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.La Ricerca dell’Assoluto nel Colore.

Mark Rothko
Di Eleonora Rebecchi

“Penso ai miei dipinti come opere teatrali: le forme che


appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono
dall’esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di
muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti
teatrali senza vergogna. […] Tutto ha inizio come in
un’avventura sconosciuta, in un mondo mai veduto prima”

Mark Rothko

Introduzione
Storicamente Mark Rothko è uno dei protagonisti di quel
movimento che la critica ha chiamato espressionismo
astratto, nonostante lui stesso abbia soventemente smentito
questa definizione. L’espressionismo astratto prese piede negli
anni cinquanta e quando le opere furono inviate nei principali
musei europei, riscossero da subito notevole successo ed
interesse. L’espressionismo era considerato nuovo, fresco, senza
modelli precostituiti, e andava a descrivere un processo, piuttosto
che uno stile: i sentimenti erano direttamente espressi tramite
l’azione pittorica. Jackson Pollock, Willem de Kooning, Adolph
Gottlieb, Barnett Newman e Mark Rothko erano i principali
esponenti. Le influenze furono molteplici: dall’arte europea
(surrealismo, espressionismo ed autori come Ernst, Mondrian,
Tanguy e Chagall) alle opere d’arte esposte al MOMA (Matisse,
Kandinsky, Orozco, e le opere tarde di Monet). L’espressionismo
non fu mai una corrente unitaria con un programma ben definito,
ma un gruppo lasso dalle posizioni oltremodo distinte. La pittura
di Pollock e Kooning fu definita d’azione, “action painting”; quella
di pittori come Rothko e Newman si associarono alla seconda
corrente dell’espressionismo astratto, la cosiddetta “Colorfield
painting” traducibile con pittura delle campiture, in cui la forza
emozionale del colore e non l’azione gestuale assume un ruolo
predominante.

Un po’ di storia

Innanzitutto Rothko non è americano, anche se in America è


arrivato poco più che fanciullo. Era nato, infatti, da famiglia
ebrea, a Dvinsk, in Russia. Allora si chiamava Marcus Rothkovitz.
Era il terzo di quattro fratelli e non pensava di avere un futuro da
pittore. Raggiunse in America il padre nel 1913. Il suo cursus di
studi, più che da artista è da insegnante di disegno e in effetti,
professionalmente, iniziò con l’insegnare ai bambini in una scuola
ebraica di New York. L’avvio all’arte è farraginoso, con tentativi
figurativi e surrealisti, mentre nella seconda metà degli anni ‘40
arrivò a imboccare una strada che non aveva davvero nessun
rapporto con tutto ciò che aveva fatto precedentemente: A 45
anni avvenne infatti come una sorta di rinascita. Morì Marcus
Rothkovitz ed nacque Mark Rothko. Le sue tele si spopolarono di
figure e si popolarono di colori. Dissonanze di colori, armonie,
fratture dolorose: a guardarle, danno l’impressione d’essere tele
che gemono in attesa di un parto. Di un qualcosa che non sono
ancora loro, ma che anticipano sé stesse.

La svolta
Fino agli anni quaranta, Rothko si occupa di figurativo, passando
per cupi e drammatici paesaggi urbani fino a mescolare mitologia
e surrealismo: ciò accade grazie all’applicazione della musica,
che egli amava (suonava sia mandolino che pianoforte) alla
pittura. Infatti, per dare alla pittura la stessa emotività della
musica, Rothko proseguì nella dissoluzione della figura umana
fino a giungere alla pura astrazione. L’anno 1946 rappresentò per
Rothko un punto fondamentale nella sua opera. Innanzitutto
realizzò una nuova serie di dipinti, i cosiddetti
“multiforms”(termine postumo che la critica diede a queste
opere), che possono essere considerati quale passaggio
intermedio del cammino verso i dipinti “classici” astratti.
All’epoca l’artista rinunciò ai temi e ai motivi sino ad allora
espressi nei suoi dipinti. Le forme biomorfe dominanti alla metà
degli anni quaranta divengono macchie cromatiche prive di
consistenza, sfocate, che paiono sorgere dall’interno del dipinto.
Rothko donò loro trasparenza e luminosità, stendendo sottili
strati di colore su tela e colore su colore. <<Vorrei dire, senza
riserva, che secondo la mia opinione non ci deve essere alcuna
astrazione. Ogni forma, ogni zona sulla superficie pittorica che
non ha la concretezza pulsante di carne ed ossa, non ha la
fragilità, la ricettività di gioia o dolore, è semplicemente il nulla.
Un’immagine che non descrive l’ambiente circostante in cui può
essere assorbito il respiro della vita non mi interessa>>

