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MITI E LEGGENDE INDIE.

Runa Simi, "La bocca dell'uomo".


(Racconti e leggende del popolo Inca scelti da Manuel Scorza).
"Se fossi Indio". (Leggende dell'Amazzonia selezionate e adattate da Aldo Lo Cur
to).
INDICE.
RUNA SIMI, "LA BOCCA DELL'UOMO".
Presentazione: pagina 3.
L'amante del Condor, di Josè Maria Arguedas: pagina 4.
L'origine della pioggia: pagina 19.
Il ponte del Diavolo: pagina 22.
La storia di Michele Wayapa, di Josè Maria Arguedas: pagina 28.
L'amore di Quilaco e Curicoillur, di Miguel Cabello Valboa: pagina 37.
L'aquila funesta: pagina 66.
L'amore di Acoytrapa, di Martin de Murùa: pagina 70.
La scoperta di Potosi: pagina 80.
Gli uccelli donna, di Fray Bernabé Cobo: pagina 83.
I Quechuas e il loro impero: pagina 87.
NOTE: pagina 112.
SE FOSSI INDIO.
Prefazione: pagina 113.
Testi: pagina 116.
Bibliografia: pagina 151.
Nota biografica del curatore della selezione: pagina 154.
Negli anni cinquanta, Manuel Scorza fu presidente, per alcuni anni, del Festival
Nazionale del libro, una manifestazione intesa a diffondere a livello popolare
e di massa i libri e gli scrittori peruviani di narrativa.
Si voleva far conoscere i testi che trattano temi della cultura popolare peruvia
na, riprendendo o reinventando leggende e racconti di quelle genti indie che era
no state artefici di una civiltà avanzata e di un impero vastissimo come quello in
caico.
Il risultato fu una serie di libri di racconti, i cui protagonisti sono gli indi
os quechua, i re e le principesse Inca, gli animali, le acque, gli spiriti, le A
nde: libri dunque che raccontano il passato ma dovevano servire per la definizio
ne, anche, dei temi della narrativa di Scorza e di altri scrittori peruviani e s
udamericani.
L'indio è qui elevato a simbolo di una identità culturale che Scorza e gli altri scr
ittori si sforzano di sostituire a quella che si è definita e plasmata sulla cultu
ra dei colonizzatori.
Da questi libri è tratta la presente selezione, la prima che appare in Italia, di
racconti e leggende.
Alcuni dei racconti sono trascritti o rielaborati da scrittori antichi e moderni
quali Fray Bernabé Cobo, José Maria Arguedas, Martin de Murùa, Miguel Cabello Valboa.
Una breve storia dei re Inca, dalle origini leggendarie fino all'ultimo, Atahual
pa, e alla conquista spagnola, completa il volume.
L'AMANTE DEL CONDOR, di Josè Maria Arguedas.
Era una giovane di bellissimo aspetto, i cui genitori vivevano ancora.
Un giorno la mandarono a custodire bestiame e da allora in poi questo fu il suo
compito.
Una mattina, mentre stava custodendo il bestiame, si avvicinò un signore.
Era un cavaliere vestito molto elegantemente: i suoi pantaloni gli davano un asp
etto magico e virile, erano grandi e gli proteggevano le gambe, come usano i man
driani della pampa.
Portava al collo una collana d'oro e aveva in testa un bellissimo "chullo".
Il galante viaggiatore disse alla giovane: "Sii la mia amante." "Va bene", rispo
se la ragazza.
Con queste parole accordarono il loro amore.
Da allora, per molti giorni, il giovane veniva a prenderla allo stesso posto.
Ma lei non disse nulla né a suo padre né a sua madre delle visite che le faceva lo s
conosciuto cavaliere.
Teneva questa storia soltanto per il suo cuore.
E così, senza che nessuno sapesse, rimase incinta.
L'uomo vestito da viandante era il Condor, che aveva preso le sembianze di un el
egante signore per conquistare la bellissima giovane.
Lei, trovandosi in questa grave situazione, gli disse: "Aspetto un figlio da te,
ora dobbiamo andare alla tua casa o alla mia.
Io non posso dire ai miei genitori la mia condizione di partoriente né posso prese
ntarti a loro, poiché ho vissuto con te senza il loro consenso".
Sentendo queste parole il cavaliere rispose: "Andremo a casa mia.
Domani ti porterò là.
Adesso torna a casa tua.
Domattina porta con te la tua roba senza che i tuoi genitori lo vengano a sapere
.
Verrai, come tutti i giorni, a pascolare il bestiame".
"Bene", disse la ragazza e partì scendendo la montagna verso la sua casa.
Stava calando la sera.
Il mattino seguente, al sorgere del sole, silenziosamente, prese tutte le sue co
se e, di nascosto da suo padre e da sua madre, portò il bestiame verso la montagna
dove la aspettava il suo amante.
Così, con tutti i suoi oggetti personali, aspettò sulla cima.
Il Condor si fece attendere fino a mezzogiorno.
A quell'ora apparve con il suo aspetto da cavaliere e domandò alla ragazza: "Sei g
ià arrivata? Ti sei ricordata di portare tutte le tue cose?" "Sì, sono qui e ho port
ato ciò che avevo".
Allora decisero di partire.
"Manda giù il bestiame verso casa, i tuoi genitori vedranno le bestie e le raduner
anno.
Va, svelta! Fa quello che ti ho detto e torna subito", ordinò il Condor.
La giovane obbedì, corse verso il bestiame e lo portò fino alle falde della montagna
, vicino alla casa paterna; spaventò le bestie e ritornò di corsa.
Appena tornata il Condor le disse: "Adesso ti porto con me".
La condusse in cima alle rocce più alte e la avvertì: "Non aprire gli occhi, chiudil
i e tienili stretti, perché se li apri dovrò lasciarti".
Così, stringendo gli occhi, la ragazza si incollò alle spalle del suo amante.
Allora il Condor spiccò il volo.
Lei non vedeva niente, sentiva soltanto il vento galoppare sopra ali gigantesche
.
Non sentiva nulla che potesse farle pensare che si muoveva.
Erano già saliti molto in alto: adesso percepiva un soave dondolio come se il suo
amante fluttuasse nel sogno.
Volavano e volavano per cieli immensi.
Al calare della sera arrivarono in cima ad uno spaventoso abisso di roccia.
Quello era il rifugio del Condor.
Quando l'amante fece calare a terra la sua donna, lei aprì gli occhi e si trovò in u
na grotta solitaria: guardò verso l'alto e vide che la cima era lontana, sopra un
precipizio di granito, guardò il fondo del burrone e vide che era un abisso scuro,
una spaccatura nera e silenziosa, carica di orrore.
Trovandosi lì, sola, sulla soglia della grotta, piangendo disse: "Cosa ho fatto? C
osa sono venuta a fare?" Tutta la grotta era disseminata di pezzi di carne e di
ossa scarnite.
Lì dormirono.
Il mattino dopo il Condor le disse: "Aspettami seduta qui".
Spiccò il volo e se ne andò.
Abbandonata, nel grande silenzio della grotta, lei pianse sconsolatamente.
Non aveva né di che cucinare né di che mangiare e dovette rimanere lì seduta ad aspett
are.
"Che sarà di me? Se lo avessi saputo non sarei mai venuta!", diceva.
Molto tardi, all'imbrunire del giorno, arrivò il Condor portando la carne che lei
dovette cucinare.
Vicino alla grotta c'era una piccola sorgente d'acqua da cui scendeva un getto l
impido che formava nella roccia una chiara fontana.
Da lì prendeva l'acqua l'amante del Condor.
E così tutti i giorni passavano uguali.
Il Condor era solito andare via e molte volte ritornava tre o quattro giorni dop
o, portando con sé carne putrefatta di animali morti ormai da giorni.
La giovane passava il suo tempo piangendo, finché un giorno partorì.
Lavava i panni del bambino nella piccola fontana, ai piedi del getto cristallino
.
Cucinava la carne che portava il Condor e alcuni giorni non aveva nemmeno i rest
i degli animali che consumava il suo amante.
Nel frattempo anche i genitori della ragazza piangevano lacrime di dolore: "Che
sarà successo a nostra figlia? Dove, dove sarà andata?", dicevano.
Nessuno sapeva che quel viandante, il Condor, l'aveva rapita.
"La terra se l'è inghiottita o forse qualcuno se l'è portata via", si lamentavano i
genitori piangendo.
Finché un giorno, mentre la madre stava piangendo dietro l'orto della sua casa, ap
parve il Colibrì, che iniziò a svolazzare intorno alla sua testa.
"La figlia di chi, di chi sta piangendo sulle rocce? La figlia di chi sta piange
ndo sulle rocce?" Il colibrì così cantava; volava e ritornava.
Allora la donna gli rispose: "Colibrì, nessuno sa come e quanto sto piangendo e so
ffrendo per mia figlia e tu arrivi con queste storie".
Alzò una pietra e la scagliò contro il Colibrì spezzandogli una zampa.
Ferito, il Colibrì se ne andò volando sopra le capanne.
Così sempre rattristata e piangendo, la madre aspettava sua figlia.
"La figlia di chi, di chi sta piangendo sulle rocce? La figlia di chi sta piange
ndo sulle rocce?" Allora la donna pensò: "Forse sa dove si trova mia figlia" e ad
alta voce gli domandò: "Colibrì, Colibrì di verde smeraldo, forse tu sai in quale post
o si trova mia figlia?" Il Colibrì le rispose: "Certo che lo so dove si trova tua
figlia; se non mi avessi rotta la zampa...
Ma se mi curi con 'chancaca' e mi regali dei dolci, ti racconterò".
"Ti darò ciò che chiedi, ti darò 'chancaca' per curare la tua zampa rotta".
La donna comperò "chancaca" e alcuni dolci e li mise sopra una pietra.
Il Colibrì di verde smeraldo volò sulla pietra, mangiò i dolci, si medicò la zampa con l
a "chancaca" e la avvolse con una fascia.
Poi disse: "Tua figlia sta piangendo sulle alte rocce, sopra un precipizio".
"Portamela, Colibrì, portala fino qua", lo pregò la donna.
"Se mi dai ancora dei dolci io la caricherò e te la porterò domani", le rispose il C
olibrì.
"Sì Colibrì, ti darò molto miele, fino a saziarti", gli rispose la donna.
"Molto bene, andrò ora stesso".
E così dicendo spiccò il volo dal tetto.
Volò fino alla grande grotta e aspettò che il Condor se ne fosse andato.
Il Condor partì e la sua ombra nera si perse nello spazio del cielo.
Quando fu scomparsa, il Colibrì volò verso la ragazza cantando: "La madre di chi, il
padre di chi stanno piangendo nella loro casa desolata?" E volava via e ritorna
va.
"La madre di chi, il padre di chi piangerà? Colibrì, salva mia figlia, ti prego." "S
e tu lo vorrai, se tu lo vorrai Io Colibrì che volo, che volo, Ti caricherò, ti port
erò".
E volava, facendo dei giri sopra l'abisso, vicino alla grotta.
Allora la ragazza gli parlò: "Colibrì di verde smeraldo, salvami! Non saresti capace
di portarmi fino a casa dei miei genitori?" "Sì, io ti salverò.
Dovrò caricare te e tuo figlio.
Svelta, preparati subito".
La giovane amante fece un piccolo fagotto con le sue cose e montò in groppa con il
figlio in braccio.
Il Colibrì si levò in volo portando la ragazza e il bambino.
Arrivò a casa dei genitori e cantò sopra i tetti: "Colibrì che volo, che volo, Sto arr
ivando con tua figlia".
"Colibrì di verde smeraldo, grande Colibrì! Hai riportato nostra figlia!", dissero i
genitori e gli diedero miele e dolci.
"Nascondete vostra figlia, presto verrà vostro genero.
Non permettete che la veda, rinchiudetela insieme a suo figlio", ordinò il Colibrì.
"Domani ritornerò prima che arrivi il Condor.
Verrò a portarvi delle notizie".
"Faremo ciò che ci comandi", dissero i genitori.
Nascosero la figlia e le chiesero di raccontare loro come e dove aveva vissuto,
e con chi era stata, come e in che modo aveva avuto suo figlio.
Lei confessò tutto: "Un signore mi ingannò e mi portò nella sua casa, lì mi tenne prigio
niera e lì ho dato alla luce mio figlio.
Fu il Condor che prendendo le sembianze di un cavaliere mi sedusse e mi portò fino
alla sua grotta.
Lui è il padre di mio figlio".
Nel frattempo il Colibrì era volato di nuovo fino alla grotta del Condor.
Cercò la Rana che abitava nella fonte cristallina della roccia e le disse: "Quando
arriverà il grande Condor, tu ti trasformerai in una donna e sulla riva della fon
te farai finta di lavare i panni di tuo figlio" .
"Bene", disse la Rana.
Accettò l'incarico e allora il Colibrì continuò a darle delle istruzioni.
"Appena arriva lui ti chiederà 'che fai lì?' e tu gli risponderai 'sto lavando', all
ora lui ti dirà 'svelta, svelta!'.
E quando ti chiederà 'hai finito di lavare?' tu gli risponderai 'ancora no, purtro
ppo'.
E quando ti dirà 'vieni subito, vieni di corsa' tu ti sommergerai nell'acqua, ti n
asconderai e non uscirai da lì".
Detto questo il Colibrì saltò sulla roccia e la Rana si trasformò in donna.
La donna cominciò a lavare, mentre il Condor stava tornando.
Il Colibrì vigilava sulla rupe, nascosto in un buco nella roccia.
La Rana sembrava molto indaffarata a lavorare.
Il Condor si posò vicino alla fonte.
"Che cosa stai facendo?" domandò.
"Sto lavando, mio signore", rispose.
"Sbrigati, sbrigati", disse il Condor.
"Sì", rispose la donna.
Il Condor si diresse al suo rifugio ed entrò nella grotta.
Controllò tutti gli angoli e non trovò suo figlio.
Allora pensò: "Dove avrà portato il bambino?" Uscì e chiese ad alta voce alla sua donn
a: "Dov'è il bambino?" "Deve essere lì", gli rispose.
"Sbrigati, sbrigati! Ho portato la carne, vieni a cucinarla." "Ora vengo", rispo
se la donna.
"Ora, ora", urlò il Condor con tutta la sua voce allungando il collo per vederla.
"Ora, ora", tornò a gridare.
"Ho appena iniziato a lavare", gli rispose la donna.
Il Condor spiccò un salto in aria e gridò: "Ti darò un calcio".
La Rana si sommerse in acqua e il suo corpo fece un tonfo nella limpida fontana.
Non rimasero sulla riva né panni né vestiti, ma solo una piccola pietra per lavare.
Gli occhi del Condor, che prima avevano visto la donna, immobili, guardavano la
fontana.
"Ora ritornerà, ora ritornerà", diceva.
Ma niente apparve sulla superficie dell'acqua.
Il Colibrì osservava attentamente il Condor dal suo nascondiglio.
Al vederlo perplesso e confuso cantò: "Jajaulla! Io sono il Colibrì che vola Che sci
occo, che sciocco sei stato! Jajaulla! Io sono il Colibrì che vola La tua donna è già
a casa sua, è al suo paese.
Ajauiaulla! Jajaulla!" Il Condor rispose infuriato: "Tu l'hai portata via, tu ha
i rapito la mia donna.
Ora vengo, vengo.
Vengo per inghiottirti tutto intero, vengo a mangiarti".
"Jajay! Quale Colibrì potrebbe caricare una donna!" Così cantando il Colibrì sparì nell'
aria.
Il Condor volò dietro di lui, lo inseguì, cercò di infilzarlo, girò, rigirò, ma non ci riu
scì.
Allora, non potendo raggiungerlo, volò verso la casa della sua donna.
Arrivò alla porta travestito da cavaliere bello ed elegante.
Una collana d'oro gli cingeva il collo, le sue zampe squamose e sporche erano co
perte da calze brillanti.
Entrò in casa dicendo: "Mio signore, mia signora, vi chiedo di entrare.
Se vostra figlia è tornata restituitemela, che è mia".
"No signore, nessuno è venuto qui, nessuno è arrivato alla nostra casa", gli rispose
la madre.
Allora il Condor se ne andò, arrabbiato e offeso.
Il giorno seguente ritornò alla casa della madre il piccolo Colibrì.
"Sarà difficile salvare tua figlia." disse alla madre, "Tuo genero tornerà ancora do
mani.
Ma domani tu farai bollire dell'acqua e riempirai con questa una tinozza, fino a
ll'orlo.
Quando tuo genero arriverà e passerà la soglia, tu avrai già coperto la tinozza con un
panno.
Ed ora regalami un peperoncino.
Ritornerò".
Ricevette il peperoncino e se ne andò via.
Il Condor cercava nel cielo il Colibrì.
Intanto il grazioso uccellino volava verso la grotta del Condor portando il pepe
roncino.
Si incontrarono lungo il cammino e il Condor gli gridò: "Adesso sì che ti mangerò".
Inseguì il Colibrì facendogli dei giri attorno per acchiapparlo; arrivarono così in ci
ma alle rocce, sui grandi precipizi.
Il Colibrì si introdusse in un piccolo foro della rupe, un buco piccolissimo.
Il Condor affondò il becco il più profondo possibile: "Ti farò uscire!", diceva.
Ma non lo raggiunse.
"Esci Colibrì, esci subito!", gli urlava da fuori.
"Adesso subito, subito, mio grande signore.
Aspetta un istante, devo finire di mettermi i calzini", gli rispose il Colibrì.
Il Condor aspettava con il becco semiaperto, pronto ad inghiottire il boccone.
Il Colibrì gli parlò dal suo nascondiglio: "Adesso, adesso sto per uscire, apri il b
ecco e anche l'ano, tutte due le cose, grande signore".
Il Condor aprì di più il becco e con la bocca spalancata aspettava.
Il Colibrì uscì in fretta, si introdusse nella bocca del Condor e, scivolando per il
gozzo, uscì dall'ano.
E volò velocemente perdendosi nel cielo.
Il Condor rimase sbalordito.
"Avrei dovuto morderlo, com'è possibile che mi sia sfuggito così, in un colpo?" si l
amentava.
Riprese il volo inseguendo di nuovo il Colibrì. "Devo mangiarlo", diceva.
E cercando nel cielo più alto, lo raggiunse.
"Così sei arrivato fin quassù.
Adesso sì non hai scampo, adesso ti mangio".
"Certo, certo, chi ti dice niente! Mi dovrai mangiare" rispose il Colibrì, che con
tinuava a volare e a scappare.
Così lo portò sulle rocce più alte e di nuovo si introdusse in un piccolo buco nella r
occia.
"Dove ti sei cacciato! Esci, che comunque ti mangerò!" gridava il Condor.
"Adesso, adesso, mio grande signore.
Io non mi oppongo, aspettami un istante".
Intanto tagliò un po' di peperoncino per assaporarlo.
"Ora, ora presto!", gridava il Condor e guardava attentamente all'interno del fo
ro.
"Ahi mammina... ahi babbino!" si lamentava il Colibrì e intanto macinava il pepero
ncino all'interno del buco.
Macinava affannosamente e diceva al Condor: "Posso scappare, guarda bene che pos
so scappare.
Apri bene gli occhi, mio signore, aprili molto e guardami bene, non smettere di
guardarmi".
Il Condor aprì gli occhi e con le pupille dilatate vigilava il buco.
In quell'istante il Colibrì gli gettò violentemente il peperoncino macinato negli oc
chi.
Chiusi in questo modo gli occhi del Condor, si diresse volando alla casa della g
iovane amante.
Intanto il Condor si rigirava nell'aria, strofinandosi gli occhi e rimanendo imp
otente per parecchio tempo.
Il Colibrì arrivò alla casa della ragazza e chiamò la madre: "Sono il Colibrì, il Colibrì
che vola," cantò, "Che posso dire, che dirò? Ho bruciato col peperoncino gli occhi d
i tuo genero! Adesso fa bollire l'acqua della quale ti ho parlato.
Adesso arriva tuo genero, adesso arriva! E' ora di ucciderlo.
Adesso lo ucciderai.
Che l'acqua esca dai bordi della tinozza e sia ben coperta con molti panni.
Quando arriverà, tuo genero ti domanderà 'tua figlia deve essere qui, so che è ritorna
ta!' Tu gli risponderai 'non ho visto mia figlia, signore mio'.
Ma continuerà a domandarti 'dov'è tua figlia, dov'è, devi restituirmela'.
Allora gli dirai 'entra signore, riposa un po', siediti sotto l'ombra del mio te
tto', e lo inviterai ad entrare, lo guiderai e quando starà per sedersi sulla sedi
a, tu lo porterai fino alla tinozza e lascerai che si sieda su di essa perché così f
arà.
Quando cadrà nella tinozza lo affogherai con un grosso bastone e gli getterai anco
ra acqua bollente addosso.
Così annegherai il marito di tua figlia e lo spennerai come una gallina.
Ricorda che nell'entrare il Condor non deve assolutamente vedere tua figlia.
Arriva, arriva! Metti l'acqua a bollire".
Così disse il Colibrì e volò via.
La donna obbedì al grazioso uccellino.
Riempì una tinozza con acqua bollente e poi coprì il recipiente con una coperta.
La tinozza sembrava una comoda poltrona.
In quel momento il Condor entrò in casa.
Aveva gli occhi irritati, rossi e brucianti, ma restò altezzoso, potente ed elegan
te.
"Permettimi di entrare, che ti faccia visita", disse: "E' arrivata tua figlia? T
u sai che è tornata?", domandò.
"No mio signore, nessuna figlia mia è tornata in questa casa", rispose lei.
"No!", insistette il Condor, "è qui, so che è arrivata!" urlò.
La donna acconsentì amabilmente e gli disse: "Sì, mio signore, è vero, adesso te la re
stituisco.
Ma vieni avanti, riposa e siediti un istante".
Il Condor entrò in casa.
La donna lo condusse fino alla tinozza e gli disse: "Siediti in questa umile pol
trona, su questa coperta".
Il Condor si sedette e il suo corpo sprofondò rumorosamente nell'acqua.
Allora la donna lo spinse ancora più in giù con un bastone, lo cacciò nel fondo della
tinozza e gli versò addosso altri otri di acqua bollente.
Il Condor era già come una gallina spelacchiata: il suo corpo, pelato e biancastro
, con le zampe, le ali, il collo e la pancia spoglie, sembrava un gallo pronto p
er il brodo.
Il suo aspetto di gran signore era stato solo apparenza.
Nonostante ciò era stato un vero Condor.
I genitori, la figlia e il nipotino potevano adesso vivere insieme tranquillamen
te.
Le loro angosce e le loro pene si trasformarono in allegria e in vera felicità.
E ancora oggi regna quell'allegria in un paese molto lontano, sopra le cui case
vola sempre il grazioso Colibrì.
L'ORIGINE DELLA PIOGGIA.
Alla corte di Cuzco si dava grande spazio ai filosofi, i quali erano chiamati Am
autas.
Questi erano i depositari della saggezza e delle conoscenze tratte dagli antichi
miti e dalle antiche concezioni religiose.
Erano anche coloro che avevano il compito di trasmettere la storia alle popolazi
oni delle terre confinanti con l'impero Inca.
C'erano anche, come a Roma e in Grecia, dei cantastorie che componevano storie i
n versi per essere rappresentate dinanzi ai Re o semplicemente per essere raccon
tate e applaudite dal popolo.
Questi poeti erano chiamati Harabecus, parola che significa propriamente inventa
re e, come gli Amautas, non possedendo l'arte di scrivere per rendere incancella
bili le storie, le trasmettevano ai posteri come tradizione orale e si aiutavano
con l'ingegnoso mezzo dei nodi colorati in diverso modo.
I cordoni e la difficile interpretazione dei nodi erano affidati a persone chiam
ate Quipucamayus (contatori di nodi) i quali svolgevano anche l'incarico di segr
etari e di esattori delle imposte o tributi.
