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i Meridiani

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I MERIDIANI

Collezione diretta da Luciano De Maria


GIUSEPPE UNGARETTI
VITA D’UN UOMO
Saggi e interventi

a cura di
Mario Diacono e Luciano Rebay

Arnoldo Mondadori
Editore
ISBN 88-04-11459-2

© 1974 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano


I edizione I Meridiani maggio 1974
V edizione I Meridiani aprile 1993
SOMMARIO

Prefazione
di Carlo Bo

Introduzione
di Mario Diacono

Cronologia

Scritti letterari 1918-1936


a cura di Luciano Rebay e Mario Diacono

Conferenze 1924-1937
a cura di Mario Diacono

Saggi e Scritti vari 1943-1970


a cura di Mario Diacono

Note
Bibliografia degli scritti
in prosa di Giuseppe Ungaretti
a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay
> . ■' •

S i/l
PREFAZIONE
di Carlo Bo

.
»
Questo volume d’Ungaretti saggista - nel senso più
ampio del termine - sarà una sorpresa per tutti: per
chi ha soltantQ dello scrittore l’accezione più comune
e anche per chi ne aveva già una nozione più ricca,
aveva cioè avuto modo nell’esercizio delle sue letture
di incontrare uno spirito critico per molti aspetti e-
stremamente sottile e persuasivo. Sono pagine che van¬
no dal 1918 all’anno della morte: oltre cinquantanni
di meditazioni, meglio di « studi », dove il lavoro cri¬
tico deve essere legato strettamente a quello che per
Ungaretti resta il dato essenziale dell’amore. Non ser¬
ve neppure dire che quest’immagine del saggista inte¬
gra e sostiene quella del poeta; o almeno è un’idea
valida fino a un certo punto, dal momento che la ma¬
teria è talmente ricca, sovrabbondante da spostare i
termini della visione poetica per esigere una valuta¬
zione diversa che implica la natura dell’uomo, il suo
gusto della vita, le passioni politiche e civili, insom¬
ma tutto quanto contribuisce a fornire elementi di
giudizio per quella che è stata l’umanità di Ungaretti.
Infatti la prima notazione che viene fatto di registra¬
re, è la continuità dell’attenzione, la religiosa premura
con cui lo scrittore guardava alla vita, al di là degli
interessi privati e al di sopra di quello che poteva
essere adattato e sfruttato ai fini della sua speculazio¬
ne poetica. Chi ha conosciuto Ungaretti ha potuto -

in parte - avere un’idea di questo costante fervore


ma ora la raccolta di questi scritti ci consente di ve¬
dere meglio i confini di questa lunga operazione e di
valutare con maggiore sicurezza il numero delle sue
XII Carlo Bo

diverse preoccupazioni. Ma non basta, nel 1918 Un¬


garetti ha compiuto trentanni e ha dietro di sé tutto
un periodo di ricognizione che non possiamo fare rien¬
trare nel tempo dell'apprendistato o della formazione
perché appartiene già al suo lavoro più vero: per
esempio, resta da recuperare quanto aveva scritto su
giornali egiziani, un campione indubbiamente prezio¬
so per fissare le origini e i primi segni della sua edu¬
cazione francese. La biografia è senza dubbio utile in
questo senso, come utili sono i dati degli studi, la
frequentazione di Bergson, l’amicizia con Apollinaire
ma è evidente che si tratta di nozioni parziali, dove
per l'appunto manca tutta la primissima parte di quel¬
la che potremmo chiamare la sua registrazione criti¬
ca■ Oggi dobbiamo accontentarci di presupporre que¬
sto libro anteriore, aiutati però dal tono dei primi do¬
cumenti accolti in questo volume. E - del resto -
sono proprio queste pagine a farci capire su quali ba¬
si si muovesse il giornalista d’occasione, il notista let¬
terario, insomma l’Ungaretti che per vivere accetta
l’umile compito del cronista. Restiamo per un momen¬
to su questo aspetto del cronista che - peraltro - non
è marginale, dal momento che la cronaca è stata an¬
che nell’Ungaretti della maturità e della vecchiaia un
fatto di grande importanza. Chi voleva ostinarsi a im¬
maginare un Ungaretti separato dal giuoco dell’esi¬
stenza, dopo queste testimonianze non lo potrà più
fare: la torre d’avorio è un criterio che non ha alcun
valore reale per lui, per un uomo che si è sempre tuf¬
fato nel fiume della vita e ha preferito nuotare, lot¬
tare, muoversi lasciando da parte le offerte che non
gli sarebbero mancate per un diverso esercizio del vi¬
vere. Si spiega anche la sua evoluzione politica, si
spiegano quelli che sono stati considerati degli errori
e che invece dipendevano direttamente da questo
amore del quotidiano e dalla conoscenza del popolo,
delle sue sofferenze, delle sue condizioni. Si potreb-
Prefazione xm

be — caso mai — dire che la sillabazione dell’Allegria


è il punto d’arrivo di una lunga confusione dentro la
materia stessa dell’esistenza e che i suoi gridi famosi
erano i punti alti di una coscienza intrisa di esperien¬
za pagata e sofferta.
Anche allo straordinario conversatore che era Unga¬
retti (ma dove conversazione significava spettacolo
d’invenzione, documento diretto di partecipazione) fa¬
ceva da fondo, da base il senso della vita vissuta e
perciò toccava a chi lo ascoltasse con un po’ più d’at¬
tenzione, con una capacità di andare più a fondo, di
scoprire delle miniere di notizie e - di conseguenza -
di prendere atto della fondatezza e concretezza delle
sue fulminanti variazioni. Per esempio, del politico che
qui appare soltanto di riflesso, i dati d’informazione
colpivano per la novità e la suggestione di chiara na¬
tura critica. In altre parole, il discorso critico di Un¬
garetti - quando non fosse meramente tecnico - de¬
nunciava immediatamente una completezza e una for¬
za che non si sarebbero potute spiegare con il solo
sussidio della notizia. Ecco che allora ci troviamo a
segnare un altro dato essenziale di questo libro: qua¬
lunque fosse l’occasione, quale la natura di un artico¬
lo o di una semplice nota si sente che Ungaretti ope¬
ra una scelta del momento e scarta tutto il resto, che
è molto, della sua partecipazione. Aggiungiamo per
scrupolo di obiettività che forse in tale disposizione
entrava una suggestione del tempo e la memoria di
un costume che era poi quello di una Europa ancora
compatta e fedele al verbo di Parigi: certo, c era an¬
che questo, dal momento che nessuno riesce a passa¬
re indenne attraverso la lettura del quotidiano ma re¬
sta il fatto che Ungaretti si trovava a suo agio in que¬
sto tipo d’informazione e aveva inoltre la forza di por¬
tarvi qualcosa in più e che se per un rispetto del luo¬
go comune lo vogliamo definire con una cifra d obbli¬
go diremo che era il capitale dell’uomo di pena, più
XIV Carlo Bo

semplicemente di chi dopo la guerra cercava di mette¬


re ordine nei propri pensieri.
Esperienza personale, un'educazione letteraria di per
sé quasi del tutto definita e una rara sensibilità nei
confronti del proprio tempo, con questo bagaglio il
trentenne Ungaretti si prepara ad affrontare la lunga
strada che lo aspetta e lo porterà in tanti paesi e so¬
prattutto lo aiuterà a ritrovare la sua patria vera, que¬
sta Italia che ha coinciso - nell’ambito dell’amore -
con il significato più alto di categoria spirituale e mo¬
rale. In che modo agirà questo Ungaretti dell’infor¬
mazione critica? Al contrario di quello che si sarebbe
potuto pensare dopo il primo libro di versi, egli ope¬
ra in un sistema di allargamento, in un ambito di re¬
cuperi intesi a trovargli quell’equilibrio che gli sareb¬
be stato necessario per vivere tra Francia e Italia o
— se si preferisce — per trovare in Italia il terreno
più adatto per un trapianto. Arricchire l’albero della
propria terra con quegli innesti che i primi contatti
e poi l’amicizia con gli uomini della « Nouvelle Re-
vue Franqaise » gli offrivano. Si direbbe che, muoven¬
dosi con sapienza critica fra queste due postulazioni,
sia alla fine approdato naturalmente a quelli che sa¬
rebbero stati i grandi libri della sua maturità, Leo¬
pardi, Petrarca soprattutto. Ma non c’è soltanto que¬
sto lavoro di carattere personale, Ungaretti è stato an¬
che un intermediario e basterebbero i suoi articoli su
Proust, Rivière, Reverdy, ecc. per darci la misura del¬
la sua sagacia. Non ci troviamo di fronte a un infor¬
matore a cuor leggero - nonostante certe sue afferma¬
zioni -, abbiamo a che fare invece con uno spirito
avvertito, preoccupato di non alterare quelli che pu¬
re erano gli equilibri naturali di due culture — nono¬
stante tutto - diverse e lontane fra di loro. Ungaretti
si distingue da quelli che lo avevano preceduto in
questa opera di scambi e conoscenze: pensiamo a un
Rapini, a un Soffici, in genere allo spirito della « Vo-
Prefazione xv

ce » e allora sentiamo subito che in Ungaretti manca


tutto quanto poteva suonare come libresco e sfrutta¬
bile ai fini di un discorso tutto italiano. C’è in lui
un maggior agio, una diversa disponibilità, diciamo
una leggerezza che non poteva sussistere in chi era
abituato a tradurre tutto in termini di cultura. Del re¬
sto, questo suo modo corrisponde assai bene a quello
che sarebbe stato l’atteggiamento ulteriore, dell’Un ga¬
retti che ha finalmente preso possesso della sua terra
d’origine e prelude a quello che sarà d’ora in poi il
ritmo, il respiro della sua vita letteraria.
Da tutti questi documenti che ora sono disposti se¬
condo un ordine cronologico si arriva a capire meglio
quello che è stato il suo modo di fare critica. Prima
di tutto, anche la critica obbediva in lui a un regime
di ispirazione, direi che vi ha obbedito anche quan¬
do accettava lavori su commissione o faceva della criti¬
ca d’occasione. La sua obbedienza consisteva nel rife¬
rirsi visibilmente a un discorso anteriore e continuo
che si andava formulando lentamente e spesso occu¬
pava lo spazio della meditazione poetica diretta. Del
resto, non sarebbe pensabile un Ungaretti critico le¬
galizzato e non ci si contrappongano i corsi universi¬
tari che anche quando erano scritti non tradivano que¬
sto aggancio con il fondo reale delle sue speculazio¬
ni. È la natura del lavoro che presuppone un’immen¬
sa libertà di movimenti e di approssimazioni prima di
concretarsi in saggi, interviste o semplici interventi
parlati. Ungaretti aveva ben fissi nella memoria questi
punti di riferimento, l’occasione che poteva essere
qualsiasi gli serviva soltanto a favorirgli quel tipo di
partecipazione esplosiva o di discorso più pacato che
sono poi i due registri maggiori del suo libro critico.
Ma anche là dove la carica esplosiva aveva il soprav¬
vento, resta arduo non riconoscere che il suo pensie¬
ro critico dipendeva dal rispetto per un ordine critico
e per una disposizione logica degli argomenti.
XVI Carlo Bo

Ungaretti aveva letto molto bene i suoi testi e non


ci sarebbe stata suggestione di gusti o di umori a far¬
gli dimenticare quello che costituiva il fondo del suo
patrimonio letterario. Allo stesso modo risponde in
tal senso l’evoluzione delle sue scelte fra il venti e il
quaranta: nella correzione che opera dal libro dell’a¬
vanguardia, che era in fondo un luogo comune della
sua stagione parigina, al libro dei nostri classici, il
motore principale è da indicarsi proprio nella lenta
maturazione della sua visione critica. E qui siamo a
uno dei dati centrali del libro: nonostante le appa¬
renze, Ungaretti è un inventore a posteriori, non è
mai un anticipatore, non fa della critica avventurosa
ma parla sempre a ragion veduta e sa prendere le sue
distanze, a volte ci appare addirittura toccato da scru¬
poli di natura storica e da preoccupazioni di ordine
rettorico. Ci sembra più giusto dire che la sua stessa
nozione di avventura, debba essere qualificata come
avventura nell’ordine, ossia come un calcolo minuzio¬
so di quello che può essere considerato l’attivo della
novità. Che è poi il comportamento del poeta sin dai
tempi del futurismo e durante la preparazione del sur¬
realismo. Ungaretti lo si travisa a volerlo legare alle
sue famose sfuriate, alle impennate dei suoi stati acuti
di passione, meglio non lo si capisce se anche in que¬
sti casi non si procede con la dovuta cautela sulla
strada delle distinzioni. Quel tanto che poteva esserci
d’esagerazione in certe sue reazioni era in fondo un
ennesimo atto di riconoscimento a quella che era la ta¬
vola dei valori e — a volte - si ha la sensazione, leggen¬
do queste pagine, che il testo ultimo in effetti fosse
già un testo corretto attraverso la tempesta delle pri¬
me reazioni: certe dolcezze di tono nel linguaggio non
debbono essere passate sotto silenzio. Ma non basta,
il discorso critico di Ungaretti è un discorso continuo
e suscettibile - per questo - di riprese, magari a di¬
stanza di molto tempo. Ripensare, rimettere le mani,
Prefazione XVII

apportare delle correzioni anche minime e in testi di


non prima grandezza, tutto questo sta a confermare
che il suo era piuttosto un modo di avvolgimento del
tema, una segreta e profonda rimeditazione delle pri¬
me impressioni e dei primi accertamenti. Qui si di¬
rebbe che l’inventore regolasse l’attività del critico e
infatti a differenza del critico che si sovrappone allo
scrittore, Ungaretti intendeva esserne un testimone e
Vaccompagnatore, uno insomma che lavora accanto e
ne rispetta i Gonfini e i compiti. Il « ricordo » di Bre-
ton è da questo punto di vista un' esempio probante
di questo suo procedere nel tempo a contatto con cer¬
te immagini. Per questa ragione la sua non è mai cri¬
tica di sentenza ma pende piuttosto verso il regime
delle speculazioni inclusive: Ungaretti - soprattutto a
sentirlo parlare - dava l’impressione di uno che si
trascinasse dietro un’intera biblioteca, una grande sta¬
gione di ricerche. Dal confronto fra il nuovo accosta¬
mento e la somma delle passate approssimazioni na¬
sceva in lui il desiderio di riprendere il discorso, di
rimodellarlo, di perfezionarlo ma sempre con l’intima
certezza di non poter arrivare a delle conclusioni. Ciò
che lo disturbava e lo allontanava dalla nostra critica
(specialmente dal Croce) era questo gusto radicato
per le sistemazioni, il comodo abuso di violentare il
corso delle cose. Dai francesi, dal suo Paulhan aveva
imparato la convenienza di un diverso regime, più
aperto e più libero che si reggeva sull’infinita interro¬
gazione del gusto. Questo spiega perché nell’arco del¬
la sua lunga evoluzione non sia mai approdato al re¬
gno delle convenzioni, perché non c’è stato in lui l’ir¬
rigidimento che stanchezza e età - di solito - deter¬
minano nell’animo del lettore. Anzi, Ungaretti — a vo¬
lerlo giudicare bene — è stato più audace da vecchio
di quanto non lo fosse stato da giovane. Avvertiamo
che usiamo questi termini ben sapendo che non han¬
no alcun valore, in Ungaretti c’era soltanto una straor-
XVIII Carlo Bo

dinaria disponibilità a riprendere il discorso e in que¬


sto senso novità e ordine potevano convivere e som¬
marsi, mai tradursi in conflitto.
Né sarebbe possibile accostarsi al critico lasciando
da parte il traduttore e il semplice lettore o il profes¬
sore. Sono tutte linee convergenti verso quello che
resta il dato essenziale dell’invenzione che - oltre tut¬
to - in lui aveva il significato di scoperta più che di
ispirazione. Qui il rapporto con il poeta è più che le¬
cito, direi che è inevitabile. C’era nell’ambito del suo
lavoro un nucleo originale su cui operava per lente
trasformazioni: c’era nel poeta del grido che sarebbe
arrivato alla disposizione dell’inno, c’era nel sempli¬
ce notista, nel primo collaboratore del « Popolo d’I¬
talia » e dell’« Azione » e che si sarebbe poi disteso
e costruito nei saggi su Leopardi o Cervantes. Alla
fine - e l’indice del volume mi sembra una carta geo¬
grafica attendibile per seguirlo in questo movimento
costante attraverso il tempo - tutto questo cosciente
e segreto tenere in mano i fili del discorso gli ha con¬
sentito di abbozzare per grossi tratti quella che po¬
tremmo chiamare la sua poetica che era - per l’ap¬
punto - una poetica di convergenze più che di punte.
Il contrario dell’immagine comune di Ungaretti ma
che - a nostro avviso — corrisponde di più alla natu¬
ra dell’uomo, una natura interrogante anche là dove
sembrava travolgere i limiti ultimi della logica. Vo¬
gliamo dire che c’era in Ungaretti questa scontentez¬
za, questa insoddisfazione del già fatto, del già detto
e che lo spingeva a rivedere, a misurare di nuovo, in¬
somma a speculare all’infinito. Un qualcosa che sul
piano della critica corrispondeva alla nozione poetica
del « sentimento del tempo » e che - peraltro - non
lo dispensava dal lavoro puntuale, scrupoloso, qualche
volta perfino professorale.
Non era soltanto frutto di abitudine con un metodo
che in parte poteva avere ricavato dall’incontro con
Prefazione x.ix

Rivière, era un fatto della natura, era anzi il segno


primo della sua intelligenza. E così come quando leg¬
gendo la sua poesia si ha la sensazione che ci sia stata
prima tutta una catastrofe della passione allo stesso
modo con il saggista Ungaretti si prova qualcosa di
simile: non è mai uno che dice di voler iniziare un
discorso, è piuttosto uno che subito fa riferimento a
cose che sono state già toccate con pazienza, lavorate,
calcolate a lungo. Il discorso di chi si preoccupa di
rimettere in (Escussione un argomento. Se vale un
discorso privatissimo, non diversamente si comporta¬
va il professore, l’Ungaretti delle lezioni universita¬
rie: anche in cattedra non tradiva questo suo costu¬
me e la sua lettura era una serie di offerte, era an¬
cora quel tal sistema libero di conversione nel testo e
per il testo. Non mette conto aggiungere che un pro¬
fessore del genere scandalizzasse, caso mai è doveroso
dire perché: lo scandalo dipendeva dal semplicissimo
fatto che il critico stava dentro il testo che leggeva e
non fuori.
L’ultimo tratto ci aiuta a trovare una sistemazione
provvisoria a queste pagine sorprendenti, rivelatrici
e tutt’altro che marginali. L’unica sistemazione esclu¬
de i codici della critica ufficiale e richiede invece l’ac¬
costamento al libro della critica dei poeti, così come
ce l’hanno lasciato Baudelaire, Mallarmé, Proust e —
inutile ripeterlo - Leopardi. Perché qui sta il pun¬
to vero della sorpresa, anche a questo Ungaretti che
culturalmente era nato in esilio, e poi aveva trova¬
to una patria d’adozione, da ultimo gli è riuscito di
diventare un fedele rispettoso della tradizione, grazie
a quel suo lavoro d’intelligente riconoscimento nel
flusso perenne della poesia e nella tentazione della
speculazione critica. ~
UNGARETTI E LA PAROLA CRITICA

Nella prefazione all'edizione italiana di Eupalino dì


Valéry, Ungaretti afferma: « Un poeta necessariamen¬
te risolve ogni problema proponendo un’arte poetica ».
Questa, almeno, è l’intenzione ch’egli subito, dall’ini¬
zio della sua scrittura critica, e per cinquant’anni ha
perseguito ogni volta che ha dovuto confrontarsi col
compito di definire nell’orizzonte della creatività il
proprio testo poetico, quello di altri autori, quello del¬
la poesia come attività tecnico-magica permanente e
latente nell’uomo, e quello della cultura come imma¬
gine di sé proiettata dalle società. Definitorio sempre,
infatti, dei “caratteri’’ (si legga la parola nel suo sen¬
so scrittorio, tipografico) della creatività, è, al limite,
l’atto critico di Ungaretti; e la natura di tali caratteri
viene specificata nell’altra sua affermazione, poco più
avanti nel medesimo testo, che « da Valéry stesso s’im¬
para, lo voglia o meno, come l’opera d’arte non possa
mai essere altro se non un segno religioso ».
L’omogeneità e persistenza, la fissità direi, del voca¬
bolario ideologico, del lessico analogico che si accu¬
mula negli scritti in prosa di Ungaretti durante un
arco di tempo così vistoso, mezzo secolo, permette
un’agevole lettura sincronica del suo testo critico se¬
condo le coordinate da lui indicate nella prefazione
citata: come un’arte poetica, cioè, fondata sull’iscri¬
zione del segno religioso nell’intenzione metastorica
dell’arte, e su quella del segno tecnico-letterario nella
prassi storica, infratestuale della poesia. L’implicito
sistema critico di Ungaretti appare così un sistema
chiuso, nella misura in cui vi si attesta tutta una cir-
XXIV Mario Diacono

colàrità di costanti, di temi, di vocaboli tematici ricor¬


renti. E poiché la costruzione di tale sistema inizia
dopo la pubblicazione del Pofto Sepolto e di Alle¬
gria di Naufragi, ed ha una funzione primaria di com¬
mento alla poesia in atto, alla poesia che si va facen¬
do, esso risulta in una lunga difesa e verifica teorica di
Sentimento del Tempo e della Terra Promessa. (« In¬
nocenza » e « memoria » sono i termini centrali nel
testo di Vita d’un uomo / Tutte le poesie, e Innoeen-
ce et mémoire è il titolo dell’unico volume di saggi
pubblicato da Ungaretti, premessa a questo Vita d’un
uomo / Saggi e interventi.)
Un’evoluzione interna ha luogo, comunque sia, nel¬
la scrittura critica di Ungaretti. In superficie, parreb¬
be trattarsi più di una riarticolazione di tono, di sin¬
tassi, che d’una modificazione di parametri critici: ma
nella qualità dei testi, un cambiamento s’è verificato
dopo che Ungaretti ha per alcuni anni, dal 1937 al
1941, interrotto la critica militante, e operato soltan¬
to critica universitaria. E ciò ch’è cambiato è meno
una nozione generale della letteratura, una determi¬
nata prospettiva sulla letteratura occidentale come or¬
ganismo unitario, che non un modo di lettura della
letteratura. Anzi, una vera e propria “lettura” della
letteratura come “poesia” definisce il proprio metodo
in Ungaretti solo durante la pratica intensiva, da lui
fatta nell’università, dei testi letterari come manu¬
fatti da esplicare, ed esplicitare, nella loro rilevanza
storica di forme/significati.
Lo stacco è evidente per esempio nei testi su Leo¬
pardi; fino al ’36, essi si concentrano soprattutto in
uno scavo nello Zibaldone del “pensiero” leopardia¬
no; dopo il ’36, l’impegno di Ungaretti evolve verso
un progressivo smontaggio del congegno testuale dei
Canti. Ma anche sul valore di questa “lettura” Unga¬
retti “chiude”, ribadendovi una circolarità di signifi¬
cati interni al proprio discorso. Nel ’64 infatti, pre-
Introduzione XXV

sentando un’Antologia dei poeti negri d’America cu¬


rata da Leone Piccioni, dice di Piccioni, evocando gli
anni del proprio insegnamento universitario a Roma:
«Io non gli ho insegnato critica, non avrei saputo,
ma ho potuto indicargli come si forma un’espressio¬
ne nel segreto dell’animo d’un poeta a contatto d’un
momento storico e dell’universale realtà e d’uno sta¬
to della grammatica polemicamente affrontato, seguen¬
do modi intuitivi che oggi chiamano di ricerca strut¬
turale. [...] Quei miei suggerimenti d’insegnante [...]
si riferivano molto più a testi della mia poesia, da
me usati come la più istruttiva cavia, che al lavoro
di quei poeti che per dovere d’ufficio commentavo.
Era una possibilità unica di paragoni [...] ». Già
D’Arco Silvio Avalle ha notato, nell’Ungaretti degli
anni Venti-Trenta che riflette sulla propria poesia,
“qualche preoccupazione di ordine contenutistico” men¬
tre “più tardi le considerazioni formali prendono il
sopravvento, il problema della parola si fa più impel¬
lente, quasi ossessivo”} Non credo sia esatto però di¬
re che “la crisi cade grosso modo all’epoca di Sen¬
timento e delle traduzioni”. Essa accade dopo, in Bra¬
sile; e non si tratta tanto d’una crisi quanto d’un mu¬
tamento di marce intellettuale, parallelo a quel processo
d’identificazione sempre maggiore che Ungaretti com¬
pie di sé con l’archetipo Petrarca/Leopardi. Le “pre¬
occupazioni di ordine contenutistico” degli anni Venti-
Trenta, specialmente quando riferite alla propria poe¬
sia, erano per lo più determinate dalla necessità in cui
Ungaretti si trovava di ribattere ai critici di stretta os¬
servanza fascista che lo accusavano di solipsismo e d’in¬
differenza ai problemi sociali.2 D’altra parte, se immer¬
gendosi nella poesia del Petrarca e in quella di Leo¬
pardi Ungaretti accorciava così rischiosamente la sua
distanza da essa, se vi si specchiava così unanimemen¬
te da scorgervi un riflesso della propria immagine, era
anche per attuare un suo esplicito postulato della pras-
XXVI Mario Diacono

si critica, riconosciutogli ormai da molti, ch’era quello


di non ammettere intermediari tra lettore e testo, di
fare cioè della "lettura” d’un tèsto come « espressione
formata [il participio ha qui il doppio senso dell’avere
e del darsi forma] nell’animo d’un poeta », lo scopo
della funzione critica.
Non ch’egli non avrebbe potuto fin dall’inizio diri¬
gere il proprio esercizio critico sulla forma!struttura,
anziché sull’ideologia; ma questo avrebbe significato
per lui negare subito il proprio fondamentale atteggia¬
mento verso la parola critica, ch’era di usarla come il
riscontro apologetico-proclamativo della parola poetica,
come una dimensione di effabilità logico-discorsiva del-
l’« anima magica del poeta ». Nel ’24, recensendo Ai-
mée di Rivière, dichiara che se dovesse parlarne sotto
l’aspetto artistico, gli occorrerebbe « mostrare come
ogni capitolo, concatenato rigorosamente agli altri, co¬
stituisca un organismo a sé, sviluppando compiutamen¬
te, entro i propri limiti, nei termini della propria fun¬
zione nell’opera, il tema generale dell’opera stessa ».3
Ma un tale comportamento obiettivo, “scientifico”, mi-
raggio estremo della critica professionale sempre, non
da Ungaretti bisognava aspettarselo, anche se egli ne
avvertiva l’importanza e anzi lo pretendeva continua-
mente dai critici italiani, a cui rimproverava una gene¬
rale inabilità all’analisi formale. Non Ungaretti poteva
assolverlo, perché l’urgenza del tempo imponeva azio¬
ni letterarie soprattutto assertive delle novità di lin¬
guaggio, delle trasformazioni culturali; perché la nuo¬
va poesia cercava insomma in Italia uno spazio opera¬
tivo, ch’era pure uno spazio psicologico, in cui gestire
da posizioni di egemonia anche politica la nuova lette¬
ratura. Condizioni inattingibili allora, e anche dopo,
per almeno altri quindici anni. Così, tra il ’18 e il ’36,
gli scritti di Ungaretti procedono su due assi tematici
solo apparentemente paralleli, in realtà interdipenden¬
ti, perché quello della dialettica innocenza!memoria,
Introduzione XXVII

teso a mostrare il funzionamento interno, “magico",


della parola poetica, ci è costantemente proposto co¬
me verifica della giustezza del ruolo antagonistico as¬
sunto dal poeta nei confronti delle avanguardie, a pro¬
posito del linguaggio: antagonismo, questo ricorrente
e permanente verso il futurismo e il surrealismo, ch’è
l’asse polemico lungo cui Ungaretti si muove per defi¬
nire la propria identità letteraria e difendere la pro¬
pria originalità poetica.
b appunto l’esigenza di dover provvedere soprattut¬
to a fornire un sistema referenziale per il proprio la¬
voro poetico a una critica prevalentemente ostile, che
fa distinguere nettamente a Ungaretti il compito del
critico puro da quello del poeta critico. Nel '29 afférma
recisamente: « “Ungaretti ci spieghi Igitur e Coup de
dés e poi ne riparleremo.” Mi chiedi, caro Fratelli, un’e¬
segesi. I poeti fanno apologie »3 Mentre l’anno prece¬
dente, si era sentito in diritto di castigare molta cri¬
tica che, « avendo da esaminare un romanzo o una poe¬
sia, è tutta contenta di cavarsela con un bel costrutto
ideologico, lasciando sul lastrico con un palmo di naso,
poesia e romanzo [...] La quale critica avrebbe un
compito, molto umile e molto alto, molto difficile e
molto delicato: semplicemente quello d’imparare e d’in¬
segnare a leggere ».5 Quanto ai modi di tale lettura li
prevede così, nel 1930: « Il giudizio del critico, sup¬
pongo, non può cadere che sulle forme, su organismi
di parole volti a suggerire un’identità con quell’ordine
universale che il poeta sotto esame sente e immagina
[...] Potrà estendere, per semplice comodità discorsi¬
va, la sua attenzione all’evoluzione delle forme e allo
stile d’un’epoca intera ».6 La forma, viene così definita
un « organismo di parole » nelle cui strutture signifi¬
canti deve ritrovarsi esattamente (« un’identità »)
quello che c’è nel senso significato. Il contenuto va ve¬
rificato sulla forma, e non viceversa. Solo la forma è
garante dell’altezza di senso del testo, conclude, in po-
XXVIII Mario Diacono

lemìca con le tendenze più recenti della critica francese


contemporanea a « dare la precedenza all’animo umano,
riconoscendogli validità indipendentemente dalla for¬
ma, considerando la forma come una servitù ».
È a quest’epoca, il suo, un programma “formalista"
massimalistico su cui non transige. E lo troviamo anni
dopo, nel ’37 o ’38, intimare ai suoi studenti brasilia¬
ni: « Vorrei che bruciaste tutti i libri che danno delle
spiegazioni: manuali, prontuari, schede, storie della let¬
teratura, storie della filosofia, ecc. ecc. »? Una volta
tanto, sembra accedere al linguaggio di Marinetti; ma
solo perché s’era reso conto, con « sorpresa », che que¬
gli studenti non avevano ancora « imparato una cosa
molto semplice: a leggere. E a leggere s’impara da sé ».
Una critica così rigorosamente fondata sulla “lettura”,
non può che essere anti-ideologica: «[...] i poeti non
vanno mai misurati col medesimo metro, perché cia¬
scuno presenta problemi critici che potranno essere
risolti soltanto colle indicazioni ch’egli stesso ci for¬
nirà ».8
È evidente che le « indicazioni » qui menzionate so¬
no quelle interne al testo, più che indicazioni esterne
di poetica; e non è sicuro che, parlando sempre come
egli fa con una forte inflessione autoreferenziale, egli
non voglia così lanciare una vaga ammonizione ai suoi
critici, anche se formulata per un uditorio di studenti
universitari. In ogni caso, ne appare chiaro il valore
metodologico dall’esemplificazione che fa seguire, subi¬
to dopo, a una frecciata contro la critica delle fonti:
« Che importa che il Maffei abbia scritto: O tu lenta
ginestra! Si tratta come di parole prese nel vocabolario,
le quali hanno sì un senso anche per conto loro, ma
quando entrano in un discorso assumono una funzione
del tutto nuova e non valgono se non per l’impronta
dello spirito di chi le ha usate ». È un ulteriore invito
alla critica, quest’accenno al rapporto funzionale, “siste¬
matico”, tra l’intero testo e ciascuno degli elementi che
Introduzione XXIX

lo compongono, di "starsene al quia” d’un’analisi for¬


male del testo stesso.
Non possono così esserci dubbi sul grado di auto¬
consapevolezza e di coerenza nelle sue varie tappe, del¬
la scrittura critica ungarettiana. In margine, va poi no¬
tato che il vocabolario specifico, /'idioletto critico di
Ungaretti, non è di natura letteraria generica, prove¬
niente da una nozione media dei termini che usa: i
suoi termini-nozione appaiono in una prima fase ap¬
propriati dal linguaggio simbolista e da quello del Berg¬
son di Les données immédiates de la conscience e di
Matière et mémoire (sulla polarità contenuta in que¬
sto titolo, sottolineata dall’et disgiuntivo, Ungaretti mo¬
della il suo Innocence et mémoire del ’27); e in una
seconda fase dal linguaggio dello Zibaldone leopardia¬
no, adottato anche come una “via italiana” del primo.
Se al linguaggio simbolista vanno riportati i termini-
nozione di « abisso », « mistero », « magia », « inespri¬
mibile », « infinito », « assoluto », « anima », « Eter¬
no », a Bergson risalgono i concetti ungarettiani di
« memoria » e « sogno »; benché il termine « sogno »
passi poi per una accezione surrealista e approdi, infi¬
ne, dopo il '40 a quella leopardiana. Ma nella propo¬
sizione «un padre che [...] ci ami [...] per mettere
un sogno nella nostra vita », nel primo testo in prosa
documentato di Ungaretti,9 (una proposizione che così
in limine potrebbe esortare a uno sguardo psicanalitico
nella biografia del poeta), « sogno » è un prestito dal¬
la poesia e non dalla saggistica; come pure nello stesso
testo il termine « mistero », nella proposizione « l’arco¬
baleno che risolve ogni mistero nell’anima magica del
poeta », la quale però già ci immette di colpo nel cen¬
tro della scrittura critica di Ungaretti: qui « l’arcoba¬
leno » appare un’anticipazione naturalistica del « mi¬
racolo », il « miracolo della poesia » che assolve a una
identica funzione risolutiva nei suoi scritti posteriori.
Insieme, va pure notato che i termini adottati dal les-
XXX Mario Diacono

sico'del sacro non connotano in Ungaretti una prassi


religiosa al livello della fede, o della pratica, bensì un
uso puramente linguistico del /< segno religioso » per
dematerializzare la nozione di poesia, una strategia del¬
la lingua che rincorre l’« innocenza » della parola fin
dentro le couches della sua « vita iniziale ». Il « paese
innocente » che il poeta di Girovago è tutto teso a
prospettarsi nel 1918, è visibilmente un paese di lin¬
guaggio, un paesaggio di lingua iniziale.
Nella teoria di Ungaretti (che è, s’è già detto, stret¬
tamente in funzione dell’esercizio della poesia), sia la
costituzione della polarità innocenza!memoria come
topoi terminali entro cui il lavoro del poeta va attuan¬
dosi, sia l’antagonismo nei confronti delle avanguardie
come atto d’individuazione del campo di forze lettera¬
rie entro cui l’operare dello scrittore può attingere la
poesia, sottendono un mito fondamentale. È quello del¬
la critica di poesia da Baudelaire e Poe a oggi, e nella
cui scia si sono costituite le innovazioni formali più
gravide di conseguenze per l’evoluzione della lettera¬
tura, il mito (si legga il termine nel suo senso di di¬
scorso prelogico) dell’invenzione verbale, dell’inven¬
zione di linguaggio, come rito giustificativo della ten¬
sione artistica. Il problema - Ungaretti ne era perfet¬
tamente al corrente - non aveva toccato solo la poesia
ma insieme la pittura e la scultura, l’architettura e la
musica. Il modo specifico in cui questa utopia del lin-
guaggio si attua in lui, è che essa assume presto, subito
dopo /'Allegria, una volontà di argine contro la scom¬
posizione progressiva della forma tradizionale cui l’a¬
vanguardia tendeva nei suoi postulati più radicali, per
cui la sua teorizzazione della forma si attesta sulla
ricomposizione formale neoclassica degli anni Venti.
Spiegando nel ’29 la sua distanza da Mallarmé, Unga¬
retti afferma: « [...] i problemi di Mallarmé erano quel¬
li di Monet, Renoir, Wagner, ed i miei problemi, della
mia poesia che va dal 1919 al 1927, possono essere i
Introduzione XXXI

problemi d’un Picasso o d’uno Stravinski. Tentativi


di barocco esacerbato; problemi di trasposizione della
realtà in un dominio di sogno; problemi di paesismo
posti in relazione, o in contrasto, o in identità con
stati e mutamenti psicologici, con divinazioni metafi¬
siche; tentativi, per processo di analogie, d’infondere
carattere metaforico e favoloso alla sensazione, ecc. ».10
Dove anche un riferimento preciso a paralleli italiani
occorre, cioè alla direzione tematicamente neoclassica
anch’essa (tematicamente e formalmente), che la pit¬
tura metafisica di Carrà e De Chirico, due compagni
di strada di Ungaretti, aveva preso dopo il ’20.
Con Baudelaire e Leopardi, comincia per Ungaretti
la tradizione specifica del suo poiein. È da lì che evol¬
ve la sua invenzione: «Baudelaire [...] con la promi¬
scuità di elementi esasperatamente discordanti, compo¬
ne non un barocco ma una purità. È il primo [...] a
scoprire il nesso logico tra immagine e immagine, [...]
a sentire questo fatto profondo, ogni suo poema come
un corpo integrale [...] ».n Sono pronunciati così gli
impegni primi della nuova forma poetica: dissonanza
degli elementi verbali, contrasto barocco/purezza (me¬
moria/innocenza, cioè), nesso tra immagini volto a sta¬
bilire una logica del discorso poetico al di qua del di¬
scorso enunciativo, poesia come « corpo » indivisibile,
organismo unitario in cui il valore d’insieme è tutto,
e quello dei singoli versi nulla. Indicazioni di "strut¬
ture profonde”, queste, riferibili non soltanto all’Al¬
legria ma all’intero testo poetico di Ungaretti. E Bau¬
delaire è stato « il primo » a proporle. Il concetto è
ribadito nel ’19 in Verso un’arte nuova classica, dove
gli « scontri mostruosi d’immagini e le parole cauta¬
mente subdole » di Baudelaire sono considerati come
gli esiti estremi dell’arte romantica. Questo testo, che
reca il sottotitolo Prefazione alla 2a edizione del « Por¬
to Sepolto », è forse quello in cui Ungaretti annuncia
più completamente il proprio orientamento teorico pri-
XXXII Mario Diacono

ma dell’intervista del ’29 con G.B. Angioletti. Nella


storia italiana, vi dichiara, il poeta nuovo italiano tro¬
va solo due sistemi poetici di riferimento, quelli di
Petrarca e di Leopardi. Tasso, è « anteriore al Petrar¬
ca, benché nato 200 anni circa dopo di lui ». E « niu-
na novità dal Leopardi ad oggi ci è dato menzionare ».
L’ultima attività poetica costruttiva è quella romanti¬
ca: « Esaurito con opere totali e perfette, quanto d’ar¬
ricchimento l’umanità poteva aspettarsi dal romantici¬
smo, nella sensualità col Baudelaire, nell’anima col Leo¬
pardi, procedette naturalmente un’epoca di sfacelo e
di esageramenti nella quale ancora brancoliamo ».
« Sensualità » e « anima » sono naturalmente le figure
linguistiche in cui vengono designati i rapporti di og¬
gettività, di materia, di sensazione come opposti a
quelli di soggettività, di memoria, di “sentimento"
(ma qualche volta interagenti con essi), nel fare poe¬
sia. Nel brano appena citato, va sottolineata la distan¬
za che Ungaretti mette fra sé e la poesia della "deca¬
denza” (« sfacelo ») da un lato, e quella futurista e
dadaista (« esageramenti ») dall’altro. Più avanti ci
spiega le ragioni di tale distanza: «Tratti gli iniziali
motivi della mia considerazione alla poesia, nella lon¬
tana adolescenza, dalle orgie, incubi e preziosità dei
simbolisti, allucinati e decadenti, ne uscii, con reazio¬
ne istintiva, per affezionarmi alle rozze forme dell’arte
dei primordi [...] E se non giunsi ad adottare le pa¬
role in liberta, uno stupore contemplativo mi avvinse
in confronto alla parola [...] », il quale tecnicamente
si manifestò come necessità « di valutarne l’esatta fun¬
zione nei nuovi rapporti ». Ecco spiegato, polemica-
mente, il “primitivismo” dell’Allegria. E avendo de¬
gradate, sempre in quel testo del ’19, le « parole » di
Marinetti a « rumori » in libertà, egli vi propone un’al¬
tra nozione di « parola »: la parola risuscitata « in tut¬
ta la sua vita millenaria », che poi, negli anni seguenti,
Ungaretti vorrà far coincidere progressivamente, a li-
Introduzione XXXIII

vello teorico, con la parola leopardiana. Già nello stes¬


so ’19, in un articolo su Apollinaire il campo di pro¬
poste critiche di Ungaretti comincia a restringersi in¬
torno a Leopardi. « Cinque, dieci poeti, - Maurice de
Guérin, Bucasse, Baudelaire, Laforgue, Mallarmé, Rim-
baud, Jarry, - vissero così dannati, - dell’allucinazio¬
ne che si suscitavano intorno, in una ermetica lucidità.
Ma nessuno seppe, come Leopardi, né scoprire l’uni¬
versale dolore [nei Canti], né trovargli in una rifinita
ironia [nelle-Operette morali], la toga adeguata. » 12
L’«ermetica lucidità » qui denunciata come formula
poetica, e di cui sarà a sua volta accusato o elogiato per
tutti gli anni Trenta, è dunque già scartata dall’oriz¬
zonte di ambizioni della propria ideologia, prima an¬
cora che Sentimento del Tempo cominci. È invece
l’« universale dolore » (Il Dolore di Ungaretti esce nel
'46) che viene privilegiato, e cioè, in termini di lin-
guaggio e di forma, la poesia dei Canti.
Sotto questo aspetto, siamo ancora al reperimento
del «padre che metta un sogno nella nostra vita ».
Quanto al presente, ai fratelli, per nominare le pro¬
prie qualità Ungaretti ha bisogno di un confronto cri¬
tico, di un bersaglio polemico, di un avversario da ca¬
stigare a sinistra: anticlassico, espressionistico. Nel¬
l’ambito delle paternità la sua nozione di poesia si
precisava attraverso un contrasto col simbolismo. Nel
testo citato su Apollinaire, calcando ulteriormente la
mano, parlando del Salon d’Automne del 1919 lamen¬
ta: « Siamo tornati ad una torbida desolazione. Gli
oggetti non si vedono che sotto un aspetto di defor¬
mazione; e l’anima, come ai tempi di Baudelaire [...]».
A proposito di pittura, il “gusto” di Ungaretti è pre¬
sto verificato quando si dice che il suo lifetime pittore
è stato Cézanne. Nel contesto globale del giudizio cri¬
tico, è chiaro però perché Cézanne rappresenti una
scelta non tanto di “gusto” quanto di poetica in asso¬
luto: Cézanne è il pittore della “ricostruzione” volu-
XXXIV Mario Diacono

metrica dell’oggetto, dell’antideformazione. Marinetti,


appunto, è l’opposto di Cézanne. « Les problèmes tech-
niques sont posés brutalement 'par Marinetti », scrive
nel ’20; 13 e nel ’23, « L’agitation fiévreuse de notre
époque exigeait-elle, comme le soutenaient les futu-
ristes, un bouleversement absolu des rhétoriques? [...]
C’était prétendre arracher à notre langue sa puissance
de recul, sa douceur métaphysique [...] ».14 È, così,
unicamente sul rapporto tra langue e poesia che Unga¬
retti misura i fenomeni e gli eventi letterari più re¬
centi. Nello stesso articolo del ’23, riferendosi alla
« rivoluzione nel linguaggio poetico » portata da Mal¬
larmé, ribadisce in questo senso la sua distanza dal
simbolismo: « Le caractère de notre langue ne se prète
pas à une souplesse égale. Notre langue est tout d’a-
bord une langue ancienne ».
È a questo punto che Ungaretti comincia a risalire
dal primitivismo dell’Allegria verso il barocco. In pie¬
na stesura di Sentimento del Tempo dirà: « Intorno
al '910, fece la sua comparsa nell’opera d’arte euro¬
pea, il naso a spegnitoio, e gli tennero subito bordone
le parole in libertà ».15 Il parallelismo formale così
stabilito tra arte d’ispirazione “selvaggia ” e futuri¬
smo, tra il Picasso di Les Demoiselles d’Avignon (che
è del 1907) e il Marinetti del Manifesto tecnico (che
è del ’12), tende a coinvolgerli nel medesimo rifiuto.
Sarebbe comunque un errore, considerare esaurita la
tensione di Ungaretti al primitivo col sopravvenire in
lui d’una coscienza barocca. L’una e l’altra sono in real¬
tà in una dialettica permanente all’interno della for¬
ma e della teoria del poeta dal Sentimento in poi.
Non per niente rimane oscillante anche il suo sguardo
sul significato dell’avanguardia più radicale. Nel 1927,
polemizzando con Flora, esemplifica la propria nozione
di rispetto per i classici con un riferimento al ready-
made di Duchamp L.H.O.O.Q., del ’19: « Ciò però
non l’autorizza [Flora] a guastare la forma d’una poe-
Introduzione xxxv

sia, come non avrebbe il diritto d’aggiungere i baffi


alla Gioconda ».16 Ma tre anni più tardi, in un testo
su Lautréamont, si corregge: « Sarà trucco mettere un
paio di baffoni, e la mosca, alla Gioconda, ma potreb¬
be essere anche il segno d’un risentimento poetico ».17
Il suo antagonismo rimane, in ogni caso, duraturo
nei confronti di Marinetti, e proprio, s’è visto, sul
problema specifico della lingua. In una conferenza del
1924 finora inedita, la polemica continua infatti: « Sia
per rendermi.,conto della gravità della parola [...] in
un periodo in cui, dal Pascoli a Marinetti, l’onoma-
topeia sembrava trionfare, e invece d’equilibrio della
parola s’arrivava allo sfacelo della parola, o almeno a
un punto dal quale si ricomincia (e questo sia detto
[...] riconoscendo straordinari meriti al futurismo, per
varietà di esperimenti audaci e per fecondità d’attua¬
zioni originali), sia per nativa opposizione all’abuso
della sensazione verbale, [...] fui indotto sin dalle mie
prime cose pubblicate in “Lacerba”, q considerare
l’ammaestramento del Leopardi, come l’unico dal qua¬
le si potesse procedere con qualche profitto ».18 Leopar¬
di viene “scoperto” in funzione ricostruttiva della lin¬
gua, in opposizione allo scomporre, al de costruir e dei
futuristi, che è il « punto dal quale si ricomincia »,
dal quale cioè comincia II Porto Sepolto. Ma ovvia¬
mente la scomposizione sintattica, per un Ungaretti
proteso verso l’a ordine” classico, non poteva non esse¬
re anche il segno d’una scomposizione morale: « La
differenza tra le mie ricerche d’allora e quelle dei se¬
guaci di Marinetti consisteva in questo, che, mentre
[...] non usavo la parola che quando mi sembrava
avesse raggiunto una pienezza di contenuto morale,
essi, i futuristi, non chiedevano alla parola che un'im¬
pressionabilità fisica ». È evidente che Ungaretti ri¬
tiene la parola dei futuristi (vedendola solo, interessa¬
ta alla ricerca della « sensazione verbale.» e. dell’« im¬
pressionabilità fisica») come una parola puramente
XXXVI Mario Diacono

meccanica; è al di là delle sue ansie prevedere di quali


conseguenze potesse essere portatrice l’insistenza futu¬
rista sulla fisicità della parola tipografica, di cui met¬
teva in luce a suo modo la dimensione spaziale, visua¬
le, e tendeva a complicarne di una semanticità figura¬
tiva quella puramente verbale.
Certo il problema del « contenuto morale » rimane¬
va fuori della coscienza formale dei futuristi, ma in
quanto era nella logica della storia sociale ch’esso
diventasse costituzionalmente estraneo alla tecnologia
che i futuristi intendevano con un eccesso di passione
interpretare. Del resto Ungaretti vedeva assenza di
« contenuto morale » in tutta la tradizione recente del¬
le avanguardie, e per questo opponeva loro Leopardi,
e questo era ciò che lo faceva sentire proiettato al di
là della cultura decadente. Affermava nel ’37, in una
conferenza tenuta in Brasile su Vico: « La poesia pura
da Mallarmé a Valéry ha cercato l’evocazione da pa¬
role accostate e fra di esse combinate nel loro valore
oggettivo di senso e di suono [...] Il difetto di quei
due poeti [...] sarebbe al lume di Vico dovuto [...]
al loro trascurare interamente il processo morale al
quale tale purezza deve collegarsi per essere veramen¬
te tale ».19 Tale, appunto, è considerata, invece, quella
di Sentimento del Tempo: « L’idea della purezza è
precisamente uno dei miti della poesia moderna italia¬
na perché appunto tiene conto del valore estetico della
poesia, ma anche perché nello stesso tempo usa la poe¬
sia come un atto di purificazione morale ». Egli opera
dunque una distinzione tra innovazione formale ogget¬
tiva, espressivo-fonica, che investa il puro materiale
verbale, e depurazione per contro del medesimo mate¬
riale verbale attraverso un processo analogo ma di se¬
gno soggettivo, o meglio intersoggettivo, come nell’ar- ■
chetipo leopardiano. Cioè, non adesione del poeta alla
materia verbale pura/ ma attivazione nella materia/
linguaggio di un’ideologia superiore. Ideologia che Un-
Introduzione XXXVII

garetti non nomina direttamente, nella conferenza, e


in tutti gli scritti anteriori al ’46, ma che è evidente¬
mente di natura religiosa/cristiana.
Si sbaglierebbe tuttavia attribuendo a questa dema¬
terializzazione della fisicità della parola attraverso una
via perfectionis morale-religiosa un carattere cattolico,
anche se Ungaretti l’ha qualche volta, e soprattutto
nelle “lezioni” tenute nel dopoguerra ad Assisi, fatta
passare per tale. È vero che al di là dello stesso Leo¬
pardi il modello supremo ungarettiano è Pascal, ma
ancora più oltre, se si vuole stabilire una coerenza di
senso tra la poesia di Sentimento del Tempo e quella
del Taccuino del Vecchio, l’orizzonte cui bisognerà vol¬
gere lo sguardo è la « pura persona delle origini » evo¬
cata in Ragioni di una poesia,20 che è il mito, lingui-
stico-religioso, d’una sótériologie par la langue, cen¬
trale di Ungaretti, un mito platonico-gnostico-ermeti-
co-protocristiano (Alessandria d’Egitto!), e magari vi-
chiano, alternativamente nominato « brama d’eterno »,
« mistero », « originaria purezza », « innocenza », « Id¬
dio », ma che piuttosto che associare a una "fede re¬
ligiosa” nel senso catechistico dell’espressione, do¬
vremmo definire un mito metalinguistico, d’una scrit¬
tura cioè che aspiri a una trascendenza non esterna,
del sentimento, ma interna, della parola. « Soltanto la
poesia [...] la poesia sola può recuperare l’uomo»,
proclama la dichiarazione “religiosa” che conclude Ra¬
gioni di una poesia (una versione di questo testo fu
una volta presentata ad Assisi col titolo Sentimento
di Dio..J, indicazione illuminante che Dio esiste solo
nel linguaggio e come linguaggio, fuori dunque d’ogni
specificazione confessionale, fuori della storia, come
precisato ulteriormente nella premessa a Visioni di
William Blake: «[...] il miracolo è parola: per essa
il poeta si può arretrare nel tempo sino dove lo spi¬
rito umano risiedeva nella sua unità e nella sua verità,
non ancora caduto in frantumi, preda del Male, esule
XXXVIII Mario Diacono

per vanità, sbriciolato nelle catene e nel tormento del¬


le infinite fattezze materiali del, tempo ».21 Sono affer¬
mazioni che se una lettura attestano, non è quella del
Vangelo, ma di Hòlderlin mediato da Heidegger, di
Ermete Trismegisto mediato da Festugière.
Tornando all’appunto mosso a Mallarmé nella con¬
ferenza citata su Vico, a quel rimproverargli l’uso del¬
le parole in poesia « nel loro valore oggettivo di sen¬
so e di suono », l’accusa non era dissimile da quella
di cieco materialismo verbale mossa a Marinetti. In
ambedue i casi, Ungaretti definisce la propria relazio¬
ne a simbolismo e futurismo come, all’inizio, di una
solidarietà tecnica, nell’uso dei procedimenti espressi¬
vi; ma subito insieme di una fondamentale opposizio¬
ne quanto alla natura del testo, che per Ungaretti deve
sublimare in istanza morale l’innovazione formale o
tematica: «[...] il Futurismo aveva due meriti: quello
d’insorgere contro gli amatori dei loreti impagliati
[...], e quello di richiamare l’attenzione sul mondo
moderno nella sua violenza, e quindi di fare nascere
nella mente d’un poeta, che verrà più tardi, nel 1917,
il mito della memoria considerato anche nel suo senso
cieco [...] ».22 Il futurismo gli appare una forza mo¬
trice e contrario, insomma, che per eccesso d’assenza
di memoria e di adesione alla materia provoca nel poe¬
ta dell’Allegria un acquisto di coscienza della necessità
della memoria, sul versante ideologico, e della defisi-
cizzazione della parola, sul versante tecnico. Poiché
infatti le “parole in libertà” non erano che « cieca
fiducia nella materia grezza, nella sensazione, nella ma¬
teria caotica », al futurismo « è sfuggito quindi, e to¬
talmente, il carattere di magia dell’arte ».23
Nel ’24 aveva scritto: « Nei tempi della voga di
Bergson, lo scultore "orfico” [una sovrimpressione
Boccioni/Delaunay? ] andava a zonzo con Les données
immédiates de la conscience sotto il braccio, e, qui da
noi, non ci volevan occhi di lince per discernere nei
Introduzione xxxix

concitati manifesti futuristi, e nelle diffuse disserta¬


zioni futuristiche, spunti e insistenze hergsoniani. Il
bergsonismo ha lasciato un’impronta nell’arte ».24 An¬
che in quella ungarettiana, comunque; a un esame som¬
mario della terminologia e dei concetti, gli stessi spunti
e insistenze' appaiono aver agito, sia pure a un livello
diverso, sul futuro autore di Sentimento del Tempo
che ascoltava studente, in prima assoluta, alla Sorbon¬
ne, le lezioni che sarebbero poi diventate Durée et
Simultanéité. ’ La diversità nell’uso e nel consumo di
Bergson riguarda, non c’è bisogno di ripeterlo, il pro¬
blema della lingua.
In una lezione universitaria, probabilmente del 1946,
esemplificando l’« abuso delle ricerche di linguaggio »
contemporanee, non motivate da « necessità di forma
e di stile », dice: «[...] si può fare anche una cosa a
prima vista più assurda, e scombussolare la sintassi;
si può ricorrere alle onomatopee; si possono giustap¬
porre i tropi in modo inconsueto; si può fare tutto;
ma alla fine bisognerà pure vedere se tutto ciò rag¬
giungeva uno scopo [...] ».25 L’apparizione qui del¬
l’imperfetto alla fine di una serie di ipotesi elencate
al presente rifette, nella persistenza di una polemi¬
ca ad personam in funzione autodefnitoria, in un’e¬
poca ormai di istituzionalizzazione del neoclassicismo
ermetico, di obliterazione completa della scrittura fu¬
turista, quale scoperto termine iniziale di misura que-
st’ultima abbia costituito per Ungaretti. Una decina di
anni prima, in una lezione brasiliana del '37 o ’38,
rimproverava a Manzoni di essere stato « preso dal
pregiudizio di portare una rivoluzione nelle forme; co¬
me se la rivoluzione nelle forme può avvenire dall’e¬
sterno [...]», mentre Leopardi le «idee nuove» le
esprimeva invece benissimo « con i mezzi che s’ave¬
vano, che erano quelli naturali della lingua italiana »,26
e nell’opposizione di Leopardi a Manzoni sembrava
volutamente proiettare ancora quella sua a Marinetti.
XL Mario Diacono

Non ci si meraviglierà dunque se, accampato con con¬


vinzione irriducibile su questa frpntiera di “avanguar¬
dia nella tradizione”, egli si lancia nel ’29 in un para¬
dosso della cui portata non è facile dire fino a che
punto fosse inconsapevole, ipotizzando come assurdità
un modo di praticare poesia che di fatto sarebbe dive¬
nuto corrente quarant’anni dopo. Polemizzando con
Soffici, trasecola: « Oggi invece dovremmo fare colle,
parole pittura e scultura? Non chiameremo più le poe¬
sie, odi, inni, canti, canzoni; le poesie non le ascolte¬
remo più, le palperemo, le guarderemo. Il poeta, come
in Cina, farà ideogrammi e pittogrammi,; ciascuno ci
metterà il suono che vorrà, ma la voce e le sue infles¬
sioni non conteranno più nulla »P
Mentre il futurismo gli funziona come un modello
retrospettivo e negativo di comportamento verbale, per
accertare in contrasto con esso la maturazione delle
proprie ambizioni alla parola come antimateria, anche
se praticamente non gli era stato di secondaria impor¬
tanza il radicale concentramento di senso da esso ope¬
rato nella parola ab-soluta, che sul piano tecnico se
non altro l’aveva avviato alla scoperta della « parola
innocente » (« quando vediamo giovani [...] disperar¬
si di non poter dipanare in canto, saturi di letteratura,
la matassa preziosa delle tradizioni, di non riuscir a
trovare una parola innocente, sentiamo che non è pro¬
prio il caso di parlar di classicismo [...] » 28 - ma il
compianto qui è diretto al gruppo protosurrealista di
« Littérature »: l'espressione « saturi di letteratura »
sembra appunto alludere al titolo ironico della rivista),
il suo antagonismo nei confronti del surrealismo non
è a posteriori ma diretto, è un antagonismo in presen¬
za, quasi da disputa tra attori sul palcoscenico. Esso
letteralmente risale all’indomani del Manifesto di Bre-
ton, anzi addirittura lo precede, per la conoscenza in¬
tima ch’egli aveva del personaggio, delle sue idee e dei
suoi testi creativi, e si impernia, sempre in funzione
Introduzione XLI

del linguaggio, sul problema della memoria, benché


talvolta futuristi e surrealisti vengano da lui ammas¬
sati nella medesima gogna come ignoranti del ruolo
della memoria nell’elaborazione d’una nuova poesia.
NLa va subito detto che il rifiuto del surrealismo da
parte di Ungaretti è in gran parte provocato dall’ado¬
zione da parte degli scrittori surrealisti delle teorie di
Freud, dal ruolo che essi assegnano in letteratura al¬
l’inconscio nella versione Freud, e di conseguenza al
sogno. L’avvérsione ungarettiana per Freud muove da
un presupposto importante della sua poetica, cioè dal¬
la nozione del « mistero » come il nucleo profondo da
cui scaturisce l’esperienza poetica, e che genera linguag¬
gio, nel quale essenzialmente prende corpo la forma
poetica. Com’era avvenuto nella polemica retroattiva
col futurismo, che aveva adempiuto alla funzione di
promuovere un’elucidazione del concetto ungarettiano
di parola come parola della coscienza, parola che in
quanto coscienza del mistero fa irrompere nell’uomo
il tragico e lo avvia all’esperienza religiosa, la quale a
sua volta è tale solo nella misura in cui produca parola
poetica, così è al dibattito frontale col gruppo di « Lit-
térature » (che nel ’24 si costituirà come gruppo sur¬
realista) che dobbiamo alcuni passi importanti nello
sviluppo della teoria della poesia di Ungaretti.
Lo scontro si inizia in uno scritto apparso nel ’22
sulla « Ronda », rielaborato poi nel '35, e nel '49 con¬
fluito in Ragioni di una poesia. La scrittura di Unga¬
retti aveva fatto brevi apparizioni in « Littérature »
nei due anni precedenti, scrittura d’una lampeggiante
energia d’immagini, rigorosamente ermetica, e il poeta
stesso aveva partecipato in qualità di "testimone” alla
più famosa performance letteraria del gruppo, il pro¬
cesso Barrès. Le posizioni con cui egli polemizzava
erano dunque quelle flei suoi amici più vicini in Fran¬
cia in quel momento, in particolare di Breton, e se
Ungaretti si distacca presto da quella compagnia di
XLII Mario Diacono

avanguardia radicale non è solo perché subiva l’atmo¬


sfera di ritorno all’ordine che slaggravava dal ’22 in
Italia, ma anche perché la prassi dissacratoria di quel¬
l’avanguardia non poteva, nella sua sostanza, coabitare
con l’emergenza in lui d’una tensione al recupero del
sacro, del numinoso, in poesia. In quello scritto del
'22, A proposito di un saggio su Dostojevski, Unga¬
retti parte dall’insoddisfazione per il « metodo di ana¬
lisi psicologica » che Jacques Rivière aveva affermato
connotare l’arte narrativa francese; solidarizza, per
contro, con la « facoltà smisurata d’innocenza e di paz¬
zia » in Dostoevskij, e approda a un garbato risenti¬
mento verso certe nuove « tendenze nell’arte francese
[...] a parlare come in uno stato di sogno, ove la me¬
moria più non soccorre ». Il riferimento sembra diret¬
to solo a Le pont traversé di Paulhan, ma copre indi¬
rettamente anche Les champs magnétiques di Breton
e Soupault, uscito nel ’20; l’accenno è solo velatamen¬
te polemico, ma contiene già la successiva opposizione
tra sogno surrealista e memoria petrarchesca, e, a un
livello di sviluppo di poetica, rafforza il contrasto pre¬
cedentemente avvertito tra la desolazione esistenziale
dei simbolisti e la voce « universale » di Leopardi.
La direzione in cui Ungaretti muoverà in seguito,
è manifestata subito dopo, sempre in questo scritto
del ’22, dalla impaziente consapevolezza che « la no¬
stra infelicità è di non ritrovare mai più Iddio che
sotto sembianze d’uomo o peggio, di ripieghi umani ».
Nella stesura del ’35 dello scritto, Dostoievski e la
precisione, sparita ogni contestazione diretta delle po¬
sizioni degli amici francesi, il « buio dello spirito al¬
l’ultimo limite », come viene ridefinita Vinnocenza!paz¬
zia di Dostoevskij, è il « dato oscuro » su cui poggia
per l’uomo la storia, è il « mistero » che « c’è, ed è
in noi », che è « il soffio » [ il pneuma degli Stoici,
che, più cristianamente drammatizzato, diventerà !’« e-
terno Soffio »29 che piega il capo del poeta nel Dolo-
Introduzione XLIII

rej che circola in noi e ci anima», e che l’artista ac¬


cetterà solo opponendogli dialetticamente « questo
mondo terreno considerato come continua invenzio¬
ne ».- cioè il mondo del linguaggio, attraverso cui, per
via di « logica » e di « forza geometrica », egli ottiene
« quel potere magico di restituire per sempre, muo¬
vendo la fantasia, un momento della realtà ». Unga¬
retti stabilisce così una serie verticale di termini, mi¬
stero-magia-arte-realtà, in cui la coppia interna, attra¬
verso il « miracolo » da un lato e la « tecnica » dal¬
l’altro, può riconciliare, con un « miracolo d’equili¬
brio » appunto, i due termini estremi. Diciamo che
egli, ribaltando le poetiche dell’avanguardia, per acqui¬
starsi una strada alla poesia, dopo l’orgia “materiali¬
stica” della “decadenza”, riapre un discorso che coi
romantici era stato considerato chiuso, il discorso sul
« mistero ». La chiusura d’un tale discorso, per l'Un-
garetti che scrive Sentimento del Tempo, non aveva
prodotto che l’inferno dei simbolisti e la « dismisu¬
ra » culminata nella « brutalità » dei futuristi, nell’a¬
narchismo dei dadaisti, nella resa al sogno e all’incon¬
scio dei surrealisti, cioè, religiosamente parlando, in
un’arte dell’angoscia, del puro esistenziale, negata alla
« proporzione » classica, all’apertura sulle radici incono¬
scibili dell’essere, alla « forza geometrica » che genera
il magico nel momento stesso in cui è da esso generata.
La tensione del poeta è dunque un ripercorrere nel¬
la parola l’Eterno, per placare nel pathos della di¬
stanza inventata tra significato ideologico e significan¬
te verbale l’eccesso di smarrimento psicologico e di
plurivocità dell'esperienza che dà luogo al materiale
poetico, allo stesso tempo accrescendo il tasso di poe¬
ticità di tale materiale con l’inserimento della dimen¬
sione “magica” nell’artificio formale?0 Certo la nozio¬
ne (letteraria) di “magia” è estremamente vaga in
Ungaretti, è anzitutto un flatus vocis, una metafora
superiore, non contestualizzata antropologicamente ; e
XLIV Mario Diacono

se da un lato rimanda a una unità originaria nel lin-


guaggio di poesia, religione e azione modificatrice del¬
la natura, secondo il predicato di Frazer e Mali-
nowski,n e perciò a un tipo specifico di comporta¬
mento, nell’area del sacro, che produca miracolo me¬
diante una serie chiusa di atti rituali (formali), di
cui quello verbale è il più importante, dall’altro l’ac¬
cezione in cui il termine è usato da Ungaretti pro¬
viene senza dubbio dai simbolisti — come ha già fatto
notare Silvio D’Arco Avalle - e come implicitamente
risulta da diversi suoi testi, in particolare da uno del
‘25 su Valéry, dove il clima in cui era venuto a ca¬
dere il dubbio metodico della Soirée avec M. Teste
viene definito da una breve frase in parentesi: « (si
credeva che la parola avesse un potere magico, e l’a¬
vesse in sé - e non era tutto errore) ».32 È comunque
una nozione che spiega funzionalmente il rifiuto un-
garettiano della psicanalisi. A Freud, Ungaretti dedi¬
ca un articolo nell’ottobre del ’24;ìl ma un primo ri¬
ferimento c’era già stato in un articolo su Reverdy
del luglio precedente. A Freud aveva anche dedicato
un numero in quello stesso periodo la rivista belga
« Le Disque vert », diretta da un amico di Ungaretti,
Franz Hellens, insieme a Michaux. Il Manifesto del
Surrealismo di Breton esce nel tardo autunno del '24,
ma Breton lo aveva scritto in giugno (una sezione del
manifesto s’intitola L’Art Magique Surrealiste, ma
l’accento vi è posto sul rito, sull’un). Ungaretti non
ha comunque bisogno di aspettarne l’uscita per attac¬
carlo se già nel luglio di quell’anno, come s’è detto,
riassumendo brevemente i fondamenti della psicana¬
lisi, pur senza nominarla, aggiunge: « Dottrina sedu¬
centissima dalla quale André Breton e complici dadà
[la parola “surrealismo” non era stata ancora divul¬
gata ] vogliono sprigionare una nuova corrente roman¬
tica, un’arte d’ispirazione, d’ubbidienza cieca agli im¬
pulsi dell’essere buio ([...] le parole e le immagini più
Introduzione XLV

colme di poesia saranno quelle che vi verranno in


mente senza motivo apparente e che v’affretterete a
trascrivere: lo stato di dormiveglia nel quale con un
po’ d’allenamento vi potrete tuffare a piacere, è il
più propizio a questo dettato che ci spalancherà le
porte del paradiso) ».J4 Breton era stato iniziato a
Freud già durante la guerra, e ne aveva parlato in gi¬
ro e l’aveva praticato nei propri scritti fin dai tempi
della prima serie di « Littérature », rivista nel cui am¬
bito Ungaretti- s’era mosso tra il '19 e il ’21 come s’è
già accennato (la tecnica descritta nell’articolo su Re-
verdy è praticamente quella dei Champs magnéti-
ques) - il che spiega la sua notevole familiarità con
le idee di Breton in epoca presurrealista. Nello scrit¬
to su Freud, di carattere soprattutto informativo, e
descrittivo, nel quale fra l’altro Ungaretti attribuisce
ad Apollinaire un interesse per Freud che non gli
venne invece riconosciuto da Breton, troviamo affer¬
mato: « Il fatto sta che, subito dopo la guerra, gio¬
vani amici d’Apollinaire, i dadà, e specie André Bre¬
ton, il più profondo di quei nichilisti, per i quali tut¬
to è stoltezza, fuorché la poesia (come dettato di pen¬
siero puro, senza interventi critici), i dadà, dicevo,
furono, dèi freudismo, i banditori più convinti ».35
Il momento più duro del rifiuto ungarettiano di
Freud coincide con quello più acuto della sua “crisi
religiosa”, il quale a sua volta coincide con l’ini¬
zio della Depressione, due avvenimenti che Ungaretti
nei suoi ultimi anni vorrà considerare intimamente le¬
gati. In una nota del ’29, Il nuovo mago, pigliando¬
sela con quella «scuola» che «da qualche anno, [...]
con rigore di scienza, vorrebbe imparare ed insegna¬
re a leggere nel prossimo, infallibilmente, nel torbi¬
do, nel buio, nell’abisso, senza lasciarsi scappare un
particolare, il presente, il passato e l’avvenire », escla¬
ma alla fine: « La scienza ha tolto all’uomo il para¬
diso; ora anche l’inferno gli vorrebbe togliere! ».36 La
XLVI Mario Diacono

negazione di Freud si muove dunque su un doppio


binario, religioso e letterario: com’è appunto il dop¬
pio significato che Ungaretti afferma connotare tutta
la propria poesia. Su un tale piano non esclusivamen¬
te letterario, la negazione continua lungo l’intera vita
del poeta. Nel ’46/’47, esponendo i propri criteri d’in¬
terpretazione della poesia ai suoi studenti romani, ar¬
rivato a parlare della eventuale utilità dei « dati bio¬
grafici » nel fare critica, li mette vigorosamente in
guardia « verso le teorie ancora in auge, che fanno
dell’opera d’arte, sfogo e sublimazione d’un impulso
sessuale ignorato [...] Tali teorie [...] propongono
per intenderla, la ricerca delle sue radici nelle tene¬
bre dell’inconscio [...] Ma credo che a volere scopri¬
re e identificare i minuti motivi d’un processo oscu¬
ro, decifrabile solo dalla mente divina, si' corra il ri¬
schio di [... fare] anche andare in fumo la poesia»}1
Vent’anni più tardi, nel ’67, il suo giudizio negativo
sulla pertinenza delle teorie di Freud all’arte non viene
modificato ma solo sospeso: ed è difficile pensare co¬
me potesse fare diversamente, nel contesto di una eu-
logia. Commemorando infatti Breton, scomparso da
poco, ed esaminandone il rapporto con Freud, dice:
« Non so se nei quadri antichi di De Chirico sia, sen¬
za che De Chirico lo sapesse, presente per davvero
Freud, non so se essi siano nati da un impulso ses¬
suale ripulso nell’inconscio e portato a dichiararsi nel¬
la sublimazione del sogno; ma so che da tale convin¬
zione nacquero Le Surréalisme et la peinture, Nadja,
l’Amour fou, tanta poesia ».38
È comunque nel suo testo di poetica più impor¬
tante e più noto degli anni Venti, un testo già siste¬
matico, non di carattere semplicemente apologetico,
l’intervista con G.B. Angioletti del ’29, che l’antago¬
nismo nei confronti del surrealismo si manifesta co¬
me una divergenza fondamentale di ideologie lettera¬
rie, ed è in funzione di tale antagonismo che Unga-
Introduzione XLVII

retti arriva nell’intervista alla più esplicita formula¬


zione di sé'come scrittore che ha superato dall’inter¬
no la decadenza, e l’idealismo. Per lui, infatti, l’uni¬
verso non è più una « creazione dell’io, come preten¬
deva l’Ottocento ». Il mondo oggettivo, « per noi esi¬
ste, anche per conto suo ». Tale oggettività compor¬
ta però esiti non materialistici, ma religiosi perché al
suo fondo c’è un « mistero irriducibile »: la mente
« non ci arriverà mai, ma per via di sentimento, si
può averne notizia ». Sicché, in contrasto con la poe¬
sia dell’Ottocento « che tutt’al più deificava la memo¬
ria, ecco nascere una poesia che brama di ristabilire
un rapporto tra la creatura e Dio ». Un Dio che è
cristiano solo « per via di sentimento », è chiaro, cioè
unicamente per recupero della memoria. Per via onto¬
genetica, e come un “ritorno del rimosso’’, direbbe
Freud. L’altra faccia della ricerca del padre. Comun¬
que sia, questa restaurazione del divino, a cui non va
attribuito più di un valore fenomenologico all’interno
della nozione di « sacro », alla quale per via cultu¬
rale riaccede molta arte del Novecento (basti pensare
all’enorme interesse dei surrealisti per l’etnografia e
l’alchimia), questa restaurazione del divino acquista
il volto di una precisa alternativa di poetica a Bre-
ton, alle sue posizioni dadaiste prima e surrealiste poi.
È il Logos, nella sua pura intuizione greco-cristiana,
posto contro gli istinti di Eros e Thanatos che la
nuova cultura scatena nell’arte: « [...] nel pieno del¬
l’ora apocalittica del dopoguerra » rievoca Ungaretti
nell’intervista «[...] il senso fallico e il senso della
morte toccavano direttamente, atrocemente l’ispira¬
zione [...] Alle prese con la morte e col sesso, get¬
tati nel buio smisurato, ridotti a terrori elementari »,
i poeti hanno tentato, « facendo credito illimitato al
potere della parola », una direzione nuova nel « so¬
gno ». Ungaretti sta qui proiettando la propria auto-
biografia culturale sull’epoca, e propone come crite-
XLVIII Mario Diacono

rio d'individuazione d’un ragionevole approccio alla


poesia il sogno, non nell’accezione onirica di Freud e
dei surrealisti, ma nel senso di Poe: la fancy, non il
Traum. Ecco, così, spiegata la furia analogica di Senti¬
mento del Tempo come « un’indagine avanzata in una
sfera di meraviglia quasi primigenia », che aveva « so¬
prattutto il merito di aprire uno spiraglio sull’eter¬
no ». Questo, in Italia, mentre « forse perdura in al¬
tri paesi » il clima « dell’ora apocalittica », quando
« il poeta si sentiva più che mai soverchiato e attratto
e travolto dalla necessità dell’azione, quando non so¬
lo sentiva in crisi il concetto di letteratura, e spre¬
giava il vano lavoro delle parole cui irrimediabilmen¬
te era inchiodato dalla sua vocazione », ma « dell’a¬
zione che lo stordiva e lo salvava, si sorprendeva a
dirsi: a che prò? ». Breton, Tzara e « complici da-
dà » non sono nominati, qui, ma non credo l’allu¬
sione potesse essere più trasparente. Del resto, poco
più avanti nell’intervista, la puntualizzazione risenti¬
ta, « Poe, meglio di Freud, ci farà da guida », sigilla
il complesso intreccio di allusioni di tutta la parte fi¬
nale dell’intervista.
La deprecata relazione surrealismo-Freud, natural¬
mente lo interessa all’interno del suo lavoro di poeta,
nella misura in cui la nozione ideologica di sogno-au¬
tomatismo coincidendo con quella d’un linguaggio di¬
sturba la sua prospettiva classicistica. In una lezione
del secondo dopoguerra a Roma, non si stanca di ri¬
peterlo: « [...] a un certo momento i Surrealisti han¬
no pensato, e li guidava Freud, che fosse autentica so¬
lo quella poesia che ci nascesse come in momenti me¬
dianici o sonnambolici [...] È il sogno ridotto a si¬
stema, è il sogno privato d’ogni sorpresa, è la realtà
resa tirannicamente soggettiva, esclusivamente, mecca¬
nicamente segreta, è in qualche modo la distruzione
del linguaggio per la troppa confusione delle troppe
lingue ».39 L’importanza di queste ricorrenti notazioni
Introduzione XLIX

polemiche nei confronti delle avanguardie ch’erano


state contemporanee dei suoi due libri più impegnati
nell’esplorazione d’un linguaggio che toccasse i vertici
dell’espressione, /'Allegria e il Sentimento, è traspa¬
rente nel fatto che vi convergono successivamente tutti
i punti chiave dell’ideologia di Ungaretti; è insomma
in esse che è verificabile al massimo come tout se
tient nel sistema critico ungarettiano. Nella già citata
conferenza su Vico del '37 in Brasile, arrivato il di¬
scorso a un punto in cui affiora uno dei postulati car¬
dinali-delia sua tensione poetica/religiosa, quello di
scrittura-rivelazione, ricorre ancora all'antitesi per de¬
finirsi: «[...] oggi si sente tanto questo bisogno di
rivelazione che i Surrealisti in Branda hanno pensato
di poterci arrivare, cercando un linguaggio che fosse
in diretto contatto coll’inconscio. Hanno trovato la
scrittura automatica. Hanno commesso, rovesciando¬
lo, il medesimo errore dei Futuristi. Per i Futuristi,
occorreva imitare il cieco oggettivo, per i Surrealisti
occorre imitare il cieco soggettivo. In realtà i migliori
Surrealisti s’accorgono poi della memoria, e scrivono
allora perfino con troppa cura e razionalità, e direi
quasi con preziosità e leziosità ».40 La memoria è vi¬
sta così, nella sua funzione generatrice d’equilibrio tra
le opposte urgenze dell’oggettivo e del soggettivo, co¬
me garante dell’ordine formale del testo, che avrà due
perfetti modelli referenziali, antitetici alle avanguar¬
die, in Leopardi e in Valéry.
Leopardi e Valéry sono i due topoi in cui Ungaretti
verifica il suo rifiuto dell’uso surrealista del sogno. Il
richiamo alle fancies di Poe nell’intervista del ’29, è
assai probabile sia un prestito da Valéry. Lo confer¬
ma il Discorso per Valéry del ’61: « Valéry impara da
Poe che per capire la genesi d’un’opera d’arte si deve
partire non da un’emozione iniziale, ma dai mezzi tec¬
nici messi in opera dall’artista per produrre tale o tal
altro effetto ». È una lezione che Ungaretti stesso non
L Mario Diacono

ha avuto alcuna difficoltà ad accettare, perché riba¬


diva su misura il “formalismo" da lui contrapposto in
ogni occasione all’estetica di Òroce. Ma la messa in
relazione di Valéry con Poe rivela più specificamente
la sua pertinenza al tema ungarettiano del sogno nella
breve analisi che il poeta fa più avanti, nel Discorso,
della Jeune Parque; « Orizzontalità e verticalità con¬
tinue sono in questa poesia, la continua ambivalenza
di aspetti diversi e contemporanei di medesimi atti.
Continuo effetto d’un’evocazione del sogno, tra son¬
no e veglia. Continuo effetto di balzi [...] in una mar¬
cia [...] inesorabile la quale accade e trascorre in uno
stato di sonno [...] Eppoi nell’assoluto del sonno, l’o¬
blio pieno [...] ».41 Negli anni Quaranta, comunque,
è Leopardi che si accamperà come il modello unico,
una forma più che di archetipo di alter ego storico,
di Ungaretti. Nelle sue lezioni universitarie su Leo¬
pardi, il poeta si sofferma a lungo sul frammento
Spento il diurno raggio in occidente, in cui per lui
Leopardi si propone deliberatamente di ottenere « ef¬
fetti di sogno ». Analizzando il testo di Spento il diur¬
no raggio..., Ungaretti osserva che a Leopardi era ba¬
stato « troncare il discorso a pietra » perché di colpo
le due terzine originarie dell 'Appressamento della mor¬
te, la poesia giovanile da cui il frammento deriva,
trovassero « un’unità nel loro contrasto di tempo, e
una durata in un’atmosfera di sogno. Certo non gli era
possibile di ottenere un’unità di durata a occhi aperti
con descrizioni così generiche [...] Ma ed ella era di
pietra impone una perplessità, uno sgomento, un’in¬
comprensione, come avviene nei sogni ».42 La « durata
a occhi aperti » qui privilegiata nei confronti del « so¬
gno », è il tema ben radicato nella poetica ungarettia-
na fin dal ’29, s’è visto, con l’opposizione delle fancies
di Eoe all’onirismo metodico dei surrealisti, e ci ri¬
porta alla Jeune Parque di poco fa. La sua teorizza¬
zione più articolata in funzione della prassi poetica
Introduzione LI

s’era avuta nelle Riflessioni sulla letteratura del ’35:


« Pensavo alla memoria, e non potevo non essere in¬
giusto col sogno [...] ma [...] la poesia italiana non
fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidità [...]
Le cose a questo solo patto muovono la nostra fanta¬
sia [...] e ci fanno, se vi pare, sognare: ma è un so¬
gnare ad occhi aperti ». Questa ulteriore coppia di op¬
posti, sogno/sogno a occhi aperti, è un altro dei segni
in cui si attua la dialettica innocenza!memoria. Una
dialettica in cui Ungaretti vede iscritta la cifra incon¬
fondibile della propria unicità, dei risultati raggiunti
dal proprio testo poetico.
Nella lezione citata sul frammento Spento il diur¬
no raggio..., troviamo predicato un Leopardi che, può
certo immettere « una potenza espressiva tale nelle
parole, ch’esse appaiono come all’agricoltore primiti¬
vo, sacre »: questo è l'obiettivo anche del linguaggio
ungarettiano fin dall’Allegria; è l’invenzione vichiana,
ormai irrinunciabile. Ma è al di là di questo comune
terreno iniziale, che Ungaretti vede attuarsi il suo ap¬
porto decisivo alla poesia europea dopo il Leopardi:
quando quest’ultimo « spezza il frammento al punto di
ed ella era di pietra l’innocenza è raggiunta, l’innocen¬
za del sogno; ma la memoria, nemmeno con l’abilità
d’un Leopardi del 1835, non poteva qui arrivare a tro¬
vare inserimento ».43 Anche se è arrivato a darci « un
esempio di quanto avrebbero dovuto e non hanno, sa¬
puto fare i Surrealisti: il sogno in se stesso raffigura¬
to »,44 come Mallarmé, è rimasto anch’egli, con tutto
l’Ottocento, al di qua della memoria, dopo avere risco¬
perto la tensione all’innocenza. Memoria e innocenza in
quanto condizioni di linguaggio, ripetiamo, poli tecni¬
ci della prassi poetica la cui interrelazione struttura¬
le, o coniunctio oppositorum, rappresenterà la ricerca
e il risultato di vertice della nuova poesia, e a cui se¬
condo Ungaretti si è avvicinato, al di là di Leopardi
(almeno questo è il suo pensiero durante la stesura
LII Mario Diacono

di Sentimento del Tempo) il solo Valéry. Nell'Esor¬


dio introduttivo alla serie di articoli sulla cultura
francese pubblicati nel '24 nello « Spettatore italia¬
no », ripercorrendo la parabola della poesia simbolista
francese, Ungaretti trova che mentre Baudelaire « por¬
ta il dramma sin nelle parole », avendo invece Valéry
allontanato « l'espressione o l’ispirazione verso le ori¬
gini, s’induceva l’animo e la parola a vagare nel labi¬
rinto della memoria, si arrivava a sciogliere il dram¬
ma [...] in melodia, cosa alla quale non era arrivato
nemmeno Mallarmé ». La memoria è così già in Va¬
léry soluzione di linguaggio, impressione d’uno spes¬
sore di “durata" - termine che nel vocabolario di Un¬
garetti oscilla continuamente tra un senso bergsoniano
e un senso leopardiano - a una parola che vuole ap¬
prodare all’espressioneIscrittura con qualità di « purez¬
za originaria », riassumendo e distillando in sé l’in¬
tera storia d-’una lingua poetica. Per questo Valéry
è posto come l’alternativa più funzionale ai surreali¬
sti, come una superiore conferma: « Il dissidio oggi
insanabile tra Valéry e i surrealisti consistermi fatto
ch’essi considerano il linguaggio, lucida visione, ne¬
gando la legge del discorso [...] ed egli crede la men¬
te umana tesa a ridurre sempre più lo spessore del
mistero [...] ».45 Al limite, Valéry è considerato, dal
punto di vista della tecnica e dell’ideologia della poe¬
sia, come il nuovo Leopardi, e dunque come una “fi¬
gura’’ dello stesso Ungaretti. Infatti « il poeta di
Charmes [...] è attuale perché ha sanato il dissidio
tra convenzione e creazione, tra miracolo e mestiere,
tra classicismo e romanticismo, perché al massimo tur¬
bamento ha opposto, anzi ha conciliato, il massimo ri¬
gore ».46
Discendere nei significati del testo di Valéry è per
Ungaretti salire alla consapevolezza del proprio testo
poetico, come avvertiamo leggendo in un articolo del
’26: « Sono grato a Valéry d’avermi fatto, dicendo:
Introduzione LUI

"Sono sulla china. I miei piedi in una sabbia insieme


con essa scendono", sentire il tempo come non saprà
mai nessun collezionista di clessidre »f1 dove si sente
avanzare nelle ultime parole, segno e significato, il ti¬
tolo di Sentimento del Tempo.
Nel saggio citato del '61, Valéry s’è distintamente
allontanato da Ungaretti in un Olimpo in cui solo
Leopardi ancora lo affianca, e il poeta "religioso” ne
risente quasi l’eccesso di disposizione alla curiosità in¬
tellettuale e alla teoria, al punto di farne l’epitome, ma
in variante classicistica, di tutto il movimento d’avan¬
guardia da cui egli aveva preso le sue distanze di con¬
corrente inconciliabile: «Eliot, dicendo che Valéry fu
il poeta rappresentativo degli anni compresi tra le due
guerre pensò forse all’importanza che, nell’opera di
poesia, Valéry [...] attribuì ai sogni, all’inconscio e al
subconscio? Infatti l’opera, e non in ciò che potreb¬
be avere di peggiore, non può esimersi da un qualche
automatismo di scrittura. Fu da lui stimolato il Sur¬
realismo? E [...] mi viene spontaneo di domandare a
Eliot, se con la sua affermazione non alludesse anche
alle disarticolazioni e ai costruttivismi di Cubisti e
di Futuristi, e alle semplificazioni e agli utilitarismi,
se non agli asetticismi di Funzionalisti e altri Razio¬
nali ».48 Con i quali ultimi allude probabilmente al
Bauhaus, a De Stijl, a Mondrian, a un tipo di arte
cioè talmente rigorosa nei suoi postulati formali da
non ammettere altro referente nelle proprie opere che
l’ordine interno della sua stessa forma, drasticamente
privo di aspirazioni tanto a una trascendenza come al
« buio dell’essere ».

Possiamo forse, ora, avvertire meglio l’unicità della


posizione ungarettiana che vede in una tradizione
'direi metastorica (Origini-Petrarca-Vico-Leopardi) il
modello d’un autentico avanzamento della forma in
poesia, e costruisce la propria dialettica di innocen-
LIV Mario Diacono

za/memoria non come una mitologia personale ma co¬


me l’aspirazione a una loro copiunctio sive coitus nel
processo d’una Alchimia della Parola che avvenga sot¬
to il segno religioso. Così Ungaretti si pone al centro
delle interazioni più provocatorie del linguaggio poe¬
tico contemporaneo, negandole radicalmente, assor¬
bendone solo quel tanto che vi trovi di acuto a li¬
vello di coscienza storica, contrapponendo ad esse la
nozione di una poesia come una sorta di Grand
Oeuvre verbale (la Perfezione dell’uomo è la per-
fectio del testo), e verificando infine nella propria
opposizione ad esse la misura stessa del radicalismo
del proprio testo poetico. L'obiettivo ultimo di tale
testo, l’abbiamo visto, è di costituirsi poesia assoluta
e dell’Assoluto attraverso il rigore della messa in atto
delle innovazioni espressive, concepite non tanto co¬
me invenzione quanto come distillazione delle qualità
accumulate nei secoli dalla scrittura poetica occiden¬
tale. Il testo si comporterà da luogo di rivelazione,
allora, o meglio, non ci sarà rivelazione che nel testo
poetico («c’è diffusa [...] l’ansia d’una nuova rivela¬
zione [...] N’è emersa, per ora, una poesia [...] eh’è
un rompicapo persino per gli iniziati » 49), e questa
conversione dell’espressione nella “rivelazione” viene
enunciata, evocata, invocata, intimata, corteggiata, pro¬
fetata, proclamata, ma naturalmente non può essere de¬
finita che in modo vago, come un’approssimazione dei
mezzi (linguistici) al fine (metalinguistico): «libertà
è poesia: un valore segreto che non si può definire
senza recargli offesa».50 (Esaminando in una lezione
tenuta in Brasile il tessuto verbale delle prime strofe
del Cinque maggio, Ungaretti lo trova « privo d’ogni
forza misteriosa di rivelazione, privo della forza rive¬
latrice, della forza che direi miracolosa delle vere pa¬
role poetiche ».51) 1 mezzi sono la memoria, il fine è
l’innocenza. Innocenza è, in Ungaretti, il mito degli
Inizi; l’arte contemporanea viene connotata globalmen-
Introduzione lv

te come un ritrovare « all’altezza dei tempi, la purità


religiosa e lo slancio degli inizi ».52 Leopardi e Mal¬
larmé hanno accennato un futuro alla poesia, perché
ci riportano alle « oscure e energiche origini della pa¬
rola », perché ci rituffano nelle « origini sacre della
parola »; la parola giunge a Dante, per « iniziarlo »
alla poesia, « anteriore all’uomo stesso, sacra ». Leo¬
pardi, ancora, ha sì il merito enorme di avere impres¬
so ai vocaboli una dimensione di durata, ma si poteva
andare anche più in là: « inoltrati a rinvenire il deli¬
rio dell’ora iniziale e, in quella nottè abbagliante, le
origini indecifrabili del nostro male ».53 Gli Inizi sono
il luogo coscienziale dell’Innocenza prospettata nel
Dio, e infatti, già « dall’iniziale sillabare dell’uomo
della selva, lo scopo dell’arte [...] è [...] il cercare
di stabilire un rapporto col segreto inviolabile della
divinità creatrice ».5* Sarà superfluo far notare in que¬
sto passo, come dalla costruzione sintattica del testo
l’« arte » e il « sillabare iniziale » siano fatti coinci¬
dere, a ribadire, se ce ne fosse bisogno, che il mito
degli Inizi è un mito linguistico, e come ogni mito
recuperabile attraverso l’iterazione culturale; ed è pro¬
prio nella scoperta della tecnica d’una tale iterazione
che per Ungaretti consiste il genio di Leopardi: una
tecnica che si chiama «indeterminatezza»: «nell’"in¬
definitezza” della parola [...] là e il grido del mo¬
mento sacro, innocente, della natura ».55 Nella scrittu¬
ra contemporanea (va detto che nelle sue lezioni uni¬
versitarie Ungaretti denota spesso se stesso come « l’o¬
dierna poesia italiana »), muovendo cioè inevitabil¬
mente da Leopardi e Mallarmé, quella tecnica s iden¬
tifica colla memoria. Ungaretti è “toccato” da Blake
perché vi si può rispecchiare (un “rispecchiarsi” con¬
nota costantemente la sua lettura dei classici) in
un’« esperienza tecnica tesa, ricercando affannosamen¬
te vie smarrite della tradizione, verso il recupero del¬
l’originale innocenza espressiva ».56
LVI Mario Diacono

La tecnica, nella nuova poesia, è una modalità del¬


la memoria, e « a furia di memoria si torna, o ci si
può illudere di tornare innocenti ». Cosa che si pote¬
va già riscontrare in Leopardi, la cui poesia era stata
l’unica del passato che, « nello spavento della bellez¬
za, scioglieva ogni ironia e si rigenerava e tornava a
farsi veramente iniziale e. sacra », l’unica che .« nel
porre in contatto così intimo, straziante e prodigio¬
so, innocenza [“spavento della bellezza”] e memoria
[“sentimento della durata”], non era mai né strana né
orrida »,51 aggettivi questi ultimi che alludevano sicu¬
ramente a tuttà l’esperienza francese, da Baudelaire
ai Surrealisti. E archetipicamente, aveva battuto in
modo analogo la stessa strada Petrarca, un’analogia di¬
chiarata fin nell’identità del vocabolario di ascendenza
leopardiana messo in atto da Ungaretti per rintracciar¬
la: « Le parole hanno due sole vie per toccarci l’ani¬
ma: si colmano dei nostri ricordi, e ci avvolge la loro
infinita malinconia, o ci svelano fatte subitamente
nuove, la meraviglia celesti' delle cose, lo spavento
della bellezza ».58 Una sezione notevole del vocabola¬
rio critico ungarettiano potrebbe essere rubricata, sot¬
to le due voci titolari di innocenza e memoria, in due
colonne di termini contrapposti, che si costituiscono
come due aree semantiche di omologhi, in cui rientra
ciascuno dei termini della coppia vicaria. Vi rientre¬
rebbero, per esempio, perfino due termini fondamen¬
tali del vocabolario critico leopardiano, “familiare” e
“elegante”: «[...] c’è una parola che imita l’arte, e
c’è una parola che manifesta la natura, c’è una parola
elegante, e una familiare suscitata, rivelata da natu¬
rale assuefazione alle cose, e che è insieme cordiale
e magica e apocalittica come nel modo d’essere sono
le cose »; 59 cioè, non solo la parola familiare, inno¬
cente, che manifesta, suscita e rivela la natura, che è
magica e apocalittica, è in una dialettica funzionale
con la parola della memoria, elegante, che imita, che
Introduzione LVII

proviene dall’arte, ma nella sfera della parola fami¬


liare c’è nelle parole ciò che c’è nelle cose, il linguag¬
gio è le cose, così come la parola elegante è già di
per sé arte, che per definizione è linguaggio. Arte e
natura, così, diventano termini vicari di memoria e
innocenza. Un altro esempio, tratto da un testo del
’28. Scriveva Ungaretti nell’Introduzione a Odor di
terra di Corrado Pavolini: « E il poeta si avvicinerà
di più all’infinito, brama inappagabile di ogni uomo,
se i suoi palpiti, mescolandosi all’eco morale dei mor¬
ti, moduleranno il tremito dei presagi ». « Infinito »
ed « eco morale dei morti » significano qui chiaramen¬
te innocenza e memoria; i termini « palpiti » e « tre¬
mito », dal canto loro, andranno sentiti come analo¬
gie cardiomuscolari del linguaggio (lo attesta il ver¬
bo «modulare»), mentre «presagi» connoterà il ca¬
rattere rivelatorio, magico del testo poetico, sicché an¬
che tali tre termini finiscono per iscriversi, con indi¬
cazione di senso più tecnica, nei due campi semantici
della memoria e dell’innocenza. In ogni caso, affer¬
mava Ungaretti in una lezione del ’37 in Brasile, « o-
gni lingua immedesima la memoria », e la lingua ita¬
liana in particolare, era nata con « questo crisma poe¬
tico: che cioè solo le forme della parola erano realtà,
ch’esse erano la sola realtà concreta nel mondo ».60 E
infine, riassumeva nello stesso anno, nella conferenza
su Vico più volte menzionata, « Tutto, tutto, tutto è
memoria ».
È forse la scoperta del “sentimento della durata”,
con cui Leopardi vuol dare spessore alla parola dei
Canti, e che Ungaretti avverte come il punto culmi¬
nante della coscienza linguistica della Decadenza, a
lui in qualche modo “madre e matrigna”; ed è la na¬
turale associazione che si opera nella sua mente di tale
leopardiana “durata’’ della parola con i concetti di
“durata” e “simultaneità” appresi da Bergson sui ban¬
chi della Sorbonne (e che determinano la sua conce-
LVIII Mario Diacono

zione astoricìstica dell’intero testo della poesia occi¬


dentale, da Virgilio a Lautréamont, come poesia con¬
temporanea, per cui Petrarca viene da lui definito « il
nostro migliore e maggiore contemporaneo » 61) : è for¬
se la combinazione di queste due idee, che c’è nella
parola poetica tutto il passato di una lingua, e che
c’è nella coscienza di un uomo non condizionato dallo
storicismo tutta l’evoluzione di una civiltà, è forse
una tale combinazione che matura in Ungaretti il suo
concetto di memoria come memoria del linguaggio
emergente nel linguaggio. Ne consegue una nozione di
poesia come memoria, la quale segue cronologicamen¬
te la fase dell’Allegria, testo che se lungo una diret¬
trice si muove è quella d’una poesia come innocenza.
Ma né l’una né l’altra fornivano da sole una soddi¬
sfacente base ideologica a un poeta di così forti ambi¬
zioni ermetiche come Ungaretti, che vede la propria
“pagina bianca” nascere da una putredo ('"disconti-
nuité et séparation des parties” caratterizzano questo
momento dell’opus alchemico, nelle parole del Secret
Livre del 1612 citato nell’Alchimie di E. Canseliet
[Pauvert, Paris 1964, p. 35] - e anche, ovviamente,
una qualsiasi pagina parolibera di Zang Tumb Tumb
di Marinetti) del linguaggio, « in un periodo in cui,
dal Pascoli al Marinetti, l’onomatopeia sembrava trion¬
fare, e [...] si arrivava allo sfacelo della parola».62
La continuità sintattica che si crea tra i due termini,
innocenza e memoria, è indicata con precisione in
Indefinibile aspirazione, il testo forse più perfetto che
Ungaretti abbia scritto sulla propria poesia: « Se tut¬
tavia la memoria in sé non contenesse un’antitesi che
la muove [...] condurrebbe al suicidio e non alla poe¬
sia. Conduce la memoria alla poesia, perché [...] por¬
ta la parola a quell’atto di desiderio di rinnovamento
dell’universo [...] Estrema aspirazione della poesia, è
di compiere il miracolo nelle parole, d’un mondo ri¬
suscitato nella sua purezza originaria [...]».6Ì «Rin-
Introduzione LIX

novamento », « miracolo », « purezza originaria » che


si realizzano « nelle parole »: la memoria scrivendo
non può pronunciare che il linguaggio dell’inno¬
cenza.
Un saggio di poco posteriore (Indefinibile aspira¬
zione fu pubblicato con tale titolo nel ’55, ma era già
apparso sostanzialmente identico nel '47 col titolo Ra¬
gioni d’una poesia; quest’ultimo titolo passerà nel
’49 a designare uno scritto diverso, pubblicato in « In¬
ventario », e che poi, fuso con le Riflessioni sullo stile
del ’46, verrà posto nel ’69 in testa a Vita di un uo¬
mo / Tutte le poesie; è allo scritto di « Inventario »
che ci riferiamo qui), un saggio di poco posteriore
indicava retrospettivamente anche la saldatura opera¬
tasi tra l’innocenza del linguaggio <ie//'Allegria e la
durata leopardiana/bergsoniana della parola del Sen¬
timento: « [...] avverrà forse senza motivo che, aven¬
do da comunicare il senso d’una durata, il poeta d’og¬
gi intensifichi la durata d’un elemento verbale [...]?
Non vorrebbe egli annientare, così facendo, mutamen¬
ti e durata e sostituire ad essi la sua persona pura
delle origini, da essi irrimediabilmente compromessa?
[...] Non vorrebbe egli che il proprio io [...] gli of¬
frisse la facoltà di guarire, di divenire in quell’istante
medesimo innocente [...]? ».M La prima formulazio¬
ne d’una utopia della poesia in termini di innocenza/
memoria si ha in tre scritti del ’26, che sono varianti
d’un medesimo testo: Innocenza e memoria, due arti¬
coli dal medesimo titolo apparsi rispettivamente nel
« Mattino » e nell‘« Italiano », e Innocence et mémoi-
re, uscito nella « Nouvelle Revue Franqaise ». I due
termini appaiono chiaramente, in questi tre testi, pa¬
role-manifesto. Una « speranza inappagabile d’inno¬
cenza » e una « parola allucinante di memoria » con¬
notano, per Ungaretti, il « contributo dell’Ottocento
alla poesia», un contributo che si riassume nei due
nomi di Leopardi e Mallarmé. Ma a livello di teoria
LX Mario Diacono

della cultura, quelle dell’Ottocento erano un’innocen¬


za di natura filosofica e una memoria di natura classi¬
ficatoria: filologica, archeologica. Con segno diverso,
« anche le persone del nostro dramma, di artisti del
primo Novecento, sono la memoria e l’innocenza ».65
Ma l’innocenza del Novecento, cioè quella ^//'Alle¬
gria, è una « conoscenza mistica della realtà », nata
dall’« esperienza diretta », per abolizione di distanza
tra il tempo e l’eterno, per abolizione di memoria:
«L’innocenza [...] ci ha tenuto sotto le sue ali più
grandi, nei rivolgimenti di questi anni [...] La memo¬
ria aveva gli occhi bendati, poteva dirsi abolita [...]
Il tempo pareva eterno, non per modo di dire ». Se
la memoria era abolita, nell’Allegria, sarà stato pure,
però, perché partecipava anch’essa di un tipo di scrit¬
tura della crisi, che aveva caratterizzato le avanguar¬
die contemporanee. Molti anni dopo, in Brasile, Un¬
garetti, ormai approdato al “sentimento del tempo”,
liquidava così quel momento storico di scrittura sen¬
za memoria: « Abbiamo indirizzi romantici, e sono
quelli che non tengono [...] in nessuna considerazio¬
ne la memoria: per esempio, molte scuole moderne, a
incominciare dai futuristi ».66 In ogni caso, nei tre
scritti in questione, Ungaretti sente il peso dell’assen¬
za di quell’innocenza, che ha perduto nel linguaggio e
che nel linguaggio stesso gli sembra di non poter più
riacquistare: « Non conoscerò più tanta soggezione, né
quella libertà ferma, ch’è la vera, d’uno specchio pe¬
renne ».67 (Lo «specchio perenne» è il «momento
eterno » - supremo oxymoron - alluso dallo scultore
Bantu negli specchietti con cui « ha fatto gli occhi al
suo idolo ». Non sarà un caso che in Dall’Estetica al¬
l’Apocalisse, in cui questa osservazione appare, e che
nella sua parte centrale prepara i testi di Innocenza
e memoria, la scultura negra vi è per la prima volta
nominata, con consapevolezza ed ironia, come « un ca¬
pitolo dell’estetica » del Novecento: se d’altra parte
Introduzione LXI

nell’articolo viene stabilita una relazione puntuale tra


la memoria abolita dalle avanguardie, quella abolita
nell’arte negra assimilata dall’arte d’avanguardia, e la
memoria abolita dalla guerra. «Intorno al '910» di¬
ce Ungaretti « fece la sua comparsa nell’opera d’arte
europea, il naso a spegnitoio, e gli tennero subito bor¬
done le parole in libertà. E la guerra dimostrò come
il progresso massimo, l’artifizio sovrano riconducano
alla natura vergine, alla conoscenza mistica della real¬
tà, ci scavino sotto i piedi l’inferno. Tanti sforzi per
abbracciare la memoria concorrevano ad abolirla [...]
Per il Negro l’occhio è uno specchio, è il momento
eterno. ») In un periodo in cui egli sta compiendo,
nel linguaggio del Sentimento, lo sforzo di introdurvi
il peso, lo spessore, la dimensione della memoria, ciò
che più sembra interessarlo è che la memoria risulti
un momento progressivo nei confronti di quello del¬
l’innocenza: « Credo che l’arte di domani sarà felice
[...] Saranno andati in fumo anche i tentativi di affi¬
dare la parte del burattino alla memoria, e all’inno¬
cenza quella dell’oracolo ».68 L’innocenza è predicata,
nei tre articoli su Innocenza e memoria, come un’at¬
tuazione di linguaggio assoluto imposto da una guerra
sentita quale esperienza di un tempo senza passato,
« momento eterno », irripetibile al di fuori di quelle
precise condizioni, condizioni cioè d’iniziazione all’e¬
sperienza della morte. Per cui, « tornata nella memoria
al suo posto oscuro », l’innocenza doveva essere sosti¬
tuita dalla « rigorosa ragione », « paradiso » generato¬
re d’una « lucidità più folle » del « vino » e dell’« op¬
pio » della scrittura della Decadenza, della scrittura
dell’Avanguardia. È un Ungaretti, questo, che guidato
da Valéry cerca l’innocenza del linguaggio al di là del
silenzio della .memoria che s’era autoimposto nell’Al¬
legria, il che rende davvero stupefacente trovare un
progetto più consono alla futura parola critica di Ra¬
gioni di una poesia nella conclusione di Les Mots
LXII Mario Diacono

Anglais di Mallarmé riportata in Innocence et mé-


moire, che nelle chiuse valeryane dei due articoli in
italiano. L'Anglais di Mallarmé è infatti quanto di più
vicino ci fosse allora al mito linguistico degli Inizi
di Ungaretti, che non è escluso cominci proprio, con¬
sapevolmente, con questa citazione': « Par sa Gram-
maire marche vers quelque point future du Langage
et se réplonge aussi dans le passe, méme très ancien
et mèlé aux débuts sacrés du Langage, l’Anglais ».
Visione del linguaggio perfetto analoga a quella di
Leopardi, dice Ungaretti; ma quanto più esplicita¬
mente mito-poietica, per la verità, e più recisamente
programmatica.
Il testo di Innocenza e memoria è ripreso in parte
da Ungaretti, cinque anni più tardi, nella risposta a
un’inchiesta sulla poesia condotta dalla « Gazzetta del
Popolo »; ma questa risposta va un passo più in là.
Mentre nel ’26 sembrava proporsi al limite un’eclisse
dell’innocenza, il poeta appare nel ’31 riconciliato con
essa: «[...] in questo vediamo riconciliabile la me¬
moria coll’innocenza, torniamo a credere che la luce
del mistero scatta ogni volta che nell’opera è raggiun¬
to l’equilibrio ».69 E ancora oltre si va in una confe¬
renza letta più volte tra il ’33 e il ’36 con titoli di¬
versi, dove, riformulando e ampliando il tema della
risposta all’inchiesta della « Gazzetta », Ungaretti con¬
cepisce finalmente l’innocenza come telos della memo¬
ria: « Per risvegliare l’innocenza, egli [ « il poeta d’og¬
gi »: Ungaretti] non ha negato la memoria ».70 La pre¬
senza del verbo risvegliare, qui, ci attesta che non si
tratta più dell’innocenza conosciuta nell’Allegria, ma
d’un’innocenza nuova, inseguita negli Inni del Senti¬
mento. E neanche stavolta sarà difficile accertare quan¬
to innocenza e memoria siano funzioni del linguaggio
poetico. Continua infatti il testo della conferenza:
«Ha ascoltato [il poeta d’oggi] il verso più antico e
di sempre » - cioè non negare la memoria voleva di-
Introduzione LXIII

re rinascere nell’endecasillabo del Petrarca, ma spo¬


gliando la parola del suo peso fisico e « risvegliando¬
ne » l’innocenza con l’inseguire nel « ritmo » il re¬
spiro della « Natura »: « Ma il poeta moderno ha por¬
tato in ogni momento del verso, una tale intensità e
un tale silenzio [...]»■ Da questo momento i due ter¬
mini appaiono ormai interrelati, interdipendenti, cia¬
scuno funzione dell’altro. L’innocenza s’identificherà
sempre più col mito della Parola Iniziale, vissuto
istintualmente nell’Allegria, e riletto poi in dimen¬
sione '‘magica” in Vico, in Leopardi, in Mallarmé, in
Blake, in ogni figura culturale (poetica) in cui gli av¬
venisse di rispecchiarsi (« Voleva pure il Barocco che
la sua arte [...] fosse resa sacra dalla scelta dell’arti¬
sta [...] che quell’arte divenisse per la scelta dell’ar¬
tista, testimonio di divinità, segno di mistero, voca¬
bolo magico » ll), mentre la memoria, « profondeur
de l’homme », ripercorsa dentro l’uomo tutta la pro¬
pria storia come le tappe d’una iniziazione, « ha per
aspirazione e per missione di superare e abolire il pas¬
sato, e di restaurare e di risollevare la realtà nella sua
integrità e unità originaria »72 (così Ungaretti legge
se stesso in Scève). L’innocenza potrà anche venire
sollecitata, come forma poetica, con il sogno, che sa¬
rà però sempre il "sogno ad occhi aperti”, e non quel¬
lo surrealista/freudiano, che corteggia il delirio. D’u¬
na tale sollecitazione, già Leopardi aveva dato il mo¬
dello compiuto con L’infinito; d’altro segno era invece
il sogno raggiunto, per mutilazione nel linguaggio, per
assenza, nei frammenti, ed è a questi, tramite Ché-
nier, che Ungaretti si riferisce quando nella nota in¬
troduttiva alla traduzione della Fedra di Racine, di¬
fende il proprio aver voluto « invece raggiungere un
linguaggio poetico dove, nella ricerca del vero che è
il sacro,, la memoria s’abolisca nel sogno e dal sogno
rifluisca agli oggetti, e viceversa, incessantemente ».73
Se dunque la poesia diventa il Luogo dèll’innocenza e
LXIV Mario Diacono

della memoria, perciò « miracolo », forma stessa del¬


l’innocenza realizzata per via di memoria, sarà soprat¬
tutto perché il poeta avrà voluto piegare il suo orec¬
chio ad ascoltare la voce « naturale » del linguaggio
poetico italiano; non per niente la memoria comincia
con Petrarca e l’innocenza riappare con Leopardi: so¬
no questi i temi centrali seguiti da Ungaretti in tren¬
tanni d’insegnamento universitario.
Nelle lezioni universitarie, quasi tutte ancora ine¬
dite (ma appariranno presto in volume presso Mon¬
dadori), trovano la loro origine la maggior parte dei
saggi su Dante, Petrarca e Leopardi pubblicati da Un¬
garetti negli anni Quaranta e Cinquanta. Sbagliereb¬
be chi pensasse che - Ungaretti tenesse una lezione su
un qualsiasi autore senza aver prima letto tutta la bi¬
bliografia reperibile sull’argomento, anche se ai suoi
studenti ricordava ch’era l’ultima cosa di cui doves¬
sero preoccuparsi, come del resto in sede critica fa¬
ceva lui stesso. D’una tale bibliografia, quella storico¬
filologica lo interessava assai più di quella “estetica".
La filologia poteva fornirgli aiuti indispensabili al
"leggere correttamente”, e siccome questo tipo di
“leggere” gli costituiva l’unico senso della critica, i
modi di quest’ultima non potevano essere che dichia¬
ratamente individuali, se uno doveva costruirsi da sé
i propri criteri di lettura. Il “leggere correttamente”
potrà e dovrà anche portarlo a scoperte critiche og¬
gettivamente valutabili come tali, ma saranno sempre
scoperte effettuate scavando nel testo globale di un
autore, soprattutto se questi è un autore ideale co¬
me Leopardi, che permette di cogliere nello Zibaldone
tutto quello che è sotteso ai Canti, mai imprestando
a quell’autore valori prelevati a un’ideologia o a una
storia esterne al testo. Dirà nel corso di una lezione
su Iacopone: « Il vero poeta scrive da sé la propria
vita: la scrive colle sue poesie ».74 A parte l’essere una
precoce didascalia al titolo Vita d’un uomo, dal ’42
Introduzione LXV

preposto a tutti i suoi volumi, l’affermazione è per¬


tinente anche a tutti gli altri aspetti extratestuali del¬
l’opera d’un qualsiasi autore, che possono essere riu¬
niti sotto la voce "ispirazione”: « L’autore natural¬
mente non può partire se non dall’ispirazione, e il let¬
tore [la parola assume qui anche il senso tecnico di
"critico”] invece non può incominciare a penetrare
nella segreta circolazione di vita d’un’opera, se non
per le vie dello stile ».15 Il che spiega fra l’altro la
sua insistenza, nel voler smontare, in alcune lezioni
su Campana dei primi anni Cinquanta di cui però non
stese il testo, la "leggenda argentina” dell’autore dei
Canti orfici. Sarà più che evidente, a questo punto, so¬
prattutto dopo il libro già menzionato di Avalle, il le¬
game storico e di empatia di questa prassi critica un-
garettiana col “metodo” di De Robertis. Ma non cre¬
do si potesse udire facilmente da una cattedra univer¬
sitaria italiana, nel 1943, un’affermazione tecnicamen¬
te così precisa dal punto di vista del "metodo” come
quella con cui Ungaretti riassumeva il suo primo cor¬
so su Leopardi a Roma: « Un poeta, qualsiasi poeta,
il maggiore, un Dante non esige altro che d’incontrare
un lettore che lo sappia leggere. Ci siamo proposti
d’imparare a leggere il Leopardi ».76 Il dato caratteriz¬
zante di tale “lettura” consiste nel fatto che, al di là
della feroce volontà di scoprire in Leopardi, o in Pe¬
trarca, ciò che Leopardi o Petrarca hanno veramente
detto, e di scoprirlo sottoponendo al microscopio del¬
la ricerca del senso ogni singola parola dei testi, Un¬
garetti scopre fatalmente in fondo al suo "leggere”
un’immagine “obiettiva” di Leopardi o di Petrarca
che somiglia straordinariamente alla propria. E que¬
sta lettura testuale che a un livello ipertestuale di¬
venta profonda autolettura, comincia già dal materia¬
le primo, il vocabolario: «Abbiamo [...] bisogno per
capire un poeta di conoscere esattamente il senso del¬
le parole che usa, d’essere in certo modo iniziati »,
LX.VI Mario Diacono

poiché « il suo linguaggio sarà necessariamente, in un


certo senso, più o meno, ermetico ».77 La conversione
(al limite) ungarettiana dell’esercizio critico in auto¬
lettura, non solo si manifesta al livello del rapporto
autore-lettore, ma affiora anche nell’individuazione
d’una linea storica maggiore nella poesia europea, che
è petrarchesca: «[...] non solo invitano al Petrarca,
Góngora e Racine, Camóes e Shakespeare; ma Goe¬
the e il Leopardi e Mallarmé »;78 una linea che di fat¬
to tocca lo stesso nostro poeta, e non per niente l’e¬
lenco quasi coincide con la storia di Ungaretti tradut¬
tore. L’importante è comunque che non si è mai trat¬
tato per lui di uno sforzare o "allucinare” il testo per
fargli dire ciò che gli potesse far comodo dicesse,
ma quella sua introlettura, o introiezione, era un co¬
rollario necessario del suo postulato che ogni vero
poeta, Virgilio o Mallarmé, gli era un poeta contem¬
poraneo, e questa contemporaneità non poteva non
emergere a una loro lettura radioscopica. Non è per¬
ciò se non un’altra prova dell’autenticità e della coe¬
renza che si rivelano nella qualità della sua “lettura”,
il fatto che nel corso dell’approfondita meditazione
sui classici cui l’insegnamento lo porta, Ungaretti ve¬
da costantemente riprodursi nella storia, archetipica-
mente, la verità della propria tensione, morale in
quanto vissuta nel linguaggio.
Naturalmente un Dante, allora, in cui la cultura sta
alla poesia, il significato al significante, in « rapporto
di rivelazione », verrà da lui letto come il modello
maggiore d’un tipo di poeta iniziale, da riimpersona¬
re, che « non può identificarsi se non per via religio¬
sa ». Un primo macroscopico avviso della conversione
ipertestualmente ineccepibile che s’andava verifican¬
do in lui dell’oggetto nel soggetto critico appare già
all’inizio degli anni Trenta con un passo su Lautréa-
mont, che diventerà anzi un esempio abbastanza unico
di trans-s ! oggetto. In Odore di bruciato (« La Fiera
Introduzione LXVII

Letteraria », 22 giugno 1930), aveva scritto: «[...] è


qui l’invenzione di Lautréamont: quel suo sorpren¬
dere la parola in crisi, e farla sofrire; quel suo spez¬
zare lo specchio, e vedere, mentre in un baleno la fe¬
rita già si chiude, una meraviglia nel buio ». E alcuni
paragrafi più avanti: « Nella poesia di Lautréamont
sono dunque compendiati questi caratteri di gran par¬
te della recente poesia francese ed europea: uno schian¬
to carnale che apre il volo a fiori di fuoco, e insie¬
me una lucidità cruda che per vertigine di irrisioni fa
salire l’espressione all’infinito distacco del sogno; una
necessità di strappare alla realtà le sue maschere, e di
restituire alla natura la sua maestà tragica ». La « pa¬
rola in crisi » ci cala subito in un clima da Allegria;
lo « specchio » e la « lucidità cruda » echeggiano lo
« specchio perenne » e la « lucidità più folle » del te¬
sto di Innocenza e memoria. Tre anni più tardi, in
ogni modo, appariva sulla «Tribuna» (6 giugno
1933), di seguito a un breve articolo di Arnaldo Fra-
teili su Ungaretti, un testo con cui il poeta aveva
giorni prima accompagnato una lettura di proprie poe¬
sie. Nel paragrafo finale del quale, Ungaretti diceva:
« Se le mie prime preoccupazioni furono di cogliere
la parola in istato di crisi, di farla con me soffrire, di
provarne tutta l’intensità, di alzarla come una ferita
di luce nel buio, se la mia poesia vuole essere sem¬
pre come uno schianto carnale che apra il volo a fio¬
ri di fuoco, una lucidità cruda che per vertigine fac¬
cia salire l’espressione all’infinito distacco del sogno,
se la realtà mi preme così tanto, potevo essere indiffe¬
rente alla grande miseria che negli ultimi anni s’è
precipitata sul mondo? ».79 Le sue « prime preoccupa¬
zioni » sono naturalmente quelle sofferte «^//'Allegria,
mentre l’impossibile « indifferenza » verso gli effetti
della Depressione nomina l’apocalissi convogliata ne¬
gli Inni. Trasferito alla terza persona del « poeta d’og¬
gi », ch’era comunque pura proiezióne autobiografica
LX.VIII Mario Diacono

(« Ecco come egli coglieva la parola in istato di cri¬


si... »), il brano venne poco dopo ripreso nella con¬
ferenza Poesia e civiltà, e poi, modificato nel testo,
trasferito nel '49 con tutta la seconda parte della con¬
ferenza nel saggio Ragioni di una poesia. Queste ulti¬
me, s’è visto, confluirono infne con altri testi nelle
più ampie Ragioni di una poesia che si trovano a ca¬
po di Vita d’un uomo / Tutte le poesie.
Nella redazione definitiva del '69, il brano suona:
« Ecco come dal poeta è colta oggi la parola, una pa¬
rola in istato di crisi - ecco come con sé la fa sof¬
frire, come ne prova l’intensità, come nel buio l’al¬
za, ferita di luce. Ecco un primo perché la sua poe¬
sia sanguina, è come uno schianto dei nervi e delle
ossa che apra il volo a fiori di fuoco, a cruda luci¬
dità che per vertigine faccia salire l’espressione all’in¬
finito distacco del sogno. Ecco perché si muove la sua
parola dalla necessità di strappare la maschera al rea¬
le, di restituire dignità alla natura, di riconferire alla
natura la tragica maestà. Ecco come un poeta d’oggi
è uomo del suo tempo ».so Non importa tanto sottoli¬
neare, in questa sede, la qualità delle varianti, dal te¬
sto del ’33 a quello del ’49, tutte inscrivibili nell’or¬
dine d’una sintassi più concentrata. Si sono date le due
versioni soprattutto per far risaltare il fatto che fra
di esse se ne inserisce ancora un’altra, il cui soggetto
non è più Lautréamont, né Ungaretti, né il « poeta
d’oggi », ma Leopardi. Nella conclusione infatti di
Immagini del Leopardi e nostre, del 1943, Ungaretti,
ricordati Mallarmé e Góngora, affermava: « Più se¬
greto e più nostro mi è apparso, in quel momento del¬
la mia esperienza di poeta, Giacomo Leopardi. Ed ora
so come coglieva la parola in istato di crisi e la fa¬
ceva con sé soffrire, e ne provava la tensione, e l’al¬
zava come una ferita di luce; ora so perché dovesse
muoversi una parola dalla necessità di restituire alla
natura la maestà tragica ». Come se nella coscienza
Introduzione LXIX

di Ungaretti si fosse formata l’immagine storica di un


trans-poeta, di un unico testo poetico frantumatosi e
disseminatosi nelle persone e nelle parole più conscie
della Decadenza, e più tese per questo al recupero del
Linguaggio Iniziale.
L’empatia come metodo del suo discorso critico, na¬
sce da una visione dell’intero testo della poesia occi¬
dentale come: a) contemporaneo; b) petrarchesco;
cj religioso. Se si pensa a quanto il termine «petrar¬
chesco » collimi in Ungaretti con quello di « memo¬
ria », si vede agevolmente come alla base di tale pro¬
cedimento empatico ci sia un’idea del tempo misu¬
rata in modo esclusivo sul linguaggio, più che sulla
“coscienza” in senso bergsoniano, un’idea perciò impli¬
cante una netta negazione della storia dello storici¬
smo come progresso o evoluzione. D’altro lato, sia¬
mo con ciò anche all’opposto di una contemplazione
passiva e umanistica del passato: il "passato" storico,
in quanto coincide con e si esaurisce nei testi della
poesia (in Ungaretti la “poesia” comprende tutte le
arti), viene sempre più spinto al di qua della storia,
cioè nel mito, poiché la poesia è mito che riemerge e
si protende verso la sua origine come suo fine. Dirà
contro Croce parlando di Vico: «[...] la critica arri¬
verà, e sta arrivando, a superare interamente lo sco¬
glio idealista, ricollegandosi al concetto vichiano di
mito ».81
Non che Ungaretti abbia mai tentato, in seguito, lo
sviluppo teorico d’una simile affermazione; natural¬
mente è sul piano della poesia, l unico che l interes¬
sasse, che le conseguenze si faranno sentire, e saranno
la Terra Promessa. Poiché tutta la storia e contenuta
nel linguaggio, nel linguaggio essa si scioglie in mito,
se è vero che aspira al ritorno al sacro della sua ora
iniziale. Ma come, opera il mito. Prendiamo Palinuro
nell’Eneide. Caduto in mare dalla nave di Enea, « ta¬
le sforzo sovrumano fa per scorgerla che, trasmutato
LXX Mario Diacono

nell’altissimo sasso, la sua fama rinnova all’infinito ».82


Questi, dice Ungaretti, sono fatti « che si trovano de¬
scritti nell’Eneide, con alcunché d’aggiunto della mia
invenzione ». Il mito, è un senso iniziale compiuto
che rechi in sé latente il suo eterno ritorno e la sua
eterna reinvenzione nel tempo, nel tempo pensato come
« una linea storica assoluta che oltrepassa la durata dei
singoli, e i gusti particolari degli individui, e le per¬
sonali fogge espressive »,&ì e in quanto assoluta, per¬
ciò, senza un prima e senza un dopo, senza che la cro¬
nologia vi abbia un’importanza altro che documenta¬
ria, dato che ogni fine ripercorre il proprio sentiero
iniziale, ciclicamente. Leopardi ha così rinnovato il
verso italiano, « tenendo conto di tutte le aspirazioni
musicali del suo tempo, ma era l’endecasillabo del Pe¬
trarca, era l’endecasillabo del Tasso che si rinnovava¬
no nel suo; ma era la canzone del Petrarca, era il Tas¬
so lirico che si rinnovavano nella sua canzone ».M Co¬
sì pure, c’era stato il caso esemplare di Michelangelo,
il primo artista moderno (e origine della forma e della
coscienza barocca, per Ungaretti) ad accorgersi che
« l incivilimento lo aveva di troppo discostato dalle
fonti religiose dell’essere »,85 il quale non aveva potu¬
to colmare l’« abisso » che s’era dilatato tra tale punto
iniziale del tempo e il tempo dei propri mezzi espres¬
sivi se non estendendo questi ultimi all’intensità della
rinuncia. Petrarca poi, lui aveva rinunciato a leggere
l eterno nella « persona umana », e aveva bloccato il
tempo nel circolo della memoria; in lui, c’è « il tempo
fattosi immortale nell’infinito malinconico passato: il
mondo è la mente umana che si popola di cose peri¬
te ».86 L’errore del Petrarca si chiarirà e verrà corretto
con Vico e Leopardi; in questi, la storia «non è più
riconosciuta se non nei suoi mutamenti, nei segni del¬
la sua età », essa è « un rinnovarsi ciclico ». Il Roman¬
ticismo sarà presto costretto a riconoscere che non si
potrà mai « togliere alla natura ciò ch’ella in eterno
Introduzione LXXl

conterrà di occulto, di sacro e di terribile », e ne con¬


segue che « siamo di ritorno, dopo quattro secoli, al
punto dal quale era partito Dante, più vecchi ».87 È un
tale ritorno al punto iniziale, "religioso" del tempo,
del tempo quale si attua nel linguaggio poetico, che
la poesia tende ad attingere con la messa in atto dei
propri specifici moduli espressivi: e, dato fondo a tut¬
te le risorse della memoria per questo iperumano com¬
pito, il viaggio iniziatico dovrà passare per successive
tappe di agnizioni, da Lautréamont e Leopardi giù giù
indietro fino al Barocco, fino a Iacopone, fino alle Fa¬
vole delle culture "primitive’’ brasiliane.
Mentre fino al ’36 la parola critica di Ungaretti s'e-
ra sostanzialmente riconosciuta e definita misurandosi
soprattutto sui contemporanei, a partire dagli ultimi
anni Trenta essa compie una progressiva discesa nelle
ragioni della propria ideologia astoricistica attraverso
un particolare metodo di lettura dei classici. Un me¬
todo che si precisa subito col denunciare un'antitesi
verso l’estetica di Croce, il cui errore fondamentale,
analogo a quello dei Futuristi, era per Ungaretti di
« non badare alla memoria », per cui da Croce « tutta
l’attenzione che un artista è costretto a rivolgere al
mezzo espressivo per esprimersi, è considerata con osti¬
nazione come trascurabile ».88 Memoria e forma sono
da questo momento i termini!strumenti referenziali
primari del "metodo" critico ungarettiano. «Tutto,
tutto, tutto è memoria. » Enea, per esempio, sceso
agl’inferi, è perciò stesso destinato a « scendere nella
sua memoria, e la memoria può dargli il suo conforto,
poiché sono nel passato le promesse per l’avvenire.
Avrebbe dovuto » Enea « fare a Virgilio un rimprove¬
ro di poca naturalezza se a questo punto il viaggio
nella memoria non fosse avvenuto ».89 Quanto alla for¬
ma, facendo critica, per Ungaretti, « non può esserci
se non giudizio sulla forma, il quale sarà implicita¬
mente giudizio sul contenuto. Nel giudizio critico noi
LXXII Mario Diacono

ci abitueremo a esprimere solo il nostro parere sulla


forma».90 Non sono certo "scoperte”, si capisce, ma
importavano queste asserzioni come indicazioni opera¬
tive nella ricerca della qualità esatta di linguaggio poe¬
tico che per Ungaretti un contemporaneo potesse ve¬
dersi destinata, in poesia, per esempio, i problemi di
forma conducono inevitabilmente ai problemi di me¬
trica. Studiando la forma di Leopardi, si potrà così
trovare che « sono forse le allitterazioni che, legando
la strofa mediante alcune indovinate corrispondenze e
simmetrie delle radici dei vocaboli, ci fanno special-
mente sentire l’armonia metrica dei suoi Canti quasi
riportandoci alle oscure e energiche origini della pa¬
rola » 91 Una constatazione del genere, anche se effet¬
tuata in sede autoptica sui tessuti del Gobbo di Re¬
canati, non potrà non comportare la formulazione di
una legge di carattere generale per la poesia, in parti¬
colare per la poesia di Ungaretti: « Il ritmo, il tono e
le coloriture foniche del tessuto sillabico cercano di
rispondere all’oscurità musicale del sentimento, di se¬
gnare in un’opera poetica l’impulso e lo spiegamento
emotivo, l’accento e le sfumature inesprimibili ». Era
la risposta finalmente ai problemi di linguaggio che
avevano tormentato il poeta al tempo dell’intervista
con Angioletti nel ’29, quando egli si sentiva pressato
tra il desiderio del senso e la volontà del suono, ed
era una risposta trovata in Leopardi: «[...] nei suoi
grandi momenti, la musica, la forza evocativa dei va¬
lori fonici sarà tale ch’essa parrà toccarci prima ancora
che l’immagine sorga nella nostra mente ».92 Lo studio
della metrica leopardiana ci fornirà indicazioni anche
più clamorose, cioè che al di là dei valori fonici la
« poesia italiana d’oggi» (ossia Ungaretti) muove ver¬
so l’instaurazione di puri valori visivi, poiché, nella
poesia italiana, « l’elemento non è il piede, ma la sil¬
laba, e la sillaba [...] non e fatta per imitare i rumori,
i cinguetta, i discorsi delle balie [leggi Pascoli], ma
Introduzione LXXIII

per rivestire la concitazione scoperta nelle profondità


silenziose del cuore umano: non avrà quasi più voce
tale parola [...] sarà così segretamente musicale che
esigerà d’essere letta soltanto cogli occhi, senz’alcun
altro concorso di suoni [...] che possa disturbare la
purezza del suo accento unico ».93 Due sono perciò
gli obiettivi che la critica deve raggiungere confron¬
tandosi con un testo poetico: individuare perché e co¬
me « una forma possa colpirci per la sua bellezza an¬
che quando c'e ne rimanga oscuro il contenuto », e,
attraverso un’analisi del modo in cui la forma agisce,
arrivare al « riconoscimento del valore perennemente
ermetico dell’arte ».94
I “saggi" di Ungaretti, quegli scritti che sviluppano
e cristallizzano a partire dal ’43 i risultati del suo in¬
segnamento universitario, e che per la loro sistemati¬
cità possiamo distinguere da quelli della « trentennale
polemica letteraria », come egli definisce in una lezio¬
ne su Leopardi gli articoli precedenti all’emigrazione
in Brasile, mostrano a occhio nudo tre procedimenti
della sua scrittura critica: a) una lettura al microsco¬
pio dei testi poetici, per scoprirne le vibrazioni di
espressività verbale sottese al significato; b) identifi¬
cazione in essi d’una linea storica, petrarchesca, della
poesia (e nel caso della poesia petrarchesca del Canzo¬
niere e dei Trionfi, proclamazione incessante d’una re¬
ligiosità integrale iniziale del linguaggio, in qualche
modo decaduta a « memoria » nel Petrarca); c) inter¬
pretazione mimetica dei testi stessi, che emanano dal
loro interno le strutture della poetica ungarettiana. Il
« sentimento del tempo » e la « memoria » connote¬
ranno così, nel I Canto dell’Inferno, le prime funzioni
che Dante personaggio si inventa, poiché Dante scrit¬
tore sa che « il tempo sarà per primo presente all’uo¬
mo, poiché è il suo segno tragico »; 95 nel discrimine
coscienziale tra la notte e il giorno, quando Dante
esce dalla selva e inizia la salita del colle, e l’appari-
LXJCIV Mario Diacono

zione delle tre fiere sta per rigettarlo nella notte, in


questo punto che segna la cesupa tra le due parti del
canto, « il sentimento del tempo ha, sibillino, il suo
fremito iniziale nella coscienza dell’uomo ». L’arrivo di
Virgilio, manifesta la saldatura dell’antico mito al nuo¬
vo, ora che sta per cominciare il viaggio verso la “Ter¬
ra promessa", e nel « naufrago » Dante, allora, « c’è
solo il perenne Enea che tocca ancora terra: c’è solo
un uomo, il nuovo Enea da cantare, in mezzo al suo
ancora oscuro destino ». Per questo, al Dante poeta
«la parola [...] gli giunge, per iniziarlo a umanità e
poesia, anteriore all’uomo stesso, sacra, radicata nel
mistero della natura ». In Iacopone, analogamente, il
verso si configurava antagonistico a una nozione passi¬
va di metrica: « Le parole nascevano allora da un mo¬
vimento musicale dello spirito e non s’adattavano [...]
a schemi ritmici [...] Questo è il movimento dell’es¬
sere, e per questo le parole di quei poeti [...] ci sor¬
prendono come una rivelazione [...] ».96
La poesia dei primitivi, attua un linguaggio in cui
l’“illuminazione" è tutto, la parola vi è per eccellenza
immateriale, perché muovendosi interamente dentro la
sfera del sacro, il rapporto di rivelazione, ch’è un rap¬
porto causale di luce, vi è intrinseco ai “mezzi espres¬
sivi". Perciò, «Noi moderni abbiamo [...] da impa¬
rare a usare le parole-luce », come le usavano i ' oeti
primitivi, « abbiamo da imparare che la poesia è fatta
di parole-luce, voglio dire di parole che entrano in
noi senza tante chiacchiere e ragionamenti, oserei dire
per un effetto di miracolo, e fanno in noi la luce e ci
mutano ».97 Quest’ultimo verbo è sintomatico, perché
mostra costante in Ungaretti la contiguità della fun¬
zione poetica con quella morale, un’idea di poesia co¬
me via perfectionis, dove la tensione formale è neces¬
sariamente associata al fondamento religioso. Il lin-
guaggio è energia che «muta» la vita, che “trasmuta”
il piombo della memoria nell’oro dell’innocenza. Pe-
Introduzione LXXV

trarca, in quanto “inventore del tempo in poesia", e


instauratore della memoria, è il pilastro su cui poggia
per Ungaretti il sistema poetico occidentale. Petrarca,
pronuncia « una verità sulla quale s’è fondato il pen¬
siero europeo dopo di lui, sino al Romanticismo [...]:
le nostre azioni - tutte - non possono diventare ogget¬
to della nostra esperienza se non sono prima divenute
passato [...] Umanità vuol dire conoscenza del passa¬
to. Amore di Laura vuol dire amore del passato: me¬
moria ».98 Con Petrarca l’uomo non si considera più
« in esilio dal cielo, ma in esilio dal passato ».
È un’ideologia sigillata in un momento grammaticale
del Canzoniere. Si prenda il sonetto Quand’io son
tutto volto in quella parte. Il terzo verso, “e m’è
rimasa nel pensier la luce", potrebbe costituire « il
verso chiave, mediante il quale potremmo penetrare
nel segreto della poesia petrarchesca »." Infatti, per
lo scatto di un passato, m’è rimasa, dopo il presente
che figura nei due versi precedenti, “son volto” e “lu¬
ce" , esso fornisce a Ungaretti una possibilità d’inter¬
pretazione di tutto il testo petrarchesco: « Per un
semplice mutamento dei verbi, la luce presente e viva
era già luce di ricordo, quasi prima ancora che in un
baleno apparisse e non fosse più se non morte, e luce
di ricordo ».100 Nello stesso sonetto, il verso 12, “Ta¬
cito vo, ché le parole morte", presenta un problema
di senso nell’ultima parola, “morte". Le parole sono
“morte" in quanto « dettate dal ricordo (dettate dal
passato ch’è morte...) »; « parole morte significa che
non hanno più se non luce di passato, luce di morte, la
luce della memoria ». Tanto “m’è rimasa” che “parole
morte”, dunque, sono i luoghi grammaticali e seman¬
tici in cui si manifesta la forma petrarchesca della me¬
moria; e tale conclusione, non essendo « in contraddi¬
zione [...] con un’interpretazione generale che volessi
fare di tutta l’opera del Petrarca [...] mi aiuterebbe
a trovare l’unità dello spirito del Petrarca ».101 Sosti-
LX.XVI Mario Diacono

tuendo la dimensione della memoria a quella del sa¬


cro, Petrarca trasforma la coscienza e il linguaggio in
un campo di conflitti, di scissioni interne, in una “per¬
sona” schizoide: «[...] il tema poetico principale del
Petrarca s’è delineato, ed è che, dell’universo il centro
è la memoria umana, che l’universo si tormenta nel¬
l’uomo, nella notte dell’essere umano resa bella da al¬
cune luci della memoria ».102 Ecco qui una serie di
segni in coppie di opposti, universo/ uomo, notte/luce,
uomo/memoria, notte dell’essere umano/luce della me¬
moria, che sono generatori di sentimento del tempo,
di sentimento della corruzione del tempo, il quale rie¬
sce a convertire l’una nell’altra due entità distinte, la
materia e la memoria, che per Ungaretti, di formazio¬
ne, s’è detto, anche bergsoniana, esistono oggettiva¬
mente, e si coniugano nella parola poetica («[...] la
presenza materiale e la presenza del ricordo così fuse
l’una nell’altra, eppure così separate [...] »). Una pa¬
rola che Petrarca ha assolutizzato come nessun altro,
riducendola « al suo puro valore evocativo », non tro¬
vando nell’esistenza « altra consolazione se non d’in¬
trattenersi con i fantasmi evocati dalle parole », non
cercando « nella solitudine della mente se non parole
sempre più belle, sempre meglio combinate », non
aspirando se non ad « evocazioni sempre più segrete »,
a conferma che la ‘'storia”, quella più autentica e per¬
cepìbile dalla coscienza, nasce dalla parola e non vice¬
versa, e che è nel testo della letteratura in tutta la
sua articolazione ed estensione che il tempo unicamen¬
te ha vita. In quanto “morte” e “memoria” connotano
il passato, la materia che la caduta nel tempo ha cor¬
rotto, il linguaggio si muove in mezzo al sentimento
della rovina: «Per la stessa lacerazione della vita di
cui è segno, lo stesso ricordo, così frammentario sem¬
pre nei suoi riferimenti alla realtà, suscita le rovine
di cui si circonda, sommersa rovina fra rovine, princi¬
pio d’un disperato restauro nell’oblio da chiarire ».103
Introduzione LXXVII

A questo punto dialetticamente scatta nella lettu¬


ra ungarettiana la figura dell’innocenza. Una memoria
che viva soltanto nella rovina, per l'“uomo religio¬
so", per il “poeta religioso”, per lo scrittore cioè che
è emerso fuori dalla corrente petrarchesca dopo aver¬
la tutta percorsa ed essersene battezzato, comporte¬
rebbe un grado intollerabile di disperazione, una con¬
danna al tormento perpetuo della Decadenza. Il sen¬
timento stesso della « rovina » (parola tematica fon¬
damentale, nella critica dell’Ungaretti che rìsale la li¬
nea petrarchesca della poesia europea), si fa «princi¬
pio d’un disperato restauro nell’oblio », fa ri-nascere
la tensione all’archetipo, che è quello platonico-erme¬
tico degli Inizi. L’oblio, è infatti oblio del divino ini¬
ziale: « L’oblio del divino testimonia nella nostra me¬
moria d’uno stato di perfezione dell’umana natura
sprofondatosi nelle tenebre dei tempi ».m L’« inven¬
zione del tempo », in Petrarca, sarà stata probabil¬
mente identificata attraverso l’elaborazione di Sen¬
timento del Tempo, nel momento stesso in cui con¬
tribuiva a distillarne il mito fondamentale, quello del¬
la memoria. Ma questo tempo così perentoriamente
percepito come una forma del destino interno del lin-
guaggio, proprio perciò deve riverberare non soltanto
sul futuro ma anche sul passato della poesia. Un Dan¬
te, per esempio, ha saputo « rendere sensibile la luce
temporale, la luce storica, la luce della memoria »; il
suo Veltro, è « l’energia temporale diramatasi dall’E¬
nea nuovo », è una « forma dell’energia temporale »,
una «forza temporale »; e quando attraverso il segno
dell’« umile Italia » i contorni del mito antico com¬
baciano con quelli del nuovo mito, ed Enea, l’ombra
segreta di Dante, « il Naufrago che accompagnava ce¬
lato il Naufrago all’inizio del Canto », svelandosi Mo¬
dello iniziale del Veltro, ne scopre la trama eterna,
allora « il poeta e la sua memoria possono portare
l’ombra persino a precedere il Naufragio ».105 Ci sono
LXXVIII Mario Diacono

par'ole il cui simbolo ermetico attraversa tutta una sto¬


ria letteraria. Ecco dunque che il verso 23 del I Canto
dell Inferno, “uscito fuor del pelago alla riva”, ha in¬
sinuato in Ungaretti una linea mitica del Naufragio
che da Virgilio e Dante, attraverso il naufragar del¬
l’Infinito e il naufrage del Coup de dés, svela un senso
ideologico «//'Allegria di Naufragi. Il Naufragio è un
segno di tensione all’innocenza attraverso la memoria,
è la forma linguistica dell’esistenza in marcia nel labi¬
rinto della coscienza, è il segno della parola religiosa.
Per Ungaretti, s’è visto, è la ricomparsa d’una tale a-
pertura del linguaggio alla « sete d’innocenza » che con¬
nota l’importanza centrale di Leopardi: « [...] l’espe¬
rienza leopardiana », infatti, « inizia una poesia che in
un certo senso è molto più vicina a quella di Dante
che a quella posteriore [...] essa non è più profana
[...] Essa è mossa da uno slancio di religiosità come
la prima ».106 Ciò ha potuto accadere perché Leopardi
ha ricollocato l’atto poetico, e dunque Vintenzione del
linguaggio, in un luogo mentale che scavalca la me¬
moria e la precede, dove perciò la rovina presagisce
e ricontempla l’epoca in cui essa era cosa intatta, non
ridotta in frammenti dalla caduta nel tempo, nel ri¬
cordo; Leopardi, « l’atto creativo non può concepirlo
se non colle radici affondate nell’irrazionale, se non
nascosto, nutrito e animato nel fondo misterioso della
natura ».
Il posto che in Petrarca è occupato dalla « memo¬
ria », in Leopardi è invece tenuto dalla « durata ». La
durata leopardiana differisce da quella bergsoniana nel
senso che la prima ha luogo nella parola, nella parola
poetica, mentre la seconda informa uno stato extra¬
linguistico, quello della coscienza. La parola petrar¬
chesca, in quanto parola della memoria, ha una com¬
pattezza e una trasparenza cristalline, una fissità di
oggetto, mentre quella leopardiana, reca in sé la co¬
scienza che essa, « come ogni altro corpo vivo, invec-
Introduzione LXXIX

chia continuamente e quindi è costantemente diversa,


ma continuamente s'accresce anche la sua durata, la
sua profondità temporale ».107 Nella parola di Leopar¬
di, le variazioni semantiche ch’essa ha subito nei se¬
coli precedenti rimangono impresse come in uno spec¬
chio che trattenga il variare delle immagini rimanendo
immutato; la parola diventa polisemica. Leopardi stes¬
so, afferma Ungaretti, legge in Petrarca qualcosa che
è invece specificamente dentro di lui; legge cioè come
invecchiamento, che è una nozione di movimento, di¬
namica, quello che in Petrarca è semplicemente pas¬
sato, rovina, una nozione dunque di immobilità, sta¬
tica. E qui vediamo operarsi una duplice proiezione,
di un Leopardi che si riflette in Petrarca nel momento
stesso in cui Ungaretti si riflette in Leopardi. Que¬
st’ultimo, infatti, s’accosta al Petrarca « perché gli
sembra il Petrarca poeta del sentimento del tempo,
il poeta nel quale riscontra un turbamento e un ecci¬
tamento [...] dovuti alla considerazione dell’invecchia¬
mento continuo delle cose [...] Non so quanto avesse
ragione in questa interpretazione e se essa non fosse
piuttosto interpretazione della sua propria poesia, co¬
me avviene quasi sempre quando un poeta interpreti
un altro ».m Leopardi non blocca il tempo nel pas¬
sato, ma lo ripercorre tutto verso i suoi inizi attra¬
verso tutta la sua durata. Gli effetti ch’egli otterrà nei
suoi testi maggiori, consisteranno nel « fare circolare
il tempo nei suoi versi rendendoli così attivi per il va¬
lore di durata che in essi agisce »; negli Idilli in par¬
ticolare, « il poeta avrà imparato che tutto consisteva
nel sapere graduare i rapporti di durata: cioè i mo¬
menti in cui per pienezza d’emozioni, la reminiscenza
addensandosi nelle parole, possa renderne evocativo il
simbolo, e operante rispetto ad altri momenti della
reminiscenza ».109 Qui, se Ungaretti non dice esplici¬
tamente che la durata rende in Leopardi la parola un
objet à fonctionnement symbolique multiplo, ci si av-
LXXX Mario Diacono

vicina però abbastanza. Il rapporto durataIreminiscen¬


za, non sarà comunque ancora tale da forzare in Leo¬
pardi la soglia naturalistica della coscienza. La memo¬
ria in Petrarca, rivestiva l’esperienza attuale di passa¬
to; la reminiscenza in Leopardi, manifesta le variazio¬
ni di un passato che si articola in durata; la scoperta
della Memoria, ecco, sarà un fatto del XX secolo, e
s’è visto come l’occasione in cui Ungaretti s’avvicina
di più a definire l’essenza di tale scoperta è quando,
riferendosi a Scève, afferma la perfetta fusione che
s’era operata in lui, Scève/Ungaretti, di ascendenza
platonico-cristiana e di petrarchismo, la quale lo aveva
condotto a una nozione di memoria che « ha per aspi¬
razione e per missione di superare e abolire il passa¬
to, e di restaurare e risollevare la realtà nella sua inte¬
grità e unità originaria ». Questa è la modalità in cui
Ungaretti vuole che la memoria operi nel suo testo poe¬
tico. Ed è a questa concezione « metafisica » (uso qui
la parola nel senso tecnico che designa la pittura di
De Chirico) della memoria, che « abolisce il passato »
mentre si protende dentro la coscienza in un “sogno
a occhi aperti” verso una metaconoscenza che riveli
le forme dell’innocenza originaria, che Ungaretti allu¬
de quando, concludendo l'esame del frammento Spen¬
to il diurno raggio in occidente, affermava che « l’in¬
nocenza è raggiunta, l’innocenza del sogno; ma la me¬
moria, nemmeno con l’abilità d’un Leopardi del 1835,
non poteva qui arrivare a trovare inserimento » 110
Se c'è un testo di Leopardi in cui il sogno in acce¬
zione ungarettiana è attuato, l’abbiamo già accennato,
questo è L’infinito, ma d’altra parte l’“atmosfera di
sogno” lì è soprattutto in funzione dell’"ironia”. Col¬
locato /'infinito nello spazio che intercorre fra sogno
e memoria («Ricordanza e sogno sono precisamente i
poli tra i quali va determinandosi la poesia degli Idilli
e delle Elegie » m), Ungaretti lo confronta e l’assimila
all’assenza mallarmeana (in chiave Blanchot), ma con
Introduzione LXXXI

una precisa delimitazione dello spessore semantico che


le parole dell’assenza hanno in Leopardi: « GLinter-
minati spazi, i sovrumani silenzi sono - riaffermata
ironia - comparati allo stormire del vento tra le pian¬
te, e questa voce, per capovolta ironia, disperdendosi
«^//'immensità dello spazio immaginario, somiglia al
pensiero del poeta, vivo momento passeggero fatto di
passato nel quale il poeta s’annega, mare nel quale
egli "naufraga": nuova ironia ».m In Immagini del
Leopardi e nostre (1943), il commento s’era limitato
a sottolineare nella poesia « una fusione di spazio e
di tempo in un fremito musicale che risveglia le cose
e con esse si annulla, si assenta in una dolcezza senza
mezzi termini ». Nel Secondo discorso su Leopardi, la
versione definitiva del commento (1964) si spinge ol¬
tre, indicando da che cosa precisamente quella « fu¬
sione di spazio e di tempo » dipendesse: cioè da una
« sollecitazione della memoria fattasi sogno - del so¬
gno che annulla i limiti spaziali e temporali; ma li
può annullare solo dove esso ha giuoco: nel passa¬
to [...]».
Le distanze tra Leopardi e Ungaretti si sono insom¬
ma accorciate; è un processo che al limite tenderà a
una sovrapposizione, a una marcia di avvicinamento
d’identità, delle immagini dei due poeti. Identità non
tanto di risultati testuali quanto di coscienza dei pro¬
cedimenti formali attuati nei testi dal linguaggio. Così
vediamo un Leopardi che « aveva da esprimersi, e per
esprimersi proverà i mezzi verbali e su di essi, sui lo¬
ro effetti, mediterà e giudicherà; proverà anche i va¬
lori fonici, e s’avvedrà delle sillabe, poiché scriveva
in versi e cercava un’illusione dal canto, un’illusione
d’infinito ».113 Ecco che qui l’infinito non è più l’iro¬
nia del finito prima vista nell’Idillio del 1819, ma già
uno degli omologhi dell’innocenza ungarettiana. Solo
abbastanza tardi, rivedendo nel ’63 il testo di Imma¬
gini del Leopardi, l’avvicinamento ideologico tocca la
LX.XXII Mario Diacono

tappa decisiva. Arrivato alla frase « Una cosa dell’arte


[...] muove la nostra fantasia fino a farci ritrovare
occhi innocenti », Ungaretti vi aggiunge: « Memoria
e innocenza sono gl’inscindibili termini della poetica
del Leopardi ».
Gli ultimi anni d'insegnamento universitario (ma
dal '48 ormai aveva smesso di scriversi le lezioni), Un¬
garetti li dedicò a un’indagine capillare del sentimento
della Decadenza in Leopardi (che stabiliva un anello
essenziale di collegamento nella linea lungo cui per lui
s’era attuata la lirica moderna, una linea Leopardi-Bau-
delaire-Mallarme-Ungaretti), e soprattutto all’analisi
del modo in cui Leopardi era arrivato a ottenere gli ef¬
fetti desiderati di “sogno per mutilazione’’ nei Fram¬
menti. Sono gli stessi anni in cui Ungaretti andava scri¬
vendo Il Taccuino del Vecchio, e, tra i due fatti, il rap¬
porto non è di scarsa importanza. Sono poi anche gli
anni in cui Ungaretti ha smesso di misurarsi sui sur¬
realisti, e guarda come a termini di riferimento della
forma e dei mezzi espressivi a Burri e a Fautrier; c’è
in lui la presa di coscienza d’un fatto nuovo che va
accadendo nella cultura degli anni Cinquanta, e che
è macroscopico soprattutto al livello delle arti visive:
una direzione di crisi della forma “controllata” che
le arti vanno prendendo (della forma organica surreale
e di quella geometrica surrazionale che le avanguardie
avevano sviluppato tra gli anni Dieci e gli anni Tren¬
ta), una direzione che in Europa viene generalmente
designata col termine di Informale. Per Ungaretti, è
la rivelazione d’un rapporto artista-cultura che sfugge
ormai alla dialettica Ottocento-Novecento, Simbolismo-
Ermetismo, Innocenza-Memoria. È la Materia che de¬
termina il linguaggio ormai, non quella di Bergson e
nemmeno quella delle hautes pàtes di Fautrier o dei
catrami e dei sacchi e dei legni e dei ferri di Burri, ch’è
ancora una materia positiva, ma la materia negativa del¬
lo sviluppo tecnologico, che chiude ogni varco all’azio-
Introduzione LXXXIII

ne dell’artista della Decadenza. I frammenti di Leopar¬


di a questo punto non alludono più al sogno mancato
dai surrealisti in letteratura, ma per frammento « va
definito dunque quel brano di discorso che per essere
nei suoi effetti poesia compiuta incomincia da un
interrompimento e termina per interruzione. La poe¬
sia indicava da quel momento d’essere solo angoscia
frenata, inciso allarme tra due catastrofi ».U4 Visibil¬
mente, sono gli Ultimi cori per la Terra Promessa e
le “illuminazioni” in proposizioni uniche di Apocalissi
che si affacciano dietro questa visione degli ultimi te¬
sti dei Canti come «frattura abissale all’origine [...]
frattura abissale da ultimo ». Ancora un passo, e arri¬
veremmo alla definizione del Frammento come "ge¬
sto” verbale, sintatticamente compiuto, ma rifiutato a
un significato che non sia puro « allarme » del signifi¬
cato. La parola è alla soglia dell’abdicazione. La De¬
cadenza, eclissata, si chiude su un destino che il poeta
si domanda se non sia quello della “morte dell’arte”:
«Non più [...] sentimento della decadenza è il no¬
stro, ma sentimento della soverchiante materia ».115
Le conseguenze, nel linguaggio, ne erano già piena¬
mente visibili agli inizi degli anni Sessanta, quando
Ungaretti ritorna su tale discorso per verificarvi una
rottura più radicale. Questo soverchiamento, « nel lin-
guaggio poetico d’oggi, e in quelli delle arti figurative
e della musica che sono, anch’essi, linguaggio di poe¬
sia, è manifestato per via di chiazze ossessive, o per
via di ideogrammi, o per via di spolpamenti spettrali
della materia [...]». Il riferimento al momento “in¬
formale”, l’ultimo che abbia lasciato un segno pro¬
fondo nella cultura di Ungaretti, non potrebbe essere
più esplicito. Le chiazze, gli ideogrammi, gli spolpa¬
menti, sono Fautrier, Capogrossi, Burri.
Né più esplicita potrebbe essere l’intenzione di ri¬
portare la modalità del proprio lavoro poetico in atto
a questo clima di “crisi del linguaggio”, un lavoro in
LXXXIV Mario Diacono

cui' la volontà della parola di farsi antimateria non


rappresenta più il freno da porre alla “brutalità” della
parola-sensazione futurista, ma 'costituisce una resisten¬
za disperata all’avvento di sistemi di produzione che
non lasciano più alcuno spazio alla parola religiosa
protesa verso la sua lingua iniziale, e la spingono ai
margini del mondo, negli « abbagliati Spazi » d’una
pura coscienza di sé in cui essa non può percepire che
il « peso pazzo della propria solitudine ». Il poeta non
è più in grado di controllare alcun tipo di esperienza
integrale e integrata. « Noi che non percepiamo le mu¬
tazioni della realtà [...] se non per minime particole
di frammenti, non possiamo, se osiamo ancora scrive¬
re poesie, se non ricorrere a espressioni mutile [...]
noi poeti d’oggi ci siamo resi conto che non ci rima¬
neva da adoperare che un linguaggio macellato
[...]. » 116 «Se osiamo ancora scrivere poesie», in un
« linguaggio macellato »...: il discorso sincronico non
trova più sostegni, a questo punto. In nessuno dei te¬
sti di Ungaretti precedenti al 1960, troveremo accen¬
ni analoghi (questi, sono all’incirca del 1963). C’è
ancora un tentativo di stabilire una connessione strut¬
turale tra testo poetico ed evoluzione culturale (i
frammenti del Taccuino visti come analogie delle “par¬
ticelle” su cui lavora la fisica nucleare), ma il dato
capitale è che la “materia” nella sua nuova accezio¬
ne di erosione tecnologica della coscienza, di espul¬
sione della cultura umanistica da ogni ruolo d'inte¬
razione coi rapporti di produzione, ha reso precaria la
funzione della “memoria”. Di conseguenza arretra an¬
che l’utopia dell’innocenza. Altre forme di linguaggio
emergono, ma per Ungaretti non possono essere giu¬
dicate che sulla propria misura unica, che aveva già e-
spunto a suo tempo la “crisi” futurista e quella surrea¬
lista. In ogni caso, ritengo che dichiarazioni come
« L’intensificazione, il dilatamento, la moltiplicazione
dei valori semantici della parola per portarla a supe-
Introduzione LX.XXV

rarsi in atto di poesia è [...] l’unica tecnica, ripeto,


che rimanga oggi al poeta »,ni difficilmente avrebbe¬
ro trovato una tale formulazione verbale se non aves¬
sero recato impresso il segno d’una reazione al cli¬
ma di nuova avanguardia emerso negli atti di poesia
in Europa negli anni Sessanta.
Come in ogni scrittore italiano che sia stato al cen¬
tro della propria epoca, attraversa certo gli scritti di
Ungaretti l’accademica questione della lingua, ma so¬
lo nella misura in cui essa è relata a un’altra “que¬
stione”, che lo intriga, più a fondo, che riguarda la fun¬
zione "espressiva” della lingua, e che è in certo senso
una questione 'sollevata dalle avanguardie letterarie
nell’ultimo secolo, cioè la questione del linguaggio.
Perché se la questione della lingua è sottesa ai pro¬
blemi di tecnica della poesia, quella del linguaggio
implica una discussione sul senso stesso di fare poe¬
sia. S’è detto, che nel rincorrere e percorrere il signi¬
ficato nei testi “primitivi”, barocchi, romantici, sim¬
bolisti, Ungaretti è andato allo scavo d’una descri¬
zione del proprio movente e dei propri fini nell’azio¬
ne di poesia; per strada, il critico di forme s’è di ne¬
cessità trovato a giustificare nella sua "lettura” lo spe¬
cifico dei propri procedimenti formali; e tale giustifi¬
cazione era la più funzionale possibile, per il desiderio
che non contraddicesse a un destino interno del lin-
guaggio, o creduto tale, ch’era quello di dover coin¬
volgere o contenere la "memoria” del linguaggio di
tutta la letteratura: se la letteratura (l’arte) è l’unica
misura che abbiamo della realtà della storia. Ed ecco
cosa trovava nella "memoria”, nella storia della paro¬
la e del linguaggio: « Il linguaggio è sacro, se è le¬
gato al mistero della nostra origine, e dell’origine del
mondo; se sentiamo che in noi costituisce la nostra
responsabilità [...]; se ci accorgiamo del bene o del
male, incalcolabili, che derivano dalla parola [...] ».118
Questo al livello dell’ideo-logia; -al livello della gram-
LXXXVI Mario Diacono

matica, gli sembra che la parola sia « atto per eccel¬


lenza di scelta, atto di verità,[...] Se dico: albero -
tutti hanno nella mente un albero; ma nulla è meno
albero di quelle tre sillabe da me pronunciate. È pos¬
sibile che fosse da principio la parola, voce onoma¬
topeica; ma subito la metafora intervenne a liberarla
d ogni imitazione della natura, a renderla espressio¬
ne [...] ». Il segno verbale, nella sua arbitrarietà di¬
staccatosi dalla natura, è diventato codice solo affin¬
ché «il soggetto [...] potesse convertire la realtà in
proprio simbolo »; designa dunque non un oggetto
ma un rapporto, o meglio, connota il soggetto nel mo¬
mento in cui denota l’oggetto.
Siamo a una precisa coscienza della lingua, ma del¬
la lingua in quanto linguaggio; la parola è investita
dalla riflessione solo in quanto parole, non in quanto
mot. Si ha difatti « ciò che diciamo poesia », quando
« il vocabolo [...] ha, recuperando a barlumi memo¬
ria, perso l’ordinaria vista; se no, è [...] vocabolo
che non riesce a farsi parola ».119 Jouve, per esempio,
ci mostra i « vocaboli, come divengano parole di poe¬
sia ». (Va ricordato che a dare a Ungaretti, o meglio
a contribuire a dargli consapevolezza teorica dei pro¬
blemi del linguaggio erano lì, presenti e puntualmen¬
te letti a ogni nuova pubblicazione, gli scritti di
Paulhan, da lui in qualche occasione tradotti, e comun¬
que ripetutamente invocati in appoggio.) La lotta nel
poeta è del linguaggio contro il nulla. Petrarca, tra¬
sforma per primo la parola dantesca, la parola cristia¬
na (poiché noi cominciamo con Cristo: è un pensiero
fondamentale di Ungaretti) da parola di dio in pa¬
rola della storia; poi il Barocco insinua nella parola
petrarchesca una frattura, « un principio di furore »,
per una sua più disperata coscienza esistenziale. Gón-
gora infatti, accetta sì dalla tradizione petrarchesca la
« fede che il mondo non potesse concepirsi se non
per rivelazione di parola memore », ma poi si rivolta
Introduzione LXXX.VII

contro una soggezione così puntuale alla memoria,


dunque alla storia, e ne rompe le regole eccessivamen¬
te razionali, poiché i suoi tempi esigevano « da tale
parola che anche aderisse [...] al loro esistere car¬
nale ». Scopre di sé Ungaretti in Góngora, che quanto
più il mondo dei sensi inabilita alla conoscenza, quel¬
la sarà più che mai « l’ora per un poeta di affannarsi
a dimostrare come [...] il momento deludente d’un
oggetto perituro possa tutto invadere in un vocabolo,
ristabilire con ’ risoluta violenza nelle funzioni d’un
semplice vocabolo, il prodigio dell’effimero ».120 E pro¬
prio nell’acuità coscienza dell’irrelazione fisica del si¬
gnificante al significato, per cui nel vocabolo soprat¬
tutto è inquietante l’« assenza dell’oggetto », Ungaret¬
ti vede nascere il concettismo di Góngora; poiché nel-
l’« inflazione di segno e di rapporti » il poeta « s’ub-
briacava della propria illusione di libertà », mentre
d’altro lato, quell’assenza dell’oggetto nel segno ver¬
bale lo poneva nella condizione di dover andare « mol¬
tiplicando specchi innumeri riflettenti dall’uno all’al¬
tro il medesimo annuvolato nulla ».
Cambiando continuamente i modi della realtà, in¬
terna ed esterna a lui, il « poeta ha sempre da risol¬
vere una crisi di linguaggio »; quella che ci ha riguar¬
dato più da vicino finora, delimita e prolunga il no¬
stro retroterra fino al Seicento, anche se la crisi toc¬
ca il suo vertice con l’Ottocento. «Dagli oggetti, dal¬
la voce che ciascuno di essi racchiude e che li nomi¬
na, un sentimento nuovo aggredisce, dall’Arcadia in
poi; [...] un sentimento che fa dell’uomo un servo di
tutto [...] o lo fa libero d’una libertà così sacrilega
[...] il sentimento insomma della Decadenza. » 121 Nel
suo momento più religiosamente ottimistico, alla vigi¬
lia della Seconda Guerra mondiale, l’idea d’una poesia
come via perfectionis è l’unica prospettiva di “guari¬
gione” del linguaggio che Ungaretti intravede. Certo,
« col Romanticismo è incominciata una vera tragedia
LXXXVIII Mario Diacono

delia parola, che perdura »; ma i contemporanei sono


stati sul punto di trovare, col « valore nuovo che si
dà aì mite» »•„ col « tm&f&rmmé la parola in rivelazio¬
ne », il « rimedio definitivo », considerando la parola
in « relazione alla qualità morale di chi l’esprime ».m
Era una speranza che, in ogni modo, non escludeva
una situazione di linguaggio completamente irrelato
(con riferimento a una poesia senza prospettiva reli¬
giosa, a quella surrealista in particolare), nella qua¬
le «il poeta potrà sempre (...) limitare le sue preoc¬
cupazioni alla comunicabilità magica delle parole [...]
la quale è indipendente da ogni valore storico e ri¬
siede nelle stesse fonti dell’atto poetico ».123
Come tale « comunicabilità magica » si inverasse
poi, tecnicamente, negli scritti critici stessi di Unga¬
retti, nelle sue scelte e invenzioni lessicali, grammati¬
cali, sintattiche, tonali, ritmiche, è una lunga inda¬
gine che riserviamo agli specialisti di Grammatica. Ma
ogni lettore può percepire ad apertura di pagina come
essa concentrasse la propria intenzionalità essenzial¬
mente nel ritmo, nelle dislocazioni sintattiche, e in
modo soprattutto cospicuo nella violenza tonale del-
l associazione soggetto-oggetto, sostantivo-aggettivo.
Facciamo dei prelievi quasi a caso, nell’area dell’ag¬
gettivazione, tra gli scritti posteriori al ’42. Indichia¬
mo per comodità tre tipi di aggettivazione: a) agget¬
tivo posto dopo il sostantivo, b) aggettivo che pre¬
cede il sostantivo, c) aggettivazione ottenuta per rad¬
doppiamento del sostantivo, trasformando cioè in at¬
tributo un sostantivo facendolo precedere dalla prepo¬
sizione di. E troviamo: nel tipo a), «accordi infini¬
ti », « diramarsi atroce » (Immagini del Leopardi...);
« allenati invasati », « minaccia fremente », « notte
abbagliante », « origini indecifrabili » (Secondo di¬
scorso su Leopardi); « incendio aurorale », « luce il¬
lusoria », « occhi chirurgici », « giustezza ineffabile »
(Góngora al lume d’oggi); «luce (...) spaventosa»,
Introduzione LXXXIX

«memoria implacabile», «grido senza pace», «se¬


greto inviolabile », «impeto [...] deflagrante », «di¬
sciplina titanica » (Significato dei sonetti di Shakespea¬
re,); «voce lacerata» (Sulla «Fedra» di Racine)/
« estate in furia », « macina calcinante », « urlo afo¬
no » (nel giro di due righe, in Interpretazione di Ro¬
ma,)/ « trasparenze abissali » (St.-John Perse); « gri¬
do carnale », « parvenza disparita » (Riflessioni sullo
stile); «frattura abissale» (Difficoltà della poesia);
nel tipo b), « risoluta violenza », « annuvolato nul¬
la », « ossessive sensazioni », « innumerevole succe¬
dersi » (Gongora al lume d’oggi); « irremovibile vi¬
suale », « balenanti immagini », « incessante rovina »,
« irrimediabili rimpianti », « impossibile misura »,
« buia bellezza », « indecifrabile mistero », « tutelare
idea» (Significato dei sonetti di Shakespeare); «an¬
nebbiata anima» (Sulla «Fedra» di Racine); «inaf¬
ferrabile emblema» (Discorso per Valéry); «abissale
visione » (Per Alien Ginsberg); «• irreparabile scis¬
sura » (Su «Udii una voce» di D.M. Turoldo); nel
tipo c), « smarrimento di perdizione », « rovina di pa¬
rola» (Góngora al lume d’oggi); «furia di fuoco»,
«violenza di rovina», (Sulla «Fedra» di Racine);
« turbine di finimondo », « spasimo di rovina » (Inter¬
pretazione di Roma); «luce di misura» (Cavafy);
« strazio di fuoco » (Sulla poesia).
La funzione dell’aggettivo, in tutti questi casi, è
d’incrinare la solidità semantica del sostantivo, d’in¬
tralciarne all’estremo la decodificazione, di spingerlo
a franare nell’inconscio, per sciogliere l’eccesso di ra¬
zionalità del discorso critico nella « potenza evocati¬
va », nella « potenza incantatoria della parola » (la
cui ri-scoperta attribuiva al Leopardi). Fino alla fine
degli anni Cinquanta, la discussione che Ungaretti
conduce sul linguaggio tocca la "crisi” delle forme,
delle tecniche, delle funzioni di cui esso era investito
in determinati momenti della letteratura, a cominciare
xc Mario Diacono

da quello della Decadenza; ripercorre la parabola del¬


la parola, dall’innocenza iniziale mitica a quella che
riaffiora in Leopardi, dopo i secoli in cui solo la me¬
moria petrarchesca aveva abitato il linguaggio: una
parabola di ideologie attuatesi in corrispondenti stra¬
tegie letterarie. Ma nell’ultimo decennio, negli anni
Sessanta, la parola “crisi" (e spesso nell’espressione
« crisi del linguaggio ») ricorre nei suoi scritti come
allusione a un fatto di portata “apocalittica’’, ormai,
poiché è la crisi dell’intero sistema della letteratura, la
dissoluzione della letteratura come linguaggio ch’egli
vede emergere dai procedimenti dell’Informale.
Non tanto la fine della Decadenza egli sente profi¬
larsi nella cultura delle società “a industrializzazione
avanzata”, quanto la negazione del linguaggio e della
parola come realtà autonome in cui la storia cristiana
s’era denotata. Nel 1966, la rivista francese « l’Herne »
gli chiede uno scritto per un prossimo fascicolo dedi¬
cato a Michaux, e Ungaretti scrive due paginette as¬
solutamente autodefinitorie, in cui le prospettive cri¬
ticamente intraviste in Difficoltà della poesia, nel ’63,
diventano certezza disperata della fine. « C’è qualcosa
nel mondo dei linguaggi che è definitivamente finito.
Fino a pochi anni fa la lingua del passato poteva es¬
sere ancora la nostra. Oggi [...] anche la parola è una
convenzione subito logora [...] Bisognerebbe risalire
con la memoria fino al punto della prima innocenza:
allora forse la poesia potrebbe riacquistare il suo pre¬
stigio emotivo [...] Sì, io ho sognato questa capacità
senza raggiungerla [...] Ma guardo i giovani alle pre¬
se con l’impossibilità di parlare, con la violenza più
forte della parola [...] Tutto quello in cui l’uomo
continuava a gingillarsi, prima cosa fra tutte la lette¬
ratura, è caduto [...] Solo il segreto può valere anco¬
ra [...] No, le parole non ci servono. Le parole delle
vecchie rettoriche sono parole senza sufficiente forza
di segreto. » 124 II termine “apocalissi” è uno di quelli
Introduzione xci

tematicamente più topici nell’ultimo lavoro di Ungaret¬


ti: gli sembrava che in un’epoca di apocalissi tecnologi¬
ca, solo un linguaggio dell’apocalissi potesse essere pro¬
nunciato. E un linguaggio apocalittico, negli anni Ses¬
santa, poteva parlare solo dell’apocalissi del linguaggio.
In quelle due pagine per Michaux ritornano, quasi
per un'ultima convocazione, molti dei termini e dei co-
mandamenti della poetica ungarettiana: che il mondo è
un mondo di linguaggio, che il linguaggio può essere
nostro solo se- lo viviamo radicato nel “passato”, che
la parola è una convenzione antica, che solo la me¬
moria può riportarci all’innocenza iniziale della paro¬
la, che la traiettoria memoria-innocenza è un percorso
stilistico, che la poesia ci perfeziona attraverso un’i¬
niziazione emotiva, che l’uomo ha finora pensato se
stesso attraverso la letteratura, e che la parola lette¬
raria, se ha forza di segreto, può finalmente metter¬
ci in contatto col Segreto. Poiché il segreto è tutto,
comprende in sé tutto, emana da sé tutto, anche la
società industriale avanzata — esso solo quindi è va¬
lore su cui l’uomo possa fondarsi, al di là della pa¬
rola. Ma vi tornano, quei termini e nozioni, come deiet¬
ti dalla storia, registrati sotto una cifra di fallimento.
La « durata » della parola si è spenta, e il logos si è
risigillato su se stesso. Ma è la parola delle « vecchie
rettoriche », Ungaretti esplicita alla fne della sua apo¬
calissi, che non ci serve più, che è impotente a « ri¬
velare ». I testi di poesia scritti da Ungaretti tra il
’66 e il ’69, dopo cinque anni di silenzio della « pa¬
rola », mostrano quanto la fedeltà a cinquant’anni di
poetica potesse ancora persuaderlo che, oltre l’afasia
storica, al Vecchio Credente la religione iniziale del
vocabolo magico farà sempre toccare — donandogli un
linguaggio ulteriore, operandogli il « miracolo della
poesia » — il « mistero », il « segreto inviolabile », la
sua «patria silenziosa ».
Mano Diacono
NOTE

1 L’analisi letteraria in Italia, Ricciardi, Milano-Napoli 1970.


pp. 24-25.
2 Vedi in particolare Le prime mie poesie [1933], pp. 267-268.
3 Jacques Rivière riabilita il «sentimento», pp. 70-71.
4 Ancora per Mallarmé, p. 210.
5 Di un difetto della critica, p. 182.
6 L’uomo buio, p. 237.
7 Lezione su Manzoni e Platone. Cito dal manoscritto inedito.
8 Lezione del 1943, a Roma, sul tema della solitudine umana
in Leopardi. Cito dal ms. inedito.
9 Zona di guerra (Vivendo con il popolo) [1918], p. 8.
10 Risposta all'anonimo, pp. 203-204.
11 II ritorno di Baudelaire [1918], p. 11.
12 Pittura, poesia, e un po’ di strada, p. 23.
13 La doctrine 'de « Lacerba », p. 41.
14 Considérations sur la littérature italienne moderne, p. 57.
15 Dall’Estetica all’Apocalisse [1926], p. 125.
16 Difesa dell'endecasillabo, p. 158.
17 Lautréamont ovverosia Odore di bruciato [1930], p. 249.
18 Punto di mira, p. 295.
19 Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi, p. 359.
20 Vedi Vita d’un uomo / Tutte le poesie [1969], p. LXXIX.
21 Discorsetto su Blake [1965], p. 597.
22 Influenza di Vico..., cit., p. 358. Il corsivo è mio.
23 Commemorazione del futurismo [1927], p. 172.
24 L'estetica di Bergson, p. 80.
25 Lezione introduttiva al commento della canzone leopardiana
Alla Primavera. Cito dal ms. inedito.
26 Lezione sul 1° Capitolo dei Promessi Sposi. Cito dal ms. ine¬
dito.
27 Per Mallarmé, p. 207.
28 Esordio [1924], p. 61. Il corsivo è mio.
29 Vedi Accadrà?, in Tutte le poesie [1969], p. 231.
30 Vedi Stato della prosa francese [1926], p. 144: «Togliete al¬
l’uomo il desiderio e l’orrore dell’eterno, toglietegli la lotta
colla motte, toglietegli l’illusione, mutategli destino, e finisce
quel poco di magia che gli resta; l’arte è sparita; è spento quel
Introduzione xeni

lumino che l’aiutava a intravedere nel suo abisso [...] Per¬


ché l’opera d’arte è realmente uno specchio magico ». I corsivi
sono miei.
51 Vedi del primo il capitolo Religione e magia in II ramo d'oro
(The Golden Bough, A Study in Magic and Religion, 1922) e
del secondo il capitolo L’arte della magia e il potere della fede
nel saggio Magia, scienza e religione (Magic, Science and Reli¬
gion, 1925). Per Malinowski, la magia “costituisce metà della
sfera del sacro”, e ambedue, magia e religione “sussistono nel¬
l’atmosfera del miracoloso, in una rivelazione costante del loro
potere di produrre miracoli”. Ma in cosa consiste esattamente
la virtù magica? ,Essa “sta sempre nel potere contenuto nella
Parola”, poiché “l’elemento più importante dell’azione magica
è la Parola. La Parola è l’elemento dell’azione magica che è
occulto, trasmesso per filiazione magica”. Infatti, “il rito ha il
suo centro nell’emissione della Parola. La formula magica costi¬
tuisce sempre il cuore della cerimonia magica”. Lo studio di
testi e formule magiche dei popoli “primitivi”, dice Malinowski,
rivela 1’esistenza di tre elementi tipici, costantemente associati
al credere nell’efficacia della magia. Il primo, consiste negli
“effetti fonetici”, i quali sono “imitazioni di suoni naturali”
che “simboleggiano determinati fenomeni, e si crede perciò che
li producano magicamente”, oppure “esprimono determinati sta¬
ti emotivi collegati col desiderio che deve avere la sua realiz¬
zazione per mezzo dell’azione magica”; il secondo, è dato dal¬
l’uso “di parole che invocano, nominano o ordinano lo scopo
desiderato”; il terzo, sono “le allusioni mitologiche, i riferi¬
menti agli antenati e agli eroi culturali da cui il potere ma¬
gico è stato ricevuto”. Elementi cioè tutti fondatori e produt¬
tori di tipi di linguaggio dotato di poteri superiori, ma legato
alla natura, alla vita iniziale e a quella futura, a suo modo così
portatore di innocenza e di memoria.
n La rinomanza di Paul Valéry, p. 101.
33 Freud e il freudismo, « Lo Spettatore italiano », Roma, a. I,
n. 11, 15 ottobre 1924, pp. 384-388.
34 Sottigliezza poetica di Reverdy, p. 75.
3:1 Freud e il freudismo, cit.
36 II nuovo mago, « Il Tevere », Roma, 20-21 marzo 1929.
37 Lezione cit. introduttiva al commento della canzone di Leo¬
pardi Alla Primavera.
38 André Breton, p. 659.
39 Lezione su memoria, sogno e immaginazione in Leopardi, del
1946-47. Cito dal ms. inedito,
40 Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi, p. 361.
41
Vedi pp. 642 e 643.
xciv Mario Diacono

42 Dalle «Lezioni su Leopardi»: Sul frammento «Spento il


diurno raggio in occidente », « Galleria », a. XVIII, n. 46, lu¬
glio-dicembre 1968, pp. 178-189 (fascicolo dedicato a Ungaretti,
per il suo 80° compleanno, a cura di Ornella Sobrero).
43 Ibidem, p. 189.
44 Lezione sul frammento leopardiano Io qui vagando al limi¬
tare intorno, probabilmente del ’47. Cito dal ms. inedito.
45 Perché scrivete voi? [1930], p. 234.
46 La rinomanza di Paul Valéry [1926], p. 103.
4' Va citato Leopardi per Valéry?, p. 110.
48 Discorso per Valéry, pp. 631-632.
49 Barbe finte [1926], p. 121.
50 L’artista nella società moderna [1953], p. 866.
51 Lezione sul Cinque maggio, del 1937 o ’38. Cito dal ms.
inedito.
52 Arte, affari e abracadabra [1928], p. 178.
53 Secondo discorso su Leopardi [1950], p. 485.
74 L’artista nella società moderna, cit., p. 856.
” Góngora al lume d’oggi [1951], p. 544.
56 Discorsetto su Blake, cit., p. 597.
77 Lezione del 1943 Rapporto con il Petrarca, e introduzione al
commento dell’« Angelo Mai» [di Leopardi]. Cito dal ms.
inedito.
’8 Lezione cit. sul tema della solitudine umana in Leopardi. I
corsivi sono miei.
'9 Lezione cit. Rapporto con il Petrarca...
60 Lezione Indole dell'Italiano. Cito dal ms. inedito.
61 Góngora al lume d’oggi, cit., p. 550.
62 Punto di mira, cit., p. 295.
63 Indefinibile aspirazione [1947/55], p. 746. I corsivi sono miei.
64 Ragioni di una poesia [1949], p. 759.
65 Innocenza e memoria [I], p. 130.
66 Lezione del 1937 o ’38 sul personaggio di Don Abbondio. Ci¬
to dal ms. inedito.
67 Innocenza e memoria [II], p. 134.
68 Innocenza e memoria [I], p. 131.
69 Naufragio senza fine, pp. 265-266.
70 Poesia e civiltà, p. 319.
71 Lezione del ’46-’47 sul frammento leopardiano Spento il diur¬
no raggio in occidente. Cito dal ms. inedito. (Si tratta duna
lezione successiva a quella indicata nella nota 42.)
72 Ibidem.
73 Sulla «Fedra» di Racine [1950], p. 583.
74 Lezione, del 1937, sulla vita di Iacopone. Cito dal ms. ine¬
dito.
Introduzione xcv

75 Lezione cit. introduttiva al commento di Alla Primavera.


76 Lezione sullo stile dei Canti. Cito dal ms. inedito.
77 Definizione dell'Umanesimo, lezione pubblicata (postuma) in
« L’Approdo Letterario », n. 57, marzo 1972, pp. 64-74. (I cor¬
sivi sono miei.) La data che ho indicato nella nota al testo, nel-
l’« Approdo », è erronea. Il riferimento che vi è fatto alla re¬
cente morte di Chesterton (1936), infatti, indicherebbe che an¬
che questa lezione è del 1937.
78 II poeta dell’oblio [1943], p. 413.
75 Le prime mie poesie, p. 269.
80 Tutte le poesie, pp. LXXVII-LXXVIII.
81 Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi, cit., p. 352.
82 Commemorazione di Gabriele D’Annunzio letta in Brasile nel
1938. Cito dal ms. inedito.
83 Ibidem. Il corsivo è mio.
89 Influenza di Vico..., cit., p. 350.
85 Testo della conferenza Le origini del Romanticismo italiano,
in « Fanfulla », San Paolo del Brasile, 11 maggio 1941, pp. 4-5.
86 Ibidem.
87 Ibidem.
88 Influenza di Vico..., cit., p. 345.
89 Lezione Dante e Virgilio [1938]. Cito dal ms. italiano ine¬
dito. Una versione francese della lezione è inclusa in Inno-
cence et mémoire, Gullimard, Paris 1969, pp. 7-24.
90 Ibidem.
91 Lezione cit. Rapporto con il Petrarca...
92 Ibidem.
93 Lezione, del 1946 o ’47, Sulla metrica del Leopardi. Cito dal
ms. inedito.
99 Lezione cit. introduttiva al commento di Alla Primavera.
95 Commento al Canto Primo dell’« Inferno » [1951], p. 369.
96 Lezione sulla poesia di Iacopone, del 1937. Cito dal ms. ine¬
dito.
97 Ibidem.
98 Lezione, del ’37, sull’idea del tempo e il valore della memo¬
ria in Petrarca. Cito dal ms. inedito.
99 Lezione su L’infinito e II sogno di Leopardi, del ’46-’47. Ci¬
to dal ms. inedito.
100 Lezione del ’37 Sul sonetto del Petrarca « Quand’io son tutto
volto in quella parte». Cito dal ms. inedito.
101 Ibidem.
102 II poeta dell’oblio, cit., p. 402.
103 Ibidem, p. 410.
109 Ibidem, p. 408.
105 Commento al Canto Primo dell’« Inferno », cit., p. 386.
XCVI Mario Diacono

106 Lezione sul sentimento della decadenza in Leopardi, del 1943.


Questa lezione venne pubblicata postuma, insieme all’altra Idee
del Leopardi... indicata nella nota» 107, col titolo unico Idee
del Leopardi sulla crisi del linguaggio e sulla lingua, in « Ci¬
viltà delle Macchine », a. XIX, n. 3-4, maggio-agosto 1971, pp.
19-26.
107 Lezione Idee del Leopardi intorno ad usi della lingua, e
prime indicazioni sulla metrica delle Canzoni e sul rapporto col
Petrarca, del 1943. Come accennato nella nota precedente, essa
costituisce la seconda parte dello scritto apparso postumo in
« Civiltà delle Macchine » Idee del Leopardi ecc.
108 Ibidem.
Lezione cit. (II) sul frammento Spento il diurno raggio in
occidente.
110 Lezione cit. apparsa in « Galleria », 1968, p. 189.
111 Lezione cit. su L'infinito e II sogno.
112 Ibidem.
113 Secondo discorso su Leopardi, cit., pp. 470-471.
m Difficoltà della poesia [1952-63], p. 810.
115 Ibidem, p. 808.
116 Ibidem, pp. 810-811.
117 Ibidem, p. 811.
118 Secondo discorso su Leopardi, cit., p. 471.
119 Magistero di Pierre Jean Jouve [1957], p. 653.
120 Góngora al lume d'oggi, cit., p. 530.
121 Lezione cit. su Leopardi e il sentimento della decadenza.
Vedi nota 106.
122 Influenza di Vico..., cit., p. 360.
123 Riflessioni sullo stile [1946], pp. 725-726.
124 Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux
e forse anche mio [1966], pp. 842-844.
CRONOLOGIA
Viene qui riprodotta la Cronologia già apparsa nel primo vo¬
lume di « Vita d’un uomo » (Tutte le poesie) curato da Leone
Piccioni, quando Giuseppe Ungaretti era ancora in vita.
1888
Il 10 febbraio Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto
da Antonio e da Maria Lunardini, entrambi del circondario di
Lucca (di San Concordio il padre, la madre di Sant’Alessio).
L’unico suo fratello, Costantino, era nato nel 1880.
Ad Alessandria, gli Ungaretti abitavano nel quartiere periferico
di Moharrem Bey e vi avevano aperto un forno di pane, che la
madre del poeta continuò a gestire anche dopo la morte del ma¬
rito, avvenuta nel 1890, in seguito a un infortunio riportato du¬
rante lo scavo del Canale di Suez dove lavorava come operaio.

1906
Fino al 1905 frequenta l’Ecole Suisse Jacot, una delle più rino¬
mate d’Alessandria. Nel 1906 conosce Enrico Pea, anche lui emi¬
grato in Alessandria, e frequenta la « Baracca rossa », una casa
di legno a due piani, ricoperta di lamiera e dipinta di rosso,
che serviva a Pea da abitazione, da magazzino per il suo com¬
mercio di marmi e di legname, e da luogo di ritrovo di sovver¬
sivi e fuorusciti.
Durante gli anni di scuola si lega d’amicizia con Moammed Sceab
e comincia a scrivere i primi versi. Fa le prime scoperte lette¬
rarie: Leopardi e Baudelaire, Mallarmé e Nietzsche. Finiti gli
studi, sempre più si precisa il suo interesse per la poesia. Legge
e discute, segue le riviste letterarie più avanzate di Francia e
d’Italia, frequenta i caffè d’Alessandria dove si danno ritrovo
letterati ed artisti, entra in contatto epistolare con Prezzolini,
che dirige « La Voce ».
Guadagna intanto qualche soldo tenendo la corrispondenza fran¬
cese per conto di un importatore di merci dall’Europa, certo
Seeger. Quando sua madre, venduto il forno, gli affida parte del
ricavato, investe il denaro in affari sballati e in breve tempo
il piccolo capitale va in fumo.

1.912
Nell’autunno lascia l’Egitto. Durante il viaggio diretto a Parigi,
conosce per la prima volta l’Italia. Nella capitale francese segue
i corsi di Bergson, di Bédier, di Lanson, di Strowski e di altri
illustri docenti al Collège de France e alla Sorbona. Contem-
c Cronologia

poraneamente entra in contatto con Apollinaire e con i maggio¬


ri esponenti dei movimenti artistici d’avanguardia. Conosce Pi¬
casso, Braque, Léger, De Chirico, Ctndrars, Jacob, Modigliani,
Salmon, ecc. Nell’estate del 1913, Moammed Sceab, che abita
con lui nello stesso albergo in rue des Carmes, si suicida.

1914
Conosce a Parigi, in occasione della Mostra futurista da Bern-
heim Jeune, Papini, Soffici e Palazzeschi, che lo invitano a col¬
laborare a « Lacerba ». Allo scoppio della guerra, si trasferisce
a Milano, dove stringe amicizia con Carlo Carrà.

1915
Pubblica le sue due prime poesie su « Lacerba » (numero del
7 febbraio).
In seguito all’entrata in guerra dell’Italia, è chiamato alle armi,
e viene mandato sul Carso, soldato semplice del 19° Reggimento
di Fanteria.

1916
In dicembre, esce a Udine il suo primo volume di versi, Il Por¬
to Sepolto, in edizione numerata di ottanta copie. A stamparglie¬
lo è un giovane ufficiale del Commissariato, Ettore Serra.

1918
In primavera, il reggimento di Ungaretti viene trasferito in Fran¬
cia, sul fronte della Champagne.
Alla fine della guerra, si stabilisce a Parigi, in rue Campagne
Première.

1919
Pubblica a Parigi, presso l’Établissement Lux, la tipografia che
stampava il settimanale « Sempre Avanti! » per conto del Corpo
di spedizione italiano in Francia, un volumetto di versi in fran¬
cese, intitolato La Guerre. Nel febbraio è incaricato della cor¬
rispondenza da Parigi da « Il Popolo d’Italia ». Verso la fine
dell’anno esce a Firenze, presso l’editore Vallecchi, Allegria di
Naufragi.

1920
Lasciato « Il Popolo d’Italia », s’occupa dello spoglio dei gior¬
nali e dei periodici francesi presso l’Ufficio stampa dell’Amba¬
sciata d’Italia a Parigi.
Il 3 giugno sposa Jeanne Dupoix.
Cronologia ci

1921
Si trasferisce a Roma. Per vivere, accetta di collaborare alla re¬
dazione degli estratti dei giornali stranieri per il Bollettino set¬
timanale pubblicato dall’ufficio stampa del Ministero degli esteri.

1925
Il 17 febbraio, nasce a Roma la figlia Ninon.

1926
Compie un giro di conferenze in Francia e nel Belgio.

1929
Compone la poesia La madre destinata al Sentimento del Tempo.

1930
Il 9 febbraio, nasce a Marino (Roma) il figlio Antonietto.

1931
Inviato speciale della « Gazzetta del Popolo » di Torino, com¬
pie, nel giro di quattro anni, una serie di viaggi: in Egitto, che
rivede dopo quasi vent’anni, in Corsica, in Olanda, in varie re¬
gioni d’Italia.

1932
Gli viene conferito, a Venezia, il Premio del Gondoliere. È il
primo riconoscimento pubblico dato alla sua poesia.

1933
Compie un giro di conferenze sulla letteratura italiana contem¬
poranea in Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Cecoslovacchia, Sviz¬
zera.
Esce a Firenze, presso l’editore Vallecchi, e contemporaneamente
a Roma, presso Novissima, il Sentimento del Tempo.

1934
Esce a Praga un volume di sue poesie tradotte in cecoslovacco,
Pohrbeny Pristav.

1936
Pubblica, presso Novissima, un volume di Traduzioni (da Saint-
John Perse, Blake, Góngora, Essenin, Paulhan).
È invitato dal governo argentino a partecipare al congresso del
Pen Club. Durante il soggiorno nel Sud America, gli viene of¬
ferta dall’Università di San Paolo del Brasile la cattedra di Lin¬
gua e letteratura italiana.
Si stabilisce con la famiglia a San Paolo, dove vive fino al 1942.
CII Cronologia

Nel 1937 perde il fratello. Due anni dopo, in seguito a un’ap¬


pendicite mal curata, gli muore il figlio Antonietto.
9

1942
Rientrato in patria verso la fine dell’anno, è eletto Accademico
d’Italia e nominato professore di Letteratura italiana contempo¬
ranea all’Università di Roma « per chiara fama ».
L’editore Mondadori inizia la pubblicazione di tutte le sue opere,
con il titolo generale di Vita d’un Uomo.

1944
Pubblica la traduzione, presso l’editore Documento, di XXII
sonetti di Shakespeare.

1945
Escono, presso l’editore Mondadori, le Poesie disperse, con uno
studio di Giuseppe De Robertis e l’apparato critico delle varian¬
ti dell’Allegria e del Sentimento del Tempo.

1947
Esce II Dolore.

1948
Esce il volume di traduzioni Da Góngora e da Mallarmé.

1949
Pubblica, presso le edizioni della Meridiana, Il Povero nella Cit¬
tà, sua prima raccolta di prose.
Nel corso di una solenne cerimonia in Campidoglio, riceve dalle
mani del Presidente del Consiglio il Premio Roma per la poesia.

1950
Esce La Terra Promessa, con un saggio critico e l’apparato delle
varianti a cura di Leone Piccioni.
Esce la traduzione della Vedrà di Jean Racine.

1952
L’editore Schwarz pubblica Un Grido e Paesaggi in edizione di
lusso illustrata da Giorgio Morandi.

1956
Riceve insieme a Juan-Ramón Jimenez e a W.H. Auden il pre¬
mio Biennale Internationale de Poésie a Knokke-Le-Zoute.

1958
La rivista « Letteratura » dedica un numero di 370 pagine al-
Cronologia cui

l’opera di Ungaretti, in occasione del suo settantesimo com¬


pleanno.
Muore a Roma la moglie Jeanne.

1960
Esce II Taccuino del Vecchio, comprendente le poesie scritte do¬
po il 1952, e una serie di testimonianze di amici e scrittori
d’ogni parte del mondo.
Compie un viaggio in Giappone.
Gli viene conferito il Premio Montefeltro all’Università di Ur¬
bino.

1961
Esce II Deserto e dopo, in cui sono riuniti gli scritti di viaggio
usciti nella « Gazzetta del Popolo » di Torino, traduzioni di
poeti brasiliani e note varie.

1962
È eletto all’unanimità presidente della Comunità Europea degli
Scrittori.
Nasce la nipote Annina.

1964
Tiene un ciclo di lezioni alla Columbia University di New York.

1965
Esce il volume di traduzioni Visioni di William Blake.

1966
Riceve il Premio internazionale di poesia Etna-Taormina.

1968
In occasione degli ottant’anni, gli vengono tributate solenni ono¬
ranze in Campidoglio da parte del Governo Italiano. La rivista
« Galleria » gli dedica un numero unico.
Compie un viaggio in Brasile e in Perù per ricevere le lauree
honoris causa conferitegli dalle Università di San Paolo e di Li¬
ma. Pubblica, in edizione numerata di 59 esemplari fuori com¬
mercio, Dialogo (Editore Fògola, Torino), comprendente insieme
a sue, un gruppo di poesie di Bruna Bianco e una combustione
di Alberto Burri.

1969
A Parigi la rivista « L’Herne » dedica un numero alla sua ope¬
ra. Esce, presso l’editore Gallimard, Innocence et Mémoire, una
CIV Cronologia

raccolta di saggi critici e scritti di estetica tradotti da Philippe


Jaccottet.
Compie una serie di letture in Svezia, in Germania, e in alcune
città degli Stati Uniti. È invitato d’onore della Harvard Uni¬
versity, dove è ospitato alla « Dudley House », e vi legge una
scelta dei suoi testi accompagnati dalle traduzioni del giovane
poeta americano Andrew Wylie, nell’aula delle grandi manife¬
stazioni di poesia, riaperta, per l’occasione, dopo sette anni.
Ha collaborato ai più importanti periodici in Italia e all’estero
fra i quali, come membro del comitato di redazione, « Com¬
merce » e, come condirettore, « Mesures ». In « Commerce » e
in « Mesures » sono per la prima volta portati alla conoscenza
del pubblico internazionale i nomi di Kafka, Joyce, Musil, Pa-
sternak e altri. Sono state, fra le due guerre, le riviste che han¬
no mantenuto saldi i contatti tra gli uomini delle lettere euro¬
pee di quel momento e contribuito al radicale rinnovamento del
linguaggio. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti accademici (lau¬
ree honoris causa da università italiane e straniere; la nomina
a membro di importanti Accademie, fra le quali l’Arcadia e la
Bayerische Akademie di Monaco di Baviera) ed è stato insignito
di vari ordini cavallereschi, fra cui la Légion d’honneur e l’Ordre
du meri te de la République Fran?aise. È Cavaliere di Gran Cro¬
ce al merito della Repubblica Italiana.

1970
Datata « nella notte del 31 dicembre 1969, mattina del 1° gen¬
naio 1970 », scrive l’ultima poesia L’impietrito e il velluto, che
si pubblica in una cartella litografica (con illustrazioni di Dora-
zio) il giorno dell’ottantaduesimo compleanno del poeta. Tra¬
scorre la sera del compleanno in grande vivacità ed allegria, in
un ristorante romano con pochi amici (Guttuso, Manzù, Parise,
Piccioni). Parte poco dopo per gli Stati Uniti per ricevere un
premio internazionale di poesia dell’Università di Oklahoma.
Si sottopone ad un viaggio molto lungo e faticoso: raggiunge poi
New York, che trova nel più crudo gelo. Già in partenza dal¬
l’Italia si trascina una noiosa bronchite: a New York è ricovera¬
to in clinica con una broncopolmonite bilaterale e complicazioni
circolatorie. Si riprende e può rientrare .in Italia. Dal mese di
aprile si stabilisce a Salsomaggiore per potersi curare, ma la sua
fibra fortissima e ormai stanca. È a Milano alla fine del mese di
maggio per controlli medici. Muore a Milano nella notte tra il
1° ed il 2 giugno. I funerali si svolgono a Roma, nella Chiesa
di San Lorenzo fuori le Mura il 4 giugno: la salma, benedetta
dal Cardinal dell’Acqua, Vicario di Roma, è tumulata al Vera-
no, accanto a quella della signora Jeanne. Ungaretti - assente del
Cronologia CV

tutto l’Italia unciale - è accompagnato alla tomba dai familiari,


da tanti amici scrittori ed artisti, da allievi, ed è salutato con
ultime, bellissime parole da Carlo Bo: « Giovani della mia ge¬
nerazione » ha detto Bo press’a poco « in anni oscuri di totale
delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita
per Ungaretti, e cioè per la poesia ».
•• '

• ' . . . . . .


SAGGI E INTERVENTI
SCRITTI LETTERARI 1918-1936
a cura di Luciano Rebay e Mario Diacono
ZONA DI GUERRA
(Vivendo con il popolo)
[1918]

Sono quieto, profondamente mite in queste giornate


monotone, così adagiate nella neve, senz’alcun astio,
senza alcuno stimolo; così addormentato con i miei
occhi aperti, un poco aperti, quel poco per accorgersi
che ogni tanto fa capolino il sole; e qualche mattina
persiste faceto a imbrillantare qualche sparuto filo
d’erba, sciogliendo qualche scaglia di gelo.
Un silenzio così pieno non s’interrompe neanche a
tanto miracolo di sole, né allo scampanellio che ci rag¬
giunge dalla chiesina con un fascio di nuvole e di soa¬
vi infantilità provinciali.
La sera, sotto le ogive della stalla piena di bestie
pregne; un vitello di pochi giorni si precipita verso le
poppe penzoloni della sua mamma; una vecchierella
fa la calza; una giovinetta ricama, e velluta cogli sguar¬
di lenti la fantasia d’un veterano, che ha ventidue
anni soli; una vacca con la pancia spropositata affan¬
na sdraiata; accasciata nella fatica atroce della mater¬
nità che la lavora, mi fa pensare al Carso come a co¬
lossali animali; i soldati aiutano strepitando un’altra
vacca a sgravarsi, e ne coprono i lamenti; un’aria sa¬
tura di fermenti che mi affoga quando entro, ma poi
subito non mi disturba più; pare non ci sia nessun
odore, si sta caldi, e questo è buono.
Da quel vigoroso concime che si spallottola dal culo
delle vacche, coda fremente alzata, a cadenze regolari
come un ritornello di litania e giù si spiaccica improv¬
viso facendoci voltare negligenti la faccia, all’arcoba¬
leno che risolve ogni mistero nell’anima magica del
poeta, anche qui si specchia la ragione della vita.
6 Giuseppe Ungaretti

Che è ardore e contemplazione; materia e spiritua¬


lità; amore e patimento; e assenza assenza, molti gior¬
ni d’assenza, perché anche l’uomo, specialmente per
l’anima, ha bisogno d’inverno.

Mio Dio, come siamo rimasti attaccati al Carso. Pas¬


si intorpiditi dal fulvo vischioso fango; nostalgia che
si macera e s’inabissa ora in quel suo colore di san¬
gue cagliato, nel nostro cuore senza più canti. Que¬
sta melodia della terra, questa viva umanità splen¬
dente di armonia, quest’italiani, dal giorno della sven¬
tura, non cantano più.
Muto grigioverde, popolo d’Italia, chi ti ha chia¬
mato traditore?
Di fronte al pericolo, sotto 1’infuriare del bombar¬
damento, in linea di fuoco il nostro soldato cantava

e se non canto
moro

e sulla cartolina per la sua tosa disegnava, nell’infer¬


no, la colomba con una margherita nel becco e sotto¬
lineava << a quando bacci bacci bacci ». Cantava. Can¬
tava e dimenticava la pazienza. L’italiano non è pa¬
ziente; l’italiano ha bisogno d’avventura; siamo un po¬
polo d’emigranti per questo; ha bisogno d’un piano
di guerra che gli dia spazio, ancora spazio, sempre
spazio, ha bisogno di raccogliere un mondo di straor¬
dinarie parole; ha l’anima epica, non è cocciuto. Se
inchiodato in trincea s’avvilisce; se l’azione è un salto
di rana s’avvilisce; eppure ha avuto pazienza tre an¬
ni. Aveva in orrore la trincea, quell’ergastolo; ma si
liberava col canto; ma trovava ugualmente un sorso
di motivo di canto; nell’aria s’avventava un duello
d’aeroplani, e lui attento commosso, e quando il ne¬
mico ruzzolava abbattuto, avanti applausi, come fos-
Scritti letterari 1918-1936 7

se stato al circo equestre in una fiera del suo vil¬


laggio.
Non ha l’anima religiosa; non sente la missione;
sente il gioco, anche se la vita è la posta; ha fanta¬
sia, ha sentimento; è laborioso, ma come l’ape, che dà
il miele, e offre la sua regina al maschio, che più di
tutti volerà in alto, e sarà degno di morire d’amore.
Perché il sentimento è amore della realtà sempre
rinnovata.
Vi narrerò. »
Si chiamava Toupie; veramente il suo nome era
Balestra; ma in Francia, dove aveva lavorato molti an¬
ni, lo chiamavano Toupie, e anche da noi, suoi com¬
pagni soldati, gli piaceva farsi chiamare Toupie.
Non so cosa facesse di mestiere; ma era un tipo
pieno di risorse; n’aveva un sacco e una sporta per
tener allegra la compagnia; era un pagliaccio agile co¬
me un gatto; era un ventriloquo; era Fregoli; era il
diavolo; era un uomo assai divertente.
Una volta s’era in linea, e c’era al San Michele una
buca strana; si vedeva dalle nostre trincee, con una
certa trepidazione; di notte, come avviene in vicinan¬
za del pericolo, ci prendevano mille allucinazioni, ci
pareva di sentire dei rumori, che si macchinasse una
insidia a cui quella buca non dovesse esser estranea.
Va una pattuglia, ne va un’altra, ne va una terza;
tornano con schizzi, rapporti; ma la buca restava un
incubo.
Toupie si presenta al suo comandante: « Stanotte
vado a veder io la buca ». E va. Nella buca c’erano
fucili arrugginiti, munizioni, una perforatrice; roba
buttata lì dagli austriaci retrocedendo.
In ricompensa Toupie è mandato in licenza.
Tornato lo incontro a Versa; aveva un grosso fa¬
gotto sotto il braccio; e c’erano dei bimbi in quella
corte; Toupie si mette ad accarezzarli; poi leva l’in¬
volto del suo fagotto; strappa un nastro di seta che
8 Giuseppe Ungaretti

cfrcondava una ricca scatola, e facendo, colla sua voce


rauca, e mille sgambetti, il venditore ambulante, di¬
stribuisce ai bimbi i biscottihi di Novara che avreb¬
be dovuto regalare al suo capitano.
« J’ai des enfants » mi dice.
« E non avete pensato ai vostri bimbi gettandovi
nella buca? »
« Vous comprendrez; c’était tellement extraor dinai-
re de fourrer le nez là dedans. »
Perché è una fierezza avere un padre che non ci
ami per abitudine ma per mettere un sogno nella no¬
stra vita; e questa è italianità.

Ho fatto la ritirata, soldato fra i soldati, di lassù,


dal Nad Logen; e non ho più udito cantare. E gl’ita¬
liani cantano sempre. Dicevano, storditi, i miei com¬
pagni: « Come, in 24 ore s’è perduto il lavoro di 3
anni? ». E restavano attaccati al Carso; tanti che ama¬
vano ha trattenuti; andati nel silenzio, docilmente, co¬
me vanno gl’italiani; con un sorriso si muore.
La ritirata ci ha ucciso il canto. Quando ci scop¬
pierà questo pianto impietrato? I soldati d’Italia non
chiedono che d’esser condotti alla vittoria. Per tre
anni hanno atteso con pazienza, che non è nella loro
indole, il piano di grande stile degli alleati. Non è
venuto. È venuta la ritirata. Nessuno saprà mai per¬
ché. Ma vi giuro che il popolo italiano non ha tra¬
dito.

Ci sono traditori. Sì; oggi chi parla di pace. Non


parlatemi di Gesù. Gesù ha combattuto tre anni ed è
morto nel supplizio, è stato un uomo di buona vo¬
lontà; ed allora, dopo il sacrifizio, è risorta pura e uni¬
versale la civiltà della sua razza, la sua umanità dei¬
ficata. Perdonatemi questo squarcio d’eloquenza sacra
che non è nel mio genere. Chi parla oggi di pace è
un delinquente. Oggi bisogna resistere; o uccidere la
Scritti letterari 1918-1936 9

gentilezza. I tedeschi sono dei formidabili guerrieri;


peggio, sono dei sicari. Hanno ucciso la patria di Do-
stoievski; tentano d’assassinare la Francia e d’assassi-
narci. Diffidate.
Abbiamo in orrore la pazienza; ma saremo pazienti
come loro, più di loro. Più dei loro cannoni c’è da te¬
mere il loro subdolo intrigante inquinamento. Chi ha
responsabilità sulle spalle se ne ricordi, e si ricordi di
prepararci presto un piano di vittoria. L’Italia vuol es¬
sere più grande, non di territorio, ch’è secondario, ma
d’anima, che se lo merita; non vuole essere destituita
alla sorte d’una tribù di negri; vuole essere elevata ai
fasti che in duemil’anni, senza riposo, traccia nella sto¬
ria della gentilezza.

P..., 30 dicembre 1917


IL RITORNO DI BAUDELAIRE
[1918] ,

Sono apparse in questi mesi ristampe di varia indole


delle opere di Charles Baudelaire.
Non si può, in un giornale che non trascura l’arte,
lasciar passare senza rilievo questo ritorno amoroso
della Francia spirituale, in tempi di guerra, all’uomo
comparso nella vita come fosse stato l’ultimo uomo,
al poeta fiorito nella poesia come fosse stato l’ultimo
poeta.
Non intendiamo sbrigarci con poche parole di un
argomento sul quale dovrà basarsi in tempi più quieti
la revisione di tante teorie e credenze e realizzazioni
per ristabilire un qualsiasi gusto in questo nostro dol¬
ce paese, ma qualche cosa, per memoria, si può ten¬
tare di accennare oggi.
In Francia - non parliamo dei movimenti recenti,
ma di quelli già passati alla storia letteraria, e ci fer¬
miamo, per intenderci all’ingrosso, al movimento che
s’accentua nella fondazione del « Mercure de France »
- la poesia ha seguito su per giù questo schema di
tendenze: Victor Hugo-Lamartine-Musset, Alfred de
Vigny, Baudelaire, Verlaine-Mallarmé, Rimbaud-Bau-
delaire, Maurice de Guérin-Rimbaud, Mallarmé-Ver-
laine-Baudelaire.
Il maggiore, e forse unico, problema risolto da
Victor Hugo è un problema formale. Victor Hugo por¬
ta il dramma nelle immagini, ma senza intuire propag¬
gini complessive; una poesia di Hugo è una serie di
accoppiamenti di situazioni opposte che si esaurisco¬
no volta a volta slegati tra loro. Questo l’unico frutto
Scritti letterari 1918-1936 11

che dalla scalmanata consuetudine di Shakespeare trae


il voluminoso poeta dell’ideale borghese. Importante
però, e definitivo.
Baudelaire realizza invece compiutamente l’ideale
romantico. Poeta di una razza; venuto a risoffrirla e
rigoderla in tutte le sue epoche, in tutti i suoi pal¬
piti, in tutte le sue fantasime, in tutti i suoi inquina¬
menti, in tutta la sua estrema purità.
E incide la sua poesia in una materia duratura co¬
me l’oro, se poi null’altro dovesse rimanere a testimo¬
niare.
La sua poesia resta, a una lettura attenta e consape¬
vole, in questa sconfinata solitudine.
Ma non all’atteggiamento lirico-ironico di fronte a
se stesso, che l’affratella in Francia soltanto all’atroce
Villon, ma a un’altra sua rivoluzione, pure così con¬
genita a questa essenziale, voglio fermare il lettore,
appunto in relazione a quello che su dicevo di Hugo,
e giacché ci si arriva dopo 50 anni di tentennamenti,
di pervertimenti, di fatuità e di stramberie.
Baudelaire ha compiuto questo miracolo; con la pro¬
miscuità di elementi esasperantemente discordanti,
compone non un barocco ma una purità. È il primo
a dare importanza classica all’esperienza romantica, a
scoprire il nesso logico tra immagine e immagine, l’u¬
nità, lo stile nella composizione. È il primo, tra i ro¬
mantici, a sentire questo fatto profondo, ogni suo poe¬
ma come un corpo integrale, tanto che a leggerne un
verso staccato, per quanto viva anche così, non si pos¬
sa fare a meno di pensare a una mutilazione.

Noi portiamo una stanchezza infinita, naturale, del¬


lo sforzo subdolo di questo principio di primavera che
ogni anno accade alla terra.1
Transita la gravità di gradinate, cupole, colonnati,
un turbolento contagio.
12 Giuseppe Ungaretti

Dalle acque scorrevoli in placidezze sontuose scatu¬


risce un allegro sacerdote mitrato di stalattiti, e regna
nell’atmosfera squillante.
Vecchia Roma battuta dal sole, gente latina, oggi
Baudelaire è il nostro poeta.
VERSO UN’ARTE NUOVA CLASSICA
Prefazione alla 2a edizione del Porto Sepolto *
[1919]

"hi sappia meditare sulle cose dell’arte, vedrà che dal


-’etrarca, le esperienze occorse e tesoreggiate, in cin-
jue secoli, non si trasmutano in poesia che coll’appa-
izione del Leopardi. Salto di proposito il Tasso che
ni sembra, per quanto possegga una certa grave agi-
azione romantica, per la sostanza e l’essenza della sua
irte, sulla quale qui non è il caso di dilungarmi, ante-
iore al Petrarca, benché nato 20Q anni circa dopo di
ui. Anche in una patria come la nostra, sopra a tutte
;entile, la conquista e il dono di un’opera che porti
vestigio universale, definitivo e insuperabile, risulta
la avvicendarsi penoso di moti, non breve. Se niuna
ìovità dal Leopardi ad oggi ci è dato menzionare, non
ìe venga dunque sgomento al lettore; ma più religio-
ìe per quelle cose che sforzi perseveranti di tanti uo-
nini superiori vogliono, prima di prendere un’altra
orma viva.
L’arte romantica, rinvenuto in Italia, col Leopardi,
o spirito delle leggi, ebbe la sua consacrazione in una
pateticità, la quale, isolato l’io dal mondo esterno, co-
ne un urlo forsennato lo ascoltava ricadere nell’abis-
o di sé, quasi con rassegnazione nei Canti, con rifi¬
uta ironia nelle Operette morali.
In Francia quell’arte ebbe sviluppi e complicatezze
>iù morbose e assunse, col Baudelaire, che ne fu l’e-
tremo signore, una perversità che ha riscontri solo
iella poesia del Racine, e che consiste nel gustare gli

A cura degli Stahilimenti Editoriali Attilio Vallecchi, Firenze.


14 Giuseppe Ungaretti

scontri mostruosi d’immagini e le parole cautamente


subdole. 9

Esaurito con opere totali e perfette, quanto d’arric¬


chimento l’umanità poteva aspettarsi dal romantici¬
smo, nella sensualità col Baudelaire, nell’anima col
Leopardi, procedette naturalmente un’epoca di sfacelo
e di esageramenti nella quale ancora brancoliamo.
Ma seppure vedo bene da opere, dove si è voluto
fare al verso quel che il selvaggio suol fare all’oro¬
logio per sapere come cammina, mi pare che ci s'av¬
vìi a riconoscere che poesia è quella prodigiosa facol¬
tà concessa a taluni uomini di usare gli oggetti del
mondo esterno come immanenti specchi della loro vita
morale.
E mi pare che l’estro oggimai si muova per miste¬
rioso incontro d’inquietudine e di nostalgie, allo stes¬
so modo dicessi che dattorno a me il presente altro
non sia che un riflesso di passato e di avvenire, di
abbandono e d’azzardo, di rimpianti e di desiderio, di
tradizioni e di scoperte, di logica e d’intuizione, di
stile e di fantasia; come se il passato fosse la carne e
l’avvenire l’idea, ma fossero un tutt’uno neH’immagine
viva dattorno a noi.
Quale previo dolore inizi alla dignità di possedere
le necessarie attenzioni per non inquinare le delicatis¬
sime materie delle arti, sanno tutti coloro che con va¬
ria fortuna, tentarono da noi, dopo il grande recana¬
tese, di segnare'una qualsiasi nuova direzione ai ritmi
e compirono la loro giornata coll’espediente d’una fa¬
cile aureola, messasi in capo confinandosi in una data
situazione.
Quel giorno stesso che l’artista si rassegna alla cele¬
brità, è un vinto; quel giorno stesso egli s’è mutato
in istrione; quel giorno stesso che il peso del suo do¬
lore gli sembra troppo forte a rinnovarsi, e si butta
per stordirsi, alle idolatrie plebee.
La gloria non più; la gloria che aspetta gli uomini
Scritti letterari 1918-1936 15

rari, i quali ogni volta che si credettero iddio, si ca¬


stigarono offrendosi agli uomini perché in capo fosse
loro messa una corona di spine, e sudassero sangue, e
a quel sapore riconoscessero di non essere che uo¬
mini.
Tratti gli iniziali motivi della mia considerazione
alla poesia, nella lontana adolescenza, dalle orgie, in¬
cubi e preziosità dei simbolisti, allucinati e decadenti,
ne uscii, con reazione istintiva, per affezionarmi alle
rozze forme dell’arte dei primordi, per quanto poi, a
riguardo dell’arte popolana, è da ridursi a corruzione
dell’arte dotta, alla stessa guisa che la più parte dei
gesti dei bimbi sono contraffazione incosciente di quel¬
li dei grandi. E se non giunsi ad adottare i rumori
in libertà, uno stupore contemplativo mi avvinse in
confronto alla parola, la quale mi si risuscitava in
tutta la sua vita millenaria, tale che provai la neces¬
sità di fermarla nel compimento, staccata in pause.
Non fu stranezza, ma una necessità di farsi intimo
agli elementi, di valutarne l’esatta funzione nei nuovi
rapporti.
Nella scelta, nell’impiego e nella quantità delle pa¬
role, uomo più o meno responsabile, si svela il poeta.
Fu un raccattare i frantumi dell’orologio per provare
d’intenderne il congegno, per provare di rifargli se¬
gnare il tempo.
Siccome ripugno da farisei, da parassiti e da neo¬
fiti, ugualmente mi riputerei avvilito se a questo la¬
voro si credesse io abbia voluto attribuire altra impor¬
tanza che di onestà.
Ed è con umiltà che ringrazio a questo punto Pa-
pini e Soffici i quàli, in quindici anni di seria passione
alle arti, mi hanno dato, e non solo a me, più di un
chiarimento, l’uno specialmente con Opera Prima-, *

* A cura degli Stabilimenti Editoriali Attilio Vallecchi, Firenze.


16 Giuseppe Ungaretti

l’altro con Chimismi Lirici,* le quali rimangono an¬


cora tutt’oggi contributi fondaipentali.
Ed è con molta umiltà che ringrazio l’amico pittore
Carrà, il quale nelle nostre conversazioni milanesi, du¬
rante intere nottate dell’inverno del ’914, e qui nella
stessa Milano in questo marzo del ’919, comunican¬
domi il suo libro, di prossima pubblicazione, sulla
Pittura Metafisica,* mi ha fraternamente aiutato a e-
mendarmi da numerosi vacillamenti.
E la frequenza, infine, di Cardarelli, uomo precla¬
re, di quindici giorni a Roma, ora è l’anno, non mi
è stata di lieve ausilio.

il 7 marzo, 1919

* A cura degli Stabilimenti Editoriali Attilio Vallecchi, Firenze.


LA DELUSIONE DI VERHAEREN
[1919]

Parigi, 29 [luglio]
In un cimiterino, all’estremo angolo, sperduto nelle
nebbie, del paludoso confine fiammingo, tra le croci
in memoria db soldati uccisi, domina una colonna
tronca.
In questi giorni fu un pellegrinaggio di popolani
belgi verso Adinkerke, e quel luogo, dove un poeta
riposa, fu coperto di fiori rossi.
Quanti mai anni sono passati da questi dolci co¬
stumi romantici, da quel socialismo bonario, da quel
Verhaeren che portava tra i paesi di Mimi Pinson e
quelli di Sigfrido i suoi baffoni aurei da Vercingetorice
e il suo celeste sguardo da Do rotea?
Ma non del tutto saranno ancora svanite le tracce
dei tempi in cui la poesia francese si perdeva nei Gu¬
stave Kahn; le chellerine in quei tempi si facevano
chiamare Salomè.
Fu allora che, nella patria di Nietzsche e in quel¬
la di Jarry, passò una voce che lasciò tutti a bocca
aperta.
Educata tra le gugliette dei monasteri e i mantici
degli arsenali, tra gli ora prò nobis delle beghine di
Bruges e gli olla oh dei facchini del porto d’Anver-
sa; voce ondeggiante tra gli urli delle sirene e gli
angelus delle campane, tra i fumi dei turiboli e quelli
delle ciminiere; voce intenerita all’apparizione delle
fate in riva ai laghi dei cigni, o alla scoperta in una
cantera annosa del corredo ammuffito di sposa della
bisnonna; tale la poesia belga che fece la sua entrata
trionfale nel mondo delle lettere col nome di simbo¬
lismo.
18 Giuseppe Ungaretti
%

Forse mill’anni da quei tempi sono passati.


Ugualmente è passata, con Verhaeren, la più gran¬
de delusione che cuore di gran buon uomo abbia sof¬
ferto.
Mentre si riagitano i progetti d’un’internazionale
degli intellettuali, ed anche al sottoscritto giungono
da varie parti inviti ad aderirvi, non sarà forse inu¬
tile parlare di un sogno del genere che accarezzò pre¬
cisamente Verhaeren, lusingandosi di evitare a quel
modo la guerra.
Come in poesia aveva conciliato la processione del
Corpus Domini e lo sciopero del primo maggio, ebbe
la folle speranza di conciliare francesi e tedeschi.
Capo del simbolismo belga, e per conseguenza del
simbolismo universale; idolatrato in Francia, tanto che
se fosse stato francese lo avrebbero eletto principe dei
poeti invece di Paul Fort; imitato, commentato, vene¬
rato in Germania; il compito gli sembrò facile.
All’addensarsi della burrasca, - ai primi del ’914 -
si sgomentò; corse in lungo e in largo i due paesi che
l’amavano; organizzò comitati, giri di conferenze, pub¬
blicazioni di giornali, libri, opuscoli, convinse studen¬
ti, professori, artisti, uomini politici, scienziati; in¬
vocò, supplicò; ma naturalmente la guerra scoppiò; il
Belgio fu violato.
Verhaeren, già malato, credette che tutto fosse fini¬
to per lui.
Ma d’un tratto la sua alta, ossuta figura riapparve.
Lo rividero le città di Francia.
Aveva una voce roca, una voce roca e velata, una
voce di mordace desolazione.
Lanciava di città in città un infinito ululo di guer¬
ra; poiché gli uomini non sono nati per la pace, ma
per vivere.
Un giorno, salendo in treno, inciampò e rimase sfra¬
cellato.
Verhaeren riposa in un cimiterino di soldati uccisi.
Scritti letterari 1918-1936 19

Gli ultimi fiori del socialismo romantico appassi¬


scono sulla sua tomba.
Egli è là come il comandante a un’adunata.
I popolani belgi forse hanno udito quello che di¬
ceva ai suoi morti; un suo verso:

Popolo d’eroi, converrà che diate loro consiglio.


'PITTURA, POESIA, E UN PO’ DI STRADA
[1919] ,

Parigi, Dicembre

Venendo giù, pian piano, dal mercato del lusso, fre¬


netico di abbagli, si ritrova una Parigi calmata nel suo
velo di nebbia come un sonno di vegliardo, di cui la
vita, tutta spesa bene, dà fino all’ultimo questa con¬
solazione, di chiudere gli occhi e perdere la memoria,
ogni sera, a una cert’ora.
Di là, in fondo, vi appare come un minuscolo se¬
polcro, l’antica cattedrale, quadra.
Poi, pian piano che ci si avvicina all’acqua, la catte¬
drale s’innalza, come un resuscitato, e quell’alto sche¬
letro intona, come un organo, un te deum, quando,
vicini al ponte della Senna dove si forma l’isola di
San Luigi, gli antichi edifici si affollano, e il passante
moderno, sconcertato, sprofonda, laggiù, verso il Giar¬
dino delle Piante.
Guillaume Apollinaire, mi era compagno una notte,
in questa visione.
Andava, corpulento, come uno dei barbari impera¬
tori di Roma educati da Seneca, questo slavo figliolo
israelita di un prelato vaticano, e ultimo poeta di Fran¬
cia.
Sulle cose estendeva una sua nobiltà cabalistica, e
c’era come un tremore di sole che macerava le pietre
grigie e le rendeva malate di tarda giovinezza, come un
mosaico bizantino.
Scomparivano i secoli, perché passava quell’incan-
tevole parola, quella cinica gioia di vivere, che transfi¬
gurava le ereditate gravità in un pervertito fiore di
serra.
Scritti letterari 1918-1936 21

Un giorno tornai a Parigi


Ora è un anno...
Venivo dalla guerra.

Alla guerra, Apollinaire, volontario, sottotenente di


fanteria, era stato al posto suo. Aveva il dono di mo¬
strarsi ovunque, e fra chiunque, come se fosse stato
sempre l’uomo di quella circostanza e di quegli uomini.
Non c’era uomo né cosa che Apollinaire, presentan¬
dosi, non stregasse.
Nulla viveva più, ma quelle sue favole.
In licenza di convalescenza, rappresentandosi una
sua farsa, o tragedia, Les mamelles de Tirésias, infor¬
mò gli spettatori che tornava dalla guerra, nella quale
una pallottola gli aveva fatto una stella alla tempia,
come un altro avrebbe detto: « Torno da casa ».

Ora è un anno...

Più di cento chilometri su un camion; e le strade


erano tutte sconvolte dagli scoppi dei tranelli infer¬
nali che il tedesco inseguito, disseminava, sistematica-
mente, dietro di sé.
Non era un comodo viaggio!
Quando arrivai alla stazione di Chàteau-Thierry, ero
nello stato di quelle povere strade.
Lungo il percorso, non avevo visto un paese ritto;
a volte, su dei cumuli di pietre crollate, un cartello la¬
sciato dai tedeschi: « Qui c’era il villaggio tale... ».
Avevo un pacco di sigari toscani.
E non ero del tutto stordito, salendo in treno, per¬
ché quel pacco, per lo sforzo che dovevo fare a tener¬
lo sotto il braccio, mi rammentava che era destinato a
Apollinaire, e che fra poche ore avrei riabbracciato il
mio amico.
22 Giuseppe 'Ungaretti

Trovai l’uscio aperto, e le stanze silenziose, benché


gremite.
La sua giovine moglie mi Sisse, - senza voce
« Venite ».
Vidi una enorme cosa coperta di crisantemi bian¬
chi.
'La stessa voce lontana, mi disse: « Non scopritegli
il viso ».
Ero una statua.
Sul capezzale, poggiato alla parete, un quadro di
Picasso vegliava.
Due mesi prima, Apollinaire me l’aveva indicato, a
quello stesso posto: « È bello, no? ».
Apollinaire aveva inventato il cubismo; moriva con
lui; - chi poteva avere il soffio di Apollinaire?
Poi mi vidi per le strade, tutte imbandierate per¬
ché era il giorno dell’armistizio, e s’era scatenato un
grande urlo.
Macchinalmente presi il pacco di sigari che mi era
rimasto sotto il braccio; accesi mezzo sigaro; attraver¬
sai la folla impazzita, come uno scemo.

Questi pensieri mi tornavano in mente, uscendo,


l’altro giorno, dal Salon d’Automne, verso il ponte
Alessandro III, voltando le spalle alla piazza dei Cam¬
pi Elisi, che ricorda, con la frivolità presuntuosa della
roba provvisoria, la maestosa persuasiva e stabile piaz¬
za di San Pietro.
E pensavo che con Apollinaire non è morto soltanto
un poeta; ma chi stava per dare, fissandone i [cano¬
ni],1 a quel che qui si chiama « l’esprit nouveau »,
uno stile.
La rivoluzione romantica, dopo le tronfie mitolo¬
gie dell’idealità borghese, — ed era dopo tutto non di
più che un ritorno di pessimo gusto a Corneille — ave¬
va lasciato i poeti, per i quali le tradizioni accademi-
Scritti letterari 1918-1936 23

che del rinascimento erano ormai crollate, in una posi¬


zione di bufera e di sfacelo.
Le correnti, spirituali e formali, che affluivano e si
mescolavano, specialmente qui, vertiginosamente da
ogni punto di terra e di tempo, davano al disorienta¬
mento l’estremo spasimo.
Il poeta aveva perso il contatto con la civiltà dei
suoi contemporanei.
Tentava ogni specie di esperienza, fisica e morale,
per mascherarsi-alla sua solitudine; ma nessun pudore,
nessuna morfina potevano bastare.
Cinque, dieci poeti, - Maurice de Guérin, Ducasse,
Baudelaire, Laforgue, Mallarmé, Rimbaud, Jarry - vis¬
sero così - dannati, - dell’allucinazione che si suscita¬
vano intorno, in una ermetica lucidità.
Ma nessuno seppe, come Leopardi, né scoprire l’u¬
niversale dolore, né trovargli in una rifinita ironia, la
toga adeguata.
Da noi i poeti veri sono rari: - ne giunge forse
uno ogni tre secoli; — ma quando c’è, nessuno può
stargli a pari, - neanche mettendosi in mille!

Apollinaire aveva intuito che in quei dieci maledet¬


ti, c’era non solo una corrosione etica - certo anche
l’ansia visionaria di una civiltà un po’ più di questa,
nobile; - c’erano i principii di un’estetica nuova.
Non si lusingava soverchiamente Apollinaire, in un
suo articolo, - pubblicato dal « Mercure de France »,
il mese dopo la sua morte: aveva lasciato scritto che
il compito della poesia era di creare favole di realiz¬
zazione futura.
Ma pian piano, ora che le espressioni erano state —
quasi tutte - strappate dall’abisso; che al poeta non
restava che un lavoro sereno di composizione e di per¬
fezionamento — ma pian piano, ora si poteva sperare
di attrarre il pubblico, — se non provocando nella sua
24 Giuseppe Ungaretti

simpatia i motivi dell’ispirazione, - almeno con la sug¬


gestione della bellezza esterna - suggestiva perché di¬
venuta tradizionale. •
Certo l’applauso è un gran calmante.

Uscendo dal Salon d’Automne, che in questi giorni


riprende, dopo il ’914, le sue feste annuali dell’Arte
di Avanguardia, ho provato — dicevo — quanto la scom¬
parsa di Apollinaire, anche come critico, sia deplore¬
vole.
Siamo ricaduti nello sfacelo più morbido; nella peg¬
giore bufera baudelairiana, nella più grossolana inter¬
pretazione del poeta atroce.
Prima della guerra, l’opera audace di Cézanne -
Soffici ha scritto intorno a queste cose, con quella
precisa perfezione che la sua speciale competenza, so¬
la può dare - aveva indotto un gruppo di artisti - ap¬
parentemente in opposizione allo sfavillio impressioni¬
stico degenerato in confettismo carnevalesco, - proba¬
bilmente per una convinzione più profonda - a ricer¬
care le leggi, i maestri, di una pittura nuova.
Apollinaire era l’appassionato travolgitore anche in
questa nuova accademia.
Oggi l’uomo che trionfa al Salon d’Automne, è di
nuovo Matisse.
Siamo tornati ad una torbida desolazione.
Gli oggetti non si vedono che sotto un aspetto di
deformazione; e l’anima, come ai tempi di Baudelaire;
e l’anima, come la natura e la civiltà.
In verità, quest’era anche l’anima di Apollinaire;
ma Apollinaire arrivava a trarne una legge esal¬
tante.
La natura è modellata, — in queste sale, - in con¬
fronto alla statuaria dei selvaggi della Polinesia, o at¬
traverso gli specchi concavi, ondulati o convessi delle
fiere.
Scritti letterari 1918-1936 25

Chi si salva, si salva in seguito alla sua cultura di


museo, trasparente, malgrado le stravaganze.
In queste immense sale, - dagli occhi dilatati dai
Kohl delle odalische occidentali dell’insulso Van Don-
gen, ai personaggi che una trivialità libidinosa tortura
fino all’estrema fissità dell’ebete, nelle tele di Modi¬
gliani, - l’ossessione vi pedina e vi strozza.

Ripresi la mia strada.


Riconobbi l’aria famigliare del quartiere latino, non
molto dopo...
Per qui una volta s’aggirava la figura patibolare di
Villon.
Ci sono ancora in certi bassi vicoli, le grosse Mar-
got che gli stuzzicavano il sangue e gli fruttavan quat¬
trini, e c’è il vino agro che tracannava, e le risse che
davano il ritmo alle sue ballate.
Una, fu una dolce melodia all’Immacolata, e l’ebbe
sua madre, che usava recitarla - la pia donnetta -
dinnanzi agli orrori dell’inferno, onde al suo scape¬
strato sublime non mancasse - almeno dopo mort'e, -
un po’ di paradiso.
Ecco un uomo — pensai — del suo tempo-, un poeta
che i suoi contemporanei dovevano intendere; - e non
fu felice!
In quel XV secolo, questo popolo - oggi antico -
che due secoli prima, infuriatosi di nostalgia, aveva
tratto di terra le cattedrali, a sembianza dei boschi,
dai quali s’era sradicato, spinto in Oriente, - questo
popolo aveva ancora il sensualismo mistico dei bar¬
bari.
In quel tempo, non era ancora rinata la rettorica.
E la natura ispirava possessi e superstizioni, fa¬
tali.
Anche in quel tempo, — quando un poeta era senza
difficoltà contemporaneo - negli uomini non c era an-
26 Giuseppe Ungaretti

cor'a tanta umanità, da considerare la natura con ma¬


linconia - anche Villon fu un maledetto!
Apollinaire gentile, - pensai, - lo vedi che la poe¬
sia è un grano perfido.

Né nuove accademie, né nulla...


Per questo rimorso, - ve lo dice uno che se n’in¬
tende - non c’è, non ci sarà mai pace, lettori...
IL PREMIO GONCOURT
RISUSCITA I MORTI?
[1919]

Parigi, dicembre

Stamane mi sono svegliato come se avessi vinto un


terno al lotto.
Ho aperto il giornale trepidando di dovervi tro¬
vare, forse, una ragione a questa mia straordinaria
allegria.
Nessuna probabilità di prossima fine del mondo, la
burrasca inglese, preannunziata dai bollettini meteo¬
rologici, non ci porterà che gelo, pioggia e nebbia.
Il detto almanacco non si priva di soggiungere che
la Provenza è al riparo da simili seccature.
Non posso scappare in Provenza...
E credo difatti ci sia, anche di questa stagione, un
dolce tepore, all’ombra degli ulivi, tra le braccia di
Laura o almeno di una Mirella...

Con inesplicabile « cuor contento » dunque, mi so¬


no trovato tutto circondato di grigio: cielo grigio, im¬
mobili grigi, esseri grigi, strade grigie: l’omogeneità
perfetta, la perfezione della noia, con questa piogge¬
rella, discreta, instancabile.
È proprio la giornata a modo per metter sugli altari
Marcel Proust.

Oh!! E chi è Marcel Proust?


Se mi lasciate dire, cercherò di finirne il ritratto;
e non ho ancora avuto come il pittore Jacques-Emile
Bianche, la fortuna di essere uno dei rari che frequen¬
ta casa sua.
I colori grigi sono sempre i più difficili; è una qui-
stione di sfumature...
28 Giuseppe Ungaretti

Maledizione! Sto per trovare la ragione della mia


allegria...
Un’accademia ha premiato un libro di vita; ma di
vita considerata passando inosservato.

Per chi non lo sapesse i fratelli Goncourt che, in


pieno « naturalismo » ebbero principalmente la preoc¬
cupazione della frase « artistica », istituirono un’acca¬
demia composta di dieci scrittori, i quali sono stipen¬
diati per attribuire ogni anno, dopo aver pranzato in¬
sieme, un premio di cinquemila franchi al romanzo
«meglio scritto» dell’annata.
L’accademia incominciò a funzionare nel 1903; ma
dei libri a cui diede il successo librario - immenso,
giacché il francese è lingua internazionale - forse i
soli che oggi ancora meriterebbero d’esser letti so¬
no: Diugley l’illustre écrivain dei fratelli Tharaud
(1906) e Ecrit sur l’eau di Francis de Miomandre
(1908).
In essi è rispettata la volontà che fece lo scopo e
la passione della vita letteraria dei Goncourt; sono li¬
bri « originali » e « di stile ».
Poi venne la guerra; Duhamel e Barbusse furono
presi sul serio, le muse si nascosero il viso, e canta¬
rono nelle sepolture...

Morto Octave Mirbeau, che all’Accademia sapeva


imporre le sue preferenze; - e s’immagina facilmente
quali potessero essere quelle di un uomo rabbiosa¬
mente disgustato del suo simile, ma pieno di una tre¬
mola soavità agli aspetti effimeri della natura; - mor¬
to Mirbeau, non certo Lucien Descaves, che ne rap¬
presenta, con tutto il pallore possibile, le idee; ma
uno che gli somiglia — soltanto nel temperamento —
Léon Daudet, e un altro ch’è l’artista per eccellenza,
Elemir Bourges, l’autore di quel prezioso Les feuilles
Scritti letterari 1918-1936 29

tombent, les oiseaux s’envolent, sono diventati gli ar¬


bitri della piccola assemblea.
A Leon Daudet, non deve aver mancato di dare
qualche consiglio, ricordandosi del tempo in cui era
critico letterario principe, il suo collega di direzione
dell’« Action frangaise », il classico Charles Maurras.
E così ieri sera, alla trattoria Drouant, mentre si
serviva il dolce, al terzo giro di scrutinio, con i voti
di Gustave Geffroy, - che presiedeva - di Elemir Bour-
ges, Henry Clard, Léon Daudet, i due Rosny, A l’om-
bre des jeunes filles en fleurs di Marcel Proust potè
ottenere la fama, battendo Les croix de bois di Ro¬
land Dorgelès, in favore del quale s’erano espressi Emi-
le Bergerat, Lucien Descaves - che votarono per corri¬
spondenza - Jean Ajalbert e Léon Hennique.

Esagera forse chi - sono in molti - pretende che il


libro di Dorgelès sia il « capolavoro » ispirato dalla
guerra.
Ecco, Dorgelès è un giovine che non s’è perduto
d’animo; che ha fatto la guerra come si dovrebbe fare
tutto nella vita, senza darci troppo peso, come una
cosa naturale.
Al reggimento trova degli uomini che avevano, sì,
tutti lo stesso vestito; ma ognuno era rimasto come
era nato; e tra uomo e uomo c’è sempre un abisso.
Uomini tracciati con garbo e facezia - e i francesi
in questo sono particolarmente bravi; - gli avvenimen¬
ti resi con abbandoni patetici - ma con una certa
misura: dice: il battaglione è in marcia; ci hanno fio¬
rito i fucili; pare un gran cimitero, il giorno dei mor¬
ti, in marcia-, in 17 quadri la guerra, - dall’arrivo dei
complementi all’assalto, alle distruzioni, alla morte, -
è suscitata a questo modo malinconico e brioso.
Quando uscì Le feu di Barbusse, nel ’916, non si
sapeva ancora precisamente in paese, che cosa fosse la
30 Giuseppe Ungaretti

guerra. Quel libro di un malato, scritto con feroce


freddezza allucinata, diede un’idea ripugnante della
guerra. Non era nient’affatto giusto, ma finalmente
anche chi era rimasto a casa sapeva qualche cosa; que¬
sta è l’unica ragione del successo strepitoso del libro
di Barbusse, libro che, contrariamente al suo intento,
contribuì a sviluppare una solidarietà profonda tra
fronte e interno, indispensabile per la resistenza ad ol¬
tranza.
Les croix de bois di Dorgelès era pronto poco dopo
l’uscita di Le few, ma la censura lo trattenne nei de¬
positi dell’editore fino all’armistizio.
Se fosse uscito a tempo, il libro di Dorgelès avrebbe
certo meritato un premio Goncourt, a preferenza di
Barbusse o di Duhamel; ma se l’accademia Goncourt
ha per compito, non di premiare un, libro di guerra,
ma di « consacrare » un nome di « ottimo prosatore »,
non capisco perché in tanti si lamentano che a Marcel
Proust sia stato riconosciuto infinitamente più valore
che a Dorgelès.
Non c’è paragone!
Dorgelès è giovine, si dice, e Proust ha cinquant’an-
ni; Dorgelès è povero, e Proust è ricco; - il caso è
diverso; qui si trattava di scegliere, fra due scrittori
quasi ignoti, quello più degno di gloria; se, per questo,
s’è preferito chi ha molti lustri di preparazione a chi
s’è improvvisato, non vedo proprio perché una qui-
stione di tempo possa essere invocata come una qui-
stione di « qualità negativa » e, tanto peggio, allar¬
mare.
Ma lasciamo andare le polemiche, e avviciniamoci al
« vincitore ».

Nel quadro di Jacques-Emile Bianche, si vede un


dandy dal viso perfettamente ovale, dallo sguardo as¬
sente, camelia- all’occhiello, cravatta 1830.
Scritti letterari 1918-1936 31

Circolano leggende intorno a quest’uomo nato nel


1872.
Si dice che ha un pudore insuperabile - gli ignoran¬
ti dicono « timidezza »..
Si dice che Marcel Proust ha orrore del chiasso, in
tutti i sensi. Si dice perfino che per meglio isolarsi dal
mondo, ha foderato la sua camera di sughero. Non esce
per istrada che di notte, quando tutti dormono.
Ci sarà del vero, e ci sarà della favola, come in tutte
le cose un po’* lontane.
Non certo questo scrittore ha mai tentato di avvici¬
narsi al gran pubblico.
Nel 1896 uscì il suo primo libro, in edizione di
gran lusso: Les plaisirs et les jours, con prefazione di
Anatole France.
In seguito « la Nouvelle Revue Franpaise » iniziò la
pubblicazione di una serie di grossi suoi tomi, circa
900 pagine delle solite, l’uno!
Quest’opera - in cinque zibaldoni - ha per titolo
cumulativo: A la recherche du temps perdu.
Ne uscirono due, - che richiesero ognuno cinque an¬
ni di lavoro: Du coté de chez Swann e il libro oggi
premiato: A l’ombre des jeunes filles en fleurs.
Proust ha inoltre pubblicato traduzioni di Ruskin,
e un libro Mélanges et Pastiches dove si è divertito
a prendere in giro i maestri della letteratura francese,
rifacendone lo stile con una eccezionale virtuosità.

Marcel è senza dubbio un uomo che possiede una


copiosa lettura, un uomo di riflessione.
Ma, insomma, con tutta quella sua discrezione è un
uomo che deve aver girato il suo mondo.
Nel salone di un grande albergo, su un yacht, nei
salotti di una duchessa, in quelli di un gran finanzie¬
re, si può incontrare della gente che la sa lunga; e
dame che ne hanno fatte di tutti i colori, e che hanno
32 Giuseppe Ungaretti

imparato l’arte piccante della conversazione e uomini


di diplomazia, di tribunali, d’esercito, di politica, d’ac¬
cidenti che possono insegnarvi dei segreti.
Se avete un taccuino, se non vi manca quel tanto
di giudizio necessario, ritirandovi nella camera sughe-
rata potrete raccontarne di belle.
Si legge per averne diletto, si scrive per rivedere,
con diletto, attraverso le proprie letture, la propria
esperienza.
Un modo essenzialmente anti-romantico, come ve¬
dete, che già Anatole France rese celebre.

Non posso dirvi quel che c’è in A l’ombre des jeu-


nes filles en fleurs; non c’è una trama; c’è un’infinità
di trame; è tutto un groviglio di trame che si accaval¬
lano all’infinito.
È un monumento di psicologia che Marcel Proust
si è proposto di erigere sul modello di quelle « memo¬
rie » di Saint-Simon, che tanto gli sono famigliari.
Ma in questo stile che ha l’aria di nulla, in questo
stile placido, in questo stile zeppo di congiunzioni, di
parentesi, di pronomi relativi e di parole alle quali è
stato tolto ogni lucido, in questo stile che « riferisce »,
che « s’ostina a riferire », v’accorgete che, insensibil¬
mente, delle figure hanno preso vita, sono vive, vive,
colte nel fondo dell’anima; e quando avete finito il
libro, una intera società, un intero popolo, un mondo
intero, v’è stato animato, indimenticabilmente.
Questo scrittore dalle analisi minuziose, a cui non
sfugge la minima emozione, che fruga nelle più segrete
e remote risonanze della vita sentimentale; è forse un
nuovo Stendhal.

I membri dell’Accademia Goncourt che non seppero


riconoscere né Alain Fournier, inventore, con il suo
delizioso Le Grand Meaulnes, del vero romanzo fran¬
cese d’avventura, né Charles Louis Philippe, né Jean
Scritti letterari 1918-1936 33

Giraudoux, né Eugene Monfort, hanno, finalmente, at¬


tribuito un premio con « intelligenza ».

Ve lo dicevo io che ci doveva essere una ragione


alla mia allegria di stamani, anche se non è caduto il
mondo né ricomparso il sole.
Giovanni papinl « giorni di festa »
[1919] ,

Sur les épaules de ce grand mannequin le cràne recou-


vert de peau de tambour qui se gaufré au rythme de
jazz-bands intérieurs est, retrouvé dans l’ivoire, celui
d’un ródeur nègre. Il parait revenir de Tau-delà mais
n’a pas cesse d’ètre parmi nous.
Ce ventriloque connu sous le nom d’Univers s’offre
en spectacle aux Variétés d’Italie. Nombre de monu-
ments très célèbres s’éloignent dès qu’apparaìt son sou-
rire de cannibale: il est si loin des gouts terrestres
cependant!
Depuis vingt ans chacune de ses expériences' est
comme une grimace faite à la précédente, l’inlassable
scaphandrier n’aspirant qu’à nous rapporter cette su¬
prème grimace qu’est le calme visage humain.
De sitòt les hommes - ailleurs qu’au Thibet où Fon
vénère les chats qui ont les yeux les plus changeants
ne cesseront pas de croire terrible le bon enfant Dieu.
On n’en peut pas moins distinguer, mème en Italie,
un écrivain sage et qui possède tous les scrupules -
s’il ne s’y attarde — tendant à prouver que l’effort de
Partiste moderne peut se défìnir le recours à des expé-
dients toujours nouveaux pour s’étonner sans cesse des
tours habituels du monde.
« POURQUOI ECRIVEZ-VOUS? » / REPONSE
[1920]

Par pudeur.
Si je pouvais ètre quelqu’un, je ne m’amuserais pas
à par altre.
Vous savez que la pudeur est la forme consciente
de la làcheté.
Mais, par hasard, je viens de me montrer tout nu.
Ne m’en gardez pas rancune. Ungaretti
• L’AFFAIRE BARRES/TEMOIGNAGE
[1921]

Chacun est à la merci de sa destinée, et personne


n’ignore la part qu’il faut faire au hasard lorsqu’on
parie de destinée: nous n’avons pas décidé de naitre,
nous n’avons pas élu nos parents, nous n’avons pas
choisi la forme de notre nez, nous n’avons pas prévu
la rencontre de l’homme qui est devenu notre ami et
qui a eu une influence décisive sur nous, etc. Je veux
dire que le mot volonté a plutòt un sens ironique
dans la vie.
Somme toute la destinée de Barrès est enviable.
N’oublions pas que ses ceuvres sont toujours dominées
par le désir de complications. L’instinct le poussait
vers l’anarchie, la raison le tirait vers l’ordre tradition-
nel: ce drame banal lui a fourni d’assez troublantes
attitudes. Elles ont permis à beaucoup de douter de
sentiments et d’idées, vénérables et autres, de douter
mème de la bonne foi en général. Il doit en avoir
Tessenti, je suppose, un plaisir aigu. Il ne pouvait
demander plus à la vie.
Q. Quelle différence faites-vous entre la raison et
l’instinct?
R. Je ne suis ni psychologue, ni sociologue.
Q. Vous placez cependant le plaisir intellectuel au-
dessus de tout?
R. Relativement à Maurice Barrès, oui.
Q. Estimez-vous que Maurice Barrès ait attenté en
quelque chose à la sureté de l’esprit?
R. Oui, mais c’était son ròle.
Q. Pensez-vous donc que Barrès avait un ròle par-
ticulier à remplir?
Scritti letterari 1918-1936 37

R. L’ensemble d’une vie constitue toujours un ròle


qui n’a pas été préétabli. C’est en fin de compte qu’il
se dégage dans son unité.
Q. En conséquence, c’est nous qui sommes l’excuse
de Barrès?
r. La vie d’un homme ne peut ètre considérée que
par les rapports qu’elle crée.
Q. Il ne vous arrive donc jamais de prendre des
mesures con tre un de vos adversaires? Vous ètes par-
tisan de la tolérance absolue?
R. Non de la tolérance, mais de l’indifférence.
Q. Est-il quelque chose au monde à quoi vous ne
vous déclariez pas indifférent?
r. Je me suis servi de l’indifférence comme d’une
arme.
Q. Vous servez-vous de cette arme contre Maurice
Barrès particulièrement?
R. Contre Barrès comme contre presque tout.
Q. Ne trouvez-vous pas que Maurice Barrès appa-
raìt comme le symbole d’un état de choses parfaite-
ment ha'issables?
R. Du tout, puisque ces choses me sont indiffé-
rentes.
q. Préférez-vous Barrès à d’Annunzio?
r. D’Annunzio a plus de folie, c’est-à-dire plus de
courage.
q. Vous voulez dire que l’accusé est un làche?
R. Il a plus de finesse que d’Annunzio.
q. Préférez-vous Marinetti à Barrès?
r. Je ne me souviens plus de Marinetti; j’avais trois
ans lorsqu’il est mort. Il y a aussi un certain Mari¬
netti qui est commis-voyageur d’une fabrique de phal¬
lus. Je ne Pai jamais connu.
HISTOIRE DE DADA
[1931]

[M.G. Ungaretti nous écrit de son coté:]


Je ne suis pas un « poète » mais un « homme » -
l’espèce en est rare en effet - qui a toujours brulé
sa vie pour quelque chose de bien plus grand que
l’homme et cela, en effet, c’est de la poésie.
Les bavardages du mediocre Ribémont-Dessaignes
ne peuvent intéresser que lui, N.F., et Mme B., qui
« souffrent » pour l’art et ne savent distinguer une vi-
laine bàtisse d’un palais du Quattrocento.
Breton reste pour moi, avec son rève de « conducteur
d’hommes », un ètre émouvant. Ce ne sont pas ses
idées - les idées, de la bètise! - mais la violence du
sang, qui m’attire en lui.
Tristan Tzara, je n’ai jamais considéré ?a plus que
de la farce.
Giuseppe Ungaretti,
fasciste
LA DOCTRINE DE « LACERBA »
[1920]

Au bord de l’abime le courage manque. C’est l’atti-


tude la plus humaine. Mais il y a des hommes qui s’y
jettent.
Et cependant aucune illusion ne les poussait.
La poésie est née, je suppose, de ce désespoir té-
méraire.
En ces temps de lassitude où tout parait submergé
sous le brouillard d’un malheur apocalyptique, ce choix
de sa propre destinée détermine plus que jamais une
atmosphère d’équivoques.
Il nous serait impossible de nous en inquiéter, puis-
que les vrais voyageurs, « ceux-là seuls qui partent
pour partir », nous les rencontrerons toujours et par-
tout, et le point de départ n’est jamais un obstacle
pour ceux qui ne cherchent rien, en dehors de l’absur-
de évasion.

Mes amis de cette revue me demandent de leur


présenter les Italiens.
Je suis un étranger en Italie, comme en France,
aussi bien qu’ailleurs. Je ne présenterai pas de com-
patriotes, mais il y a, là-bas aussi, quelques compa-
gnons de route.

Me faut-il donc remonter cette époque sur laquelle


le rideau de 1914 est tombe?
Me faut-il retrouver Giovanni Papini au loin, il y
a vingt ans, lorsqu’il fondait le « Leonardo » et que
les badauds de la péninsule entouraient de la stupeur
moutonnière due aux Messies, ce personnage de dix-
40 Giuseppe Ungaretti

huil ans, une sorte de fier et interminable squelette


qui déambulait dans des habits où la marque des os
nus restait, et dont le cràne ét&it surmonté de la che-
velure de Meduse?
Ne nous arrètons pas au scandale; ce jeune homme
ne s’en souciait pas, non plus.
Mais il avait retrouvé ce cri de la solitude que
soixante ans avant, avait lancé Giacomo Leopardi.
Les aventures de la fantaisie surgissent alors corn¬
ine un contrepoids au désarroi de Fame; la vie se
manifeste comme la conscience des limites.
Cette course tragique méne à tout; et Fame se re-
trouve continuellement au milieu de la vie comme au
fond d’un tombeau.
En vain, le poète est encore harcelé; les contrastes
ne déplacent pas son but et tous ses cas de conscience
reprennent leur danse, se compliquent innombrable-
ment, jaillissent en colonnes, s’évaporent. Mais ici il
y a un mauvais rire et le dialogue de l’homme et de
son àme reprend.

Les recherches techniques ne sont qu’accessoires;


Papini s’en est occupé sur le tard; pour éluder, d’ail-
leurs, les problèmes.
D’autre part, tout en ne donnant qu’une valeur
relative aux questions de race, il faut admettre qu’il
manifestait cette tendance platonicienne des traditions
de l’art italien, d’évoluer de Fabstrait vers le domaine
objectif, et uniquement à titre de prétexte. (Le cas
de Pétrarque est typique en ce sens.)
Là où la nature semble le plus s’imposer, l’homme
ne la saisit que sous le semblant d’un reflet, d’un
ornement, d’un idéal, à des effets de pudeur. Ne pas
livrer Fame nue.
La Science des ombres est la gràce du soleil.
Scritti letterari 1918-1936 41

Les problèmes techniques sont posés brutalement


par Marinetti.
Subjugué par la civilisation mécanicienne, il se pro-
posait de découvrir, ou mieux d’adapter, les formes
de l’expression au tumulte extérieur qui moule la
société naissante.
Ses efforts s’exaspéraient en un ordre exclusivement
musculaire.

Du cycle futuriste, dont nous venons d’indiquet


les póles, nous aurions embrassé maintenant l’hori-
zon, si Ardengo Soffici n’avait pas publié à Florence,
pendant trois ans, et jusqu’à la déclaration de la guer¬
re, « Lacerba ».
Avec l’aisance qu’il possède en accomplissant cha-
que chose, tout en gardant une ardeur presque mysti-
que, Soffici, dans ce néant moral des uns et cette
impuissance verbale des autres, a su apercevoir les
germes obscurs des invraisemblables floraisons d’une
ère stoique.
Devrais-je ajouter que Soffici a vécu de longues
années dans une communauté fraternelle avec Guil¬
laume Apollinaire?
A cause de cela aussi il convient de résumer à cette
place les Premiers principes d’Esthétique * qu’il vient
de recueillir en volume et qui exposent ses convictions
de ces temps-là.
Aucun acte humain ne dépasse le provisoire; Soffici
le déclare lui-méme dans la préface de son livre; et
puisque l’éternel n’appartient qu’à Dieu, il n’hypothè-
que pas son avenir.

Il aimait nous dire:


La poesie pour la poésie, la peinture pour la pein-
ture, la musique pour la musique ne sont que des

* Ed. Vallecchi, Florence, 8, rue Ricasoli.


42 Giuseppe Ungaretti

conteptions d’une liberté élémentaire, que la prépa-


ration d’un développement presque illimité de l’art,
en tant que pure manifestation' de la sensibilité.
L’art ri est point urte chose sérieuse. Il est temps de
lui enlever son aspect solennel, de le considérer com-
me un exercice strictement personnel, comme une ba-
gatelle, parfaitement inutile, qui peut ètre et ne pas
ètre sans que la société s’en trouve moins bien, ou
s’en aperpoive méme. L’art est la culture d’un instinct,
la satisfaction d’un sens particulier et inné et par con-
séquent absolument distinct de toute autre activité
tendant à transfprmer, améliorer ou en quelque sorte
influencer le cours de la vie pratique, nationale et
mondiale.
Mais il ne suffit pas que la masse humaine ne con-
sidère plus l’art comme vénérable, que l’art n’impose
plus aucun respect à la masse, que le public soit
délivré du fétichisme de l’art; il est nécessaire que
l’artiste lui-mème apprenne à se considérer sous un
aspect fatai, mais inconséquent - comme une fleur,
l’aurore, un chant d’oiseau.
Seulement à ce prix il aura le courage de tout oser,
de tout exprimer, et son oeuvre sera un fait naturel,
c’est-à-dire pure et divine.
Il n’importe pas que l’art soit compréhensible. C’est
une erreur de croire qu’une oeuvre d’art puisse ètre
expliquée, décomposée et illustrée par l’analyse, des
formules, des raisons ou des raisonnements. Le chant
vital, le noyau magique essentiel, celui qui absorbe en
soi les plus lointaines vibrations, les scintillements et
les frémissements, et les propage à l’infìni, ne peut
ètre saisi que dans un cercle très restreint d’initiés.
Ayant acquis la liberté, poursuit Soffici, nous ver-
rons que le fond de notre métaphysique, que le pre¬
mier but de notre recherche, que le grand problème
de notre àme la plus profonde, que le Sens des Sens
n’était qu’un Non Sens, une simple opération mal
Scritti letterari 1918-1936 43

établie, et par cela mème insoluble. C’est l’état iro-


nique; mélancolique et superbe; la solution imprévue,
mais non moins decisive d’une grande éternelle tra¬
gedie, qui pourrait avoir l’air d’une farce si la bonne
foi des acteurs n’était pas hors de doute.
C’est dans cette atmosphère de gràce légère, dans
cette large liberté sans foi ni fins, que l’art peut
surgir et s’étendre, s’épanouir et folàtrer; faire jouer
son prisme radieux.
Calme dans» son essence, l’art n’incamera pas de
doctrine, et non plus la négation d’une doctrine; mais
à l’ironie, qui est en effet au-dessus des doctrines, il
prendra son élan. L’ironie sera la Science de l’hom-
me guéri « des transcendances et des dignités ».
Ayant établi ainsi le caractère de toute forme supé-
rieure de création artistique, Soffici n’a plus de diffi-
cultés pour déclarer que l’art tend en somme à une
libération suprème en devenant une simple distrac-
tion.
Admettons, écrit-il, qu’un grand courage soit né¬
cessaire pour arriver à une conclusion si radicale, et
par les renonciations qu’elle exige, je dirais mème
qu’il faudrait de l’héroisme, le mème courage, le mè¬
me héroisme qu’il fallait à saint Francois et à ses
compagnons, « baladins du Christ », pour s’abandon-
ner à leurs imbécillités ridicules sur les places pu-
bliques, afin de démontrer la candeur de leur àme, la
profonde grandeur de leur humilité.
L’art donc est une distraction; une sorte d’acroba-
tisme, de clownisme d’ordre spirituel et absolu. Sons,
paroles, couleurs, formes, propositions - éléments su-
blimes pour un équilibrisme où l’àme s’exalte et vibre
comme un miracle solaire.
En conclusion, l’art est un fait purement instinctif.
Par suite, il n’a aucune fonction sociale, éthique, reli-
gieuse ou mème simplement sentimentale. Le principal
défaut de l’art du passé est d’avoir empèché, par sa
44 Giuseppe Ungaretti

logique, par son didactisme implicite, latent, fonda-


mental, de noter, comme il aurait fallu, instantané-
ment, à coups d’éclair, sensations, images, analogies.
L’art est un argot d’initiés; l’art est une distraction.

Ce déblayage accompli, l’idée qui nous reste de


l’art - ce sont les propres paroles de Soffici - est si
légère, si subtile, si frèle, qu’il suffira d’un dernier
effort pour nous amener à établir que l’art tend, fa-
talement à son propre anéantissement.
Si la fonction de l’art est d’affiner, d’aiguiser la
sensibilité, il est évident:
1° Que l’artiste et son public atteindront une
toujours plus grande perfection d’impressionnabilité et
par conséquent une facilité toujours croissante de com-
muniquer entre eux;
2° Qu’un semblable développement de la sensibi¬
lité et une entente si étroite entre le créateur de beau-
té et l’amateur amèneront celui-ci à comprendre tout,
à ètre ému par tout, pourvu que celui-là indique à
peine ce qu’il veut qu’on éprouve et comprenne;
3° Que par conséquent les moyens de Partiste de-
viendront de plus en plus synthétiques, de caractère
plus occulte, plus abstrait, jusqu’à n’ètre plus qu’une
sorte de graphie conventionnelle; un chiffre herméti-
que entre collaborateurs;
4° Qu’enfin, une semblable superimpressionnabilité
peut atteindre un degré tei que Partiste et l’amateur
peuvent trouver leur satisfaction non plus dans l’éla-
boration commune de la réalité à représenter, mais
dans le signe mème qui la représente.
Toute la réalité doit pouvoir ètre aimée et conden-
sée un jour sans Pintermédiaire d’aucune révélation
artistique.
C’est la destinée mème de l’art.

P.S. Comme on vient de le voir, le romantisme a


Scritti letterari 1918-1936 45

été poussé à ses extrèmes conséquences, depuis un cer-


tain temps, en Italie.
A cette époque, Apollinaire (Alcools) était encore
symboliste.
L’Incendiario et le Codice di Perelà de Palazzeschi,
les Rarefazioni de Govoni, les Sintetismi de Folgore,
Hermaphrodito de Savinio, les Parole in libertà de
Marinetti, et cette Opera prima de Papini et ces Chi¬
mismi lirici de Soffici que je place aussi haut que les
Illuminations et les Calligrammes, tout cela a precède
de quelques années la parution du dernier recueil de
vers de no tre inoubliable Apollinaire.
Le premier manifeste Dada, enfìn, ne date que de
1916.
Ce qui ne prouve rien, à part la grande présomption
du chroniqueur ès lettres italiennes de la « Nouvelle
Revue Frangaise ».
LE DEPART de notre jeunesse
[1924] ,

Je n’ai plus de la guerre que le souvenir d’un brouil-


lard. Peut-étre, ceux qui nous suivront, y verront-ils
une admirable fable. Elle nous a pris notre jeunesse,
elle nous a laissé une ombre insaisissable.
Le jour où j’ai vu Apollinaire étendu sur son lit
de mort, j’ai bien senti que nous avions vieilli pré-
maturément.
Ce rire qu’il cachait dans sa main et que j’avais
entendu quelques semaines auparavant, ne retentirait
plus.
Cette volonté audacieuse qui renouvelait chaque
matin le visage des choses et nous imposait la joie
de tenter l’inconnu, serait terrassée.
Ce mot « noblesse » qui lui venait si souvent aux
lèvres et qui nous émouvait tant, ne serait plus pro-
noncé par lui.
Ah! nous partons encore pour partir. Mais l’enthou-
siasme n’illumine plus nos regards. Je ne sais quelle
conscience tragique du devoir surveille nos pas. Nous
avons encore essayé d’ètre hommes d’aventure. Un
vent d’automne nous a glacés. Nous voilà serviteurs
de l’ordre jusqu’au bout. Jusqu’au bout!
Et le chant dernier des Calligrammes n’est-il point
un testament? Apollinaire n’a-t-il point prévu notre
sort, lorsque le drame qui l’inspirait éclatait dans son
coeur?

Rome le 25 Avril 1924


A PROPOSITO DI UN SAGGIO
SU DOSTOJEVSKI *
[1922]

« Noi perlustriamo gli abissi » dice press’a poco Jac¬


ques Rivière - millantato credito? - opponendo - in
un saggio ch’è, a nostro modesto parere, il più giu¬
dizioso apparso sul romanziere russo - l’arte francese,
l’arte del romanzo francese - s’intenda addirittura il
metodo occidentale di analisi psicologica - all’opera
misteriosa di Dostojevski. Misteriosa perché il pro¬
blema non è più di metodo, né d’analisi, né di psi¬
cologia, neanche più un problema, ma semplicemente
una facoltà smisurata d’innocenza e di pazzia. Al prin¬
cipio è il caos, l’imponderabile. Per Dostojevski c’è
principio - diciamo principio lirico - quando non c’è
più da capir nulla, e stiamo allibiti come un precur¬
sore d’Adamo. Lo dice Rivière. E sostiene che fu er¬
rore, e che il bello incomincia quando s’è visto chia¬
ro - sempre come nella Genesi. E la grazia di Rivière
giunge al punto di suggerirci, per rovistare in quel
« tedio di secolo » che Ibsen chiama « le stanze se¬
grete del cuore e della mente », una buona marca di
candelini. Se fosse stato francese, Dostojevski sarebbe
stato, tutt’al più, uno Zola, caro Rivière. Con tutti i
candelini, e le stesse lampade ad arco, buio pesto. Nel¬
le nostre strade, benché Rivière ripudi Flaubert « pour
avoir voulu ètre d’emblée et directement objectif »
non l’Idiota incontreremmo, ma Bouvard et Pécuchet.
I miracoli imperscrutabili della razza non apparten¬
gono soltanto alla demagogia di guerra, difatti. E al

* Jacques Rivière, De Dostoìevski et de l'ìnsondable, « Nouvelle


Revue Fran?aise », 1 fév. 1922.
48 . Giuseppe Ungaretti

principio è la misura, replicava già Eschilo, per noi.


Rileggete Dostojevski. Non v’incontrerete un popolo
d’anime - tuttavia una turba di nomi - ma una stes¬
sa figura, confusa e di confusione, l’unica, riflessa da
un fantasma all’altro, senza titubanze di riconosci¬
menti, divelta e travolta. Vano, a Dostojevski e a
chiunque, qualsiasi tentativo d’identificare logicamen¬
te tale figura, facendole assumere, comunque, un con¬
trollo verso le circostanze. Non si tratta di dramma
scoppiato nei moventi dell’essere - il dramma infuria
sempre alle scaturigini, da Eschilo a Dostojevski - si
tratta di realtà molto più fondamentale. Manca un
punto di appoggio e di sviluppo, quel punto insom¬
ma che dà situazione magari ad un albero in un pae¬
saggio, la trama dei rapporti che non tollera sposta¬
menti se non mutando carattere. Qualche cosa di na¬
turale e di predestinato, e di razionale, ammesse tutte
le probabilità e le possibilità e le complicazioni del
calcolo - se avessi quattro invece di tre elementi, se
salissi di grado, se invertissi l’ordine ecc., e se avessi
un quinto fattore succederebbe... il finimondo, forse;
ma resteremmo sempre in un campo di precisioni ine¬
sorabili. Da noi l’illusione non trova alloggio che nel¬
l’orbita della legge. Un ciottolino può diventare un
macigno e tenersi su simile a una rana ritta sulle gam¬
be di dietro, tentennando, e un uomo tranquillo pas¬
sargli sotto (all’ombra!) ridotto alla statura d’una for¬
mica - purché sia stato trovato il bilico. L’irrequieto
e iperbolico Stevenson il quale sa - osserverebbe Mar¬
cel Schwob - « accroitre l’éclat de Vaction par le dé-
cor », è bensì un romantico, di supremo romantici¬
smo, ma è nostro. Volevo dire: un caso di confini e
di proporzioni anche quando - come nell’arte fran¬
cese - si guardi più alle curve della durata, all’evolu-
zioni che agli armoniosi riposi delle cose - volevo
dire che questo è certo il freno più tremendo, di noi
occidentali, e non ci sono narcotici, stimolanti, para-
Scritti letterari 1918-1936 49

disi artificiali, fedi che ce ne possono liberare. Osser¬


vo che ci sono oggi tendenze nell’arte francese - esa¬
sperazioni della tendenza accennata - a parlare come
in uno stato di sogno, ove la memoria più non soc¬
corre. Eppure anche la vostra, Paulhan,* è tutt’un’ar-
te che pone tra creatura e creatura abissi invarcabili
e se li varca, nulla ha abbandonato e trasfuso di sé,
ha gettato un ponte, non ha abolito le distanze, ha
semplificato i mezzi di comunicazione. La nostra ci¬
viltà è fatta a questo modo, e la nostra infelicità è
di non ritrovare mai più Iddio che sotto sembianze
d’uomo o, peggio, di ripieghi umani. E perciò, da
noi, tanto è difficile la via dell’arte, e, quando la gran¬
dezza è raggiunta, tanto contiene malinconica sere¬
nità.

* Jean Paulhan, Le poni traversi. Camille Bloch Ed Paris.


