina e siccome in un primo momento volevano solo volontari, ma non raggiunsero il numero, presero cos a caso e inclusero anche me con i volontari, sto qui vicino a lei, cos mi sento pi sicuro. Gli dissi che avevo pensato che lo avessero mandato per controllarmi, no no, mi creda, di nero ho solo la camicia ed il berretto, il resto un uomo che ha una gran paura di non ritornare. Gli risposi che anche se era vicino a me, poteva morire ugualmente, ma non ci fu nulla da fare e rimase al mio fianco. Sulla seconda autovettura prese posto il vice. Partimmo e dopo un paio dore, sempre per la strada dove facevo i trasporti, arrivammo in una caserma di finanzieri che gi conoscevo dove salirono in una ventina armati di tutto punto. Al primo carro arrotolarono il tendone davanti e piazzarono la mitragliatrice sul tetto della cabina e si ripart: in quel frangente venni a sapere che la destinazione era CABAR, tutti posti di mia conoscenza, dove arrivammo nel tardo pomeriggio. Parcheggiammo gli autocarri nel centro del paese, vicino ad un capannone gi allestito dalle truppe che erano di stanza, ci dettero il rancio poi ci ritirammo in attesa di ordini. Nel frattempo per andai nella caserma poco lontano e mi imbattei in una vecchia conoscenza della fureria il quale mi mise al corrente di cosa fosse successo qualche giorno prima ed il motivo dellintervento di rappresaglia che doveva essere portato a termine. La rappresaglia cominci dopo che i due gerarchi fascisti ebbero le informazione di ci che era successo, dal comando militare, ma soprattutto dalle spie filo fasciste del luogo che indicavano le case degli uomini che si erano dati alla macchia per combattere gli italiano e i tedeschi. Ma prima vengo al motivo della rappresaglia: tre giorni prima una colonna di 3 autocarri 18 BL ritornava da unesercitazione, il posto di montagna con strade strette, quindi sali e scendi con numerose curve. Gli autocarri ad un certo punto arrivarono in un falso piano, si trovarono la strada sbarrata da tronchi dalbero e nel fermarsi rimasero addossati lun laltro, i partigiani avevano tutto calcolato, e mentre i soldati cominciarono a saltare gi dagli autocarri, furono presi alla sprovvista dai lati della boscaglia e della collina dove era piazzata una mitragliatrice fra laltro italiana forse predata- e vennero centrati a fuoco incrociato. Nonostante un primo smarrimento riuscirono a controbattere lattacco, ma purtroppo sulla strada rimasero morti e feriti e non furono molti quelli che riuscirono a salvarsi. La colonna era guidata da un ufficiale di fanteria e penso che con un p pi di attenzione, tanto questi attacchi prima o poi in quelle localit avvenivano, tenendo gli autocarri non troppo ravvicinati, perch allimmediata frenata dei primi, gli altri si fermavano troppo vicini e non davano spazio e tempo alla fermata, quindi poco tempo utile per far scendere gli uomini e dar tempo alla difesa. Per me ci fu un errore da parte dellufficiale, forse di autocolonne non era pratico, forse perch gi vicino al paese riteneva che non potesse pi succedere nulla. Questo lo dico perch in quella localit ci fermammo tre giorni dopo e la strada faceva una curva larga, quindi si potevano vedere da un centinaio di metri i tronchi in mezzo alla strada. I morti italiani furono portati via subito, ma i partigiani erano ancora l. Ho raccontato prima questo fatto per allacciarmi alla spedizione partita da Fiume, volendo ad ogni costo vendicare con rappresaglie i militari trucidati. Cosa centrassero i fascisti a fare questa rappresaglia, poich era stato colpito lesercito, a dir il vero non sono stato mai in grado di spiegarmelo. Il giorno successivo, naturalmente, era stata fatta una riunione tra i capoccioni del paesino affiancati da coloro che parteggiavano per gli italiani e soprattutto per quelli di tendenza fascista. Finita la riunione cominciarono le visite nelle case dove pi o meno veniva indicata la presenza di capi famiglia che si davano alla macchia, ma gli uomini erano gi lontani da casa ed allora, dopo interrogatori ai famigliari, si accanivano a buttar sottosopra ogni cosa con la speranza di trovare armi. Alla periferia del paesino una casa colonica venne circondata, erano stati informati che l abitava un capo dei partigiani; entrarono dentro, fecero uscire vecchi, donne e bambini, fecero loro portare le cose pi necessarie,
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dalla stalla fecero portare quel poco di bestiame che avevano, qualche mucca, pecore e maiali, rovistarono dappertutto e misero a soqquadro, rompendo tutto ci che vi era dentro. Finito questo primo disastro, presero delle latte di benzina che vennero vuotate allinterno della casa, infine dettero fuoco fra urla e canti. In un baleno la casa che era in parte di legno e la stalla con il fieno divennero un fal. A poca distanza i due federali che assistevano compiaciuti al rogo. Pi lontano gruppi di civili che dovettero assistere impotenti a tanta vigliaccheria. Io ad una cinquantina di metri dove erano fermi gli autocarri, stavo fermo a guardare con amarezza dove lodio umano potesse arrivare. Ero tanto assorto in mille pensieri con lo sguardo fisso a quellannientamento e con la testa facevo come un atto di dissenso, che non maccorsi che poco lontano una vecchietta mi guardava, forse aveva capito che non condividevo ci che stava succedendo: rimanemmo qualche istante a guardarci, forse i nostri pensieri erano gli stessi, chinai lo sguardo allargando le braccia come se anchio fossi colpevole di tanta ferocia. La vecchietta diede un ultimo sguardo a quel rogo, non un cenno, non una parola, ma in quel viso solcato dalle rughe tanta tristezza, infine lentamente si incammin per strada. Venne la sera e tutti quegli uomini dentro al capannone, dopo aver ben mangiato e bevuto oltre i limiti, cantando e inneggiando alla futura vittoria, fecero notte fonda. Per me non fu una notte tranquilla, avevo gli autocarri fuori e a dir il vero mi aspettavo durante la notte una rappresaglia dei partigiani. Per fortuna ci non avvenne. Al mattino, dopo la distribuzione del caff e relative pagnotte, speravo che tutto fosse finito e di rientrare, ma non fu cos; il federale mi mand a chiamare dicendomi che dovevamo recarci in una localit ad una ventina di chilometri per effettuare unaltra scorribanda. Feci presente che avevamo la benzina appena sufficiente per rientrare, ma non ci fu nulla da fare, fece incolonnare gli autocarri, gli uomini salirono e si ripart per la destinazione fissata. Naturalmente chi accompagnava la colonna era pratico del luogo e sapeva vita, morte e miracoli di tutti, i soliti informatori. Rifacemmo la strada che fece lautocolonna che venne precedentemente attaccata e ci fermammo nel luogo dove avvenne il massacro. Come gi scritto in precedenza, riconfermo che se ci fosse stata pi attenzione, le perdite sarebbero state ridimensionate. Riprendemmo la marcia verso il luogo destinato. Arrivammo in un quadrivio dove cera un agglomerato di case, ci fermammo, scesero tutti dagli autocarri; il federale con il vice si mise a confabulare con i borghesi che facevano da informatori, poi insieme ad alcuni militi si diressero verso una casa, era un circolo ricreativo, forse poteva essere anche un ritrovo di partigiani, entrarono e poco dopo uscirono e fra due militi tenevano ben stretto un uomo con pochi capelli, let poteva essere sulla quarantina, i gerarchi rimasero fermi fuori del circolo, mentre i due militi si avviarono dietro la casa seguendo una stradina che portava in campagna. Da dove eravamo fermi vedemmo luomo che da solo camminava con dietro i due militi: si udirono due spari, lavevano freddato tirandogli da distanza ravvicinata. I due ritornarono indietro scambiarono qualche parola con i capi e rimontammo tutti sugli autocarri per ritornare alla base. Il malcapitato era uno che nel circolo lavorava per conto dei partigiani. Appena rientrati ritornai alla carica facendo sapere che bisognava andare presso il comando militare del luogo per procurarci un certo quantitativo di benzina. Il comando rispose di no e il comandante del presidio rimase seccato perch, pur sapendo dellarrivo dellautocolonna e della sua composizione, non avrebbe mai immaginato della dura rappresaglia. Lesiguo presidio aveva gi altre gatte da pelare e adesso cera da aspettarsi laumento dellodio verso gli italiani e la controffensiva dei partigiani. Per la benzina lunica via duscita era quella di mandare un autocarro a Fiume, ma gli autieri, dopo quello che era successo, non se la sentivano di fare il viaggio, perch anche i partigiani avevano fatto sapere che volevano vendicarsi. Ad un certo momento uno degli autieri si fece avanti, chiese una piccola scorta e sarebbe partito subito. Era un azzardo grosso e l per l non andai a pensare molto lontano. Quello che accett era uno scavezzacollo, era uno che quando faceva i servizi li faceva spesso in quelle localit e al ritorno, con lautocarro vuoto, portava patate, verdura, frutta e prosciutti ai commercianti che aveva contattato prima, un camion militare non lo fermava nessuno, e quando passava il posto di blocco fra Susak e Fiume anche se lispezionavano, si giustificava dicendo che il carico era destinato alla sussistenza. Queste cose si venivano a sapere dopo e fu per questo che ebbi una punizione dal mio comandante di cui scriver pi avanti.
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Appena fu pronto lautocarro, con la scorta nel dare le ultime raccomandazioni diedi unocchiata dentro al cassone : cerano prosciutti, un maiale bel legato con museruola affinch non grugnisse, salumi, patate, frutta e verdure. Purtroppo la mia sorpresa fu grande chiesi allautiere di spiegarmi e senza tanti fronzoli mi disse che il tutto era stato razziato sul posto ai contadini da alcuni militi e civili del posto, daccordo con il federale, quindi per il viaggio della benzina tutto veniva a puntino, io naturalmente era inutile che mi azzardassi minimamente a parlare, tanto fin dalla partenza si era capito che era fatica conciliare il nero con il grigio verde. Il carico naturalmente verr portato alla casa del fascio di Fiume e suddiviso fra loro. Lautocarro, partito alle prime ore del pomeriggio fece ritorno a notte inoltrata con la benzina. Quellautiere, bravo come guidatore, sebbene conoscesse bene il tragitto , a mio avviso, forse anche per la paura, per metterci cos poco tempo ha profuso audacia e incoscienza insieme. Al mattino facemmo rifornimento, salirono tutti gli uomini sugli automezzi, in testa il federale, sulla seconda macchina il vice, sulla terza autista e due militi, sulla quarta salii io con il solito borghese. La spedizione era finita, si part per fare rientro alla base sperando che non capitasse nessun intoppo. Era gi poco pi di due ore che si camminava, la velocit era quella che si addice ad una colonna militare, ed avevo pregato che la distanza fra un autocarro e laltro fosse allincirca di una cinquantina di metri. Ad un tratto vidi il secondo autocarro della colonna serpeggiare, si port troppo sulla destra della carreggiata finendo con le due ruote di destra nel fossato. Eravamo a poche centinaia di metri da un agglomerato di case, scesero tutti ed i due gerarchi si diedero un gran da fare, io arrivai per ultimo, naturalmente senza intromettermi nelle loro discussioni. Non approdarono a nulla, solo mi limitai, come al solito, a fare una capatina nella cabina. Adagiati sul fondo della cabina cerano fiaschi di vino vuoti ed altri ancora pieni. A forza di bere i componenti dellautocarro, compreso lautiere, erano sbronzi da cui il motivo del serpeggiamento con conseguente uscita di strada. Tutti i tentativi e gli ordini dei gerarchi per rimettere in strada lautomezzo furono inutili. Il tempo passava, allora pensai di agire, mi avvicinai ai due caporioni e dissi loro che se volevano arrivare a Fiume prima di notte e portare la ghirba a casa e dal momento che la responsabilit delle macchine era la mia, avrebbero dovuto mettermi a disposizione gli uomini e lasciarmi fare. I due gerarchi confabularono con i civili che non volevano questa mia intromissione e alla fine mi chiamarono e mi dettero via libera. Dagli autieri feci prendere due cavi, uno lo feci agganciare alla macchina che doveva trainare, il secondo alla macchina che stava dietro. Con i badili feci livellare il terreno davanti alle ruote di destra. Con cautela feci mettere in tirata il cavo che doveva trainare, mentre la macchina dietro doveva seguire il movimento sempre con il cavo in tensione, a questo aggiunsi gli uomini dalla parte del fossato e dietro il cassone a spingere. Quando tutto fu pronto diedi ordine che la macchina cominciasse a trainare piano piano; difatti si riusc con molta cautela a riportare le due ruote di destra in strada. Si verific che lavantreno non avesse subito alcun danno, quindi salimmo tutti sugli autocarri e partimmo alla volta di Susak dove arrivammo senza altri inconvenienti, era limbrunire. Per tutto il periodo che rimasi a Susak, quando ritornavo dalle autocolonne e avevo tempo a disposizione, dopo il rancio scendevo a Fiume con qualche corriera militare che dalla stazione portava gli ufficiali ad Abbazia. Mi fermavo al centro di Fiume, vicino alla casa del fascio, dove cera un caff dove alla sera, qualche volta, mi trovavo con gli amici di Rimini che facevano servizio in marina, Galimberti, Severi, Nando, due impiegati della banca del lavoro, il dottor Pari e il ragionier Barbieri di Rimini, ai quali quando potevo, avevano scarsit di pane, portavo delle pagnotte e della pasta. Al caff si giocava a carte e a biliardo. La maggior parte delle sere della settimana frequentavo una scuola serale per militari, il primo biennio di ragioneria. Naturalmente quando ero fuori, saltava tutto. Questo corso lo incominciai nellottobre del 1941, cerano professori dellistituto di Fiume che insegnavano; purtroppo lo dovetti interrompere perch fui trasferito a Ragusa nel maggio del 1942. In tutto il periodo che rimasi di stanza nel campo sportivo di Tersatto-Susak, sia durante lestate del 1941-1942 e 1943, quando ero libero da impegni di servizio dopo il rancio del pomeriggio mi recavo, attraverso una scorciatoia, a Susak-Pecine, indossavo la mia tuta da automobilista e andavo a fare il bagno in quelle acque limpide e fresche con
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venature di acqua dolce che facevano rabbrividire attraversandole; naturalmente ero in compagnia di altri commilitoni. Poi rientravo allaccampamento, mi cambiavo e andavo dai miei amici a Fiume, qualche volta con loro e i due impiegati di banca si andava al porto in un ristorante a fare qualche cenetta. Naturalmente su tutti i fronti le cose, sia per i tedeschi che per gli italiani, non andavano poi cos male, nonostante che la propaganda nazi-fascista volesse far credere il contrario. Radio clandestine si sentivano ovunque, radio Londra con il suo caratteristico segnale in anteprima ci dava la situazione di come andavano le cose. E venne il fatidico 25 LUGLIO 1943, da quel momento cominci il caos, un susseguirsi di ordini, smentite, comunque gli autocarri erano pronti e carichi di tutto il materiale che avevamo a disposizione. Sotto la tribuna del campo sportivo, non lho detto prima, vi era il magazzino dei pezzi di ricambio; una parte serviva da alloggio agli autieri, poi cera la cucina e subito allentrata del portone la garitta per la sentinella poi, sempre sotto la tribuna, in un piccolo locale dove avevo messo tutte le mie cose, avevo anche una branda per dormire. Passarono alcuni giorni e radio scarpa diceva che dovevamo rientrare in Italia da un momento allaltro. Nel frattempo i partigiani uscirono allo scoperto e presero posizione nelle tribune del campo sportivo e cio dalla fine del muro perimetrale esterno alla copertura della tribuna; cera un metro di altezza che in questo caso serviva come appostamento di mitragliatrici sulla strada principale che veniva dallinterno. Con noi non parlavano e non fecero nessun atto di cattiveria. Comunque venimmo a sapere che si erano attestati in quel punto per controbattere le truppe tedesche in ritirata. Arrivammo ai primi di settembre del 1943, i partigiani tutti armati si erano appostati agli angoli del piazzale e ad un certo momento, al centro del piazzale in mezzo al gruppo di armati un militare vestito con un giaccone di pelle, calzoni alla zuava, calzettoni e scarponi, discuteva animatamente. L per l pensammo fosse un semplice comandante del gruppo di tutti quegli uomini, ci eravamo sbagliati era niente popodimenoche TITO in persona. Da notare che dopo loccupazione della Jugoslavia sia da parte italiana prima e tedesca poi, le formazioni di reparti partigiani furono immediatamente costituite e comandate da Tito ed erano gradatamente entrate in attivit, soprattutto quando il 25 luglio 1943 venne diramato quel fatidico comunicato dove il BADOGLIO prese le redini del governo che fra ordini e contrordini, ordini autentici o no dellautorit costituita e interferenze tedesche, cominci il caos e il dissolvimento dellesercito. Da quel momento i soldati erano in balia di tutto e di tutti, consistenti reparti di truppe, non volendo continuare a combattere con i tedeschi si affiancarono ai partigiani, chi sulle montagne chi lungo la costa oppure nelle isole, altri cercavano da soli una via duscita per raggiungere lItalia. Tante erano le discordanze in quel momento che ogni soluzione era buona o cattiva. Da notare che fin dallinizio dellinvasione della Jugoslavia i partigiani subito formatisi venivano riforniti da apparecchi anglo-americani, io ero di stanza con lautoreparto a Susak-Tersatto-Campo Sportivo, provenienti dal mare si dirigevano verso linterno, non cera contraerea o aviazione che li disturbasse a rifornire a mezzo paracadute materiale bellico, viveri e medicinali. Arrivammo fra tira e molla al 12 settembre 1943, venne lordine di partire, incolonnammo tutti gli autocarri, quando mi vennero a chiamare per andare nel reparto officina in quanto una nostra corriera nel fare manovra era rimasta in bilico dove cera la buca per effettuare i lavori e la verifica sotto il pianale. Dovetti andare a prendere un autocarro, sistemare dei tavoloni e con cautela rimorchiare la corriera per rimetterla in carreggiata. Raggiungemmo la colonna che nel frattempo si era avviata, ci fermammo lungo la riva del fiume a Susak, ma subito venne un contrordine dal comando dei trasporti, ci incolonnammo di nuovo, passammo il fiume e ci fermammo nel porto di Fiume. Il primo pensiero fu quello che ci dovessimo imbarcare, oppure caricare il tutto sul treno. Rimanemmo tutta la notte e la mattina dopo e andammo a fermarci nei pressi di Abbazia in attesa di ordini. Il giorno dopo facemmo rifornimento a tutte le macchine, in tutto erano un centinaio e subito dopo partimmo da Abbazia verso Trieste, ma non facemmo che qualche chilometro che il nostro motociclista venne con un ordine che dovevamo prendere la strada per Pola. In testa alla colonna con una corriera ceravamo io ed un ufficiale, dietro sfilavano tutti gli autocarri. Arrivammo al bivio di Pisino e qui dovevamo prendere la strada per Trieste, quella che dovevamo fare prima era intasata da colonne e truppe
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tedesche, i carabinieri ci bloccarono informandoci che era bene che ci portassimo verso Pola a causa degli attacchi che su quella strada facevano i partigiani. Da notare che da Abbazia a Pola la strada da una parte costeggiava la montagna e secondo i momenti il mare, naturalmente era tutto un salire e scendere e ad una manovra sbagliata in curva cera da ruzzolare per qualche centinaio di metri fino al mare. Il motociclista che era addetto alla colonna ci disse che qualche autocarro era stato gi abbandonato lungo la strada. Al pomeriggio arrivammo a Pola, a fianco della strada principale, in uno spiazzo, furono sistemati tutti gli autocarri. Furono fatti i turni delle sentinelle e fummo aggregati ad un altro corpo e siccome erano stati avvisati del nostro arrivo, andammo a prendere il rancio. Lordine era di non lasciare il posto, si era gi fatto notte, quando a distanza si incominci a sentire il crepitio dei fucili e delle mitragliatrici, la distanza dal rumore dei colpi poteva aggirarsi sul chilometro, chiedemmo a quelli che erano accampati vicino a noi se sapevano darci qualche informazione; difatti dissero che a qualche chilometro cerano delle truppe tedesche e i partigiani a distanza, appena si faceva notte, li infastidivano e attaccavano tutte le notti i posti pi avanzati. Il giorno dopo per ben tre volte incolonnammo gli autocarri per proseguire per Trieste, ma non ci fu nulla da fare, i tedeschi con un pretesto o laltro, ci fecero desistere. In un ultimo tentativo nuovamente i tedeschi cominciando dalla testa dellautocolonna, intimarono di consegnare tutte le armi. Nel consegnare il moschetto in dotazione, consegnai anche una rivoltella Beretta datami durante una licenza a Rimini da mio cognato Amleto (partigiano), il quale aveva avuto paura di qualche perquisizione. Quella rivoltella, nonostante lavessi portata a Fiume da un armaiolo provetto, non riusc mai a sparare come avrebbe dovuto. Cercammo i nostri ufficiali per avere disposizioni, non ne trovammo uno, erano tutti spariti. Ci dissero di prendere tutte le cose e di portarci davanti al cancello dentrata del battaglione SAN MARCO; l cera lautocarro con i furieri i quali ci dettero i nostri averi, quindi ci dissero di portarci dentro la caserma, ci assegnarono i nostri posti, poi ci diedero da mangiare. Il giorno dopo non ci fu n caff n rancio, le cucine non funzionavano, quindi scatolette di carne e gallette. Di fianco alla caserma che era cintata da una mura con a ridosso una strada, i civili ci lanciavano panini ed altre cose da mangiare. Il giorno seguente riuscimmo a mettere in funzione la cucina e riuscimmo a farci una bella spaghettata. Nel giorno stesso, stando vicino al portone duscita, cercavo di poter uscire, pensando, ho la tuta, poco distante c la stazione e potrei essere preso per un meccanico e scappare, ma non ci fu nulla da fare, il controllo era troppo stretto, qualcuno cerc di saltare il muretto ma una raffica sparata in aria ti riportava a pi miti pensieri. Ad un tratto dalla fessura del portone riconobbi una signora che avevo incontrato quasi tutte le mattine al mercato di Fiume con un bambino, e pi di qualche volta ci siamo parlati dicendomi che faceva fatica a trovare il pane per dar da mangiare al bambino, con la tessera ne davano molto poco, le dissi che se voleva io avevo sempre qualche pagnotta in pi, difatti da quel giorno cercai di favorirla. Questo dur allincirca un mese, penso nel giugno 1943, perch prima ero stato in licenza e a Rimini il mio barbiere Pigiani mi disse: lo sai a Susak c lavvocato Ugolini, via Verdi Rimini, vai a trovare sua mamma, ci che feci prima di partire ed ella mi affid una bottiglia da un litro di olio dei suoi poderi. Appena rientrato a Susak andai al comando dei trasporti e dopo aver chiesto dellufficiale, era maggiore, dopo poco il piantone mi fece entrare nel suo ufficio: gli consegnai la bottiglia, riferii quanto disse sua mamma, poi mi chiese cosa avevo bisogno, naturalmente non persi loccasione dicendogli che essendo il sottufficiale pi anziano mi facesse fare qualche turno allinterno dellaccampamento. Mi conged dicendomi che si sarebbe interessato. Fui accontentato, passai in cucina. Nel mese che feci servizio in cucina partivo da Tersatto campo sportivo dove eravamo aqquartierati, con un autocarro per fare la spesa alla sussistenza, io ero lautista, con me cerano altri due addetti alla cucina. Con i buoni ricevuti dalla fureria si andava a Fiume dove si recavano anche altri corpi ed anche i reparti della milizia, per fare il rifornimento giornaliero. Naturalmente il prelievo serviva per il giorno dopo per tutto il 43 autoreparto. Si arrivava al magazzino della sussistenza verso le 7 del mattino, si consegnavano i buoni di prelevamento allufficio, poi agli addetti alla distribuzione che a turno chiamavano il reparto. Il tutto veniva ritirato e controllato.
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Dopo alcuni giorni mi capita uno strano caso, dal ritorno dal prelievo consegno il tutto al capo cuciniere, questi controlla il tutto come al solito, ma mi fa presente che nel quantitativo del formaggio grana, ne mancano circa tre etti. Dico che impossibile, di fronte alla bilancia siamo in due a controllare, nulla da fare, manca quel quantitativo. Tutti colpevoli o nessuno, si stenta a crederlo! Questo manca tutte le volte che si torna dalla spesa e quasi sempre lo stesso peso, per me era una grossa scocciatura, eppure qualcuno rubava, ma chi? Bisognava scovare il ladro. Al ritiro del quantitativo facevo ripesare il formaggio, ma il peso era giusto. Pensai a qualcuno dei nostri che cercava di farmi fesso, ma il formaggio lo tenevo vicino a me dallatto del ritiro alla consegna in cucina: morale della favola lammanco cera sempre, o la bilancia della sussistenza o la nostra che non andavano bene. Appena ritirate le pagnotte di pane, feci sedere due della cucina sui sacchi e mentre mangiavano le pagnotte fresche guardavamo la bilancia sul formaggio. Il peso regolare, ritiro il formaggio, faccio finta di allontanarmi, mentre il militare della sussistenza mi volta le spalle. Velocemente ritorno al bancone, metto il pezzo di formaggio sulla bilancia rapidamente e vedo che mancano i soliti etti, ma lui velocissimo muove la bilancia ed il peso torna regolare. Uno degli autieri seduti sui sacchi si precipita da me e mi dice di guardare sotto il piatto della bilancia; per far ci devo andare al di l del bancone, lo salto appena in tempo per togliere da sotto il piatto un bel pezzo di conserva che lui con maestria riusciva a far aderire sotto il piatto. Furente, anche se ero nei militari, lo presi per la giacca per sbatterlo contro una parete. Accorsero i miei, quelli della sussistenza, un vero parapiglia, e mostrai il corpo del reato. Chiamai i miei e caricammo la spesa sullautocarro. Tutto trafelato, prima di ripartire, arriv il sottotenente chiedendomi di andare dal comandante della sussistenza nel suo ufficio: risposi che avrei fatto rapporto attraverso il mio comando e cos fu. La cosa venne a conoscenza di tutti i reparti e il mio comandante mi mand a chiamare per sapere cosa fosse successo. Fu un pandemonio e chiesi di essere esonerato dallincarico e di ritornare a fare servizio in sezione. Seppi pi tardi che ai distributori dei magazzini della sussistenza vennero eseguiti molti cambiamenti. Nel giugno 1943 nel mese che ebbi lavventura di aver in consegna la cucina mi accaddero due fatti: il primo mentre si era in attesa che il rancio fosse pronto per la distribuzione, discutevo e facevo vedere una rivoltella del tipo Beretta, che in seguito dovetti consegnare ai tedeschi a Pola, mentre entr un nostro ufficiale che era di picchetto, il quale la volle vedere. Gli dissi di fare attenzione perch era difettosa, la volle maneggiare e nonostante il mio avvertimento fin per far partire un colpo che and a sfiorare un cuciniere intento a pelare patate; il secondo, sempre in quel mese, mi veniva a trovare NANDO il barbiere, sempre di Rimini anche lui, eravamo vecchi amici, ed alla sera allora del rancio veniva a trovarmi e a mangiare. Poi scendevamo da Tersatto a Fiume, dove ci trovavamo con altri amici al caff. Un pomeriggio, sempre allora del rancio, discutevamo del pi e del meno, si apre la porta ed entra lufficiale di picchetto a fare lispezione: stavamo consumando la nostra razione di rancio, ma lufficiale, vedendo un militare che non era del nostro reparto, volle sapere il motivo per cui si trovava l, cercai di spiegarglielo ma non volle sapere storia, un grosso cicchetto a me e lui fuori, in cucina non dovevano esserci estranei oltre gli addetti. Fu lunico ufficiale che ci fece un trattamento cos. Torno ora al motivo dellincontro al mercato di Fiume con la signora ed il nuovo incontro casuale a Pola. A quella signora, sempre a Pola, le dissi che avevo coperte e indumenti che mi davano fastidio e che il giorno dopo venisse a prenderle. Difatti poi le consegnai un bel p di roba. Nello stesso giorno successe che i tedeschi dopo un lungo confabulare con i comandanti del battaglione San Marco, intimarono di consegnare tutte le armi, ci furono momenti di tensione, il battaglione si mise in pieno assetto di guerra e uscirono forzando lentrata, innalzarono la bandiera sul pennone, ma purtroppo i tedeschi fecero affluire rinforzi e piazzarono un carro armato tigre, con lultimatum di consegnare immediatamente tutto il materiale bellico. Purtroppo non ci fu nulla da fare, si dovette accatastare davanti al portone quanto cera. In quel frangente diedi le ultime cose a quella signora e siccome in giro gi correva la voce che ci trasferivano in buona parte, mi disse che daccordo con suo marito era meglio partire il pi tardi possibile e che in un
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modo o in un altro mi avrebbero aiutato. Purtroppo in quei frangenti era difficile prendere una decisione, le notizie erano tante e vaghe. Al mattino prestissimo del giorno successivo alla consegna delle armi vennero i tedeschi a svegliarci e in tutta fretta fecero ladunata, ci incolonnarono e ci portarono per un lungo viale al porto di Pola.