Da questi archivi è tratta la seguente leggenda a proposito dell'origine della pio
ggia.
Pachacamac e Viracocha, divinità superiori, posero nell'alto dei cieli Nusta, fanc
iulla regale, e le diedero un'anfora piena di acqua per versarla sulla terra ogn
i volta che ce ne fosse bisogno.
Quando la pioggia che cade dal cielo arriva dolcemente, senza tuoni né lampi, Nust
a sta versando dall'anfora senza che nessuno la disturbi.
Ma quando la tormenta si manifesta con frastuono e il temporale si scatena in me
zzo a lampi e fulmini allora la povera fanciulla è maltrattata da suo fratello, un
ragazzo irrequieto e robusto che si diverte a far piangere la gentile sorella.
Grandine, neve e pioggia sono create dalla fanciulla, perché la soavità e la morbide
zza sono proprie di creature come la donna.
Frastuono, fulmini e tempeste violente sono opera del fratello, perché le asprezze
e le indelicatezze sono caratteristiche dell'uomo.
Questa leggenda fu anche composta in versi Quichuas dagli Harabecus e trascritta
nei nodi dei Quipucamayus.
Noi la presentiamo nella versione italiana.
Bellissima fanciulla quel tuo fratello sta rompendo la tua anfora perciò a volte i
tuoni brontolano, cadono i fulmini.
Tu, regale creatura devi inviare al piano le tranquille acque, grandine e neve.
Il Creatore del mondo l'amato Viracocha per quel compito ti mise nell'alto dei c
ieli.
E una bellissima anfora e un'anima ti ha dato.
IL PONTE DEL DIAVOLO.
Vicino a Yocalla, piccolo villaggio della provincia Potosì, c'è un torrente dove di
solito il passante si ferma, meravigliato, a contemplare un grande arco di pietr
a dura che fa da ponte e che nonostante la sua antichità sembra, per il suo colore
bianco che il tempo non è riuscito a scurire, di recente erezione.
Gli abitanti dei paesi vicini ignorano la storia di quella costruzione curiosa m
a gli indigeni, dopo qualche insistenza, la raccontano in questo modo.
Un tempo molto lontano, Hualpa ("Gallo"), giovane tanto bizzarro quanto innamora
to e intraprendente, si conquistò astutamente la volontà e l'amore di Chasca Naui ("
Occhi di Luce"), unica figlia del Curaca.
I due giovani si trovarono subito d'accordo: appena calava la notte la giovane a
bbandonava la capanna del padre e si dirigeva verso le rocce che si trovano nell
e vicinanze del ponte, dove il giovane l'aspettava al sicuro, suonando semplici
e dolcissime melodie amorose con il flauto di canna.
Una notte il Curaca, avvertito di quello che stava succedendo, sorprese gli aman
ti in flagrante idillio e indignato con il giovane pretendente gli rinfacciò la su
a umile condizione, la sua povertà e la sua faccia tosta di pretendere addirittura
la figlia di un Curaca.
Hualpa non si lasciò umiliare dalle energiche parole del vecchio che, comportandos
i così severamente, capì subito di non aver agito bene perché sua figlia era follement
e innamorata del giovane pretendente e del suo armonioso flauto.
Si sa che l'amore per i figli converte i feroci leoni in mansuete pecorelle, così
l'arrogante Curaca andò di persona, pochi giorni dopo, in cerca di Hualpa e si acc
ordò con lui amichevolmente e gli concesse un anno di tempo per arrivare ad essere
Curaca e conquistare ricchezza.
Il giovane, con l'inesperienza dell'età e della vita e fidandosi della sua fidanza
ta, accettò di allontanarsi da Yocalla, credendo che fosse possibile arricchirsi e
istruirsi in breve tempo.
Nessuno ebbe più notizie di Hualpa durante l'anno e l'astuto vecchio realizzò così il
lo scopo di allontanare i pericoli provocati dalla vicinanza dell'innamorato.
Il Curaca pensò che l'assenza fa dimenticare, e progettò di far sposare Chasca Naui
con il figlio di un Curaca di un paese vicino, il quale era stato educato e era
vissuto per molto tempo alla Corte dell'Inca, e questo gli dava grande importanz
a fra gli indios che non avevano la fortuna di conoscere il figlio del sole e di
familiarizzare con le abitudini aristocratiche degli abitanti della città reale.
L'amore di Chasca Naui era più forte di quello che il padre credeva.
Benché tutto fosse pronto per il matrimonio con il figlio dell'altro Curaca, lei a
spettava silenziosa che Hualpa si presentasse al momento stabilito.
Mancava soltanto un giorno alla scadenza fissata dal vecchio e Hualpa ancora non
si vedeva, né si avevano sue notizie.
Tutto era già pronto nel villaggio per la sontuosa festa dello sposalizio, che avr
ebbe avuto luogo il giorno dopo.
Dalla casa dei due Curacas arrivarono ospiti e si scambiarono i doni più preziosi
per festeggiare la tanto desiderata alleanza.
Chasca Naui ascoltava, taceva e accettava con pazienza tutto ciò che succedeva int
orno a lei, ma nel profondo della sua anima fluttuava dolce la speranza che quei
preparativi sarebbero serviti per festeggiare il suo legame con colui che era a
ssente.
Giunse finalmente la notte, dopo un giorno nuvoloso, e si scatenò una spaventosa t
empesta accompagnata da grandine, che scendendo per le falde della montagna inon
dò le valli e i campi.
La corrente trascinava lungo il letto del torrente grandi blocchi di pietra che
sembravano galleggiare sulle acque come leggeri legni.
Il rumore spaventoso in mezzo all'oscurità si confondeva con il fragore della temp
esta che mandava bagliori tanto luminosi come se volesse squarciare la volta del
cielo.
Chasca Naui ormai disperava che il suo amante potesse arrivare.
Invece ecco che Hualpa giunse, in piena notte, ai margini del fiume Yocalla.
Il tempo stabilito entro cui egli si doveva presentare al cospetto della sua ama
ta, senza tardare nemmeno di un'ora, scadeva con il sorgere del nuovo giorno.
Il torrente trascinava una quantità d'acqua sempre maggiore e pretendere di attrav
ersarlo a nuoto voleva dire gettarsi nelle braccia della morte.
Aspettare che le acque scendessero sarebbe stato sottomettersi volontariamente a
un supplizio.
Hualpa fece alcuni passi lungo il margine del torrente nella più profonda disperaz
ione, senza sapere quale decisione prendere.
All'improvviso alzò i pugni verso il cielo e urlando imprecazioni invocò lo spirito
del male.
Chiamò colui che governava le tempeste, parlò a Supay, colui che tuona nelle caverne
.
Supay non era lontano e subito si presentò davanti al giovane, con le braccia fra
le rosse pieghe del suo mantello di fuoco.
Hualpa gli espose le sue preoccupazioni e gli chiese, visto che era il potente c
he in quel momento sconvolgeva il cielo e la terra, di trasportarlo sull'altra r
iva del torrente, perché egli doveva presentarsi in casa della sua innamorata.
"Sciocco!" disse Supay, "se io ti toccassi con le mie mani di fuoco arriverebbe
l'ultimo momento della tua vita...
Ma in cambio della tua anima ti costruirò un ponte con le rocce di queste montagne
prima che sorga il giorno, affinché tu possa arrivare con i tuoi piedi là dove sta
la tua amata e vincere così domani mattina stesso il rivale che si sta preparando
per possederla".
Appena si furono messi d'accordo, Hualpa sedette su una roccia vicina e lo spiri
to delle caverne, fra spaventosi rumori, diede inizio all'opera, trasportando e
collocando le grandi pietre una sull'altra, così come sono oggi.
Quando apparvero le prime luci del giorno, che annunciavano l'apparizione del Di
o Sole che tutto anima e vivifica, Supay aveva quasi finito, ma gli mancava una
pietra grandissima che doveva completare la parte superiore del ponte.
Hualpa, impaziente di arrivare a Yocalla, non aspettò di vedere l'opera finita e p
assò con un salto, senza fermarsi, fin dove lo aspettava la sua amata.
Supay non poté fermarlo, poiché essendo uno spirito di ombre, dovette scappare dal S
ole, in direzione opposta, per sfuggire al padre della luce, che sorgeva mostran
do il cerchio splendente fra le vette delle montagne.
Hualpa arrivò in tempo e ricco, provando che la fiducia in se stessi fa, in questa
vita, meraviglie.
Una volta fra i suoi, poté vantarsi di aver fatto costruire un ponte a Supay nel m
ezzo della notte.
Il Curaca gli consegnò la bellissima Chasca Naui, e il loro sposalizio si festeggiò
con un grandioso ballo e un corteo fino al magnifico ponte di cui tutti hanno co
ntinuato a servirsi per attraversare il fiume.
E nessuno si è mai azzardato, fino ad oggi, a mettere nel grande arco la pietra ma
ncante, perché questo significherebbe completare l'opera di Supay e renderlo così cr
editore dell'anima di Hualpa, facendo del male al fortunato innamorato, che fece
in vita la buona azione di far costruire un ponte tanto indispensabile.
Alcuni dicono che, quando Hualpa morì, Supay voleva appropriarsi della sua anima e
portarla con sé nelle caverne, ma poiché la costruzione del ponte non era stata con
clusa, il Dio giustiziere protesse l'indio dallo spirito del male e Supay dovett
e rassegnarsi a perderlo; e l'anima di Hualpa rimase fra gli spiriti buoni e inv
incibili che si muovono intorno a noi facendo del bene.
LA STORIA DI MICHELE WAYAPA, di Josè Maria Arguedas.
Questa è la storia di Michele Wayapa, un uomo dal cuore duro e selvaggio.
Era molto ricco: possedeva molto bestiame, vasti campi e grandi magazzini.
Tuttavia era avido ed avaro ed era solito tormentare i suoi debitori facendoli l
avorare senza sosta.
Nella sua vita spogliò senza pietà i poveri, togliendo loro ogni bene.
Ma anche per lui giunse l'ora della morte e così la sua anima e il suo corpo cadde
ro nell'inferno.
Nello stesso paese, viveva un altro uomo padre di tre figli, povero, molto pover
o.
Un giorno si ubriacò talmente che nella confusione accettò di essere patrono di una
festa importante che gli avrebbe fatto spendere tantissimi soldi.
L'uomo andò subito da sua moglie e le disse: "Ho accettato di essere il patrono de
lla grande festa!".
Allora la sua donna rimproverandolo gli rispose: "Ma perché hai accettato un simil
e incarico? Dovrai andare a casa del diavolo per avere tutto quel denaro".
Il povero uomo, sentendo queste parole, si mise a piangere amaramente.
Con le lacrime agli occhi, riuscì a farsi aiutare da alcuni amici a macinare del g
ranturco.
E dopo aver caricato i sacchi di farina sulla groppa di alcuni lama, in compagni
a dei suoi tre figli iniziò il viaggio, alla ricerca del denaro necessario.
"Sì! camminerò e cercherò, anche se dovrò arrivare fino all'inferno!" disse prima di par
tire.
Vagò per i sentieri, con i suoi lama, senza una meta prestabilita.
Viaggiò così per quattro giorni e quattro notti dopodiché incontrò un signore, che gli v
eniva incontro in sella ad un cavallo bianco.
Il signore domandò all'uomo: "Dove stai andando?" "Sono qui, mio signore: accettai
di essere il patrono della Grande Festa ma questo, per le mie condizioni di vit
a, è assolutamente impossibile.
Mia moglie mi rimproverò dicendomi: 'Dovrai andare fino all'inferno per avere quei
soldi'.
Perciò cammino e cammino, cercando di arrivare a casa del diavolo.
Quale sarà la strada, mio signore?" Allora il signore gli rispose: "No, figlio mio
.
Non è necessario che tu arrivi tanto lontano, basterà arrivare alla città che si trova
dietro queste montagne, la strada è quella che si intravede.
In quella città potrai trasformare i tuoi sacchi di farina in centinaia di monete.
Quella è la strada, e gli indicò il sentiero sulla montagna e non l'altra, perché ques
t'ultima ti porterebbe all'inferno".
Il signore non gli disse più niente; dicono che era il buon San Giacomo.
Ma il sentiero che doveva prendere il viaggiatore era ancora molto lontano.
E così, piangendo, i quattro uomini si diressero verso la montagna.
Arrivati al punto che aveva indicato il signore, il padre domandò ai suoi tre figl
i: "Qual'è la strada che ci indicò il signore?".
I suoi occhi si erano tanto annebbiati, a causa delle lacrime, che non riusciva
a riconoscere il cammino.
Il più piccolo dei figli gli rispose: "Non ci ha detto di prendere questa strada,
ma l'altra".
E mentre parlava, conduceva suo padre verso la strada giusta.
Però il figlio più grande, interrompendo suo fratello, disse: "No, non è quello il cam
mino, ma questo".
E fu così che tutti e quattro presero la strada sbagliata, che portava a casa del
diavolo.
Arrivarono in cima della montagna all'imbrunire.
Lì legarono i lama, scaricarono i sacchi di farina, si coricarono per passare la n
otte.
Mentre dormivano venne il diavolo, sciolse i lama e li condusse al suo paese.
Quando l'uomo si svegliò, cercò i suoi lama e non trovandoli capì che li avevano rubat
i.
Allora accompagnato da uno dei suoi figli si mise a cercarli, lasciando al più pic
colo il compito di custodire il carico di farina.
Seguendo le orme dei lama, l'uomo arrivò ad una lontana collina.
Lì trovò il fantasma di Michele Wayapa.
Tagliava legna a pezzi piccoli che poi divideva e legava con una corda.
Sembrava una corda di cuoio, ma in realtà era un serpente; solo per gli occhi dell
'uomo comune era una semplice corda.
Era Michele Wayapa, ma il suo vicino non lo riconobbe, vide in lui solo un fanta
sma.
Invece Wayapa identificò l'uomo del suo paese e così gli parlò: "Signore, non mi ricon
osci? Sono Michele Wayapa.
Per tutte le lacrime che feci versare agli uomini, nostro Signore mi tormenta e
mi angoscia".
L'uomo disse al fantasma (non avendo udito le precedenti parole): "I miei lama s
ono venuti da queste parti; ho seguito le loro tracce e arrivano fino qui".
"Sì, è vero", rispose Wayapa, "'Lui' le ha portate qua e ora i tuoi lama sono legati
per il collo, faccia a faccia in cerchio, da tante corde, nel centro della piaz
za del mercato.
Io mi salverò adesso con te! Io ti insegnerò il modo di liberarli".
E così dicendo gli diede le indicazioni necessarie: "Entrerai ora di corsa nella p
iazza del mercato e dopo aver sciolto le corde dal collo dei tuoi lama, le gette
rai a terra.
Fatto questo, impugnerai la tua frusta di cuoio spaventando con essa i lama face
ndoli muovere velocemente.
Allora, una moltitudine di signori e di matrone cercheranno di avvicinarti, most
randoti pentole e piatti con vivande e cibi prelibati e bicchieri di chicha. 'Ma
ngia e bevi, mio signore', ti diranno e poi ti pregheranno: 'Riposa ancora, vend
ici il tuo bestiame'.
Ma tu non li ascolterai né accetterai le loro proposte.
Allora inciteranno contro di te dei cani feroci che arriveranno abbaiando e cerc
heranno di morderti.
Ma tu li picchierai con la tua frusta di cuoio, li spaventerai, disperdendoli pe
r tutta la piazza, fino a che li getterai fuori.
Io correrò fra tutto quel fracasso, nello sconcerto generale, e potrò così arrivare al
sentiero che porta fuori del paese.
Lì ti aspetterò.
In questo modo potrò saltare in groppa ad uno dei tuoi lama.
Allora tu, impugnando la frusta, li inciterai a correre velocemente fuori dal pa
ese e così sarò in salvo insieme a te".
Dopo aver ricevuto questi consigli l'uomo entrò in paese.
Corse diritto verso i lama, e strappando le corde le gettò a terra.
Poco dopo averle buttate via, guardò per terra e vide una moltitudine di serpenti
mutilati, che si dibattevano e ribollivano nel loro sangue.
Immediatamente l'uomo incitò i lama a tutto galoppo.
In quello stesso istante corsero dietro di lui cavalieri e matrone, portando pia
tti di cibi prelibati e bicchieri di chicha, dicendo: "Riposa ancora, mio signor
e! Vendici i tuoi lama!".
Ma lui non accettò nessuna offerta e non prese nulla.
Poco dopo una muta di cani rabbiosi si lanciò su di lui abbaiando e mordendo.
L'uomo li colpì con la sua frusta di cuoio in modo tale che i cani furono respinti
fuori dalla piazza.
Così riuscì a portare i lama lontano dal paese.
Michele Wayapa, come aveva promesso, era ad aspettarlo ai bordi della strada.
Quando vide apparire i lama si mischiò facilmente tra le bestie e fuggì insieme ad e
sse, come se fosse stato una di loro.
L'uomo, agitando in aria la frusta di cuoio, condusse i lama ancora più lontano e
si misero tutti e due in salvo.
Arrivarono cosi su di una montagna nella cui apertura trovarono seduto il buon S
an Giacomo.
Era armato della sua spada, si mise in piedi e disse a loro: "I demoni stanno ar
rivando a cavallo, per darvi la caccia.
Ora li farò retrocedere, taglierò e spaccherò le loro corna, voi continuate e aspettat
emi accanto ai sacchi di farina".
Quando furono già molto lontani, guardarono indietro e videro i demoni che galoppa
vano verso di loro a tutta velocità.
Ma nello stesso momento apparve San Giacomo che con rapidi colpi della sua spada
tagliò i piedi dei diavoli e piegò loro la schiena, e fece sì che i loro cavalli li g
ettassero a terra.
Una volta arrivati al luogo in cui l'uomo aveva lasciato il suo carico di farina
si fermarono, aspettando San Giacomo.
Lì trovarono il più piccolo dei figli che aspettava suo padre, piangendo sconsolatam
ente, in silenzio.
Arrivò San Giacomo e rivolgendosi a Michele Wayapa recriminò tutte le cattive azioni
della sua vita, dicendogli: "Tu hai fatto piangere, hai rubato, hai ucciso".
Wayapa non trovò dove coprirsi il viso dalla vergogna.
San Giacomo continuò, dicendo: "Ora ritornerai al tuo paese ma non alla tua casa.
Andrai dritto verso il tempio della preghiera.
Non farai visita a tua moglie, né a nessun'altra persona".
E dopo aver scritto una lettera, la diede all'uomo perché la consegnasse al Sacerd
ote del tempio della preghiera.
La carta diceva: "Torna il grande peccatore, dovrà cambiare ed essere buono.
Dirai una messa per la sua anima.
Ora sta resuscitando, ora non sarà più un morto.
Dietro il campo, dove si seppelliscono i morti, farai costruire una casa per lui
.
Ma non permetterai che viva con sua moglie.
Dovrai dedicare tre messe a questo peccatore.
Quando celebrerai la seconda messa, arriverà un tafano e getterà il proprio sangue n
elle ossa della sua fronte.
Dopo la morte del tafano, l'anima entrerà nel corpo di Wayapa, che ritornerà al suo
essere.
Fatto questo, vivrà nella casa che gli farai costruire" Poi, rivolgendosi all'uomo
, San Giacomo gli ordinò: "Svuota i tuoi sacchi di farina per terra!" Ma l'uomo si
rifiutò di obbedire.
"Che dici, Signore, gli rispose, devo portare qualche cosa a casa! In qualsiasi
modo devo vendere la farina".
San Giacomo insistette: "Svuotali, ti dico! E va a raccogliere quei pezzi di cio
tola".
E fece in modo che raccogliesse i cocci di argilla che erano ai lati della strad
a e gli ordinò di dare loro una forma circolare, levigando i bordi.
Poi ordinò di riempire dei sacchi di farina con i cocci.
Fece cucire le aperture dei sacchi e ordinò di caricare i lama.
E gli disse: "Adesso vattene, ma non cercare di guardare dentro i sacchi, finché n
on sei arrivato a casa tua".
L'uomo si mise in cammino, secondo gli ordini, conducendo i suoi lama.
Le bestie camminavano molto in fretta, ma poco dopo il carico divenne pesante co
me piombo.
I primi giorni l'uomo caricava e scaricava i sacchi senza alcuna difficoltà, come
se non pesassero niente, ma i giorni successivi avvertì che i sacchi aumentavano d
i peso.
Così, con molta fatica, con l'aiuto dei suoi tre figli e di Wayapa caricava e scar
icava i lama.
Le povere bestie non potevano reggere tanto peso e le loro schiene si piegavano
verso terra.
Accadde che i pezzi di argilla si erano trasformati in argento.
Nonostante ciò tutti gli uomini e le bestie riuscirono ad arrivare alla casa del v
iaggiatore.
Ivi giunti scaricarono i sacchi, li aprirono e videro che i cocci d'argilla si e
rano trasformati in bellissime monete d'argento.
Allora l'uomo pulì minuziosamente uno degli angoli della casa, svuotò lì i sacchi fino
a formare un piccolo cumulo d'argento.
Quando entrò la donna nella dimora fu così grande la sua gioia che cosparse tutto il
denaro con profumi.
Così felice lodò il suo sposo e i suoi figli e li riempì di elogi.
Mancava meno di un anno alla grande festa.
L'uomo e la sua famiglia si fecero dei vestiti nuovi eleganti e costosi che avre
bbero indossato per quell'occasione.
Presto arrivò il grande giorno e l'uomo celebrò la festa in pompa magna, come mai si
era visto prima, offrendo ciò che gli altri non erano mai riusciti e anche dopo i
festeggiamenti, dopo tutte le spese di questo grande giorno, gli avanzarono anc
ora mille e mille monete d'argento.
Divenne famoso per aver celebrato la grande festa.
Passati i giorni di festa l'uomo andava periodicamente a far visita a Michele Wa
yapa.
La moglie di costui venerava l'uomo che, salvando suo marito dalla perdizione e
dalla condanna eterna, lo aveva ricondotto al suo paese.
Infine il salvatore portò la donna dal marito, perché avendo ricevuto tutte le funzi
oni nel tempio della preghiera, Wayapa era tornato ad essere un uomo nuovo di an
imo puro e nobile.
Così, Wayapa risorse al mondo del bene.
E quello stesso mattino ricevette sua moglie e disse: "Per tutte le nostre colpe
ho sofferto le pene dell'inferno".
Poi la recriminò dei peccati di tutta la sua vita, e continuò. "Per essermi salvato,
in nome della mia resurrezione, distribuisci parte della nostra ricchezza fra g
li orfani e i poveri".
La donna ubbidì di buon cuore, e fece arrivare la sua benevolenza e carità non solo
agli orfani e agli abbandonati ma anche ai poveri, a coloro che non possedevano
niente.
Ma Wayapa non apparteneva a questo mondo, ora non era fra coloro che mangiano e
bevono.
E così vissero la sua donna da una parte e lui da un'altra, entrambi soli, separat
i per sempre.
E tutti questi avvenimenti sono accaduti molto, molto tempo fa.

