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RICORDO DELLO ZIO

Il mio nome è PIA LUCIANI, nata il 15 marzo 1946 a CANALE D’AGORDO (BELLUNO),
maggiore di 10 figli di Edoardo, fratello di Albino.
Di quando ero piccola ho solo piccoli flash che mi ricordano lo Zio: le brevi visite in seminario o in
Curia, assieme al papà o alla zia Nina, nella sua stanza piena di libri, questo prete sorridente dalla
lunga tonaca nera che mi offriva le caramelle, una carezza e si interessava ci ciò che stavo facendo..
Le sue rapide visite in famiglia, alle quali non rinunciava nonostante fosse molto occupato, le
caramelle per noi bambini o i primi gelati, sempre accompagnati dal suo sorriso, e dalle sue
affettuose parole che cercavano di farci perdere la nostra timidezza. Le sue risate spontanee e
simpatiche di fronte alle nostre battute di bambini, unite alle sue dolci carezze ed alle sue parole
sempre incoraggianti.
La sua presenza in casa per un periodo più lungo, durante una sua malattia, la messa quotidiana
celebrata nella cappella delle suore dell'Asilo, dove mio fratello Giovanni od io lo
accompagnavamo, per evitargli il freddo della chiesa grande.
Ma il momento in cui cominciò un nostro più stretto rapporto fu quando avevo 12 anni.
Conclusa la scuola elementare dovevo proseguire gli studi in un collegio nazionale, a Fano nelle
Marche. Il regolamento stabiliva che le Convittrici dovessero essere accompagnate da un parente
stretto, ma la mamma aveva da poco avuto un altro dei miei fratellini ed il papà era a letto malato.
Si offrì lui di accompagnarmi, affrontando il lungo viaggio con questa ragazzina, sua nipote, che lo
conosceva solo fino ad un certo punto. Mi sembra ancora di vederlo, arrivare a casa, prendere la mia
valigia e tranquillizzare i miei genitori, non tanto per la mia sicurezza che era naturalmente
scontata, ma sul fatto che, nonostante le sue molte occupazioni si prestava molto volentieri per quel
servizio.
La sua preoccupazione di rendermi meno pesante il tempo che non passava mai sul treno, lo portava
a farmi notare le cose più interessanti dal finestrino, a chiedermi di me e dei miei fratelli, ad offrirmi
da bere o da mangiare quei panini che aveva fatto preparare dalle suore del collegio Sperti di
Belluno, di cui era cappellano. E quella figura dolce, dalle parole incoraggianti, l'ultima che vidi
prima di iniziare la mia vita di collegiale, fu sempre presente e non solo nel ricordo, a consolare la
mia nostalgia di bambina prima, di ragazza poi, lontana da casa per necessità. Mi invitava a
scrivergli e lui rispondeva sempre, con consigli, incoraggiamenti ed apprezzamenti che facevano
sentire tutto il suo affetto paterno per me. Si interessava ai miei studi ed alle altre mie attività,
consolandomi quando qualcosa non andava per il verso giusto, partecipando alla mia gioia quando
le cose andavano bene.
Mi raccomandava di fare del mio meglio non solo per me stessa, ma anche per dare l'esempio ai
miei numerosi fratelli più giovani :"Tu sei il capo cordata nella scalata della vita, hai anche delle
responsabilità verso quelli che ti seguono…!" Più di una volta, passando in macchina assieme al
vescovo Muccin, durante il suo viaggio verso Roma, dove avrebbe dovuto presenziare alle sessioni
conciliari, si era fermato per un breve saluto, affettuoso, incoraggiante o consolante.
Passata a Roma per la frequenza dell'Università, i nostri rapporti divennero ancora più stretti ; un
giorno mi offrì un biglietto per partecipare ad una sessione pubblica del Concilio. "'E un fatto
straordinario, - diceva- di grande portata storica, e di crescita per la Chiesa, ma ascoltando ciò che si
dice potrai anche imparare molto".
La nostra corrispondenza diventava più frequente, la mia maggior autonomia mi consentiva di
frequentarlo più spesso: non tornavo mai a casa da Roma senza passare prima da lui. Anche dopo la
discussione della mia tesi di Laurea, la prima tappa era stata da Lui. Suor Vincenza aveva preparato
una torta, era pronta una bottiglia di spumante e lui mi fece festa condividendo la mia gioia e
dicendo scherzosamente : "Il mondo ora non ha più paura, perché ha un dottore in più".

