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CENTRO SOCIALE ANZIANI

Presso Biblioteca “G. Siani” – Via Arco


SANT’ANASTASIA (NA)
COMUNE DI
SANT’ANASTASIA

I EDIZIONE 2008

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Promozione e Patrocinio:

Organizzazione:

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Sant’Anastasia, Biblioteca “G. Siani”, 18 dicembre 2008

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Pag. 3
La Quercia

Appariva improvvisamente da un angolo di strada un carico enorme di fascine da forno: un volume di frasche secche o
di “pennicilli”1 che quasi annullava la figura umana che lo reggeva.
Nessuno aguzzava gli occhi per riconoscere l’uomo semisommerso da tanto gravame. Era Ciuaggiusèppe, Giovan
Giuseppe, e basta. Senza possibilità d’errore. Chi altro avrebbe avuto l’ardire di sobbarcarsi a siffatto fardello?
Avanzava lento, barcollando: non per il peso, ma per passo naturale. Tagliava di sbieco la piazza, dove bambini magri
e laceri interrompevano per un attimo il gioco e alzavano la testa per guardarlo: perché lui era il re, il loro re, buono e
forte; perché lui stava su, rompeva l’azzurro con le sue fascine -il pugno serrato all’aggancio dell’enorme fastello-, barca
ondeggiante nell’immobile mare rovesciato ch’era il cielo.
Davanti al forno scaricava, con tonfo secco. Pronto ad altro impegno.
Amava molto i bambini, ricambiato. Talvolta tirava loro affettuosamente un orecchio, minacciando: “M’aggia mangià ‘na
recchie”.2
Giaceva ampio nel letto, ch’era pieno di lui. Da tempo, ormai. I muscoli distesi, dopo tanta fatica. Quieto. “Sto bbuone”3
sempre rispondeva a chi chiedeva come si sentisse. Soffriva? e quanto? Era un mistero. Il corpo, certo, decadeva
visibilmente. Normale, a novant’anni, con ottanta trascorsi a sgobbare.

“ S’hadda fatecà”4 era la sua consueta, soddisfatta e quasi gioiosa constatazione. Così, dopo aver svolta la sua attività
giornaliera a servizio del forno, si trovava qualche altro impegno, come, ad esempio, attingere acqua ad una fonte
lontana e trasportarla, per un modesto compenso, a casa di chi ne faceva richiesta; o svolgere funzioni di crocifero
durante i funerali e le feste religiose.
Raccontava spesso di quando, avendo svolta la solita mansione di crocifero a un funerale e dopo aver accompagnato il
feretro al cimitero, il figlio del morto si era rifiutato di riconoscergli il consueto, modesto obolo. “Mòllete”5, gli aveva detto
Giovan Giuseppe, mostrando la destra e sfiorando tra loro il pollice e l’indice: ma quello non se ne dava per inteso.
Dopo aver rinnovato due o tre volte l’invito, ricevuti altrettanti irridenti dinieghi, il nostro crocifero mulinò i suoi pugni
pesanti come mazze e per Puorche jènche6 -così era soprannominato lo sventurato insolvente- il cielo si fece
improvvisamente buio e stellato. Per sua fortuna si trovavano da quelle parti un paio di carabinieri che, aiutati da altre
persone, a stento riuscirono a frenare l’esplosione di tanta vitalità e a salvare il malcapitato. “Tenìtele quatte ca cinche
nce pòtene”7 urlavano i carabinieri, cercando di immobilizzare Giovan Giuseppe. Il quale, con questa citazione chiudeva
il racconto.
Più volte la morte era passata, inesorabile, nella casa di via Ritola, cogliendo a piene mani: Gioacchino, il cognato,
Agnese e Orsola, le sorelle. Restava lui. Resisteva, sordo a ogni malattia, ferocemente attaccato alla vita: una quercia
con radici tenaci.
Per male che stesse, a chi gli chiedeva come si sentisse, continuava a rispondere immancabilmente “Sto bbuone”,
quasi che la somma dei suoi malanni fosse un affare altrui. Aveva perso il colore della salute e della fatica, ingentilita
ormai la pelle, candida come le lenzuola.
Ed erano poi giunte le apnee.