L'AMORE DI QUILACO E CURICOILLUR, di Miguel Cabello Valboa.


Ai tempi in cui l'impero era diviso in due regni Atahualpa si trovava a Tunibamb
a, ed era in ansia perché i messaggeri di suo fratello Huascar, che aspettava da o
re, erano in grande ritardo.
Per sapere il motivo inviò un giovane conosciuto da entrambi (anche se nato e viss
uto a Quito) come suo ambasciatore facendolo accompagnare da altri Capitani e da
ricchi doni.
Questo gentile giovane che era il figlio di Auqui Tupayupanqui (uomo valoroso e
forte, fiduciario ed esecutore testamentario di Huayna Capac ucciso per ordine d
i Huascar mentre stava accompagnando il corpo del suo padrone tra Limatambo e Cu
zco) si chiamava Quilaco Yupanqui, ed era nativo di Quito.
Parliamo di questo giovane di buona famiglia per le strane avventure che gli suc
cessero in quel viaggio e che introducono anche una storia d'amore in mezzo a ta
nti avvenimenti.Quilaco partì da Tunibamba con la compagnia e i doni alla volta di
Cuzco.
Arrivato alla valle di Xacxaguana, ricevette un messaggio segreto di Mamaragua O
cllo e di sua figlia, le donne dell'Inca Huascar che lo invitavano a far loro vi
sita.
Giacché la distanza da lì a Cuzco era breve il giovane poteva approfittare delle fes
te che venivano organizzate per lui lungo il cammino.
La regina vedova mandò questo invito perché Quilaco era stato allevato in casa sua a
Quito ed era il fratello di latte di Chuquiuzpay sua figlia.
L'amichevole preghiera di queste signore fu ascoltata e i banchetti e le feste a
ccettati gioiosamente.
Per aumentare la solennità di questi festeggiamenti e dare maggiore prova d'amore
al festeggiato, la regina ordinò che le più belle e nobili fanciulle di quelle regio
ni servissero da bere al gradito ospite e ciò fu eseguito alla lettera.
Infatti appena arrivati i messaggeri da Quito a Siquillabamba, si radunò in pochi
istanti un gran numero di fanciulle belle e a modo, il meglio che in quel tempo
si potesse desiderare.
E così come l'aurora supera in luminosità tutte le altre stelle così tutte le altre fa
nciulle erano superate in bellezza da una fanciulla di tenera età, molto dimessa,
proveniente da un vicino villaggio, dove era tenuta nascosta da sua zia per sott
rarla alle grinfie della morte.
Stella d'oro.
Accadde infatti, alcuni anni prima della storia che stiamo raccontando, al tempo
dei festeggiamenti per l'incoronazione dell'Inca Huascar, che fra i tanti gover
natori che si mossero per fare gli auguri al Re, c'era Topa, un governatore dell
e Valli di Ica, Pisco e Vimay, il quale, per non venire a Cuzco personalmente, i
nviò le sue congratulazioni tramite valorosi messaggeri di sua fiducia.
Come inestimabile dono gli inviò una graziosa fanciulla di straordinaria bellezza,
figlia di un onesto indio nativo della Valle di Ica chiamato Xullacachangalla;
sua moglie si chiamava Lllayocoche, il nome della bellissima figlia era Chumbill
aya.
Il buon senso e la prudenza dei genitori impedirono che la fanciulla facesse un
cammino tanto lungo da sola e così l'accompagnarono fino a Cuzco.
Arrivati a destinazione la fanciulla conquistò gli occhi e il cuore di chi la guar
dava, e lo stesso effetto fece su Huascar, perché appena la vide, da uomo libero e
disdegnoso delle donne, divenne schiavo e succube dell'amore per la fanciulla.
Ma lei era altezzosa e superba e così facendo si stava attirando su di sé invidie e
rancori che le sarebbero costate la vita.
E come succede in questi casi, per la sua straordinaria bellezza il popolo la ch
iamò Curicoillur (che vuol dire Stella d'oro) e d'ora in poi la chiameremo così, dim
enticando il suo primo nome Chumbillaya.
Il Re l'amò tanto profondamente e appassionatamente che privò tutte le altre concubi
ne, anche le più fedeli, delle sue notti d'amore, dedicando se stesso soltanto a C
uricoillur.
Alcuni dicono che questa fanciulla fu ceduta da Huascar a suo fratello bastardo
che l'amò e gli diede una figlia, ma Don Mateo Yupanqui Inca, nativo e residente a
Quito (dal quale abbiamo avuto questa rivelazione), affermava che la fanciulla
fu messa incinta da Huascar e partorì una figlia bella come la madre.
La nascita della bambina accrebbe l'amore di Huascar per lei.
Ma contemporaneamente le attenzioni che il signore rivolgeva a Curicoillur provo
carono l'odio di tutti i membri della casa reale, non avendo ella altra colpa ch
e di essere amata teneramente dall'Inca.
L'odio verso la innocente padrona fu tanto forte nel cuore degli invidiosi che s
egretamente tramarono di avvelenarla e un giorno, senza spiegazione per un deces
so così repentino, fu trovata morta in uno degli appartamenti dell'Inca Huascar.
E' indescrivibile l'estremo dolore che provò il suo amato vedendo davanti ai suoi
occhi, quelli, ormai chiusi, della sua amata che, in vita erano così pieni di alle
gria.
Da qui fu accompagnata, con gli onori che meritava, presso i suoi affranti genit
ori che dopo averla cosparsa di unguenti per preservarla dalla corruzione decise
ro di seppellirla nella sua stessa terra d'origine.
Inca Huascar apprese la decisione dei suoi suoceri, li aiutò con denaro e onori e
diede loro la possibilità di tornare alla Valle di Ica, dove fino ad oggi vivono i
loro discendenti, i Xallcachangallas ricchi e fortunati.
Una sorella illegittima di Huascar chiamata Caruaticlla (l'unica vera amica dell
a morta Curicoillur), temendo che i nonni prendessero la nipotina, figlia di sua
sorella, la rapì e la nascose nelle sue proprietà non lontane da Cuzco, dove la all
evò con molta cura e amore, allontanandola dai pericoli e dal rischio di essere uc
cisa da quelli stessi che avevano ucciso sua madre.
Inca Huascar sapeva benissimo dove, come e con chi era e viveva sua figlia, ma a
vendo lo stesso timore di sua sorella non le faceva frequentare la sua casa, né la
riconobbe pubblicamente come figlia.
Ma provvide completamente a lei, finché le incombenze crescenti che aveva ereditat
o insieme all'impero lo costrinsero ad allontanarsi più di quello che avrebbe dovu
to o voluto dalla tenera fanciulla.
La quale, insieme alla incredibile bellezza ereditò di sua madre anche il nome, e
fu chiamata Curicoillur.
I banchetti.
Passarono parecchi anni e arriviamo così al tempo il cui a Cuzco accaddero i fatti
che ora narreremo.
La fanciulla aveva quindici anni quando Quilaco arrivò al banchetto ordinato dalla
regina.
Fu deciso di mostrare agli ospiti la splendente Stella d'oro.
La fanciulla arrivò con il consenso di sua zia Curuaticlla e come le altre iniziò a
servire le bevande, anche se con maggior grazia e bellezza e portamento regale.
Ciò non sfuggì a Quilaco che nel corso del banchetto ogni qualvolta riceveva il bicc
hiere dalle sue mani beveva più amore che chicha e rimase più stordito dalla veement
e passione per la fanciulla che se avesse bevuto tutti i boccali consumati quel
giorno.
All'alba del giorno seguente giunse l'ambasciatore dell'Inca Huascar che ordinò a
Quilaco di andare a Cuzco.
Dal commiato di questi due amanti scopriamo quanto sia spontaneo in noi l'amore:
infatti senza nessuna preparazione o artificio riuscirono a comunicare con lo s
guardo l'un l'altro e ciò bastò perché le loro anime si intendessero, senza che nessun
altro lo capisse.
Curicoillur s'innamora.
La bellissima Curicoillur che fino ad allora era vissuta libera, senza sapere co
sa fosse l'amore, non rimase meno affascinata dalla grazia, portamento e disponi
bilità dell'ambasciatore di quanto lo fu lui dalla sua incredibile bellezza.
La fanciulla, sentendo prorompere dentro di sé sentimenti mai conosciuti, si compo
rtava in modo irrequieto, tanto che senza volerlo in pochi giorni se ne accorse
la zia Caruaticlla.
Infatti ella sospirava continuamente, cercava di conversare sull'argomento che p
iù la interessava, cambiava voce e colore del viso al sentire il nome del suo amat
o, parlava di lui nel sonno.
Erano questi tutti chiari indizi della passione amorosa che non passarono inosse
rvati alla zia, la quale essendo donna intelligente intuì facilmente il motivo del
la inquietudine di sua nipote e per avere la conferma dei suoi sospetti, con amo
revoli ed insistenti domande, le fece confessare di essere perdutamente innamora
ta dell'ambasciatore Quilaco.
La zia Caruaticlla, con prudenza e senza rimproverare la leggerezza della sua pr
otetta, con amore ancora più grande di quello di una madre le promise aiuto e le p
ermise purché mantenesse un comportamento decoroso) di parlare al suo nuovo e unic
o amato.
Poiché l'amore vero e perfetto è nei suoi movimenti più esatto e puntuale del migliore
orologio, in tal modo esso muoveva l'ingranaggio dei due amanti che, attratti d
a uguali forze, giunsero insieme allo scoccare dell'ora.
Dopo l'incontro amoroso Quilaco riprese la strada per Cuzco.
Il giovane ambasciatore camminava non meno inquieto e sconfortato di quanto la f
anciulla lo fosse nel suo povero villaggio: infatti durante il breve tragitto ch
e separava Siquillabamba da Cuzco si volse tante volte verso l'orizzonte che più d
i una volta credette di vedere la sua amata.
Faceva soste lunghissime, sospirava come fosse stanco pur non essendolo, si sent
iva malinconico, non parlava e non voleva che nessuno lo facesse perché non fosser
o disturbati i suoi pensieri intimi.
Huascar rifiuta i regali.
Quilapo Yupanqui arrivò a Cuzco con i regali ben custoditi, ma Huascar era andato
il giorno prima a Calca, e così fu costretto a raggiungerlo in quel luogo.
Si presentò al suo cospetto e lo salutò cortesemente come i sudditi devono fare con
i loro signori e recitò un bel discorso che fu ascoltato attentamente dal Re il qu
ale dimostrava molto interesse.
Mostrò al suo signore i doni che portava da Quito, ma costui prese ad insultare il
messaggero e i suoi compagni chiamandoli sleali profittatori della sua terra e
spie inviate per distruggerlo.
Inoltre Huascar, prendendo i vestiti che suo fratello gli inviava (senza tener c
onto delle ricche decorazioni in argento, oro e pietre preziose) li gettò nel fuoc
o dicendo: "Pensa forse mio fratello che qui non abbiamo questa roba, o vuole co
n essa coprire il suo inganno? Chi ordina di fare simili cose ai miei ufficiali
deve sapere che qui non apprezziamo le sue intenzioni".
Man mano la sua collera aumentò poiché è consuetudine per i potenti avere intorno adul
atori e ciarlatani che danno ragione ai loro sovrani; anche in questo caso uno d
i loro chiamato Incaruca gli disse: "Fai bene mio Signore a riprendere questi sv
ergognati, faresti ancora meglio a punirli".
Huascar udendo ciò si infuriò ancora di più e ordinò di uccidere i quattro compagni di Q
uilaco e senza dire una parola fece cenno di uscire al tremante Quilaco.
Intanto che Quilaco era a Calca un suo amico di fiducia, segretamente, si informò
dove trovare Curicoillur e venne a sapere facilmente dove, come e con chi ella v
iveva e di chi era figlia, dopodiché informò di tutto Quilaco tornato da Calca a Cuz
co.
Egli si innamorò ancora di più sapendo l'alta origine della fanciulla e alla stessa
persona alla quale aveva affidato la prima missione diede l'incarico di andare a
l villaggio di Siquillabamba in cerca della fanciulla con le precauzioni che il
caso richiedeva.
Mentre il suo fedele messaggero andava alla ricerca del rimedio alle sue pene (c
he al tempo stesso ne era anche la causa) Quilaco con alcuni dei suoi compagni a
ndò a visitare Mamaragua Ocllo e Chiquiuzpay sua figlia, alle quali raccontò la sort
e crudele dei messaggeri di suo fratello, e come Huascar aveva gettato nel fuoco
i doni che suo tramite Atahualpa gli aveva inviato.
Intanto il fedele messaggero con cautela e premura trovò ben presto fra le vecchie
case del villaggio, nelle vicinanze di Siquillabamba, la dimora della prudente
Caruactilla.
Qui trovò la fanciulla in lacrime sul grembo della premurosa zia che la consolava
con parole piene di speranza.
Il messaggero.
Il messaggero dell'innamorato fu accolto molto bene dalla zia e fu salutato altr
ettanto gentilmente dalla fanciulla, con la misurata compostezza che richiedeva
il suo verginale stato.
Dopo che il messaggero si fu riposato fra i cespugli di tauris sparsi intorno al
la casa riferì alla zia l'ambasciata con giuste parole, facendo capire l'affetto c
he il suo signore sentiva per la fanciulla e quanto ciò lo facesse soffrire.
La rassicurò sull'onestà e sull'onore delle sue intenzioni con grande calore e la bu
ona signora non volle perdere l'occasione che si offriva alla sua amata nipote.
Infatti ella apprezzava il grande valore di Quilaco Yupanqui ambasciatore da pri
ncipe a principe.
Fatte le necessarie precisazioni la zia lo pregò di dare risposta e di rassicurare
il suo Signore che poteva venire a vedere l'amata in qualsiasi momento.
A questo rispose il messaggero raccontando ciò che era accaduto a Cuzco e Calca di
cendo che il ritorno del suo Signore sarebbe stato più rapido di ciò che pensava e c
he la visita tanto desiderata si sarebbe verificata fra poco.
Ciò detto si congedò il messaggero per andare da Quilaco che stava salutando la Regi
na Madre e la figlia dalle quali aveva ascoltato mille lamentele sul cattivo tra
ttamento che ricevevano dall'Inca Huascar, in ogni occasione, a causa dell'assen
za di Atahualpa, che, essendo a Quito, non poteva proteggerle.
Quilaco, avendo appreso dal suo inviato le buone notizie, parlò con Huascar (già tor
nato a Calca) chiedendogli di poter partire.
Costui gli diede il permesso dicendo: "Andate e dite al mio sciagurato fratello,
appena arriverete, di presentarsi a me rendendomi conto di tutte le cose di mio
padre che sono ancora in suo possesso".
Quilaco partì con questo incarico, avendo più voglia di vedere la sua amata, che la
sua patria.
Mamaragua Ocllo e Chuquiuzpay lo provvedettero del necessario per il viaggio e c
osì lasciò Cuzco, con quattro compagni in meno.
Curicoillur in quel momento era contentissima per quello che la zia le aveva rac
contato del messaggio portato dallo sconosciuto ospite e ancora di più perché il suo
innamorato sarebbe giunto tra breve.
L'attesa.
Dal momento in cui il messaggero partì dalla sua casa, ella cominciò a misurare nell
a sua immaginazione quanta strada la separava da Cuzco e si raffigurava le incom
benze che il suo amato doveva sbrigare per affrettare la propria partenza, e qua
ndo lo immaginava già in cammino le sembrava subito di vederlo arrivare.
Ma essendo i suoi desideri delusi, ora accusava il suo amante di essere pigro e
poco innamorato, poi pentita di averlo così giudicato male malediceva la sua catti
va sorte e la poca lealtà di Huascar suo padre e iniziava a rimproverarlo come se
già avesse ucciso Quilaco così come aveva ucciso i suoi compagni.
Poi si pentiva di questo sospetto e dava la colpa al messaggero chiamandolo debo
le e pigro; altre volte si proponeva di non aspettarlo più, figurandosi con quell'
artificio di farlo arrivare prima.
Tra questi tormenti la fanciulla passò tutta la notte, e fu lei la prima, fra tutt
i, all'alba ad alzarsi.
Quando il sole iniziò a indorare le alte vette di Carmanga gli dedicò la sua consuet
a preghiera e non gli chiese altro che di tramontare presto affinché il suo amato
vergognandosi del ritardo di tanti giorni affrettasse la venuta.
Non passava contadino con la sua tacllas (strumento con cui si lavora la terra a
Cuzco) sulle spalle che non le sembrasse Quilaco con le sue lance davanti a sé e
così, in questo mare di tormenti, vide spuntare dietro la collina un gruppo di str
anieri, diretti verso Jacjaguana.
Osservando attentamente quella gente si lasciò andare all'immaginazione e, nel pen
siero che forse il suo amante, deciso a passare lontano da lei, all'improvviso f
u spaventata da un rumore che proveniva dalla folta piantagione di mais che cres
ceva lì vicino.
Voltandosi impaurita, vide davanti a sé, senza credere ai propri occhi, colui che
sebbene assente non si allontanava dalla sua mente.
Rimase muta e turbata e, non sapendo cosa fare per nascondere il turbamento, chi
amò con voce tremante la zia Caruactilla che le rispose di essere lì vicino.
Il valoroso giovane salutò entrambe molto gentilmente e, non meno turbato della fa
nciulla, parlando più con il cuore e con gli occhi che con la lingua.
Fatti i primi convenevoli, raccontò dettagliatamente ciò che Inca Huascar aveva fatt
o e le cattive notizie che portava da parte sua.
Finì dicendo a Curicoillur: "Dalla mia terra partii libero, ricco e in compagnia e
adesso ritorno solo, povero e prigioniero; ma tutto lo ritengo vissuto bene poi
ché è un grande onore averti nel cuore.
Vivrai dentro di me finché avrò vita.
Essendomi stata offerta come sposa, io ti accetto con somma felicità.
Pertanto vi chiedo (disse, parlando con Caruactilla) considerato il poco tempo c
he rimane, o signora, di rispondermi a nome di Stella d'oro".
La prudente zia Caruactilla, dopo un momento di esitazione, gli disse che era su
a intenzione trovarle personalmente uno sposo prima che la crudeltà dei suoi nemic
i la uccidesse, ma desiderava che ciò avvenisse in tempi e situazioni più favorevoli
.
Quilaco disse: "E' meglio di quello che pensavo perché in ogni caso, sia che torni
a Quito o rimanga a Cuzco avremmo delle lotte sanguinose, e per quanto la sorte
possa essere contraria ad Atahualpa, gli rimarranno le provincie di Quito dove
sarà riconosciuto come Signore e Inca e come tale premierà gli innumerevoli miei ser
vizi e quelli di mio padre.
Come ricompensa non chiederò altro che ricevere dalla vostra mano come donna e mog
lie, vostra nipote e mia Signora".
Qui tacque perché il tempo era poco e le cose da fare molte.
Allora la zia disse: "Date voi gli ordini che ritenete migliori e lasciate a noi
il compito di custodirla".
"L'ordine - disse Quilaco - è che la mia Signora mi aspetti per due anni, poiché le
nostre età ce lo consentono, e se al termine di questo periodo di tempo non mi ved
rete tornare tenete per certo che sono morto o prigioniero o completamente imped
ito".
La zia replicò: "Voi ponete il termine di due anni ma io, da parte mia, ve ne conc
edo tre, al termine dei quali le cercherò qualcun'altro; fino ad allora però io la c
ustodirò come vostra".
La bellissima fanciulla era stata molto attenta a questo dialogo e con le guance
imporporate ascoltava tutto e quando Quilico parlò della sua partenza cominciaron
o a sgorgarle dagli occhi lacrime simili a perle orientali e lo stesso accadde a
l suo amante.
Infine con un casto abbraccio si lasciarono.
Lui proseguì il suo viaggio e la fanciulla rimase a contare le ore che la separava
no dal suo ritorno, e la lasciamo lì fra le speranze e la gelosia i timori e la sf
iducia, mentre seguiremo Quilaco Yupanqui, il quale arrivò a Tumibamba dove trovò At
ahualpa ansioso per il suo ritorno.
Con poche frasi rese conto al suo signore di ciò che gli era capitato con Huascar
.
La bella Curicoillur intanto continuava a contare i giorni dell'assenza del suo
amato Quilaco e dai suoi conti stava ormai correndo il quarto anno della sua lon
tananza (due in più di quelli che aveva chiesto lui e uno di più di quelli che gli e
rano stati concessi).
Era afflitta come non lo era mai stata prima, perché una malattia stava consumando
la sua vecchia zia.
Proprio in quei giorni, venne a sapere che non si sarebbe atteso il decesso dell
a zia per trasferirla a Cuzco, dove per mano dell'Inca sarebbe stata consegnata
a un capitano cui era stata promessa in moglie.
Nel suo cuore poté tanto il timore di questo scambio che dimenticando l'obbligo ch
e aveva verso sua zia, quando la vide vicina alla morte (e prima che con l'ultim
o respiro chiudesse gli occhi), scappò di casa e tagliandosi i capelli, più neri del
l'ebano, e vestitasi con abiti maschili sottratti al più umile dei suoi Camayos si
spalmò sul suo volto luminoso una pomata nera che di solito gli indios usano quan
do vanno in battaglia.
Si intrufolò tra la gente radunata (che seguiva l'esercito come inservienti) con g
ran forza d'animo, disperando nell'animo di poter mai riuscire a trovare colui c
he con la sua assenza la rendeva così disperata e triste.
Lasciamola continuare la sua strada finché l'occasione ci chiami di nuovo per parl
are di lei.
Narriamo invece le vicende della guerra che intanto sconvolgeva i due regni dell
'Impero.
In quel tempo, nella valle di Jauja, si incontrarono due capitani, Guanca Aqui e
Mayca Yupanqui.
Quest'ultimo accusò il primo di codardia, di tradimento e di combutta con i capita
ni di Atahualpa.
La battaglia.
Guanca Aqui non sapeva cosa fare o dire a sua discolpa, perché i suoi insuccessi a
privano le strade a tutte le mormorazioni e lo mettevano nella condizione di non
potersi difendere.
Così finì per dire a Mayca Yupanqui: "Non la mia debolezza ma la forza del mio nemic
o mi ha fatto perdere la reputazione e i miei guerrieri, fratello Mayca Yupanqui
.
Sei in tempo per sperimentarlo, giacché passeranno pochi giorni e giudicherai il m
io operato dagli avvenimenti che accadranno".
Detto questo ognuno di loro tornò al suo accampamento.
Il giorno seguente a Jauja si seppe che Quizquiz, capitano di Atahualpa, stava r
accogliendo tutte le genti, dalla collina alla pianura, con le quali formare un
esercito numerosissimo e presentarsi come se già avesse la vittoria in mano.
Quando alla Valle di Jauja furono sicuri che le avanguardie di Quizquiz erano ar
rivate a una giornata da quella valle i due capitani Mayca Yupanqui e Guaca Auqu
i cominciarono a radunare la loro gente.
Con Mayca Yupanqui come Capitano generale cominciarono a uscire le truppe, in be
ll'ordine.
Arrivati alla Valle di Yanamarca (impiegarono metà giornata) i due eserciti si aff
rontarono e le avanguardie si contrapposero con grinta, fierezza e ardore ammira
bili e essendo affluita gente in favore di ciascuna delle due parti, si svolse u
na delle più sanguinose battaglie mai viste in Perù.
Erano tanti e così alti i mucchi di morti provocati dai primi scontri, che serviva
no già come riparo per i vivi e fungevano da trincea.
Questa battaglia iniziò di giorno e si prolungò fino a sera, fino al momento in cui
le forze di Cuzco cominciarono ad assottigliarsi, sebbene anche i vincitori aves
sero subito notevoli perdite.
Fra i tanti combattenti valorosi feriti quel giorno vi fu Quilaco, capitano di c
oloro che stavano vincendo.
Mentre stava dando manforte ad un avamposto indebolito, un dardo vagante gli tra
fisse una coscia e cadde fra i morti nel momento in cui già i soldati di Cuzco si
ritiravano e quelli di Quito li inseguivano guadagnando terreno, senza preoccupa
rsi nell'ardore della battaglia del loro capitano.
Il valoroso Quilaco perdeva molto sangue dalla ferita, in quel luogo freddissimo
e deserto, al tramonto, in terra nemica.
Sapendo che nessuno sarebbe venuto a salvarlo, iniziò a lamentarsi della cattiva s
orte perché nel momento in cui stava per realizzare la promessa fatta a Curicoillu
r, gli toglieva la vita, e lo faceva soffrire di morte lenta.
A questo si aggiungevano le mille pene che nella sofferenza affollano la mente d
egli innamorati.
Pensando queste orribili cose sentì alle sue spalle il rumore di passi di una pers
ona e, girando il viso come meglio poté vide un ragazzo che gemendo per la tanta s
trage rigirava i corpi sfigurati dalla morte e aiutava coloro che erano ancora v
ivi trascinandoli verso un posto meno terrificante di quello.
Quilaco lo sentì per lungo tempo soccorrere i feriti con affetto e sollecitudine.
Perciò, quando lo sentì vicino da potergli parlare, con voce debole disse: "Fratello
, tu che in questo momento orribile e privo d'ogni pietà sei pietoso con coloro ch
e sono investiti dalla cattiva sorte, per la clemenza che dimostri per i soffere
nti ti prego, fammi un po' di posto affinché possa muovermi meglio, senza che tant
i cadaveri me lo impediscano.
Inoltre, se la pietà che dimostri per i sofferenti ti desse animo a fare di più, est
rai questo dardo che mi attraversa la coscia perché possa uscire più sangue e con es
so la mia anima e possa così finirla con questa sofferta vita.
Se è invece l'interesse che ti spinge più che la mia preghiera e la tua bontà, toglimi
questa pelle di tigre che mi ricopre e prendila con le tue mani quale premio pe
r la tua sollecitudine".
Il premuroso ragazzo ascoltò e, con più volontà che forza, iniziò a spostare i cadaveri
che circondavano Quilaco morente.
E, fatto il posto necessario, con il coraggio che gli veniva dalla paura, impugnò
il dardo e con grande difficoltà lo estrasse.
Con alcuni pezzi di vecchie coperte sparse lì intorno legò poi la ferita come meglio
poté e prendendolo per la vita lo sollevò da terra e quasi portandolo sulle spalle
lo spostò da quell'orrendo luogo e poco a poco lo trascinò verso una piccola buca vi
cino al ruscello che attraversa quella sterile vallata.
Cammin facendo tolse dalla ferita di un cadavere un po' di unguento che poteva e
ssere utile e infine mise il ferito al riparo dal gelido vento che soffiava quel
la notte.
Avendo lasciato Quilaco al sicuro, il ragazzo giunse ad un povero villaggio di g
anaderos, la cui povertà lo proteggeva da quelle guerre civili, prese un lume e al
cuni pezzi di pentole, tornò dove aveva lasciato il ferito e, raccolta pochissima
paglia, accese un fuoco su cui sciolse l'unguento.
Come un crudele chirurgo bruciò la ferita da tutte le parti per fermare il sangue
e vi spalmò l'unguento per preservarla dal tetano.
Fatto ciò, si avvicinò al malato, il quale gli chiese da dove veniva, come si chiama
va e quale motivo lo aveva portato da quelle parti in quella tremenda circostanz
a.
Il ragazzo rispose: "Fratello, il mio nome è Titu, la mia terra è questa, non domand
armi di più; pensa alla tua salute, che è la cosa più importante".
Si protessero dal freddo come meglio poterono e passarono quella notte entrambi
amareggiati.
Il giorno dopo Titu disse a Quilaco: "Fratello, se lo credi conveniente andiamo
verso quelle case per trovare un posto migliore di questo dove curarti, ma se no
n lo vuoi fare, rimani pure, perché io voglio un rifugio migliore di questo".
Quilaco rispose: "La tua volontà sarà esaudita in tutto perché la mia è già finita.
In ogni luogo, riconoscerò sempre il bene che mi hai fatto, ma non vorrei che per
causa mia tu possa essere danneggiato; io sono di Quito e sono molto odiato dall
a tua gente, mi ucciderebbero e punirebbero te". "Non preoccuparti di ciò, rispose
Titu, dal momento che chi vedrà capirà che non siamo certo noi gli artefici di ques
te guerre.
La ricca pelle che tu porti sostituiscila con una povera di questi morti, con un
abito umile sarai più sicuro.
Non domanderò chi sei per non sembrarti invadente; soprattutto voglio seguirti e s
ceglierti come Padrone prima che un altro mi prenda come servo".
Con queste parole uscirono da quella buca e con grande dolore e fatica arrivaron
o a una casa povera e abbandonata e lì si fermarono alcuni giorni nutrendosi di pa
tate, e radici ed erbe che Titu rubava dai campi più vicini.
Lasciandoli per ora lì parliamo di Mayca Yupanqui e del suo compagno Guanca Auqui
dopo la battaglia di Yanamarca.
Essi fuggirono raccogliendo più gente che potevano e senza fermarsi a Jauj deciser
o di arrivare al passo di Ango Yaco e di oltrepassare il fiume per sentirsi più al
sicuro.
Quizquiz il vincitore della battaglia si riposò a Jauja dove, sentendo il rimorso
per i valorosi soldati e capitani deceduti nella battaglia di Yanamarca, ordinò di
andare a raccogliere le spoglie per dare loro gli onori funebri che meritavano.
Furono ritrovati e portati molti corpi ma quello di Quilaco non apparve né morto né
vivo e ciò provocò grande tristezza al generale e ai suoi capitani.
Le cattive notizie della disastrosa battaglia arrivarono a Inca Huascar il quale
, essendo terribilmente ansioso e non trovando consolazione fra gli uomini, andò a
Guacas dove fece grandi sacrifici e offerte.
Ordinò il digiuno per tutti, mandò eserciti e ministri di fiducia a consultare le st
atue del Sole, del Tuono e del Fulmine per sapere da quelle ciò che doveva fare pe
r placare "Colui che tutto fa".
Ma alla fine aveva sempre responsi negativi, per cui i sacerdoti e gli stregoni,
per consolarlo, gli dissero che lui stesso doveva comparire sul campo di battag
lia pur senza prendere parte alla lotta.
Solo così si sarebbe ottenuta la vittoria contro i suoi nemici.
Così fu deciso, sapendo che la vittoria sarebbe stata di Mayca Yupanqui; con quest
a certezza si fermò per qualche tempo a Cuzco.
Il leale servo Titu.
E' ora tempo di parlare di Quilaco e di toglierlo dalle mani di miseria e povertà,
come era vissuto per sei mesi nutrito, servito e curato dal suo fedele servo Ti
tu.
Il lettore curioso ricorderà che lo abbiamo lasciato ferito in una delle povere e
umili case di ganaderos che si trovavano nella malaugurata Valle di Yanamarca do
ve avvenne l'orribile strage tra Quizquiz e Guanca Auqui.
Rimasero in quel luogo desolato per quindici o venti giorni, fino a che Quilaco
poté camminare con la gamba ferita, e dopo che si sentì meglio, d'accordo con il suo
leale servo, una mattina, si misero in cammino verso il villaggio di Hatum Jauj
a.
Ma era tanta la sua debolezza che per fare quelle due leghe impiegarono tutta la
giornata.
Arrivati al villaggio, alloggiarono presso alcuni poveri contadini che vivevano
con molto poco a causa della guerra e lì rimasero sei mesi nutrendosi di legumi, e
rbe e radici che il solerte Titu riusciva a trovare.
Egli inoltre aveva sempre l'orecchio attento alle novità che venivano diffuse per
il paese, per raccontarle al suo padrone Quilaco quando sapeva che non lo avrebb
ero depresso.
Lì venne a sapere dell'arrivo di stranieri venuti dal mare (1) e delle innumerevol
i crudeltà che Quizquiz aveva compiuto a Cuzco, di come in Cajamarca tenevano impr
igionato Atahualpa e del fatto che in Antamarca avevano ucciso Inca Huascar, i s
uoi fratelli, sua madre e sua moglie.
Un giorno Titu uscito nella piazza, situata vicino alle abitazioni reali, la vid
e brulicare di guerrieri e avendo domandato che gente fosse quella e da dove ven
isse e a fare che cosa gli fu risposto che si trattava di Challcochima capitano
di Atahualpa che scendeva da Cuzco verso Cajamarca per liberare il suo Re prigio
niero degli stranieri.
Questi arrivò in piazza e lì trovò due capitani spagnoli e Antamarca Mayta.
Si misero a discutere su chi doveva trattare con gli stranieri.
Antamarca Mayta affrontando con disprezzo il perverso soldato, senza curarsi del
la presenza dei due stranieri gli disse: "Quando, Challcochima, avranno fine le
crudeltà? Quando verrà il giorno in cui tu e quella crudele belva del tuo capitano Q
uizquiz sarete stanchi di vedere versato tanto sangue umano? Dimmi, vieni ora a
versare il sangue di questi popolani giacché non c'è più sangue di Re Inca da versare?
Ma di una cosa sono sicuro (e lo stesso credono i tuoi soldati) che 'Colui che
tutto fa' ha inviato gli stranieri per punire te e il tuo crudele maestro.
Perciò non essere così spavaldo e preparati a venire con me poiché il governatore di q
uesti stranieri e signore di questo Impero ti chiama e vuole vederti".
Challcochima era stato attento al discorso avventato di Antamarca Mayta e con oc
chi di serpente e il viso in fiamme gli rispose: "E' una novità per me che tu parl
i con tanta libertà.
Non accetto che uno sconosciuto mi mandi a chiamare.
Va e di a quell'uomo, chiunque sia, che venga lui al mio cospetto e lasci libero
Atahualpa, il mio signore, se non vuole vedere tutti questi barbuti, bastardi,
morire bruciati, senza che rimanga uno solo di loro che possa portare questa not
izia alla sua terra".
Dopo aver ascoltato queste parole Antamarca Mayta gli si avvicinò e da vero uomo l
o schiaffeggiò dicendo: "Il tempo della tua sovranità è già finito".
Subito iniziò una rissa sedata dai capitani stranieri i quali mandarono Antamarca
Mayta a dire alla gente che dovevano presentarsi dinnanzi al governatore Francis
co Pizzarro, in Cajamarca, perché non esisteva altro Re che Lui.
Così, queste genti capirono che ormai era arrivato il tempo tanto desiderato della
libertà e che per il crudele Quizquiz che tanto li aveva tormentati, era arrivata
la fine.
Sconfitto e vedendo come stavano le cose, Challcochima uscì dalla piazza.
Gli fu ordinato di partire per Cajamarca il giorno dopo, ma fingendo di essere m
alato rifiutò, e così caricato su un cavallo dagli stranieri fu condotto prigioniero
a Cajamarca.
Titu, avendo assistito a questi avvenimenti, premuroso ritornò alla capanna per ri
ferire ciò che aveva visto a Quilaco Yupanqui per filo e per segno e gli illustrò qu
anto in basso il dominio degli Incas era finito e come le loro insegne fossero p
assate agli stranieri.
Sottolineando molto l'amabilità e la modestia dei due capi stranieri che si trovav
ano vicino alle abitazioni regali, affermò che gli erano sembrati uomini amanti de
lla verità, della ragione e della giustizia e credendo a ciò che di loro si mormorav
a, che cioè erano messaggeri del dio Viracocha, concluse dicendo: "Quilaco Yupanqu
i, se desideri la tua salute e la mia, e che abbia fine la nostra miseria, segui
il mio consiglio.
Ti sarà vantaggioso come lo è stata la mia compagnia per tutto il tempo che sono sta
to al tuo servizio.
La situazione di Huascar e Atahualpa, i due fratelli e contendenti è precipitata,
uno è già morto e l'altro non ha più sicura nemmeno la sopravvivenza.
Gli stranieri appena arrivati non perderanno l'occasione straordinaria di impadr
onirsi di questo grande Impero; loro hanno le armi, la prudenza e il coraggio pe
r conquistarlo, mettiti ai loro ordini, e questo capitano, conoscendo le tue pro
dezze e il tuo coraggio, ti accetterà restituendoti quello che la sfortuna ti tols
e.
Una volta riacquistati i tuoi diritti, saresti ingrato (ciò che non si può dire di t
e) se non mi aiutassi a salvarmi.

