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Mordecai Richler

IL PIAZZISTA DI LIBRI

Traduzione di Matteo Codignola

Adelphiana
www.adelphiana.it
30 maggio 2001
Questo articolo riguarda le esperienze americane di Mor-
decai Richler come venditore di se stesso. Data la facilità
con cui il nome stesso di Richler sembra secernere voci e
leggende, non confermiamo che l'autore stia preparando
una seconda parte del pezzo ambientata in Italia, nel
corso della sua – non meno esilarante – tournée dei me-
si scorsi. Ma non lo smentiamo neppure.

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Il varietà non è morto, solo che al posto di cantan-
ti, prestigiatori, battutisti e imitatori si è insediato
lo scrittore frastornato dal jetlag, che legge pagine
della propria opera in qualsiasi libreria garantisca
un pubblico minimo di otto clienti. Qualche setti-
mana fa, il «Los Angeles Times» citava almeno ot-
tanta piazzisti di libri contemporaneamente all'o-
pera in diverse sedi.
Alla vigilia del mio giro promozionale per il Cana-
da i segnali erano tutt’altro che incoraggianti. Pas-
seggiavo verso sera lungo Crescent Street, diretto
alla mia bettola preferita, quando vengo fermato
da un signore di Vancouver.
«Mi scusi, ma lei non è Mordecai Richler|».
«Sì».
«Mi permetta di stringerle la mano. Ho letto tutti i
suoi libri, e anche il resto. Per me lei è un mito».
«Be', grazie...».
«Ma mi tolga una curiosità. Lei di vero mestiere
cosa fa|».
Poi c'era stata la lettera di un college dell'Ontario,
che voleva organizzare un incontro pubblico. «Nel

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nostro istituto il suo libro, L'apprendistato di Duddy
Kravitz, viene ormai considerato un classico. E per
i nostri studenti scoprire che lei è ancora vivo è
stata una folgorazione. Non riuscivano a creder-
ci».
Toronto. Sono in città per una conferenza alla
Donner Foundation, e mi tocca una cena con una
giornalista del «Globe and Mail». «Mi scusi se glie-
lo chiedo, ma quanto è alto| E sua moglie|».
«E perché le interessa|».
«Ma per descrivervi, no|».
Proseguendo la sua indagine squisitamente lette-
raria, mi domanda se i nostri $gli hanno ricevuto
un'educazione ebraica. Al che prima mi con$da di
avere sposato un ebreo, poi aggiunge con un sor-
risetto compiaciuto: «Noi celebriamo il se-der ogni
venerdì sera».
«Mi sa che è una consuetudine sino-ebraica. Noi lo
celebriamo solo una volta l'anno, a Pasqua».
In albergo mi aspetta un fax di sei pagine. È di
Knopf Canada, e contiene una lista di appunta-
menti lunga così – interviste, letture, eccetera. Poi
mi toccherà $rmare libri. Però quelle che proprio
detesto sono le interviste in TV, almeno dal giorno
in cui la solita giornalista col sorriso di prammati-
ca ha incastrato i miei due minuti fra la dimostra-
zione di una ricetta e il parere di un guaritore spi-
rituale. Dopodiché, mostrando alla camera il mio
ultimo romanzo, mi ha chiesto: «Si è ispirato a una
storia vera, o è tutta farina del suo sacco|».
Ormai pubblicare è una specie di supplizio, ma c'è
stato un tempo in cui non era così. Mi ricordo che

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a Londra, da giovane, consegnavo il manoscritto
all'editore, il quale all'atto stesso mi ricordava gli
anticipi versatimi senza che ne avessi alcun titolo.
E quando mesi dopo il romanzo usciva, mi chiu-
devo in casa aspettando che i miei migliori amici
telefonassero per leggermi le stroncature, nel caso
me le fossi perse. Erano i giorni felici in cui gli
scrittori guardavano ancora i piazzisti – gente che
girava di città in città armata solo di una venti-
quattrore – dall'alto in basso: adesso non possia-
mo non considerarli nostri colleghi. L'ultima volta
a New York mi hanno scarrozzato in limousine da
una libreria all'altra. In ognuna mettevo piede
giusto il tempo di $rmare un certo numero di co-
pie, preceduto e seguito da altri scrittori su altre
limousine che facevano altrettanto. Tutta questa
frenesia ha una spiegazione precisa: le librerie
possono infatti restituire all'editore tutte le copie
che vogliono, tranne quelle $rmate. Per questo
l'addetto stampa della casa editrice che vi accom-
pagna spesso dice cose tipo: «Io distraggo i com-
messi, e intanto lei $rmi il maggior numero di
porche copie possibile».
Una decina di anni fa io e il traduttore francese
dell'Apprendistato di Duddy Kravitz siamo stati invi-
tati al Salon des Livres di Montreal, dove ci hanno
sistemato a un tavolo fra pile di libri alte così.
Quando l'altoparlante ha comunicato ai visitatori
deambulanti che avrebbero potuto trovarci, pen-
na alla mano, nello stand n. 13, sembrava proprio
giunto il nostro momento. Ma nei dieci minuti
successivi non è passato un accidente di nessuno.