DOSTOIEVSKI E LA PRECISIONE
[1935] f

« Noi perlustriamo gli abissi » dice Jacques Rivière,


opponendo - in un saggio che è, a mio modesto pa¬
rere, il più giudizioso apparso sul romanziere russo -
opponendo l’arte francese, l’arte del romanzo fran¬
cese - s’intenda addirittura il metodo occidentale d’a¬
nalisi psicologica - all’opera di Dostoievski. Ora l’er¬
rore di Rivière è di credere che l’opera di Dostoievski
possa trasporsi in problemi di metodo, d’analisi, di
psicologia e così ridotta generare un buon romanzo di
tipo francese. Per Dostoievski c’è principio - dicia¬
mo principio lirico - quando non si capisce più nulla
per avere capito troppo.
Se il buio non è un buio delle cose, né notte pas¬
seggera o un effetto di fumo o di nebbia, se non è
nemmeno il buio d’un macigno - un macigno si può
fare, occorrendo, saltare per aria — ed è invece buio
dello spirito all’ultimo limite, come fare a entrarci
coi lucignoli, quelli compresi della buona marca van¬
tata da Rivière? Se Dostoievski fosse stato francese,
sarebbe stato tutt’al più uno Zola. Sono strade, seb¬
bene Rivière rifiuti Flaubert « pour avoir voulu ètre
d’emblée et directement objectif » dove, mettendoci
a cercare il principe Miyskin, e volendo proprio tro¬
vare gente d’analoga specie e frutto d’una potenza d’ar¬
te non minore, non troveremmo se non Bouvard e
Pécuchet.
Rileggiamoci Dostoievski. V’incontriamo una turba,
ma è sempre un’unica figura che gira su se stessa, e
il suo moltiplicarsi è dovuto alla vertigine del suo
giro. Vano a Dostoievski, e a chiunque, qualsiasi ten-
Scritti letterari 1918-1936 51

tativo di definire logicamente tale fantasma facendogli


assumere, comunque, un atteggiamento di controllo
verso le circostanze.
Non si tratta d’un modo diverso di concepire il
dramma: il dramma infurierà sempre alle origini del¬
l’essere, da Eschilo - che voleva dimostrarci come al
principio non possa esserci se non misura e la trage¬
dia non dipenda se non da eccesso o da- difetto di
misura - a Dostoievski - che è d’altro parere.
Ma noi sappiamo benissimo che se per l’uomo tutto
poggerà sempre su un dato oscuro, nessuno sarà mai
in grado di risolversi umanamente in tale dato senza
confondersi e perdersi, e non meno bene sappiamo
che non ci sono luci umane - né proustiane, né freu¬
diane - capaci di renderci chiaro tale dato.
Il mistero c’è, ed è in noi. Basta non dimenticar¬
cene. Il mistero c’è, e col mistero, di pari passo, la
misura; ma non la misura del mistero, cosa umana¬
mente insensata; ma di qualche cosa che in un certo
senso al mistero s’opponga, pure essendone per noi la
manifestazione più alta: questo mondo terreno con¬
siderato come continua invenzione dell’uomo. Il pun¬
to d’appoggio sarà il mistero, e mistero è il soffio che
circola in noi e ci anima; ma noi siamo portati a
preoccuparci di quegli sviluppi che dànno situazione
magari a un albero in un paesaggio, di quella trama
di rapporti che non tollera spostamenti se non suben¬
do un cambiamento di carattere. Ed è perciò che per
noi l’arte avrà sempre un fondamento di predestina¬
zione e di naturalezza, e insieme un carattere razio¬
nale, ammesse tutte le probabilità e le complicazioni
del calcolo: se avessi quattro invece di tre elementi,
se capovolgessi l’ordine, se soffiasse un gran vento,
ecc., e se avessi un quinto fattore succederebbe... il
finimondo, forse, ma resteremmo sempre in un campo
di precisioni inesorabili.'Trovata la via della logica,
un ciottolino può diventare un macigno e tenersi in
52 Giuseppe Ungaretti

biliòo, e un uomo tranquillo, grosso non più d’un gra¬


nellino di sabbia, passargli sotto (all’ombra).
Quest’arte greco-latina, mediterranea, nostra, arte di
prosa e arte di poesia, secoli e millenni d’arte, que¬
st’arte può anche dirsi miracolo: miracolo d’equilibrio!
Ho detto, e vorrei ripetere, che il mistero non può
negarsi ed è in noi costante; ma vorrei dire che la
logica in un’opera d’arte precede perfino la fantasia,
se logica e fantasia non si generassero a vicenda; ma
vorrei dire che tutto quel potere d’evocazione della
realtà, quel potere magico di restituire per sempre,
muovendo la fantasia, un momento della realtà, l’ar¬
te l’ottiene principalmente per una sua forza geome¬
trica. Certo il dono degli artisti veri sarà quello di
riuscire a dissimulare questa forza, come la grazia della
vita nasconde lo scheletro.
Limiti e proporzioni: ecco, per noi! E non ci sono
narcotici, stimolanti, paradisi artificiali che possano
liberarcene. Un uomo può gettare un ponte, sempli¬
ficare i mezzi di comunicazione, non abolire le distan¬
ze, tanto meno una distanza umanamente inconosci¬
bile come quella tra l’effimero e l’eterno.
La nostra civiltà è fatta in questo modo.
E perciò, da noi, tanto è difficile la via dell’arte, e
quando la grandezza è raggiunta, tanto contiene malin¬
conica serenità.
PITTURA COSMOPOLITA
[1923]

Mio caro Soffici,


André Gide, equilibrista impareggiabile, usa dire:
« Siamo seppelliti sotto i nostri atti, ciò che ci pesa
è la necessità di rifarli », od anche: « Ho paura di
compromettermi, voglio dire di limitare con ciò che
faccio ciò che potrei fare; di pensare che, avendo fat¬
to una data cosa, non potrò fare un’altra data co¬
sa ».
Assai ho riflettuto a queste scolie sulla libertà, pri¬
ma di decidermi a rivolgerti il mio parere intorno
alle pitture di Massimo Campigli. Ma, come sempre,
anche questa volta, ha vinto in me il gusto d’impe-
gnarmi, a rischio di rimanere confinato per l’eternità.
D’altra parte conviene premettere, ad uso delle ma¬
le lingue, che ho visto, in tutto, e per pochi istanti,
quattro volte Campigli: la prima a Parigi (chi s’im¬
maginava allora di ritrovarlo pittore?), più d’un an¬
no fa; una seconda, l’altro ieri, andando a incontrar
Cecchi alla « Tribuna »; poi al nostro giornale, e cer¬
cava te; infine da Bragaglia. Conviene inoltre premet¬
tere che Campigli è quasi un principiante, ignoto in
Francia quasi quanto in Italia.
È superfluo rimettersi ad analizzare qui l’opera di
Campigli; l’ha fatto Emilio Cecchi, e in un modo che
Baudelaire critico gli avrebbe invidiato, nella prefa¬
zione al catalogo dell’esposizione di detta opera visi¬
bile appunto in questi giorni da Bragaglia.
E più d’un parere, è una domanda che ti devo ri¬
volgere. E te la rivolgo perché sei un tecnico, e odo
gironzare, precisamente a proposito dell’esposizione di
54 Giuseppe Ungaretti

Cafnpigli, dei discorsi che dovrebbero capovolgere per¬


suasioni ormai pacifiche.
Dimmi, ottimo amico, è durtque vero che tutto ciò
che da tre lustri, o cinque, s’usava chiamare arte mo¬
dernissima, cioè cosmopolita, e facciamo dei nomi per
far presto, che si chiamava Carrà, Picasso, De Chiri¬
co, Modigliani, Léger, ecc. (non cito te e Derain che
siete, malgrado le avventure, più che altro uno schiet¬
to toscano e uno schietto fiammingo, e non disturbo
il magnifico Spadini che ha costantemente avuto mi¬
re diverse) è dunque vero che tutto ciò fosse soltanto
un tremendo equivoco da sfatare?
Credo l’opposto, ma in tal caso si deve riconoscere
che Campigli, nelle pitture ultime (le sole degne di
attenzione) ha tratto un atroce partito dalle ossessio¬
ni carnali di un Picasso (ci sono anche in Renoir), dal¬
le prospettive allucinanti di un De Chirico, dagli ele¬
menti stilistici ritrovati, a prezzo di lunghe veglie di
passione, da un Carrà, ecc.
L’arte ha infatti due strade; e una porta ai turba¬
menti infernali, alle messe nere e magari anche alla
santità di un Dostoievski; e l’altra alla malinconica
serenità; ciò che non allontana meno Petrarca da Vin¬
cenzo Monti che da Laforgue e da Villon. Mi pare
anzi di aver imparato che Satana fosse, anche lui, un
angiolo; per di più maledetto.
Potrei aver torto.
E siccome in tutte le cose occorre vederci chiaro,
ricorro alla tua competenza.
Intanto prendo posizione.
Il tuo affezionato
Giuseppe Ungaretti
CONSIDERATIONS SUR LA LITTERATURE
ITALIENNE MODERNE
[1923]

Gràce à la sympathie éclairée de Benjamin Crémieux,


de Jean Chuzeville, de Paul-Henri Michel, de Paul
Rivai, de tant d’autres que j’oublie, les lettres ita-
liennes sont aujourd’hui presque familières aux Fran¬
cis.
Ce qui me dispense de m’arrèter particulièrement
aux noms et aux oeuvres.
Une littérature telle que la frangaise pourrait ètre
aisément représentée par un arbre généalogique, tant
les filiations sont évidentes, Penchaìnement, à pre¬
mière vue, rigoureux.
En Italie, surtout en ce dernier siècle, le labeur lit-
téraire s’est poursuivi- d’une manière obscure et con¬
fuse.
Pour s’y reconnaitre, de grands points de repère ne
manquent point. C’est un astre dans la solitude, le
chant d’un Leopardi, par exemple, qui épuise sou-
dain toute l’expérience romantique, celle qui le pré¬
cède et celle que, cent années durant après lui, for¬
merà en Europe la beauté d’un nombre redoutable
de maitres-livres.
Et, en ce dernier siècle, la crise fut apre outre me-
sure parce qu’un fait nouveau venait de s’accomplir
dans l’histoire italienne. Ce pays aux régions si di-
verses, aux cent foyers intellectuels distincts, aux cou-
tumes variant de village en village, avait atteint son
unite politique.

Qui dit unité politique, souvent ne dit pas unite


morale
56 Giuseppe Ungaretti

Mais la formation de l’unité morale impliquait une


grosse difficulté. L’Italie, de par sa conformation géo-
graphique, gardait nécessairement plusieurs centres.
D’un autre coté, il fallait avoir le respect de cette
àme multiple.
Si de telles préoccupations font pàlir les hommes
d’Etat, que d’angoisses n’apportent-elles aux artistes
dont la destinée est un scrupule sans cesse renais-
sant?
Pour un écrivain, le problème de l’unité morale
se pose sous la forme de la question de la langue.
Lorsque en France arrive une révolution dans le
langage poétique comme celle de Mallarmé, nous
l’entendons sourdre de l’objectivisme à outrance du
vocabulaire des Parnassiens et de l’univers moral de
Baudelaire. Révolution, c’est trop dire, c’est une re-
cherche d’équilibre parfait, annoncée à temps et ve-
nue à son heure, c’est l’anneau d’une chaìne. Qu’il
s’agisse de philosophie, de théàtre, de critique, de
roman, en France les formes de l’expression se mou-
lent tout naturellement sur la vie fugitive. C’est qu’en
réalité le langage est en France l’instrument d’un
ordre social. Ce mouvement, né de la vie de cour,
est loin de s’arrèter, il s’est étendu au contraire, il
prend tout Paris et en fait l’immense cour de la reine
France.
Le caractère de notre langue ne se prète pas à une
souplesse égale. Notre langue est tout d’abord une
langue ancienne. C’est en envisageant l’italien com¬
me une langue classique de mème que le grec et le
latin, que sa magnifique vigueur a pu nous ètre con-
servée dans tout le pays. Cette inertie, ou mieux cette
lenteur s’entendait moins avec l’analyse des minuties
psychologiques, avec le changement des apparences
qu avec la meditation. I Promessi Sposi de Manzoni
n ont du roman que certains aspects conventionnels,
ils sont au fond 1 histoire amere de n’importe quel
Scritti letterari 1918-1936 57

groupement humain. Les personnages et les événe-


ments y sont saisis en leurs traits universellement re-
connaissables et émouvants.
Tout ce qui nous reste de viable depuis Leopardi
et Manzoni est sur cette ligne. Lorsque Carducci dé-
voile en sa fougue pathétique l’àme mème de nos
traditions, lorsque d’Annunzio trouve dans un poème
ou dans une page de prose toute son éloquence somp-
tueuse et acérée, lorsque la voix mélodieuse de Pa¬
scoli nous toughe par sa pureté rare et sa simplicité
populaire, nous savons d’où ils tirent leur prestige. Et
mème si un Papini se dérobe à ses inquiétudes et
nous livre avec calme sa biographie, si Soffici, cessant
de jongler avec ses curieuses théories, nous présente
Lune de ses figurations solennelles et vibrantes de la
vie de campagne, nous pourrions signaler d’où leur
est venue une si riche saveur. Et si Lhumour de Pan-
zini scintille ambigu, ou si le sourire de Palazzeschi
piqué comme une mouche mordorée, si les litanies de
Govoni nous bercent, si la dialectique de Croce et de
Gentile s’assombrit, aboutissant enfin au lyrisme de
Lintellect, nous connaissons ceux qui les ont guidés
dans l’ascension.
Ces conclusions sont aujourd’hui faciles. Il n’en a
pas toujours été ainsi. Q’on en juge.

L’agitation fiévreuse de notre epoque exigeait-elle,


comme le soutenaient les futuristes, un bouleverse-
ment absolu des rhétoriques? Etait-ce par des « pa-
roles en liberté » que nous devions désormais nous
faire comprendre, afin de nous adapter à l’élan tour-
billonnant de la civilisation mécanique? C’était pré-
tendre arracher à notre langue sa puissance de recul,
sa douceur métaphysique, et cependant cette expé-
rience ne fut pas vaine. Elle nous apprenait à cerner
l’ennemi, elle nous apportait le don de Lironie. L’une
58 Giuseppe Ungaretti

des' qualités les mieux déguisées de Léopardi et de


Manzoni nous était ainsi décelée.
Mais ce fut l’action, l’apostólat de la « Voce » qui
eut une importance très considérable. Ce n’était qu’une
revue. Elle parut à Florence pendant une dizaine d’an-
nées, jusqu’en 1916. Et c’était plus qu’une revue. Il
est temps de rendre entière justice à Giuseppe Prez¬
zolini qui en fut l’animateur. Constamment à l’affut
du talent, grand cceur fraternel, attentif au grand cou-
rant d’idées qui passaient dans le monde, il sut atti-
rer, grouper autour de lui les meilleurs d’entre nous.
Mussolini lui-mème n’était encore qu’un obscur propa-
gandiste du socialisme, et déjà Prezzolini avait remar-
qué son esprit pénétrant et lui demandait aussitót
pour ses cahiers de la « Voce » cette étude sur le
Trentin qui fut une révélation. Et Giovanni Amen¬
dola, le jeune chef de l’opposition, plus proche du
Duce qu’il ne veut l’admettre, aiguisa lui aussi ses
premières armes aux còtés de Prezzolini. La « Voce »
était destinée à devenir un grand organe qui eut été
en mème temps notre « Revue des Deux Mondes »,
notre « Mercure de France » et notre « Nouvelle Re¬
vue Frammise ». La guerre et je ne sais quelle inévi-
table incompatibilité de tempérament s’élevant par-
mi ses principaux collaborateurs, empèchèrent l’ceu-
vre de s’accomplir. Ce qui fait que nous manquons
encore d’une grande revue nationale.
L’effritement du langage amené par le futurisme,
le souci sans doute excessif, quoique alors légitime,
mème dans ses excès, qu’on avait à la « Voce » de la
production et des tentatives artistiques et intellectuel-
les de l’étranger préparaient naturellement une réac-
tion. Et comme on s’était distrait surtout des problè-
mes du style, c’est à ces problèmes que s’attachera le
groupe de la « Ronda ».
Fondée à Rome en avril 1919 par un groupe de
j’eunes (Bacchelli, Baldini, Barili!, Cardarelli, Cecchi,
Scritti letterari 1918-1936 59

Montano, Saffi, auxquels se joignirent plus tard Gar-


giulo, Savinio et Ungaretti), cette revue a mené à bien
la tàche de mettre en lumière les éléments qui ani-
ment les chefs-d'oeuvre de notre histoire littéraire et
en rendent la construction impérissable.
Nous sommes donc entrés en une période de gran¬
de clarté. Langue du « Si », langue allégorique, d’ex-
trème pudeur platonicienne, puisant sa jeunesse à la
source provinciale, parcourant le monde au pas de
promenade, changeant les passions de la réalité en
émotions et en divertissements de l’esprit, nous la
reconnaissons enfin.
Cette année mème, des livres ont paru et vont pa-
raìtre qui portent des signes heureux.
ESORDIO
[1924] ,

Non ho qui Calligrammes, ma mi pare che Guillau¬


me Apollinaire prenda commiato dai suoi lettori, con
un canto il più accuorato ch’io mi sappia. Lui, l’uo¬
mo d’ogni avventura, tornato dall’ultima con la fronte
stellata di sangue, chiede perdono di non poter essere
un uomo d’ordine.
Si dice che in quei giorni, poco prima di morire,
il grande poeta non fosse turbato d’altro che dalla dia¬
lettica inflessibile di Charles Maurras.
Sempre, dopo una calamità, gli uomini aspirano a
quiete contemplazioni. Il medesimo spirito di contrad¬
dizione, ch’è in fondo alla nostra natura, ch’è il lie¬
vito della civiltà, in tempi di benestare ci spinge a
volere il nostro danno.
Ecco perche, in sul preludio del dopoguerra, noi
vediam sorgere nelle lettere francesi, due personalità
quasi inattese.
Non vogliam dire che sotto sotto non sia rimasto
un umore di sovvertimento.
Quando, in una recente polemica, sentiamo da una
parte, mettere in discussione il concetto stesso di let¬
teratura, negare il principio dell’arte per l’arte, asse¬
gnare all’arte dell’avvenire il compito esclusivo di at¬
tingere ispirazione nelle passioni umane, di continua¬
re a diradare le tenebre dell’abisso dell’anima, di es¬
ser storia d’anime e della società, quando, dall’altra
parte, sentiamo sostenere che il male del secolo per¬
dura, l’uomo avendo perso il timor di Dio - e il sen¬
timento della divinità chi lo rimette al mondo a suo
Scrìtti letterari 1918-1936 61

talento? - sentiamo che, il primo, toglie al mito l’au¬


reola, vieta all’inferno l’equilibrio del paradiso, è esa¬
cerbato non rasserenato dal mistero, sentiamo che il
secondo sbarra gli occhi inquieti davanti all’utopia,
sentiamo altresì che l’uno e l’altro van dietro al mi¬
raggio dell’ordine, e sperano di ritrovar radici nel suo¬
lo riconsacrato della tradizione.*
E quando vediamo giovani ledere le loro doti più
genuine, storcere la malinconia in sarcasmo, disperar¬
si di non poter dipanare in canto, saturi di lettera¬
tura, la matassa preziosa delle tradizioni, di non riu¬
scir a trovare una parola innocente, sentiamo che non
è proprio il caso di parlar di classicismo, sentiamo
però che, il loro, è un tormento sempre riapparso,
nelle lettere francesi, agli inizi d’un’era di riassesta¬
mento.**
Son forse classici quei damerini, quegli efebi che
voglion suonare il jazz-band sulla mandola di Ron-
sard? che nelle quinte di Diaghileff hanno imparato
a ballare il minuetto? Per troppa squisitezza, nausean¬
ti! E anche questa è un’inclinazione tradizionale.***
In questi ultimi anni s’è diffusa in Italia un’idea
assai singolare del classicismo. Non s’intende il nostro
patrimonio letterario, i buoni testi, sulla scorta dei
quali, chi peggio e chi meglio, s’è imparato la gram¬
matica, neppure un’interpretazione greco-latina della
realtà: s’intende una particolare idea della perfezio¬
ne. Pensando a Petrarca, si ha in mente un fatto mi¬
rabile di misura, nel quale le diverse parti, moderan¬
dosi a vicenda, esulino. Non il grado d’umanità rag-

* Jacques Rivière, La crise du concept de littérature. Marcel


Arland, Sur un nouveau mal du siècle (« La Nouvelle Revue
Frangaise », ler février 1924).
** André Breton, Les pas perdus, («NRF», Paris).
*** Jean Cocteau.
62 Giuseppe Ungaretti

giurìto, la filosofia contenuta, la vicenda rappresentata,


gli accorgimenti tecnici, la prodezza fantastica, ma
un’alta luce che da tutto ciò erfiana, l’aleggio dell’ine¬
sprimibile ci rapisce.
Nell’arte francese, il carattere non è dato dalla re¬
gola, ma dall’eccesso. Parrebbe questa un’eresia. Ep¬
pure lo stesso bisogno spasmodico dei francesi di tro¬
var a tutto la legge, la sottolegge, la sfumatura della
legge, l’eccezione che conferma la legge, avrebbe do¬
vuto aprir gli occhi a tutti. Eppure, prima di arrivare
ad esempi di suprema armonia, una civiltà sorge e pe-
riclita, ringiovanisce e di nuovo decade, rinasce e ri¬
muore, e via di seguito, Dio sa il numero delle volte.
Non si dice che nelle opere francesi di sommo pre¬
gio, l’armonia non ci sia. È frutto di deformazione e
d’acrobazia. A prò d’un elemento, gli altri si sotto¬
pongono a slogamenti, a volatilizzazioni, a silenzi. E
in un capolavoro prevale la grazia o la galanteria o
la frivolità o la tristezza o l’arguzia, altrove prendono
il sopravvento i motivi morali, altrove il riflesso me¬
tafisico abbaglia, qua il furor mistico macera e aguz¬
za, là 1 allucinazione verbale travolge, ovunque il mor¬
dente sessuale è alle scaturigini.
Questi limiti non sono varcati nel dopoguerra. C’è
però uno spostamento di direzione, o piuttosto un rin¬
novamento del metodo artistico.
Lo spirito d’analisi, di scrupolo, penetrato nella so¬
stanza più intima della letteratura francese con Ra-
cine, ha portato la letteratura stessa a svilupparsi su
un ritmo di situazioni drammatiche.
Col romanticismo questo carattere drammatico, di
pertinace indagine psicologica, ha assunto aspetti pla¬
stici, apocalittici.
Baudelaire porta il dramma sin nelle parole. Ne ri¬
sulta una tal potenza plastica che tutto il poema ne
rimane musicalmente investito e abbracciato. E ve-
Scritti letterari 1918-1936 63

diamo dunque ritornare come germe di stile la musi¬


calità cara a Racine, ma la tonalità non si snoda da
un urto di sentimenti, ma da un urto di visioni: il
dramma è musicale nella linea, è plastico nel tes¬
suto.
In Barrès l’effusione lirica proviene dall’ironia. Il
dramma è dovuto a incompatibilità tra ragione e istin¬
to. Da questo stridore fiorisce un’ironia involontaria
piena di seduzioni.
Potremmo ricorrere ad altri esempi. Ci basti d’aver
osservato che nell’anteguerra lo spirito d’avventura, lo
spirito di sconvolgimento, s’era insinuato sin nella me¬
trica, nella sintassi, e nel vocabolario, che la musica¬
lità era tornata nell’arte, ma come un effetto d’ordine
plastico e ironico.
Marcel Proust e Paul Valéry, i due nomi ai quali
ci riferivamo da principio, servirono precisamente e
servono tuttora di punto di partenza e di riferimento
alle tendenze letterarie, dopo la guerra, perché le loro
opere, oltre ad essere una ricapitolazione dei tentativi
fatti dal romanticismo in poi, venute su da un tuffo
nelle tradizioni formali e spirituali più lontane della
letteratura francese, davano, le une alla prosa, le altre
alla poesia, un fascino nuovo: allontanando l’espres¬
sione o l’ispirazione verso le origini, s’induceva l’ani¬
mo e la parola a vagare nel labirinto della memoria, si
arrivava a sciogliere il dramma raciniano in melodia,
cosa alla quale non era arrivato neanche Mallarmé!
Questo fatto di riepilogo e di ritorno alle tradizio¬
ni potrebbe essere anche dimostrato tanto dalle nume¬
rose inchieste che si seguono in Francia per sapere a
che punto esatto stiano le cose in letteratura, quanto
dalla diminuita o mutata influenza straniera.*

* Henri Rambaud et Pierre Varillon, Sur les maitres de la jeune


littérature. Frédéric Lefèvre, line beure avec... Inchieste: del
giornale « L’Eclair » per sapere se, negli ultimi trent’anni, nes-
64 Giuseppe Ungaretti

Dell’influenza anglo-sassone forse permane ancora il


senso del nomadismo, la smania dell’evasione portata
anche, e atrocemente, nel campo intellettuale e mo¬
rale; l’estetismo anglo-sassone, il wildismo è ben tra¬
montato; permane l’influenza di Dostoievski, il senso
delle voragini dell’anima; ma Nietzsche, Ibsen, il wa-
gnerismo letterario, son cose scomparse; permane qual¬
che traccia di futurismo e di negrismo, ma, integra¬
tasi colla raffigurazione nord-americana, sportiva e
meccanica della vita d’oggi, non suggerisce più temi
di contrasto violento e di terminologia repentina, ma
blande allegorie.
Permane delle influenze straniere ciò ch’è melodio¬
so. Ed è noto che c’è la melodia balsamica, serafica,
e la melodia delle cose pericolose, sataniche, che il de¬
siderio e la nostalgia germogliano dall’una o dall’al¬
tra, indifferentemente. Ed è la profondità del passato
e dell’avvenire che circuisce l’uomo, e nessuna di¬
stanza di spazio supera quell’infinito.
Va fatto cenno ora a due nomi che colla lette¬
ratura non hanno diretta attinenza: i nomi di Freud
e di Einstein. Non ch’essi, Freud e Einstein, ab¬
biano determinato o modificato in nulla l’andamento
fatale d una reazione e d’una evoluzione letterarie,
ma perché essi, colle loro teorie, hanno, in un cer¬
to modo, secondato le presenti ricerche, che tutte s’ag¬
girano sull’innumere mutevolezza dei rapporti, sulla
graduatoria dell’inconscio, a piacere varia e sorpren¬
dente.
In conclusione, pare che non solo si voglia trovare,
tra la scintilla della somma lucidità e gli stimoli bui
dell essere, rispondenze sempre più sincrone, ma in-

sun poeta, o scrittore di romanzi o di teatro, fosse passato inos¬


servato, degno d’aver gloria; della rivista « La Renaissance »,
per conoscere le tendenze del romanzo francese di domani.
Scritti letterari 1918-1936 65

sieme suscitare un’oscillante, imponderabile, stermi¬


nata isola della fantasia.
Se son rose, fioriranno.
E potrebbe scappar fuori, domani, il genio, a but¬
tar all’aria tutte le previsioni.*

* Non ho dimenticato André Gide. Ma per parlarne, da che


punto incominciare? S’è assimilato tutte le influenze, senza mai
divenir servo di alcuna, inquieto e inquietante. Troppo intelli¬
gente. Chi saprà mai cogliere il suo aspetto vero? Ha battuto
tutte le strade. Chi non s’è ritrovato a seguir la sua traccia?
Tutti gli son debitori. In che modo preciso, definibile? I pa¬
reri sarebbero senza numero e tutti discordi. E così Gide vuole
sia il suo passaggio quaggiù. Non usa dire che gli ripugna d’im¬
pegnarsi, di compromettersi? Tentatore, il suo spasso non è
forse di veder le sue parole mutarsi in fatti altrui?
Di Jean Paulhan parleremo quando uscirà la sua Sémantique.
Avremo allora occasione di chiarire diverse cose.
JACQUES RIVIERE RIABILITA
IL « SENTIMENTO »
[1924] '

La parola « sentimento » è qui usata in quel signifi¬


cato che ancor oggi le danno vecchi popolani di mia
conoscenza. Chi caschi in deliquio, o ingnillisca, o dia
segni di pazzia, è per essi « fuor di sentimento ». « Mi
leva di sentimento » è detto per dire - e lo so, quasi
sempre con quel significato esulato, d’abitudine, con
quel significato sbiadito, segregato, assente, proprio
dei vocaboli troppo a lungo rimasti vicini alla terra,
ma pronti a riscoppiare entro una terra di più alta
tensione - è detto per dire che s’è smarrita la mi¬
sura, che il vaso trabocca, che non s’ha più il con¬
trollo di sé, ch’è annebbiata la vista della propria pro¬
fonda fisionomia umana, che la regola del saper vi¬
vere è caduta in oblio: da questo punto, per i Greci,
si scatenava la tragedia. La ginnastica morale che, per
secoli, è stata la confessione, ha lasciato in bocca a
uomini, di contado e già al tramonto della loro sera,
parole di somma civiltà.
L’opera d’arte, dalle più remote, è una confessione,
più o meno pudica, con maggiore o minor rispetto
umano, più o meno allegorica, più o meno a imita¬
zione di passioni del cuore o di ebrietà dell’intel¬
letto.
Nella sua prima tappa, sino alla dichiarazione di
guerra, diretta da Jacques Copeau e Jacques Rivière,
nella sua ripresa, dall’armistizio, sotto la responsabi¬
lità di Rivière e di Jean Paulhan, la « Nouvelle Re-
vue Frangaise » s’è proposta di ricondurre l’arte fran¬
cese precisamente verso un contatto più diretto con
quella « realta umana » — « l’unica realtà umana » —
Scritti letterari 1918-1936 67

sopra accennata, verso discorsi intorno alla vita dei


sentimenti, alle contemplazioni e alle speculazioni del¬
la mente.
Dando un’occhiata al libro di Rivière, Etudes* di
recente ristampato, si avrà subito un’idea delle preoc¬
cupazioni d’inizio della « N.R.F. ». Basterebbe ci fer¬
massimo ai nomi dei confessori di sua elezione: Bau¬
delaire, Claudel, Gide, Rameau, Bach, Franck, Wa¬
gner, Mussorgski, Debussy, Ingres, Cézanne, Gauguin.
Scritti tra i venti è i venticinque anni, quegli studi -
Rivière stesso ci avverte - hanno un’esuberanza, una
titubanza tra l’eloquio enfatico e l’elegante, dovuti,
certo,) come Rivière vuole, alla gioventù, e anche -
poiché Rivière non può essersi riscattato allora dal
manifestare, ingenuamente, con foga e freschezza gio¬
vanili mal dissimulate, le aspirazioni del suo grup¬
po - al travaglio del distacco dal passato vicino - al
quale, per qualche fibra, si riman sempre attaccati, -
di revisione di valori, di delineamento d’un piano
nuovo.
Col ciclo intrapreso dopo la guerra, gli scrittori del¬
la « N.R.F. », pur serbando fedeltà a intendimenti e
esperimenti di proiezione, di prospettive e di panorami
della coscienza, hanno affrontato problemi d’eleganza.
Attenti esasperatamente all’evoluzione delle forme, de¬
diti a conciliare il culto dell’originalità con quello
delle tradizioni, ritenendosi disonorati se di esse tra¬
dizioni non fossero sorpresi sempre pronti a cogliere
e utilizzare ogni elemento che si ravvivi, eleganti sino
talvolta all’angustia e alla graziosaggine, sino a pec¬
care per eccesso di finezza.
L’attività critica di Rivière, in questo secondo pe¬
riodo, si svolge da Gide a Proust, da Dostoievski a
Valéry, a Marivaux. Qui, come già nei primi studi, ma

* Paris, Editions de la « Nouvelle Revue Frangaise », quatrième


édition.
68 Giuseppe Ungaretti

con, più tormentosa diffidenza di sé, con un ritegno


quasi morboso, Rivière considera ancora gli scrittori
da lui messi in causa, come gl’interlocutori d’un suo
dramma morale. « Il croit, il doute, il méconnait, dans
une symmétrie et dans une contrariété touchantes
avec son partenaire »,* dirà a proposito di Marivaux,
e potrebbe dire di sé.
Un simile confinamento più che alla critica dovreb¬
be indurre all’opera d’immaginazione - per più liber¬
tà, per più agio nella sincerità. Non ce l’ha dimostrato
Rivière stesso con il suo romanzo Aimée? **
E parliamo d’Aimée, di questo romanzo ove il mon¬
do fisico non conta se non come riflesso d’un mondo
morale, ove il mondo oggettivo non interviene se non
come avviamento a intendere, a rappresentare un mon¬
do soggettivo. Rivière è impacciato, per impazienza,
quando ha da indicare — e indica schematicamente -
le cose di fuori - « esterno » sempre per lui vuol qua¬
si dire « estraneo » ma quei pochi tocchi, pur pochi,
hanno un’efficacia piena e suscitano un’adeguata atmo¬
sfera di raccoglimento.
Francois, il protagonista, ha « la vocation de l'a-
mour ».*** Non è un Don Giovanni: è un timido. L’a¬
more l’ama come uno scoglio. Nella sua anima c’è un
« certain mauvais fond qui n’aspire qu’à étre intrigué,
éconduit, désespéré ». Ha « le gout du malheur ». Si
sposa. Marthe, la moglie, l’avvolge d’una tenerezza lea¬
le: Marthe ha una chiarezza troppo grande per Fran¬
cois, che ama il mistero poiché ha la « manie de subor-
donner toute action à un savoir préalable ». Uomo che
ha bisogno di non riuscir a sapere, poiché il piacere
- un piacere, s’intende, un po’ perverso - non consi¬
ste nell’appagamento, ma nel prolungamento del desi-

* « La Nouvelle Revue Fran?aise », ler Mars 1923, Paris.


Paris, Editions de la «Nouvelle Revue Fran^aise ».
*** Questa e le successive frasi francesi sono brani di Aimée.
Scritti letterari 1918-1936 69

derio. Uomo insomma che coltiva la perplessità come


uno stimolo: « Et j’allais, dans cette nuit calme, par
les rues pacifiées emporté par Vespoir et retenu par
l’analyse, en prole à un transport ambigu qui aboutis-
sait sans cesse à de la perplexité ».
Incontra un amico, Georges, un gaudente, uno che
non resiste alle tentazioni, che non dà peso a nulla,
che si riterrebbe disonorato se qualcuno lo potesse sup¬
porre trattenuto da un vincolo qualsiasi « et faisait
comme ces acrobates qui prouvent leur isolement en
l’air en s’entourant des orbes d’un cerceau ». Salvo que¬
sto pregiudizio, ottimo figliolo. È fidanzato: a Aimée.
E Francois, a sentirne parlare dall’amico, la sente cir¬
confusa di mistero, e: « tout à coup je sentais les for-
ces tournantes et inorientées que contenait mon coeur,
converger vers elle ».
Georges sposa Aimée.
Entra in scena Aimée. « La beauté d’Aimée » osser¬
verà Francois « ne se révéla à moi qu’en bloc. Mes
yeux sont extraordinairement paresseux à l’analyse; il
leur jaut vingt rencontres avec un objet avunt d’en dé-
méler le détail; et souvent mon intelligence est entrée
dans les plus petites nuances d’un caractére, qu’ils sont
encore à tdtonner comme des aveugles autour des traits
conespondants. » Il procedimento stilistico di Rivière
non potrebbe esser definito meglio.
Quando Aimée appare, essa è agli occhi abbagliati
di Francois in cima a un’« aride altitude ».
Ed ecco che tra Francois e Aimée incomincia un dia¬
logo, che durerà quasi tutto il libro, durante il quale
Francois segnalerà ogni più piccola variazione della sua
vita sentimentale lusingandosi con tale industria di se¬
guire l’itinerario sentimentale della sua avversaria.
Un giorno Francois s’accorge del viso d’Aimée: « el¬
le tourna à ma rencontre un regard chargé de soujfran-
ce et d’ennui et me tendit la main sans rien dire; elle
était pale et obsédée: seul un faible sourire réussit à
70 Giuseppe Ungaretti

se frayer un chemin jusqu’à son visage ». Ciò che ha


colpito, ciò che ha reso il tratto fisico memorabile a
Francois, è il « cammino » di 'quel debole sorriso, è
quel farsi strada, « se frayer un chemin » dal fondo del¬
l’anima al viso. Il tratto fisico è degno d’esser osser¬
vato, per uno scrittore come Rivière, purché riveli un
moto deH’anima.
Bisognerà aspettare d’esser giunti a oltre la metà del
libro, al culmine del romanzo, per vedere la figura
d’Aimée materializzarsi, farsi, anche corporalmente,
concreta: « Le soir, quand je vins la prendre, elle était
en grande robe noire décolletée: du seuil je la vis au
fond de sa chambre les bras levés devant la giace, qui
piquait un bijou dans ses cheveux. J’eus un moment
de faiblesse, et comme de découragement, tant elle était
belle ». E l’interno affanno di Francois cresce, cocente.
Mille altri adescamenti morali s’aggroviglieranno al de¬
siderio, complicheranno il desiderio, protrarranno il
desiderio: moltiplicheranno le cercate, le attese ostili¬
tà: rinnoveranno il segreto. Farà un primo gesto per
afferrare, per - finalmente! - possedere, e le sue brac¬
cia non ubbidiranno: amputate! Ritenta: « mes bras
restaient collés à mon corps ». Egli è inesorabilmente
« impedito », egli è in balìa della « feconda inerzia ».
E solo risolvendosi al distacco, rinunziando, egli po¬
trà, e con quanto pudore, con quanta rassegnazione
fraterna, abbracciare. E in quello stesso momento si
profila « timide, blessée, mais non découragée, et toute
radieuse mème de tendresse et de pardon, - l’image
de Marthe ».
Dovrei ora parlare della sapienza dell’artista. Dire
con quanta arte Rivière sappia far rimbalzare da capi¬
tolo a capitolo l’emozione, a ondate progressive, por¬
tandola a culminare in una sorda burrasca, e poi, pia¬
no, lasciando che si plachi. Dovrei mostrare come ogni
capitolo, concatenato rigorosamente agli altri, costi¬
tuisca un organismo a sé, sviluppando compiutamen-
Scritti letterari 1918-1936 71

te, entro i propri limiti, nei termini della propria fun¬


zione nell’opera, il tema generale dell’opera stessa.
Questo romanzo è diviso come un poema: è una can¬
tica: la visione moderna del purgatorio.
Libro di poesia! Udite: « Profondes limbes de l’a-
mour! Gomme il sait bien créer les ténèbres dont il
a besoin pour éclore, pour grandir! Rien ne sert de
l’avoir prévu. Il reste toujours précédé par sa nuit, tiè-
de, torturante et maternelle, plus pieine d’énigmes et
de tressaillemeyts, plus obscure et plus inventive que
celle-là mime où se forme la vie ». « Peut-étre si, la
voyant inerte et ravie par mes soins, je lui eusse crié:
"Et maintenant, je vous tiens, vous ètes à moi”, peut-
étre, me jetant à genoux, l’entourant de mes bras, peut-
étre me fusse-je enfin emparé d’elle, peut-étre eusse-je
conquis ma proie, peut-étre Veusse-je possédée brute,
muette, pesante, comme la mort et la nuit, pieine de
ràle et de silence. »
Il libro di Rivière concorre a riabilitare il « senti¬
mento », certo il « sentimento » come può essere inte¬
so da un Francese, più come una virtù d’acume che
d’equilibrio.
GRATITUDE A JACQUES RIVIERE
[1925]

Il y a un second àge de raison, le vrai, où l’on s’aper-


?oit que la mort est le témoin de la vie, qu’elle la pro-
tège de son aile. Elle est encore impitoyable et, jetant
la nuit autour de nous, elle fait fi — trop souvent,
hélas! - de notre sagesse qui s’en était fait un doux
rongeur.
Je ne puis me résigner à croire que Rivière ne vien-
dra pas en Italie, ce printemps. A Naples, à Gènes, à
Rome, à Milan, à Turin, on se faisait une fète d’avoir
bientot a 1 accueillir. Il était si heureux de ce voyage.
Il aurait répandu le bien, ici comme ailleurs. Il aurait
aidé, une fois de plus, au rétablissement de la liaison
entre les intellectuels d’Europe, et ce n’était point, je
crois, le moins méritoire de ses efforts.
Je Fai connu en 1912. Je lui avais porte le manus-
crit d’un ami. Après quelques semaines le roman me
fut retourne avec un billet de refus. Je trouvais ce
roman plein de mérites, et je les fis valoir. Rivière
reprit le manuscrit et, l’ayant relu, maintint son avis.
Mais il l’avait relu attentivement, et m’en donna par
mille observations la preuve, et c’était un gros volume.
J’ai revu Rivière après la guerre, six ou sept fois'.
Nous avons échangé une quinzaine de lettres. Et notre
amitié s’était affermie.
Je dois avouer qu’en 1923, je ne connaissais presque
rien encore de son ceuvre. Il me semblait que nos deux
esprits ne pouvaient en aucun point se concilier. Je fis
un effort pour entreprendre et poursuivre la lecture
d’Aimée. Je voulus connaìtre ensuite ses livres ante-
Scritti letterari 1918-1936 73

rieurs, et, depuis lors, tout ce qui venait de lui m’at¬


tirai t profondément.
Il possédait le don de mettre de l’ordre dans l’esprit.
En une période d’égarement, de détresse, d’écceu-
rement, comme la nòtre, où l’évasion est devenue la
règie, où tout masque est bon afin de ne plus nous
souvenir de nos traits, où le rève est invoqué pour
abolir la mémoire, il n’avait d’autre mirage que le ha-
vre de la conscience.
Il avait choisi l’aventure la plus difficile et la plus
audacieuse, quoique la plus dissimulée.
Devait-il à l’exemple de Gide, à l’enseignement de
Bergson ou à son fond catholique, la tournure de son
esprit?
Sa méthode était de pure tradition catholique. En
le lisant, ce qui refermentait en moi, c’étaient de vieil-
les souches de ma première éducation, fort religieuse.
Ainsi, de réveil en réveil, il me menait loin, au delà
de la naissance, à la suite d’une longue montée de gé-
nérations fidèles aux mèmes normes.
Son analyse vibrait aux trois cordes de la harpe ca¬
tholique: le scrupule, la nostalgie, l’espérance.
Le scrupule, suivant, il me semble, une pente fran¬
gale glorieuse, s’aiguisait en lui jusqu’au remords. De
là cette hésitation qui était une crainte de blesser en
se blessant, cette prudence à avancer, comme un filet
d’eau qui se clarifie en accomplissant sa trame avant
de sourdre lumineux.
La fable souveraine de l’Eglise, celle du paradis
perdu, est notre sirène, parée de la mélancolie des
origines. Elle suit la course de l’homme. Il ne quittait
pas des yeux cet abìme grandissant. Son style en gar-
dait l’ombre.
L’espérance non plus ne lui faisait défaut. C’était
une espérance retraite en elle-mème. Elle ne l’éblouis-
sait pas. Il l’apercevait moins comme un prix qu’il ne
l’entretenait comme un mobile. C’était pour lui le res-
74 Giuseppe Ungaretti

som de l’inquiétude. Son cui te de la raison - son aris-


totélisme, conviendrait-il de dire - acquérait ainsi la
souplesse de la vie. De là, la cadence mystique de sa
pensée.
Des mots...
S’il ne nous avait appris à nous soumettre, coute
que coute, au devoir, j’aurais gardé le silence devant
la barque invisible qui l’a emmené.

Rome, février 1925.


SOTTIGLIEZZA POETICA DI REVERDY
[1924]

Sono venuti psicologi a dirci, parlando d’istinti o d’a¬


bitudini, che nell’uomo, tali istinti o tali abitudini,
non erano da considerarsi semplicemente come fatti
meccanici, ma piuttosto come la creta viva dalla quale
ciascun individuo traeva o mostrava la propria, non
confondibile, fisionomia morale. Sono i moventi o gli
atti, ereditati o contratti, intricandosi nella bolgia del¬
l’essere o staccandosene, sfuggenti ormai al controllo
della coscienza o non mai ancora da essa controllati,
che costituiscono, secondo i predetti psicologi, l’attività
genuina e caratteristica dell’individuo morale.1 Dottri¬
na seducentissima dalla quale André Breton e compli¬
ci dada vogliono sprigionare una nuova corrente ro¬
mantica, un’arte d’ispirazione, d’ubbidienza cieca agli
impulsi dell’essere buio (il genio: miracolosa combi¬
nazione naturale; l’abilità tecnica: elemento sussidia¬
rio e quasi trascurabile; le parole e le immagini più
colme di poesia saranno quelle che vi verranno in men¬
te senza motivo apparente e che v’affretterete a trascri¬
vere: lo stato di dormiveglia nel quale con un po’
d’allenamento vi potrete tuffare a piacere, è il più
propizio a questo dettato che ci spalancherà le porte
del paradiso).2
Un modo spicciativo e, a rigor di termini, arbitra¬
rio, di osservar le cose, è quello di procedere, prospet¬
tando la storia dell’arte, per cicli. Forse meno persua¬
sivo di quello seguito dai miei amici di « Littératu-
re », Breton e seguaci, ha il merito di permettere an¬
che a noi di sguinzagliare la nostra brava teoria.
Facciamoci quest’idea d’una qualsivoglia scuola d’ar-
76 Giuseppe "Ungaretti

te: 'da principio abbiamo manifestazioni oltremodo pa¬


tetiche, di vena, di troppo impeto e di poca astuzia:
manifestazioni attraenti per la doro dolorosa rozzezza,
per l’invenzione cui giungono mirando probabilmente
ad altro, per la presunzione, la freschezza e lo stupore
che contengono trovandosi all’inizio, involontario o no,
d’un movimento nuovo. Nel secondo tempo, siamo già
all’apice: tutte le facoltà, dei sensi, dell’intelletto e
del sentimento, si dispongono in perfetta armonia che
splende nell’espressione. L’ultima fase è anarchia: tem¬
pi d’aberrazioni dell’estro: qui lo spirito è andato in
fumo, e rimane la magia della lettera; l’incoerenza ha
virtù mistiche; la religione è stregoneria; l’amore è
sadismo; le astrazioni diventano bisticci e freddure;
l’arguzia si riduce a scemenza; il mito si materializza
sino all’orrido; la poesia significa concetti e immagini
alambiccati e strani, giuoco d’azzardo; Petrarca si de¬
forma in Burchiello, Baudelaire in Max Jacob.
Insomma, voglio dire che certi tentativi recenti del¬
la letteratura francese han più voce di rantolo che di
vagiti.
E, sfogliando il libro di Pierre Reverdy,* libro da
Aragon e da Soupault, compagni di Breton, dichiara¬
to, della giovine poesia francese, l’opera più degna di
varcare le frontiere, sono stato colto da perplessità.
Decadenza o primi passi in un paese appena scoperto?
I componimenti di Reverdy sono perfetti, la stessa
perfezione nel 1915 e nel 1922. Non ci sono scorie,
mai. La levigatura è impeccabile, sempre. Tutto è di¬
stribuito con gran cura, in questi componimenti, per
un’evocazione di mistero: figure, oggetti, case, sensa¬
zioni, l’universo. I misteri del caleidoscopio sono im¬
mensi per un bimbo di cinque anni. In realtà son mi¬
nuscoli. Si ha difatti, davanti a questi componimenti,

* Les Epaves du ciel, Paris, Editions de la « Nouvelle Revue


Frangaise ».
Scritti letterari 1918-1936 77

come il fastidio d’un errore squisito di proporzioni.


Ma subito pare che qualcuno vi venga incontro tacen¬
do - e vorrebbe gridare! Su questa poesia pesa il si¬
lenzio. Pare, ascoltandola, che le parole si appartino
per far posto al fantasma. Un’estetica del fanciullino,
una noia domenicale e suburbana, un non so che di
spiritico, di palustre, d’ineffabile, d’angelico - di con¬
traffatto.

LES POÈTES
Sa tète s’abritait sous l’abat-jour de la lampe. Il est
vert et ses yeux sont rouges. Il y a un musicien qui
ne bouge pas. Il dort; ses mains coupées jouent du
violon pour lui faire oublier sa misere.
Un escalier qui ne conduit nulle part grimpe autour
de la maison. Il n’y a, d’ailleurs, ni portes ni fenètres.
On voit sur le toit s’agiter des ombres qui se préci-
pitent dans le vide. Elles tombent une à une et ne se
tuent pas. Vite par Vescalier elles remontent et recom-
mencent, éternellement charmées par le musicien qui
joue toujours du violon avec ses mains qui ne l’écou-
tent pas.

(1915)

FORTE MER
Devant le bateau immobile
Quelqu’un qui attend
C’est le port qui bouge
Il fait trop de vent
Le niveau de l’eau change
Tant la mer est lasse
Tout devient plus grand
Le marin qui passe arrive en retard
D’où vient l’air qu’il a
Et sa tète lasse
La sorde du bar
78 Giuseppe Ungaretti

' Tout l’équipage est dans les màts


Un oiseau s’ejface
Sur le del plus plat
Tout le monde a peur
Quand la casquette l’air et les nombreux visages
Le vent a tout mèlé dans un méme nuage

(1922)

Decadenza? L’animo e le parole, avete udito, non


hanno molto humus. Siamo in una zona romantica:
già perlustrata, vangata e spolpata. Direi: se alla de¬
cadenza Burchiello-Jacob dessimo il nome di pomerig¬
gio autunnale, questa di Reverdy potremmo chiamar¬
la il notturno d’una nota poesia crepuscolare (Maeter-
linck, Verlaine, Pascoli, Gozzano, Corazzini...). E co¬
sì, Reverdy dovendo, bamboleggiando, farneticare un
po’, Breton potrebbe, con qualche ritocco, come a noi
per la nostra è capitato, applicare la sua teoria al poe¬
ta prediletto. Con ciò non dico che Reverdy sia un
poeta insignificante: è, in realtà, uno dei quattro o
cinque, in Francia e fuori di Francia, oggi, meritevoli
d’onori.
L’ESTETICA DI BERGSON
[1924]

Membro militante dell’insegnamento superiore, Albert


Thibaudet, coll’opera di critica svolta in libri e rivi¬
ste, non tanto d’aver rinfrescato le dottrine e i dibat¬
titi ufficiali delle facoltà francesi di lettere, potrà van¬
tarsi, quanto d’aver incanalato verso l’alveo universi¬
tario dell’investigazione storica i quarant’anni recenti
dell’arte. Ha cominciato con una voluminosa apologia
di Mallarmé, e per i suoi maestri dell’« Ecole norma¬
le supérieure » che facevano ancora gli schizzinosi da¬
vanti a Baudelaire, dev’essere stato un pruno in un
occhio. L’anno scorso ha studiato Valéry e, se non
una perfetta comprensione, gli ha fatto da guida un
amor acuto della poesia. Ma dove Thibaudet ha dato
la misura delle sue attitudini è nei Trente ans de vie
franqaise, quattro fìtti tomi usciti dopo la guerra nel¬
le edizioni della N.R.F., il primo dedicato alle idee
di Maurras, il secondo alla vita di Barrès, gli ultimi
due al bergsonismo.
È incredibile la voga ch’ebbe Bergson sino al 1914.
La sua parola attirava gente d’ogni colore. L’aula del
« Collège de France » dove quel giorno avrebbe fatto
lezione, molte ore prima era gremita da valletti e ca¬
meriere accorsi a tenere il posto per i loro padroni.
I professori che in quell’aula precedevano Bergson,
potevan andar fieri di non aver più soltanto un udito¬
rio di tre o quattro poveri vecchi venuti lì a scaldar¬
si. Oggi Bergson non sale più in cattedra al « Collège
de France ». Vi salisse ancora, non credo sarebbe più
l’oracolo del bel mondo. Nei salotti han bisogno di
distrazione, e un bel giuoco dura poco. Conviene che
80 Giuseppe Ungaretti

il 'giuoco duri, rimbeccherebbe Bergson, e dura ed è


uno stimolo vitale perché muta. L’uomo è vano, e, dan¬
do fomento alla sua vanità, sbcietà, basse, alte e me¬
die, si arricchiscono di tradizioni, mutano, come si mu¬
ta vivendo, cioè accumulando un passato senza posa
modificato dal contributo dell’attimo fuggitivo. Oggi,
la testolina delle donne, se la contendono, da una par¬
te, il dottor Freud, dall’altra, il padre Garrigou-La-
grange, Gilson, Maritain, e simili neo-tomisti.
Nei tempi della voga di Bergson, lo scultore « orfi¬
co » andava a zonzo con Les données immédiates de
la conscience sotto il braccio, e, qui da noi, non ci
volevan occhi di lince per discernere nei concitati ma¬
nifesti futuristi, e nelle diffuse dissertazioni futuristi¬
che, spunti e insistenze bergsoniani.
Il bergsonismo ha lasciato un’impronta nell’arte.
C’è un’estetica bergsoniana, sebbene Bergson non
abbia mai scritto un’estetica. Quest’aspetto del pen¬
siero di Bergson, Thibaudet meglio di chiunque altro
poteva farlo risaltare, lui che i ferri del mestiere se li
è forgiati, come tanti suoi coetanei del suo ceto, alla
scuola di Bergson, e che a metodo e stile bergsoniani
fa ricorso nell’interpretazione dell’opera d’arte.
Colla scorta dell’ottimo libro di Thibaudet facciam
dunque quattro passi.

L’uomo, diceva Anassagora, è intelligente perché ha


le mani. E anzitutto Yhomo faber, l’uomo artiere,
preoccuperà Bergson.
Ci sono due indirizzi spirituali, dicono, per conosce¬
re: quello boreale della scienza, e l’ardente della fanta¬
sia. Dicono anche che, per il filosofo, trovate le leggi
dell’universo, la meta è raggiunta, e che l’artista è in
porto non appena sia riuscito a dare, dell’universo, una
sua rappresentazione particolare. Sono generalizzazio¬
ni. La prima raccomandazione che ci fa Bergson è di
non lasciarci turlupinare dalle generalizzazioni. L’uni-
Scritti letterari 1918-1936 81

co suo saggio vero e proprio d’estetica, Le rire, tratta


d’un particolare.
In parola d’onore i nostri vecchi non avevan tutti i
torti. Per essi l’arte poteva essere buffa, idillica, epi¬
ca, satirica, tragica, drammatica, aulica, bonacciona,
sarcastica, triviale, e che so io. Essi dividevan il pro¬
blema in tante difficoltà quante eran necessarie per
risolverlo. Oggi tutto è polpetta, e chi cercasse nell’o¬
dierno bailamme di pensamenti nostrani acchiappereb¬
be a dir poco un’eccellente descrizione d’un approdo
dell’alta lirica. A caccia d’aquile, si va, come vedete.
Mi contenterei di passerotti. I nostri vecchi sapevan
benissimo che prima di ritenersi artista, che prima di
saper attingere alla spontaneità, l’uomo a lungo dove¬
va aver addestrato la sua natura d’artiere, d'homo
faber. Con un popolo marinaro come il nostro, con
un’emigrazione come la nostra, con quella potenza
ch’è in noi, di passione, e di scetticismo, poiché siamo
un popolo vagabondo, d’allucinazione e di calma, di
ferocia e di mansuetudine, d’indulgenza e d’intolleran¬
za, d’orgoglio e di bontà, d’arguzia, di scaltrezza e
d’innocenza, d’allegria, d’arroganza, di canzonatura, di
misericordia, di generosità e di sveltezza e di medita¬
zione e di malinconia, non abbiamo ancora un roman¬
zo d’avventura. Perché? Perché non si guarda come
han raffigurato, poniamo, Stevenson e Conrad? In un
romanzo d’uno straniero, di Conrad precisamente, in
Nostromo, dobbiamo andar a cercare, se vogliam ve¬
derlo, l’italiano all’estero, e Nostromo dovremmo in¬
terrogare se volessimo sapere come s’accendano nel
cuor dell’italiano incendi come il garibaldinismo, co¬
me il fascismo: quale sia lo slancio vitale d’una stirpe
di re com’è il popolo italiano. Gente teatrale? In pri¬
mo luogo, teatro è magnificenza. In qualche modo bi¬
sogna che si sfoghi la sete di grandezza di questo po¬
polo, che apparisca, ironicamente o altrimenti - già
apparisce altrimenti - la sua maestà! E insieme a Con-
82 Giuseppe Ungaretti

rad* perché non si consultano, poniamo, diari di esplo¬


ratori, memorie di bucanieri? Si gira il mondo, e si
osserva e si fa tesoro d’esperienza, e come va che non
salti in mente a nessuno di narrare le cose vissute?
Manca il mestiere. Il miglior modo di discorrere si
trova sicuro nei testi di lingua; ma non s’impara che
col proprio lavoro, e ci vuole una gran processione
d’artieri prima d’aver un artista, uno Stevenson.
Il termine d'homo faber che piace tanto a Bergson
per indicare il carattere originale dell’umanità, è fe¬
condissimo: m’aiuta a capire Croce. Croce chiama l’e¬
stetica, scienza dell’espressione. Di tutta l’espressione,
suppongo: la musica è lingua, e la pittura; e persino
l’uomo di scienza ha bisogno, per spiegarsi, di ricor¬
rere alla forma. E difatti la prosa di Galileo è stupen¬
da, è spontanea, non è prosa da homo faber, è opera
d’arte. A diventar artista quanto ci metterà Tilgher
che invita un povero cristiano a prender l’aperitivo,
con quest’eleganza: Le singole opere d’arte sono, ognu¬
na, un individuo per sé; le singole passioni sono le va¬
rie maschere di uno stesso individuo. Lo spirito artisti¬
co è Io = Non-Io; lo spirito passionale è (Io —Io) =
(Io = Non-Io)?

Presentataci l’operosità dell’uomo, l’uomo edificato¬


re, l’imperio della materia mediante l’intelligenza, Berg¬
son ci presenterà l’uomo profondo, il possesso della
vita mediante l’istinto. E si soffermerà a considerare
il tempo.
A un punto di Durée et simultaneité, verso la fine,
a pagina 217, Bergson ha una parola tremante: illu¬
sione. Dirimpetto al filosofo del divenire, Platone an¬
cora è risorto e ha profferito il suo monito: Il tempo
è privazione d’eternità. Bergson si rinfrancherà presto.
Canta Ronsard:

Las! Non pas le temps, mais nous nous en allons,


Scritti letterari 1918-1936 83

e indovina la perennità del tempo e noi in essa, par¬


venze fuggitive certo, ma - ci dirà Bergson teso a far
della coscienza la realtà unica, a identificarla con quel¬
l’assoluto ch’egli chiama slancio vitale - incarnazione
momentanea dell’eternità, per quel passato di cui sia¬
mo lo slancio, e quell’avvenire che rampollerà dal no¬
stro passaggio. Il nostro atomo di tempo non. è per¬
duto nell’eternità, è una goccia del gran fiume.

L’uomo è profondo!
La lingua è il simbolo della civiltà d’un popolo. E
dal posto che occupa il tempo nella struttura della lin¬
gua d’un popolo si stima il grado di civiltà di detto
popolo. Apro, a caso, una grammatica, di quelle vec¬
chie, di quando s’insegnava a distinguere un gusto dal¬
l’altro, a scegliere, e leggo:

DELLE CONGIUNZIONI DI TEMPO


I. - Le congiunzioni di tempo sono quelle che le¬
gano due proposizioni, dimostrando l’ordine con cui
avvengono due azioni. E varie ne sono le specie.
1. Alcune indicano l’avvenimento di due cose nel
medesimo tempo e sono mentre o mentreché, intanto-
ché, in questo o in questo che, in quello o in quella
che, dalla quale non paiono scostarsi gran fatto quando
o quandoché, allora che, allora quando.
2. Altre significano che un’azione avviene innanzi
ad un’altra, e sono: anzi che, avanti che, dinanzi che,
innanzi che, davanti che, prima che, in prima che, pria
che.
3. Altre l’avvenimento d’un’azione dopo d’un’altra,
e alcune il dimostrano immediato, come: appena o ap¬
pena che, come, come prima, tosto che o tosto come,
di tosto come, non più tosto che, non sì tosto che, non
prima che, incontanente che, di presente che, subito
che, ed altre.
4. Altre mostrano la durata d’un’azione fino ad un
84 Giuseppe Ungaretti

termine e sono: finché, infinché, per finché, fino a tanto


che o fintantoché, ìnfno a tanto che, tanto che.
9

E recando copiosi esempi di buoni scrittori, il gram¬


matico di una volta, oltre alle infinite sfumature d’o-
gni voce nell’uso, infondeva, insieme al senso del tem¬
po insinuatosi nella stessa trama della lingua, il senso
della storia, il senso del muoversi del tempo, il senso
della genesi e della forza di sviluppo della lingua, il
senso del tempo e dello slancio vitale contenuti nella
sostanza della lingua. L’avventurato discepolo non an¬
cora aveva avuto il presentimento degli abissi d’ani¬
ma dai quali trae origine l’apparente inconseguenza
delle azioni umane, e già aveva il senso della profon¬
dità dell’uomo.

L’uomo è profondo.
Il tempo è la primordiale intuizione della qualità, è
la melodia dell’universo, di ciò che dura costantemen¬
te mutando, ed è nuovo costantemente, e mutando
crea, di ciò che non può esser raffigurato da quantità,
perché cesserebbe, se potesse esserne interrotto il cor¬
so, d’esser il segno della vita e diverrebbe materia
inerte. Non dico una figura spaziale, ma la parola qua¬
si non riesce, per Bergson, malgrado ciò che poco fa
si diceva della lingua, a aderire al moto del tempo, e
non perché non possa esser abbastanza fulminea nel ri¬
ferire, ma perché necessariamente ha una certa fissità,
una certa rigidità.

Senza dubbio, di questo tempo bergsoniano, non il


dinamismo plastico che pigliava una questione di qua¬
lità per un problema di meccanica, insolubile, come
problema di meccanica, con i mezzi dell’arte, né la si¬
multaneità lirica che si lusingava di far contempora¬
neamente funzionare, come fa un giornale, fatti sue-
Scritti letterari 1918-1936 85

cessi ai quattro canti del globo, dovevan aver la pre¬


tesa d’aver trovato la formula estetica.
Altri, più ragionevolmente, si diede a almanaccare
intorno a un’arte pura. Bergson allude di quando in
quando a una sensazione purgata d’ogni torbido affet¬
tivo. Quella sensazione, sgorgando in una pura forma,
e rinnovandosi, e sempre tornando a fiorire, e germi¬
nando ancora, in una perfetta continuità, non attuereb¬
be il tempo bergsoniano? Si videro i cubisti. E si udi¬
rono poesie nelle quali le parole si dilatavano, acqui¬
stando in intensità musicale, evocativa, in flessuosità
ciò che avevan perso in rigor di logica. Ma, di questa
tendenza, Gide, con la sua abituale finezza, in una
vecchia replica a Faguet buon’anima, ci ha mostrato
che, in Baudelaire, già si possono scorger tracce. L’u¬
nico anelito di Mallarmé, per il quale l’universo era
il sonetto che sognava di scrivere, è stato di salire sino
alla poesia pura. Né Baudelaire né Mallarmé potevan
esser bergsoniani. Conoscevano Hegel, e probabilmente
soltanto attraverso Poe. È bergsoniano Valéry? L’arte
di Valéry si riallaccia a quella di un Petrarca, di un
Raffaello, di un Fidia, è l’arte che dà immagine alle
idee, che fiorisce dalla contemplazione, è lirica dell’in¬
telletto. Può darsi, anzi avviene, che gli estremi si toc¬
chino e che suscitando la perfezione, insieme si susciti
l’evoluzione perpetua dell’effimero.

A ogni contrarietà, a ogni inciampo, a ogni deficit


che s’affaccerà aWhomo faber o all’uomo profondo, o
all’uno e all’altro, apparirà la coscienza, e la coscienza
genererà l’incessante attività dell’uno e dell’altro. Lo
studio di questa continuità di fasi della coscienza è
psicologia. La vita psicologica sgorga da inquietudini,
da irrequietezza, da inestimabile bisogno di chiarimen¬
to. Se Bergson un’influenza ha esercitato nel campo
estetico, l’ha esercitata sul romanzo. I suoi libri che
sono libri di psicologia e, come direbbe Gillouin, di
86 Giuseppe Ungaretti

metapsicologia, hanno ritemprato l’arte del romanzo.


Rovistando sin dentro la linfa del tempo, egli ha aper¬
to spiragli sin nelle radici dell’essere. L’uomo è pro¬
fondo!
L’apparecchio della vita interna, percepito nei suoi
arti più sottili, non poteva essere esposto con eloquen¬
za che superasse quella di libri come Matière et mé-
moire, L’évolution créatrice, Les données immédiates
de la conscience, ecc.
Non so se Proust possa interamente commentarsi in
base a Bergson, non oserei dire che Proust non abbia
avuto anche percezioni diverse, ch’egli non abbia per¬
cepito altri moventi e altri rapporti, ch’egli, partito da
un mondo bergsoniano, non abbia spinto la sua ana¬
lisi in zone dell’essere più inquietanti. So che, i nomi
di Proust e di Bergson sono inseparabili.
In un articolo precedente ci siamo intrattenuti di
Aimée 1 e abbiamo cercato di rendere evidente come,
partendo dal principio bergsoniano che, all’opposto
dell’istinto, il quale rivela la continuità, crea l’unità,
l’intelligenza gela, l’intelligenza voltando le spalle al¬
l’azione, va incontro alla perplessità e-alla disfatta, e
in ciò consiste il suo slancio vitale. L’esercizio dell’in¬
telligenza avrebbe dunque, come in Aimée si dimo¬
stra, una funzione disintegrante degli stati di coscien¬
za. E ci sarebbe facile citare altri esempi.2
LO STILE DI BERGSON
[19241

Chi ha avuto la fortuna di trovarsi tra gli uditori di


Bergson al « Collège de France », sa che cosa intendo
dire dicendo che la gran seduzione del suo stile ema¬
na dal suo modo, plasmando il suo pensiero nella cre¬
ta viva della parola, di rendere il suo sforzo visibile.
Le parole hanno per lui un significato « mobile ».
Bergson è titubante davanti alle parole. Qualcuno, per
esempio, gli ha mosso il rimprovero che, a seconda gli
fosse convenuto di collocarla, si servisse della parola
« intuizione » con significato sempre diverso. Il lucci¬
chio dello stile di Bergson è dovuto allo struggimento
del filosofo d’infonder vita alla parola profferita, vita
che provenga dalla parola precedente, che rimbalzi,
ricca d’un’altra sfumatura, dalla successiva, che circoli
così, più lieve e espressiva, e, conquistata la propria
verità profonda, si sciolga com’un’increspatura mari¬
na, lasciando al termine del discorso il lettore, avido
di certezza, pieno di sgomento. Boine ha cercato d’ac¬
climatare da noi questo stile, in seguito all’influenza
diretta di Bergson, o, forse, a quella interposta di Pé-
guy. (Quello stile pieno di zeppe di Péguy, che fa
pensare, più che a similitudini marine, al modo, sotter¬
raneo, di moltiplicarsi dei tuberi. Ciò che è profondo
nello stile di Péguy, è la nozione della terra. Il che
vale a dimostrare che, in arte, procedere da uno, appar¬
tenere a una data scuola, o che so io, non conta nul¬
la. La natura dell’individuo, immancabilmente, pre¬
vale.)
La stessa diffidenza che dimostra verso le parole,
Bergson la dimostra verso le idee, e di qui nasce un
88 Giuseppe Ungaretti

suo ,uso curiosissimo delle immagini. Teorico per ec¬


cellenza del tempo, di ciò ch’è essenzialmente musica¬
le, non riesce - e del pari, abbiam visto, gli è impos¬
sibile di lasciare la parola, che gli giunge vacillante,
senz’averla resa iridescente - a staccarsi da un’idea
senz’averla resa palpabile. È una contraddizione - e
Bergson se ne avvede - quella, di pretendere di dare
volume all’imponderabile, che gli rende grandi servizi
didattici, e, in più, lo svaga, e gli permette di dare
sfogo a un suo sottile dono di fantasia. Del quale do¬
no d’artista arguto, potremmo citare mille esempi. Ne
sceglieremo due in Durée et simultaneité che è il suo
ultimo libro.
Vuole tocchiate con mano che la relatività del tem¬
po, prospettata da Einstein, e il tempo, come l’intende
lui, son due cose distinte? Ecco, ridotto alla meglio, il
suo ventaglio d’immagini:
L’idea del tempo suscita un’idea di misura, di moto
descritto, d’orologio? Vi servo. Pronta una ridda d’oro¬
logi. E un treno scappa per un verso e la strada per
l’opposto, e la velocità della luce, fondamento metrico
del tempo, chi è sul treno, la vede in raggi simultanei.
A chi sta fermo giù in istrada, i raggi fanno l’effetto
di seguirsi. Anche la velocità della luce inganna. Non
è il tempo vero. Il tempo vero passa uguale per tutti,
per chi va comodo in vettura e per chi riprende fiato
sul ciglio d’una strada. Come, come? Ipso facto la ter¬
ra stessa diventa un orologio. Ma non s’eran fatti i
conti con un microbo pensante che, chi sa d’onde sbu¬
cato, senz’altro, sott’il naso vi mette il proprio oro¬
logio, e si pianta davanti al pianeta. Possono esistere
due letterati senza invidia? Possono esistere due oro¬
logi e andar d’accordo? Bergson ristrizza l’occhio, e
balza tutt’una sfilata di astronomi fantasmici. Gesum¬
maria, che ballo d’orologi, che cacofonia di tempi! E
Bergson, soddisfatto, si china e vi sussurra: « Ve l’a¬
vevo detto: ipotesi, convenzioni, finzioni scientifiche,
Scritti letterari 1918-1936 89

magia della scienza! Il tempo reale è uno solo: il tem¬


po psicologico, quello di cui potrebbe, a suo modo,
averne ogni anima rivelazione ».
Occorre v’apparisca ovvio, il rapporto tra tempo e
spazio? Bergson vi dirà: Supponete sia, il tempo, la
quarta dimensione d’una geometria a quattro dimen¬
sioni. E se accadesse che uno inventasse un cristiano
a due dimensioni? Potrebbe, quell’uno, scoprire una
geometria a tre dimensioni. Il suo prossimo non ca¬
pirebbe. Eppure, per noi, gente di tre dimensioni, è la
cosa più naturale del mondo.
Poi le cose si guastano, perché, anche in quel paese
a due dimensioni, entran in ballo gli spettri, ecc.
Si può essere fìlosofoni senz’avere il muso lungo
d’un venerdì.
Un’ultima osservazione, per concludere. La novità
delle immagini di Bergson, è tale - l’osservazione è di
Thibaudet - che nella prosa francese, paiono un po’
spaesate. « Se avvenisse » scrive Thibaudet « di para¬
gonare queste immagini a quelle (della stessa natura)
di Montaigne, si scorgerebbe in loro un’aria un po’ fo¬
resta, e ti parrebbe di riconoscere non i bimbi di casa,
ma le compagne di giuoco dei bimbi di casa. »
LE SECRET DE LAUTREAMONT
[1925]

Tels coteaux qui se succédaient avec un mouvement


de mer paisible, de mer en une baie, et s’encadraient
aux fenétres de ce train qui me ramenait l’autre jour,
de Bologne à Rome, couverts à peine d’une verdure
que le soleil matinal de mars assombrissait, en son
jeu indécis, et pàlissait, tour à tour, je ne les avais
jamais apergus avant ainsi, tout en étant passé bien des
fois par cette route, à cette mème saison. C’est que,
ce matin-là, j’étais absorbé par le souvenir de certains
paysages de Carlo Carrà, vus récemment.
Les théoriciens ont parfois remarqué que ce qui
nous touchait, j’entends, ce qui produisait en nous
une émotion d’ordre esthétique, n’était qu’un reflet
d’oeuvres d’art. Nos sens, disaient-ils, mème les plus
matériels, obéissent beaucoup moins à l’instinct qu’aux
gouts acquis. Nous serions également guidés lorsque
nous bàtissons l’univers ou nous plongeons, afin d’en
percevoir les mutations, et pour connaitre l’homme,
dans le Hot de la conscience, et lorsque nous sollici-
tons de la vie des attitudes. Une vocation serait beau¬
coup moins un fait individuel qu’un fait social.
Si ces conjectures se rapprochent de la vérité, le cas
de Lautréamont nous apparaitra sous deux aspects.
Nous le verrons d’abord se situer dans l’histoire, et
nous verrons que l’ceuvre de Lautréamont se forme en
une période où le romantisme, au déclin, de doctrine
de Théroisme, qu’il était-à son éclosion, est devenu
doctrine du désespoir.
Du balbutiement initial, des convoitises de la jeu-
nesse, àge déclamatoire, tout épris de l’extérieur, de
Scritti letterari 1918-1936 91

l’élan de cet àge heureux, nous tombons, infaillible-


ment, en un temps où, l’esprit critique s’étant insi-
nué, rhomme troublé se replie sur lui-mème, et, du
fond de son ètre, ne s’arrache, avec une pudeur extrè-
me, que des cris pleins de drame. C’est l’espace franchi
de Hugo à Baudelaire.
Le cadre bien déterminé où, forcément, Lautréamont
aura à se mouvoir, est bien de la generation qui suit
celle de Baudelaire.

Le second aspect de son cas, nous place au pian de


l’absolu. De là, nous verrons son oeuvre se livrer à
la légende. Lautréamont possède la qualité qui révèle
le génie. Gràce à elle - c’est le lot de la liberté de
l’homme, de sa dignité, de son originalité - il se saisira
des éléments de son cadre, les bouleversera. Et le
cadre se trouvera ainsi rompu, et remplacé par une
interprétation nouvelle de tout.

Ce qui déroute dans Les Chants de Maldoror - les


symbolistes n’y ont vu que quelques images somp-
tueuses, - c’est la manière brusque de passer d’un ton
à l’autre. Ne se réglant que sur la lucidité parfaite
de son vertige intérieur, de son humour, voici son
aveu:
« Mes raisonnements se choqueront quelquefois con-
tre les grelots de la folie et l’apparence sérieuse de ce
qui n’est en somme que grotesque (quoique, d’après
certains philosophes, il soit assez difficile de distinguer
le bouffon du mélancolique, la vie elle-mème étant un
drame comique ou une comédie dramatique). » « Moi,
je ne sais pas rire. » « Je ne puis m’empècher de rire,
me répondrez-vous; j’accepte cette explication absurde,
mais, alors, que ce soit un rire mélancolique. Riez,
mais pleurez en mème temps. Si vous ne pouvez pas
pleurer par les yeux, pleurez par la bouche. Est-ce
encore impossible, urinez. »
92 Giuseppe Ungaretti

L'autréamont passe, sans crier gare, du ton idyllique


au ton sarcastique, du ton épique au ton didactique,
etc. Je suis surpris que l’on s’étonne qu’une tentative
si extraordinaire, n’ait suggéré pendant longtemps, que
l’idée de folie.
Écoutons-le s’expliquer lui mème:
« Le système des gammes, des modes et de leur
enchainement harmonique ne repose pas sur des lois
naturelles invariables, mais il est, au contraire, la con-
séquence de principes esthétiques qui ont varié avec le
développement progressif de l’humanité, et qui varie-
ront encore. »
C’est dans « l’enchainement harmonique » que s’est
produite sa première révolution. Par cette révolution,
il entreprend sa carrière d’inventeur.

Fou? D’après M. Psychiàtre, qui ne le serait point?


Fou? Qu’on le traitera de fou, il le prévoit tout au
long de son oeuvre. Ne dit-il pas au chant premier de
Maldoror, à la dixième strophe, en ce passage qui res-
semble plus que les autres à une note autobiographi-
que:
« Les uns disent qu’il est accablé dune espèce de
folie originelle, depuis son enfance. »
Et, au chant second, à la strophe vingt-et-unième,
la plus émouvante de toutes, celle de l’hermaphrodite:
« On le prend généralement pour un fou. »
Ailleurs, nous l’entendrons s’écrier:
« Si quelqu’un a du génie, on le fait passer pour
un fou. »
Etc. Il est vrai qu’il prévoit aussi l’arrivée de lec-
teurs moins présomptueux:
« La frontière entre ton gout et le mien est invisi-
ble; tu ne pourras la saisir: preuve que cette frontière
elle-mème n’existe pas. »

Ce qui m’étonne, c’est la logique à outrance de Lau-


Scritti letterari 1918-1936 93

tréamont. Il discerne, avec une précision cruelle, les


limites de chaque mode du langage, et démontre que
le mode lyrique est le plus illimité. Les échos de ses
grandes images se croisent d’un bout à l’autre de son
poème. Ce retentissement, par un art qu’on serait ten-
té de comparer - l’Océan était si familier au poète
- à l’attrait de la lune s’exergant sur les vagues, non
seulement ordonne en chants et en strophes le poème,
mais il en organise aussi l’unité impeccable.

Le terrain moral de Maldoror, le terrain où pous-


sent ses chants luxuriants, est le terrain moral de
l’homme moderne, un enfer. La brutalité et la délica-
tesse s’y livrent une lutte qui rend perplexe, qui en-
gendre un état de pudeur et de solitude. Cet état con-
nait quand mème un paradis: le sommeil visite par le
rève. Nous ne possédons plus qu’un pauvre paradis:
l’illusion, la métaphore:
« Cette figure de rhétorique rend beaucoup plus de
Services aux aspirations humaines vers l’infini que ne
s’efforcent de se le figurer ordinairement ceux qui sont
imbus de préjugés ou d’idées fausses, ce qui est la
méme chose. »

Les Poésies - le fait que ces Poésies, volontairement


ou non, ne se résument pour nous qu’en une préface,
est d’une ironie sans pareille - recèlent une amer-
tume d’une tension infiniment plus haute que celle
des Chants.
Quoique ambigu, le mot des Chants était commandé
par une certaine foi et gardait, mème aux yeux du
poète, sa faculté de transfiguration. Lautréamont s’in-
géniait à dilater cette faculté, jusqu’à l’éclat - c’était
son unique moyen d’extase. Il lui suffisait de mèler
àcrement l’ordre moral à l’ordre physique, et de se fi¬
gurer notre enfer moral comme un drame aux racines
de la vie, un drame sexuei.
94 Giuseppe Ungaretti

Au moment des Poésies, il semble n’avoir plus au-


cune confìance dans le mot. Son discours est la révé-
lation d’un lourd secret. Il a'appris que le lyrisme
mème n’a qu’un domaine exigu. Il s’est apergu de
l’identité des contraires, mème dans le jeu des mots.
La maxime d’un célèbre penseur, peut ètre renversée,
il en sortirà - pourvu qu’un sophiste passe par là -
l’énoncé d’une vérité également acceptable. On peut
n’y changer qu’un mot, ou simplement déplacer ce
mot, et ce sera encore une vérité valable. On peut
varier ainsi à l’infìni le contenu d’une phrase, s’en
servir pour mille effets, différents, opposés ou analo-
gues, à son gré. Que vaut donc le mot? Tout et rien.
Et puisque le mot n’a plus, pour lui, aucune valeur
subjective, il le tient dans son poing comme une ar¬
me terrible.
Il ne reste enfìn au poète qu’à donner, à n’importe
quoi, un semblant de certitude.

Rome, avril 1925


ANDRE GIDE
[1925]

Non mi pare ci sia uno scrittore, in oggi, moralmente


più nomade di Gide, più inquieto della forma, e, non
senza ferirsi, -più di lui attaccato alle cose in voga.
Gide tien conto del mondo, dell’opinione pubblica, più
di quanto vorrebbe trapelasse. Ed è gran dote. Quel
considerar l’arte come una giostra, nella quale le pro¬
prie mosse van proporzionate a quelle dell’avversario
(un pubblico quasi di propria scelta, iniziato, con il
quale non c’è da aspettarsi interventi della fortuna,
e la precisione dei colpi sarà rigorosissima) affinché
quelle dell’avversario finiscano col subordinarsi alle
proprie, dà subito a un’opera d’arte, senza bisogno di
aspettare che la patini il tempo, che il tempo le ela¬
bori attorno una seduzione leggendaria, la sua potenza
di irradiamento e d’attrazione. C’è nelle opere di Gide,
anche in quelle apparentemente sovversive, un sostra¬
to di impaziente opportunità, certo più di quanto a
noi Italiani, la Dio mercè provinciali, non apparisca.
E meno apparirà ai posteri. Direi quasi che i suoi ge¬
sti eccessivi Gide li compia suo malgrado, per vincere
la sua nativa timidezza, e ristabilisca l’equilibrio, col¬
l’aiuto di quell’accortezza che non mai l’abbandona,
ricorrendo a una meticolosa austerità di parola. Direi
inoltre che così gli nasca, e per quel suo dono di sem¬
pre tutto scorger subito da ogni lato, quell’impercet-
tibile vena di agro che fa tanto lucida la sua prosa. Mi
riferisco in particolare alle sue opere della seconda tap¬
pa. La vita letteraria di Gide può, infatti - è parso
a più di un critico - dividersi, sin qui, in due mete
varcate.
96 Giuseppe Ungaretti

Il periodo iniziale si chiude con Les Nourritures


Terrestres. Siamo in un ambito di Mille e Una Notte.
La curiosità alleva, e l’esultanza. L’essere si effonde a
colorire l’attimo. L’io è il faro di un mondo sempre
diverso. Oscilla nella burrasca, col primo raggio mat¬
tutino si fa scherzoso, al sereno è un lamento occulto.
Nel meriggio, sitibondo si spegne.
Come dopo questi abbandoni lirici, questa voluttà
librata, Gide sia rimasto colpito dall’antinomia tra in¬
dividuo e società, è un problema. Il fatto sta che ad
un tratto gli par d’essere tutto circondato da precipizi
morali. E da quel momento la sua opera (che ha su¬
bito - da fluida e chiara e giuliva come una fonte, fat¬
tasi secca e fremente come una corda musicale tesa -
anche un notevole progresso di forma) si ripiega in una
ricerca ansiosa, e scaltra, d’evasioni.
Può ritrovarsi la libertà nella disciplina? Si tuffa in
dibattiti eleganti. La Porte Etroite mostra la rinunzia
all’appagamento dei sensi affinché il sentimento si affi¬
ni e appieno si disfreni. Non m’è mai sembrata più tra¬
gica la solitudine d’un essere come a lettura finita di
quel racconto.
Poi se la piglia colla giustizia. Nei Souvenirs de la
Cour d’Assises non fa professione d’anarchia - come
potrebbe, così assetato d’armonia? - ma discredita il
diritto di giudicare. Non osa attaccare di fronte l’isti¬
tuto più sacro della società. Al cospetto del tribunale
- anzi, per un quarto d’ora giurato, egli stesso magi¬
strato - si sente avvinto d’un ingenuo ossequio. Ciò
che gli permette, tanto più ferocemente quanto più in¬
volontariamente, esaminando il caso propostogli, di
scoppiare in una sorda risata. L’individuo è ovunque,
eternamente, leso!
A questo punto Gide si rinviene sopra un’altura,
dalla quale può guardare lontano in giro, senza pren¬
dere parte alle contese di sotto. È la prima volta che
muove i fili d’un’avventura, e complicata, olimpica-
Scrìtti letterari 1918-1936 97

mente. Tra l’individuo e la società ha trovato la di¬


stanza necessaria per salvaguardarsi, e son nate Les
Caves du Vaticani Ha preso i personaggi di Bourget,
ha fatto far loro una capriola, e con sorprendente feli¬
cita ha edificato la satira più spassosa, e più corrosiva,
dei nostri tempi. In mezzo a quei pasticci, ha sguin¬
zagliato Lafcadio che, con gusto matto - e con che
grazia! - la fa da diavolo.

Il puro rivo d’amore sgorgato dalla castità, l’ironia,


l’atteggiamento del burattinaio, devono essere state
mediocri evasioni. E Gide non tarda a ripresentarsi
a noi con il suo conflitto profondo.
E pare si ricapitoli.
Ecco le sue preoccupazioni, tutte tornate, e più cru¬
de, nella raccolta di saggi pubblicata poco fa sotto il
titolo d’lncidences.
In Incidences ha incluso un dialogo con un Cinese
e una disamina dAY Armane e di Stendhal che ben met¬
tono a nudo l’odierno esacerbamento.
Conversando col Cinese, rileva la contraddizione esi¬
stente tra l’indole degli Occidentali e i loro fondamen¬
ti morali, li detti il protestantesimo o il cattolicismo,
e in quest’opposizione vede una scuola d’individuali¬
smo. « Solo presso i popoli cristiani » osserva il Cine¬
se « i costumi, gli istituti, l’aspetto stesso della socie¬
tà, non sono foggiati secondo le credenze... » « Già »
replica tra sé e sé Gide, non pensando più alla sua
idea di vivaio d’egoismo, che aveva appena finito d’e¬
sprimere « la cagione del nostro malessere è che reli¬
gione e civiltà ci strappano in senso contrario, e che
nulla, in alcun senso, ci riesce puro. Non consentendo
a mollare la prima né l’altra, abbiamo fatto dell’Eu¬
ropa il luogo della menzogna e del compromesso. »
La prefazione a\Y Armance si chiude con questo gri¬
do: « Penso alla frase tremenda di Tolstoi che Gorki
ci ha riferito: L’uomo sopravvive al terremoto, all’epi-
98 Giuseppe Ungaretti

demìa, agli orrori della malattia, e a tutte le agonie


dell’animo; ma la tragedia che l’ha sempre tormentato,
che più lo tormenta e lo tormenterà, è - e sarà - la
tragedia dell’alcova ».
Credo fermamente che la tentazione di concorrere a
riformare i costumi, con un libretto superfluo com’è
Corydon or ora uscito in luce, gli sia venuta - e forse
mi sbaglierò cronologicamente, ma la cronologia è spes¬
so un modo molto superficiale di mettere in ordine -
da considerazioni come quelle suggeritegli dal Manda¬
rino e dal dramma immaginato da Stendhal.
E crede Gide, quando, e secondo i suoi voti, l’Eu¬
ropa si fosse rifatta, che vi regnerebbe la felicità? E
quel giorno, da quale altro miraggio lo vedremmo lu¬
singato?
La forza di Gide, la forza dell’arte, la forza della
poesia è di rinascere dalle ceneri della delusione.

Si chiede il critico più acuto e devoto che Gide po¬


tesse augurarsi: « Tanto cambia, e sotto i nostri occhi,
non ci piglierebbe in giro? ».
In verità, non si può esser seri più di Gide. La se¬
rietà è la sua stessa ragion d’essere, è il fuoco che
muove e illumina la sua inquietudine. Ha bisogno di
regola come d’aria per vivere. Per lo stile non ha avu¬
to che da voltarsi verso la salita della tradizione.
Dobbiamo imputargli a colpa che, mentre un rivol¬
gimento, ormai secolare, che non pare vicino a sedarsi,
rovina principi e rapporti, egli con il suo cuore offerto
ai morsi dell’aspide, non ritrovi mai uguale, allo spec¬
chio di tempi variabili, il viso dei suoi pensieri?
Idolatra dell’istinto, prima, della ragione, poi, gli
rimprovereremmo di chiedere ora alla sua opera una
coerenza, una segreta unità? di accorgersi spaventato
« che esiste » sono sue parole a proposito di Baude¬
laire e di Dostoievski « di fronte alla forza di coesione
per la quale l’individuo tende a perseverare nel suo
Scritti letterari 1918-1936 99

essere, un’altra forza, centrifuga e disgregante, per la


quale l’individuo tende a dividersi, a dissociarsi, a giuo-
carsi, a perdersi »?
Il suo proselitismo, la sua pedagogia è d’affilare sul¬
la pietra del peccato, il rasoio della virtù. Chiedo per¬
dono di mescolare cose sante a profanissime, ma mi
pare che non la pensasse diversamente, Gesù. A brac¬
cia aperte non accoglieva che gente traviata, o ingenui.
Sprezzava i farisei e la gente sensata. Incita e induce
i discepoli a staccarsi dalla prole, dai genitori, dalla
sposa, a abbandonare casa, mestiere, consuetudini, li
sposta, li fa uomini di ventura, eroi. Vero è che, una
volta sulla sua strada, non li vuole più d’altro bramosi,
impiegando l’innocenza degli uni, degli altri, l’esperien¬
za, che della gloria del Padre.
Lo spirito del Vangelo dorme nel Vangelo.

S’è visto Gide soffrire della disarmonia tra società


e individuo; non s’è detto che fosse intollerante verso
la società. Gli butteremo la prima pietra se, non sa¬
pendo rassegnarsi a nutrirsi solo di locuste, provatosi
a separare bene da male, s’è riaccorto, col Blake del
Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, « che l’uomo non
ha un corpo distinto dalla sua anima, che ciò che si
chiama corpo è una parte dell’anima, svelata dai cin¬
que sensi, quaggiù »? Non ha sempre cercato di nobi¬
litare la vita? Siamogli grati di avere dato vastità al
dominio del desiderio.
« LA RINOMANZA DI PAUL VALÉRY
[1925]

L’arrivo di Valéry a un seggio dell’Accademia di Fran¬


cia, non dovrebbe sorprendere. E che, solo frequen¬
tando salotti, come fa da alcuni anni, si sia fatto stra¬
da, è azzardoso dirlo. In una società avviata, i salotti
hanno la loro funzione, e in Francia, e non da oggi,
ne hanno una notevole. Ma quantunque l’abbiano chia¬
mato a succedere a un uomo che ambiva sentirsi cir¬
confuso di gloria in un salotto - e conobbe a iosa
quelle consolazioni — e l’Accademia stessa sia un sa¬
lotto, bisogna ammettere che i salotti, di solito, non
aggiungono che un’aria di amabile congiura al chiasso
di fuori. Volendo in qualche modo accostarlo al suo
predecessore Anatole France, si rileverebbe che, cia¬
scuno entro il suo tempo, rappresentano entrambi,
agli occhi ufficiali, la conservazione del tradizionale
prestigio letterario della Francia. Senza dubbio, a due
o tre accademici - a Henri de Régnier, per esempio
- la sua opera è famigliare. Per la maggior parte è un
pruno in un occhio. Ma se ne discute ovunque... quei
pochi libri d’idee concentrate, di poesia distillata sono
tradotti in tutte le lingue...
Sette o ott’anni fa, Valéry era noto a pochissimi.
Fuori di Francia non a più di dieci persone. Gide gli
era fedele. E voleva figurasse nella « Nouvelle Revue
Frangaise », e non si stancava di fargli premura per
disporlo a raccogliere le poesie disperse in rivistine in¬
trovabili. Finalmente, molto rimaneggiate, le poesie ri¬
videro la luce sotto il titolo di Album de vers anciens.
E aveva toccato alcuni giovani, i più inquieti della
generazione uscita d’adolescenza durante la guerra. La
Scritti letterari 1918-1936 101

Soirée avec M. Teste, ripubblicata da Vers et Prose


nel 1913, li aveva sedotti e turbati. E quando decise¬
ro di fare una rivista, fu dietro suo consiglio che —
Breton, Soupault e Aragon - la chiamarono, per iro¬
nia, « Littérature ».
È un primo punto. Essersi accorto, lui, discepolo
di Mallarmé, compagno di Pierre Louys, dell’angustia
della pretesa di ridurre la vita in problemi letterari,
e l’averlo proclamato, e non solo essersi sentito a di¬
sagio in ogni etica, metafìsica o estetica prestabilita,
e essersi reso conto che anche l’io più riposto dipen¬
deva (bastava spostarvi un granellino per scombusso¬
larne tutti i rapporti) dalla minima contingenza - era
una professione spietata di dubbio della quale, quan¬
do fu resa pubblica la prima volta, tanti anni fa, non
poteva essere intesa la pienezza umana, non ostante
l’originalità della prosa - di quell’originalità non ma¬
ravigliava che la eleganza verbale (si credeva che la pa¬
rola avesse un potere magico, e l’avesse in sé - e non
era tutto errore), nessuno vedeva il prodigio dov’era,
nella violenta aderenza della lettera allo spirito. Alcu¬
ni anni fa, la Soirée rispondeva a uno stato d’animo
diffuso.
Risaliamo gli anni. Voltate le spalle alla letteratura,
compresa quella sopraffina, e non per orgoglio, non per
ambizione più alta persino di quella dei suoi compa¬
gni che consideravano, poiché Les fleurs du mal ave¬
vano avuto fortuna di pubblico, segno che non fosse¬
ro interamente monde di volgarità - ma per sgomen¬
to, Valéry si tuffa nelle sue meditazioni. Le matemati¬
che predilette e ogni scienza l’assorbono. E riflette
molto sull’uomo, sull’uomo in sé, e sull’uomo sociale.
L’idea leonardesca, che il nostro corpo sia fonte ine¬
sauribile di studio, che nella contemplazione della na¬
tura vada ricercato ogni stimolo intellettuale e ogni
legge, e il pensiero greco, che l’anima sia forma, fini¬
scono di conquiderlo. È ciò che chiamano il suo narci-
102 Giuseppe Ungaretti

sismo, dal titolo del suo primo poema e del suo car¬
me più recente.
Di tanto in tanto - di rado - faceva capolino in
piazza. Sono di quegli anni i suoi « metodi », dal
« metodo di Leonardo » alla « conquista metodica »,
saggio l’ultimo, per una rivista inglese, nel quale esa¬
mina, quando (nel 1895) nessuno si sognava di pensa¬
re al pericolo tedesco, lo sviluppo crescente della Ger¬
mania e le conseguenze estreme di quello sviluppo.
Era naturalissimo che, nello sfacelo del dopoguerra,
gli sguardi si volgessero verso chi, nella sua opera, gui¬
datici nel labirinto del nostro sgomento, c’insegnava
poi a rinfrancarci. A riavere se non proprio fede, la
persuasione almeno di essersi radicato in una civiltà,
con chiara passione aveva sviscerato i metodi, dichia¬
rato con eloquenza l’efficacia della volontà ordinata a
un fine, l’importanza travolgente, incalcolabile, d’uno
sforzo ostinatamente compiuto in un unico senso. È
il secondo punto.

Non voglio rimpicciolire l’opera poetica di Valéry.


Ha, come ogni vera opera d’arte, un suo valore asso¬
luto, che è stato, in Italia, già fissato da altri, e otti¬
mamente, e so che un italiano sta preparando, intorno
a questo valore, un ampio e preciso discorso. Se non
entro nel merito dell’opera, e mi accontento dell’accen¬
no fatto alle circostanze che hanno reso, quest’opera
viva di difficoltà, quasi popolare in Europa, è inoltre
perché m’è parso non convenisse, impiegando diversa-
mente lo spazio concessomi, di lasciarsi scappare l’oc¬
casione di cogliere in flagrante che la fama, la grande
fama, non risulti tanto dall’eccellenza dell’opera - qui
casualmente è eccellente - quanto dalla sua opportu¬
nità che può manifestarsi subito dopo la nascita del¬
l’opera, come cinque lustri, un secolo, mille anni do¬
po, non manifestarsi mai. Non disperiamoci.
E- un altra cosa mi premeva di fare intravedere, ed
Scritti letterari 1918-1936 103

è che Valéry ha dilucidato da sé la sua poesia, che il


terreno della sua fama se l’è preparato colla sua ope¬
ra filosofica, dalla quale ha tratto la sostanza della sua
poesia.
Scrivere versi per Valéry non è un fine, è un mezzo
di suprema disciplina spirituale. E perciò usa le for¬
me più chiuse, ricorre alla tradizione più rigida, s’o¬
stina a dominare la materia più ostile. Non crede al
mistero, ma crede a blocchi di buio da diradare. Si
serve della pQesia come del faro più splendente, nelle
procelle della conoscenza. La logica ha l’immenso cam¬
po di ciò che è dimostrabile, e dove più non arriva,
illumina la poesia.

In conclusione, il poeta di Charmes, il « cinquecen¬


tesco » scolare di Platone, che non cela che dal Pe¬
trarca, dal Machiavelli, da Leonardo gli vengono i do¬
ni più grandi, il prosatore dell’Àme et la Danse e di
Eupalinos ou VArchitecte (ha in serbo — per carità,
non mi si attribuisca mania di paragoni - anche un
enorme zibaldone — e un paragone con Leopardi si
potrebbe sempre fare, non dico per lo spirito e la qua¬
lità dell’opera, diversissimi, ma per lo svolgimento,
e c’è analogia tra i due anche nella facoltà d’equili¬
brio) è attuale perché ha sanato il dissidio tra con¬
venzione e creazione, tra miracolo e mestiere, tra clas¬
sicismo e romanticismo, perché al massimo turbamen¬
to ha opposto, anzi ha conciliato, il massimo rigore.
Quest’insegnamento ha già dato i suoi frutti.
•VA CITATO LEOPARDI PER VALÉRY?
[1926]

Uno dei rari uomini viventi che abbiano qualche cosa


da insegnarmi in poesia, in questo mestiere faticosis¬
simo, pieno d’insidie e di scoraggiamenti, che ho ab¬
bracciato, è Paul Valéry. L’ho spesso riconosciuto in
pubblico, e sono lieto che mi s’offra l’occasione di di¬
chiararlo ancora.
L’imitatore è stolto, compreso chi a modello si eleg¬
ga la natura, poiché colle parole o coi colori non si
riprodurrà un albero, ma si darà un’immagine di quel¬
l’albero, non si esprimerà che un momento della pro¬
pria umanità. Conoscere i caratteri d’un paese, per
esempio, o quello della grazia, non è che potenza, ca¬
pacità d’accumulazione e d’espansione (potenza di sen¬
sibilità e di giudizio) del proprio essere messo alla pro¬
va. Se leggo:

Mirava il del sereno,


Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte}

m’accorgo che non il paesaggio è toccante, ma il si¬


gnificato di rimpianto, la musica che, sorgente dalla
vena di quel mirava, fattasi vasta in sereno, a dorate
segnata l’ora, pare, all’ostacolo monte, si riprecipiti,
da lungi, dopo l’imperdonabile quinci il mar, a traboc¬
care dalla polla. E tutto è fermo in mirava, e passato.
(L’uso dell’imperfetto nel Leopardi è una delle cose
più musicali di questo mondo.) Mirava, da lungi, rac¬
chiudono l’onda. L’arte del Leopardi consiste in si¬
tuare in lontananza cose consuete. Filologo sommo, la
Scritti letterari 1918-1936 105

prospettiva gli era naturalmente suggerita. Può usare


la parola più logora, darle profondità temporale, e co¬
glierla, col giuoco scaltrissimo della collocazione, al
germoglio etimologico. E pare impossibile, ma non
per nausea dei suoi pensieri, ma per nausea di filolo¬
gia canta. Le sue prose, le ha constantemente deplo¬
rate, per essere esse ancora troppo nelle fasce della
scienza, e troppo poco ancora sapersi muovere colla li¬
bertà della poesia. La quale deve secondare la natu¬
ra; e, nel significato leopardiano, la natura è l’intero
essere, colla sua vocazione, le sue sensazioni, le sue at¬
titudini, le sue disposizioni, le sue preferenze, i suoi
pensieri, il suo sentimento.
Valéry mi sorprende e mi seduce non porgendo
degli esempi da imitare, ma avviando a riaccorgersi
d’un’infinità di risorse e di effetti della parola. Chi è
pensoso di esprimersi il più precisamente possibile, gli
è grato.
Credo che il dono di suggestiva lucidità gli venga
dall’essersi rivolto il pensiero come motivo di dialo¬
go. Ogni oggetto gli dà pretesto di pensiero, intorno
all’oggetto, per definirlo, e intorno al pensiero così
nato, per ritrovarsi. Il suo frutto lirico matura nella
conversazione di questi due pensieri. Lo stesso mestie¬
re, sotto forma di distrazione crudele, gli è stimolo di
pensiero.

Amo il pensiero come altri ama il nudo, che disegne¬


rebbe tutta la sua vita.

Dopo il Leopardi, nessun altro poeta ha dato tanto


peso al pensiero. E quale piena patetica dissimuli (ec¬
co un capitolo d’estetica attraente: il pudore in arte)
mediante preziosità di forma, lo sappiamo da quel suo
saggio sull’Europa, che apre Variété, scritto per una
rivista inglese appena finita la guerra, dove l’angoscia
è tanta che non la può più dissimulare, e mormora:
106 Giuseppe Ungaretti

Oggi sappiamo che anche una civiltà può perire.

Gli appunti e ricordi che Valéry * va pubblicando


presso diversi editori potrebbero anch’essi prendere il
nome di Zibaldone, o di Pensieri di varia filosofia e
di bella letteratura, e l’ultimo quaderno ** che ora mi
arriva, che reca un titolo marino, che s’apre con un
abbozzo lirico su Genova (avendovi parenti, è la città
italiana dove Valéry s’è trattenuto di più, più volte),
che contiene la seguente definizione dell’italianità:

Semplicità di vita - nudità interiore - bisogni ridotti


al minimo - gusto del reale spinto all’essenziale. -
Fondo cupo e leggerezza ma sempre attenta. - Spen¬
sieratezza e... profondità. Segreto.
Pessimismo tutto contraddetto d’attività. Depretia-
tio. Tendenza ai limiti. - Passaggio immediato ad in-
finitum,

che offre pagine di maestria d’arte come quelle sul


caffeuccio, che, nelle pagine sul suicidio, presenta un
esempio compiuto del modo di sviscerare un argo¬
mento, ecc. Quest’ultimo quaderno specialmente m’è
caro perché, rafforzando appunto certe mie convinzio¬
ni, m’avvicina di più il Leopardi a Valéry. Non è pos¬
sibile che due approfondiscano lo stesso argomento
senz’arrivare a conclusioni pressoché uguali.
Una lingua, secondo il Leopardi, non è atta all’ele¬
ganza al suo esordio, ma alla sua maturità, quando,
già avendo fornito a dovizia scrittori e poeti, è in gra¬
do di offrire gran copia di parole e modi rari. E qui
il Leopardi aggiunge osservazioni sull’indole popolare
della lingua italiana. L’eleganza

* La raccolta principale è quella che si pubblica all’Aia, 16,


Pijnboomstraat, per cura dello stampatore Stols.
** Rhumbs, Paris, Le Divan, 17 rue Bonaparte.
Scritti letterari 1918-1936 107

... deriva dall’uso peregrino e ardito e figurato e non


logico, delle parole e locuzioni. Ora quest’uso è tutto
proprio della favella popolare, proprio per natura, pro¬
prio in tutti i climi e tempi, ma sopratutto ne’ tempi
antichi e in quelle nazioni che più tengono dell’antico
e ne’ climi meridionali. Quindi è che lo stesso esser
popolare per indole dà a una lingua la facoltà e la fa¬
cilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla favella
parlata... Insomma, l’indole popolare di una lingua rin¬
chiude tutte le qualità delle quali una lingua uma¬
na possa essere capace, siccome la natura rinchiude
tutte le qualità e facoltà di cui l’uomo o il vivente è
suscettibile, ossia le disposizioni a tutte le facoltà pos¬
sibili; rinchiude il poetico come il logico e il mate¬
matico, ecc.

Il merito di alcuni poeti francesi dell’Ottocento


(Hugo, Mallarmé, ecc.) è d’avere cercato di cambiare
con tentativo disperato, cercando di renderla in qual¬
che modo popolare (popolare precisamente nel signi¬
ficato leopardiano di lingua ubbidiente a ogni esigenza
umana, fatta non a uso particolare d’un ceto, ma, na¬
turale, a immagine di leggi universali), l’indole della
lingua francese, tendente al gergo,

<■<• modellata nella conversazione civile, sopra un an¬


damento di convenzione »,
« tentando » cito Valéry « di formare discorsi non u-
mani, e in qualche maniera “assoluti” - discorsi che
suggeriscono non so qual essere indipendente da ogni
persona - una divinità del linguaggio - che l’Onnipoten¬
za del Complesso delle Parole illumina. È la facoltà di
parlare che parla; e parlando, s’inebria; e ebra, balla. »

Prosegue il Leopardi:

Il modo di usar l’antico e il moderno e tutte le risor-


108 Giuseppe Ungaretti

se Sella lingua, in vista e con intenzioni di fare uno


stile e una maniera né familiare né antica, ma elegante
in generale, nobile, maestosa, "distinta affatto dal dir
comune, e proprio di una ch’è già atta allo stile perfet¬
to, quale è appunto quello di Cicerone nella prosa e
quello di Virgilio nella poesia (stile usato quando la
lingua latina era appunto in quelle circostanze e quello
stato di capacità in cui è ora la lingua nostra): que¬
sto modo non è stato non che usato, ma concepito né
inteso da quasi niuno, comeché egli è forse il solo con¬
veniente, il solo perfetto, e convenevole a una lingua
o letteratura già perfetta.

E a Valéry, erede di Mallarmé, vengono in mente le


considerazioni seguenti:

Ciò che caratterizza una letteratura di decadenza, è la


perfezione - sono le perfezioni. E non può essere altri¬
menti. È l’abilità crescente, e sempre più spirito, più
sensualità, più combinazioni, più dissimulazione delle
penose necessità; più intelligenza, profondità, e insom¬
ma più « conoscenza dell’uomo », dei bisogni e delle
reazioni del soggetto lettore, delle risorse e degli effet¬
ti del linguaggio, più dominio di sé - l’autore.
Virgilio è il tipo.

Una delle grandi novità del Leopardi è d’avere ri¬


messo in luce la musica delle parole. Una musica che
non ha bisogno d’altre musiche. E difatti, i libretti
d’opera, che devono adattarsi alla musica, sono di so¬
lito una povera cosa stiracchiata, la meno musicale di
questo mondo. Il Leopardi chiama poetiche quelle
parole

che destano un’idea senza limiti e non possibile a con¬


cepirsi interamente,
Scritti letterari 1918-1936 109

che destano idee vaste e indefinite e non determina¬


bili e confuse;

e gli desterà piacere, per il vago dell’idea:

una voce o un suono lontano, o decrescente o allonta-


nàntesi a poco a poco, o echeggiante con un’apparenza
di vastità, ecc. ecc.

Dal puro punto di vista della musica si guardi come


intorno' al ripetersi di or, distesa e breve prima, som¬
messa e lunghissima poi, si adunano le altre sillabe in
un bellissimo verso leopardiano:

Le vie dorate e gli orti

E Valéry, discepolo di Mallarmé, insegnerà:

Le vie di Musica e di Poesia si incrociano.


La potenza dei versi consiste in un’armonia « inde¬
finibile » tra ciò che « dicono » e ciò che « sono ».
« Indefinibile » entra nella definizione.. Quest’armonia
non dev’essere definibile. Quando lo è, è armonia
« imitativa », e non è bene.
L’impossibilità di definire tale relazione, combinata
coll’impossibilità di negarla, costituisce l’essenza del
verso.

Altre testimonianze in questa sede sarebbero sover¬


chie.
Spero che qualche lettore si sarà persuaso che poe¬
sia non è più per Valéry, com’era per Mallarmé, una
divinità verbale, e spero che tra il Leopardi e Valéry,
avrà notato questo distacco: mentre per il Leopardi,
la poesia nata come per Valéry da un dialogo dramma¬
tico tra l’essere e il conoscere, scioglie il dramma, dis¬
simulando la preziosità delle parole, nel dolce naufra-
HO Giuseppe Ungaretti

gio del sentimento, il dramma per Valéry permane in


divenire perenne: Narciso e la corrente che lo riflette.
Sono grato a Valéry d’avermi fatto, dicendo:

Sono sulla china. I miei piedi in una sabbia insieme


con essa scendono

sentire il tempo come non saprà mai nessun collezioni¬


sta di clessidre.
INTRODUZIONE A « EUPALINO »
[1932]

Nel dialogo di Eupalino, dove argomento è l’affanno


per la morte e 1 immortalità, questo grande affanno
umano non «, trova corpo » se non nella trasparenza
fluente duna memoria purificata. Dice Socrate a Fe¬
dro:

Guardati intorno, ascolta.


Non odo nulla e scorgo ben poco.
Perché, forse, non sei morto abbastanza.

Siamo - sono bastate tre battute - già entrati nel se¬


greto dell’arte di Valéry, che è di svolgere le sue ri¬
flessioni come se già avesse superato la vita. Ha torto
di toccarci il cuore, introducendo negli spettacoli nuo¬
vi una loro eco, come se già fossimo di mille anni fa?
Posizione - questa di considerarsi, non per superbia,
ma per una fedeltà più delicata e meno precaria al¬
l’ispirazione, immortali da vivi - che la poesia dopo
il Petrarca usa prendere nei modi più diversi, e sem¬
pre molto seducenti essendo estremi. Qui non è modo
scevro di ironia, portando a queste battute finali:

fedro. Ma vuoi dunque tu nell'eternità rievocare


tutte le parole che ti fecero immortale?
socrate. Laggiù immortale; relativamente ai morta¬
li1.... Ma qui... Non v’è qui, e tutto ciò che abbiamo
detto può essere il giuoco naturale del silenzio di
quest’inferni, come la fantasia di qualche retore del¬
l’altro mondo che ci avesse scambiato per marionette!
fedro. In ciò rigorosamente consiste l’immortalità.
112 Giuseppe Ungaretti

La quale immortalità « trova corpo », si diceva: non


essendo mai assente dalle meditazioni di Valéry quel¬
l’immediato strumento della realtà che è per l’indivi¬
duo umano il proprio corpo, e ponendo questo Dialogo
anche il problema della forma, ed essendo la civiltà
« una somma di opere » ed « una tensione a nuova
arte », si rilegga il passo:

eupalino. Quando penso una dimora (sia essa per gli


dei £> per un uomo), quando ne ricerco la forma con
amore,, studiandomi di creare un oggetto che ricrei lo
sguardo, tconversi collo spirito, s’accordi colla ragione
e le numerose convenienze; allora... ti parrà strano?
mi sembra di creare con tutto il mio corpo...
Lasciami dire: questo corpo è uno strumento mira¬
bile e di cui m’assicuro che i vivi, avendolo al loro ser¬
vizio, non usano nella sua pienezza. Non ne traggono
che piacere, dolore ed atti indispensabili come il loro
vivere. Qualche volta si confondono con lui o ne di¬
menticano per un po’ l’esistenza, qualche altra - bruti
o puri spiriti - ignorano i legami universali ch’essi
contengono e la prodigiosa sostanza onde son fatti. Per
questa, tuttavia, i vivi diventano partecipi di quel che
vedono o toccano: pietre ed alberi. E scambiano con¬
tatti e respiri colla materia che li raduna; e toccano e
sono toccati; e pesano e sollevano pesi; e si muovono
e trasportano vizi e virtù. Quando si danno a fantasti¬
care o s’abbandonano ad un vago sonno, riproducono
la natura dell’acqua, si fan sabbie e nembi... In altre
circostanze, accumulano e scoccan la folgore...
Ma la loro anima ignora come servirsi a modo di
questa natura, sebbene la senta profondamente e le
sia così vicina. Accelera, ritarda, sembra persino fuggi¬
re l’attimo, ne riceve urti ed impulsi che l’allontanano
dentro di sé e la perdono nel suo vuoto per generarvi
vapori. Istruito dai miei errori, io dico invece in piena
luce, e mi ripeto ad ogni aurora:
Scritti letterari 1918-1936 113

« O mio corpo, che mi richiami tutti gl’istanti alla


natura del mio istinto, all’equilibrio dei tuoi organi ed
alle giuste proporzioni delle tue parti essenziali onde
tu esisti e torni in seno alle cose mobili: vigila sull’ope¬
ra mia, insegnami le schiette necessità della natura, co¬
municami la magistrale arte che tu possiedi e da cui
sei fatto, di sopravvivere alle stagioni e di vincere il
caso. »

Questi pensieri che avrebbero persuaso Leonardo -


del quale lo stesso Valéry ostinatamente c’invita e
c’inizia a capire l’opera - vanno messi in relazione con
la distinzione fatta nel dialogo fra prodotti della natu¬
ra e opera dell’uomo:

socrate. ... I prodotti della natura s’accrescono in mo¬


do tale che la materia onde son fatti, le forme che as¬
sumono, le funzioni che consentono, i mezzi da essi
posseduti per comporsi nello spazio e nelle stagioni,
risultino legati fra loro invisibilmente da segreti rap¬
porti; e forse appunto questo vogliono dire le parole
prodotto della natura.
Ben altrimenti avviene degli oggetti che sono opera
d’uomo: la loro struttura è ... un disordine!

... L’uomo, ti dico, fabbrica per astrazione, ignaro e


dimentico d’una gran parte delle qualità di ciò che im¬
piega solo inteso alle condizioni limpide e distinte che
più spesso possano venire soddisfatte simultaneamente
da parecchie specie di materie e non da una sola...
... L’artigiano non può compiere il suo lavoro senza
violazione o turbamento d’un ordine, mediante forze
da lui applicate alla materia, per renderla adatta al¬
l’idea da imitare e all’uso previsto. È però fatalmente
condotto a produrre oggetti che nel loro insieme sono
d’un grado inferiore a quello delle parti; ove costruisca
una tavola, l’intero mobile possiede una struttura mol-
114 Giuseppe Ungaretti

to meno complessa del tessuto delle fibre del legno:


egli avvicina grossolanamente, e in un certo ordine in¬
naturale, i pezzi d’un grande albero, che s’eran formati
e sviluppati secondo altri rapporti.

Valéry ha dunque enunziato tre principi: a) che ri¬


spetto al prodotto della natura, la struttura dell’opera
dell’uomo è un disordine; b) che l’uomo fabbrica per
astrazione; c) che, di conseguenza, l’opera dell’uomo
sarà sempre di gran lunga inferiore a quella della na¬
tura.
Ora, riconoscendo che nell’uomo l’aspirazione al¬
l’immortalità è invincibile; che l’uomo incomincia a
morire nascendo; che quindi la sua immortalità inco¬
mincia da quel momento in quanto può muoversi per
via sua il sentire e il pensare di altri; che anche -
questa scomparsa di momento in momento della pro¬
pria vita - ciascuno di noi può riviverla in se stesso
come se fosse un terzo; che essendo, insomma, il no¬
stro vivere personale impegnato in una latente im¬
mortalità, destinata a legare il mondo umano dall’ap-
parire alla consumazione dei tempi: ci sarà agevole
ammettere che l’uomo, per prolungare il più possibile
qualche momento dell’avventura unica di cui il suo
corpo mortale è sede singolare, dovrà ricorrere a qual¬
che mezzo che muova a lungo il sentire e il pensare di
altri. Tutti i suoi sforzi tenderanno dunque, nella sua
disperata aspirazione, a ridurre il più possibile la de¬
bolezza dei suoi mezzi, accrescendone il potere di evo¬
cazione e si proverà a eliminare il disordine che è al
principio d’ogni sua opera cercando di renderla, per
integrità d’armonia, e per necessità di funzione, come
se la natura stessa l’avesse prodotta, studiandosi e imi¬
tandosi per quanto possibile, come complessità viven¬
te di forme; e trarrà la sua forza dalla stessa inferiori¬
tà che vieta all’uomo di fabbricare se non per astra¬
zione.
Scritti letterari 1918-1936 115

Un poeta necessariamente risolve ogni problema pro¬


ponendo un’arte poetica. Questa riafferma ciò che, e
dal cantare più remoto, è sempre stato detto poesia:
un decidere la parola all’astrazione di moti melodiosi
armonicamente organizzati, ad arti matematiche, se si
vuole, all’architettura ed alla musica: agli spettri d’un
corpo che accompagni danzando il grido d’un’anima
fattosi elementare per raggiunta intensità.
Valéry rileva insomma che solo ciò può accordarsi
coll’universo che più strettamente è personale. Solo a
una rigorosa sincerità è permesso di svelare un bar¬
lume di quel mistero che tiene uniti e muove i mondi,
e può, soffio divino, rendere autentica anche l’opera
dell’uomo.
Ho detto anima e mistero, e con disagio. Per Valéry,
il mistero è gradualmente eliminabile, ed è quasi una
parola irritante, come la parola ispirazione. Quella co¬
lonna corinzia, evocatrice d’un’incantevole ragazza ama¬
ta, certo è inno per la misura sublime che le trovò il
poeta. Sarebbe muta se non contenesse l’eco d’un mo¬
mento di vita. La vita non è essa mistero, e mistero
più profondo quanto maggiori saranno i lumi della
mente? Nel suo stesso dialogo, il cartesiano Valéry lo
riconosce senza volere, e sempre la parola anima gli
prende un senso ispirato, conforme a quel suo ricchis¬
simo sentimento che vorrebbe dissimulare. E che sarà
questa nostra aspirazione all’immortalità, questa no¬
stra infelice imitazione del creato ispiratore, se non
umile riconoscimento d’un creatore inconoscibile, irri¬
soriamente emulato? E come può non essersi turbato
il poeta, vedendo che l’immortalità è solo concepibile
sotto condizioni di morte? Quantunque dica con umo¬
re ch’essa è solo illusione di vivi, per questa nostra
stessa impotenza, può non avere sentito Dio? Voglio
dire che ho anche cercato di dimostrare con i passi
del dialogo citati, che da Valéry stesso s’impara, lo
116 Giuseppe Ungaretti

vogKa o meno, come l’opera d’arte non possa mai es¬


sere altro se non un segno religioso.
E mi piace che, ponendo al sotnmo grado dell’espres¬
sione umana l’arte, in qualche modo nel dialogo si
anteponga il fare al pensare o, meglio, si leghi il po¬
tere d’un pensiero alla sua forma. Difatti nei comandi
del capitano oppure, direi anche, nel gesto del contadi¬
no che semina è contenuta più sostanza di pensiero
che non in molti trattati. Conforta sentirlo dire da
Valéry; e siano anche i castelli più saldi quelli che
avrebbe alzato sulle nuvole un Socrate ingegnere, e le
navi più tremende quelle che andava disegnando per
venti fantastici un corsaro a riposo: in una certa de¬
menza - poteva un poeta, un orafo delle sue catene,
non difendere tutti i diritti della poesia? — dormono
le città che nasceranno e ogni progresso di libertà.

E che dire della traduzione di Rafaele Contu? Let¬


tore, sai come me ch’è stupenda, degna di tutto pun¬
to d’un originale raro per giustezza, per sfumature e
per numero.
BARBE FINTE
[1926]

L’altro giorno, sulla « Fiera Letteraria », l’amico Mon¬


tano chiedeva alla critica italiana, di trascurare un po’
gli scrittori stranieri per trovare il modo di gustare un
po’ la nostra vecchia letteratura.1
Il richiamo risponde a una tendenza generale del
momento. L’interesse tende ad essere ovunque, nell’or¬
dine letterario, oltreché geografico, storico, di profon¬
dità.
Oso dire all’amico Montano che le sue idee sono
giustissime, ma che si è spiegato male. Giudicando
da un suo saggio pubblicato dall’« Esame », nel quale
si scopre Petrarca al lume di Mallarmé, giudicando
dalle sue Più belle pagine di Lorenzo Magalotti dove,
nel nostro Seicento, si vede andare a zonzo un con¬
temporaneo di Baudelaire,2 non credo che Montano
volesse - come parrebbe leggendo l’articolo, e non è
strano che, di quaresima, l’idea venga in mente - per¬
suadere i nostri critici a rotolarsi nella cenere dell’eru¬
dizione. Di critici eruditi è lastricato l’inferno, e un
Emilio Cecchi, un Alfredo Gargiulo, per non citarne
che due, hanno erudizione da vendere, e gusto.
Montano voleva forse dire che l’erudizione, anche
quell’erudizione che ci fa importare un Proust o un
Ibsen in Italia, se non è manifestazione di gusto, se
non è predica per chiarificazione e orientamento del
gusto, è pura informazione, fatica quasi sprecata.
Credo che Montano volesse esprimere l’augurio che,
studiando gli stranieri, si studiassero in relazione alla
nostra attività letteraria attuale e passata, e si facesse
118 Giuseppe Ungaretti

lo Stesso, studiando i nostri rari contemporanei di va¬


lore, rispetto gli stranieri e al passato, tutto ciò per
cercare di definire il gusto d’oggi, di renderci più fami¬
liare, più aderente e commovente, il nostro patrimo¬
nio letterario, di rendere più provetti - più sensibili,
più intelligenti, di cuore più grande - i nostri scritto¬
ri, più accorto il pubblico, di portare qualche pietra,
insomma, al palazzo che in tre o quattro si vorrebbe
fosse donato all’Italia di domani.

Il gusto! Il gusto! Caro Montano, c’è proprio da


mettersi le mani nei capelli. Ciò che oggi si dovrebbe
fare è di insegnare un po’ a leggere. Quelli che sanno
leggere, ormai, si contano sulle dita d’una mano. E
capisco benissimo che non è cosa da giornali. Ma dove
sono, da noi, le riviste? E in quanto a libri, chi po¬
trebbe scriverli? E se, accettando di morire di fame,
qualcuno li scrivesse, non troverebbe da stamparli. Non
è colpa della fretta, e il velivolo non c’entra per nulla.
È colpa della tragedia economica che stritola oggi i
migliori, da noi.

Ma mettiamo il dito su una piaghetta.


Da quattro o cinque numeri, dunque, i giovani (?)
di « Conscientia » vogliono rimettere a sesto le cose
della letteratura italiana. Saranno giovani? Portano la
barba - e come lunga! - ma, con quella voce bianca,
si vede, lontano un miglio, che non è barba vera. Sen¬
tiamone uno. Si chiama Mario Lironcurti. Sarà un no¬
me vero? Sostiene che il verso è in decadenza « la
realtà immensa del turbine vorticoso della nostra fer¬
rea vita moderna » non potendosi contenere nella
« realtà esigua d’un libro di poesia ». Il verso tutt’al
più « servirà ancora a scherzi di giornale umoristico ».
E, decreta: « In avvenire la poesia dovrà scriversi in
prosa ». Ci servirà da modello di bello scrivere « la
realtà immensa del turbine vorticoso... ».
Scritti letterari 1918-1936 119

Lironcurti è un idolatra, quantunque protestante,


forse perché protestante. Per lui, risolto un problemuc-
cio di forma, tutto andrebbe a gonfie vele. E intanto,
la forma non è un problemuccio. Credere che l’indiffe¬
renza d’oggi verso il libro dipenda dalla forma, è pren¬
dere un problema pratico per un problema fondamen¬
tale. Neanche Dante, dopo tanti mai anni, è popolare.
Il Vangelo è diventato il libro di tutti a furia di seco¬
li di propaganda. Se Lironcurti avesse meno pedante¬
ria e più esperienza, saprebbe che ogni opera nuova è
oscura non in sé, perché la gente non c’è abituata.
Tocchiamo la cosa fondamentale. Non si può snatu¬
rare una lingua. La parola italiana, trattata con grazia,
è la più ricca di risorse. Ma un’antilope non partorirà
un orso. La parola italiana ha una sua indole. Non è
elettrica, non è sadica. Ha una luce che si perde nella
notte dei tempi. È colma di pudore. È sapientissima.
Non si lascia sedurre dal primo venuto, ma lentamen¬
te soggioga. È lei che riduce ai suoi fini. Qualunque
cosa tocchi, l’allontana, le dà antichità, rende quella
cosa temporale, quanto è possibile, eterna non toglien¬
dole, rendendo ineffabile la sua freschezza.
I metri italiani sono nella struttura stessa della pa¬
rola e del periodo italiano.* Linché camperà questa
lingua, rimarranno tali e quali. Nella prosa, giratela a
piacere, sta appollaiato il verso. Date a una prosa un
certo tono, e gli endecasillabi, i settenari, i novenari
vi scapperanno di bocca. Date un movimento diverso
d’accenti, e saranno altri ritmi, ma sempre nostrali,
da quando Berta filava. Si sono fatti tanti tentativi da
un secolo in qua, per spezzare le dighe. Col seguente
solo risultato: d’avere ringiovanito il verso di qui,

* In un saggio comparso l’anno scorso sullo « Spettatore Ita¬


liano » Baldini ha svolto sapientemente questo tema, a propo¬
sito di alcune prose di Emilio Cecchi.
120 Giuseppe Ungaretti

d’ayere di nuovo messo in grado il poeta italiano


d’usare il verso fidandosi meno del suo orecchio e più
della sua anima e della sua metjte, e del suo essere to¬
tale. Proprio un ritorno all’antico. Se poi verrà l’ora
del niam niam...
E lasciamo andare l’oziosa diatriba, se convenga es¬
sere romantici o classici. Quando si riesce a dire pre¬
cisamente ciò che s’ha da dire, s’è trovata la forma.
E che questa forma sia la melodica elementare d’una
pura architettura o risulti da un’infinità di ritmi che
facciano a gara a contaminarsi, poco importa. La di¬
sgrazia e che il piu delle volte non c’è forma, ma
confusione e buone intenzioni.
Finche durerà l’uomo ci sarà sempre chi nella real¬
ta non vedrà che dramma, farsa, ironia, sarcasmo, allu¬
cinazione, orrido idillio, frenesia, una pentola dove
c’è di tutto a bollire, prosa, e chi invece, più addentro
nel segreto, non vi scoprirà che rapporti di ordine su¬
blime, poesia. Quando dalla profondità dell’uomo, dal¬
la memoria vengono in luce le apparizioni, la parola,
necessariamente, s impregna di canto e si muove entro
limiti d’una semplice perfezione.

Il secondo si firma Giuseppe Gangale. Risale al di¬


luvio e, di « sincretismo » in « sincretismo », dimo¬
strato che, non essendoci più religione, è successo il
distacco tra il popolo e il poeta, avverte che la ricon¬
ciliazione tra poeta e popolo non avverrà che quando
Lutero sarà rinato.
Infatti nella poesia italiana le cose sono avvenute
così, facendo un discorso da poeta: c’è stato un tempo
nel quale i poeti, come tutti i loro contemporanei, non
solo credevano nel soprannaturale, ma sapevano esat¬
tamente com’era fatto e potevano facilmente rappre¬
sentarlo. A poco a poco nasce il sospetto che quel so¬
prannaturale non sia che immagine della natura. Met¬
tiamo che il sospetto sia nato col Petrarca. Da quel
Scritti letterari 1918-1936 121

momento non s’e più pensato che Dio si facesse na¬


tura perché l’uomo, a suo agio, lo potesse interpreta¬
re. La poesia cessò di essere verbo del Signore. Ogni
oggetto tornò a prendere, insieme all’uomo, il suo ca¬
rattere di creatura, e la divinità, allontanatasi, tornò
ad essere l’inconoscibile.
Il ritorno della mitologia pagana non è soltanto la
conseguenza d’un movimento di cultura. Nella sete,
nella venerazione della bellezza, i poeti cercavano di
manifestare la loro religiosità senza speranza. Perce¬
pivano nell’uomo, come in ogni opera del creatore,
quella religiosità, che realmente spira da ogni cosa.
Nell’Olimpo, i simboli della creazione, portati al gra¬
do della bellezza, erano già pronti. E si saccheggiò
l’Olimpo.
Ma non il fatto d’essersi ridotto a umilmente esal¬
tare l’effimero, per non perdere del tutto il contatto
coll’eterno, ha separato il popolo dal poeta. Bisogna
persuadersi che anche nel gusto c’è una gerarchia, e
che una cosa amata dal popolo può essere gustata in
alto, e che una cosa amata dal raffinato può non es¬
sere intesa dal popolo. E del resto il popolo è di gu¬
sto pigrissimo.
Bisognerebbe infine provare che il latino mistico, op¬
pure Jacopone, ecc. fossero popolari.
Senza dubbio c’è diffusa, e non da oggi, l’ansia duna
nuova rivelazione. N’è emersa, per ora, una poesia,
attuata per merito, in genere, di acrobazie stravaganti,
ch’è un rompicapo persino per gli iniziati. Nel posses¬
so della realtà, cioè in quel rapporto fulmineo che si
stabilisce tra ispirazione e visione, l’intercessione di
emblemi cade sempre più in discredito. Diana, Giu¬
none, o Apollo, cresciuti ancora di poesia, e Gesù e
l’Addolorata, non sono più che soste della nostalgia,
verso una metafisica deserta. Virtù temeraria, rigo¬
rosa ragione, nessun vino, nessun oppio, conterrà più
122 Giuseppe Ungaretti

di ta, paradiso, più delirante lucidità! E ancora una


volta la principale difficoltà è nell’espressione, e se
uno di noi arrivasse al mestiere rfavoloso dei Canti, le
nostre, di noi tutti che non abbiamo altre mire, non
sarebbero fatiche sprecate.
DALL’ESTETICA ALL’APOCALISSE
O
I DENTI DI ZIMBO
[1926]

John Johnson, slogato e serio, s’accovaccia. Stende l’or-


rende palme. Precipita lo struscìo alterno dei suoi pie¬
di piatti. Piano piano il guaito s’è fatto ininterrotto,
s’arrota sopra una carne annuvolata. In punta di pie¬
di passa una ruota, come una piuma. Ruzzolato il tuo¬
no, sempre in posa di chioccia, John Johnson rimane
a bocca aperta. Abbozza uno scambietto, e si ravvia lo
smoking, che, a quell’ora, addosso a quel Negro, sta
a pennello.
Avrai indovinato, lettore, si tratta d’una scena di
dancing, col solito jazz.

C’erano una volta in riva al Mahmudieh (c’erano


sempre stati) certi giardini profondi, freschi, colmi
di sera, che spargevano molte miglia all’intorno, il
sonno. A guardia, davanti al cancello, stavano a sede¬
re sulla panca due senza età. Nella stambulina, lun¬
ghi come la quaresima, il solo segno di vita che des¬
sero quegli eunuchi era quello, tenendo stretti i den¬
ti, di raggricchiare il viso per via delle mosche, e gli
si vedeva un filo di gengiva così scarlatta che, voltato¬
mi dall’altra parte dal ribrezzo, ritrovata l’afa, vedevo
spaccarsi e struggersi nel ceruleo abbaglio, una fila¬
strocca di melagrane.

In Alessandria d’Egitto ho inoltre conosciuto da bim¬


bo una Nera chiamata Brchita. Era più brava nel ca¬
vare il malocchio dell’archimandrita Spiridione, e non
so quante volte m’ha fatto volare il diavolo di bocca.
Era d’una tenerezza sconfinata, d’un’innocenza, d’una
124 Giuseppe Ungaretti

bontà piena di terrore, di stupore, di fiducia. Era sta¬


ta balia di mezzo universo, e tutti la chiamavano
« mammona ». Lei, ch’era immensa, allargava le brac¬
cia rispondendo « figlio », e in quel manto poteva
stringersi e avere asilo tutta Alessandria. Ma non le
avevano mai lasciato allevare un figlio del suo sangue.

Ci sarebbe anche Halil. Un’altra volta ne parlere¬


mo.

Chi se lo sarebbe figurato che sarebbe venuto gior¬


no di « meditazione » sopra il destino dei Negri.

La mira dell’oro ha attratto l’Europeo verso il cuo¬


re dell’Africa. L’Africa Equatoriale era il cuore mi¬
sterioso dell’oro. Fu lì che appiccò il fuoco alla ter¬
ra, il figlio d’Apollo. Da quei fiumi calamitosi spiccò
il volo la quadriga incendiaria. Sul letto di quell’ac-
que si riposava sfavillando l’astro, prima di risalire,
dal sottostante inferno, al suo tormento. Quando l’In¬
fante Don Enrico di Portogallo « posseduto da quella
fede reale che sacrifica le cose vicine alle lontane »
manda il mercante veneto ventiduenne Alvise Cadamo-
sto, di ritorno di Fiandra, a tracciare la strada ocea¬
nica che porterà al Capo Verde, e qualche lustro più
tardi, in sul finire del Quattrocento, al periplo di Va¬
sco di Gama, gli è pervenuta forse quella notizia tra¬
mandata da Erodoto, di Negri che escono dalla foresta
e vanno a un posto convenuto, vi lasciano panieri col¬
mi di polvere d’oro, portandone via altrettanti, lì in
attesa, colmi di sale. L’Infante non era stato inganna¬
to. Gli uomini abbronzati delle sabbie africane si met¬
tono al suo servizio. Dal Banco d’Arguino parte una
strada che attraversa il Sahara e va a figgersi nel bazar
di Tombuctù. Dalla Baia, narra Carlos Pereyra, si
scorgeva la fila a perdita d’occhio, sopra le gobbe dei
cammelli, di bandiere bianche colla frangia rossa. Gli
Scrìtti letterari 1918-1936 125

Arabi si adunavano a Uadan, a sei giorni dal Capo


Bianco, in sessanta giorni attraversavano il deserto, e
da Tombuctù organizzavano le spedizioni per l’inter¬
no.
Coll’oro arrivavano anche schiavi. Il Portogallo se
ne procurava così ogni anno dai sette a ottocento, e
allestiva la prima compagnia di negrieri, modello di
quelle che poi verranno fondate da Inglesi, Olandesi
e Francesi.

Non meno avido d’oro dei secoli passati, è l’Otto¬


cento, non meno schiavista, ma in maschera più uma¬
nitaria. È il secolo della filologia, dell’archeologia, del¬
l’antropologia, dell’etnologia. Il continente negro è
frugato. Non gli lasciano un dito d’oscurità. Noi soli,
con i nostri Miani, i nostri Gessi, i nostri Piaggio, ci
siamo andati per amore e gloria.
Vediamo tutto l’Ottocento occupato a comparare mi¬
ti, a decifrare epigrafi, a fiutare mummie, è il secolo
presuntuoso della memoria. Accatastando memorie, gli
pareva di strappare il segreto anche a Dio.

Col Novecento, il Negro non è più « un ramo della


craniologia », è « un capitolo dell’estetica ». È arriva¬
to lo scultore stupefacente.
Un’altra digressione. M’ero dimenticato che il Ne¬
gro ha due residenze principali, l’Oceania insieme al¬
l’Africa. Il feticcio negro si trova sulle rive dell’Uban-
ghi, e meglio nella sperduta Isola di Pasqua.
Intorno al ’910, fece la sua comparsa nell’opera d’ar¬
te europea, il naso a spegnitoio, e gli tennero subito
bordone le parole in libertà.
E la guerra dimostrò come il progresso massimo,
l'artifizio sovrano riconducano alla natura vergine, alla
conoscenza mistica della realtà, ci scavino sotto i pie¬
di l’inferno.
126 Giuseppe Ungaretti

Tanti sforzi per abbracciare la memoria concorreva¬


no ad abolirla. Come nel paese del figlio d’Apollo, an¬
che da noi il tempo età disperso, e subentrava l’idea
spaventosa dell’eterno. Collo specchiolino cedutogli dal
Cadense, il Bantu ha fatto gli occhi al suo idolo. È
cosa che rimane impressa. Per noi, raffinati, l’occhio
era una fossa, era una profondità, era la tenebra inson¬
dabile dell’originale e del fine. Per il Negro l’occhio
è uno specchio, è il momento eterno.

Un artista è propenso a allarmarsi. Ha il sentimen¬


to eccessivo. Se l’educazione millenaria l’arma e lo mo¬
dera di pudore, è peggio, avrà un’amarezza insoppor¬
tabile. L’artista vero, eccessivamente odia, ama, si tur¬
ba, s’accora. Capisco che alcuni artisti francesi dei più
provetti, dei più curiosi e appassionati, considerino
l’Europa marcia, la razza bianca agonizzante, e che
ormai stia per scoccare l’ora del Negro, unica razza
dalle energie fresche, dall’animo schietto. Anche per
gli artisti italiani, durante la guerra e nel dopo guer¬
ra, l’angiolo oscuro ha fatto giungere i suoi clangori
d’Apocalisse. E mi rendo conto che le condizioni no¬
stre non sono mai state tragiche come le attuali della
Francia, la quale, spopolandosi, chiusa tra due popoli
in crescita, stenta a decidersi all’unica salvezza che le
rimanga, la stretta, alleanza con noi.

La macchina ha ringiovanito la razza bianca. Non è


un paradosso, la razza più vecchia è oggi la razza più
giovane. Un continente che in breve giro d’anni trovi
due sovvertitori audaci e reggitori risoluti della poten¬
za d’un Mussolini e d’un Lenin può non dubitare del
suo domani. La crisi europea non è che un fenomeno
di sviluppo.

Supponiamo che il pericolo negro ci sia. Anzitutto


va consultata la legge demografica. La razza negra,
Scritti letterari 1918-1936 127

ch’è la più prolifica, è quella che cala di numero più


vertiginosamente. Non rappresenta del resto che FI 196
della popolazione del mondo, e un po’ meno del quarto
della gente bianca. Ma il metodo di annientamento
alla lettera, applicato dagli inglesi in Tasmania, potrà
non più ripetersi, le infezioni derivate dall’incrocio di
tribù, l’alcoolismo, la mortalità infantile, le malattie
tropicali potranno eliminarsi collo studio e le provvi¬
denze dei Bianchi.
Un secondo punto. I Negri del Pacifico hanno navi¬
gato. Di tappa in tappa i Papua si sono sparsi sino
nell’India, nel Giappone, nella California. Ovunque si
sono mescolati agli altri, o sono stati soggiogati. La fu¬
sione è tale nel Giappone che, secondo il proverbio,
un buon samurai è mezzo di sangue negro. Sono poi
lontani, e non minaccerebbero noi, se non fossero scar¬
si, disseminati nelle loro isole, asserragliate entro un
formicaio d’arcipelaghi.
I Negri d’Africa di volontà propria non si sono mai
mossi dal loro continente. Hanno trovato immutabile
riposo, da quando nei dì remoti furono proscritti dal¬
l’Asia materna, all’ombra ritemprante del baobab o a
quella letale del manzanillo. Se qualche loro canotto
approdò alle coste orientali delle Americhe Centrale
e Meridionale, fu tutta colpa dei venti alisei. Ma non
si può dire che non siano bellicosi. Verso la fine del
Quattrocento Zimbo, sbucato dai monti che prolunga¬
no la Sierra Leone, alla testa dei suoi sudditi, con un
esercito enormemente ingrossatosi per via, attacca e
devasta il Congo e tutte le regioni confinanti. Divide
poi le sue truppe e manda un suo luogotenente sino
allo Zambesi, un altro sino all’Abissinia. Con una ter¬
za armata, si dirige verso Levante, attraversa l’intero
continente, raggiunge il mare, scende sino al Capo,
risale sino al Benghela, e torna in patria, despota di
cento popoli, recando un otre d’acqua salata. E si ri¬
corderà la lunga resistenza opposta ai Boeri e in se-
128 Giuseppe Ungaretti

guito agli Inglesi, da Cafri e Zulù, ordinati in perfetti


stati militari. E sarebbe puerile credere che la poten¬
za d’espansione non possa risvegliarsi, da un momento
all’altro, in razze senza età. Non mi pare che gli Unni
avessero annali.
Per incominciare a ammettere un pericolo negro, bi¬
sognerebbe supporre l’Europa decaduta, e sarebbe ven¬
dere la pelle dell’orso prima d’averlo ammazzato. Bi¬
sognerebbe inoltre supporre l’ipotetico Stato negro al¬
le dipendenze o alleato dei popoli africani, in preva¬
lenza d’origine bianca, che formano baluardo tra il
Mediterraneo e il deserto, o supporre quei popoli, an¬
che essi interamente depravati.
E venissero, non ci durerebbero. L’Europa è l’unico
continente dove i negri non abbiano mai allignato. Sa¬
rà una quistione di clima.

Più della madre strappata alla prole, più dell’eunu¬


co, ha perso il ballerino che, cascatagli la dentatura
ferrea, mostrava - addio, sale! - la dentiera d’oro.
INNOCENZA E MEMORIA
[1926]

Si diceva l’altro giorno a furia di aneddoti e di facezie,


discorrendo su queste colonne di re Zimbo,1 del subis¬
so della memoria. L’osservatore attento si sarà, infat¬
ti, accorto che l’atmosfera dell’arte è (non mi riferi¬
sco specialmente all’Italia) romantica. Caratterizza il
presente periodo, in arte, una stanchezza estrema. Do¬
po tanto affannarsi in ricettari, la vita s’è messa di
mezzo così prepotente da sentirsi, i perdigiorno, fiacca¬
te le ossa.
Tutto il gran confabulare, che ci leva di sentimento,
duna funzione di stregone o di giullare, di nuovo toc¬
cata all’artista, ci riporta alla considerazione, già an¬
nosa, dell’arte come elusione. Dico elusione, in contra¬
sto con l’idea antica dell’arte, poiché all’arte non è più
dato di annodare relazioni che coll’umano.
L’arte dunque, confinata, dopo il Petrarca, non ri¬
manendole che avventure umane, s’è data al vizio.
Questa tendenza ha perso ogni ritegno coll’Ottocen¬
to, e, per il fatto dell’antinomia, fattasi acuta, tra in¬
dividuo e società, s’è dato allora all’elusione non più
un carattere di divertimento, ma di spasimo quasi re¬
ligioso. Nel secolo scorso, la sete d’elusione ha, in poe¬
sia, portato alla parola allucinante di memoria, melo¬
diosa di solitudine, colma di presentimento. Non com¬
metterò l’imprudenza di mettere a tu per tu il Leopar¬
di e il Mallarmé, tra i quali, si fossero incontrati quag¬
giù, non sarebbe di certo corso buon sangue, e non
devono farsi l’occhiolino tenero, lassù: ma non dubito
che, avvicinando i due nomi, possa riassumersi il con-
130 Giuseppe Ungaretti

tributo dell’Ottocento alla poesia: una speranza inap¬


pagabile d’innocenza.
Non è qui il luogo di dilungarmi in dimostrazioni
tecniche, note a quei lettori che mi fecero l’onore di
assistere alle mie conferenze agli Illusi.2 Volevo limi¬
tarmi a rammentare che il secolo decimonono, esausto
dal suo sforzo di memoria (qui è a posto l’immagine
del naufrago che, sul punto di perire, rivede tutta la
sua vita in un baleno), svanita l’illusione d’aver abbrac¬
ciato il tempo infinito, s’è trovato nel vuoto colla sen¬
sazione, direi, poiché la Provvidenza non è un mito,
che gli spuntassero le ali.
E anche le persone del nostro dramma, di artisti
del primo Novecento, sono la memoria e l’innocenza.
L’innocenza, abbiamo saputo com’è fatta. Ci è ap¬
parsa, e ci ha tenuto sotto le sue ali più grandi, nei ri-
volgimenti di questi anni. Ci occupava tutta la men¬
te. La memoria aveva gli occhi bendati, poteva dirsi
abolita. Persino la nozione del tempo era nuova. Il
tempo pareva eterno, non per modo di dire. Non ci è
stato nascosto l’orrore dell’eternità. Non contava più
che l’istinto. Si era in tale dimestichezza colla morte,
che l’intero film del naufrago ci ripassava ogni momen¬
to in mente, e non c’era oggetto che non ce lo riflet¬
tesse; era, la nostra vita da capo a fondo, l’oggetto
stesso sul quale cadeva il nostro sguardo. Non era la
nostra, in realtà, vita più che oggettiva, il primo ogget¬
to venuto. In quel frangente, ho capito perché il Ne¬
gro fa gli occhi all’Ìdolo con pezzetti di specchio.
Capisco che si duri fatica a destarci da un sonno
così profondo. Capisco che ci si sentisse portati per
mano verso Dostoievski.
E capisco che, di recente, si cercasse meraviglia nel
sogno.
Ma ecco che il sogno stesso ci riconduce alla memo¬
ria. Ricorriamo a un esempio. Una teoria che ha avuto
una certa voga ora in Europa, quella di Freud, pone
Scritti letterari 1918-1936 131

il sogno in relazione colle radici stesse della vita. I so¬


gni sarebbero simboli di desideri repressi e fugati nel¬
l’inconscio, per pudore o altre cause sociali. L’incon¬
scio, ricovero sessuale, conterrebbe dunque l’individuo
genuino, e non saremmo realmente spontanei che so¬
gnando. Come è stata applicata la teoria? Ad alcuni ha
offerto il modo di fondare una poesia sopra immagini
venute in mente senza volere, nel dormiveglia, e sen¬
z’altro consegnate alla storia. A quel modo, conside¬
rando essi l’Europa giunta al termine della sua mis¬
sione, agonizzante, si figurano di conferirsi, in tempi,
secondo loro, di ultima decadenza, la disperata illusio¬
ne d’un’umanità elementare. Ma altri della teoria si
serve per allargare all’intelligenza il campo d’esplora¬
zione e in conseguenza arricchire la memoria.
E il rifiorire attuale del cattolicismo non indica che
la memoria sta ormai rivendicando ogni suo diritto?
La morale cattolica, affrontando colla sua millenaria
saggezza, il tremendo sviluppo delle scienze fisiche,
non ha mai avuto più d’oggi una funzione romana.
E concludiamo:
Abbiamo dell’innocenza, non più, come nell’Otto¬
cento, un’aspirazione filosofica, ma un’esperienza di¬
retta, possediamo una conoscenza mistica della realtà.
Credo che l’arte di domani sarà felice. A poco a poco,
il dramma si scioglierà. Saranno andati in fumo anche
i tentativi di affidare la parte del burattino alla me¬
moria, e all’innocenza quella dell’oracolo. E della pau¬
rosa, e materna, innocenza, tornata nella memoria al
suo posto oscuro, le lusinghe saranno vane.
INNOCENZA E MEMORIA
[1926]

C’è stato un tempo nel quale i poeti, come tutti i loro


contemporanei, non solo credevano nel soprannaturale,
ma sapevano esattamente com’era fatto e potevano fa¬
cilmente rappresentarlo. La forma primordiale della
poesia (non insegno nulla) è inno d’abbandono in Dio.
A poco a poco nasce il sospetto che quel soprannatu¬
rale non sia che immagine della natura. Mettiamo che
il sospetto sia nato col Petrarca. Da quel momento
non s’è più pensato che Dio si facesse natura perché
l’uomo, a suo agio, lo potesse interpretare. La poesia
cessò d’essere verbo del Signore. Ogni oggetto tornò
a prendere, insieme all’uomo, il suo carattere di crea¬
tura, e la divinità, allontanatasi, tornò ad essere l’in¬
conoscibile. Apparizioni della memoria venivano in lu¬
ce dalla natura contemplata, e la poesia si esauriva in
un giuoco di riflessi. L’uomo s’era chiuso nella sua
profondità, la memoria.
Il ritorno della mitologia pagana non è soltanto la
conseguenza d’un movimento di cultura. Assetati di
bellezza e venerandola, i poeti cercavano di manifesta¬
re la loro religiosità senza speranza. Percepivano nel¬
l’uomo, come in ogni opera del Creatore, quella reli¬
giosità che realmente spira da ogni cosa. Nell’Olimpo,
i simboli della creazione, portati al grado della bellez¬
za, erano già pronti. E si saccheggiò l’Olimpo. L’uomo
aveva ridotto la poesia a distrarlo dal proprio stato.
La poesia dunque, confinata, dopo il Petrarca, non
rimanendole che avventure umane, si buttò al vizio.
Questa tendenza perse ogni ritegno coll’Ottocento,
e, per il fatto dell’antinomia, fattasi acuta, tra indivi-
Scritti letterari 1918-1936 133

duo e società, fu dato allora all’elusione non più un


carattere di divertimento, ma di spasimo e di delirio.
La presunzione deH’uomo è tale nell’Ottocento, che
mette sull’altare la propria memoria. È il secolo della
filologia, dell’archeologia, dell’antropologia, dell’etno¬
logia, della filosofia. Il globo è frugato. Non gli la¬
sciano un dito d’oscurità. È il secolo dei fiutatori di
mummie e degl’ingegneri.
Nel secolo scorso, la sete d’elusione portò, in poesia,
alla parola allucinante di memoria, vacillante di solitu¬
dine, colma di presentimento. Non commetterò l’im¬
prudenza di mettere a tu per tu il Leopardi e il Mallar¬
mé, tra i quali, si fossero incontrati quaggiù, non sa¬
rebbe di certo corso buon sangue, e non devono farsi
l’occhiolino tenero, lassù; ma non dubito che, avvici¬
nando i due nomi, possa riassumersi il contributo del¬
l’Ottocento alla poesia: una speranza inappagabile
d’innocenza.
Non è qui il luogo di dilungarmi in dimostrazioni
tecniche. Volevo limitarmi a rammentare che il secolo
decimonono, esausto dal suo sforzo temerario di me¬
moria, e dalla dannata superbia che gliene veniva (qui
calza l’immagine del naufrago che, sul punto di perire,
rivede tutta la sua vita in un baleno, e, anche ateo,
si raccomanda a Dio), svanita l’illusione di avere ab¬
bracciato il tempo infinito, si trovò nel vuoto colla
sensazione, direi, poiché la Provvidenza non è un mito,
che gli spuntassero le ali.
E anche le persone del nostro dramma, di artisti del
primo Novecento, sono la memoria e l’innocenza.
L’innocenza, abbiamo saputo com’è fatta. Ci è ap-
patsa, e ci ha tenuto sotto le sue ali già grandi, nei ri-
volgimenti di questi anni. La memoria aveva gli occhi
bendati, poteva dirsi abolita. Persino la nozione del
tempo era nuova. Il tempo pareva eterno, non per mo¬
do di dire.- Non ci è stato nascosto l’orrore dell’eter¬
nità. Non contava più che l’istinto. Si era in tale di-
134 Giuseppe Ungaretti

mestiphezza colla morte, che il naufragio era senza fi¬


ne.1 Non c’era oggetto che non ce lo riflettesse; era,
la nostra stessa vita, da capo a tondo, l’oggetto qual¬
siasi sul quale cadeva a caso il nostro sguardo. Non
era la nostra, in realtà, vita più che oggettiva, il primo
oggetto venuto. Quel concentrarsi nell’attimo d’un og¬
getto non aveva misura. L’eternità annuvolava l’atti¬
mo. L’oggetto s’alzava alle proporzioni duna figura di¬
vina. Non conoscerò più tanta soggezione, né quella
libertà ferma, ch’è la vera, d’uno specchio perenne. In
quel frangente, ho capito perché il Negro fa gli occhi
all’idolo con pezzetti di specchio.2
Capisco che si duri fatica a destarci da un sonno co¬
sì profondo. Capisco che ci si sentisse portati per mano
verso Dostoievski.
E capisco che, di recente, si cercasse rifugio nel so¬
gno.
Ma ecco che il sogno stesso (ed è naturale) ci ricon¬
duce alla memoria.3
Abbiamo dell’innocenza, non più come nell’Ottocen¬
to, un desiderio filosofico, ma un’esperienza diretta;
possediamo una conoscenza mistica della realtà. Credo
che la poesia di domani sarà felice. A poco a poco, il
dramma si scioglierà. Saranno andati in fumo anche i
tentativi di affidare la parte del burattino alla memo¬
ria, e all’innocenza quella dell’oracolo. E dell’innocen¬
za, tornata nella memoria al suo posto oscuro, le lu¬
singhe saranno vane.
Ridesti, rassegnati all’umile missione di creature,
nel possesso della realtà, cioè in quel rapporto fulmi¬
neo che si stabilisce tra ispirazione e visione, non sarà
più invocata nemmeno l’intercessione di emblemi. Dia¬
na, Giunone, o Apollo, cresciuti ancora di poesia, e
Gesù e l’Addolorata, non saranno più che soste della
nostalgia, verso un inno deserto. Virtù, rigorosa ra¬
gione, nessun vino, nessun oppio, conterrà più di te,
paradiso, lucidità più folle!
INNOCENCE ET MEMOIRE
[1926]

Il y a eu un temps (je n’enseigne rien) où les hommes


ne croyaient pas seulement au surnaturel; ils savaient
aussi par le détail comment ce surnaturel était fait et
pouvaient facilement le représenter. Le soupgon est
enfin né que ce surnaturel n’était qu’une image de la
nature. Il se peut que ce soup?on soit né avec Pétrar-
que. Depuis lors, on n’a plus pensé que Dieu se faisait
nature afin que rhomme à son aise eut à l’interpréter.
La poésie perdit son caractère de verbe du Seigneur.
A la suite de 1’homme, tout objet revint prendre son
caractère de créature, et la divinité n’eut qu’à s’é-
clipser.
Le retour de la mythologie paienne ne fut pas sim-
plement la conséquence d’un mouvement de culture.
Par cette soif de beauté, se manifestait une piété sans
espérance. Un tei état d’exil, après Pétrarque, ne com¬
portai plus que des aventures humaines. Le poète ne
disposait plus que d’un jeu de reflets; il ne lui était
accordé que de faire surgir, de la nature contemplée,
les apparitions de la mémoire. Mémoire, profondeur
de l’homme.
La poésie, adonnée au vice, perdit toute retenue au
dix-neuvième siècle, et, par le fait de l’antinomie cros¬
sante entre l’individu et la société, Yélusion prit alors
non plus un caractère de divertissement, mais de spas¬
ine et de délire.
La présomption de l’homme est telle au dix-neuviè-
me siècle, qu’il érige des autels à la mémoire. C’est le
siècle des flaireurs de momies et des physiciens in-
sensés.
136 Giuseppe Ungaretti

,Oserai-je pousser l’imprudence jusqu’à mettre en tè¬


te-à-tète Leopardi et Mallarmé? S’ils s’étaient rencon-
trés ici-bas, certes ils ne se sqraient pas regardés d’un
bon ceil, et, là-haut, ce ne sont pas de doux regards
qui doivent couler entre eux; mais Fon peut, en rap-
prochant leurs deux noms, résumer l’apport du dix-
neuvième siècle à la poesie: un espoir inassouvi d’in-
nocence.
On verrait, si l’on poussait à peine ce parallèle
absurde, que l’un et l’autre, partant de l’esthétique
romantique, qui transférait tout absolu dans les signes,
ne peuvent éviter d’observer que la vie des mots est
variable, et souvent éphémère.
Ils s’eflorcent de parer à cette faiblesse.
Leopardi mettra en avant sa théorie de l’élégance. Il
affirmera qu’une langue n’est parfaite qu’au moment
de sa maturité, alors qu’elle dispose de l’ensemble de
ses ressources. Il remarquera qu’une langue n’est bonne
qu’à la condition d’ètre « de penchant populaire »,
c’est-à-dire de ne porter l’empreinte particulière d’au-
cune classe sociale, de pouvoir se séparer de la langue
parlée, d’avoir la faculté et la facilité, à l’égal des
langues anciennes, d’ètre audacieuse, d’ètre enfin -
semblable à la nature qui enferme toutes les qualités
et les facultés dont l’homme est susceptible — prète
sans contrainte à tout mode d’expression, au poétique,
au logique...
Des soucis analogues dictent à Mallarmé son éloge
de l’anglais: « Par sa Grammaire marche vers quelque
point futur du Langage et se replonge aussi dans le
passé, mème très-ancien et mèlé aux débuts sacrés du
Langage, l’Anglais: langue contemporaine peut-ètre par
excellence, elle qui accuse le doublé caractère de l’épo-
que, rétrospectif et avancé »? Et Mallarmé saura rom-
pre la tournure habituelle du discours, et mettre au
Service de la versification une langue extrèmement as-
souplie.
Scritti letterari 1918-1936 137

Et les deux philologues, attachés surtout à ce qui


dans le mot ne se peut definir, au pouvoir musical du
mot, à la substance du mot qui leur semblait la moins
périssable, la plus universelle, auraient pu se flatter
d’avoir tire de leur Science un bon parti.
Mais 1 un et 1 autre étaient de vrais poètes, et la
pensée devait quand mème en eux rebondir et domi-
ner la lettre. Parce que Leopardi, ayant constaté que
1 ennui est source de pensée, se voue à l’ennui; parce
que Mallarmé sait que « toute Pensée émet un Coup
de Dés » et qu’« un Coup de Dés jamais n’abolira le
Hasard », leurs mots ont un pouvoir de séduction plein
d’aventures.

Au siede dernier, la soif d’elusion a porté les poètes


vers le mot de mémoire, vacillant de solitude, lourd
de pressentiment.
Le dix-neuvième siècle, épuisé par son effort déme-
suré de mémoire — l’image du naufragé qui, sur le
point d’ètre englouti, revoit toute sa vie en un éclair,
et, mème athée, se recommande à Dieu, vient ici à
propos — ayant dissipé son illusion d’avoir embrassé
le temps infini, s’est retrouvé dans le vide; il avait le
sentiment, puisque la Providence n’est pas une fable,
que les ailes lui poussaient.

Les personnages de notre drame, les artistes du pre¬


mier quart du vingtième siècle, sont la mémoire et
l’innocence.
L’innocence, nous avons su comment elle était faite.
Elle nous est apparue, et nous a gardés sous ses ailes
déjà grandes, au milieu des bouleversements de nos an-
née's. Elle occupait tout notre esprit. La mémoire avait
un bandeau sur les yeux. Perdue, la notion du temps.
Et que vous ne sauriez jamais ètre plus qu’un fréle
fil, lorsque dans la nuit nous plongions la figure dans
nos mains pour vous retrouver, vous, signe unique de
138 Giuseppe Ungaretti

la dignité humaine, pensée, nos doigts l’ont bien senti.


La vie a moins d’importance.
L’horreur de l’éternité ne nous a pas été cachée.
L’instinct seul régnait. La familiarité avec la mort était
telle que le naufrage était sans fin. En réalité, notre vie
n’était rien de plus qu’objective. Le premier objet
venu. Cette concentration dans l’instant d’un objet
était démesurée. L’éternité éblouissait l’instant. Je ne
connaìtrai plus autant de sujétion, ni cette liberté, la
véritable, d’un miroir Constant. L’objet s’élevait aux
proportions d’une figure divine. J’ai enfin compris
pourquoi le Nègre fait avec des débris de miroir les
yeux de son idole.
L’ESPORTAZIONE LETTERARIA
[1926]

L’altro giorno sentivo un amico lamentarsi che la lin¬


gua italiana era diventata impossibile. E l’amico che si
lamentava, oltreché musicista geniale, è scrittore, e
scrittore che dalla vecchia nostra lingua ha tratto ef¬
fetti nuovi a piene mani. C’è poi vento di tali proget¬
ti che fa nascere il sospetto d’un male diffuso. Il di¬
scorso del mio amico, m’accorgo, rifletteva una crisi di
sfiducia verso la propria lingua, che non è solo un suo
caso personale.1 È facile rendersi conto che l’italiano,
con tanti secoli d’autorità che si porta addosso, non è
d’agevole accomodatura. Ha un carattere che gli vieta
d’adattarsi alla novità, ma non di piegarla a sé. Baste¬
rebbe lo sforzo concatenato di cinque o sei buoni scrit¬
tori, per portarlo, in capo a una dozzina di buoni li¬
bri, a esprimere naturalmente anche tutto quel po’
po’ di novità che il complicarsi delle scienze fisiche
frutta da più d’un secolo, al mondo morale. Se il fran¬
cese, irrigidito dalla riforma dei preziosi, riesce nel
campo della « modernità » a far miracoli, quali cose
non dovrebbe fare in quel campo, l’italiano, che non
s’è mai ridotto a lingua di classe, che nonostante seco¬
li d’esercitazioni accademiche, ha serbato la sua grazia
popolare intatta, una padronanza di giuoco universale.
Doveva turbare l’amico mio, la mancanza di esempi,
di tradizione, nel senso delle sue ricerche, mentre sul
lavoro crescevano le difficoltà che toccava a lui di prin¬
cipiare a appianare; ma ciò non fa che rendere più
meritoria la sua fatica, e non l’autorizza affatto a in¬
vidiare un’altra lingua, molto meno favorita della no¬
stra.
140 Giuseppe Ungaretti

L’amico mio doveva anche accorarsi per il fatto che


l’italiano è poco letto fuori d’Italia e che allo scritto¬
re in Italia vien meno sempre più il conforto del pub¬
blico.
Ho visitato recentemente il Belgio, l’Olanda e la
Francia e attesto che il rinnovato prestigio dell’Italia
acuisce all’estero, il desiderio di conoscerci meglio. La
nostra lingua riacquista la sua forza d’espansione e se,
com’è stato promesso, la Dante Alighieri aggiungerà
alle sue benemerenze quella di adattare i suoi mezzi
d’azione ai tempi nuovi, il caso d’un prof. Guarnieri,
che ha introdotto l’insegnamento dell’italiano in tutte
le numerose università olandesi, in numerose scuole
medie, in istituti commerciali, che ha reso familiare la
nostra civiltà a migliaia di maestri elementari, alla
maggior parte delle persone colte d’Olanda, non sarà
più unico. Non si fanno miracoli, neanche in materia
di propagazione d’una lingua. Si tratta anche qui di
opera ostinata. La conoscenza d’una lingua come l’ita¬
liana è una cosa complessa. Non basta sapere tre no¬
mi di scrittori in voga e capire alla meglio, dopo le
lezioni della Berlitz, le notizie d’un giornale. La lin¬
gua è una cosa totale: è il simbolo della vita d’una
Nazione, del suo passato e del suo avvenire.
Un altro mezzo di propagazione è la traduzione.
Mezzo inefficace, dannoso, come ogni segno di debo¬
lezza, se mette in sottordine di una lingua straniera,
la propria, per far colpo sugli allocchi di casa. Sono
imprese che non daranno mai gloria, né se ne ricaverà
un utile qualsiasi più che magro. Questa è la peggiore
delle ipotesi. Vediamone altre. Se tra il traduttore e
l’autore non c’è una certa affinità d’animo, di gusti,
d’intelligenza, la traduzione, sarà sempre scadente. E
come giudicare quelle traduzioni - m’è capitato di ve¬
derne - fatte da gente che, conoscendo male la lingua
nella quale traduce, la strazia tranquillamente? Que¬
ste traduzioni, mancando di riguardo ai lettori ai qua-
Scritti letterari 1918-1936 141

li son destinate, non solo sono inutili, ma fanno na¬


scere dubbi sulla serietà e sulla dignità dello scrittore
tradotto. La responsabilità è grave trattandosi di due
lingue come, mettiamo, il francese e l’italiano, arric¬
chitesi e affinatesi, Luna e l’altra, nel corso dei secoli,
acquistando ciascuna tanto carattere da distinguersi
nettamente luna dall’altra.
Parlando di traduzioni, è superfluo dirlo, la tradu¬
cibilità della prosa, non va confusa con quella della
poesia, specie se' la poesia non è narrativa. La poesia,
più una Civiltà è avanzata, meno è narrativa. La poe¬
sia è quasi intraducibile. Non esiste, credo, una buona
traduzione del Petrarca. Eppure il Petrarca ha influen¬
zato la poesia europea sino al romanticismo, con Mal¬
larmé e Valéry. Un erudito vorrà dirmi s’è segno che
il Petrarca era letto in italiano, e s’è vero che un gran¬
de poeta renda mille volte più servizi a una lingua,
e quindi al prestigio d’una nazione, che dozzine d’an¬
ni d’attività diplomatica.
Diamo ora una riguardatina alla modernità. Me ne
intendo. Sono da vent’anni nella mischia. Ci sono sem¬
pre stato. Non per opportunità, per vocazione mi ci
sono buttato. E posso dire che quella letteratura la
quale fa illudersi qualcuno d’essere in arte della sta¬
tura in politica di Mussolini, e gli fa annunziare che
aprirà all’arte, mediante una rivista di traduzioni in
cattivo francese, un’era nuova, pari a quella politica
iniziata dalla Marcia su Roma 2 - posso dire che quel¬
la letteratura, nata da « Lacerba », dal cinema e dai
balletti russi, sta ormai tramontando in Germania, in
Francia, e altrove. In Francia, di quelle trovatine ne
dispongono ormai a panieri, i modesti redattori delle
seconde pagine dei grandi quotidiani.
Per mia parte, ritengo che il problema della moder¬
nità, è anzitutto un problema morale. Il Leopardi ci
è tanto vicino perché ha proposto questo problema con
intensità lirica che forse non sarà mai più raggiunta.
142 Giuseppe Ungaretti

'L’arte, bisognerebbe finalmente persuadersene, non


è moda. L’arte che rimane è, quella che arricchisce la
conoscenza delle passioni umane e dèi costumi degli
uomini, e quella che apre qualche spiraglio alla no¬
zione delle superne ragioni.
E soprattutto lasciamo perdere il cinema. Faccio
mie le osservazioni in proposito di Jean Paulhan no¬
tomista dei primi della letteratura odierna: « Mi sem¬
bra che il cinema ha sbarazzato la letteratura di molte
preoccupazioni assurde, quali: movimenti, rapidità, in¬
seguimenti, colpi di scena, allo stesso modo che la fo¬
tografia aveva fortunatamente guarito la pittura dal
pensiero di “far somigliante”. Le arti si aiutano molto
meno con ciò che recano che con ciò che tolgono, le
une alle altre ».
Tiriamo le somme.
Non opereremo con piena efficacia per la diffusione
della lingua italiana, simbolo di gente vivissima e an¬
tica, senza aver prima organizzato in patria un forte
movimento letterario. Bisogna anzitutto avere una fi¬
ducia cieca nell’avvenire della nostra lingua. Quando
ci saranno da noi tre o quattro riviste, non fatte per
divertire il pubblico, ma per formarne il gusto, non
fatte per dar la spinta a Tizio o a Caio, ma per delu¬
cidare idee, allargare la mente, migliorare il cuore,
confrontare risultati, perfezionare il mestiere, alimen¬
tare l’ardire, rinfrancare e spronare, quando ci saran¬
no queste Officine ove il collaborare sarà atto di fede,
di fraternità e d’umiltà, quel giorno la battaglia del
libro italiano sarà sulla strada della vittoria.
Mancheranno in Italia dodici signori disposti a fare
per la letteratura ciò che ottimamente stanno facendo
per la pittura, la scultura, la musica, l’architettura?
STATO DELLA PROSA FRANCESE
[1927]

L’Antologia della nuova prosa francese messa in que¬


sti giorni in commercio da Kra e che completa l’An¬
tologia della poesia uscita alcuni anni fa, presso lo
stesso editore, mi suggerisce alcune osservazioni.
All 'Antologia sono premesse alcune pagine. Eccone
un riassunto:
Da dieci anni circa starebbe succedendo in Francia
un vero rivolgimento della lingua e dello stile. Rivol¬
gimento da attribuirsi alla gran voga del romanzo ne¬
gli anni del dopoguerra; voga che avrebbe ridotto a
farsi romanziere chi per vocazione sarebbe stato criti¬
co, o poeta, o filosofo, o umorista, o drammaturgo, o
attaccabrighe.
E ciascuno naturalmente ridotto a deformare, secon¬
do le sue attitudini e la sua aspirazione, il genere let¬
terario abbracciato per forza, parole, immagini, intrec¬
ci, il tutto fuori regola, avrebbero fatto irruzione nella
prosa destinata ai lettori di storielle, cambiando i con¬
notati della lingua.
Un altro impulso a tanta metamorfosi sarebbe venu¬
to dalla grande popolarità delle traduzioni dal russo e
dall’inglese, e delle traduzioni in genere.
E il suo tono particolarissimo questa prosa l’avreb¬
be chiesto a certa poesia, mia vecchia conoscente, ami¬
ca delle analogie azzardate, d’una logica dissimulata,
delle assonanze, delle allitterazioni, delle slogature sin¬
tattiche e d’ogni eleganza.
E avrebbe chiesto purezza alle fonti popolari, miti
al romanzo d’appendice.
Temo che l’anonimo introduttore non veda bene
144 Giuseppe Ungaretti

che di sbieco. È innegabile il flagello dei romanzi, già


frenato. ,
E l’incauto alza un inno al lancio all’americana. È
innegabile che la civiltà moderna dispone di mezzi por¬
tentosi. Concedo che in tali mezzi riposano germi liri¬
ci. Li brucerà la vita se un artista non li stanerà. Un
tale sosteneva che basterebbe riprodurre con insisten¬
za, su tutti i giornali, un invito al suicidio, redatto con
energia, per, dopo poco, assistere al finimondo; non
lo disdico. Ma se non fosse una falsità che oramai i
mezzi tengono a stecchetto e soffocano la potenza spi¬
rituale, faremmo pietà ai sassi.
È falso; e, badate, se quel tiro del suicidio generale
andasse bene, sarebbe sempre colpa non dei giornali,
ma del diavolo che ci avrebbe messo la coda, dettando
l’invito.
È l’uomo che infonde alle cose il soffio della sua
crescente potenza, che moltiplica i suoi mezzi, che al¬
larga il suo regno; l’uomo, la sua potenza spirituale,
non i mezzi. So che l’ultimo degli uomini ha in sé la
possibilità di muovere le montagne, e che il più illu¬
minato non sa quasi nulla dell’universo che racchiude;
so che ha riflessi universali persino un minimo nostro
atto inconsulto, e che la capacità umana di controllo è
ancora infima. Non nego i mezzi; esalto la potenza spi¬
rituale.
Togliete all’uomo il desiderio e l’orrore dell’eterno,
toglietegli la lotta colla morte, toglietegli l’illusione,
mutategli destino, e finisce quel poco di magia che gli
resta; l’arte è sparita; è spento quel lumino che l’aiu¬
tava a intravedere nel suo abisso, a farsi padrone d’un
grano di potenza.
Sfumerebbero presto i mezzi portentosi.
Perché l’opera d’arte è realmente uno specchio ma¬
gico; è all’ombra della notte dei tempi, e aureola di
futuro la civiltà che vi si mirò, della quale è il riflesso
meno provvisorio.
Scritti letterari 1918-1936 145

Dovremmo invece d’ora innanzi ricorrere a un’altra


scala di valori, e esercitarci a giudicare delle varie qua¬
lità di bluff?
Il bluff potrà mettere in circolazione un nome, frut¬
tare soldi a palate, non darà un raggio di gloria.
Ora, un’azione che non avesse fortuna che per via
di bluff, o su quella china, la direi disumana, in ogni
caso ostile ai fini dell’arte, e diffiderei d’una civiltà che
si rassegnasse a lasciare di sé segni così fatui.
Chi tocca la» lingua nel nervo (un Montaigne, un
Shakespeare, un Cervantes, un Goethe, un Dante) cre¬
dete proprio che abbia tempo da perdere col mercan¬
te?
Ma quanti di quei romanzi hanno durato più di un
quarto d’ora? E in quale dose, di quei romanzieri i
migliori, e sotto quale aspetto, hanno manifestato no¬
vità di lingua?
E considerando come siamo chiamati a considerarla,
la riforma come risultato di fatica collettiva, gli esem¬
pi che ci sono proposti, i venti prosatori della raccolta,
non ci disingannano, ci portano sopra un altro terre¬
no. Dal romanticismo in qua è meno raro che in altri
tempi, il ricorso a una forma nella quale i vari generi
letterari siano indotti a contaminarsi a vicenda, fre¬
quentissimo il caso d’un genere usato solo come prete¬
sto. Alcuni teorici sono giunti persino a negarli i ge¬
neri letterari, da quel dì.
La domanda quindi che dovremmo rivolgerci sareb¬
be questa: quali dei venti campioni della nuova prosa
francese hanno scritto romanzi in seguito alla gran
voga del romanzo? Soupault? Chi può dire sia nato
meno narratore che poeta? Il lavoro gli è leggero in
modo sbalorditivo.
Un’altra obbiezione: di quei venti, una buona doz¬
zina, la maggior parte della loro opera l’hanno scritta
prima dei famosi dieci anni. Nel ’914 Gide era cele¬
bre; Proust era ignoto, ma Du coté de chez Sivann
146 Giuseppe Ungaretti

era uscito l’anno prima, e, a quella data, se l’opera sua


forse non era stata ancora portata a compimento, la
sua lingua e il suo stile erano già in possesso delle lo¬
ro risorse; Valéry era noto da pochissimi prima della
guerra, ma La soirée avec M. Teste dal 1896 faceva
il giro dei cenacoli; sin dal 1912, coWÉcole des indif-
férents, Giraudoux aveva trovato la sua maestria; Mort
de quelqu’un di Romains è del 1911; A.O. Barnabooth
di Larbaud, del ’912; il Max Jacob del ’909 ha fioret¬
ti da cedere a quello del ’26. E potrei continuare.
D’altro canto, guardando i più giovani dei venti pri¬
vilegiati - il più anziano (Gide) è del 1869, i più gio¬
vani degli anziani sono dell’88 - Drieu La Rochelle
(1893), Delteil (1893), Montherlant (1896), Soupault
(1897), m’accorgo che la loro lingua e il loro stile non
fanno a pugni colla lingua e lo stile dei più vecchi, che
ciascuno, anche quando proclama d’essere in guerra
con tutte le convenzioni, letterarie, politiche e morali,
ha un gran timore di recare offesa alle parole e se ne
serve con calcolo.
Chi dunque dovesse studiare l’evoluzione dello stile
e della lingua in Francia, non potrebbe confinarsi negli
ultimi dieci anni. Dovrebbe almeno esaminare un pe¬
riodo di 30 anni, e gli converrebbe forse di contem¬
plare un paesaggio più vasto, dall’angolo della rivolu¬
zione romantica.
L’argomento principale dell’anonimo introduttore sa¬
rebbe poi fatto a briciole dal fatto che non solo la
maggior parte dei venti si sono formati non avendo
di mira il successo, ma sprezzandolo, e uno di essi
(Valéry) in un libro dal quale i giovani migliori si sono
mossi, nella Soirée, giunse persino a mandare in malo¬
ra la lettera, inadatta a cogliere il puro moto del pen¬
siero. Vero è che Valéry s’è poi anche soffermato a
lungo sul metodo, e che, di recente, faceva precedere
una traduzione inglese della Soirée, d’una dichiarazio¬
ne nella quale riconosceva i loro meriti alle conven-
Scritti letterari 1918-1936 147

zioni. Ed è arci vero che il nettare gliel’hanno sempre


fornito le convenzioni.
Anche osservando i giovani meglio dotati (Breton,
Aragon) (non so per quali motivi non li hanno am¬
messi nell’Antologia - hanno forse rifiutato d’entrarci)
bisognerà ammettere ch’essi fanno di tutto, anche con
gesti idioti e odiosi, per isolarsi.1
Mi pare insomma, sfogliando l’Antologia, d’essere
ancora di fronte al dissidio - nell’ordine dell’arte - tra
società e individuo che — mi si perdoni l’immodestia
- in un mio articolo a proposito di Mallarmé, pubbli¬
cato dall’« Italiano » e dalla « Nouvelle Revue Fran¬
ose », ho cercato di definire.2
Questo dissidio è infiammato in Francia, dove la lin¬
gua tende a portare l’impronta d’una classe particola¬
re, l’impronta della società forbita, l’impronta della
borghesia, ecc.; e lo sforzo più notevole che sta com¬
piendosi in Francia - sforzo di più d’un secolo - è ap¬
punto quello di restituire una certa autonomia alla lin¬
gua.
Della debolezza del proprio argomento fondamenta¬
le dev’essersi accorto lo stesso introduttore, poiché nel¬
la seconda parte del suo scritto è costretto a riconosce¬
re che ciascuno dei venti segue un’estetica propria, che
ciascuno è ridotto a foggiarsi il suo stile, ecc. Piena
anarchia. Tutt’al più, confessa l’introduttore, si può
parlare d’influenza morale di questo o quello scrittore.
In questi dieci anni, ecco, nel campo morale, c’è
realmente del nuovo.
Dall’affannarsi a ogni esperienza per ricavarne, at¬
traverso un’inenarrabile pazienza, un atomo d’arricchi¬
mento di arte, siamo ora arrivati a vedere tutto chi¬
narsi alla vita: pensiero, poesia, tutto, sottoporsi a un
possesso della vita più crudo, piu illimitato, intolleran¬
te, invasato. Il punto di mira del prosatore francese
non è più quindi tanto nello splendore dell espressio-
148 Giuseppe' Ungaretti

ne quanto nell’arricchimento del proprio essere: ani¬


ma, mente, sensibilità.
Com’è accaduta la novità? >
Stando al libro che abbiamo sotto gli occhi, ci tro¬
viamo davanti alle indicazioni seguenti:
Un Gide che stimola all’inquietudine, che, spietato,
in tale specchio si esamina e scruta gli altri, e li avvia
a vedersi profondamente, e mette in luce la tremenda,
e feconda, facoltà umana di ritrovarsi simultaneamen¬
te diabolico e angelico;
Un Proust che dimostra apparenze le divisioni so¬
ciali, e reale nel consorzio umano, una grande anarchia
sessuale;
Un Valéry diretto alla cima dove scienza e arte si
fondono, luogo della parola alata;
Un Fargue da venti anni saccheggiato da quanti
godono riputazione di dire una parola nuova; 3
Un Larbaud che abbraccia sempre più mondo in
creature sempre più gustose e più agili;
Un Jouhandeau che incide e illumina consumato
dalla grazia;
Un Drieu La Rochelle che dice di sé: « Scrivere non
è inventare immagini come credono molti. Ma essi non
hanno idea della vita che potrebbe unire quelle frasi e
travolgerle in un movimento così largo per esprimere
l’intero loro essere. Eppure non hanno il diritto di
dire che scrivono se non quelli il discorso dei quali è
percorso da un’urgenza che ne preme tutte le parti.
Solo quelli hanno stile. Aragon e Breton sono di quei
rari nelle mani dei quali la frase è lieve. Ma guai a
chi nemmeno un libro saprà portare a compimento;
tutta la sua opera cadrà nel letamaio, il peggio intru¬
gliando il meglio »;
Un Paulhan che ha reso obbiettivo l’io più segreto
per sceverare, indagando sui rapporti tra psicologia e
parola, i lineamenti d’una nuova rettorica.
Verso Paulhan si volgono grandi speranze.
ORIGINALITÀ DEL FASCISMO
[1927]

Due anni fa vide la luce a Parigi un Elogio della bor¬


ghesiaJ dettato da René Johannet. Una critica a fon¬
do della borghesia è stata ora portata a termine da
uno studioso tedesco, il Groethuysen, e già possiamo
leggerne qualche capitolo nelle riviste.
Johannet, allevato da Sorel, si rende subito conto
che dai rivolgimenti di questi ultimi dodici anni, che
hanno portato a accavallarsi, senza spazio davanti, col
baratro sotto, lo sbigottimento, le speranze smisura¬
te, la rivolta fomentata dalla pazienza — il bene e il
male repentinamente apparsi come una piaga che in¬
cancreniva - sta nascendo un ordine nuovo.
Ma nonostante si ricordi di due frasi profetiche del
suo grande maestro (« La guerra lascerà in eredità una
bisogna rude, un bel disordine, e ci vorranno polsi di
ferro, una buona dose di brutalità » diceva Sorel a
Variot nel 1910; nel 1912, parlando di Mussolini di¬
ceva: « Ce jeune homme fera parler de lui dans le
monde ») e si volga all’esperimento italiano come al
più ricco d’insegnamenti, non riesce a liberarsi dal pre¬
giudizio che non ci sia scampo oltre i limiti della bor¬
ghesia.
Il grosso problema europeo del dopo guerra, quello
dalla soluzione del quale dipende la ricostituzione del
concerto europeo - armonia che poi è conseguenza di
una certa unità morale raggiunta - è, secondo Johan¬
net, un problema di riordinamento della classe dirigen¬
te, della restaurazione dell’ordine gerarchico, entro i
limiti della borghesia. E riconosco che dà alla parola
borghesia il significato di grado sociale al quale possa
150 Giuseppe Ungaretti

arrivare qualsiasi figliolo del popolo per meriti di cul¬


tura, d’ingegno, di volontà.
Per avvalorare la sua tesi, Johannet mostra la for¬
mazione, in un millennio, della borghesia francese; il
travaglio per definirsi in classe, le primordiali conqui¬
ste di privilegi, il lento salire, l’accaparramento del¬
l’amministrazione della giustizia e, via via, d’ogni uf¬
ficio civile, la direzione morale ed effettiva e, final¬
mente, anche quella nominale, della nazione e dello
stato. E mentre intacca le prerogative dell’aristocrazia,
la borghesia allarga le sue basi diramandosi sempre più
nel popolo. Abbiamo dunque una prima tappa di ela¬
borazione e di scalzamento, una seconda, dall’89 in
poi, di consolidamento e di estensione sino, possibil¬
mente, ad abbracciare l’intera nazione, inducendo, con
provvidenze sociali e educative, il popolo a imborghe¬
sirsi in continuo maggior numero; ed ora dovremmo
avere il coronamento dell’opera, con un assestamento
gerarchico. Quando Johannet,- stimolato dall’esempio
fascista, parla di gerarchia, intende una divisione si¬
stematica del lavoro, un impiego più accorto, più dina¬
mico, del capitale e delle competenze, l’organizzazione
sociale basata sugli interessi tecnici e umani, e non più
sulle rivalità demagogiche e la cupidigia, la nazione
e lo stato rifiorenti dalla disciplina e dall’emulazione.
In un siffatto paese regnerebbe la concordia, e quindi
il benessere, la bontà, l’animo nobile che dà vita alle
opere di bellezza.
Il punto debole del discorso di Johannet, è che im¬
magina l’ordine nuovo come l’ultima difesa d’una clas¬
se, dei privilegi di una classe. E difatti, sin qui, in
Francia, di nuovo non abbiamo visto sorgere che un
« Consiglio economico nazionale », con i soliti man¬
darini.
Se, d’altro canto, per disgrazia, un paese fosse ridot¬
to a un’unica classe, e, per somma disgrazia, non la
componessero che privilegiati, quella gente non avreb-
Scritti letterari 1918-1936 151

be più sonni tranquilli, sarebbe, o sembrerebbe, nella


difesa allucinata dei propri beni, provocatrice; quel
paese si sarebbe giuocato l’avvenire.
D’altro canto, per quanti sforzi faccia, Johannet non
riesce a nascondere che in un secolo di supremazia, tra
innumeri benemerenze pratiche, la borghesia ha stra¬
ziato la sostanza stessa dell’uomo umano, l’anima, e
l’ha ridotta allo stato d’agonia. Persino il popolo - ep¬
pure l’anima nasconde in lui le sue radici e i suoi fer¬
menti - condannato alla lotta di classe, intraprenden¬
dola non ha quasi più avuto che fini materiali.
E Johannet cerca un riparo in San Tomaso. Nessu¬
no stupore; è stato uno jdei primi in Francia, iniziando
una dozzina d’anni fa con Gaètan Bernoville la pub¬
blicazione della rivista « Les Lettres », a rimettere in
voga il tomismo. « La borghesia? » Ma l’Aquinate l’ha
inventata, la difende, ne è il dottore. Insegna: «Né
prodighi, né avari, liberalìtas: fare buon uso del dena¬
ro ». La scolastica condanna l’ozio, vanta la decenza,
l’onore, l’onoratezza: virtù essenzialmente borghesi.
Sarà, sono passati tanti secoli, e il borghese non era
ancora re.
« Virtù essenzialmente borghesi! » Se la memoria
non mi falla, questo mi pare d’averlo già letto. Di cer¬
to la cosa non m’è nuova. Ecco, ecco. Quando, prima
della guerra, la smania era tanta da noi di dare un co¬
stume alla classe, qualcuno toccava questo tasto. Ci
dev’essere stata una rivista dell’idealismo militante, e
chi ne sfogliasse la collezione, ci troverebbe, credo,
delle cose carine. Se ho buona memoria, vi si dimo¬
strava il valore sociale dell’arrivare puntuale all’ap¬
puntamento, vi si raccomandava di spazzolare gli abi¬
ti per benino che così durano il doppio e più, di met¬
terci il pepe che così non si tarmano; vi si dava il
consiglio di aprire le buste delle lettere ricevute con
una spugnina bagnata, di rovesciarle a modino e di
servirsene rispondendo; vi si insegnava a istruirvi an-
152 Giuseppe Ungaretti

dahdo a spasso; si misurava il grado di civiltà di un


popolo dal sapone che consumava; c’era il sermone
sulla necessità di non servirsi mai di maiuscole per
non sprecare inchiostro; c’era l’apologià delle nazioni
dove non si ruba sul peso e non si vende semola per
fiore di farina; sulla copertina spiccava l’indirizzo d’un
lattaio idealista.2
Parvificentia!
Sulla rosa di Johannet, buttiamo ora l’acido prussi¬
co di Groethuysen.
Con erudizione e acume impareggiabili, Groethuysen
ci scopre anche lui come il borghese s’è fatto il suo
posticino al sole. L’ideologia del borghese non ne esce
più però gloriosa. È possibile riassumere la critica ser¬
rata di Groethuysen? Mi ci proverò, usando quasi le
sue stesse parole. Dice: « Nell’ideologia del borghese
non c’è più posto per il sogno. “Agisco, e dunque so¬
no.” Attribuisce generosamente il merito della sua for¬
mazione ai filosofi e agli uomini di scienza, che gli a-
vrebbero insegnato a vedere le cose come sono. Ma le
scienze non gli hanno insegnato a vivere: tutt’al più
gli hanno esse fornito argomenti via via che s’è trat¬
tato di difendere e di delimitare le sue conquiste. Ha
capovolto l’ordine dei problemi, e il mondo se l’è fi¬
gurato in funzione della vita, invece di cercare di con¬
cepire se stesso in funzione d’un tutto. Ha voluto vi¬
vere in questo mondo senza supporne un altro, o- alme¬
no senza mettere, nella pratica, la sua vita alla dipen¬
denza di supposizioni. Ha detto: “Io sono”. Non: “Io
sogno, dunque sono”. (Il pensiero non l’avrebbe fatto
uscire dal sogno; penso, sogno - sogno del metafisico.)
Ma: “Agisco, dunque non sogno, dunque sono”. Il
suo mondo non è più universo, è un mondo senza
eternità e senza infiniti. Risalirà alle sue origini? Sa¬
prà, rivivendo i tempi che l’hanno preceduto e attra¬
versando i tempi in cui principiava a essere, vedersi
come se già non fosse più? In ciò consiste la coscien-
Scrìtti letterari 1918-1936 153

za storica, l’opera dello storico per il quale tutto di¬


venta passato. Il borghese ha addomesticato, ha messo
in fuga i fantasmi. L’uomo che ha detto: “Io sono”,
non ha casa nell’universo, non ha pace nell’eternità.
I miei “piccoli beni”, le mie “piccole terre” ». Parvi-
ficentia!
Se una cosa è originale nel fascismo, se una cosa è
intesa male fuori d’Italia, o appena sospettata, o non
voluta capire, è la magnificentia, proprio come l’inten¬
deva San Tomaso, è la magnificenza che lievita in que¬
sto nostro movimento.
Venuto dal popolo, educato per il popolo, in un
paese dove i problemi ardui sono di masse, senza mi¬
sconoscere le classi, che sono una naturale distinzione,
senza nulla guastare, Mussolini s’è costantemente ap¬
poggiato al popolo e il suo edifizio ha le fondamenta
nel popolo, cioè nell’anima; e quando, presto, in que¬
sto paese, la « Carta del Lavoro » sarà un fatto com¬
piuto, vedremo che, finalmente, dopo tanti secoli, ani¬
ma e mente avranno ritrovato il loro libero giuoco, e
la loro equilibrata coesistenza.
Il punto di partenza, indubbiamente, di tutti i rivol¬
gimenti che si succedono dal 1760, si trova nella riu¬
nione di alcuni datori di parole d’ordine. Da Mon¬
tesquieu a Karl Marx, da Babeuf a Mussolini, da Ro¬
bespierre a Lenin è la medesima tecnica. Ma per la
prima volta dopo tanti secoli, dando un’armonia mili¬
tare e religiosa alla comunità italiana, un capo sente
il carattere soprannaturale dell’impeto che la Provvi¬
denza gli ha dettato di imprimere alla storia. È ricom¬
parso nella storia il torrente, il popolo.
DIFESA DELL’ENDECASILLABO
[1927] f

L’endecasillabo

A proposito duna nota opportuna di Emilio Cecchi


apparsa nei « Libri del giorno » (febbraio 1927), Fran¬
cesco Flora fa nella «Fiera Letteraria» (13 febbraio
1927), alcune osservazioni sottili.
Un perdigiorno credo abbia una volta dimostrato
che i metri « barbari » del Carducci sarebbero, a conti
fatti, l’endecasillabo (predominante) e altri nostri ver¬
si tradizionali. Se, dopo verifica, avesse ragione il
perdigiorno, sarebbe un’altra conferma che il Carduc¬
ci, contrariamente a ciò che pensa Cecchi, aveva l’en¬
decasillabo nel sangue. E l’ha nel sangue ogni vero
poeta italiano. È l’ordine poetico naturale delle paro¬
le italiane.
Ma gli endecasillabi più contemporanei e più nostri
sono, come dice bene Cecchi, quelli di Giacomo Leo¬
pardi. E per trovarne degli altri che ci commuovano,
dobbiamo andare indietro sino precisamente al Tasso.
Il Leopardi, come il Tasso, ha tolto all’endecasillabo
ogni rimbombo, ogni lusso, ogni esteriorità, l’ha reso,
direi, silenzioso. È poesia per sognarci sù, e non per
declamatori. In essa la mente ascolta l’anima. Da un
canto del Leopardi è difficile staccare un verso, sareb¬
be senza vita come un dito strappato a una mano. Il
suo verso è semplicemente ciò che i vecchi trattatisti
chiamavano « l’aere del canto ». E quest’« aere » pare
non muoversi, tanto ne sono dissimulati i palpiti. Il
volo è altissimo; sono fusi i battiti dell’ale.
Il Tasso per orecchio è molto vicino al Leopardi.
Orecchio virgiliano; il più fine.
Scritti letterari 1918-1936 155

Mettere accanto all’Infinito questa ottava della Ge¬


rusalemme:

Non si destò fin che garrir gli augelli


Non sentì lieti, e salutar gli albori,
E mormorare il fiume e gli arboscelli,
E con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori;
Apre i languidi lumi, e guarda quelli
Alberghi solitari de’ pastori,
E parie voce udir tra l’acqua e i rami,
Ch’a i sospiri ed al pianto la richiami1

Nel Tasso è rimasto un lusso, la rima, ma come


smorzato. Si vuol sentire meglio la vicinanza?
Dice il Tasso:

Apre i languidi lumi, e guarda quelli


Alberghi .

Il Leopardi:

Odo stormir tra queste piante, io quello


Infinito.. •

La differenza è che nel Tasso quelli non è separato


da alberghi, che casualmente, e forse ne ha colpa la
rima, cosa improbabile in un poeta tanto esperto, men¬
tre nel Leopardi dopo quello è una subitanea pausa,
come un farsi indietro sull’orlo d’un precipizio, è lo
spaura del verso precedente che si riaffaccia.
Secondo Flora l’endecasillabo sarebbe, in molti casi,
musicalmente di dodici sillabe, risultato dall’accoppia¬
mento d’un settenario e d’un quinario. E insinuereb¬
be che l’endecasillabo potrebbe essere forse il figlio di
quei due. E più oltre accusa il Leopardi di fare « il
più mirabile scempio dell’endecasillabo, sia dilatando-
156 Giuseppe Ungaretti

lo con alchimie di svelati settenari e quinari, sia sacri¬


ficandolo al tenue settenario ».
Flora dimentica che in italiano il ritmo è indicato
dall’accento. Le elisioni esistono, sono imposte dalla
simmetria degli accenti. Quando l’endecasillabo non è
di undici sillabe, non è più un endecasillabo per un
errore d’accento. Il numero è una realtà, nella poesia
italiana. Il celebre abate Rousselot ha potuto registra¬
re col suo apparecchio di fonetica che, delle lingue mo¬
derne, sono i nostri metri quelli che più spesso risul¬
tano giusti anche alla prova meccanica.
Il quinario, il settenario ed anche il novenario sono
contenuti nell’endecasillabo. Rispettivamente sono co¬
mandati da accenti sopra la quarta, sopra la quarta e
sesta, sopra la quarta, sesta e ottava, tutti accenti che
comandano l’endecasillabo, che ha in più l’accento sul¬
la decima.
L’uso del quinario, del settenario, del novenario in¬
sieme all’endecasillabo è la via aperta a infinite possi¬
bilità musicali. Ricorriamo a un esempio per averne
un’idea.
Dopo un endecasillabo metto tre quinari. Succede
che insisto tre volte di seguito sul primo accento e
che allontano la replica agli altri al quarto verso, en¬
decasillabo. Il quarto verso potrebbe essere un nove¬
nario, o un settenario, e solo il quinto un endecasil¬
labo. Quest’ultimo endecasillabo avrebbe l’accento sul¬
la sesta, e toccherebbe il precedente, che l’aveva inve¬
ce sulla quarta e ottava, trasportato dal settenario, pri¬
vato dell’accento sulla quarta, con un mezzo accento
sulla sesta. Insomma la via aperta a infinite risorse.
La musica in poesia è dovuta al concorso di infiniti
fattori. Dipende anzitutto dal tono (sapienza nell’uso
degli accenti, nel farli più o meno vibrare, più o me¬
no sentire), dipende dal senso generale, dalla scelta
e dal senso di ciascuna parola (senso proprio e senso
che le viene dalla sua posizione musicale nel verso e
Scritti letterari 1918-1936 157

nell’intera poesia - dare un senso nuovo, diceva Mal¬


larmé, alle parole della tribù, e questo senso è anche
nell’aria e Valéry ha fatto sentire in un saggio fonda-
mentale, come i versi del Racine avevano un altro
senso dopo il Baudelaire2), e può dipendere da non¬
nulla come, per esempio, l’insistenza di sillabe con
predominio della consonante l o t o d’un’altra, oppure
la solitudine in un verso della vocale u o d’un’altra,
oppure la sillaba or aperta e breve seguita due sillabe
dopo dalla sillaba or chiusa e' lunghissima, oppure da
un’assonanza improvvisa che in mezzo a un verso va
a baciare la fine lontana d’un altro verso, ne è l’eco,
ecc.
Per tre quarti una poesia sfugge alla logica, è fatto
personalissimo. Questo è il grande insegnamento del
Leopardi. Poeti si nasce. L’arte certo bisognerà impa¬
rarla. Ma quella fucina ch’è in noi e che si chiama gu¬
sto afferrerà germi e li maturerà, il più delle volte a
nostra insaputa. E tutto lo sforzo dell’arte tenderà,
nei veri poeti, a dare alla luce, nella sua innocenza,
nella sua originalità, il frutto di quell’opera segreta.
Ed ecco perché, giunto alla sommità dell’arte, il Leo¬
pardi poteva negarla e naufragare nella poesia.

Difesa dell’endecasillabo

Flora mi rovescia sulle spalle, prima una, e poi due


colonne della « Fiera Letteraria ». Benissimo. Scarichia¬
mocene.
A. - Non ho mai detto che i versi dovessero rivestire
di necessità la poesia, né che la poesia dovesse di ne¬
cessità rivestirsi di versi. Le scempiaggini in versi non
si contano più. E Flora stesso ha ammesso nel Man¬
zoni, poca felicità, a volte, nella scelta dei metri.
Diamine, credo fermamente nella sostanza spiritua¬
le, lo sanno tutti, e credo unico compito del poeta sia
di trovare nelle parole un’eco dell’essere. Ma questo
158 Giuseppe Ungaretti'

non c’entra. Flora aveva detto che l’endecasillabo na¬


sceva dall’accoppiamento del quinario e del settenario.
Gli ho risposto che aveva le traveggole. Perché mi
porta ora dalla tecnica, da fatti precisi, nel vago?
B. - La poesia è una delle arti del movimento. Pos¬
siamo, anche oggi, immaginarla fusa in una voce bian¬
ca o di baritono, o di coro, in una polifonia; accom¬
pagnata dallo zufolo, o dal liuto e dalla viola, o dal¬
l’organo, o dall’orchestra. Essa può evocarci danza.
I lievi passi scalzi delle ninfe possono circondarci
per merito di lei. Ma senza dimenticare che ormai è
stata esiliata dalla musica e dalla danza, che più non
le è dato d’abbandonarsi alla musica e alla danza, che
la musica e la danza sono in lei ormai nostalgia, e
desiderio inappagabile.
Una poesia ha facoltà di esercitare su ogni lettore
il suo potere magico perennemente diverso, di chie¬
dergli (a ogni lettore) una collaborazione diversa, di
ricavarne sempre un’interpretazione nuova; ma i suo¬
ni che la compongono, la loro esatta combinazione
dovrà essere rispettata, almeno finché rimarrà viva in
qualche orecchio la memoria della lingua italiana. Han-
no già in sé tanta relatività le parole (senso, suono).
II lettore non dovrebbe proporsi d’aggravarla.
Il Petrarca, il Tasso, il Leopardi hanno scritto in
endecasillabi. Sapevano ch’erano endecasillabi e vole¬
vano che fossero riconosciuti come tali. Perché offen¬
dere una tradizione alla quale i sommi chiedevano
gloria? Flora non crede al verso. Può darsi si dica,
guardandosi le mani, il naso, le gambe, le dita: « So¬
no uno spirito, e questi sono, puah! schemi ». Ciò
però non l’autorizza a guastare la forma d’una poesia,
come non avrebbe il diritto d’aggiungere i baffi alla
Gioconda.
C. — Ho detto che l’endecasillabo, è l’ordine poetico
naturale delle parole italiane. Lo ripeto. Se, dalle ori¬
gini dell’italiano ad oggi, tutte le volte che la nostra
Scritti letterari 1918-1936 159

poesia è altissima, la incarna l’endecasillabo, è segno


che di uno schema un po’ più è. E sino dal lontano
dugento appare l’alternanza d’endecasillabi e di set¬
tenari:

Amore, amore, tanto tu me fai,


amore, amore, noi posso patire;
amore, amore, tanto me te dai,
amore, amore, ben credo morire;
amore, amore, tanto preso m’hai,
amore, amor, famme en te transire:
amor, dolce languire,
amor mio desioso,
amor mio delettoso,
annegarne en amore?

E l’alternanza la ritroviamo nel Petrarca. Avrà voluto,


anche lui, straziare l’endecasillabo?
D. - Il numero non è un’opinione. È insensato ne¬
gare i rapporti, le proporzioni, gli accordi, le simul¬
taneità, le simmetrie, tutto ciò che mette in grado di
muoversi il disegno melodico e l’intreccio armonico
dell’opera d’arte. Non importa se, dando alla luce una
poesia, il poeta altro vorrà fare che gingillarsi e ana¬
lizzarla; (e a volte, per farla vivere, dovrà procedere
a un esame minuzioso; è accaduto a sommi; è noto
che certi loro versi, di poesie bellissime, non si sono
intonati agli altri che, dopo prove e riprove, a distan¬
za di mesi, a volte di anni). (Il babau ispirazione che,
scattato in noi, tac tac, detta una poesia, cediamolo
al rigattiere, è un’illusione puerile.) E non importa
se quell’officina che è in noi e che si chiama gusto,
molti germi li avrà afferrati e maturati a nostra insa¬
puta. Sarà sempre stata ugualmente compiuta una
scelta, dal caos delle parole saranno state tratte alcu¬
ne parole, e saranno state unite secondo un ritmo
umano, e cioè secondo l’indole d’una civiltà, secondo
160 Giuseppe Ungaretti

la singolarità del poeta e secondo il segreto della na¬


tura. Per regolare e ordinare pccorre un’unità di mi¬
sura. Questa unità, in italiano è la sillaba. Dico cose
elementari; conviene, colla confusione delle lingue che
c’è in giro. Le sillabe, nel verso italiano, conservando
ciascuna il proprio suono chiaro e deciso, senza scos¬
se e colpi di voce, - la scansione non è martellamen¬
to, almeno non lo è quando non lo voglia e non
l’indichi il poeta - si svolgono dipendendo da un
centro d’intensità, da un centro dinamico, dalla sil¬
laba sulla quale cade l’accento tonico. Ritmo, Flora
non sbaglia, etimologicamente significa scorro, fluisco,
ondeggio, mi muovo. Anche le pause fanno parte del
ritmo. Non l’interrompono.
Il verso italiano ha dunque d’obbligo gli accenti to¬
nici e il numero delle sillabe. Essi formano, nella no¬
stra lingua, quei raggruppamenti ritmici dal ricorso
dei quali la poesia trae la sua vita prima (intendo:
vita verbale).
L’accento tonico segna il ritmo metrico, in italia¬
no; e dall’accento tonico scorre (anche nelle lingue
classiche, suppone il filologo) il disegno melodico del¬
la poesia. L’accento tonico e l’accento metrico sono
dunque fusi, in italiano. Non perché le lingue classi¬
che avessero una cantilena, e la poesia non cantata,
— semplicemente declamata, riuscisse anch’essa eviden¬
te tollerando che la quantità facesse il suo giuoco in¬
dipendentemente dalla tonalità (vertici sillabici), tol¬
lerando che l’accento metrico cadesse anche su sillabe
atone. Anche in italiano, quantunque in modo mol¬
to meno sensibile, le sillabe si modulano intorno alla
sillaba che reca l’accento tonico, ed è un po’ più acu¬
ta delle altre, plasmandole. Il motivo, suppongo, è
che nella poesia latina della tarda decadenza, e nella
poesia provenzale e francese ch’ebbero tanto influsso
sul primo secolo della poesia italiana, la sillaba aveva
acquistato un valore diverso, col sacrifizio della quan-
Scritti letterari 1918-1936 161

tità alla qualità (rima, alterazioni, assonanze, e altri


accordi del genere). Non dico che tenendo conto del¬
la qualità sia di necessità sacrificata la quantità. Virgi¬
lio ne teneva conto. E la quantità, in qualche modo,
coll’accento tonico, è rimasta all’italiano.
Gli arabi hanno sedici modi di combinare conso¬
nanti e vocali in poesia, e li chiamano mari. Non m’in¬
quieto di sapere quanti siano i nostri modi. C’è un
modo, l’endecasillabo, ch’è un mare.
Il Leopardi, ponendo in contrasto il finito e l’inde¬
finito, immagini nette e immagini vaghe, ci ha fatto
riudire, nell’articolazione stessa del suo verso, la me¬
lodia della poesia italiana. Provatevi a mettere in
prosa L’Infinito-, provatevi a tradurlo in altra lingua;
non è più nulla. Il numero non esiste?
Tra una sillaba e l’altra, tra una parola e l’altra, tra
un inciso e l’altro, tra un ritmo e l’altro, tra un ver¬
so e l’altro, tra immagine e immagine, tra il senso di
ciascuna parola e il senso dell’intera poesia, tra que¬
ste cose nette, Leopardi suscita un intervallo, un vuo¬
to dove si muovono scie, echi, svaniscono vibrazioni.
E nella poesia del Leopardi non solo il disegno me¬
lodico, ma anche la trama armonica riprende vita. Ri¬
me, anche rime interne, e infiniti altri accorgimenti
verbali, mille vincoli le dànno quell’eleganza comples¬
sa che le permette di volare altissimo, d’essere un
punto nitidissimo, luminoso, nell’infinito. Non le ag¬
giungete una penna, non toglietele neppure un’elisio¬
ne; in quell’assoluta perfezione anche un capello a-
vrebbe peso disastroso.
L’endecasillabo è un mare. Con due soli elementi
d’obbligo: l’accento tonico (altezza) e il numero delle
sillabe (lunghezza) - permette la più varia, la più
espressiva, la più libera combinazione di sillabe, le
articolazioni più sorprendenti. Lo stesso accento toni¬
co può essere usato a innumeri gradi d’intensità. Le
stesse sillabe possono variare di lunghezza, purché ciò
162 Giuseppe Ungaretti

non sia voluto arbitrariamente da un lettore, ma sia


stato stabilito dal poeta con .accordi sensibili.
Flora dirà che il mio è vizio. Di Flora che dice:
« E avviene così, a dispetto dei prosodisti, che una
dieresi si ponga magari sopra una unica vocale, se il
poeta, che entro di noi s’interpreta, abbia in mente
d’allungare, poniamo, un certo bianco della vocale
“a”, e intonare e colorire tutto un periodo poetico... »
sbaglierei dicendo che stravizia?
E. - Lo stesso Flora si sente a disagio nella sua parte
di negatore, e vorrebbe, giacché insomma una misura
ci vuole, ripristinare la quantità, o, non sa bene, ri¬
correre al ritmo sintattico. Non sa bene: nega l’accen¬
to tonico e discorre di « minime inflessioni tonali »;
non crede « alla differenza tra quantità e accento »,
quindi dovrebbe credere alla identità tra quantità e
accento, al verso italiano cioè, e non ci vuol credere.
Chiama ingenuo chi fìssa la proporzione poetica d’un
verso, per accento e per quantità, e poi dichiara: « Or
se è vero quel che s’è mostrato, la poesia è tutta, e
sempre, quantità ». Poco prima asseriva: « ch’è la di¬
sposizione sintattica quella che genera il ritmo ».
L’accento tonico esiste e funziona. Il disagio che si
prova, per esempio, leggendo La Passione del Manzo¬
ni, è dovuto al ritmo frettoloso del decasillabo, aggra¬
vato dalle rime melodrammatiche dei versi tronchi.
Prova più lampante...
Tornerò ampiamente sull’argomento, in un prossi¬
mo articolo, trattando dei tentativi di rinnovamento
della poesia fatti in base all’evoluzione formale della
musica.
Dirò oggi che nulla più del ridurre l’italiano a far¬
si prendere la misura col metro delle lingue classiche
« o magari della lingua tedesca » mi sembra esterno,
assurdo. Abbandonare un nostro costume, una voce
che da secoli ci è familiare, una persona di casa, per
non si sa che; ridurci romantici e archeologici a quel
Scritti letterari 1918-1936 163

punto, no, sarebbe troppo. In ogni modo così forse


potrà misurarsi la poesia di domani. Le riforme non
operano sul passato. Ai tempi di Cesare non usava
ancora il cappello Borsalino, e con la volontà miglio¬
re di questo mondo non posso farlo portare ai Roma¬
ni di quei tempi. E qui non si tratta duna cosa ester¬
na come un cappello, ma d’un fatto organico. Per la
poesia italiana di ieri, continueremo dunque a appli¬
care il criterio della qualità, che è poi il più naturale
a una poesia detta. La poesia di ieri, non volendola
falsificare, snaturare, non può essere misurata che con
i metri ch’essa stessa si è eletti.
Ma una concessione a Flora vogliamo farla. Ripor¬
teremo, come vuole, il metro leopardiano a un metro
saffico, puntando sui giochi interni dell’adonio. Sup¬
poniamo — dico, supponiamo, poiché siamo giunti nel
paese delle congetture - che il verso saffico risulti da
un trocheo, da un dattilo e da due trochei e che l’ado-
nio sia composto da un dattilo e da uno spondeo.
Il sabato del villaggio andrebbe letto come segue:

Laado - nzeeleeee - ttaa


vienda — llaaca — mpaaaagna
liiinsulca — laaardeel

(il sole, Flora mi dirà dove lo mette; supponiamolo


trocheo: soole\ avrà visto Flora che le consonanti glie¬
le ho regalate tutte).
Il giambico trimetro catalettico forse potrebbe es¬
sere avvicinato qualche volta al nostro endecasillabo.
Sono imprese assurde.
P _ Non sono un prosodista, e Flora non dovrebbe
ignorarlo. L’arte che ho abbracciato è piena d’inciam¬
pi e di trabocchetti, e per evitarli ho dovuto spesso
ricorrere all’analisi del mio lavoro e all esame della
tecnica dei nostri maggiori. Dai quali ho imparato che
fare le cose con amore - (il mestiere!) - è 1 unica gin-
164 Giuseppe Ungaretti

nastica da raccomandarsi a chi voglia acquistare ele¬


ganza spirituale, e profondità spirituale.
Non credo al mestiere per'il mestiere. Non ho da
esprimere il mestiere, ma il mio mondo. Ma più sa¬
rà ricco e agile il mezzo, meglio saprò scandagliarmi
e con pudore più fine manifestarmi.

Metrica o estetica?

Credo che Flora non abbia di mira che l’interesse del¬


la poesia, e mi pare di non essermi mai proposto al¬
tro fine, di non ubbidire ad altra brama, e quindi
non per vanità, mi levo nel nostro dibattito, colla pre¬
sente postilla, la voglia dell’ultima replica.
Mi limiterò, anche questa volta, specialmente a qual¬
che rilievo d’ordine tecnico.
Ma anzitutto voglio ringraziare Flora d’avermi mes¬
so in grado, colla sua perizia di arguto argomentatore,
di appianare, a me stesso più che agli altri, alcune
difficoltà.
Il punto che ci divide e che, temo, perdurerà a di¬
viderci è che, mentre interrogo le opere affannando¬
mi a provarne l’incanto, e a conoscerne il movente se¬
duttore, siccome m’ingegno inoltre a impadronirmi
della materia formata dalla poesia, Flora mi sospetta
in atto di scambiare la fotografia di una scultura con
la statua. No, non mi è mai saltato in mente di par¬
lare della riproduzione tipografica duna poesia; e la
stampa è un tramite diretto, e a volte può esserle af¬
fidato, certo con cautissima discrezione, qualche par¬
ticola di concorso nella seduzione; e meglio conver¬
rebbe indicare, volendosi proprio trovare ciò che nel¬
le lettere ha l’incarico della fotografia, le trascrizioni
in prosa o le traduzioni in altra lingua, alle quali, mi
sbaglierò, non ho avuto occasione, nella polemica, di
riferirmi.
Il sistema nervoso della poesia, non lo chiamerei,
Scritti letterari 1918-1936 165

esaminandolo per un momento, spirito, quantunque


10 spirito circoli anche lì; e starei attento a non dirlo
simulacro, poiché non nego la vita, che è una realtà
complessa. La seduzione fa il giro per fiorire d’infi¬
nite vie.
E mi stupisco dunque che Flora non s’avveda, pur
rendendosi conto del moderno pensiero italiano, che,
col suo metodo, dovrebbe mettersi a negare anche la
sintassi, persino la parola, e la civiltà, il frutto del¬
l’ostinato divenire umano. Convenzioni, convenzioni...
Senza dubbio convenzioni. Ma ritengo che in quelle
convenzioni operino sovrane leggi, il segreto della na¬
tura.
Leggevo l’altra sera nello scritto mirabile d’un fran¬
cese (non è Valéry) leggevo nella relazione del Viag¬
gio al Congo di Gide:
« Non sarei immobile che da pochi istanti, e già
richiusa si sarebbe intorno a me la natura.
« Tutto avverrebbe come se non fossi più, dimenti¬
cherei me stesso, la mia presenza, per non più essere
che visione. Oh rapimento indicibile! »
Sicuro, ma ecco che si ricasca in noi, che si risente
11 peso del nostro corpo (l’ho detto tanti anni fa,
in guerra, persino in poesia 4), ecco che si vede sepa¬
ratamente ciò che ci circonda, ecco la nube, ecco i
gelsi, ecco il monte, ecco le pecore, e ciascuna cosa
è d’un’altra pasta, ha una propria indole, un suo
aspetto. E stavolta non si tratta di studiare gli organi
d’una combinazione, sia pure umanissima, di sillabe
e di consonanti, col metodo di risolvere la difficoltà
dividendola, ma di scomporre l’opera stessa di Dio.
Siamo in un campo dove le nostre possibilità sono
insignificanti. Ciò ch’è di Dio, l’uomo non saprà che
goffamente imitare, anche quando gli parrà d’avergli
rubato i fulmini; ma, in questa sua folle emulazione,
potrà ambire, se Dio l’assiste, d’alzarsi alla pari d’un
abilissimo artiere.
166 Giuseppe Ungaretti

E tutto ciò Flora lo sa, sa che c’è l’estetica e sa


che c’è la metrica: e non ci s’intende. Strano.
Voglio uscire di stupore, e dire a Flora la vera ra¬
gione del nostro malinteso. Flora, trattando di metri¬
ca, non si rassegna a considerarla metrica, e vorrebbe
fosse anch’essa visione. E vuole gli dica il perché?
Perché, in primo luogo, suppone ch’io tagli dalla poe¬
sia ciò ch’egli chiama schemi. Giammai! Restano sal¬
di al loro posto, e, nella loro vita, li osservo. Tolga
il cervello, il cuore, il fegato, la forza, i polmoni a un
uomo, e me lo dica ancora vivo. Né costui, né quelli.
Vuole che gli dica il secondo perché? Ma prima
vorrei sapere come interpretare il suo ritmo sintattico.
Devo intendere per sintassi un coordinamento delle
immagini, oppure quel coordinamento logico delle pa¬
role che comunemente è detto sintassi? Nell’uno e nel¬
l’altro caso le medesime regole si riscontrano tanto nel¬
la prosa quanto nei versi. Convenzioni, amico Flora,
convenzioni; e forse meno naturali, molto meno, dei
poveri miei schemi. Ciò ch’è sagoma logica non è più
schema? È schema, affé, la struttura poetica!
Vedo bene, non accorgendosi o non volendosi ac¬
corgere dell’accento tonico (dichiara ch’è la stessa cosa
nel verso e nella prosa), basandosi sul ritmo sintatti¬
co (che, dei ritmi, è l’unico astratto, ed è lo stesso
per la prosa e per i versi), non sentendo o non vo¬
lendo sentire la diversità tra prosa e versi, Flora
dev’essersi detto: « Perché rompersi il capo a rincor¬
rere le particolari esigenze del verso. Non le perce¬
pisco o non le voglio percepire, e quindi nessuno de¬
ve percepirle. I versi non esistono ».
S’accorga dunque, Flora, dell’accento tonico, faccia
un piccolo sforzo. S’accorgerà che nei versi italiani, ol¬
tre alla funzione che ha nella prosa, di plasmare cia¬
scuna parola, l’accento tonico ha anche quelle di agen¬
te melodico e di agente metrico. S’accorgerà che, difat¬
ti, un verso non ha vita propria, ma vive, vivissimo,
Scritti letterari 1918-1936 167

non appena, in seguito al ricorso degli accenti tonici,


accordi siano palesi con regolarità. Mi spiego: se, per
tutta una poesia, come nel Sabato del villaggio, l’ac¬
cento tonico cade sulla sesta e sulla decima, sono da¬
vanti a un’articolazione che chiamerò ritmica, poiché
si ripete a intervalli regolari.
E s’accorgerà che l’elisione e la dieresi sono coman¬
date dagli accenti tonici, che Beatrice sarà trisillaba o
quadrisillaba, secondo la collimazione di quegli ac¬
centi.
S’accorgerà che il verso del Sabato del villaggio:

Poi quando intorno è spenta ogni altra face

è perfettamente uguale metricamente all’altro:

La donzelletta vien dalla campagna,

perché s’io considerassi di due sillabe il vien, l’ac¬


cento tonico seguente (meglio sarebbe dire, la seguen¬
te sillaba lunga) verrebbe solo dopo due, e se fosse
un caso di sdrucciola, dopo quattro, invece di tre sil¬
labe atone (e qui dire sillabe brevi sarebbe più pre¬
ciso), e sarebbe rotta la simmetria degli intervalli, non
ci sarebbe più vincolo tra i versi, non ci sarebbe più
quella cadenza che, da un verso all’altro, in tutta la
poesia, risponde alla sesta (compresi i settenari), e al¬
la decima. L’ultimo accento del verso, l’ultimo vinco¬
lo, manifestandosi sulla decima, ch’esso sia seguito da
una, da due, o da nessuna sillaba, non ha influenza
metrica, può averne una melodica (esempio, l’uso del
verso tronco nel Manzoni e dello sdrucciolo nel Car¬
ducci).
E quando si sarà accorto dell’accento tonico, Flo¬
ra s’accorgerà che in fine di verso c’è una speciale
pausa, e s’accorgerà che, incontrando l’iato, dovrà ri¬
spettarlo, specie nel Leopardi che non l’usa mai a
vanvera.
168 Giuseppe Ungaretti

Della funzione quantitativa dell’accento tonico han¬


no tenuto conto tutti i poeti italiani. Prendiamo del
Carducci, per esempio, una strofa saffica:

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,


grave fischiando tra la folta barba
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco
nume presente,

oppure una strofa giambica:

Quale una incinta, su cui scende languida


languida l’ombra del sopore e l’occupa,
disciolta giace e palpita su ’l talamo,
sospiri al labbro e rotti accenti vengono
e sùbiti rossor la faccia corrono,

e chiunque avrà udito che, anche questa volta, la quan¬


tità è rivelata dall’accento tonico, la troppa frequenza
del quale frantumerà la linea melodica, a benefìzio
d’una nobile concitazione.
E, accortosi Flora della funzione quantitativa del¬
l’accento tonico, s’accorgerà ch’esso è anche un verti¬
ce sillabico, ch’esso segna insieme la durata e l’altez¬
za, che da esso ha figura l’andatura d’un gruppo di
versi e il viaggio melodico della poesia racchiusa in
detti versi, ch’è insieme centro di moto e d’intensità.
Accortosi di tali prerogative, s’accorgerà che, il rit¬
mo metrico non essendo più, nel verso italiano, di¬
sgiunto, com’è nelle lingue classiche, dal ritmo melo¬
dico, venne fatto naturalmente, per sopperire in qual¬
che modo alla dovizia di risorse che veniva a manca¬
re colla cessata reciproca autonomia delle due misu¬
re, di puntare sulla qualità della sillaba.
E non fu quel criterio una mania di primitivi, e re¬
taggio di decadenza, ma appare in tutta la poesia ita¬
liana, e anche fiore d’umanisti come il Poliziano, per
Scritti letterari 1918-1936 169

il quale greco e latino non celavano nulla, lo fa suo


come subito si vedrà:

Da un lato, in un formoso e bianco tauro


Si vede Giove per amor converso
Portare il dolce suo ricco tesauro
E lei volgere il viso al lito perso}

Approssimativamente, si gioca con queste carte:

1. da - lato - tauro - tesauro - lito,


2. un - in - un - bianco - converso,
3. formoso - tauro - amor - converso - portare - te¬
sauro — volger - perso,
4. vede - Giove - viso,
5. un — un - tauro - suo - tesauro,
6. in - lei - ricco - il — viso - lito - ecc.

Dopo tanti accorgimenti, giunto a questo punto,


Flora si sarà accorto che al posto del piede fuori uso,
c’è, ormai da secoli, un’altra unità di misura, la - ha
indovinato - sillaba. E ora torniamo indietro, dalla
sillaba unità di misura, al tessuto armonico, dal tessu¬
to armonico alla qualità, dalla qualità all’identità tra
ritmo melodico e ritmo metrico, dall’identità all’ac¬
cento tonico, e, tutto sommato, guarda un po’, spun¬
ta fuori il numero, che non è un’opinione.
Ho finito. E sull’argomento non tornerò più.
Ma prima di chiudere voglio di nuovo ringraziare
Flora. Ho il dovere di riconoscere ancora che questa
discussione non è stata senza benefizio per me, inci¬
tandomi e aiutandomi a circoscrivere e a sciogliere
qualche difficoltà.
E chiedo scusa ai lettori del tedio che ho loro pro¬
curato. Se comunque qualche minimo servizio avre¬
mo reso, Flora ed io, alla poesia, molto ci sarà per¬
donato.
'COMMEMORAZIONE DEL FUTURISMO
[1927]

Si commemorano i morti. Il futurismo ha 19 anni


sulle spalle, ma non credo sia vicino a morire. Dirò
anzi che, in arte, contiene una delle rare idee viste
nascere dal nostro secolo. Questo lo posso dire senza
ambagi, non avendo mai aderito a quel movimento,
né essendo in procinto di mettermi sulla sua strada.
Dico commemorazione, per quel senso di distacco
che va crescendo in me (sarà un senso passeggero) e
che mi fa considerare tutto (salvo qualche mio sogno)
sotto sembianza d’un appiglio per la memoria: - per
quel senso, e per il carattere di semplice meditazione
che vorrei avessero anche per gli altri queste mie note.
Marinetti ha dunque il merito (glielo negheremo
perché è italiano?) d’avere scorto per primo il posto
nella vita, anche estetico, che, a tutta carriera, sta fa¬
cendosi la macchina.
Ed è puerile confinare la macchina in un giuoco ur¬
bano. Sconvolge, e a fondo, anche la vita dei campi.
Se a un antico romano fosse dato di rivedere la lu¬
ce, davanti alle opere pubbliche d’oggi, quel maestro
d’ingegneria, quel civilone, quell’impresario di miraco¬
li collettivi, ricadrebbe subito nel buio, schiantato dal¬
lo stupore, e dalla gioia.
Guardando un’automobile, un transatlantico, un ve¬
livolo, un imbrigliamento idroelettrico, una mitraglia¬
trice, una strada ferrata metropolitana, ecc., sono col¬
to dallo stesso diletto che provo davanti a un ca¬
vallo da corsa, a un ulivo, a una saetta, a una libellu¬
la. Non perché vedo in quei mezzi umani i simboli
della volontà occidentale d’emulare la natura, di car-
Scritti letterari 1918-1936 171

pire senza pace segreti alla natura, ma perché quegli


oggetti, come le opere della natura, sono comandati
da leggi meticolose e rigorose, da esattezza numerica.
E quegli oggetti mi danno diletto perché in essi si
riflette l’ansia di perfezione dell’umanità occidentale,
dell’uomo operaio, homo faber, ch’è occidentale. E
più in quegli oggetti è raggiunta la divina proporzio¬
ne, e non solo più sono belli, ma più la forma è re¬
golata al fine. E come ogni volta che un equilibrio è
toccato, scattà il mistero, in essi più non si distingue
quale sia la parte dell’arte (poiché coll’equilibrio, v’è
penetrata anche l’arte) e quale della scienza. Ed ecco
come essi possono essere modelli agli artisti; modelli
di metrica, di simmetrie, di funambolismi, e soccorre¬
re a conoscere nuove risorse.
E come va (dirà il critico) che, partito da norme co¬
sì savie, promettenti di ottime messi e duna migliore
vendemmia, Marinetti, in 19 anni d’attività, il dina¬
mico Marinetti, sia rimasto subito incagliato? - e di¬
fatti, chi osservi le sue manifestazioni, tanto si ripe¬
tono, tanto si somigliano, non potrà togliersi dalla men¬
te l’immagine poco peregrina dello sguardo perso sul¬
l’ombelico.
Gli errori del futurismo (secondo me, e potrei sba¬
gliarmi) sono i seguenti.
Il futurismo ha creduto che, a conseguenza dei suoi
principi, fosse missione dell’arte imitare la macchina,
o, piuttosto, l’umanità che stava adattandosi a questa
sua ultima creatura. Errore iniziale. La macchina non
è che un mezzo dell’uomo. Certo può essere alzata a
simbolo, se, con mezzi d’arte, e cioè che non si pro¬
pongano fine alcuno di utilità, si scopre ciò che in
essa è racchiuso di naturale, di permanente, d’univer¬
sale. Insomma se da un campo non suo, l’artista riesce
a trasferire nel proprio, e a usufruirne, leggi.
È mancato forse al futurismo un uomo, un Leonar¬
do, il quale, non ignorando nulla della scienza e del-
172 Giuseppe Ungaretti

l’arte del suo tempo, fosse in grado di avviare l’arte,


di pari passo, su una strada parallela a quella dov’è in
viaggio la scienza.
Gli è sfuggito quindi, e totalmente, il carattere di
magia dell’arte; la via per la quale può verificarsi nel¬
le opere d’arte insigni, ch’esse percorrono i ritrovati
della scienza. (Non intendo, avranno capito tutti, pre¬
dizioni alla Verne e alla Wells, ma leggi racchiuse nel¬
la materia formata dall’arte.) Senza dire che, reciden¬
dosi dal passato, il futurismo s’è un po’ messo nelle
condizioni di quel tale che ragionava di calcolo subli¬
me, e non sapeva l’abbaco.
Ed è successo l’incredibile. Invocando l’esempio del¬
la macchina, e cioè d’una materia formata, severamen¬
te logica nell’ubbidienza d’ogni minima fibra all’ordine
complessivo, frutto d’una catena millenaria di sforzi
coordinati, ci vengono offerte (incredibile!) parole in
libertà, cioè la cieca fiducia nella materia grezza, nella
sensazione, nella materia caotica.
Ho letto una volta questa frase d’un matematico.
La cito perché mi pare che qui calzi: « Se i greci hanno
domato i barbari, se l’Europa, erede del pensiero gre¬
co, domina il mondo, s’attribuisca al fatto che i sel¬
vaggi amavano i colori striduli e i suoni strepitosi, ciò
che tiene occupati solo i sensi, mentre i greci amava¬
no la bellezza intellettuale, ciò che si cela nella bellez¬
za sensibile ».
Infine, stando le cose come le abbiamo esposte, il
futurismo, dando peso così soverchio alla materia, non
poteva evitare di commettere il peccato dei romantici,
il peccato d’orgoglio. Ha creduto che l’uomo fosse Dio,
o, peggio, ha fatto come se Dio non ci fosse. Era fa¬
tale. Noi occidentali non possiamo avvicinarci a Dio
con i sensi. Non abbiamo né l’accidia né la lussuria
dei russi o degli indiani per ridurci capaci di mettere
al mondo emblemi mostruosi e allucinanti degni del
soprannaturale.
Scritti letterari 1918-1936 173

Noi siamo figli della misura.


Non rispettando le nostre tradizioni, dando retta a
quella vocazione ■ che può portare alla grandezza popo¬
li d’altra pasta, siamo dannati a non vedere della real¬
tà che l’aspetto estemporaneo, provvisorio, futile; sia¬
mo dimentichi che ogni atto profondamente umano (e
quindi la poesia) emana dall’illusione di vincere la
morte.
Privi di tale illusione, abbagliati dal nostro io come
fosse eterno, e’avesse valore fuori dalle sue opere, tra¬
scureremmo di trasfondere le nostre ispirazioni in qual¬
che sostanza di durata, e saremmo dannati a produrre
opere vuote di qualsiasi mistero. [Tale è il male che
non concede ancora al futurismo d’avere un’adolescen¬
za, di sperare di maturarsi, che ce lo mantiene pargo-
lino.1]
Noi Italiani non arriviamo a spiegarci l’Eterno che
come intelletto inconoscibile, armonia suprema, sere¬
nità ineffabile, e a noi non è mai stato permesso, nel
corso di tanti secoli, di onorarlo, di manifestargli lo
slancio del nostro sentimento, che cercando, nei limiti
della nostra debolezza, umilmente, di alzare alla luce
edifizi equilibrati.
DOSTOIEVSKI NAZIONALISTA
E IMPERIALISTA
[1927]

Eravamo abituati - almeno io che non leggo il russo -


a un Dostoievski uso a rappresentarci la società, l’uni¬
verso, l’anima, in combinazioni esuli da ogni logica. E
quel suo ostinarsi a non osservare che gli atti bagnati
dalla luce del mistero, e a non farne materia d’arte
che allo scopo di dare risalto al mistero, certo ha gio¬
vato anche a gente logica, inducendola a verificare leg¬
gi, e a rinvenirne alcune cadute in oblio. Non è il
caso di mostrare oggi come, per esempio, uno stru¬
mento essenzialmente logico, quale il romanzo d’ana¬
lisi francese, si sia rinnovato da capo a fondo sui mo¬
delli dello scrittore russo. Era dunque - è azzardato
così concludere? - logica troppo dissimulata che i Fran¬
cesi hanno reso troppo palese? E si potrebbe arrivare
a questa conclusione, meno assurda che non sembri,
che ogni atto umano risponde fatalmente a una logica,
e che, tutti, trovata la chiave, sono spiegabilissimi.
Voglio dire che il Giornale d’uno scrittore, del qua¬
le è di recente apparsa una traduzione francese dovuta
a Jean Chuzeville, e che comprende gli articoli man¬
dati da Dostoievski ai giornali dal 1873 al 1877, è
d’un interesse singolare - almeno per me che non leg¬
go il russo - poiché svela di quale potenza critica, di
quale buon senso, Dostoievski fosse possessore.
Non mi fermerò che agli articoli di indole politica.
Sono i più singolari.
Le prime battute riguardano la Francia.
Il Maresciallo Bazaine è sotto giudizio, imputato di
alto tradimento. « Perché questo generale che pure - a
detta di tutti » riferisco quasi testualmente le parole
Scritti letterari 1918-1936 175

di Dostoievski « era soldato di coraggio non comune


e il meno incapace dei generali francesi del tempo, vol¬
le ignorare il Governo della Difesa nazionale costitui¬
tosi a Parigi, e s’arrese subito dopo la cattura di Na¬
poleone III? Perché preferì arrendersi privando così
la Francia duna delle sue ultime armate, la quale, an¬
che chiusa dentro Metz, anche solo trattenendo una
parte rilevante delle forze dell’invasore, avrebbe po¬
tuto essere di grande utilità alla patria? Perché - ri¬
sulta chiaramente dal processo - non voleva servire i
rivoluzionari che a Parigi avevano preso il potere, e
perché, probabilmente, i Prussiani avevano fatto pro¬
messe, nell’interesse del suo partito; non mantenute;
ed era assurdo pensare che le potessero mantenere. »
« E ovunque non vedo che partiti e uomini di parte.
Lo stesso Gambetta non ha egli proclamato: Prima
la Repubblica e poi la Francia?
« La piaga della Francia è nella perdita dell’idea di
unità. Ci sarebbero i legittimisti che vorrebbero ridare
radici a quest’idea. Ma nemmeno essi si adattano ad
essere interamente non uomini di parte. »
Ecco un primo pensiero di Dostoievski, fermamente
espresso, con tutta la fermezza necessaria: l’idea di na¬
zione è un principio d’unità. Vedremo in seguito per
quali motivi, considerando le cose del suo tempo, rite¬
nesse tale idea, l’unico principio d’unità.
Naturalmente le pagine più illuminate sono quelle
relative alla Russia. Vi si scopre persino un Dostoiev¬
ski che sa fare un uso abilissimo dell’arma sottile del¬
l’ironia. So bene che nella tesi di Dostoievski vedremo
apparire argomenti scaturiti dall’annosa polemica tra
Occidentalisti e Slavofili, polemica che perdura, assai
snaturata, è vero, in seno agli stessi comitati sovietici.
« Insomma » si chiede « che cos’è questa benedetta
Russia? Per i paesi lontani o limitrofi è il paese più
sconosciuto, meno esplorato, più incomprensibile e più
inaccessibile. Siamo noi stessi enigmi, e passiamo il
176 Giuseppe 'Ungaretti

nostro tempo a proporci degli enigmi. Basta. La civil¬


tà occidentale, ne abbiamo fattq l’esperimento. Da Pie¬
tro il Grande non facciamo che girovagare, fuori di
casa. È ora di tornare a casa. Basta. Non siamo Euro¬
pei. E dov’è poi l’Europa? Credete voi che ci siano
due paesi in Europa in grado di dire sinceramente di
conoscersi e di capirsi? Dov’è l’Europa? Unità reli¬
giosa? Sparita da quel di. Unità per via della scienza?
Anche i sassi ormai sanno che era una bubbola. C’è
un’unità, un’unica unità, quella che ci offre la madre
patria. »
Dunque siamo davanti a un Dostoievski fermamente
nazionalista.
C’è un suo pensiero che gli fomenta questo nazio¬
nalismo. Egli crede, egli crede profondamente che lo
spirito cristiano si sia rifugiato in Russia.1 « C’è un’u¬
nica religione vera, il cristianesimo, ed essa non vive
più che in Russia. Il popolo russo è l’unico dei popoli
cristiani che sia ancora veramente religioso; è il popolo
ortodosso. L’impero sull’umanità spetta dunque a lui. »
Nazionalista e imperialista, Dostoievski!
Quale amarezza sarebbe stata per l’uomo che mani¬
festava tali idee, che nutriva tali sentimenti, che de¬
finiva il socialismo: « Colmo dell’egoismo, colmo della
barbarie, dell’assurdità e del disordine economico, col¬
mo dell’offesa alla natura umana, annientamento per
l’uomo d’ogni libertà individuale », quale amarezza se
i suoi occhi avessero potuto vedere la sua patria cadu¬
ta nelle mani di alcune centinaia di atei, se avessero
veduto i suoi occhi la slavofilia farsi macchina di su¬
bordinazioni infernali, se avessero veduto, di nuovo
dopo Pietro il Grande, nella Moscovia il predominio
dell’Occidente, e questa volta come applicazione delle
norme feroci del materialismo.
Ecco un nuovo Dostoievski. E certo l’uomo di tali
meditazioni, e di tale amore, non era un uomo fiacco.
Voleva la Russia forte, e voleva che tale forza incu-
Scritti letterari 1918-1936 177

tesse timore a tutti. Aveva fede nell’azione, nella vo¬


lontà: ecco un nuovissimo Dostoievski. Non gli faceva
paura la guerra. « Presto o tardi » scrive « Costantino¬
poli sarà nostra. » E in occasione della guerra russo¬
turca, nel 1877, scrive: « Questa guerra ci è necessa¬
ria; non soltanto in difesa dei nostri “fratelli slavi”
martiri dei Turchi, ma per la nostra salvezza: la guer¬
ra rinfresca l’aria che respiriamo, nella quale soffoca¬
vamo, malati di sfacelo spirituale ».
Insisterà:
« Ma i nostri saggi si appigliano a un altro lato
della quistione: essi predicano l’umanità, la carità; si
lamentano sul sangue sparso, sul fatto che la guerra
ci renderà anche di più selvaggi; a questo modo noi
ritardiamo il nostro progresso interno, il nostro vero
avanzamento, la nostra cultura. Sì, senza dubbio, la
guerra è una disgrazia; ma questo giudizio non è sen¬
za errori, e soprattutto facciamola finita, con tutta que¬
sta morale borghese! L’atto che consiste nello spargere
il proprio sangue per una causa che stimiamo giusta,
è evidentemente più morale che tutto il catechismo
borghese. Lo slancio che anima una nazione per un’al¬
ta idea, questo slancio la manda avanti e non può ri¬
buttarla verso la barbarie! »
Non era un uomo semplice Dostoievski.2
ARTE, AFFARI E ABRACADABRA
[1928]*

Mi pare che l’arte sia vittima d’un orrendo malinteso.


Mentre essa, in mezzo a inquietudini e scrupoli, sta
levandosi di dosso la frivolità e perde il suo carattere
decorativo e divertente, per ritrovare, all’altezza dei
tempi, la purità religiosa e lo slancio degli inizi, cento
manifestazioni verrebbero invece a testimoniare che il
suo compito attuale sia d’ordine strettamente econo¬
mico.
È di ieri la Conferenza internazionale riunitasi in
Roma per la tutela dei diritti dell’opera d’arte. Se a
questi valentuomini avessi posto questo quesito: « Voi
che vi tormentate, con tanti fagotti di carte, dell’av¬
venire dell’arte, voi conoscete dunque dell’arte tutte
le strade? E qual’è la migliore? Vedete, è un labirin¬
to. Sappiamo che ci dev’essere la buona, e che non
sono due. Ma di grazia, favoriteci le vostre ricette,
forse sarà dato anche a noi di salirla e, percorrendola,
ci troveremo meglio difesi dai tanti vespai che l’infe¬
stano », i valentuomini m’avrebbero riso in faccia:
« Ohi, screanzato, caschi dalle nuvole? L’arte? Ah, scia¬
gurato tonto, tu ci credi? Lui ci crede, hah-hah-hah.
Noi difendiamo gl’“interessi” dell’arte. Affari, poltro¬
ne, affari ».
Capisco e ammetto che ci siano anche gli affari, ma
nego ch’essi siano lo scopo dell’arte, ma deploro di
vedermeli autorizzati a mettersi a sedere sull’arte, e
lamento che l’arte la si voglia ridurre, nella migliore
delle ipotesi, a ancella o espediente o pretesto dell’af¬
farista.
Scritti letterari 1918-1936 179

In Italia sta o no svolgendosi un esperimento di


riscatto dello spirito?
E, almeno in Italia, è dovere urgente aprire gli oc¬
chi alla funzione originaria dell’arte, funzione squisi¬
tamente spirituale, funzione che non può svolgersi se¬
renamente e dar frutti che nelhambito della « qua¬
lità ».
Oggi se uno compra un quadro non lo fa perché
gli « piace », ma perché crede di collocare i suoi por¬
ci soldi « da furbo ». E l’attività del pittore per nove
decimi è sprecata a rendersi favorevole quell’opinione
ripugnante.
Se un editore stampa un libro, non lo fa perché
crede di mettere in circolazione un’opera buona, ma
perché spera di venderne molte copie. I risultati di
tale criterio sono a tutti noti: nessuno legge più, c’è
« la crisi del libro ». E siccome chi l’ha provocata,
avrebbe anche la pretesa di scongiurarla lui, i rimedi
sono peggiori del male.
Se si mira poi alla propagazione della cultura ita¬
liana all’estero, si pensa sia problema da risolversi tra¬
ducendo in volapiik i romanzi d’appendice, oppure
mandando per il mondo dei volumi « rilegati », ecc.
ecc.
È tale l’aberrazione che chi vi parla di teatro, vi
dichiara sinceramente che la decadenza dello spetta¬
colo è dovuta non alla mancanza d’uno Shakespeare o
d’un Goldoni, genere di roba, no?, da buttarsi via,
ma dipende dal non possedere noi, neanche un alle¬
stitore. Capite? E non v’è capitato di sentirvi confi¬
dare: « La poesia del tale, non c’è male; il romanzo
di Sempronio, discreto; usano la Waterman, eh, si
capisce ». Per la rinascita dell’opera musicale s’affide¬
ranno al capomastro.
In poche parole tutta l’attenzione è per gl’impresari,
i mercanti, le compagnie sfruttatrici di mezzi meccanici
di riproduzione e di diffusione; e quando si ha la de-
180 Giuseppe Ungaretti

grìazione di lasciar cadere uno sguardo su quel povero


cristo d’artista, è per « considerarne » i rapporti, non
coll’arte, ma cogl’« industrialièzatori » dell’arte.
Aggiungerò che non mi piace quella tendenza, e la
considero offensiva e nefasta per l’arte, che al fatto
della riunione in sindacato degli artisti, per la tutela
d’interessi pratici, non dà un valore molto subordi¬
nato, limitato precisamente al disbrigo di piccole cose,
ma un valore « fondamentale ».
L’arte non rientra nel criterio della statistica, non
si misura a metro, implica un giudizio estetico, sto¬
rico e morale a lungo incerto e mutevole, che si forma
attraverso mille vagli indefinibili, che non può venire
espresso dal numero, né per vie disciplinari, senza ge¬
nerare prepotenze, o il senso d’averle patite, senza
produrre malumori, appestare l’aria, accrescere la già
insopportabile confusione.
M’accorgo anch’io che c’è una frattura oggi tra l’ar¬
te e il pubblico. Non potrà essere saldata che affron¬
tando direttamente il mostro.
L’arte, s’è detto, non può prosperare e dar frutti
che nell’ambito della qualità. Così stando le cose, in
che modo l’intervento dello Stato potrebbe essere fe¬
lice?
Se tale intervento dovesse manifestarsi, esso dovreb¬
be effettuarsi a distanza e con molta discrezione, aven¬
do cura di non inceppare minimamente l’opera dell’ar¬
tista, ma di stimolarla secondandone l’indole. L’arte è
un fatto misterioso, lo Stato può sempre preparare le
condizioni favorevoli alla sua fioritura e al perfezio¬
namento della sua qualità, ma lo Stato non potrebbe
mai fabbricare gli artisti con lo stampino. Se una cer¬
ta libertà dell’arte venisse violata, sarebbero giorni ne¬
gri per l’arte.
Lo Stato dunque potrebbe assumersi un certo im¬
pegno di coordinamento (non d’« inquadramento ») de-
Scritti letterari 1918-1936 181

gli sforzi spirituali (lasciando il più possibile in pace


quelli « pratici ») degli artisti.
Ma sopratutto lo Stato potrà giovare all’arte riav¬
vicinandola al pubblico. E per portare a buon fine que¬
st’azione non gli mancherebbero i mezzi, e quei pochi,
suggeriti dalle circostanze e che mancassero, sarebbe
facile escogitarli. Si tratta, giacché l’arte è problema
d’ordine spirituale, si tratta d’azione educativa. Il pub¬
blico è disorientato, e non pensa neanche più a orien¬
tarsi. Gli han detto che il gusto è una babele, e
quell’oca ci crede. Ho paura che la colpa maggiore sia
della scuola. Dalla scuola bisognerebbe principiare. O
la scuola s’è assentata troppo dall’arte militante, fer¬
mandosi tutt’al più a Carducci, o s’è fatta dell’arte un’i¬
dea da tarma, o l’arte considera una disgraziata alla
quale anche l’« abracadabra » idealista può darsi a bere.
DI UN DIFETTO DELLA CRITICA
[1928]

Perdura uno stato di divorzio tra l’arte e la critica.


L’arte si fa sempre più opaca per il critico. Lo stesso
artista avendo da giudicarsi è incapace di mostrare l’o¬
pera sua dalla parte della luce. Dal momento che ne
ragiona, se ne allontana, confuso in un fumo, che chia¬
ma « logica », di temi pregiudiziali. Saviotti, inizian¬
do la polemica che da alcune settimane si svolge sul¬
la « Fiera Letteraria »,' accusa i narratori moderni di
troppa intelligenza, a scapito del sentimento. Un anno
fa si dichiarava morto e sepolto l’endecasillabo con
delle prove di questo calibro: che il circolo ha quat¬
tro lati, a volte ne ha sette, forse anche otto, dipende
da chi lo guarda; che le ali servono per mangiare e
le mani per camminare...
Non dirò troppo male di simili discussioni. Anzi vo¬
glio lodarle. Esse significano che i critici s’accorgono
che ci dev’essere, nelle loro macchine, qualche molla
mattacchiona. Se l’intelligenza fa degli scherzi, li fa so¬
pratutto alla critica, la quale critica, l’ho già detto,
avendo da esaminare un romanzo o una poesia, è
tutta contenta di cavarsela con un bel costrutto ideo¬
logico, lasciando sul lastrico con un palmo di naso,
poesia e romanzo. Simili discussioni attestano, quan¬
tunque i critici siano ancora poco disposti a confes¬
sarlo, che non si tratta d’intelligenza scarsa o sover¬
chia, ma d’intelligenza impiegata male dalla critica. La
quale critica avrebbe un compito, molto umile e molto
alto, molto difficile e molto delicato: semplicemente
quello d’imparare e d’insegnare a leggere. Mi pare che
Scritti letterari 1918-1936 183

sulla « Fiera » le osservazioni di Arrigo Cajumi portino


acqua al mio mulino.2
Si tratta d’un malessere che non è specialmente no¬
stro. Credo che un po’ dappertutto se ne lamentino.
E credo che convenga in proposito conoscere anche il
pensiero degli altri, come converrebbe che gli altri co¬
noscessero il nostro. E non per allargare il cerchio del¬
la discussione, ma per vedere di mettere in moto me¬
glio i termini del problema, per, se è possibile, trovare
una soluzione; - ma a scopo di coopérazione intellet¬
tuale, di quella buona.
Ho davanti agli occhi un saggio pubblicato dal nu¬
mero d’estate di « Commerce ». Ne è l’autore Jean
Paulhan ed ha il medesimo titolo di quest’articolo:
Di un difetto della critica. Il saggio è preludio a un
vasto lavoro, già compiuto, sui diversi problemi che
l’attuale critica letteraria ha da proporsi. Doti rare
d’artista e quell’acume, di cui dà prova quotidiana di¬
rigendo la « Nouvelle Revue Frangaise », fanno di Pau¬
lhan uno dei pochi critici profondi d’oggi, e forse il
più nuovo.
Mi limiterò a riassumere il saggio di Paulhan. Al
lettore, a nomi di persone e di scuole letterarie fran¬
cesi, sarà facile sostituire nomi nostri.
Ed ecco dunque il saggio:
« Il pensiero critico oggigiorno, ha un difetto che
sorprende. Tra le accuse ch’esso muove a uno scritto¬
re, ce n’è una che di solito è insinuata più che espres¬
sa; s’è espressa, il più delle volte lo è senza prove;
se esso reca prove, esse sono vaghe; se sono precise,
sembrano andare all’opposto della verità, e tutto esse¬
re, fuorché prove.
« Ed è accusa circondata da gran rispetto, ed è poco
agevole difendersene: è ch’essa dà un suono singolare;
sembra faccia appello al più intimo fondo del pensiero,
al motivo stesso delle Lettere.
184 Giuseppe Ungaretti

« Sainte-Beuve è senza dubbio il primo critico che si


proponga di distinguere gli scrittori, attaccati a cure
d’ordine poetico e romanzesco; da quelli che s’abban¬
donano, nella composizione delle loro opere a pen¬
sieri di pura e semplice rettorica. Intende con ciò che
possono i primi essere più o meno buoni, ma che gli
altri sono detestabili.
« Il successo di tale divisione è noto. Sainte-Beuve
non pensa che a biasimare gli ultimi classici, e, nello
stesso tempo, i primi romantici. Taine, invece, vuole
sospette di ricercatezza e di verbalismo le opere del
’700, e specialmente quelle di Rousseau. Ma quando
scrive che il secolo XVIII detesta la parola giusta e
l’espressione semplice, che dissimula la verità sotto
uno stile ornato, e arrossisce di mostrare nudo il suo
pensiero si burla di noi. Non s’è mai visto nudo il
pensiero. Il pensiero, cioè l’invisibile. Sono talvolta
parole ornate e tal’altra parole semplici, secondo la vo¬
ga e i tempi, le quali parranno atte a significare fedel¬
mente questo pensiero, e a schivarsi davanti ad esso:
è affare d’opinione letteraria e rettorica. Solo, è diso¬
nesto presentare la propria opinione come un fatto; ed
è peggio dare a temere, se appena appena esitiamo a
ammettere che un fatto sia, chi sa quale finimondo, che
minaccerebbe lo spirito tutto quanto.
« Per Renan, l’intera letteratura classica, salvo il
giansenismo, è compromessa da un abuso di rettorica;
e per Brunetière, le poesie di Malherbe. Brunetière e
Renan dimenticano di stabilire che per Malherbe e i
classici la rettorica è soltanto un’arte di parlare e di
scrivere e nient’affatto un’arte di riflettere.
« A Faguet, è l’opera della Rinascenza che pare le¬
gata ad affettazioni verbali, e come oppressa dalla sua
lingua. S’attiene all’effetto che gli fanno le scaltrezze
d’un Montaigne. Ma la domanda vera, è se Montaigne
le pensa come scaltrezze.
Scritti letterari 1918-1936 185

« Sono pochi gli scritti o le riflessioni sopra un ar¬


gomento letterario, nei quali non ci metta al corrente
di una debolezza, o di scaltrezze dell’autore, un certo
modo brusco di alludere alle parole. E ciò vien fatto
coll’intenzione di condannare non l’ebrezza verbale e
l’abbandono ai giuochi dell’ispirazione - ma il calcolo
e la fredda riflessione che, con ricercatezze verbali, s’in¬
dustriano a dare l’illusione di tali giuochi; ma in bre¬
ve, un certo modo d'incominciare deliberatamente dalla
lingua.
« Ma ciò che sorprende non è tanto l’accusa e la con¬
danna, alle quali non c’è scrittore che sia sfuggito,
quanto che i critici accusino e condannino senza prove.
E sorprende di più, ed è la cosa più grave, che non
sembra essi dubitino che bisognerebbe darla qualche
prova.
« Recarne è difficile, non si nega. Il più spesso non
siamo ragguagliati sui rapporti dello scrittore colla sua
opera che da questa medesima opera, la quale si piega
alla nostra fantasia: la si vuole prendere per un com¬
plesso di parole e di frasi, e subito è tale; non vo¬
gliamo coglierne che il senso e l’emozione, essa si vuo¬
ta di lingua per essere tutta pensiero. Se si potesse
avere una confessione dell’autore?
« Sarebbe vano aspettarla da un Rabelais, da un Ra-
cine, da un Rousseau. Essi non considerano allo stesso
nostro modo i rapporti del pensiero colla sua espres¬
sione: c’è una separazione del pensiero dalla lingua
ch’essi non collocano al punto preciso dove la collo¬
chiamo noi. Rimangono gli scrittori romantici.
« Conosciamo in proposito, esattamente il loro stato
di spirito. Colla stessa evidenza che a noi essi sem¬
brano i primi scrittori che abbiano sottomesso il pen¬
siero alle parole, essi sembrano a se stessi i primi scrit¬
tori che abbiano liberato il pensiero dalla servitù delle
parole. Hugo è senza dubbio il primo poeta francese
riferendosi al quale i critici non evitano di parlare ogni
186 Giuseppe Ungaretti

tanto (con rispetto) di verbalismo vuoto; ma è certa¬


mente il primo poeta francese che si sia figurato d’es¬
sere il nemico personale del verbalismo vuoto.
« Uguale esperimento offrono le scuole succedutesi
dopo il romanticismo. Si tratti dell’unanimismo o del
simbolismo, dei parossisti o dei veristi, non ce n è
una che non ci affatichiamo a segnalare dalle sue ma¬
nie verbali. E non una ce n’è che non siasi lusingata
di sorgere contro ogni verbalismo e ogni affettazione
- ma ciascuna incomincia collo scoprire con molta ener¬
gia, e come se mai altri non avesse pensato a simile
impresa, un oggetto: lo spirito e i sentimenti profondi
dell’uomo, che le scuole precedenti le sembra si siano
prefisse di dissimulare sotto le parole.
« Non si vuol giudicare né lo scrittore, né il critico.
Ci si stupisce solo d’un controsenso tra essi costante.
Occorre diffidare d’un giudizio che si presta a tali illu¬
sioni e a tali controsensi.
« Eppure, perché dissimularlo più a lungo, nelle ac¬
cuse e condanne in parola, si cela una verità preziosa.
Tra le questioni d’ogni specie che pone il giuoco e re¬
sistenza stessa delle Lettere, c’è un problema essen¬
ziale, di cui gli altri non sono che riflessi e segni: e
ciascuno scrittore non vale che per la risposta, con¬
fessa o segreta, che gli dà. Si tratta di sapere se la let¬
teratura favorisce oppure rovina il solo avvenimento
che conti: lo spirito e la sua scoperta, ii pensiero e il
suo scambio.
« La nostra sorpresa s’è a poco a poco spostata. Po¬
teva dipendere dal fatto che potessero esistere scrit¬
tori tanto insensati da fidarsi di apparecchiature lette¬
rarie. Essa non può più dipendere ormai che da ciò:
che i critici con tanta facilità si credono d’essere auto¬
rizzati a rimproverare agli scrittori d’essersi fidati d’ap¬
parecchiature. Ed è così meno l’opera che si trova sin¬
golare e degna d’attenzione che la critica.
Scritti letterari 1918-1936 187

« E non si pensa solo all’opera dei critici letterari,


ma anzitutto a quella critica interiore che ciascuno di
noi forma nel suo segreto - e anche a quella critica
partendo dalla quale il romanziere o il poeta si com¬
pone e s’inventa. »
Intervista con G.B. Angioletti:

LA POESIA CONTEMPQRANEA È VIVA


O MORTA?
[1929]

La poesia è secondo lei...


Secondo me? La domanda a questo modo mi garba.
Non ho la pretesa d’insegnare nulla a nessuno. Ci sono
tanti professori in giro... Guardi, per me, ci sono due
ordini di problemi: i problemi del mestiere e quelli
dell’ispirazione. Non sono problemi che vivono o pos¬
sono vivere separati, ma sono problemi diversi. Quan¬
do il Foscolo nella sua poesia tiene conto esclusiva-
mente del ritmo, o meglio subordina la sonorità alla
nitidezza ritmica, e considera quasi vizio ogni simme¬
tria sillabica: assonanze, allitterazioni, rime, ecc., è in¬
dubbiamente mosso dalla necessità di trovare una for¬
ma adeguata al contenuto della sua poesia; ma è im¬
probabile che i problemi di forma non siano stati per
lui motivo di speciale meditazione. Il Leopardi, per il
quale, come per il Tasso e per Virgilio, sonorità e
numero hanno un’uguale importanza, ci dimostra - l’e¬
dizione Moroncini è venuta apposta - che i problemi
di forma, per l’efficacia d’una poesia, hanno un carat¬
tere perentorio. Questo sia detto restando bene inteso
che lo schema, usiamo pure la parolaccia, non è ancora
mutato da noi dalle origini della poesia italiana. Esso
è sempre l’endecasillabo. E non mi pare esatto sia mu¬
tato in Francia dopo Baudelaire. Lo schema fondamen¬
tale francese, e per lo stesso Baudelaire, è sempre l’ales¬
sandrino, anche nelle forme più libere; anche in quelle
che rasentano la prosa, l’andatura dominante è quella
dell’alessandrino. Piuttosto che schemi, direi che sono
leggi d’una lingua, messa sotto un dato fuoco.
Scritti letterari 1918-1936 189

Lei, si sa, è tradizionalista.


Sì e no. La lingua italiana non l’ho inventata io, né
l’endecasillabo - il settenario, il quinario, il novenario
sono sue parti - né l’endecasillabo che è, come dicevo,
posso sbagliarmi, lo strumento poetico naturale della
nostra lingua. La prospettiva non l’ha trovata un pitto¬
re solo. Ma ecco, una lingua nasce, è bambina, vive,
invecchia, si fa carica d’esperienza. Porta anche, insie¬
me alle ricchezze, gli acciacchi della sua età. E l’ende¬
casillabo, che,è un po’ la combinazione elegante delle
nostre parole, naturalmente non ha una vita a sé. Ora
tra le esigenze d’una lingua oramai antica, e quelle di
questo nostro, mondo moderno che, sotto certi aspetti,
è come un’infanzia, non è facile accomodarsi.

[LA NOZIONE DI TEMPO NEL LEOPARDI]


Sono un uomo del mio tempo. E come farei a essere
d’un altro tempo? Sono nato alla poesia in questo se¬
colo. Ricorderà ciò che dice il Leopardi circa gli ana¬
cronismi dell 'Eneide. Egli muove rimprovero a Virgilio
d’avere attribuito qualche volta alle sue figure l’animo
degli eroi omerici. È un punto molto istruttivo dello
Zibaldone. Il Leopardi è uno dei primi a fissare la
diversità di coscienza tra l’uomo dei tempi omerici e
quello del secolo d’Augusto. Ma non è qui la scoperta.
Egli indicando due tappe della sensibilità, mette in
moto tra quei due stati della coscienza, una frazione
di tempo, forse per primo propone il tempo come il
riflesso variabile, il simbolo fluido, lo specchio della
vita psicologica.
La nozione di tempo è ormai data come storia del¬
l’anima e d’un’anima, in quei termini cioè che svilup¬
perà il romanticismo. Già nel Petrarca, già negli uma¬
nisti, va smarrendosi il senso della rivelazione, e s av¬
via il tempo a diventare realtà unica. Ma negli umanisti,
è rimasto un certo senso dell’assoluto, nel loro concet-
190 Giuseppe Ungaretti

to 'della bellezza. Essi assegnano all’arte il compito di


rendere coi suoi giuochi leggiadro il mondo, d’idealiz¬
zare il mondo. Le è noto che uno scrittore del Cin¬
quecento vuole che per leggiadria s’intenda ciò che
fuga noia. È già un modo amaro di vedere. Ma col
Leopardi, il tempo facendosi punto, e punto mobile,
di riferimento, è la relatività che entra risolutamente
in campo, la relatività morale, del bene e del male, la
relatività estetica, del brutto e del bello.
Se il procedimento stilistico del Leopardi può an¬
che chiamarsi classico, se si vuole, ed era il nome
ch’egli stesso gli dava, s’egli rifugge dalla forma me¬
taforica cara ai predanteschi, al Petrarca, al Seicento,
più o meno a tutti i poeti italiani sino all’Ottocento, e
si limita a descrivere gli oggetti valorizzandone i co¬
lori col tono del proprio sentimento, la sua poesia sa¬
rebbe anacronistica, avrebbe il difetto che gli dispiace¬
va di più, se quel tono del suo sentimento non fos¬
se, com’è, romantico. Non faccio una questione ozio¬
sa di etichette. So quale gran caso il Leopardi facesse
della confidenza coi buoni autori, ed il classicismo non
è altro. Ma dico che, nella sua opera, il Leopardi pre¬
vede ed esaurisce, anche opponendovisi in un certo
senso, l’esperienza romantica. Ciò che mi premerebbe
è che fosse chiaro che il Leopardi non solo è, nel suo
secolo, il maggiore poeta italiano, ma anche, in senso
assoluto, il poeta maggiore del suo secolo.
Sono un uomo del mio tempo. Certo preferisco un
albero a un palo telegrafico. Ma un aeroplano nel cie¬
lo mi commuove, e una carrozzella mi fa uscire dai
gangheri. E poi dipende dai momenti, può anche pia¬
cermi la carrozzella e il palo telegrafico. Ma non mi
faccio un Dio dell’aeroplano, né dell’albero.
Scritti letterari 1918-1936 191

[PROBLEMI DEL MESTIERE POETICO]

Quali problemi dunque di mestiere propone al poeta


il tempo presente?
Sarebbe meglio parlare prima del fuoco, e poi dei
suoi effetti. Il clima è tale che la poesia, da un centi¬
naio d’anni, fa progressi in salti mortali. La difficoltà
è di non turbare l’armonia del nostro endecasillabo,
di non rinunziare ad alcuna delle infinite risorse che
nella sua lunga vita ha conquistato, e insieme di non
essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza
al proprio tempo. Mi creda, mantenere svelte quelle
gloriose articolazioni, non è un’impresa da nulla. Ef¬
fetti notevoli si sono ottenuti facendo sì, per esem¬
pio, che il senso delle parole non accompagnasse che
come un’eco la loro sonorità, o viceversa. Oppure ri¬
correndo a qualche discordanza di ritmo. La gramma¬
tica stessa può offrire il destro a trovate opportune:
trapassi bruschi dalla realtà al sogno; uso ambiguo
di parole, nel loro senso concreto e astratto; trasporto
inopinato d’un soggetto alla funzione di oggetto, e vi¬
ceversa: scambio costante e fulmineo di proprietà tra
le diverse parti del discorso. Non ricordo piu chi,
uno diceva, e diceva bene, che la poesia moderna si
propone di mettere in contatto ciò che più è distan¬
te.1 Maggiore è la distanza, superiore è la poesia. Quan¬
do tali contatti danno luce, è toccata poesia. In bre¬
ve, uso, e forse abuso, di forme ellittiche. Come ve¬
de, anche la poesia corre dietro, oggi, alla velocità. Le
dirò di più: il Leopardi, che sapeva tutto in anticipo,
in alcune riflessioni, appunto sulla velocita, e sulla mu¬
sica, non condanna gli sforzi volti ad una liberazione
musicale della parola. Arriverà mai la poesia a posse¬
dere uno strumento che permetta allo spirito di ma¬
nifestarsi come gli pare? Ma stolti non direi gli sfor¬
zi che hanno tanta ambizione.
Le segnalo un caso, curioso. Stando dietro al fuga-
192 Giuseppe Ungaretti

ce, la poesia avrebbe dovuto diventare analitica; ed è


sempre stata, ed è per natura sua un’espressione sin¬
tetica. Il poeta ha dunque cercato di superare questa
difficoltà, intensificando la portata di un dato elemen¬
to, scelto tra quelli che meglio potevano concentrare
un complesso di mutamenti. Nella prima metà dell’Ot¬
tocento, spesso quest’intensificazione è stata ottenuta
coll’enfasi. Poi le cose si sono svolte così: nell’ordi¬
ne della fantasia, spezzati al demone dell’analogia i
ceppi, s’è cercato di scegliere quell’analogia che fosse
il più possibile illuminazione favolosa-, nell’ordine del¬
la psicologia, s’è'dato soffio a quella sfumatura pro¬
pensa a parere fantasma o mito; nell’ordine visivo, s’è
cercato di scoprire la combinazione di oggetti che me¬
glio evocasse una divinazione metafisica. Illuminazio¬
ne favolosa, fantasmi e miti, divinazioni metafisiche,
non sono forse illusioni di tempo domato, di tempo
fermo per sempre? E inoltre, l’affaticarsi alla perfe¬
zione dell’opera, non è volontà ch’essa duri? E que¬
sta resistenza al tempo, quanto va d’accordo col fuga¬
ce? Ogni cosa è fatta di contraddizioni.
Tornando a noi, si dimentica, da parte del pubbli-'
co, troppo facilmente che ogni poesia nuova, è anche
scoperta di nuove possibilità del linguaggio. È strano
che da noi nessun teorico si preoccupi oggi dei pro¬
blemi del linguaggio. Sono studi che potrebbero rin¬
novare la critica, come stanno rinnovandola in Fran¬
cia per merito di Jean Paulhan, rincorrendo il pen¬
siero sino dentro la sua sostanza formativa per mostra¬
re, per esempio, un errore o un’illusione di logica o
d’espressione. Errori e illusioni di solito dovuti al¬
l’inerzia della logica corrente.

[SCHIAVITÙ DELLA POESIA]

Ora capisco perché la gente crede che la sua poesia


sia oscura.
Scritti letterari 1918-1936 193

Può darsi che qualche oscurità ci sia. Non sono o-


scuro di proposito. È balordo pensarlo. Ma la poe¬
sia come l’intendo io, è piena d’intralci, di vincoli, di
servitù. Eccomi dietro alla sonorità, e mi nasce una
cosa persuasiva; ma il senso è rimasto un po’ sacri¬
ficato, o il ritmo; bisogna rassegnarsi a buttare tut-
t’all’aria, a ricominciare cinque o sei volte da capo.
Oscurità? Ma credo basterebbe spesso, per elimi¬
narla, un po’ di buon senso da parte del lettore.
L’altro giorno l’« Italia » citava questi versi del
Parini:

E quasi molle cumulo


Crescer di neve alpina
La man che ne le floride
Dita lieve declina,
Cara de’ baci invidia
Che riverenza contener poi sa.2

Le lumache, ai primi tre versi, vi mostreranno l’evi¬


denza del paragone che al poeta piacque d’usare per¬
ché vi colpisce l’aspetto d’una mano; le vede? tutte
tappate nel guscio, per goderselo tutto il piccante
squisito di quelle moine. Ed ecco, quando le cose non
si sono imparate a scuola, e l’immagine che vi viene
incontro non è più arzigogolata come la predetta, ma
semplice, e dichiara, poniamo, che un’ascella femmi¬
nea può in una data luce, suggerire oscura un’idea di
pace e muovere un sogno, siccome è immagine d un
poeta d’oggi,3 ecco le lumache colla bava.