Il giorno 8/7/1972 partendo da Rimini porto con la motonave Mantegna, feci una gita di un giorno per andare a rivedere Pola. (vedi foto)

Purtroppo i tedeschi con gli stukas avevano raso al suolo la citt e il porto, in quel periodo 1943-1944 la citt era in mano dei partigiani. Per girare un p la citt prendemmo un taxi, lautista in un primo momento sembrava non capisse molto litaliano, ma dopo aver contrattato il prezzo, salimmo in macchina e quando fummo soli ci raccont un p di ci che volevamo sapere. Come prima cosa mi feci portare dove cera la caserma del battaglione San Marco, non esisteva pi, gli apparecchi avevano fatto piazza pulita, erano stati costruiti palazzi e giardini. Poi mi feci portare a fare un giro lungo la costa, avevo la cinepresa, stavo filmando quando mi venne vicino lautista e mi disse di nasconderla che se la vedeva la polizia erano noie, stavo filmando involontariamente cantieri militari. Poi ci dirigemmo verso il porto dove ci imbarcarono: il viale era rimasto tale e quale come quando a piedi mi portarono alla nave, alberi di qua e di la come allora, ma dalla parte sinistra, andando verso il porto, finiva una collina rocciosa, dallaltra una lunga mura. Lautista mi spieg che dalla parte dove cera la roccia erano stati fatti dei rifugi che esistono ancora- dove la popolazione andava a rifugiarsi per salvarsi dai bombardamenti a tappeto fatti dagli apparecchi stukas. Il giro si dilung, alla partenza avevamo combinato cinquemila lire, allora erano molte, ma alla fine gli allungai diecimila lire, non finiva mai di ringraziarmi. Quel taxi per era quasi un rottame. Tornando ai tedeschi e al porto di Pola, ricordo che l cera un grosso piroscafo, ci fecero salire e ci misero tutti nella capace stiva, pensammo subito che le cose si mettevano male. Finito limbarco, fatto a tempo di record, accatastati in quella prigione quasi alloscuro, nessuno parlava e ad un certo punto i motori furono messi in moto, poco dopo la partenza. Il mio pensiero fu unico: quale direzione avremmo preso e siccome i sottomarini inglesi erano sempre allerta nelladriatico, con un siluro eravamo cotti e conditi, eravamo qualche migliaio. Subito pensai che forse aveva ragione quella signora di escogitare qualsiasi stratagemma per non partire, eventualmente il destino poteva essere sempre quello. Era gi passato un bel p di tempo dalla partenza e l dentro, fra la puzza che cera e tutta quella truppa, laria cominciava ad essere irrespirabile, quando cominciarono ad aprire i boccaporti e ci diedero lordine di salire in coperta. La costa era ben lontana, respirammo a pieni polmoni laria marina, il mare era calmissimo, la direzione un enigma, la rotta della nave era sempre a zig zag, anche loro temevano lattacco di qualche sottomarino o magari di qualche aereo silurante. Tutti gli ordini dei tedeschi venivano dati con una cattiveria da non credere, ci ordinarono di indossare i salvagente, io per precauzione mi tolsi i miei scarponi ancora nuovi e li attaccai alla cintola (per me valevano oro e fu cos in seguito). Ero vestito con la solita tuta, canottiera e mutandine, avevo pensato che se fosse successo qualcosa, se rimanevo indenne sia allattacco sottomarino che aereo, in acqua, attaccato ad un pezzo di legno poteva esserci ancora la salvezza, ero anche un forte nuotatore, tutti pensieri per farmi forza. La triste avventura era comunque
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gi incominciata. La nave, da trasporto, non era molto veloce. La mia valigia era ben fornita di gallette e scatolette di carne e siccome non ci diedero niente, potei sfamarmi lo stesso, come tutti gli altri. Finalmente allorizzonte si incominci a vedere il profilo della terra e a distanza ancora notevole riconobbi il campanile di Venezia fu un sussultopassammo davanti ai giardini, la riva degli Schiavoni, San Marco, era una giornata splendida. Immediatamente mi venne lidea di fuggire, la nave dal pelo dellacqua era una decina di metri, era scarica, valutai velocemente il da farsi, andai a poppa, vidi che lelica vorticava fuori dallacqua, bisognava calcolare se con il tuffo si riusciva ad allontanarsi dalla nave e dal risucchio dellelica e a conti fatti pensai che era unimpresa non facile. Ritornai in stiva perch avevo visto che cerano dei portelloni aperti, ma purtroppo erano guardati da soldati tedeschi, me ne ritornai in coperta e rinunciai allimpresa, consolandomi a vedere il bel panorama di Venezia dalla nave. La nave, dopo aver oltrepassato il bacino di San Marco e il canale della Giudecca, and ad attraccare. Non appena fu tutto a posto, qualcuno che era capace di nuotare si gett in acqua, ad una trentina di metri vi era una banchina con materiali e capannoni, qualcuno riusc a farcela, ma dato lallarme i tedeschi cominciarono a sparare, furono in pochi a riuscire a scappare. Era pomeriggio quando si arriv, il sole era ancora alto allorizzonte, suonarono ladunata e con grande sorpresa arrivarono ceste di pane, formaggio e altri viveri. Mentre avveniva la distribuzione dei viveri, mi imbatto con mio cognato Luciano, facemmo la nostra provvista, la fame non mancava, e rimanemmo nello stesso tempo l a raccontarci un p le nostre vicende, mi chiese se avevo qualche coperta in pi perch aveva perso tutto, la andai a prendere e gliela diedi. Subito ci furono delle adunate a seconda dei corpi, con mio cognato ci perdemmo di vista, qualcuno nella confusione, mentre un treno merci faceva manovra riusc a svignarsela, non so con quale risultato, perch i tedeschi erano un p dappertutto. I tedeschi cercavano meccanici e automobilisti, cosicch noi che tutti vestivamo con la tuta venimmo incolonnati portandoci sulla strada. In ogni momento cercavo la possibilit di svignarmela, tanto pi che si era riunita a poca distanza un bel p di gente che per venne subito allontanata dai tedeschi con i mitra imbracciati: In quel frangente mi liberai di carte e tessere compromettenti infilandole in un tombino. Di l a poco giunsero degli autocarri, salimmo, facemmo tutto il ponte della libert che corre parallelo alla ferrovia da Venezia a Mestre. Arrivammo a Mestre, ci fecero scendere incolonnati attraverso il centro di Mestre. Nella mente di tutti noi si aspettava sempre il momento di fuggire, nonostante la rigida presenza dei tedeschi. Ad un certo momento, camminando rasente al muro, a distanza vidi una porta aperta, ero ormai entrato, stavo per chiuderla, ma un tedesco a catapulta mi prese spingendomi violentemente in mezzo alla colonna. Arrivammo quasi alla periferia della citt in una grande caserma recintata con mura, dentro un campo sportivo con tutto intorno capannoni. Ci fecero prendere posto in un capannone dove erano gi allestiti i posti per dormire. Al secondo giorno ci fu subito unadunata, cera qualche gerarca fascista, un sottufficiale tedesco con soldati, il quale a mezzo interprete ci diede dei traditori, ma nello stesso tempo ci chiesero se intendevamo ancora collaborare, proponendoci di andare a sostituire la milizia portuale che se lera squagliata, proponendoci lo stesso trattamento dei soldati tedeschi. Dopo un lungo conciliabolo rispondemmo di no. Ad un certo momento un gruppo dei nostri ci aveva ripensato e si port vicino agli interlocutori dicendo che un certo numero di italiani erano disposti a collaborare, ma li respinsero subito puntando anche i mitra: erano diventati cattivi al nostro rifiuto. Molti anni dopo, leggendo libri e giornali venni a conoscenza, ne conoscevo gi un p, di dove era arrivata la malvagit tedesca verso gli ebrei i quali venivano caricati su navi da trasporto dai porti che si affacciavano al mar Baltico, dando dintendere una qualsiasi bugia e poi, quando erano al largo, affondavano la nave con tutti quei disgraziati. Ci sarebbe potuto succedere anche a noi durante la traversata da Pola a Venezia, magari dando la colpa ad un sottomarino nemico. Impartirono ordini severissimi e chi trasgrediva gli ordini incorreva in severe punizioni. Naturalmente il non accettare subito la loro offerta fu uno sbaglio perch, pensandoci bene, ad un certo punto si poteva fuggire anche noi. Il nostro calvario gi da tempo cominciato diventava sempre pi duro. Arrivarono degli autocarri che oltre ad essere guidati da soldati tedeschi erano guidati anche da italiani. Mi avvicinai ad uno dei nostri e
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gli chiesi come aveva fatto per ottenere di guidare con loro. Aveva accettato perch in primo luogo rientrava in Italia, il mangiare era assicurato e nello stesso tempo mi fece capire che era stato un espediente perch poteva capitare il momento di fuggire, naturalmente a tutti quelli che avevano aderito avevano fatto firmare un documento ed io aggiunsi che fuggire diventava un grosso problema per le ritorsioni verso i famigliari. A quel punto disse, intanto sono riuscito ad arrivare fin qui, al resto si vedr. Ad un certo momento mi disse di allontanarmi perch aveva paura che i tedeschi gli dicessero qualcosa. Vicino a me dormiva un certo ZALTRON, era di THIENE, e stavamo studiando e guardando da che parte del campo si potesse tentare la fuga; uscimmo e vedemmo che cera il portone aperto, in fretta ritornammo nella camerata, per portaci via lo stretto necessario, ritornammo al cancello ma nel frattempo era stato chiuso, altro fallimento per ragionare troppo. Venne il giorno della partenza, incolonnati ci riportarono nuovamente verso la stazione. Lungo il tragitto ci fermammo vicino ad una segheria, cera molta gente, ed un signore mi disse, mentre davo degli appunti e indirizzi per scrivere a casa, fugga, vada dentro il deposito del legname, al resto ci penso io; purtroppo noi tutti non capivamo pi niente, le notizie erano sempre pi contradditorie e ci dissero perfino che ci avrebbero internato in campi nel Piacentino. Cos strada facendo arrivammo alla stazione di Mestre nuovamente. L era pronto un lungo treno di carri merci, ci divisero in gruppi di sessanta, fra le urla dei tedeschi e i calci dei fucili salimmo in quei carri gi pestilenti, dove cera qualche filo di paglia ed escrementi lasciati dai precedenti trasporti. Fecero scorrere la porta e la chiusero dal di fuori. Eravamo diventati peggio delle bestie, la luce del giorno trapelava da quei quattro finestrini sbarrati con una griglia di ferro, laria entrava a malapena ed era diventata ancora pi pestilente. Il treno si mosse con il suo mesto carico di vite umane senza ancora sapere quale fosse la destinazione: la prima cosa che facemmo fu un buco in un angolo del carro da utilizzare come un gabinetto. Ad un certo punto il treno diminu la velocit fino a che si ferm. Intravedemmo attraverso le fessure della porta la stazioncina, era CODROIPO, notammo, appena il treno si ferm, militari che scappavano dalla parte opposta della stazione, forse avevano fatto dei buchi nel pavimento, altri forse erano riusciti ad aprire le porte. Lallarme fu immediato, i soldati tedeschi si precipitarono con fucili mitragliatori dalla parte dove i soldati italiani fuggivano e purtroppo una parte dei fuggitivi rimase imbottigliata dove cera un lunga mura e l, contro quei poveri inermi fecero fuoco. Mentre succedeva quel parapiglia qualcuno aveva fatto scorrere la nostra porta ed io che ero proprio l, scesi velocemente, avevo la tunica, avrei potuto passare per un ferroviere, ma ebbi subito la disgrazia che uno della milizia ferroviaria venisse da quella parte, non volle sentir ragione ed infine dissi e se fossi suo figlio? Si lev il moschetto dalla tracolla e a questo punto dovetti risalire e spedii verso di lui parecchie cattive parole. Molte persone si avvicinavano ai vagoni, anche se respinte dai soldati tedeschi e ci allungavano cose da mangiare. Da noi cerano delle ragazze alle quali davamo biglietti con gli indirizzi di casa pregandole di far sapere che eravamo passati di l. Di quelle signorine mi ero preso lindirizzo, una si chiamava LINA CRISTANTE, San Giovanni Casarsa (Udine), laltra si chiamava MORELLO ANNA ed abitava a Remanzacco (UD). Si ripart ed arrivammo a Udine, poi si ripart da Udine e ci fermarono a Willac, confine tra Italia e Austria. Da mangiare fino a questo punto nemmeno lombra. Si pu dire che eravamo gi in territorio Austriaco. Da una parte la stazione e naturalmente intorno tutta montagna. Mentre il treno sostava per il cambio della locomotiva e del personale, mi venne, come a tanti altri, la voglia di scappare cercando di allargare il buco che ci serviva per i bisogni, ma purtroppo non avevamo nessuna leva per divellere le tavole; era lultimo tentativo da effettuarsi perch poi sarebbe stato impossibile. Nulla da fare il destino era gi segnato. Dentro il vagone non cera nessuna risorsa, eravamo in troppi, o in piedi o seduti alla bene e meglio. Io mi sedetti sulla valigia, appoggiai i gomiti sulle ginocchia e rimasi l con la testa fra le mani a pensare ed il pensiero corso a racconti fattimi da persone che avevano fatto la guerra del 1915/1918 e che anche allora furono prigionieri, elencando tutte le umiliazioni, il continuo derubare delle poche cose necessarie, il lavoro coatto, la fame. Ci che fino a qualche giorno prima mi era andato si pu dir bene, pur attraverso innumerevoli peripezie, ora tutto il mondo e la libert mi cadevano addosso, assieme ad una tristezza indefinibile e desolazione che purtroppo ci aveva preso tutti. Non una parola, un gesto, solo qualcuno
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ormai affranto e stremato dalla fatica era riuscito tutto rannicchiato ad assopirsi. La sera fra quelle montagne scendeva velocemente, gli ultimi riverberi di luce venivano da quei quattro finestrini sbarrati con i ferri. Si ud in lontananza un fischio della locomotiva, in risposta altri tre che si perdettero in mille echi; era la locomotiva di coda, difatti subito dopo si sent la spinta dalla coda e lentamente il treno si mosse faticosamente, eravamo sicuramente in salita, lo si deduceva dallo sbuffare delle locomotive. La notte era calata, il treno con il suo carico umano, ammutoliti e disperati, esausti da ordini e contrordini dove penavamo tutti alla stessa maniera. LItalia ormai ce labbiamo alle spalle, il confine lo stesso e sebbene il treno non avesse una grande velocit, nelloscurit della notte, la convinzione che per quella strada ferrata la destinazione fosse la Germania, e quale altra nazione poteva essere in quel momento? Era gi passato un giorno, la notte stava per finire e dai soliti finestrini filtrava la luce del nuovo giorno. Il treno continuava a sferragliare sui binari, si cercava di guardare fuori dalle fessure per vedere se dal passaggio di qualche stazione si potesse dedurre la direzione; niente, poi una bella campagna piuttosto collinosa, dove scorgevamo contadini lavorare la terra. Pass il mezzogiorno e fino a questo momento non ci fu dato niente da bere e da mangiare. Aprire la valigia per prendere qualche cosa poteva essere un azzardo per chi non aveva niente e poteva succedere un parapiglia. Il treno ad un tratto cominci a rallentare, fino a fermarsi. Vennero aperti i portelloni scorrevoli, a terra, ogni tanti metri, cerano soldati con i mitra, fra urla e ordini ci fecero scendere, eravamo tutti intirizziti dallimmobilit e facevamo fatica a stare in piedi. Dalla parte dove eravamo scesi cerano degli improvvisati gabinetti in legno che, per chi aveva bisogno, occorreva avere delle doti di equilibrista per non cadere nella sottostante fossa gi piena di escrementi e magari rimanervi l a morire. Dimostrazione che altre tradotte avevano fatto sosta, poi un interprete ci avvi poco lontano ove cerano delle marmitte e ad ognuno ci diedero un mestolo di una certa pappina bianca fatta con il miglio. In un primo momento, data anche la fame, siccome era calda incominciammo a mangiarla, ma era troppo dolce ed io dovetti subito desistere perch mi dava il vomito. Eravamo fermi in mezzo alla campagna, la massicciata aveva quattro binari, noi eravamo in un binario morto, lontano si vedeva come una stazioncina. Mentre eravamo fermi, sui binari centrali sfrecciavano treni viaggiatori, mentre dai laterali treni viaggiatori pi lenti e treni merci carichi soprattutto di materiale bellico. Quella fermata ci rinfranc un poco, quel poco di libert vigilata in mezzo alla campagna port un p di serenit che purtroppo non dur molto. Un fischio lungo del macchinista preavvisava che la festa era finita, i tedeschi diedero ordine di risalire ed il portellone si rinchiuse nuovamente. Un nuovo fischio della locomotiva prolungato ed il convoglio ricominci la sua corsa verso, per noi, lignoto, comunque eravamo in terra tedesca. Fin il giorno, pass unaltra notte, il viaggio diventava interminabile ammucchiati nel vagone senza neanche poter allungare le gambe, quando ci si alzava non si riusciva n a stare in piedi, n tanto meno a muoversi, un calvario ancor pi pesante, perch dovevamo combattere un altro nemico, il pidocchio: purtroppo quei carri merci erano stati adibiti ad altri trasporti del genere, forse prima di noi erano stati trasportati migliaia di russi. Ci fermammo ancora una volta, per in una grande stazione, Monaco, Stoccarda o Francoforte, aprirono il portellone scorrevole, ci fecero scendere in 4 o 5 per vagone, ci consegnarono delle pagnotte ed altre cose da dividere con gli altri occupanti il vagone. Fu una cosa alquanto difficile perch le divisioni dovevano essere talmente precise per evitare recriminazioni e magari la rissa. Ritornammo al vagone con quanto ci avevano consegnato e salire, data laltezza, era difficoltoso, e fu qui che mi presi i primi calci nel sedere. Un sottufficiale italiano che fungeva da interprete assieme ad un tedesco, invece di aiutarmi a salire mi rifil alcuni calci. Salito che fui mi rivoltai e vedendolo sorridere gli dissi: speriamo di non incontrarci in Italia. Si ripart, si pass unaltra nottata ed infine, a giorno fatto, arrivammo in mezzo alla campagna, vicino ad una piccola stazioncina ed il lungo e massacrante viaggio era finito, ormai eravamo alla fine di settembre 1943. Ci fecero scendere, incolonnati, guardati a vista da sentinelle attraverso una strada di campagna con un terreno piuttosto sabbioso, e dato il tanto tempo che non si camminava, si andava di qua e di l come tanti ubriachi. Eravamo una bella colonna. Dopo circa un chilometro, a distanza, cominciammo a vedere, via via che ci
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si avvicinava, la nostra nuova ubicazione. Durante il cammino mi sentivo venir meno, aprii la valigetta e per rinforzarmi un p cominciai vigliaccamente, senza farmi vedere, a rosicchiare una mezza galletta che gelosamente ero riuscito a conservare fino allora. Pi ci avvicinavamo e pi si delineava la nuova dimora, doppia fila di rete metallica alta allincirca tre metri e alla sommit dei robusti pali di ferro, incurvati verso il campo e naturalmente collegati con il filo spinato. Ad ogni angolo del campo una torretta di forma rettangolare alta una decina di metri dove stazionava una sentinella con mitraglia. Arrivammo cos allentrata del campo. Tutti fermi, cominciarono a contarci, poi, a scaglioni, ci convogliarono in capannoni di legno. Io appartenevo ad uno scaglione di cinquanta e ci assegnarono una baracca, anche questa purtroppo doveva accogliere al massimo poco pi di una trentina di uomini, cos anche questa volta finimmo come dentro il carro ferroviario. Cera una porta dentrata solo, le finestre, la maggior parte, erano con vetri tutti rotti. Quando alla belle e meglio presi posto, per terra, era ben difficile allungarsi. Fino a che fu giorno poteva anche andare, ma il difficile venne quando si fece notte, luce neanche a pensarci, qualcuno tir fuori qualche candela, ma ben presto si affacci alla porta una sentinella tedesca e fra urla e chiss quali parole, requis tutte le candele. Intanto fuori dalle torrette erano piazzati i riflettori che a intermittenza scrutavano tutto il campo. Una giornata era passata, la notte si era gi preannunciata faticosa. Il gabinetto era distante 100 metri, vi era una larga buca, si salivano quattro gradini in legno, un pavimento in tavole, gi calzoni e mutande e fra una tavola e laltra vi era una larga fessura e l si deponevano i nostri bisogni mentre bisognava stare molto attenti a non scivolare altrimenti si faceva un bel tuffo in quel mare di liquami e se ci succedeva, se non cera qualcuno ad aiutarti ad uscirne, potevi affondare come nelle sabbie mobili. Di notte se uno aveva limpellente bisogno di urinare, il meno che poteva succedere, per uscire doveva destreggiarsi sui corpi pi o meno distesi, fra le imprecazioni di quelli che involontariamente venivano pestati. La prima notte fu tremenda, nel sonno chi sognava, chi imprecava, chi invocava. Eravamo alla fine di settembre , eravamo abbastanza a nord e la notte, nonostante fossimo cos stretti faceva gi abbastanza freddo. Io fui uno di quelli che non chiuse occhio, dalle finestre cominci a penetrare un p di luce, mi tolsi gli scarponi che mi ero legato con i laccetti intorno al collo per evitare che me li rubassero e cominciai a calzarli: a quegli scarponi dovevo farci la sentinella. Avevo sentito il rumore caratteristico di una fontana quindi, passando fra quel groviglio di uomini che ancora dormivano, cercando di non calpestarli, guadagnai la porta per uscire, mi diressi da dove veniva il rumore, ma ahim cera gi uno che era arrivato prima di me. Mi misi in fila, avevo lasciugamano ed il sapone. La pompa purtroppo era mezzo rovinata, venne il mio turno e feci come gli altri, niente sapone, una lavata al viso e via. Venne il momento della prima adunata per la distribuzione del caff, cos veniva chiamato, ma purtroppo di caff neppure lombra, aveva lodore del t, ne aveva solo il colore, poteva essere un infuso di tiglio. A fianco della nostra baracca cera la cucina che era guardata dai nostri carabinieri, nonostante fosse ben recintata da una rete e filo spinato. Verso mezzogiorno suonarono nuovamente ladunata, era lora di mangiare. Quando eravamo tutti in attesa della distribuzione, venne un sottufficiale tedesco e tramite linterprete ci disse che dovevamo stare sempre inquadrati ed in silenzio, pena la sospensione della distribuzione del rancio. Fummo divisi poi in gruppetti di 10, si passava davanti alla marmitta per la razione della brodaglia; un filone di pane e della margarina, naturalmente la suddivisione del pane e della margarina disgraziatamente capit di farla proprio a me. Era una cosa da non credere per far la suddivisione di ci che spettava a ciascuno, perch ad un certo punto tutti eravamo diventati peggio dei bambini, lui ne aveva avuto di pi, io di meno! Alla sera solo brodaglia e questa, durante la notte, fece i suoi effetti, tutti a correre per cercare di andare al gabinetto e per fare presto, si era sempre al buio, chi pestava uno o laltro, improperi a non finire e poi arrivava anche qualcosa di solido nella schiena. Il primo di ottobre del 1943, era il mio compleanno, decisi di far festa con ci che mi era rimasto nella valigetta, ma prima decisi di farmi la barba. Mi avvicinai ai reticolati, di l cera una pompa dellacqua, l vicino cera un carabiniere senza fregi e stellette che faceva la sentinella andando su e gi lungo la baracca che fungeva da cucina dove dentro cerano
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dei prigionieri italiani addetti alle pulizie, i pi fortunati, li avevano scelti fra i primi arrivati. Ad un certo momento mentre il carabiniere mi pass poco lontano, gli chiesi se mi dava un gavettino dacqua per farmi la barba. Mi rispose di no, insistetti, ma lui mi rispose che non voleva perdere il posto per me. Purtroppo dovetti andare allaltra fontana, fra laltro sempre mezza rotta, e fare la fila. Era una bella giornata, era freddo, mi accinsi a fare linsaponata ma dovetti desistere, il freddo faceva insecchire linsaponata. Venne lora del rancio, lasciai ad un altro fare le ripartizioni, quel giorno volevo starmene in pace da solo, misi in bocca due cucchiaiate di quella sbroda che non voleva andare gi, presi una galletta che avevo ancora, la penultima scatoletta di carne e cos feci festa per il mio compleanno. In verit ero partito con il pensiero di mangiarne la met, ma lavidit era pi forte, cos la finii. Alla sera mi accontentai di quello che mi davano. Durante la notte si sentivano passare continuamente formazioni di apparecchi, si seppe poi che andavano a bombardare grosse citt e zone industriali; radio scarpa sapeva tutto. Durante il giorno si sentivano colpi di fucile e mitragliatrici ma non si pot mai sapere la verit, esercitazioni o nello stesso tempo facevano fuori qualcuno? Da qualche giorno avevo lasciato lincarico ad altro per andare a ritirare il rancio, ma purtroppo, come negli altri gruppi, le cose non andavano bene, succedeva perfino qualche zuffa, tanto che attraverso linterprete i tedeschi dissero che per primo avrebbero fatto saltare il rancio, per secondo avrebbero fatto come con i russi che buttavano il tutto attraverso i reticolati cosicch per accaparrarsi il mangiare era una continua zuffa con lotte a non finire, perfino esseri che gettandosi nella mischia, cadendo, venivano calpestati, e sul terreno rimanevano feriti, contusi e magari ci scappava anche qualche morto. Si dice che prima che arrivassimo noi, nel campo ci fossero settantamila Russi, certo che il trattamento riservato a loro era stato oltremodo cattivo. Un giorno mi trovai per caso mentre distribuivano il rancio ad un gruppo di giovanissimi alpini, erano arrivati al campo qualche giorno prima, erano in fila con le loro grandi gavette e quel p di roba che gli davano si perdeva nel fondo. Venivano da noi questi ultimi arrivati chiedendoci qualcosa da mangiare, purtroppo non ne avevamo neanche noi. Ragazzi robusti, nella loro divisa ormai potevano starci due persone, dal viso ormai scarno e dagli occhi infossati, loro grandi mangiatori e che rispetto a noi avevano razioni doppie prima che cadessero prigionieri, ora si trovarono in maggior difficolt. Fino a che il tempo era bello ma rigido, la cosa poteva andare, ma quando cominciava la pioggia era un disastro fuori, tutto un acquitrino e quando si doveva uscire o per i bisogni o per ritirare il rancio, si ritornava tutti bagnati e infangati e il tutto si asciugava addosso. Ogni giorno cerano nuovi arrivi di prigionieri, andavamo a cercar notizie, ma purtroppo erano sempre pi allarmanti. Nella prima decade di ottobre 1943 ci ammassarono tutti in un grande campo, ci informarono che sarebbe venuto a parlarci nientepopodimeno che MUSSOLINI. Aspettammo una buona oretta quando arrivarono alcune macchine con tedeschi ed un gerarca vestito da fascista, tutti salirono su un palco improvvisato e subito il gerarca venne al nocciolo della questione chiedendoci di accettare linquadramento con le truppe tedesche ed avremmo ottenuto immediatamente lo stesso trattamento, in caso contrario la nostra situazione si sarebbe ulteriormente aggravata: ci dettero mezzora per decidere, purtroppo il tempo pass e la nostra risposta fu quella che sul palco, come era stato detto, fosse venuto Mussolini a parlarci ed allora avremmo trattato, ma Mussolini ovviamente era ben lontano. Ritornammo allaccampamento. I prigionieri arrivavano ogni giorno e da loro sapevamo ci che stava succedendo in Italia ed in Russia, ci lo dimostrava la cattiveria dei guardiani che aumentava di giorno in giorno. Nella seconda decade di ottobre al mattino ci radunarono fra le baracche, era una bella giornata limpida, soleggiata, ma comunque abbastanza fredda. Assieme allinterprete, un tedesco corpulento, ben pasciuto, elegante con stivaloni ben lucidi, il grado non seppi definirlo, poteva essere uno dei comandanti del campo, naturalmente cerano numerosi soldati tedeschi che ci facevano la guardia. Tutti quelli in tuta li misero in disparte e fra quelli cero anchio, cercavano conduttori di autocarri e meccanici. In linea di massima sapevano gi che tutti quelli in tuta avevano fatto parte di corpi automobilistici, attraverso linterprete chiedevano cosa avessimo fatto da civili. Come mi avevano riferito, cercavano anche chi fosse capace di condurre mezzi per la campagna ed io cercavo naturalmente questo lavoro perch era pi facile procurarsi
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da mangiare. Purtroppo scelsero subito quelli che potevano far comodo a lavorare nelle fabbriche, fra quelli ci fui anchio. Purtroppo io non ero dello stesso parere e alla chetichella cercavo di allontanarmi dal gruppo, feci un grave errore perch ad un certo punto per allontanarmi dal gruppo mi misi a correre, questo diede nellocchio, mi inseguirono purtroppo non cera via di scampo, filo spinato da una parte e baracche dallaltra, il cerchio si strinse, mi presero, furono botte e calci. Poi arriv il comandante e con i suoi stivaloni belli lucidi furono altre botte e calci, cos sfiancato comero dal correre e tutto il resto, mi trovai malconcio in ginocchio. Feci una vera pazzia, ma la mia mente in quel momento ragionava cos, evitare di andare a lavorare dentro una fabbrica. Alla fine, tramite linterprete, mi si chiese cosa facessi da civile e da militare, infine mi misero insieme al gruppo di quelli che dovevano andare a lavorare in fabbrica e mentre mi comunicava questo aggiunse se volevo proprio finire male tanto qui non avevo altra soluzione, ma io mi ero messo in testa che non volevo n lavorare n collaborare. Tenendomi in piedi a mala pena, mi accompagnarono a prendere la mia roba nella baracca e mi fecero raggiungere un grande tendone dove avevano preso posto tutti gli altri. Rimasi l lungo e disteso un paio di giorni, ero tutto acciaccato e fortuna volle che un prigioniero che mi era vicino mi prendesse la mia razione da mangiare, me la portava lui, lacqua era imbevibile e poi quella pompa a forza di lavorare dal mattino alla sera era quasi sempre rotta, lavarsi era un problema e i pidocchi aumentavano sempre di pi. Pass ancora qualche giorno, poi un mattino ci svegliarono prima del solito, bevemmo un p di quellacqua sporca, attraversammo il campo e mentre passavamo lungo la rete di divisione con un altro campo mi sentii chiamare: mi girai da quella parte e riconobbi VALDAMERI abitava in via dei Mille a Rimini- in quel momento era in testa alla colonna, cercai di andare piano e ci scambiammo qualche parola dicendoci che chi tornava doveva informare la famiglia di dove ci eravamo visti e mi chiese che cosa avessi fatto quel giorno che presi tutte quelle botte: gli dissi che non volevo andare a lavorare. Ci salutammo velocemente, uscimmo dal campo e ci portarono vicini a delle corriere, erano quattro, salimmo con le nostre poche cose con una piccola razione di pane se ben ricordo, un pezzetto di formaggio che facemmo fuori subito tanta era la fame. Seduto vicino a me un soldato tedesco, fra laltro zoppo, era armato di un fucile talmente lungo, forse era dellimpero austro-ungarico, a parole e gesti faceva capire che era stufo, poi indicando la gamba, fece capire che era stato ferito in Russia nellinverno 1942/1943. Dopo parecchi chilometri fermarono le corriere in mezzo alla campagna per chi volesse fare i suoi bisogni. Non lo avessero mai fatto, tutti scendemmo saltando un piccolo fossato e ci trovammo vicini ad alberi carichi di mele. Penso che fossimo in duecento, facemmo come le cavallette, spogliammo gli alberi in un baleno, ogni tasca era piena di mele. Purtroppo di corsa venne il contadino brandendo una falce e urlando: dovemmo fare in fretta e furia a salire sulle corriere perch le guardie che avevano chiuso un occhio in quel frangente, dovettero intervenire per forza maggiore. Prima di ripartire fra gli improperi del contadino ci contarono per vedere se ceravamo tutti. Si part, la strada che percorrevamo si snodava in mezzo alla campagna, passammo un ponte di un piccolo paese ed infine prendemmo una strada di grande comunicazione, larghissima. Ad un certo punto passammo a fianco di una citt dove si elevavano alti camini, era una zona industriale, in quel punto le corriere procedevano piano e a zig zag, la strada aveva profonde buche e tutta la pavimentazione in cemento era molto spessa, circa 30 centimetri, ed anche la crosta di catrame, poteva avere 10 centimetri di spessore, era divelta. Qua e l si vedevano colonne di fumo, ai lati buche profonde, tutto faceva presupporre che ci doveva essere stato un grosso bombardamento. Sullasfalto si notavano i segni dei cingoli dei carri armati. Lasciammo la strada asfaltata e riprendemmo una strada secondaria, infine arrivammo a destinazione. Scendemmo dalle corriere, oltrepassammo lentrata, anche qui era tutto recintato da reticolati, ci contarono, fummo perquisiti e quello che faceva comodo loro ce lo prendevano oppure toglievano cose che secondo loro non dovevamo tenere. Ci avviarono nelle baracche, unentrata, quattro piccole finestre sbarrate dal di fuori con inferriata, cera la luce, niente acqua, per i bisogni un paio di bidoni di benzina che venivano vuotati di mattina da uomini di corv, per dormire cerano i castelli di legno a due piani, in tutto 24 posti.
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Avevamo migliorato, invece di dormire per terra tutti ammucchiati come nel campo di concentramento, qui ognuno aveva il suo posto, duro lo stesso perch sulle tavole cera la fodera del materasso, ma dentro di paglia non ce nera per niente e quel poco era tutta tritata; nel centro una stufa che andava a carbone ed una piccola tavola con qualche sgabello, insomma per il momento avevamo fatto un bel passo avanti. I gabinetti erano fuori, consistevano di orinatoi, poi i water closed il tutto in maiolica bianca, guai a chi si accingeva a fare i suoi bisogni montandoci sopra; il posto era pulitissimo ed era al coperto con nessuna parete ai fianchi, cera acqua corrente. Le baracche da noi occupate, lo venimmo a sapere pi tardi, erano state utilizzate dagli operai italiani ed al posto dei castelli cerano solo otto lettini in ferro con materassi, lenzuola e coperte, inoltre allinterno cerano dei lavandini in ferro e delle brocche per lavarsi. Quindi al posto di otto operai si pass a 24 prigionieri per, chiamiamola, camerata; ogni baracca, a cui si accedeva da quattro scalini, era formata da quattro camerate ed ognuno di queste aveva unentrata.

Il paese dove eravamo si chiamava WOLSBURG.

La prima sera ci diedero una sbroda di verdura e rape, la fame cominciava a bussare e a stento riuscimmo a mandarne gi un p, perch era troppo dolce. La cucina era poco distante, come al solito chi preparava il rancio erano i primi italiani arrivati. Alle venti dovevamo essere tutti dentro la baracca, passava un soldato tedesco a contarci accompagnato sempre da un cane lupo, richiudeva la porta con catenaccio e lucchetto dal di fuori. Alle nove spegnevano la luce. La sveglia veniva data alle quattro e mezza del mattino, da notare che agli effetti del sole cerano due ore di differenza. Dentro le baracche doveva rimanere tutto in ordine, la corv a turno doveva fare le pulizie, vuotare i bidoni, dopo di che si andava in fila alla cucina a prendere un mezzo gavettino di quellinfuso che di buono aveva solo il caldo ed una razione di pane di 200 grammi scarsi che veniva immediatamente fatta fuori, erano filoni di una farina scura ed anche mal cotti. Suon ladunata, ci portammo davanti al cancello duscita, ci incolonnarono per cinque e dalla testa un soldato da una parte ed uno dallaltra cominciarono la conta, cos fecero di ritorno dalla coda. Attraversammo il paesino, salimmo le scale di un lungo ponte di legno. Sotto passava un largo canale dove passavano grandi chiatte da trasporto, le cui rive erano ricoperte di grossi lastroni di laterizi, forse anche tutto il fondo, poi la ferrovia a otto binari parallela al canale; scendemmo le scale e notammo un lungo e massiccio fabbricato, poteva essere un trecento metri e largo un cento metri, nella testata un altro grosso fabbricato con un enorme fumaiolo: era la centrale che andava a carbone, per lelettricit e allo stesso tempo per riscaldare la fabbrica dinverno. Cose che si vennero a sapere dopo, il canale era stato fatto dai prigionieri della guerra 1915/1918, la ferrovia collegava BERLINO-HANNOVER. Alla centrale lavoravano per punizione tutti coloro che commettevano marachelle, scaricando i vagoni di carbone per alimentare la centrale. I turni di lavoro erano due: dalle 6,30 alle 18,30 e dalle 18,30 alle 6,30.
