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Shôkan - Il Grande Orso

Capitolo 1
*** In un'Epoca Remota... ***

“Sappi, stolto dei tempi odierni, che vi fu, oltre le nebbie del tempo, un’epoca di grandi
nomi, una terra dove l’orrore e la meraviglia condividevano la medesima realtà, una landa
di culti dimenticati e divinità obliate. Quando uomini e mostri condividevano lo stesso cielo,
durante l’Epoca Empiriana, quando il Grande Oceano abbracciava tutta Mythia e le
nazioni lottavano ferocemente per sopravvivere, vi fu fra i nomi uno che più di tutti venne
amato e temuto allo stesso modo.
Figlio di un ladro e di una prostituta, nacque nella Terra Nera dei vulcani, degli alberi morti
e delle foreste e sopravvisse, divenendo egli stesso l’unione dell’uomo col mostro. Il suo
nome era Shôkan, in lingua nordica Esiliato ed è proprio dal suo esilio che inizia questa
storia…”

L’aria della terra era pregna del fetore dello zolfo; cineree torri si sollevavano dai crateri
dei vulcani e sempre la fuliggine ricadeva sulle distese di enormi foreste senza vita. Non
un fiume, non un fiore o una goccia di pioggia abbelliva la regione di Vulcania, con le sue
nuvole nere e basse che trattenevano il freddo e il calore allo stesso tempo. Un vento ora
afoso ora ghiacciato sferzava le pendici delle nere montagne che stringevano quella landa
di morte in una stretta invalicabile. Eppure, anche nei meandri delle foreste e fra le radici
dei vulcani la vita aveva trovato il suo posto.
Fra le fessure che si privano nel terreno, fra le pieghe della terra che sprofondava per
centinaia di metri in un sottosuolo di gallerie e realtà nascoste, si aprivano sale di pietra
scavate con la roccia e il legno, città sovrapposte le une alle altre nelle quali risuonavano i
tamburi da guerra, urla bestiali che squarciavano il silenzio della notte e del giorno. Erano
le Città Sepolte, quelle metropoli che ere prima erano state sprofondate nella terra e che
dopo centinaia di lustri ospitavano nuovi occhi, orecchie e cuori che battevano.
Le fornaci erano tornate a levare il loro canto e le scintille rischiaravano le tenebre fra le
quali brillavano le fiamme delle torce con quegli esseri che si muovevano da una caverna
all’altra, parlando fra loro in una lingua demente, nudi e con la pelle dura come cuoio
trattato. Avevano grandi occhi ciechi e mani dalle lunghe dita, portavano armi rozze ma
letali fra coltelli, mannaie, scuri e asce di pietra, col rozzo ferro battuto a formare dischi
tenuti assieme da cinghie di pelle.
I vulcani rumoreggiavano da lungo tempo ed era prossimo il giorno in cui avrebbero
eruttato, ricoprendo tutta Mythia con una cappa scura, un mantello eterno che avrebbe
permesso loro di sciamare in superfice e vendicarsi delle genti che avevano combattuto
contro il Sire delle Ombre. Le statue a lui dedicate si sollevavano in remoti templi dalle
immense colonne e dai frontoni scolpiti da mani obliate e maestre in quell’arte. Vi si
narrava la storia del Sire, del suo volere e della sua guerra contro il Vecchio Impero; egli
ritratto nudo, piegato su sé stesso e con le braccia mutate in ali di pipistrello, il volto
sfigurato dalle malignità che aveva perpetrato nel corso della sua vita.
Ma finché il sole e la luna avrebbero irradiato luce sul mondo, tutti loro avrebbero dovuto
attendere, consci che sarebbe stata la stessa terra a fornire loro l’occasione per tornare
sulla superfice, valicare le montagne e diffondersi nel mondo, ancora una volta,
inneggiando il nome del Sire delle Ombre, Vandrakk. Dapprima avrebbero schiacciato il
piccolo regno occidentale di Moravia, e, schiavizzatene i fanciulli e le femmine avrebbero
costretto gli uomini sulle galee da guerra, attaccando i Regni Caldi delle terre del sud e le
nazioni del Nord e poi, ridotta Mythia al giogo del Sire, avrebbero invaso Empirea,
massacrando ogni forma di vita di quelle isole.
Ma tutto questo ancora faceva parte di piani e complotti, tutti loro sapevano che sarebbe
venuto il giorno, ma ancora dovevano attendere mentre si preparavano alla guerra e
scavano vie di comunicazione fra le Città Sepolte, mandando messaggi tracciati col
sangue sulle pelli di animali scuoiati vivi e ghignando perfidi al pensiero degli orrori che si
sarebbero scatenati quando sarebbe giunto il giorno e un eterno inverno di cenere
avrebbe oscurato il mondo. Poiché loro erano i Warglor, creati dal Sire con le tenebre e le
tenebre, presto, li avrebbero nuovamente accolti nel suo abbraccio.
Ma non erano gli unici ad essere proliferati a Vulcania; le sue terre erano luogo di esilio
di assassini, criminali, stupratori e ladri. Carovane di esiliati seguivano le strade dal sud e
dal nord del continente, su carri traballanti e cenciosi, con animali sfiniti che si
trascinavano flagellati dai colpi di frusta sulle loro pelli tese fra le costole sporgenti. Col
sole e la pioggia, col favore della luce o fra le ombre notturne, avanzavano senza sosta,
guardati a vista da reggimenti armati a cavallo, spinti oltre i passi valicabili che poi
venivano chiusi alle loro spalle.
Vi erano individui di Aspraterra e Freddapiana, miserabili di Verdelanda, dorati di Hyberia
e pirati di Moravia. Si ammassavano sui pendii interni delle montagne in metropoli di legno
e tela, dividendosi in cacciatori e raccoglitori, vivendo senza legge, tentando di uccidersi
vicendevolmente pur di superare i singoli giorni che si susseguivano. Dividevano quei
monti con enormi e brutali uomini bestia dall’aspetto di grotteschi primati alti anche tre
metri, con quattro membra capaci di strappare in due un cavallo e armati di mazze
ricavate dalle enormi ossa delle bestie risalenti al Vecchio Impero. Ma anche gli Esiliati
non erano da soli.
C’era un’altra genia fra i monti, esseri né uomini e nemmeno bestie, selvaggi e liberi che
sopravvivevano viaggiando per tutte le montagne di Vulcania con armi di ossidiana e
selce, alti due metri e dalla pelle ora bianca e ora nera, ora dai lunghi capelli sciolti, ora col
cranio rasato. Avevano gli occhi dominati da un unico colore e le orecchie a punta. I popoli
delle nazioni civili di Mithya li chiamavano in molti modi, ma il senso comune era quello di
“Stranieri” poiché erano gli unici e non rassomigliavano a nessun’altra razza del mondo. E
alle volte, capitava che provassero pietà per gli Esiliati.
Ed è per questo che una bellissima sgualdrina di Verdelanda, condannata per aver
protetto il ladro suo amante poté generare suo figlio in un villaggio nomade arroccato sulle
cime dei monti, fra anziane che conoscevano le erbe che, pure se brutte e contorte per le
aspre condizioni, potevano aiutare durante il travaglio: così venne al mondo un bambino la
cui voce risuonò forte in mezzo alle montagne, alta ben udibile, la stessa voce che un
giorno avrebbe fatto tremare il cuore degli uomini e acceso il sentimento d’amore nelle
femmine di ogni specie civilizzata.
Sua madre lo chiamò alla maniera delle genti libere della Aspraterra e questo nome fu
“Shôkan”, l’Esiliato.