Quali sono le tendenze, diciamo di contenuto, della


poesia contemporanea?
Mi permetta una premessa. Si dice che il poeta è as¬
sente dalla vita, ch’egli si gingilla appartato nella sua
torre d’avorio. La prego, apriamo insieme i libri di
poesia offerti agli uomini, dal principio dell Ottocen-
194 Giuseppe Ungaretti

to ad oggi. Se vogliamo avere una testimonianza sin¬


cera e precisa del dramma e della tragedia del nostro
tempo, dobbiamo consultare i poeti. Essi hanno pro¬
vato più duramente di chicchesia, lo squilibrio tra vi¬
ta attiva e vita contemplativa. Essi hanno sofferto,
gridato e pagato per tutti. Mi basti citare due nomi:
Baudelaire e Leopardi. Poeti d’inferno, certo. Leopar¬
di, chi abbia letto con attenzione i Canti, le Operette,
lo Zibaldone, sa che cosa intendo quando dico: infer¬
no. In lui non c’è più che un sentimento infinito di
pietà. S’egli si volge al mito della gioventù, s’egli vi
allea il pensiero dell’antico e del popolo, e s’egli an¬
cora vede nell’incontro felice di questi tre elementi,
anche nell’ordine politico, la possibilità d’un inno¬
vamento delle illusioni, s’egli sottopone alla critica più
corrosiva l’idea d’universalismo, reputandola il fomite
dell’egoismo più sfrenato e nefasto, s’egli nella pro¬
dezza - ne predice nell’aviazione il risorgere - riscon¬
tra qualche principio unitario, il suo pensiero profon¬
do non è in queste derivazioni dettate dalla pietà, è
crudissimo. Egli è cristiano, ma d’un cristianesimo che
non conosce che le maledizioni. Non ha il poeta che
rimpianti. Il mondo è infermo, e rimpiange la natura
pura; lo spirito è ignorante, e rimpiange la conoscen¬
za perfetta; l’uomo è maligno e concupiscente, e rim¬
piange l’innocenza e la bontà.
Leopardi è un cristiano che vede ovunque la trac¬
cia della colpa, inespiabile poiché la fede nella resur¬
rezione s’è fatta muta in lui, e ha invece eloquenza
la vista della progressiva corruzione d’ogni cosa, cor¬
ruzione interrotta per poco ogni tanto da incursioni
di barbarie che rinnovano le illusioni.
Passiamo ad altro. Non conosco, e come farei, tut¬
ta la produzione poetica degli ultimi cinque lustri. E
molta poesia ho dovuto leggerla nelle traduzioni, ciò
che le faceva perdere quasi tutti gli effetti. Ma posso
dire di sapere suppergiù ciò che s’è fatto in questo
Scritti letterari 1918-1936 195

periodo da noi e negli altri paesi. Il punto di par¬


tenza è la disperazione spinta ai suoi estremi. Le cir¬
costanze catastrofiche e vertiginose hanno finito, come
primo risultato, col disgregare interamente l’individuo,
e quindi il poeta ch’è individuo per eccellenza.
Ci fu un momento, nel pieno dell’ora apocalittica
del dopoguerra, quando più non contava che l’attimo
e tutto pareva precipizio, quando non solo il concetto
della relatività aveva varcato ogni ragionevolezza del¬
la negazione, quando il poeta si sentiva più che mai
soverchiato e "attratto e travolto dalla necessità del¬
l’azione, quando non solo sentiva in crisi il concetto
di letteratura, e spregiava il vano lavoro delle parole
cui irrimediabilmente era inchiodato dalla sua voca¬
zione, ci fu persino un momento in cui, dell’azione
che lo stordiva e lo salvava, si sorprendeva a dirsi: a
che prò? È un momento che forse perdura in altri
paesi.

[RELIGIOSITÀ E MISTERO]

Erra chi crede che la poesia, nella descritta demen¬


za, si fosse allontanata dalla natura. Direi anzi che es¬
sa fosse ciecamente preda della natura. Il senso, mi
si permetta di chiamare le cose col loro nome, il sen¬
so fallico e il senso della morte toccavano direttamen¬
te, atrocemente l’ispirazione. Ma presto si manifesta¬
va, in due direzioni a volte confluenti, una rivincita
del pudore. La prima direzione è quella della preziosità
tecnica; la seconda, quella che chiamerò del sogno.
Poe, meglio di Freud, ci farà da guida nel secondo ca¬
so. In un passo di Poe si tratta di fantasie (fancies) di
squisita delicatezza, d’ordine piuttosto psichico che in¬
tellettuale. « Esse » cito Poe « si manifestano all’ani¬
ma (ahimè, di rado) nei soli periodi di profonda pa¬
ce, quando la salute corporale e spirituale è nella sua
perfezione — e solo si manifestano in quei punti della
196 Giuseppe Ungaretti

durata dove i confini del mondo della veglia si fon¬


dono con quelli del mondo dei sogni... In tali “fan-
eie s” (mi si permetta ora di chiamarle impressioni psi¬
chiche) nulla che somigli, nemmeno approssimativa¬
mente, alle impressioni ordinarie. Tutto avviene come
se i cinque sensi fossero sostituiti da cinque miriadi di
altri sensi che non posseggono la vita mortale. »
Alcuni poeti d’oggi hanno cercato, facendo credito
illimitato al potere della parola, d’interpretare queste
« fancies ». Era un’indagine avanzata in una sfera di
meraviglia quasi primigenia, e anche solo per le osser¬
vazioni ch’essa ha fruttato, bisognava tentarla. Ma c’è
di più. Alle prese con la morte e col sesso, gettati nel
buio smisurato, ridotti a terrori elementari, ecco - mi¬
racolo della poesia! - ecco i poeti lanciati al polo op¬
posto, dov’è, in modo originario « profonda pace, sa¬
lute corporale e spirituale nella sua perfezione ». A
male estremo, vede, rimedio estremo, -e ciò che, in
condizioni normali sarebbe stato raro, imposto da un
equilibrio forsennato, si moltiplicava.
Tali ricerche hanno avuto sopratutto il merito di
aprire uno spiraglio sull’eterno. E mentre altri poeti
trovavano equilibrio nella preziosità, e riuscivano a
staccarsi da uno stato insostenibile e rompevano il
sonno della memoria azzardandosi a tormentarla nel
suo punto più delicato, dove la lucidità è tanta che
vacilla, portando avanti quella forma che direi di ba¬
rocco poetico, noi vedevamo delinearsi il viso della
nuova poesia. Di fronte alla poesia dell’Ottocento, che
si teneva stretta nei limiti temporali, che tutt’al più
deificava la memoria, ecco nascere una poesia che bra¬
ma di ristabilire un rapporto tra la creatura e Dio.

Accettando la rivelazione?
Non so. L’universo non ci sembra più rappresentabile,
come per gli umanisti, dall’uomo nelle sue gesta, me¬
diante l’applicazione trasfiguratrice di certi canoni del-
Scritti letterari 1918-1936 197

l’arte greco-romana. Tanto meno ci sembra che l’uni¬


verso sia una creazione dell’io, come pretendeva l’Ot¬
tocento. Sia pure aggressiva la nostra brama di vita,
il mondo oggettivo per noi esiste, anche per conto
suo.
C’è inoltre un mistero irriducibile, qualunque sia
l’altezza cui possa arrivare la scienza, un’armonia tra¬
scendente, fonte di grazia piuttosto che opacità avver¬
sa, un mistero uguale, anche se diversamente immagi¬
nabile, per tutti, e per i dotti e per gli ignoranti e per
l’adulto e per il bimbo. La mente non ci arriverà mai,
ma per via di sentimento, si può averne notizia.
VOGLIAMO ESSERE AUDACI?
[1929]

Non ho ancora letto due libri recentemente apparsi in


Francia, Belleville di Robert Garric, Caliban parie di
Jean Guéhenno. Ma ne sono nate discussioni che mi
autorizzano a segnalarli come notevoli testimonianze
del tormento della gioventù intellettuale della Fran¬
cia di oggi. Si aggiunga che Garric e Guéhenno sono
a capo di riviste di pensiero e d’azione, il primo della
« Nouvelle Revue des Jeunes », l’altro di « Europe ».
A credere nell’importanza dei due libri, sono special-
mente portato dopo la lettura d’un dialogo dei due
scrittori, commovente, riferito da Frédéric Lefèvre sul¬
le « Nouvelles Littéraires » del 2 febbraio.
Entrambi gli scrittori, figli del popolo, non dimen¬
tichi della loro origine, sono mossi da amore per il
popolo. E entrambi non hanno altro sogno che la fe¬
licità del popolo.
Per Guéhenno, il popolo non può sperare emanci¬
pazioni, che dalla cultura. Ciò ch’egli dice della scuo¬
la, che non dovrebbe proporsi di formare dei tecnici,
ma degli uomini, ci sembra giusto. In questo senso,
mi pare, ha lavorato da noi Gentile, dando una fun¬
zione prevalente nei programmi, al divenire del pen¬
siero filosofico dal Rinascimento in poi. Ma la scuola
umanistica, la scuola dei gesuiti del ’700, non doveva
essere così cattiva come Guéhenno dice, se ha for¬
mato gli uomini che per indipendenza di libertà di pa¬
rola gli sembrano esemplari. Pare incredibile, ma lo
spirito alla Rivoluzione francese l’avrebbero fornito
i gesuiti? Se accogliamo la tesi sull’educazione di
Scritti letterari 1918-1936 199

Guéhenno, sicuro, pare incredibile, l’hanno fornito i


gesuiti.
Ciò ch’egli dice, d’una riforma della scuola, tale
che ai primi posti vedremmo arrivare, senza contrasto,
i migliori, quelli di sentimento più nobile e di intel¬
letto più largo, questo bene chi non lo desidera? È
umanamente possibile, con provvidenze umane, e col¬
le debolezze e la varietà della natura umana, che un
bel giorno ogni strada si sia fatta piana? Utopia, ma
per essa ogni uomo di buona volontà spende la sua
giornata. Qui in Italia, se si guardassero le cose con
serenità, forse più che in qualsiasi altro paese.
Una cosa che sente Guéhenno, che sente profonda¬
mente, è che l’avversione delle classi popolari per le
classi agiate, non è un’avversione della pancia, ma è il
sentimento di patire un’ingiustizia d’ordine spirituale.
Il privilegio del sapere, la libertà dello spirito appar¬
terrebbe alle classi agiate. Se uno del popolo, egli os¬
serva, arriva al sapere, ci arriva per caso. Agiato poi,
vorrei dire, questa volta è un’ironia. Le strettezze nel¬
le quali si trova oggi un uomo di studio sono spesso
spaventose.
Guéhenno che possiede il privilegio del sapere, chi
sa come sarà felice! Che cosa gli ha dato il sapere,
il povero sapere degli uomini? L’orgoglio? È una pa¬
rola di disperazione.
E avete detto, Guéhenno, una cosa che dal Petrar¬
ca sento tremare nella voce di tutti i poeti, avete det¬
to che vi ha ridotto, quel vostro sapere, alla solitudine.
Siete murato, ve ne disperate, nell’angustia, nel de¬
serto del vostro sapere. E che ciascuno porti la pro¬
pria solitudine, vi pare un augurio da farsi? Siete sen¬
za pietà.
Il vostro antagonista, Garric, vedeva bene una cosa.
Da lassù solo può venirci il sapere, il sapere che uni¬
sce; il vostro divide. Eccoci soli, ciascuno con un di-
200 Giuseppe Ungaretti

verso suo idolo irrisorio. Vogliamo essere audaci? Pie¬


gare le ginocchia davanti a Dio? È lassù l’unica fon¬
te di ricchezza spirituale. In Dio ritroveremmo quella
comunione, che non ci farà più lieti, ma più umani.
CRITICA E ARTE
[1929]

Mi diceva Frateili sulla « Tribuna » ch’io mi spacco in


due. Mezzo sarei uomo, con i problemi dell’uomo, e
l’altra metà la terrei chiusa - di primavera! - nello
scatolino dell'arte per l’arte. Mi rincresce, non sono
un mostro.
Quando mi si dice: « Andrai ad arringare la folla,
è il tuo dovere », ci vado di corsa. Bisognerà ora ac¬
certarsi che quella era opera d’arte.
I professori diranno: « Sei romanziere? Quel con¬
tatto colla folla potrebbe suggerirti, che ne so, moti¬
vi corali, aiutarti a delineare tipi, a osservare anime, a
fare considerazioni sulla società, a scoprire un rappor¬
to tra la campagna lassù, la piazza del paese, il cielo,
la gente, eccetera ». Un artista, certo, fa tesoro di
tutto. Ora questo tesoro non è ancora arte. Come di¬
venterà poesia, come diventerà romanzo o commedia,
qui siamo in un’officina misteriosa.
Prima della guerra si credeva che solo l’esperienza
erotica potesse educare l’artista. Non era un’idea in¬
teramente sbagliata. Penso che in una psicologia cri¬
stiana, com’è la nostra, quell’esperienza possa togliere
il velo a molte visioni. Le bruciature del peccato han¬
no sempre strappato gridi spirituali di profonda risuo-
nanza.
Non del peccato è giudice il lettore, ma dell’opera
d’arte. Ed allora il consiglio è superfluo. L’artista fa
fatalmente le esperienze che deve fare.
S’è l’artista, uomo, com’è difatti, di estrema sensi¬
bilità, egli non è indifferente al suo tempo. Egli ne è
anzi l’interprete. Come l’interpreterà, quale viso del
202 Giuseppe Ungaretti

tenjpo l’avrà sedotto, questo è affare suo. Ma se la


facoltà artistica mette in moto tutte le possibilità d’or¬
dine umano, è l’artista l’uomo» autentico.
E le sue visioni, che avranno il carattere del tempo
suo, quando saranno arte grande, avranno anche rag¬
giunto il grado dello stile, il particolare sarà stato por¬
tato al grado dell’universale. È l’aspirazione d’ogni ve¬
ro artista. L’utilità dell’arte consiste in ciò, ch’essa,
muovendo i sogni, mette un vincolo tra gli uomini,
che supera spazio e tempo.
Vorrei dire insomma ai critici: « Parlateci una buo¬
na volta delle opere ».
Davanti a un’appetitosa ragazza, dite voi: « Sei bel¬
la! », o le chiedereste la descrizione delle peripezie di
tutta la roba di cui ella s’è cibata, da quando scacaz¬
zava nelle fasce? 11 peggio è che, con computi retro¬
spettivi di questo gusto, vorrebbero mettere in uno
scatolino l’avvenire. Con quella ricetta, figliole splen¬
dide a volontà? Quel giorno, brameremo le streghe!
Via! lasciamo un po’ fare la natura.
Vedi, amico Frateili, che l’arte è un altro problema.
Non dico a te, al quale tutti riconosciamo accortezza
e probità, ma i critici, con i loro discorsi generici, in¬
vece di attenersi alle opere, come sarebbe loro dovere,
non s’accorgono essi che da noi non si distingue più la
stoppa dall’oro?
RISPOSTA ALL’ANONIMO
[1929]

Un tale, probabilmente un poeta fallito, firmando, con


arguzia rara, Giuseppe Baretti e per copia conforme
Aristarco Gambadilegno, dedica all’eccellente poesia
di Montale ed alla mia, due colonne della « Stam¬
pa ».
Gambadilegno mi dice ch’è nato sordo; mi creda, lo
compatisco. Mi dice che apparenze e sostanza sono si¬
nonimi; è una grande scoperta. Se uno gli offre un
bicchiere di vino, si mette a bere l’inchiostro; buon
prò gli faccia. Egli ci informa che la sua poesia pre¬
diletta è quella del Marradi; dei gusti non si discute.
Mi racconta ch’è della stessa famiglia di quel filisteo
che faceva sul « Messaggero » scherzi geniali alla pit¬
tura del ’900; i pettegolezzi li tenga in serbo un’altra
volta per le sue comari.
Ecco un bel caso. Uno diffama un altro presso i ca¬
foni — l’intenditore giudica da sé - e quest’italiano
non sente il dovere, nell’anno VII, di assumere la re¬
sponsabilità della sua cattiveria firmandb col proprio
nome e cognome. Se anche mi fossi trovato davanti
uno pseudonimo noto o uno stile riconoscibile, avrei
potuto replicare a un uomo. Ma nessuno sa chi sia
Giuseppe Baretti e per copia conforme Aristarco Gam¬
badilegno, ed anonimo è anche il suo stile.
A Gambadilegno non avrei altro da dire. Al pub¬
blico devo qualche altra parola.
Mallarmé è un grande iniziatore, ed ogni vero poe¬
ta moderno gli deve moltissimo. Ma i problemi di
Mallarmé erano quelli di Monet, Renoir, Wagner, ed
i miei problemi, della mia poesia che va dal 1919 al
204 Giuseppe Ungaretti

1927, possono essere i problemi d’un Picasso o d’uno


Stravinski. Tentativi di barocco esacerbato; problemi
di trasposizione della realtà in'un dominio di sogno;
problemi di paesismo posti in relazione, o in contra¬
sto, o in identità con stati e mutamenti psicologici, con
divinazioni metafisiche; tentativi, per processo di ana¬
logie, d’infondere carattere metaforico e favoloso alla
sensazione, ecc.
Vogliono ch’io rilegga Petrarca. Il sottoscritto cre¬
de d’essere stato tra i primi, e precisamente nel 1919,
in un articolo pubblicato dal « Popolo d’Italia » 1 a se¬
gnalare l’attualità del Petrarca. E continuò, il sotto-
scritto, a segnalarla ostinatamente in tutti questi anni,
in conferenze e scritti. Ma come tornare a Petrarca?
Si vorrebbe forse che il sottoscritto riproducesse, co¬
me un qualsiasi orecchiante, certi atteggiamenti senti¬
mentali del Petrarca, o certe cadenze, o certe simme¬
trie del tessuto sillabico? Per tale risultato basterebbe¬
ro ad uno studente di liceo alcuni giorni di esercizio;
è un risultato che può solo interessare gli amatori di
falso antico. C’è un altro modo, ed è quello di sco¬
prire l’arte insuperabile colla quale il Petrarca risolve
gl’infiniti problemi proposti dal rapporto tra contenu¬
to e forma. Sono soluzioni sottili, per le quali, a tut-
t’oggi, l’elegantissimo Mallarmé è il maggiore dei pe¬
trarchisti.
A qualcuno è indigesta la simpatia che hanno i gio¬
vani per la mia opera. È segno che i giovani si vol¬
gono oggi verso chi lavora seriamente; è sentimento
che onora i giovani. Se poi, come dice lui, non fossi
che l’accordatore moderno dello strumento poetico ita¬
liano, vi pare un piccolo merito?
UN ROMANZO
[1929]

Non so perché si vuole che il romanzo di Moravia, di


cui tanto si parla, esca da Freud o da Joyce. Qui, nel¬
l’indagine psicologica, il metodo è quello del roman¬
ziere deU’800, del periodo della « fetta di vita », co¬
ncessi dicevano; e siamo qui molto lontani da quella
truculenza lirica per la quale, forse, Joyce è destinato
a rimanere nella storia letteraria, come il Rabelais del
suo tempo.
Negli Indifferenti la psicologia è esaurita dalle prime
battute. Pochi tratti, giusti, quelli bastevoli, ripetuti
con insistenza. Anzi, si potrebbe rimproverare a Mora-
via di fidarsi troppo della logica, e lamentare che
un’illuminazione ogni tanto non venga a mostrarci un
po’ più segrete le sue persone.
C’è invece uno sviluppo di avvenimenti che rende
il racconto avvincente. In breve, si tratta di persone
interamente prive di autonomia morale, di dignità, re¬
golate, comandate dagli avvenimenti. Sono state per
questo chiamate Indifferenti? Invero, nessuna dimo¬
stra indifferenza: non Leo ch’è un cinico e un cupido,
non Michele, almeno in un certo senso scontento del
proprio avvilimento, non le altre che sono degli strac¬
ci, ma che mi sembrano attaccate alla propria sorte.
Non tocca a me di parlare dell’arte di Moravia, del¬
la sua efficacia nell’evocare un’atmosfera o un corpo,
col gusto e la malizia d’un pittore impressionista; e
non dirò nulla d’una scena, come quella nel taxj, ver¬
so la fine del libro, tra fratello e sorella, degna d’un
drammaturgo di cartello; questo è il posto per un al¬
tra riflessione.
206 Giuseppe Ungaretti

'Uno strato sociale come quello descritto da Mora-


via esiste. La società non è tutta a quel modo, né mi
sembrano a Moravia simpatiche le persone che presen¬
ta; ha una certa debolezza solo per Michele. Ma più
che uno strato sociale, egli vuol mostrarci una certa
china della società. C’è gente dunque oggi che può
vivere senza pensieri d’ordine morale? Uomini? In
questo senso, ecco che troviamo giustificato il titolo
del libro. Lo stesso Michele, se ubbidisce a stimoli
morali, ne ha dispetto, tanto sono stanchi; e una li¬
berazione, anche lui non l’aspetta che da beni mate¬
riali.
È una china che non ci riporterebbe, come voleva
certa filologia dello scorso secolo, verso l’esultanza fi¬
sica degli antichi; esultanza che poi non era in fondo
a una china, ma era una salita, corretta com’era da
terrori religiosi, colpiti, com’erano essi, da furie tre¬
mende ogniqualvolta fosse stata minimamente infran¬
ta la norma.
Ci porterebbe quella china, come si vede nel libro
di Moravia, verso un regno tetro di scimmie educate.
PER MALLARMÉ
[1929]

Mi sembrava, secondo le più remote immagini, che


danza e musica generassero poesia. Quando ancora non
sapeva rendere tagliente e appuntata la pietra, mi sem¬
brava che per l’uomo dei boschi e delle caverne, sco¬
prendo intelligibili i suoi gridi, essi dovessero accom¬
pagnare il terrore e lo stupore religiosi, nel tripudio
dei corpi. Mi sembrava che musica e parola, parola e
danza, il ritmo fosse all’origine della poesia umana,
e tuttora accompagnasse i moti della nostra natura.
Ma oggi un amico che mi è carissimo, Soffici, vorrebbe
farmi credere che sia stranezza da decadenti, la musi¬
ca nella poesia.
Mi sembrava sino ad oggi che la parola avesse qual¬
che relazione coll’udito; mi sembrava che il ritmo fi¬
sico, danza, passo, corsa, battiti del cuore, chiaroscu¬
ro delle sensazioni, e ritmo dell’anima, passioni fuga¬
ci, senso della gioventù (eternità fuggitiva), senso del¬
l’eterno (ferma verità), cercassero, per i poeti, nelle
parole, cioè in oggetti sonori, il loro ordine. Oggi in¬
vece dovremo fare colle parole pittura e scultura? Non
chiameremo più le poesie, odi, inni, canti, canzoni; le
poesie non le ascolteremo più, le palperemo, le guarde¬
remo. Il poeta, come in Cina, farà ideogrammi e picto-
grammi;' ciascuno ci metterà il suono che vorrà, ma
la voce e le sue inflessioni non conteranno più nulla.
E Mallarmé? Bruci dunque proprio tutto ciò che
hai adorato, caro Soffici? Ma come? Non ti dànno più
piacere le natiche delle ragazze di Renoir? Nemmeno
le zinne di quelle di Degas? Non mi piace 1”800; ma
sono un gran peccatore; e quella, è sempre roba di
208 Giuseppe Ungaretti

mio gusto. Né più ti piace la delicatezza ineffabile dei


momenti di Rosso? Mallarmé è anzitutto della fami¬
glia degli impressionisti. È anche un po’ di più. Sen¬
za perdere il contatto fìsico delle cose, egli le ha por¬
tate in un’aura petrarchesca, con una spontaneità, una
grazia libera che non seppero avere i poeti della
Plèiade.
E anche te, amico Frateili, mi dai dei dispiaceri?
No, Mallarmé non era un poeta maledetto, un segnato
da Dio. In quel momento della poesia francese, egli
precisamente rappresentava la reazione allo spirito bau-
delairiano; la sua poesia era la manifestazione dello
spirito olimpico contro quel miscuglio michelangiole¬
sco di cielo e d’inferno ch’è l’opera di Baudelaire. (Mi
si dirà che in Michelangelo il cielo era vero, o creduto
tale, e qui è invenzione disperata, e tale la sa, d’un
dannato. Parlo d’analogia dell’ispirazione drammatica.
Un Italiano dell”800 che avesse sentito i propri tempi
con quel martoriarne impeto col quale afferrava i suoi
Michelangelo, avrebbe avuto con Baudelaire una so¬
miglianza di fratello.)
E l’uomo? Fu un signore buono, cavalleresco, gene¬
roso, discreto, semplice. Esemplare padre di famiglia,
amico leale.
Quanto alla sua opera, possiamo noi dire ch’essa
non sia grande? La poesia della seconda metà del-
1”800, porta, tutta quanta, la luce della sua stella. Non
parlerò della poesia anglosassone. Si sa che, per una
costante corrente petrarchesca nella tradizione di quel¬
la poesia, per l’ammirazione che gli tributava un criti¬
co influente come Edmund Gosse, nei paesi di lingua
inglese, egli è considerato come uno di casa. Non par¬
lerò della poesia russa e spagnola, in quel periodo
senza risalto. Ma i due maggiori poeti tedeschi degli
ultimi cinquant’anni, Rilke, Stefan George, si faceva¬
no un vanto d’essergli discepoli. Quanto a noi, lascia¬
mo stare ciò che i Futuristi gli devono, ma mi sono
Scritti letterari 1918-1936 209

spesso domandato se Versilia di Gabriele d’Annunzio


avrebbe avuto quella potenza unica che ha, di evoca¬
zione e di trasfigurazione, senza VAprès-midi d’un
Faune.
E non solo la prosodia non aveva segreti per Mal¬
larmé; egli era anche un glottologo di raro acume.
Bisognava vedere, nel suo trattato di lingua inglese,
quali sorprendenti sinonimie egli sappia trovare, rag¬
gruppando le parole in famiglie fonetiche, e quale luce
gettare sul mistero della formazione delle parole. Per
questa sua sapienza, e per il soffio poetico che l’ani¬
mava, in una lingua agli sgoccioli, egli ha osato, con
un coraggio da leone, mettere la rivoluzione ravviva-
trice.
Avrei infine da rispondere a uno scaccino invidioso
detto Luca Pignato. No, discorro solo colla gente che
stimo.
ANCORA PER MALLARMÉ
[1929] r

Nella « Tribuna », Fratelli scrive a proposito del mio


articolo dell’altro giorno:
« Non fu (Mallarmé) poeta maledetto nel senso
(morale) di Baudelaire e di Rimbaud: ammettiamo an¬
che questo. Ma nell’espressione oscura e tormentata
di quel suo mondo di simboli e di astrazioni, fu un
poeta segnato da Dio; come sono segnati da Dio i far¬
netici e i balbuzienti. Ungaretti ci spieghi Igitur e
Coup de dés e poi ne riparleremo. »
Mi chiedi, caro Frateili, un’esegesi. I poeti fanno
apologie. E ho, più d’una volta, già fatto quella di
Mallarmé, e tornerò, occorrendo, a farla.
Ma sai meglio di me che già esistono migliaia di pa¬
gine, in tutte le lingue, di commento alla poesia di
Stéphane Mallarmé, e che esiste il libro fondamentale
di Albert Thibaudet. Quindi, sarebbe anche un lavoro
superfluo.
Il Coup de dés è opera, a suo modo, perfetta. L’lgi-
tur, erano appunti distrutti dal poeta, pubblicati un
quarto di secolo dopo la sua morte. Queste due opere
non possono, senza mancare di rispetto a una memo¬
ria degna di venerazione, essere poste sopra uno stes¬
so piano di giudizio.
Forse in queste due opere, Mallarmé dimostra un’ec¬
cessiva fiducia nella potenza allusiva della parola. E
uomo di rare parole e balbuzie non mi sembrano ter¬
mini affini. Commise il peccato di non calare la pro¬
pria lucidità al livello di quella comune; e questo non
è farnetico; e il peccato fu riscattato per tante altre
vie.
CLASSICO, ROMANTICO...
[1929]

Classico, romantico, parole - diceva in punto di morte


Jean Moréas.
E difatti sempre c’è sempre stato chi s’è dannato
a conoscersi, e chi dalla sete di perfezione; chi a in¬
seguire forme ideali, e chi in balìa dell’avventura; e
gli eletti sono stati sempre rari che dall’urto di que¬
ste due furie hanno tratto in luce parole pure, alte e
nuove.
Ma storicamente, romantico è, sotto cento nomi, un
momento preciso, e cioè, a tutt’oggi, più d’un secolo.
E alcuni storici registrano in questo secolo, nel cam¬
po dell’arte, un arricchimento delle facoltà fìsiche e
un affievolimento di quelle morali.
Non direi affievolimento; direi che lo sviluppo delle
due tendenze non è avvenuto di pari passo.
Abbiamo accumulato una ricchezza favolosa di mez¬
zi verbali, e un’impresa di stile s’è quasi resa incon¬
cepibile.
Come eliminare la sproporzione lamentata? Può tut¬
ta un’epoca, come suo speciale fenomeno, portare a
una medesima altezza, sensualità, sensibilità, immagi¬
nazione, fantasia, sentimento, religiosità, memoria, in¬
telligenza, ragione? Ma in quell’epoca, quando basterà
dare un calcio a un sasso e salterà fuori un Dante, -
sapendo che agnellini sono la gente d’arte, già ora
che sono così e così - chi ci vorrebbe vivere?

L’opera di poesia è realmente uno specchio magico;


è all’ombra della notte dei tempi, e aureola di futuro
212 Giuseppe Ungaretti

la 'civiltà che vi si mirò, della quale è il riflesso meno


provvisorio.
Un’azione che non cercasse'fortuna se non per via
di bluff, la direi disumana, e, sebbene condotta con
arte, di poca durata, ostile ai fini della poesia. Diffi¬
derei d’una civiltà che si rassegnasse a lasciare di sé
segni così fatui.

Si dice che il successo d’un libro ormai non dipen¬


da tanto dal suo valore intrinseco quanto dal suo lan¬
cio. Dunque l’azione, il libro essendo anch’esso azione,
spetterebbe sempre meno alla potenza spirituale, e
sempre più all’attrezzatura reclamistica.
È innegabile che la civiltà moderna dispone di mez¬
zi portentosi. Un tale sosteneva che basterebbe ripro¬
durre con insistenza, su tutti i giornali, un invito al
suicidio, redatto con energia, per, dopo poco, assiste¬
re al finimondo; non lo disdico. Ma sarebbe davvero
la fine del mondo, se non fosse una falsità che oramai
i mezzi soffocano la potenza spirituale.
È falso; e, badate, se quel tiro del suicidio generale
fosse tentato e andasse bene, sarebbe sempre colpa non
dei giornali, ma del diavolo che ci avrebbe messo la
coda, dettando l’invito. È l’uomo che infonde alle co¬
se il soffio della sua crescente potenza, che moltiplica
i suoi mezzi, che allarga il suo regno; è l’uomo, la sua
potenza spirituale, non i mezzi. Non nego i mezzi, so
che in essi riposano germi lirici, ma esalto la potenza
spirituale! So che l’ultimo degli uomini ha in sé la
possibilità di muovere le montagne, e che il più illu¬
minato non sa quasi nulla dell’universo che racchiu¬
de; so che ha riflessi universali un minimo nostro at¬
to inconsulto, e che la capacità umana di controllo è
ancora infima.
Togliete all’uomo il desiderio d’eterno, toglietegli la
lotta contro la morte, toglietegli l’illusione, inaridite¬
gli nel cuore la poesia, e quel giorno sarà sulla via di
Scritti letterari 1918-1936 213

perdere l’arte, e quel giorno gli cadrà dalle mani quel


lumino che l’aiutava a intravedere nel suo abisso e a
farsi padrone d’un grano di potenza; e questi suoi
gran mezzi d’oggi, sarebbero quel giorno, delle vecchie
carcasse buttate lì.

Molti critici ce l’hanno « coi frammentucci », - co¬


ncessi dicono - « colle poesiole, colle prosette ». Cre¬
dono che l’arte sia un problema di dimensioni, e gri¬
dano eh’è ora di roba coi... fagioli.
Siamo pronti a cantare alleluia davanti a un roman¬
zo di 10.000 pagine, a un poema di 100.000 versi, pur¬
ché libri belli.
Ma non avete mai sentito parlare, messeri illustri,
d’un certo incomodo dei paesi tropicali? In seguito,
appunto, a una ipertrofia del tessuto congiuntivo, van¬
no in giro portandosi davanti sopra una carriuola, il
sacco, e pesa! Quaranta, cinquanta, a volte ottanta chi¬
li! Per cambiare con una cosa un po’ più leggera, chis¬
sà cosa pagherebbero, i poverini!

Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di


chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi
è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto
squisito, quest’assoluta probità, questa perla dov’è?
Eppure ci sono editori che vi dicono:
« È roba che non va per il pubblico. »
Non vi dicono:
« Per il mio gusto non va; per l’indirizzo estetico e
morale che voglio dare al pubblico, non va. »
Crispi chiedeva che ai Ministri si facesse passare,
prima di nominarli, un esame di storia; si vorrebbe
che agli editori si facesse passare un esame di gusto.
Finalmente verrebbe risolta la crisi del libro..

C’è un pensiero di Pascal applicabile a tutto Tordi-


214 Giuseppe Ungaretti

ne. temporale, e, quindi, in un certo senso, anche al¬


l’arte.
Fatto il giro dell’uomo fra gli uomini, il sommo
scrittore francese ricava quest’insegnamento: « che la
giustizia senza forza è impotente, ma che la giustizia
è sottoposta a disputa, ciascuno ritenendosi degno d’es¬
sere l’eletto, e che il maggiore dei mali è la guerra ci¬
vile, e quindi che il solo scampo è che la forza si fac¬
cia giusta, visto che la forza e non l’opinione è la re¬
gina del mondo, visto che nell’ordine sociale, frutto
d’immaginazione, a solo patto d’un concorso di ragio¬
ne e di pazzia che regoli le relazioni tra autorità e po¬
polo, c’è equilibrio, pace ».
SAGGISTI FRANCESI
[1929]

L’editore Simon Kra di Parigi ha messo di recente in


commercio una Antologia dei saggisti francesi contem¬
poranei. Essa completa le antologie della nuova poesia
francese e della nuova prosa francese pubblicate dal
medesimo editore e tutte lodate.
La maggior parte degli scrittori radunati in questo
nuovo libro figuravano già nella prosa e alcuni nella
poesia. L’osservazione non è ingenua. L’antologia del¬
la prosa si proponeva di mostrare con esempi il rivol¬
gimento singolare della lingua e dello stile verificato¬
si in Francia negli ultimi dieci anni. Fra le ragioni
addotte, che avrebbero determinato questo rivolgimen¬
to, una specialmente richiamava l’attenzione, ed era
che molti, i quali per vocazione sarebbero stati critici,
o poeti, o filosofi, o umoristi, o drammaturghi, s’era-
no buttati alla prosa narrativa data la gran voga del
romanzo. E quell’antologia segnalava il maturarsi d’una
prosa nella quale i vari generi letterari erano indotti
a contaminarsi a vicenda. Non è qui il caso di riaprire
la quistione dei generi letterari, di sapere se fosse
quello un fenomeno nuovo nella storia letteraria, né
di esaminare quanto fosse valida quella ragione per
la letteratura francese contemporanea e per tutta la
letteratura moderna.1
Ora nella prefazione all’Antologia dei saggisti trovo
un’indicazione che mi persuade. I rivolgimenti lettera¬
ri hanno sempre avuto inizio nella poesia, e solo nella
poesia lasciano segni fecondi nel senso dello stile. Di¬
mostrare come da Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Lau-
tréamont erediti i suoi connotati in Francia la lingua
216 Giuseppe Ungaretti

e lo stile d’oggi, è impresa facile. E appunto perché,


come dice benissimo la prefazione, in poesia la forma
è cosa essenziale. Per il romarfzo, il saggio, la comme¬
dia, è cosa accessoria.
Il compilatore stesso di queste antologie riconosce
dunque che i poeti accolti nella prosa e ora, tra i sag¬
gisti, facciano racconti o saggi, sono sempre poeti, cioè
soprattutto tormentati da ricerche di forma; riconosce
inoltre che i romanzieri facendo saggi, sono, come sag¬
gisti, romanzieri, od erano saggisti vestiti da romanzie¬
ri. Ciò sia detto, ripeto, senza alcuna voglia di riapri¬
re la questione dei generi letterari; solo per rammen¬
tare una verità elementare, e cioè che le contamina¬
zioni in arte, possono alterare le apparenze, e sono da
evitarsi, se possibile, ma ciascuno rimane, in fondo,
quello che è.

Che cosa esattamente dobbiamo intendere per sag¬


gista? Chi si proponga di mettere in relazione le idee
colla vita, di saggiare le idee sulla vita e la vita sulle
idee. Non la tecnica dell’azione come al politico, non
il sistema del pensare come al filosofo, non l’espres¬
sione intuitiva del reale come al poeta, ma tutto ciò
al saggista importa in quanto modifica il corso della
vita e delle idee. In Francia è questa una manifesta¬
zione illustre delle lettere: ha capostipite un Montai¬
gne che le ha dato il nome con il titolo della sua ope¬
ra. E l’importanza che nella loro tradizione le annet¬
tono i Francesi è tale che il compilatore dell’antologia
giunge a dire nella sua prefazione: « In ogni tempo i
pensatori di maggior conto sono stati non pensatori
originali, ma quegli uomini che hanno saputo dare alla
loro opera la maggior forza comunicativa. Il valore
d’un Pascal, d’un Montaigne è tutto quanto nel dram¬
ma della loro personalità. Nell’urto o nel flusso parti¬
colare dei loro pensieri ».
In Italia, il saggio ha avuto cultori come Machiavel-
Scritti letterari 1918-1936 217

li, come Leopardi, che l’hanno portato, se non a un’al¬


tezza superiore, all’altezza conosciuta dai Montaigne e
dai Pascal. Col progresso del giornalismo, il saggio,
genere fiorente ovunque nel secolo scorso e nel no¬
stro, è diventato da noi, negli ultimi cinque lustri, uno
strumento espressivo d’invidiabile prontezza e lucidi¬
tà. Dirò di più: mi parrebbe di grande opportunità
oggi la pubblicazione d’una raccolta dei saggisti italia¬
ni, fatta da un uomo di larghe vedute, nei giornali,
le riviste e L libri dell’ultimo venticinquennio. Essa
mostrerebbe come molte idee che vengono oggi agi¬
tate in Francia e altrove, ebbero nascita qui diversi
anni fa. Essa mostrerebbe che il Fascismo è impe¬
gnato alla soluzione in ogni campo, di problemi che
angosciano l’universo intero, e ch’esso non è un’im¬
provvisazione; mostrerebbe che questo lavoro di as¬
sestamento della società italiana, e insieme il chiarifi¬
carsi della nostra coscienza storica, è stato preparato
dalla generazione che entrava in lizza venticinque an¬
ni fa, da venticinque anni di dibattiti, voglio dire di
confronti tra la vita e le idee, le idee e la vita.

Tornando al nostro libro, un’altra cosa che va rile¬


vata, è la diversità degli scrittori nati dopo 1”83 ri¬
spetto a quelli della generazione precedente. Gli anzia¬
ni hanno tranquillità e forbitezza nel porgere, un cer¬
to distacco dagli argomenti trattati, una malinconica
voluttà nell’assaporare la meditazione. I giovani sono
concitati, taglienti, alle prese, come chi si divincoli per
farsi un varco e lanciarsi sulla vittima, colle cose di cui
trattano, e che sembra crollino loro addosso.
Se un anziano volesse sapere dell’esistenza d’una
gerarchia nelle arti, se l’effetto di turbamento fisico
che può produrre un’arte gli sembrasse indizio d’infe¬
riorità, egli condurrebbe un dialogo ironico, vuotereb¬
be un sacco d’idee, e a metà strada lascerebbe cadere
come inavvertitamente questa definizione: « La sensa-
218 Giuseppe Ungaretti

zio'ne non è affatto la base dell’emozione d’arte. La


base dell’emozione d’arte è un'idea - un’idea d’equi¬
librio, di convenienza, di operazione di credito, di
perfezione, di verità - che l’opera d’arte suscita in voi;
idea che poi provoca, presso alcuni privilegiati assai
eccezionali, un’emozione particolare, detta emozione
d’arte ».
Se a un altro accadesse di parlare dell’imitazione,
mostrerebbe senza scomporsi ch’è ottima ginnastica
espressiva, che Michelangelo e Goethe e Montaigne
non ebbero paura di praticarla, ch’è un pregiudizio
aver paura delle influenze, e giunto a questo punto
concluderebbe, più che mai sorridente: « Chi teme le
influenze e vi si rifiuta, ne è punito in questo modo
magnifico: non appena vi segnalano un pasticcione,
cercatelo tra la gente della sua specie, non sbaglierete.
- Essi non stanno a modo davanti alle opere altrui.
Per il loro timore, questi tali si fermano alla superfìcie
dell’opera; la gustano a fiore di labbra. - Ciò che essi
vi cercano, è il segreto tutto esterno (credono essi)
della materia, del mestiere — ciò che precisamente non
esiste che in intima e profonda relazione colla perso¬
nalità stessa dell’artista, ciò che dei suoi beni resta il
bene più inalienabile ».
Se un terzo si mettesse a discutere dell’attuale ma¬
rasma, invocherebbe il ristabilimento d’un valore me¬
tafisico del buono, del bello, del bene, butterebbe sul¬
la bilancia l’assoluto, spolvererebbe le tavole delle leg¬
gi supreme, eterne della ragione.
Se s’affacciasse a un quarto la quistione dell’Ameri¬
ca e dell’Europa, farebbe le seguenti premesse: « Par¬
lo del petrolio come dell’esempio più buffo di questa
politica nuova (americana). Non basta forse una sintesi
per abolire il diritto divino del petrolio e degli atten¬
tati commessi in nome di questo dio fetente? La chi¬
mica guasta tutti i giorni questa politica della mate¬
ria. La politica è degli Stati Uniti; la chimica, del-
Scritti letterari 1918-1936 219

l’Europa. Mi servo di questo simbolo semplice e faci¬


le, per meglio segnare la diversità dei due mondi. Le
nazioni della scienza, della poesia, e degli dei, ridotte
schiave da un olio o da un minerale, nulla conviene
meno all’Europa, quale è stata formata da cinque o
diecimil’anni di cultura, che le viene d’Atene, da Sion,
da Roma e da Parigi. Il Principio Europeo tende a ri¬
svegliare la coscienza di questa cultura vivente dove
s’è addormentata, a rinfrancarla dov’è rimasta viva. È
la cultura umana, che ha creato lo spirito umano ». E
fatte le premesse che avete udito, concluderebbe: « La
Francia e la Germania devono essere gli agenti invin¬
cibili dell’unità spirituale dell’Europa, se vi tendono
insieme ».
Ed ora le successive generazioni. Toccano i proble¬
mi del linguaggio? È per rilevare nell’avventura delle
parole, stranissime sconcordanze tra psicologia e logi¬
ca; è per rilevare quanto minimo sia, il dominio del¬
l’uomo sullo stesso mezzo che gli è più proprio, e del
quale, in un certo senso, egli, l’umanità, è creatura; è
per desiderare con disperazione più esatti, più sinceri,
più sindacabili rapporti nell’uso della parola.
A chi parla di metafisica, oppongono che il mondo
si perde per mancanza d’una mistica, ed esigono dal¬
l’immaginazione che la restituisca agli uomini.
Per essi, la maggiore umiliazione patita dal popolo,
è nel privilegio culturale che detengono le classi ab¬
bienti.
Essi sentono che l’uomo, nell’illusione di conquistar¬
si sempre più vasto respiro di libertà, s’è foggiato colla
macchina, lo strumento della propria rovina. Disuma¬
nissima, trasformando l’economia, moltiplicando e di¬
latando, per il suo stesso crescente imperio sulla ma¬
teria, all’mfinito le esigenze materiali, essa, nello svi¬
luppo iperbolico della sua corsa, tutto, e per primo
l’uomo, riduce in servitù, sotto il suo rullo. E con spa¬
vento e ansia intravedono solo in una guerra generale
220 Giuseppe Ungaretti

qualche possibilità di liberazione. Si lasciano travolge¬


re nella follia della vita d’oggi, con il rimpianto e il
miraggio d’un’umanità semplice e antica.

Nell’Antologia di cui ho cercato di dare un’idea,


mancano, come in quelle della prosa e della poesia, al¬
cuni nomi significativi. Non vuol dire. Così com’è, è
libro raccomandabile. Chi vorrà conoscere non super¬
ficialmente la Francia contemporanea, troverà in esso
un’ottima guida.
NOTES ET PENSEES
[DE GIACOMO LEOPARDI]
[1930]

Il me semble étrange et singulier qu’un homme mort


depuis un siede ait su exposer, comme l’a fait Leopar¬
di, nos propres tourments, nos illusions et leurs origi-
nes, avec une lucidità étendue. On a le sentiment, en
le lisant, que la pitie, qui lui permettait de soulever
cruellement de tels voiles, devait ètre immense.
Leopardi savait que notre psychologie est irrémédia-
blement chrétienne; le Christ nous a enseigné à consi-
dérer le monde comme étant le mal, et nous n’avons
plus rien en partage que ce mal. Du christianisme il
ne nous reste que la psychologie: un sens du mal si
aigu que l’innocence elle-méme ne nous semble pou-
voir ètre obtenue que par le repentir, c’est-à-dire par
le prolongement indéfini du péché.
Le désespoir, que Leopardi décrit, avait longtemps
muri avant d’éclater aux xvme et xixe siècles. Les
historiens font à ce sujet, je le crains, maintes con¬
fusione. Dans le traité Monarchia de Dante, Voti ap-
prend ainsi non seulement quau xme siede la re-
ligion et la politique s’accordaient mal, mais encore
que l’unité morale de l’Ocddent était en danger. Un
homme aussi clairvoyant que Dante ne poursuit pas à
la légère Boniface Vili de sa baine. Plus tard, le Quat¬
trocento donne à la nature et à la beauté réapparues
un seul nom: « Le diable qui s’est fait chair ». Michel
Ange, aussi incapable de renoncer à Platon qu au
Christ, pris'd’un amour égal pour la chair illusone et
Vesprit racheté, s’efforce en vain de découvrir la face
de la divinità dans un monde, plein de germes de
222 Giuseppe Ungaretti

corruption. Il ne saura que déchaìner, dans le cri de


ses Pietà, son enfer intérieur.
Chaque homme est bien près’ d’ètre enjermé dans la
solitude de son propre esprit, d’ètre muré dans la
prison de la matière, c’est-à-dire dans la relativité,
quand un homme comme Pascal ne trouve plus à
proférer, dans la société des hommes, que cet aveu
dédaigneux: le monde est l’ceuvre de l’imagination.
Giuseppe Ungaretti

Ma mère disait une fois au petit Pierre qui pleurait


parce que Louis avait jeté son roseau par la fenétre:
« Ne pleure pas, ne pleure pas; de toute fa$on je te
l’aurais jeté, moi ». Et il se consolait, puisque aussi
bien dans un cas comme dans l’autre, son roseau était
perdu. Remarquer cet effet commun chez les hommes,
et cet autre effet analogue: quand nous nous persua-
dons qu’il n’était pas en notre pouvoir d’obtenir un
bien, ni d’éviter un mal, nous nous consolons et nous
n’y pensons plus. Ainsi nous tàchons de nous persua¬
der que le bien ou le mal échappaient à notre prise et
si nous n’y parvenons pas, nous sommes désespérés.
Pourtant le mal de toute fa?on demeure ce qu’il est.

L’homme ne remarque jamais avec précision le point


où il s’endort, quelque volonté qu’il en ait. Or, si le
sommeil n’est pas la fin de la vie, il en est du moins
l’interruption, et comme une image de cette fin: si
l’homme ne peut distinguer le point où ses facultés
vitales restent comme suspendues, il le peut beaucoup
moins encore sans doute quand elles sont détruites.
Peut-étre me dira-t-on que le moment où l’on s’endort
n’est pas un point, mais un espace plus ou moins
étendu, un progrès plus ou moins rapide; ainsi de la
mort. Il est certain èn tout cas que les moments qui
précèdent immédiatement le sommeil, et, quoiqu’il soit
Scritti letterari 1918-1936 223

imperceptible, le point ou l’espace où l’on s’endort


définitivement, sont agréables. Cela méme quand la
cause du sommeil, - langueur, fatigue, maladie, ou
simple faiblesse - n’est pas agréable, loin de là; c’est
pourquoi les moments les plus éloignés du sommeil
sont pénibles. Et mème la léthargie provenant d’une
infirmité, fut-elle mortelle, est délicieuse. Que la tor-
peur soit agréable, je Fai déjà note dans ma théorie
du plaisir et j’en ai donne la raison.
Partant de Jà, le napolitain Cyrille a admis que la
mort offrait je ne sais quel agrément. Je suis entière-
ment d’accord avec lui sur ce point; et je ne doute pas
que l’homme (comme tout animai) n’éprouve un cer-
tain soulagement et une sorte de plaisir dans la mort.
Ce n’est pas que les causes de la mort - et par consé-
quent les moments les plus éloignés d’elle - soient
nécessairement agréables, mais les moments qui la
précèdent immédiatement et le point mème, l’espace
imperceptible et insensible où elle tient ne peuvent
manquer de l’ètre. Et cela dans n’importe quelle ma¬
ladie, mème dans les plus aigués, celles où Buffon
semble admettre que la mort est douloureuse. Je dirai
plus, la torpeur de la mort doit ètre d’autant plus
délicieuse que les peines qui la précèdent et dont elle
nous libère, sont plus violentes. Quant aux maladies
où l’homme s’éteint peu à peu et garde jusqu’au bout
toute sa connaissance, il est certain qu’elles ne présen-
tent pas de moment si proche soit-il de la mort, où
l’homme mème le plus désabusé ne se puisse promettre
une heure au moins de vie, ainsi qu’on le sait des
vieillards. Ainsi la miséricorde habituelle de la nature
fait que la mort n’est jamais trop près de la pensée du
moribond. D’ailleurs la torpeur de la mort est en
général mieux acceptée que celle du sommeil, car elle
suit un tourment bien plus violent. Le sommeil, je
Fai déjà dit, n’est jamais pénible, méme s’il est produit
par des peines, et des angoisses vives (comme des
224 Giuseppe Ungaretti

fièvres brulantes, etc.). Bien souvent, me trouvant jeté


dans des tourments physiques ou moraux fort graves,
je n’ai pas seulement désiré le’ repos, mais mon àme,
sans effort et sans héroisme, se plaisait à l’idée d’une
insensibilité à jamais, d’un -repos, d’une inaction con¬
tinue de l’àme et du corps; ce que ma nature souhaitait
en de tels moments, la raison me le nommait expres-
sément: mort; et cette mort ne m’épouvantait pas. De
très nombreux malades, qui ne sont pas héro'iques ni
mème courageux, mais très timides, ont désiré et dési-
rent la mort dans leurs grandes souffrances et l’idée
de cette mort leur fait éprouver un grand repos -
repos qui serait plus grand encore si l’idée de la mort
n’était accompagnée d’une crainte de l’avenir et de
mille autres sentiments étrangers, qui n’ont rien à voir
ici. Pour moi, je ne pensais pas sans plaisir que mon
repos serait éternel; je n’aurai pas à retrouver en me
réveillant, me disais-je, les mèmes tourments dont
j’étais las.

Il n’est peut-ètre pas une personne au monde si


indifferente à notre esprit que ses adieux, lorsqu’elle
part et nous abandonne, et dit: « Nous ne nous rever-
rons jamais plus », ne nous donnent une sensation
plus ou moins pénible, pour peu que nous ayons du
cceur. L’horreur et la crainte que Phomme éprouve
pour le néant, d’une part, et de l’autre pour l’éternité,
se manifestent, à tout moment, et ce jamais plus ne se
peut entendre sans émotion.
Il faut observer les réactions naturelles sur les per-
sonnes naturelles, et non encore adultérées - ou qui le
sont à peine. Tels les enfants: l’on peut encore remar-
quer et analyser aujourd’hui en eux des qualités, des
inclinations et des affections véritablement naturelles.
Quand j’étais enfant, j’avais cette habitude: lorsque
je voyais partir une personne, mème indifférente, j’exa-
minais s’il était possible ou probable que je pusse
Scritti letterari 1918-1936 225

jamais la revoir. Si je pensais que non, je me mettais


alors à la regarder et à l’écouter, je la suivais des yeux
ou des oreilles le plus longtemps que je le pouvais,
retournant toujours en moi-mème, enfon^ant dans
mon àme, et développant dans mon esprit cette pen¬
sée: « C’est la dernière fois, je ne la verrai jamais plus;
je ne la verrai peut-ètre jamais plus ». C’est ainsi que
la mort d’un homme que je connaissais et qui durant
sa vie ne m’avait jamais intéressé, me faisait de la
peine, non pas tant à cause de l’homme lui-mème,
que pour cette seule considération que je ruminais
profondément: « Il est parti pour toujours. Pour
toujours? Oui: tout est fini pour lui; je ne le verrai
jamais plus; et tout ce qui le touche n’aura plus rien
de commun avec ma vie ». J’essayais de me rappeler
la dernière fois que je l’avais vu ou entendu; je re-
grettais de n’avoir pas su alors que c’était la dernière
fois et de n’avoir pas agi en conséquence.

Le meilleur usage et le meilleur effet de la raison


et de la réflexion sont de détruire ou tout au moins
d’atténuer dans l’homme la raison et la réflexion, ains'i
que leur usage et leur effet.

L’homme déteste l’homme par nature et de toute


nécessité; il est donc par inclination, comme les autres
animaux, hostile à tout système social. Et comme l’on
ne parvient jamais à vaincre tout à fait la nature,
nous voyons qu’aucune république, aucun principe ou
forme de gouvernement, aucune législation, aucun
ordre,. aucune contrainte morale, politique, philoso-
phique, tenant à l’opinion, à la force, aux circonstan-
ces, au climat, etc., n’a jamais suffi, ne suffit et ne suffi-
ra jamais à imposer à la société une marche souhaita-
ble, et à soumettre les relations entre hommes aux
règles de ce qu’on appelle droits sociaux et devoirs de
l’homme envers l’homme.
226 Giuseppe Ungaretti

£es philosophes anciens se fiaient à la spéculation,


à l’imagination et à l’entendement. Les modernes se
fient à l’observation et à l’expérience (telle est la diffé-
rence essentielle entre la philosophie ancienne et la
philosophie moderne). Or, plus les philosophes obser-
vent et plus ils découvrent d’erreurs chez les hommes,
- erreurs plus ou moins anciennes, plus ou moins uni-
verselles, propres au peuple, aux seuls philosophes ou
bien à tous à la fois. Ainsi l’esprit humain fait des
progrès: mais les découvertes fondées sur la simple
observation des choses ne font guère que nous con-
vaincre de nos erreurs et des fausses opinions que no-
tre propre entendement naturel ou cultivé et (comme
on dit) instruit, créait et composait. L’on ne va pas
plus loin. Chaque pas de la sagesse moderne nous ar-
rache une erreur, mais ne forme aucune vérité (alors
mème que nous appelons de ce nom des propositions,
des dogmes ou des systèmes essentiellement négatifs).
Si l’homme n’avait point fait d’erreurs, il serait donc
très savant déjà; il serait parvenu à ce but vers lequel
la philosophie moderne s’avance avec tant de sueurs
et de peines. Or, celui qui ne raisonne pas ne fait pas
d’erreurs. Donc celui qui ne raisonne pas - ou, pour
le dire à la frangaise, celui qui ne pense pas - est
très savant. Donc les hommes avant l’apparition de la
Science et du raisonnement sur les choses étaient très
savants: l’enfant est très savant et le sauvage de la
Californie, qui ne sait point ce qu’est penser.

Il paraìt que les fous ont une force extraordinaire


à laquelle un homme ordinaire ne peut résister. L’on
croit que c’est leur maladie qui leur donne une telle
force, au contraire de toutes les autres infirmités. Mais
il me semble probable qu’elle vient de ce que rien
en eux-mèmes ne les retient d’employer toutes leurs
forces naturelles. Exactement comme il arrive aux ani-
maux. J’en déduis ceci: combien d’animaux, que l’on
Scritti letterari 1918-1936 227

dit plus forts physiquement que l’homme, ne doivent


pas Tètre en réalité! que de forces ne doit pas avoir
perdues l’homme par le progrès de son esprit, - non
seulement parce qu’il a radicalement perdu les unes,
mais aussi parce qu’il se trouve retenu d’employer les
autres! Et combien l’homme, mème corrompu et affai-
bli, demeure plus fort qu’il ne le croit! Les fous en
sont la meilleure preuve, eux qui l’emportent souvent
par leur force physique sur' des hommes beaucoup plus
robustes qu’eyx, et sur des animaux qui passent ordb
nairement pour vaincre l’homme dans les corps à
corps. L’ivresse accroìt les forces non seulement par
son effet direct, mais aussi de fa?on indirecte en em-
pèchant ou troublant l’usage de la raison. Aucun hom-
me mème irréfléchi, enfant, sauvage, ou désespéré (et
par expérience, on voit pourtant que tous ceux-là ont
ou plutòt montrent à proportion beaucoup plus de
force que les types d’hommes opposés) n’emploie -
fut-ce dans les besoins les plus pressants, ou dans les
dangers les plus grands - les forces qu’il possède sous
toutes leurs formes et dans toute leur étendue, s’il
n’est tout à fait privé de la raison ou s’il ne suspend
du moins son usage. Il n’en va pas de mème des ani¬
maux: certes, ils épargnent une part infiniment plus
petite de leurs forces, et mème dans les dangers, les
besoins, les désirs, les desseins les plus modestes, que
n’en épargne l’homme mème le plus désespéré, etc.,
dans les plus grands.

L’homme serait tout puissant s’il pouvait étre déses¬


péré toute sa vie, ou du moins pendant un temps assez
long; c’est-à-dire si le désespoir était un état qui put
durer.

Mettez-vous à rire fort et franchement à propos de


n’importe quel sujet, mème insignifiant, en parlant
avec une ou deux personnes dans un café, dans un
228 Giuseppe Ungaretti

salon, dans la rue; tous ceux qui vous entendent ou


vous voient rire ainsi tournent les yeux vers vous, vous
regardent avec respect, se taisent, s’ils parlaient et
restent comme mortifiés; ils n’oseront jamais rire de
vous; s’ils paraissaient auparavant hardis et orgueil-
leux, ils perdront envers vous toute hardiesse et tout
orgueil. Enfin, ce simple rire haut vous donne une
supériorité decisive sur tous ceux sans exception qui
se trouvent devant vous ou vous entourent. Terrible
et awful est la puissance du rire; celui qui a le courage
de rire est maitre d’autrui comme celui qui a le coura¬
ge de mourir. _
Giacomo Leopardi
(Traduit par Giuseppe Ungaretti)
IDEE E LETTERE DELLA FRANCIA D’OGGI
[1930]

PERCHE SCRIVETE VOI?

Nel 1919 o nel 1920, non ricordo bene, tre giovani,


che avevano sì e no 20 anni, Breton, Aragon e Sou-
pault fondavano una rivista patrocinata da Paul Va¬
léry. Era una rivistina, composta d’una trentina di pa¬
ginette oblunghe, e sulla copertina gialla non portava
che il titolo in minuscole grasse, sottolineato con du¬
rezza: littérature. Il titolo era stato scelto da Valéry,
e voleva essere un titolo ironico.
Se ricordo questa rivista e quegli anni, è perché
spesso gli avvenimenti che passano alla storia sono
quelli dei quali il pubblico fa meno caso. E difatti
littérature non solo rese palese lo stato d’animo di
quel momento; ma dalle discussioni ch’essa promosse,
ebbe origine una scuola, il surrealismo, la quale, sia
per le reazioni che andò e va determinando, sia per
le opere che produsse e promette di produrre, già go¬
de di largo credito.
Tra le tante iniziative di littérature, ce ne fu una
specialmente sintomatica. Agli scrittori d’ogni scuola,
e specialmente agli anziani, fu rivolta una domanda
impertinente: « Perché scrivete voi? ».' Tra le tante
risposte, un buontempone disse, e mi pare fosse Max
Jacob: « Per scrivere sempre meglio »; ma in mag¬
gioranza, fiore di firme, ammise che scriveva per di¬
sperazione, oppure per debolezza, altri parlò di dove¬
re, e non mancò gente di faccia tosta che dissero di
farlo per mangiare.
Quanti hanno provato a raccapezzarsi nella recente
letteratura francese, sono stati costretti a pensare ai
risultati d’un’inchiesta così insolita, e sopratutto a ri-
230 Giuseppe "Ungaretti

ferirsi ai due primi saggi che ne tenevano conto con


acume, dovuti a Jacques Rivière e a Marcel Arland, e
pubblicati nel secondo numero del 1924 della « Nou-
velle Revue Frangaise ».
Diceva Arland: « C’è un oggetto che m’interessa
prima d’ogni letteratura: me stesso. Cerco d’avvicinar-
mi a quest’oggetto con i mezzi più puri che riesco a
trovare. La letteratura, ch’è di tali mezzi il migliore,
non ci seduce più se non nelle sue relazioni con noi
stessi, e secondo l’influenza che può avere su di noi.
« ...Non concepisco letteratura senza etica. Non c’è
dottrina che possa soddisfarci, ma il nostro tormento
è l’assenza di dottrina.
« ... Tutti i quesiti che possiamo proporci, ci ricon¬
ducono a un unico problema: quello di Dio. Dio, eter¬
no tormento degli uomini, sia s’ingegnino a crearlo
sia a distruggerlo: la sua permanente presenza spiega
l’opera di Racine; la sua ricerca, quella di Rousseau;
lo sforzo, delle passioni per nasconderne l’assenza,
quella di Stendhal. Ma una mente dove la distruzione
di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il pro¬
blema divino, con che cosa colmerà il vuoto lasciato
in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti man¬
tiene spalancato? »
Nella sua replica Rivière rilevava che non mai epo¬
ca fu tanto lontana quanto la nostra dalla pratica del¬
l’arte per l’arte. E notato come col romanticismo si
fosse incominciato a concepire l’atto letterario come
una specie di tentativo sull’assoluto, e il suo risultato
come una rivelazione, e come da quel momento la
letteratura avesse raccolto l’eredità della religione e si
fosse organizzata sul modello di ciò che sostituiva, chia¬
mava tutta la letteratura del secolo decimonono un
vasto incantesimo, rivolta com’era verso il miracolo.
« Mi sembra » proseguiva Rivière « che noi assistia¬
mo oggi alla crisi di questo concetto. I giovani conti¬
nuano ad essere tormentati dal bisogno d’assoluto che
Scritti letterari 1918-1936 231

l’età precedente ha lasciato in essi, ma nello stesso tem¬


po essi sentono un’impotenza radicale a produrre qual¬
che cosa nella quale essi abbiano fede, che appaia loro
come qualche cosa che ci superi, come una creazione
paragonabile alle creazioni di Dio. Di qui questo scet¬
ticismo furioso e dogmatico che si vede in alcuni di
essi, di qui la loro domanda ironica agli anziani: “Per¬
ché scrivete voi?”. »
Ecco esposto un grave malessere. Gli uni non conce¬
piscono letteratura senza fondamenti etici, e poi vedo¬
no nei loro cuori che il sentimento di Dio, fondatore
unico di morale, è fuggito. Esuli, chini sul loro dram¬
ma, colle cinque miserie dei loro cinque sensi, essi al¬
zano la letteratura come lo specchio crudele d’un ri-
volgimento che li supera e che conduce tutta una civil¬
tà verso la sua rovina o verso la sua resurrezione.
Alcuni altri, romanzieri anch’essi, richiamano ai limi¬
ti delle possibilità letterarie. S’è vero che oggi l’opera
letteraria non può più attribuirsi semplicemente, come
ai tempi di Molière, lo scopo di divertire l’uomo di
buona creanza; s’è vero che dall’opera letteraria si esi¬
ge oggi che sia una scoperta, e che non ci s’accontenta
più d’una felice combinazione di parole intorno a un
sentimento o a un’idea già noti; è anche vero che l’og¬
getto della letteratura sarà sempre quello di fornire
delle informazioni, formulate con felicità, e tratte dal¬
l’esperienza individuale, sull’uomo, sulla vita, sul no¬
stro viaggio quaggiù. Senza credere all’eternità dell’o-
pere letterarie, si tratta di prolungare il più possibile
la vita di certi esseri e di certi pensieri.
La differenza tra gli uni e gli altri è minima, ma va
fatta risaltare. Gli uni pongono il proprio io come
riflesso d’una crisi sociale e religiosa, della quale la
letteratura, essendone la diagnosi più esatta e spietata,
è fattore; gli altri, partendo dal principio di relatività,
si limitano a rappresentare un momento umano, qual¬
che sussulto d’un flutto.
232 Giuseppe Ungaretti

In mezzo agli uni e agli altri, per la sua influenza,


vorrei situare André Gide. Non entrerò ora nel dedalo
del pensiero di Gide sul cristianesimo. E sarà pensiero
protestante, e ora poco importa. Egli è sempre portato,
e riconoscendo contenuto nel Vangelo l’ideale più alto,
ad avvertire la pura pratica della morale, cristiana in
dissidio colla norma sociale, coll’umana natura. Così
sentirono molti santi. Non voglio fare di Gide un san¬
to. Ma a quel problema del male che nella letteratura
francese da Pascal in qua ha tanta virulenza, egli vuol
dare termini, - se m’è permesso d’usare un aggettivo
così contraddittorio, - ottimisti. Di psicologia, estrema-
mente cristiano, cioè attento ai conflitti, alle inquietu¬
dini, agli scrupoli che l’idea, il sentimento, il gusto
del peccato possono muovere in lui, in una lettera
a Montgomery Belgion (« Nouv. Rev. Fran$. », l°-2-
1929), così fissava la sua posizione: « Credo che spes¬
so, ciò che la società chiama il male (quel male al¬
meno che non è il fatto d’una semplice carenza, ma
una manifestazione d’energia) ha maggiore virtù edu¬
catrice e iniziatrice di ciò che dicono il bene. Ma ciò
richiederebbe d’essere svolto, e ricondotto (subordina¬
to) a altre considerazioni; questa, in particolare, che
da giovane già intravvedevo: ed è che noi abbiamo
tendenza a situare troppo in alto la quota “umanità”;
che l’uomo non è interessante, importante, degno d’es¬
sere venerato per se stesso; che ciò che invita l’uma¬
nità al progresso (e credo fermamente nel progresso,
e sin qui non ce n’è stata presentata che una specie
di caricatura) è proprio di non considerare se stessa
come un fine - né i suoi agi, né il suo riposo soddi¬
sfatto - ma bensì come un mezzo mediante il quale
e attraverso il quale, può giuocarsi ed attuarsi qualche
cosa che la superi ».
In opposizione ai surrealisti e ai gidiani, ai quali il
nome di neoumanisti forse converrebbe (se non altro
per indicarne le aspirazioni; e per indicare il punto
Scritti letterari 1918-1936 233

d’origine dell’attuale tormento; non invano Gide invo¬


ca a modello Montaigne), andrà studiata l’azione cat¬
tolica guidata da Maritain, il quale, in tutta quest’a¬
gitazione, sente una straordinaria forza spirituale e cer¬
ca d’incanalarla nella purezza e nell’ordine, retroce¬
dendo dall’umanesimo nella scolastica.
Ma insieme ai problemi dell’ispirazione, ci sono quel¬
li della forma. André Berge nel suo saggio pubblicato
dalla « Revue des deux mondes » (1° agosto, 1° e 15
settembre, 1° ottobre 1929) ha esaminato la febbre
d’attualità della letteratura moderna. Nello scrittore
non ci sarebbe più alcuna preoccupazione di resistere
al tempo, ma di aderire al tempo, e quindi la ricerca
della novità e dell’originalità a danno della perfezione,
e quindi il desiderio del successo con rinunzia alla glo¬
ria, e quindi decadimento, sfacelo della forma, il cri¬
terio di sorprendere avendo sostituito quello di fare
cosa bella. La quistione così è posta male. Avremo
occasione a tempo debito di parlare di Bergson, di chie¬
derci se non è sempre stato nell’indole delle lettere
francesi di correre dietro ai mutamenti. Questa qui¬
stione è stata affrontata a fondo da Jean Paulhan
(« Commerce », estate 1928) dimostrando quanto fosse
stata pericolosa dal romanticismo in poi la pretesa di
emancipare lo spirito dalla rettorica, e come essa aves¬
se portato all’immancabile castigo della prevalenza do¬
vuta dare alla lettera e come essa avesse reso sempre
più ingombranti le successive rettoriche, e sempre più
effimere, portando il disordine nel gusto, affievolendo
la capacità riflessiva, togliendo magistero alla critica.
Comunque stiano le cose, e riservandoci d’esamina¬
re un’altra volta l’esatta portata del giudizio di Pau¬
lhan, bisogna ammettere che per lo scrittore francese
la cura della forma, a qualsiasi scuola appartenga, lo
voglia o meno, lo confessi o lo dissimuli, è ancora un
punto sul quale si dimostra intollerante, e scrivere be¬
ne è per lui, direi, un obbligo non superabile di pulizia
234 Giuseppe Ungaretti

molale. E se da un lato, dietro istigazione di Valéry,


l’atto letterario veniva considerato con ironia, proprio
in quegli anni, Valéry stesso datfa alle stampe Charmes,
un’insigne testimonianza di paziente corte alla poste¬
rità. E Valéry, dando tanta importanza alla rima, a
ogni scaltrezza tecnica, all’eleganza dello stile, non è
in questo senso molto lontano da Maurras che, per il
gusto e l’onore delle lettere francesi, si sentiva in do¬
vere di rimproverare a un tale il cattivo uso ch’egli
aveva fatto della strofa di ballata « formata d’un’ot-
tava, e non d’un paio di quartine male accoppiate ».
E se, mentre Valéry rimaneva fedele al suo razio¬
nalismo, rigoroso e tale che lo porta a diffidare persino
della storia, materia sibillina, non meno aleatoria delle
profezie, in Breton e nei suoi seguaci è andata accen¬
tuandosi proprio quell’infatuazione dei romantici cui
alludeva Rivière, nonostante ciò nessuno negherà che
le sue opere siano anche troppo modelli di bello scri¬
vere.
Il dissidio oggi insanabile tra Valéry e i surrealisti
consiste nel fatto ch’essi considerano il linguaggio, lu¬
cida visione, negando la legge del discorso, senza riu¬
scire, come s’è visto, a eluderla, considerando il lin¬
guaggio fuori della realtà raziocinabile, come rivelazio¬
ne d’un mondo allucinante, nel quale l’uomo è tuffato;
ed egli crede la mente umana tesa a ridurre sempre
più lo spessore del mistero; ma l’uomo, per l’opera
della conoscenza, non dispone se non di parole, cioè
di complessi di simboli: il linguaggio poetico, il lin¬
guaggio matematico, ecc.; ogni scoperta, ogni avanza¬
mento, ogni rivolgimento, è in questo mezzo precario,
è nel linguaggio, è di linguaggio. Ed è dando tanto
peso a prontuari, agli ostacoli che oppongono con la
loro logica inerte, che la mente si fa agile e può tro¬
vare nell’infimo espediente, in una rima, uno scatto
di pensiero per chiarire a se stessa un po’ più il
mondo.
Scritti letterari 1918-1936 253

Riepilogando, e per quanto le classificazioni, e non


abbiamo fatto altro in queste note, siano sempre arbi¬
trarie, e per quanto nella letteratura d’una nazione le
tendenze s’intreccino, e si contaminino, e una bruci
l’altra, e a vicenda s’illuminino, dal ’19 ad oggi, la
letteratura francese, s’è forse delineata come segue:
a) un’impazienza d’azione che porta a condannare
la letteratura, da parte degli stessi letterati, come un
ripiego;
b) un impiego nuovo del romanzo che ha di mira
la trasformazione dell’uomo e intende concorrere ad
affrettare il crollo d’un mondo ritenuto decrepito, mar¬
cio;
c) una poesia (intendo il surrealismo, i surrealisti
ortodossi e quelli scismatici) che interpreta il mondo
portando alle sue estreme illazioni il processo di decri¬
stianizzazione apertamente e deliberatamente mandato
avanti dal 700 dalla filosofia europea; una poesia che
trae motivo, non senza crudele umorismo, da uno spi¬
rito ricondotto agli stretti limiti materiali, che non
s’alimenta se non del mistero della materia posta al
di là del bene e del male; tratta con squisitezza una
violenza verbale, non senza convinzione della sua qua¬
si inanità, e non appaga un evidente tormento d’espres¬
sione religiosa; un mondo oltremodo irrisorio basato
sul rapporto tra inconscio, fine scrittura, immaginazio¬
ne, gergo hegeliano. Pare incredibile che c’entri anche
Hegel, non a chi sappia che da più d’un secolo non
esce arte poetica dovuta a un poeta nella quale non si
senta il volo fantastico di quel filosofo;
d) l’azione cattolica;
e) e infine, se dobbiamo credere che nel pensiero,
nella poesia, nell’arte e nella vita francese si presen¬
tano sempre due correnti, a volte unite drammatica-
mente in una sola persona, una corrente mistica e sov¬
vertitrice, quella medesima che porterà Pascal a consi¬
derare tutto, salvo la morte, « cose dipinte », e una
236 Giuseppe Ungaretti

corrente che crede al rimedio perenne della natura, una


corrente che, se non lieta, è serena, che nella contem¬
plazione del creato trova armoniosi pensieri; se dob¬
biamo credere a queste due correnti nelle nostre inda¬
gini, dovremo fare un posto, come faremo, ai caratteri
regionali. « I caratteri etnici » scrive Léon Daudet « so¬
no durevoli quanto quelli organici e somatici. La Roma
di Mussolini, per chi l’osservi con occhio obbiettivo,
presenta singolari analogie colla Roma di Cesare e di
Siila, e il linguaggio che tiene spontaneamente il Du¬
ce ricorda, tratto per tratto, quello dei suoi illustri
predecessori. Nei limiti dell’orizzonte storico - che
non è quello della paleontologia - i popoli non cam¬
biano mai. Solo i primati la pensano diversamente. »
E dovremo fare un posto, nel romanzo e nella poesia,
a quella corrente che direi mistraliana, corrente medi-
terranea e meridionale, epica e cortese, suscitatrice di
miti, amante d’alberi, d’acque, di cieli, di donne, d’un
mondo buccolico e eroico, del misero mondo pelle¬
grino sotto illusioni divine.
II
L’UOMO BUIO

I poeti dei quali più si parla in Europa nel dopoguer¬


ra sono Blake, Hòlderlin, Leopardi e Lautréamont. (Li
metto in ordine di nascita: 1757, 1767 e 1798 i tre
primi; morti nella prima metà deH’800.)
Il motivo di quest’interesse è d’un genere che oltre¬
passa il fatto letterario. Il giudizio del critico, sup¬
pongo, non può cadere che sulle forme, su organismi
di parole volti a suggerire un’identità con quell’ordine
universale che il poeta sotto esame sente e immagina.
E siccome universo e ordine sono soggetti a mobilità
d’interpretazione, il critico non sarà sicuro che del suo
giudizio sulla forma, e la sua fatica, per non essere
vana, sarà spesa a stabilire in quali termini una for¬
ma è cosa unica. Potrà estendere, per semplice como¬
dità discorsiva, la sua attenzione all’evoluzione delle
forme e allo stile d’un’epoca intera. E anche vedere
come l’animo, attraversando le forme, le riduca a sé, e
le diversifichi da un poeta all’altro, da un momento
duna poesia all’altro. Ed anche in questo moto, e sia
lo spazio del tempo il più lato possibile, affinché l’on¬
da del ritmo dominante non sia difficile a scorgersi,
solo la forma è garante.
Ma oggi è diffuso, specialmente in Francia, un altro
modo di pensare. Prima di conoscere la novità d’un’e-
spressione, e la sua opera nell’espressione d’altre indi¬
vidualità, e quanto essa, nel secondo caso, trasporti di
quel riflesso meccanico chiamato dai Francesi procédé
(manierismo, direi), e quanta di quella curiosità senza
fondamento, di quella frivolità variabile, di quei ca¬
pricci, di quella civetteria salottiera, di quell’insieme
238 Giuseppe Ungaretti

di leggerezza, di presunzione e d’invasamento ch’è lo


snobismo; prima di mettere allo scoperto l’autenticità
estetica d’un’opera, si vuole sapere se anche davanti a
un fatto letterario, non dobbiamo dare la precedenza
all’animo umano, riconoscendogli validità indipenden¬
temente dalla forma, considerando la forma come una
servitù, e il grado della servitù imposta proporzionato
alla maggiore rarità, preziosità, particolarità della for¬
ma. In questo caso il valore individuale d’un autore
non significa più gran che; esiste invece lo stato del¬
l’animo umano, in senso generale, d’un dato momento,
reso palese a se stesso, cioè materializzato in un certo
senso, da un dato fatto letterario. Che questo fatto
letterario, per esempio, possa non essere con esattezza
avvertito dai contemporanei dell’autore, e a volte deva
attendere un secolo per inserirsi largamente nel tempo
e manifestare slancio e visioni dell’uomo comune, si¬
gnifica ch’è solo inventato quando sillabe, colori, pie¬
tra, la materia ordinata dal singolo, sembrano distrug¬
gersi per dare sfogo alla poesia anonima; in altri ter¬
mini, una poesia non sarebbe vera che dopo persi i
suoi caratteri d’eccezione.
Questo quesito, non nuovo, s’affaccia, e credo do¬
verlo detto nell’articolo precedente,1 sarcastico agli
scrittori francesi d’oggi. Per capire bene questa posi¬
zione, s’aggiunga ch’è difficile trovare, almeno tra i gio¬
vani, scrittori che non siano, iscritti o no a un partito,
uomini di parte, e di parte, a destra o a sinistra, estre¬
ma. Come non accorgersi, essi pensano, della violenza
che rugge alle basi del mondo? La società conta più
dell’individuo; l’arte, la meditazione passano da una
sfera accademica a un turbine d’impulsi di natura poli¬
tica e religiosa. Non ci si lasci ingannare da certe appa¬
renze di cinismo. Esse sono spesso il pudore d’un’in-
terna rovina, indicibile.
Si tratta di quella posizione che Benda ha chiamato
il tradimento dei dotti, dimenticando che in certe ore
Scritti letterari 1918-1936 239

anche il dotto può sentirsi uomo, semplice uomo fra¬


tello dell’uomo, e sentire la vanità di quel metro d’oro
dei valori assoluti di cui lo dicono detentore.
Dicevo che il sopradetto quesito s’affaccia sarcastico;
e difatti il numero maggiore delle opere dei giovani
sono l’opposto, nonostante i proclami, della scrittura
ingenua, e non possono, sino all’aberrazione, sottrarsi
all’impronta dell’individuo.

S’è sempre provato disagio a rinchiudere Blake, Hòl-


derlin, Leopardi o Lautréamont nella prigione lettera¬
ria. Per un’allusione felice di Carducci a Lucrezio e a
Giobbe, che, nel rimuovere dalla letteratura il genio
leopardiano, ne illuminava un aspetto, quante stupi¬
daggini non ha fatto pronunziare all’800 l’impossibilità
di fare ammuffire la luce. E se Nietzsche molto impara
da Holderlin e da Leopardi, i cari pedanti non accor¬
gendosi della tragedia che c’era già addosso, o non
avendo la forte misericordia di accorgersene, li manda¬
vano tutti e tre al manicomio.
Sia detto senza intenzione di stabilire un paragone,
tra i quattro poeti. E dei quattro, forse il solo veg¬
gente vero è l’Italiano.

Questa nostra epoca è così a nudo tragica, giuoca il


tutto per tutto così temerariamente, dovere e libertà
si sono in noi fatti nemici così crudeli, che l’udienza
oggi data ai poeti, a quelli che ieri ancora chiamavano
pazzi, mi sembra cosa normale. Dirò di più: mi sem¬
bra cosa di ottimo augurio. Per gl’individui e per i
popoli, solo la vita tragica ha ore somme.

Un tormento morale d’un uomo, d’un popolo, che


senta il proprio isolamento, e nelle vene gli circoli
tanta storia - dite se vi pare, tanta coscienza - da giu¬
dicarsi responsabile del destino umano — non ne ha col-
240 Giuseppe Ungaretti

pa,' come non ha colpa l’uomo del giro tragico delle


stagioni; se non che umanità è sinonimo di volontà, e
di volontà di potenza - un tale tormento, mettendo
un uomo nella distanza tenebrosa, non so quale luce
profonda faccia oscillare. Altissima e azzurra.
Alludo all’Italia, e a Leopardi.
Ili
IL PASSATO DI LAUTRÉAMONT

Le notizie che circolano su Isidore Ducasse sono qua¬


si tutte false. Nessuna immagine dei suoi tratti fisici
ci è stata tramandata. Ci sono le poche frasi d’un ot¬
tuagenario, che fu suo amico, uno dei condiscepoli ai
quali dedicò Poésies. Vedremo in seguito l’importanza
di queste frasi di Paul Lespès, consigliere giubilato
della Corte d’Appello di Pau, riferite da F. Alicot nel
« Mercure de France » del l°-l-’28. E c’è una frase del¬
l’editore Lacroix.
Anche per evocare la persona morale di Lautréa-
mont, non abbiamo che la sua opera. Egli non è al di
sopra della sua opera, né ad essa inferiore. È un’opera
quasi esclusivamente tributaria della gloria ch’essa stes¬
sa va formandosi e dell’uomo ch’essa va plasmando.

Isidore Ducasse nacque a Montevideo il 4 aprile


1846, morì a Parigi il 24 ottobre 1870. Aveva 14 anni,
quando il padre, scritturale di cancelleria al Consolato
di Francia, lo mandò a studiare in patria. Non so co¬
me, e non importa saperlo, in America il padre aveva
fatto il gruzzolo, un bel gruzzolo se dopo un grave
dissesto potè lasciare agli eredi 300.000 franchi, pari
a 2 milioni d’oggi. Dico questo, non so da chi essendo
stata avanzata una congettura di indole economica per
giustificare la poesia di Lautréamont. Non può, mi pa¬
re, la poesia, né altro di sostanzialmente umano, di¬
pendere da cosa tanto esterna, come la povertà o la
ricchezza.
Convittore al liceo di Tarbes, poi a quello di Pau,
si fissò a i rigi nel 1866, a prepararvi l’esame d’am-
242 Giuseppe Ungaretti

missione al Politecnico. Da quella data alla data della


morte, i biografi, dopo molte ricerche, ci fanno sapere
che cambiava spesso d’albergo.
Nel 1868, sotto il nome di Comte de Lautréamont,
pubblica fuori commercio il primo Chant de Maldoror.
Nel 1869, l’editore belga Lacroix accetta di stampare,
a spese dell’autore, l’intero poema. Ma finito di stam¬
parlo, ha paura di metterlo in circolazione.
Perché questo nome di conte di Lautréamont? Per
malumore e spregio verso la borghesia, ch’era poi il
suo stato? Per raffigurarsi sarcasticamente nell’eroe di
un romanzo d’appendice?
Nel 1870, in due opuscoli fuori commercio, sotto il
proprio nome, Isidore Ducasse dà alla luce Poésies,
cioè una profanazione d’un tenore tale che lascia sup¬
porre alla maggioranza dei commentatori, non fosse af¬
fatto destinata ad essere seguita da altri discorsi. Ven¬
ne la morte. Non fosse venuta, avrebbe egli cercato,
per altre strade, come Rimbaud, quell’oblio di sé che
dà l’azione? Non gli sembrava potesse più chiudersi
quell’oblio, a combinazioni verbali, a un giuoco che a
furia di complicarsi, era ormai così scientifico, aveva
perso ormai ogni possibilità di segretezza, d’azzardo,
di misteriosa concezione?

« Giovanottone imberbe, nervoso, regolato nelle co¬


se sue, lavoratore » dice di lui l’editore Lacroix. Il
giudice emerito Lespès lo ricorda « giovanottone esile,
un po’ curvo, pallido; i capelli castani gli cadevano di
traverso sulla fronte; voce stridula, contegno grave e
sdegnoso ».
Léon Pierre-Quint che di recente ha pubblicato il
primo saggio critico completo su di lui {Le Comte de
Lautréamont et Dieu, « Les cahiers du Sud », Marseil-
le) teme che i ricordi di Lespès, sbiaditi da 60 anni,
siano stati modificati da una lettura ulteriore dei Canti.
Può darsi, ma un’informazione mi sembra esatta: dove
Scritti ' letterari 1918-1936 243

è detto ch’egli manifestava disgusto violento per le ver¬


sioni in esametri latini, specie per quella del famoso
passo del Pellicano di Musset. Se, come ritengo, fosse
esatta, essa ci darebbe la chiave di uno dei suoi modi
di trasformazione immaginativa. Infatti nelle Poesie si
legge: « Le nozioni della duplice ragione sono oggi ad
un punto tale oscurate, che il professore di quarta
quando insegna a fare i versi latini ai suoi scolari, gio¬
vani poeti il cui labbro è umettato dal latte materno,
la prima cosa, che fa è svelare loro per pratica il no¬
me di Alfred de Musset. Vi chiedo un po’, molto! Il
professore di terza, dunque, dà da tradurre in versi
greci, due sanguinosi episodi. Il primo, è il paragone
ripugnante del pellicano. Il secondo, sarà la catastrofe
spaventosa accaduta a un bifolco. A che prò guardare
il male? Non è in minoranza? Perché chinare la testa
d’un licealista sopra quesiti i quali, capiti male, l’han¬
no fatta perdere a uomini come Pascal e come Byron?
« Uno scolaro mi ha raccontato che un professore di
seconda dà, giorno per giorno, da voltare quelle due
carogne in versi ebraici. Quelle piaghe della natura ani¬
male e umana l’ammalarono per un mese, che passò
aH’infermeria. Conoscendoci noi, mi fece chiedere da
sua madre. Mi raccontò, ma con ingenuità, che le sue
notti erano turbate da sogni di persistenza. Gli pareva
di vedere un esercito di pellicani che gli piombavano
sul petto e glielo sbranavano. Poi riprendevano il volo
verso una capanna in fiamme. Mangiavano la moglie
del bifolco e i bimbi. Nero di bruciature il bifolco usci¬
va di casa, e apriva coi pellicani una lotta atroce. Tut¬
to andava a precipitarsi nella capanna crollante. Dalla
massa sollevata delle macerie — era un effetto che non
mancava mai — vedeva uscire il suo professore di se¬
conda, il quale teneva in una mano il suo cuore, nel¬
l’altra un foglio dove era decifrabile in tratti di zolfo,
il paragone del pellicano e quello del bifolco, quali li
ha composti lo stesso Musset. »
244 Giuseppe Ungaretti

Se qui si tratta d’un sogno spiegato d’origine auto¬


biografica, dobbiamo noi considerare i Canti come so¬
gni non spiegati dovuti alla medesima origine? Alcune
delle difficoltà della controversia che nasce raffrontan¬
do i Canti colle Poesie potrebbero così essere sciolte.
L’interesse recente verso Lautréamont essendo princi¬
palmente fondato su tale controversia, e anche i nuovi
indirizzi della tecnica poetica, dovremo un’altra volta
cercare di chiarire questo punto.

L’editore Lacroix, nel 1890, si era finalmente deciso,


colla firma del suo amico Louis Genouceaux, non po¬
tendo più fare uso del proprio nome in seguito ad uno
o diversi fallimenti, a mettere in circolazione i Canti.
Come entrò Lautréamont nel dibattito letterario? Fu
Léon Bloy forse il primo ad accorgersene (« La Piu¬
me », 2.me année, 1890, pages 151-154). « Mostro di
libro » scriveva Bloy « e mostro è qui parola insuffi¬
ciente. Direste ch’è uno spaventoso polimorfo sotto¬
marino che una tempesta sorprendente, rufolati gli a-
bissi, ha buttato sulla spiaggia. È lava liquida. È cosa
insensata, nera e divorante.
« L’effetto è tremendo, inesprimibile; è d’una bel¬
lezza panica sorprendente. L’originalità sarebbe nulla
senza il parossismo particolarissimo d’un certo accento
che deve sorprendere certi demoni e che ancora non
avevo trovato in nessuna letteratura.
« Ma quest’accento che fa sembrare ogni frase una
lupa arrabbiata avviata colle zampe agili e silenziose
incontro a un viandante, è da solo un’originalità smi¬
surata, così formidabile che alla lettura vi sentite bat¬
tere le arterie e l’anima vibrare sino al tremito, sino
a slogarsi. »
Remy de Gourmont (« Mercure de France », Février
1891) esclama: « Fu un colpo di genio, quasi inespli¬
cabile ».
Del periodo simbolista agli scrittori colpiti da Lau-
Scritti letterari 1918-1936 245

tréamont dobbiamo aggiungere Huysmans, e forse Mae-


terlinck, prestando fede a Henry Dommartin, il quale
ci fornisce le notizie seguenti (« Le Disque Vert », Pa-
ris-Bruxelles, 1925): « Si veda, nel primo canto di Mal-
doror, la scena che incomincia colle parole: “Una fa¬
miglia circonda una lampada posata sulla tavola...”. Si
è sospesi nell’attesa d’un evento ignoto, enorme, pres¬
sante, catastrofico. Un’atmosfera d’angoscia indicibile
vi aleggia assai simile a quella che regna nel teatro di
Maeterlinck. L’argomento stesso dell’Intrusa, e soprat¬
tutto delYInterno, si presta a questo avvicinamento. È
per lo meno curioso rilevare che la molla principale
del teatro di Maeterlinck, il sentimento dell’ignoto, si
trova nell’opera di Lautréamont ».
Ma un Bloy, cattolico che aveva dei numeri dante¬
schi, capace di ficcare il naso anche in Inferno, pur¬
troppo finiva col limitarsi ad assaporare insulti pitto¬
reschi; ma un Gourmont è un dilettante; e al lassativo
d’un Maeterlinck, oggi non credono più nemmeno le
balie.

Un principio d’interesse vero si ha nel 1912 cogli


articoli di Valéry Larbaud e di Léon-Paul Fargue nel¬
la « Phalange ».
In quel momento scoprono il poeta, Apollinaire,
Max Jacob, André Salmon e Soffici, e questi traduce
per « Lacerba » la 21.a strofa dei Canti.
Ma dovremo aspettare l’edizione dei Canti curata da
Cendrars (Firenze, 1920),1 la pubblicazione da parte
di Breton (« Littérature », 2e et 3e Nos., 1919) delle
Poesie, per assistere all’entrata decisiva dell’opera di
Lautréamont nelle lettere francesi. « Egli » scriveva Gi-
de (prefazione al numero del « Disque Vert » già cita¬
to) « comanda l’impeto, e forse più che Rimbaud, l’av¬
venire delle lettere francesi. »
Un’altra volta parleremo dell’avvenire di Lautréa¬
mont.
IV
LAUTRÉAMONT
OVVEROSIA
ODORE DI BRUCIATO

Trovo riportato nell’ultimo « Italiano », il seguente


pensiero di Galileo: « Avvegnaché quello che noi ci im¬
maginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute
o un composto di cose, o di parti delle cose altra volta
vedute, ché tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i
centauri ». Se per gl’impressionisti, per i naturalisti, ed
anche per i simbolisti, l’immaginazione operava sulle
cose immediatamente vedute, se volevano essi che dal¬
l’urto dell’immaginazione e della memoria, le cose assu¬
messero autenticità a causa della luce del loro aspetto
momentaneo oggettivo e fuggente, oggi sembra che l’ar¬
te non ritenga manifestazioni autentiche che quei mo¬
stri risultati dalle parti « delle cose altra volta vedu¬
te ». La memoria utilizzabile sia respinta ad un tale
punto anteriore ch’essa non possa riferirsi ad alcuna
precisa esperienza individuale, e per essere certi ch’essa
possegga questa vaga natura, lo stato di sogno è rite¬
nuto fonte eccellente d’ispirazione. Prendete un quadro
di pittore d’oggi, e vedrete facilmente che la verità og¬
gettiva annega angosciosa, ombra nell’impasto delle for¬
me. Se ho indovinato dicendo nell’articolo precedente 1
che i Canti di Maldoror sono una serie di sogni, o me¬
glio uno scatenamento dell’immaginazione da quei dati
autobiografici ai quali nel sonno, lo stato di sogno ha
già dato una lontananza, il primo motivo della loro
attualità sarebbe questo.
E oltre agli effetti elementari in possesso di una
forma tornata a svilupparsi dal fondo misterioso della
natura, un altro motivo d’attualità manifesta l’arte di
Lautréamont, ed è il carattere umoristico ch’egli in-
Scritti letterari 1918-1936 247

fonde all’espressione. Sempre per una ricerca di mas¬


sima autenticità, perché l’espressione non sia denatu¬
rata da ciò che può restarle di logico, intendo di su¬
perficiale. Breton scrive al riguardo: « Lautréamont eb¬
be coscienza così netta dell’infedeltà dei mezzi d’e¬
spressione che li trattò sempre dall’alto: non concesse
loro nulla, e ogni volta ch’era necessario, li svergognò.
Rese così, in qualche modo, il loro tradimento impos¬
sibile » (Les pas perdus, N.R.F., p. 84).

Questa compenetrazione d’umorismo e di sogno eb¬


be i primi segni nel nostro secolo in riviste italiane,
in « Lacerba » e in « Valori plastici ». Diremo in ogni
modo come essa si presenta nei Canti di Maldoror.
I Canti di Maldoror non sono, come pretendono i
ciuchi, un’accozzaglia di frasi geniali, sono un poema
la cui costruzione è sconcertante quanto armoniosa.
È il passaggio repentino da un tono all’altro, l’impie¬
go di tutti i timbri su tutti i toni che sconcerta, ma è
qui l’invenzione di Lautréamont: quel suo sorpren¬
dere la parola in crisi, e farla soffrire; quel suo spez¬
zare lo specchio, e vedere, mentre in un baleno la fe¬
rita già si chiude, una meraviglia nel buio.
Non ha scrupoli sulla bellezza: è bello l’oceano e
la foresta che gli suggeriscono inni enormi, è bella la
carezza acuta e la fame sorda, e « il tremito nell al-
coolismo », è bella « la curva che un cane descrive
correndo dietro al suo padrone », è bella « la retrat¬
tilità degli artigli degli uccelli di preda », è bella « la
trappola per i topi », è bello « l’incontro fortuito so¬
pra un tavolo di dissezione d’una macchina da cucire
e d’un ombrello », è bella « la metafora serva delle
aspirazioni umane verso l’infinito molto più che non
se lo figuri chi è imbevuto di pregiudizi o d’idee fal¬
se ». Il suo umorismo, nel sorprendere la bellezza, sal¬
ta dagli aggettivi vellutati alla paura insensata che il
creato abbia ormai perso l’adolescenza per sempre.
248 Giuseppe Ungaretti

Noi vediamo dunque, per usare le parole di Leon


Pierre-Quint (Le Comte de Lautréamont et Dieu, Les
Cahiers du Sud, 1929) « le metamorfosi subitanee di
persone, la scomparsa inopinata di scene; la pallotto¬
lina di sterco che lo scarabeo fa correre davanti a sé
con amore, diventare una donna incantevole, una Cir¬
ce; vediamo voli silenziosi di corpi nello spazio, cadu¬
te senza fine nel vuoto; oppressione e delirio »; ve¬
diamo « un antropomorfismo generale: le cose pren¬
dere una personalità umana e farci un discorso che il
dormente intende; un sasso o un capello fare dei di¬
scorsi morali o piuttosto immorali ». Poi, non si sa
come, ci parla d’una pulce un pochino più grossa
d’una vacca.
L’umorismo interviene o coll’eccesso di sontuosità
d’un epiteto, « mescolando il quotidiano allo straor¬
dinario, l’evidenza al miracolo, o coll’entrata in mez¬
zo a periodi pieni di grandezza e d’avvenimenti for¬
midabili, di particolari minuti e insignificanti, intervie¬
ne a volte con un’interiezione ironica discretissima;
oppure rifacendo il verso a tutti i generi letterari,
compreso il romanzo d’appendice ».
La risorsa umoristica è in Lautréamont così impe¬
riosa che non lo trattiene dal proferire perfino la più
grossa bestemmia. Ci informa Malraux (La genèse des
Chants de Maldoror, « Action », n. 3, aprile 1920):
« Lautréamont traspose nella sua opera anche delle
stampe: il capitolo che incomincia con: “Ho visto
il Creatore... sopra un mare di sangue...” è la traspo¬
sizione d’un’incisione inglese che fu popolare verso il
1860, intitolata Red Devii. Al posto del nome di Sa¬
tana mise quello di Dio, e ottenne un effetto d’un’ori-
ginalità da visionario ». « Forse non sarebbe venuto
in mente a Leconte de Lisle di mandare Dio a scor¬
ticare un adolescente in un lupanare incaricando poi
un capello dimenticato di raccontare quest’atrocità, ma
qualsiasi gilè rosso francese, prima del 1830, aveva
Scritti letterari 1518-1936 249

impiegato Satana a cavare gli occhi a un lungo nume¬


ro di pallide giovinette, ed ascoltato la loro anima
bianchissima lamentarsi di quest’abusiva esoftalmia.
Primo, Lautréamont cancellò Satana e anima, e sopra
scrisse: Dio e capello. »

Qui non si tratta di trucco, come vorrebbe farci


credere Malraux, ma con vero spavento il Creatore è
concepito come male, un male inesplicabile, fatale. Per
consolazione, la creatura, un povero diavolo come Sa¬
tana, non ha che sogni, fumo; se ne avvede, e per
rivolta e per vendetta, non ha che il suo ridere agris¬
simo e inutile, accettando l’inganno. Poco c’importa
di sapere se a tredici anni Lautréamont abbia visto il
Red Devii, ciò che importa, e che ammette Malraux, è
che a Lautréamont sia più tardi bastato il rovescia¬
mento duna parola per ottenere, da una piccola indi¬
cazione della memoria, « un effetto d’un’originalità da
visionario ». Sono cose che capitano solo ai grandi
poeti.
Sarà trucco mettere un paio di baffoni, e la mosca,
alla Gioconda, ma potrebbe essere anche il segno d’un
risentimento poetico. Che poi questo modo possa fini¬
re in rettorica, come tutti gli altri, e più facilmente
e peggio degli altri, non toglie merito a chi l’abbia
usato per potenza d’emozione e con opportunità.
Per Molière, ci dice Quint nel suo libro, è ridicolo
l’insociabile. Con gesti e atteggiamenti non conformi a
quelli della gente del suo ceto, un individuo si fa og¬
getto di riso. Molière giudica, e non può fare altri¬
menti volendo divertire, dall’esterno. Lautréamont, in¬
vece, è pieno di pietà e di simpatia per quest’essere
sciagurato e eccezionale nel suo gruppo, e non ha che
odio « per quelli che trovano sempre qualche cosa da
ridire in un carattere che non somigli al loro, essen¬
do una delle innumerevoli modificazioni intellettuali
che Dio, senza uscire da un tipo primordiale, creò
250 Giuseppe Ungaretti

per governare l’armatura ossea ». Per Lautréamònt il


comico è nella natura stessa dell’atto creativo.
Questo malumore trova lievito nell’inferno che bol¬
le alle radici della vita, in un dramma sessuale. E non
si sa come, una speranza urla più forte delle bestem¬
mie, la terra risuscita, e sulla porta s’affaccia l’amore,
il vero amore, l’amore sanguinario.

Nella poesia di Lautréamònt sono dunque compen¬


diati questi caratteri di gran parte della recente poe¬
sia francese ed europea: uno schianto carnale che apre
il volo a fiori di fuoco, e insieme una lucidità cruda
che per vertigine di irrisioni fa salire l’espressione al¬
l’infinito distacco del sogno; una necessità di strap¬
pare alla realtà le sue maschere, e di restituire alla
natura la sua maestà tragica.
Colle Poesie, cioè con quello scritto critico che por¬
ta questo nome, Lautréamònt non ha voluto, come
generalmente si crede, rifiutare i Canti di Maldoror-,
ha voluto confermarli. È noto che a comporre queste.
Poesie, egli, da Seneca a Pascal, a Chamfort, vuole un
contributo di massime celebri. In queste massime,
qui sposta una parola, lì la cambia, o mette la parola
contraria, e ottiene pensieri ai quali non mancherebbe
nulla per essere celebri. La verità, sembra dirci, non
è nel pensiero, non è nella mente che trova Dio o Sa¬
tana, equivalenti, è nella vita, è nel desiderio di vita
naturale che persiste nel mondo.

Se gl’« insociabili » nelle lettere francesi, e in quel¬


le inglesi, e in quelle tedesche, sono oggi tanto nume¬
rosi, sarà anche moda, ma potrebbe anche essere il
segno che la società nata col Rinascimento, affermata
colla Rivoluzione francese, è all’ultimo rantolo. Con
Lautréamònt, Eros al quale la ragione, bellissima e
perfida dea, toltogli l’ultimo velo sacro, fece scendere
tutti gli scalini sino al lubrico, è giunto a quel deser-
Scritti letterari 1918-1936 251

to e a quegli equivoci che, se non altro, hanno in sé


il senso dell’infinito. Non è più il dramma della Ri¬
forma, dell’uomo sapiente e del religioso; non è un
dramma, è un bramito. Oggi l’« insociabile » non è
più, in Europa, oggetto di riso: ride.
Oggi in Francia e in Europa, tornano a tradurre
Dante. E forse chi ha occhio acuto già sa verso quale
costruzione terrena potrebbe dirigersi in tutta Euro¬
pa, anche per merito d’un Lautréamont, domani, la
volontà umana.
LA CRITICA ALLA SBARRA
[1930],

Povera critica, chi le tira un orecchio di qua e chi di


là le sferra un calcio e chi la piglia per il naso. Ora
la critica italiana in tutte le sue ramificazioni, è tut-
t’altro che una cattiva critica. Può darsi che a volta
tratti una poesia o un romanzo al modo, narrato da
Leonardo, della « scimia che trovato un nido d’uc¬
celli, ne prese uno, e se ne andò al suo ricetto piena
di allegrezza e lo cominciò a baciare, e per lo isvisce-
rato amore tanto lo baciò e rivolse e strinse che gli
tolse la vita ». Altre volte sarà debole per eccessiva
severità, e anziché aiutare a svilupparsi e a irrobustir¬
si il punto dell’arte preso a correggere, finirà per ren¬
derlo mortalmente malato, come fa « l’aspido » osser¬
va ancora Leonardo « il cui morso non ha rimedio se
non di subito tagliare le parti morse».
Ma generalmente non si può dire che essa non sia
una critica moderata. Un difetto ce l’ha, quello di ti¬
rare fuori ogni tanto delle quistioni che crede fonda-
mentali, mentre sono, se vogliamo essere indulgenti,
oziose, e continuano a disorientare il pubblico raffor¬
zandolo sempre più nella sua convinzione che l’arte
sia cosa fastidiosissima, se tanto seccante finisce col¬
l’essere chi ne parla.
La quistione delle lettere è grave per una Nazione,
forse non meno di qualsiasi altra. Essa merita dunque
d’essere toccata solo nei punti vivi, e ci si arriva sem¬
pre e solo esaminando e con serenità le opere.
Mi spiego. L’altro giorno un giornale romano dava
una graziosa storiella. Riguardava lo spasimo stilisti¬
co di certi autori, e mostrava come un naufrago finis-
Scritti letterari 1918-1936 253

se col perdersi per non aver saputo fare a meno di


redigere un biglietto di soccorso in forma originale e
preziosa. Dostoievski ai suoi tempi aveva dovuto occu¬
parsi d’un caso simile. C’erano allora gli utilitaristi, e,
anche allora, gli artisti puri. Dopo il terremoto di Li¬
sbona, e proprio il giorno dopo, narra Dostoievski,
uscì un giornale con una poesia, una poesia, come ve¬
drete, senza un verbo, già quasi « parole in libertà »,
la quale press’a poco suonava così:

Sussurro, respiro sordo,


Trilli dell’usignolo,

Argento, le oscillazioni
Del ruscello che dorme,

Notturna chiarezza, le ombre,


Ombre, ombre senza fine,

Metamorfosi incantevole
Dell’aspetto divino,

Alle nubi purpureo vapore,


Rose e riflesso d’ambra,

Baci carezze e lacrime,


Ah, l’aurora, l’aurora!

Ecco, osservava Dostoievski, in quel momento era


una poesia inopportuna, ma riletta in altra occasione,
se in sé fosse stata bella, se ne sarebbe vista la bel¬
lezza, e nei secoli sarebbe rimasta bella. Per mio con¬
to negherei che in sé una poesia inopportuna possa
essere bella, ma sarà, caso mai, il discorso d’un’altra
volta.
Dostoievski, che è poi uno scrittore assai diverso
da quello apparso comunemente ai divoratori italiani
254 Giuseppe Ungaretti

dei suoi libri, svolgeva nel suo articolo un’idea sana.


Gli utilitaristi volevano che l’arte diventasse divulga-
trice dei problemi che maggiormente avrebbero dovu¬
to appassionare i russi d’allora (1861). Secondo loro
l’arte avrebbe dovuto essere un mezzo di seduzione
di cui lo scrittore avrebbe dovuto servirsi per prospet¬
tare lo stato del Paese, scoprire e indicare le cause e
i rimedi del male. Dostoievski ai loro argomenti con¬
trapponeva il diritto naturale di libertà dell’ispirazio¬
ne, limitando il dovere dell’artista ad esprimersi con
efficacia. S’è spesso rimproverato a Dostoievski d’es¬
sere trasandato nello scrivere. Non conosco il russo,
ma, anche in traduzioni infami, salta subito agli oc¬
chi che egli scriveva benissimo. E - stupirà forse quel¬
li che chiamano arcadi i pochi poeti che fanno della
poesia sul serio in Italia - nel suo articolo prendeva
le difese di Puskin, accusato dagli utilitaristi d’essere
arzigogolato, falso, fuori tempo; e lo chiamava poeta
di razza, russo vero, il primo che avesse scritto in
Russia poesia popolare, poesia cioè radicata profonda¬
mente nell’animo del popolo russo; e lo chiamava
fondatore della letteratura russa. Il tempo ha dato ra¬
gione a Dostoievski, e il suo parere su Puskin è oggi
universalmente accettato.
L’arte pura, o l’arte per l’arte, o l’arte che non ab¬
bia un fine sono modi di dire insensati. Per Nietzsche
l’istinto più profondo dell’arte non va verso l’arte,
ma verso la vita, verso un desiderio di vita. Ed è un
pensiero non molto dissimile da quello che un cin¬
quantennio prima Leopardi non si stancava di appro¬
fondire. « Il sentimento di potenza dell’uomo, » ci
avverte Nietzsche « la sua volontà di potenza, il suo
coraggio, la sua fierezza, tutto ciò va giù con il brutto
e sale con il bello. Noi intendiamo il brutto come un
segno ed un sintomo di deperimento: quel che ricor¬
da da vicino o da lungi il deperimento provoca in noi
il giudizio: brutto. Ogni indizio di sfinimento, di pe-
Scritti letterari 1918-1936 255

santezza, di vecchiaia, di fatica, ogni specie d’imba¬


razzo, come il crampo, la paralisi, e prima di tutto l’o¬
dore, il colore, la forma della decomposizione, fosse
ciò anche nella sua ultima attenuazione, sotto forma
di simbolo - tutto ciò provoca la stessa reazione, il
giudizio: brutto. Qui spunta un odio: chi odia qui
l’uomo? In ciò non v’è dubbio: l’abbassamento del
suo tipo. Egli odia dal fondo del suo più profondo
istinto della specie; in questo odio egli ha un fremi¬
to, prudenza, •profondità, chiaroveggenza: è il più pro¬
fondo odio che vi sia. È a causa di ciò che l’arte è
profonda. »
L’arte ha dunque un fine; e la storia, e la morale,
diciamo pure, il fine medesimo; e diciamo pure con
Nietzsche e con Leopardi, un fine in rapporto a una
data potenza di vita. Parlare di romantici e di classi¬
ci, di simbolisti o di veristi, di analisti, di futuristi o
di frammentisti, va benissimo se si ha da esaminare
una certa evoluzione del mestiere. Ma allora, santi Pa¬
dri, non credo che nei limiti del mestiere, un sonetto
del Petrarca valga meno d’un romanzo d’Ippolito Nie-
vo. Sono, mi pare, oggetti diversi, e che richiedereb¬
bero da parte della critica anche una diversa valuta¬
zione. Il romanziere e il sommo poeta, hanno avuto
entrambi il loro spasimo stilistico, ma per incidere
il secondo una materia durissima come il diamante;
e l’altro era un formatore di gessi. Il malanno del ro¬
manticismo è d’avere dato un carattere troppo alea¬
torio al mestiere, e il mestiere, che era una volta solo
una fatica dei ragazzini a scuola, da farsi dimenticare
poi nell’opera della maturità, è diventato il problema
centrale d’oggi.
L’arte ha un fine: la vita; tutta l’arte indistinta¬
mente e ogni atto umano, quando non sia contro na¬
tura. Il fine cui mira l’arte è fatale. L’artista vorrebbe
distruggere la morte nelle sue opere. Più l’opera è
fatta con l’intenzione di resistere al tempo, più è te-
256 Giuseppe Ungaretti

meraria, meno è provvisoria, meno è rassegnata alla


sorte umana e più dovrebbe essere degna di rispetto
da parte della critica; meglio difatti risponde al fine
dell’arte.
Quanto agli effetti d’un’opera d’arte, che ne sappia¬
mo noi? In quale modo la lettura d’una tragedia
d’Eschilo o la vista dei Prigioni di Michelangelo, può
penetrare nella vita d’una persona a maturarne il cor¬
so morale? Noi dimentichiamo troppo spesso che la
vita è mistero, che la vita è d’ordine divino. Noi di¬
mentichiamo che nell’opera d’arte riuscita, ciò che ci
colpisce è l’alone di mistero, è la vita ch’essa emana,
è il fiato divino che l’uomo le ha trasfuso. Questo
sarebbe il punto principale sul quale dovrebbero fer¬
marsi i critici; il rimanente è, più o meno fondata,
pedanteria. Ciò ch’è urgente è che la critica esca, e
aiuti l’arte a uscire, dalla pedanteria e dai discorsi
a vanvera.
CAUSE DELL’ATTUALE CRISI
[1931]

Un giovane storico caduto in guerra, Augustin Cochin,


spese buona parte della sua breve giornata a studiare
negli archivi,'con acume raro, lo sviluppo di quelle
« società di pensiero » sulle quali, sino dalla metà del
700 la borghesia francese fondava la sua completa e-
mancipazione politica. Non è di poco conto, volendo
conoscere con qualche esattezza la Trancia d’oggi, ri¬
cordare come la borghesia francese si preparasse in
una « repubblica delle lettere » a salire l’ultimo sca¬
lino del potere. « Questa repubblica ha già, nel 1770, »
ci dice Cochin « i suoi legislatori: l’Enciclopedia; il
suo parlamento: due o tre salotti; la sua tribuna:
l’Accademia Francese, nella quale Duclos ha fatto en¬
trare e d'Alembert regnare la filosofia, dopo quindici
anni di lotta perseverante. E in tutte le province è
una gran rete di società, e da un capo all’altro di
queste società è un perpetuo andirivieni di corrispon¬
denze, d’indirizzi, di voti, di mozioni, un immenso
concerto di parole. Di tanto in tanto Parigi fa un cen¬
no: è l’adunata per le grandi manovre. »
Vediamo così perfezionarsi una tecnica dei rivolgi¬
menti sociali subordinata all’intesa di alcuni « datori
di parole d’ordine », cioè alla manifestazione duna
« volontà », della quale la massa sarà strumento ese¬
cutivo. E, seguendo uno storico, ch’era inoltre un cat¬
tolico, un uomo il cui mondo morale non doveva es¬
sere adattabile alle circostanze, ma esse doveva cerca¬
re di migliorare secondo giustizia, ecco che ci trovia¬
mo davanti a termini contrastanti: « opinione », poi¬
ché la società è diventata un’emanazione dell’opinio-
258 Giuseppe Ungaretti

ne, 'poiché rivolgimento sociale è sinonimo di rivolgi¬


mento d’opinione, ha vale a dire per motore ciò che
nella struttura mentale abbiamo di più infermo; e,
d’altra parte, « volontà », vale a dire la traiettoria del¬
la fermezza.
Il fenomeno, nei suoi vari aspetti, ha trovato in
Francia stessa i suoi critici acuti. Jean Paulhan, ( Jacob
Cow, Au Sans Pareil, 1921), cercando la causa della
brevità di durata delle forme nell’arte moderna, l’at¬
tribuiva specialmente alla confusione delle parole col¬
le idee, trasmessa da Condillac al romanticismo. È la
medesima china, sulla quale la borghesia confonde
politica con umanità. Si veda difatti un libro recente
(Religion et culture, Desclée de Brouwer & C.ie) di
Jacques Maritain. Egli cerca di dimostrare la provvi¬
sorietà dell’idea medievale dell’Impero, come poteva,
per esempio, affacciarsi alla mente di Dante. Non di¬
co che Maritain, così profondo studioso del pensiero
medievale, e certo in questo campo mio maestro, non
sappia vedere la crisi storica che, con spaventosa veg¬
genza, Dante volle invano arrestare; ma mi sembra
che Maritain finisca anche lui col rendere fiacco il
lievito della sua idea universale d’umanità, facendo
troppo credito all’« opinione », o al « rispetto uma¬
no », come dicevano una volta i predicatori, e cada,
alle strette, nonostante ogni suo sforzo opposto, nella
confusione borghese, tarlo della « volontà ».
In Dante, uomo aggressivo ed edificatore, un’armo¬
nia umana va imposta sulla .terra, a immagine della
soprannaturale. Il poeta non ignora che l’individuo, e
così la società, è assolutamente libero con un infinito
di bene e un infinito di male vivi nella sua coscien¬
za; e come l’individuo è responsabile della sua salvez¬
za, così non è immaginabile, per un vero cattolico co¬
me Dante, una società irresponsabile o provvisoria.
Per Dante l’universo è attuale e eterno; in quanto è
attuale, deve sgombrare il terreno per la contempla-
Scritti letterari 1918-1936 259

zione dell’eterno, o, meglio, per l’« Amore », come


dicevano ai suoi tempi; in quanto è attuale, in quan¬
to deve edificare sulla terra il regno di Dio, è ope¬
rante e appartiene alla spada. Come è già diversa, po¬
co dopo, l’idea del Petrarca; parla di posteri e di an¬
tichi, d’un regno temporale dell’uomo, ma è idea già
nauseata del presente, già lamentosa del passato e del
futuro come di due paradisi perduti. In ogni caso,
dantesca o petrarchesca, religiosa o idealista, l’uomo
si sacrifica all’idea d’umanità, e ne pone il modello
sempre fuori di sé, nell’ordinamento dei cieli o degli
inferni, o nella storia, ma non subordina mai, e que¬
sta è l’originalità dell’Italiano, l’umanità ad un siste¬
ma pratico. Per un nostro pittore del Rinascimento,
per esempio, lo scopo era di raggiungere in un suo
nudo, il massimo di bellezza naturale, e per raggiun¬
gerla si serviva del pudore d’un mestiere supremo.
Ma non era sedotto dal mestiere, né s’illudeva che la
grandezza consistesse nel mestiere, non confondeva il
mezzo con il sogno; sapeva che i mezzi sono conven¬
zionali, e che in fatto di convenzioni basta sceglierne
una e portarla risolutamente a perfezione; - ma il
sogno era umano.
Ma ciò che avviene da più di un secolo, è disuma¬
no. Nel suo libro citato, pieno di vedute, e scritto con
quella logica lirica che rende il suo pensiero sempre
commovente, Maritain giustamente incolpa Cartesio
di avere sdoppiato in due sostanze, e ciascuna com¬
pleta, l’essere umano: spirito puro e estensione geo¬
metrica. A poco a poco lo spirito sfuma, e rimane
l’uomo-macchina, cioè una civiltà esclusivamente in¬
dirizzata alla produzione. E questo mondo borghese,
questa macchina spropositata, per illudersi ogni tanto
che, comunque, l’assoluto della libertà umana ancora
anima l’uomo, ricorre alle sue, ormai decrepite, « so¬
cietà di pensiero », e cerca d’offrirsi ogni tanto, e
d’offrire agli allocchi, un nuovo rivolgimento d’opi-
260 Giuseppe Ungaretti

niope; ma ormai non le riescono più che finti rivol¬


gimenti; non crede più, è visibile, e non ha torto, sia
pure chiamata pomposamente ,« uomo », che la sua
macchina possa amare e pensare.
Devo spiegarmi meglio? Dostoievski trovandosi in
Italia, due settimane prima d’Aspromonte, narra che,
a tavola insieme ad altri forestieri, il discorso cadde,
naturalmente, su Garibaldi. I meriti dell’Eroe italia¬
no, capace di portare a lieto fine le imprese più im¬
prudenti, erano elencati fra un coro d’ammirazione,
quando un Francese volle dire il motivo della sua am¬
mirazione. Disse:
« Nel 1860, Garibaldi ebbe per un certo tempo a
Napoli un potere senza limiti. Aveva nelle mani una
somma dello Stato di venti milioni. Erano denari, di
cui non aveva da rendere conto a nessuno. Garibaldi
ne ha reso conto, sino all’ultimo centesimo, al Go¬
verno. È quasi incredibile. »
Dostoievski è scandalizzato di quest’associazione del
nome di Garibaldi alla possibilità di piccole appropria¬
zioni indebite nella cassa statale.
In verità, la borghesia ha perso l’idea di virtù, per¬
ché l’ha confusa coll’idea del denaro, strumento e
simbolo della sua politica e della sua umanità.
Ci pensavo leggendo, a proposito dell’anticipo fat¬
to recentemente dai banchieri francesi alla Germania,
in un giornale delle « società di pensiero » (« Répu-
blique », 11-2), queste parole firmate dall’eminente
pensatore Albert Bayet: « Il denaro francese deve
passare il Reno. Bisogna che lavori oltre Reno per
l’Intesa delle due Repubbliche, per l’Europa, per la
pace ».
Ah! il denaro. L’Asia è inquieta, e quindi in In¬
ghilterra cresce la disoccupazione, perché il potere d’ac¬
quisto dell’argento, valuta metallica dell’Asia, muo¬
re; l’oro che via via viene estratto non può essere
acquistato che dai due soli Stati che ne hanno già
Scritti letterari 1918-1936 261

tanto da non sapere più dove metterlo, Stati Uniti e


Francia, e, per questa paralisi dell’oro diventato affa¬
matore, la produzione non trova più mercati; Argen¬
tina e Brasile ricorrono a colpi di stato per togliersi
di tutela finanziaria dagli Stati Uniti; la Spagna passa
da un guaio all’altro, perché, in condizioni privile¬
giate, non ha saputo fare una buona politica moneta¬
ria; ecc. L’una o l’altra di queste ragioni degli econo¬
misti sarà vera; ciò che è verissimo è che assistiamo
a questo spettacolo paradossale: una civiltà che ha per
esclusivo fine la produzione, uccide la produzione col¬
le sue proprie mani, cioè con il denaro; e d’un po¬
vero mezzo, come il denaro, si fa un idolo, una sire¬
na, la spada, o, per parlare il linguaggio militare d’og¬
gi, una cintura difensiva di gas asfissianti.
No, non si tratta di salvare il denaro, ma l’Europa.
Ci vuole « Amore », come diceva Dante, non denaro.
Dall’armistizio ad oggi, verso l’Italia, verso la Germa¬
nia, verso la Russia, la Francia non fa che una poli¬
tica d’avarizia, mettendo in pericolo l’Europa, la pa¬
ce, e rendendo anche sempre più impotente ed odiato
e odiabile il denaro.
Nella mia Patria sono considerato come l’Italiano
più francofilo. È vero. Amo i grandi poeti maledetti
di Francia, che, come dice Maritain, da un secolo agi¬
scono da stimolatori verso un’umanità più degna del¬
lo spirito, verso un ritorno dell’uomo all’imitazione
del Creatore. Poiché amo la mia Patria, e molto più
di me stesso, e quindi sono un buon Europeo, vorrei
che finalmente la Francia li ascoltasse.
NAUFRAGIO SENZA FINE
(Risposta a un’inchiesta sulla poesia)
[1931] *

Per Dante la persona umana è un assoluto chiuso nel¬


l’individuo, colle infinite possibilità di bene e di ma¬
le, colla volontà, la libertà e la responsabilità che dan¬
no valore religioso alle opere del singolo e, senza ri¬
medio, modellano ciascuno secondo le sue opere. E
vedo che trova ispirazione nel rapporto fra fisico e
morale e, per esempio, nel Conte Ugolino, tra la fame
e l’amore dei figli. Andando avanti di pochi lustri,
incontro un poeta per il quale non contano se non
posteri e passato, cioè se non fantasmi della mente.
Invece di uomini duramente distinti, abbiamo il triste
infinito deH’uomo. Poche decine d’anni sono bastate,
da Dante al Petrarca, perché l’ispirazione avesse tut-
t’altre fonti. Sarà dipeso da circostanze esterne? Può
darsi. Ma per dare circolazione a motivi tanto diver¬
si, sono bastati pochi ritocchi all’endecasillabo di Dan¬
te.
E quando verrà Leonardo, e penserà che la meta¬
fora sta tra la facezia e la profezia, e dirà, per esem¬
pio: « Il bastone ch’è morto, può farvi dire: Il mo¬
vimento de’ morti farà fuggire con dolore e pianto
con grida molti vivi », oppure: « La salsiccia ch’entra
nelle budella, può suggerirvi: Molti si faranno casa
delle budella, e abiteranno nelle lor proprie », e ridur¬
rà l’idea che del mistero possono farsi gli uomini a
una semplice figura rettorica, sarà perché sulla terra
era ricomparso in carne ed ossa il diavolo e bruciava¬
no le streghe? Era aperto il Rinascimento, e di già
come aggravate la trasformazione dell’uomo e la no¬
zione del mondo apparse al Petrarca.
Scritti letterari 1918-1936 263

Mi spiegherò meglio. Ecco il nudo d’un pittore pri¬


mitivo: vedo ch’è coperto di mistero. Il pudore era
nell’animo dell’artista. Nel creato, egli sentiva la gra¬
zia; il Signore, che anche quando colpiva era per il
bene, era lodato nelle sue opere. Coll’Umanesimo,
gli occhi s’aprono. Ciò che rende commoventi le opu¬
lenze del Rinascimento è di sentire che dentro quella
vita veglia la morte. Tale è il nuovo modo d’essere;
tutte le meraviglie che circondano l’uomo, il suo de¬
siderio, sono per il suo strazio. Un sentimento del ma¬
le, un pessimismo, un giudizio sul mondo come opera
diabolica, e la convinzione di patire senza colpa né
scopo. C’è, in un commento al Petrarca del Castelve-
tro, una spiegazione: Per etimologia, dice il Castelve-
tro, leggiadro significa che riduce la noia. È una spie¬
gazione terribile. In tali condizioni, con tale animo,
per vincere il tempo, per separare un po’ l’uomo dalla
natura, spietata allettatrice, vanità adorabile, il pudo¬
re non aveva se non una risorsa: gli accorgimenti, il
funambolismo, la disperazione del puro mestiere. Sem¬
pre il verso di Dante e del Petrarca, con qualche ri¬
tocco.
Passeranno anni, e Galileo scriverà: « Quello che
noi ci immaginiamo è o una delle cose già vedute, o
un composto di cose o di parti delle cose altra volta
vedute, che tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i
centauri ». Per Leonardo il mistero era un passo iro¬
nico dell’immaginazione, per il Seicento l’immaginazio¬
ne nasce dalla memoria. Forse perché c’era il telesco¬
pio? Mai come in quel tempo la memoria non s’è
identificata nel mestiere; forse il mestiere non sarà
mai come allora fonte d’ispirazione.
Con il Romanticismo riappare una sete d’innocenza.
Per contrasto colla civiltà meccanica? Certo scoppia
l’eresia che i vecchi metri sono esausti, ch’essi ormai
suonano falsi, che l’ispirazione deve inventarsi volta
per volta i suoi schemi. Il risultato fu che un componi-
264 Giuseppe Ungaretti

merito non era ancora finito di fare che già suonava


falso, e che si perse la testa, non volendo più dare va¬
lore se non all’ispirazione, solo, dietro la forma.
E che cos’è, volendoci spiegare l’avversione roman¬
tica, questa civiltà meccanica se non l’impresa maggio¬
re della memoria? È dunque la memoria che ha reso
estrema e intollerabile nel secolo passato l’antinomia
tra individuo e società? È la memoria che ha prodot¬
to la guerra, e tutte queste crisi che si succedono?
La civiltà meccanica è drammatica; bene è nata nel
secolo di Hegel: è la memoria ed è, contrastante, il
contrario della memoria. Il male viene dalla difficoltà
di rimarginare questa scissura che ha reso vastissima
nell’essere. Il Leopardi osservava che l’uomo avendo
tolto alla realtà il mistero, la visione del vero è spa¬
ventosa. Capovolgendo questo pensiero, Nietzsche ri¬
terrà che più nulla essendo vero, tutto è lecito. La
civiltà meccanica ha posto il dramma umano fra que¬
sti due limiti. E ogni uomo moderno di buona volon¬
tà dovrebbe avere per affanno di riconciliare il vero
col mistero. Un poeta non è mai fuori del suo tempo,
è un uomo, l’uomo che sempre ha sofferto e gridato
per tutti. Meglio d’ogni altro, a sue spese, egli sa che
la macchina, figlia prediletta della memoria, può ben¬
dare gli occhi alla memoria, e può, e l’ho visto, per
esempio, in guerra, fare smarrire all’uomo la nozione
del tempo, fargli credere, non per modo di dire, il
tempo eterno.
Non mi è stato nascosto l’orrore dell’eterno. Non
contava più che l’istinto. Si era in tale dimestichezza
colla morte che il naufragio era senza fine. Non c’era
oggetto che non ce lo riflettesse; era, la nostra stessa
vita, da capo a fondo, quell’oggetto qualsiasi sul qua¬
le cadeva a caso il nostro sguardo. Non era la nostra,
in realtà, vita più che oggettiva, il primo oggetto ve¬
nuto. Quel concentrarsi nell’attimo d’un oggetto non
aveva misura. L’eternità si chiudeva nell’attimo. L’og-
Scritti letterari 1918-1936 265

getto s’alzava alle proporzioni d’una certezza divina.


Non conoscerò più tanta soggezione, né quella liber¬
tà ferma. Ho capito perché il Congolese fa gli occhi
all’idolo con pezzetti di specchio.
Non è assurdo dire che la sete d’innocenza dei ro¬
mantici ha trovato un principio d’appagamento, fra
le durezze più gravi della civiltà meccanica, in quello
stato, così frequente nella poesia europea d’oggi, nel
quale l’amore e la morte si toccano, nel quale la luci¬
dità e il delirio si confondono. Esperienze orrende,
lo so, e del resto fatali. Ma attraverso esperienze si¬
mili, purtroppo, va, per fortuna, rifacendosi strada la
convinzione che la realtà è vera se non si ha la pre¬
sunzione di negare ch’è misteriosa.
Nell’altro senso, nel senso della memoria, superato
finalmente il contrasto romantico, la macchina richia¬
ma la nostra attenzione perché racchiude in sé il rit¬
mo, cioè lo sviluppo di una misura che l’uomo ha
tratto dal mistero della natura. La macchina è una
materia formata, severamente logica nell’ubbidienza
d’ogni minima fibra a un ordine complessivo; la mac¬
china è il risultato di una catena millenaria di sforzi
coordinati. Non è materia caotica. La sua bellezza sen¬
sibile cela un passo dell’intelletto. Così, usando il ver¬
so, ch’è la macchina più perfetta della poesia, il poeta
italiano torna a riconoscere che si mette in grado di
ascoltare i ritmi a mezzo dei quali all’orecchio dei
padri era persuasiva la musica dell’anima; e vede ch’e¬
ra una bella stoltezza rinunziare a tanta profondità.
Ma non sarebbe arrivato a tanta accortezza senza il
Futurismo; qui sta il merito di Marinetti.
In breve, la macchina può interessare il poeta se,
con mezzi poetici, egli scopre ciò che in essa è rac¬
chiuso di naturale, di permanente, d’umano, di uni¬
versale; se, da un campo non suo, riesce a trasferire
nel proprio leggi che sono anche sue.
Noi Italiani siamo figli della misura. Noi, e in que-
266 Giuseppe Ungaretti

sto'vediamo riconciliabile la memoria coll’innocenza,


torniamo a credere che la luce del mistero scatta ogni
volta che nell’opera è raggiunto l’equilibrio. Non ab¬
biamo né l’accidia, né la lussuria degli Indiani per
ritenerci capaci di mettere al mondo emblemi mo¬
struosi.
Non rispettando la nostra tradizione, dando retta a
vocazioni che possono portare alla grandezza popoli
d’altra pasta, saremmo condannati a non vedere del¬
la realtà se non l’aspetto provvisorio; e perderemmo
di vista che ogni atto profondamente umano (e quindi
la poesia) eman^ dall’illusione di vincere la morte.
Privi di tale illusione, abbagliati dal nostro io come
fosse eterno, e avesse valore fuori delle sue opere, tra¬
scureremmo di formare le nostre ispirazioni in qual¬
che sostanza di durata, e saremmo condannati a pro¬
durre opere vuote di qualsiasi mistero.
[LE PRIME MIE POESIE...]
[1933]

Una delle accuse più strane che ogni tanto mi vedo


rivolte da questo o quel foglio, è di tenermi assente
dal pubblico. 'Ora, lo si dovrebbe sapere, e per quan¬
to impaccio e quanto fastidio e quanta nausea io ab¬
bia a parlare dei casi miei, lo ridiremo: non credo
d’esser mai stato secondo a nessuno nel prendere par¬
te con tutte le mie forze, e mettendo in giuoco la
mia stessa vita, alla passione di questa patria e dei
miei fratelli italiani.
Ristampandosi nel 1931 Y Allegria, scrivevo nella
notizia :

Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha


altra ambizione, e credo che anche i grandi poeti non
ne avessero altre, se non quella di lasciare una sua
bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i
suoi tormenti formali, ma vorrebbe si riconoscesse una
buona volta che la forma lo tormenta solo perché la
esige aderente alle variazioni del suo animo; e se
qualche progresso ha fatto come artista vorrebbe an¬
che che indicasse qualche perfezione raggiunta come
uomo. Egli si è maturato uomo in mezzo ad avveni¬
menti straordinari ai quali non è mai stato estraneo.
Senza mai negare le necessità universali della poesia,
ha sempre pensato che, per lasciarsi immaginare, l’uni¬
versalità s’accorda colla voce personale del poeta nel¬
le proporzioni dei propri temi.

Le prime mie poesie sono dunque poesie di guer¬


ra.1 Sono nato poeta nella trincea.
268 Giuseppe Ungaretti

Non ho da dirvi quale era in quel momento lo stato


della poesia italiana. C’erano delle cose fini e delle au¬
daci e anche delle grandi. Non mi persuadevano. Nella
trincea, nella necessità di dire rapidamente, perché il
tempo poteva non aspettare, e di dire con precisione
e tutto come in un testamento, e di dirlo, poiché si
trattava di poesia, armoniosamente - in tali condizioni
estreme, trovai senza cercarla, quella mia forma d’allo-
ra nella quale il più che mi fosse possibile volli resa
intensa di sensi la parola intercalata di lunghi silenzi
- quella mia forma che seguendo semplicemente il rit¬
mo elementare del mio respiro, doveva portarmi ad
intendere più tardi la virtù naturale dei metri classici.
Sino dunque dal mio nascere alla poesia, ho impara¬
to a considerare la poesia non come un giuoco, non
come un divertimento, non come una distrazione, ma
come uno slancio fatale, come la cosa più seria, come
il tormento e la responsabilità più gravi che avesse in
dono l’uomo. La poesia deve dare e dà la misura d’un
uomo.

Liberata la parola da ogni letteratura, resala fino


con crudeltà aderente alla vita, m’occupò un altro or¬
dine di pensieri.
Era l’immediato dopoguerra. Come cittadino face¬
vo il mio dovere scrivendo degli articoli di politi¬
ca, sul « Popolo d’Italia ». Come poeta, cioè citta¬
dino ancora e di più, precisamente per ritrovare in
quell’ora di smarrimento una fermezza d’italiano, sen¬
tivo la necessità di tutto un lavoro che avesse fat¬
to prendere radici nel patrimonio tradizionale alla mia
espressione. Lavoro lungo e duro; ma oggi mi dà la
soddisfazione di vedere che di rado escono versi di
qualche valore, e nelle più varie direzioni, e anche
apparentemente lontane dalla mia, che non portino,
nell’uso famigliare, originario e disperatamente esatto
della parola, nel tessuto sillabico, nel ritmo, nelle im-
Scritti letterari 1918-1936 269

magini, nel tono - il mio segno. Per il merito d’un


certo signor calligrafo, oggi si possono usare parole
nobili o povere, parole preziose o arcaiche, parole ba¬
nali e provvisorie senza che la poesia caschi nel ret¬
toria), nel decadente o nel crepuscolare, ma si man¬
tenga invece sempre, qualunque cosa essa dica, ad
un’altezza di dignità e di verità.

Le poesie che nel libro ho raccolto sotto il titolo di


Leggende, hafino cercato di esprimere tutto quel com¬
plesso di sentimenti che vorrebbero raffigurare la leg¬
genda secolare del cuore umano... Si dirà anche que¬
sta volta che scrivo per gl’iniziati?

Se le mie prime preoccupazioni furono di cogliere


la parola in istato di crisi, di farla con me soffrire, di
provarne tutta l’intensità, di alzarla come una ferita
di luce nel buio, se la mia poesia vuole essere sempre
come uno schianto carnale che apra il volo a fiori di
fuoco, una lucidità cruda che per vertigine faccia sali¬
re l’espressione all’infinito distacco del sogno, se la
realtà mi preme così tanto, potevo essere indifferente
alla grande miseria che negli ultimi anni s’è precipi¬
tata sul mondo? Questa miseria orrènda poteva non
commuovere un poeta? E lo ha indotto, in un dialogo
drammatico con se stesso, a riflettere sui problemi che
non sono suoi personali poiché essi investono 1 uomo
nella sua stessa ragione d’essere: riflessioni nelle quali
si agita liricamente il desiderio dell’uomo, inappaga¬
bile forse, che sia raggiunta in terra una qualche unità
morale. E di che cosa oggi di più ha bisogno il mon¬
do, se non d’un principio d’unità morale?
POESIA E PITTURA
[1933] *

La pittura ha questo vantaggio sulle altre arti, ch’es-


sa va oltre la parola pure muovendosi da un punto
anteriore all’esigenza stessa • della formulazione ver¬
bale.
Vorrei spiegarmi. La musica nel secolo decimonono
occupa fra le arti il primo posto; ma raggiunge tale
supremazia - èra dell’opera - traendo partito dei mez¬
zi del pittore. Fino a quel momento, era rimasta su¬
bordinata alla poesia. Con i Balletti russi, anche la
danza si sottomette alla pittura. Non potremmo dun¬
que dire che il tentativo del Romanticismo fu di ren¬
dere pittoresca l’attività umana? Lo dico anche senza
humour. La causa della debolezza di tanta poesia del-
l’800, forse non è di gusto oleografico?
Vorrei indicare la differenza fra poesia e pittura,
che sono le due arti fondamentali. La parola implica
una riflessione, la sua cteazione del mondo è di secon¬
do grado; mentre in realtà, come s’è accennato, la
musica e la danza non hanno sempre che un valore
d’attributi: accrescono potere fisico alla poesia o alla
pittura. La parola difatti non si serve della forza se¬
duttrice della musica e della danza - anche nel valore
di qualità e quantità semplicemente sillabico - se non
per rendere, mediante le cadenze e il suono, più sen¬
sibili e commoventi, ideali proporzioni e la perfezione
inaccessibile, cioè l’idea pura degli affetti e le sue pro¬
spettive.
Se un’arte invece ci fa pensare a violazione costan¬
te di leggi, se c’è arte che ci presenti una tecnica, mol-
Scritti letterari 1918-1936 271

to più che di conseguenze, fatta d’invenzioni, direi


meglio, di presentimenti, simile arte è la pittura.
Per il fatto che è legata al visibile, e cioè alla stes¬
sa incostanza, è l’arte più sottoposta alla natura, cioè
all’oscurità dell’essere, perfino - e a volte meglio -
Leonardo insegni - in quei pittori che furono dei re
dell’intelletto. Il vero pittore, osservando la relazione
infinitamente mutevole fra il suo sentire e le forme da
imitare, ha imparato che il suo segno è la prima di¬
vinazione, ma' è ancora muto, come la stessa natura,
e aspetta la parola. La pittura fa vedere: questo è il
limite troppo spesso dimenticato, dei suoi mezzi.
Vorrei concludere. Se un grano di disordine alza la
buona poesia e l’anima di mistero, non è forse perché
- Dante, o Virgilio, o Leopardi - quella poesia emu¬
la, in un certo senso, la pittura? Senza peraltro che
dimentichi, anzi cercando di stabilire i limiti del poe¬
tare. Emula - attenti - non imita. È quel raggio di
sogno, e direi quasi di predizione, che si spezza nelle
parole proprio quando il loro rigore è meglio archi-
tettato, più cristallino.
Allo stesso modo, direi - e non c’è grande pittore
italiano che non lo dichiari - è necessario che un gra¬
no d’ordine alzi la pittura a poesia, se non si vuole
vederla decadere negli effettacci. Il che, del resto,, non
condanna meno la pittura volutamente, falsamente poe¬
tica, come, per esempio, quella dei Preraffaelliti.
L’ACTION ET L’ESPRIT
[1925/1935?]

Le xvme siècle, siècle frangais et anglais, a porte


à l’épanouissement une pensée très terrestre. Ce siècle
qui pose au centre de l’univers la sensation, a con^u
le monde des objets comme passionné et a limite l’en-
tendement de l’homme aux possibilités de son ètre
physique. Il n’est pas étonnant que des convictions en
soient dérivées comme celle du bon effet de la maladie
dans le progrès des facultés humaines, ou celle de la
raison qui paralyse la force et de la folie qui la Ubère.
Ces convictions exercent encore leur influence en
esthétique et en morale.
Il est curieux d’observer que les deux premiers
grands poètes formés par la pensée du xvme siècle,
sont l’un allemand, l’autre italien. C’est que l’unité de
l’esprit existe plus qu’on ne le pense, et méme de nos
jours.
Je sais bien qu’un homme n’est comparable qu’à
lui-mème, et qu’on ne trouverait pas deux ètres plus
éloignés l’un de l’autre que Goethe et Leopardi. La
vie du second est brève (1798-1837), entièrement
meurtrie, toute saignante. Gcethe a consacré ses lentes
années à se muer en marbré.
Et cependant si l’on s’arrète aux sources profondes
de leur inspiration et de leur méditation, quelle ressem-
blance! Ils ont tous deux une idée commune de l’illu-
sion comme source du peu de bonheur auquel l’hom-
me peut aspirer, et l’un et l’autre au sujet de la na¬
ture, mère des illusions, tiennent à nous prévenir
qu’elle punit durement qui ruine l’illusion en soi et
dans les autres.
Scritti letterari 1918-1936 273

Tous deux se rendent compte d’une cécité de la


nature, ils l’appellent contradictoire, imparfaite, en
continuelle déchéance et résurrection, ironique, indé-
pendante de l’homme et, au milieu du tourbillonne-
ment des illusions et des passions, toute contenue
dans l’homme.
Leopardi en arrive à penser que l’homme, désirant
constamment le plaisir, détruit, par effort fatai de
l’esprit, les illusions, et ces illusions mèmes deviennent
par leur chute, la chaine de ses malheurs. Il en conclut
que tout est mal, la nature et la vie. Mais la vie est
une nécessité, nous dit-il. Et de là sa théorie sur
l’action; et sur la jeunesse, sur le peuple, jeunesse
constante des sociétés, car la jeunesse et le peuple sont
enclins à l’action, ce qui permet à la nature de se
recharger d’illusions et de passions, sans fin, mais
toujours avec moins de force.
Pour Gcethe les conclusions sont différentes, puis-
qu’il constate que dans la nature la matière et l’esprit
ne cessent de trouver un équilibre, qui, par un mou-
vement ascensionnel de dissociation et d’integration,
porte à des moments d’intensité toujours plus riche.
C’est que Leopardi sentait que l’humanité vieillit,
que la nature faiblit en nous chaque jour. Et Goethe
pensait que l’esprit ne cesserait jamais de rendre le
mystère de la nature plus obscur et plus beau.
' RIFLESSIONI SULLA LETTERATURA
[19351 ,

Costanza del canto nella poesia italiana


Ho tolto la pagina su Dostoievski, comparsa nell’ulti¬
mo « Diorama »,' da vecchi appunti del ’22. Sono
dettati in un modo che mi riportano indietro a valu¬
tare quel poco che ho voluto fare, ed avrò fatto, in
arte. Le mie preoccupazioni in quei primi anni del
dopoguerra - e non mancavano circostanze esterne a
farmi premura - erano tutte tese a ritrovare un ordi¬
ne, un ordine anche, essendo il mio mestiere quello
della poesia, nel campo dove, per vocazione, mi trovo
più direttamente compromesso. In quegli anni non
c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel
nostro mondo moderno, una poesia in versi. Non esi¬
steva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato,
che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si vo¬
leva prosa: poemi in prosa! La memoria a me pareva,
invece, un’ancora di salvezza: io rileggevo umilmen¬
te i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso
di Iacopone, o quello di Dante, o quello del Petrarca,
o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del
Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il
canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il nove¬
nario, non il settenario del talaltro che cercavo: era
l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era
il canto italiano, era il canto della lingua italiana che
cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attra¬
verso voci così numerose e così diverse di timbro e
così gelose della propria novità e singolari ciascuna
nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del
mio cuore che volevo sentire in armonia con il batti¬
to del cuore dei miei maggiori di questa terra dispera-
Scritti letterari 1918-19)6 275

tamente amata. Nacquero così, dal ’19 al ’25, Le Sta¬


gioni, La Fine di Crono, Sirene, Inno alla Morte, e
altre poesie nelle quali, aiutandomi quanto più potevo
coll’orecchio e coll’anima, cercai di accordare moder¬
namente un antico strumento musicale che fu in se¬
guito, bene o male, adottato da tutti.
Pensavo alla memoria, e non potevo non essere in¬
giusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la
persuasione, che stava maturandosi in me, che la poe¬
sia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta
lucidità. Tecnica, sensazioni, logica, sogno o fantasia
e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno
senso se simultaneamente non vivano oggettivate -
per un poeta in una parola che canti. E dunque il
fatto stesso di credere molto più che in noi, nelle
nostre opere, di sentirci senza rimedio modellati non
dal nostro mondo interno, ma dalle nostre opere, im¬
plicherà da parte della memoria un intervento chiari¬
ficatore. Le cose, a questo solo patto muovono la no¬
stra fantasia, si collocano al loro vero posto, acqui¬
stano per noi la sola profondità che conti, quella del
tempo, e ci meravigliano - già così distaccate da noi,
così distanti - per il loro pudore, e ci fanno, se vi
pare, sognare; ma è un sognare ad occhi aperti.
Certo commettevo un errore quando nel ’22 dice¬
vo che in Dostoievski non c’era se non un fantasma
che diventava turba per potenza allucinante dello scrit¬
tore. C’è realmente una turba, e non di fantasmi, ma
di cuori doloranti - un dolore d’inferno. È una turba,
e ciascuna persona è data - il senso vivo di ciascuna
persona - non per quello che ha fatto o voluto fare,
ma per quello che ha sognato di fare - e sognato qui
è detto in senso letterale: per quello che le è come
apparso in istato di sonno, e che non si sa come in¬
terpretare, e che viene raccontato come se un cieco
dalla nascita raccontasse la sua visione del mondo.
E se in questi romanzi si fa un gran parlare del divino
276 Giuseppe Ungaretti

e di.Dio, in fondo in fondo è orrore della vita, è sen¬


so del nulla equivalente a senso del divino: è il senso
dell’umanità decaduta, come una di quelle orrende
mitologie dell’ateo Estremo Oriente, a turba mostruo¬
sa di fissazioni.

Epilogo a Vaichiusa

Sono stato a Vaichiusa.


Ho visto quell’acque che salivano, su nell’abside
della roccia, sino all’altezza di 29 metri.
Gettai una pietruzza: adagio varcò « il liquido cri¬
stallo » rimanendomi sempre ugualmente chiara, giù
per 29 metri, fino al « fresco erboso fondo »:

O vaghi abitator de’ vecchi boschi,


O ninfe, e voi che il fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce.

I dì miei fur sì chiari...


CARATTERI DELL’ARTE MODERNA
[1935]

Quando si sente dire che la pittura è l’arte d’espri¬


mersi mediante i colori e che è un discorso rivolto per
i suoi effetti agli occhi, approvano tutti. È buon senso,
ed allora si rimane stupiti che gli sforzi di ormai
trent’anni della nostra pittura moderna diano sempre
alimento a palesi o a sorde malevolenze.
Trent’anni possono bastare a chi disponga d’un mi¬
nimo d’iniziativa spirituale per accorgersi non dico dei
caratteri strettamente unici d’una personalità, tali ca¬
ratteri essendo profondi e quindi non facili a decifrar¬
si, sebbene poi saranno in ultima analisi la sola cosa
spiritualmente durevole, ma per accorgersi almeno di
quel definirsi di modi al quale un po’ tutti contribui¬
scono e che forma lo stile d’un’epoca.
Lo stesso nome di pittura metafisica e di valori
plastici, dato alle prime ricerche, sta a indicare in
quale senso si presentasse subito il problema della ma¬
teria o della tecnica da un lato, problema di tradizio¬
ne, e d’altro lato, il problema dell’attualità o del sog¬
getto, problema d’ispirazione.
Una medesima scuola proclamava la necessità d’una
pittura metafisica e si fermava a meditare sui valori
plastici non in due momenti distinti della sua attività,
ma in un medesimo momento risolutivo. Era dunque
subito sentita la necessità d’insistere sull’influenza tra-
sfìguratrice dell’intervento della mente anche sulla pit¬
tura che è l’arte meno adatta ad astrazioni per la
stessa specie delle materie cui è legata: polveri intru¬
gliate. Era insieme sentita e affermata, e non poteva
essere diversamente ritrovandosi uniti intelletto e fan-
278 Giuseppe Ungaretti

tasia, la necessità d’una maggiore sicurezza di giudizio


qualitativo da parte del pittore nel suo operare ed era
perciò esteso secondo umanità il significato spesso
arbitrario e meccanico che nel gergo pittorico si attri¬
buisce usualmente al termine di « valori ». Mi dilun¬
go su questi fatti perché sono gli stessi che hanno de¬
terminato non solo l’indirizzo della pittura, ma di tut¬
ta l’arte d’oggi: architettura, scultura, musica, poe¬
sia - e basterà che la critica si decida a non ignorare
più tanta unità perché quest’unità sia finalmente fe¬
conda di risultati pratici invidiatissimi.
Ci spiegheremo come a bambini. Se un pittore, stu¬
diando i maggiori del suo paese, scopre una pura real¬
tà ricca d’effetti nel colore apparso in un dato modo
nel dipinto di un dato maestro, potrà in altri esempi
insigni, cercare la certezza della sua scoperta, e potrà
trovarla confermata dipingendo umili oggetti nei qua¬
li nulla sia in grado di mescolarsi al proprio sentire
purificato così al fuoco della storia.
Pittura dunque di nature morte, dove un frutto o
una conchiglia o un vasetto da fiori non valevano se
non per quel fantasma di colori ch’era in essi e che
esprimeva, insieme a un momento dell’animo di chi
l’aveva evocato sulla tela, il modo di vedere dei gran¬
di. E noi oggi sappiamo vedere i capolavori dei musei
senza servilità, non da plagiari, intendendone la lin¬
gua, sopratutto perché c’è stato un moderno italiano
convinto che un lume a petrolio polveroso o gli albe¬
ri a una cert’ora su un poggio, potevano essere sogget¬
ti d’eccellente pittura.
Pittura di nature morte e pittura di paesaggio. Nel
paesaggio si cercava l’ora, ed anche nelle nature mor¬
te. Non più come la cercavano gli Impressionisti. Non
più un vibrare fugace, istantaneo, inumano della lu¬
ce, che non si sarebbe mai più ripetuto. E non voglia¬
mo affatto negare i meriti degl’impressionisti e del¬
l’Ottocento. L’Ottocento aveva l’ossessione della natu-
Scritti letterari 1918-1936 279

ra, era accecato dal fenomeno fìsico, ciò che in molti


casi gli ha fatto conoscere, sia pure crudamente, la
grandezza e, in ogni caso, riscattare l’uomo da molte
convenzioni, e costringerlo ad un’infinità d’altre com’è
condizione fatale del divenire umano.
A chaque jour suffit sa peine.
Non più l’ora rincorsa come un semplice vibrare
della luce. Ma l’ora trattenuta per sempre, l’ora ricor¬
do d’una rara commozione, l’ora - alba o tramonto o
mezzodì, - l’ora che cercheremo sempre in tutte le
ore, che a tutte le ore sempre ritroveremo. Piazze de¬
serte di de Chirico, infuocati cieli romani di Scipione,
punti di campagna, attentamente prediletti per vecchia
consuetudine, di Morandi, marine di Carrà, popolo di
Rosai: l’occhio nostro non potrà mai più dimenticare
osservando gli aspetti della vita, un’intensità nel vede¬
re che è la vostra.
Ecco dunque farsi vivi nei segni della nostra pittu¬
ra moderna due primi caratteri: forza di sentimento
e assimilata cultura pittorica.
Non sono i soli. Negli Impressionisti, gli oggetti non
essendo considerati se non come emanazione illusoria
della luce, ogni cosa e fatto non essendo considerati
se non come illusione luminosa, spazio e volumi sono
aboliti sotto un pulviscolo luminoso, o meglio sono
ridotti in una massa di molecoluzze di luce. Per es¬
sere troppo fisici, per il pregiudizio dell’esattezza fisi¬
ca, gl’impressionisti erano riusciti a eliminare dai loro
dipinti perfino il senso naturale del sole.
A poco a poco le cose erano diventate tali che la
pittura doveva ad ogni costo prefiggersi di sgombrare
e riconquistare lo spazio, di ristabilire cioè rapporti
netti fra gli oggetti, restituendo a ciascuno funzione
e densità chiaramente definite.
Tale essendo lo stato delle cose, ci sarà dunque fa¬
cile immaginare l’importanza che subito ebbe - la ri¬
conoscevano meravigliati intenditori come Apollinaire
280 Giuseppe Ungaretti

e Picasso - il fatto che un giovane italiano, il pittore


Giorgio de Chirico, esponesse agli Indépendants, qua¬
dri dove la sola preoccupazione <era di chiudere un lar¬
go spazio in tre lati di case, era di mostrare il correre
dello spazio sotto portici, era di dare il senso del sole,
il furore del sole, la solitudine d’un’ora di solleone
mediante il risalto spaziale ottenuto da un’ombra ca¬
duta, lunga distesa per terra, per terra percorribile,
appiè d’una statua o della spalla d’un arco.
E un altro avvenimento notevole: dal 1916, se non
erro, oltre alla funzione costruttiva che va data al gio¬
co dello spazio in un quadro, vediamo Carrà avere di
mira dipingendo, anche la pienezza e la gravità dei
corpi e la potenza delle figure. E come altri per il
colore, nelle nature morte, Carrà, nella chiusa stanza
del Figlio del Costruttore e in altri dipinti, chiederà,
per vedere coronati i suoi sforzi, consiglio alla mag¬
giore tradizione nostra. Sappiamo bene che Cézanne
aveva fatto ricerche analoghe, rimaste premature per
pregiudizi ottocenteschi anche suoi, e per indecisa cul¬
tura.
Dai manichini apparsi colle braccia colme di stru¬
menti d’ingegneria, di altiforni dalle altissime cimi¬
niere, di casamenti operai; dai manichini nei quali
qualcuno ha voluto vedere il mito e la satira del
mondo meccanico e dell’uomo moderno in balia delle
grandi crisi economiche per non avere ancora saputo
trovare un equilibrio fra la potenza dei suoi mezzi ma¬
teriali e la sua forza morale; dai manichini ai cavalli
- quanti cavalli da quel giorno nella pittura europea!
- dai manichini ai cavalli dei Dioscuri scesi dalla piaz¬
za più silenziosa di Roma per avventarsi contro i ma¬
ri tempestosi, un bel viaggio ha fatto anche la fanta¬
sia dei pittori. Ed è giunta a riportare nel nostro spi¬
rito gli antichi miti non come modi neoclassici d’imi¬
tazione oziosamente accademica, ma come figure di
una giovinezza spirituale ritrovata.
RICORDO DEL PRIMO INCONTRO
CON ETTORE SERRA E DELLA STAMPA
DEL 1916 DEL « PORTO SEPOLTO »
[1936]

Parlare di Ettore Serra è un po’ parlare di me, e, salvo


per necessità polemica, e poco volentieri anche in
quel caso, nop amo parlare di me. Mi si potrà oppor¬
re che una volta manifestai il parere che la poesia non
potesse essere se non autobiografica. Aggiungevo però
che l’autobiografia doveva riscattarsi in un’espressione
umana di carattere universale, o non era poesia.
Tant’è, un giorno lasciai che fosse data alle stampe
la mia prima raccolta di poesie, e la colpa fu tutta di
Ettore Serra. A dire il vero, quei foglietti: cartoline
in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi
di care lettere ricevute,... - sui quali da due anni an¬
davo facendo giorno per giorno il mio esame di co¬
scienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, por¬
tandoli a vivere con me nel fango della trincea o fa¬
cendomene capezzale nei rari riposi, non erano desti¬
nati a nessun pubblico. Non avevo idea del pubblico,
e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla
guerra per riscuotere applausi, avevo, ed ho oggi an¬
cora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio co-
m’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità
in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profa¬
nazione - anche quello di chi, come noi, si fosse tro¬
vato in pieno nella mischia. Di più, m’ero fatto un’idea
così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una
guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, col¬
la vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse mi¬
nimamente distinto da un altro fante, mi sarebbe sem¬
brata un odioso privilegio e un gesto offensivo verso
il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più
282 Giuseppe Ungaretti

umile, avevo inteso dare un segno di completa dedi¬


zione.
Questo era l’animo del soldato che se ne andava
quella mattina per le strade di Versa, portando i suoi
pensieri, quando fu accostato da tin tenentino. Non
ebbi il coraggio di non confidarmi a quel giovine uffi¬
ciale che mi domandò il nome, e poi si fece timido, e
gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di cer¬
carmi e di trovarmi in qualche parola, e ch’era il mio
modo di progredire umanamente. Gli stolti risero quan¬
do più tardi sostenni la medesima cosa, che cioè la
poesia non poteva essere se non pura, venendo da un
atto purificatore. Porti il nome di Laura o di Beatrice,
sia vanto dello Stil Novo o dei Provenzali, la poesia
si riconoscerà sempre alla prerogativa della purezza.
Ettore Serra portò con sé il tascapane, ordinò i ri¬
masugli di carta, mi portò, un giorno che finalmente
scavalcavamo il San Michele, le bozze del mio Porto
Sepolto.
Non dico che quella pubblicazione non mi facesse
piacere; ma pure m’è rimasto il rimorso d’avere cedu¬
to, in quelle circostanze, anch’io alla vanità.
Tanti anni da quel tempo. Tante peripezie anche per
il mio gentile Ettore Serra. Sofferti i colpi di tante av¬
versità, anch’egli ha provato a cercarsi nelle parole.
Ha trovato in sé, e ci offre con il presente libro, l’uni¬
co vero ristoro: poesia.
CONFERENZE 1924-1937
a cura di Mario Diacono
*

'

,
PUNTO DI MIRA
[1924]

Il primo compito dell’artista è di far luce in sé. O per


aver seguito, in questo processo di chiarificazione, una
via insolita, o per aver fatto, durante il tragitto, osser¬
vazioni nuove, o per inettitudine, poca destrezza nel¬
l’uso della parola, oppure per non aver ancora in sé,
raggiunto chiarezza, per l’una o l’altra di queste ra¬
gioni, può avvenire che l’opera d’arte presenti a pri¬
ma vista, difficoltà al lettore. Il critico, dovrebbe, nei
primi due casi, illuminare il pubblico, negli altri inse¬
gnare all’artista la via di perfezionarsi nel suo mestie¬
re, e per mestiere intendo un fatto dell’intelligenza,
presupponendo nell’artista vocazione, cioè tutte quelle
facoltà istintive, necessarie a impadronirsi di quella vi¬
ta — e goderne il possesso - sulla quale vorrà porre la
sua meditazione, esercitare il suo controllo, dalla quale
trarrà la sua opera d’arte.
E come esprimerà l’artista, quell’imbroglio di sen¬
sazioni, che gli verrà dall’inconoscibile? Dante era un
credente, conosceva l’inconoscibile. Eppure la Vita
Nuova e il Paradiso, e tutti i passi della sua opera ove
s’affacciano aspetti del soprannaturale, lasciano per¬
plessi gli stessi sofisti più scaltriti. Non parliamo del
Petrarca, così aderente alla fede, quantunque l’inci¬
piente Umanesimo gli facesse insidiosamente balenare
davanti agli occhi una figura tutta profana della bellez¬
za, né del Leopardi che, interamente, conchiudendo e
esaurendo lo sforzo del Rinascimento, può distaccarsi
dall’ideologia e dalla mitologia cristiane.
Quando leggo di Petrarca:
286 Giuseppe Ungaretti

Quel vago impallidir che ’l dolce riso


d’un’amorosa nebbia ricoperse,
con tanta maiestade al cor s’òfferse
che li si fece incontra mezzo ’l viso; 1

oppure :

Amor, che meco al buon tempo ti stavi


fra queste rive, a’ pensier nostri amiche,
e per saldar le ragion nostre antiche
meco e col fiume ragionando andavi;

fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,


valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
porto de Vamorose mie fatiche,
de le fortune mie tante, e si gravi; 2

quando leggo di Leopardi:

Sola nel mondo eterna, a cui si volve


Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dell’antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo;3

oppure:

Silvia, rimembri ancora


Conferenze 1924-1937 287

Quel tempo della tua vita mortale,


Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi? 4

quando leggo poesie di questa qualità, sento che le


parole non contano più nulla, sento una musica che su¬
pera il significato troppo facile, di qualsiasi parola. Il
significato delle parole è una ben povera convenzione.
Guardate i vocabolari! Non solo la strada, ma il sa¬
lotto, ma il pergamo, ma l’accademia, ma il diavolo ci
mettono ogni giorno più confusione. E fortuitamente!
E s’oserà rinfacciare a un poeta d’aver cercato, con
tutti gli scrupoli, d’ottenere dal significato delle parole,
il massimo rendimento?
Come esprimerà l’inesprimibile, uno che non si re¬
puti Dio, che non accetti il dogma, che si consideri
uomo, semplicemente una creatura? Di fronte a que¬
sto gran vuoto della sua anima, a questa sua consape¬
volezza d’essere stato abbandonato a sé, a questa tre¬
menda sua solitudine, quale valore avranno più le pa¬
role? Ecco un dramma moderno. Le parole hanno per¬
so il loro valore religioso. Non dico che l’istinto reli¬
gioso dell’uomo sia scomparso, che la « semenza del
fuoco » sia andata dispersa o possa disperdersi, dico
che un ammasso di dottrine e di fiabe, un assoluto,
una certezza, hanno perduto il loro prestigio. Lo ricon¬
quisteranno? Ieri non è mai diventato domani. Ne
acquisteranno forse uno nuovo. E in attesa d’essere
sorretti da un’altra tradizione, tocca a ciascuno di for¬
marsela andando alla pesca della propria ideologia e
della propria mitologia. Tale è la nostra non invidia¬
bile sorte.
Faccio una questione di parole. La civiltà non ha
altri mezzi per identificarsi.
Leopardi ha senza dubbio fatto un miracolo. Ridu-
288 Giuseppe Ungaretti

cencio le parole al loro significato più ingenuo, al loro


significato strettamente razionale, ha saputo ridar loro
la grazia sorgiva, naturalezza di pudore, la potenza
prudente, un non so che di prisco e un’immensa fre¬
schezza.
Lo citavamo [poco fa] accanto a Petrarca. Avrete
forse notato quel gran divario tra i due sommi, sul
quale vorrei si fermasse la vostra attenzione: ciò ch’è
discorso allegorico in Petrarca, è rappresentazione im¬
mediata in Leopardi.
E così, per un miracolo di semplicità, le parole ri¬
conquistavano quella profondità che ormai negava lo¬
ro la religione.
Per ristabilire l’equilibrio della parola, l’equilibrio
tra sostanza e parvenza, tra contenuto e forma, tra
l’idea e la sua espressione, tra il ritmo nuovo e il si¬
gnificato tradizionale, altre svariate ricerche hanno af¬
faticato i poeti moderni. Non toccherò che di quelle
che sembrano a me più concludenti. Ma prima conce¬
detemi di segnalarvi un caso di squilibrio tra conte¬
nuto e ritmo, - per intenderci. Manzoni è un sommo,
ma non credete che Gesù risorgesse a suon di polka,
come parrebbe dall’inno manzoniano?
Invece della parola diretta, o della metafora, per ri¬
portare in qualche modo l’allegoria nella poesia mo¬
derna, taluni han tentato di manifestare le loro idee
ricorrendo a parole che queste idee suggerissero più
per i rapporti musicali che le connettevano che per
il significato usuale di ciascuna parola. E ciascuna
parola, si può andare a confrontare in Mallarmé, si
arricchiva così, irradiando un mistero lirico inatteso,
d’uno splendore magico, d’una magia che non impli¬
cava interventi di Belzebù, anche avesse implicato, co¬
me in Baudelaire, il gusto del peccato, il rimorso, e
avesse implicato il suo grido disperato, quel grido co¬
me d’uno che s’abbranchi sebbene anelando alle sor-
Conferenze 1924-1937 289

prese del futuro, al passato naufragante, e vegga, co¬


lati a fondo, i propri tesori.
Ma il primo, tra i moderni, a essersi ingegnato, con¬
sapevolmente, sistematicamente, a esprimersi in sen¬
so musicale, è Mallarmé. Leopardi, da noi, Baudelaire,
in Francia, ci arrivano, cercando altro. A proposito di
Baudelaire, e del valore musicale della parola in poe¬
sia, chi potrebbe meglio dell’acutissimo Gide farci da
guida? Scrive dunque Gide, replicando a Faguet buo¬
n’anima:

Quant au Balcon, à la Chevelure, au Jet d’eau, à VIn-


vitation au Voyage, au « magnifique » Crépuscule du
matin (l’épithète est de M. Bourget), etc., M. Faguet
n’en parie méme pas; et je préfère qu’il ignore• ces
poèmes, car je me chagrinerais à penser que, s’il les
avait lus, mème en ne les aimant pas, il n’ait pas du
moins senti, pressenti, qu’il y avait là quelque cbose
de plus que dans Hégésippe Moreau par exemple
(c’est lui qui me propose ce nom), quelque chose
d’inquiétant, quelque chose de louche - quelque chose
de musical.
Musical! vernile ce mot, ici, n’exprimer point seule-
ment la caresse fluide ou le choc harmonieux des so-
norités verbales par où le vers peut plaire mème à
l’étranger musicien qui n’en comprendrait pas le sens;
mais aussi bien ce choix certain de l’expression, dicté
non plus seulement par la logique, et qui échappe à
la logique, par quoi le poète-musicien arrive à fxer,
aussi exactement que le ferait une défìnition, l’émotion
essentiellement indéfinissable:

Mais le vert paradis des amours enfantines,


Les courses, les chansons, les baisers, les bouquets,
Les violons vibrant derrière les collines,
Avec les brocs de vin, le soir, dans les bosquets
- Mais le vert paradis des amours enfantines,
290 Giuseppe Ungaretti

L'innocent paradis, plein de plaisirs furtifs,


Est-il déjà plus loin que l’Inde et la Chine?
Peut-on le rappeler avec des cris plaintifs,
Et l’animer encore d’une voix argentine,
L’innocent paradis plein de plaisirs furtifs? 5

[...] L’apparente improprieté des termes, qui irrite¬


rà tant certains critiques, cette sanante imprécision,
cet espacement, ce laps entre l’image et l’idée, entre
le mot et la cbose, est précisément le lieu que l’émo-
tion poétique va pouvoir venir habiter. Et si rien n’est
plus compromettant que cette permission de ne plus
parler net, c’est bien précisément parce que, seul, le
vrai poète y réussit.b

Valéry, infine, recando la parola ad un grado pura¬


mente astratto, idealizzandola, togliendole sin quasi
l’ultimo vestigio di passività materiale, portandola a
tale stilizzazione che più non evocasse, se non come
una remotissima memoria, la sensazione dalla quale
era scaturita, e messosi così in grado di servirsi della
poesia come d’uno strumento puramente intellettuale,
come d’una ipotesi per inoltrarsi più addentro nella
conoscenza, per orientarvisi con un po’ più di lume,
non s’è servito della parola che per suscitarsi intrecci
e effetti di luci e d’ombre, per acclimare in poesia il
metodo dell’architetto, dato che l’architettura collabo¬
ri coll’atmosfera e che nell’attimo incessante, l’immu-
tabile si situi e si qualifichi.
Ecco confinata l’oscurità!

Siamo da quasi due secoli spettatori di rivolgimenti


radicali, ai quali ci sottomettiamo con tanta prontezza
che quasi non li avvertiamo. Dalla diligenza al veli¬
volo, a che so io, il progresso ci sembra normale. In
fatto d’arte siamo più lenti. Eppure bisogna ammet¬
tere che se tutto è cambiato da capo a fondo, se gli
Conferenze 1924-1937 291

ordinamenti sociali, e la stessa filosofia, cioè le rifles¬


sioni dell’uomo sopra le conoscenze del suo tempo,
cioè l’ansia e l’ambizione dell’uomo di trarre dalle
conoscenze del suo tempo, leggi che abbiano apparen¬
za d’assegnare all’uomo una posizione d’armonia tra
gli uomini e nell’universo, bisogna ammettere, dico,
che se tutto è stato sconvolto, anche all’artista an¬
drebbero riconosciuti un sentimento e un’interpreta¬
zione moderni della realtà. Siamo più lenti in fatto
d’arte, perché l’arte non s’impone bruscamente, bru¬
talmente, improrogabilmente, ma per le vie della per¬
suasione. Quando c’è rinnovamento in fatto d’arte,
si deve aspettare che la nuova tradizione si sia for¬
mata, stagionata, che sia passata nel costume, che non
ci si pensi più, prima che tra pubblico e artisti corra
di nuovo un’intesa.
Un sentimento e un’interpretazione moderni della
realtà esistono, sono innegabili. Valéry m’aiuterà, a
chiarire il mio pensiero:

Jamais Ratine, par exemple, quand il a écrit son illu¬


stre vers:

Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! 7

ne s est imaginé de peindre autre chose que le déses-


poir d’un amant. Rais l’accord magnifique de ces trois
mots, quand le temps le transporte et le fait traverser
le xixe siècle, trouve un renforcement inattendu et
une résonnance extraordinaire dans la poésie roman-
tique: dans une àme de notre époque, il se mélange
merveilleusement à quelques-uns des plus beaux vers
de Baudelaire. Il se détache d’Antiochus, il prend une
généralité pure et nostalgique. Son elegance finte se
transforme en beauté infinte: cet « Orient », ce « de-
sert », cet « ennui », combinés sous Louis XIV, ac-
quièrent un sens illimite, et la puissance d un charme,
292 Giuseppe Ungaretti

par, le fait d’un autre siede qui ne peut plus les con-
cevoir que dans sa couleur,8
f

Leggiamo Iacopone da Todi:

O femene, vardate a le mortai ferute,


ne le vostre vedute - el basalisco mustrate.

peto che 7 basalisco.


Co non pensate, femene, col vostro portamento
quant’anem’a sto secolo mannate a perdemento?
Solo col desiderio, senz’altro toccamento,
.l’aneme macellate.9

Chiederemo noi a queste parole un’ammonizione mi¬


stica? Non mi pare. Noi sentiremo in esse l’assedio
d’una turba voluttuosa d’occhi, la tentazione, i raggiri
della donna, l’insonnia della gelosia, la dannazione del
desiderio.
Leggiamo Cecco Angiolieri. Spiegheremo subito le
parole antiquate. Stremità significa povertà-, mi richèr,
mi vuole-, richadia significa noia.
Non m’arrischierei mai a paragonare, e i paragoni
son sempre sbagliati, il Leopardi a Cecco Angiolieri.
Sarebbe un’eresia! L’indole, la complessione, l’urbani¬
tà, l’istruzione, e il genio, erano diversissimi, è trop¬
po noto! e diversissimi i tempi. Ma, fatta la distanza,
sentite il Leopardi come parla di noia: [...] 10
Sentite ora Ceccaccio:

La stremità mi richèr per figliuolo


ed i’ l’appello ben per madre mia;
e ’ngenerato fu’ dal fitto duolo
e la mia bàlia fu malinchonia;
e le mie fasce si fur d’un lenzuolo
che volgarment’ à nome richadia;
Conferenze 1924-1937 293

da la cima del capo ’rtfin al suolo


chosa non regna’ me che bona sia.11

Non è questo ciò che, cinque secoli dopo, il deci-


monono chiamerà « male del secolo »? E facciamo
ogni distanza, e a farsi ci pensa da sé, e dichiariamo
pure che a questo deH’Angiolieri diamo il nome di
« male del secolo » non per fare paragoni balordi, ma
per rilevare che i tempi nuovi ferocemente hanno ri¬
collocato in noi il sentimento della noia. E vi tornia¬
mo come all’approdo d’un eccesso di raffinatezza. E
parole che, facendo loro calcare la realtà, innestarsi
alla realtà, scorticare la realtà, assumeranno piena ef¬
ficacia di significato, troveremo in Dante tutte le volte
che farà osservazioni psicologiche. E ci accorgeremo
che il divino poeta ha esplorato strati d’un inferno
più profondo di quelli ove scesero un Dostoievski o
un Proust.
E quando Dante, così spesso, indica l’ora, non vien
fatto di avvicinarlo agli Impressionisti e di chiedersi
quando mai dipinsero con altrettanta vibrante fedeltà,
la vicenda del tempo? Ed eccoci avviati nel regno del¬
la musica. Ma lassù regna Petrarca. Lorenzo Montano
con quel garbo ch’è una delle sue tante doti, ha una
volta avvicinato versi del Mallarmé e del Petrarca, e
dimostrato come reciprocamente si riflettessero, e fos¬
sero il medesimo specchio d’uno stesso sogno.
Quanto all’architettura c’è Dante. Il Paradiso è il
Paradiso! Vi han ritrovo tutte le seduzioni della geo¬
metria incorruttibile.
Ecco smaltita l’oscurità.

Ora proponiamoci un altro quesito.


Quali diversi atteggiamenti della mente furono pro¬
vocati dalla necessità di ridare equilibrio alle parole?
Questa domanda mi s’affaccia sempre legata a un’al¬
tra: Se Leopardi avesse avuto la fortuna - e dico
294 Giuseppe Ungaretti

fortuna perché, purtroppo, l’italiano non è lingua in¬


ternazionale com’è tuttora il francese - d’esser tradot¬
to, come Poe, da Baudelaire & da Mallarmé, cosa sa¬
rebbe successo? Leopardi è una mente contemplativa.
Esaurisce l’esperienza romantica infondendo alla pa¬
rola un carattere di serenità. Se Baudelaire avesse do¬
vuto tradurre questa parola, avrebbe portato in essa
il torbido, l’avrebbe corrotta, l’avrebbe resa ambigua,
tendenziosa, drammatica. La mente enfatica di Hugo
aveva gonfiato le parole, le aveva rese mostruose. Bau¬
delaire riceve queste parole enormi, queste iperboli,
v’inserisce il suo spirito critico, e ce le restituisce con
il senso delle proporzioni ritrovato.
Se Mallarmé avesse dovufo servirsi della parola di
Leopardi, se ne sarebbe servito da gioielliere, l’avreb¬
be gelata, resa frivola, ma le avrebbe infuso un bril¬
lamento vaghissimo. Baudelaire ne avrebbe accentuato
il carattere umano, l’avrebbe resa meno metafisica,
l’avrebbe portata a avere un significato fisico e uno
morale, in contrasto, l’avrebbe slogata perché nello
stesso tempo esprimesse, per esempio, il vellutato del¬
la notte e il ribrezzo dei ferri chirurgici.
Dovrei ora parlarvi della mente deformativa, della
mente atroce cioè che si rovescia tutta a corrodere un
dettaglio, ecc. ecc. La farei lunga. E per non farla
lunga, vi risparmierò anche la distinzione che, a parer
mio, andrebbe fatta tra sensazione verbale, prodotta
cioè dalle parole, e sensazione prodotta dalle cose.
Ed ora vorrete scusarmi di parlarvi un poco di me.
I due poli del travaglio artistico, a detta di tutti
ormai, sono la sensazione e l’espressione. Ma tra l’uno
e l’altro, intercede una scala di elaborazione, ed è spes¬
so una salita scabrosissima. Supponiamo il giuoco nel
modo più facile - e non credo di scostarmi troppo dal¬
la realtà -, supponiamo che la sensazione muova gli
affetti del cuore o della mente, oppure del cuore e
della mente: noi dovremo aspettare una conversione,
Conferenze 1924-1937 295

e cioè che la sensazione sia diventata un’idea autono¬


ma, definita, netta, prima di ricercare le parole a que¬
st’idea più strettamente confacenti. Tutto ciò, com¬
presa l’espressione felice può avvenire subitaneamente,
in casi che sono stati detti « illuminazioni », e in casi
di forza d’abitudine, di consumato mestiere. Ma spes¬
so da un grado all’altro intercorre un tempo più o me¬
no lungo. Per passare dall’idea alle parole che la con¬
tengano pienamente, cosa del resto assai problemati¬
ca, che ne mostrino ogni più lieve sfumatura, ci vuole
a volte un tempo lunghissimo. Ciò sia detto per in¬
tenderci quando per brevità, d’ora in poi, non segna¬
leremo che sensazione ed espressione.
Sia per rendermi conto della gravità della parola,
della sua capacità di aderenza alla realtà, delle sue
possibilità di dilatazione e di rimbalzo, in un periodo
in cui, dal Pascoli a Marinetti, l’onomatopeia sembra¬
va trionfare, e invece d’equilibrio della parola si arri¬
vava allo sfacelo della parola, o almeno a un punto dal
quale si ricomincia (e questo sia detto venerando il ge¬
nio virgiliano del Pascoli e riconoscendo straordinari
meriti al futurismo, per varietà di esperimenti audaci
e per fecondità d’attuazioni originali), sia per nativa
opposizione all’abuso della sensazione verbale, del¬
l’eloquenza per l’eloquenza, fui indotto, sin dalle mie
prime cose pubblicate in « Lacerba », a considerare
l’ammaestramento del Leopardi, come l’unico dal qua¬
le si potesse procedere con qualche profitto.
E a addestrarmi a esprimermi con spietata sincerità,
a rinvenire la parola che mi s’incidesse nella sensazio¬
ne, il domicilio coatto della guerra, le grandi ore della
vita e della morte a tu per tu, il grande isolamento di
tre anni di trincea, non furono che l’ambiente più pro¬
pizio :
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
296 Giuseppe Ungaretti

' scavata è nella mia vita


come un abisso}2
9

Di quel periodo, le mie poesie potrebbero essere


divise, in un modo molto grossolano, in due gruppi.
Il primo gruppo comprenderebbe quelle poesie, bre¬
vissime, nelle quali, scegliendo tra cento sensazioni,
ho cercato di esprimere quella che, parendomi una sin¬
tesi di tutte le altre, permettesse al lettore, se non di
fare il medesimo viaggio della mia fantasia, di avere
cioè il preciso complesso di sensazioni dal quale ave¬
vo tratto il mio canto, di mettersi in uno stato di so¬
gno analogo:

SERA

Balaustrata di brezza
per appoggiare la mia malinconia
Versa il 22 maggio 1916

[DANNAZIONE]

Chiuso fra cose mortali


anche il gran cielo stellato finirà
perché bramo Dio

Mariano il 29 giugno 1916

SONO UNA CREATURA

Come questa pietra


del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Conferenze 1924-1937 297

come questa pietra


è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo
Valloncello di Cima 4 il 5 agosto 1916

[VANITÀ]

Mi sono curvato
sull’acqua
sorpresa dal sole
e mi rinvengo
un’ombra
cullata
e
piano
franta

Vallone il 19 agosto 1917

SOLITUDINE

A Giannotto Bastianelli

Ma le' mie urla


feriscono
come i fulmini
la fioca
campana del cielo

E sprofondano
impaurite
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
298 Giuseppe Ungaretti

Le poesie del secondo gruppo sono quelle che si


prefiggono 1’evocazione di un dato ambiente d’emo¬
zione, dando delle sensazioni, simultanee o successive,
provate in quella sfera lirica, l’elenco. Naturalmente
anche qui, come sempre in arte, entra in giuoco un
certo arbitrio, un certo gusto, un certo criterio di rior¬
dinamento. Si tratta della semplice esposizione di sen¬
sazioni colla quale Rimbaud, e in seguito Mallarmé e
Verlaine e Apollinaire, ecc., nei limiti del possibile, e,
da noi, i futuristi, con un po’ più di spregiudicatezza,
colle parole in libertà, han cercato di sostituire, in
poesia, la vecchia logica delle associazioni d’idee. La
differenza tra le mie ricerche d’allora e quelle dei se¬
guaci di Marinetti consisteva in questo, che, mentre,
come nelle poesie del primo gruppo, fedele al Leopar¬
di, non usavo la parola che quando mi sembrava aves¬
se raggiunto una pienezza di contenuto morale, essi,
i futuristi, non chiedevano alla parola che un’impres¬
sionabilità fisica.
Ora vi leggo una di queste poesie. S’intitola Lin-
doro di deserto. Perché Lindoro? Perché è l’alba. Per¬
ché questa mia poesia è un po’ ciò che i francesi chia¬
mano un’« aubade », quel concerto, quella « serenata »
che si fa all’alba; perché Lindoro mi sembrava il perso¬
naggio della commedia più adatto a quest’allegria; per¬
ché Lindoro mi suona come il colore dell’alba. Per¬
ché deserto? Perché sono in trincea. Dicono i primi
versi: « Dondolo di ali in fumo / mozza il silenzio
degli occhi ». Silenzio degli occhi, perché tutta la not¬
te il soldato era rimasto senza sonno, e nell’oscurità i
suoi occhi, benché aperti, erano senza visione, erano
silenziosi. Dondolo di ali in fumo, e cioè l’oscillare
della prima nebbia rischiarata e che somiglia ad ali
che svaniscono, mozza il silenzio degli occhi, taglia
d’un tratto, fa cessare improvvisamente il silenzio de¬
gli occhi, dà agli occhi una visione, suscita per gli oc-
Conferenze 1924-1937 299

chi un colloquio. Negli altri versi si prosegue la de¬


scrizione dell’alba.

LINDORO DI DESERTO

A Giuseppe De Robertis

Dondolo di ali in fumo


mozza il silenzio degli occhi

Col.vento si spippola il corallo


di una sete di baci

Allibisco all’alba

Mi si travasa la vita
in un ghirigoro di nostalgie

Ora specchio i punti di mondo


che avevo compagni
e fiuto Vorientamento

Sino alla morte in balia del viaggio

Abbiamo le soste di sonno

Il sole spegne il pianto

Mi copro di un tepido manto


di lindoro

Da questa terrazza di desolazione


in braccio mi sporgo
al buon tempo
Cima 4 il 22 dicembre 1915

« Questa virtù semplice e ingenua è stata mutata


in una scienza oscura e sottile. » Ricorro al detto di
300 Giuseppe Ungaretti

Seneca per spiegare la mia attività artistica del dopo¬


guerra, e, credo, se non per altro, per la probità di
cui è stata e sarà mia mira costante di dar prova, di
non meritarmi accuse di presunzione. Il fatto sta che
lo studio attento di alcuni poeti moderni francesi - e,
come sa ognuno, in tutta la nostra storia letteraria, e
in casi esemplari, la poesia d’oltr’alpe ha sempre avu¬
to una funzione indicativa, - il fatto sta che lo studio
del Baudelaire e del Mallarmé mi ha indotto a uno
studio meticoloso, intrinseco, del Petrarca.
E così mi assediarono sopratutto preoccupazioni
d’indole musicale.

ALLA NOIA

Notti fluenti ma senza desio


quando nel mezzo d’un folto risorse
l’esile corpo verso cui m’avvio
Le tralucea la mano che mi porse
che s’allontana quanto vo vicino
Eccomi perso in queste vane corse
E non impreco supplico il destino
ch’ella non arda mai gli anni che mino

D’una mano fede mi dona


dall’altra disperanza,
affabile madonna
che aggioga alla follia
Quale fonte timida a un’ombra
anziana di ulivi, mi addorma
le sue labbra assetate brami
ma più non le rimorda
Roma il 19 luglio 1922

Come avrete notato, l’intenzione musicale mi ha


qui indotto all’uso di rime, di assonanze, di allittera¬
zioni. Per rendere più oggettiva l’immagine, per otte-
Conferenze 1924-1937 301

nerne un maggior distacco, un maggiore allontana¬


mento, per vedermela meglio apparire davanti agli oc¬
chi come un oggetto di contemplazione, avrete visto
anche che non ho esitato a chieder aiuto a arcaismi.
In fatto di tecnica mi pare che ci sarebbe, da noi, da
parte dei teorici, un lavoro sistematico da compiere.
Dai primitivi ad oggi si sono accumulate risorse infi¬
nite. Non so se la poesia nostra possegga come l’ara¬
ba, sedici mari, cioè sedici modi diversi di metter in¬
sieme consonanti e vocali; ma so che si farebbe bene,
da noi, a insegnar a legger i versi, battendo il tempo,
come fanno ancora gli arabi. Ci si accorgerebbe d’una
cosa fondamentale, anche in poesia, e cioè che il tono
dipende dalla misura, e che tono e misura, a parte ciò
che ci sarà di personale nell’arte del lettore, non sono
più oggi quelli di una volta, che il modo di leggere è
anch’esso sottoposto, come ogni interpretazione, come
ogni manifestazione di sentimento, a adattarsi ai tempi.
E, mentre ero così assorto nello studio dell’atmo¬
sfera musicale della poesia, del grano e dell’influsso
germinativo dell’incantesimo poetico, le osservazioni
fatte man mano nella pratica del mio mestiere, mi si
andavano coordinando in unità, e mi nasceva, nel 920,
la prima idea della mia poesia La Morte di Crono,
della quale fra poco vi leggerò qualche brano, e del¬
la quale, nella raccolta di poesie mie pubblicata l’anno
scorso,13 ho dato un frammento intitolandolo Le Sta¬
gioni,14
Ho pensato che, partendo dalla crudità della sensa¬
zione, calando nel limbo melodioso dell’inquieta fan¬
tasia, di lì spiccando l’anelito verso la perfezione, ver¬
so la stasi delle forme ideali, e da quella pura visione
dell’intelletto ricadendo a trar vigore dalle radici, o a
vagare, ecc., ho pensato che, costituendosi così un’al¬
ternativa perenne, com’è la vita, il poeta moderno po¬
tesse disporre d’uno strumento agile che 1 agevolasse
302 Giuseppe Ungaretti

nei' suoi tentativi di perlustrare, con mezzi propri, il


mondo lirico cui giunsero gl’insigni.
Nella mia poesia La Morte di Crono mi sono ispira¬
to a quest’idea antica: l’uomo appartiene all’ordine
temporale. E a simboleggiarlo ho quindi scelto l’an¬
tico simbolo: le quattro vicende del giorno e le sta¬
gioni dell’anno. E la parabola dell’anno e quella del
giorno sono forse eterne figure dell’armonia universa¬
le, mentre l’uomo non è che un punto tra due infini¬
ti oblìi. Il silenzio della tomba è uguale a quello di
prima della culla. È l’eternità. Ma l’uomo in vita, non
s’affanna che a volere, invano, percorrer da vivo, co¬
sciente, colla sua intatta persona, la sua patria silen¬
ziosa, l’eternità. Ho voluto dire che l’uomo, creatura,
fatto temporale, si porta, morendo, con sé il mondo,
il quale con lui era nato, cresciuto, con lui era giunto,
quando ci arriva, all’apice della salita, e poi, appiè del
declivio.
La Morte di Crono è divisa in tre cantiche: Le Sta¬
gioni, L’Argonauta, La Morte di Crono-, la prima e la
seconda cantica, in diversi canti. Non si tratta per ora
che di un abbozzo. Molte parti non esistono quasi, o
esistono malamente, di primo getto, e il lavoro di li¬
ma è tutto da farsi.
Ho pensato di dover ricorrere alla forma dialogata.
Gl’interlocutori sono l’Adolescente, l’Uomo, Clio che
rappresenta la meditazione sopra il corso degli eventi,
il Coro che rappresenta una certa unanimità di senti¬
menti, Eco che rappresenta le cose lontane, la memo¬
ria, la nostalgia, la speranza.
[POESIA E CIVILTÀ]
[1933/1936]

In una inchiesta indetta alcuni anni fa da una rivista


belga,1 si domandava se il poeta dovesse scegliere fra
l’umano e il sovrumano. In verità non mai domanda
mi sembrò dimostrare meglio le difficoltà nelle quali
si dibatte uno spirito moderno. O anzi: nessuna do¬
manda poteva meglio portare a riflettere sul cumulo
d’errori che dividono gli uomini d’oggi.
Mi tornava anche in mente, e proprio ascoltando al¬
la Cooperazione 2 un amabile filosofo cattolico, quello
che avevo sentito sostenere in un certo recente libro
di filosofia, e cioè ch’era questa che trascorriamo, « la
prima volta » che l’uomo si sarebbe accorto d’ignorare
tutto di sé. (Una cosa è sicura, direi: non s’è mai sen¬
tito dire tante volte quante in questo secolo, anche a
proposito d’una mosca che vola: è la prima volta!)
Quel filosofo, che si diceva filosofo antropologo, fat¬
ta la sua constatazione, non si fermava e ci promet¬
teva nientemeno che di metterci sulla strada che ci
avrebbe portato a conoscere tutto dell’essenza e del¬
l’origine umana.
Dunque l’attuale turbamento della storia sarebbe
prodotto dal non sapere ancora esattamente che cin¬
que correnti fondamentali d’opinione divideranno sem¬
pre gli uomini: c’è il solito uomo religioso; c’è, dice
quel tale filosofo, il solito homo sapiens, che sui fon¬
damenti di Anassagora, Platone, Aristotile, crede nel¬
la supremazia della ragione; viene, terzo, che fa i con¬
ti coll’istinto, Yhomo faber\ 3 il quarto tipo generale,
è il superuomo, bel tipo che, non rassegnandosi al¬
l’idea di non essere Dio, lo nega; infine, arriva un
304 Giuseppe Ungaretti

uomo strano e da sé così si definisce: « L’uomo è una


scimmia colpita d’infantilismo, una scimmia con una
secrezione interna disturbata, una prescimmia ». Per
quella povera scimmia, tutti i concetti sarebbero frut¬
to di debolezza biologica, e lo spirito non sarebbe che
un parassita metafisico incrostatosi fra la vita e l’ani¬
ma per distruggerle.
Il nostro tempo è allegro. Anche i filosofi diventa¬
no romanzieri.
Una prima cagione d’errori da parte di chi vorreb¬
be fare dell’essere umano un mostro dalle due o ses¬
santa teste, è il non prendere in considerazione l’im¬
portanza che nell’ordine sociale ha ogni nuova con¬
quista di mezzi da parte dell’uomo. Ogni nuovo mez¬
zo porta fatalmente una variazione nei rapporti, fa
nascere contrasti d’idee, provoca asprezze di situazio¬
ni, chiede senza fine all’uomo sofferenza, coraggio,
amore. È la condizione umana.
Un’altra cagione d’errori è quella di credere che tut¬
to consista nei mezzi, di credere in una trascendenza
dei mezzi, di dimenticare ch’è l’uomo, lo spirito uma¬
no che si foggia sempre nuovi mezzi per un suo mi¬
sterioso destino.
A riguardo della pittura e della statuaria della se¬
conda metà dell’800, ho sentito esprimere quest’idea:
che la faccia umana è, salvo rare eccezioni, in quei
ritratti, senza dignità. Ho avuto di recente conferma¬
ta quest’orrenda impressione, visitando il museo d’ar¬
te moderna di Buenos Aires.4 Nessuna meraviglia:
quando si ha per norma che è nulla lo spirito dell’uo¬
mo, non « vero », non « naturale », non essendo visi¬
bile, non lasciandosi prendere dalla macchina fotogra¬
fica; quando si presume di rappresentare il carattere,
la vita, le aspirazioni, il segreto di una persona uma¬
na esagerando la deformità d’un connotato, o comec¬
chessia con un espediente; quando si professano simi-
Conferenze 1924-1937 305

li teorie, nessuna meraviglia che ne siano mortificati


gli effetti.
Guardatele, quelle facce! Non hanno né santità, né
lussuria. Hanno smorfie, senza motivo.
Un viaggiatore, di recente, trovandosi in mezzo a
Indiani dalla faccia tatuata e pensando, suppongo, al¬
l’indecente spettacolo che per tanto tempo le arti fi¬
gurative ci hanno insegnato a vedere nella faccia dei
Bianchi, faceva una profezia: « La faccia, orrore! è
ora di farla sparire. Il tatuaggio anche da noi, vedre¬
te, verrà su presto, con i suoi spiriti folletti, a libe¬
rarci la vista da una malinconica materia. Rimarran¬
no veri, in mezzo al calmo sipario, pazzi, gli occhi ».
No! Raccontava Pico della Mirandola una bella fa¬
vola. Il Signore, fatti gli angioli, i diavoli, le vipere,
i leoni, le stelle, il pioppo, il ruscello, le nuvole, il
ciuchino, il sole, l’ortica, tutte le altre cose, non gli
restava più da fare che l’uomo. Le qualità, a ciascuno
la sua, le aveva già distribuite tutte. Ma il Signore
non si perde di coraggio. Impasta l’uomo. « Senti »
gli dice « qualità da dartene non ne ho più, ma sei
d’una pasta che può avere la qualità che vuoi. In te
ci sono tutte le possibilità, la celeste e la vile, puoi
essere come un marmo, come un vegetale o come il
fuoco. Il tuo destino, fattelo da te. »
Cari pittori, e poeti e romanzieri e scultori del ’900,
di facce ce n’è gran varietà. Ma solo di nuovo imparan¬
do a leggere l’invisibile nel visibile, sarà loro restitui¬
ta quella dignità che hanno, - ricorriamo a un maestro
che non induce mai in errore! — che hanno, in Dan¬
te, perfino i dannati.
Ciò che dunque innanzi tutto affermiamo, è l’unità
della persona umana.
La civiltà mediterranea, la nostra, la vostra civiltà
nella sua estensione, ha incominciato coll’andare sino
alle sponde dell’Indo, ha formato l’Europa e questo
vostro nuovo mondo. La civiltà mediterranea, in mez-
306 Giuseppe Ungaretti

zo àlle influenze esercitate o subite, alle reazioni pro¬


vocate o provate, s’è sviluppata applicandosi a scioglie¬
re difficoltà dell’ora, difficoltà per conseguenza legate
al divenire dei mezzi e, nel medesimo atto, ad affron¬
tare problemi d’ordine universale e i problemi del¬
l’eterno.
La nostra civiltà è dunque stata sollevata senza re¬
quie dal tragico umano, poiché nella sua idea della
persona umana, e per estensione della natura e del¬
l’universo, essa non s’è mai staccata dall’idea di uni¬
tà. E infatti, il tragico dell’uomo, e per estensione del¬
la natura e della società e dell’universo - essa non
riesce a concepirlo se non come conseguenza d’un er¬
rore di misura. Non so: tutte le forze dell’anno tese
verso l’adempimento dell’attimo felice d’una stagione,
oppure tutto l’essere umano teso per desiderio o per
rimpianti verso quel punto supremo della vita ch’è la
gioventù. Un venir meno o un eccesso, e il corso del¬
le cose declina e si rinnova.
Dicevamo misura.
Non vi sembra che converrebbe ridare di nuovo al¬
la parola ragione, alla grande parola ragione il suo
senso semplice? E intenderla di nuovo senza sforzarne
il senso, già di per sé vastissimo se essa è la facoltà
che ha l’uomo di distinguere fra più cose, la migliore
per bontà, per bellezza, per utilità.
Dicevamo unità: e difatti la ragione non risiede in
un particolare settore dell’essere; ma circola in tutto
l’essere e si manifesta tanto per le vie dell’intelletto
quanto per quelle del sentimento, tanto nel gusto
quanto nel sogno.
Vorrei dunque alla buona considerare la ragione
come misura dell’essere, e dal modo ch’essa apparirà
inugualmente viva e attiva nelle diverse facoltà d’un
essere, e dal modo ch’essa inseguirà l’alternarsi d’ec¬
cessi e di difetti ritracciandoci l’unità d’un’epoca e
d’un essere, impareremo a fare delle distinzioni mol-
Conferenze 1924-1937 307

to meno superficiali di quelle della critica romantica


ancora imperante.
Non sarà dunque per noi se non oggetto di medi¬
tazione e d’insegnamento il fatto che un eccesso di sen¬
timento porti all’enfasi, e un eccesso d’intelletto ai so¬
fismi grammaticali, e un eccesso di sensualità al liber¬
tinaggio, e un eccesso di sogno alla pazzia.
È da un’altra pazzia che vorremmo guardarci, dalla
pazzia di dare alla ragione un valore in sé, un valore
d’idolo che sarà, secondo i casi, sviluppo mostruoso
d’un’astrazione o canone cristallizzato: in tali casi,
sia essa accademismo o verismo, l’arte sarà soverchia¬
ta dalla materia, e l’uomo più non ci apparirà come
quell’essere che ha in sé tutte le qualità e la libertà di
scelta, che è modellato, in questo senso, sull’eterno;
ma ci apparirà decaduto allo stato di bestia o d’auto¬
ma.
Questa è la ragione. E il mistero cos’è? Se lo sapes¬
si non sarebbe più mistero. Esso è della vita e del¬
l’essere, esso è dell’eterno e del tempo. Senza mistero
non ci sarebbe tragico umano, poiché questo tragico,
secondo leggi che non potremo mai conoscere e che
saranno sempre mistero, oppone il limite temporale
alla libertà dell’essere. Ma se la ragione è misura uma¬
na, il mistero è misura divina, è assoluto. Ciò che so
è che subordinando i suoi atti al mistero, 1 uomo può
muoversi in libertà e giustizia. È - non so - una
grazia che mette in armonia sensi, pensieri, sentimenti
e sogni.
Non con stupore ho letto un giorno che, nel paese
di Darwin e di Spencer, il vescovo Gore aveva pub¬
blicato un libro per dimostrare indegni di fede alcuni
fatti narrati nella Bibbia, e fra gli altri quello di Gio¬
na.
Mi stupiva invece che delle persone di buon senso
fossero intervenute per sostenere che un miracolo po¬
teva umanamente spiegarsi.
308 Giuseppe "Ungaretti

Citavano, per esempio, il caso segnalato da Sir Fran¬


cis Fox. Nel febbraio del 1891, presso le isole Falk¬
land, alle prese con una balena, un battello si rove¬
scia, e uno dei fiocinieri, James Bertley, è dato come
scomparso.
Vinta l’indomani la balena, issandone a bordo lo
stomaco com’è uso dopo averla tagliata, fu visto pal¬
pitare. Subito aperto, chi si vede? Bertley! Vivo e
sano.
Se casi simili accadono anche oggi, il racconto del¬
la Bibbia è dunque vero? Questo si voleva dimostra¬
re? Non si tratta di questo. Si tratta d’una visione
umana, e quindi puerile, del mistero. Non sul modo
di esprimerlo, ma sul mistero era urgente pronunziarsi.
In ogni nostra vicenda possiamo possedere o non
possedere quelle antenne che mettono l’effimero in
relazione coll’eterno; ma il mistero lo si accetta o lo
si nega, non ci sono vie di mezzo. In questi casi, la
posizione più vile è quella di mettersi a cavillare.
Dio, dice il libro antico, ha fatto l’uomo simile al¬
l’ombra. E quando si sarà dileguata, allontanatasi la
luce, chi saprà giudicare dell’ombra? Dico: perso il
riferimento all’assoluto che rende la ragione ragione¬
vole appunto perché ad esso assoluto s’oppone, si ca¬
de necessariamente nella confusione e nell’assurdo.
L’umano o il sovrumano? S’è cercato di dimostrare
sin qui ch’erano la medesima cosa: sono l’umano. Voi
non pensate, come l’allegro antropologo di cui all’ini¬
zio di questo discorso v’ho narrato la storia, che gli
uomini vadano divisi per nature speciali, e che un
artista, un poeta, sia un essere d’una natura privile¬
giata o maledetta. Voi sapete che, come ogni uomo,
egli appartiene a un tempo, a un paese, a un ceto e
all’umanità, e che la sua missione si limita a interpre¬
tare, confessandosi, qualche cosa che appartenga a
tutti. E per questo l’artista, il poeta, nella sua ade¬
sione, lo sappia o meno, alle circostanze sino nel loro
Conferenze 1924-1937 309

segreto, cerca di ristabilire un’unità nell’essere, di ri¬


trovare una serenità. E per questo, se noi vogliamo
conoscere a fondo un dato momento della storia, noi
dobbiamo interrogare gli artisti, i poeti. Sono essi gli
interpreti più veri per i secoli, del divenire d’una ci¬
viltà.
S’è parlato tanto in questi ultimi anni dell’aderenza
ai tempi, della necessità dell’aderenza ai tempi. I più
ragionavano come l’antropologo.
In realtà nell’opera d’arte la testimonianza del tem¬
po è in quel giuoco d’eccessi e di difetti, gli uni com¬
pensando gli altri, attraverso i quali l’essere va in
cerca della sua unità. Dalla sua struggente profondi¬
tà il tempo a questo modo varia le sue apparenze.
Aderire ai tempi è dunque manifestare un moto in¬
terno e non un imitare a caso un oggetto piuttosto
che un altro, e non uno sbriciolare l’uomo fuori della
realtà e convenzionalmente.

Sono un poeta,
Un grido unanime...

Ma vogliamo un po’ vedere nella storia se alle vol¬


te non mi fossi ingannato?
Per esempio: qual’era lo stato della società nel
mezzo del Dugento? Ce lo dirà meglio di qualsiasi cro¬
nista, Guittone d’Arezzo. Un poeta, e fondatore nelle
sue lettere della prosa letteraria italiana, un poeta che
sa d’essere oscuro, e non gliene importa un fico secco,
avendo tante cose nuove da dire e insegnare a dire,
un poeta ci fornirà il documento più profondo sul con¬
flitto fra la borghesia nascente e il morente feudali¬
smo.
E del tempo feudale, chi ci fornirà un’idea esatta?
Si partiva per l’ignoto, per lontanissime gesta, e nel¬
l’infinita assenza, nell’odissea per ritrovare la via del
ritorno andava formandosi della lontana donna ama-
310 Giuseppe Ungaretti

tapin cima alla scala dei patimenti, un’immagine su¬


prema. Ecco nascere l’amore cavalleresco, l’amore fon¬
te di cortesia e di coraggio.' Colle idee civiche di
Guittone e seguaci, detto amore si fa stimolo al bene
sociale. Non è privilegio di nessuno, è la sofferenza
di Gesù nella furia di Jacopone che interpreta il po¬
polo umiliato dall’eccesso di lusso dei ricchi, rivoltan¬
dosi contro ogni bene terreno, impedimento a unirsi a
Dio. È poi amore, ch’è purificante amore, e diventa in
mezzo alle feroci lotte delle fazioni, l’apice d’una fer¬
rea gerarchia che s’allontanava desiderata: Beatrice è
l’arbitro della virtù d’un uomo, è il tramite fra l’uo¬
mo e Dio: è l’interprete del supremo amore: cono¬
scenza della causa, del segreto delle leggi.
E in tutti i sensi la storia d’una società e d’una
cultura si ritrova nelle manifestazioni dell’arte. Guar¬
date per la cultura del Medio Evo. Ci siamo dilun¬
gati in un’altra occasione in proposito parlando del
Petrarca.5 E di ciò che allora dicevo di Dante, voglio
insistere sopra un punto che nel discorso d’oggi par¬
ticolarmente ci riguarda. Poiché Dante si servirà in
modo prodigioso delle enormi conoscenze sulla natura
umana e sulla società accumulate dalla Chiesa, e poi¬
ché, per aderire alle prime manifestazioni d’autono¬
mia nazionale, nello stesso tempo egli abbandonerà
risolutamente la lingua che aveva permesso alla Chie¬
sa d’estendere e d’arricchire lo spirito da essa eredi¬
tato, nessun’opera, penso, meglio della Divina Com¬
media, risponde all’idea che ho esposto del tragico
umano: questa opera segna il culmine d’un tempo ed
insieme il declinare di questo tempo ed insieme i
primi sintomi d’un tempo nuovo.
Nessun’opera potrà mai rispondere meglio allo spi¬
rito mediterraneo; essa è tutta percorsa dal senso del
diritto, è dunque universale poiché il senso sociale
non le è estraneo; essa ha un chiarissimo senso del
rapporto fra effimero e eterno; ha un acutissimo sen-
Conferenze 1924-1937 311

so della natura poiché ha un senso così attivo del tem¬


po; essa ha infine un senso costante del mistero poi¬
ché il senso della natura e dell’eterno sono in lei così
tragicamente legati.
Per l’uomo del Medio Evo anche l’idea del be¬
ne era cristiana, e nella libera lotta della sua ani¬
ma, egli cercava la salvezza. Ma ecco che il bene è
pagano, satanico, e solo il male cristiano. Questa è
la tensione dell’uomo del Rinascimento. E Miche¬
langelo meglio di tutti la incarna, lui discepolo in¬
sieme del Savonarola e del Ficino. In Michelangelo
- anche in Michelangelo poeta - appare netto l’ur¬
to fra l’idea della bellezza (identica a bene, identi¬
ca a bontà) colta dalla proiezione platonica nel di¬
vino delle umane proporzioni, e la notte, l’ombra
che dà vita al viso e che parte dagli occhi, la notte
che ci viene dalla debolezza, dalla malinconia della
carne, dal sentimento che tutto il creato è corrotto
dalla morte, che principiando a vivere si principia a
morire. È quella notte che proviene dalla scissura tra
fisico e morale e che ci frutta, dopo Gesù, l’orrore e
l’analisi e la responsabilità del male, e l’attaccamento
al male come a una nostra creatura disgraziata, come
a una Maddalena bollente nelle nostre vene e che tor¬
nerà innocente per colmo di peccato. Quest’atletico
miscuglio di cupidigia e di pietà e di contemplazione
indica in Michelangelo un Cristiano nel quale l’idea
greca rinasceva da quella potenza dell’idea romana
che la stessa idea greca aveva in parte suggerita, e si
perfezionava nell’urto coll’idea cristiana, portando l’i¬
dea cristiana alla sua pienezza drammatica.
Qui il tragico umano è aspro, ma tende, per la sua
stessa asprezza, per il suo carattere estremamente
drammatico, a oltrepassare il senso esclusivo del male
e del rimpianto che si svela coH’Umanesimo, ed a
riaccostarsi al senso del bene e dell’azione.
L’Umanesimo aveva preso le mosse, mi pare, da due
312 Giuseppe Ungaretti

errori, se la parola errore ha senso quando si voglia


rappresentare la successione storica degli avvenimen¬
ti, successione sempre fatale. •
L’Umanista, quando trovava che tutto era vano
quaggiù, era mosso dallo stesso errore di Jacopone -
per seguire, è vero, tutt’altra direzione.
Commetteva un errore più grave: poneva l’avveni¬
re nel passato, nella memoria: non aveva verso di sé
nemmeno la pietà di fondare l’avvenire sopra uno
stato declinante; lo fermava nella morte; dava al pas¬
sato un senso d’assoluto e d’eterno e smarriva gra¬
dualmente così il senso del divino; la natura e il tem¬
po assumevano per lui un senso inattuale e il tragico
umano s’avanzava verso quel senso che Leopardi e
Baudelaire, i due maggiori poeti dell’800, ci svele¬
ranno interamente; il senso d’una decadenza irrime¬
diabile.

Andiamo avanti.
L’Umanesimo e la Rinascenza avevano stabilito il
loro campo d’avventure nell’Antichità. Avevano dun¬
que indotto la fantasia a dipendere dalla memoria.
Un’idea simile della fantasia doveva naturalmente es¬
sere portata a confondersi coll’idea del nulla di que¬
sto mondo così cupamente proclamata da Jacopone.
Ed ecco Leonardo. Oh! sarà tanto più desolato: e
penserà che la metafora sta tra la facezia e la pro¬
fezia, e ridurrà l’idea che del mistero possono farsi gli
uomini a una semplice figura rettorica. Sarà perché
sulla terra era ricomparso in carne ed ossa il diavolo
e bruciavano le streghe sulle piazze? Come aggravate
la trasformazione dell’uomo e la nozione del mondo
apparse al Petrarca! Ma se noi guardiamo i poeti del
Quattro e Cinquecento, come questo senso dell’esula-
zione del mistero è sentito! E come il divertimento
e un’acre curiosità, e un calcolo furioso diventano lo
scopo e l’aspirazione della vita.
Conferenze 1924-1937 313

Mi spiegherò meglio. Con Leonardo, gli occhi del¬


l’Umanista si sono interamente aperti. Non c’è nem¬
meno più Laura; nemmeno l’illusione dell’infinito! Ec¬
co il nudo d’un pittore primitivo, - notate: d’un pri¬
mitivo, non d’un selvaggio - esso è coperto di mi¬
stero. Il pudore era nell’animo dell’artista. Nel crea¬
to, egli sentiva la grazia: il Signore, che anche quan¬
do colpiva era per il bene, era lodato nelle sue opere.
È un mondo di adolescenti. Il sentimento del bene
era comune. Ecco invece un quadro del Tiziano: ciò
che rende commoventi quelle opulenze, è di sentire co¬
me dentro quella vita, vegli, e dia disperazione, la
morte! Tale è il sentimento nuovo: tutte queste me¬
raviglie, il nostro desiderio, tutto ciò è vanità: gioia
che s’espia nel medesimo tempo che si prova; e sem¬
pre più colla fuga degli anni. Patire senza scopo né
colpa! C’è in un commento al Petrarca del Castelve-
tro, una spiegazione. Per etimologia, dice il Castelve-
tro, leggiadro significa che riduce la noia. È una spie¬
gazione terribile. In tali condizioni, con tale animo,
per vincere il tempo, per separarsi un po’ dalla natu¬
ra, spietata allettatrice, adorabile follia, il pudore non
aveva che una risorsa, gli accorgimenti, il funamboli¬
smo del puro mestiere: una risorsa, un mistero iro¬
nico!
Prendendo gli esempi in un certo numero di secoli,
abbiamo cercato di formarci sino qui sopratutto un’i¬
dea del come potevano intuirsi, secondo i dati della
civiltà mediterranea, i concetti d’assoluto, di mistero,
d’eterno rispetto all’opera d’arte, rispetto cioè a un
fatto temporale necessariamente legato al variare.
Ora si vorrebbe dire più particolarmente qualche
cosa di quegli eccessi e difetti, di quella sofferenza -
solo in una parola così viva: sofferenza, trovo l’uma¬
nità di ciò che vorrei fare capire - di quella sofferen¬
za che rende apparente il variare del tempo.
314 Giuseppe Ungaretti

Siamo arrivati al Seicento, e nessun secolo potrà


conoscere maggiori eccessi: eccessivo dunque anche
nei difetti. Ma non un secolo» piccolo, torniamo ad
affermare, sebbene un secolo calunniato, ma un secolo
veramente grande. Pensate: è un secolo che va da
Rembrandt al Borromini, da Pascal a Galileo: un se¬
colo immenso. È il secolo nel quale mondo, fantasia
e il nulla, divengono apertamente sinonimi.
La fantasia forse sarebbe un modo, spesso ingan¬
nevole, di giudicare dall’apparenza delle cose? Ciò
posto, è l’arte mossa unicamente dalla fantasia e ten¬
de essa a non avere effetto che sulla fantasia? Ne è
convinto, se non sbaglio, un Pascal, e intende l’arte
nella sua accezione più vasta: l’arte di dipingere un
quadro, come l’arte di guarire un malato o l’arte di
governare una nazione: tranne la morte, egli dice, tut¬
to il resto sono cose dipinte.
Nel considerare le cose in simile modo, è posta a
regola nelle relazioni temporali la magnificenza, la
fantasia essendo, dice sempre Pascal, una facoltà che
riduce le grandi cose alla nostra statura e ingigantisce
le piccole, ossia una stima stolta delle illusioni, delle
vanità.
Questo senso dell’inganno e della vanità delle cose,
questo senso di « cose dipinte » è difatti il Barocco,
anima e corpo: in quei monumenti, gli spazi veri, di¬
visi da colonne di vera pietra dura, sembrano spazi
immaginari, raffigurati su due dimensioni; e le colon¬
ne, ombre appena. Allo stesso modo, sarà marmo lo
stucco, gli spazi finti appariranno veri, e le prospetti¬
ve su due dimensioni, infinite.
Che l’idea di fantasia sia legata a quella di magni¬
ficenza, è agevole fornirne la prova. Il viaggiatore di
ritorno dalla Grecia, reca con sé lo stupore del rap¬
porto assolutamente sproporzionato tra le opere la¬
sciate dall’Antichità e quei luoghi e l’uomo. La misu¬
ra usata nel pensiero, nell’arte, in ogni impresa, sem-
Conferenze 1924-1937 315

bra lì d’una grandezza che sfida la natura. Eppure


non si tenne mai tanto conto della natura e della mi¬
sura, e non mai come in quella civiltà, l’uomo servì di
misura totale alla visione fisica e morale dell’universo.
Tutto ciò non è spiegabile senza ammettere una straor¬
dinaria fantasia da parte dei Greci. Se noi guardiamo
la statua di un Greco, oggi ch’essa non alberga più
nessuna divinità, ci avvediamo che da lei spira tuttora
un’aura che ci avvolge e ci penetra. Una grande po¬
tenza di sentimento è per sempre in lei. Dal senti¬
mento e dai sensi che sono la sostanza misteriosa, o
come oggi malamente si direbbe, la sostanza irraziona¬
le dell’uomo, all’intelletto ch’è la luce umana nella
quale il mistero si specchia, e per la quale è visibile,
quale campo sconfinato per la fantasia! E quale gra¬
zia d’equilibrio dalla fusione di questi quattro moti
seppe trarre e fermare, la Grecia! Come qui si vede
che magnificenza non è diminuzione delle grandi co¬
se alla statura dell’uomo, bensì un riflesso misterioso
della verità suprema altrimenti incomprensibile. Ciò
che mi stupisce, dirà uno scrittore acuto, non è il
mondo; ma che l’uomo abbia saputo misurarlo.
Ma non conviene di lasciare a mezza strada il pen¬
siero di Pascal. Negando la fantasia, egli in qualche
modo vuole negare la società. Considerando la fanta¬
sia come un ostacolo fra il sentimento e Dio, egli cre¬
de in quel modo di tornare alla pura fonte cristiana.
Ma qui noi vogliamo vedere un nuovo documento del¬
la lunga angoscia dell’uomo che via via isolerà, per
avere una certezza, l’intelletto, i sensi, il sentimento
o la fantasia. L’avversione dei Giansenisti, e con essi
di Pascal, per la fantasia si capirà meglio, ricordando
che l’Umanesimo aveva quasi tolto il carattere miste¬
rioso alla fantasia scoprendo l’avventura dell’Antichi¬
tà, suscitando cioè l’abbaglio del passaggio d’una pro¬
fondità di secoli, dall’occhio presq da uno spettacolo
alla mano che eseguisce un lavoro, e riducendo in-
316 Giuseppe Ungaretti

somma l’uomo a questa profondità di secoli: al tempo


e al mestiere. Si capirà nello stesso tempo l’avversio¬
ne di Pascal per la Compagnia di Gesù, in quel Sei¬
cento che in arte manifesta il dissidio fra intelletto e
sentimento e lo appiana — su un piano di pura cultu¬
ra, come se ormai più non esistesse di oggettivo se
non la memoria - mediante un eccesso di fantasia,
in un’atroce unione dei sensi coll’intelletto.
In quel secolo che vede per la prima volta affron¬
tarsi risolutamente scienza e religione nella vita mo¬
rale, la Compagnia di Gesù vede subito quale partito
trarre dall’orientamento nuovo preso dalla fantasia. Un
solo esempio: nei collegi dove si preparavano i gio¬
vani a confessare la fede nei paesi riformati, tutte le
pareti erano ricoperte di visioni di martirio. In quelle
immagini di uomini in mezzo a patimenti, era esalta¬
ta la volontà dell’uomo, unica cosa, secondo lo spiri¬
to del secolo, capace di miracoli.
E non so quale bellezza fisica, quali gesti di fierez¬
za e cortesia, quale luce effimera era insinuata a ren¬
dere desiderabile il sacrifizio. E difatti si sa che molti
di quei giovani, diventati missionari, andarono incon¬
tro a orribili morti, sorridendo e cantando. Si colpiva
la fantasia per alimentare una fantasia tale della di¬
gnità dell’uomo che in qualsiasi caso l’uomo sarebbe
stato incrollabile. Audacemente e con precisione, cal¬
colando le risorse d’una fantasia come quella d’allora
- esacerbata e convulsa e dilatata estremamente dal
suo stesso negarsi o ritenersi vana - è superata la pre¬
sunzione ch’essa fantasia si fondi principalmente sulla
memoria; è di nuovo scoperto il suo germe, che è
sempre d’ordine misterioso. Ed è toccata un’altra ve¬
rità: che senza la fantasia, la quale fa, secondo le pos¬
sibilità modeste dell’uomo, nuovo senza posa il mon¬
do - l’idea dell’eterno ci fulminerebbe.
Ecco il Barocco: ecco Góngora!
Conferenze 1924-1937 317

Sembra un secolo fatto di tombe imperiture. L’uo¬


mo è nulla: polvere! La tomba è tutto: gloria!
Sembra un secolo fatto di frutta e fiori nello splen¬
dore e la durezza, ed anche la beffa, delle pietre pre¬
ziose. È il secolo delle conchiglie dei mari lontani.
Con rara eleganza, quel secolo di conquiste e di
martìri ci ha lasciato in marmo sulla calda tenebra:
tibie, teschi, scheletri.
Ora, ecco arrivate le nostre difficoltà.
Diceva Galileo: << Quello che noi ci immaginiamo
bisogna che sia o una delle cose già vedute o un com¬
posto di cose, o di parti delle cose altre volte vedute,
e tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centau¬
ri... ».
S’è detto quale importanza LUmanista dava alla me¬
moria, ma egli, nel tempo, aveva, e s’è anche detto,
scelto certi modelli stabili della bellezza formale. Se
il Seicento aveva l’idea già scientifica della memoria,
confermataci, l’avete sentito, da Galileo, e portava
una grande rivoluzione nelle forme, ed era un secolo
violento d’espressione, appunto trovava nell’identità
fra memoria e fantasia, quell’eccesso di fantasia che
gli permetteva di ricongiungere gli spezzati modelli
in una forma nuova sì, ma non meno regolata dalla
classicità.
Ai primi dell’800 la memoria prende un tutt’altro
senso: il romantico è filologo, e non crede, o non vor¬
rebbe credere, in nessun assoluto, nemmeno in quello
delle forme perfette. Cerchiamo di spiegarci esattamen¬
te. Ricorderete ciò che dice il Leopardi circa gli ana¬
cronismi delYEneide. Egli muove rimprovero a Vir¬
gilio d’avere attribuito qualche volta alle sue figure
l’animo degli eroi omerici. È un punto molto istrutti¬
vo dello Zibaldone. Il Leopardi è uno dei primi a fis¬
sare la diversità di coscienza tra l’uomo dei tempi ome¬
rici e quello del secolo d’Augusto. Ma non è qui la
scoperta. Egli indicando due tappe della sensibilità,
318 Giuseppe XJngarettì

mette in moto fra quei due stati della coscienza, una


frazione di tempo, forse per prjmo propone il tempo
come divenire della vita psicologica, lo propone cioè
in quell’accezione che anche noi abbiamo accolto pure
portandola verso altre illazioni.
La nozione di tempo è ormai data come storia del¬
l’anima e d’un’anima, in quei termini cioè che svilup¬
perà il Romanticismo. Leggi: il tempo, punto mobile,
facendosi unico ed esclusivo punto di riferimento, era
la relatività che entrava risolutamente in campo, la
relatività morale, del bene e del male, la relatività
estetica.
Se dunque il procedimento stilistico del Leopardi
può anche chiamarsi classico, se si vuole, ed era il
nome che lui stesso gli dava, s’egli rifugge dalla for¬
ma metaforica cara ai predanteschi, a Dante, al Petrar¬
ca, al Seicento, più o meno a tutti i poeti italiani sino
all’Ottocento, s’egli si- è limitato a descrivere gli og¬
getti valorizzandone i colori col tono del proprio sen¬
timento, la sua poesia sarebbe anacronistica, avrebbe
il difetto che gli dispiaceva di più, se quel tono del
suo sentimento non fosse, com’è, romantico. Non fac¬
cio una questione oziosa d’etichette. So quale gran
caso il Leopardi facesse della confidenza coi buoni au¬
tori, ed il classicismo non è altro. Ma dico che nella
sua opera, il Leopardi prevede ed esaurisce, anche op-
ponendovisi in un certo senso, l’esperienza romantica.
Ma il Romanticismo si distingue sopratutto - si
guardi ancora Leopardi, si guardi anche Gcethe - per
una sua guerra fra la natura e la memoria.
Con il Romanticismo riappariva una sete d’inno¬
cenza.
Per contrasto colla civiltà meccanica? Certo scop¬
pia l’eresia che i vecchi metri sono esausti, ch’essi
ormai suonano falso, che l’ispirazione deve inventarsi
volta per volta i suoi schemi. Il risultato fu che un
componimento non era ancora finito di fare che già
Conferenze 1924-1937 319

suonava falso, e che si perse la testa dietro alla forma,


non volendo più dare valore se non all’ispirazione.
E che cos’è, volendoci spiegare l’avversione roman¬
tica, questa civiltà meccanica se non l’impresa mag¬
giore della memoria? È dunque la memoria che ha
reso estrema e intollerabile nel secolo passato l’anti¬
nomia tra individuo e società? È la memoria che ha
prodotto la guerra, e tutte queste crisi che si succedo¬
no? La civiltà meccanica è dialettica: bene è nata nel
secolo di Hegel: è la memoria ed è, contrastante col¬
la memoria, il contrario della memoria. Il male viene
dalla difficoltà di rimarginare questa scissura vastissi¬
ma nell’essere. Il Leopardi osservava che l’uomo, aven¬
do tolto alla realtà il mistero, la visione del vero s’era
fatta spaventosa. Capovolgendo questo pensiero, Nietz¬
sche riterrà che più nulla essendo vero, tutto è leci¬
to. La civiltà meccanica ha posto la pena umana fra
questi due limiti. E ogni uomo moderno di buona vo¬
lontà dovrebbe avere per affanno di riconciliare il ve¬
ro col mistero.
Ed il poeta d’oggi ha dunque avuto per prima preoc¬
cupazione quella della riconquista del ritmo, ma come
andava riconquistato, riconoscendo l’importanza della
forma. Per risvegliare l’innocenza, egli non ha negato
la memoria. Ha ascoltato il verso più antico e di sem¬
pre, perché esprime la fatalità stessa d’una lingua.
Questo verso non si poteva mutare senza portare la
morte nel corpo d’una lingua, la cui vita non e d un
giorno, ma di secoli. Ma il poeta moderno ha portato
in ogni momento del verso, una tale intensità e un
tale silenzio che veramente il ritmo si liberava final¬
mente della sua vecchia polvere. A quel modo il poe¬
ta tornava a sentire nel verso il passo, l’affrettato pal¬
pito, il trattenuto respiro: il ritmo, Signori, la Na¬
tura! Che cosa sono dunque i ritmi nel verso? Sono
gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il gri¬
do d’un’anima. Così il poeta ha imparato di nuovo
320 Giuseppe Ungaretti

l’arihonia poetica, che non è un’armonia imitativa,


poiché è indefinibile,-ma è quell’aderire nella parola
con tutto l’essere fisico e morale, ad un segreto che
ci dà moto ed è più forte di noi.
Questo gli ha permesso di farsi un’idea più umana,
meno romantica, della macchina e della memoria. La
macchina ha richiamato la sua attenzione proprio per¬
ché racchiude in sé un ritmo: cioè lo sviluppo di una
misura che l’uomo ha tratto dal mistero della natura.
La macchina è una materia formata, severamente logi¬
ca nell’ubbidienza d’ogni minima fibra a un ordine
complessivo; la macchina è il risultato di una catena
millenaria di sforzi coordinati. Non è materia caotica.
La sua bellezza sensibile cela un passo dell’intelletto.
Così, nell’uso del verso, ch’è la macchina suprema del¬
la poesia, il poeta italiano torna a riconoscere che si
mette in grado di ascoltare nel proprio ritmo i ritmi
a mezzo dei quali all’orecchio dei padri era persuasi¬
va la musica dell’anima.
Torniamo al senso acuto della natura che si incon¬
tra in tutta la poesia attuale.
Il poeta d’oggi ha partecipato e partecipa a rivolgi¬
menti fra i più tremendi della storia. Ha provato da
molto vicino l’orrore dell’eterno. Ha imparato ciò ch’è
l’istante nel quale conta solo l’istinto.
Era in tale dimestichezza colla morte che il naufra¬
gio era senza fine. Non c’era oggetto che non glielo
riflettesse; era la sua stessa vita, da capo a fondo, quel¬
l’oggetto qualsiasi sul quale cadeva a caso il suo sguar¬
do. Non era la sua, in realtà, vita più che oggettiva,
il primo oggetto venuto. Quel concentrarsi nell’attimo
d’un oggetto non aveva misura. L’eternità si chiudeva
nell’attimo. Poi l’oggetto s’alzava dall’inferno alle pro¬
porzioni d’una certezza divina. Non ritroveremo più
tanta soggezione, né quella decisiva libertà.
Ecco come egli coglieva la parola in istato di crisi,
e la faceva con sé soffrire, e ne provava tutta l’inten-
Conferenze 1924-1937 321

sita, e l’alzava come una ferita di luce nel buio. Ecco


un primo perché la sua poesia è come uno schianto
carnale che apra il volo a fiori di fuoco, a una lucidi¬
tà cruda che per vertigine faccia salire l’espressione al¬
l’infinito distacco del sogno: ecco perché la sua paro¬
la si muove dalla necessità di strappare alla realtà le
sue maschere, e di restituire alla natura la sua mae¬
stà tragica: ecco perché: perché è uomo del suo tem¬
po!
E in tali condizioni, quale sarà la sua logica?
Se il carattere dell’800 era quello di stabilire lega¬
mi a furia di rotaie, e di ponti e di pali, e di carbone
e di fumo, il nuovo secolo ama di più alzare gli occhi
al cielo e volare. Il poeta d’oggi cercherà dunque di
mettere a contatto immagini lontane. Sarà anche per¬
ché, in un paese che ha avuto tanta emigrazione, egli,
nato altrove, può avere nostalgia di climi assenti.
Quando gli nascerà dal contatto d’immagini, luce, ci
sarà poesia, e tanto maggiore poesia, per quest’uomo
che vuole salire dall’inferno a Dio, quanto più gran¬
de sarà la distanza messa a contatto. Crediamo in una
logica algebrica tanto più appassionante quanto essa si
presenti più ricca d’incognite. Il problema attuale non
è quello di mettere giù saldamente uno dietro l’altro,
chilometri e chilometri, non è quello di frugare nel
ventre della terra per estrarne simulacri del passato,
non è quello di adorare i relitti della morte, ma quel¬
lo di stabilire antenne impalpabili nei tempi e negli
spazi: l’abbiamo detto: soffi che portino l’uomo a vi¬
brare col segreto dell’essere.
Sarebbe forse il nostro un secolo di missione reli¬
giosa?
Probabilmente ci troviamo in un secolo nel quale
la verità scappata ormai dalle cellette delle statistiche,
e dalle fosse dell’archeologia e della mineralogia, va
ripigliando largo il respiro dei poeti.
È dunque questo poeta, un poeta religioso?
322 Giuseppe Ungaretti

Eo è! In verità, tale è sempre stata la missione del¬


la poesia. Ma dal Petrarca in poi, e in modo andatosi,
come s’è visto, giornalmente aggravando, la poesia vo¬
leva darsi a intendere che aveva altri scopi - riuscen¬
do, quando era poesia, ad essere religiosa, anche con¬
tro ogni sua intenzione.
Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poe¬
sia è testimonianza d’iddio, anche quando essa è una
bestemmia.
Ma, direte, se rincorre il fugace... se fa il diario
della sua anima...
Il poeta moderno diceva difatti che oggi non si può
essere analitici; egli sa difatti meglio di chiunque che
la poesia è per natura sua, un’espressione sintetica.
Scusatemi di andare saltando dal piano dell’ispirazio¬
ne a quello tecnico, e viceversa. Ma che forse non so¬
no, forma e sostanza, quando si tratta di vera poesia,
legate da una medesima necessità? Dunque il poeta
d’oggi ha cercato di superare la difficoltà così: se avrà
da comunicare il senso d’una durata, intensificherà la
portata d’un dato elemento, scelto tra quelli che me¬
glio potevano concentrare un complesso di mutamenti.
Nella prima metà dell’Ottocento, spesso quest’inten¬
sificazione è stata ottenuta coll’enfasi. Ora, le cose si
svolgerebbero così: nell’ordine fantastico, spezzati allo
spirito dell’analogia i ceppi, s’è cercato di scegliere
quell’analogia che fosse il più possibile illuminazione
favolosa-, nell’ordine della psicologia, s’è dato soffio a
quella sfumatura propensa a parere fantasma o mito;
nell’ordine visivo, s’è cercato di scoprire la combina¬
zione di oggetti che meglio evocasse una divinazione
metafisica. Illuminazione favolosa, fantasmi e miti, di¬
vinazioni metafisiche, non sono forse illusioni di tem¬
po domato, di tempo fermo e superato per sempre?
E inoltre, l’affaticarsi alla perfezione dell’opera, non
è volontà ch’essa duri? Illusione d’eterno?
Concludiamo: il poeta d’oggi deliberatamente vuo-
Conferenze 1924-1937 323

le vedere il visibile nell’invisibile. Oh! egli non cer¬


ca di violare il segreto dei cuori. Egli non crede né
in Freud né nei metapsichisti. Egli sa che spetta solo
a Dio, leggere infallibilmente nell’abisso dei singoli,
conoscere veramente il passato, il presente e l’avveni¬
re. Egli poi sa anche che il cuore umano non è quella
buca che credono i libertini, piena di lordura. Egli
sa che nel cuore dell’uomo non ci si troverebbe che
debolezza e ansia; e paura di vedersi scoperto, pove¬
ro cuore!
Vedere l’invisibile vuol dire - occorre ripeterlo -
ritrovare la responsabilità del peccato e restituire i
veli sacri all’amore.
Come nel sogno di Michelangelo dove il Padre, per
darle vita, tocca il dito a poca terra, il poeta nuovo
vorrebbe udire nelle sue povere parole, tornata nel
mondo la voce di quella grazia. Per questo ha anche
gridato. Per questo ha anche pianto.
[IL PENSIERO DI LEOPARDI]
[1933/1934]

Non sono il primo a studiare il pensiero di Leopardi.


E poi quello mio d’oggi, non è uno studio; ma un
assaggio precursore di esame più attento. Questo mio
d’oggi è un osservare con ogni cautela le cose sotto
un certo lume immediato di riflessione, per preparare
una visione integrale.
E, come di regola, incominceremo con un po’ di
bibliografia.
Anche oggi comunemente, quando si ragiona di pen¬
siero leopardiano, si rivede il capolino dello Zumbini.
Qualche altro orecchiante ci mescola il De Sanctis, che
ebbe felice preveggenza ma che non c’entra. E per¬
sino qualche stolto c’è, che vorrebbe mettersi a guar¬
dare Leopardi cogli occhi di un qualsiasi discepolo
di Lombroso.
Andiamo avanti.
Un francese, il Serban, s’è occupato delle fonti, ri¬
spetto alla Francia; e questa delle fonti, sarebbe una
questione da sviscerare, se non altro per mettere in
piena luce l’originalità del pensiero leopardiano. E
come quello delle fonti, anche l’argomento delle deri¬
vazioni, meriterebbe studio. Vorrei, per esempio, sa¬
pere con esattezza, quanto il Nietzsche deve a Leo¬
pardi?
Un altro francese, l’Hazard, s’è provato a collocare
Leopardi nel movimento romantico; e sarebbe oppor¬
tuno che una biografia, completando quella del Chia¬
rini, venisse a fissare la posizione del Leopardi tra le
idee e i sentimenti del suo tempo.
Da noi, specie in questi ultimi anni, s’è posta in
Conferenze 1924-1937 325

raffronto la sua opera di poeta con quella sua di filo¬


sofo. Ha cominciato Giovanni Gentile col suo proe¬
mio all’edizione Zanichelli delle Operette morali, ha
continuato De Robertis colle sue introduzioni alla
scelta dello Zibaldone e ai Canti. Sono preziosi con¬
tributi.
Infine il gruppo della « Ronda » con una raccolta
di estratti dello Zibaldone, ci ha presentato, isolato,
il teorico della lingua, ma, mutilato, pure offrendoci
qualche veduta geniale, il pensiero leopardiano non
poteva che patire.
Né voglio dimenticare il Renzi che, nel Leopardi, è
andato, abilmente, non nego, a scovare giustificazio¬
ni ai suoi costrutti scettici.
Conviene anche segnalare le edizioni critiche, im¬
presa alla quale s’è accinto Francesco Moroncini. Chi,
seguendo le diverse fasi della nascita della poesia leo¬
pardiana, attraverso la critica esercitata direttamente
dal poeta sulle stesse fattezze delle sue creature, tra¬
sfigurandole via via, vorrà sapere, con precisione, di
quale qualità fosse il gusto che metteva in opera, non
avrà più da lamentarsi.
Lasciamo in pace la bibliografia.
Il Leopardi pone ai primi del ’700, l’inizio d’un
sovvertimento del quale possiamo scorgere i sintomi
sino dal ’300.
Con maggiore precisione dirò: dal ’300 noi vedia¬
mo prodursi tra società e individuo una frattura; noi
vediamo che questo fatto deriva dalla ricomparsa del¬
l’uomo sapiente che s’è arrogata l’impresa di soppian¬
tare l’uomo religioso.
Non mi sogno di fare di Giacomo Leopardi un ot¬
timista.
Ma quando si dice che il Leopardi ha conferito al
male una consistenza cosmica, senza averla conferita
al bene, si commette un errore. Anzitutto non dob¬
biamo dimenticare che giudicando del bello e del buo-
326 Giuseppe Ungaretti

no, del cattivo e del brutto, del bene e del male, il


principio di Giacomo Leopardi, è un principio di re¬
latività: « La verità che una cosa sia buona, che un’al¬
tra sia cattiva, » egli dice « vale a dire il bene e il
male, si credono naturalmente assoluti e non sono al¬
tro che relativi. Quest’osservazione vastissima » egli
prosegue « distrugge infiniti sistemi filosofici; appiana
e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella con¬
siderazione generale delle cose, e appartenente ai lo¬
ro rapporti ».
Si dice ancora: il poeta della prima maniera, l’au¬
tore delle Canzoni, va bene: e in quel periodo egli
afferma che i valori tradizionali sono un patrimonio
sacro; che la virtù nel senso umano, è l’esercizio più
nobile e necessario. Ma, in seguito, nel periodo che va
dalla Palinodia alla Ginestra, tutto il travaglio umano
è giudicato inutile, ed appare senza scopo, e infelice
non soltanto la vita terrestre, ma addirittura la vita
universale. Se il cristianesimo è pessimista, si aggiun¬
ge, esso lo è forse per i valori terreni, non mai per
quelli universali. E si conclude: Sarà vano volere isti¬
tuire un punto di contatto tra il pessimismo del cri¬
stianesimo e quello leopardiano.
Non esiste un primo e un secondo periodo nel pen¬
siero del Leopardi. Egli è pessimista (se dobbiamo
usare questa parola che, nel pensiero leopardiano, e
s’è vistq nella citazione di poco fa, non ha significato
se non relativo, come la parola ottimista, o altre si¬
mili) - egli è pessimista, subito, sino dalla sua pri¬
ma parola, e sempre, sino all’ultima. « Chi può cono¬
scere i limiti delle possibilità? » troviamo scritto in
uno dei suoi pensieri più cupi. « Il sistema pessimi¬
sta, » sono sue parole « benché urti le nostre idee, che
credono che il fine non possa essere altro che il bene,
sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz,
del Pope, che tutto è bene. Non ardirei però estender¬
lo al punto di sostituire all’ottimismo il pessimismo.
Conferenze 1924-1937 327

Chi può conoscere i limiti delle possibilità? Non solo


noi non possiamo sapere, né anche sufficientemente
congetturare, tutto quello di cui sia capace, aiutata
da circostanze favorevoli, la natura umana in univer¬
sale; ma eziandio di un solo individuo, o passato o
presente o futuro, noi non possiamo sapere esattamen¬
te né congetturare quanta estensione, in circostanze
appropriate, avessero potuto o pur potranno acquista¬
re le sue facoltà. »

Vorrei invece domandare: perché questo sofisticare,


e perché non ricercare piuttosto se non sia stato il
Leopardi stesso a stabilire tra il pessimismo cristiano,
e i fondamenti del suo sistema, un rapporto, e un
rapporto naturale. Se non sia stato egli stesso a la¬
mentare che il cristianesimo non offrisse più all’uomo
se non il sentimento e il concetto della natura consi¬
derata come male.
Se esamino l’esperienza che dà un carattere apoca¬
littico, e direi preistorico al Sette e all’Ottocento, se
esamino questi due secoli, nei quali la somma d’ane¬
liti e di tormento dei quattro precedenti si fa sentire
con un estremo schianto, mi accorgo non solo che nei
Canti e nei Pensieri del Leopardi la luce di quei due
secoli ha tutto il suo tragico splendore, ch’egli sale
per tutti noi il Calvario del suo tempo, ma anche m’ac¬
corgo ch’egli ricava dalla sua natura religiosa oppor¬
tunissimi insegnamenti di redenzione sociale, dei qua¬
li cercherò di tracciare un quadro nella seconda par¬
te del mio discorso.
Pensieri amari e pensieri consolanti, ci sono nei
suoi primi e nei suoi ultimi scritti. La sua coerenza è
quella del genio, e d’un genio che non aspetta gran
giro d’anni, ma di poche consumanti giornate per ma¬
nifestarsi a sé e riflettersi. Specchio del suo tempo,
precipizio della poesia nel quale ama gettarsi, fanta¬
sma per i secoli del suo tempo, e ammonitore, e mae-
328 Giuseppe Ungaretti

stro di bene, per chi sappia intendere la sua lezione.


Ma vorrei prima spiegare, che cosa intendo per cri¬
stianità del Leopardi. Non per'gusto di paradosso che
non ho, ma per avere lungamente meditato su que¬
st’opera immensa, e sino dagli anni già molto lontani
dell’adolescenza, posso dire eh essa è lievitata dalla
scienza dell’uomo e dalla conoscenza del mondo quali
solo può possedere uno che porti, come tutti noi, ma
a un grado virulento, duemil’anni di cristianesimo nel
sangue. Quest’uomo che ha visto il reale sino in fon¬
do all’inferno, e i suoi occhi ne portano l’insopporta¬
bile castigo, e non uso, voi bene lo sapete, una meta¬
fora, quest’uomo che trascina da una città all’altra d’I¬
talia, il suo corpo orribilmente offeso, se quest’uomo
ha un pensiero, non è dei suoi patimenti, che pure
sono feroci, ma della sorte del suo prossimo. Dirò di
più: non solo i motivi più illuminati, quando vuole
saggiare le sue idee sulla vita, gli sono forniti dal
Vecchio e dal Nuovo Testamento, non solo se vuole
parlare di stato perfetto dell’uomo, di pura natura,
non riesce a discostarsi dalla visione edenica dei pro¬
genitori, non può esimersi dalla nausea del peccato
originale; non solo, ma in tutto il suo ragionare e
sentire, egli appare come schiacciato dalle quattro gran¬
di maledizioni bibliche: infermità, ignoranza, concu¬
piscenza, malizia, e tutto teso a trovare se non per
sé, almeno per gli altri una via di scampo.
Il valore preso dalla parola infermità dopo il ro¬
manticismo, e per via del romanticismo, è noto. Se¬
condo Dostoievski, infermità è quello stato nel quale
l’uomo si rende conto che sta liberandosi del mondo
ed ha qualche percezione d’un mondo soprannaturale.
Uno stato di perfetta infermità dovrebbe essere quel¬
lo di cui parla Poe, stato di dormiveglia, di equilibrio
delle facoltà psichiche e fisiche, di pace, stato nel qua¬
le i confini dei sogni e quelli della veglia sono fusi,
quando, avendo coscienza di essere in sonno, tutto av-
Conferenze 1924-1937 329

viene come se i cinque sensi fossero stati sostituiti da


cinque miriadi d’altri sensi, che non posseggono la vi¬
ta mortale. Sorgono in tali condizioni quelle visioni
indicibili che Poe stèsso chiama « fancies ».
Nel suo bel saggio su Baudelaire, Marcel Proust ci
dice: Quanto vaga, molle, senza accento ci sembra
l’opera obesa di Hugo accanto a un libro come I Fio¬
ri del Male. Hugo parla sempre della morte, ma col
distacco d’un mangione e d’un gran gaudente. Forse,
ahimè! bisogna portare in sé la morte vicina, essere
minacciato come Baudelaire di paralisi, per avere la
lucidità nella sofferenza vera, quegli accenti religiosi
che hanno i suoi canti satanici.
Non certo l’idea d’un Poe, né quella d’un Baudelai¬
re, né quella d’un Dostoievski, era l’idea di Leopar¬
di. Egli vede ogni singola parte del creato, egli vede
che ha in sé corruzione, ch’è mortale, che sopporta le
conseguenze della sua origine peccaminosa. « Tutte le
cose, al loro modo patiscono necessariamente »: l’ap¬
passire, il perire! «Non gli uomini solamente, ma il
genere umano. Non il genere umano solamente, ma
tutti gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti
gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le
specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. »
Sull’ignoranza, per sapere ciò che ne pensasse, ci
basta conoscere questo suo pensiero che egli pone,
quasi a compendio della lunga agonia della sua mente,
sull’ultimo foglio dello Zibaldone-. « Esistono due ve¬
rità che gli uomini generalmente non crederanno mai:
luna di non saper nulla, l’altra di non esser nulla ».
La concupiscenza. Ma che cos’è questo sogno della
gioventù che lo perseguita, e questa superbia, che tie¬
ne in gran conto, della vita viva, e questa voluttà di
cui è perdutamente nostalgico?
Quanto alla malizia, come egli ne sentisse profon¬
damente intaccata la natura umana, lo vediamo da
questi due esempi. (Sono frammenti per le memorie
330 Giuseppe Ungaretti

del4 sua vita.) « Non si nomina mai più volentieri, »


osserva nel primo esempio « né più volontieri si sen¬
te nominare in altro modo, chiunque ha qualche rico¬
nosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome
dello stesso difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il
matto tale. Anzi queste persone non sono ordinaria¬
mente chiamate se non con questi nomi, o chiaman¬
dole pel nome fuor della loro presenza è ben raro
che non vi si ponga quel tale aggiunto. Chiamandole
o udendole chiamar così, pare agli uomini d’essere su¬
periori a questi tali, godono dell’immagine del loro
difetto, sentono e si ammoniscono in certo modo del¬
la propria superiòrità: l’amor proprio n’è lusingato e
se ne compiace. Aggiungete l’odio eterno e naturale
dell’uomo verso l’uomo, che si pasce e si diletta di
questi titoli ignominiosi, anche verso gli amici o gl’in¬
differenti. E da queste ragioni nasce che l’uomo di¬
fettoso, com’è detto di sopra, muta quasi il suo nome
in quello del suo difetto, e gli altri che così lo chia¬
mano intendono o mirano indistintamente nel fondo
del cuor loro a levarlo dal numero de’ loro simili o
a metterlo al di sotto della loro specie: tendenza pro¬
pria (quanto alla società) d’ogni individuo sociale. Io
mi sono trovato a vedere uno di persona difettosa, uo¬
mo del volgo, trattenersi a giocare con gente della
sua condizione, e questa non chiamarlo mai con altro
nome che del suo difetto, tanto che il suo proprio
nome non l’ho mai potuto sentire. E s’io ho veruna
cognizione del cuore umano, mi si deve credere com’io
comprendeva chiaramente che ciascuno di loro, ogni
volta che chiamava quell’uomo disprezzatamente con
quel nome, provava una gioia interna e una compia¬
cenza maligna della propria superiorità sopra quella
creatura sua simile, e non tanto dell’essere libero da
quel difetto, quanto al vederlo deridere e rimprove¬
rare in quella creatura, essendone libero esso. E per
quanto frequente fosse nelle loro bocche quell’appel-
Conferenze 1924-1937 331

lazione, io sentiva e conosceva ch’ella non usciva mai


dalle loro labbra senza un tuono esterno e un senso
di giudizio interno di trionfo e di gusto (13 Maggio
1822). »
Non so se sia possibile a un altro di pronunziare
parole più desolate di queste. Leopardi ne trova di
più desolate in un altro caso. Ma anche questa volta
si tratta di descrivere la malizia, ciò ch’essa ha di vi¬
le, d’insensato, e insieme, purtroppo, d’irreparabilmen-
te umano:
« Io era malinconichissimo, e mi posi a una finestra
che metteva sulla piazzetta ec.; due giovanotti sulla
gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa ec. se¬
devano scherzando sotto al lanternone, ec.; si sbal¬
lottavano ec.; comparisce la prima lucciola ch’io ve¬
dessi in quell’anno ec.; uno dei due s’alza gli va ad¬
dosso ec.; io domandava fra me misericordia alla po¬
verella, l’esortava ad alzarsi, ec., ma la colpì e gittò
a terra e tornò all’altro ec.; intanto la figlia del coc¬
chiere, ec. alzandosi da cena e affacciatasi alla fine¬
stra per lavare un piattello nel tornare dice a quei di
dentro - Stanotte piove da vero. Se vedeste che tem¬
po. Nero come un cappello - e poco dopo sparisce il
lume da quella finestra, ec. Intanto la lucciola era ri¬
sorta, ec.; avrei voluto ec., ma quegli se ne accorse,
tornò — porca buzzarona - un’altra botta, la fa cade¬
re giù debole com’era ed egli col piede ne fa una stri¬
scia lucida fra la polvere ec., e poi ec., finché la can¬
cella. »
Forse questa meditazione sulla malizia, gli faceva
sentire quanto salutare fosse nella teologia morale cat¬
tolica, la parte data alle pene di gran lunga prepon¬
derante sul premio.1
Un ultimo esempio di quanto agisse sul Leopardi
lo spirito cristiano, è la sua definizione della nozione
di tempo. Nozione capitale nel suo sistema, perché
mancandogli l’equilibrio dello spazio del cielo, ad es-
332 Giuseppe Ungaretti

sa sola chiederà qualche lume sulla sorte umana. Que¬


sta del tempo, è la tremenda idea che s’avventa sul
Leopardi e su tutti i grandi def secolo decimonono.
Ecco dunque come Leopardi, già prima di Dostoiev-
ski, ha fatto nell’essere questa scissura, tempo ossia
civiltà, umanità, storia, - e natura: ossia libertà, la
cieca, la spaventosa libertà.
Bisogna fissarci bene in mente quest’idea di tempo,
per capire Leopardi. Tempo e spazio non sono che rap¬
porti, ma sono la grande invenzione dell’uomo, sono
essi che hanno creato l’uomo umano, sono essi che
permetteranno all’uomo di avere una profondità, una
storia, sono essi che permetteranno all’uomo un discer¬
nimento sia rispetto alla propria natura individuale,
sia rispetto alla natura esterna. E sarà, per un poeta,
un attimo, del proprio tempo, cioè una propria fug¬
gitiva sensazione e emozione, che darà colore alle co¬
se, che le distinguerà col suo sigillo, con il carattere
della propria qualità umana e individuale.
Quando Leopardi muove rimprovero a Virgilio d’a¬
vere attribuito qualche volta alle sue figure l’animo
degli eroi omerici, lo fa per fissare la diversità di co¬
scienza di due tappe umane. C’è un’altra pagina dove
questa diversità è resa con evidenza ancora maggiore,
ed è quella dove parla dell’espressione del dolore nel
gruppo di Niobe:
« Il dolore degli antichi » egli dice « era disperato
come suol essere in natura; era un dolore senza medi¬
cina, come ne ha invece il nostro; era un dolore senza
il conforto della sensibilità, senza la rassegnazione dol¬
ce alle sventure da noi, non da loro, gli antichi, co¬
nosciute inevitabili; non poteano conoscere il piacere
del dolore; né l’affanno di una madre, perduti i suoi
figli come Niobe, era mescolato di nessuna amara e
dolce tenerezza di se stesso, ma intieramente dispe¬
rato. »
La nozione di tempo, porta dunque il Leopardi a
Conferenze 1924-1937 333

itabilire un primo parallelo tra l’antico e il moderno.


Per l’antico il tempo era un ente, una divinità; per il
cristiano è il mondo, il peccato dal quale deve eman¬
ciparsi per ricongiungersi all’eterno. Per un uomo del-
l’800, è simbolo di storia e di psicologia, è linguaggio,
è peggio che nulla; ma non ha altro quell’uomo; egli
ormai è murato nella prigione della materia, voglio
dire della relatività.
Il cristiano senza cielo ch’era il Leopardi, vede dun¬
que, che l’era temporale sorge dal peccato. Col pecca¬
to finisce l’eterno. Dal peccato ha inizio l’avvenire.
Leopardi vede che la nascita e la vita della coscienza,
alla quale Caino fondando la città assicura avvenire,
separerà gradualmente la natura dalla sua sostanza e-
terna, o com’egli dice, dalle illusioni. Egli vede che,
originato dal peccato, dalla natura inferma, il tempo
evolve per rimorso, è alimentato cioè dallo spirito cri¬
tico, progressivo affievolitore, distruttore implacabile
del benefico mistero della natura.
Ed ecco che al cristiano senza cielo ch’è il Leopar¬
di, la pietà suggerirà la parte positiva della sua ope¬
ra, adeguata a un culmine di disperazione.
La pietà, e la speranza, figlia prediletta della pietà:
« una scintilla, una goccia di speranza, » lasciò scritto
« non abbandona mai l’uomo, neppure dopo accadu¬
tagli la disgrazia più diametralmente contraria ad essa
speranza, e la più decisiva ». La speranza non abban¬
dona mai l’uomo, è la rivincita della natura.
Certo il sentimento di pietà che si manifesta con
Leopardi non è paragonabile a quello dei secoli cri¬
stiani precedenti. È equilibrio, si diceva, a un culmi¬
ne di disperazione. In Dante c’è il presentimento
d’un’Europa moralmente disgregata. Il trattato Mo¬
narchia, e l’odio per Bonifacio Vili, da parte d’un
uomo della chiaroveggenza di Dante, sono atti profe¬
tici che avrebbero dovuto impaurire. Non ci si bade¬
rà; si andrà di male in peggio. Il Petrarca rovescerà
334 Giuseppe Ungaretti

le cose, e idealizzerà platonicamente la natura, la con¬


sidererà come sembianza delle idee, o anzi e meglio
come un’eco ultima, fievolissima, della misteriosa di¬
vinità. Il Quattrocento non s’accorgerà che i miti che
va traendo dalla natura e la bellezza ritrovata non so¬
no che incarnazioni diaboliche. E Michelangiolo sof¬
frirà per tutti, sarà l’atleta del tormento di tre secoli.
Con il ritorno di Platone, il pessimismo si avanza a
grandi passi. E quando Pascal arriva, il dramma è qua¬
si sciolto tra rivelazione e filosofìa. A Pascal resterà
ancora il tempo di profferire, nella società degli uo¬
mini, questa confessione sdegnosa: « Il mondo è ope¬
ra d’immaginazione ». Ogni sentimento cristiano non
partirà ormai che dalla negazione del mondo. Pascal
non arriva a Dio perché l’esalta la conoscenza di Dio
nelle sue opere, perché nelle opere di Dio ama Dio;
ma ci arriva per terrore dell’eterno.
Leopardi si rivolge questa domanda: perché è così
grave, l’infelicità umana? E gli si affaccia la gioven¬
tù. Precocissimo di mente, passato in un baleno dal¬
l’infanzia alla suprema lucidità, la gioventù lo toccò
come un mito. È naturale ch’egli faccia scaturire da
essa i suoi pensieri di bene. Gioventù, è per lui idea
quasi di soprannaturale; gli è nata da circostanze spie¬
tate, ed è dolcissima immagine, un po’ come quella
personificazione dell’eco ch’egli cita ad esempio di
quanto fosse piena di amabili e naturali illusioni la
mitologia greca.2
Il momento più soave della giornata, è quell’ora
della mattina, sorto appena il sole; la stagione bella
è primavera; il popolo è la gioventù della società;
l’antico è la gioventù del mondo; l’uomo, a pochi
lustri, già è conscio se stesso duna sventura amaris¬
sima, della decadenza del suo corpo, dell’appassimen¬
to del fiore dei giorni suoi.
E come, egli si domanda, e quando una società è
declinante? La civiltà delle nazioni consiste, nel suo
Conferenze 1924-1937 335

pensiero, in un temperamento della natura colla ra¬


gione, dove quella, cioè la natura, abbia la maggior
parte.
« Una grandissima e universalissima fonte di erro¬
ri, controsensi, oscurità, sviste, contraddizioni, dubbi,
confusioni, ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi
che modernissimi, » egli lasciò scritto « è il non aver
considerata e definita e posta nelle basi del sistema
dell’uomo la nemicizia scambievole della ragione e
della natura. Posta la quale, che è tanto evidente e
universale, si rischiarano e determinano e risolvono
infiniti misteri e problemi nell’ordine e composto del¬
le cose umane. Ma confondendo la ragione colla natu¬
ra, il vero col bello, i progressi dell’intelligenza coi
progressi della felicità e col perfezionamento dell’uo¬
mo, le nozioni e la natura dell’utile, il fine o scopo
dell’intelligenza, ch’è la verità, col fine e scopo vero
dell’uomo e della natura sua, ec., non si viene mai a
capo di decifrare il mistero dell’uomo e di accordare
le infinite contraddizioni che par che s’incontrino in
questa principalissima parte del sistema universale,
cioè in quella che riguarda la nostra specie. Il com¬
battimento della carne e dello spirito, dei sensi e del¬
la mente, notato già dagli scrittori, massimamente re¬
ligiosi, o non è sufficiente, o non è stato bene inteso
ed applicato ed esteso quanto doveva, o è stato torto
in senso contrario al giusto e dedottene conseguenze
della stessa specie. »
Quando la ragione soverchia la natura, v’è nella
società stato di barbarie, come vi è stato di barbarie
quando la natura soverchia la ragione. « La barbarie »
ci dice « suppone un principio di civiltà, una civiltà
incoata, imperfetta. Le tribù selvagge d’America che
si distruggono scambievolmente con guerre micidiali,
e si spengono altresì da se medesime a forza d’ebrie¬
tà, non fanno questo perché sono selvagge, ma per¬
ché hanno un principio di civiltà, una civiltà imper-
336 Giuseppe Ungaretti

fettissima e rozzissima; perché sono incominciate a


incivilire, insomma perché sono barbare. Lo stato na¬
turale non insegna questo e non è il loro. I loro mali
provengono da un principio di civiltà. Niente di peg¬
gio certamente, che una civiltà o incoata o più che
matura, degenerata, corrotta. »
Qual’è dunque il tipo di società nel quale ragione
e natura gli sembra avessero perfetto equilibrio? Un
dato momento dell’antico, fino a Socrate in Grecia:
« Illusione dell’antico » lasciò scritto « è quella co¬
stanza dei trecento alle Termopili, e in particolare di
quei due che Leonida voleva salvare e non consenti¬
rono, ma vollero evidentemente morire, così anche la
solita gioia delle madri o padri spartani (ma è più no¬
tabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per
la patria ».
I Romani già al tempo di Longino erano quasi
barbari. « Eppure, » ci confida « non c’era stata nes¬
suna irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque
la barbarie, da quelle civilissime terre, perché la ci¬
viltà era eccessiva. Cicerone era il predicatore delle
illusioni [...] E intanto Antonio che sarebbe stato
condannato in altri tempi, non si poteva ottenere in
Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto mo¬
tivo di sperare che sarebbe vinto, che fosse dichiara¬
to nemico della patria: calcolavano, cercavano, ec.
quello che in altri tempi senza un istante di delibera¬
zione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone pre¬
dicava indarno, non c’erano più le illusioni d’una
volta, era venuta la ragione, non importava un fico
la patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei popoli,
ec.; eran fatti egoisti, pesavano l’utile. »
Quale dunque esattamente era l’idea che Leopardi
si formava dell’antico?
II gran mobile degli antichi era la gloria che si pro¬
metteva a chi si sacrificava per la patria; e la vergo¬
gna a chi si ricusava a questo sacrifizio. L’antico non
Conferenze 1924-1937 337

teneva la felicità e l’infelicità come cose immaginarie


e chimeriche, ma solide e solidamente opposte fra lo¬
ro. Le illusioni per lui erano realtà.
L’antico possedeva una scienza politica cosi fine
ch’egli seguiva questi precetti: « Se tu sei bello, non
ti resta altro mezzo, per non essere odiosissimo agli
uomini, che un’affabilità particolare e come una certa
noncuranza di te stesso, che plachi l’amor proprio al¬
trui offeso dall’avvantaggio che tu hai sopra di loro
o anche dall’uguaglianza. Così, se tu sei ricco, dotto,
potente ec. Quanto maggiore è l’avvantaggio che tu
hai sopra gli altri, tanto più, per fuggir l’odio, t’è ne¬
cessaria una maggiore amabilità e quasi dimenticanza
e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perché tu
devi medicare una cagione d’odio che tu hai in te stes¬
so e che gli altri non hanno: una cagione assoluta,
che ti fa odioso per se sola, senza che tu sia né in¬
giusto né superbo, né ec. L’antico era tanto persuaso
della odiosità dei vantaggi individuali, che ne crede¬
va invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità aveva cu¬
ra dell’invidiam deprecari, tanto divina che umana;
e quindi un seguito non interrotto di felicità lo ren¬
deva pauroso di gravi sciagure ».
La felicità e l’infelicità non erano quindi per lui
cose immaginarie e chimeriche: ma solide e solida¬
mente opposte fra loro.3 Tale era il suo sentimento
della misura, e ogni suo eccesso o difetto, anche invo¬
lontario, sapeva che avrebbe determinato un fato av¬
verso, come bene si può vedere in Eschilo. Era natu¬
rale, per conseguenza, che ai vantaggi individuali an¬
teponesse il sacrifizio per la patria, e affidasse tutta la
sua gloria a questa sua dedizione al comune bene.
Era naturale che umanizzasse gli Dei, non tanto per
abbassarli, quanto per onorare e innalzare gli uomini
in un sentimento di responsabilità; e effettivamente
non fece più umana la divinità che divina 1 umanità,
sia nella propria immaginazione, sia nella stima popo-
338 Giuseppe Ungaretti

lare. Tanto magnanima idea aveva l’antico dell’uomo


e delle cose umane, delle quali non parlava se non
per esaltarle e ingrandirle.
E come decadde l’antico, e come si produsse il cri¬
stianesimo? Leopardi risponde: « Quello che uccide¬
va il mondo era la perdita delle illusioni; il cristiane¬
simo lo salvò non come verità, ma come una nuova
illusione. E gli effetti che produsse, entusiasmo, fana¬
tismo, sacrifici magnanimi, eroismi, sono i soli effetti
di una grande illusione. Non consideriamo adesso se
sia vero o falso, ma solamente che questo non prova
nulla a suo favore. Ma come si stabilì con tanti osta¬
coli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo
ai Governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta
che il fanatismo di una grande illusione trionfa di
tutto. Non ha considerato menomamente il cuore u-
mano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace,
quando anche contrastino ai suoi interessi, e come
egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica
visibilmente [...] Ma come trionfò il cristianesimo
della filosofia, dell’apatia che aveva spento tutti gli
errori passati? [...] I lumi di quel tempo erano ba¬
stati a spengere l’errore grossolano delle antiche reli¬
gioni, ma non solamente permettevano, anzi si presta¬
vano ad un errore sottile. E quel tempo appunto per
i suoi lumi inclinava al metafisico, all’astratto, al mi¬
stico, e quindi Platone trionfava in quei tempi ».4
A questo punto della sua polemica, Giacomo Leo¬
pardi ci ha già delineato il suo sistema. Tutti gli sfor¬
zi della ragione devono tendere nella società a trarre
partito dalle benefiche illusioni che la natura racchiu¬
de. La natura, per il Leopardi, è un sentimento inge¬
nito e proprio dell’animo nostro; è quella qualunque
sia intelligenza o forza o necessità o fortuna che ha
coordinati gli effetti alle cause finali che nel mondo
sono evidenti. Essa è benefica quando muove nell’uo¬
mo le forze naturali dello spirito umano: il sentimen-
Conferenze 1924-1937 339

to e l’immaginazione, forze generatrici d’illusione. Le


illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mon¬
do; tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snatu¬
rato; ogni popolo snaturato è barbaro non potendo
più correre le cose come vuole il sistema del mondo.
La ragione, per non diventare nociva, va tenuta nei
suoi limiti di facoltà la più materiale che sussista in
noi, le cui operazioni materialissime e matematiche
potrebbero attribuirsi in qualche modo anche alla ma¬
teria. « L’uomo si allontana dalla natura, e quindi dal¬
la felicità, quando a forza di esperienze di ogni gene¬
re, ch’egli non doveva fare e che la natura aveva prov¬
veduto che non facesse (perché s’è mille volte osser¬
vato ch’ella si nasconde al possibile e oppone milioni
di ostacoli alla cognizione della realtà); [quando] a
forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione
scambievole, ec., la sua ragione comincia ad acquista¬
re altri dati, comincia a confrontare e finalmente a de¬
durre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da
quelli che non doveva avere. »
Appassitasi l’illusione cristiana, coll’Umanesimo noi
abbiamo un primo tentativo di rinnovamento del pat¬
to originario, di appello nuovo alla natura. Ed ha
principio quella crisi morale e religiosa dell’Occidente
- di cui parlavamo nelle prime frasi del nostro di¬
scorso - che porterà ad un dissidio crescente tra in¬
dividuo e società. I primi segni di questo dissidio sa¬
ranno i primi processi di conseguimento della perso¬
nalità nazionale dei popoli europei. Anzitutto l’Uma¬
nesimo è un movimento di cultura. Se chiede esem¬
pio all’antico è di canoni, è di ciò che l’antico posse¬
deva di più razionale, quand’era sul punto di declina¬
re. Ciò che l’abbaglia nell’antico, è la scoperta delle
leggi meccaniche della ragione. L’Umanesimo certo fu
propulsore di freschezza e di vigore dall’Italia in tut¬
to il mondo. Certo suscitò lotte, e grandezza. Diede
certo vita a un’arte grande. Ma, come il cristianesimo
340 Giuseppe Ungaretti

al suo sorgere, per la potenza d’illusione ch’è ineren¬


te a ogni novità. Ma perché, comunque, s’era riacco¬
stato all’antico e alla natura. Ma per la facoltà che ha
l’arte, in un momento comunque grande, di ritrovare,
anche attraverso esperimenti sopratutto razionali, la
sua via di possesso di quelle forze che sono la sostan¬
za stessa dell’arte: l’immaginazione e il sentimento.
Ma perché, in molta parte gli artisti venivano dal po¬
polo.
Una conseguenza dell’Umanesimo, dello spirito
scientifico che l’animava, è l’invenzione della macchi¬
na, d’un mezzo cioè che accrescerà, almeno sino ad
oggi, l’indebolimento corporale delle generazioni uma¬
ne, il quale indebolimento è stata una delle principali
cause del cambiamento del mondo e dell’animo e cuo¬
re dall’antico al moderno. E il Leopardi cita ad esem¬
pio, l’invenzione della polvere, alla quale attribuisce
l’indebolimento delle generazioni: avendo disawezza¬
to dal portare armatura; avendo reso l’atto della guer¬
ra non più opera della forza individuale o generale,
ma quasi intieramente della scienza; certamente aven¬
do reso la scienza molto più arbitra della guerra che
non era stata per l’addietro; avendo soppresso e tolto
per conseguenza la necessità di quegli esercizi che di¬
rettamente o indirettamente, come i giuochi atletici
servivano a render gli uomini vigorosi e atti alla
guerra.
Insieme alla scienza, l’Umanesimo dà, e sono cose
che sempre procedono di pari passo, sviluppo alla fi¬
losofìa. La Rivoluzione francese è un moto che nasce
dalla corrente filosofica — sono cose note — sviluppa¬
tasi dall’Umanesimo. È il moto dell’Umanesimo che
s’allarga nel popolo. E giunge dunque alla fonte stessa
delle illusioni, direte. No. La pura ragione avrebbe
condotto e diffuso anche nel popolo l’egoismo. « L’e¬
goismo fa l’uomo impotente, toglie la persuasione e
getta nell’indifferenza, rende l’uomo irresoluto, e ten-
Conferenze 1924-1937 341

de a renderlo disperato, e, togliendo le illusioni che


ci legano gli uni agli altri, scioglie le società e infe¬
rocisce le persone. »
Il pensiero di Giacomo Leopardi è ora netto:
« È una bella curiosità che mentre le nazioni per
l’esteriore vanno a divenire tutta una persona e ora¬
mai non si distingue più uomo da uomo, ciascun uo¬
mo poi, nell’interiore è divenuto una nazione; vale a
dire che non hanno più interesse comune con chic¬
chessia, non formano più corpo, non hanno più patria,
e l’egoismo li restringe dentro il solo circolo de’ pro¬
pri interessi, senza amore né cura degli altri né legame
né rapporto nessuno interiore col resto degli uomi¬
ni [...] La società, essendo diretta al comune bene e
piacere, non sussiste veramente, se l’individuo non
accomuna più o meno agli altri la sua stima, i suoi
interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed
affetti, inclinazioni ed azioni. Quanto più si trova nel¬
l’individuo il se stesso tanto meno esiste veramente la
società. Così se l’egoismo è intero, la società non esi¬
ste se non di nome. »
La solitudine dell’uomo al principio dell’800 è dun¬
que totale. Nessuno ora potrà più stupirsi che il suo
urlo di poeta fosse altissimo.
Il pensiero di Leopardi è dunque forse il più sin¬
golare e più potente che si sia manifestato in Occi¬
dente, negli ultimi tre secoli. Ho cercato di mostrar-
vene qualche aspetto. Leopardi è questo: un poeta
che ha avuto come nessun altro il senso della storia,
esponga la sua teoria delle illusioni, opponendo natu¬
ra e ragione; formuli la sua critica del cristianesimo;
colle sue scoperte psicologiche sull’amore, sull’odio,
sul sogno, sull’assuefazione, sulla curiosità, sul timore,
sulla pietà, sui « paradisi artificiali », sul sonno, sul
piacere, sull’eroismo, sull’infelicità, sull’amor proprio,
sull’egoismo, tracci un trattato delle passioni e dei
sentimenti degli uomini; discorrendo di scrittori d’o-
342 Giuseppe Ungaretti

gni, tempo e paese, ragionando di relatività del bello,


del popolare, del vago, della grazia e dell’eleganza, dei
caratteri di questa o quella lingua, indichi i lineamen¬
ti d’una nuova rettorica; giudichi fatti e uomini della
storia, porgendoci il più illuminato dei breviari di
scienza politica.
Dopo avere rilevato che se si lasciasse fare alla na¬
tura, le cose andrebbero benissimo, e avere suggerito
che non bisogna estinguere la passione colla ragione,
ma convertire la passione in ragione, fare che il dove¬
re, la virtù, l’eroismo diventino passioni, come sono
per natura; dopo avere non negato il sapere, ma ri¬
petuto che è necessario, in una società fatta bene, che
la cultura dello spirito non vada disgiunta da quella
del corpo, dopo avere insegnato che in una società
fatta bene, il popolo e i giovani devono avere grande
parte, il Leopardi dirà:
« La politica non deve considerare solamente la ra¬
gione, ma la natura, dico: la natura vera e non arte¬
fatta né alterata [...] Sebbene è spento nel mondo il
grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi
l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né pos¬
sibile a togliere il desiderare. Non è spento nei gio¬
vani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita e a
sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli ogget¬
ti ai quali anticamente era rivolto questo ardore, ve¬
dete a che cosa li debba portare e li porti effettiva¬
mente. L’ardore giovanile, cosa naturalissima, univer¬
sale, importantissima, una volta entrava grandemente
nella considerazione degli uomini di stato. Questa ma¬
teria vivissima e di sommo peso ora non entra più
nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è consi¬
derata appunto come non esistente. Frattanto ella esi¬
ste ed opera senza direzione nessuna, senza provvi¬
denza, senza essere posta a frutto (opera, perché, quan¬
tunque tutte le istituzioni tendano a distruggerla, la
natura non si distrugge, e la natura in un vigore pri-
Conferenze 1924-1937 343

mo freschissimo e sommo com’è in quell’età); ora


questa materia così naturale e inestinguibile, divenu¬
ta estranea alla macchina e nociva, laddove anticamen¬
te era impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbli¬
che, circola e serpeggia e divora sordamente come un
fuoco elettrico, che non si può [...] né impiegare in
bene, né impedire che non iscoppi in temporali, in
terremoti, ec. »
Egli ha previsto e definito le aspirazioni e le discus¬
sioni e i moti- e il tormento che da un secolo si ac¬
cendono in Europa.5
INFLUENZA DI VICO
SULLE TEORIE ESTETICHE D’OGGI
[1937]'

L’altra sera, nell’iniziare il nostro discorso,1 mostra¬


vamo come, con quella semplicità che sanno raggiun¬
gere solo gli uomini profondi, Vico riassumesse la sua
dottrina in questa frase: imparare bene per giudicare
bene e giudicare bene per ragionare bene. Così noi
vediamo subito fissati i gradi dello spirito, secondo
Vico. Per imparare bene una cosa occorrono dunque
fantasia e memoria. Alle origini dello spirito - per¬
ché Vico va sempre alle origini - c’è dunque una pri¬
ma conoscenza morale, che scaturisce dalla fantasia e
dalla memoria. Croce che ha scritto una trentina d’an¬
ni fa un trattato d’estetica considerato anche oggi, e
non solo in Italia, come l’ultima parola in tale mate¬
ria, procedendo dal Vico pone il principio che il fatto
artistico risulta da un’identità fra intuizione e espres¬
sione. La debolezza del sistema crociano ch’egli stes¬
so ebbe a rilevare applicandolo, dipende da un picco¬
lo errore del Croce, intorno al quale Croce gira e ri¬
gira, ma che esita a riconoscere anche ora, dopo che
gli è stato indicato da tutta la polemica letteraria svol¬
tasi in Italia e fuori, negli ultimi quindici anni. Vico
aveva detto: fantasia e memoria. Il Romanticismo è
sorto negando - negando fino ad un certo punto -
negando la memoria. Croce, venendo fuori diretta-
mente dalle estetiche romantiche, ha creduto che Vico
non avesse parlato se non di fantasia e nel suo spiri¬
to, intuizione ed espressione non entrano in funzione
se non per virtù di sola fantasia. La verità, la verità
che chi ha praticato l’arte dovrebbe conoscere bene, è
che non c’è fatto artistico, che non c’è identità fra
Conferenze 1924-1937 345

intuizione e espressione se la fantasia, e la memoria,


funzioni necessarie dell’intuizione, non divengono fun¬
zioni dell’espressione.
Da Croce, tutta l’attenzione che un artista è co¬
stretto a rivolgere al mezzo espressivo per esprimersi,
è considerata con ostinazione come trascurabile.. Per
esempio, una forma metrica che un dato poeta ha da
scegliersi: l’endecasillabo, o un metro libero, sarebbe
dal punto di vista estetico, trascurabile: schemi, sche¬
mi che la fantasia dovrà riempire. Ebbene, potrebbero
essere schemi, presi in sé, oggettivamente; ma quan¬
do nel poeta, o in chiunque, operino soggettivamen¬
te, non è vero, non sono più schemi. Sono parole,
parole diverse, che ci sono dette da persone diverse
e da persone di secoli diversi. Perché noi possiamo
parlare anche colle persone morte da diversi secoli: è
il miracolo della poesia. Quelle voci ci seducono per
quello che ci dicono, ed anche per la loro inflessione.
Credete che il ricordo di quelle voci, non entrerà per
nulla in quella tale vostra espressione poetica che do¬
vrà venire a dare identità a quella vostra tale intuizio¬
ne vagante in voi? Tutto, tutto, tutto è memoria. Già
una cosa, quando noi la vediamo, non abbiamo il tem¬
po di nominarla, ch’è già passato, che è già memoria.
E non dico che occorra partire dalla memoria che è
conservata nei libri; e partiamo pure dai fatti che ci
hanno toccato direttamente, dalla memoria dei fatti
che muovono direttamente il nostro sentimento men
tre ce li rappresenta o ce li deforma o ce li trasfigura.
Quando avremo da esprimere quest’intuizione, noi sen¬
tiremo che questo primordiale modo d’impossessarsi
del valore d’una cosa ch’è l’intuizione, muoverà incon¬
tro a noi una musica - come un poeta diceva l’altro
giorno che era avvenuto ai poeti provenzali, grandi
poeti, se mai ce ne furono - e questa musica preesi¬
stente, necessariamente preesistente alle nostre parole,
le modellerà. Questa musica non è stata inventata da
346 Giuseppe Ungaretti

noi! Potremmo darle il timbro della nostra voce. Ma


questa musica, è una musica di secoli. Vico pensava
addirittura a una lingua del gemere umano per la poe¬
sia. Non c’è. Non ci potrà mai essere. Ci sono lingue
nazionali, ci sono modi delle lingue nazionali, c’è un
patrimonio letterario di ciascuna nazione. Quando Cro¬
ce non bada alla memoria nella sua estetica cade nello
stesso errore cartesiano contro il quale Vico s’era eret¬
to, e toglie alla poesia la sua potenza storica, la se¬
para dal tempo che la rende così umana, la riduce a
pura anima, mentre la nostra condizione di perire e la
nostra illusione d’immortalità, così intrinseche alla no¬
stra azione, non divengono effettive se non afferman¬
do la persona umana fatta inscindibilmente di corpo
e d’anima.
Un esempio, - e procederemo stasera per esempi, -
ci farà subito vedere nella sua esattezza, ciò che in¬
tendo dire. Prendiamo due poeti, due poeti italiani,
del primo Ottocento. Siamo in piena polemica roman¬
tica, e questi due poeti, questi due grandi poeti, il
Leopardi e il Manzoni, naturalmente vi partecipano.
Il primo, in un modo molto semplice. Il Romantici¬
smo gli dà noia, non per quello che afferma, per quel¬
lo che fa. Il Romanticismo porta in campo il senso
della vecchiaia delle lingue, - non delle lingue anti¬
che: il senso della vecchiaia delle lingue neo-latine.
Lingue scritte già da cinque secoli, che hanno già da
cinque secoli una letteratura, che portano già una tra¬
dizione letteraria di cinque secoli. Il Romanticismo,
mentre sente che qualche cosa di nuovo nel mondo è
avvenuto che va raffigurato, sente che ridotti a univer¬
sali poetici, i miti forniti dalla mitologia classica non
sono più miti, e più non valgono ormai se non come
una semplice metafora. I miti antichi per l’Umanesi¬
mo avevano rappresentato la sete del sapere che sta¬
va conquistandosi armonia, erano il modello perfet¬
to, la meraviglia dell’adolescente nello scoprirsi uomo,
Conferenze 1924-1937 347

erano infinite cose bellissime per le quali quella mito¬


logia era tornata viva. Per il Romantico tutte queste
cose sono oramai morte. Il Neoclassicismo che lo fian¬
cheggia o lo precede di poco, tenta un rinnovamento
dei miti classici più che al seguito di Winkelmann,
come generalmente si dice, in seguito piuttosto alle
scoperte d’Ercolano: scoperte d’oggetti: sculture, pit¬
ture e sopratutto rotoli di papiri contenenti svolgi¬
menti delle dottrine di Epicuro. Dal 1750 al 1850 si
possono seguire delle infiltrazioni nette d’epicureismo
nel pensiero e nell’estetica, e vengono direttamente
dagli scavi d’Ercolano e dalle pubblicazioni dell’Acca¬
demia ercolanense. Sono cose che tre o quattr’anni
fa ho dimostrato in un saggio 2 e sulle quali ora non
è il momento di insistere; ma si può vedere, per esem¬
pio nel Canova - e cito uno scultore perché le arti
sono fra loro molto più legate che non si creda - che
ciò che lo seduce è quel pallore dei suoi marmi, fatto
risaltare da pochissima ombra, ma così giusta e così
fonda da mettervi nelle ossa un senso di malinconia,
come se tutto fosse morto e null’altro valesse se non
gingillarsi, e quasi quietarsi, e quasi dormire nella
propria sensuale malinconia. Arte di decadenza, che
segnava appunto lo spirare in bellezza degli ideali del
Rinascimento.
Si diceva che il Romanticismo sentiva la vecchiaia
dei mezzi espressivi e sentiva che erano sorti dei nuo¬
vi miti. Essi appaiono, per esempio, nel 5 Maggio del
Manzoni. Essi appaiono, per esempio, nel Tramonto
della luna ch’è l’ultima e la più bella poesia del Leo¬
pardi. Nel 5 Maggio bisogna almanaccare molto per
arrivare a capire quello che il Manzoni ha in animo
d’esprimere. Esteticamente, il 5 Maggio presenta al¬
cuni difetti gravi di composizione. La parte che do¬
vrebbe avere maggiore risalto poetico, la parte dove
manifesta il rapporto fra l’uomo e Dio, suggerito dal
perire, suggerito dal fatto che anche un uomo che
348 Giuseppe Ungaretti

aveva riempito di sé il mondo tanto che pareva che


il mondo avesse ormai preso il suo nome e si raffigu¬
rasse unicamente in lui; il rapporto fra l’uomo e Dio
suggerito dal fatto che anche per un Napoleone c’era
la morte, non trova se non termini d’un ragionamen¬
to prosaico, stentato: non dimostra affatto d’essere
un’intuizione che s’identifichi nell’espressione:

Lui folgorante in solio


Vide il mio genio e tacque...