Titu rivela chi è.


"Per tutto questo, amico" rispose Quilaco Yupanqui, "c'è tempo.
Grandi e importanti sono stati gli avvenimenti.
Non ho raggiunto la gloria e la mia vita è finita, lasciami in questo miserabile s
tato, con la mia solitudine e la mia ignoranza; non voglio che la realtà mi uccida
." "Non dire certe cose", rispose Titu, "seguimi e fidati di me", e prendendolo
per mano lo condusse a Jauja dove trovarono il capitano straniero che dava ordin
e ai suoi soldati di rimandare gli indios ognuno alla loro terra perché trovassero
in essa la pace.
Arrivati al rifugio del capitano, chiesero di parlargli da soli, senza altra com
pagnia che l'indio interprete.
Il capitano, molto affabile e buono, accettò di riceverli e Titu vedendo la situaz
ione favorevole iniziò a dire: "Apoc, vero inviato di Ticci Viracocha Pachacama pe
r porre fine al nostro esilio e risollevarci dalla nostra miseria, se voi sapete
cosa è l'amore (so che lo sapete) ascoltate attentamente la più leale e sfortunata
creatura del mondo.
Non vi tragga in inganno, il nostro miserabile aspetto, perché questi vestiti copr
ono il più valoroso e nobile cuore di queste terre.
Il nome e la provenienza li saprai da lui, la causa della sua perdizione è stata l
a lealtà verso il suo principe.
Di me (perché non è più tempo di tacere) vi dirò che sono la più sventurata delle donzelle
che porta sangue di Inca nelle vene.
Mio padre fu Inca Huascar, da tutti con ragione odiato e ancora più da me perché per
salvarmi dalla morte che mi minacciavano quanti avevano invidia della mia belle
zza e della mia felicità, mi diede ad altri ancora in tenera età.
Fui custodita da una zia, e mal custodita, perché là mi perdei.
Vedendo con i miei occhi colui che adesso è così turbato, in una festa a Siquillabam
ba dove era ambasciatore di Athaualpa, l'amore mi colpì.
Da quel momento i nostri due cuori furono comandati dall'amore.
Nel suo pose il desiderio di vedermi, e nel mio il desiderio ardente di essere v
ista.
Questo si realizzò con il permesso di mia zia e in quei momenti gli occhi parlavan
o e tacevano le lingue, e con le più oneste e misurate parole che si possano dire
da uomo virtuoso ad una onesta fanciulla ci fidanzammo.
Ma poiché la difficoltà di quei tempi non dava possibilità di matrimoni avevamo deciso
di aspettare un'occasione più propizia.
Questo servo tuo e signore mio che ora è qui dinanzi a te chiese a mia zia due ann
i di tempo per tornare e rispettare la promessa.
Mia zia gli concesse tre anni, ma a causa degli avvenimenti accaduti in queste t
erre sono passati quattro anni prima che il mio amato Quilaco Yupanqui avesse la
gioia di vedermi.
Mia zia morì pochi giorni dopo, e avendo io saputo che mio padre voleva darmi in s
posa ad un uomo a me sconosciuto, decisi di cercare fortuna.
Sentendo che la gente di Quito entrava vittoriosa nelle nostre terre, travestita
mi da uomo e prendendo il nome di Titu scappai da Cuzco e mi unii con i popoli c
he seguivano il capitano Mayta Yupanqui per lottare contro il capitano Quizquiz.
Assistetti alla terribile strage di Yanamarca, senza uccidere nessuno.
Fra tanta morte cercavo la mia vita, e domandando di colui che cercavo, seppi ch
e non era uscito di quella violenta battaglia e l'amore che mi guidava mi portò di
nnanzi al mio tanto desiderato, che con un dardo infilzato nella coscia era anco
ra in vita, sepolto fra i cadaveri.
Facendolo uscire da quell'orrendo luogo, curai le sue ferite e la sua persona, l
o custodii fino ad oggi quando, se la fortuna ci assiste, speriamo di trovare in
voi la protezione tanto desiderata.
Questa è la storia delle nostre sventure.
Voi adesso, capitano valoroso, rompete il laccio con cui la sfortuna ci ha legat
i e siate più forte di essa perché voi siete più forte degli uomini.
Così finì il suo discorso la bella Curicoillur e non saprei giudicare a quale dei du
e presenti più si congelò il sangue nelle vene.
Quilaco Yupanqui era talmente assorto e sorpreso che non riuscì a dire parola.
Allora il capitano straniero, che era il meno commosso, disse: "Da oggi in poi
bellissima fanciulla vivrai sicura.
Se la mia protezione serve a rimediare qualcosa, vi ricevo sotto la mia protezio
ne e mi faccio carico di tutto ciò che vi spetta." Quilaco Yupanqui (riprendendosi
dalla sorpresa) disse brevemente: "Certamente, bellissima Curicoillur, il grand
e amore che avevo e che ho per te non è altrettanto sublime del tuo; io mi attende
vo di ricevere molte meno dimostrazioni d'affetto di quelle che mi hai dato.
Non so come ripagarti, né ho parole per lodarti, e così non sbaglierò dicendo che ciò ch
e per me hai fatto, e per te stessa, non ti deluderà.
Perché io sono sempre stato il tuo signore come tu per me la mia signora".
E così abbracciandosi strettissimi e innamorati si apprestarono a seguire il loro
protettore che già preparava la partenza per Cajamarca.
Egli diede loro nuovi e lussuosissimi vestiti degni di chi li doveva indossare,
ed entrambi mostrarono il tesoro che la vile povertà nascondeva.
E per dare fine alla storia di questi due fortunatissimi amanti il capitano stra
niero li portò con sé a Cajamarca e li fece battezzare.
Il giovane indio si chiamò Don Hernando Yupanqui e la giovane Donna Leonor Curicoi
llur e con grande felicità d'entrambi si sposarono.

L'AQUILA FUNESTA.
Gli ultimi otto anni in cui regnò il re Huayna Capac furono pieni di contrarietà e d
i cattivi presagi.
Una volta, durante una festa in onore del Dio Sole, apparve in cielo una grande
aquila reale inseguita da falchi e altri uccelli rapaci che l'attaccavano con i
loro becchi, uno alla volta, impedendole di volare.
La regina dei cieli, così crudelmente aggredita, venne a rifugiarsi fra la gente c
he si trovava nella piazza centrale dove c'era la corte.
Vedendo l'uccello così ferito e spogliato delle piume anche più piccole lo presero e
lo portarono a palazzo con grande sollecitudine e cercarono d'alimentarlo e di
procurargli tutte le cure necessarie, affinché guarisse, perché quell'incidente acca
duto durante la festa era considerato un cattivo presagio e gli Amautas, gli ind
ovini, e tutto il popolo si erano allarmati vedendo scendere dal cielo un' aquil
a regale in quelle condizioni pietose.
Huayna Capac, contrariato da quell'avvenimento, riunì gli indovini che per l'occas
ione fecero un infinità di predizioni rivolte tutte ad annunciare la prossima dist
ruzione dell'Impero e la rovina della famiglia reale.
Nel frattempo erano giunte notizie di grandi imbarcazioni che navigavano lungo l
a costa, il cui equipaggio era composto da valorosi guerrieri di pelle bianca e
grandi barbe bianche (2).
Il re chiamò il capitano più anziano della sua scorta chiamato Pechuta, persona di g
rande fiducia per il suo giudizio e la sua prudenza, e gli chiese qual'era la su
a opinione a proposito dell'arrivo degli uomini bianchi.
Pechuta rispose: "Grande signore, figlio del Sole e protettore dei poveri, un an
tico oracolo ritenuto attendibile dai nostri antenati annunciava che passati tan
ti re quanti sono quelli che in te si contano, sarebbero arrivati stranieri mai
visti prima, i quali avrebbero dominato il regno e distrutto i nostri Dei.".
Preoccupato più di prima il sovrano decise di lasciare il suo erede Huascar nel re
gno di Cuzco, ritirandosi insieme ad Atahualpa, il figlio avuto dalla principess
a di Quito, in quella città.
Ma nemmeno lì lo abbandonarono i cattivi presagi e i quattro elementi diedero vita
a cataclismi, terremoti, comete, simboli strani che spaventarono e intimorirono
tutti.
Fra tutti questi presagi accadde che in una notte chiara apparve la luna circond
ata da tre cerchi molto grandi: il primo era di colore del sangue, il secondo ve
rde scuro e il terzo sembrava formato di fumo.
Un indovino chiamato Llayca fu il primo a vedere questa apparizione e parlato co
n Pechuta dello strano avvenimento decisero di riferire a Huayna Capac e così pres
entandosi dinnanzi al re gli dissero: "O solo signore! Devi sapere che tua madre
la luna, come madre pietosa e indulgente, ti avverte che Pachacamac, creatore e
protettore del mondo, minaccia il tuo sangue regale e il tuo impero con grandi
tragedie; perché il primo cerchio, color sangue, significa che dopo che sarai anda
to a riposare con tuo padre il Sole, ci saranno fra i tuoi discendenti crudeli g
uerre e molto versamento di sangue regale, così che in pochi anni non avrai più ered
i.
Il secondo cerchio nero dice che dopo le guerre e lo sterminio dei tuoi la nostr
a religione e il nostro Stato saranno distrutti, e il tuo impero passerà in altre
mani, convertendosi in fumo, come indica il terzo cerchio!".
Il re ascoltò molto impressionato, ma per non dimostrare debolezza ordinò ai maghi d
i allontanarsi dicendo loro che forse quella notte era stato solo il sogno della
premonizione di sua madre la luna e aggiunse, perché i suoi non si perdessero d'a
nimo: "Non credo alle vostre parole perché non è possibile che il Sole mio padre pos
sa odiare così tanto il proprio sangue da permettere la distruzione dei suoi figli
".
Gli oracoli ritenevano che le predizioni erano quelle attese fin dai tempi antic
hi e che erano confermate dagli avvenimenti che accadevano giorno per giorno, sp
ecialmente dalla notizia della nave carica di stranieri mai visti che si dirigev
a verso le loro coste.
I sacerdoti che annunciavano disgrazie e sfortuna, in tutte le provincie, consul
tarono anche su questo fatto i loro oracoli favoriti e il re non dimenticò di cons
ultare, per mezzo di inviati speciali, il diavolo Rimac, un idolo di pietra molt
o venerato dai nativi perché rispondeva a ciò che gli si chiedeva.
Rimac in questo caso fu vago e astuto, perché non avendo il coraggio di annunciare
al re cose buone, nemmeno parlò delle grandi sventure preannunciate dagli Amautas
e da tanti altri.
Una sera che Huayna Capac usciva dal bagno d'acqua sorgiva sentì un freddo strano
impossessarsi del suo corpo e più tardi avvertì fremiti e febbre.
Il re intuì che era giunta la fine della sua esistenza e, riunendo i parenti e la
corte, fece testamento prevedendo l'arrivo di stranieri sconosciuti nelle loro t
erre, i quali avrebbero sottomesso non solo il suo impero, ma tanti altri.
L'Inca disse, prima di morire: "Nostro padre il Sole ci ha annunciato che dopo d
odici re della nostra famiglia sarebbero arrivati degli uomini che vi supererann
o in tutto e che si proclameranno signori del nostro impero.
Io vi comando di ubbidirli, perché la loro legge sarà migliore della nostra e le lor
o armi poderose e invincibili per noi".
Gli Amautas sopravvissuti ad Atahualpa e ad Huascar dovettero aspettare pochi an
ni per vedere compiute quelle profezie e così quando vedevano apparire nel cielo u
n'aquila o un condor ricordavano e ripetevano la storia di Huayna Capac e del gi
orno in cui celebrò a Cuzco la sua ultima festa al dio Sole.
L'AMORE DI ACOYTRAPA, di Martin de Murùa.
Sulla cordigliera, nelle montagne innevate, ai lati della valle di Yucay chiamat
a Sabasiray, veniva custodito il bestiame bianco, che gli Incas offrivano al sol
e.
Un giovane indio, nativo di Lares, chiamato Acoytrapa, ragazzo gentile e disponi
bile, camminava sempre dietro al bestiame e, mentre gli animali pascolavano, suo
nava dolcemente il flauto.
Non sentiva alcun bisogno di esprimere le sensazioni amorose dell'adolescenza, p
erò queste sensazioni lo turbavano.
Un giorno, mentre suonava il flauto, arrivarono da lui le due figlie del sole.
Le sorelle avevano rifugi in tutta la terra, che usavano per riposarsi.
Ognuno dei rifugi era custodito da guardiani.
Le figlie del Sole, durante il giorno, potevano vagare per monti e per valli, ma
di notte non dovevano mancare da casa e quando ritornavano alle loro abitazioni
erano perquisite dai guardiani, i quali controllavano che non avessero niente c
he le potesse danneggiare.
Le figlie del sole arrivarono dunque da Acoytrapa che, distratto, ancora non le
aveva vedute, e per iniziare una conversazione si misero a parlare con lui del b
estiame e dei pascoli.
Il pastore, che fino ad allora non le aveva viste, anche se un po' turbato si in
ginocchiò, credendo che fossero due delle quattro fontane cristalline, molto vener
ate in tutta la regione, le quali si fossero presentate a lui sotto sembianze um
ane; e per ciò non disse una parola.
Ma loro continuarono la conversazione sul bestiame pregandolo di non aver paura,
perché erano le figlie del Sole, signore di tutta la terra; e per rassicurarlo lo
presero sottobraccio e di nuovo gli dissero di non avere nessun timore.
Poi il pastore si alzò baciando le mani ad entrambe e rimanendo sbalordito dalla l
oro splendente bellezza.
Dopo essere stati a parlare per un po', il ragazzo chiese loro il permesso di ra
dunare il bestiame, perché era tempo ormai di tornare a casa; ma la più grande delle
sorelle, chiamata Chuquillanto, affascinata dalla grazia e dalla gentilezza del
pastore, cercò di trattenerlo domandandogli come si chiamava e da quale regione p
roveniva.
Il giovane rispose che era nativo di Los Lares e che si chiamava Acoytrapa.
All'improvviso lei posò lo sguardo su un oggetto d'argento, chiamato "campu" dagli
indios, che risplendeva e dondolava graziosamente sulla fronte del pastore e vi
de che nella parte inferiore c'era un piccolissimo acaro; guardandolo più da vicin
o osservò che gli acari stavano mangiando un cuore.
Allora Chuquillanto domandò quale fosse il nome di quell'oggetto d'argento.
Il pastore rispose che si chiamava utusi.
Noi non sappiamo in significato esatto di quel termine ma è probabile che signific
asse l'organo genitale maschile.
La parola fu inventata in passato dai primi innamorati.
Probabilmente anche il termine "campu" ha lo stesso significato di "utusi".
Chuquillanto torna a palazzo.
Soddisfatta la sua curiosità, la Nusta figlia del Sole salutò il pastore e gli resti
tuì l'oggetto.
Portando impresso nella memoria il suo nome e quello degli acari, rievocava stra
da facendo la delicatezza del disegno, così realistico che le sembrava di vedere a
ncora gli acari vivi che stavano mangiando il cuore, e parlava con sua sorella d
el gentile pastore.
Arrivate al loro palazzo, prima di entrare furono perquisite dai guardiani, per
verificare che non portassero niente che recasse loro danno perché secondo l'esper
ienza dei loro custodi, molte donne avevano portato i loro uomini nascosti dentr
o le fasce ed altre nelle perle delle collane.
Diffidenti, i guardiani, svolgevano questo compito con molta attenzione e pruden
za.
Dopo essere stata esaminate, le due sorelle entrarono nel palazzo, dove trovaron
o le vergini del sole ad aspettarle con tutti gli squisiti alimenti esistenti su
lla terra in pentole d'oro molto fini.
Chuquillanto si ritirò nella sua stanza senza cenare, con il pretesto di essere mo
lto stanca per aver fatto tanta strada.
Tutti gli altri cenarono con la sorella e se lei aveva qualche pensiero su Acoyt
rapa ciò non la inquietava troppo, anche se, senza farsene accorgere, sospirava la
nguidamente; ma la sfortunata Chuquillanto non ne poteva più; non trovava pace, pe
rché si era innamorata follemente del gentile pastore.
Però alla fine, per non mostrare ciò che il suo cuore nascondeva, saggiamente e prud
entemente si coricò e si addormentò.
C'erano in questa dimora, formata da grandi e suntuosi palazzi, tantissime abita
zioni riccamente arredate in cui vivevano tutte le vergini del sole, provenienti
dalle quattro provincie: Chincha suyo, Conde suyo, Ante suyo e Colla suyo.
Dentro la reggia c'erano quattro fontane d'acqua dolce e cristallina che scorrev
ano verso le quattro terre.
Ognuna delle donne del sole faceva il bagno nella fontana della provincia di nas
cita.
Le fontane si chiamavano: quella di Chinca suyo, che si trova verso Occidente, S
iclla puquio, che significa Fontana delle Alghe; Llullucha puquio (Fontana delle
Uova) si trova verso Oriente (Colla suyo); Ocoruru puquio, che significa Fontan
a dei Nasturzi, si trova a settentrione (Conde suyo); Chicha puquio, che signifi
ca Fontana delle Rane, si trova a meridione (Ande suyo).
In quest'ultima si bagnavano le due di cui abbiamo parlato.
Il sogno di Chuquillanto.
La bellissima Chuquillanto, figlia del sole, dormiva profondamente e sognava di
vedere un usignolo volare e posarsi da un albero all'altro e su ognuno cantare s
oavemente e dolcemente.
Dopo aver cantato armoniosamente e con allegria si posò sul grembo della ragazza e
le disse di non restare in pena e di non far volare la sua immaginazione su cos
e tristi.
Lei rispose che senza il suo pastore sarebbe morta.
Allora l'usignolo le offrì il suo aiuto e le disse di raccontargli la storia.
Lei parlò del grande amore per Acoytrapa, il guardiano del bestiame bianco, sosten
endo che in alcun modo sarebbe riuscita a vivere senza di lui.
Il rimedio per le sue pene sarebbe stato fuggire con il suo amore, perché altrimen
ti sarebbe stata scoperta in quello stato di abbattimento da qualcuna delle verg
ini di suo padre il sole il quale avrebbe ordinato d'ucciderla.
Dopo aver ascoltato, l'usignolo le disse di alzarsi e di sedersi in mezzo alle q
uattro fontane e di cantare loro tutto ciò che aveva in mente.
Se le fontane gradivano ciò che lei cantava, sicuramente avrebbe potuto esaudire i
l suo desiderio.
Dopo aver detto questo, l'uccellino volò via.
La Nusta si svegliò spaventata, e in fretta incominciò a vestirsi, e siccome tutti d
ormivano profondamente nessuno la sentì.
Uscì dalla stanza e camminò verso le quattro fontane; si mise in mezzo a loro e rico
rdandosi del Campu d'argento con gli acari che mangiavano il cuore, disse: "Micu
c Usutucuyuc, Utusi cusin" che significa, "Acaro che stai mangiando l'Utusi che
dondola!" Poco dopo tutte le quattro fontane cominciarono a dirsi l'un l'altra l
e stesse parole pronunciate da Chuquillanto.
La Nusta, sentendo che le fontane le erano favorevoli, andò a riposare, approfitta
ndo delle poche ore di sonno che le rimanevano.
Il pastore diviene triste.
Tornato alla sua capanna il pastore ripensò alla grande bellezza di Chuquillanto,
e questo ricordo lo rattristò.
Il nuovo amore che si radicava nel suo petto gli faceva sentire le prime pene; e
con questo pensiero in testa prese il flauto e iniziò a suonare tristemente, così t
ristemente da intenerire perfino le pietre.
Quando smise di suonare, era tanto sconvolto che cadde a terra e si addormentò.
Si svegliò versando copiose lacrime e disse lamentandosi: "Povero me, sfortunato e
triste pastore, come si avvicina il giorno della mia morte, poiché la speranza ne
ga ciò che il mio desiderio chiede! Come farò, povero pastore, a sopravvivere, se no
n posso raggiungere né vedere la mia amata?" E così dicendo ritornò alla sua capanna e
nuovamente, stanco di tanta fatica, avvilito si addormentò.
La madre di Acoytrapa viveva a Lares, dove venne informata, dagli indovini, dell
a situazione di suo figlio.
Solo lei poteva salvarlo.
Conosciuta la causa della sventura, prese il suo bastone magico dai grandi poter
i, lo adornò per l'occasione, e senza fermarsi mai si incamminò verso la collina.
Fu così che arrivò alla capanna al sorgere del sole.
Entrando rapida vide suo figlio addormentato, con il viso rigato di lacrime arde
nti e lo svegliò.
Il pastore aprì gli occhi e fu emozionato a vedere sua madre.
La madre lo confortò, dicendo che non doveva preoccuparsi, che lei avrebbe rimedia
to il più presto possibile.
Poco dopo uscì dalla casa e trovò fra le rupi una gran quantità d'ortiche (cibo approp
riato, secondo gli indigeni, contro la tristezza) che raccolse e fece in umido.
Non furono ben cotte quando le due sorelle, figlie del sole, erano già sulla sogli
a della casupola, perché Chuquillanto, appena fece giorno e fu l'ora della solita
passeggiata per i verdi prati della collina, uscì dirigendosi in fretta verso la c
asa di Acoytrapa.
Il suo tenero cuore non le consentiva altri piaceri.
Arrivate alla porta della casupola si sedettero, stanche della lunga camminata,
e vedendo dentro la buona vecchietta, la salutarono gentilmente e le chiesero di
mangiare.
La vecchietta fece un inchino e dicendo che non aveva altro da offrire loro che
ortica in umido, le servì.
Le sorelle iniziarono a mangiare di gran gusto.
Chuquillanto si mise allora a girare intorno alla capanna, gli occhi in lacrime,
senza farsi notare ma senza vedere ciò che desiderava, il suo amato, perché nel mom
ento in cui le ragazze erano apparse il giovane si era introdotto, per ordine de
lla madre, dentro il bastone.
La ragazza pensò che Acoytrapa fosse andato a custodire il bestiame e non si preoc
cupò di chiedere di lui.
Poi, posando lo sguardo sul bastone, incuriosita disse alla vecchietta che era m
olto bello e le chiese da dove proveniva.
La donna le rispose che era un bastone che anticamente apparteneva a una delle d
onne e amanti di Pachacamac ("colui che governa la terra", lo spirito della terr
a) di nome Guaca, famoso nelle pianure.
Disse anche di averlo ricevuto come eredità.
Chuquillanto la pregò tristemente di regalarglielo e alla fine la vecchietta accon
sentì; sapeva da tempo che glielo avrebbe chiesto.
Prendendolo fra le mani le sembrò ancora più bello e poco dopo, salutando la vecchia
signora, Chuquillanto uscì e camminando per i prati guardava da ogni parte per tr
ovare l'amato.
D'ora in poi, non parleremo più della sorella minore, perché non più coinvolta nel pro
seguimento della storia; parleremo soltanto di Chuquillanto, la quale era triste
e pensierosa perché durante tutto il tragitto non aveva incontrato il pastore.
Arrivate alla loro dimora, le guardie le perquisirono come facevano tutte le vol
te che le sorelle rientravano a palazzo; e non avendo notato niente di strano, o
ltre al bastone che naturalmente Chuquillanto portava con sé, chiusero le porte e
così restarono, senza saperlo, ingannati.
Le ragazze entrarono nella sala da pranzo e lì rimasero a mangiare a lungo e magni
ficamente.
Passate le prime ore della sera, tutti si ritirarono nelle loro stanze da letto.
Chuquillanto prese il suo bastone e lo depositò accanto al suo giaciglio.
Le sembrò una buona idea, e così si coricò.
Credendo di essere sola, pianse malinconicamente, ricordando il pastore e il suo
strano sogno.
Ma non passò molto tempo che il bastone prese le sembianze umane e chiamò dolcemente
la ragazza per nome.
Chuquillanto, quando sentì d'essere chiamata, si spaventò e alzandosi lentamente dal
letto prese un lume e lo accese, senza far rumore.
Vide allora, con sorpresa, Acoytrapa inginocchiato dinanzi a lei che piangeva so
mmessamente.
Rimase così, turbata, fino a che riuscì a domandargli in che modo era entrato.
Il pastore le rispose che gli era stato ordinato di entrare nel bastone che lei
aveva portato con sé.
Allora Chuquillanto lo abbracciò e lo coprì con le sue lenzuola di finissima seta ri
camata, e dormì con lui.
All'alba, davanti agli occhi della sua signora, il pastore si introdusse di nuov
o nel bastone.
Quando il sole aveva già bagnato tutta la terra lei uscì dal palazzo di suo padre pe
r camminare per i verdi prati in compagnia solo del suo bastone, e poi si nascos
e in un crepaccio vicino alla collina e lì stette con il suo amatissimo pastore ch
e nuovamente si era tramutato in essere umano.
Ma una delle guardie era andata dietro di loro e, anche se ben nascosti, li trovò.
Vedendo ciò che accadeva cominciò ad urlare.
Sentendolo, essi scapparono verso la collina, verso il paese di Calca finché stanc
hi di
fuggire, si sedettero su delle rocce e si addormentarono.
Poiché nel dormiveglia udirono grandi rumori si alzarono.
Mentre Chuquillanto stava calzando uno dei sandali e l'altro già lo aveva al piede
e guardava dalla parte di Calca entrambi furono trasformati in pietra.
Ancora oggi, da Guallabamba, da Calca e da altre parti si vedono le statue di pi
etra.
E io le ho viste tante, tante volte.