Capitolo 2
*** Un Tesoro di Ossa ***

Il grande orso dormiva fra le radici degli alberi morti. Una bestia possente delle
montagne nere, con i grandi occhi rossi, lucenti e chiusi, il respiro pacato, acciambellato
sul suo trono di ossa animali e non. I micidiali artigli stringevano il torso bestiale del quale
si stava cibando e il manto folto lo proteggeva dai rigori dell’inverno. I colossali alberi,
denominati Alberi di Lireon dai Fenthan, come gli Esiliati si chiamavano nel proprio idioma,
giganteggiavano attorno alla tana, le radici si sollevavano come colonne di templi
dimenticati e ragnatele argentate, dimora di ragni grossi quanto la testa di un uomo si
tendevano fra il legno imbrunito dagli antichi incendi.
Shôkan lo osservava assieme agli altri cacciatori del villaggio, acquattato dietro le radici
più alti, sul terreno sassoso: le piccole pietre spingevano contro la sua pelle tesa sui
muscoli guizzanti, il corpo massiccio, agile e con gli occhi di un nero innaturale. Le
bianche figure dei Fenthan portavano lance dalla punta filiforme in pietra e lunghi archi di
corno dai puntali in osso, freccie della misura di un braccio e i lunghissimi capelli sciolti
sino alla vita. Il giovane selvaggio si distingueva fra loro per i fitti reticoli di cicatrici che
aveva sulla schiena, sul petto e le cosce.
Erano partiti due settimane prima dal villaggio per cercare la grande bestia che aveva
massacrato in una notte quasi tutte le greggi della comunità e durante quei giorni avevano
corso senza fermarsi, a piedi nudi contro spine, aghi di pinto duri come ferro e saltando fra
le immense gole mentre i vulcani rigurgitavano i loro vapori mefitici. «Deve essere grande
tre volte un grosso cavallo da guerra» sussurrò fra i denti la giovane cacciatrice al suo
fianco. Il corpo flessuoso coperto da poche pelli, con i seni abbondanti e sodi schiacciati
contro la terra e le lunghe gambe piegate, le cosce pronte allo scatto. «Era da cento
inverni che non vedevamo una bestia simile…qualcosa l’ha attirato al mondo».
Shôkan la guardò un attimo, facendo danzare lo sguardo sulla sua desiderabile figura,
tornando con l’attenzione sulla sua preda. Con passi agili e silenziosi, i cacciatori presero
posizione tutto attorno all’orso il quale, inconsapevole, si girò sul dorso, esponendo il
ventre rigonfio, spalancando la mostruosa bocca e agitando dormiente la lingua carnosa.
Lui non portava né arco né lancia, quella caccia sarebbe stato il suo “Edtari”, il passaggio
che lo avrebbe consacrato come cacciatore e membro della tribù. Niente armi per lui, o le
montagne lo avrebbero considerato indegno.
Respirò piano, agitando appena le foglie secche che aveva davanti e tenne gli occhi
socchiusi sulla creatura. Si sentirono appena i colpi di lingua contro il palato e un attimo
dopo, due dozzine di cacciatori si alzarono sulle gambe, scoccando le frecce. Le punte
fischiarono nell’aria e colpirono l’orso al ventre, facendone zampillare il sangue. Il mostro
levò un ruggito assordante, il sangue nero sgorgò a fiotti sul terreno sotto di lui e agitò le
colossali zampe. Gli occhi rossi si spalancarono, lucenti e la sua bocca ferale parve, per
un orrido attimo, piegarsi in un ghigno malevolo; un istante dopo, l’orso saltava contro le
radici dietro alle quasi si erano nascosti, le sventrava con i denti lunghi quanto una coscia
e menò fendenti con le unghie.
Trucioli di legno e pietre volarono come fossero pioggia, uno dei cacciatori Fenthan
venne sollevato in aria con un grido di dolore, il ventre squarciato lanciava le interiora tutto
attorno; con uno schiocco brutale, i denti si chiusero attorno alla sua figura, la parte
superiore del busto cadde flaccidamente per terra e agitando la testa, l’orso ne inghiottì le
gambe, tutte intere, tornando all’assalto. I cacciatori si mossero veloci, saltando da una
parte all’altra della fossa, facendo cantare i sottili tendini che fungevano da corda per gli
archi. L’orso tuttavia, nonostante la sua stazza, era scattante sui quattro arti compì un
balzo, girando su sé stesso e con un morso, mutilò le gambe di uno degli assalitori,
facendolo cadere fra le ossa.
I suoi lamenti vennero soffocati quando l’orso gli cadde sopra, schizzandolo a brandelli sul
proprio macabro tesoro e ruggì, levandosi sugli arti inferiori. Troneggiò su di loro,
lanciandosi in avanti, mentre il suo sangue sgorgava dalle ferite che pure non lo
rallentavano sebbene il suo fluido sgorgasse copioso e menò formidabili colpi, mettendo a
nudo i nascondigli, falciando un cacciatore dopo l’altro in un bagno di sangue e organi
lacerati. La femmina accanto a Shôkan, Narfin, si lanciò a sua volta, scoccando due frecce
assieme, centrandolo all’occhio destro e con violenza, le primitive cuspidi penetrarono a
fondo nel cranio, passandogli da parte a parte il cervello e si affacciarono dal padiglione
auricolare sinistro.
L’occhio rimastogli strabuzzò per una stupida sorpresa, poi ondeggiò quasi pigramente
sulle zampe posteriori e ricadde pesantemente, facendo tremare la terra e spargendo le
ossa da una parte all’altra della tana. Uno ad uno, i cacciatori si calarono guardinghi, gli
archi e le lance tese e Shôkan discese adagio, piegando le ginocchia e camminando fra gli
scheletri che, spezzandosi, scricchiolavano sotto i suoi piedi nudi. Si muoveva come fosse
costantemente all’erta, coperto solo da un perizoma di lana e con i fasci di muscoli sudati
per la tensione, gli occhi che brillavano alla vista del cadavere. «Narfin lo ha ucciso – disse
uno dei cacciatori, avvicinandosi alla giovane cacciatrice, mettendole una mano sulla
spalla destra – con un colpo degno di una canzone del focolare…onoriamola!».
A quelle parole, gli altri Fenthan rimasti portarono mano a qualcosa che avevano
addosso, chi alla collana, chi alle ossa che avevano infilzate nei lobi delle orecchie e chi ai
bracciali di cuoio ai polsi. Shôkan li osservò di sottecchi, avvicinandosi alla preda con la
primitiva cautela tipica degli animali, tirando su col naso. Si abbassò sulle gambe,
tendendo i muscoli delle cosce e allungò esitante una mano al cadavere del mostro,
facendone scorrere il manto fra le forti dita, quasi lo stesse accarezzando. E in quel
momento, mentre i cacciatori onoravano la femmina, sentì il battito. «VIA!».
A quell’urlo che così violentemente squarciò il silenzio della montagna seguì il ruggito
della bestia la quale si levò nuovamente, col cranio infilzato da parte a parte e in mezzo
alle strida che levarono i Fenthan calò loro addosso, uccidendone altri due sotto le zampe,
stringendo i denti attorno ad un terzo, divorandolo e masticandolo, schizzandone il sangue
addosso agli altri e diede un colpo con tutto il corpo al giovane umano, mandandolo a
schiantarsi di schiena contro la parate circolare, lasciandolo intontito. Shôkan batté
confuso le palpebre, agitò una mano davanti a sé, cercando di mettere a fuoco la scena
ma sentì solo le urla e le corde degli archi, lo schianto delle ossa e il puzzo del sangue
fresco.
Poi, fra quelle urla distinse la voce di Narfin, scosse violentemente il capo, percependo
un’ondata di nausea e osservò l’orso, coperto di sangue e viscere, afferrare la giovane
femmina per una gamba, tenendola fra i denti e con quel trofeo, gli diede le spalle,
correndo contro le radici e infrangendole con il corpo, rivelando una buia galleria che
piegava verso il basso. Il ragazzo si mise in piedi, incerto sulle gambe: la fossa era
diventata la tomba di ventiquattro cacciatori Fenthan orribilmente fatti a pezzi, lasciati
come merda di bestia in un bagno della loro sofferenza. Secondo l’usanza della comunità,
dovevano essere seppelliti nella nuda terra con i loro trofei, ma l’animo di Shokan ignorò la
spiritualità; la femmina che desiderava chiede in sposa dopo il passaggio gli era stata
strappata da un’orrida creatura senza morte…le anime potevano anche marcire per
quanto gli riguardava.
«Siete morti in battaglia, è l’unico onore che conta» ringhiò tingendo le dita nel sangue
fresco e segnandosi il viso con quattro strisce scarlatte per parte e fece per raccogliere
una delle lance, ma poi la lasciò cadere. Se colpirlo con quelle armi non era servito a
niente, avrebbe trovato un altro modo per uccidere la bestia quando se la sarebbe trovata
davanti. Strinse i denti, serrò i pugni e si lanciò veloce come un felino fra le radici
sventrate, seguendo le orme del suo nemico nel terreno, seguendo la galleria che
scendeva e scendeva, inoltrandosi sempre di più nel cuore della montagna.