Ver gin di servo encomio


E di codardo oltraggio
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio...

Non ho oggi il tempo di farvi un commento dif¬


fuso. L’ho fatto ai miei giovani. Vi dirò in breve il
perché c’è difetto. Perché essendo e dichiarandosi vi¬
cinano, e sentendo che bisognava per ricorso storico
rinnovare il mezzo espressivo, trascurava di conside¬
rare, commettendo lo stesso errore del Croce, che l’in¬
tuizione si muove da due funzioni verso l’espressione,
trasferendole all’espressione quando in essa si sia iden¬
tificata: si muove dalla memoria e dalla fantasia. Quei
versi del Manzoni non erano versi di ritmo italiano,
non portavano in sé la memoria del ritmo italiano. Il
ritmo italiano è fatto sulla base di parole piane, e il
ritmo del 5 Maggio è fatto sulla base di sdrucciole e
di tronche, nell’italiano, moto insolito nelle parole.
Non c’è solo un motivo formale; c’è una ragione più
vera. Il Manzoni col suo raziocinio afferrava benissi¬
mo tutto: afferrava la necessità di rinnovare la lin¬
gua, afferrava i miti nuovi: il mito dell’uomo provvi¬
denziale nel quale le aspirazioni delle masse vengono
storicamente ad essere simboleggiate: la coscienza del¬
le masse infatti si rivela a se stessa epicamente nel-
Conferenze 1924-1937 349

l’uomo provvidenziale; afferrava come Vico, il rap¬


porto tra l’umano e il divino, rivelato dall’illusione
d’immortalità e dalla condizione di perire. Ma poeti¬
camente, il Manzoni era attratto da altro, e ciò che
l’attraeva non era diverso da ciò che attraeva i Neo¬
classici. L’attraeva il perire, o meglio l’attraeva quella
bellezza che toccata, o dal male morale o dal male fi¬
sico, presenta improvvisamente nel suo disfacimento,
non si sa quale luce.

Oh quante volte al tacito


Morir d'un giorno inerte...

Ecco i versi belli del 5 Maggio. Versi bellissimi, e


che hanno ritrovato il ritmo italiano, perché in real¬
tà non sono due settenari affannati nel loro trotto, co¬
me gli altri, ma un endecasillabo:

Oh quante volte al tacito morire

e un quinario:

D’un giorno inerte.

Il Manzoni ch’era un uomo di strenua volontà mo¬


rale, ed è ciò che fa sopratutto la sua grandezza, ha
combattuto con tutte le sue forze le sue inclinazioni
naturali. Ma esteticamente, le sue pagine bellissime:
la morte d’Ermengarda, la Monaca di Monza, i mo¬
menti d’umorismo, sono le pagine che rispondono alle
sue da lui combattutissime inclinazioni.
Inoltre, la quistione della lingua, il Manzoni la ri¬
solve, nei Promessi Sposi, non fondando il suo italia¬
no sulla base del lombardo ch’era la sua parlata natu¬
rale, ma sulla base del toscano della borghesia di Fi¬
renze, ch’è una bella parlata, ma non era la sua: In
realtà il Manzoni alla propria parlata regionale, so
350 Giuseppe Ungaretti

vrappone un’altra parlata regionale. Arriva alla sua


prosa, spesso di bellissimo effetto e di schietto italia¬
no, per uno di quei miracoli che finiscono sempre col
compiere gli uomini di genio anche partendo da una
falsa posizione, come partiva sempre, per le compli¬
cazioni della sua mente, il Manzoni. In ogni caso, non
a torto il toscano Carducci ha fustigato gli amatori di
riboboli e lo stenterellismo dei manzoniani fabbrican¬
ti di lessici e di grammatiche fondati sull’uso d’una
particolare parlata. L’italiano non è la lingua d’una
regione - e primo di tutti l’ha visto benissimo il to¬
scano Dante - è una lingua alla quale tutte le regioni
d’Italia hanno dato grandi scrittori. C’è dunque una
lingua italiana che risulta dagli esempi di tutti questi
scrittori. C’è una memoria della lingua alla quale do¬
vrà uniformarsi la propria parlata regionale, o co¬
munale, o rionale, o di ceto, e così sarà rispettata e
la propria natura e la tradizione letteraria della lingua
nella quale si scrive. Tali erano i criteri del Leopardi
che rinnovava il verso, e lo rinnovava tenendo conto
di tutte le aspirazioni musicali del suo tempo, ma era
l’endecasillabo del Petrarca, era l’endecasillabo del
Tasso che si rinnovavano nel suo; ma era la canzone
del Petrarca, era il Tasso lirico che si rinnovavano
nella sua canzone. Tali erano i criteri del Leopardi
che rinnovava la nostra prosa nelle sue Operette mo¬
rali) ma era la prosa italiana del Trecento ed era la
prosa italiana del Cinquecento ed era la prosa scien¬
tifica italiana, l’insuperabile prosa scientifica italiana
fissata da Galileo, modello a tutta la prosa scientifica
europea, e che porta nella terminologia un rigore che
direi quasi crudele pure lasciando che la lingua si sca¬
pricci a suo agio nella fantasia; erano 500 anni di pro¬
sa nostra che si rinnovavano rielaborandosi nella prosa
leopardiana. Dirò di più, per restare fedele alla sua na¬
tura, pure restando fedele alla tradizione, il Leopardi
leggeva con particolare predilezione gli scrittori della
Conferenze 1924-1937 351

sua regione, i Marchigiani: Annibai Caro, per esem¬


pio. Non è tutto: guardate come in una, per esem¬
pio, delle sue poesie, nel Tramonto della luna, che
abbiamo scelto, fa balenare dalle identità poetiche fra
espressione e intuizione i miti romantici della gioven¬
tù e del perire. Il mito del perire lo vediamo nel sin¬
golo che si fa vecchio e muore, lo vediamo nelle so¬
cietà che si fanno vecchie e muoiono, lo vediamo nel¬
l’universo che si fa vecchio e muore. Quest’intuizio¬
ne è resa disperata dalla potenza del sentimento. C’è
nella poesia una grande pausa cosmica: quel momento
nel quale, già tramontata la luna, non è ancora sorto
il sole: è un momento di sospensione spaventosa, ep-
poi tutto, naturalmente, poeticamente, si rinnova: al
singolo che ha un piede nella tomba, succede il figlio,
alle vecchie generazioni, seguono le nuove; le società
che si decompongono, lievitano decomponendosi, in
sé, nel popolo, gioventù perenne delle nazioni, la pro¬
pria ricostituzione e basterà che un uomo provviden¬
ziale arrivi perché splenda miticamente alla loro co¬
scienza la ritrovata gioventù; e infine, dopo la luna
tramontata, era sorta quella notte, un’alba d’un furo¬
re inaudito. Vorrei leggervi la poesia e commentarve-
la punto per punto. Purtroppo ho il tempo ristretto.
È accanto alla ballata dell’amore muto di Jacopone,
la più bella lirica italiana. Come è arrivato a tanta
bellezza d’effetti il Leopardi? Semplicemente non di¬
menticando che doveva esprimere se stesso, ch’era un
uomo del tempo romantico, non dimenticando il suo
tempo storico, non dimenticando che doveva avere
un’intuizione del suo tempo, ma non dimenticando
che il suo tempo era il punto presente d’una profon¬
da linea infinita, percepita dalla memoria partendo
da quella presenza sulla quale perciò, per merito di
memoria, poteva fantasticare; non dimenticando che
anche l’espressione ha la sua memoria, l’ha nelle sue
cause, l’ha in sé e l’ha nei suoi effetti.
352 Giuseppe Ungaretti

Tutta la polemica letteraria moderna, come si di¬


ceva da principio, tende a superare l’incompiutezza
dell’estetica crociana, restituendo al precetto vichiano
i suoi due termini di memoria e di fantasia, come ab¬
biamo cercato di fare anche noi nel nostro esempio.
Su queste basi si svolge in Italia la critica di Alfredo
Gargiulo, al quale dobbiamo il libro migliore su Ga¬
briele d’Annunzio e i saggi migliori sulla letteratura
italiana d’oggi. Sulle medesime basi è stato recente¬
mente condotto in Francia un trattato teorico, suc¬
cosissimo sebbene non voluminoso, intitolato Les
Fleurs de Tarbes e dovuto a Jean Paulhan. Ma la cri¬
tica arriverà, e sta arrivando, a superare interamente
10 scoglio idealista, ricollegandosi al concetto vichiano
di mito.
S’è più volte stasera pronunziata questa parola di
mito. In un recente saggio di Roger Caillois si tende
a dimostrare che se ha un valore in quanto è mito, il
mito non ne ha alcuno di misura d’ordine estetico. Il
mito è considerato dal Caillois come appartenente per
definizione alle masse e giustifica, sostiene e ispira
l’esistenza e l’azione d’una comunità, d’un popolo,
d’una corporazione. Sono su per giù gli stessi termini
usati dal Vico; ma il Vico andava più in là. Il ver¬
detto nell’ordine estetico, soggiunge il Caillois, spetta
invece all’individuo, non perché non v’influisca la so¬
cietà; ma in questo caso essa propone senza costrin¬
gere. Quando il mito diventa letteratura, dice sempre
11 Caillois, perde la sua potenza morale costrittiva e
si fa oggetto di godimento estetico. A quel punto, per
esempio, Ovidio scriverebbe le Metamorfosi. Ciono¬
nostante, pure mirando a raggiungere solo effetti d’or¬
dine estetico, la letteratura dà vita nell’immaginazio¬
ne popolare a miti, e quindi può scriversi una storia
del mito attraverso alla sua formazione dipendente da
effetti dell’opera letteraria. Questo è quanto dice il
Caillois. Vico avrebbe detto che se un’opera d’arte dà
Conferenze 1924-1937 353

vita a miti cogli effetti della sua espressione, è segno


che questi miti erano virtualmente nell’intuizione del¬
l’artista. Il giudizio estetico, del resto, è sempre an¬
che un giudizio storico. Si può vedere dal giudizio che
noi ci facciamo dell’opera di Dante, oppure di quella
del Petrarca, diverso dal giudizio che se ne faceva il
Cinquecento o il Settecento, e non solo per il mutarsi
del gusto, ma anche perché cose dell’opera letteraria
che possono essersi oscurate per gli uni, possono tor¬
nare a chiarirsi per altri; ed anche perché, in certe
opere di sommo valore il mito resta segreto a lungo
per impreparazione del pubblico a farselo proprio pri¬
ma di un secolare stratificarsi di commenti, come pre¬
cisamente è avvenuto per il Petrarca e per Dante.
In ogni caso, che sia entrata nella storia letteraria
questa considerazione vichiana dei miti, è un fatto
che in un certo senso mi lusinga personalmente per¬
ché è stato proprio chi vi parla, discorrendo del mito
di Roma nel Petrarca e in tutta la poesia europea suc¬
cessiva, a dimostrare l’importanza storica del mito e
a dimostrarla in conferenze tenute proprio anche in
Francia: all’Università di Digione, al Centro Universi¬
tario Mediterraneo di Nizza, all’Università di Stra¬
sburgo.
Prendiamo un fatto storico: la fondazione, per esem¬
pio, dell’Impero Carolingio. Che cosa significa questo
fatto? Significa che masse barbariche di molte prove¬
nienze avevano raggiunto una certa unità nel costume,
nelle credenze e nelle aspirazioni, che avevano raggiun¬
to cioè una certa comunanza di coscienza, che ormai
possedevano un’attività morale in comune, che posse¬
devano una volontà collettiva. Come si manifesterà
questa loro coscienza? Con un fatto epico. Questa co¬
scienza unitaria dell’Europa nascente — o della cristia¬
nità come allora si diceva - si manifesterà e prende¬
rà slancio - coll’affermazione della propria autonomia
da conservarsi e del proprio sviluppo da garantire -
354 Giuseppe Ungaretti

nelle grandi imprese militari contro la minaccia isla¬


mica. Dunque si affermerà con fatti epici. Perché que¬
sti fatti siano espressi dalla poesia occorrerà che pri¬
ma la memoria se li nomini e ci fantastichi su, e
quando, per questa elaborazione della memoria e del¬
la fantasia, verranno intuiti dalla mente nella loro ve¬
rità reale, alla mente stessa allora appariranno come
miti - o chiamateli fantasmi se vi piace di più - e
allora verranno dall’espressione poetica resi oggettivi.
Come i miti delle canzoni di gesta abbiano importan¬
za non solo per spiegarci fenomeni letterari, ma per
rappresentarci tutta la vita medioevale fino all’avven¬
to deH’Umanesimo, e come sopratutto ottengano que¬
sto risultato per i miti che verranno ad opporsi ad
essi (e saranno miti religiosi e insieme politici e so¬
ciali perché tutto è colorito allora dalla religione, e
sarà infine il mito della natura) - è un capitolo di
storia interessantissimo, anche per i complessi fattori
di diritto che entrano in giuoco. L’ho svolto, nelle
mie lezioni sulle origini della letteratura italiana, alla
nostra facoltà, e purtroppo non posso ora dilungarmi
ad esporlo di nuovo. Si dirà: ma quella era poesia
popolare. Intendiamoci: Jacopone non era affatto un
poeta popolare, nel senso che si dà di solito a questa
parola, e cioè nel senso di poesia più di genere, presa
nel suo anonimato, che non rispecchiante una parti¬
colare personalità poetica: se mai poesia ha ricevuto
l’impronta d’una fortissima personalità è proprio quel¬
la di Jacopone. C’è secondo me errore in un criterio
com’è quello seguito dal Caillois che vuole per i fatti
sociali un certo determinismo, mentre per quelli del
singolo riconosce il libero arbitrio. Quest’errore ha
portato nell’Ottocento anche a un mito, e che ha pro¬
dotto grande poesia - quella di Baudelaire per esem¬
pio - ed è il mito dell’antinomia insanabile fra indi¬
viduo e società. In realtà non possiamo arrivare a for¬
marci un criterio critico efficace se non ammettendo
Conferenze 1924-1937 355

che tanto il singolo quanto la società agiscono di pro¬


pria volontà. Oppure si ammetta il determinismo in
ogni caso, ma sarebbe criterio che deprimerebbe l’uo¬
mo e gli strapperebbe la sua stessa dignità, e non ar¬
riveremmo più a spiegarci perché ci siano poeti sulla
terra.
Ci sono naturalmente dei miti moderni - ne ab¬
biamo citato uno reso struggente dalla poesia di Bau¬
delaire - e Balzac, al quale, per sua stessa dichiara¬
zione, Vico era familiare, nella Vietile fille, come ri¬
porta il Caillois, osserva: « Les mytkes modernes sont
encore moìns compris que les mythes artciens, quoique
nous soyons devorés par les mythes ». Ricorriamo an¬
cora agli esempi, e prendiamone questa volta nella
pittura. Si sa quello che cercava l’Impressionismo fran¬
cese e si sa quello che cercava il Macchiaiuolismo
italiano. L’Impressionismo partiva dall’idea di luce:
pensava che gli oggetti non potessero esistere se non
per via della luce. Quindi il pittore impressionista non
intendeva riprodurre col suo dipingere gli oggetti, ma
semplicemente quell’attimo fuggitivo della luce che li
rivelava. Non entro nel merito di questa pittura, che
pure è gloriosa, ma lo è appunto per quel contenuto
morale e tradizionale — letterario e di museo come es¬
si dicevano con disprezzo - che manifesta e che tra¬
scende il loro credo nel valore puramente fisico della
loro arte. Il Macchiaiuolismo si prefiggeva di ripro¬
durre episodi della vita familiare borghese: il suo era
un bozzettismo. Anche il Macchiaiuolismo ha dei pit¬
tori gloriosi. Ma l’impressionista veramente glorioso è
Cézanne e il macchiaiuolo veramente glorioso è Fat¬
tori, perché l’uno e l’altro si rivoltano decisamente
contro la presunzione della loro scuola, e l’uno ritrova
il senso del volume e della costruzione, l’altro si ritro¬
va il sentimento al posto del sentimentalismo. Non è
questo che voglio dire. Voglio dire che ad un certo
momento appaiono contro Flmpressionismo e contro
356 Giuseppe Ungaretti

il Macchiaiuolismo, in Francia il Cubismo e in Italia


il Futurismo. Il Cubismo affermerà che un oggetto non
vive, come la macchina fotografica forse suggeriva,
un’infinità innumerevole di volte diverse e in diverso
modo quanti sono gl’infiniti attimi della luce che tor¬
na continuamente a ricrearlo, ma che esiste per conto
suo, non miliardi di volte, ma una volta sola che è
quella formata da tutti i suoi aspetti diversi. E, Car¬
tesiani, questa vita unitaria degli oggetti la daranno
per volumi astratti. Seguiranno Cézanne, ma con que¬
sta differenza, che sostituiranno alle sue bagnanti, alle
sue nature morte, o ai suoi giocatori di partite alle
carte, ecc. volumi astratti. Con gl’impressionisti ave¬
vamo il mito della luce, con Cézanne quello dell’in¬
gombro corporale e del peso dei corpi, con i Cubisti
abbiamo il mondo oggettivo trasfigurato in puro spa¬
zio e in puri volumi. Il mito della purezza ch’era en¬
trato nella pittura con gl’impressionisti, rimane intat¬
to con i Cubisti, ma rimane d’ordine fisico e, peggio,
d’ordine fisico astratto. Qual’era il difetto del Cubi¬
smo? Faceva appello alla memoria: l’oggetto ricostrui¬
to in tutto il suo tempo storico; e gli toglieva fantasia,
rendeva cioè quell’oggetto astratto e arido; faceva ap¬
pello alla fantasia per intuire come in tutto quel suo
tempo storico avesse vissuto, e gli toglieva la memoria,
togliendogli qualsiasi segno del suo perire e dimenti¬
cando così che un oggetto è avvinto a noi e c’ispira
per quel dato particolare che ci ha toccato improvvisa¬
mente una volta per sempre, che rimasto nella nostra
memoria, sollecita la nostra fantasia a ricostruirlo mi¬
ticamente in tutta la sua e la nostra durata insieme
confuse.
Il Futurismo era, molto più umanamente, colpito
dalla macchina: mito della velocità, mito della simul¬
taneità. In realtà la macchina porta in sé un contenu¬
to di memoria umana: molti millenni di sforzi pro¬
gressivi in una data direzione; ed essa stessa è un mo-
Conferenze 1924-1937 357

dello di costruzione armoniosa che dimostra a quale


punto di disciplina può arrivare la fantasia quando
voglia nell’espressione arrivare a comporsi in un insie¬
me di sicuro effetto. Non erano queste le cose che si
proponeva il Futurismo; queste sono le cose che si pro¬
porrà la scuola italiana dei Poeti d’oggi, cioè tutta l’ul¬
tima poesia italiana d’oggi, nata nel 1917, in trincea,
con il Porto Sepolto.
Il Futurismo considerava la macchina nella sua bru¬
talità di nuova natura, non cercava di averne scienza
morale umana, ma di restituirla mimeticamente nella
sua travolgente brutalità. Nella pittura futurista - e
considerazioni analoghe valgono per la poesia futuri¬
sta - si voleva dare il movimento della macchina. Si
può dare il movimento nella pittura, l’ha dato il Ca¬
ravaggio, ma con mezzi che sono della pittura: con
uno schianto prodotto dalla luce, coll’opporre masse
di tonalità divergenti, coll’interrompere bruscamente
e quasi capovolgere la scena e con mille altri espedien¬
ti; e si può dare anche con molta semplicità, contraen-
do appena il disegno: le ballerine di Degas ballano;
ma proprio dare il movimento come lo dà il cinema¬
tografo, per quanto ellittica sia la logica espressiva alla
quale si ricorra, è assolutamente impossibile. I pittori
futuristi possono essere arrivati, per l’ingegno che al¬
cuni di essi indubbiamente avevano, a effetti decorati¬
vi notevoli; ma questo non era il loro scopo: volevano
esprimere il mito della macchina che, in quella loro
arte è rimasto inespresso. E, notate, non per mancan¬
za d’intuizione; ma perché l’intuizione era caotica e
non chiara e distinta, e quindi l’espressione non pote¬
va essere se non puerile, e difatti era onomatopeica.
Se vi applico il criterio estetico vichiano quest’arte è
non arte: perché prende la macchina nella sua bruta¬
lità, e non aspetta che la memoria l’abbia trasfigurata
in fatto moralmente conoscibile, perché prendendola
nella sua brutalità non aspetta che la fantasia possa
358 Giuseppe Ungaretti

soccorrere la memoria a trasfigurarla in mito; perché


negando qualsiasi valore alla tradizione del mezzo, ne¬
ga qualsiasi valore all’espressionre artistica: se la mac¬
china dev’essere imitata solo nella sua brutalità, è la¬
voro inutile: sarà più umana com’è. L’arte non è imi¬
tazione, ma fiuto storico e valutazione morale.
In ogni modo il Futurismo aveva due meriti: quel¬
lo d’insorgere contro gli amatori dei loreti impagliati
trovati nei bauli della nonna, e quello di richiamare
l’attenzione sul mondo moderno nella sua violenza, e
quindi di fare nascere nella mente d’un poeta, che ver¬
rà più tardi, nel 1917, il mito della memoria conside¬
rato anche nel suo senso cieco, nel suo senso d’opera
umana prodotta dall’intelligenza umana, ma non an¬
cora resa puramente umana dall’attività morale del¬
l’uomo. È un mito che naturalmente in poesia non può
avere valore se non in opposizione ad un altro mito
della memoria nel quale dovrà convertirsi e purificarsi.
Sarebbe insomma come un diramarsi mitico della me¬
moria in un contrasto, in un dramma, nel seno stesso
della memoria. Del resto, questo fenomeno della scis¬
sione introdotto nel fatto poetico è cosa che possiamo
osservare anche nell’opera di Pirandello. Il suo concet¬
to della scomposizione della coscienza, che rispondeva
molto bene a ciò che succedeva in Europa nel periodo
dell’inflazione, quando non c’era cosa che avesse più
un valore in sé, e tutto prendeva il valore che per un
attimo le apparenze gli davano, e tutto pareva in balia
delle apparenze, l’avete visto interpretato ottimamente
dalla Compagnia Bragaglia, l’altro giorno qui al Muni¬
cipale, nell’umanissimo Tutto per bene. Il concetto
drammatico della memoria nella mia poesia ha questa
differenza: oppone a se stesso, la fede ferma nella vo¬
lontà dell’uomo.
Il pittore impressionista cercava in tanti attimi di
luce creatori d’un oggetto, l’attimo che glielo creasse in
modo più impressionante, e s’intenda per impressione,
Conferenze 1924-1937 359

un’impressione di piacere. Il pittore cubista cercava


nella durata degli oggetti di astrarre quei puri volumi,
quei puri rapporti di piani che potessero suggerirgli
una costruzione armoniosa. La poesia pura da Mallar¬
mé a Valéry ha cercato l’evocazione da parole accosta¬
te e fra di esse combinate nel loro valore oggettivo di
senso e di suono. È una ricerca petrarchesca, salvo in
questo: che l’attenzione è quasi interamente spostata
dall’intuizione all’espressione. Il difetto di quei due
poeti, sebbene siano arrivati ad opere di altissimo to¬
no, sarebbe al lume di Vico dovuto, non alla loro an¬
goscia di purezza nell’espressione, quanto al loro tra¬
scurare interamente il processo morale al quale tale pu¬
rezza deve collegarsi per essere veramente tale. Parreb¬
be il medesimo difetto dei Cubisti e degli Impressioni¬
sti; ma in realtà il peccato di queste due scuole si pre¬
senta in termini alquanto diversi, e li abbiamo indicati.
Piuttosto dobbiamo osservare un’altra cosa: Cubisti,
Impressionisti, Poeti puri parlano di piacere estetico,
come ne parlavano anche i teorici del Rinascimento. Il
piacere estetico esiste, difatti. Un’opera d’arte che non
lo comunicasse, non sarebbe un’opera d’arte. Anche
una scena orrida, se in essa circoli la forza dello stile,
non per la sua orridezza, ma per lo stile, dà un pia¬
cere estetico. Noi non possiamo entrare a ragionare sta¬
sera intorno a ciò che è o non è lo stile. Si può dire che
c’è stile quando in un’opera sia perfettamente raggiun¬
ta l’identità fra espressione e intuizione. Negli altri ca¬
si ci sono incertezze di stile, ci sono parti riuscite e par¬
ti no, c’è allora uno stile frammentario, ecc. In queste
cose, si può anche nascere; ma è quasi sempre quistio-
ne di lunga educazione. In ogni modo, quello che vole¬
vo tornare a dire, riferendomi alle mie osservazioni a
proposito del saggio del Caillois, è che il fatto del pia¬
cere estetico non è affatto né astorico né antistorico, né
quindi in contraddizione col concetto vichiano di mito.
L’idea della purezza è precisamente uno dei miti del-
360 Giuseppe Ungaretti

la poesia moderna italiana, perché appunto tiene conto


del valore estetico della poesia, ma anche perché nello
stesso tempo usa la poesia come un atto di purificazio¬
ne morale. Se la poesia non fosse per il poeta atto di
progresso nella conoscenza morale, se la poesia non gli
servisse di costante perfezionamento morale come uo¬
mo, egli non sarebbe un poeta ma un perdigiorno.
Il Manzoni in uno dei suoi tanti scritti sulla lingua,
in uno scritto teoretico - perché è su quelli di indole
pratica dove è difficile non essere in disaccordo con lui
- in un suo scritto teoretico dove invece il suo pensie¬
ro è lucidissimo, nel suo dialogo dell’Invenzione, reso
pubblico nel 1851, e tutto portato a luce a confronto
del pensiero d’un filosofo come il Rosmini al quale
s’era in quegli anni strettamente legato, sostiene come
la lingua non possa essere considerata se non come ri¬
velazione. Se la lingua - osserva - riassumo il suo pen¬
siero - esprime il nostro mondo morale, essa è rivela¬
zione. Come? Perché? Se è mondo morale, soggiunge il
Manzoni, tutto prima d’essere nella mente umana, è
dall’eterno nella mente divina. Quindi l’uomo, quando
è uomo, quando ha coscienza del bene e del male, ha
rivelazione di questa coscienza perché ha imparato a
dire, dopo essersele duramente foggiate, le parole che
gliela esprimono, che gliela rivelano. Dunque la parola
da puramente estetica, come era nel Rinascimento, sta
diventando - come intravvede il Manzoni - parola sto¬
rica considerata nel suo valore estetico; dunque la pa¬
rola dal suo valore assoluto di ente del bello che aveva
nel Rinascimento accede ad un valore considerato in re¬
lazione alla qualità morale di chi l’esprime.
Sono cose facili a dirsi; ma col Romanticismo è inco¬
minciata una vera tragedia della parola, che perdura, e
alla quale si cerca di portare ogni giorno qualche rime¬
dio. Forse oggi, col valore nuovo che si dà al mito, il
rimedio definitivo sta per essere trovato. Come avrete
rilevato dagli stessi termini del pensiero del Manzoni
Conferenze 1924-1937 361

che ora v’ho citato, la tragedia è stata determinata dal¬


lo stesso pensiero di Vico intorno al perire, e non c’è
da stupirsene, il pensiero d’un genio precorrendo i
tempi. E come aveva preveduto e annunziato la cata¬
strofe, così, in quel termine fortunato di rivelazione
che usa il Manzoni, sono contenuti e fusi quel suo con¬
cetto di morale e di mito - di intuizione e di espressio¬
ne, dirà il Croce - che il fatto artistico per essere tale
deve incarnare.
Per fare uij ultimo esempio: oggi si sente tanto que¬
sto bisogno di rivelazione che i Surrealisti in Francia
hanno pensato di poterci arrivare, cercando un linguag¬
gio che fosse in diretto contatto coll’inconscio. Hanno
trovato la scrittura automatica. Hanno commesso, rove¬
sciandolo, il medesimo errore dei Futuristi. Per i Futu¬
risti, occorreva imitare il cieco oggettivo, per i Surrea¬
listi occorre imitare il cieco soggettivo. In realtà i mi¬
gliori Surrealisti s’accorgono poi della memoria, e scri¬
vono allora perfino con troppa cura e razionalità, e di¬
rei quasi con preziosità e leziosità.
La tragedia della parola è segnalata e avvertita da
ogni parte. Il finissimo Bontempelli, in un discorso sul¬
la musica, tenuto a Roma ai primi di quest’anno, dice¬
va: « L’opera scritta è in un certo modo fatta di due
piani paralleli - il piano della parola e il piano delle co¬
se - e da ciò nascono tante confusioni ed errori ed ar-
bitrii che si commettono di continuo nel giudicare
un’opera scritta. L’ideale supremo dello scrittore è sa¬
per talmente accostare l’uno all’altro quei due piani
paralleli, ch’essi alla vista si confondono in uno; pare
che parola e cosa si scambino di continuo i loro influs¬
si e i loro dominii; ma la duplicità sussiste, e questa è
la tragedia dell’arte dello scrivere ». Per me non è que¬
sta la tragedia; per me la tragedia è nel trasformarsi
della parola in rivelazione: tutto il tormento dell’arti¬
sta è lì: ed è ciò che fino dal 1917 in volume, e prima
ancora nelle riviste, ho sostenuto cogli esempi e con
362 Giuseppe Ungaretti

piena coscienza; e da questa affermazione e dimostra¬


zione ho visto nascere la nuova poesia italiana; e sento
fermamente che è poesia sulla strada della verità. Non
ci sono due linee parallele fra le cose e le parole: le
cose, quando le guardiamo, non sono già più esterne,
sono già in noi, sono noi: ed esse tornano esterne, col¬
le nostre parole, vi tornano trasformate da cose mate¬
riali in cose morali.
Anche Orestano, in un suo acuto scritto di pochi
giorni fa, parla di tragedia della parola: « La parola »
scrive « che per millenni è stata onorata come deposi¬
taria di tutta l’ontologia, oggi è stata detronizzata dal
suo millenario soglio teoretico. Teoricamente essa non
significa più nulla: è nulla più che un simbolo, un con¬
trassegno, una convenzione senza alcun legame intimo
e necessario con le esperienze che esprime. Ma quanto
più questo rapporto teoretico tra la parola e l’oggetto
indicato è venuto meno, tanto più si è ingrandito il suo
ufficio soggettivo di espressione dei valori umani ».
Teoricamente, affermo invece, essa torna a significa¬
re qualche cosa. Poiché finalmente - e sarà l’onore
della nostra generazione - il messaggio di Vico è oggi
integralmente accolto. Dice bene Orestano: l’ufficio
soggettivo della parola, il suo ufficio di espressione dei
valori umani si è ingrandito. Ma per questo suo diver¬
so possesso da quello del Rinascimento, essa non ha
perso affatto il suo soglio, l’ha soltanto spostato. Le. ri¬
flessioni d’Orestano mi richiamano in mente ciò che
mi diceva una volta un giovane scultore. Mi diceva:
Michelangelo vedeva statue prigioniere in ogni blocco
di pietra che incontrava ed era preso allora dall’impa¬
zienza atletica di liberarle a furia di scalpellate. Per
noi invece, la scultura riempie il vuoto che invochi
un’apparizione. Ecco infatti non più la tragedia della
parola, o ancora tragedia in quanto la vita è sempre
tragica; ma ecco la potenza dell’arte moderna.
SAGGI E SCRITTI VARI 1943-1970
a cura di Mario Diacono
.
Classici


COMMENTO
AL CANTO PRIMO DELL’« INFERNO »
[1952]

Il primo effetto che fa, mi pare, la Divina Commedia,


è, per l’ansia che la percorre dal primo all’ultimo verso,
di stupenda inesorabilità. C’è innanzi tutto da attestare
Iddio: non un feticcio; ma il sommo intelletto cui, dal¬
l’eterno, è presente l’Uomo, cioè un universo in ordine,
un universo giudicato. Misurati da quella sommità, gli
eroismi umani, le abiezioni umane, tutti gli atti umani
appaiono collocati per sempre, nella sua realtà vera al
giusto grado, ciascuno. Non credo si conosca, nella let¬
teratura delle genti europee, dopo il Gorgia platonico,
rappresentazione della giustizia frutto d’un sapere più
preciso e vasto, mossa da una fede più poetica, più co¬
raggiosa e, posso dirlo? più fanatica. Si tratta della giu¬
stizia attiva dalla quale unicamente, avendone chiara
coscienza e contemplandone i segni, può scaturire la
musica spirituale che sale verso la sua suprema libera¬
zione e purezza.
Il non essere in possesso d’una coscienza così fatta,
sarebbe ritenere che, nelle sue misure, la giustizia pos¬
sa essere priva di giustizia. Sarebbe priva di giustizia,
la nostra giustizia, la giustizia di noi all’opera nello spa¬
zio e nel tempo, se, dalla confusione, dall’agitazione, dal
travaglio, dal dramma, dalla « selva oscura » della no¬
stra vita carnale e della nostra vita storica non sapessi¬
mo, non desiderassimo e almeno non tentassimo di tra¬
sferire i nostri atti nell’assoluto cercando in qualche
modo di vederli come appariranno nudati, valutati e
classificati da un arbitro infallibile, al compimento dei
secoli, in una, finalmente possibile, generale e ultima
368 Giuseppe Ungaretti

sistemazione di ciascuna umana persona e di tutta l’u¬


mana storia.
La giustizia in assoluto sarebbe, in altri termini, va¬
no parto di delirio, se il millenario sentire e immagina¬
re e speculare dei poeti e dei filosofi non l’avesse invo¬
cata per chiarire al sentimento, al pensiero o alla fanta¬
sia, la causa e il fine universali dell’uomo: la sua pura
libertà e felicità - e se la speranza di giustizia non si
scoprisse costante nell’attività morale dell’uomo: la te¬
sa speranza anche a conseguimento terreno d’una sorte
degli individui nelle società temporali, degna della per¬
sona umana.

Dante non è di quelli che dovendo fabbricare una


cosa incomincerebbero dal tetto, e sa, e mostra, doven¬
doci spiegare l’uomo, che l’uomo è, nel suo slancio
verso un supremo riferimento e nell’umile accoglimen¬
to del suo universale destino storico, innanzi tutto ap¬
palesato a sé dalla sua natura, da ciò che gli è, in giro
a sé nello spazio e, dentro la sua carne, nel succedersi
delle generazioni, « sensibile » e « corruttibile »:

Tu dici che di Silvio il parente,


Corruttibile ancora, ad immortale
Secolo andò, e fu sensibilmente.1

Si fa narrare da Virgilio:

Di poco era di me la carne nuda..?

Tale è l’estrema nudità: è estremo tenebrore, estre¬


ma oscenità, estrema pietà, se un corpo oramai, l’anima
essendosene disciolta, sia cadavere, ridotto sia a sola
materia.
Ma ne resta tra noi l’ombra: l’ombra del corpo qua¬
le esso fu vivente, il clamore d’oltretomba delle anime
impazienti di ricongiungersi ai loro corpi, corpi final-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 369

mente, consumatisi i secoli, liberi di materia, e si ha,


per tramite timido di ombre superstiti in mezzo a noi,
consapevolezza della magia della parola che lega dal
primo all’ultimo giorno del mondo tutta la umana fati¬
ca: si ha, ecco, memoria, e ecco che di nuovo spunta
il giorno, che di nuovo i macigni si ergono e acquistano
spigoli, durezza, quantunque le velature del passato ab¬
biano da principio - e direi che la luce non riesca mai
a dissolverla molto - tanta sconcertante aihbiguità. Stu¬
piti, trepidi e teneri, ecco che gli sguardi riprendono,
da remoti sembianti, a interrogarsi negli occhi; ecco,
dal primo all’ultimo giorno del mondo, il fratello che
è belva al fratello; ecco che tra i vivi e i morti si pro¬
segue il dialogo, e che, tra la natura e l’uomo, ha luogo
il legame storico, e che non perisce mai l’arte di

... Eriton cruda


Che richiamava l’ombre a! corpi sui?

Sa Dante che per conoscersi l’uomo anzitutto è por¬


tato a chiarire a sé la sua esperienza secondo i dati che
gli vengono dai propri limiti terreni, i limiti di spazio
e di tempo, i naturali limiti « sensibili » e « corruttibi¬
li » e sa - Eriton è in noi - che il tempo sarà per pri¬
mo presente all’uomo, poiché è il suo segno tragico che,
dall’interno, dal segreto, sino dal seme, e sino alla
morte, gli scandisce l’esistere individuale; ma, per
averne coscienza, per distinguerne dalla notte le om¬
bre, occorrerà prima possedere misura umana dello
spazio.
Di conseguenza, la prima cura di Dante sarà, nella
prima parte del primo canto, di mostrare come tutte
le cose naturalmente siano attratte dalla rivelazione ti¬
sica che il sole produrrà sorgendo, e come sia l’uomo
nel medesimo tempo attratto anche dalla grazia divina
che è nella bella armonia del creato e che, sorto il so¬
le, gli sarà allora con lo spazio manifesta. Lo spazio
370 Giuseppe Ungaretti

natyralmente fomenta il primo slancio poetico dell’uo¬


mo, muovendo a sentire aspirazione a libertà.
Dunque il primo modo di co/ioscere dell’uomo è la
poesia: è il suo modo innato di avere nozione di ciò
che nella natura sua permane immortale, e vedremo
che sarà anche il suo supremo modo, quando l’uomo
stesso avrà saputo fare in sé luce completa sino a im¬
medesimarsi nella poesia ed essere, per conseguita po¬
tenza morale e per possesso di chiaro intelletto, un li¬
bero uomo. Da principio la parola per l’uomo era poe¬
sia, e, sofferto, dichiarato, isolato e superato ogni male,
dall’uomo rivestita l’originaria, musicale purezza/per
l’uomo la parola sarà più che mai luce, poesia.

Nel punto dove il primo canto si divide in due parti,


e il sentimento del tempo ha, sibillino, il suo fremito
iniziale nella coscienza dell’uomo con l’apparizione del¬
le tre fiere successive, supposte da Dante nel muoversi
equivoco di volumi particolare a quel momento del
giorno quando la luce sembrando ancora non essere se
non guasto di tenebre, la notte può nei suoi inganni
raffinarsi e falsare la stessa luce. In quel punto, senten¬
do il prestigio della natura offuscarsi in modo luciferi¬
no e mostruoso, un’immagine ci viene incontro dov’è
di colpo reso quanto occorre spiegare:

Mi ripigneva là dove ’l sol taced

Il sole tace? Certo il sole parla, ed è buona occasio¬


ne per soffermarci sul valore che Dante dà all’atto del¬
la parola. Il mondo è vuoto, c’è solo il primo moto pro¬
spettico del canto in ombre indistinte nel silenzio, c’è
solo il perenne Enea che tocca ancora terra: c’è solo un
uomo, il nuovo Enea da cantare, in mezzo al suo anco¬
ra oscuro destino, ed ha con sé, ombre confuse nelle
ombre, non ancora nominati l’antico Enea e Virgilio, il
maestro che, tramite la Divina Commedia, in miracolo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 371

di poesia allaccerà la fatica dei due protagonisti di sto¬


ria.

E come quei che con lena affannata


Uscito fuor del pelago alla riva
Si volge all’acqua perigliosa e guata...

Ma ancora l’ora è senza storia, se non latente, anco¬


ra a sé stesso il naufrago è solo il naufrago che ancora
non s’è riavuto d’essersi dibattuto colla burrasca; è an¬
cora l’assonnato, il « pien di sonno » che si sta sbro¬
gliando dalla notte, trattenuto nella sorpresa del risve¬
glio. È l’ora deserta in mezzo alla quale, solo, sta un
uomo; e, nella solitudine desolata, aggrovigliata, cieca,
c’è il sole che svela il groviglio, la desolazione, la ceci¬
tà, che propaga a grado a grado, fra il moltiplicarsi del¬
le titubanze, la sua luce, e ci sono le cose, per la luce
del sole che sta suscitando il modo d’essere apparente
di ciascuna: le cose che s’impazientano, che fanno pre¬
mura all’uomo perché egli ad esse dica il nome di cia¬
scuna, parli per esse: ci son le cose che per l’uomo di¬
scorrono e gridano prima ancora che possa vederle e
che la lingua gli si possa sciogliere. Più tardi, e non
molti lustri dopo Dante, sapremo che la natura vuota,
l’aveva riempita l’uomo umanizzandola, popolandola di
nomi quasi avesse creato il mondo lui. E nemmeno
questa era trovata di superbia della quale l’uomo già
non si fosse vantato, e anche in tempi non lontani da
Dante, e il Cavalcanti, Dante usava ascoltare anche se
taluni convincimenti ne riprovava. Ma che avrebbe det¬
to Dante se avesse previsto che ci sarebbe stato il ba¬
rocco, e secoli di disperazione anche più nera, e che un
giorno, dal groviglio di contraddizioni, sarebbe sorto il
convincimento che i nomi non sono se non « meri acci¬
denti ». La parola, che avrà sommamente per Dante il
valore di segno ascendente dell’intelletto e di duro
strumento della passione morale, gli giunge, per iniziar-
372 Giuseppe Ungaretti

lo a* umanità e a poesia, anteriore all’uomo stesso, sacra,


radicata nel mistero della natura, sostanza stessa della
coscienza, anche se essa non sarà profferita dall’uomo e
non sarà da esso udibile se non quale umano strumento
della storia.

... 7 sol tace:

sensi e coscienza accostati bruscamente, quasi senza la¬


sciare tempo alla durata; e tanta immediatezza afferma¬
ta proprio nel momento in cui sta per affacciarsi alla
mente la storia.
Tale la parola per Dante: arriva, sebbene saggia,
d’impeto al primo piano, divorando, abolendo quanto
nel suo intervenire non sia il proprio rivelare; e così,
subitanea, irrevocabile, essa si era poco fa addensata e
pietrificata con la malìa e con l’orrore irrotti insieme al¬
le tre araldiche bestie mentre esse egli indovinava.
Anche dunque la storia, e la malinconia che proprio
il suo tempo, il tempo di Guido Cavalcanti incomincia
a conoscere: anche la malinconia portata dalla storia
alle cose, anche il tempo e la sua malinconia, poiché
non può evitare il tempo la sua condizione di essere il
segno del perire, del perire al quale Dante anzi toglie
ogni velo - anche la storia veduta nella sua malinconia
- come apparve quando ci ricordammo di « Eriton cru¬
da », l’evocatrice - si convertirà, nella parola dantesca,
a incarnare aspetti dell’attività umana definiti per sem¬
pre.

A sfondo del primo canto, emergente dalla notte, in¬


triso di notte e tutto echeggiante e intimidito di not¬
turno orrore - gli oggetti dello spazio sono veduti, e
fermati per sempre, nel continuo mutamento che ad es¬
si reca fuggendo l’attimo, ed è talmente intensa la real¬
tà del mutamento, è con tanto precisa e tanto delicata
certezza colta, da farci avere per un momento voglia
Saggi e Scritti vari 1943-1970 373

d’asserire che alla fama di Dante potrebbe bastare la


sua perfezione d’arte nell’esprimere, rivaleggiando col
sole, la sfumatura fisica d’ogni fuggente attimo; ma

...’l sol tace.

L’uomo, la luce del sorgente sole giungendogli, la ve¬


de, la sente, come gli altri animali, come tocca di sen¬
tirla a ogni nato; ma egli di più per essa ha in sorte di
sentire un’altra luce, di vedere che, egli presente, il ba¬
ratro va annientandosi; di vedere ch’egli, dal baratro in
dissolvimento, è emerso, e che si va estendendo attorno
un ordine alto: il fine dell’uomo è così tracciato in una
linea verticale, all’infinito, dall’imo del baratro all’em¬
pireo, ed è ansietà di divenire opera in armonia, per
ordine e per luce, con la bellezza dell’universo, il pri¬
mo moto umano: è la speranza dell’altezza. Per uno di
quei prodigi che sa la poesia, che la poesia dantesca sa
meglio d’ogni altra, noi allora vediamo un paesaggio
descritto in diverse progressive fasi, fatto passare dal¬
l’inconscio sonno alla sonnolenza intricata, all’alba va¬
cillante, e tutto accorso e confluito e transfuso d’im¬
provviso in quell’ergersi d’uomo speranzoso d’altezza,
il quale si manifesta allora quale esso è, manifestando
come l’universo attorno a noi non sia se non svariare
all’infinito d’allusioni allumano e non possa insegnare
se non a imparare a ristabilire un rapporto fra l’effime¬
ro e l’eterno.
Nella sua prima esperienza d’ordine naturale, nell’e¬
sperienza spaziale, con propri mezzi, con la sola sua
« sensibilità » l’uomo conquista la sua prima misura, e
impara, in seguito al primordiale moto di poesia dell’es¬
sere umano, che in sé possiede un’umanità da conqui¬
stare e un’animalità con i suoi inganni, i suoi appetiti,
la sua aggressività, il suo orgoglio, la sua voracità e la
sua avarizia, da castigare, da frenare e da guidare, da
moderare, da dominare. L’uomo è innanzi tutto uomo,
374 Giuseppe Ungaretti

perohé in sé sa distinguere dall’uomo, la bestia, perché


è responsabile dei propri atti. Incomincia ad essere
uomo, ad essere poeta, quando 'ha fatto in sé qualche
luce, quando in sé ha rotto e annientato l’inconscio
della bestia. Una bestia può essere lussuriosa, prepoten¬
te, avida, rimane bestia. La bestia è in sé compatta,
opaca, cieca. È nella sua condizione di bestia non sape¬
re d’essere bestia. Ma se un uomo fa così, se gli viene
a mancare la « speranza dell’altezza », da sé si destitui¬
sce dalla dignità d’uomo, e ricade nel fìtto delle tene¬
bre, e rinunzia alla libertà dei suoi atti, e ricade nel¬
l’inestricabile imbroglio della bestialità.

In un clima di paura s’è aperto il canto: tre volte


verrà ripetuto il vocabolo « paura », prima che la lon¬
za appaia: « paura » per via della « selva, selvaggia e
aspra e forte »

Che nel pensier rinova la paura!

che

Tant’è amara che poco è più morte;

ma la « selva » già s’è mutata, per l’iniziato diradarsi


della notte, in « valle », in una « valle »

Che m’avea di paura 7 cor compunto.

quand’era « selva »; e, la « paura » essendo in declino,


già si scorge che la « valle » si distacca da un « colle »,
già toccato, già vestito dai raggi:

Allor fu la paura un poco queta


Che nel lago del cor m’era durata
La notte eh’ i’ passai con tanta pietà.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 375

È impossibile essere meglio ispirati dovendo descri¬


vere le fasi d’un animo nel suo minimo variare, com¬
preso quel perdurare in noi dell’effetto d’una scossa
emotiva anche dopo Tesserci accorti che ne era da
qualche tempo cessato il motivo:

Così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,


Si volse a retro a rimirar lo passo
Che non lasciò già mai persona viva.

In quel momento il poeta si rende conto che la piag¬


gia è « diserta »:

Ripresi via per la piaggia diserta,


Si che ’l piè fermo sempre era ’l più basso,

e, nel silenzio, e nel deserto, solo ci accompagna e ci ri¬


mane impresso un ritmo di passo:

Si che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

In quel momento, nel luogo deserto e silente, dove


le cose parlano mute, parlano solo agli occhi, e dove
uno, uno che ha « la speranza dell’altezza » è avvia¬
to a salire, s’insinua agile, flessuosa, lieve movenza:
balena in quel momento — è la lonza — invito del ma¬
le dalla lussuria delle screziature che turbano la luce
ancora ambigua, la luce, per illusione prodotta da
« macchie », « gaetta » di pelle, la luce di « pel ma¬
culato », la luce ancora da oscuri raggiri osteggiata.
Ma d’un subito, il giorno tutto chiaro vince: l’in¬
nocenza del creato, alta di contro ai sortilegi della
subdola felicità, è più sorprendente.
Le altre due fiere appariranno più tardi, segnando
esse il passaggio dalTanimo contrastato tra appetiti
materiali e desiderio di poesia, all’animo già pronto
376 Giuseppe Ungaretti

a fare storia, a definirsi per sempre con le opere nel¬


la drammatica prova temporale.
Le tre fiere - lo abbiamo visto all’apparire della
lonza - appaiono spettralmente, e non sono se non
suggerimenti che dagli occhi si distacchino per vaga¬
re nella riflessione, e non sono se non il riflesso d’e¬
sperienza che il ricordo rinnova, e perciò sono anche
simultaneamente scultura apocalittica posta per sem¬
pre a sorreggere, vinta, un’immane testimonianza: so¬
no esse trapasso fulmineo d’ombra di forme, e sono
un pieno rilievo ricavato con veemenza di colpi da
durissima roccia, poiché Dante fa anche i conti con
la materia, ed è proprio della sua arte di mostrare in¬
sieme al perseguirsi e al comporsi delle idee, la ma¬
teria riottosa alle prese con l’anima e dall’anima sog¬
giogata e modellata. È l’anima la forma corporis, l’im¬
mortale principio plasmatore in piena libertà, ed è
essa tanto più libera, tanto vuole farsi più libera,
quanto meglio si sia abilitata a giudicare qualsiasi al¬
trui forma del corpo, qualsiasi altrui anima, avendo
imparato a vederla come realmente è, per aver impa¬
rato a vedersi e a farsi migliore. Come la luce fisica,
che svela agli occhi i corpi, e, secondo la sua dose di
chiaroscuro, li svela peggio o meglio, un’anima, se¬
condo la sua viltà o la sua nobiltà, è al suo corpo di
persona umana, forma ripugnante o forma sublime.
L’arte, in tali condizioni, è una fatica d’Èrcole. È
sempre una fatica d’Èrcole. Ma sono specialmente fa¬
ticose le straordinarie condizioni di quel secolo, nel
quale, franta l’astratta fissità dei moduli, lo spazio e
il tempo hanno fatto la loro ricomparsa suggestiva, e
1 uomo, nel « sensibile » e nel « corruttibile », è tor¬
nato a tormentarsi, e quel tormento reputa l’unico
modo terreno valido a esprimersi cercando l’Eterno.
Come mai aveva fatto a non più riferirsi ad essi, al
« sensibile » e al « corruttibile », se essi recano im¬
pronta d anima? La novità del secolo è in questa im-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 377

portanza data al « corruttibile » e al « sensibile ». L’E¬


terno - attesterà quel secolo - si manifesta non solo
nell’inconoscibile, attraverso la rivelazione della Gra¬
zia e l’autorità della Scrittura, ma altresì nell’esperien¬
za naturale della stessa creatura, nell’esperienza poeti¬
ca, o politica, o filosofica. È fatto così quel finire d’evo
nel quale Giotto riscopre la sensibilità volumetrica e,
nel dramma spaziale dei corpi, la durata terrena del¬
l’uomo - il tempo, il tempo fonte d’eroico vivere, al¬
tra funzione non avendo se non di segnare caducità.
Non dimenticberò mai quelle braccia'del Cristo degli
Scrovegni che si allargano a stringersi sul petto un
Giuda enorme come un monte. E che importa che
Giuda stia per tradire - supera tutto, la gioia di quel
Cristo giottesco che, nella bontà scavando le fonda-
menta della giustizia, finalmente ritrova nella consi¬
stenza corporale dell’apostolo traditore, la nostra ma¬
linconia: è un Cristo d’una bontà inuguagliabile, tale
che nemmeno la più tetra ingratitudine potrebbe per
contrasto darne la misura. Una giustizia, fondata su
tanta bontà, non potrà, venuta l’ora di non essere più
se non la giustizia, non essere terribilmente inesora¬
bile verso chi non ebbe cura, stolto o ribelle, di farsi
partecipe dell’Amore che la muove e la regola.
Il Cristo terribile ce lo farà vedere due secoli dopo
nel Giudizio Universale, il migliore interprete di Dan¬
te, Michelangelo.5

Quando accenna alla veste di raggi sul colle e qua¬


si sembra il colle palpare per definirne la corporale
consistenza, quando indica come il colle si era d’im¬
provviso separato dalla valle, quando mostra come il
pendio verso l’alto si era di colpo mutato in erta via,
e in molti altri esempi nel primo canto, ogni volta che
occorra, e, sempre in tutta la Divina Gommedia, Dan¬
te impiega sempre, a circoscrivere gli aspetti dello
spazio, le tre dimensioni, e le impiega con strenua
378 Giuseppe Ungaretti

energia o con somma delicatezza, ma con lo stupore e


l’entusiasmo che offre di solito la novità d’un mezzo.
9

Ecco il secolo: un secolo che è entrato nell’ordine


di misure spaziali e temporali che s’è detto: misura
per misurare le possibilità dell’anima umana, s’inten¬
de, quando, su di esse, s’avventura Dante a articolare
l’arte sua.
Quando Virgilio apparirà a Dante, sarà precisamen¬
te il momento scelto da Dante per segnalare come ci
sia rapporto tra l’esperienza sensibile e l’esperienza
temporale: sarà il momento nel quale all’uomo si farà
palese la necessità di legare il proprio sentire al vo¬
lere e all’agire. Dante, per ragioni di logica poetica,
immaginerà di essere solo allora in grado di vedere
Virgilio, che pure era da un pezzetto presente nel
primo canto: era presente - l’abbiamo a tempo debi¬
to fatto osservare - ombra indistinta accanto all’om¬
bra del naufrago Enea, anch’essa ancora indistinta -
era presente sino da principio, sino da quando Dante
si ritrova « per una selva oscura », recando in sé - nei
sensi, nel sentimento, nella fantasia e nell’intelletto -
la figura dell’Enea nuovo, già per maturità di tempi,
sorto sulla terra: 1300 anni potevano considerarsi il
« mezzo del cammin di nostra vita », tanto l’Era nuo¬
va aveva oramai saldezza di corpo, connotati sicuri,
tanto era ormai civiltà amalgamata nei molteplici lie¬
viti.
Il profilarsi di Virgilio, sciogliendosi finalmente dal¬
l’ombra, è momento di grande poesia. È il terzo mo¬
mento di grande poesia di questo canto; e appunto
il primo era quello che aveva alluso all’approdo d’Enea
antico alla sua terra promessa:

E come quei che con lena affannata


Uscito fuor del pelago alla riva
Si volge all’acqua perigliosa e guata,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 379

Così l’animo mio, eh’ancor fuggiva,


Si volse a retro a rimirar lo passo
Che non lasciò già mai persona .viva.

Riepilogando quanto già esposto nel nostro discor¬


so, il primo momento era l’attimo oscillante tra l’orro¬
re per la notte in fuga e lo stupore per il giorno non
ancora irrotto, ancora segreto, ma già presente; era l’at¬
timo tutto allibito per l’incredibile distacco, tutto per¬
corso e tutto turbato per le ombre d’un passato re¬
cente, che s’allontanavano, era l’attimo quando, av¬
vertendosi il moto confuso delle cose e dell’animo, i
quali, all’annunziarsi della luce, in sé vedono la fine
della notte persistere in un vagamento d’ombre, in
una perplessità - arriva quel verso, ottimo di timbro
e di ritmo, dove si narra del calmarsi delle cose e del¬
l’animo nell’invadente luce:

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso...

Il secondo momento era quello dove l’uomo, per


esperienza sensibile scopriva il fine umano e gli na¬
sceva la « speranza dell’altezza »; dove, la vista della
« fera alla gaetta pelle », gli era cagione a bene spe¬
rare poiché non appena era stata dalla luce agli appe¬
titi fisici rivelata « leggiera e presta molto », la mede¬
sima luce rivelava all’anima la « speranza dell’altezza »:

Temp’era dal principio del mattino,


E ’l sol montava ’n su con quelle stelle
Ch’eran con lui quando l’amor divino

Mosse di prima quelle cose belle;


Sì ch’a bene sperar m’era cagione
Di quella fera alla gaetta pelle

L’ora del tempo e la dolce stagione...


380 Giuseppe Ungaretti

Le lusinghe piacevoli al disordine e al caos che lo


spazio offriva, trovavano, per naturale contrasto, nello
spazio stesso l’armonia del creato quale esso creato
possedeva uscendo dalle eterne mani nella prim’ora
della primavera del mondo:

Temp’era dal principio del mattino,


E 7 sol montava ’n su con quelle stelle
Ch’eran con lui quando l’amor divino

Mosse di prima quelle cose belle...

Dunque il fatto stesso che l’illuminazione poetica ri¬


corra, per farsi intellettivamente percettibile, a un
paragone antitetico, dimostra che contemporaneamen¬
te ha inizio il percepimento del dramma umano. Si
tratta difatti d’un’esperienza drammatica poiché si svol¬
ge, quantunque l’anima sia immortale - poiché si svol¬
ge, e già più d’una volta se n’è accennato, nella dura¬
ta, nel perituro: nel « corruttibile »; e, nel dramma,
nella storia, nel dare ai rapporti con se stesso, colla
società, forma alla propria umana persona che non sia
indegna dell’immortale bellezza originaria della divina
idea dell’Uomo, va elaborandosi e si confessa l’umana
responsabilità d’ogni singolo uomo. Della responsabi¬
lità, Dante discorrerà nel secondo canto cogliendo in
sul suo umanamente nascere, l’attività morale.

Come assorbendo gli incanti di perdizione della


sparita lonza, mentre il poeta è rapito da bellezza con¬
templando mattutine e virginee,

L’ora del tempo e la dolce stagione,

appare la seconda fiera: il « leone », e a quel balzo


dell’orgoglio ritorna nel creato, notturna confusione e
la « paura »:
Saggi e Scritti vari 1943-1970 381

Ma non si che paura non mi desse


La vista che m’apparve d’un leone.

Udite, a ribadire una precedente osservazione sul¬


l’eloquio dantesco, il terrore come simultaneamente si
sparga da un fluttuare d’animo a un violento, incan¬
cellabile, sagomare oggettivo:

Questi [il leoneJ parea che contra me venesse


Con la test’.alta e con rabbiosa fame,
Sì che parea che l’aere ne temesse.

L’« aere » è dunque di nuovo contaminato dal ti¬


more, come l’animo di nuovo si guasta per « paura »;
ma non basta: ecco apparire anche la vista « d’una lu¬
pa che di tutte brame »

Sembiava carca nella sua magrezza


E molte genti fé già viver grame,

Questa mi porse tanto di gravezza


Con la paura eh’uscia di sua vista
Ch’io perdei la speranza dell’altezza.

Già è entrata apertamente in scena la storia, è en¬


trata per allusione a orrori:

E molte genti fé già viver grame...

La « lupa », la bestia che ha ventre « sanza pace »


munto dall’avarizia e che è ormai sola a incutere « pau¬
ra », sparito anche, non si sa come, il « leone »: la
« lupa », ormai come se dal « leone », dall’orgoglio,
procedesse - la « lupa », sola oramai, assommando nel¬
la propria natura i peggiori impu'si dell? lussuria e
dell’orgoglio e dei molti altri « animali a cui s’am¬
moglia », a poco a poco,
382 Giuseppe Ungaretti

' Mi ripigneva là dove 7 sol tace.

Terzo momento di poetica béllezza è quello appun¬


to nel quale al poeta si presenta la naturale nozione
dell’Eterno per luce venuta all’intelletto dall’esperien¬
za storica:

Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco


Dinanzi alli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea foco.

Quando vidi costui nel gran diserto,


« Miserere di me » gridai a lui,
« Qual che tu sii, od ombra od omo certo! »

Il creato è tornato in rovina, è tornato a straziarsi


negli effetti del buio e della « paura », la poca luce è
sbranata dalla tenebra poiché nemmeno la bestialità
peggiore può mostrarsi senza un po’ di luce, e l’ani¬
mo del poeta crolla in quella rovina, crolla dall’« al¬
tezza della speranza ». Ma di uno — sarà il secondo mi¬
racolo della luce — di uno s’accorge in quel mentre, di
uno fiocamente apparso. Come aveva fatto Dante a ac¬
corgersi che uno, non avendo ancora mai parlato aves¬
se voce « fioca »? Lo spettacolo è tuttora spaziale, e
le cose che parlano, ancora non parlano se non per
tramite della vista: il Poeta ha appena ora finito di
dire:

...7 sol tace.

E chi ha detto che l’« ombra od omo certo » già


non avesse parlato? Un naufrago non era poco fa
« uscito dal pelago alla riva » per allusione all’ombra
dell’altro naufrago, a Enea? L’Uomo dell’Era nuova
è maturo, e già è pronto a vedere l’uomo che aveva
dato inizio mitico alle imprese che portarono, in mez-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 383

zo al cammino dell’Era antica, il mondo antico a uni¬


ficarsi per compiere i fini storici che dall’Eterno gli
erano stati affidati; e insieme a Enea, l’Uomo nuovo
è pronto a vedere, e prima che Enea chiaramente gli
appaia, chi Enea ha cantato, e l’Enea nuovo sarà l’E¬
nea nuovo perché dalla maturità che hanno i suoi tem¬
pi raggiunto, sarà stato messo in grado di misurarsi
con l’Enea antico, permettendo a Dante di misurarsi
con Virgilio.
L’Enea nuovo sta per riconoscersi mediante una
nuova conquista di misura storica, mediante una pro¬
fondità e una perizia che possono eleggersi a modello,
insieme a Virgilio, l’antico momento di civiltà più
gravido d’eventi.

Chi per lungo silenzio parea fioco...

è apparso, e tale « ombra od omo certo » è apparso


in « gran diserto ». « Piaggia diserta », aveva detto il
Poeta quando stavano per apparire successivamente le
bestie, ed era per indicare il vuoto del luogo, ma un
vuoto non ancora grande, una solitudine del principio
del mattino non interamente scoperta; a comporre in
quel momento la piaggia diserta, c’era, di deserto, la
valle, e c’erano le spalle del colle che si scoprivano
dalle tenebre dove arrivavano a coprirle i raggi. Le
indecisioni tra luce ed ombra, al nuovo rimbalzo della
luce dalla notte, al nuovo progresso dell’alba, oramai
sono state respinte molto in là e, grande - « grande »
questa volta - il « diserto » da più d’un millennio si
spalanca sino al poeta. La luce, e questa volta più li¬
beramente, ha ripreso fiato: sino al poeta inavvertita¬
mente la solitudine è appieno aperta, in fondo alla qua¬
le, varcando più di mille anni indietro, finalmente è
possibile che appaia una grande esperienza, nella poe¬
sia la grande misura della storia che pareva « per lun¬
go silenzio fioca ».
384 Giuseppe Ungaretti

Non a caso Dante usa l’aggettivo « fioca » - Dante


non fa mai nulla a caso: Dante sceglie « fioca » perché
sta per finalmente « udirvi », non più solo « vedervi »
« parola », e, nella sua ambivalenza, niun altro voca¬
bolo sarebbe più di « fioco » in quel momento neces¬
sario: per la sua debolezza ancora non è voce udita, e,
per la lontananza, ancora l’apparso si profila in debole
luce.
Per rendere sensibile la luce temporale, la luce sto¬
rica, la luce della memoria, è stato necessario al poeta
convertirla prima in luce spaziale - questa volta in
senso di misura orizzontale, dopo che in senso di mi¬
sura verticale, in mezzo a infinita più notte, aveva in
lui svegliato « la speranza dell’altezza ». Tutto è nelle
prerogative della luce che, di fatti, come dirà il Man¬
zoni, « suscita ». L’apparizione, conviene ripeterci, ri¬
sulta illuminata debolmente, « fioca » per la grande
distanza ov’essa sorge e a cui ora, per la maggiore
apertura dell’orizzonte, arrivano gli occhi. Ora la luce
ha esteso lo spazio visibile fino agli ultimi limiti, e
un uomo - poiché di ciò che è a quella distanza si
può fantasticare, e si può anche tentare d’essere indo¬
vini — vi vede anche le cose che c’erano quando lui
non c’era, e prima, e prima. « Fioco », dirà, per pre¬
cisare che si tratta di debole illuminazione, e anche
- perché no? - di debole grido, dovuti a limiti estre¬
mi di spazio; e, per accrescere intensità all’aggettivo,
accrescendo la prospettiva, abbracciando addirittura
tutto quanto l’orizzonte, fino a dove possa un orizzon¬
te estendersi - ripreso fiato soggiungerà: « Vidi costui
nel gran diserto ».
C’è dell’altro da precisare, e, prima, da insistere su
un dato: tutto avviene in questo canto, tutto proce¬
derà nella Divina Commedia, sapendo il poeta che cia¬
scuna persona umana è sola in presenza del proprio
destino, che ciascuno in smisurata solitudine di sé de¬
cide delle sue opere mediante le quali un’anima mani-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 385

festa le sue fattezze, è del corpo forma. Nel canto so¬


no progressive apparizioni in solitudine che preparano
alla grande solitudine dell’anima la quale, nel secondo
canto, sentirà la propria debolezza, e, nel segreto suo
smarrimento, e nella sua angoscia di sentirsi sola, ac¬
coglierà la Grazia, e potrà sentirsi preparata alla sacra
iniziazione, a andare come andava di « Silvio il pa¬
rente »,

Corruttibile ancora, ad immortale


Secolo,

e sarà « sensibilmente ». Avrà così inizio l’esperienza


morale che a Dante chiarirà la storia tanto da poterla
egli giudicare, giudicandosi, mostrando, compiuto il
Poema, da quale grado di coscienza entrando in lotta
sarebbe stato dominato il vaticinato Veltro, l’energia
temporale diramatasi dall’Enea nuovo.

È necessario che l’ombra di Virgilio sfiori la memo¬


ria e che, nella mente, il poeta la riconosca e le parli,
e finalmente possa udire e profferire parole udibili,
umane, rompendo il silenzio - è necessario che si
frapponga Virgilio tra Dante e la lupa, che si frappon¬
ga l’esperienza storica insigne cantata da Virgilio, per¬
ché l’Enea nuovo possa finalmente fare profezia del
Veltro il quale, davanti alla « lupa »

Che mai non empie la bramosa voglia


E dopo ’l pasto ha più fame che pria,

irromperà e la « farà morir con doglia ».


Siamo dunque giunti alla promessa della terribile
venuta e dell’elegante furia del « Veltro ».
Il « Veltro », purché non si almanacchi più del ne¬
cessario, sarà dunque da considerarsi forma dell’ener¬
gia temporale che, nell’esperienza drammatica della
386 Giuseppe Ungaretti

storia, avrà da opporsi alle forme malefiche di tale


energia, interamente compromesse in interessi mate¬
riali; e manifesterà dunque la volontà di potenza, ma
volontà benefica di potenza. Il « Veltro » è nominato
innanzi tutto per significare che, muovendosi entro le
materiali spoglie terrene, energie temporali vanno com¬
battute con energia temporale, poi per fare una distin¬
zione precisa fra storia e eterno. Il « Veltro » sarà una
forza temporale, ma formata e guidata nella sua caccia
implacabile dai fini della storia, fini d’un’umanità tesa
ad affermare l’idea eterna dell’Uomo; sarà una forza
politica; ma formata ad « umilmente » corrispondere
a fini di « sapienza, amore e virtute ».

Andiamo avanti. Quando, a proposito del « Veltro »,


il Poeta dice:

Di quella umile Italia fia salute,

a « umile » si dà a volte valore d’indicazione corogra¬


fica. È difatti anche un’indicazione corografica. Sono
difatti le rive Apule, sono difatti rive in Bassa Italia,
Umile Italia, e sono viste da lontano, sono minuscolo
segno veduto di lontano quando esse strappano a Enea
il grido: « Italia! Italia! ». Ecco comparso Enea! Enea,
l’ombra latente in ombre, il Naufrago che accompagna¬
va celato il Naufrago all’inizio del canto, ora ch’è sor¬
ta anche l’ombra di Virgilio, ora è chiaramente ombra.
E, vedete, ora che la parola umana ha risuonato, udi¬
bile, nella luce, che la storia è apparsa nella coscienza
dell’uomo come naturale nozione di decreti eterni, il
poeta e la sua memoria possono portare l’ombra per¬
sino a precedere il Naufragio, ad arretrare sino al mo¬
mento nel quale, nel grido: « Italia! Italia! » a Enea
si faceva chiara la sua missione, ed egli « umilmente »
ubbidiva alla divina ingiunzione. E subito il senso co¬
rografico di « umile », non è più un senso corografico.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 387

E già Enea è nel Lazio, già combatte: « Il Veltro ver¬


rà »,

Questi non ciberà terra né peltro,


Ma sapienza, amore e virtute,
E sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute


Per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Avete visto? Dal luogo d’approdo si torna indietro


in alto mare, dall’alto mare si va oltre il luogo d’ap¬
prodo, si è già in battaglia, già vicino alla mèta: tutto
questo spazio, e l’andirivieni, sono ottenuti con ùn
giuoco ellittico dell’espressione da fare scomparire gli
scrittori d’oggi tanto scaltri in simili destrezze.
Ma non di questo volevo parlare; ma di « feltro e
feltro ». Non mi arrovellerò a fare lo scioglitore d’e¬
nigmi; ma il « Veltro » non mirando a impinguarsi di
terre e di ricchezze, ma a nutrirsi di « sapienza, amore
e virtute », mi sembra interpretazione probabilmente
esatta ch’egli abbia da sorgere da gente che dall’umil¬
tà dell’abito - che da una consuetudine coi sogni gioac-
chiniani, direi, preannunziata nel canto dal bestiario
- dimostri di non avere altre mire se non, « sapienza,
amore e virtute »: sorgerà da gente, da Domini nuovi,
per presentare il modello dei quali la Divina Comme¬
dia verrà concepita e scritta.
Prima di chiudere, vorrei fare un’ultima osservazio¬
ne, a proposito del passo:

Di quella umile Italia fia salute


Per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Vi vediamo accomunati in una stessa gloria, gli av-


388 Giuseppe Ungaretti

versari caduti. Succede certo per l’animo cavalleresco


di Dante, e non solo è apprezzato e onorato il corag¬
gio di Camilla e di Turno, facendolo pari a quello dei
seguaci d’Enea: Eurialo e Niso - Dante vuole anche
si rammenti che una causa giusta non può trionfare,
non può dimostrare clamorosamente la sua giustizia
senza oppositori: sono gli oppositori che animano ed
incitano a chiarire, a rendere luminosa la giustizia
d’una causa: sono dunque anch’essi gli artefici del suo
trionfo.
Dante, il fanatico della giustizia, così tra ombre e
luce, sino dalle prime mosse del suo poema, riscoper¬
te, come voleva il messaggio del suo secolo, le dimen¬
sioni sensibili e corruttibili dell’essere terreno, in pie¬
tà e in nobiltà si preparava a medicare il suo fana¬
tismo.
[« TRA FELTRO E FELTRO »:
POVERTÀ, SAPERE E POESIA]
[1965]

[-]
Per arrivare a conoscere quei nostri simili che nelle
storie delle loro persone svelano in folle ciascuno l’in¬
ferno, Dante dovette inoltrarsi nella selva oscura, sa¬
lire l’aspro monte, affrontare belve inventate dal titu¬
bare e dall’oscillare di chiarori d’inganno. Quando il
naufrago fu giunto in cima, il sole un poco allora este¬
se lo spazio, ebbero le cose invito a indovinarsi il no¬
me, potè, lontana ombra nell’ombra, apparire Virgilio
insieme d poesia e a sapere che sono unica cosa.1
Nel Paradiso il sole non concede più qualche bar¬
lume a malapena, ma dentro all’intima stanza delle
sue luci, accoglie Dante e chi nei cieli lo guida e gli
porse e gli porgerà sempre consiglio, Beatrice sogno
d’amore di bellezza.
Di Beatrice, l’atto d’innalzarsi da cielo a cielo era
subitamente scorto come un volo che non cedesse a
segno di tempo, e Dante dice di non rammentarsi del¬
le immani distanze superate obbedendo all’impercet¬
tibile cenno, se non come del venire del pensiero sol¬
tanto all’arrivo, l’uomo s’avvede.
Dentro alla sfera del sole, nel quarto cielo, dal Can¬
to X al XIV del Paradiso, la poesia di Dante è mossa
alludendo a quel tumulto che dal secolo XI al XIV
scosse i popoli cristiani ansiosi di un ritorno della lo¬
ro fede alle sue origini, e di un aggiornamento, di
una semplificazione e di un approfondimento degli
studi e del sapere. La rissa parve godere di tregua
quando sorsero i due grandi ordini mendicanti dei
Domenicani e dei Francescani. Nelle liste di nomi fat-
390 Giuseppe Ungaretti

te da Dante in quei Canti, agevole sarà poi cavarne


prova che la sua dottrina teologica e la sua politica
mira traevano ispirazione dalle, più diverse fonti. Da
un lato prevederà che volgersi non più ostili alla co¬
noscenza della natura, farà di grado in grado scoprire
sempre più mistica, sublime e segreta la verità; le leg¬
gi della ragione d’altra parte, nel loro intellettivo svi¬
luppo gli dimostreranno con sempre maggiore eviden¬
za la necessità e la certezza dei superni misteri.
Ma l’energia che dal nucleo dei cinque Canti si ema¬
na e che li rende tanto persuasivi, è la meditazione
sulla povertà.
Dentro al sole, nel quarto cielo, le anime che vi
risiedono non assumono parvenza per diversità di co¬
lore, ma per diversa intensità di luce. In danza anda¬
va una ghirlanda d’anime, e Dante le chiama, quelle
luci, vite. S’arrestò il ballo, la prima delle luci parlò.
Non era un parlare come sulla terra, era un trasmette¬
re di luce a un’anima in carcere carnale ancora chiu¬
sa. Chi in quel momento nel sol degli angeli parlava,
era Thomàs d’Aquino. Affondandosi nel silenzio, la
sua parola lodava Francesco, il santo d’Assisi. Quale
altra parola evocata potrebbe salutare meglio la città
che ci ospita? Assisi, Ascesi, Ascendere!

Intra Tupino e l’acqua che discende


Del colle eletto dal beato Ubaldo,
Fertile costa d’alto monte pende,

Onde Perugia sente freddo e caldo


Da Porta Sole; e di retro le piange
Per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov'ella frange


Più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
Come fa questo tal volta di Gange.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 391

Però chi d’esso loco fa parole,


Non dica Ascesi, ché direbbe corto,
Ma Oriente, se proprio dir vole.2

Può lodarsi Francesco dimenticando la donna che


si scelse per sposa?
È donna che non usa fronzoli, né unguenti, né moi¬
ne, nemmeno vesti, ma millenni di sofferenze hanno
plasmato la sua bellezza stupenda, è la Povertà. Da¬
vanti alla curia vescovile d’Assisi, coram patre, Fran¬
cesco la sposa, e continuamente li unirà la medesima
violenza, la medesima dolcezza, un’immedesimazione
perfetta :

privata del primo marito,


Millecent’anni e più dispetta e scura
Pino a costui si stette sama invito;

Né valse udir che la trovò sicura


Con Amiclate, al suon de la sua voce,
Colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

Né valse esser costante né feroce,


Sì che, dove Maria rimase giuso,
Ella con Cristo pianse in su la croce}

Le restò fedele anche nella morte:

E al suo corpo non volse altra bara}

Termina Thomàs il discorso crucciandosi che l’ordi¬


ne domenicano distolga gli occhi dai suoi fini slegan¬
dosi da povertà.
Si dice che nessuno avesse mai visto ridere Dante,
e i pittori che ce ne hanno tramandato il volto, ce lo
mostrano sempre imbronciato, con una bazza decisa a
fton smetterla mai d’allungarsi in su.
392 Giuseppe Ungaretti

Nel libro lo si può vedere qualche volta almeno


sorridere. E ride anche, e più di qualche volta.
Chiude la ghirlanda di luci capeggiata da Thomas,
Sigieri di Brabante.

Essa è la luce etterna di Sigieri,


Che, leggendo nel vico delli strami,
Sillogizzò invidiosi veri?

Aveva avuto con san Tommaso, aspri contrasti, e,


per esempio, accettava per fede che il mondo fosse sta¬
to creato dal nulla, ma, per ragione, no, non lo poteva
ammettere. Come ad Averroè, gli era seducente l’idea
dell’unicità dell’intelletto umano, dell’eterno ritorno
del medesimo ciclo di fatti. Ma il libero arbitrio, ma
dov’era andata a finire la responsabilità di ciascuna
persona umana dovuta appunto al compimento singo¬
lare della propria opera sulla terra? Ma il suo sillo¬
gizzare che poteva urtare per l’assunto, non doveva
fare invidia per l’impeccabile struttura logica e la con¬
tinua novità di eleganza? E l’invidioso che ora lo lo¬
da, sarebbe stato san Tommaso? Dante, comunque
dev’essersi divertito facendo presentare dalla luce di
Thomas, la luce di Sigieri, inserita nella ghirlanda di
Thomas. Non avevano l’uno e l’altro imparato a com¬
mentare Aristotele sostenendo Averroè o respingendo¬
lo? Sigieri nel vico degli strami, in San Giuliano il
Povero, aveva fatto scuola e non è forse leggenda che
là a Parigi, ad ascoltarlo si fosse seduto sui banchi
anche Dante.
Cara chiesetta di San Giuliano il Povero, oggi an¬
cora ritta. La vedevo ogni giorno uscendo dalla Mai¬
son des étudiants ch’era allora di faccia. Mickiewicz,
insieme mi pare a Towianski, vi fondò una delle cor¬
renti fervide del Romanticismo, e vi fu posta a una
colonna in quegli anni un’immagine della Madonna, e
oggi ancora la venerano i Polacchi.
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 393

Il 7 marzo del 1277, giorno anniversario di san


Tommaso, il vescovo di Parigi Stefano Tempier, e,
sebbene fosse domenicano, quello di Canterbury, Ro¬
berto Kilwardy, resero pubblica una sentenza che vie¬
tava l’insegnamento all’università di Parigi e in quel¬
la di Oxford, delle dottrine di san Tommaso e di quel¬
le di Averroè, accusati di minare la fede. Aristotele,
Averroè, Alberto Magno, san Tommaso, Sigieri, do¬
vevano essere cuciti nello stesso sacco e gettati a ma¬
re. Tutto quanto l’Aristotelismo, al diavolo! Per for¬
tuna, dal Laterano venne l’ordine di andarci piano, di
avere un pochino di pazienza prima di mettersi a ro¬
vinare quell’enorme sforzo che, secondo i voti della
Santa Sede, era stato compiuto dall’Aristotelismo per
accordare il sapere temporale con la rivelazione delle
Sacre Scritture.
Un’altra delle luci, anch’essa nella ghirlanda di
Thomas, è quella di Salomone. Salomone fra i beati?

La quinta luce, ch’è tra noi più bella,


Spira di tale amor, che tutto ’l mondo
Là giù ne gola di saper novella:

Entro v’è l’alta mente u‘ sì profondo


Saver fu messo, che se ’l vero è vero,
A veder tanto non surse il secondo,6

Luce, il lussurioso Salomone? Risponde Dante, e


torna a divertirsi: Sicuro, luce l’avere tratto il diritto
ad essere monarca da somma sapienza e eccelsa poe¬
sia; in quanto poi all’uomo:

Non sien le genti, ancor, troppo sicure


A giudicar, sì come quei che stima
Le biade in campo pria che sien mature:

Ch’i’ ho veduto tutto il verno prima


394 Giuseppe Ungaretti

,Lo prun mostrarsi rigido e feroce,


Poscia portar la rosa in su la cima;
9

E legno vidi già dritto e veloce


Correr lo mar per tutto suo cammino,
Perire al fine all’intrar de la foce.

Non creda donna Berta e ser Martino,


Per vedere un furare, altro offerere,
Vederli dentro al consiglio divino;

Che quel può surgere, e quel può cadere.7

Poi si mosse un’altra ghirlanda di sempiterne rose


formando l’arco esterno, parallelo e concolore della
prima che era ad inno tornata e a danza. L’una all’al¬
tra offrivano le ghirlande iridescenza da ogni rosa.
Come per la festività di san Francesco, il panegirico
10 fa un domenicano nella chiesa francescana - il gior¬
no di Domenico, quel santo esalta nella chiesa dome¬
nicana, un francescano.
Capeggia la seconda ghirlanda, la luce di san Bona¬
ventura. Toccò dunque a quella luce,

... sì come si tacque


La gloriosa vita di Tommaso fi

11 turno di parlare.
Farà l’elogio di san Domenico, scelto dalla Provvi¬
denza per una missione diversa da quella affidata a
san Francesco, ma da compiere in concordia con essa.
Esaminerà poi lo stato del proprio ordine non rispar¬
miando il rimprovero ai confratelli che ne alimentava¬
no le dissidenze:

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio


Nostro voltarne, ancor troverìa carta
Saggi e Scritti vari 1943-1970 395

U’ leggerebbe « I’ mi son quel ch’i’ soglio ».

Ma non fia da Casal né d’Acquasparta,


Là onde vegnon tali alla scrittura,
Ch’uno la fugge, e altro la coarta,9

Matteo d’Acquasparta, nominato cardinale nel 1288,


aveva sostenuto la politica teocratica di Bonifacio
Vili, e, quand’era ministro generale dell’ordine, tolle¬
rato il rilassamento della regola; Ubertino da Casale,
dopo essere stato insegnante di teologia nell’università
di Parigi, divenuto l’animatore degli spirituali, messo
invece sotto accusa di troppo zelo, era stato, insieme ai
suoi fautori, cacciato dall’ordine dagli altri frati. Dicia¬
molo una volta per tutte: Dante era un uomo, e a vol¬
te, lo diceva lui stesso, come quelli d’ogni uomo, i
suoi giudizi potevano essere anche infondati.
In altro punto del Canto, leggo:

... e lucemi da lato


Il calavrese abate Giovacchino
Di spirito profetico dotato.10

Sino dal primo Canto dell’Inferno, Dante spera nel-


l’avverarsi del sogno di Giovacchino « tra feltro e fel¬
tro ». I primi commentatori volevano che « tra feltro
e feltro » significasse « tra persone vestite di pover¬
tà ». I moderni hanno messo la maiuscola a feltro, e
insegnano che sono due nomi di città. Non è l’unica
volta che i moderni prendono un granchio leggendo
Dante.
Gli spirituali, e fra loro Ubertino da Casale, per l’ar¬
roganza forse non accetto a Dante che, per essere stato
fazioso, tanto aveva patito, ma del quale Dante aveva
tuttavia usato l’Albero della vita crocifissa per fare
esaltare da Thomàs la luce di Francesco, - gli spiritua¬
li non erano quei frati minori che avevano fatto prò-
396 Giuseppe Ungaretti

pria 'l’utopia di Giovacchino? Giovacchino abate, dal


suo monastero di Fiore sulla Sila aveva profetato l’im¬
minente vittoria del Povero sulla terra, per merito di
poesia visto dal Povero debellato l’inferno sulla terra,
mostrato sulla terra in trono, giustizia. Ma le arti del
diavolo sulla terra, ma la cupidigia e l’avarizia non sa¬
ranno sempre pronte a guastare ogni bel sogno?
A questo punto, uno si domanda come si fa che
Dante abbia omesso di pensare che in quei tempi c’era
stata anche la luce del frate minore Ruggiero Bacone.
Apparteneva a quell’audace scuola francescana di
Oxford che in qualche modo dovette contribuire a
spargere la diffidenza per le scuole aristoteliche che
sembrava stessero deviandosi dal campo religioso del¬
la verità verso il culto di astruserie formali o verso di¬
sorientamenti profani. Al papa Clemente IV dal 1266
al 1268, Ruggiero Bacone aveva fatto giungere diversi
trattati: l’Opus maius, l’Opus minus, l’Opus tertium,
esponenti il programma francescano di Oxford: alla
base, una salda cultura filologica che permettesse di
controllare le detestabili traduzioni in giro, ricorrendo
direttamente agli originali greci, ebraici, caldei degli
autori antichi, o ai testi arabi dei loro interpreti o con¬
tinuatori; inoltre una conoscenza approfondita delle
matematiche alle quali si ricollegano la fisica e, in ge¬
nere, tutte le scienze della natura; infine, uno studio
spinto dei fenomeni fìsici, dell’ottica e della prospet¬
tiva e, usando per la prima volta il vocabolo « speri¬
mentale » accoppiato a scienza, un addestramento osti¬
nato nello sperimentare.
Accanto alla luce di Giovacchino, la luce di fra Rug¬
giero non è meno splendente, e, se Dante non fosse
morto prima, avrebbe meritato ricordo nel cielo del
sole anche la luce di Guglielmo d’Ockham, del più il¬
lustre e acuto maestro della scuola oxfordiana, dell’im¬
petuoso frate minore che contribuì a salvare le ossa di
Saggi e Scritti vari 1943-1970 397

Dante quando le condannarono al disseppellimento e


alla dispersione al vento.
Nella prima parte della mia chiacchierata,11 e anche
nella seconda, avete udito come Dante studiasse gli ef¬
fetti ottici della luce, come li studiasse in rapporto al¬
lo spazio, come generatori di prospettiva, come li stu¬
diasse in rapporto alla velocità, fino a rendersi conto
che la velocità avrebbe reso insensibile all’osservatore
il rapporto temporale e che, oltre la sfera terrestre,
cessata l’attrazione della terra, i corpi non avrebbero
avuto più peso, sarebbero stati lievissimi volumi. E
potrebbe riassumersi il suo strologare di numeri? E
uno che può dire della sua indagine psicologica? Chi
arriverà mai così a fondo d’abissi per trovare e portar¬
le su al cospetto degli uomini e di Dio, le autentiche
fattezze d’una persona umana? E che non sa dire, co¬
me filologo, nell’istituire un linguaggio nuovo? Il più
vivo a tutt’oggi. Fra Ruggiero meritava un ricordo.
Sognavano l’alleanza della Povertà e del Sapere quei
fratini d’Oxford, cercando dentro i segreti della natu¬
ra, lo slancio e la liberazione nel soprannaturale. Pover¬
tà e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giu¬
stizia! Sarà sempre solo luce di lassù? E sogno balordo
di quaggiù? 12
IL POETA DELL’OBLIO
[1943]

Piccoli espedienti in Virgilio, come la ripetizione di


un avverbio, basteranno, suggerendo uno stretto lega¬
me fra due idee, a isolarvi l’animo e, in quel punto del
volgersi universale degli astri, il farsi del silenzio quasi
inavvertitamente moto delle cose diverrà, fissatosi nel¬
la memoria, immagine d’una data ora, per sempre
l’inizio della notte:

... Quum medio volvuntur sidera lapsu


Ouum tacet omnis ager pecudesque pictaeque
[volucres...l

Il Tasso che apparteneva a un’epoca per la quale


l’Antico non aveva più segreti, interpretava così:

Era la notte allor ch’alto riposo


han l’onde e i venti, e pare muto il mondo...2

« Alto », « muto »; non più stelle, è superfluo se¬


gnalarle; non più moto dichiarato, poiché venti e on¬
de non sono scomparsi, sebbene quieti; altezza per cal¬
ma d’un cielo notturno che impone sonno ai venti e
alle onde; una cupola perfetta per parole geometriche
d’illusione scènografìca, ed entro sulla terra giù, am¬
mutolite le cose. L’effetto che ci sorprende è d’un in¬
terno deserto, cupo.
Nel primo canto dell’Inferno, volendoci palesare che
si ha, per rivelazione dei sensi, sentimento della distan¬
za fra temporalità e eterno e della presenza dell’eterno
nella temporalità, Dante colla sua arte attenta scioglie
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 399

a poco a poco le cose dalla notte, insegue il prodigio


della luce solare che le trattiene per opera dell’ora,
perplesse nell’ombra fugace, che le solleva ad un pos¬
sesso graduale dello spazio, formandole e variandole,
dando a ciascuna un nome, convitandole a parlare.
Agli appetiti dell’animalità operanti in ogni essere
mortale, rappresentati dalla presta lonza, per correg¬
gerli umanamente, un’intuizione della primitiva nostra
bellezza celeste, insorgendo dagli stessi nostri sensi op¬
pone il nascente piacere dell’armonia universale del
creato. Quando Dante dice:

...perdei la speranza dell’altezza,

attraverso la percezione fisica scopre in sé, sgranando


occhi da bimbo, la prima dichiarazione dell’umana di¬
gnità; quando apparsa la lupa, ci dice ch’essa lo

...ripigneva là dove ’l sol tace,

non a caso usa il « tace », non per preziosità confonde


udito e vista, immagine e parola, ma volendo segnare,
mentre sta per apparirgli appunto Virgilio, che attra¬
verso la percezione fisica, l’uomo è sorpreso dal dono
della parola e che un altro miracolo è avvenuto per av¬
viarlo a dettare, attraverso a ordini di meglio definita
esperienza umana, il suo discorso storico.
Quanto da Virgilio meno separato dai secoli che da
Dante, il Tasso. Lo stesso gusto per la sorpresa che
dovrebbe avvicinarlo a Dante, ce lo farà sentire più
vetusto e più nuovo. Per Dante, incessantemente mo¬
dificata dalla mobilità del tempo, la spazialità è distri¬
cabile secondo una tecnica che oserei chiamare impres¬
sionista, ed è di più volta, di colpo dopo tanta analisi
e bruciando ogni descrizione, a balzare da mille sfu¬
mature riducentisi a nulla, compiuta e netta come per
incanto. Come Virgilio, il Tasso si limita a rendere in-
400 Giuseppe Ungaretti

diménticabile un’ora data, ma per la magia d’un’archi-


tettura e d’un colore di quell’ora rimastici soprattutto
impressi e, già forse con eccesso, dopo il Petrarca
giunti a lui ci accorgiamo che l’italiano è lingua dotta,
non solo nobilitata dall’esperienza propria di più seco¬
li, ma recuperata intera la memoria dei suoi antichi
studi, in possesso di tale energia da ritenersi capace di
rendere semplici e favolose le proprie parole a furia
d’artifìzio, d’arrivare a fare cioè per letteratura quanto
poteva un Dante scrutando le cose, sforzandole a in¬
carnare un qualche suo concetto e a trasfigurarsi per
grazia di una ingenuità ch’era vera e prodigiosa essen¬
do ancora sacri i tempi e ricchi naturalmente di primi¬
tivo prestigio. Sull’arte del dire nella sua lingua, lo
scrittore italiano della fine del Cinquecento può ragio¬
nare insieme a tremil’anni di gente sua, e saranno tut¬
te per lui, parole vive, anche se, la più parte, pronun¬
ziate dalle ombre.
Le parole hanno due sole vie per toccarci fiamma, si
colmano dei nostri ricordi, e ci avvolge la loro infinita
malinconia, o ci svelano fatte subitamente nuove, la
meraviglia celeste delle cose.
Nel Petrarca, il passo virgiliano prese il seguente
suono:

Or che ’l del e la terra e ’l vento tace


e le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz’onda giace...

L’ampia calma evocata iniziando il canto, invade,


per chi non stia molto attento, anche gli altri versi, e
ci potremo lasciare facilmente indurre nell’errore che
questa quartina si contrapponga alla seconda, senz’al¬
tro. Rileggendola osserviamo, per il giuoco delle con¬
giunzioni, che le sue quattro frasi la dividono in due
Saggi e Scritti vari 1943-1970 401

parti uguali, e subito il cielo stellato sopra lo specchio


del mare immobile, dilatando all’eccesso in noi il sen¬
so di calma, quasi lo abolisce sostituendovi solitudine.
Torniamo a rileggere insoddisfatti perché il nostro
orecchio ha ritenuto involontariamente le rime e, sa¬
pendo che il Petrarca si compiace di concentrare nella
parola di chiusura il valore di tutto il verso o un valo¬
re di contrasto, d’analogia o di richiamo rispetto a un
altro verso, siamo spinti d’improvviso a domandarci la
ragione del terzo verso dopo il secondo, d’un verso che
ora si svela tutto movimento, narrando della « notte »
che « mena » in « giro » il « carro » stellato, mentre il
« sonno » sta « affrenando » gli augelli e le fiere e,
poiché è detto nel primo verso che insieme alla terra,
anche il « cielo » tace, dobbiamo concludere che la
notte e il carro stellato non sono il cielo e che, rispet¬
to a tutti gli altri elementi in pace come il cielo, rap¬
presentano un elemento drammatico. Staccata la notte
di stelle dal cielo e, dall’alta calma chinandola e inter¬
nandola nella giacente solitudine, il poeta l’ha resa vi¬
sibile legandola allo spettacolo del mare, volendo chia¬
ramente se ne concepisse il movimento solo come mu¬
sica di riflessi.
Il verso finale del sonetto:

tanto da la salute mia son lunge,

potrà più tardi suggerirci la quasi impercettibilità del


moto stellare per la sua altezza infinita, e restituire si¬
lenzio all’intera prima quartina e all’intero sonetto, e
sarà quando, rialzati gli occhi, il poeta vedrà stupito
che, fra le stelle e il loro riflesso, fra Laura e la realtà
immersa nel passato è una distanza di misura irriduci¬
bile. Infinita lontananza, e basterà un attimo di passa¬
to a farla infinita, a fare infinitesimale la poca realtà
che al ricordo sarà dato di riflettere.
402 Giuseppe Ungaretti

Nella seconda quartina, in primo luogo, di contro


alla calma universale, il poeta suscita la sua estrema
agitazione: •

vegghio, penso, ardo, piango...

poi paragona Laura alla notte riflessa dalla solitudine,


sconfinata come un mare, del suo essere:

...e chi mi sface


sempre m’è innanzi per mia dolce pena;

come i riflessi sembrano fissarsi a tormentare e dissol¬


vere infinitamente lo specchio dell’acqua, quasi un si¬
lenzio per la monotonia senza fine, il ricordo consu¬
mando senza fine l’essere, gli dà dolce pena, « mi sfa¬
ce ». A questo punto, il tema poetico principale del
Petrarca s’è delineato, ed è che, dell’universo il centro
è la memoria umana, che l’universo si tormenta solo
nell’uomo, nella notte dell’essere umano resa bella da
alcune luci della memoria:

guerra è il mio stato, d’ira e di duol pieno;


e sol di lei pensando ho qualche pace.

Al sonetto Quand’io son tutto volto in quella par¬


te, si rimprovera di solito una derivazione stilnovistica.
Nessun altro mi sembra contenere con maggiore elo¬
quenza, il nuovo messaggio, e basterebbe il verso:

e m’è rimasa nel pensier la luce.

Ardirei chiedere che la spiegazione generalmente


ammessa in seguito al Castelvetro, venisse lievemente
modificata, e in povera mia prosa, direi: « Quand’io
sono tutto rivolto verso quella parte dove il bel viso
Saggi e Scritti vari 1943-1970 403

di Madonna luce (me ne è rimasto il ricordo, luce che


m’arde e strugge dentro a parte a parte) io, che te¬
mo... »:

Quand’io son tutto volto in quella parte


ove ’l bel viso di Madonna luce,
e m’è rimasa nel pensier la luce
che m’arde e strugge dentro a parte a parte,
i’, che temo del cor che mi si parte...

La luce non è più quella dell’impressionismo di


Dante, che dà forma alle cose variandole senza requie,
che è alle prese colla materia cui prestare oltre a quel¬
la momentanea, misura eterna per giungere a rendere
visibile, quale nei suoi segreti, smessa ogni maschera
è, giudicato per sempre, vero, il multiforme volto del¬
la storia. Il Petrarca non ha più per punto di riferi¬
mento se non il tempo, anzi, meno, il passato, i ricor¬
di nella chiusa memoria e gli è apparsa Laura.
Gli è apparsa, e subito è anche ricordo, è anche pas¬
sato, luce che già gli appare anche dall’assenza, e, as¬
sente, lo fa smaniare, e incantarsi, e smaniare.
Difatti, si può parlare di virtuosità, e mi domando
se ci fu mai un altro artista che ebbe tanta scaltrezza
stupefacente da farci sentire in quattro soli versi la
presenza materiale e la presenza del ricordo così fuse
l’una nell’altra, eppure così separate, e farci sentire
che il passaggio dall’uno all’altra è brevissimo; breve,
e possiamo averne strazio, ma è la condizione umana.
« Luce », e la parola volge dentro di sé come un
universo, e non solo per gusto d’elegante maniera la
sorteggia per la rima, quattro volto cambiandole sen¬
so, ed una è lei, Laura, beatitudine, e l'altra è il ricor¬
do di lei che lo fa delirare, e la terza è la su? stessa
propria vita minacciata e rosa dal ricordo, ? l'ultima
è luce che in lui fa notte.
404 Giuseppe Ungaretti

Av,ete sentito come, quasi meditando su se stessa,


e senza che il pacato tono di riflessione s’alteri, possa
una parola esprimere lo stravolgersi d’uno spirito? Ar¬
te.
Una volta 3 avevo pensato di suggerire per « parole
morte » dell’ultima terzina, la spiegazione sollecitata
dall’intero testo e dall’intero Canzoniere, e cioè « pa¬
role del ricordo », « non mi sono rimaste se non pa¬
role del ricordo, e tuttavia non m’abbandona mai il de¬
siderio, che invano fuggo e che m’uccide, di vederle
tornare parole vive ». Il Monti vorrebbe farci accetta¬
re « piene di morte, disperate », ma la spiegazione non
ci permetterebbe di rivivere in noi il sonetto, nella sua
rigorosa sintassi poetica; anche meno ci soddisfa il
commento cui aderisce il Carducci e secondo il quale
dovremmo intendere « parole concepite dentro e non
espresse, dette fra sé »; a parere del Castelvetro, sa¬
rebbero « parole senza effetto » e, osiamo aggiungere,
« incapaci di convertire se non per via di ricordo, il
passato in realtà presente », e sembrerebbe spiegazione
attendibile.
Un’ultima osservazione, a proposito della rima « so¬
le » della seconda terzina; la prima volta indica una
consuetudine, e solitudine la seconda; lo stesso Petrar¬
ca ci confida così che nella solitudine del suo essere,
suole vivere di ricordi. In questi stessi appunti,4 ve¬
dremo a proposito dell’arte poetica del Leopardi, qua¬
li termini, nel riprenderlo, darà a questo tema d’ispi¬
razione, il Romanticismo.
Il sopraggiungere della sera aumenta lo stato di di¬
sperazione di Didone e la fa più sola; allo stesso mo¬
do Dante s’accorgerà della persona umana, e si perderà
di coraggio:

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno


toglieva li animai che sono in terra
dalle fatiche loro; ed io sol uno..}
Saggi e Scritti vari 1943-1970 405

Il Petrarca dilata il suo io nell’universo notturno, e


vi si specchia coll’aiuto dei suoi ricordi, e si prova a
decifrarvi il passato. Quanto sentimento doveva pos¬
sedere quest’uomo se la separazione di pochi istanti
dall’oggetto amato, bastava a suscitare nel suo essere
un ricordo che gli sconvolgeva l’anima d’impazienza
disperata.
Pochi lustri lo separano da Dante; eppure quanto
più vicino anche lui, a Virgilio.
La sua sera non è subordinata a nessun sistema dot¬
trinale; non ha nessuna bacchetta magica che ce la fac¬
cia apparire meno triste; ma è tanto forte il suo senti¬
mento che veramente risuscita; e da quel giorno Vir¬
gilio ci accompagna non più come un emblema, ma
come uno dei fatti della nostra vita.
Ossérvava il Carducci che « nelle quartine di

Or che 7 del e la terra e 7 vento tace,

è la natura eterna, come la sentiron gli antichi; nelle


terzine è Partifizio, trobadorico e scolastico ». In tutto
il sonetto l’ispirazione attinse sostanze alle due fonti,
ed è impossibile dire quale gli fu più viva tanto qui e
in ogni sua cosa, i modi divennero schiettamente pe¬
trarcheschi.
Quando ero giovane e m’illudevo d’avere la vocazio¬
ne dell’erudito, alludendo all’Oriente e al senso d’esi¬
lio, di nostalgia, di desiderio, di sete implacabile che
può dare una traversata di deserto e alla poesia che
ne può nascere, immaginavo, invocando i riflessi del¬
l’esperienza delirante fatta dall’uomo dell’Occidente
medioevale nelle sue grandi spedizioni militari, si po¬
tesse aprire una discussione assai strana sulle fonti del¬
la poesia medioevale europea e per conseguenza anche
di certo muoversi allegorico dell’ispirazione petrarche¬
sca:
406 Giuseppe Ungaretti

Solo e pensoso i più deserti campi


vo me sur andò...

Immaginavo che Laura fosse come la bella forma


convalescente uscita in salute dalla demenza della liri¬
ca occitanica e siciliana, figlie di quell’arabo scervellar¬
si dietro alla lettera in seguito al divieto del Corano
di ritrarre per arte le fattezze umane; e qui nella sua
malinconia, l’artista ha messo il trascolorare d’uno
smalto turchino, lì uno zampillo d’acqua su pietre va¬
riopinte, in un angolo del muro ha inciso uno svolaz¬
zo, ora s’è appellato all’acre calce, ora, sulla lucidità
del gelo, a un bagliore sanguigno e tanta fu la passio¬
ne che, nel muoversi dal chiaroscuro, ora l’osserveran¬
no due begli occhi:

In tale stella duo belli occhi vidi...

Chi è stato in paesi musulmani sa che la donna usa


vestire tutto il corpo, compreso il viso, salvo gli occhi.
Non per applicare la statistica anche alle cose della
poesia, ma sono moltissime le volte che il Petrarca par¬
la d’occhi. È un’ossessione. È parola usata come se vo¬
lesse con essa dare fondo al vocabolario.
Il Petrarca non si vede subito. Esige lunga espe¬
rienza, e dura, rara e complessa per divenirvi familia¬
re; una grande acuità, una grande fissità dello sguar¬
do mentale. Un suo sonetto che ci pareva indifferente,
un suo verso perduto in un sonetto, ecco, quando la
memoria ha saputo finalmente fare in sé chiarezza e
accalorarlo, ci guarda, è la nostra vista più umana:

...que’ begli occhi vidi


che mi fecer cangiar vita e costume;

ed allora, passato, tu sei:


Saggi e Scritti vari 1943-1970 407

Alma felice, che sovente torni


a consolar le mie notti dolenti
con gli occhi tuoi, che Morte non ha spenti,
ma sovra ’l mortai modo fatti adorni...

Occhi, nient’altro che memoria, ma tanta memoria,


tanta sollecitazione di memoria che, finalmente model¬
lata, la figura intera si fa presente, adagiata come in
quel sonetto a Apollo:

sì vedrem poi per meraviglia inseme


seder la Donna nostra sopra l’erba
e far de le sue braccia a se stessa ombra.

La memoria apparirà incarnata così tanto nella vo¬


luttà incantevole della figura come avesse abolito se
stessa nell’alzarci ad uno di quei momenti perfetti, mi¬
randi e senza durata del vivere:

e far de le sue braccia a se stessa ombra.

Per un’ombra lo scultoreo gelo si è acceso di vaghez¬


za. A volta l’ardore del ghiaccio, il clamore carnale
risuscitato dalle allusioni insistenti della memoria, si
svela per un’espressione infastidita da un qualche cal¬
colato cenno inverecondo come nel sonetto del guan¬
to:

O bella man, che mi destringi 7 core


e ’n poco spazio la mia vita chiudi...

Versi come questi:

e sol ne le mie piaghe acerbi e crudi,


diti schietti soavi, a tempo ignudi,
408 Giuseppe Ungaretti

avranno reso, mi figuro, pazzo d’invidia un poeta del¬


l’eròtico Settecento, un Parini.
Sarà esistita la casta Laura? Ora è, o non so che sia
essere uomini, rimpianto di amplessi, colpevole diva¬
gare fra quell’infinito malinconico che in ogni carne
lascia per sempre la passione soddisfatta e il desiderio,
che farà sempre nuova una forma, del ritorno, impos¬
sibile, d’una medesima felicità. La memoria, dramma
dell’uomo fra sogno e realtà, perfida lusingatrice, è lei
sì, e per forza, casta.
Un cristiano, ma nella mente del quale viveva pu¬
rissima e fertile l’eredità di Platone, e che nell’eloquio
caldo ritrovava la grazia originale della retorica lati¬
na, Sant’Agostino non fu invano l’autore più meditato
dal Petrarca. Le affinità spirituali portano uno, chi sa
come, verso l’altro, e chi ami Laura, non si stupisce
di trovare nelle Confessioni, capitoli che trattano del¬
la memoria. Anche l’oblio fa parte della memoria, è
esperienza nostra oscuratasi in noi, è la nostra interna
notte. L’oblio del divino testimonia nella nostra me¬
moria d’uno stato di perfezione dell’umana natura
sprofondatosi nelle tenebre dei tempi. Un’esperienza
anteriore alla nostra personale durata, può, lucidissi¬
ma, tornarci in mente, e possiamo scordarci di casi no¬
stri d’un momento fa.
L’aver passato la parte migliore degli anni lontano
dalla Patria; la maturità dei tempi che rimetteva in
onore i leggiadri studi; la sua stessa delicatezza che lo
portava a inorridire per la minima disarmonia, a pro¬
vare un distacco crudelissimo e smisurato a ogni più
lieve turbamento nel corso dei suoi affetti; il suo ge¬
nio, poiché ogni novità di tempi troverà sempre il
grande che la proclami; ed altro; e chi potrà mai co¬
noscere esattamente la causa e il fine degli atti umani,
mistero imbrogliatissimo anche nella più candida na¬
tura; ma è certo che Roma e oblio furono due idee
Saggi e Scritti vari 1943-1970 409

che s’accompagnarono e guerreggiarono con veemenza


nell’animo del Petrarca.
Se non da simile furore, da che sarebbe nata la po¬
tente virtù che la sua poesia attribuirà ai ricordi?
Roma disgiunta da un concetto dell’universale, non
è immaginabile. Esaurita la funzione politica, giuridi¬
ca, militare, morale, mistica e religiosa del latino nel¬
l’incivilimento dell’Europa, come fu bella Roma vol¬
tasi a riconquistare il suo prestigio per le strade anti¬
che del metafisico e estetico sapere. Fu ancora una cit¬
tà, l’universo; ma era una città morta da mille anni, e
fu universale perché morta da mille anni; perché me¬
moria, perché universo di fantasmi.
Stupisco sempre osservando come fu aperta dal Pe¬
trarca, in un lamento, un’avventura favolosa come
l’Umanesimo.
Le lingue neolatine, ancora bimbe, e non solo le
neolatine, ma tutte le nuove lingue europee sarebbero
state d’improvviso rese atte a colmarsi di ricordi e a
farsi adulte se, correndo dietro al latino d’oro e scri¬
vendo gli esametri faticosi dell’Affrica, il Petrarca,
sognando di risuscitare Roma insieme agli splendori
della lingua d’Augusto, non avesse regalato tanta ric¬
chezza di memoria all’italiano, tanta tradizione e tan¬
ta perizia di buona letteratura da farne in un lampo,
una lingua subito giunta in possesso dei suoi testi
esemplari, in pieno Trecento, col Canzoniere suo e col
Decamerone del Boccaccio, devoto sodale suo?
Si può sostenere che l’avventura dell’Umanesimo
non sia incominciata col Petrarca e dimostrare che
non abbiano subito interruzione in Occidente, gli in¬
flussi di modelli profani e che il pensiero e la stessa
poesia sacra della Chiesa ne abbiano ammesso costan¬
temente più o meno il prestigio. L’Umanesimo non è
questo; è fede quasi esclusiva, nell’immortalità del¬
l’opera umana, nell’immortale momento di perfezione
d’una civiltà, duna lingua; è impazienza di riconqui-
410 Giuseppe Ungaretti

sta -di quel sapere e di quell’arte dell’Antico che ren¬


devano immortale una forma per il soffio che le pre¬
stava l’uomo. •
Per la stessa lacerazione della vita di cui è segno, lo
stesso ricordo, così frammentario sempre nei suoi ri¬
ferimenti alla realtà, suscita le rovine di cui si cir¬
conda, sommersa rovina fra rovine, principio d’un di¬
sperato restauro nell’oblio da chiarire. Se noi potessi¬
mo ricordare tutto, e non dimenticassimo invece quasi
tutto per l’enorme ignoranza che rare particole di cose
lascia intravedere al ricordo, e male, noi sapremmo
tutto, e non ci sarebbe più morte nel mondo.
Che cosa non fu il Canzoniere per l’Europa? Fino al
Tasso, fino a quando, non avendo più nulla da impa¬
rare in arte dal passato, il poeta non ebbe più da ri¬
correre al sapere antico se non, come Dante ai formu¬
lari teologici, per moltiplicare leggi e impedimenti alla
sua retorica, nessuno ne contesta la influenza risoluti¬
va. Ma al Barocco chi insegnò come, dalla disciplina'
ferrea delle convenzioni e rendendone più sublimi i ri¬
gori, l’arte si potesse liberare solo per violenza d’in¬
venzione? Il maestro anche in questo fu, pare incre¬
dibile, il Petrarca.
Nel sentire tutte quelle metafore delle quali il Can¬
zoniere abbonda, e quei limpidi cristalli detti per l’ac¬
qua e quel chiamare i rivi, snelli, e quel vedere di ne¬
ve, il viso, d’oro i capelli, il De Sanctis perde la pa¬
zienza.
Non intendo menomamente mancare di riguardo al
De Sanctis, al quale riconosco di dovere infiniti consi¬
gli, anche per una retta interpretazione del Petrarca.
Ora bisogna ricordare che cos’è la metafora, la qua¬
le non è se non un richiamarsi ad una sostanza o ad at¬
tributi altri da quelli dell’oggetto evocato, per mettere
in valore, di scatto, ricorrendo ad un contatto inatteso,
una sensazione, o un tono, o un moto sentimentale, o
un variare di concetto, esigenti altrimenti un lungo di-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 411

scorso. La metafora può essere perspicua e illuminan¬


te o sorda e cretina, e dipende dalla qualità del poeta.
C’è di più, c’è nel madrigaleggiare del Petrarca e in
tanto suo aguzzarsi la fantasia in adorne astruserie, co¬
me l’obbligo per pudore o per pietà, di distogliere la
memoria da una verità troppo crudele, o troppo pro¬
fonda, di velarne e di difenderne il segreto che così so¬
lo farà:

...tremai; di meraviglia.

Figuratevi dunque il De Sanctis quando nel bel mez¬


zo di questo sonetto:

Il cantar novo e ’l piangere delli augelli


in sul dì fanno retentir le valli...

trova un’Aurora che desta il poeta:

...al suon delli amorosi balli


pettinando al suo vecchio i bianchi velli.

Non si tratta che d’un sonetto di equilibrio verti¬


ginoso. Tutta la fantasia del Barocco, del secolo che
può vantarne di più, è tutta già qui: è più candida,
questa.
Il Seicento è stato un secolo grande, un secolo tra¬
gico, e Góngora era un poeta di prim’ordine. Lo vedrò
sempre che s’avvia incontro a Filippo II e che non sa,
volendo salutare la partenza dell’Armada nell ora cri¬
tica della sua Patria, se non gridare contro Elisabetta
un verso del suo Petrarca:

Fiamma dal del su le tue treccie piova!

E non solo Góngora invita al Petrarca; ma Racine:


412 Giuseppe Ungaretti

Permettez que mon cceur, en voyant vos beaux yeux,


De l'état de son sort interroge ses dieux...
Souffrent-ils sans courroux mon iardente amitié?
Et du mal qu’ils ont fait, ont-ils quelque pìtie?

Per avere co’ begli occhi vostri pace.

Et vous-mème, cruelle, étéignez vos beaux yeux!


Vous fermez pour jamais ces beaux yeux que j’adore;
Et, pour ne point me voir, vous les fermez encore.

Quando d’un vel che due begli occhi adorna


e par che dica: or ti consuma e piagni.

E Camóes avrebbe saputo imprigionare il soffio ocea¬


nico nella sua strofa alata se non avesse imparato a
porgere ascolto senza requie, ai palpiti del poeta me¬
more?
E i temi del monologare e dialogare di Shakespeare
non sono già tutti essenzialmente svolti nel grande di¬
battito petrarchesco su Amore e Morte?

Né sì, né no nel cor mi sona intero...

...e veder seco parme


donne e donzelle, e sono abeti e faggi...

Uno che non ti vide ancor da presso,


se non come per fama uom s’innamora...

...cadrà quella speranza


che ne fe’ vaneggiar sì lungamente
e ’l riso e il pianto, e la paura e l’ira.

so com’Amor saetta e come vola,


e so com’or minaccia et or percote,
come ruba per forza e come invola,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 413

e come sono instabili sue rote,


le speranze dubbiose e ’l dolor certo,
sue promesse di fé come son vote,
come ne l’ossa il suo foco coperto
e ne le vene vive occulta piaga,
onde morte è palese e ’ncendio aperto,6

E non solo invitano al Petrarca, Góngora e Racine,


Camóes e Shakespeare; ma Goethe e il Leopardi e
Mallarmé.
Col Leopardi e con Goethe, il discorso del Petrarca
si fa più discreto e più segreto; torna alle sue origini e
le approfondisce.
Il Leopardi ne ha difatti capito la vera arte poetica;
ed essa insegnava che l’oggetto dell’ispirazione era le¬
gato alla vita del poeta per consuetudine di origine
quasi immemorabile; che così persuadeva a evocazioni
nel tono più confidenziale:

Sempre caro mi fu...

In realtà, anche per il Petrarca tutto incomincia e fi¬


nisce nel senso d’infinito che nel suo animo sveglia il
paesaggio. Ma per il Leopardi, l’ispirazione è imme¬
diatamente colpita nel suo motivo, immediatamente si
manifesta fuggitiva e strettamente personale, dipenden¬
te appena, come una foglia, da uno stormire di vento.
La novità del Leopardi è in un’amarezza cresciuta e
nudamente espressa; e tutto palesemente parte nella
sua poesia dai sensi, la sensazione di quello stormire
di vento che desta un echeggiare dell’anima. Ma in
quale poeta, il punto di partenza non è nella sensazio¬
ne? Anche dunque nel Petrarca, sebbene essa appaia
respinta, filtrata, dissimulata in rabeschi.
Un poeta parte sempre dai sensi, ma sempre per ar¬
rivare al
414 Giuseppe Uijgaretti

' ...cantar che nell’anima si sente.

Ciò che nel Petrarca è tutto scoperto, è la musica,


come in questo sonetto* il più colmo di musica che
egli abbia scritto, dove le parole dissimulano con ge¬
losia perfetta il loro significato in una splendida for¬
ma fisica, in quelle seduzioni che, colla voce dell’asti¬
nenza forzata piena di voluttuose curiosità del costu¬
me islamico, si chiamava ancora ai suoi tempi, il velo:

Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi...

A volte le acque di Vaichiusa che arrivano misterio¬


samente dalle viscere dei monti, sono bassissime e co¬
prono appena il gorgo. Ho avuto la fortuna di vederle
nella loro abside di roccia, alla loro massima altezza, di
29 metri. Volli fare la prova. Gettai una pietra, e la
vidi varcare adagio, il liquido cristallo, chiaro per 29
metri, sino al fresco erboso fondo.

...E voi che il fresco erboso fondo


del liquido cristallo alberga e pasce;
i miei dì fur sì chiari...

Tale è la precisione musicale del paesaggio petrar¬


chesco. Una chiarezza che va fino al fondo; e allora i
dì si fanno foschi come morte che tali li fa. Una chia¬
rezza che è come il mistero umano, fra due limiti im¬
penetrabili. È musica, per esempio, quel modo di rom¬
pere il silenzio, che è il modo al quale si riconoscono
i grandi poeti:

I dì miei più leggier che nessun cervo,


fuggir com’ombra...

Un po’ più, un po’ meno d’ombra nella fuga; ma


in ogni istante, la sua ora pare sia sempre ora d’infini-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 415

to, l’ora delle dilette ombre. L’amante insonne un


giorno ad esse ha imprecato:

La sera desiare, odiar l’aurora


soglion questi tranquilli e lieti amanti;
a me doppia la sera e doglia e pianti...

Quale vero amante non ha provato nel ritrovarsi so¬


lo, l’odiosità del languire, eppure caro infinitamente.
È il primo tema che abbiamo incontrato, avvicinando¬
ci al Petrarca.
Laura; infinito. Mi trovavo sul finire d’un inverno
in un paese di collina; una sera; quella sera ho sentito
bene i limiti della fantasia nel Canzoniere; limiti d’un
uomo maturo, già declinante, e che abbia conservato
non so quali speranze.
La sera dei paesi è data dalle donne che vengono
sulla porta di casa, dalla piazza che s’affolla d’uomini,
dai ragazzi che s’agitano di più senza che s’oda più il
loro chiasso, dall’attesa d’un avvenimento che è già tut¬
to nell’aria, anche più che nei cuori:

Passa la nave mia colma d’oblio.

L’unico modo di rompere il silenzio è di chiudere


gli occhi:

e m’è rimasa nel pensier la luce.

So che un uomo non è paragonabile se non a se stes¬


so, e che sarebbe difficile incontrare due spiriti più di
Goethe e del Leopardi fra loro distanti. La vita del
secondo si chiude in un lampo, tutta sanguinante. Il
primo sembra non avere usato i suoi lunghi anni se
non per mutarsi nell’armonia immortale d’un nobile
marmo.
Ma l’uno e l’altro sono partiti dall’idea di memoria
416 Giuseppe Ungaretti

come sorse nel Petrarca, gli occhi rivolti dalla parte


dell’Antico, e Goethe quel sapere che allora s’era de¬
stato, lo immaginava ancora viVb e che avanzando tor¬
nasse a ricomporsi perennemente diverso e più bello.
Nell’altro rimase fissa l’idea di rovina; dal Petrarca a
lui, l’infelicità umana non poteva non essere cresciu¬
ta; lo spirito umano s’era fatto forse più acuto e la
carne più sensibile; certo, pensava, più vecchi s’erano
fatti e più deboli.
Entrambi portati a meditare specialmente sulla na¬
tura e il perire, anteponevano l’azione al sapere. Goe¬
the osservando che in un moto ascendente di dissocia¬
zione e disintegrazione, materia e spirito non cessava¬
no mai di raggiungere un equilibrio, considerava il sa¬
pere e la bellezza frutti dell’azione che li rigenera in¬
cessantemente. L’azione per il Leopardi, riaccostando¬
ci alla natura, fonte d’illusioni, ci distrae dalla para¬
lizzante conoscenza dell’orrendo vero.
Il perire, l’occulta ferocia del fato, la privazione di
gioventù, sono le immagini che tornano senza requie
nella memoria del poeta; i punti della sua continua
meditazione.
Non vergogna d’inesperienza e impazienza di ricon¬
quista di memoria, ma orrore della barbarie per ecces¬
so d’incivilimento, e ansietà che alla Patria venisse
concesso il rifiorire di quella gioventù negata da natu¬
ra precoce alla sua sofferente persona, lo incitavano a
invocare l’esempio dell’Antico, al quale sempre rimar¬
rà la possibilità d’insegnare eroismo e gloria.
La poesia più alta del Canzoniere nasce quando la
Morte si decide a colpire e a visitare la memoria. È
morta, Laura. Da quel momento, i ricordi hanno un
altro suono; sono assoluti; Laura è assoluto passato; è
realtà di pura memoria; è unicamente pensiero.
Mi succede a volte, commentando Dante, di doman¬
darmi se la Divina Commedia non sia da ritenersi un
trattato nel quale il poeta si fosse prefisso di esporre
Saggi e Scritti vari 1943-1970 417

quanto avesse gradualmente conosciuto sulla genesi dei


modi: specchiamento immediato, sogno, ricordo, intui¬
zione, concetto, attraverso ai quali la realtà si presen¬
ta alla mente umana.
Quando, nel secondo canto del Purgatorio, con effet¬
ti di pittura del moto di un oggetto in una prospetti¬
va, oggi abbiccì del mestiere per un cineasta, è mostra¬
to l’angelo colla barca delle anime purganti, prima co¬
me un puntino, poi, piano piano, chiaramente, e da
quel sogno sorge l’intuizione della purezza intellettiva,
immediatamente essa, essendo stato indicato lo spazio
percorso e il tempo che ci volle a superarlo, si lega alla
precisa misura della fulminea velocità angelica. Si dice
velocità, intendendosi che in un intelletto umano per
quanto sublime, l’immedesimazione nell’assoluto reale
avviene sempre in seguito ad un superamento spaziale
legato ad un’interferenza temporale, sia pure minima.
A questo modo, al concetto di purezza che apparirà nel
Paradiso con Beatrice, si arriverà attraverso la mate¬
ria già plasmata dalla dura verità e che abbia per
espiazione già conseguito l’eccelsa facoltà ideale che
nella mente che sa, in un lampo misura e rappresenta
il grado di bellezza delle cose.
Lo sforzo teorico non ci potrebbe però interessare
come poesia, se Dante non avesse saputo sopraffarlo
in ogni caso, incorporandolo in immagini di una ma¬
terialità animata e infinitamente diversificata da un
sentimento e da una fantasia senza uguali.
Beatrice è una filosofica certezza che Dante fa car¬
nalmente viva non dovendo impedire che verso di lei
possa anche sentirsi attratto l’uomo corruttibile e sen¬
sibile di questo mondo.
Per Dante non ci può essere poesia se prima non è
arrivato a impossessarsi della creta, a impastarla, a
mortificarla, a darle fattezze e passioni, a misurarla,
a darle nobiltà; se non dopo essere arrivato a farci
sentire la materia.
418 Giuseppe Ungaretti

Ifl altre parole, Dante non solo si sforza di elevare


costantemente la realtà ad un sistema ideologico, al¬
l’essenziale forma; ma di ricondùrla dall’universo delle
pure idee alla fase dei corpi immateriali, delle appa¬
rizioni del sogno e della memoria che nel riflettere la
realtà, le conservano più o meno i limiti formali di
tempo e di spazio. Da tale ultima condizione spettrale
di tutte le vicende anche se entrate nel passato da un
attimo solo, lo sforzo supremo di Dante sarà di co¬
stringere la realtà a ritrovare lo stato drammatico di
materia vivente, di corpi reintegrati nella loro mate¬
ria.
Pensate ancora al secondo canto del Purgatorio. Lo
splendore più attraente che occhi mortali possono con¬
templare, l’aurora stessa che nel primo canto dell’Jw-
ferno aveva suggerito l’immagine dell’innocenza del
mondo, è colpita dalla morte, e crolla in rovina, e
marcisce, in un lampo. A questo solo prezzo, s’inco¬
mincia a capire l’armonia immutabile dell’universo.
Per intendere l’amore angelico, bellezza fissa, verità
continua, specchio stellare, Dante non sa fare altro se
non ricorrere a un’illusione, alla velocità, ad una re¬
lazione fra spazio e tempo, cioè fra i limiti mortali del¬
l’essere. A rendere visibile l’angelo, verrà in aiuto del
poeta lo stato più effimero della materia, e la nebbia
avrà per attributo, l’evanescenza stessa, un colore, un
rosseggiare. Disincarnata, la vita parrà, a lui compatto
e opaco mortale, meno della nuvoletta che produce il
suo respiro. Più volte di seguito il poeta ha abbraccia¬
to if vuoto credendo di stringersi in petto un immor¬
tale anelito, finché ancora la morte, il ricordo d’un
amico morto da poco, l’intervento musicale della me¬
moria non venga a dare, con il canto di Casella, realtà
umana al divino. Così va il mondo, e Dante ne era
persuaso sino da quando aveva avuto certezza passan¬
dosi la mano sul pensoso viso, che di tutto non s’ac-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 419

quista, non rimane, non esiste per un uomo se non la


traccia labile che modifica la sua pasta mortale.
Non abbiamo in Dante che da seguire il valore let¬
terale delle parole per essere portati a attraversare
musicalmente i più diversi campi, senza parlare della
facoltà musicale che ha ciascuna parola dantesca, di
variare di contenuto in mille modi, libera com’è di
spaziare nel suo continuo volgersi di senso, nei tre or¬
dini sconfinati delle conoscenze umane.
La poesia si manifesta nel Leopardi, giova ripeterlo,
nell’illusione d’infinito, in quella parabola musicale che
è racchiusa nel Canto A Silvia, nelle due apparizioni
degli occhi, e va dall’universo tutto nuovo quale appa¬
re ai bimbi e, sebbene una sorpresa non duri nemme¬
no a quell’età più d’un momento, la novità è tanta che
gli occhi non possono posare dall’essere lustri di gioia
nelLinfinita rinascita radiosa; e termina in quello
sguardo della giovinetta che si ritrae in un tremore de¬
sioso per fissarsi e celarsi nell’oggetto amato.
In Dante, la vanità musicale delle cose mortali reca¬
va certezza all’eterno. In Leopardi, il declinare e spe¬
gnersi musicale delle cose, facendoci partecipi d’un’il-
lusione d’infinito, ci suggerisce la vanità di tutto. Nel
Petrarca la parola s’impregnerà di musica per la forza
di resurrezione del reale che le attribuirà il poeta, ora
specialmente ch’è morta Laura e che l’infinito della
memoria risolto nella perfezione d’un’ideale forma
avrà, anche come poetica assolutezza, da misurarsi e
vincere in un contrasto sempre più drammatico col¬
l’irrimediabile decomporsi del proprio corpo.
È morta, Laura; in un lampo, abbiamo la pura mi¬
sura del tempo. Nel Canzoniere, non vediamo ancora
se non paesaggi e una persona idealizzata che li anima;
ma in ogni paesaggio ora accanto a Laura s’affaccia la
materiale debolezza d’un uomo.
A poco a poco, via via nei lunghi anni diverso d’età
e d’umore, s’è distrutto, e tutta la storia del suo ani-
420 Giuseppe Ungaretti

mo,- e tutte le illusioni, e il rimpianto della grande


Roma, tutto, il suo invecchiare, il suo gingillarsi, i
paesaggi, le ore dei paesaggi, tutto è passato in lei, è
diventato lei, ricordo:

Tennemi Amor anni vent’uno ardendo,


lieto nel foco, e nel duol pien di speme;
poi che Madonna e ’l mio cor seco inseme
salirò al del, dieci altri anni piangendo.

Laura, vano patire, amore senza rimedio, una donna


non dico indifferente, ma come divengono gli oggetti
involati dal passato, oggetti della mente, immateriali,
in via di liberarsi perfino da ogni dimensione, vaghi
riflessi. È morta, e la sua immortalità di ricordo ora
perfetta, sveglia l’egoismo carnale del superstite. Si
sente invecchiato, ha paura di morire. Un dramma s’è
aperto, il senso nel petto del rodimento dei minuti,
baratro aperto.
È un rammarico che non ardisce ancora essere più
che rassegnato.

Tutta la mia fiorita e verde etade


passava; e ’ntepidir sentia già ’l foco
ch’arse il mio core; et era giunto al loco
ove scende la vita, ch’ai fin cade.

Ormai i ricordi, filtrati dagli anni, avrebbero dovuto


togliere ogni ostacolo ad un amore diretto:

Presso era ’l tempo dove Amor si scontra


con castitade, e agli amanti è dato
sedersi inseme, e dir che lor incontra.

È passata la Morte! non ci sono più ostacoli:

Morte ebbe invidia al mio felice stato,


Saggi e Scritti vari 1943-1970 421

anzi a la speme, e feglisi a l’incontra


a mezza via, come nemico armato.

Certo che il modo col quale è qui evocata la morte,


guerriera spietata, facendone appena il nome agghiac¬
ciante, è d’una malinconia che non sorprende il cuore
umano.
Una creatura vivente è, per la sua stessa condizione
di creatura, in balìa della sua miseria, e non c’è da
stupirsi che fosse fatto per provarne disgusto e terro¬
re, uno che amava la lingua universale e la città peren¬
ne, e il corpo immortale. Ma, in un poeta come il
Petrarca, l’idea di morte non potrà se non diventare
una fissazione come l’altra dell’amore, aggiungendo, ac¬
compagnata all’amore d’ora in poi, segretezza al pu¬
dore dei paesaggi. La morte è un ghiaccio al quale ar¬
riviamo bruciando, un immortale ricordo che ci con¬
suma più che il fisico tarlo:

D’un bel chiaro, polito e vivo ghiaccio


move la fiamma che m’incende e strugge,
e sì le vene e ’l cor m’asciuga e sugge
che ’nvisibilmente i’ mi disfaccio.
Morte...

E conoscendo ormai il suo modo di poetare, non ci


parrà strano che il ricordo sollevi Laura morta in un
aspetto di sovrana felicità:

Quasi un dolce dormir ne’ suoi begli òcchi


essendo ’l spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi.

E, o ritornando alle metafore del ghiaccio e della


neve, che sono poi quelle della solitudine di montagna
e di collina che amava, come sono « fuoco » e « gelo »,
le grandi parole allegoriche del Medioevo:
422 Giuseppe Ungaretti

« ...il duro e grave


terreno incarco come fresca neve
iva struggendo...; •

oppure cogli urli sordi, non riuscendo più a celare la


cecità che lo invadeva davanti alla spietata, crescente
decadenza del proprio corpo:

Io mi rivolgo in dietro a ciascun passo


col corpo stanco ch’a gran pena porto;

a poco a poco, la visione dei paesaggi resa sempre più


drammatica da un ricordo sempre più sovrumano, lo
porta finalmente a placarsi, a ricercare l’immortalità
dove veramente risiede, dove avrà ritrovato Laura, do¬
ve ritroveremo i nostri cari morti:

Sforzati al cielo, mio stanco coraggio!


PETRARCA MONUMENTALE
[1950]

Si sente spesso dire, e da gente che non ha poco da


fare, che più facilmente trovi il tempo d’arrivare a
tutto chi più possa sembrare schiacciato dalle troppe
occupazioni. Non so come, ad essi fortunati, succeda;
ma per portare anche un nonnulla a termine bene, il
sottoscritto avrebbe invece bisogno di molto ozio.
L’altra mattina, lunedì, tre giorni fa, venne a cer¬
carmi a casa Tallone, e veniva a regalarmi a nome suo
e di Contini, la loro stupenda stampa del Petrarca; ed
ecco, ora io devo ringraziare Contini e Tallone, e sarà
cosa da nulla; ma in tre giorni come trovare da oziare
quanto occorrerebbe per comporre a modo anche solo
una frase di poco conto, ma non interamente indegna
a commendare un pregevolissimo lavoro.
Il caro Tallone, è la seconda volta che mi mette di
faccia a un miracolo. L’altra volta era L’Ange di Va¬
léry. L’Ange è una prosa, tre pagine postume. Tutti i
tentativi compiuti per definire finalmente la sua favo¬
la del Narcisse, tutti quei frammenti luminosi, tutte
quelle perfette rime sparse sulle quali era tornato e
ritornato tante volte, avevano scoperto il loro ordine
finalmente, e unità, in una prosa suprema. Un dram¬
ma voleva narrare il Narcisse che è nell’uomo tra l’in¬
telletto ed il sentimento inconciliabilmente divisi en¬
tro un vicendevole riflettersi, tendente la prima atti¬
vità a immutabile trasparenza nel suo continuo flusso
e l’altra, malinconica del rincorrersi mortale delle sta¬
gioni, avvinghiata a cercarsi invece cieca sempre più
disperatamente nelle sue carni. Sul suo libro curato da
Tallone, avrebbe posto le sue mani esperte, il vecchio
424 Giuseppe Ungaretti

maestro, e colmo di gioia per l’ineguagliabile veste of¬


ferta a un’ineguagliabile poesia, più che mai gli sareb¬
bero parse vere le parole da lui'dettate.
« Un livre est matériellement parfait quand il est
doux à lire, délicieux à considérer; quand enfin le pas-
sage de la lecture à la contemplation, et le passage ré-
ciproque de la contemplation à la lecture sont très
aisés et correspondent à des changements insensibles
de l’accomodation visuelle. Alors les noirs et les blancs
sont des repos l’un de l’autre, l'ceil circule sans effort
dans son domaine bien disposò, en apprécie l’ensemble
et les détails et se sent dans les conditions idéales de
son fonctionnement. »
Secondo tali norme, nella stampa del Canzoniere del
Petrarca, vigilata da un critico dell’acuità d’un Conti¬
ni, Tallone ha superato se stesso.
Una bella mattina, sono quasi vent’anni, vidi arri¬
varmi da Domodossola, la « Rivista Rosminiana ».
Non usavo riceverla, e vi lessi sorpreso su Sentimento
del Tempo, raccolto in volume da Vallecchi in quei
giorni, uno dei rari saggi dedicati alla mia poesia con
qualche intendimento di poesia. Era d’un ignoto allo¬
ra, certo Gianfranco Contini e lo stesso anno, a Tori¬
no, al termine d’un mio discorso sul Petrarca, mi vedo
un volto aquilino protendersi verso il mio sguardo, e
odo: « Sono Gianfranco Contini », e, laureando, egli
si spassava in quei mesi, seppi, chiosando nientemeno
che Bonvesin da Riva.
I secoli e gli spazi sono dunque nulla per chi inve¬
stighi nel segreto della poesia, che è spirito che può
muoversi nei più vari e diversi linguaggi; e, dunque,
fermarsi sopra un linguaggio per decifrarlo, vuole sem¬
plicemente significare scoperta della poesia che vi si è
articolata; e l’amore dunque per la poesia contempo¬
ranea, e la conoscenza intima delle sue difficoltà di
linguaggio-non può se non ottimamente addestrare uno
a inoltrarsi con sicurezza nei labirinti della poesia,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 425

qualunque ne sia il linguaggio, senza avere minima¬


mente da preoccuparsi di limiti di luogo o di tempo.
Contini può dunque studiare con uguali risultati
mirabili, le Origini e il Novecento, il Trecento e l’Ot¬
tocento, le varianti di Proust, o ciò che vorrà, nel do¬
minio della poesia; può studiare le varianti del Leo¬
pardi, e accorgersi che, specie dalYA Silvia in poi, il
valore fonico assume nell’opera del sommo Italiano,
anche in contrasto all’assuefazione del proprio orec¬
chio, valore tonale. Era, da parte del Leopardi, già un
proporsi di riportare il ritmo al suo valore originario,
come avrebbero fatto più tardi i Simbolisti. Era, da
parte di Contini, un indicare, anche in tale ricerca, un
anticipatore nel Leopardi.
Il medesimo critico, il medesimo Gianfranco Conti¬
ni, con la medesima perfetta finezza d’udito, con la
medesima dimestichezza con il linguaggio e con la poe¬
sia, non ci stupisce, anzi ci pare naturale abbia saputo
rendersi conto della verità di lettura - di scansione,
di precisione qualitativa della sillaba - che sarebbe ve¬
nuta al testo petrarchesco, rispettando il più possibile
l’ortografia del manoscritto principe, del Vaticano
3195.
Non ho potuto ancora godere dell’ozio indispensa¬
bile per rilevare le innumerevoli accortezze che Conti¬
ni riesce a provocare in un esame di testo non facile,
come questo del Petrarca; ma per avviarci a tesserne
l’elogio basterebbe un’indicazione. Il 3195 è, come si
sa, di mano del Petrarca o di mano d’altri sorvegliata
dal Petrarca, e sarebbe presuntuoso non attenersi alle
sue lezioni. Ora in LUI 97, è stata accolta la lezione:

Dir: Gli altri l’ditàr giovene et forte;

« ma a controvoglia » osserva Contini « perché essa im¬


pone in aitar una dieresi assolutamente eccezionale;
avremmo congetturato aiutar ove una forma simile fos-
426 Giuseppe Ungaretti

se mai usata dal poeta; ma la soluzione più probabile


rimane Dire-,
9

Dire: Gli altri l’aitar giovene et forte. »

Certo, con ogni probabilità è quest’ultima la buona


lettura, anche se il codice, chissà in seguito a quale in¬
conveniente, ha Dir. Ecco la finezza d’udito: l’orecchio
da poeta che motiva l’intervento del filologo.
Ho provato a rileggere nella bella edizione il CLXIV
che quel giorno del primo incontro con Contini avevo
commentato a Torino. E siccome io credo nel Petrar¬
chismo, e siccome mi sembra che in qualche modo
nell 'Ange valeriano risuoni il canto di quel Sonetto,
mi si permetta, a legare le improvvisate frasi del mio
discorso, che ora torni a presentare quel Sonetto e
quel commento.1
Vi è detto:

Or che ’l del et la terra e ’l vento tace


Et le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
Et nel suo letto il mar senz’onda giace,

Vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface


Sempre m’è manzi per mia dolce pena:
Guerra è ’l mio stato, d’ira et di duol piena,
Et sol di lei pensando ò qualche pace.

Così sol d’una chiara fonte viva


Move ’l dolce et l’amaro ond’io mi pasco;
Dna man sola mi risana et punge;

E perché il mio martir non giunga a riva,


Mille volte il dì moro et mille nasco,
Tanto da la salute mia son lunge.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 427

L’ampia calma evocata iniziando il canto, invade per


chi non stia molto attento, anche gli altri versi, e ci
potremmo lasciar indurre nell’errore che la prima
quartina:

Or che ’l del et la terra e ’l vento tace


Et le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
Et nel suo letto il mar senz’onda giace,

si contrapponga alla seconda senz’altro. Rileggendola


osserviamo, per il giuoco delle congiunzioni, che le sue
quattro frasi la dividono in due parti uguali, e subito
il cielo stellato sopra lo specchio del mare immobile,
dilatando all’eccesso in noi il senso di calma, quasi lo
abolisce sostituendovi solitudine. Torniamo a rileggere
insoddisfatti, perché il nostro orecchio ha ritenuto in¬
volontariamente le rime, e sapendo che il Petrarca si
compiace di concentrare nella parola di chiusura il va¬
lore di tutto il verso o un valore di contrasto, d’ana¬
logia o di richiamo rispetto a un altro verso, siamo
spinti d’improvviso a domandarci la ragione del terzo
verso dopo il secondo, d’un verso che ora si svela tut¬
to movimento, narrando della notte che « mena in gi¬
ro » « il carro stellato » mentre il sonno sta affrenando
gli augelli e le fiere, e, poiché è detto nel primo verso
che insieme alla terra e al vento, anche il « cielo ta¬
ce », dobbiamo concludere che la notte e il carro stel¬
lato non sono il cielo e che, rispetto a tutti gli altri
elementi, in pace come il cielo, rappresentino un ele¬
mento drammatico. Staccata la notte di stelle dal cielo
e, dall’alta calma chinandola e internandola nella gia¬
cente solitudine, il poeta l’ha resa visibile legandola
allo spettacolo del mare, volendo chiaramente se ne
concepisse il movimento solo come musica di riflessi.
Il verso finale del Sonetto
428 Giuseppe Ungaretti

'Tanto da la salute mia son lunge

potrà più tardi suggerirci la qurfsi impercettibilità del


moto stellare, per la sua altezza infinita, e restituire
silenzio all’intera prima quartina e all’intero Sonetto,
e sarà quando, rialzati gli occhi, il poeta vedrà stupito
che, fra le stelle e il loro riflesso, fra Laura e la realtà
immersa nel passato, è una distanza di misura irridu¬
cibile. Infinita lontananza, e basterà un attimo di pas¬
sato a farla infinita, a fare infinitesima la poca realtà
che al ricordo sarà dato di riflettere.
Nella seconda quartina, in primo luogo, di contro
alla calma universale, impercettibilmente turbata solo
dal moto armonioso e splendido dell’oggetto caro pre¬
sente alla memoria, il poeta suscita la propria estrema
agitazione:

Vegghio, penso, ardo, piango;

poi paragona Laura alla notte riflessa dalla solitudine,


sconfinata come un mare, del suo essere:

...et chi mi sface


Sempre m’è inanzi per mia dolce pena.

Come i riflessi sembrano fissarsi a tormentare, a


dissolvere infinitamente lo specchio dell’acqua, quasi
un silenzio per la monotonia senza fine, il ricordo con¬
sumando senza fine l’essere, gli dà dolce pace: « mi
sface ». A questo punto, il tema poetico principale del
Petrarca si è delineato, ed è che, dell’universo, il cen¬
tro è la memoria umana: che l’universo si tormenta
solo nell’uomo, nella notte dell’essere umano resa bel¬
la da alcune luci della memoria:

Guerra è ’l mio stato, d’ira et di duol piena,


Et sol di lei pensando ò qualche pace.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 429

Le parole hanno due sole vie per toccarci l’anima,


si colmano dei nostri ricordi, e ci avvolge la loro infi¬
nita malinconia, o ci svelano, fatte subitamente nuove,
la meraviglia celeste delle cose.
Sono le vie della perfezione cui mira la vera parola.
Ringrazio ancora Contini e Tallone d’avere voluto, e
con un lavoro di perfezione, allearsi a quanti nei secoli
salutano su tali vie, sulle vie della poesia, maestro dei
maestri il Petrarca.

20 aprile 1950
IMMAGINI DEL LEOPARDI E NOSTRE
[1943] »

Non so se mai ci fu un altro uomo che vedesse il rap¬


porto tra forma e ispirazione con l’umana ampiezza e
acutezza di un Giacomo Leopardi. È opportuno, a giu¬
stificazione del culto che gli dedico, ch’io accenni ai
tragici motivi che l’hanno abilitato a tanta chiaroveg¬
genza.
Giorni fa, consultando i miei appunti, ho ritrovato
vecchie cartelle che riassumono una mia conversazione
con scrittori sud-americani, e recano la data del mio
primo contatto con terre d’oltreoceano, sul finire del
1936. In quelle cartelle si legge: « I secoli da noi sono
presenti, sono care fisionomie, ricche dei nostri affetti:
per voi, non essendo essi i limiti cordiali dello spazio
nel quale circolate, sono appena un sogno doloroso, o
un’evocazione strana della memoria. Vivono certo in
voi; ma, oggettivamente, non hanno più alcuna fer¬
mezza di realtà. Sono appena cose che hanno subito
uno sconvolgimento, cose d’una profondità apparte¬
nente a chissà quale lontano punto, dal quale furono
malamente tagliate. Il vostro essere separato dalle sue
antiche radici e ancora sanguinante per la mutilazione,
deve manifestarsi in contrasto con una natura quasi
interamente vergine e che, nel suo stato naturale, non
saprebbe ancora avventurarsi a riflettere se non un’uma¬
nità selvaggia. E non parlo di quella pertinacia delle
abitudini per cui anche dopo generazioni, la vostra
mente avrebbe non so quale ritegno a ammettere che
il pampero sia, se non per effetto miracoloso, un vento
algido che soffi dal sud, che da voi faccia notte sotto
altre stelle; che abbiate di Natale 40 gradi di caldo.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 431

Come si fa che la stessa natura si sia impegnata a con¬


fondere l’ordine delle stagioni consacrato dalle Scrittu¬
re ritenute più veritiere? Rivedrò sempre quel capita¬
no da Ragusa che, se gli era capitato di fare per quel¬
la festività scalo a Santos, s’imbacuccava come per an¬
dare a caccia d’orsi bianchi, e adunava gli amici a ce¬
na dentro la ghiacciaia. E che dire dei nomi della geo¬
grafia e della fauna e delle piante che sono di favelle
e di genti primitive quasi totalmente estinte? Vi cir¬
conda una natura che nemmeno nei nomi è vostra,
oscura anche in quel poco d’umano che conserva. Par¬
late il Portoghese, uno Pseudo-portoghese. È sopravis¬
suta la lingua del popolo arrivato qui per volontà di
potenza. Gl’Italiani che in questi paesi costituiscono
colle loro discendenze più della metà degli abitanti di
razza bianca, sono sbarcati fra voi nei tempi umilianti
dell’emigrazione per sostituire i negri scappati che giu¬
stamente, non appena abolita la schiavitù, avevano
creduto prudente di disertare il lavoro; e la cara lin¬
gua italiana, una delle più gloriose lingue letterarie
d’Europa, e i suoi coloriti dialetti fra i più plastici
delle parlate umane, sono periti adattandosi a malin¬
coniche alterazioni del vostro neo-idioma.
« Lo sviluppo autonomo della vostra lingua e della
vostra letteratura, a quanto ho potuto capire in una
rapida fermata, si produce dunque in modo snaturato.
La vostra espressione soffre in sé di squilibri atroci co¬
me quando, ad attecchire in mezzo a succhi e ad aria
non suoi, pena il grano, o la vite, o l’ulivo. Spesso
l’albero cresce sterile, o non ha vigore la pasta, o l’uva
pigiata non s’infuoca di spirito e non si converte se
non in melma e lezzo. Né si può fare il paragone con
la nascita delle letterature romanze. Prima di tutto
le nostre lingue europee che hanno figliato, ma così
indirettamente, la vostra, sono ancora parlate e la vo¬
stra letteratura non è sorta perché le nostre fossero
giunte al termine della loro vitalità. Eppoi, nessuno
432 Giuseppe Ungaretti

avrà dimenticato con quanta spontaneità interviene la


cultura antica in Dante. Ci potrà essere a volte nel¬
l’uso dei vocaboli una cruda potenza medioevale co¬
me, a proposito di Marsia punito, la figura che evoca
la vagina di colpo svuotata:

Sì, come quando Marsia traesti


Della vagina delle membra sue...

« L’inferno bruscamente potrà insediarsi perfino sul¬


la soglia del paradiso, assumere quella forma d’altez¬
za orrendamente paradisiaca per le cui scale verranno,
dal settecentesco romanzo nero alla poesia maledetta,
cercate evasioni blasfeme quando ogni altra eredità
cristiana parrà dilapidata; ma la cultura antica non ne
rimarrà né offesa né rescissa.
« Non era la cultura antica del Poliziano; ma la fi¬
gura di Virgilio quale l’evoca Dante non dissomigliava
troppo da quella effigiata fra Melpomene e Clio dal
mosaicista adumetino nel ritratto molto fedele che for¬
se si conserverà tuttora nelle raccolte tunisine del Bar¬
do. Tra il mondo antico e quello cristiano non ci sono
mai state da noi interruzioni né di spazio né tempora¬
li, ma solo eclissi nella memoria. »
Qui finisce il discorso delle vecchie cartelle. Queste
osservazioni frettolose, ma non prive, credo, di qual¬
che verità, su lingue sradicate dal corso della loro per
altra e nuova storia, m’avviano a fissare il significato
che assumeva per complesse situazioni di carattere
psicologico, di carattere politico e di carattere teorico,
il sentimento di durata nel vocabolario romantico.
Avrei detto il sentimento di continuità, se non avessi
avuto paura che si potesse pensare a un concetto ma¬
tematico.

Il Leopardi, nel Discorso storico d’un Italiano in¬


torno alla poesia romantica, composto nel 1818 che è
Saggi e Scritti vari 1943-1970 433

l’anno della canzone All’Italia, volendosi rappresentare


il corso storico d’una civiltà al lume d’una tradizione
letteraria, lo concepisce sottoposto, per potersi mani¬
festare, al commercio coi sensi, come un qualsiasi ente
fisico. Era come un volerne provare al tatto le degra¬
dazioni inerenti agli anni. E, poiché si prefigge di giun¬
gere a un uso personalissimo della propria lingua, il
tormentato poeta invita se stesso a immedesimarsi nel
corpo vetusto, a riviverne a una a una le epoche sino
a incontrarne la fanciullezza, non per diminuirgli l’età,
il che sarebbe mostruoso, anzi per averne l’intera esi¬
stenza presente e riscattarne, colla memoria della natu¬
ralezza dei pensieri e delle immaginazioni del primo
tempo, il peso degli anni sempre più grave nel progres¬
so dei secoli. Al medesimo modo, nell’esperienza stret¬
tamente personale di ciascuno di noi, i nostri atti in¬
fantili ci tracciano nel ricordo come la linea più since¬
ra e felice del nostro operare. Il Leopardi non era di¬
verso dagli altri Romantici, e sentiva bene che in
Europa era scoppiata una lunga calamità, e che le
forme in rivolgimenti tremendi si sarebbero rinnovate
o sarebbero andate distrutte; ma non poteva consenti¬
re all’idea che raccogliendo le più ridicole e supersti¬
ziose opinioni e novelle solo perché popolari o facen¬
do incetta di fole forestiere perché tali, la poesia ita¬
liana avrebbe ammassato il cibo miracoloso buono a
ridonarle il colorito della gioventù, a farle ritrovare
naturalezza e magari anche innocenza. Nessuno sapreb¬
be poi dire perché sarebbero veri e meglio antichi tali
frutti d’una fantasia popolare o altrui e falsi quelli
maturatisi sull’antica nostra tradizione letteraria, pre¬
senti e operanti ancora nell’esperienza più lucida delle
parole nostre, e delle pietre nostre e della nostra car¬
ne; o perché avremmo dovuto fermarci al Medioevo
quando siamo nati tanto prima. Una cosa dell’arte ci
persuade perché, colma dei nostri ricordi, muove la
nostra fantasia fino a farci ritrovare occhi innocenti.
434 Giuseppe Ungaretti

Memoria e innocenza sono gl’inscindibili termini della


poetica del Leopardi. La bellezza d’un cielo, duna fo¬
glia, duna fonte ci colpiscono 'perché una verità mil¬
lenaria, in cui crediamo, ci sorge dal cuore nell’inat¬
tesa parola che la canta. Giove e Venere e Marte sono
divinità perite, chi lo contesta? Chi parla e che im¬
porta di nomi momentanei? Non si tratta più d’un sa¬
pere, o d’un rito, ma del moto originario del nostro
sentimento e della nostra fantasia da riscoprire nei
tempi che furono quelli della loro grazia. Con quale
libertà, così iniziato, poteva avvicinare gli oggetti e
udire le parole che li evocavano: oggetti e parole tor¬
nati familiari, pieni d’allusioni e confidenze, ora che
poteva, risalendo la sicura strada non più smarrita, di¬
stinguere dalle adulterazioni l’impeto che li aveva via
via ravvivati e arricchiti.
Per il Leopardi" ci sono due correnti del conoscere
umano, e non è una novità distinguerle se non per
quell’accento decisivo a cui ricorre nel parlarne: un ac¬
cento col quale prestabilisce senza volere le funzioni
del Romanticismo appena nascente, quali andranno
sviluppandosi attraverso infinite alterazioni, in più
d’un secolo e tutt’ora, raggiungendo, nei punti culmi¬
nanti e perfetti, la forma e il valore attribuiti da lui
alla poesia. C’è chi s’ingegna a conoscere per sapere e
capire, per misurare e giudicare, ed è il conoscere del¬
la filosofia e della scienza; ma forse anche la filosofia
è poesia; e c’è chi ha l’ambizione di conoscere per cre¬
dere, e dai suoi amori e dai suoi odi, dai suoi rimorsi,
dai suoi entusiasmi e dalle sue perplessità e dalle sue
depressioni, dal dolore gli verranno le figure nelle qua¬
li crederà, dietro alle quali si getterà perdutamente
perché gli verranno dal fondo della sua natura, e quin¬
di non potranno non essere veritiere e sacre. Da una
parte l’uomo sapiente, dall’altra l’uomo religioso qua¬
le al Leopardi pareva di vedere negli inizi eroici della
Saggi e Scritti vari 1943-1970 435

società antica. Chiedeva all’Antico non modelli di sa¬


pere come il Petrarca, ma esempi di vita.
Ora è difatti vero che il sapientissimo uomo ch’era
il Leopardi non riusciva a fare poesia se il sapere non
gli s’era prima convertito in esperienza del sentimen¬
to, seme e fecondità della fantasia. Quando ci siamo
assuefatti a un soggetto, dimentichiamo il sapere che
ce lo ha fatto conoscere sino nel suo segreto, ed è a
questo punto del nostro oblio ch’esso si rigenera per
noi e si fa ingenuo e poetico.
Entro i termini di assuefazione e di primitivo slan¬
cio è condotta la sua voluminosa polemica, e possiamo
asserire che non è condotta se non per assicurare basi
autentiche alla sua poesia: è insomma un’arte poetica,
un manifesto e un messaggio, da poeta a poeti.
Per mania di contrasto, interroghiamo in argomen¬
to il Manzoni. Dai documenti quest’uomo nervoso ci
appare insofferente di maschere. Arriverà a credere che
il semplice fatto di travestirsi da Arlecchino, Brighel¬
la, o Pantalone faccia perdere a un personaggio la sua
personale sostanza umana, arriverà a lamentarsi come
d’un errore inespiabile d’essersi lasciato cogliere a
mettere in costume del Seicento i personaggi dei Pro¬
messi Sposi arrivando a considerare quasi carnevalesco
il romanzo storico. Il suo giudizio sulla mitologia sem¬
brerebbe replica indispettita a quella lettera mandata
dal Petrarca a suo fratello Certosino per esprimergli
garbato stupore che si trovi buona la carne servita su
un piatto di terracotta, per terracotta volendosi inten¬
dere la comune lingua, e pessima la medesima carne
contenuta in un piatto d’oro, e il piatto d’oro sarebbe
la rettorica antica. Anche se le religioni che le sugge¬
rivano, esclama il Manzoni, sono spente, non è spento
l’effetto diabolico di quelle evocazioni: sono figure di
tentazione, sensuali figure, e ci riportano a idolatrare
il mondo. Useremo la carità al Manzoni di non dimo¬
strare che quando è poeta, e grande poeta, sono sen-
436 Giuseppe Ungaretti

suaHssime figure quelle che anima. Ecco il punto fon¬


damentale dove teoricamente diverge dal Leopardi: il
fatale commercio della realtà cfei sensi in ogni mani¬
festazione che abbia un qualche effetto di mistero su
di noi e un qualche significato poetico.
Dati i termini delle sue convinzioni, quando ammet¬
terà l’origine sacra della parola, il Manzoni, non potrà
esimersi dall’aggiungere che la parola è, sì, preveduta
dall’eterno dalla divina mente, ma in quel preciso va¬
lore che la nostra coscienza le dà nel momento stesso
in cui ce ne serviamo. Quindi la parola, valida solo
nel rigore della sua attualità, storicamente è concepi¬
ta in una mobilità infinita di valori morali. Quanto al
guazzabuglio di spettri e streghe, gli era disgustoso
quanto al Leopardi.
In ogni caso dal Leopardi e dal Manzoni la parola
è considerata nella sua mobilità: nella sua costante di¬
versità critica dal Manzoni e di qui le verranno gli ef¬
fetti d’alto umorismo; dal Leopardi, nella sua conti¬
nuità materiale, nel suo corpo che ogni giorno invec¬
chiando di più, senza tregua la diversifica, e la colma
d’oblio e d’illusioni nuove se è giorno che passa un
lampo in cielo.

Caro Leopardi nostro, ha ventun’anni appena, usci¬


to è appena di adolescenza, ma già nella sua testa chi¬
na combattono millenni d’idee, già tutti i peccati del
mondo pesano nel suo cuore: può concludere che se¬
condo la natura Alessandro è grande, secondo la ragio¬
ne, pazzo; e mettersi tranquillamente dalla parte della
pazzia e della grandezza.
Colle dita scarne si premeva le tempia infossate, una
sera, e udiva il rumore del mare che di giù saliva come
da un cuore d’abisso, e gli sembrava lo stridore d’un
fuoco, del maggiore, del più bello, del più distante da
noi, del fuoco stellare che un’acqua estrema spegnesse:
Saggi e Scritti vari 1943-1970 437

Prima divelte, in mar precipitando,


Spente nell’imo strideran le stelle
Che la memoria...

Un altro poeta, una notte, s’era sognato di stelle,


ma solo riflesse, anche se inquietamente, dal mare:

Or che ’l cielo e la terra e ’l vento tace


E le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
E nel suo letto il mar senz’onde giace...

...e chi mi sface


Sempre m’è innanzi per mia dolce pena.1

Laura, l’antico e la sua arte inarrivabile, passato, lu¬


ci che nella mente durano senza fine come ravvivate
dall’infinito disfacimento del nostro essere. Tutto s’è
fatto umano, continua consunzione, e s’è internato e
s’è rinchiuso nella mente umana erettasi, per il deside¬
rio cocente d’immortalare il moto d’un dolce sguardo,
a centro dell’universo. Anche l’oblio è memoria, memo¬
ria oscurata che per virtù implacabile dell’ispirazione
si snebbierà e, se più al poeta non è concessa se non
la spettrale amabilità dei ricordi, il mare della mente
rifletta almeno in pieno splendore il cielo stellato:

E m’è rimasa nel pensier la luce...

Con il subitaneo materializzarsi del fantasma di Ca¬


sella, Dante ricorreva all’intervento musicale della me¬
moria per aprire le dighe al fluire della libera moralità
nella coscienza:

Ed io: Se nuova legge non ti toglie


Memoria o uso all’amoroso canto
Che mi solea quetar tutte mie voglie...
438 Giuseppe Ungaretti

E come perspicuo il Cavalcanti che, traendo ispira¬


zione da un’esperienza più recente di quella dantesca,
nonostante le date, è l’immediato precursore del Pe¬
trarca:

In quella parte dove sta memora


Prende suo stato, sì formato, come
Diafan da lome...

La memoria per il Leopardi non è più tanto intellet¬


tiva funzione, mera attività in sede mentale, quanto
sofferenza del corpo, sensibile presenza così nella sto¬
ria dei singoli come in quella delle civiltà e financo
in quella dell’universo; e oggi stesso non s’è mancato
di farvi cenno a proposito dei punti dai quali partiva
nei ragionamenti sulla poesia, quando ho tentato di
definire, dietro le sue proprie parole, i termini di slan¬
cio primitivo e di assuefazione.
L’antica voce s’è riaccesa nella sua, il suo corpo mi¬
serabile di contro al fato avverso che. gli offriva ironi¬
co asilo nei campi grandiosi del nulla, si trasfigura e
splende in atletica giovinezza:

...io solo
Combatterò...

So che qualcuno ha fatto la smorfia perché l’arte


quella volta era ancora d’un romanticismo teatrale,
scomposta, tutta scoperta nel gesticolare e so che il
Leopardi più suadente, non il supremo, sarà quello
non meno energico, ma d’un’espressione più contenuta,
più pudica, più familiare e che avrà avuto a modello
severo il Petrarca più patetico, ma più segreto; e tut¬
tavia lasciatemi proclamare che un paesaggio apocalit¬
tico come quello delle stelle che precipitano in mare
e una descrizione tumultuosa come quella della scon¬
fitta dei Persi, sono quadri ai quali solo la potenza del
Saggi e Scritti vari 1943-1970 439

pennello d un Géricault avrebbe potuto approssimarsi.


Di solito chi parla del pessimismo leopardiano, del
suo sentimento cosmico dell’invecchiamento e del pe¬
rire, chiama in causa il nome solenne del Cristianesi¬
mo. Altri, e un maestro della critica come il Vossler,
propone invece come fondamentale motivo lirico,
un’angosciosa ribellione anticristiana. Dopo tutto, an¬
che il luciferismo è una forma di Cristianesimo ma da
dannati, come il sadismo dei poeti maledetti. Che tre
anatemi colpiscano dalle origini dei tempi il mondo,
che per sua disgraziata natura l’uomo sia concupiscen¬
te e prepotente e avaro, è problema che teneva avvinto
anche il pensiero di Dante. E se col Cristianesimo s’è
incominciato a sentire con chiarezza, per la progredita
sensibilità, il valore negativo di tanto male, il Leopar¬
di non di meno riteneva che, rinnovando gli spiriti del
mondo imbarbarito da eccessiva civiltà, al Cristianesi¬
mo originario, promotore di coraggio immenso, di ap¬
passionata prontezza a terribili sacrifizi in testimonian¬
za di fede, non facesse difetto l’energia che loda e in¬
voca. Altra è la sorgente del canto leopardiano: il di¬
sperarsi per l’ignoranza inviolabile della colpa che noi
e l’universo espiamo; il sentirsi chiamato a soffrire, e
come per un effetto biologico elementare e personale
di cui s’ignori la causa, il perenne cosmico progredire
dell’espiazione, della morte.
La canzone Ad Angelo Mai può considerarsi come
la più perfetta poesia didascalica del Leopardi. Com¬
posta come una sinfonia, con quel tema dominante del¬
la morte, supplica che per vergogna almeno, gli Ita¬
liani suoi contemporanei ritrovassero un pochino di
senso'di dignità e qualche scintilla d’eroismo:

...A noi le fasce


Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
440 Giuseppe Ungaretti

$ono, per bellezza d’espressione, i suoi momenti su¬


premi davanti ai quali pietà e inorridimento s’ugua¬
gliano: visioni di deserto asspluto, natura cui ogni
incanto fu tolto, dolore incenerito, l’ignuda natura.
La natura è grande e ci rende grandi purché fra
essa e noi non si frapponga l’incivilimento con sofi¬
stiche analisi e la nostra ignavia non l’abbassi a non
possedere più agli occhi nostri altro mistero fuorché
della sua condizione mortale, spenta in noi ogni illu¬
sione. Erano analoghe riflessioni che convincevano il
Leopardi a proporsi d’imitare non l’arte, ma la natu¬
ra, le cose della natura essendo forme e bellezze fisse
e immortali e quelle dell’incivilimento transitorie e
mutabili, essendo opere di Dio le prime, e le altre,
degli uomini; erano simili convincimenti che lo de¬
cidevano a sostenere doversi alla rarità dell’imitazione
e alla familiarità degli oggetti, l’efficacia della poesia.
Come diventerà intima la parola esperta del poeta
quando si sarà resa ricca di tanto candore. La dottri¬
na sembra esemplificata dall 'Infinito: l’oggetto dell’i¬
spirazione era legato alla vita del poeta per consue¬
tudine quasi immemorabile e tale poteva persuadere
a evocazioni nel tono più semplice e commovente:

Sempre caro mi fu...

e distaccarsi da ogni altra immagine, isolarsi, assoluto


nella visione:

...quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

e, per quella parte esclusa dell’orizzonte, poteva, toc¬


cato dal mistero, occupare immensamente l’animo ra¬
pito:
Saggi' e Scritti vari 1943-1970 441

...sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo...

« Mi fingo »: è bastata una parola, una parola oscil¬


lante tra il significato corrente di mentire e l’antico
di plasmare, e il mistero della poesia cade in sospetto
di non essere se non illusione, il tono confidenziale
si mescola coll’ironia; ma non è ancora sarcasmo.
Un fatto da nulla:

...E come il vento


Odo stormir tra queste piante...

che ridesta il poeta portandolo ad accorgersi dell’in-


fima piccolezza temporale d’un singolo paragonata al
passato infinito e all’eterno e con l’ancora timida iro¬
nia a rivelare la presuntuosa debolezza della sua voce
che li vuole esprimere, lo riconduce, come il brusio
delle foglie che s’allontana, si diffonde e s’immedesi¬
ma svanendo in sovrumani silenzi, dal dramma ad una
rinascita dell’illusione anche se non vela che morte,
che l’infinito d’infinità di morti, anche se non è che
un naufragare nell’immensità d’un mare di morte, di
assenza:

...Così tra questa


Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Tre momenti: un’adesione spaziale, involontaria,


frutto d’assuefazione; una ripresa temporale, cioè un
insorgere dell’io con i suoi propri sospiri; una fusio¬
ne di spazio e di tempo in un fremito musicale che
risveglia le cose e con esse si annulla, si assenta in
una dolcezza senza termini. Da notare il valore pura¬
mente accidentale dato ai fatti che muovono a poesia:
442 Giuseppe Ungaretti

gli,occhi che per caso si fermano su un oggetto con¬


sueto, lo stormire per caso del vento tra le piante,
eccetera. ,
Il poeta romantico si considerava tale per prede¬
stinazione, ed anche questo concorreva al formarsi
della sua idea di durata, ed anche il Leopardi non
disdegnerà di esprimersi in accenti vaticinanti. Sono
ancora interventi impacciati, faticosi e inverosimili nel¬
la canzone Ad Angelo Mai-, ma quando il tono confi¬
denziale, del Petrarca, somma aspirazione del Leopar¬
di artista, sarà diventato tono anche ironico, quale
torturato animo paleseranno, in una sussurrata, scru¬
polosa, straziante confessione. Devo però tornare a os¬
servare, a scanso di errori sul mio commento, òhe i
momenti di tensione suprema e di altissimo tono non
vanno cercati nella poesia leopardiana di tono fami¬
liare e quando vi si trovano, il tono familiare è stato
superato dal poeta, di mille cubiti, in un tono alluci¬
nato.
La sera del dì di festa dove il tema virgiliano della
solitudine di Didone trova forse il ricorso più commo¬
vente, ci descrive, diffusa per tutto il paese, fino dove
può arrivare lo sguardo, una dolce immobilità delle
cose tale che la chiarezza lunare rivelandola sembra
farsi di essa letto, con essa saldarsi e confondersi
tanto era lunare l’apparizione delle cose; la luna dor¬
me, incantevole corpo:

Posa la luna...

La stessa bella indifferenza va incontro al poeta


mentre dai sentieri taciti, pei balconi dove

Rara traluce la notturna lampa,

egli va seguendo le corse della fantasia spiando sin


Saggi e Scritti vari 1943-1970 443

dentro le chete stanze dove, sognante, dorme la gio¬


vane che lo ispira:

Tu dormi...

Farnetica e, a poco a poco, tornato alla finestra, ri¬


mira la notturna pace; no, non è un dramma perso¬
nale, quello del poeta; e solitario il canto d’un arti¬
giano
...che rie de a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello

spegnendosi induce

A pensar come tutto al mondo passa


E quasi orma non lascia...

Il poeta è predestinato, e simile canto l’ha udito,


sino dalla sua prima età, ferire il silenzio e passare,
è il suo proprio canto, è la voce cosmica del dolore
per chi s’accorga della fatalità di morte ch’è in tutto.
Beato dunque chi ignora e può dormire accarezzando
sogni, conclude il profeta mosso a pietà.
Ma l’arte e la meditazione del Leopardi toccheran¬
no l’apice della pietà nel ridare corpo alle ombre di
persone morte che per qualche circostanza gli resta¬
rono impresse da vive.
Come proseguendo una conversazione ininterrotta,
come per farci sentire l’intimità tremenda del tono di
confidenza usato, il Leopardi apre il suo canto a Sil¬
via con il verso:

Silvia, rimembri ancora...

Memoria: e Silvia nella memoria discorre, presente


per sempre, corpo presente. La felicità è forma bre¬
vissima:
444 Giuseppe Ungaretti

, Quando beltà splendea


Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi;

dal suono della voce di lei pareva fosse sparsa sere¬


nità celeste:

Le vie dorate e gli orti,


E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Con una rapidità impercepita, tanto presto si con¬


sumò la felicità, il ricordo di Silvia nella memoria pia¬
no è passato ad essere un’adolescente morta, rimasta
per sempre sul limitare di gioventù.
Per l’indeterminatezza dell’imperfetto, tempo usato
con accorgimento di tante risuonanze dal Leopardi,
Silvia, distesa per sempre come nel giorno della sua
morte nell’infinito della memoria, possono circondare,
ora giunti di già, gli anni che avrebbero dovuto es¬
sere i suoi fiorenti e durante i quali non le sarà dato
di udire le lodi che le avrebbero intenerito il cuore,
mentre al lampeggiare fanciullesco degli occhi ridenti
e fuggitivi si sarebbe sostituito l’ardore

...degli sguardi innamorati e schivi...

In una celere parabola, nel breve tratto fra le due


apparizioni degli occhi, è forse racchiusa la musica¬
lità più pura d’una poesia: va dall’universo tutto nuo¬
vo quale appare ai bimbi e, sebbene una sorpresa non
duri nemmeno a quell’età più d’un momento, è tanta
la novità che gli occhi non possono trovare posa dal¬
l’essere lustri di gioia nell’infinita rinascita radiosa; e
termina in quello sguardo della giovinetta che si ritrae
in un tremore desioso per fissarsi e celarsi nell’ogget¬
to amato.
Leopardi nostro, forse solo un Blaise Pascal, ebbe
un uguale cuore. Non seppe se non amare: un amore
Saggi e Scritti vari 1943-1970 445

sen2a limiti per la sua Patria e una pietà senza limiti,


per sé, e i suoi fratelli, uomini. Ha accordi infiniti;
alla minima sillaba sa infondere immediatezza evoca¬
tiva, con tocco lievissimo; nel diramarsi atroce della
sua vasta dialettica ottiene foga, unità di misura per
accenti d’indicibile tenerezza. Può ammettere il ricet¬
tario poetico più vieto e più trito della tradizione
letteraria: logore e ormai frasi quasi comiche, dette
da lui, con la modulazione unica della sua voce, rin¬
novano il mondo, non è più letteratura, è primaverile,
casta poesia per sempre. Come l’incanto del farsi sera
e come - lo udiva per eco dalla stanzetta del palazzo
di Recanati - l’accavallarsi dell’uragano, non è ogget¬
to di mano d’uomo tale poesia, tanto ne appare vero
il mistero. Soffriva per tutti, ed era quindi in grado
di parlare per tutti, di farsi la voce rivelatrice del se¬
greto delle cose. Ma accanto alla morte, o risorta dal¬
la stessa morte per disperato desiderio, la speranza
d’un’età felice non gli sarà mai negata.
Ed anche nel Tramonto della luna, la sua ultima ele¬
gia, ritoccata ancora poco prima di spirare, la speran¬
za non cede: la luna scomparsa, per un attimo rima¬
sta la terra come fulminata dalla cecità:

...vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba}

Il guastarsi d’un principio d’autorità e lo sforzo


per istituirne uno diverso, non sono fatti apparsi in
Europa col Romanticismo, e il Leopardi stesso ne ha
ricercato le origini.
Nessuno rimbrotterà, credo, se, per attenermi me¬
glio alla verità storica, uso dare a Romanticismo una
accezione più lata di quella riferita dalle cronache.
In pieno Rinascimento, l’arte degli Antichi non ha
più nulla da insegnare a Michelangelo e, se essa gli
serve per quello che ha da dire, essa gli lega anche
446 Giuseppe Ungaretti

duramente le mani. Avverte già che quell’esprimersi


non suo, lo allontana da se stesso, dalla natura. Ep¬
pure fu, tornando ad essere scrutata, la natura a ri¬
porre in circolazione quell’arte. Non chiede più essa
abilità per essere avvicinata ed espressa? Chiede uno
scatto irragionevole dell’essere? Aveva ragione il Sa¬
vonarola oppure il Ficino? Chiede essa anima e non
arte? Era entrato un gran dramma nella vita: il mon¬
do s’era accorto di non sapere più che cosa fosse: se
Cristiano, se Antico, se campato nel mestiere, se ab¬
bandonato da Dio...
Nelle Pietà della vecchiaia ogni quadro è finalmen¬
te spezzato: non esiste più né scultura, né pittura,
né architettura, né poesia secondo i canoni propri a
ciascuna di queste arti; ma esiste la necessità d’espri¬
mersi, e null’altro. Si ricordi, per esempio, in quel
braccio pesantissimo del Cristo morto, nella loro po¬
tenza smisurata l’inerzia, l’invalidità, la caduta. Quale
partito nel carnefice di San Matteo ha tratto un Ca¬
ravaggio da un’analoga deformazione. E [nella Pietà
ultima] le parti lasciate grezze, e le parti portate a
finimento: le gambe che cedono, vane, infelicissime,
come per ricordarci che il vero atto vivo è quello del
camminare. E la mano della Madre che per sostene¬
re il Figlio fa tutt’uno col suo petto, conservando au¬
tonomia violentissima solo per un eccedere di amoro¬
sa trepidazione: tutta l’umana volontà, e la disperazio¬
ne dinnanzi all’inutilità di tanta impresa è in quel-
l’immensa mano di madre. Michelangelo sapeva che
cosa voglia dire soffrire.3
I Romantici si sono accaniti a fare il processo al
Seicento e, per chi parli delle cose non da orecchian¬
te, era difatti un processo che muovevano a se stessi:
gli errori, errori di enfasi, erano gli stessi loro errori;
le soluzioni che proponevano erano le medesime che
il Seicento aveva trovato nello svolgimento della sua
polemica.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 447

Il mito di Adone propagato dal Marino in tutta


Europa e che, sorto da uno dei tanti suggerimenti tec¬
nici offerti dal Petrarca, dalle preziosità del madri¬
gale, recava a insegna un emistichio del Maestro:

...tremar di meraviglia,

quale disagio non sottointende? In una scuola dello


stupore senza tregua, quale prestigio potevano anco¬
ra avere gli archetipi? E se è vero che per il Marino
10 stupore dovrà derivare dall’arte e non dalla natura
come per i Romantici, quell’arte che, probabilmente
perché la natura non sapeva più rimanervi compressa,
squassato e spezzato il proprio modello s’ingegnerà a
ricomporlo tale che sorprenda, perché non arrivava a
fine d’opera se non a dare a malapena un certo risalto
d’eleganza alle farragini d’uno svolgimento proverbia¬
leggiante?
Il rimedio lo trova lo stesso Seicento. E sarebbe
proficuo mettersi a verificare come il La Fontaine sot¬
to la ferula del Marino, e non lo dico perché ha
scritto un Adonis, si facesse la mano alla scrittura di
maggiore giovialità che si conosca. E non meno curio¬
so sarebbe indagare come l’Adone abbia condotto 1 ar¬
te francese a Racine, a quella gelosa purezza tutta
presa nel foggiarsi canali capillari e che è veramente
diventata classica se per classico dobbiamo intendere
11 raggiungimento della libertà espressiva per la preci¬
sione di regole e la loro esatta osservanza. Sarebbe av¬
vincente scoprire come, in cosi arcilogica circonvolu¬
zione di vene, il Racine sia arrivato a incanalare un
sangue forse scarso, ma voraginoso; ma sarebbe edi¬
ficante osservare come non appena, in mezzo a tanta
geometria e a tanta finezza intervenga Pascal, ogni
ornamento e ogni divertimento vadano in fumo, per
la verità davvero rivelata d’una poesia che metteva
semplicemente a contatto intelletto e cuore.
448 Giuseppe Ungaretti

Indegna il Leopardi che una grande scoperta nell’or¬


dine fisico giunge sempre in un momento di maturità
dello spirito umano e eh'essa di conseguenza porta
naturalmente uno spostamento in ogni ordine di rap¬
porti. Il giorno che Galileo scopre la legge d’inerzia
e ne intravvede la formulazione, quel giorno crolla la
fisica di Aristotele, e in quel giorno in molte cose po¬
tevamo incominciare a considerarci maestri rispetto al¬
l’Antico, e poteva benissimo incominciare a conside¬
rarsi compromesso anche un antico modo d’intendere
la rettorica e poteva la medesima rettorica prestarsi
per sopravvivere a meccanizzazioni fanatiche o ad al¬
tre demenze, e poteva giungere opportuna, contro tan¬
to scervellarsi razionale, la parola mitica del Vico.
Ci sarebbe un ultimo punto da toccare e dimostra
quanta natura erompesse nelle forme del Seicento:
l’America scoperta, con le strane conchiglie che aveva¬
no ispirato sviluppi strabilianti all’architettura baroc¬
ca, quelle conchiglie medesime che suggerivano il car¬
nicino vitreo agli Impressionisti e a Mallarmé il più
bel sonetto della sua prima maniera; - l’America, con
la pittura di marine, le navi vere reduci da terre in¬
ventate, la solitudine bieca e la clausura inviolabile
delle foreste, gli autodafé, le spiagge da camminarci
tutta la vita senza arrivarne a capo, abbandonati tra
gli insetti. Non so se sia stato Las Casas o se sia vero
come alcuni asseriscono, che siano state le riflessioni
di Montaigne sui Tupinambu incontrati a Roano, a
mettere in circolazione l’immagine romantica del buon
selvaggio; o sarà stato forse il Muratori con quell’opu¬
scolo che fece tanto chiasso ai suoi tempi e che ancora
i Sansimoniani citavano e perfino Bouvard e Pécuchet
andavano a consultare intitolato, se non erro, II Cri¬
stianesimo felice nelle missioni dei P.P. della C.d.G.
nel Paraguay,4 L’esperimento consisteva in una repub¬
blica ierocratica basata economicamente sulla comu¬
nanza dei beni, e l’opuscolo recava prove, ritenute ir-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 449

refutabili, della bontà dell’uomo allo stato naturale e


dei danni deH’incivilimento, per lo meno dell’incivi-
limento nelle condizioni innaturali dell’organizzazione
sociale d’allora. Il buon Muratori sarebbe cascato dal¬
le nuvole se avesse saputo e se quanto si narra è vero,
che l’Eldorado sarebbe stato mandato in rovina dagli
stessi Comuneros i quali, venuta presto a mancare la
soggezione verso i P.P., erano entrati tutti in un gran
parapiglia non avendo più ciascuno che la mira d’ar¬
rivare primo a portarsi via il tesoro collettivo. Indiret¬
tamente, attraverso Rousseau ed altri, per arrivare a
lui, Leopardi, per sua stessa indicazione in tante sue
osservazioni sugli autoctoni americani, forse tale è l’iti¬
nerario percorso dall’idea della virtù primitiva. Ma il
Leopardi intendeva parlare d’uno stato d’animo, di
generosità epica, di fierezza più che d’uno stato so¬
ciale. E mirava a una lingua e a un vivere sociale,
senza rinuncia alla loro storia, rigenerati. È poi vero
che tutto è legato. Se fissava gli occhi su una società,
s’accorgeva che l’uomo è fatto di timori e di speranze,
che anche un agnellino un pochino di cattiveria ce l’ha
in seguito a quel male che ha colpito dalle origini tut¬
ta la natura; s’accorgeva che un freno all’egoismo l’uo¬
mo che abbia ancora qualche rispetto di sé, può solo
trovarlo nei richiami patrii.5
Quanto il Seicento potesse evocare quel periodo
della prima generazione romantica che va dagli ultimi
lustri del Settecento al 1850, l’ho imparato bene una
volta che ebbi occasione di vedere in una stessa gior¬
nata tutte le opere del Caravaggio conservate a Roma:
braccia tese nello spavento, dita aperte della mano,
bocca aperta in un grido strozzato, interno, aspirato.
La morte, nel David con la testa di Golia è veramente
la rappresentazione non, come al solito, d’un modello
finto morto, e finto dormente, ma d’una testa di vero
cadavere. Da notare come braccia e piedi - lo spaven¬
tato poggiato sulle braccia nel Martirio di San Matteo
450 Giuseppe Ungaretti

- fprmino l’architettura, o meglio le colonne che reg¬


gono il quadro. Si veda come nella Vocazione dì San
Matteo, le figure balzino come, una materia incendia¬
ria dalla notte. Nel San Girolamo della Galleria Bor¬
ghese si veda come il vecchio diventi un’astrazione,
pura pittura, e sia trattato in questo senso rispetto al¬
le nature morte del quadro, alle quali s’adegua come
semplice oggetto. Si veda l’infanzia, nel San Matteo,
data con gran dolcezza, rappresentata in atto delicato
di stupore e di malinconia ridente. Ma nei giovani è
un equilibrio forsennato: passione dominata, passione
scatenata.6
Il Seicento è anche vicino a noi.
Mallarmé, quando con gli epitafi superava il mito
di Narciso dei Simbolisti, la ripresa romantica cioè del
marinismo giansenista di Racine, e s’avviava verso il
metafisico scombussolamento del Coup de dés, aveva
avuto sentore di Góngora? Góngora, sollecitando la
propria memoria a emanciparsi da monumenti e da
mummie, fattole attraversare l’inferno per darle tem¬
pera, la invitava a trascendersi in una durata che po¬
tesse salvarla meglio dei poveri espedienti dell’arte.
Più segreto e più nostro mi è apparso, in quel mo¬
mento della mia esperienza di poeta, Giacomo Leo¬
pardi.
Ed ora so come coglieva la parola in istato di crisi
e la faceva con sé soffrire, e ne provava la tensione, e
l’alzava come una ferita di luce nel buio; ora so per¬
ché dovesse muoversi una parola dalla necessità di re¬
stituire alla natura la maestà tragica.
SECONDO DISCORSO SU LEOPARDI
[1950]

S’io ricorro a un Sonetto del Petrarca, per esempio a


quello che s’inizia col verso:

Or che T del et la terra e ’l vento tace,

m’accorgo, ed ebbi in altra occasione1 modo di di¬


lungarmi in proposito, che, per il valore delle parole
e l’intreccio delle immagini e la malinconia del tono,
il sentimento dell’infinito è in esso scoperto per moto
e insieme immobilità di riflessi che permangono intatti
sebbene in continuo disfacimento.
Sofferti e incantevoli riflessi; e il significato che mi
pareva da essi rivelato, mi veniva ad essere subito
reso preciso da quell’altro Sonetto che al primo ver¬
so suona:

Quand’io son tutto volto in quella parte...

È Sonetto che racchiude un verso lapidario, il verso


che sembra riassumere tutto il Petrarca:

Et m’è rimasa nel pensier la luce.

L’infinito era dunque per il Petrarca nel pensiero -


un pensiero fatto di passato, di memoria; un pensie¬
ro tormentato a farsi sempre più luminoso, a diradare
tenebre sempre più dalla memoria: un pensiero che
quantunque fosse luce, non poteva essere se non ri¬
flesso di luce.
Per il Petrarca il linguaggio non ha ancora quelle
452 Giuseppe Ungaretti

difficoltà sostanziali contro le quali i poeti di qualche


secolo dopo dovranno rompersi il capo; è linguaggio
poetico per naturalezza se ancora reca in sé la convin¬
zione di chi l’usa, ch’esso sia, nonostante la rivoluzio¬
ne che ormai promuove, ancora d’origine sacra, anco¬
ra chiamato a manifestare il mistero dell’uomo. Il Pe¬
trarca non dubitava dell’infinito anche se per.via di
lui l’infinito doveva diventare la profondità umana,
l’infinito della mente; anche se per via di lui tale infi¬
nito non poteva se non ridursi ad essere fantasma
d’infinito: non essere se non l’infinito inseguito per
tormento di ricordo, l’infinito solo atto a espandersi
da un più o meno vago, da un più o meno intenso
ricordo.
I problemi di linguaggio si limitavano in tali con¬
dizioni, a riesumazioni: riesumare una lingua. E, se
il Petrarca dava sopratutto importanza ai suoi versi
latini, e il suo sogno era di addestrarsi a non scompa¬
rire ai propri occhi come poeta latino davanti a poeti
latini dei secoli aurei — era perché considerava i suoi
tempi rimbarbariti, e che avessero perduto memoria
d’un sapere. Noi sappiamo come, per merito del Pe¬
trarca, i volgari d’Europa s’arricchirono di colpo, di
tale sapere. Una lingua riesumata: ecco il miracolo
del Canzoniere. Una lingua riesumata nelle pulsazio¬
ni ingenue d’una lingua nuova, una lingua nuova nel¬
la quale l’infinito si rifletteva al pensiero accrescendo¬
si di colpo d’una luce di migliaia d’anni umani d’e¬
sperienza; d’una luce antica. L’italiano di colpo di¬
ventava per merito del Petrarca una lingua antica, uno
scaltrito eloquio e tale da servire di modello alle lin¬
gue dell’adolescente Europa.
Ciò che poi successe fino all’Arcadia, si sa. Con
l’Arcadia incomincia a insidiare, quasi non più occul¬
tamente, la forma, il sentimento della decadenza. Sor¬
ge il dubbio se la regola sia fatto personale o legge
mutabile di manuali; e sorge il presentimento che tut-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 453

to sia da ricominciare. Si dirà: e il Barocco? Certo


il Barocco non è ancora manifesta decadenza. I mae¬
stri contavano ancora, le regole contavano ancora; esi¬
steva ancora un’autorità di regole prestabilite, un pre¬
stigio di archetipi; non si diffidava ancora di modelli,
di maestri e di regole. Anzi i Barocchi sono gli atleti
della regola ricevuta, gli allenati invasati che fanno
alle forze, i titani della regola: una regola spinta al
limite, una regola portata bruscamente a spezzarsi in
quanto aveva di più saldo, nella sua verità che così
poteva diventare un puro calcolo, poiché si riedifica¬
va ipso facto, vertiginosamente, con elasticità somma;
una regola ormai unicamente fatta per meravigliare
gli amanti di destrezze da pesi massimi. C’è sempre
da essere allarmati quando in arte, e in qualsiasi atti¬
vità della vita, compaiono gli atleti: segno che un
cambiamento radicale sta per avvenire, o una tappa
di tale cambiamento sta per compiersi; e sono sempre
cose tragiche.
Con l’Arcadia non si sa più bene da che cosa possa
provvenire il sentimento dell’infinito, senza il quale
non può aversi poesia.
Provverrà dall’essere fisico, dal mistero della na¬
tura come lo sentivano prima del Petrarca, quando
l’oxfordismo francescano s’era messo a fruttificare tan¬
to bene? O ancora dal mistero per cui s’affannava il
Petrarca; dal mistero dell’intelletto umano? Osservan¬
do la poesia dell’Arcadia, è facile vedere come le for¬
me popolari in essa si accordino con quelle dotte; e
come avvenga ciò più per fatto d’inquietudine che di
raffinatezza. E non si obbietti che sia, quel popolo
allora osservato, un popolo non mai esistito, un po¬
polo destituito e camuffato in frivolità fragili; che sia
più un popolo, difatti, da fatui giardini, che un vero
popolo, sorpreso nella sua miseria, e nella sua auten¬
tica grandezza, che è quella di serbare in sé, per ogni
epoca nuova della storia, intatta una forza dinamica:
454 Giuseppe Ungaretti

basterebbe leggere meglio certe cose dell’epoca, per


vedere che sotto i fronzoli si nasconde la partecipa¬
zione a una minaccia fremente. ,
I tentativi - tentativi che sempre indicano uno sta¬
to di crisi della parola o esitazione, nei casi più feli¬
ci, dell’ispirazione - i tentativi di fondere le due ten¬
denze dell’espressione poetica, la naturalistica e la me¬
tafisica, avevano avuto molti precedenti nelle lettera¬
ture; e anche alcuni in quella, italiana, e basterebbe
pensare al Poliziano e al Sannazzaro; ma fu, coll’A-
minta, il Tasso, il vero primo Arcade; un Arcade che
pure rimaneva un Barocco, e forse già era un Roman¬
tico.
Forse dunque, per la diatriba contro il suo secolo,
nella quale ragione e natura sono appunto i termini
dialettici - al Leopardi aveva funto da sprone il Tas¬
so? Quel Tasso invocato ne\Y Angelo Mai:

'Torna torna fra noi,.

Se d’angoscia sei vago, .

.follia.

O saranno stati i Neoclassici? Ma, come essi la con¬


cepivano, era per lui sciocca dissennatezza la ragio¬
ne, sebbene, specie negli ultimi anni, si sforzasse di
respingere sottò una maschera di stoicità volterriana,
il sentimento del sacro, che pure lo lacerava, e anda¬
va strappandogli quei gridi di compassione da chiun¬
que udibili, aperti i Canti.
Ma come nacque e che cosa fu in realtà il Neoclas¬
sicismo?
Il Neoclassicismo ha, è bene non scordarselo, le
sue origini in Francia, e precisamente nel Seicento
francese. Ha la sua origine - e non insegno nulla che
Saggi e Scritti vari 1943-1970 455

non sappiano tutti — in quello sforzo di mettere al


pulito la parlata, di portare la lingua ad una politez¬
za e a una logica assurde. Tali vagheggiate rigidità e
sterilità, o cartesianesimi, o congegni puntuali da buon
orologio, erano state però subito corrette e rese vive
dai mistici di Port-Royal che non per nulla erano pro¬
vetti grecisti, e da Pascal che lo spirito d’un’astratta
scienza delle misure aveva convertito in penetrante
vista nel segreto del patire umano, essendogli avve¬
nuto di fermarsi proprio su quella dimensione, la du¬
rata, che togliendo ogni fissità e ogni certezza alle mi¬
sure, restituisce loro precarietà e le riporta alla loro
vera funzione, a non valere cioè se non in quanto
motrici d’illusione dipendente dallo spavento della bel¬
lezza, dallo spavento che sempre sarà incusso all’uo¬
mo dal sentimento dell’infinito. Racine trovò qui lo
splendore della sua arte.
Ecco Pascal, e avendo noi qui preso a oggetto di
studio il Leopardi, tutti avranno agevolmente capito
che tale Pascal, presuntuosamente chiamato in ballo
con noi, è l’arrivato già alla pura altezza, il quale
considera la società frutto dell’immaginazione, ossia
nulla.
Ma, andando di questo passo, che cosa mai direm¬
mo noi quando, fattasi la civiltà ancora più decrepi¬
ta, il Leopardi considererà il tutto, nulla?
Per ora, ritorniamocene al Neoclassicismo, scuola a
cavallo tra la seconda metà del Settecento e la prima
dell’Ottocento, dove Voltaire incarnava lo spirito di
ragione.
Per Voltaire - limitandoci all’arte dello scrivere -
una scrittura doveva essere tale da non patire alcuna
probabilità di confusione - « chiara e distinta », come
insegnava quell’altro. Replicava il portavoce dello spi¬
rito di natura, il tristo Rousseau, che, quando non ab¬
bia qualche oscurità, una scrittura è letta distratta-
mente; e solo quando abbia passi difficili, che obbli-
456 Giuseppe Ungaretti

ghino a riflessione, essa può cedere al lettore l’umano


significato che racchiude. Ciò che per l’Arcadia era
una perplessità, era così divenuto motivo di polemi¬
ca: « L’infinito » uno diceva « è nel corpo, nella mac¬
china segreta ch’è in ogni corpo; è nel segreto carna¬
le ». « Nossignore, » diceva l’altro « l’infinito è nel
possedere lumi nel cervello e un metodo che portino
a non credere che due e due fanno cinque. » Un me¬
todo; e l’universalità (I) da ricercarsi in canoni che
non ammettano più dubbi sul due e due fanno quat¬
tro. In realtà la poesia del Neoclassicismo è una poe¬
sia che incomincia a lamentarsi della perdita della ma¬
gia: le parole non hanno più magia, l’uomo non pos¬
siede più per esprimersi alcuna forza magica: ha l’uni¬
versalità del due e due fanno quattro. Sono molte di¬
fatti le poesie di quel periodo che hanno per tema
le favole antiche. Mi basterà citarvi un brano dei Trois
règnes dell’Abate Delille:

Ils sont passés ces temps des rèves poétiques,


Où l’homme interrogeait des forèts prophétiques;
Où la fable, créant des faits prodigieux
Peuplait d’étres vivants des bois religieux.
Dodone inconsultée a perdu ses oracles;
Nos vergers sont sans Dieux, nos forèts sans miracles;
Au sang du beau chasseur adoré de Cypris,
La rose ne doit plus son brillant coloris;
L’eau ne ripète plus le beau front de Narcisse,
Ce long Cyprès n’est plus la jeune Cyparisse,
Ces pàles peupliers les soeurs de Phaéton,
Ce vieux tilleul Bocis, ce chine Philémon:
Tout est désenchanté...

Allo stesso tema ricorreranno Hòlderlin e Schiller,


e Shelley e Keats, e Wordsworth, e il Monti, e tanti
altri; e qualche volta, come per Gli Dei della Grecia,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 457

si tratterà di poesie posteriori alla Primavera del Leo¬


pardi, e, nel caso, converrebbe trattarne più tardi.
L’infinito per i Neoclassici è nei sepolcri, e non
alludo solo al Foscolo: è nei sepolcri delle grazie. Non
dimentichiamo che quest’arte nacque quando si dis¬
seppelliva Ercolano. È un’arte che ha bruciato in sé
tutte le ombre; è imbiancata, come lo sono per anto¬
nomasia i sepolcri; l’ombra delle ombre le resta appe¬
na, rifugiata nel garbo alle cadenze del ritmo, o nel
filo marginale che sfuma serrando l’opera.
Abbiamo così nei Neoclassici un atteggiamento del
sentimento che Rousseau non avrebbe disapprovato;
e una forma che dava ragione a Voltaire: in Delille,
completamente; nel Foscolo, nel grado che la sua foco-
sità e la sua inventività potevano tollerare.
Abbiamo nei Neoclassici tipo Delille, tra forma e
sentimento un dissidio: una forma troppo fredda,
troppo arida per contenere una passione che è già in
istato disperato; una forma che resta troppo spesso
vuota, riuscendole estraneo, remoto, ciò che avrebbe
dovuto contenere ed esprimere. Nei poeti di genio co¬
me il Foscolo, la fusione è raggiunta per delicatezza
di malinconia, e per colpi d’ala, per voli ispirati, già
per quella qualità cui aspireranno i Romantici.
Cui già aspiravano i Romantici, quando il Leopar¬
di appare per risolvere i problemi che poi, durante
più d’un secolo, la poesia europea e noi stessi ci pro¬
porremo, non arrivando più in là delle proposte avan¬
zate dai Canti.

È il Leopardi un Romantico, od è un Classico?


Oziosa domanda, il Leopardi essendo di quei poeti che
non tollerano etichette e che a rimpicciolirli in eti¬
chette solo darebbe prova della propria piccolezza, chi
lo facesse. Ciò che so è che i Neoclassici e gli Arcadi,
poiché poeti decadenti, sono necessariamente poeti ro¬
mantici anch’essi. Il sentimento della decadenza implica
458 Giuseppe Ungaretti

necessariamente, poiché è un sentimento drammatico,


l’aspirazione ad uno stato opposto. Non abbiamo os¬
servato senza mirare a un fine, che l’Arcadia era in¬
contro di poesia dotta e di poesia popolare, che il
Neoclassicismo si dibatteva a spiegarsi perché mai re¬
gole razionali e potenza degli istinti non potessero
prevalere le une sull’altra se non a scapito reciproco,
per reciprocamente elidersi.
L’importanza che ha avuto sulla formazione del Leo¬
pardi il Breme è stata da tutti trascurata. Ma fu da
quell’incontro che il Leopardi ebbe chiaramente rive¬
lata la missione ch’era chiamato a compiere nella sto¬
ria della poesia. Si è molto studiato ed è stato ogget¬
to di molte discussioni il Discorso d’un Italiano in¬
torno alla poesia romantica; ma non sono stati presi
in esame i due articoli del Breme, apparsi sullo « Spet¬
tatore italiano » nel principio del 1818, articoli che
avevano ispirato il discorso leopardiano. Peggio, non
si sono esaminati i fatti: le opere del Leopardi suc¬
cessive al 1818 e le annotazioni dello Zibaldone. Al¬
trimenti si sarebbe visto che il Discorso ha per il Leo¬
pardi un valore di esercitazione accademica, mentre
lo Zibaldone e le opere prendono le mosse proprio
da idee e da suggerimenti degli articoli del Breme
che il Leopardi si precipita ad applicare. Possiamo fa¬
re per gli articoli del Breme come aveva fatto il Man¬
zoni nella sua Lettera sul Romanticismo, e dividerne
i punti rispetto al Leopardi, in negativi e positivi.
Quelli negativi il Leopardi li accetta esplicitamente;
e difatti, per l’imitazione, basterebbero i suoi giudizi
sul Monti; ma ecco una sua dichiarazione esplicita:
« In materia di letteratura e di arti basta accorgersi
dell’imitazione per mettere quell’opera infinitamente
al disotto del modello »; per l’uso della mitologia, è
suo parere « che la poesia ha bisogno d’un falso che
pur possa persuadere non solo secondo le regole ordi¬
narie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un
Saggi e Scritti vari 1943-1970 459

certo tal quale convincimento che la cosa stia o pos¬


sa stare effettivamente così. Perciò l’antica mitologia
ha tutto il necessario dalla parte delle illusioni o pas¬
sione, ma mancando affatto della parte della persua¬
sione, non può più produrre gli effetti duna volta, e
massime negli argomenti moderni perché ingenerereb¬
be un non so che di arido e di falso ». Contro l’uso
delle regole, diventa addirittura laconico: « Le rego¬
le nascono quando manca chi pensi »?
Ma il Leopardi accetta anche quasi tutti i punti po¬
sitivi degli articoli, e innanzi tutto, quasi negli stessi
termini fìssati dal Breme, il patetico. Se non è uni¬
versale il gusto, e il bello non può avere gli schemi
e le idealità fisse che sognavano i Neoclassici, il gu¬
sto mutando secondo i tempi, i luoghi e gli indivi¬
dui - il dolore era certamente universale. Era, la sua,
del resto, convinzione che avrebbe in ogni caso re¬
clamato l’immensa disponibilità dei suoi affetti, ma¬
turati in un’etica e in una psicologia strettamente
cristiane, in un pessimismo cristiano - un estremo
pessimismo se la condizione tragica del creato era sen¬
za causa né fine, era senza colpa né redenzione. La
sua sensibilità cristiana sarà tale che andrà a cercare,
anche in questo avviato dal Breme, i punti di Omero
o di Virgilio nei quali un’analoga psicologia ed etica
già s’erano manifestate.
Ma procediamo ordinatamente.
Dice il Breme: « Si ricordasse perciò l’uomo ch’io
invoco, i primi poeti del mondo essere stati le più
generose anime, Gente divina, Figli del Cielo, Spi¬
riti fatidici, Veggenti, Vati; i primi che ardirono far
parola all’uomo di fortezza, di gloriosa morte, di co¬
mune bene, di abnegazione della volontà, d’innalza¬
mento sopra l’istinto ». Dice lo Zibaldone nelle sue
primissime pagine: « L’eroismo e il sacrifizio di se
stesso e la gloriosa morte di cui parla il Breme, fini¬
scono colle illusioni, e non è un minchione che le vo-
460 Giuseppe Ungaretti

glia'in sé in tempi di ragione e di filosofia come son


questi, ch’essendo tali, sono anche quello ch’io dico
privi affatto di eroismo, ecc. »< Di quei mesi sono
però le Canzoni All’Italia e Sopra il monumento di
Dante.
Ora ecco una piccola scoperta. Un passo della tra¬
duzione di Pellegrino Rossi del Giaurro del Byron, ri¬
ferito dal Breme, dice:
...e non son queste
Le Termopili, di’? quest’onde azzurre
In che ti lavi tu, tu dell’uom libero
Catenato nipote - or di’, qual mare,
Quale spiaggia è cotesta? il golfo, il sasso
Di Salamina? O santi luoghi! o gesta
De’ valorosi! A te pur le dipinge
La fida istoria - Or sorgi dunque, e i tuoi
Dritti ripiglia. Ripigliate il fuoco
Onde il cener de’ padri è caldo ancora.
Su, v’infiammate; e quei ch’entro la pugna
Cadrà primiero, ai nomi lor tremendo
Un nome aggiungerà, ch’alto spavento
Sonerà pe’ tiranni...

I versi della Canzone All’Italia sono d’un’altra pa¬


sta; ma non è improbabile che la reminiscenza, for¬
se involontaria, di questo brano tradotto, non sia
stata estranea nella definizione del tema della Canzo¬
ne stessa. Comunque, il Leopardi non dimenticherà
della lezione romantica, i Vati, i Veggenti. Quanto
dovesse prefiggersi e sforzarsi d’essere « l’uomo invo¬
cato » dal Breme, ha nell’opera un’evidenza che non
richiede sottolineatura.
Altrove il Breme fa la distinzione del patetico dal
lugubre. Dice: « Il patetico è quel vago furore, in
cui fecero gli Antichi l’efficacia poetica. Il patetico ha
questo di proprio e di distintivo, che da una circo¬
stanza fisica qualunque egli prende occasione di più
Saggi e Scritti vari 1943-1970 461

e più indentrarsi in tutta la profondità morale, che


armonizza meglio coU’originaria sensazione. La cam¬
pana del luogo natio che si fa sentir da lungi, in sulla
sera al Pellegrin d’amore, appena è udita da lui, che
1 animo suo ratto s’immerge nelle più dolci remini¬
scenze, e via d’una in altra, quella sensazione non
serba già più nulla in lui di materiale. Perciò il pa¬
tetico non consiste necessariamente nel lugubre ma
sì nel profondo e nella vastità del sentimento ». La¬
sciamo andare .che il patetico del Leopardi può esse¬
re andato fino al lugubre in qualche momento di ec¬
cessiva febbre romantica, e per esempio nella Canzo¬
ne intitolata Per una donna inferma di malattia lunga
e mortale e nell’altra dal titolo Nella morte di una
donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore
per mano ed arte di un chirurgo. Fortunatamente,
Monaldo era intervenuto ad impedirne la stampa, seb¬
bene spinto da ingiustificati scrupoli. Ragioni invece
d’arte le faranno poi disapprovare per sempre a Gia¬
como e non vedranno la luce se non postume, tra i
saggi giovanili. Lasciamo andare, ma nel passo del
Breme c’è un’indicazione che avrà per il Leopardi
particolare valore: quella dell’importanza della sensa¬
zione negli effetti della poesia. Si pensi a una sensa¬
zione uditiva, allo stormire tra le piante, che suscita
tutta la realtà dell’Infinito, o a una sensazione visiva
che come negli Impressionisti, fa che - nella Sera del
dì di festa, per esempio - le cose vadano costituendo¬
si per unico intervento della luce - questa volta del¬
la luce lunare - ed esistano unicamente per via di
luce. Non è l’impressionismo di Dante - ebbi occa¬
sione di parlarne altre volte, a commento del primo
canto dell’Inferno 3 - dove le tre luci, la fisica, la mo¬
rale e l’intellettuale sono luna dell’altra alterne alle¬
gorie, e si fondono nella trinità della somma luce.
Non è nemmeno l’impressionismo del Pascoli. Ricor¬
date La morte del Papa?
462 Giuseppe Ungaretti

« Oh! nonna! il Papa » uno gridò « sta male! »


un seggiolaio che da Montebono
salta lungo Corsonna: « è sul giornale ».

Andava all’Alpe, dove più non sono


che greggi erranti, e dove non si sente,
fuor che di foglie al vento, altro frastuono;

o il solitario scroscio del torrente


dopo un’acquata, o il conversar tranquillo,
presso le bianche nuvole, di gente,

che non si vede, intorno cui lo squillo


de’ campanacci va per le pratina
odorate di menta e di serpillo.

La vecchietta filava. A lei vicina


una sua pecorella da guadagno
strappava ciuffi d’erba pannocchina.

Essa filava all’ombra d’un castagno


centenario, e parlava alla sua recchia.
Infilato nel braccio era il cavagno.

E tra ch’ell’era dura un po’ d’orecchia,


e che il cielo echeggiava di cicale,
aspre dal sole, a mezzodì, la vecchia

« Chi? » disse. « Il Papa. » « Il Papa, che? » « Sta


[male. »

È, mentre vanno mettendosi a posto simultaneamen¬


te le scene che daranno prospettiva al dipinto, l’inter¬
punzione di sensazioni uditive; e, per indicare che tut¬
to è percepito nella sua istantaneità, rumori e partitu¬
ra del paesaggio sono inquadrati neH’intervallo, di
pochi secondi, di due battute d’un dialogo colto a vo-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 463

lo. Purtroppo, il quadro è subito dopo guastato da


ragionamentini e da sentimentalismi, mentre l’Impres¬
sionismo vero e proprio li escludeva, considerando che
l’emozione autentica era contenuta nella pura sensa¬
zione, e sarebbe stato tutto il resto, aggiunta arbitra¬
ria e falsificatrice.
Peccato che il Pascoli non avesse i mezzi per esten¬
dere in altro modo la sensazione, e scamparne. Eppu¬
re il suo poemetto era partito dal concetto patetico
che i moribondi in un baleno retrocedono nella loro
memoria dai propri anni a quelli della gioventù, a
quelli dell’infanzia, sino al raggiungimento dell’istan¬
te della nascita, la morte essendo un ritorno all’infini¬
to precedente la nascita.
Dalla sensazione, il Leopardi evadeva proprio come
voleva il Breme l’« animo da essa ratto immergendosi
nelle più dolci reminiscenze; e via duna in altra,
quella sensazione non serba già più nulla di mate¬
riale ».
Dunque la sensazione si connette al patetico e gli
dà spinta e sviluppo. Per tale modo, il sentimento
della durata diviene sentimento dell’infinito.
Ma ascoltiamo in proposito, come l’aveva tanto be¬
ne ascoltato il Leopardi, un altro avvertimento del
Breme: « Ma se il patetico aspira principalmente a
questo fine di toccare il fondo dell’animo e di svi¬
scerare i più intimi sentimenti, non è meraviglia che
abbiano in ciò il vanto sulle antiche le posteriori età.
Prima che la mente dell’uomo si fosse, dirò così, ri¬
piegata sul cuore, e notato ne avesse i lamenti, e ne
avesse ascoltato la lunga storia, allora le pene morali
duravano sul generale poco più delle fisiche. Il mon¬
do nella sua giovanezza era, come i fanciulli, dissipa¬
to e facile a venir distratto ».
Di qui presumibilmente deriva quell’immedesima-
zione dell’Antico nella fanciullezza e nell’adolescenza
e nella prima maturità che porterà il Leopardi, come
464 Giuseppe Ungaretti

farà' dall’Angelo Mai in poi, a immaginare la storia


d’una civiltà, e, per analogia, la storia dell’universo e
dei singoli, biologicamente condizionata dal perire. Si
potrebbe anche fare il nome del Vico; ma non è l’an¬
tecedente diretto. Di qui, dal Breme, deriva il lungo
meditare del Leopardi sulla durata, anche e sopratut¬
to per l’elaborazione e la conquista del suo linguaggio
poetico.
Perfino nelle esemplificazioni, i rilievi del Breme
stimoleranno a conseguenze non indifferenti. Quando
segnala che solo il patetico spiega il mistero riposto
nella gioia delle lacrime, e che, se perfino esiste una
possibile voluttà della morte, solo al patetico appar¬
tiene di renderla credibile - indica il Petrarca al qua¬
le non conosce poeta che in questo genere meriti di
essere anteposto e il quale, e vi riuscì, si fece argo¬
mento d’interessare, perfino con sospiri ricavati sem¬
plicemente da una data:

Dico a la mente mia: «Tu se ’ngannata.


Sai che ’n mille trecento quarantotto,
Il dì sesto d’aprile, in l’ora prima,
Del corpo uscio quell’anima beata ».

L’esempio non è convincente che sino a un certo


punto, al punto lirico che certe date ebbero nell’evo¬
cazione, da parte del Leopardi, di persone assenti o
defunte. Si veda, per esempio, Alla luna, o II Sogno,
o più tardi A Silvia.
Ma gli altri esempi saranno, nel senso da noi de¬
dotto, sorprendenti; e, per esempio quello del mira¬
colo d’ineffabile sensibilità col quale il Trionfo pe¬
trarchesco rammenta il bel corpo di Laura cui è man¬
cata da poco la vita:

Non come ftamma che per forza è spenta,


Ma che per sé medesma si consume,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 465

Se n’andò in pace l’anima contenta,

A guisa d’un soave e chiaro lume


Cui nutrimento a poco a poco manca
Tenendo alfine il suo usato costume.

Pallida no, ma più che neve bianca


Che senza venti in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca...

Parea posar come persona stanca...

Posar...4

Accanto a questa aggiungete l’altra citazione presa


a Dante, alla quale s’è alluso soffermandoci sulla qua¬
lità lirica che può avere la sensazione:

Era già l’ora che volge il disio


Ai navicanti e ’ntenerisce il core
Lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

E che lo novo peregrin d’amore


Punge, s’e’ ode squilla di lontano
Che paia il giorno pianger che si more.A

Fondete queste citazioni insieme, e avrete La sera


del dì di festa. E in tanti altri casi esse furono opero¬
se; e direi che lo furono fondamentalmente, sempre.
Ma, subito, di quel posar miracoloso del Petrarca, il
Leopardi s’era scordato.

Parea posar come persona stanca...

Nel Canto, che è della fine del 1820, fino all’edi¬


zione Starita del 1835, s’era sempre letto che
466 Giuseppe Ungaretti

' La luna si riposa, e le montagne


Si discopron da lungi.

Il testo del 1835 dirà:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,


E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.

Il posa entrò prima nel Canto, coll’edizione fioren¬


tina del 1831; ma, come correzione dei versi 38-39,
da:

Tutto è silenzio e pace, e tutto cheto


È 7 mondo, e più di lor non si favella,

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa


Il mondo e più di lor non si favella.

La correzione del 1835 era stata avviata anche da


un secondo mutamento dell’edizione fiorentina:

E queta in mezzo agli orti e in cima ai tetti

era divenuto di fatti

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti.

Quando verrà trovato il secondo posa, nel 1835,


il poeta s’accorgerà anche che il muoversi di quel gran
corpo di luce lunare stesa, appariva, a chi avesse guar¬
dato, svolto dai tetti agli orti; e in questo senso ro-
vescerà l’ordine dei due elementi del verso, metten¬
do prima l’immagine dei tetti, e poi quella degli orti;
Saggi e Scritti vari 1943-1970 467

e sarà una non poco efficace conquista di naturalezza.


È facile rendersi conto della sorpresa tragica che
dal posa e dal ripetersi del posa è venuta a tutto il
Canto. E anche il risalto che gli è venuto così nei
mutamenti tonali. In questo Canto il Leopardi sem¬
bra scoprire il tono. Senza la reminiscenza di posa, la
seconda parte si sarebbe aperta con quell’impeto di
pietà inuguagliabile che le dà misura? 6
Un altro punto cui è curioso accennare è il seguen¬
te: il Pellico, che aveva intelligenza delle due lingue:
l’inglese e la nostra - richiesto di dare un suo giudi¬
zio sulla traduzione del Rossi, risponde, e, nella sua
risposta riportata negli articoli del Breme, dice a un
certo punto: « È vero che non bisogna essere tradut¬
tore servile, ma l’espressione del testo non va mai al¬
terata se non per surrogarla con una di egual valore.
Per esempio, quando il poeta dice allo schiavo greco:

...or di’, qual mare,


Quale spiaggia è cotesta? il golfo, il sasso
di Salamina?

« il testo prosiegue:

Queste scene, la loro non incognita storia inalzano


e attestano contro la tua.

« E il traduttore cangia sì fatto pensiero, esclaman¬


do così:

...O santi luoghi! o gesta


De’ valorosi! A te pur le dipinge
La fida istoria.

« Che difficoltà c’era di essere fedele? e non s’è


egli perduto assai non essendolo? Queste storie anti¬
che che sorgono dai sepolcri ad attestare la viltà de’
468 Giuseppe Ungaretti

nipoti degli eroi non sono un quadro da gettarsi via


senza badarvi. »
Fin qui il Pellico. *
Avete in mente l’Angelo Mai? Le storie antiche
che sorgono dai sepolcri ad attestare la viltà dei ni¬
poti degli eroi, è un quadro che il Leopardi non but¬
ta via senza badarvi; anzi: lo colse a volo, premu¬
rosamente.

Le prime raccolte in volume delle poesie di Leo¬


pardi, non tenendo conto della precedente pubblica¬
zione delle due prime Canzoni nel 1818, e dell’Ange¬
lo Mai nel 1820, sono quelle di Bologna del 1824,
e del 1826; e non è una novità per nessuno. Un in¬
discreto tuttavia potrebbe non trovare illecito d’inter¬
rogarsi sulla ragione che fece raccogliere le Canzoni
prima, e poi i Versi, cioè gli Idilli e le Elegie. Le
Canzoni sono contemporanee o posteriori ai Versi, e
vanno dal 1818 al 1823 le prime, dal 1816 al 1821 i
secondi, salvo l’epistola Al Conte Pepoli, che è del
1826, e che sarebbe più una Canzone che un Idillio
o una Elegia, e che non trovò posto nell’edizione del
1824 perché è poesia di circostanza e allora la circo¬
stanza non c’era stata ancora.
Una ragione ci doveva essere, e mi pare di non
azzardarmi troppo se credo fosse che le Canzoni era¬
no più vicine allo spirito dei tempi che non lo fosse¬
ro i Versi, a loro modo più svagati: esse erano più
conformi al credo romantico. Basterebbe leggere il
Preambolo alla ristampa delle « Annotazioni », sul
« Nuovo Ricoglitore » del settembre 1825, per rico¬
noscere che, per il Leopardi stesso - in uno scritto
da lui concepito e vergato, e scritto che è l’unico ma¬
nifesto di romanticismo genuino dettato da un poeta
italiano - le Canzoni dovevano portare una rivoluzio¬
ne negli spiriti e nelle forme.
Con le Canzoni, e con i Versi e con le Operette mo-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 469

rali, è iniziata, e proseguita, e compiuta dal Leopardi,


l’elaborazione del suo linguaggio poetico. È un’atti¬
vità che va dal settembre del 1818, data di composi¬
zione della Canzone all’Italia, al Cantico del Gallo
silvestre, composto nella seconda metà d’ottobre del
1824. Nel 1824 interrompe la poesia - l’epistola Al
Conte Pepoli, del 1826, essendo cosa di scarso rilievo
- per dedicarsi alle Operette. La vera ripresa della
poesia avviene con il Canto A Silvia che è dell’aprile
del 1828. L’interruzione di quattro anni potrebbe spie¬
gare alcune cose; ma passiamo oltre.
S’era il Leopardi antecedentemente accorto di due
cose; se ne era accorto come abbiamo tentato di di¬
mostrare, dalla lettura di due articoli del Breme. S’era
accorto dell’importanza del patetico ai suoi tempi; e
il patetico, per un uomo della sua indole, e della sua
passione, e della sua educazione, diventava il senti¬
mento della sofferenza universale. S’era accorto anche
che non poteva esserci poesia senza un sentimento del¬
l’infinito; e una sensazione che si disperda, e così si
faccia vaga, e, perché fattasi vaga, porti a vagamente
svegliare nella mente ricordanze e in qualche modo
disponga l’animo a fantasticare - tale specie di sensa¬
zioni aveva accettato di ammetterle all’origine del sen¬
timento dell’infinito. Ma, riflettendo, s’era accorto che
idea e sentimento dell’infinito non possono aversi che
da cose finite, da cose del passato, da cose morte, dal
nulla, da cose scomparse, e che l’infinito era un’illu¬
sione, originata dalla potenza evocativa, dalla potenza
incantatoria della parola. L’infinito era dunque un’il¬
lusione, e il sentimento dell’infinito, era sentimento
della morte, sentimento del nulla. Fu così che da un
rapporto del sentimento d’infinito - e cioè dell’illu¬
sione d’infinito - col sentimento dell’universale dolo¬
re, gli avvenne di risalire, non alle cause religiose of¬
ferte dalla Rivelazione, che avrebbero agevolmente ri¬
solto tutto; ma alle cause storiche, alle cause dell’e-
470 Giuseppe Ungaretti

speifienza, aiutato anche in questo dal Breme che non


aveva omesso nei suoi articoli di ragionare di arte del¬
le nazioni adolescenti e di arte di civiltà mature, se
non addirittura di arte di civiltà declinanti. Così fu
che il Leopardi ebbe la coscienza netta della decaden¬
za - il sentimento della decadenza. Dunque tutto nel¬
l’universo nasce, cresce, declina e perisce; così le na¬
zioni, così le civiltà, così anche le costellazioni. Dun¬
que l’italiano è la lingua d’una civiltà vecchia. Si
trattava, con una lingua vecchia, senza illudersi sulla
sua età, facendone anzi sentire con verità gli anni e
l’invecchiamento progressivo grado per grado; si trat¬
tava, senza rinunziare al sapere e alla memoria conte¬
nuti in una lingua, senza rinunziare alla storia che
può una lingua, più di qualsiasi altro simbolo, rappre¬
sentare in moto, nei mutevoli flussi; si trattava, con
una lingua vecchia, di arrivare ad ottenere, per un
sentimento così estremo come quello del dolore uni¬
versale, un’illusione pari a quella che provviene dalle
sensazioni che portano a fantasticare d’infinito. Fu
così che si accumularono quegli appunti dello Zibal¬
done registrati generalmente sotto il nome d'eleganza.
Gli appunti accompagnavano generalmente l’opera poe¬
tica, almeno nei primi tempi; ed erano sempre frutto
d’esperienza.
Così dall’Infinito e dall’Angelo Mai, che sono i pri¬
mi approcci alla teoria, devono derivare i primi ap¬
punti solo formulati un po’ più tardi; mentre al tem¬
po della Canzone Alla Primavera, che è del 1822, la
teoria aveva già trovato precise enunciazioni. Vedremo
brevemente questi tre Canti per renderci conto del¬
l’estensione che essa prese con risultati a volte arti¬
ficiosi, a volta perfetti.

È un errore assai diffuso quello di credere che il


Leopardi richiamasse a una rettorica. Il Leopardi ave¬
va da esprimersi, e per esprimersi proverà i mezzi ver-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 471

bali e su di essi, sui loro effetti, mediterà e giudiche¬


rà; proverà anche i valori fonici, e s’avvedrà delle
sillabe, poiché scriveva in versi e cercava un’illusio¬
ne dal canto, un’illusione d’infinito. Ma non intende¬
va imitare nessuno, né fossilizzarsi nelle regole. Era
un filologo, un poeta che sperimentalmente, sul vivo
della carne delle parole, delle parole che portavano
nella loro carne i segni d’una storia, d’una lunga età,
- sul vivo della propria carne e della propria anima
che le parole verranno ad esprimere - cercherà gli ef¬
fetti desiderati. Meno ancora sarà un esteta, e non pen¬
serà come un Neoclassico alla Bellezza la quale, quan¬
tunque da tanto fosse morta, almeno in eredità aveva
lasciato una metrica, arti incantatone, canoni, e i resi¬
dui dei segni pitagorici che avrebbero fatto, a volontà,
apparirne lo spettro. Non è da funeree vestigia che
la Bellezza potrà ispirare il Leopardi; ma dal dolore
per il nulla dell’universo, sentimento alle origini uma¬
ne già vivo. Meno ancora era un poeta rinascimentale
che i modelli della Bellezza doveva emulare, o che li
doveva rinvenire, sperduti nella pace della morte, per
ricondurli in mezzo al frastuono dei vivi. Era uno per
il quale i morti sono morti, e i vivi portano il peso
dei secoli non vissuti dai morti.

Il linguaggio è sacro, se è legato al mistero della


nostra origine, e dell’origine del mondo; se sentia¬
mo che in noi costituisce la nostra responsabilità dan¬
do definizione universale e sociale e soprannaturale
alla nostra persona; se ci accorgiamo del bene o del
male, incalcolabili, che derivano dalla parola: la pa¬
rola, atto per eccellenza di scelta, atto di verità, e che
non dovrebbe quindi mai essere da parte d’una per¬
sona umana, atto inconsciente, atto bestiale. È alla
sostanza patetica ed etica della parola, alla sua sostan¬
za sacra, una sostanza ancora fervida nel Petrarca, che
il Romanticismo, quasi tornando al valore dell’espres-
472 Giuseppe Ungaretti

siorte dei tempi di Dante, volge la sua tormentata


aspirazione. Il Leopardi, non lo ignoriamo - e già lo
abbiamo ammesso - non voleva'saperne nulla di Rive¬
lazione; ma patetica ed etica voleva pure essere, di¬
speratamente, la sostanza della sua parola.
-E la parola può essere anche considerata obbiettiva¬
mente, nei suoi tecnici effetti, e per ciò non occor¬
re essere fedeli di questa o di quella religione. L’arte
della parola esige una metamorfosi radicale. Se dico:
albero - tutti hanno nella mente un albero; ma nulla
è meno albero di quelle tre sillabe da me pronuncia¬
te. È possibile cfie fosse da principio la parola, voce
onomatopeica; ma subito la metafora intervenne a
liberarla d’ogni imitazione della natura, a renderla
espressione della natura umana, a ridurla a esprimere
stupori, terrori, ebbrezze, necessità, affetti, il sacro, i
rapporti prossimi e anche quelli remoti tra oggetti, e
la partecipazione animatrice del soggetto in tali rap¬
porti - un soggetto nel quale doveva operare inces¬
sante l’ansia di conoscenza affinché incessantemente po¬
tesse convertire la realtà in proprio simbolo. Come ve¬
dete, sono illimitati i modi che può assumere l’espres¬
sione poetica. Vedremo ora come il Leopardi se ne
sia persuaso.

L’Infinito è un idillio di tono ironico sino dal tito¬


lo. L’idillio dell’infinito sarà invece una rappresenta¬
zione del finito. Anche usare « idillio » per definire un
genere così amaro, non è senza ironia. Ecco, sino dal
titolo, abbiamo un vocabolo che presenta due sensi: il
suo senso comune, e il senso opposto; il senso d’un’il-
lusione, e il senso d’una realtà. Arrivati al primo ver¬
so, leggiamo:

Sempre caro mi fu...

Sempre-, l’idillio s’apre con una sollecitazione del-


Saggi e Scritti vari 1943-1970 473

la memoria fattasi sogno 7 - del sogno che annulla i


limiti spaziali e temporali; ma li può annullare solo
dove esso ha giuoco: nel passato, in ciò che è scom¬
parso, in ciò che è nulla, ed è solo campo della paro¬
la, dell’evocazione: come la memoria nel Petrarca; ma
il Petrarca risaliva al sacro della parola, tentando di
riscattarla dall’oblio, di restituirle consapevolezza sto¬
rica - qui, come contraddizione necessaria, c’è l’ango¬
scioso sforzo della memoria a farsi sogno, a consegui¬
re l’oblio.
Sempre carò: ma caro è volgersi agli affetti, al pa¬
tetico, agli affetti che così, col sempre, possono essere
radicati in noi, germogliare in noi da una tale assue¬
fazione da farci scordare che ebbero un principio e
che dovranno finire, fatalmente, un giorno; agli af¬
fetti, è sottinteso, che non potranno non essere con¬
dizionati dalla durata, breve o lunga, dell’esistenza
d’un uomo, d’un mortale, d’un essere finito.
Mi fu: al passato remoto. Dunque era vero, non ci
siamo sbagliati: a muovere gli affetti, qui, opera, allo
stato di sogno, una reminiscenza. Avrebbe altrimenti
detto:

A me quest'ermo colle è sempre. caro,

o la stessa cosa, con un’espressione sua certamente più


poetica all’orecchio, e l’aveva trovata in una prima
stesura.
Mi fu: dunque si tratta d’immagini per assuefazio¬
ne rese familiari, in un incontro con la natura che si
affida cordiale per sempre.
Tralascio altre osservazioni, che si potrebbero fare
vocabolo per vocabolo, e arrivo al

...guardo esclude.

Guardo esclude: si tratta di una cecità, ottenuta


474 Giuseppe Ungaretti

dopo una certa resistenza se, volendo dire « chiudere


fuori », « escludere » è vocabolo d’una certa violen¬
za. Dunque la siepe non avrebbe aiutato la solitudine
e la vaghezza e l’assolutezza dell 'ermo colle, e prodot¬
to un’illusione, se il sapere non le avesse fatto resi¬
stenza e non avesse ceduto.
Ermo, è una parola di quelle che chiamerebbe « pel¬
legrine », per la sua stranezza di suono che la fa sor¬
da e come interiore, e perché è inusitata voce se non
nel linguaggio letterario e quindi come ammantata in
una scostante pompa. Parola di così nobile aura è
accostata a siepe. Se si guardano le varianti, si vedrà
che aveva prima -messo roveto, eppoi verde lauro, e fi¬
nalmente: siepe come usa dire l’ortolano. Ecco un
modo, molto difficile a usarsi, d’eleganza: l’accosta¬
mento d’una parola dimessa con una preziosa, facen¬
dole diventare tutte e due semplici, e solo umane, so¬
lo poetiche.
Proseguiamo:

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude...

Ultimo orizzonte, ossia, dapprima, semplicemente


quella linea del cielo che — per la siepe che ne parava
la vista - familiarmente ormai il poeta era solito cer¬
care distrattamente, con la distrazione degli occhi quan¬
do siano volti a oggetti e ostacoli consueti. Semplice-
mente due parole gettate là inavvertitamente come se
fossero nulla, come se non pesassero.
Ma pensate a quello che subito dopo l’idillio avrà
da confidare. Allora ultimo orizzonte risuonerà ad un
tratto come apocalittica espressione. Allora il guardo
esclude mostrerà davvero il vuoto delle occhiaie.
Continuiamo:

Ma sedendo e mirando... (II)


Saggi e Scritti vari 1943-1970 475

Mirando? Come si fa a mirare cogli occhi ciechi: il


guardo esclude. Il poeta guardava indubbiamente; ma
è anche parola per avviarci a intendere che già guar¬
dava con lo sguardo che gli si andava interiorizzando,
tornando da sogno a rifarsi memoria: ricordate il fu
dell’inizio? il fu legato a ricordanze fattesi sogno, da¬
vanti a uno spettacolo di sogno? Il poeta era già, a
quello sciogliersi lieve e quasi insensibile del suo sen¬
timento, preso dall’evolversi del suo divagare sull’in¬
finito; o meglio, già sul punto d’impigliarsi nella co¬
scienza del ricordo: il fu, profondità d’ogni pensiero,
difatti è perno d’ogni alternarsi in sogno e in memo¬
ria di evocazioni di passato.
L’infinito dello spazio ormai è aperto, e

. interminati
Spazi.sovrumani
Silenzi,.
Io nel pensier mi fingo.

Mi fingo: è parola usata nel senso dotto: « mi fog¬


gio », « mi formo »; e nel senso usuale: « io nel pen¬
siero mi suscito interminati spazi, sovrumani silenzi,
per inganno, per illusione ». Ci troviamo dinanzi a un
vero e proprio esempio di durata come quelli che in
mille modi saranno messi in funzione nella Canzone
Ad Angelo Mai, che sarà la vera e propria Canzone
della durata. Quando erano giovani i tempi, quando
si diceva « fingere » alla latina, le illusioni si « foggia¬
vano », avevano materia per essere « foggiate » e con¬
sistere, e si poteva credere vera la felicità; ma oggi
« fingere » non significa più che inganno, arido ingan¬
no. Ecco: la parola vive - per la potenza di metamor¬
fosi, di evocazione ch’è in essa - vive duemil’anni,
che in essa possono percorrersi dalla fantasia dell’os¬
servatore, che ne rimane allibito e accuorato, e esal¬
tato.
476 Giuseppe Ungaretti

In quel momento:
«

il vento
Odo stormir tra quéste piante,

e siamo introdotti nel segreto dell’impressionismo leo-


•pardiano. L’infinito spaziale era stato dato dalla remi¬
niscenza d’una sensazione visiva: era stato dato, in¬
somma, dalla reminiscenza. L’infinito temporale sarà
dato da una sensazione uditiva, in fuga: sarà dato,
insomma, almeno come inizio, dalla pura Sensazione.

...io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando...

Notate, prima, l’accavallamento dei due versi:

...io quello

poi pausa, sospensione dell’animo, eppoi:

Infinito silenzio...

La voce del vento nelle foglie, che s’è alzata e che


incomincia ad allontanarsi nell’infinito silenzio degli
sterminati spazi suscitati dal fingo, è paragonata ad
essi.
Quale paragone?
È un paragone che per la via della sensazione che
si dilegua, ci conduce alle ricordanze. Procedimento
opposto a quello della prima parte, dove la ricordanza
tornava a rendere viva la sensazione. Vedete quale
complessità di rapporti musicali si va intessendo.
Penetra nelle ricordanze il poeta condotto dal suo
orecchio vigile:
Saggi e Scritti vari 1943-1970 477

...e mi sovvien l’eterno,


E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei...

Mi sovvien l’eterno. Anche l’eterno dunque è un


ricordo, è un passato. È perito? Lo stormire si dile¬
gua sempre più negli sterminati spazi:

E le morte stagioni...

Dunque voce che si sperde e, sperdendosi, instau¬


ra nell’infinito spazio un’infinita tomba, fa dell’infini¬
to spazio un’infinita tomba, la tomba di lunghe ere
umane, sfumate come quello stormire delle foglie sta
sfumando, come sta sfumando la stagione

...presente
E viva...

Il testo dice infatti mi sovvien; dice così della sta¬


gione presente e viva, come già aveva detto « mi sov¬
vien » perfino pensando all’eterno. Tanto presto vola
il tempo; e dunque anche il tempo nostro gli si pre¬
senta già come un ricordo, come all’orecchio gli ap¬
pare lo stormire che ormai non s’ode più tanto è lon¬
tano, e solo perdura per ricordo. Anche il tempo no¬
stro è già morto? Ora vedo perché il fingo nella sua
forza di metamorfosi, doveva racchiudere due e più
mil’anni: doveva prepararci, precedendo in immediato
contrasto, lo stormire, agli effetti tremendi del sovvien.
Il sovvien sarebbe così per « l’infinito » la deflagrazio¬
ne dell’ironia; stabilirebbe i confini d’uno spazio in¬
finito, con quella solitaria voce che lo percorre sem¬
pre più lontano, sempre ricordando meno, sempre più
deserta:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.


478 Giuseppe Ungaretti

II naufragar, parola di disastro...


Qui difatti si naufraga nel mare infinito del passa¬
to, della morte: nel mare del finito, del nulla...
Quale più ironica parola, se indica l’immedesimazio-
ne, l’estasi nell’infinito?
No: l’oblio del nulla...

...m’è dolce in questo mare.

M’è dolce... Ricordate il piacere delle lacrime del


Breme? Qui è peggio, è peggio...
E quando si pensa che una siepe è stata, a muo¬
vere tutto questo, e sono state foglie mosse da un
alituccio di vento - si pensa che sono state piccole
cose, fatti insignificanti: erano foglie, vento, le cose,
cose che di solito raffigurano la caducità, la fugacità...
Vedete bene, l’ironia investe non un vocabolo qua e
là; ma l’ispirazione...
Eppure, eppure, quando L’Infinito ci torna a men¬
te, pure sapendo che non ci nasconde nulla della ve¬
rità, che anzi la mostra perfino troppo fosca, senza
pietà - eppure, non si sa per quale miracolo, il nostro
animo si emancipa, la nostra fantasia si mette in viag¬
gio, e naufraghiamo anche noi, dolcemente - senza
ironia: dolcemente...
L’uso elegante d’una lingua, si presenta dunque nel¬
lo spirito del Leopardi prima ancora che ne venga da
lui definita nelle riflessioni la teoria, come un uso
della parola in modo che muova, secondo la lezione
del Breme, all’infinito animo e fantasia.
Tale è l’interpretazione vera dell’Infinito, ma chi
volesse persuadersene meglio, potrebbe andare a rileg¬
gersi l’ultima parte della Sera del dì di festa e il Can¬
tico del Gallo silvestre che ne sono parafrasi.

L’Angelo Mai è il tentativo più grandioso di poesia


compiuto dal Leopardi. Supera, anche se sparso d’in-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 479

genuità, la stessa Ginestra. Per la forza patetica fa


pensare a Beethoven, per la tragicità a Eschilo. Pur¬
troppo, vi ho già stancati con la lunghezza del mio
discorso, e a fare il commento che dovrei, non fini¬
rei nemmeno domattina. Si tratta di questo: due te¬
mi: il tema del Secol morto: ossia i tempi del Leo¬
pardi; e il tema del Clamor dei defunti. I defunti —
di ogni epoca da Dante in poi, ma coll’ombra lontana
di risorti dei tempi del De Republica, il testo cicero¬
niano rinvenuto allora dal Mai - risorgono via via, e
assistiamo - in confronto con i nostri giorni, deserti,
e con quelli degli Antichi, furenti - al decrescere del¬
l’energia vitale d’una civiltà, ridestantesi via via, a
ogni epoca nuova; ma sempre più fiacca. Abbiamo
così un intreccio di durate, ottenuto per ricorso sa¬
pientissimo a un’infinità di diverse figure verbali. Ve¬
diamo così un corpo di secoli vivere, e tragicamente
di momento in momento invecchiare: il declino sot¬
to ai nostri occhi della carne e dello spirito di tutta
una civiltà lunga. Vediamo, sentiamo, molti secoli tra¬
scorrere in pochi momenti la lunga vita, dall’età gio¬
vanile alla decrepitudine. Vediamo così, davanti ai no¬
stri occhi mortali, uno spirito e una carne percorrere
i secoli, per passare tragicamente dagli anni fioriti ai
minuti aridi. È uno spettacolo agghiacciante. L’effetto
è ottenuto per intrecci di vocaboli o di immagini che
si rispondono e si richiamano da strofa a strofa, per
echi, e per mille altre risorse d’un’orchestrazione ver¬
bale, la quale risulta, sebbene complessa all’estremo,
nitida nei minimi timbri.
Darò un esempio solo.
Incomincia la Canzone con un vocativo indirizzato
al Mai:

Italo ardito, a che giammai non posi...

Ardito è termine dell’uso parlato; definisce persona


480 Giuseppe Ungaretti

coraggiosa; ma contemporanea dell’autore della poe¬


sia e degli altri italiani del medesimo tempo. Al quat¬
tordicesimo 8 verso della strofa ripete, rivolgendosi
sempre al Mai, il vocativo, ma coll’aggettivo mutato:

Italo egregio, il fato?

È intervenuto il fato, e l’Italo ardito diventa Italo


egregio, cioè Italo distinto dal gregge, egregio essendo
stato impiegato etimologicamente. E non dico di ciò
che l’attributo, posto così accanto a fato, possa avere
di sacro nell’antico significato - attributo che si appli¬
cava a vita destinata al sacrifizio, pel quale doveva
ritenersi eletta da integrità e da immacolatezza; da
perfezione: da attitudine all’eroismo. Essere egregio
vuol dire essere l’unico ardito tra i propri contempo¬
ranei, vuol dire essere il contemporaneo, almeno per
l’animo, di quegli Itali che ancora non si comporta¬
vano da « gregge »: il comportamento degli uomini
dei tempi del De Republica. Ecco in che modo av¬
vengono i « risorgimenti ». D'Italo ardito — il Mai:
un uomo di sapere, si badi - è così un uomo di due-
mil’anni fa; ha per la forza dell’animo, duemil’anni
di meno dei contemporanei: un rapporto di presen¬
za viva è costituito così tra l’uomo scomparso da due-
mil’anni, ardito, e la moltitudine degli altri presenti,
ignavi. Miracoli della parola.
Un’ultima osservazione. Nella Canzone il ritmo è un
po’ impacciato; lo è quasi sempre nel Leopardi; qui
forse per l’accavallarsi di troppe onde simultanee di
tensione diversa. I passaggi da tono discorsivo a tono
lirico sono sempre difficili ad ottenersi felicemente,
anche per un poeta di somma perizia come il Leo¬
pardi.
Occorrerebbe ora non dissimularci oltre la presenza
di Pascal, indiretta, e poi immediatissima, la quale,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 481

nel Leopardi, era andata precisandosi in conformità


della progrediente umanità delle sue meditazioni.
DaH’ironia, che il Leopardi incomincia a vedere, en¬
trata in circolo nella parola, nel 1819: nell’Infinito-,
alla Canzone Ad Angelo Mai, del gennaio del 1820,
dove la misura del variare infinito dei sensi nel mo¬
to, nell’invecchiare, della parola da un punto dato ad
altro punto dato del tempo: dove la durata, per osmo¬
si fratturandosi all’infinito dovendo ritrascorrere nel
groviglio degli immaginati rapporti, testimonia del tra¬
boccante lievito passionale per cui il poeta è stravol¬
to a vedersi dall’animo riflessa, come per lucidezza
d’agonia, nella mente la traiettoria tragica d’ogni ci¬
viltà; a tutte le cure dedite, ottobre del 1820, all’uni¬
tà tonale da raggiungersi mediante accordi di tono, e,
anche con passaggi da estremo a estremo, mediante
contrasti di tono, nella Sera del dì di festa - è già
tanta la strada percorsa - altrove si dovrà penare
quasi ancora un secolo per percorrerla - che uno,
uno numero uno com’era lui, potrebbe accontentarsi.
La conquista tonale che, al tralucere della notturna
lampa, permetterà al fantasticare del poeta l’insegui¬
mento, per chete stanze, della dormente donna (indif¬
ferente, agli slanci d’amore di lui, essa, e indifferente
tutto:

...posa...)

suggerendogli invettive forsennate, e, d’improvviso (al


balenare del pensiero che un giorno la morte la col¬
pirà, essa anche) mozzandogli il respiro, liberandolo
dall’egoismo, inondandogli il cuore di tenerezza per
pietà - fornisce alla veggenza del poeta un clima così
intimo e così pudico da non lasciare altro da deside¬
rare alla sua arte della parola. Se l’arte della parola,
qualunque sia il risultato da essa conseguito, non de¬
ludesse sempre un poeta dimostrandone irrimediabil
482 Giuseppe Ungaretti

mente scarsa la potenza creativa, se non addirittura


fittìzia, derisoria, e stimolandolo quindi senza requie
a ricominciare, sempre daccapo, i suoi vani esercizi.
Ma se per via semantica (ili), nella parola l’onda
del sentimento già aveva trovato la possibilità di muo¬
versi entro termini storici i quali il poeta avrebbe a
seconda della sua inspirazione, a suo talento modifica¬
to, concatenato e moltiplicato — ma se era giunto a
tanto: a disporre dell’infinito di possibilità espressi¬
ve riscontrabili per durata in ogni vocabolo, in ogni
immagine, in qualsiasi complessità di rapporti: a tan¬
to era giunto per essersi reso consapevole che, luglio
del 1820, « l’uomo è incline all’infinito » possedendo
anche lui, Giacomo Leopardi, racchiusa nel proprio
animo, la prova dell’umano « spasimo d’infinito », e,
quantunque avesse contemporaneamente imparato che
« i nostri slanci verso un infinito che non compren¬
diamo, i sentimenti del nostro cuore, e cose tali, ap¬
partengono veramente alle illusioni », o al mistero. O
al mistero: gli sono bene scappate a lui difatti allora
di bocca, in quel luglio 1820, le parole: « principali
prove della vita futura », non avendo però subito pri¬
ma omesso di dichiararle « illusioni » - il quale valo¬
re dell’infinito era quel medesimo che già all’animo
gli si era crudelmente proposto nell’Idillio del 1819.
Del Pari,9 la posta non consisteva già più in Infini
contro Rieri? Già l’infinito gli appariva immedesima¬
to nel nulla. « he fini s’anéantit en présence de l’infi¬
ni, et devient un pur néant », per quale orrendo ca¬
povolgimento, era divenuto quello che era divenuto,
nella sua ispirazione? 10
Ma se tale valore orrendo, nel dicembre del
1821, nell’animo gli apparirà disperatamente rafforza¬
to: « Ogni uomo sensibile prova un sentimento di do¬
lore, o una commozione, un senso di malinconia, fis¬
sandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sem¬
pre, massime s’ella è stata al tempo suo, e famigliare
Saggi e Scritti vari 1943-1970 483

a lui. La cagione di questi sentimenti è quell 'infinito


che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata,
cioè al di là di cui non v’è più nulla-, di una cosa ter¬
minata per sempre, e che non tornerà mai più... » -
nel maggio del 1826, investigando più a fondo ancora
nel suo « spasimo d’infinito », si troverà nell’orecchio
parole più che mai di traccia pascaliana: « Niente in¬
fatti nella natura annunzia l’infinito, parto della nostra
immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e
della nostra superbia »: « La grandeur de l’homme est
grande en ce 'qu’il se connaìt misérable. Un arbre ne
se connaìt pas misérable ». Non essendovi annunzio
d’infinito nella natura terrena, sarebbe esso annunzio
d’altra natura? Non lo confesserà mai; anzi, per con¬
traddirsi invocherà l’aiuto magari di sofismi ogni qual¬
volta possa dubitarsi che « spasimo d’infinito » alluda
all’inconoscibile che è in noi e che troviamo riflesso
negli oggetti verso cui, per dare in qualche modo im¬
magine di sé e farsi evocare dalla parola, tale spasimo
sembra si tenda.
Senza dubbio, il Leopardi sente che c’è un segreto.
Lo sente, non riuscendogli di attribuire una causa al¬
l’espiazione che porta a deperimento e a morte ogni
vivere; tanto lo sente che, con quell’umiltà che è
l’unico sprone dell’autentica poesia, sa farsi pronto a
vedere e a condividere tutte le sofferenze degli esseri
umani, suoi simili, e anche la sofferenza d’una lucciola
straziata: « On n’est pas misérable sans sentiment:
une maison ruinée ne Vest pas. Il n’y a que l’homme
de misérable. Ego vir videns ».
Nei mari del finito e nel finito dei mari, ciò che
naufragava - o si salvava? - era dunque, nonostante
l’ironia, veramente infinito: il segreto: la poesia? Al¬
cuni anni più tardi, nel 1859, Baudelaire - essendogli
Giacomo tutt’altro che un estraneo - sarà esplicito:
nel Voyage:
484 Giuseppe Ungaretti

Bergant no tre infini sur le fini des mers...

Il Leopardi sente che c’è un segreto, ma è inviola¬


bile, e solo può concepirsi e esprimersi per espedienti
approssimativi: « Non solo » annoterà nello Zibaldone
il 4 gennaio 1821 « la facoltà conoscitiva, o quella di
amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infi¬
nito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefi¬
nito, e di concepire indefinitamente »: « Nous con-
naissons qu’il y a un infini, et ignorons sa nature »;
« Nous connaissons Vexistence et la nature du fini,
parce que nous sommes finis et étendus comme lui ».
Era così un pretendere, da parte del Leopardi, infima
più che non fosse, la capacità terrena di conoscenza
dell’uomo; era trovato così, dal Leopardi, il termine
che ci voleva, certo un ripiego: indefinitezza - un ter¬
mine timido, umilmente riconoscente, oltre il necessa¬
rio riconoscente la miseria d’uno « spasimo d’infini¬
to » avvilito a potenza dell’intelletto e del cuore e
della parola umani, i quali, nel loro stato di terrena
natura, non possono essere se non condizionati dai li¬
miti d’un destino a morte.
Al tempo delle Pensées, cioè « sulla fine della vita »
di Pascal, una vita « il cui genio sommo aveva rapida¬
mente consumato il corpo, le stesse facoltà mentali, lo
stesso genio », come stava succedendo a lui, Leopardi
- Pascal sembrava al Leopardi, il 23 agosto 1823,
« quasi pazzo per la forza della fantasia ». Indefinitez¬
za? Chi, dei due, pazzo?
« Questi geni straordinari » è sempre il Leopardi
che parla di Pascal, il 17 giugno 1821 « penetrano in
certi misteri, in certe parti della natura così riposte,
scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e
profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chia¬
rezza, tanto riguardo a essi stessi, quanto al comuni¬
carle altrui. » Indefinitezza? Ecco intanto un’ammis¬
sione che testimonierebbe come, per densità o novità
Saggi e Scritti vari 1943-1970 485

o acutezza di veggenza, la parola possa divenire diffi¬


cilmente intelligibile.
Atteniamoci al ripiego.
Se già, per i mari della parola: vocaboli, costrutti,
traslati, aveva, cercando eleganza, tratto ironia, dura¬
ta, e la tonale drammaticità e unità del suo discorso,
dall’indefinitezza - mai non gli sarebbe accaduto di af¬
frontare in qualche modo più direttamente il segreto?
Avvalendosi magari di risorse più recondite dell’inde¬
finitezza? L’irqnia e la durata e il tono erano condizio¬
nati dal perire - il perire, a sua volta, a nulla si su¬
bordinava? Era esso il segno tragico dell’irrecuperabi-
lità del tempo. Si vuole saperne di più del segreto? Il
tema, ecco, era a portata di mano: l’irrecuperabilità
del tempo: « Ce ri est pas la longueur des années;
mais la multitude des générations qui rendent les
choses obscures. La vérité ne s’altère que par le chan-
gement des hommes ».
Al tema dell’irrecuperabilità del tempo, il Leopardi
è arrivato per via del tutto naturale e normale. L’in¬
definitezza è nel vocabolo, è all’interno dei suoi signi¬
ficati, ed è fuori dei significati del vocabolo: è anche
anteriore ad essi, e ad ogni significato definito: è nel
valore musicale, radicale dei segni, è nella verità ch’es-
si velano, alterata, contesa dal crescere dei significati,
oscurata dall’uso duna moltitudine di generazioni.
Il poeta poteva fermare il corso della storia nella
parola, poteva fermarlo a un dato momento della du¬
rata di dati vocaboli d’una lingua: essi potevano così
divenire, lontani, come un puntino di luce traforante
il buio pesto. Lo so: espedienti. Ci si poteva allonta¬
nare anche di più: inoltrati a rinvenire il delirio del¬
l’ora iniziale e, in quella notte abbagliante, le origini
indecifrabili del nostro male. Gli occhi umani non san¬
no più aprirsi se non sull’abisso:

Faìtes votre destin, àmes désordonnées,


486 Giuseppe Ungaretti

* Et fuyez Vinfitti que vous portez en vous! 11

Siamo dunque arrivati, dopO'Lrf sera del dì di festa,


alla Canzone Alla Primavera, al gennaio del 1822. Sia¬
mo arrivati aH’ermetismo, sissignori.
La Primavera, di solito la chiamano una Canzone
neoclassica. Per il tema potrebbe sembrarlo, e su ab¬
biamo riportato un brano dei Trois règnes di Jacques
Delille per mostrare sino a che punto, trattando un
simile tema, un Neoclassico poteva arrivare: a un
punto discorsivo e accademico. Qui, la tensione lirica
è portata all’interno delle immagini, aH’interno dei
vocaboli, all’interno della stessa ispirazione: è porta¬
ta nel segreto, è portata dove si brancola verso la ve¬
rità.
In base a quali ragioni, possiamo ^dire di trovarci
qui di fronte a un’esperienza che nella poesia europea,
in quegli anni, sembra ancora prematura?
Guardiamo intanto con un po’ di scrupolo, il testo.
Mi sono accorto, esaminandolo, che tutti s’erano ri¬
sparmiata la fatica di consultare gli autori ai quali il
poeta si riferisce nelle Annotazioni. Sono tutti scritto¬
ri di cose ecclesiastiche: il Calmet, il Meursio, il Barth;
e di ciò non vi sarà stato altro motivo che l’abbon¬
danza di raccolte del genere nella biblioteca paterna.12
Si sarebbe visto consultando quegli autori che l’ispi¬
razione della Canzone aveva per prima fonte i verset¬
ti 5° e 6° del Salmo XC secondo il testo della Volga¬
ta:

5) Sento circumdabit te veritas ejus;


non timebis a timore nocturno;
6) a sagitta volante in die, a negotio perambulante in
[tenebris,
ab tncursu, et daemonio meridiano.

I testi greci e latini, e anche il San Girolamo della


Saggi e Scritti vari 1943-1970 487

vita di San Paolo, primo eremita, dei quali il Leopardi


si servirà per ottenere l’atmosfera della Canzone, sono
citati in questi scritti esegetici e apologetici.13 Sono
citati a spiegare il significato di « demonio meridia¬
no », e come certe favole antiche fossero nate dai mi¬
raggi e dal delirio di quell’ora di clima caldo. Il Leo¬
pardi deve avere maturato in sé a lungo l’ispirazione,
se già gli dà da fare nel Saggio sopra gli errori popo¬
lari degli antichi ch’è del 1815, cioè anteriore di nove
anni alla Primavera. Più che rimpiangere, come avreb¬
be fatto un Neoclassico, le favole antiche, il Leopardi
si proponeva dunque di esprimere quello stato incerto
tra sogno e ricordo, proprio come più tardi anche
Mallarmé vorrà fare nc\Y Après-midi d’un Faune.
Lo stesso sottotitolo della Canzone: o delle favole
antiche - ci mette in allarme. « Antico » è « anti-
quus »; ma può essere anche « anticus »; e significa,
difatti, tempi storici lontani; ma anche il contrario di
« posticus », anche un punto cardinale, anche il sud
e l’ora del sud: o delle favole remote e o delle favole
meridiane : in un medesimo vocabolo, per gli stessi
suoi significati, avverrà dunque che il rapporto tempo¬
rale si riferisca di continuo alla posizione spaziale dal¬
la quale è partito e che esso, per il proprio continuo
estendersi, di continuo muta. E, sebbene manchi l’an¬
notazione del Leopardi che confermi la nostra suppo¬
sizione, il passo ch’egli cita del Meursio non fa che ra¬
gionare a lungo del significato che abbiamo accolto.
Varrà dunque il vocabolo in significato ambivalente,
come è ambigua l’ora stessa evocata; e dica anche che
il calore dell’immaginazione e della passione sono, nel
corso dell’età delle cose, di quell’ore; e dica ancora
che la furia del sogno è ormai per una civiltà antica,
memoria antica: gelo.14
Il Leopardi, e sino dalle poesie puerili, aveva pen¬
sato al sogno - diciamo al sogno, ossia alle apparizioni
nel nostro spirito in istato inconscio, in istato di son-
488 Giuseppe Ungaretti

no; «e a reversibilità del sogno stesso rispetto alla me¬


moria. Nelle Elegie precedenti le Canzoni, nelle Can¬
zoni e negli Idilli, anche nei titoli, passa alternativa-
mente da un’attenzione al sogno, ad una al ricordo. La
sua aspirazione, aspirazione d’infinito, come c’insegne¬
rà la nota Del fingere poetando un sogno, collegata ap¬
punto con l’Idillio II Sogno, è d’arrivare a una poesia
nella quale, senza niuna, nemmeno minima, discon¬
tinuità mai, contemporaneamente la memoria s’aboli¬
sca nel sogno, e il ricordo dall’oblio si risusciti, dolce¬
mente vago in un’infinita malinconia di pensieri. Era
l’inconsapevole desiderio, come in tutte le sue ricer¬
che, anche nelle apparentemente solo tecniche - di
ridare alla parola la sua qualità sacra. È in questa di¬
rezione che opera, dall’inizio della Decadenza, ogni
poesia. E che cosa è stato l’Impressionismo, che non
voleva adulterata da alcun intervento sentimentale o
intellettuale, la sensazione - se non lo sforzo di fer¬
mare l’emozione nella sua autenticità misteriosa? E
che cosa è il Surrealismo che ricorre perfino alle as¬
surdità della scrittura automatica, se non l’ansietà di
sorprendere - nella demenza degli atti incontrollati,
unici ad essere esclusivamente naturali - la vera qua¬
lità spirituale d’un essere? E che cos’è quella veggen¬
za, quel dono di vaticinio che è dei poeti, che appare
nelle prime Canzoni un po’ teatralmente, e poi già,
sino dalla Sera del dì di festa, verosimile con tanta
angoscia; che cos’è quel proclamare sorte dei poeti,
dannazione dei poeti, predestinazione dei poeti, l’ane¬
lito di conoscenza che non dà pace; e quel proclama¬
re insieme, sorte loro la missione di restituire agli
uomini i distacchi, gli entusiasmi, l’estasi dell’inno¬
cenza?

La Primavera è ermetica, dunque, e nella sostanza


e nella tecnica. Se il Leopardi non l’avesse accompa¬
gnata d’annotazioni, credo che sarebbe stata quasi in-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 489

decifrabile. Si potrebbe pensare sulle prime che l’ab¬


bia composta a quel modo per fare uno scherzo ad
Arcadi e Cruscanti che gli avevano rimproverato i
barbarismi delle tre prime Canzoni. Per la prima stro¬
fa, non avendo ancora potuto spingere la mia indagi¬
ne più avanti, tutte le parole sono usate nella loro
accezione latina e secondo l’uso nostro dei primi se¬
coli della lingua sino al Poliziano compreso, allonta¬
nandole così quanto era possibile dal significato del¬
l’uso comune. Ci sembrava sulle prime che avesse vo¬
luto dire con un risolino: « Senza annotazioni, non ci
si capirebbe nulla. Ecco il bel lavoro che si fa dando
retta ai Puristi ». Eppoi a un tratto fra tutte quelle
parole d’oro zecchino, gli scappa « dissueto », un fran¬
cesismo, e nell’annotazione, il risolino scoppia in una
risata.
Sulle prime, è ciò che verrebbe voglia di pensare;
ma subito ci s’accorge che è un’altra cosa.15
Credo che abbia fatto come ha fatto per ottenere
dalla sua Canzone effetto come d’una scrittura dalle
lettere, fresche di scavo, quasi cancellate, ad intende¬
re le quali occorra grande industria di dottrina e di
congetture; o in essa avrà voluto cifrare moniti, co¬
me d’un sogno che invochi il profeta per chiarirsi?
Come sarà stato che per lodare la primavera, sia pu¬
re quella degli Antichi, abbia scelto leggende dove la
metamorfosi procede, per la commemorazione pietosa,
da vittime di atti d’una ferinità inesplicabile, e come
sorta da un pozzo senza fondo? Tanto è lontana -
questa poesia della notte meridiana dell’essere - da
un’esercitazione da poeti giubilati.