1
Piccoli fasci di tralci di vite.
2
Devo mangiarmi un orecchio
3
Sto bene.
4
Si deve lavorare.
5
Deciditi; sbrigati.
6
Porco bianco. E’ il soprannome del tizio.
7
Tenetelo fermo in quattro, che cinque non ce la fanno. L’espressione è paradossale, ma va intesa, forse, nel senso che
in quattro si poteva, per mancanza di spazio, operare meglio che in cinque; oppure si devono invertire i numeri.
Pag. 4
Talvolta asseriva di essere morto durante la sua fanciullezza. E a chi sgranava gli occhi, raccontava placidamente che,
dopo le esequie in chiesa, egli sulla Valle di Barano si era risvegliato nella bara, portata a spalla dai compaesani, come
una volta s’usava. Qualcuno, sempre, gli chiedeva cosa allora avesse fatto: lui, serio, batteva due volte al suolo quella
pala di remo ch’era la pianta del suo piede. Così fu deposta a terra la bara, e aperta, con paura e speranza. E lui,
alzatosi, se ne tornò a casa.

Ormai non parlava più. Il corpo, piagato, lasciava intuire un’ inespressa sofferenza. Ma cosa mai poteva rappresentare il
dolore per chi aveva sofferto e lavorato pesantemente per tutta la vita? Normalità, niente di più.
Maria, dal ballatoio, parlava di Giovan Giuseppe con la vicina Rosa : ”Questa notte zizìo8 ci ha fatto spaventare: non ha
respirato per qualche minuto. Un tempo interminabile. Siamo stati lì lì per venire a chiedervi aiuto.”
Erano venuti i nipoti, tutti, a rivedere il gran vecchio, a salutarlo, ad aiutarlo. A turno, secondo le ferree norme della vita
moderna. Poi si sarebbero trovati tutti insieme. Alla fine.

A mano a mano che avanzavano gli anni, era stato liberato da ogni sorta di lavoro. Così egli riempiva la giornata
mettendosi a completa disposizione degli altri e accorrendo dovunque venisse chiamato. Non trascurava mai di
visitare, quotidianamente, i malati del paese.
“ N’amma vulé bbène quanne simme vive”9 ripeteva spesso, soprattutto quando qualcuno lo ringraziava per un aiuto
ricevuto. E, talvolta, autocompiacendosi: “Quante more i’, me chiàgnene ‘e pprète ‘a vie”10.

Le apnee diventavano sempre più lunghe e frequenti. Ne riemergeva con un rantolo sempre più profondo e spossato.
Gli occhi erano fissi da qualche parte, verso l’alto. Immobili, ma vivi. Ancora nelle vene gli danzava la vita, ma lenta e
sommessa. I giorni - albe, mattini, mezzogiorni, pomeriggi, sere - e le notti trascorrevano lentamente, si avvicendavano
con dolcezza.
Poi arrivò un’altra apnea. La più lunga. Interminata.
Così se n’andò Ciuaggiusèppe, il saggio, il re dei fanciulli. Ciuaggiusèppe, la quercia.

Ancora oggi quei bimbi dai capelli ormai bianchi, talvolta, cercano nella piazza, alzando la testa, la sua sagoma
d’Atlante, acquartierata in un lembo d’azzurro, e il suo volto, con il consueto pacifico sorriso.