Capitolo 3
*** L'Orrore sotto la Montagna ***

Narfin era svenuta durante la fuga; l’ultima cosa che aveva percepito erano state le
zanne del loro carnefice stringersi attorno alla sua gamba e un attimo dopo il suo sensuale
e fiero corpo sbattuto da una parte e dall’altra contro le radici. Una di queste si era
schiantata contro una tempia, lasciandola senza sensi. Ebbe solo vaghi frammenti della
discesa, della luce che spariva sempre più remota alle loro spalle, ma ogni volta che
tornava lucida, il movimento al quale era soggetta la faceva investire dalla nausea, la testa
le pulsava dolorante e si afflosciava nuovamente, con le braccia che pendevano oltre la
testa.
Il tragitto fu lungo verso il cuore della montagna, l’orso seguiva il percorso nonostante si
aprissero decine di altre strade e pestava con sordi tonfi le zampe seguendo una strada
che mutava man mano che si addestrava nelle viscere della terra. Dalle pareti naturali in
fango, silicio, basalto, granito o cruda roccia, dalle radici e dai fiumiciattoli sotterranei che
alimentavano tutta Vulcania, dalle stalattiti e stalagmiti antiche di intere ere passate, forse
risalenti a prima che la terra fosse abitata dalle civiltà, quando era solo un inferno di gas e
acqua ribollente, dalle tracce della sola natura, passarono ad ambienti ben diversi.
Le pareti si fecero più alte e lisce, la sua mole grottesca corse attraverso ampie gallerie
scavate da attrezzi e mani pensanti, le radici lasciarono posto a pitture conservate dall’aria
stagnante, magnifici dipinti che ritraevano torni ammantate dalle tenebre, titanici rettili su
quattro arti dai lunghi colli ricoperti di scaglie e con teste antropomorfe che sputavano
fuoco, orrori alati e orde di guerrieri che assediavano e distruggevano una città dopo
l’altra. D’un tratto lo stile cambiò ancora, facendo più spoglio finanche non raggiunsero un
ampio arco ogivale, decorato in tutta la sua forma da scarnificati teschi umani, dalle orbite
vuote e le ossa lucidate.
Oltre l’arco, le pareti si facevano fitte di bassorilievi, di incisioni remote, di ampie pitture
dai colori vivaci, ma che ritraevano orrori simili ai precedenti. La differenza stava nel
soggetto principale: un essere dall’aspetto umani, con parvenze demoniache, con braccia
deformate in tetre ali e sotto di lui, una processione di schiavi che attraversava una mappa
di tutta Mythia, da nord a sud. Narfin si riebbe durante quest’ultima fase della corsa, col
sangue che gli scorreva dalla coscia sino alla vita e poi gocciolava sui seni e sul volto, in
una scia scarlatta sul suolo selciato. Gettò uno sguardo al suo rapitore, guardandosi come
poteva attorno, ma la nausea non le dava tregua ed ebbe un conato, lasciando una pozza
maleodorante a terra.
Alla fine passarono sotto una serie di archi, l’uno più grande dell’altro, con orride statue
di nero e lucido adamante nelle nicchie e superato l’ultimo, si ritrovarono nella sala grande
di un tempio. L’orso rallentò il basso, agitando la testa e sbattendola per terra di
malagrazia, superandola lamentando piano agitando una zampa per spezzare le freccie
ancora conficcate nel cranio. Indebolita dall’emorragia e stordita, Narfin osservò le colonne
ai lati della sala grande, alte venti metri e dalla superfice pentagonale e oltre l’altare si
levava una colossale statua, di cinquanta metri, del Sire delle Ombre. «Vandrakk…»
sussurrò e, osservando debolmente i rubini che aveva come occhi, venne trafitta dallo
sguardo senza vita del simulacro.
«Tu – rantolò girandosi sul ventre, sforzandosi di fare leva sulle palme per rimettersi in
piedi e portando l’attenzione al gigantesco orso – tu sei…suo» sibilò... Per tutta risposta la
bestia si erse sulle zampe posteriori e rise, rise con ruggiti profondi che riecheggiarono nel
tempio e in breve, al ruggito rispose il calpestio di decine di piccoli piedi veloci, piedi che si
moltiplicavano nella montagna e che vennero accompagnati da cupi rimbombi di tamburi.
Giunsero poi un insieme di voci stridule e indistinte e delle porte si aprirono pesantemente,
facendo entrare nel tempio dozzine di Warglor ghignati, che brandivano le loro rozze armi
e formarono un cerchio attorno all’altare. Narfin sentì un moto d’orrore all’altezza delle
viscere e si tirò su, tentando di coprire le proprie nudità col sudore gelido, ma un
giramento di testa la fece cadere mollemente a terra.
Una di quelle orride creature, dalle braccia lunghe come quelle delle scimmie avanzò
sino a lei, la bava alla bocca e la fece rotolare sulla schiena con un calcio, facendo ridere
allegramente tutti gli altri, come fosse uno spettacolo irresistibilmente esilarante.
«Un’offerta, un’offerta – esclamò il capo, sollevandola poi senza fatica oltre la brutta testa
bitorzoluta, guardandosi attorno con gli occhi ciechi, ma olfatto e tatto sin troppo sviluppati
– un’offerta per il Sire delle Ombre!» e tutti esultarono nuovamente, agitando le lame
sopra la testa; l’orso ruggì selvaggio, facendoli ridere nuovamente e la sollevarono decine
di mani, sbattendola sull’altare, legandole i polsi e le caviglie con le cinghie, strappandole
gli ultimi stracci che aveva indosso.
«Bella, bella» sbavò il Warglor più grosso, toccandola avidamente a piene mani,
stringendole la curva dei seni, tirandole i capezzoli, leccandole il ventre piatto e allenato,
provocandole brividi di disgusto lungo la schiena passando poi alle cosce, al suo sesso
tremante fra le gambe. La folla tremava e ondeggiava, al pari di onde dell’oceano e il suo
aguzzino levò un coltellaccio dalla lama ricurva e acuminata, dai riflessi scarlatti sinistri,
illuminato dagli alti bracieri dalle sinistre fiamme verdi che gettavano bagliori a cinquanta
metri da terra, pendenti dal soffitto a volta. Gli occhi annebbiati della Fenthan seguirono
con terrore la lama scivolare fra il solco dei seni verso il basso, per poi risalire, lasciandolo
pallidi graffi. «Bella…troppo bella» ghignò sadicamente l’altro.
L’orrore e la consapevolezza di quanto stava per succederle donò alla giovane femmina
un fiotto di energia, percepì la forza pulsare le suo forte corpo e irrigidì ogni fibra del
braccio destro, i muscoli si gonfiarono sotto la bianca pelle e diede un violento strattone
col braccio, rompendo il tratto di corda che assicurava la cinghia ad uno dei quattro anelli
d ferro incastonati nell’altare. La sua mossa fu rapida, colpì la creatura deforme saltata
sopra di lei al mento, rompendogli una delle affilate zanne e quello fece cadere il pugnale,
che tintinnò sulla pietra. Con la vertigine che montava nuovamente, afferrò l’elsa del
coltello e appena il Warglor si voltò, affondò la lama in mezzo ai suoi grandi occhi,
ritraendola poi con uno scatto, sporcandosi con le sue cervella.
Ci fu del silenzio, del pesante, soffocante silenzio. Occhi ciechi dardeggiarono da un
capo all’altro del tempio mentre il sangue sprizzava allegramente dalla ferita nel cranio del
capo e le altre creature ne videro la morte con ogni senso che non fosse la vista. Si
agitarono e stridettero, l’orso ruggì furioso e si lanciò in avanti; Narfin rotolò giù dall’altare,
menò un fendente che segnò in profondità il viso di u di quei deformi accoliti e si guardò
attorno. Ovunque volgesse lo sguardo i Warglor la assediavano e insidiavano, tesero le
mani verso di lei, ridendo, sghignazzando, palpandola con desiderio, incuranti di quante
mani e dita venissero loro mozzate.
La grande bestia scavalcò l’altare, diede un violento colpo col muso, sollevandola da
terra come fosse stata un fuscello, mandandola a schiantarsi di schiena sul suolo
dell’empio luogo sacro e avanzò pesantemente. Con un piccolo tonfo, la sua virilità s’induri
picchiando contro il pavimento col pulsante, grosso glande arrossato, snudando le zanne
e passandoci sopra la lingua. Narfin tremò, colma di orrore e ribrezzo ma ancora stordita
venne sopraffatta facilmente. Le vennero tirate le braccia e le gambe, le voci crudeli risero
quando l’orso, ansante, leccò tutto il suo corpo nudo, dal sesso gonfio ai sen pieni, sino al
volto, lasciandosi dietro un’olezzosa e calda scia di vischiosa bava.
La femmina di Fenthan serrò gli occhi distogliendo la sguardo, inarcando la schiena,
agitando le gambe e lottando per stringere le cosce, per sottrarsi alla violenza ma sentiva
l’enorme corpo della creatura sul suo, il suo fetido fiato contro la pelle bruciata e pregò,
pregò che morisse nell’atto, che finisse in fretta, pregò che la sua anima non andasse a
Vandrakk, sepolto sotto gli inferi di Mythia e pregò che tutti la ricordassero fiera, e non in
lacrime, con le budella in subbuglio per la paura e la sensazione di un enorme, mostruoso
fallo pronto a stuprarla come una puttana qualsiasi davanti ad un’orda di dementi.
«CANI BASTARDI!». Com’era successo nella radura, la voce di Shôkan esplose dalla
sua gola nonostante avesse la gola riarsa per la corsa selvaggia che lo aveva portato sin lì
e osservò con un cieco furore la scena che si si presentava dinanzi, digrignando i denti.
«Quella – sibilò con la rabbia che pulsava in ogni fibra dei suoi muscoli – quella è la mia
donna».