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In ufficio dentro la fabbrica, dopo essere stati rapati a zero, ci chiesero le generalit, ci fecero tre foto, una di fronte e due una per lato, come i delinquenti, ci diedero un quadratino di legno attaccato ad una fettuccia con il numero: 168998 Stalag XI B FALLINGBOSTEL.

Finita questa operazione ritornammo al campo. Oltre al nostro, sempre diviso da reticolati, ce nera un altro, inoltre vi era anche qualche baracca che era occupata da sottufficiali italiani.
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Mezzogiorno e sera sempre la solita broda. Al mattino solita abbeverata ed il pane, poi ci chiamarono in duecento, ci fecero prendere le nostre poche cose, ci incolonnarono e ci fecero di nuovo salire sulle corriere e partimmo ancora per ignota destinazione. Questa volta il viaggio fu pi lungo, arrivammo che ancora era giorno. Eravamo in mezzo alla campagna, scendemmo ed in colonna ci portarono in una grande baracca. Entrammo ed ognuno di noi prese posto nel castello, in compenso questa volta cera un discreto giaciglio, vi erano ampie finestre e nella testata della baracca, divisa dalla camerata una paratia in legno; cera un locale abbastanza grande dove era sistemato un lungo lavandino ricavato da bidoni cilindrici tagliati a met, sopra correva il tubo dellacqua con rubinetto da una parte e uno dallaltra, diviso da una parete i gabinetti, a met della baracca una grossa stufa in ghisa. Poco lontano cera la palazzina del comando tedesco con i soldati, questi erano tutti reduci dal fronte e non erano pi idonei per ritornarci. Verso sera ci fu ladunata, ci consegnarono un recipiente poi arrivarono con delle marmitte e ci diedero una porzione abbondante di patate, rape, carote ed altre verdure, poteva esser grosso modo un chilo, erano discretamente condite, pi la solita razione di pane. Quindi ognuno di noi sal sul proprio castello a mangiare. A dir la verit rimanemmo un p perplessi riguardo al nuovo trattamento e dicemmo che se continuava cos era una pacchia. Molti di noi si misero in fila nuovamente fino a che le marmitte furono vuote. Siccome era ancora giorno uscimmo allaperto, naturalmente dopo aver lavato il recipiente; era un p freschino, si era alla fine di ottobre, cos, chiacchierando del pi e del meno, passeggiando entro i reticolati si fece sera. Verso le 21 una guardia tedesca venne a fare un giro dispezione, ma la maggior parte gi si erano allungati sui giacigli. Alle finestre non vi erano inferriate, ma dal di fuori venivano chiuse le persiane di legno, allinterno rimaneva accesa qualche lampadina di basso voltaggio, quel p di illuminazione serviva per chi aveva necessit impellenti. Al mattino dopo la sveglia venne data alle sei, era un soldato tedesco che zoppicava vistosamente, dalle notizie radio scarpa era stato ferito in Russia; mentre camminava ad alta voce gridava fra i castelli: alzarsi, auf stehen, presto, schnell, los. Quando fummo tutti pronti ci incolonnarono e attraverso una strada di campagna ci incamminammo. Dopo quasi un chilometro arrivammo a destinazione: vi erano due grandi case, poi una baracca con sala dove erano allineati dei tavoli e la cucina. Pi avanti altri due caseggiati: dopo poco arriv un carretto con sopra una marmitta e ad ognuno venne distribuita la solita disgustosa acqua calda che dopo due sorsi veniva buttata via e la solita razione di pane; poi arriv un borghese italiano, forse del mantovano, ma alle domande che gli si faceva rispondeva evasivamente; di l ci portarono in uno di quei palazzi attraversando un capannone che fungeva anche da officina, vi erano Russi e Francesi: i Russi appena ci videro cominciarono ad urlare BADOGLIO, loro erano tutti contenti perch in effetti avevamo tradito i tedeschi, ci allungarono perfino patate e qualche pezzo di pane. La baldoria e le urla finirono subito perch accorsero guardie e agenti in borghese, vol anche qualche pugno e anche qualche legnata. I Francesi ci guardarono molto male, il loro ricordo era che li avevamo pugnalati alla schiena quando lItalia entr in guerra contro di loro. La nuova residenza si chiamava ADELAIDE a dieci chilometri da BREMA, era un piccolo campo di aviazione tutto ricoperto derba, un vastissimo prato dove vi erano una decina di Hangar, tutto intorno circondato da bellissimi pini e abeti, un paradiso di silenzio. Tutti i prigionieri affiancarono un operaio tedesco, il lavoro non era pesante, si incominciava a lavorare alle 7,30 del mattino fino alle 11,30 e dalle 12.30 alle 16,30: pi faticoso e difficile era intendersi per la lingua. Alle 11,30 ci si riuniva vicino alla cucina per darci la solita razione, alla sera invece si rientrava alla baracca e l venivamo raggiunti da un carretto con il mangiare. Ad un certo momento ci era sembrato di capire che ci avrebbero passati come lavoratori internati civili, ma purtroppo non fu cos: un pomeriggio di sabato che non si lavorava, ci portarono nei pressi della fabbrica e ad ognuno di noi, sia sulla tuta che sulla giacca ci stamparono tre lettere KGF (Kriegsgefangen), cio prigioniero di guerra per loro eravamo traditori- fino a quel momento la nostra situazione era buia, ora era notte fonda. Cominciava a fare freddo, la brina della notte imbiancava tutta la campagna, la fame aumentava, le forze diminuivano
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e al mattino si faceva sempre pi fatica ad alzarsi. Non si vedeva lora di arrivare per bere quel solito infuso per scaldarsi un p lo stomaco, bisognava berne poco perch faceva leffetto di una purga. Al mattino con un trenino arrivavano gli operai da Brema, al mezzogiorno si portavano dietro il mangiare oppure andavano dove cera la mensa e ritornavano a casa alla sera. Tutte le mattine ci precedevano al lavoro i Russi dellUcraina ai quali il gran capo HITLER aveva promesso molte cose quando li aveva portati in Germania, fra laltro lindipendenza dellUcraina a guerra finita, sarebbero tornati in Ucraina a lavorare la loro terra per mandare poi il grano in Germania. Erano uomini, donne, bambini ed anche famiglie complete. Lungo tutto il tragitto dalla baracca al posto di lavoro cantavano sempre, noi zitti zitti sembravamo una colonna di fantasmi, era freddo e ci tiravamo su il bavero del cappotto, ma le guardie tedesche non volevano ed allora dovevamo tirarlo gi ed alle volte se ci ripescavano volava qualche briscola. Un mattino arrivammo prima a ridosso dei fabbricati, era ancora semibuio, e vedevamo che i Russi si davano un gran da fare vicino ai fabbricati, cos potemmo constatare che raccoglievano per terra delle patate e da ci si cap perch al mattino avessero tanta fretta. Difatti in quel periodo i contadini raccoglievano dai campi le patate e le portavano con i carretti davanti allimboccatura delle cantine e poi le gettavano dentro. Naturalmente diverse patate, durante lo scarico, rimanevano per terra ed ecco il motivo perch al mattino camminavano in fretta, poi in una maniera o in unaltra le cuocevano, anche loro di mangiare non ne avevano a sufficienza nonostante avessero uno spaccio in cui potevano acquistare in misura limitata qualcosa. Cosa successe? La fame era sempre pi grande e bisognava cercare di arrangiarsi e al mattino alla sveglia diventammo pi veloci cercando di partire prima di loro e arrivare sul posto per raccogliere le patate. Linverno ormai era alle porte, cominciava a fare freddo e dentro al capannone alla sera quando rientravamo cera la stufa, veramente erano due, al centro della baracca, accesa dagli uomini di corv. Alla sera altra veloce camminata per rientrare, bisognava prendere il posto per primi per cuocere le patate sulla stufa. Anche qui discussioni perch ognuno di noi voleva essere fra i primi. Prendevamo la gavetta, ci si metteva un p dacqua e mentre si scaldava si pelavano le patate e per far pi presto a cuocerle le tagliavamo a pezzetti, un p di sale rubato sopra i tavoli della mensa refettorio dei civili tedeschi, ne usciva un discreto purea che lasciavamo raffreddare poi ci facevamo un piccolo pasto extra. La raccolta non dur molto, i tedeschi dopo aver scaricato i carri con le scope radunavano tutte le patate rimaste a terra e le buttavano dentro la cantina chiudendo la grata di ferro con un lucchetto. Per recuperare ancora qualche patata allungavamo il braccio attraverso la grata di ferro e riuscimmo ancora per qualche giorno a racimolare qualcosa. I tedeschi si accorsero anche di questa manovra e quando le scaricavano cercavano di allontanarle dallimboccatura. Bisogn escogitare un nuovo sistema per racimolare ancora qualche patata. Alle 11,30, appena finito di mangiare la brodaglia, mi recai dentro lofficina, mi fabbricai un ferro a tre punte, come una fiocina, cercai un robusto bastone lungo circa un metro al quale legai con del filo di ferro larnese. Alla sera, faceva scuro presto, finito di lavorare prendevo il nuovo arnese e lo nascondevo vicino ad un albero, al mattino lo andavo a prendere, mi recavo al solito posto, infilavo attraverso la grata il bastone spingendolo verso le patate, tiravo indietro e se il colpo andava bene rimanevano infilzate anche tre o quattro patate. Qualche mattina la pesca andava bene, qualche altra no, comunque ad un certo momento avevo una piccola provvista. Ma anche queste manovre ebbero termine, i tedeschi fecero i loro bravi conti, le patate raccolte dovevano bastare per un certo periodo, anche loro per sfamarsi si attaccavano a quelle, sicch dato i precedenti, al mattino, a distanza, seguivano tutte le mosse degli italiani e dei Russi e non appena tutti eravamo intenti a fare incetta di patate, si avventarono su tutti urlando a destra e sinistra con i bastoni; ci fu un fuggi fuggi cercando di non farsi prendere perch erano un p salate, una settimana senza razione di pane e della brodaglia. E cos quella sera stessa cucinai per lultima volta tutte le patate che mi erano rimaste, ne feci una bella gavetta piena, le lasciai intiepidire, ne mangiai una met e salii sul castello per dormire. Mi ero messo la gavetta vicino alla testa perch avevo paura che me la portassero via e con quel pensiero non riuscivo a prendere sonno, cosicch mi misi a sedere e feci fuori laltra met che volevo tenere per il mattino.
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Finite le patate scovammo un magazzino di rape, ma anche queste durarono poco perch un mattino, mentre stavamo rubandole, vennero i guardiani e anche questa volta ci fecero scappare a suon di legnate, io riuscii a portarne via lo stesso due o tre belle grosse, ma nella foga di scappare ne persi una. Oltre ai guardiani erano arrivate le guardie con i cani, io ero gi abbastanza lontano, andai in officina e le nascosi, rimasi qualche minuto poi ritornai sul posto e rintracciai anche la rapa che avevo perso. Erano belle grosse e quando la fame si faceva sentire con un coltello che mi ero fabbricato con un pezzo di ferro, ne tagliavo qualche fetta. Non che facesse molto, ma siccome la fame era sempre molta in una maniera o in unaltra si cercava di smorzarla. Intanto sia di giorno che di notte grandi formazioni di apparecchi anglo americani da bombardamento sorvolavano la zona. Eravamo gi alla met di dicembre, il freddo era sempre pi intenso ed al mattino, quando ci recavamo al lavoro, appena usciti dalla baracca, il fiato che usciva dal naso, mi ero fatto crescere i baffi, si fermava sui peli e si ghiacciava. Eravamo vestiti con quanto avevamo indosso quando ci avevano presi a Pola, di buono avevo solo gli scarponi. In questo periodo cominci a fare anche la neve e neanche a farlo apposta, dovevo andare a prendere del materiale in un altro hangar distante circa un centinaio di metri. Ad aiutarmi mi diedero un ragazzetto russo dellUcraina che si e no aveva 15 anni, io sempre con la mia divisa grigio verde e il mio cappotto e bustina in testa, lui con il copricapo foderato con pelo con abbassato il copri orecchie, giaccone imbottito, calzoni alla zuava e stivaletti: lui il freddo non lo sentiva! Dove dovevamo andare il terreno era tutto ghiacciato e lui si divertiva un mondo a correre e poi a scivolare. Siccome il tragitto lo dovevamo fare diverse volte, quando eravamo vuoti, sul carretto dovevamo stare una volta per uno, io naturalmente non avevo una gran voglia di giocare e correre e cos mi fu giocoforza accontentarlo. La sua citt era MINSH. Un giorno mi fece capire che la mia tuta era sporca, daltronde a noi i tedeschi il sapone od altro per lavare non ce lo passavano, ed il giorno dopo, nascosto sotto il giaccone, cercando di non farsi vedere da nessuno, lev una scatola con dentro della soda e tutto contento and al suo posto di lavoro. Il giorno dopo presi un bidone, con acqua e soda misi a bagno la tuta, poi la sciacquai e la misi ad asciugare sui tubi riscaldati. Eravamo arrivati alla vigilia del Natale 1943 e dentro lhangar allestito ad officina verso sera si incominci a sentire un bel odorino di arrosto: faceva venire lacquolina in bocca e siccome ad angolo dellofficina vi era un forno, pensavamo che arrostissero unoca, un maialino o chiss cosa. Si stava per uscire, andammo a curiosare vicino al forno e facendo dei segni ad un operaio tedesco cercavamo di capire cosa fosse; lui allora si mise con le ginocchia per terra ed anche le mani e poi si mise ad abbaiare, sempre a gesti ci fece capire che era piccolo e a mezzanotte, con patate arrosto, avrebbero fatto festa. Si venne a sapere che di cani ne sparivano molti, erano forse dei foxterrier piccoli. Al mattino del giorno di Natale ci fecero sapere che per il mezzogiorno ci avrebbero dato da mangiare meglio e qualche cosa di pi del solito. Quando fu mezzogiorno ci incolonnarono e ci portammo a fianco delle cucine dove mangiavano i civili. Ad un certo momento portarono fuori due grosse marmitte, ad ognuno ci dettero un mestolo di brodaglia, ma purtroppo lodore ed il gusto erano tanto sgradevoli che allinfuori di aver pescato qualche pezzo di patata e carota, dovemmo buttar via tutto. Quella brodaglia era si e no buona per i maiali. Si pens ad una vigliaccata e ad una presa in giro. I Russi che lavoravano con noi si ingegnavano a qualcosa di artigianale, soprattutto a fare degli anelli che poi cambiavano con il pane, patate o qualche cosa di commestibile con gli stessi tedeschi. Il metallo che adoperavano lo lavoravano con lima ma il pi delle volte si valevano della mola a smeriglio, se non che alla mola, essendo quel metallo piuttosto duro, rimaneva un incavo. Gli operai tedeschi, quando andavano per affilare scalpelli o altri arnesi, trovavano le mole tutte rovinate e facevano reclami ai capi reparto. Questi lavori cercavano di farli nel momento in cui gli altri andavano a mangiare o anche quando tutti lavoravano cercando di avere sempre a portata di mano qualche ferro che doveva essere lavorato alla mola, naturalmente stavano molto attenti allavvicinarsi di qualcuno e velocemente si mettevano a lavorare regolarmente. Per chi veniva scoperto erano botte, prigione e riduzione della razione da mangiare. Uno di questi russi non voleva darsi per vinto e nella fretta di portare a termine la lavorazione di un anello gli scivol la
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mano contro la mola e si fece male seriamente, sangue a non finire, ma ebbe tanta padronanza e tanto spirito, un altro sarebbe svenuto, e tanto furbo da prendere i ferri che aveva a portata di mano e che dovevano essere lavorati in modo che quando i tedeschi arrivarono vicino a lui constatarono che si era infortunato lavorando. Intanto laviazione nemica continuava notte e giorno a passare su di noi andando a bombardare citt e centri industriali, si sentiva in lontananza lo scoppio delle bombe lanciate dagli apparecchi ed il crepitio dei cannoni della contraerea, cera da aspettarsi prima o poi che facessero una visitina anche a noi. Purtroppo dal momento che ci passarono prigionieri di guerra la fame diventava sempre pi forte, patate e rape non si potevano pi rubare. Poco distante da me lavorava un vecchietto, tutta la gente abile al lavoro era stata precettata dai tedeschi, gli altri tutti al fronte, e mi fece prendere un pacchetto che aveva messo vicino alla morsa, velocemente mi disse che era stato in Italia, non ricordo bene, al sud, faceva molto caldo, ed era stato bene e non riusciva a capire come eravamo caduti prigionieri; difficile da spiegarsi, allargai le braccia e con il pacchetto sotto braccio mi diressi verso il gabinetto. Aprii il pacchetto e dentro vi era un pezzo di pane di segale con la marmellata: non ci misi molto a farlo fuori. Dopo qualche giorno mi regal ancora qualche cosa e mi fece capire che doveva rimanere a casa perch stava poco bene, difatti non lo vidi pi. I Russi avevano un locale a parte quando andavano a mangiare e fra di noi cera una certa comprensione, sapevano del cattivo trattamento che ci facevano i tedeschi, ed allora un giorno, tramite uno di loro fra qualche parola e qualche segno feci loro capire che se rimaneva qualcosa da mangiare me la portassero. Non che a loro avanzasse gran che, inoltre il loro sistema, quando mangiavano, era di attingere uno alla volta nel medesimo recipiente. Il giorno dopo mentre aspettavo che tornassero, mi portarono dentro una gamella una certa brodaglia ed io contento li ringraziai. Andai al banco di lavoro, guardai che non ci fosse nessuno, accesi la fiamma ossidrica e feci bollire, gettai via tutto il liquido e nel fondo mi rimase qualche pezzo di patata, di carota, rapa ed altra verdura, non era molto, ma nello stesso tempo mi scaldavo un p lo stomaco. Si arriv cos ai primi giorni di gennaio del 1944, il freddo si faceva sempre pi intenso, dato che erano calate anche le provviste di carbone, ci diminuirono anche il carbone per riscaldarci. Il sabato pomeriggio e la domenica non si andava a lavorare e alla domenica solo brodaglia a mezzogiorno. Al sabato pomeriggio pulizia generale nella baracca, ci si lavava alla meglio. Alla domenica mattina si dovevano portare i pagliericci allaria aperta, comprese le coperte e ci si cambiava la maglia sporca, la si metteva fuori cos i pidocchi rimanevano stecchiti e quando si portava dentro il tutto si dava una scrollata e i pidocchi cadevano per terra. Per ogni giorno ci passavano tre sigarette, erano grosso modo, dato che i mesi non sono tutti di trenta giorni, 90 sigarette al mese. Dico questo perch un giorno, parlando con un operaio tedesco che conosceva un p ditaliano, mi disse che aveva corso in bicicletta con LEARCO GUERRA, per farla breve, come il mio solito, chiedevo da mangiare, ed avrei barattato le sigarette con del pane, loro le sigarette le cercavano o per fumare o per altri baratti. Il pane lo aveva a disposizione solo al mattino del sabato, per me andava bene perch ne avrei tenuto un p per il sabato e la domenica. Il sabato mattina successivo gli passai vicino, bisognava stare attenti che nessuno vedesse, gli diedi il pacchetto di sigarette e lui mi diede un involto. Il tutto dopo lo infilai nel cassetto del banco ferri, pi tardi andai a curiosare e vi trovai dentro un mezzo filone di pane ed un piccolo barattolo di vetro con dentro un terzo di marmellata: per me fu un vero affarone. In seguito ci riparlammo ed ogni sabato facevamo lo scambio. Un mattino, sempre in gennaio, ci radunarono in una cinquantina per portarci a fare un bagno e per la disinfestazione, la giornata era fredda ma bella, morale della favola il luogo dove erano i bagni distava circa 10 chilometri e altrettanti per ritornare, questo edificio bagno pubblico- era alla periferia di BREMA-BREMEN. Fu una bella passeggiata perch, sebbene incolonnati, il soldato che ci accompagnava non ci infastidiva e noi eravamo corretti. Dopo tanto tempo un bagno cos ci fece rinascere e la disinfestazione degli indumenti almeno per il momento allontan i parassiti. Una domenica mattina ci fu ladunata dentro la baracca, venne il vice comandante del campo con linterprete che era un soldato. Tutti duecento schierati ci disse che nonostante le ruberie, patate, ecc., facevamo un discreto lavoro, non davamo eccessivi grattacapi e ci fece capire che era contento del nostro comportamento. A lui controbattemmo dicendo che potevano migliorare il mangiare.
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Lui disse che tutti i tedeschi facevano uno sforzo per inviare tutto il necessario ai soldati al fronte. Infine, disse, qui figurano sette sottufficiali, mentre dovrebbero essere otto, faccia un passo avanti, in effetti lottavo ero io che ero rimasto sempre in mezzo ai soldati, linterprete sapeva che ero io, e mi era vicino e mi disse che se non volevo trovare guai facessi un passo avanti. Il comandante mi chiese perch non ero assieme agli altri sottufficiali che erano tutti di carriera, io ero richiamato, e gli feci notare che ero solo un prigioniero di guerra con un numero di sei cifre quindi tutti uguali, mentre gli altri facevano bella mostra dei gradi. Il comandante parl con linterprete e nei miei riguardi non ci fu alcun cambiamento. Il passaggio degli apparecchi continuava ininterrottamente e i bombardamenti si avvicinavano sempre di pi a noi. Cominciarono a distribuire moduli di lettera e moduli per pacchi da presentare al comune di residenza della famiglia per il confezionamento di pacchi da inviarci, erano i primi scritti da inviare a casa dopo cinque mesi. Non lho detto prima, la corv per la pulizia della baracca era effettuata da sei soldati, comandati da un sergente, piuttosto robusto, dimodoch se cera qualche punizione da dare lui fungeva da boia. Mi era stato rubato il recipiente per mangiare, mi feci costruire un barattolo che si chiudeva ermeticamente da un prigioniero italiano che si era specializzato in queste ed altre cose, dietro compenso di un pacchetto di sigarette, lui poi faceva altri scambi. Purtroppo venne lordine che quando venivano dati gli allarmi di notte, ci dovevamo alzare, poi ci accompagnavano in mezzo alla campagna, faceva un freddo cane e uscivamo tutti avvolti nelle coperte, ma a volte lallarme durava qualche ora. Il bombardamento veniva effettuato da centinaia di fortezze volanti su BREMA: quando le bombe arrivavano al suolo si sentiva tremare la terra in una maniera, mentre nello stesso tempo si sentiva il sussultare del suolo quando la contraerea entrava in azione. Prima che le formazioni di apparecchi arrivassero sullobiettivo, erano precedute da qualche apparecchio, venivano lanciati dei razzi che si accendevano illuminando il punto in cui dovevano essere sganciate le bombe. Era una illuminazione a giorno, in pi i potenti riflettori da terra sciabolavano fasci di luce alla ricerca di inquadrare i grossi velivoli, mentre da terra si vedevano partire proiettili traccianti che ad una certa altezza scoppiavano lasciando una nuvola di fumo bianco. Ad un certo momento la contraerea taceva, si alzavano gli apparecchi da caccia e nella notte si vedevano partire dai caccia i colpi delle mitragliere con proiettili traccianti, cos pure gli innumerevoli colpi che partivano dalle fortezze volanti delle molte mitragliatrici che erano installate a bordo. Poi ad un tratto subentrava il silenzio, in lontananza si vedeva il chiarore dei numerosi incendi ed il fumo che saliva verso il cielo. Giorno e notte tutte le grandi citt tedesche e le zone industriali erano visitate da centinaia di apparecchi che si presume partissero dallInghilterra in un numero di qualche migliaia, scortati anche da apparecchi da caccia che poi si dirigevano dividendosi, a centinaia verso le citt da colpire. Specialmente quando andavano a bombardare Brema, lallarme era suonato gi da unora, passavano sopra di noi, facevano una larga traiettoria e si dirigevano sullobiettivo, quindi il bombardamento non era per noi prigionieri di guerra e operai tedeschi che invece di andare nei rifugi, che poi erano delle cantine, si stava affacciati alle finestre e contammo la bellezza di 800 fortezze volanti, pi gli apparecchi da caccia che li proteggevano. Ad un certo momento la terra incominci a tremare, era cominciato il bombardamento su Brema, immediatamente la contraerea di cui ogni gruppo aveva quattro cannoni comandati da una centrale; se dallalto si vedevano cadere le bombe a grappoli, era giorno, dallaltro si vedevano i proiettili della contraerea, un finimondo e tutto ci si vedeva ad occhio nudo, tranne qualche tedesco che seguiva il tutto con un cannocchiale, ma nello stesso tempo si parlavano fra di loro facendo capire che probabilmente, quando tornavano, avrebbero trovato distruzione e morte. Il termometro di ci che era successo il giorno precedente lo si poteva constatare dalla mancanza di molti operai, quelli che rientravano per lavorare erano uomini disfatti perch durante la notte avevano dovuto dar man forte nei settori pi colpiti. I bombardamenti venivano giorno dopo giorno su tutto il territorio e le notizie trapelavano da quelli che ritornavano dal fronte menomati, che venivano in fabbrica a sostituire quelli ancora abili di qualunque et, che venivano fatti ripartire frettolosamente per il fronte. Nella fabbrica cerano anche i prigionieri Francesi i quali sapevano tutto ci che accadeva sui fronti in quanto in possesso di una radio che tenevano ben occultata.
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I francesi che lavoravano nel mio stesso reparto non avevano alcuna difficolt, ricevevano un pacco dalla croce rossa francese, uno internazionale ed uno da casa, avevano ogni ben di Dio, sigarette, cacao, cioccolata, the e indumenti. Tutto ci serviva loro come scambio con i tedeschi, mentre la nostra situazione diventava sempre pi precaria per il mangiare, in giro non cera niente da rubare. Per un periodo gli allarmi venivano dati sul mezzogiorno e quando gli apparecchi si avvicinavano veniva dato il secondo allarme ed allora si doveva correre nei rifugi perch il bombardamento avremmo potuto subirlo noi: tutti i tedeschi che stavano mangiando scappavano per andare nei rifugi e di questo fuggi fuggi io me ne ero accorto da tempo, vedendo che rimaneva molta roba da mangiare sui tavoli. Guardavo da un finestrone che non ci fosse nessuno, poi saltavo dentro e velocemente riempivo il mio recipiente e a volte infilavo i resti nelle tasche della tuta, cerano pezzi di pane, patate tirate al burro, qualche pezzetto di carne, perfino qualche uovo, poi uscivo e mi andavo a nascondere in un bassofondo che era pieno di reti metalliche; prima cosa toglievo dalle tasche quello che avevo nascosto e cominciavo a mangiare, poi quello che era dentro il recipiente, il resto lo tenevo per la sera, quando suonava il cessato allarme e me ne tornavo al posto di lavoro. Questo non avveniva tutti i giorni. Un giorno, come al solito lallarme, solita entrata nella mensa ma avevo appena incominciato a raccogliere che dalla cucina arriva una signora di corsa verso di me tutta infuriata con un bastone: feci appena in tempo a saltare al di l del finestrone per non essere colpito, urlava come una dannata. In seguito ritentai ancora, ma quella tedesca ormai mi teneva docchio, non facevo in tempo a raccogliere niente perch quando mi pescava l dentro oltre a lei andava a slegare il cane lupo ed allora dovevo raccogliere le mie forze. Correre e andare a raggiungere un rifugio poco lontano. Loccasione pi bella e redditizia ancora era sfumata. Nella mia valigetta tenevo custodite quattro magliette di lana, indosso avevo quelle pi grosse ancora discrete, qualche paio di mutandine e di calzetti. La fame non faceva che rodere sempre di pi, il vitto che ci passavano era insufficiente, pi cercavi e meno trovavi, eravamo in troppi per trovare qualcosa, eravamo in troppi a chiedere perch anche i civili cercavano di barattare, magari con un orologio, una catenina doro, la verghetta del matrimonio o un anello di fidanzamento, una penna stilografica che ancora qualcuno cercava di tenere stretto. Ma purtroppo cerano certi avvoltoi che al mattino appena arrivavano col treno ti facevano vedere di nascosto un filone di pane ed un piccolo barattolo di marmellata, ed allora venivi preso nel vortice del contratto e quei vigliacchi ti spogliavano di tutto dandoti poco e di quel poco ben presto non rimaneva pi niente. Venne la volta dei Francesi, con i pacchi che ricevevano loro mercanteggiavano come volevano con tutti. Loro lavoravano tutti seduti, adibiti ad un lavoro leggero di saldatura, tutti puliti e rasati. Passando vicino a loro feci vedere che avevo degli indumenti nuovi da fare lo scambio con degli alimentari. Purtroppo per le conseguenze della guerra i rapporti non erano ideali, tentai di farmi capire che se volevano trattare li aspettavo nei gabinetti, posto dove venivano effettuati velocemente i contratti e dove era possibile essere meno controllati. Tirai fuori due magliette mezze maniche, due mutandine e un paio di calzini. In cambio del pane, sigarette, biscotti, marmellata e un p di burro. Ci mettemmo daccordo per lo scambio per il giorno dopo; difatti io portai la mia roba e lui mi port un certo quantitativo di quanto avevamo pattuito, dicendomi che alla settimana prossima riceveva il pacco e mi consegnava il resto. L per l io non fui abbastanza furbo a non consegnargli tutto e saldarci poi vicendevolmente come pattuito. Difatti lui, birichino, aveva fatto i suoi conti, aveva a che fare con uno che aveva ben poco da perdere. Pass la settimana stabilita, niente, pass ancora qualche giorno, niente. Gli dissi che ne avrei parlato ai tedeschi a mezzo dellinterprete per fargli paura, ma era inutile, loro non avrebbero fatto niente. La mia rabbia era arrivata al limite: appena entrato al lavoro andai al mio cassetto dei ferri, presi un martello ed una lima, andando al solito gabinetto passando l vicino mi fermai e senza tanto farla lunga gli feci capire che se domani non portava il resto gli avrei dato una martellata in testa e forato la pancia. Mi guard ben bene in faccia, cap che non ne avevo della buona, feci effetto e mi disse che lindomani mattina avrebbe portato il resto. Difatti non sgarr. Ero venuto a sapere che ero incluso con una ventina di prigionieri e trasferito in un altro hangar per imparare un altro lavoro. Io non ne avevo nessuna voglia di cambiare, stavo bene con loperaio che aiutavo, sebbene non mi allungasse una mollica di pane.
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Mi diedi ammalato e chiesi visita. Mi chiamarono alla visita alle 10 precise, mi dovevo trovare in una villa distaccata, il mio capo mi disse che se qualcuno mi fermava dovevo dire KRANK HAUSE; entrai, attesi ma nessuno si faceva vivo, guardai di qua e di l nel corridoio, nessuno, avr sbagliato e stavo per tornare sui miei passi, quando in perfetto italiano mi sentii chiamare: era un sottufficiale medico, naturalmente sar stato un dottore, mi fece spogliare chiedendomi dove sentivo male. Gli dissi che avevo dei dolori nella parte destra del ventre, che ci fosse qualcosa non ne ero neanche io sicuro, ma il fatto era che non volevo cambiare posto. Mi chiese di dove ero e se avevo un grado, risposi che ero sottufficiale automobilista e abitavo a Rimini: mi disse che non ero obbligato a lavorare e inoltre disse che era passato da Rimini. Mi ordin per 10 giorni consecutivi una cura da farsi in infermeria di applicazioni con una lampada blu. Vista la sua gentilezza nei miei riguardi, tentai lultima carta per evitare il trasferimento nellaltro hangar e chiesi se mi poteva mandare allospedale, intanto sarebbe passato qualche giorno e al mio posto avrebbero mandato un altro. Mi accontent dicendomi che mi mandava a FALLINGBOSTEL, io che mi ero gi informato presso altri prigionieri sul fatto dei ricoveri, mi dissero che se era possibile mi facessi mandare a BASSUM. Lultimo giorno che mi presentai alla fine gli chiesi se mi poteva mandare a Bassum, mi guard un p, ci capimmo e mi accontent. Due giorni dopo, al mattino, mi chiamarono, mi dissero di preparare la mia roba, poca in verit, e accompagnato da un soldato malandato e con fucile di quelli antiquati, ci avviammo alluscita dove dovevamo prendere una corriera per portarci alla stazione, ma lui camminava piano ed io stavo si e no dietro a lui, sicch perdemmo la corriera e dovemmo andare alla stazione di Brema a piedi, che poi non era tanto vicina. Prendemmo il treno e dopo circa unora arrivammo a Bassum, a piedi raggiungemmo lospedale, mi presero in forza, mi assegnarono una branda ma purtroppo tutti i ricoverati erano francesi, mi guardarono molto male. Il giorno dopo mi chiamarono in infermeria, nella mattinata mi visit un dottore, purtroppo francese anche lui. Mi fecero tornare alla camerata. Il mangiare non era male. Il giorno dopo mi avvisarono che il mio ricovero non era necessario e che lindomani mi sarebbero venuti a prendere per rientrare al campo. Difatti al mattino dopo arriv il solito soldato, prendemmo nuovamente il treno e ritornai al campo. Come gi detto in precedenza, come era stato deciso, raggiunsi il nuovo posto di lavoro. Si era in 20 in quellhangar, allaltezza di quattro metri da terra tutto intorno vi era come un terrazzo poi dintorno tutti uffici, per questo era discretamente riscaldato. Il nostro capo operaio, che si era specializzato nel lavoro che dovevamo fare noi dietro suo insegnamento, venimmo a sapere che prima faceva il barbiere. Il nuovo lavoro consisteva nel mettere a punto con delle stanghette snodate ma collegate fra di loro per aprire e chiudere delle alette comandate poi dallinterno della carlinga dal pilota a seconda della necessit di far passare pi o meno aria per il raffreddamento del motore nella stagione calda, oppure chiuso nella stagione fredda. Siccome al capo operaio dicevamo che avevamo una gran fame, un bel giorno ci fece portare un secchio di rape rosse calde, che purtroppo non potemmo mangiare perch troppo dolci. Di quei venti che avevano scelto rimanemmo in dieci, gli altri ritornarono al posto di prima. Nel febbraio del 1944 nel campo atterr un apparecchio militare da caccia, lo portarono dentro lhangar dove un operaio specializzato si mise subito allopera: ad aiutarlo designarono me. Il pilota faceva gran fretta, ma purtroppo il meccanico gli fece capire che bisognava sostituire un pezzo e bisognava farlo venire da unaltra fabbrica. Intanto io lo aiutavo a togliere la testata del motore, ma purtroppo alcuni bulloni non si allentavano anche dopo aver cercato di bagnarli con della nafta, non avendo nemmeno le chiavi adatte. Io che gli ero vicino gli feci capire a mosse, che era necessario un martello e con quello poter dare qualche colpetto, naturalmente cercavamo di capirci a gesti, ma lui in tedesco mi disse che non si poteva lavorare cos perch se lo avessero visto i suoi superiori sarebbe andato incontro a noie. Intanto i bulloni non cedevano, infine scese gi dallapparecchio, and nella cassetta dei ferri poi ritorn su tirando fuori dalla tuta il martello. Prima di mettersi allopera guard tutto intorno se qualcuno potesse vederlo e fece quanto gli avevo detto. Arriv il pezzo e la riparazione ebbe termine, lapparecchio venne trainato fuori, il pilota prese posto nella carlinga, mise in moto, rull un p sul campo per constatare se tutto era a posto, infine prese la rincorsa perdendosi allorizzonte.