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Nell’immaginario collettivo la figura dell’anziano, del nonno o del vecchio zio, è stata sempre arricchita da
attributi fortemente positivi e da valori umani e affettivi intensi. Ma in questo bel racconto, tale immagine si
ingigantisce ancor di più, acquistando peraltro una freschezza e una immediatezza di esposizione, resa
ancora meglio nella doppia narrazione, quella del ricordo e quella attuale, in corsivo, che interseca e integra
tutto l’impianto narrativo. Il vecchio Giovan Giuseppe, Ciuaggiuèppe nella parlata tipica ischitana, è una
quercia, un albero possente abituato da una vita al duro lavoro quotidiano, e che adesso, sull’”ampio letto
che è pieno di lui”, ancora combatte con la morte, ancora si sente forte affermando a tutti, ma soprattutto a
sé stesso: “Sto bbuone”, sto bene.
Il vecchio Giovan Giuseppe rappresentato così metaforicamente da una quercia che non potrà mai
abbattersi né essere sradicata dal tessuto quotidiano della vita e dai ricordi, è l’emblema e il simbolo di una
esistenza semplice ma genuina, povera ma nello stesso tempo ricca e intensa di affettività e di sentimento
umano. Ottimo lo schema narrativo, ricco di termini ed espressioni tipiche del luogo.

8
Forma affettuosa per “zio”.
9
Dobbiamo volerci bene quando siamo vivi.
10
Quando morirò io, mi piangeranno anche i sassi della strada.
Pag. 5
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"" ) ! “E’ solo il me bambino, / testardo
/# % ! fiore di settembre che / non vuole, /
# &" % non vuol proprio saperne della
) # ) # resa”. E’ in questa profonda e
>& accorata conclusione di una poesia
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= )# # ) dai toni veramente lirici, che
= # )# ) emerge da lontano un autunno di
# ) ) sapori e di colori mai dimenticati,
& % " )! fino a far ammettere all’autore,
immedesimandosi in un “io
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& #" ) # immagini (“sento il sospiro affranto
& %% ) " ! di mia madre, / forti le mani attorte
? B ) C di mio padre”), proprio non
6 = ## " vogliono lasciarlo. Il poeta apre
" #) 6 metaforiche finestre per raccogliere
) ) %" ed abbracciare ancora i vividi ed
= # ) immediati gridi dei suoi cari, ma il
" % %%) ) & ! tempo ora è un altro, e la loro
assenza è dolorosa.
% ") <& ) In un crescendo lirico di grande
= ! effetto, l’autore ha saputo costruire
2 >& # % un quadro rievocativo e riflessivo
% ! emozionante, dimostrando altresì
D # # una padronanza del verso
)= ) # ineccepibile.
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Pag. 6
Da “Il servizio da caffè” (brano)

Dicembre 1942

Anche oggi non abbiamo mangiato. Da quando non facciamo un vero pranzo? Due anni? Sì, due anni. Da quando
Armando è venuto in licenza dalla Iugoslavia. Quello fu un vero pranzo! Pasta…agnello…eh...patate…dolce. Pasta
condita con denso ragù dal color rosso rubino . Cosciotto ben rosolato ma burroso. Patate fragranti e brunite al
punto giusto E il dolce, la pastiera. Ammasso morbido di ricotta, uova, zucchero, canditi…E poi il caffè! Una
fragranza! Un aroma celestiale! Come nettare degli dei a completare quell’ultimo pranzo. Lo abbiamo bevuto seduti
in silenzio, nelle tazzine di porcellana, per assaporarne tutte le benefiche virtù. Seduti in silenzio, uniti davanti
quella tazza di caffè per l’ultima volta… Dio che dolore allo stomaco. Credevo di essermi abituata. Invece no, ogni
tanto questo crampo allo stomaco. Non devo pensare al cibo, mi fa star male. Ma come si fa a non pensare al cibo.
Mangiare è un bisogno primordiale. Non mangiare significa morire. E la morte è lenta e crudele. Il bisogno di cibo ti
getta senza pietà nella animalità abbattendo il fragile paravento della razionalità . Non sei più l’essere superiore. il
dominatore dell’universo, l’essere che sa pensare, creare, comunicare, amare…Sei un essere vivente qualsiasi che
deve soddisfare un bisogno primordiale, feroce, umiliante, che non dà tregua…la fame.
Io forse posso resistere… ma forse ancora un po’. Mia madre resiste. Da quando il figlio è partito per il fronte russo,
sembra non aver più bisogno di mangiare. La paura di non rivederlo è divenuto il suo nutrimento. Il suo ricordo è
come riserva di energia. Un ricordo che alleva con cura idolatrando la sua foto o spazzolando con cura il suo
abito o ancora rileggendo i suoi quaderni di bambino… E poi siamo donne e le donne non hanno mai mangiato. Ma
il piccolo… Ha tre anni e avrebbe bisogno di proteine, vitamine, carboidrati…Un po’ di riso, qualche patata lessa,
non posso dargli altro. La guerra ha ingoiato tutto. Ha triturato tutto con le sue avide ganasce di distruzione e
morte. Non ha lasciato nulla per i suoi figli…