Ora dovrei, per concludere, dire perché ho fatto


questa lettura. Per parlare della poesia italiana d’og¬
gi. Leopardi non invitava alla rettorica che obbliga
all’imitazione, detestabile sempre; non invitava al gu¬
sto che varia secondo i singoli, le epoche, i luoghi;
490 Giuseppe Ungaretti

ma ipvitava al patetico, come universale fondamento,


nel dolore, della parola; ed invitava ad un rinnova¬
mento continuo dei mezzi espressivi, che hanno ap¬
punto da tenere conto di condizioni personali e di sto¬
ria, di storia non solo patria, e d’altre contingenze.
Molto o poco che valga la mia poesia, un merito
credo d’averlo. Per ritrovare le tradizioni della nostra
poesia e proseguirle, per rituffare la nostra poesia nel¬
la storia, si doveva risalire al Leopardi, e capirlo. Ma
da noi, tranne il Pascoli, per quel suo impressionismo
del quale ho fatto cenno, dopo il Leopardi i poeti era¬
no quasi del tutto anacronistici. Non c’era che da ri¬
volgersi ai poeti francesi, ai poeti che non disdegna¬
vano il qualificativo di Maledetti e che dopo Poe e si¬
no al ’900, erano rimasti i soli nel mondo a non ben¬
darsi gli occhi davanti alla tragicità dei tempi.
La critica lo vedrà, e ci sono le date, non c’è da noi
dal ’14 ad oggi, opera poetica che non porti i segni di
questa mia fatica, nella metrica, nella dialettica delle
immagini, neH’orientamento dell’ispirazione.
Oggi la poesia italiana, e con un numero di poeti
non scarso, è, fra le contemporanee, valga quello che
valga, la prima.
In questi trent’anni ho imparato tante cose, e qual¬
cuna anche insegnata; ma in mezzo alle follie e al san¬
gue che hanno reso questi anni così agghiaccianti, se
ho imparato che convenga lottare perché lo scandalo
dell’eccessiva inuguaglianza economica non offenda più
l’uomo inceppandone la libertà e la dignità, se ho im¬
parato che convenga lottare anche se si dubiti che
l’uomo possa mai assicurarsi la felicità sulla terra, pre¬
da com’è delle sue condizioni mortali e d’insidie dia¬
boliche che, per sua natura, agiscono fatalmente in
lui - se ho imparato a credere nella giustizia, ho an¬
che imparato che l’infinito è una realtà, che la parola
è sacra anche se sacrilega, che la lotta per la giustizia
non potrà mai essere pura se ogni nostro atto non sa-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 491

rà da noi considerato non solo come fatto personale,


e magari sociale; ma anche come fatto religioso, poi¬
ché l’uomo, lo voglia o no, è nella sua responsabilità
legato al segreto universale dell’essere, a Dio.

Postille

Lo scritto sopra stampato è del 1944, salvo, steso in


questi giorni, il confronto col Pascal inserito prima
deH’esame della Primavera. Le postille che seguono
sono recenti.
I) Il Voltaire, che ci teneva ad essere l’opposto
esatto d’uno sciocco, ed era, difatti, oltremodo arguto
e sagace, e, nonostante le apparenze, aveva anche lui
i suoi dubbi, non lesina le sue facezie nemmeno a pro¬
posito d’un bello di natura « universale e permanen¬
te ». Ma la relatività del bello e del gusto - l’esplosi¬
vo che in estetica avrebbe mandato in malora tante
convinzioni, comprese le più care a Voltaire, - se era
esplosivo del quale le conseguenze non sfuggiranno a
una vista quale quella del Leopardi, esso non offre al
Patriarca di Ferney se non il destro di aggiungere, alle
infinite altre, una prova inattesa di quanto egli sapes¬
se flettere il suo ingegno.
II) In una nota di Antonio Baldini (« Corriere del¬
la sera », 7 febbraio 1950) e in un’altra di Wladimiro
Arangio Ruiz, e in una terza di Francesco Flora (« Let¬
terature Moderne», n. 1) si discute finalmente del
questo che si muta in quello da un verso all’altro del-
l'Infinito quantunque si tratti sempre di riferimento
allo stesso oggetto:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella.
492 Giuseppe Ungaretti

.E come \l vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno...

Oserò intervenire anch’io nella disputa?


Mi sembra trattarsi d’un rapporto da illusione d’in¬
finito a finito analogo a quello già stabilito dai due
verbi - il primo al passato remoto, l’altro al presen¬
te - dei tre versi d’inizio:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Per una distrazione degli occhi che improvvisamen¬


te non vedono più gli oggetti circostanti; ma con stu¬
pore li ritrovano, infinitamente più seducenti, nella
mente - ciò che è presente è inavvertitamente passato
nello spazio infinito dell’assenza, nel mare dove i poe¬
ti usano naufragare: il questo - anche il questo della
siepe - s’è fatto quello. Questo e quello vengono così
a indicare le musicali alternanze d’una visione la qua¬
le, per stabilire amaramente la propria durata, ci ri¬
chiama ora ad un aspetto esterno delle cose, ora ad
uno soggettivo.
Ora, dalle varianti, vedo che da parte stessa del poe¬
ta c’è stata titubanza, in Sempre caro mi fu, tra l’è e il
fu.

Mi è stata offerta quest’anno, dalla consueta corte¬


sia dei Leopardi, la fortuna di essere accolto ospite
nella loro casa di Recanati; e, per interi giorni (corri¬
doi, corridoi stretti, lunghi, stanzini, stanze: tanti va¬
ni che uno ci si perde) il privilegio mi è stato conces-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 493

so di aggirarmi, per interi giorni, dentro i casoni che,


appiccicati per forza, insieme formano il brutto palaz¬
zo dove il Poeta s’era aggirato. E, in quel borgo -
dal quale, in rari punti culminanti, o salito all’altana
nel palazzo stesso, può la vista estendersi entro lo spa¬
zio il più largo (l’infinito) che ad occhi umani sia da¬
to d’abbracciare - uno si viene, se va a spasso, a tro¬
vare affiancato da muraglie di cotto e, mentre va, da
un casamento, che, d’improvviso, s’è proteso di traver¬
so, gli è tagliata la strada. Rimane il breve varco, dove
potrebbe sorgere un « roveto », un « verde lauro » od
altra « siepe ».
Così è, in Recanati, chiuso di consueto l’orizzonte,
lungo rettangoli di vie, per il subitaneo scontrarsi di
larghi petti di mattoni.
Succede anche nel palazzo — o affacciandosi alle fine¬
stre dai piani superiori, o al pianterreno, guardando
in piazza dalla biblioteca, o passando nel portico te¬
tro che separa l’orto dal pomario - che, di consueto,
si possa godere, alzando gli occhi, su costante la pre¬
senza del cielo; ma che, davanti allo sguardo, non si
possa avere se non chiusa la mira dell’orizzonte: chiu¬
sa dai tetti d’embrici, accoglievoli al posarsi della lu¬
na: chiusa dai tetti che scendono di corsa sino sotto
al naso del curioso; oppure chiusa da muri impassibi¬
li e implacabili, coperti spesso da assieparsi di piante.
Succede quindi di consueto, in Recanati, che si pro¬
vi un effetto di segregazione, di siepe, con un deside¬
rio irrefrenabile dell’infinito, di cui la possibilità di
averne illusione, e incomparabile, è tanto facile in
quel borgo.
Dirò anche un’altra cosa: sono stato al Monte Ta-
bor, e forse è improbabile che - sul ciglio dello stra-
dello che andava, tra, da un lato, i muri di cinta del
monastero di monache, dominante il monte, e, dall’al¬
tro lato, la china che cala ripida a perdita d’occhio
nel buio e, dirimpetto, il terreno che dal fondo del
494 Giuseppe Ungaretti

precipizio si solleva, più alto del Tabor nonostante


i fiumi della distanza - possa esserci mai esistita una
siepe tale che, lì, potesse davvero « escludere » il
guardo dall’ultimo orizzonte. Si tenga inoltre conto
che è su per giù allo stesso livello del Tabor, la zona
di Montemorello su cui è stato fabbricato il Palaz¬
zo Leopardi. Non chiedete, per carità, ai poeti, esat¬
tezze topografiche: per il Leopardi, per un poeta al
quale si vorrà accordare che non difettasse di fantasia,
il monte e l’infinito potevano essere ovunque.
Ili) Nel Locke, non solo trova il Leopardi, teori¬
camente studiata l’esperienza psicologica che, partita
dalla sensazione, si scioglie nei riflessi del pensiero:
quella medesima esperienza la cui genesi il Leopardi
si era assuefatto (Sempre caro mi fu...: l’« assuefazio¬
ne » leopardiana corrisponde tanto alla memoria « im¬
memore » dei Platonici, quanto a ciò che per essa in¬
tende il Locke ed a ciò che nella mente pascaliana era
figurato dal vocabolo « coutume »), quella medesima
esperienza, dicevo, la cui genesi il Leopardi si era as¬
suefatto a verificare in sé, attribuendo ad essa il ca¬
rattere di stimolo iniziale delle sue ricerche di linguag¬
gio poetico; ma anche gli si offre occasione, nel Locke,
di dissertare di tali ricerche di linguaggio, avendole
egli rivolte specialmente al raggiungimento di effetti
dì durata e di eleganza, al raggiungimento di effetti
poetici per via semantica.
Non alludo dunque, nominando la semantica, al
Bréal, al quale chi usa tale termine suole riferirsi. Il
Bréal ancora non era nato quando era vivo il Leopar¬
di; ma, negli scaffali sottochiave dei libri proibiti del¬
la biblioteca di Monaldo, è tuttora al suo posto un
Locke. Non badai, scorgendovelo, di recente, se era il
Compendio a cura del Soave, oppure il Saggio. Non
importa, nell’uno o nell’altro possono aversi notizie
intorno a quel ramo della scienza del linguaggio -
della scienza cui, rispettandone l’etimo, aveva restituì-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 495

to il nome di « Logica » - a quel ramo di tale scienza


che, trattando esso dei segni e dei significati, proprio
il Locke aveva chiamato, precedendo il Bréal: « Se¬
mantica ». Disputandone, il Leopardi non nasconde il
suo disagio a proposito d’un’invocata lingua universa¬
le, disturbato com’era sempre dal concetto di univer¬
salità quando lo si volesse disgiunto da un’esperienza
concreta, strettamente personale; e così, come l’anima
dalla sua carnale condizione per gl’individui umani,
riteneva non. potersi disgiungere le idee dal corpo sto¬
rico d’una lingua, dal variare della loro fisica voce,
senza togliere ad esse ogni verità, essendo - il Leopar¬
di è un poeta - esse amalgamate in terrene vicende,
per definirsi, o anzi, per acquistare, all’udito esperto
d’un poeta, sempre maggiore indefinitezza. Era un av¬
viare a precorrere il Bréal, che per « semantica » ap¬
punto intendeva lo studio storico dei vocaboli, lo stu¬
dio cioè del loro variare di significato. E - muovendo¬
mi a ripensare a

...E come il vento


Odo stormir tra queste piante...

nelle stesse pagine dove manifesta la sua ripulsa a sen¬


tire dire di lingua universale, il Leopardi, il 15 mag¬
gio 1821, è spinto a registrare: «Non solo la greca
parola 4/uXB deriva da spirare, ma anche la latina ani-
mas e quindi anima deriva da avEptoq, vento. E l’an¬
tico significato di vento nella parola anima fu spesso
usato da’ latini (credo massime i più antichi, o loro
imitatori) ». In altro pensiero di alcuni mesi prima,
del 4 febbraio 1821, già, per analoghe osservazioni,
era stato tratto a considerare che, ansiosi di farsi
un’idea dello spirito, lo avevano in greco chiamato
TXVEÙpux da rrvéto, e il latino spiritus da spiro. « im¬
magineremo » soggiunge « un vento, un etere, un sof¬
fio; [...] assottiglieremo l’idea della materia quanto
496 Giuseppe Ungaretti

potremo, per formarci un’immagine e una similitudine


di una sostanza immateriale, ma una similitudine so¬
la: alla sostanza medesima non 'arriva né l’immagina-
zione né la concezione dei viventi, [...] giacché final¬
mente è l’anima appunto e lo spirito, che non può
concepir se stesso ».
L’« ANGELO MAI » DEL LEOPARDI
[1946]

Se dovessimo attenerci a ciò che di solito si osserva,


la Canzone Ad Angelo Mai avrebbe dovuto semplice-
mente, voglio dire avrebbe dovuto solo con parole di¬
rette esprimére quella situazione che ne costituisce
uno dei due temi ricorrenti, situazione d’un tedio
estremo che, come il Leopardi diceva in una lettera
al Giordani di quei giorni « lo lacerava e l’affannava
facendogli sentire la vanità di tutte le cose e della con¬
dizione degli uomini il giorno che in essi le passioni
fossero morte ». E, per contrasto, avrebbe, ma lo di¬
rei io, avrebbe potuto, per naturale contrasto, svilup¬
pare, ma solo sempre in termini diretti, quel pensiero
dello Zibaldone che è dell’anno stesso della stesura
àe\Y Angelo Mai, un po’ posteriore, di pochi mesi, e
che diceva: « Pensando alle speranze passate e ai con¬
forti e presagi fattimi già dal mio amico [il Giorda¬
ni] che ora pareva non si curasse più di vederli veri¬
ficati né di quella grandezza che mi aveva promesso,
e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi, e ricor¬
dandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e
le belle viste e le occupazioni dell’adolescenza, mi si
serrava il cuore in maniera ch’io non sapea più rinun¬
ziare alla speranza, e la morte mi spaventava non già
come morte, come annullatrice di tutta la bella aspetta¬
tiva passata ». Il contrasto, e per questi accorgimenti
gli era stato maestro il Breme, è nella frase, qui d’un
valore psicologico acuto: « Mi si serrava il cuore in
maniera ch’io non sapea più rinunziare alla speranza ».
Ammettiamo per un istante che non siano senza
fondamento le osservazioni che ripudiano l’altro tema,
498 Giuseppe Ungaretti

quello del « clamor dei sepolti », e rassegniamoci a


deplorare anche noi che, negli articoli del Breme allo
« Spettatore », abbia potuto esercitare sul Leopardi
tanto effetto il brano inseritovi duna lettera dove il
Pellico segnala la potenza di un’immagine del Giaurro
di Lord Byron, quella delle storie antiche risorgenti
dai sepolcri ad attestare la viltà dei nipoti degli eroi,
immagine che a un Romantico ardente come il Pellico
non poteva sfuggire e non sembrare « poeticissima ».
È vero che c’era di più stata la coincidenza del fatto
delle scoperte del Mai.
Ora, era quest’ultimo un fatto forse anche più ester¬
no degli entusiasrni del Pellico, e che non avrebbe po¬
tuto mescolarsi al sentimento del poeta, se non per
intrusione e artificio. Diciamo pure e invece, che vi si
mescolava per analogia, e per pudore, e anche se si
vuole per romantica estensione d’un tema da termini
particolari a riflessi universali. Diciamo che vi si me¬
scolava in modo da dare al soggetto, e alla disperazio¬
ne che l’animava, un’imponenza grandiosa. Non ne¬
ghiamo che si provi un disagio alla lettura, almeno
alla lettura delle due prime strofe, per quella ch’è in
esse come una messa in scena dalla quale dovrebbe ri¬
sultare la suggestione dei segni insoliti da cui, indovi¬
nandone il messaggio, il poeta acquista ispirazione, e
tono, la sua parola, di vaticinio. Quel diavolo d’un
Breme era anche colpevole d’avergli suggerito che per
i poeti era venuta l’ora di ridiventare « vati ».
Vorrei osservare per conto mio che sono di quegli
anni alcune osservazioni del Leopardi stesso, e diceva:
« Dunque Virgilio non sarebbe poeta altro che nel
quarto dell 'Eneide e nell’episodio di Niso e Eurialo,
e che so io? dunque non ci sarebbe più altro che un
solo genere di poesia? e in uno stesso componimento
non si dovrebbe tenere altro, che un tuono solo? ».
Noi crediamo difatti, che il sentimento dell’invecchia-
re d’una civiltà, e lo spavento ch’essa possa anche pe-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 499

rire annullando tutte le speranze che il suo passato


racchiudeva, formi un soggetto poetico non meno sug¬
gestivo e legittimo della contemplazione della viola
mammola. La storia, la filosofìa possono benissimo
diventare materia di poesia, purché in quel momento
non siano più se non come in Dante, come Dante sa¬
peva benissimo ottenere, se non canto. Il Leopardi
stesso che a proposito della filosofia moderna aveva
dovuto riconoscere ch’era insociabile colla poesia, po¬
teva parlare « di spiriti veramente straordinari e som¬
mi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni,
e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro
stessi e [sono in grado] di vincere qualunque ostaco¬
lo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfet¬
tamente; e sarà cosa, essendo vicina all’impossibile,
rarissima e singolare ».
La poesia non è razionale, e potrebbe esserlo nella
sua dialettica e nella sua sintassi, ma non mai nei suoi
fini, che sono di portare a sentire la verità oltre il li¬
mite della ragione. Tali sono non certo perché la ve¬
rità debba contraddire la ragione. La poesia, vogliamo
dire, non è fondata su ragionamenti, ma su rivelazio¬
ni, su illuminazioni, o, come avveniva al Leopardi di
dire desolatamente, su illusioni per offrire il conforto
delle illusioni, e se essa, può avvenire, è costruita con
logica di pensiero da mettere in imbarazzo un geome¬
tra, il suo merito non sarà mai in ciò che dimostra,
ma in quella forza che avrà di metterci a contatto
con il vivente mistero della natura. È il Leopardi stes¬
so ad osservare, e quando in queste cose poteva rite¬
nersi saturo d’esperienza, e cioè verso la fine del 1828:
« Il poeta non imita la natura, ma la natura parla
dentro di lui e per la sua bocca. Così il poeta non è
imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazio¬
ne egli esce veramente da sé medesimo, quella pro¬
priamente non è più poesia, facoltà divina, quella è
un’arte umana, è prosa, malgrado il verso e il lin-
500 Giuseppe Ungaretti

guaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può


stare ».
9

Il difetto dell’Angelo Mai è d’arenarsi in ogni stro¬


fa, ma sempre con qualche verso alato, in « prosa mi¬
surata ». Se si salva è proprio perché alle simmetrie
del tema ricorrente del tedio, o, come preferiremmo
dire, perché alle simmetrie ricorrenti del « secol mor¬
to » vengono nella canzone ad intrecciarsi le simme¬
trie dell’altro tema ricorrente, quello del « clamor dei
sepolti ». I valori poetici non esisterebbero in essa se
il sentimento del perire non avesse potuto ricorrere
ai rapporti di durata che il « clamor dei sepolti » vi
suscita in opposizione al « secol morto ». E così la ne¬
cessità maggiore che a comporre la canzone dovevano
essere due, i temi ricorrenti, provveniva agli orecchi
del poeta da un motivo ossessionante sebbene di me¬
moria mossa da un « disperato obblio ». È clamore,
concedo, che facilmente il più delle volte potrebbe
passare impercepito a un lettore, o sembrargli troppo
sottile.
Provveniva dall’idea che il Leopardi si andava for¬
mando, dell’uso della lingua da parte d’un poeta di
antica civiltà. Una tale idea anzitutto non voleva oltre¬
passare quei limiti « d’imitazione se non di se stesso »
suggeriti appunto per distinguere poesia da prosa. Non
era dunque la lingua a cui aspirava, e l’Angelo Mai
sembra essere stato composto come a prenderne net¬
tamente coscienza, una lingua letteraria, e cioè la lin¬
gua regolata per i vocaboli e i modi dai modelli, dal¬
l’autorità di poeti precedenti che l’abbiano illustrata;
né era la lingua usualmente parlata; ma era quella
lingua personalissima che egli si sentiva portato a fog¬
giarsi dalla necessità di esprimersi. Si preoccupava del¬
la naturalezza dell’espressione, e teneva conto nel
preoccuparsene di criteri filologici, da buon Romanti¬
co, più che di criteri strettamente rettorici. Pare in-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 501

credibile che occorra ricordarlo tanto sgarra a volte in


queste cose la critica d’oggi, ma l’effetto poetico pur¬
troppo l’uomo non può lusingarsi d’ottenerlo se non
con mezzi fisici, con i vocaboli se si tratta del mezzo
verbale, con i colori, se il mezzo è la pittura, eccetera.
Si diceva dunque che il Leopardi si preoccupava
nella sua ambizione di esprimersi esattamente, di cri¬
teri filologici, e mi spiego. Un uomo ha i suoi anni
personali, ma porta anche in sé, e può averne coscien¬
za, le migliaia d’anni della civiltà a cui appartiene.
È nella lingua, è nella carne vivente, invecchiante
d’una lingua, è nei vocaboli che un poeta come il Leo¬
pardi, sentiva momento per momento lo scorrere di
tanta storia divenuta così come un’eco nella quale la
sua fantasia incontrava l’opportuna risonanza non so¬
lo come proiezione del proprio spirito, ma come regi¬
stro sensibilissimo della propria sofferenza e della pro¬
pria caducità. Un bimbo, mi si permetta questa para¬
frasi di pensieri suoi, o gli scrittori d’una civiltà quan¬
do è ancora primitiva, nominano le cose con proprietà,
con il nome immaginoso che esse direttamente sug¬
geriscono, e subito in quel loro sentimento e in quel¬
la loro immaginazione, prendono vita meravigliosi pen¬
sieri che li rendono partecipi, per terrore o per in¬
canto, della natura vivente delle cose.
È la famigliarità con il mistero, è l’illusione di pos¬
sederla, che un poeta come il Leopardi ricercava. Sape¬
va bene che le parole s’erano fatte sempre più astrat¬
te, che sempre meno nei secoli esse andavano nomi¬
nando le cose con un senso sacro, e sempre più si fa¬
ceva autonomo un senso che non era più delle cose
ma dell’arte umana; e per conoscerlo si consultavano
gli esempi dei libri; e nemmeno più le cose; e il poeta
nemmeno quasi più se stesso; e i libri imitavano i li¬
bri e un uomo quasi più nemmeno se stesso. Non si
esagera, e la storia letteraria potrebbe venire ad appro¬
vare l’insurrezione romantica, che non era certo ecces-
502 Giuseppe Ungaretti

siv^ quando faceva come il Leopardi, dello schietto


Romanticismo negando il Romanticismo.
9

Il Leopardi sapeva bene che non si ritorna bimbi,


se non per rimbambire, ed allora è malinconica seni¬
lità, e, Romantico, non ha l’ingenuità dei Romantici
suoi contemporanei. È piuttosto il contemporaneo dei
Romantici, e tenterà solo di approfittare di quella par¬
te della loro lezione che essi non sanno applicare, e si
sforzerà di raggiungere effetti di divina naturalezza si¬
mili a quelli dei primitivi nel solo modo che ad un
poeta di vecchia, civiltà era concesso, cioè per elegan¬
za, come dice, intendendo per elegante quell’opportu¬
nità di scelta delle voci, e quella sapienza a congiun¬
gerle nel discorso che, pure facendo sentire la durata
d’una lingua e « la lunga etade » d’una civiltà, faccia
toccare l’antico, il primitivo, proprio come un porto
di partenza per una rotta di « lunga etade », e in qual¬
che modo mirabile comunichi per peregrinità, una
percezione dell’occulta origine e dell’occulta meta del¬
le cose. So bene che anche un Leopardi può, anche
avendo raggiunto subito una somma perizia, ingannar¬
si su alcuni dei mezzi da scegliere per raggiungere gli
effetti vagheggiati, ed è possibile, salvo alcuni casi,
che nel senso voluto, latinismi e arcaismi operassero
piuttosto maluccio. Per intenderci, un vocabolo che
nel senso voluto risponde perfettamente è « finzione »
nell’/rifinito-, è, ma un po’ faticosamente, « fato » in
questo Angelo Mai.
Il Leopardi potrà prendere al Maffei « E tu, lenta
ginestra», ma lenta era un aggettivo originale, era
« voce pellegrina »; potrà saccheggiare il Monti, ma il
Monti era un pozzo di scienza letteraria, « orecchio fi¬
nissimo », sebbene, o anzi perché la sua opera era un
mosaico, « un centone di traduzioni », e perfino, difat¬
ti, i versi Al Principe Don Sigismondo Chigi erano
stati elaborati sul Werther, anzi su una traduzione
Saggi e Scritti vari 1943-1970 503

francese del Werther, e a fuoco erano stati messi con


un linguaggio tratto da reminiscenze classiche, se non
addirittura da brani tradotti dai Classici; il Leopardi
potrà perfino non badare a ricorrere a locuzioni « poe¬
tiche » degradate, se non rese dozzinali e ridicole per
l’abuso che da secoli ne facevano i rimatori accademi¬
ci; potrà fare quello che gli parrà, tutto nella sua voce
finirà col redimersi e sembrare come nuovo. Le sue
ricerche d’eleganza espressiva avranno dato allora i
loro frutti, e avrà dato specialmente i suoi frutti Tes¬
sersi esercitato a dare con tanta pertinacia, lo testimo¬
niano le varianti, a ogni suo vocabolo il riflesso evoca¬
tivo della durata psicologica e della durata storica che
gli premeva d’esprimere. Per questo quando avrà con¬
quistato la pienezza della sua arte, ogni sua parola
avrà la sua giusta profondità e la sua giusta attualità
e sarà commovente.
In ogni caso quando per il Leopardi si vorrà parla¬
re di costrutti e d’effetti raggiunti da un canto intero,
converrà non dimenticare l’importanza che assumeva
per lui l’essenzialità espressiva, e come essa necessa¬
riamente si eleggesse a nucleo il vocabolo nella sua
durata. Il tema del « clamor dei sepolti » si legittima
anche per questo. Avrebbe così la legittimazione più
segreta, ma era quella che in quel momento appariva
al Leopardi la più necessaria e che da quel momento
evolveva verso le forme degli Idilli e dei Secondi idilli
e degli Ultimi canti bruciando dietro di sé quasi ful¬
mineamente quanto, e non era poco, era in essa ri¬
masto di rettorico e di letterario.
IL POVERO NELLA CITTA
[Discorso sul « Don Chisciotte » di Cervantes]
[1946/1949]'

Si compiono quattro secoli quest’anno dalla nascita di


Miguel de Cervantes Saavedra. A celebrare l’avveni¬
mento, stimolato da alcuni intelligenti bibliofili, Giam¬
piero Giani ha pensato di ristampare in magnifica edi¬
zione il Don Chisciotte, chiedendo a Carlo Carrà di il¬
luminarne il testo con i suoi disegni.
Il mio modesto compito è di presentare agli .inter¬
venuti il bellissimo omaggio.
Sulla perfetta veste tipografica del libro, ciascuno
potrà giudicare da sé. È evidentemente perfetta e con¬
tribuisce non poco a rendere non falsi né esagerati
quegli attributi di « magnifica » e di « bellissima » che
usavo poco fa per l’edizione e per l’omaggio.
Più difficile è per me parlare di Cervantes. Si svol¬
gono in altra direzione i miei studi, i quali, anche lo
volessi, non potrebbero avere altra mira se non il mio
lavoro di poeta: non potrebbero averne altra, e in
quella stessa guisa che a tale lavoro fatalmente con¬
vergono, ispirandolo, le varie esperienze della mia vita.
Il campo non tanto m’è diverso perché non sono
un ispanista - e mi sarebbe facile difatti parlare di
Góngora — quanto perché il linguaggio della poesia
lirica ha esigenze diverse da quello della poesia nar¬
rativa, anche se avvenga che le fluttuazioni storiche
cui Luna e l’altra obbediscono nelle loro variazioni,
siano esattamente le stesse. Credo che l’arte incominci
a distinguersi nei modi espressivi, per differenza di at¬
titudini naturali delle diverse personalità e che l’ec¬
cellenza raggiunta da due scrittori in un medesimo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 505

genere letterario significhi anche tra di essi un’affinità


innata.
Comunque devo confessare, se non mi tradisce la
memoria serbata duna mia vecchia lettura, che il Cer¬
vantes mi attrae per due motivi.
Generalmente non si dà importanza superiore a
quella d’un espediente letterario e d’un ricorso non
pellegrino, alla pretesa del Cervantes d’avere attinto,
per elaborare il suo Don Chisciotte, al manoscritto
d’un « Sid Hamet ben Engeli, autore arabo e mance¬
se ». Vorrei dare alla segnalazione un’importanza mag¬
giore, e vi avrà pensato il Cervantes, o non vi avrà
pensato affatto e a fare la sua segnalazione sarà stato
spinto da uno di quegli oscuri motivi che in tanta
parte muovono la parola umana; o tutto non è pro¬
babilmente se non una mia congettura, un almanacca¬
re mio dietro alla mia fantasia sempre pronta a vola¬
re senza ritegni quando il vento la volga alla civiltà
degli Arabi in mezzo ai quali ho trascorso i begli anni.
Non si dimentichi, in ogni caso, che l’epica europea
sorse a contatto degli Arabi, che l’Europa prese co¬
scienza della sua unità in contrasto cogli Arabi, che
la lirica neolatina si maturò nelle penombre della cor¬
tesia araba, che i fiori della mistica spagnuola, - per
ritornare più particolarmente alla Spagna, - sparsero
il loro profumo da innesti islamici. Tutto ciò è noto,
e anche dimostrato in voluminosi tomi.
Ciò che si sa meno è che esiste tra gli Arabi un ti¬
po - un modo d’essere umano - al quale danno il no¬
me di faqir. La Spagna, che ebbe a mantenere con gli
Arabi consuetudini dirette di vita più a lungo di qual¬
siasi altro popolo europeo, e ne ha ereditato più di
altri usanze sociali e pieghe dello spirito e impulsi del
carattere, forse ha in sé mantenuto, connaturato, un
po’ di quello stupore e di quella reverenza che sem¬
pre, tra gli Arabi, produce l’apparizione d’un faqir.
E costui, chi sarà mai? Non è colui che fachiro s’usa
506 Giuseppe Ungaretti

abitualmente chiamare. Non è il mangiatore di fuoco,


l’ingoiatore di spade, quello che tenendosi colle dita
dei piedi al ramo d’un albero, si dondola a capo in
giù sulle fiamme; né quello che sta per sempre ritto
sopra una colonna non battendo mai ciglio né quello
che si fa da una lama attraversare la carne senza spar¬
gere sangue; né quello che incanta i serpenti. Il mio
fachiro è, come dice in arabo faqir, semplicemente un
povero. E gli altri avranno imparato l’arte di essere po¬
veri e a buon diritto si faranno anch’essi chiamare fa¬
chiri; ma il senso che vorrei dare stasera al vocabolo
è quello che gli viene anche da un libro che sa tutto,
che sa certamente tutto sul sorgere, sulla vocazione e
sul destino di quei popoli che dall’Indo all’Atlantico,
attraverso il Nilo, occupano una vetusta culla umana.
Narra il Vecchio Testamento che ad Agar - quando
fu depressa dalla padrona Sara che, per l’infrangibile
sterilità, era stata tenuta a vile dalla serva, superba
d’essere gravida - ad Agar l’Angelo apparve: « Tor¬
na » le disse « alla tua padrona, e stattene sottomessa
a lei. Ecco, incinta sei, e avrai un figlio: lo chiamerai
Ismaele ». Ismaele significa in ebraico Dio ascolta.
« Ismaele » soggiunse l’Angelo « sarà un' uomo sel¬
vaggio: contro tutti: e avrà contro di sé, tutti. » Il
Dio dell’apparizione fu da Agar chiamato il Signore
che le si era rivelato per tramite dell’Angelo e, sicco¬
me dell’apparsa divinità essa, contrariamente a quanto
si credeva fosse possibile a creatura terrena, aveva po¬
tuto reggere la vista e la parola senza morirne fulmi¬
nata, Agar chiamò il pozzo ch’era lì, Vive chi mi vede.
Più tardi Sara, quando, quantunque novantenne, eb¬
be anch’essa da Abramo un figlio, e lo chiamò, tanto
la cosa le pareva inverosimile, Isacco, ossia Uno scher¬
zo, volle che si scacciassero Agar e Ismaele. L’Angelo
persuase Abramo a farla contenta, dandogli assicura¬
zione che anche del figlio della serva avrebbe fatto,
essendo sua prole, un popolo. « E Dio fu » prosegue
Saggi e Scritti vari 1943-1970 507

la Scrittura « col fanciullo, che si fece grande e abitò


nel deserto, abile nel tirare d’arco. »
Subito dopo, una seconda storia altrettanto utile
ai significati che ricerchiamo, mi propone la Genesi,
quella d’Esaù. Non era figlio d’una serva, questi - e
lo fosse stato non ci troverei nessun male ma il
primogenito di Rebecca e di Isacco: colui che per di¬
ritto di primogenitura avrebbe dovuto essere l’erede
d’Àbramo, il destinato a dare discendenza intermina¬
bile al popolo,eletto.
Era nato irsuto e rosso di pelo, come dicono il suo
nome d’Esaù e il suo soprannome di Edom; come or¬
so selvaggio e acceso, era nato, mentre il gemello lo
seguiva nell’uscita dal ventre materno tenendogli il
calcagno. L’afferrante fu detto Giacobbe, ossia Calca¬
gno, e fu casalingo; fu pacioccone e furbacchione. Do¬
veva avere, immagino, i piedi piatti; ed era uno di
quelli che un puntello lo sapranno sempre afferrare
in tempo, anche - se ne vedano il vantaggio - per fa¬
re capitombolare il fratello.
« Esaù » il Libro prosegue « divenne esperto di cac¬
cia. S’era cotta Giacobbe, una vivanda, quando-Esaù
giunse dal campo, spossato. Disse Esaù a Giacobbe:
“Lasciami trangugiare codesta pietanza rossa: sono
spossato”. Di qui gli venne il soprannome di Edom. »
Aggiungerei che gli venne anche, come si disse, per
il pelo e la carnagione, e così fu tre volte designato
come II rosso, « Rispose Giacobbe: “Cedimi all’istan¬
te la tua primogenitura”. Esaù disse: “Eccomi vicino
a morte; e che può farmi la primogenitura?”. Riprese
Giacobbe: “Giuramelo all’istante”. Esaù giurò e così
vendette la sua primogenitura a Giacobbe. »
« Ecco! » benedicendolo esclamerà il padre « ecco!
senza le grasse terre sarà la tua sede e senza la ru¬
giada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e ser¬
virai a tuo fratello. Ma quando ti agiterai, ne scuo¬
terai il giogo. »
508 Giuseppe Ungaretti

'Ne discesero gl’Idumei, gli abitanti dell’Arabia Pe-


trea e dell’est del Negeb, gli abitanti di monti brulli.
Se Ismaele è patriarca d’Ar&bi, lo è anche Esaù; se
sangue ismaelita scorre nelle vene arabe, vi scorre an¬
che sangue idumeo, un sangue più focoso se possibile,
un sangue più matto, se è capace d’indurre uno a sa¬
crificare la ragione volontariamente, volontariamente
il diritto alla primogenitura, per un capriccio; d’im¬
provviso, per una voglia, per un sogno; o magari an¬
che per un’illusione; - un sangue più ardente, più
matto dell’ismaelita, se la povertà - eroismo, pazzia
- l’ebbe per prppria deliberata scelta.
Ho tanto girovagato per le strade del mio Egitto.
Il matto e il povero nella mente dell’Arabo sono un
po’ la medesima idea: l’uomo che non fa conti e non
ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo
che governano una debolezza e una forza smisurate;
l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine
dell’avventura terrena: quando si nasce e si è per
forza nudi, e, dopo, quando si è sprecata, in pochi o
molti anni, la ricchezza immensa che è la vita. Il faqir
è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che
solo vive chi vede l’Angelo: non si sa che cosa voglia¬
no significare i suoi gesti e le sue parole, e potrebbe
darsi che siano semplicemente manie. Ma gli Arabi
sono sempre in attesa d’un miracolo, il cui presagio
potrebbe nascondersi in quei gesti e parole oscuri e
non normali. Non ho incontrato un popolo che cre¬
desse di più nella veggenza, nella veggenza dell’invisi¬
bile: il faqir gli ricorda dunque l’origine, la sorte, le
vicende della sua storia; brevi glorie in lunghi perio¬
di di miseria; ma sopra tutto il faqir è per lui il segno
vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto
da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più:
uno che è sorto a simbolo di libertà.
Se vi fosse accaduto come a mè, di fermarvi sul li¬
mitare del deserto, avreste potuto assistere, per esem-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 509

pio, al muled del marabuto, e a un certo momento,


avreste notato, fra cavalieri e gentucola e stendardi
accorsi alla sagra, un brusco diverso muoversi dell’on¬
da. Arrivava un ometto, e si scalmanavano a fargli
largo. Avvolto in una consunta coperta di pelo di ca¬
pra che gli fa una lunga coda, porta a tracolla un sac¬
co e l’apre per buttarci dentro i fiammiferi, - una sca¬
tola intera! - che raccatta, coi quali non ho saputo -
con quel vento! - accendermi il sigaro... Vedo che il
sacco è pienQ di fiammiferi usati, e c’è anche - e
l’ometto non ha un dente in bocca - un vecchio spaz¬
zolino da denti. S’avvicina alle tende e, da padrone,
fra le benedizioni, qui tuffa la mano nel risotto e a
pallottoline per aria lo lancia: colla bocca sdentata le
coglie a volo, nitrendo, e colle froge annusa il vento
come una brenna in calore... Lì, di mano ha tolto al¬
l’ospite la chicchera del tè pepato e se lo beve, bol¬
lente, d’un sorso.
Sempre alla piega della bocca ha un risolino.
Era il re della festa, da tutti inchinato, e poteva
credere, come credeva, di portare nella sua bisaccia la
folgore - i poveri fiammiferi usati - con la quale
avrebbe potuto ridurre in cenere la ciurma degli uomi¬
ni e, il loro stupido mondo, a meno d’un ricordo, se
gliene fosse venuto il ghiribizzo. Un personaggio del
Cervantes si crederà Giove tuonante e, ai giorni no¬
stri, Giove tuonante, purtroppo, veste sembianze d’uo-
mo non per ischerzo.
Ed eccomi così oggi a passo a passo, riammesso nel¬
la città araba del mio vecchio Cairo, nelle strade che
hanno meglio conservato il loro carattere, strette, pie¬
ne di botteghe, con le insegne che pendono da un’asta
orizzontale sulla testa del passante, coi ghirigori delle
scritture, con tutti i tessuti che sventolano, con la don¬
na imbacuccata davanti a un monte d arance sul mar¬
ciapiedi, coll’uomo che rimescola nell’orcio nero dove
da ventiquattr’ore bollono le fave.
510 Giuseppe Ungaretti

Eccomi a zonzo nelle care straducole, con quelle


taamie, polpette d’aglio, menta e fave, che friggono;
con quel cesto di cetrioli; con'quei boccali dove stan¬
no sott’aceto le rape che fanno ruttare gli sceikh; con
quei baiad, naselli del Nilo che arrostiscono sulla gri¬
glia; colla malva in macero; con l’uomo che ha preso
il decotto di fiengreco per depurarsi il sangue e ha un
sudore marcio; con tutti gli speziali, con tutti i pro¬
fumieri; coll’odore di rosa, di cannella, di cuoio, di
gelsumino, di colombina, di rame, di ambra, di mada¬
polam; con l’odore della città araba nel mio vecchio
Cairo; e, a legare tutti gli odori, arriva nella strada il
faqir, con una corona di barba bianca come una lana,
rasa sotto il mento: arriva col suo turibolo e incensa
il fritto e il bollito, la seta e il metallo, la spremuta
di canna da zucchero, rosari, collane e tabacchi.
Ma c’è un altro odore, un odore più resistente di
tutù, anche di quello della cannella e dell’incenso:
l’odore delle cose, delle case, che, sotto i nostri occhi
se ne vanno in polvere.
Esso ci spiega, meglio di qualsiasi parola, quel sen¬
so effimero che l’Arabo dà alle cose, che gli viene dal
portare nel sangue la pazzia d’Esaù.
Il segno stesso della stabilità, della resistenza al tem¬
po, in un paese dove a quel segno gli Antichi, colla
durezza del materiale scelto e con la loro fede, aveva¬
no dato addirittura un valore d’eterno; quel segno:
una città; quel segno, per l’Arabo non è che una ten¬
da.
Fustat, la prima città araba fondata al Cairo da
Amru, nel 642, subito dopo l’invasione, appunto si¬
gnifica Tenda.
Quando una città era crollante, si abbandonava, se
ne fondava un’altra, ed era quasi sempre segno di no¬
vità nel potere; e così, in poco più di trecent’anni, una
dopo l’altra, press’a poco da sud a nord, vennero fon¬
date altre tre città: E1 Kataiah, E1 Askar, e, nel 970,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 511

E1 Kahira: in poco più di trecent’anni, quattro volte


la tenda venne trasportata altrove.
Mettetevi ora a guardare dal fondo della strada af¬
follata d’odori, dove non c’è posto per passare, né per
farsi sentire, come non ce n’è per respirare: vi parrà
di vedere un lungo serpeggiare: immondizie; e, su¬
bito, il caos nauseante si trasformerà, sotto i colpi del
sole, in tappeto armonioso.
Ma, nella strada, non so come, riesce a passare un
morto. Gli vanno dietro tenendosi per mano, o a
braccetto, in fila per quattro o per cinque, un gruppo
di ciechi. I ciechi sono i faqir dei morti. Poveri com’è
la morte, com’essa deserti,, poveri ciechi; coqie essa,
ciechi, e come essa, ora che pregano, presi da quella
pazzia dell’Angelo che vive, che vive perché può ve¬
dere il Dio.
Esaù sopravvive a questo modo nell’Arabo, nei suoi
ardimenti, nel suo fasto, nella sua ricchezza d’un mo¬
mento, nei perpetui inganni che si offre, per i quali
sperpera tutto in un nulla e getta sulla bilancia la sua
stessa ragione, purché gli riesca di colmarsi quel desi¬
derio che gli è venuto — e se minuscolo, che importa!
La sua arte stessa ne è prova, spinta fino all’assurdo
nell’astratto, impoverita fino all’assoluto nella freschez¬
za dei ghirigori; ma pure arrivata così ad avere non so
quale veggenza, quale veggenza dell’invisibile che nes-
sun’altra arte ha. Indubbiamente non doveva essere
piccola una simile pazzia in un popolo il cui senti¬
mento e la cui sensualità, il cui senso del concreto, del
possesso, non hanno uguali; ma la cui razionalità an¬
dava fino ad inventare la segretezza dei simboli alge¬
brici. Popolo dai gesti inopinati, precari, anonimi,
estremamente scoperti, e dalle ragioni così ermetiche,
personali che solo l’Angelo poteva suggerirle e inse¬
gnare a decifrarle.
Il supposto manoscritto di Sid Hamet ben Engeli
non fu dunque solo una mistificazione rettorica da
512 Giuseppe Ungaretti

parte del Cervantes, se allusioni ad esso letterali e


psicologiche poteva scoprire nelle piazze della sua Pa¬
tria e in sé, e se quattro secoli più tardi doveva torna¬
re a scoprirne un Lorca. Ma anche se la mia fantasia
si fosse data in questo caso a correre troppo, non sa¬
rebbe certo un inventore come il Cervantes a muover¬
mene addebito.
Quando, dieci anni dopo l’uscita della prima parte
del suo libro, s’affretta nel 1615 a pubblicarne la se¬
conda, perché già, a calmare l’impaziente curiosità del
pubblico, ne circola la falsa d’Avellaneda, Cervantes,
nel prologo al lettore, narra d’un matto, il più strava¬
gante che vi fosse al mondo, narra d’un faqir incon¬
trato a Siviglia, il quale s’era fatto un tubo d’un giun¬
co puntuto da un lato, e quando gli riusciva di ac¬
chiappare un cane per istrada o altrove, con un piede
gli fermava una zampa, con una mano gli alzava l’al¬
tra, e, come meglio poteva, gli applicava il tubo nel
posto- che sapete; gli arrotondava il corpo poi come
una palla soffiandoci dentro, e lasciava la povera bestia
con due colpettini sulla pancia dicendo agli spettatori
sempre numerosi: « Vostre Grazie diranno ancora che
sia cosa da nulla gonfiare un cane? ».
Ma, immaginando d’essere egli stesso un faqir, su¬
bito dopo ci confida in un orecchio, il poeta: « Vo¬
stre Grazie penseranno ancora che sia cosa da nulla
fare un libro? ». La similitudine non è elegante; ma
nessuno ha preteso che il Cervantes fosse l’Ariosto.
Ecco, un libro di poesia si fa senza motivo, senza
nemmeno una di quelle ragioni mensurabili, pondera¬
bili, riducibili a logica che fanno tanto gola a chi di
poesia non capirà mai un’acca; e così era fatto anche
un libro che pure voleva attenersi alla formula rina¬
scimentale, ed essere principalmente un libro per di¬
vertire, un libro decorativo. È vero che già era sorto
il Barocco, e che il libro, volendolo o non volendolo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 513

l’autore, doveva andare anche più in là del Barocco,


assai più in là del Barocco.
Ma le avventure di Don Chisciotte sarebbero pia¬
ciute a tutti? C’era, per chi le avesse gustate poco,
una seconda storiella di matto e di cane. Il secondo
faqtr era stato incontrato a Cordova. Usava portare
sulla testa una pietra di discreto peso. Se incontrava
un cane, gli girava intorno, e poi gli lasciava cascare
la pietra a piombo sulla testa. Il cane guaiva, urlava,
faceva tre strade senza fermarsi. Successe che il faqir
lasciasse cadere la pietra sulla testa del cane d’un cap¬
pellaio, molto amato dal padrone. Mezzo schiacciato,
il cane si mise a lamentarsi, a urlare, e lo vide il pa¬
drone, che andò su tutte le furie. Aveva per le mani
la verga da misure: si lanciò sul matto e non gli lasciò
un osso sano. Ad ogni colpo che gli dava, gli diceva:
« Cane d’un ladro, il mio levriero! Non vedevi, crude¬
le, che il mio cane è un levriero! ». La parola levriero
fu ripetuta più di cento volte. Guarito, dopo più di
un mese, con sulla testa un pietrone più pesante di
quello di prima, tornò sul solito posto, il matto. Guar¬
dava in terra, senza osare scaricare la sua pietra, e di¬
ceva: « È un levriero, guai! ». Infatti, qualsiasi cane
incontrasse, barbone fosse o mastino, dalla volta delle
busse, gli diceva ch’era un levriero, urlando poi:
« Guai! ». E con le due mani, sulla testa si calcava
con tutta la forza che gli era rimasta, il pietrone:
« Guai! ».
La morale della favola? Potrebbe essere quella che
si ricava da un’antica e non encomiabile pedagogia, e
cioè che le correzioni corporali sogliono portare a ve¬
dere le cose in un modo diverso da quello che credeva¬
mo il loro, e sogliono portare spesso a vederle anche
come non sono. La memoria, la memoria che ci viene
dal nostro corpo ammaccato dalle busse, che ci viene
quindi dai nostri sensi, potrebbe modificare, o cambia-
514 Giuseppe Ungaretti

re del tutto, ciò che prima asserivamo verità indiscu¬


tibile per fede degli stessi nostri sensi?
La finezza di Cervantes era maggiore. Anche quello
storico che muoveva al Don Chisciotte rampogna, mi¬
nacciandolo con quél suo grosso tomo che si portava
sulla testa, era anche lui un matto, era un faqir anche
lui; ma così poco veramente matto che il vero fabbri¬
cante di cappelli, l’intenditore di veri-copricapi, di ve¬
re illusioni, facendogli conoscere il suo metro, avrebbe
potuto mutargli, non la stupidaggine, che avrebbe pro¬
seguito a pesargli sulla testa anche peggio di prima,
ma dentro la testa, sì, la realtà. Ecco la libertà e la
potenza di metamorfosi della poesia rivendicata da
Cervantes nel modo più fine, e malizioso.
Non dunque unilateralmente si limitava la mia cu¬
riosità - e la mia meraviglia, e la mià- riflessione - nel
corso della mia lontana lettura del Don Chisciotte.
C’era una seconda dimensionò, e tante altre, se i nostri
sono non più tempi euclidei.
Il Don Chisciotte è uno dei libri che hanno sovver¬
tito e rinnovato dalle fondamenta l’arte del romanzo,
e solo forse dopo il Romanticismo si seppe misurare
l’importanza che aveva avuto nella trasformazione del
linguaggio poetico europeo aderendo strettamente e
senza ritardo allo stato preciso d’evoluzione del pen¬
siero occidentale.
Il Leopardi, che aveva certo nella mente molta più
filosofia dei filosofi e un senso della storia innato as¬
sai più attento di quello degli storici, osserva più
d’una volta nello Zibaldone come una nuova trovata
nelle scienze fisiche possa dare al corso del pensiero
un avvio sino a quel momento insospettato. Non sono
mai fatti che possano avvenire, ritengo, senza rivolgi¬
menti anche sociali, senza determinare uno stato di
crisi che è funzione dei poeti segnalare, in quanto
esso indica squilibrio che invoca appianamento tra i
valori morali originari, permanenti nell’uomo, e la po-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 515

tenza materiale, la potenza dei mezzi, che con le sue


stesse mani l’uomo, per l’incessante crescere del suo
sapere tecnico, si va foggiando, e aumentando senza
posa, e ormai quasi smisuratamente.
Nella canzone Ad Angelo Mai, il Leopardi stesso,
evocando l’impresa di Colombo, esclama:

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,


Ligure ardita prole,
Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider l’onde all’attutar del sole
Parve udir su la sera, agl’infniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo.

Nell’annotazione poi chiarirà la sua immagine, la


quale voleva dire che giunto colla sua caravella a un
certo punto della sua navigazione, Colombo vedeva
sorgere il sole che in quel medesimo momento al por¬
to di partenza, alle colonne d’Èrcole, tramontava. Vo¬
leva anche dire altro il Leopardi, ossia che Colombo
stava per approdare a un continente facendovi sorgere
la storia che da noi tramontava; ma questo discorso
varcherebbe i limiti che oggi ci siamo prefissi. Non
mi pare, in ogni modo, che per l’Europa fosse quello
l’inizio del tramonto d’una storia, ma forse il primo
momento d’un’era la quale, nonostante la terribilità
dei drammi che avrebbe dovuto superare per affermar¬
si, avrebbe finito per affermarsi.
Il Leopardi voleva dire che era ormai un’illusione
dei nostri occhi il calare del sole nel cielo e il suo an¬
darsi a tuffare per sonno nel mare. E così tutta la poe¬
tica aristotelica dell’imitazione era andata quel gior¬
no in rovina. Così da quel giorno si poteva considerare
che tutto ciò che ci veniva dai sensi poteva essere
smentito dal nostro sapere. Poteva smentirsi anche ciò
516 Giuseppe Ungaretti

che ci veniva dalla memoria? Non so, per esempio, la


realtà vista secondo il timore d’altre botte di santa ra¬
gione, che frenava il matto dai grosso tomo sulla te¬
sta? Ma se il Cervantes avesse spinto a tale punto
quella volta la sua arguzia, l’avrebbe resa innocua, e
non s’è detto ch’era uno sciocco.
Poteva smentirsi anche ciò che ci veniva dalla me¬
moria, poiché sappiamo che il tempo è modalità che
aveva appartenuto fino allora a una geometria a tre
dimensioni, cui non erano estranei i sensi: il nascere,
il maturarsi, il patinarsi, il corrompersi, lo sgretolarsi,
il ridursi in polyere delle cose, sono difatti stati di
variazione del durare che non sfuggono ai nostri sen¬
si.
Sono, i mutamenti teorici e sociali in seguito a con¬
quiste scientifiche, cose che arrivano a toccare l’arte
per vie molto oscure, imprevedibili in ogni caso, e il
linguaggio poetico vi s’interessa - vi s’impiglia, vi
s’impegna - in modo sempre diverso da quello che
logicamente potrebbe prevedersi: e l’interesse che ne
avverte il poeta può a volte precedere il progresso dei
mezzi materiali, come divinazione, o coincidere con
esso come motivo di tensione angosciosa, da scioglier¬
si o manifestarsi distesamente solo a lunghi anni di
distanza, ma come riflesso emblematico, come sintesi
d’un raggiunto linguaggio comune, già presente.
La caduta della poetica dell’imitazione dava allo
spirito umano una libertà creatrice che solo i Roman¬
tici conosceranno appieno, anche teoricamente, ma che
già Pascal definiva perfettamente quando nel Discorso
sulle passioni dell’amore scriveva: « Nessuno si auspi¬
ca crudamente una bella; ma in essa desidera mille
circostanze dipendenti dalla disposizione in cui egli si
trova; ed è in questo senso che può dirsi che ciascuno
possiede il suo originale della bellezza, della quale
nell’universo mondo cerca la copia ». Oppure quando
osservava: « Gli autori non ci possono dire bene i
Saggi e Scritti vari 1943-1970 517

moti dell’amore dei loro eroi: occorrerebbe ch’essi


stessi fossero eroi ».
Prima dei Romantici, la caduta della poetica del-
l’imitaziofie era già dunque sentita e definita da Pa¬
scal; ma, nel Don Chisciotte, Cervantes era andato,
in questo senso, più in là. Non più a fondo, poiché
probabilmente è impossibile andare più a fondo d’un
Pascal, in qualsiasi cosa; ma più in là, certo, se Pa¬
scal nel medesimo Discorso ammette che le passioni
crescano con lo spirito, sebbene « occasionate dal cor¬
po » « poiché le passioni non essendo che sentimenti
e pensieri, i quali appartengono puramente allo spiri¬
to, è visibile ch’esse non sono più se non lo spirito
stesso, riempiendone così la capacità, sebbene occasio¬
nate dal corpo ». - « Occasionate dal corpo », ammet¬
teva Pascal, e quindi non negava loro una certa rela¬
zione con i sensi, un certo controllo che loro veni¬
va dai sensi per attestarne anche la fisica autenticità.
Trattandosi di facoltà morale d’estensione in ispiri-
to, in infinito, e non di ragione, di misura del finito,
Pascal non s’ingannava. Il mistero parte dai sensi e nel
cerchio dei sensi fa il suo giro infinito. Il corpo scac¬
ciato dalla porta, rientra in ballo - in Cervantes stesso
- dalla finestra e, occorrendo - perché no? - saprà an¬
che attraversare i muri. Sarà in Baudelaire, quando
i sensi appariranno come l’ultimo rifugio della verità:
fantasmi tragici che tenteranno di reincarnarsi per far¬
ci toccare con mano la verità.
Non si potrà mai negare la facoltà di sentire, prin¬
cipio di tutto, principio all’uomo del farsi uomo: del
farsi cosciente. Ma poteva volerci indurre a dubitarne
l’idolatria della razionalità e una ridicola presunzione
d’essere liberi per logica, cioè per meccanici sviluppi
di parole, e non per grazia inattesa di parole. Ma da
quel momento incominciava ad essere pure chiaro per
la coscienza che le immagini erano legate ai sensi,
alla facoltà di sentire dalla quale potevano scaturire
518 Giuseppe Ungaretti

per analogia, all’infinito. Solo dal Baudelaire delle cor-


respondances si incomincerà a saperlo in modo chia¬
rissimo; ma da quel momento era intravvisto che si sa¬
rebbe potuto affinare senza misura il sentimento e po¬
tenziare la fantasia all’infinito: per libertà d’imma¬
gini.
Già per Don Chisciotte, i trenta o quaranta mulini
a vento della pianura erano giganti da sbaragliare, an¬
che se non potevano essere se non mulini a vento ai
sensi, e al buon senso di Sancio che, alla costituzione
sempre più lucida del personaggio, recherà un contrap¬
punto sempre più stringente, sino a quando il povero
cavaliere ormai stanco, dal suo inventore non verrà
steso, pacificato, sul letto di morte.
Don Chisciotte nell’interno del suo spirito li aveva
nominati giganti, e che importa dei sensi, se i sensi
presi alla lettera, e non nel loro slancio vitale e non
per il valore simbolico e di rapporto spirituale che in¬
ducono a conoscere nelle cose, possono ingannarci così
grossolanamente facendoci credere che il sole si corichi
nel mare, o, per ricordo di sante legnate, che il ma¬
stino sia un « levriero ». Inganno per inganno, sia al¬
meno libera la nostra scelta, estendiamo almeno la
potenza di prodigalità del nostro spirito creatore, but¬
tiamo via tutto - e anche ciò che s’usa chiamare ragio¬
ne e che spesso non è se non una meccanicità balorda
e dannosa e disumana dello spirito. - buttiamo tutto
all’aria, per la libertà del nostro spirito: essendo la
metamorfosi delle cose di nostro libero arbitrio, but¬
tiamo tutto all’aria! Un faqir assoluto dunque, ridotto
a una tale povertà che non gli restava più, nel senso
materiale, nemmeno l’esistenza dei sensi, nemmeno
più l’abito meno separabile dall’esistere; salito a una
tale pazzia da lusingarsi di possedere quasi la facoltà
divina del creare le cose, non volendo o non potendo
più rappresentarne la forma se non ad immagine dei
suoi pensieri. Una veggenza ch’era, certo, sempre esi-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 519

stita da quando esiste l’uomo e la poesia; un infinito


che s’era sempre aperto, certo, nella mente umana da
quando Dio, avendola creata a sua immagine, le ha in¬
fuso il sentimento del mistero; ma un privilegio - es¬
sendo un privilegio che ora all’uomo era anche con¬
ferito da fatti rilevati, non da fatterelli, da fatti rile¬
vati, addirittura astronomici - ma un privilegio che
diventava ora tremendo. Era dunque un privilegio di
cui così l’uomo diventava responsabile.
Ma non ci fu mai uomo che si morse la lingua per
paura d’abusare della parola? Forse dopo il Gianseni¬
smo furono più numerosi, almeno nella poesia, che
nel passato.
Andava, Cervantes, più in là del Pascal che cercava
nell’universo una bellezza ad immagine dei propri
pensieri. Cervantes, più pessimista di Pascal, siccome
in tutto l’universo tali immagini non le avrebbe mai
incontrate, aveva convinto Don Chisciotte a credere
tali le prime che gli fosse parso d’eleggere tra gli og¬
getti che gli accadeva d’incontrare, oggetti che erano
non come apparivano agli occhi di tutti, ma quali
erano per lui solo, ossia quali li pensava.
Andava più in là dello stesso faqir-, se il faqir get¬
tava via la sua ragione per un oggetto bramato, per
una brama divenuta fissazione, mania, pazzia, Don
Chisciotte non perdeva il suo giudizio per un og¬
getto: il suo pensiero non aveva altro oggetto che non
fosse se stesso. Don Chisciotte ammattiva per il suo
pensiero divenuto il suo unico oggetto.
Ma c’era un personaggio che lo sdoppiava, c’era l’al¬
tra parte di lui ch’era tutta coinvolta nella rete ogget¬
tiva dei rapporti, tutta impacciata nella pania della
realtà oggettiva. Sancio era l’altra metà del personag¬
gio, la metà pratica, la parte terra terra del suo com¬
prendonio, quella che per risolversi non chiedeva se
non una piccola operazione aritmetica - come sembra
non si chieda più altro da quando, volendole salvare
520 Giuseppe Ungaretti

a furia
%
di statistiche, si mandano le nazioni in ma-
lora.
Tolto all’uomo il diritto di ^rrare - le calcolatrici
elettroniche non possono sbagliarsi! - si commettono
gli errori più orridi, poiché l’uomo, rimanendo uomo
nonostante le macchine, continuerà a errare: a errare
sempre più, sempre peggio, se privo di quella pruden¬
za di quando ancora si riconosceva, persino nella paz¬
zia, fallibile; se privo di quell’umiltà che facendolo
pronto alla tolleranza - non ancora inesorabile, non an¬
cora giunto all’ultimo grado della stupidaggine: non
ancora odioso all’estremo - facendolo pronto al com¬
patimento, lo faceva degno di pietà, d’amore, e anche
di qualche gloria.
Sancio ridondava di quella specie di ragione che il
Leopardi chiama facoltà materialissima.
Sancio, a furia di frequentare Don Chisciotte, arri¬
va fino a imparare a favorirne, da buon politico, le
mattane, a subornarle ai suoi fini, e un giorno gli
prepara a Tolosa perfino il sospirato incontro con Lei,
con la divina Dulcinea. Lo conduce davanti a tre gros¬
se ragazze, e Don Chisciotte a prosternarsi, a chiamar¬
la, quella delle tre rozzone che, stando nel mezzo, era
di sicuro Dulcinea: « Celeste grazia! ». Lei, che ave¬
va una faccia tonda come un pallone, e un nasaccio
camuso, lo scansava ringhiando e scrollando le spalle.
Lui, disperato: « Oh, Dio! Oh, Dio! Ho le traveggo¬
le, e prendo un astro del cielo per una villanzona! Ce¬
leste, celeste grazia, perdono! ». Lo stratego Sancio
gli fischia allora negli orecchi che c’era stato di mezzo
un incantesimo - quel Sancio che difatti possedeva
la stoffa del politico come stava dandone prova, che
diverrà difatti un giorno governatore d’un’isola, che
avrà un governo, un governo che finirà male, come
c’era da aspettarselo: senza gloria... Sancio almeno
non smentirà nemmeno a quel punto, il suo buon
senso: come il cuore gli s’allargò quando finalmente
Saggi e Scritti vari 1943-1970 521

gli dettero agio di sentirsi solo buono a badare alle


pecore.
Per via di Colombo, di Copernico e degli altri, e
per tante altre vie, perché la storia procede e si va
mutando nel suo corso per vie infinitamente complesse
e inestricabili, l’Europeo era giunto al punto che una
persona aveva in sé due esseri distinti, quello degli
ideali e quello dell’attività pratica. Portava in sé la
realtà scissa in due marionette contrastanti, che fra
loro non si sarebbero intese mai più, e gli ideali del-
l’una potevano decadere fino alla mania, e il traffico
servile dell’altra poteva raggiungere perfino il cinismo
di farsi giuoco e sgabello delle fisime della prima. Se
le fondessimo, quelle marionette, per averne un’unità
qualsiasi, una persona di carne e d’ossa - avremmo un
mostro, una mostruosità intollerabile. Eppure intorno
a noi la tolleriamo. Eppure ci tolleriamo.
Una scissura s’era dunque prodotta in Europa nella
persona umana, un dissidio in essa era scoppiato, e se
dava allo spirito umano un’emancipazione e una intel¬
ligenza che fino allora non aveva ancora conosciuto,
gli dava anche un peso e una solitudine che non era¬
no mai stati uguali. Il primo ad accorgersene nelle ri¬
cerche del linguaggio poetico, senza enfasi, come se
già gli errori del primo Romanticismo fossero stati
scontati, senza disperazione, mostrando le cose non
più basse, ma nemmeno più alte d’una umana statura,
è Cervantes, nel Don Chisciotte.
Il Don Chisciotte è un libro vero. La realtà che vi
è animata, è colta così fortemente dal vero, è così sto¬
rica, e perciò così singolare, da restare per sempre in¬
dimenticabile. E che cosa può fare un poeta se non
segnalare la crisi morale dei suoi tempi? Segnalarla,
soffrirla, indicarne il grado, non è già dimostrare che
non è insanabile? Non è averla in sé sanata? Così han¬
no fatto i poeti d’ogni tempo, perché le crisi si sus-
522 Giuseppe Ungaretti

segilono, diverse, ma continue, il soffrire e l’avanzare


dell’uomo non potendo fermarsi mai.
E torniamo al Cavaliere. Uri giorno che si faceva
radere, il barbiere per distrarlo si mise a raccontargli
la storia di un graduato di Salamanca, matto che con¬
siderandosi guarito, supplicava il suo arcivescovo di
mandarlo a levare dal manicomio di Siviglia dove l’a¬
vevano rinchiuso. Gli fu spedito un vicario che lo
esaminò, decidendo, tutte le risposte essendo • state
fatte a tono, di liberarlo. Il matto guarito andò allora
a licenziarsi dai suoi compagni ancora matti, e uno
gli gridò: « Sono il rappresentante di Giove sulla ter¬
ra, e brucerò Siviglia che ti ha riammesso nel novero
dei savi. Non sai, bestione d’un dottore, che sono
Giove tuonante e che in questa mia mano stringo il
fulmine che minaccia e distruggerà il mondo? ». « Ed
io » pronto rimbeccò l’altro « sono Nettuno, e se tu
dai fuoco, io farò piovere. » Il vicario allora gli dis¬
se, piantandolo lì: « Torna, giacché sei Nettuno, a te¬
nere, caro, compagnia a Giove ».
« Signore » interruppe allora Don Chisciotte « si¬
gnore del rasoio, disgraziato, sei un disgraziato, e non
vedi attraverso allo staccio!. È mai possibile che tu
non sappia che i paragoni che si fanno da intendimen¬
to a intendimento, da valore a valore, da bellezza a
bellezza e da lignaggio a lignaggio, sono sempre odiosi
e accolti male? Io non sono affatto Nettuno, dio delle
acque, e non desidero affatto che mi si prenda per un
uomo saggio, perché non lo sono. »
Vedete quanto Don Chisciotte era sottile, e malin¬
conico, e anche sarcastico e inflessibile nel difendere
la poesia, la libertà.
Un’altra volta, volendo dimostrare che scopo della
poesia è anche quello di convertire, o di sperare di
convertire ad essa anche uno zoticone come Sancio,
Cervantes ci presenta Sancio che, volendo dare ad in¬
tendere d’essere diventato anche lui un poeta, raccon-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 523

ta chiassosamente alla duchessa di cui è ospite, l’av¬


ventura del cavallo Clavilegno e la finta salita insieme
a Don Chisciotte nel cielo dove hanno notizia del di¬
sincantamento di Dulcinea. Mentre lo scudiero s’infer¬
vora, Don Chisciotte gli si avvicina all’orecchio e:
« Sancio, » gli sussurra maliziosamente quasi come al
complice oramai delle stupende mistificazioni « poi¬
ché vuoi ch’io creda ciò che hai visto in cielo, io vo¬
glio, io, che tu non metta in dubbio quanto io vidi
nella caverna di Montesino. E non ho altro da aggiun¬
gere. Hai capito? ».
Ma in realtà potrà mai stringersi una simile com¬
plicità? Non è mai la poesia che è ridicola, ma lo
scetticismo di chi la circonda, e lo zelo o la furberia
di chi le fa il verso.
Un’altra volta, e siamo alla fine, il baccelliere San¬
sone Carrasco, dopo essersi finto Cavaliere degli Spec¬
chi, e poi Cavaliere della Bianca Luna, avendo Con¬
fessato a Don Antonio Moreno, d’averlo fatto per ten¬
tare di guarire Don Chisciotte, suo caro compaesano,
così si sente rimproverare: « Signore, la perdoni Iddio
del torto che Ella ha fatto al mondo. Come fa a non
vedere che il beneficio che si potrà trarre dalla sag¬
gezza di Don Chisciotte, non uguaglierà mai il piace¬
re che è profuso dalle sue stravaganze? ».
Quale trepidazione per la poesia che, arrivata ad una
tanta altezza di libertà e nello stesso tempo a una
tanto drammatica difficoltà con la quotidianità delle
cose, non abbia a trionfare di esse ma a restarne som¬
mersa e oscurata.
Essa, infatti, s’era avviata e va su un’altezza peri¬
colosa. Va su un’altezza pericolosa, e sono lontani i
giorni durante i quali ci fu dato, a Carrà ed a me, di
accorgercene e di farcene tema di lunghi discorsi. Era¬
no notti, a essere esatti, e le passavamo a conversare,
andando nella Galleria di questa Milano, in su e in
giù per ore e ore, nel ’14, quando era già scoppiata la
524 Giuseppe Ungaretti

prima guerra mondiale, e l’intervento dell’Italia stava


da un momento all’altro per decidersi.
Carrà stava per uscire dall’awentura del Futurismo,
e, già grande pittore, già uno degli otto o nove mag¬
giori pittori di questi tempi, s’era fermato a interro¬
gare Giotto. Bruscamente si staccava da quell’agitazio¬
ne esterna della civiltà meccanica di cui con i suoi
compagni s’era proposto di cogliere il multiforme slan¬
cio; e se ne staccava bruscamente per non vedere più
le cose se non secondo l’ordine dello spirito, se non
arse e foggiate e inventate secondo le regole dettate
dalla propria vita morale.
Alla vigilia d’una guerra, nell’ora medesima in cui
una civiltà meccanica può fare sfoggio di tutti i suoi
mezzi e ingigantirli, e ostentare tutte le sue previsioni
- indubbiamente, calcolate infallibilmente, ma, ai fat¬
ti, fatti dell’uomo, sempre, ripetiamolo, sbagliate -
Carrà, per quel mistero che è dell’ispirazione, della
quale l’artista stesso non saprebbe spiegarsi la causa,
Carrà cessava d’attribuire l’importanza di prima alla
compenetrazione degli oggetti, alla velocità e ad altri
rompicapi, cessava d’attribuire l’importanza di prima
alla manifestazione di progressi contingenti, per subor¬
dinarli all’infinito dell’ordine, per credere principal¬
mente in quella misura misteriosa che fa l’uomo libe¬
ro nell’infinito del suo spirito, e non determinato e
limitato dalle cose, o, peggio, dalle macchine; che fa
l’uomo, per il suo dono di poesia, emancipatore degli
uomini, e non riduttore dell’uomo in schiavitù di co¬
se o di macchine.
La scala degli ideali è lunga, e a chiocciola, e le av¬
venture di Carrà continuarono a succedersi, perché è
uno spirito che davanti alla sua tela, ha ogni giorno
nuove difficoltà da risolvere, e tutte lo hanno portato a
rendere, con una coscienza inflessibile, i suoi segni
interpreti d’una voce sempre più profondamente uma¬
na.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 525

È naturale ch’egli dovesse incontrare sulla sua stra¬


da Cervantes e il suo capolavoro. La stessa magrezza
nel segno, la stessa solitudine, lo stesso sentirsi tra i
macigni, più che minacciato dal loro squallore e dalla
loro durezza, sognante e riposante in essi, meglio che
nei lini o fra velluti e arazzi.
Nell’iconografia del Don Chisciotte - sebbene vi s’in¬
scriva uno come Goya, grande e spagnuolo, vero Gran¬
de di Spagna - chi alla sincerità ci tenga, prima di
Carrà non troverebbe che Daumier. Di Daumier, chi
non ricorda il ”Don Chisciotte nudo, che fa, mettendo
in mostra il sedere grinzoso e ossuto, le capriole sul
ronzino davanti a un Sancio che, esterrefatto sopra il
suo ciuco, si rannicchia in sé come in un sacco di pa¬
tate? Indovinando per il Don Chisciotte cinque o sei
disegni, Daumier ha aggiunto alcune importanti ma¬
schere a quelle che andava accumulando con uno spi¬
rito d’osservazione spietato. Daumier il bonaccione,
Daumier era in fondo in fondo nella sua satira un in¬
fernale giustiziere, e quando rideva era perché era
riuscito a scoprire e a fissare per sempre un altro trat¬
to della sinistra pagliacciata che era per lui il frutto
più autentico della umana società. Per Carrà, Don
Chisciotte non è comico, né poteva essere una specie
d’itterico balzacchiano.
Pensate a quel suo Don Chisciotte meditabondo
che si vede davanti ai mulini a vento. Dei quali non
appare che un triangolo d’ale a un angolo del foglio.
È un’ala incerta di pipistrello, il sintomo d’ali lugu¬
bri, una macchia notturna che dilagherà in un orren¬
do presagio. Come non giustificare umanamente Don
Chisciotte, se, davanti a tale incubo, tenti di fugarlo?
E quell’altro, evocato anche, se si può, con maggiore
orrore, Don Chisciotte con sulla testa il volo d’ali
frastagliate, frastagliate con una tale acre ossessione
che ne udrò il disperante gracchio, sempre.
È sempre altrettanta, in qualsiasi senso si volga,
526 Giuseppe Ungaretti

l’intensità lirica di Carrà. Tale è nel suscitare prover¬


bialmente, in un tono moderatissimo, la solennità di
quell’ora sempre uguale nei pgesi, ora che direi soli¬
da, con la gente ferma sulla soglia di casa, e la pura
vastità in fondo, di orizzonti immoti. Su quel selciato,
come sì fa lontano lo scalpitio d’uno scheletrico ca¬
vallino donchisciottesco!' Un chiaroscuro d’una sempli¬
cità che solo conosce chi è diventato maèstro soffren¬
do ciò che ha espresso,, prima penando a spiegarselo
come uomo, poi faticando a foggiarsene i simboli co¬
me artista, a foggiarsene simboli che non tradiscano
mai le forme sensibili e sentite. Le esigenze della ve¬
rità cambiano sècondo i tempi, e oggi è matto, ama
gl’ideali, è uomo fuori dell’ordinario, è predicatore
nel deserto chi crede che, mentre tutto sta diventando
astratto e ipocrita, ed è - non potrà mai la scienza
servire la pace senza servire la guerra? - il principio
della materia e di tutto, non so quale infinitesimo si¬
stema solare - oggi è matto chi crede che sia ciò che
gli occhi vedono, ciò che le mani toccano, la realtà
invisibile, poiché è ciò che non vede più nessuno - in
tempi così ciechi e di gelo forsennato.
Tale è il modo d’oggi per riinventare qualche pos¬
sibilità d’amore nel mondo.
Oggi indubbiamente è maggiore la novità che nei
giorni del Cavaliere, mentre si andavano conquistan¬
do soltanto le prove ch’era la terra a girare intorno al
sole; senza confronti è maggiore la novità oggi che le
cose tenere, che le cose amabili, oggi che sono, le
cose che invitano a vivere, diventate fragili all’estre¬
mo, oggi che l’uomo, ultimo tributo alla sua famosa,
alla sua maledetta ragione, oggi che l’uomo è così
prossimo a essere in grado di fare ricadere nel caos
delle origini questo nostro pianeta, a interamente pri¬
varlo cioè dell’animazione dello spirito umano, que¬
sto nostro pianeta reso incantevole da tanta umana
poesia.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 321

È nella materia, è in Satana, nel male, nell’ordine


contaminato, il principio e la legge delle cose? La
scienza ha ormai reso l’uomo arbitro della materia,
o è Satana che finalmente ha saputo farsi arbitro as¬
soluto del destino umano?
Mai non fu Carrà così grande come nel sentire nei
suoi segni la suprema libertà che l’arte difende: la
libertà di non essere suicidi.
E forse toccano il segno più i suoi segni che le
frecciate dello stesso Cervantes: sono direttamente vi¬
cini alla tragedia d’oggi.
GONGORA AL LUME D’OGGI
[1951]

[Nell’inedito del Trionfo della fama, pubblicato da


Roberto Weiss nel 1950, leggo: ]

Poi colui eh’a se stesso tolse gli occhi


Per che ’l pensier la vista non occupe...

e le varianti:

Poi vidi l’altro ch’a se stesso li occhi


Tolse per non veder eh’in suo studio lo ’ngombre...

Per che ’l senso in suo studio non lo ’ngombre...


Per che l’ingegno in suo studio lo ’ngombre...
Per che ’l pensier la vista non ingombre...
(Petrarca, Triumphus Fame, vv. 37-38)*

Perché, tra le due guerre, dei poeti del passato scel¬


ti a modello da chi aveva da risolvere difficoltà espres¬
sive della poesia, erano tornati in Europa in voga il
Leopardi, Holderlin, Blake, Donne, Scève, e, insieme
ad essi, il Góngora? Perché — ebbi a confessare io
che ne fui il primo traduttore italiano - perché il
Góngora, se si fa propria - inserendosi, per la sua
esperienza di poeta « culterano », in un momento e-
sacerbato del Petrarchismo - la fede che il mondo non
potesse concepirsi se non per rivelazione di parola
memore, egli farà però a tale parola anche rompere

* Roberto Weiss, Un inedito petrarchesco, Edizioni di « Storia


e Letteratura », Roma, 1950.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 529

la regola da cui s’era sviluppata, i tempi esigendo


da tale parola che anche aderisse, e con estrema im¬
mediatezza, al loro esistere carnale. La novità del Pe¬
trarca era nell’accento che aveva posto sul valore di
eredità giacente nella mente umana, valore da consi¬
derarsi, per tornarne in possesso, come tenebra da ri¬
schiarare. La novità del Góngora era di sentire il va¬
lore ossessivo degli oggetti, era di affinare ogni ac¬
cortezza d’arte affinché gli oggetti nei vocaboli ritro¬
vassero e attestassero la verità sensuale della realtà:
la novità del Góngora era dunque nel suo modo « sen¬
suale » - eterodosso - di dichiararsi ligio al Petrarca,
ligio cioè ad una realtà strettamente astratta, stretta-
mente mentale, ad una realtà di cultura, « culterana ».
« Culteranesimo » è difatti, come ognuno sa, il termi¬
ne strambo coniato in Ispagna a designare un certo
aspetto del Gongorismo: a designare nelle ricerche
di linguaggio di quella scuola, eleganza e purismo, cioè
l’italianismo di poetica e i così detti « cultismos », i
latinismi tali per la loro accezione lessicale, e quelli,
s’intende, di sintassi e di mitologia.
Una volta, parlando del Don Chisciotte} m’era ca¬
pitato di mostrare come a un dato momento della sto¬
ria, dovesse necessariamente sembrare come vuoto d’o-
gni verità, irreale, il mondo dei sensi, se non spettava
più ai sensi nemmeno di avviare ad accertare la ve¬
rità del mondo fisico; ma perciò, perché colmo d’in¬
ganni, era mondo di sorta inuguagliabile, lasciando es¬
so, mondo dei sensi, alla fantasia la possibilità di ri¬
trovarsi. Ammetto oggi ancora che sia questa ricon¬
seguita libertà d’immaginazione, uno degli aspetti se¬
ducenti del Barocco; ma essa, riaffermo, non era se
non minimamente dovuta a quel genio dello sproposi¬
tato, supposto insito nell’indole degli Spagnuoli.
Se non dovessimo fermarci che allo spropositato
dell’ispirazione, la palma toccherebbe al Cavalier Ma¬
rino, o all’uno o all’altro dei Seicentisti italiani che,
530 Giuseppe Ungaretti

anche peggio del Marino, se ne mostrarono amanti. Il


Marino visse, ricordate, nei medesimi anni del Gón-
gora: questi dal 1561 al 1627, quegli dal 1562 al
1625, ed è probabile che nell’arte i due subissero qual¬
che reciproco influsso; può anche darsi che qualche
fermento, dovuto all’importanza assunta dalle conse¬
guenze della scoperta di Colombo e sparso dalla Spa¬
gna in Europa, non avesse mancato di stimolare il
manifestarsi del Barocco anche in Italia. Comunque
stiano le cose, non mi si fraintenda: al Marino non ne¬
go i meriti, e anzi una volta mi procurai la gioia di po¬
tergliene attribuire uno insigne: quello di avere offer¬
to con il suo Adone, stampato a Parigi nel 1623, il mi¬
to estetico e le articolazioni di linguaggio dai quali « le
grand siècle », La Fontaine e Racine inclusi, deriverà
nello stile non scarsa parte della sua audacia e della
sua grazia, anche se a prima vista sembri l’opposto.
No, certo non fu il gusto per lo spropositato, e per
l’argutezza che ne derivava nel linguaggio, a muovere
un ingegno oratorio fervido come quello del Marino,
o un genio passionale come quello del Góngora. L’ar¬
gutezza era per essi un’inesauribile fonte di variazio¬
ne espressiva; ma nulla di più.
Tuttavia, nell’argutezza, il Góngora' aveva compres¬
so un impeto emotivo di grado tale da farla apparire
anche a poeti europei del secondo" quarto del Nove¬
cento, mezzo lirico nuovissimo volendosi rivestire li¬
ricamente un’angoscia che, quale la loro stava diven¬
tando, fosse, quantunque furiosa, lucidissima. Concet¬
tualmente, il mondo dei sensi si mostri, nei suoi ef¬
fetti, sempre più falso, sarà quella più che mai l’ora
per un poeta di affannarsi a dimostrare come un colo¬
re fugace, come il momento deludente d’un oggetto
perituro possa tutto invadere in un vocabolo, ristabi¬
lire con risoluta violenza nelle funzioni d’un semplice
vocabolo, il prodigio dell’effimero.
I trattati di retorica dove nel Seicento si ragiona
Saggi e Scritti vari 1943-1970 531

dell’argutezza, sono posteriori al Góngora e al Mari¬


no, e, sebbene l’esperienza dei due poeti fatalmente
in quei formulari in qualche modo intervenga, non
propongono, non possono proporre, secondo il desti¬
no di qualsiasi trattato di retorica, se non un manie¬
rismo. È difatti esatto che un vocabolo designando
un oggetto, non sia l’oggetto; ma diversissima cosa;
esatto è altresì che il vocabolo designi l’oggetto, alme¬
no in origine, e anche nei casi d’onomatopeia, per me¬
tafora, evocando cioè un secondo oggetto. Assenza
dunque dell’oggetto nel vocabolo pronunziato, essen¬
do il vocabolo cosa della nostra mente; non solo:
l’assenza sarà resa dal vocabolo ancora più remota,
essendo esso anche il segno, nel suo rapporto metafo¬
rico, d’un secondo oggetto unicamente suggerito, per
associazione d’idee, dalla memoria. All’argutezza, quin¬
di, il poeta vero non ricorreva per il piacere di giuo-
care a un giuoco scaltro, sciogliendo alla fine, davanti
agli altri, trafelati, come nulla il nodo di Gordio;
ma, all’opposto di quanto insegnavano i retori, se, nel¬
l’inflazione del segno e di rapporti, da un lato - pa¬
rendogli, infinito allargatosi lo spazio della fantasia,
da ogni vincolo materiale finalmente sciolta la fanta¬
sia - se da un lato s’ubbriacava della propria illusio¬
ne di libertà, d’altro lato, in tale delirio di metafore,
correndo dietro alla metafora, e alla metafora della
metafora, era un fare come uno il quale fosse stato
preso dalle vertigini davanti al baratro che - doven¬
dosi ormai unicamente ricercare il vero 'nel mondo
mentale - gli si era spalancato ai piedi: era un fare
come uno che tentasse di evadere da un imminente
pericolo di morte, di passato, di vuoto, assurdamente
smarrendosi in un brusio di chiocciola accostata al¬
l’udito, in un labirinto suscitato alla vista, dove, inol¬
trandosi, egli andasse da passo a passo moltiplicando
specchi innumeri riflettenti dall’uno all’altro il mede¬
simo annuvolato nulla. Si consideri inoltre, secondo
532 Giuseppe Ungaretti

il 'suggerimento di Jean Paulhan — in queirilluminan¬


te saggio, Il sarto cinese, da me tradotto nel ’45 per
il secondo quaderno di « Poesia » — che per ogni in¬
ventore di linguaggio, selvaggio o civilissimo ch’egli
sia, le immagini non sono mai inseguite per gusto im¬
maginifico, ma solo per nominare una cosa che non
si sapeva come altrimenti indicare; e Paulhan aggiun¬
ge che è sorte del poeta, inventore per antonomasia
di linguaggio, che anche gli atti più semplici siano a
lui difficili.
Insomma, il merito del Góngora - merito verso
cui, chiunque sia stato chiamato a patire, e a misurar¬
sela nell’anima, la crisi del pensare e dell’operare di
questi nostri anni, si sentiva specialmente attratto - è
di avere, servendosi della tecnica dell’argutezza, otte¬
nuto, come tutto il Barocco migliore, il risultato op¬
posto all’atteso, ridando valore alla verità dei sensi,
un valore esclusivo, ossessivo.
Ma, prima, vorrei dichiarare quanto ogni volta che
ci ripensi, mi sorprenda che tale miracolo si sia pro¬
dotto usando soprattutto « cultismos » petrarcheschi:
« occhi », « stelle », « cristalli », « neve », « volto »,
« fiamma », « oro », « rose », « perle », e chi più ne
vuole, più ne metta. Lo so, erano i vocaboli di cui
aveva usato e abusato al seguito del Petrarca tutto il
Rinascimento, e sul loro vario uso rinascimentale, con¬
tinuamente diverso da quello del Petrarca, qui non è
il caso di dilungarmi. E sempre d’esserne rimasto sor¬
preso, mi sorprende, giacché non erano se non i vo¬
caboli avvezzi al miracolo, per una tradizione di qua¬
si tre secoli. Avvezzi al miracolo, sicuro; ma spegnen¬
dosi sempre più nella funzione metrica e sintattica del
verso e della strofa, diventando sempre più termini
poetici usuali, banalizzandosi sempre più, sempre più
trascurando la loro singola vicenda semantica, sempre
più lasciando cadere in oblio il loro carattere di sim¬
boli, sempre più volatilizzando nell’astrattezza tecnica
Saggi e Scritti vari 1943-1970 533

gli oggetti, quegli oggetti per evocare i quali erano


stati da principio vocaboli, i vocaboli.
Osserva ancora Paulhan, nel suo racconto poetico
Aytré qui perdi l’habitude — lo volsi in italiano nel
’36, per il mio libretto Traduzioni, pubblicato in quel¬
l’anno da Novissima - osserva Paulhan che l’atto per
cui ci mostriamo stupiti della novità che è nel parla¬
re e che improvvisamente abbiamo scoperta - e la
spinta irresistibile a isolarci e concentrarci in noi che
lo precede - .implica, per necessità d’equilibrio, nella
nostra mente l’irruzione d’un discorso esigente scrit¬
tura, al quale può seguire espressione di poesia. L’at¬
to di poetare si preannunzia dunque sotto un aspetto
che ci fa a noi stessi insoliti, mentre segnala un ri¬
sveglio della coscienza, nel corso delle abitudini una
frattura che si vuole eludere, dissimulare, spiegare,
di cui si vuole nascondere o svelare la causa morale,
non riuscendo a farlo se non maldestramente, gene¬
rando mille equivoci, un impaccio dietro l’altro.
Il discorso che sfociava nel linguaggio poetico del
Petrarca, segnalava risveglio di coscienza ispiratore di
poesia nel processo d’idealizzazione della parola: nel¬
l’inverso delle ricerche di linguaggio a cui s’era, per
esempio, attenuto Dante, per il quale il conseguimen¬
to espressivo aveva precipuo fondamento nel senti¬
mento drammatico della natura. Ma quando, alla fine
del Cinquecento, tale idealizzazione non sapeva più
ormai esplicarsi se non per abitudine e per mero di¬
vertimento decorativo, la tradizione umanistica non
poteva ritrovare la sua durata storica se non senten¬
do capovolti i termini del suo sviluppo, dal mondo
delle idee distolti verso natura. Sarà poco razionale
che si parta dalle idee per approdare alla natura, ed
è, è vero, un po’ come incominciare dal tetto a fab¬
bricare una casa; ma da quando è successo il Baroc¬
co, l’arte sembra non possa più rinnovarsi se non
per prodezze, riconosciamolo, pazze. Forse accadrà da
534 Giuseppe Ungaretti

allora più crudamente; ma la situazione d’invenzione


di linguaggio, sempre ha in sé un principio di furo¬
re, come sempre quando il trantran della nostra vita
s’interrompe, e il nostro vivere si turba, ci fa inquie¬
ti, ci dà tormento morale perché non è più quello con¬
sueto, che andava, dice Paulhan, da sé, e non occor¬
reva che vi ponessimo mente.
Prendiamo un Sonetto del Góngora, per esempio
quello che s’inizia col verso: Mientras por competir
con tu cabello, e accostiamolo, come è uso, a due so¬
netti del Petrarca: Gli occhi di ch’io parlai sì calda¬
mente, e al Sonetto Quel sempre acerbo et honorato
giorno.
Il secondo, nelle due ultime terzine dice:

ha testa or fino et calda neve il volto,


Hebeno i cigli et gli occhi eran due stelle,
Onde amor l’arco non tendeva in fallo;
Perle et rose, vermiglie, ove l’accolto,
Dolor formava ardenti voci et belle;
Fiamma i sospiri, le lagrime cristallo...

il primo, nella sua seconda quartina:

Le crespe chiome d’or puro lucente


E ’l lampeggiar de l’angelico riso
Che solean fare in terra un paradiso,
Poca polvere son che nulla sente.

Racchiudono, questi dieci versi, il modello del So¬


netto citato del Góngora. Il Petrarca evoca, splendida
e soave di bellezza, una defunta, e fa sentire quanto
melanconico sia il ricordare, sebbene origini per lui,
la poesia. Sono parole dette quasi in silenzio, in un
tono che ci afferra il cuore e ci lascia muti e pensie¬
rosi. La qualità metaforica intrinseca dei vocaboli è
accentuata e, con molto garbo, persino aggravata pie-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 535

gandoli a nuova metafora, perché il più possibile al


lettore appaia trattarsi nel Sonetto di oggetti assenti:
di oggetti presenti solo nella mente, nel silenzio.
Il Sonetto del Góngora procede invece per squilli
di tromba, e tra gli squilli, apparirà oro, oro di capelli,
sole; ma oro sono i capelli perché, alla lettura, provia¬
te anche voi, il calore del sole che, in quel momento
splendendo, li brunisce. Dunque la donna evocata, è,
per il colore dei suoi capelli, sole e oro: splendore e
calore di sole; è oro acceso e reso notturno dal sole
cui s’allea. È una moltiplicazione di elementi metafo¬
rici che si rincorrono trasferendosi l’uno nell’altro, da
capelli a oro a sole a brunire. Nulla di straordinario
in ciò se la formula ne poteva più tardi essere dai
testi ricavata e proposta da qualsiasi maestro di retori¬
ca. Ciò che è inconsueto è l’effetto. Ciascun elemen¬
to ha, per quanto fondendosi, più che non si fosse
mai visto, negli altri, vita avulsa dagli altri, vita cru¬
damente indipendente, vita che vale perché manife¬
sta e sollecita sensazioni di calore, di splendore, di
spasimo fisico: ossessive sensazioni visive, tattili.
Poi la fronte suggerirà il giglio; ma perché essa
dominerà con l’orgoglio del suo biancore il piano, re¬
legando qualsiasi giglio a scomparire negletto nel ver¬
de. È un paesaggio di sole, è, apparsa in mezzo ad
esso ad abbagliarlo, la solitudine d’una giovane don¬
na solare. Ciò che importa è l’atmosfera, l’orgoglio
d’una fronte: è l’ossessione del biancore per contrasti
di tono scisso in bianco d’orgoglio e bianco di pu¬
dore.
Terzo punto: il profumo e la fiamma d’un primu-
lo garofano saranno sfidati dalla fragranza e dal fuo¬
co delle labbra attraenti: ecco in quel paesaggio un’al¬
tra ossessione, olfattiva e visiva e, insomma, di brama
carnale.
Poi tutto, da oro, da garofano, da giglio, da cristallo
muterà in viola e in argento appassiti, muterà in ter-
536 Giuseppe Ungaretti

ra* fumo, polvere, ombra, niente, e, nel sangue e nel¬


le ossa e nei nervi di chi ascolta, ciò che gli resterà
incancellabile, è una sensazione di schianto, di disa¬
stro, d’annichilimento provato fino in fondo.
Ecco nella mia traduzione letterale, il Sonetto del
Góngora :

SONETTO AMOROSO, X
Anno 1582

Finché dei tuoi capelli emulo vano,


Vada splendendo oro brunito al Sole,
Finché, neretto, la tua fronte bianca
In mezzo al piano ammiri il giglio bello,
Finché, per coglierlo, gli sguardi inseguano
Fiù il labbro tuo che il primulo garofano,
Finché più dell’avorio in allegria
Sdegnosa luca il tuo gentile collo:
La bocca e chioma e collo e fronte godi,
Prima che quanto fu in età dorata
Oro, garofano, cristallo e giglio,
Non solo in viola vizza od in argento,
Ma si volga, con essi tu confusa,
In terra, fumo, polvere, ombra, niente.

Il Góngora è inoltre esemplare per l’arte sua d’in¬


durre a scorgere negli spettacoli della natura, colmi
d’incanti e pregni di tragedia, ritraendoli, ambivalen¬
za.
Di più, gli avviene qualche volta - per ressa che
alla gola gli facciano vocaboli diversi, ispirati da un
medesimo oggetto e che non si possano, senza squali¬
ficarli, separare - di usare il vocabolo con valore el¬
littico, il quale uso scambiano taluni per improprietà.
È quel medesimo servirsi di scorci, o comunque sfor¬
zare la forma - appunto, secondo il gergo critico con¬
temporaneo si direbbe: « è quel medesimo deforma-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 531

re » - che tanto ha istruito Picasso per averlo egli sa¬


puto capire negli effetti più potenti della pittura del
Greco. Un esempio: nel Sonetto Verdes hermanas del
audaz mozuelo si dovrebbe, direi, accogliere « El dila-
tado -pie », come era stampato nelle più vecchie edi¬
zioni, invece del « delicado pie » come stampano le
attuali.
Non è in Ovidio il lamento delle Eliadi? È un
episodio sul quale il Góngora tornerà in altro Sonet¬
to, forse perché intendeva approvare in anticipo gli
interpreti scrupolosi. Della prima sorella, il lamento è
che essa non possa prostrarsi, non avendo più flessi¬
bile il piede, essendole divenute rigide le gambe; del¬
la seconda, che si senta incatenare alla terra; della
terza che, volendosi strappare i capelli, non le riesca
d’alzare al vento se non foglie. Per i piedi che si
fanno rigidi, che si espandono in radici, « dilatare »
sarebbe, tutt’altro che improprio, dunque semplice-
mente un vocabolo nel quale ellitticamente si risolve,
da piè delicato a piè dilatato in uno slancio di libe¬
razione che si converte in slancio di dannazione, l’in¬
tera storia della metamorfosi di tre fanciulle in piop¬
pi, e non solo quella di tale metamorfosi. Improprio
in verità sarebbe stato nel presente caso il vocabolo
delicado che, nel testo d’uno scrittore barocco come
il Góngora, avrebbe avuto un sapore - anzi una sci¬
pitezza - stranamente preraffaellita, e sarebbe rimasto
ridicolmente inespressivo. Sono, e non altri, i limiti
dei valori di senso entro i quali la reminiscenza delle
Metamorfosi può nel Sonetto in esame, avere agito.
Poiché nel Sonetto tutto tende solo a dire quanto sa¬
rebbe catastrofico rendere manifesto il proprio amore
verso una donna da cui non si può sperare consen¬
so; e come uno, un Poeta, si rassegni a vivere alter¬
nandosi abbagli e saggezza disperata, estatico, perso
ogni spazio dentro un chiuso moto davanti alla stu¬
penda Bellezza.
538 Giuseppe Ungaretti

Potevamo dunque, noi d’oggi, chiedere anche al


Góngora, la cui fantasia certo non era meccanica, in
quali limiti soltanto possa non’ essere, un’imitazione,
intollerabile.
È per l’intensificazione di significato recata da dila-
tado nel Sonetto che il Poeta potrà muovervi quell’am¬
bivalenza di visione a cui sopra si alludeva. La de¬
scriveremo. Nel Sonetto, il Poeta, con la sua straor¬
dinaria potenza di colorista, presenta il tramonto d’un
momento di estrema illusione; e dunque ha, dicendo
dilatare per - estesi dall’incendio aurorale - i piedi
dei pioppi tesi verso la violenza della luce illusoria -
semplicemente colto un effetto bellissimo, con verità:
quell’effetto per cui non si possono distinguere anco¬
ra le cose con precisione, le cose ambiguamente avvol¬
te nei giuochi del chiaroscuro, e una pianta può allora
essere presa per una persona, o viceversa, e uno sfor¬
zo di speranza o uno smarrimento di perdizione irre¬
parabile confondersi l’uno nell’altro.
Quei poveri piedi che non possono volare in socT
corso di Fetonte, e, martoriati, dilatano, immobili, bru¬
ciati dalla stessa fiamma che lo consuma - si potrebbe
esprimere meglio bellezza e orrore? Chi ha gli occhi,
queste cose le vede.
Bellezza e orrore, il segreto del Barocco.

SONETTO AMOROSO, XII


Anno 1583

A ALCUNI PIOPPI

Verdi sorelle del ragazzo audace


Per cui, limite il Po, lasciaste presi
Or ora in verdi foglie e in tronchi rozzi
Il piede dilatato ed aureo pelo,
Poiché tra le rovine del suo volo
Calare invece d’ossa le sue ceneri
Voi vedeste e gli errori suoi nel suolo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 539

Largamente da ardenti fiamme impressi:


Tale carro guidare io non presuma,
Finiamola col pazzo mio pensiero
Prima che la bellezza somma al vento
Con gli sdegnosi raggi lo disperda
E di tanto ardimento le reliquie
Involva il disinganno in poca Spuma.

Le poesie più vecchie che del Góngora ci rimango¬


no sono deh 1580. Aveva terminato gli studi a Sala¬
manca; aveva ricevuto gli ordini minori e, in quell’an¬
no, già godeva d’un benefizio del Duomo di Cordova.
A Cordova era nato, quando già era Re Filippo II.
Durante 37 anni lo vedrà regnare, e ne vedrà di belle.
Gli vedrà costruire l’Escuriale, con il suo putridero
dove i cadaveri dei monarchi e degli infanti sono porta¬
ti a marcire, in attesa che le ossa possano, fattesi nu¬
de, venire chiuse e sigillate nelle tombe. Vedrà la
sua Andalusia posta a ferro e a fuoco dalla rivolta dei
Mori, e, se non lo mossero all’urlo di ribrezzo che det¬
tarono al Cervantes, le persecuzioni razziali, il suo ani¬
mo cristiano dovette rimanerne ferito. Vedrà l’« in-
vincible armada » sparire in una burrasca. Aveva fat¬
to eco a chi quella guerra incitava, e gridato - Alza,
Spagna, la tua famosa destra! E, per la suprema invet¬
tiva contro Elisabetta, dopo averla chiamata « lupa
libidinosa e feroce » aveva chiesto il verso al suo Pe¬
trarca, verso lasciato in italiano nella strofa: « Fiam¬
ma dal del su le tue trezze piova ».
Durante quel regno aveva visto l’inizio del declino
della sua Patria; e quanto questo tramonto l’immalin¬
conisse, si potrà misurare dalla lettura dei suoi So¬
netti sacri, eroici o funebri, dagli accenni, non senza
rimorso, alle chimere di Cartagine.
540 Giuseppe Ungaretti

' SONETTO EROICO


Anno 1623

Freccia impaziente non richiede tanto


Segno mirato che morderà acuta,
Carro agonale sulla sabbia muta
Tocca la meta non silente tanto
Quanto, verso sua fine in corsa, ha fretta,
Segreto, nostra vita, e non ne dubita
Chi non sia fiera di ragione nuda.
Ogni tornante Sole è una cometa:
Cartagine lo dice, e tu l’ignori?
Lido, corri pericolo ostinandoti
Ombre a inseguire e ad abbracciare inganni.
Non ti perdonerebbero mai le ore
Che senza riposo limano i giorni;
Né, nel loro corrodere anni, i giorni.

Sono Sonetti del 1612, del 1615, del 1623 - che


appartengono all’ultimo periodo della vita del Poeta;
quelli amorosi, che vi commentavo poco fa, gli furo¬
no, è naturale, dettati nell’età giovanile.
Sono Sonetti che ci danno la misura di quanto fos¬
se diverso dal giovane, che incitava a godersi presto
la vita perché gli anni in un baleno fuggono, il vecchio
che, sentendo come, involatasi l’anima, tutto di noi si
riducesse in un cadavere putrescente, in nulla, invita¬
va a considerare con umiltà la nostra sorte terrena.
Sentimento del nulla e orrore del vuoto. Per orrore
del vuoto, il Barocco è arte intollerante che resti di¬
sponibile, non colmato materialmente il minimo spa¬
zio, il minimo tempo e, nei suoi sprechi, gli parrà d’es-
sersi impadronito del corno d’Amaltea. Il Barocco ha
in orrore l’astrattezza; ma è mistico il suo spirito. Se
è dunque riscoperta amara del Seicento che l’atto vio¬
lento e mitico - l’illusione che è il vivere - sorga in
contrasto al vuoto - non erravamo rilevando che è an-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 541

che questo un fruttifero seme dell’ispirazione, se an¬


teponendo per chi non disperi, alla storia, l’essere, e
la verità, al vivere, attribuisce però sempre al mondo,
pure considerandolo opera dei sogni, una facoltà di
rinnovamento costante e di seduzione infinita, alla qua¬
le il rinunziare sarebbe disumano.

SONETTO SACRO, III


Anno 1612

ALLA MEMORIA DELLA MORTE E DELL’INFERNO

Entro plebee urne, entro regali tombe,


Memoria, penetra senza timore,
Visita i luoghi dove il boia delle ore
Con piede uguale, ebbe inuguali passi.
Rivolta i tanti segni di mortali:
Ossami denudati e fredde ceneri,
Nonostante le cure, anche se pie
Vane di cari balsami orientali.
Scendi dopo all’abisso, nei cui seni
Le anime imprecano e, chiusi, s’odono
Cozzanti ferri sempre e il pianto eterno,
O memoria, se tu volessi almeno
Da morte liberarti con la morte,
E vincere l’inferno con l’inferno.

« E vincere l’inferno con l’inferno »: stiamo per


giungere alla Favola di Polifemo e Galatea e alle So-
ledades.
La Favola di Polifemo e Galatea è del 1613, le So-
ledades sono del 1613-1614. Non sono le ultime ope¬
re del Góngora; il Góngora scrisse fino al 1626, fino
ad un anno prima della morte; ma sono le due sue
opere maggiori.
La Favola di Polifemo è un idillio favoloso, come
ne ha composti anche il Marino: è la nota favola tra¬
mandata dall’Odissea a Teocrito a Ovidio, e da Ovidio
542 Giuseppe Ungaretti

alla poesia barocca. Un critico di vaglia, come Dàma-


so Alonso, stima che il Polifemo sia il capolavoro del
Góngora. Si tratta di ottave stupende, squisitamente
rifinite e legate. Per me ne è impareggiabile l’arte, e
non è sfuggita a Dàmaso Alonso la perspicuità espres¬
siva con la quale la bellezza gentile, fragile di Galatea,
che infiamma di grazia la Sicilia, è contrapposta a una
mostruosa atmosfera, a una vegetazione senza freni,
alla barbarie di Polifemo, cui niuno sforzo, sebbene
fosse gigantesco e temprato in una fucina d’inferno,
serve per piegare a sé l’oggetto leggiadro che ama. In¬
dubbiamente qui siamo al sommo del Barocco.

LA FAVOLA DI POLIFEMO E GALATEA


[w. 153-168]

SONNO DI GALATEA E ARRIVO DI ACI

La ninfa fuggitiva nel frattempo,


In un luogo ove
Il lauro il tronco suo rapisce al Sole,
Dà a una sorgente tanti gelsumini
Quanto verde nasconde, il corpo niveo.
Fra gli Usignuoli,
Lamenti dolci,
Dolci risposte,
E l’armonia
Offrele dolcemente agli occhi il sonno
Perché il giorno non bruci con tre Soli.
Poi (quando nella veste
Stellata, salamandra
Del Sole, cane del cielo, latravi)
- I capelli pulviscolo spargendo
Per sudore di corsa
In umide scintille -
Ardente di rugiada
Aci arrivò.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 543

Vide il tenero sonno


Ponente dolce
Di due faci stupende;
Diede la bocca e gli sguardi insaziabili
Al cristallo sonoro
E al cristallo tacente.

Le Soledades, le Solitudini non dimostrano altret¬


tanto rigore di fattura. Il Poeta vi usa la silva, il ver¬
so a selva, con metri cioè, come tutti sanno, d’ogni
genere. Ma sarà variare ritmico che al Poeta offrirà il
destro di allentare con calcolo più fecondo i ceppi ai
voli della fantasia, essendosi egli meglio accorto della
qualità sovranamente poetica del potere ch’essa detie¬
ne. Siamo dunque al punto dove l’insegnamento del¬
le immagini potrebbe già forse giustificarsi non so¬
lo coinè elusione, o come imbarazzato accoglimento
espressivo d’una insorta censura morale nel nostro vi¬
vere; ma anche con quella definizione della fantasia
da parte di Baudelaire, per il quale essa era la più
scientifica delle facoltà, essendo l’unica in grado di
abbracciare l’universale analogia:

Vincere l’inferno con l’inferno;

ma indubbiamente, l’inferno carnale, nel quale poteva


fissare gli occhi chirurgici quasi come un Dante, un
Romantico, era più palesemente legato per Góngora
ad un’altra ancora di salvezza:

O memoria, se tu volessi almeno


Da morte liberarti con la morte...

Era rimasto prevalente nell’attività poetica del Gón¬


gora, anche contro i sensi, sebbene sfociasse in un’os¬
sessione sensuale, il culto petrarchesco della memoria,
per la quale nella nostra mente la storia si recupera e
544 Giuseppe Ungaretti

si prevede. Ma oltre la storia, emancipata dalla me¬


moria, può darsi s’abbia reminiscenza e nostalgia, d’as¬
soluto: d’una parola intatta idea, perfetta forma, del¬
la quale non ci resti, e solo per reminiscenza, se non
una rovina di parola, una forma mutilata, una forma
che potrebbe paragonarsi a frammento sempre più an¬
nebbiato e corroso e logoro e reso più lontano e spet¬
trale dalla storia. La poesia di Góngora s’immedesima
in tale reminiscenza, in tale « secreto », alla sua « fo¬
ce »; nel « secreto » s’incontrava invece alla sua
« fonte », quella del Petrarca.
La poesia solo si ritrova nel luogo smisurato, nel-
l’« indefinitezza » della parola, dove la fantasia può
librarsi: è nella parte autentica della parola, e sem¬
pre in noi più spenta, e non ravvivabile se non per
fantasia: là è il grido del momento sacro, innocente,
della natura, e riavendone nozione, sia pure sbiadi¬
ta, oscura, ogni sistema d’idee va all’aria, e la storia,
ripreso fiato, si può di nuovo affannare a ricomincia¬
re daccapo la spietata sua dialettica fatica di Sisifo.
In un momento simile per alta ispirazione dovette
nascere la poetica del frammento dei primi Romanti¬
ci - fu detta dai nostri critici, sbagliando termine,
poetica del frammento quella impressionista dei no¬
stri lirici in prosa o in verso del primo quarto del No¬
vecento - e non ci stupisce affatto ch’essi, i primi
Romantici — il Leopardi da noi - tenessero, nello stu¬
dio del linguaggio poetico, in tanto conto gli effetti
dell’indefinitezza dei vocaboli, sia pure ritenendoli co¬
me scaturenti da semplice illusione.
È qui il corollario del nostro discorso?
È nel rilievo che dal diverso rapporto d’intensità
tra sensi e memoria in quanto abbiano mosso nella
parola sentimento e fantasia, si distinguerà per sem¬
pre l’una dall’altra ciascuna persona di poeta.
Le Soledades danno alla poesia di Góngora una
prospettiva ch’essa non conosceva ancora. C’è ora nel-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 545

la riversibilità da sensi a memoria, da oblio a remini¬


scenza, da sentimento a fantasia, - da piano a piano,
sino alla distesa dell’infinito - una giustezza ineffabile
delle immagini nell’atmosfera limpida dove trascorro¬
no come subacquee, c’è un loro distacco surreale che
dona meraviglia e calma, nonostante il loro acrore
sensuale tuttora evidente.
Per chi non le conoscesse ancora, ecco il sunto del¬
le due Soledades, le sole che abbia potuto scrivere, ri¬
mastaci incompiuta la seconda. Prima Soledade: un
giovane respinto dall’amata giunge naufrago alla co¬
sta. Lasciata la mattina seguente la spelonca di caprai
dove l’avevano ospitato, incontra montanari recanti
regali di nozze. È invitato alla festa da un vecchio che
subito gli dimostra simpatia avendo perso in mare un
figlio. Il vecchio si scaglia in un lungo discorso contro
l’ambizione, cagione di tutte le scoperte, ma anche dei
peggiori disastri in mare. L’allusione a Filippo II è
appena velata. Poi sono descritte le feste nuziali.
La seconda Solitudine ha inizio con l’albeggiare del
terzo giorno; scene di pesca e scene d’amore, in mez¬
zo alle quali ritroviamo il nostro naufrago.
Così s’apre il Canto:

SOLITUDINE SECONDA
1613-1614
[vv. 1-26]

LOTTA DEL MARE CON UN RUSCELLO

S’insinua, irrompe il mare in un torrente


Che a passo d’assetato per accoglierlo
Dallo scoglio nativo si precipita
E in poca tazza beve
Molto sale e rovina e la sua fine,
Cristallina farfalla
Quantunque non sia d’ali,
Ma ad onde chieda il volo,
546 Giuseppe Ungaretti

E la solleciti dal faro, Te ti.

Mura di sabbia smantellando poi,


L’oceano, mezzo mare
E mezzo rivo, ormai
Un centauro schiumante,
Due volte al giorno calca la campagna
Invano dando la scalata al monte,
Del quale è dolce vena
Il ruscello irrequieto che, pentito
Ma tardi, si ritrae.

Simile a quel frenetico


Ed illusorio giovenco
Fronte lunata appena
Dall’incipiente corno,
Che nell’impari lotta ripiegava
Davanti a toro duramente armato
Persino contro il vento,
Esso, davanti alla violenza posto
Del genitore d’acque
Che di pallore d’alghe
E schiuma di smeraldi s’aureolava,
Non resiste, e terreno
Ora docile perde.

La quarta mattina, il naufrago naviga in cerca di


terra ferma, e dalla barca assiste a una partita di cac¬
cia col falcone. Il bahari, di cui descrivendola parlerà,
è vocabolo arabo che significa, se non erro, marino, e
indica il falcone chiamato anche « pellegrino » e « spa-
gnuolo » dal Poeta. L’alca è la gazza marina, in ispa-
gnuolo detta « boral », ed è uccello, difatti, di specie
boreale, che in certi inverni capita di vedere anche sui
nostri litorali.
Sebbene già fosse, dalla sua stessa grandezza, mina¬
to l’impero spagnuolo, ancora sulla sua immensità non
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 547

tramontava mai il sole. Con cento idiomi mai uditi


la Spagna è a contatto, e ne pervengono di continuo
ad essa i vocaboli e le grammatiche; i galeoni ancora
vanno a Portobello dove, di rimpetto a Panama, s’apre
la più vasta fiera dell’orbe; ancora la flotta fa scalo a
Porto Rico, a Vera Cruz, a Mexico; ancora a Caracas,
a San Domingo, a Buenos Aires; ancora alle Filippine,
incontro alla Cina. Un uomo, in tanto spazio, in mez¬
zo a tante forme di tante lingue diverse, a tanta ba-
bele, può sentirsi un naufrago, può sentirsi in soli¬
tudine.
Udrete, per il sentimento di tale solitudine, con
quanta intensità è rappresentato un trepido calore,
una fulminea, disciplinata cattiveria, una iattura che
oscura il sole:

SOLITUDINE SECONDA
[vv. 823-886]

IL FALCONE E L’ALCA, E CORVI

Non tanto serpe lùbrico


Tortuoso si disnoda
Lungo il pendulo, calvo scoglio, quanto
Squadra di cacciatori con premura
Scendeva dall’ameno colle al piano
Che, dal mare, nel termine prescritto,
Lombrichi di cristallo accoglierà
Più numerosi che non lasci il Nilo
Nel Delta sparsi orrori.

Ninfa ribelle, ed ora umile canna,


D’una breve laguna occulta i margini
Sul cui riflesso un alca a lungo esamina
Sino al più lieve fiocco
La sua volante neve.
548 Giuseppe Ungaretti

O fu ozio, o presago
Della sua fine: accudiva col becco
Che quel giorno le due > sue ali al vento
Fossero, vaghe spade,
Vrontissime alla scherma.

La squadra non ancora disturbava


Gli orli pacifici del lago, quando
Lo specchio rese assente l’alca. Freccia
Mai non presuma, anche se nervi parti
L’avessero scoccata, d’uguagliare
Le sue inuguali punte, poiché piuma
Come riveste l’ale,
Non vestirà mai il legno.

Lanciato a tempo giusto - le nuvole


Va dominando se non le scavalca,
Mentre torniti ceppi l’accompagnano
Alla sua libertà dando smentita
Con metallico suono —
Un bahari ammaestrato, cui, pulcino,
La peluria concesse quella stessa
- Sublime anche se pini non reggesse -
Rupe che al Betis insegnò la fonte
Degli iniziali flutti.

Non solamente, no, dell’alca obliquo


Le calate registra il pellegrino,
Ma del terreno cristallino enumera
Persino i giunchi minimi,
A luccicanti perle verdi fili.

Si miri il rapido spagnuolo alato


Che ara l’aria perché rimanga a volo
Cardato l’alca, la cui veste nivea
Sosta, non più animata che di gelo,
Torpida tra le càrici,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 549

Perché rare, ripari


Infidi, e perché tremule.

E in quei seni incostanti penetrato,


Stimandoli interdetti
Meno che il vento; ma a suo danno attenti
I cacciatori espulso lo riespongono
A quei che nelle dolci piume fece
E l’uno e l’altro ceppo ammutolire.
II bahari rientrato,
Un corvo - nel suo lutto
Ravvolto, o fosse morso
Per l’avvenuta caccia, dall’affronto,
Od avaro nascondere volesse
Entro il verde dell’erba
Una purpurea bestia,
Conchiglia pari al fuoco d’un rubino —
Riscosso dal rumore, affida ai fiori
La madreperla attorta,
E con sinistro grido, quanta, convoca,
Negra di corvi somma
Rechi l’infamia con le penne, al verde,
E col numero, al sole.

Alcuni mesi fa scrivevo, a proposito dell’opera di


Saint-John Perse, nel numero ad essa consacrato dei
« Cahiers de la Plèiade »: 2
« Più a Perse vale quello spazio sterminato, che i
vocaboli ricoprono come nuvole e come Luce. Può
avere quel luogo sulla terra questo o quel nome, e
lungo il viaggio un innumerevole succedersi di nomi;
ma che importa poiché esso è il luogo epico dove l’uo¬
mo è simultaneamente indigeno e straniero, e possie¬
de la precipua condizione della vita leggendaria, quel¬
la di essere avvolto di solitudine e simultaneamente
quella di essere legato alla sorte di tutto: individui
d’ogni sorta dell’umano genere, suoi simili, o un in-
550 Giuseppe Ungaretti

setto straordinario, o l’ossessione d’un minerale; o


muliebri lusinghe, o il colore del vento... » Poiché in
quel luogo, di là dalla memoria, eppure tuffato nella
memoria, il poeta può avere « reminiscenza » di Poe¬
sia.
Non avrei da mutare una virgola, per tessere un
non falso elogio delle Soledades. [Góngora superava
il Petrarchismo, rinnovandone l’energia. È la strada
lungo la quale abbiamo incontrato il Petrarca, ragio¬
nando con lui come con il nostro migliore e maggiore
contemporaneo.]
SIGNIFICATO
DEI SONETTI DI SHAKESPEARE
[1946/1962]

La traduzione dei Sonetti di Shakespeare fu una gran¬


de avventura della mia vita letteraria, per le circostan¬
ze nelle quali quella traduzione fu effettuata e per il
movente che ini spinse a farla: di ammirazione senza
dubbio sconfinata, verso l’opera del sommo poeta, ma
di più e in particolare, per queU’avvicinamento che
allora il progredire delle mie personali ricerche espres¬
sive, ideali e tecniche, mi portavano a fare tra la poe¬
sia del Petrarca e la poesia europea che ne seguì.1
I vecchi temi sono d’ogni tempo, e, a dire il vero,
•della stessa poesia popolare, ma, dal Petrarca, in tut¬
ta Europa significano che la poesia ha moto dalla me¬
moria e tende, lungo una linea di testimonianza auto-
biografica, senza perdere nulla della sua variabile con¬
cretezza d’epoca e di luogo, a farsi pura in idee indi¬
canti nei secoli qualche costanza d’educazione e qual¬
che unità di sentimento. Il Petrarchismo, che nella
poesia degli ultimi cent’anni ha ritrovato vitalità con
l’opera di Mallarmé e riacquistato il discernimento
riesumando i versi di Donne e di Scève, non poteva
però delinearmi la vastità dei suoi interessi attraverso
la sola traduzione di pochi Sonetti di Góngora, e ave¬
vo, in quei giorni, nel 1931, pensato a un’interpreta¬
zione dello Shakespeare lirico, tanto più sollecitata da¬
to che le tendenze romantiche e le classiche non si
erano in altro genio, dettando modelli d’eloquio, mai
accordate così spontaneamente, se non in Michelan-
gelo.
Non sospettavo allora che sarebbe stata un ìmproba
fatica, almeno per lungo tempo, e, nel periodo del mio
552 Giuseppe Ungaretti

soggiorno in Brasile, dal 1936 al 1942, tornai durante


mesi, senza progredire d’un passo, a tormentare la pa¬
gina. Avrei finito col distaccarmene quando, a Roma,
una notte della fine del 1942, essendomi messo a rie¬
laborarne meccanicamente qualche frase, in cerca d’una
distrazione qualsiasi dall’infuriare delle pene, d’im¬
provviso m’avvedevo che, se non era presuntuoso osti¬
narsi a trasferire da una lingua a un’altra con qualche
precisione un contenuto poetico, nel suono e nel me¬
tro era assurdo non lasciare seguire a ciascuna il pro¬
prio verso, a lingue tanto dissimili. Mi si chiariva così
una difficoltà della quale non avevano offerto a Gón-
gora occasione di prevenirmi le parole spagnole, pari
quasi alle nostre per numero di sillabe. La difficoltà si
risolveva dunqup da sé tenendo conto che in un me¬
desimo gruppo di vocaboli, lfi quantità di sillabe ita¬
liane è superiore a quella delle inglesi nel rapporto di
circa sedici su undici.
Il rispetto del senso delle parole involgeva difficoltà
minori, ma insidiose. Come guardarmene, e sventarle
con quale arma?
Mi importava di dare, soprattutto a me stesso, un’in¬
terpretazione dello Shakespeare che non m’ingannas¬
se; e da evitare erano molte sorta d’abbagli: di paro¬
le; o di tutto un indirizzo: quello enfatico dei Ro¬
mantici, quello pettegolo dei Novecentisti, quello im¬
bacuccato di tanti altri.
Le mie premure del resto, la stessa mia scelta indi¬
cavano a quale tono avrei, nel tradurre, tentato di
conformare la mia voce: un tono che nel testo mi pa¬
reva avesse derivato l’accento, e sino lo spiegamento
nel periodare delle articolazioni, dal Petrarca degli
energici momenti:

So com’Amor saetta e come vola,


E so com’or minaccia et or percote,
Come ruba per forza e come invola,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 553

E come sono instabili sue rote;


Le speranze dubbiose e ’l dolor certo,
Sue promesse di fe’ come son vote;
Come ne l’ossa il suo foco coperto
E ne le vene vive, occulta piaga,
Onde morte è palese e incendio aperto.

È il tono che pare preannunziato da Dante nel so¬


netto a Cino: Io sono stato con amore insieme.

E so com’egli affrena e come sprona,


E come sotto lui si ride e geme.

La definizione d’un tono non implica di necessità


l’enunciazione dei temi, ma, nella poesia invocata a
modello, quello principale del tempo e delle sue ro¬
vine, e i minori che da esso si diramano, sono temi
così uniti al tono che, come speravo nel progettare il
mio lavoro - poteva ora il chiedere ad essi consiglio,
condurre al chiarimento conclusivo? Poteva e più che
mai.
S’indugia l’amore del Petrarca a riparare le rovine
minuto per minuto, quasi insensibile alla fuga del
tempo, e dando al tempo gradualmente spazio d’infi¬
nita profondità storica, suscitando una forma, forma
terrena, bellezza nell’incorruttibilità delle idee: Laura.
Per lenta variazione di luce procede il Petrarca, sino
a quando, l’invecchiamento apertogli un baratro ai pie¬
di, non gli avrà la luce fattasi sfolgorante, e spaven¬
tosa, svelato soprannaturali l’amore, la bellezza, l’im¬
mortalità: Laura. Il Petrarca può arrivare a contrarre
i suoi beni nella dialettica dei Trionfi, la sua malin¬
conia rimane ineffabile e la sua confidenza sempre fat¬
ta a se stesso, sempre intima.
Sente Shakespeare a ogni passo che l’invecchiamen¬
to gli si fa, di fatto, più schiacciante sulle spalle, e
non ne chiede riscatto alla memoria, la memoria aven-
554 Giuseppe Ungaretti

dogli insegnato che quella è la nostra fatale condizio¬


ne, la memoria implacabile non registrando se non
l’accrescimento d’un peso e l’affievolimento delle for¬
ze. Avrà di conseguenza motivo il tema dell’immorta¬
lità o, come si vedrà [dai sonetti II e VI], carnal¬
mente, dalla prole, e in ciò si distinguerà subito dal
Petrarca, accogliendo al posto di Laura, a modello
della perfezione umana, d’ogni virtù e della bellezza,
l’idea rinascimentale di Principe: di bellezza per ere¬
dità, per affinamento e di educazione e di sangue:

SONETTO II

Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua


[fronte
Scavando trincee fonde nel campo della tua bellezza,
L’imponente livrea dell’ammirata giovinezza
Sarà ridotta a uno straccio d’abito tenuto in poco conto:
Se allora si chiedesse dove la tua bellezza giace,
Dove tutto il tesoro dei giorni caldi di vigore,
Dire: « Nei tuoi propri occhi infossati profondamente »,
Mostrerebbe con indiscreta lode, in giura implacabile.
Ma quale premio adornerebbe la tua bellezza logora
Se tu potessi replicare: « Questo mio bel bambino
Assolverà il mio debito, scusabile farà ch’io invecchi »,
La sua bellezza dimostrandosi, per successione, tua!
Sarebbe il tuo rinnovamento quando già sarai
[ vecchio,
Vedresti il tuo sangue ardere quando già ne sentirai
[il gelo.

SONETTO VI

Non lasciare la scarna mano invernale che, prima


D’esserti già in te distillato, l’estate tua denudi:
Fa’ soave qualche fiala, poni a frutto qualche tesoro
Della bellezza prima che le giunga l’ora di estinguersi.
Non è simile calcolo quello della vietata usura
Saggi e Scritti vari 1943-1970 555

E a chi consente lo spontaneo prestito dà la felicità;


Questo, ti frutterebbe un altro te stesso per te stesso
Felicità decuplicandoti, se vuoi dieci per uno;
Dieci volte saresti più felice che tu non sia
Se dieci tuoi, te stesso dieci volte raffigurassero;
La morte che potrebbe fare se allora tu partissi
Lasciando te vivente in una tua posterità?
Non ostinarti, poiché troppo ricco sei di bellezza,
A essere preda della morte facendo i vermi tuoi eredi.

Oppure il tema dell’immortalità avrà motivo, ideal¬


mente, dalla concreta bellezza d’un’opera dell’ingegno.
Qui conviene spiegare meglio come vedo la forma pe¬
trarchesca, e il mio modo di sentirla e di capirla. Aper¬
tasi essa indefinitamente progressiva a costituire un’e¬
spressione di alta umanità e, oserei quasi dire, a poe¬
ticamente rappresentare un conseguimento di cono¬
scenza del reale, nella sua integrità e unità, essa è
sommamente evocatrice per essersi tanti momenti lon¬
tani e diversi dell’animo, entro di essa integrandosi in
un unico continuo flutto, resi chiari facendo luce nel¬
la notte del tempo. Il futuro in questo senso equivar¬
rebbe a passato rovesciato. S’intende che così pensiero
e forma rappresenterebbero attività inscindibili, non
potendosi in arte concepire idee se a suscitarle, sve¬
gliando sensi e anima, turbando e agitando l’animo,
non intervenga la fantasia con la facoltà d’evocazio¬
ne delle forme: e sopratutto dovendosi, nell’esame
d’un’elaborazione di poesia, non dimenticare che, quan¬
do restino a svolgersi chiuse nella mente, le idee non
sarebbero mai tali se apparendo, non conseguissero si¬
multaneamente forma.
Di conseguenza non vorrei essere frainteso, se indi¬
co l’immaginare della immortalità da parte dello
Shakespeare, anche come il poetico atto dei posteri
elevanti a mito una concreta, strettamente particolare
opera d’ingegno, essendo inteso che chiamo ingegno
556 Giuseppe Ungaretti

quell’attitudine dell’intelletto degli artisti a oggettivare


le idee nella loro essenza sensibile. In Shakespeare
l’immortalità, come nel Petrarca, consiste (dunque) an¬
che nella concretezza d’un’opera dell’intelletto; ma
dallo Shakespeare non saranno i momenti della mente
considerati nell’intensità del fluire memore che li ren¬
de inseparabili l’uno dall’altro; ma colti nell’assolu¬
tezza caratteristica di questo o quell’aspetto partico¬
lare, che l’uno o l’altro assumerà, distaccato da tutti
e a tutti unito; ma resi attivi, da questo o quell’aspet¬
to particolare che oggettivamente li convalidi in una
fragilità corporea, materiale, anche se la materializza¬
zione non ardirà'sempre forzare le cose del passato a
oltrepassare la loro natura di spettri rivivendo intatte,
camminando, vedendo, parlando, per miracolo della
fantasia, come non mai morte.2 Tale sarebbe il per¬
corso del viaggio da Laura al Principe. A prova, ecco
due esempi:

SONETTO XV

Nessuna cosa se ne osservo il terreno sviluppo,


Più d’un rapido breve momento perdura perfetta
E la scena immensa del mondo non offre che comparse
Su cui in segreti influssi, stelle proseguono il com-
\_mento;
E, poiché considero che gli uomini come le piante
[crescono
Favoriti sempre o osteggiati dal medesimo cielo,
Spavaldi per giovane linfa, declinanti dall’apice
Sino a smarrire la memoria del loro tempo energico,
Il sorto concetto di tale permanenza incostante
Dinanzi alla vista voi, ricco di gioventù, mi pone
Mentre con Rovina gareggia devastatore il Tempo
Per deturpare in notte il vostro giorno giovanile;
E, per amore vostro, dichiaro guerra a oltranza al
[Tempo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 557

E via via quanto esso vi toglie, di nuovo in voi s’in-


tne sta.

SONETTO XIX

O famelico Tempo, la zampa del leone corrodi


E fa’ che la terra divori la propria genitura;
I denti aguzzi strappa dalle mascelle delle tigri
E ardi la fenice longeva e consumale il sangue;
Fa', mentre ti dilegui, le stagioni tristi o giulive
E tutto quello -che vuoi, fa’, Tempo dal piè leggero,
Al vasto universo e alle cose sue dolci che appassi-
[ scono ;
Ma un crimine molto più nero ti vieto: del mio amore
La bella fronte non incidere con le tue ore, o fugace,
Né vi resti traccia di linee della tua penna antica;
Lascialo illeso nel tuo correre implacabile, serba
II modello della bellezza agli uomini venturi.
Fa’ pure il peggio, vecchio Tempo: del tuo danno a
[ dispetto,
Giovane per sempre vivrà nei miei versi il mio
[amore.

La memoria in tali limiti non potrebbe offrire, cer¬


to, l’irremovibile visuale d’un’estensione progressiva,
ma alcune balenanti immagini. Saremo infatti colpiti,
nel Sonetto II, dagli anni che scavano trincee in un
viso assediandolo, o nel Sonetto VI, dal compiaci¬
mento rassegnato d’un genitore canuto rivedendosi
giovane nella giovanile bellezza del rampollo, oppu¬
re, nel Sonetto XV e nel Sonetto XIX, dalla incessante
Rovina apocalittica del Tempo cui fa, per illusione,
argine il prodigio dell’opera di Poesia.
Nessuna meraviglia, con tali disposizioni, che un
fatto d’attualità potesse concorrere a rendere ancora
più presente la verità espressiva e, nel Sonetto VI,
che la pratica dell’usura, di cui si discuteva se mante-
558 Giuseppe Ungaretti

nerne il divieto o no, dovesse arrivare a suggerire lo


stridente accostamento d’un tasso d’interessi al nume¬
ro, moralmente remunerativo,,dei figli. A quali effet¬
ti d’arte, poi, potesse concorrere un accorto sfrutta¬
mento d’un fatto d’attualità, ora il fatto -dell’uso in¬
valso di portare parrucche di capelli rossi, reciden¬
doli ai cadaveri, perché erano del colore di quelli
della Regina - con invidia, chi si diletti di espressio¬
ni atroci vedrebbe in uno dei Sonetti, il Sonetto
LXVIII, dove l’autore raggiunge, collegando di ma¬
lumore il tema dell’invecchiamento a quello della na¬
turalezza, un’originalità avvicinata- nelle opere plasti¬
che da un Rembrandt e da un Goya e anche, nei gior¬
ni recenti, dal nostro Scipione. Sono elementi gotici
che vengono a contaminare e a rendere acre l’ispira¬
zione di Petrarchismo rinascimentale, sono particola¬
ri, tratti, per investirli di valore morale, dall’osserva¬
zione minuta della realtà oggettiva; e per Dante con¬
tavano ancora moltissimo e il Petrarca ne aveva fatto
invece tabula rasa. È per via di Goticismo che i Ro¬
mantici ripongono a vivere in auge Dante e scoprono
a bocca aperta Shakespeare, sebbene né Shakespeare
né Dante fossero melodrammatici - tutt’altro! tutt’al-
tro!

SONETTO LXVIII

La sua guancia la mappa traccia dei giorni d’una volta


Quando bellezza aveva l’alba e morte, dei fiori usanza,
Quando non nati ancora, segni bastardi d’attrazione
Non ardivano farsi seggio su una fronte vivente,
Quando le trecce d’oro della morte,
Diritto dei sepolcri, non erano recise né asportate
Perché un’altra vita godessero su una seconda testa,
Quando il vello della bellezza, morto non rallegrava:
In lui vedrete ancora quelle ore antiche e sante
Prive d’ogni ornamento, quando bellezza era se stessa
[e vera
Saggi e Scritti vari 1943-1970 559

E non conseguiva l’estate togliendo il verde agli altri


E non rubava per rifarsi nuova, il decaduto.
Va conservando lui Natura quale opportuna mappa
Per segnalare all'arte falsa, la bellezza d’un tempo.

Il Petrarca fa subito però ritorno invadente, e la


desolazione ne potrebbe essere il conveniente richia¬
mo, come nel Sonetto LXXIII, una desolazione quasi
disperata, una malinconia che il Petrarca conosceva
bene, e tutti i suoi Sonetti in morte di Laura sono
dedicati a illustrarla: malinconia che nulla che sia di
natura terrena possa non estinguersi, e persino la bel¬
lezza dell’Arte che, poiché tratta dalla memoria, os¬
sia da un’esperienza apparentemente infinita, parreb¬
be immortale, non sarà tale se non per illusione.
E come è petrarchesca qui la delicatezza del senti¬
mento. Si ascolti:

SONETTO LXXIII

Quel tempo in me vedere puoi dell’anno


Quando o già niuna foglia, o rara gialla in sospeso,
[rimane
Ai rami che affrontando il freddo tremano,
Cori spogliati rovinati dove gli uccelli cantarono, dolci.
Della giornata vedi in me il crepuscolo
Che dopo sera all’Ovest si dilegua
Portato a gradi via da notte buia
Che pari a morte, tutto nel riposo sigilla.
In me tu vedi d’un fuoco la fiamma
Che sopra le ceneri della sua gioventù vacilla
Come in letto di morte dove dovrà spirare,
Consumata da ciò che la nutrì.
E di questo t’accorgi, e si fa il tuo amore più forte
Nel bene amare ciò che lasciare dovrai tra breve.

Potrei non smetterla più di questo passo e, mentre


560 Giuseppe Ungaretti

il tema dell’assenza è nel Petrarca reso indimenticabi¬


le da se stesso:
9

E m’è rimasa nel pensier la luce,

ammassare ancora prove a sostenere che in Shakespea¬


re, almeno a prima vista, non il tema, il tema dell’as¬
senza ora,3 ma resta indimenticabile una circostanza
da lui messa in rilievo, e, tra poco, un viaggio che
non finiva mai a dorso d’una brenna ciampicona, o
sangue d’una speronata, nel Sonetto L, oppure, nel
Sonetto LI, un galoppo da Mille e una notte, se lo
stesso tema dell’assenza non rodesse di pianto l’ani¬
ma nel suo fondo, col Sonetto XXX, fiore di tenerezza
e di tristezza, di affanno, di abbandono smisurato, am¬
monimento a non smarrire la fonte e, rifacendo dac¬
capo la lettura, a non lasciarsi più indurre a trascu¬
rare per le immagini, il grido, il quale, le immagini
solo localizzano e datano, il grido della passione d’a¬
more non meno assoluto in Shakespeare che nel Pe¬
trarca, il grido, in Petrarca quasi silenzio, pronunziato
senza testimoni, grido nello Shakespeare, pieno d’echi
di popolo, urlo.

SONETTO L

Oh, a che punto m’accascia percorrere questa mia


[ strada
Mentre ciò a cui mi sforzo, la fine del viaggio affan¬
noso,
Insegna a suggerire alle comodità e al riposo:
« Tante miglia misura la tua distanza dall’amico! »
La bestia che mi porta affranta dalla mia sventura,
Va inciampando inebetita sotto il peso che è in me
Come se, poverina, per istinto avesse capito
Non amare il suo cavaliere fretta che allontani da te;
Non riesce a scuoterla nemmeno lo sprone sanguinante
Saggi e Scritti vari 1943-1970 561

Che a volte per rabbia dentro il pelame le conficco;


Triste, replica con un solo lagno, molto più lacerante
Ter me che non possa straziarla la spronata nel fianco;
Perché nella mente quel gemito così si ripercuote:
Dinanzi a me il rammarico si estende quanto gioia
[va dietro a me fuggendo.

SONETTO LI

Così il mio affetto può trovare scusa alla lenta offesa


D’uno stupido portatore quando parto da te:
Potrei andarmene di corsa dal luogo dove sei?
Sino all’ora del ritorno non vanno bruciate le tappe.
Oh! allora quale scusa troverà la povera bestia
Quando parrebbe tarda anche un’estrema levità?
Darei di sprone in quel momento fossi anche in groppa
[al vento
E in un galoppo alato giurerei di non avanzare:
Nessun cavallo allora terrebbe il passo col mio desi-
[derio;
E, dunque, il desiderio formato d’amore perfetto
Nitrirà - non tardigrada carne - nel suo focoso slancio;
Ma, per amore, amore scuserà la brenna così:
« Se allontanandomi da te, ostinata andrò piano,
Quando incontro a te corro, le infondo la mia foga ».

SONETTO XXX
Quando nella sessione del dolce silente pensiero
Convoco rimembranza di cose avvolte nel passato,
Piango assenza di tante cose nell’anelito vive,
Gemito aggiunto a un vecchio pianto del perso caro
[tempo:
I miei occhi allora, inusi a spargerle, s’annegano in
[ lacrime
Per amici che immemore la morte e incolore, nasconde
E a lamento amorosa pena da lungo tempo estinta
[torna
562 Giuseppe Ungaretti

E rimpiango il disperdersi di tante mie mire svanite:


Dunque posso ancora patire sofferenze esaurite
E da gemito a gemito angosciosamente rifare
L’elenco mesto delle gravi mie afflizioni riaperte
Che di nuovo come se non patite prima, sconto.
Ma, amato amico, in quel momento avvenga che a te
[ pensi,
Ogni perdita si recupera, finisce ogni dolore.

L’esplosivo squilibrio che affastella in soli quattor¬


dici versi tanti elementi; il pittoresco, il madrigaleg¬
giarne, l’incantevole, l’orrido, il moraleggiante, lo
schernevole, per quale miracolo, a un grido senza pa¬
ce, durante la rilettura si convertì nel senso più ma¬
gico d’armonia?
Così attraverso gl’irrimediabili rimpianti e un desi¬
derio non conseguibile, saprò che l’invecchiamento ha
forza di proporsi l’umana perfezione, Laura ormai tra¬
smutata, come vuole il Rinascimento, in idea del Prin¬
cipe - ha forza di proporsi l’idea di gioventù, la bel¬
lezza nell’incorruttibilità delle idee, quale medicina e
misura, quale impossibile misura, e di salvarne il pro¬
fumo nei torbidi del sentimento, della carne, della
mente (Sonetto LXII). Così, buia bellezza, Èva pieghe¬
rà nell’essere alla debolezza l’uomo, insieme a lui de¬
turpando la bella speranza di gioventù senza declino
(Sonetto CXXXIII).
Il discorso è approdato al suo porto, e non resta
ormai che da dibattere, precisando talune difficoltà di
traduzione, come potesse un poeta come Shakespeare,
distaccare da sé le due rivali sue interne inclinazioni
e insieme ad esse distaccare da sé anche se stesso, e
seguire da spettatore i tre personaggi, come in un
dramma a teatro. Ma sarà lo spettacolo di pretesto a
riepilogare il mio già lungo discorso.
Che importa dunque che sia esistito il Giovine Si¬
gnore, o ne siano esistiti più d’uno, che sia esistita
Saggi e Scritti vari 1943-1970 563

la Dama mora, ma insieme al poeta l’avrei detta Dama


nera, se il colore era più che altro attributo morale;
che importa, - honny soit qui mal y pense, - quanto
d’inconfessato o d’inconfessabile possano contenere le
parole o quanto da qualche causa ignorata esse furo¬
no mosse a profferirsi, se, secondo la propria esperien¬
za, lo stesso autore e ciascuno vi si può specchiare e
scindere e vi può idealizzare la migliore parte di sé,
e riconoscervi in qualche modo il proprio indecifra¬
bile mistero umano?
Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traen¬
done vita, un segreto inviolabile.
L’uso del vocabolario da parte dello Shakespeare, si
è avuto occasione di ricordarlo, è naturalmente rina¬
scimentale, e quindi né romantico né simbolista, né
parnassiano, né surrealista. Era implicita, in ciò che
precedentemente si è detto, la definizione di tale uso.
Taluni confondono l’arte che in tale uso delle parole
è riposta con quella del Barocco, e barocca la deno¬
minano. È difatti un’arte che potrebbe denotare un’im¬
pazienza, un impeto estremo e deflagrante e una disci¬
plina titanica che sono anche propri del Barocco, nella
crudezza adesiva del senso delle parole, nell’ardimen¬
to e nei contrasti degli accostamenti faticosi d’imma¬
gini, cui le immagini ricorrono quasi alla cieca, fatal¬
mente richiamate dalle omonimie e sinonimie che con
tanta liberalità i lessici inglesi offrono all’espressione
lirica, dandole la flessibilità fonetica impareggiabile
ch’essa possiede. Ad arte barocca sarebbe tentato di
riflettere anche chi volesse addentrarsi nello spirito
del poeta, formatosi sotto i riverberi della cultura
propagata dal pensiero umanistico, ma rimasto senza
riparo negli urti continui e fecondi' con le esigenze
individuali e nazionali di un temperamento all’estre¬
mo esuberante e originale. Tanta misura nella dismisu¬
ra, determinandosi essa nel fissarsi del rapporto da
ispirazione a espressione, mi manterrò della convinzio-
564 Giuseppe Ungaretti

ne ,già espressa, che convenga immaginarla come uno


spontaneo accordo di tendenze romantiche e classiche
in una espressione esemplare dpve permangono se non
predominano superstiti caratteri gotici, e non mi pare
di sbagliarmi se deve di fatto ritenersi esatto chiama¬
re invece Barocco un processo di fermentazione pro¬
dottosi nelle forme classiche, nella stessa patria della
classicità, a causa dello stato della loro sostanza stes¬
sa, ormai eccessivamente matura.
Il sonetto che ora ci riguarda è il LIX:

Se quaggiù nulla è nuovo, ma tutto quanto ciò che è


Già avvenne un 'tempo, illusi sarebbero i nostri cervelli
Che, tormentandosi a inventare, porterebbero invece
Una gravidanza ulteriore d’un anteriore figlio!
Oh il ricordo potesse, con lo sguardo retrocedendo
Di più di cinquecento percorsi dell’annuale sole,
La vostra immagine mostrarmi in qualche antico libro
Sino da quando tracce va lasciando il pensiero.
Potrei così vedere ciò che allora il mondo diceva
Alla perfetta meraviglia ch’è la vostra struttura,
Se ci siamo emendati, od essi fossero migliori,
Se di continuo accada una stessa rivoluzione.
Oh, ne sono sicuro, sempre il talento d’una volta
Ammirando rivolse lode a oggetti a voi inferiori.

In questo sonetto, il fatto di doversi dare evidenza


ai due temi che vi s’incontrano, rappresentava la diffi¬
coltà di traduzione: il tema delhimmortalità fisica e il
tema dell’immortalità ideale,4 temi che il poeta svolge
facendoli sillogisticamente circolare nei termini d’un
terzo tema: il perenne ritorno. Il poeta per sua fortu¬
na poteva, nel momento critico del discorso, disporre
di un vocabolo come « record ». Come rispettarne in
italiano il senso ambiguo: senso di « archivio », nel
materiale valore della parola, e senso di « ricordo »,
nel morale valore di atto che rompa la cecità del sen-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 565

timento? C’è chi s’è deciso per il vocabolo « storia »,


segnalando però ch’era un recente senso. « Storia »
poteva soddisfare, ma incompiutamente, dato il valo¬
re di atto anche strettamente soggettivo e individuale
che si assumeva d’indicare nel caso la parola « re¬
cord ».
Giocoforza era scegliere dunque tra « archivio » e
« ricordo », e ho a lungo titubato se tradurre la se¬
conda quartina come appare nel mio testo accettato,
oppure così:

Oh! potesse l’archivio, facendo arretrarsi la vista


Di più di cinquecento percorsi dell’annuale sole,
La vostra immagine mostrarmi in qualche antico libro
Sino da quando tracce va lasciando, memoria!

Avevo trovato « archivio » con senso di memoria,


in altri poeti dell’epoca, in Scève per esempio. « Ar¬
chivio » avrebbe avuto quella medesima facoltà sug¬
gestiva un po’ sforzata cui spesso ricorre efficacemen¬
te lo Shakespeare, e che abbiamo dovuto affrontare
quando nel Sonetto LXVIII, fa uso del vocabolo
« mappa », la « mappa » dei giorni d’una volta, trac¬
ciata da una guancia. Non verrà forse chiamato « Court
of Record », il centro di raccolta degli atti da conser¬
varsi trascritti su pergamena, a perpetuità? Ma i tra¬
duttori d’oggi inorridiscono davanti a simili metaforici
allargamenti delle parole da parte della fantasia, e
dove c’è « map », dicono, con voce castrata, « spec¬
chio ». È ammissibile che « astrolabio » dovesse pia¬
cere meno di « cipria » a uno Shakespeare, a un Eli¬
sabettiano, quando Colombo aveva già aperto gli ocea¬
ni alle avventure della navigazione di lungo corso?
« Archivio » per « record » avrebbe avuto il vantag¬
gio di dare alla quartina un legame di perfetta logica
fantastica, un vincolo che però quasi la staccava dal
566 Giuseppe Ungaretti

res>to del Sonetto-, del quale così quasi tagliava il filo


poetico.
Occorreva, questa volta corpe sempre, appellarsene
al Petrarca, e convenire ancora una volta nella convin¬
zione che una logica poetica non si fonda e non sus¬
siste solo nel potere fantastico delle parole, ma anche
nella loro sostanza psicologica, come nella loro voca¬
zione e aspirazione e chiarificazione e testimonianza
ideale. Nella sostanza psicologica delle parole risiede
quello slancio plastico che, permettendo loro dall’in¬
dole degli impulsi duna vita di ricostruirla, le fa toc¬
canti" come realtà che, oscuramente attive nel nostro
animo, per un gesto o un’intonazione di voce subita¬
mente ritrovate in sogno, oppure, brusco isolamento
da ogni altra presenza, nel ricordo, sono restituite a
noi come erano prima della loro scomparsa, non solo
nei loro connotati fisici, ma definite da abitudini mo¬
rali. A tale requisito fondamentale della espressione
poetica, è nelle opere insigni attribuita importanza in
grado diverso. Flaubert, confrontando precisamente a
Shakespeare, Hugo, rivelava in una lettera a Madame
Roger des Genettes, quanto il secondo non ci badasse
e il primo gli dovesse la sua grandezza. In Italia, dal¬
la Canzone programmatica « Donna me prega » del
Cavalcanti, all’immenso, inesauribile contributo teori¬
co e pratico di Dante, alla deliberata profondità del
Petrarca, al Tasso, al Leopardi e al Manzoni, ci han¬
no badato in tanti. Ad esso specialmente, la letteratu¬
ra francese ha chiesto i tratti inconfondibili della sua
acuta bellezza, e non c’è da meravigliarsene se è la
letteratura dove il dibattito religioso saliva alie pene¬
tranti indagini d’un Bossuet e d’un Pascal, se è lette¬
ratura dove nessuno a Racine potrà mai contendere la
gloria poetica sovrana. Di solito la scarsa psicologia
d’un’opera è confessione della mediocre energia criti¬
ca d’un intelletto.
Il Sonetto svolge, si diceva da principio, il tema
Saggi e Scritti vari 1943-1970 567

dell’immortalità; lo svolge su una variazione, quella


del perenne ritorno, che è necessariamente portata a
dare risalto all’elemento psicologico d’un discorso; lo
svolge permanendovi, tutelare idea, la bellezza nella
drammaticità della sua gioventù effimera e permanen¬
te, ossia l’archetipo dal quale derivava e al quale ten¬
deva la meditazione neoplatonica del Quattrocento,
il punto dal quale era partita l’espansione europea del
Petrarchismo.
E tanto, si aggiunga in proposito aprendo una pic¬
cola parentesi, si dimostreranno avvolti i Sonetti in
un clima neoellenistico, che, nonostante la loro gotica
prepotenza d’immagini, non potranno mai omettere
di trasfigurarsi alla delicatezza espressiva che spesso
li insidierà, delicatezza che farà ricordare un Melea:
grò. Si potrebbe poi, circoscrivendo ancora più da vi¬
cino l’accenno al Neoplatonismo, osservare come indi¬
struttibilità e caducità della bellezza, divenendo quasi
i simboli duna specie di Manicheismo, la bellezza
raffigurino in modo antinomico anche nella sua essen¬
za, e perciò ci è occorso di citare il Sonetto CXXXIII,
essendoci tornata in mente, mentre lo traducevamo,
una vecchia lettura di Filone Ebreo, nella quale la ne¬
fasta passività dell’Èva precisamente era opposta, nel¬
l’essere- umano, a una natura felice. All’Alessandri¬
no era anche corso il pensiero quando nel Sonetto XV
ci apparvero gli astri, magistrati della divinità nei
cosmogonici e, in Shakespeare, un po’ ironici rappor¬
ti coll’uomo. Filone, più volte stampato, bene o ma¬
le, nel Cinquecento, è con cura studiato in Inghilter¬
ra, per tradizione.5 Ma qui non si vogliono trarre che
conseguenze genericamente indicative, da un’associa¬
zione d’idee puramente fortuita. Il fatto infine che i
personaggi dei Sonetti possano ridursi alla misera quo¬
tidianità della cronaca, deporrebbe solo in favore del¬
la loro verità umana che li fa persone di sempre per-
568 Giuseppe Ungaretti

che furono gente e individui d’un attimo. La paren¬


tesi è chiusa.
La prima quartina allude al tema impersonalmente,
come a registrare l’esperienza comune del trasalimento
a un adombrarsi inopinato e interrogativo dell’animo:
« Quando, quando mi sarà successa la tale cosa? Do¬
ve, dove avrò mai veduto la tale persona? ». Forse
non basterebbero per saperlo secoli di viaggi degli oc¬
chi mentali.
Ma come avverrà la presa di coscienza? Come il tur¬
bamento sarà inseguito a decifrarsi sino all’estrema
oscurità delle sue origini, impersonandosi in noi in
un’azione, nell’opera del nostro intelletto ansioso di
verifiche? « Record » non vorrà in particolare darci il
segnalamento su tali passaggi dall’impersonale al per¬
sonale? E l’atto dell’intelletto, quando necessariamen¬
te si oggettiva per misurarsi, ora nei ritratti che s’è
fatto del Giovine Signore: « record », in quest’altro
acquisto di coscienza, quale funzione avrà d’impulso?
Quale turbamento nel sangue e nelle idee, la ricer¬
ca fatale delle radici del nostro essere? Quale turba¬
mento quello che nel sangue ci farà sentire innumere¬
voli vite anteriori alla nostra, e nella nostra mente
una moltitudine di spiriti che il nostro hanno prece¬
duto, tramandandogli le idee? E come separare tali e
tanti spiriti e riconoscere a ciascuno il nostro debito?
Come fare risorgere, precise agli occhi nostri, le fat¬
tezze nostre d’una volta?
Sino a quale monumento ci sarà concesso di retro¬
cedere per ritrovarci e rivederci in antico, vivi? È la
passione dalla quale le civiltà sorgono e che fa umano
l’uomo e umanamente lo fa avanzare.
E quando, nei secoli tragici della vecchiaia, essendo¬
si spezzata l’unità morale che gli spiriti legava e vivi¬
ficava e, sbandatisi essi fra i rottami insanguinati del¬
l’essere, e, spettri, fattisi reciproci delatori aizzatori
corruttori e becchini, quali proporzioni raggiungerà lo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 569

sgomento e quali la speranza in un’umana bellezza che


potrebbe, al di là d’Amleto, riaccendere la fatica?
Con quale nome noi chiamiamo il moto di tanto
struggente, edificante passione? Con quale nome quan¬
do, nella perenne realtà dell’itttelletto, indotto a ri¬
flettersi e così a immedesimarsi la realtà effimera del¬
l’opera d’un ingegno, l’atto poi porterà l’opera a og-
gettivarsi e a paragonarsi nella immagine corporea
stessa dell’oggetto che l’ha ispirata, e nel Giovine Si¬
gnore a impersonare e la mentale e insieme carnale
forma bella « passeggera », e, per gli elogi che si po¬
trebbero rintracciare sino da prima dell’XI secolo del¬
l’aspetto e della virtù dei suoi maggiori, la « costan¬
te » mentale e insieme carnale forma bella?
Lo stesso distico finale del Sonetto, ricorrendo alla
frivolezza dei convenevoli d’uso, ossia a un’automati¬
ca manifestazione di ricordi, non dovrà indurci a con¬
cludere che l’uomo è fatto, se tale è anche nei futili
atti, soprattutto di ricordi, che la stessa sua fisica pre¬
senza è specialmente passato?
Se poi, udito tanto, ne cercassimo una qualche con¬
ferma, il Sonetto CXXIII ci dirà che i monumenti sa¬
rebbero vani se la fedeltà al ricordo non fosse fedeltà
alla nostra umanità, a ciò che non muta né muore nel¬
l’effimero. Perenne è la bellezza e potremmo vederla,
fugace con ogni momento, tornare viva dinanzi a noi,
e quale fu vista sempre da quanti seppero amare.

SONETTO CXXIII
No; Tempo, tu non ti potrai vantare che anch’io muti:
Le piramidi che con nuova potenza torni a erigere
Non mi sono per nulla nuove, neppure in nulla strane:
Non sono che riallestimento d’un antico spettacolo.
Sono brevi le nostre durate, e quindi noi ammiriamo
Quanto da te ci è imposto, e che è, a dire il vero,
[ vecchio;
570 Giuseppe Ungaretti

Ma ^preferiamo credere eh’esso nasca a nostro talento


Al pensare d’averne già udito parlante, la voce.
I tuoi registri e te, entrambi, o, Tempo, io disfido
Senza stupore alcuno del presente né del passato,
Poiché i tuoi monumenti, e i nostri sogni, abbandonati
Più o meno incompiuti dall’incessante fretta, menti¬
scono.
Di questo faccio giuramento: mi manterrò per sem-
[pre
Fedele uomo a dispetto di te e della tua falce.

Non mi restava dunque che da tradurre «-record »


con « ricordo » è nessun'altra parola poteva sedurmi
e commuovermi di più nell’unire due Sonetti che per
dichiarato argomento sembrano difatti investirsi degli
intendimenti perseguiti dal Petrarca, anche se, quan¬
tunque così ligi ai propositi del Maestro, spiccatamen¬
te siano fra quelli che mostrano meglio l’originalità
del loro autore. Il Petrarca avrebbe tentato, come di¬
fatti tentava, di ricostruire analiticamente il passato,
almeno il proprio passato. A Shakespeare, e ce ne av¬
vertono questa volta perentoriamente entrambi i di¬
stici, se ancora non ce ne fossimo già accorti da noi,
non premeva se non di rendere da visionario, ma nella
loro qualità propulsiva, e con non minore conoscenza
dell’umano essere di quella del Petrarca, due intense
emozioni fermate, sul fuggente momento, in due repli¬
che di dialogo.
Ma la reminiscenza, nello Shakespeare come in Pla¬
tone, come nel Petrarca, non poteva, da un tremito
d’erbe all’armonia e guida celeste degli astri, alla cor¬
porea grazia delle forme e alle drammatiche vicende
degli uomini, avviare a immaginare un’unità del reale
sino alle curiosità integrative dell’intelletto oltre ogni
tempo e luogo, se non mediante il sentimento della
bellezza, mediante amore.6
DELLA METRICA E DEL TRADURRE
[1946]

Sono grato a Pellizzi della sua nota sulla mia tradu¬


zione dei Sonetti di Shakespeare.1 Specialmente gliene
sono grato perché essa prova che tuttora da noi si
esercita la critica letteraria in modo da condurre a di¬
scussioni proficue.
E entriamo in ballo.
Gli stessi argomenti cui il mio amico ricorre, sono
quelli ch’io avevo invocato cercando di giustificare nel¬
la nota introduttiva, i criteri da me seguiti nell’impo-
staré il mio lavoro. Certo non mi sono mai illuso che
la mia arma non mi dovesse produrre qualche taglio,
affilata a quel punto, e per quanto l’usassi con ogni
cautela. Con ogni cautela; ma non dico che me ne
volessi servire anche con un minimo di furbizia, poi¬
ché in poesia, e soprattutto traducendo un poeta che
si prova a esprimere come fa Shakespeare, moti del¬
l’animo nella loro piega autentica, tutto sarà sempre
da ricominciare. Un poeta di fronte al proprio lavoro
si troverà sempre nell’atteggiamento dell’ignorante, o
già gli sarà esaurita la scintilla sacra, decaduto a rifar¬
si il verso, già dannato a galleggiare nel mare idiota
che chiamavano pompierismo, quando ero giovane.
Dicevo dunque, come anche Pellizzi dice, che non
possono essere se non tre i modi di voltare in altra
lingua una poesia: uno è difatti la prosa; un altro, la
libera rielaborazione; il terzo, ecco il terzo vorrebbe
essere sì, poesia, secondo qualche regola del canto, ma
avendo di mira nel tempo medesimo il rispetto, alla
lettera, parola per parola, del significato originale.
Dicevo degli inconvenienti della traduzione in prò-
572 Giuseppe Ungaretti

sa, e sia quella di Rebora, pure così utile, sia quella


del Darchini, delle quali m’accadeva d’occuparmi,2 -
mi dimostravano bene che, a omettere una ricerca di
tono e quindi di ritmo, s’incorreva nella conseguenza
di non afferrare spesso il senso inseguito dall’autore,
riducendo così a limiti troppo ristretti l’utilità della
propria fatica.
La rielaborazione libera mi rimetteva in mente il
Ronsard, al quale era successo di chiedere al Petrarca
questo o quel tema, o questo o quel motivo, o que¬
sta o quella locuzione, e poi di farne del puro Ron¬
sard. Il Ronsard, che credeva nell’imitazione, che su
tale credenza farà scuola, poteva arrivare lungo quella
via, date le sue particolari doti, ad essere puramente
Ronsard e a divenire poi, a sua volta, a lungo oggetto
d’imitazione. Vorrei osare aggiungere che non sarebbe
stato per me il mare da bere se avessi accolto il ghi¬
ribizzo di ronsardizzare nei riguardi dello Shakespeare,
traducendolo in endecasillabi e con le rime prescritte
dal sonetto italiano. Ne sarebbe forse potuta risultare
per me la fortuna di scrivere cose d’un’armonia più
palese di quella raggiunta nelle traduzioni quali ho
creduto di doverle fare; ma, necessariamente, avrei
dovuto anteriormente rinunziare a riferire, almeno con
un minimo d’esattezza, il contenuto del testo stranie¬
ro. Come, mozzandogli il discorso, rimanere fedeli a
un poeta che nessun vocabolo usa senza causa e tutti
con eccessiva parsimonia?
Siamo arrivati al blank verse. È indubbio, se non
è un’opinione l’aritmetica, che in media, nei sonetti
di Shakespeare, esso, come affermavo,3 corrisponde
nel senso a circa sedici sillabe italiane. Ci saranno
versi che a tradurli letteralmente suoneranno anche
più corti del nostro endecasillabo; ma, sommati tutti
insieme, si arriva press’a poco a quel numero.
Nel tradurre, come nel comporre la mia stessa poe¬
sia, mi sono sempre principalmente preoccupato, ed
Saggi e Scritti vari 1943-1970 573

era naturale, del senso delle cose, da esprimere con


somma esattezza. Il mio desiderio e la mia volontà,
non sono né di correre né di volare, ma di essere ve¬
ro, e quando, qualche volta, l’arte mi ha favorito, ci
sono forse arrivato. È cosa difatti diffìcilissima, rara,
— dei poeti sommi. Ma è assurdo ritenere che il tono,
il ritmo, la coloritura sillabica, o, come altri la chia¬
ma, i valori fonici, — che possa tutto ciò introdursi in
un discorso, dall’esterno. È assurdo ritenere che pos¬
sano introdursi i valori di poesia dall’esterno duna
prosa che li abbia trascurati. Il valore della poesia è
intrinseco alla sostanza verbale. È come la virtù d’un’a-
nima che nasce e dura, che si perfeziona o resta otte¬
nebrata o s’indemonia, con la vita d’un corpo; non
prima né dopo. Dopo, ci potrà essere l’eterno; ma
l’eterno non è durata, è solo, in questa vita terrena,
mistero, - è solo tutto, cioè quell’essenza indefinibile
che dà alla poesia la sua libertà celeste.
I novenari, i settenari, gli endecasillabi, i quinari,
non essendo per me mai schemi, non mi nascono dun¬
que dopo trovate le parole, per partito preso; ma mi
nascono insieme alle parole, muovendone naturalmen¬
te il senso. Quando nella mia traduzione c’è un en¬
decasillabo, è perché il senso della traduzione, cioè le
parole stesse dell’originale, dettavano alla traduzione
che si sforzava d’essere esatta nel senso, quel moto,
e nessun altro.
Non saranno sempre quinari e endecasillabi, o no¬
venari e settenari, perché il senso non corrisponderà
sempre alle sedici sillabe; ma questa, sarà eccezione,
tutto sommato, che confermerà la regola. Del pari, av¬
verrà per eccezione se qualche volta - di rado - ricor¬
rerò di proposito a un arbitrio di senso o di metrica;
ma sempre per dare il giusto risalto e la giusta armo¬
nia a quello che mi sembrerà il senso rincorso dal¬
l’autore.
Sulla regolarità del mio novenario, dirò che al Car-
574 Giuseppe Ungaretti

ducei era famigliare la cadenza alla 2a, alla 5a e all’8a


sillaba: « Prosegue la dolce querela »; ma il d’Annun-
zio: «Io peregrinai santamente», e il Pascoli: «Or
che il cucco forse è vicino », - conservano gli accen¬
ti fìssi sulla 5a e sull’8a, come anch’io ho fatto nel¬
l’esempio oppostomi: « Tutto solo sono nel pianto ».
Per me, lo dicevo poco fa, la regolarità d’un verso
non è nel seguire gli schemi canonizzati dai trattati.
E perciò i miei vocaboli hanno preso, — nel Sentimen¬
to, per esempio, - l’andatura d’un novenario, - e lo
considero regolarissimo - e l’uso ancora - con gli ac¬
centi fìssi sulla 4a e l’8a, o sulla 6a e l’8a. Vi ricorrevo
perché il raggiungimento armonioso del senso di que¬
sto o quel componimento, suggerivano, anzi esigevano
un simile novenario, d’una misura concepita, — e al¬
trettanto si dica del settenario e del quinario in simi¬
li casi, - come quella d’un endecasillabo frammenta¬
rio o, meglio, di elementi dell’endecasillabo.
La mia metrica sarebbe stata esterna, avrebbe ubbi¬
dito a uno schema, anche se apparentemente sarebbe
parsa più regolare, se avessi adottato a costituire il
mio verso, non so, due ottonari, o se avessi foggiato
un verso con accenti fìssi sulla 4a, 8a, 12a e 15a, op¬
pure sulla 3a, 6a, 9a, 12a e 15a, eccetera.
Sarebbe stata questa della metrica, per la funzione
estetica che nella mia poesia ho alla metrica sempre
attribuito, una menda gravissima e che avrebbe infir¬
mato dalle origini il mio lavoro. Ma osserviamo le al¬
tre. Al Son. XV, fine, avrei dovuto dire, lo so, « in
voi innesto » e non « s’innesta », e così avevo inco¬
minciato col dire; poi m’è parso che il senso gene¬
rale sarebbe meglio servito lasciando alle stesse « co¬
se tolte » l’iniziativa verbale, mi pareva che si ottenes¬
se così una varietà efficace di movimento, dando ai
tre verbi succedentisi nei due versi, a ciascuno un sog¬
getto diverso. Posso essermi sbagliato. Al Son. L: il
verso « My grief lies onward, and my joy bebind »,
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 575

m’è costato molta fatica, e dall’edizione Documento


a quella Mondadori, la terzina è cambiata; ma ne so¬
no tutt’altro che contento. Si tratta di esprimere, in
un modo concentratissimo, un’acutezza sul concetto di
spazio svolto nel sonetto: il corpo portato ad avere
una meta diversa dal sentimento: la distanza spaziale
del sentimento che cresce e si fa infinita in ragione
inversa dello spostarsi dei termini d’uno spazio fisico.
Nel quartultimo v. del Son. LXVI, « semplicismo »
è difatti vocabolo di nuovo conio, e sarebbe stato più
puro dire « semplicità ». Ma temevo si potesse equi¬
vocare sul senso. Il « tu eli » all’ultimo v. del Son.
LXXIII è avverbio e non sostantivo, ed ho corretto il
mio sbaglio. Nell’ultimo verso del Son. CXXX « she »,
soggetto, è sottinteso nella traduzione: « qualunque
altra (donna che) ». « The forward » del primo v. del
Son. XCIX avrebbe potuto tradursi con « sfacciata » e,
attribuito a viola, emblema di discrezione, sarebbe
stato qualificativo antitetico, movimentato, che non
sarebbe dispiaciuto a Shakespeare. Ma mantengo « pre¬
coce » perché mi sembra che l’A. abbia qui voluto
anche, e piuttosto, evocare la massima dote di grazia
della viola, la modestia, ed attribuirla alla persona a-
mata, derubata dalla viola. Se in italiano avessi saputo
trovare un vocabolo capace di esprimere contempora¬
neamente sottile freschezza fragrante, riserbo, novità,
presunzione, come nel caso riesce a fare l’inglese « for-
ward » questo verso mi sarebbe forse riuscito davvero
con le ali.
Per il Son. LXVIII, confesso di non vedere in che
cosa non ne sia logica la costruzione sintattica, e, fra
tutti, mi pare il meglio tradotto, quello tradotto con
maggiore fedeltà. Perché mai sarà brutto accostare
« guancia » a « mappa » come ha fatto Shakespeare?
Il Son. è pieno zeppo di roba, e perché dovrebbe
mancarvi, perché non vi accrescerebbe poesia quell’o¬
dore di salsedine, di mare, anzi d’oceano, che « map-
576 Giuseppe Ungaretti

pa.» così bene evoca? I modi della poesia sono infi¬


niti, come quelli della pittura, e c’è posto nel mondo
per Raffaello come per Picasso. È un sonetto pieno
di teatro, con trecce bionde recise alle morte.'-nei se¬
polcri; colla folla dei cortigiani, in parrucca bionda
delle morte, per adulare la Regina dalle trecce bion¬
de; con parole come « store », odorose del traffico feb¬
brile dei porti, dell’odore di sudore, di catrame, del¬
l’odore, dalla filza dei magazzini, delle spezie. E se
una guancia, quella tale guancia del virtuoso Giovin
Signore, seguita dall’infanzia alla vecchiaia, si afferma
che delineerà, nel corso del suo esistere, come la rotta
d’una navigazione, apparendo « mappa » preziosa per
chi abbia bisogno di guida sicura tra le procelle della
bellezza, - perché stupirsene? Tra le scene evocate, -
in quel quadro, - quale altra immagine sarebbe più
indovinata? - Quale altra starebbe meglio?
[SULLA «FEDRA» DI RACINE]
[1950]

Nel volume di « Novissima » che nel 1936 raccoglieva


le mie Traduzioni — quelle a cui avevo lavorato nei
sei o sette anni precedenti - in una mia nota spiegavo
perché a un certo momento della mia attività di poe¬
ta, avessi sentito il bisogno di tradurre. Più tardi, eb¬
bi a premettere alla mia traduzione di Sonetti di Sha¬
kespeare - nell’edizione « Documento », e in quelli
successive « Mondadori » - altre giustificazioni.
L’opera che qui presento, è a coronamento di lun¬
ghi sforzi? O nel dare, nel 1948, insieme ai Sonetti
di Góngora tradotti nel 1932 e ad altri tradotti po¬
steriormente, il Fauno di Mallarmé tradotto nel 1946,
mi pareva d’avere già raggiunto un apice? Ma l’apice
di che? Nell’arte del tradurre o in poesia? O nel sen¬
timento, attivamente ravvivato in me da tali miei eser¬
cizi, che la tradizione petrarchesca fosse vincolata per
sempre allo sviluppo d’ogni linguaggio poetico euro¬
peo? O nella persuasione che, risiedendo da ormai più
di trent’anni in Roma, fossi necessariamente impegna¬
to a risolvere una mia crisi di gusto, dalla quale non
sarei uscito se non - se era l’aria che ogni momento
respiravo - quando nei modi della mia poesia si fos¬
sero finalmente immedesimate la naturalezza e la po¬
tenza espressive del Barocco?
L’arte del tradurre, se parte da una ricerca di lin¬
guaggio poetico e si risolve in espressione poetica, por¬
ta semplicemente a poesia, e su questo non ci sarebbe
da discutere.
C’è da domandarsi invece perché ho tradotto Raci-
ne dopo Mallarmé. Non bastava Mallarmé? Ora vi
578 Giuseppe Ungaretti

confesso la verità: mi è stato infinitamente più diffi¬


cile tradurre Racine che Mallarmé.
Per essere esatti, fu nel 1930, traducendo Anabase
di St. John Perse che m’avviai a tradurre prima Mal¬
larmé, e ora Racine. Anabasi apparve nel 1931, nel se¬
condo ed ultimo numero di « Fronte ». Fu in seguito
inclusa nella mia raccolta di Traduzioni del 1936.
La base metrica di Anabasi è l’alessandrino, come
quasi sempre nei grandi testi di poesia francese; ma
l’ordinamento di quel canto sulla pagina, è dall’auto¬
re regolato come se si trattasse di prosa. Che Perse
arrivi nella sua poesia all’iniziale necessario effetto di
mistero - a quell’effetto anteriore al senso dei voca¬
boli, che i vocaboli in ogni poesia vera mantengono
come un loro intangibile diritto di precedenza, costan¬
temente, anche quando siano stati decifrati sino all’os¬
so, sino alla cenere - che Perse all’effetto di mistero
arrivi anche per il valore di punteggiatura che nella
sua sintassi assume l’alessandrino riportato all’origina¬
ria energia ritmica, è problema tecnico che meritereb¬
be esame, quantunque non esista accorgimento di pro¬
sodia né di metrica che possa avere nell’espressione
poetica un valore più che subordinato.
È un problema analogo a quello che mi si era pre¬
sentato tanti anni fa per l’endecasillabo. Quanta fati¬
ca mi sia costato a scioglierne le insidie, sanno bene
oramai i miei critici e i miei lettori.
Nella nota lettera ad Archibald Mac Leish,1 dove
dà - quando ancora non erano noti di lui che Éloges
e Anabase - alcune indicazioni preziose sulla sua poe¬
sia, Perse ci parla d’un'Esther che ebbe una volta in¬
vito ad ascoltare in un isolotto della Polinesia. Alcune
bimbe tonga che non capivano un ette della lingua
nella quale erano state scelte a declamare, avevano
imparato quel testo - lungo una settimana di pazien¬
ti ripetizioni per bocca d’una vecchissima monaca fran¬
cese - come un testo sacro. Racine non sembrò mai
Saggi e Scritti vari 1943-1970 579

meno tradito a Perse, né « mai capito meglio il mi¬


racolo della lingua francese, il cui potere magico, è
dal suo genio per le analisi precise, spesso offuscato ».
È osservazione perspicua di per sé, ma che ci pare
come foggiata apposta per riferirsi al nostro presente
lavoro, non solo pensando che ad esso siamo arrivati
principiando da Anabasi4, 'ma sopra tutto se ci ricordia¬
mo del seguente passo d’una lettera a Boileau di Raci-
ne stesso: « Tout ce traité de Denys d’Halicarnasse,
dont je viens de vous parler et que je relus hier tout
entier avec un grand plaisir, me fit souvenir de l'extrè-
me impertinence de M. Perrault, qui avance que le
tour des paroles ne fait rien pour l’éloquence, et qu’on
ne doit regarder qu’au sens; et c'est pourquoi il pré-
tend qu’on peut mieux juger d’un auteur par son tra-
ducteur, quelque mauvais quii soit, que par la lecture
de Vauteur méme ».
Certo, la vera poesia si presenta innanzi tutto a noi
nella sua segretezza. È il segreto che, nell’anima no¬
stra, l’accompagna anche quando abbiamo scoperto e
precisato di essa ogni limite. Si fa anzi, il segreto più
fondo, da quel momento. Ma a pensarla così - e cioè
che, a seconda di quanto meglio ci avvenga di trasfe¬
rire la nostra emozione e la novità delle nostre visio¬
ni nello scorrere, nella durata d’un intreccio di voca¬
boli, maggiormente si velano essi d’una musica che
sarà l’immediata rivelazione della loro qualità poetica,
oltre ogni restrizione di senso - Racine, o Perse, o
modestamente, io stesso, abbiamo uno, per sodale, a
invasarsi non facile.2
È, difatti, qui quistione di quella medesima proprie¬
tà precipua del linguaggio poetico che il Leopardi, vo¬
lendola designare, diceva consistere in indefinitezza.
Ricorreva all’uso così d’un termine dove, con un piz¬
zico di malizia voltairiana, gli pareva di dissimulare
quel sentimento del mistero, in lui fortissimo, per cui
580 Giuseppe Ungaretti

la poesia colpisce, e specialmente la sua, che è dispe¬


rata.
Perse prima, con i suoi vocaboli resi atti a evocare
oggetti ove sembra ogni memoria s’abolisca alle solle¬
citazioni dei sogni di colpo, e, simultaneamente, vi
rifluisca per miracolo; Mallarmé, dopo (ma l’ebbi in¬
sieme al Leopardi, sino dalla lontana gioventù, mae¬
stro prediletto — con le rare parole dalla sua mente
chiara a una a una elette e dall’estrema consapevolez¬
za del suo gusto congiunte l’una all’altra, sebbene, se¬
condo là credenza innata d’ogni vero poeta, a tali com¬
binazioni predestinate per un’attrazione di radici abis¬
sale) avevano posto nella mia anima e nel mio orec¬
chio una particolare musica - una particolare indefi¬
nitezza, un particolare mistero - che mi fece forse -
il lettore giudicherà - finalmente trovare un’articola¬
zione italiana per quell’alessandrino di Racine che al
linguaggio tragico moderno ha fatto toccare la perfe¬
zione: per quell’alessandrino che s’è fatto, nell’orec¬
chio e nella dizione prodigiosi di Racine, sposando tut¬
ti i moti, anche i minimi, dell’animo umano, il più
plastico, il più flessibile e il più flessuoso, il meglio
incarnato, e anche il più fermo, il più duro, come un
oro, e il più vario dei versi, il più teatralmente effi¬
cace.

Nel descriverci la sua idea del personaggio di Fe¬


dra, che nel proprio carattere possiede « toutes les
qualités qu’Aristote demande dans le héros de la tra¬
gedie, et qui sont propres à exciter la compassion et
la terreur », Racine osserva, nella sua prefazione del
1677, che « Phèdre n’est ni tout à fait coupable, ni
tout à fait innocente; elle est engagée, par sa destinée
et par la colere des Dieux, dans une passion illégiti-
me, dont elle a horreur tonte la première. Elle fait
tous ses efforts pour la surmonter, elle aime mieux
se laisser mourir que de la déclarer à personne, et
Saggi e Scritti vari 1943-1970 581

lorsqu’elle est forcée de la découvrir, elle en parie


avec une confusion qui fait bien voir que son crime
est plutót une punition des Dieux qu’un mouvement
de sa volontà ». « J’ai mème pris soin de la rendre un
peu moins odieuse qu’elle n’est dans les tragédies des
Anciens, oh elle se résout d’elle mème à accuser Hip-
polyte. J’ai cru que la calomnie avait quelque chose
de trop bas et de trop noir pour la mettre dans la
bouche d’une Princesse, qui a d’ailleurs des sentiments
si nobles et si vertueux. » « Au reste, je n’ose encore
assurer que celte pièce soit en effet la meilleure de
mes tragédies. Je laisse, et aux Lecteurs, et au temps,
à décider de son véritable prix. Ce que .je puis assurer,
c’est que je n’en ai point fait où la vertu soit plus
mise en jour que dans celle-ci; les moindres fautes y
sont sévèrement punies; la seule pensée du crime y
est regardée avec autant d’horreur que le crime mème;
les faiblesses de l’amour y passent pour de vraies fai-
blesses; les passions n’y sont présentées aux yeux que
pour montrer tout le désordre dont elles sont cause;
et le vice y est peint partout avec des couleurs qui
en font connaìtre et hair la difformità. » 3
Che sia una tragedia cristiana di lievito giansenista,
nella quale Fedra abbia a comparire come « il giusto
cui sia mancata la grazia »; che addirittura sia trage¬
dia tanto conforme alle norme gianseniste da potersi
segnalare come « la tragedia tipica sulla fatalità del
peccato »; o che invece l’autore, nonostante tante sue
dichiarazioni esplicite, abbia dovuto servirsene per fa¬
re la sua pubblica - pagana ed empia quantunque in¬
volontaria - forbita confessione di « giusto cui la gra¬
zia manchi », adoperando una grazia verbale, inugua-
gliabile, a suscitare fantasmi poetici nei quali trovarsi
indotto, come da uno specchio crudele, a riflettere la
cecità propria di passioni carnali, soverchiarne nella
natura del suo essere; oppure che Fedra si trovi nel
fiore degli anni, o già sul limitare del declino; oppure
582 Giuseppe Ungaretti

che sia essa furia di fuoco, divampante, o straziata e


schiava annebbiata anima; ch’essa sia ferina, felina o
ch’essa sia vittima - la potentè opera di Racine è fatta
di tutto ciò, e d’un altro elemento, cui non si è an¬
cora forse posto mente, ma che, essendo in essa il mo¬
tivo principale della nostra traduzione, non si può
qui non segnalare.
Si rilegga la grande scena v dell’atto il, e si vedrà
che, nel suo delirio, Fedra in Ippolito non ricerca se
non il Teseo giovane, il Teseo che, ai tempi del La¬
birinto, la ardeva d’amore e la sconvolgeva di gelosia;
ma un Teseo che abbia le molteplici esperienze degli
anni, nel miracoloso ringiovanimento apparsole con Ip¬
polito, purgato d’ogni bassura, esaltato al punto di
apparirle egli quasi astrazione mentale inafferrabile,
idea, forma pura.4 E, più avanti, rileggiamo le scene
iv e v dell’atto ni, e tutto l’atto iv, e tutto l’atto v;
Teseo entra in scena, e subito s’impiglia in maglie
d’una rete che gli rimane occulta: ne è perplesso, e
sgomento. S’accorge d’essere deriso, offeso, tradito?
Da chi? Un mostro s’è svegliato e s’avventa in lui: è
l’unico che l’emulo d’Èrcole non sappia domare. S’ac¬
corgerà d’incominciare a invecchiare? La sua gioventù
è difatti, senza che ancora egli lo sappia vedere, lon¬
tana nel suo passato. E se, in Ippolito, essa appare, è
d’altri, gli è nemica inesplicabile poiché è avversa a
quell’irremediabile male che, non essendosi ancora sve¬
lato e definito in lui, oscuramente lo sconcerta: la vec¬
chiaia.
Solo quando Ippolito avrà abbattuto il mostro, e
avrà in quell’atto distrutto anche sé, e, nel sangue di
Teseo, spento l’ultimo bagliore di gioventù - solo al¬
lora Teseo si riconcilierà con il suo tempo bello, ora¬
mai tempo di memoria, fattosi forma senza difetto, na¬
tura senza infermità, incorruttibile.
Il Petrarchismo è palese. Ma se nel Petrarca le ro¬
vine del passato tendevano a ricostituire nell’unità del-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 583

la memoria, il sapere, e, insieme al sapere nella sua


malinconia di flusso e mutamento continui, la bellez¬
za e l’amore immortali; se nel Petrarchismo rinasci¬
mentale, la rovina era il documento per una ricerca
canonica del perfetto decoro; se nel Petrarchismo ba¬
rocco, la memoria ha già orrore di sé come d’un vuo¬
to, e il decoro del secolo precedente è mandato in
frantumi e ricostituito in modo che sia armonioso,
ma mettendo in risalto una violenza di rovina, senza
- sebbene sia, stato il Barocco a inventare lo spirito
d’evasione insegnando a fare tesoro dell’esotico - la¬
sciare, per potersi uno rivolgere ad altri pensieri, la
minima libertà di spazio.5 Da quest’esperienza del Ba¬
rocco, parte il Neoclassicismo, che è d’origine france¬
se, che trova in Racine la voce iniziatrice. Il Petrarchi¬
smo di Racine, se ciò che dicevamo di Fedra e di Te¬
seo e d’Ippolito è vero, consiste nell’avere il poeta
fissato gli sviluppi della propria umana perizia, sul
momento di nascita della memoria: è momento di cri¬
si: è il momento d’ogni tragedia.6
Il Romanticismo porterà - dopo la pubblicazione,
nel 1819, delle opere di André Chénier, rimaste fram¬
mentarie a causa della morte del giovane poeta sul pa¬
tibolo durante il Terrore - il proprio sentimento del¬
la memoria, e la propria ricerca di effetti poetici, nella
mutilazione degli strumenti stessi dell’espressione.
Noi, del primo cinquantennio del Novecento, volen¬
do invece raggiungere un linguaggio poetico dove, nel¬
la ricerca del vero che è il sacro, la memoria s’aboli¬
sca nel sogno e dal sogno rifluisca agli oggetti, e vice¬
versa, incessantemente - ci siamo, come nella tragedia
raciniana, accorti, dal cumulo di sciagure che ci è sta¬
to inflitto di provare, che la natura domina la ragione,
che l’uomo è molto meno guidato dalla sua opera
ch’egli non sia, per opera della sua stessa progredien¬
te scienza, alla mercé sempre più dell’elemento: ci
siamo accorti d’una necessaria umiltà alla quale l’uo-
584 Giuseppe Ungaretti

mo'ha da rieducarsi, se non vuole finire col distrug¬


gere ogni umanità nel suo cuore.
Ci siamo accorti che solo la poesia recupera l’uomo:
siamo, sentendo scorrere — momento per momento —
la lunga e gloriosa storia derivata dal Petrarca nelle
nostre vene, arrivati a sentire che nei fantasmi di Ra-
cine trova l’accento più giusto la nostra voce lacerata.
JAN VERMEER
r1967]

La sorte di Vermeer è tra le più straordinarie non


tanto per la sua tarda comparsa nel campo della fama,
quanto per la luce di gloria definitiva che gli è venu¬
ta dall’elogio di Marcel Proust. È noto che fino al
1866, fino alla segnalazione fattane sulla « Gazette des
Beaux-Arts » alla fine di quell’anno, da Théophile
Thore chiamato di solito Biirger, pseudonimo con il
quale aveva firmato il saggio su Vermeer, l’opera di
Vermeer era passata, anche da vivo, quasi inosservata.
Anche come uomo è straordinario che si fosse inge¬
gnato a non lasciare di sé alle cronache altra traccia
salvo quella derivata dal proseguimento con semplici¬
tà delle peripezie d’una vita di buon padre di fami¬
glia e di modesto cittadino di Delft. Il fatto più salien¬
te accadutogli fu d’essere stato scelto dai suoi colle¬
ghi della Ghilda a esercitare durante un anno le fun¬
zioni di decano. Era cattolico e, in quegli anni, poteva
in Olanda non essere sempre facile tirare avanti con
tranquillità a chi lo fosse: ma non trapela affatto,
dalla sua pittura né dalla sua biografia, che gli fosse
difficile, e nemmeno che problemi religiosi potessero
inquietarlo.
Ma la sua pittura si manifesta come insolita ai suoi
tempi e prima, insolita nei Paesi Bassi, e anche altro¬
ve. Dei pittori che in Europa lo precedettero o furo¬
no suoi contemporanei, solo un dipinto gli si può av¬
vicinare. Si tratta della Madonna col Bambino di Pie¬
ro della Francesca. Me ne resi conto sorpreso, tornan¬
do a visitare, alcuni mesi fa a Urbino, la Galleria di
Palazzo Ducale. Ora, leggendo, per dovere d’informa-
586 Giuseppe Ungaretti

zione, gli ultimi libri apparsi su Vermeer, m’accorgo


che, sino dal lontano primo saggio dedicato a Piero,
Roberto Longhi aveva visto e» segnalato quella prece¬
denza, e, senza dubbio, per guardare pittura, nessuno
ha occhi migliori.
L’impianto delle figure di Piero, in quel dipinto co¬
me altrove sempre, è oltremodo compatto e saldo, e,
in ciascuna, nella concretezza del volume corporale,
domina la maestà che le fa più alte delle loro condi¬
zioni di persone umane. A destra di chi guardi, da
una porta aperta, sono intravviste in un’altra stanza,
due finestre accanto, illuminate insieme, la cui luce,
sulla parete dirimpetto riflessa, adagio, nel riflesso
appare fettina di luce con la stessa virtù dell’ombra,
la virtù d’essere duna labilità inverosimile. Prima che
arrivi la labile verticalità, il manto scuro sulla spalla
destra della Madonna, la recide e la nasconde. In quel
dipinto di Piero, si scorge persino, all’estremità del
lato opposto della stanza principale, al lato sinistro, in
disparte, al disopra della testa di uno dei due angeli,
un canestro di frutta su una scansia. Sopra, dovrebb'es¬
serci, quasi invisibile, una seconda scansia. Inoltre i
rapporti delle tonalità sono ottenuti ricorrendo a tinte
chiare come se il vigore netto dell’espressione non po¬
tesse concederselo se non a patto e a furia d’essersi da¬
to prova di possedere quella tenuità di tatto che esige
continuo addestramento della sensibilità. Ne risulta un
ambiente chiuso, d’un raccoglimento al colmo del si¬
lenzio. Tutti elementi che Vermeer non dimenticherà.
In Vermeer le figure non hanno né pretendono di
avere maestà. Sono persone che per abitudine non
escono da quei limiti prefissi a un vivere di medio
ceto, e, tutt’al più, potrebbero arrivare a eleggersi quei
limiti ambiti da chi sia molto semplice in tutto, e lo
sia quindi anche nel sentire e nell’immaginare. Ciò
non toglie nulla alla profondità, può dare anzi all’e¬
spressione una giusta profondità, la giusta misura del-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 587

la profondità, quella misura che è indispensabile aiuto


nel raggiungimento di un vero che non superi le mi¬
sure della persona umana, che anzi si trovi, nei limiti
stessi della persona umana, presente, ad affermare Fin-
determinatezza della poesia persuadendola ad emerge¬
re. È un lato da esaminare meglio, quello dal quale
Vermeer vede e attesta, tra l’imperversare del verismo
degli .altri « Piccoli maestri olandesi », la negazione di
quel loro verismo, e d’ogni altro verismo, rimanendo
fedele al vero..
Un’osservazione mi viene in questo momento in
mente, e la noto subito in margine. A volte, i visi
delle figure di Vermeer quasi s’imbambolano, ma de¬
v’essere successo in seguito allo scempio compiuto da
restauratori privi d’ogni riguardo verso inermi velatu¬
re. Posso dirlo. Ho visitato più volte, a distanza di
anni, mostre di Vermeer e i musei d’Olanda e, pur¬
troppo, mi è stato facile rilevare con amarezza, nella
recente di Parigi, quanto alcuni dipinti fossero stati
menomati, ridotti a non apparire se non in un’incer¬
tezza dove una volta il colore, prima che lo spellasse¬
ro, era colore, quel trionfo del colore che Vermeer,
nell’opera sua, non ha mai trascurato né cessato di
conseguire. La parentesi è chiusa.
Subito Vermeer appare come un antagonista dei
« Piccoli maestri ». Un antagonista forse inconsape¬
vole. Esporre visibili alla gente che passava, dai vetri
dell’ampia finestra che dava sulla strada, stoviglie di
rame lustro appese alle pareti, coperte di cuoi cordo¬
vani, sedili accuratamente scolpiti nelle loro parti di
legno raro, mobili e ogni altro oggetto, specie se eso¬
tico o prezioso, era uso in Olanda, rimasto vivo, per
ostentazione del proprio benessere. Compito del « Pic¬
colo maestro » era di dipingere, come se fosse un pas¬
sante, quell’ambiente chiuso solo dai vetri, eppure im¬
penetrabile se non dagli occhi, a chi non fosse della
stessa casta o della medesima setta. Il « Piccolo mae-
588 Giuseppe Ungaretti

stro » dipingeva con una meticolosità e un tormento


da bigotto, con non altro in testa se non di fare somi¬
gliante, di fare meglio di come'farebbe oggi la fotogra¬
fia, ma con la speranza di non fare più di quanto
avrebbe più tardi fatto la fotografia.
Anche se dei « Piccoli maestri » Vermeer adotta lo
scopo principale che è quello di dedicarsi agli inter¬
ni, alla cosiddetta pittura di genere, in effetti cerca al¬
tro.
Lo dicono il pittore della luce. Dicono che cercasse
la luce.
Difatti cercava la luce. Si veda com’essa vibri, per
lui, dai vetri, come essa muova l’ombra, ombra della
luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo
sguardo amato si socchiude, sguardo quasi, nel suo
protrarsi nella memoria e nel desiderio, imitasse il se¬
gno dell’ombra. Bisogna però stare attenti nel parlare
di luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro,
forse la meraviglia sublime della sua pittura è nell’a¬
vere trovato altro.
Tanti pittori hanno cercato di fermare la luce.
Caravaggio impone alla luce di sconquassare e di
ridurre in pezzetti il vero, per servirsi poi di quei pezzi
luminosi, con pazze rabbia e gioia dei sensi, ad eri¬
gere un’architettura di un vero diverso.
Rembrandt dà ad intendere d’avere ottenuto il pri¬
vilegio di disporre a suo talento della pietra filosofale,
può invocare una luce d’alchimia, colta quando il sole
colpisce vetri e mattoni delle case con una stanchezza
inverosimile, eppure in segreto oltremisura brutale.
Il piombo allora si squaglia, e l’oro scoppia e divora
come una lebbra.
Poussin e Corot hanno perpetuato in diverso mo¬
do, ma l’uno e l’altro attoniti é rapiti, l’esatta restitu¬
zione in dipinti, dei boschi albani popolosi di fauni
e di ninfe, coperti da un cielo d’un azzurro illibato,
che staccia e va diffondendo, sotto, la sua luce giusta
Saggi e Scritti vari 1943-1970 589

di paradiso non ancora perduto. Cézanne considerava


la luce in modo drammatico. Ha cercato di affermare,
a dispetto e con rispetto della luce, il volume degli
oggetti, gli sviluppi volumetrici che l’intelletto e la
fantasia d’un pittore possono farsi suggerire dagli og¬
getti.
Seurat costruisce il poderoso volume di una figura
puramente scomponendo la luce che avvolge la figura,
in minuscoli punti di colori complementari dell’iride.
In verità, salvo Seurat, tutti i pittori che abbiamo
citato, trovavano altro, non più la luce, anche se la
luce era stata d’aiuto indispensabile nel trovare altro.
Potremmo andare avanti sino alla consumazione dei
secoli in quest’elenco di pittori che si siano avvalsi
delle risorse ad essi offerte dalla luce. In fondo in
fondo, senza la luce non ci sarebbero oggetti, non es¬
sendo stato possibile identificarli e nominarli prima
che una persona umana li avesse visti, con i suoi oc¬
chi visti.
Vermeer più che la luce ha trovato altro, ha tro¬
vato il colore, un colore vero, dato nella sua assolu¬
tezza di colore. Se in Vermeer la luce conta, è perché
anche la luce ha un colore, il colore di luce, e quel
colore lo vede come un colore per se stesso, come lu¬
ce, e ne vede, e ne isola, anche, se è vista, l’ombra,
vincolo indissolubile della luce. Nemmeno i volumi
contano per lui, intrisi di luce, macerati dalla luce,
balzati in avanti, protesi ventri gravidi, con tanto pu¬
dore, con tanta ansia, con tanto dolce trepidare da
lui ritratti. Conta il colore. Sono dunque fantasmi
quelle persone, la moglie, o una figlia, o lui stesso,
quelle persone familiari ritratte, quegli oggetti con¬
sueti, evocati? È possibile. Il vero resta nella giusta
sua misura, pure scappandone e divenendo metafisico,
facendosi idea, forma immutabile, per non divenire
alla fine se non puro colore, o meglio, accorta, misu-
590 Giuseppe Ungaretti

rara distribuzione di puri colori, l’uno nell’altro com¬


penetrandosi, l’uno dall’altro isolandosi.
Una volta, portato a ragionare del rapporto dell’ar¬
te con la natura, mi era venuto di chiamare in ballo
Giovanni Van Eyck.1 Capisco si tratti di un pittore
che ha lavorato circa due secoli prima di Vermeer, e
si tratti d’un pittore fiammingo. I secoli valgono fino
ad un certo punto per quello che sto per dire. Le
Fiandre sono certo diverse dall’Olanda; ma cugini,
Olandesi e Fiamminghi, almeno lo sono. Eccovi, nel
museo di Bruggia, la Madonna del Canonico Giorgio
Van der Paele. Sono cinque figure, quattro - un vesco¬
vo, un guerriero, la Madonna col Bambino — restano
nel quadro volutamente immaginarie.
Quando per esempio, Piero della Francesca pensa
a un Santo non dimentica mai che, per giustificarlo
nel sentimento umano, dovrà trovare, dipingendolo,
un rapporto fra l’idea di santità e una persona vera,
di carne ed ossa.
Nel caso del Canonico, Van Eyck non si cura inve¬
ce che del contrasto fra vero e fantasia; ma non rag¬
giunge nessun contrasto, le due parti del quadro es¬
sendo in tutti i sensi inconciliabili fra loro, essendoci
assoluta incompatibilità e nemmeno la minima parcel¬
la di dramma. È il tipico caso dell’incomunicabilità.
La fantasia non sa minimamente moderarla, raggiunge
risultati di somma finezza, ma tale che non pare ab¬
bia più rapporto con l’essere umano, e che, se soggio¬
ga chi guarda, per virtuosismo e trasporto mistico, non
riesce umanamente a toccarlo e a persuaderlo. In quan¬
to al vero è come se quel tanto assurdo spreco di
fantasia che dedica alle prime quattro figure, lo di¬
cevo un minuto fa, non fosse lì, proprio davanti agli
occhi del Canonico, che a dirgli ch’era insensata illu¬
sione crederci.
La figura del Canonico, il donatore, il quinto per¬
sonaggio, è invece di fatto così esterna al dipinto che
Saggi e Scritti vari 1943-1970 591

sembra esserne stata inevitabilmente espulsa. Niente


affatto pia, in ginocchioni di lato, quasi a livello del¬
l’impiantito dov’è collocata, è poderosa, compatta, pre¬
potente, stentorea tra il via vai dei visitatori: difatti
il suo altolà è tale che ci paralizza. Lasciamo andare
gli occhiali e il breviario e tutta la congerie delle mi¬
nutaglie non di pertinenza organica della figura, e os¬
serviamo la faccia, che è dipinta, all’opposto delle al¬
tre, con uno spasmodico scrupolo diagnostico: ogni
ruga le è imposta con spietata sicurezza, come a una
terra restia, il solco dell’aratro. Il pittore poi si trat¬
terrà a lungo, come se non potesse staccarsene, dietro
gli intrecci delle vene della fronte. (Soffriva d’arterio¬
sclerosi il Canonico?) Il pittore è ormai arrivato at¬
torno agli occhi e vi tormenta (si vede bene che è
per lui una delizia) zampe d’oca e borse.
Ecco, tormentare, scrutare, tormentare quella pove¬
ra carne finché, avendoci voluto mettere tanta natura,
non gli rimanga altro, a Van Eyck, se non una rete
farraginosa di segni dove l’uomo s’impigli come una
mosca.
Saranno i « Piccoli maestri », partiti da questo vero,
o da questa « natura » di Van Eyck? Natura e vero
sono due vocaboli per dire la stessa cosa. In ogni ca¬
so, i contrasti tra vero e idea non li cercano nemme¬
no, nemmeno ne sanno nuHa, dipingono solo il vero,
e fanno bene, il vero essendo inseparabile dall’idea,
e mancando l’idea è meglio non fare, come aveva fat¬
to Van Eyck quella volta, connubi mostruosi.
Per farmi meglio intendere dirò che nella Lezione
d’anatomia di Rembrandt, l’idea (la morte) e la natura
(il cadavere frugato dai medici) sono insuperabilmen¬
te, indissolubilmente unite nella medesima persona, e
anche, a quella morte s’unisce l’idea di lotta (vana)
dell’uomo (il suo sapere in progresso incessante) con¬
tro la morte. Altrove, nella Fidanzata ebrea, ci sarà la
natura, in quella prosperosa fanciulla degli abbagli, e
592 Giuseppe Ungaretti

l’idea dell’effimero, reso tanto sensibile nella caducità


del bel corpo avvolto in uno sfavillìo trionfale, ma
non più durevole d’un attimo.'
L’equilibrio in Vermeer è costante, è raggiunto sen¬
za alcuna fatica, senza alcuna stanchezza, d’acchito,
spontaneamente, per semplice, immediata congiunzio¬
ne dell’ispirazione alla forma, d’un lampo immedesi¬
mata nella forma.
La Merlettaia è china sul suo lavoro. È sguardo che
si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non
sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano
in trame leggiadre? Dita e sguardo non cesseranno
mai di muoversi, di quel loro moto che si muove fer¬
mo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una familiarità
con il silenzio, solita, indissolubile e infrangibile; l’i¬
dea d’un’esistenza immutabilmente, felicemente quoti¬
diana, semplicemente semplice; l’idea’d’una solitudine
tutta sola, e tutto il resto muto; questa è l’idea. Può
darsi che non sia della stessa proporzione, alla sua al¬
tezza, alla stessa profondità, allo stesso livello, dello
stesso segreto della pittura che la manifesta? No, nes¬
suno lo potrebbe dire, nessuno. Alcuni esempi?: Don¬
na che scrive una lettera. Che cosa mai avrà da rac¬
contare? La fronte spaziosa s’è volta un po’ di lato,
china verso gli occhi riflessivi. Cerca di connettere. Le
si affollano in mente in troppi, i pensieri. Le dita si
affusolano intanto mostrando la grazia delle mani ca¬
rezzevoli che posano, un pochino grassottelle, una in
abbandono sul foglio, l’altra trattenendo la penna im¬
paziente di tornare a vergare care frasi.
Come sarebbe meglio possibile di arrestare per sem¬
pre l’idea dell’assenza? Non un’idea angosciosa. Un’i¬
dea d’infinita tenerezza. Con appena un soffio di ma¬
linconia. È la ricchezza della solitudine d’una giovine
persona umana femminile, d’una giovine donna che
guarda senza alcuna fissità né fissazione; ma con un
dolce slancio salito dall’anima, l’assente persona, invo-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 593

candola, senza disturbare il silenzio, accrescendolo al¬


l’infinito.
Forma e contenuto hanno mai assimilato, fondendo¬
si, una maggiore giustezza di metro umano?
Se dovessi ricapitolare ciò che, alla buona, sino qui
ho detto di Vermeer, direi che potremmo avere già
qualche nozione sui motivi che lo separano dai « Pic¬
coli maestri », suoi contemporanei; sull’importanza che
la luce ha per lui, considerandola a sé, come essa stes¬
sa un colore, e reputandola, lo provano i suoi dipinti,
anima d’ogni colore; sull’equilibrio e l’immedesimazio-
ne che sempre raggiunge nei suoi dipinti, tra arte, idea
e natura, rispettando nel vedere, sentire e fantasticare,
le persone e gli oggetti secondo le naturali apparenze
del loro vero.
Occorrerà ch’io riprenda a discorrere del colore.
Proust non era forse un impeccabile uomo di gusto,
agli occhi nostri. Viveva nei dintorni di Montesquiou,
andava matto per i vetri di Gallé, era fautore del li¬
berty fino alla nausea, fino ad esserne ossesso, e rife¬
riva di musica come uno che oggi lapideremmo. Ma,
ai suoi tempi, la bruttissima belle epoque, aveva in¬
dubbiamente più gusto di tutti gli altri. Cito alcuni
passi di Proust: « Avete visto certi quadri di Vermeer,
vi rendete conto che sono i frammenti d’un medesimo
mondo, che è sempre, quale sia il genio che li ha ri¬
messi al mondo, la stessa tavola, lo stesso tappeto, la
stessa donna, la stessa nuova e unica bellezza, enig¬
ma, a quell’epoca dove nulla le somiglia né la spiega,
se non si cerchi di apparentarla ricorrendo ai sogget¬
ti, ma di svincolarne invece l’effetto particolare che il
colore produce.
« Un critico avendo scritto che nella Veduta di Delft,
quadro che Bergotte prediligeva e credeva di conosce¬
re benissimo, che un brano di muro giallo (non se ne
ricordava) era dipinto tanto bene, che era, se lo si
594 Giuseppe Ungaretti

guardava da solo, d’una bellezza che bastava a se stes¬


sa...
«si ripeteva [l’agonizzante Bergotte]: brandello di
muro giallo con una tettoia sotto, brandello di muro
giallo. »
Il sommo pittore Vermeer era scoperto, il precur¬
sore, quello che stava aspettando la pittura informale,
quello che doveva avere pazienza sino alla seconda me¬
tà del Novecento per essere capito e seguito dai pit¬
tori.
Come avrà fatto Proust ad avere intuizione e mag¬
gior gusto, non dico solo dei suoi contemporanei, ma
anche di quasi tutti noi che viviamo quasi mezzo se¬
colo dopo la sua morte?
Guardate La viottola, o La stradina se così vi piac¬
cia di chiamarla. Quella sua fattura a piatto piatta,
con le lastre che si sovrappongono di granato e grigio,
ed è solo nella diversità tonale l’indicazione della loro
ora, il loro stato, l’apparenza, fattasi immutabile per
mano dell’arte, in quel momento effimero di quel gior¬
no. Bellezza nuova e terribile d’una casa.
Nel Concerto è l’apparizione del giallo. La fanciulla
è alla spinetta. Il giallo lo modulano le pieghe del ve¬
stito. C’è il dorso di cuoio d’una sedia, rossastro cuoio,
è un’isolata assolutezza di colore come nel famoso
giallo del brandello di muro. Per l’assolutezza del co¬
lore, si osservi anche l’andirivieni, 1’annuvolarsi, rab¬
buiarsi delle lastre bianche e nere del pavimento, nel¬
lo stesso dipinto. Le direi lastre di marmo; ma la me¬
moria potrebbe questa volta, e chissà quante altre
volte è avvenuto e avverrà, non essermi fedele.
Dovrò citare il giallo, il sulfureo giallo del giacco¬
ne della Donna che scrive una lettera, dipinto già nel
presente scritto da me citato e si tratta di giallo inva¬
dente, di prepotenza del giallo. Lo stesso giallo e con
lo stesso giaccone si ripete nella Donna e la sua ser-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 595

vente, e ancora il medesimo giaccone appare nella Col¬


lana di perle.
Ci sarebbe da parlare anche dell’azzurro, di svaria¬
te intensità, un colore non meno importante del giallo
nella tavolozza di Vermeer.
E che cosa può dirsi del rosso? Per esempio di quel
rosso della Dama dal cappello rosso? È un rosso scar¬
latto, un rosso sangue, un rosso fuoco. Sono piume,
lievi, furenti, piume che s’inquietano e s’agitano al
minimo soffio, e quale splendore invade, per loro vir¬
tù, il dipinto.
Un ventaglio di rossi vivi, un ventaglio di azzurri
vivi, un ventaglio di gialli vivi, e, quando occorra, nel
vivo insinuazione di grigio o di marrone. Vermeer è
tutto qui. L’inventore della pittura più valida d’oggi
è tutto qui. Ma mi pare che quel « qui » sia una va¬
stità.
[DISCORSETTO SU BLAKE]
[1946/1965]

Lavoro alle traduzioni di Blake da più di sette lustri.


È un poeta difficile. Sempre, anche quando è sempli¬
ce come l’acqua. Ma c’è poeta, o un qualsiasi uomo
che parli, che sia nel suo dire interamente decifrabile?
Il vero poeta anela a chiarezza: è smanioso di svela¬
re ogni segreto: il proprio, il segreto della sua presen¬
za terrena cercando di conoscere il segreto dell’andare
della storia e dei motivi che reggono l’universo, cer¬
cando d’impossessarsi, folle, del segreto dei segreti.
Egli ha coscienza che la parola è difficile, ma, se ne
dispera, la rende fatalmente più oscura, più intrappo¬
lata nei significati che, cercando di nudarla e di coprir¬
la di luce, le moltiplica.1

Molti poeti, e fra i migliori, e io stesso, che verrò


posto forse fra i peggiori, prima d’arrivare a esprime¬
re poesia, per innata stimolazione, o poi, per giustifi¬
care i raggiunti risultati, hanno almanaccato. La poe¬
sia è però poesia solo se uno udendola, da essa subito
si senta colpito dentro, senza immaginare ancora di
potersela spiegare, o non ancora indotto a doversi con¬
fessare di non potere mai essere in grado di valutarne
le manifestazioni, miracoli.

È nel miracolo della parola che non è facile trovare


il rivale di Blake. È quel miracolo che m’indusse ver¬
so il ’30 a tradurre Blake. M’accinsi alla traduzione
non a caso, come non m’accingo mai a simili lavori
a caso. William Blake è T« ispirato », se mai ce ne fu
uno — or ora ci veniva due volte alle labbra il sostan-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 597

tivo: miracolo - e l’affrontai per reagire a me stesso


in un periodo nel quale mi pareva d’essermi ingolfato
troppo in problemi di tecnica. Era un fare male i cal¬
coli, e anche il tradurre canti di Blake fu per me
fonte di nuove difficoltà tecniche da superare.

Ma non era solo dovuto a motivi personali, il mio


interesse per Blake. Agivano naturalmente anche in
me quei motivi per i quali tanta attenzione tra le due
guerre era rivolta alla sua opera. « Non era » dice
Eliot, e lo cito nell’ottima traduzione di Anceschi
« non era un uomo selvaggio, era un uomo di cultura
superiore. La stranezza svapora, e la particolarità sem¬
bra essere la particolarità d’ogni grande poesia. È so¬
lamente una singolare onestà che in un mondo trop¬
po timoroso d’essere onesto, è singolarmente edifican¬
te. La poesia di Blake ha la sgradevolezza della gran¬
de poesia. E questa onestà non può esistere senza un
grande sapere tecnico. »2 Dunque il miracolo di Blake
che ci toccava in quegli anni, era stato a lungo solle¬
citato da un’esperienza tecnica tesa, ricercando affan¬
nosamente vie smarrite della tradizione, verso il recu¬
pero dell’originale innocenza espressiva.

fi miracolo, come facevo a dimenticarmene, è frut¬


to, me l’aveva insegnato Mallarmé, di memoria. A fu¬
ria di memoria si torna, o ci si può illudere di tornare,
innocenti. L’uomo che tenta di arretrarsi sino al pun¬
to dove, per memoria, la memoria si abolisce e l’oblio
illuminante: estasi, suprema conoscenza, uomo vero
uomo - è dono di memoria. E il miracolo è parola:
per essa il poeta si può arretrare nel tempo sino dove
lo spirito umano risiedeva nella sua unità e nella sua
verità, non ancora caduto in frantumi, preda del Ma¬
le, esule per vanità, sbriciolato nelle catene e nel tor¬
mento delle infinite fattezze materiali del. tempo.
598 Giuseppe Ungaretti

J1 tema centrale di Blake è quello della libertà, del¬


l’uomo libero da leggi poiché contro la « Tigre » gli
ha riacquistato l’innocenza l’<$ Agnello ». L’opposizio¬
ne tra era della legge e era della libertà, sarà presto
anche uno dei temi fondamentali della poesia roman¬
tica e, chi conosca l’elaborazione della Pentecoste, sa
in quale modo energico esso si fosse, nelle prime ste¬
sure, purtroppo sacrificate, affacciato alla fantasia del
Manzoni.

La Rivoluzione dell”89, Blake fu il solo poeta che


l’intese appieno, che la previde, che intese 3 gli avve¬
nimenti che ne avevano preparato la deflagrazione, i
rivolgimenti che ne sarebbero derivati; come a inten¬
dere un’altra rivoluzione, fu Michelangelo. Prova, se
ce ne fosse bisogno, che la necessità d’un più o me¬
no lungo lasso di tempo, d’un alone di leggenda per
giudicare poeticamente d’un moto passionale, è sto¬
riella da lasciarsi raccontare a chi chiama storia gli ef¬
fetti d’un’indigestione di schede. La vita non è di per
sé leggendaria, se è vita? La poesia è falsa, o scoppia
dalla sostanza stessa delle cose che ci sono presenti.
Il dire che la poesia non si fa a mente fredda non
significa però che la si dovrà privare di ragione, o che
abbia da essere per forza veristica, o che le sia lecito
limitare i diritti di libertà degli infiniti modi della
fantasia. Significa solo che il passato, un poeta non può
considerarlo se non come contenuto nei casi che sta
vivendo; che la memoria non può interrogarla, se non
per riconoscere l’attualità della propria voce. Quest’ul-
tima condizione sarà anche quella per cui un poeta
possa essere più vivo quanto più sembri allontanato e
isolato nei suoi ricordi.

Breve,4 in Blake - Laocoonte, mago blasfema per


ansia di sacro, creatura sgomenta nel baratro d’una
prova abortita d’iniziazione - la bellezza d’anima di
Saggi e Scritti vari 1943-1970 599

uomini che speravano giustizia schiacciati dalla passio¬


ne, proietta nel nostro intimo la visione d’infanzia pu¬
ra che si diffondeva dalla loro ira, palese, scatenata o
soffocata.5
,

'
Interpretazione di Roma


INTERPRETAZIONE DI ROMA
[1954/1965]

Feci il mio primo ingresso nell’Urbe, lungo la Fla¬


minia, dalla Porta del Popolo. Da quella porta era
entrato Montaigne: « Il disoit que la forme des rues
en pleusieurs choses, et notamment pour la multitude
des hommes, lui represantoit plus Paris, que nulle au-
tre où il eùt jamais esté ». La zona alla quale la porta
accede è molto mutata dal tempo di Montaigne, ma
la sagoma, per piazze, scalee, strade, vicoli che da due
secoli stentano però a decidersi tra l’arcadico, il neo¬
classico e il romantico, ne è rimasta non estranea al
gusto francese. Ottimo luogo per evocare Stendhal no¬
nostante che automobili e autobus, e che so io quali
altri ritrovati d’inferno corrano, s’incrocino, ingombri¬
no, strepitino, puzzino, sebbene sia zona di silenzio,
in quegli ormai angustissimi passaggi tanto appropriati
invece alle pariglie duna volta, allo zoccolare sul sel¬
ciato che dopo la svolta, uno, da smemorato, poteva
ascoltare perdersi e prolungare il turbamento e la sme-
moratezza.
Può avere Michelangelo strappato gridi d’entusia¬
smo a Stendhal. Ma lo avevano a Parma rapito di più
gl’indimenticabili amorini che il Correggio aveva di¬
pinto a ornare i boudoirs di madri badesse, il Cor¬
reggio così presente nei Watteau, nei Lancret d’una
sua cara Francia di non molti anni prima.
Dopo tutto, poteva anche preferire a Michelangelo
il Canova, se dobbiamo, come dobbiamo, concedergli
il diritto di amare i propri tempi.
Certamente il Canova ha guardato Michelangelo, ma
il suo marmo è d’un biancore di gesso e se tanto vo-
604 Giuseppe Ungaretti

luttuosamente freme è per via di quel tagliente, im¬


placabile filo che delinea la statua ai limiti insinuan¬
do nel biancore uno spasimare'infinito d’ombre.
Guardò Michelangelo, e lo guardò anche Géricault.
Géricault, si può facilmente immaginarlo, si fermò a
lungo nella Sistina. Michelangelo, e già dai suoi tem¬
pi, aveva rappresentato nel Giudizio il Cristo del-
Y Apocalisse, il Cristo che giunge terribile sui nembi,
e, già dai suoi tempi, Michelangelo aveva ritratto poi,
nelle ultime due sue Pietà, e specialmente nell’ultima,
incompiuta, nella Pietà Rondanini, il Cristo che per
pietà degli uomini ha, innalzando l’uomo sino alla sua
divinità, da uomo patito, con orrore di Dio, la morte.
In quella Pietà, la Madre è rappresentata mentre su
un braccio sorregge il corpo esanime, abbandonato di
Gesù, e mentre, con l’altra mano, che le diviene smi¬
surata, gli preme il petto usando, per ravvivargli, ma
senza speranza, il cuore terreno, una forza inuguaglia-
bile, eppure d’una delicatezza non vista mai prima.
In Michelangelo il Gesù del Giudizio e il Gesù del¬
la Pietà Rondanini sono due momenti diversi dell’i¬
spirazione rappresentati in due distinte forme, e forse
l’iconografia cristiana mai prima che il Manzoni avesse
scritto il Natale del 1813, e soprattutto mai prima che
avesse scritto i frammenti del Natale 1833, non ave¬
va congiunto nella medesima immagine i due aspetti
del Cristo, e mai prima di sicuro non aveva preso a
modello per rappresentarli il volto, come il Manzoni,
del bambino Gesù.
Quando, di ritorno da Roma, Géricault dipingerà
Le radeau de la Méduse, anche se vi è presente Mi¬
chelangelo, l’atleta, ora nessuna giustizia verrà incon¬
tro in aiuto, in aiuto anche se vano, alla pietà, né
a Géricault sarà presente, come era presente nel Man¬
zoni, la giustizia fusa con la pietà, fusa sino dalle
origini della vita, sino dall’infanzia dei tempi impo¬
nendo al vivere terreno d’essere sofferto continua-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 605

mente come mistero poiché è vivere che trascorre con¬


tinuamente tra limiti di catastrofe. In Géricault la vi¬
ta terrena è dal sentimento, che atleticamente dilata i
gesti, già rappresentata con disperazione in balia della
catastrofe.
Non mi sono assuefatto rapidamente a Roma. Vi
abito da più di quarant’anni e mi occorsero molti an¬
ni per rendermi familiare il Barocco, che è lo stile
che in Roma predomina, e non incominciai a sentire
Roma vicina al mio cuore se non quando capii che
in Roma il Barocco ha origine da Michelangelo. Fu
quando d’un tratto ai miei occhi il Barocco acquistò
e perse le ragioni storiche della violenza dalla quale
era stato sprigionato e dominato, e le ragioni della
violenza le vidi nella giustizia e nella pietà per prede¬
stinazione operanti tra i limiti fatali della catastrofe;
oppure, peggio, quando le ragioni della violenza vidi
nella negazione di giustizia affermata dalla stessa di¬
smisura della pietà.
Un baloccarsi da minuetto spettrale come quello dei
palazzetti settecenteschi e delle loro quinte di piazza
Sant’Ignazio, se mi conduce al cimitero degli Inglesi,
se mi fa passare non bruscamente da una capricciosa
vanità alla carnalità vuotata di sé eppure ultrasensi¬
bile del Neoclassico, so che torno a riaccompagnarmi
a Stendhal; ma so oggi anche altro.
Dal rione di San Saba sull’Aventino dove stetti di
casa per quasi vent’anni, al cimitero degli Inglesi so¬
no due passi. Ci cadde qualche bomba durante la guer¬
ra, come nell’altro cimitero al Verano, perché i cimi¬
teri sono in Roma in vicinanza di stazioni ferrovia¬
rie. Ci andavo allora quasi ogni giorno a ritrovare Bru¬
no Barilli che vi riposa, Bruno Barilli che fu il pro¬
satore italiano più estroso dell’ultimo cinquantennio;
il cantore più strabiliante di Roma.
Cimitero canoviano è il cimitero degli Inglesi, e in
un angolo, appartato, quasi nascosto, mi posso fermare
606 Giuseppe Ungaretti

alla' tomba di Keats e a quella di Shelley. Le ceneri


dei due poeti sono ora vicine, frammischiate alla terra
di Roma. Commemorando Ke^ts che presto avrebbe
raggiunto nella morte per riposargli a lato, Shelley
così scioglieva il suo canto:

Recati a Roma che è la sepoltura,


Oh non di lui, ma della nostra gioia:
Il nulla ere, imperi
Depongono nel fondo
Della rovina che fu loro impresa;
Di avere gloria ad essi non importa
(Quantunque egli potrebbe anche ad essi prestarla)
Da quando come preda scelsero il mondo
Ed egli è in assemblea
Con i re del pensiero
Avventurati a rissa contro l’epoca loro
In pieno sfacelo,
Ed egli è in assemblea
Con i re del pensiero
Che del passato sono
Ciò che non passa mai}

Il Barocco aveva l’orrore del vuoto, il Neoclassico


accetterà il vuoto, e sarà il modo più disperato di vol¬
targli le spalle e, sul ciglio del baratro, di amare le
illusioni. I Romantici apriranno i baratri e lo spavento
nel cuore stesso dell’illusione, come fece Géricault,
come fece il Leopardi. E noi, in Roma che cosa ab¬
biamo visto e vediamo, bene o male interpretando il
nostro secolo?
Quando, capito il Barocco, Roma incominciò a di¬
ventarmi familiare, fu mediante l’avvicendarsi delle
stagioni che incominciò a farmisi vicina. Non era più,
tratta dalla città dissepolta, la violenza d’una Venere
ellenistica mutila riposta sul piedestallo in mezzo a
Saggi e Scritti vari 1943-1970 607

una casuale fioritura di margherite, rosolacci e fiora-


lisi. Non era più nemmeno un’immaginaria violenza
notturna resa più melodrammatica persino del reale
da un Piranesi, era la naturale violenza delle stagioni
che vedevo sposare le ore della città.
Conobbi allora Scipione, e i rossi di porpora e i
rossi in penombra, il rosso delle ferite e il rosso della
passione, il rosso gloria, tutti i rossi nel rosso che il
vecchio travertino e la torpida acqua del Tevere in¬
goiavano negli.estivi tramonti di Roma.
Conobbi, tra San Giovanni e Santa Croce, l’estate
in furia, macina calcinante, e l’urlo afono d’un tra¬
vertino inaridito sino a sembrare dissolversi in un
acre, polveroso fumo azzurrognolo.
Conobbi l’estate, quando il temporale minaccia,
quando le nuvole si fanno pietre e le pietre nuvole
e i Dioscuri di piazza del Campidoglio s’avventano
contro i Dioscuri di piazza del Quirinale, quando e
cielo e palazzi e gente che passa sono travolti e me¬
scolati in un turbine di finimondo che dura poco.
Il travertino è a Roma polpa delle stagioni, le in¬
carna, le veste, le nuda, e l’autunno è la sua stagione
più felice, quando s’impregna d’oro e d’angoscia.
L’albero autunnale a Roma è il platano. Fiancheg¬
gia i lungoteveri, e ai primi venti d’ottobre sparpa¬
glia un volo di foglie intorno a sé, gialle o magra¬
mente verdi striate di giallo, e quando sono a terra
sul selciato, tante, un tappeto, chi vi passa su, fugge
ossesso dal loro scricchiolio. L’albero è tornato in Ro¬
ma solo da una sessantina d’anni. D’inverno è dei ra¬
ri alberi nudi in Roma, città dei pini, sempreverdi.
La rete dei suoi rami nudi è di sottigliezze aeree:

Mon doute, amas de nuit ancienne, s’achève


En maini rameau subtil..?
608 Giuseppe Ungaretti

Nel 1936 dovetti lasciare Roma per andare a risie¬


dere nel Brasile e quando, nel 1942, vi tornai, e la
trovai in preda alla sciagura, da città delle metamor¬
fosi delle rovine, delle maestose, evocative e pittore¬
sche rovine, era diventata solo nudo spasimo di ro¬
vina. Oh, certo, la natura ci toccava di conoscerla si¬
no dentro il suo più sprofondato girone.
Se i passi smarriti mi calavano giù dentro la Domus
Aurea neroniana, nella mia carne stessa sentivo per¬
ché il Laocoonte là coi figli s’era divincolato in spire
infernali.
Se con le sue orbite senz’occhi, il Colosseo mi ve¬
niva incontro, avrei potuto in quel labirinto sentirmi
mostro e domato? Insieme a Poe potevo, già avviato
all’esperienza dell’umiltà, invocare:

Colosseo,.

Oh, finalmente, dopo tanti giorni


D’un faticoso errare
E di arsura e di sete,

M’inginocchio mutato ed umile uomo


Fra le tue ombre, e così bevo dentro
La vera anima mia,
La tua magnificenza..?

E poi, negli anni 1944, 1945 e 1946, i fremiti di


linciaggio nell’aria, la lunga sofferenza essendosi fatta
insopportabile. Non s’era, la città, mai nascosta la sua
violenza, nemmeno quando appariva più indolente co¬
me nel caso di quel vetturino cui domandavo da che
parte avrei dovuto andare per giungere a una certa
strada e che, non socchiudendo nemmeno gli occhi
assonnati, mi replicava: « ’O so, ma nun me va de dit-
telo ».
Saggi e Scritti vari 1943-1970 609

Ora l’interminabile sofferenza aveva reso persino il


sasso miserevole e cattivo.
Mi volsi verso il Tevere. Seguivo i ponti che d’arco
in arco s’allarmavano nel crepuscolo, e pensai a un par¬
ticolare ponte. Il ponte dell’Abbadia, mi domandai,
l’avranno distrutto? Erano passate tante stagioni. Ci
eravamo fermati a guardarlo tornando dalla Toscana.
Ricordo:4 un’allodola sbucava senza sospetto, un grido
umano da lontano incontrandone un altro limitava la
solitudine smisurata, nel covo d’una macchia l’acqua
del Fiora rimpiangendo in cima a un’alta roccia una
città rimasta solo di nome si dissimulava, in volo un
falco faceva e rifaceva pausa sulle ali, e un muoversi
di tori, e di colpo quel ponte.
Mentre saltava il precipizio dove il Fiora scava, ec¬
colo ponte etrusco e ponte romano. Riflettevo: tra
Tevere e Arno, da queste parti, l’idea d’utilità sociale
mescolandosi al sacro volle forse per la prima volta in
Occidente incarnarsi nella pietra monumentale in un
ponte ch’era anche acquedotto. Sono passati tremil’an-
ni. Ne guardavo le due pile di tufo sanguigno, un po’
più rientrate del resto, molto più corrose del resto,
frutto dell’opera etrusca; ne guardavo la sveltezza dei
potenti massi ascendenti, frutto del restauro romano.
Riflettevo: e chi oserà qui tornare a dire che gli E-
truschi non sono se non dodici parole oscure, croce e
delizia di gran barboni? Gli Etruschi non sono ormai
a questo punto, nemmeno quei dodici fuggiaschi di Li¬
dia, o venuti chissà di dove, capitati una bella mattina
sulla costa d’un mare per cedergli il loro nome magico
di Tirreni. Sono una forma dello spirito intrisa con
questa terra e che non poteva uscire da nessun’altra.
Questo ponte, e più di questo ponte, in un altro sen¬
so, l’estrema scultura etrusca così esattamente umana,
così sconsolata e pietosa, così drammatica nella sua ve¬
rità, così giusta e ardita perché di misura solo terrena
610 Giuseppe Ungaretti

come l’idea d’utilità che diede impeto al ponte, sono


testimonianza d’un modo di sentire che non doveva
più nulla all’Oriente né alla Grecia. Gli Etruschi, an¬
notava Michelet, avevano un sentimento della durata
talmente naturale che li portava a concepire una civil¬
tà solo come preparazione ad un’altra nella lunga car
tena di civiltà dell’umana storia. Era giunto con essi
a maturità, mentre per loro impulso si fondava Roma,
un senso profondamente ragionevole del vivere, sebbe¬
ne disperatamente attaccato alla vita, e non conosco
altro popolo che abbia rappresentato l’ingiustizia della
morte con maggiore rivolta della sua che, nel fianco
del sarcofago, fa scolpire la morte in sembianze d’un
atleta che con una mazzata sulla testa uccide. Rivoltosi
e umili, i fondatori di Roma.
Ciò che è profondamente ragionevole, è epico. È sa¬
cro, e tocca sempre il mistero per lo slancio che l’ani¬
ma e le passioni che accese. Gli stessi elementi con¬
correranno a salvarlo dal tempo. Quando, attraversan¬
do il ponte, che stringeva il passante come uno schiac¬
cianoci, ne fummo al culmine, e ci abbassammo dal
parapetto a monte a guardare dall’alto, ci attrasse la
maraviglia d’una grossa coperta di stalattiti simile a
un glicine impietrito e eccessivo di foglie e di grappoli
fioriti che dal ponte si buttava giù a gocciolare dagli
archi: opera dell’acqua traboccata dall’acquedotto che
correva lassù. Era l’azione incrostante degli elementi
che concorsero a conservare il ponte per tremil’anni,
dando alla sua risoluta eleganza, una cieca pena.
Di faccia all’entrata del ponte, c’era sulla sponda
sinistra un castello medievale, un castello che pareva
di cartone appetto al ponte. Fu una volta sede della
dogana pontificia, a quel punto cessando la campagna
romana e incominciando la maremma toscana.
Ciascuno di noi era ormai solo con sé, era un pas¬
sante solo con sé.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 611

Un uomo è solo con sé fra le cose che sa più grandi


di sé.
Passò allora, stirando le gambe al peso della preda,
giusto a picco sul capo del passante, un falco, il qua¬
le prima di piombarle addosso per finirla aveva fatto
il matto e mille capriole, ed era parso spinto come il
gatto con il topo più che dalla voglia di mangiare da
quella di giuocare.
Venne allora in mente al passante quello che Ero¬
doto racconta dei Tirreni: che erano stati colpiti da
carestia, che si erano ridotti a mangiare un giorno sì
e uno no, che il giorno di digiuno per ingannare la
fame giuocavano, inventando così tutti i giuochi: i da¬
di, gli astragali, la palla... Finalmente, una metà d’essi
immaginarono un giuoco più intelligente: calarono dal¬
le parti dove è ora forse Smirne, allestirono le navi,
si affidarono al mare, giunsero fra gli Umbri, fonda¬
rono città...
Credevo tanto nel giuoco e nel caso che dal volo
di quei falchi che avevamo incontrati avrebbero cer¬
cato di trarre qualche presagio.
Fame e giuoco...
E dopo? Quel ponte, quella forza ragionevole...
Ripreso il viaggio verso Roma, lungo la via Au-
relia, nessuno di noi osava più parlare. Era già notte,
e attraversavano la strada rospi giganti, e uno di essi
l’udimmo rimanere spiaccicato sotto le ruote dell’au¬
to. Rispose, da lontano un gracidare che si strozzava e
s’inchiodava contro il cielo, che era procelloso. Di tan¬
to in tanto appariva una fattoria triste con lo stemma
gentilizio di marmo, e la solitudine continuava come
intorno al Fiora ad essere smisurata.
Poi apparve e disparve e tornò ogni tanto ad appa¬
rire e sparire la cupola di San Pietro, e arrivammo a
Roma.
Ho ripensato nelle ore più tragiche della guerra e
del dopoguerra recenti alla cupola dell’etrusco e roma-
612 Giuseppe Ungaretti

no' Michelangelo come la vidi quella notte apparire e


sparire, lieve ovale d’alito azzurro sospeso nella notte.
Un altro segreto di Michelangèlo mi si andava svelan¬
do, il segreto più segreto di Roma.
Mi accendo da quel giorno all’umile speranza che
travolgeva il teso Michelangelo a murare in un lampo
ogni spazio non concedendo all’anima nemmeno la ri¬
sorsa di spezzarsi: ogni spazio è chiuso in alto e vivo
nella cupola misteriosa come un seme.5
Contemporanei

,
*

'
GUILLAUME APOLLINAIRE
[1967]

Per rendere solenne il gemellaggio di Parigi con Roma,


nessun nome aveva più titoli di quello glorioso di Guil¬
laume Apollinaire. Nessun altro poeta fu nell’ispira¬
zione e nel canto più parigino di lui, più paesano di
Parigi di lui; e nessun altro gustò la poesia di Roma
meglio di lui che l’aveva persuasa a guidare segreta, i
ritmi dell’onda della sua parola. Ne riparleremo qui,
oggi stesso, prima d’arrivare al termine del mio di¬
scorso.
È molto onore per me, e commovente onore, essere
stato chiamato a parlare qui di Apollinaire. Forse il
motivo principale dell’invito, è che sono, e lo dico sen¬
za la minima pretesa di stabilire un presuntuoso para¬
gone, parigino e romano anch’io. Ricordate?:

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciutod

Mio fiume anche tu, Tevere fatale...1

Risiedo da quasi mezzo secolo in Roma, e a Pa¬


rigi, direi da più tempo: vi abitai alcuni anni prima
della prima guerra e subito dopo, e nei quarantanni
successivi vi sono tornato più volte quasi ogni anno,
per ritrovarvi gli amici, fra i più cari che potessi desi¬
derare di avere. A Parigi incontrai la persona che fu
la compagna perfetta della mia vita. Era francese. Ci
sposammo nel 1919, quarantotto anni fa.
616 Giuseppe Ungaretti

Guglielmo - Alberto-Vladimiro - Alessandro-Apollinare


Kostrowisky nacque in Roma il 26 agosto 1880, e
ne fu registrata la nascita all’anagrafe in Campido¬
glio il 26 agosto 1880. Fu battezzato nella Chiesa
di San Vito, parrocchia di Santa Maria Maggiore il
29 settembre, e fu dalla Chiesa chiamato Guillermus,
Apollinaris, Albertus de Kostrowisky.
Fu omesso negli atti il nome del padre, reso noto
al pubblico solo in anni recenti. Si chiamava Francesco
Flugi d’Aspermont. Era allora capitano di stato mag¬
giore di Ferdinando II, e proseguì la carriera militare
fino al grado di generale nell’esercito borbonico. Vi¬
vono ancora in Roma suoi discendenti.
La madre, Angelica Kostrowiska - strana donna,
incurabile giuocatrice d’azzardo, che della poesia del
figlio usava dire, ma credendo il contrario, per quella
sua mania di contraddire e di contraddirsi che la di¬
stingueva: « Mon fils, un poète? Allons, Edmond Ros-
tand est un poète »3 — era figlia di Michele Apollinare
Kostrowisky, polacco d’origine, capitano russo in pen¬
sione, cameriere d’onore di cappa e spada di S.S. Pio
IX, in seguito a biglietto papale del 17 agosto 1868.
A Apollinaire piaceva vantarsi di avere avuto un
nonno materno, « generale », diceva. Suo padre crede¬
va fosse un alto prelato, forse perché un monsignor
Flugi d’Aspermont, legato pontificio nel principato di
Monaco, gli aveva pagato gli studi quando era convit¬
tore di un collegio di gesuiti a Montecarlo.
In quale casa nacque? Dicono in una qui vicino,
oggi scomparsa. In ogni caso un segno pubblico dove¬
va rimanere a ricordarlo in Roma.
Ora non mi rimarrebbe che da accennare in qualche
modo ai nostri rapporti personali. Nacquero da amore
di poesia, ma furono resi saldi perché amavamo Fran¬
cia e Italia d’un uguale fortissimo slancio.

Tanti anni fa, ma non molti prima della prima guer-


Saggi e Scritti vari 1943-1970 617

ra, Apollinaire ed io eravamo innamorati d’una medesi¬


ma ragazza che aveva quindici anni sì e no, e Apollinai¬
re già più di 30 e io meno di 23. Apollinaire con Pi¬
casso e Soffici, attraversavano tutte le notti, a una cer¬
ta ora, quella strada che si allunga tra il cimitero di
Montparnasse e quel gruppo di casamenti che dall’al¬
tro lato, dà sul Boulevard Raspail. Li chiamavano, al¬
lora erano inseparabili, i tre moschettieri.
A quell’ora, di solito, avevamo cenato nella casa, al
Boulevard Raspail, di una signora di squisita cultura,
e, con me, gli altri ospiti erano Brancusi, Modigliani,
Mercereau, e non ricordo più chi ancora. Conversava¬
mo quando, una volta, affacciatasi alla finestra, la si¬
gnora vide che stavano per passare i tre. Corse a pren¬
dere un secchio d’acqua, ma lo rovesciò troppo tardi,
e Apollinaire continuò indenne la sua strada. La signo¬
ra era la sorella della fanciulla che corteggiavo e che
anche Apollinaire corteggiava, ma senza che lo sapes¬
si, e non lo seppi che dopo qualche anno, per confi¬
denza della fanciulla stessa durante i funerali del no¬
stro amato poeta.
Apollinaire ebbe poi altri capricci, non cessando pe¬
rò mai allora di rimanere fedele alla passione per Ma¬
rie Laurencin, io, lontano dalla famiglia che viveva in
Egitto, sconvolto dal temere che stesse avvicinandosi
un disastro senza precedenti, non sapevo più pensare
che alle probabili prossime sofferenze terribili nelle
quali sarebbe stata travolta l’umanità. Con Apollinaire
eravamo già amici, ma in quei mesi eravamo più lega¬
ti che mai. Pensavamo, l’uno e l’altro, per motivi di¬
versi che, se fosse successa la sciagura, Francia e Italia
non dovevano separarsi.

Apollinaire non aveva mai dimenticato, anche se


non lo proclamava, che era nato a Roma, che era d’o¬
rigine italiana. Gli piaceva leggere l’italiano, e lo cono¬
sceva bene, a fondo; gli piaceva, anche se erano, quel-
618 Giuseppe Ungaretti

li che sceglieva, scrittori un po’ speciali, di linguaggio


un po’ grasso, ma senza dubbio scrittori molto origi¬
nali, tradurre dall’italiano nostri classici, e legarsi a
scrittori e artisti nostri suoi contemporanei, e aderire
a movimenti nostri di quegli anni come quello futuri¬
sta, e collaborare a riviste italiane come « Lacerba »
e « La Voce », e essere tra i primi sulle riviste fran¬
cesi a salutare un poeta italiano, come fece più volte,
senza che forse ne avessi minimamente merito, per me,
nel 1917, segnalando il mio primo libro di poesia, II
Porto Sepolto.
È sua, del 1915, quell’ardente poesia che invoca l’u¬
nione di Francia e Italia nell’ora tragica:

Italie
Toi notre mère et notre fille quelque
chose comme urte sceur.

L’Italia può gloriarsi di potere in qualche modo


considerare suoi figli, i due maggiori poeti di Francia
degli ultimi cinquant’anni: Paul Valéry e Guillaume
Apollinaire.
Guillaume Apollinaire pareva un antico romano, con
la sua scultorea testa, la corpulenza gagliarda, la mae¬
stà bonaria del portamento.
Nella poesia, l’accennavamo principiando il nostro
discorso, poesia che sa liberarsi d’ogni peso per ac¬
quistare profondità e altezza, poesia spontanea, viva¬
ce, sottile, giocosa, un po’ libertina, ma tutta per¬
corsa da sfumature lievi d’una malinconia a volte evi¬
dente, ma anche allora senza mai trasgredire i sugge¬
rimenti di chi sa vivere, in una poesia simile non si
può non osservare ch’essa anzitutto è più parigina, e
si è già detto da principio, che francese; è anche una
poesia sorta da tristezza distratta, come quella degli
elegiaci erotici e degli idilliaci satirici, poeti più che
latini, di Roma, anche se romani non erano sempre di
Saggi e Scritti vari 1943-1970 619

nascita, poeti solo capaci di sviluppo in uno speciale


clima di Roma, cosmopolita, esperti di tutte le raffina¬
tezze, foresti e rionali.

Dando il braccio alla cara fanciulla che, con molta


innocenza, ci amò tutti e due, lo accompagnai morto
al Pére Lachaise. In quell’occasione, tornato all’alber¬
go, tracciai pochi versi in sua memoria. Li leggo per
dichiarargli di nuovo oggi, che la sua poesia continua
a vivere viva nel cuore degli italiani:

POUR GUILLAUME APOLLINAIRE 4


en souvenir de la mort que nous avons
accompagnée

en nous elle bondit burle


et retombe

en souvenir des fleurs enterrées

Amava l’Italia, la Francia, la Polonia, ma se amava


tanta civiltà, la civiltà, non poteva essere, non era un
nazionalista.
Non era nemmeno un uomo di parte né un uomo di
classe. Era, Guillaume Apollinaire, un partigiano della
libertà, nutriva il sogno che sulla terra potesse avve¬
nire un giorno l’ora di tutte libere, le persone umane.
Utopia. Ma i poeti non possono essere se non uto¬
pisti, poiché sono il sale della terra.
TESTIMONIANZA SU VALÉRY
[1946],

Soffoco il dolore per scrivere queste righe e le scrivo


perché sento che è un mio dovere contribuire a dif¬
fondere un’opera che illuminò il mio spirito.
Valéry non volle mai essere distaccato da Mallarmé
e fece quanto occorreva perché nessuno ignorasse i mo¬
tivi di tanta devozione. Mallarmé inseguiva un mito
che in sé tutto compendiasse, il mito della poesia, e
nel fissarne i variabili fantasmi, insegnava quanta pie¬
nezza di coscienza dei mezzi espressivi usati, richie¬
desse l’esercizio di un’arte. Sapeva bene Mallarmé, at¬
tento alla tecnica e agli effetti d’un’altra arte, attento
alle seduzioni della musica, - arte calcolatissima e arte
per definizione dell’ineffabile, - sapeva, e anche i pit¬
tori suoi contemporanei sapevano, che nessun dado
tratto abolirà mai il caso, e sapeva che l’opera di poe¬
sia non poteva essere il frutto del caso, d’un dado
tratto, ma il risultato d’un sapere, anche se in essa per¬
sisterà sempre un briciolo di caso che, alla fine dei
conti, le darà grazia, la malinconica grazia.
Fu la lezione trasmessa da Mallarmé a Valéry.
Valéry era in possesso, all’opposto di Mallarmé, di
una mente analitica, e non era certo una mente di fi¬
losofo né che vagheggiasse sistemi, sebbene fosse mente
metodica sino alla mania, sebbene fosse tanto presa
dall’applicazione d’un metodo che, attento egli più a
promuovere e a sommare probabilità di risultati che a
discernere cause, i problemi essa sembrava porgersi
più come problemi di statistica che di poesia.
Il mito della poesia quale s’era affacciato alla mente
di Mallarmé, gli s’era andato sbriciolando per via; era,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 621

al termine dell’altra guerra - già composta La Jeune


Parque e iniziata la composizione di Charmes - era
un mito diverso: il mito deH’intelletto.
Sapeva bene Valéry che tale suo mito era un mito
nato coll’uomo, e, per noi, incominciatosi a decifrare
quando, all’inizio dell’avventura dell’antica Grecia, gli
uomini s’erano dediti a fare dell’intelletto lo strumento
dei prodigi umani. Strumento prodigioso, non è stru¬
mento, reso nel corso dei secoli sempre più potente e
delicato, che potrebbe d’un tratto spezzarsi? L’uma¬
nità è essa dunque, nella sua essenza, fragile? « Nous
autres, civilisations, nous savons maintenant que nous
sommes mortelles. » Sono le parole dettate al chiuder¬
si dell’altra guerra per l’« Athenaeum » di Londra. La
stessa disperazione gli desolerà il cuore mentre, nel
primo tempo dell’occupazione tedesca in Francia, egli
alzerà la voce di saluto davanti alla salma di Bergson.
Un grande poema in prosa scrisse Valéry e va, dalla
Soirée avec Monsieur Teste agli ultimi appunti d’un
immenso « zibaldone », svolgendo il tema della gloria
dell’intelletto e del terrore che un giorno il mondo po¬
tesse perdere la sua luce.
Peccato che la prosa non giunse nel suo nucleo più
lirico a quel momento di maturità, raggiunto il quale
la presenza inattesa d’un ritmo nell’orecchio perfetto
del poeta l’avrebbe portata a trasformarsi in un subli¬
me canto, come già era accaduto per altri aspetti del
tema, quando gli sorsero in mente La Jeune Parque e
Cbarmes. Peccato che alla pazienza del poeta questa
volta non fu concesso il premio dell’« hereuse sur-
prise ».
Che cosa fu Charmes, e La Jeune Parque, e che co¬
sa è dunque la poesia pura di cui tanto si parla e si
sparla? Per nostra fortuna, anche se non sapessimo
trarla dai testi, un’arte poetica possiamo sempre deri¬
varla dalle note teoriche di Valéry. È naturalmente
nata in quell’aura mallarmeana cui accennavamo da
622 Giuseppe Ungaretti

principio, in quell’aura degli Impressionisti ai quali


per tanti legami, anche di parentela, Valéry doveva
sentirsi affine.
La scienza cerca la verità, e la poesia la bellezza, e
l’una e l’altra sarebbero tradite da chi pretendesse sfor¬
zarle ad altro. Poesia pura è dunque quella che cerca
se stessa, e ha un’utilità, ma di liberazione spirituale,
e ha una durata, ma che dipende dalla sua bellezza.
Poesia è dunque l’atto di trovare la bellezza; ma la
trova solo chi sappia sollecitarla per libero impulso
spirituale.
Era un impressionista. Voleva egli dunque a mezzo
della poesia avere soggettiva conoscenza dell’universo,
averne rivelata la bellezza da quel qualsiasi momento
d’una parte dell’oggettiva realtà di cui per il prestigio
d’una combinazione di parole potesse arrivare a espri¬
mere la bellezza. Era un poeta che sapeva ritrarre la
fisica comparsa della musicalità d’un muliebre omero
nudo fra due pensieri; era un poeta che sapeva ub-
briacarsi d’un epiteto:

Saluti encore endormies


A vos sourires jumeaux,
Similitudes amies
Qui brillez parmi les mots!
Au vacarme des abeilles
Je vous aurai par corbeille a,
Et sur l’écbelon tremblant
De mori échelle dorée
Ma prudence évaporée
Déjà pose son pied blatte.1

« Blatte »; ma chi sa più fare d’un aggettivo le sue


delizie?
Era per di più un poeta che voleva percepire nel
loro intimo moto tutte le possibilità di quel microsco¬
pio e telescopio prezioso dell’intelletto senza il quale
Saggi e Scritti vari 1943-1970 623

non si dà conoscenza umana. Era un poeta che ambiva


aumentare la forza della delicatezza umana.
« Poeta nascitur, non ft », e lo sapeva meglio di
chiunque, e di lui poteva dire Gide: «Ce qu’il me
plait surtout de retrouver dans les vers de Valéry bìen
qu’ils l’ojfusquent, c’est sa tendresse ». Poeta nato, se
dava tanta importanza alla tecnica, essa non aveva però
per lui valore se non in dipendenza dell’espressione.
Non aveva egli confidato a Gide un giorno: « Je me
moque des phrqses et de leur rythme et de tonte cette
mécanique peu imprévue qui ne m’amuse pas. L’ex-
pression seule me conquiert »? Non era un piagnuco¬
lone, era un uomo pieno di pudori; ma il suo cuore,
anche se usava discrezione nel dichiararlo, era tutto
slanci.
Affetto dal male acuto della precisione, spinto all’e¬
stremo dal desiderio di capire, portava la sua lente,
il suo faro, lo strumento meraviglioso ch’era il suo in¬
telletto a scoprire la parola sino alla radice del moto
di passioni, di sensi o di pensieri che perseguiva; a
scoprirla sino al punto dell’indicibile, sino a quel pun¬
to dove la parola può farsi così colma di poesia da
suggerire idea e sentimento del divino, da suggerire,
del divino, oserei dire, un fisico senso.
Poesia pura, sissignori: soppressione degli elementi
prosaici da un componimento poetico. Soppressione di
tutto ciò che possa essere detto in prosa: racconto,
filosofia, ecc., tutto ciò che possa esistere per conto
proprio, senza il concorso del canto. Ma - lo si noti
bene — Valéry aveva soggiunto che una tale poesia non
era concepibile se non come una meta verso cui ten¬
dere, come una meta irraggiunta se non in qualche ra¬
ro, supremo verso.
DISCORSO PER VALÉRY
[1961]

a }ean Tbuile

Dirò con Eliot: « Valéry rimarrà fra i poeti, il poeta


rappresentativo, il simbolo del poeta della prima metà
del ventesimo secolo. Non a Yeats, né a Rilke, né ad
altri spetterà tale titolo ».
Valéry si era accostato alle lettere nello stesso clima
del Simbolismo e del Decadentismo nel quale erano
cresciuti e Yeats e Rilke e il nostro D’Annunzio. Ave¬
va conosciuto contemporaneamente i nomi di Mallarmé
e di Huysmans nel Luglio del 1889, leggendo A re-
bours. In A rebours, è noto, Eluysmans ha tracciato
la Bibbia del Decadentismo. Eia descritto quali dovreb¬
bero essere le manie del Decadente, quali le sue nau¬
see, quali i testi da raccogliere nella sua biblioteca,
tali da costituire una tradizione di permanente inno¬
vatrice sregolatezza. Valéry non fu mai un Decadente.
I classici suoi, fossero Virgilio o Racine, o il Petrarca,
erano i consueti classici. Ma Valéry ebbe a volte a pro¬
vare un forte sentimento della decadenza, analogo a
quello che ispirò il Leopardi. Fu forse questo il moti¬
vo che indusse Eliot a segnalare in lui il poeta che
meglio incarna i tempi trascorsi tra le due guerre.
Tra gli scrittori che durante tutta la sua vita Valéry
considererà suoi maestri, ammirerà Huysmans. Ne am¬
mirerà le meticolose notomizzature, le dense coloriture
caratterizzanti. E Monsieur Teste - cui nel 1895 Valéry
darà vita quasi contrapponendolo a Des Esseintes, il
protagonista di A rebours - Monsieur Teste segua pu¬
re unicamente nei momenti intellettuali il proprio esi¬
stere, lo scarnisca, lo idealizzi, ne faccia uno spettro,
ne componga l’essere libero da qualsiasi storia, final-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 625

mente - non appena il patire fisico avrà invaso e allar¬


mato quell’intelligenza - gli diverrà presente il tempo
e un tempo di un’acutezza crudele infinitamente più
rivelatrice di quella dal tempo fatta sperimentare a
Des Esseintes curvandogli le spalle.
Ho fatto un salto, sono arrivato al 1895 per subito
mettere in risalto la parte che nella poesia di Valéry
sempre surrogherà la concretezza dei corpi rispetto a
qualsiasi necessità e possibilità d’astratto riflettere.
Mi toccherà dunque ora retrocedere di qualche anno
e sino al momento della sua scoperta della poesia di
Mallarmé. Valéry osserverà più tardi in anni recenti,
che « Mallarmé era arrivato con lo studio approfon¬
dito della sua arte ad una concezione astratta molto
vicina alle più elevate speculazioni di talune scienze.
La letteratura ordinaria » prosegue Valéry « mi sem¬
brava paragonabile a un’aritmetica cioè alla ricerca di
risultati particolari nei quali si scevera male il precetto
dall’esempio; quella che egli concepiva mi pareva ana¬
loga a un’algebra poiché implicava la volontà di met¬
tere in evidenza, di conservare e di sviluppare le for¬
me del linguaggio. Ma una volta un principio ricono¬
sciuto e colto da qualcuno, a che prò, mi dicevo, per¬
dere il tempo nelle sue applicazioni. Mi sembrava allo¬
ra che esistesse una sorta di contrasto tra l’esercizio
della letteratura e il conseguimento d’un certo rigore
e d’una certa sincerità di pensiero. È questione infini¬
tamente delicata. Dovevo io informarne Mallarmé? Lo
amavo e lo ponevo al di sopra di tutti; ma avevo ri¬
nunziato a adorare ciò che aveva adorato tutta la sua
vita e a cui l’aveva tutta offerta e non mi trovavo il
coraggio di farglielo capire ».
Non è intenzione mia presentarvi una vita roman¬
zata di Valéry. È certo che la lezione di Mallarmé
appare già proficua nelle poesie che scrisse dall’89 al
1892. Aveva osato mandare al Maestro nell’Ottobre
del ’90 due di quelle poesie, e per risposta, insieme a
626 Giuseppe Ungaretti

qualche lode, era stato avvertito che consigli « ne dà


solo la solitudine ». Come avvenne, dunque quella cri¬
si, e si formarono quello stato, d’animo e quelle con¬
vinzioni di cui è reso conto nel suo brano su Mallar¬
mé che ho citato? Fu forse perché Mallarmé era arri¬
vato a un’altezza in poesia che sarebbe stato temerario
per altri volere raggiungere, e che quindi valeva me¬
glio non pensarci più? « Quando ci si trova in presen¬
za d’opere così perfette alle quali » diceva « non si sa
come e che cosa opporre, uno è portato a ripiegarsi
su se stesso, su ciò che ha fatto e soprattutto su ciò
che credeva di essere capace di fare, e a cui si sente
dispostissimo a rinunciare. »
O sarà stato un altro motivo? L’amore per una
donna?
È il momento in cui converrà soffermarci un po’ su
ciò che fu per la vita di Valéry, il mare. Tutto: la pri¬
ma e l’ultima fonte della sua ispirazione. La più chiara
e la più segreta. Il volto che egli volle tramandasse
il suo canto, variabilissimo di continuo e sempre im¬
mobile. Nacque il 30 di Ottobre del 1871 a Séte: « Mi
felicito » diceva « d’essere nato in un punto tale che
le mie prime impressioni siano state quelle che uno
riceve di faccia al mare e in mezzo all’attività degli
uomini. Non esiste per me spettacolo che valga quel¬
lo che si vede da un luogo dominante un porto. In
quel luogo privilegiato, lo sguardo possiede e il largo
di cui s’inebbria e la semplicità del mare, mentre ac¬
canto gli appaiono la vita e l’industria umane che traf¬
ficano, costruiscono, manovrano. L’occhio abbraccia
così insieme l’umano e l’inumano ». La piccola stanza
dove gli occhi gli si aprirono alla luce, inquadra una
parte di cielo é di mare. Dal collegio dove studia il
movimento delle navi e il ritorno la sera delle vele,
offrono, quando può distrarsi a osservare di fuori, lo
spettacolo che gli è più caro. Il sogno della sua infan¬
zia è naturalmente di diventare uomo di mare. In que-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 627

gli anni passa l’estate a Genova: « PJiù di qualsiasi


luogo al mondo » diceva « mi è cara Genova ». È Ge¬
nova specialmente che gli suggeriva quanto utilmente,
inuguagliabilmente, in un grande porto possa mesco¬
larsi all’umano, un uomo. Nel settembre dell’89 de¬
dica a Huysmans la sua prima prosa, una prosa sui
carruggi. Quasi quarant’anni dopo, nel 1924, altre pa¬
gine su Genova, dedicate a Valéry Larbaud, usciranno
in Rhumbs. Di queste ultime, lasciatemi citarvi qual¬
che brano. Vi-risuona un intenerimento di cuore pro¬
lungatosi tutta una vita. Lasciatemi ascoltare con lui
le campane che lo hanno sedotto fanciullo:
« Campane, campane di Genova / Tan / tirin / tan-
tan / ... / Tan / ... /
« Sto, fisso l’occhio su quella campana che a cento
metri di qui rintocca; e si è arrestata la mano che tie¬
ne la penna pronta - a che cosa?
« Il vuoto. E soli l’intenzione, il bisogno, l’istinto,
il fantasma di scrivere. - Scrivere che cosa? Il muro
richiama alle sue losanghe lo sguardo.
«.
« Tan / t'ir'in / tan-tan / - Le canta invece di con¬
tarle, le ore.
« Liquidamente, con un liquore infinito squillano
quelle note. »
E lasciatemi ripetervi il periodo che chiudeva quel¬
lo scritto:
« Italianità. - Semplicità di vita - Nudità interio¬
re - Bisogni ridotti al minimo - Gusto del reale spin¬
to all’essenziale. Fondo cupo e leggerezza, ma sempre
attenta. Spensieratezza e... profondità. Segreto. Pes¬
simismo tutto contraddetto d’attività. Deprecatio. Ten¬
denza ai limiti. - Passaggio immediato ad infinitum. »
Era a scuola debole in matematica, anzi addirittura
non ci capiva nulla e quel sogno dell’infanzia e del¬
l’adolescenza fu frustrato e al termine del liceo, non
628 Giuseppe Ungaretti

all’Accademia navale potè accedere, ma dovette iscri¬


versi alla Facoltà di legge di Montpellier.
La sorte è fatta di combinazioni incredibili, e al¬
l’Università incontra e si lega di amicizia con uno stu¬
dente di Scienze esatte, Pierre Féline, e da quel mo¬
mento a poco a poco s’appassiona ai modi di pen¬
sare del geometra. Presto l’odiata matematica che gli
aveva dato il dispiacere maggiore, diventa uno dei fat¬
tori positivi del suo avvenire. Feline lo guida a sco¬
prire la teoria delle funzioni e poi quella degli insie¬
mi e dei gruppi di trasformazione. Più tardi, i due
amici non esiteranno a ingolfarsi nelle astrattissime
teorie di Cantor sugli insiemi transfiniti.
Coesistevano in Valéry due modi d’essere contra¬
stanti. La poesia finirà per conciliarli. « Avevo ven¬
tanni » diceva « e credevo nella potenza del pensiero.
Soffrivo stranamente d’essere e di non essere. A volte
mi sentivo forze infinite. Esse cadevano davanti ai
problemi; e la debolezza dei miei poteri positivi mi
faceva disperare. » C’era l’uomo positivo in lui - Fé¬
line glielo aveva fatto scoprire - l’uomo che non am¬
metteva potesse esserci alcunché non riducibile a lo¬
gica formulazione. Un tale uomo come avrebbe po¬
tuto non diffidare della poesia? « All’età di vent’anni »
disse « fui costretto a intraprendere una lotta serissi¬
ma contro gl’“Idoli” in genere. Quella crisi mi fece
insorgere contro la mia “sensibilità” in quanto essa
intralciava la libertà del mio spirito. »
La poesia suscita idoli, è vero, ed è indefinibile. I
suoi effetti sono per molta parte, dell’ordine della ma¬
gia, e dipendono dall’inconscio e dal sub-conscio quan¬
to dalla lucida coscienza, e possono persino nascere da
una improvvisa indicazione di ritmo venuta all’orec¬
chio chissà da dove e chissà perché. Tutti sanno che
lo spostamento o il mutamento d’un semplice voca¬
bolo in seguito a una proposta apparsa a caso nella
mente, può fare mirabile un verso orribile. I signifi-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 629

cati e i suoni trovano le loro rispondenze più indo¬


vinate a volte quasi come si vince al baccarà. È vero
che, riconciliatosi con la poesia, Valéry preferiva vin¬
cere giocando agli scacchi.
Certo, quell’uomo, anche nelle ore più stremate del
dramma, tornava a lusingarlo la poesia con i suoi og¬
getti, frutto di miracoli e germi di prodigi, ed allora
l’altro modo d’essere, l’idolatria, come egli lo chiama¬
va, predominava in lui. Ma subito, a quell’uomo in¬
vaghito di scienza, di « hostinato rigore », la poesia
tornava a non apparire se non mezzo d’inganni, fu¬
tile distrazione. Quegli anni furono fatti di tali alter¬
native, ma prevaleva in essi il crescente distacco dalla
poesia. Vi ho già citato il brano tratto dai suoi ricordi
di Mallarmé, e quella frase: « Mi sembrava allora che
esistesse una sorta di contrasto tra l’esercizio della let¬
teratura e il conseguimento d’un certo rigore e d’una
certa sincerità di pensiero ».
A scoraggiarlo dalla poesia, a screditargliela tanto,
deve avere contribuito non poco Edgar Poe. Più tardi,
quando Valéry si riconcilierà con la poesia, si servirà
dei medesimi postulati del Poe per averne stimolo in
senso opposto.
È straordinaria l’influenza esercitata dal Poe sulla
poesia francese e ogni volta diversissima dalla prece¬
dente, e mi dispiace che il tempo oggi non mi per¬
metta nemmeno di mostrare di sfuggita ciascuna di
tali diversità. Esercitò influenza su Baudelaire, l’eser¬
citò su Mallarmé, e, per tramite della traduzione in
prosa delle sue poesie fatta da Mallarmé, persuase
Rimbaud a quella rivoluzione espressiva che la Saison
en enfer e le llluminations hanno prodotto, e ancora
producono nella poesia francese e in quella d’ogni
paese.
Valéry impara da Poe che per capire la genesi
d’un’opera d’arte si deve partire non da un’emozione
iniziale, ma dai mezzi tecnici messi in opera dall’arti-
630 Giuseppe Ungaretti

sta per produrre tale o tal altro effetto. La vera causa


dell’opera d’arte è dunque nell’impiego dei mezzi. Si
ferma volentieri all’etimo greco di « poesia » che è
« fare », e « homo faber » sarà per lui principalmen¬
te il poeta. Per risalire - se non fosse impresa peg¬
gio che aleatoria, balorda - per risalire alla causa emo¬
tiva che può avere guidato il poeta nella -scelta di
dati mezzi tecnici: causa derivata da uno stato gene¬
rico o particolare composto di sentimenti, sensibilità,
cultura, riflessione critica, insomma del conscio e del¬
l’inconscio del nostro essere - l’opera d’arte dovrebbe
essere smembrata, sottoposta a torture sofìstiche, ri¬
dotta a caos o a meno di nulla, tanto essa ebbe a nu¬
trirsi, a complicarsi, a passare da una ad altra meta¬
morfosi, per arrivare a potersi produrre - non ripro¬
durre - nell’animo ipotetico d’un ascoltatore ideale.
Nell’animo dell’ascoltatore reale gli effetti saranno il
risultato - diverso da lettore a lettore - d’un processo
analogo, non identico, a quello che ebbe a incontrare
l’emozione iniziale dell’autore per trasformarsi in e-
spressione. Tirate le somme, è ovvio non possa esser¬
ci nell’opera d’arte altro rapporto su cui esercitare un
possibile previo esame se non quello tra una scelta
di mezzi tecnici e un’emozione da produrre nell’ani¬
mo d’un ipotetico lettore ideale. In altri termini, non
può stanarsi l’ispirazione se non dedicando attenzione
ai mezzi tecnici. Si tratta di stabilire una rettorica -
oggi la direbbero una poetica - che, come qualsiasi ret¬
torica, è una teoria degli effetti. Ogni poeta ci pensa,
e si sa quanto il Leopardi si sia tormentato dietro alla
sua teoria dell’eleganza. E veniamo, per spiegarci me¬
glio, ad un esempio. Un quadro è principalmente, nei
suoi effetti, un campo di tela coperto di macchie co¬
lorate, adunate secondo certe figure più o meno geo¬
metriche. Della causa che mosse il pittore a dipinger¬
lo, è cosa di cui si potrà discorrere, con conoscenza di
causa, il Giorno del Giudizio. In effetti, il pittore par-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 631

tirebbe non da un modello da riprodurre, ma da una


tela da ammobiliare di colori e di forme. Il fare poe¬
sia non sarebbe altro, considerate così le cose, se non
un cullarsi d’illusioni, e il Leopardi lo sapeva bene,
e non senza cagione si tormentò anche dietro una teo¬
ria delle illusioni. Voi vedete quale denigrazione del¬
l’arte può nascondersi in tali proposizioni alle quali
Valéry rimase l’intera vita fedele - « incrollabilmen¬
te », come ebbe a scrivere a Gide. Ma nel chiarirsi
sopra di esse la sua poetica, in esse quale inaudite
possibilità di liberazione non imparò a scorgere?
Verrà un momento in cui Valéry non si dimentiche¬
rà di quanto possa in un’opera d’arte essere vano e
delusivo, ma si ricorderà soprattutto di quanto in essa
è forza che libera, sia pure solo per illusione.
Eliot, dicendo che Valéry fu il poeta rappresenta¬
tivo degli anni compresi tra le due guerre pensò forse
all’importanza che, nell’opera di poesia, Valéry, co-
m’è documentato da tanti appunti ormai noti dei suoi
quaderni e dagli scritti suoi teorici, attribuì ai sogni,
all’inconscio e al subconscio? Infatti l’opera d’arte, e
non in ciò che potrebbe avere di peggiore, non può
esimersi da un qualche automatismo di scrittura. Fu
da lui stimolato il Surrealismo? E se penso a quella
dissociazione dell’ispirazione in elementi d’oggetto ef¬
ficace ch’egli era sempre tentato di fare componendo
poesia e alla dissociazione in due esseri che gli la¬
cerò continuamente la coscienza, e se penso anche a
quella sua osservazione che mette in bocca a Socrate
nel dialogo d’Eupalino: « L’artigiano non può com¬
piere il suo lavoro senza violazione o turbamento d’un
ordine, mediante forze da lui applicate alla materia
per renderla adatta all’idea da imitare e all’uso pre¬
visto. Ove costruisca un tavolo, l’intero mobile pos¬
siede una struttura molto meno complessa del tessuto
delle fibre del legno: egli avvicina grossolanamente e
in un certo ordine estraneo, i pezzi d’un grande albe-
632 Giuseppe Ungaretti

ro^ i quali s’erano formati e sviluppati secondo altri


rapporti » - se penso a ciò, mi viene spontaneo di do¬
mandare a Eliot, se con la sua affermazione non allu¬
desse anche alle disarticolazioni e ai costruttivismi di
Cubisti e di Futuristi, e alle semplificazioni e agli uti¬
litarismi, se non agli asetticismi di Funzionalisti e al¬
tri Razionali. L’uomo nei confronti della natura non
solo dimostra d’essere impotente ad imitarla ma di
non sapere se non recarle guasti, e solo servendosene
per astrazione - il tavolo che abolisce se è di eletta
fattura persino il ricordo dell’albero - egli dà prova
di qualche potere e l’estro l’aiuta persino a riscattare
con le invenzioni di grazia il suo fatale sadismo verso
di essa. Valéry era un uomo dei suoi tempi. E rile¬
verà, chi avrà da fare la storia, che molte delle sue
idee avranno reso possibile, magari per malinteso, e
certo in direzioni una dall’altra diversissime, il lavo¬
ro di altri, e l’avranno reso possibile, come era anche
proprio della sua mente procedere, in direzioni comun¬
que tutte diverse da quelle che egli voleva indicare
con quelle sue idee. I propositi di Valéry erano espli¬
citi. Trarrà il suo mestiere dalla tradizione, le cui re¬
gole ricercherà senza requie e osserverà con scrupolo
ostinato. La perfezione del mestiere gli resterà sem¬
pre sommamente a cuore, e se manifesterà egli un ram¬
marico, sarà che la fretta dei tempi non tolleri il dedi¬
carsi a opere lungamente durature, e il suo sentimento
della decadenza sarà sentimento anche del decadere del
mestiere. Diceva: « Abbiamo perduto l’uso delle ma¬
ni ». Comunque, nessun altro meglio di lui apparirà
come il teorico dell’arte d’oggi: musica, pittura, archi¬
tettura, narrativa o poesia, quantunque abbia fatto di
tutto per fare intendere che cercava altro, che inten¬
deva dire altro, che la sua poesia è altro. La sua arte
è antica e nuovissima, come al Leopardi piaceva fosse
sempre un’arte degna del nome d’arte. Sapeva benis¬
simo Valéry che l’arte della parola è, già da millenni,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 633

la più astratta che vi sia. Nulla è più dissimile dalle


cose che rappresenta di un vocabolo, eppure in nes-
sun’altra arte, nemmeno nella più fotografica come la
pittura, il simbolo è più significante. Se il simbolo
orale è scritto, si passa a un altro grado di conversio¬
ne simbolica. Perché rompere un uso che rende istan¬
tanea nella nostra mente la conversione di simboli ne¬
cessari in percezioni precise o poetiche della realtà?
L’arte della parola ha già una tradizione che può per¬
metterle di flettersi a ogni novità e arricchimento, ed è
un altro dei tanti crimini di questi tempi, ingegnarsi
a mandarla in rovina. Le maggiori rivoluzioni in arte
sono quelle che avvengono rispettando la tradizione.
L’arte della parola ha in sé la facoltà d’astrazione, e
continui dunque a svilupparla per la sua via naturale,
recuperando il passato inventando il domani.
Col nome di « Notte di Genova », ricavato da un
appunto del 6 ottobre 1892 rinvenuto nei suoi qua¬
derni, è compendiata simbolicamente la crisi che lo
tormentò dal 1889 a quella data. In quella data, tra
gli squarci e gli abbagli dei lampi, in quella notte tem¬
pestosa, gli pare d’avere finalmente ghigliottinato la
letteratura, di sentirsi finalmente interamente un al¬
tro. « Ma » soggiunge però in quell’appunto « sentirsi
un altro non può durare. »
Paragonare una persona a un’altra è assurdo, e ozio¬
so per conseguenza è tentare avvicinamenti tra le lo¬
ro opere. Voglio solo dire come per Valéry non un
indirizzo dello spirito umano dei suoi tempi, a qual¬
siasi ramo dello scibile fosse affiliato, poteva apparire
estraneo alla sua curiosità e alle sue meditazioni. Pos¬
sedeva quelle particolari attitudini della mente da chia¬
marsi filosofiche, se le cose portassero sempre il loro
nome, e che sono le antenne della vera scienza, se
per scienza si intenda non una particolare specializza¬
zione, ma il sapersi rendere cosciente dell’energia e
degli atti del proprio tempo e il saperne esprimere il
634 Giuseppe Ungaretti

significato. Né quindi gli appariva dovessero rimanere


estranei alle indagini del suo pensiero i fenomeni e
gli ordinamenti che l’attualità 'portava a manifestarsi
e a sconvolgere gli strati sociali. Ci sono numerosi
scritti, specialmente posteriori alla prima guerra, che
lo dimostrano. Sono raccolti in vari volumi. E ci so¬
no quegli innumerevoli quaderni che furóno comuni¬
cati al pubblico di recente in edizione fotografica:
« Da trent’anni scrivo il mio diario » confida nel 1926.
« Esco dal letto prima che faccia giorno, e, mentre
fa giorno, ora profonda e pura, sono solito scrivere
ciò che sgorga da sé. » Si tratta d’una specie di Zibal¬
done, che ci ha lasciato. So bene - ho già preso le de¬
bite precauzioni - che Valéry non somiglia affatto a
Leopardi. È tuttavia lecito affermare che ci sono dei
passaggi obbligati dove due menti somme fatalmente
s’incontrano. Ho avuto occasione di segnalare qual¬
che incontro col Leopardi, in fatto di poetica. Mi sia
anche lecito di segnalare la loro analoga ansia d’im¬
possessarsi del sapere del proprio tempo e di ricer¬
carne le origini e le conseguenze e di- ragionarci su, e
la loro analoga volontà di interpretare l’agitarsi del
proprio tempo.
fi suo primo saggio dopo il distacco dalle lettere -
ma è distacco dalle lettere, o non è solo distacco, par¬
ziale distacco, dalla poesia in versi, dal « canto »? - il
suo primo saggio è l’Introduction à la Méthode de
Léonard de 'Vinci, pubblicato nel 1895 dalla « Nou-
velle Revue ». Studiare Leonardo è per Valéry un coor¬
dinare sondaggi eseguiti allo scopo di ritrovare l’o¬
rigine comune di tutte le operazioni dello spirito, la
legge universale della vita dello spirito. È la ricerca
d’un metodo. La scienza e l’arte dunque avrebbero
un’origine comune?
Già non è un riconciliarsi con la poesia? E quel-
l’accogliere la lezione di Leonardo secondo la qua¬
le nessuno spirito possa effettuare immagini e avere
Saggi e Scritti vari 1943-1970 635

conoscenze di sé e dell’universo se non in stretto


concorso con il proprio corpo, non è già riconciliarsi
con la poesia? Nel medesimo anno Monsieur Teste
verrà a gridargli, lo abbiamo visto, che un intellet¬
to, e il proprio, si consideri pure il più svincolato
da ogni condizione terrena, avrà sempre da subire, e
per averne moto, la sensibilità.
Ma, delineata alla meglio la sua poetica, è tempo
oramai prima di avvicinarci alla sua poesia, e per me¬
glio poterla definire, di accorgerci che Valéry era un
uomo non indifferente al vivere degli altri uomini.
Chi lo conobbe bene potrebbe invece asserire che del¬
la sofferenza degli uomini egli partecipò e con dispe¬
rato amore.
Nel 1895 la « New Review » aveva pubblicato una
serie di articoli sulla concorrenza economica tedesca
al commercio mondiale. Il Direttore di quella rivista,
William Henley, chiese a Valéry, di passaggio a Lon¬
dra, di dedurre per il suo periodico qualche conclu¬
sione filosofica da quegli articoli. Ne nacque il fa¬
moso scritto intitolato poi Une conquète méthodique.
Per noi importa che, sino da quel momento, Valéry
in quella conquista denunziasse il successo d’un meto¬
do, cioè della ragione continua dell’intelligenza presa
come strumento e non come fine - il trionfo del ne¬
cessario sull’accidentale, del generale sul particolare -
della massa sull’individuo, dell’impersonale sull’origi¬
nale. È un metodo che esige dall’uomo che si riduca
a valore « medio », e che si armi di una volontà te¬
nace. A tale strumento, il genio, il quale non può ma¬
nifestarsi se non per caso, farebbe correre il rischio di
spezzarsi. La voluta e imposta mediocrità finirà sem¬
pre e inevitabilmente col prostrare qualsiasi uomo su¬
periore. Anzi, l’uomo essendo generalmente mediocre,
dato il via al sistema, il peggio avverrà, e sempre ver¬
rà trovato il numero d’uomini occorrente ad impe¬
dire che il sistema si spezzi. Dilagherà sopra l’intero
636 Giuseppe Ungaretti

orbe terrestre il trionfo della mediocrità. E se, nono¬


stante ciò, i risultati fossero migliori di quelli d’oggi?
Valéry non s’opporrà mai a upa migliore sorte degli
uomini, e certamente crederà sempre nella efficacia,
in ogni campo d’attività, del metodo, ma gli sviluppi
di quello che aveva esposto quella volta gli facevano
accapponare la pelle facendogli sentire come mettes¬
sero in lui a nudo, senza pietà, il sentimento della
decadenza, e gli facessero sentire nettamente quanto il
contemporaneo consorzio umano s’affaticasse al crollo
d’una civiltà - la nostra - adoperando strumenti ch’es-
sa stessa era andata e andava foggiando e forniva.
L’allarme era lanciato: a seguire inflessibilmente quel
metodo, necessariamente non avverrà nell’ordine della
storia che. si giunga allo sterminio metodico?
Gli uomini frigidi parlando di Valéry cianciano di
gelo, e quelli che non hanno mai brillato per corag¬
gio tirano in ballo il cuore di cui osano rimproverar¬
gli il difetto. Non l’ostentava il sentimento, possedeva
una invidiabile compostezza di maniere, era un uo¬
mo d’ottima educazione, un uomo compito.
Paul Valéry ebbe il cuore pieno di quel fuoco su¬
premo che non si possiede senza possedere un pudore
supremo, e peggio per chi non sapendo né amare, né
ribellarsi, né leggere, non saprà mai accendersene.
Uditelo. Nell’aprile del 1919, a richiesta dell’« Athe-
naeum » di Londra, pubblica due lettere, vi si legge:
« Noialtri, Civiltà, sappiamo ora che siamo mortali.
[...]
« Sapevamo bene che tutta la terra palese è fatta
di ceneri, che la cenere significa qualche cosa. Attra¬
verso lo spessore della storia, scorgevamo i fantasmi
d’immense navi che furono cariche di ricchezza e di
spirito. Noi non potevamo contarle. Ma quei naufragi,
dopotutto, non erano affatto nostri. [...]
«La speranza, certo, permane. [...]
« Ma la speranza non è che la diffidenza dell’essere
Saggi e Scritti vari 1943-1970 637

verso le previsioni precise del suo spirito. Essa sugge¬


risce che ogni conclusione sfavorevole all’essere deve
essere errore del suo spirito. I fatti, tuttavia, sono
chiari e spietati. C’è l’illusione perduta d’una cultura
europea e la dimostrazione della impotenza della co¬
noscenza a salvare checchessia; c’è la scienza, colpita
mortalmente nelle sue ambizioni morali e come diso¬
norata dalla crudeltà delle sue applicazioni; c’è l’idea¬
lismo, che vince difficilmente, profondamente contuso,
recante la responsabilità dei suoi sogni; c’è il realismo
deluso, battuto’, accasciato da crimini e da colpe. »
Nell’ultima guerra, lo strazio del suo animo è inde¬
scrivibile. In memoria di Henri Bergson, Ebreo di na¬
scita, nella Parigi del 1940 occupata dai Nazisti, pro¬
nuncia un elogio dove si legge: « L’Accademia è col¬
pita alla testa. [...]
«Era l’orgoglio della nostra compagnia. [...]
« Altissima, purissima, superna figura dell’uomo
pensante, e forse uno degli ultimi uomini che avranno
esclusivamente, profondamente, supernamente pensa¬
to, in un’epoca del mondo dove il mondo va pensan¬
do e meditando di meno in meno, dove la civiltà sem¬
bra, di giorno in giorno ridursi sempre più solo al
ricordo e alle vestigia che noi serbiamo, della sua ric¬
chezza multiforme e della sua produzione intellettuale
libera e sovrabbondante, mentre la miseria, le ango¬
sce, le costrizioni d’ogni ordine deprimono e scorag¬
giano le imprese dello spirito. »
L’elenco di interventi simili non sarebbe corto. Non
tocca a me farlo.
Fu uomo d’una dignità di vita più che rara, unica.
Dopo il 1892 Valéry non smise affatto di scrivere,
pubblicò di rado qualche saggio e qualche appunto
ad alcuni dei quali s’è accennato, e anche tre poesie,
una nel 1896 e due nel 1897, e la Soirée avec Mon-
sieur Teste nel 1896. Nel 1913 in seguito alle insi¬
stenze di André Gide che lo pregava d’autorizzare la
638 Giuseppe Ungaretti

« fsTouvelle Revue Frangaise » a pubblicare una rac¬


colta dei suoi antichi versi, che avevano lasciato in
chi li conosceva la convinzione di raggiunta bellezza,
si mise a rifarli, e gli venne insieme voglia di eserci¬
tarsi in una cosa nuova, e compose la Jeune Parque,
che vide la luce alla fine d’Aprile del 1917. Siccome
tutte le poesie precedenti, approvate e comprese insie¬
me a Charmes e alla ]eune Parque nell’edizione defi¬
nitiva di Poésies, furono interamente rifatte in que¬
gli anni, si può dire che l’intera sua opera poetica,
di «canto», fu compiuta dal 1913 al 1922.
Fautori e avversari si sono ingegnati a presentarci
una poesia di Valéry che non corrisponde se non mi¬
ticamente a quella che veramente è. Abbiamo cercato
di esporre, in modo succinto e quindi incompleto, ma,
lo presumiamo, abbastanza fedele, la sua poetica, e
abbiamo cercato di mostrare l’uomo nelle sue prese
di posizione davanti agli avvenimenti del suo tempo.
Credo che, discorrendo della sua poesia, non convenga
più ricorrere a quel cliché di Commedia dell’Intel¬
letto, come uno direbbe Divina Commedia o Comme¬
dia Umana. Fu uomo, lo abbiamo ammesso, che dette
somma importanza all’intelletto, a un intelletto che
né i turbamenti del cuore, né gli scherzi dei sensi po¬
tessero disturbare. Si sapeva tuttavia uomo e il suo
cuore era umano, e non d’amianto, e nemmeno di lat¬
ta e a carica d’orologeria come quello di tanti presun¬
tuosi suoi detrattori, che ignorando tutto di lui gli
oppongono i loro meccanici sospirini di canarini da
« botte à musique ».
Canto era la sua poesia, e fatta perciò di sentimen¬
to, di sensibilità, e anche d’intelletto, cioè anche di
« hostinato rigore » come gli aggradiva di dire avendo
adottato l’impresa del suo Leonardo.
Canto e non prosa. « Errore contrario alla natura
della poesia » osservava « e che le sarebbe persino
mortale, è pretendere che la poesia abbia per oggetto
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 639

di comunicare a qualcuno qualche nozione determina¬


ta - ciò a cui la prosa deve bastare. Una conseguenza
di tale errore è l’invenzione dell’esercizio scolastico
che consiste nel fare mettere dei vèrsi in prosa. È
inculcare un’idea tragica per la poesia, poiché è inse¬
gnare sia possibile dividere la sua essenza in parti che
possano sussistere separate. È credere che la poesia sia
un accidente della sostanza prosa. » Similmente il Leo¬
pardi nella sua teoria dell’eleganza invocava il vago,
il pellegrino, l’indeterminato, l’indefinito, per fare as¬
surgere i vocaboli al grado del canto, cioè alla possi¬
bilità di dare illusione d’infinito. Ricordate come Va¬
léry definiva l’italianità negli appunti su Genova di
Rhumbsì « Tendenza ai limiti. - Passaggio ad infini-
tum. »
Non abuserò della vostra attenzione, e, mancando¬
mi oggi il tempo, purtroppo dovrò limitarmi ora a
scegliere di sfuggita qualche esempio della sua poe¬
sia, rimandando ad altra occasione il dovere di rileg¬
gerla verso dopo verso come va letta.
Il primo effetto che fa su un lettore non prevenuto,
questa poesia, è, mi pare, quello che farebbe l’eccel¬
lente pittura. È essa d’un grande mestiere rinascimen¬
tale. Le qualità figurative in essa sono preminenti. È
legato come Mallarmé all’esperienza della pittura im¬
pressionista, e a taluni pittori di quella scuola era an¬
che imparentato, e nella casa in cui visse a Parigi per
lunghi anni, quadri impressionisti gli tennero compa¬
gnia. Ma pensando a Valéry, più che agli Impressio¬
nisti avviene di pensare forse al Correggio - che tanto
« impressionò » la pittura francese del Settecento e
tanto poi mandò in visibilio Stendhal (in quel di Par¬
ma possono farsi sempre scoperte straordinarie, e, per
esempio, nel castello di Soragna, un illustratore dei tor¬
menti di Justine « castamente » anteriore a Sade: sa¬
pienza erotica da fare arrossire per arretratezza, Fon-
tainebleau) - e avviene di pensare meglio, e di più,
640 Giuseppe Ungaretti

al Tiziano, e, a volte, quando l’impeto tocca lo schian¬


to del dramma, al Tintoretto. Ma più che a chiunque
altro, avviene di pensare al Giprgione. La pittura ve¬
neziana, e nemmeno Cézanne lo nascondeva, era, tra
i modelli da emulare, all’apice delle preoccupazioni de¬
gli Impressionisti.
Il variare del colore dell’acqua, la stregoneria e la
malinconia delle sue trasparenze, un fremere di foglie
che fanno tatuaggio d’ombra sulla voluttuosa, polpo¬
sa carnagione d’una giovane femminea spalla nuda
scossa, nel suo pungente garbo, da quasi impercettibili
tremiti al fresco contatto dell’aria, od un segreto bo¬
schivo, od una quiete ed un dissolvimento serali, o
lo stupendo stupore d’un risveglio,
oppure:

Un bras vague inondé dans le néant limpide


Pour une ombre de fleur à cueillir vainement
S’effile, ondule, dort par le délice vide,

Si l’autre, courbé pur sous le beau firmament,


Farmi la chevelure immense qu’il humecte,
Capture dans l’or simple un voi ivre d’insected

o l’ora meridiana:

Si le dieu chante, il rompt le site tout puissant;


Le soleil voit l’horreur du mouvement des pierres; 2

o questa evocazione:

Azurl c’est moi... Je viens des grottes de la mort


Entendre l’onde se rompre aux de grès sonores,
Et je revois les galères dans les aurores
Ressusciter de Vombre au fil des rames d’or.2
Saggi e Scritti vari 1543-1970 641

« Il poeta più naturale tra quanti scrissero o scri¬


veranno » dirò con Alain.
Nella sua poesia, il paesaggio è sempre quello d’un
luogo di mare. Per questo, tanto essa ci sembra abbia
avuto familiare la pittura veneziana? Nei Fragments
du Narcisse, di cui il primo è una delle sue poesie
più antiche, il continuo dissimularsi del tragico uma¬
no alla coscienza umana che vi si riflette per interro¬
garlo, è come quando su un mare si rispecchi cosa.
Essa altro non è, fatta balocco di quell’acqua, che nul¬
la. È inafferrabile emblema, e, fissa, essa muta secon¬
do gli enigmatici umori del mostro. Poesia d’apertu¬
ra soave, lungo lamento amoroso, solo apparente con¬
giungersi struggente, d’antinomici destini, ma presto
universo dal quale l’incauto curioso che cerca di co¬
noscervi il proprio volto, arretrerà inorridito:

Bientót va frissonner le désordre des ombres!