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Se nellhangar cera una discreta temperatura, se il lavoro non era pesante, se nella baracca nonostante il razionamento del carbone un p di tiepido per qualche ora cera, il freddo si accumulava al mattino in attesa che la colonna fosse a posto ed alla sera la stessa cosa, bisognava aggiungere la fame e di conseguenza il malessere fisico, inoltre bisognava subire umiliazioni continue. Per giunta ogni tanto al campo veniva un civile che faceva da interprete, dalla parlata sembrava un mantovano, di notizie ne dava poche, per quando si intrufolava fra di noi, con poco o niente cercava di ottenere catenine doro, verghette, orologi che tutti tenevano nascosti ma che purtroppo finivano sempre per essere ceduti in cambio di alimenti, comunque quando ritornava nessuno gli dava pi retta, era considerato un pessimo sciacallo. Le notizie sulla situazione erano pessimistiche su tutti i fronti. In tutti gli hangar erano stati messi dei pannelli con disegnato in nero su fondo chiaro, cos spiccava ancora di pi, un uomo con un cappellaccio e un lungo mantello, come il Passatore Romagnolo, era di monito per coloro che davano notizie o spiate. Aeroplani alleati passavano su di noi, si dirigevano su Berlino, Amburgo, Brema e Hannover e i bombardamenti erano cos pesanti che dai centri non molto lontani si sentiva sussultare la terra come fosse un terremoto. Noi non eravamo stati ancora presi di mira, ma intanto iniziavano preparativi di difesa, torrette con mitragliere pesanti e qualche pezzo antiaereo, ci ai quattro lati del campo dove la vegetazione poteva meglio occultarli. Quando dovevano bombardare qualche posto si diceva che erano tanto gentili che avvisavano, quindi veniva da pensare che presto o tardi avremmo avuto anche noi la nostra razione. Fra i dieci che lavoravamo cera un prigioniero che era nella manica del capo operaio ed ogni tanto gli regalava qualche pezzo di pane, anche l il ruffianesimo portava qualcosa. Verso la fine di febbraio ci raggrupparono in 20 prigionieri, passarono due o tre giorni ed al mattino del 2 marzo 1944, questa data la ricordo bene perch era il compleanno di mia moglie, faceva un freddo cane, neve in abbondanza e ghiaccio dappertutto, salimmo su un autocarro ed arrivammo a Brema. Scendemmo in una piccola piazza, cadeva una fitta nevicata con dei fiocchi che parevano grosse farfalle. Si camminava in fila indiana con a fianco il solito soldato tedesco che ci accompagnava, ai lati della strada neve in quantit e ghiaccio; a turno tutti e venti scivolammo andando a finire col sedere per terra, per ultimo fu la guardia che poveretta la dovemmo aiutare a mettersi in piedi. In fondo alla strada si doveva girare a sinistra, di fronte cerano case con negozi. Una giovane ragazza correva sul marciapiedi, essendosi accorta che aveva superato il negozio in cui doveva andare, cerc di fermarsi bruscamente, ma non calcol che sotto i piedi era tutto ghiacciato, scivol andando a sbattere prima contro il muro, poi rovin a terra rimanendovi svenuta. La botta era stata grossa, escoriazioni al viso e alle gambe, alcuni civili di peso la portarono dentro la vicina farmacia proprio mentre stavamo passando. Arrivammo alla stazione, civili e soldati in attesa di partire, quasi tutti anziani, reclutavano tutti; ci guardavano tutti con curiosit, sembravamo, anzi eravamo degli straccioni, con la fatidica scritta KGF sulla schiena, cosa potevano pensare loro, ma anche per loro, nei vari fronti, le cose non andavano bene, forse i figli o i padri potevano essere spersi per il mondo come noi. Arrivammo alla stazione e andammo a prendere posto in treno, dai finestrini vedevamo uomini piuttosto anziani che lavoravano a portare via neve e pulire gli scambi. Sebbene in testa al treno ci fosse una macchina a vapore, il riscaldamento non cera, a stare fermi ci si gelava e la guardia non voleva che ci muovessimo. Da Brema a Wolfsburg poteva esserci una distanza di circa 150 chilometri, il treno si fermava in tutte le stazioni, noi eravamo nei binari laterali per i treni lenti, mentre nei 4 binari centrali vedevamo sfrecciare treni viaggiatori velocissimi e treni merci carichi di materiale bellico, in testa vetture per ufficiali e carri per soldati, tutto ci era inviato in fretta, cos si pensava di tamponare le falle che si erano aperte al fronte Russo. Da BREMEN ci fermammo in una grande citt, HANNOVER, il tratto che avevamo fatto era tutto pianeggiante, tutti coperti di neve i piccoli e grandi fiumi, la maggior parte erano ghiacciati, la stazione era immersa da innumerevoli fasci di binari, con innumerevoli treni viaggiatori e tradotte, via vai di gente, ma la maggior parte erano truppe; ci fecero scendere, mi insospettii quando vidi che da tutti i convogli scendevano tutti indistintamente e sul marciapiedi uomini con un bracciale al braccio dirottavano le persone in vari punti della stazione nei vari sottopassaggi.
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Il mio sospetto era fondato, era stato dato il preallarme, difatti quando tornammo da sotto il sottopassaggio della stazione non cera pi nessun convoglio, erano stati allontanati dalla stazione e fatti ripartire. Logicamente eravamo diretti in qualche rifugio e camminando sul marciapiede, sempre allinterno della stazione, cercavo di guardare un p dappertutto: nella parte opposta si vedeva una grande strada, si vedevano i fili del tram e ai lati una fila di palazzi tutti uguali sia per costruzione che per dimensione, che si perdevano allinfinito da quanti erano. Arrivammo cos verso la fine della stazione e stavamo imboccando una scala quando le sirene cominciarono il lacerante urlio, la scala lunga e stretta ci port per diversi metri sotto terra, poi un lungo corridoio e alla fine di questo una stanza poco larga e lunga una decina di metri, illuminata da una luce fioca, ai lati delle panche di legno, non eravamo i soli, avevano preso posto una quindicina di persone, erano polacchi prigionieri. Ci eravamo appena sistemati che si sentirono i primi scoppi, la terra si mise a sussultare, i grappoli di bombe non dovevano cadere molto lontano, era giorno e un centro ferroviario di cos forte importanza e ben visibile dallalto, era ben difficile che gli apparecchi sbagliassero il bersaglio. Ad un certo momento restammo al buio, l dentro per tutto era predisposto, difatti il soldato con un fiammifero si avvicin ad un armadietto, prese delle candele e le accese: cera una cassetta per i medicamenti, un recipiente con the freddo, per chi aveva necessit corporali, in un angolo cera un gabinetto. Il bombardamento dur allincirca una mezzora, gli apparecchi giungevano a ondate. Tra quei Polacchi uno parlava abbastanza bene italiano, naturalmente parlando si fin sul discorso della fame e ci dissero che loro erano molto religiosi. Allora io tirai fuori il mio sdrucito portafoglio e feci vedere loro dei santini, questi li avevo perch ogni volta che facevano la messa al campo i preti vestiti da militare ce li davano a tutti assieme a medagliette; ad ognuno di loro regalammo santi e medagliette e loro per contraccambiare ci diedero delle lunghe sigarette con filtro fatte con una carta finissima, chiedemmo se avessero del pane, ma purtroppo non lo avevano. L sotto restammo quasi un paio di ore, ormai non si sentiva pi nessun rumore ed infatti ci vennero a chiamare per uscire, ci salutammo con i Polacchi, salimmo le scale e uscimmo e ci rendemmo conto del disastroso bombardamento, fasci di binari divelti, le pensiline tutte divelte, buche profonde; la parte opposta del fabbricato della stazione da dove eravamo entrati noi tutta demolita, vetture e carri sfasciati, i palazzi al di l dei binari non esistevano pi, incendi a non finire, ambulanze che correvano ininterrottamente, un apocalisse. Decine di operai erano gi intenti al lavoro per ripristinare i binari. Ci fecero camminare in fretta e oltre al soldato ci accompagnavano anche due poliziotti. Un bel p fuori dalla stazione risalimmo in treno con lordine di non muoversi da dove eravamo seduti. Naturalmente, nonostante fossimo lontani dai finestrini potemmo vedere lo stesso. I bombardieri seguendo la ferrovia hanno colpito a colpo sicuro, pochi i binari efficienti, ai lati della ferrovia i palazzi erano ridotti a mozziconi, le formazioni delle fortezze volanti scaglionate a centinaia in certi punti avevano fatto piazza pulita. Era ormai unoretta abbondante che si viaggiava, fermandosi in tutte le stazioni, e ad un certo punto il soldato ci fece preparare, il treno rallent la sua corsa ed infine si ferm, purtroppo noi nel leggere il nome della stazione facemmo capire che non era l che dovevamo scendere, ma non ci fu nulla da fare. Solo quando il treno si mosse si accorse dellerrore ma ormai era troppo tardi, ebbe una buona parte di accidenti, ma lui apriva le braccia. Il fatto era che dal mattino che eravamo partiti non ci avevano dato un gran che da mangiare, quindi avevamo anche fame. Poco distante da quella stazioncina cera una fabbrica di zucchero, questo lo venni a sapere quando ritornai a casa da un mio collega di lavoro della Cassa di Risparmio di Rimini, il dottor DOMENICONI. Ci dovemmo sobbarcare un bel p di chilometri prima di arrivare a destinazione, cio alla stazione di Wolsfburg, l ci attendeva un autocarro con autista ed un sottufficiale tedesco che dopo aver sentito come era andata la cosa, lo investiva con parole che noi naturalmente non capivamo, ma era un cicchetto molto pesante. Salimmo sullautocarro, ci portarono nel campo e ci assegnarono, suddivisi, la baracca. Per quella sera non si parl di mangiare. E da questo momento cominciarono davvero le dolenti note. In un primo momento non ci rendemmo conto della situazione, ma il giorno dopo, alla luce del giorno, constatai in quali misere condizioni erano i prigionieri che occupavano la baracca prima di noi. Erano tutti debilitati, si muovevano a stento, la faccia gonfia, la pancia e le gambe lo stesso;
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l per l non riuscivo a racappezzarmi, io e gli altri non che fossimo messi tanto bene, ma loro facevano spavento, naturalmente avevano sofferto pi di noi. Mentre eravamo chiusi nella baracca cercammo di parlarci, ma loro avevano poca voglia, cercavamo di rincuorarli, solo ci dissero, ve ne accorgerete fra qualche giorno. Molti di questi erano lunghi e distesi nel castello su un pagliericcio dove la paglia non esisteva pi. La sveglia alla mattina era alle 4,30, sempre due ore di anticipo sul fuso orario, tutti dovevano uscire, lavarsi al lavatoio allaperto, coperto da un lato da una tettoia di Eternit, cos pure i gabinetti, era freddo e bisognava far presto, il posto nella baracca doveva essere ben sistemato altrimenti erano punizioni; taglio della tessera del pane, quello era il pi doloroso, a turno nella baracca bisognava fare le pulizie, naturalmente la cosa pi scocciante era quella dei bidoni pieni fino allorlo che nello svuotarli cadevano pure sul pavimento di legno e per quanto si pulisse, il cattivo odore rimaneva sempre. Poi ad un certo momento venivano le guardie ad ispezionare, chi era dentro urli e botte e se non bastava, a volte cerano i cani, questi non erano meglio delle guardie. Alcuni bisognava portarli fuori, perch dopo la sveglia nelle baracche non ci doveva restare nessuno. Poi ci si portava fuori dalla cucina a prendere un mestolo di brodaglia: erano verdure secche, un pezzetto di pane scuro che non raggiungeva mai i 200 grammi, questo una volta al giorno, poi lavato il recipiente dovevamo portarci al cancello duscita per andare al lavoro che cominciava in fabbrica alle 6,30 fino alle nove, poi sospensione fino alle 9,15, poi si smetteva alle 12 e si riprendeva alle 12,45 fino alle 18,30: in complesso si stava dentro la fabbrica 12 ore. Il tempo maggiore che si perdeva era ladunata davanti al portone da dove si doveva uscire, dovevamo essere in riga in numero di cinque ed in totale ogni colonna doveva essere composta da 200 uomini. Se il conteggio delle due guardie, uno contava dalla testa alla coda e laltro viceversa, tornava, si partiva, altrimenti, fra insulti, minacce, qualche calcio o magari qualche botta col calcio del fucile, ricominciava la conta, questo perch qualche furbo si innestava durante il conteggio, quindi bisognava attendere l fermi al freddo, ancor peggio quando pioveva o faceva la neve, che tirasse il vento o che il sole ci cuocesse. Quando si partiva si doveva fare un lungo giro, potevano essere oltre due chilometri di strada costeggiando il canale, poi si attraversava un ponte, si ritornava nuovamente lungo il canale ed infine si andava ad imboccare unentrata secondaria. E pensare che fuori dalle baracche, dopo 200 metri, cera un ponte in legno molto lungo che passava sul canale e sui binari della ferrovia, in tutto per entrare nella fabbrica erano 400 metri. Riferendomi al ponte di legno, vorrei ricordare che dal 18/05/1974 al 24/05/1974, con Paolo, Anna e Marzia, sono stato in auto in Germania a rivedere i posto dove ero stato in prigionia e a lavorare non sono stato ad Adelaide a 10 chilometri da Brema- negli hangar di un campo di aviazione adibiti ad officine. Questo viaggio stato effettuato trentanni dopo! Il paese allora era piccolissimo WOLSFBURG- ora diventato un grosso centro. Nel vasto campo di prigionia composto di baracche sono stati costruiti grandi palazzi, la fabbrica che prima produceva materiale bellico, ora costruisce le auto Wolkswagen e si pu dire che il complesso sia raddoppiato. Il lungo ponte in legno, che fra laltro era coperto, non esiste pi; stato costruito un sottopassaggio ancora pi profondo che passa sotto il canale cos dalla strada, che parallela sia al fiume che alla ferrovia, viene collegato direttamente alla nuova entrata al centro della fabbrica. Nella prima parte della strada, sotto la ferrovia,il sottopassaggio ad una certa altezza non molto profondo, si pu scendere a piedi con una scala a gradini, oppure con una scala mobile. Qualsiasi persona che entra deve essere munito di un cartellino appuntato al petto o di un documento. Ha una larghezza di circa 40 metri per una lunghezza di oltre 150 metri. L potevano passare operai civili muniti di tesserino e soldati. La sosta dalle 9 alle 9,15 era per tutti, i civili durante questo quarto dora si rifocillavano, noi li stavamo a guardare. Poco distante da me vi era un altro reparto diviso da una rete, al di l cera un operaio che doveva essere un nazista sfegatato, aveva sul banco di lavoro una bottiglia di acqua minerale, lacqua delle fontane era imbevibile, una bottiglia di latte e cacao, pane e marmellata e tutti i movimenti erano fatti in maniera tanto dispettosa verso di noi prigionieri, come dire che io mangio e voi state a vedere, fino a farci vedere che quello che gli avanzava lo buttava nella pattumiera. Noi, con quella fame arretrata, sgranavamo tanto docchi, magari ci saremmo buttati a capo fitto nella pattumiera, ma purtroppo
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dovevamo stare l buoni buoni ad aspettare linizio del lavoro. Fra di noi dicevamo, le cose anche per loro sia internamente che fuori non erano troppo allegre, sta attento che non ti capiti qualcosa di peggio. A mezzogiorno si smetteva di lavorare, cerano 45 minuti di tempo per andare in un locale dove ti davano, anzi dovevamo prendercelo, erano bariletti di pesce sotto sale e bariletti di zucca e cetrioli sotto aceto, tutta roba che anche se lavata era impossibile da mangiare; se ne mangiava solo un p, perch poi la sete di divorava ed anche lacqua era imbevibile. Quindi fame e sempre fame. A volte si attendeva che uscissero i civili dal refettorio, loro gettavano gli avanzi dentro i bidoni dellimmondizia e appena si allontanavano noi correvamo a testa in gi per cercare qualche avanzo. Alle volte le guardie ci prendevano sul fatto, era un fuggi fuggi, ma qualche bastonata andava a segno, poi per evitare anche questo si misero di guardia a distanza con i cani, cos qualcuno che si attardava veniva assalito dai cani e quei laceri indumenti che ancora avevamo indosso, venivano stracciati. Durante il lavoro si poteva chiedere il permesso al capo operaio per andare a gabinetto che era anche per i civili, ma il pi delle volte ci si andava per vedere se cera da fare qualche scambio; io per esempio scambiavo le sigarette con qualche pezzo di pane o qualche grammo di burro, i malati del fumo questo lo facevano. Al gabinetto cera qualcuno che si faceva pescare con i piedi sul water, erano botte da orbi, oppure si facevano pescare a fumare: uno di questi che lavorava con me ritorn al lavoro con la faccia gonfia a suon di schiaffi datigli da una guardia, altri, per un complesso di cose si addormentavano addirittura sul water ed anche l venivano pestati a dovere. Al mattino, quando tutti avevamo preso la razione di brodaglia, siccome ne rimaneva sempre, cos in diversi si mettevano in fila per ottenere un altro mestolo, ma il pi delle volte che veniva distribuito avvenivano spinte, urli, magari volava qualche cazzotto, cosicch il cuciniere smise di distribuire facendo sapere che se il mattino dopo cera qualcuno che si prendeva la responsabilit di tenere lordine, ci che rimaneva sarebbe stato distribuito. La fame purtroppo lavevo anchio, ma nessuno si fece avanti per tenere lordine ed allora mi decisi a prenderlo io questo incarico, purch tutti stessero in fila e senza fare chiasso. Io stavo a fianco della porta della cucina, tutti mi passavano vicino, prendevano il loro mestolo e se ne andavano, ma guarda caso per due giorni consecutivi, io che mi ero dato tanto da fare per tenerli in ordine, rimanevo senza mangiare. Di questa cosa se ne accorse il cuciniere che mi disse di dargli subito la gavetta cos non sarei rimasto senza, io gli risposi di no, ma avevo fatto presente agli altri che il mio turno era a seconda dellarrivo in fila. Al mio turno naturalmente il cuciniere ne metteva di pi di quella brodaglia, anche se io dopo due o tre cucchiaiate smettevo, ma vicino a me si metteva il solito prigioniero il quale in un baleno, dopo la prima razione, la seconda e ci che rimaneva a me, trangugiava tutto, poi andava al lavatoio e mi portava la gavetta belle e pulita. Come facesse a trangugiare tutta quella brodaglia non riuscivo a capirlo, tanto pi che quella verdura secca impacchettata che buttavano nella marmitta sul fondo aveva una gran quantit di terriccio, per cui chi arrivava per ultimo doveva buttare via tutto. Mi ero scritto il nome di quel prigioniero nella mia agendina. Eravamo in febbraio, il tempo era sempre balordo, faceva freddo o pioveva, oppure nevicava, io tenevo come un oracolo i miei scarponi che erano ancora discreti, ma la maggior parte avevano dovuto sobbarcarsi gli zoccoli che passavano i tedeschi e con i piedi avvolti negli stracci, cos al mattino quando si doveva partire per la fabbrica, a volte per colpa nostra, si rimaneva fermi in mezzo allacqua o alla neve ad attendere il solito conteggio. Io cercavo di prendere sempre la prima colonna perch si arrivava quasi una mezzora prima in fabbrica, cos approfittavo senza farmi vedere dagli altri per andare nei sotterranei, l cerano gli armadietti dei tedeschi, cerano i gabinetti e lacqua calda nei lavandini, poi il posto era caldo perch passavano le tubazione dellacqua calda. In fretta e furia tutte le mattine cercavo di lavarmi collo e faccia, poi un giorno mi lavavo un piede e il giorno dopo laltro. Cercavo almeno di tenermi su con la pulizia. Un giorno mi pass vicino un civile, mi guard, scosse la testa, pensai adesso finisco male perch in effetti era proibito entrare l, ma lui aveva finito il suo turno di lavoro e senza dirmi niente and verso luscita. Tirai un sospiro di sollievo. Tutte le mattine questo era il mio lavoro, poi mi mettevo in un angolo, tiravo fuori la misera razione di pane e dicevo, adesso ne mangio la met, laltra a
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mezzogiorno, la fame e il pensiero di avere quel pezzo di pane in tasca diventava unossessione, cos finivo per mangiarlo tutto ed il pensiero era finito, poi salivo lo scalone e andavo al posto di lavoro. Un giorno un prigioniero, nellintervallo del mezzogiorno, riusc ad intrufolarsi nel refettorio dei tedeschi, riusc a riempire una gamella di minestrone, venne da me perch sapeva che avevo sempre qualche sigaretta in serbo, me ne chiese una, credevo di aver fatto un affarone, ma quando mi misi a mangiare dovetti constatare che dentro cerano mozziconi di sigaretta e cenere; dovetti buttare via tutto. Il mercato era un p dappertutto, in baracca, in colonna quando si rientrava, ma soprattutto, come gi detto, al gabinetto; ognuno offriva la sua merce in particolare in cambio di sigarette. A volte si faceva qualche buono scambio con rape, patate o qualche razioncina di burro, 10 grammi si e no per una o due sigarette. Un prigioniero che lavorava assieme a me, nella manica del capo operaio che gli allungava ogni giorno qualche pezzo di pane, consegnava ogni due giorni due pezzi finiti, io non ci riuscivo, ero leterno secondo, non parliamo degli altri. A volte andavo di corsa nellintervallo a prendere qualcosa di quella schifezza che ci davano e ritornavo sul lavoro per vedere se ce la facevo, niente da fare. Mi venne da pensare che ci fosse qualche trucco. Un giorno a mezzogiorno finimmo il pezzo contemporaneamente e li mettemmo da una parte. Poi ciascuno si avvi al luogo per prendere da mangiare, ma durante il tragitto mi nascosi, ed ecco che me lo vedo tornare indietro velocemente sul posto di lavoro, and a cercare, scegliendo bene, un pezzo dove le alette chiudessero il meglio possibile. Messo il pezzo al suo posto, pronto per il lavoro, se ne and per andare a prendere il mangiare. Uscii dal nascondiglio, presi il suo pezzo, lo misi al mio posto, cercai un pezzo che fosse pi difficoltoso e glielo rifilai. Finalmente capii come poteva sempre finire il pezzo prima. Naturalmente quella sera potei finire prima il lavoro e ci mi era di aiuto perch il vantaggio era anche nellavere pi tempo per scegliere il pezzo seguente. Purtroppo quel pezzo di pane che il capo operaio dava a chi riusciva a far presto a me non arriv. Ogni pezzo che si finiva veniva controllato prima dal capo operaio il quale applicava il marchio del suo timbro, poi veniva un altro capo, lo chiamavano ingegnere ed anche lui controllava ed apponeva il suo timbro. Il nostro interprete era un prigioniero, preso anche lui in Italia, per era figlio di italiani emigrati in Francia, quindi di nazionalit francese che optavano di fare il soldato in Italia. Seppi da lui che lingegnere era rientrato per la guerra in Germania, vendeva mobili a New York. Linterprete nei miei riguardi fu sempre bravo, mi diceva sempre, nonostante che tutti lottiate per la fame, che io ero uno che mi presentavo, nonostante tutto, abbastanza pulito. Il lavoro che si svolgeva era su materiale in duralluminio ed era facile, consisteva nel far aprire e chiudere le alette ermeticamente con un comando a pressione azionato dal pilota, chiuse se era freddo, aperte se la temperatura era calda. Le finestrelle quindi si potevano aprire e chiudere gradualmente a seconda della temperatura esterna. Il congegno interno, costituito da stanghette con tondino vuoto internamente aveva gli estremi filettati a cui venivano avvitati piccoli pezzi che poi venivano fermati con coppiglie. Il congegno, assicurato internamente alle alette, si allungava e si stringeva. Si lavorava con pinze, cacciavite e un piccolo martello, ma spesso succedeva che con il cacciavite si scivolasse andando a sbattere con le nocche delle dita nel duralluminio scorticandosi, era difficile che la ferita si rimarginasse, il sangue era diventato molto povero data la mancanza di vitamine. Un giorno parlai con linterprete chiedendo se si poteva avere qualche medicamento e mi rispose che si sarebbe interessato. Il giorno dopo venne con il capo operaio e lingegnere e parlarono del caso fra loro, poi si allontanarono. Al mattino seguente venne linterprete ad avvisarmi e di conseguenza anche il capo operaio che alle dieci mi sarebbe venuto a prendere per accompagnarmi nel reparto infermeria della fabbrica. Quando entrai nellinfermeria, ma dovevo aspettarmelo perch la fabbrica era grande e incidenti erano allordine del giorno, rimasi sbalordito, pi che un infermeria pareva una sala operatoria. Come sempre ero vestito con i miei soliti indumenti, ma in compenso devo dire che nonostante tutto erano puliti e vidi una crocerossina tedesca, al primo impatto non mi sembr tanto cordiale, ero un prigioniero di guerra e questo dice tutto. Poi, con linterprete spiegai dove lavoravo e come era successo. Mi fece lavare le mani con un disinfettante, tagli con le forbici la pelle marcia, pul dove cera del pus,
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spalm le parti malate con una pomata poi fasci le dita ammalate con una garza. Finito il medicamento mi disse, sempre attraverso linterprete, di non bagnare le mani, mi conged dicendomi di presentarmi tutti i giorni alla stessa ora. Dopo una settimana le ferite cominciarono a chiudersi, i medicamenti durarono ancora qualche giorno, mi diede qualche fascia da mettere quando andavo a lavorare, la ringraziai e assieme allinterprete ritornai al lavoro. Eravamo arrivati alla soglia della primavera del 1944, mi chiamarono al comando del lager, mi chiesero le generalit, il corpo di appartenenza, dove ero stato fatto prigioniero, poi in ultimo mi chiesero se ero un ebreo, il motivo di questo era perch il mio cognome era composto come il nome di una citt, Dalla VENEZIA Mario; risposi che davanti alla citt cera il Dalla, in secondo luogo dai documenti potei precisare che ero cattolico. Mi fecero uscire e con me anche linterprete, un professore, il quale mi disse: se non era vero che potessi dimostrare il contrario, mi avrebbero spedito nei campi degli ebrei con una buona dose di legnate. La primavera del 1944 era gi arrivata, si faceva sentire soprattutto nelle gambe e si faceva sempre pi fatica a camminare, anchio come tutti e come gi quelli che nella baracca erano arrivati prima di noi, ci eravamo gonfiati tutti. Al posto delle verdure secche, la brodaglia era fatta con verdure fresche, ma come al solito se si arrivava per ultimi, sul fondo delle marmitte si depositava la terra e bisognava buttare via tutto. Le giornate si erano allungate, quando ci si alzava cominciava a fare giorno. Anche qui gli allarmi si succedevano giorno e notte e specialmente alla notte ci si doveva alzare due o tre volte, quindi eravamo eternamente vestiti, anche per il freddo, perch con due sole coperte cera da stare poco allegri. Ad ogni allarme le guardie aprivano la porta che era chiusa dallesterno ed in fretta e furia, fra i loro urli e quelli dei cani che avevano al guinzaglio, dovevamo raggiungere il rifugio fra le baracche, che era composta da una lunga buca scavata, per una profondit di una decina di metri e alta tre, nella sabbia con sopra dei travi di legno e tavole, sopra di queste uno spessore di sabbia che era stata tolta per fare la buca. Un rifugio per modo di dire! Quelli che erano ammalati non intendevano muoversi dalla baracca, allora entravano in azione i cani che a volte si avventavano su quei poveri disgraziati, lacerando vestiti e magari addentando lasciavano qualche segno sulla carne. Il pi delle volte quelli che non si reggevano nemmeno in piedi, per opera di carit dovevamo trasportarli in due fino al rifugio. Il rifugio, cos interrato, era freddo e umido, cosicch invece di andare fino in fondo come facevo in principio, cercavo di entrare con gli ultimi per essere il pi vicino alluscita, cera pi aria ed era meno umido. Poteva darsi il caso di un bombardamento in cui una bomba cadesse poco lontano e con lo spostamento daria ci cadesse tutto addosso. La rotta da seguire per i bombardamenti era quella e quel rombo di centinaia di fortezze volanti lo avevamo sempre nelle orecchie, nello stesso tempo si pensava che da oggi a domani potesse essere il nostro turno. Venne il turno di un paese, non molto grande, ma dove vi erano diverse fabbriche e difatti una notte, eravamo ancora nel mese di aprile, solito allarme, solita confusione, ennesimo ricovero nel rifugio, io mi ero messo a sedere allimboccatura, la guardia poco lontana da me, ad un tratto si alz mi venne vicino e mi chiese, facendomi vedere la sigaretta che voleva accenderla, avevo ancora una scorta di cerini che mi servivano di notte, quando dormivo nel cassone dellautocarro per accendere la candela, naturalmente non me ne diede una , poi si mise a sedere vicino a me. Era una notte limpida, lontano si sentirono le sirene, poi ad un tratto anche le nostre, ma questa volta sembrava che urlassero con pi forza. Pass qualche minuto, si sent il rumore di qualche apparecchio, dovevano essere molto alti, entrarono in funzione potenti riflettori, questi illuminavano miriadi di strisce di stagnola di cartone argento, queste facevano un certo rumore che doveva ingannare le postazioni tedesche dascolto per non individuare la rotta delle fortezze volanti. Pass ancora qualche minuto poi ad un tratto si videro accendersi uninfinit di bengala attaccati a dei piccoli paracadute che illuminavano il punto da colpire. Infatti dove si accesero i bengala, in linea retta poteva essere una trentina di chilometri, ed in quella direzione cera il paese di BRAUNCHWEIG, questo nome lo pronunci la guardia. Il caratteristico rumore di quegli apparecchi savvicinava sempre pi, poi si incominci a sentire lo scoppio delle bombe e nello stesso tempo entr in funzione la contraerea,un finimondo, fiamme da terra per gli scoppi, nuvolette bianche di scoppi dalla contraerea, i riflettori che illuminavano a grande altezza i mastodontici apparecchi argentati, poi ad un
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tratto la contraerea taceva ed in cielo si vedevano i caccia tedeschi che rincorrevano gli apparecchi, mentre le mitragliatrici dai proiettili traccianti si vedevano partire sia dai caccia che dai bombardieri i quali ultimi erano armatissimi. Purtroppo la cosa dur abbastanza a lungo, il giorno era di gi spuntato, la notte era passata insonne, non era la prima e nemmeno lultima e quando si entr nella baracca era lora di mettersi in fila per la brodaglia e poi alladunata per andare al lavoro. I giorni si susseguivano sempre con tutte le stesse modalit, lunica nota buona era il tempo che si era rimesso al bello. Gli allarmi erano sempre pi fitti ed uno di questi capit una domenica mattina, giorno non lavorativo, io stavo con il viso verso lalto per contare quanti aerei formavano una squadriglia, in mano avevo unagendina del 1943 nella quale da quando ero stato fatto prigioniero prendevo piccoli appunti, intento a guardare verso lalto non mi ero accorto che la guardia mi si era avvicinata, mi chiese di dargli subito lagendina che avevo in mano, io non volevo consegnarla, ma lui urlando mi costrinse a dargliela, chiedendomi di fargli vedere il numero della piastrina che avevo al collo: pensai subito che mi ero messo nei guai. Infatti dopo un paio di giorni con linterprete del campo fui chiamato a rispondere del motivo per cui tenevo quellagendina. Dissi che era un promemoria e che mi sarebbe servito per quando sarei tornato a casa. Mi fecero sapere che avrebbero consultato lagendina, poi avrebbero preso i provvedimenti del caso. La fame diventava giorno dopo giorno sempre pi grande. Un giorno seppi che un cuciniere cercava una penna stilografica che custodivo gelosamente, lavevo comperata a Fiume qualche giorno prima dell8 settembre, era una delle migliori marche AURORA ed aveva il pennino doro. Cercai il cuciniere e trattammo laffare: per una decina di giorni mi dava la stessa minestra che mangiavano loro e per quattro domeniche mi avrebbero dato al mattino mezzo filone di pane. Qualche giorno dopo venni a sapere che la penna venne passata ad un soldato tedesco, quello che ci accompagnava al lavoro, chiss quale giro di scambi facevano. Senonch successe che la seconda e terza domenica il cuciniere non si fece pi vedere allo sportello della cucina per la distribuzione della sbobba, chiesi ad un altro cuciniere dove fosse, in poche parole mi fece capire che non andavano daccordo e non voleva trovare storie per non perdere il posto. Giorno dopo giorno gli feci la caccia fino a che venne il momento buono, mi affiancai allo sportello e mentre ritirava una gavetta lo presi per un polso con tutte e due le mani, lo trattenni, non poteva urlare perch sarebbero venuti gli addetti alla cucina, gli dissi che sapevo dove era andata a finire la penna e se non mi avesse dato il resto del mio avere lo avrei detto al tedesco e gli avrei fatto perdere il posto e gli promisi anche qualche legnata, visto che ero deciso a tutto, la fame era una cattiva consigliera: mi promise il resto del mio avere e cos fu. Quando venivano dati gli allarmi di giorno mentre si era in fabbrica, si andava tutti nei sotterranei, vi erano delle stanze rettangolari, i tedeschi li chiamavano bunker, che potevano essere metri 5 x 3, la porta dentrata era in ferro, entravamo circa una ventina poi la porta veniva chiusa dal di fuori; questi rifugi erano comunicanti fra di loro con sportelli sempre in ferro quadrati metri 1 x 1 che si potevano aprire in caso di emergenza; in un angolo vi era un ripostiglio con una porta dove dentro cera come un mobiletto quadrato che serviva per i bisogni, in un altro angolo un recipiente in terra cotta dove dentro dovevano metterci qualcosa da bere. Tutte le volte che suonavano lallarme, dovevamo scendere uno scalone e siccome noi non avevamo mai nessuna fretta, un russo passato dalla parte dei tedeschi si metteva a met scalone urlando e menando pugni a destra e sinistra e ci intimava di far presto: passi una prima volta, passi una seconda, ma alla terza tutti compatti lo trascinammo fino in fondo alle scale, dandogliene di santa ragione e da quel giorno non lo trovammo pi tra i piedi, nessuno reclam. Accadeva sempre che qualche tedesco cercasse qualche scambio mentre andavamo nei rifugi, ormai loffensiva aerea anglo americana aveva preso proporzioni allarmanti ed uno di questi cercava denaro italiano, per un filone di pane chiedeva 200 lire, io gliene offersi 100. ci fu un certo tira e molla ed infine facemmo lo scambio, gli dissi che si facesse vedere ancora. Nascosi il pane dentro la tuta e mi infilai dentro il rifugio, cominciai a sgranocchiarlo fino a che lo finii, la fame era tanta che non pensavo a niente, ma purtroppo non avendo mangiato dopo tanto tempo alimenti solidi poteva succedermi un blocco intestinale.