Capitolo 4
*** La Furia del Cacciatore ***

La sua era stata una corsa folle nel sottosuolo; l’orso era ben più grande e veloce di lui e
ogni passo della creatura corrispondevano a dieci dei suoi, eppure aveva continuato a
scendere, seguendo dapprima le ombre sulla terra, poi, quando era diventato troppo buio
per quelle, seguì il fetore e, quando l’umidità e il pestilenziale olezzo delle cose marce e
malevole avevano appestato l’aria, il suo istinto. Fra quella gente era stato cresciuto come
un cacciatore, e come un cacciatore aveva pensato correndo sulla stessa strada dell’orso
demoniaco, facendo danzare i pettorali ad ogni passo, tendendo le cosce sino allo
spasmo, ignorando il corpo che dopo molte miglia aveva urlato di protesta.
Ora, madido di sudore, con gli occhi colmi dell’orrore celato sotto le montagne, le narici
dilatate e accaldato, accecato dal sale che gli colava dalla fronte, fronteggiava, solo e
disarmato, un’orda di disgustosi Warglor e soprattutto, la bestia che troneggiava sulla
femmina che desiderava. Sgranò gli occhi, selvaggio, libero, ferale, colmo di una rabbia
ancestrale, la rabbia del lupo e del leone, dell’orso e della pantera, del drago e della
scimmia. Sollevò gli angoli della bocca in un ghigno folle e avanzò in mezzo al tempio,
appena consapevole della situazione che lo circondava.
«Shôkan…aiutami! Uccidili tutti…» vedendolo lì, anche se solo e disarmato, Narfin sentì
della nuova energia scorrergli in corpo, si dimenò selvaggiamente, sollevando i ruggiti di
una lupa irata e in un qualche modo, per quanto indebolita, riuscì a liberarsi di quelle
strette. In quel momento, aveva solo un modo per offendere la bestia davanti a lei e non
esitò, gettandosi in avanti, piegandosi su braccia e gambe, incurante delle proprie nudità
che reclamavano la fine e strinse i denti attorno alla punta dell’orrendo membro che si
ritrovò davanti al volto. Veloce avanzò ancora, dando un altro morso, sentendo l’olezzo
disgustoso del suo seme, del suo sudore, del suo manto e diede un violento strattone,
mozzandogli il glande.
Il sangue la investì con un getto violento, l’orso infernale si levò sugli arti posteriori,
ruggendo di dolore, agitandosi da una parte e dall’altra, gli occhi rossi che bruciavano di
rabbia e sofferenza e il suo muoversi causò molti morti fra i Warglor che corsero ora da
una parte e ora dall’altra. Indisciplinati selvaggi e schiavi, senza una vera intelligenza se
non quella dell’orda. Sollevarono strida e si urtarono vicendevolmente, agitando gli arti.
Shôkan non attese altro, saltando nella mischia con un poderoso balzo, unendo le mani e
calandole come fossero un maglio da fabbro, sfondando un cranio con la forza bruta.
La sua prima vittima stramazzò al suolo, senza un lamento e il giovane raccolse la sua
mannaia, non più grande della sua testa e affondò ancora, tranciando ora una testa con
un fendente laterale, ora spaccandone in due un’altra, conficcandola in profondità, sino al
collo, per poi ritrarla. Stridendo, alcuni Warglor si riebbero e lo caricarono, zampettando
come ragni o primati. Shôkan li fronteggiò senza esitare, carico di un barbarico furore e
fece danzare la mannaia, recidendo un polso, fece un passo indietro, piegando il busto di
lato e abbatté la mannaia di lato su una tempia, spaccando una testa facendo volare le
ossa e il cervello. Ne uccise un altro calando l’arma dall’alto, dividendogli in due il viso e il
costato, scavalcando il suo cadavere eviscerato.
Il sangue scivolava sugli addominali contratti nella lotta, inzaccherandogli i pettorali
segnati dalle vecchie cicatrici. Non ci volle molto perché la natura vile dei Warglor venisse
a galla. Erano disorganizzati, il loro capo era morto in maniera ignobile e il demone, il
Vorgla che avevano risvegliato dalle profondità montuose era ridotto ad un demente che
lamentava, ondeggiando con l’enorme corpo. Una corta, brutta lancia volò verso Shôkan,
la punta in ferro gli trapassò una spalla, passandolo da parte a parte, costringendolo in
ginocchio. Vedendolo così, un gruppo di quelle aberranti creature si fece avanti,
sollevando le corte spade ricurve ma il giovane, pur spruzzando sangue dalla ferita e
lordando il suolo del tempio, menò dei brutali fendenti, abbattendoli uno ad uno,
lasciandoli a terra in una pozza ribollente.
«Volete uccidermi? Voi bastardi del sottosuolo? Dovrete venire a staccarmi la testa
allora…quanti di voi sono disposti a morire per ottenerla?» sibilò, leccando la lama della
mannaia, grondante sangue. I Warglor rimasti, sebbene fossero numerose dozzine si
guardarono l’un l’altro e senza un capo a tenerli uniti, sciamarono da dove erano venuti,
strillando spaventati e sparendo nei cunicoli che li avevano vomitati. Ci fu un grido,
Shôkan riportò l’attenzione su Narfin che gli corse incontro, pallida come un cadavere,
lorda di sangue a sua volta e gli cadde fra le braccia, fredda. Tentò di parlare ma era
debole e il giovane si limitò a togliersi il perizoma e, così nudo, le fasciò stretta la ferita,
fermando la perdita di sangue, ringraziando gli dèi dei Fenthan che fosse ancora viva e le
passò oltre, gettando a terra la mannaia, portando mano alla lancia e con un lungo grido
straziante, la sfilò dalla ferita, perdendo un abbondante fiotto di sangue.
Il Vorgla si volò verso di lui, lanciando un altro ruggito, con la virilità senza controllo che
sfregava per terra e i suoi occhi si fecero dardeggianti, levandosi sugli arti posteriori e
lanciò un tale ruggito da far tremare l’aria, ondeggiare i bracieri in alto e far volteggiare i
lunghi capelli rossi del suo avversario come fossero fiamme attorno al suo capo. Shôkan si
leccò le labbra e incurante delle proprie critiche condizioni si avventò su quel soverchiante
avversario, percependo ora la primitiva gioia per la lotta. «Uccido te…e sposo la mia
femmina, immagino sia così, giusto?», chiese sarcastico, caricandolo a testa bassa.
Un attimo prima che gli artigli gli spappolassero il cranio si abbassò sulle ginocchia,
stringendo la presa sui suoi abnormi fianchi e stringendo i denti fino a sprizzare sangue
dalle gengive; serrò le dita sulla grassa pelle dell’orso e sputò sangue quando, contro ogni
legge di quel mondo barbarico, contro la logica, sollevò il Vorgla da terra, facendolo
schiantare con la nuca contro la pietra dell’altare, sfondandolo. Il tonfo del corpo fece
tremare il suolo. Shôkan tremò per il sudore gelido da capo a piedi, spostando incerto il
peso da un piede all’altro e osservò con tanto d’occhi il demone che si rialzava, perdendo
il proprio sangue nero da una frattura nel cranio e che pure tornava eretto come se non
avesse accusato l’assalto.
Svuotato da ogni forza da quella straordinaria impresa, il giovane non schivò il colpo e
stavolta fu il suo corpo da umano a finire in mezzo alle macerie dell’altare, sotto lo sguardo
ghignante e sprezzante di Vandrakk. E fu allora, quando la morte sembrava giungere sul
suo cavallo nero con la propria falce d’argento per prendere le anime dei due Esiliati che
la leggenda di Shôkan ebbe inizio. Non si poteva sapere come l’antica arma che schiacciò
il cranio di Vandrakk si trovasse in un altare in tempio dedicato all’avversario del suo
possessore, ma in punto di spirare, Shôkan il duro acciaio sotto il palmo destro e girando il
capo lo vide: un antico maglio da guerra con una testa squadrata dalla quale si allungava
un gancio acuminato, grosso quanto il braccio di un uomo.
Non era magico, ma era lì e quell’arma gli fece tremare ogni muscolo del corpo e,
guardando la morte in faccia, gli sputò sul volto scheletrico, sprezzante. «Non sarà la mia
anima che ti prenderai oggi» ringhiò a denti stretti e, tornato lucido, lanciò un ruggito con le
forze che ri restavano e si alzò tremante, puntando lo sguardo sul demone che si era
avvicinato nel mentre a Narfin. «Sono ancora vivo!» ruggì, sollevando il maglio sopra la
testa, poggiandolo sulla spalla destra. L’orso si voltò verso di lui, spalancò gli occhi di
sorpresa e orrore vedendo l’antica arma che aveva sconfitto le tenebre millenni prima e
lanciò un verso terrificante, avventandosi contro l’umano. Ucciderlo, doveva ucciderlo,
doveva porre fine alla sua vita.
Il giovane guerriero lanciò un verso brutale, menò il maglio da combattimento con
entrambe le mani e la punta ricurva si scontrò col cranio del mostro, fracassandolo in
decine di frammento sanguinanti, schizzandone le cervella al suolo, facendone volare via i
denti. Ruotando il busto, Shôkan portò l’arma sopra la sua testa e la calò con un salto sul
corpo dell’avversario, spaccandolo dal torace sino alle viscere, sventrandolo
aggrovigliando gli intestini e lasciandoli a srotolarsi in un insieme caldo e fetido fra le
zampe dell’orso. Dal moncherino del collo sprizzò denso sangue nero, il corpo cadde su
un fianco, riversando altro plasma al suolo e nell’antico tempio tornò un profondo,
innaturale silenzio.