L’arbre aveugle vers l’arbre étend ses membres
[s ombres,
Et cherche ajfreusement l’arbre qui disparait...
Mon àme ainsi se perd dans sa propre forét,
Où la puissance échappe à ses formes suprèmes...
L’àme, l’àme aux yeux noirs, touche aux ténèbres
[mémes,
Elle se fait immense et ne rencontre rien...
Entre la mort et soi, quel regard est le sien!4

L’anima? In Variété V trovo quel saggio dedicato


alla traduzione di San Giovanni della Croce dovuta
al P. Cyprien de la Nativi té de la Vierge e apparsa
nel 1641. «Mi sembra che l’anima» scrive in esso
Valéry « mi sembra che l’anima ben sola con se stes¬
sa, di tempo in tempo, tra due silenzi assoluti, non
impiega mai se non un piccolo numero di vocaboli e
nessuno straordinario. A questo si riconosce che c’è
anima in quel momento. » Pascal non avrebbe dun-
642 Giuseppe Ungaretti

qiìe avuto torto di rinunziare alla scoperta del cal¬


colo infinitesimale per salvarsi l’anima? Per i posteri,
Valéry non resterà se non pdr la sua poesia, per l’a¬
nima. Un uomo non vale per altro, ma, fino all’ulti¬
mo, Valéry, la propria poesia, la chiamerà « eserci¬
zio ». Vi cercherà soltanto schiarimenti, « sapere » di
sé, e, di quel « filtro incantatorio », ch’essa nei suoi
effetti gli parrà essere sempre, avrà sempre come il
rimorso d’averlo preparato abusando della propria e
dell’altrui credulità.
Fragments du Narcisse è un tema accarezzato per
circa quarantanni. Vi ritorna in una prosa che reca la
data del Maggio 1945, n&W Ange. È forse l’ultimo suo
scritto; Narcisse non è più Narcisse, è l’Angelo. È
l’Uomo che a quella perfezione invano tenterà d’innal¬
zarsi e sulla propria miseria di forze piange. L’Uomo
che incessantemente meglio si conosce, piange di non
riuscire mai a capirsi. L’Angelo è l’anima? Come ca¬
pire ciò che non è mortale?
La poesia alla quale Valéry ha lavorato di più, è
la }eune Parque. Cinquecento versi che gli richiesero
quattr’anni, dal 1913 al 1917. Un paesaggio nottur¬
no. Il mare, lo scoglio, il cielo, e sono, come negli an¬
tichi, suggeriti più che descritti. Alain dice che è in
bassorilievo, l’Iliade, che è poema epico. Orizzonta¬
lità e verticalità continue sono in questa poesia, la
continua ambivalenza di aspetti diversi e contempo¬
ranei di medesimi atti. Continuo effetto d’un’evoca-
zione del sogno, tra sonno e veglia. Continuo effetto
di balzi, di belluinità in una marcia irresistibile, ine¬
sorabile la quale accade e trascorre in uno stato di son¬
no. L’immortalità della vita è nel succedersi delle
morti. La vita è sogno, fu detto bene. Perpetuo stu¬
pro e perenne virginità. Intossicamento senza fine e
senza fine incorruttibilità. Come si fa aperto l’univer¬
so, come immenso misura la propria solitudine al gre¬
mirsi di stelle nel cielo! Come è sola la solitudine del
Saggi e Scritti vari 1943-1970 643

cielo stellato! Eppoi nell’assoluto del sonno, l’oblio


pieno, salvo dell’istinto di cui si va degradando la fu¬
ria, e torna, ammutolendo, a crescere, e tocca il suo
maggiore segreto, nell’ammutolirsi per furia:

(La porte basse c’est une bague... oh la gaze


Passe... Tout meurt, tout rit dans la gorge qui jase...
L’oiseau boit sur ta bouche et tu ne peux le voir...
Viens plus bas, parie bas... Le noir n’est pas si noir...) 5

Le cimetière marin è la più celebre poesia di Va¬


léry. Tradotta spesso anche in italiano. Usò per com¬
porla il decasillabo, verso inusitato in Francia in tut¬
to il secolo decimonono e dopo, e corrisponde al no¬
stro endecasillabo. Ambì Valéry per la sua discesa tra
i morti, ch’esso corrispondesse all’endecasillabo dan¬
tesco. È verso scandito nervosamente, scolpito per in¬
cisioni brusche in una pietra durissima. Un cimitero
incombente sul mare. Alcuni cipressi imprecisati, fo¬
gliame, pini, scogli, alcune cicale. Il sole rovente, la
siccità. Il chiasso si scioglie in un formidabile silen¬
zio. Le tombe, da esse, dalle generazioni che racchiu¬
dono, ci è trasmessa la necessità di vivere. In quanto
al tempo, sia stato agli uni o agli altri, più rapido
o meno, più breve o più lungo, ritrova per tutti, un’u¬
nica durata, la medesima, nelle tombe.

Les morts cachés sont bien dans cette terre


Qui les réchauffe et sècbe leur mystère.

E sulle tombe, l’abbaglio del sole:

Midi là-baut...b

E, a chiudere il quadro, vele triangolari, bianche


colombe che nel mare sottostante, pecchiano...
644 Giuseppe Ungaretti

In quel cimitero, il cimitero di Séte, ora riposa


Paul Valéry. Il sommo Francese riposa, tra Giovanna
Lugnani da Capodistria, e Giulio Grassi, Ligure, suoi
nonni. Riposa tra memorie dell’epica napoleonica e
dell’epica delle lotte per l’Unità d’Italia. Riposa tra
memoria dell’Adriatico e memoria del Tirreno, nel
suolo della sua Francia, davanti al mare della sua
Francia. Possa il nome di Paul Valéry sempre ram¬
mentare che Francia e Italia furono felici e donarono
all’umanità sublimi opere quando si amarono senten¬
dosi sorelle.

Nota: Questo discorso fu tenuto a Genova in occasione dello


scoprimento d’una lapide sulla casa dove Valéry soleva abitare
in quella città quando vi si fermava.
SOUVENIRS SUR JEAN PAULHAN
[1945]

Je crois pouvoir imaginer avec exactitude comment


Paulhan aura accueilli la nouvelle qu’un honneur lui
avait été accordé.1 Il aura levé les yeux des feuillets
où il enregistre avec un ordre méticuleux les moments
de sa pensée prudente autour de quelque problème
qu’il veut connaitre dans tous ses aspects, toutes ses
Solutions, dans les erreurs mèmes que toute solution
comporterà toujours. Il aura levé les yeux comme si
la nouvelle concernait un habitant du monde de la
lune et pas lui, avec un mouvement de sa discrétion
profonde qui l’amène à juger répréhensible tout acte
pouvant, de sa part, le distraire de son travail et de
ses affections.
Homme de travail, homme aux grandes affections,
homme de passions. Dans les élans du cceur, sa deli-
catesse est incomparable et personne mieux que moi
ne sait à quel point il sent l’amitié: la nòtre date
de vingt-cinq ans, c’est plus qu’une amitié, c’est une
fraternité de chaque instant. Les preuves constantes,
opportunes de cette amitié, plus prévenantes encore
dans les événements tristes, Paulhan trouvera la ma¬
nière de les témoigner avec tellement de tact que
celui qui les re?oit en ignorerà presque la prove-
nance.
Homme de passions, il a été un de plus courageux
opposants de l’occupation allemande. Il a souffert
l’emprisonnement, il a accompli mille beaux actes que
tous racontent. Mais, semble-t-il nous dire, c etait si
naturel, si simple de les avoir accomplies, ces choses
646 Giuseppe Ungaretti

et II s’étonne qu’on puisse les considérer comme des


actions extraordinaires et dignes d’admiration.
Successeur du regretté Jacques Rivière à la direction
de la « Nouvelle Revue Frangaise », il sut maintenir
à la revue, non seulement le prestige déjà acquis, mais,
tout en respectant scrupuleusement la liberté de cha-
cun, il sut y ajouter sa curiosité attentive des choses
en train de se former et son inclination à les ache-
miner vers une harmonie supérieure. Chaque semaine,
il réunissait ses collaborateurs, savait les écouter. Il
lisait avec soin tous les manuscrits, réfléchissait long-
temps et décidait. Et de cette revue qui prit tant d’ini-
tiatives, qui donna une impulsion si variée et si fe¬
conde à la littérature frangaise de plus de quatre
lustres, qui suscita tant de problèmes, qui éclaira tant
de points, il écarta le moindre signe pouvant suggérer
qu’il en était l’animateur exceptionnel.
Avec Jean Paulhan, avec Bernard Groethuysen,
Henry Church et Henri Michaux j’eus à diriger dans
ces mèmes années d’avant 1940, « Mesures ». Nous
présentions des textes de poésie et de doctrine esthé-
tique de tous temps et de tous pays, espérant aider
les hommes à se mieux comprendre par la connaissan-
ce des documents les plus humains. Je peux dire que
collaborer avec Paulhan dans une entreprise tournée
vers les choses de l’esprit est une chance unique.
Ayant en main des organes de diffusion aussi puis-
sants que la « Nouvelle Revue Frangaise » et « Mesu¬
res », on pourrait s’étonner que l’ceuvre d’écrivain de
Paulhan commence à peine à ètre connue d’un public
nombreux. C’est précisément parce que Paulhan ne
voulut jamais qu’on en fisse la moindre allusion dans
ces revues.
Et cependant, il s’agissait de merveilleuses traduc-
tions des Hain-Teny Merinas qui lui avaient demandé
l’étude d’une langue lointaine, un long séjour à Ma¬
dagascar et une rare habileté dans l’emploi de l’instru-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 647

ment poétique. Ces traductions étaient accompagnées


d’un essai d’importance capitale sur les rapports qu’on
peut établir, en les basant sur des données de logique
et de fait, entre la poésie populaire et la poesie sa-
vante. En effet, l’essai démontrait avec précision
qu’une certame obscurité où s’enferme le noyau poé¬
tique, se retrouve aussi bien dans la poésie naive que
dans la poésie d’école. Cette découverte réduisait à
néant beaucoup de déductions très ancrées de la cri-
tique.
Et cependant les récits poétiques: Le guerrier appli-
qué, La guérison sevère, Aytré qui perd l’habitude,
Le pont traversò, etc. que Paulhan publiait au fur et
à mesure des années, en petits volumes précieux desti-
nés plutót aux amis qu’aux acheteurs, appartenaient,
par la nouveauté des cas psychologiques proposés et
la conduite des recherches, par la gràce inattendue des
images, par la pureté d’une langue strictement limi-
tèe à l’essentiel, — ces récits faisaient partie des quel-
ques ceuvres littéraires de qualité de ces vingt ans.
Les discussions s’élevèrent très vivaces à propos de
la publication récente des Fleurs de Tarbes. Ce tra-
vail a couté à Paulhan de long efforts, c’est un des
deux ou trois ouvrages sur l’esthétique qui donnera
un sens à notre temps. A travers la contradiction des
critiques, l’esprit fallacieux des théories linguistiques,
la précarité des réformes expressives, on y trouve
exposée la crise, terrible mème dans le domaine des
arts, où se sont agitées les. générations qui ont vécu
du Romantisme à aujourd’hui. A chaque difficulté sur-
montée, une étape était franchie, une preuve était
acquise que de plus en plus s’imposait l’application
commune de quelques règles d’une rhétorique élémen-
taire, comme celle, par exemple, que dictait dans son
exil parisien, Brunetto Latini et dont Paulhan donne,
en conclusion de son livre, des extraits. Tant de pei-
nes de plus d’un siècle arrivaient enfin à atteindre
648 Giuseppe Ungaretti

la' simple vérité. Paulhan la cerne dans sa Clef de


la Poésie et Saint Augustin l’avait illustrée par ces
mots lumineux, {De Trin. XV, 19): « Quisquis igitur
potest intelligere verbum, non solum antequam so-
net, verum etiam antequam sonorum ejus imagines
cogitatione volvantur: hoc enim est quod ad nullam
pertinet linguam, earum scilicet quae linguae appellan-
tur gentium, quarum nostra latina est: quisquis in-
quarn hoc intelligere potest, jam potest videre per
hoc speculum aliquam verbi iilius similitudinem, de
quo dictum est: in principio erat verbum et verbum
erat apud Deum, et Deus erat verbum ».
ST.-JOHN PERSE
STORIA D’UNA TRADUZIONE
[1950]

Fu nel 1930 che mi dedicai alla traduzione di Anabasi


di St.-John Perse, ed essa potè uscire nel secondo ed
ultimo numero'’ di « Fronte », nel 1931. « Fronte » era
una rivista messa insieme da Scipione, un giovane pit¬
tore scomparso purtroppo in quegli anni, forse il no¬
stro maggiore pittore moderno. Ricordo quella rivista
perché segna per noi un momento notevole: nelle sue
pagine, artisti e scrittori italiani di varie generazioni
avevamo trovato un punto di accordo nelle nostre ri¬
cerche d’espressione poetica. Il testo di Anabasi di¬
venutoci per la mia traduzione familiare, era una con¬
ferma sorprendente delle persuasioni che ci avevano
portato ad incontrarci.
Fu nostra sorpresa specialmente, l’accorgerci di quan¬
to in quell’opera l’« indefinito » di cui già il Feopardi
parlava come d’una delle prerogative principali del vo¬
cabolo reso lirico, del vocabolo dilatato cioè dall’i¬
spirazione oltre ogni concetto di limite, provenisse
dalla precisione verbale suggerita dagli oggetti e dal¬
l’isolamento imposto così a ciascuno di essi, tale da
farlo salire a funzioni di archetipo.
In presenza dell’oggetto evocato dalla poesia, si re¬
sta dunque sorpresi e assorti come davanti a un mira¬
colo, e come per un compiuto sapere improvvisamen¬
te illuminatosi nella nostra mente?
Nella lettera famosa ad Archibald Mac Feish 1 do¬
ve dà, quando non erano ancora noti di lui che Eloges
e Anabasi, alcune indicazioni sopra la sua poesia, St.-
John Perse ci parla A’urìEsther che ebbe una volta
invito ad ascoltare in un isolotto della Polinesia. Al-
650 Giuseppe Ungaretti

cune bambine tonga che non capivano un ette della


lingua nella quale erano state scelte a recitare, ave¬
vano imparato quel testo, in una settimana di pazienti
ripetizioni per bocca d’una vecchissima monaca fran¬
cese, come un testo sacro. Mai Racine sembrò meno
tradito a Perse, e mai capito meglio il miracolo della
lingua francese, « il cui potere spesso è oscurato dal
suo genio per le analisi precise ».2
È questa la chiave della poesia di Perse? E provo
ora il disagio d’avere adoperato un vocabolo come
« indefinito », un vocabolo nel quale il Leopardi, per
dissimulare il profondissimo sentimento del sacro che
Laminava, ostentava quel tanto di « forza » volter¬
riana di spirito che s’illudeva di possedere.
Forse « mistero » è vocabolo che meglio s’addice
alla poesia.
Certo, la poesia vera si presenta innanzi tutto a
noi nella sua segretezza. Più riusciamo a trasferire la
nostra emozione e la novità delle nostre visioni nei
vocaboli e più essi riescono a velarsi d’una musica che
sarà la prima rivelazione della loro profondità poeti¬
ca, oltre ogni limite di significato.
Che il preliminare modo di sentire la poesia e il
solo che ne possa provare l’autenticità sia tale, lo di¬
mostra l’unica attenzione che essa può muovere nelle
anime semplici, nelle anime che godono oggi ancora
del privilegio di non essere se non minimamente cor¬
rotte dalla falsa cultura. D’altro lato, la poesia popo¬
lare più pura è quella a cui, nelle incantevoli arie, il
lungo uso delle generazioni sia giunto a celare, mante¬
nendone tuttavia vivo il sospetto, trasparenze abis¬
sali.
Che Perse arrivi nella sua poesia all’iniziale neces¬
sario effetto di mistero, anche per il valore che in
essa assume l’alessandrino riportato alla sua origina¬
ria potenza ritmica, è problema tecnico che merita
d’essere esaminato, quantunque gli schemi metrici e
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 651

qualsiasi problema tecnico non possano avere nell’e¬


spressione poetica se non un subordinato valore.
Di più vale a nostro avviso, quello spazio stermi¬
nato che già in Anabasi i vocaboli ricoprono graduan¬
done il fuoco. Può avere, quel luogo sulla terra, que¬
sto o quel nome, e lungo il viaggio un innumerevole
succedersi di nomi; ma che importa, poiché esso è il
luogo epico dove l’uomo è simultaneamente indigeno
e straniero, e possiede la precipua condizione della vi¬
ta leggendaria, quella di essere avvolto di solitudine
e simultaneamente quello di essere legato alla sorte
di tutto: individui di ogni sorta dell’umano genere,
suoi simili; o un insetto straordinario; o l’ossessione
di un minerale; o il colore del vento...
Exil, a tredici anni da Anabasi se non erro, e poi
Poème à l’étrangère, Neiges, Pluies, Vents vennero in
mezzo alla tragedia della guerra a proseguire il rac¬
conto della favola d’una vita. Erano nuove stanze d’un
medesimo canto che così sviluppandosi s’alzava, con
collera, con malinconia, con speranza, sino a diventare
un monumento sublime delle passioni dei tempi no¬
stri.
È un canto che testimonia con una consapevolezza
morale rigorosa e gelosissima di sé, come la poesia
recuperi l’uomo, anche quando, per l’aggravarsi delle
sciagure, sembri palese nettamente e solennemente che
la natura domini la ragione.3
È un canto che arricchisce così esteso, di altri risul¬
tati fruttuosissimi la testimonianza che già mi colpi¬
va traducendo Anabasi nel 1930.
L’« indefinito », o lo si chiami « musica », o me¬
glio « mistero », che nella poesia è in quell’involon-
taria attrazione di radici che porta i vocaboli a le¬
garsi insieme come al di là del loro significato, che è
anche nella distanza di luogo o temporale data agli
oggetti e tale da portarli ad essere scorti in una piana
d’oblio, ad essere spogliati persino del proprio nome,
652 Giuseppe Ungaretti

a divenire senza più pazienza solleciti dei sogni - non


è « indefinito », « musica », « mistero », non è poesia
se gli oggetti, dal fondo degli» spazi o dalla notte dei
tempi, non siano in grado di ritrovare d’improvviso
il proprio nome e di soverchiarci, e di abbagliarci e
di spaventarci con la bellezza della loro presenza che
allora si abbatte su di noi, precisa, ma fuori d’ogni mi¬
sura, togliendoci il respiro e ogni possibilità, alla stes¬
sa nostra e a ogni altra presenza, di sussistere.
Anche gli oggetti che ci sono più famigliari, quelli
di cui non ci accorgiamo nemmeno più tanto si sono
accomunati ai nostri casi, possono allo stesso modo
prepotente e invadente e esclusivo fare ritrovare ai
nostri orecchi la singolarità del loro nome, se appena
un raggio di poesia possa farli uscire dal cerchio delle
abitudini.
La poesia si manifesta dunque, ci conferma l’opera
di Perse, quando negli oggetti ogni memoria sembra
abolirsi e vi rifluisca di colpo, come per miracolo;
quando cioè il vocabolo è reso atto a passare di con¬
tinuo dal distacco del sogno all’infinito dei grovigli e
degli impegni della memoria.
MAGISTERO DI PIERRE JEAN JOUVE
r19571

Il magistero di Pierre Jean Jouve è nel suo lungo ap¬


passionarsi a farsi testimone in romanzi e canti del¬
l’oscuro che non è mai di vocaboli, ma dell’essere e
del vivere. I vocaboli ci paiono oscuri - ma realmen¬
te ci illuminano - solo quando nel segreto dell’essere
e del. vivere s’affondano, riflettendolo poi miticamente
se giungono a esprimere ciò che diciamo poesia. Che
il vocabolo abbia percorso labirinti smarrendovisi,
traendosene a volte in salvo, occorre si senta, e oc¬
corre si veda che a scrutarli, i labirinti, ha, recupe¬
rando a barlumi memoria, perso l’ordinaria vista; se
no, è vocabolo falso, vuoto vocabolo, vocabolo senza
realtà, vocabolo che non riesce a farsi parola.
« Non dipende la mia poesia dalla mia infanzia » ci
avverte' « e non mi posso pensare se non adulto. »
Altrove: « Se vi pare, l’Arte non è per me legata al¬
l’origine locale: è faccenda di sangue, d’eredità ». Op¬
pure: « Trovare nell’atto poetico una prospettiva reli¬
giosa - unica risposta al nulla che è il tempo ».
Una poesia dunque radicata in una civiltà adulta,
troppo adulta, che, per meditazioni più che per illu¬
minazioni, non può tentare di ritrovarsi se non me¬
diante il ricorso tenace a relazioni con le origini o,
dicendo meglio, con il principio. La causa, non l’in¬
fanzia e, in romanzi e in canti, la poesia di Jouve non
potrà avere altro tema se non l’amore, come - ci sug¬
gerisce — nel Don Giovanni, Mozart, come nel Woz-
zeck, Berg. L’amore si converte in morte spaccato dal
peccato, l’unità umana per libidine si mutilò, si scis¬
se, frantumata va sbriciolandosi nel succedersi delle
654 Giuseppe Ungaretti

generazioni lasciando in eredità al sangue, stratifica¬


zioni di buio, facendo il buio umano sempre più pe¬
sto. »
Come, a simiglianza di sogni se visitano il sonno,
possano affiorare su quella notte fonda vocaboli, co¬
me divengano parole di poesia se uno indovina e scor¬
ge in essi la propria lunga responsabilità umana e i
connotati veri della propria persona imparando a dare
uno scopo al proprio drammatico vivere insieme agli
altri: ecco la lezione di Jouve.
È un’opera sorta come sotto il segno di Niobe.
Non c’erano per Niobe che il figliare e catastrofi,
sino dal principio, ma, mescolato alla vicenda anche
quando per il troppo durare l’anima pareva essersi
fatta di roccia, mai non era assente « il mattino che
ode l’allodola cantare, Iddio non avendo voluto fosse
senza aurora ».
ANDRE BRETON
[1967]

Verso la fine del 1918, l’avanguardia in Francia po¬


teva sbandierare il nome già glorioso di Guillaume
Apollinaire, quelli dei suoi amici Max Jacob e André
Salmon, e, in disparte, volto a seguitare una sua pro¬
pria strada, quello di Cendrars. Le cosiddette petites
revues che si facevano allora e che s’ingegnavano, nel
senso indicato dalle ricerche di poesia di Apollinaire,
a contribuire al rinnovamento letterario, erano « Sic »
di Birot e « Nord-Sud » alla quale collaborava Reverdy,
che sarebbe stato poi uno dei pochissimi nomi di poe¬
ti rivelatisi in quegli anni, da ricordare.
Tornavo alla fine del ’18 a Parigi dalla zona della
Montagna di Reims dove stavano per combattersi le
ultime battaglie, chiamatovi a collaborare alla reda¬
zione d’un giornale destinato alle nostre truppe di¬
staccate sul fronte francese. Il giorno dell’armistizio
fu l’indomani, o un giorno successivo, e avevo deciso
di portare ad Apollinaire quel giorno i sigari toscani
che mi aveva chiesto. Per le strade, e sotto le finestre
di Apollinaire, in Saint-Germain-des-Prés, la gente sca¬
tenata gridava, scandendo le sillabe: « A mort Guil¬
laume », alludendo naturalmente al Kaiser.
Arrivato in casa di Apollinaire, le donne desolate,
la moglie e la madre, m’introdussero nella sua came¬
ra, era disteso sul letto, il viso era coperto da un pan¬
no nero perché già si corrompeva, il pacchetto di si¬
gari mi cadde dalle mani, giù gridavano sempre: « A
mort Guillaume ». Anche Apollinaire si chiamava
Guillaume e l’equivoco del grido era atrocissimo. A
capo al letto c’era attaccato il dipinto che poche set-
656 Giuseppe Ungaretti

timane prima gli aveva dato, per regalo di nozze, Pi¬


casso. r
Apollinaire era morto. Non era morta la sua poesia.
Ma la poesia, le ricerche d’avanguardia dovevano pren¬
dere un corso diverso. Durante la guerra, verso la fi¬
ne, terminata di stampare il 30 aprile 1917, vedeva la
luce la Jeune Parque, ristampata poi nel 1921 nella
collezione « Une oeuvre et un portrait » con un ri¬
tratto dell’autore in litografia di Picasso. D’altra par¬
te, durante il lungo silenzio di Valéry, la Soirée avec
M. Teste, dal 1896, data nella quale ne apparvero i
frammenti, ripubblicati poi nella rivista « Vers et
Prose » di Paul Fort e Mercereau, non aveva cessato
di balenare allo spirito dei rari che presagivano una
nuova prosa che fosse insieme narrazione e solilo¬
quio profondo, rispecchiando la situazione dell’uomo
d’oggi e l’animo inseguito della persona che nello
scritto suo tentasse di vedersi dentro, e di definirsi in
parola di poesia, nel suo variare.
Tutto questo preambolo ha un suo motivo: volevo
asserire che per Breton, nei primi suoi incontri, in
quegli incontri verso i quali era attratto direi per vo¬
cazione, il nome di Valéry ha un posto privilegiato.
Lo so, presto getterà a mare Valéry, non la Soirée avec
M. Teste, ma l’uomo della serie dei Teste, ma l’uomo
che gli sembrava non fosse più quello del silenzio e
della solitudine, ma invece com’era diventato, un mon¬
dano cui non era più indifferente essere sollecitato e
solleticato dalle soddisfazioni frivole.
Era tanta l’ammirazione del primo Breton per Va¬
léry che al suo primo sposalizio lo volle suo testimo¬
nio. E sempre, nella sua arte, e nel suo comportamen¬
to, Monsieur Teste rimase, credo, anzi ne sono certo,
uno dei suoi modelli non respinto mai. Al ritratto di
Breton, alcune linee decisive sono anticipate da quello
di Teste. Breton era un uomo malinconico, ma super¬
bo al punto di non svelare volontariamente mai la
Saggi e Scritti vari 1943-1970 657

sua malinconia nemmeno a se stesso, un uomo onesto


fino all’assurdo, un uomo fedele alle sue convinzioni
sino agli scatti d’ira - Teste invece li reprimeva o li
dissimulava — e sino all’intolleranza, un amante della
perfezione della scrittura fino all’idolatria, un inquie¬
to del mistero fino a farsene tortura e giuoco. A Teste
il mistero non importava affatto, o l’avrebbe negato.
Le sue predilezioni, dopo l’incontro con Freud, di
cui più in là avremo da discorrere, saranno, nel cam¬
po poetico, Lautréamont e Saint-Pol-Roux per l’asso¬
lutezza dell’immagine. Lautréamont anche per il con¬
trasto derivato nell’espressione poetica, dall’allusione
al tragico della realtà che racchiude in sé l’immagine
e che Poésies, pubblicate da Lautréamont con il suo
vero nome di Ducasse, avrebbero perentoriamente se¬
gnalato a chi avesse voluto correttamente interpretare
Les chants de Maldoror.
In quegli anni, ’19, ’20, ’21, strinsi amicizia con
Breton. Non so come avvenne. Abitava allora l’Hó-
tel des Grands Hommes, un albergo per studenti in
Place du Panthéon. Lo incontravo quasi ogni giorno
nella sua cameretta, e un giorno ve lo incontrai che
tentava di mettere insieme dei pezzettini di carta, e
tutt’intorno c’era una grande confusione. Un’amica
gelosa gli aveva, nella sua rabbia, strappato i disegni
di Modigliani che, fissati accuratamente con chiodini
alle pareti, gli avevano per tanto tempo tenuto com¬
pagnia. Ecco un’altra delle sue passioni, oltre all’amo¬
re della scrittura, l’amore per le arti figurative. Ci en¬
trò dentro fino al collo, dette loro un nuovo sostegno
teorico, e certo la corrente delle arti figurative, della
quale fu sprone, guida e illustratore, è forse, e senza
forse, tra le due guerre, la corrente più energica e
quella che lascia il numero maggiore di opere valide.
In quegli anni, da Breton, alleatosi con Aragon e
con Soupault, venne fondata « Littérature », e fù la
prima petite revue, dopo la morte di Apollinaire, che
658 Giuseppe Ungaretti

apparve avendo il significato che s’usa dare al voca¬


bolo avanguardia, vocabolo in se stesso, nel caso delle
arti, sempre sciocco e trovato male, e peggio che mai
cadrebbe in acconcio del caso che ci riguarda.
Un bel giorno fra i giovani redattori di « Littéra-
ture » capitò Tristan Tzara, anche lui allora molto gio¬
vane, e vi portò i principi di negazione che aveva af¬
fermati a Zurigo durante la guerra, fondando Dada
insieme a un gruppo di poeti e artisti suoi coetanei.
« Littérature » rimase una rivista dove la preoccu¬
pazione di scrivere bene permaneva, ma divenne in¬
sieme l’organo di Dada, e negò ogni importanza al¬
l’arte, e ogni ordine costituito considerò reo e assur¬
do, e si propose in particolare, e da parte di Breton e
di Aragon poteva sembrare un paradosso, di discredi¬
tare l’arte e di scoraggiare dall’arte. Sono note le mani¬
festazioni Dada, manifestazioni clamorose, alle quali
oggi, nel campo delle lettere e delle arti, qualcuno, nel
nostro dopoguerra, torna in Europa o nelle Americhe
a ispirarsi e a chiedere consiglio.
Un giorno ci fu la scissura con Tristan Tzara, e
nacque il Surrealismo. Il Surrealismo non dimentica¬
va di dichiararsi insofferente di quanto si conformava
alla Società d’oggi; ma si rese conto che della nega¬
zione, non poteva l’espressione poetica farsi l’unico
proprio motivo d’essere. L’atteggiamento in sé para¬
dossale di Breton dadaista si scioglieva e, senza negare
l’apporto di Dada, la necessità della negazione dive¬
niva dialettica, e rendeva positive le ricerche e le solu¬
zioni del Surrealismo.
La pittura metafisica di De Chirico, i quadri che di¬
pinse De Chirico nei pochi anni che precedettero la
prima guerra mondiale, durante la sua prima perma¬
nenza a Parigi, divennero allora per Breton un model¬
lo da studiare, da interpretare, un oggetto di contem¬
plazione e di meditazione, una fonte segreta di poesia
ininterrompibile. Nel medesimo tempo, Breton s’infa-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 659

tuava di Freud. Non so se nei quadri antichi di De


Chirico sia, senza che De Chirico lo sapesse, presente
per davvero Freud, non so se essi siano nati da un im¬
pulso sessuale ripulso nell’inconscio e portato a dichia¬
rarsi nella sublimazione del sogno; ma so che da tale
convinzione nacquero Le Surréalisme et la peinture,
Nadja, L’Amour fou, tanta poesia.
Nacquero anche le sedute sperimentali dette della
scrittura automatica nelle quali Desnos, che conobbi
ancora sbarbatello, e fui io a presentarlo a Breton, si
manifestò medium senza rivali e poeta nello stato di
trance d’immagini strabilianti. La scrittura automatica
si proponeva di mettere a contatto diretto uno stato
dell’inconscio con il sogno liberatore e sublimatore
nella parola poetica, prima d’ogni contaminante inter¬
vento riflessivo.
Tutto questo si rammenta, per mostrare, e non ve
ne sarebbe affatto bisogno, quanta importanza fosse
data da Breton all’autenticità espressiva.
Vorrei ora mi si permettesse di evocare alcuni miei
fatti personali.
Una volta che mi trovavo, molti anni fa, a Parigi,
a compiervi una delle mie solite visite, incontrai, co¬
me usavo fare, Antonin Artaud. Breton aveva pubbli¬
cato un manifesto contro Artaud, reprobo ai suoi oc¬
chi in seguito a non so più quale misfatto, e Artaud,
che non era uomo di rancori, ma generoso, solo ricco
di slanci di sentimento e di furiosa fantasia, mi chiese
d’incontrarlo con me. Andammo dunque, a visitarlo a
casa sua, quella notte. Breton era circondato dagli ami¬
ci e fummo accolti da improperi, e non mancavano, a
incitare gli urlatori a non smettere, strilli femminili
assordanti. Fummo giudicati l’uno e l’altro rosi da una
lebbra di colpe, e ci rassegnammo a scappare.
Non cessò quel giorno la mia amicizia con Breton.
Continuammo a scambiarci i nostri libri. Continuò a
scrivermi, e, di recente, poco prima della morte, met-
660 Giuseppe Ungaretti

tendo insieme per un libro tascabile, uscito l’anno


scorso presso Gallimard con il titolo già usato da lui
di Clair de Terre, le sue poesie, eliminandone diverse
dedicate, quella scritta per me lasciò com’era, con la
sua dedica. In quella parte francese dell’Allegria, pub¬
blicata da Vallecchi nel 1919, dove sono incluse poesie
scritte nel 1918 e nel 1919, una, intitolata Perfections
du noir, era da me offerta a André Breton. Nel Clair
de Terre, la raccolta che recava questo titolo nel 1923,
Breton rispose offrendomi Cartes sur les dunes, dove
riprendeva con gentilezza e squisitezza d’intenzioni e
d’immagini la mia ispirazione d’uomo nato in una cit¬
tà di mare dell’Africa settentrionale confinante col de¬
serto.
André Breton, amico mio, ricorderò sempre con ri¬
spetto la tua volontà inflessibile, la tua esigenza mo¬
rale che non tollerava il dubbio, il tuo ritenerti, forse
con eccesso d’orgoglio, il detentore unico delle leggi
della verità, come se sulla terra avesse il diritto d’e¬
sistere una giustizia infallibile. In direzioni fondamen¬
tali hai impresso una svolta nuova alle arti. Forse sei
stato il rinnovatore e l’animatore delle arti più riso¬
luto e più singolare degli ultimi cinquant’anni. La tua
prosa è di tale perfezione di struttura e di tale qua¬
lità poetica che sarà sempre molto diffìcile arrivare a
uguagliarne il valore. Rimarrai nel nostro ricordo co¬
me l’uomo che ha tentato di raggiungere in ogni suo
atto espressivo vette sublimi, e sapevi bene che un
simile amore esclude che non si abbia orrore e odio
per quanto sembri possa incepparne gli slanci.
Non c’è atto della tua vita, sebbene ti dimostravi
intollerante, che non sia stato dettato da un furioso
proposito di liberare il sentimento e la fantasia. Sal¬
vo la poesia, nulla poteva esserci in anni come i no¬
stri che non ti offendesse, che non facesse di te il pe¬
renne offeso, sempre pronto ad afferrare la frusta e
colpire o a esaltare.
LA RIVISTA « COMMERCE »
[1958]

Nell’estate del 1924 fu fondata una rassegna letteraria


internazionale che sarebbe poi uscita a Parigi al prin¬
cipio d’ogni stagione e che rimarrà per sempre, e non
solo in Francia, un modello di gusto. Ne erano con¬
sulenti per la scelta degli scritti: Paul Valéry, Léon-
Paul Fargue e Valéry Larbaud e Bernard Groethuy-
sen, Jean Paulhan e Saint-John Perse. Le fu dato il
nome di « Commerce », intendendo dire così che avreb¬
be favorito assidui rapporti fra le personalità più nuo¬
ve, anche se alcune già celebri, della letteratura di
quel momento.
Ne era animatrice una Signora, Marguerite Caetani,
venuta da noi dagli Stati Uniti a recare l’entusiasmo
della sua giovane Patria, e tuttora so che alla causa
delle lettere sarà difficile dedicare un fervore d’intelli¬
genza e di cuore che uguagli il suo.
L’ultimo numero della rassegna è dell’inverno 1932.
Durò dunque otto anni, e se torno a sfogliarla non vi
ritrovo che voci che, nella misura umanamente possi¬
bile, hanno tolto i limiti al tempo, anche se di molte
il corpo terreno delle persone che dettero a quelle vo¬
ci vita, corpo che allora era nella pienezza degli anni,
è morto.
« Commerce » è di certo l’antologia internazionale
meglio portata a compimento della letteratura del pri¬
mo cinquantennio del Novecento.
Qui Pasternak si vide pubblicato nel 1925, ed era
la prima volta che la sua poesia appariva in una lin¬
gua occidentale. Cito il nome di Pasternak non solo
per rendergli onore in questo suo momento difficile,
662 Giuseppe Ungaretti

ma soprattutto per indicare subito un caso di scoperta


da parte di « Commerce ».
Un miracolo compiuto da <t Commerce » fu quello
di costringere al lavoro Léon-Paul Fargue. Si troverà
una cosa sua in quasi ogni quaderno della rassegna.
In Italia pochi sanno di Fargue. E nella stessa Francia
quanti sono oggi a ricordarlo? Era un prodigioso in¬
ventore di linguaggio, prodigioso quanto Joyce, forse,
sebbene in tutt’altra linea di ricerche. Straziava, ma
con mano leggera, i vocaboli, e gli piaceva vederli poi
cristallizzarsi in parole malinconiche nelle loro iride¬
scenze. Quando parla d’infanzia la sua tenerezza vi le¬
va il fiato. Parigi, come, nella sua infinitamente varia
favola e favella, andò sviluppandosi dall’Ottocento al¬
la seconda guerra mondiale, ci serba in quella poesia
un suo ritratto d’anima d’una fedeltà unica, d’anima
ingenua di borghi gelosi del loro fermentare fantasti¬
co, e anima di cosmopoli solita a mettere alla prova
del fuoco, attraverso i contagi, intellettuali più diversi,
un’impeccabile costanza di stile.
Si esigeva in « Commerce » rigore di forma da parte
di chi era chiamato a collaborarvi, e anche da parte
di chi traduceva, e Eliot vi fu tradotto da Perse, e il
Woyzeck di Georg Bùchner da Jeanne Bucher, Groet-
huysen e Paulhan, Lorca da Supervielle, Thomas Har¬
dy e frammenti dei Marginalia di Poe da Valéry,
Kierkegaard da Jean Gateau, Barilli, Bacchelli, Cec-
chi, Alfonso Reyes, Joyce, e tanti altri da Valéry
Larbaud, Cardarelli da Joseph Baruzi, Crémieux vi
tradusse alcuni Canti di Leopardi ed io, e fu la loro
prima traduzione fuori d’Italia, alcuni pensieri dello
Zibaldone, Paulhan vi tradusse due testi straordinari
di Nietzsche, la Conferenza del 18 gennaio 1870 sul
dramma musicale greco e il testo su Socrate e la tra¬
gedia, Groethuysen vi presentò frammenti di Cardano
e alcune narrazioni di missionari gesuiti in Cina, Si¬
nica. Dalle pagine di « Commerce » si diffuse la cono-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 663

scenza di Kafka, e quella della scuola buddista Zen


della quale si fa oggi un gran parlare, e quella di
Faulkner, e quella di Virginia Woolf, ecc. Vi fu an¬
che tradotto Puskin da Gide e da Schiffrin, e presen¬
tato da Mirsky.
« Commerce » teneva alla forma, ma dai nomi e dai
testi che ho già citato, a tutti sarà agevole ora pensa¬
re come intendesse anche poggiare su una tradizio¬
ne, il rinnovarsi nel contenuto delle opere di quel mo¬
mento delle quali si sforzava di presentare i risultati
più persuasivi. Valéry Larbaud con la sua grazia, la
sua curiosità non estranea a nulla che fosse umano,
idiomi o paesi o secoli, con la sua profondità dissimu¬
lata fu l’uomo che più spesso cercò di mettere in va¬
lore e in moto nella rassegna tale ricerca di tradizio¬
ni. Ora si soffermava, parlandovi di Nathaniel Haw-
thorne, sulle funzioni vive dell’erudizione e sulla for¬
tuna degli scrittori americani di lingua inglese nel¬
l’Europa dello scorso secolo, ora vi parlava del Baroc¬
co erotico di Marino, Villegas e Scève, ora, sempre
rincorrendo il Barocco, dai suoi primi sintomi agli
aspetti suoi più scoperti, di Antoine Héroét e di René
Francois. Di tante altre cose vi, parlava, della Spagna,
del Sudamerica o del Portogallo, o si soffermava a
parlarvi di Recanati, o di Padova o del Caffè Marche¬
si, o d’altro visto viaggiando con la mente o di per¬
sona.
Ad appoggiare le indagini di Larbaud, c’erano Groet-
huysen e Paulhan, e ciascuno dei tre in senso diver¬
so, secondo la propria libertà di spirito. Il rispetto
per la libertà d’espressione era in « Commerce », è
naturale, sacro, e Groethuysen, che faceva parte del
comitato che preparava per l’URSS l’edizione delle
opere di Marx e di quelle di Engels, ma che faceva,
fino all’avvento di Hitler, quando abbandonò la sua
cattedra di Berlino, anche parte del comitato che, per
conto dell’Accademia prussiana, curava l’edizione del-
664 Giuseppe Ungaretti

le .opere di Leibniz - Groethuysen poteva in « Com¬


merce », in tutte le sue sfumature osservare in un suo
saggio il pensiero di Sant’Agqstino, o tradurre e pre¬
sentare brani di Mastro Eckart, o, nel tradurne poe¬
sie, scrivere un saggio sulla pazzia di Hoelderlin. Po¬
teva sperare in una società più felice, ciò che non gl’im-
pediva di ammettere e di studiare nel corso della sto¬
ria, la singolarità d’una società o d’un uomo, e di sen¬
tire nella varietà umana il prodigioso formarsi del¬
l’uomo.
Paulhan ha la civetteria di chiamarsi un grammati¬
co. È logico nei suoi scritti sino alla disperazione, ma
come sa tenersi stretto allo spirito seguendone gli sva¬
riati passi, come ne indovina e ne gradua le titubanze
e gli errori, e come ne sorprende l’improvviso fugace
illuminarsi. Ci sono in « Commerce » due suoi sag¬
gi: Sopra un difetto del pensiero critico e Sopra una
poesia oscura, e vi sono alcune sue prose narrative. È
il prosatore più spoglio, più acuto e più preciso d’og¬
gi, ed è insieme uno psicologo che sa in un’immagine
inaspettata cogliere a volo un segreto d’anima. In
« Commerce » fece anche altro. Attento alle avven¬
ture dell’espressione, vi dimostrò, con audacia senza
mai ingannarsi, come gli riesca di vedere, anche in
opere d’ignoti, in anticipo avviata una trasformazione
di spiriti e di modi. A lui si deve la pubblicazione in
« Commerce » dell ’lntroduction au discours sur le peu
de réalité e di Nadja di André Breton, e degli scritti
di Ponge, di Michaux, di Daumal, di Aragon, di Lim-
bour, di Jouhandeau, e del Fragment d’un journal
d’enfer di Artaud, ecc.
Fu « Commerce » a dare grande risalto alle opere
di Perse che è oggi uno dei poeti più seguiti in Fran¬
cia, e ammirato e seguito anche fuori di Francia.
In « Commerce » troverete i nomi di Max Elskamp
e di Rilke, quelli di Max Jacob, di Supervielle, di Mal-
raux, di Hellens e i nomi di Jammes, di Claudel e
Saggi e Scritti vari 1943-1970 665

di Gide, e il nome di Pierre-Jean Jouve, e « Commer¬


ce » pubblicò, prima che uscissero in volume, e sino
dal 1925, molte delle poesie che furono poi raccolte
nel mio Sentimento del Tempo.
In quasi ogni numero di « Commerce » non è man¬
cata, naturalmente, la collaborazione di Paul Valéry.
L’indico per ultima essendo in quanto al merito la pri¬
ma. A chiunque lo rilegga è ormai facile riconoscere
ch’egli fu una delle menti più lucide e il poeta per¬
fettissimo di quegli anni.
Ho mostrato, male purtroppo per la forzata fretta,
ciò che nelle lettere contemporanee rappresenta « Com¬
merce ». Per altre iniziative gli scrittori d’oggi hanno
doveri di forte gratitudine verso Marguerite Caetani,
ma per « Commerce », i pochi superstiti della vecchia
generazione, anche a nome dei loro numerosi compa¬
gni scomparsi, le dicono che il loro debito verso di
lei non ha misura.
« Commerce » ha dato alle diversità di un’epoca il
tono giusto, e un tono alto.

Parigi, il 19 novembre 1958


CAVAFY, ULTIMO ALESSANDRINO
[1957]

Da quanti anni mai avevo sognato un viaggio in Gre¬


cia? Da quanti, di respirare quella stess’aria che dette
vita ad alcune delle ispirazioni per le quali l’uomo è
degno del nome duomo? Ma il giramondo che pure
io sono, non ebbe la ventura di poterlo fare se non
l’altro giorno.1 Per un tempo breve, purtroppo, il
tempo di salire sull’Acropoli, di provare smarrimento
tra i pietrami di Micene. Fu per cortesia del Comi¬
tato del Festival d’Atene che volle presenti a recite
della Medea d’Euripide e dell 'Antigone di Sofocle,
uomini della politica, degli studi e delle lettere di
Francia, di Germania e d’Italia.
L’antica Grecia, certo, e ancora ne discorrerò stase¬
ra, ma anche la nuova ha legami in me. Sono nato, è
noto, in Alessandria d’Egitto dove comunità greche e
italiane hanno contratto l’uso di sentirsi legate più
che da interessi, dall’affetto. In Alessandria d’Egitto,
ero ancora quasi un ragazzo, il primo gruppo di let¬
terati cui m’accostai, miei coetanei, fu quel gruppo
del quale era organo la rivista « Grammata ». Sede¬
vamo tutte le sere insieme al caffè, e fra noi veniva
anche Costantino Cavafy, un poeta che oggi la critica
d’ogni dove annovera tra i quattro o cinque veri del
Ventesimo secolo. Cavafy aveva venticinque anni al¬
meno più del più vecchio di noi che non ne aveva
più di diciotto. Mi furono d’insegnamento inuguaglia-
bile le conversazioni con lui, per il quale non aveva
segreti la sua lingua nel trimillenario mutarsi e per¬
manere, né la nostra Alessandria, crogiuolo di civiltà,
dove s’erano scontrate e s’erano fuse l’Egiziana, già
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 667

avviata nella notte, la Greca, nel culmine delle ele¬


ganze della stanchezza, la Romana, spiegata a ricono¬
scersi nell’estate sul declino.
Rividi Cavafy nel 1932, durante l’ultima visita che
feci alla nostra città. Era già colpito dal male che l’a¬
vrebbe ucciso, e, stoicamente, per quella gentile forza
d’animo che non abbandona mai un vero poeta, volle
accompagnarmi nella ricognizione dei luoghi amati.
Non aveva più voce, il cancro strappato era tornato a
sonnecchiargli-nella gola, ed egli altro non continuava
ad avere, negli occhi e nei gesti, se non forme bellissi¬
me di luce.
Ho finalmente, l’altro giorno, potuto salutare Atene.
Come potevo non avere nell’animo presente Cavafy,
davanti a quella luce?
Nessuna terra del mondo ha luce più stupenda.
La Grecia c’è anche da noi, forse il suo primo gran¬
de splendore offerse corona alla sua luce da noi, a
Elea, e in quei luoghi che furono Elea a lungo più
d’una volta mi sono fermato, imparandovi che solo nel¬
la mente è immortalità, che la misura è il segno non
fallace del pensiero e che non potremmo percepirne
l’immortale trasalire se non quando in fattezze nostre
s’incarna.
E sono rimasti in piedi anche da noi, in Sicilia o a
Pesto, templi greci del secolo d’oro.
C’è altro, di più, in Atene. « La dismisura è da spe¬
gnersi più che l’incendio », diceva Eraclito, ma è essa
uno dei due elementi fatali della bellezza, e in Atene
l’ho imparato, dal Partenone, il cui peso quantunque
soverchio a tanta luce di misura è sottoposto che la lu¬
ce può muoverlo e dargli sulla roccia volo, all’Erecteion
dove arrivano le colonne al punto di perdere l’ultima
traccia di freddo rimasta alla violenza, alla violenza,
uno dei precipui attributi anche della ragione, alla vio¬
lenza della loro astrattezza tornando fanciulle palpi¬
tanti mentre recano in capo come nulla, come nulla,
668 Giuseppe Urigar etti

una schiacciante architrave di portico. Misura e dismi¬


sura, ecco, in presenza a noi si elidono, costituiscono
una bellezza che ci rinnova dalle origini, una bellezza
dove eterno e caduco non la smettono più di litigare
e di trovare la quiete, anche se ormai è bellezza di
rovine, e però di continuo più crudele, quella che na¬
sce di continuo dalla loro rissa e dalla loro concordia.
Solo nella luce d’Atene ho capito perché fosse asso¬
lutamente necessario che venisse espressa una poesia,
come quella della tragedia greca dove, senza reticenze
finalmente, misura e dismisura sono chiamate a muo¬
vere la vicenda universale del vivere umano e a rive¬
lare il segreto del nostro ragionare e delle nostre pas¬
sioni.
Ho finalmente visto come possa aprirsi una finestra
sull’aggrovigliato interno dell’uomo, come in quel ba¬
ratro si possa in qualche modo vero vedere. Ho visto
a Micene la furia disseppellirsi in quell’atro trullo di
un’altezza da capogiro, che dicono tomba del trucida¬
to figlio d’Atreo. Trafelante ho visto come l’uragano
si scateni, sprofondi, abolisca ogni umanità, ascoltando,
al Teatro d’Erode Attico, Medea, Medea che uccide le
creature che nelle sue viscere avevano preso forma,
per strappare da sé ogni legame con lo sposo che la
ripudia, e, di contro, il coro, oracolo, storia, popolo,
che si lamenta e dalla stessa empietà, dal terrore e
dall’orrore vede indicata la misura, la pietà.
Come i cori siano parte sostanziale della stessa fata¬
lità dell’azione, è uno degli effetti che agli spettacoli
dell’Erode Attico, il regista sapeva rendere evidenti
con maestria unica.
E che dire di Antigone? Che dire dei fratelli nemi¬
ci? Che dire della nimicizia che mai non si estinguerà
tra gli uomini, eppure fratelli, e che sarà continua ca¬
gione della loro sciagura fonte d’infinite sciagure? Di
contro a tanta dismisura, vale, certo vale la misura, la
pietà d’Antigone. Ma anche la pietà ha in sé dismisura,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 669

se non può evitare, anch’essa, sciagure. E la legge, che


è smisuratamente iniqua se è implacabile, che dire del¬
le leggi degli uomini che devono per non essere disu¬
mane fare dubitare sempre a chi le applichi che po¬
trebbe darsi esse non siano vere e giuste leggi?
Guidato dalla presenza immortale di Costantino Ca-
vafy, forse qualche cosa ho potuto capire della lezione
per sempre d’Atene.
LA PITTURA DI FAUTRIER
[I960]
9

Quando mi trovo davanti alla pittura di Fautrier, la


felicità - parlo di me, ma non mi pare possibile che
non sia così per chiunque - la felicità che s’impossessa
dei miei occhi è tale che certo non penso allora a ra¬
gioni, né a scuole, né ad altro che questa pittura possa
suggerire. Anche dopo, anche sempre, se essa mi tor¬
na in mente, è la suggestione prepotente di felicità che
è in essa che mi sorprende.
Che mi sorprende...
Prima di tutto questo miracolo compie Fautrier: tor¬
na a infondere all’opera d’arte una bellezza analoga a
quella che colpisce da oggetti della natura, o da mo¬
menti o fasi di fenomeni della natura. Non sono però
i suoi dipinti, imitazioni della natura, ma sono come
fossero vita vivente della natura, particolari casi nuo¬
vi, indimenticabili, della natura stessa.
Nella sua pittura, e non ve n’è una oggi più origina¬
le, nulla è estraneo della cultura pittorica, e riconoscia¬
molo subito, della cultura pittorica di tradizione fran¬
cese. Ma, per compiere il suo miracolo, come egli ab¬
bia distinto, e scelto, tra gli apporti d’una lunga e il¬
lustre sapienza artigianale, è il suo segreto. E nel se¬
greto, come farà egli stesso a sapere ciò che è dell’i¬
stinto, e'ciò che è della coscienza? E come farà a sapere
ciò che ha ereditato e ciò che conquista? A noi basterà
sapere che egli, che è in ordine di data il più anziano
degli Informali - se non vogliamo considerare anche
Klee un Informale - che egli è un Informale che non
si abbandona come un Pollock, o un Wols, o chi vor¬
rete, a un automatismo psichico, ma che ricorre a un
Saggi e Scritti vari 1943-1970 671

operare voluto. I risultati che ottiene, gli effetti che


raggiunge non sono frutto fortuito di espedienti mate¬
riali, o di sonnambulici dettati, ma di lucidità d’intel¬
letto.
Il suo miracolo è dunque in primo luogo un mira¬
colo di volontà e di straordinaria perizia controllata
d’occhi e di mano.
Ma ciò che questa pittura sorregge, ciò che essa su¬
blima tanto da toglierci il fiato, e non farci gridare al
miracolo, ma «ridurci al silenzio per contemplare e go¬
dere il miracolo - ora possiamo tentare di dichiararlo,
poiché arriva sempre il momento di cercare ragioni al¬
le cose.
Più agevolmente si può dichiararlo ora che davanti
agli occhi ci sta il lavoro di Palma Bucarelli dove la
ricerca delle ragioni è fatta consultando tutti i docu¬
menti rintracciabili oggi, raggruppandoli, ordinandoli
e confrontandoli con rigore di metodo e ogni scrupolo,
ottenendone alla fine un saggio critico dove fanno a
gara, avvalorati dall’eleganza della scrittura, acume e
precisione: un saggio critico esauriente e esemplare
come potrà giudicare chiunque vorrà, in questo stesso
volume, leggerlo con l’attenzione che merita.
Palma Bucarelli ha seguito questa pittura momento
per momento sino dal suo primo manifestarsi metten¬
done continuamente a fuoco gli sviluppi con le vicende
esistenziali alle quali può essa riferirsi.
Lo so, vi accennavo da principio, e Palma Bucarelli
me lo insegna: l’opera d’arte arriva all’altezza della
poesia quando sembra ch’essa abbia annientato in se
ogni segno di ricordo, ogni traccia di presenza che non
sia se stessa. Ma, appunto, le prove di tale vittoria
conseguita da Fautrier ha voluto darci con la sua mi¬
nuta indagine, Palma. E insieme, senza insistervi trop¬
po, con la delicatezza di tatto necessaria e che la di¬
stingue, farci sentire come dopo Van Gogh e quanto
Van Gogh, Fautrier riesca nella sua opera a toccare il
672 Giuseppe Ungaretti

vertice tragico, quell’assoluto annientante afferrato di


colpo una volta per sempre, e per raggiungere il qua¬
le non si giuoca la vita, ma, e per fatalità, la vita va
offerta in pasto.
Ho imparato molto dal saggio di Palma, e d’una mia
convinzione, e ragione ultima della pittura di Fautrier,
specialmente ho in esso trovato conferma: su ciò che
veramente ha ispirato questa pittura, su ciò che, come
dato esistenziale, più profondamente la giustifica.
Ciò che ha ispirato questa pittura, è ciò che ispira
la miglior arte d’oggi; ma ispira questa pittura con
intensità di coscienza inuguagliabile e in modo folgo¬
rante.
Se l’uomo si dilata, sino a abolire il proprio spazio,
le sue dimensioni, i propri connotati e lo spazio; sino
ad avere spavento del tempo e dei caratteri del tempo
incessantemente e innumerevolmente mutevole nei suoi
segni, e del perire; sino ad avere paura della memoria
da cui nascono di continuo strumenti, i sempre più
terribili mezzi che l’uomo e la sua memoria non san¬
no più dominare se non per esserne travolti - se in
giro c’è una dismisura da Apocalisse, come il pittore
(la pittura può, come ogni linguaggio, essere linguag¬
gio essenziale, linguaggio di poesia), come il pittore
ne troverà misura liberatrice nella sua arte? In un’ar¬
te cui toccherebbe di manifestarsi come se nelle sue
viscere avesse sondato l’universo, e dell’universo aves¬
se passato in rassegna, esaminandoli alla lente, in un
baleno gl’infiniti aspetti, e come se, di tale conoscenza
terrificante che l’anima, dovesse dare una sintesi non
disumana.
Una delle risposte più persuasive, nei limiti che a
un semplice mortale le possibilità umane consentono,
è quella che Fautrier ci propone nei suoi dipinti.
PEREGRINAZIONE CON UMBERTO SABA
[1957]

Quest’anno l’arte e insieme i miei affetti sono stati col¬


piti dalla morte con particolare durezza.
Troncate da essa amicizie che duravano da trenta
e quaranta anni, nel medesimo tempo scomparsi arti¬
sti che sapevano portare l’espressione all’altezza della
verità.
Ma la morte di Umberto' Saba non solo mi lascia
sgomento come sempre tutti la morte, non solo ini dà
amarezza, è morte che mi fa sentire vasto già tropp'o in
me quel deserto che s’apre e s’allarga in chi soprav¬
viva da vecchio.
Fu nel 1913 a Parigi, e uno che veniva da Firenze
mi disse nel vedere che m’accaloravo discorrendo d’un
libro, che somigliavo, per gli argomenti cui ricorrevo
e il modo di presentarli, a un suo amico poeta, é non
disse Saba, ma un altro nome, e capii subito che si
trattava di Umberto Saba che ancora non conoscevo
di persona, ma del quale avevo letto poesie sulla « Vo¬
ce », se ricordo bene, e, certamente, Coi miei occhi,
uscito l’anno prima.
Nel 1922 o nel 1923, ero di passaggio a Torino, e
Giacomo Debenedetti che faceva in quegli anni « Pri¬
mo Tempo » mi parlò di Saba con ammirazione tanto
convincente che m’avvicinai a Saba come al solo poeta
di quei momenti che mi potesse capire. Saba mi man¬
dò subito in dono da Trieste un quaderno che conte¬
neva le strofe ricopiate di sua mano del poemetto
L’uomo, e, più tardi, nel 1931, quando Preda ripub¬
blicò la mia Allegria, molto ritoccata dopo la pubbli¬
cazione del 1919 (o nel 1923, forse, quando riprenden-
674 Giuseppe Ungaretti

do 'il vecchio titolo della prima stampa in volume di


mie poesie, Il Porto Sepolto, Ettore Serra raccolse alla
Spezia, per primo in volume, 'quella parte di poesie
del Sentimento del Tempo cui già avevo dato forma,
ripubblicando unitamente L’Allegria in una stesura
non molto dissimile da quella dell’edizione Preda) (ma,
rileggendo il presente mio scritto, mi accorgo che nel¬
la Storia e cronistoria del Canzoniere, la data è da
Saba stesso posta verso il 1925) (conservo la registra¬
zione del succedersi delle mie titubanze per mostrare
come sia difficile, anche per chi sia stato direttamente
legato a un fatto,, perfino il darne la data giusta), Saba
ebbe la pazienza di confrontare i due testi, e preparò
e mi fece avere un terzo testo, nel quale alcune delle
correzioni erano state accolte, e respinte numerose al¬
tre. Non ne feci nulla. Modi, questi di Saba, che face¬
vano parte d’un suo agire cordiale e delicato per im¬
padronirsi di sogni diversi dai propri e per aiutare nel¬
lo stesso tempo l’altro a superare le difficoltà espres¬
sive nelle quali si dibatteva. Erano prove d’una genti¬
lezza d’animo e d’una lealtà già a quei tempi rare, ma
ancora in onore, nei rapporti fra poeta e poeta. Erano
modi che oggi mi sembrano interamente spariti dal
costume.
Nel 1925, Eugenio Montale pubblicò gli Ossi di
seppia, e da quel tempo l’uso invalse nella critica di
citare uniti i nostri nomi, quello di Saba, quello di
Montale, e il mio, per rilevare differenze, per indicare
ciò che ci era comune nelle aspirazioni, o anche per
opporci, a volte acremente, l’uno all’altro. Era ormai
consuetudine di lunghi anni sentirmi unito ai miei due
compagni nell’opinione che seguiva il lavoro di ciascu¬
no di noi. Spesso sono stato ingiusto e verso l’uno e ver¬
so l’altro. Sono un uomo con le umane debolezze. Oggi
è partito il maggiore per gli anni, e anche il maggiore
per la bontà, oggi uno di noi tre manca nel prosegui¬
mento del lavoro, e il mio lavoro è già tanto stanco.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 675

Nel 1939 ero di ritorno a Roma da San Paolo del


Brasile dove insegnavo, per una breve vacanza. Erano
entrate in vigore da noi le leggi razziali, e Saba, che
non avrebbe più potuto gestire la sua bottega di libri
antichi, e che temeva per la sua famiglia e per sé an¬
che più gravi persecuzioni, era partito fuori di sé per
Parigi, minacciava di uccidersi, poi, sempre più scon¬
volto, era arrivato a Roma. Venne con Adriano Gran¬
de a trovarmi, era la prima volta che lo conoscevo di
persona, e andammo tutti e tre a vedere Enrico Fal-
qui, e poi incontrammo Malaparte. Malaparte ci disse
che un comm. Della Pera, o ne sbaglio involontaria¬
mente il nome, che era il prefetto che dirigeva Puffi-
ciò delle discriminazioni razziali, era amico dello scul¬
tore Arturo Dazzi. Dazzi abitava, e abita ancora, una
villa al Forte dei Marmi vicino a quella di Malaparte.
Malaparte ed io partimmo per il Forte. Dazzi accettò
subito di scrivere o di telefonare al prefetto di cui
ricordo male il nome, e ne chiedo scusa, il quale poi
una sera ricevette a Roma in casa sua Falqui e me, e
ci ascoltò e ci fece delle promesse. Poi i ragazzi delle
scuole fecero delle dimostrazioni contro la Francia, e
crebbero da parte mia i discorsi imprudenti, ed ebbi
anch’io la mia disavventura. Mentre stavo per partire
da Roma e andare a imbarcarmi a Genova, e il salone
dell’Albergo d’Inghilterra era pieno d’amici venuti a
salutarmi, fui fermato. Mia moglie e i miei bambini
erano rimasti a San Paolo e sarebbero rimasti soli e
senza mezzi in un paese lontano, se non fossi potuto
tornare laggiù a guadagnare da vivere per essi e per
me. Si ricorse a Mussolini, e diede ordine che mi la¬
sciassero tranquillo. Mi tolsero solo la tessera.
Avevo perso la nave e ne aspettavo un’altra, e per
distrarmi qualcuno mi condusse alla Quadriennale che
s’inaugurava. C’era con altri nostri amici, Saba, e mi
venne incontro. Era curvo, strizzato nelle spallucce un
po’ per il freddo un po’ per consuetudine, e con l’oc-
676 Giuseppe Ungaretti

chio spaventato e mansueto e ironico, sotto la sua an¬


goscia d’inseguito, ma l’animo gli balzava più pronto
che mai a compassione premurosa verso chiunque gli
pareva soffrisse. Aveva il portamento che gli rividi poi
sempre, e mi sussurrò: « È stato per colpa mia, per¬
donami ». « No, caro, non è stato per colpa tua » ri¬
sposi.
Nel guardarlo, bene imparai che il dolore:

ha una voce e non varia.


Tale voce sentivo gemere...

Nessuno ha più di Saba sentito nell’intimo sé la


presenza del nodo di dolore che da infiniti secoli nel¬
l’uomo si fa più stretto da generazione a generazione,
e la stretta di tanto dolore nessuno l’ha espressa con
familiarità uguale alla sua, con quella grazia sua che
resterà unica:

ancora
giovane, ancora
sei bella. I segni
degli anni, quelli del dolore
legano Vanirne nostre, una ne fanno.

La luce del dolore e brama nella tenebra carnale


accendevano i suoi sogni. E anche l’ingenuo vivere e
l’ingenua dedizione e l’illudersi ingenuo, con sorridente
meraviglia colti insuperabilmente in quel capolavoro
da petit maitre olandese (ma erano, tutti sanno, gran¬
di maestri) che è la sua poesia A mia moglie-.

ti ritrovo in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
e in nessun’altra donna.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 677

Di riconoscimenti, salvo quello della critica e del¬


l’opinione, unanimi nel sentirne la grandezza, non eb¬
be se non la laurea « honoris causa » conferitagli qual¬
che anno fa dalla Facoltà di lettere dell’Università di
Roma. Era certo un alto onore ed eccezionalmente con¬
ferito a poeti, e dopo di lui a Roma l’avrà Eliot in
novembre, e nessuno l’ebbe, credo, prima. Fece, per
ringraziare, un discorso, un pocolino, come sapeva,
screziato d’umorismo, sugli studi che aveva fatti, re¬
galò così a noi professori che lo festeggiavamo, uno dei
suoi raccontini più indovinati, e sentimmo che lui ono¬
rava noi e non noi lui, e che era condiscendenza sua
essere venuto tra noi per onorarci con garbo impa¬
reggiabile.
Le giurie, tutte, furono sempre avarissime, anzi cru¬
deli con lui, e non ebbe che povertà. Avrà per premio
l’attenta gratitudine delle generazioni che verranno.
Caro Saba, sei partito, ma eccoti riapparito accanto
a noi come ti vedevi nel ritratto di Bolaffio:

La notte vede più del giorno.


Parte
di quella ancora, ad occhi aperti sono
il montone dipinto da Bolaffio
che solo torce di tra il branco il muso
umano.

Non vano
godimento ne provo, quasi vivo
fosse l'amico che pur ieri è morto.
RICORDO DI BARILLI
[1963]

« Sono un pennuto, senza penne - magro sguarnito


come una gabbia... »
« Ma prima avevo anche le ali... »
Così Barilli in uno dei suoi ultimi scritti di Capricci
di Vegliardo.
In un altro scritto del medesimo libretto, si legge:
« A vent’anni, a Parma - ero la freccia del marcia¬
piede - passavo volando davanti a una vetrina che mi
rifletteva: una sbirciata e mi salutavo contento “addio
grandissimo e foltissimo...”. Sì, foltissimo... infatti cin¬
quantanni fa avevo tutti i denti, e una foresta calda
di capelli - dove, l’inverno, tutti i parmigiani ci si
potevan scaldar le mani. »
Un uomo che s’avvia alla chiusura, anche lui, della
sua giornata, e uno dopo l’altro ricorda già calati giù
nel silenzio della fossa quasi tutti i suoi compagni del¬
l’avventura d’arte che diede forse l’ultimo bagliore di
originalità e di prestigio alle lettere italiane, ha su ci¬
tato le frasi di Bruno Barilli perché ne muovono la
figura come la vide delinearsi tra i due momenti estre¬
mi della loro amicizia quarantennale.
Nel 1914 aspettavo la guerra a Milano. Alla Scala
davano la prima della Fedra di Pizzetti. Erano venuti
per ascoltarla Giannotto Bastianelli - da tanti anni or¬
mai scomparso, musicologo principe anche se non sia¬
mo ormai più di due o tre a ricordarcene, due o tre
superstiti -, Piero Jahier e Barilli. Fummo a teatro
insieme, e con Clemente Rebora, e ci fermammo dopo,
e s’unì a noi Carrà, a passeggiare in su e giù per ore
in Galleria.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 679

Quella notte, in Galleria - senz’un’anima viva, sal¬


vo noi, per l’ora tarda - invasa già dalla luce del gior¬
no quando decidemmo di andare a dormire - strinsi
con Barilli il patto d’affetto fraterno che solo la morte
doveva, quarant’anni dopo, spezzare.
Si sa com’era fatto Barilli, lo seppi quella notte, co¬
glieva a volo nelle mani un’immagine, ed essa era su¬
bito come un fuoco d’artificio o come una droga, e
illuminava e fulminava, inebriava. La stritolava a vol¬
te nella mano, l’immagine, come quando piano piano
metteva per arrotolarlo nella cartina Job il tabacco,
ma quell’immagine non avrebbe dato fumo aromatico
da aspirare adagio e spirali di fumo da guardare con
distrazione svanire su, non sarebbe stata che uno scher¬
zo, semplicemente una dinamite della parola, e subito
dopo dalla rovina la faccia avreste visto sbucare con¬
tratta da smorfie, tutt’intera la persona implacabilmen¬
te giudicata, nel fisico e nel morale, del tale o del ta¬
laltro musicista, direttore d’orchestra, orchestrale, can¬
tante o compositore che fosse.
L’immagine poteva anche coglierla la sua mano amo¬
rosa per colmarla di blandizie, era allora immagine che
s’impregnava di seduzione malinconica e svelava il se¬
greto alla fine - che sta, ohimè! per essere per sempre
distrutto - di città come Roma, in certe sue strade
non offese ma rese di bellezza inimitabile dai secoli.
O era Parma, o era Parigi. Chi saprà più come sapeva
lui, in un’immagine meravigliosa d’intimità fare appa¬
rire un luogo della terra umanizzato a lungo, che con
idolatria i suoi occhi a lungo avevano fissato.
Mago della parola, Barilli, e a piene mani ne dilapi¬
dava i tesori che a volontà poteva fare emergere alla
luce dalle tenebre della poesia. Anche in punto di
morte, ad essi il suo gesto si rivolgeva, e li rendeva
visibili.
Certo, gli ultimi suoi anni, gli anni di Capricci di
Vegliardo, sono stati anni di deserto, di sete da mori-
680 Giuseppe Ungaretti

re, di voglie smisurate - e sempre le sue erano state


voglie smisurate, ma ora i suoi mezzi non lo erano più
se non nel rinfacciargli la dismisura della sua desola¬
zione - ma il deserto, quel morire di sete offre mirag¬
gi, e se solo ad essi ormai poteva rivolgersi, e da essi,
crudeli, solo derisione gli poteva venire, nell’afferrarla,
nel definirla, la derisione, la sua poesia non era meno
poesia di quella d’una volta, e se l’udirla ci atterriva,
se essa era non più altro se non lo spettro tragico di
sé, egli poteva come prima farne dono a piene mani,
ed era dono inestimabile quel dono amaro, dono d’una
poesia giunta all’apice della verità.
L’ho visto morire. « Avanti! » decifravamo nel ran¬
tolo: « Avanti! ». Parlava alla morte? L’invitava, an-
ch’essa, a condividere quella frenesia carnale ch’era
stata la sua festa, eppoi desiderio inappagabile, tor¬
turante?
Con la finezza del suo gran volto equino, con il fre¬
mito di purosangue, con l’adombrarsi e con l’intolle¬
ranza del caldosangue, del foliesangue, con lo sguardo
perso a scrutarsi, a rimuginarsi, a inabissarsi dentro,
lontano, i suoi segreti, Bruno Barilli varcava l’ultimo
traguardo senza alcuna rinunzia, non vinto: « Avan¬
ti! ».
Era un uomo di grande pudore, e quando aveva da
confidarsi, quando non ne poteva fare a meno, si rifu¬
giava in una lingua straniera, scriveva in francese. Era
abitudine presa, credo, quando si legò a una delle
donne che amò di più, e dovettero essere quella volta
amori molto torbidi. Ecco il suo testamento, tratto dal¬
la sua Loterie clandestine:
« Chers amis,
« J’aime ma misère et ma grandeur exaspérée, mes
vices et ma pureté.
« - désespoir et félicité, chers amis,
« - je meurs après avoir vécu. »
Visse! visse, nell’intero significato della parola.
RICORDO DI PEA
[1959]

Forse a chiunque abbia la vocazione della poesia - e


dico poesia senza fare distinzioni di linguaggio - e, in
pittura o per romanzo o come si vorrà, tentenni anco¬
ra su come esprimersi, capita a un certo momento un
incontro che gli apre l’avvenire.
Conobbi Pea per caso. Facevo parte d’un Circolo
anarchico - le ho fatte tutte, ma se uno a quell’età è
un ribelle correndo dietro magari all’errore, sarà un
vivo nella vita. Il Circolo pubblicava un settimanale
di propaganda atea, il « Risorgete! », e lo distribuiva
la domenica, alle porte delle Chiese, dopo la Messa.
Pea aveva ereditato dal suocero un’ebanisteria, e l’a¬
veva trasformata ingrandendola e meccanizzandola, e
ora invece del mobilio di buona fattura ne faceva usci¬
re porte e finestre tirate via, e faceva anche il com¬
mercio dei marmi, e non so quanti altri traffici era
sempre pronto a immaginare, e aveva dunque avuto
bisogno di un vasto spazio. Aveva fatto costruire per
questo la Baracca rossa, di cui qua e là parla nei suoi
libri, e, al piano superiore, uno stanzone l’aveva de¬
stinato a conferenze, assemblee, sproloqui, cospirazioni
di sovversivi che ad Alessandria d’Egitto, ch’era allo¬
ra la città più ospitale del mondo, capitavano d’ogni
dove. Eravamo andati anche noi del Circolo ateo a
chiederne l’uso. Fu così che si strinse fra Pea e me
un’amicizia insolita, fortissima, che decise del destino
in arte dell’uno e dell’altro.
Si frequentava un caffè - Pea elesse sempre domici¬
lio al caffè - un caffè accanto alla Baracca, e il caf¬
fettiere greco che ci serviva si chiamava Platone, ed
682 Giuseppe Ungaretti

era davvero quella un’Accademia non di perdigiorno


ma di cercatori, dato che la si possa trovare, della
verità attraverso l’estremo suo velo ch’è la poesia, e
Pea, uomo di furia di continuo repressa, se discutendo
gli succedeva di arrabbiarsi, si limitava a battere forte
con un palmo della sua manona la lastra di marmo
del tavolino. Fu a quel tavolino che mi mostrò un
gruppo di sonetti stecchettiani che aveva intitolati I
sonetti del harem. Avrò avuto allora diciotto anni, e
lui otto o dieci di più. Gli dissi che erano una porche¬
ria, che li buttasse al diavolo. Batté il marmo, e dopo
qualche giorno seppi che mi aveva dato retta.
Fu in quell’anno, o nel corso dell’anno seguente,
che con la famiglia si trasferì per qualche tempo in
Italia. Dimorò a Querceta, dove doveva avere ancora
la mamma, e a Montignoso, e fu in quel tempo che
con Gigi Salvatori, l’oratore socialista che sarebbe di¬
ventato il nostro Jaurès se gli eventi politici non gli
fossero stati crudelmente avversi, e con Lorenzo Via-
ni, e con Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (che spro¬
nava gli amici, da generale loro, come un personaggio
ai loro occhi venerando e eroicomico) che la Compa¬
gnia degli Apuani prese nome e escogitò avventure.
Tornato in Egitto, Enrico Pea era un altro. Ho ri¬
letto in questi giorni, dopo tanti anni, Le fole, Monti¬
gnoso, Lo spaventacchio, i libri che scrisse allora. Cia¬
scuno di quei libri fu messo in bella copia da me, e
siccome Pea aveva imparato a leggere e a scrivere da
sé, ne dovetti correggere un po’ l’ortografìa e metterci
la punteggiatura. Per la sintassi e la proprietà del vo¬
cabolario, non avevo nulla da fare, erano d’una per¬
fezione impareggiabile. Per ciascun libro, toccò anche
a me di procurargli l’editore.
Le fole è un libro fatto di sentenze in versi seguita
ciascuna da un breve racconto fantastico o realistico
in prosa. Le prose sono un po’ alambiccate, passano a
volte un po’ la misura della verità per cadere nell’ar-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 683

tifizio letterario, ma le sentenze delle epigrafi sono già


d’un’eloquenza mordente e d’un effetto di poesia che
snuda. Vi s’annunzia quel poeta della passione d’amo¬
re ch’egli saprà essere come raramente si sa:

Golia
impara che oltre al lavoro
c’è un’altra fatica che uccide.

E sarà il poeta cui è noto che la sorte dell’uomo è


in balìa d’oscure predestinazioni: la morte, e non solo
la morte, sono la minacciosa mano che in segreto ordi¬
sce trame intorno ad ogni vita. Ne era sbigottito, sgo¬
mento, ed anche attratto come da un incanto. La poe¬
sia è l’ultimo residuo di potere magico rimasto all’uo¬
mo, e quando sarà finito del tutto e l’uomo non sarà
più che preda dei loici, particola stritolata negli ingra¬
naggi dell’orrenda logica, buonanotte Poesia!
Così incominciò Pea la sua carriera di Poeta. Venne
in seguito Montignoso. I versi e la prosa delle Fole
si fusero in versi d’una naturalezza da conversazione,
sebbene d’una poeticità non da luogo comune ma di
continuo inventata anche nel modo di dire. Racconti
in versi. Racconti idillici, racconti drammatici, una
poesia rimasta freschissima, terribile, nuova anche og¬
gi dopo tante esperienze, con interruzioni, riprese, con
improvvise illuminazioni, con improvvise fratture, con
una rapidità di passaggi, sempre indovinata, sempre
determinata da un tocco vibrante sul vivo, sul dolente,
sullo stregato, da un moto dell’animo all altro, da una
situazione all’altra, con una fulmineità e una perizia
nell’accordare ellitticamente le immagini da sbalordi¬
re. Si rilegga almeno in Montignoso il racconto di Ce-
sira e di Grillo il cieco, e vorrei vedere chi oserebbe
darmi torto.
Nello Spaventacchio, il racconto si fa romanzo in
versi. È tutto musica, ma d’un eloquio più che mai
684 Giuseppe Ungaretti

naturale e spontaneo anche nelle dissolvenze brusche


che lasciano turbato, umanamente sconfitto, desolatis¬
simo il lettore. •
La poesia dopo il 1914 non è della stessa qualità,
è quasi poesia superflua. Ma dopo il ’14 pubblicò il
Romanzo di Moscardino, e, soprattutto la prima parte,
quella intitolata Moscardino, è un modello di prosa
narrativa. Non so se ne sia esaurita la prima edizione,
ma durerà nella memoria degli uomini di più, infini¬
tamente di più dei libri dalle 70.000 copie che il ram¬
mollimento del giudizio critico nell’Anno di Grazia
1959 porta alle stelle. È la storia d’un ragazzo analfa¬
beta che scopre il mondo vivendo in questi monti con
un nonno sapiente e strambo. Quando il ragazzo, fat¬
tosi uomo, avrà imparato l’alfabeto, per l’evocazione
di quel vecchio e di quei giorni trascorsi con lui ogni
lettera gli diventerà segno d’un segreto approfondito
del vivere umano.
Che cosa fu Enrico Pea? Poeta, vero poeta, uomo
di principi fermi, uomo radicato nella terra, nella sua
terra che è cristiana, d’un Cristianesimo primitivo, ma
fremente anche d’umori più terreni, anche se era av¬
vezzo a mitigare la sua furia.. Era un uomo che sapeva
con grazia correggere la furia.
Caro Pea, ti rivedo. Vedo la tua barba che tormen¬
tavi sempre con le dita, da mora farsi bianca. Vedo
la tua alta figura magra avviarsi al caffè, con il cappel-
luccio di stoffa calcato sulla testa, tirato sugli occhi.
Ti vedo impennarti e farti mite in un lampeggia¬
mento dei tuoi occhi dallo sguardo lento.
Pareva qualche volta di no, ma eri un uomo fiero.
Per alcuni tuoi libri che sono miracoli, per la tua
fierezza d’uomo che sapeva inoltre bene quanto un’à¬
nima umana sia debole, e quanto una vita umana sia
oscuramente insidiata, Enrico Pea, come un Maestro
ti ricorderemo sempre, e ti ricorderanno a lungo quel¬
li che verranno dopo di noi.
PAROLE PER GADDA
[1963]

Sono qui a dare testimonianza di tanti anni di amici¬


zia verso Gadda e di tanti anni di crescente ammira¬
zione.
Uno scrittore francese, uno dei giovani che stanno
rinnovando in Francia la tradizione del saggio critico
e quella del romanzo, tradizioni in Francia coperte di
gloria, Michel Butor in uno scritto recente avvicinava
per l’erudito umorismo della lingua, il nome di Gadda
a quelli di Rabelais e di Faulkner.
Le vecchie lingue letterarie, e con esse la più illu¬
stre, l’italiana, sono lingue parlate da poca gente, e
quelle di conio più recente, parlate da moltitudini
sempre più numerose, le formano gli apporti più di¬
versi, più lontani per origine l’uno dall’altro, e sono
per forza, lingue semplici, con una grammatica rudi¬
mentale, e attraenti, nonostante tutto, poiché in esse
ferve la nostalgia di tradizioni contrastanti dalle quali
sono state sradicate e alle quali oscuramente tendono
in modo drammatico e si disperano di non potersi rial¬
lacciare.
Le lingue vecchie che le umanità usavano formare
avviandole a progredire secondo le vicende dei tempi
divenienti, per forza di necessità oggi devono evolver¬
si secondo il tipo delle nuove. È per esse un fatto con¬
tro natura, e che fa rabbia. Quell’uso sapientissimo e
attualissimo della lingua letteraria in Gadda e dei dia¬
letti italiani, carichi anch’essi di complessa e varia e
lunga storia umana, porta il segno di questa rabbia,
non solo, ma, nell’alterarli per rabbia, lingua e dialet¬
ti, nel contraffarli, nel farne soffrire riaprendone la
686 Giuseppe Ungaretti

ferita mettendoci il dito, la distorsione da uno svilup¬


po naturale, intende manifestare una censura del co¬
stume come non potrebbe essere di più profondo sen¬
timento, ricco com’è, oltreché d’un’acre, d’una malin¬
conica e gentile fantasia.
Anche verso le persone e i paesaggi, non si muove
con indulgenza nel descriverli, ma appunto, come gli
avviene per la lingua, perché abbonda il suo cuore di
compassione.
I libri di Gadda sono dunque un documento di po¬
lemica e di verità, e sarebbe poco dire, poiché sono
insieme i più bei libri italiani di questo secolo, cioè
libri veri all’estremo, non esistendo bellezza senza ve¬
rità.
Ma non vorrei si credesse da quanto ho sinora detto
alla meglio, che Gadda non sia un uomo del tempo
suo e che al suo tempo sia avverso.
È anche un ingegnere Gadda, e quando esercitava
quella professione qua e là per il mondo, aveva fama
di essere un provetto ingegnere. Sa quali sono le esi¬
genze del nostro tempo, ma, e sarà forse volere l’im¬
possibile, vorrebbe ch’esse non sciupassero, o, peggio,
non distruggessero interamente la natura stupendamen¬
te coltivata lungo i secoli, un’eredità di secoli che per
molti lati, a perderla, sarebbe come avere ucciso l’u¬
manità dell’uomo.
Nel Pasticciaccio c’è una descrizione d’un viaggio
verso i Castelli romani. Gadda, sono passati molti an¬
ni, era venuto a Marino per la sagra dell’uva. C’era
una fontana, mi pare cinquecentesca, che la guerra ha
distrutto, e alla quale facevano per l’occasione buttare
vino. La nostra amicizia data da quei giorni. Era affa¬
scinante la strada che allora da Roma conduceva a Ma¬
rino, e tutte le strade, una più memorabile dell’altra,
che conducevano a Roma. Oggi hanno guastato perfi¬
no la via Appia. Il DDT uccide zanzare, mosche, pulci
e vermi e gli uccelli muoiono di fame. Gli acquedotti
Saggi e Scritti vari 1543-1970 687

antichi che Montaigne salutava strabiliando, chi li ve¬


de più con tutte le brutte case che hanno loro rove¬
sciato addosso. Presto diremo addio ai prati, alle muc¬
che e agli ultimi pini. Lo so, lo so, è bene che non ci
sia più la malaria, è bene che tutti abbiano una casa
decente. Ma non si potrebbe fare senza rovinare tut¬
to? Io, giacché esistono ormai gli antibiotici e l’arte¬
riosclerosi la vince il digiuno, mi rallegro, o faccio fin¬
ta di rallegrarmi di avere da superare i novant’anni.
Ma andando di questo passo, ai miei poveri occhi che
cosa rimarrà più da vedere di consolante che non of¬
fenda e soffochi la natura, ma dia ancora qualche ri¬
salto ai suoi pregi che umanizzano l’animo? Non si
potrebbe oggi trovare il modo di rispettare un pochi¬
no di più il passato che non è fatto solo di scavi archeo¬
logici, ma molto di più, infinitamente di più di pae¬
saggio? Una volta, dichiaravano tutti, l’Italia possede¬
va il paesaggio più invidiabile, più stupefacente del
mondo. Lenin, posso citare Lenin anche senza essere
comunista, sebbene molti dei propositi del Socialismo
mi convincono, sono i miei fervidi desideri, - Lenin
era un uomo di genio e pensava che l’Italia, che cono¬
sceva bene, a rivoluzione universalmente ultimata, guai
a chi avesse attentato al suo privilegio di giardino del
mondo. Forse già non è più l’Italia un giardino: sta
diventando un casermone di casacce.
Gadda sa, e anch’io so, che l’apparecchio destinato
a esplorare gli spazi è d’una bellezza favolosa. Noi sap¬
piamo che gli uomini che lo traggono per la costru¬
zione, dai loro calcoli, che gli uomini che vi salgono
per osservare e per svelare nuove parti dell’ignoto fi¬
sico, sono eroi e grandi poeti. Noi lo sappiamo, ma
sappiamo anche che una lingua è un miracolo altret¬
tanto grande e forse maggiore, e sappiamo anche che
senza l’albero, senza la mucca, senza gli uccelli, senza
i ricordi, senza la famiglia con i suoi morti e il suo
tempo oltre la nascita di ciascuna delle persone che la
688 Giuseppe Ungaretti

compongono, senza la persona di ciascuna persona con


i suoi segreti, con l’intimità dei suoi dolori e dei suoi
sogni, privatissimo bene, l’uotno varrebbe meno d’una
puleggia. E vivere senza speranza e senza amore, sen¬
za morale, senza libertà d’espressione, come una mac¬
china, o un pezzettino di macchina, sarebbe ancora vi¬
vere? La macchina non sia l’imperatrice, ma rimanga
un mezzo, un mezzo sempre più potente, com’è fatale,
ma nelle mani dell’uomo che lo domini e non ne sia
dominato, che se ne serva solo per mantenere vivo e
benefico quel rapporto di cui parla tanto Leopardi tra
natura e ragione, quell’equilibrio che dovrebbe sem¬
pre costituire lo sforzo e la mira d’ogni uomo degno
di tale nome, amante di poesia, dell’anima sua. Altri¬
menti il mondo diverrebbe un quattro muraglioni pie¬
no d’alienati.
Sono uscito di carreggiata aggiungendo alcune mie
digressioni all’interpretazione mia dell’opera di Gadda?
Non credo, credo d’averla così interpretata meglio. Non
è essa l’opera che di questi nostri tempi fa con insigne
scrittura la diagnosi più allarmata?
Grazie, Gadda.
PREFAZIONE A « L’OSPITE
DELL’HOTEL ROOSEVELT »
DI GIACOMO NATTA
[1953]

Il nome di Natta, lo vidi la prima volta in Trucioli di


Camillo Sbarbaro, forse in un fascicolo della « Voce »
di De Robertis dove incominciavano ad uscire, o nei
Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi, dove è riportato il
brano:

Diceva Sbarbaro:

Quando godo una tinta tenera mi torna a mente l’a¬


mico Natta.
Testone di ricci. Faccia sprezzante d’ironia; logora,
dove la bocca si apre come una lunga ferita.
È ghiottissimo di dolciumi.
L’intera giornata pellegrina da un caffè all’altro e
s’incanta per ore a guardare il vuoto.
Galleggia sulle apparenze come un sughero e si ciba
di sfumature.

Una volta mi parlò di un convento ch'era stato am¬


messo a visitare; delle poche rose, del silenzio e della
dolcezza del luogo, delle mani di dama del Superiore,
in modo che l’immagine di lui è ora mescolata a quella
dell’abate.

Il suo sogno è una veranda su un mare in bonaccia.


Una donna soave e devota gli risparmierebbe il con¬
tatto del mondo.
Gli chiesi come faceva a mantenersi in quella legge¬
rezza di spirito. Mi confidò che quando sentiva di per¬
derla si dava a tirare i campanelli delle porte, a gio-
690 Giuseppe Ungaretti

caxe delle burlette ai passanti. Faccende così gli mette¬


vano in pelle l’arzillo dello sciampagne.
9

Lo scritto dev’essere del ’14. Incontrai Natta di per¬


sona nel ’28, o ’27, o forse prima, o poi, forse. In
quegli anni era ancora come lo descrive Sbarbaro, era
certo meno monello, e il suo allegro raccontare, venato
ormai di mal dissimulata causticità, per chi l’ascoltava
e lo sapeva allora molto malato si mescolava a un’a¬
marezza che non si può, credo, provare così acuta se
non a suo riguardo. Credo di rado la sorte ostinandosi
ad essere avversa sia stata affrontata da altri come da
lui sempre, di colpo dominata la disperazione, sempli¬
cemente con una strizzatina d’occhio più che ironica,
di smisurata indulgenza. Si è amari vedendo quanto
poco sia augurabile, come duramente si sconti posse¬
dere saggezza.

A quello di Sbarbaro, e anche a quello di Scipione,


è legato per me il nome di Natta. Incontrai la prima
volta Scipione al Forlanini, dove andavo a vedere Nat¬
ta che avevamo ottenuto fosse ricoverato in quel sa¬
natorio.
Rividi Natta alcuni anni più tardi a Nizza, miraco¬
losamente guarito. In seguito ritornò a Roma. Fece
tanti mestieri: correttore di bozze, precettore, tradut¬
tore, ed ebbe anche qualche incarico presso i servizi
per l’Estero della Radio. Incarichi saltuari, e a nessuno
venne mai in mente che fra tanti denari che si spre¬
cano, una piccola somma si sarebbe potuta prelevare,
e non sarebbe stata sprecata, per assicurare un minimo
di tranquillità a uno scrittore come Natta.
Ha frequentato gente e ambienti della più varia con¬
dizione e, povero, soprattutto ha confidenza e contatto
con i poveri. Quest’uomo povero, e nello stesso tempo
d’un’educazione di modi ai nostri tempi non solita,
ogni mattina ha da sapere dove passerà la notte e co-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 691

me farà a procurarsi il cibo, e l’altro giorno mi diceva,


ed era la prima volta che un filo di lamento s’insinua¬
va nella sua voce: « Ora, provvisoriamente, può offrir¬
mi asilo il pittore X; asilo solo per la notte; e non ho
un indirizzo mio; non so dove dormirò domani. Se
voglio di giorno fantasticare o riposare, devo andare
nei giardinetti a sedere su una panchina. A sessantan¬
ni, ecco a che punto sono ».
Se si avesse un po’ più di contatto con i poveri, non
di contatto dall’alto al basso, da benestante a reietto,
ma contatto da uomo a uomo, il mondo forse andrebbe
meglio.

Dicevo: Natta è esperto della vita e degli uomini. Si


vede dalle pagine che ha scelto per questo libretto, che
possono parere a volte scanzonate, e che sono lungi
dall’esser tali, e che sono invece serena risultanza di
decantazione.
Qui sono raccolti alcuni degli scritti di Natta, e fra
essi quelli che leggemmo già nel « Selvaggio » di Mac-
cari, o nel « Costume » di Velso Mucci, Ferrara, Ciar-
letta e Sinisgalli. Quei periodici parevano fatti appo¬
sta per il tono di quest’uomo. Per natura e non di pro¬
posito, non conformista. Spregiudicato alla superficie,
e in fondo moralista al modo degli scrittori di massime
francesi, o al modo, se gli avviene di rasentare appe¬
na la scurrilità, di Restif de la Bretonne. È uno scrit¬
tore la cui finezza s’è formata come segue: osservan¬
do, per esempio, la diversità psicologica che denota il
variare di stile dall’una all’altra delle diverse tradu¬
zioni francesi dell’Imitazione. È un mistico, un volut¬
tuoso, un buongustaio, Natta, e insieme un sofista. È
uno cui non difetta ironia - e come avrebbe altrimenti
fatto a resistere?

Da noi Panzini è considerato nella linea di Anatole


France. In questo libretto si sale direttamente a alcune
692 Giuseppe Ungaretti

delle stesse fonti di France; e qui è assaporata non in


cocktail quell’acquavite.
Ma per carità, mi s’intend? col famoso granellino
di sale e non da imbecilli. France era un dilettante di
lettere, gonfio di comodi e di lusso e vano come un
pavone, e lasciò un sacco e una sporta di roba sua
scritta, rileccata e stampata, coperta di tutti gli onori
ufficiali possibili. Natta è uno che non si professa né
gl’importa d’essere letterato, visitato in mezzo ai suoi
mille guai dall’estro, e di quella felicità di fantasia
qui s’offre qualche brandello.
PICCOLO DISCORSO SOPRA
«DIETRO IL PAESAGGIO»
DI ANDREA ZANZOTTO
[1954]

Traggo da un biglietto di Andrea Zanzotto alcune no¬


tizie che mi dà di sé:
« Sono nato a Pieve di Solìgo, tra il Piave e Vittorio
Veneto, ho trentadue anni e insegno italiano e latino
al liceo classico di questa città. Credo di aver comin¬
ciato a scribacchiare quelli che a me parevano versi fin
dai sette od otto anni. Prima dei quindici avevo già
“mangiato” Pascoli e D’Annunzio, poi, fino ai venti
non vidi che i Francesi, Campana, Ungaretti e Mon¬
tale. Ebbi la laurea in lettere a Padova dove fui sco¬
laro di Valeri che mi incoraggiò e mi aiutò. Dopo ci
fu la guerra e la resistenza. Patii il destino che fu di
tutti, ma non potei capire nessun’altra ragione fuori
daH’“esile mito” (per usare un’espressione di Sereni)
circoscritto come in una mia Arcadia (nella ingens sti¬
va del Montello, sulle rive del fiume di Gasparina e
della Nassilide, prima del Piave e del Montello della
Grande Guerra), il mito di alcune lucenti evidenze di
paesi e di sentimenti antichissimi ed ossessivi, di alcu¬
ne entità mentali e sensibili a un tempo, al di là delle
quali io non riuscirò mai a vedere veramente nulla.
Negli anni del dopoguerra fui, non per diporto ma per
bisogno, in Svizzera. Ritornato in Italia cominciai a
pubblicare qualche poesia e qualche racconto, giacché
qualche volta mi sento spinto anche a un tipo di nar¬
rativa che serva da intermezzo ai momenti lirici. Nel
1950 cinque poeti, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Si-
nisgalli e Sereni, vollero conferirmi il Premio San Ba-
bila-Inediti. Venne pubblicato poco dopo (1951, Mon¬
dadori) il mio primo libro di versi Dietro il Paesaggio.
694 Giuseppe Ungaretti

Seguii poco le reazioni della critica, che del resto non


prestò molta attenzione alla mia opera, perché io ap¬
parvi legato a istanze e a forme di linguaggio ritenute
in via di esaurimento. Può esser vero, né a me dispia¬
cerebbe se arrivassi a configurarmi come l’ultimo degli
“ermetici”, come una specie di Jacopo Vittorelli di
quello che si volle chiamare ermetismo... Potrei anche
sbagliarmi; ma io non vedo intorno che nuovi dèi bu¬
giardi e mi sembra che quel poco che si può per ora,
fare sinceramente, non possa uscire che sulla via se¬
gnata dal lavoro dei poeti delì’entre deux guerres, an¬
che se noi non siamo proprio come loro. Le loro istan¬
ze non sono state eliminate, persistono identiche e
divenute ossessione. Io faccio quel che posso e d’altra
parte sono costretto a farlo e a farlo proprio così.
« Da un anno ho ripreso a scrivere con una certa
regolarità. Vorrei fare a modo mio, con prosa e versi,
una piccola storia dei bachi e della seta, cose tipica¬
mente trevigiane. Non so se vi riuscirò, né so quando
potrò pubblicare una nuova raccolta di versi. Forse un
quadernetto tra qualche tempo. »
Così lo scritto di Zanzotto. E il poeta vi si manife¬
sta, anche in queste noterelle, di spirito elegante, d’u¬
no spirito cioè che sa portare orgoglio e modestia l’uno
con l’altra a dissimularsi e a sottintendersi. Non privo
dunque d’una certa ironia quel suo parlare d’una « sua
Arcadia », e quel suo proclamarsi come « l’Ultimo de¬
gli Ermetici ».
La critica ha difatti prestato poca attenzione al suo
libro Dietro il Paesaggio, e se è in commercio sino dal
1951, credo che per il pubblico sia ancora a tutt’oggi
ignoto, come non mai apparso. Forse la critica oggi
trascura un po’ troppo quella parte delle sue funzioni
che consiste nel suggerire al lettore modi di lettura,
con citazioni, con prove eventuali di derivazioni, con
conseguente isolamento e dimostrazione della novità
recata dall’esaminato. La critica soffrì generalmente di
Saggi e Scritti vari 1943-1970 695

distrazione all’apparire del libro di Zanzotto. Qualcu¬


no, ma non mosso da motivi obbiettivi di critica, ne
parlò comunque, senza forse nemmeno leggerlo, a van¬
vera o per dispetto, e certo senza la minima compe¬
tenza. Credo che a costoro alluda Zanzotto quando
con garbo ironico accoglie i loro appellativi, che vole¬
vano essere ingiuriosi, d’Arcade e d’Ultimo degli Er¬
metici. A conferirgli il titolo di poeta, a riconoscerlo
loro pari c’erano nel 1950 nella giuria di San Babila
i rappresentanti delle generazioni che precedettero la
sua. Erano poeti ai quali tutto può rimproverarsi, ma
non di essersi ingegnati come meglio potevano a non
tradire mai, la loro vocazione: c’era chi vi parla a rap¬
presentare indegnamente la generazione che si manife¬
stò attraverso la « Voce », « Lacerba », e la « Ronda »,
c’era Montale che, con meditata novità si fece avanti
nel periodo subito successivo, c’erano Quasimodo e
Sinisgalli e, fra le due guerre con essi ed altri poeti,
è in due momenti diversi un’altra corrente che s’alli¬
nea a operare con scrupolo. In quella giuria, Sereni
rappresentava la generazione che nacque alla parola
poetica nel disorientamento, nella rivolta e nei pati¬
menti dell’ultima guerra.
È davvero un fatto degno di segnalazione il potere
verificare che in cinquant’anni in Italia più generazio¬
ni hanno mantenuto, in una data attività dello spirito,
nella più gelosa e più strettamente individuale, una
fondamentale continuità. Non dico che Zanzotto sia
l’unico poeta della sua generazione. Dico ch’egli per
chi lo giudicava parve il migliore di quanti concorre¬
vano a quel premio, e dico di più: per chi lo eleggeva,
egli diventava in quel momento come un simbolo del¬
la speranza nei più giovani.
Occorre a questo punto chiarire, o tornare a chia¬
rire, alcune cose per spiegare una continuità tanto lun¬
ga, tanto ostinata a durare e a rinnovarsi. Non si trat¬
ta di contenuto: ciascuno può avere l’ispirazione che
696 Giuseppe Ungaretti

gli jpare, e dicevo, nella prefazione ai Poeti Scelti al


Premio Saint Vincent del 1948, pubblicati a cura di
Davide Lajolo e mia da Mondadori: « C’è chi in pau¬
sati monologhi si decifra crudelmente nelle oscurità
della sua coscienza e c’è chi preferisce astrarsi in im¬
provvise calde colorazioni nettamente oggettivate; c’è
chi, cercandosi nel suo segreto cerca di trovare ed
esprimere, secondo attualità, il grido di tutti; c’è chi
vuole da tutti distinguersi, riflettendo le cose; c’è chi
tende al verismo e chi alla metafìsica; c’è chi tende
allo spiritualismo e chi a smarrirsi nelle malinconie
carnali; chi dà lo spettro, la sostanza stilistica dei pro¬
pri fantasmi, e chi invece accentua in modo deforma¬
to, ossessionante, il materiale punto caratteristico di
qualche fisica apparenza; ecc.... ». La continuità in¬
tendiamo innanzitutto riconoscerla in quella libertà
espressiva per la quale ciascuno sceglierà il linguaggio
che gli parrà confacente alla propria ispirazione, e solo
essa si rileverà in quel linguaggio dove la parola poe¬
tica abbia tanta intensità tonale da elevarsi all’altezza
del canto, e « canto » qui, mirando a un punto sommo
di riferimento, si usa, e misura le nostre aspirazioni,
la nostra ambizione, e le nostre insufficienze - si usa
nel significato che gli dà il Leopardi chiamando Canti
le sue poesie quando le raccoglie in volume nelle edi¬
zioni uscite dopo il Canto a Silvia. Intensità tonale e
naturalezza, e nient’altro, e la polemica contro il car-
duccianesimo deteriore, contro il dannunzianesimo de¬
teriore, contro il pascolismo deteriore, contro il crepu¬
scolarismo, non si prefiggeva e non si prefigge altri
scopi. Non distinguo crepuscolarismo da crepuscolari¬
smo deteriore, il crepuscolarismo essendo per program¬
ma, poetica del deteriore.
Zanzotto nelle sue noterelle si riferisce a un certo
punto, a istanze e a forme di linguaggio che sarebbero
ritenute in via di esaurimento. È vero che in Italia e
fuori d’Italia si osserva dallo scoppio dell’ultima guer-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 697

ra un’inflazione di scritti di poesia. Non è in sé un


male, e sarebbe indicazione d’un diffondersi dell’inte¬
resse per nobili attività. Si potrebbe anche osservare
che generalmente quei componimenti denotano nella
scrittura un livello di partenza abbastanza alto. C’è da
lamentare che in tali cataste di poesia, l’occhio esperto
non arrivi sempre a potersi concedere di frugare per
scoprirvi ciò che è manierismo deteriore da ciò che è
autentica espressione poetica. Notate: il manierismo
non è sempre deteriore: il Cinquecento non ha avuto
paura d’essere manierista. E chi oserebbe dire che quei
poeti non avessero una straordinaria forza di fantasia?
Ma ci sono manie, lezii, piagnucolerie, spiritosaggini
di cui l’espressione poetica ha costantemente bisogno
di guarire. Non si tratta di guarire la poesia. La poe¬
sia non può ammalarsi e vi è, lo abbiamo visto, ci sia¬
mo sforzati di ritrovarla, una costante poetica, ed essa
non dipende dai mutamenti di moda. Dirò con un
poeta che fu esemplarmente libero, di cui fui testimo¬
nio dei primi passi, dirò con Robert Desnos: « Non
alla poesia tocca d’essere libera, tocca al poeta, se vuo¬
le coglierne e comunicare quel minimo d’ispirazione
che a un uomo è dato di coglierne ».
Ecco il primo elogio che voglio fare a Zanzotto:
egli è un poeta libero. Lasciamo dunque in pace l’Er¬
metismo. Mallarmé riflettendo sui poteri, sull’avven¬
tura, sull’impotenza e sullo scacco della parola, usò
l’aggettivo ermetico, ma quando il nostro amico Flora
riprese più di 50 anni dopo, verso il 1930, il vocabolo
ermetismo per farsi un babau dei poeti europei e ita¬
liani che in quel periodo di tempo cercavano di dare
al linguaggio poetico moderno profondità tradizionale,
era un vocabolo cui non pensava più nessuno. Certo la
disperazione per via di quanto la parola non sappia
comunicare e la meditazione sull’attrattiva di quanto
nella parola permanga segreto, ci riguardava, come ri¬
guardò Mallarmé, anche se non era oggetto allora di
698 Giuseppe Ungaretti

speciali nostre attenzioni, e riguardò i poeti di qual¬


siasi epoca, anche quei poeti, se erano poeti, che non
ci ragionarono su. Lo stesso Flora che ha avuto occa¬
sione di riproporsi meglio poi il problema, lo ha otti¬
mamente dimostrato. E lasciamo in pace l’Arcadia, non
fu un momento spregevole e vacuo come si dà ad in¬
tendere, e rammentiamoci che fu per avere impresso
alle sue figure sublime frivolità di danza e accresciuto
dolcezze ai sogni d’amore che potremmo chiamare Ar¬
cade, un Di Giacomo.
Che cosa ci presenta in Dietro il Paesaggio, Andrea
Zanzotto? Il segreto d’un panorama, e lo scopre tutte
le mattine, e nell’ora meridiana, e la sera e di notte,
10 scopre ogni momento, lo scopre a ogni minimo frul¬
lo d’ale di stagione, a ogni variare e a ogni pienezza
di stagione, sempre stupefacente come avesse ogni vol¬
ta per noi un nuovo volto straniero; e sempre uguale,
familiare, e a questo modo era lì prima della nostra
nascita, e a questo modo sarà lì dopo di noi, sempre
11 medesimo. È un modo leopardiano di sentire il pae¬
saggio. Il nostro amico sa scegliersi i maestri.
Presenta località che gli sono sempre presenti, e che
sono sempre le stesse, e gli basta abbassare o alzare
un po’ il lume perché tutto cambi, perché per via di
un’ombra s’apra un abisso, perché per via d’un soffio
tutto si chiuda, oscuro come in un guscio di noce. Non
so, Monet cercava di fermare il paesaggio nella sua di¬
versità tentando di coglierne un attimo e poi l’altro, e
peggio sulla stessa strada faceva Signac. Non si tratta
di questo. Penserei piuttosto al Canzoniere del Petrar¬
ca dove da sonetto a sonetto appare sempre lo stesso
fantasma, ma l’animo da sonetto a sonetto si modula
a un grado diverso. Dicevo che il nostro amico sa sce¬
gliersi bene i maestri, e se dovessi pensare a un pittore
di cui non il fantasma cambia, ma il proprio interno
monologo, e continuamente, penserei a Morandi.
Ecco: un paese, leggendo Zanzotto, vedrete vivere,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 699

frusto, vetusto, violento, feltrato, che di continuo si


corrompe e si rigenera, un paese arioso, un paese d’in¬
canti di idillio deturpati dalla tragedia, un paese son¬
tuoso d’acque e pieno di riflessi e d’inganni, o dalla
sete torturato su scheletri di fiumi, un paese orrendo
e dolce, ricchissimo di verità, un aperto e chiuso terri¬
torio del Veneto perdutamente amato.
Ma Zanzotto, direte, è dunque senza difetti? Oh sì,
ne ha tanti. E anche ne avevano tanti i maggiori, Dan¬
te, Virgilio e perfino Omero. Oggi a noi non toccava
spulciare i testi, in cerca di difetti, toccava lodare una
illusione imperitura.
PER GIULIANI
[1966]

Da quando ero il loro coetaneo, circa sessant’anni fa,


mi sono sempre avvicinato ai giovani, considerandoli
quasi miei maestri, rinnovandomi via via, ciascuna vol¬
ta, interrogando le ansie e i tentativi delle generazioni,
nuove venute sul campo dell’arte.
La poesia, l’ho imparato bene attraverso una lun¬
ghissima esperienza personale messa a confronto con
esperienze diverse, non solo per diversità di generazio¬
ne, ma per diversità anche di paese, la poesia è tutto,
ed è nulla. La poesia è l’unico mezzo posseduto dal¬
l’uomo per lasciare un segno della singolarità di un
momento storico, in tutti i suoi rapporti. In quelli so¬
ciali, beninteso; ma la poesia non ha fini didattici. Le
società e gli individui che le compongono senza posa
mutano, ciascuna secondo la propria tradizione e la
propria indole, ma in un senso di rapporti cosmici e
universali, dei cui effetti ogni persona, anche la meno
dotta, è sensitiva testimonianza.
Tutti sanno che la parola è il modo più astratto che
possegga l’uomo per esprimersi, e la parola ha di con¬
tinuo tanti oggetti astrattissimi da rendere evidenti al¬
la coscienza umana mediante una dialettica tratta dal
profondo che solo con la fine dell’uomo terminerà di
rinnovarsi. La parola è astratta: se dico « cane », pro¬
nuncio due sillabe che in alcun modo lo rappresentano
imitandone l’aspetto naturale, anche se per convenzio¬
ne, in modo astratto cioè, lo evocano. E non entriamo
nelle funzioni più difficili e delicate della parola, quan¬
do ha da esprimere affetti, pensieri, le incorporee for-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 701

me anche se non immaginabili se non dipendenti da


corporee forme.
L’arte della parola, la poesia, è l’arte più astratta
che ci sia, sino dalle origini. Direi che è la sola per
davvero astratta. In questo punto ci siamo intesi: in
poesia non c’è da fare quello che hanno dovuto fare
i pittori: la parola è sino dalla nascita, informale.
Sono due punti, quelli che mi sono permesso di
esporre, indovinati a fondo dai Novissimi, e in parti¬
colare da Giuliani che stasera festeggiamo. Chi ne trag¬
ga frutto, dispone di una libertà d’espressione sempre
più estesa nell’immensità dei suoi limiti.
Vedete, la poesia, chi sappia, gli basta un nonnulla
per saperla regalare alla sua parola. Si fonda con un
nonnulla il linguaggio nuovo, ed è sempre stato così:
basta mutare appena il tono abituale l’altro giorno;
basta arricchire del significato del tempo nuovo, fuggi¬
tivo, la semantica dei segni prescelti; basta che i co¬
strutti: ritmo, sintassi, siano, e senza che il lettore
l’avverta, sconvolti; basta che valori fonici e valori evo¬
cativi siano più gravidi di eventi futuri che nutriti di
memoria.
Dalle poesie di Giuliani che vanno dal 1953 sino al
Professor Pi del 1963, nel trattare il linguaggio, il poe¬
ta non si nasconde mai che la poesia ha un’ascendenza
da rispettare anche se per continuare ad essere poesia
deve sentirsi travolta dalla rivoluzione che oggi, da ca¬
po a fondo, vertiginosamente sta mutando il mondo e
il sapere.
Poi con la Povera Juliet subentra un’ironica analisi:
è occorsa appena una venatura d’acrore nel tono per
informarci che sul tappeto del giuoco universale le car¬
te hanno un’araldica che s’ignorava prima.
E che dirvi di quando in Invetticoglia, si ricorda per
ridere del Burchiello? Ridere come? come dobbiamo ri¬
dere? Come Burchiello o come Rabelais? O come un
uomo d’oggi, non demente né strampalato, nemmeno
702 Giuseppe Ungaretti

dotto per farsi truculento e mordace, ma tuttavia capa¬


ce d’infarcire di significati orribili e malinconici e col¬
mi d’eredità e di presagio i vocaboli di suono più vuo¬
to. E anche di compenetrarli del significato di quel¬
l’impotenza disperante di cui è preda ogni poeta, poi¬
ché non riuscirà mai ciò che dice a dire ciò che vor¬
rebbe. Desolazione, ma che alla fine sempre si affoga
nella gioia di non essersi ricusato a tentare l’impossi¬
bile.
E può, il Poeta, opportunamente conchiudere, come
faceva Apollinaire, e si faceva in « Lacerba », con Chi
l’avrebbe detto. Sembrerebbe un tirarsi indietro, ma
non si potrebbe andare avanti meglio.
Avanti, caro Giuliani!
« SICILIANA » DI MURILO MENDES
[1959]

Manuel Bandeira ha già detto tutto sulla poesia di Mu¬


rilo Mendes. Manuel Bandeira è uno dei primi poeti
d’oggi, ed è Brasiliano, e parlando d’un altro alto poe¬
ta del suo Paese oltre a farcene indovinare il vero va¬
lore come solo sa fare un poeta parlando d’un altro
poeta, ci fornisce anche quei particolari chiarimenti,
necessari a intendere a modo una poesia brasiliana, che
solo un Brasiliano era in grado di offrirci.
Ma la poesia che ho sotto gli occhi tratta della Sici¬
lia, e qualche parola posso aggiungerla anch’io. Tanto
più che, non come Bandeira né come Murilo Mendes,
ma un po’, forse molto, ho anch’io negli occhi e nel
cuore vivo il Brasile.
Ciò che mi incuriosiva era di rendermi conto degli
effetti che poteva fare a chi veniva da tanto lontano, il
rapporto tra uomo e natura, in una regione dove nei
millenni le testimonianze sono state tante e diverse, e
tutte le sovrasta quella che sarà essenzialmente occi¬
dentale, la greca. L’Occidente è cresciuto su un giuoco
di numeri, un giuoco dove lo sforzo era di nulla la¬
sciare al caso, e di tendere all’armonia. È dilagata la
civiltà del numero, e non c’è oggi punto di terra dove
l’uomo non tenda ad appropriarsene, e non soffra d’o-
gni specie di complessi per farsene padrone. Ciò av¬
viene oggi, quando il numero non trova più quasi svi¬
luppi per rappresentarsi nei suoi discorsi la natura,
quando il numero si fa quasi inoperante, e l’esperienza
dei fisici, la filosofia della natura sembra essere guidata
quasi da demenza.
Il Brasile è un Paese dove l’uomo oggi ancora si tro-
704 Giuseppe Ungaretti

va, a contrastare con la natura allo stato vergine, è uno


di quei Paesi della scoperta deH’America i cui con¬
trasti con lo spirito occidentale contribuirono a sugge¬
rire le forme del Barocco e resero popolare nella poe¬
sia d’allora, Polifemo.
Polifemo era l’immagine, apparsa in Sicilia, della
violenza cui non riuscirà mai di domare la grazia.
Come può vedersi a Bahia e a Minas, il Barocco è
lotta col gigante più immediata, più a corpo a corpo
che in altri momenti della storia; ma l’uomo ancora
tentava di misurarsi e di misurare l’universo con la
propria misura, e ancora si rendeva conto che nella di¬
smisura era la catastrofe cui la grazia poteva opporsi,
manifestare giovine vita, perenne bellezza anche di là
della morte, vinto l’orrore del vuoto.
Con incantevole sorpresa Murilo Mendes rinviene in
sé quell’ora antica della storia umana nella quale intel¬
letto, sentimento e sensi trovarono il loro puro ogget¬
tivo equilibrio.
Vi arriva attraversando il suo mondo barocco, vi ar¬
riva con l’angoscia che lo lacera come lacera tutti i
suoi contemporanei.
Sono i motivi che mi rendono cari i versi che la Si¬
cilia gli ha suggerito, istantanee certo, ma che poteva¬
no venire in luce solo in séguito a profonda esperienza,
e a una scossa profonda.
POESIA DI VINICIUS DE MORAES
[1969]

La lontananza, l’assenza, una malinconia, crollo e ina¬


bissarsi, eppure rimasta a galla quasi lieve nebbia, ve¬
latura appena distinguibile, tale è, nonostante attorno
imperversi solleone, la fonte d’ispirazione della poesia
di Vinicius, e una sensualità, una sessualità che lo svin¬
cola da tutto e lo annienta lungi da tutto, da se stesso,
e, mentre dura, dal suo atto stesso che l’immedesima,
amando, nell’altra persona.
Poesia d’amore, filastrocche d’amore, silenzio d’amo¬
re, e echi, sorpresa e smarrimento, attimi mentre in¬
cessanti vanno succedendosi e divengono via via eco,
la felicità del cantore d’essere stato, con l’offerta atti¬
va del totale suo essere, l’attimo d’una realtà afferrata,
ridotta a sostanza propria, consumata, sparita nella so¬
stanza propria.
Conosco bene il significato di lontananza e quello di
assenza, e sono un medesimo significato l’una necessa¬
riamente compenetrandosi dell’altra, significato di ma¬
cerazione carnale dell’anima e d’ogni impulso che ani¬
mi carnalmente l’anima; ma il deserto che mi ha inse¬
gnato a provarne la scottatura tremenda, della lonta¬
nanza, dell’assenza, ma negli abbagli dell’immenso vuo¬
to, era miraggio, dolcissimo e acrissimo, il paese dei
miei, tutto misura, dove non ero nato. Vinicius s’ag¬
gira invece dentro il buio d’un folto scoppio e si inol¬
tra nella demenza di quel vegetare e vi ritorna e ritorna
a smarrirvisi, e nel suo andirivieni ostinato in sé non
rinviene se non quella poesia sottovoce che gli sgorga
dalla carnalità dell’anima e gli narra che non è quello
luogo suo sebbene idolatrato, e che non sa, non saprà
706 Giuseppe Ungaretti

m^i dov’è. « Dove? dove? dove? » sussurrava nella sua


cantilena incessante, il beduino dei miei posti d’infan¬
zia, e con il beduino non sonò forse io che si ritrova,
restituito al proprio smarrirsi infantile, mentre Vini-
cius la riinventa?
Persino la donna, ossessione, incubo che perenne lo
libera, gli è subito nella fantasia, nel grido carnale sof¬
focato dell’anima, parvenza disparita.
OSWALD DE ANDRADE
[1970]

Non so quale fosse la sposa che aveva impalmato in


quei giorni, settima, undicesima oppure ventunesima.
Non ebbero più donne Abramo, né Matusalemme né
Noè messi insieme, che devono averne godute molti¬
tudini per popolare o ripopolare questo pianetaccio, a
differenza del misero Adamo che combinò tutto con
la sola povera Èva, guai o miracoli fossero, dipende
dai pareri. Tra la moglie bambina e un quadro recente
di Picasso che si baloccava tra le braccia, via via alter¬
nandolo alla bimbina, raccontava storie dell’altro mon¬
do, un po’ come fosse il Padre Eterno o il suo rivale
da girarrosto. Aveva vissuto a Parigi, nababbo, non
rastaquero, e vi aveva scoperto tutto, annusato tutte
le puzze e tutti gli olezzi, fino al collo ficcato in tutte
le trappole, uscendone indenne e bobo da bravo illu¬
sionista. Non aveva riportato in Brasile, sposa, come
succedeva allora al suddamericano pingue di moneta
quanto di corpo, la femmina che l’aveva adescato chis¬
sà in quale lupanare di Lutezia, carnosa, di connotati
correggeschi già stuzzicante di libidine dal fugace adoc¬
chio.
Le aveva inventate tutte, persino una tesi svolta con
fracasso di erudizione e tutta da ridere e pubblicata
per porre mogio mogio la propria candidatura niente-
popodimeno che alla cattedra di filosofìa teoretica del¬
l’Università di San Paolo. Basta il titolo per indovina¬
re in quali meandri s’inoltrasse il filosofo neofita: A
Crise da Filosofia Messiànica. Basterà un’occhiata alla
bibliografia per rendersi subito conto dell’erudizione
708 Giuseppe Ungaretti

strampalata e nonostante tutto di quali fiammelle di


mattana di genio quel caos potesse vibrare.
Aveva avuto persino il coraggio di inventare una
scuola da rivoluzionare l’universa e l’aveva intitolata
Antropofagia. C’è chi si chiede se quel propalato india¬
nismo o neo-indianismo fosse in qualche relazione con
le elucubrazioni indianiste a quei tempi di voga. Nos¬
signori. E Decio Pignatari che le sa queste cose a me¬
nadito ci insegna che il selvaggio significò per Osvaldo
ciò che Confucio significava per Pound: la visione di
una nuova morale non cristiana e di un nuovo linguag¬
gio diretto, ideogrammico. Non si tolga agli scaffali
Confucio. Per Osvaldo il selvaggio significa un po’ sem-
pliciottamente un modo ante litteram di ciò che oggi
si usa chiamare, avendo di rado l’arte di argomentare
paradossale e la poesia mordicchiante e allegra di O-
svaldo, « contestazione ».
Ma dove Osvaldo è Osvaldo è nella poesia detta in
versi, fatti come da sempre si usava fare. Sono momen¬
ti ripresi dagli antichi cronisti che nei loro diari segui¬
vano i primi passi degli europei in Brasile, mentre an¬
davano costoro con le loro lame a incidere gli alberi
dai quali colava il caucciù oppure a scorticare quel le¬
gno da tintori che chiamavano il pau-brasil. Di certo
ci ha messo le mani lui, Osvaldo. Sono immagini se¬
condo le cronache, ma sono immagini che appartengono
anche al ventesimo secolo, a quel ventesimo secolo ve¬
ro, innovatore di poesia, che aveva dal primo momen¬
to addomesticato l’intelletto, gli occhi e la lingua del¬
l’antropofago Osvaldo.
Ora mi toccherebbe lodare il traduttore, quel gio¬
vane azzardoso che ha imparato a usare un briciolino
dell’arguzia pazza di Osvaldo, tanto che s’è messo a
fare non so più quale lavoro in un paese arzigogolato,
quel Siam costruito come una trina e dove il clima de¬
ve essere intollerabile anche a pelli d’elefante. Voleva
che ve lo raggiungessi per una vacanza, ed è vero che
Saggi e Scritti vari 1943-1970 709

sono capace di tutto anche se ho sedici volte il lustro,


quel mio lustro che, ahimè, non supera mai un lustro.
Sarebbe questa l’ora che Cutolo tornasse in Italia;
per merito suo si vedrebbe rammentare anche qui il
nostro straordinario amico Osvaldo.
SULL’« ANTOLOGIA DEI POETI
NEGRI D’AMERICA » DI LEONE PICCIONI
[1964]'

Leone Piccioni è stato mio allievo quando insegnavo


alla Facoltà di lettere di Roma. Era stato prima allievo
del nostro caro compianto De Robertis alla Facoltà di
lettere di Firenze. Si è formato a quella scuola critica
che da Renato Serra a Alfredo Gargiulo a De Robertis
rappresenta uno dei momenti originali e fecondi e glo¬
riosi della critica europea. Purtroppo in seguito si sono
fatte e si continuano a fare molte confusioni, e, in quel
campo, mi pare che il caos cresca ogni giorno.
Io non gli ho insegnato critica, non avrei saputo,
ma ho potuto indicargli come si forma un’espressione
nel segreto dell’animo d’un poeta a contatto d’un mo¬
mento storico e dell’universale realtà e d’uno stato del¬
la grammatica polemicamente affrontato, seguendo mo¬
di intuitivi che oggi chiamano di ricerca strutturale.
Ho detto modi intuitivi poiché, sebbene credessi e cre¬
da nel ritmo, e mi pare di averlo restituito alla poesia
italiana, ho sempre subordinato alla quantità la quali¬
tà, e non ho mai creduto troppo, nemmeno per la misu¬
ra dei versi, per la misura interpretativa dei versi, alla
statistica e ai suoi robot. Dallo strutturalismo pura¬
mente ingegnoso e logico sono dunque convinto che la
poesia non ricaverà mai il minimo frutto.
Dopo quelle di Gargiulo e di De Robertis, la mia
poesia deve a Leone Piccioni le pagine più illuminanti,
poiché tiene conto discorrendone anche di quei miei
suggerimenti d’insegnante che si riferivano molto più
a testi della mia poesia, da me usati come la più istrut¬
tiva cavia, che al lavoro di quei poeti che per dovere
d’ufficio commentavo. Era una possibilità unica di pa-
Saggi e Scritti vari 194}-1970 711

ragoni di cui nel mondo, a tutt’oggi, mi era stato con¬


ferito, e a pochi altri, il privilegio.
Dopo tanti segni di devozione da parte di Leone
Piccioni, e tante sue lodi commoventi rivoltemi, è giu¬
sto che io gli manifesti non tanto la mia gratitudine,
quanto la mia gioia per la sua attività saggistica. Dopo
avere avuto qualche maestro che spiegava i testi lette¬
rari con passione, egli ormai dimostra una sua appas¬
sionata singolarità nel mantenere una tradizione, rin¬
novandola.
I suoi interessi sono di scoperta della bellezza e del¬
la verità unica di una realtà poetica, ma sapendo bene
che tale realtà non va disgiunta dalla sua realtà sto¬
rica, come un’anima non può essere disgiunta dal suo
corpo, se vogliamo averne memoria per amarla e farla
amare sempre, e non per ridurla nella nostra memoria
a putrescente cadavere.
L’Antologia dei poeti negri dell’America del Nord è
in tale senso un libro esemplare. Per quei poeti e per
la musica di quei Negri, per quella musica che in mu¬
sica è il fatto più nuovo degli ultimi cento anni, Leone
Piccioni dimostra curiosità da moltissimo tempo, una
curiosità e un entusiasmo straordinari. È cosa di fami¬
glia, e Piero, suo fratello, di quella musica è rinomato
cultore.
Una prima edizione dell’Antologia è apparsa poco
dopo l’ultima guerra. A questa, pubblicata di recente,
ha collaborato nelle traduzioni, con la sua delicata espe¬
rienza di poeta, Perla Cacciaguerra.
Dei Negri dell’America del Nord, delle loro vicende
drammatiche, delle origini del loro canto, Leone Pic¬
cioni ha tracciato in un’introduzione e in un’appendice
al libro, la storia, seguendoli sul calvario, né credo pos¬
sa farsi con maggiore partecipazione dolorosa, né con
maggiore meraviglia partecipe per la poesia bellissima,
umanissima che ne è sgorgata.
Una chiosa vorrei permettermi. I Mussulmani, non
712 Giuseppe Ungaretti

dispiaccia ai Muslim che ora si dilaniano tra di loro


sino al patricidio, non sono meno colpevoli verso i Ne¬
gri dei cristiani, dei colpevolissimi, degli infami cri¬
stiani dimentichi di Gesù. Erano predoni arabi quelli
che, attraversato il Sahara, facendo capo a Timbuctù,
lasciavano in uno spiazzo prestabilito, a capi tribù ne¬
gri sopraggiunti coi loro servi, preziose provviste di
sale in cambio di giovani negri là deposti in catene, i
quali, giovani, maschi e fanciulle, dileguatisi i capi e i
servi, i Predoni avrebbero presi e trascinati via per
venderli a Sultani, Emiri, artigiani, bottegai e corsari
dei regni islamici o anche, dopo che Cadamosto avrà
aiutato il Portoghese a aprire la via di navigazione ver¬
so l’Africa, per cederli a Negrieri europei in attesa sul¬
la costa di poterne fare acquisto e di poterne rifornire
i mercati delle due Americhe.
Ho conosciuto i Negri sino dalPinfanzia. In Egitto
erano la persona fedele, in ogni casa. Ricche di latte,
le donne, quale bimbo nato laggiù, non le ricorda pre¬
murose balie? Nelle case dei ricchi, dei pascià e dei
bey, allora - ho quasi ottant’anni - c’erano ancora gli
schiavi. A guardia di giardini fondi, c’erano a sedere,
ai cancelli, eunuchi. Non avevano un pelo. Erano vec¬
chissimi, magri, alti, vestiti di nero. Portavano quel¬
l’abito che si chiamava la Stambulina, una specie di
tight. Mummificati, anzi impietriti. L’occhio giallo. Te¬
nevano le mani aperte sulle ginocchia. Parevano eter¬
ni, e la loro voce quando poteva udirsi, se borbottava¬
no, era più bambina della nostra, bambini.
Anche gli eunuchi di guardia nei harem, più giovani,
erano Negri. Qualche volta, davanti a casa nostra, si
sentiva, arrivati dal Kordofan, un branco di danzatori
schiamazzare al suono d’un’arpa spropositata. Nudi,
con il fruscio alla vita, degli zoccoletti di antilope del¬
la cintura, saltavano più su e più lievi che non sapesse
Nijinski. I corpi, erano i loro, meglio fatti della terra.
Oppure quel Negro, massiccio, compatto e duro co-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 713

me un ebano, che ci faceva paura, a noi ragazzi, quan¬


do dall’angolo della strada sbucava, suonando il suo
flauto, segnandone il ritmo con la sua gamba di legno.
Ne ho conosciuti di Negri. A folle li ho visti scen¬
dere per il carnevale a Rio, dalle loro favelle, dai loro
tuguri di latta sulle colline, con i loro travestimenti,
i loro tamburi, le loro sambe, le loro coreografie, la
loro pazzia preparata per i cordaòes durante l’intero
anno: un anno intero di privazioni e di dedizione so¬
gnante per pochi giorni di carnevale.
Li ho visti anche nei candombleu e nelle macumbe,
di notte, nella foresta, ballare sino al delirio, sino a
cadere in deliquio.
Li ho frequentati a Harlem di New York, ma come
sono nell’America del Nord, Leone Piccioni ve l’ha det¬
to troppo bene e non mi metterò a guastare le sue
pagine.
Li ho visti professori di greco e di latino a Parigi.
Ho incontrato spesso in cordiali colloqui, rappresen¬
tanti delle loro liberate nazioni dell’Africa.
E sempre li ho amati.
Il negro, il negro che sarà cattivo e buono come ogni
essere umano, il negro che ha sulla terra il corpo più
felice, che ha conosciuto tutte le infelicità, e ha con¬
servato nel pianto il suo ridere innocente, che ha cono¬
sciuto nel Nord e nel Sud dell’America il miscuglio di
tutti i sangui, ed è rimasto un purosangue, che si è ri¬
mescolato nella civiltà più meccanizzata e che non ha
mai perso il tenore, la grazia, la magia della natura
vergine, il Negro mantiene, in tempi disumani, ancora
in sé intatto il miracolo della umana ispirazione. Ne
avrete una prova convincente leggendo l’Antologia di
Leone Piccioni e Perla Cacciaguerra.
[PER ALLEN GINSBERG]
[1966]

Mi si offrono stasera qui tre occasioni felici: di ritro¬


varmi a Napoli in una delle città del mondo più ama¬
te - del mondo, lo sballottato di continuo da un paese
all’altro può usare questo vocabolo; di essere chiamato
a parlare d’un poeta straordinario, e caro amico, e ge¬
nerosissimo uomo; di essere a fianco, nel compito di
elogiare Alien Ginsberg, di Fernanda Pivano, una don¬
na alla quale sono legato non solo da. forte affetto, ma
anche da sempre crescente ammirazione per la sua or¬
mai lunga opera di studiosa e di traduttrice.
Sono molto commosso nel ritrovarmi a conversazio¬
ne con un pubblico napoletano. Ci sono stato l’altra
sera; ma non era la stessa cosa; era un teatro di corte,
un teatrino, se volete, e servivo solo da dicitore di ver¬
si, ed anche se i versi erano miei, come una statua
vetusta avevo il cicerone.
Napoli è per me un grande ricordo che incomincia
sino dal nascere della mia fama di poeta. Nel ’ 16, cin¬
quantanni fa giusti, venni qui, ci venni dalle trincee,
vestito da soldato, scalcinato, con gli ottanta esemplari
stampati a Udine del mio primo libro, Il Porto Sepol¬
to. Avevo collaborato alla « Voce » e a « Lacerba »;
ma era stata la « Diana » di Gherardo Marone, a pub¬
blicare a una a una quelle poesie via via che mi riu¬
sciva di fermarle sulla carta, era stato Gherardo a far¬
ne sentire la novità prima che le raccogliessi in volu¬
me. Gherardo mi ospitò nella casa dei suoi, e da essa
partì per l’Italia e per il mondo 11 Porto Sepolto-, e
a sorridermi la gloria non attese; ma gloria e vita co-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 715

moda non vanno sempre d’accordo; e scelsi una vita


di stenti.
Più tardi qui furono da me lette e commentate in
pubblico, al Circolo degli Illusi, le mie poesie di Sen¬
timento del Tempo, via via che le andavo componen¬
do. A Napoli tornavo quasi tutti gli anni, anche per
altri discorsi, sempre invitato per gl’illusi dal Duca
Carafa d’Andria, che era stato compagno in guerra di
Soffici e che Soffici mi aveva presentato a Roma.
Mi vedo ancora, qui a Napoli, a Fuorigrotta, sui gra¬
dini della Chièsa, dove ne custodivano forse le ossa,
chiamato a commemorare Giacomo Leopardi, in occa¬
sione del centenario della sua morte. Avevo avuto in
quei mesi la polmonite, ero imbacuccato come per la
traversata della Siberia, d’ogni lato s’alzavano a por¬
germi ogni sorta di pastiglie per la tosse. Le finestre
che davano sulla piazza erano piene di popolo, la piaz¬
za era gremita, ma, sebbene rauca, nella mia voce di
quel giorno mi parve che fosse la stessa folla, in un
clamore di stupenda chiarezza, a celebrare Leopardi,
il Leopardi che aveva tanto amato Napoli, a celebrarlo
come un vostro concittadino per sempre, com’è Virgi¬
lio vostro concittadino per sempre.1
Perdonatemi questa divagazione. Era necessario che
una volta mi sfogassi e ripetessi a voce alta il mio
amore e la mia gratitudine per Napoli. E ora parliamo
di Ginsberg. Un poeta non è mai la misura d’un altro
poeta, e se non fosse così non ci sarebbe più poesia,
e non sarebbe lecito di soffermarmi a ascoltare Gin¬
sberg avendo nominato Leopardi. Invece mi è lecito
di andare in compagnia nel medesimo tempo di Jaco-
pone e di Francesco Petrarca, di Villon e di Leopardi,
di Ginsberg e di Mallarmé. Ciascuno ha da dirmi la
sua verità, e di ciascuno la verità diversa esige da chi
la manifesta che le sacrifichi senza mai secondi fini,
se è poeta, la propria vita interamente.
Fernanda Pivano ha già narrato, e come sa compiu-
716 Giuseppe Ungaretti

tamente narrare soltanto lei, la storia della Generazione


Beat, e forse vi alluderà stasera. M’importa poco delle
scuole, non può darsi peso che, alle persone e alle ope¬
re, e alla fine dei conti da giudicare non rimangono
che le opere. Guardate, a proposito di scuole, già in
America un’altra è in voga, la compongono i Vietniks.
Come i Beats, si propongono d’interpretare chi sia in
uno stato d’animo di apprensione e di rifiuto della
società. Ma la poesia del loro Bob Dylan, che negli
Stati Uniti manda in delirio i giovani, è la poesia d’un
cantautore di certo infinitamente più dotato di quelli
che berciano a Sanremo, ma è poesia ingenua, enfa¬
tica, banale, rozza. Pensate in confronto, all’esperien¬
za di Ginsberg: ha girato Africa e Asia, è sempre in
viaggio. Arrivando in un paese, la prima cosa che cer¬
ca è il luogo degli affamati, è il luogo dove sono i
giacigli dei piagati, i luoghi dove può chinarsi a toc¬
care, a accarezzare gl’inconsolabili, i rassegnati. Il fe¬
tore, il luridume, lo schifo non è per colpa loro. È
impossibile che sulla terra, per sempre, i più non pos¬
sano che soffocare le proprie urla temendo di accre¬
scersi il male. Da un territorio dopo l’altro, dopo po¬
che settimane, o pochi giorni, o a volte poche ore,
Ginsberg viene espulso come un mostro, o, per essere
più esatti, anche lui come un relitto.
Per meglio andare avanti, occorre che ve la legga,
una poesia del ventiquattrenne Bob Dylan. La canta
lui, ma non avendo mai saputo né cantare, né accom¬
pagnarmi con la chitarra, dirò semplicemente le parole
della poesia, che è dedicata ai fabbricanti di bombe:
« M’auguro che morrete, che l’ora della vostra morte
non tarderà. Nel serale pallore i vostri feretri accom¬
pagnerò, e appena vi saprò calati sottoterra, calpesterò
la tomba vostra, per accertarmi che davvero siete mor¬
ti, finalmente »?
È poesia beat dozzinale. Ma a questo punto un fat¬
to vi metterà in grado d’immaginare l’importanza as-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 111

sunta dalla poesia beat, anche se l’abbia purtroppo


assunta specialmente a mezzo di rifacimenti. La rivista
americana « Esquire » ha fatto girare tra gli studenti
universitari la seguente domanda: Qual’è la persona¬
lità più notevole dei nostri tempi. La maggioranza del¬
le risposte dava: 1° Kennedy, 2° Bob Dylan, 3° Fidel
Castro. Alcune settimane dopo, agli stessi studenti, la
stessa rivista « Esquire » domandava: Chi è il maggio¬
re degli scrittori e poeti oggi viventi negli Stati Uniti.
Risposta quasi unanime: Bob Dylan. Il « New York
Times » ha dedicato alla faccenda un articolo di sor¬
presa. Gli Stati Uniti sono il continente più complesso
che possa esistere per la varietà delle popolazioni che
via via sono andate e vanno componendolo. Innume¬
revole varietà d’opinioni, di sentimenti che vanno di
continuo mutando in innumerevoli varietà, vi si me¬
scolano e vi fermentano. Non va dato dunque eccessivo
rilievo a quel convincimento di ragazzi, che pure for¬
niranno in parte gli elementi alla formazione della
classe dirigente di domani. Infatuazione di ragazzi co¬
me sarebbero da noi quelle per l’Inter o la Fiorentina,
o per Bobby Solo? Sarà.
Torniamo a noi. La poesia esprime attraverso i fatti
personali, attraverso particolarmente i fatti personali,
l’aspirazione e la disperazione che in un dato tempo
sono comuni a tutti. La radice della poesia, si affonda
nella vicenda privata d’una persona per affondarsi nel¬
la storia d’un periodo, per illuminarsi al di là della
storia. È tale la ricetta poetica della Generazione Beat?
Ricetta efficacissima. Vi ricorrono solo i veri poeti.
La Beat Generation comprende, per loro reciproca
solidarietà, sino dalle origini, se non erro, ma nella
prefazione di Fernanda Pivano 3 avrete, s’è già detto,
ogni notizia, i seguenti scrittori: Gregory Corso, Law¬
rence Ferlinghetti, William Seward Burroughs, Alien
Ginsberg. Prima di andare avanti, ho il dovere, a pro¬
posito di Ferlinghetti, di manifestare un disappunto
718 Giuseppe Ungaretti

che non è solo mio, ma anche dei miei giovani amici


di « Tel Quel », e di chiunque sia al corrente delle
cose. Ferlinghetti nell’Antologia che pubblica dell’o¬
pera di Antonin Artaud (The City Lights Books) ne
falsa la natura, il carattere e la portata servendosi per¬
sino di documenti d’improbabile autenticità. Sono sta¬
to in rapporti di stretta amicizia con Artaud. E mi si
perdoni dunque se intervengo. Non si mette in dub¬
bio la buona fede di Ferlinghetti, si dubita, e si ha
fondata ragione per dubitarne, della validità delle sue
informazioni. Considerato sul piano di Rimbaud, Ar¬
taud è il maggiore poeta apparso nel mondo dopo Rim¬
baud, è, come ammettono ormai tutti, il maggiore rin¬
novatore moderno, per teoria e per esperimenti, del¬
l’arte del teatro. Chiederei a Ferlinghetti e a chiunque,
se ne avessi autorità: nessuno osi servirsi, anche quan¬
do fossero vere e dichiarate, di manie dell’infelicità
per farsene il predicatore, anche se da quelle manie,
da quelle debolezze, da quelle vanterie d’irregolarità,
da quelle sfide all’ingiustizia, da quelle imprecazioni
spudorate contro l’affronto implacabile dell’odio, è sor¬
ta poesia. Farlo, sarebbe un offendere quella libertà
espressiva che ciascuno ha il diritto di affermare a suo
modo, come con tanta veemenza e tanta sublimità di
poesia ci dimostra Alien Ginsberg.
Si fa a proposito di Ginsberg il nome di Walt Whit-
man. Anche Fernanda Pivano lo fa, e motivando ap¬
pieno, come sempre, il suo giudizio. Certo quella di
Whitman è l’unica voce della poesia americana prece¬
dente che poteva persuadere Ginsberg. È una voce che
non crede d’umiliarsi facendo propria la voce del po¬
vero, strappandosi dall’anima l’urlo del proprio spirito
e della propria carne tormentati. Ma il furore, il sole
dell’estate avrebbe offerto balsamo alla ferita di Whit¬
man, l’avrebbe cauterizzata. Whitman era un romanti¬
co, addirittura anzi un vittorughiano, e Ginsberg non
ha sete che d’amarezza, anche se sempre di più lo stra-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 719

zia e lo fa urlare di ripugnanza e di nausea, una deso¬


lazione senza scampo. A Ginsberg è consueta la lettu¬
ra, mi pare di Blake. È il poeta che cita di più, e certe
poesie: Orbano selvaggio, Un asfodelo, Dietro al reale,
somigliano molto per cadenza, semplicità ricercata, ai
Canti d’innocenza e d’Esperienza. Non gli è però nem¬
meno lontano il Blake cataro dei Libri profetici, come
si vedrà presto, quando m’occuperò di Kaddish. È na¬
turale che il versetto biblico sia familiare alla poesia
dell’uno e dell’altro. La Bibbia di Blake è di casa nel¬
l’ermetismo settecentesco. Giobbe e Isaia sono apoca¬
littici in Ginsberg. Nel crudo verismo di Ginsberg, la
crudeltà d’una sorte umana non può essere sciolta se
non in una visione d’Apocalissi. Non paia strano, la
Cabbaia dovrebbe essere e sarà ed è un libro da secoli
e secoli meditato intorno a Ginsberg e da Ginsberg
stesso, ma è Blake che se ne è valso attraverso quella
cultura delle tenebre che terrà testa in quel secolo alla
filosofia dei lumi.4
[Dopotutto, la Cabbaia e l’Apocalissi appartengono
a una stessa tradizione, che l’Apocalissi rinverdisce,
e la Cabbaia porta a supreme conseguenze di dottrina
e d’immagini.]
Il poeta che gli è più vicino è Apollinaire. Avreb¬
be mai scritto queH’orrida e straziante e abissale vi¬
sione della pietà che è Kaddish, senza Apollinaire? Le
parole di Apollinaire erano lievi, egli aveva una tale
delicatezza di parola che anche nel descrivere la guer¬
ra, tutto veniva composto in un fiorire melodioso di
colori feerici. [La tecnica della simultaneità, da Apol¬
linaire introdotta nella poesia, consiste nell’accostare
gli eventi, presentandoli non in un certo ordine di
luogo e di tempo, ma registrandoli uno dopo l’altro
così come si affacciano alla mente, in presenza di un
determinato viso, di una determinata idea, o di un
determinato ricordo d’una persona. Essa è stata, in mo¬
di più complessi, adoperata da Joyce, è stata adopera-
720 Giuseppe Ungaretti

ta fino a oggi da diversi altri, ed è adoperata da Gin-


sberg, anche. È la presenza più sentita di Apollinaire
in poesie di Ginsberg come Kaddish.] Qui la parola
è cruda, e si fa sempre più spasimante via via che
svela la strada, la lunga strada, la millenaria strada
della sofferenza umana, rispecchiata nel corpo, nella
mente, nei sentimenti della mamma che muore, nelle
vicende della vita di vittima della mamma che muore.
Poetica
*
RIFLESSIONI SULLO STILE
[1946]

Un pittore surrealista portoghese di talento, Antonio


Pedro, avendomi chiesto di inaugurare con un discor¬
so la sua esposizione a S. Paulo del Brasile che ebbe
luogo nel 1941, mi portò a fare le osservazioni se¬
guenti. Dicevo:

« In questo secolo che, per la seconda volta, ha


spinto i suoi figli a cadere nell’inferno della guerra
affinché conquistino mediante un enorme dolore la
misura del loro tempo, è possibile sorprendersi se l’ar¬
te ancora è costretta e si tormenta nel rinnovamento
dei suoi mezzi espressivi?
« Indefinito ancora com’è, il secolo XX cerca anco¬
ra la sua propria lingua. E intanto non esiste model¬
lo al quale l’artista d’oggi non sia ricorso: affreschi
di Pompei, statue dell’Isola di Pasqua, feticci negri,
precolombiani geroglifici da ceramiche o da fusaioli,
simili stranamente a quelli degli scavi di Hissarlik,
l’antica Ilion, virtuosismi del Barocco in disegni del
corpo umano anatomicamente e prospetticamente inap¬
puntabili anche se dediti a rappresentare assurdi movi¬
menti in iscorci azzardati, ecc. Ma il passato e i gradi
dello spazio avevano perso la loro eloquenza davanti
all’umiltà e alla disperazione di chi li consultava.
« Sino a che punto dovevamo confessarci smemo¬
rati o, peggio, rinunciare alla memoria davanti a se¬
gni memorabili se, rincorrendo la ragione oscura che
aveva lasciato dietro di sé la loro traccia, non arriva¬
vamo, imitandoli fedelmente, se non a decifrare, eia-
724 Giuseppe Ungaretti

scuno di noi, il proprio individuale e incomunicabile


segreto?
« I gruppi equestri dei Dioscuri del Campidoglio o
quelli di Piazza del Quirinale, thè cosa non insegnaro¬
no a De Chirico? La pietra dei cavalli si dissolse in
carne, ed ora essi si avventano contro alle onde dalla
solitudine di malinconiche spiagge, inseguiti dai doma¬
tori. Il tempo? Non c’è più agio di calcolarne la pro¬
fondità e di percorrerne la scala infinita di piani co¬
me una volta, collocando ciascuna cosa alla sua giu¬
sta distanza; e tutto si confonde in un unico piano,
precipitandosi contro di noi. Eppure non possediamo
altre parole se non quelle che ci fornisce la cultura;
ma una cultura depauperata da ogni sostanza storica,
divenuta prodigiosa e spaventosa come, per occhi pri¬
mitivi, il sole, le stelle e la luna, e la nascita e la
morte.
« Un Picasso, l’affascini il bizantinismo dell’arcaico
catalano o il Greco, che sforza il rendimento plastico
d un particolare con la violenza della sua emozione; o
s incrudelisca invece a assimilarsi l’estetica ercolanen-
se d’un accademico come il Winckelmann e lo per¬
suada la libertà calligrafica d’un David o d’un Ingres,
o si distragga nel giuoco astratto di toni e di volumi
d un naturalista come Cézanne, non potrà portare cia¬
scuna sua esperienza se non ad una riscoperta lirica
del proprio singolare universo.
« Pittura pura fondata sull’impeccabilità delle rela¬
zioni di colore e sull’eleganza rigorosa dell’arabesco,
come in Picasso, o pittura narrativa abbandonata al¬
l’umore, alla vena, all’estro, come in De Chirico, Lu¬
na e l’altra hanno di mostruoso che tanto più origi¬
nale sarà 1 opera quanto più prese a prestito saranno
le parole usate, quantunque sottoposte alla sorpresa
duna radicale metamorfosi dalle esigenze dell’animo.
« Chiamo in causa Picasso e De Chirico perché so¬
no nomi che si trovano come antagonisti al sorgere
Saggi e Scritti vari 1943-1970 725

d’una polemica di cui in quel momento segnavano i


due poli; ma s’intenda che mi riferisco all’estremo ro¬
manticismo di tutta la arte degli ultimi quarant’anni,
quale si svolse nei tragici dibattiti d’un’Europa che
non intendeva e non intende morire.
« L’uomo nel primo Romanticismo appariva al poe¬
ta schiacciato dalla natura, come in filosofia doveva
apparire ai Presocratici; l’uomo, nel Romanticismo più
recente, è alle prese con i mezzi che s’era andato fog¬
giando per sottomettersi e disciplinare la natura: è
alle prese con i progressi rivoluzionari della scienza,
col monopolio dell’oro, con il caos d’un’erudizione sen¬
za più una sicura radice religiosa e senza limiti.
« Umanizzata la natura, ora l’uomo si trova travol¬
to a umanizzare il mostro nato dalla sua propria uma¬
nità. La storia non è se non una fatica di Sisifo.
« Sebbene il Romanticismo affermi l’autonomia del¬
l’attività artistica e quindi l’esperienza di ciascun ar¬
tista decreti unica e talmente non trasmissibile che
nessuno mai potrà rifare un’egloga di Virgilio o un
ritratto di Franz Hals: - non sarà forse l’affermazio¬
ne romantica in contrasto con il malessere morale pa¬
lese da quasi due secoli in tutta l’attività umana?
« Dico che possa perfettamente ammettersi che il
giudizio morale e quello estetico siano, come sono, di
ordine diverso, e che possa un’opera d’arte essere este¬
ticamente riprovevole e moralmente meritoria, o vice¬
versa; ma dico che del pari non si possa fondatamen¬
te non rilevare che un’anarchia nelle credenze non pos¬
sa se non risultare di grave discapito ai doveri d’un
linguaggio, paralizzandogli la funzione sociale.
« In tali casi di amnesia storica da parte del lin¬
guaggio, il poeta potrà sempre - non senza atrocemen¬
te soffrirne, e la sua poesia porterà i segni del suo
dolore - limitare le sue preoccupazioni alla comunica¬
bilità magica delle parole, delle linee, dei colori e dei
suoni, la quale è indipendente da ogni valore storico
726 Giuseppe Ungaretti

e risiede nelle stesse fonti dell’atto poetico. Per que¬


sto, solo per questo, l’artista degli ultimi quarantan¬
ni trasferiva, nell’interno dell’uomo, le foreste, i ter¬
rori, le bufere, avendo ritrovato nel suo intimo l’inci¬
tatrice previsione dell’aurora e degli splendori che fa¬
talmente nella storia succedono sempre al sacrificio.
« Era il riconoscimento che non può esserci stile,
segno generale d’un’epoca nel segno particolare d’un
singolo, senza una certa unità morale e senza una cer¬
ta unità di cultura raggiunte nel mondo, sia pure per
negazione o per maraviglia. Poteva dunque esterior¬
mente, il suo, comunque valere come uno sforzo anti¬
cipatore di sintesi stilistica, anche se non veniva a se¬
gnalare se non l’esplorazione d’un individuale conti¬
nente infernale.
« Oso presumere che possa ora capirsi il significato
che dò a stile. Rappresentate le fattezze del Faraone
e indicandone il nome nella materia più indistrutti¬
bile che gli riuscisse di procurarsi, l’Egiziano chiude¬
va la mummia nel cuore della terra. Scavata nella roc¬
cia, la sala era incassata in un succedersi di pareti di
blocchi di granito, formando impenetrabile una vera
montagna. Si stimava che tanto potesse sopravvivere
uno spirito quanto potesse perdurare sulla terra ciò
che era legato al suo nome. Se il tempo fosse giunto
a distruggere i segni del suo nome in modo tale che
non fosse sopravvissuto alcun modo umano di evoca¬
re la memoria dello scomparso, egli per sempre, solo
da quel momento, sarebbe stato da considerarsi pe¬
rito. Il pensiero ha alcunché di vero. Riapparirà nella
reminiscenza platonica, deducendosene le forme eter¬
ne; ma quanto più cordiale. Su di esso si fonda, e
mi si perdoni se, per farsene un apologo, un poeta
aggiusta anche le cronache allucinandone tratti som¬
mari presi qua e là; su di esso si fonda lo svolgimen¬
to millenario di uno Stato ieratico sempre impegnato,
anche nel succedersi di radicali trasformazioni, a ren-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 727

dere immortali alcuni nomi di monarchi. La società non


doveva avere altro principio, né altra aspirazione, né
altra mira, e per aumentare incessantemente l’abilità
dell’artigiano, l’esercizio d’ogni mestiere era trasmes¬
so di padre in figlio. Era un mondo tanto tradizionale
nei suoi simboli e tanto unanime nella sua ispirazio¬
ne che considerava perfino la manualità come eredita¬
ria. Nelle funzioni supreme, la successione, per man¬
tenersi pura, doveva essere assicurata dal matrimonio
tra consanguinei e, se la sorte avesse favorito la di¬
nastia con figli maschi e femmine, dall’incesto tra fra¬
tello e sorella. Tutte le volte che mi sono trovato da¬
vanti a un monumento egiziano, mi sono sentito ag¬
ghiacciare e terrificare d’orrore.
« Eppure quelle statue d’oro viste al museo del Cai¬
ro, di fanciulle che teneramente alzavano le mani tre¬
pide e delicatissime a trattenere l’ombra; eppure quei
graffiti, visti se non sbaglio a Saqqara, d’uccelli in un
verissimo vento di volo; eppure questi e infiniti altri
oggetti di quell’arte recavano l’impronta d’una così in¬
dividuale emozione, recavano il segno vivo e univer¬
sale che legittimerebbe e renderebbe eloquente qual¬
siasi stile, anche quando, come questa volta, fosse nel¬
la sua comandata implacabilità, stile sinistro e ripul¬
sivo: essi recavano il segno che redimerebbe qualsiasi
stile essendo segno che, superando ogni soffocamento,
riesce a liberarsi e a provenire dal profondo d’una sin¬
gola anima.
« È il punto dove il Romanticismo aveva sentito la
verità. La commozione è negli affetti; ma non viene a
noi, in arte, se non da un piacere puramente estetico.
Caduta l’idolatria, cessò il fregio del Partenone d’es¬
sere seducente, sia pure animato dal nostro cristiano
sentire?
« Nel Settecento lo stile, confinato nelle frivolità di
salotto, intesse i fini fili d’una consumata educazione
728 Giuseppe Ungaretti

e d’una conversazione spiritosa a velare un’agonia con¬


dannata a brutali irritazioni erotiche.
« L’affanno mistico che guidò la mano dell’artigia¬
no egizio o il sottile vincolo sociale, vicino a spezzar¬
si, che giustifica le sollecitazioni sessuali delle stampe
o delle miniature del tempo di Casanova, non posso¬
no interessarci se non come indicazioni di confini estre¬
mi, fuori dei quali siamo, con il Romanticismo, caduti
a vivere. Solo che il motivo della solitudine dell’uo¬
mo accompagnato dalla storia d’un universo perso nel¬
la cecità del proprio essere, e che poteva essere mo¬
tivo romanzesco e umoristico in De Chirico e epigram¬
matico e tragico in Picasso, non esauriva né i loro né
gl’interessi di qualsiasi altro artista moderno degno di
tale nome. L’artista non si rassegnerà mai ad accetta¬
re che non gli venga concesso dai tempi di conside¬
rare lo stile come un fatto di unanimità sociale, ma
solo come un fatto personale, ma solo come un fatto
simbolico nel quale vengano a proiettarsi i tratti di¬
stintivi della propria coscienza, ma solo come l’affer¬
mazione della libertà e dell’unicità insopprimibile del¬
la persona umana. Sarà sempre una causa di somma pe¬
na per un artista doversi rassegnare a operare esclusi¬
vamente per fatto personale, anche se, per grazia di
Dio, un’aura di poesia riscatterà sempre la sua fatica
e sarà sempre il principio più vero di stile. All’arti¬
sta d’oggi, ripetiamolo, poteva essere indifferente e
esteticamente occorreva gli fosse indifferente, che i mo¬
delli, ai quali si volgeva per consiglio, appartenessero
a un’epoca piuttosto che ad un’altra; ma ciò non di¬
minuiva l’esacerbamento di non potersi volgere a mo¬
delli se non per suggerimenti tecnici, anche se di alta
indole poetica, quando nel suo animo tutto invece re¬
clamava quel confronto con un ordine collettivo di vi¬
ta che poteva inavvertitamente stabilire, per esempio,
l’architetto d’una cattedrale gotica. Ma poteva nelle fi¬
gurazioni, oltre il racconto, la maggior parte dei fedeli
Saggi e Scritti vari 1943-1970 729

intendere allora anche la pura bellezza dell’arte? E per


qualche lato, non è il Gotico odioso quanto l’Egizio?
Nemmeno in quest’arte la bellezza morale, cioè il su¬
blime, è sempre liberamente conseguita, né sempre la
perfezione sensibile, che non può essere dimostrata se
non da purezza metrica, in essa è priva di gravi di¬
fetti di spontaneità, né si conciliano in essa sempre
puntuali l’una e l’altra condizione. Ma le credenze era¬
no allora comuni, ma il linguaggio è oggi babelico.
« Non c’è da scoraggiarsi, e si rifletta che periodi di
crisi e di transizione possono offrire ai secoli un’ope¬
ra sublime come la Divina Commedia; si rifletta che,
senza Dante, il Petrarca e il Boccaccio non avrebbe¬
ro potuto dare inizio al Rinascimento. Al difetto d’un
rapporto di stile che all’artista moderno permetta di
stabilire contatti stretti tra l’opera sua e uno stato
morale di sintesi conseguito dalla società contempo¬
ranea, sarà tuttavia non piccolo risarcimento che al¬
meno egli possa sentirsi autorizzato a concepire chia¬
ramente l’unità stilistica, a poco a poco conseguendo¬
la nella sua opera anche se non possa avvenirgli mai,
purtroppo, di chiarirsene l’instabile concetto se non
entro la mortificazione degli angusti limiti polemici
indispensabili all’affermazione, sull’esclusivo terreno
dell’arte, della propria personalità. »

Tali erano alcune mie riflessioni del 1941, quali ora


le ricavo dal numero di primavera del 1942 della ri¬
vista « Variante » che si pubblicava a Lisbona, e che
le riportava nel loro testo portoghese.
Il mio discorso m’era sorto in mente in un modo
assai curioso. Mi assillava l’obiezione se alcuni tenta¬
tivi dell’arte moderna non oltrepassassero i fini e i li¬
miti dell’arte. E mi stupiva poi che quei tentativi fos¬
sero quelli della sola arte vitale e meritevole di con¬
siderazione in quel periodo. Mi rispondevo, e ve ne
ho esposto le ragioni, che infinite erano le specie d’ar-
730 Giuseppe Ungaretti

te già fiorite, e che all’arte senza distruggerne il fine, il


fine estetico, — e insieme fine etico e patetico — non po¬
teva farsi sopportare accademiche determinazioni di
specie. Se l’arte era, in quel dato momento, di quel¬
la specie, era segno che il genio umano avendo da
identificare e esprimere il segreto dei suoi tempi, lo
avrebbe dentro di sé trovato in quei termini e non in
altri. Né il genio è determinato dai tempi, se possie¬
de la libertà di poterne scoprire il senso e il valore.
E m’era accaduto, mentre riflettevo, di aprire a caso
un libro e di trovarmi sotto gli'occhi la pastorella di
Don Denis:

Unha pastor ben talhada


Guidava en seu amigo
E estava, bem vos digo,
Per quant’eu vi, mui coitada...

Si lamentava la giovine di bel taglio dell’amico che


la trascurava e:

Eia trazia na mào


Un papagai mui fremoso,
Cantando mui saboroso,
Ca entrava o verao...

Ella recava in mano un pappagallo molto agitato


e che cantava con molto gusto, poiché s’entrava in
estate.
E diss: « Ai! Santa Maria!
Que sera de mim agora? »
E o papagai dizia:
« Bem, per quant’eu sei, Senhora ».

E disse lei « Ahi, che sarà di me? ». E il pappa¬


gallo « Se devo giudicare da quello che provo io: - be¬
ne, sarà bene, signora ».
Saggi e Scritti vari 1943-1970 731

Alcune curiose associazioni d’idee provocava in me


l’arguta pastorella.
Mi dicevo: non ho incontrato nella poesia proven¬
zale, madre della lusitana, né in quella araba, di cui
nei cantari di questo tipo la provenzale è figlia, se
non falconi, falconi parlanti. Potrà darsi che un filo¬
logo possa dimostrare domani la mia ignoranza su
questo punto, ma le cose rimarrebbero nella sostanza
allo stesso punto. Mi dicevo: di quanta verità non si
arricchì d’improvviso il favoleggiare da quando un’au¬
dacia poetica portoghese del secolo xiv, sostituì al
falcone il pappagallo che è, difàtti, mostruosamente,
un animale parlante. Oggi ci troviamo di fronte a mo¬
struosità più sorprendenti e, oggi, può parlare un di¬
sco. C’era anche l’immagine dell’estate che mi colpi¬
va: « Non disperarti, signora: l’amico verrà, l’estate
è in vista ».
Ecco l’arte, mi dicevo ancora, l’arte spinta a sor¬
prendere, spinta a darsi per fine la « maraviglia », e
che tuttavia riesce ad avere accenti, nella meravigliosa
sua stranezza scopritrice di verità, caldi di promessa
umana.
Un’altra prova la recherà proprio una seconda com¬
parsa del volatile mostruoso, in un verso della Geru¬
salemme. E da quale altra mai parte mi sarebbe po¬
tuto venire un poeta in aiuto, con un’audacia pari a
quella di Don Denis?
Tra gl’incanti del giardino d’Armida, è descritta « la
music’ora » che accompagna

Vezzosi augelli infra le verdi fronde.

Vola fra gli altri, un che le piume ha sparte


Di color vari, ed ha purpureo il rostro,
E lingua snoda in guisa larga, e parte
La voce sì, ch’assembra il sermon nostro.
Questo ivi allor continovò con arte
732 Giuseppe Ungaretti

Tanta il parlar, che fu mirabili mostro.


Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti;
E fermaro i sussurri in aria i venti}

Galileo, al quale il Tasso faceva venire l’itterizia,


brontola: « Pedanteschissima è questa descrizione di
quest’uccello dal purpureo rostro e dalla lingua larga
e che parte la voce, che son tutte pennellate da pit¬
tori di sgabello ».
Strano che l’illustre uomo dell’« eppur si muove »
non si fosse accorto che anche la parola s’era messa a
girare. Già prima del Camòes la parola tassiana si col¬
ma d’umori d’avventura, apre le vele a un atlantico
vento. Diciamo però la verità: salvo l’ultimo verso,

E fermaro i sussurri in aria i venti,

l’ottava è piuttosto bruttina. La segue però subito


un’ottava stupenda e dove chiunque senta poesia ver¬
rà sempre trattenuto dalla verbale maraviglia ch’era
giusto chiamare « mirabil mostro »:

Deh mira, egli cantò, spuntar la rosa


Dal verde suo modesta e verginella;
Che mezzo aperta ancora, e mezzo ascosa,
Quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
Dispiega: ecco poi langue, e non par quella,
Quella non par, che desiata avanti
Fu da mille donzelle e mille amanti}

Il « mirabil mostro» mi portava quella mattina a


riflettere anche al Barocco, se riflettevo al Tasso, e a
collegarlo, quasi peccato, felice peccato d’origine, alle
moderne ricerche. La poesia europea s’era difatti in
quel momento colmata d’un colore tanto inverosimile,
festoso e remoto, quantunque reale, che la sorpresa,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 733

« il mirabil mostro », ne diventava in qualche modo


la legge segreta. Sentiva bene il Tasso l’atroce ama¬
rezza dalla quale doveva snodarsi l’esperienza cui il
suo secolo si volgeva, e sapeva bene che, come ogni
esperienza umana, si sarebbe estinta in una successiva
novità:

...ecco poi langue, e non par quella,


Quella non par, che desiata avanti
Fu da mille donzelle e mille amanti.

Ma, comunque, non rinvenendo dalla sorpresa della


novità d’effetti che, per un lungo tratto di tempo, sta¬
va per spargere la sua poesia nel mondo, il Barocco nel
mondo, mostro chiamerà l’alata maraviglia, ma resti¬
tuendo è vero alla parola quasi il suo senso latino di
portento, di segnale sprigionato dalla virtù misteriosa
delle cose, per risvegliare l’attenzione o gli affetti de¬
gli uomini, e recare in luce una verità, asserendola e
dandone testimonianza nel medesimo tempo. A causa
d’un analogo valore etimologico, ed anche perché tan¬
to Laura l’aveva fatto soffrire, il Petrarca la chiama¬
va:

Altero e raro mostro delle donne!

Una terza associazione m’era sopraggiunta in mente


a legarmi quella mattina, il filo delle idee.
Una volta m’era avvenuto di trovarmi nella landa
argentina, dalle parti di Santiago dell’Estèro, tra il
Rio Duke e il Salado occupati incessantemente a mu¬
tare di letto, via via che il limo da essi trainato, fa¬
cendosi troppo alto, li rovesciava da un lato obbligan¬
doli a cercarsi di nuovo l’alvo. Attraversò in quel mo¬
mento la pista di corsa, un cobai spaurito: « Aspetti, »
mi disse l’etnologo Wagner che mi accompagnava « ora
arriva il serpente che l’animalino sta fuggendo ». E
734 Giuseppe Ungaretti

soggiunse: « Sbucano i serpenti, s’annunziano le piog¬


ge ». Ci fermammo un po’ più oltre e in quella deso¬
lazione mi fu offerto uno spettacolo degno di ricordo.
Un uomo, un poveretto che non aveva che i suoi cal¬
zoni di tela lacera, uscì dalla sua tana, fatta di tron¬
chi e qualche latta di scatole e qualche straccio appli¬
cati alla meglio: uscì sostenendo nelle braccia un’an¬
fora funeraria. Conteneva uno scheletro; e chi sa co¬
me in un recipiente tanto stretto sarà stato possibile
introdurre il cadavere che, disincarnato com’era, era ri¬
dotto a parere una lisca di pesce. Esaminando l’an¬
fora, scorsi un ornato dal quale era facile dedurre che
la greca è la stilizzazione di due mani che si stringo¬
no. Strano, strano che la greca sia andata poi a finire
sui berretti dei generali.
L’uomo m’indicò sparsi per terra altri vasi che in
quella necropoli d’antichi Indi aveva dissotterrato e
vidi così una mano con un occhio nel palmo per si¬
gnificare che il primo segno poetico dell’umanità sarà
stato, suppongo, l’immagine grafica, antecedendo an¬
che il segno orale; oppure per significare che la ma¬
no ubbidiva con rapidità a un occhio sicuro e che il
defunto era forse un abile arciere. Altri ornati com¬
binavano in unità d’effige umana la testa del serpente
e ali, l’orma dei rettili o il brillare del raggio, lacri¬
me di donna o la rigatura delle gocce di pioggia e for¬
se volevano fissare un momento determinato della sta¬
gione, e mi tornava in mente l’osservazione di Wagner
quando il cobai scappava inquieto; o volevano prolun¬
gare lo stupore a una reminiscenza vaga dell’evoluzio¬
ne della specie riaffiorata nella mente dalla notte dei
tempi; o più probabilmente fare 'allusione a un rito
nuziale; o chi sa che...
C’erano lì nel polverone, alcune euforbie e pochi
fichidindi, e un albero maestoso tra i cui rami era so¬
speso uno spropositato falansterio. Lo feci, impruden-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 735

te, preso da curiosità, dondolare con una spinta del di¬


to, e fuggirono dai nidi gridando come ossessi, cento
pappagalli, svaporando in alto come una maravigliosa
nuvola di bandiere.
Ecco, secondo le diverse epoche e le personalità di¬
verse, l’artista ha sempre espresso gl’istinti comuni dei
viventi, la fame e la libidine, gl’immutabili istinti di
conservazione e purtroppo insieme di distruzione, ma
ha espresso anche un suo bisogno religioso di cono¬
scere le ragioni causali e le ragioni finali del vivere,
ma ha anche espresso un suo bisogno di sentirsi unito
a tutti i suoi morti e a tutti gli scomparsi e a tutta
la realtà dell’universo oltre la notte dei tempi; ma ha
espresso anche il maraviglioso piacere che anche una
natura desolata è in grado d’offrire. E m’inchinavo tra
questi pensieri verso il diseredato scavatore di anfore.
Una società di caste chiuse come quella egizia, non
è più possibile; l’umanità avanza. Se dunque tanti mil¬
lenni di sofferenza hanno portato alla rivelazione del
Vangelo, che fa tutti gli uomini uguali nella dignità
umana fondando i rapporti sulla libera affermazione
dell’umanità, sarà possibile che tanti altri secoli di
sofferenza non conducano gli uomini a instaurare final¬
mente nella loro società quella tranquillità economica
che a ciascuno garantisca la libera affermazione dell’u¬
mana dignità? Se il lavoro fosse oggi nel mondo ragio¬
nevolmente organizzato, tutti gli abitanti della terra
potrebbero già oggi, godere d’una vita agiata, fi pia¬
cere estetico è un privilegio come tanti altri oggi, per¬
ché tutti gli uomini non sono ancora ammessi, per di¬
fetto di mezzi materiali e d’educazione, a parteciparvi
pienamente. Non è l’arte, non è la scienza, non è la
cultura che devono arrestarsi nelle loro ricerche rivolte
ad arricchire il patrimonio umano: è la società che
deve conseguire un assetto più umano. Nessuno sente
più dell’artista, se si tratta d’un vero artista, la pena
736 Giuseppe Ungaretti

che la sua parola rimanga indecifrabile a tanta parte


degli uomini, come se la sua arte fosse opera straor¬
dinaria, mostruosa per la sua specie: la sua arte stes¬
sa porta la ferita sanguinante d’un’impotenza così in¬
giusta.
POETA E UOMINI
[1946]

La recente, opportuna traduzione di Antonio Banfi


delle Considerazioni sulla storia del mondo di Jacob
Burckardt, mi* ha riportato a riflettere intorno ad al¬
cune obbiezioni senza tregua mosse, dal Romanticismo
ad oggi, all’attività contemporanea dell’arte, e ripetu¬
te oggi con tanta frequenza, tanti anni dopo la morte
del Burckardt, quasi negli stessi termini che lo sto¬
rico svizzero usava. Ragiona il Burckardt, a proposito
di poesia, di due ordini di fatti, e chiama il primo:
« grande crisi della poesia », avendo legato il secondo
alla stretta dipendenza della forma dal soggetto nei
periodi primitivi. Lasciamo in pace questo secondo
punto. Ne abbiamo discusso in altra sede, ed eviden¬
temente vi si confonde forma con ritmo, ammenoché
il Burckardt non avesse voluto parlare delle ricerche
di linguaggio. Notate, non sono le ricerche di linguag¬
gio in sé, da condannare. Sarebbe anzi inconcepibile,
incomprensibile in un’epoca di crisi degli ordinamenti
sociali, mentre tutto tende dalle basi ad una forma
nuova tra estreme difficoltà, che solo gli artisti si man¬
tenessero assenti, non ricercando anch’essi i modi at¬
ti a esprimere i tempi loro, i tragici tempi loro. Ma
c’è il pericolo, certo, di prendere le ricerche di lin¬
guaggio come fine a se stesse, e non come dettate dal¬
l’ispirazione e dal contenuto per esigenze di forma e
di stile. Il pericolo e l’assurdo è che si facciano delle
ricerche di linguaggio non avendo nulla da dire.
Sulla « grande crisi della poesia », dato e non con¬
cesso che la poesia vada mutandosi coH’incivilimento
da religiosa a profana, da collettiva a individuale, e
738 Giuseppe Ungaretti

dato che il suo avvenire oggi, e già ai tempi del Bur-


ckardt, debba dipendere « dall’atteggiamento da essa
assunto riguardo alla poesia di tutti i popoli, di cui
sembra non essere ormai altro che un’imitazione o un
ricordo », avremmo da replicare:
1) che se fosse vero, — ed in parte è vero, e nei
migliori è vero, - che la poesia nuova abbia assunto
dalla metà del Settecento in poi, di fronte alla poe¬
sia di tutti i tempi e di tutti i popoli, per l’esecuzio¬
ne di opere, s’intende, necessariamente individuali, un
atteggiamento di simpatia assimilativa, ciò significhe¬
rebbe ch’essa tenda all’universalità, ch’essa cioè non
tradisca nemmeno ora, la sua funzione religiosa, o
meglio ch’essa non dimentichi, e non lo potrebbe sen¬
za decadere di poesia, la sua sostanza religiosa. Se il
popolo, e per popolo intendo la comunità umana, se
il popolo sembra distaccato dall’attività dell’arte, del¬
la scienza, della cultura in una parola, non è perché
i poeti si siano confinati in una torre d’avorio, o per¬
ché la poesia sia in crisi. Semmai è perché la società
a un certo punto si è disinteressata dei valori non
pratici dello spirito e s’è fatta ad essi ostile. Semmai è
perché la società non fa tutto quello che dovrebbe e
potrebbe fare, per diffondere l’arte, la scienza, la cul¬
tura: per elevare la comunità.
2) La poesia non è, non può essere, se non affer¬
mazione dell’autonomia della persona umana, in quan¬
to essa non è, non può non essere se non l’impronta,
il riflesso, il simbolo inconfondibile, inimitabile del
singolo dal quale le è venuta la vita. Dico che la poe¬
sia è individuale e inimitabile, anche quella popola¬
re, anche quella primitiva. C’è sempre alle origini una
testa balzana, o un’anima di pena, o un mago di ge¬
nio. La poesia che ci pare popolare nel senso più uma¬
no della parola, quella dei Salmi, è poesia lirica, è
poesia che manifesta in modo singolare gli affetti e i
pensieri di David o di Asaf, o di Salomone. La poe-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 739

sia epica che si oggettiva in gesta collettive o in per¬


sonificazioni eroiche di tali gesta, non è che lirica nel¬
la quale uno sappia, secondo il dono singolare del suo
genio, esprimere pensieri e affetti propri intorno agli
slanci d’una società, sia essa la tribù, o una nazione,
o l’intera umanità, tese nel raggiungimento delle loro
speranze.
È a tal punto individuale e inimitabile la poesia
ch’essa è intraducibile. La traduzione è la prova del
fuoco di quanto essa sia individuale e inimitabile. Non
è traducibile il ritmo, ciascuna lingua derivandone i
raggruppamenti dalla propria indole e dalla lunghez¬
za delle proprie parole nel modo più intrasferibil¬
mente proprio. Non è traducibile la qualità sillabica,
la prima differenza sensibile tra due lingue risiedendo
precisamente nei valori fonici. Non è traducibile il
contenuto poiché ogni contenuto è animato e coinvol¬
to nel segreto d’una personalità. Non sarebbe altri¬
menti personalità unica, com’è fatalmente ogni perso¬
na umana. Il contenuto sarà quindi soggetto ad inter¬
pretazione anch’esso. Non è traducibile infine né la
forma né lo stile, in cui tutto l’altro s’assomma, si
fonde e vive, e si fa commovente, se traducibile non
doveva né poteva essere tutto l’altro.
Perché, mi domanderete, si traduce allora? Perché
io stesso traduco?
Semplicemente per fare opera originale di poesia.
L'Eneide del Caro non è YEneide del Virgilio, è YE-
neide del Caro, un’opera stupenda, personalissima, d’un
grande poeta.
3) La principale causa della debolezza della poesia
moderna, sarebbe da ricercarsi, secondo il Burckardt,
nel conto in cui essa tiene il ricordo. Del ricordo, si
può dire ch’è insito nella poesia come in ogni atto
umano. L’oggetto stesso materialmente presente dinan¬
zi a noi, è, nell’atto stesso di riflettersi nella nostra
mente, ricordo, e perché la nostra mente non lo po-
740 Giuseppe Ungaretti

trebbe riflettere se dal ricordo non avesse appreso ad


averne coscienza ed a nominarlo, e perché intercorre¬
rà sempre un lasso di tempo, sia pure infinitesimale,
tra il momento preso di mira nell’oggetto e il momen¬
to in cui l’osservatore ne avrà chiara e distinta perce¬
zione: e l’avrà quando il momento mirato sarà già
passato. Il ricordo è una delle vie che ha la poesia
per trasmettere agli altri i suoi messaggi.
Non esiste, dunque, un’arte per gli individui e un’ar¬
te per le masse: esiste l’arte, esiste la poesia, esiste
cioè un incessante arricchimento dell’umano patrimo¬
nio spirituale per opera di singoli. Il credere diver¬
samente è un pregiudizio romantico, e perdura a man¬
tenere le arti in uno stato di sospetto che non meri¬
tano.
Il grado della tragedia umana è provato diversa-
mente da ciascun poeta, a seconda della propria fede,
della propria vena, della propria cultura, del proprio
gusto, della propria intelligenza, del proprio estro,
della propria fantasia. Ma nessun poeta, se è un ve¬
ro poeta, potrà non appartenere ai propri tempi, non
esservi tuffato sino ai capelli. Si tratta sempre solo di
sapere come dovrà sentirli. Al modo del Sor Capanna,
o al modo del Metastasio, o al modo di Dante? È co¬
sa che riguarda esclusivamente il genio e le possibi¬
lità umane e tecniche di ciascun poeta.
INDEFINIBILE ASPIRAZIONE
[1947/1955]

Non so se la poesia possa definirsi. Credo e professo


che sia indefinibile, e che essa si manifesti nel mo¬
mento della nostra espressione, quando le cose che ci
stanno più a cuore, che ci hanno agitato e tormen¬
tato di più nei nostri pensieri, che più a fondo appar¬
tengono alla ragione stessa della nostra vita, ci appaio¬
no nella loro più umana verità; ma in una vibrazio¬
ne che sembri quasi oltrepassare la forza dell’uomo,
e non possa mai essere conquista né di tradizione né
di studio, sebbene dell’una e dell’altro sia sostanzial¬
mente chiamata a nutrirsi. La poesia è bene dunque
un dono, come comunemente è ritenuta, o meglio, es¬
sa è il frutto d’un momento di grazia, cui non sia sta¬
ta estranea, specie nelle lingue di vecchia cultura, una
paziente, disperata sollecitazione.
Ciò mi porta anche a considerare che i modi della
poesia sono infiniti, tanti quanti i poeti del passato e
i poeti che verranno. Sono innumerevoli modi anche
se il discorso si limiti a considerare la poesia di cui
venga, oralmente o per iscritto, traccia tramandata- a
permanere; altrimenti si dovrebbe dire che ogni per¬
sona umana ha i suoi momenti di effusione poetica.
Ecco già tre punti fissati: che la poesia è di tutti,
ch’essa scaturisce da un’esperienza strettamente perso¬
nale, ch’essa quindi, nella sua espressione, deve por¬
tare il segno inconfondibile dell’individualità di chi
l’esprima, e deve avere nello stesso tempo quei ca¬
ratteri d’anonimia, di coralità, per cui sarà poesia, per
cui non sarà estranea a nessun essere umano.
Erano i punti che si presentavano a costituire per
742 Giuseppe Ungaretti

mq un proposito molto chiaro, sino dagli inizi del mio


lavoro. In quegli anni si svolgeva storicamente un pe¬
riodo di smarrimento, e non ctyco che sia l’attuale più
ordinato; ma, nei suoi principi, oggi in Europa forse
si sa meglio dove s’incontri la poesia e quali possano
essere le sue mire. Si aveva allora il sentimento tra i
giovani che, dopo il Foscolo e il Leopardi e il Man¬
zoni, da noi non ci fossero più stati poeti, che si fosse
rotta una tradizione, che i poeti venuti dopo non aves¬
sero nulla a che fare, se non a parole tronfie, con la
nostra civiltà. Si era ingiusti, si esagerava; ma è nel
corso della natura che i figli s’affermino ribellandosi
ai padri. Ci ripugnava in ogni caso fino alle radici del
sangue, il decadentismo, quella scuola i cui maestri e
i ridicoli epigoni, si consideravano come gli ultimi
superstiti d’una società da esaltare, e la stessa vita,
con atteggiamenti neroniani. Ci si renda bene conto
di questo: era giusto che allora i giovani sentissero
che il discorso fosse da riprendere dall’abbicì, e che
tutto fosse da ricuperare. I Futuristi in un certo sen¬
so avrebbero potuto non ingannarsi se non avessero
rivolto l’attenzione ai mezzi forniti all’uomo dal suo
progresso scientifico, invece che alla coscienza dell’uo¬
mo che quei mezzi avrebbe dovuto moralmente domi¬
nare. S’ingannavano soprattutto perché avevano fatto
proprie le più assurde illusioni derivate dal Decaden¬
tismo, immaginando che dalla guerra e dalla distru¬
zione potesse scaturire qualche forza e qualche digni¬
tà. Così immaginarono che anche la lingua fosse da
mandare in rovina, per restituirle qualche attività e
qualche gloria.
Senza presumere troppo dall’importanza dei miei
primi sforzi né svalutare i miei coetanei, Futuristi,
Crepuscolari o Vociani, in mezzo ai quali feci quei miei
primi passi, non credo si possa contraddire ciò che la
critica ha riconosciuto. Mi apparve subito cioè, come
la parola dovesse chiamarsi a nascere da una tensione
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 743

espressiva che la colmasse della pienezza del suo si¬


gnificato. La parola che fosse travolta nelle pompose
vuotaggini di un’onda oratoria, o che si gingillasse in
vagheggiamenti decorativi*e estetizzanti, o che fosse
prevalentemente presa dal pittoresco bozzettistico, o
da malinconie sensuali, o da scopi non puramente sog¬
gettivi e universali, mi pareva che fallisse al suo sco¬
po poetico.
Fu durante la guerra - ed era il solo insegnamen¬
to valido, umano, che la guerra potesse dare, era l’in¬
segnamento che massimamente contraddiceva a quello
che se' ne aspettava, che ne aspettavano gli utopisti
d’ogni sorta - ma fu durante la guerra, fu la vita me¬
scolata all’enorme sofferenza della guerra, fu quel pri¬
mitivismo: sentimento immediato e senza veli; spa¬
vento della natura e cordialità rifatta istintiva verso
la natura; spontanea e inquieta immedesimazione nel¬
l’essenza cosmica delle cose; - fu quanto, d’ogni sol¬
dato alle prese con la cecità delle cose, con il caos e
con la morte, faceva un essere che in un lampo si
ricapitolava dalle origini, stretto a risollevarsi nella
solitudine e nella fragilità della sorte umana; fu quan¬
to del soldatino faceva un essere sconvolto a provare
per i suoi simili uno sgomento e un’ansia smisurati e
una solidarietà fraterna, - fu quello stato di non accet¬
tazione della guerra nella guerra, fu quello stato d’e¬
strema lucidità e d’estrema passione a precisare nel
mio animo la bontà della missione già intravvista, se
una missione avessi dovuto attribuirmi e fossi stato
atto a compiere, nelle lettere nostre.
Se la parola fu nuda, se si fermava a ogni caden¬
za del ritmo, a ogni battito del cuore, s^ si isolava
momento per momento nella sua verità, era perché in
primo luogo l’uomo si sentiva uomo, religiosamente
uomo, e religiosa gli sembrava la rivoluzione che ne¬
cessariamente dovesse in quelle circostanze storiche
muoversi dalle parole. Le condizioni della poesia no-
744 Giuseppe Ungaretti

strabe degli altri paesi allora, non reclamavano del re¬


sto altre riforme, se non questa fondamentale.
Negli anni succeduti all’altra guerra una strana teo¬
ria ebbe corso e fu largamente accreditata. Furono gli
scrittori, i miei amici che si incontravano nella rivi¬
sta « La Ronda » a sostenerla. Per essi il vero era
morto e sepolto, e la poesia moderna non poteva tro¬
vare la sua forma se non in una prosa numerosa. Ri¬
masi solo, e per quasi due lustri, a dimostrare pole¬
micamente, e con le prove del mio lavoro, che il can¬
to, ancora e sempre, aveva esigenze metriche molto
più rigorose. Furono le mie preoccupazioni d’allora a
portarmi dalle ricerche di perfetta coincidenza tra la
tensione ritmica del vocabolo e la sua qualità espres¬
siva, mio principale tormento durante la formazione
dell’Allegria, a ricerche più complesse di unità ver-'
baie. Riconquistata dal ritmo la sua funzione, mi par¬
ve potesse anche il verso riconquistare la sua come
era stata segnata, a un orecchio italiano, dalla natura
fonica delle nostre parole e dalla tradizione sintattica
e armonica tramandata alle forme da secoli d’un’espe-
rienza impareggiabile. Fu un lavoro difficilissimo e
ostinato, tanto il nostro orecchio era guasto. Ma devo
dire che non procedevo dall’esterno, che non si trat¬
tava d’applicare alle parole uno schema metrico: si
trattava di portare le parole a prendere naturalmen¬
te quegli sviluppi del movimento ritmico che le le¬
gasse metricamente in modo armonioso, cioè in mo¬
do che il loro senso prendesse quanto più fosse loro
possibile potenza emotiva e risalto di giustezza espres¬
siva. La metrica non è accademica neanch’essa, è lega¬
ta alla vita delle parole, e sappiamo, da Dante al Pe¬
trarca, cioè nel giro di pochi anni, già quale profon¬
da riforma dimostrasse. Sappiamo di più, sappiamo co¬
me per il Leopardi, procedendo dalla Canzone petrar¬
chesca, si presentasse il problema di avere da scom¬
bussolare da capo a fondo il suo modello se voleva,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 745

come, per esempio, gli riuscì nella Ginestra, raggiun¬


gere un’eloquenza che fosse quella ispirata dal suo
singolarissimo genio.
La metrica è un fatto di considerevole funzione in
poesia; ma fatto rimarrà sempre, come qualsiasi altro
rispetto al discorso umano, di valore subordinato. Il
fatto capitale nell’umano discorso sono le cose che
uno ha da affermare, a edificazióne di tutti, per cono¬
scere se stesso. Se ebbi allora da meditare sulla me¬
moria, fu meno perché vi fossi avviato da tecnici pro¬
gressi da conseguire che perché vi fossi spinto a cagio¬
ne della pienezza di significato che la stessa memoria
aveva compito di dare alla parola, infondendole peso,
estendendone e rendendone profonde le prospettive.
Una parola che ha vita di secoli, che in tanta storia ri¬
flette tante cose diverse, che ci rimette a colloquio
con tante persone la cui presenza carnale è sulla terra
scomparsa, ma non quella del loro spirito, se in noi
operano ancora le loro parole; - una parola che può
farci sentire, per il nostro dolore o il nostro confor¬
to, nella sua viva storia la millenaria vicenda dell’o¬
peroso e drammatico popolo al quale apparteniamo, -
una tale parola, se aveva attratto, con tanta verità e
bellezza d’effetti, un Leopardi, poteva ancora sugge¬
rire a un poeta d’oggi la via migliore d’arricchirsi e
moralmente e nelle sue liriche espansioni. Fu così che
sentii come la mia poesia dovesse sempre più compe¬
netrarsi di memoria quasi assumendola a suo tema 1
sostanziale. La stessa antinomia dell’individuo nei con¬
fronti della società moderna, la stessa posizione del¬
l’uomo al cospetto di Dio, la stessa umanità dell’uo¬
mo, d’un essere per sua natura e sua volontà così gran¬
de e così fragile, la stessa causalità e la stessa fina¬
lità che dal principio alla consumazione dei secoli uni¬
scono l’uomo nella stessa tragedia innumerevolmente
ripetuta dalle nascite e dalle morti e daU’inquiètudine
e dall’odio e dall’amore, - tutto mi si compendiava
746 Giuseppe Ungaretti

nella mia meditazione sulla memoria. Gli stessi pae¬


saggi mi si animavano alla luce del ricordo. Lo stesso
presentimento di catastrofe ch£ m’avveniva d’avere ri¬
flettendo alla crisi politica e sociale dei tempi e al¬
l’irrimediabile dissennatezza degli uomini, lo stesso
mio dibattito per uscire dalle incertezze davanti all’i¬
dea del Soprannaturale, gli stessi miei passaggi da un
errore a un’illusione prima d’intravvedere la verità
suprema che tutto attesta, - tutto attingeva impeto e
sofferenza per me dalla facoltà di ricordare che ha l’uo¬
mo, per la quale l’uomo è uomo.
Se tuttavia la memoria in sé non contenesse un’an¬
titesi che la muove e la rende nonostante tutto cor¬
diale e amabile, sarebbe disperazione e condurrebbe al
suicidio e non alla poesia. Conduce la memoria alla
poesia, perché essa porta l’uomo e porta la parola a
quell’atto di desiderio di rinnovamento dell’universo
per il quale l’umanità fa sulla terra il suo lungo viag¬
gio d’espiazione. Estrema aspirazione della poesia, è
di compiere il miracolo nelle parole, d’un mondo risu¬
scitato nella sua purezza originaria e splendido di fe¬
licità. Toccano quasi qualche volta le parole, nelle ore
somme dei sommi poeti, quella bellezza perfetta ch’e¬
ra l’idea divina dell’uomo e del mondo nell’atto d’a¬
more in cui vennero creati.
RAGIONI DI UNA .POESIA
[1949]

Ho, ed è naturale, riflettuto come qualsiasi scrittore o


artista, sui problemi dell’espressione poetica e dello
stile; ma non vi ho riflettuto se non per le difficoltà
che via via l’espressione mi opponeva esigendo d’esse¬
re posta in grado di corrispondere integralmente alla
mia vita d’uomo. Qualche volta ho anche avuto occa¬
sione di registrare per iscritto le mie riflessioni e di
renderle pubbliche. Mi muovevano a farlo ragioni oc¬
casionali, non essendo un filosofo, e di tali problemi
non essendo uso a farmi un culto astratto.
Non sarà, credo, ozioso vedere oggi, quasi al coro¬
namento della mia lunga carriera, come, in diversi mo¬
menti, diversi per il loro carattere storico e diversi
per la mia vita interiore, ebbi a segnare l’evolversi
della mia posizione polemica.
Nelle mie carte, trovo alcune mie prime annotazio¬
ni. Sono di data abbastanza lontana, posteriori a\YAl¬
legria e indicano come, da pensieri, quali erano quelli
che ispiravano il mio libro scritto nella tragicità del¬
la trincea, da pensieri di stretta essenzialità espressi¬
va, tutta ristretta nel vocabolo, passassi a più comples¬
se ricerche per le quali l’antecedente esperienza rima¬
neva però sempre viva. Alludo ad alcune mie annota¬
zioni che uscirono sulla « Ronda » nel 1922.1 Trovo
detto in quegli appunti:

« “Gli abissi umani sono perlustragli”, diceva in


un saggio su Dostoevskij, Jacques Rivière, opponen¬
do all’opera dello scrittore russo, l’arte francese, l’ar¬
te del romanzo francese - s’intenda addirittura il me-
748 Giuseppe Ungaretti

todo occidentale d’analisi psicologica. È come quando


diceva: “Si tratta d’oscurare il, mondo con i mezzi più
semplici” il che, per converso, sarebbe come dire: “Si
tratta, all’occorrenza, di rischiarare con uguali mezzi
gli abissi umani, di renderli cioè perlustrabili”. Ora
l’errore di Rivière era di credere che l’opera di Do¬
stoevskij potesse trasporsi in problemi di metodo, d’a¬
nalisi, di psicologia e così ridotta- generare un buon
romanzo di tipo francese. Per Dostoevskij c’era prin¬
cipio - diciamo principio lirico - nel momento quan¬
do gli pareva cessasse ogni possibilità di capire, aven¬
do capito, misteriosamente capito, troppo.
« Se il buio non è un buio materiale delle cose, non
la notte passeggera, non un effetto di fumo o di neb¬
bia, non nemmeno il buio d’un macigno - un maci¬
gno, all’occorrenza, basterebbe una caricuccia di dina¬
mite a mandarlo all’aria - ed è invece buio dello spi¬
rito all’ultimo limite, come si farà a infrangerlo con le
ridicole violenze e i lucignoli delle povere invenzioni
nostre, quelle comprese della buona marca scientifica
vantata da Rivière? Se Dostoevskij fosse stato fran¬
cese, sarebbe stato tutt’al più uno Zola. Sono, seb¬
bene Rivière rifiuti Flaubert “ pour avoir voulu étre
d'emblée et directement objectif”, strade dove, met¬
tendoci a cercare il principe Myskin, e volendo tro¬
vare gente di specie proprio analoga e frutto d’una po¬
tenza d’arte non minore, non troveremmo se non Bou-
vard e Pécuchet.
«Rileggiamoci Dostoevskij. V’incontriamo una tur¬
ba, ma è sempre la stessa persona che gira su se stes¬
sa, e il suo moltiplicarsi è derivato dalla vertigine del
suo giro. Vano a Dostoevskij, e a chiunque, qualsiasi
tentativo di definire logicamente tale fantasma facen¬
dogli assumere, comunque, un atteggiamento di con¬
trollo verso le circostanze.
« Non si tratta d’un modo diverso di concepire il
dramma: il dramma infurierà sempre alle origini del-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 749

l’essere, da Eschilo, che voleva dimostrarci come al


principio non possa esserci se non fatalmente misura
facendoci sentire come la tragedia non fosse dipesa se
non da eccesso o da difetto di misura, a Dostoevskij,
che è d’altro parere.
« Ma noi sappiamo benissimo che, se per l’uomo
tutto poggia sempre su un dato oscuro, nessuno sarà
mai in grado di risolversi umanamente in tale dato
senza confondersi perdersi e annullarsi; e anche sap¬
piamo, non meno bene, che non ci saranno mai luci
umane - né proustiane, né freudiane - capaci di ren¬
derci mensurabile tale dato, di rendercelo tale da ve¬
derci finalmente chiaro.
« Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarce¬
ne. Il mistero c’è, e col mistero, di pari passo, la mi¬
sura; ma non la misura del mistero, cosa umanamen¬
te insensata; ma di qualche cosa che in un certo sen¬
so al mistero s’opponga, pure essendone per noi la ma¬
nifestazione più alta: questo mondo terreno conside¬
rato come continua invenzione dell’uomo. Il punto
d’appoggio sarà il mistero, e mistero è il soffio che
circola in noi e ci anima; ma noi siamo portati a preoc¬
cuparci di quegli sviluppi che danno situazione ma¬
gari a un albero in un paesaggio; di quella trama di
rapporti che non tollera spostamenti se non subendo
un cambiamento di carattere. Perciò per noi l’arte
avrà sempre un fondamento di predestinazione e di na¬
turalezza; ma insieme avrà un carattere razionale, am¬
messe tutte le probabilità e le complicazioni del cal¬
colo: se avessi quattro invece di tre elementi, se ca¬
povolgessi l’ordine, se soffiasse un gran vento, ecc.
... e se avessi un quinto fattore, succederebbe... il fi¬
nimondo, forse; ma resteremmo sempre in un campo
di precisioni inesorabili.
« Trovata la via della logica, un ciottolino può di¬
ventare un macigno o viceversa, e tenersi sul filo in
bilico, e può passargli sotto per godersi l’ombra, un
750 Giuseppe Ungaretti

uomo tranquillo non più sgomento d’un granellino di


sabbia. Sarà, per effetto di metamorfosi nella nostra
mente, un’immagine questa di deliberata sfida alla
morte, ironicamente indotta dalla naturale nostra in¬
clinazione al benessere? O, invece, immagine della
morte che sempre ci minaccia legata a un nulla? Men¬
tre noi, spinti dal vivere, inconsapevolmente la ten¬
tiamo? Sarà semplicemente la nostra possibilità di
portare, dalle proprie naturali, su altre dimensioni la
realtà, scoprendone così la poesia e la verità? Sarà
uno di quei tanti effetti di metamorfosi che ci fanno
pensare che la parola è fatta di vocali e di consonan¬
ti, di sillabe, a un modo cioè del tutto diverso dagli
oggetti che evoca e che possono essere oggetti assen¬
ti, oggetti lontani nello spazio? Lontani, tramontati
nel tempo. Perfino appartenenti a epoche e a terre
scomparse immemorabilmente.
« È, questo, l’unico dono di magìa, il sommo po¬
tere di metamorfosi che abbia l’uomo? È il dono per
cui la parola ci riconduce, nella sua oscura origine e
nella sua oscura portata, al mistero, lasciandolo tutta¬
via inconoscibile, e come s’essa fosse sorta, si diceva,
per opporsi in un certo senso, al mistero.
« Questa è l’arte greco-latina, la nostra, l’arte medi-
terranea, arte di prosa e arte di poesia, secoli e mil¬
lenni d’arte.
« Quest’arte può anche dirsi miracolo: miracolo d’e¬
quilibrio.
« Ho detto, e vorrei ripetere, che il mistero non può
negarsi ed è in noi costante; ma vorrei dire che la lo¬
gica in un’opera d’arte precede perfino la fantasia, se
logica e fantasia non si generassero a vicenda; ma vor¬
rei dire che tutto quel potere d’evocazione della real¬
tà, quel potere magico di restituire per sempre, muo¬
vendo la fantasia, un momento della realtà, l’arte l’ot¬
tiene principalmente per una sua forza geometrica.
Certo il dono degli artisti veri sarà quello di riusci-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 751

re a dissimulare questa forza, come la grazia della vita


nasconde lo scheletro.
« Limiti e proporzioni: ecco, per noi. E non ci so¬
no narcotici, stimolanti, paradisi artificiali che possa¬
no liberarcene. Un uomo può gettare un ponte, sem¬
plificare i mezzi di comunicazione, non abolire le di¬
stanze, tanto meno una distanza umanamente incono¬
scibile come quella tra l’effimero e l’eterno.
« La nostra civiltà è fatta in questo modo.
« E perciò, <ia noi, tanto è difficile la via dell’arte,
e la grandezza, quando è raggiunta, tanta contiene ma¬
linconica serenità. »

Così dicevo nel 1922. Nel 1930 2 mi avveniva, sulla


« Gazzetta del Popolo » di Torino, di dovermi a que¬
gli appunti riferire in un articoletto che li giustifi¬
cava estendendone il significato.3 Abbiate pazienza,
ascoltate anche quel discorso:

« Le mie preoccupazioni in quei primi anni del do¬


poguerra - e non mancavano circostanze esterne a far¬
mi premura - erano tutte tese a ritrovare un ordine,
un ordine anche, essendo il mio mestiere quello del¬
la poesia, nel campo dove, per vocazione, mi trovo
più direttamente compromesso. In quegli anni non
c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel
nostro mondo moderno, una poesia in versi. Non esi¬
steva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato,
che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si vo¬
leva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva,
invece, un’àncora di salvezza: io rileggevo umilmente
i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di
Jacopone, o quello di Dante, o quello del Petrarca, o
quello di Quittone, o quello del Tasso, o quello del
Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il
canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il nove¬
nario, non il settenario del talaltro che cercavo: era
752 Giuseppe Ungaretti

l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era


il canto italiano, era il canto della lingua italiana che
cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraver¬
so voci così numerose e così diverse di timbro e così
gelose della propria novità e così singolari ciascuna
nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del
mio cuore che volevo sentire in armonia con il bat¬
tito del cuore dei miei maggiori di una terra dispera¬
tamente amata. Nacquero così, dal ’19 al ’25, Le Sta¬
gioni, La fine di Crono, Sirene, Inno alla Morte, e
altre poesie nelle quali, aiutandomi quanto più pote¬
vo coll’orecchio, , e con l’anima, cercai di accordare in
chiave d’oggi un antico strumento musicale che, reso
così di nuovo a noi familiare, hanno in seguito, be¬
ne o male, adottato tutti.
« Pensavo alla memoria, e non potevo non essere
ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma
la persuasione, che stava maturandosi in me, che la
poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di per¬
fetta lucidità: tecnica, sensazioni, logica, sogno o fan¬
tasia e sentimento: tutte queste cose per noi non han¬
no senso se simultaneamente non vivano oggettivate -
oggettivate per un poeta, in una parola che canti. E
dunque il fatto stesso di credere molto più che in noi,
nelle nostre opere, di sentirci senza rimedio modellati
non dal nostro mondo interno, ma dalle nostre ope¬
re, implicherà da parte della memoria un intervento
chiarificatore. Le cose, a questo solo patto muovono
la nostra fantasia, si collocano al loro vero posto, ac¬
quistano per noi la sola profondità che conti, quella
del tempo, e ci meravigliano - già così distaccate da
noi, così distanti - per il loro pudore, e ci fanno, se
vi pare, sognare; ma è un sognare ad occhi aperti.
« Certo commettevo un errore quando nel ’22 di¬
cevo che in Dostoevskij non c’era se non un fantasma
che diventava turba per potenza allucinante dello scrit¬
tore. C’è realmente una turba, e non di fantasmi; ma
Saggi e Scritti vari 1943-1970 753

di cuori doloranti - un dolore d’inferno. È una tur¬


ba, e ciascuna persona è data - il senso vivo di cia¬
scuna persona - non per quello che ha fatto o volu¬
to fare, ma per quello che ha sognato di fare - e so¬
gnato è qui detto in senso letterale: per quello che le
è come apparso in istato di sonno, e che non si sa
come interpretare, e che viene raccontato come se un
cieco dalla nascita raccontasse la sua visione del mon¬
do. E se in quei romanzi si fa un gran parlare del
divino e di Dio, in fondo in fondo è orrore della vi¬
ta, è senso del nulla equivalente a senso del divino:
è il senso d’un’umanità che si raffigura in un’orrenda
mitologia e nella quale ciascuno individuo non si diffe¬
renzi dagli altri se non per la turba mostruosa e tor¬
turante delle proprie fissazioni. »

Ma subito dopo, e forse non erano nemmeno passa¬


ti due o tre anni, l’esame di coscienza doveva pren¬
dere un carattere spasmodico. Inquietudine, perplessi¬
tà, angoscia non potevano non sconvolgere allora smi¬
suratamente l’animo d’un poeta, del poeta dell’Inno
alla Pietà.
Non si trattava più d’intendere la misura come mez¬
zo per chiarirsi il sentimento del mistero: ma di spa¬
lancare gli occhi spaventati davanti alla crisi d’un lin¬
guaggio, davanti all’invecchiamento d’una lingua, cioè
al minacciato perire d’una civiltà — si trattava di cer¬
care ragioni di una possibile speranza nel cuore della
storia stessa: di cercarle, cioè, nel valore della pa¬
rola.
Concludevo con le seguenti osservazioni, una lettu¬
ra che feci in molte città italiane, e quasi dappertutto
in Europa, e nella quale discutevo dello sviluppo sto¬
rico della poesia italiana e europea.4

«Dice Galileo: “Quello che noi ci immaginiamo,


bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un com-
754 Giuseppe Ungaretti

posto di cose, o di parti delle cose altre volte vedute,


e tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centau¬
ri...”. '
« È noto quale importanza fosse dall’Umanista at¬
tribuita alla memoria; ma egli, nel tempo, aveva scel¬
to certi modelli stabili della bellezza formale. Se il
Seicento ha l’idea già scientifica della memoria, indi¬
cataci da Galileo, e porta una grande rivoluzione nelle
forme, ed è un secolo violento d’espressione, trova ap¬
punto nell’identità fra memoria e fantasia, quell’ecces¬
so di fantasia che gli permetterà di ricongiungere gli
spezzati modelli, in una forma nuova sì, ma non me¬
no regolata dalla classicità.
« Ai primi dell’800 la memoria prende un tutt’altro
senso: il Romantico è filologo, e non crede, o non
vorrebbe credere, in nessun assoluto, nemmeno in
quello di date forme perfette. Cerchiamo di spiegarci
esattamente. Ricorderete ciò che dice Leopardi circa
gli anacronismi dell’Eneide. Egli muove rimprovero a
Virgilio d’avere attribuito qualche volta alle sue fi¬
gure l’animo degli eroi omerici. È un punto molto
istruttivo dello Zibaldone. Il Leopardi è uno dei pri¬
mi a fissare la diversità di coscienza tra l’uomo dei
tempi omerici e quello del secolo d’Augusto. Ma non
è qui la scoperta. Egli indicando due tappe della sen¬
sibilità, mette in moto tra quei due stati della co¬
scienza, una frazione di tempo, forse per primo pro¬
pone il tempo come riflesso variabile, come il simbo¬
lo fluido, lo specchio della vita psicologica.
« La nozione di tempo è ormai data come storia
dell’anima e d’un’anima - in quei termini cioè che
svilupperà il Romanticismo.
« Col Leopardi, il tempo facendosi punto, punto
mobile, di riferimento, è la relatività che entra riso¬
lutamente in campo, la relatività morale, del bene e
del male, la relatività estetica, del brutto e del bello.
« Se il procedimento stilistico del Leopardi può an-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 755

che chiamarsi classico, se si vuole, ed era il nome che


egli stesso gli dava, s’egli rifugge dalla forma metafo¬
rica cara ai Predanteschi, a Dante, al Petrarca, al Sei¬
cento, più o meno a tutti i poeti italiani sino all’Otto¬
cento, e si limita a descrivere gli oggetti valorizzando¬
ne i colori col tono del proprio sentimento, la sua poe¬
sia sarebbe anacronistica, avrebbe il difetto che gli di¬
spiaceva di più - se quel tono del suo sentimento non
fosse, com’è, romantico. Non faccio una questione ozio¬
sa d’etichette.* So quale gran caso il Leopardi facesse
della confidenza coi buoni autori, ed il Classicismo non
è altro. Ma dico che, nella sua opera, il Leopardi pre¬
vede ed esaurisce, anche opponendovisi in un certo
senso, l’esperienza romantica. Ma il Romanticismo - si
guardi Leopardi - e già era così in Goethe - si di¬
stingue soprattutto per una sua guerra fra natura e
memoria di cui con spavento, e lusingandosene tutta¬
via, ha assunto coscienza.
« Con il Romanticismo riappare una sete d’inno¬
cenza.
« Per contrasto colla civiltà meccanica? Certo scop¬
pia l’eresia che siano i vecchi metri ormai esausti, che
essi suonino ormai falso, che l’ispirazione abbia di
volta in volta da inventarsi i propri schemi. Il risul¬
tato fu che un componimento non era ancora finito
di fare che già suonava falso, e che si perse la testa
dietro alla forma, non volendo più dare valore se non
all’ispirazione.
« E che cos’è, volendoci spiegare l’ansia romantica,
questa civiltà meccanica se non l’impresa maggiore
della memoria? È dunque la memoria che ha rèso
estrema e intollerabile l’antinomia tra individuo e so¬
cietà? È la memoria che produce la guerra e tutte
queste crisi che si succedono? La civiltà meccanica è
dialettica: bene è nata nel secolo di Hegel. Essa è la
memoria ed è, contrastante, il contrario della memo¬
ria. Il male viene dalla difficoltà di rimarginare que-
756 Giuseppe Ungaretti

sta' scissura vastissima nell’essere. Il Leopardi, l’uomo


avendo tolto alla realtà il mistero, osservava che la
visione del vero s’era fatta orribile. Capovolgendo que¬
sto pensiero, più nulla essendo vero, Nietzsche riter¬
rà tutto lecito. La civiltà meccanica ha posto la pena
umana fra questi due limiti. E ogni uomo moderno
di buona volontà dovrebbe avere per affanno di ricon¬
ciliare il vero col mistero.
« Il poeta d’oggi ha dunque avuto per prima preoc¬
cupazione quella della riconquista del ritmo; ma co¬
me andava riconquistato, riconoscendo l’importanza
della forma. Per risvegliare l’innocenza, egli non ha
negato la memoria. Ha ascoltato il verso più antico e
di sempre, perché esprime la fatalità stessa d’una lin¬
gua. Questo verso non si poteva mutare senza portare
la morte nel corpo d’una lingua, la cui vita non è d’un
giorno, ma di secoli. Ma il poeta moderno ha portato
in ogni momento del verso, una tale intensità e un ta¬
le silenzio che veramente il ritmo si liberava finalmen¬
te della sua vecchia polvere. A quel modo il poeta
tornava a sentire nel verso il passo, l’affrettato pal¬
pito, il trattenuto respiro: il ritmo, la natura. Che co¬
sa sono dunque i ritmi nel verso? Sono gli spettri
d’un corpo che accompagni danzando il grido d’un’a-
nima. Così il poeta ha di nuovo imparato l’armonia
poetica, che non è un’armonia imitativa, poiché è in¬
definibile, ma è quell’aderire nella parola, con tutto
l’essere fisico e morale a un segreto che ci dà moto.
« È quanto gli ha permesso di farsi un’idea più uma¬
na, meno romantica, della macchina e della memoria.
La macchina ha richiamato la sua attenzione proprio
perché racchiude in sé un ritmo: cioè lo sviluppo
d’una misura che l’uomo ha tratto dal mistero della
natura - che l’uomo ha tratto da quel punto dove è
venuta a mancargli l’innocenza. La macchina è una
materia formata, severamente logica nell’ubbidienza
d’ogni minima fibra a un' ordine complessivo; la mac-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 757

china è il risultato di una catena millenaria di sforzi


coordinati. Non è materia caotica. Cela, la sua bellez¬
za sensibile, un passo dell’intelletto. Così, nell’uso del
verso, cercando d’imparare a mettere in moto gli arti
delicati, le leve immateriali d’una macchina suprema,
il poeta italiano torna a riconoscere che si mette in
grado di ascoltare nel proprio ritmo, i ritmi a mezzo
dei quali all’orecchio dei padri era persuasiva la mu¬
sica dell’anima 5 - la musica che porta a quel punto
dal quale, sciogliendosi nel mistero, la poesia può,
nelle volte rare della sua perfezione, illustrarsi d’in¬
nocenza.
« Era ritorno a un senso acuto della natura, ed era,
simultaneamente, l’inderogabile ammissione, quale fat¬
tore necessario di poesia, della genesi della memoria
da rintracciare e ricostituire in noi - era lo stato acuto
di coscienza che s’incontra in tutta la poesia d’oggi.
« Il poeta d’oggi ha il senso acuto della natura, è
poeta che ha partecipato e che partecipa a rivolgi¬
menti fra i più tremendi della storia. Da molto vi¬
cino ha provato e prova l’orrore e la verità della mor¬
te. Ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta
solo l’istinto.
« È uso a tale dimestichezza con la morte che sen¬
za fine la sua vita gli sembra naufragio. Non c’è og¬
getto che non glielo rifletta, il naufragio: è la sua vita
stessa, da capo a fondo, quell’uno o quell’altro ogget¬
to qualsiasi sul quale gli cade a caso, lo sguardo. Non
è, in realtà, la sua, vita più che oggettiva - non è
vita che resista al caso più del primo oggetto ve¬
nuto.
« È così effimero e teso il suo concentrarsi nell’at¬
timo d’un oggetto che non saprebbe più immaginare
misura. Ha avuto da costringere - questa è la sua av¬
ventura - nell’attimo d’un oggetto, l’eternità. Poi l’og¬
getto s’è alzato dall’inferno all’infinito d’una certezza
divina.
758 Giuseppe Ungaretti

'« Difatti, se l’uomo d’oggi è costretto a trarre la


sua libertà fìsica da soggezioni estremamente casuali,
è impossibile che il poeta d’bggi non sia portato a
tendersi verso una libertà etica decisiva.
« Ecco come dal poeta è colta oggi la parola, una
parola in istato di crisi - ecco come con sé la fa sof¬
frire, come ne prova l’intensità, come nel buio l’alza,
ferita di luce. Ecco un primo perché la sua poesia san-
• guina, è come uno schianto di nervi e delle ossa che
apra il volo a fiori di fuoco, a cruda lucidità che per
vertigine faccia salire l’espressione all’infinito distac¬
co del sogno.
« Ecco perché si muove la sua parola dalla neces¬
sità di strappare la maschera al reale, di restituire
dignità alla natura, di riconferire alla natura la tra¬
gica maestà.
« Ecco come un poeta d’oggi è uomo del suo tempo.
« Ecco 6 quanto avviene alla parola d’un poeta d’og¬
gi sul piano dell’ispirazione. E, su quello della gram¬
matica, che ne sarà? Scusatemi di scavalcare così di
frequente il continente dell’anima per ritrovare la stra¬
da della tecnica, o viceversa. Ma sono essi così diversi
piani? Non sono esse, forma e sostanza, quando si trat¬
ta di vera poesia, fuse Luna nell’altra per medesima
necessità? Insieme fuse, non le trasporta a commuo¬
verci un medesimo furore?
« La poesia è forma per natura sua estremamente
sintetica. Ed oggi che essa, nello sforzo di tornare a
rivelarsi a se stessa, tanto si dispera a rendere visi¬
bile e a bruciare in sé in un lampo tutta la memoria
umana, potrà mai essere forma così sintetica come oc¬
correrebbe? So bene che i mezzi ai quali l’uomo ri¬
corre sono sempre alla fine infelici e non consentiran¬
no mai altro se non l’imitazione derisoria del soffio
creativo; ma, anche se l’elenco d’un variare di mezzi
rettorici da momento a momento storico, o da poeta
a poeta, è dimostrazione della nostra irriducibile ter-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 759

rena miseria - avverrà forse senza motivo che, aven¬


do da comunicare il senso d’una durata, il poeta d’og¬
gi intensifichi la durata d’un elemento verbale, nei
suoi modi scegliendo quello capace di concentrare il
complesso più numeroso e più compromettente di mu¬
tamenti? Non vorrebbe egli annientare, così facendo,
mutamenti e durata e sostituire ad essi la sua perso¬
na pura delle origini, da essi irrimediabilmente com¬
promessa? Non vorrebbe egli arrivare a infondere il
potere d’averne salute, al martoriarsi che per essi su¬
bisce e che ostenta? Non vorrebbe egli che il proprio
io, nel medesimo istante in cui lo eleva a simbolo di
dannazione, gli offrisse la facoltà, di guarire, di dive¬
nire in quell’istante medesimo innocente per l’ecces¬
so stesso dell’autodileggio, per l’umiltà eccessiva e
l’orrore ch’è nel grado che denuncia, d’invecchiamen¬
to, di corruzione, di sfacelo raggiunto ormai dall’uma¬
na natura?
« Nella prima metà dell’Ottocento, s’otteneva l’in¬
tensificazione dei sensi tropologici, per enfasi - oggi,
ridotta la parola quasi al silenzio, spezzati all’estro
analogico i ceppi, s’ottiene, nell’ordine della fantasia,
cercando quell’analogia atta a essere il più possibile,
illuminazione favolosa; s’ottiene dando tono, nell’or¬
dine della psicologia, a quella sfumatura propensa a
parere fantasma o mito; s’ottiene scegliendo, nell’or¬
dine visivo la combinazione di oggetti meglio evocanti
una divinazione metafisica.
« Illuminazione favolosa, fantasmi e miti, divinazio¬
ni metafisiche, non sono forse illusioni di tempo do¬
mato, o meglio di tempo abolito? E inoltre, l’affati¬
carsi alla perfezione dell’opera, rinnovandone da capo
a fondo i mezzi come ogni vero poeta d’oggi fa, non è
volontà che l’opera duri? Non è volontà che l’opera
duri per singolare bellezza? Che duri cioè, per la più
alta qualità di durata, in un’opera di poesia. Tutto ciò
7é0 Giuseppe Ungaretti

più che ricerca d’illusioni d’immortalità, è brama d’e¬


terno.
« Una parola che tenda a risuonare di silenzio nel
segreto dell’anima - non è parola che tenda a ricol¬
marsi di mistero? È parola che si protende per torna¬
re a meravigliarsi- della sua originaria purezza.
« Se il carattere dell’800 era quello di stabilire le¬
gami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di car¬
bone e di fumo - il poeta d’oggi cercherà dunque di
mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla
memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare;
ma in un baleno.
« Se tenta di mettere a contatto immagini lontane,
sarà anche perché, in un paese che ha avuto tanta emi¬
grazione, egli, nato altrove, può avere nostalgia di cli¬
mi assenti?
« Quando, dal contatto d’immagini, gli nascerà lu¬
ce, ci sarà poesia, e tanto maggiore poesia, per .que¬
st’uomo che vuole salire dall’inferno a Dio, quanto
maggiore sarà la distanza messa a contatto. Crediamo
in una logica tanto più appassionante quanto più si
presenti insolubilmente ricca d’incognite.
« Dunque, forse, sarebbe il nostro un secolo di
missione religiosa?
« Lo è. Potrebbe non esserlo con tanta enormità di
sofferenza intorno a noi, in noi?
« Lo è. In verità, tale è sempre stata la missione
della poesia.
« Ma dal Petrarca in poi, e in un modo andatosi
giornalmente nei secoli aggravando, la poesia voleva
darsi altri scopi, riuscendo, quando era poesia, ad es¬
sere religiosa, anche contro ogni sua intenzione.
« Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la
poesia è testimonianza d’iddio, anche quando è una
bestemmia.
« Oggi il poeta è tornato a sapere, ed avere gli oc¬
chi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole ve-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 761

dere l’invisibile nel visibile. Oh, egli non cerca di vio¬


lare il segreto dei cuori. Egli sa che spetta solo a Dio,
leggere infallibilmente nell’abisso dei singoli e cono¬
scere veramente il passato, il presente e l’avvenire.
Egli poi sa anche che il cuore umano non è quella
buca che credono i libertini piena di lordura. Egli sa
che nel cuore dell’uomo non si troverebbe che debo¬
lezza e ansia - e la paura, povero cuore, di vedersi
scoperto.
«Come nel, sogno di Michelangelo dove il Padre,
per darle vita, toccò il dito a poca terra, il poeta nuo¬
vo vorrebbe udire nelle sue povere parole, tornata
nel mondo la voce di quella grazia. Per questo ha an¬
che gridato. Per questo ha anche pianto. »

Consideravo - dopo il ’19, ma l’Allegria s’era for¬


mata nei cinque anni precedenti - consideravo quasi -
dico quasi perché temevo, a francamente confessarlo,
d’essere sacrilego - consideravo che il mistero abbia
umanamente inizio da razionalità, intesa come termi¬
ne necessario, meccanico, d’opposizione, ed ero così
forse meno lontano dal cartesianesimo di Pascal che
non lo fosse Jacques Rivière. In tali vedute volevo
riconoscermi opposto anche a un altro modo d’inten¬
dere la realtà, ossia a quello secondo cui essa esige¬
rebbe si ammetta, per essere sentita nella sua supre¬
ma vitalità, nel suo mistero, che essa non possa in
alcun modo tollerare misura, ma che sia anzi chiusa
assolutamente alla ragione, avendo la verità sede di là
dalla misura. Non la realtà, ma il mistero non è men-
surabile. Sulle prime tali mie convinzioni procedevano
parallele ad altre, di altri che vi erano avviati da ri¬
cerche neoclassiche nella loro tecnica espressiva, quali
il clima letterario italiano e europeo del momento sug¬
geriva, quali soprattutto sembrava naturale dovessero
conseguire all’esserci noi allora riaccostati ai maggiori
poeti dell’Ottocento: al Foscolo, al Leopardi.
762 Giuseppe Ungaretti

Era certo un renderci conto da ignoranti della posi¬


zione del Leopardi, e subito dovetti accorgermene, e
se n’era bene accorta a suo tempo l’Allegria. Non fu
che smarrimento brevissimo, del resto, come dicevamo,
storicamente inevitabile date alcune difficoltà di me¬
stiere che allora era fatale si presentassero al poeta e
che egli non poteva non dedicarsi a sciogliere. Tutto
sommato fu una grave prova, e il Sentimento, forse
perché risolutivo nei suoi risultati, ne uscì quasi il¬
leso.
M’accorsi subito di quanto fosse pericoloso quel pre¬
figgersi di rispettare canoni che dal Vaugelas e dal
Cartesio e, peggio che mai, dal Voltaire in poi, met¬
tevano la poesia francese a rischio d’isterilirsi nell’ac¬
cademico - e invece la rinnovavano e la salvavano
sempre; ma per miracolo.
Passai a altre ricerche; ma mi rimase impresso che
in arte, sì, contavano la pazienza, la tradizione — e
contava in realtà, solo il miracolo. C’è chi dà più pe¬
so alla natura, e per indole c’è chi, invece, preferisce
avvalorare l’intelletto, e in fondo non era ciò che pre¬
meva. Meno ancora premeva rilevare che la prima era
una corrente che nei secoli sembrava volgersi a Orien¬
te, mentre pareva' l’altra usa piuttosto a eleggersi a
punto cardinale, l’Ovest. Ciò che premeva e che im¬
paravo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere
poesia senza miracolo.
Così fui mosso, conducendo a termine il Sentimen¬
to, e meglio più tardi, a sentire e a capire come la
parola avesse un valore sacro proveniente dalle stesse
difficoltà tecniche che, conducendo a termine il Senti¬
mento, aveva da superare per esprimersi un poeta del
nostro tempo.
E furono le difficoltà, le difficoltà tecniche, difficoltà
divenute sotto un certo aspetto davvero apocalittiche,
a farmi, verso l’ultimo, dubitare se oggi non fossero
gli uomini tormentati da un folle problema di disin-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 763

tegrazione del linguaggio, anziché assorbiti nel conse¬


guimento della perenne unità poetica della parola.
Mi fu facile ritornare in me, riprendendo a com¬
mentare il Leopardi. Il sentimento àt\VAllegria, che
l’atto poetico è, qualunque ne sia il prezzo, atto di
liberazione, che solo nella libertà è poesia, era ritor¬
nato vivo e chiaro in me, con la conferma in me che
non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico
che ci dà nozione dell’Assoluto.7
E quando in mente mi tenevano specialmente at¬
tento tali pensieri, da uri periodico settimanale che si
pubblicava in Roma, il « Cantachiaro », mi. fu chiesto
di definire il vocabolo libertà. Era nel marzo dell’anno
1948.8 Ma non mi mossero a rispondere motivi occa¬
sionali. Nelle righe che dettai, cbe ripresi nel settem¬
bre successivo, intervenendo in una discussione che si
svolse sui problemi dell’arte contemporanea alle Ren-
contres internationales di Ginevra, — non venrie espo¬
sto se non unicamente il punto d’arrivo di vecchie mie
riflessioni.
Riproduco qui, nella più recente stesura, quella gi¬
nevrina, - e a semplice titolo di documento come le
altre pagine oggi-riportate, - il mio discorsetto sulla
libertà:

« Leopardi s’era reso conto, dopo Vico, di ciò che


in realtà è una durata. Non si tratta affatto dicendo du¬
rata di tempo fattosi immobile, come taluni suggeri¬
scono, anche se essa possa supporsi, considerando il
passato, come un tempo circoscritto. Il tempo, se. non
in moto, è inconcepibile. Leopardi si rivolgeva la do¬
manda se fossimo ridotti - non essendo il passato
se non tempo defunto, consumato - a non. potere più
se non evocare - se non mettere in moto per effetti
di memoria - la realtà del nostro essere. La nostra
realtà, di noi civiltà, di noi lingua, è cosa già giunta
a tale estremo punto da poterla ormai rinchiudere nei
764 Giuseppe Ungaretti

suoi limiti: nascita, morte? Sarebbe già in polvere,


già nulla, già fredda, già distesa in una bara? Non
potremmo più conoscerne il flusso energico che per
evocazione della memoria o per congetture della fan¬
tasia?
« Opponeva a tanta angoscia, il Leopardi, quel pre¬
stigio segreto della poesia che mette l’uomo in grado
di proporre all’universo un’illusione di ringiovanimen¬
to, e che mette in grado l’uomo di abbandonarsi a
tale illusione, di essere, come desiderava Rimbaud,
« voyant »; di dare, come s’affaticava a fare Mallar¬
mé, « un sens nouveau aux mots de la tribù » - di
suscitare, vogliamo dire, nelle proprie parole, per la
conoscenza di sé e non per quella d’un modello lette¬
rario - di suscitare un’illusione di innocenza, l’illu¬
sione della libertà, dell’intatta libertà di prima della
caduta. E so bene che la durata gli era allora più pre¬
sente che mai, che essa per lui comprendeva ogni mo¬
dello della lingua, e s’era costituita in tradizione - so
bene che il miracolo, l’illusione di nuova vita, non
voleva il Leopardi fosse ritenuto se non frutto d’e¬
leganza, frutto dell’uso elegante di vocaboli ch’egli
poteva - per elucidare la propria esperienza e accre¬
scere d’esattezza l’eloquenza della sua ispirazione —
colmare d’uno e talvolta di molteplici valori dramma¬
ticamente, ironicamente ad essi vocaboli derivati dal¬
la storia d’una lingua d’uso ormai antico, d’una lin¬
gua logora dall’uso.9
« Voglio dichiarare questo: ciò che i poeti e gli
artisti dal Romanticismo in poi hanno fatto e s’osti¬
nano a fare, è immenso: essi hanno sentito l’invec¬
chiamento della lingua alla quale appartengono, il pe¬
so delle migliaia d’anni ch’essi portano nel loro san¬
gue: essi hanno dato alla memoria l’importanza ango¬
sciosa ch’essa possiede e, nello stesso tempo, con sfor¬
zi laceranti, essi hanno acquisito il potere di dare alla
Saggi e Scritti vari 1943-1970 765

memoria la libertà di liberarsi di sé quanto più essa


si afferma.
« Così hanno permesso anche all’uomo d’oggi di
abbagliarsi di libertà.
« In una società dove le vicende sembrano progres¬
sivamente trasferire la memoria dall’uomo agli stru¬
menti ch’egli inventa - fu così sempre, ma oggi sem¬
bra che avvenga in modo da togliergli ogni capacità
di regolare le conseguenze dai suoi strumenti scate¬
nate, togliendogli progressivamente ogni libertà di per¬
sonale ricordo - in tale società, poeti e pittori del se¬
colo decimonono e del ventesimo sono rimasti fedeli
a quella vera memoria che sofferenze, gioie e la fra¬
gilità carnale ancora trattengono in vita nell’ispirazio¬
ne unica d’ogni individuo umano.
« Ecco il merito e la portata vera della poesia e
dell’arte oggi.
« Era un ricollegarsi così al messaggio del sopran¬
naturale 10 e, a sua insaputa, vi si ricollegava anche
chi professava l’ateismo, se era poeta. Gli avvenimen¬
ti stessi ci inducevano a ascoltare finalmente - forse
integralmente per la prima volta nei secoli - la vera
lezione rivoluzionaria del Cristo.
« La nozione di libertà, difatti, non si può svinco¬
lare dalla sua notte, se non in contrasto con la colpa
delle origini, se non in contrasto con la fonte male¬
detta della storia, se non in contrasto con Caino, sem¬
pre rinascente più tremendo.
« La nozione di libertà ha quindi da essere oppo¬
sta di continuo per venire in luce in noi, ai fatti ma¬
teriali: fisiologici, economici - agli stati di privilegio
e di schiavitù che dai fatti materiali derivano e che
sono vergogna di qualsiasi regime, anche se nessun
regime saprebbe impedirsi di trascinarli con sé, poi¬
ché, purtroppo, sotto forme diverse, sono stati so¬
ciali che divideranno sempre gli uomini.
« La libertà è la meta - va ricordato? - verso la
766 Giuseppe Ungaretti

qu^le, s’avvia l’uomo quando tenda a superare l’infe¬


riorità e le bassezze della sua condizione, purché per
libertà siano allora intesi quello slancio e quell’effu¬
sione dell’animo nemico d’ogni egoismo, dell’animo che
nell’intimità della persona umana, sa volere estirpare
ogni germe e ogni residuo estranei all’umana dignità.
« La libertà è come la poesia, indefinibile. Sappiamo
oggi che solo essa è poesia.
« Sarebbe essa, come l’infinito era per il Leopardi,
un infinito che non può essere conosciuto dall’uomo,
essere finito, se non mediante oggetti finiti? Non sa¬
rebbe essa, di conseguenza, se non illusione, se non iro¬
nia atroce?
« No, non è un’illusione, e il Leopardi, se fosse
stato altrimenti per lui, non sarebbe il grande poeta
che è.
« Ciò che credeva illusione, non era se non il sen¬
timento del divino che non osava confessarsi, non era
se non imperfetta conoscenza della divinità, dell’infi¬
nito reale, d’un infinito che, certo, secondo i miseri
consigli della blasfema insufficienza della nostra ra¬
gione, non sarebbe se non l’assurdo.
« Il sentimento della libertà è poesia, slancio di co¬
munione con il divino, con Iddio il quale è, Egli, li¬
bertà intatta, onnipotenza pura.
« Ciascuno degli atti nostri di poesia, dei nostri atti
liberi sarà dunque insufficiente, proverà difetti di co¬
noscenza, un difetto uguale alla distanza incommensu¬
rabile che sussisterà sempre tra ciò che può sapere
dell’anima un essere creato e ciò che il Creatore ne
sa.
« La libertà - voglio dire la poesia — è un valore
segreto, essa è indefinibile - ma ciascuno può, dai
battiti del proprio cuore intravvedere ciò ch’essa è. »

A questo punto avrei finito di riferire. Così tren-


Saggi e Scritti vari 1943-1970 767

t’anni della mia vita - i migliori e i più dilaniati -


entrano, malinconici, nel passato.
Sono difatti riflessioni di trent’anni, quelle conte¬
nute nei discorsi che ora avete udito, che ora ho fi¬
nito di riferire.
Vi fanno un po’ ressa i pensieri, e c’era da aspettar¬
selo.
Sono trent’anni di riflessioni, e ne posso dedurre -
anzi l’ho imparato a mie spese, e lo so - che la poe¬
sia non è se non quella scienza dell’anima che tanta
scienza materiale minaccia ogni giorno di morte.
Essa non è se non quel mestiere perduto che ogni
generazione ha da riimparare, frugando nella memoria
di un lontanissimo Eden - sempre più e sempre più
remoto.
È quel mestiere che in tutte le epoche, a ogni gene¬
razione, chiunque avesse avuto la vocazione della poe¬
sia, aveva da riimparare — e che oggi così tragicamen¬
te riimpariamo.11
SULLA POESIA
(Intervista Radiofonica)
[1950]

Vnoie dirci, caro Ungaretti, il suo _ pensiero nei ri¬


guardi degli scrittori che affermano la necessità inde¬
rogabile di stabilire un equilibrio fra espressione arti¬
stica e attività sociale?
Non sono i fatti esterni che fanno lo scrittore: è lo
scrittore che giudica mediante la propria opera tali
fatti, dai quali, se è vero scrittore, non potrà mai es¬
sere determinato. Certo, per natura, ogni uomo, e lo
scrittore, è nella storia e non fuori della storia; ma se
uno scrittore non riesce nella propria opera ad espri¬
merla, la storia, e a darle l’impronta della sua perso¬
nalità, è uno scrittore secondario, del quale la storia
non terrà conto.
Uno scrittore, un poeta, è sempre, secondo me,
engagé-, impegnato: impegnato a fare ritrovare all’uo¬
mo le fonti della vita morale che le strutture sociali,
di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tenden¬
za a corrompere e a disseccare.

Come si fa concreto il messaggio dello scrittore?


Nell'interpretare e trasfigurare in fantasma poetico la
sofferenza umana, oppure nel partecipare alla lotta so¬
ciale, uomo fra uomini?
In primo luogo, e preciso ciò che dicevo al termine
dèlia mia risposta precedente, se il poeta è necessaria¬
mente nella storia, non può non accorgersi della soffe¬
renza umana che lo circonda e - per le vie che gli so¬
no proprie e che non possono essergli dettate - nello
esprimersi sarà naturalmente portato a dare alla prò-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 769

pria attività un significato di liberazione che è nell’es¬


senza stessa della poesia.
A proposito io vorrei citare il passo certamente più
bello del Dialogo di Tim andrò e di Eie andrò del Leo¬
pardi. È uno dei pensieri più profondi del sommo
poeta. Il Leopardi fa dire a Eleandro in un certo pun¬
to: « Se alcun libro morale potesse giovare, io penso
che gioverebbero massimamente i poetici: dico poe¬
tici prendendo questo vocabolo largamente: cioè li¬
bri destinati a muovere la immaginazione; e intendo
non meno di prose che di versi. Ora io fo poca sti¬
ma di quella poesia che letta e meditata non lascia al
lettore nell’animo un tal sentimento nobile che, per
mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile,
e di fare un’azione indegna ». Riferendoci a questo
pensiero del Leopardi, si capirà precisamente cosa in¬
tendo dire per liberazione.
Alla seconda parte della sua domanda, se lo scrit¬
tore debba battagliare o polemizzare, la risposta è im¬
plicita in quanto già detto. Difatti lo scrittore, non
avendo da fare propaganda, ha solo da esprimere ciò
che gli nasce dal di dentro.

Qual è dunque la sua definizione della poesia?


Non so se la poesia possa definirsi. Credo e profes¬
so che sia indefinibile e che essa si manifesti nei mo¬
menti della nostra parola quando ciò che ci è più ca¬
ro, ciò che di più ci ha inquietato e agitato nei no¬
stri sentimenti e nei nostri pensieri, ciò che appartie¬
ne più profondamente alla ragione stessa della nostra
vita, ci appaia nella sua verità più umana; ma in una
vibrazione che sembri superare la forza dell’uomo, e
che non saprebbe mai essere conquista né di tradi¬
zioni né dello studio sebbene delle une e dell’altro
essa incessantemente si nutra. La poesia è dunque un
dono come essa comunemente è considerata, o meglio
essa è il frutto d’un momento di grazia al quale però
770 Giuseppe Ungaretti

una sollecitazione paziente, disperata, è necessaria, spe¬


cie nelle lingue di vecchia cultura. I modi della poe¬
sia sono dunque infiniti, sono tanti quanti sono i poeti
del passato, d’oggi e del futuro.1
Sino dalle mie prime esperienze, fatte nella tragi¬
cità della trincea, quando di fronte alla morte non
c’era da pensare se non alla verità della vita, ho ca¬
pito bene queste cose, e mi sono sforzato nelle mie
ricerche e scoperte di poesia, a insegnare che ogni
poeta ha da svincolare la propria originalità libera¬
mente, ma che ha nello stesso tempo da ricordarsi che
ogni poesia, per essere tale, deve anche possedere quei
caratteri d’anonimia che le impediranno sempre di ap¬
parile estranea ad un essere umano. Ogni vera poesia
risolve miracolosamente il contrasto d’essere singolare,
unica, e anonima, universale.

In quale senso, a suo avviso, si volge la poesia d’oggi?


Credo che ovunque la poesia oggi ubbidisca a uno
stesso moto d’evoluzione. Ogni lingua però ha da ri-
spèttare il proprio genio. Per possedere qualche du¬
rata, ripetiamoci, ogni poesia deve effondersi nel mi¬
stero dell’essere, essere nuova, universale, autentica,
avere riconquistato la sua libertà oltre le condizioni
di tempo e di spazio sebbene non possa astrarsi dal
fatto che l’uomo è tuffato nella storia e che una lin¬
gua segna per conseguenza un invecchiamento storico
che non p.uò essere interrotto e che vive nel nostro
sangue e nella nostra coscienza nella sua continua mo¬
bilità e nella sua costante diversità.

La poesia ha dunque in sé un valore rivoluzionario?


Ogni opera nuova reca nel mondo rivoluzione, se è
di valore incontestabile. Essa ha dunque in sé venen¬
do in luce una parte di oscurità, e non è mai capita
dal pubblico subito. Lo sarà meglio quando la leg¬
genda e i commenti l’avranno resa familiare. Ogni
Saggi e Scritti vari 1943-1970 111

opera nuova reclama un insegnamento, una divulgazio¬


ne, una aureola mitica. Ma sarebbe assurdo da parte
d’un puro artista di non cercare d’essere capito al
più presto dal maggiore numero di persone. Sarebbe
assurdo scrivere senza pensare a un lettore, al mag¬
gior numero di lettori. Non ci fu mai divorzio fra il
pubblico e l’artista. Le difficoltà sono d’un abbor¬
dine.

Quale dunque; per concludere, lo sforzo perenne della


poesia?
La poesia riafferma sempre, è la sua missione, l’inte¬
grità, l’autonomia, la dignità della persona umana. Se
essa giungesse un giorno a vincere la sua battaglia, se
arrivasse a salvare finalmente l’anima umana, se un
giorno nell’unità delle fedi, il primato dello spirito
venisse da tutti ammesso come regola fondamentale
d’ogni società, la poesia avrebbe vinto la sua batta¬
glia, e le difficoltà morali che hanno sempre tanto
tragicamente diviso l’umanità, sarebbero finalmente
sciolte.
SU « UDII UNA VOCE »
DI D.M. TUROLDO
9

[1952]

Nel ’28, dal Monastero di Subiaco dove avevo trascor¬


so ospite una settimana, di ritorno a Marino dove
allora risiedevo, d’improvviso - in quell’anno mi sa¬
rebbero nati gl 'Inni - seppi che la parola dell’anno
liturgico mi si era fatta vicina all’anima. Non che, nel¬
la sua attualità perenne, quella parola non mi trovasse
a volerla amare, da lunghi anni intento. Nella parola
mi ero affannato sino dai miei inizi nel mestiere di
poeta a cercare un segreto che mi isolasse dagli eventi,
quantunque maggiormente nel vivo legandomi ad es¬
si, con meglio accettata sofferenza. Lo stesso Barocco,
muovendo in me più tardi i primi interessi del Senti¬
mento, m’aveva attratto appunto perché si straziava a
ricomporre un’armonia tra miti sorti dalle illusioni
dei sensi e l’Eterno, la Verità, non sapendo manifesta¬
re alle somme se non irreparabile scissura (il Miche¬
langelo del Giudizio e quello delle ultime Pietà, osser¬
vati anche in contrasto). Nel Barocco accadde, è noto,
come se della nostra storia antica una parte (che, do¬
po essere parsa per secoli ridotta al silenzio, pareva si
fosse per virtù del Petrarca riabilitata in noi nella glo¬
ria del suo sapere) della storia nostra profanasse l’al¬
tra parte, più antica, risalente alle origini umane, e
oscuratasi in noi in antico, già prima che l’altra po¬
tesse aggrapparsi a qualche suolo e nei suoi sogni cre¬
scere concorrendo all’esaudimento, esaurendosi e oscu¬
randosi, delle promesse della più antica. E si tenga pre¬
sente che si era, la prima, svolta da offesa alla crea¬
zione e alla rivelazione, e si era superata per l’inno¬
cenza e il perdono duna umana e divina ostia, e che
Saggi e Scritti vari 1943-1970 773

la seconda era nata dall’oblio, dalla smania di impero,


dalla voluttà e dall’orgoglio e dall’ansietà di metro
(Platone oppure l’Eneide) ed era rinata dal ricordo e
dalla malinconia (Petrarca).
Le forme gentili apparvero dunque nel Barocco co¬
me un abbaglio cui si anelasse mostruosamente. Men¬
tre si aggregava continenti lo spazio e davanti alla fan¬
tasia (e dubitosa la facevano di sé) si assiepavano i
miraggi esotici, ogni seduzione terrena e l’ancestrale
volontà di potènza apparvero come segni urgenti e in¬
sieme anacronistici d’un male drammatico della nostra
natura. Ma simultaneamente, esse, forme dei Gentili,
non arrivavano a non apparire come forme felici della
nostra storia, forme remote, ma che avevano incarnato
miti nostri, miti che sarebbero sempre fioriti dalla fu¬
ria della nostra carnale vita, nel nostro sangue giacen¬
ti; e, esse, in connotati cari, forme ribalenanti da
squarci subitanei della solita nebbia, non si sapeva non
continuare a diligerle, comprese le forme della cupidi¬
gia la quale ora, orrenda più di tutto, appariva nella
finalmente tutta scoperta vanità dei suoi sforzi, signi¬
ficando le aperte strade atlantiche che era per noi or¬
mai visibile il baratro che si dissimula sotto ogni slan¬
cio dell’ambizione politica.
Parvero, nell’accavallarsi delle loro vicende, le for¬
me bibliche allora concentrarsi in termini risolutivi:
« Venite pure ora » dice l’Eterno « e letighiamo insie¬
me »; « Quelli che portano il legno della loro scultura
e fanno orazione a un Dio che non può salvare, non
hanno conosciuto alcuno »; « E se ci si dice: Doman¬
date gli spiriti di Pitone, e gl’indovini, i quali bisbi¬
gliano e mormorano - rispondete: Il popolo non do¬
manderebbe egli l’Iddio suo? Andrebbe egli ai morti
per i viventi? »; « Il Fanciullo ci è nato, il Figliuolo
ci è stato dato, il Padre dell’Eternità, il Principe della
Pace »; « Tu sei l’Iddio che ti nascondi, il Salvatore ».
Le forme dell’effimero, polvere spazzata dal primo sof-
774 Giuseppe Ungaretti

fio di vento; la storia, nulla; l’umanità, solo vera se


umile, se tesa a riconciliarsi fon l’Eterno, se tesa a
farsi libera.
Ecco le due parallele, e, in mezzo, smanioso, il Ba¬
rocco non era in grado di scegliere; ma non riuscire
a convertirle in una continua unica linea - come al
Petrarca pareva si potesse - gli parve (la sentì) cata¬
strofe. Nel Barocco, e in qualsiasi altro tipo di stile,
non sono gli schemi (che autorizzano anche i manieri¬
smi più balordi) a suscitare l’interesse principale, nem¬
meno qui a Roma dove tutto, in infinito giustapporsi
e frammischiarsi di epoche, si converte da rovina a
tentativo d’armonia e da tentativo d’armonia a rovina
promuovendo un incessante delirio di clima barocco;
ma - e me ne accorsi bene sino dal Sentimento - lo
spirito che, dal compimento degli affreschi della Sisti¬
na ai primi lustri del Seicento (in poesia, il Tasso) si
agita nel linguaggio, di alcuni sommi. È la catasirofe
sentita immanente nello stesso linguaggio, la medesi¬
ma che ispirerà le ricerche più alte del Romanticismo,
la medesima che ispira le più valide del presente se¬
colo. Ciò che indubbiamente muove, consapevolmente
o meno, tanti discorsi che si fanno oggi intorno al Ba¬
rocco, è dunque il provare in noi, ancora come .allora,
il sentimento della catastrofe.

Sinora non ho fatto altre citazioni di testi, il lettore


se ne sarà avveduto, se non da Isaia. L’ho riletto poco
fa, e l’invito a rileggerlo è il primo che rivolge la poe¬
sia di Davide Turoldo a chi si disponga a dedicarle
la dovuta attenzione.
Vengono in mente osservazioni strane rileggendo
Isaia, e, per esempio, quella che la poesia di questo
secolo è, più che su ogni altra scrittura, poesia che pro¬
va a modellarsi su quella del Profeta più poeta: nelle
aperture di canto; nelle allusioni georgiche; nel pro¬
spettare, svolgere, variare, slargare a perdita d’occhio
Saggi e Scritti vari 1943-1970 115

gli spazi; nella simmetria ritmica procedente dall’ac¬


coppiamento o antitetico, o a scala, o sintetico delle
immagini, o dal ritornello d’immagini di volta in volta
svarianti appena nel significato; nell’essere uno capi¬
tato dentro una folla e riconoscerla distinguendo a uno
a uno (dal mestiere, dall’abito mentale, dalla vocazio¬
ne) quelli che la compongono; e infine, e più di tutto,
nel ritrovarsi uno dentro la tempesta a urlare e a am¬
mutolire, dentro la tempesta infunante nel cuore del¬
l’uomo. Ma, ecco, non si tratta quasi mai di poesia
d’argomento religioso, e, di più, accolgono, i poeti mo¬
derni, nei casi più notevoli, la seduzione della cadenza
tradizionale cui s’è assuefatto un orecchio: quella del¬
l’endecasillabo, o quella dell’alessandrino, o di altro
fondamentale verso a seconda della lingua. Abbiamo
detto seduzione, ed è diabolico il vocabolo, ed è di
natura gentile, idolatra, o, se di più vi piace, edonica;
e, peggiore sacrilegio, per effetti edonici si è tratto
motivo dalle risorse verbali bibliche; ma nel canto di
quelle poesie moderne, o, meglio, parallelamente alle
modulazioni di quel loro canto, c’è un percepimento
del sacro del quale soffre quel canto sete, tanta quan¬
to abissalmente alieno si presuma dal divino. E come
si farebbe, accanto alla lettera duna qualsiasi poesia,
purché sia poesia, a non udire, per quanto immensa
ne sia l’assenza, il terribile alitare dell’angoscia e del
vaticinio che già fu lievito ai gridi del sommo Ebreo?
Per noi è assenza d’un’assenza. Ecco come siamo la¬
cerati.
DOLORE E POESIA
[1956] ,

Tutte le cose del mondo, e la vita nostra, sono pre¬


carie, e lo furono sempre, e in questa nostra infelicità,
nella sorte umana di dolore, il primo Leopardi vedeva
la prova deU’immortalità dell’anima.
Non dico che non ci siano nel mondo momenti di
gioia, non dico che l’uomo non si sforzi, nel lungo
dramma della sua storia, di arrivare al possesso di fe¬
licità terrena; ma non è il parto indolore, e non sarà
la maggiore giustizia finalmente instaurata nell’umana
società, ad abolire nel vivere dell’uomo, il dolore.
E la stessa sete di giustizia sulla terra, non viene
all’uomo dalla sua pietà verso il dolore proprio e al¬
trui? La giustizia è in primo luogo, se è vera giustizia,
misura del dolore, misericordia. Vogliamo interrogare
il libro della vera scienza?
Al legista che, volendo metterlo alla prova, gli do¬
mandava chi fosse il prossimo, Gesù - narrata la para¬
bola dell’uomo imbattutosi, scendendo da Gerusalem¬
me a Gerico, nei ladroni, e da essi lasciato mezzo mor¬
to sulla strada, e da un sacerdote e da un levita passati
successivamente di lì, degnato sì e no d’uno sguardo,
e invece da un Samaritano, terzo passante, da uno che
apparteneva a gente opposta al culto del Tempio, affet¬
tuosamente caricato sulla sua bestia, portato all’alber¬
go, circondato di mille cure - Gesù a sua volta doman¬
dava: « Quale di codesti tre, ti pare che sia stato pros¬
simo a colui che s’imbatté nei ladroni? ». Rispose il
legista: « Quello che gli usò misericordia ».
L’antica ansietà umana che aveva ispirato il grido
profetico dopo la caduta e che sempre ispira la vera
Saggi e Scritti vari 1943-1970 111

poesia, aveva trovato nel Figlio dell’Uomo la testimo¬


nianza suprema: « Misericordia voglio ».

Gesù, volendo sino dal nascere essere nella condi¬


zione di maggiore patimento, aveva scelto di emettere
i primi vagiti, in un rigorosissimo inverno - quello di
quest’anno non ha scherzato - dentro una mangiatoia
di stalla, perché, sebbene le genealogie lo indicassero
discendente dalla -regale stirpe di Davide, tali preroga¬
tive provvisorie non sono le valevoli, quelle che a Lui,
vero Dio nato vero Uomo dallo Spirito, vengono dal
Padre che è nei Cieli; e perché fosse chiaro che la con¬
dizione umana non è negli agi, o in qualsiasi altro
esterno stato, ma è nel dolore mediante il quale qual¬
siasi persona può rinascere nello Spirito: « Chi fa la
volontà del Padre mio che è nei Cieli, questi mi è fra¬
tello, sorella e madre ».
Aveva scelto d’essere il garzone d’un legnaiuolo, per¬
ché il lavoro, che è uno dei segni del nostro castigo,
è insieme l’unico mezzo che con la preghiera - con lai
poesia - lega l’uomo, nobilitandolo, fraternamente al
suo prossimo, nell’emulazione di reciproco aiuto, di re¬
ciproca misericordia.
Aveva accettato la suprema miseria dell’uomo: quel¬
la di sentire nella propria natura incorrotta lo strazio
e la vergogna di morte della natura peccatrice.
Ecco la misericordia: ecco la misura dell’amore infi¬
nito di Dio perché fossimo perdonati e potessimo tor¬
nare a considerarci suoi figli nell’umiltà e nel patimen¬
to incommensurabile dell’Agnello, suo unico Figlio, suo
Verbo incarnato.

In un secolo nel quale l’idea della morte era osses¬


siva, quasi esclusiva nell’ispirazione dell’arte, e aveva
assunto la figura d’un ostacolo a uno sforzo titanico,
allo sforzo dei delusivi mezzi del semplice sapere uma¬
no, mostruoso e vano poiché da solo presumeva di rin-
778 Giuseppe Ungaretti

correre contro il vuoto, la Bellezza integra - in un se¬


colo che nelle manifestazioni coll’arte, sembra che l’ar¬
te la luce dell’arte non sapesse intendere se non attra¬
verso i laceramenti della catastrofe - in-quel secolo del
Barocco si rimane sorpresi leggendo il seguente Sonet¬
to di Góngora, del poeta barocco di maggior genio. È
un sonetto del 1600.

ALLA NASCITA DI NOSTRO SIGNORE

Da un legno pendere trafitto il petto


E di spine inchiodate ambo le tempie,
Dare in ostaggio della nostra gloria
Le mortali tue pene, eroico fatto;
Quanto più fu però in angustia nascere
Dove, per dimostrare in nostri beni
Dove t’abbassi e donde tu provieni,
Un porticuccio si privò di tetto!
Gran Dio, questa non fu la gran prodezza
Dei tempi, in età tenera d’avere
Con forte petto vinto offesa gelida
(Sudare sangue è più che avere freddo)
Se non perché più immensa è la distanza
Da Dio all’uomo che dall’uomo a mortef

Non sono un teologo - e chissà in quanti errori, di


dottrina incorro nella mia lettura d’oggi — ma Góngora
10 era, e certo il mistero è che Iddio abbia voluto pro¬
vare il dolore per misericordia verso l’uomo. Ma agli
occhi miopi dell’uomo, non nella temporalità, che sino
dal primo attimo delle nostre terrene vicende, c’insidia
con la corruzione di morte, appare il castigo dall’uomo
stesso inflitto alla natura con il primo atto della sua
disumana superbia; ma il castigo ci è visibile, oppri¬
mente, c’invade, è indubbio, nel momento risolutivo
della temporalità, nell’angoscia della morte terrena, e
11 Barocco questo ha sentito più di qualsiasi altro seco-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 779

lo. In quell’ora appare nuda tutta la nostra miseria che


solo un perdono infinito può, rigenerandoci, lavare.
Ma in Gesù non il patimento di morte sorprende il
barocco Góngora, ma che uno, eterno, abbia scelto di
nascere, e di morire.
Se il nascere di Gesù fu tanto miracolo d’amore,
come ne cantava il Góngora, che non fu la sua morte?