….. Ancora dicembre, ma del 1990

I miei figli e miei nipoti hanno fatto le cose in grande per i nostri cinquanta anni di matrimonio. Le nozze d’oro. Bella
festa. Tanta gente. Il nostro salotto era lustro anche se sono evidenti i segni del tempo. Le fodere un po’ logore. I
mobili tarlati. Sembra sospeso in un tempo indefinito con la sua antichità contaminata da qualche oggetto moderno
e tecnologico.
Il buffet era ricchissimo come piace a me. E per l’occasione, non poteva mancare l’argenteria, i piatti con il bordo di
oro zecchino, i calici di Boemia e il …regale servizio da caffè. Dopo la guerra la Mena se n’era disfatta volentieri e
ha accettato la mia proposta di comprarlo. Forse lo considerava troppo impegnativo per una casa senza salotto e
per una donna di modesta conversazione. Ma io non vedevo l’ora di riaverlo. Appena nelle mie mani, non ha fatto
altro che invitare amici, parenti e vicini a bere caffè! Anche quando Armando è tornato, la prima cosa che ha fatto
è stata quella di preparare una tazzina da caffè. Certo era un po’ annacquato. Fatto con soli dieci chicchi!
Oggi siamo stati tutti insieme…Tutti insieme. Manca qualcuno, morto per vecchiaia o ingoiato dalla macchina della
guerra come il mio povero fratello. Il mio primo figlio non è più pallido e macilento. Anzi è un uomo florido e con un
po’ di pancetta. Dovrebbe mettersi a dieta.
A me ed Armando già da tempo hanno proibito di mangiar questo e quello. Ma oggi! Quella tavola! Quelle delizie
per la nostra festa. Ho avuto voglia di soddisfare fino all’estremo questo bisogno primordiale che ci tiene in vita. Ho
assaggiato tutto, insieme a lui . Con lui mi sono persa in un paradiso di sapori…
Alla fine del pranzo mi sono avvicinata al divano con due tazze da caffè per sedermi con lui. Con due tazze di
porcellana preziosa, con piccolo decoro di roselline amaranto, orlo dorato e manici finemente decorati. Mi
aspettava. Aspettava che mi sedessi vicino a lui a prendere il caffè come abbiamo fatto sempre da quando la
guerra è finita. Lo prendiamo sempre in silenzio. Le parole non servono. Assaporiamo insieme la scura bevanda
che scende lenta a ristorare non solo il nostro stomaco ma anche il nostro spirito perdendoci nei nostri stessi
ricordi. Mentre sorseggiavamo il caffè, ci siamo guardati negli occhi e abbiamo, forse, pensato la stessa
cosa…Speriamo che il medico non ci proibisca di berne ancora…

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Pag. 7
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Un servizio da caffè fragile e prezioso, accogliente porcellana per una bevanda “nettare degli
dei”, è il pretesto, fragile come la natura umana e prezioso come la vita, a cui ricorre la
scrittrice per raccontare la guerra.
La scelta dello stile diaristico permette di scandire il ricordo in momenti rappresentativi con
l’effetto dell’impatto immediato particolarmente coinvolgente.
La guerra, vissuta dagli inermi, si stringe in un pugno allo stomaco e si allarga in crateri di
disperazione dinanzi alla fame che defrauda patrimoni e dignità.
Il periodare è breve e incisivo; le pause marcano le riflessioni, serrano i pensieri e
quantificano le emozioni definendo lo spessore della narrazione.