Capitolo 5
*** La Via di Ritorno ***

All’esterno il sole era scivolato ad occidente della grande catena montuosa che, dal
massiccio montuoso nelle terre settentrionali di Vulcania discendeva verso sud, sino a
curvare verso oriente, disegnando un confine con i regni caldi e giungere sino alle sponde
del Mare Interno. L’Esiliato emerse dalla lunga rete di tunnel che le ombre della notte si
allungavano su Mythia distorcendone i contorni, facendo apparire gli alberi come
giganteschi esseri dotati di innumerevoli bocche, occhi e teste. Portava fra le braccia il
freddo corpo di Narfin, stretto contro il suo possente petto, avvolta nelle pelli di cui erano
vestiti di Warglor che aveva ucciso nel tempio.
Anche il suo volto, bellissimo pur dai tratti brutali era pallido, la ferita gli doleva e il
braccio sinistro pulsava dolorosamente, eppure Shôkan aveva riacquistato l’aria aperta
portando al fianco il maglio da guerra trovato fra le macerie dell’altare e trasportando sia la
femmina Fenthan fra le forti braccia, sia la pelle del Vorgla assicurata alla schiena, come
un rozzo mantello. Lo aveva scuoiato solo in parte e di fretta, recidendo i nervi e la carne,
strappandone un’abbondante porzione dal suo dorso e, gettandosela addosso, si era
avviato, grugnendo ad ogni passo. Non poteva sapere con esattezza quanto tempo
avesse passato nelle gallerie e nel tempio poi, ma non se ne curò davvero, con quella
bestia morta e la banda di mostriciattoli rimasti senza un capo, la notte sarebbe stata
relativamente tranquilla.
Uscì dalla fossa di ossa e resti di cacciatori per il percorso usato dall’orso, inoltrandosi
nel folto della boscaglia senza vita, districandosi fra le immense radici degli Alberi di Lireon
e trovando, fra di esse, una discreta rientranza nel terreno, ben coperta dagli arbusti e
dalla parete interna in roccia, quindi asciutta. Levò uno sguardo al cielo ormai notturno,
occultato dalle nuvole e vi si calò adagio, poggiando la pelle della bestia sul pavimento di
foglie secche, terra e sassi e vi adagiò sopra Narfin, con insospettabile dolcezza e le
scostò i capelli setosi dal volto, ora inzaccherati di sangue e ne avvolse il corpo nudo con
le pelli al meglio, lasciando scoperto solo il capo. «Abbiamo entrambi bisogno di sangue,
vado a caccia, non muoverti».
Il suo parlare era schietto, rude quasi e tipico delle genti semplici delle città civilizzate; se
sua madre fosse stata di Empirea, avrebbe avuto un modo di esprimersi diverso, più
articolato; fosse originario dell’Aspraterra parlerebbe una lingua arcaica e dura, mentre ad
Hyberia avrebbe appreso un idioma simile alle salmodie del sud, ma imbastardito dalla
lingua di Freddapiana. Ma sua madre era di Verdelanda, dove la lingua era diretta e
semplice, ma non brutale, solo pensata per esprimere i pensieri senza giri di parole e,
sebbene sua madre avesse passato molto tempo fra gli Stranieri, Shôkan si esprimeva
come un selvaggio di quella terra a nord ovest.
Fece quanto aveva detto dopo aver masticato alcune foglie di quella pianta che le
megere al villaggio usavano per curare le ferite più profonde, spalmandole sulla ferita e la
fasciò con le ultime pelli rimaste e tornò sui propri passi, circospetto e tendendo l’orecchio
ad ogni rumore che paresse alieno alla natura morta che lo assediava da ogni lato.
Recuperò dalla fossa un arco ancora intatto e una sacca con le lunghe frecce e tese i
tendini dell’arma; ogni movimento era una stilettata di dolore che dalla spalla ferita si
spandeva in tutto il corpo, ma non aveva alternativa e il viaggio di rientro sarebbe stato
lungo, non poteva trasportare tutto ciò doveva in quelle condizioni, sarebbero solo morti
entrambi.
Il senso dell’orientamento sviluppato durante le escursioni e l’addestramento con gli altri
della tribù gli permisero di cacciare in un terreno che si allargava di qualche buon miglio da
dove aveva lasciato Narfin, i suoi piedi correvano su erba, massi e rovi, i capelli rossi gli
danzavano tutto attorno al volto e gli occhi corvini penetravano le tenebre naturali,
permettendogli di muoversi in scioltezza fra le ombre. Dovette allontanarsi ancora dalla
fossa del Vorgla per trovare degli animali che osassero avventurarsi e, forse gli dei che
pregavano i Fenthan o forse semplice fortuna, ma d’un tratto si acquattò dietro ad un
tronco d’albero.
Prese un profondo respiro, incoccando la freccia e tese l’arco finché non si sfiorò
l’orecchio destro con l’impennaggio; prese un respiro, si affacciò e scoccò, passando la
gola del cervo da parte a parte, lasciandolo stramazzare al suolo, col sangue rosso che
zampillava copioso. Era, come tutti gli animali della Terra Nera, mutato, con le corna
bizzarramente contorte e quattro occhi acquosi, dalle zampe esili e scattanti, poggianti su