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Negli ultimi giorni di aprile, quando si finiva il turno di lavoro, cercavo sempre di prendere il primo turno e per questo aiutavo una guardia a mettere gli uomini in fila e a contarli per poi arrivare fra i primi al campo. Durante il tragitto un prigioniero, classe 1921, rimaneva sempre indietro, durante il cammino si fermava e strappava sempre lerba ai bordi della strada per mangiarla, tutti i giorni dovevo trascinarlo a forza per evitare quel pasto. Al ritorno non si passava sulla strada, ma si prendeva una stradicciola in mezzo alla campagna. Le giornate erano lunghe e incontravamo giovani ragazzi e qualche anziano con zappe, badili, andavano a lavorare negli orti. I giovanissimi erano degli Hitler Jung, erano di una cattiveria incredibile, gli arnesi li portavano sulle spalle e quando ci incrociavano, noi dovevamo passare ai lati della strada, loro nel mezzo, il loro divertimento era di fare oscillare a destra e a sinistra gli arnesi per colpirci, cercando di farci male, questo dur pi di qualche volta. Decidemmo di procurarci dei bastoni cosicch mentre stavamo per incontrarci cominciammo a far roteare i bastoni, noi eravamo in duecento, loro una trentina; successe un parapiglia, sia noi che loro ce le demmo di santa ragione, purtroppo la guardia era sola, cominci con i soliti urli e punt il fucile, naturalmente noi, per non incorrere in punizioni al rientro, dovemmo desistere. Dopo nemmeno unora fecero ladunata, il motivi era che erano andati a reclamare dicendo che li avevamo aggrediti, con linterprete facemmo le nostre ragioni anche se eravamo dei prigionieri. In seguito noi facemmo sempre la stessa strada, ma loro non li incontrammo pi. Ad ogni fine mese cera da fare il bagno e per andare bene, alla sera quando si finiva di lavorare, bisognava prendere sempre il primo scaglione, perch prendendo il secondo si andava a finire oltre la mezzanotte, il terzo si finiva alle quattro circa del mattino, quindi se non cerano allarmi si finiva per fare tutta la notte in bianco; purtroppo una volta capit anche a me. Dalle baracche per arrivare dove era installato il bagno, cera circa un mezzo chilometro, si entrava dentro un camerone circa una ventina alla volta, ci si spogliava nudi e gli indumenti venivano attaccati ad un aggeggio di ferro rettangolare con degli attaccapanni. Un inserviente tedesco poi lo spingeva in unaltra camera dove venivano inumiditi, disinfettati, poi dovevano venire fuori asciutti, ma il pi delle volte quando li andavamo a indossare erano ancora bagnati. Nel frattempo che veniva svolta questa operazione, noi si passava in un altro camerone, sempre tutti nudi, e l ci vedevano come eravamo ridotti, tutti gonfi dalla testa ai piedi parevamo tutti esseri in stato interessante; dal soffitto con i fili pendevano dei rasoi elettrici, si saliva su uno sgabello in legno ed un tedesco con camice bianco, con un ferro lungo una ventina di centimetri simile ad un ago di una materassaia, guardava se cerano parassiti nelle parti pelose: chi li aveva veniva rasato dappertutto e i capelli rasati a zero. Questo a me non successe! Quindi si passava in unaltra camera dove in quadrato cerano le docce, ognuno sotto il getto, a terra cera un mucchietto di soda e ad un tratto veniva lacqua calda, bisognava fare tutto in fretta perch il tempo era molto poco e poteva accadere di non riuscire a sciacquarsi perch chi azionava i rubinetti chiudeva lacqua calda e apriva quella fredda, naturalmente tutto ci senza nessuna preavviso e allora erano parolacce e urli. Dal reparto doccia si passava in un corridoio largo un metro e lungo circa cinque, nelle pareti dalla parte lunga vi erano dei buchi del diametro di una decina di centimetri e da questi usciva laria calda per asciugarsi, poi si ritornava nella prima stanza dove eravamo entrati dove trovavamo i vestiti che avevano disinfettato, pi o meno asciutti, e ci vestivamo. Si ritornava alla baracca incrociando altri prigionieri che andavano al bagno. Si andava poi al campo e si andava a prendere il recipiente per ritirare la solita brodaglia. Ogni sabato pomeriggio cera la distribuzione della posta, la prima corrispondenza che avevo scritto era quando lavoravo nel piccolo campo di aviazione di Adelaide a 10 km da Brema, nello stesso tempo ladunata era effettuata per fare lappello.

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La prima risposta che ebbi, una cartolina, era la prima quindicina del maggio 1944, le ultime notizie le avevo ricevute quando ancora ero a Susak, settembre 1943.

Inoltre le adunate che venivano fatte i sabati e le domeniche pomeriggio, da notare che due giorni prima ci dimezzavano le razioni, da un gerarca fascista e da un ufficiale tedesco servivano anche per proporci la via della riabilitazione, andando a combattere di nuovo a fianco dei tedeschi, dicevano in Italia, in Russia o chiss dove; chi accettava veniva vestito a nuovo, il mangiare sarebbe stato uguale a quello dei soldati tedeschi e via dicendo. Ma era da credere tutto quello che dicevano? Fra le fila cerano soldati italiani prezzolati ed anche loro cercavano di convincerci ad accettare la proposta, qualcuno ormai ridotto allo stremo ed il ragionamento veniva
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sempre meno, la fame era sempre l che ti rodeva, bisognava provarla in quella maniera, un supplizio continuo, la fame ti faceva perdere tutta la tua dignit, le razioni che erano uguali per tutti, quelle degli altri sembravano maggiori e alle volte finiva in rissa perch purtroppo il cervello non ragionava pi, cos quelle adunate non avevano che un esiguo numero di adesioni e quelli che accettavano speravano chiss in quale fortuna. Ancora una volta mi capit di essere chiamato al comando, gli occupanti della baracca, a mia insaputa, reclamavano che il capo camerata non adempiva ai doveri che gli erano stati assegnati, inoltre visto il mio interessamento per alcune cose, avevano fatto il mio nome, ma non solo, dissero che io ero un sottufficiale che non potevo stare con i soldati e che mi avrebbero trasferito, sempre nello stesso campo, ma nel reparto sottufficiali i quali non lavoravano, ma la sboba era la stessa e avevamo meno libert: dissi che non volevo n luna n laltra soluzione, perch quel poco che facevo lo facevo volentieri e non volevo beghe maggiori. Lordine fu di accettare una delle due soluzioni, bere o affogare, accettai cos quella del capo camerata. Alla sera dovevo in tutte le maniere prendere la prima colonna per rientrare al campo fra i primi, prima per fare quel poco per me e poi pensare agli altri ventitre. Cera da andare a vedere se arrivava la posta, ritirare i biglietti e le lettere per scrivere, qualche indumento che i prigionieri avevano richiesto, chiedere visita per ammalati: per quei disgraziati la difficolt maggiore era alla sveglia in quanto non riuscivano ad alzarsi e non potevano recarsi al lavoro, quindi bisognava comunicarlo alla fureria, poi la pulizia e che tutto fosse a posto. Alla notte, con i continui allarmi, molti non volevano uscire tanto dicevano, qui o al rifugio la stessa cosa, si muore lo stesso, ma non erano dello stesso parere le guardie e i cani che quando entravano nella baracca si attaccavano ai vestiti stracciandoli ancora di pi di quello che erano, per tirarli fuori. Naturalmente io dovevo essere lultimo a lasciare la baracca. Allaltro capo camerata era successo che, durante lallarme, non era riuscito a far uscire tutti i prigionieri e ai guardiani disse che dentro non cera nessuno, ma purtroppo entrarono lo stesso, presero quei due o tre e gliele suonarono di santa ragione e a lui gli gonfiarono la faccia a suon di schiaffi. Ci non succedeva solo nella nostra baracca, ma anche in altre. Io misi le mani avanti e attraverso linterprete prospettai la cosa al comando e a tutti i capi camerata diedero una parola dordine che era a conoscenza della guardia, quando si presentava. Poi si present un altro inconveniente, era incominciata ad arrivare la posta, ma purtroppo nella mia baracca cerano anche degli analfabeti per conto dei quali, qualche altro prigioniero aveva scritto in precedenza ai loro familiari, cos ogni sera avevo da scrivere qualche lettera anche per quelli, in calce a tutte le lettere mettevo le mie generalit e dove abitavo. Purtroppo, dopo la prigionia, non ho mai ricevuto un rigo da nessuno. Oltre alle solite adunate ogni tanto facevamo la rivista a ci che avevamo dentro la valigia o nel bottino, ma non cera pi niente da prendere e se cera ancora qualcosa di utile per loro, senza tante storie lo razziavano e non cerano reclami da fare. Le punizioni potevano essere, a seconda della mancanza che si faceva, dalle botte al ritiro della tessera del pane se la punizione era lieve o al totale ritiro , se la mancanza aveva una certa gravit. La tessera aveva la durata di una settimana. Punizioni pi gravi erano: una palla di ferro con una catena e con un anello che veniva serrato al collo del piede. Data la pesantezza della palla il punito poteva muoversi pochissimo e doveva stare sempre in piedi, se appena lo vedevano sedersi per terra dallo sfinimento, erano botte. Uno di questi, non potendone pi, fu portato via e non si seppe pi nulla. Unaltra punizione consisteva in una trave o un palo telegrafico lungo 2 o 3 metri da portare sulla spalla, girando continuamente per tutta la giornata in uno spiazzo affinch tutti li vedessero. Uno di questi, allo stremo delle forze, cadde per terra ed il palo lo colp alla testa rimanendo per terra tramortito: anche di questo, dopo averlo portato via, non si seppe pi nulla.

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I pacchi: si spedivano delle cartoline alla famiglia in Italia perch presentandole in appositi uffici potevano poi prelevare viveri secchi per confezionare i pacchi e spedirli ai prigionieri, io purtroppo non ne ricevetti nessuno, chiss quale fine facevano durante il viaggio. Quelli che abitavano pi a nord dellItalia ricevevano pi frequentemente i pacchi, forse dipendeva anche dalla posizione del fronte. Purtroppo chi riceveva questi pacchi, dentro cera soprattutto pane biscottato, biscotti e tutti alimenti secchi che potessero mantenersi, per la fame e lingordigia mangiavano in continuazione, ma essendo il fisico abituato alla solita brodaglia, per qualcuno avveniva un blocco intestinale e andava allaltro mondo. Al fianco del mio castello dormiva un lombardo che ogni 10-15 giorni riceveva un pacco: era uno dei pi fortunati e suddivideva il tutto nella giornata e alla sera, a volte, quando andavo a dormire, mi dava qualche pezzo di pane biscottato, per me era festa, che cercavo di fare a pezzettini sciogliendolo lentamente in bocca, non era molto, ma era qualcosa! Un giorno al ritorno dal lavoro, appena entrato nella baracca and per prendere ci che gli era rimasto e che aveva nascosto fra le coperte e il materasso, ma purtroppo non trov pi niente. Pochi giorni pi tardi ricevette un altro pacco ed allora si rivolse a me che avevo la valigetta per mettere dentro quello che gli rimaneva dopo aver mangiato: io gli dissi di si, per la valigetta chiusa la feci tenere a lui vicino dove dormiva, perch non volevo responsabilit. Per un paio di sere, fino a che non fin tutto, mi regalava un bel pezzo di pane biscottato. Dentro il campo cera uno spaccio, ma non aveva mai niente, ma con un tipo di moneta che circolava nel campo, alla domenica distribuivano un quarto di birra. Come sempre avevamo tre sigarette al giorno, quindi un pacchetto da 20, ogni sabato, lo davo ad un tedesco per un mezzo filone di pane che custodivo per la domenica, lo tagliavo a fette e con quella piccola razione di burro, mangiavo e bevevo quel p di birra. A volte con una sigaretta facevo cambio con la razione di burro, questi non poteva fare a meno tanto il vizio era radicato. Mi rimanevano 10 sigarette che distribuivo in questo modo: una per fare la barba una volta alla settimana, 2 per fare i capelli una volta al mese, mi rimanevano ancora 4 sigarette, se avevo voglia me le fumavo ma il pi delle volte mercanteggiavo sempre con il mangiare. Col tempo la razione delle sigarette diminu e quindi si ridimension tutto. Nonostante tutte le volte che si andava a ritirare la razione del pane e del burro, quelli che avevano il vizio del fumo, anche se gli dicevi che era meglio che mangiassero, sapendo che io non fumavo, fino a che non facevi lo scambio non ti lasciavano in pace. Un giorno un prigioniero mi propose uno scambio, cinque sigarette per un coltello, un cucchiaio ed una forchetta di ottima fattura, rubate chiss dove, finimmo col combinare per tre sigarette. Quei tre pezzi, nonostante tutte le perquisizioni, li riuscii a portare a casa, ma mia moglie, nonostante tutte le raccomandazioni mi perse il coltello, forse finito nellimmondizia. Nel raccontare tutti questi fatterelli che avevo segnato giorno per giorno nella piccola agendina requisitami dalla guardia tedesca, ora mi avvalgo, per la trascrizione, della mia memoria. In fabbrica avevo ottenuto una certa considerazione, anche da parte dellingegnere capo scaturita anche da un fatto molto serio, addirittura un sabotaggio. Succedeva che quei pezzi di raffreddamento ad alette in duralluminio davanti al motore, ritornavano indietro perch accusavano sempre lo stesso difetto. Il pezzo si incrinava sempre sullo stesso punto e questa incrinatura o fessura avveniva dopo il collaudo del motore al massimo del regime dei giri sullapparecchio, cosicch il collaudatore, al ritorno, riferiva agli addetti al controllo le insolite vibrazioni, scoprendo dopo innumerevoli revisioni da dove nasceva la vibrazione. Dopo accurate indagini risalirono tappa per tappa dallorigine della costruzione del pezzo alla fine e a chi li aveva lavorati. Cominciarono le indagini, in effetti quei pezzi passavano da me ed anchio venni interrogato. La commissione era composta da due ingegneri controllori, un agente della ghestapo, il capo operaio ed infine linterprete. Tramite linterprete, ci fecero capire che il colpevole sarebbe stato punito severamente e se riscontrato il sabotaggio, si arrivava anche alla fucilazione, e se uno era colpevole sarebbe stato meglio dichiarasi subito per evitare una pena meno dura. Mi cominciai a difendere dicendo che avevo scelto di lavorare e che non era il caso di aggravare la mia posizione di gi pesante per la prigionia, inoltre dissi che il mio lavoro era allinterno del pezzo e che se avessi voluto fare del sabotaggio sarebbe
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bastato manomettere una coppiglia, infine i pezzi, dopo essere stati verificati dal capo operaio venivano collaudati con un timbro a secco. Intanto lindagine seguiva il suo corso. Dopo qualche giorno notai che un civile polacco, che faceva lo stesso lavoro, mancava e pensai che fosse malato o che avesse cambiato lavoro. Linterprete mi disse che dopo minuziose indagini riuscirono a scoprire che era lui il colpevole. Passarono una ventina di giorni ed il polacco ritorn al suo posto: era ridotto pelle e ossa, era ridotto male, ma in compenso era ancora vivo. I bombardamenti nelle vicinanze, i continui allarmi e le relative sospensioni del lavoro ritardavano enormemente le produzioni industriali su tutta la linea, inoltre anche i lavoratori, indistintamente, ne subivano le conseguenze. I capi spronavano tutti ad una maggiore produzione, ma specialmente ai prigionieri non concedevano nulla in pi ed era gi molto ci che ricavavamo. Da qualche giorno tutti i responsabili della fabbrica si riunivano, facevano conteggi, avevano bisogno di una maggior produzione perch il fronte aveva sempre pi necessit di materiali per sopperire ai catastrofici rovesci che larmata tedesca aveva avuto sul fronte Russo. Mi venne cos unidea e attraverso linterprete la feci conoscere: che gli italiani potevano rendere di pi, ma purtroppo per la mancanza di nutrimento le forze venivano a mancare sempre di pi, cos anche il lavoro diminuiva di conseguenza. Sarebbe stato necessario dare qualcosa, come avevano i lavoratori tedeschi dalle ore 9 alle 9,15, i quali potevano disporre di latte, acqua, pane e marmellata, certamente non nella stessa misura, ma poteva essere di sprone ad un maggior impegno lavorativo. Linterprete parl al capo reparto e questi naturalmente parl con i superiori, sta di fatto che dopo due giorni in base ad un elenco fornito dai capi operai, alle ore nove vennero chiamati in disparte cento dei duecento operai italiani e a questi distribuirono due fette di pane con dentro non ricordo cosa: qualcosa si era mosso ma purtroppo quelli esclusi ci rimasero male e se prima facevano tutti poco, questi si misero a fare meno, Se da una parte si era ottenuto qualcosa, e se ne accorsero gli stessi tedeschi, dallaltra leffetto fu contrario, morale della favola tutti beneficiarono dellelargizione. A me che avevo proposto la cosa, fece molto piacere. Ma questo non fu tutto, un giorno durante lintervallo di mezzogiorno un prigioniero italiano mi si avvicin, mi invit ad andare a vedere con lui nelle cucine dove i cucinieri gettavano nei recipienti dei rifiuti minestrone, pasta e tanta altra roba commestibile. Non mi lasciai sfuggire nemmeno questa occasione. Il giorno dopo mi pass vicino lingegnere capo il quale controllava un p dappertutto, essendo il responsabile, chiamai linterprete e senza fare tante storie gli esposi ancora una volta il mio pensiero, perch gettare nei rifiuti quel cibo invece di darla da mangiare a noi, tanto pi che avevamo gi dimostrato che con poco avevamo ottenuto un miglioramento nel lavoro? Da parte mia incentivare il lavoro non era una bella cosa, ma dallaltra si cercava di far stare in piedi gli ormai esausti prigionieri. Anche questa volta ebbi ragione, loro avevano le loro necessit, noi le nostre, una mano lava laltra. Linterprete mi venne a cercare e mi port a discutere dallingegnere che mi prospett il da farsi, chiedendo maggior disciplina perch qualora fosse successo qualcosa ci avrebbero tolto anche lultima elargizione. Passai la parola ai prigionieri e difatti allintervallo di mezzogiorno in fila per uno, in silenzio ci presentammo al posto indicato, eravamo circa 200, arrivarono le marmitte e a presenziare alla distribuzione cera lingegnere. Sta di fatto che quel giorno io e qualcun altro restammo senza cibo, il secondo giorno lo stesso, poi linterprete lo rifer allingegnere, cos il terzo giorno il mio gavettino era il pi rifornito, ma decisi di ridistribuirlo con gli ultimi che altrimenti sarebbero rimasti senza. Ma la questione degli ultimi che rimanevano senza cibo non era proprio cos; infatti come dappertutto ci sono i furbi, gli ultimi erano i primi che si rimettevano in fila, quindi facevano fessi un p tutti, ma questo dur poco perch quei pochi che usavano questo sistema, con laiuto del tedesco e la minaccia di non effettuare la distribuzione, ritorn tutto normale. Comunque anche quel poco che ci concedevano non che placasse la fame, era qualcosa, ma ci voleva ben altro per rimettere in piedi lormai frustrato organismo.
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Purtroppo la manna, se cos si poteva chiamare, dur allincirca una ventina di giorni, non fu colpa nostra. Eravamo grosso modo nel maggio 1944, appena entrati in fabbrica notammo che tutti gli operai tedeschi e i loro capi erano piuttosto nervosi e parlavano fra di loro concitatamente, erano come al solito le 6,30 del mattino, ci portarono in un altro reparto dove cerano pronti un grosso numero di motori di aviazione. Non si tard a sapere che la radio del mattino aveva annunciato tramite radio Londra che era venuto il momento della visita, poco gradita, dei bombardieri anglo americani. La paura si era impadronita di tutti, ma sopratutto dei tedeschi. Ordini con urla per decentrare il pi possibile tutti i motori, erano le otto del mattino e suon il primo preallarme, poco dopo il secondo, ed infine lallarme continuativo, non cera pi da aspettare e tutti di volata a scendere gli scaloni ed entrare nei bunker. Fuori si sentiva gi il ronzio degli apparecchi. Dentro i bunker nessuno fiatava, affiorava il ricordo del bombardamento alla stazione di Hannover e quello che avevamo visto usciti dal rifugio, sapevamo quali conseguenze poteva avere un bombardamento tanto pi che comera dislocata la fabbrica, con poco lontano i fasci di binari e il canale navigabile, era un bersaglio che non potevano fallire. Chiusi l dentro dal di fuori come fossimo in un sottomarino, cera da fare la morte del topo. Non pass molto e arriv la prima scarica, tutto trem, io ero in piedi vicino alla panca di legno e non sapevo quale posizione assumere, ma non ve ne fu bisogno, senza volerlo mi trovai seduto, poi una scossa pi violenta e pi vicina e mi trovai a terra: lo spostamento dellaria aveva fatto aprire come degli obl quadrati che dovevano essere aperti in caso di necessit da un bunker allaltro. Chiusi cos ci aveva preso il nervoso e tutti avevamo bisogno di urinare, ero andato nello sgabuzzino apposito, ma arrivai appena dentro che una terza scarica mi mise a terra. Cera da impazzire, la luce di emergenza si era spenta, lacqua cominciava a venire dentro dalle fessure e infine il fumo e non cera nessuna via di scampo. Passarono minuti interminabili, nello scuro ci sbattevamo luno contro laltro; finalmente sentimmo picchiare contro la porta, la scardinarono e finalmente aprirono. I tedeschi urlavano e menavano botte. Uscimmo allaperto, le condutture dellacqua erano sfasciate, incendi, una lunga colonna di fumo che saliva in cielo. Prima di tornare nella baracca pass molto tempo, pompieri, autoambulanze avevano il loro daffare, per il momento lavevamo scampata. Il giorno dopo, quando ritornammo alla fabbrica, constatammo i danni subiti, nonostante che la fabbrica fosse stata costruita cos saldamente. Da notare che il terreno era piuttosto sabbioso e di tutte le bombe che cadevano intorno al perimetro, molte non scoppiavano. Nella fabbrica, dove la prima ondata fece cadere le bombe, gli orologi si fermarono alle nove precise; la seconda ondata fece cadere le bombe al centro della fabbrica, gli orologi si fermarono alle 9 e tre minuti, e centrarono due o tre rifugi vicino a noi quindi lo spostamento dellaria divelse gli obl per cui tutti andammo a finire a terra, mentre degli occupanti non si salv nessuno; la terza ondata colp la centrale elettrica alle 9 e sei minuti. Un calcolo perfetto, non si poteva sbagliare. Dopo mezzora, velocemente, pass un apparecchio, si dice fotografasse lentit del bombardamento. Dopo qualche giorno, secondo bombardamento, questa volta solo con bombe piccole ed incendiarie, il terzo bombardamento fu molto duro e disastroso per tutta la fabbrica che ormai risultava inservibile. Dopo il secondo bombardamento, al primo allarme uscivamo dalla fabbrica e ci portavano un paio di chilometri distante, mentre nei bunker rinforzati da lamiere di ferro rimanevano solo pochi tedeschi. Cominciarono subito a bonificare tutto il perimetro del terreno intorno alla fabbrica, alcune bombe inesplose pesavano 800 kg. La centrale elettrica aveva subito danni di un certo rilievo, quindi era inservibile, cos pure la centrale a carbone per il gas. Sia di giorno che di notte le sirene suonavano per i preallarmi, anche se i bombardamenti avvenivano in citt poco distanti e di giorno lasciavamo la fabbrica per andare in campagna, ma purtroppo quando si rientrava in fabbrica andavamo piano, facendo dellostruzionismo, per cui i tedeschi ricominciarono a farci andare nuovamente nei rifugi.
