C’è in me un difetto d’indole, acuito peraltro dall’educazione impostami (e non offertami) da
quella ferrea semplicitá contadina a cui con fierezza appartengo, che, penso, meriti di essere preso in considerazione a dispetto di quella formalitá endemica di conio ispanico immeritevole di un plauso, pur lieve che sia. È la riservatezza; ovvero il “disagio di essere al mondo” e mostrarmi, o se preferite, il sacro rispetto per lo sguardo altrui, il sommesso desiderio di non figurare. A volte sfocia, checché se ne dica sul mio conto, nella timidezza, forse prerogativa dei deboli. Affiora pure nella mia signorile ritrosia di persona adulta, matura, in età non piú solare. Ne parlo perché mi sento circondato (e il piú delle volte, ahimé, ferito) da un il canone di vita esaltato, sfrontato e, a prescindere da quel che si esterna, quasi arrogante. Il mettersi in mostra anche quando si sconfina nell’invadenza. La mia sensibilitá é considerata, dai piú, un hándicap perdente e, piú spesso, confusa con la pavidità dell’imbranato, quasi a rasentare “il non saper stare al mondo”. Questa emotivitá il piú delle volte mi impone di tacere, aggravando cosí la mia posizione, perché io......... io che voglio passare inosservato e rendere il mio volto inavvertito e quasi impenetrabile, io stesso …..lo coloro col sangue della mia inconformitá, patente a chicchessia. Rinuncio pur di non chiedere, preferisco la scomodità pur di non sfiorare la sfera altrui, abdico ai miei diritti per timore di violare quelli di coloro che ne fanno sfoggia. Non riesco a telefonare anche quando la necessitá me lo consiglia, lo considero un’intrusione nella vita altrui. Non mi espongo su “social”, non mi racconto in pubblico, non chiedo amicizia. Preferisco l’orso al pavone. Non invito a casa, non solo per salvaguardare la mia riservatezza, ma per non violare quella altrui perché mi pare lievemente imbarazzante condividere l’intimità, entrare in confidenza. Non per forza sono insicuro, più spesso temo di essere frainteso, non riconosciuto. Vivo e lavoro appartato e negli inevitabili convivi quasi mai tengo saldamente la conversazione, ma ascolto, mi armo di pazienza e di attenzione, e quando il discorso non merita, fingo attenzione per non biasimare l’interlocutore e per farlo sentire a suo agio. Al più intervengo a margine, a postilla, o su richiesta. Non voglio attirare le attenzioni, ma preferisco quel nobile classicismo quotidiano che sorregge la mia clandestinità. Non scelgo mai la prima fila ma nemmeno l’ultima, che mi evidenzia a rovescio. In auto mi infastidisce se qualcuno mi tallona, preferisco farlo passare avanti piuttosto che averlo dietro, quasi avvertissi il respiro alle mie spalle e non volessi imporre agli altri la mia andatura. Nel lavoro e nella vita so, a volte, la cosa che agli altri sfugge ma me la dico nella mente, per non voler apparire. Abbasso lo sguardo quando, per un educato afflato di rispetto, incrocio quello altrui. Sí, sono un ipersensibile, con una intensa vita interiore, e scelgo la solitudine non per disprezzo altrui, ma per eccessivo rispetto degli altri. Nel saluto mattutino non sono cerimonioso, manifesto un riserbo talvolta eccessivo da apparire quasi maleducato e scontroso. In realtà sto solo cercando di non gravare sul prossimo; non discrimino ma mi defilo. Non vivo comodamente nei luoghi pubblici e spesso anche nelle case altrui. Questa sensibilitá vorrei che avesse risarcito il mondo della mia assenza, con la scrittura. Mi sarebbe piaciuto scrivere interminabili lettere alla posterità pur sapendo che la posterità non le avrebbe mai lette. Mi considero, ad onta di coloro che pensano il contrario, un animo gentile, mondo dalle formalitá, e do tanta importanza agli altri. In quei momenti di sconforto aleggianti sempre piú in soverchia forma , sovente non mi ritengo degno di esistere. E non è tanto di me stesso che mi vergogno, ma di dover gravare le spalle (le mie) di quell “io” persecutorio e dover esibire, di conseguenza, la mia singolarità. Meglio l’anonimato. Vero è che dietro a tutto ció, a volte si nasconde il mio orgoglio, la mia presunzione e perfino un’aggressività repressa che poi si riversa su vittime sacrificali; al piú, conoscenti. Coltivo, anche se non colgo abbondanti messi, il piacere solitario «di non dover essere grato a nessuno». Più spesso però la mia sensibilitá è una specie di velo e di custodia per mantenere la verginità dell’essere, non offrirla al primo che passa, ma serbarla nel recesso piú profondo dell’ anima, come si addice alle cose meno futili. È un modo per sorvegliare la mia frontiera, di vigilare sui miei confini. Cosí il mio ideale latente soccombe, e lentamente perisce sotto quell’abito di materialitá che, i piú, mi vestono senza una ragione, addosso. Ahimé !!!