tre dita dai robusti cuscinetti. Se lo caricò sulla spalla sana e tornò sui propri passi, più
rapido che poteva con la ferita che lo tormentava ogni volta che la preda si agitava per la
corsa.
Narfin si era risvegliata e la trovò accostata con le spalle alla parete rocciosa, la gamba
ferita distesa. La ragazza gli sorrise, un sorriso stanco che Shôkan non ricambiò; non lo
dava a vedere, ma la sua passione per la giovane era sincera e profonda e altrettanto la
paura di perderla. «Sembra che tu abbia trionfato nel tuo Edtari…probabilmente nessun
altro Fenthan ha mai potuto vantare di un simile trofeo al suo passaggio» sussurrò
passando la mano sulla calda pelle della bestia. Era in un certo modo ironico come fino a
poco prima quella creatura rappresentasse l’orrore e ora che di lei restava solo
quell’ammasso di pellame si sentisse così al sicuro in quello stesso manto.
Il giovane non rispose, tranciò un grosso pezzo di carne dalla coscia sinistra del cervo e
glielo porse, gocciolante di sangue. «Se non mangiamo e sopravviviamo, tutto questo non
sarà servito. Ne riparleremo quando saremo tornati al villaggio» eppure, Narfin in seguito
sarebbe stata sicura di averlo visto sorridere mentre pronunciava quelle parole con un
malcelato orgoglio. Certo, si era dovuto servire di un’arma, ma davanti a quel mostro e nel
mezzo di quella situazione da incubo, la sopravvivenza aveva avuto la precedenza e di
nuovo, a Shôkan delle tradizioni importava poco; ora aveva il diritto di chiederla in sposa, il
resto non contava nulla, per la sua mente veloce e pratica.
Si cibarono quindi di carne cruda, strappandola con i denti e le unghie, tranciandola a
bocconi col coltello che avevano recuperato dal cadavere del capo dei Warglor e stettero
in silenzio, attorniati dalla sinistra orchestra della natura. Quando i ventri furono sazi ed
entrambi avevano ripreso un po' di colore, si coricarono sulla pelle, il giovane strinse la
femmina con una certa possessività che non le dispiaceva affatto e rimase contro il suo
forte petto sino alle prime luci dell’alba, leggermente rossa sulle graziose guance. Quando
Vulcania si svegliò, al mattino, quando le nuvole eterne di cenere permisero ai raggi del
sole di filtrare, sebbene soffocati e il grigiore dell’alba al grigio del giorno, appena sfumato
in una serie di indistinti colori sparsi, si misero in marcia.
Viaggiarono per dieci giorni e dieci notti; procedevano spediti, interrompendosi solo per
cacciare o per entrare nelle caverne in fondo alle quali sapevano avrebbero trovato
dell’acqua per poi riprendere. La terra nella quale erano cresciuti li aveva ben temprati
dalla loro nascita e attraverso l’esercizio costante, le loro ferite che avrebbero ucciso un
qualsiasi robusto uomo civilizzato, o anche debilitato per molto tempo, guarirono
agevolmente, sebbene il giovane faticasse ancora ad adoperare appieno il braccio
sinistro. Correvano assieme, mangiavano assieme e la notte dormivano assieme; sebbene
non fossero ancora sposati, sotto le montagne si era formato un legame fra di loro, un
qualcosa di forte che aveva avvinghiato le loro anime.
Il sole si succedette alla luna, la luna succedette al sole e sul fare del loro undicesimo
giorno di viaggio, superarono l’intricata foresta montuosa che delimitava la piccola valle
nascosta nella quale la loro tribù si stanziava durante l’inverno, dove una cappa di calore
era trattenuta dagli immensi alberi e il freddo tenuto a bada dai grandi fuochi che ardevano
in mezzo alle capanne per tutto il tempo in cui restavano stanziati. C’erano oltre cinquanta
capanne di varie dimensioni, in parte interrate mentre i tetti erano di legno, giunchi e terra,
con un foro circolare per far uscire il fumo del focolare. I Fenthan a quell’ora pregavano
presso il grande feticcio di legno al centro del villaggio, portandole offerte e intonando
bassi canti nel nome degli dei.
Furono le guardie al limitare del villaggio a scorgerli avanzare per la vallata e lanciarono
un lungo richiamo, simile all’ululato dei lupi. Gli altri membri della tribù accorsero di fretta,
belli e alteri, sporchi e felici, con le armi al seguito e quando li videro, sollevarono grida di
trionfo e picchiarono sui piccoli tamburi che risuonarono in tutto il villaggio. Fu, però, solo il
vecchio Hathres, il capovillaggio ad andare loro incontro, stringendo l’unica arma in acciaio
della comunità: una lancia dalla punta lunga trenta centimetri su un’asta decorata con
decine di antichi glifi intrecciati. Quando si fermò davanti a loro, coi capelli bianchissimi e
gli occhi segnati da profonde rughe d’espressione e le labbra sottili solo Narfin si inchinò
rispettosamente, Shôkan si limitò a togliersi la pelle di Vorgla dalle spalle e a gettarla ai
suoi piedi, guardandolo negli occhi.
«Dobbiamo parlare» disse rudemente.