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Pochi reparti della fabbrica erano ancora efficienti, quindi il nostro lavoro era quello di rimettere in sesto ci che rimaneva. Molto prima che incominciassero i bombardamenti ebbi occasione di incontrare, nel recinto del campo, un prigioniero italiano che si chiamava SARTI ed abitava a Santa Giustina di Rimini, poco distante dal passaggio a livello della ferrovia, che ritrovai per caso nellanno 1946 quando ritornai dalla prigionia, girando in bicicletta in quei paraggi per lavoro. Lui, con altri prigionieri, andava fuori dalla fabbrica, lavoravano in campagna o facevano anche i muratori, cos avevano la possibilit di procurarsi qualcosa in pi da mangiare come fave, fagioli, patate, naturalmente facevano cambio anche con sigarette e indumenti. Erano alloggiati in una baracca migliore della nostra. Dopo il rientro al campo, qualche volta andavo a trovarli e se avevano qualche cosa me la regalavano. Una sera fra una chiacchiera e laltra feci un p tardi ed il cancello che separava i due settori era chiuso e la guardia non voleva farmi passare. Siccome si avvicinava il controllo serale, dovetti andare a chiamare il SARTI, parlava un p di tedesco, che gli spieg il motivo per cui mi trovavo in quel campo, infine mi lasci passare, giusto in tempo mentre facevano il controllo nella mia baracca. In seguito diradai le mie visite, perch anche loro avevano delle difficolt, tanto pi che anche loro cominciarono a lavorare in fabbrica. Ritornando al posto di lavoro dal luogo ove avveniva la distribuzione di quel cosiddetto mangiare, passai vicino a dei giovani sui ventanni, mi apostrofarono dicendomi: Italiano? A cui io risposi di s; uno di loro parlava francese, io lo masticavo un p, e sopra ad un tavolo dove loro avevano mangiato cera rimasto un pezzo di pane e visto che io lo guardavo insistentemente, in effetti avevano capito il mio bisogno, mi fecero cenno di prenderlo. Erano studenti olandesi che i tedeschi avevano portato a lavorare per forza. Dissi loro che se avanzavano del pane non lo buttassero via, che il giorno dopo sarei passato a prenderlo. Per non essere troppo seccante, passai di l un giorno dopo e mi fecero trovare un cartoccio di pane secco che mi dissero per che era ammuffito, per me andava bene lo stesso; mi dissero inoltre se volevo delle cipolle e fagioli, difatti il giorno dopo ebbi anche quelle pi qualche pezzo di pane. Alla sera o cucinavo cipolle o fagioli, tutto faceva brodo per la fabbrica della fame! Siccome non erano troppo lontani da me, io guardavo sempre verso di loro, erano le nove, il momento in cui i tedeschi facevano lo spuntino, noi ce lo eravamo dimenticati da un pezzo, quando un olandese mi fece cenno con la mano; facendo finta di niente, piano piano passai vicinissimo, mi diedero un pezzo di pane e la notizia che gli anglo americani erano sbarcati in Francia e che la guerra sarebbe presto finita. Questo lavevano saputo a mezzo di una radiolina che avevano nella baracca, aggiungendo di non dire niente a nessuno, per il momento; quindi loro ogni giorno sapevano ci che succedeva. Quella mattina, cosa insolita, come quando ci bombardarono, i tedeschi parlavano fra di loro, quindi dedussi che anche loro ne fossero al corrente. Alla sera, come al solito, rientrammo al campo, il cancello era chiuso, non era mai successo e a noi sembrava una cosa strana. Mentre eravamo in attesa, venne verso di noi tutto sorridente linterprete italiano e facendoci il gesto di stare zitti ci inform dello sbarco sulle coste francesi, io naturalmente lo sapevo fin dal mattino. La faccenda del cancello chiuso era dipeso dalladunata di tutti i guardiani del campo per scegliere i pi idonei e inviarli al fronte. Comunque la vita lavorativa, anche se a rilento dopo i bombardamenti, continuava e al mattino, come al solito, incolonnati si andava ad occupare i soliti posti e qui mi riferisco a quellomarino acerrimo nazista che come in precedenza mi faceva vedere che lui aveva latte, acqua, pane, marmellata e quando ben bene si era riempito faceva vedere, piuttosto che darla, che la gettava via. Quella mattina la cosa cambi, appena arrivato quelluomo mi chiam facendomi segno di avvicinarmi alla rete di divisione, da sotto la giacca, per non farsi vedere da altri, voleva allungarmi una bottiglia e del pane dicendo Germania Kaput: io, nonostante la fame, rifiutai facendogli capire quello che aveva fatto in precedenza. Lasciava tutto a portata di mano, ma nessuno toccava niente. Dopo qualche giorno fece fagotto e fece capire che partiva per il fronte anche lui. Un altro
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episodio che non potei digerire avvenne molto prima, sar stato verso la fine di aprile 1944, poteva essere un sabato o una domenica. Era una bella giornata e me ne stavo a guardare al di l dei reticolati, da questi mi tenevo ad una certa distanza cautelativa, con i tedeschi cera poco da fidarsi, sparare ad un prigioniero era come un gioco da ragazzi e tutte le scuse per loro erano buone, mi si avvicin uno con la divisa da aviere italiano e con i gradi da sergente, di statura piccola. In quel momento fra me dicevo: eppure queste quattro ossa, magari con poca carne, le voglio riportare a Rimini e nel frattempo questi mi apostrof dicendomi di chiamarsi FABBRI ed era di Riccione: bene dissi io sono di Rimini. Non approfondii il discorso sulla sua posizione a Riccione, me ne pentii pi tardi. Fra i tanti discorsi si fin sulla fame e sul lavoro. Mi disse: vieni con me e mi port in una baracca che gi a vederla dal di fuori a confronto della nostra sembrava una reggia. Entrammo, aveva un lettino in ferro, materassi e lenzuola (erano quelli che avevano gli operai italiani prima che arrivassimo noi). Apr larmadietto, dentro cera ogni ben di Dio, da mangiare, da bere, in un altro armadietto la biancheria. Chiesi cosa facesse per avere un trattamento del genere e mi disse che sorvegliava prigionieri, fra i quali anche italiani, che erano addetti a lavori di scarico e carico dei barconi che arrivavano e partivano dal canale artificiale che era stato fatto dai prigionieri della prima guerra mondiale. Naturalmente quei prigionieri che effettuavano quei lavori erano quelli che avevano commesso delle infrazioni, o lavativi o attaccabrighe, uomini che si riducevano cos, soprattutto spinti a rubare dalla fame. Era un lavoro pesante, esseri umani che erano allo stremo delle forze ed erano guardati anche dai russi che per farli lavorare, oltre agli incitamenti usavano anche il bastone. Per finire, dopo aver ascoltato tutto il racconto, mi propose, se volevo migliorare come lui la situazione, di entrare a far parte di quel servizio al che gli risposi seccamente che erano sufficienti con le loro cattiverie gli attuali guardiani e non cera bisogno laggiunta di qualche italiano; speriamo di rivederci a Riccione e me ne andai. Purtroppo al ritorno dalla prigionia andai a Riccione per rintracciarlo, non riuscii a trovarlo, forse mi aveva dato furbamente generalit e luogo falsi. Come tutte le sere dopo il lavoro, il tedesco che ci accompagnava mi chiese se gli portavo una batteria dauto alla baracca e per questo favore mi promise una gavetta di sboba che mangiavano loro. Naturalmente accettai, non che fosse leggera, me la caricai in spalla e via, arrivammo nella baracca dove alloggiava e mi disse di aspettare, ma quello si faceva attendere un p troppo, entrai nella baracca e lui se ne stava seduto come niente fosse. Cominciai a parlare un p forte, lui mi diceva, facendomi segno con il dito, di stare zitto; allora mi arrabbiai ancora di pi, lui usc e si avvi verso la cucina, mi prese la gavetta, io attesi e dopo poco torn con una mezza gavetta di sboba, gli mandai degli accidenti in italiano, ma lui in fretta e furia se ne and. Il tedesco, quando era in fallo, aveva paura e soprattutto non voleva far sentire ai suoi commilitoni. Camminando cominciai a mangiare quella sboba verde, era calda, aveva solo quello di buono, dalla rabbia sarei tornato indietro per sbattergliela in faccia, infine la buttai via. Come in tutte le cose c del cattivo, ma anche del buono. Una sera ci eravamo attardati in sei sul posto di lavoro e mentre ci accingevamo a raggiungere la coda della colonna, ci raggiunse linterprete con lingegnere il quale ci chiese se eravamo disposti ad andare ad assicurare dei motori daviazione sui carri della ferrovia con del filo di ferro, tappi di legno e piombature. Questo non sarebbe stato niente, ma bisognava far presto e bene per rientrare al campo per la sboba e attraverso linterprete ci fece sapere che a mezzo di un suo scritto ci avrebbe autorizzato, anzich fare tutto il giro, a passare per il ponte di legno riservato solo ai civili tedeschi ed avrebbe avvisato anche il capo campo a lasciare le nostre razioni di sboba in cucina. Mentre eravamo intenti al lavoro ritorn con un pacco e distribu delle fette di pane con burro e marmellata. Questo lavoro ebbe la durata di una decina di giorni: Come dissi precedentemente, lo sbarco in Normandia avvenne nella prima decade di giugno, cominciava a fare caldo e
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facevamo fatica a trascinarsi, anche la fiacca aumentava sempre pi, gli allarmi non finivano mai, il riposo era quasi nullo, eravamo dei rottami vaganti. Un pomeriggio, sempre della prima decade di giugno, dopo essere rientrati dal lavoro, vedemmo dei prigionieri che individuammo subito come aviatori americani, tutti di statura alta e robusti, forse il loro apparecchio era stato abbattuto e loro si erano salvati con il paracadute. Il giorno dopo questo fatto, sempre sul tardi e dopo un cessato allarme, vedemmo una fortezza volante passare sopra di noi a circa un migliaio di metri con direzione nord, non andava forte ed era di colore argenteo ed il sole illuminandola la rendeva simile a tanti specchi. Prima la contraerea cerc di colpirla, questa ad un certo momento cess, ed allora vedemmo un caccia filare verso di lei, potemmo distinguere per un certo tempo le mitragliere sia delluno che dellaltro sparare con i proiettili traccianti, la fortezza volante cercava di tenersi il pi possibile a bassa quota per evitare le evoluzioni del caccia: seguimmo il pi possibile la battaglia finch non sparirono allorizzonte. Eravamo arrivati oltre la met di giugno, sempre pi caldo, il fisico reggeva sempre di meno, la fabbrica era ormai inservibile, la maggior parte dei reparti non lavoravano e mancava il materiale che doveva arrivare dalle altre fabbriche, anchesse semidistrutte, nei vari fronti gli eserciti alleati avanzavano. Un bel giorno venimmo adibiti al carico di materiali sui vagoni delle ferrovie, un lavoro duro perch si trattava di portare a spalle cassette con dentro materiali ferrosi, dai magazzini ai vagoni e di questi non so quanti ne riempimmo. Questo lavoro dur qualche giorno, infine un mattino, dopo aver preso la solita sboba ed il pezzetto di pane, ci fecero radunare al cancello duscita del campo con i nostri fagotti, eravamo allincirca i soliti 200 prigionieri italiani; uscimmo facendo la solita strada, ma questa volta invece di andare in fabbrica attraversando un sentiero fra i campi, passammo vicino a delle intelaiature di ferro dove venivano fissati i motori per il collaudo, prima di essere montati sui velivoli (fu qui che scoprirono gli inconvenienti fatti da quel polacco che ho citato in precedenza) camminammo ancora ed arrivammo ai limiti di un bosco, vedemmo dei fasci di binari, pronto vi era un lunghissimo treno composto da carri merci ed una vettura. Ci portarono vicino ai vagoni merci che erano al centro del convoglio, ci consegnarono razioni di pane ed altre cose che sarebbero dovute durare per tre giorni, cosa impossibile, con quella fame arretrata, poi cera sempre il pericolo che qualcuno le rubasse; in altri vagoni cerano russi e prigionieri di altre nazionalit, praticamente tutto il reparto della fabbrica. Eravamo in giugno, le giornate erano belle, i vagoni erano puliti e le porte scorrevoli erano aperte e non chiuse come quando ci caricarono a Mestre con lucchetto, cosa strana, in questo caso sembrava di incominciare un viaggio di piacere. Una potente locomotiva emise un lungo fischio ed infine linterminabile convoglio si mosse lentamente. Mentre il convoglio aumentava sempre pi la velocit, una buona parte di noi era appoggiata al ferro dellapertura del vagone, si filava in mezzo alla campagna e alle colline dove pochi contadini, uomini e donne, lavoravano i campi, purtroppo la guerra aveva reclutato tutti gli idonei per il fronte. Si sorpassavano piccole stazioni, piccoli paesetti, nel passare uno di questi si sentiva il rintocco di qualche campana, era mezzogiorno: non era un sogno, era una libert che si assaporava senza filo spinato. Il treno, sempre veloce, sferragliava sui binari, ci sembrava una musichetta allegra che non disdegnavamo, quel treno ci portava sempre pi lontano, dove non si sapeva, forse meglio o peggio, ma intanto ci allontanavamo sempre pi da quel campo con doppi reticolati impossibili da varcare anche solo con il pensiero e non sentivamo pi gli urli dei guardiani, il latrare dei cani lupo, le continue adunate e per chi voleva tornare a combattere la promessa di miglior vitto e la speranza di gettare quegli stracci che avevamo addosso. Quei pochi che accettarono erano allo stremo del ragionamento, dellabbruttimento e della fame: la fame una parola che solo un prigioniero sa cosa voglia dire, il lavoro coatto, il sonno, le continue paure.

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Finalmente arrivammo ad una stazione, forse GOTTINGEN, sebbene i vagoni fossero aperti, nessuno doveva scendere;

qualcuno veniva incaricato di ritirare una certa minestra, chiamiamola cos, fatta di miglio e non so di cosaltro che era abbastanza gradevole e soprattutto calda. Debbo dire che alla stazione assieme allinterprete che controllava, o meglio, verificava tutto il treno, ebbi la fortuna di fare la passeggiata di andata e ritorno anche io e notai, non me ne ero accorto alla partenza, che subito dietro la locomotiva al centro e in coda vi erano vagoni armati di tutto punto con mitragliere e cannoncini contraerei, quindi un treno merci molto importante. Intanto arrivammo in un grosso nodo ferroviario, binari a non finire, a distanza potei vedere la stazione, era MAINZ. Qui cambiarono la locomotiva, molto pi potente della prima, era tanto pulita che al sole brillava passando dal binario vicino; il macchinista che la port in testa era vestito di scuro, poi vidi un uomo ben vestito con camicia bianca e cravatta che camminava lungo il treno, arriv alla locomotiva e sal. Venni a sapere che il macchinista arrivava allultimo momento e prendeva in consegna tutto dal macchinista che dal deposito aveva portato la locomotiva allaggancio del treno. Tutto ad un tratto vedemmo una donna in divisa con berretto rosso che di corsa si portava in testa al treno, era una capostazione, in molti servizi le donne avevano preso i posti degli uomini chiamati al fronte. Mentre gi il convoglio si muoveva, le sirene davano lallarme aereo, il treno prendeva velocit e uscendo fra lintreccio di binari e scambi, passando sotto ponti dove passava la strada, vedevamo che su questi erano piazzati i mezzi antiaerei per difendere il nodo ferroviario che pareva molto importante. Intanto noi viaggiavamo abbastanza veloci nel bel mezzo della campagna e poco dopo si incominci a viaggiare lungo un grande fiume, il RENO; fra la ferrovia ed il fiume vi era la strada, dallaltra riva una ferrovia e una strada, era una bellissima giornata di fine giugno 1944, godevamo uno spettacolo unico. Fra la strada, la ferrovia ed il fiume, si susseguivano piccole stazioni, paesini, ville con giardini pieni di fiori, verdi prati ben tenuti. Sembrava un viaggio di piacere, per qualche
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ora avevamo dimenticato di essere dei prigionieri. Passammo alla periferia di una grande citt, potemmo vedere immensi palazzi e sullo sfondo una grandiosa cattedrale, era la citt di KOBLENZ, sulla quale erano disseminati innumerevoli palloni a varie altezze a difesa della citt dai bombardamenti. Intanto il treno si lasci da parte fiume, strada e citt, avviandosi in falsipiani e internandosi sempre pi in mezzo alla montagna, ad un solo binario. La strada ferrata saliva sempre pi ed il convoglio, che era pesante, diminuiva sempre di pi la velocit, fino a che si ferm in una larga semi curva. Il motivo di ci era la mancanza di materiale fra ruota e binario, quindi le ruote motrici slittavano. I ferrovieri, i militari tedeschi con laiuto dei prigionieri cercarono alla bene e meglio del materiale trovato ai bordi della massicciata, cospargendolo sulla rotaia per un centinaio di metri. La potente locomotiva piano piano, sbuffando cominci lentamente a salire mentre ferrovieri, ancora per un bel tratto mentre saliva piano, cercavano di mettere sulle ruote altro materiale granuloso, mentre la velocit cominciava ad aumentare, infine tutti salirono sul treno. Arrivammo in un altro grande e importante nodo ferroviario a TRIER, sempre in Germania, a poche decine di chilometri dal confine con il Lussemburgo, il quale era stato precedentemente bombardato a tappeto, binari, cabine per azionare gli scambi, stazione, vagoni per passeggeri, locomotive, carri merci e stazione. Rimanevano pochi binari resi efficienti in fretta e furia. In mezzo a questa desolazione rimanemmo pochissimo, il tempo per sostituire la locomotiva. Ripartimmo, passammo per THIONVILLE Francia- di questo non ne sono proprio sicuro, potremmo essere passati anche attraverso il Luxembourg arrivando a LONGWY, ed infine a VILLERUPR, a pochi chilometri dal Lussemburgo: qui scendemmo tutti e ci raggrupparono vicino a dei capannoni. Il viaggio dur allincirca tre giorni, perch veniva effettuato su itinerari sicuri in quanto anche i treni durante il tragitto venivano attaccati dagli aerei. Durante il viaggio non diedero pi niente da mangiare. Non appena la popolazione seppe dellarrivo di prigionieri italiani, gli italiani civili erano molti in quella zona, vennero subito a vedere e per parlare, naturalmente fra i tanti argomenti cera la fame: dalla partenza, pur cercando di razionare, non durammo pi di due giorni con i viveri. Intanto i tedeschi non volevano questi approcci e in un primo momento li allontanarono con discrete maniere, ma non erano pochi, li allontanavano da un punto e questi ritornavano dallaltro. Si fece sera e rimanemmo al posto di arrivo per la notte. Al mattino dopo, ben presto, ritornarono in gran numero portandoci pane ed altre cose, da notare che anche loro non ne avevano molto da scialare, avevano la tessera. Tutta questa gente era emigrata in Francia da tanto, la maggior parte dallItalia dopo la guerra del 1915/18. Tutti uomini che lavoravano nelle miniere, negli alti forni, nelle imprese edilizie, nelle strade, un qualsiasi lavoro per loro andava bene. I tedeschi volevano allontanare tutta quella gente urlando e minacciando, non potendolo fare chiamarono rinforzi, fra i quali anche delle SS: dovettero per forza maggiore rinunciare e scappare, perch fecero partire anche qualche scarica di fucile mitragliatore in aria. Poi arrivarono degli autocarri militari tedeschi, ci fecero salire e ci portarono in una caserma chiamata CHASSEUR des ALPES. Era in mezzo alla campagna, era stata prima a disposizione dei militari francesi, belle camerate pulite e ariose ed anche il dormire era buono, ci si poteva lavare e cerano i gabinetti, potevamo lavarci anche quei quattro stracci che ancora avevamo, ma mangiare ancora non se ne parlava. Il mattino dopo la sveglia, non ricordo se ci dissero qualcosa, ci fecero salire su un grande camion a rimorchio tedesco guidato da un caporale tedesco, il quale ci port nel paese di THIL, 10 chilometri circa. Ci fecero scendere nel centro del piccolo paesino, di l, sempre incolonnati, entrammo allimboccatura di una galleria e a piedi, seguendo le rotaie di un trenino con vagoncini trainato da un mezzo meccanico di cui non ricordo il nome. Dopo circa un chilometro arrivammo ad una vasta ramificazione di gallerie immense, l i tedeschi avevano approntato il posto per la fabbrica sotterranea al sicuro dai bombardamenti. Cominciammo a scaricare i vagoni, a caricarlo sui vagoncini e scaricarlo dai vagoncini per poi incominciare di nuovo il nostro lavoro: era tutto il materiale che avevamo caricato nella fabbrica di WOLSBURG, per noi questo ennesimo carico e scarico fu molto gravoso. Landata e il ritorno, per fare prima, i tedeschi avevano sempre pi fretta, si faceva sui vagoncini e quello che faceva da guida sul mezzo meccanico che trasportava i vagoncini doveva essere un pazzo o un mezzo ubriaco, andava troppo forte! Quei vagoncini erano
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stati requisiti al momento, prima portavano la terra che veniva sottratta dai minatori sotto la montagna per portala negli alti forni per ricavare acciaio e ferro. Dicevo che quel tipo che guidava andava troppo forte e difatti una volta due o tre vagoncini uscirono dai binari, alcuni di noi rotolarono a terra, altri rimasero sui vagoncini, in compenso, passato il primo momento, potemmo constatare che ce leravamo cavata solo con delle ammaccature, poi di corsa andammo verso il conduttore, ma lui, lesto, se lera svignata. Informammo dellaccaduto chi di dovere e da allora il tragitto venne fatto a piedi. Alluscita della galleria i minatori, di diverse nazionalit, sapendo che il nostro mangiare era poco, ci davano qualche gettone e con questi, accodandosi a loro potevamo prelevare un paio di mestoli di minestra che aveva lunico pregio di essere calda. Gli operai a volte la ritiravano, ma non essendo di loro gradimento la versavano nei nostri recipienti. Anche questo non dur molto, i distributori si accorsero che eravamo prigionieri, ci ritiravano il gettone e se non eravamo veloci ad allontanarci erano urla, qualche calcio e il mestolo sulla testa. Quando il turno finiva a mezzogiorno, alcuni operai italiani, romagnoli, ci invitarono, eravamo solo 4 o 5, a casa loro, a CITES de SORS, a qualche centinaio di metri dalluscita dalla galleria, in fretta e furia prendevamo una scorciatoia per arrivare da loro e trovavamo un piatto di tagliatelle, un p di secondo e pane e da bere. Tutto questo doveva essere fatto velocemente, perch dovevamo arrivare al posto di raccolta dove cera lautocarro per ritornare alla caserma, a scanso di guai. Al ritorno, come allandata, la scorciatoia era fatta di corsa e sebbene ai lati ci fosse la siepe, dovevamo stare abbassati per non farci vedere. Non era una cosa di tutti i giorni, poi fare una mangiata cos ogni tanto con tanta ingordigia che si aveva e non si era abituati da tanto tempo, cera anche la possibilit di incorrere in qualche inconveniente intestinale, poi il giorno dopo avevamo pi fame di prima. Oltre a noi, ai civili, agli altri prigionieri di altre nazionalit, cerano anche prigionieri politici ed ebrei, questi vestivano con dei pigiami a strisce larghe di un bianco sporco e blu, erano sorvegliatissimi, venivano accompagnati al lavoro, potevano essere circa in duecento, erano scortati da soldati armati con accompagnamento di cani lupo e dalle SS armate di tutto punto, tutto quel p p di roba per esseri umani ridotti a larve, che faticosamente si trascinavano. In questo paesino, THILL, era gi stato costruito un forno crematorio in terra, qui, man mano che quei poveretti morivano, dopo tanti patimenti venivano bruciati. Vicino a questo forno chiamiamolo di emergenza, ne costruirono uno pi grande in mattoni con fumaiolo alto una quindicina di metri, il quale funzionando giorno e notte emetteva sempre del fumo. (Nel maggio del 1978, di ritorno da una gita in Olanda, volli passare da quelle parti, cos dopo tanti anni andai a rivedere quel triste luogo dove oggi, al posto del forno crematorio, o su di esso, stata eretta una cripta, in memoria dei martiri, dai civili del posto con le offerte dei visitatori e soprattutto degli anziani prigionieri di guerra: il campo dove erano alloggiati i deportati era stato costruito nel 1944 al CAMP dERROUVILLE). Un giorno mentre si andava a lavorare, lungo la galleria incontrai un operaio il quale ci chiese di dove eravamo, ognuno disse la sua localit e quando tocc a me e dissi che ero di Rimini, lui di rimando disse che era di Viserba di Rimini, tre chilometri di distanza, eravamo compaesani: si trovava in Francia da molto tempo e abitava a HERSERANGE. Ci si incontrava spesso andando al lavoro, mi dava anche lui qualche gettone per ritirare il minestrone, anche se ormai i distributori ci conoscevano, quindi era inutile mettersi in fila. Un pomeriggio, mentre ci avviavamo alluscita della galleria, nel passarmi avanti, eravamo io ed un altro prigioniero, loperaio di Viserba mi allung un fagottino, camminando lo aprimmo: dentro cerano una decina di patate lessate, stavamo prendendone una per uno per mangiarle quando ci si avvicin uno di quei prigionieri (ebreo o politico): aveva due occhi fondi e sbarrati, era ridotto pelle ed ossa, allungava la mano con fare supplichevole, parlava ma non capimmo quale fosse la sua nazionalit. Noi due ci guardammo ed istintivamente gli allungammo tutto il contenuto: si appart in un angolo dove lo attendevano altri 3 o 4 suoi compagni, voltandosi indietro come per ringraziarci. Qualche secondo pi tardi sopraggiunse una guardia, la cosa avrebbe potuto finire male. Anche noi lottavamo giornalmente con la fame, ma quelli oltre alla fame subivano ben altre cattiverie. In tanta miseria un piccolo atto di solidariet umana fra infelici dalle diverse misure. Si continuava ad andare a lavorare trasportati dal solito grosso autocarro
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guidato sempre dal solito caporale tedesco. Nei giorni che si rimaneva in caserma andavo a gironzolare nel luogo dove tenevano gli automezzi e tra questi cera anche lautomezzo che ci trasportava. Il caporale era intento a cambiare un pneumatico che si era afflosciato. Mi misi ad aiutarlo, fatto questo andai a prendere dei secchi dacqua per pulire lautomezzo, nel frattempo feci capire che anchio nellesercito italiano ero automobilista e facevo quello che faceva lui. Da quel giorno, sia allandata che al ritorno, mi faceva sedere nella cabina di guida, la strada che si doveva percorrere in mezzo alla campagna non era molto larga per quel bestione di autocarro e sia sulla motrice che sul rimorchio, ammassati ed in piedi cerano lavoratori e lavoratrici, sempre prigionieri, di varie nazionalit ed et, cerano anche dei giovanissimi e le donne, come detto in precedenza erano Ucraine. Quel giorno, non lo ricordo, poteva essere luglio o agosto, la strada era polverosa e naturalmente il percorso era abbastanza tortuoso ed il conduttore, non so cosa avesse, manteneva una velocit troppo sostenuta. Sta di fatto che quelli stipati sul rimorchio ondeggiavano a sinistra e a destra a seconda delle curve; forse lui si divertiva a procedere cos. Ad un certo momento, io guardavo dallo specchio retrovisivo, in una curva a largo raggio vidi che gli occupanti del rimorchio erano letteralmente tutti sulla sinistra; in un attimo richiamai lattenzione del conducente che se ne accorse, rallent la corsa, ma ormai era troppo tardi e nella curva pi stretta gli occupanti vennero spinti verso la sponda di sinistra del rimorchio che sotto la pressione cedette seminando per terra quasi tutti gli occupanti dei quali alcuni finirono a ridosso di un muretto che delimitava la strada. Lautotreno si ferm dopo pochi metri, tutti si precipitarono a soccorrere i malcapitati, i feriti vennero caricati di nuovo, portandoli alla caserma, mentre i pi la raggiunsero a piedi. Quando arrivava il vettovagliamento, nella caserma i Russi si davano sempre un gran da fare, erano loro che scaricavano gli autocarri e naturalmente rubavano sempre, soprattutto le pagnotte nei sacchi, poi venivano ad offrirle a noi barattandole in particolare con le sigarette. Si vede che il conto, come sempre ai tedeschi non tornava, cos pensarono di fare, naturalmente a nostra insaputa, una rivista nelle camerate, trovando nei nostri fagotti e tascapane delle rimanenze di pane che non era del tipo che ci passavano, per cui desumettero che i ladri fossimo noi, e come punizione ci venne dimezzata la tessera del pane, ma a qualcuno di noi ci non stava bene e rifer il modo in cui venivamo in possesso di quelle pagnotte. Ma i Russi continuavano, sotto altra forma, di notte strisciando arrivavano al magazzino, toglievano una finestra, entravano e riempivano un sacco di pane, uscivano rimettendo a posto la finestra. Questo lo continuarono a fare ancora, andava bene anche a noi, ma i tedeschi volevano cogliere sul fatto i ladruncoli. Una sera i tedeschi lasciarono dentro il magazzino alcuni guardiani come al solito i russi fecero la solita operazione, purtroppo appena cominciarono ad impossessarsi di quanto faceva loro comodo, i guardiano accesero tutte le luci ed armi alla mano li legarono tutti. Noi italiani venimmo scagionati dai furti e potemmo riavere le razioni che ci avevano decurtato in precedenza, mentre i Russi ebbero 10 giorni di prigione con sospensione degli alimenti. Si era arrivati ormai al settembre 1944 e ai tedeschi, su tutti i fronti, non ne andava bene una, le notizie le apprendevamo dagli operai italiani, la fabbrica che si stava costruendo sotto il tunnel della montagna non progrediva. Noi, come sempre, venivamo portati al lavoro dal solito autotreno nella piazzetta del paese THIL, poco distante dal tunnel: l cerano due caff e non essendo molto rigida la sorveglianza a noi italiani, talvolta venivamo invitati dai lavoratori italiani a bere, a volte ci allungavano qualche franco ed allora ci compravamo qualcosa da mettere sotto i denti. Gli anglo americani avevano dilagato per una buona parte della Francia, dopo lo sbarco, ed avanzavano verso la nostra direzione. Per noi prigionieri cominciava un certo allarmismo, si notavano gi reparti che passavano dirigendosi verso il confine tedesco, si cominciava a parlare di internarsi nei boschi, oppure cercare di andare incontro alle truppe alleate, tutti castelli in aria e poi, se ricadevamo nuovamente in mano tedesca, quale fine si faceva? Gi quando si arrivava per andare al lavoro qualche elemento italiano o francese propagandava di unirsi ai partigiani maquisard- per assalire i tedeschi oppure fare sabotaggi. La situazione diventava giorno per giorno sempre pi critica, si era fra lincudine e il martello, dopo tante peripezie di guerra prima, prigionia, bombardamenti e lavoro, si cercava di tergiversare il pi possibile prima di avventurarsi in una mossa falsa, perch ai tedeschi, che diventavano giorno dopo
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giorno sempre pi cattivi, bastava un niente per fucilarti o farti penzolare da un albero o da un traliccio della luce. Il cerchio si stringeva sempre pi nella zona dove eravamo, a lavorare non si andava pi, inoltre dalla caserma ci avevano trasferiti ai bordi di un bosco vicino al paese di THIL con i tedeschi e tutti i loro mezzi carichi, naturalmente si era in attesa dellordine per rientrare nuovamente in Germania. Per noi la situazione diventava tragica, colonne interminabili con mezzi di tutte le specie, carichi fino allinverosimile, passavano dallunica strada poco distante da noi, qualsiasi mezzo veniva requisito, ogni tanto i partigiani si facevano vivi attaccando la colonna con sporadiche uscite, ma subito si ritiravano; questi erano costretti a fermarsi per difendersi, con grande perdita di tempo. Fra di noi si intrufolava qualche civile chiedendoci di lasciare i tedeschi e di entrare nelle file dei partigiani e non rientrare in Germania, perch andavamo a morire. Nonostante la situazione allarmante, nessuno di noi sapeva quale fosse la decisione migliore. Le notizie sui fronti per i tedeschi diventavano sempre pi catastrofiche, in Russia, in Francia poi neanche a parlarne, PARIGI era caduta in mano agli anglo americani che dilagavano in ogni dove, in Jugoslavia i partigiani non davano tregua: queste notizie ce le portavano gli operai che sentivano la radio clandestinamente. Gli stessi operai ci dicevano di rimanere qui il pi possibile, di non farci ingannare da nessuno, perch allultimo momento avremmo potuto essere liberati dallesercito alleato. Eravamo arrivati al mese di ottobre 1944 e fra quei monti, specialmente alla notte, faceva freddo, avevamo sempre un cappotto rotto, come sempre il mangiare era insufficiente e cattivo ed alcuni giorni lo davano solo una volta, cera da stare poco allegri su tutta la linea. Ogni operaio che conoscevamo ci diceva che se si decideva di scappare, in una maniera o in unaltra, ci avrebbe ospitato o ci indicava, a seconda dei momenti, dove ci si poteva nascondere. Quelloperaio italiano di VISERBA che ci diede le patate, quando mi vedeva mi diceva che se decidevo di scappare, potevo andare a bussare a casa sua nel paese di HERSERANGE, dove il trenino locale trasportava gli operai ogni giorno da THIL, dove si lavorava. Si attendevano giorno dopo giorno gli ultimi sviluppi della ritirata tedesca e quando sarebbe venuto lordine della nuova partenza. Le strade, specialmente quelle dove vi erano biforcazioni, sia di giorno che di notte, erano pattugliate da tedeschi armati fino ai denti, lungo la ferrovia non era consigliabile, inoltre di giorno i tedeschi, con i loro potenti binocoli, scrutavano i boschi per vedere movimenti di partigiani. I civili erano presi da una paura indescrivibile, paura di rappresaglie, spiate, vigliaccherie, invidie, gelosie e rancori accumulati per il lungo periodo di occupazione dei tedeschi, aspettavano il momento di questo rovesciamento di cose per vendicarsi di tutto il male che avevano ricevuto prima. Intanto venimmo a sapere che gli alleati erano ad una trentina di chilometri, difatti un nostro scaglione con autocarri era stato approntato con tutti i materiali ed al mattino seguente partirono prestissimo per rientrare in Germania, poi sarebbe toccato a noi: era il momento di decidere. Non passarono nemmeno 24 ore che vedemmo rientrare a piedi quelli che erano partiti, le notizie furono subito poco rassicuranti: erano stati bloccati al confine lussemburghese da violenti attacchi aerei, mitragliamento e attacchi di partigiani. Pass ancora un giorno poi venne anche per noi lordine di stare pronti per la partenza. La decisione la prendemmo subito, eravamo una ventina circa, il trenino che portava gli operai a casa partiva verso le diciotto, era autunno e quindi era scuro perci, in ordine sparso, ci portammo il pi possibile vicino al trenino sul quale, appena si mosse, salimmo: ci volle circa una ventina di minuti prima di arrivare, sembr uneternit, fortuna volle che non pass nessun controllo, scendemmo dal trenino ed ognuno si incammin verso la sua destinazione. Ad un tratto vi fu un fuggi fuggi, erano arrivati i tedeschi, correvano un p dappertutto. Si era fatto notte, cercai di orientarmi dirigendomi alla belle e meglio verso quellagglomerato di case degli operai (lAndrevou- non so se sia scritto esatto), bisognava muoversi con cautela, con la speranza di non incappare in qualche pattuglia. Finalmente arrivai in una strada fiancheggiata da due lunghe file di case, purtroppo causa lo scuro non riuscii a trovare labitazione che cercavo. Mi trovai fuori dallabitato, quando a distanza vidi unombra che si dirigeva verso di me, mi stesi per terra e a carponi, senza far rumore, cercai di allontanarmi il pi possibile dalla strada verso il bosco, seguii quellombra con trepidazione finch non si allontan. Ritornai in strada, poi mi imbattei in una casa isolata, girai intorno, silenzio assoluto, notai una finestra aperta che dava in uno scantinato, misi
