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Cartesio, nome italianizzato di Renè Descartes, nacque a Le Haye nella Touraine, in Francia, da

famiglia di nobili origini. Studiò da ragazzo presso il rinomato collegio dei gesuiti di Fleche dove
rimase dal 1604 al 1612 e nel 1616 si diplomò in legge all'Università di Poitiers. Ma gli studi, come
ebbe a dire lui stesso, non gli diedero quel vero sapere che andava cercando e gli mostrarono invece
tutta la loro inadeguatezza. Fu così che nel 1618 preferì arruolarsi nelle armate del principe di Nassau,
che in quel tempo partecipava alla Guerra dei trent'anni. La sua fu una posizione di privilegio (ai nobili
non spettava certo lo stesso trattamento dei soldati semplici), e più che partecipare agli scontri, la
guerra gli diede la possibilità di girare l'Europa e di approfondire gli studi di fisica e di matematica.
Nel 1922 tornò in Francia, in seguito viaggiò ancora in Italia e in Svizzera. Nel 1628 si trasferì in
Olanda per sfuggire a quegli obblighi di rango che nel suo paese lo avrebbero distratto dai suoi studi.
In Olanda visse a lungo, l'Olanda era allora il paese della tolleranza e della libertà filosofica. Nel 1633
si accingeva a pubblicare il Trattato sul mondo quando venne a conoscenza della condanna inflitta a
Galileo. Temperamento oltremodo prudente, Cartesio decise di non pubblicare il suo scritto nella sua
forma originaria in quanto conteneva riferimenti alla teoria copernicana. Il contenuto dell'opera venne
quindi rielaborato e separato in tre parti: Diottrica, Meteore e Geometria, pubblicati quattro anni più
tardi. La prefazione dei tre saggi fu quel Discorso sul metodo che Cartesio pubblicò solo dopo averlo
fatto approvare da padre Marsenne, sua vecchia conoscenza fin dai tempi del collegio di Fleche. Ma i
suoi scritti, che si ponevano contro la filosofia aristotelica, a lungo andare incontrarono le critiche e
l'ostilità dell'ambiente accademico olandese, per cui Cartesio decise nel 1649 di trasferirsi in Svezia, a
seguito di un invito della regina di Svezia che lo volle come precettore personale. Fu in Svezia che la
rigidità del clima gli procurò una polmonite che lo uccise nell'arco di una settimana (si narra che la
regina volle tenere le sue lezioni alle cinque di mattina e che Cartesio prese freddo proprio in una di
queste occasioni).
Il problema fondamentale della ricerca filosofica cartesiana è la
definizione di un nuovo metodo di ricerca che sia il più possibile
obbiettivo e certo, in grado di non commettere errori. La recente
rivoluzione scientifica aveva imposto la necessità di trovare un
nuovo metodo di indagine che non fosse quello aristotelico, un
metodo che si adattasse ai bisogni della scienza moderna, rigorosa e
sperimentale. Cartesio è annoverato tra i fondatori della filosofia
moderna, nella sua opera è presente quella critica dei metodi di
indagine classici propri della filosofia greco-aristotelica che renderà
possibile ridiscutere il sapere su nuove basi (troppi errori erano stati
commessi dagli antichi, soprattutto nell'ambito della fisica e della
descrizione dell'universo, si impose quindi la necessità di avviare
una critica profonda della stessa filosofia che li aveva ispirati).
La critica dei sistemi filosofici classici non può prescindere da una critica dei loro metodi di indagine. Cartesio
si impegna quindi a definire quattro regole basi di quel nuovo metodo che permetterà una conoscenza più
esatta del mondo:
1. La prima regola deve essere quella dell'evidenza: se si vuole conoscere con certezza, non è possibile
accettare alcun dato che non abbia in sé il carattere della chiarezza, dell'immediatezza e della distinzione. E'
chiaro ciò che è evidente, ed è evidente ciò che si manifesta immediatamente ai sensi, chiaramente distinto da
ogni altro fenomeno ("non accettare mai nessuna cosa per vera se non la riconoscessi evidentemente come
tale");