Del tempo che mi spetta

Se mai potessi avere ancora un’ora


del tempo che mi spetta, resterei
a contemplare gli occhi del silenzio. Motivazione:
Non più, non più trasalirebbe il cuore
all’improvviso irrompere del vento,
non tremerebbe la mia mano, il ventre E’ assodato che il poeta è tale in
al volo di libellule. quanto il suo sguardo si posa
sovente sull’”oltre”, mirando al di
Avrei il suono là del confine spaziotemporale
d’un salice sospeso in mezzo al cielo, della propria e dell’altrui
un grido di farfalle sulle labbra, esistenza. Ma mai come in questa
avrei da percepire ansie e stupori lirica, compatta ed intensa,
d’ogni mistero che sovrasta, immane, emerge l’afflato e la prorompenza
il piccolo respiro di quest’anima. di un canto accorato, nel quale
l’autore, che si dimostra poeta di
Lasciate che la notte mi sorprenda grande levatura, chiede di avere
oltre il confine e i fuochi delle stelle, ancora un’ora del tempo che gli
andrei per cieli di galassie e cosmi spetta, per accentuare e
come un viandante avvolto di gerani, approfondire tutte le bellezze, le
vorace di conoscer l’assoluto, meraviglie, i colori e i sapori del
e i fiumi senza foci, e gli infiniti creato. E lo fa con un lirismo
profumi dell’eterno. quasi perfetto, con versi di elevata
resa icastica.
Altro non chiedo,
se mai potessi avere ancora un’ora
del tempo che mi spetta. Non smeraldi,
non fuochi di rubini, acquemarine,
vorrei soltanto un soffio di parole
e un fil di luce che le tenga insieme.

Giovanni Caso, Siano (Sa)


Componimento segnalato

Pag. 8
Da “La festa” (brano)

Nel sogno è la salvezza. Nel sogno della memoria… Il ricordo di una sera qualunque d’estate. Una
sera qualunque nella piazza del paese natio, con il palco per l’orchestra e i cantanti per la festa
paesana. La gente assembrata attorno al palco. Alcuni seduti sulle sempre poche sedie; altri in piedi
con i bimbi a cavalluccio sulle spalle. Intorno alla piazza, dai balconi e dalle terrazze delle case
circostanti, i paesani fortunati si affacciano. Dalle inferriate dei balconi e dai davanzali delle finestre
pendono le coperte di seta ricamate per onorare la santa.
Alle ringhiere di parecchi balconi sono fissati candelotti fumogeni che bruciano colorando la sera.
Ci sono le stelle inchiodate al cielo… E’ una qualunque meravigliosa sera di luglio!

Quanto tempo è passato!…


E a me sembra impossibile, come impossibile mi pare questo concreto esilio nel presente che non
voglio accettare, ma che pure subisco passivamente, “rassegnato come uno specchio”, come diceva
il povero Corazzini…
E allora via col ricordo, via con la follia, una follia dolce, buona, che si identifica con l’amore. La
follia che in certi momenti è la sola alternativa alla disperazione. L’unica che non ti ricatti, che non
ti chiede nulla per ricondurti dove vuoi. Perché la follia è sincera, disinteressata, onesta! La follia è
la tua estate lontana e irripetibile, i tuoi amori che tornano, la tua giovinezza ignara e trionfante, le
tue canzoni che non vuoi dimenticare, il tuo sempre che si fa cerchio per condurti a intervalli
regolari nell’innocanza…
A volte la follia è tutto questo… Ma se solo ti soffermi a pensare, se solo ti riconosci nel limbo che
è il te stesso sorridente dalla foto color seppia, se ti sorprendi a barattare il tuo tempo con la
memoria, allora sei già morto senza saperlo.

