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FERNANDA NICOLINI

Grazie a…

In queste semplici “GRAZIE” è contenuta una buona


parte delle motivazioni che mi hanno spinta a fissare le fa-
si più intense di un dialogo che si protrae da più di trenta
anni. L‟auspicio è che la lettura diventi motivo di rifles-
sione per chi si accinge ad una esperienza così grave ed in-
tensa come è l‟insegnamento.
Non è per me un obbligo ringraziare chi mi ha aiutato a
credere che ne valesse la pena. Sono ancora abbastanza
cocciuta per non piegarmi a schemi predisposti, ma il pia-
cere di dire : “Grazie anche a te… “mi fa stare bene.
Il mio primo grazie a Lilia, mamma di Giulia, che un
giorno venne a trovarmi e mi consegnò un libro: “In alto a
sinistra” di Erri De Luca perché nel brano di pag. 19: ”Il
pannello” avrei trovato le parole con le quali voleva dirmi:
”Quanto ti stimi, valuti e abbia bisogno del lavoro che o-
gni giorno tu fai per la scuola…”
Restai sorpresa felicemente e mi precipitai a leggere le
pagine indicate. Erano molto di più di un grazie sincero.
Mi ripagavano appieno di un percorso sofferto, di tanto
tempo passato sui treni, delle difficoltà incontrate, delle
ingiustizie subite, della fatica e non solo fisica nel dare uno
stimolo valido a tanti ragazzi disorientati ed attratti da fal-
se e facili conquiste.
Non ero sicuramente paragonabile al professore Gio-
vanni La Magna che aveva saputo aprire ai giovani sbar-
batelli e brufoluti, in cerca della loro affermazione di uo-
mini, le strade della Grecia classica.
Una cosa mi avvicinava a Lui: la consapevolezza che

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SALVE PROF!

solo gli allievi sono in grado di conservare, attraverso la


composizione dei tanti piccoli frammenti, che quotidia-
namente consegno a Loro, la conoscenza trasmessa.
A Raffaella alla cui disponibilità riuscii ad affidare i
miei primi ricordi per avere un riscontro sincero
dell‟utilità o meno di renderli pubblici.
La sua dolcezza, ma soprattutto quel suo modo di sa-
persi mantenere pulita e ingenua nelle relazioni, mi aiuta-
rono a impegnarmi nella scrittura. Spesso mi sentivo im-
pacciata come un bimbo ai suoi primi tentativi con la mati-
ta.
Proprio i suoi suggerimenti e quelle brevi annotazioni
fatte con discrezionalità, a fianco alle righe, mi hanno
spinta a recuperare tanti tasselli del mio vissuto.
Ai tanti bigliettini che riportano, il disegno color pastel-
lo di un fiore, una frase di rimpianto, un augurio o un
semplice arrivederci.
A te Cristina va tutto il mio affetto per quella domanda
che con speranza e un po‟ di timidezza mi ponesti in fret-
ta: “Prof. vuol essere la mia madrina?”
Rivivo ancora l‟imbarazzo per la mia risposta, ma la
grande gioia per la tua proposta.
La richiesta mi trovava spiazzata. Con lo sguardo tuo
infantile avevi saputo attraversare con semplicità la bar-
riera che si frapponeva tra due ruoli diversi solo in appa-
renza. Mai mi chiesi: perché proprio a me ? Ero certa della
purezza della tua scelta.
Ad un “Buon compleanno” accompagnato da una ri-
chiesta: “Non se ne vada” arrivata proprio nel momento in
cui la difficoltà nelle relazioni col mondo adulto stava per
risucchiarmi nella rassegnazione della sconfitta.
A tutti i ragazzi che con me hanno creduto che è possi-
bile costruire anche sulle “macerie”. A quelli che delle
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sconfitte ne hanno saputo fare dei trampolini di lancio, che