2. La seconda regola è quella dell'analisi: il problema deve essere prima scomposto e affrontando partendo
dall'analisi delle sue singole parti ("dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti
possibili e necessarie per meglio risolverle");
3. La terza regola è la sintesi: il problema analizzato nella sue singole parti va ricomposto a partire dai dati che
sono stati ritenuti validi in modo certo e incontrovertibile ("Condurre i miei pensieri per ordine, cominciando
dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi, per salire poco a poco, come per gradi, fino alle conoscenze
più complesse");

4. La quarta regola è l'enumerazione, ossia la verifica finale dei dati, una regola prudenziale che impone
l'esigenza di rivedere ogni fase del procedimento critico in modo da eliminare eventuali errori residui ("Fare
dappertutto enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla").
Queste sono le regole che per Cartesio appartengono già al procedimento matematico e geometrico, che
hanno in sé la qualità di procedere per lunghe catene di ragionamenti che si fondano ciascuno su una
deduzione verificata, catene che portano alla definizione di leggi e principi sulla base della sintesi dei singoli
passaggi. E' sull'esempio del procedimento matematico e geometrico che la vera scienza deve procedere per
non commettere errori.
Con riferimento alla prima regola del metodo, Cartesio si trova davanti un problema non da poco: quali
aspetti della realtà si possono considerare chiari e distinti in modo da prenderli a fondamento della
nuova conoscenza?
Cartesio sostiene che occorre dubitare di tutto, persino della nostra percezione sensoriale, in quanto
"non vi sono indizi concludenti né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la
veglia dal sonno". Come possiamo sapere in modo certo e incontrovertibile se questa nostra esistenza
sia anch'essa un sogno oppure la realtà? Nemmeno riguardo agli assiomi della matematica e della
geometria possiamo sapere con certezza se essi corrispondano effettivamente alla realtà, dobbiamo
infatti supporre, spingendo il dubbio all'iperbole, che esista un dio talmente onnipotente da essere
ingannatore, un dio che ci inganni anche sulle conoscenze che riteniamo più certe e universali.
Cosa resiste allora al dubbio iperbolico, a questo scetticismo radicale? La risposta di Cartesio è che
l'unico aspetto della realtà che viene percepito indubbiamente in modo chiaro e distinto è il pensiero che
si pone il dubbio: l'esistenza incontrovertibile del pensiero che si pone il dubbio permette di affermare
cogito ergo sum (penso dunque sono), perché se esiste il pensiero, deve pur esistere anche l'entità che
esprime il pensiero del dubbio. L'esistenza del pensiero (cogito) è dunque quel residuo minimo della
conoscenza che resiste ad ogni dubbio, compreso quello iperbolico.
Il cogito cartesiano suggerisce quindi l'ipotesi che le cose non siano necessariamente esistenti
oggettivamente e indipendentemente dal pensiero stesso, ma che ogni cosa esistente è qualcosa che di
per sé è comunque pensata (quindi espressa dal soggetto) e che la realtà esterna al pensiero non è un
dato da assumere immediatamente come certo e incontrovertibile: anche il soggetto che si pone il dubbio
sa di essere in modo certo e incontrovertibile un soggetto pensante, ma la realtà stessa del suo corpo
non può essere affermata con assoluta certezza desumendola dal solo cogito.
Il contenuto immediato del pensiero sono le idee, Cartesio le divide in tre generi: le idee innate, le idee avventizie e le idee
fattizie.

Le idee innate sono quelle idee che sono presenti nell'uomo fin dalla nascita, esse sono verità impresse nel suo pensiero e
alle quali ogni uomo non può sottrarsi; le idee avventizie sono quelle che provengono invece dal mondo esterno al
pensiero, dal mondo della natura fisica e della percezione sensoriale; le idee fattizie sono invece tutte quelle idee false che
non hanno nessun riscontro nella realtà oggettiva, sono le idee appartenenti alla fantasia e alla falsificazione, inventate dal
soggetto pensante.
Ora Cartesio si pone il problema dell'idea di Dio: questa idea sembra avere in sé il carattere della perfezione assoluta come
già aveva affermato Sant'Anselmo con il suo argomento ontologico: l'uomo è di per sé imperfetto, malgrado ciò nel suo
pensiero alberga l'idea di un essere perfettissimo, ciò dimostra come questa idea gli provenga da un essere più perfetto di
lui. Si noti comunque come Cartesio dubiti originariamente dell'esistenza di Dio, ponendo l'esistenza certa di Dio in
secondo piano rispetto alla certezza del cogito (tale procedimento troverà la sua critica nella filosofia spinoziana).