{Dipinti classici} Dal 1949 al 1956 Rothko realizzò quasi


esclusivamente dipinti ad olio, per lo più di grande formato la cui
misura talvolta raggiungeva i 300 cm di altezza. Il suo scopo era
quello di risvegliare nell’astante, attraverso le dimensioni, di
essere all’interno del dipinto: <<Io dipingo quadri molto grandi.
So che da un punto di vista storico il dipingere opere di grande
formato può dare l’impressione di realizzare qualcosa di
grandioso e pomposo. Tuttavia lo scopo per cui lo faccio – e il che
riguarda anche altri pittori che conosco – risiede nel fatto che
voglio essere intimo ed umano. Dipingere un quadro piccolo
significa porsi al di fuori del campo dell’esperienza, significa
guardare a tutte le proprie esperienze contemporaneamente,
come attraverso una lente che rimpicciolisce. Quando si realizza
un grosso quadro, si è al suo interno.[…]>> Sebbene Rothko
avesse fondamentalmente impiegato l’intero spettro cromatico,
in questa fase creativa predominano alcuni toni. Fino alla metà
degli anni Cinquanta impiegò infatti solo occasionalmente i blu e
i verdi più scuri, preferendo i gialli e i rossi luminosi ed intensi,
che hanno una valenza sensuale, per non dire estatica. Per lo più
era Rothko stesso a miscelare i propri colori. Su una tela non
trattata, senza mano di fondo, egli stendeva, esattamente come
fa uno scenografo, un sottile strato di colla in cui miscelava poi i
pigmenti di colore, quindi fissava questo fondo con un colore ad
olio che poi lasciava correre lungo i bordi privi di cornice. Su
questa base che aveva anche una valenza spaziale Rothko
stendeva quindi le miscele di colore, tanto diluite che le particelle
di pigmenti faticavano ad aderire alla superficie. In questo modo
dava ai propri dipinti trasparenza e luminosità interna. I singoli
strati di colore erano stesi velocemente e con rapide pennellate
in quanto il colore sulla tela doveva respirare. La composizione di
base quasi simmetrica, che R. aveva individuato per i propri
dipinti classici, offriva la possibilità di molteplici varianti
cromatiche e dava l’intensità all’espressione pittorica,
esattamente come la forma della sonata in musica; il conflitto
drammatico nelle opere di R. si realizza attraverso contrasti
cromatici di grande tensione, che intensificano nel contrasto
reciproco la propria valenza, proprio come attraverso il contrasto
di limitare e spaziare, trattenere e liberare, che R. definiva
“tragico”.

Rothko sperimenta dunque un astrattismo assoluto, con quadri


fatti di campiture colorate, spesso su grandi dimensioni. I toni si
assestano con un ordine nuovo, si semplificano, puntano verso
una loro assoluta essenzialità. Sembrano zolle immense,
appoggiate una sull’altra, in perenne ricerca di un impossibile
assestamento. Cosa cercava quello strano personaggio, riservato,
timido, chiuso dietro le lenti spesse dei suoi occhiali da miope?
Cercava certamente qualcosa di grande e di fuori dall’ordinario.
Con una formula un po’ semplicistica, potremmo dire che cercava
l’assoluto. Innanzitutto l’assoluto gli interessava in quanto “cosa”
con cui entrare in rapporto, in cui penetrare fisicamente, in cui
calarsi, in cui consistere. Ma l’assoluto è qualcosa di imprendibile,
di non codificabile in un’immagine, di non fissabile in uno stato.
Così Rothko cerca nei suoi quadri la vibrazione di una luce
vivente. Come se sulle tele non spargesse colori, ma organismi:
invisibili e inesauste molecole che non cessano di modificare e di
modificarsi. «I quadri devono essere dei miracoli. Il loro
completamento segna la fine dell’intimità tra creazione e
creatore. L’artista se ne ritrova fuori». È la descrizione semplice e
perfetta di un processo creativo così simile a un parto; creando,
l’artista è tutt’uno con la tela.