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met corpo dentro, accesi un fiammifero, dentro non cera nessuno, vi era ammassata della paglia cominciava ad essere tardi e fuori iniziava a fare freddo: presi il coraggio a due mani, entrai, mi buttai sulla paglia e presi sonno. Quanto dormii non so, ma mi svegliai di soprassalto perch avevo sentito muovere qualcosa: presi paura, ero diventato di ghiaccio, fuori le prime luci dellalba, poi sentii come un grugnito, ero finito in uno scantinato deve tenevano i maiali, mi girava intorno, forse come me aveva fame e grugniva sempre di pi. Pensai che da un momento allaltro potesse venire il proprietario della casa, mi alzai, mi scrollai tutta la paglia che mi si era appiccicata addosso, uscii e mi diressi sulla collina per vedere di orizzontarmi. Scesi dalla collina verso la strada dove cera una fila di case e mentre camminavo scrutavo le targhette delle porte e finalmente trovai quella buona. Era lora in cui gli operai si avviavano al lavoro. Mentre stavo bussando alla porta, questa si apr era loperaio di Viserba che stava uscendo per recarsi al lavoro. Mi aspettavano gi da qualche giorno, mi accolsero la moglie e i figli i quali stavano mangiando il caff latte, mi fecero accomodare e anchio dopo oltre 24 ore che non toccavo niente, mi rifocillai come ai vecchi tempi. Parlammo velocemente sul da farsi, poi mi accompagn in alto sotto il tetto, quindi lui scese per andare a lavorare. Passarono cos 4 o 5 giorni, scendevo solo per mangiare, cos venivo a sapere comera la situazione in generale. Ad un certo momento non mi fecero pi scendere, mi portavano loro da mangiare. Logicamente col passare dei giorni qualcosa era cambiato nei miei confronti, forse parlando con altre persone, giustamente, erano stati messi in guardia su ci che poteva succedere loro tenendo un prigioniero in casa, soprattutto la moglie era molto cambiata nei miei riguardi. Presi nuovamente il coraggio a due mani e parlai con il marito, gli dissi che alla sera stessa avrei tolto il grosso impegno e lui mi elenc i motivi di questo loro raffreddamento nei miei riguardi. Gli alleati erano vicinissimi al paese, i tedeschi dal canto loro erano diventati ancora pi cattivi, depredavano di tutto, animali di ogni specie, carretti, biciclette, le toglievano a viva forza ai civili incontrandoli, chi si opponeva erano insulti, botte e magari chi pi vivacemente si opponeva si buscava una pallottola. Chi mi aveva ospitato temeva una spiata di qualche persona che non era in buona armonia n con i tedeschi, n con i partigiani, poteva succedere di tutto. Difatti chi dava asilo a prigionieri di guerra poteva essere passato per le armi senza tanti processi, sia io che chi mi aveva ospitato. Non era il caso di mettere a repentaglio una famiglia e lindomani mattina me ne sarei andato, dove lo avrei deciso in quel momento, la situazione non era rosea. Alla sera lo feci presente al capo famiglia non appena rientr dal lavoro, ma lui aveva gi in mano la chiave della mia partenza, mi avrebbe accompagnato da un suo amico, ad una decina di chilometri e precisamente a SAULNES, lungo un sentiero ai bordi della collina e boschi. La mia situazione incominciava a scottare e sbrogliare una matassa del genere non era di facile soluzione. Consegnarmi alla polizia francese, come prigioniero di guerra italiano fuggito ai tedeschi con il bel precedente della dichiarazione di guerra alla Francia (cosiddetta pugnalata alla schiena) cera il rischio, come gi mi avevano riferito, di andare dritto come un fuso alla legione straniera, oppure mi avrebbero consegnato nuovamente ai tedeschi. Un rebus di non facile soluzione. Decisi di accettare di farmi accompagnare da quel suo amico, cos al pomeriggio, dopo aver salutato la famiglia che mi aveva ospitato, forse chiss quale sospiro avranno fatto, ci incamminammo ai bordi della collina fra alberi e cespugli, pi sotto cera la strada e parallelamente a questa vi era la ferrovia. Lui camminava davanti a me per un centinaio di metri con locchio teso dappertutto. Sulla strada sfrecciava qualche sidecar tedesco, forse porta ordini. Arrivammo alla periferia del paesetto, ci fermammo, poi lui si avvi da quel suo amico, ma ritorn quasi subito dicendomi che non intendeva pi ospitarmi, ma che avrebbe voluto parlarmi. Il discorso non fu lungo, capii la sua tendenza e ci che mi voleva far fare, ci liquidammo. Ero incappato in due esseri talmente ambigui e disonesti, il tutto era stato preparato da tempo e ad arte, la fortuna non era dalla mia parte. Che fare? Decisi ugualmente di ritornare nei pressi del posto di partenza, questa volta costeggiando la ferrovia, con lui che questa volta mi stava alle calcagna. Gli feci capire con parole dure, che doveva pensarci prima di mettermi in una situazione del genere, tanto pi che gli avevo prospettato la non facile situazione, lui camminava in silenzio, stava a testa bassa come un colpevole, daltronde
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anche lui sperava che la situazione potesse essere migliore. Lasciammo la ferrovia, scendemmo per un viottolo, fra siepi e alberi, notai un grosso agglomerato, le prime parole che disse quello l furono: uno CHATEUX, ed arrivammo ad una casupola e da un finestrino potemmo vedere che conteneva del fieno per il bestiame. Davanti alla casupola cerano 4 o 5 persone, sembrava ci fossimo dati appuntamento, fra questi un tizio con giacca di pelle, calzoni alla zuava, grossi scarponi da montagna, piuttosto malandato, et sui 50 anni. Parlava in italiano, dimostrando una buona dose di ignoranza. Mi rivolse subito la parola in tono brusco: italiano, prigioniero dei tedeschi, porti ancora la divisa militare italiana, sei fuggito, una vergogna. Tu appartenevi allesercito italiano e dei fascisti, hai perso la guerra, sei in terra francese, avete pugnalato la Francia alla schiena, cosa intendi fare ora? Ero capitato di male in peggio. Il tutto sembrava una cosa precedentemente messa a punto da quelloperaio che sembrava essere il mio salvatore. Dalla sorpresa passai allo sbigottimento e in quel momento maledii laver accettato quella soluzione, era meglio che fossi ritornato in Germania. Anche in questo caso ogni soluzione poteva essere buona o cattiva. Cosa rispondere ad un attacco del genere? Nel frattempo si radunarono altre persone, vecchi, donne e bambini, qualcuno mi guardava con commiserazione, forse aveva figli in guerra o magari prigionieri, qualcuno era nei partigiani. Mi ripresi da quel marasma e gli risposi che fortunatamente ero arrivato fino a questo punto attraversando un sacco di peripezie che di guerra e prigionia ne avevo avuto abbastanza e avrei tentato il tutto e per tutto per portare la mia vita a casa, dove avevo genitori e famiglia. La sua nuova proposta non fu molto allettante, mi disse che l cerano ancora i tedeschi e che sarei dovuto rimanere in quella piccola casupola fino al giorno successivo allalba, cerano altri 2 o 3 nelle mie stesse condizioni di diversa nazionalit, mi avrebbero portato da mangiare, coperte per la notte, poi sarei stato accompagnato con gli altri allinterno della montagna, fra i boschi, per avere un addestramento per attaccare le colonne dei tedeschi in ritirata. Era in gioco una grossa posta, con tono fermo gli ripetei che di guerra ne avevo avuto abbastanza, non accettavo quella soluzione e la morte o la libert me la sarei giocata da solo. Il tizio and su tutte le furie, inve contro di me con parolacce, sput per terra in segno di disprezzo e per impaurirmi apr il giaccone mostrandomi bombe e rivoltella; non mi mossi e anche se con le mani mi venne vicino al viso, non indietreggiai nemmeno di un centimetro. Vista la mia fermezza si allontan, poi rivoltandosi ancora verso di me abbozz qualche altro gesto di stizza e dure parole. In quel momento incrociai lo sguardo con loperaio che mi aveva combinato quel guaio, abbass la testa e si allontan. Nel gruppetto di persone vicino a me la maggior parte erano italiani che da sempre erano emigrati in quel bacino pieno di altiforni: nessuno aveva preso parola, ma mi guardavano con compassione, quando un ometto anziano si stacc dal gruppo, venne verso di me, mi prese per un braccio e facendomi camminare per un sentiero, attraversammo un campo e ci avviammo verso quel gran complesso in muratura che avevo visto dalla ferrovia, era il CHATEUX. Tutto intorno alberi secolari e giardini, costeggiammo un laghetto dove cerano una numerosa variet di animali acquatici, poco lontano alcuni pavoni. Non una parola ci scambiammo durante il tragitto, arrivammo a casa sua, entrammo in una vasta cucina a pianterreno, dentro cera unaltra persona, la moglie, due ragazze, le figlie, ed una donna anziana. Ci sedemmo tutti intorno ad un tavolone, tutti volevano sapere sul mio conto, in breve raccontai la mia storia e di quelloperaio che mi aveva portato a questo punto. Alla fine lomino disse: per il momento resterai qui, vedremo come si metteranno le cose, un piatto di minestra c anche per te, per il dormire il mio amico faceva il calzolaio- ti insegner il posto pi o meno sicuro, sperando che tutto vada bene, perch i tedeschi sono agli sgoccioli e dove passano durante la ritirata ne combinano di tutti i colori. Con luomo che faceva il calzolaio, con le poche cose che avevo, incominciammo a salire le scale, erano molte perch il caseggiato era alto, finch arrivammo sotto il tetto. Lui abitava l, aveva il suo piccolo laboratorio, mi fece vedere dove dovevo stare ed infine mi insegn litinerario attraverso il tetto per arrivare alla strada, dove dovevo attraversarla per prendere poi una scorciatoia per finire in unaltura dove cera un bosco fittissimo. Questo piano era stato studiato nelleventualit che i tedeschi avessero fatto un rastrellamento. Intanto avevo trovato, finalmente, persone buone, mi davano da mangiare quel tanto dato che cera la tessera su tutti gli alimenti, dei gran sonni non ne facevo,
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stavo allerta, perch nelleventualit ci fosse stata qualche brutta novit, attraverso segnali, avrei dovuto prendere la strada che mi era stata gi indicata. Ad una certa ora del mattino andavo al piano terreno e l facevo colazione con una tazza di latte e del pane, la fame era molta ed arretrata, ma mi accontentavo. Poi con quellomino, con zappa, badile e piccone, si andava al campo a dissodare la terra per piantare un p di tutto e questo lo si faceva al mattino e al pomeriggio. Da notare che ad un centinaio di metri da dove si lavorava, cera la strada dove passavano colonne di carri, camion e truppe a piedi tedesche, per raggiungere il confine con il Lussemburgo da una parte e quello tedesco per rientrare in Germania; la situazione era calma, qualche giorno era passato, ma durante il lavoro nel campo tenevo docchio la strada per precedere uneventuale scorribanda verso il campo. Nelledificio dove ero ospitato abitava anche una donna vestita da zingara, una capigliatura da rabbrividire, la battezzai come strega, era nientemeno che la sorella di quello che mi propose di andare a fare il partigiano e, sapendo questo, cominciai ad avere un certo timore. Il mio timore era infondato perch quella donna venuta a trovare la famiglia che mi ospitava, appena mi vide disse: non aver paura, mio fratello non cattivo, ce lha con i tedeschi ed i fascisti ed ormai di tedeschi non ne passeranno pi. Quella donna aveva centrato in pieno, difatti il giorno dopo, era mezzogiorno, si sentirono urla e frastuono di trombe da non molto lontano, erano arrivate le truppe alleate, io pi di tutti tirai un sospiro di sollievo, finalmente era finito un grosso incubo. Dopo poco nel grande cortile ecco avanzare il partigiano con altri uomini ed un codazzo di gente, erano tutti euforici, mi domandai subito cosa poteva succedere. Tutti gli abitanti del complesso si erano riversati nel grande cortile ed ecco che arriva il partigiano in pompa magna, con giacca di pelle tutta aperta, cinturone pieno di proiettili, rivoltella nella fondina ed infilati negli stivali un tipo di bombe con manico che usavano i tedeschi, inoltre nelle tasche bombe a mano. Con lui altri uomini vestiti alla stessa maniera, erano tutti esagitati. Approntarono un grande tavolo con intorno panche dove si era insediata una commissione. In un batter docchio furono rastrellati uomini e donne di tutte le et, tutte persone che a loro dire avevano parteggiato per i tedeschi o per i fascisti, con maniere brusche ed insulti venivano interrogati, poi la commissione decretava la punizione. Alle donne soprattutto venivano tagliati i capelli a zero, una di queste non ne voleva sapere, cos oltre ad essere rapata, la poveretta fu denudata e fatta girare su e gi sopra il tavolone. Fra tutta quella gente appartato assistevo anchio, il partigiano venne verso di me, apr il giaccone facendomi rivedere il suo armamento magnificandosi di aver anche lui liberato la Francia. Non dissi nulla, mi era andata bene, ma il vecchietto che mi ospitava venne verso di me, mi prese sotto braccio e ci infilammo a casa sua. Aveva ragione, perch oltre tutto, avevano incominciato a bere vino e con quei fumi da un momento allaltro poteva succedere qualunque cosa. La gazzarra dur a lungo , fino a notte e la maggior parte per festeggiare la liberazione: alla fine dopo aver mangiato e bevuto erano tutti ubriachi. Subito dopo la liberazione ci avventurammo un p per il paese di Herserange e ci spingemmo fino al paese confinante di Longwy Bas e Longwy Haut e fu qui dove vedemmo cosa fecero i tedeschi in ritirata: avevano catturato dei partigiani ed anche degli inermi civili incolpevoli e senza nessun processo li impiccavano ai lampioni stradali e ai tralicci di alta tensione e venivano lasciati l per giorni, come ammonimento. Furono tolti solo qualche giorno dopo, quando ormai tutte le truppe tedesche erano passate. Rimasi l ancora qualche giorno, con la tessera che cera e con pochi soldi per comprare al mercato nero, non potevo stare a pesare sulle spalle di quella famiglia che gi aveva fatto tanto per me, li ringraziai, presi il mio fagotto e mi avviai in paese in cerca di fortuna. Non appena arrivai al centro del paese mi imbattei in altri prigionieri i quali vivevano della carit degli operai, la cui maggior parte erano italiani, cos una volta presso una famiglia o unaltra, si tirava avanti. Nel frattempo si cercava qualsiasi lavoro, i pi fortunati che erano in paese si erano messi a disposizione degli americani, i quali li avevano ingaggiati come uomini di fatica e passavano loro rancio, dormire e paga.
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Non appena lo seppi mi precipitai al paese di Logwy Bas, ma purtroppo non ci fu nulla da fare, erano al completo e lunica cosa positiva dato che avevano appena finito la distribuzione del rancio, prima che buttassero via i resti, ci riempivamo il gavettino che portavamo dietro, facendo una buona scorpacciata. Un giorno mi infilai in un autocarro, era una colonna di autocarri di prigionieri che venivano avviati in parte in Inghilterra e America, ma a seguito di un controllo allultimo momento dovetti scendere. Mi bastava allontanarmi da quella zona, ma la fortuna non era dalla mia parte. Era arrivata la libert, mancava il lavoro e bisognava mangiare e dormire. Ritornammo al paese ed io ed un altro ci accomodammo presso la casa di un operaio, solo per dormire, purtroppo sloggiammo subito, eravamo arrivati di sera e al mattino ci accorgemmo di essere capitati in una casa piena di sporcizia con cimici, pulci e pidocchi, questa casa era alla periferia del paese. Nel ritornare verso il centro del paese ebbi un colpo di fortuna: passando lungo una fila di case incontrai un altro prigioniero il quale ebbe una grossa fortuna, si era sistemato presso una famiglia che aveva di tutto, generi alimentari ed altre forniture, piatti, detersivi, ecc. Lui aiutava il padrone per andare a ritirare con un piccolo automezzo il necessario giornaliero, aiutava nel negozio, in compenso mangiava e dormiva, una bella fortuna! Cos la mia piccola fortuna avvenne per quella fermata: un anziano ed un giovane si avvicinarono a noi due e vedendoci in difficolt ci dissero di fermarci per qualche giorno presso di loro. Era da tempo che non dormivo in un vero letto con materasso, lenzuola e cuscino. Al mattino , quando tutti si alzavano, io ero gi in piedi e cercavo di uscire per andare a trovare lavoro, ma prima duscire volevano che mangiassi caff latte e pane assieme a loro. Questa famiglia, composta di due persone anziane aveva una figlia che aveva sposato un camionista e poteva barcamenarsi bene, perch il camionista, nei trasporti, poteva trovare di tutto. Giravo tutto il giorno in cerca di un lavoro qualsiasi, niente da fare, mancavano i documenti, poi i francesi ci guardavano sempre con diffidenza in particolare per quella pugnalata alla schiena della nostra entrata in guerra contro di loro allultimo momento. Cercavo di entrare in casa sempre dopo cena dicendo che avevo gi mangiato, ma purtroppo il pi delle volte si poteva racimolare solo qualche panino; il vecchio, quando rientravo a casa, mi diceva sempre che alla sera aveva piacere che mangiassi con loro e ci avveniva qualche volta, quando proprio non si trovava niente. Ognuno di noi prigionieri bussava dovunque per trovare lavoro e qualcuno, a forza di insistere trovava, chi riusciva a fare il garzone, chi in officina, chi andava a sgombrare i pozzi neri e questo era un bene perch qualche volta aiutavano quelli che non riuscivano a trovare lavoro. Qualche domenica eravamo invitati a casa di qualche operaio: ci preparavano ogni ben di Dio che quando ci alzavamo da tavola eravamo talmente pieni che non riuscivamo a muoverci. Un giorno ci avventurammo nel paese confinante, Herserange Longwy, eravamo nei pressi della stazione ferroviaria, quando fummo avvicinati da un signore in borghese, italiano, noi eravamo vestiti ancora con la divisa militare ormai ridotta ad uno straccio, ci disse che sembravamo dei tedeschi sbandati e sarebbe stato meglio trovare qualche vecchio vestito, perch avremmo potuto incappare in qualche Francese che per vecchi rancori ci poteva dare qualche buona pestata e se ci avesse fermato la polizia senza documenti ci avrebbe arrestato poi inviato in qualche loro campo di concentramento o peggio nella legione straniera. Quellinformazione fu un toccasana ed in fretta ritornammo al paese.
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Ci demmo subito da fare e presso qualche famiglia potemmo avere un paio di calzoni ed una giacca, cos ci liberammo della divisa militare. Un giorno un signore mi mand a chiamare, gestiva unazienda di autotrasporti, era stato informato che ero capace di condurre automezzi, andai a sentire, aveva bisogno di un autista che con un camioncino facesse dei trasporti da Herserange a Parigi e ritorno. Fu una proposta che mi andava bene, ma non avevo la patente, anche se in quel periodo non cerano controlli: il trasporto era composto di alimentari e medicinali. Andai a vedere lautomezzo, si presentava bene e dovevo dare la risposta a breve. Alla sera, quando rientrai presso la famiglia che mi ospitava, lo feci presente al camionista il quale subito mi disse che non facevo un grande affare: chi aveva fatto quel servizio prima, si era ritirato perch il camion esteriormente faceva una bella figura, ma in fatto di meccanica cera da rimanere sempre in avaria per la strada, perch il mezzo era stato molto sfruttato, inoltre cera anche materiale di contrabbando, quindi cera da stare poco allegri. Inoltre cera da girare a Parigi ed io non la conoscevo, non era una cosa adatta alla mia situazione. Ritornai da quel signore dicendo che rinunciavo, lui insistette a lungo, ma rimasi sulla mia decisione nonostante mi avesse fatto una buona proposta. Finalmente venne il primo lavoro, si trattava di caricare materiale di laterizi demoliti di una ciminiera di una grande officina, non cerano altre vie duscita per sbarcare il lunario, accettammo in diversi prigionieri pi qualche civile. Quando al mattino ci presentammo sul posto, il capo operaio ci indic il da farsi, sui binari stazionava un vagone tedesco della portata di 40 tonnellate, al fianco una collinetta di materiale. Il lavoro iniziava al mattino alle 7,30, alle 11.30 siesta per mangiare, poi dalle 13 alle 18, una bella tirata, si era in otto persone e se si finiva prima, si era liberi. Si cominciava da sopra il cucuzzolo, gettando i mattoni dentro il carro; fino a che eravamo in alto, tutto bene, ma man mano che il cucuzzolo diventava piccolo, dal basso dovevamo tirali dentro verso lalto, oltre al ripiegamento della schiena bisognava lanciare i mattoni con forza per superare lalta sponda del vagone e ci diventava sempre pi gravoso man mano che ci si avvicinava al suolo. Per noi era un lavoro molto pesante, naturalmente il primo giorno divent un calvario, braccia e schiena facevano male. Per mangiare, alle 11.30, si andava alla mensa operai dellofficina e si mangiava, generalmente, un minestrone di verdure che almeno ci scaldava lo stomaco, si lamentavano anche i civili; per secondo erano piatti alla francese e la razione di pane della tessera, il pagamento di questo pasto avveniva con trattenuta sulla busta paga a fine settimana. Pass cos la prima settimana, visto che il lavoro era continuativo decidemmo di togliere il disturbo alle famiglie che ci davano da dormire e qualche volta anche da mangiare. Ognuno di noi cerc di sistemarsi come meglio poteva. In un vecchio caseggiato vicino allofficina trovai una cameretta per pochi soldi, sotto i tetti, dove la luce filtrava da una finestrina che dava sui tetti, poi una finestra a vetri, rotti, dovetti rappezzarla con cartoni. Cera un vecchio letto in ferro con un materasso che dentro doveva avere paglia e foglie, lenzuoli che il bianco, anche lavandoli con la varechina non lo avrebbero pi visto, un paio di coperte di lana tutte sdrucite, un affare in piume da mettere in fondo ai piedi, un catino che era alquanto arrugginito: lacqua dovevo andarla a prendere al piano di sotto prima di andare a dormire e al gabinetto bisognava andare prima di coricarsi perch era su ogni pianerottolo. Purtroppo il cambiamento fu alquanto desolante, avevo avuto la fortuna di dormire per un certo tempo in una cameretta, date le condizioni, da principe, e per essere troppo onesto e altruista ero finito come lultimo dei mendicanti. Era arrivato anche linverno e alla notte faceva freddo. Dove andavo a prendere lacqua per lavarmi al mattino, questo lo facevo alla sera, cera un lungo corridoio, ai lati camere occupate da emigranti e stranieri, famiglie con bambini. Cera una promiscuit poco rassicurante, quando passavo di l mi invitavano ad entrare, lo feci una volta, ma annusai che era compagnia poco adatta per me: le porte erano sempre aperte, mi feci subito un quadro del degrado dellambiente, tutte le sere era sempre baldoria, bevevano, ballavano, coppie distese sui letti senza alcun ritegno, e col passare della sera erano parecchi che avevano alzato troppo il gomito ed allora per un nonnulla, parolacce, spintoni, qualche scazzottata, per non dire di peggio, fra urla di donne e bambini, scene di poco gusto, era meglio stare alla larga, perch poteva arrivare la polizia ed allora sarebbero stati dolori.
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Alla sera cominciava a fare freddo e noi ci radunavamo nella sala di un vicino alberghetto, il proprietario era un italiano che commerciava anche legna da ardere, nel bel mezzo cera una grossa stufa in ghisa che andava a carbone: era unusanza anche austriaca e di nazioni vicine, ci si metteva tutti intorno seduti facendo circolo; oltre a noi cerano anche civili, anziani, operai e maestre anziane che facevano ancora scuola. La cena per noi alla sera era di un filone di pane con burro e salame o mortadella, ce lo preparava la padrona, ed un bel bicchiere di birra. Le maestre si interessavano molto alla lingua italiana, ad alcuni di noi interessava il francese, a me soprattutto, avendolo studiato a scuola facevo buoni progressi. Prima che chiudessero il bar, a mezzanotte, mi facevo fare una tazza di caffelatte molto calda e se mi rimaneva del pane facevo una bella zuppa, cos mangiavo e mi scaldavo lo stomaco: i miei soldi li spendevo sempre per mangiare, i miei compagni se li fumavano. Cominciava a far freddo sul serio, il paese era fra colline, montagne e foreste, salivo le scale per raggiungere la camera alla debole luce della notte che filtrava dalle finestre, le quali avevano la maggior parte dei vetri tutti rotti ed era un continuo inciampare negli scalini di legno, anchessi malandati. Ogni due rampe di scale un pianerottolo dove iniziava il corridoio con ai lati le camere e cucine, le porte tutte sgangherate e piene di fessure lasciavano filtrare la luce e rivoli di fumo di sigarette, un continuo vociare nelle varie lingue, polacchi, tunisini, marocchini. La cosa migliore era non incontrare mai nessuno di notte per le scale, specialmente donne, perch cercavano di adescare chi gli capitava a tiro, se poi cera qualche controversia si mettevano ad urlare per far uscire amici dalle stanze per poi senza alcuna ragione pestare il malcapitato che in fondo non aveva nessuna colpa. Entravo nella camera, accendevo una lampadina che dava pochissima luce, mi toglievo il cappotto ormai logoro, i vecchi scarponi da militare che avevo sempre rispettato, poi mi infilavo con disgusto in quel lurido letto tutto vestito. Non che mi costasse molto di affitto, ma quei pochi soldi non se li meritava. Faceva molto freddo ed un bel mattino, quando mi svegliai, trovai lacqua del catino che si era gelata, dovetti rompere il ghiaccio, mi lavai la faccia alla meglio, come fa il gatto, e poi gi a lavorare. Di notte mi mettevo una beretta di lana in testa che ero riuscito sempre a salvare dalle perquisizioni dei tedeschi: me laveva fatta mia madre molto prima del richiamo ultimo nei soldati, ancora oggi 1983, ladopero qualche volta alla notte quando ho il raffreddore, perch in quella camera di notte faceva in freddo cane. Ci si avviava verso la fine di dicembre 1944, si lavorava, la situazione era migliorata, ma non al punto che si potesse scialare, percepivamo una delle ultime paghe da operaio, fra mangiare, pagare laffitto, far lavare qualche straccio, nuovi non era possibile comprarli, a fine settimana bisognava arrivare facendo qualche rinuncia anche nel mangiare. IL lavoro di carico sui vagoni fin. Il tempo era sempre pi cattivo, freddo, pioggia ed anche neve. Si incominci il trasferimento dei materiali edilizi con la carriola, la si riempiva, poi si ritornava, cos per tutte le otto ore di lavoro. Fin che la neve era ghiacciata tutto bene, ma con il salire della temperatura dove si doveva passare era tutta una poltiglia, cosicch quando si arrivava alla fine del lavoro, scarpe e calze erano tutte inzuppate di acqua e fango ed i piedi intirizziti. Per asciugarci un p, alla sera, ci mettevamo il pi possibile vicino alla stufa. Raffreddori ne prendevamo uno dietro laltro. Quando avevamo fatto una bella catasta dovevamo riempire il solito carro merci. In questo stesso luogo i tedeschi ci avevano tolti quando ancora dovevamo lavorare nella fabbrica sotto la montagna: il lavoro consisteva nel caricare vagoni ferroviari con materiale di roccia che era passato sotto il frantoio, materiale che serviva per strade e fortini. Questo materiale veniva caricato con speciali, chiamiamoli forconi, perch doveva essere un pietrisco di uguale misura. Era un lavoro alquanto faticoso. Durante la giornata di lavoro, in certi punti della fabbrica cerano dei barili di ferro con una griglia, nel cui interno veniva messa prima della legna poi del carbone, venivano accesi perch a turno operai e operaie dato il freddo, alternativamente si andavano a scaldare, vi erano poi quelli che erano addetti alla pulitura delle patate, raccolte in ritardo, sporche di terra che venivano ripulite. Questi, mentre facevano questo lavoro, mettevano alcune patate ad arrostire sotto la cenere, per poi mangiarle. Facevamo la spola con la carriola, eravamo 6 o 7 italiani e passavamo vicino a loro, sentivamo lodore delle patate che si abbrustolivano e naturalmente guardavamo da quella parte, quegli operai sapevano che di fame ne avevamo sempre tanta, talvolta ci chiamavano e facendo finta di scaldarsi ci allungavano qualche patata, insomma ogni tanto trovavamo qualcuno
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che anche con poco ci aiutava a chiudere il buco che avevamo nello stomaco, perch tutto quel poco che avevamo non era mai sufficiente. Da notare che nel periodo della raccolta delle patate dopo che il grosso raccolto era finito, al sabato pomeriggio che non si lavorava, ci aggregavamo agli operai e andavamo a setacciare i campi per raccogliere le patate rimaste. Queste patate poi le cuocevamo sotto la cenere, cos andavano ad aggiungersi al modesto pranzo della mensa. Il freddo si fece via via sempre pi intenso e la neve fioccava tutti i giorni. Cos arrivammo al Natale 1944. Il giorno prima noi prigionieri ci mettemmo daccordo con il padrone dellalbergo, sig. Cagna, per poter passare la sera in compagnia della sua famiglia, cera qualcuno che era alloggiato nellalbergo, poi si era aggregato qualche amico. Eravamo una bella tavolata, non si fecero cose pazze, denaro non ce nera molto: nel fondo della saletta era stato allestito un piccolo albero discretamente addobbato, il caldo quella sera non mancava, il padrone faceva andare la stufa un p meglio. Stavamo iniziando a mangiare quando entr un signore che chiese se poteva aggregarsi anche lui, tutti lo accettammo ed il padrone che lo conosceva lo present: era il fratello dellesponente politico comunista francese THOREZ, cos tra una chiacchiera e laltra quella sera si mangi a saziet, un bicchierotto in pi e si arriv alla mezzanotte. Prima di lasciarci e dopo aver parlato abbondantemente di politica, lui il Thorez, si conged dicendo: o americani o russi si mettono daccordo, oppure la guerra continua, perch al mondo dovr rimanere un solo padrone, America o Russia. A questo punto la verifica doveva ancora venire e per noi doveva essere ancora lontana, tutte le profezie potevano essere buone o cattive, comunque gli eserciti avevano speso molto e fare pronostici era azzardato. Stavamo per uscire per andare a dormire, quando sentimmo uno strano rumore ed in lontananza vedemmo nel cielo una lunga scia rossa: in un batter docchio, la sera era stellata, vedemmo passare sopra di noi velocemente un ordigno lungo e affusolato, erano le micidiali V-UNO tedesche, passarono pochi secondi e si sent un formidabile scoppio. Il giorno dopo venimmo a sapere che era caduta nei pressi del nodo ferroviario di Longwy. Fece solo danni alla ferrovia e alle abitazioni, nessuna vittima. Ai primi di gennaio 1945 si rimase senza lavoro. Il lavoro che mi si present fu quello di togliere davanti alle case e dai marciapiedi la neve e le croste di ghiaccio, chi mi regalava qualche soldo, chi mi dava un piatto di minestra. Da notare che a Longwy cerano i magazzini della sussistenza per le truppe Americane ed ogni giorno arrivava, poco lontano, un apparecchio dallAmerica o dallInghilterra carico di ogni ben di Dio. Un giorno venni a sapere che quando mettevano mano a polli, oche, anatre, tacchini, ecc., cominciavano a scartare il collo, le zampe, le interiora ed il grasso, alle volte le ali e magari ci scappava qualche coscia di scarto. Ci recammo sul posto in due o tre, parlammo col soldato americano che era di origine italiana, parlava un p di italiano, e gli prospettammo la nostra situazione. Ci disse di andare a procurarci dei recipienti, non ci volle molto, ed in men che non si dica ritornammo con qualche bidone e degli scatoloni di cartone, li riempimmo con tutto quello che ci capitava sotto mano, in pi il soldato ci allung qualche bel pezzo carnoso. Il grasso lo portammo ad una famiglia, ne faceva sapone ed in cambio ci lavava i panni e ci invit a mangiare, una parte del grasso lo portammo in albergo ed i pezzi buoni li facemmo cuocere, cos potemmo mangiare per circa tre giorni. Questi rifornimenti li facevamo un paio di volte alla settimana, ma poi per colpa di alcuni civili che non si accontentavano di ci che ci regalavano, di notte andavano a rubare, cos quella cuccagna ebbe poca durata, chiusero i battenti per tutti. Avevo trovato una famiglia Sigg. MALGARITTA GOBBI i quali, passando davanti alla loro bottega, mi chiesero se ero italiano, dissi che ero di Rimini, quindi fra i due paesi cera una distanza di circa 20 chilometri. La Gobbi Maria era ed abitava a Gambettola, era fidanzata ed il suo fidanzato aveva lo stesso cognome Gobbi. Lui era partito come emigrante intorno agli anni venti, promettendo che appena si fosse messo a posto con il lavoro, sarebbe tornato a prenderla, sposandola, cos fecero il viaggio di nozze andando in Francia. In quel tempo esistevano baracche e capanne di legno, una vita dura. Ebbero due figli, un maschio ed una femmina. Il marito cominci il suo lavoro in una botteghetta di alimentari, poi quando giunse la moglie pot ingrandirsi molto bene, faceva venire gli alimentari dallItalia, soprattutto formaggio grana. Intanto le officine del posto si ingrandivano sempre pi, gli operai aumentavano di numero, quindi altre famiglie.