Adolfo Silveto, Boscotrecase (Na)

Componimento segnalato

Motivazione:

Nel sogno è la salvezza, afferma l’autore di questa breve ma emozionante storia di ricordi che
vorticano, girano intorno alla mente come la giostra che vi è descritta. E’ il giorno della
ricorrenza di S. Maria di Salomé, la festa del paese natìo, con le bancarelle, i giocattoli, le
leccornie, i cantanti. L’autore si ritrova a percorrere i medesimi quadri e situazioni, per cui i
ricordi si sovrappongono, le scene si ripetono, uguali a quelle di tanti anni prima. Il ritmo del
racconto è incalzante ma nello stesso tempo dolce e melanconico, e le descrizioni sono
particolarmente ricche ed affettuosamente curate.

Pag. 9
Da “Speranza” (brano)

Rosa bussò a lungo più volte il campanello; un po’ preoccupata, rovistò nella sua borsa e ne trasse
la chiave; aprì la porta ed entrò con un senso di angoscia; gli scuri alle finestre erano ancora chiusi e
la casa era in penombra, solo una debole luce filtrava dal finestrino in alto sulla cucina; per qualche
attimo Rosa restò ferma annusando l’aria: c’era uno strano odore: sapeva di polvere da sparo, di
vecchio, come quando si apre una cassa di biancheria chiusa da molto tempo, e non sapeva
spiegarsene il motivo; aprì le finestre e chiamò: “Mamma! Mamma, dove sei?”
Quando si girò, lo sguardo si posò sulla poltrona; per un attimo lungo perse il controllo sulla realtà,
poi gridò con quanto fiato aveva in gola: “Mamma! Mamma! Oh Dio, mamma, Che è successo?”
Fece per scuoterla, ma si fermò quando si accorse che la mamma aveva gli occhi aperti e lo sguardo
rivolto alla porta d’ingresso, occhi non spenti ma vivi, ed un sorriso che le dava un’espressione
propria di chi sogna o guarda qualcuno con occhi innamorati; un braccio di Speranza era ancora
appoggiato al bracciolo, ma teneva chiuso nel pugno un vecchio foulard rosa; dolcemente le aprì la
mano e glielo tolse; lo guardò e quasi le gambe la tradivano; al centro del foulard spiccava il nome
SPERANZA, ed una grande macchia rossa; annusò la macchia e le salì alle narici un forte odore di
sangue, come fosse ancora fresco; per qualche istante il mondo girò vorticosamente e ricordò le
parole della mamma: “Quando tuo padre partì soldato gli lasciai il mio foulard rosa, quello che lui
mi aveva regalato quando eravamo fidanzati e lui mi giurò che me l’avrebbe riportato, e non mi
avrebbe lasciato più”.
“Mamma… papà” mormorò Rosa. Accarezzò il foulard e scoppiò a piangere.

Vincenzo Cerasuolo, Marigliano (Na)

Componimento segnalato

Motivazione:

Un nome usuale, ma che cela anche una sottile metafora: la “speranza” di ritrovare e di
riunirsi al proprio amore. Speranza è un’anziana vedova che in questo bel racconto dal
contenuto e finale surreale, entra nel mondo dei propri ricordi in un modo così appassionato e
convincente (per sé stessa), da immedesimarsi pienamente nella situazione di tanti anni prima,
fino al punto di “vedere” il caro marito riportarle quel foulard rosa che ella stessa gli aveva
consegnato prima che partisse militare.
Dicevamo un finale originale, in cui realtà e fantasia si mischiano, ma che rappresenta in
fondo il giusto epilogo di una triste vicenda umana, scritta con mano intelligente, audace, e
con forti venature di suspence.