LA SCOPERTA DI POTOSI.
L'Inca Huayna Capac, forse l'uomo più potente e saggio della famiglia reale incaic
a, uscì una volta da Cuzco accompagnato da un esercito di trentamila guerrieri per
dirigersi verso Sud, col proposito di conquistare nuove terre per estendere i c
onfini del potente Impero dei figli del Sole.
Arrivato in Perù, molte furono le provincie che si sottomisero volontariamente al
suo governo, perché conoscevano il potere invincibile delle armi dei conquistatori
e perché sapevano che solo la resa incondizionata avrebbe apportato benefici.
Nelle sue escursioni arrivò anche a Tarapaya e dopo essersi bagnato nelle acque de
lla grande laguna sacra, fatta costruire dall'Inca Maita Capac, si installò a Cant
umarca, villaggio che esiste ancora oggi nei pressi della città di Potosi, dove re
gnava allora una regina chiamata Colla ("Miniera d'argento").
La sovranità dell'Inca sulla regione era ormai assicurata giacché il governante era
molto bravo a irretire le bellezze regnanti dei paesi confinanti.
Ammira la grande collina che aveva di fronte la cui bella configurazione e le to
nalità multicolori delle falde erano avvolte, ma non sempre, di capricciose nuvole
che lasciavano intravedere l'alta cima coronata di nevi eterne.
La bellezza del panorama e il nome Potosi, che significa Sorgente d'argento, dat
o dai nativi alla collina, incuriosì il Re che inviò diverse spedizioni ad esplorare
quelle vette.
Ma i nativi avvertirono gli esploratori, dicendo loro che la collina era sacra e
che presto avrebbe manifestato la sua collera verso gli audaci uomini che si er
ano permessi di scalare le sue falde e scoprire i suoi segreti.
Huayna Capac insistette nei suoi ordini, facendo presente che la sua volontà e il
suo potere provenivano da Pachacamac e che lui era figlio del Sole.
Queste affermazioni tranquillizzarono per un po' di tempo i nativi di Cantumarca
, ma appena gli esploratori iniziarono a scalare la falda della collina una gran
de tormenta, accompagnata da fulmini e tuoni minacciosi che si perdevano nelle p
rofonde cavità della collina, si scatenò contro di loro.
La regina Colla spaventata si presentò dinanzi al Re e affettuosamente gli disse:
"Potente signore del gran Impero, Pachacamac, spirito del mondo, ha destinato qu
elle ricchezze per un'altra gente, chiamata Viracocha (3), e ti chiedo di non in
sistere, di non mandare verso la cima i tuoi sudditi, perché il Sole lascerà d'illum
inarci".
Huayna Capac acconsentì alla richiesta della regina e ordinò alla sua gente di ritor
nare.
Nessun indio doveva scalare la montagna d'ora in poi.
Trascorse molto tempo.
Una sera l'indio Hualpa, che non conosceva l'ordine di Huayna Capac, viaggiava i
n prossimità di Potosi.
Avvenne che smarrì in quei paraggi un lama e mentre lo cercava la notte lo sorpres
e sulle vette solitarie.
Decise allora di continuare a cercare la bestia il mattino seguente; raccolse de
lla legna e accese un fuoco per riscaldarsi durante quella fredda notte.
Il nuovo giorno iniziò a schiarire, Hualpa si preparò per continuare a cercare le tr
acce del suo lama, quando d'improvviso si rese conto che il fuoco aveva fuso una
considerevole quantità d'argento che formava sul terreno una grande lastra luccic
ante.
Hualpa trovò il suo lama e ritornò a casa portando con sé il prezioso carico e per mol
to tempo conservò il segreto di quella ricca miniera.
Ma gli spagnoli, vedendolo in possesso di un minerale di cui ignoravano la prove
nienza, lo spiarono e lo inseguirono dappertutto, arrivando infine a scoprire e
ad appropriarsi del segreto dell'indio.
La collina di Potosi fu ricca e famosa in tutto il mondo durante tre secoli.
L'indio Hualpa di cui parla questa leggenda si crede, per la sua buona e rapida
fortuna, sia quel Hualpa di Yocalla a cui la tradizione attribuisce l'onore di a
vere fatto costruire un ponte al diavolo senza che lo spirito delle caverne pote
sse chiedergli la sua anima come ricompensa.

GLI UCCELLI DONNA, di Fray Bernabé Cobo. I nativi della provincia di Canaribamba,
distretto di Quito, raccontano di due giovani fratelli che si misero in salvo da
l diluvio su di un'alta collina, chiamata Huacaynan.
Passato il diluvio e finite le provviste che erano riusciti a trovare da quelle
parti, si misero alla ricerca di qualcosa da mangiare, lasciando incustodita la
loro dimora, una piccola capanna che avevano costruito come rifugio, dove, nutre
ndosi solo di radici ed erbe, vissero per un po' di tempo con disagio e soffrend
o la fame.
Ma un giorno, di ritorno alla capanna molto stanchi per la camminata alla ricerc
a del cibo, con grande sorpresa la trovarono fornita di cibi prelibati e di abbo
ndante "chicha", senza sapere da dove, né chi avesse fatto loro questo regalo.
I due fratelli cercarono con attenzione nei dintorni della casupola la persona c
he li aveva salvati da una situazione tanto difficile, ma non trovando traccia u
mana si sedettero a mangiare.
Passarono dieci giorni in questo modo, trovando essi la capanna sempre provvista
di alimenti come il primo.
Trascorso questo tempo, curiosi di vedere e conoscere chi faceva loro del bene,
escogitarono un piano: uno di loro sarebbe rimasto nascosto in casa.
Fecero quindi un nascondiglio nella parte più scura della stanza dove quello si sa
rebbe nascosto, intanto che l'altro fosse andato in campagna per il raccolto.
Il fratello che rimase a fare la guardia vide entrare dalla porta due Guacamayas
(uccelli del genere dei pappagalli), che una volta dentro si trasformarono in d
ue magnifiche donne Pallas, come dire donne nobili di sangue regale, riccamente
vestite, e con gli abiti che usano oggi le donne della regione di Canares, con i
lunghi capelli pettinati e un bellissimo nastro che cingeva loro la fronte.
Togliendosi i mantelli, queste iniziarono a disporre e ordinare le squisite piet
anze che recavano con se.
Il giovane uscì dal suo nascondiglio e salutandole molto cortesemente iniziò a conve
rsare con loro.
Ma le due donne, spaurite e confuse per essere state sorprese, senza dire una pa
rola uscirono in fretta dalla capanna, ripresero la loro forma di Guacamayas e s
e ne andarono via volando, senza preparare quel giorno niente da mangiare.
Quando il ragazzo rimase solo, vedendo che non era riuscito a fermarle come desi
derava, lamentandosi e molto preoccupato maledì la sua sfortuna.
Il fratello, di ritorno dalla campagna, lo trovò in questo stato e dopo aver saput
o l'accaduto, in preda a collera lo rimproverò, dandogli del codardo e chiamandolo
uomo senza coraggio né valore, poiché aveva perso una occasione simile.
Infine decisero di rimanere entrambi nascosti dentro la capanna per vedere se le
Guacamayas sarebbero ritornate.
Le donne-uccello ritornarono, com'era abitudine, tre giorni dopo, ed entrando ne
lla stanza dalla porta, presero sembianze umane, e apparvero così due belle fanciu
lle che iniziarono a sistemare le vivande.
I giovani, che erano nascosti, lasciarono loro un po' di tempo perché si sentisser
o al sicuro; dopodiché uscirono all'improvviso e dopo aver chiuso la porta, senza
alcun indugio, le abbracciarono.
Le fanciulle, sorprese e turbate, non riuscirono ad assumere sembianze d'uccelli
.
Stizzite ed indispettite, presero a urlare e a cercare di liberarsi ma i due fra
telli alla fine, con lusinghe e dolci parole d'amore, le calmarono e quando le v
idero serene, le pregarono insistentemente di raccontare la loro provenienza, il
loro lignaggio e il motivo per il quale recavano loro tale beneficio.
Le donne Pallas, pacifiche e trattabili, risposero che era il Signore dell'Unive
rso che le aveva mandate segretamente in loro aiuto, in quel momento di acuto bi
sogno, perché non morissero di fame.
Così, rimasero come mogli dei due fratelli e i loro figli si dice che abbiamo popo
lato la regione di Canares.
E questa regione ebbe come idolo e santuario famoso la collina di Huaycanan e pe
r Dee più importanti le Guacamayas.
Gli abitanti, durante le feste ed i ringraziamenti, si adornano con piume e ador
ano idoli con sembianze di uccelli.
Io ho visto pochi anni fa, nella città di Lima, portata dalla provincia di Canarib
amba, una statuetta a forma di piccola colonna di rame, con due Guacamayas in ci
ma fatte dello stesso materiale.
Gli abitanti della regione di Canares le adoravano, in ricordo di questa leggend
a.
I QUECHUAS E IL LORO IMPERO.
Dalla conquista spagnola del Nuovo Mondo ad oggi, molte e molto diverse sono sta
te le teorie sulla origine e sull'arrivo dell'uomo in questa parte della Terra.
Alcuni hanno sostenuto che egli giunse ai lontani confini di questi lidi attrave
rso Atlantide, il mitico continente che univa l'Europa alle Antille.
Altri hanno parlato di una migrazione di popoli asiatici penetrati attraverso l'
istmo di Behring e di insediamenti cinesi sulle coste americane della California
fin dal quinto secolo.
Secondo altri, anche le razze del Nord America attraversarono i mari polari e ar
rivarono a Terranova e in Florida in epoche relativamente recenti.
Le tradizioni degli Indios del Sud America non ci parlano dell'arrivo via mare d
i popoli e tribù di altri paesi, parlano solo della presenza di uomini bianchi, i
quali arrivavano in diversi periodi e sparivano dopo qualche tempo.
Secondo le leggende, il fondatore dell'impero Incaico non giunse però dal mare, ma
da un lago all'interno del continente.
Tra le pietre che compongono le mura di una grande piazza antistante il tempio C
alassaya a Tiahuanaco, in Bolivia, si trovano incastonate serie di teste di piet
ra che raffigurano le quattro razze allora presenti sulla terra: bianca, gialla,
nera e rossa.
Significa questo che a Tiahuanaco erano presenti o si erano alternati uomini di
razze diverse? O significa che gli abitanti di quella civiltà avevano girato il mo
ndo e conosciuto di conseguenza le diverse razze? Sicuramente contatti con l'Asi
a e l'Europa ci sono stati, in tempi più antichi di quanto possiamo immaginare.
Ci troviamo di fronte a uno dei tanti misteri (insoluti) che ci pone questa vast
a zona della terra.
La tradizione e la storia scritta iniziano, sia in Europa che in Cina, da un'epo
ca che è relativamente recente, specialmente se la confrontiamo con un'altra stori
a viva e immutabile, in cui si racconta in modo eloquente di epoche anteriori a
queste conquiste e alla stessa storia biblica.
Il libro della geologia è stato aperto e nelle sue pagine d'oro è messa in evidenza
l'antichità del suolo americano e la presenza umana in esso in periodi anteriori a
qualsiasi leggenda e tradizione conosciuta.
Eminenti naturalisti hanno analizzato le fasi delle formazioni geologiche anteri
ori all'era quaternaria europea e vi hanno trovato tracce inequivocabili dell'uo
mo dolicocefalo che abitò quelle regioni contemporaneamente a specie d'animali ogg
i estinte, di cui si cibò, e vi insediò la famiglia primitiva al riparo del tetto ro
tondo del guscio del gigantesco Clyptodonte.
Ma vogliamo qui restringere il nostro studio al solo popolo Quechua e alla sua c
iviltà, che in altri tempi si estendeva dalla Cordigliera Andina alle coste del Pa
cifico e da Panama al Cile, a differenza del popolo Guarany, che abitava le terr
e comprese nel grande triangolo orientale del continente limitato dai fiumi Orin
oco e Plata e dall'Atlantico.
Questi due popoli, i più importanti dell'America meridionale all'epoca della loro
scoperta da parte degli europei, differiscono assai per la lingua, ciascuna dell
e quali molto specializzata nei suoi complessi meccanismi espressivi.
La "alta cultura" da cui discendono i Quechuas, si sviluppò nel Perù circa 4000 anni
fa, quando il progresso del neolitico diede avvio allo sviluppo dell'agricoltur
a e alla costruzione di templi cerimoniali di culto e di potere.
Secondo una teoria basata su basi indiscutibili, si afferma che questa "alta cul
tura" fu fondata a Chavin de Huantar, nel fianco della Cordigliera Bianca, da ge
nte proveniente dalla selva amazzonica, che avrebbe attraversato le montagne and
ine verso occidente.
Dal centro di Chavin, questa superiore cultura si disperse per tutto il Perù e anc
he oltre le attuali frontiere.
Nei diversi luoghi in cui giunse (costa, nord, altipiano), si espresse in forme
diverse.
La cultura più grandiosa fiorita nella sierra, sulle sponde del Titicaca, fu quell
a di Tiahuanaco (secoli Quarto e Nono dopo Cristo).
Fu un grande centro di culto, come anteriormente lo fu Chavin, a cui si ispirò.
Tiahuanaco è avvolta da misteri e da domande insolute: non si conosce la sua origi
ne né i suoi costruttori e neppure l'età (qualche studioso parla di 18000 anni fa).
Da questi luoghi e da questi misteri traggono origine le leggende e i miti sull'
origine dei Quechuas e degli Incas.
Le rovine di Tiahuanaco sono resti di costruzioni di tipo ciclopico (cioè in pietr
a, senza calce, sabbia e acqua) e sono simili a quelle di Palenque, in Messico.
Sembra che i popoli mesoamericani (Aztechi e Maya) possano aver avuto, in origin
e, relazioni con quelle successivamente esistite in questa parte di America.
L'impero di Tiahuanaco fu caratterizzato da una forte spiritualità; il suo declino
avvenne nel Nono secolo e a partire dal Decimo secolo si sviluppò la civiltà incaic
a che, attraverso il regno di dodici Inca, governò il popolo Quechua fino alla con
quista da parte degli spagnoli.
Come è sempre accaduto per qualsiasi grande civiltà antica, anche l'origine dell'imp
ero Inca si perde nella leggenda.
Ma indagando attraverso le leggende possiamo scoprire parte delle verità che esse
celano.
Le tradizioni del lago Titicaca hanno trasmesso ai posteri due leggende in cui r
accontano l'origine del popolo Quechua e dell'impero incaico: una è la leggenda de
i "fratelli Ayar", l'altra è la leggenda di "Manco Capac e Mama Ocllo".
Noi ci occuperemo di quest'ultima.
Questa leggenda è stata tramandata fino a noi grazie al cronista Garcilaso Inca de
la Vega che scrisse i "Commentari reali e l'origine degli Incas".
Narra il cronista meticcio (nato da una principessa inca e da uno spagnolo) che
in tempi remoti, pieni di barbarie e di miseria, il Sole creò una coppia, chiamand
o l'uomo Manco Capac e la donna, sua sposa ma anche sua sorella, Mama Ocllo.
Furono posti sul lago Titicaca ed ebbero uno scettro d'oro.
Fatto questo, il Sole diede loro la missione di andare per il mondo a civilizzar
e la gente, incaricandoli anche di piantare lo scettro in tutti i luoghi che avr
ebbero visitato e di fondare regni solo dove lo scettro riuscisse ad affondare n
el terreno.
Li nominò re e signori della terra, riconoscendoli suoi figli, e ordinò loro di diff
ondere la religione del Sole.
La coppia si allontanò dal luogo sacro verso settentrione.
La strada fu lunga: piantarono lo scettro in molti luoghi, ma in nessuno affondò,
finché giunsero a Huanacauri dove, con la sorpresa di entrambi, lo scettro fu ingh
iottito dalla terra.
La coppia comprese che doveva fermarsi in quel luogo e lì compiere la volontà del pa
dre Sole.
Decisero così di separarsi affinché ognuno di loro potesse raggiungere più gente.
Manco Capac marciò a nord e Mama Ocllo a sud della valle.
Così fu che a tutte le genti che incontravano si proclamarono figli del Sole, mand
ati dal cielo per essere maestri e benefattori di tutta la popolazione, sottraen
dola dalla vita bestiale che conduceva e insegnandole a vivere come uomini.
Gli indigeni si mostrarono così sorpresi e si impressionarono tanto a causa dei ve
stiti e dei modi strani dei nuovi venuti, che li credettero esseri soprannatural
i e molti cominciarono ad ascoltarli e seguirli.
Manco Capac riunì i suoi adepti e li inviò a cercare cibo per tutti e a costruire ca
panne.
La stessa cosa fece Mama Ocllo.
Nel periodo che seguì ci fu solo progresso e felicità.
Manco Capac divenne re e maestro degli uomini e insegnò loro a lavorare la terra,
a fare canali d'irrigazione e a fabbricare sandali; la sua sposa insegnò alle donn
e i lavori femminili, specialmente la filatura e la tessitura.
Successivamente Manco Capac, l'eroe civilizzatore, fondò la città di Cuzco (che sign
ifica ombelico, centro del mondo) in nome del dio Viracocha e del Sole.
L'erezione di questa città, è curioso notarlo, fu fatta nel nome del dio Viracocha e
, in secondo luogo, del Sole.
Il primo è l'essere supremo ("colui che tutto fa") delle genti di Tiahuanaco; il s
econdo è l'antenato totemico degli Incas e pertanto dei Quechuas.
Viracocha è il creatore, il Sole una sua creatura, ma per un caso niente affatto s
trano la creatura in seguito vince il suo creatore.
Ciò è dovuto a ragioni politiche, allo scopo di cancellare un passato di sconfitte.
Infatti sembra che Manco Capac fosse originario di Tiahuanaco da cui sarebbe fug
gito quando questo impero fu distrutto.
Quindi il mondo incaico non è che il tentativo (riuscito) di far rivivere la grand
e cultura Tiahuanaco.
Il dio Viracocha rimarrà sempre un punto di riferimento importante per gli Incas.
Il messaggio delle leggende può infatti rappresentare il superamento delle condizi
oni di tragedia e di catastrofe in cui si trovava in quel periodo il mondo andin
o.
Gli Incas, eredi fedeli di un mondo anteriore salvati da una catastrofe (o diluv
io sociale), rappresentano un ritorno all'unità, al rinascimento e alla rigenerazi
one delle popolazioni Quechuas.
Abbiamo qui uno dei più utili insegnamenti della protostoria peruviana.
Manco Capac, primo re Inca.
L'occupazione della valle di Cuzco non fu incruenta, poiché molte popolazioni dove
ttero essere conquistate con grande spargimento di sangue.
Alla fine Manco Capac riuscì a confederare tutte le popolazioni e a convincerle a
seguirlo nel suo cammino.
Egli divenne il primo sovrano delle popolazioni Quechuas e l'iniziatore della di
nastia degli Incas.
La parola Inca significa re, persona di sangue regale; Capac vuol dire solo, uni
co, ricco, così che Capac Inca significa "il solo re", titolo che andava solo alla
persona reale o al principe ereditario dopo la scomparsa del predecessore.
Sotto la guida di questo sovrano si gettarono le basi politiche e sociali del fu
turo impero incaico.
Si divisero le terre ed ognuno ebbe un pezzo da coltivare, si costruirono abitaz
ioni e canali, si innalzarono tempi al dio Sole e a Pachacamac, lo spirito della
gran Madre Terra.
I nativi del luogo non tardarono a rendersi conto dei vantaggi del nuovo ordine
di cose e molte tribù ascoltarono le parole buone e paterne di quegli esseri eccez
ionali considerati semidei e che si credeva fossero inviati espressamente per pr
edicare bontà e amore tra gli uomini.
Dalla famiglia reale provenivano i sacerdoti incaricati del culto e delle cerimo
nie religiose.
Le sorelle del principe vivevano recluse nella casa delle vestali o "mogli del S
ole" e l'erede della corona doveva sposarsi con la sorella maggiore allo scopo d
i riprodurre un principe di sangue nobile.
Oltre alle principesse, l'Inca aveva altre mogli, che erano sempre le giovani più
belle del regno, figlie di Curacas o dei potenti signori, che si sentivano onora
ti di offrirle al sovrano.
I cittadini erano divisi in gruppi di dieci ciascuno, comandati da uno di loro.
C'era un centurione che comandava 10 gruppi e un generale a cui obbedivano mille
uomini.
Si arrivava così al Curaca e poi all'Inca che mobilitava i soldati con facilità per
conquistare terre e per realizzare grandi opere.
I sacrifici fatti al sole consistevano principalmente in piccoli lama, conigli o
uccelli da cortile, cereali, legumi e bevande (come la chicha o altre a loro fa
migliari).
I Re, quando stabilivano nuove leggi o sacrifici, sia nel governo religioso come
in quello temporale, invocavano il nome del Sole o loro padre Manco Capac, sost
enendo che da loro proveniva l'ordine perché così lo avevano disposto gli antenati.
E' difficile oggi stabilire con precisione durante quale regno furono fatte le l
oro leggi e avvennero le conquiste, perché non conoscendo la scrittura usavano i Q
uipus (sistema di comunicazione mediante cordicelle annodate secondo un preciso
codice che a tutt'oggi non è stato decifrato).
L'impero Inca, come la città di Cuzco, fu diviso in quattro regioni principali.
La parte orientale fu chiamata Antisuyo, nome che deriva da una provincia chiama
ta Anti, situata ad oriente della vasta cordigliera nevata che percorre il conti
nente.
La parte occidentale fu chiamata Cuntisuyo, nome che viene da un'altra provincia
molto piccola chiamata Cunti situata vicino al mare.
Chinchasuyo fu chiamata la parte nord perché la provincia di Chincha rimane a nord
della città imperiale e infine si chiamò Collasuyo la parte sud perché lì si trovavano
le terre Collas che costituivano la zona più importante dell'Impero.
Le terre dei Collas erano situate a Sud del lago Titicaca e corrispondevano all'
attuale Bolivia.
I Collas (gli attuali Ahimaras) erano indios dalla vasta cultura e non opposero
molta resistenza all'espansione incaica.
Il Cile dopo essere stato conquistato fece parte di quest'ultima divisione e il
grande regno di Quito (corrispondente all'Ecuador) di quella del nord.
Le divergenze che nascevano per questioni di confini o per i pascoli fra le prov
incie limitrofe erano presentate a un giudice, eletto dall'Inca fra i membri del
la famiglia reale.
Se le parti non erano soddisfatte del verdetto ci si appellava allo stesso Inca
che poneva termine al conflitto.
Sinchi Roca.
Il nome del secondo Inca fu Sinchi Roca.
Sinchi significa valoroso e Roca prudente e maturo.
Questo re non espresse il suo valore e la sua prudenza nella guerra bensì nella lo
tta, nella corsa, nel lancio a distanza di una pietra o di una lancia: esercizi
in cui superava tutti i campioni del suo tempo.
Quando Manco Capac morì, il giovane Sinchi Roca, avendo con sé il fregio colorato si
mbolo del comando del regno, riunì tutti i Curacas più potenti e manifestò loro il pro
posito di estendere il regno e di convincere gli abitanti dei villaggi limitrofi
ad abbandonare lo stato primitivo in cui vivevano.
I Curacas si impegnarono ad aiutarlo per togliere dall'ignoranza le popolazioni
confinanti mostrando loro, con la ragione, i vantaggi che presentava adorare il
sole invece dell'idolatrare animali e pietre.
Sinchi Roca, credendo fermamente nei suoi propositi, fece la sua prima spedizion
e verso il Sud accompagnato da molta della sua gente e dai più importanti Curacas,
ottenendo facilmente, con la persuasione, l'obbedienza alle loro leggi da parte
delle popolazioni di Puchina e Canchi che distavano più di venti leghe dalle terr
e sottomesse a suo padre.
Arrivata la spedizione al villaggio di Chuncara e vedendo i buoni propositi e la
buona disposizione degli indigeni ad accettare le sue leggi e i suoi riti, l'In
ca lasciò alcuni suoi uomini per istruirli nella coltivazione della terra, nei pre
cetti e nelle pratiche che avrebbero dovuto seguire d'allora in poi.
Il sovrano tornò alla città imperiale per occuparsi del governo e, sicuro della buon
a volontà con la quale i nuovi sudditi lo avrebbero servito, ordinò che in quelle te
rre si costruissero alcuni edifici destinati a scuole di agricoltura, a templi e
a fortezze come quella di Pucarà, che segnò per qualche tempo il limite a Sud delle
terre conquistate.
Lloqui Yupangui.
Alcuni storiografi hanno attribuito a Sinchi Roca le conquiste di altre terre co
me quelle, per esempio, che arrivarono fino al fiume Callahuaya, che produceva o
ro finissimo, ma è più probabile che queste terre le abbia conquistate Lloqui Yupanq
ui, terzo re che governò l'Impero.
La lingua Quechua è scarsa di vocaboli ma in compenso è molto significativa: per ese
mpio Lloqui significa Zurdo, colui che fa uso della mano sinistra e Yupanqui sig
nifica narratore di storie, virtù, prodezza, clemenza, pietà.
Appena insediato visitò quasi tutto il suo regno col proposito di estenderne i con
fini.
Nominò quindi due suoi zii come aiutanti di campo e consiglieri e ordinò loro di for
mare un esercito di 7000 guerrieri.
Il re in persona guidò le legioni, percorrendo il cammino da Orcosuyo fino alla pr
ovincia di Cana, al cui sovrano fu chiesto di obbedire e servire il figlio del S
ole, e di abbandonare sacrifici e abitudini cruente.
I Canas, conoscendo il potere del re, non ebbero problemi ad obbedirgli accettan
do le leggi e adorando così il Sole.
Non successe la stessa cosa con i Ayavirìs i quali non videro di buon occhio la so
ttomissione delle popolazioni confinanti, né le promesse delle persone inviate dal
l'Inca.
Gli Ayavirìs decisero di difendere la loro libertà e furono i primi ad affrontare, a
rmi in pugno, l'esercito dell'Inca, sostenendo un duro combattimento.
Furono vinti e non volendo arrendersi si barricarono nelle loro fortezze dove fu
rono assediati dal re che non desiderava sterminarli, ma sottometterli per evita
re che altri popoli seguissero il cattivo esempio di prendere le armi contro di
lui.
Gli assediati resistettero molti giorni ma, alla fine, dovettero arrendersi per
fame.
L'Inca, dimostrando bontà, perdonò la loro tenace ribellione e lasciò presso di loro g
ente della sua corte affinché li istruisse per farli diventare sudditi del regno.
Ritornò quindi alla sua città imperiale dove fu grandemente festeggiato.
Pochi anni dopo il Re ordinò nuovamente di costituire un esercito di diecimila uo
mini per conquistare Collasuyo.
Questo territorio comprendeva molte provincie che si sottomisero con facilità rite
nendo che sarebbe stato vantaggioso per loro, poiché sarebbero state protette dai
possibili attacchi delle tribù vicine.
I Callas, come abbiamo detto, costituivano una grossa nazione che abitava le spo
nde sud del Titicaca e l'attuale Bolivia.
Erano
popolazioni pacifiche ed accolsero l'Inca con grandi feste.
La loro mitologia e cultura erano affini a quelle quechua: adoravano il lago Tit
icaca e sostenevano che i loro capostipiti erano usciti dalle caverne delle mont
agne per civilizzare il popolo.
Il dio principale di questo popolo era un guanaco bianco, animale che abitava qu
ei luoghi un tempo antichi.
Essi furono principalmente allevatori di bestiame e grandi conoscitori di erbe m
edicinali e per questa ragione credevano che "il mondo alto" (gli spiriti buoni)
li avrebbe protetti e beneficiati più di qualsiasi altro popolo della terra.
L'offerta più frequente a Pachamac (la madre terra) era un piccolo lama bianco (gu
anaco), perché era l'animale che più assomigliava al padre di tutti loro.
L'impero incaico ricevette molte conoscenze e un forte impulso culturale dalla c
onquista dei Collas.
Successivamente i Collas furono protagonisti di una ribellione domata poi dall'I
nca Pachacutec.
Lloqui Yupanqui sottomise altri regni ed altre provincie e, ritornando a Cuzco,
decise di consolidare il suo potere annettendo le terre conquistate nel suo impe
ro.
Gli astronomi indios conoscevano il sole, la luna, le sette stelle della costell
azione del toro (Pleiadi) e la Via Lattea dove dicevano che c'era un lama che al
lattava un piccolo.
Le stelle erano chiamate Coillur e non erano utilizzate per fare il conto dell'a
nno, dei solstizi e degli equinozi, erano considerate soltanto per la loro lucen
tezza.
Se le stelle brillavano si credeva fosse di buon auspicio, al contrario se riluc
evano poco.
Contavano i mesi con le lune, un anno lunare aveva dodici lune, e l'anno solare
aveva undici giorni in più.
Per fare coincidere un anno con l'altro si dovette ricorrere ai solstizi.
Costruirono tre grandi torri nella fortezza di Cuzco, che servivano per seguire
i movimenti della nascita e del calar del sole e per fissare gli equinozi e i so
lstizi.
Conoscevano molte erbe e piante medicinali e avevano nozioni approfondite di geo
metria.