hanno saputo accettare rimproveri ragionevoli e qualche
volta ingiusti, che hanno trovato la forza di smontare i
momenti bui per investire in un futuro più equo e lumino-
so.
Ai miei cari per avermi compreso e spinto a credere.
…e a tutti i salve Prof. che mi terranno sempre al passo
con Loro, con quel mondo fantastico dove anche dietro ad
uno sguardo scuro e a qualche vaffa‟... resta l‟affetto
schietto e sincero di chi ancora vuole porre grandi speran-
ze nel futuro e non accetta di sacrificare i suoi ideali al
servizio di prospettati piccoli o grandi poteri.
A tutti i ragazzi, e sono proprio tanti, che in questi ul-
timi anni hanno dedicato molto del loro tempo, perché
convinti, alla costruzione di una scuola più vicina alle loro
esigenze, vorrei ancora dire: dialogo, vicinanza nel lavoro,
comunione di intenti, operatività, coerenza, spazi nuovi e
perché no, un po‟ di affetto fanno superare le difficoltà e le
diversità; possono convincere che per essere appagati ba-
sta voltarsi e guardare ciò che si è costruito insieme non
per se, ma anche per gli altri.
Poco importa se qualcuno ha dimenticato di dire un
“semplice grazie”.
Siamo contenti così.

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SALVE PROF!

Salve Prof!

“Salve prof!” Mi volto… A dire il vero non provo stu-


pore, bensì un forte senso di benessere. È Claudia che, do-
po avermi salutata con la sua dolce voce squillante, mi
stringe le braccia al collo e mi schiocca un caldo bacio pro-
prio sulla guancia destra.
Con trepidazione aspetto lo stesso suono e lo stesso ca-
lore interiore per lo schiocco sulla guancia sinistra.
Non è un rito quello di un abbraccio e di un doppio ba-
cio, ma un gesto spontaneo profuso con naturalezza, che
parte da dentro. È questo il nostro saluto, il nostro arrive-
derci, un salve un po‟ alla latina, proprio ad intendere: “la
salute sia con te” e, non solo quella fisica.
La ricordo bambina, esile ed incerta, imbronciata e con
gli occhi socchiusi, silenziosa. La delusione traspariva da
due sottili fessure, quelle di due grandi occhi neri, incise
in uno sguardo che rifiuta di guardare avanti, verso quel
domani che l‟odierno benessere le rende inaccettabile.
Qualche battuta, ”scherzavo”, così dicono molti giovani
per giustificarsi della loro mancanza di sensibilità, un rife-
rimento ad un qualche pelo scuro di troppo la fanno senti-
re non bella, non desiderata e forse non accettata. Claudia,
come tante sue coetanee, non era abbastanza matura per
paragonare la bellezza della sua età a quella di un fiore
ancora chiuso in un bocciolo verdegrigioscuro, che esplo-
derà in tutta la sua magnificenza di colori non appena il
tepore della primavera scioglierà lo stato ceroso che anco-
ra tiene avvolti i sepali.
Abbiamo parlato a lungo di questo, tra una radice qua-

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drata e un logaritmo, tra la ricerca della soluzione di una


equazione e quella di un complesso problema geometrico.
Nel lungo calcolo delle aree totali e dei volumi di solidi
sovrapposti abbiamo inseguito il significato della bellezza,
non quella immediata, pronta, da consumare subito, ma
quella conquistata con pazienza e trepidante attesa, da
donare al momento giusto.
“Aspetta e vedrai che l‟armonia delle forme sarà perfet-
ta, quando anche l‟ultimo dei tuoi giovani ormoni avrà
svolto il compito per il quale è stato creato”, non voleva
essere una banale frase troppo usata, ma un invito a crede-
re, una certezza offerta da chi poteva vantare di aver fatto
parte della favola del brutto anatroccolo.
Rivivevo con lei le tristi sensazioni di quando venivo
confrontata con mia sorella. Lei svolazzava fiera dei due
fiocchi rosa che le raccoglievano i capelli, io potevo solo
nascondere, dietro l‟azzurro degli occhi una femminilità
negata.
Anche se nel mio caso la favola non aveva dato origine
ad un bianco cigno dal collo lungo, sicuramente il tempo
mi aveva restituito gran parte dei miei desideri.
In quello sguardo, ora gioioso, nella rincorsa quasi sal-
tellante, nei lineamenti distesi, tra le parole pronunciate
con chiarezza e determinazione, Claudia evidenzia che
adesso è pronta per il traguardo più importante:
l‟accettazione di se stessa.
Mentre la sua immagine sbiadisce, altri, tanti volti si
impressionano sulla mia retina e si confondono. Immagini
fuggevoli che ora si trasformano in un pensiero, ora si ma-
terializzano in suoni, pronti a ricordarmi il ruolo che, per
anni, ho occupato nella vita di molti adolescenti.
Se ho tempo per una passeggiata, o meglio per qualche
“vasca” in centro, ho modo di rendermi conto di quanto
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velocemente hanno girato le lancette dell‟orologio, quante