Nonostante il sempre crescente riconoscimento, R. si sentiva


spesso incompreso, o per lo meno supponeva di esserlo. Ogni
tentativo di interpretare le sue opere lo indignava. Voleva che l’io
nei suoi dipinti fosse difficile da cogliere, rimanesse libero. R.
considerava le sue forme come qualcosa di vivo, un elemento che
fosse al di là del materiale: <<La mia arte non è astratta; vive e
respira.>>, diceva. E proprio come un dipinto continua a vivere
in compagnia di un osservatore sensibile, la reazione dello stesso
poteva anche rivelarsi letale. A partire dal 1950 Rothko smise di
parlare dei propri dipinti:<<Tacere è tanto più importante>>,
disse, aggiungendo che le sue parole <<Paralizzavano>> lo
spirito dell’osservatore. In un discorso Rothko affermò: <<Forse
avete notato che nei miei dipinti sussistono due caratteristiche: o
le superfici sono in espansione e spingono in tutte le direzioni
verso l’esterno, oppure le stesse si contraggono e si chiudono
verso l’interno. Tra i due poli potete trovare tutto quello che io ho
da dire>>. Odiava inoltre essere considerato un grande colorista:
<<Non mi interesso dei rapporti di forma o colore o di qualsiasi
altra cosa nel genere. Mi interessa soltanto esprimere le più
fondamentali sensazioni umane, tragedia, estasi, fatalità e cose
simili. Il fatto che molti uomini dinnanzi ai miei quadri crollino e si
mettano a piangere dimostra che io sono in grado di dare
espressione alle fondamentali sensazioni umane… La gente che
dinnanzi ai miei dipinti piange compie la stessa esperienza
religiosa che io compio quando li dipingo e quando voi, come
avete fatto, vi chiedete solamente dei loro rapporti cromatici
allora vi sfugge l’essenziale.>>

A partire dal ’57 e negli anni successivi, R. fu sempre più portato


a utilizzare una tavolozza cupa. Oramai impiegava meno toni
rossi, gialli e arancioni, preferendo colori più scuri, come
marrone, grigio, blu scuro e il nero. I dipinti di Rothko si erano
fatti meno accessibili, più scuri e misteriosi.
{ Seagram Murals } Alla metà del 1958 a Rothko fu chiesto di
realizzare alcuni dipinti parietali con cui decorare uno spazio nel
Seagram Building di Park Avenue di New York. Lo spazio che R.
avrebbe dovuto decorare e era destinato all’elegante ristorante
Four Seasons. Era questa la prima volta che R. si cimentava con
un ciclo di dipinti e anche la prima in cui il suo lavoro era
destinato ad uno spazio preciso. La sala da pranzo era lunga e
stretta. Per essere visti da ogni lato, i dipinti dovevano essere
appesi sopra la testa degli ospiti e non, come fino a quel
momento R. aveva preferito, semplicemente a livello del
pavimento. Nei mesi in cui R. lavorò hai Seagram Murals dipinse
tre serie di pitture parietali gigantesche, complessivamente
all’incirca quaranta opere per le quali realizzò alcuni schizzi – per
la prima volta dopo circa vent’anni. Scelse una tavolozza
cromatica basata sul rosso cupo e marrone interrompendone la
struttura orizzontale con una rotazione di dipinti di novanta gradi.
In questo modo creò delle opere che si correlavano direttamente
all’architettura spaziale. Le superfici cromatiche ricordano
elementi architettonici, colonne, confini, porte e finestre, che
danno all’osservatore una sensazione di chiusura, pur facendo
intuire, al di là, un mondo sconosciuto. Durante una pausa dal
lavoro, Rothko, compiendo un viaggio, conobbe John Fischer,
editore di Harper’s Bazaar, a cui confidò di aver accettato
l’incarico al fine di “dipingere qualcosa che avrebbe tolto
l’appetito a chi avrebbe mangiato in quello spazio. Nel caso in cui
il ristorante si fosse rifiutato di appendere i suoi dipinti sarebbe
stato per lui il migliore dei complimenti”. Dopo un po’ di tempo R.
e sua moglie si recarono a cena al ristorante Four Seasons e
rimase cosi sconvolto dall’ambiente pretenzioso da decidere su
due piedi di rinunciare al progetto decorativo. Il concetto
originario di appartenenza ad un ciclo non ad oggi più
percepibile, in quanto i Seagram Murals sono sparsi in tutto il
mondo. (Londra, Giappone e Washington)