Mayta Capac.
Da Lloqui Yupanqui e Mama Cahua nacque Mayta Capac, quarto re, e Mama Cuca sua s
orella e moglie.
Questo Inca passò alla storia come un Ercole andino per la sua forza poderosa.
Terminate le cerimonie funebri di suo padre e il lutto che in tutto l'Impero durò
un anno, egli s'insediò solennemente e visitò le sue terre come Re assoluto.
Con suo padre le aveva già percorse in due occasioni come principe, ma non avendo
il consenso dei suoi tutori non aveva potuto fare né grazie né favori.
Con un esercito di dodicimila uomini guadò il lago Titicaca conquistando terre e i
ncontrandosi con nobili uomini che gli si sottomettevano volontariamente.
Il suo esercito passò da una riva all'altra del lago su un ponte costruito in quel
l'occasione, con rami di vimini e si accampò nelle vicinanze delle rovine di Tiahu
anaco.
Da qui partì la conquista di altri territori del Collasuyo.
Mayta Capac prima di tornare a Cuzco dopo la conquista e la sottomissione delle
terre vicine lasciò delle persone che insegnarono ai Curacas le pratiche religiose
e le leggi dell'Impero.

Capac Yupanqui.
A Mayta Capac successe il figlio Capac Yupanqui che, appena preso il potere, for
mò un nuovo esercito e partì di nuovo alla volta del Collasuyo per sottomettere altr
i Collas e altri popoli adiacenti al mare.
Gli Incas, dopo la conquista per mezzo delle armi, sottomettevano le genti mostr
ando loro la saggezza delle regole di vita e di governo dei figli del Sole, ma l
asciando, nello stesso tempo, intatte le forme organizzative locali.
Essi ordinavano anche il trasferimento di intere famiglie nelle terre conquistat
e con lo scopo di organizzare l'economia.
I tributi al sovrano si pagavano con tessuti, lana e cereali che servivano per a
pprovvigionare la truppa.
All'Inca si offrivano volontariamente metalli e pietre preziose: queste offerte
servivano per arricchire i templi, la casa reale, la corte e le altre residenze
reali costruite in tutto l'Impero.
I muri del Tempio del Sole erano ricoperti di lamine d'oro, come pure la stanza
della luna, delle stelle, del fulmine, eccetera.
Queste ricchezze erano talmente grandi che possiamo dire che la realtà superava la
fantasia.
Possiamo anche capire come fu possibile agli Spagnoli, durante la conquista, rie
mpire intere stanze di oro e di pietre preziose.

Inca Roca.
A Capac Yupanqui successe Inca Roca, legittimo primogenito, il quale conquistò le
popolazioni dei Chanca e Hancohuallu, che sacrificavano creature al loro Dio pre
diletto, lo spirito del male.
L'Inca vietò i sacrifici umani e dopo aver insediato il suo governo ritornò a Cuzco
dove immediatamente fece preparare un esercito di quindicimila uomini per suo fi
glio Yaguar Huacac che conquisterà negli anni seguenti la provincia di Antisuyo.
In questo tempo il regno si estese alle provincie di Caraca, Ullaca, Hipi, Chich
a e Ampato, popolate da tante genti valorose che il suo predecessore non aveva t
entato di sottomettere perché avrebbe dovuto sterminarle per vincere la loro tenac
e resistenza.
Con Inca Roca si consolidò definitivamente il culto del Dio Sole a scapito del dio
Viracocha.
Fu cioè il Sole ad essere considerato il creatore di tutte le cose e non più Viracoc
ha, ritenuto "colui che tutto fa" dalla mitologia preincaica e in particolare da
quelle di Tihuanaco.
L'Inca ebbe il figlio primogenito Yaguar Huacac da sua sorella Mama Chiya.

Yahuar Huaca.
Il nome del settimo Inca significa "colui che piange sangue".
Si narra che questo Inca fu rapito da bambino da un curaca nemico del padre e ch
e, quando arrivò il momento di dare esecuzione alla sua morte, il fanciullo pianse
sangue.
Spaventati, i rapitori lo abbandonarono nei pascoli dove fu ritrovato e riconseg
nato al padre.
Da questa leggenda l'origine del nome.
Il sovrano ebbe un figlio che fin da piccolo si dimostrò molto violento.
Decise così di diseredarlo e lo mandò a vivere con i pastori che custodivano il best
iame del sole.
Il principe anche se aveva diciannove anni non poteva disobbedire a quella impos
izione e custodì il bestiame per tre anni.
Un giorno che il pastore regale riposava all'ombra delle rocce, gli si presentò un
fantasma dalla lunga barba, vestito con abiti lunghi, che portava un animale sc
onosciuto legato al il collo.
Il fantasma disse al pastore: "Nipote, io sono figlio del sole, fratello dell'In
ca Manco Capac e di Colla Mama Ocllo Huacac, sua moglie e sorella, perciò sono fra
tello di tuo padre e di tutti voi, mi chiamo Viracocha Inca, vengo da parte del
sole, nostro padre, per darti una notizia che dovrai trasmettere a mio fratello:
la maggior parte delle provincie di Chinchasuyo e tante altre, non sottomesse a
l suo Impero, si sono ribellate e stanno raccogliendo migliaia di uomini per for
mare un poderoso esercito che lo caccerà dal suo trono".

Viracocha.
Il principe si presentò con questo messaggio dinnanzi alla corte e a suo padre che
non lo ascoltò e maltrattandolo gli ordinò di tornare in esilio.
Gli avvenimenti non tardarono a confermare il vaticinio e grandi legioni marciar
ono da nord verso Cuzco.
Yaguar Huacac, allarmato, convocò il suo esercito e scappò verso sud con tutta la fa
miglia.
Allora il principe, che dopo l'apparizione del fantasma fu chiamato Viracocha, r
aggiunse il sovrano nei pressi della gola di Mayna e gli disse: "Inca! Com'è possi
bile che per una azione, giusta o sbagliata che sia, di alcuni sudditi ribelli a
bbandoni la tua corte e volti le spalle a nemici ancora nemmeno apparsi? Come pu
oi lasciare la casa del Sole tuo padre e permettere che i tuoi nemici la calpest
ino con i loro piedi? Cosa diremo alle vergini destinate ad essere le mogli del
Sole? Non permetterò che il disonore macchi la mia vita, perciò preferisco rischiarl
a per impedire al nemico di entrare a Cuzco.
Non voglio vedere la atrocità e i sacrilegi che i barbari commetteranno nella sacr
a città fondata dai figli del Sole.
Coloro che vogliono cambiare una vergognosa vita in morte onorevole mi seguano!"
Detto questo il principe marciò verso Cuzco seguito da molti Incas di sangue rega
le, da gente della sua famiglia e della corte.
Erano diecimila uomini e strada facendo aumentavano attratti dal valoroso compor
tamento di Viracocha.
Avanzando verso il Nord incontrò il nemico che sconfisse in una sanguinosa battagl
ia.
Viracocha dopo quella vittoria, attribuita alla protezione divina, governò il regn
o come ottavo Inca e costruì un palazzo perché suo padre vivesse in pace in compagni
a di vecchi vassalli.
Il giovane sovrano si preoccupò di migliorare alcune leggi, di perfezionare il sis
tema di irrigazione che portava l'acqua dalle montagne ai campi seminati, di div
idere le terre equamente fra i sudditi, lasciando o facendo lavorare, in ogni di
stretto, una gran fascia di terreno per il mantenimento delle vedove, dei mendic
anti e dei soldati.
L'Inca Viracocha, dopo aver fatto queste e tante altre imprese notevoli, edificò u
n grande tempio in memoria del dio che lo aveva ispirato dentro al quale collocò u
na statua di pietra che lo raffigurava.
Le imponenti rovine del tempio di Viracocha sono ancora oggi ben visibili.
Pachacutec.
Da Viracocha e Mama Runtu (chiamata "uovo" per essere di carnagione bianca) nacq
ue Pachacutec o Titu Manco Capac.
Pachacutec significa: "Colui che trasforma la terra." Fu considerato grande filo
sofo e profondo pensatore.
Dettò massime che rivelano il grado di cultura e civilizzazione a cui erano arriva
te quelle società: - Il Re non ha potere finché i suoi sudditi non gli obbediscano c
on buona volontà.
- L'ubriachezza, l'ira e la pazzia non si differenziano molto tra loro tranne ch
e le prime due sono volontarie e mutevoli, mentre la terza è permanente.
- Colui che invidia un altro danneggia solo se stesso.
- L'uomo nobile e animoso si riconosce perché è paziente nelle avversità.
- E' meglio che gli altri ti invidino per la tua bontà, piuttosto che essere tu ad
invidiare gli altri per la cattiveria.
- Colui che uccide un altro condanna se stesso.
- Gli adulteri che danneggiano la fama e le qualità altrui, devono essere dichiara
ti ladri e pertanto impiccati come tali.- Quando i sudditi fanno ciò che possono,
il sovrano deve concedere loro clemenza e libertà.
- I giudici che ricevono denaro dai querelati, devono essere considerati ladri e
meritano d'essere impiccati.
- L'indio che non sa governare in casa sua, non saprà governare il suo popolo.
- Il medico che non conosce le virtù buone e cattive delle erbe con le quali cura,
non merita il nome che pretende.
- Colui che vuole contare le stelle e non sa contare i Quipus è degno di essere be
ffato.
Pachacutec fece costruire a Cuzco il Coricancha, il famoso tempio del dio Sole,
di cui si possono ammirare il resti imponenti.
Questo Re, una volta al governo, continuò l'opera di suo padre, edificò nuove scuole
e conquistò nuove terre.

Tupac Yupanqui.
Gli successe il figlio Tupac Yupanqui, decimo Inca, appassionato cacciatore.
Sottomise dapprima gli Huancas, poi organizzò un esercito di trentamila uomini che
diresse a Sud, dove sottomise i Chirihuanas e conquistò il Cile, attraversando de
serti e alte montagne.
Aspri combattimenti avvennero nel paese degli Araucos e furono necessari rinforz
i (diecimila uomini) per arrivare ai margini del fiume Maule, dove fu posta la p
ietra miliare che indicava il limite Sud dell'Impero.
L'esercito ritornò in seguito a Cuzco dove fu ricevuto con festeggiamenti per cele
brare le nuove conquiste; fra queste deve anche contarsi la resa volontaria dei
Tucma (Tucumán).
Tupac Yupanqui organizzò anche una leggendaria spedizione marittima nel corso dell
a quale scoprì le isole Galapagos e si narra arrivò anche in Oceania.
Durante il suo regno furono realizzate grandi opere.
La più imponente è la fortezza di Sacsahuaman le cui mura hanno meravigliato il mond
o per le grandi pietre usate per costruirla.
Gli architetti che diressero i lavori di questa costruzione furono scelti fra qu
elli della casa reale.
Oltre a tutte le ricchezze che arredavano i tre palazzi, si racconta che gli imm
ensi giardini erano ornati con numerosi animali in argento e oro di tutte le spe
cie conosciute.
Anche Tupac Yupanqui, come i suoi predecessori, acquisì nuove terre e sottomise gl
i Huacrachucros, i Chachapuyas e i Mayapampas.
Per le sue conquiste merita di essere chiamato l'Alessandro del Nuovo Mondo.

Huayna Capac.
Huayna Capac ("giovane ricco") successe a questo Re; fu grande conquistatore e m
agnanimo sovrano.
L'undicesimo Inca, valoroso come i suoi predecessori, riuscì ad estendere i confin
i dell'Impero e a civilizzare le nazioni barbare che vivevano ai confini.
Si diresse verso il nord con un formidabile esercito e sottomise molte provincie
e regni fra cui quello di Quito la cui conquista era stata iniziata da Tupac Yu
panqui.
Huayna Capac si sposò con sua sorella maggiore, dalla quale non ebbe figli, cosa c
he allarmò la Corte poiché si aspettava da lui un erede consanguineo.
Quando il re dopo cinque anni conquistò Quito, si innamorò per la sua bellezza della
figlia del sovrano che sposò.
Di ritorno a Cuzco con il suo esercito per rendere conto a suo padre delle nuove
conquiste, si sposò con la seconda sorella Rava Ocllo.
Da lei nacque Huascar, intanto che la principessa di Quito dava alla luce Atahua
lpa.
Così nacquero questi due futuri sovrani che causarono la divisione e la rovina del
poderoso Impero dei figli del Sole.

Huascar e Atahualpa gli ultimi due Inca.


Huayna Capac amava moltissimo suo figlio Atahualpa e la madre, principessa di Qu
ito, che rimase in quella città come regina e sovrana.
Huascar cresceva nella corte ed era l'erede del trono di Cuzco, ma non aveva l'a
ffetto di suo padre, che divise l'Impero dando il Nord a Atahualpa e il Sud a Hu
ascar.
Era tutto in ordine quando Huayna Capac morì a Quito, ma l'ambizione dei due frate
lli e il loro desiderio di nuove conquiste fu motivo di discordia: Huascar prete
ndeva di essere il solo imperatore.
Atahualpa apparentemente acconsentì alle richieste di Huascar, ma nello stesso tem
po prese le armi contro di lui, dichiarandogli guerra a Cuzco.
Dopo una cruenta battaglia lo imprigionò (Huascar, sorpreso, non aveva avuto il te
mpo di preparare il suo esercito).
La prima formidabile battaglia fu combattuta presso la città imperiale e molti mem
bri della famiglia reale furono uccisi dagli invasori che si proposero di non la
sciare in vita nessun Inca della famiglia di Cuzco.
Quando arrivarono le navi dei conquistatori spagnoli il governo e la situazione
erano in condizioni talmente disastrose che l'attenzione di Atahualpa dovette di
vidersi fra la custodia del prigioniero e l'invasione degli spagnoli.
L'apparizione di questi, vestiti con armature di ferro, ornati di fucile, a cava
llo e con lunghe barbe, fece credere agli Incas di essere in presenza di semi-de
i o di fantasmi.
Per questa ragione gli spagnoli furono chiamati Viracochas e furono ossequiati e
obbediti senza resistenza.
Gli avvenimenti precipitarono e la fine degli Incas fu inevitabile: Huascar fu
ucciso in prigione dai cortigiani nemici e Atahualpa fu ucciso dai conquistatori
.
Così finì storicamente l'Impero, ma la cultura, la tradizione, le ricchezze (che non
furono mai interamente scoperte) continuano a esistere nelle Ande con il popolo
Quechua, che ancora abita le terre che occupava prima dell'arrivo degli spagnol
i.

NOTE.
NOTA 1: Gli stranieri "venuti dal mare" sono gli Spagnoli.
La leggenda rispecchia le ultime tragiche vicende dell'impero Inca, con la guerr
a che sconvolse i regni dei due fratelli Huascàr e Atahualpa, favorendo la penetra
zione degli invasori spagnoli.
Quilaco e Curicoillur sono due "collaborazionisti" ante litteram: Curicoillur gi
oca, nella vicenda, un ruolo fondamentale.
NOTA 2: Ancora una volta, appaiono gli Spagnoli.
NOTA 3: Sono, naturalmente, gli Spagnoli.