Capitolo 6
*** La Chiamata del Destino (Finale) ***

«Capisco…Warglor e Vorgla di nuovo insieme, i templi di Vandrakk nuovamente abitati e


le foreste non sono più sicure. Già da ame avevo intuito i segni della minaccia del passato:
i vulcani sono inquieti da tempo, temo che prima o poi sputeranno la Grande Ombra e
Vandrakk sarà liberato dalla sua prigione poiché è stato ucciso si, ma non è morto, no.
Anche senza vita lui non muore ma attende una nuova era di buio». Hathres aveva
ascoltato tutto il racconto, dalla partenza per la caccia al primo scontro con l’orso
demoniaco, proseguendo poi con l’inseguimento e la furiosa lotta al tempio, sino al
ritrovamento dell’arma che il giovane sulle gambe intrecciate al viaggio di ritorno. Narfin
non aveva nascosto nulla, neanche l’umiliazione subita e la violenza che l’aveva sfiorata.
«Credo che sia compito di noi Fenthan radunarci per discutere del migliore piano
d’azione…mentre gli umani dovranno essere pronti a loro volta. Per questo, mi duole dirlo,
non posso acconsentire al matrimonio. Tu, Shôkan, dovrai viaggiare fra i regni e avvertire
le razze dei regni mentre tu, figlia mia, tu dovrai fare da messaggera presso le altre tribù. Il
pericolo non è immediato ma neppure remoto…e i viaggi saranno lunghi e pericolosi per
entrambi». Li dove Narfin, pur con una stretta al petto, annuì, accettando le parole del
padre, Shôkan invece ribollì di rabbia e lasciò che a parlare fosse la propria passione per
la femmina, parlando con una voce ferita, ferita e colma di rabbia.
«Parole vuote di un vecchio – sentenziò alzandosi in piedi, stringendo il maglio da
guerra – partenza o meno, ho il diritto di reclamare la mia donna e il mio matrimonio. Ho
ucciso decine di Warglor, massacrato il Vorgla e ti ho portato la pelle e tua figlia, ed è così
che mi ricompensi? Con un altro esilio? Se mia madre fosse viva la odierei con tutto il
cuore per questo nome che mi ha dato, ma ora posso odiare te» e sputò nella sua
direzione, raccolse la pelle e uscì dalla tenda, saltando gli scalini che portavano
all’esterno. Sotto gli occhi del villaggio si diresse alla sua tenda che sino all’inverno
precedente aveva condiviso con sua madre e si gettò per terra, penando all’ingratitudine
del vecchio e a Vandrakk che, pure nella sconfitta, si stava prendendo gioco di lui.
Le ore scivolarono placidamente, Shôkan restò chiuso nella sua abitazione, conciando la
pelle per passare il tempo, muovendo di quando in quando la spalla sinistra e ravvivando il
fuoco per stare al caldo; in quelle due settimane quasi di viaggio, l’inverno era avanzato, il
freddo della notte si era fatto ostico e pungente e i falò all’esterno non scaldavano allo
stesso modo tutte le abitazioni. Rimase solo e in silenzio per del tempo, ripensando alla
catena di eventi di quei giorni e sentendosi preso in giro dal mondo intero: sua madre
esiliata per aver coperto colpe non sue, lui mandato in un viaggio probabilmente senza
scopo o ritorno, la sua femmina che forse non avrebbe mai rivisto.
Irato prese in mano il maglio da guerra ed ebbe l’impulso di lanciarlo fra le fiamme prima
di poggiarlo a terra e sedendosi intrecciando le gambe, passandosi una mano sulla bocca.
Prese ampi respiri e si agitò sulla pelle, sentendo il freddo pungergli la pelle; allora,
quando la notte si fece assoluta e lui ancora non si assopiva per la moltitudine di pensieri,
sentì dei lievi passi alle sue spalle e si voltò con la testa, agitando i rutilanti capelli.
Nonostante il freddo, Narfin scendeva nuda le scale, i seni chiari e pieni, i capezzoli turgidi
per il freddo e l’inguine glabro, rasato con una lama di selce. Il colore chiaro della sua pelle
metteva in risalto le gocce di eccitazione che scivolavano per la vita stretta e i fianchi
ampi, l’esile collo e i muscoli di gambe e braccia, con le cosce che si strusciavano fra loro
ad ogni passo.
«Il dovere, il destino…forse gli dei stessi ci chiamando entrambi, Shôkan – sussurrò
sensuale, muovendo le rosee labbra, fermandosi davanti a lui, ammutolito, con
l’eccitazione che premeva contro il perizoma – ma prima di tutto questo, voglio che tu
sappia quanto io ricambi ciò che tu provi per me» e così dicendo spinse il seno contro i
suoi pettorali, tremò di desiderio, di passione repressa e lo baciò sulla bocca, allungando
una mano verso il basso, stringendogli il membro, pelle contro pelle. Il giovane ebbe un
moto di sorpresa, ma ben presto lo soffocò sotto la lussuria che premeva prepotente alla
sua porta e portò le mani a quella pelle elastica e soda, mordendole la bocca, spingendola
contro di sé.
Narfin spostò i polpastrelli della sua mano libera sugli addominali di lui, sorridendo
d’aspettativa contro la sua bocca e abbandonandosi contro di lui, sciogliendosi come neve