Agli inizi degli anni Sessanta la stella dell’espressionismo astratto


in America iniziò lentamente a perdere d’intensità. Giovani artisti,
come Andy Warhol, Roy Lichtenstein e altri si ispiravano via via
sempre di più all’importata Pop Art, sviluppandola ulteriormente.
Questa corrente artistica traeva spunto dal mondo visivo dei
mass-media e dalla pubblicità. Rothko definì gli artisti che
seguivano la Pop Art come <<ciarlatani e giovani
opportunisti>>. Per i critici invece l’ascesa della Pop
rappresentava la fine dell’espressionismo astratto, secondo loro
ormai superata. E’ questo il periodo nel quale esegue una serie di
Murals per una mensa ad Harvard e, quando lo accusarono d’aver
comunicato tristezza e malinconia, rispose asserendo che la
sensazione cupa del trittico doveva comunicare le sofferenze
della passione di Gesù e che i due grandi dipinti più chiari
rimandavano all’Oriente e alla resurrezione.

{ Rothko Chapel } Impressionati dal trittico di Harvard, i coniugi


De Menil gli commissionarono alcuni dipinti parietali per una
cappella che i collezionisti volevano farsi costruire nella St.
Thomas Catholic University a Houston. La committenza rese
grande gioia a Rothko per la sacralità di cui era permeato il
lavoro. Rothko si occupò della realizzazione architettonica,
progettando una cappella a pianta ottagonale simile ad una fonte
battesimale, affinchè il visitatore fosse completamente
circondato dai dipinti. Per le ampie pitture parietali scelse una
tavola di colori cupi. R. desiderava ottenere un colore ad olio
molto fluido cosi da poterlo abbondantemente diluire con la
trementina. Complessivamente realizzò 14 opere di grande
formato, tre trittici e cinque quadri singoli, i più ermetici e distanti
mai realizzati. Negli ultimi anni della sua esistenza Rothko
continuò a esplorare l’impiego dei colori cupi, tutti pregni d’una
forza mistica, vitale e turbolenta nonostante i colori spenti che
preannunciano lo stato di depressione in cui versò fino al
momento del suicidio.

Conclusione
L’arte di Rothko è un’arte assolutamente religiosa. Si scorge la
radice della cultura ebraica, che spiega i grandi vuoti dei suoi
quadri. Ma più potente è forse la memoria, meno opposta di quel
che sembra, della cultura delle icone. Le icone non sono
rappresentazioni o racconti di un fatto, come è proprio della
cultura figurativa occidentale. Le icone vivono in una tensione
permanente di immedesimazione con il soggetto rappresentato.
Così la pittura di Rothko vibra nel desiderio di un’identificazione
con l’assoluto. È questo che la fa immensa, indescrivibile anche
se fatta di nulla, praticamente irriproducibile. È questo che te la
fa guardare per interi minuti lasciandoti con la certezza di aver
perso la maggior parte dei particolari.
Ma arriva poi il punto in cui l’assoluto, per essere reale, per
essere un conforto, ha bisogno di diventare un volto. Rothko su
quella soglia si era fermato. Con onestà, passo per passo,
riconosceva l’inadeguatezza di quei miracoli realizzati sulle tele. E
si spingeva sempre più in là a cercare miracoli sempre più grandi.
L’ultimo lo tentò cercando di riempire di luce il nero. «Astrazione
e figurazione sono una falsa questione. La vera questione è di
mettere fine a questo silenzio e a questa solitudine, di respirare e
tendere di nuovo le braccia». Il suo totale rifiuto di riprodurre
nell’arte la natura lo spinse a ridurre la sua pittura a vaste
superfici cromatiche. Attraverso la sua opera ebbe una funzione
sempre più decisiva nell’evoluzione della pittura monocroma. La
profondità spaziale e la forza meditativa delle sue creazioni sono
davvero uniche nel suo genere e riescono anche a ricreare un
vero e proprio dialogo tra osservatore e osservato. Come riusciva
a realizzare con queste poche combinazioni una tavolozza di toni
caldi e freddi, chiari e scuri, splendenti e opachi, luminosi e cupi,
esaltanti e tristi, pacati e passionali, suscitando sentimenti con
cui riusciva a rendere l’ampiezza, la molteplicità, la drammaticità,
la profondità e il respiro della musica sinfonica, da lui tanto
amata? Chi sa rispondere a queste domande sono solo i suoi
dipinti e coloro che li osservano.
Bibliografia
Rothko - Jacob Baal Teshuva, ed. Taschen

Scritti - Mark Rothko, ed. Abscondita

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