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Poi si è fatto avanti un tizio, armeggiando col pac-
chetto di sigarette: «Avete per caso da accende-
re|».
Ormai sono un veterano, cioè bazzico l'ambiente
da molto, troppo tempo per commettere errori
grossolani. Ad esempio non partecipo ai talk show,
radiofonici o televisivi che siano. Una volta, duran-
te uno special in seconda serata, ero seduto a un
tavolo con altri due autori. Ricordo che guardam-
mo stupefatti un tecnico picchiettare sul vetro di-
visorio fra la cabina di regia e lo studio e spiacci-
carci sopra il seguente messaggio per il condutto-
re: «Dave, ricordati che oggi è luna piena». Quan-
do è arrivato il mio turno ho intrattenuto il pub-
blico, come mi era stato chiesto, sugli arcani del
mio complicato mestiere – l'incubo della pagina
bianca e altre cazzate del genere. Quindi un ascol-
tatore mi ha posto la sua domanda: «È tutto molto
interessante. Però scusa Morde, io abito nel North
Side, e vorrei proprio sapere come mai questa set-
timana non sono passati a raccogliere la spazzatu-
ra».
Adesso è qualche giorno che vado in giro a vende-
re, e non ne posso già più dei soliti tormentoni:
«Perché scrive in prima persona|».
«E perché dovrei scrivere in terza|».
«Usa il computer|».
«Ma no, ogni mattina indosso la mia vestaglia di
seta di Armani e le pantofole di velluto di Dior.
Solo a quel punto impugno la penna d'oca».
Subito dopo l'uscita della Versione di Barney volo a
Londra con mia moglie. Notizie di vario genere,

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buone e meno buone. Recensioni entusiastiche
sul «Daily Telegraph» e sul «Sunday Times», ma in
compenso Melvyn Bragg non mi vuole più nel suo
programma alla radio della BBC, mentre John
Walsh dell'«Independent» ha disdetto la nostra ce-
na all'Ivy, perché visto che ho già concesso un'inter-
vista a Mark Steyn del «Daily Telegraph» la notizia
è bruciata.
Manchester. Il mio editore, Chatto & Windus, mi
ha organizzato una lettura da Waterstone's. Pec-
cato fosse Rosh Hashonna, e molti miei correligio-
nari non siano venuti. In un altro locale della li-
breria c'era una lettura della femminista Andrea
Dworkin. La quale è un'inguaribile romantica,
che scrive cose tipo: «Il rapporto sessuale rimane

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un mezzo, o meglio il
mezzo, per far sentire
una donna $siologica-
mente inferiore: per tra-
smetterle, $n nelle cel-
lule, la sua inferiorità...
strapazzandola $nché
non cede». Devo tutta-
via ammettere che la si-
gnora Dworkin, bontà
sua, non considera tutti
gli uomini stupratori.
Londra, all'inizio di ot-
tobre, ha ancora un cli-
ma sopportabile, e i ta-
volini dei bar all'aperto.
Però noto una novità, il sensibile aumento delle
donne calve. Dif$cile dire se si tratti di una moda o
di una pro$lassi di massa contro i pidocchi. Nessuna
delle due alternative, comunque, mi turba più di
tanto.
Montreal. Scorro la posta che si è accumulata du-
rante la nostra assenza. Un professore dell'Onta-
rio vorrebbe rispondessi a un questionario in ven-
ticinque punti, che gli serve per un saggio sulla let-
teratura di serie B. Un museo di ottica del Ten-
nessee chiede se sono disposto a donare un mio
paio di occhiali. Poi c'è l'invito a una conferenza,
che comincia così: «Siamo un'associazione no
pro$t...». Cestino senza leggere oltre. Il rappre-
sentante della Knopf a Calgary vuole assolutamen-
te che partecipi a un programma radiofonico inti-

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tolato Mountain Top Music. «L'intervista consiste-
rebbe in un suo pro$lo, e in redazione vorrebbero
qualche notizia preliminare: 1. Qual è il suo brano
musicale preferito. 2. Titolo e autore del suo libro
prediletto. 3. Dove le piacerebbe trascorrere i suoi
ultimi giorni (ad esempio in cima a una monta-
gna, su un'isola, o a casa)».
Di nuovo a Toronto. Altre interviste alla radio, in
TV, seguite da una lettura serale nell’aula magna
della Toronto University. Subito dopo, mentre so-
no lì che $rmo copie, si fa avanti una ragazza piut-
tosto combattiva: «Ho letto il suo romanzo, Solo-
mon Gursky Was Here. Mi ci sono voluti due anni.
Che palle».
Sempre a Toronto. Do un'occhiata alla «Gazette».
Brutte notizie da casa, dove continua l'ormai cer-
vellotica guerriglia linguistica. Devo precisare che
Florence e io passiamo l'inverno a Londra, e il re-
sto dell'anno nel nostro cottage sulle rive del lago
Memphremagog, in Quebec. All'ospedale più vici-
no, il Providence, io e la mia famiglia siamo sem-
pre stati trattati bene. Ma ora è venuto a galla uno
scandalo – no, peggio, un caso di alto tradimento.
Sempre all'erta, Rodrigue Larose, del Mouvement
Estrien pour le Français, ha scoperto in qualche
punto dell'ospedale scritte a mano in inglese, e in
particolare le parole «emergency admissions» ver-
gate a pennarello su un foglio di carta. Si tratta di
una palese illegalità, dato che i 44.565 anglofoni
rappresentano appena il 9 per cento della popola-
zione. «Non facciamoci illusioni» ha dichiarato
Larose, palesemente terrorizzato. «Impiastricciare