al sole fra le sue forti mani. E Shôkan la fece sua col suo solito impeto, stringendola per i
fianchi, baciandole i seni, mordendole le natiche; il piacere guidò le loro azioni, spingendo
l’uno ad assaggiare il sesso dell’altra e viceversa in una lenta, peccaminosa esplorazione
dei loro corpi. Si baciavano e si graffiavano, la ragazza lo accolse con gioia fra le proprie
cosce, piegandosi lieta quando lui la montò alla maniera dei lupi, mordendole la nuca,
stringendole il soffice e caldo petto, ansimando al suo orecchio, che mordeva, sfiorava con
la lingua.
Fecero l’amore a lungo e molte volte; Shôkan colmò ogni anfratto di Narfin col proprio
ardente seme e lei si prese il piacere da quel corpo audace, sentendo decine di piccoli
segni formarsi sulla sua figura, segni che accolse estasiata dal piacere che le squassava
la mente e le viscere, lasciandola fradicia di umori quasi in una maniera oscena ma
sempre la calda bocca del suo amante la raggiungeva lì, pulendola minuziosamente,
saggiando il frutto della loro foga, possedendola ancora e ancora. Non ci furono parole,
solo gesti rabbiosi e dolci, ferali e gentili che si alternavano a tocchi e baci.
Così, mentre le braci si spegnevano e la notte si rischiava, un matrimonio segreto venne
ufficializzato e consumato, la verginità di una ragazza veniva meno, trasformandola in
donna e un giovane selvaggio diveniva un uomo nell’estasi di un sesso animalesco e
brutale, così come doveva essere, furiosa carne contro carne, in una dolcissima lotta,
un’erotica prova di forza che lasciava entrambi senza fiato. Infine, presa da dietro, con la
marmorea asta fra il solco delle natiche, la schiena inarcata al pari d’una gatta e i seni
arrossati per i tocchi che ondeggiavano e picchiavano, invitanti, fra loro, Narfin si
abbandonò all’ennesimo orgasmo, inseguendo un’ultima volta la bocca del suo amante
prima di crollare esausta sul suo giaciglio lordo di sudore e umori, il sapore del suo seme
fra le labbra e il suo calore in profondità nel ventre.
Shôkan prese la decisione in quel breve intervallo di ore che precedevano l’alba; fare
l’amore con la donna in quel modo, amarla, prenderla, marchiarla come sua aveva acceso
in lui un altro istinto, quello della conservazione della specie, quello della protezione,
quello di rendere il mondo un posto sicuro, di annientare qualsiasi minaccia sul suo
cammino. Quando fu certo, quindi, che Narfin fosse assopita profondamente, si mosse
silenzioso per la tenda, calzando stivali da viaggio pesanti, assicurandosi il martello alla
cinta e con la pelle ne fece un lungo mantello con cappuccio. Così vestito si guardò
un’ultima volta alle spalle, osservando il corpo della Sua donna e volse lo sguardo, prese
la faretra, si mise l’arco a tracolla e risalì.
I fuochi continuavano ad ardere, ma il villaggio era assorto nel silenzio del sonno;
qualche lupo levò il capo, ma Shôkan lo conoscevano bene e, nella loro ferina intelligenza,
colsero la necessità e l’urgenza nelle sue movenze e tacquero, osservandolo passare in
mezzo al campo, muovendosi agile fra le ombre. Se ricordava bene, la nazione più vicina
era il piccolo regno sull’Oceano Occidentale, Moravia e allora avrebbe iniziato da lì, oltre le
montagne. Suo malgrado deglutì a vuoto sollevando lo sguardo sulle vette nere sopra la
sua testa e prima di chiedersi in che modo avrebbe passato i valichi chiusi dalle guardie di
frontiera della nazione, si mise in cammino, abbandonando il cerchio di capanne e
addentrandosi nella vegetazione di Vulcania.
Pensò a molte cose Shôkan mentre camminava: avrebbe mai rivisto Narfin? Partiva per
un motivo o le paure del vecchio erano solo timori infondati? Cosa sperava di trovare
davvero oltre le montagne? Tutti questi pensieri, dubbi e interrogativi avrebbero
scoraggiato chiunque, alla fine era umano lasciarsi andare e decidere di restare al caldo
presso il proprio focolare, ma Shôkan rigettò queste voci, sgombrando la sua mente. Era
vero, non sapeva a cosa andasse incontro, ma ciò che era successo al tempio, lo sentiva,
era solo un inizio, un assaggio di ciò che una nuova era buia avrebbe potuto portare al
mondo e lui, se poteva, avrebbe fatto di tutto per scongiurarla. Non per onore, non per
spirito di sacrificio o per tuttala tribù, ma solo per Narfin.
Fu solo pensando a lei, al suo desiderabile corpo che partì dalla sua terra natia per
andare incontro ad un mondo che l’aveva esiliato e rifiutato sua madre, ma ancora, questo
non lo fermò ad andare avanti e lui lo avrebbe fatto, affrontando tutte le atroci sfide che lo
avrebbero atteso da quel momento in poi. Perché lui era un selvaggio, un Esiliato. Perché
lui, era Shôkan.

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