Secondo il continuamente diverso aspetto dei tempi,


dal loro inizio'-alla loro consumazione, la vera poesia
d’attimo in attimo, in contrasto con essi, è sua sorte si
modifichi per annunziare prima e poi per attestare, sem¬
pre mossa da interno e immediato suggerimento, la ve¬
nuta, la predicazione, la passione, la crocefissione, la
morte, la resurrezione del Messia.
Il Decimoterzo è un secolo dove l’impeto della poe¬
sia pare quasi ritrovare l’infanzia dei sensi, riscoprendo
tra le forme della natura d’improvviso lo spazio uma¬
no, la prospettiva che, per divina legge, trova esistenza
in ogni creatura e proporzioni e crescita, mentre essa
creatura individua corporalmente nella cerchia del co¬
smo, il proprio posto e la propria distanza. Non arriva
però il Canto francescano a tanto se non dopo essersi
immedesimato nelle Stimmate, nello strazio purificante
d’una natura senza macchia, in uno strazio che il crea¬
to possa restituire all’ordine e all’armonia facendo re¬
cuperare a ogni forma la propria essenzialità, l’univer¬
sale cioè della sua bellezza:

In foco l’amor mi mise,


In foco l’amor mi mise,
In foco d’amor mi mise
Il mio sposo novello,
Quando l’anel mi mise
L’Agnello amorosello:
Poiché in prigion mi mise,
Ferimmi d’un coltello,
780 Giuseppe Ungaretti

Tutto il cor mi divise


In foco, l’amor.

E Iacopone svolgerà il tema:

Fiorito è Cristo ne la carne pura:


Or se ralegri l’umana natura.

Fiorito è Cristo ne'la carne pura.

Amor, amore, famme en te transire:


Amor, dolce languire, amor mio desioso,
Amor mio delet'toso, annegarne en amore.

Amor, amor, Iesù sì delettoso,


Tu me t’arrendi en te me trasformando;
Pensa ch’io vo pasmando, Amor, non so o’ me sia:
Iesù, speranza mia, abissame en amore}

Piagne, dolente alma predata..?

Stiamo toccando:

Piagne, dolente alma predata,

la sublimità del tema nella sua più umana misura, nel¬


la misura più naturale degli umani affetti, quella del¬
l’amore materno:

Stabat mater dolorosa


Juxta crucem lacrymosa
Dum pendebat Filius.

Amore materno contemplato e raffigurato dal Poeta


con evidenza e intensità e singhiozzo anche più dram¬
matici nelle rime italiane:

Figlio, l’alma t’è 'scita, figlio de la smarrita,


Figlio de la sparita, figlio attossecato!
Saggi e Scritti vari 1943-1970 781

Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio,


Figlio, a chi m’appiglio? Figlio, pur m’hai lassato!
Figlio bianco e bionno, figlio, volto ioconno,
Figlio, perché t’ha ’l monna, figlio, cusì sprezato?
Figlio dolze e placente, figlio de la dolente...4

Partendo da un interno strazio di fuoco, l’ispirazio¬


ne — avete udito - trovava, secondo le esigenze espres¬
sive del secolo, i suoi effetti, estendendosi, allargan¬
dosi all’esterno,'fuori della personale solitudine, incon¬
trando nella corale moltitudine e nell’infinita varia mo-
numentalità naturale delle creature, la verità del so¬
prannaturale che l’aveva mossa e a cui mirava. Perfino
quando il Poeta attesterà di non essere ignaro che l’uo¬
mo è solo con sé al cospetto di Dio e che la poesia
deve, visitandolo, isolargli i sentimenti se essa vuole
ad essi appiccare il fuoco, perfino allora chiama e com¬
promette con interlocuzioni gente se vuole distinguere
i gradi del suo affanno e della sua fede: si tratta, an¬
che se per fini sacrali, di visibile gestire per richiamo
d’altro visibile gestire, si tratta di « commedia » già
nell’accezione che il vocabolo deriverà da Dante:

O amore muto,
Che non vale parlare che non si conosciuto!
O amor, che te celi per onne stascione,
C’omo da for non senta la tua affezione,
Che no la senta latrone,
Per quel c'hai guadagnato, che non te sia raputo!
Quanto l’om più te cela, tanto più ’n foco abunne:
Omo, tene occultanno, sempre a lo foco iugne;
Ed omo c’ha le pugne
De volere parlare, spesse volte è feruto.
Omo che se destenne de dir so entennemento,
Avvenga che sia puro ’l primo comenzamento,
Vènce da for lo vento
E vali spalianno quel c’ave receputo,5
782 Giuseppe Ungaretti

L’« omo da for », il « latrone », l’« om che più te


cela», l’« omo c’ha le pugne »de volere parlare»: in
quattordici versi, non meno di quattro personaggi evo¬
cati per attestare nelle rapide scene del breve collo¬
quio, con la voce più appassionata, l’« Amore muto »:
il rapporto che sempre non avviene se non in solitu¬
dine, dell’uomo con Dio.
E, sino da quel momento, una poesia simile non po¬
teva non sentirsi la voce inseguirsi nella rimembranza:

Fugo la croce che me devvora,


La sua calura non posso portare,

La remembranza me fa consumare.6

Non è ancora quell’affacciarsi sull’assenza che sino


dal Cavalcanti incomincerà ad annebbiare lungo malin¬
conia le articolazioni della bellezza; ma già quasi è
quella malinconia: già, invocando tanti personaggi sen¬
za arrivare a rompere la solitudine, già, nonostante i
molti personaggi, la rimembranza di Iacopone in tanta
solitudine smaniante nel « Foco », quasi pare avvìi ad
aprire quell’infinito dello spazio della storia, quell’in¬
finito delusivo per cui Uno tutta la vita sospirò di Lau¬
ra, quell’infinito che- dal Leopardi in qua è divenuto
come se la Speranza, come se il « Foco » non valesse
più della storia.

Si faccia ora un salto indietro d’un secolo, e si ve¬


drà subito in San Bernardo come può essere da un
momento all’altro, da un uomo a un altro, diverso nel
linguaggio anche il valore di memoria. La poesia, che
la furia dell’accento già circuisce con vocativi soavi,
ancora e tutta ripiegata su se stessa, nel segreto della
mente ch’essa illumina: è esclusivamente mentale. Can¬
ta San Bernardo, e memoria ha l’unico significato di
Saggi e Scritti vari 1943-1970 783

scintilla necessaria ad accendere un grido sacro nell’e-


cheggiante profonda clausura della solitudine mentale:
solitudine in sé astratta, tutt’altra dunque da quella
iacoponica che sarà, come s’è udito, solitudine che nel¬
la folla scopre se stessa, che se stessa scopre nelle di¬
mensioni di spazio e quasi già di tempo. Canta San
Bernardo:

Jesu, dulcis memoria...

Gesù, dolce memoria,


Dai gioia vera al cuore,
Ma sopra al miele e a tutto
Dolce è la tua presenza.

Con Maria al crepuscolo,


Ti cerco dentro il tumulo,
Ti cerca il cuore querulo
Con mente non con l’occhio.

O mio Gesù dolcissimo,


Speme d’anima ansiosa,
Te chiede il pianto e l’urlo
Della mia mente intima.

Et clamor mentis intimae.

Sempre a segnalare differenze di stile, cioè dell’ele¬


mento di linguaggio su cui, ripetiamoci, può fondarsi
una valutazione storica, e non mai una di merito della
poesia, la poesia nella sua qualità essendo impondera¬
bile a bilance che non siano di pura adesione d’anima,
voglio citare un passo del

Pange, lingua, gloriosi praelium certaminis...

Che l’inno sia del Quinto o del Settimo secolo, a-


784 Giuseppe Ungaretti

vranno già deciso, forse, i dotti che s’occupano filolo¬


gicamente di tali testi; io nornlo so, e per quello che
ho da dire ha poca importanza. Una strofa dell’Inno,
se la traduco, così si esprime:

China i tuoi rami, albero alto,


Dentro di te sminuisci la tensione,
Allenta quel rigore
Che ti dà la tua nascita,
Albero fatti mite
Per le membra del Re Superno.

Nello stile - avete udito - è poesia naturalista, co¬


me la poesia del Dugento; ma nel Dugento, il canto
si svolgerà in tono di conversazione meravigliosamente
familiare, sebbene fosse anche canto spasimante per
una concitazione senza pari dell’animo; e il tono del
Pange è brusco, invece, è, come avrebbero detto nel¬
l’altro dopoguerra, « espressionista », cupo, stravolto,
soffocato nella violenza della stessa natura d’una fibra
poderosa d’albero, soffocato nella violenza della scheg¬
gia di bosco ossessivo presa a simbolo, suscitata nell’e¬
nergica e orrenda sua durezza. Si tratta del medesimo
macchinoso snodarsi, salire e acuminarsi gotico che un
giorno smuoverà e slancerà foreste a pietrificarsi di vo¬
lata nelle stretture sublimi degli archi ogivali; ma quel
giorno Iacopone non sarà lontano, né Cimabue.

Il Canto della notte oscura sorge in un’epoca arci¬


civile; ma nel cuore dell’uomo non c’è, come sempre,
che notte, non ci sono, come sempre, che crolli. Chi
abbia la sete di Gesù d’un San Giovanni della Croce,
sa però, sa nel caos,

Sa d’una fonte che sgorga e che scorre


Quantunque sia notte.
È l’eterna fonte nascosta,
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 785

Ma sa dov’è, cercarla,
Quantunque sia notte.

È l’ultimo scorcio del Cinquecento. Poi s’iniziano


tempi strani, e Góngora, che vi citavo da principio, è
dei Barocchi, il poeta meno sconvolto. Ma in quel Sei¬
cento, in quel secolo gonfio, lambiccato e che si diver¬
tiva a fare divampare i bagliori aurorali nei baratri -
in quel secolo non tarderà a farsi udire a smontarlo
una .voce nudissima.
La meditazione sulla notte oscura dell’Orto degli
ulivi, la meditazione sui momenti più tragicamente
notturni del mondo, sull’agonia in croce del Salvatore,
àalYEloi, Eloi, lamma sabactani, all’Ho sete, al grido
impetuoso: È finito - porta Blaise Pascal ad opporre
all’arroganza cerimoniosa e al vaniloquio dei suoi tem¬
pi, la miseria dell’uomo tanto più palese quanto più
il lusso s’arrovellava a occultarla.
Mai non fu la contrarietà rispetto ai tempi più ama¬
ra nell’animo e più lucida nella mente di quanto essa
fu mentre egli ascoltava, insonne, macerandosi, cadere
nella notte oscura dalla Croce le gocce di sangue che
gli rivelano che Gesù è in agonia sino alla fine del
mondo. Ma non indugiamo più a ricorrere alle proprie
parole di Pascal: « Conosciamo Dio, perché, con le sue
sofferenze senza fine nel tempo, Gesù, suo mediatore,
si è a noi fatto conoscere. E di quale grado sarà una
sofferenza capace di tanta riparazione? Eloi, Eloi, lam¬
ma sabactani. Gesù si rivolge di già a Dio » riferisco
sempre il commento di Pascal « dunque Gesù espiava
nella sua carne il peccato degli uomini, espiava un’of¬
fesa il cui orrore non poteva essere noto alla scarsa
mente e al difettoso sentire degli uomini, ed era noto
solo a Dio. Non è però un grido di disperazione: Eloi,
Eloi: Dio, Dio, - grida Gesù, e Dio non è il Dio dei
disperati; ma dei viventi. Di quale grado saranno i
tormenti di una tale agonia?
786 Giuseppe Ungaretti

« Gesù soffre nella sua Passione i tormenti che gl’in-


fliggono gli uomini; ma nell’agonia soffre i tormenti
che a se stesso si dà: turbare semetipsum... È un sup¬
plizio d’una mano non umana, ma onnipotente, com¬
misurato con l’offesa fatta al Padre, e occorre essere
onnipotenti per sostenerlo. Poi avrà sete: Ho sete:
avrà sete, essendo vero Uomo, com’è vero Dio. Poi spi¬
rerà, gridando impetuosamente: È finito1.
« Griderà impetuosamente, poiché per suo volere on¬
nipotente, con onnipotenza china il capo nella morte,
e non come noi, miseri, con debolezza, per debolezza
derivata da colpa. E quando, dopo la Resurrezione, pri¬
ma dell’Ascensione, si mostrerà alle pie donne e ai di¬
scepoli, non lascerà toccare che le sue piaghe: Noli me
tangere, intendendo che solo dobbiamo unirci alle sue
sofferenze. Sono le cicatrici aperte, ma non sanguinan¬
ti, ma sane, che Gesù - scrive Santo Ambrogio - volle
portare nel Cielo, ove siede alla destra del Padre, per
mostrarle quale pegno della nostra libertà e quale tro¬
feo della sua gloria. »

Tra gli Inni Sacri del Manzoni, se ne trovano, è no¬


to a tutti, due dedicati al Natale: il primo, l’inno com¬
posto dal luglio al settembre del 1813; l’altro, ispirato
dalla morte della prima moglie Enrichetta Blondel, av¬
venuta nel giorno di Natale del 1833, e intitolato ap¬
punto Il Natale del 1833, l’inno del quale non ci ha
lasciato che frammenti avendone interrotto il lavoro
nel marzo del 1835, dopo scritta quella che è l’unica
parola da lui trovata per la quinta strofa: la tremenda
parola Onnipotente. La segue nel manoscritto un am¬
pio spazio bianco e, poi, la postilla cecidere manus\
gli si tagliarono, gli caddero le mani e l’Inno non fu
mai più ripreso.
Già nel Natale del ’13 è raffigurata la terribilità del¬
la giustizia divina nei versi della caduta del masso, o
in versi cóme:
Saggi e Scritti vari 1943-1970 787

Le avverse forze tremano


Al mover del suo ciglio.

La terribilità splende insieme alla grazia nel volto


del Pargolo, ed Egli anche, nella sua severità, sorride
misericorde.
Già Michelangelo ci aveva rappresentato nel Giudi- >
zio, il Cristo dAY Apocalisse, il Cristo che giunge ter¬
ribile sui nembi; e, poi, nelle ultime due Lieta, e spe¬
cialmente nell’ùltima, incompiuta, nella Vieta Ronda-
nini, il Cristo che, per pietà degli uomini, ha, uomo,
patito la morte. In quella Pietà, la Mamma è rappre¬
sentata mentre su un braccio sorregge il corpo esani¬
me, abbandonato, di Gesù, e mentre, con l’altra mano,
che le diviene immensa, gli preme il petto usando, per
ravvivargli, ma senza speranza, il cuore terreno, una
forza di potenza inuguagliabile, eppure d’una delica¬
tezza non vista mai prima.
In Michelangelo si tratta di due momenti diversi
dell’ispirazione, e forse l’iconografia cristiana, prima
che il Manzoni avesse scritto il Natale del ’13, e so¬
prattutto prima che avesse scritto i frammenti del Na¬
tale del 1833, non aveva mai riunito in una medesima
immagine i due aspetti del Cristo, e meno che mai
avendo da rappresentare il volto del Bambino.
Si confronti al secondo Natale menzionato, il Natale
di Góngora, di cui feci cenno al principio del mio di¬
scorso, e si vedrà quanto il Manzoni fosse vicino nel
modo di esprimersi a Pascal e distante dallo Spagnuo-
lo. Ma forse, sebbene Pascal e Góngora vivessero en¬
trambi in epoca barocca, Pascal è già da considerarsi
un Romantico, un Romantico nell’ispirazione, poiché
quanto alla forma è geometrico, come lo è il Manzoni,
negli Inni che, dalle prime stesure, dove cozzano im¬
magini travolgenti e stupende, giunge a stesure oltre¬
modo logiche, formalmente miranti a Racine, e final¬
mente arriva, con gli ultimi due Inni incompiuti, fra
788 Giuseppe Ungaretti

cui il Natale del 1833, alla purezza, alla rigorosa sag¬


gezza formale raciniana.
Il tema del Natale del 1833 appartiene alla poesia
d’ogni tempo, è il tema del rapporto tra Dio e l’uomo,
e la difficoltà di linguaggio non è del tema, ed è do¬
vuta, anche più che al lutto personale che è all’origine
dell’Inno, particolarmente al sentimento della vita ter¬
rena sofferta come mistero perché svolgentesi entro li¬
miti di catastrofe, sentimento peculiare dei Romantici.
Si pensi a quanto, dal canto A Silvia, al Dialogo di
Tristano e di un amico, sino alla Ginestra, l’animo del
Leopardi manifesti tormento insopportabile, a nessun
nato essendo concesso di conoscere le cause in seguito
alle quali ogni vita ha nel cosmo per condizione con¬
danna a morte.
È attraverso analogo sbigottimento e analoga medi¬
tazione e mediante la conseguente accettazione dell’ac¬
cento romantico che il Manzoni si prova a dichiarare
il suo strazio per la scomparsa terrena d’una persona
dilettissima:

Sì che Tu sei terribile!


Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.

E questa tua fra gli uomini


Unicamente amata,
Vezzi or Ti fa, Ti supplica,
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 789

Un dì con altra fronte,


Ti seguirà sul monte,
E Ti vedrà morir.

Onnipotente

Soffermiamoci ora, per avviarci meglio a concludere,


sul significato di due vocaboli: unicamente, attonito:

E •questa tua fra gli uomini


Unicamente amata

Unicamente amata, cioè soltanto amata perché è sen¬


za peccato, e tutti gli altri esseri umani sono invece
da giudicare e, per amore, da averne pietà. Può anche
interpretarsi come amata in modo unico, singolare, cioè
prediletta fra gli esseri umani.

Ti stringe al cor che attonito


Va ripetendo: è mio!

Attonito è uno di quei vocaboli di precisione mira¬


colosa che sa trovare solo il Manzoni. È una giovane
Mamma che, come esse fanno, stringendo al cuore il
neonato figlio, stenta per troppo grande gioia a credere
che quella creatura sia sua: e dovrà stringerla un gior¬
no, nelle stesse braccia, cadavere. Per giustizia e per
pietà, il Cristo s’imporrà tale martirio e ne imporrà la
desolazione a Lei, unicamente amata.
Ma, quantunque la maggioranza degli Italiani sia di
tradizione cristiana, se non ci avesse avvertiti l’accen¬
tuazione romantica data dal Poeta al linguaggio del¬
l’Inno, non saremmo forse arrivati a sentire per quale
intensità di poesia sia nell’Inno stesso riconosciuto che
Dio non misura il suo amore, la sua giustizia e la sua
pietà secondo il nostro povero metro.
Gl’iniziatori di questa riunione vogliono che a que-
790 Giuseppe Ungaretti

sto punto io dica anche qualche cosa di me. Dopo i


Poeti santi, dopo i Poeti grandi, che figura ci farei io
che non sono santo e non sonò grande.
Potrei dire che nella mia vita drammatica, e che
continua ad esserlo, più affondata nel male che slan¬
ciata verso il bene, qualche volta la verità mi ha illu¬
minato senza contrasti.
Fu quando, soldato nelle trincee, nella prima guerra
mondiale, negli umili miei canti sentivo la parola « fra¬
telli » nascere nella notte. Sentivo:

Fratelli

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata7

E più tardi, nel 1931, più energica, la medesima


ispirazione mi piegava a pregare:

Da ciò che dura a ciò che passa


Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.

Oh! rasserena questi figli.

Fa’ che l’uomo torni a sentire


Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.8

Mio Fiume anche tu è una poesia del 1943. Fu pub¬


blicata in un volumetto del 1944, e ora figura nella
raccolta II Dolore. È nata da visioni orrende e ormai
Saggi e Scritti vari 1943-1970 791

lontane. Dio voglia ch’esse non abbiano mai più a ri¬


petersi. In quei giorni quando, in San Clemente,

Dalla crocefssione di Masaccio


M‘accolsero, d’un alito staccati
Mentre l’equestre rabbia
Convertita giù in roccia ammutoliva,
Desti dietro il biancore
Delle tombe abolite,
Defunti, su montagne
Sbocciate lievi da leggere nuvole,9

allora fu che a fondo in me seppi come « accenda la


speranza ».

Perdonino, amici, se la mia vanità ha ceduto a ami¬


chevoli insistenze. Valga almeno la lettura fatta di cose
mie a indicare la forza di spirito cui aspiravo volgen¬
domi alla poesia, alla poesia che è sempre se è poesia,
l’atto con il quale un uomo tende alla purezza, tende
ad amare, anche se la carne rimanga debole, ciò che
l’oltrepassa: l’Umana Perfezione.
DIFFICOLTA DELLA POESIA
[1952/19§3]

Alcuni anni fa, e precisamente nel 1950, mi domandò


qualcuno quale fosse la mia posizione di fronte a que¬
gli scrittori che affermano la necessità inderogabile di
stabilire un equilibrio tra espressione artistica e attività
sociale. Risposi-: « Non sono i fatti esterni che fanno
lo scrittore: è lo scrittore che giudica mediante la pro¬
pria opera tali fatti, dai quali, se è vero scrittore, non
potrà mai essere determinato. Certo, per natura, ogni
uomo, e lo scrittore, è nella storia e non fuori della
storia; ma se uno scrittore non riesce nella propria
opera, ad esprimerla, la storia, infondendole il soffio
e dandole l’impronta del proprio personale esistere, è
uno scrittore secondario del quale la storia non terrà
affatto conto. Uno scrittore, un poeta, è sempre, secon¬
do me, impegnato: indagando i propri tempi per cono¬
scerli e, in rapporto ad essi, indagando sé per cono¬
scersi, impegnato a fare ritrovare all’uomo, le fonti del¬
la vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi co¬
stituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere
e disseccare ».'
Volevo nella mia risposta suggerire che per ogni poe¬
ta c’è un costante problema di linguaggio da risolvere,
e che non può tale problema trovare soluzione se non
in modi personali; in altri termini, volevo suggerire
che il poeta è difatti, quando riesca ad esprimersi, ra¬
dicato nella storia, non potendo, se è poeta, non ac¬
corgersi della sofferenza umana che lo circonda; ma
volevo sopratutto suggerire che al poeta, e per le vie
che gli sono proprie e non possono essergli dettate, è
impossibile, se riesca ad esprimersi, non sentirsi natu-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 793

Talmente portato a dare alle proprie parole un signifi¬


cato di rottura dei limiti della storia, di liberazione
dalle condizioni e dalle determinazioni della storia.
L’anelito a libertà è nell’essenza stessa della poesia e
mi sarà in proposito d’aiuto a farmi capire la citazione
del passo certamente più bello del Dialogo di Timan-
dro e di Eleandro del Leopardi. Il Leopardi fa dire a
Eleandro: « Se alcun libro morale potesse giovare, io
penso che gioverebbero massimamente i poetici, dico
i poetici prendendo questo largamente: cioè libri de¬
stinati a muovere l’immaginazione: e intendo non me¬
no di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quel¬
la poesia che letta e meditata non lascia al lettore nel¬
l’animo un tale sentimento nobile che, per mezz’ora,
gl’impedisca di ammettere un pensiero vile e di fare
un’azione indegna ». In questo pensiero del Leopardi
è definito esattamente, mi pare, il potere di liberazione
cui alludevo e che ritengo possegga la poesia, la vera.
Si diceva che ogni poeta ha un costante problema
di linguaggio da risolvere. Cercherò di stabilire il va¬
lore che dò al vocabolo linguaggio. Il linguaggio di¬
pende, secondo il mio già espresso debole parere, da
ricerche espressive che sono comuni ad un dato perio¬
do storico, ma di più dipende dalla forza singolare di
chi l’usa per trasfigurare la realtà, per agire cioè su di
essa, per riportarla cioè in un campo di sollecitazioni
di chiarimenti originari. Mi riferisco dunque, parlando
di linguaggio, a una veste certo, ma ad una veste ani¬
mata e che, nelle sue diversità, più che per descrizioni
naturalistiche da parte dell’autore o da parte di chi
legga, s’individui per ispirazione e per gusto, per divi¬
nazione, per doti imponderabili, al lume d’una filolo¬
gia che non fosse solo meticolosamente attenta a do¬
cumentarsi, o, peggio, a documentarsi in superficie col¬
lezionando ticchi e bisticci verbali.
In questi anni ho avuto occasione, chiamato nell’una
o nell’altra giuria per il conferimento di premi a scritti
794 Giuseppe Ungaretti

poètici, di esaminare migliaia di poesie. Ebbene, i


concorrenti erano tutti poeti moderni, avevano tutti
cioè accolto un linguaggio che' in innumerevoli sensi
diversi si va sviluppando in tutti i paesi del mondo da
quasi un secolo. I detti concorrenti avevano sviluppa¬
to tutti i contenuti possibili e immaginabili, e c’erano
poesie sensuali, poesie sentimentali, poesie mistiche,
poesie politiche, poesie ingenue, poesie filosofiche; ma
per nessuno il mezzo espressivo comunemente detto
moderno aveva provocato titubanza, nemmeno mini¬
ma. Quelle poesie, ammettiamolo pure, erano general¬
mente stupide; ma sarebbe successo lo stesso, e anzi
forse peggio, se il mezzo espressivo fosse stato meno
moderno. Non è affatto un merito essere del proprio
tempo, è naturale; e il merito semmai dovrebbe ricer¬
carsi altrove, e difatti è stato giustamente osservato
che un vero poeta prova grande difficoltà, è somma¬
mente impacciato anche nel dovere esprimere la cosa
più semplice, dovendovi implicare nell’esprimerla, la
propria anima. Il merito consisterebbe nell’essere mo¬
derni non da manieristi come esserlo è troppo facile
ed è inutile, ma disorientando ogni volta gli stessi pro¬
pri seguaci, come se il linguaggio fosse da inventarsi
ogni volta daccapo, e senza dubbio è da inventarsi sem¬
pre daccapo dovendo fargli incarnare l’ispirazione da
esprimere nel modo più che si possa aderente ad essa.
Ogni opera autentica ha di conseguenza quando nasce
l’oscurità disorientante del nuovo, oltre tutte quelle
oscurità che sono dipendenti dal grado di perizia del
poeta, e dalla più o meno grande importanza della pa¬
rola di fronte a una realtà che non può, lo ripetiamo,
sorprendere e tentare di misurare se non soggettiva¬
mente chi, per poterla bene o male esprimere, aspiri
a farsene una propria poetica realtà, una realtà d’anima.
Le mie convinzioni rimangono dunque quelle che so¬
no sempre state, ossia le seguenti: Mallarmé del Coup
de dés e Cézanne degli ultimi quadri, quelli, per in-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 795

tenderti, dove è già manifesto il Cubismo, hanno rias¬


sunto e non chiuso ma rinnovato, dando loro un valo¬
re del tutto diverso, le ricerche dell’800 e aperto le
vie a nuove ricerche tenendo conto d’una disgregazione
e disintegrazione del linguaggio tradizionale che si fa¬
ceva sempre più fatale e accelerata e moltiplica oggi
ancora le difficoltà delle soluzioni espressive, oggi più
le moltiplica che mai.
Quali furono le ricerche di linguaggio poetico che
con Mallarmé e Cézanne si chiudevano? Esse furono
animate dal sentimento della decadenza, e risalgono al¬
la seconda metà del 700. Il sentimento della decaden¬
za è un sentimento che si lega quasi esclusivamente ai
sensi, un sentimento che dà peso determinante alla
storia, airinvecchiamento cui anche la storia è sogget¬
ta, alla storia intesa biologicamente, o se preferite ma
non è interamente esatto, alla storia materialmente in¬
tesa. Per avere presente quindi un primo esempio delle
difficoltà insite in un linguaggio poetico, si pensi che
la poesia leopardiana appare sotto l’esacerbarsi del sen¬
timento della decadenza solo oggi, dopo che s’è potuto
vedere chiaramente sulla base degli scritti critici del
Poeta, oggi solo esaminati nel loro valore rispetto alla
sua poesia, come egli, per illusione di ringiovanimento,
ottenuto da eleganza, cercasse di ridare parvenza di
gioventù a una lingua considerata decrepita, e, per con¬
seguenza, cercasse di ridarle possibilità nei suoi effetti
d’illusione d’infinito, possibilità di quella liberazione
ch’egli, come fine delle sue ricerche di linguaggio, cer¬
cava di ottenere dal linguaggio stesso, pure attribuen¬
do all’idea umana d’infinito in quel momento storico,
significato d’ironia, significato illusorio, significato de¬
cadente: l’infinito, gli sembrava, non sarebbe in realtà
se non illusione offertaci dal finito: un’ironia.
Troppo lungo sarebbe soffermarci stasera, anche so¬
lo di sfuggita, a quella che chiamano la teoria dell’ele¬
ganza di Giacomo Leopardi, e che è teoria fondata su
796 Giuseppe Ungaretti

un uso dei vocaboli e dei costrutti di tale accortezza,


anche filologica, da ottenere, come si diceva, da essi
illusione d’infinito. Andiamo avanti.
Uno dei pensieri di Blaise Pascal, un pensiero famo¬
so, proverbiale e che non ignorerà, sicuramente, nes¬
suno dei miei ascoltatori di stasera, dice: « Le silence
éternel de ces espaces infinis m’efiraie ». Questo pen¬
siero d’un uomo francese del ’600, d’un Giansenista,
duna grande anima di poeta, è da Léon Brunschvigg
così commentato: « Questo penetrante grido è d’uno
scienziato e d’un Cristiano. Per il geometra l’universo
offre l’immagine dell’infinito e dell’eterno, e così l’uni¬
verso gli sembra partecipare degli attributi della divi¬
nità. Ma l’Iddio del Cristiano è un essere morale, è
sensibile al cuore. E l’universo del geometra, quell’u¬
niverso infinito è muto, è destituito di qualsiasi vita
morale, non parla al cuore e non dà testimonianza di
Dio. Alla parola di Pascal conviene opporre » prose¬
gue Brunschvigg « il celebre pensiero di Kant che e-
sprime il sentimento contrario, la soddisfazione del¬
l’essere intelligente che capisce l’universo e unisce il
suo destino individuale alla sorte dell’intero mondo
uguagliati da quella rivelazione della legge morale che
innalza l’essere intelligente sino a Dio. Nella conclu¬
sione della Critica della Ragione pratica, Kant dice in¬
fatti: “Due cose riempiono l’animo d’un’ammirazione
e d’un rispetto sempre rinascenti e che più s’accresco¬
no più vi torni spesso il pensiero e maggiormente vi
si applichi: il cielo stellato su di noi, la legge morale
in noi” ».
Dal pensiero di Blaise Pascal surriferito ha tratto
in molta parte, e forse interamente ispirazione L’infi¬
nito di Giacomo Leopardi, e, questo, credo si sappia
poco.2 Per nessun altro uomo, suo contemporaneo o
del passato, il Leopardi ha le parole di meravigliata
ammirazione e d’incondizionato rispetto che pronunzia
per Pascal. Credo che il pensiero di Pascal abbia agito
Saggi e Scritti vari 1943-1970 797

più d’ogni altro, per i pensieri sull’assuefazione, per


esempio, nella formazione del cuore e della mente del
Leopardi, cuore e mente, come tutti sanno, ricchi di
sublime umanità.
Il Leopardi traduce nell 'Infinito, il pensiero di Pa¬
scal: Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie,
così:

Ma sedendo e mirando, interminati


Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
10 nel pensier mi fingo; ove per poco
11 cor non si spaura.

L’esclusione di

tanta parte
Dell’ultimo orizzonte

dal

guardo

per opera di una povera

siepe,

col concorso, se si vuole, d’un

ermo colle.

può

di là da quella, [quella è la
tanta parte
Dell’ultimo orizzonte]
798 Giuseppe Ungaretti

può muovere il poeta a dichiarare:


9

10 nel pensier mi fingo


interminati
Spazi, , e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
; ove per poco
11 cor non si spaura.

Riprendiamo ora il testo di Pascal, e vedremo subi¬


to, nel linguaggio, differenze d’epoca, là il ’600 gian¬
senista francese', qua la corrente pessimista del nostro
primo ’800 romantico, e di più vedremo due uomini
diversi.
Pascal è spaventato dal silenzio della sua scienza, se
invoca Dio, e sa che solo agli slanci del cuore Dio dà
ascolto; il Leopardi vuole solo indicare che la sua poe¬
sia, l’infinito che in quel momento sente usando le pa¬
role di Pascal, gli viene:

il guardo esclude

da un’illusione ottica dovuta a un’inframmettenza d’u-


na siepe e, se si vuole, d’un colle. Nei versi successivi
dichiara:

E come il vento
Odo stormir tra queste piante,

(le piante della siepe), va, il poeta,

comparando

all’

Infinito silenzio
Saggi e Scritti vari 1943-1970 799

degli

interminati
Spazi
questa voce

la voce dello stormir del vento tra le piante, voce fug¬


gente a sparire nell’illusione d’infinito, e allora il poe¬
ta si

sovvien
le morte stagioni,

le innumerevoli ere sparite nell’

eterno

delle quali si

sovvien

per 1’

Infinito silenzio

ove va sparendo

stormir

di
vento
e si
sovvien

della stagione, della sua stagione

presente
800 Giuseppe Ungaretti

E viva,

e del

suon ’ di lei

suono e stagione fuggenti a sparire anch’essi nell’

eterno,

nell’eterno delle morti, della morte, come l’altra

voce
vento

che s’ode

stormir

va sparendo nell’

Infinito silenzio

suscitato dall’illusione ottica.

Così tra questa


Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Ed ecco l’ironia, il mare, il mare nel quale naufra¬


gare -gli è dolce, è la morte, l’eterno della morte, è
eterno non dissimile dall’illusione d’infinito dove spa¬
risce la voce di vento stormita tra le piante: è il nulla:
le néant, le néant pascaliano visto con altri occhi!
Ma la liberazione della poesia qui è tuttavia quella
stessa di cui il Leopardi parla nel Dialogo di Timan-
dro e di Eleandro, ed è quella stessa che è nel suo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 801

messaggio della Ginestra dove chiede all’uomo che fi¬


nalmente riconosca il suo nulla e sia uomo fratello al¬
l’uomo, a ogni uomo.
Questo è quel Leopardi del sentimento della deca¬
denza, del sentimento del fatale invecchiare e perire
di tutto, anche della lingua e anche della civiltà, che,
nella Canzone ad Angelo Mai, prima d’arrivare a dire:

a sciorre il gelo
Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
Cinta l’odio

aveva messo accanto ad

alma

il vocabolo

raggricchiata

e prima d’arrivare a dire:

Se d’angoscia sei vago

aveva detto

Se vuoi strider d’angoscia

come se a lui toccasse preannunziare la nostra dispe¬


rata impresa, di noi poeti d’oggi.
Kant è un filosofo, ma uno dei pochissimi veri filo¬
sofi che la storia umana possa vantare, e non l’avvicino
al Leopardi se non perché Brunschvigg lo chiama in
causa a proposito di Pascal. Erano quasi contemporanei,
ma la cultura da un paese all’altro può essere diversa,
non dico inferiore o superiore. Kant prelude al Roman¬
ticismo, ma il suo pensiero è pensiero filosofico più
802 Giuseppe Ungaretti

che d’altro giustamente preoccupato del proprio conte¬


nuto. Il Leopardi, che sa benissimo pensare, ascolta
di preferenza all’intelligenza il 'cuore, e crede che non
vi possa essere poesia che non venga da tale ascolto,
ma crede anche negli effetti della parola, e non sa cosa
gli dia meno requie: pensare, la voce del cuore, o la
ricerca di linguaggio. Il Romanticismo, parlo s’intende
del Romanticismo migliore, e mi riferisco solo alla poe¬
sia romantica, è in moltissima parte fatto di questa
contraddizione: ponendo attenzione all’ispirazione co¬
me ancora essa fosse, d’ordine sacro e venisse dal cuo¬
re, considera nello stesso tempo quella parola che avrà
da essere dettata da tale ispirazione, come frutto di
consumata esperienza letteraria e di faticosa e accorta
elaborazione rettorica e germinata solo da sensitività.
È strano e non strano: proprio quando si vuole libe¬
rare il sentimento dal soffocamento delle parole, all’uo¬
mo non rimane più che da dare eccessivo credito a
parole, e divenire, o ritenersi, preda egli stesso d’ec¬
cessi verbali e delle variazioni delle vicende avvertite
dall’epidermide.
Come si trasmuta il cielo stellato, di Kant se pen¬
siamo al vocabolo stridere, all’intensità di significato
che può assumere anche soltanto l’uso d’un vocabolo
in un dato linguaggio poetico:

Spente nell’imo strideran le stelle

oppure:

oltre ai liti
Cui strider l’onde all’at tu far del sole
Parve udir su la sera.

Saranno stati versi ispirati al Leopardi dalla serale


vista del mare dall’alto di Recanati, di strapiombo. Im¬
porta che gli astri siano paragonati a tizzoni tuffati
Saggi e Scritti vari 1943-1970 803

nell’acqua, importa che siano stridenti d’angoscia; e


anche l’acqua s’oda spasimante.
Ma il linguaggio non è la poesia. Ma non si può
intendere una qualsiasi poesia se prima non ne cono¬
sciamo, quanto meglio ci sia possibile, il linguaggio. Il
linguaggio non è la poesia, ne è come il corpo all’ani¬
ma, ma anche come il cibo e i tossici al corpo e come
il pungolo e le tentazioni all’anima. Un linguaggio vici¬
no, che anzi sia quello che usiamo, o dal quale, nelle
nostre ricerche d’espressione, immediatamente prendia¬
mo le mosse, presenterà minore difficoltà di decifra¬
mento che non un linguaggio lontano e da doversi
quindi portare a chiarezza dagli smorzamenti e dagli
intrugli dovuti al tempo. Necessariamente, a causa di
problemi di linguaggio, una poesia d’altri tempi non
è più difficile a leggersi d’una poesia d’oggi.
Il linguaggio non è la poesia, la poesia va oltre il
linguaggio, la poesia vera non è né facile né difficile:
è poesia. Dante, nel trattato secondo del Convivio,
quando c’insegna che per quattro sensi diversi devono
esporsi le scritture: senso letterale, senso allegorico,
senso morale, senso anagogico, ci avverte che pochi sa¬
ranno atti a intendere la trasfigurazione morale che per
opera di poesia farà risplendere il mondo, poiché « nel¬
le secretissime cose si ha poca compagnia ». Non insi¬
sto. Quelli che cercano e sentono poesia in un’opera
d’arte, certo non sono legioni, sebbene ogni essere uma¬
no in qualche modo in sé porti e provi poesia. Sarà,
tale interesse attivo verso l’opera poetica, meno diffu¬
so dell’augurabile per colpa dell’educazione? O per col¬
pa delle individuali attitudini? O sarà colpa della dif¬
ficoltà, che si ha sempre, a tenere in qualche conto le
cose che non servono a nulla se non ad arricchire l’a¬
nima? Ci sia lecito non farne indagine oggi.
Passiamo ad altro.
Da un uomo di gusto sottile, e poeta di tale straor¬
dinario estro che molti gli danno la precedenza persi-
804 Giuseppe Ungaretti

no Su Apollinaire, dal compianto Léon-Paul Fargue udii


una volta paragonare un famoso storico della letteratu¬
ra francese, il Lanson, cui la poesia di Victor Hugo
pareva un po’ scema, a quella viaggiatrice la quale, es¬
sendole caduta dai capelli una forcina mentre incomin¬
ciava a visitare il Partenone, tutto il tempo della pas¬
seggiata, lo perse a cercare la forcina.
So che a proposito della metrica degli Inni sacri
qualcuno fa le boccacce, e la chiama musichetta da cir¬
co, e vorrebbe che nel primo ’800 avessero fatto i ver¬
si come li facciamo noi, non accorgendosi come quella
veste, volutamente popolare secondo le esigenze del'
Romanticismo, concorrerà per contrasto a rendere più
commovente la poesia nel suo segreto: quel qualcuno,
lasciamolo cercare la sua forcina.
Noi invece cercheremo altro nel Manzoni.
Tra gli Inni sacri del Manzoni, se ne incontrano, è
noto a tutti, due dedicati al Natale: il primo, l’inno
composto dal luglio al settembre del 1813; l’altro, ispi¬
rato dalla morte della prima moglie Enrichetta Blon¬
del, avvenuta nel giorno di Natale del 1833, e intito¬
lato appunto II Natale del 1833, l’inno del quale non
ci ha lasciato che frammenti avendone interrotto il la¬
voro nel marzo del 1835, dopo scritta quella che è l’u¬
nica parola di quella che avrebbe volutcessere la quin¬
ta strofa: la tremenda parola Onnipotente. La segue
nel manoscritto un ampio spazio bianco e, poi, la po¬
stilla cecidere manus. Gli si recise, gli cadde la mano,
e l’inno non fu mai più ripreso.
Già nel Natale del ’13 è raffigurata la terribilità del¬
la giustizia divina nei versi della caduta del masso, o
in versi come:

Le avverse forze tremano


Al mover del suo ciglio.

Terribilità da visione giansenistica, e la corrente di


Saggi e Scritti vari 1943-1970 805

religioso sentire che seguiva Pascal, è qui seguita, non


con l’angoscia negatrice del Leopardi, ma direttamen¬
te, con impeto di fede.
La terribilità splende insieme alla grazia nel volto
del Pargolo, ed Egli anche, nella sua severità, sorride
misericorde.
Già Michelangelo ci aveva rappresentato nel Giudi¬
zio, il Cristo AeìY Apocalisse, il Cristo giudice che giun¬
ge terribile sui nembi; e, poi, nelle ultime due Pietà,
e specialmente nell’ultima, incompiuta, nella Pietà Ron¬
datimi, ora conservata in un museo di Milano, il Cri¬
sto che, per pietà degli uomini, ha, uomo, patito la
morte. In quella Pietà, la Mamma è rappresentata men¬
tre su un braccio sorregge il corpo esanime, abbando¬
nato, di Gesù, e mentre, con l’altra mano, che le di¬
viene immensa, gli preme il petto usando, per ravvi¬
vargli, ma senza speranza, il cuore terreno, usando una
forza di potenza inuguagliabile, eppure d’una delica¬
tezza non vista mai prima.
In Michelangelo si tratta di due momenti diversi
dell’ispirazione, e forse l’iconografia cristiana, prima
che il Manzoni avesse scritto il Natale del ’13 e soprat¬
tutto prima che avesse scritto i frammenti del Natale
del 1833, non aveva mai riunito in una medesima im¬
magine i due aspetti del Cristo, il terribile e il miseri¬
corde, e meno che mai avendo da rappresentare il vol¬
to del Bambino.
Il tema del Natale del 1833 appartiene alla poesia
d’ogni tempo, è il tema del rapporto tra Dio e l’uomo,
e la difficoltà di linguaggio non proviene dal tema, ed
è dovuta, anche più che al lutto personale che è all’o¬
rigine dell’Inno, particolarmente al sentimento della
vita terrena sofferta come mistero perché svolgentesi
entro limiti di catastrofe, sentimento peculiare dei Ro¬
mantici.
Si torni al riguardo a pensare, a quanto, dal canto
A Silvia, al Dialogo di Tristano e di un amico, sino
806 Giuseppe Ungaretti

alla, Ginestra, l’animo del Leopardi manifesti tormen¬


to insopportabile, a nessun nato essendo concesso di
conoscere la causa in seguito alla quale ogni vita ha
nel cosmo per condizione condanna a morte.
È attraverso analogo sbigottimento e analoga medi¬
tazione e mediante la conseguente accentuazione ro¬
mantica della parola che il Manzoni si prova a dichia¬
rare il suo strazio per la scomparsa terrena d’una per¬
sona dilettissima:

Sì che Tu sei Terribile!


Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.

E questa tua fra gli uomini


Unicamente amata,
Vezzi or Ti fa, Ti supplica,
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E Ti vedrà morir.

Onnipotente

Soffermiamoci ora sul significato di due vocaboli:


unicamente, attonito:

E questa tua fra gli uomini


Unicamente amata...
Saggi e Scritti vari 1943-1970 807

Unicamente amata, cioè soltanto amata perché è sen¬


za peccato, e tutti gli altri esseri umani sono invece da
giudicare e, per amore, da averne pietà. Può anche in¬
terpretarsi come amata in modo unico, singolare, cioè
prediletta fra gli esseri umani.

Ti stringe al cor, che attonito


Va ripetendo: è mio!

Attonito è uno di quei vocaboli di precisione mira¬


colosa che sa trovare solo il Manzoni. È una giovane
Mamma che, come esse fanno, stringendo al cuore il
neonato figlio, stenta per troppo grande gioia a crede¬
re che quella creatura sia sua; e dovrà stringerla un
giorno, nelle sue stesse braccia, cadavere. Per giustizia
e per pietà, il Cristo s’imporrà tale martirio e ne im¬
porrà la desolazione a Lei, unicamente amata.
Ma, quantunque la maggioranza degli Italiani sia di
tradizione cristiana, se non ci avesse avvertiti l’accen¬
tuazione romantica data dal Poeta al linguaggio del¬
l’Inno, non saremmo forse arrivati a sentire per quale
intensità di poesia sia nell’Inno stesso riconosciuto che
Dio non misura il suo amore, la sua giustizia e la sua
pietà secondo il nostro povero metro.
Ora, per avviarmi a concludere, dovrei affrontare la
poesia d’oggi. Oh, niuno spavento, non m’addentrerò
in quel ginepraio. Rileverò solo un errore dell’opinio¬
ne corrente, e solo per aiutarci a meglio renderci con¬
to perché, quando dico linguaggio, altro non voglio
indicare se non la presa di coscienza delle difficoltà
tra le quali, per manifestarsi, ha la poesia in noi da
divincolarsi, in noi sposandole, superandole, e trac¬
ciandone le vicende.
È errore parlare di Decadentismo riferendosi all’ar¬
te d’oggi. Quelle ricerche di linguaggio, l’ho già detto,
si riassumono e si chiudono col Coup de dés di Mallar-
808 Giuseppe Ungaretti

mé e con le ultime pitture di Cézanne dove già appare


il Cubismo: si chiudono aprendo la strada a nuove ri¬
cerche. Le nuove ricerche si ,sono aperte anche con
l’ultimo Leopardi, e anche con quello precedente, do¬
ve già metteva, nei suoi stimoli veri, per primo in Eu¬
ropa, a frutto il suo teorizzare sul principio dell’inde¬
terminatezza, della quale la tecnica del frammento, co¬
me l’intenderà lui, sarà coronamento; e si sono aperte
anche con Hòlderlin, e con i Libri profetici di Blake,
tutta poesia però, scoperta in quest’ultimo Novecento,
ancora da scoprire quando già Mallarmé e Cézanne
contavano numerosi fautori.
Tutto ciò si dice, è ovvio, non per dire che nelle
opere attuali dell’arte non rimangano impigli decaden¬
tistici, il figlio serberà sempre in sé qualcosa del pa-
dre, si dice per dire che il vocabolo: decadentistico,
quando è usato per l’arte d’oggi dalla critica, non fa
che coprire, volontariamente o no, motivi di propagan¬
da politica che nulla hanno da spartire con la poesia.
Ai suoi tempi, il Leopardi parlava, pensando all’o¬
riginaria ispirazione della poesia, di spavento della bel¬
lezza. Oggi le cose si sono capovolte, e noi potremmo
parlare di spavento della materia, della materia che
soffoca la bellezza, della materia che rende a noi l’e¬
sprimere poesia, difficile più che in qualsiasi altra e-
poca.
Non più dunque sentimento della decadenza è il no¬
stro, ma sentimento della soverchiante materia.
La materia oggi ci soverchia, e i mezzi di sempre
più paurosamente crescente potenza che il sapere del¬
l’uomo trae incessantemente dalla materia, anch’essi ci
soverchiano, ci fanno ogni giorno più soverchiante la
materia.
Questo soverchiamento, nel linguaggio poetico d’og¬
gi, e in quelli delle arti figurative e della musica che
sono, anch’essi, linguaggio di poesia, è manifestato o
Saggi e Scritti vari 1943-1970 809

per via di chiazze ossessive, o per via d’ideogrammi, o


per via di spolpamenti spettrali della materia, o di in¬
croci all’ultimo sangue di stridori - si ricordi lo stri¬
dore leopardiano -, è manifestato per idolatria in auto¬
matismi, o, per canzonatura dell’umana persona sover¬
chiata, in manichini. Il manifestare l’oppressione della
soverchiante materia, l’irridere all’abbiezione, alla ten¬
sione, o al ridicolo cui ci riduce, il deificarne per be¬
stemmie l’infernale cecità, sono tutti, è indiscutibile,
tentativi d’evasione dalla materia e di liberazione del¬
l’anima. L’uomo ne è riportato a cercare altrove la sua
speranza, a meglio sentire la tragedia d’ogni persona
umana soffocata in tanta durezza. E forse anche a recu¬
perare con mezzi meno negativi, il linguaggio della
poesia.
È recuperabile la poesia, oggi, per via di linguaggio,
con mezzi non negativi? Fareste, in proposito, un al¬
tro ritorno con me al Leopardi? Il Leopardi credeva,
si è già detto, che il vocabolo potesse essere parola,
e non più termine, potesse avere valore cioè non di
definizione esatta, ma di evocazione poetica, essere vo¬
cabolo elegante, possedere cioè indeterminatezza, quan¬
do il poeta riusciva a dargli, al di là del suo significato
preciso, quel margine d’illusione infinita nella quale
potessero vagare la fantasia e il sentimento, quel mar¬
gine dove la parola fattasi poesia contiene l’inespresso
inesprimibile.
Come ha proceduto il Leopardi per arrivare al pun¬
to di linguaggio al quale aspirava la sua poesia? Per
scabrose tappe, eppure superabili e superate, per quel¬
l’eleganza che gli era cara. Passa dalla progressione del
fatale decadimento d’ogni civiltà espresso, nel variare
degli scorci temporali, per iterazione ossessiva di figu¬
re da strofa a strofa net\V Angelo Mai\ alla metamor¬
fosi degli inganni che per miraggio s’incrociano senza
requie nella Canzone Alla Primavera, come a preve¬
dere il valore decisivo della luce nell’attenzione e in
810 Giuseppe Ungaretti

tutte le ricerche di linguaggio che la poesia in ogni


ramo dell’arte dovrà proporsi nella seconda metà del¬
l’Ottocento. Il Leopardi prosegue trovando nel Canto
A Silvia la coincidenza tra cadenza ritmica e cadenza
tonale dettata dalla sintassi. Fino a quel momento la
cadenza ritmica era rimasta per lui, come per la poe¬
sia che lo precedeva dopo il Petrarca, un fatto pura¬
mente meccanico dell’orecchio. E, poco prima di mo¬
rire, il Leopardi fa l’ultima scoperta, la sua maggiore,
scopre il frammento-, nelle ultime pagine dell’edizio¬
ne dei Canti curata da lui a Napoli poco prima di mo¬
rire, inserisce frammenti. Era difatti successo, proprio
in quegli ultimi anni suoi, un avvenimento straordi¬
nario per il linguaggio della poesia.
Nel 1830, Sainte-Beuve pubblicava l’opera di André
Chénier. Erano in gran parte frammenti, erano in gran
parte le poesie che al ghigliottinato cultore dei greci¬
smi non avevano lasciato il tempo di portare a compi¬
mento. Fu il libro che rivelò ai Romantici francesi la
tecnica del frammento risolvendo la loro crisi di lin¬
guaggio.
Se ne accorse, unico in Italia, anche il Leopardi, e
rifece, in modo oracolare, terribile come è buia la ve¬
rità, frammenti di sue poesie dell’adolescenza, dando
loro, intensissimo, l’effetto di frattura abissale all’ori¬
gine; di frattura abissale da ultimo.
Per frammento va definito dunque quel brano di di¬
scorso che per essere nei suoi effetti poesia compiuta
incomincia da un interrompimento e termina per in¬
terruzione. La poesia indicava da quel momento d’es¬
sere solo angoscia frenata, inciso allarme tra due ca¬
tastrofi.
Noi che non percepiamo le mutazioni della realtà,
per la fretta eccessiva nella quale esse oggi avvengono
fuori e dentro di noi, se non per minime particole di
frammenti, non possiamo, se osiamo ancora scrivere
poesia, se non ricorrere a espressioni mutile. In modo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 811

naturalmente diverso da quello enfatico dei Romantici,


ma in modo per il quale le soluzioni dell’estremo lin¬
guaggio leopardiano sono tuttora esemplari, noi poeti
d’oggi ci siamo resi conto che non ci rimaneva da ado¬
perare che un linguaggio macellato, ma il più ricco
d’indeterminatezza. Per ora, solo la tecnica del fram¬
mento ha offerto soluzioni di linguaggio positive, alla
poesia d’oggi. L’intensificazione, il dilatamento, la mol¬
tiplicazione dei valori semantici della parola per por¬
tarla a superarsi in atto di poesia è, nel tentativo di
conseguire da parte del poeta la concentrazione di tut¬
ta la realtà nella particola di essa che gli è stato pos¬
sibile di percepire, è l’unica tecnica, ripeto, che riman¬
ga oggi al poeta.3
Specialmente dopo l’ultima guerra, la ricerca di so¬
luzioni di linguaggio può essere stata anche suggerita
all’espressione della poesia dal rapporto che sia da ri¬
tenersi la civiltà meccanica imponga o meno,- ad ogni
forma del linguaggio. È problema - cui in qualche mo¬
do ho accennato parlando del frammento - sul quale
ho avuto più d’una volta occasione di meditare e d’in¬
tervenire. Stasera ho discorso già troppo, e sarebbe in¬
discreto osassi chiedervi di avventurarvi anche su quel¬
la galera.
In quanto stasera ho detto c’era una presenza impli¬
cita, qua e là, a incominciare dall’infinito del geometra
Pascal, e ora credo ne vada fatta aperta parola. Inten¬
do dire di quel colpo inferto alle matematiche classi¬
che dalla microfisica per cui, chi ha seguito le tappe e
gli sviluppi della disputa detta del determinismo che
da cinquant’anni ormai dura e a cui hanno partecipato
o partecipano insigni uomini come Niels Bohr e Hei¬
senberg, Einstein e Schroedinger, Louis de Broglie e
altri, per cui si sa che le matematiche classiche, e con
esse il determinismo dei fenomeni ammesso dall’anti¬
ca fisica e che era legato alla possibilità che avevamo
di darci un’immagine precisa della realtà fisica nel qua-
812 Giuseppe Ungaretti

s ...
dro dello spazio e del tempo, sono divenuti strumenti
e opera di sogni, di sogni inattuabili in realtà. Quel
monumento di logica, onore della mente umana, che
erano le matematiche classiche sarebbe dunque crolla¬
to? Oh, è uno strumento che renderà ancora prodigio¬
si servizi, e mi pare rimanga, per quanto approssima¬
tivo, linguaggio di cui dovendo esprimersi non posso¬
no ancora privarsi nemmeno i cultori di microfisica.
« Affermare il determinismo » dichiara Léon Brillouin
in un recente saggio « è fare atto di fede. Per provarlo
occorrerebbe partire da misure infinitamente numerose,
inattuabili, occorrerebbe poi effettuare calcoli non pos¬
sibili, e occorrerebbe osservare lungo un tempo infini¬
to. Si tratta di poesia » conchiude Brillouin « di poe¬
sia senza alcuna realtà concreta. » Ecco, l’hanno detto,
la poesia è errore, è l’impossibile. Non è l’errore, è
ansia di verità: avere sete di poesia è fare atto di
umiltà, è avere coscienza che l’uomo non procede se
non per illusioni e commettendo cumuli di errori, è
avere coscienza della nostra impotenza a conoscere se
non nell’indeterminatezza, la realtà. Non so se il prin¬
cipio di causalità sia ormai andato in malora insieme
a quello di non contraddizione, so che, confessando la
propria ignoranza, uno, la causa di tutto, oscuramente,
col cuore, l’indovina. Aveva dunque ragione il Leopar¬
di quando divideva il vocabolario in termini e parole,
quando sperimentava e decretava che il termine esatto
si converte in parola poetica proprio per quell’alone
d’indeterminatezza che lo circonda, per quel suo irri¬
ducibile margine vago, infinito anche se minimo; là
è il luogo, ripetiamolo, dove sentimento e immagina¬
zione possono liberamente spaziare. E capisco che, il
linguaggio essendo sempre astratto, una povera con¬
venzione, anche quando chiama il gatto, gatto, poiché
il vocabolo gatto non sarà mai, qualunque forza riesca
a avere la nostra poesia, l’animale gatto - capisco che
ci sia chi creda che, nell’astrazione essendoci zone d’in-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 813

determinatezza ineliminabile come riconoscono gli stes¬


si uomini di scienza più avanzati, capisco che ci sia
chi creda che più venga il linguaggio posto in grado
d’essere indeterminato, più sia poetico e più s’appros¬
simi a significare con precisione la realtà essendosi ras¬
segnato, finalmente rassegnato, a non illudersi di misu¬
rare, se non per analogie, se non per somiglianze im¬
possibili a definirsi con rigore, persino i fenomeni della
materia. Può darsi che in simili illazioni covino peri¬
coli, ne covano di più grossi nelle forme espressive
che si lusingano di reagire efficacemente ad esse.
Ma il Leopardi parlando d’indeterminatezza pensava
al cuore, e umilmente, anche noi pensiamo al cuore.
La crisi vera è un’altra, non quella delle matematiche,
sebbene anche questa crisi di scienziati alla ricerca di
un metro, sia segno che oggi tutto è nel mondo preda
d’un rivolgimento dalle fondamenta.
Anche ieri era così, anche un secolo fa, mille anni
fa, sempre. La crisi c’è sempre stata nel mondo: è
continua.
In ogni caso non si tratterebbe di crisi della scienza,
sarebbe cosa inconcepibile, semmai, sarebbe in crisi il
linguaggio scientifico necessario a dare modo di ragio¬
nare con precisione sulle reazioni di cui sia in possesso
sperimentalmente il sapere in un dato momento sto¬
rico; semmai, e ormai l’abbiamo già tanto ripetuto e
dovremmo saperlo, sarebbe in crisi il linguaggio poe¬
tico per essere in grado di esprimere la poesia in un
dato momento storico rispettando le esigenze natural¬
mente soggettive d’ogni espressione d’arte che non può
esimersi dal portare l’impronta, che dovrà dalle altre
distinguerla specialmente, della persona che l’esprime.
L’uscita dalla crisi, la liberazione avviene ogni gior¬
no, anche oggi, quando, in inespressi modi o con arte,
l’uomo, qualsiasi uomo, arrivi a tanto dominare mo¬
ralmente il proprio tempo che, pure riflettendo del
proprio tempo gli aspetti terribili e gli aridi, pure ri-
814 Giuseppe Ungaretti

flettendone le polemiche che la cultura ingenera, arrivi


a tanto dominare il suo tempp, che, per quanto rotta
ne apparisca la realtà e solo per rare schegge afferra¬
bile, il suo canto si possa snodare tacitamente, negli
slanci segreti del cuore, o con un essenziale vocabola¬
rio, con un ritmo individuale e dei propri tempi che
possa, sia pure nella fulmineità d’un grido potuto udi¬
re e ridire, contenere negli innumeri suoi sviluppi sto¬
rici, il tradizionale ritmo e ad esso commisurarsi. Co¬
sì si risalgono in un grido, addietro le ere sino alla
remotissima origine dell’umana voce, così si oltrepassa
sino al segreto dell’essere nell’illuminazione d’un atti¬
mo, la storia fattasi, come voleva Dante per giungere
a poesia, presente nel suo nascere, nei suoi fini, nel suo
cerchio sino al suo chiudersi.4
UNGARETTI COMMENTA UNGARETTI
[1963]

[LJAllegria]
Quando Mondadori, nel 1942, mi propose la stampa
di tutta la mia opera, mi chiese un titolo compren¬
sivo ed io pensai che il più esatto fosse quello di « Vi¬
ta d’un uomo ». E difatti nella breve prefazione, o
piuttosto nella breve nota all’Allegria, avevo indicato
le ragioni in qualche modo di tale titolo. Il caratte¬
re, il primo carattere di tutta la mia attività è auto-
biografico. Io credo che non vi possa essere né since¬
rità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo
tale opera d’arte non sia una confessione. Naturalmen¬
te la fantasia ha tutti i diritti, quindi ha i diritti di
trasportare questa confessione in campi che la ren¬
dano del tutto libera da chi quella confessione vada
facendo. Ma questo, però, non impedisce che si tratti
duna confessione sottoposta alle pressioni e ai voli
del sentimento e della fantasia.
L’Allegria è la parte di un titolo. Come nacque que¬
sto titolo dell’Allegria di Naufragi? La notorietà del
libro mi autorizzava forse a mutilare, come ho fatto,
il titolo originario, rimasto, però, a quella parte del
volume che portava in realtà tale titolo, poi preso dal¬
l’intero volume, quando, insieme a II Porto Sepolto
e ad altre cose pubblicate prima o in riviste o in
un’edizione rara — quella di Serra —, quando Vallee-
chi ebbe l’idea di diventare il mio primo editore nel
1919. Come nacque questo titolo dell’Allegria di Nau¬
fragi? Be’, si cercava a Firenze insieme a Papini, a
Soffici, a Pancrazi e a Vallecchi stesso, con i quali si
discorreva di questo libro e del titolo che avrebbe do¬
vuto avere; si cercava un titolo ed era difficile tro-
816 Giuseppe XJngarettt

vario. Ne proponevo qualcuno, gli altri amici ne pro¬


ponevano anche loro altri, ma non convenivano. Final¬
mente, tornato a Parigi, mi venne l’illuminazione : Al¬
legria di Naufragi. Allegria, perché Allegria di nau¬
fragi? Ebbene, perché, insomma, la poesia, l’uomo in
tutte le sue imprese anche quando crede di essere ar¬
rivato in porto, sì ci arriva, ma ci arriva da naufrago,
ci arriva dopo aver lasciato molte illusioni se non aver
subito dei veri disastri. Ma il fatto di essere comun¬
que arrivato in porto anche dopo un naufragio, dà un
certo piacere, no?, dà un’allegria. Ecco: Allegria di
naufragi.
Ultime. Forse occorre spiegare perché, chi aprendo
il volume, invece di trovare prime le poesie che è
invitato a leggere, trova per titolo « Ultime ». Be’, so¬
no precisamente le ultime poesie di un periodo prece¬
dente la guerra e che seguivano un indirizzo che la
guerra avrebbe completamente travolto. Le poesie in¬
titolate Ultime vanno dal 1914 al 1915. Chi vada poi
a cercare nel volume la fine, troverà che ci sono delle
poesie, le ultime, che sono intitolate « Prime », e so¬
no precisamente quelle poesie venute dopo l’esperien¬
za della guerra, esperienza anche profonda, per me,
nell’espressione. E quindi sono quelle poesie che, te¬
nuto conto dell’esperienza fatta per forza di cose nel-
l’esprimermi durante la guerra, cercavano una strada
diversa da quella che avevano avuto le poesie della
guerra, ma una strada che teneva conto di quegli ac¬
quisti di linguaggio che la guerra mi aveva proposto.
E si intitoleranno perciò Prime.
Chi legga le mie poesie, dico chi legga le prime e
chi legga anche quelle recentissime, quelle poche che
quando mi illumina ancora l’ispirazione riesco a fa¬
re, s’accorgerà che c’è al principio un’aridità, un’ari¬
dità bruciata, e una luce che provoca tale aridità allu¬
cinante, carica d’abbagli. Non lo so se lo sentano tutti
questo, ma certo questo è l’effetto che io provo tutte
Saggi e Scritti vari 1943-1970 817

le volte che incontro la Musa. Sono nato al limite del


deserto e il miraggio del deserto è il primo stimolo
della mia poesia. È lo stimolo d’origine, lo stimolo
d’origine come... perché l’origine della poesia, è un’al¬
tra, è più segreta, è più fonda: l’origine della poesia
è il contatto dell’uomo con Dio, è il contatto dell’uo¬
mo che non sa, che non potrà mai sapere. Quel con¬
tatto così che l’illumina, e in un modo impreciso per¬
ché non è dato di conoscere che vagamente il mistero
che non sarebbe altrimenti mistero. Ma dico c’è - par¬
lo delle cose esterne, parlo dei moventi esterni -, for¬
se perché al deserto è legata la mia infanzia, forse
perché al deserto sono legate le mie prime visioni.
È il deserto il primo stimolo, lo stimolo iniziale, lo
stimolo che dà moto poi alla poesia che può espri¬
mere anche una diversa realtà, una realtà ubertosa,
ma insomma partendo da questo nulla, da questo nul¬
la e da questo sentimento di questo' nulla sul quale
non si fondano che delle illusioni che portano a per¬
dizione.

[Il Porto Sepolto]


Questo titolo si legava anche al titolo del primo li¬
bretto che comprendeva il Porto Sepolto. In una baia
d’Alessandria fu scoperto dall’ingegner Jondet, spro¬
fondato nelle acque, un antico porto, il primitivo por¬
to di Alessandria: porto sepolto, dunque. E poi, la
ragione perché questo porto sia diventato il simbolo
della mia poesia è facile spiegarlo. C’è in noi un se¬
greto, il poeta ci si tuffa, arriva in porto scoprendo
questo segreto, dunque arriva a dare quel poco che
un uomo può dare di consolazione alla sua anima.
Una grande importanza nella storia della mia vita
e nella storia della mia poesia deriva dall’incontro, ad
un certo momento della mia giovinezza, con Enrico
Pea ad Alessandria d’Egitto. Enrico Pea faceva ad Ales-
818 Giuseppe Ungaretti

sandria il commerciante di marmi e nello stesso tem¬


po aveva messo su, sviluppando il laboratorio di fale¬
gnameria del suocero, una segheria meccanica. Sopra
la segheria meccanica - era ingegnoso Pea - aveva pen¬
sato di starci di casa e di destinare uno stanzone, uno
stanzone enorme, e altri stanzini accanto allo stanzo¬
ne enorme, ai gruppi sovversivi che ih quel periodo
erano numerosi ad Alessandria.
Tra i giovani sovversivi di Alessandria che si rac¬
coglievano nella baracca del mio amico Pea, c’era un
arabo - era forse l’unico arabo in quella baracca - e
questo arabo era Moammed Sceab. Moammed Sceab
era anche stato mio compagno di scuola. Quindi era¬
vamo doppiamente uniti; eravamo uniti nelle speran¬
ze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed
eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazio¬
ni letterarie che avevamo l’uno e l’altro. Aspirazioni
diverse: io credevo in una poesia dove il segreto del¬
l’uomo (fin da allora) trovasse in qualche modo un’e¬
co, credevo nella poesia dell’inesprimibile, e invece
Sceab credeva - mente logica, arabo discendente da
quelli che avevano inventato l’algebra - credeva invece
in una poesia strettamente legata alla ragione. Ecco.
Ed avevamo, in fondo, in comune anche un altro dram¬
ma: l’uno e l’altro avevamo un’educazione europea,
occidentale, francese. Anch’io. Io ero nato in un pae¬
se che non era il mio, ero nato ad Alessandria, lon¬
tano dalle mie tradizioni; ero lontano dai paesaggi,
dalle immagini che avevano accompagnato la vita di
tutti i miei. Eravamo l’uno e l’altro, per ragioni di¬
verse, degli nomini che non erano avviati in un modo
naturale a compiere il loro destino. E naturalmente
queste cose non avvengono nell’uomo senza turba¬
menti e senza strazi a volte terribili. E la mia, la no¬
stra gioventù, la nostra prima gioventù, quella mia e
quella di Sceab, è cosparsa di giovani, di giovani com¬
pagni che nelle stesse circostanze delle nostre si tron-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 819

carono la vita. E anche Sceab a un certo momento si


troncò la vita. Sceab a Parigi, lontano dalla sua terra
africana - o dalla sua terra araba perché in fondo vi¬
veva in Egitto ma non era africano, veniva dal Li¬
bano - essendo stato rilavorato da una cultura e da
una tradizione diversa, non resistè al dissidio e anche
lui si uccise.
Sembrava che la guerra del 1914, sembrava a me,
sembrava forse a tanti, queste crisi le dovesse risol¬
vere. Le guerre non risolvono mai nulla, si sa. Ecco
le ragioni per le quali a capo di quel mio libro del
Porto [sta In memoria-, ] in memoria di quelle crisi
che mi avevano portato ad accettare quella guerra cre¬
dendo che quella guerra potesse risolvere la mia cri¬
si, non quella di Sceab: quella di Sceab la stanno ri¬
solvendo tragicamente nell’Africa settentrionale i po¬
poli della sua lingua.
Concludendo, In memoria, rievocazione del suici¬
dio del mio compagno Moammed Sceab, è il simbolo
d’una crisi delle società e degli individui che ancora
perdura, derivata dall’incontro e scontro di civiltà di¬
verse e dall’urto e conseguenti sconvolgimenti tra le
tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell’u¬
manità.
Le poesie che portano la data da Versa sono poesie
scritte al riposo dopo il turno di trincea. Era un tur¬
no che a volte non durava che poche ore perché ci
richiamavano lassù: non si finiva mai, sul S. Michele,
di essere richiamati per un allarme o un altro e per
veder morire molta gente probabilmente senza scopo.

Vorrei fare una piccola osservazione, cioè richiama¬


re su un fatto l’attenzione degli ascoltatori: come mi
appariva il paesaggio in quelle prime poesie. Era col¬
to nell’attimo, in un attimo che poi si protraeva in me
in un modo infinito. E la poesia stessa, per i motivi
che ho già avuto occasione di dire, ricorreva a modi
820 Giuseppe Ungaretti

brèvissimi. Si trattava di cogliere un attimo. Più tardi,


quando sarò arrivato al Sentimento del Tempo, il pae¬
saggio acquisterà ai miei occhf una profondità storica
e quindi anche le mie ricerche di espressione necessa¬
riamente ricorreranno ad una profondità storica.
La mia poesia è nata in realtà in trincea. [Nei] ten¬
tativi che precedono il volume Allegria di Naufragi
(.L’Allegria, come per brevità o per presunzione ho det¬
to poi immaginando che il libro avesse una diffusione
tale e una notorietà tale da meritare l’abbreviatura del
titolo) [...] il linguaggio non c’era ancora, c’erano
tentativi che erano fatti in direzioni diverse, con in¬
fluenze di Laforgue, o potevano prevalere, nel mio
caso, quelle di Mallarmé. Ma in ogni modo erano ten¬
tativi con nessuna sicurezza. La guerra improvvisa¬
mente mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in
fretta perché il tempo poteva mancare, e nel modo
più tragico... in fretta dire quello che sentivo e quin¬
di se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche
parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo
dire con parole che avessero avuto un’intensità straor¬
dinaria di significato.
E così si è trovato il mio linguaggio: poche parole
piene di significato che dessero la mia situazione di
quel momento: quest’uomo solo in mezzo ad altri uo¬
mini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che
sentivano, tutti questi uomini ciascuno singolarmen¬
te, la propria fragilità. E che sentivano, nello stesso
tempo, nascere nel loro cuore qualche cosa che era
molto più importante della guerra, che sentivano na¬
scere affetto, amore, l’uno per l’altro. E si sentivano
così piccoli come erano di fronte al pericolo, si sen¬
tivano così disarmati con tutte le loro armi-, si senti¬
vano fratelli.
Ecco, questa è in fondo l’ispirazione e il linguaggio
di quella mia poesia, la nascita della mia poesia, la
nascita, la prima conquista, la conquista del valore che
Saggi e Scritti vari 1943-1970 821

può avere una semplice parola quando si arriva a col¬


marla del suo significato.

[I fiumi]
Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta
d’identità: i segni che mi serviranno a riconoscermi
(e proprio nel momento in cui, dopo lunghe peripezie
vane, il mio reggimento può balzare in avanti), i se¬
gni che mi aiuteranno a riconoscermi da quel momen¬
to e di cui in quel momento prendo conoscenza come i
« miei » segni: sono fiumi, sono i fiumi che mi hanno
formato. Questa [I fiumi} è una poesia che tutti co¬
noscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è
la poesia dove so finalmente in un modo preciso che
sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai
limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se
non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so
anche che se non ci fosse stato l’Isonzo, non avrei avu¬
to parola originale.
Le poesie di guerra del Porto Sepolto e poi àe\YAl¬
legria, sono poesie non incitanti ad eroismo ma poe¬
sie che inducono un sentimento di partecipazione alla
sofferenza degli altri. La guerra è insomma accettata
non per la gloria che essa poteva procurare, ma come
una fatale necessità, e direi di più, come un’espia¬
zione.
E siamo arrivati all’ultima parte del Porto Sepolto,
siamo arrivati a quella poesia che ha per titolo Pelle¬
grinaggio. Difatti è un momento di avanzata, ma in
questa poesia c’è una cosa nuova, cioè c’è il nome che
il poeta dà a se stesso, quel nome che lo accompagne¬
rà poi in tutta la sua biografia: uomo di pena.
Il Porto Sepolto è stato il primo libro da me pub¬
blicato. La pubblicazione del Porto Sepolto, avvenuta
nel 1916, non era [completa]; quindi al Porto Se¬
polto si sono aggiunte altre poesie poi raccolte nel ’19
822 Giuseppe Ungaretti

nell’Allegria. Il Porto Sepolto fu pubblicato, dicevo,


nel 1916 (verso la fine del 1916) in ottanta copie da
Ettore Serra: era un giovane tenente che io avevo in¬
contrato per caso, non ricordo più se a Versa o al¬
trove.
Mi si era avvicinato, mi aveva chiesto che cosa fa¬
cessi - gli parevo strano - e poi s’era ricordato di
aver letto il mio nome, quando io gli dissi come mi
chiamavo, in « Lacerba », e quindi mi chiese se fa¬
cevo ancora poesia. Avevo un tascapane dove c’erano
dei pezzetti di cartoline in franchigia con degli scara¬
bocchi, e c’erano dei pezzetti di carta strappati agli
involucri delle pallottole con degli scarabocchi. Erano
molte cartacce. E questo bravo Ettore Serra prese
quelle cartacce e le riordinò e poi un bel giorno andò
a Udine dove c’era una stamperia - e aveva anche il
gusto della bella stampa, un gusto che conserva - e
lì in quella stamperia le fece stampare. E per Capo¬
danno o per Natale, anzi un po’ prima di Natale, io
dovevo andare in licenza. Un giorno lo vedo affacciar¬
si - eravamo a Versa, credo, a riposo - lo vedo affac¬
ciarsi in quel pagliaio dove si dormiva e domandarmi
di accompagnarlo a Udine (aveva chiesto i permes¬
si).
Una parte di quella licenza la trascorsi a Napoli e
una parte a Bulciano in casa di Papini. E poi non so,
non so che cosa sia avvenuto, perché di quel Porto
Sepolto si ragionò molto, si scrisse molto. Poi erano
ottanta copie e non si sa come tutta l’Italia avesse fi¬
nito con l’averlo letto. Ma! Si capisce anche la ragio¬
ne: era forse il primo libro che usciva dalla guerra e
che parlava della guerra come ne avrebbe parlato un
povero fante senz’altre idee che la sua sofferenza e
quella degli altri.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 823

[Naufragi]

Per questo titolo di Naufragi mi viene ora in mente


un accostamento a cui fin qui non avevo mai pensato.
Nell’Infinito di Giacomo Leopardi, lo sanno tutti, c’è
un verso che dice: « e il naufragar m’è dolce in que¬
sto mare ». È possibile - ci penso ora - è molto pos¬
sibile che nel mio subcosciente il Leopardi e il suo
Infinito fossero presenti quando improvvisamente il
titolo di Naufragi mi veniva sulle labbra.
Vorrei soggiungere che in Allegria di Naufragi è im¬
plicito il significato di dramma: allegria e naufragi so¬
no situazioni in contrasto: è il significato di ironia:
allegria di naufragi.
Ora vengono alcune altre poesie che sono quelle
scritte dopo Caporetto. Questo è un altro gruppo di
poesie che si intitolano Girovago. E difatti, se prima
si andava in su e giù, ora si gira un po’, si va, si arri¬
va al Garda e poi dal Garda si va in Francia. Io mi
fermo anche qualche tempo a Roma. Poi si va in Fran¬
cia, in Francia si sta un po’ di tempo in un campo, al
Campo di Mailly, dove ci istruiscono al nuovo modo
di fare la guerra e poi si sale in trincea. La guerra non
si fa solo con gli uomini, si fa anche con gli uomini,
ma ci vogliono i mezzi, sempre di più. In Italia fino
a Caporetto la guerra s’è fatta in un modo assurdo:
si mandava della gente semplicemente a farsi [ster]-
minare. Il mio reggimento è stato ricostituito centi¬
naia di volte. Tutte le volte che si attaccava, quando
si ritornava giù bisognava rifarlo da capo.

[Sentimento del Tempo]

Lo scorrere del tempo, il mutare del tempo, la bre¬


vità di durata del tempo e ciò che del tempo rimane,
che è il soffio della poesia. Le citazioni mitologiche non
più fatte e non mai fatte da me - perché precedente
824 Giuseppe Ungaretti

mente non c’erano — non mai fatte come citazioni di


cultura, ma come presenza della lunga storia del pae¬
se nel quale mi trovavo a viver^, che era Roma ed il
Lazio.
Vorrei che si ponesse mente a ciò che in quegli an¬
ni l’arte ricercava: Apollinaire scrive La Jolie Rousse
e sente che il momento era giunto di porre termine
al dissidio tra tradizione e invenzione, tra ordine ed
avventura; La ]eune Rarque di Paul Valéry stupisce
per la musica verbale che da miracoli di metrica si
innalza alla pura architettura; Stravinski, incomincia a
soggiogare l’impeto ricorrendo all’esempio dei grandi
compositori di mùsica del Sei-Settecento; Picasso sco¬
pre Pompei, Raffaello e Ingres e si converte a clas¬
siche eleganze; Carrà, superato il futurismo dopo es¬
sersi dedicato un attimo all’avventura metafisica di De
Chirico, ormai ricerca in Giotto il carattere della sua
pittura. Gli organi che da noi bandiscono la necessi¬
tà di un ritorno delle lettere e delle arti a ricerche
di stile che non ignorassero i modelli del passato, so¬
no per le lettere « La Ronda » e per le arti « Valori
Plastici ». Ma in quegli anni da noi non c’era chi non
negasse valore alla poesia in versi. [Da] noi non si
credeva che fosse ormai più possibile scrivere in ver¬
si. Si voleva prosa, poesia in prosa. La memoria pa¬
reva invece a me indicasse come unica ancora di sal¬
vezza solo il canto, e con umiltà tornavo a rileggere
Jacopone, Dante, Petrarca, Guittone, Tasso, il Caval¬
canti, il Leopardi, cercando nel loro canto un’indica¬
zione che potesse far rifiorire il mio.
Non era il novenario, l’endecasillabo, il settenario
del tale o del tal altro che cercavo: era l’endecasil¬
labo, era il novenario, era il settenario del canto ita¬
liano; era il canto italiano nella sua costanza attraver¬
so i secoli, attraverso voci così diverse di timbro e
così gelose della propria novità e così singolari nel-
l’esprimere ciascuna pensieri e sentimenti. Era il bat-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 825

tito del mio cuore che volevo sentire in armonia con


il battito del cuore dei miei maggiori di una terra di¬
speratamente amata.1

[Ricordo d‘Affrica]

Forse nelle poesie che seguiranno il paesaggio sarà più


intimamente legato alla poesia, un paesaggio" preciso.
Nella poesia O notte sarà stata forse anche una notte
che può andarsi a ricercare nel calendario, in ogni ca¬
so è la notte con i miei sentimenti di quel momento,
s’intende che era l’anno 1919. Ì1 paesaggio potrebbe
essere quello di Roma, perché io stavo a Roma in
quell’anno, ma in ogni caso non è ancora un paesag¬
gio molto preciso. E lo stesso si dica per le Stagioni.
Silenzio in Liguria è invece una poesia scritta in Li¬
guria. In Liguria c’era in quei mesi del 1922 una con¬
ferenza dalla quale si aspettava ogni bene, e poi non
ne è nato nulla: era la conferenza alla quale parteci¬
pavano, per la prima volta dopo la rivoluzione, i rus¬
si. Ed io ero in Liguria dove facevo un servizio di
stampa per una agenzia francese. Vivevo su una nave,
perché non c’erano posti negli alberghi. Nel Ricordo
d’Affrica, si capisce, penso all’Africa, alla mia infan¬
zia africana. Nelle altre naturalmente è il paesaggio
di Roma, come era già tra Roma e Parigi il paesag¬
gio dèlie poesie intitolate « Prime » dell’Allegria.
Mi è accaduto di osservare, non mi era accaduto
prima, che nel Sentimento ci sono due poesie che por¬
tano titoli che avevo già usato nell 'Allegria. Per esem¬
pio Alla noia del Sentimento richiama una poesia che
nell’Allegria si chiamava Noia, e Ricordo d’Affrica ne
richiama un’altra dell’Allegria che porta precisamen¬
te il medesimo titolo. Chi guardi queste quattro poe¬
sie s’accorgerà di quanto siano diversi gli svolgimenti
dei temi da un libro all’altro. Noia dell’Allegria è sem¬
plicemente l’espressione di un effetto impressionisti-
826 Giuseppe Ungaretti

co, mentre Alla noia nel Sentimento è un tema elevato


già a simbolo.
Per Ricordo d‘Affrica, siccome si tratta nell’un ca¬
so e nell’altro di memoria già in 'funzione, di memo¬
ria che sta per diventare nel Sentimento il motivo
prevalente ispiratore, la distanza tra i due testi è me¬
no apparente. Vi è in ogni caso una distanza. Anche
qui l’elevazione a simbolo nel primo testo non c’è an¬
cora, o c’è soltanto in quei limiti che l’astrazione, do¬
vuta ad una poesia dettata specialmente dalla memo¬
ria, implica.

[L’Amore]
Ci sono tre momenti nel Sentimento del Tempo del
mio modo di sentire successivamente il tempo. Nel pri¬
mo mi provavo a sentire il tempo nel paesaggio [co¬
me] profondità storica; nel secondo, una civiltà mi¬
nacciata di morte mi induceva a meditare sul destino
dell’uomo e a sentire il tempo, l’effìmero, in relazio¬
ne con l’eterno; l’ultima parte del Sentimento del
Tempo, ha per titolo L’Amore, e in essa mi vado ac¬
corgendo dell’invecchiamento e del perire nella mia
carne stessa.
Le ragioni per le quali [in quelle poesie] ci sono
timide apparizioni mitologiche, sono ragioni che na¬
scono naturalmente dal paesaggio come era per natura
e dal paesaggio come l’avevano trasfigurato i secoli.
Del resto bisognava che finissi con l’assimilarmi un
paesaggio verso il quale avevo una certa diffidenza,
no? Mi sono dovuto convertire a Roma, io ho dovuto
a poco a poco assimilarmi il barocco. Io venivo dal¬
l’Egitto, venivo dalla Francia. La Francia, va bene, ha
una tradizione classica; l’Egitto non l’aveva affatto.
Nelle poesie dell’Allegria questa tradizione classica
non esiste, esiste una tradizione che mi può venire dal¬
l’Egitto, che mi può venire da Lucca in un certo sen-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 827

so - ma Lucca è romanica - e che mi può venire dal


gotico. Ma insommà, se qualche cosa mi aveva colpi¬
to - forse perché ero lucchese - nella mia residenza
anche lunga in Francia, era precisamente il gotico, non
era il barocco. Il barocco era fastoso, ma non mi ave¬
va colpito. Vivendo a Roma, invece, il barocco era una
cosa che doveva finire con l’entrarmi nel sangue. Una
volta assimilato, forse questo barocchismo non l’ho più
avuto, me ne sono guarito, chi lo sa.

[L’endecasillabo]

L’endecasillabo c’è già alla fine deli’Allegria. È vero


che la fine dell’Allegria è formata da quelle poesie che
intitolo Prime e che sono poesie che vengono a unirsi
alle poesie che incominciano questo volume. L’ende¬
casillabo nasce subito, nasce nel 1919, nasce immedia¬
tamente dopo la guerra. Cioè, quella preoccupazione
che avevo durante la guerra, che era una preoccupa¬
zione dovuta anche alle circostanze di arrivare a dire
nel minor tempo possibile il massimo di quanto si
potesse dire - quindi con l’uso più parco di parole che
fosse possibile - è un momento superato. Insomma, io
avevo, disponevo di maggior tempo.
E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli.
Quindi anche quell’esperienza di dividere l’end'ecasil-
labo nelle sue parti - come è stato fatto nell’Allegria
- per sentire ogni parola nel suo compiuto e intenso,
insostituibile significato, quel dividere, quello spezza¬
re l’endecasillabo non avevo più bisogno di farlo. Era
un’esperienza che avevo fatto, spinto dalle circostanze
se si vuole, ma che avevo fatto. Quindi l’endecasilla¬
bo tornava a costituirsi in un modo normale: cioè le
parole venivano a mettersi non una sotto l’altra o se¬
parate da isole di silenzi, ma una accanto all’altra.
Ad un certo punto la vocalità nel mio canto si era
fatta molto lieve, netta e liquida. Non era una novità
828 Giuseppe Ungaretti

per la mia poesia. Già nt\Y Allegria vi tendevo. Que¬


sti risultati melodici del Sentimento suggerirono a
qualche critico il raffronto con la Grecia. Potrei osa¬
re credere che non avessero torto, se penso che quei
miei tentativi servirono di modello a famose traduzioni
dal greco.
A PROPOSITO DI CRISI DEL LINGUAGGIO
Prolusione all’Incontro
tra poeti italiani e sovietici
11957]

Prima di cominciare il mio breve discorso, mi si per¬


metta di rallegrarmi con gli amici sovietici per il gran¬
de evento della luna artificiale ch’essi per primi han¬
no saputo lanciare intorno alla terra. È grande even¬
to poetico, è una grande vittoria dell’uomo, anche se
l’allargarsi del sapere può fare paura, e avrò da far¬
ne oggi cenno, essendo ancora l’uomo troppo disar¬
mato moralmente per potersene solo umanamente gio¬
vare.
Sono lieto di rivolgere il benvenuto ai poeti sovie¬
tici qui chiamati per un incontro coi poeti italiani du¬
rante il quale verrà discusso, tra gli altri temi, quello
dei caratteri della poesia del nostro tempo. Sebbene
sia il più anziano, forse, dei poeti italiani, non pre¬
sumo d’essere il loro decano, ma so, qualunque sia
il mio merito, d’interpretare nel mio saluto il loro
pensiero che non può non essere cordiale verso sforzi
che tendano a riallacciare la lunga tradizione di scam¬
bi letterari tra la Russia e l’Italia.
Ci sono poi alcuni motivi, più strettamente perso¬
nali, che mi rendono particolarmente lieta questa oc¬
casione. Chi ha la mia età, non può non ricordare la
fortissima importanza che ebbero Dostoievski e Tol-
stoi e Gogol nella formazione degli intellettuali d’Oc-
cidente, ventenni mezzo secolo fa. Fra le due guerre,
due riviste internazionali di poesia che si pubblica¬
rono successivamente a Parigi, e alla direzione delle
quali partecipavo, « Commerce » e « Mesures », usa¬
vano accogliere scritti tradotti in francese di Paster-
nak che suscitavano nei poeti d’Occidente un’eco prò-
830 Giuseppe Ungaretti

fonda di ammirazione. Un terzo motivo: verso il 1930


mi trovavo a Bruxelles, ospite del grande romanziere
belga Franz Hellens. Hellens visse con Essenin a Pa¬
rigi nel 1922 ed ebbe da lui a voce indicazioni pre¬
ziose sulla sua arte. Non so, e me ne rammarico, il
russo, ma Maria Miloslawsky e Hellens mi procuraro¬
no una traduzione di due poesie di Essenin delle qua¬
li mi ero innamorato. Insieme ai miei due amici la¬
vorai alla traduzione italiana di Requiem e delle Na¬
vi delle cavalle. Ecco, da Requiem:

Avete visto nelle steppe,


Nella nebbia dei l'aghi come corre
Il grosso treno sopra le sue zampe,
Come sbuffa al ferro delle sue froge?
Qome dopo di lui, sulle erbe grasse,

Un cavallino di criniera rossa,


Rimandandosi disperato
Le gambe gracili incontro alla testa,
Va di galoppo? Scemerello,
O caro, caro e buffo,

Perché corre? Non sa


Che la cavalleria d’acciaio ha vinto
I cavalli di carne?

Ed ecco dalle Navi delle cavalle-.

Alle aiuole dell’alba conduce un’unica viuzza,


Ed il vento d’ottobre sta per rodere l’albereto.
Per capire ogni cosa e non togliere nulla
È venuto alla luce il poeta.

Più a fondo, va’ più a fondo, roncola di poesia! 1


Saggi e Scritti vari 1943-1970 831

Ecco tre motivi per i quali è per me anche perso¬


nalmente lieto il nostro incontro.
E ora mi si permetta anche di non nascondere quel¬
lo che è sempre stato il mio personale pensiero sulla
poesia.
Alcuni anni fa, e precisamente nel 1950, mi doman¬
dò qualcuno quale fosse la mia posizione di fronte a
quegli scrittori che affermano la necessità di stabilire
un equilibrio tra espressione artistica e attività so¬
ciale. Risposi: « Non sono i fatti esterni che fanno
lo scrittore: è Io scrittore che giudica mediante la
propria opera tali fatti, dai quali, se è vero scrittore,
non potrà mai essere determinato. Certo, per natura,
ogni uomo, e lo scrittore, è nella storia e non fuori
della storia; ma se uno scrittore non riesce nella pro¬
pria opera ad esprimerla, la storia, infondendole il
soffio e dandole l’impronta del proprio personale esi¬
stere, è uno scrittore secondario, del quale la storia
non terrà affatto conto. Uno scrittore, un poeta, è sem¬
pre, secondo me, impegnato: indagando i propri tem¬
pi per conoscerli e in rapporto ad essi, indagando sé
per conoscersi, impegnato a fare ritrovare all’uomo le
fonti della vita morale che le strutture sociali, di qual¬
siasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a cor¬
rompere e a disseccare ».2
In altri termini, volevo suggerire che il poeta è
difatti, quando riesca ad esprimersi, radicato nella sto¬
ria, non potendo, se è poeta, non accorgersi della sof¬
ferenza umana che lo circonda; ma volevo soprattutto
suggerire che al poeta, e per le vie che gli sono pro¬
prie e non possono essergli dettate, è impossibile, se
riesca ad esprimersi, non sentirsi naturalmente por¬
tato a dare alle proprie parole un significato di rot¬
tura dei limiti della storia, di liberazione dalle condi¬
zioni e dalle determinazioni della storia. L’anelito a
libertà è nell’essenza stessa della poesia, e mi sarà in
proposito d’aiuto a farmi meglio capire la citazione del
832 Giuseppe Ungaretti

passo certamente più bello del Dialogo di Timandro


e di Eleartdro del Leopardi: « Se alcun libro morale
potesse giovare, io penso che gioverebbero massima-
mente i poetici: dico i poetici prendendo questo lar¬
gamente: cioè libri destinati a muovere l’immaginazio¬
ne : e intendo non meno di prose che di versi. Ora
io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata
non lascia al lettore nell’animo un tale sentimento no¬
bile che, per mezz’ora, gli impedisca di ammettere un
pensiero vile e di fare un’azione indegna ». In questo
pensiero del Leopardi è definito esattamente, il pote¬
re di liberazione cui alludevo e che ritengo possegga la
poesia, la vera.
Un altro punto, legato anch’esso a mie personali
convinzioni, è il seguente: è errore parlare di Deca¬
dentismo riferendosi all’arte d’oggi in Occidente. Queb
le ricerche di linguaggio si chiudono col Coup de dés
di Mallarmé e con le ultime pitture di Cézanne dove
appare il cubismo: si chiudono apre'ndo la strada a
nuove ricerche. Le ricerche animate dal sentimento
della decadenza risalgono alla seconda metà del Set¬
tecento. Il sentimento della decadenza è un sentimen¬
to che si lega quasi esclusivamente ai sensi, un senti¬
mento che dà peso determinante alla storia, all’invec¬
chiamento cui anche la storia è soggetta, alla storia in¬
tesa biologicamente.
Oggi nell’arte d’Occidente è il sentimento di so-
verchiamento della materia che costituisce la leva del¬
l’ispirazione. Si sente che la materia ci soverchia, e
che i mezzi di sempre più paurosamente crescente po¬
tenza che il sapere dell’uomo trae Incessantemente' dal¬
la materia, anch’essi ci soverchiano, ci fanno ogni gior¬
no più soverchiante la materia. Nelle sue ricerche di
linguaggio è parso al poeta di doversi dedicare a tro¬
vare forme nelle quali un equilibrio di liberazione, un
equilibrio morale venisse raggiunto rispetto all’oppres¬
sione della materia. Non m’addentrerò a dire in quali
Saggi e Scritti vari 1943-1970 833

modi in Occidente la musica e la poesia e la pittura


abbiano nelle loro ricerche cercato di risolvere tanta
straordinaria crisi di linguaggio. Anche del resto nella
scienza mi pare che il linguaggio non si dibatta in mi¬
nore crisi, e potremmo parlare, per esempio, del col¬
po inferto alle matematiche classiche dalla microfisi¬
ca per cui - chi ha seguito le tappe e gli sviluppi del¬
la disputa detta del determinismo che da cinquantan¬
ni ormai dura e a cui hanno partecipato e partecipa¬
no insigni uomini come Bohr e Heisenberg, Einstein e
Schroedinger, Louis de Broglie e Max Born - per cui
si sa che le matematiche classiche, e con esse il deter¬
minismo ammesso dall’antica fisica e che era legato alla
possibilità che avevamo di darci un’immagine precisa
della realtà fisica nel quadro dello spazio e del tem¬
po, sono divenuti strumenti di sogni inattuabili in
realtà. Quel monumento di logica, onore della mente
umana, che erano le matematiche classiche, sarebbe
dunque crollato? Oh! è uno strumento che renderà
ancora prodigiosi servizi, e mi pare rimanga, per quan¬
to approssimativo possa essere divenuto in dati casi,
linguaggio di cui, dovendo esprimersi, non possano an¬
cora privarsi nemmeno i cultori di microfisica.
In ogni caso non si tratterebbe di crisi della scien¬
za, sarebbe cosa inconcepibile, sarebbe semmai in cri¬
si il linguaggio scientifico necessario a dare modo di
ragionare con precisione su dati di cui sia in pos¬
sesso il sapere sperimentalmente, oggi.
Il linguaggio non è la scienza, e non è neanche,
il linguaggio, la poesia, e, in poesia, l’uscita dalla cri¬
si, la liberazione avviene di continuo, ogni giorno, an¬
che oggi. Crisi di linguaggio ci sono sempre state, non
forse mai sconcertanti come quella attuale, la crisi è
continua, e continua, in poesia, può essere la libera¬
zione. In poesia il linguaggio è in continua formazio¬
ne, e di continuo fruttifica poesia.
C’è liberazione, frutto, quando in inespressi modi o
834 Giuseppe Ungaretti

con arte, l’uomo, qualsiasi uomo, arrivi a tanto domi¬


nare moralmente il proprio tempo che, pure rifletten¬
do del proprio tempo gli aspetti terribili e gli aridi,
pure riflettendone la cultura e le'polemiche che la cul¬
tura ingenera, il suo canto si snodi tacitamente negli
slanci segreti del cuore, o con un essenziale vocabo¬
lario, con un ritmo individuale e dei propri tempi che
si possa commisurare al tradizionale ritmo. Così si ri¬
salgono in un grido, addietro le ere sino alla remotis¬
sima origine dell’umana voce, così si oltrepassa nel¬
l’illuminazione di un attimo, la storia fattasi presente
nel suo nascere, nei suoi fini, nel suo cerchio sino al
suo chiudersi.
Ecco, cari amici poeti sovietici, il mio personale pa¬
rere sulla poesia. Gli si dia quel peso che si vorrà.
In ogni caso, cari amici, auguro alle loro giornate ro¬
mane che esse possano offrire loro la possibilità d’es¬
sere ricordate con qualche affetto, come avveniva a
Gogol e a Gorki.
INTERVISTA CON F. CAMON
[1965]

Camon Piccioni insiste, e secondo me a ragione,


sulla sua ottica come chiave interpretativa. Lei scrisse,
in Vecchie carte, che le associazioni di idee le nascono
non si sa come: la Maremma le richiama la guerra,
attraverso la comune idea di desolazione...
Ungaretti Esatto.
Camon È un’ottica in cui gli oggetti sono solitari e
distanti, e che non si può tradurre se non con un vo¬
cabolario essenziale. A questo non arrivò Sapegno, che
parlò di « tecnica sillabata », forse appunto per una
errata valutazione della sua ottica?
Ungaretti « Tecnica sillabata » è la definizione che
Sapegno ha voluto dare alla tecnica dell’Allegria, e
specialmente a quella del Porto Sepolto che nell’Alle¬
gria ho inserito quando nel 1919 pubblicai quel li¬
bro da Vallecchi. Sapegno ha raccolto quella che era
l’opinione corrente in seguito alle « prime » manife¬
stazioni della mia poesia: opinione un po’ provviso¬
ria, in quanto rivolta non a tutta la mia poesia ma
solo a una sua fase: quella della guerra. Che nel Do¬
lore la Maremma 1 mi richiami la guerra per l’idea di
desolazione, è naturale. La Maremma, almeno come
era ancora a quel tempo, si associava all’idea di soli¬
tudine e di desolazione, come il deserto, sebbene non
fosse affatto il deserto. Il deserto e la Maremma sono
immagini di zone geografiche di desolazione, e posso¬
no l’uno e l’altra compenetrarsi dell’immagine di stra¬
zio morale suggerita dalla guerra. Sulle prime la Ma¬
remma mi richiamava allora più la sua propria deso¬
lazione che quella disumana della guerra, e d’improv-
836 Giuseppe Ungaretti

viso, in quell’ultimo momento del secondo conflitto


mondiale, la mia passione e il mio lutto s’immedesi¬
mavano nella pietà delle cose diffusa davanti ai miei
occhi dalla Maremma presente. L’immagine della deso¬
lazione mi si è fatta ossessiva sino dalle mie prime
poesie. A precisarla in me, fu il deserto: da esso na¬
scevano, nel lontano mio tempo dell’infanzia e dell’a¬
dolescenza, la nozione e il sentimento dell’infinito,
del primitivo, del decadimento fino al nulla.
Camon È la matrice dei motivi più duraturi.
Ungaretti Sì, perché il deserto era il primo segno
che muoveva familiarmente il mio sentimento e la
mia fantasia. Circonda, si sa, insieme al mare, Ales¬
sandria d’Egitto, la mia città natale. Là, deserto e
mare sono in continuo contatto e contrasto: l’uno è
statico e pare immutabile, l’altro è in agitazione per¬
petua; il primo rappresenta, senza che uno possa av¬
vedersene ciò che va deteriorandosi senza posa; l’al¬
tro, senza sosta, manifesta furiosamente il rinnovamen¬
to. Sono la mia prima visione della realtà.2
Camon La sua prima opera, Il Porto Sepolto, uscì
in edizione numerata: l’accoglienza, e oggi sorpren¬
de trattandosi di un’opera inattesa, fu favorevole, ve¬
ro?
Ungaretti L’edizione uscì in 80 copie numerate, nel
16, verso la fine dell’anno, proprio per Natale. An¬
dando in licenza prima a Firenze e poi a Roma, por¬
tai con me un certo numero di quelle copie e le spe¬
dii agli amici italiani, collaboratori di giovani riviste,
e ad alcuni che avevano scritto sulla « Voce » e su
« Lacerba ». Quegli amici miei italiani erano a loro
volta legati ad amici miei francesi. Non è una storia
complicata. Il Porto Sepolto fu accolto quando appar¬
ve come una specie di miracolo. Quando riapparve,
nel 1919 presso Vallecchi, compreso nell 'Allegria, co¬
nobbe con il successo anche qualche dissenso. L’Alle¬
gria conteneva anche le poesie di guerra scritte dopo
Saggi e Scritti vari 1943-1970 837

il Porto, e alcune che annunziavano le prime esperien¬


ze del Sentimento. Devo insistere sul successo del
Porto, perché fu davvero un avvenimento straordina¬
rio. Si tenga conto che il libretto fu mandato solo a
poche persone, e tuttavia ebbe non solo la vasta risuo-
nanza che ottenne da noi, ma se ne parlò anche fuori
d’Italia, dove la diffusione fu dovuta più che a mio
merito all’amicizia del compianto Apollinaire. Il Porto
Sepolto era la poesia d’un soldato, la poesia d’un uo¬
mo esposto alla morte in mezzo alla morte; era magari
anche la poesia d’un uomo che accettava con rassegna¬
zione e come una necessità la sofferenza, ma non era
certamente un libro che esaltava l’eroismo. Era un li¬
bro di compassione del poeta verso di sé, verso i com¬
pagni suoi, verso la sorte umana. Era un grido, un’of¬
ferta, un’invocazione di fraternità.
Camon Ma la nota più appariscente del libretto
non consisteva nelle soluzioni formali e tecniche?
Ungaretti Difatti, era la prima volta, nonostante
molti esperimenti in precedenza tentati, era la prima
volta — e non dico fosse merito mio, forse era merito
delle circostanze - che l’espressione cercava di aderire
in modo assoluto a ciò che doveva esprimere. Non
c’era nessuna divagazione: tutto era lì, incombente
sulla parola da dire: « io ho da dire questo, come
posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con
quell’unica parola che lo dica nel modo più completo
possibile? ». Si sa che tra la parola e ciò che si vuol
dire c’è sempre un divario enorme, anche quando ma¬
gari sembri piccolissimo. La lingua corrisponde male
a quello che si ha in mente e si vorrebbe dire: si¬
curo, non corrisponde, se non assai approssimativa¬
mente. Dirò dunque che cercavo l’approssimazione me¬
no imprecisa, la riduzione, per quanto possibile, di
quel divario ineliminabile. Con questa nuova lingua
il libretto cantava la sofferenza non eroica, ma anoni-
838 Giuseppe Ungaretti

ma, di tutti quelli che erano in guerra, in una guerra


forse necessaria, certo orrenda.
Cantori Nelle prime sue raccolte si hanno di solito
paesaggi estivi. Può essere una domanda ingenua: qua¬
le relazione lei sentiva tra ciò che allora soffriva o go¬
deva e l’estate come paesaggio a sé?
Ungaretti Nell’anelito, i paesaggi sono in me sem¬
pre estivi. Sono l’uomo dell’estate...
Camon Ci sono più tardi anche paesaggi autun¬
nali...
Ungaretti Sì, e qualcuno addirittura invernale. Pe¬
rò le altre stagioni io le subisco. È fatale che il tem¬
po passi anche per me. È già quasi interamente pas¬
sato, io sono già nel cuore fondo dell’inverno, ma l’ul¬
tima vecchiaia non sarebbe l’abisso dove mi perdo, se
almeno in sogno ancora non fossi sempre preda de¬
gli abbagli dell’estate. Certo, la mia stagione, la sta¬
gione in cui il sole divora tutto, è l’estate, l’estate è
la mia stagione, la stagione che mi brucia fino a farmi
arido - l’estate della mia infanzia - la stagione del so¬
le che continua a rodere anche quando già tutto è sta¬
to roso.
Camon Venne, col Sentimento, la scoperta dell’Uo¬
mo: dico, il trapasso dal paesaggio all’uomo. Può es¬
sere giudicata la svolta più importante della sua sto¬
ria. Come si operò dentro di lei?
Ungaretti L’uomo è subito presente nella mia poe¬
sia, e prevalendo su tutto. Il Sentimento ha diverse
parti. C’è una parte dove un paesaggio appare che as¬
sume aspetto mitico: è il paesaggio laziale. Vivevo al¬
lora, in quegli anni dopo la prima guerra, in uno dei
castelli romani, a Marino. È un paesaggio legato alla
Storia; ma scampavo da un paesaggio che sembrava
non avesse se non una storia geologica: venivo dal
Carso dove avevo fatto la guerra, e dall’Egitto, dal
deserto confinante col mare, della mia infanzia e della
mia adolescenza. Ero stato, è vero, a Parigi; ma erano
Saggi e Scritti vari 1943-1970 839

anni nei quali non badavo al paesaggio se non di sfug¬


gita. Ora, se penetravo nel bosco di Marino, o se ar¬
rivavo a un lago, a Albano o a Nemi, mi trovavo in
mezzo a un paesaggio che era pieno di storia e con
tali seduzioni della natura e tali lontananze nel tem¬
po, da assumere come per prodigio aspetti di favola.
Dall’atrocità della natura spoglia dell’Allegria passai
dunque a un mondo dove prendeva forma mitica la
storia nel suo trascorrere millenario e nella sua im¬
mediatezza. Ce una seconda parte, nel Sentimento,
che manifesta un’esperienza del tutto diversa: vi as¬
sume risalto e tormentoso e angoscioso sviluppo il mio
riavvicinamento al Cristianesimo. Non c’è momento in
cui la mia poesia non si muova da un’ispirazione in
qualche modo religiosa, ma nella seconda parte del
Sentimento, il segno allucinante della parola del poe¬
ta non evoca più se non quel rapporto dell’uomo con
leggi inconoscibili del quale è conseguenza la storia,
è conseguenza l’operare nei secoli dell’uomo fino a
foggiarsi mezzi dei quali ha finito col farsi schiavo,
mezzi la cui potenza di più in più lo schiaccia. Dalla
seconda parte del Sentimento partono, perfezionando¬
ne l’ispirazione e la forma, i miei libri scritti durante
la seconda guerra mondiale e negli anni successivi:
Il Dolore, La Terra Promessa, Un Grido e Paesaggi, Il
Taccuino del Vecchio. Ne partono accentuando la per¬
plessità dell’uomo nello scoprirsi coinvolto in un pro¬
cesso sempre più complesso e stritolante, di cui sem¬
pre si dovrà ignorare la causa, nel transito terreno.
Siamo dunque sempre più, nel valutare poeticamente
la parola, alla mercè del caso, o, nel migliore dei casi,
indovini o calcolatori di probabilità?
Camon Quale importanza assunse per lei l’opera di
Michelangelo nella seconda parte del Sentimento?
Ungaretti Nella seconda parte del Sentimento,
proprio per le condizioni catastrofiche del mondo, Mi¬
chelangelo mi appariva come il simbolo di quel tempo.
840 Giuseppe Ungaretti

S’incominciava allora a sentire prossima un’altra guer¬


ra: in quel momento mi scoppiano dall’anima uno do¬
po l’altro, straziandomi, la Pietà e gli altri Inni. L’in¬
comunicabilità tra gli uomini, le crescenti condizioni
politiche di inevitabili orrori, e inoltre fatti personali,
mi mettevano in uno stato di disperazione. Mi riti¬
rai allora per qualche tempo in un monastero a Su-
biaco, e l’anno successivo a Montecassino: l’ho ricor¬
dato in una prefazione alle poesie di padre Turoldo.3
Il Sentimento del Tempo è prima una presa di con¬
tatto con una storia che il paesaggio rivela presente
al poeta, fino nelle sue origini mitiche; è poi una pre¬
sa di coscienza dello stato tragico del proprio momen¬
to storico. Questi sono i due motivi diversi nell’or¬
dine di composizione delle poesie, e nella struttura del
Sentimento. Poi c’è nel Sentimento un lato tecnico:
la ripresa di un rapporto più intimo con la nostra tra¬
dizione poetica, a partire dal Petrarca e dal Tasso.
Camon Lei è giunto a identificare il barocco con il
sentimento della catastrofe: una intuizione che può
essere fertile di risultati interpretativi, e che spinge a
rivedere tutta la zona del barocco, in precedenza clas¬
sificata molto diversamente.
Ungaretti Allora vivevo a Roma, o nei dintorni di
Roma, cioè nella città di Michelangelo e del barocco.
Roma è città, sino dalla nascita, barocca. Michelangelo,
il Michelangelo romano, che ha dato impronta miche¬
langiolesca a Roma facendole rivivere tutti i suoi se¬
coli, riinventa l’ispirazione del barocco. Il Michelan¬
gelo romano, l’architetto, nasce col mettere a con¬
tatto, traendo armonia suprema dall’urto, elementi di
rovine antiche, di rovine, con altri, contemporanei o
direttamente da lui immaginati. L’adattamento nuo¬
vo, vivo, cercato e trovato dalla sua architettura, lo
ha mostrato nel Campidoglio, o in Santa Maria degli
Angeli e in altre aule delle terme di Diocleziano; lo
ha mostrato in alcune pitture, nel Giudizio, per esem-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 841

pio. È un’esigenza del suo tempo che voleva accostare


Cristo a Platone, Dante a Petrarca, Savonarola a Fi-
cino. Il barocco, nato con Michelangelo, non scatu¬
risce soltanto dalla volontà di fondere drammatica-
mente elementi contrari, ma anche e soprattutto dal¬
la necessità di manifestare un sentimento di catastrofe.
Il barocco nasce anche e soprattutto dal sentimento
che ormai tutta l’esperienza antica fosse esaurita, e lo
fosse anche l’esperienza cristiana, almeno quella sto¬
rica, temporale, del Cristianesimo, essendo ormai scoc¬
cata l’ora del tempo apocalittico. E non è il sentimen¬
to della catastrofe implicito nel sentimento del nulla,
e nell orrore del vuoto, e nella credenza assurda che
possa abolirsi il nulla ricorrendo a espedienti? Tutti
fantasmi che torturavano Michelangelo, mentre non
aspirava che ad affermare l’Eterno. È disperazione che
si scatena nelle ultime sue Pietà, nella Pietà di Pale¬
stina, ma soprattutto nella Pietà Rondanini: nelle
Pietà incompiute.
Camon Lei ha così ricostruito il filo conduttore dei
suoi motivi fino al Sentimento. E dopo?
Ungaretti Nei miei ultimi libri venuti dopo il Sen¬
timento, ho continuato a interpretare il mio tempo
seguendo quella strada che dal Petrarca a Michelan¬
gelo, dal Tasso a Leopardi è la strada maestra della
poesia italiana. Naturalmente ogni giorno le cose so¬
no diverse e nuove, ma in ogni giorno è contenuto
tutto il passato e tutto il futuro. Credo che la mia lin¬
gua poetica, continuamente rinnovandosi e rimanen¬
do antica, non l’abbia dimenticato mai.
DELLE PAROLE ESTRANEE
• E DEL SOGNO D’UN UNIVERSO
DI MICHAUX E FORSE ANCHE MIO
[1966]

Dopo la guerra abbiamo assistito a un cambiamento


tale del mondo che ci ha separato da quel che era¬
vamo e da quel che avevamo fatto prima, come se fos¬
sero passati, d’un colpo, milioni di anni. Le cose so¬
no diventate vecchie, degne solo di un museo. Oggi
tutto quello che è contenuto nei libri lo si ascolta co¬
me testimonianza del passato, ma non si può accettare
come modo espressivo nostro.
È molto strano: le parole stesse, certe metafore o
cadenze nella poesia, certi movimenti nella pittura, ci
sono diventati del tutto estranei. Li accettiamo come
sprofondati nella . storia, con una loro vita storica
che però non ci può riguardare da vicino. C’è qual¬
cosa nel mondo dei linguaggi che è definitivamente
finito. Fino a pochi anni fa la lingua del passato po¬
teva essere ancora la nostra. I secoli erano legati l’u¬
no all’altro e ci diventavano improvvisamente contem¬
poranei. Oggi tutto quello che era convenzione e ret-
torica sulle quali si fondava il discorso umano, è di¬
ventato insostenibile. Non c’è più modo, secondo me,
di formare una rettorica nuova, perché ci coglie su¬
bito la falsità di ogni convenzione e anche la parola è
una convenzione subito logora...
L’uomo, mi pare, non riesce più a parlare. C’è una
violenza nelle cose che diventa la sua propria violen¬
za e gli impedisce di parlare. Una violenza più forte
della parola. Le cose mutano e ci impediscono di no¬
minarle, e quindi di fondare delle regole per nomi:
narle e permettere agli altri di goderne l’evento. For-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 843

se è perché testimoniano un mondo apocalittico dove


l’uomo vive con la possibilità di autodistruggersi. Tut¬
to si accumula sullo stesso piano, e tutto questo pre¬
sente accumulato forma una specie di buio dove non si
distinguono neppure i connotati del proprio tempo
perché il tempo va avanti con una velocità che non
è di misura umana. Potrebbe essere questa l’apoca¬
lisse. Certo è che non potendo più imitare il passato
o legarvisi, abbiamo perduto la scienza delle cose.
Le scienze materiali, si dice. La natura ogni giorno
di più, è vero, ci offre mezzi nuovi. Ma in definitiva
essi imprigionano l’attività spirituale dell’uomo. For¬
se un giorno anche il nostro tempo troverà delle con¬
venzioni! Bisognerebbe risalire con la memoria fino.al
punto della prima innocenza: allora forse la poesia
potrebbe riacquistare, il suo prestigio emotivo...
Sì, io ho sognato questa capacità senza raggiunger¬
la. Sono un uomo che sta per concludere la sua sto¬
ria; non ho che da aspettare il riposo. Ma guardo i
giovani alle prese con l’impossibilità di parlare, con
la violenza più forte della parola. Naturalmente l’uo¬
mo resta vivo, e così infinitamente semplice. Ci so¬
no gli affetti, i bambini, ci sono la religione e le no¬
stre cure di tutti i giorni. Ma quando entri dentro al
mondo ti senti perduto: solo rinverosimiglianza e la
violenza contano. Tutto quello in cui l’uomo conti¬
nuava a gingillarsi, prima cosa fra tutte la letteratu¬
ra, è caduto. Mi seduce ancora l’ascolto di Bach o di
Leopardi. Ma sono cose che appartengono alla nostra
profondità? Siamo degli uomini che sono stati tagliati
dalla propria profondità...
Solo il segreto può valere ancora. Forse le cose di¬
ventano più segrete via via che i mezzi della cono¬
scenza avanzano, fi sapere degli uomini aumenta il
segreto... Più sappiamo e più le cose si allontanano
da noi, e più ci è difficile decifrarne il nome, e più
844 Giuseppe Ungaretti

ci sembra d’essere colpiti d’afasia. Le ragioni di tutto


diventano sempre più oscure. No, le parole non ci ser¬
vono. Le parole delle vecchie rettoriche sono parole
senza sufficiente forza di segreto. •
Cultura


*

'
MISSIONE DEL LETTERATO
[1947]

Quando l’altra guerra fu terminata e « Littérature »


che allora avevano fondata Breton, Aragon e Soupault
mi chiese, come ad altri, perché scrivessi, risposi ama¬
ramente ch’era un modo di fare almeno idealmente
ciò che nella realtà m’era impossibile. Il segno d’un’im-
potenza, il desiderio d’una potenza che uomini fatti
finalmente liberi e fraterni e sopra ogni cosa pensosi
d’essere civili, avrebbero ottenuto dalla loro buona
volontà. Non s’è spenta in me quella speranza; ma
quale potenza oggi non riscontro nell’opera di poesia
e nell’opera d’arte. Non solo perché essa significa il
punto più alto verso cui tende il lavoro umano, il pun¬
to della bellezza, il punto che più profondamente toc¬
ca il segreto dell’essere: la ragione illuminante per cui
l’uomo ha per missione d’essere umano; ma più perché
ha sentito, e tutti noi abbiamo sentito, quanto poten¬
te, ma nello stesso tempo fragile, fosse questo supremo
segno umano di civiltà.
Questa nostra Patria è fra tutti i paesi forse quello
che dalla guerra ha sofferto di più. Porta nella carne
e nelle anime atrocemente il ricordo dell’iniquità e del¬
la rovina. Sono state offese non risparmiate ad altri, e
qualche popolo ebbe a subirle quanto e più di noi. Ma
abbiamo visto cadere, noi più di tutti, annientati per
sempre, monumenti dello spirito, carte o pitture, cam¬
panili o statue, bellissimi atteggiamenti d’un viso che
mille e mille anni di fatiche avevano reso espressivo
nell’ansia di rendere universale la gentilezza umana
convertendola in patrimonio di tutti. Noi oggi erria¬
mo tra mutilazioni e macerie di testi che non appar-
848 Giuseppe Ungaretti

tenevano solo a noi ma erano stati ispirati e s’erigeva¬


no armoniosi per edificare umanamente tutti. Resta lo¬
ro, accusatrice, la voce, nei loro mozziconi e nella loro
polvere divenuta d’estrema pietà, thè le prove disuma¬
ne inflitte alle persone, carne e anime, sono derivate
dal-fatto di non averli saputi, noi per primi, venerare
e difendere come un uomo civile avrebbe dovuto. Fu
troppo dimenticato ch’essi significavano la sola resisten¬
za umana alla morte, e ch’era diabolico, se l’Italia do¬
veva avere una missione nel mondo, credere che po¬
tesse averne una diversa di quella indicatale da ogni
tempo dalle sue doti di esemplare lavoro.

Eppure se si guarda alle opere dell’arte degli ultimi


trent’anni, sarebbe assurdo non riconoscere che la ca¬
tastrofe non fu, con disperazione uguale alla nostra,
presentita in nessun altro paese. Forse non aveva la
forza occorrente, il grido; certo non godevano di alcu¬
na autorità quegli accuorati cui ancora non difettava
animo a lanciarlo.
Fu nella furia dell’altra guerra, e da scritti di chi la
combatteva, che si ripresero a sentire in confronto alle
espressioni immediatamente precedenti, prevalentemen¬
te i motivi per i quali nelle rivoluzioni dello spirito
l’arte, quando è arte e ubbidisce ai suoi fini, ha fun¬
zioni direi quasi contrapposte a quelle della scienza.
Si tornava per angoscia lucida a vedere dagli artisti
che se è fatale che ogni progresso di scienza produca
uno squilibrio morale nella società, altrettanto fatale
è che l’arte se ne inquieti e ne segnali i termini. C’è
nell’opera d’arte, quando è vera opera d’arte, sempre
il richiamo a colmare, tra naturali diritti e meccanicità
razionali, l’abisso che l’incivilimento sempre più pro¬
fondamente e estesamente sembra scavare. È il sofferto
richiamo a ristabilire tra coscienza del bene e energie
della barbarie un rapporto tale che senza posa corri¬
sponda alle continue nuove esigenze d’un sapere sem-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 849

pre più immane e pericoloso nella cecità dei suoi mezzi.


Si tornava a vedere che l’arte, anche se spesso l’ar¬
tista dava luogo al sospetto d’avvedersene imperfetta¬
mente, procede dall’affermazione di valori elementari,
primitivi, spontanei, o per meglio dire, dall’affermazio¬
ne del valore originario dell’essere umano posto tra be¬
ne e male a giudicarsi e definirsi con atti personali e
liberi.
Era così, per grazia di un iniziale, innocente stato
d’ispirazione rivendicato, carico di tutte le sorprese e
le responsabilità che da una qualsiasi scelta anche se
ne sia futile il caso derivano al mondo, la razionalità
stessa indotta a considerarsi vivente e sotto minaccia
come ogni cosa caduca.

Come ogni caduca cosa; e che altro mai avrebbe po¬


tuto significare una ricerca di misure, di proporzioni,
di leggi, di stile, di generalità, di esperienza tecnica e
morale sul modello delle insigni opere nostre e euro¬
pee del passato/ se non una solidarietà nei secoli con
i propri morti? Se non una meditazione sulla morte
per attaccarci di più alla vita, così insidiata, così fuga¬
ce? Che cosa significavano quelle insigni opere se non
ch’erano un retaggio italiano e un retaggio europeo,
se non che costituivano la realtà essenziale e la quali¬
tà per le quali l’Italia e l’Europa erano l’Italia e l’Eu¬
ropa? Incombeva a noi per non morire salvaguardarle
con altre opere come esse atte a dimostrare che tanto
è più grande l’uomo quanto più si riconosce e stima
debole.
Era il retaggio di quelle opere d’una perizia spiri¬
tuale così sublime che la loro scomparsa o la loro di¬
minuzione o la loro degradazione avrebbe immiserito
e imbarbarito per secoli e secoli la convivenza umana.
Ma perché agli occhi di tutti non ne apparve più pre¬
ziosa la custodia e più urgente l’incremento? Perché
tutti come l’artista, che sa risalire i secoli quando è
850 Giuseppe Ungaretti

originale e umano, non percepirono che, nonostante il


soffio divino che involgono, anche le forme elette sono
minate dall’invecchiare? Il perire le attende anche sen¬
za i colpi della dissennatezza umana.

Ma le imprese della dissennatezza, dell’orgoglio, lus¬


suria, avarizia succederà che siano semina di cosa che
benefica salga e duri? Non prometterebbero invece sem¬
pre solo raccolto a breve scadenza di tempesta e deso¬
lazione, se vediamo anche i frutti della virtù crollare
alla mercè della morte?
Ci aveva avviato in quegli anni il Leopardi a tali
meditazioni rese oggi ancora più opportune dall’attua¬
lità che ancora più tragica ci sovrasta, ci circonda e
dentro di noi non ci dà requie; il Leopardi che ci fa¬
ceva sentire quanto l’opera d’arte fosse miracolo mo¬
rale se le riusciva di durare a dispetto d’ogni relatività
di gusto, diverso da epoca a epoca, da clima a clima,
da paese a paese, da individuo a individuo.
Ne era conseguenza che se aveva da discorrere di
giudizio e lo rivolgesse a fatti di singoli, o a fatti so¬
ciali, o a fatti universalmente umani, riteneva che per¬
manesse libero e intatto e fosse normativo solo quel
giudizio addestrato non ad interrompersi nel suo cor¬
so, non, tanto meno, a proseguire, distaccatosi dalla
realtà vivente, il suo cammino sviluppandosi a un trat¬
to per suo conto, ma addestrato ad avanzare facendo
i suoi conti con il rinnovarsi delle necessità costante-
mente mutevoli delle cose fugaci.
L’insegnamento come tanti altri c’era venuto dal
Leopardi, e a lui forse era stato trasmesso dal Pascal:
« Car l’on ne souhaite pas nùment une beauté, mais
l’on y dèstre mille circonstances qui dépendent de la
disposition où l’on se trouve; et c’est en ce sens que
l’on peut dire que chacun a l’originai de sa beauté,
dont il cherche la copie dans le grand monde »; dal
Pascal che in un secondo brano del Discours sur les
Saggi e Scritti vari 1943-1970 851

passions de Vamour, più marcatamente ancora potreb¬


be scambiarsi per un contemporaneo dei Romantici:
« Les auteurs ne nous peuvent pas bien dire les mou-
vements de l’amour de leurs héros: il faudrait qu’ils
fussent héros eux-mèmes ». E non muta nulla che il
discorso appartenga a quel periodo dell’esperienza mon¬
dana del Pascal, nel quale la frequentazione di Méré
aveva concorso a fargli dosare con spirito di finezza lo
spirito di geometria, né offre più che uno scarso rilievo
il fatto che la formula di « esprit de géométrie et esprit
de finesse » gliel’avesse suggerita il mondano Méré. So¬
no i limiti d’un pirronismo che l’umiltà cristiana più
tardi gli legittimerà nel modo più puro.

Non è dunque essere assenti dal proprio tempo, ma


è amarlo con illuminata intelligenza, anche se perdu¬
tamente, il nutrire un ideale che non trascuri, né tra¬
disca riducendolo a precetti accademici o a canoni loi-
ci, il vivente pensare e sentire del passato.1 Un libro
che scorrevo l’altra sera, che è rimasto sul mio tavolo
e che macchinalmente sfoglio mentre scrivo, mi porge
una corretta definizione di tale ideale. Non è d’un som¬
mo scrittore, ma d’uno che,- in mezzo al suo malumo¬
re, non era privo di qualche barlume di penetrazione
umana. È il libro La médaille qui s’efface di Laurent
Tailhade e vi trovo a proposito delle memorie di Chal-
lemel-Lacour, il quale fu uomo politico che ebbe affi¬
dati alti e delicati incarichi, e in queste nostre righe
importerebbe poco, se non fosse anche stato uno cui
furono eloquenti la tensione e il mordente delle Pro-
vinciales, uno che Tessersi potuto incontrare di perso¬
na e l’avere conversato con Schopenhauer considerò la
sua maggiore fortuna, che si prodigò a capire e a esal¬
tare il genio del Leopardi: « Le style en est obscur,
pareil à celiti des classiques vrais, qui ne disent les
choses qu’une fois et dans la langue propre: Montai¬
gne, Pascal, Descartes, cependant que le gros des lec-
852 Giuseppe Ungaretti

teurs ne comprendi que les répétitions en termes im-


propres ». Oscuro, era oscuro lo stile dei Mantegna
distrutti dalle bombe. Oscuro è il vivente segreto del¬
la natura che tanto più diversifica dalle altre ciascuna
persona umana quanto più l’umano essere alle altre
la accomuni.

Quanto scrupolo, se non quanta perplessità, abbia


il letterato o in genere l’artista oggi più che mai da
provare, potrà apparire da un’altra riflessione che sul
giudizio vorremmo azzardare. Ci riuscirà forse così di
integrare quella da noi già esposta, e di meglio chia¬
rire il già detto rispetto alle opere del passato. Il giu¬
dizio si volga a fatti dei singoli o a fatti sociali o a
fatti universalmente umani, potrà astrarsi dall’accor-
gersi che i primi o i secondi o gli ultimi, partecipano
nella loro profondità dei tre ordini? Non sarà ricon¬
dotto, ogni volta, se non al valore originario della per¬
sona umana, alla scelta di sorte che spetta ogni mo¬
mento a ciascuno e alla responsabilità che ne deriva, a
ciascuno e a tutti. Responsabilità che cadono su noi e
in noi dal primordiale atto umano, dall’aprirsi del tem¬
po, per le alterne sue notti e luci. Responsabilità per
i popoli di lunga storia che divengono insostenibili e
paralizzanti. Il punto di riferimento d’ogni giudizio,
ed è ciò che fa la complessità e la diversità unica di
ciascun individuo, non potrà essere che uno: l’uomo
nella sua felicità originaria mentre sta per giuocarsi
tutto in una scelta.2

Responsabilità... Quale sgomento non deve provar¬


ne l’artista. Si manifesta, per allarmatissimi accenti, in
Dostoievski, in Baudelaire, come s’era manifestato in
Leopardi, e già prima in William Blake, davanti, seb¬
bene anch’essi vi rimanessero in qualche modo impi¬
gliati, figli del loro secolo, alla ormai diffusa insinua¬
zione sadica che non esistesse peccato, che nulla fosse
Saggi e Scritti vari 1943-1970 853

vero e tutto lecito, che fosse solo una questione di


astuzia, di risorse materiali e di violenza.
Fu stranamente scelto dalla sorte il momento della
decristianizzazione. Se i progressi materiali dovuti alla
scienza avevano portato a squilibri sociali che rende¬
vano palese agli occhi di tutti lo stato di gravissima
ingiustizia nel quale penavano le masse, come non
sentire che nessun rimedio sarebbe stato un vero e du¬
revole rimedio se instancabilmente non avesse portato
anche ciascuno e le società a un recupero costante di
dignità morale? Gli uomini, gli uomini che, per diritto
naturale, sono tutti uguali e fratelli, come fu che, pro¬
prio nel momento in cui avrebbero potuto reputarsi
per i mezzi materiali di cui disponevano ormai, final¬
mente capaci di non più offendersi a vicenda con dispa¬
rità economiche rivoltanti, come fu che poterono di¬
menticare che il supremo bene da garantirsi a ciascuno,
dal quale gli altri fioriscono o sono inganni e germi di
sventura, è la libertà di coscienza? O sarà sorte del¬
l’uomo, a qualunque riforma ricorra, quella di ridare
esca, e maggiore esca sempre, alla pazzia di Caino?
Per ora, da Napoleone in poi, sono centocinquant’anni
di guerre; abbiamo avuto, se ora è finita, la Guerra
di Centocinquant’anni.
Continuerà l’uomo a fare agli altri ciò che non vor¬
rebbe fosse fatto a sé?
Non dal terrorizzamento delle coscienze, ma dalla
moltitudine dei liberi dipende l’unità, e necessariamen¬
te è giusto chi è libero.
Sarà un’utopia, ma è l’ideale per il quale soffrire fu
e continuerà ad essere il maggiore onore umano.

C’è un detto della Prima epistola di S. Giovanni


che riecheggia agli orecchi meno sordi, a quelli dei
poeti più umani, da venti secoli nelle ore di crisi de¬
gli ordinamenti sociali, e dal lettore sarà stato forse os¬
servato quanto aneleremmo fosse percepito dai nostri.
854 Giuseppe Ungaretti

Dichiarava: « Tutto quello ch’è nel mondo, la concu¬


piscenza della carne e la concupiscenza degli occhi e
la superbia della vita, non è dal Padre, ma è dal mon¬
do. E il mondo, e la sua concupiscenza, passa via; ma
chi fa la volontà di Dio dimora in eterno ». Se ci è
oggi avvenuto di appellarci a Pascal e a Leopardi, è
perché, come il lettore avrà certo osservato, del richia¬
mo di Giovanni avevano fatto il nucleo vivo dei loro
pensieri. Non pretendiamo che il Leopardi fosse un
credente o uno spiritualista; ma, se la sua polemica
sembra indugiarsi a precorrere sotto certi aspetti quel¬
le sacrileghe vedute d’un Nietzsche che osano avvilire
in una genealogia la morale, per passione e ragiona¬
menti rivelava tanto spirito cristiano quanto di più
nessun altro ebbe mai. Si rilegga la sua opera dallo
Zibaldone alla Ginestra, e si vedrà.
Su quel detto aveva prima meditato Sarit’Agostino,
e Dante vi poggia su la scala delle penalità. Non parte
nei suoi sviluppi la Divina Commedia dalle tre bestie,
e contro il loro male un giorno non correrà a opporsi
il veltro? E non è il veltro, storicità, animalità, mate¬
rialità, che si assoggetta finalmente a una volontà pu¬
ra? Idumile Italia non è per Dante quell’Italia che
avrebbe fatto dipendere ogni suo slancio da un’aspira¬
zione e una regola d’umanità pura?

Oggi, mentre sentiamo che potrebbe una lingua, la


quale porta in sé tanto cospicua ricchezza umana, tan¬
ti esempi impareggiabili, diventare da un momento
all’altro una lingua morta, noi suoi cultori e suoi figli
- (chi nella propria sostanza umana non le è nel mon¬
do quasi figlio?) - non abbiamo che una via per difen¬
derla. Ma è la migliore; ma è quella percorsa dallo
Stil novo alla Ginestra da ogni Italiano vero: è quella
che conduce a opporre all’odio, sempre l’amore, sem¬
pre.3
L’ARTISTA NELLA SOCIETÀ MODERNA *
[1952]

Ciò che ci ha adunati e ci unisce è che, nonostante la


diversità che deve distinguerci l’uno dall’altro, sappia¬
mo tutti che un unico e medesimo segreto di poesia
mosse, muove e muoverà sempre l’arte.
La poesia è geloso soffio, delicatissimo a lasciarsi
percepire, e non a caso né per calcolo innalza la sin¬
golarità d’una forma all’universale della bellezza. È
attribuzione sua di via via svelare la verità del fuggi¬
tivo istante storico e di istituire la solitudine nella qua¬
le una persona umana si definisce uguale alle altre e
da tutte diversa, ed insieme è sua attribuzione di non
lasciarsi percepire se non come fine al di sopra della
solitudine e della storia poiché la verità non può esse¬
re né caduca né fuggitiva.
A Hegel una volta parve d’avvertire nel futuro la
morte dell’arte. Da Nietzsche a Sartre non pare impru¬
dente di discorrere addirittura di morte di Dio. Sono
idee che s’affacciano alla mente di chi le esprime, in
mezzo a cautele dialettiche, dalle quali non si possono
isolare senza svisarne il senso, e non voglio mancare
a nessuno di riguardo dicendo che esse,

per la contradizion che noi consente,

danno comunque fastidio.


Certo noi sappiamo che il linguaggio mediante il
quale l’uomo tenta di afferrare la poesia dandole una

* Discorso pronunciato alla « Conferenza Internazionale degli Ar¬


tisti », organizzata dall’UNESCO a Venezia nel Settembre 1952.
856 Giuseppe Ungaretti

qualche forma, è, come del resto il nostro passaggio


sulla terra, in sé precario, da istante ad istante muta¬
bile, sempre troppo materiale, opaco, pesante, sempre
con troppa misura definito per essere atto ad aderire
pienamente all’infinito della poesia. Ma il miracolo non
è nel linguaggio, è nella tensione che nobilita il lin¬
guaggio, che lo porta a formare oggetti sublimi e in¬
cantevoli, e se questa tensione, per dannata ipotesi,
sparisse dal cuore e dai pensieri dell’uomo, l’uomo si
destituirebbe dalla sua dignità, si farebbe simile al bru¬
to non scoprendo più nell’armonia del creato la spe¬
ranza dell’altezza, come diceva Dante, lo spavento del¬
la bellezza, come diceva il Leopardi. Già dall’iniziale
sillabare dell’uomo della selva, lo scopo dell’arte non
è tanto nello scongiuro contro l’insidia e l’ignoto della
morte, né tanto nell’imitare il profilo o la voce delle
bestie per più facilmente catturarle usando anche l’in¬
ganno, quanto, sotto tali espedienti e spinte utilitari,
il cercare di stabilire un rapporto col segreto inviola¬
bile della divinità creatrice. La necessità di giudicare
dell’arte fuori dei termini della pratica utilità, è no¬
zione che nella mente umana s’è fatta di continuo più
chiara, è una nozione di libertà che la polemica pro¬
mossa dal Romanticismo ha perfezionato all’estremo.
E, come se potesse esaurirsi il rinnovarsi continuo del¬
l’arte, e l’attività dell’arte potesse mai essere sostituita
dall’attività logica, vorremmo, con il paradosso che Dio
è morto, e con le iniquità a cui un simile paradosso
potrebbe indurre a indulgere, abolire la libertà con
maggiore splendore affermata dal secolo XIX e dalla
prima metà del XX? La libertà è indivisibile; ma sup¬
porre di poterla togliere all’arte, sarebbe assurdamente
negare l’autonomia della persona umana, sarebbe nega¬
re l’aspirazione millenaria dell’uomo, sarebbe negare
l’uomo poiché gli si vorrebbe negare il diritto alla sua
immortale realtà.
Si parla di precarietà, è giusto parlarne, è uno degli
Saggi e Scritti vari 1943-1970 857

elementi del rapporto per cui è umanamente percepi¬


bile il soffio della poesia: bellezza e morte, o infinito
e effimero è rapporto che però, da quando fu, a spec¬
chio dell’angoscia di noi moderni, illustrato da Blake,
da Leopardi o da Baudelaire, non ha bisogno, gli si
dedichi soverchie altre parole. Sul carattere che oggi
il sentimento di precarietà denota, tuttavia alcune os¬
servazioni dovremmo fare. Dà esso oggi corso a una
specie di fissazione che tutto intorbida nell’inquietudi¬
ne degli uomini, e dovranno i nostri dibattiti occupar¬
sene, diramandosi da quel torbido i problemi che, con
formula credo un po’ sbrigativa, si usano chiamare del
divorzio del pubblico dall’arte.
S’io, in questa Venezia che ci ospita, volgo gli occhi
in giro, vedo che, delle passioni, della volontà di po¬
tenza, della gloria che per lunghi secoli fecero di essa
uno dei principali centri della politica europea, ciò che
rimane vivo, ciò che la fa tuttora una città inuguaglia-
bile sono, mi pare, architetture, statue e una pittura
forse la maggiore tra quante danno all’umanità diritto
d’orgoglio. Le imprese pratiche, quantunque fossero
audaci e magnifiche, non hanno lasciato altra traccia
se non quella che è nei segni dell’arte: ad attestare
ch’esse furono precarie, e che di esse non dura a lungo
se non quell’anelito umano che, per affermarsi, ha da
sottrarsi ad esse e raccogliersi nella solitudine, nella
meraviglia, nella meditazione, nel canto d’una singola
persona.
Di qui si scorge quale sia la responsabilità dei Pub¬
blici Poteri verso le arti. Essi hanno il dovere di tute¬
larne lo sviluppo, come incombe loro di fare per le
scienze; ma più che per le scienze, poiché l’opera d’ar¬
te, pure essendo dono a tutto l’universo umano, è an¬
che, nel suo spirito, emblema di quel concreto retag¬
gio, retaggio del sangue, che lega nei secoli il susse¬
guirsi, sotto il medesimo cielo, delle generazioni d’una
medesima nazione. È dovere che richiede nell’essere
858 Giuseppe Ungaretti

adempiuto ogni tatto, chi esercita rettamente il potere


dovendo, affaticandosi ad assicurare tranquillità econo¬
mica a tutti, proporsi di non menomare ma di esten¬
dere la libertà spirituale di ciascuna persona. Nessuno
è in grado di sapere quali strade seguirà l’arte per ma¬
nifestare la poesia di un dato momento, e nessuno può
indovinare chi sarà chiamato a compiere un’opera che
i posteri riterranno esemplare. E dunque guai a quella
legge che pretendesse confinare in espressione oppor¬
tunista sentimento e fantasia. Non ne rimarrebbe estin¬
to lo spirito d’invenzione della parola poetica, perché
ciò non dipende dall’uomo; ma quando l’opera d’arte
venisse in luce nonostante freni imposti da motivi estra¬
nei ai fini della poesia, dovrebbe per effettuarsi contor¬
cersi in menzogne che la deturperebbero avvilendo l’uo¬
mo. Anche nel terrore la poesia può trovare i suoi gri¬
di, denunziare l’intolleranza, poiché essa animando la
disperata sete di bellezza di chi la brama non perderà
mai l’occasione d’insegnare all’uomo a dubitare delle
sue forze e a proclamare che si ha il diritto di sbagliare
e che in una società fatta bene, non è un crimine non
essere tutti e sempre del medesimo parere. La soffe¬
renza umana va espressa, e chi, intorno a sé e in sé,
non la sentisse, non sarebbe atto a percepire poesia;
ma la poesia ha sempre indicato da sé dov’era vera¬
mente la sofferenza, e suggerito da sé i modi dell’arte
per svelarne l’orrore.
Valéry annotava che quanto fu fatto di più mirabile
in arte lo fu a dispetto dell’ingiustizia dei sistemi so¬
ciali delle diverse epoche. Per vivere, Omero mendi¬
cava, Virgilio con Orazio adulavano, Villon predava,
l’Aretino ricattava, e ci fu chi faceva il modesto ripe¬
titore d’inglese o di latino e ci fu anche chi poteva
sperperare ingenti capitali. Ma se una condizione di
disarmonia sociale non impedisce all’artista di alzare
la sua voce, anzi lo stimola a farlo per rendere visi¬
bile a chiunque l’abisso della disarmonia, tale ragione
Saggi e Scritti vari 1943-1970 859

non solo non giustifica la deprecata inerzia dei Pub¬


blici Poteri verso l’Arte; ma conferma altresì che i Pub¬
blici Poteri all’Arte non possono chiedere se non Arte.
Diceva Shakespeare: « Sono brevi le nostre dura¬
te »; ma anche: « Fa’ pure il peggio, vecchio Tempo:
del tuo danno a dispetto, / Giovane per sempre vivrà
nei miei versi il mio amore ». Non potrà più tanto pre¬
sumere di sé, l’opera d’arte?
Il sentimento della precarietà si è fatto tanto osses¬
sivo in noi, Artisti contemporanei, anche perché abbia¬
mo visto, con i nostri occhi visto, che anche l’opera
d’arte, non omessa l’eccelsa, poteva perire, non solo in
seguito all’erosione fatale del tempo, ma di schianto,
in un attimo, per insensata gesta di guerra dell’uomo.
Dovrebbe esserci qui una lezione d’umiltà per tutti.
Possano tutti ascoltarla finalmente come tale, e quale
fiorente era sorgerebbe sulla terra! Di gran lunga, di
quante siano esistite, la più fiorente che si possa so¬
gnare.
Ma la precarietà ci appare sopratutto ossessiva, dal
Romanticismo in poi, in seguito ai continui innova¬
menti di linguaggio cui l’artista deve ricorrere per po¬
tersi esprimere. Egli non può ignorare, tuffato più di
chiunque nella realtà dei suoi tempi, le continue tra¬
sformazioni arrecate nella convivenza umana dall’acce¬
leramento incessante della storia, dovuto ai mezzi tec¬
nici messi via via a disposizione dell’uomo dai progres¬
si della scienza. L’arte non ha facilitato il compito dal
dovere di continuo ristabilire, secondo spirito di poe¬
sia, l’equilibrio delle funzioni delle sue forme in rap¬
porto all’accrescimento d’un’energia materiale, sempre
più pericolosa nell’immanità dei suoi mezzi, se non la
si libera dalla sua cecità. Anche un’arte come l’archi¬
tettura, strettamente avvinta al ritrovato tecnico, non
può ignorare, se vuole avere effetto come arte, che, in
più di tutte le misure fornite dal sapere, c’è una mi¬
sura, sempre diversa e inattesa, che emana dall’opera
860 Giuseppe Ungaretti

compiuta e contemplata e che sfugge ad ogni verifica


che non sia dettata da poetico godimento, che non
tragga moto da sentimento e fantasia.
Una volta un linguaggio durava secoli, e dai tempi
del Petrarca sino al Barocco è linguaggio evocativo
d’oggetto assente: linguaggio ideale, linguaggio men¬
tale, linguaggio astratto. Fu nel momento stesso in cui
si rese noto che la terra gira intorno al sole, e che non
può esservi scienza del vero se non partendo da tale
nozione confermata dalla scoperta geografica - la quale
permetteva di rivelare che il sole in un luogo si corica
mentre altrove sorge - fu appunto in quel momento,
nel quale la verità dei sensi subisce il suo più duro
scacco, che la verità dei sensi è dichiarata dall’arte cla¬
morosamente, come non mai prima, e a cagione degli
stessi- inganni cui la fantasia può ormai divertirsi a sot¬
toporla per scoprirla segreta. In quel momento, dopo
tre secoli, il linguaggio ha, per ubbidire agli inviti del¬
la poesia, da trasformarsi da capo a fondo, e diventa
linguaggio estremamente sensuale, estremamente vio¬
lento, per ossessione della morte. Pensate al Don Chi¬
sciotte. La verità dei sensi è riconquistata con un ge¬
sto di liberazione dalla storia, forsennato, assurdo, fa¬
cendo appello alla fantasia che darà ogni possibilità
di contrasto, e persino quella d’inventare a propria im¬
magine ed uso il mondo, agli strazi delle passioni del
cuore, mentre1 dal Petrarca al Seicento, la poesia sug¬
geriva equilibrio per sollecitazioni della memoria so¬
spinta a fluire entro i limiti del proprio infinito da
approfondire.
I rapidi, quasi bruschi mutamenti di linguaggio non
possono non disorientare il pubblico, e, per condiscen¬
dente accidia del pubblico, abbiamo assistito, durante
circa un secolo fino alla guerra del ’14, al costituirsi,
in opposizione con la ricerca viva, d’un’arte ufficiale
che oscillava tra il Neoclassicismo e il Romanticismo
e s’adattava via via ad assimilare banalmente, accade-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 861

micamente, questo o quello dei modi audaci dell’arte


autentica. Se ci limitiamo alle arti figurative, da David
a Géricault, a Courbet, a Manet, a Renoir, a Cézanne,
a Seurat, queste battaglie furono necessarie, quante
spiegazioni perché si potesse arrivare, agli inizi del
’900, ad intenderne i diversi messaggi. E fu impresa
anche più aspra arrivare a capire i pittori venuti poi:
un Rouault, un Matisse, un Picasso, un Boccioni, un
Braque, un Carrà, un Klee, un Kubin, un De Chirico,
un Severini, un Kandinsky, uno Scipione, un Modiglia¬
ni, un Soutine, un Morandi, tanti altri.1 Sono perso¬
nalità straordinarie e solo oggi incomincia il pubblico
a considerarli come dei classici. S’è rinfacciato da ta¬
luno ai ricchi della società d’oggi d’acquistarne ad alti
prezzi le opere, e s’è vociferato che ciò avvenisse per
snobismo. C’è piuttosto da lamentare che tutti non sia¬
no in grado di acquistare quelle opere, e da augurarci
che i Pubblici Poteri mettano a disposizione delle Gal¬
lerie d’Arte Moderna le somme' necessarie per poterle
rendere senza difficoltà accessibili a chiunque piaccia
di vederle e di studiarle, quelle opere essendo giunte
all’odierno generale riconoscimento del loro valore per¬
ché oggi è a tutti palese la poesia tragica che le anima
e che ciascuna rivela secondo la personale singolarità
di ciascun artista.
Ma l’arte, senza deperire nel manierismo, non può
cristallizzarsi mai in questo o in quell’indirizzo espres¬
sivo. Quando un periodo del linguaggio sia oltrepas¬
sato dalla necessità espressiva, o il linguaggio diventa
un altro oppure appare logoro, ridicolo, inoperante a
dispetto d’ogni pompa di cui voglia il misoneismo cir¬
condarlo, artisti giovani vengono su, ogni giorno, arti¬
sti dotati, e tutto il possibile va fatto perché siano
agevolati i loro contatti col pubblico. Se le invenzioni
scientifiche accelerano i tempi, esse offrono anche mez¬
zi di comunicazione tra i popoli che aboliscono, istan¬
taneamente direi, le distanze di spazio. La radio, il ci-
862 Giuseppe Ungaretti

nema, la televisione ci permettono di vedere riprodu¬


zioni di architetture, di sculture o di pitture, o di
ascoltare musiche od opere letterarie d’ogni paese. Per
le opere letterarie, c’è un inconveniente, se si tratta di
traduzioni: nessuna traduzione è felice, oppure è
un’altra cosa, una nuova opera d’arte come nel caso
della poesia di Poe tradotta da Mallarmé. Non cre¬
do sia stato ancora possibile a nessuno di tradurre in
modo almeno conveniente i Canti di Giacomo Leopar¬
di, che è pure il poeta più profondo del secolo XIX.
Per le architetture, le sculture, le pitture, la macchina
da presa è meno traditora del traduttore, non è certo
fedele. La musica è più fortunata, e noi, per esempio,
in Italia, possiamo ascoltare alla Radio le musiche più
avanzate accolte nei programmi in ottime esecuzioni e
commentate puntualmente. Ma un competente dell’au¬
torità di Ernest Ansermet esprime sull’efficacia di si¬
mili esecuzioni, i suoi dubbi:
« Ciò che produce l’inautentico » dice « sono quelle
masse d’uditori che dell’oggetto musicale non colgono
se non la carcassa delle sue strutture e non ne ritengo¬
no se non impressioni o, come si dice, emozioni e effet¬
ti. C’è in ciò del resto quanto basta a mantenere desta
l’attenzione, come fa l’aneddoto in un romanzo; ma è
fare mentire la cultura. Conosco una città - una delle
capitali europee, e non la cito che ad esempio di ciò
che accade un po’ dovunque, - dove da circa cinque
lustri regna una vita musicale intensa e febbrile: tutti
gli artisti che contano nel mondo vi sono passati. Eb¬
bene, se si giudica dalle reazioni attuali del pubblico
davanti alle opere che gli vengono proposte, dai di¬
scorsi della stampa, dalla produzione musicale dell’am¬
biente e dalle idee che vi circolano, tanta attività non
ha prodotto nulla, non è stata se non chiasso che passa
senza lasciare traccia. »
È, questa dell’Ansermet, una grave obiezione-. Ne
conosco i motivi, e a qui elencarli sarebbe lungo, e si
Saggi e Scritti vari 1943-1970 863

potrebbero riassumere nel difetto d’una reciproca an¬


sia dell’artista e del pubblico da essere placata dall’o¬
pera d’arte. Comunque, è bene che concerti, mostre,
audizioni radiofoniche, documentari cinematografici
continuino a moltiplicarsi, e solo si esprime l’augurio
che sempre meglio si badi alla qualità delle opere pre¬
sentate al pubblico. È un errore credere che il pubbli¬
co disprezzi la buona •. qualità delle opere, è un offen¬
derlo. Può non essere preparato a capire, può essere
sviato da esse dalla polemica politica, può avvicinarsi
ad esse per mondanità od altra vanità, o per semplice
curiosità e non per desiderio di godimento poètico, ma
alla fine la qualità dell’arte affina gli uomini ed eleva
il livello di cultura del pubblico. Non posso condivi¬
dere il malumore di Ansermet.
È però fatto indiscutibile che il rapporto dell’arte
col pubblico dovrebbe trovare l’iniziale soluzione sino
dall’insegnamento nelle scuole. Oggi, nelle scuole le
cognizioni che si devono impartire agli alunni sono,
sino alle porte dell’Università, innumerevoli, e il loro
numero cresce ogni giorno. Come si potrà fare «perché
la formazione del gusto giunga nell’animo dei giovani
ad accendere un tale fervore da costringerli ad appas¬
sionarsi delle cose dell’arte con curiosità accorta? Come
si potrà fare perché essi si volgano, avvezzi altresì al
rispetto della libertà, a cercare con ansia la poesia sen¬
za lasciarsi frastornare dal pregiudizio del soggetto, e
a discernerla nell’opera d’arte? Il soggetto non riguarda
il valore poetico d’un’opera. Il valore poetico, conviene
ripeterlo, è nella forza di sentimento e di fantasia tran¬
sfusa nelle forme d’un’opera. È un problèma serio. È
da augurarsi, per quanto in particolare si collega all’i¬
struzione letteraria, che, specie nei paesi di vecchia tra¬
dizione, venga in tutte le Facoltà di lettere fondata
una speciale cattedra dalla quale si sottopongano a esa¬
me le opere degli ultimi duecent’anni, comprese le più
recenti. È da augurarsi che simili cattedre siano affi-
864 Giuseppe Ungaretti

date a scrittori, come si affidano a pittori, scultori,


architetti quelle dell’Accademia di Belle Arti, o a mu¬
sicisti quelle dei Conservatori.
Nulla, tuttavia, potrebbe sostituire, per illuminare il
pubblico, la critica nei periodici quotidiani e settima¬
nali. Una volta in Italia, essa era fatta con molto me¬
todo, regolarità e abbondanza di spazio, e invece, oggi,
prevale la tendenza, in Italia e altrove, a dare maggio¬
re importanza ai fatti di cronaca o allo sport. Ci do¬
vrebbe essere posto per tutto, e non si dovrebbe calun¬
niare troppo il pubblico, che non ha la ripugnanza
che si dice verso le attività che esigono maggiore sfor¬
zo di riflessione.
I tremendi avvenimenti degli ultimi anni, l’invaden¬
za del contrasto politico in ogni campo in seguito alle
conseguenze tristi della guerra e, più di tutto, il depau¬
peramento, hanno, se non fatto 'scomparire del tutto,
in alcuni paesi europei ridotto di molto il prestigio di
quello strumento, la rivista specializzata, che considero
precipuamente efficace per avviare a farsi fecondo il
contatto tra il pubblico e l’arte: arte sorpresa nel suo
divenire. Occorre, perché si possa disporre di tali ri¬
viste come furono il « Mercure de France », la « Nou-
velle Revue Frammise », « Mesures », o la « Voce », la
« Ronda », « Soiaria », o « Criterion », «Horizon», affi¬
nità di preferenze e di propositi estetici nelle persone
chiamate a collaborarvi. Si tratta del periodico di let¬
tere o d’arte a linee programmatiche così rigorosamen¬
te e così chiaramente definite da impedire sempre alle
discussioni lo straripamento nella demagogia. Sono ini¬
ziative il cui successo, come dicevo, è, in alcuni paesi,
intralciato dal depauperamento consecutivo alla guer¬
ra e delle quali, per incoraggiarle, varrebbe la pena di
occuparci.
Tutto ciò si può fare, e un artista può non dimenti¬
care che meglio Rembrandt ha a cuore gl’interessi del
pubblico quando - isolandosi nel suo lavoro, trascu-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 865

rando la sua fama, disdegnando le ordinazioni, lascian¬


do impassibile sequestrare dai creditori e disperdere
a basso prezzo, le sue preziose collezioni - egli, prose¬
guendo senza tregua la lotta coll’angiolo, porta, in mez¬
zo agli stenti, alla rovina, a compimento, nel 1663,
l’Omero, nel 1665, il Saul, nel 1668, la Fidanzata
ebrea. Contento poteva, l’8 ottobre del 1669, farsi
chiudere gli occhi dalla morte. Scostandosi dal pubbli¬
co, o dal pubblico repudiato, in quegli anni Rembrandt
arricchiva il patrimonio umano di tre inuguagliabili
meraviglie.
Alle Rencontres internationales di Ginevra del 1948
- durante le quali fu da Ansermet esposto quel punto
di vista sulle esecuzioni musicali contemporanee che
ho riferito - Jean Cassou ebbe, in un persuasivo inter¬
vento a osservare:
« Renoir confidava a Vollard: “Siamo oggi tutti,
s’intende, gente di genio; ma ciò che è sicuro, è che
non sappiamo più disegnare una mano, è che ignoria¬
mo tutto del nostro mestiere”. - E, trepido, Cézanne
confessava a Emile Bernard: “Ciò che mi manca è
l’attuazione. Ci arriverò, ma sono vecchio e può darsi
ch’io muoia prima d’arrivare a quel punto supremo:
attuare! come i Veneziani”. »
Non volevano né Cézanne, né Renoir, lamentarsi
d’altro se non che ci si potesse dimenticare della pro¬
fondità che deriva all’arte dal rimanere vincolata a una
tradizione. Il loro mestiere era prodigioso nonostante
l’umiltà delle loro ammissioni, rivelatrici solo dell’al-
tezza della loro ambizione.
Converrà anche su quest’ordine di problemi soffer¬
marsi: soffermarsi cioè sul modo di conciliare la mo¬
derazione incussa dagli antichi modelli con gli slanci
espressivi che l’artista d’oggi non può soffocare in sé
senza tradire il proprio carattere d’uomo dei suoi tem¬
pi, allo stesso modo che non l’avrebbero potuto i Ve¬
neziani invidiati da Cézanne, o il Quattrocento e i Pom-
866 Giuseppe Ungaretti

peiani, che accumulavano esitazioni nella mente di Re-


noir.
Ho indicato alcuni ordini di problemi.
Ho tentato di fare apparire quanto scrupolo, se non
quanta perplessità, abbia l’artista o§gi più che mai da
provare nell’attuare la sua opera.
Ciò non toglie immensità all’opera compiuta dagli
artisti dall’ultima metà del secolo XVIII alla prima
metà del XX secolo, testé giunta a termine. Essi hanno
sentito l’invecchiamento della lingua usata, il peso di
tremila anni che portavano nel sangue. Essi hanno re¬
stituito alla memoria l’importanza tormentosa che es¬
sa possiede, e, nello stesso tempo, hanno acquisito il
potere, a prezzo di sforzi laceranti, di liberarsi della
memoria e di permettere così all’uomo di abbagliarsi
ancora di libertà. Gli artisti del secolo XIX e della pri¬
ma metà del XX secolo sono rimasti fedeli alla memo¬
ria che la sofferenza, la gioia e la fragilità carnali man¬
terranno sempre viva nell’ispirazione unica di ciascuna
persona. Essi hanno insegnato che libertà è poesia: un
valore segreto che non si può definire senza recargli
offesa, ma che ciascuno misura dai battiti del proprio
cuore anelante infinito.
Ci siamo adunati qui perché la loro lezione dia i
frutti promessi.
[INTERVENTION A LA Ie RENCONTRE
EST-OUEST]
[1956]

Je voudrais toucher d’abord à une question qui ne


m’est personnelle que parce que M. Silone a fait l’autre
jour une allusion bienveillante à mon égard.
Sans doute, comme notre ami Bernal le disait remar-
quablement, dans les recherches des Sciences, comme
dans les recherches de l’art, le langage peut en arriver
à n’avoir de sens que pour un nombre limité de per-
sonnes. Nous ne manquons pas, aujourd’hui, d’instru-
ments de diffusion de la culture, qui pourraient per-
mettre aux résultats des recherches de paraitre, sinon
tout à fait intelligibles, du moins justifìés par les né-
cessités expressives d’un moment ou d’un autre.
Les termes de « populaire » et de « national » sont
des termes qui nous viennent du romantisme. Ils ont
un sens permanent, sans doute; mais, à cette époque,
ils indiquaient que certaines formes d’expression avai-
ent été vidées par le long usage que l’on en avait fait,
et qu’il en fallait trouver d’autres, plus vivantes. Leo¬
pardi, par exemple, a le sentiment de la décadence de
certaines formes du langage, mais il n’est pas un déca-
dent. Dans les arts figuratifs, Cézanne est un révolu-
tionnaire et non un décadent. Je considère, de méme,
que dans la musique l’apport de Schoenberg est un
apport révolutionnaire, c’est-à-dire un apport qui rompt
avec la routine et qui ouvre de larges voies nouvelles
à l’expression musicale. Tout cela ne s’exécute pas arbi-
trairement, mais dans une direction où les efforts ten-
dent à se trouver parfaitement coordonnés. Proust,
Kafka ou Joyce me paraissent de valeur capitale, par
l’approfandissement qu’ils apportaient à l’expression
868 Giuseppe Ungaretti

littéraire, pour la piacer sur le mème pian que celui


qu’avait atteint la connaissance humaine au moment
ou ils ^laboraient leurs ceuvres. En ce sens, on doit
les considérer comme aussi importants et aussi révolu-
tionnaires qu’un Shakespeare, qu’uq Goethe ou qu’un
Dostoiewski.
Je voudrais ajouter quelques autres observations. La
demande de livres pour enfants, que l’on a faite en
Chine, et dont a parie Sartre (et que je ne désapprouve
pas, bien entendu), ne diffère pas de la demande de
livres de lecture pour les enfants des écoles primàires,
que l’on a faite chez nous. Généralement, ce ne sont
que de pauvres livres qu’on obtient; mais ce sont des
livres qui se proposent des fins didactiques et non des
fins poétiques.
Je voudrais aussi dire un mot au sujet de Virgile.
L’Enéide se proposait de glorifier la prédestination de
Rome à la domination du monde; ce n’est pas ce qui
nous attaché encore à ce poème, mais ce que l’on y
découvre d’universellement humain: l’amour, la mort,
la vérité immuablement puissante des attraits chan-
geants des spectacles de la nature; le vieillissement de
tout, des ètres humains comme des civilisations, le
sort tragique de l’homme et la beauté incomparable
de l’aventure humaine.
L’histoire change tous les jours, et il se pourrait que
dans un avenir plus ou moins lointain, dans les pays
fortement industrialisés, la machine expulse presque
totalement l’homme de l’usine et des champs. Je ne
sais ce que sera alors, pour ces pays, le problème du
travail; il se pourrait que le souci social prédominant
soit celui d’organiser les loisirs de l’homme, ou d’atta-
cher l’homme à un travail supérieur, où la poesie n’hé-
sitera plus à penser seulement à elle-mème.
De toute ma passion, je suis du coté de tous ceux
qui se révoltent ou travaillent pour surmonter les
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 869

temps du privilège de l’argent. Mais je sais aussi que


rien, en réalité, ne peut subjuguer l’esprit.
Notre réunion est certainement un des événements
les plus importants depuis 19*14. Elle indique que les
hommes sont enfin entrés dans la bonne voie, pieine
de promesses merveilleuses, de l’entente des peuples.
L’AMBIZIONE DELL’AVANGUARDIA
[1953/1963]

Il progresso irrefrenabile della scienza e, in particolare


di uno dei suoi mezzi maggiori: la macchina - tocca
esso l’arte del poeta? Chiamo poeta qualsiasi artista -
scriva versi o prosa, costruisca palazzi, scolpisca, di¬
pinga o componga musica - che raggiunga l’altezza di
forma capace nei suoi effetti a muovere negli animi
poesia.
È implicita nel progresso della scienza, un’ispirazio¬
ne poetica? Ho detto una volta, e già sono passati mol¬
ti anni, che ritenevo la civiltà meccanica come la mag¬
giore impresa della memoria, e come essa fosse insieme
impresa in antinomia con la memoria.1
La macchina richiamava la mia attenzione perché
racchiude in sé ritmo: cioè lo sviluppo d’una misura
che l’uomo ha tratto dal mistero della natura, che l’uo¬
mo ha tratto da quel punto del mistero dove è venuta
a mancargli l’innocenza. La macchina, dicevo, è una
materia formata, severamente logica nell’ubbidienza di
ogni minima fibra a un ordine complessivo: la macchi¬
na è il risultato di una catena millenaria - sintetica¬
mente rammentata anello per anello - di sforzi coordi¬
nati. Non è materia caotica. Cela, la sua bellezza sen¬
sibile, un passo dell’intelletto. Nella macchina, dicevo
dunque, s’attuano prodigi di metrica.
Si sa, per esempio, come le calcolatrici elettroniche
riescono a risolvere come niente equazioni che richie¬
derebbero, se quei conteggi avesse da farli direttamen¬
te il matematico, anni e anni di lavoro, e forse gli anni
non basterebbero; ma il prodigio non è qui: il prodi¬
gio metrico non è tanto nei prodotti di calcolo di quella
Saggi e Scritti vari 1943-1970 871

macchina quanto nella macchina stessa: nei suoi con¬


gegni, nelle funzioni che, dai rapporti che tra di essi
s’istituiscono, derivano, possono senza fine derivare. In
quel prodigio di metrica noi possiamo ammirare il con¬
seguimento di una forma articolata che, per raggiun¬
gere la sua perfetta precisione di forma dovette richie¬
dere ai suoi ideatori e ai suoi costruttori un’emozione
non dissimile da quella, anzi identica a quella, cui il
piacere estetico dà vita.
Ma l’uomo, sia egli pure rigorosissimo scienziato,
rimane prevalentemente un essere di natura, e l’abbia¬
mo difatti sorpreso mentre si commuoveva nel fabbri¬
care la calcolatrice elettronica: l’abbiamo sorpreso in
un moto del sentimento e della fantasia. Ora le mac¬
chine commuovono per l’effetto del prodigio che sono
costate ad essere foggiate; commuovono inoltre pei ri¬
sultati delle loro operazioni; ma in esse c’è un terzo
motivo di commozione. C’è in esse, voglio dire, un rap¬
porto che dalla metrica è rotto, c’è uno squilibrio, c’è
così un effetto di bellezza che diventa per provocazio¬
ne della macchina mostruoso: c’è in esse un conflitto
tra metrica e natura; ed essere umani è invece il di¬
sperante tentativo di mettere in armonia natura e me¬
trica. Può dunque la metrica soverchiare la natura? 2
Come s’impedirà alla metrica, o potrà mai più im¬
pedirsi, di soverchiare la natura? Non è domanda nuo¬
va: se l’era posta il Romanticismo, se l’era posta il
Leopardi con la lucidità che si sa, e la macchina allo¬
ra, era più che altro « vaticinata ». L’uomo, sotto un
aspetto morale, s’intende, di fronte alla macchina è
ormai specialmente in una situazione di stranezza: a
quel modo che non potrebbe chiamarsi strana la situa¬
zione del torero davanti al toro, del vagabondo sotto
un albero che la folgore fulmina, del lebbroso in pre¬
da alla lebbra, eccetera, che sono casi non comuni, ma
sempre di natura alle prese con la natura.
Vi è una forza, che è della macchina, che si molti-
872 Giuseppe Ungaretti

plica dalla macchina generatrice inesaurabile di mac¬


chine sempre più poderose, che ci rende sempre più
inermi (lavanti alla sua cecità, alla sua metrica che si
fa cieca per l’uomo, che perde ogni memoria per l’uo¬
mo come le spettasse di farne uno,smemorato.
Di continuo viviamo l’acceleramento portato alla sto¬
ria dalla macchina, la precarietà che ne viene agli isti¬
tuti sociali, e al linguaggio che non sa più come fare
per avere qualche durata da potersi volgere indietro
e in qualche modo verificarsi lungo una qualche pro¬
spettiva. Quale sforzo dovrà sempre più fare l’uomo
per non essere senza amore, senza dolore, senza tolle¬
ranza, senza pietà, senza ironia, senza felicità, senza
fantasia; ma crudele, con il passato crollato, fredda¬
mente crudele come la macchina? Quale sforzo dovrà
sempre più fare per ridare valore sacro alla vita e alla
morte?
Il volo agli altri pianeti, l’apparizione delle cose as¬
senti, come se nulla più avesse storia, la parola udita
nel medesimo suono casuale di chi l’ha profferita, sen¬
za ostacoli di distanza temporale o spaziale,, gli abissi
marini percorsi, il sassolino che racchiude tanta forza
da mandare in fumo in un baleno un continente, tutte
le favolose meraviglie delle Mille e una notte,- e molte
altre, si sono avverate, la macchina le avvera. Hanno
cessato d’essere slanci nell’impossibile della fantasia
e del sentimento, sogni, simboli della sconfinata liber¬
tà della poesia. Sono divenuti effetti di strumenti fog¬
giati dall’uomo. Come potrà l’uomo di fronte a tali
miracoli, sentirsi, ancora grande fidandosi solo del so¬
stegno spirituale della sua debole carne? Traendo forza
dalla sua vera forza?
La macchina, s’è visto, possiede in sé stimoli di stra¬
biliante innovamento estetico, ma non bastevoli alla
poesia, ma quasi contrari o per lo meno riducibili con
difficoltà al grido umano dell’uomo. Come farà la poe¬
sia a legare l’aspirazione umana di libertà, di giustizia
Saggi e Scritti vari 1943-1970 873

e di assoluto alla novità continua che sparge intorno


a noi la scienza? ai rivolgimenti incessanti, da capo a
fondo, provocati dalla scienza? Come farà l’uomo a non
essere disumanizzato dalla macchina, a dominarla, a
renderla arma di progresso morale?
Occorrono sforzi folli, e l’Arte - quella malamente
detta d’Avanguardia - per quanto la riguarda - è il
suo, il compito più delicato - l’Arte tout court, dal
Romanticismo sino ad oggi, non s’è mai tratta indie¬
tro, già ottenendo, o promettendo per il futuro - e
non avrei bisogno di fare liste di nomi - risultati im¬
ponenti: limitandomi alla pittura, da Géricault a Cour-
bet, a Cézanne, a Seurat, da Picasso a Boccioni, al pri¬
mo De Chirico, a Klee, da Fautrier a Burri, eccetera,
sono stati difatti offerti risultati imponenti.3
LA CULTURA NEL TEMPO
[1963/1966]

Tutti sanno come la cultura è nata: dalla necessità per


l’uomo di foggiarsi i mezzi per affrontare e conoscere
la natura, per piegarla, in quanto gli era possibile, ai
suoi fini, e, persino, nei suoi sogni più temerari e nelle
sue ambizioni più audaci, per dominarla. Ma nello stes¬
so istante nasceva nella coscienza dell’uomo la volontà
di legge morale e il tormento per mettere in relazione
le cognizioni che via via andava acquistando con il mi¬
stero della sua presenza nel mondo, con il motivo del
suo sentirsi legato ad altri esseri umani, con la ragione
del susseguirsi delle generazioni: nascite e morti, pas¬
sato e futuro; con la causa dei fenomeni. Così nel cor¬
so dei secoli, s’è sempre formata la cultura umana, così
l’uomo, sino da quando era ancora primitivo ha sen¬
tito di essere stato chiamato da un decreto imperscru¬
tabile a contribuire al divenire della storia facendo
progredire i suoi mezzi materiali ai quali, lo osservasse
o lo trascurasse, era dovere suo collegare il culto del
sacro, cioè della poesia e di conseguenza dell’arte. Per
le origini dell’umana cultura, siccome ho vissuto sui
limiti del deserto a lungo, mi è agevole farmene un’i¬
dea immaginando la trasmigrazione in antico di fami¬
glie primitive attraverso immense solitudini terrestri.
Il patriarca che le guidava a superare la distanza del
deserto, interrogava le stelle, scopriva i punti cardinali
e i numeri. Le stelle furono da allora Angeli, inaccessi¬
bili misure, per avere offerto agli uomini accessibili
misure, mezzi, e anche dunque le stelle che condussero
i Magi alla grotta di Betlemme non potevano essere
che Angeli. [E stella non era anche l’Angelo che sbar-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 875

rò, impugnando la spada di sole, la porta dell’Eden?


A Betlemme gli Angeli erano venuti a mostrare chi
quella stessa porta avrebbe dischiuso.]
Era un’impostazione religiosa della cultura, e non
può dirsi ch’essa non permanga in segreto nell’uomo
quando egli,non osi confessarla.
[Per rimanere nell’antico, e parlare ancora di luo¬
ghi miei, fermiamoci un momento sulla cultura stimo¬
lata dai Faraoni. Essa era tutta fondata sull’idea della
vita, la sola vera, l’eterna, quella chiusa nella tomba.
L’Egitto è un’oasi, un paese che dà due o tre raccolti
all’anno, è il rigogliosissimo miracolo del Nilo. Tanta
vita si manifesta in mezzo al deserto sconfinato, in mez¬
zo alla morte. Paese agricolo, e i suoi simboli religiosi
gli vengono dalla consuetudine con la vita dei campi,
e la sua arte, tra le più insigni e stupende del mondo,
scolpirà quei simulacri della potenza che al Faraone
derivava dalla fatica della terra, degli animali e degli
uomini. Sona monumenti per tombe, fatti con l’illusio¬
ne che dovessero durare in eterno e, perpetuando il
nome del Faraone, dargli senza fine vita.]
Nel Medio Evo la cultura è legata ai Monasteri, alle
Crociate, alle Corporazioni, a un Imperatore illumina¬
to come Federico II di Svevia, e si sa ciò che può na¬
scerne: la poesia che arriva a Dante per permettergli
di giudicare l’uomo alle prese con la storia che dalla
grazia e dalla terribilità dell’amore potesse totalmente
essere aggredita come se già fosse alla fine dei tempi.
La pittura che in quell’epoca stessa sfocierà in Giotto,
l’avevano preparata quei benedettini delle' Fiandre e
di Olanda che alluminavano pergamene per lodare Id¬
dio della loro iniziativa, ricordata da Dante, di arre¬
trare con le dighe il mare e accrescersi la terra.
Nel Rinascimento spetta alla Chiesa e ai Principi la
missione di farsi sostenitori della cultura. La nozione
d’universo che poteva possedere l’uomo si era capovol¬
ta, e non erano più gli astri a girare intorno alla terra,
876 Giuseppe Ungaretti

ma essa si muoveva intorno al sole. I mezzi dell’uomo


si erano* tanto dilatati ch’egli poteva scoprire l’America
e compiere doppiando il Capo di Buona Speranza il
periplo dell’Africa e raggiungere le Indie. Tutto il mon¬
do antico gli era ormai noto nello spazio, e il sapere
greco-romano anteriore al Cristianesimo, egli aveva po¬
tuto disseppellirlo dai codici e dalle pietre tanto da
mettere nel proprio tempo un dissidio di cultura da
accomodare, molto profondo. Dal Nuovo mondo gli
giungeva l’esotismo, con la violenza che si spezza per
ricomporsi diversamente tutte le volte, e non era ele¬
mento che la cultura nostra si potesse aggregare con
tranquillità. Sarà aggregato dal Barocco che sta matu¬
rando, che Michelangelo drammaticamente prevede, di¬
battuto tra l’eudemonismo pagano e il sentimento cri¬
stiano di sacrifizio e di redenzione, nel Giudizio, e nelle
Vieta, specialmente nelle più belle, in quella che una
volta si ammirava a Palestrina, e in quella suprema¬
mente espressiva già appartenuta ai Rondanini. [Non
ignorava la crudeltà di nessuna scissura, quella voluttà
di vivere che vedeva bene come le era contrapposto
il dolore di chi la lacerava sapendo d’essere destinato
a morte, dolore inconsolabile pure sapendo che la mor¬
te non è che l’espiazione per accedere aH’eterno, dal
Giudice terribile imposta anche a se stesso.
E* ora facciamo un gran salto, penetriamo nei nostri
tempi.]
È il tempo della civiltà delle macchine. In nessun
tempo della storia .come nel recente quarto di secolo,
i mezzi dell’uomo si sono moltiplicati, e non solo mol¬
tiplicati in modo senza confronto, impreveduto e pro¬
digioso. È l’industria con le sue macchine, con l’orga¬
nizzazione dell’opera delle macchine che offre ormai al¬
l’uomo tutti i mezzi del suo progredire, progredire
ormai favoloso. Spetta ormai all’industria il compito
di stimolare, o almeno di accompagnare l’attività uma¬
na in tutti i campi della cultura. Dalla cultura d’infor-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 877

mazione a quella rigorosamente scientifica di ricerca e


di scoperta, l’uomo dipende da strumenti che, ricorren¬
do all’industria, di continuo perfeziona, rinnova, va fa¬
cendo più potenti e moltiplica. [Non è risparmiato
nemmeno lo scrittore che può oggi usare il magneto¬
fono e la macchina da scrivere e quei microfilm che
gli consentono, senza spostarsi dalla sua camera, la let¬
tura di documenti d’archivio e di biblioteche, anche
se conservati all’altro polo. I medicinali e gli apparec¬
chi occorrenti al clinico o al chirurgo, li studia, li pre¬
para e li mette in circolazione l’industria. L’architet¬
tura si modifica utilizzando i materiali che via via l’in¬
dustria gli propone. L’agricoltura si meccanizza, e l’in¬
dustria non dimentica nemmeno il mangime del bestia¬
me, e non dico che le carni ne traggano con l’esube¬
ranza delizie per il palato.
E poi ci sono le novità più sbalorditive: la possibi¬
lità di vedere stando a casa ciò che succede anche nei
punti più distanti da noi, o la possibilità di trasferirci
da un capo all’altro della terra mettendoci meno tempo
di quello occorso a Dante per andare da Venezia a
Pomposa. E c’è l’energia atomica, e c’è il congegna-
mento di ordigni per i voli interplanetari, eccetera,
eccetera, eccetera.]
Ma il culto del sacro, la poesia cioè e l’arte, come
stanno in mezzo a tante novità?
Non direi stiano male, e direi che fatalmente, per
tante vie dirette e indirette, la poesia è spronata dal
progresso industriale come non lo fu mai da nessun
altro mezzo: non è forse conseguenza dell’industria il
nuovo aspetto che sta assumendo il mondo?
La cultura, nei nostri contemporanei, può essere in
ciascuno percepita e sentita in grado diverso, più o
meno complessa, o sottile, o inoltrata in se stessa a
svelare il proprio segreto; ma non mai essa, - come
oggi che tenta di unificarsi estendendosi a tutti i popo¬
li, messi in grado di comunicare rapidamente tra di
878 Giuseppe Ungaretti

loro - essa è palese, universalmente palese a chiunque,


nelle cose che circondano tutti.
Eppure nel manifestarsi, essa non manca di produrre
in noi uno stato di disagio, anzi 'di sgomento, ch’essa
sola del resto ha facoltà di sciogliere, e che nella sua
dialettica è chiamata a sciogliere.
Una prospettiva da Dante a Petrarca al Boccaccio,
da Giotto al Rinascimento era stata trasmessa sino al
Romanticismo. Dall’Impressionismo e dal Simbolismo
in poi, sono successi altri fatti, e nel nostro secolo
- si guardi la pittura, la poesia, il romanzo, e tutta
l’arte - negli ultimi cinquant’anni la prospettiva è del
tutto scomparsa. La prospettiva era una sorta di meta¬
fora per trovare nell’illusione d’uno spazio un tempo
personale il cui ritmo potesse adeguarsi al tempo sto¬
rico, e al tempo senza tempo, al tempo, voglio dire,
universale del Creatore.
D’altro lato, il secolo decimonono perfezionando la
ricerca scientifica dei tre secoli che l’avevano preceduto
aveva affermato un’idea dell’universo che gli pareva
non dovesse mai più tramontare? È invece contestata,
la contestano il microfisico e il macrocosmologo, co¬
me la contestano il pittore e il poeta. In realtà, anche
in un’esperienza non scientifica né poetica, ma sempli¬
cemente comune, il tempo e lo spazio sono diventati
fisime, tale è l’acceleramento dei mutamenti ai quali
ciascuno di noi deve assistere o partecipare.
Non so in che modo, ma l’uomo deve tornare ad
essere più forte dei mezzi che si è foggiato, che di con¬
tinuo fa più potenti. Non so in che modo; ma i piani
dello spazio non dovrebbero più accavallargli nella
mente sempre sullo stesso livello come se egli segnasse
il passo quando corre invece troppo presto. Non so in
che modo, ma egli dovrebbe di nuovo avere il tempo
di misurarsi meno precariamente in relazione con il
passato e con il futuro. Non so in che modo, ma la
storia dovrebbe tornare ad essergli consueta nei suoi
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 879

fini, tornata nel suo cerchio a riflettergli i segni im¬


perscrutabili dell’eterno.
Ogni tempo ha la sua crisi di cultura. La nostra è
mossa dai progressi della macchina. La soluzione della
nostra crisi è la più ambiziosa che sia stato dato all’uo¬
mo di prefiggersi nelle sue mire. In nessun tempo la
cultura, tutta, e specialmente quella puramente spiri¬
tuale, quella poetica, ha avuto un lievito capace di far¬
la soffrire di più in sé. Salire costa.
[EN FACE D’UNE CRISE DE LANGAGE...]
[1966]

J’exerce, bien ou mal, mon métier de poète depuis


plus de cinquante ans, et je voudrais demander la per-
mission de ne parler que de ma longue expérience, de
ce qu’elle m’a appris et qui est surement la vérité, une
vérité très cruelle, très décevante, pour les jeunes qui
ont aujourd’hui la mème vocation qui m’a entrarne
dans la voie que j’ai suivie, que j’ai encore la témérité
de vouloir suivre.
Je veux, avant d’aborder les questions de principe
qui m’ont amené à prendre la parole ici, rendre hom-
mage à Monsieur Lourival Machado. Encore étudiant,
il venait assister aux cours que je donnais alors à la
Faculté de Lettres de Sào Paulo, et je sais que l’his-
toire et la critique et la signifìcation essentielle des
ceuvres d’art l’attiraient jusqu’au point particulièrement
savant qu’il a su plus tard atteindre dans ses travaux
sur l’Alejadinho et dans maintes autres études. C’est,
à la place qu’il occupe à l’UNESCO, la personne qui
est par sa compétence à la juste place. Loin de moi
donc l’intention de lui adresser, dans ce que je vais
dire, le moindre blàme.
L’autre jour à Rome, Monsieur Malraux, prenant la
parole à l’occasion d’un déjeuner en son honneur, nous
disait que Florence au XVe et au XVIe siècles, avait
inventé par son art l’idée d’immortalité. Florence, elle-
mème nous aurait-elle montré, par le désastre qui vient
de s’abattre sur elle,1 que l’idée très humaine d’immor¬
talité, que ses citoyens de l’époque glorieuse avaient
attribuée à leurs* ceuvres, n’aurait été, elle aussi, tòt
ou tard, qu’une illusion? Ce n’est point une illusion,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 881

c’est un désir qui depuis toujours caractérise Tètre hu-


main, malgré qu’on soit généralement aujourd’hui très
loin d’admettre que l’art puisse séduire par sa puis-
sance de résister au temps ne fut-ce que pour une
durée à peine longue. Quand l’art parvient à manifes-
ter la profondeur de Thomme, ou parvient à posséder
l’illusion de la manifester, il est entré dans le domaine
de la poesie où la durée efface ses limites.
On substitue aujourd’hui, et on le fait en s’appuy-
ant sur de lourds volumes théoriques, à l’idée d’im-
mortalité, ou mieux, à Tidée d’infini, celle du provi-
soire, à Tidée d’un art ayant l’ambition de défier le
temps, Tidée d’un art de consommation, aboli, dépassé
et oublié d’une minute à l’autre.
Je me révolte.
Je le sais bien, la machine existe, mais la machine
n’est que l’ceuvre de Thomme. Voudrions-nous sou-
mettre à la machine, Thomme, et quand on parie de
Texpression suprème de Thomme, de l’art, affirmer que
Thomme n’est qu’un pauvre objet manifesté par les
machines, qu’un esclave des machines qui sortent pour-
tant de son intelligence et de ses audaces? C’est une
absurdité qui court en ce moment les rues, et Thomme
n’aurait plus à tirer son inspiration de lui-mème, et
de son histoire, et de sa destinée, et de son rapport
avec Tabsolu, mais d’un pauvre outil momentané, qu’il
a forgé de ses mains et dont il accepte, par absurde
stupidité, d’ètre le jouet et Tidolàtre. Est-il vraiment
réduit notre art, à n’ètre plus que le dessin industriel?
Je n’entends pas en disant ceci nier les mérites et l’irn-
portance sociale que peut assumer le dessin industriel,
mais affirmer qu’il ne peut assumer son róle qu’en uh
sens seulement relatif.
L’art n’est-il vraiment de nos jours, à la suite d’une
cécité incurable qu’aurait atteint Thumanité, qu’un dé-
rivé absurde de l’art appliqué?
La machine n’est rien, n’est qu’un moyen, il faut
882 Giuseppe Ungaretti

revenir à l’idée, il est urgent de revenir à l’idée que


l’homme est tout. Notre devoir est de défendre l’auto-
nomie de sa personne, et de son inspiration qui ne
peut avoir de soutien qu’en elle-mpme, en sa propre
valeur humaine.
Je ne me pose pas de bandeau sur les yeux. Je con-
nais les difficultés qui existent. Je sais que ce temps
qui possède les moyens de communication les plus ra-
pides et qui en envisage un progrès illimité, se trouve
à la merci de difficultés de langage infiniment supé-
rieures à celles qu’on avait pu connaì-tre et à celles
qu’on aurait pu prévoir dans le passe.
Sans doute l’unité de culture qu’on devra en tout
cas s’efforcer d’atteindre, pourra-t-elle apporter quel-
que remède. Mais pourra-t-elle ètre jamais réalisée? Les
nécessités du progrès ne poussent-elles pas aux spécia-
lisations qui se multiplient de plus en plus dans tous
les domaines du savoir, et qui multiplient de plus en
plus les langages? D’autre part, les peuples ne pren-
nent-ils pas de plus en plus conscience chacun de ses
traditions particulières auxquelles il se propose juste-
ment de puiser pour se distinguer des autres? Enfin,
Partiste qui se trouve entouré d’une réalité en con¬
stante course effrénée de transformation, comment
pourra-t-il faire adhérer l’univers objectif à son ètre
personnel sans se voir obligé à composer des oeuvres
qui au point de vue d’une ìangue de poésie ne pour-
raient dépasser l’état expérimental?
L’artiste de nos jours se trouve en effet en face d’une
crise de langage extrèmement grave. Mais, sans aucun
doute, nous ne nous acheminerions pas à la découverte
de la Ìangue qui pourrait exprimer la poésie de notre
temps en oubliant que l’art ne peut ètre qu’essai de
connaissance de la profondeur Humaine.
Un dernier point. La science et l’art suivent des rou-
tes opposées.'Vouloir les mélanger ne peut donner vie
Saggi e Scritti vari 1943-1970 883

qu’à des monstres, extrémement nuisibles aussi bien


à l’art qu’à la Science.
Je veux bien qu’on s’occupe d’art appliqué, mais
qu’on le dise, qu’on ne dérange pas l’art en soi qui
a d’autres mobiles et d’autres fins, à un niveau où rien
ne peut ètre temporaire ni provisoire bien que l’art
ne puisse jamais oublier qu’il interprète un moment
donné de l’histoire et qu’il ne lui est pas accordé de
ne pas s’habiller de la couleur passagère du temps.
NOTE

-
NOTA ALL’EDIZIONE

La presente raccolta di saggi e scritti vari di Ungaretti segue nei


suoi criteri editoriali le indicazioni date dal poeta nel 1967,
durante la preparazione dell’unico volume di critica da lui pub¬
blicato, quello tradotto in francese da Philippe Jaccottet e ap¬
parso presso Gallimard nel 1969 col titolo Innocetice et mémoìre.
Ungaretti continuò a lavorare, insieme ad Ariodante Marianni,
ad un volume italiano che avrebbe dovuto corrispondere grosso
modo ad Innocence et mémoire, praticamente fino ai giorni che
hanno preceduto la sua scomparsa, nel 1970. Dal volume proget¬
tato da Ungaretti, il presente differisce soprattutto per la quan¬
tità degli scritti raccolti e per la presenza di un apparato che
se non pretende di essere propriamente critico, dà però la storia
dei singoli testi e le varianti fondamentali.
Tutti i testi presenti in Innocence et mémoire figurano nel
nostro volume, tranne Dante et Virgile e Leopardi et Pétrarque,
che essendo tratti dalle lezioni universitarie brasiliane, e dalle
lezioni su Leopardi, figureranno in un prossimo volume edito da
Mondadori che comprenderà i testi delle 17 lezioni scritte da
Ungaretti in Brasile nel 1937 e ’38 e delle 16 lezioni su Leo¬
pardi scritte a Roma tra il 1943 e il 1947 che nel manoscritto
presentano un carattere di assoluta compiutezza. Nel volume del¬
le lezioni universitarie, appariranno anche i testi di quattro con¬
ferenze tenute da Ungaretti in Brasile tra il 1937 e il 1941, su
Petrarca, Vico, il Romanticismo italiano e D’Annunzio.
Dai due volumi di prose pubblicati in italiano da Ungaretti,
Il povero nella città (1949) e II deserto e dopo (1961), è stato
qui accolto solo il saggio su Cervantes che figura all’inizio di
Il povero nella città, essendo tutti gli altri testi contenuti nei
due volumi prose di viaggio e non scritti critici. Il Pàu Brasil
del Deserto e dopo, appartiene piuttosto al futuro volume di
tutte le traduzioni di Ungaretti, e infatti non figura nemmeno
nella traduzione francese del Deserto, À partir du desert, cu¬
rata sempre da Jaccottet (Aux Editions du Seuil, 1965).
Dei sessanta scritti circa fra il 1918 e il 1936 da nói qui rac¬
colti, e che rappresentano all’incirca la metà di tutti gli articoli
di critica pubblicati da Ungaretti nel periodo, solo uno, quello
che ha dato il titolo al volume, venne accolto in Innocence et
888 Note

mémoire. Questa sezione rappresenta dunque la novità maggiore


rispetto al menzionato progetto iniziale di Ungaretti. Ragioni di
spazio hanno impedito di includere, non solo le lezioni univer¬
sitarie, ma anche le presentazioni e gli scritti su pittori e scul¬
tori del periodo 1941-1970: sole eccezioni i due testi su Ver-
meer e Fautrier. Non appaiono presenti nella nostra raccolta solo
perché irreperibili, invece, gli articoli pubblicati da Ungaretti
prima del 1912 nel « Messaggero Egiziano » e ne « L’Unione
della Democrazia » di Alessandria di Egitto, dei quali è già fatta
menzione nell’antologia Poeti d'oggi curata da Papini e Pancrazi
nel 1920, e che è impossibile dire se verranno mai ritrovati.
Un vero e proprio apparato critico per questi scritti sarebbe
stato eccessivo in questa sede. Ci si è limitati quindi per ciascun
testo alla collazione di tutte le stampe, e quando possibile delle
stampe con i manoscritti, o i dattiloscritti - con o senza corre¬
zioni autografe, sia precedenti che seguenti alla pubblicazione
(nel secondo caso, solo, di quei dattiloscritti che recano modifi¬
cazioni di mano dell’autore). La lezione del testo degli scritti
editi, è di solito quella della stampa da noi accolta come defini¬
tiva o principale, con l’avvertenza che ogni volta che ci è stato
possibile il raffronto con un manoscritto, con un dattiloscritto
corretto o magari solo precedente alla stampa, con una stampa
precedente o successiva, si sono emendati quelli che ci sono sem¬
brati evidenti errori di trascrizione tipografica, tenendo conto
dunque di tutte quelle che apparivano invece evidenti correzioni
d’autore sulle bozze. Per i pochi scritti inediti, ci siamo natu¬
ralmente serviti della stesura più recente, quando tra le carte del
poeta se ne fosse trovata più d’una. Le date in testa agli scritti,
sono generalmente quelle della pubblicazione (della stesura del
testo per gli inediti). Quando ce ne siano due, se separate da
una sbarretta (/) indicano, rispettivamente, quella della prima
pubblicazione o stesura, e quella della stampa o stesura defini¬
tiva da noi accolta; ma indicano anche che le correzioni appor¬
tate dall’autore successivamente alla prima pubblicazione o ste¬
sura non ne hanno mutato se non marginalmente la forma. Quan¬
do invece le due date siano separate da un trattino (-), si vuole
indicare che effettivamente tra la prima stesura o stampa e quella
definitiva c’è stata sostanziale rielaborazione o revisione del te¬
sto. In questo caso, sono stati riportati nelle note i brani sop¬
pressi, come pure quelli aggiunti in una ripubblicazione tarda
dello scritto da noi non accolta come definitiva, ogni volta che
ci è sembrato essi potessero contribuire a illuminare il modo di
lavorare o l’evoluzione intellettuale dell’autore. Come a tante sue
poesie, Ungaretti ha fatto subire una metamorfosi incessante a
molti suoi testi critici. Si può benissimo ridire di lui quanto
Albert Béguin afferma presentando l’apparato delle note e va-
Nota all’edizione 889

riami alle opere di Gérard de Nerval (CEuvres, I, Bibliothèque


de la Plèiade, N.R.F., Paris 1952, p. 1117): « Peu d’écrivains
ont aussi souvent repris des pages publiées pour les donner, avec
des retouches, dans un autre contexte ». Che vuol dire, che
quanto appare un altro contesto al lettore costituisce invece una
continuità di testo per l’autore, cioè che ogni scrittura è, al
limite, anche un’analogia microcosmica: anch’essa un universo in
espansione, illimitato ma non infinito, che tende a ripiegarsi su
di sé nel momento stesso in cui prende lo slancio per dilatarsi.
M.D.

>
SCRITTI LETTERARI 1918-1936
a cura di Luciano Rebay e Mario Diacono

P. 5
ZONA DI GUERRA (VIVENDO CON IL POPOLO) In « Il
Tempo », Roma, 4 gennaio 1918. È, finora, il primo scritto in
prosa documentato di Ungaretti. Poche sono le speranze che ver¬
ranno mai ritrovati gli articoli critici da lui pubblicati ad Ales¬
sandria d’Egitto nel « Messaggero Egiziano » e ne « L’Unione
della Democrazia », prima del 1912.

p. 10
IL RITORNO DI BAUDELAIRE In « Il Tempo », Roma, 24
marzo 1918. Nel « Tempo » il titolo era preceduto dall’occhiello
Noterelle di poesia, probabilmente non ungarettiano.
1 Cfr. nell 'Allegria (in Tutte le poesie, Mondadori, 1969, p. 84),
Si porta-,

si PORTA
Roma fine marzo 1918

Si porta
l’infinita
stanchezza
dello sforzo
occulto
di questo principio
che ogni anno ■
scatena la terra

E più ancora la prima stampa di questa poesia, ne « La Raccol¬


ta », Bologna, 15 giugno 1918:
FINE MARZO

Si porta
un’infinita
stanchezza
naturale
dello sforzo
occulto
di questo
principio
892 Note

f/he ogni anno


accade
alla terra

VERSO UN’ARTE NUOVA CLASSICA (Prefazione alla 2a edi¬


zione del Porto Sepolto) In « Il Popolo d’Italia », Milano, 10
marzo 1919. La « seconda edizione del Porto Sepolto » uscì poi
invece con il titolo Allegria di Naufragi, e senza prefazione.
Ungaretti fu per un anno (febbràio 1919-gennaio 1920) corrispon¬
dente del « Popolo d’Italia » da Parigi durante la Conferenza
della Pace. I suoi servizi giornalistici per il quotidiano di Mus¬
solini ebbero quasi totalmente carattere politico anziché lettera¬
rio, con poche eccezioni.

p. 17
LA DELUSIONE DI VERHAEREN In « Il Popolo d’Italia »,
Milano, 1° agosto 1919, p. 3. L’articolo, firmato in principio
con le iniziali, G.U., era preceduto dall’occhiello Lettere dalla
Francia.

p. 20
PITTURA, POESIA, E UN PO’ DI STRADA In «L’Azio¬
ne », Genova, 10 dicembre 1919. Questo articolo poco noto di
U., ma non trascurabile nella storia della teoria critica del poe¬
ta, venne riesumato, in traduzione francese, nel cahier 11 de
« L’Herne », Ungaretti, Paris, s.d. [ma 1968], pp. 73-77. Come
nel successivo II premio Goncourt risuscita i morti?, apparso
nello stesso giornale alcune settimane dopo, il titolo era prece¬
duto dall’occhiello Novità parigine, probabilmente redazionale.
1 II testo a stampa dice « classici », ma ci pare errore del tipo¬
grafo.

p. 27
IL PREMIO GONCOURT RISUSCITA I MORTI? In « L’A¬
zione », Genova, 28 dicembre 1919. Questo articolo, che è certo
tra i primi italiani, se non il primo, in cui si parli di Proust,
era scomparso dalla memoria dello stesso U.; ne dobbiamo il
recupero alla cortesia del dott. Mario Lafragòla, genero del poeta.

p. 34
GIOVANNI PAPINI: «GIORNI DI FESTA» In « Littéra-
ture », Paris, n. 4, Juin 1919. « Littérature », fondata nel marzo
1919, a Parigi, da Aragon, Breton e Soupault, costituì, come è
■ Scritti letterari 1918-1936 893

noto, la rivista maggiore del dadaismo francese e divenne la ma¬


trice del movimento surrealista. (Vedi in proposito, Particolo di
U. Idee e lettere della Francia d’oggi / Perché scrivete voi?,
« L’Italia Letteraria », 2 marzo 1930, e p. 229 del presente vo¬
lume, e il testo su Breton del ’67, pp. 657-658.) Questa, tipica¬
mente breve, recensione in chiave ermetico-surrealista di Giorni
di Festa di Papini (Vallecchi, Firenze 1919), apparve nella ru¬
brica « Livres Choisis », curata da Aragon. Lo stesso Aragon,
nel successivo numero 10 (Décembre 1919), recensì, in sette
righe, l’ungarettiana Allegria di Naufragi, fresca di stampa. Ecco
il testo di tale recensione:
Giuseppe Ungaretti: Allegria di Naufragi
Le flambeau de la guerre s’éteint avec une épaisse fumèe: un
homme parie, et ses yeux ne sont point d’ici; il parie, et le vent
du sud soufflé sur nos visages. Que c’est-il-passé? Une douleur
sans nom court à travers les rues.
Dans ce pays, étranger, tu pourras lutter victorieusement avec
les femmes: tes regards en exil resteront plus lointains que les
leurs. T . .
Louis Aragon.

È possibile, ma è solo una supposizione, che questo scritto di


U. coincida con l’altro, intitolato Giovanni Papini, apparso nel
« Don Quichotte » del 7 marzo 1920, che non siamo riusciti a
rintracciare.

P- 35
« POURQUOI ECRIVEZ-VOUS? » / REPONSE In « Littéra-
ture », Paris, n. 11, Janvier 1920, p. 26. All’inchiesta, lanciata
nel numero di novembre del 1919 della rivista, risposero scrit¬
tori d’ogni scuola e tendenza, famosi e non, molti con frasi laco¬
niche e boutades di questo tipo: « Pour mìeux écrire » (Max
Jacob); « J’écris pour étre riche et estimé » (Paul Morand);
« J’écris parce que fai une bonne piume, et pour étre lu par
vous » (André Gide), « Parce que » (Blaise Cendrars); « Par
faiblesse » (Paul Valéry); « J’écris parce que, lorsque j’écris, je
ne Jais pas autre chose » (Francis Jammes). Le risposte, avver¬
tiva una nota editoriale, erano pubblicate nell’ordine inverso alle
preferenze della rivista, quelle giudicate più importanti fra le
ultime. La risposta d’Ungaretti è la penultima delle ventotto
incluse nel fascicolo di gennaio.
Vedi inoltre l’articolo di U., Idee e lettere della Francia d’og¬
gi / Perché scrivete voi?, « L’Italia Letteraria », 2 marzo 1930,
e p. 229 del presente volume.
894 Note

p. 36
L’AFFAIRE BARRÈS / TÉMOIGNAGE In « Littérature », Pa¬
ris, n. 20, Aout 1921, pp. 16-18. Il « processo » intentato contro
Maurice Barrès dal gruppo dadaista (« Mise an accusation et ju-
gement de M. Maurice Barrès par DADA ») ebbe luogo a Parigi
alla Salle des Sociétés Savantes, « le vendredi 13 mai 1921, à
21 h. 30 précises ». Si accusava Barrès di « atlentat à la sureté
de l’esprit »•. « Les livres de Barrès sont proprement illisibles,
sa phrase ne satisfait que l’oreille. Maurice Barrès à donc usurpé
la réputation de penseur » - si legge nell’atto d’accusa. Insieme
a Ungaretti accettarono di « testimoniare » Serge Romoff, Tristan
Tzara, Jacques Rigaut, Pierre Drieu La Rochelle, e altri. (Si
vedano anche: Michel Sanouillet, Le « Procès Barrès », in Dada
à Paris, Jean-Jacques Pauvert, Paris 1965, pp. 254-266, e Gra¬
ziella Pagliano Ungari, Il processo surrealista (sic) contro Barrès,
« La Fiera Letteraria », 28 marzo 1965, che fra l’altro riporta
interamente, tradotta, la « testimonianza » di U.)

p. 38
HISTOIRE DE DADA In « La Nouvelle Revue Frangaise »,
Paris, ler Aout 1931, p. 328. Questa lettera di U. apparve nella
rubrica « Notes et discussions ». Essa è una delle quattro lettere
di protesta (le altre sono di Aragon, Eluard e Tzara) inviate alla
« N.R.F. ». in seguito alla pubblicazione del saggio di G. Ribé-
mont-Dessaignes, Histoire de Dada, nei numeri di giugno e lu¬
glio della rivista. Ricapitolando la storia del movimento dadaista,
Ribémont-Dessaignes ricordava fra l’altro che uno dei « testimo¬
ni » al famoso « processo » contro Maurice Barrès (vedi nota
precedente) £ra « le poète Ungaretti, qui, sympathique à Dada,
trouvait là une occasion de montrer son esprit caustique et
cruel ». Fra gli scrittori attaccati da Ribémont-Dessaignes figu¬
rava pure Breton.
L’intervento di U. è preceduto da quello di Aragon, che si
firma con la formula Salutations communistes.

p. .39
LA DOCTRINE DE « LACERBA » In « L’Esprit Nouveau »,
Paris, n. 2, Novembre 1920, pp. 200-205. Nella rivista, il sag¬
gio era preceduto dall’occhiello Le mouvement littéraire en Italie.
Esso uscì dapprima (il 6 giugno 1920) nel « Don Quichotte »,
quotidiano parigino « d’action latine » diretto da Luigi Campo-
longhi, di cui Ungaretti fu per qualche tempo redattore, termi¬
nato il suo incarico di corrispondente del « Popolo d’Italia »,
dove gli era succeduto Nicola Bonservizi. Il saggio apparve nel
« Don Quichotte » col titolo Brève histoire de notre jeunesse
Scrìtti letterari 1918-1936 895

e con la seguente avvertenza: « Urie grande revue internationale


de discussion esthétique, dont la direction a été confiée à M.
Paul Dermée, par altra dans quelques jours à Paris, sous le titre:
L Esprit Nouveau '. ha partie italienne a été confiée à notre
collaborateur Ungaretti. Nous nous faisons un plaisir de repro-
duire son premier article ».

p. 46
LE DÉPART DE NOTRE JEUNESSE In « L’Esprit Nou¬
veau », Paris, n. 26, Octobre 1924, pp. non numerate. L’intero
fascicolo della rivista era dedicato ad Apollinaire.
Il testo di U. venne ripreso in: Annalisa Cima, Allegria di
Ungaretti, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1969, pp. non nu¬
merate. Ma prima ancora era stato riportato come « testimonian¬
za » di U. nell’Omaggio a Apollinaire, a cura dell’Ente Premi
Roma, Grafica, Roma 1960, p. 61; e da P.A. Jannini, nel
suo volume La fortuna di Apollinaire in Italia, Istituto Edito¬
riale Cisalpino, Milano 1959, pp. 91-92. Queste due ultime pub¬
blicazioni davano anche a stampa il testo di una cartolina inviata
da U. a Giuseppe Raimondi nel novembre 1918, e da Raimondi
riprodotta fotograficamente nel suo La valigia delle Indie (Vai-
lecchi, Firenze 1955), p. 262:

Apollinaire è morto. Il poeta più artista che vivesse in Europa


è morto. Mentre si scatenava per la città la folla, dalla morte,
in una gran smorfia di gioia, e gli stabili tremavano nella legge¬
rezza delle bandiere, lo vegliavo, cadavere sotto i fiori, nella ca¬
mera dove restavano le cose che aveva avuto più care. Tutto si
trasfigurava in fiori ai suoi occhi abbagliati. Veniva dal nostro
sole, e la nebbia slava aveva venato di morbidità la sua ardente
fantasia. Parigi gli aveva dato le sottili volubili freschezze del-
l’[illeggibile!. Attìnta alle 3 polle essenziali, la sua poesia, in¬
fantile, raffinata, splendente, innocente, profonda, inquinata, era
la più straordinaria che dopo Maurice de Guérin, Baudelaire,
Mallarmé, Verlaine, Laforgue, Rimbaud fosse fiorita. L’ho guar¬
dato, nella sua cassa, scendere nella terra. Ti bacio. Ungaretti.
Hotel d’Orléans, 31 rue des Ecoles. Paris.

Non datata, tale cartolina dev’essere più o meno contemporanea


di quella inviata ad Ardendo Solfici il 19 novembre ’18 e ripro¬
dotta in L. Rebay, Le origini della poesia di Giuseppe Unga¬
retti, Roma 1962, p. 71:

Apollinaire è morto. Il giorno della vittoria.. Quel giorno arri¬


vando a Parigi, aprendo ITmransigeant, ho saputo; l'unica noti¬
zia, quel giorno, e gli altri; di morte. L'ho trovato nella sua
camera, dolcemente coricato fra le cose che amava, coperto di
896 Note

fiori. L’ho visto coprire di terra al Pére Lachaise. Pochi giorni


prima 'mi aveva mandato una cartolina dov’era rappresentato leg¬
gendo Lacerba, al mare...
f

p. 47
A PROPOSITO DI UN SAGGIO SU DOSTOJEVSKI In « La
Ronda », Roma, a. IV, n. 1, gennaio 1922, pp. 68-69. La nota
venne successivamente ripresa e rielaborata in Dostoievski e la
precisione (« Gazzetta del Popolo », 6 marzo 1935; vedi pp. 50-
52), e in tale nuova veste convogliata nelle Ragioni di una poe¬
sia apparse in « Inventario » nel 1949 e poi nelle Ragioni d una
poesia poste a capo di Vita d’un uomo / Tutte le poesie, Mon¬
dadori, Milano 1969.

p. 50
DOSTOIEVSKI E LÀ PRECISIONE In « Gazzetta del Popo¬
lo », Torino, 6 marzo 1935. È la rielaborazione della nota del
’22, A proposito di un saggio su Dostoievski. Venne poi inclu¬
so, con qualche modificazione, in Ragioni dì una poesia, « In¬
ventario », a. II n. 1, primavera 1949 (vedi pp. 747-751 del pre¬
sente volume), quindi nelle Quelques réflexions suggérées à l’au-
teur par sa poésie poste all’inizio di Les Cinq Livres (Editions
de Minuit, 1953) e nelle Ragioni d’una poesia premesse a Vita
d’un uomo / Tutte le poesie.

p. 53
PITTURA COSMOPOLITA In « Il Nuovo Paese », Roma, 16
gennaio 1923. In un articolo firmato Ariel (« Il Nuovo Paese »,
17 gennaio 1923), dal titolo Piccola posta / Giuseppe Ungaretti,
Soffici rispose alla lettera-articolo di U. dichiarando tra l’altro:

[...] se l’arte francese è ora in così palese decadenza e presso


all’estinzione completa, molto si deve a questo fatto inaudito.
Il cosmopolitismo (o ledeschismo, come lo chiamo io) ha inqui¬
nato le pure sorgenti della genialità artistica francese, come già
da tempo aveva intorbidato le nostre. [...] mentre tu... hai forse
preso la tua [posizione] per un resto di soggezione al pregiudi¬
zio della modernità parigina, io prendo la mia col coraggio di
un italiano purificato, il quale riafferma i valori intellettuali ed
estetici della sua razza, rivendica le leggi tradizionali dell’arte
paesana sempre informata a questi principii fondamentali: reali¬
smo, equilibrio, intelligenza, e grazia.
E U. ribatteva prontamente (Pittura cosmopolita, « Il Nuovo
Paese », 18 gennaio 1923):

Mio caro Soffici,


Scritti letterari 1918-1936 897

Satana, Prometeo, è l’impotenza della creatura; dilaniata di non


poter sorgere sino alla divinità. Si può chiamare Goya e può
anche avere il nome di Leonardo da Vinci.
E non dipingeva le idee, non dico Racine (Racine snudava le
passioni, era infernale), ma il dolce Raffaello?
Quanto alla decadenza francese, la quale, dopo un secolo di
sforzi pari in grandezza a quelli del nostro Rinascimento, dà
ancora un Marcel Proust, e un Paul Valéry, e, in altro campo,
un Maurras e un Sorel, viva la decadenza francese!
Ma verrà l’ora, mio caro Soffici, di esaminare insieme con calma
e a fondo, nella sede adatta, questioni come queste, tanto legate
al rifiorimento della nostra civiltà.
Giuseppe Ungaretti.

P- 55 ,
CONSIDERATIONS SUR LA LITTERATURE ITALIENNE
MODERNE In « L’Europe Nouvelle », Paris, 6 Octobre 1923,
pp. 1277-1278. Questo numero dell’« Europe Nouvelle » era in¬
teramente dedicato all’Italia, il che spiega la natura puramente
informativa dell’articolo di U., benché nella conclusione l’autore
già vi avanzi l’idea del fondamento platonico della lingua italiana,
che sarà poi ampiamente svolta in una lezione brasiliana, In¬
dole dell’italiano.

p. 60
ESORDIO In « Lo Spettatore Italiano », Roma, a. I, n. 1, 1°
maggio 1924, pp. 57-60. Esordio perché prima collaborazione
d’Ungaretti (come specialista di letteratura francese) alla rivista,
di cui questo era inoltre il primo numero.

p. 66
JACQUES RIVIÈRE RIABILITA IL «SENTIMENTO» In
« Lo Spettatore Italiano », Roma, a. I, n. 3, 1° giugno 1924, pp.
258-262. Il titolo originale nello « Spettatore » era Jacques Ri¬
vière o la riabilitazione del « sentimento ». U. lo corresse nel¬
l’attuale su una copia dattiloscritta dell’articolo nel 1967.

P- 12 v
GRATITUDE A JACQUES RIVIERE In «La Nouvelle Re-
vue Frangaise », Paris, ler Avril 1925, pp. 683-685. Nella « N.
R.F. » (il fascicolo conteneva varie testimonianze in memoria di
Jacques Rivière), lo scritto s’intitolava semplicemente Gratitu-
de. U. aggiunse à Jacques Rivière su una copia dattiloscritta
del testo, durante la fase preparatoria di questo volume.
898 Note

p. 75
SOTTIGLIEZZA POETICA DI REVERDY In «Lo Spetta¬
tore Italiano », Roma, a. I, n. 6, 15 luglio 1924, pp. 541-544.
Il titolo originale, corretto da U. nell’attuale nel 1967, era Sotti¬
lità poetica. Sono state riportate nel testo' alcune correzioni fatte
dall’autore, sempre nel ’67, su una copia dattiloscritta dell ar¬
ticolo.
1 È evidente l’allusione a Freud.
2 II testo del ’24 recava qui una frase soppressa nel ’67 : « Bur¬
chiello sofisticava meno. Più vicino al genio? ».

p. 79
L’ESTETICA DI BERGSON In « Lo Spettatore Italiano»,
Roma, a. I, n. 7, 1° agosto 1924, pp. 60-66. Si sono riportate
nel testo alcune correzioni fatte dall’autore su una copia datti¬
loscritta dell’articolo nel 1967.
1 Vedi Jacques Rivière riabilita il «sentimento», pp. 68-71.
2 Nello « Spettatore » il testo includeva: « Nel prossimo nu¬
mero proseguiremo e termineremo l’esame del libro di Thibau-
det con alcune osservazioni sullo stile di Bergson ».

p. 87
LO STILE DI BERGSON In «Lo Spettatore Italiano», Ro¬
ma, a. I, n. 8-9, 15 agosto-l° settembre 1924, pp. 172-174. La
seconda parte dello scritto riprende sostanzialmente la pagina fi¬
nale di Una filosofia dell’effimero e Bergson umorista, apparso
nel « Nuovo Paese » del 24 aprile 1923. L’articolo fu poi ripro¬
dotto, con l’aggiunta di due paragrafi all’inizio, in Di palo in
frasca / Lo stile di Bergson, « Il Mattino », Napoli 8-9 luglio
1926. Diceva il cappello aggiunto:
Non si parla più di Bergson. Un tempo non c’era artista che
non ne invocasse l’autorità. Ha chiarito due nozioni, quella del¬
l’uomo artefice, e quella dell’uomo profondo, ha scortò una re¬
lazione così luminosa tra intelligenza, materia, vita, ha dimo¬
strato così necessariamente identici, la coscienza, lo slancio vi¬
tale, e il tempo, slancio di tutto il passato verso tutto l’avvenire,
che, chi più chi meno, gli siamo tutti debitori.
Ma c’è una qualità di Bergson della quale non s’è mai molto
discorso. Bergson è anche uno scrittore singolarissimo.
Si sono riportate nel testo alcune correzioni fatte dall’autore su
una copia dattiloscritta dell’articolo nel 1967.
Scritti letterari 1918-1936 899

p. 90
LE SECRET DE LAUTRÉAMONT In Le cas Lautréamont, « Le
Disque Vert », Paris-Bruxelles, 1925, pp. 59-65. Questo numero
speciale della rivista diretta da Franz Hellens e Henri Michaux
conteneva Etudes et opinioni di 36 autori. Lo scritto di U. venne
poi ripreso parzialmente (da « Les Poésies - le fait que ces
Poésies » alla fine) nelle CEuvres Complèta di Lautréamont, G.
L.M., Paris 1938, p. 392, e una traduzione italiana di tale testo
parziale, ma non dell’autore, col titolo Che vale la parola?,
apparve in Lautréamont, a cura di Renato Giolli, Rosa e Ballo,
Milano 1945.
Su Lautréamont U. pubblicò inoltre due articoli apparsi sull’« I-
talia Letteraria», Il passato di Lautréamont e Odore di bru¬
ciato, nell’aprile e giugno 1930 (vedi pp. 241 e 246).
Di notevole interesse è poi una lettera di U. ad Andrea Caffi,
non datata, ma da Ungaretti assegnata al 1929-30, epoca in cui
viveva a Marino, e rinvenuta da Iris Origo tra le carte della
principessa Marguerite Caetani. La lettera apparve nell’articolo
che sull’animatrice di « Commerce » e di « Botteghe Oscure »
Iris Origo pubblicò in « Tempo Presente » (Ritratto di Margue¬
rite, « Tempo Presente », Roma, a. X, n. 3, marzo 1965, pp.
20-32), e costituisce in qualche modo una post-face a Le secret
de Lautréamont. La trascriviamo qui integralmente assieme al
brano della Origo che l’accompagnava nell’articolo:
« Ungaretti, durante quel periodo, fu per Marguerite un prezioso
consigliere per le opere italiane da pubblicare in “Commerce”
e le sue traduzioni fecero conoscere, quasi per la prima volta in
Francia, l’opera in prosa di Leopardi. Scriveva spesso ad Andrea
Caffi, allora ospite per lunghi periodi in casa Caetani, e fra que¬
ste lettere ve n’è una che rievoca vivamente per noi i problemi
della vita letteraria francese del momento. Quest’unica lettera,
senza data, è fortunatamente rimasta fra la corrispondenza di
Marguerite, forse perché chiedeva anche un prestito di libri della
sua biblioteca. La lettera deve essere stata scritta, tra il 1929
e il 1930, da Marino, dove allora Ungaretti abitava.
« “Non so se hai mai visto un mio articolo su Lautréamont, in
un numero dedicato precisamente a questo poeta dal. ‘Disque
vert’, rivista che alcuni anni fa pubblicava Hellens a Bruxel¬
les. Cercavo, in un modo che oggi può parermi ingenuo, ma
che allora toccava nel vivo un problema, in che modo potesse
scoprirsi l’originalità di Lautréamont. E vedevo, mettendo in
contrasto le Poésies con i Chants de Maldoror, un uomo spinto
alle ultime conseguenze. Un’ironia in funzione di rivolta. In-
somma Lautréamont dimostrava non solo che la parola può avere
il suo senso e il senso opposto, che un detto sacro, come può
900 Note

essere un proverbio o una massima di Pascal, può diventare detto


altrettantp sacro mutando una parola, e mettendocene una che
dica precisamente l’opposto, letteralmente, di quella che c’era, e
la stessa cosa di prima, con l’aiuto dell’ironia; ma dimostrava
anche che l’uso di questa ironia poteva essere un’arma di diso¬
rientamento, e accelerare il finimondo, tanto egli aveva terrore
dell’uomo. Poiché nella potenza della parola, da buon roman¬
tico, egli continuava a credere. In un Breton e in un Aragon il
surrealismo mi pare sia andato prendendo questo valore. Con la
differenza che nei surrealisti la disperazione morale mi sembra
un atteggiamento prevalentemente polemico tranne in Eluard, -
che poi, nelle poche cose veramente poetiche non è un surrea¬
lista (salvo nel secondo senso che indico sotto*) ma un grande
poeta, nel quale la potenza del sentimento infusa alle parole, le
rende non più parole di un uomo e d’un secolo, ma parole che
tra 10 mil’anni commuoveranno come mi commuovono, e come
avrebbero commosso un Indiano o un egiziano di tanti mai seco¬
li fa, e come mi commuove, come se andasse in giro per le
nostre strade, Eschilo.
« “Insomma nei surrealisti, l’ironia li porta a vantare l’arte ma¬
gica delle fattucchiere; ma è un modo puerile e in un certo sen¬
so civettone e che, difatti, - ciò che dimostra la potenza della
parola - fa effetto; è un modo che in qualche modo protegge
la loro dignità, di fronte al valore mercantile, prostituito, che
prende oggi ogni cosa compresa l’arte.
« “Non vedi come le più belle cose non durino che un momento,
oggi, e subito sopra c’è un nugolo di mosche, che ne fanno tifo
per tutti. E sul serio, critica e pubblico, non prendono che lo
sterco .dei volgarizzatori. La tua idea intorno agli imaginisti, mi
persuade. Ma c’è la difficoltà di mettere insieme poeti di così
diversa tradizione: devo interpretare Lautréamont come un sem¬
plice esasperatore della fantasia romantica, e considerare le im¬
magini puramente come oggetti, senza relazione con l’anima del
poeta? Dico questo, nelle derivazioni. Come parlare d’un Fargue
ch’è l’uomo più sensibile oggi vivente, e ch’è tutto pieno di
stupore e interamente consolato davanti alle immagini che tene¬
ramente accoglie dalla sua sensibilità; e d’un Claudel caotico,
teologante, e per il quale l’arte è un riposo, mentre è per Far¬
gue l’unico lavoro concepibile, il lavoro d’un’ape? Come mettere
insieme l’arte per l’arte di Fargue alacre e l’arte-poltrona divina
dell’Altro? Come mettere insieme Fargue e Perse? Perse con
Claudel si può. Il secondo è l’uomo delle cattedrali gotiche,
accomodate un po’ da Budda, il primo è un umanista che evoca
un mondo arcaico, come il Rinascimento evocava la Grecia e
Roma. Ma è più un colore e un assoluto di spazio, nel caso
Perse, che un colore e un assoluto di tempo, che ‘l’epoca au-
Scritti letterari 1918-1936 901

rea’ come nella fine del 3, nel 4 e nel 500. Il secondo è un


romantico, e il primo, per il quale Claudel non è stato affatto
indifferente, è un classico, nel senso che egli porta una forma
alla sua estrema perfezione, e Claudel, un bonzo, invece in quel¬
la forma intride un certo lievito; la forma di Claudel subisce il
terremoto. (Dico le cose in palesi contraddizioni e confusioni, ma
è la fretta, e credo di essere ugualmente chiaro: mi scuserai).” »

* « “Ricordi l’aforisma di Nietzsche? Più nulla è vero, tutto è


permesso, che capovolge il pensiero di Leopardi: L'uomo ha
tolto alla realtà il mistero, non resta che la visione straziante
del vero. E infine quel pensiero di Goethe: Prima di liberare
lo spirito, dategli la forza per sostenerne la libertà. L’ironia sa¬
rebbe questa forza (Goethe), questa nuova verità (Nietzsche) o
questo nuovo illusorio mistero (Leopardi)? Anche in questo sen¬
so va interpretato Lautréamont, e il surrealismo.” »

P- 95 ,
ANDRE GIDE In « Il Convegno », Milano, a. VI, n. 4, 30
aprile 1925, pp. 177-181. Sui rapporti personali tra Gide e U.,
si vedano le due pagine di diario di U., datate 2 e 3 gennaio
1935, che si pubblicano in nota a Immagini del Leopardi e no¬
stre (pp. 950-52). Su quelle giornate del gennaio ’35, U. tornò
nel 1951, in alcuni ricordi, registrati dapprima per la radio
francese il 28 febbraio 1951, pochi giorni dopo la morte dello
scrittore francese (Giuseppe Ungaretti évoque ses souvenirs sur
André Gide), e poi pubblicati, col titolo A Rome, nel fasci¬
colo speciale edito dalla « Nouvelle Revue Frammise » nel no¬
vembre di quello stesso anno, Hommage à André Gide, (pp. 73-
74). Tali ricordi di U. comparvero poi in italiano, col titolo Gide
a Roma, insieme con i testi di Léautaud, Perse e Paulhan ap¬
parsi nello stesso fascicolo della « N.R.F. », nel n. 5-6, settem¬
bre-dicembre 1952, di « Inventario », la rivista diretta da Luigi
Berti e del cui Comitato internazionale di redazione facevano par¬
te sia U. che Paulhan. Si riproducono qui nel testo francese,
sicuramente di mano ungarettiana, poiché è da ritenere apocrifa
la traduzione di « Inventario ».

Une lettre de ]ean Paulhan m'avait annoncé que l’état de santé


d’André Gide ne laissait plus d’espoir. Les jours précédents,
Jean Schlumberger m'avait dit que notre cher ami se préparait
à venir séjourner encore une fois en Italie, en mars, ayant re-
noncé à son voyage au Maroc. Les deux noùvelles n’étaient pas
contradictoires, et Schlumberger ne m’avait pas caché que le
coeur trop fatigué de Gide aurait pu l’empécher de se mettre en
voyage. Un coeur qui m’avait toujours paru si fort, invincible,
était faible, prét de s’arrèter de battre.
902 Note

Depuis une quarantaine d’années, je collaborais aux revues fran-


qaises #ù Gide était présent, mais je ne Vai rencontré qu’en
1935, ici à Rome. Pendant plus d’un mais, nous nous retrou-
vions tous les jours, pour passer de longues heures ensemble.
Il s’était épris du Caravage, et je V accómpagnais aux Musées et
aux Eglises où des oeuvres de ce peintre sont conservées. Il
avait tenu aussi à revoir les Pietà de Michel-Ange, celle qui
était alors à Palestina et celle qui était dans la cour du Palazzo
Rondanini. Ce sont des oeuvres de la vieillesse de Michel-Ange
et. la Pietà Rondanini en est sùrement la tonte dernière.
De Michel-Ange au Caravage trouve son épanouissement dans
l’art italien une epoque qu’on pourrait considérer incomparable
par la tension de l’homme à dépasser sa mesure.
Le séjour romain de 1935 a-t-il inspiré à André Gide son
Thésée-3
Peut-étre se souvenait-il de la Pietà Rondanini et de Michel-
Ange, quand il faisait dire à CEdipe:
« Tu t’étonnes que je me sois crevé les yeux; et je m’en étonne
moi-méme. Mais dans ce geste, inconsidéré, cruel, peut-étre y
eut-ìl encore autre chose: je ne sais quel secret besoin de pousser
à bout ma fortune, de rengréger sur ma douleur et d'accompa-
gner une héróique destinée. Peut-étre ai-je pressenti vaguement
ce qu’avait d’auguste et de rédempteur la souffrance. »
Peut-étre pensait-il à son propre destin, lorsqu’il prètait à Thésée
cette réponse à la définition de la grandeur humaine que Michel-
Ange lui avait suggérée:
« J’ai fait ma ville. Après moi, saura l'habiter immortellement
ma pensée. C’est consentant que j’approche la mori solitane.
J’ai gouté des biens de la terre. Il m’est doux de penser qu’après
moi, gràce à moi, les hommes se reconnaitront plus heureux,
meilleurs et plus libres. Pour le bien de l’humanité future, j’ai
fait mon oeuvre. J’ai vécu. »
Voici l’inoubliable dialogue que j’ai écouté dans ces lointaines
journées de 1935, et que je recherche à présent dans le livre
immortel, les larmes aux yeux.

p. 100
LA RINOMANZA DI PAUL VALÉRY In « La Fiera Lette¬
raria », Milano, a. I, n. 1, 13 dicembre 1925, p. 1. L’articolo
terminava con due paragrafi, di tenore cronachistico, che U. sop¬
presse in una copia dattiloscritta del testo durante la fase pre¬
paratoria del presente volume. Come risulta chiaramente da tale
testo ritoccato, qui adottato, fu salvata da U. solo l’ultima frase
del brano soppresso, introdotta nel paragrafo finale dell’articolo
dopo le parole « scolare di Platone ».
Ecco il finale soppresso:
Scritti letterari 1918-1936 903

E ha il suo significato, avere avuto grand’elettore all’Accademia


l abate Bremond — della Compagnia di Gesù, mi pare, e insie¬
me pascaliano accanito.
Noi italiani siamo in particolare festanti dell’onore resogli. Dal
lato materno, è nostro connazionale. E non cela che dal Petrar¬
ca, dal Machiavelli, da Leonardo, gli vengono i doni più attesi.

p. 104
VA CITATO LEOPARDI PER VALÉRY? In « Il Mattino »,
Napoli, 3-4 giugno 1926. Fu pubblicato col titolo Appunti di
Valéry, ma una copia dattiloscritta recente dell’articolo nell’ar¬
chivio U. reca manoscritto, a inchiostro verde, accanto al vec¬
chio scritto a macchina, il nuovo titolo adottato dal poeta per
l’edizione in volume dei suoi saggi. Tra le carte di U. si trova
inoltre una copia del « Mattino » con numerose correzioni e ag¬
giunte al testo fatte a penna dall’autore, probabilmente subito
dopo l’uscita dell’articolo, che vogliono restituire allo scritto la
sua fisionomia originaria, dato che la maggior parte delle corre¬
zioni riguardano errori di stampa.

I Giacomo Leopardi, A Silvia, vv. 23-25.

p. Ili
INTRODUZIONE A « EUPALINO » In « L’Italia Letteraria »,
Roma, a. IV, n. 41, 9 ottobre 1932, p. 1. Lo scritto fu con¬
temporaneamente pubblicato come nota alla traduzione di Eupa-
lino di Valéry (Paul Valéry, Eupalino o dell’Architettura. Tra¬
duzione di Rafaele Contu, con una Nota di P. Valéry e un
commento di G. Ungaretti, R. Carabba Editore, Lanciano 1932).
II testo qui adottato, comunque, è stato riveduto su quello della
successiva edizione di lusso del volume, in 148 esemplari nume¬
rati (Eupalino o dell'Architettura di Paul Valéry. Tradotto da
Rafaele Contu, con una lettera dello stesso, una nota dell’Au¬
tore e un saggio di Giuseppe Ungaretti, Quaderni di Novissima,
Roma, 1933). La copia di questo volume nell’archivio U. reca
una dedica autografa di Valéry: a Giuseppe Ungaretti / (che
non vedo mai) / affettuoso ricordo / Paul Valéry. La redazione
del ’33 del saggio presenta qualche modifica rispetto al testo
dell’« Italia' Letteraria » (che è identico a quello dell’edizione
Carabba). Nelle citazioni di Valéry fatte da U., noi abbiamo
accolto le correzioni fatte da Contu alla sua traduzione per l’e¬
dizione di Novissima;, inoltre, U. aveva apportato ancora qualche
lieve correzione a matita al suo testo, sulla copia del volume
del ’33, correzioni che sono state qui riportate. Nell’edizione di
Novissima, poi, il Commento di U. reca il titolo Dell’Arte e del
Sentimento.
904 Note

Questo testo fu ripreso in altre occasioni da U., e da ultimo,


con un breve cappello introduttivo e col titolo Verità e forma,
quale 'prefazione al catalogo dell’esposizione Forma e Venta
allestita a Firenze nel 1966 dallo Studio Forte 63.

BARBE FINTE In « Il Mattino », Napoli, 25-26 febbraio 1926.


Hanno inizio con questo articolo quelle riflessioni sul rapporto
tra l’uomo e la natura, sul linguaggio, sulla memoria, che, con¬
tinuate in Dall’Estetica all’Apocalisse o I denti di limbo (« Il
Mattino », 6-7 maggio '26; vedi pp. 123-128), sfoceranno poi
nel testo fondamentale Innocenza e memoria (« Il Mattino »,
21-22 maggio ’26; « L’Italiano », 7 ottobre ’26, che riprende alla
lettera, in più punti dell’inizio e della fine, la parte finale di
Barbe 'finte-, infine « La Nouvelle Revue Fran?aise », 1° novem¬
bre ’26; vedi pp. 129-138).
1 Lorenzo Montano, la critica e i dilettanti, «La Fiera Lette¬
raria », a. II, n. 7, 14 febbraio 1926. L’articolo di Montano die¬
de luogo a una « polemica sulla critica » che si svolse sulle co¬
lonne della « Fiera » e continuò fino al numero del 28 marzo,
con scritti di G. Titta Rosa, F. Palazzi, A. Pompeati, F. Flora,
B. Migliore, A. Momigliano, e ancora di L. Montano.
2 U. pubblicò su Magalotti un articolo divulgativo, appunto par¬
tendo dal volume uscito a cura di Montano, Le più belle pagine,
di Lorenzo Magalotti, Treves, Milano 1924: Un précurseur de Des
Esseintes, in « L’Italie Nouvelle », Paris, 17 Fevrier 1924, p. 2.
In esso affermava, tra l’altro, dello scrittore delle Lettere scien¬
tìfiche ed erudite-,
Ees ressources de plaisir auxquelles sa sensìbilite exasperee avait
recours étaient complexes. Et, parfait baudelairien, au plus haut
de l’échelle des plaisirs, il piagati, nous l’avons vu, le plaisir
imaginaire, le plaisir physique ne servant à créer que le pur
vagabondage dans l’irréel.

p. 123
DALL’ESTETICA ALL’APOCALISSE O I DENTI DI ZIM-
BO In « Il Mattino », Napoli, 6-7 maggio 1926.

p. 129
INNOCENZA E MEMORIA In « Il Mattino », Napoli, 21-22
maggio 1926. Come alcuni altri articoli da U. pubblicati suc¬
cessivamente nel « Mattino », questo era preceduto dall occhiel¬
lo, quasi titolo d’una rubrica, Arte e problemi.
U. scrisse tre versioni di questo testo. Si è ritenuto opportuno
Scritti letterari 1918-1936 905

riportarle tutte e tre, dato il valore centrale che il tema ha in


tutta la Vita d’un uomo ungarettiana. È noto ch’egli intitolò
lnnocence et mémoire l’unico volume di scritti critici da lui da¬
to alle stampe, e innocenza e memoria potrebbe essere anche la
chiave di lettura del presente volume.
Il tema della dialettica innocenza/memoria è svolto più ampia¬
mente nella stesura pubblicata sull’« Italiano », n. 12-13, 7 ot¬
tobre 1926, p. 3, ma rispetto a quella in questa del « Matti¬
no » figurano due brani in più: i due paragrafi iniziali (da « Si
diceva l’altro giorno » a « annodare relazioni che coll’umano »)
e i due che precedono la conclusione (da « Ricorriamo a un
esempio » a « E concludiamo »). Inoltre, nell’« Italiano », l’a¬
rea messa in discussione si restringe e approfondisce: il ter¬
mine-area « poesia » sostituisce quello di « arte » nel testo del
« Mattino ».

1 Cfr. Dall’Estetica all’Apocalisse o I denti di Zimbo, « Il Mat¬


tino », 6-7 maggio 1926 (e pp. 123-128 di questo volume).
2 La Compagnia degli Illusi era un’Accademia napoletana pres¬
so cui U. tenne alcune conferenze nel gennaio del 1926, parti¬
colarmente significativa quella del 21 gennaio, Tendenze della
poesia contemporanea, in cui, secondo il recensore del « Mat¬
tino » del 22 gennaio, « a chiarire il suo concetto informatore
in esemplificazione, l’Ungaretti citò versi di Dante, Petrarca,
Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud e Valéry ». (È pro¬
babile si trattasse del testo Punto di mira, qui pubblicato alle
pp. 285-302, o di un testo affine.) Gli Illusi organizzeranno an¬
che la famosa celebrazione leopardiana del 1934.

p. 132
INNOCENZA E MEMORIA In « L’Italiano », Bologna, n. 12-
13, 7 ottobre 1926, p. 3. La parte iniziale e quella finale del¬
l’articolo riprendono, spesso alla lettera, l’ultima sezione di
Barbe finte, apparso nel « Mattino » del 25-26 febbraio dello
stesso anno (vedi pp. 117-122).

1 Questo passo venne ripreso da U. nella sua risposta aWInchie-


sta mondiale sulla poesia, apparsa sulla « Gazzetta del Popolo »
del 21 ottobre 1931. L’espressione « naufragio senza fine », poi,
venne adottata nel ’67 dall’autore quale titolo per la risposta
stessa (vedi pp. 262-266).
2 II senso del nesso occhio/specchio nella scultura rituale afri¬
cana, è più apertamente enunciato in una frase di Dall’Estetica
all'Apocalisse, « Per il Negro l’occhio è uno specchio, è il mo¬
mento eterno » (vedi p. 126).
3 Come si vede, è caduta qui, rispetto all’articolo del « Mat¬
tino », la sottile polemica nei riguardi del surrealismo e della
906 Note

« scrittura automatica ». Forse perché il nuovo testo era stato


scritto per la « Nouvelle Revue Franose », notoriamente amica
dei surrealisti?

INNOCENCE ET MÉMOIRE In «La Nouvelle Revue Fran¬


ose », Paris, ler Novembre 1926, pp. 527-530. Grosso modo, è
la versione francese di Innocenza e memoria apparsa nell « Italia¬
no ». Il fascicòlo di novembre del 1926 della « N.R.F. », Hom-
mage à Stéphane Mallarmé, era quasi interamente dedicato al
poeta del Coup de Dés, e recava, insieme a quello di U., scritti
di T.S. Eliot, Paul Claudel, H. Cbarpentier, Francis Ponge, H.
R'àmbaud, Albert Thibaudet. Innocence et mémoire verrà poi
incluso nel volume di saggi di U. edito da Gallimard nel 69,
e darà anzi il titolo al libro. Il testo francese di questo scritto
che figura nel volume, differisce comunque da quello apparso
nella « N.R.F. »: mentre quello del ’26 è tutto di mano unga-
rettiana, salvo l’apporto di qualche « bon coup d’ceil » redazio¬
nale da parte di Paulhan (vedi: L. Rebay, Ungaretti.a Paulhan:
Otto lettere e un autografo inediti, «Forum Italicum », June
1972, p. 280), quello del ’69 è stato «rimodernato», per così
dire, da Philippe Jaccottet. Qui viene dunque dato il testo del
1926. ,
Innocenza e memoria 'dell’« 'Italiano » e Innocence et memoire
della « N.R.F. » non coincidono però completamente. Mentre in
Innocence et mémoire manca la pagina finale di Innocenza e
memoria (da « Capisco che si duri fatica » alla fine dello scrit¬
to), nella versione francese figura invece una pagina che non
appare nell’« Italiano », un raffronto tra Leopardi e Mallarmé
che nel testo italiano era solo velocemente, ma già fin dall’artico¬
lo del « Mattino », accennato (è la pagina che va da « Oserai-je
pousser l’imprudence » a « un pouvoir de séduction plein d’aven-
tures ») - e va notato in proposito che in un primo momento
U. aveva pensato di intitolare questo scritto Leopardi et Mal¬
larmé (vedi L. Rebay, Ungaretti a Paulhan, cit., p. 279).
A indulgere nell’almanaccare, avrebbe detto IL, si potrebbe pen¬
sare a questo” iter dell’articolo: U. pubblica Innocenza e memo¬
ria nel « Mattino » in maggio. Successivamente gli viene chie¬
sto da Paulhan, diventato redattore capo della «N.R.F.» l’an¬
no precedente, dopo la morte di Rivière, un testo per il nu¬
mero speciale .dedicato a Mallarmé che la rivista francese sta
preparando. U. rielabora altera, per l’occasione, l’articolo del
«Mattino», volgendolo poi in francese. Ma nella versione fran¬
cese viene fuori la pagina su Leopardi e Mallarmé, mentre cade
quella finale del nuovo testo italiano. Parallelamente all’invio
Scritti letterari 1918-1936 907

di Innocence et mémoire, poi, U. invia il nuovo testo italiano


che ha elaborato alla rivista diretta da Longanesi. Esso appare
prima di quello francese, il 7 ottobre. Tale ipotesi è forse con¬
fermata da U. stesso, che nell’articolo del '21, Stato della prosa
francese (vedi p. 147), dice: « [...] in un mio articolo a pro¬
posito di Mallarmé, pubblicato dall’“Italiano” e dalla “Nou-
velle Revue Franpaise” [...] ».

1 In Les Mots Anglais. Vedi S. Mallarmé, GEuvres complètes,


Gallimard, Paris 1945, p. 1503.

p. 139
L’ESPORTAZIONE LETTERARIA In « Il Mattino », Napo¬
li, 25-26 giugno 1926.
1 L’amico in questione, è probabilmente Bruno Barilli.
2 È chiaro qui il riferimento a Massimo Bontempelli e alla sua
rivista « 900 ». La polemica con Bontempelli fu forse la più du¬
ra mai condotta da U. A una nota di U., Le disgrazie di Bon¬
tempelli, pubblicata con lo pseudonimo « Torcibudella » nel-
l’« Italiano » del 15-30 luglio ’26, Bontempelli rispose dalle co¬
lonne del « Tevere » (Al Torcibudella, « Il Tevere », 5 agosto)
e U. replicò sullo stesso giornale il 6 agosto. Si arrivò cosi,
quello stesso giorno, allo schiaffo di Bontempelli a U. nella ter¬
za saletta del Caffè Aragno (cfr. Leorie Piccioni, Vita di ttn
poeta / Giuseppe Ungaretti, Rizzoli, Milano 1970, p. 138). U.
sfidò a duello Bontempelli. L’8 agosto avvenne lo scontro, così
descritto nel « Tevere » del successivo lunedì 9 agosto:
« L’incidente sorto ' fra Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontem¬
pelli in seguito alla nota polemica svoltasi su queste colonne,
ha avuto il suo epilogo: ieri i due scrittori hanno vidé lem
querelle - abbiamo segreti motivi per dirlo in francese - sul
terreno e con la spada in pugno. L’avvenimento ha avuto una
cornice elettissima, essendosi svolto nella villa di Luigi Piran¬
dello a Sant’Agnese alla presenza di alcune personalità dell’arte
e del giornalismo italiano. Giuseppe Ungaretti coi suoi secondi
Mauro Ittar e Federico Nardelli, e Massimo Bontempelli rap¬
presentato da Mario Baratelli e Gabriellino d’Annunzio, si sono
trovati di fronte alle 18, agli ordini d’un direttore di scontro
degno dell’avvenimento: Agesilao Greco. Assistevano i dottori
Tripodo e Ribolla.
« Dopo tre assalti valentemente condotti con attrito continuo,
Giuseppe Ungaretti è rimasto ferito all’avambraccio destro e lo
scontro è cessato.
« Agesilao Greco compiacendosi dell’eleganza e dello spirito ca¬
valleresco con cui il. combattimento era stato condotto invitava
908 Note

con parole nobilissime gli avversari a riconciliarsi, e questo av¬


veniva subito con molta spontaneità e affetto dalle due parti. »

p. 143
STATO DELLA PROSA FRANCESE ,In « L’Italiano », Bolo¬
gna, a. II, n. 1-2, 15 febbraio 1927, p. 2. L’articolo era stato
prima pubblicato nel « Mattino » di Napoli dell’1-2 gennaio
del '21. Questa seconda stesura, risulta notevolmente più ampia
della prima, pur avendo contemporaneamente subito qualche ta¬
glio, e diverse correzioni che sveltiscono il discorso. L’aggiunta
più importante, è costituita dal lungo brano che va da « E l’in¬
cauto alza un inno al lancio all’americana » a « esercitarci a
giudicare delle vatie qualità di bluff? ». L’inizio era invece più
esteso nel testo del «Mattino», che diceva infatti:

Due o tre anni fa, Simon Kra di Parigi mise in commercio


««'Antologia della nuova poesia francese, tenendo celati i nomi
degl’ispiratori e dei compilatori. U«'Antologia della nuova prosa
francese vede ora la luce presso il medesimo editore, avvolta
nello stesso segreto di Pulcinella.
Diciamo subito che la recente raccolta non ha nulla da invi¬
diare alla precedente, da tutti lodata, insieme alla quale non
sarà di troppo lume in un campo pieno di tranelli.
Non ho intenzione di dare un’occhiata all’opera completa; mi
limiterò qui a esaminare, molto sommariamente, l’Antologia del¬
la prosa.
L’impresa fu guidata da quali mire?
La prefazione al libro della prosa parla d’un’evoluzione della
lingua francese. Da dieci anni circa... ecc.

1 Seguiva qui, nel « Mattino », il seguente paragrafo:


Non vogliamo da ciò concludere che comunque una singolarità
di scrittore e, di conseguenza, un contributo al rinnovamento
delle forme e della sostanza non siano possibili facendo il sol¬
letico al pubblico; c’è parsa, questa condiscendenza, in linea di
massima, un’eresia, e, nel caso presente, un errore un po’ grosso.
2 Vedi Innocenza e memoria e Innocence et mémoire, pp. 132-
138.
3 II « Mattino » diceva invece:

Un Fargue che guarda dall’alto, salendo, le cose, per poterle


« vedere come una focaccia luminosa, ricchissima, dove posso
scegliere i miei capperi e i miei chicchi d’uva ».

p. 149 v
ORIGINALITÀ DEL FASCISMO In « Il Mattino », Napoli,
20-21 febbraio 1927. La prima parte di questo articolo, quella
Scritti letterari 1918-1936 909

mossa dal libro di Johannet, era apparsa nel giugno 1924, con¬
temporaneamente sullo « Spettatore Italiano » e sull’« Idea Na¬
zionale », nello scritto Elogio della borghesia.
Qui sono aggiunti il brano su Groethuysen e la pagina finale
sul fascismo. Il discorso su Groethuysen, col quale U. aveva
anche rapporti di amicizia personale, verrà ampliato nell’articolo
Borghesia apparso sulla « Gazzetta del Popolo » del 30 gennaio
1931, che completa, per v così dire, la tri-eulogia di U. sul-
P« homo borghese ». Traspare con evidenza dai tre articoli, che
per il poeta il fascismo non si poneva quale forza puramente e
grettamente conservatrice della borghesia capitalistica, ma invece
come prospettiva di superamento (mistico) delle classi. È per
questo che nella critica alla classe borghese egli sta contro il
cattolico Johannet e-il liberale Croce con il «marxista» Groeth¬
uysen.
Il rimprovero a U. della sua aderenza al fascismo è stato più
o meno ricorrente, anche se non acceso, nella stampa italiana,
e non solo italiana, degli anni successivi al dopoguerra. E sem¬
pre ha provocato violente repliche del poeta. (Si vedano, p. e.,
due lettere, la prima, Ungaretti: « Non, certes, je n’ai pas joui
des faveurs de Mussolini » nel « Figaro Littéraire » del 7 no¬
vembre 1959, di'risposta a un articolo nello stesso giornale di
Felice Bellotti; la seconda. Dopo l’intervista di Quasimodo / Una
lettera di Ungaretti, nel « Paese Sera » del 20-21 gennaio 1960.)
Il fatto è che è impossibile giudicare il « fascismo » di U.,
dal ’19 alla guerra, semplicemente come un fatto personale.
E un preciso esame storico dell’« abbaglio » preso nei riguardi
di Mussolini da due intere generazioni di scrittori italiani, non
è stato ancora fatto. Anche perché nessuno degli « abbagliati »
ha mai sentito il bisogno di lacerarsi nelle radici del proprio
profondo per conoscere la verità personale del proprio musso-
linismo, piuttosto che fascismo: a scorrere le collezioni dei gior¬
nali e delle riviste italiane del ventennio nero, infatti, si ve¬
drebbe che il nocciolo della fiducia accordata dagli scrittori ita¬
liani a Mussolini, dal 95% degli scrittori italiani, cioè, non era
fondato su una motivata adesione agli aspetti totalitari del fa¬
scismo, che sono invece la base della nostra polemica attuale,
quanto su una immagine paraprogressista, pararivoluzionaria, an¬
tiborghese, che Vintellighentsia italiana si era creata del « Du¬
ce ». U. non fa eccezione alla regola. Tanto più che lo lega¬
vano a Mussolini rapporti di amicizia personali, che risalivano
all’immediato primo dopoguerra, quando U. divenne corrispon¬
dente da Parigi del « Popolo d’Italia ». Vi sono nell’archivio
del poeta quattro brevi lettere di Mussolini a U., di quel pe¬
riodo, che riproduciamo qui appresso, e che' nella loro catego¬
ricità ducesca fanno in qualche modo da sfondo psicologico
910 Note

alla visione populistico-nazionalistico-mistica che Ungaretti mo¬


stra di avere, in questo articolo, del fascismo.

i
20 ott. 1919
Giuseppe Ungaretti
Rue des Carmes 3
Parigi
Carissimo,
non ho ricevuto il vostro libro. Mandate per lettera una corri¬
spondenza settimanale sulla politica generale francese (elezioni,
crisi socialista, etc.). Prenotatevi per il telefono. Credo anch’io
che l’annessione sia inevitabile. Vi faccio mandare un po’ di
denaro.
fraternamente vostro
Mussolini

il
13 die. 1919
Giuseppe Ungaretti
Rue des Carmes 5
Parigi
Carissimo,
Marinetti è in libertà. Tutto bene. È necessario che vi mettiate
al lavoro. Necessarissimo. Se non si telefona, scrìvete delle let¬
tere, ma fatevi vìvo!
Cordialissimamente
Mussolini

ni
Milano, li 24 dicembre 1919
Caro,
riporto la vostra lettera, adattandola a fervorino per gli abbonati
[è il Piano di lavoro, pubblicato con poche righe di cappello
redazionali nel «Popolo d’Italia» del 30 dicembre 1919J. Ho
il piacere di dirvi che siamo in aumento sull’anno scorso. Ciò
è confortante. Quanto al telefono io credo che possiate avere
una comunicazione nelle ore pomeridiane - dalle 18 alle 19 -
come ha Arturo Foà della « Sera ». Niente impegni con L’Azione
di Genova e niente lavoro. Quanto al giornale di Campolonghì
[il « Don Quichotte - Quotidien d’action latine »], bisogna ve¬
dere che cosa vi chiede. Se si tratta di qualche articolo, non
più di 3 o 4 al mese, può andare; di più, no. Mio fratello deve
avervi mandato un po’ di galletta.
Cordialissimi saluti e auguri e avanti.
Mussolini
Scritti letterari 1918-1936 911

IV
[La lettera è senza data, ed è vergata su un foglio intestato
Il Presidente del Consiglio dei Ministri. È precedente al dicem¬
bre 1923, e costituisce la risposta di Mussolini alla richiesta di
U. di una sua prefazione alla nuova edizione del Porto Sepolto.
Tale prefazione di Mussolini è riportata da U. in Vita d'un
uomo / Tutte le poesie, Mondadori, 1969, pp. 552-553.]

Caro Ungaretti,
sta bene; ma riuscirò mai ad avere il tempo necessario per leg¬
gere il vostro libro e parlarne quindi, con devota cognizione di
causa? Lo spero, ma voi', forse, non potrete attendere.
Vi saluto con la vecchia cordialità.
Mussolini

Di non minore interesse è la frammentaria minuta d’una let¬


tera di U., probabilmente degli inizi degli anni Sessanta, che
s’è trovata tra le carte del poeta:

Mon très cher ]ean [Fautrier? Paulhan?],


Nous allons nous revoir bientót et j’attends impatiemment ce
moment.
Ahi Mussolini. Bien sur, fé Vai beaucoup aimé, et la grande
partie des Italiens. Étions-nous clairvoyants? Lénine, si j’ai bon-
ne mémoire, avait dit à Serrati: « Pourquoi avez-vous laissé par¬
tir Mussolini? ». Et Sorel aussi pensait que c’était le seni hom-
me, surgi des mouvements révolutionnaires, capable d’entre-
prendre une action d’une envergure puissante.
Quelle était la situation italienne en 1919? La fermeture des
portes à l’émigration italienne par les États-Unis et l’Amerique
du Sud (300.000 personnes chaque année) et Vaugmentation de
la population toujours croissante, rendait assez grave le problè-
me social. (La campagne en faveur des naissances est une des
nombreuses incohérences de la politique de Mussolini; mais il
pensait alors à l’Empire et à la guerre, pour notre malheur.)
On ne pouvait pas penser à une solution communiste. Notre
pays était trop pauvre pour se livrer à une aventure comme
celle de la Russie qui possedè des richesses aux ressources infi-
nies, et un territoire très peu peuplé et immense. En Italie le
socialisme n’est possible que si toute l’Europe fait la mime
expérience. D'autre part il y avait une culture d'illustre, de très
illustre tradition dont il était nécessaire de sauver l’essentiel:
c’était une responsabilité que nous avions vis-à-vis de l’Europe
et de l’humanité entière.
ìe le sais bien: la grosse bourgeoisie appuyait Mussolini et les
plus déplorables exploits du Fascisme par crainte des Commu-
912 Note

nistes, par crainte, c'est-à-dire, de perdre ses sous. Ce riest qu’un


còté des choses, le plus insignifiant.
Que sa proposait-il Mussolini? De résoudre autant que possible
notre situation sociale qui était, et en partie l’est encore, épou-
vantable.
Tout auraìt été pour le mieux, s’il n’avait pas subi, dès le
début, et de plus en plus arrivé au pouvoir, l’[...]
1 L’articolo, uscito nel febbraio ’27, dev’essere stato scritto alla
fine del ’26, poiché inizia « Due anni fa », mentre il libro di
Johannet, Eloge du bourgeois franqais, era stato pubblicato, e
recensito da U., nel 1924.
2 Si tratta naturalmente della « Voce », da U. menzionata espres¬
samente nello scritto del ’24.

p. 154
DIFESA DELL’ENDECASILLABO In « Il Mattino », Napoli,
4-5 marzo, 31 marzo-l° aprile, 19-20 aprile 1927. Seguendo le
indicazioni probabilmente date dall’autore per la ristampa di
tre suoi articoli del « Mattino » nella rivista « Corrente di vita
giovanile » del 15 giugno 1939, si sono qui uniti sotto un unico
titolo quei testi, apparsi in tre diversi numeri del giornale di
Napoli nel 1927: il primo, L’endecasillabo, uscito Con un’altra
nota di U., intitolata Arte e denaro, come parte di un unico
elzeviro, Del più e del meno, nel numero del 4-5 marzo; il
secondo, Difesa dell’endecasillabo, apparso nel numero del 31
marzo-l° aprile; il terzo, Metrica o estetica? pubblicato nel nu¬
mero del 19-20 aprile. A differenza di quanto fatto dalla rivista
milanese, però, si è mantenuta qui la distinzione originaria dei
testi, conservando come sottotitoli i titoli del « Mattino ».
I tre articoli di U. nascono come una lunga polemica con Flora
sulla natura e la funzione del metro-principe italiano, polemica
che coinvolse anche Emilio Cecchi, e i cui echi e svolgimenti, per
quanto riguarda l’autore di Sentimento del Tempo, arrivano fi¬
no alle sue lezioni brasiliane sulla metrica. L’occasione al dibat¬
tito era stata data da un articolo pubblicato da Francesco Flora
sul « Mattino » di Napoli nel settembre del 1926, La crisi dei
versi. Ad esso aveva ribattuto Emilio Cecchi, con una nota
apparsa sui « Libri del giorno » nel febbraio del 1927, nota che
aveva provocato una risposta del Flora sulla « Fiera Letteraria ».
È da questa risposta che prende avvio l’intervento di U. Ecco
una nuda cronologia della polemica a partire da questo punto:
1) F. Flora, Morte e resurrezione dell’endecasillabo (nella rubri¬
ca « La colonna infame »), « La Fiera Letteraria », 13 febbraio
1927.
2) G. Ungaretti, L’endecasillabo, « Il Mattino », 4-5 marzo ’27.
Scritti letterari 1918-1936 913

3) F. Flora, Preliminari all’endecasillabo (« La colonna infa¬


me »), « La Fiera Letteraria », 13 marzo '21.
4) F. Fiera. Il numero nel verso italiano / A proposito delle
ultime polemiche sull'endecasillabo, « La Fiera Letteraria », 20
marzo ’27.
5) G. Ungaretti, Difesa dell’endecasillabo, « Il Mattino », 31
marzo-l° aprile ’27.
6) F. Flora, Congedo ad una polemica (a proposito dell’ende¬
casillabo), «Il Mattino», 3-4 aprile ’27.
7) G. Ungaretti, Metrica o estetica?, « Il Mattino », 19-20 aprile
’27.
La polemica ebbe una coda Cecchi-Flora. Cecchi intervenne con
una nota ancora nei « Libri del giorno » dell’aprile ’27, a cui
Flora rispose con La tregua dell’endecasillabo {« La colonna in¬
fame ») nella « Fiera Letteraria » del 17 aprile dello stesso anno.
Flora raccolse poi i suoi interventi sotto il titolo La polemica
dell’endecasillabo, in Taverna del Parnaso, Prima serie, Tummi-
nelli, Roma 1943, pp. 113-160.
1 Canto VII, 5.
2 Au sujet d’« Adonis », in 'Variété, La Nouvelle Revue Fran-
?aise, Paris 1924. U. aveva citato il passo in questione nella con¬
ferenza Punto di mira, del 1924 (vedi p. 291).
3 Iacopone, Laude XC, Amor de cantate, perché m’hai sì fe¬
rito?, vv. 267-274. U. cita-isolati i settenari che nelle edizioni
recenti di Iacopone vengono accoppiati.
4 Cfr. Fase d’oriente, nell’Allegria (Tutte le poesie, 1969, p.
27), ai vv. 8-10:

Ci rinveniamo a marcare la terra


con questo corpo
che ora troppo ci pesa

s Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici, I, 105.

p. 170
COMMEMORAZIONE DEL FUTURISMO In « Il Mattino »,
Napoli, 27-28 agosto 1927. Diverse delle osservazioni qui pre¬
senti sulla macchina e la poetica marinettiana, verranno riprese
da U. nella risposta alVInchiesta mondiale sulla poesia pubbli¬
cata nella « Gazzetta del Popolo » del 31 ottobre 1931 (vedi
Naufragio senza fine, pp. 262-66), e di lì poi travasate in altri
scritti.
Nel nostro testo, sono accolte alcune correzioni fatte dall’autore
su una copia del « Mattino ». In particolare: e quindi l'arte
diviene e quindi la poesia-, trascuriamo di plasmare i nostri atti
[...] e siamo dannati diventa trascureremmo di trasfondere le
914 Note

nostre ispirazioni [...] e saremmo dannati; Noi occidentali non


arriviamo a spiegarci Dio viene modificato in Noi Italiani non
arriviamo a spiegarci l'Eterno.
%

1 Questo periodo venne cancellato da U. sulla copia del « Mat¬


tino » citata.
f

p. 174
DOSTOIEVSKI NAZIONALISTA E IMPERIALISTA In « Il
Mattino », Napoli, 27-28 settembre 1927. L’articolo fu ripreso
due anni più tardi, nel « Resto del Carlino » dell’8 maggio 1929,
con diverse varianti, e il nuovo titolo Idee politiche di Dosto-
ievski. Nel nostro testo, si sono riportate le correzioni fatte
a penna da U. su una copia del « Mattino ». Nel ’29, la pagina
iniziale fu sostituita dal seguente esordio:

Ultimamente rileggendo il Diario d’uno scrittore, raccolta degli


articoli mandati da Dostoievski ai giornali dal 1873 al 1877,
una facoltà di quell’uomo di genio m’appariva in piena luce.
Diciamo dì solito ch’egli era un visionario, e non c‘inganniamo,
ma dovremmo anche dire ch’egli possedeva un acume critico
d’una potenza rara, e, per esserne convinti, basterà fermarci, per
esempio, alle pagine che nel Diario trattano di politica.
Vogliamo rileggere alcune di quelle pagine?

1 Nel testo del ’29, il passo che qui segue, da « C’è un’unica
religione vera » fino a « Non gli faceva paura la guerra », è
sostituito da quest’altro:

Ci dice in Vlass; « Il bisogno spirituale più profondamente ra¬


dicato nel Russo è un bisogno di sofferenza, di sofferenza ine¬
sauribile e continua. Vretendono che il popolo russo non cono¬
sca affatto il Vangelo, ch’egli ignori persino i comandamenti
che sono la base delta nostra fede. Difatti è così, ma egli cono¬
sce Cristo e lo porta nel cuore per sempre. Il popolo russo è
fiero di chiamarsi ortodosso, cioè confessore della vera fede in
Cristo ».
A questo punto il pensiero di Dostoievski è diviso. Risoluta-
mente egli considera chiuso il periodo di Pietro il Grande. Ma
la missione del popolo russo come si avvererà? Detentore della
forza religiosa, ad- esso spetta l’impero sull’umanità, ma come
lo conquisterà? Sarà un evento imprevedibile, a capo di quel-
l’« ignoto nel quale » cito Dostoievski « il popolo russo nuota
da lungo tempo »? Vedremo anche, e a molti non recherà po¬
ca sorpresa, un Dostoievski fautore dell’azione ed esaltatore del¬
la volontà:
Scritti letterari 1918-1936 915

2 L’articolo del ’29, in luogo di questa riga, concludeva così


(utilizzando dunque ancora in buona parte il testo del ’27):

In ogni caso il bolscevismo lo avrebbe sorpreso. Egli definiva il


socialismo: « Colmo dell'egoismo ecc. ».
Quale amarezza sarebbe stata la sua se i suoi occhi avessero po¬
tuto vedere la sua patria caduta nelle mani di un manipolo di
atei, e di nuovo, dopo Pietro il Grande, la Moscovia fatta cam¬
po d’esperimento del materialismo occidentale. E non dico che
non ne uscirà bene, non ne so nulla, dico che Dostoievski non
era il profeta - s'era profeta, come vogliono alcuni, di rivolu¬
zioni - di questa rivoluzione.

p. 178
ARTE, AFFARI E ABRACADABRA In « Il Resto del Carli¬
no », Bologna, 21 luglio 1928.

p. 182
DI UN DIFETTO DELLA CRITICA In « Il Resto del Car¬
lino », Bologna, 23 agosto 1928.
1 Gino Saviotti, Troppa intelligenza, « La Fiera Letteraria », 15
luglio 1928. La « polemica sull’arte narrativa » continuò fino al
numero del 26 agosto della « Fiera », con articoli tra gli altri
di F. Perri, G.B. Angioletti, B. Tecchi, A. Frateili, F. Flora, U.
Fracchia.
2 Arrigo Cajumi, Modernità e tradizione, « La Fiera Letteraria »,
5 agosto ’28.

p. 188
Intervista con G.B. Angioletti: LA POESIA CONTEMPORA¬
NEA É VIVA O MORTA? In « L’Italia Letteraria », Roma,
a. I, n. 11, 16 giugno 1929, p. 1. L’intervista apparve col titolo
La poesia contemporanea è viva o morta? / Che cosa risponde
Giuseppe Ungaretti, e a firma Giovan Battista Angioletti. I di¬
versi sottotitoli, qui posti in parentesi quadre, sono prababil-
mente di mano redazionale. Alcune delle osservazioni su Leo¬
pardi qui fatte, U. le svilupperà più tardi nella conferenza II
pensiero di Leopardi. (Vedi pp. 331 e seguenti.)
1 Ungaretti probabilmente pensa, ma non vuole dirlo, a Mari¬
netti: « L’analogia non è altro che l’amore profondo che col¬
lega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili » (Mani¬
festo tecnico della letteratura futurista, 1912); « Ecco perché
l’immaginazione del poeta deve allacciare fra loro le cose lon¬
tane senza fili conduttori [...] Collo scoprire nuove analogie tra
cose lontane e apparentemente opposte noi le valuteremo sem-
916 Note

pre più intimamente » (■Distruzione della sintassi. Immaginazione


senza fili. Parole in libertà, 1913).
2 Parini, Il Messaggio (1793), vv. 31-36.
3 Cfr. Primo amore (1929) in Sentimento del Tempo (vv. 5-7;
in Tutte le poesie, 1969, p. 157).

Era una notte afosa ’


Quando improvvise vidi zanne viola
In un’ascella che fingeva pace.

U. comunque qui si riferisce alla prima redazione della poesia


Il capitano, pubblicata nell’« Italia Letteraria » del 19 maggio
1929, di cui quei versi di Primo amore facevano dapprima par¬
te. Nel momento dell’intervista, dunque, l’« immagine » cui il
poeta alludeva era contenuta nei versi seguenti:

Era una notte urbana, afosa e strana,


nella luce sulfurea e rosa,
quando improvvise vidi
inquiete Zanne viola, nell'ascella
mentre una pace oscura simulava
e, nella sorta tenda riposavo,
la pensierosa e trepida gazzella
nella mano veniva a bere.

p. 198
VOGLIAMO ESSERE AUDACI? In « Il Tevere », Roma, 7-8
marzo 1929.

p. 201
CRITICA E ARTE In « Il Tevere », Roma, 24-25 aprile 1929.

p. 203
RISPOSTA ALL’ANONIMO In « Il Tevere », Roma, 16-17
maggio 1929.

1 Vedi Verso un’arte nuova classica (« Il Popolo d’Italia », 10


marzo 1919), p. 13 del presente volume.

p. 205
UN ROMANZO In « Il Tevere », Roma, 9-10 agosto 1929.

p. 207
PER MALLARMÉ In « Il Tevere », Roma, 28-29 settembre
1929.
Scritti letterari 1918-1936 917

p. 210
ANCORA PER MALLARMÉ In « Il Tevere », Roma, 2-3 ot¬
tobre 1929.

p. 211
CLASSICO, ROMANTICO... In « Il Resto del Carlino », Bo¬
logna, 23 ottobre 1929. La parte centrale del saggio, riprende
pressoché testualmente una sezione di Stato della prosa fran¬
cese, del 1927, e precisamente quella che costituisce la diffe¬
renza tra la prima (gennaio) e la seconda (febbraio) redazione
dell’articolo (vedi pp. 144-45, e la nota al testo).

p. 215
SAGGISTI FRANCESI In « L’Italia Letteraria », Roma, a.
V, n. 48, 17 novembre 1929.
1 Si veda in proposito, Stato della prosa francese, pp. 143-145.

p. 221
NOTES ET PENSÉES [DE GIACOMO LEOPARDI] In « La
Nouvelle Revue Frammise », Paris, 1" Avril 1930, pp. 462-469.
Con riferimento a questa scelta e traduzione di pensieri leopar¬
diani, U. scriveva in una lettera del 1928 al suo amico Jean
Paulhan, direttore della « Nouvelle Revue Frangaise »:
Mon cher Jean,
fé te remercie tant tant du soin que tu as mis à revoir ma
traduction. Elle est maintenant plus à toi qu’à moi. [...] En
tout cas, c’est la première fois que la pensée de Leopardi est
présentée — est apergue - telle qu'elle est. J'ai lu presque tout
ce qui a été écrit sur lui. [...] C’est encore un travati terrible
que je te donne. Mais c’est un esprit enorme qu’il faut révéler
au .monde. Infniment plus tragique et plus puìssant et plus
humain que Nietzsche. Et Nietzsche le connaissaìt bien. Il y
a des lettres, et des notes qu’on a publiées après sa mort qui
montrent combien il en avait été frappé, et comme philologue
et comme philosophe. Si je me sens bien, je voudrais faire pré-
céder ma traduction d’une note sur l’idée du mal telle qu’elle
se manifeste en Occident, depuis Dante. Et chez Dante, déjà.
Le monde moderne, notre crise, commence avec lui.
(Vedi: L. Rebay, Ungaretti a Paulhan: otto lettere e un auto¬
grafo inediti, « Forum Italicum », June 1972, pp. 282-283.)

P- 229 ,
PERCHE SCRIVETE VOI? In «L’Italia Letteraria», Roma,
a. II, n. 9, 2 marzo 1930. È il primo d’una serie di quattro
918 Note

articoli che portavano un unico titolo generale, « Idee e lettere


della Francia d’oggi ».

1 Cfr. Littérature », n. 11, Janvier 1920: Pourquot écrivez-


vous? (vedi nota alla risposta di U., p. 893).

p. 237
L’UOMO BUIO In « L’Italia Letteraria », Roma, a. II, n. 15,
13 aprile 1930, p. 1. È il secondo dei quattro articoli della se¬
rie « Idee e lettere della Francia d’oggi ». Il primo, Perché scri¬
vete voi?, apparve il 2 marzo dello stesso anno, mentre i due
successivi, dedicati a Lautréamont, furono pubblicati il 27 aprile
e il 22 giugno successivi.

1 Perché scrivete voi?, « L’Italia Letteraria », 2 marzo 1930 (ve¬


di pp. 229-236 di questo volume).

p. 241
IL PASSATO DI LAUTRÉAMONT In « L’Italia Letteraria »,
Roma, a. II, n. 17, 27 aprile 1930, p. 1.