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un foglio è solo il primo passo verso massicci ordi-
nativi di cartelli prestampati». Un altro motivo di
allarme, per Larose, è l'intenzione del governo del
Quebec di introdurre i corsi di inglese in quarta
elementare, anziché in quinta come oggi. I ragazzi-
ni di otto anni, notoriamente impressionabili, si ri-
troverebbero così a rischio di «contaminazione».
Ottawa. Dopo una lettura, $rmo copie alla Na-
tional Public Library. Un tale mi chiede di scrivere
sul frontespizio «A Judith», e di aggiungerci due
righe personali. «Qualcosa di spiritoso» precisa.
Obietto che, non conoscendo Judith, buttarla sul
personale mi riesce un po’ dif$cile. «Fa niente.
Tanto non arriverà neanche in fondo» dice strap-
pandomi la copia di mano. «È una malata termi-
nale».
Victoria, Vancouver Island. A metà della lettura al-
la Open Space Gallery gli altoparlanti cominciano
a trasmettere un rock assordante. È la prima volta
che mi esibisco con un gruppo di supporto. Tra la
minuscola folla in attesa della $rma una ragazza
piuttosto carina, che mi comunica: «Pensi che a
mia madre i suoi libri piacciono». Una signora mi
fa: «Mio marito era in classe con lei al liceo, ma
stasera non è potuto essere dei nostri. Infarto. Un
attimo prima stava leggendo il “Globe and Mail”, e
un attimo dopo, patapunfete, è stramazzato». Il
nome del marito non mi dice nulla ma $ngo di ri-
cordarmi perfettamente di lui.
Vancouver. L'ultima volta gli indigeni ce l'avevano
coi cinesi di Hong Kong, a loro avviso rei di aver
fatto lievitare i prezzi del mercato immobiliare.

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Ora sono furibondi perché i cinesi se ne stanno
andando. Il mio accompagnatore dice: «I genitori
se ne tornano a Hong Kong e mollano qui i $gli
adolescenti perché tengano le case occupate, non
si sa mai. Per le piccole necessità i ragazzini si de-
vono arrangiare con un centinaio di milioni. Fi-
nisce che i loro compagni bianchi a ricreazione li
menano, e poi chiedono la stecca perché non suc-
ceda più».
Intervista con una signora del «Western Jewish
Bulletin». Vuole sapere, in tutta franchezza, se è
vero che sono antisemita. Le ri$lo subito la sto-
riella, probabilmente apocrifa, raccontatami anni
fa da un regista di Hollywood. Il celebre Daniel
Fuchs, autore di romanzi e racconti più che passa-
bili, viene assunto per lavorare a una sceneggiatu-
ra col suo idolo, William Faulkner – tipetto, com'è
noto, piuttosto delicato, che a Hollywood si tro-
vava malissimo, ragion per cui era quasi sempre
sbronzo. Dopo un paio di settimane a dir poco
dif$cili, Fuchs, a sua volta un ragazzo decisamen-
te sensibile, dice: «Signor Faulkner, non quaglia-
mo».
Faulkner si dichiara d'accordo. «E non quagliamo
perché lei è un antisemita».
«Vero» risponde Faulkner. «Ma non stravedo nean-
che per i gentili».
Florence torna a casa, mentre io prendo un aereo
per Calgary. L'ultima volta che sono stato qui ho
chiesto a un tale se per cortesia poteva indicarmi
la strada principale. «Ma qui non ci sono strade
principali» era stata la risposta.

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Nella libreria dell'aeroporto di Calgary, aspettan-
do la coincidenza per Winnipeg, non trovo nem-
meno una copia della Versione di Barney, il mio ulti-
mo libro. Allora chiedo al ragazzino alla cassa se
per caso ne hanno una.
«Porca pupazza, è andata via come il pane, non ce
n'è più. Se vuole me ne faccio mandare una copia
dall'altro negozio».
«No, grazie, non mi serve. Il libro l'avrei scritto io.
Ma perché non lo riordinate|».
«Sa che in effetti può essere un'idea|».

© 1999 mordecai richler


Published by permission of the Author
c/o Rogers Coleridge & White LTD.
and Roberto Santachiara Literary Agency
© 2001 adelphi edizioni s.p.a. milano

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