pagine di calendario sono state voltate in rapida succes-
sione.
Purtroppo, e questa è un‟altra accettazione con la quale
ognuno deve imparare a confrontarsi, quando i ricordi
cominciano a riempire tutti gli spazi della memoria spesso
accade di non riuscire a fare ordine come richiede la fretta.
Devo arrendermi e porre domande che mai vorrei fare.
Mi vergogno un poco a dover chiedere: “Scusa qual è il
tuo nome?” Se poi questo non basta a trasformare un viso
di adulto in quello di un adolescente allora devo insistere
per recuperare qualche immagine lontana e collocarla nel
tempo e nel luogo giusti.
Non vorrei mai deludere l‟aspettativa, né offendere la
dignità di chi rivuole tutto per sé un attimo della mia at-
tenzione.
Tra il periodo precedente l‟assunzione nel comune ri-
vierasco e questi ultimi dieci anni, i nomi che sono passati
sotto il mio sguardo sono stati talmente tanti da completa-
re interi calendari.
Ad ognuno è legato un ricordo diverso.
A Cecilia va un grazie per essere entrata a far parte del
mio cammino, per le semplici parole scritte su una letteri-
na, per avermi offerto, e sono certa della sincerità, il suo
affetto, quando scelsi di tornare nel suo mondo.
Il suo sguardo discreto, il suo aspetto solare entravano
spesso in conflitto con la paura di non essere in grado di
costruire un solido castello con la matematica.
Non è la matematica del certo ma quella del probabile
con la quale bisogna saper condividere ogni istante e an-
cor di più fare i conti per conquistare le aspettative future.
Anche se non so a quale tappa stia facendo sosta per
riempirsi di nuova energia, sono certa che Cecilia ormai è
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in grado di scegliere da quale fontana attingere l‟acqua


della vita.
Quel mio sesto senso, al quale spesso mi sono affidata
nel guardare al futuro, mi fa credere che le sue scelte siano
ancora contraddistinte dalla ponderatezza della quale si
avvaleva nella ricerca dell‟armonia.
Cecilia, Giulia, Elisabetta, Chiara, Alice, Debora, Do-
menico, Matteo, Marco, Katia, Erika, Maria, Francesca,
Giorgio, Paolo, Stefano, Giovanni, Giacomo, ... sono solo
alcuni dei nomi ai quali si sovrappongono più volti e che
mi riportano a quando tra una lezione e quella successiva
c‟era spazio per qualche riflessione, per un confronto se-
reno e costruttivo tra le mie e le altrui scelte.
Non dico che tutto mi risultasse così perfetto, anche la
verifica lasciava qualche ma e qualche se.
La giornata era sempre piena, la mente vagava, ma con-
tenuta tra due binari con un delta, indice di scostamento,
piuttosto piccolo.
Tra il pensiero di come organizzare nuovi progetti e la
loro esecuzione, l‟entusiasmo attenuava lo stress dovuto
alla fatica.
Su questa giostra che girava per sei mattine settimanali
salivano e scendevano indifferentemente alunni e docenti
e nonostante molte lagnanze ognuno era spinto dal desi-
derio di compiere il proprio percorso.
L‟ultimo tratto pensai fosse doveroso percorrerlo in
quel luogo dove esile scolara avevo iniziato a tracciare le
mie prime aste.
Fu incrociando un po‟ le dita che decisi di compilare il
mio ultimo modulo di trasferimento.
Adulti ne avevo incontrati tanti, i miei difetti erano pre-
sto evidenti, forse stavo diventando meno brava ad accet-
tare quelli degli altri.
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A destra e a manca, tra pianure e montagne, in città o in