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Gli affari andavano a gonfie vele. Al posto delle baracche, agli operai vennero costruite case. Intorno al 1940 il marito mor e la Gobbi rimase con i figli portando avanti il negozio di alimentari. Si rispos poi con il Malgaritta, italiano che era approdato in Francia proveniente dal Marocco e Tunisia, dove aveva lavorato. Siccome il Malgaritta non aveva una grande salute e non poteva fare lavori pesanti, mi chiesero se ero disposto ad andare in cantina a rompere il carbone per la stufa ed inoltre se ero disposto, al mattino presto, ad andare con il Malgaritta a fare la spesa al mercato per acquistare alimentari, frutta, verdura ed altre cose al paese di Longwy. Al mattino, faceva freddo intenso, la strada era gelata, partivamo dal negozio con un carretto con due ruote di motocicletta, un ripiego, la strada era in discesa, si andava bene, si facevano le compere per le provviste giornaliere, ci si impiegava circa due ore, poi si ritornava. Purtroppo, tranne un piccolo pezzo pianeggiante, cominciava la dolente nota della salita fino al negozio, era la strada che portava da Longwy a Herserange e passava sia dalluna che dallaltra parte in mezzo a case costruite per gli operai, si chiamava Gran Rue. Io ero davanti alle stanghe, come un somarello e lui dietro a spingere. A parte la salita, il carretto era abbastanza carico, ma la disgrazia pi grande che la strada era ghiacciata ed era fatica procedere senza scivolare. Io non avevo delle gran forze, ma lui ne aveva meno di me. Quando si arrivava al negozio io ero sfinito e nonostante il freddo ero sudato, lui si andava subito a trincerare in cucina vicino alla stufa, poi con laiuto della signora e della figlia scaricavo il carretto portando il tutto nel negozio. Finito mi facevo un panino e qualche cosa di caldo, ma avrei mangiato molto di pi, bisognava accontentarsi. La figlia si chiamava Emma ed era sposata con Roland Bodson, anche lui prigioniero dei tedeschi, non avevano figli. Laltro figlio, Alfredo, abitava in un paesino vicino. Poi me ne andavo in cantina a rompere il carbone, a mezzogiorno mi chiamavano, andavo a lavarmi, perch nonostante tutte le attenzioni la polvere di carbone lavevo un p dappertutto. A mangiare eravamo io e Malgaritta, cera sempre pasta asciutta in bianco, tagliatelle fatte in casa dalla signora condite con burro e grana, lui si grattugiava il formaggio, come minimo ne metteva un mezzetto, gli piaceva cos; di secondo poco o niente, frutta niente, bere un p di vino. Poi alle 13, lui simpatizzava per la sinistra, accendeva la radio e si sentiva le notizie di radio Londra, finita questa trasmissione si sincronizzava con una radio clandestina di estrema sinistra e la sentiva molto piano con lorecchio vicino alla radio. Alla sera per mangiare mi arrangiavo come in precedenza. Le cose tutto ad un tratto finirono di essere discrete, potevamo essere nella prima decade del gennaio 1945, i Francesi ci aprirono le ostilit, non ci volevano vedere, le denuncie campate in aria alla polizia e al Comune fioccavano, tutte le manovre contro di noi, non ci volevano nel paese. Un bel giorno la polizia ci invit a presentarci al mattino nei locali del Comune con quanto avevamo. Fecero lappello perch eravamo tutti segnati, ci fecero uscire e ci fecero salire su due camionette della polizia. In una giornata talmente rigida ci portarono a circa una decina di chilometri dal paese, sulla strada che porta a Metz, consegnandoci alle guardie di un campo di concentramento per profughi. Il trasferimento, sebbene corto, con il freddo che faceva, laria che passava da tutte le parti della camionetta, fu drammatico e quando scendemmo al posto di guardia eravamo talmente intirizziti che non riuscivamo a muoverci. Di neve ne aveva fatta parecchia, ci consegnarono alle guardie, doveva essere una vecchia caserma francese, e attraverso cumuli di neve ci accompagnarono al primo piano di un fabbricato, ci misero in una grande camerata dove la maggior parte dei vetri erano rotti, cerano dei lettini in ferro con le reti arrugginite, pagliericci che facevano piet e ci diedero qualche vecchia coperta. Ci dovemmo subito arrangiare cercando di chiudere alla meno peggio i vetri mancanti, mentre qualcuno and al comando perch ci dessero qualcosa da mangiare, ma purtroppo la distribuzione veniva fatta solo al mattino e quindi ci dovemmo arrangiare con quello che buone persone ci dettero al mattino quando partimmo. Nella stessa camerata, allangolo opposto di dove avevamo preso posto noi, vi erano altre due persone, un uomo e una donna, a noi sembravano molto vecchi, anche i loro vestiti erano ridotti ai minimi termini, nonostante questo, la nostra impressione era che fossero di un certo ceto. Stavamo
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finendo di sistemare le finestre, che si avvicinarono a noi. Con un p ditaliano e un p di francese si incominci a parlare. Non ci eravamo sbagliati, erano due persone colte e ben educate, si cominci a raccontare le varie peripezie. Erano Olandesi, erano stati rastrellati dai tedeschi ed inviati in uno dei tanti campi di concentramento, anche loro, con le solite perquisizioni vennero spogliati di tutto, fedi nuziali, orologi, catenine doro e alla moglie, durante una visita, tolsero capsule e denti doro dalla bocca. Ebbero fortuna di sopravvivere perch liberati dagli americani, quindi smistati al campo profughi. Nella camerata incominciava a fare scuro e visto che gli attacchi della luce cerano, decidemmo di andare al comando per farci dare una o due lampadine: niente da fare, dovevamo arrangiarci e cos fu. Entrammo in un magazzino, non cera nessuno, e mentre altri due facevano la guardia di fuori, ci impossessammo di un paio di lampadine. Ritornammo nella camerata ed in quella maniera potemmo avere la luce, con grande gioia dei due anziani. Cos come al mezzogiorno, mettemmo qualcosa sotto i denti. La prima notte fu un calvario, il vento freddo che passava dalle fessure delle porte e dalle finestre che avevamo a malapena rattoppato, avremo avuto almeno una decina di gradi sotto zero e di neve, fuori, almeno unottantina di centimetri. Al mattino, per avere qualcosa da mangiare, bisognava alternarsi a fare la fila per non morire assiderati. L dentro cerano uomini, donne e bambini delle pi disparate nazionalit. Era logico che i primi arrivati si fossero accaparrati i posti migliori, stufe nelle camerate, lettini, gabinetti interni ed i locali per lavarsi. In una baracca, composta solo di Polacchi, vi erano intere famiglie, avevano perfino materassi, quel tipo di coperte imbottito di piume doca con relativi cuscini, come avranno potuto procurarsi tutta quella roba non potemmo capirlo. Avevano di tutto. Al secondo giorno decidemmo di andare nel paese dove eravamo per vedere se cera la possibilit di ritornare. Due di noi, al terzo giorno partirono, ritornarono dopo due giorni, andata e ritorno erano una ventina di chilometri, secondo loro le notizie erano poco rassicuranti, ma il giorno dopo ripartirono prendendo il loro fagotto, senza dirci nulla e per quale direzione, in quel posto non volevano restare. Semplice, ognuno doveva arrangiarsi come poteva. Siccome proprio fessi del tutto non eravamo, io li lasciai andare, ma a distanza, senza essere visto, li seguii: fuori dalla caserma ad un centinaio di metri salirono su un piccolo camioncino che gi era stato notato precedentemente a Herserange, che si avvi poi in quella direzione. Con questa manovra capimmo come stavano le cose. Il giorno dopo io ed un altro decidemmo di partire, altri restarono. Era al mattino presto, faceva molto freddo, ci incamminammo, ma purtroppo io dopo appena un mezzo chilometro non riuscivo a portarmi avanti la gamba sinistra, il mio compagno mi invitava, non ce la facevo, gli dissi che sarei tornato indietro e che lui seguisse il suo destino. Lui insistette, mi misi intorno alla coscia un pezzo di lana poi cominciai a muovermi e piano piano ricominciai a camminare. Arrivammo fuori dalle poche case, prendemmo la strada principale, era larga, costeggiata da alti alberi, il vento ci veniva di fronte, la strada ghiacciata, bisognava stare attenti a non scivolare. A dire il vero si faceva come gli equilibristi, autocarri militari americani incrociavano a folle velocit, bisognava camminare sul ciglio della strada per non essere travolti, fra il vento e loro che sollevavano nugoli di pulviscolo ghiacciato frammisto a neve, anche noi eravamo diventati tutti bianchi, mentre il vapore che usciva dal naso si fermava ghiacciandosi. Facemmo cos 5 chilometri, sulla nostra sinistra una strada con ai fianchi delle case, in una di queste notammo un negozio che poteva essere un caff. Prima di entrare ci scrollammo di dosso il pi possibile tutta quella polvere per evitare di sporcare allinterno ed entrammo. Eravamo esausti, allinterno una donna ci squadr dallalto in basso, effettivamente non avevamo una bella presenza, sembravamo degli straccioni o peggio dei delinquenti. Alla meglio le facemmo capire che avevamo freddo e cercavamo qualcosa da mangiare, le facemmo vedere i soldi per pagare, ma continuava a dire che non aveva niente. Chiss quali pensieri passavano per la mente di quella donna! Non aveva tutti i torti, anche loro per la guerra ne avevano passate tante, quindi diffidavano di tutti. Con un p di pazienza, con qualche parola di italiano e francese riuscimmo a farci capire, si tranquillizz, ci prepar del t e dei biscotti. Dentro cera un p di caldo e cos pass una buona mezzora riposandoci e scaldandoci lo stomaco. Chiedemmo quanto le dovevamo per
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il disturbo, non voleva niente, ma prima di uscire le lasciammo sul tavolo un certo numero di franchi. Riprendemmo nuovamente la strada principale, ci trascinavamo come due derelitti, a stento verso sera arrivammo al paese, entrammo nellalberghetto che gi ci aveva ospitato, appena ci videro rimasero tutti sbigottiti, ci lasciammo cadere sfiniti sulle sedie e tutti intorno a sentire ci che avevamo passato in quei giorni. Quella sera ci aiutarono tutti, dopo tanti giorni riuscimmo un p a lavarci, ci diedero da mangiare, infine andammo a riposare in una camera che lalbergatore ci mise a disposizione. Quella notte nessuna bomba ci avrebbe svegliato. Al mattino quando ci alzammo, prendemmo quel tanto che ci bastava per restare in piedi, perch di quei soldi che avevamo guadagnato non ne rimanevano molti, bisognava tenerli stretti, bisognava girare, domandare, bussare un p dappertutto. Anche il tempo era contro di noi, un inverno rigido, neve, sempre neve, freddo, era un tormento continuo e lo stomaco non era mai pieno. Finalmente un operaio ci venne a cercare, era un italiano che ben conosceva la nostra situazione, ci disse che una ditta di Longwy cercava qualche operaio per raccogliere del materiale ferroso. Ci precipitammo subito sul posto, eravamo in sei, sentiamo quello che cera da fare e quanto si prendeva, che fare, avevamo bisogno, per il momento non si poteva trovare di meglio, accettammo. Il mattino dopo ci presentammo al cantiere, il capo era un russo di statura alta, braccia lunghe, mani grandi e cos pure i piedi, orecchie che penzolavano, lo battezzammo PLUTO: era fuggito dalla Russia dopo la disfatta della guerra del 1915/1918 rifugiandosi attraverso tante peripezie in Francia; in questa nazione di rifugiati ce ne sono molti. Chi aveva voglia di lavorare prima o poi lo trovava, poi lindustria metallurgica in quel momento cominciava a fare grossi progressi. Non era cattivo, ma quando beveva un p troppo non capiva pi niente e se ti pescava che non lavoravi aveva un bastoncello di ferro che se ti prendeva erano dolori. Per evitare ci bisognava tenerlo docchio, perch lui stava sempre in una baracca al caldo mentre noi ci riposavamo alla belle e meglio dietro i cumuli di rottami di ferro. Lallarme consisteva, quando lui usciva, in una cantatina di uno dei nostri, cos noi avevamo il tempo di metterci in posizione di lavoro. Non tutti i giorni si lavorava nel cantiere e prima di uscire, di sera, ci avvisavano se si doveva andare in un altro posto ed allora alla sera ci dovevamo procurare il mangiare per il mezzogiorno. Al mattino ci presentavamo al cantiere, ci facevano salire sul cassone di un camioncino, poi si prendeva la strada verso Metz, si facevano una decina di chilometri in mezzo alla campagna, poche case, sempre neve e ghiaccio con temperatura sempre sotto lo zero. Durante il tragitto eravamo tutti ammucchiati nel cassone per ripararci dal freddo e dal vento, ma purtroppo quando arrivavamo sul posto di lavoro eravamo tutti mezzi assiderati. Si andava a raccogliere materiale ferroso, macchinari distrutti dai tedeschi con cariche di esplosivo. Prima di ritirarci al mezzogiorno, accendevamo un fuoco con cartoni e pezzi di legno trovati in giro, dentro un capanno tutto diroccato, per bere si andava alla vicina rivendita e a volte ci procuravano anche qualcosa da mangiare. Al mezzogiorno cera unora di sosta. Al pomeriggio si smetteva verso le 16, le giornate erano corte e faceva scuro presto. Poi si saliva sul camioncino, altra sventagliata di aria fredda, si arrivava al cantiere che era scuro, si sistemava ancora qualche cosa poi si diceva, adesso andiamo verso casa. Quanto dur questo lavoro piuttosto duro, perch sempre allaperto, non lo ricordo, la ditta doveva essere uno stabilimento metallurgico dellest con sede a Nancy e dovrei aver lavorato come minimo il mese di febbraio 1945. Presso la ditta A. CONTI di Herserange dovrei aver lavorato dal settembre al dicembre 1945 come MANOUVRE ed il luogo di lavoro era dentro SENELLE MAUBEUGE, dove cerano gli altiforni, tutto il complesso che partiva da Herserange e finiva vicino alla stazione ferroviaria di Longwy. Da notare che il 27 novembre del 1944 il Ministero dellInterno ci rilasci un RECEPISSIE (carta didentit) come anziano soldato dellarmata di Badoglio, il quale aveva una scadenza che andava rinnovata, perch lufficio regionale del lavoro dava lautorizzazione. Nel marzo del 1945, dopo un esame, potei entrare come aggiustatore nella Societ Metallurgique de Senelle Usine de Senelle a Longwy Bas. Altri prigionieri erano entrati prima di me e avevano passato linverno pi tranquillamente. Come avevo detto in precedenza, oltre alla carta didentit ci avevano rilasciato la tessera per i vestiti che non si erano mai potuti comperare perch i soldi erano appena sufficienti per mangiare e dormire; la tessera del pane e degli alimenti la dovevamo dare allalbergatore,
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mentre di buono e gratis potevamo andare a fare la doccia anche due volte alla settimana in officina. Le cose sembravano mettersi al meglio. Questo il nuovo lavoro: cerano 10 caldaie, ognuno di noi ne aveva una, si trattava di mantenere la pressione sempre a 10 atmosfere per ottenere il vapore il quale doveva azionare altri macchinari. Ognuno di noi si procurava dellantracite a piccoli quadretti che veniva scaricata poco distante dai vagoni ferroviari; noi quando lavevamo bisogno landavamo a prendere con la carriola e la mettevamo di fianco alla caldaia che era in muratura, dentro era rivestita di mattoni refrattari dove circolavano i tubi dellacqua, da terra era alta un metro, il bocchettone in ferro come le locomotive a vapore, noi eravamo i fuochisti e dovevamo continuamente tenere docchio il manometro affinch la pressione fosse sempre costante. Si facevano i turni di otto ore e a volte capitava di fare anche la notte, come i ferrovieri. Il carbone non doveva mai mancare, ogni tanto con il ferro adatto si muoveva il fuoco e due volte, nelle 8 ore, si doveva togliere le scorie facendo molto presto, senza spegnere il fuoco e poi riattivarlo con altra antracite. Siccome il lavoro era catalogato come pesante, di giorno ci passavano un panino con bevande a piacere, il turno di notte godeva del soprasoldo e due panini, questo per era a favore degli anziani. Eravamo arrivati nel mese del marzo 1945, erano gi passate un paio di settimane con il nuovo lavoro e a dire il vero andava benino, il fronte si era portato verso i confini della Germania, gli alleati non avevano quasi pi niente ed ogni tanto passavano colonne di automezzi. Linverno non era ancora passato ed il freddo si faceva ancora sentire. Alla fine di marzo 1945 rimasi nuovamente bloccato alla gamba sinistra, come quando partii per ritornare al paese dal campo di raccolta dei rifugiati, ma questa volta non riuscivo pi a camminare. Mi portai a malapena nellambulatorio dellofficina, il dottore mi visit e mi diede una cura, qualche giorno di riposo, ma nessun miglioramento. Ero entrato da poco e se non lavoravo dopo un certo periodo rimanevo ancora senza lavoro. Ritornai dal dottore, la situazione non migliorava e mi disse di provare con unaltra cura: io gli dissi che se non guarivo o miglioravo, avrei in breve tempo perso il posto di lavoro ed io debbo tirare avanti e stare a letto con la speranza che il caldo attenuasse il male, non approd a niente. Mi fece una nuova ricetta, punture con fiale da 10 cc di novocaine 2%, le punture dovevano essere 3 o 4. Ritornai dal dottore, mi fece stendere sul lettino dellambulatorio a pancia sotto, lui intanto preparava il da farsi, strofin a lungo dove doveva fare la puntura con alcool ed infine con un pennellino mise la tintura; poi and a prendere la siringa per fare la puntura, vidi un ago che sembrava come un ferro con cui le donne facevano la calza, nervi a pezzi, ebbi paura, no, no, non faccio la puntura e lui di rimando, se vuoi andare a lavorare devi decidere immediatamente e a denti stretti dissi di s. Misi la faccia contro il lettino e con le mani stringevo i ferri del lettino, cominci il suo lavoro e da medico consumato parlava, e mi diceva: qui se spingo ti fa male? S, se spingo qua, s, e cos fra una parola e laltra infil per la prima volta lago, distogliendomi cos dal pensiero, affond la seconda volta, poi una terza, pareva arrivasse fino allosso del gluteo sinistro; quando mi fece scendere dal lettino ero pi morto che vivo, mi accompagn a sedere su una sedia e mi disse che per circa venti minuti non avrei pi sentito la gamba ed avrei avuto un gran formicolio. Quando mi disse di andare camminavo credendo di avere una gamba solo: ritornai dopo due giorni, un leggero miglioramento pareva ci fosse, feci la seconda puntura, poi la terza, questa fu pi forte perch nella siringa mise una fiala e mezzo e questa volta non sentivo pi niente, rimasi molto pi a lungo nellambulatorio, mi venne a rivedere poi mi disse di andare facendomi ritornare per un controllo. Quando ritornai la situazione era migliorata, non camminavo molto bene perch un certo dolorino era rimasto, ma in compenso non mi aiutavo pi con la mano per portare dietro la gamba e stringere dove cera dolore: mi diede ancora qualche giorno di riposo. Il mese di aprile 1945 era arrivato, era arrivata anche un p di primavera ed anche la temperatura era migliorata. Ritornai al lavoro, mi erano rimasti pochi soldi ma comunque un p di credito me lo facevano lo stesso, non fui messo a caricare carbone alle caldaie, ma passai in unofficina come aiuto ad altri operai italiani e francesi, naturalmente un giorno si usciva per andare ad aggiustare rotture in un posto, ora in un altro. Poi venni addetto, assieme ad un operaio, ad aggiustare le tubazioni dove si trovavano le caldaie, quel giorno di mattina mi assentai, con il permesso, per andare dal dottore per
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una ricetta, potevo anche non ritornare sul posto di lavoro, non mancava molto alla fine del turno e cos sono tornato. Ero appena arrivato che un cuneo mi colp (19/05/1945 ore 11,30): caddi a terra come morto, percepivo poco e niente, attorno a me un gran daffare, la sirena, mi adagiarono su un lettino porta feriti, di corsa al pronto soccorso dove era in attesa il dottore il quale disse: stato qui 10 minuti fa, sentii che diceva, bisogna fare subito una puntura contro linfezione per salvare laltro occhio, ero sempre in stato confusionale, poi non essendoci unautoambulanza mi caricarono su unauto pubblica e mi portarono in una clinica. Solo allora potei capire la gravit dellincidente. Il ricovero dur, compreso loperazione, allincirca una settimana, ero solo come un cane, quando uscii stavo s e no in piedi e dovevo tornare ogni due o tre giorni a farmi vedere. La prima fermata la feci dalla signora Gobbi e Malgaritta, loro mi sostennero moralmente, poi ritornai allalbergo, ci fu un p di solidariet, ma la maggiore la ebbi dagli operai della fabbrica e da alcune famiglie del paese, ognuno mise il proprio nome su dei fogli di carta dando quanto potevano. Venni a ragranellare una discreta cifra, tanto per tirare avanti. Mi furono di conforto anche i compagni di prigionia, fra i quali, appena venuto a sapere di quanto mi era successo, mi venne a trovare BORSARI Asco di Rimini, col quale avevo condiviso la prigionia in Germania, eravamo ora distanti solo una decina di chilometri da paese a paese. Passarono ancora alcuni giorni, poteva essere allincirca la fine di maggio e mi venne rilasciato il certificato per riprendere il lavoro. Mi ripresentai a lavorare, luglio 1945, nel reparto comandato dalling. Le Roy: in un primo momento aiutavo gli operai a seconda di dove ce ne fosse bisogno dentro lofficina, poi fui trasferito in un grande capannone dove cera una locomotiva speciale, senza tender, che funzionava a vapore proveniente da altre caldaie con una grande ruota ed una pi piccola collegate ad una puleggia, il tutto serviva per generare forza elettrica per tutto lo stabilimento. La mia mansione era di sorvegliare il funzionamento della locomotiva ed oliare tutti i congegni rotativi. Pass cos alla bene e meglio il mese di luglio e quello di agosto. Qualcuno di noi, giovane, si fidanz, un altro si accompagn, altri attendevano il momento di rimpatriare, altri che avevano trovato un buon posto pensavano di rimanere, io e qualche altro attendevamo il momento propizio per rientrare. Cos una sera parlando, erano i primi di settembre, si venne a sapere che a Metz cera una caserma centro di rifugiati che poi venivano rimpatriati. Si decise che io andassi sul posto per il da farsi, tanto pi che ero lunico che masticasse un p di francese. Il mattino del 18 settembre 1945 con il treno andai a Metz, scrissi una cartolina a casa, avevo portato con me alcuni pacchetti di sigarette Gauloise non so se si scrive cos- e feci bene: andai allufficio indicatomi, prospettai la mia situazione e di altri, io non fumavo ma sfilai dalla tasca un pacchetto di sigarette che offrii ai due addetti, una donna ed un giovane, mi dissero che al momento non cera nessun movimento, ma di ritornare dopo una settimana. Ritornai alla base e riferii, durante il viaggio non ebbi alcuna noia in quanto la nostra carta didentit non permetteva uscite dai confini del comune. Ritornai come mi dissero dopo una settimana, questa volta portai oltre alle sigarette due bottiglie di buon vino, mi fecero festa e al mezzogiorno mangiai con altri rifugiati. Nelle primissime ore del pomeriggio ci ritrovammo nellufficio e di fatti mi dissero che erano venuti a conoscenza che nei prossimi due o tre giorni doveva partire un convoglio di italiani prigionieri degli alleati da un posto non ancora precisato. Dovetti ritornare questa volta dopo due o tre giorni, con i soliti regali, difatti ci dissero di trovarci il primo di ottobre. Naturalmente le spese le abbiamo divise fra tutti i partenti. Ci incominciammo a preparare, andammo allufficio personale e prospettammo la nostra situazione di rientrare momentaneamente in Italia. Dopo due o tre giorni ci mandarono a chiamare accettando la nostra proposta e in data 26 settembre 1945 ci diedero un permesso o congedo di due mesi con la promessa che se fossimo rientrati alla data prescritta, avremmo riavuto il nostro posto di lavoro, inoltre ci liquidarono dei nostri averi fino a quel momento. A noi non ci parve vero. Il primo ottobre, era il giorno del mio compleanno, la sera cera stata una bicchierata con saluti a tutti e a tutte le famiglie che ci avevano aiutato. Al mattino, era ancora buio, ci incamminammo verso la stazione ferroviaria di Longwy Bas. Incontrai un operaio sardo, avevamo lavorato assieme, che quando seppe che partivo mi
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volle regalare una valigia: la dovetti accettare anche se pesava pi di tutta la roba che ci avevo messo dentro. La presi per non spendere i soldi per comprarne una nuova. Dunque, quel mattino, per arrivare alla stazione feci una fatica da non dire, per fortuna che chi era arrivato prima alla stazione mi venne incontro ad aiutarmi. Partimmo da Longwy e nella mattinata arrivammo a Metz, ci recammo subito al centro rifugiati; era un vecchio palazzo disabitato, l passammo due giorni e due notti. Il giorno tre ottobre, al mattino presto ci vennero a chiamare, ci consegnarono documenti e biglietti, ci accompagnarono alla stazione di Metz da dove partimmo alle ore 9,35, destinazione ANNEMASSE ai confini della Svizzera, ci dettero anche dei viveri. Alle ore 18 del giorno tre eravamo a DIJON, scissi una cartolina, ripartimmo da Dijon il giorno 4/10/1945 e si arriv ad Annemasse alle 12,15. Restammo nei paraggi della stazione e difatti dalla parte opposta notammo dopo i binari ed una rete, delle tende dove cera della truppa, erano tutti vestiti con tute militari americane, uscimmo per vedere di mangiare qualcosa, scrissi unaltra cartolina che porta la data del 4 ottobre 1945. Si decise di andare a vedere come stavano le cose e naturalmente lincaricato, come al solito, ero io. Girovagando mi incontrai con un soldato, erano tutti italiani l dentro, mi feci accompagnare al comando, mi incontrai con un ufficiale al quale raccontai la situazione. Mi disse qui siamo sotto gli inglesi, domani mattina parte un treno completo di prigionieri per il rientro in Italia, sar molto difficile per voi salire perch sono molto scrupolosi, comunque andate dal magazziniere e fatevi dare delle vecchie tute americane, cos potrete, al momento opportuno, mischiarvi con gli altri e farla franca. Infine chiesi se era possibile aver qualcosa da mangiare, avevo chiesto anche se potevamo dormire sotto la tenda ma mi rispose di no, quella buonanima mi fece avere tutto quello che avevo richiesto. Ritornai con il tutto dove mi aspettavano gli altri, li misi al corrente della situazione e sul da farsi, erano tutti contenti. Era giunta la sera, mangiammo e ci bevemmo anche un buon bicchiere di vino, poi per dormire ci dovevamo adattare alla meglio nei pressi della stazione. Arriv finalmente il mattino del 5 ottobre 1945, entrammo dentro alla stazione che era presto, notammo un treno dalle vetture non molto grandi, potevano essere una decina, stazionavano sullultimo binario dopo di che cera il campo dei prigionieri italiani. Chiedemmo informazioni e difatti ci venne confermata la partenza per le sei circa. Non appena vedemmo i primi movimenti anche noi ci avvicinammo al treno, poi prendemmo posto nellultima vettura, ma non avevamo fatto bene i conti, gli addetti inglesi dalla testa del treno cominciarono a contare e naturalmente il numero cresceva di sette unit, inutile farla lunga, dovemmo scendere, ma non desistemmo e facendo finta di niente ritentammo la salita, ma purtroppo un inglese in agguato ci fece ridiscendere fra urla e parolacce, si era spazientito. Perso per perso, lasciammo i nostri fagotti sul treno e facemmo finta di allontanarci, con laccordo di scaglionarci lungo il marciapiedi del treno, e non appena il capo stazione avesse dato il via al segnale del semaforo verde ed il treno gi in movimento, saltare sui predellini stando molto attenti perch la trazione era elettrica ed il treno assumeva subito velocit. Tutto and bene, il treno acquistava sempre pi velocit, ce lavevamo fatta, il viaggio per il rientro in Italia era cominciato. Il treno imbocc una lunga galleria, avevamo lasciato Annemasse, ci trovammo tutti riuniti in una vettura, eravamo liberi. Come avevo detto, ufficialmente eravamo partiti in quattro dal centro rifugiati, ma poi se ne aggregarono altri tre. Passammo da Domodossola e ci fermammo a Novara alle 16,30 dello stesso giorno 5 ottobre. Non so se viaggiammo con le stesse vetture o avessimo cambiato treno. A Novara fummo ospitati, credo in una caserma, ci fecero come un interrogatorio, ci fecero una di quelle visite per modo di dire, in quel momento tutti stavamo bene, volevamo arrivare a casa. Ci fecero firmare alcuni fogli e ci diedero duemila lire, ci diedero da mangiare e da dormire e al mattino prendemmo il primo treno per Milano. A Milano attendeva tanta gente, avevano saputo del rimpatrio, ed ognuno si mescolava in mezzo agli arrivati per
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incontrare figlio, marito od altri congiunti, tutti volevano sapere notizie, chi aveva perfino le foto da fare vedere. Nel sottopassaggio della stazione nelle pareti cerano fotografie e nominativi a non finire, fra questi cera la foto di uno di noi, Leone Anostini che abitava a Milano.

Salimmo la scala del sottopassaggio, ci eravamo scambiati gli indirizzi, un saluto ed un abbraccio ed ognuno per la sua meta. Io mi portai nel marciapiede dove partiva il treno per Bologna, salii ed il treno non tard partire. Arrivammo a Piacenza e l dovemmo tutti scendere perch il ponte ferroviario era ancora distrutto dai bombardamenti.
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Venimmo traghettati con dei barconi allargine opposto. Sopra cera un camioncino carico di materiali. Lautista aveva una parlata bolognese, appena scesi attesi che anche il camioncino venisse portato in strada, mi avvicinai allautista e domandai dove era diretto Bologna- per me era lasso di briscola. Da dove si era scesi dal barcone ad arrivare alla stazione ferroviaria di Piacenza cera qualche chilometro, nessun mezzo, con la valigia ed un fagotto da portare. Gli chiesi se mi faceva salire sul cassone, ma lui rispose che era troppo carico, gli promisi 50 lire, allora erano soldi, ma lui niente, gli raccontai le mie peripezie nel frattempo, mi parve pi malleabile, infine dissi: queste sono 100 lire, sono un militare, lungo la strada vi posso essere utile: prese il denaro, buttai in tutta fretta le mie cose sul camioncino saltai su nel cassone e si part. Il viaggio era piuttosto lungo, ma senza intoppi si arriv a Bologna nelle prime ore del pomeriggio, si ferm a met di via Indipendenza e mi fece scendere, lo ringraziai e ci salutammo. Attraverso tutti i paesini superati potei vedere le rovine della guerra, soprattutto a Bologna. Presi la valigia e me la misi in spalla e presi il mio fagotto, come gi detto era pi pesante la valigia del suo contenuto, a forza di fermate arrivai alla stazione, dentro e fuori cerano rovine, mi informai da quale binario partisse il treno per Rimini e mi portai sul marciapiedi in attesa, era un locale. Incontrai un mio vecchio amico, poche parole, era da tanto tempo che non ci vedevamo, avevamo fatto i ragazzi assieme, chiss quale impressione gli feci vestito con quella tuta americana e se ne and per i fatti suoi, si chiama Macina Ennio. Forse aveva paura che gli chiedessi qualcosa, comunque ci rimasi molto male, avevo pensato a tuttaltro, e pensare che quando era studente ed io lavoravo, quando era ora di andare al cinema veniva da me con altri per fare una colletta. Anche dopo, quando ci rincontrammo, non gli chiesi mai il motivo di quel raffreddamento. Il convoglio venne portato al punto di partenza, da notare che cerano ancora binari divelti e pensiline mancanti per i bombardamenti subiti. Salii sulla prima vettura che mi capit, erano quelle vecchie vetture di terza classe, mi sedetti in un angolo vicino al finestrino, un bel tratto di viaggio lo feci che era ancora giorno e mi resi conto di quante devastazioni aveva fatto la guerra. Il viaggio sembrava non finisse mai, ad ogni stazione si fermava e fra queste non che corresse molto. La sera era gi scesa, si arriv a Forl, scesero molti viaggiatori ma ne salirono molti di pi. Io rannicchiato nel mio angolo, tutti mi guardavano, alcuni insistentemente, forse era la tuta americana, altri parlottavano fra loro, chiss cosa pensavano di me. Finalmente sentii lo sferragliare su di un ponte di ferro, potevano essere allincirca le nove di sera, era un rumore amico, stavo di abitazione poco lontano, quindi lo conoscevo bene. Tirai gi il finestrino proprio mentre il vagone passava sul ponte, vidi nelloscurit il fiume Marecchia che si allungava verso il mare con ai lati fievoli lampadine: il treno entrava in stazione piano piano, le ruote della vettura stridevano sui binari i quali, forse a causa dei bombardamenti non erano ben in linea e finalmente il treno si ferm. Tutti scesero velocemente, aprii lo sportello e guardai fuori, non cerano delle grandi luci, presi i miei bagagli, scesi a dir la verit, fra la stanchezza e lemozione, nel toccare il marciapiede mi tremavano le gambe. Lultima volta che ero partito per fine licenza doveva essere stato nella met del 1943, il ritorno circa alle ore 20 del 6 ottobre 1945. Feci quasi fatica ad orizzontarmi, cominciai ad attraversare i binari, le pensiline non cerano pi, la stazione tutta diroccata, uscii, era scuro, ma mi resi conto che la devastazione dei bombardamenti era stata forte. Fuori cera qualche carrozza, non me la sentivo di andare a piedi, tutti i fiaccherai erano del borgo S. Giuliano, interpellai uno a caso ed in riminese dissi che dovevo andare in via Marecchia, 103, ma lui mi disse che le case erano state tutte bombardate e mi chiese da chi dovevo andare. Dissi il nome di mia moglie e di altri componenti la famiglia, lui li conosceva tutti, adesso abitano nella piazzetta Forzieri.
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Pattuii un prezzo che ora non ricordo, misi le mie cose dentro la carrozza e salii con lui al posto di guida. Era scuro e dopo duecento metri, girando a sinistra, potei conoscere la via Gambalunga a mala pena e lui me la conferm; pass davanti allangolo dove abitavo, al n. 42, da giovane, era un ammasso di macerie e gli domandai come mai si facesse quel giro. Mi rispose che bisognava passare in citt e per il ponte di Tiberio perch il ponte dei Mille era stato distrutto. Ove si passava erano tutte macerie, il teatro Politeama non esisteva pi e cos di seguito. La strada era tutta dissestata e la carrozza traballava a rotta di collo. Finalmente arrivammo a destinazione. Naturalmente nessuno mi aspettava. Saldai il conto al fiaccheraio e bussai al portone, subito un p di confusione, suocera, Alberto, piccolo, .....

(Mario, Marzia, Alberto e Anna: foto scattata a Padova a Pasqua del 1956)

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