L'esistenza di un Dio perfetto e infinito si rivela nell'esistenza delle idee innate, in quanto non può derivare né dalle idee
avventizie (che hanno in sé i limiti della natura finita) né tanto meno dalle idee fattizie (le quali sono inventante dall'uomo,
imperfetto e finito per natura). La definizione di Dio come essere perfettissimo, eterno e immutabile, implica l'impossibilità
stessa di una nozione prodotta dall'imperfezione umana. Il solo pensare l'assoluta perfezione divina implica perciò la reale
esistenza di Dio perché il perfetto non può scaturire dall'imperfetto, una qualità maggiore non può scaturire da una minore
(“essendo tanto inaccettabile che il più perfetto derivi e dipenda da ciò che è meno perfetto quanto che da nulla proceda
qualcosa, non poteva neppure darsi che io ricavassi tale idea da me stesso”).

Se Dio esiste, perfetto e infinito ("sostanza infinita, eterna, immutabile, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e
tutte le altre cose... siamo stati creati e prodotti"), deve avere in sé anche la qualità di non essere un Dio ingannatore, in
quanto la perfezione è benevola, dunque Dio non ci vuole ingannare, gli assiomi della matematica, della fisica e della
geometria sono sicuri e incontrovertibili come realmente appaiono, da ciò ne deriva che oltre al pensiero esiste certamente
anche la materia.
Con la dimostrazione del Dio benevolo, del Dio che non è ingannatore, Cartesio riesce a dimostrare anche la reale
esistenza del mondo materiale, nonché la validità delle leggi matematiche e geometriche che lo sorreggono.
Una volta provata l'esistenza certa e distinta del cogito e della materia,
Cartesio non può che distinguere la realtà in due sostanze:
La Res cogitans (=cosa pensante), che è la stessa del cogito, ovvero il
pensiero, l'ambito delle idee, il contenuto del pensato. La res cogitans è
inestesa, è priva di dimensione spaziale e temporale, non occupa uno
spazio definito e non vive un tempo determinato, è dimensione
spirituale non finita, senza limiti; sostanza soggettiva. Il pensiero ha la
proprietà di avere coscienza di sé.
La Res extensa (=cosa estesa), il mondo materiale, finito, determinato,
entro il quale i corpi e gli oggetti occupano un certo spazio e vivono
una certa temporalità; sostanza oggettiva. Le cose estese hanno la
proprietà di non essere consapevoli di sé e di sottostare alle leggi della
fisica.
"Suppongo che il corpo non sia altro che una statua o macchina di terra che Dio forma
espressamente per renderla il più possibile simile a noi." (Trattato sull'uomo).
Per Cartesio, il mondo della res extensa è un mondo che risponde alle sole leggi della
meccanica. Il corpo umano stesso è simile a un grande meccanismo, che Cartesio paragona a
quello delle fontane nei grandi giardini dei re, dove il solo movimento dell'acqua è in grado di mettere
in moto marchingegni che danno il senso del movimento o predisporre strumenti musicali che
emettono suoni in modo autonomo. Questa visione essenzialmente meccanicista dei corpi permette
dunque la quantificazione in senso matematico di ogni aspetto della realtà sensibile. E' infatti tipico
del pensiero scientifico e innanzitutto della medicina moderna considerare i corpi alla stregua di
meccanismi che possono essere "riparati" e "aggiustati" una volta conosciuti i veri motivi del "guasto",
il meccanicismo cartesiano non può che essere una naturale conseguenza del carattere razionalista
della sua filosofia.
Ma questa macchina in attesa di movimento abbisogna pur sempre di una centrale di controllo che
decida le azioni da compiere, per Cartesio è dunque l'anima ragionevole (razionale) che muove il
corpo dal quadro di comando che si trova nel cervello, senza l'anima un corpo umano sarebbe un
semplice automa in attesa di ordini, quando un semplice animale. Infatti nel corpo non è presente
solo l'anima razionale, ma anche una parte instintuale che è il frutto dei soli meccanismi corporali: in
questo senso gli animali guidati dal puro istinto solo semplici macchine rispetto all'uomo che ha
invece il dono dell'anima razionale e dunque anche quello della parola e del pensiero (quindi per
Cartesio gli animali non pensano e vivono come automi guidati dai loro istinti).