riviera, la società continuava a mostrare le sue pecche: il-
ludere per deludere.
Mi sentivo pronta per affrontare anche questo, speravo,
ultimo trasloco, prima di lasciare agli altri un posto dove
iniziare, come mi era capitato alcuni decenni addietro, ad
affilare le unghie.
Di solito è un compito e un passatempo che prepara un
felino alla caccia.
Ritornare nei luoghi della propria infanzia ti ravviva
quel sentimento di attaccamento alle tue origini, alla tua
terra, a quel substrato dove hai affondato la tenue radi-
chetta dalla quale è cresciuta una pianta salda.
A causa di tante folate di vento, e a volte di qualche
tempesta burrascosa, la pianta ha subito recisioni e tra-
pianti tanto cruenti da dover far crescere sul tronco matu-
ro qualche spina a difesa.
Ho girato ed appreso, ho compreso che non c‟è colore
che schiarisca il nero dell‟Ipocrisia, non esiste profumo che
nasconda, anche se solo in parte, la scia che lascia, non
trovi balsamo per le ferite che provoca.
Anche in questo caso ci sarebbe bisogno di un maestro
che spiegasse non come sradicarla, rischierei di essere ri-
succhiata, né come combatterla, avrei poche possibilità di
riuscita, si è soli mentre lei muta volto in ogni istante.
Se tenti di catturarla scivola velocemente insinuandosi
come una biscia tra le crepe dei muri per ripresentarsi in
modo angosciante mentre stai tentando di riprendere fiato
dopo una lunga corsa.
Serve chi aiuta a viverci dentro porgendo una mano per
sollevarti quando ti senti schiacciato.
Più la mano è piccola, più è provata dalle precedenti
lotte, maggiore è la forza che ti può trasfondere.
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Per tutte queste mani ancora immature, ma sempre te-


se, che ricalcano nomi più volte ripetuti, per quelle che an-
cora andranno ad avvenire, posso ogni giorno varcare il
portone della scuola senza angosce e patemi.
All‟interno delle aule l‟aria è umida ed impregnata di
calore umano anche se intriso a volte di qualche goccia di
sudore.
Occhi vivaci, ora curiosi ora timorosi, mi avvolgono e
mi fanno sentire viva.
La voce è cambiata e anche i comportamenti.
Le femmine chiacchierano tra loro ormai come vecchie
comari, i maschi entrano impetuosamente nel gruppo cer-
cando di imporre la loro virilità e la loro voglia di instau-
rare un rapporto forse un po‟ diverso dal solito camerati-
smo di classe.
Qualche simpatia è nata in questi ultimi tre anni, dalla
prima alla terza sono cambiati non solo nell‟aspetto fisico,
ma anche in quello interiore. I sentimenti assumono una
forma più possessiva, irrompono nel tran tran quotidiano
come macigni devastanti.
Dopo il cenno di saluto ognuno va ad occupare il posto
assegnato e mi guarda con la solita e attenta curiosità.
Chissà quante volte si saranno chiesti: “su quale tema si
aprirà il confronto? Sarà un dialogo, un monologo o la
spiegazione di un nuovo argomento ad aprire l‟ora di ma-
tematica?” E allora ecco che tra tanti visi incuriositi c‟è chi
è bravo a giocare al gioco dell‟indovinello. Mi guarda ed
attende da me un cenno o una parola di conferma.
Questo è un rituale che si ripete ogni mattina ed a ogni
cambio di ora. Pochi istanti e la domanda ha una pronta
risposta.
Sono arrivati ieri, hanno preso posto nei banchi, erano
ligi ed impauriti, lo stupore era timore, timore di non esse-
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re in grado di rispondere alle richieste, timore che crescere


significasse assumersi maggiori responsabilità e magari
sentirsi incapaci ad affrontarle.
Al terzo anno hanno compreso che non tutte le minacce
avranno un seguito, è un po‟ come essere a casa e rispon-
dere si, ma poi fare no.
Sono maturati in tutte le forme, sono in grado di scon-
volgere e di travolgere, ma anche di stupire e di capire.
Più degli adulti sanno assumersi le proprie responsabi-
lità e non temono le conseguenze. Hanno preso coscienza
che il giudizio non sarà immutabile, per questo spesso in
silenzio accettano rimproveri che non sopporterebbero dai
familiari, cercano la stima e la rincorrono anche a discapi-
to di qualche capitolazione, di quelle che bruciano più di
una battuta o un rimprovero materno.
Il filo che tiene unita la loro integrità al mio giudizio
non può e non deve spezzarsi per un banale caduta dovu-
ta alla superficialità.
Spesso preferiscono essere giudicati incapaci ad ap-
prendere che a comprendere.
Non sono necessari i nomi per identificarli.
Anche se non vengono citati, tutti sono in grado di ri-
conoscersi attraverso le sfumature con le quali ho cercato
di tracciare i loro caratteri.
Sanno che non vuole essere una mancanza verso il sin-
golo, ma una considerazione per tutti perché comunque in
qualche modo hanno contribuito a riempire quel cesto do-
ve ogni giorno pongo un nuovo ricordo.

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