Pag. 10
… E la vita conduce

Tu aspettavi il ritorno dall’Africa


di quell’uomo montato a cavallo
Motivazione:
con l’intento di darti una gioia
se così tu l’avessi veduto.
Ne conservo geloso la foto
che ti dava tre numeri al lotto Il poeta ripercorre, con
da giocare per tutte le ruote rassegnata partecipazione e
…E approdò una tarda stagione nostalgia, un tratto di strada che
quel tuo sogno!.. gli ha segnato la vita, a capo
Ne volesti seguire le orme chino dinanzi all’ineluttabilità
imparando con lena il mestiere degli eventi.
e del legno che lui lavorava Scivolando tra i versi, sembra
ne facesti un breviario prezioso. di imbattersi in un cantastorie
Lo seguisti a montare i mulini che, con voce cadenzata,
e un’infanzia incantata affidasti additando scene allestite
nelle spire del lucido scivolo all’uopo, racconta…
che mandava fin giù la farina. Atmosfera a tratti da fiaba con
Io venivo a pigliare la quota il cavaliere, i mulini, l’infanzia
che spettava ogni settimana. incantata e l’operoso
Poi la crisi… falegname, ma un mistero si
Ma la perdita di quel lavoro delinea e annuncia la tragedia.
non scalfì quella tempra che avevi. Il linguaggio offre tracce
Ci metteste ancora più lena d’antico sentore con impatto
impiantandovi al nostro rione fortemente suggestivo.
dove anch’io,al finir della scuola,
ci venivo a garzone;
bilancino alla vostra carretta
nei trasporti alla segheria.
Poi…quel brutto dicembre
che lasciò un enigma irrisolto!
Ma…la vita va avanti,conduce…
…E conduce,conduce,conduce…
Tu portasti a saperne del legno
tutti i pregi,in prosieguo,ai tuoi figli
fino a quando mollasti le briglie
per lasciarli andare da soli.
Giusto il tempo?.. Lo avevi deciso;
calcolato a centimetri cubi?!..
A dicembre,in un nodo di luna,
anche tu te ne andasti fratello!

…E la vita conduce…conduce.

Nino Vicidomini, Trecase (Na)

Premio Speciale “Napoli Cultural Classic”

Pag. 11
Nessuna cosa
Motivazione:
Nessuna cosa… niente
s’adeguò all’animo mio,
alla mia diversità dal mondo, In questo componimento di forte
dagli animi… dall’amore. tensione introspettiva, l’autore rivolge
Tutto ebbi e tutto donai, un canto religioso a Dio
mai l’assimilai a me. ringraziandoLo per i doni che ha
Oh, mia diversità, ricevuto e per tutte le buone qualità che
mio Io, lo fanno uomo, uomo che ama e che
che mi porti alla ricerca del sapere, soffre, che è consapevole di ogni soffio
dei colori del mondo, di vita e del creato che lo circonda.
del fiore bianco! Bella e intensa, dolce e soave, la poesia
Quanto t’amo! si svolge in versi di alto lirismo.
Grato sono a Chi mi fece,
o mie angosce, mie gioie,
mie lacrime, miei amori
che allertaste l’animo mio.
E vigile fui
ad ogni soffio di vita,
ad ogni palpito d’amore.
Vissi notti sublimi,
giorni di spine, amari…
L’animo mio
visse mille volte
ma non bastò
a conoscere quel fiore bianco.
Amai l’uomo,
le sue attitudini;
lo guardavo, perplesso,
quando rammendava le reti.
Mi sedusse la fede.
Dalle stelle
attinsi forze nuove
per andare alla ricerca
di regni sconosciuti.
Tutto tentai
e molto ebbi.
E ciò che sognai
lo rese vivo
il pensier mio.

Natale Porritiello, Sant’Anastasia (Na)

Premio Speciale “Lions Club International” V Circ. Cittadinanza Umanitaria,


Arch. Giacomo Vitale

Pag. 12
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Il presente opuscolo è stato realizzato con mezzi propri da:


CIRCOLO LETTERARIO ANASTASIANO
di Giuseppe Vetromile
c/o Circolo “IncontrArci”, Piazza Cattaneo 9, Sant’Anastasia (Na)
Tel. 081.5301490; Sito web: http://circololetterarioanastasiano.blogspot.com
E-mail: circolo-lett-anastasiano@hotmail.it
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