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Il nostro affetto reciproco era aumentato sempre più, ed io avevo cercato di frequentarlo il più
possibile, accettando i suoi inviti, prima al castello di Vittorio Veneto e poi al Palazzo patriarcale di
Venezia, perché trovavo in lui il completamento di ciò che mi mancava in mio padre, bravissima
persona d'altra parte, ma di carattere completamente diverso.
Mi piaceva soprattutto il suo modo di insegnarmi le cose, senza darlo a vedere, parlando in modo
quasi indifferente di questo o di quello. Molte volte, partita da casa per chiedergli un consiglio, una
volta da lui, non vedevo più la necessità di parlargliene, perché nei suoi discorsi, senza che lo
sapesse, trovavo già le risposte.
Normalmente è conosciuto come il Papa del sorriso.
Il suo sorriso però non significava, come suppone qualcuno, incoscienza di fronte a problemi di cui
non si rendeva conto e nemmeno la bonarietà di una persona cui va bene qualsiasi cosa, di un
sempliciotto qualsiasi che accetta un incarico superiore alle sue capacità, dal quale alla fine sarà
oppresso e soffocato.
Il suo sorriso era desiderio di aprirsi agli altri , di comunicare la gioia e la serenità di una fiducia
nel Signore, cui lui stesso si abbandonava in ogni situazione, difficoltà comprese. Ed era una cosa
che mi colpiva quella sua serenità di fronte ai problemi, che non era dovuta ad incoscienza, ma alla
fiducia nel Signore e nella sua Provvidenza. Talvolta mi confidava: ho molte difficoltà con questo o
con quello… non è facile fare il vescovo…dovrò prendere una difficile decisione… però poi
aggiungeva: se avessi cercato io questo posto ne sarei pentito, ma non è stata una mia scelta, e la
Provvidenza che mi ha messo qui mi aiuterà per il meglio.
E affrontava tutti i problemi con il massimo dell'impegno come se tutto dovesse dipendere da lui,
ma contemporaneamente con la serenità di chi pensa che tutto debba dipendere solo dal Signore.
Aveva un modo gioioso di affrontare la realtà, sapeva godere della bellezza della natura, dell’arte,
dell’amicizia, di un bel film, di una bella musica, anche del sano umorismo di una buona barzelletta.
Diceva che bisognerebbe abituarsi a vedere la bottiglia mezza piena anziché mezza vuota.
Oltre che di profonda fede, era una persona di grande razionalità e di vasta cultura, che spaziava da
ogni conoscenza strettamente umana allo studio della teologia, ma che si sforzava continuamente,
nelle sue omelie e nei suoi scritti, di ridurre il più possibile in espressioni semplici, accessibili a
chiunque.
Aveva sempre in mente la sua esperienza di quando, giovane chierico, aveva avuto la richiesta dal
parroco di collaborare alla stesura del bollettino parrocchiale. Di fronte al frutto del suo primo
lavoro di giornalista, fatto con impegno ed utilizzando tutte le nozioni apprese nei suoi recenti studi,
il parroco, don Filippo Carli, dopo averlo lodato per il suo impegno, gli aveva raccomandato di
rivedere il suo lavoro, in modo da renderlo comprensibile anche alla vecchietta che abitava
nell’ultima casa del paese e che sapeva appena leggere e scrivere,.
Credo che per tutta la vita, ogni volta che si accingeva a preparare un’omelia od a scrivere su di un
argomento qualsiasi, si sia prima di tutto messo nei panni di coloro che lo avrebbero ascoltato o
letto. Più di una volta l’ho sentito leggere in anteprima la sua omelia, in cucina, alle suore, per
verificare di essere stato sufficientemente comprensibile.
Alieno da qualsiasi desiderio di carriera, il suo sogno era quello di fare un po’ di bene, diventando
parroco di un paese della sua montagna, dedicandosi a bambini e giovani , ad anziani e malati,
portando con sé la mamma come perpetua. Magari nel paesino di Alleghe, dove, la presenza del
lago, avrebbe potuto far gioire la mamma, col ricordo dei suoi anni giovanili passati a lavorare a
Venezia.
Ma non poté mai avere questa soddisfazione, perché, dopo i primi incarichi di cappellano, passò
professore nel seminario, vicario generale, vescovo, patriarca ed infine papa; non fu mai parroco, se
non di una diocesi intera e poi del mondo.
Ogni volta si trattava di qualcosa che non desiderava, ma che accettava con senso di obbedienza,
con desiderio di fare del bene e con fiducia nella Provvidenza che gli chiedeva ogni volta impegni
sempre più gravosi.

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Generalmente vestiva di nero come un normale sacerdote, mettendo in tasca anello, croce e
zucchetto, ma si adattava a vestirsi di rosso, non solo quando era necessariamente richiesto dalle
cerimonie, ma anche se si trattava di andare a visitare qualcuno che desiderava vederlo in grande
pompa, come i vecchietti di qualche ospizio o le suore di qualche istituto o i bambini di qualche
scuola.