SE FOSSI INDIO.
PREFAZIONE.
Questa documentazione sulle leggende degli ultimi Indios è nata dalla incontenibil
e voglia di raccontare, se non tutto, almeno in parte, alcuni aspetti di questa
straordinaria vicenda che mi vede vivere con loro e tra loro, nel cuore della fo
resta amazzonica, per lunghi periodi di tempo.
Non è stato facile trattare questo argomento, perché sono un medico e non un antropo
logo, figura questa ben più qualificata per una trattazione del genere.
E' per questo che mi scuso con i lettori più esigenti per le inevitabili omissioni
e imperfezioni che emergeranno lungo la trattazione.
Ma la maggiore difficoltà nel selezionare i miti è derivata dal fatto che, essendo g
li Indios dei popoli senza scrittura, il testo di quasi tutte le leggende è tremen
damente ripetitivo, per far sì che il bambino possa imprimere nella memoria i part
icolari di ogni vicenda e passarli a sua volta ai propri figli e questi alle gen
erazioni successive.
Ne risulta purtroppo un testo esageratamente esteso che rischia di annoiare quei
lettori che, appartenendo ai popoli con la scrittura, non sono avvezzi a ripeti
zioni eccessive dello stesso concetto.
Certamente, la tentazione più immediata era quella di fare una sintesi del mito, a
dattando, cioè, il racconto, alla mentalità dell'uomo bianco, senza però alterare il t
essuto narrativo della leggenda.
Tuttavia non ho avuto il coraggio di fare tagli così impegnativi e rimaneggianti d
i testi millenari.
Mi è sembrato più sensato continuare a scavare in modo più meticoloso tra le memorie d
i oltre 140 tribù per approdare a leggende più brevi o di più immediata comprensione,
così che, alla fine, dopo molti mesi, ne ho selezionate diciassette.
Ma le difficoltà non erano certo finite qui: in che ordine metterle? Dividerle per
tribù o dare loro un susseguirsi secondo un filo conduttore? Questa seconda ipote
si mi è sembrata la migliore; così, esaminando, i titoli delle leggende, mi è parsa bu
ona idea partire dai quattro elementi, cioè la terra ("E l'indio venne sulla terra
"), l'aria (Perché il cielo è lassù?"), l'acqua ( "E venne la pioggia" ) e il fuoco (
"La conquista del fuoco"), per poi proseguire via via nella scala degli esseri v
iventi fino al regno vegetale e animale, in una successione che introducesse il
lettore alla spiritualità dell'Indio.
Ma questa sequenza di leggende non doveva essere totalmente staccata dalla realtà
così tragica che vivono oggi gli uomini della foresta.
Mi è sembrato così importante e necessario chiudere con i racconti di "Yara" e "Il G
rande Spirito creò l'uomo", per introdurre la cattiveria e il cinismo dell'uomo bi
anco, dissolvendo così la dimensione magicoonirica e riportare la mente alla trage
dia dell'estinzione degli Indios dell'Amazzonia.
L'autore.
L'autore ha concesso gratuitamente i testi qui riportati.
"...
E L'INDIO VENNE SULLA TERRA (Leggenda Kayapò)".
Anticamente gli Indios abitavano nel Cielo e nessuno di essi conosceva la Terra.
Un giorno, un cacciatore si imbatté in un armadillo e cominciò a inseguirlo, avvicin
andosi sempre più alla preda.
Vistosi quasi raggiunto, l'animale cercò di guadagnare la tana e, riuscitovi, vi s
i infilò fino a raggiungere il fondo.
L'Indio non si perse d'animo e cominciò a scavare con decisione.
Scavò giorno e notte finché non riuscì ad agguantare l'armadillo; ma proprio mentre st
ava per cantar vittoria, il fondo del cunicolo si aprì e solo per miracolo l'Indio
riuscì ad aggrapparsi con tutte le sue forze al ciglio della voragine che si era
aperta sotto di lui.
Così rimase a dondolare nel vuoto per qualche tempo, paralizzato dalla paura prima
, sbalordito dalla visione sottostante subito dopo.
Ai suoi occhi meravigliati si presentò uno spettacolo di indescrivibile bellezza:
uno sconfinato arcobaleno, fatto di tante sfumature di verde, di cui non si rius
civa a vedere né l'inizio, né la fine.
Allora, riavutosi dalla sorpresa, corse subito a chiamare i compagni che lo segu
irono incuriositi e restarono attoniti a osservare sul bordo della voragine.
Dall'arcobaleno verde si sprigionava un calore che giungeva fino a loro impregna
to di mille odori nuovi, mentre l'aria era attraversata dal canto di una miriade
di uccelli che continuavano a richiamarsi l'un l'altro da ogni angolo di questo
sconfinato verde, mentre le farfalle svolazzavano tranquillamente posandosi sui
fiori colorati.
Capirono allora che l'arcobaleno era la grande foresta.
I fiumi chiari si alternavano a quelli scuri: quando le loro acque si mescolavan
o, il colore acquistava sfumature di incomparabile bellezza.
I pesci erano così numerosi da non trovare quasi posto in acqua, così che ogni tanto
si vedevano saltare qua e là.
Gli alberi erano ricurvi, malgrado non soffiasse alito di vento: capirono che a
curvare i rami era il peso della frutta profumata, raccoltasi in modo abbondante
.
Pensarono che, se tanta era la frutta, altrettanto ricca doveva essere la selvag
gina.
Gli Indios si guardarono tra loro sbigottiti e, senza esitare, si mostrarono sub
ito desiderosi di dare maggiore serenità al loro futuro.
Decisero così di lasciare la loro dimora il Cielo, per scendere e abitare sulla Te
rra: ma come fare? Il Consiglio degli anziani si riunì e decise di fare una fune,
unendo tra loro tutti i bracciali e le collane della tribù: ne risultò un filo robus
to che, con l'aiuto di tutti arrivò a una lunghezza sufficiente per raggiungere la
Terra.
Fu così che pian piano gli Indios cominciarono a scendere, aggrappati alla fune.
La maggior parte raggiunse la Terra e si sparpagliò nella foresta per popolarla.
Qualcuno, invece, non convinto della visione e, presagendo che la vita su questa
Terra non sarebbe stata così bella come appariva decise di restare lassù.
Quando quasi tutti i guerrieri furono scesi sul pianeta, un bambino dispettoso p
assò vicino alla fune e, con un coltellino, tagliò il filo, di modo che a nessuno fu
più possibile scendere sulla terra.
Così, nel cielo rimasero alcuni Indios e i loro fuochi si notano ancora oggi nella
notte: sono le stelle...
PERCHE' IL CIELO E' LASSU'? (Leggenda Bakairì).
Un tempo gli Indios abitavano non solo sulla terra, ma anche nel cielo.
Solo che il cielo non era in alto come è oggi, ma accanto alla terra; erano così vic
ini l'un l'altro, che ogni Indio era libero di spostarsi da una parte all'altra
senza alcun impedimento.
Ma venne un tempo in cui gli Indios che vivevano nella zona del cielo, cominciar
ono ad ammalarsi di una tremenda malattia che si diffuse in modo micidiale, semi
nando la morte in tutta la regione.
I pochi che riuscirono a sopravvivere, per salvarsi, attraversarono il confine e
si stabilirono sulla terra.
Il cielo, ormai senza Indios, diventò leggero leggero e, piano piano, cominciò a sol
levarsi e a salire sempre più su, più su, fino a raggiungere l'alto, dove ora lo ved
iamo...

...
E VENNE LA PIOGGIA. (Leggenda Kaxinawà).
Un tempo gli Indios non conoscevano la pioggia perché nel cielo c'era un grande la
go che aveva sul fondo un foro costantemente tappato dalla zampa di un enorme uc
cello pescatore.
Ma un giorno, un guerriero gettò verso l'uccello un pesce dorato e, subito, il vol
atile si avventò sulla preda, spostandosi dal foro: fu così che sulla terra cadde la
prima pioggia scrosciante.
Così, il fulmine che fende il cielo, prima della pioggia, è il pesce dorato lanciato
dall'Indio, mentre il piovigginare che precede la grande pioggia è causato dall'a
gitarsi dell'uccello pescatore, che, nell'attesa di ricevere il pesce dorato, si
sporge qua e là equilibrandosi su una zampa sola.

LA CONQUISTA DEL FUOCO. (Leggenda Parintintin).


Un tempo la terra era di tutti e così pure l'acqua, il sole e le piante della fore
sta.
Ma il fuoco, no.
Il fuoco apparteneva agli avvoltoi che lo usavano solo per loro, tenendolo al ri
parto sotto le ali perché non si spegnesse.
Così gli Indios erano costretti a mangiare il cibo crudo e durante la notte soffri
vano il freddo.
Ma un giorno Baira, il guerriero più valoroso della tribù, stanco di questa situazio
ne, decise di conquistare il fuoco, per aiutare la sua gente.
Pensò e ripensò a lungo, finché non ebbe un'idea ingegnosa.
Entrò nella foresta e si coprì interamente di foglie e di termiti: poi si sdraiò per t
erra, immobile, fingendosi morto.
Dopo un po' di tempo arrivò la mosca azzurra, che, tratta in inganno, volò subito in
cielo, ronzando allegramente per la bella notizia che stava per dare agli avvol
toi.
Questi non se lo fecero ripetere due volte e, in pochi istanti, dal cielo, piomb
arono sulla terra, portando con loro il fuoco sotto le ali, per cuocere Baira e
fare un lauto banchetto.
Quando essi giunsero sul posto indicato dalla mosca azzurra, attorniarono Baira,
che continuava a restare immobile e a fingersi morto.
Anche gli avvoltoi furono tratti in inganno e, così, cominciarono i preparativi pe
r cucinare: uno di questi preparò una griglia e, con fare molto guardingo, vi pose
sotto alcune scintille con dei fili di paglia.
Subito dopo iniziò a soffiare delicatamente, finché aggiungendo altri pezzetti di le
gno, si formò un bel fuoco.
Poi chiamò i suoi piccoli e disse loro di vigilare sulle fiamme, mentre si allonta
nava con gli altri avvoltoi per fare un giro di controllo.
Appena furono volati via, i piccoli iniziarono a guardarsi intorno, distratti da
l cinguettio degli altri uccelli: lesto come un fulmine, Baira afferrò il fuoco e
scappò via.
Ma gli avvoltoi lo videro dall'alto e, passato l'attimo di sorpresa, puntarono t
utti sul fuggitivo per cercare di catturarlo.
Baira si inoltrò fulmineo in un punto in cui la vegetazione era così intricata da no
n lasciar passare neppure un raggio di sole.
Per fortuna il fuoco stesso gli faceva luce, facilitandogli il cammino.
Gli avvoltoi, sconfitti, fecero ritorno al cielo, mentre il giovane Indio, dopo
avere vagato a lungo, vide di nuovo i raggi del sole passare tra le foglie e uscì
allo scoperto.
Appena fuori, si ritrovò sulla sponda di un fiume grandissimo, mentre, dall'altra
parte scorse tutta la sua tribù che lo chiamava a gran voce e lo attendeva per fes
teggiarlo.
Ma non era facile attraversare il fiume senza che il fuoco si spegnesse...
Baira chiamò allora un gambero e gli pose il fuoco sulla schiena, pregandolo di po
rtarlo alla sua tribù.
L'eroico gambero cominciò ad avanzare sull'acqua, malgrado il calore che lo tormen
tava: ma giunto a metà percorso, dovette rinunciare e fece appena in tempo a ripor
tare il prezioso carico a riva mentre il suo corpo era diventato tutto rosso per
la scottatura e così è ancora oggi.
Il coraggioso guerriero non si perse d'animo e chiamò il granchio: gli pose sulla
schiena il fuoco e questi si mise in viaggio cercando di attraversare il fiume.
Ma, ahimè, il risultato fu lo stesso.
Il granchio arrivò appena a metà, ritornandosene poi, mezzo arrostito, indietro.
Baira pensò di rivolgersi ad un uccello tutto colorato che si era avvicinato incur
iosito.
Questi acconsentì e, caricato il fuoco sulla coda, spiccò il volo, lasciando nell'ar
ia una cortina di fumo.
Ma presto dovette rinunciare: le piume della coda stavano per prendere fuoco e c
osì ritornò tutto trafelato e mezzo affumicato al punto di partenza.
Baira aveva ormai perso ogni speranza, quando, ad un tratto, gli si fece incontr
o un ranocchio salterello che aveva visto tutta la scena e si offrì di portare il
fuoco dall'altra parte.
Così, col prezioso carico sulla schiena, cominciò a fare grandi salti sull'acqua e,
in men che non si dica arrivò sulla sponda opposta, accolto dagli Indios con grida
di entusiasmo.
Consegnò il fuoco alla tribù e, come per incanto, fu trasformato in un mago.
Ora toccava a Baira attraversare il fiume.
Egli era stanco e sapeva che non era cosa facile.
Ma il mago guardò il fiume e di colpo lo trasformò in torrente, così che Baira poté attr
aversarlo senza pericolo, mentre la tribù acclamava il giovane guerriero.
Fu così che gli Indios ebbero il fuoco.
Da quel momento poterono cuocere la carne e il pesce, riscaldare la capanna, ill
uminare le tenebre e tenere lontani gli animali feroci, lasciandolo acceso, di n
otte, attorno al villaggio.
L'ORIGINE DELLA NOTTE. (Leggenda Kayapò).
Tanto tempo fa il giorno era fatto solo di luce e gli Indios non sapevano cosa f
osse l'oscurità.
Questo rendeva la loro vita difficile perché la luce del sole era abbagliante e, a
ttraversando le palpebre chiuse di chi si addormentava, rendeva il sonno diffici
le e inquieto.
Fu così che gli Indios, stanchi di questo continuo disturbo, mandarono due guerrie
ri con l'incarico di cercare l'oscurità e portarla al villaggio.
I due vagarono giorni e giorni nella foresta e lungo i fiumi, finché un giorno si
imbatterono in "Cobra Grande", il dominatore delle tenebre, che erano custodite
gelosamente nella sua dimora.
I due raccontarono al padrone della notte come, a causa della luce ininterrotta,
fosse così difficile e tormentato il sonno di tutta la tribù e gli chiesero aiuto:
Cobra Grande si commosse e diede loro una zucca ripiena di buio, avvertendoli pe
rò di non aprirla assolutamente prima del loro arrivo al villaggio.
La zucca doveva essere aperta di fronte all'intera tribù.
I due Indios promisero di rispettare il suo volere e ripresero felici la via del
ritorno col prezioso dono.
Ma, cammin facendo, la curiosità da un lato e il desiderio di volere la notte solo
per sé dall'altro, fecero sì che si fermassero in mezzo alla foresta per aprire la
zucca e vedere com'era fatta l'oscurità.
Ma appena ruppero la zucca, la notte si sprigionò in un baleno e il cielo si oscurò
immediatamente: insieme alla notte fuoriuscì uno scorpione e, dietro di lui, tutti
i pericoli dell'universo, che tanto difficile rendono oggi la vita dell'Indio.
E per questo che il morso dello scorpione è considerato ancora oggi come una giust
a punizione per colui che è prigioniero del proprio egoismo.
I due Indios, infine, furono trasformati in scimmie, per avere disubbidito alle
raccomandazioni di Cobra Grande.

COME NACQUE LA LUNA. (Leggenda Tupì).


C'era una volta un guerriero che ardeva d'amore per una misteriosa fanciulla Ind
ia che appariva solo di notte, in riva al fiume.
Ogni notte era così: la misteriosa donna sbucava dalla foresta all'improvviso e, i
n modo aggraziato, si adagiava sulla sponda del fiume aspettando il suo innamora
to.
Il giovane ardeva d'amore, ma era molto triste e inquieto perché ogni volta, alle
prime luci dell'alba, nel silenzio, la ragazza si dileguava e così era impossibile
sapere chi fosse e riconoscerla, quindi, di giorno, tra le donne del villaggio.
Fu così che l'Indio escogitò uno stratagemma: una notte, incontratosi di nuovo con l
a fanciulla, le accarezzò la fronte con le mani intinte di jenipapo, un inchiostro
vegetale nero, convinto così che il giorno dopo l'avrebbe riconosciuta.
Così alle prime luci del sole, il giovane guerriero si nascose dietro a un cespugl
io e cominciò, con grande batticuore a osservare ad una ad una le donne che, dopo
essersi bagnate nel fiume facevano ritorno al villaggio.
Ad un tratto, ecco le ragazze prendersi gioco e schernire una loro giovane compa
gna che aveva delle strane macchie scure sulla fronte...
Al colmo della curiosità, il guerriero la guardò e, quale non fu la sua sorpresa, qu
ando si accorse che la fanciulla, così tanto amata era la... sorella minore! Distr
utto dal dolore, il giovane si fece incontro alla sorella e la informò dell'orribi
le situazione.
La notizia trafisse il cuore della donna, che, per la disperazione, decise di fu
ggire in cielo.
Fu così che si impossessò di un arco e di una faretra piena di frecce: lo brandì con d
ecisione e dopo averlo teso con tutte le sue forze, scagliò il primo dardo verso l
'alto.
La freccia si fissò così alla volta celeste mentre le altre si conficcarono l'una di
etro l'altra, così che, pian piano, si formò una specie di liana che collegava il ci
elo con la terra.
Fu un attimo: la giovane, in preda alla disperazione, si avventò sul filo, cominciò
ad arrampicarsi agilmente e, arrivata in cima, si fissò tra le stelle.
Ancora oggi vive sospesa alla volta celeste e si chiama Luna.

LA COLLERA DEL SOLE. (Leggenda Kayapò).


Un tempo, "Sole" e "Luna" erano due giovani Indios che partecipavano insieme agl
i altri alla vita del villaggio, dove tutto ciò che si pescava e si cacciava veniv
a diviso in parti uguali e distribuito a tutta la tribù senza alcun favoritismo.
Sole, però, aveva un carattere turbolento e focoso, mentre Luna era un Indio più mit
e e remissivo.
Un giorno Sole e Luna andarono insieme a caccia e ritornarono, tempo dopo, caric
hi di selvaggina.
Al momento di dividerla, però, Sole tentò di accaparrarsene di più: Luna se ne accorse
e glielo fece notare in modo discreto, ma deciso.
Per tutta risposta, Sole rovesciò addosso a Luna una pentola di acqua e cibo che b
ollivano sul fuoco vicino e fu così che Luna, col corpo martoriato dalle ustioni,
fuggì in cielo.
Ma Sole per niente soddisfatto delle ferite provocate e, ancora furibondo, comin
ciò a inseguire in modo spasmodico Luna, che ad ogni suo apparire, si dileguava, c
osì che Sole non riuscì mai a raggiungere Luna.
Sole al colmo della rabbia, non sapendo come scaricare la sua collera, decise di
vendicarsi sui compagni rimasti nel villaggio riversando su di essi un calore i
nsopportabile.
Ma i compagni non erano miti come Luna e reagirono da valorosi guerrieri, tenend
o l'arco e scagliando contro Sole tutte le loro frecce.
Queste si trasformarono in quei raggi solari che si vedono quando il Sole si nas
conde dietro un albero.
Le macchie lunari sono invece le cicatrici che restano dopo le tremende ustioni
provocate sul corpo della Luna dall'ira del Sole.

LA LEGGENDA DEL MUIRAQUITA. (Leggenda india diffusa in tutta l'Amazzonia).


Anticamente, in una regione sperduta della foresta, esisteva una tribù di valorosi
guerrieri che aveva una particolarità: era composta solamente da donne, conosciut
e in tutta la regione col nome di Amazzoni.
Il solo pronunciare questo nome, faceva impallidire chiunque, tanto erano famose
per il loro coraggio.
Nessun uomo neanche se bambino poteva, secondo la loro legge, stare nel villaggi
o.
Solo una volta all'anno, quando giungeva il tempo di festeggiare la Luna, le Ama
zzoni invitavano gli uomini della vicina tribù Uaboi a stare per quel breve period
o con loro, per accoppiarsi, in modo da evitare la estinzione del gruppo.
Durante questo breve spazio di tempo ogni Amazzone conviveva con un Indio Uaboi,
ma, finita la festa della Luna, la regola obbligava l'uomo a ritornarsene nel s
uo villaggio, mentre le Amazzoni si ritrovavano ancora tra loro.
Era questo il motivo per cui ogni Amazzone doveva evitare qualsiasi innamorament
o con il temporaneo compagno.
Naturalmente, molte di loro, durante il periodo dell'accoppiamento, restavano gr
avide: passati nove mesi, quando giungeva il momento del parto, se il neonato er
a di sesso femminile, restava nel gruppo, dove sarebbe diventato una Amazzone; s
e, invece, era di sesso maschile, veniva allontanato dal villaggio secondo la le
gge e consegnato alla tribù degli Uaboi.
Venne una notte, in cui, terminato quasi il periodo di questi festeggiamenti all
a Luna, una giovane e bella Amazzone, innamorata del suo Indio Uaboi, in preda a
lla tristezza, si recò in riva al fiume per piangere a calde lacrime per l'inevita
bile distacco dal suo amato Indio.
Pianse a lungo e in silenzio, per non essere sorpresa dalle compagne.
Ad un tratto notò che le sue lacrime scivolavano nelle acque e, giunte a contatto
col fango sottostante, si trasformavano d'incanto in tante pietre verdi a forma
di piccole rane.
Stupita per l'incantesimo afferrò una di queste pietre e la tirò fuori dall'acqua pe
r vederne meglio la forma.
Al contatto con l'aria, la rana di pietra diventò ancora più verde.
Era il "Muiraquita".
Il giorno dopo, giunto il momento dell'addio, la giovane Amazzone diede al suo c
ompagno il Muiraquita, ricordandogli che non era solo un dono: si trattava di un
amuleto che l'avrebbe protetto da tutti i pericoli e dalle malattie.
Fu così che il loro addio diede origine all'amuleto più straordinario e famoso di tu
tta l'Amazzonia.
COME NACQUE LA NINFEA. (Leggenda Tupí).
C'era una volta Marai, una bella e giovane India che era così affascinata dalla L
una, da desiderare ardentemente di diventare una stella per potere accarezzarla
e starle vicino.
Ogni volta che il Sole scompariva all'orizzonte e il cielo diventava blu e trapu
ntato di Stelle, la giovane usciva dal villaggio e si appartava silenziosamente
osservando per ore e ore la bellezza di Jacy, la Luna.
Così col passare del tempo il suo desiderio diveniva sempre più
grande, finché un giorno arrivò al punto di chiedere agli spiriti di essere trasform
ata in una Stella splendente.
Tutto fu inutile: l'incantesimo non si realizzò, ma la giovane non si perse d'anim
o.
Una notte in cui Jacy risplendeva più del solito nel mezzo della volta celeste, Ma
rai si spinse nella palude e, salita su una canoa si diresse verso il punto in c
ui questa si rifletteva sull'acqua.
Si sporse oltre il bordo per accarezzare con le dita il disco luminoso così stupen
damente proiettato sull'acqua e, finalmente, vi riuscì.
Ma l'agitazione fu tale che perse l'equilibrio e cadde in acqua.
In un attimo, la tragedia: la giovane non sapeva nuotare e, in pochi istanti, fu
inghiottita dalle acque stagnanti della palude.
Jacy, dal cielo, osservò la drammatica scena e rimase molto turbata dalla disgrazi
a che aveva provocato la morte della giovane.
Fu così che pensò di trasformarla in un fantastico fiore a forma di stella che appar
e ancora oggi nella palude, sempre vicino a grandi foglie rotonde e galleggianti
, che, di notte, ospitano sul loro letto il riflesso intero della Luna.

COME NACQUERO I PESCI. (Leggenda Kayapò).


Una volta le acque dei fiumi erano prive di pesci e gli Indios, per sopravvivere
, andavano a caccia degli animali della foresta, la cui carne, insieme a radici
selvatiche, bacche e frutta, aiutava a vincere i morsi della fame.
Venne un tempo in cui in un villaggio crebbe un Indio bellissimo, dal corpo musc
oloso e dall'aspetto così fiero che tutte le donne della tribù si innamorarono di lu
i.
Gli uomini si accorsero di questo e, in preda alla gelosia, pensarono di elimina
rlo.
Fu così che andarono da un malefico stregone, esperto in incantesimi, che, persuas
o dalle loro lamentele, invocò gli spiriti maligni perché il giovane fosse tramutato
in un animale.
In men che non si dica, l'incantesimo si avverò e il bellissimo Indio fu trasforma
to in un tapiro.
Ma quegli uomini non erano ancora soddisfatti: cominciarono a inseguire il pover
o animale, scagliandogli contro lance e frecce.
Il tapiro, ferito, rallentò la sua corsa e, raggiunto dagli Indios, fu ucciso a co
lpi di clava e trasportato al villaggio, dove le donne, ignare, accolsero il lor
o ritorno, ricco di selvaggina, con acclamazioni di gioia, secondo la consuetudi
ne.
Spartita la cacciagione, le donne la cucinarono e la mangiarono, assolutamente a
ll'oscuro di quel che era successo.
Solo alcuni giorni dopo, quando non videro più aggirarsi tra le capanne del villag
gio il bel giovane, capirono che doveva essergli successo qualcosa di grave.
Così, gli uomini, beffardamente, raccontarono loro la verità.
La prima reazione delle donne fu quella di vomitare le carni: poi, da quel momen
to, si chiusero per giorni e giorni in un silenzio che non prometteva niente di
buono.
Pochi giorni dopo, gli uomini si prepararono di nuovo per andare a caccia, ma, p
er nulla tranquilli di quello strano mutismo delle loro donne, chiesero agli anz
iani che restavano nel villaggio, di sorvegliarle, mentre confezionavano utensil
i e ornamenti.
Appena gli Indios scomparvero nel fitto della foresta, le donne, apparentemente
tranquille, cominciarono a dipingersi l'un l'altra di rosso e di nero, usando i
tradizionali coloranti vegetali e decorando per intero il corpo con i disegni ca
ratteristici di quella tribù.
Fu così che i vecchi, ben presto diminuirono la loro attenzione e, approfittando d
i ciò, le donne si disposero in fila e iniziarono dei piccoli passi di danza, port
andosi pian piano tutte insieme, alla riva del fiume.
Quando gli anziani capirono che stava per succedere il peggio, era ormai troppo
tardi: le donne, buttatesi in acqua furono trasformate di colpo in pesci di tutt
i i tipi, le cui squame riproducevano i disegni di cui il loro corpo era, prima,
interamente dipinto.
I vecchi, disperati per la loro disattenzione, si tuffarono anch'essi in acqua,
cercando di afferrare quelle che ancora non avevano subito l'incantesimo e tirar
le a riva, ma furono trasformati all'istante in pesci elettrici e in razze costi
tuendo da quel momento un costante pericolo per chi si immerge nei fiumi.
Il pesce elettrico, infatti è capace di emettere delle scariche che possono uccide
re un uomo, mentre la razza è provvista di un aculeo che, entrato nella pelle del
malcapitato che la sfiora, provoca dolori lancinanti per giorni e giorni.
Quando gli Indios tornarono dalla caccia, non ci furono, stavolta ad accoglierli
, le grida delle loro donne.
C'erano solo i bambini, nel villaggio: questi, tra un singhiozzo e l'altro racco
ntarono l'accaduto.
Quasi increduli, gli uomini si precipitarono verso il fiume, dove videro, per la
prima volta, i pesci che fendevano le acque con le loro squame colorate in modo
estremamente familiare.
Il racconto dei bambini era proprio vero...
Disperato, uno di loro, afferrò una liana e vi fissò all'estremo un frutto in modo d
a ricavarne un'esca rudimentale che fu lanciata in acqua.
In me che non si dica, un pesce abboccò e lui, svelto, lo tirò fuori dall'acqua.
In quel momento il corpo del pesce prese di nuovo le sembianze della donna.
Ma solo per un attimo: con energici movimenti ella si liberò e si rituffò in acqua,
trasformandosi di nuovo in pesce.
Anche gli altri uomini tentarono di afferrare il pesce col disegno corrispondent
e alla loro moglie.
Ma fu tutto inutile: appena era preso il pesce diventava donna, che, divincoland
osi con potenti strattoni, riusciva a liberarsi dalla presa e si immergeva nelle
limpide acque del fiume, ridiventando di nuovo pesce.
In preda alla disperazione e consapevoli della maledizione che incombeva su di l
oro, gli Indios si dispersero nel folto della vegetazione, dove un incantesimo l
i trasformò in pappagalli, farfalle, scimmie e altri animali che popolano oggi la
foresta.