Ma le due sostanze del mondo devono pur poter dialogare tra loro per trasmettersi informazioni
reciproche, le due sostanze di cui è fatta la realtà (res cogitans e res extensa, anima e corpo)
trovano la loro sintesi nella ghiandola pineale. E' questa ghiandola che permette alla materia di
influire sullo spirito e viceversa: qualsiasi sensazione fisica passa da questa ghiandola per
trasmettersi allo spirito, la ghiandola è il nodo fisico che permette alle due sostanze di incontrarsi e
"dialogare" (Cartesio sceglie proprio la ghiandola pineale perché a suo dire è l'unico organo del
cervello che non è doppia e quindi rappresenta al meglio l'unità delle sostanze).
Come si è detto, la filosofia di Cartesio vuole ripercorrere nel metodo la
semplicità e il rigore delle scienze matematiche e geometriche, le quali si
fondano su postulati certi ed evidenti dai quali derivano per deduzione tutti gli
altri principi. Ed è proprio la deduzione lo strumento principale del
razionalismo cartesiano: la deduzione permette di derivare le conclusioni da
certe premesse considerate vere ed evidenti. Ma tutta la catena di premesse e
di conclusioni che si sviluppa sulle permesse iniziali risulterebbe poca cosa se
quelle stesse premesse non fossero vere. Si noti dunque la differenza con
Bacone, il quale elogiava proprio l'induzione per evitare il rischio di poggiare le
proprie affermazioni su basi troppo speculative e poco empiriche. E
probabilmente Cartesio indugiò in un eccesso di razionalismo deduttivo
quando assunse come dato certo ed evidente l'argomento ontologico per
giustificare l'esistenza di Dio e della materia. Ma il metodo cartesiano ebbe
comunque grande successo e diede avvio a quella scuola filosofica
razionalista che si prometteva di giungere alla verità per mezzo della sola
speculazione razionale, una volta considerate stabili e incontrovertibili i dati di
partenza (e sulla legittimità dei principi primi il razionalismo si giocherà molta
della sua credibilità nei secoli a venire).
La prima regola della morale provvisoria è l'obbedienza alle leggi e ai costumi del
paese in cui si vive. E' buon uso secondo Cartesio attenersi nella vita pubblica ad
opinioni che siano lontane dagli eccessi, è buona regola civile non pretendere di
imporle. Occorre distinguere infatti tra uso della vita e contemplazione della verità:
nel primo caso l'uomo deve poter decidere senza attenersi necessariamente alla
verità e all'evidenza, nel secondo caso, che rappresenta il metodo della filosofia e
della scienza, non bisogna decidere finché non si sia raggiunta l'evidenza (un caso
di doppia etica intrisa di pragmaticità).
La seconda regola consiste nel perseverare nelle azioni che si ritengono indubbiamente
valide, e risulta un'affermazione alquanto ambigua perché il ritenere indubbiamente valide
alcune azioni rispetto ad altre dipende innanzitutto dalla bontà del metodo, come si è visto.
La terza regola recita che è meglio cambiare se stessi piuttosto che il mondo, meglio tentare
di vincere i propri timori prima di far affidamento sulla sola fortuna, ed è effettivamente buona
regola che già riecheggia nel pensiero stoico di Seneca quando afferma "E' l'animo che devi
cambiare, non il cielo sotto cui vivi", facendo intendere che un buon dominio sulle passioni può
aprire l'animo a un buon rapporto con la realtà.
La quarta regola consiglia invece di indagare il vero, sempre e con metodo, ma abbiamo visto
come questa regola trovi le sue deroghe nella distinzione tra uso della vita e contemplazione
della verità, con riferimento alla prima.

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