La domanda più comune che la gente si pone e che quindi mi viene di solito rivolta, è quella che
riguarda la morte dello zio.
Se una persona qualsiasi muore improvvisamente, senza preavviso alcuno, ci si meraviglia, ma non
più di tanto.
Certamente, quando invece succede ad una persona che si trova in un posto importante come quello
di un Papa e che per di più, fin dal primo momento si è fatta benvolere dalla maggior parte della
gente, è facile che la sua improvvisa morte faccia pensare a qualcosa di diverso da una morte
naturale.
E’ quello che è successo per lo zio.
Nel corso della sua vita, fin da bambino, è vero, ha avuto qualche problema di salute, ma se già a
quei tempi, in cui la mortalità era molto più alta di oggi e per cause che oggi sono perfettamente
curabili, è riuscito a sopravvivere, è evidente che, in fondo , era fatto di una fibra robusta.
Non avrebbe potuto altrimenti resistere alla vita dura , soprattutto nel seminario di Feltre, con
un’alimentazione approssimata, e la necessità, per lavarsi, ogni mattina d’inverno, di dover rompere
il ghiaccio nel catino. Non sarebbe riuscito ad affrontare tutte le ore di lavoro cui si sottoponeva,
dalla mattina molto presto, fino a tarda sera, dopo cena, tutti i giorni del suo impegno come
professore nel seminario e vicario generale prima, di vescovo e patriarca poi. Né sarebbe stato in
grado di dedicarsi alle sue lunghe passeggiate in alta montagna che erano il suo piacere nei pochi
giorni di vacanza che si concedeva.
Sebbene, non essendo stati presenti, non possiamo darne una testimonianza certa, noi della famiglia
siamo tranquilli: qualunque sia la causa della sua morte, riteniamo si sia trattato di una morte
naturale. D’altra parte un’autopsia non è stata fatta e, soprattutto, noi non abbiamo voluto
richiederla.
Potrebbe essere morto di un infarto fulminante, succede talvolta, senza preavviso; ne ho avuto
esperienza anch’io nella mia attività di volontaria del soccorso.
Potrebbe essere stata anche un’embolia; qualche tempo prima della sua elezione, in una mia visita a
Venezia, gli avevo fatto notare una macchia rossa che aveva in un occhio. Lui aveva sorriso e,
come se si fosse trattato di uno scherzo, mi confidò che aveva consultato il Professor Rama , noto
primario oculista, che gli aveva parlato di un embolo che si era fermato proprio nell’occhio.
Probabilmente si era formato nell’ultimo viaggio in aereo dal Brasile, durante il quale si erano avuti
problemi di pressurizzazione. “Sai? - mi diceva lo zio- il medico ha detto che se l’embolo si fosse
fermato in un altro punto del mio corpo, sarei morto improvvisamente, senza nemmeno
accorgermene…!”
La posizione del suo appartamento privato poi, isolato nella parte più alta del palazzo, in cui
entravano solo le suore, che erano le stesse che lo accudivano a Venezia, oltre che il cameriere
personale ed i due segretari, rendono se non impossibile, perlomeno altamente improbabile la teoria
avanzata da un romanziere , nel suo libro sullo zio, in cui accenna a qualcuno che in punta di piedi,
di nascosto gli somministra il veleno. Tanto meno la supposizione che abbia sbagliato dose di
medicinali: era sempre suor Vicenza che glie li preparava e glie li portava, le poche volte in cui ne
aveva bisogno.
In ogni modo, per noi che crediamo e che riteniamo tutto sia Provvidenza, è morto così presto
perché quei pochi giorni di papato erano stati sufficienti.
La Chiesa è fatta di uomini, più intelligenti e meno intelligenti, più buoni e meno buoni, più santi e
più peccatori, ma non sta in piedi per merito loro, bensì con l’aiuto del Signore che ha promesso la
sua costante presenza e per quella dello Spirito che non manca mai.

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Così lo Spirito soffia quando vuole e dove vuole, in modo tale che ogni momento la Chiesa abbia la
sua guida giusta, adatta a quel momento e necessaria esclusivamente per quel dato momento.
Solo se evitiamo di guardare il Pontificato dello zio nell’ottica umana e cerchiamo di entrare in
quella di Dio, forse riusciamo a capire qualcosa, anche se non tutto. Infatti, come dice la scrittura , i
suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie.
Ci rendiamo conto innanzi tutto che il suo Pontificato, pur nella sua brevità ha avuto una sua
completezza, non si è interrotto a metà.
E’ riuscito a mostrare come si può fare il papa in un modo diverso ed unico.
Ha mostrato come il Cristianesimo può essere gioia e serenità pur nelle quotidiane difficoltà.
E’ riuscito a spiegare nelle sue quattro udienze, l’importanza delle tre virtù che sono la base del
Cristiano, Fede Speranza e Carità, e l’Umiltà che lui aveva scelto come modello di vita.
Con il suo sorriso è riuscito ad accostarsi alla gente, facendo sentire a tutti il suo affetto, il suo
ottimismo ed il suo incoraggiamento.
Pur non avendo scritto un’enciclica , ha lasciato un messaggio, che è come un’enciclica:
Il Signore ci ama come un padre, anzi , come una madre;
è sempre in attesa del nostro ritorno, per perdonarci quando ci pentiamo dei nostri sbagli;
ci accetta come siamo, per aiutarci a diventare sempre migliori;
se ci abbandoniamo a lui accettando i progetti che ha su di noi, diventiamo un mezzo perché si
costruisca qualcosa di grande.

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