IL CANTO DELL'UIRAPURU'. (Leggenda india diffusa in tutta l'area Amazzonica).


C'era una volta un capo Indio che aveva una moglie bellissima, la quale destava
l'ammirazione di tutti gli uomini del villaggio.
Questo suscitò in lui una gelosia esagerata a tal punto da proibire a qualunque In
dio della tribù di avvicinarsi alla donna amata.
Così tutti gli uomini, pur desiderandola segretamente, si dovettero rassegnare a m
alincuore alla volontà del capo.
Tutti, tranne uno, un giovane e coraggioso guerriero: il suo nome era Uirapurù e,
come gli altri, anzi più degli altri, desiderava quella donna che aveva stregato l
'intera tribù.
Non riusciva a darsi pace per l'impossibilità di andarle vicino e per non poterle
rivolgere parola.
Così, per nulla intenzionato a piegarsi all'ordine del capo, si rivolse al Grande
Spirito, chiedendo un aiuto che alleviasse la sofferenza del suo cuore, così innam
orato, ma impossibilitato ad agire.
E venne presto la risposta dello Spirito, che trasformò Uirapurù in un leggiadro e c
oloratissimo uccellino, di modo che potesse avvicinarsi alla innamorata, senza d
estare i sospetti del marito.
Così, alle prime luci dell'alba, Uirapurù prese il volo ed entrò con decisione nella c
apanna del capo, intonando un canto così dolce che, invece di attirare l'attenzion
e della donna, fece nascere nel marito di lei una tale ammirazione, che questi c
ominciò a rincorrerlo per impossessarsi del prezioso uccellino mai visto prima di
allora.
Uirapurù fuggì nella selva e l'uomo gli corse appresso addentrandosi così velocemente
nel profondo della foresta, che, ben presto senza accorgersene perse l'orientame
nto e si smarrì nella giungla senza più far ritorno al villaggio.
Uirapurù, accortosi di ciò, ritornò indietro e, con molta eccitazione si diresse volan
do verso la capanna della donna dei suoi sogni.
Così, appena varcò la soglia cominciò a intonare il suo canto...
Ma quale non fu la sua sorpresa quando si accorse che la donna restava assolutam
ente indifferente al suo richiamo! Egli non si rassegnò e ne intonò un altro, ancora
più bello...
Ma la donna continuò imperterrita a non dargli retta e fu così che il canto dell'ucc
ellino divenne sempre più triste ed echeggiò in tutta la sua dolcissima malinconia n
el folto della foresta, riducendo al silenzio tutti gli altri uccelli.
Ancora oggi, il minuscolo Uirapurù si aggira nella foresta con i suoi colori smagl
ianti: è possibile udire il suo canto solo una volta all'anno, quando fa il nido.
In quel frangente il suo canto è così cristallino e di tale dolcezza che, si dice, t
utti gli uccelli della foresta ammutoliscano in segno di rispetto e di ammirazio
ne.
I DUE PAPPAGALLI. (Leggenda Apinajé).
C'erano una volta due guerrieri molto amici che vivevano nella stessa capanna.
Il primo si chiamava Sole, mentre l'altro, più giovane si chiamava Luna.
Un giorno Sole andò nella foresta per cacciare, ma, a un tratto, in mezzo alla veg
etazione scorse un nido con due pappagalli così piccoli, che non erano in grado di
volare.
Scelse per sé quello con le piume verdi e brillanti, mentre pensò di donare l'altro
pappagallo a Luna.
Così se ne tornò a casa tutto contento e, insieme al giovane amico, cominciò ad alleva
re i due uccelli.
Sole e Luna insegnarono pian piano ai due pappagalli a parlare, così che, passato
un certo tempo, la capanna era un risuonare continuo di voci e di versi.
Un giorno, appena Sole e Luna furono usciti, uno dei due pappagalli esclamò: "Come
mi dispiace che il nostro padre Sole si stanchi così tanto! Egli passa gran parte
del giorno nella foresta, in mezzo ai pericoli e poi, quando torna esausto dall
a caccia, deve preparare e cucinare la selvaggina...
Dobbiamo fare qualcosa per aiutarlo, in modo che, almeno al suo rientro possa ri
posarsi un poco, invece di continuare a lavorare!".
In quello stesso istante, i due pappagalli si trasformarono in due fanciulle ind
ie: la prima cominciò a preparare e cucinare il cibo, mentre l'altra rimase sull'u
scio a vigilare.
Al tramonto, Sole e Luna, come sempre, erano sulla via del ritorno, quando, ad u
n tratto, Sole udì da lontano un suono ritmato: "Tum, tum, tum...!" Si chinò e appog
giò l'orecchio sulla terraferma per cercare di capire meglio, pensando che fosse u
no spirito della foresta, ma Luna gli fece cenno che il rumore proveniva dalla l
oro capanna.
Man mano che si avvicinavano l'intensità aumentava: sembrava che qualcuno pestasse
del miglio nel mortaio e con molta fretta.
Si avviarono di corsa verso casa, decisi a scoprire di cosa si trattasse, ma, co
n grande sorpresa, oltrepassato l'uscio, trovarono il cibo pronto e i due pappag
alli che, allegramente, facevano: "Cra, cra, cra...!" Rovistarono dappertutto, m
a fu inutile! Luna ad un certo punto pensò ai pappagalli, ma Sole lo zittì, facendog
li notare che essi non hanno le mani.
Fu in quel momento che notarono sulla terra orme umane, ma, incredibile a dirsi,
queste iniziavano e terminavano dentro la capanna, mentre fuori non c'era segno
alcuno.
I due amici mangiarono il cibo che era stato cucinato e lo trovarono molto gusto
so.
Subito dopo andarono a riposarsi.
Il giorno seguente avvenne lo stesso strano fenomeno.
Ancora dei colpi, e, appena entrati, di nuovo il cibo pronto e le orme sul pavim
ento, con i due pappagalli che facevano: "Cra, cra, cra...!".
Così ancora nei giorni successivi, finché Sole e Luna decisero di ricorrere ad uno s
tratagemma.
Una mattina finsero di andare a caccia e, invece, si acquattarono nascosti ai du
e lati della capanna.
Dopo pochi minuti si udirono delle voci e dei sorrisi all'interno, mentre inizia
va il ritmare del mortaio.
In un attimo Sole e Luna irruppero nella capanna e con loro grande meraviglia vi
dero per la prima volta nella loro vita le due fanciulle indie, che, sorprese, s
i erano rifugiate in un angolo e, ora se ne stavano ammutolite e col capo chino.
Sole e Luna non avevano mai visto creature così belle: le due Indie avevano gli oc
chi scuri e a mandorla e i capelli nerissimi, lisci e lunghi, coprivano tutto il
dorso.
Sole si rivolse alla fanciulla più bella: "Così siete voi a prepararci il cibo, ogni
volta che ritorniamo dalla foresta? Da dove venite?" "Noi siamo i due pappagall
i: ogni giorno vi vedevamo arrivare molto stanchi e così abbiamo avuto compassione
di voi e abbiamo pensato di trasformarci in esseri umani e di prepararvi il cib
o per diminuire le vostre fatiche!" Sole, ammirato per la bellezza e per la gene
rosità delle due donne disse: "D'ora in poi, voi resterete così!".
Subito la ragazza che aveva spiegato il mistero rispose: "Allora decidete chi sc
egliere di noi due!" Sole non se lo fece ripetere due volte ed esclamò: "Io scelgo
te!".
La ragazza, che prima era il pappagallo dalle penne verdi e brillanti, disse sor
ridendo: "Mi hai scelto per la seconda volta...".
Luna, nel frattempo osservava l'altra anch'egli soddisfatto della nuova compagna
.
Così iniziarono a vivere in coppia: solo che la capanna era diventata piccola per
loro...
Ora erano in quattro! Decisero di abitarla a turno: il Sole e la sua compagna oc
cupano la casa solo di notte mentre Luna e la sua donna la abitano di giorno.
E' per questa ragione che la Luna è sempre sveglia di notte e vaga per la volta ce
leste fino al mattino, in attesa che il Sole esca dalla capanna con arco e frecc
e, per andare a caccia dall'alba al tramonto.

LA LEGGENDA DEL COLOBRl'. (Leggenda india diffusa in tutta la regione Amazzonica


).
Un tempo, quando giungeva il momento di morire, l'anima di ogni Indio era trasfo
rmata dal Grande Spirito in una farfalla, che, posandosi di fiore in fiore, face
va provvista di nettare per poter poi compiere il lungo e difficile volo alla vo
lta del cielo.
Questo accadde anche per il marito di Coacyaba, che, rimasta vedova ancora giova
ne, non riusciva a rassegnarsi alla perdita dell'Indio che l'aveva resa madre di
una bellissima bambina di nome Guanamby.
Così, tutti i giorni, Coacyaba prendeva per mano Guanamby e insieme andavano in me
zzo ai prati per osservare le farfalle, immaginando che in una di queste si trov
asse l'anima del marito.
Si struggeva di nostalgia e non si dava pace: cominciò a trascurarsi e a rifiutare
il cibo, finché sotto lo sguardo impotente della sua bambina, un giorno si lasciò m
orire.
Il Grande Spirito trasformò anche lei in una bellissima farfalla azzurra, mentre i
l dramma colse in pieno la piccola Guanamby che cominciò a lasciarsi andare e a de
siderare la morte, per raggiungere in cielo la sua mamma.
Così, ogni giorno, andava sul luogo dove il suo corpo era stato seppellito e, pian
gendo a dirotto, la implorava di venire a prenderla per portarla in cielo.
E venne il giorno in cui la morte colse anche la piccola Guanamby.
Subito, il Grande Spirito la trasformò in un fiore che cresceva vicino alla sepolt
ura della sua mamma.
Guanamby pianse a lungo e continuò a implorare la sua mamma perché venisse a prender
la per portarla con sé in cielo.
Coacyaba, che, diventata una bellissima farfalla, si posava di fiore in fiore se
ntì da lontano il pianto della figlioletta e subito si mise in volo per raggiunger
la e cercare di esaudire il suo desiderio.
Ma quale non fu la sua disperazione quando si accorse che la sua forza non era s
ufficiente per caricare sulle ali e trasportare l'anima della figlioletta fin la
ssù nel cielo! Fu così che implorò il Grande Spirito di trasformarla in un uccello, pe
rché potesse esaudire il desiderio di Guanamby: in men che non si dica, Coayaba di
venne un... colibrì! Il piccolo uccellino, volando in modo deciso, cominciò a fare s
corta di nettare di fiore in fiore e poi, caricata sulle sue ali l'anima di Guan
amby, si avventurò verso la volta celeste, riuscendo a realizzare il desiderio del
la figlioletta.
Oggi ogni Indio che muore continua a essere trasformato in una farfalla, ma c è qu
alcosa di nuovo nel volere del Grande Spirito: quando muore un bambino, dato che
la sua anima non riesce da sola a salire fino al cielo il primo Indio che muore
subito dopo, invece che in farfalla è trasformato immediatamente in colibrì, in mod
o che possa volare di fiore in fiore alla ricerca dell'anima del bambino e poi,
trovatala, possa caricarla sulle ali e iniziare insieme il cammino verso il ciel
o.

COME NACQUERO GLI INSETTI. (Leggenda Parintintin).


Un tempo non c'era ombra di insetto nell'aria e l'Indio poteva riposare tranquil
lamente nell'amaca senza essere punzecchiato da questi fastidiosi animali.
Ma un giorno comparve nel villaggio un uccellaccio brutto e ingordo che cominciò a
rovistare dappertutto col suo becco e a ingoiare qualsiasi cosa trovasse sia de
ntro, sia fuori delle capanne.
Le donne furono così infastidite dall'invadenza dell'uccello, che si rivolsero ai
mariti perché lo eliminassero, per poter accudire alle loro faccende in pace.
Gli uomini acconsentirono e, dopo aver finto di inoltrarsi nella foresta per la
consueta caccia, si appostarono nei pressi del villaggio con archi e frecce, pro
nti a colpire il disturbatore appena si fosse fatto vivo.
Ma l'uccellaccio intuì il pericolo e, allo scoccare delle prime frecce, volò alto ne
l cielo e così tutto fu vano.
Gli uomini ritentarono varie volta nei giorni successivi, ma le frecce riuscivan
o solo a spaventare l'uccello che fuggiva senza neanche essere scalfito.
Venne un tempo però, in cui il volatile non comparve più e così gli uomini e le donne
cantarono vittoria, pensando che, per la paura, l'uccello si fosse dato definiti
vamente alla fuga.
Ma la loro convinzione era errata: l'uccello si era solo acquattato per giorni e
giorni al riparo nella foresta, nel digiuno più assoluto, intenzionato a vendicar
si.
Così, una notte, mentre gli Indios dormivano ormai sicuri della tranquillità ritrova
ta, l'uccellaccio si avventò sul villaggio e cominciò a beccare e ingoiare avidament
e tutto ciò che gli capitava sotto tiro, così affamato da mangiarsi perfino le pietr
e!! Il suo corpo si gonfiava a dismisura, ma poco gliene importava: spinto da un
a fame insaziabile e, rovistando qua e là, scoperchiò per caso degli astucci di bambù
dove erano custoditi i denti degli animali che gli Indios usavano per fare le co
llane.
In men che non si dica li ingoiò uno ad uno, ma appena i denti aguzzi arrivarono n
ello stomaco già gonfio a dismisura, lo bucarono e, con un rumore acutissimo e ass
ordante, l'uccellaccio si disintegrò in una miriade di pezzettini appiccicosi e ir
ritanti: erano nati così gli insetti che con il loro insistente e implacabile punz
ecchiare sono, ancora oggi, peggiori dell'uccellaccio che li ha generati.
IL VECCHIO CHE SALVO' GLI ANIMALI DELLA FORESTA. (Leggenda Kayapò).
Un tempo gli Indios cacciavano con una facilità estrema: non era necessario avvent
urarsi, come si fa oggi, per giorni e giorni nella foresta, correndo numerosi pe
ricoli: era sufficiente fare pochi passi nel folto della vegetazione, gridare o
percuotere tra loro due pezzi di legno, che qualunque animale rispondesse al ric
hiamo chiedendo innocentemente: "Che c'è?".
Sì, in quel tempo ogni animale parlava la lingua degli Indios, i quali, naturalmen
te, ne approfittavano chiedendo subito dopo alla povera creatura, dove si trovas
se in quel momento.
Questa, del tutto ignara della sorte che stava per toccarle, rispondeva candidam
ente: "Eccomi, sono qui, dietro questo cespuglio!", decretando così la sua fine.
Per questo motivo, la caccia era molto facile e gli Indios facevano delle vere e
proprie stragi di animali.
C'era, nel villaggio, un vecchio che osservava, giorno dopo giorno, con preoccup
azione, il continuo sterminio delle creature della foresta.
Egli meditò a lungo e concluse che se gli Indios avessero continuato ad uccidere o
gni giorno così tanti animali, ben presto questi sarebbero scomparsi e la foresta
sarebbe stata avvolta da un lugubre silenzio di morte.
Si recò, allora, in modo deciso nella foresta e cominciò a chiamare i rappresentanti
di ogni specie animale che, come sempre, si avvicinarono senza timore.
In men che non si dica, il buon vecchio fu circondato da una moltitudine di esse
ri: una tartaruga, una scimmia, un tapiro, un formichiere, un cervo e così via.
Egli si sedette tranquillamente sulla terra e, fumando la sua pipa, raccontò a tut
ti dello sterminio che stava succedendo e del rischio di estinzione che ogni spe
cie correva.
Per risolvere il problema c'era una unica soluzione: tutti gli animali dovevano
dimenticare la lingua degli Indios e imparare a fuggire al primo comparire dell'
uomo.
Fu in quel momento che gli animali capirono ciò che stava succedendo e, seguendo i
l consiglio del buon vecchio, dimenticarono presto la lingua indigena e comincia
rono a esprimersi con versi incomprensibili per l'uomo.
Impararono inoltre a sapersi nascondere e a fuggire appena sentito il suo inconf
ondibile odore.
Riuscirono così a sopravvivere e a riprodursi per generazioni e generazioni, trama
ndandosi, fino ai nostri giorni, in modo riconoscente, il ricordo del buon vecch
io.
YARA. (Leggenda Tupí).
Nella tribù dei Tupí c'era una ragazza bellissima di nome Yara.
Tutti ammiravano i suoi lunghi capelli e la perfezione del suo corpo.
Quando andava in giro per il villaggio, il suo portamento era così aggraziato e il
suo sorriso così luminoso, che tutti i giovani Indios continuavano a chiederla in
sposa.
Yara preferiva restare libera e immergersi nella natura, che amava intensamente.
Passava ore e ore nella foresta, ascoltando i versi degli uccelli, abbracciando
gli alberi e accarezzando i fiori.
Tutte le creature della selva, ormai, la conoscevano e l'amavano, così da lasciars
i avvicinare senza timore.
Infine, Yara, si avvicinava al grande fiume Amazonas e, dopo avere impresso le s
ue orme sulla sabbia bianca per un lungo tratto, si tuffava nelle acque chiare d
el fiume e, rinfrescatasi se ne tornava felice al villaggio, prima che tramontas
se il sole.
Ma venne un giorno d'estate così caldo che Yara, per trovare sollievo nelle acque
del fiume, si soffermò più del solito, senza accorgersi che il sole, pian piano, era
quasi sparito dietro l'orizzonte.
Da lontano vide una canoa risalire rapidamente il corso e udì delle voci: all'iniz
io pensò che fossero i suoi compagni ma, appena l'imbarcazione si fece più vicina, v
ide uomini che portavano vestiti, cappelli e barbe folte, parlando una lingua in
comprensibile.
Quando intuì il pericolo, era ormai troppo tardi.
Fu colpita duramente e, persi i sensi, il suo corpo cominciò ad inabissarsi.
Quando riprese conoscenza, era ormai in fondo al fiume.
Le vennero in mente i suoi genitori, i suoi fratelli, la sua tribù.
Voleva chiedere aiuto, ma i suoi polmoni erano invasi dall'acqua e capì che entro
pochi attimi sarebbe morta annegata.
Ma proprio in quell'istante comparve lo Spirito del fiume e, con un incantesimo,
trasformò la fanciulla in una sirena: metà donna e metà pesce e, in più, con un canto c
osì bello da ammaliare qualunque uomo.
Così, da quel momento, Yara si stabilì sulle rocce del fiume e da lì continuò a parlare
con gli animali e con le piante.
Quando un albero dava frutti dolci, chiedeva agli uccelli di raccoglierli e di g
ettarli in acqua ai pesci.
Restava immersa per metà, così che, quando qualche uomo la scorgeva da lontano, pens
ava che fosse una bellissima fanciulla.
Appena si avvicinava per ammirarla meglio, Yara cominciava a cantare in modo irr
esistibile: l'uomo, ammaliato dalla dolcezza di quel canto, perdeva coscienza e
Yara spingeva il suo corpo verso il fondo del fiume, dove diventava cibo per i c
occodrilli.
Così si diffuse presto la fama di Yara: qualunque uomo che si avventura lungo i fi
umi della foresta Amazzonica, deve stare molto attento, specie dopo il tramonto.
Questo vale ancora oggi: imbattersi in Yara, significa restare ammaliato da una
visione meravigliosa e finire, così, in pasto ai pesci.

...
E IL GRANDE SPIRITO CREO' L'UOMO. (Leggenda Tukano.
Venne un tempo in cui il Dio del Tuono pensò di popolare la foresta di esseri uman
i.
Decise pertanto di passare all'azione e, sceso sulla terra, si trasformò in una gr
ande canoa la cui forma ricordava un maestoso serpente.
Iniziò allora a scivolare sulle acque e, quasi per incanto, i pesci cominciarono a
saltarvi dentro, trasformandosi nello spirito degli uomini.
La canoa continuò il suo cammino, finché non si arrestò su un'ansa del fiume, scivolan
do dolcemente con la sua chiglia sulla morbida sponda.
In un batter d'occhio gli spiriti si tuffarono nelle limpide acque, fuoriuscendo
subito dopo col corpo di uomini.
Così nacque l'uomo: ma, essendo completamente indifeso, il Dio del Tuono distribuì,
su una distesa di roccia, archi, frecce, lance, cerbottane e un fucile.
Tra gli uomini se ne fece avanti, subito, uno dalla pelle bianca che, afferrato
il fucile cominciò a sparare all'impazzata, senza alcuna ragione, mostrando così la
sua violenza.
Indispettito da questo comportamento, il Dio del Tuono, lo scacciò e lo mandò lontan
o, alla foce del fiume, perché lì si stabilisse.
Gli altri uomini che erano Indios, si spartirono, invece, in modo ragionevole, a
rchi, lance e cerbottane e si incamminarono tranquillamente verso le sorgenti de
l fiume, stabilendosi là dove era stato indicato dal Dio del Tuono.
Fu così che sorsero i villaggi e gli Indios cominciarono a generare la propria sti
rpe, vivendo in pace e in armonia con la natura.
Ma, molto presto, cominciò a giungere l'eco delle cattiverie e della violenza dell
'uomo bianco.
Questo avviene ancora oggi, là dove il fiume scende ed è proprio qui che nascono e s
i diffondono ogni giorno notizie di violenza e di morte...
BIBLIOGRAFIA.
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Colbacchini e Cesar Albisetti: "Os Bororos Orientais" - Comp.
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Clarice Lispector: "Como nasceram ad Estrelas" - Editora Nova Fronteira, 1987 -
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Antoniera Dias De Moraes: "Contos e Lendas de Indios do Brasil"Editora Nacional,
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Odette Mott: "Na margens do Araguia" - Editora Vozes, 1986 Brasile.
Giorgio e Fabrizio Re: "Amazzonia: gli ultimi Yanomami" Edizioni Point couleur -
Torino, 1990.
Angelo e Alfredo Castiglioni: "Ultime oasi nella foresta" Edizioni LKativa - Var
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"Airone" (Rivista), ottobre 1984: "Yanomami: un popolo senza domani?" - Testo di
Olga Amman, foto di Victor Engelbert.
"Jonathan" (Rivista), giugno 1989 - volume 5, numero 6: "Io missionario cannibal
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Luisa Faldini: "Amazzonia" - Collana "Popoli del mondo" Istituto Geografico de A
gostini, Novara, 1978.
"Les aborigens de l'Amazonie: les Yanomami" - Par Robin HanburyTenison et les re
dacteurs des editions Time - Life - Peuples en péril - Amsterdam, 1982.
"Aventures au pays de l'Eldorado - L'orenoque" - Michel Claude Aubert, 1977 - Ed
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Presses de la cité - Paris.
Ettore Biocca: "Mondo Yanoama.
Appunti di un biologo" - De Donato Editore, Bari, 1969.
NOTA BIOGRAFICA DEL CURATORE DELLA SELEZIONE.
Aldo Lo Curto è nato in Sicilia nel 1949.
Si è laureato in medicina con lode presso l'Università di Pavia nel 1973 ed è speciali
sta in Anatomia Patologica e Chirurgia Plastica Ricostruttiva.
Fin dal 1978 si è prodigato come volontario nei paesi in via di sviluppo, utilizza
ndo il periodo delle ferie prima e, per lunghi periodi di tempo, poi.
Questo servizio lo ha portato in Africa (Togo, Benin, Zaire, Malawi), in Asia (I
ndia, Nepal, Bhutan, Hong Kong, Filippine), in Oceania (Papua Nuova Guinea) e in
Sud America (Equador, Brasile), dove si è trovato spesso ad operare, da solo e co
n pochi mezzi, in regioni vaste e sperdute utilizzando unicamente la praticità ed
il buonsenso.
Proprio durante questa particolare e instancabile attività, Lo Curto è venuto a cont
atto con la cultura e le tradizioni indigene, che, al di là della semplice curiosi
tà, sono diventate oggetto di studio particolareggiato.
Le sue ricerche, basate inizialmente sullo studio della medicina tradizionale de
i popoli della foresta si sono estese successivamente alla descrizione di altri
elementi culturali che non possono passare inosservati in un periodo storico così
delicato in cui l'estinzione e il razzismo rischiano di divenire realtà.
Dello stesso autore sono anche le monografie "Gli animali che curano, secondo la
medicina indigena dell'Amazzonia", "La droga nei secoli: tra mitologia e storia
" e "Indio: manuale de saùde".
Aldo Lo Curto è membro di Amnesty International.

Questa pubblicazione è stata resa possibile grazie alla collaborazione dei popoli
della foresta e dei numerosi amici che seguono la causa degli ultimi Indios già da
tempo, non solo in Italia, ma anche all'estero.
In particolare desidero esprimere la mia gratitudine a: Andrea, Cinzia, Chiara,
Claudio, Cristina, Ileana, Luca, Mario, Nicoletta, Roberto, Tiziana.
Aldo Lo Curto.

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