1 Non risulta dalla bibliografia di Lautréamont alcuna edizione


curata da Cendrars. Probabilmente U. si riferisce qui ai Chants
de Maldoror apparsi a Parigi, edizioni la Sirène, nel 1920, con
prefazione di Rémy de Gourmont. E il luogo di pubblicazione
indicato nell’articolo, « Firenze », sarà chiaramente un abbaglio
del linotipista.

p. 246
LAUTRÉAMONT ovverosia ODORE DI BRUCIATO In « L’I¬
talia Letteraria», Roma, a. II, n. 25, 22 giugno 1930, p. 1.
Apparso col titolo Odore di bruciato, quarto e ultimo articolo
della serie « Idee e lettere della Francia d’oggi ». Il titolo at¬
tuale fu adottato da U. nel 1967.

1 Vedi II passato di Lautréamont, « L’Italia Letteraria », 27


aprile 1930 (e in questo volume, p. 244).

p. 252
LA CRITICA ALLA SBARRA In « Gazzetta del Popolo », To¬
rino, 31 dicembre 1930. La seconda parte dell’articolo, da « L’ar¬
te ha dunque un fine; e la storia » al termine, venne ripub¬
blicata, senza alcuna modificazione, ma col titolo Sulla narra¬
tiva, in « Beltempo », Almanacco delle Lettere e delle Arti, Edi¬
zioni della Cometa, Roma 1941, pp. 97-98.
Scritti letterari 1918-1936 919

p. 257
CAUSE DELL ATTUALE CRISI In « Gazzetta del Popolo »,
Torino, 28 febbraio 1931. L’articolo s’intitolava nella « Gaz¬
zetta », Cause della crisi moderna. L’autore adottò il nuovo ti¬
tolo nel 1967. Il passo di Cochin citato all’inizio dell’articolo,
U. l’aveva già riportato nel ’24, a conclusione di Elogio della
borghesia (« Lo Spettatore Italiano », n. 4, pp. 360-364).

p. 262
NAUFRAGIO SENZA FINE (.Risposta a un’inchiesta sulla poe¬
sia) In « Gazzetta del Popolo », Torino, 21 ottobre 1931, p. 3.
Questo testo costituisce la risposta di U. al questionario della
Inchiesta mondiale sulla poesia promossa dalla « Gazzetta ». Ta¬
le questionario diceva:

Abbiamo aperto sugli aspetti spirituale ed estetico del problema


della poesia nel mondo un’inchiesta alla quale sono chiamati a
rispondere i rappresentanti più insigni dell’arte e del pensiero
del nostro e degli altri Paesi. Le domande sulle quali chiedia¬
mo ai poeti e ai pensatori di tutto il mondo di pronunciarsi so¬
no le seguenti:

1. Qual è oggi la situazione della poesia nel mondo?


2. Quali sono le sensibilità nuove che vi si manifestano, volte
alla ricerca di nuova materia di ispirazione e di forme origi¬
nali?
3. Esiste una nuova poesia che si ispira alla civiltà meccanica
del nostro tempo?
4. Quali sono le nuove possibilità tecniche della poesia, e quale
valore attribuite alla sua evoluzione che dai metri chiusi ha con¬
dotto al verso libero e al dì là di questo alle parole in li¬
bertà?

In quel numero della « Gazzetta », oltre a quella di U. v’erano


le risposte di Franz Hellens e del « futurista » Mario Carli. Il
testo di U. era preceduto dalla seguente nota redazionale:

La risposta di Giuseppe Ungaretti, poeta allo stato di grazia, è


di quelle che confermano la santità d’una fede. Dietro il volto
ermetico della sua Musa, tremano le luci delle aurore più pure,
vibra il sentimento della natura e della umana pietà. La fama
internazionale d’Ungaretti cresce ogni giorno: l'ultimo fascicolo
della « Nouvelle Revue Frangaise » reca quattro suoi Inni tra¬
dotti da Pierre Jean fouve come si deve tradurre la poesia.
U. utilizzò in numerose occasioni le risposte di quest’intervista,
particolarmente nella seconda parte della conferenza Poesia e
civiltà (vedi pp. 317-323), pubblicata nel ’34 col titolo Attualità
920 Note

dell'arte, e con titoli diversi nel secondo dopoguerra. Con note¬


voli modificazioni, poi, Attualità dell’arte venne inclusa nel sag¬
gio Ragioni di una poesia («Inventario», primavera 1949; ve¬
di pp. 1754-761). Il titolo, Naufragio senza fine, che riprende un’e¬
spressione del testo, fu adottato dall’autore durante la fase pre¬
paratoria del presente volume.
P

p. 267
[LE PRIME MIE POESIE...] In «La Tribuna», Roma, 6
giugno 1933, p. 3. Il testo apparve sotto il titolo Poesia e uma¬
nità di Ungaretti, ed era seguito da un lungo commento di
Arnaldo Fratelli, a cui anzi fungeva da pretesto: infatti il ti¬
tolo appartiene al commento di Fratelli piuttosto che al di¬
scorso di U., che si è qui intitolato con un’espressione tratta
dal testo stesso. Fratelli ne giustificava così la pubblicazione,
all’inizio della sua nota:
« Con queste parole Giuseppe Ungaretti ha accompagnato sa¬
bato sera una lettura .delle sue liriche più significative, tenuta
all’Istituto Fascista di Cultura. L’amara veemenza con cui le ha
pronunciate tra un balenare minaccioso dei suoi piccoli occhi
azzurri, parlando egli a un pubblico di ammiratori e di amici
che non si stancavano di applaudirlo, può essere sembrata ecces¬
siva a chi non conosce l’animo di Ungaretti in cui le intem¬
peranze del sentimento nascono sempre da una ferma coscien¬
za, da una fondamentale bontà, da una fede appassionata nella
missione morale e civile della poesia, e da uno sdegno altret¬
tanto appassionato contro tutto ciò che gli appare diretto ad
offenderla o soltanto a diminuirla... »
La parte centrale del discorsetto, da « Le prime mie poesie »
alla fine, fu pubblicata anche, nel luglio dello stesso anno, col
solo titolo Ungaretti ripetuto quattro volte, negli « Oratori del
giorno » di Roma, pp. 36-37.

1 Apparentemente qui U. sorvola sul fatto che le sue prime poe¬


sie, scritte a Milano tra il settembre e il dicembre 1914 e pub¬
blicate pochi mesi dopo in « Lacerba », in nessun modo sono
o possono chiamarsi « poesie di guerra ». Ma, a parte il bisogno
polemico di ribattere, in questa occasione specifica, all’accusa
di tenersi « assente dal pubblico », l’affermazione è fondata su
consapevoli ragioni di linguaggio. Si veda in proposito Ungaretti
commenta Ungaretti, p. 820.

p. 270
POESIA E PITTURA In « L’Italia Letteraria », Roma, 20 ago¬
sto 1933. Come in un testo successivo, Caratteri dell’arte mo¬
derna, U. aveva in questo innestato su un autonomo discorso
Scritti letterari 1918-1936 921

di riflessione critica, la presentazione di un artista contempo¬


raneo; ma l’associazione aveva un carattere chiaramente fortuito.
S’è dunque ritenuto opportuno scindere anche qui i due di¬
scorsi, come U. fece poi per Caratteri dell’arte moderna, iso¬
lando nella sua definita intensità quello su poesia e pittura, e
riportando in nota quello sulla pittrice Dora Mancuso. Il brano,
da « Una prima idea dell’arte della Signora Mancuso » a « l’ora
di calce viva dell’estate, ecc. » precedeva il discorso vero e pro¬
prio su Poesia e pittura, mentre il paragrafo « Quella figura che
la pittrice ha chiamato Oriente » concludeva l’articolo. Ecco
dunque il discorso in questione, su Dora Mancuso:

Una prima idea dell'arte della Signora Mancuso devo averla avu¬
ta saranno dodici anni, sfogliando un numero dei « Valori Pla¬
stici » dove avevano riprodotto un suo dipinto.
Un albero torto e chinato dalla sete, una terra dalle viscere fu¬
renti, una figura tragica — poteva la memoria sciogliersi da tanta
ossessione?
Recentemente la pittrice mi ha mostrato il complesso della sua
opera dall'inizio. Paesaggio o figura, difatti, il suo punto di mi¬
ra era il moto più dolorante. Spavento dei volumi e angoscia
del disegno la spingevano a liberarsi dai primi rivelandone il
peso minaccioso: per quanto breve sia un lampo di solitudine;
appare il macigno che ci trema sul capo; — e, d’altra parte, non
avendo scelti a modello se non bimbi, strappava alla grazia delle
linee un lamento inaudito. Non so quale fatalità l’ispirava, della
miseria umana e della potenza livida degli elementi.
Il suo accento era sordo. La sua tavolozza era tenebrosa: quel
rame che allega i denti, quell’aria di ferro fuso...
La pittrice, nel silenzio, ha fatto da quel tempo un lunghissimo
viaggio sul fiume degli occhi. Innanzi tutto ha imparato che il
colore è una mirabile apparizione. Poche tazze adunate, e di
colpo un rosa antico, il più imprevisto, mette sulla tela la ca¬
rezza d’un sangue di dolcezza infinita.
Combatte poi col colore più difficile, e ne fa ciò che le pare:
bianco serico, bianco vitreo, bianco di nuvole, bianco cereo, l'o¬
ra di calce viva dell’estate, ecc.

Quella figura che la pittrice ha chiamato Oriente, quell’occhio


invisibile, quell’ombra del ciglio che turba la luce della manica
del braccio posato, andirivieni arancio, bianco, rosso d’anelli -
di quale desiderio legato per sempre, è immagine? Quale sogno,
che non sapremmo conoscere, è perso in lei?
922 Note

p. 272
L’ACTION ET L’ESPRIT (1925/1935?). Questo testo è stato
rinvenuto tra le carte di U. come bozza di stampa. Si tratta di
due pagine stampate su un foglio doppio, sul solo recto, col
titolo in alto a sinistra e la firma, Giuseppe Ungareti (sic) in
basso a destra. In alto a sinistra, nella pagina di sinistra, c’è
scritto Nouvelle Revue, e sulla stessa linea, a destra, nella stessa
pagina, Placarci 84. Ci sono due correzioni autografe di U.,
dérivées al posto di senties cancellato, e tonte aggiunto davanti
a saignante. Era una nota che doveva apparire sulla « Nouvelle
Revue Fran^aise », e non fu invece mai stampata? Sembra la
conclusione più verosimile, al momento, che se ne possa trarre.

p. 274
RIFLESSIONI SULLA LETTERATURA In « Gazzetta del Po¬
polo », Torino, 13 marzo 1935. Dei due scritti di cui è com¬
posto l’articolo, il primo, Costanza del canto... venne ripreso,
con l’esclusione dei due primi periodi, in Ragioni di una poesia
(« Inventario », primavera 1949, vedi pp. 751-53), poi nelle Quel-
ques réflexions... premesse a Les Cinq Livres (Editions de Mi-
nuit, 1953), e infine nelle Ragioni d’una poesia premesse a Vita
d’un uomo / Tutte le poesie. Il secondo, Epilogo a Vaichiusa,
confluì nel saggio sul Petrarca II poeta dell'oblio (vedi p. 414).
1 « Diorama » era il titolo della pagina letteraria settimanale del¬
la « Gazzetta del Popolo ».

p. 277
CARATTERI DELL’ARTE MODERNA In «Gazzetta del Po¬
polo », Torino, 11 maggio 1935. Pubblicato dapprima su un vo¬
lantino come testo di catalogo per la mostra del pittore Gu¬
glielmo Janni alla Galleria della Cometa di Roma (11 maggio-1°
giugno 1935), questo scritto venne poi ripreso in « Beltempo »,
Almanacco delle Lettere e delle Arti, Edizioni della Cometa, Ro¬
ma 1942, pp. 172-174, col titolo Carattere dell'arte moderna.
Ma in questa seconda pubblicazione, che s’è considerata quella
definitiva voluta da U., era omessa l’ultima parte del testo, rife-
rentesi appunto alla pittura di Janni, che diceva:

Nella pittura dei più giovani, e nella pittura di Guglielmo Janni


che per la prima volta si presenterà al giudizio del pubblico,
esponendo alla Galleria romana della Cometa, questo sentimen¬
to della nostra gioventù spirituale è vivissimo. In particolare,
nella pittura di Janni c’è un impeto sorvegliato da tanta grazia
che fa pensare a quel Quattrocento il cui mito fu Davide.
Scritti letterari 1918-1936 923

Pittura sempre castissima, e velata dal sogno, come sono casti e


sognanti i forti.
Pittura che non ha .più bisogno per mortificarsi e per urlare
contro gli effettacci della pittura ancora in voga pochi anni fa,
di rendere umano il legno d'un manichino, solo con un poco
d’ombra •alle ciglia, ma che può ricorrere liberamente al mo¬
dello umano.
Tutto ha ritrovato un ordine e un peso: lo spazio, l’articolarsi
espressivo del colore, gli effetti persuasivi della costruzione, la
dignità delle figure, la giustezza dei rapporti.
Un senso profondo di misura è rinato, e un senso di calma, e
un senso di vigore, e un sentirsi vivi nell’aria augurale d’una
dolce mattina.

p. 281
RICORDO DEL PRIMO INCONTRO CON ETTORE SER¬
RA E DELLA STAMPA DEL 1916 DEL «PORTO SEPOL¬
TO » In Ettore Serra, Stambul ed altri paesi, Con uno scritto
di Giuseppe Ungaretti, Emiliano degli Orfini, Genova 1936, pp.
7-8. Apparso come nota introduttiva al volume di Serra, lo
scritto acquistò il presente titolo quando fu ristampato, ma pri¬
vo del paragrafo iniziale, in II Carso non è più un inferno,
All’Insegna del Pesce d’Óro, Milano 1966, pp. 67-72.
Qualche tempo prima, nel « Corriere padano » di Ferrara del 4
ottobre 1933, Serra aveva cosi descritto il suo incontro col poe¬
ta, nell’articolo Come divenni editore di Ungaretti-,

Fu quasi all’inizio della primavera del 1916 ch’io conobbi Giu¬


seppe Ungaretti. Erano giorni tristi, soffusi di logorante malin¬
conia, quelli [..J Fu in quei giorni di nostalgia, di malinco¬
nia, di amore deluso che m’incontrai, a Versa, con Giuseppe
Ungaretti, soldato semplice del 19a Reggimento Fanteria. Il Reg¬
gimento era sceso a riposo da San M.artino del Carso, e stava
occupando i suoi accantonamenti nelle case e nei fienili. Un po¬
meriggio quasi tiepido, con un gran brillare di gocciole d’ac¬
qua sui campi, sugli alberi nudi e sui giunchi dei fossi [...] La
Compagnia di Ungaretti aveva occupato una casa ed un gran¬
de fienile, al limite estremo di un paese verso il Torre, sulla
strada di Palmanova.
Io ero ormai un vecchio ufficiale, un veterano a venticinque an¬
ni. Un giorno mi trovai a passare per l’accantonamento di Unga¬
retti. Sull’aia erano i soldati che si fecero attenti e silenziosi
come i ragazzi in classe quando arriva il maestro. Uno di quei
figlioli mi incuriosì pel suo fare trasandato e disattento, per il
disordine della tenuta e della persona.
Passeggiava lentamente, con le mani in tasca, il berretto sbilen-
924 Note

co, le scarpe sporche, godendosi quel po’ di sole, come una


lucertola. Mentre consideravo la sua persona magra e dinocco¬
lata, egli mi guardò, ma non si sognò neanche di salutarmi, e
poi tornò a volgere lo sguardo su di me (nel viso affilato e
stanco - non si capiva bene se d’angelo p di delinquente uscito
dal carcere - brillava, sola cosa viva, la fredda fiamma azzur¬
rina degli occhi) osservandomi con una insistenza che io giu¬
dicai improntitudine.
« O che diavolo di soldato è cotesto? » pensai, e lo chiamai
con la voglia matta di fargli un cicchettane.
Si avvicinò cauto, sogguardandomi come un gatto che studi il
modo di svignarsela.
« Come vi chiamate? »
« Giuseppe Ungaretti. »
« Di che paese siete? »
«Di Lucca... o meglio, d’Alessandria d'Egitto.»
« Oh bella! io spero che tu non sarai venuto al mondo irr due
luoghi diversi. »
« Sono nato ad Alessandria d’Egitto, ma i miei sono di Lucca.
Ho vissuto in Francia, a Parigi. Sono venuto in Italia per la
guerra. »
Parlava calmo, pianamente; scandendo le sillabe, con voce dol¬
ce, tenendo gli occhi bassi quasi attendesse un mio rimprovero.
Col capo stanco un po’ reclinato, come di chi ha molto soferto
e mediti tra sé il suo dolore e sia pronto a soffrire ancora con
rassegnazione.
Dalla sua miseria io vidi allora trasparire una signorilità, una
nobiltà che nessun fango cancella e rifulgono anzi di più gran
lume, come il fiore sul mucchio del letame o gli occhi di una
vergine nel buio del vicolo fetido e pieno di tentazione.
Pestammo in silenzio e mi ricordai allora di aver letto in « La-
cerba » o in un almanacco de « La Voce » o altrove, alcune bre¬
vi delicate liriche, sostanziate misteriosamente di terra e di cie¬
lo, che avevo amató nei dolci tempi lontani.
« Ma tu sei forse Ungaretti, l’amico di Soffici, di Cecchi, De
Robertis? »
« Sì, proprio, come mi conosce? »
Egli alzò allora gli occhi consolati e pieni di riconoscenza, quasi
avesse ritrovato un fratello [...]
Da quel giorno fummo amici, fratelli anzi. Quando i soldati mi
vedevano apparire correvano a cercare Ungaretti che era spesso
sul fienile, nel suo luminoso e comodo studio, a scavare nel¬
l’anima qualche parola dolorosa. Egli scendeva per la lunga
scala a pioli e andavamo insieme pei campi. In quei giorni ap¬
punto scrisse quella deliziosa poesia, fatta di consolazione e ma¬
linconia, che incomincia:
Scritti letterari 1918-1936 925

Chi mi condurrà pei campi


[Per errore o lapsus, o più difficilmente ricordo d’una prima
stesura manoscritta, Serra cita come Chi mi condurrà pei campi
il primo verso di A riposo, datata « Versa il 27 aprile 1916 »,
che è invece Chi mi accompagnerà pei campi.]
Poi il Reggimento tornò sul San Michele e lo studio passò dal
fienile di Versa alle caverne gocciolanti sotto la Sella di San
Martino del Carso, o addirittura in trincea.
Per leggere taluni dei suoi versi lassù dimenticati facevamo
qualche volta insieme la strada dalla Filanda di Sdràussina a
San Martino, oltrepassando il cavalcavia della strada ferrata e
seguendo l’erta sassosa e nuda.
Fu allora ch’io decisi d’essere l’editore di Ungaretti.
La notte ch’io portai con me sotto la collina di Medea le sue
poesie e ch'io le rilessi a una a una lentamente, al lume fioco
di una lucerna, ebbi quasi la sensazione di avere attorno nel¬
l’ombra, una schiera di dolci e povere bambine fuggite dal buio
dell’Isonzo e scrissi al mattino una lettera d’innamorato ad Un¬
garetti annunciandogli la mia decisione.
Raccolte alla meglio le sue poesie, fu stampato nel dicembre
del '16 quel sobrio volumetto (ottanta esemplari) a Udine, sot¬
to il Castello immenso [...]
Dopo sette anni ripubblicai alla Spezia in sontuosissima veste le
sue vecchie poesie di allora insieme a quelle raccolte poi sotto
il titolo di Allegria di Naufragi ed alle altre, « scavate » con
amore e dolore negli ultimi tempi [...]
CONFERENZE 1924-1937
a cura di Mario Diacono

p. 285
PUNTO DI MIRA È il testo, inedito, di una conferenza sulla
propria poesia, scritto quasi certamente nel 1924, come si de¬
duce dall’accenno alla pubblicazione del Porto Sepolto stam¬
pato da Ettore Serra a La Spezia alla fine del 1923. È anche
possibile che questo testo coincida con la conferenza Tendenza
della nuova poesia italiana, tenuta a Milano il 17 dicembre
1924, e annunciata su quasi tutti i quotidiani della capitale lom¬
barda. Tale conferenza fu ripetuta agli Illusi di Napoli il 21
gennaio del 1925; presentandola, il « Mezzogiorno » di Napoli
dello stesso giorno avvertiva: « Il geniale poeta dirà, ancora,
il suo poema La morte di Crono, facendo rilevare da esso le sue
vedute sulla poesia dopo averle illustrate nella conferenza »: la
convergenza col nostro testo sembra qui totale.
Il manoscritto presenta un doppio titolo. Sotto Punto di mira
figura, aggiunto in un inchiostro diverso, Ginnastica spirituale.
Esso è costituito da 25 fogli a righe, staccati, scritti in inchio¬
stro nero, numerati da 1 a 25, ed è zeppo di correzioni e ripen¬
samenti. Le poesie tratte dall 'Allegria e da Sentimento del Tempo
vi sono date secondo l’edizione del 1923 del Porto Sepolto (in
cui erano raccolti, come è noto, Allegria di Naufragi e le Pri¬
me di Sentimento del Tempo - ad eccezione di Ricordo d’Affri¬
ca). Nel ms. Dannazione e Vanità sono senza titolo: qui lo si è
aggiunto, tra parentesi quadre. Le pagine finali di questa confe¬
renza ci sembrano gettare notevole luce sulla formazione di
Sentimento del Tempo.

1 Sonetto Quel vago impallidir che T dolce riso, vv. 1-4.


2 Sonetto Amor, che meco al buon tempo ti stavi, vv. 1-8.
3 « Coro dei morti », nel Dialogo di Federico Ruysch e delle
sue mummie, w. 1-14.
4 A Silvia, vv. 1-6.
5 Maestà et errahunda (nei Fleurs du mal), vv. 21-30.
6 Vedi Baudelaire et M. Faguet, apparso dapprima nella « Nou-
velle Revue Frangaise », a. II, n. 23, ler Novembre 1910, pp.
499-518, e stampato poi in Nouveaux Prétextes, Mercure de
France, Paris 1911, pp. 134-155.
7 Bérénice, Acte Premier, Scène IV.
Conferenze 1924-1937 927

Au sujet d « Adonis », in Variété, La Nouvelle Revue Fran-


?aise, Paris 1924 (cfr. anche Paul Valéry, CEuvres, Tome I,
NRF, Paris 1957, pp. 494-495).
9 Lauda O femene, tardate a le mortai ferute, w. 1-14.
10 Lo spazio della citazione è in bianco nel manoscritto.
11 Sonetto La stremità mi richèr per figliuolo, vv. 1-8.
12 Commiato, vv. 9-13.
« dal Serra della Spezia » nel ms. subito dopo, è cancellato.
14 II manoscritto aggiungeva, ma il periodo fu poi cancellato:
« Qualsiasi parola di gratitudine sarebbe inefficace a dire di
quale soccorso mi sia stato a questo punto l’incontro dell’opera
di Paul Valéry. »

p. 303
[POESIA E CIVILTÀ] Una versione di questo testo sostanzial¬
mente identica a quella qui pubblicata, dovette essere costituita
dalla conferenza tenuta da U. il 14 febbraio 1933 alla Maison
d’Art di Bruxelles, e il successivo 3 marzo all’Hotel Ritz di
Barcellona. « Le Journal des Poètes » di Bruxelles, infatti, nel
numero del 26 febbraio 1933, faceva precèdere la traduzione in
francese della Pietà, tratta da Sentimento del Tempo, e un Mé-
daillon di U. redatto da Franz Hellens, da una nota in cui si di¬
ceva tra l’altro: « Il y a quelques jours, Giuseppe Ungaretti
passait par Bruxelles... Après que Franz Hellens eut salué le
poète toscan... le poète lui-méme lut d’une voix fiévreuse, baie-
tante et sourde, Vadaptation frangaise de son Hymne à la pitié
et ensuite, d’une voix savoureusement sonore et tragique, l’ori¬
ginai italien de FHymne à la mort. Sous les auspices de la
Maison d’Art, fut organisée aussi une causerie. Intitulée Le poè¬
te et son temps, elle partait d’une enquète du “Journal des
Poètes’’: "Le poète doit-il choisir entre l’humain et le surbu-
main?”. Cette question, comme elle est émouvante, par le trou-
ble spirituel qu’elle suppose et qu’Ungaretti signala comme
étant le signe d’une epoque! ». Diversi giornali della città cata¬
lana, d’altro canto, recensirono brevemente il 4 marzo dello
stesso anno una conferenza letta da U. in francese, sul tema
Poésie et Civilisation, annunciando inoltre che il poeta avrebbe
tenuto una seconda conferenza, in italiano, il 7 marzo, su II
pensiero di Leopardi. E su un dattiloscritto che costituisce la ver¬
sione francese del presente saggio, U. aggiunse a penna all’ini¬
zio: « ... Je parlerai donc de la fonction du poète dans une
civilisation, ce qui me permettra la prochaine fois de mieux
faire ressortir la puissance lumineuse de la pensée de Giacomo
Leopardi ». Un programma della Maison d’Art, comprendente l’e¬
lenco delle manifestazioni dal gennaio all’aprile del 1933, annun-
928 Note

dava per il 14 febbraio Ungaretti: « Leopardi et son temps ». Ma


dev’essersi trattato d’una confusione col titolo della conferenza
menzionata dal « Journal des Poetes », perche un altro giornale
di Bruxelles, « Le Soir » del 16 febbraio, in una cronaca intito¬
lata A la Maison d’Art / une conférence de M. Ungaretti, scri¬
veva: « M. Ungaretti avait annoncé qu’tl parlerait de Léopardi.
En realité, c'est, à travers tonte la littérature italienne, la situa-
tion des grands poètes par rapport à leur temps qu’il s’est attaché
à definir ».
Ripubblicando in Ragioni di una poesia l’ultima parte di que¬
sta conferenza (da « Dice Galileo: “Quello che noi ci imma¬
giniamo bisogna che sia” » alla fine), U. dichiarava: « Conclu¬
devo con le seguenti osservazioni, una lettura che feci in molte
città italiane, e quasi dappertutto in Europa, e nella quale di¬
scutevo dello sviluppo storico della poesia italiana e europea... ».
Il testo incluso in Ragioni di una poesia, ma notevolmente ri-
maneggiato, corrispondeva a quello apparso col titolo Attualità
dell’arte ne « La Tradizione », genn.-febbraio 1934, che recava
a piè di pagina come nota al titolo la didascalia: « Conclusione
della conferenza tenuta al Circolo della Stampa di Palermo il
14 Gennaio 1934 ».• La conferenza venne infine certamente
ripresa nel ’36, durante il suo viaggio neH’America del Sud,
come attestano i diversi accenni al Nuovo Mondo nel testo, ed
è tale redazione del ’36, l’ultima, che viene qui pubblicata. Che
essa non dovesse in ogni caso allontanarsi di molto da quella
del ’33, ci è testimoniato da una recensione della causerie tenuta
a Bruxelles, pubblicata da un giornale della capitale belga, « Le
Vingtième Siede », il 17 febbraio ’33, e intitolata A la Maison
d’Art / Giuseppe Ungaretti et la mission du poète. Essa rias¬
sumeva così il discorso dell’autore: « ...Ungaretti... declora que
la mission du poète aujourd’hui est de réconcilier le vrai avec
le mystère. A grands traits fulgurants, le poète italien, à travers
la poesie, refit tonte l’histoire de la pensée et l’on peut dire de
la civilisation occidentale depuis son éveil: le moyen-àge. Il le
fit à travers la poésie, reliant les grands sommets poétiques
entre eux - "Dante, Léonard, Pascal, Léopardi, etc. - car rien ne
manifeste le temps de manière aussi nette que la poésie. Traver-
sant de la sort les siècles classique et romantique, Ungaretti
aboutit à notre civilisation mécanicienne à quoi s’oppose le sens
aigu de la nature qui est répandu dans toute la poésie d’aujour-
d’hui. Poésie néanmoins désespérée. Il s’agit aujourd’hui, con-
clut Ungaretti, "d’arracher au réel ses masques, de restituer à
la nature sa majesté et à l’humain le sens de Dieu” ».
Del testo della conferenza, si sono trovati tra le carte di U. un
dattiloscritto completo con correzioni autografe, in italiano (quel¬
lo qui riprodotto integralmente, e che appare come il più re-
Conferenze 1924-1937 929

cente), un dattiloscritto-manoscritto e due manoscritti incom¬


pleti, sempre in italiano (con intere pagine d’una primitiva ste¬
sura, quella forse del ’33, soppresse, ma in parte derivanti da
scritti precedenti e in parte, in qualche caso, riprese più tardi
in altri scritti), e infine due dattiloscritti completi in francese.
Nessuno dei manoscritti e dei dattiloscritti reca data né titolo.
Il titolo qui adottato rappresenta la traduzione di quello della
conferenza recensita nei giornali barcellonesi, e che s’è preferito
a quello di Palermo del ’34.
U. utilizzò largamente per questa conferenza scritti precedenti,
fra cui l’intervista con Angioletti del ’29, la risposta alla Inchie¬
sta mondiale sulla poesia, promossa dalla « Gazzetta del Popo¬
lo » nel 31, 1 articolo Borghesia, dello stesso anno e apparso
nello stesso giornale,- e La nostra salvezza, una delle note uscite
nel « Tevere » nel ’29. Ma non sono per ora riuscito a rintrac¬
ciare l’articolo che egli utilizzò più estesamente. Chiarisco. Uno
dei due manoscritti incompleti citati, costituisce probabilmente
il primo abbozzo della conferenza, poiché in diverse pagine la
scrittura è inframmezzata da ritagli di giornali incollati, conte¬
nenti brani di articoli di U., spesso con cancellature e aggiunte
ai margini. Il più ampio di questi ritagli, è costituito dalla par¬
te centrale d’una prima colonna e dalla fine d’una seconda colon¬
na, con la firma in fondo. Azzardando un calcolo, sembrerebbe
che dall’intero elzeviro manchino un quarto iniziale e un ultimo
della prima colonna. Il giornale in cui l’elzeviro uscì, potrebbe
essere « Il Mattino » di Napoli, la data il 1926-29. Purtroppo,
chiusa da anni, e ancora per anni, l’emeroteca romana, semidi¬
strutta dall’alluvione quella di Firenze, inconsultabile per il mo¬
mento quella di Napoli, non si sono potute fare le necessarie
ricerche. La parte della conferenza derivata da tale articolo è
quella sul Seicento, da « La fantasia forse sarebbe un modo,
spesso ingannevole, di giudicare dall’apparenza delle cose » a
« l’idea dell’eterno ci fulminerebbe ». Tutte le volte che in tali
pagine ricorre il termine « fantasia », esso sostituisce quello
dell’articolo originale, di « immaginazione ». Vi sono inoltre bra¬
ni del ritaglio soppressi, il più importante dei quali è il finale
(nell’articolo, seguiva le parole « l’idea dell’eterno fulminerebbe
l’uomo »), che dice:

Ora resterebbe a liquidare la barba del vecchio birbante. Par¬


tita dal segreto, dal sentimento, l'immaginazione non sarebbe più
un modo di giudicare dall’apparenze delle cose, non sarebbe più
una stima soverchia e dannosa dell’anima, delle illusioni, della
vanità, ma uno slancio verso il segreto delle cose per conoscerle
e trovarvi fuoco. Quest’immaginazione può anche sbagliare; la
930 Note

grandezza è anche fatta di coraggio di sbagliare; ma 9 volte su


IO non sbaglia.
Irrazionale dunque e sentimento sono la medesima cosa? Dove
si vede che oggidì per ritrovare le verità piu antiche e piu sem¬
plici, si fanno molti giri viziosi. r
U. pubblicò ancora la parte finale di questa conferenza, cioè il
testo di Attualità dell’arte uscito in « La Tradizione » nel ’34,
diverse volte nel dopoguerra. Con lo stesso titolo Attualità del¬
l’arte, nella « Sicilia del Popolo » del 22 aprile 1946, apparvero
le pagine che vanno da « Diceva Galileo » a « Per questo ha
anche pianto », mentre ne « Il Giornale » di Napoli del 15 ago¬
sto 1948, col titolo Civiltà meccanica e poesìa uscì una versione
più breve del medesimo articolo, da «Diceva Galileo» fino a
« all’orecchio dei padri era persuasiva la musica dell’anima ».
Nel ’49, poi, s’è già detto, Attualità dell’arte venne incluso, ma
questa volta rimaneggiato, con correzioni cioè e aggiunte, nelle
Ragioni di una poesia pubblicate in « Inventario ».
1 « Le Journal des Poètes », com’è scritto, poi cancellato e cor¬
retto in « une revue belge », in,un dattiloscritto francese.
2 L’Istituto internazionale di Cooperazione intellettuale, che ave¬
va organizzato a Buenos Aires, ai margini del Congresso dei Pen
club, un Convegno sui rapporti fra cultura europea e cultura
sudamericana.
3 Un manoscritto aggiungeva: « e ce n’è di tre specie: l’econo¬
mico e marxista, quello che fa distinzioni di razza, quello che
crede nella potenza politica ».
4 Questa frase, come il precedente accenno alla « Cooperazione »,
sono aggiunti a penna sul dattiloscritto, il che indica, come si
diceva, che la conferenza venne ripresa da U. durante il suo
primo viaggio' in Sudamerica. Fatto confermato più avanti dalla
presenza di espressioni come « la vostra civiltà », « questo vo¬
stro nuovo mondo », che non figurano nei dattiloscritti in fran¬
cese.
5 Nel settembre 1936, U. tenne in diverse città dell’Argentina
una conferenza sul tema Sentimento di Roma in Petrarca, con¬
ferenza ch’egli aveva comunque letto precedentemente in Italia
(p.e. a Napoli, alla Compagnia degli Artisti, il 17 dicembre
1935), e che confluirà poi parzialmente in Prima invenzione del¬
la poesia moderna (un lungo testo, che è quasi sicuramente,
quello della commemorazione petrarchesca da lui tenuta in Bra¬
sile nell’ottobre del 1941, e che apparirà nel volume delle Le¬
zioni universitarie) e II poeta dell’oblio.
Conferenze 1924-1937 931

p. 324
[IL PENSIERO DI LEOPARDI] Si tratta con moltissima
probabilità del testo che U. lesse durante un giro di conferenze
tenuto in Belgio e in Spagna nel 1933, e che poi riprese, abbrevia¬
to, in successive occasioni (almeno a giudicare dai numerosi e
difformi dattiloscritti conservati tra le carte del poeta che lo
riportano), prima fra tutte la celebre commemorazione del Leo¬
pardi ch’egli tenne a Napoli nel gennaio 1934.
Il 3 marzo 1933 il giornale « La Vanguardia » di Barcellona, in
un trafiletto dal titolo Conferencia Club annunciava due confe¬
renze di U., la prima in italiano su II pensiero dì Leopardi, e
la seconda in francese sul tema Poésie et Civilisation. L’8 mar¬
zo lo stesso giornale dedicava un’ampia recensione (Conferencia
Club / « El pensamiento de Leopardi ») alla conferenza su Leo¬
pardi, recensione il cui legame col nostro testo è evidentissimo:
« Comenzó, con palabras corteses, agradeciendo la acogida que
en Barcelona le han dispensado los elementos intelectuales y
sociales, que él dice agradecer mas por considerar que con ella
se honra la bella tradición poètica de su pais. Cumbre de està
tradición es Leopardi, cuyo pensamiento analiza el conferen-
ciante, mostrando sus puntos de contacto con el espirìtu cri¬
stiano... Con gran profundidad traza el seìior Ungaretti, el qua¬
dro de la vida espiritual en el momento del advenimiento de
Leopardi, y dice que el gran poeta sufrió el calvario de su tiem-
po... Sus ideas se apoyan en el Viejo y el Nuevo Testamento,
mientras el poeta parece hundido en las quatro maldiciones que
son Enfermedad, Ignorancia, Concupiscencia y Malicia. Estudia
la enfermedad en la obra de Poe, de Proust, de Dostoiewski, y
senala còrno Leopardi ve que todo es mortai, que todo sufre la
pena del pecado originai... Estudia el humanismo en la època
de Leopardi, y dice que da origen al desarrollo de la filosofia
y de la ciencia. Tambìén del egoismo, frente al cual el pensa¬
miento de Leopardi tórnase mas sombrio. El pensamiento de Leo¬
pardi - proclama el disertante - es el mas hondo que en occi¬
dente haya aparecido en mas de trescientos anos... ». [L’inizio,
che s’è omesso per il suo carattere di circostanza, del dattiloscrit¬
to qui riprodotto dice: « Signore, Signori, sono commosso, pro¬
fondamente commosso, d’essere stato chiamato in questa città illu¬
stre fra tutte per luce di pensiero sparso sul mondo, a parlare del
pensiero d’un grande poeta italiano che meglio di qualsiasi altro
della mia nazione conobbe a fondo la grandezza antica ». Ma più
vicina alle parole del recensore della « Vanguardia », appare una
nota scritta a mano sul retro di un foglio dell’Hotel Ritz, Plaza
de las Cortes, Barcelona-, « Signore, Signori, nelle troppo rapi¬
de giornate trascorse in questa vostra fervente capitale, m’avete
fatta così lieta accoglienza, e l’avete resa vivacissima con tante
932 Note

attenzioni dei vostri poeti e scrittori e artisti che l’Italiano ch’io


sono, non la potrà dimenticare. Non potrò dimenticarla sopra¬
tutto perché con essa voi, nella mia modesta persona, avete vo¬
luto festeggiare e onorare una tradizione poetica veramente gran¬
de, quella della mia patria. Possa nell’unione degli spiriti, il
rapporto fra le nostre due grandi cultore farsi più stretto e
conseguire le più alte soddisfazioni. Quest’oggi vi parlerò di Leo¬
pardi e del suo pensiero. Terminata la conferenza, in omaggio
al genio dei vostri poeti, mi permetterete di leggervi una mia
breve poesia ». La parola capitale, qui (ma non il fatto che, se¬
condo la « Vanguardia », la conferenza di Barcellona termino
con la lettura « del Hymno a la Muerte del gran Leopardi »:
dev’essersi trattato dell’Inno alla Morte tratto da Sentimento
del Tempo) può forse lasciare perplessi. Inoltre, aggiunto a
mano all’inizio di un dattiloscritto in francese che dev’essere
quello di Poésie et Civilisatìon, troviamo scritto: « Mesdames,
Messieurs, j’ai déplacé l’ordre des conférences. C'est à dire je
suivrai l’ordre que j’avais ìndiqué de Bruxelles par téléphone,
à 10 beures du soir. L’berne était tardive, la distance, grande,
et personne n’a de laute si cette petite erreur s’est glissée dans
les annonces. Je parlerai dono aujourd’hui de la fonction du poè-
te dans une civilisatìon, ce qui me permettra la prochaine fois
de mieux faire ressortir la puissance lumineuse de la pensée de
Giacomo Leopardi », ed è difficile dire se questo preambolo si
riferisce a Barcellona o ad un’altra città. Sicuramente, U. lesse
le due conferenze in più d’una città straniera, in quell’epoca;
vedi, in proposito, Leone Piccioni, Vita di un Poeta / Giuseppe
Ungaretti, Rizzoli, Milano 1970, pp. 119-128.]
Quanto alla « orazione » tenuta a Fuorigrotta (se ne potrà tro¬
vare la rievocazione diretta di U. nel testo su Alien Ginsberg,
p. 715), così la presentava il « Mattino » del 17 gennaio
1934: « Oggi, alle ore quindici, avrà luogo la seconda delle ce¬
lebrazioni leopardiane che gli Illusi hanno indette a Napoli,
alla Chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Sulla tomba del Poeta
parlerà Giuseppe Ungaretti... Tema del discorso dell’Ungaretti
sarà II pensiero di Leopardi. Egli parlerà del senso della gio¬
ventù che nell’arte, nel dolore, nel senso della solitudine leo¬
pardiana grandeggia e si impone ». Ed ecco come, con una qual¬
che maggiore precisione forse, Alberto Consiglio riassumeva il
discorso ungarettiano {Le tre celebrazioni leopardiane di Napoli,
« L’Italia Letteraria », 23 gennaio 1934):
« Giuseppe Ungaretti ha presentato un Leopardi di più largo e
trasparente lirismo... Egli ha delineato la genesi storica del pes¬
simismo leopardiano, nato dallo spezzarsi della relazione cristia¬
na tra bene e male. Risorge, col criticismo e col dissolversi della
piena fede nella promessa evangelica, la coscienza stoica, fatta
Conferenze 1924-1937 933

di certezza del male e di risoluzione negli imperativi categorici.


E l’uomo senza Dio, abbandonato ormai alla sua sorte, foggia
con le sue stesse mani mortali, il suo paradiso, il suo riscatto.
Questo è il sogno, il sogno in cui si risolve l’essenza della poe¬
sia leopardiana, la capacità di trasfigurazione e di astrazione. Il
sogno, che in -forma più reale è mito. L’evocazione. L’infinito.
La memoria. Sorge, quindi, il mito della giovinezza beata, in
una poesia che è “quell’infinito della memoria, è quel senso ma¬
linconico che, aggravandosi sempre più, col Petrarca e con l’U¬
manesimo, s’è diffuso in tanta poesia del mondo, è quell’illu¬
sione di interminati spazi e di sovrumani silenzi... è il naufra¬
gare nel mare illusorio del tempo. È la memoria che si converte,
sull’orlo della tomba, in sogno, e vuole porre qualche luce fe¬
lice sulla strada dell’ignoto...”. »
È chiaro, dall’ultima parte del resoconto di Consiglio, che il
discorso di Napoli non coincideva completamente con quello di
Barcellona. Ma è impossibile dire in quale misura. Esistono un
dattiloscritto e un manoscritto (quest’ultimo però mancante delle
due pagine iniziali) che potrebbero riferirsi a Napoli. E proprio
le prime pagine del dattiloscritto, che differiscono dal testo prin¬
cipale del ’33, sembrano rimandare alla celebrazione napoletana:

Qui, dicono, riposi un morto. Noi non siamo commemoratori di


morti. Noi qui siamo davanti ad uno spirito che ci sembra il
più vivo, il più forte di quanti ispirano -oggi l’umanità trava¬
gliata.
È ormai una mia cara consuetudine questa di venire, per vostro
grazioso invito, a conversare con voi di Giacomo Leopardi. Voi
conoscete dunque le mie idee intorno al sommo poeta. E cioè
non tanto le mie idee che di fronte a Lui non contano, quanto
le sue idee che conveniva di propagare nella loro autenticità.
Se io ho un minimo merito, è quello d’avere interpretato con
voi non Leopardi in qualche poesia o in qualche pensiero; ma
l’intera opera, pure così vasta e così varia, nella sua stretta unità.
E se di una cosa mi posso vantare è di avere indotto qualche
studioso alla lettura di quest’opera nelle sue migliaia di pagine,
è di vedere che essa oggi appare a tutti sotto una luce nuova.
Il Leopardi nostro, non è solo l’uomo chiuso in una solitudine
cieca, non è più solo lo smarrito dal lamento orrendo. Anzi,
egli è il pietoso; è la sua voce, la voce medesima della pie'à.
Nel suo cuore s’è agitata la sofferenza del mondo, ed egli l'ha,
da forte, totalmente patita nell’amore smisurato dei suoi sìmili.
Cuore drammatico!
Porrà difatti il proprio io ad attore di crisi sociale e religiosa
e la poesia gli sarà diagnosi e medicina. È forse ciò quel con¬
cetto romantico per cui l’atto poetico appare come una specie
934 Note

d’aggressione contro l’assoluto, e il risultato di questa violenza


come una rivelazione? Credo che nemmeno per sogno Leopardi
formasse il sacrilego pensiero che la letteratura potesse organiz¬
zarsi e 'svilupparsi come una specie di miracolo, e così sosti¬
tuire la religione.
Leopardi non era così ingenuo. Ma pr&vede nella sua opera e
s’affretta a discreditarlo questo concetto di tutto il secolo deci-
monono, [proprio come oggi appena si va facendo nel mondo
con un disperarsi e una volontà di fede e argomenti simili ai
suoi. Egli difatti non ha mai pensato che creazione divina e
opera umana potessero] equivalersi, o peggio che per l'uomo
non dovesse contare che l'opera umana. E che tali fossero le
sue convinzioni, ce lo mostra chiaramente la distinzione ch’egli
fa fra ragione e natura, quel suo dichiararci insistente che « la
ragione, per non diventare nociva, va tenuta nei suoi limiti di
facoltà la più materiale che sussista in noi, di facoltà le cui
operazioni materialissime e matematiche potrebbero attribuirsi
anche alla materia ». Dotato di facoltà storiche e d'una cono¬
scenza della storia incomparabili, perdutamente appassionato del
prossimo suo, ecco il suo altissimo dramma: ritrovare un rap¬
porto fra l’individuale e il collettivo, ristabilire un’armonia fra
l’umano e il divino.
È portato dunque da tale ordine di pensieri e di affetti a ricer¬
care da quale momento e per quale cagione va rallentandosi il
vincolo sociale. C’è appunto, c’insegnerà, distacco da quando noi
vediamo formarsi fra l’uomo sapiente e l’uomo religioso un con¬
flitto che sembra insanabile.
E chi si sia inoltrato in questo labirinto del dolore leopardiano,
non oserà, mi pare, più affermare che egli abbia conferito al
male consistenza senza averla conferita al bene. Basterebbe del
resto non dimenticare il valore che dà alla nozione di tempo,
per avere in mente che giudicando del bello e del buono, del
cattivo e del brutto, del bene e del malè,. il suo sarà sempre
un principio di relatività.
Basterebbe rileggersi ciò che gli dettò l’animo in uno dei suoi
passi più cupi: « Chi può conoscere i limiti delle possibilità?... »
[ Segue il testo della medesima citazione dallo Zibaldone che
appare alle pp. 326-27.J
Quando il Cristianesimo si tarla e la sua funzione religiosa ten¬
de, come dopo il dissidio coll’Umanesimo che lo separa dall’An¬
tico, a diventare un'affare privato, come colla Riforma e parti¬
colarmente col Giansenismo, il senso del male va assumendo un
carattere esclusivamente psicologico. E allora va perdendosi nel¬
l’individuo il valore della libertà dei propri atti, il valore della
volontà, il valore d'una giustizia fondata sulle opere. E così gra-
Conferenze 1924-1937 935

datamente il sentimento cristiano, nelle anime dove persisterà,


si fara pessimista non solo per i valori terreni, ma degenerando
in una forma di mostruosità mitica, anche per quelli universali.
Sarà un cristianesimo senza cielo, un cristianesimo senza re¬
denzione.
Notate bene dunque: Leopardi, come già dicevamo, non conce¬
pisce il male in significato d’unico assoluto; ma partecipa d’uno
stato psicologico comune, al quale reagisce: è il suo pessimismo
aderenza al suo tempo, in quanto egli riconosce un'identità fra
tempo e psicologia.
Ma esaminiamo il moribondo Cristianesimo in parola, nell’espe¬
rienza che dà un carattere preistorico al ’7 e all’800: e ci accor¬
geremo che, come è detto del naufrago che all'ultimo momento
in un baleno della mente raccoglie tutti i suoi ricordi, ci accor¬
geremo che in esso s’agita la somma di aneliti e di spasimo di
sei secoli: ci accorgeremo non solo che nei Canti la luce estrema
del ’7 e dell'800 ha tutto il suo tragico splendore, ma che, Cri¬
stiano innanzi tutto, 2000 anni di attività umana sembra abbiano
voluto trovare nella sua povera carne il loro schianto e la loro
misura, la loro verità e la loro potenza; e ci accorgeremo spe¬
cialmente di questo: che, intraprendendo quella polemica col
Cristianesimo che purtroppo non gli darà la fede, e che verrà
proseguita da Federico Nietzsche quasi colle medesime parole, ci
accorgeremo che è dalla sua religiosità che egli intendeva rica¬
vare, e ricavava difatti, opportunissimi insegnamenti di rinascita
sociale.

Il testo che si pubblica de II pensiero di Leopardi è basato su


un dattiloscritto di 27 pagine numerate, che reca numerose cor¬
rezioni autografe, e su un manoscritto che gli corrisponde pun¬
tualmente, mancante però delle ultime due pagine. Le nume¬
rose citazioni dallo Zibaldone che ricorrono nel testo sono in
qualche punto « adattate » o « restaurate » o « cucite » dall’au¬
tore: e si sono lasciate dunque tali, per non modificare la fisio¬
nomia del discorso ungarettiano.
1 Nel testo della presumibile celebrazione leopardiana di Napo¬
li, figura dopo questa parte il seguente paragrafo:
Osserva Leopardi che l’uomo avendo tolto alla realtà il mistero,
la visione del vero s’era fatta spaventosa. Per sé, egli sapeva
che non c’era rimedio. Ma sentiva che nell'ordine sociale, in
un rinnovamento del rapporto politico, la vita avrebbe potuto
ritrovare la sua grazia religiosa. Questo è stato l’oggetto del suo
studio costante.
2 Nel testo (presunto) di Napoli U. aggiunge qui:

Così gli nasce il vaticinio d’una città migliore.


936 Note

Se l’antico è la gioventù del mondo, in quale modo s’è retto?


Amando la gloria, dando al sentimento e all’immaginazione un
posto infinitamente più grande che all’intelletto. Essendo ma¬
gnanimo, esaltando l’uomó nelle sue opere. Avendo un’idea gran¬
de della grandezza dell’uomo, che difatti è nato più per ope¬
rare che per pensare. Ogni grande pensatore è in un certo senso
un uomo d’azione mancato.
I Questa ripetizione di un periodo della pagina precedente è
aggiunta a mano sul dattiloscritto, come del resto l’intero para¬
grafo. Non è improbabile si tratti di un’aggiunta posteriore al
discorso del ’33.
4 Trovo tra le carte di U. una pagina dattiloscritta sparsa, non
numerata, che è chiaramente uno sviluppo di questo brano, e
apparteneva certo a una redazione diversa di questo discorso,
andata smarrita. La riproduco:
La poesia di Leopardi può dunque chiudersi in due momenti
supremi, come si chiuderà in due paesaggi supremi.
È stato scritto che nel suo Dialogo di Plotino e di Porfirio, Leo¬
pardi avrebbe fatto parlare i due Neoplatonici non a modo loro,
ma a modo suo. Sarà. Ciò che il Tocco perdeva di vista, è
l’idea che si faceva il Leopardi dell’origine del Cristianesimo:
il Cristianesimo era avvenuto in seguito a un nuovo errore dello
spirito, ma più sottile, più profondo, più universale di quelli
già esistenti.
II Cristianesimo nasceva, secondo il Leopardi, da un errore più
sottile dei precedenti, e sarà appunto capace di dare qualche vita
al mondo perché errore nuovo, e sarà in grado di generare errori
ancora più sottili ch’esso non fosse perché ancora abbastanza
errore. Errore, avrete capito, è quella possibilità fantastica e
sentimentale, tanto cara al Leopardi come s’è visto nella prima
parte del nostro discorso, è quella possibilità naturale che turba
beneficamente il raziocinare.
Una, dunque, delle idee ammesse e affrontate dal Leopardi, è
che la civiltà sia un susseguirsi di errori sempre più sottili.
E da quale errore derivava il Cristianesimo? Da quelli — seguo
sempre alla lettera il Leopardi - di un tempo il quale per i
suoi lumi inclinava al metafisico, all'astratto, al mistico, e nel
quale trionfava Fiatone. Esempio: precisamente Plotino, Porfirio.
Metteteci anche i seguaci di Pitagora, anche luì astratto e me¬
tafisico. Aggiungeteci l’Oriente che non solo allora ma dai tem¬
pi più remoti aveva inclinato alla sottigliezza ed anche alla pro¬
fondità e verità nella morale e nel resto.
Ora - per seguire un momento anche noi il procedere leopar¬
diano nel rappresentarsi gli sviluppi della storia - c’è un punto
nel quale dai lumi del Cristianesimo sembra sorgere un nuovo
Conferenze 1924-1937 937

errore: è, lo sapete meglio di me e vi abbiamo già fatto cenno


stasera, il punto dell’avvento dell'Umanesimo.
Per una coincidenza della quale Leopardi aveva intuito [...] ed
alla quale il Tocco avrebbe dovuto pensare, l’Umanesimo signi¬
fica ritorno a Platone o anzi meglio a Plotino, e nei casi più
drammatici, nelle anime più nobili e religiose, significa urto fra
Aristotelismo e Platonismo, fra Tomismo e Agostinismo, fra il
neopaganesimo e gli scrupoli e gli arbitri dell’esacerbamento del¬
la coscienza individuale.
Lasciamo stare la filosofia, materia con la quale, del resto, non
ho grande confidenza: volevo dire che tutte le premesse della
poesia leopardiana sono nel Petrarca, come nel Leopardi sono
le premesse della poesia d’oggi.

5 Si sarà notato come né nel testo del ’33 che qui termina, né
fra i brani che se rie discostano e che si sono dati del pro¬
babile discorso del ’34, figurino le parole che il Consiglio ri¬
portava nell’« Italia Letteraria » come testuali di U. Ora, quel¬
le parole si trovano in due fogli manoscritti sparsi, non relati
ad altri testi, che si trovano tra le carte del poeta. Il più gran¬
de dei due fogli, bianco, ne contiene chiaramente la prima ste¬
sura, mentre l’altro più piccolo, azzurro, presenta sul retro, nu¬
merata 2, la seconda metà della pagina iniziale della probabile
celebrazione di Napoli, da « lamento orrendo. Anzi egli è il
pietoso » a « e così sostituire la religione ». A me pare evi¬
dente la discontinuità tra le due pagine del foglietto, e non
saprei in alcun modo indicare il posto occupato dalla pagina
isolata in questione nel discorso napoletano. La riporto qui per
intero, comunque:

La poesia di Leopardi può chiudersi dunque in due momenti e


in due paesaggi supremi. È, della città natale, quel caro ed er¬
mo colle e quella siepe che il guardo esclude dall’ultimo oriz¬
zonte. È quell’infinito della memoria, è quel senso malinconico
che, aggravandosi sempre più, col Petrarca e coll’Umanesimo s'è
diffuso in tanta poesia del mondo, è quell’illusione di inter¬
minati spazi e di sovrumani silenzi, di là dal colle, suscitata
da un vicino stormire di vento; è il naufragare nel mare illuso¬
rio del tempo.
Ed è nell’ora più agonica, il paesaggio che vedevano i suoi oc¬
chi che stavano per chiudersi in questa vostra divina regione.
È la memoria che si converte, sull’orlo della tomba, in sogno,
e vuole porre qualche luce felice sulla strada dell'ignoto. È il
tramonto della luna dove il rimpianto della gioventù risuscita
l’eterna fatalità splendente della gioventù.
938 Note

p. 344
INFLUENZA DI VICO SULLE TEORIE ESTETICHE D’OG¬
GI È la seconda delle due letture su Vico tenute nel giugno
del ’yf all’Università di San Paolo, nella sala Joàn Mendes
Junior della Facoltà di Legge.
L’unica stesura del testo presente tra le*carte di U. è costituita
da diciassette pagine dattiloscritte, numerate da 1 a 17, e da
una sezione finale, di quattro pagine manoscritte, numerate da
uno a quattro. Mancano data e titolo. Come per la prima con¬
ferenza, Posizione storica e grandezza di Giambattista Vico, il
titolo risulta dal materiale sussidiario preparato per la stampa,
e cioè: a) Una pagina dattiloscritta che dice:
Per l’annunzio della Conferenza: titolo della Conferenza:
Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi.
Punti che verranno svolti:
Incompiutezza dell'estetica crociana rispetto al pensiero di Vico;
La scultura neoclassica canoviana giudicata sulle basi dell’este¬
tica di Vico;
La poesia manzoniana e la leopardiana confrontate sulle mede¬
sime basi;
La teoria del valore storico ed estetico d’una moderna mitologia
fondata sul concetto vichiano del mito;
Il mito moderno nella pittura futurista e cubista;
La macchina e il concetto di memoria;
Il mito della scomposizione pirandelliana della coscienza;
I miti nella nuova poesia italiana.
b) Un « riassunto », che si riporta qui di seguito, della Se¬
conda Conferenza di Giuseppe Ungaretti sul pensiero di Vico.
Tema: Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi-.
Partendo dalla conclusione di Croce per la quale il fatto este¬
tico deriva da identità di intuizione e espressione, mostra co¬
me la spiegazione che ne dà il Croce resta incompiuta perché
il Croce trascura di prendere in esame tutti i problemi relativi
al mezzo espressivo, i problemi cosidetti tecnici o di mestiere.
Sono i problemi della memoria che agiscono tanto nell’intuizio¬
ne quanto nell'espressione in modo primordiale. Ai lavori teo¬
retici in materia d’estetica del Croce che rappresentano ancora
oggi, in tale materia, l’ultima parola, verrebbe intera luce se al
termine di fantasia venisse aggiunto il termine di memoria co¬
me funzioni dell’identità intuizione-espressione.
Sulla base di questa identità, il conferenziere mostra in seguito
il valore della scultura neoclassica canoviana e muove un paral¬
lelo fra la poesia leopardiana e quella manzoniana.
II conferenziere passa poi a dare risalto all’idea di mito nella
Conferenze 1924-1937 939

teoria vichìana, e al valore storico ch’essa, secondo questo crite¬


rio, conferisce al fatto estetico. Indica qual è l'indirizzo preso
oggi in questo senso dagli studi di storia letteraria.
Il conferenziere infine applica questo criterio vichiano del mito
alla spiegazione di alcuni avvenimenti artistici moderni: pittura
futurista e cubista, teatro pirandelliano, poesia ungarettiana. E
conclude: Uno scultore mi diceva una volta: « Michelangelo ve¬
deva statue prigioniere in ogni blocco di pietra che incontrava,
ed era preso allora dall’impazienza atletica di liberarle senz’al¬
tro a furia di scalpellate. Per noi invece la scultura riempie il
vuotp che invochi un'apparizione ». Ecco infatti la tragedia e la
potenza dell’arte moderna.

Questa conferenza è anche lo scritto in cui U. misura più di¬


rettamente, mi pare, la sua distanza dall’estetica di Croce, pro¬
clamando come più recisamente non si poteva, a quell’epoca, la
funzione formativa e risolutiva della « tecnica », ungarettiana-
mente della « memoria », nella mise en oeuvre della poesia; di¬
mostrando come non abbia senso un puro riporto dell’« espres¬
sione » all’« intuizione » in poesia, ma che il coincidere della
seconda nella prima viene reso formale solo nel « tormentarsi »
ed agire del poeta sul materiale linguistico e metrico, sul ritmo,
cioè sugli elementi « storici » del linguaggio e dello stile. Viene
reso formale, da ciò che nella prospettiva di U. è ancora chia¬
mato « rinnovamento dei mezzi espressivi », che per lui dialet¬
ticamente presuppone il peso della memoria, la rt-inventio della
lingua e dei metri, della sintassi e del ritmo, della « natura »
della propria tradizione poetica. All’identità crociana intuizio¬
ne/espressione, U. oppone sostanzialmente il tormentato risalire
della memoria (della tecnica) verso l’innocenza (la purezza) del
linguaggio.

1 La precedente conferenza, cioè, Posizione storica e grandezza


di Giambattista Vico, che apparirà con il testo di altre confe¬
renze tenute in Brasife tra il 1937 e il 1941 nel volume delle
Lezioni universitarie di Ungaretti che Mondadori pubblicherà
prossimamente.
2 Si riferisce certamente all’articolo di viaggio II papiro della'
calma, apparso sulla « Gazzetta del Popolo » di Torino del 26
maggio 1932 (e ora ristampato nel Deserto e dopo, Mondadori,
Milano 1961, pp. 172-178).
SAGGI E SCRITTI VARI 1943-1970
a cura di Mario Diacono

Classici
p. 367
COMMENTO AL CANTO PRIMO DELL’« INFERNO » In
« Paragone », Firenze, n. 36, dicembre 1952, pp. 5-21. Il testo
venne ripubblicato senza cambiamenti (Il Canto I dell‘« Infer¬
no ». Lettura di Giuseppe Ungaretti) nelle Letture Dantesche,
a cura di Giovanni Getto, voi. I, Inferno, Sansoni, Firenze
1955, pp. 3-23; ma rivisto e modificato, quando l’autore lo uti¬
lizzò parzialmente, nel 1963 prima, per l’introduzione all’edi¬
zione Fabbri della Dipina Commedia, e nel 1965 poi, per le
diverse celebrazioni cui partecipò del VII centenario della na¬
scita di Dante (Assisi, Bruxelles: vedi la nota a « Tra feltro e
feltro », p. 941).
Qui viene riprodotto integralmente il testo del 1952, ma acco¬
gliendo le numerose varianti che figurano manoscritte su alcuni
« estratti » del saggio dalle Letture Dantesche sansoniane.
Nella Presentazione della Divina Commedia, Fratelli Fabbri, Mi¬
lano 1963, fase. 1, pp. 1-4, la parte ripubblicata del Commento
del ’52 era preceduta dal seguente breve « cappello »:

Si celebrerà nel 1965 il settimo secolo dalla nascita di Dante.


Volendo ricordare l’avvenimento, i Fratelli Fabbri pubblicano la
presente edizione della Divina Commedia dove il lettore tro¬
verà insieme al testo e a un accurato commento, riprodotti inte¬
ramente o parzialmente i codici più antichi e più belli e le
illustrazioni ispirate dal poema alla mano di insigni artisti.
L’edizione è destinata al popolo, e popolo, dotti e indotti, sia¬
mo tutti quanti, o dovremmo esserlo. Nel corso della lunga vita
ho sentito parlare di Dante chi aveva negli studi consumato gli
occhi; rammento anche di avere sentito recitare Canti della Di¬
vina Commedia a un falegname che a stento per decifrarla aveva
imparato a leggere e a scrivere, e la sapeva tutta, e non sol¬
tanto a mente; qualche volta era perfino in grado di spiegarla
meglio di chi solo a cercarne la lezione giusta d’un verso, per¬
deva gli occhi.
Non dunque mi perseguiterà, lo spero, l’accusa di perpetrare un
atto indiscreto sP mi considero anch’io capace, secondo un privi¬
legio comune, di manifestare riflessioni su un libro venuto in
Saggi e Scritti vari 1943-1970 941

luce per muovere sempre, in ogni persona umana, sentimenti e


pensieri.

1 Inferno, II, 13-15.


2 Inferno, IX, 25.
3 Inferno, IX, 23-24.
4 Inferno, I, 60. Tutte le citazioni, da questo punto, a parte
quella ripetuta di Inferno, II, 14-15, sono tratte dal Canto I
dell’Inferno.
s Questo periodo fu aggiunto al testo nella Presentazione della
Divina Commedia dei Fratelli Fabbri, che però ometteva il re¬
sto del Commento, e terminava invece col seguente passo:

Che altro dire del libro? A tutt’oggi rimane il più moderno tra
quanti dettati dall’umana ispirazione. I dannati, gli espianti, i
santi vi sono ritratti' ciascuno nel modo unico, inimitabile, che
ha ogni persona umana, e, sebbene siano esistenze di tanti se¬
coli fa e anche di secoli precedenti Dante, la verità dei loro
connotati è tale che nessuno dei personaggi di Dostojevski, di
Balzac, di Manzoni o di Kafka, a loro confronto è più profon¬
damente identificato e insieme più simile alla gente che incon¬
triamo per la strada, con la quale conversiamo al caffè e po¬
tremmo stringere rapporti più complessi.
E che dire della poesia? Leopardi e Mallarmé sono poeti im¬
mensi, dei quali nessuno ancora ha- superato negli ultimi due-
cent’anni la rivoluzione di linguaggio e l’arte di tentare l'inco¬
noscibile. Ma ancora per noi è più giovane del loro il lin¬
guaggio di Dante e la sua metafisica d’un soffio è già nel cuore
del mistero, il sacro, purtroppo quasi interamente inibito alle
nostre monche esperienze, essendogli familiare, motivandogli
nell’intimo dell’essere, la poesia.

p. 389
[« TRA FELTRO E FELTRO »: POVERTÀ, SAPERE E POE¬
SIA] Nel settembre del 1965 U. tenne una commemorazione
di Dante, nel VII centenario della nascita del poeta, ad Assi¬
si, per invito della Pro Civitate Christiana. Dichiarava l’autore
ad apertura di quel discorso: « Non mi sono concesso vacanze
quest’anno per venirvi qui a parlare. Non dico che saranno me¬
raviglie. La prima parte è tolta da una mia prosa già edita.
La seconda, nuova, è un abbozzo. Don Giovanni [Rossi], seb¬
bene sia nato come me nel 1888, non ha tenuto conto che ho
quasi ottant’anni, e che nel lavoro non ho mai saputo andare
avanti se non con molta lentezza ».
La «prima parte [...] tolta da una prosa già edita» era costi¬
tuita dalla metà iniziale circa del Commento al Canto Primo
dell’« Inferno », quella che U. aveva utilizzato riveduta, per la
942 Note

Presentazione dell’edizione a dispense Fabbri della Divina Com¬


media-, s’è dunque ritenuto inutile ripeterla qui: il lettore po¬
trà trovarla nel Commento, alle pp. 367-377. Qui si pubblica
dunque solo la seconda parte del discorso, di cui esistono un
manoscritto e un dattiloscritto con correzioni autografe, la parte
cioè che U. definiva ancora « un abbozzo » e per tale ragione
non si decise mai a pubblicare. Sia il manoscritto che il datti¬
loscritto non recano titolo: quello qui adottato, tenta di co¬
gliere il tema centrale dello scritto.
Una parte di tale abbozzo, quella su Sigieri, U. la sviluppò co¬
munque pochi mesi più tardi per un’altra commemorazione dan¬
tesca, quella tenutasi il 18 dicembre del ’65 a Bruxelles, nel
corso d’una seduta pubblica dell’Académie Royale de Langue et
de Littérature Frangaises del Belgio. L’intervento di U. venne
pubblicato, col titolo Dante le Juste, nel « Bulletin de l’Acadé-
mie » (Bruxelles, Tome XLIII, n. 4, Année 1965, pp. 302-317).
In Dante le Juste U. seguì un procedimento inverso a quello
di Assisi: iniziò il discorso con la parte nuova, sui Canti della
Sfera del Sole nel Paradiso (e che si riproduce più avanti), fa¬
cendola seguire da quella parte del Commento che. aveva utiliz¬
zato nel discorso di Assisi. Quest’ultima venne poi pubblicata,
nella stessa traduzione di Ph. Jaccottet in cui era apparsa nel
« Bulletin », ma col titolo Dante / Le Paradis dès l'Enfer, nel¬
la « Nouvelle Revue Franqaise », 14e année, n. 157, Janvier 1966,
pp. 21-31. Il titolo Dante le Juste venne poi anche adottato per
la versione del Commento, che è incompleta, apparsa in Inno-
cence et mémoire (pp. 25-40).
Della parte iniziale del discorso all’Académie Royale del Belgio,
si conserva tra le carte di U. il manoscritto originale, scritto le
prime quattro pagine in italiano e le ultime tre in francese: con
naturalezza la penna gli trascorse a un certo punto dall’italiano
alla lingua in cui il testo avrebbe dovuto essere letto, e che,
com’è noto, era per U. una seconda lingua madre. Il testo del
manoscritto (che non ha titolo: si adotta qui quello della pub¬
blicazione nel « Bulletin ») non corrisponde totalmente a quello
stampato (nella traduzione-revisione di Jaccottet): ho messo
dunque tra parentesi quadre le frasi del testo a stampa che
non appaiono nel manoscritto. Ho adottato poi l’originale ita¬
liano per quelle terzine dantesche che U. aveva volto in fran¬
cese.
DANTE LE JUSTE

Sono da lunghi anni legato a questo vostro paese, che ho per¬


corso più volte in lungo e in largo, dove ho stretto alcune delle
mie amicizie più antiche e più profonde, del quale ho scritto
abbagliato dalle opere stupende che ai secoli tramanda da se-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 943

coli. È per me segno più che d’onore, di ricambiato affetto, l’a¬


vermi voluto partecipe come Italiano, dell’elogio che oggi a
Dante rivolge la vostra illustre Compagnia.
Queste regioni vostre conobbero Dante? Qualcuno in proposito
ricorda le prime terzine del Canto decimoquinto dell’Inferno:

Ora cen porta l’un de’ duri margini;


E ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
Sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,


Temendo il fiotto che ’nver lor s’avventa,
Fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

E quale i Padovan lungo la Brenta,


Per difender lor ville e lor castelli,
Anzi che Chiarentana il caldo senta;

A tale imagine eran fatti quelli,


Tutto che né sì alti né sì grossi,
Qual che si fosse, lo maestro felli.

Può chi non ha visto con i propri occhi i luoghi, darne tanto
preciso ragguaglio? Guglielmo Gladstone pretende per quella
strada, Dante avesse varcato la Manica attratto dalla scuola di
Oxford affidata allora a famosi Frati Minori francescani. Le sue
nozioni di scienza, come del resto quelle di Ruggiero Bacone e
degli altri grandi oxfordiani, non ebbero invece origine a quella
corte di Federico II, dove ebbe anche il primo alimento l’eser¬
cizio delle lettere in lingue del volgo? Vi era tenuto in somma
stima quel Leonardo Fibonacci che ancora nel Quattrocento era
considerato maestro di teoria dei numeri e tutt’oggi presenta
problemi del quadrato sui quali il matematico ancora almanac¬
ca. Da Oxford comunque calerà in Italia l’impetuoso frate Gu¬
glielmo d’Ockham per difendere la dottrina di Dante e contri¬
buire a salvarne le ossa quando le condannarono, al disseppelli¬
mento e al rogo e alla dispersione al vento delle loro ceneri.
Ma risulta che Dante non avesse sull’Inghilterra che notizie mol¬
to vaghe.
A Parigi però dovrebbe esserci stato. Arrivò in quell’occasione
fino a Bruggia? Sulla permanenza parigina, c’è l’affermazione del
Boccaccio, nato a Parigi, che dal padre fiorentino come Dante,
potrebbe averne avuto notizia. C’è anche l’affermazione di Gio¬
vanni Villani. Insisto sulla possibile dimora di Dante a Parigi,
poiché uno potrebbe domandarsi se in quell’occasione, egli non
vi avesse incontrato una persona di questa terra belga alla quale
in una terzina del Paradiso si volgerà con rispetto straordina-
944 Note

rio e come se l'avesse direttamente conosciuta. Ma Sigieri di


trabante, canonico di San Martino di Liegi, era stato ucciso a
Orvieta dal suo segretario impazzito fra il 1281 e il 1284, e in
quell’epoca Dante, giovanissimo, aveva altro da fare che muo¬
versi dall'Italia, e le testimonianze che accennano al viaggio lo
pongono nel periodo dell’esilio e quando già il Poeta s’avvici¬
nava alla vecchiaia, e cioè sarebbe avvenuto forse nel 1316
circa.
Ma prima d’inoltrarmi nel vìvo dell’argomento che mi sono
scelto, credo non sia qui inopportuno ricordare che appunto di
giustizia il Poeta s’occupa quando evocherà Sigieri, in quel me¬
desimo Canto del Paradiso dove verrà immaginato il regno della
giustìzia sulla terra, se mai sulla terra ci sarà, se non per uto¬
pia, giustizia.
Ecco Sigieri, ecco la luce di Sigieri, presentata dalla voce di San
Tommaso, udita dentro alla sfera del sole, nel quarto cielo, al
decimo Canto del Paradiso.-

Essa è la luce etterna di Sigieri,


Che, leggendo nel vico delli strami,
Sillogizzò invidiosi veri.

[La sympathie de Dante ne pouvait pas ne pas ètre éveillée par


Siger qui étail le prince des logiciens de son temps et avait
beaucoup souffert pour ses idées. Etait-il réellement coupable?]
Tra Thomas e Sigieri c’era stata polemica aspra. Sigieri, appog¬
giandosi sui commenti averroìsticì al De Anima aristotelico,
avanzava tesi eterodosse come la necessità ed eternità della crea¬
zione, Tautosufficienza del mondo, la negazione della Provviden¬
za, il determinismo universale, l’inutilità di mettere d’accordo
conclusioni razionali e verità rivelate; ma particolarmente sul
terreno della psicologìa si dimostrava non cristiano affermando
l’unicità dell’anima del mondo distìnta dall'anima temporanea
dell’indivìduo e attribuendo all’attività immaginativa il solo
punto d’incontro tra tale anima del mondo e l'uomo. Sigieri
per di più aveva partecipato, se non li aveva addirittura capeg¬
giati, ai tafferugli dei professori monaci dei grandi ordini feo-
dali appartenenti al clero secolare contro l’invadenza e il pre¬
valere nell'insegnamento dei frati degli ordini mendicanti. Di¬
cono che Dante non rìdesse mai. Mi pare invece che in tanti
punti della sua opera dimostra di possedere humour, e questa
volta di certo dando gloria a Sigieri nel quarto cielo dominato
interamente dagli ordini mendicanti con San Francesco e con
San Domenico evocati, e con San Tommaso e San Bonaventura
panegiristi. [Sans parler du fait que saint Thomas et saìnt
Bonaventure se réclamaìent de doctrìnes différentes: saint Tho¬
mas, d’un aristotélisme averróìste corrige par ses soins; saint
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 945

Bottaventure, du néo-platonisme augustinien. Le quatrième del


ri est pas la Sphère du Soleil seulement, mais aussi celle de la
grande conciliation des idées.] Non so, più tardi, quanto Si-
gieri si fosse ravveduto e avvicinato a Thomas e se Dante lo
sapesse. C’è chi dubita gli appartengano quelle Qusestiones in
libros de Anima scoperte dal Grabmann e pubblicate da Van
Steenberghen.
Comunque sia, il y a Salomon, lui aussi, malgré sa luxure, chan-
gé dans ce mime Chant en lumière bienheureuse parmi les
sages. Dante veut ainsi nous mettre en garde contre ce qu’ont
de trompeur les jugements humains:

Non sien le genti, ancor, troppo sicure


A giudicar, si come quei che stima
Le biade in campo pria che sien mature...

Ce riest pas là-dessus qu’il faut insister; mais sur la Pauvreté,


sur l’utopie de Dante, sur l’audacieuse espérance de voir ici-bas
les pauvres vaincre, de voir régner un jour sur la terre la
justice, la sagesse, la poésie qui est amour.
Aux vers 103-103 du premier Chant de /'Enfer, en annom;ant
le Lévrier qui instaurerà le royaume terrestre de la justice, Dante
écrit:
Questi non ciberà terra né peltro,
Ma sapienza, amore e virtute,
E sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Les anciens commentateurs mettent la minuscule à feltro e fel¬


tro; comme il s'agit de quelqu’un qui ria souci ni de terres,
ni d’argent, mais seulement de sagesse, d’amour et de vertue,
ils 'soutenaient à bon droit, me semble-t-il, que feltro e feltro
(« feutre et feutre ») évoque l’habit de pauvreté. Les commen¬
tateurs modernes mettent la majuscule: Feltro e Feltro et veu-
lent voir là des noms de lieux. Je suis, peut-étre à tort, du
cóté des anciens.
Revenons au Chant dixième du Paradis. On y volt surtout Dante
évoquer par la bouche de Thomas, l’exemple et le message de
saint Francois d’Assise.
Peut-on louer Francois et oublier celle qu’il s’est choisi pour
épouse spirituale? C’est la femme qui ria nul usage de parures,
ni de fards, ni de coquetteries, ni de vètements mème; mais des
siècles de souffrance ont modelé sa suprème beauté. Cest la
Pauvreté; la Pauvreté qui aura son royaume de terrestre justice
entre feutre et feutre, là où Fon ne se nourrit ni de terres, ni
d’argent, mais de sagesse.
Devant le Palais épiscopal, coram patre, Francois épouse la Pau-
946 Note

vreté, et la mime violence, la ménte douceur ne cesseront de les


unir, Identification parfaite:
« ... privata del primo marito,
Millecent’anni e più dispetta e scura
Fino a costui si stette sanza invito;

Né valse udir che la trovò sicura


Con Amiclate, al suon de la sua voce,
Colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

Né valse esser costante né feroce,


Sì che, dove Maria rimase giuso,
Ella con Cristo pianse in su la croce.
Il lui resta fidèle jusqu’à la mort:
E al suo corpo non volse altra bara.

Mais "Dante rèvant de justice terrestre, ne s’arréte pas là:


... e lucemi da lato
Il calavrese abate Giovacchino
Di spirito profetico dotato.
Etait-ce dono foachim, abbé de Fiore, àme changée en lumière
dans la Sphère du Soleil, parmi les lumières des sages dans le
quatrième Ciel du Paradis, le prophète qui avait -inspiré à Dante,
au premier Chant de l’Enfer, l’annonce de ce Lévrier qui par-
viendrait, entre feutre et feutre, à instaurer sur terre le royaume
de la justice?
La giustizia come [Dante] l’intendeva, come state per vederlo,
sino dalla soglia della Divina Commedia.

1 Questo periodo aveva chiaramente la funzione di giustificare


il passaggio, all’interno del discorso, dalla vecchia alla nuova
parte del discorso.
2 Paradiso, XI, 43-54.
3 Idem, XI, 64-72.
4 Idem, XI, 117.
5 Idem, X, 136-138.
6 Idem, X, 109-114.
7 Idem, XIII, 130-142.
8 Idem, XIV, 5-6.
9 Idem, XII, 121-126.
10 Idem, XII, 139-141.
11 Tratta come, s’è detto dal Commento al Canto Primo dell‘« In¬
ferno », e che s’è qui omessa perché avrebbe costituito un’ovvia
ripetizione.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 947

12 II discorso terminava col seguente paragrafo, il cui scopo era


solo d’introdurre la lettura, che U. fece, dell’inno a Maria di
San Bernardo in Paradiso, XXXIII, 1-39, e che abbiamo dunque
tralasciato nel testo per la sua evidente funzione transitiva:

Nella Divina Commedia, di persona san Francesco non apparirà


che all’ultimo Canto del Paradiso, nell’empireo, seduto su uno
scanno davanti alla Madonna. Lo vedremo mentre alla Madonna
san Bernardo innalza l’inno dettato da Dante. Avrei voluto par¬
larvi di san Bernardo, sublime poeta, e della sua lite con Abe¬
lardo.
Ecco l'inno alla Madonna di Dante,

p. 398
IL POETA DELL’OBLIO In « Primato », Roma, a. IV, n. 9-
10, 15 maggio 1943. È il testo definitivo, si può dire, di U. sul
Petrarca. In esso sono sicuramente confluiti precedenti discorsi
petrarcheschi, da quello tenuto alla Compagnia degli Artisti a
Napoli sul Sentimento di Roma nel Petrarca nel dicembre del
1935, alla Commemorazione di Petrarca dell’ottobre del ’41 a
San Paolo del Brasile. Nell’archivio U. si trovano diverse copie
e stesure dattiloscritte con correzioni autografe, di questo saggio,
rispetto alle quali il testo a stampa presenta dei tagli: si tratta
sostanzialmente di due pagine finali qui cadute (quelle della com¬
memorazione del ’41; vedi in proposito la nota 5, p. 930), e di
alcuni passi su Leopardi, che verranno però ripresi in Immagini
del Leopardi e nostre pubblicato nello stesso anno.

1 Eneide, IV, 524-525.


2 Gerusalemme Liberata, II, 96.
3 In una lezione brasiliana del 1937, Sul sonetto del Petrarca
« Quand’io son tutto volto in quella parte », che apparirà nel
futuro volume delle Lezioni universitarie.
4 Una delle più antiche stesure dattiloscritte del saggio, in qual¬
che punto diversa dal testo definitivo, s’intitolava Appunti sul
poeta del ricordo.
5 Inferno, II, 1-3.
6 Trionfo d’Amore, Capitolo III, vv. 175-183.

p. 423
PETRARCA MONUMENTALE In « Il Popolo », Milano, 4
maggio 1950, p. 3. L’articolo apparve contemporaneamente su
« Il Popolo » di Roma, dello stesso 4 maggio ’50, col titolo
Un’edizione monumentale, e in calce, oltre al riferimento biblio¬
grafico (Petrarchae Rerum Vulgarium Fragmenta, Alberto Tallone
tipografo-editore, Parigi 1949), anche la data di redazione del
testo, 20 aprile 1930.
948 Note

1 L’analisi che segue del Sonetto è tratta, senza cambiamenti,


da II poeta dell’oblio (vedi le pp. 400-402).

p. 430
IMMAGINI DEL LEOPARDI E NOSTRE In « Nuova Anto¬
logia », Roma, a. 78, fase. 1702, 16 febbraio 1943, pp. 221-232.
Questo saggio fu dapprima letto, il venerdì 29 gennaio 1943,
nell’aula I della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, qua¬
le prolusione ai corsi di Letteratura italiana moderna e contem¬
poranea, materia di cui U., tornato l’anno precedente in Italia,
dopo sei anni di insegnamento in Brasile, era stato da poco no¬
minato professore ordinario, per « chiara fama ». Un manoscritto
e un dattiloscritto (quest’ultimo, quello probabilmente letto da
U. nell’occasione) nell’archivio del poeta, ci conservano l’inizio
del discorso quale fu pronunciato nell’aula universitaria, e che
venne poi soppresso nella pubblicazione del discorso quale sag¬
gio, qua e là modificato, nella « Nuova Antologia ». Eccolo:
L’onore che il Ministro dell’Educazione, il Rettore dell’Univer¬
sità, il Preside e i Docenti della Facoltà mi hanno fatto isti¬
tuendo in quest’Ateneo la Cattedra di Letteratura Italiana Mo¬
derna e Contemporanea e chiamandomi a reggerla, devo inter¬
pretarlo non come reso ai mìei pochi meriti, ma tributato agli
sforzi di rinnovamento compiuti in un quarantennio da tanti
scrittori e poeti per riportare nel mondo ad un’altezza invidiata
la nostra espressione artistica. Se la scelta non ha distinto il
più degno né il più provetto, la colpa è imputabile a un privi¬
legio di circostanze che m’indussero per servire la mia Patria
in un paese lontano, al tirocinio di alcuni anni d’insegnamento
superiore. Nel prendere possesso di così alto posto, in mezzo
a colleghi così illustri per vastità e solidità di scienza, so
bene che non potrei competere con essi se non nei limiti dove
m'autorizza a muovermi la mia pratica non breve, appassionatis¬
sima dell’arte poetica. Sarò qui quello che sono e si vuole ch’io
sia, non un dotto, ma un modesto artigiano e, oserei dire, un
buon artigiano. Le cose ch’io so, le ho imparate via via, spinto
da necessità espressive: erano difficoltà d’arte che via via mi
portavano a impossessarmi di quella erudizione che posseggo,
specialissima anche se scarsa. Forse sarò in grado di dare qualche
consiglio fruttuoso su alcuni degli infiniti casi che derivano,
componendo versi, dal sottile rapporto tra forma e ispirazione.
Non so se ci fu mai un altro uomo che abbracciasse e penetrasse
tali problemi con l’ampiezza e l’acutezza di sguardo storico di
un Giacomo Leopardi. È opportuno, a giustificazione del culto
che gli dedico, ch’io accenni, iniziando il mio corso, ai tragici
motivi che l’hanno abilitato a tanta chiaroveggenza.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 949

Il saggio venne poi destinato dall’autore a costituire, nella tra¬


duzione di Ph. Jaccottet, la Préface alle CEuvres di Leopardi
pubblicate dall’UNESCO (Collection UNESCO d’ceuvres représen-
tatives: Giacomo leopardi, CEuvres. CEuvres en prose traduites
de l’italien par ]uliette Bertrand, Poèmes traduits par F.A. Alard,
Ph. Jaccottet et G. Nicole. Introduction de Giuseppe Ungaretti
suivie d’une étude par Sainte-Beuve. Del Duca, Paris 1964).
Nella stessa versione di Jaccottet esso è stato incluso in Inno-
cence et mémoire (pp. 71-95), col titolo Notre Leopardi. Nel
volume UNESCO, U. fece precedere il saggio da una breve pre¬
messa di cui si dà qui il testo originale italiano:

Sainte-Beuve nel 1844 ha scritto sull’opera poetica di Giacomo


Leopardi il miglior saggio uscito sino ad oggi in lingua non
italiana.
Per la prima volta in lingua non italiana oggi vedono la luce
nel presente volume gran parte dei pensieri che il Leopardi aveva
raccolto nel suo Zibaldone, e che furono pubblicati per la prima
volta nel 1898 a cura di una commissione presieduta da Giosuè
Carducci, in occasione del primo centenario della nascita del
Poeta.
Se il grande critico francese avesse potuto conoscere tali docu¬
menti, vi avrebbe trovato la conferma di quanto egli avesse visto
giusto nel dire destinato alla gloria il nome del Recanatese.
I pensieri dello Zibaldone aprono ancora oggi orizzonti al filo¬
logo, ci mostrano uno degli uomini che abbiano più acutamente
e più profondamente riflettuto sulla crisi dei nostri tempi, po¬
nendolo accanto perfino ai filosofi d’oggi più audaci come se essi
ne seguissero l’ispirazione.
Ma sopratutto lo Zibaldone c'invita a interpretare la poesia leo¬
pardiana basandoci sugli stessi suggerimenti del Poeta.
È ciò che tenterò di fare ora in breve.

Per il medesimo volume, U. compilò, in collaborazione con Luigi


Silori e Carlo Riccio, un Indice dello Zibaldone, tuttora inedito
in italiano (« Index pour le Zibaldone établi par L. Silori et
C. Riccio sous la direction de Giuseppe Ungaretti », pp. 1769-
1914 delle CEuvres cit.).
II testo qui dato presenta diverse varianti rispetto a quello della
« Nuova Antologia ». Si è infatti tenuto conto delle correzioni e
aggiunte manoscritte apportate da U. su una copia dattiloscritta
del saggio, quella che reca anche la pagina iniziale, in italiano,
della Préface più su riprodotta; esse risalgono quindi probabil¬
mente all’epoca di preparazione del volume leopardiano dell'UNE¬
SCO, dove appaiono comunque nella traduzione Jaccottet. Tra le
aggiunte è da segnalare, per il suo valore autocritico, l’icastica
950 Note

proposizione, « Memoria e innocenza sono gl’inscindibili termini


della poetica del Leopardi ».
; Vedi, per l’analisi di questo sonetto del Petrarca, il saggio
II poeta dell’oblio, pp. 400-402.
2 Questi due ultimi paragrafi (a partire da « Non seppe se non
amare », corrispondono, con qualche taglio, alle due pagine con¬
clusive di Origini del Romanticismo italiano, una conferenza
tenuta a San Paolo del Brasile, pubblicata nel « Fanfulla » di
San Paolo dell’ll maggio 1941, e il cui testo verrà incluso nel
volume delle Lezioni universitarie.
3 Questo paragrafo, e un altro più avanti (« una volta che ebbi
occasione di vedere in una stessa giornata tutte le opere del Ca¬
ravaggio [...] passione dominata, passione scatenata»), sono tolti
di peso da due pagine di diario del 1935, che riporto qui inte¬
gralmente:

2 gennaio - Visita con Gide, Robert Levesque e Arduini a di¬


verse chiese e alla Galleria Borghese, specialmente per vedere i
Caravaggio. L’effetto più grosso che mi ha fatto questo pittore,
visto così in un complesso d’opere, e in una stessa giornata, è
quello d’essere il pittore dello spavento, dell’amore e della mor¬
te. Braccia tese nello spavento, dita aperte della mano, bocca
aperta in un grido strozzato - interno - aspirato. La morte, nel
David con la testa di Golia, ecc., è veramente la rappresentazione
non, come al solito, d’un modello finto morto, dormente, ma
d'una testa di vero cadavere. Da notare che questi morti sono
sempre dei suppliziati. Senso di massacro. Notare come braccia
e piedi (lo spaventato poggiato sulle braccia nel Martirio di
S. Matteo) formino l’architettura, o meglio le colonne che reg¬
gono il quadro. Si veda come nella santificazione di San Matteo
le figure escono come una materia di fuoco dalla notte. Si veda
nel San Paolo come a macigni la luce componga violentemente
la costruzione della figura. Nel San Girolamo della Galleria Bor¬
ghese si veda come il vecchio diventi un’astrazione, pura pittura,
e sia trattato in questo senso rispetto alle nature morte del qua¬
dro, alle quali s’adegua come semplice oggetto.
Si veda l’infanzia, nel San Matteo, data con una grande dolcez¬
za, rappresentata in atto di tenero stupore e di malinconia, e
l’oblio che è nei vecchi: l’assenza, l’oblio, l’essere già esanimi,
nel passato (Il vecchio che tiene il cavallo nella conversione di
S. Paolo, S. Girolamo, il vecchio morto, S. Pietro). Tutta la
violenza che è nei giovani. Braccia e gambe tese, caos verso un
equilibrio. Forza della deformazione del braccio del carnefice nel
Martirio di San Paolo. Metalli fusi nella notte (santificazione di
S. Mattea). Dna grotta di sostanza incandescente scavata in una
montagna di notte - uno scoppio d’una forza e d’una verità na-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 951

turali. Ci dice Gide: « Passione dominata e passione scatenata ».


Frivolità del Veronese con tutte quelle sue mezze tinte (pastel-
lature) che s’allontanano: effettini da luci artificiali di teatro.
Grande naturalezza della Venere che benda Amore del Tiziano
in confronto al suo Amore profano e religioso. Un Cristo del
Tiziano - giustiziere del suo secolo - vero ritrattista non d’uno
ma del suo secolo. Rivedere anche per farsene un’idea rispetto
a Caravaggio, Lotto, ritrattista enorme, Savoldo e Giorgione.
Non credo che Gide senta molto esattamente Caravaggio, non
sente quanto esso esprima il tragico del Seicento: nella sua im¬
petuosa fantasia, nel suo virtuosismo, nella sua amarezza, nella
sua crudezza nel mostrare la vanità di tutto nella morte, nel
suo urlare per dare un equilibrio a questa disperazione. Vedere
come tutti i suoi personaggi d’età virile, abbiano atteggiamenti
urlanti, e tesi in sovrumana forza fisica. Gide non vede che de¬
rivazioni di Manet, Courbet, Valentin, ecc. Lo spirito gli sfugge.
Triste effetto della Fornarina. Non si capisce come un viso così
privo di spiritualità abbia potuto ispirare Raffaello e come un’o¬
pera così perfetta di mestiere sia d’un effetto orrendo e odioso.
Il Bronzino: dice Arduini toscano pittura da scultore. Freddo
come un Ingres. Ma non sa fare che torso, le gambe in iscorcio
della figura, finiscono come quelle d’un girino, molli, superflue,
inutili. — Con quale potenza pianta le sue figure il Caravaggio.
Quale pazzia e verità negli scorci.
— Lavora con della materia incandescente nella notte —
— Angoscia, detresse -
— Vecchi — morti — la vita fuggita — évanouissement de la vie
(per Tiziano: évanouissement des contours) -

3 gennaio - La Pietà. di Michelangelo a Palestrina, m'è confer¬


ma stupefacente di quello ch’io avevo sempre sentito in questo
grande: egli spezza veramente ogni, quadro: non ci sono più
canoni, non c’è più convenzione, non esiste più né scultura, né
architettura, né pittura, né poesia, secondo le leggi tradizional¬
mente proprie a ciascuna di queste arti: ma esiste la necessità
d’esprimersi, semplicemente. Si veda, per esempio, in quel brac¬
cio enorme, pesantissimo, e nella sua forza e enorme potenza,
inerte e invalido, e caduto. Si veda quale partito nel carnefice
del San Matteo ha tratto un Caravaggio da un’analoga defor¬
mazione. E le parti lasciate grezze, e le parti portate a fini¬
mento (le gambe che ' cedono - qui fléchissent — vane, povere,
miserabili come per ricordarci che l’atto veramente vivo dell’uo¬
mo è quello di camminare). E quella mano della Madre che
per sostenere il figlio quasi fa tutt’uno col suo petto, pure con¬
servando una sua disperata e vivissima forza: tutta la volontà
952 Note

è in quella mano immensa di madre. - E quale dolore è in


questa espressione. Come è dolorante quest'uomo.
La gentilezza di Palestrina, con i suoi archi, le sue quinte, le
sue prospettive, la sua finezza nella salita.
Nella corte del patio, la guiche dell’asinelio.
L'Africa del gran mosaico. •
Il sacerdote orientale del bassorilievo ellenìstico e il dionisiaco
ornamento degli [illeggibilej.
In fondo a un burrone, come chiusa dalla sua fossa che le va
incontro, s’alza Zagarolo. Uno scatolame che sale verso la sua
cupola.
Piazza - arco con fregi come su un pain d’épice i fregi di zuc¬
chero e bianco d’uovo, fatti di detriti d’oggetti di scavo, spe¬
cialmente bianchi — come quegli oggetti (ensoriani) scatole con
pietruzze, perle, gusci di frutta di mare, che si vendono nei
porti: Souvenirs d'Ostende - chioccioline - gusci di vongole -
l’arenaria - polenta — pane di segala. Un'assemblea di donne
nell’unico punto dove c’era ancora il sole. Veglia.
La veduta dalla terrazza di Montecompatri. Putta la pianura, e
in fondo la corona dei monti dominati dal Soratte conico.
È impossibile affermare, in proposito, che esista un « diario »
di U., o che esistano magari un certo numero di sue annota-
2Ìoni diaristiche, recanti cioè, come nel caso di queste due pa¬
gine, una data o un riferimento preciso ad avvenimenti biogra¬
fici dell’autore. I due fogli in questione, strappati da un qua¬
derno scolastico e scritti in inchiostro stilografico nero su en
trambi i lati del foglio a quadretti, sono stati rinvenuti tra
una massa di altri appunti meno « finiti » che U. ha lasciato e
che attendono ancora un qualche ordinamento. Nel Journal di
Gide non esistono pagine su queste sue giornate romane del ’35;
ma è azzardato, vedere un U. « contagiato » dalla forma diari-
stica proprio per la presenza gidiana? Da notare poi come, alla
fine del secondo dei due paragrafi, quello su Caravaggio, U. fac¬
cia sue le parole che nel diario del ’35 aveva riportato come di
Gide.
4 Questo opuscolo del Muratori era stato discusso più ampia¬
mente nella conferenza Orìgini del Romanticismo italiano, del
1941, sopra menzionata. Qui U. praticamente riassume da tale
discorso precedente.
5 La versione francese del saggio aggiunge qui un brano, che
riproduco di seguito, del quale non s’è trovato il testo italiano
tra le carte di Ungaretti. Esso comunque riassume idee più ampia¬
mente espresse, a proposito dell’evoluzione della concezione leo¬
pardiana del rapporto tra ragione e natura, in una delle stesure
Saggi e Scritti vari 1943-1970 953

manoscritte del Secondo discorso su Leopardi {vedi pp. 957-


962):
Et il ne changera pas d’idée, ménte quand le Genèt sera venu
conclure l’évolution de sa conceptìon des rapports entre raison
et nature. La nature ne sera plus désormais à ses yeux source
d’illusions bénéfiques comme il l’avait un jour soutenu et chan-
té. Elle lui apparaitra malefique en soi. Et les hommes, avec le
peu de force que leur donne la raison, ne peuvent lui tenir téte
qu’en s’unissant et en opposant leur fraternité au mal - et
encore dans une très faible mesure, puisque nul ne peut abolir
la mort et « le hasard ».

Ancora, il testo di lnnocence et mémoire aggiunge più avanti,


dopo il paragrafo sul San Girolamo della Galleria Borghese:

On croirait voir ici- la juvénile Approche de la mort de Leo¬


pardi se réduire au Fragment de l’édition Starita de 1835.
6 Vedi, per questo paragrafo, la nota 3.

p. 451
SECONDO DISCORSO SU LEOPARDI In « Paragone », Fi¬
renze, a. I, n. 10, ottobre 1950, pp. 3-35. Il titolo, indica di
per sé la continuità di questo saggio con il lavoro di scavo nel
testo dei Canti cominciato con la prolusione universitaria del
’43, Immagini del Leopardi e nostre, che implicitamente l’au¬
tore considera dunque come un « primo discorso su Leopardi »,
cui questo « secondo » si riallaccia.
Il discorso fu probabilmente letto, o ancora più probabilmente
preparato per essere letto (si veda l’inciso, p. 479: « Purtroppo vi
ho già stancati con la lunghezza del mio discorso... »), all’Uni¬
versità di Roma (il che ribadirebbe ancora la continuità allusa
[« secondo... »] con la prolusione) nel 1944, come U. stesso af¬
ferma in testa alle postille che seguono il saggio.
Una delle diverse stesure manoscritte di questo testo (cinque per
l’esattezza, tutte incomplete, e non datate) reca il titolo: Com¬
mento a Canti di Giacomo Leopardi fatto da Giuseppe Ungaretti
/ Breve discorso introduttivo / Proemio (mentre le altre non han¬
no titolo). In modo abbastanza analogo, il saggio s’intitola in
lnnocence et mémoire (pp. 96-144), La le(on des Canti.
Rispetto a quello che appare come il manoscritto più recente, il
testo di « Paragone » ha subito numerosi tagli (i più importanti
dei quali riporto nelle note più avanti), forse per le preoccupa¬
zioni di lunghezza già menzionate.
1 Vedi 11 poeta dell’oblio, pp. 400-402.
2 II manoscritto recenziore prosegue a questo punto la discus¬
sione del rapporto Leopardi-Breme in tema di mitologia:
954 Note

La riflessione sulla mitologia non ba però nella mente del Leo¬


pardi soltanto i limiti che si sono ora indicati. Ribatte difattì
al Breme: «Dunque non solo [il Breme] concede che la natura
si avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di contrapporre
questo sistema vitale al mitologico, ec., e, per esempio, di que¬
sto avvivamento, diverso da quello che faceano i mitologi, si
serve di un passo di lord Byron, dove attribuisce sospiri fra¬
granti alla rosa innamorata. Ma che? non vuole che si avvivi la
natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come ì
mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante ec., ma
la natura immediatamente, senza convertirla in individui e rico¬
noscendo vita sotto tutte le forme e non esclusivamente sotto
l’umana, in somma che tutto sia animato e sensitivo, non che
siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si
avvedono i romantici, che questi che debbono avvivare la natu¬
ra, questi poeti, son uomini, e non possono naturalmente e per
intimo impulso concepir vita nelle cose se non umana, e che
questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino ai propri af¬
fetti, pensieri e forme e affetti umani è così naturale all’uomo
che per levargli questo vizio bisognerebbe rifarlo; non si avvede
che il suppor vita nelle cose, per esempio inanimate, diversa
dalla nostra ripugna di maniera al nostro istinto e alla nostra
natura che appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo
gusto, al gusto che si chiama gotico, che si chiama cinese; che
il poeta non deve seguir né la ragione né la metafisica (posto
pur che la ragione ami meglio nelle cose che non vivono una
vita diversa dalla nostra che uguale, e così discorrete degli Dei
ec.), ma la natura e l’istinto, e che per quanto si può argomenta¬
re da questo istinto, il cavallo per esempio, se avesse ragione e
immaginativa, attribuirebbe a Dio (il cavallo sarebbe allora ra¬
gionevole, onde nessuno si scandalìzzi di quel che dirò), e alle
cose inanimate ec. ec., la figura e gli affetti e i pensieri del
cavallo, e così gli altri animali (e questo pensiero non è mio
ma dell’antico Senofane, perché molte cose son vecchie che si
credono nuove, e molta sapienza è antica alla quale sì crede che
quei cervelli non arrivassero); non si avvede che, se la rosa so¬
spira ed è innamorata, la rosa, nella mente del poeta, non è
mica altro che una donna, e che voler supporre che questa rosa
viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è impos¬
sibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica
i metafisici ma il volgo; e non si avvede-che lo stesso lord Byron
non ha saputo dare alla sua rosa e tutti i romantici non sapranno
iti eterno a nessunissima cosa dare altri affetti o sensi che uma¬
ni, perché diversi affetti o sensi appena ci sappiamo persuadere
che ci possano essere, non che possiamo immaginarci quali sia¬
no » [Zibaldone, 20],
Saggi e Scritti vari 1943-1970 955

Abbiamo già imparato più d’una cosa. Al Leopardi ripugna d’es¬


sere un poeta anacronistico, d’essere cioè un imitatore, e, in
questo senso, se uno volesse fare rivivere oggi la mitologia an¬
tica, « ingenererebbe un non so che d’arido e di falso ». Il passato
è passato e non torna mai più, sebbene intatto vegli ed agisca
nel nostro presente e dalle nostre parole possa distendersi alla
nostra immaginazione. Un poeta potrebbe comunque ricorrere an¬
che a miti antichi, se lo giudicasse utile per gli effetti che si
propone di raggiungere, ma in tale caso per avere autentico
valore espressivo, quei miti usati dal poeta moderno dovrebbero
- succede in Racine — segnare quanto i suoi tempi siano diversi
da quelli antichi, quanto lunga durata storica sia trascorsa da
quei tempi. In Virgilio rispetto a Omero, gli stessi miti usati
da Omero e da Virgilio, indicheranno per esempio, in un'osser¬
vazione del Leopardi, la diminuita energia del sentimento, l’affie¬
volita attitudine di assolutezza nella concentrazione oggettiva e
la minore fecondità dell’immaginazione, e la sensività invece ac¬
cresciuta. Come vedete, la polemica romantica è immediatamente
per il Leopardi presa di coscienza storica, e acuirsi del proprio
terribile sguardo critico cui va dilatandosi sino ai più lontani
limiti del possibile conoscere umanamente, la sfera d’osserva¬
zione.
Due volte nel primo pensiero citato sulla mitologia, ricorre l’ag¬
gettivo « falso ». La seconda per negare; ma la prima per dire
che la poesia ha bisogno d’un « falso ». Avremo occasione di
parlare più avanti di ciò che intende il Leopardi per « fingere »,
per « illusioni ». Subito occorre rilevare che il poeta per il Leo¬
pardi non può fare a meno di miticizzare, anche se il mito non
apparirà più se non per essere svuotato, per essere guardato bru¬
ciare, inaridirsi, consumarsi in nulla, esposto ad un’imperterrita
lucidità d’analisi. Per ora riteniamo che per il Leopardi, già da
quando ancora riteneva doversi distinguere la poesia per generi,
al poeta non sarà mai dato se non di ridurre tutto soggettiva¬
mente all’umano. Più tardi affermerà esplicitamente che tutti ’
generi di poesia si muovono per impulso lirico e si risolvono
sempre in poesia lirica, se recano poesia — si risolvono insomma
in poesia fondata sulla personale esperienza del poeta mossa da
ciò che in ogni persona è irriducibile segreto, dal quale ogni
sapere e ogni perizia verranno in modo avviati da distinguere
ciascuna persona nei suoi atti da ogni altra. So che il Leopardi
nega le idee innate, so che l’uomo è per lui prodotto di assue¬
fazioni ereditate o direttamente da lui contratte, ma so anche
che non avremmo la sua poesia senza quell’irriducibile incono¬
scibile che incomincia a pararglisi contro nell’essere stesso della
sua propria persona — senza quell’« ignoto », senza quell « igno¬
ranza » per cui la sua poesia è un lungo disperarsi. Si disperava
956 Note

perché non può l’uomo conoscere se non ciò che fa, perché non
può estendere indagini per acquisto di lumi oltre i limiti della
materia, sopratutto perché gli è oscuro il motivo della condanna
a sofferenza e morte di quanto ha nascita nell’universo e dallo
stesso universo. '
Nel secondo pensiero citato, leggiamo « gli;uditori del poeta non
sono mica i metafisici ma il volgo ». La questione della lingua
è fondamentale per il Leopardi, ed è fondamentale anche nel
senso che, come i Romantici, egli ha il desiderio di fare della
sua voce quella del momento storico della sua nazione. È que¬
stione delicata perché il Leopardi ha di mira anche il rispetto
dell’indole, cioè della tradizione della lingua che usa.
3 Vedi pp. 373 e 384.
4 Trionfo della Morte, Capitolo I, vv. 160-Ì68.
5 Purgatorio, Vili, vv. 1-6.
É Prosegue qui il manoscritto citato:
Il Leopardi non si sbagliava prendendo in serio esame i ragio¬
namenti del Preme. Di quanti ebbero a tentare di prevedere
con qualche chiarezza il sorgere d’un Romanticismo italiano, il
Preme fu in quella polemica uno dei pochi meritevoli d'udienza
e per dottrina e per la cognizione non troppo approssimativa
della possibilità d’allora di rinnovamento delle lettere in Europa
e delle lettere in Italia.
Dagli esempi che poco fa ho indicato, e ai quali il Leopardi era
ricorso per avviare sue stupende soluzioni di poesia, il Leopardi
ricava rinnovamento nel rispetto della continuità storica della
lingua, sollecitando la pesantissima presenza di lunghi secoli e
più badando a sentire ed a fare sentire nel rinnovamento la re¬
sponsabilità e il grado di profondità di quella antichità e di
quella vecchiaia e persino a volte di quella decrepitudine che
10 stesso rinnovamento. Proprio l’opposto di quanto si sarebbe
aspettato il Breme, sebbene il Breme non avesse mancato d’av¬
vedersi, lo abbiamo rilevato, che la mente del Romantico avrà
« da ripiegarsi sul cuore ad ascoltarne la lunga storia ».
Fu il Breme la parva favilla d’un immenso incendio. Forse le
più profonde riflessioni del secolo XIX intorno alla storia, in¬
torno alle passioni umane e alla sorte dell’uomo, e intorno ai
problemi del linguaggio e agli sviluppi delle letterature e della
poesia sono contenute nelle 3000 pagine dello Zibaldone. Forse
i Canti che quelle annotazioni accompagnano sono i più alti dal
Romanticismo ad oggi...

11 dissidio dunque tra il Leopardi e quel Romanticismo che il


Breme predicava, è subito manifestato a principio della prima
annotazione dello Zibaldone mossa dagli articoli dello « Spet-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 957

tatore italiano». Dice il Leopardi: «Noi, secondo [il Brente],


siamo [nel patetico] superiori agli antichi, e siccome [nel pate¬
tico] secondo lui consiste veramente la poesia, però siamo più
poeti infinitamente che gli antichi (e questa è la poesia dello
Chateaubriand, del Delille, del Saint-Pierre ec. ec., per non
parlare dei romantici che forse in qualche cosa diferiscono, ec.) ».
E il Leopardi soggiunge: « Questo patetico è quello che i fran¬
cesi chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare sensività ».
Il nostro sentimento rispetto a quello degli Antichi, giudica il
Leopardi, non è superiore, e tanto meno è superiore la nostra
poesia; ma esso rispetto a quello degli antichi solo è giunto a
sbriciolarsi, irrequieto sempre più da un oggetto all’altro, già
fiacco di per sé, e ogni suo slancio subito è scoraggiato e smor¬
zato dalla ragione sempre più analitica nelle sue operazioni, ca¬
stigato così ad essere sentimento a fior di pelle e, molto meno
che sentimento, sensività.
L’idea che il Leopardi si fa subito della lingua e della poesia
è un’idea conforme a quella ch'egli ha della natura. Diremo
subito che contrariamente a quello che verrà professando il Man¬
zoni, il Leopardi giudica che una riforma della lingua che la
geometrizzi, come avvenne per il francese dopo il Vaugelas, sna¬
tura e isterilisce una lingua anche se strumentalmente la univer¬
salizzi. Per il Leopardi la storia è nella lingua, la lìngua vive
nel susseguirsi dell'opere letterarie. Ogni tempo si attesta per
opere letterarie, e ogni opera letteraria che il proprio tempo atte¬
sti, avrà saputo ricorrere a lingua che insieme al rispetto della
sua continuità letteraria, tale continuità non abbia estraniato
dalle particolari esigenze espressive dell’attualità storica, anzi da
esse l’abbia fatta sfociare.
Il Leopardi si prefiggeva e si lusingava di arrivare a una lingua
dove fosse per eleganza ricuperata la spontaneità di poesia dei
nostri autori dei primi secoli mediante un’arte scaltrita quanto
quella dei nostri prosatori del Cinquecento. Sperimentalmente
vi si affannerà per un periodo che va almeno sino al Canto A
Silvia. Certo le cose non gli si presentavano facili. C’era di mez¬
zo un’angoscia che non gli era possibile di eliminare né di ri¬
durre. E se vogliamo provare a sentire quanto fosse vasta e in¬
tensa quell’angoscia, bisogna pure che ci facciamo un’idea di ciò
che intendesse per natura. Al lìmite della ragione e della storia,
al limite della scienza e della memoria, e, direbbe con amarezza,
al limite quasi oramai dell’uomo, è per lui natura. La natura è
nel patetico: sensazioni, affetti ed immaginazione, sebbene sia
questo per lui il luogo del « soleva », e del patetico non si possa
egli rendere conto se non come derivante per illusioni da assue¬
fazioni; è natura, infinito: illusione e luogo d’illusioni. Cambia
tre volte viso la natura nella sua opera, ma essa sempre rimane
958 Note

per lui ferma allo stesso limite, fuori dell'uomo oramai, o quasi,
sebbene essenzialmente, fausta o nefasta, non assente dal suo
essere. "Secondo il modificarsi della sua idea della natura, i tre
momenti della sua opera sono i seguenti: 1°) i Canti che vanno
dal 1818 al 1822; 2°) i Canti e le Operette morali sino al 1832;
3°) i Canti composti dal 1832 al 1836.
La prima idea che si fa della natura è quella che troviamo
nella prima annotazione agli articoli del Breme: « E non si av¬
vedono i romantici» osservava allora il Leopardi «che se [i]
sentimenti [della poesia antica] son prodotti dalla nuda natura,
per destarli bisogna imitare la nuda natura ». Nella profondità
del nostro essere s’occulta, ma oramai quasi solo come rimorso,
la forma d’uomo di nuda natura, non è il buon selvaggio, non
è forma di cattivo uomo né di buono, è anteriore a qualsiasi
attività sia pure rudimentale da cui possa avviarsi a rivelarsi un
qualsiasi discorso storico, è forma in eterno, fot ma edenica, è
Adamo, è addirittura di più se, dicendo natura, in quel tempo
il Leopardi osa, con ogni prudenza certo, uguagliarla all’idea
che si fa della divinità. È forma d’intatto vigore carnale e d’in¬
tatta capacità di sentimento e d’immaginazione. Da essa, pura
felicità dell’uomo, da noi profanata e perduta prima che il tem¬
po fosse e avesse notte per avere giorno, da essa, infinito, si
aggomitola e si dipana l’infinita durata della storia, e, a ogni
tappa dell’umano dramma, l’età dell'uomo crescendo, aumentan¬
do il suo incivilimento fatale, diminuisce per l’uomo la capacità
d’essere meno infelice.
La prima raffigurazione che il Leopardi si fa delta natura è quella
di somministratrice d’illusioni. Il vocabolo illusione, il Leopardi
l’adopera subito, è già nell’annotazione di cui ci siamo occupati
e ci stiamo ancora occupando: « Se il poeta non può illudere »
esclamava nell’annotazione il Leopardi « non è più poeta, e
una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragio¬
nevole ».
Dalla sua forma perfetta separato, e tuttavia ad essa dall’inespli¬
cabile nostalgia unito, l’uomo si farà d’assuefazioni. Interamente
fatto d’assuefazioni, il suo incivilimento fatale, fatalmente con¬
tinuo, trova talvolta modo di rinnovarsi, ed avviene quando una
società sia portata a riaccostarsi alla natura, avviene quando per
essa la natura torni a farsi natura, torni a coprirsi di qualche
lembo del suo jrelo sacro; ma se al nuovo ciclo è ripresa d’e¬
nergia, sarà energia in declino al confronto di quella da cui
ebbe moto in complesso - nascere, salire, estinguersi -> il ciclo
precedente, e così, dell’estinguersi ai suoi tempi d’un ciclo della
storia che gli sembrava chiudesse i cicli d’una data civiltà, il
Leopardi dirà:
Saggi e Scritti vari 1943-1970 959

... a noi presso la culla


Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

Tra il punto cui è giunto Tincivilimento ai suoi tempi, e la


natura, un abisso vede scavato, il Leopardi. Sempre, penserà,
tra la natura e l'uomo, ci fu abisso. È l'illusione di colmarlo,
è la possibilità di fare poesia che per il Leopardi è ormai a
zero.
Un breve commento ora alla Canzone Ad Angelo Mai ci per¬
metterà di vedere meglio ciò che va inteso per natura nella pri¬
ma fase dei Canti, e di fare nello stesso tempo un primo un
po preciso approccio verso quelle-ricerche che costituiranno per
il Leopardi l’elaborazione del suo linguaggio poetico.
Segue, a questo punto del manoscritto, l’esame àt\VAngelo Mai
che nella stesura definitiva del saggio figurerà invece dopo l’ana¬
lisi Infinito (vedi le pp. 478-480); quindi viene proseguita
la discussione dell’idea di natura in Leopardi, discussione intera¬
mente soppressa nel saggio quale appare in « Paragone »:
La seconda raffigurazione della natura è nel « Coro dei morti »
del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, operetta
composta dal 21 al 30 maggio 1824.
La « nuda natura » fonte d’illusioni, inviolabile segreto, perfet¬
ta forma, forma esente da irritabilità dei sensi, da sensività,
forma di tutta allucinazione dal sentimento, forma dell’immor¬
tale uomo, segno scomparso e immemorabile, sottratto persino
alla memoria, forma verso cui disperatamente tendere per il re¬
cupero d’innocenza e la restituzione d’infinito alla parola - la
« nuda natura » ha oramai da designare altro, designa oramai la
morte,

Nostra ignuda natura.

È la morte oramai la natura che è sostanzialmente se stessa:


Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dell’antico dolor.

E per farci, se ve ne fosse bisogno, ancora più precisa idea del-


l’intendere leopardiano di durata e di continuità storica, legge¬
remo più avanti:

Vivemmo: e qual di paurosa larva,


E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
960 Note

Tal memoria n’avanza


Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar.
Dunque, da quanto alla mente di noi vivi dalla morte si riflette,
sappiamo che la memoria persiste oltre "la morte, che nei morti
essa persiste « confusa ricordanza di larva e di sudato sogno »,
simile alla ricordanza « errante nell’alma a lattante fanciullo »,
ma è « larva » non più paurosa, anzi è allora « il rimembrare
lunge da tema ». Non poteva dirsi meglio come persistono a
vivere i morti: vivendo nei vivi.

Come il Leopardi sia arrivato alla sua terza ed estrema personi¬


ficazione della natura, richiederebbe a dimostrarlo il tempo che
oggi non ho.
Forse la nuova idea andò precisandosi nel 1830 dopo essersi
visto preferire la Storia d’Italia del Botta alle Operette morali,
nel concorso al Premiò dell'Accademia della Crusca. Egli non
ebbe, non occorre rilevarlo, il cattivo gusto di sdegnarsi per lo
scacco subito, ma i giudizi negativi che in quella circostanza
furono espressi da taluni Accademici sul suo modo di rappresen¬
tarsi la natura, devono averlo indotto a ripensarci, e risulterebbe
dall’epistolario e da altri documenti. Non ci ripensò, non occor¬
re rilevarlo, per assoggettarsi ai suoi avversari; ma per appro¬
fondire sempre di più il suo pensiero, come costantemente aveva
fatto prima.
Le Operette morali concorrenti al Premio della Crusca, tutte
composte nel 1824, saranno stampate nel 1827. Quelle composte
nel 1827 e nel 1832 non vedranno la luce che nell’edizione fio¬
rentina del 1834.
Di sicuro sappiamo che nello Zibaldone si trova un pensiero
vergato a Bologna il 22 aprile 1826, che afferma: «Tutto è ma¬
le. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è
un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un
male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l'ordine
e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono
altro che male, né diretti ad altro che al male ».
Nelle Operette del 1827, e di più in quelle del 1832, e in tutta
la poesia dal 1828 in poi, cioè dal Canto A Silvia sino agli ultimi
Canti, vediamo la natura farsi progressivamente personificazione
del male. Il male, di cui ignoreremo sempre la causa, non è
più nell’incivilimento, non è più nella storia, non è più nel
sensivizzarsi dell’uomo; ma è nella natura.
È su tale idea della natura, già chiara nel pensiero del 1826,
che il Leopardi torna a meditare dopo il 1830, dopo la disav¬
ventura capitata'nel Concorso della Crusca alle Operette morali
del 1824.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 961

Nella Ginestra, in quello che è, occorre, anche se lo sanno tutti,


sottolinearlo, insieme al Tramonto della luna, uno dei suoi due
ultimi Canti, scritti nella Primavera del 1836, poco più d’un
anno prima della sua morte a Napoli — nella Ginestra il male
è indubbiamente nella natura, la cieca furia è nella natura, da¬
vanti ai suoi occhi gliene è immagine il Vesuvio, gliene sono
immagini sotto i suoi occhi dissepolte città uccise.
La novità in questi Canti non è che l’uomo si dimostri di « no-
bil natura »: in tutta la sua opera e in tutta la sua vita, il
Leopardi non si propose altro se non d’essere uomo « di nobil
natura » - la novità è che l’uomo si dimostri tale

Contra l’empia natura,

la novità è nella miticizzazione dell’empietà della natura:


Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune
[La Ginestra, vv. 111-135]
In esergo, La Ginestra reca la sentenza di Giovanni: « E gli
uomini vollero piuttosto la tenebra che la luce ».
In questo suo testamento, il Leopardi riafferma che l’uomo s’in¬
ganna se crede che con il progredire del sapere possa progredire
la felicità, e, con una veemenza di disperazione che precedente-
962 Note

mente, toccando un simile tasto, non aveva mai avuta, afferma


la sua impossibilità di credenza in rivelazioni. Cristiano rima¬
neva tuttavia d’animo e d’etica invocando che gli uomini « più
non vogliano la tenebra, ma la luce », e confessino, per farsi di
« nobil natura», il loro «stato basso errale ». Ricordino d’es¬
sere per origine fratelli e si confederino e si abbraccino aiutan¬
dosi prontamente « negli alterni perigli e nelle angosce della
guerra comune ».

Con le Canzoni pubblicate a Bologna nel 1824 e con i Versi,


pubblicati anch’essi a Bologna, nel 1826, e con le Operette
morali, quelle composte nel 1824, è compiuta dal Leopardi l’e¬
laborazione del suo linguaggio poetico. È un’attività che va dal
Settembre del 1818, data di composizione della Canzone All’I¬
talia, al Cantico del gallo silvestre, composto nella seconda metà
d’Ottobre del 1824. Nel 1824 interrompe la poesia - l’Epistola
Al conte Carlo Pepoli essendo cosa di scarso rilievo - per dedi¬
carsi alle Operette. La vera ripresa della poesia avviene con il
Canto A Silvia che è dell’Aprile del 1828. Nel 1828, gli appunti
dello Zibaldone registrati generalmente sotto il nome d’« ele¬
ganza », aveva da più di quattr’anni smesso di dettarli, e da
quasi quattr’anni aveva smesso per non più riprenderle, le sue
ricerche sperimentali di linguaggio nei suoi versi e nella sua pro¬
sa poetica che quegli appunti accompagnavano.
Mi resta, per non lasciare troppo incompleta la mia indagine
sull’elaborazione del suo linguaggio poetico, di aggiungere qual¬
che più precisa indicazione sulla sua idea d’infinito e sulle ri¬
sorse poetiche di quella ch’egli chiamava « eleganza », mediante
la quale si proponeva di mantenere nell’uso d’una lingua pre¬
sente l’intatto scorrere in essa della memoria, mentre in essa
per illusione d’infinito, per poesia, il tempo si sarebbe abolito
facendola crudamente aderire all’attualità dei tempi.
Incominciamo con un rapido commento «//'Infinito.
L’Infinito fu composto nel 1819, è una delle sue prime poesie,
la prima sua approvata, la Canzone All’Italia, essendo dell’anno
prima.
Segue così il commento deli’Infinito, e in una redazione poco
diversa da quella definitiva (vedi le pp. 472-478).
7 II testo qui dato del commento all’emistichio Sempre caro mi
fu, come più avanti quello del commento a mirando, differisce
leggermente dalla stesura del passo quale appare in « Parago¬
ne ». Nel corso delle sue lezioni su Leopardi alla Columbia Uni¬
versity di New York, nella primavera del 1964, U. adoperò alcu¬
ne pagine del dattiloscritto di questo saggio per una lezione
sull’Infinito, apportandovi delle modificazioni, essenzialmente in-
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 963

troducendo cioè la nozione di sogno come momento evolutivo


dell’intenzione leopardiana, nell’Infinito, rispetto a quella pura
misura di memoria (« mi fu ») ch’egli aveva voluto leggere nel
’44-’50 nell’Idillio. Nella lezione del ’64, insomma, L’infinito na¬
sce da una situazione non solo di « memoria », come si diceva
in « Paragone », ma più, di « memoria fattasi sogno ».
Spiega U. in un passo della lezione newyorkese (cito qui dal ma¬
noscritto della 9“ lezione; va notato, di passaggio, che le lezioni
di U. alla Columbia University furono costituite essenzialmente
da un collage e un re-arrangement di testi scritti all’epoca delle
lezioni universitarie romane, con solo qualche pagina di collega¬
mento qua e là, come quella che riporto qui di seguito, scritta
ex novo. A mio avviso, è estremamente improbabile che si possa
ricavare da tali materiali un coerente « nuovo » testo ungarettia-
no su Leopardi, benché uno sforzo in questo senso non è escluso
che possa dare qualche risultato):

Quando ci addentreremo nel commento [dell’Infinito], vedremo


come Leopardi passi dalla memoria :al sogno, cioè ad una memo¬
ria che sorga in noi come apparizione, con l’oblio cioè delle cir¬
costanze di tempo e di luogo proprie della memoria, atte e ne¬
cessarie a indicarne lo sviluppo in una personale coscienza. L’al¬
ternanza dei titoli: sogno, ricordanza, è significativa. È da notare
anche l’esitazione a sceglierli ora per questa ora per quella poe¬
sia. Arrivato all’Infinito, e mostreremo come ci arrivi, non ci
sono più né sogno né memoria, c’è l'uomo, la persona umana
senza altri che l’accompagni, la quale, entro un paesaggio, che
diviene lo sconfinato campo della morte, riconosce con stupore
la sua voce viva, sola. Gli Idìlli, i Canti della solitudine della
persona umana, qui giungono al loro supremo emblema, ad una
figurazione sublime, amabile, tremenda. Alla fine a un deserto
occupato e percorso da un’anima.
Mi pare che U. non faceva che applicare e sviluppare in tale mo¬
do, retroattivamente, la relazione memoria-sogno in Leopardi co¬
me già l’aveva impostata in questo stesso saggio, concludendo
la discussione sul sottotitolo, o delle favole antiche, della Can¬
zone Alla Primavera: già nel ’50 cioè (vedi le pp. 486-87).
Non solo; ma tale relazione, e a proposito dello stesso Infi¬
nito, era già stata anticipata in una delle stesure più antiche del
Discorso, in un lungo brano, poi caduto nel testo a stampa, che
ampliava il commento a mirando e mi fingo, dove appunto si
dice:
... preso dalla divagazione sull'infinito; o meglio, dal ricordo; e
ora il ricordo, dopo essersi fatto con ('esclude, da remoto, ur¬
gente, ora stava facendosi tanto potente da arrivare a obliare
se stesso, a divenire ricordo oblioso di sé, a consumarsi e a quasi
964 Note

finire nella solitudine e nell'assolutezza del sogno. Può ora il


Poeta tanto obliarsi e tanto distaccarsi da qualsiasi oggetto, da
potere, «mirando, da potere nell’intimità esclusiva della sua con¬
templazione, ottenere dalla fantasia, occhi di tale forza di mira
che, malgrado la siepe, eliminando ogni siepe, possano riuscire,
di là da ogni orizzonte, e perfino dall’ultimo, a formargli in un
baleno spazi interminati. [...]
Mi fingo.- un vocabolo s’era però insinuato nella poesia, in que¬
sto secondo percorso dell’onda emotiva, mentre il sogno appa¬
rendo, « escludeva » tutto; fingo: un vocabolo era sorto sulle
labbra del Poeta come a sussurrare il sospetto del male insito a
ogni sogno — come è insito a tutto, il perire — non essendo, a
qualsiasi sogno, lecito mai di delinearsi alla mente formato, se
non per vedersi immediatamente offeso, invaso, disperso dal ri¬
cordare, del quale è, presa forma, fulmineo e effimero oblio.
Così meditando, fu che m’accorsi che le parole:
.interminati
Spazi. e sovrumani
Silenzi.
10 nel pensier mi fingo; ove per poco
11 cor non si spaura...

erano la testuale traduzione della frase pascaliana: Le silence


éternel de ces espaces infinis m’effraie. Questo suo, era per Pa¬
scal il pensiero di chi indietreggi terrificato scorgendosi improv¬
visamente davanti a un universo senza Dio: cioè davanti a mera
spazialità, al nulla. Ma sono « i sovrumani silenzi degli stermi¬
nati spazi » ancora, a questo punto dell’Idillio, semplice sogno,
sogno nel quale la fantasia va effondendosi libera, liberandolo,
quasi direi, d’ogni tedio e fatica della materialità della vita. Se
c’è spavento ('m’effraie: si spaura) è qui, ancora solo quello che
il Leopardi chiamava lo spavento della bellezza, anche se il fingo
s’è già avanzato a ammonirci, ma ancora oscuramente, ancora
blando, che il male porterà sempre tutto a significare l'opposto
di ciò che, per amabile e pietosa finzione, s’era creduto dovesse
significare.
8 Sia il testo a stampa che i manoscritti dicono « all’ottavo ver¬
so », ma si tratta di evidente « inganno della memoria ».
9 Cfr. Blaise Pascal, Pensées, capitolo Infini-Rien: « ... à chaque
pas que vous ferez dans ce chemin, vous verrei tant de certitude
du gain, et tant de néant de ce que vous hasardez, que vous
connaitrez à la fin que vous avez parié pour une chose certame,
infime, pour laquelle vous n’avez rien donné ». In una pagina
manoscritta di U., inoltre, questa frase suonava: « Nel famoso
Pari pascaliano, la posta era, come sapete, “infini” contro “rien”.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 965

Sino a che punto e veramente, il Leopardi si dichiara per il


nulla? ».
10 Aggiunge il manoscritto recenziore già citato:

Resta ora da considerare il punto estremo al quale era arrivato


nei suoi tentativi d’ottenere « effetti d’infinito » a mezzo d’« ele¬
ganza ».
Nel distinguere tra termine e parola, il Leopardi osserva che ver¬
ranno chiamati parole i vocaboli che non presentano la sola idea
dell’oggetto significato, ma quanto più quanto meno immagini
accessorie. Termini sono da considerarsi invece quei vocaboli che
per la continua operazione analìtica della ragione risultano da
continuo moltiplicarsi del frazionamento delle parole. La termi¬
nologia scientifica, la terminologia tecnica può anche farsi assur¬
gere alla funzione di poesia, ma è difficile ch’essa possa essere
piu che « precisa », ch’essa possa possedere « proprietà », cioè
che possa oltre il suo significato disporre d’un alone « d’imma¬
gini accessorie ». Il Leopardi usa nella sua poesia un limitato
vocabolario, e come ne scarta i termini ne scarta le onomatopee,
cioè ne scarta, come diceva, la lingua delle balie, e ne scarta,
naturalmente, il pappagalleggiare le parlate dialettali. Tutto ciò
non vuol dire che il purismo piaccia al Leopardi, anzi gli dà
fastidio, e considera che l’italiano del Trecento non era affatto
una lingua pura, ma composita, come lo sono in ogni tempo le
lingue, e come non devono temerlo d’essere aggregandosi via vìa
dalle altre lingue quei vocaboli e quei modi che le esigenze
espressive dei tempi impongono d’usare.
Altrove il Leopardi, a proposito della collocazione delle parole,
s’accorge ch’esse possono produrre nei lettori un’altra idea da
quella del loro senso, e in quel pensiero dello Zibaldone ag¬
giunge: « Giacché due immagini in una volta non si possono ve¬
dere, ma bensì una dopo l’altra, il che quando fosse, potrebbe
anche il poeta lasciare e anche procurare questa illusione [che
esse immagini si vedano in una volta]. Anzi questa sarebbe »
badate è il Leopardi che parla « questa sarebbe la sorgente di
una grand’arte e di un grandissimo effetto procurando quel vago
e quell’incerto che è tanto propriamente e sommamente poetico,
e destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma
quasi nascosta ».
Dunque: a) usare vocaboli che oltre al loro significato posseg¬
gano un « alone d’immagini accessorie »; b) usare vocaboli in
modo che abbiano non solo incertezza e vaghezza di senso ma
acquistino addirittura ambiguità, ambivalenza di senso per « o-
scuramento » del loro senso.
Tutto uno sforzo dunque nell’uso della parola, preferendo pa¬
role a termini per riportarla il più possibile alla sua funzione
966 Note

originaria che non era d’analisi ma di significazione; cercando


d‘oscurarne il significato, come voleva, ricordate, Rousseau, per
impedire che leggessimo distrattamente - tutto uno sforzo per
riavvicinare la parola alla natura, all’infinito, alla fonte d illu¬
sioni. t
Sono osservazioni che il Leopardi fa al principio dell elabora¬
zione del suo linguaggio poetico, e che trovano nella Canzone
Alla Primavera, composta a Recanati nel gennaio del 1822, la
più stupefacente loro applicazione.
Nel preambolo alla ristampa nel.« Nuovo Ricoglitore » di Milano
del Settembre del 1825, delle Annotazioni alle dieci Canzoni
stampate in Bologna nel 1824, il Leopardi dice a proposito della
Canzone Alla Primavera; « Nessuno potrebbe indovinare i sog¬
getti delle Canzoni dai titoli. Per esempio, una Canzone alla
Primavera non descrive né prati né arboscelli né fiori né erbe
né foglie ». Eppoi, a proposito di tutte le sue Canzoni: « Se
non si leggono attentamente, non s'intendono; come se gl'ita¬
liani leggessero attentamente ».
Vogliamo, noi almeno, fare lo sforzo di leggere attentamerite?
11 Charles Baudelaire, Femmes damnées / Delphine et Hippo-
lyte, vv. 103-104.
12 Esiste, in proposito, un lavoro inedito di U., Giuseppe Unga¬
retti: La Canzone « Alla Primavera » di G. Leopardi, un datti¬
loscritto di 175 pagine, cui l’autore non trovò mai il tempo di
dare l’imprimatur finale. Si tratta di un’opera esclusivamente
documentaria, che U. riteneva dovesse essere preliminare e fon¬
damentale a ogni successivo discorso critico sulla Canzone leo¬
pardiana. Se ne dà qui la descrizione, cioè il sommario:

Titolo pag. 1
Sommario 2
Testo e sigle
[nota sull’edizione del testo della Canzone ed
elenco delle sigle riferentisi alle varie edizioni di
Alla Primavera] 4
Testo della Canzone 5
Appendice di G. Leopardi alla Canzone, con apparato
critico [riportati dall’edizione critica Moroncini,
voi. I, dei Canti (Cappelli, Bologna 1927)] 10
•Annotazioni di Leopardi all’edizione di Bologna, 1824 37
Nota del Leopardi all’edizione fiorentina, 1831 50
Salmo XC, testo della Volgata 51
Salmo 90, volgarizzamento, Venezia 1471 53
Girolamo, Vita di San Paolo 55
Volgarizzamento di Domenico Cavalca [della pagina
di Girolamo] 57
Saggi e Scritti vari 1943-1970 967

Calmet, Il demonio meridiano 60


Meurs, Auctarium Philologicum, VI 64
Lami, Nota al Meurs 72
Stazio, Tebaide, IV, 419-422 95
Traduzione di Selvaggio Porpora [del passo di Stazio] 96
Barth, Nota a Stazio 98
Lucrezio, De Rerum Natura, I, 1-16, con traduzione
di Giuseppe Ungaretti 101
Leopardi, « Del meriggio », dal Saggio sopra gli er¬
rori popolari degli antichi, e Versioni di poeti
latini per le note al suddetto 102

Appendice
[Testi di poesia ispirati al tema delle favole antiche e del demo¬
nio meridiano]
Sannazzaro, Salices 122
Versione: I Salici 126
Delille, Les trois Règnes, VI, 1-13 e Versione 130
Wordsworth, Sonnet XXXIII e Versione 131
Keats, Dedication e Versione 132
Shelley, da Cboruses from Hellas e Versione 133
Hòlderlin, I falsi poeti, Tramonto, Arcipelago 134
Schiller, Gli Dèi della Grecia, traduz. Maffei 136
Platen, dall’Inno a Venere e Versione 141
Savioli, La solitudine 142
Monti, Sulla mitologia, Sermone 146
Mallarmé, L'Après Midi d’un Faune 153
Traduzione del Pomeriggio d’un Fauno, di G. Un¬
garetti 158.
Carducci, Alle fonti del Clitunno 164
D’Annunzio, Versilia 171
Segue in fondo al sommario una breve annotazione manoscritta
di U., « Il Sommario si farà secondo il nuovo ordine in cui ver¬
ranno disposte le parti ». Come s’è detto, tale ordinamento nuovo
del dattiloscritto non venne mai compiuto.
13 II manoscritto recenziore continua qui:
Per esempio, ivi è citato l’ermetico interprete che narra della
penisola che « ì poeti chiamano Flegrea, dove la terra serba mol¬
ti cadaveri di giganti, i quali posero quivi il loro accampamen¬
to, e numerose le piogge e i terremoti li scoprono; né alcun
pastore ardisce avventurarsi in quel luogo sull'ora di mezzogior¬
no, per il clamore degli spettri che ivi furoreggiano ». Ivi è
citato Teocrito: « Non è lecito suonare il flauto di mezzogiorno,
poiché temiamo Pan, che in quell'ora riposa dopo i lavori della
caccia. In quell’ora egli è pericoloso e l’ira sua s’accende facil-
968 Note

mente ». E, secondo il volgarizzamento del Cavalca, leggiamo


nella Vita di San Paolo primo eremita: «E Antonio essendo in
sul mezzo dì sentendo un grandissimo caldo, cominciossi a con¬
fortare in Dio per lo grande desiderio che avea di trovare Paolo.
Ed ecco, levando gli occhi ebbe veduto uno animale che parea
mezzo uomo e mezzo cavallo ». Nel Dictionnaire de la Bible
del Calmet, che appunto è uno degli scrittori di cose ecclesia¬
stiche ai quali il Leopardi rimanda il lettore nelle sue annota¬
zioni, si spiega che « il demonio del mezzogiorno di cui si parla
nel Salmo XC, è secondo la maggior parte dei rabbini riferi¬
mento al più pericoloso e violento dei demòni, quello che osa
tentarci di giorno ».
Il Leopardi si propone dunque di suscitare nella sua Canzone
un clima di miraggio e di delirio.
14 Nel medesimo manoscritto più recente il Discorso continuava
a questo punto:
Per il Leopardi la parola antico non ha mai dunque il valore
di vecchiaia, ma di gioventù', in noi, in rapporto all antico, è
la vecchiaia.
Chi volesse verificare come al Leopardi in questa poesia, pia¬
cesse che le parole o i costrutti nascondessero i loro significati,
se il lettore su non ci avesse riflettuto, guardi per esempio i
versi:
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento...
Credano vorrà dire forse « ritengano vero », o « diano retta », od
« immaginino », o suppongano? No, significa: affidino: « gli uc¬
celli affidino il petto inerme al vento ». « Se credi » dice nel-
Vannotazione il Leopardi « agli ottimi scrittori latini e italiani
[e non al Vocabolario della Crusca] crederai, cioè fiderai così
la roba come la vita, l'onore, e quante cose vorrai, non solo
alle persone, ma eziandio, se t’occorre, alle cose inanimate. » Per
i costrutti, si pensi alla fatica che fa fare agli studenti il trovare
l’ordine della sintassi nel famoso passo:
.Che se gl’impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e Tonte,
Gl’ispidi tronchi al petto altri neU’ime
Selve remoto accolse.
Viva fiamma agitar l’esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
Pianger crede la sconsolata prole
Quel che sommerse in Eridano il sole.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 969

Il manoscritto piu volte citato terminava, a questo punto, con


la seguente pagina conclusiva:

Ci s accorge che per lui la Canzone alla Primavera era tentativo


d’immergersi nel cuore dell’innocenza. Ma dal sogno, oggi ci si
sveglia subito e bruscamente per tornare a rimanere intrappolati
nella diveniente ineluttabile storia.
Ci s accorge allora che, per lodare la Primavera, nella scelta di
favole dove la metamorfosi procedeva per atti di ferinità tratta
in luce da un pozzo senza fondo - più che da pietà, gli occhi
gli erano turbati da ciò che aveva chiamato, pensando ad antichi
stupori, spavento della bellezza.
Riassumiamoci.
Nella prima e nella seconda fase della sua attività poetica, il
bene è nell'irrazionale, nella natura fonte d’illusioni d’infinito,
per sentimento e per immaginazione, e le apparenze più libere,
significanti e assolute dell’irrazionale sono quelle che offre nello
stato di sonno il sogno, subito investito, corrotto e annientato
da quel mezzo velenoso della ragione che è la memoria. Il male
in quella fase è la progressiva umana ragione nell’attuarsi dram¬
matico della storia. Nella terza ed ultima fase della sua attività
poetica e della sua vita, il male è nella natura, è nell’irrazionale,
e la grandezza dell’uomo è nel dominare la cieca malvagità della
natura, per quanto gli sia possibile, con la forza fraterna della
ragione.

p. 497
L’« ANGELO MAI » DEL LEOPARDI In « Fiera Letteraria »,
Roma, a. I, n. 1, 11 aprile 1946, pp. 1-2. Si può considerare il
saggio direttamente scaturito dai corsi leopardiani di U. all’U¬
niversità di Roma. Un riflesso dei quali, può leggersi nella Pre¬
messa di Guido Barlozzini, assistente di U. negli anni Cinquanta,
alle sue dispense sull 'Angelo Mai (G. Barlozzini, La Canzone di
Giacomo Leopardi ad Angelo Mai, Edizioni dell’Ateneo, Roma
s.d. [1947. Dispense della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’U¬
niversità di Roma]).
Scriveva Barlozzini: « Prima occasione alle idee che qui si tro¬
veranno annunciate, fu il naturale consenso mio, dinanzi a una
improvvisa assolutezza di risultati critici, per una qualità tutta
nuova d’attenzione recata da Giuseppe Ungaretti sopra taluni fat¬
ti dello stile leopardiano. Ai margini del suo lavoro di maestro,
progettai sul principio, e sommariamente sperimentai in sede di
esercitazioni scolastiche, un commentare esemplificativo, che det¬
te a me stesso la misura delle possibilità aperte a un intenzio¬
nale approfondimento delle predette istanze. Vidi, insomma, la
convenienza di far fruttare quelle scoperte, trasferitesi d’un trat-
970 Note

to fra gli acquisti più indubbi della nostra cultura, fino alle
loro ultime conseguenze, inserendone la funzionalità entro l’im¬
pegno d’un metodo guardingo dei propri doveri, da quello mo¬
desto d’una sufficiente terminologia ».

P. 504
IL POVERO NELLA CITTA [Discorso sul « Don Chisciotte »
di Cervantes] In Giuseppe Ungaretti, II povero nella città, Edi¬
zioni della Meridiana, Milano 1949, pp. 13-45. Il saggio, che
risale al 1946, nacque come discorso di presentazione dell’edi¬
zione del Don Quijote curata da Giampiero Giani, con litogra¬
fie di Carrà (La Conchiglia, Milano 1947-48). Il testo del di¬
scorso venne poi pubblicato in apertura d’un volumetto di prose,
Il povero nella città, che prese appunto il suo titolo da quello
del saggio in questione. (In una copia con correzioni autografe
del dattiloscritto del volume appare sotto il titolo l’indicazione,
soppressa nel volume -stampato, « prose e poesie di viaggio e
un discorso sul Don Chisciotte ».) Il volumetto comprendeva,
oltre al discorso, alcuni degli articoli pubblicati da U. tra il
1931 e il 1934 sulla « Gazzetta del Popolo » di Torino, e poi
raccolti nel volume di « prose di viaggio » Il deserto e dopo.
Il titolo del saggio è ripreso da uno degli articoli del ’31 sul
viaggio in Egitto (Il povero nella città, « Gazzetta del Popolo »,
24 settembre 1931, ora nel Deserto e dopo, I ed., pp. 90-99),
che venne del resto anch’esso incorporato nel discorso, ma con
rimaneggiamenti, tagli e aggiunte, le quali ultime riguardano es¬
senzialmente il brano che riferisce le due storie bibliche di Agar
e Ismaele, Esaù e Giacobbe. (Tali aggiunte vennero poi accol¬
te nella redazione dell’articolo quale figura nel Deserto e dopo.)
Nella Nota introduttiva al volumetto della Meridiana U. scrive¬
va al riguardo: « per farne un discorso intorno al Don Chisciotte,
rielaborai in seguito, nel 1946, Il povero nella città ».
Degli altri testi presenti nel libretto della Meridiana, Giornata
di fantasmi, Elea o la primavera, La pesca miracolosa, La rosa
di Pesto compaiono nel Deserto e dopo coi medesimi titoli; Se¬
conda nota e II demonio meridiano vi compaiono coi rispettivi
titoli originali della « Gazzetta del Popolo »: Il deserto e La
risata dello Dginn Rull; il Lamento cairino vi costituisce, come
nel ’31, la conclusione di Pianto nella notte-, Italia favolosa vi
corrisponde alla prima parte di La giovane maternità (I ed., pp.
334-337). Quanto agli ultimi due testi, Il Tavoliere di luglio
rappresenta una redazione anteriore di Preda sua, che figura tra
le « Altre poesie ritrovate » nella raccolta completa delle poesie
di Ungaretti (Vita d’un uomo / Tutte le poesie, p. 401), e allo
stesso tempo una redazione posteriore, ma molto vicina, di Lu-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 971

gito Pugliese, apparso in « Circoli », n. 4, luglio-agosto 1934,


p. 9; comunque tale redazione di II Tavoliere di luglio era già
stata pubblicata, insieme all’altra poesia che figura nel volumet¬
to, Calitri, che è l’unico testo in versi della raccolta, nella « Fie¬
ra Letteraria » del 2 agosto 1946. Lì i due testi avevano come
titolo Acqueforti, ed erano semplicemente numerati I e II. Il
Tavoliere di luglio recava in calce come data, Lucerà, luglio
1934, e Calitri, Venosa, agosto 1934. Nella « Fiera », le due
acqueforti erano precedute da una nota dell’autore:

Sono due paesaggi estivi: uno è il Tavoliere in un luglio senza


una gocciola d’acqua; l’altro ricorda un paesino, Calitri, dove
avevo passato la giornata e pernottato tornando a Venosa dalle
sorgenti del Seie.

Calitri non è stata inclusa in Tutte le poesie, ma avrebbe ogni


titolo per esserlo.
Il saggio su Cervantes venne più tardi utilizzato, con l’eccezio¬
ne del preambolo iniziale e dei paragrafi interpolati dal vec¬
chio articolo del ’31, per l’introduzione e il commento a una
scelta di brani del Don Chisciotte che U. curò per il III Pro¬
gramma della RAI.

p. 528
GÓNGORA AL LUME D’OGGI In « Aut Aut », Milano, n.
4, luglio 1951, pp. 291-308. Non diversamente da quelli su
Shakespeare, Racine e Blake, anche questo saggio, benché non
pubblicato nel volume, cui idealmente appartiene, Da Góngora
e da Mallarmé (Mondadori 1948), e anzi apparso tre anni dopo,
anche questo saggio su Góngora è strettamente legato all’opera
di traduzione di un poeta classico compiuta da U., in un arco
di tempo molto ampio (e in certo modo, è con non diverso ani¬
mo di sperimentazione/appropriazione che U. si accosta a Pe¬
trarca, Dante e Leopardi). Nella nota da lui premessa al vo¬
lume di Traduzioni (Novissima, 1936), U. dichiarava in propo¬
sito: « Alla traduzione dei Sonetti e dei Frammenti di Góngora
pubblicata sull’"Italiano” nel ’32 e sulla “Gazzetta del Popolo”
nel ’33, fui indotto da studi cui mi dedicavo, sul Petrarca, il
Petrarchismo, il Barocco, studi esposti in seguito in scritti e di¬
scorsi che mi riprometto di raccogliere in volume prossimamen¬
te ». La profondità dell’interesse di U. per questa linea Pe¬
trarca/Barocco è dimostrata dal fatto che l’opera di traduzione
continuò anche dopo l’uscita dei volumi principali dedicata a
singoli scrittori: così egli pubblicò ancora nel ’58 una tradu¬
zione da Racine (Il terzo atto dell’« Andromaca » tradotto da
Giuseppe Ungaretti, «L’Approdo Letterario», n. 1, gennaio 1958),
972 Note

mentre in questo saggio su Góngora appaiono traduzioni dalle


Soledades che sono posteriori al volume mondadoriano del ’48
e che non sono mai state pubblicate in volume.
La copia di « Aut Aut » col saggio su Góngora nell’archivio U.
presenta diverse correzioni manoscritte, ^alcune a inchiostro ver¬
de, altre a matita. In inchiostro verde sono le poche aggiunte,
mentre sono a matita le numerose cancellature e modificazioni
del testo. La seconda delle aggiunte (« Il mio saggio che vi
leggerò stasera e che tratterà del Petrarchismo in Góngora, e
che potrebbe anche intitolarsi Góngora al lume d’oggi, potrebbe
anche procedere dalla predetta citazione del Petrarca »), spiega
la ragione delle correzioni a matita: U. lesse ancora il saggio,
tempo dopo, come conferenza, abbreviandolo per l’occasione.
(E come conferenza l’aveva già letto, prima della sua uscita in
rivista, all’Instituto Espanol di Roma, il 9 maggio del ’51.)
Qui viene riprodotto integralmente il testo di « Aut Aut », ac¬
cogliendo inoltre la brevissima introduzione (« Nell’inedito del
Trionfo della Fama pubblicato da Roberto Weiss nel 1950,
leggo: ») e il paragrafo finale aggiunti a penna nella copia della
rivista di cui s’è detto, che sono però posti tra parentesi qua¬
dre. Un discorso a parte va invece fatto per le poesie di Gón¬
gora citate nel saggio. In una breve nota in calce al testo a
stampa su « Aut Aut », U. diceva: « I Sonetti tradotti sono
estratti, ma riveduti, dal mio Da Góngora e da Mallarmé. I
brani delle Soledades sono stampati qui per la prima volta ».
Ma io ho accolto anche le ulteriori correzioni a matita delle
poesie tradotte che appaiono nella copia Ungaretti della rivista,
consistenti nell’aggiunta del titolo Solitudine seconda ai due
brani della Soledad Segunda tradotti, a cui U. aveva preposto
dei sottotitoli suoi (Lotta del mare con un ruscello [vv. 1-26] e
Il falcone e l’alca, e corvi [vv. 823-886]), e nella modificazione
di alcuni versi in due dei sonetti (oltre a correzioni sparse di
punteggiatura). Più esattamente, nel XII dei Sonetti Amorosi, i
versi 11-12, che nell’edizione Mondadori erano

Prima che la bellezza lo disperda,


Suprema con sdegnosi raggi al vento
sono cambiati in

Prima che la bellezza somma al vento


Con gli sdegnosi raggi lo disperda

— mentre nel Sonetto eroico del 1623, De la brevedad enganosa


de la vida, i vv. 6-7 che nel ’48 erano

Segreto, verso sua fine. A chi ne dubita


(È un bruto, è fiera di ragione nuda)
Saggi e Scritti vari 1943-1970 973

e che. nel saggio a stampa erano diventati

Segreto, nostra vita. A chi ne dubita


Simile a fiera di ragione nuda,
con l’ultima correzione manoscritta risultano

Segreto, nostra vita, e non ne dubita


Chi non sia fiera di ragione nuda.

Ma a parte queste correzioni manoscritte, è da notare che il


testo dei Sonetti in questo saggio differisce sia dall’edizione del
48 che da quella, la seconda, del 1961, dato che in quest’ul-
tima, identica alla la, U. non ebbe modo di riportare il costante
lavoro di lima sulle sue traduzioni, continuato dopo il 1948 su
una (l’esemplare n. 40) delle 499 copie su carta uso mano che
costituivano l’edizione originale di lusso di Da Góngora e da
Mallarmé. Le traduzioni delle Soledades, dal canto loro, non
vennero mai pubblicate in volume perché U. le considerava an¬
cora in progress.
Il saggio venne pubblicato anche in Panorama dell’arte italiana, a
cura di M. Vaisecchi e U. Apollonio, Lattes, Torino 1951, pp.
291-305.
1 Vedi pp. 515-16.
2 Vedi p. 651.

p. 551
SIGNIFICATO DEI SONETTI DI SHAKESPEARE In «La
Voce delle arti e delle lettere», Roma, a. VI, n. 1, gennaio
1962, pp. 1-2, e a. VI, n. 2, febbraio 1962, pp. 1-2. Lo scritto
sui Sonetti di Shakespeare è, come molti altri scritti di U. po¬
steriori al 1945, un agglomerato di testi di epoche diverse, in
questo caso tuttavia aventi carattere estremamente unitario, per¬
ché tutti riferiti alla sua traduzione, fino al ’46 in progress,
di una scelta dei Sonetti. Fu sostanzialmente scritto tra il 1944
e il 1946, come una serie di note alla sua traduzione riunite
poi nella definitiva Mota introduttiva all’edizione Mondadori
(Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, 40 Sonetti di Shakespeare,
Mondadori, Milano 1946, pp. 7-41), e fu ripreso due volte ne¬
gli anni Sessanta, la prima nel 1961, per una conferenza, che
non ebbe mai luogo, che U. avrebbe dovuto tenere a Roma, in
Campidoglio, su invito del Comitato internazionale per l’unità
e l’universalità della cultura, e la seconda nel 1964, per la con¬
ferenza che il 13 novembre dello stesso anno U. tenne a Pa¬
rigi, su invito dell'UNESCO, per commemorare il quarto cente¬
nario della nascita di Shakespeare. Il testo redatto nel 1961 ven¬
ne pubblicato l’anno seguente in due puntate sul giornale men-
974 Note

sile del Comitato, « La Voce delle arti e delle lettere », col ti¬
tolo Shakespeare / I Sonetti, mentre quello della conferenza pa¬
rigina,” tenuta in francese, si può ora trovare, nella stessa tra¬
duzione che Jaccottet ne fece nel ’64, in Innocence et mémoire,
pp. 199-211, col titolo A propos des JSonnets de Shakespeare.
Il titolo da me adottato è quello, inedito, scelto da U. durante
la fase iniziale di preparazione di questo volume con me e con
Ariodante Marianni.
Nella Nota introduttiva ai 40 Sonetti, che è da considerarsi il
testo definitivo di U. su Shakespeare, modificato nelle due con¬
ferenze degli anni Sessanta quel tanto che servisse a trasferirlo
da un’udienza di lettori, aventi le traduzioni a portata di ma¬
no, a un’udienza di ascoltatori, U. stesso elencava i precedenti
testi .ch’erano confluiti in quella Nota, e cioè:
a) La Nota introduttiva in XXII Sonetti di Shakespeare / scelti
e tradotti da Giuseppe Ungaretti, Documento Editore Libraio,
Roma 1944 (edizione' di 498 esemplari numerati), pp. 7-8, la
quale venne riprodotta, senza modificazioni, col titolo Appunti
sull’arte poetica di Shakespeare, in « Poesia », Quaderno pri¬
mo, gennaio 1945, pp. 132-135, a capo della traduzione inedita
di altri sei sonetti.
h) Le Note che seguono, nello stesso numero di « Poesia », pp.
140-146, la traduzione suddetta.
c) Una risposta alla recensione dei XXII Sonetti pubblicata da
Napoleone Orsini (Shakespeare tradotto da Ungaretti, « Il Mon¬
do », Firenze, n. 6, 16 giugno 1945), apparsa in « Poesia », III-
IV, gennaio 1946, pp. 378-80, col titolo Per una traduzione sha¬
kespeariana.
A questi tre testi, nella Nota introduttiva ai 40 Sonetti, U. ag¬
giungeva più che altro delle osservazioni di carattere testuale
sulla propria traduzione, alcune delle quali in risposta a un al¬
tra recensione, quella di Salvatore Rosati in « Le Tre Arti »,
n. 2, 1° novembre 1945.
Un’ulteriore nota shakespeariana di U. apparve comunque, alcu¬
ni mesi dopo l’uscita dei 40 Sonetti (avvenuta nel luglio ’46),
nella « Fiera Letteraria » del 17 ottobre dello stesso anno, col
titolo Della metrica e del tradurre (vedi pp. 571-76), per discu¬
tere le osservazioni del' Pellizzi sui 40 Sonetti.
Il testo qui adottato è quello del 1962, pubblicato in « La Voce
delle arti e delle lettere », più agevole per chi non abbia sot¬
tomano il volume dei 40 Sonetti, dalla cui Nota introduttiva es¬
so deriva totalmente. U. vi soppresse solamente la parte di com¬
mento più minutamente testuale, cioè parte delle Note apparse
in « Poesia » in calce alle traduzioni, le due risposte, all’Orsini
e al Rosati, e i « chiarimenti » finali sulle traduzioni più re-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 975

centi (brani corrispondenti alle pp. 9-10, 18-22, 24-25 e 33-41


della I ediz. del volume).
Un’ultima osservazione, riguardante il testo dei Sonetti tradotti:
in diversi punti la lezione qui pubblicata è diversa sia da quel¬
la della prima edizione dei 40 Sonetti (1946) che da quella della
seconda edizione (1966). Trovandosi qui delle varianti interme¬
die d’autore, non ho accolto in questa sede le correzioni dell’e¬
dizione del 1966. Solo, ho emendato in due luoghi il sonetto
XXX perché il confronto con le due edizioni Mondadori mi ha
convinto che vi era stato errore di stampa: ho dunque corretto
al verso 2 « conosco » in « convoco », e al verso 8 « disperar¬
si » in « disperdersi ».

1 Nella Nota del 1944, ripresa nei 40 Sonetti, U. dichiarava al¬


l’inizio, a propositb del suo lavoro di traduzione:

È un lavoro al quale pensavo sino dal '31, da quando, in un


estenuante impegno di rinnovamento, problemi d’ordine tecnico
o di semplice ispirazione mi portavano, per risolverli o accer¬
tare almeno la fondatezza delle ricerche, a analizzare sul vivo,
come si può fare solo traducendo, particolari aspetti di scrit¬
tori di diversa indole e origine. Ne risultò il volume di Tra¬
duzioni, apparso nel 1936 presso Novissima, che conteneva poe¬
sie di St.-J. Perse, Essenin (interpretato coll'aiuto di Maria Mi-
loslawsky e Franz Hellens), Góngora, Blake, Paulhan. Come po¬
tevano equivalersi nel miracolo degli effetti talune espressioni,
notevoli per ingenuità, e altre, volte a manifestare un libero,
nuovo, unico, inimitabile messaggio col ricorso a schematismi
tradizionali e a vecchi temi? Sognavo una poesia dove la segre¬
tezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si conci¬
liasse a un'estrema sapienza di discorso.
Invece cosi esordiva la conferenza di Parigi del ’64 (cito da una
copia dell’originale dattiloscritto inviato da U. a Jaccottet per
la traduzione):

Sono uno degli ultimi superstiti d’una generazione di poeti


europei che tradussero, ciascuno nella propria lingua, i Sonetti
di Shakespeare come per afferrarsi a una tavola dì salvezza nel
naufragio della volontà illusoria di sfida al tempo che dal Pe¬
trarca .fino a noi vecchi, si considerò per tanti secoli, mira del¬
la poesia.
1 Sul tema immortalità/invecchiamento, viene aggiunto nel testo
del ’64:
A differenza del Petrarca che persino il corpo dissolve in idea¬
le vaghezza d’archetipo, lo Shakespeare, anche quando sogna
immortalità, il disfacimento delle vite avvinte in materia ter-
976 Note

rena lo turba a fondo, e le vite che susciterà saranno prima di


tutto vite individuate nella loro caducità, vite presenti, vite di
carne e'd’ossa, subordinate al loro tempo nonostante la loro
anima, vite di cui egli stesso patirà la crudeltà dell’invecchia¬
mento inesorabile, nei propri sensi.
3 II tema dell’assenza viene più ampiamente sviluppato nel te¬
sto del ’64. Ecco come vi appare questo paragrafo:

Gli si sviluppa a questo punto il terna dell’assenza. È un


grande tema. Noi non abbiamo conoscenza della realtà che si
presenta ai nostri occhi se non un attimo dopo, se non nell’atti¬
mo in cui è già mutata, passata, diventata assenza. Il campo d’e¬
sperienza del linguaggio, dove la poesia trova le sue similitu¬
dini, è nel passato. L’assenza per il Petrarca era il sapere del¬
l’antico da recuperare. L’assenza è nel Petrarca resa indimenti¬
cabile da se stessa e in se stesso:

E m’è rifnasa nel pensier la luce.


Il Petrarca sentiva che la realtà era stata mutilata della maggiore
e più illustre parte dei suoi mezzi espressivi. Per Baudelaire,
evasione, sebbene inutile, dall'assenza, era il viaggio, e il viag¬
gio era fonte di poesia; per Rimbaud il viaggio è evasione dalla
poesia; per Mallarmé, l’assenza è la matrice del Libro, il Libro
è la fucina della realtà metafisica e simbolica e insieme la realtà
stessa, l’unico vero.
Ai tempi dello Shakespeare il sapere dell’Antico era stato recu¬
perato. Vi era attenzione verso altre novità di cultura: era stata
scoperta VAmerica, era stato compiuto il periplo dell’Affrica - e
le antiche forme, aggregandosi le nuove, si preparavano a ricom¬
porre la forma come per deflagrazione. Stava per espandersi il
Barocco, e l’arte di Shakespeare lo prevedeva. L’immagine del¬
l’assenza sarà quindi offerta a Shakespeare dal viaggio, ma non
come tre secoli dopo a Rimbaud o a Baudelaire, ma come mi¬
sura d’una distanza spaziale fra cose e persone.
Evidentemente, comunque, a U. sembrava di non aver chiarito
ancora abbastanza la nozione di assenza/viaggio in S. se nella
traduzione francese, da lui rivista, le due ultime righe suonano
così:

non pas comme trois siècles plus tard à Baudelaire où a Rim¬


baud, mais en tant que mesure d’un tourment qu’il désire abolir
en lui, dù a une distance spatiale entre les ètres, a une distance
infime si c’est la mort qui séparé.
4 Da notare l’evoluzione subita dalla definizione di questo tema:
nel ’46 viene indicato come « tema dell’immortalità spirituale »,
che diventa nel ’62 « tema dell’immortalità ideale », e si precisa
Saggi e Scritti vari 1943-1970 977

poi nel ’64 come « tema dell’immortalità dell’opera poetica ».


5 Nel ’64 U. aggiunge a questo punto, concludendo qui la con¬
ferenza:

Quanta successione abbia avuto quell’ermetismo, lo sanno be¬


ne i lettori del Matrimonio del Cielo e dell’Inferno e dei Libri
Profetici di William Blake, e i lettori della Stagione in Inferno,
delle Illuminazioni e di tutto Rimbaud, e i lettori dei Canti di
Maldoror e delle Poesie di Lautréamont; e persino i lettori, se
anche hanno letto Macbeth e Amleto, di Dostoievsky e di Kafka;
lo sappiamo bene noi del Ventesimo secolo,' vecchi e giovani, at¬
tanagliati dal terrore che, ultimo supplizio d’inferno, l’automa¬
tismo delle macchine definitivamente incarceri e muova l’uomo.
Shakespeare, con quella sua foresta fitta di personaggi sorti alla
chiarezza del giorno, dallo scindersi del proprio suo essere intimo
in tre persone avverse e concordi, è forse l’indagatore, il giu¬
dice meglio al corrente dei moventi umani tra quanti poeti la
storia nomina grandi.

6 Nella Nota del ’46 U. aggiungeva a conclusione del paragrafo:


« Mediante quell’amore che, se dovessi fare una personale con¬
fessione, Cristo solo insegna con assoluta purezza. »

p. 571
DELLA METRICA E DEL TRADURRE In «Fiera Letteraria»,
a. I, n. 28, 17 ottobre 1946, pp. 1-2. Come s’è detto nella nota
precedente, questo scritto fu pubblicato diversi mesi dopo l’u¬
scita dei 40 Sonetti di Shakespeare, in risposta a un articolo di
Camillo Pellizzi sulla traduzione di U. apparso in un numero
precedente della « Fiera », e probabilmente è solo per questa ra¬
gione ch’esso non venne incorporato, nemmeno nella 2a edizione,
nella Nota introduttiva al volume dei 40 Sonetti.
1 Vedi Camillo Pellizzi, Ungaretti traduttore / I sonetti di Sha¬
kespeare, « Fiera Letteraria », a. I, n. 26, 5 ottobre 1946.
2 Vedi Ungaretti, Nota a 40 Sonetti di Shakespeare, Mondadori,
1946, pp. 25 e 36.
3 Ibidem, p. 35.

p. 517
[SULLA « FEDRA » DI RACINE] In Giuseppe Ungaretti, Vita
d’un uomo / Fedra di Jean Racine, Mondadori, Milano 1950,
pp. 5-11. È la Nota introduttiva alla traduzione della Fedra di
Racine. In essa U. convogliò buona parte di un testo su St.-John
Perse, Storia d’una traduzione, pubblicato poi ne « Il Popolo »
del 13 maggio ’50 (vedi nota p. 989', e più tardi, in versione fran¬
cese con l’originale italiano a piè di pagina, e il titolo Histoire
d’une traduction, nel numero 10, Eté-Automne 1950, pp. 81-85,
978 Note

dei « Cahiers de la Pleiade » diretti da Jean Paulhan. Benché


la prima edizione della Fedra rechi la data Febbraio 1950 e il
fascicoli} dei « Cahiers de la Plèiade » quella dell’ottobre succes¬
sivo, è evidente che il testo su Perse fu scritto prima della Nota
alla tragedia raciniana. (Il manoscritto di Storia di una tradu¬
zione porta in calce la seguente annotazione: « Dal prossimo
numero dei “Cahiers de la Plèiade” dedicato alla poesia di St.-
John Perse ».)
È da notare che il testo qui pubblicato differisce notevolmente
da quello apparso, col titolo En traduisant Racine, in Innocence
et mémoire, pp. 212-223. Più precisamente, nel testo francese ci
sono diversi brani che non figurano nella Nota italiana, e cioè:
a) le pagine iniziali, 212-215 (da « Je voudrais essayer de faire
comprendre » a « fatalement, viellissement »); b) quasi tutta la
pagina 220 (da « Pbèdre n'exercerait-elle » a « dans le monde,
dans le temps »); c) parte delle pagine 221-222 (da « Michel-Ange
annonce le Baroque » a « une poésie de faiblesse? »); d) una
frase della pagina 223: vedi più avanti la .nota 6.
Non ho trovato nell’Archivio Ungaretti il testo italiano corri¬
spondente alle pagine aggiunte in Innocence et mémoire-, esiste
invece un dattiloscritto non datato, in francese, quasi sicuramen¬
te risalente al 1958, con un titolo scritto a macchina, LE TEMPS
CHEZ RACINE, e un altro aggiunto sotto a mano in inchiostro
verde, NOTES SUR RACINE d'un traducteur italien. Questo
dattiloscritto francese è in effetti servito di base, insieme alla
Nota introduttiva alla Fedra e al testo su Kavafis di cui si dirà
più avanti, a quello apparso in Innocence et mémoire. Esso fu
steso personalmente da U., come dimostra un’altra redazione,
ma incompleta, manoscritta e piena di correzioni, del testo, che
si è trovata tra le carte del poeta (vi mancano le prime tre pa¬
gine di En traduisant Racine che figurano in Innocence...). Le
temps chez Racine doveva essere pubblicato nella « Nouvelle
Revue Frammise », e aveva forse costituito il testo di una con¬
ferenza tenuta a Parigi: sono deduzioni basate su due lettere
di Ungaretti a Enzo Paci del ’58 (vedi Ungaretti, Lettere a un
fenomenologo, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1972, pp.
56 e 68).
Ma anche la parte iniziale di En traduisant Racine è di natura
composita. Infatti le pagine 213-214 (da « Nulle terre au mon¬
de » alla fine della p. 214) rappresentano la traduzione di due
pagine che si trovano in un testo precedente, il Ricordo di Ca-
vafy (era questa la grafia del nome usata da U.) scritto per la
radio italiana e trasmesso nel gennaio 1957 (vedi nota p. 991).
Tali due pagine dal Ricordo di Cavafy vennero ancora utilizzate
da U. nella Premessa al volume di Caterina Vassalini, In Grecia
(1959).
Saggi e Scritti vari 1943-1970 979

1 Vedi Fragments d’une lettre privée de Saint-]ohn Perse à Archi-


bald Mac Leisb (1942), in « Les Cahiers de la Pleiade », n
10, 1950, pp. 155-156.
Nelle pagine iniziali di Le temps chez Racine (preferisco citare
da questo dattiloscritto, anche se stilisticamente più « basso »
del testo di Jaccottet, perché sicuramente di mano ungarettiana;
e riferisco qui solo la parte concernente Racine: per la parte che
si omette, sulla Grecia e la tragedia antica, vedi il testo su Ka-
vafìs, pp. 667-69), U. dichiarava sulla « poetica » raciniana:

Ce que j'essaierai de montrer dans mon exposé c’est d’abord


en quel sens j’entends la poésie; deuxièmement, en quel sens la
poésie de Racine est une poésie de son temps, en quel sens elle
est Vaboutissement et Vaccomplissement des recherches imposées
par une certame tendance historique d’un certain langage de la
poésie; enfin, en quel sens cette poésie est pour nous, pour les
hommes de notre temps, une poésie exemplaire. ]e ne parlerai
certes pas en savant; mais l’avis d’un simple connaisseur du mé-
tier, pourrait étre, j’ose le croire, de quelque importance.
J'ai à discourir de la tragèdie, c’est à dire d’un geme de poème
dramatique destiné au théàtre. Evidemment personne ne consi-
dère plus les genres littéraires sinon comme de simples conven-
tions qui n’ont aucune importance en elles-mémes. Un sonnet
pourrait contenir la mème puissance tragique qu’une pièce d’Es-
chyle, ce qui ne dépendrait que du génie du poète, et il en
faudrait un, en effet, extrèmement grand.
En d’autres termes, j’entends avouer tout de suite que je me
suis occupé du théàtre, du théàtre de Racine, non parce que le
théàtre avait pour moi un interét direct, mais parce que j’avais
à résoudre des problèmes personnels d'expression poétique. Je
reprendrais dans quelques instants ce sujet.
Quand Racine sollicitait mes cfforts de traducteur, je n’avais pas
encore visité la Grece. Il est difficile de parler de Racine et de
Pétrarque, comme je le ferai en méme temps, sans parler d’abord
de la Grece, et, bien sur, je sais que Pétrarque, si épris de la
Grèce, ne parvint jamais à déchiffrer les manuscrits grecs qu’il
possédait et sur lesquels ses yeux s’étaient habitués à faire de
longs arrèts.

Je me suis arrété à Antigone non parce que les frères ennemis


offriront un thème de début à Racine; simplement parce que
c’était la tragèdie grecque que l’on avait jouée pendant mon
séjour à Athènes, et aussi pour indiquer dès à present que ce
qui est efficace dans le sentiment de Racine c’est que la gràce
y est identifiée au « fatum » et il le montrera avec éclat dans
Phèdre comme nous allons le voir. Certes on le savait avant, et
980 Note

il suffira de penser à saint Augustìn, et à Pétrarque qui a tant


pratiqué saint Augustin, au Canzoniere, aux Trionfi, au Secre¬
timi, et partout, mais chez Racine c'est le sommet atteint par
le murissement d’une expression qui s’assimile — elle y tendait
depuis Pétrarque - une autre expression au sommet de son mu-
rissement, celle de la Grece, de Platon aux Tragiques. La poé-
tique de Racine, aussi bien que celle de Pétrarque, mais une
poétique à son sommet et presque à son déclin, est une poétique
de l’absence, elle est dans ce sens une poétique de la mémoire,
appelée à remplir le vide par illusion en s’étendant et en s’ap-
profondissant, elle est donc une poétique platonicienne, une poé¬
tique qui n’est pas restie sans se mouvoir de Plotin à saint
Augustìn à Racine, puisque l’histoire existe, et que depuis Pla¬
ton il y a murissement, mais, aussi, nécessairement, vieillisse-
ment.

3 Nel testo di Le temps chez R. è aggiunto a questo punto, e


il passo non figura in En traduisant Racine-,
Est-ce une tragèdie janséniste? Ne venons-nous pas d’entendre
de la bouche mime de Racine: «Elle [Phèdre] est engagée, par
sa destinée et par la colere des Dieux, dans une passion illégi-
time »? N’est-ce pas, par cette phrase, affirmer de croire en la
prédestination? Phèdre expie la faute héritée, hérédité enchevè-
trée dans le secret viscéral, hérédité transmise par une longue
chine de ginirations, hiriditi qui remonterait jusqu’aux stig-
mates des mythes solaires et plus loin.
4 II testo francese aggiunge:

Les attraits de Phèdre n’exerceraient donc plus aucun charme sur


Thésée, s’il redevenait tout d'un coup jeune? Mais au contraire
le gineraient, l’itonneraìent, Virriteraient? Le pouvoir séducteur
qu’elle possédait et qui était infaillible, s'est-il tourné contre elle?
Le temps vengeur aurait-il déjà plongé en elle ses griffes? N’en
ferait-il dijà plus qu’une femme faible? Qui s’achemine, dimen¬
te, vers la vieillesse.
On n’a pas assez observé que si, dans Phèdre, il y a bien un
temps mythique, et un temps absolu fixi par les trois unitis
qu’exige le dinouement tragique - l’écoulement du temps, le
vieillissement progressif à l’intirieur de chaque personnage non
seulement n’y est jamais oublié (temps antirieur et temps pri-
sent, catastrophique, qui passe, et, de mime, temps hiriti et
temps qui viendra) mais c’est surtout ce temps-là qui compte
et qui commande l’àme car Phèdre n’est en effet que la tragèdie
d’un chrétien janséniste.
Le temps n’est rien en somme tout en circulant sous nos yeux
du siècle de Periclès au siècle de Louis XIV; il n’est là que
Saggi e Scritti vari 1943-1970 981

pour nous faire éprouver la fatalité de ses ravages continuels, de


plus en plus terribles, le néant que sont notre existence tempo-
relle et Vhistoire entière; il n’est là que pour marquer les étapes
de notre souffrance; il n’est là par conséquent que pour nous
mettre en condition d’imaginer l’Etre - l’Etre impitoyable.
Le monde n’est donc que matière, corps pourrissant, cadavre,
absence d’àme. Et vivre au monde, participer de sa condition
temporelle, que pourra-t-ìl valoir?
5 Aggiunge il testo francese:

Michel-Ange pressent le Baroque lorsque, par un art d'athlète,


il casse tout, et de ce qu’il avait casse, et de ce qui avait été
cassi le long des siècles et dont les ruines disparates sont là,
dans la Ville, il s’efforce d’en tirer un ensemble harmonieux,
mais qui fosse ressortir la rupture, et la brutalità et l’étrangeté
ou la hideur de la ruine, sans laisser la moindre liberti d’espace
afin que l’on puisse s’adresser à d’autres pensies, quoique le
Baroque ait inventi l’esprit d’ivasion nous invitant à faire tré-
sor des souvenirs exotiques.
Le récit de Tbéramène, ce récit admirable malgré tant d’avis
contraires, est entièrement lige à cette expérience, l’expérience de
Polyphème - Adonis et Polypbème sont les deux grands symbo-
les du Baroque -, de Polyphème qui n’ arriverait jamais à domp-
ter la grace, mime pas au prix de la mort. Il ne resterait alors
à l’homme d’autre mesure que celle de son effort pour s’opposer
envain à la démesure.
Il me faut ajouter que le Baroque n’est pas seulement, comme
le commun l’imagine, un maniérisme de boursouflures; il peut
aussi étre maigre et nerveux, mime à Pome: exemple: le Bor-
romin, le fol équilibriste qu’est le Borromin.
De l'expérience du Baroque dérive ce qui en France, de Descar¬
tes à Bacine, a pris des formes que vous appelez classiques. Mais
dans Phèdre, c’est le classicisme enseigné à Port-Royal, où la
Grece obsède beaucoup plus que ne sauraient le faire Ovide,
Virgile, Horace ou Sénèque; c’est le mime Classicisme où se
dérobait et par où se dévoilait l’angoisse de Pascal. Racine saìt
que la pitié ne veut pas et ne sait pas changer ni diminuer en
rien la démesure de ce qui est impitoyable. Et d’ailleurs Pi-
trarque ne préchera pas un art ni une morale de résignation, mais
un art et une morale presque de désespoir. Le Baroque sera
encore plus amer dans son inspiration. Et la poésìe quand, par
la voix de Racine, elle aura serre la viriti tragique enfin au
cceur mime de la poisie grecque, pourrait-elle étre une poésìe
de faiblesse?
6 II testo francese continua:
982 Note

II dépasse le Baroque, il accomplit le- rive du Baroque, il re-


trouve la pure nudité de l’esprit grec, et il y découvre ce que
le Pétrarquisme par son anxiété de trois siècles se tourmentait
à ressusciter.

p. 585
JAN VERMEER In « L’Approdo Letterario », Roma, n. 38,
aprile-giugno 1967, pp. 13-21. È la prefazione all’Opera com¬
pleta di Vermeer, Rizzoli, Milano 1967, dove fu pubblicata (pp.
5-8) col titolo Invenzione della pittura d'oggi.
I Si veda Breugbel il Vecchio, pubblicato nella « Gazzetta del
Popolo » del 30 maggio 1933, e incluso poi nel Deserto e dopo.
II discorso su Van Eyck, a cui U. qui si rifa direttamente, e
anzi letteralmente, lo si può trovare alle pp. 254-255 del Deserto
e dopo, la ediz.

p. 596
[DISCORSETTO SU BLAKE] In Giuseppe Ungaretti, Vita
d’un uomo / Visioni di William Blake, Mondadori, 1965, pp.
11-15. Questo scritto apparve come nota introduttiva al volume
di traduzioni dal poeta inglese William Blake, Visioni di William
Blake, col titolo Discorsetto del traduttore. Venne poi incluso
in Innocence et mémoire col titolo Note sur Blake. Seguendo
l’indicazione data da U. per la Note francese, ho soppresso il
paragrafo del Discorsetto riferentesi alla compilazione dell’Ap-
pendice del volume, paragrafo che riporto comunque più avanti.
La maggior parte della nota era già apparsa in due precedenti
occasioni, per accompagnare la pubblicazione di alcune delle poe¬
sie tradotte (è noto che il tradurre da Blake è stato per U. un
work in progress durato 35 anni). Dapprima, come Nota del
traduttore allegata in « Le Tre Arti » (a. II, n. 1, gennaio 1946,
p. 4) alla traduzione di tre poesie dalla prima parte del Mano¬
scritto Rossetti e dal Manoscritto Pickering, ed essa corrispon¬
de all’ultima parte del Discorsetto del ’65 (da « La Rivoluzione
dell’89, Blake fu il solo » alla fine) ma con tre brani poi sop¬
pressi e da me riportati più avanti. Qualche anno dopo, come
allegato, ma senza un titolo specifico, alla pubblicazione in « Gio¬
vedì » (a. II, n. 15, 9 aprile 1953, p. 6) di otto poesie tradot¬
te dai Canti d'innocenza e dalla prima parte del Manoscritto Ros¬
setti. Questa seconda nota coincide praticamente col Discorsetto,
il quale di testo nuovo presenta essenzialmente tre soli paragrafi
(a parte quello soppresso nel testo del presente volume), cioè i
due iniziali e il quinto (« Il miracolo, come facevo a dimenti¬
carmene... »). È da notare poi che il primo paragrafo del testo
di « Giovedì » appariva già all’inizio della nota posta da U. in
Saggi e Scritti vari 1943-1970 983

apertura del volume di Traduzioni del 1936 (Giuseppe Ungaretti,


TRADUZIONI / St.-John Perse, William Blake, Góngora, Es-
senin, lean Paulhan, Affrica. Edizioni di Novissima, Roma,
MCMXXXVI-XIV, p. 7).

1 Nel Discorsetto del traduttore figura qui il seguente brano:


« Come si avviarono verso la loro temeraria ambizione, le riflessio¬
ni e le meditazioni di Blake? A Mario D’Amico, che fu mio disce¬
polo all’Università, che ora mi aiuta con affetto nel mio lavoro,
che con me ha tradotto i Libri Profetici scelti per il presente
volume, che, con il nome di Mario Diacono, è poeta, sulla linea
dei Novissimi, di notevole arguzia - ho consegnato le diverse
edizioni delle opere blakiane che possedevo e quelle opere criti¬
che su Blake delle quali m’ero servito, chiedendogli di ricavarne
notizie utili al lettore. Si vedrà in fondo al volume come Mario
Diacono le abbia ottimamente individuate, riassunte e ordinate.
« Ma, fatto tesoro di tutto, occorrerà evadere dall’almanaccare. »
2 T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica. Prima
traduzione italiana, a cura di Luciano Anceschi, Muggiani, Mi¬
lano 1946, p. 231.
Il recensore anonimo delle Visioni nel « Times Literary Supple-
ment » del 19 maggio 1966 ha fatto però notare come il testo
originale di Eliot sia leggermente diverso: « It is impossible to
regard him as a naif, a uiild man, a wild pel of thè supercul-
tivated ».
3 Nella nota del 1946 il periodo diceva:
« che l’intese, come Rimbaud fu il solo a intendere la Comune,
gli avvenimenti che l’avevano preparata, i rivolgimenti che ne
sarebbero derivati; come a intendere un’altra Rivoluzione, forse
più grossa, e l’uomo era più grande, fu Michelangelo. »
4 Nelle due note del ’46 e del ’53, tra « Breve », e « in Blake »,
figuravano queste righe:
« nel genere di poesia che Blake inventa con i suoi versi - e
non vennero con essi in luce i germi del libretto d’opera otto¬
centesco? - chi autentico, chi veramente sublime e colorito, Bla¬
ke, Hugo o il Carducci? », mentre solo del ’65 è il successivo
inciso, tra due trattini, « Laocoonte ecc. ».
5 La nota del ’46 terminava col seguente paragrafo:
« Incanta il trillo che, dal folto infernale di cuori diramandosi
in luce umana, sale alle più tenui e felici trame d’amore e di
bontà. »
984 Note

Interpretazione di Roma
p. 603
INTERPRETAZIONE DI ROMA In Eternità di Roma, a cura
di Massimo di Massimo, presentazione di Giuseppe Ungaretti,
Editalia, Roma 1965, pp. 9-12. Pubblicato dapprima, nella tra¬
duzione di Ph. Jaccottet, come préjace al volume Rome. Peintres
et Ecrivains, Mermod, Lausanne 1954, pp. XI-XXII, lo scritto
vide la luce in italiano, con qualche modificazione nel testo, so¬
lo undici anni più tardi, come introduzione al volume dell’Edi-
talia. Venne poi ristampato nel 1968, in un fascicolo di otto
pagine senza alcuna indicazione editoriale, e con numerosi tagli,
col titolo Interpretazione di Roma. Discorso di Giuseppe Unga¬
retti per il 2721° Natale di Roma; e in un analogo fascicolo
di 16 pp., il discorso venne pubblicato contemporaneamente dal¬
la rivista « Capitolium ». Fu incluso nel ’69 in Innocence et
mémoire col titolo A la lumière de Rome.
La presentazione del ’65 iniziava col seguente paragrafo, soppres¬
so su un dattiloscritto da U. durante la fase di preparazione del
presente volume:

In questo libro dove tanti segni di tanti uomini valenti attestano


l'amore per Roma anche in giorni recenti durante i quali per
l’ennesima volta l'Urbe ritrova un'armonia e di nuovo, come sem¬
pre, un’armonia risultante da un urto con le sue memorie, poco
ho da aggiungere.
1 Percy Bysshe Shelley, Adonais. An Elegy on thè Death of
John Keats, vv. 424-432:
Or go to Rome, which is thè sepulchre,
Oh, not of him, but of our joy: ’tis nought
That ages, empires, and religions there
Lie buried in thè ravage they bave wrought;
Por such as he can lend, - they borrow not
Glory from those who made thè world their prey;
And he is gathered to thè kings of thought
Who waged contention with their time’s decay,
And of thè past are all that cannot pass away.
2 Stéphane Mallarmé, L’Après-midi d’un Faune, vv. 4-5.
3 Edgar Allan Poe, The Coliseum, vv. 1-9:
Type of thè antique Rome! Rich reliquary
Of lofty contemplation left to Time
By buried centuries of pomp and power!
At length - at length - after so many days
Of weary pilgrimage and burning thirst,
(Thirst for thè springs of lore that in thee lie,)
Saggi e Scritti vari 1943-1970 985

I kneel, an altered and an humble man,


Amid tby shadows, and so drink ivithin
Hly very soul thy grandeur, gloom, and glory!
4 Le pagine seguenti, fino a « Quel ponte, quella forza ragio¬
nevole... » costituiscono una ripresa parziale dell’articolo Inno
al ponte etrusco, apparso nella « Gazzetta del Popolo » di To¬
rino del 5 settembre 1935, e poi ripubblicato, con correzioni,
dapprima in « Alfabeto », a. II, n. 7-8, 15-30 aprile 1946, e
poi in un volumetto fuori commercio di 180 esemplari nume¬
rati edito dalla Associazione Laureati dell’Università di Trieste:
Giuseppe Ungaretti, Viaggetto in Etruria, con una acquafòrte di
Bruno Caruso, ALUT, Roma 1966. Oltre &\VInno al ponte etru¬
sco, il volumetto comprendeva col titolo Sfinge, un altro articolo
apparso, il 4 agosto 1935, sulla « Gazzetta del Popolo », Sfinge
etrusco.
5 II discorso del 1968 (letto nel corso di una celebrazione in
Campidoglio) aggiungeva alla fine:
Di quel seme, che in questi anni compie la sua martoriata ma¬
turità millenaria per apparire nell’intera sua fecondità univer¬
sale, Cristo, nella sua infinita pietà, ci ricorda che insieme al
Romano ne è oggi custode l'uomo d’ogni patria.

Contemporanei

p. 615
GUILLAUME APOLLINAIRE In «L’Approdo Letterario»,
Roma, a. XIII, n. 38, aprile-giugno 1967, pp. 8-12. « Discor¬
so tenuto il 25 febbraio 1967 in occasione del gemellaggio
Parigi-Roma, per lo scoprimento della lapide sulla casa romana
vicino a quella ora distrutta dove risulterebbe sia nato il poe¬
ta »: così dichiarava U. in una nota in calce alla pubblicazione
del discorso sull’« Approdo ». La lapide si trova presso il n.
17 di Piazza Mastai, a Roma.
Il testo venne contemporaneamente pubblicato in « Capitolium ».
a. XLII, febbraio 1967, pp. 89-92, accompagnato da un servi¬
zio fotografico sulla cerimonia. Nell’« Approdo », esso apparve
con altri quattro scritti di U., su Breton, Utrillo, Vermeer e
Cagli, riuniti sotto il titolo generale Un mese di lavoro. Il ti¬
tolo che appare in testa alla pubblicazione in « Capitolium » (Il
ricordo di Apollinaire in Trastevere), non è di U.
Ricordando Apollinaire, U. riporto più volte il racconto della
sua ultima visita all’amico poeta appena morto, dall’articolo del
1919, Pittura, poesia, e un po' di strada (vedi pp. 20-26 del pre-
986 Note

sente volume), all’accenno che vi fa nella introduzione alle note


alle sue poesie, nell’edizione definitiva (vedi Vita d’un uomo /
Tutte le poesie, 1969, p. 512). Una versione parallela dell’epi¬
sodio si trova anche in un articolo a firma S. (Savinio), In poe-
tae memorìam / Guglielmo Apollinaire, apparso nel « Corriere
italiano» dell’ll novembre 1923, ove si legge fra l’altro:
Guglielmo Apollinaire, la cui vita era una continua gaffe nell’ar¬
monia bassa del legalismo e della mediocrità, commise una gaffe
anche più grossa con quel suo morire proprio sullo scoppio gio¬
condo della Vietoire.
La festa teneva i morti chiusi tappati in casa. Il povero poeta
fu lasciato per più giorni imputridire nella sua cameretta bassa
di soffitto, davanti l’irresponsabile idiozia dei quadri cubisti,
vigilato dagli sguardi degli idoli congolesi.
Apollinaire amava fumar grosso. Tra le sue molte nostalgie, era
quella dei sigari toscani.
Giuseppe Ungaretti, bepi conoscendo quella sua predilezione,
corse non appena tornato dal fronte di Bligny alla casa dell’a¬
mico, salì a quattro a quattro gli scalini dei cinque piani, entrò
in casa come il fidanzato dalla fidanzata con in mano un magni¬
fico mazzo di « toscani » e trovò Apollinaire sul letto, verda¬
stro, marcio, animato non più di una vita propria, ma di quella
dei vermi che gli nascevano dentro.
Savinio incluse poi l’articolo, ma ripulito dalle asprezze di
questa prosa del ’23, in Narrate, uomini, la vostra storia, Bom¬
piani, Milano 1942, pp. 99-106.
Di U. su Apollinaire, si veda anche Le départ de notre jeunesse
(p. 46 del presente volume), e la relativa nota.
1 I fiumi (nell’Allegria).
2 Mio fiume anche tu (nel Dolore).
5 Anche questo aneddoto ricorre nell’articolo di S(avinio) citato,
che descrive il funèral'e di Apollinaire: •

... il corteo mosse finalmente dalla chiesa di St. Germain des


Près. La vecchia racolleuse marciava in testa. Era morto poco
tempo prima Edmondo Rostand, e colei andava domandando or
all’uno or all’altro: « Vous appelez mon fils un poète?... <ja un
poète?... c’était un fainéant mon fils. Rostand, voilà un poè¬
te! ».

4 È la poesia iniziale di La Guerre, Paris 1919 (inclusa poi, con


le altre poesie della plaquette, nella sezione Derniers Jours di
Allegria di Naufragi, Vallecchi 1919; ora in Tutte le poesie,
Mondadori, 1969, p. 329).
Saggi e Scrìtti vari 1943-1970 987

p. 620
TESTIMONIANZA SU VALÉRY In « Poesia », III-IV, Mon¬
dadori, Milano, gennaio 1946, pp. 144-146. Pubblicata senza ti¬
tolo fra le Testimonianze su Valéry di poeti italiani contempo¬
ranei, raccolte da Enrico Falqui nel numero III-IV dei « Qua¬
derni Internazionali » da lui diretti per onorare Valéry, che era
morto il 20 luglio 1945. Scrissero con U. per l’occasione, Be¬
tocchi, De Libero, Grande, Luzi, Montale, Ortolani, Quasimodo,
Saba, Sinisgalli, Solmi e Vigolo.

1 P. Valéry, Aurore (la poesia iniziale di Charmes), vv. 11-20.

p. 624
DISCORSO PER VALÉRY In « L’Approdo Letterario », Ro¬
ma, a. VII, n. 14-15 (nuova serie), aprile-settembre 1961, pp.
39-55. Letto dapprima a Genova il 12 giugno 1961, in occasio¬
ne d’una commemorazione di Valéry nel quadro della Semaine
Fran?aise, il saggio venne incluso poi in lnnocence et mémoire
(pp. 231-252), col titolo Hommage à Valéry.
Di .un’altra commemorazione di Valéry tenuta da U. a Genova,
quella del 7 maggio 1955, in occasione dello scoprimento d’una
lapide in Salita S. Francesco, sulla facciata di Palazzo Monta¬
naro, per ricordare la famosa Nuit de Génes, del 4-5 ottobre
del 1892 (« Nuit effroyable - passée sur mon lit - orage par-
tout — ma chambre éblouissante par chaque éclair - Et tout mon
sort se jouait dans ma téte. Je suis entre moi et moi », come
scriveva nelle note di diario riportate dalla figlia, Agathe Rouart-
Valéry), la notte in cui Valéry fu « folgorato » dalla decisione di
rinunciare alla letteratura, non ho trovato il testo tra le carte
di U. Non è improbabile che quella volta il poeta si sia limi¬
tato a un collage o a un montaggio di suoi scritti precedenti sul¬
l’autore de l’Ame et la danse, almeno a giudicare dai resoconti
del suo discorso fatti dai giornali di Genova.

1 Paul Valéry, Baignée (in Album de vers anciens), vv. 9-14.


2 Orphée (Ìbidem), w. 5-6.
3 Hélène (Ibidem), w. 1-4.
4 Eragments du Narcisse (in Charmes), III, vv. 36-43.
5 La ]eune Pasque, vv. 394-397.
6 Le Cimetière marin (in Charmes), vv. 73-75.

p. 645
SOUVENIRS SUR JEAN PAULHAN In « Présence », Roma,
Deuxième année, n. 29, 22 Juillet 1945, p. 4. Pubblicato su
un settimanale culturale francese che si stampava a Roma nel¬
l’immediato dopoguerra, l’articolo fu poi incluso, « restaurato »
988 Note

da Jaccottet nel testo e nel titolo (Jean Paulhan, mon ami), in


Innocence et mémoire. Qui viene stampato nel testo e col ti¬
tolo originali, che è da pensare fossero totalmente di mano un-
garettiana, come gli altri testi critici pubblicati in francese dal
poeta tra le due guerre.
Paulhan, è stata l’amicizia letteraria più lunga e più intensa nel¬
la vita di Ungaretti. Egli è stato l’unico scrittore di cui U.
abbia conservato la corrispondenza, almeno per quanto risulta
dalle carte che ha lasciato, lungo un arco di quarant’anni. E
con cui, aprendosi, abbia continuato a corrispondere regolarmen¬
te, fino alla morte dello" scrittore francese, sopraggiunta nel
1968.
U. pubblicò a diverse riprese sue traduzioni da Paulhan. Nel
volume Traduzioni (Edizioni di Novissima, Roma 1936, pp. 87-
105) apparve Aytré perde l’abitudine, a proposito di cui dichia¬
rava, nella nota introduttiva: « L’Aytré perde l’abitudine di
Jean Paulhan mi parve ricco d’ammaestramenti per quel rap¬
porto fra vita e logica delle parole che questo scrittore sa inse¬
guire e stabilire come nessun altro ». In « Prosa », Quaderni
internazionali a cura di Gianna Manzini, n. 2, marzo 1946, pp.
245-248, figuravano pagine dalle Cause celebri (La buona se¬
rata, Orpaillargues e Un sogno nel risveglio), mentre l’anno pre¬
cedente in « Poesia », Quaderno secondo, maggio 1945, pp. 347-
351, aveva pubblicato, col titolo Delle immagini inseguite ov¬
vero: Il sarto cinese, pagine tradotte da Jacob Cow ou Si les
mots sont des signes, fatte seguire da una nota biografica su
Paulhan. Sia le traduzioni che la nota furono poi ristampate,
ma rivedute nel testo, nella « Fiera Letteraria » dell’8 aprile
1951 (Dell'inseguire immagini ovvero / Il sarto cinese). Nella
Nota del traduttore U. affermava tra l’altro (si cita dalla « Fiera
Letteraria »):
« Jean Paulhan era per fatalità chiamato a scrivere un libro pro¬
fondo come Les fleurs de Tarbes (presso Gallimard, Parigi), che
da alcuni anni muove nel campo della critica le uniche dispute
spregiudicate. Dai Romantici ai Surrealisti, da Sainte-Beuve a
Jean Prevost e a André Breton, da Meillet a Bally, egli ha in
esso sottilmente segnalato gli errori sempre nuovi che dagli scrit¬
tori ai critici e ai grammatici vanno da più di un secolo com¬
mettendosi ogni volta che nell’espressione poetica venga consi¬
derato il rapporto tra attività dello spirito e mezzo verbale. »

1 Era stato da poco concesso a Paulhan, per l’insieme della sua


opera, il Grand Prix de Littérature dell’Accademia di Francia.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 989

p. 649
ST.-JOHN PERSE (STORIA D’UNA TRADUZIONE) In « Il
Popolo », Roma, 13 maggio 1950, p. 3. Come s’è accennato
nella nota al saggio su Racine (vedi p. 977), questo testo fu
scritto, probabilmente su richiesta di Jean Paulhan, per il nu¬
mero dedicato a Saint-John Perse dalla rivista « Les Cahiers
de la Plèiade », di cui Paulhan figurava come redattore-capo ma
ne era di fatto il direttore (vedi « Les Cahiers de la Plèiade »,
X, Été-Automne 1950, pp. 81-85). Il manoscritto reca in calce
l’annotazione « Dal prossimo numero dei “Cahiers de la Plèia¬
de” dedicato alla poesia di St.-John Perse ». Nei « Cahiers » il
testo apparve in versione francese (« Traduction de l’auteur » vi
è dichiarato in fondo), con l’originale italiano a piè di pagina
e titolo Histoire d’une traduction, mentre la nuova versione di
Jaccottet in Innocence et mémoire (pp. 269-272) reca come ti¬
tolo À Saint-John Perse. In concomitanza con l’invio alla rivi¬
sta francese, lo scritto, con qualche correzione, fu poi passato
da U. al « Popolo », e contemporaneamente utilizzato nella
Nota introduttiva alla Fedra di Racine.
Nel pubblicare nel 1931 su «Fronte» (a. I, n. 2, ottobre 1931),
e poi nel ’36 nel suo volume Traduzioni edito da Novissima,
la traduzione dell 'Anabasi di Perse, U. vi premetteva una nota
in cui diceva:
QaerFAnabasi che presento nella veste italiana, è uno dei rari
esempi recenti di poesia epica. È il tentativo audace e riuscito,
di fondere nella rappresentazione degli eventi d una gente, il
moto lirico, cioè la storia d’un io, dello «Straniero» legato
« ai suoi modi per le strade di tutta la terra ». E l anima del
poeta ha scelto per la sua fantasia quei luoghi che « dalle valli
e dagli altipiani, e dalle più alte pendici di questo mondo » arri¬
vando «sino alla scadenza delle nostre rive» contengono una
delle condizioni della vita leggendaria: spazio. Un’altra condi¬
zione epica ha il deserto: la sua gente è « di poco peso nella
memoria dei luoghi », ossia la vastità dello spazio la mantiene
quasi primitiva nei costumi e quasi innocente nelle intenzionii.
La natura dominando la civiltà, l’uomo essendo in balìa più
dell’elemento che della sua opera, in quei luoghi valgono storie
e non persone: l’uomo essendo cioè alle prese con la natura in
modo elementare e legato a sé e agli altri da vincoli quasi uni-
camente istintivi e religiosi, valgono in quei luoghi, l’oscurità
dei fenomeni naturali, il furore del sole, il clima a diversi pia¬
ni, il vento inospitale, lo spettacolo del disseccamento progres¬
sivo della terra, l’affannarsi d’un convoglio dietro un filo d ac¬
qua... Laggiù vale la sete, vale la sollecitazione dei sogni. «Lo
Straniero ha messo il dito nella bocca dei morti. »
990 Note

1 Cfr. Pragments d’une lettre privée "de Saint-John Perse à Archi-


bald MacLeish, « Les Cahiers de la Pleiade », cit., pp. 155-156.
Poiché Ja lettera di Perse a MacLeish appare nello stesso fasci¬
colo dei « Cahiers » in cui U. la cita, mi pare plausibile de¬
durne ch’essa gli sia stata comunicata in anticipo, privatamente,
probabilmente da Paulhan.
2 Ibidem, p. 156.
3 Questo paragrafo non figura nel testo pubblicato dai « Ca¬
hiers ».

p. 653
MAGISTERO DI PIERRE JEAN JOUVE In « La Fiera Let¬
teraria », Roma, a. XII, n. 12, 24 marzo 1957, p. 3. Contem¬
poraneamente alla pubblicazione nella « Fiera », il testo appar¬
ve come presentazione nel volume: Pierre Jean Jouve, Poesie,
a cura di Nelo Risi, con una presentazione di Ungaretti, Ca¬
nicci, Roma 1957, pp.VII-IX. Venne incluso in Innocence et
mémoire col titolo Sous le signe de Niobé, che riprende un’e¬
spressione del testo stesso. Jouve aveva pubblicato nella « Nou-
velle Revue Frangaise » dell’ottobre 1931 una sua traduzione di
quattro poesie di U., i Canti I, II, V, VI della Morte medi¬
tata, usciti in quello stesso anno, ma in una redazione legger¬
mente diversa da quella che figurerà poi nelle diverse edizioni
di Sentimento del Tempo, i primi tre nella rivista « Fronte »
e l’ultimo nell’« Italia Letteraria ». (Le traduzioni furono ri¬
stampate da Vanni Scheiwiller quasi trent’anni dopo: Giuseppe
Ungaretti tradotto da Pierre Jean Jouve, All’Insegna del Pesce
d’Oro, Milano 1960.)

p. 655,
ANDRE BRETON In « L’Approdo Letterario », Roma, anno
XIII, n. 38 (nuova serie), aprile-giugno 1967, pp. 3-8. Stam¬
pato con altri testi sotto il titolo generale Un mese di lavoro,
lo scritto recava la nota: « Intervento alla tavola rotonda orga¬
nizzata dal Centre Culturel Frangais di Roma la sera del 16
febbraio 1967 in onore di André Breton ». (Breton era morto
pochi mesi prima, il 28 settembre del ’66, e alla table ronde
organisée en hommage à André Breton parteciparono, con Un¬
garetti, Murilo Mendes, Giordano Falzoni e Paul Teyssier.) Men¬
tre nell’« Approdo » come titolo figura semplicemente André
Breton, per la futura raccolta in volume dei suoi scritti critici
U. aveva scelto quello di Perché Breton mi fu caro, titolo che
nella traduzione: Raisons d'aimer Breton, appare anche in Inno¬
cenze et mémoire. Qui si è lasciato il titolo del testo a stampa.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 991

p. 661
LA RIVISTA « COMMERCE » In Hommage à Commerce —
Lettres et Arts à Paris 1920-1935, Palazzo Primoli, Roma, 5
Décembre [1958]-30 Janvier [1959], Istituto Grafico Tiberi¬
no, Roma, pp. 14-16. Lo scritto apparve come introduzione al
catalogo della mostra documentaria sulla rivista « Commerce »
e la sua editrice, Marguerite Caetani, e venne poi ripubblicato
in « Prospettive Meridionali », a. V, n. 3-4-5, marzo-aprile-
maggio 1959, p. 123, col titolo La rivista « Commerce » che si
è qui adottato.

p. 666
CAVAFY, ULTIMO ALESSANDRINO In «L’Approdo», n.
516, lunedì 7 gennaio 1957, RAI, Radiotelevisione italiana, Sede
di Firenze, Sezione Programmi. Pubblicato nel fascicolo ciclo-
stilato n. 516 dell’« Approdo », settimanale radiofonico di let¬
tere ed arti, col titolo Ricordo di Cavafy. Il titolo qui adottato
fu dettato da U. durante la preparazione di Innocence et mé-
moire con me e con A. Marianni, nell’estate del 1967.
Come s’è già menzionato altrove, questo testo fu poi parzial¬
mente utilizzato nella Premessa al volumetto di Caterina Vas-
salini, In Grecia (Rebellato, Padova 1959, pp. 5-7) e nella ver¬
sione francese della nota su Racine (Innocence et mémoire,
pp. 213-214).
Una copia dattiloscritta con correzioni autografe (che sono state
riportate nella presente edizione) reca in calce l’annotazione
« Roma, il 7 dicembre 1956 ». Ho mantenuto la grafia usata da
U., Cavafy, anziché adottare quella oggi più corrente di Ka-
vafis.

1 II viaggio in Grecia cui qui U. accenna ebbe luogo nell’ultima


settimana di settembre del 1956, quando egli vi si recò su in¬
vito del governo greco, insieme ad altri scrittori (tra cui Carlo
Levi e Curzio Malaparte) e ad alcuni uomini politici italiani,
per assistere alle rappresentazioni di Antigone e Medea e visi¬
tare Atene e Micene.

p. 670
LA PITTURA DI FAUTRIER In Palma Bucarelli, Jean Fau-
trier, Prefazione di Giuseppe Ungaretti, Il Saggiatore, Milano
1960, pp. 9-11. Una versione abbreviata di questo testo, decur¬
tata cioè della pagina riferentesi al volume della Bucarelli, fu
stampata, col titolo La pittura di Fautrier (che s’è qui adottato),
nel catalogo della mostra personale di Fautrier alla galleria l’At¬
tico, Roma, gennaio 1963.
992 Note

p. 673
PEREGRINAZIONE CON UMBERTO SABA In « Il Popo¬
lo », Roma, 18 settembre 1957, p. 4. L’articolo apparve con¬
temporaneamente su « Il Popolo » e su « La Sicilia del Popo¬
lo ». Nel primo giornale aveva per titolo Testimonianza a Um¬
berto Saba / Da poeta a poeta, mentre il titolo nel secondo
giornale era Ungaretti ricorda Saba. In ambedue i casi si trat¬
tava evidentemente di titolazioni redazionali. Nel 1967, su delle
fotocopie del « Popolo » U. pose come titoli prima Saba, amico
mio, poi Peregrinazione con Umberto Saba. Un’eco di questo
secondo è nel titolo che lo scritto reca -in Innocence et mé-
moire, Avec Saba, ed è esso che si è adottato qui essendo stato
evidentemente l’ultimo scelto dal poeta in italiano.
Una eco della stima che U. ebbe subito per Saba è nella breve
recensione alla rivista « Primo tempo » che U. pubblicò, a firma
G.U., nel « Nuovo Paese » di Roma del 31 marzo 1923:

PRIMO TEMPO
In questa nostra epoca, dura e stupenda, varcando la quaran¬
tina par d’essere ancora ragazzi... Speranze, fede, amori, sacrifi¬
zio, entusiasmo, delusioni, vittoria si sono alternati così velo¬
cemente che gli anni non sono passati. E passano! Ci sono più
giovani di noi. Giacomo Debenedetti, Mario Gromo, Emanuele
F. Sacerdote, Sergio Solani che pubblicano a Torino « Primo
Tempo », rivista letteraria, non hanno ancora venticinque anni.
Beati loro! E sono tanto più invidiabili che alla loro freschezza
accoppiano un senno che forse noi anziani ancora non abbia¬
mo acquistato. L’umiltà! Non salgono in cattedra quei giovani,
non hanno da insegnare, da riformare, da sconvolgere; già l’a¬
stuzia di volere imparare. Dio li aiuti! E ci perdoni quest’ultima
dichiarazione orgogliosa: Lo vedete, noi che non ci decidiamo
a invecchiare, non abbiamo seminato invano...
In « Primo Tempo » abbiamo letto deliziosi canti di Umberto
Saba (gli amici gipvani, onorandolo particolarmente, c'invitano
ad accorgerci meglio di questo nostro coetaneo). E Saba ora ci
annunzia una collana di Sonetti autobiografici [i 15 sonetti di
Saba, intitolati Autobiografia, apparvero nel numero 9-10 di
« Primo Tempo », di 11 a poco7, d’un’ebrietà malinconica e
perfetta, come quella che viene dal vino che s’è spogliato, lim¬
pido, generoso, fragrante!...

p. 678
RICORDO DI BARILLI In « Galleria », Caltanissetta, a.
XIII, n. 3-4-5, maggio-ottobre 1963, pp. 207-209. Lo scritto ven¬
ne incluso da U. in Innocence et mémoire, dove appare col ti¬
tolo Souvenir de Barilli.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 993

p. 681
RICORDO DI PEA In « L’Approdo Letterario », Roma, a. V,
n. 8, ottobre-dicembre 1959, pp. 28-31. Un primo breve schizzo
di questi ricordi su Pea è costituito dalla nota Una grande ami¬
cizia, apparsa sul « Corriere d’informazione », Milano, 11-12 ago¬
sto 1956, p. 9.

p. 685
PAROLE PER GADDA In « Palatina », Parma, a. VII, n. 25,
gennaio-marzo 1963, pp. 3-5. U. lesse dapprima questo testo per
presentare, nella sede romana d’una casa editrice, il libro di
Gadda, allora appena uscito. La cognizione del dolore (Einaudi,
Torino 1963).

p. 689
PREFAZIONE A «L’OSPITE DELL'HOTEL ROOSEVELT»
DI GIACOMO NATTA In Giacomo Natta, L’ospite dell’Hotel
Roosevelt, Edizioni della Meridiana, Milano 1953, pp. 7-10.

p. 693
PICCOLO DISCORSO SOPRA « DIETRO IL PAESAGGIO »
DI ANDREA ZANZOTTO In « L’Approdo », Roma, a. Ili,
n. 3, luglio-settembre 1954, pp. 59-62. Il titolo originale con cui
lo scritto apparve sull’« Approdo » era Piccolo discorso al Con¬
vegno di San Pellegrino sopra « Dietro il Paesaggio » di Andrea
Zanzotto. Su una copia dattiloscritta del discorso, U. soppresse
più tardi il paragrafo finale del discorso pronunciato al Conve¬
gno di San Pellegrino, e che fu riportato anche nel testo stam¬
pato:

Caro Zanzotto, eccoLa entrato in una storia illustre, e Le augu¬


ro, e ora verrà il più difficile, che in essa Ella riesca a portare
a conclusione la Sua storia. Coraggio.

p. 700
PER GIULIANI In « Il Verri », Milano, n. 20, febbraio 1966,
pp. 64-66. « Queste parole di presentazione furono lette da Giu¬
seppe Ungaretti il 16 giugno 1965 alla Libreria Feltrinelli di
Roma », dichiarava una nota in calce allo scritto nel « Verri ».
La presentazione, era stata quella del volume di Alfredo Giuliani
allora appena uscito, Povera Juliet e altre poesie, Feltrinelli, Mi¬
lano 1965.
994 Note

p. 703
«SICILIANA» DI MURILO MENDES In Murilo Mendes,
Siciliana, a cura di A.A. Chiocchio, prefazione di Giuseppe Unga¬
retti, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1959, pp. 5-7. La Prefazione
reca in calce la data, Roma, il 19.1.1959. Essa venne poi ripub¬
blicata, col titolo, Il mio Brasile e un suo poeta, in « Successo »,
n. 2, giugno 1959, p. 129. Di Mendes, U. tradusse più tardi
Janela do Caos-, Murilo Mendes, Finestra del Caos, traduzione
di Giuseppe Ungaretti, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1961.
La prima stesura di tale traduzione era uscita nell’« Europa Let¬
teraria », n. 4, ottobre 1960, pp. 75-78.

p. 705
POESIA DI VINICIUS DE MORAES In « L’Approdo Lette¬
rario », Roma, n. 45, gennaio-marzo 1969, p. 14. Questa pagina
era seguita nell’« Approdo » dalla traduzione ad opera di U. di
cinque poesie di Vini'cius de Moraes: Patria mia, Poetica I, La
vita vissuta, Il tuffatore, Sonetto dell’amore totale.

p. 707
OSWALD DE ANDRADE In Oswald de Andrade, Memorie
sentimentali di Giovanni Miramare, a cura di Giovanni Cutolo,
Prefazione di Giuseppe Ungaretti, Feltrinelli, Milano 1970, pp.
V-VII. È l’ultimo testo critico pubblicato da Ungaretti, e pro¬
prio nel mese in cui compiva 82 anni. Ma quale giovanile, umo¬
rosa, impaziente aggressività di linguaggio, vi è ancora. Di O-
swald de Andrade, U. aveva tradotto le cronache in poesia Pàu
Brasil, pubblicate nel Deserto e dopo, Mondadori, Milano 1961,
pp. 383-390, e che davano poi il titolo all’intera sezione brasi¬
liana del volume.

p. 710
SULL’« ANTOLOGIA DEI POETI NEGRI D’AMERICA » DI
LEONE PICCIONI Questo testo fu letto alla libreria Paesi
Nuovi di Roma, per presentare il volume, allora da poco uscito,
Antologia dei poeti negri d’America, a cura di Leone Piccioni
e Perla Cacciaguerra (Mondadori, Milano 1964).

p. 714
[PER ALLEN GINSBERG] È il testo della presentazione fat¬
ta da U. a Napoli, presso la libreria Guida, il 10 febbraio 1966,
del volume antologico di poesie di Alien Ginsberg, Jukebox
all’idrogeno, tradotte da Fernanda Pivano (Mondadori, Milano
1965). U. aveva conosciuto Ginsberg a New York nella prima¬
vera del 1964, durante il periodo d’insegnamento alla Colum-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 995

bia University, e con lui tenne poi letture di proprie poesie, nel
1967, a Spoleto e a Londra, rimaste memorabili. Nello stesso
Jukebox all’idrogeno, p. 306, il verso 6 della seconda sezione di
At Apollinaire’s grave, « Huidobro forgotten in tbe bony ocean
Ungaretti remembering white Public haìr\ Huidobro dimenticato
nell’oceano ossuto Ungaretti memore del bianco pelo pubico »,
è un’eco del loro primo incontro newyorchese. Scrive F. Pivano
in una nota al verso: « nel corso di una festa organizzata al
Greenwich Village in onore del grande poeta italiano, i poeti
presenti accettarono l’invito di donare alcuni peli del proprio
pube per una vendita all’asta in favore della rivista letteraria di
Ed Sanders [...] Per spiegarmi l’accostamento di questi due no¬
mi Ginsberg mi scrisse: “Huidobro è morto giovane e Ungaretti
ha vissuto così a lungo da poter offrire peli bianchi (C’est bian¬
che, c'est bianche) a New York per contribuire al catalogo di
oggetti memorabili di Ed Sanders”. Anche Ungaretti mi spiegò
questo verso scrivendomi: “Rammenta una strana cerimonia alla
quale Ginsberg e gli altri poeti avevano sottoposto i presenti, fa¬
cendo loro strappare ‘peli pubici’ da vendere all’asta in uno sca-
tolino, in occasione d’una lettura di poesie ch’era stata fatta per
festeggiarmi al villaggio” ».
Di questa presentazione, esistono due stesure manoscritte, in in¬
chiostro verde su fogli bianchi, alquanto diverse luna dall’altra,
senza titolo né data. Qui si pubblica, con un titolo puramente
indicativo, quella che appare come la redazione più ampia e
recente.

1 La celebrazione ebbe luogo il 17 gennaio 1934, davanti alla


chiesa di San Vitale, dove si trovavano sepolte le spoglie di Leo¬
pardi, fattevi trasportare da Antonio Ranieri nel giugno del 1837.
Alberto Consiglio, sull’« Italia Letteraria » del successivo 23 gen¬
naio, così la descriveva: « Messo un tavolo sotto il pronao, per
l’oratore, questi, convalescente d’una grave malattia, ha dovuto
fare a gara coi rumori della piazza per far giungere i suoi con¬
cetti agli .orecchi degli ascoltatori. A tre metri dal suo tavolo
passavano scampanellando e con strepito orribile di ferramenta i
tram di Bagnoli e di Pozzuoli che, con gli autocarri, le automo¬
bili e il vocio dei passanti, componevano una sinfonia che avreb¬
be ottimamente commemorato la memoria d’un compositore ru¬
morista ».
2 È la strofa finale di Masters of War, il cui testo originale dice:
and I hope that you die
and your death will come soon
I’il folloni your casket
or, a pale afternoon
and I’il watch while you’re lowered
996 Note

down to your deathbed


and I’il stand over your grave
% till l’m sure that you’re dead
3 La prefazione cioè, Un poeta, non soltanto un minestrone beat,
a Jukebox all’idrogeno sopra citato. ,
4 A partire da questo punto, i manoscritti sono frammentari o
incompleti. Si è allora integrato il testo colmando le lacune con
brani tolti dalla registrazione su nastro della presentazione, cor¬
tesemente messa a disposizione dalla libreria Guida di Napoli.
I brani tolti dalla registrazione sono stati posti tra parentesi
quadre.
Una versione inglese di questo testo è stata pubblicata nel nu-'
mero 4, volume 44, autunno 1970, Homage to Ungaretti, pp.
559-563, della rivista americana « Books Abroad ». Tale versione
ha come titolo Presentation of Alien Ginsberg's Poems (Naples
1966), ed è accompagnata dalla seguente nota di Ariodante Ma-
rianni, in inglese:
« Quest’articolo di Ungaretti è inedito. Esso è ricavato dalla tra¬
scrizione stenografica di un discorso improvvisato in occasione
della presentazione a Napoli, nel 1966, di un’Antologia di poe¬
sie di Ginsberg, tradotte in Italiano da Fernanda Pivano. Il poe¬
ta aveva intenzione di riscrivere questo testo per la sua pubbli¬
cazione nel presente fascicolo di “Books Abroad”, ma la malat¬
tia prima e la morte poi glielo hanno impedito. »
Siccome U. non improvvisava mai discorsi di carattere letterario,
è possibile ch’egli abbia letto a Napoli da un terzo manoscritto,
per ora disperso, ma che comunque, a parte l’incompletezza della
pagina finale, non differiva in nulla da quello qui pubblicato.
A Napoli, U. fece seguire il nostro testo dalla lettura di un bra¬
no di Kaddish, e dal breve ricordo di una lettura di poesie fatta
da lui a New York insieme a Ginsberg in un locale del Village,
nel 1964.

'Poetica
p. 723
RIFLESSIONI SULLO STILE In « Inventario », Milano, a. I,
n. 2, estate 1946, pp. 11-17. Come U. stesso dichiara nel corso
del saggio, questo testo deriva dalla prefazione ch’egli scrisse per
il catalogo della mostra che il pittore portoghese Antonio Pedro
tenne a San Paolo del Brasile nell’agosto del 1941, nel quale
esso appare in una anonima traduzione portoghese. Tale prefa¬
zione, sempre in portoghese, venne poi riprodotta integralmen-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 997

te nel numero di primavera del 1942 della rivista « Variante »


di Lisbona, diretta dallo stesso Antonio Pedro.
Tra quella prefazione e queste Riflessioni ci sono comunque del¬
le notevoli differenze, che potranno essere meglio misurate con¬
frontando il testo di « Inventario » con quello di « Variante ».
In sostanza, appartiene al 1941 non soltanto la prima parte del
saggio, che U. riporta testualmente, con la soppressione però di
due paragrafi sulla pittura di Pedro e l’ampliamento notevole
del brano che va da « Tutte le volte che mi sono trovato da¬
vanti a un monumento egiziano » a « ma il linguaggio è oggi
babèlico », brano di cui oltre la metà è nuovo; ma anche quasi
tutta la seconda parte, che nel ’46 venne però rielaborata ed
ampliata notevolmente. Interamente nuova è in effetti solo la
conclusione del saggio, da « Ecco, secondo le diverse epoche e
le personalità diverse », alla fine. Del testo del 1941, invece, cad¬
dero tutte quelle parti che si riferivano in modo particolare alla
pittura di Pedro.
L’ultima parte del saggio, da « Una volta m’era avvenuto di tro¬
varmi nella landa argentina » alla fine, venne anche pubblicata in
« Alfabeto », a. II, n. 3-4, 15-28 febbraio 1946, p. 1, col titolo
Umanità dell'arte. In « Alfabeto » l’articolo era preceduto da
una nota redazionale che diceva fra l’altro: « Sabato 2 febbraio,
ad iniziativa di Nicola Ciarletta, si è inaugurato alla Galleria
d’arte contemporanea “Il Cortile”, con un discorso di Giuseppe
Ungaretti sulla poesia, un ciclo di conversazioni letterarie. Que¬
sta che pubblichiamo non è che la conclusione, e l’abbiamo quasi
strappata dalle mani del poeta, che ci diceva: “Ma questa è una
mutilazione e il lettore non ci capirà niente” », Il testo di «Al¬
fabeto » presentava correzioni e aggiunte rispetto a quello di
« Inventario », mantenute da U. quando incluse integralmente
Riflessioni sullo stile nelle Ragioni d'una poesia premesse al suo
volume Vita d’un uomo / Tutte le poesie, Mondadori, Milano
1969. Precedentemente, comunque, queste Riflessioni erano state
fuse, insieme a Ragioni di una ■ poesia apparso nel 1949 sempre
su « Inventario », nelle Quelques réflexions suggérées à l'auteur
par sa poésie che precedono la traduzione francese delle poesie di
U.: Les Cinq Livres, Texte frangais établi par l’Auteur et Jean
Lescure, Les Editions de Minuit, Paris 1953. Nella stessa tradu¬
zione di Lescure, tale testo fu poi incluso, col titolo Quelques
réflexions sur mon oeuvre, in Innocence et mémoire, Gallimard,
Paris 1969.
Una traduzione francese di Riflessioni sullo stile, fatta probabil¬
mente dallo stesso U. perché il testo differisce in diversi punti
da quello che figura in Les Cinq Livres, apparve col titolo L’été
viendra. Enquéte sur Texistence d’une crise de l’art in « Com-
prendre », Annuaire-Revue publié par la Société Européenne de
998 Note

Culture, n. IV, Décembre 1951, pp. 87-91, e prima ancora col


titolo Le profond langage esthétique nella rivista belga « Syn-
thèses 4e année, n. 47, Avril 1950, pp. 143-153.

1 Gerusalemme Liberata, XVI, 12-13.


2 Idem, XVI, 14.
9

p. 737
POETA E UOMINI In « L’Universitario », Roma, sabato 30
marzo 1946, p. 3. « L’Universitario » era l’organo dell’Interfacol¬
tà, cioè dell’organismo dirigente delle organizzazioni studentesche
di facoltà dell’Università di Roma, dove com’è noto U. era or¬
dinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea. L’arti¬
colo deriva in tutto da una più ampia lezione dell’anno accade¬
mico 1945-46, Introduzione alla Canzone «Alla Primavera », che
figurerà nel futuro volume delle Lezioni universitarie, e in cui
però le varie parti avevano un ordinamento completamente di¬
verso, sicché questa ne risulta di fatto una seconda stesura, sgan¬
ciata da una relazione troppo diretta con la Canzone leopardiana.

p. 741
INDEFINIBILE ASPIRAZIONE In « La Fiera Letteraria »,
Roma, a. X, n. 51, 18 dicembre 1955, p. 3. Il saggio venne- ri¬
preso sulla « Fiera » dalla Antologia popolare di poeti del Nove¬
cento, a cura di Vittorio Masselli e G.A. Cibotto, volume I,
Vallecchi, Firenze 1955, pp. 211-218, dove era apparso senza ti¬
tolo in testa alla scelta di poesie di U. (Nella « Fiera », oltre a
quella di U., apparvero sotto il titolo generale « Il nostro destino
di scrivere versi » le introduzioni alle proprie poesie scritte per
l’antologia da Saba, Montale, Cardarelli, Jahier, Quasimodo, Pa¬
lazzeschi, Betocchi e Valeri.) Venne poi incluso in Innocence et
mémoire, pp. 292-297, col titolo Une aspiration indéfinissable.
Il testo risale comunque al 1946-47. Il 22 ottobre 1946, U. inau¬
gurò con una sua lettura al Teatro dell’Opera di Sanremo gli
« Incontri con poeti e narratori » organizzati nella città ligure da
Mario Sogliano e Renzo Laurano. Un breve resoconto del discor¬
so di U. pare appunto riferirsi a Indefinibile aspirazione-, « “La
poesia” ha cominciato col dire Ungaretti “non è definibile ma
neppure estranea ad alcun essere umano” [...] Ungaretti ha bre¬
vemente riassunto l’evoluzione della sua poesia, cominciando da
quando egli sentì, come una missione (eppure egli ha detto di
non presumere di sé d’esser chiamato ad una missione), la neces¬
sità d’una radicale evoluzione della poesia italiana: reagire al
gonfio floreale dannunzianesimo, al paroliberismo futurista, ai
rimpicciolimenti della cosidetta poesia d’avanguardia. Riportare
la parola, questo austero segno della dignità umana, alla sua es-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 999

senzialità, cioè alla sua scabra importanza e autorevolezza. L’e¬


volversi della poesia ungarettiana seguì, come accade, l’evolversi
della vita spirituale di lui; affinandosi man mano egli acquistava
consapevolezza maggiore della tragedia umana, chiaroveggenza
nelle sue credenze personali, verso il raggiungimento d’una per¬
fezione morale. [...] » (Bruna Becherucci, L'inaugurazione degli
« Incontri con poeti e narratori » al Teatro dell’Opera, « Sanre¬
mo », ottobre 1946, p. 5). Il testo integrale di Indefinibile aspi¬
razione venne in ogni caso letto da U. in una conferenza, accom¬
pagnata dalla lettura di sue poesie, ch’egli tenne alla sezione
tarantina della Dante Alighieri alla fine di aprile del 1947, e
pubblicato poi, col titolo Ragioni d'una poesia (ma non c’è iden¬
tità fra questo testo e quello apparso col medesimo titolo in
« Inventario » della primavera 1949), nella « Voce del Popolo »
di Taranto del 16 maggio 1947 (anno 64°, n. 20). È probabile
che si trattasse d’una ripetizione della conferenza-lettura di San¬
remo, e U. la tenne ancora in più d’una città italiana, e anche in
epoche diverse, come si vedrà più avanti. A Sanremo U. lesse
« alcune sue liriche ». A Taranto, lesse Sono una creatura e Fra¬
telli dall 'Allegria, Caino e La Pietà da Sentimento del Tempo,
Giorno per giorno, Tu ti spezzasti, Mio fiume anche tu, I ricor¬
di, Non gridate più e Terra dal Dolore, allora ancora inedito.
Il testo della « Voce del Popolo » aveva una conclusione poi sop¬
pressa nelle pubblicazioni successive. Diceva infatti:

Giudicherete se le premesse che sono andato esponendo corri¬


spondono ai risultati raggiunti, dalla lettura che ora vi darò di
alcune mie poesie scelte nel volume Sentimento del Tempo. Fu¬
rono scritte tra il 1919 e il 1935. [...]
Il Dolore è il libro che conterrà le Poesie che dal 1935 sino
al 1946 vanno lentamente nascendomi. Il lavoro dell'Allegria e
del Sentimento vi è proseguito; ma la tragedia umana vi è stata
più consapevolmente sentita e patita; le credenze personali vi
hanno assunto una definitiva dichiarazione; e forse la forma an-
ch'essa, fattasi più grave, più radicata nel martirio dell'umano
cuore, ha saputo di più avvicinarsi a quella verità delle cose, che
è ambizione della vera poesia, semplicemente esprimere.
Alcuni esempi che ora vi sottoporrò, vi diranno se veramente
essi rispecchiano quel perfezionamento morale a cui ho sperato,
e spero, d’essermi riconsacrato nel dolore; a cui, sino dai miei
primi versi, doveva legarmi il mio destino.
Le parole « conterrà » e « vanno » del passo qui riportato, fu¬
rono poi corrette da U. in « contiene » e « sono andate » su un
ritaglio della « Voce del Popolo » (e la chiusa vi è modificata in
« riconsacrato nel dolore, nel dolore cui, sino dai primi miei
versi, dovevano legarmi gli eventi »); il che pare attestare che lo
1000 Note

scritto venne ripreso più tardi, dopo la stampa del Dolore (ago¬
sto 1947), per altre conferenze: un dattiloscritto leggermente più
breve,,ma analogo al testo della «Voce del Popolo», fa infatti
menzione anche della Terra Promessa e di Un Grido e Paesaggi
come già pubblicati. E ancora nel 1964, il 13 aprile, U. lesse il
testo quale era apparso nella « Fiera »’ ma col primitivo titolo
Ragioni d’una poesia, insieme a una scelta di sue poesie, alla
Casa italiana della Columbia University di New York.
I In una correzione molto tarda, la parola « tema » è cancellata
e sostituita con « musica ».

p. 747
RAGIONI DI UNA POESIA In « Inventario », Milano, a. II,
n. 1, primavera 1949, pp. 6-19. È questo uno dei testi conside¬
rati fondamentali da U. per la sua poetica, benché sia sostanzial¬
mente costituito da un montaggio di scritti che vanno dal 1922
al 1949: Dostoievski -e la precisione, Costanza del canto nella
poesia italiana, Attualità dell'arte, Libertà. (Per i primi due dei
quali, precisiamo che, poiché essi furono ritoccati o in parte
riscritti in occasione della stesura nel ’49 di questo saggio, la
loro inclusione qui non ne ha provocato una loro esclusione
come testi autonomi: si è preferito il rischio di qualche doppio¬
ne a quello di restituire incompleta la storia del discorso critico
ungarettiano. Quanto agli altri due, si vedano le note 4 e 8, più
avanti.)
Contemporaneamente a « Inventario », il saggio venne pubblica¬
to, col titolo Sentimento di Dio, nel volume collettivo II pro¬
blema di Dio, a cura di G. Savio e T. Gregory, Editrice Uni¬
versale di Roma, Roma 1949, pp. 327-348, senza altra modifica¬
zione che nel titolo. Più tardi, nel 1953, esso diventò buona par¬
te delle Quelques réflexions suggérées à l'auteur par sa poésie,
da U. premesse alla traduzione delle sue poesie in francese: Les
Cinq Livres, Texte frampais établi par l’Auteur et Jean Lescure,
Les Editions de Minuit, 1953, pp. 9-45. Queste furono in seguito
incluse, nella stessa traduzione di Lescure e col titolo Quelques
réflexions sur mon ceuvre, in Innocence et mémoìre, pp. 319-358.
II testo composito delle Quelques réflexions... venne infine ri¬
preso da U. nel 1969 e posto a capo del volume delle sue poesie
complete (Vita d’un uomo / Tutte le poesie, Mondadori, pp.
LIX-XCV) col titolo Ragioni d’una poesia. Quest’ultimo testo
però, così come quello delle Quelques réflexions..., risulta co¬
sì costituito: a) dal testo di Ragioni di una poesia di « Inven¬
tario », dall’inizio, alla fine dello scritto Attualità dell’arte-, b)
dal testo di Riflessioni sullo stile, del 1946, nella sua interezza,
ma col paragrafo iniziale leggermente modificato; c) ancora dal
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1001

testo di Ragioni di una poesia di « Inventario », ripreso al pun¬


to in cui era stato lasciato per includervi Riflessioni sullo stile,
e di nuovo abbandonato dopo le parole « l’atto poetico che ci
dà nozione dell’Assoluto [di Dio] ». Da questo punto, il testo
di Ragioni di una poesia del ’69, e dunque anche quello delle
Quelques réflexions, appare scritto ex novo, anche se parzialmen¬
te rielabora scritti precedenti di U., come Poesia e libertà, Saint-
John Perse, il Secondo discorso su Leopardi. È da notare che
tale ultima parte delle Ragioni d’una poesia in Vita d’un uomo,
credo sia stata tradotta o ritradotta da U. dal francese, poiché in
tale lingua mi pare egli l’avesse scritta appositamente per il volu¬
me francese del 153; ma dal testo francese risultano nel ’69 caduti
i tre paragrafi prima dell’ultimo, paragrafi che riassumevano il bra¬
no conclusivo di Ragioni d’una poesia di « Inventario ». Le
Quelques réflexions... del ’53 recavano la data, Rome, 1943-1949,
gli estremi cioè delle stesure dei due saggi pubblicati in « In¬
ventario ».
Un’ultima osservazione riguardo al titolo: il saggio di « Inven¬
tario » e quello in Vita d’un uomo non vanno confusi con la
conferenza Ragioni d’una poesia pubblicata nella « Voce del Po¬
polo » di Taranto del 16 maggio ’47, la quale diventerà nel 1955
Indefinibile aspirazione.
1 U. dice qui di riportare lo scritto apparso nel ’22 sulla « Ron¬
da » (A proposito di un saggio su Dostojevski [la grafia di que¬
sto nome cambia continuamente nei testi stampati di U.], «La
Ronda », a. IV, n. 1, gennaio 1922, pp. 68-69), ma egli si rifà
in realtà a un rifacimento completo di quello scritto, pubblicato
col titolo Dostoievski e la precisione nella « Gazzetta del Po¬
polo » di Torino del 6 marzo 1935, anche di questo poi modifi¬
candone la forma, e aggiungendo addirittura un brano, quello da
« Sarà per effetto di metamorfosi della nostra mente » a « per
opporsi, in un certo senso al mistero ».
2 C’è stata qui, da parte di U., una confusione di date. Lo scrit¬
to cui sta per riferirsi, Costanza del canto..., egli l’aveva datato
in « Inventario » 1930, mentre era in realtà del 1935, per cui
il testo che citerà poco dopo, del 1933, viene da lui post-datato,
anziché pre-datato, di due anni.
3 Costanza del canto nella poesia italiana, « Gazzetta del Popo¬
lo », 13 marzo 1935. Poche le correzioni apportate, tranne che
nel periodo finale.
4 Si tratta della conferenza Poesia e civiltà, letta in diverse oc¬
casioni tra il 1933 e il 1936 (per cui vedi la nota relativa, p. 927
del presente volume). La parte finale ch’egli 'ne riporta qui, ma
con diverse correzioni e aggiunte, è quella pubblicata ne « La
Tradizione », gennaio-febbraio 1934, col titolo Attualità dell’ar-
1002 Note

te, e con una nota al titolo a piè di pagina dichiarante « Con¬


clusione della conferenza tenuta al Circolo della Stampa di Pa¬
lermo il 14 gennaio 1934 », e ristampata poi due volte nel dopo¬
guerra, la prima col medesimo titolo di Attualità dell’arte nella
« Sicilia del Popolo » del 22 aprile 1946, la seconda col titolo
Civiltà meccanica e poesia nel « Giornale » di Napoli del 15 ago¬
sto 1948.
5 La parte che segue del paragrafo, e tutto il paragrafo succes¬
sivo, sono aggiunte del 1949.
6 Da questo punto alla fine della citazione della conferenza, il
testo del ’49 è radicalmente modificato rispetto a quello del 1934.
7 II testo di « Inventario » diceva qui « di Dio ». U. mi fece
correggere in « dell’Assoluto » su un dattiloscritto durante la
preparazione del presente volume. Lo stesso accadde, poco più
avanti, per « nel marzo di quest’anno 1948 » che diventò « nel
marzo dell’anno 1948 », mentre trovo corretto da U. stesso, due
righe più giù, su una popia a stampa di Sentimento di Dio, « il
settembre scorso » in « nel settembre successivo ».
8 Vedi Le parole che diciamo cento volte al giorno-, Giuseppe
Ungaretti, Libertà, in « Cantachiaro », a. V, n. 13, 26 marzo
1948, p. 3. La seconda stesura letta a Ginevra, e qui riportata,
fu pubblicata anche, col titolo Poesia e libertà, nel « Popolo »
del 24 aprile 1949. Tale stesura è comunque così radicalmente
diversa da quella del « Cantachiaro », eh'essa costituisce piutto¬
sto uno scritto a sé. Mentre il testo pubblicato dal « Popolo »,
coincide così completamente con tutta la parte finale di Ragioni
di una poesia, ch’esso è più uno stralcio dal saggio di « In¬
ventario » che una pubblicazione ad esso anteriore del testo di
Ginevra.
9 Nella copia a stampa di Sentimento di Dio già citata, U. ag¬
giunse a penna la seguente nota, qui:

A proposito di durata, Benedetto Croce, in un saggio ora raccol¬


to in volume, mi rimprovera di avere usato il vocabolo in un
significato che non avrebbe. È il significato che in più d’un pen¬
siero gli ha dato il Leopardi, e basterebbe verificare sui testi. È
il significato che poi gli darà Bergson. È il significato comune
per indicare il modificarsi d’un oggetto esterno o d’uno stato
biografico o d'una condizione storica da un dato momento del
tempo a un altro dato momento. Sono cose vecchie come il cuc¬
co, e se ne ragionava da noi, sino dai tempi di Eraclito.
10 II testo di « Inventario » reca « cristiano », ma U. corresse sul¬
la citata copia di Sentimento di Dio in « del soprannaturale »;
anche leggermente modificato vi risulta il paragrafo successivo,
che diceva in « Inventario »:
La nozione di libertà, difatti non si può svincolare dalla sua not-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1003

te, se non in contrasto con precedenti storici, se non in contrasto


con la fonte maledetta della storia, se non in contrasto con la
colpa delle origini e con Caino.

11 Riportiamo qui, per comodità del lettore, la parte finale di Ra¬


gioni d’una poesia premesso a Vita d'un uomo, la quale vi so¬
stituisce la corrispondente ultima parte del saggio omonimo di
« Inventario », dalle parole « per l’atto poetico che ci dà nozio¬
ne dell’Assoluto [di Dio] » in poi:

Il linguaggio di cui l'uomo si serve durante la sua fase terrena


può contenere una rivelazione, intendo dire può oltrepassare i
termini dell’esperienza storica? È un problema che Vico s’era
posto elaborando la sua teoria dei cicli e dei ricorsi storici, e
quando dichiarava che non può conoscersi che ciò che si fa.
A distanza di più d’un secolo, il problema torna in Leopardi,
ed è il gran problema del momento. Ma a Leopardi non si pone
negli stessi termini che s’era posto ai Romantici tedeschi: non è
appello al caos, non è nemmeno ansia d’una forma che abbia da
scaturire dal caos. Leopardi si rende tuttavia conto, ed è il solo
Italiano a rendersene conto con chiarezza sino all’avvento della
poesia contemporanea, che una frattura era avvenuta nella mente
dell’uomo. L’accettazione della condizione umana nei suoi limiti
di tempo e di spazio, vale a dire nei suoi limiti materiali e lo¬
gici, ormai è ritenuta come formante antinomia con l'aspirazione
innata dell’uomo alla libertà e alla poesia.
È noto, in seguito alle reazioni ed anche alle illuminazioni che
aveva prodotto, nel modo di sentire e di pensare del Leopardi,
la polemica degli scrittori Romantici del « Conciliatore » e so¬
prattutto di Ludovico di Breme, quale predominio assumesse il
valore di durata nelle Canzoni, vale a dire sino dal Leopardi
esordiente. È la durata quale Vico l’intendeva nella sua interpre¬
tazione del tempo storico e quale, due secoli dopo Vico, Berg¬
son l’intenderà ricorrendo alla sua interpretazione del tempo psi¬
cologico. Leopardi si chiede se non saremmo ridotti - più non
essendo il passato se non tempo consumato, tempo defunto — a
non più essere- in grado di evocare la realtà del nostro essere, a
non più potere, salvo che per effetti di memoria, metterla in
moto. La realtà nostra, a noi civiltà, a noi lìngua, sarebbe dun¬
que cosa giunta a un punto tanto estremo che avremmo ormai
agio di racchiuderla nei suoi lìmiti: nascita, morte? Sarebbe for¬
se già essa polvere, niente? Stesa inerte sarebbe già essa, fredda,
in una bara? Più non potremmo noi conoscerne il flusso energi¬
co? Più non sarebbe essa mossa che da evocazioni della memo¬
ria o da congetture dell’immaginazione e per ricorso a eleganza
di linguaggio?
Tale angoscia è quella che si riflette nel linguaggio poetico di
1004 Note

Leopardi, non senza variazioni di aspetti. Mi limiterò a citare


alcuni esempi. La durata la fa valere nelle immagini, per anti¬
tesi: un tempo di vigore opposto a un tempo d’agonia; il mar¬
chio lacerante d’uno slancio opposto al silenzio arido. Le anti¬
tesi si succedono e s’intrecciano segnando un progresso nell’allon¬
tanamento del rapporto, tra di esse, delle immagini evocate. La
durata la fa valere persino nel vocabolo, facendogli assumere,
nell’economia del canto, una rosa di significati moltiplicati. Il
significato dell’uso corrente, e quello etimologico d’un medesimo
vocabolo essendo, in quei casi, generalmente in contrasto, ne ri¬
sulta necessariamente un significato ironico. La Canzone Ad An¬
gelo Mai è forse il primo canto dove ricorre agli effetti accen¬
nati, e dove più numerosi li accatasta, quasi ad ogni parola. Per
non indugiare troppo, sceglierò altrove i miei esempi. Come sot¬
totitolo alla canzone Alla Primavera, Leopardi pone O delle Fa¬
vole Antiche. Impiega Antiche nel senso di punto cardinale di
mezzogiorno: O delle Favole Antiche.- O delle Favole di Mezzo¬
giorno, come se dicesse « demone meridiano »; ma Antiche serba
anche il suo significato usuale di « immemorabile vetustà »: O
delle Favole Antiche. L’ironia è evidente, quantunque i critici
sino ad oggi non l’abbiano rilevata, avendo letto distrattamente
le annotazioni che Leopardi aveva avuto premura di porre a se¬
guito del suo canto. Leopardi canterà le favole della primavera,
le favole dell’ora antica, dell’ora che sente salire in sé la linfa
della felicità delirante; ma non le può cantare che nel momento
in cui quelle favole non sono più che remotissime; non le può
cantare che nel momento di gelo quando più non sono che fa¬
vole antiche.
Ma là dove l’ironia del poeta giunge sino al suo punto di hu¬
mour nero estremo, è nel canto L’Infinito. L’infinito non può
essere noto all’uomo, essere finito, che a mezzo di oggetti finiti:
cose la cui vista ci è esclusa non foss’altro che da una semplice
siepe, possono diventare « interminati spazi »; similmente l’eter¬
no, il tempo abolito, non potrà concepirsi che a seguito d’uno
stormire di foglie in corso di smarrirsi dentro uno spazio, dive¬
nuto per causa di quel chiasso smarrito, senza più fine: chiasso
che darà vita all’immagine del nostro pensiero fermatosi ad in¬
seguire, a perdita di vista, gli innumeri secoli morti precedenti
il nostro, ecc.
Il vocabolo suggeriva fortunato anche altre vedute all'occhio pe¬
netrante del Leopardi. Il vocabolo, per il significato proprio non
può evocare se non oggetti condizionati dai limiti, non può, ap¬
punto, evocare oggetti se non nei loro stessi confini indicativi. È
tutto? S’accorge a quel punto che quel medesimo vocabolo pos¬
siede una seconda prerogativa, ed in realtà è la sua precipua pre¬
rogativa quando è reso lirico, dilatandosi in quel momento per
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1005

intervento d'ispirazione al di là d’ogni concetto di limite: in


quel momento diviene soprattutto vocabolo indefinito. Misterioso
è l'aggettivo che s’addice meglio al vocabolo poesia, e che- qui
sarebbe stato conveniente impiegare; ma il Leopardi si lusingava
che, dissimulando la sua costretta confessione del sacro sotto un
vocabolo tanto razionale quanto poteva esserlo il vocabolo infi¬
nito, le dava lo stridore d’un pizzico di malizia volteriana. Non
faceva che mettere a nudo la pietà del suo cuore.
Mentre facevo queste osservazioni sui testi del Leopardi, per un
caso felice m’occupavo anche dell'opera poetica di Saint-John
Perse. In tale modo, le mie osservazioni trovarono uno spazio
che si estendeva dal Romanticismo ad oggi, senza che mi fosse
necessario di fare ancora appello alla mia esperienza personale di
poeta o a quella della poesia italiana recente. E subito mi cadeva
sottocchio la nota lettera di Perse ad Archibald MacLeish, dove
dà - quando ancora non erano noti di lui che Éloges e Anabase
- alcune indicazioni essenziali sulla sua poesia. Perse ci parla
d’una Esther che ebbe una volta invito ad ascoltare in un isolot¬
to della Polinesia. Alcune bimbe Tonga che non capivano un
ette della lingua nella quale erano state scelte a declamare, ave¬
vano imparato quel testo - lungo una settimana di pazienti ripe¬
tizioni per bocca d’una vecchissima monaca francese - come un
testo sacro. Racine non sembrò mai meno tradito a Perse, né
« mai capito meglio il miracolo della lingua francese, il cui po¬
tere magico, il suo stesso genio per le analisi precise, spesso of¬
fusca ».
Stavo allora traducendo Phèdre ed ecco che un secondo caso fe¬
lice mi poneva sotto gli occhi, e mi faceva avvicinare al passo
della lettera di Perse, il passo d’una lettera indirizzata a Boileau
da Racine, per documentarsi intorno a certi pareri di Perrault:
« Tout ce traité de Denys d’Halicarnasse, dont je viens de vous
parler et que je relus hier tout entier avec un grand plaisir, me
fit souvenir de l’extréme impertinence de M. Perrault, qui avan¬
ce que le tour des paroles ne fait rien pour l’éloquence, et qu’on
ne doit regarder qu’au sens; et c’est pourquoi il prétend qu’on
peut mieux juger d’un auteur par son traducteur, quelque mau-
vais qu’il soit, que par la lecture de l’auteur mème ».
Certo, la vera poesia si presenta innanzi tutto a noi nella sua
segretezza. È sempre accaduto così. Più giungiamo a trasferire
la nostra emozione e la novità delle nostre visioni nei vocaboli,
e più i vocaboli giungono a velarsi d’una musica che sarà la pri¬
ma rivelazione della loro profondità poetica oltre ogni limite di
significato.
Ma se, per Racine, tutto accadeva nell’ordine convenuto delle
cose - e tuttavia una difficoltà quantunque lieve già insorgeva, e
M. Perrault eccolo subito a rammentarglielo - per il Leopardi,
1006 Note

o pef ogni Romantico, le cose eranet infinitamente più gravi, il


vocabolo essendo stato ridotto al suo semplice valore filologico
di dttrata, essendo stato crudelmente denudato, e non potendosi
più che con eccesso drammatico ricondurlo alla sua funzione poe¬
tica, funzione che nel secondo periodo rdella sua attività, sarà da
Leopardi, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro delle Operet¬
te Morali nel seguente modo fissato: « Se alcun libro morale
potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poe¬
tici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente, cioè
libri destinati a muovere l'immaginazione; e intendo non meno
di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che,
letta e meditata, non lascia al lettore nell’animo un tal senti¬
mento nobile, che per mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un
pensier vile, e di fare un’azione indegna ». L’ispirazione era così
ricondotta alla sua causa profonda, causa poetica e morale, e se
dilatava i vocaboli per effetti indefinibili, per effetti estetici, que¬
gli effetti tali non potevano estere, se non erano indotti dalla
loro causa segreta, inconoscibile, a produrre una purificazione
dell’ anima.
Va detto questo: ciò che i poeti e gli artisti, dal Romanticismo
ai giorni nostri hanno fatto e s’ostinano a fare è immenso: han¬
no sentito Vinvecchiamento della lingua: il peso delle migliaia
d’anni che portano nel loro sangue; hanno restituito alla memo¬
ria la sua misura d’angoscia e, nello stesso tempo, mediante sfor¬
zi crudeli e ostinati hanno acquisito il potere di darle la libertà
di emancipare se stessa in quel medesimo grado che l’afferma.
Soltanto la poesia — l’ho imparato terribilmente, lo so - la poe¬
sia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’ac¬
corge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la
ragione e che l’uomo è molto meno regolato dalla propria opera
che non sia alla mercè dell’Elemento.

p. 768
SULLA POESIA (Intervista Radiofonica) In « Il Popolo », Ro¬
ma, 6 aprile 1950. Sul « Popolo » il testo recava come semplice
sottotitolo Pensieri di Giuseppe Ungaretti, ma si trattava in real¬
tà di un’intervista trasmessa dalla RAI nella rubrica « Scrittori
al microfono », nel marzo del ’50, e dalla RAI stessa poi pub¬
blicata nel volume collettivo Confessioni di scrittori (Interviste
con se stessi), I Quaderni della Radio, XI, Edizioni Radio ita¬
liana, Torino 1951, pp. 98-101.
Parti dell’intervista furono poi usate largamente da U. in scritti
posteriori.

1 Questa parte della risposta è tolta di peso da Ragioni d’una


Saggi e Scritti vari 1943-1970 1007

poesia, la conferenza pubblicata dalla « Voce del Popolo » di


Taranto nel 1947, e diventata poi Indefinibile aspirazione.

p. 772
SU « UDII UNA VOCE » DI D.M. TUROLDO In David Ma¬
ria Turoldo, Udii una voce, con una Premessa di Giuseppe Unga¬
retti, Mondadori, Milano 1952, pp. VII-X. Questo testo costitui¬
sce la prima parte della Premessa al libro di poesie di padre Tu¬
roldo. Durante la preparazione di lnnocence et mémoire, e poi
del presente libro, U. aveva deciso di sopprimere le pagine finali,
dal testo del ’52, e includere le rimanenti tra gli scritti sulla
poesia. In lnnocence et mémoire esso figura infatti, così abbre¬
viato, nella sezione Poétique, col titolo A l’écoute d'Isàie.
Per l’edizione italiana dei saggi, l’autore aveva anche steso una
noticina preliminare al testo che diceva: « A un giovane mona¬
co poeta, David Maria Turoldo, le vicende degli anni terribili
dettarono un libro di poesia che ritengo dei più veri di quegli
anni. Le pagine che seguono, che portano il titolo di quel libro,
sono state ispirate meditandolo ».
Si riporta qui di seguito, per documentazione, la parte soppressa
della Premessa:
La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da macera¬
mento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di
desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa Veffimero nostro
stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza. L’anno
liturgico, è, nelle pagine di questo libro, patito, contemplato,
minuto per minuto, nella sua verace parola:
Anche il tuo Verbo è celato
nella carne oscura.

Feriti, arsi, dilaniati


da queste tue forme
irraggiungibili.

... mentre Iddio


è lontano...

... il Verbo
vivo che tace...

Noi siamo terra orante.

La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da amore


per il prossimo. La catastrofe storica propagatasi dentro alle fon¬
ti dell’espressione, è attivissima qui, come dal Barocco a noi,
1008 Note

nell’esigere alternanza d’impeto e di sgomento, Dice il Profeta


« E questa desolazione è come una sovversione fatta da strani »:
Non ci sono abissi tra noi e la pietra,
non distanze con gli astri. Qui
è l’infinito distacco, ,
tra cuore e cuore...

Dice il Profeta « Perché pestate le facce dei poveri? » e dice:


« Le vostre mani sono piene di sangue ». Non so in quante altre
voci queste parole trovano una rispondenza uguale a quella che
ascolto in Udii una voce:

Forse tu avevi bisogno del nostro


dolore, di questo figmento
commosso d'uomo?
Oh allora non maledirmi
se io riuscirò coi miei gridi
a comunicarti il nostro pianto...

E dentro le case,
ognuno è solo
con la sua diffidenza.

Ancora nel sangue l’abitudine


di morte, ancora nel sogno
i pugni serrati. E nel giorno
la sorpresa d’essere
vivi; e il bisogno
delle parole violente.
Manca fra tutti un profeta di pace.
E infine quel verso di Città-Cimitero, che non è, forse, una delle
poesie meglio riuscite del libro:

E poi gli occhi soli della prostituta...


Ecco la misura della compassione che ha dettato il libro che
presento: quegli occhi soli nella notte, la solitudine nella notte
di poveri occhi umani, poveri anche se non senza colpa, poveri,
degni di fraterno amore.

p. 776
DOLORE E POESIA In AA.W., Il dolore e la gioia, Stu-
dium Christi, Roma 1956, pp. 107-128. È il testo di una confe¬
renza tenuta il 28 febbraio 1956 all’Angelicum di Roma, nel¬
l’ambito di un ciclo di conferenze religiose organizzate dallo
Studium Christi. Il Sonetto di Góngora Alla Nascita di Nostro
Signore, che Ungaretti riporta nella propria traduzione, presenta
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1009

qualche variante rispetto al testo apparso in Da Góngora e da


Mallarmé (Mondadori, 1948, p. 49).
Nel volume, le pp. 125-128 contengono il testo di Mio fiume
anche tu e La Madre, che il poeta lesse a conclusione della con¬
ferenza, facendo seguire la lettura delle due poesie dal seguente
congedo :

Perdonino, amici, se la mia vanità ha ceduto a amichevoli insi¬


stenze. Valga almeno la lettura fatta di cose mie a indicare la
forza di spirito cui aspiravo volgendomi alla poesia, alla poesia
che è sempre, se è poesia, l’atto con il quale un uomo tende alla
purezza, tende a amare, anche se la carne rimanga debole, ciò
che l'oltrepassa: l'umana perfezione.

Dolore e poesia riprende sostanzialmente le parti II e III di


Difficoltà della poesia, pubblicate sui primi due numeri del-
l’« Approdo » nel 1952 (vedi le indicazioni che se ne danno a
p. 1012 del presente volume), qui però utilizzate in ordine inver¬
so. Nell’« Approdo », la parte II comprendeva il brano che va
da « Tra gli Inni Sacri del Manzoni, se ne trovano, è noto a
tutti, due dedicati al Natale » a « la sua giustizia e la sua pietà
secondo il nostro povero metro »; mentre la III coincideva pra¬
ticamente con le pagine che vanno da « Il Decimoterzo è un se¬
colo dove l’impeto della poesia pare quasi ritrovare l’infanzia dei
sensi » a « ma quel giorno Jacopone non sarà lontano, né Cima-
bue ». Le due parti erano lì unite da questo passo, all’inizio
della III:

Ho già osservato nella precedente mia lettura che, secondo l’a¬


spetto di continuo diverso dei tempi, è sorte della poesia che,
per manifestare l’universale della bellezza, essa si modifichi d’at¬
timo in attimo, incessantemente in contrasto coi tempi.
Come l’altra volta, mi limiterò oggi, scegliendo i miei esempi,
al tema del rapporto dell’uomo con Dio.
Inoltre, il testo di questo scritto deriva, eccettuatane la sezione
sul Natale del 1833, da una conferenza più ampia, di cui si
conserva il manoscritto che non reca né titolo né data, unita¬
mente a quello di Dolore e poesia. Tale conferenza era stata te¬
nuta ad Assisi per una delle Settimane di Studi cristiani che si
tenevano annualmente nella città umbra, e non è improbabile
che sia precedente anche a Difficoltà della poesia. In foco l’amor
mi mise, infatti, e il passo su Pascal sono già presenti nella
« lezione » Sete di Cristo, tenuta ad Assisi nel 1946 per il quar¬
to corso di Studi cristiani, e pubblicata ne « Il Simbolo », voi.
IV, Pro Civitate Christiana, 1947, pp. 29-38.
Le numerose letture « religiose » che U. tenne fra il ’46 e il ’56,
se da una parte confermano e verificano l’ispirazione del Dolore,
1010 Note

non si sottraggono comunque all’impressione, che se ne trae mal¬


grado il loro tono spietatamente devoto, raramente interrotto da
un lampo d’ironia, ch’egli vi si adattasse per compiacere amici e
conoscenti del mondo cattolico. In testa a quella redazione più
ampia, e sicuramente più antica, del testo che diverrà poi Do¬
lore e poesia, si trova per esempio aggiuhta a penna da U., con
un inchiostro diverso, questa premessa:
La lettura di stasera è la ripetizione d'una lettura fatta ad Assisi
lo scorso anno, in occasione della Settimana di Studi cristiani.
Forse essa conserva l’attualità che aveva in quell’occasione. Ho
creduto di aderire alle premure che mi venivano rivolte dalla
Messa degli Artisti e dalla FUCI. Certo, in ogni caso, il tema è
d’attualità perenne.
Sono letture, si diceva, che risentono ancora intensamente del
clima di disperazione morale da cui nasce la tensione al divino
del Dolore-, ma già con una manifesta rettorica della « notte
oscura », della « notte >1, del « crollo », del « grido » in cui il
poeta si sente vivere, e che è con evidenza l’unico tipo di
reazione ideologica e politica che U. sa esprimere a quell’epoca
nei riguardi della « rovina » operata dentro la società dalla « fol¬
lia » della guerra: epifania di « visioni orrende ». Si leggano, ec¬
co, le prime due e le ultime due pagine, tutte inedite, di quella
conferenza più antica già citata. Che iniziava:

Ho udito dire che oggi la poesia del Cristo è morta. La furia


che serpeggia dalla storia, dall’animalità, dalla materia, sarà dun¬
que diventata più forte del fuoco da Lui recato sulla terra? [Il
Cristo ungarettiano ha sempre questa forte componente figurale
prometeica.]
Se persino la morte gli uomini sconsacrano, sarà dunque segno
che quel fuoco non brucia oramai più?
Tutte le cose del mondo, e la vita nostra, sono precarie, e sem¬
pre lo furono, e inoltre sempre la malizia ha imbavagliato e reso
inerme — reso inerme almeno fisicamente - e offeso senza pietà
chi, ergendosi con i diritti della sua anima redenta, le opponeva
contrasto. Per tentare di ledere la libertà di fede di ciascuna per¬
sona umana, Caino è tuttora operante; ma dai tempi della Pas¬
sione e della Crocifissione, il suo orgoglio si tinge sempre più
d’ipocrisia, sempre più i suoi mezzi di odio inventano inganni,
blandizie e calunnie, e sfacciate giustificazioni machiavelliche: an¬
cora la dissennatezza dei decristianizzatori — e anzi in questo
secolo più che mai - fa passare per umane se non addirittura
per sante, la minaccia di morte e la tortura di morte: le intimi-
dazioni del terrore, la tirannia.
Stiamo dunque per dimenticare del tutto che la vita si scioglie
dalla morte per confermare il privilegio e la responsabilità di eia-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1011

scuna anima nel\ suo libero definirsi drammatico secondo i pro¬


pri atti terreni, e che è, per conseguenza, il più grave sacrilegio
pretendere di calpestare la dignità di ciascuna persona usurpan¬
te l’autonomia, pretendendo di violare il segreto sul quale uni¬
camente a Dio è riservato di pronunziare sentenza?
L’uomo sta per dimenticare del tutto se stesso? Ci ostineremo
a volere dimenticare del tutto che il Cristo ha vinto la morte
con la morte per diffondere tra gli uomini la legge della mise¬
ricordia e del perdono? Quella legge che dovrebbe portare gl'in¬
dividui — e gli Stati - a cercare di capirsi reciprocamente, a
tendersi le braccia, a rispettarsi, a volersi bene. E invece, avven¬
tati uno contro l’altro, non sapremo più se non divincolarci nel¬
l’intolleranza e nella prepotenza?
E così concludeva, quella conferenza:

E di questo Ventesimo secolo, che cosa ne diremo? Di questo


secolo nostro tutto intriso di lacrime e di sangue. La violenza
dei lupi è oggi cresciuta smisuratamente, e si sa. Oggi sembra
che il mondo si sviluppi sempre più come se l’uomo non avesse
più anima, e si sa.
In questi tempi astratti, rigidi, sadici, dove le dimensioni delle
geometrie si moltiplicano all’infinito, ma il sorriso d’un bimbo
non ferma lo scarico delle bombe dall’aereoplano, - in questi
tempi dove sembra che l’uomo abbia smarrito l'anima, trasposto
e dominato nell’orrore dei suoi mezzi', nel braccio secco della
macchina, negli occhi ciechi della macchina, nella sordità della
macchina, nella lingua legata, nel sapore d’inferno della macchi¬
na — in questi tempi è morta la poesia del Cristo?
Potreste leggere sui giornali, la notizia, difatti, di somma conso¬
lazione, che quest’èra nostra, è l’èra dei « cervelli elettronici »
e che « persino » - vedete, oggi un’èra non dura tre secondi! —
« e che persino è già superata l’èra degli ordigni a reazione »,
bestioline davvero innocue, poverine, in confronto « delle armi
a razzo » - e munite di cervello, sissignori! - armi « tanto mici¬
diali » - dice la notizia - « che soltanto un pazzo potrebbe ordi¬
narle » - e si ordinano. L’uomo non dispone dunque più se non
di ironia?
Non è più l’uomo che un ingranaggio, una ruota, una puleggia,
una vite, e forse meno, una molecoluzza di materia, non valendo
più la sua vita se non secondo quel materiale rendimento che le
statistiche specificheranno? Della persona umana, una forza bruta
potrà dunque fare presto dovunque ciò che vorrà, violargli la
casa, tenerla sotto un occulto processo? M.a non ha vinto il Cri¬
sto la morte con la morte? Questi nostri tempi s’avviano dun¬
que a diventare presto i tempi in cui verrà tolto definitivamente
1012 Note

e ovunque all’anima il diritto a quel segreto sul quale solo alla


giustizia di Dio, spetta nella sua onniscienza, di decretare?
In questi nostri tempi, la poesia del Cristo è dunque morta?
Non può mai morire la poesia del Cristo. Riapriamo il Vangelo:
« Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo ».

1 La traduzione del sonetto presenta qualche variante rispetto


a quella apparsa in Da Góngora e da Mallarmé, Mondadori, Mi¬
lano 1948, p. 49.
2 Lauda XC, Amor de caritate, vv. 272-290.
3 Lauda LXVIII.
4 Lauda XCIII, Donna de paradiso, vv. 57-63.
5 Lauda LXXVII, O amore muto, vv. 1-14.
6 Lauda LXXV, Fugo la croce, vv. 1-6.
7 Fratelli, in L'Allegria.
8 La preghiera, in Sentimento del Tempo.
9 Defunti su montagne, in II Dolore.

p. 792
DIFFICOLTÀ DELLA POESIA È un testo formatosi per suc¬
cessive elaborazioni ed accumulazioni nel giro d’una decina d’an¬
ni, e la cui redazione finale è inedita in italiano, mentre venne
inclusa, nella traduzione francese di Jaccottet, in Innocence et
mémoire (pp. 298-318), col titolo La crise de la poesie moderne.
Il nucleo originario del saggio è costituito dalle 3 parti di uno
scritto apparso in due puntate, col titolo unico Difficoltà della
poesia, nell’« Approdo » (anno I, n. 1, gennaio-marzo 1952, pp.
9-12, le parti I e II; e anno I, n. 2, aprile-giugno 1952, pp. 31-
34, la parte III. Delle tre parti, la prima svolge più direttamente
il tema proposto dal titolo, la seconda è una discussione del
Natale del 1833 di Manzoni, mentre la terza amplia il tema
del rapporto uomo-Dio proposto dal Natale del ’33, prendendo
in esame testi poetici di S. Francesco, Iacopone e S. Bernardo).
Le parti I e II vennero riprese, con poche modificazioni, nella
conferenza Riflessioni sulla difficoltà d’intendimento della poesia,
tenuta a Milano il 2 ottobre 1957 per inaugurare i Corsi di
Cultura per Adulti dell’Unione « Coscienza », e il cui testo ven¬
ne dall’Unione stessa stampato in una plaquette fuori commer¬
cio. Le parti II e III erano state inserite l’anno precedente
nella conferenza Dolore e poesia tenuta all’Angelicum di Roma
(vedi in proposito p. 1009).
Il testo della conferenza di Milano del 1957, che costituisce so¬
stanzialmente l’ossatura di questo saggio, venne ampliato poi nel
1963, quando U. pensò di utilizzarlo per un’altra conferenza,
che non ricordo se egli tenne poi o meno. Il testo stampato dal-
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l’Unione « Coscienza » dev’essere stato trascritto da un nastro


magnetico, talmente è zeppo di errori, a cominciare dal titolo
(Riflessione anziché Riflessioni). U. comunque recuperò nel ’63
il manoscritto originale del saggio, che aveva donato a Luigi
Rognoni (esso reca infatti in cima la dedica « Al caro Luigi Ro¬
gnoni / queste chiacchiere frettolose / Ungaretti / con gli au¬
guri d’ogni bene / Roma, il 23.XII. 1957 »), e sulla base di tale
manoscritto stese poi la redazione definitiva del ’63, che diffe¬
risce da quella del ’57, notevolmente, soprattutto nella parte fi¬
nale.
Durante la fase preparatoria di Innocence et mémoire, U. ave¬
va provvisoriamente scelto come titolo dello scritto Sulla dif¬
ficoltà d’intendimento della poesia, non volendo ripetere sem¬
plicemente quello del ’52, e abbreviando quello del ’57. Ma nean¬
che questo titolo deve averlo soddisfatto, se, come s’è detto, ne
preferì poi uno diverso per la versione francese. Qui, si è adot¬
tato invece il primo titolo, quello dell’« Approdo », perché ci
è sembrato ancora il meglio rispondente alla tematica del saggio.
A proposito della conferenza di Milano, va ricordato che, una
settimana dopo, U. ne riprese parte del testo nella prolusione
all’Incontro tra poeti italiani e sovietici ch’ebbe luogo a Roma
1*8 ottobre 1957, prolusione pubblicata poi nella « Fiera Let¬
teraria » del 20 ottobre 1957, col titolo A proposito di crisi
del linguaggio / Uno scrittore, un poeta, è sempre impegnato. Per
l’esattezza, le parti in questione sono quelle da « Alcuni anni fa,
e precisamente nel 1950 » a « e che ritengo possegga la poesia,
la vera »; poi, da « Le mie convinzioni rimangono dunque quel¬
le che sono sempre state » a « alla storia intesa biologicamen¬
te »; quindi all’incirca le pagine che vanno da « È errore par¬
lare di Decadentismo riferendosi all’arte d’oggi » alla fine, ma
soppressivi tutti i passi riferentisi a Leopardi. Vedi il testo di
tale prolusione, pp. 829-834 del presente volume.
1 Vedi AA.W., Confessioni di scrittori (Interviste con se stes¬
si), Edizioni Radio Italiana, Torino 1951, p. 98.
2 U. riprende qui e sviluppa l’esame del linguaggio dell’Infinito
già svolto nel Secondo discorso su Leopardi.
3 Introducendo nell’ottobre del 1965, a Roma, i lavori del con¬
vegno sulle Avanguardie promosso dalla Comunità Europea degli
Scrittori, di cui era presidente, U. portava ancora oltre questa
tesi (cito dal testo dattiloscritto del suo intervento):
M'era capitato sotto gli occhi l’altra notte qualche passo di So¬
focle nell’Antigone/ dice Sofocle: « Molti sono i prodigi, e nes¬
suno più prodigioso dell’uomo... E il linguaggio, e il pensiero
rapido come il vento, e gli umori che appartengono al suo stato,
egli a se stesso li ha insegnati;... invero, escogitando risorse per
1014 Note

tutto, non affronta privo di risorse nulla di ciò che deve avve¬
nire; ma contro la morte, invano chiede aiuto ».
Quest’acino è stato proposto ai nostri dibattiti per tema: « Il
carattere e lo sviluppo delle avanguardie nelle lettere europee
contemporanee ». Non mi spetta, né intendo, né saprei antici¬
pare le conclusioni alle quali si giun’gerà. Ma, riflettendo a
quelle frasi citate dell’Antigone, mi tornava a mente che l'uo¬
mo, per illudersi d’essere immortale, aveva a disposizione, e lo
sapeva bene Sofocle, la parola della poesia e la sopravvivenza
che il succedersi delle generazioni assicura. Sono pensieri che
stupendamente svolge Shakespeare nei suoi Sonetti. Mi pongo
questa domanda: Esiste ancora la possibilità d’un linguaggio di
poesia? Oggi il terrtpo è divenuto tanto veloce che pare non esi¬
sta più possibilità di rapporto tra tempo e spazio, che pare non
esista più durata, cioè non esista più possibilità di contempla¬
zione e, per conseguenza, di espressione di poesia.
Non esiste più possibilità alla contemplazione umana di conce¬
dersi una durata? di concedere alla poesia l’atto di trovare un’e¬
spressione duratura? È diventato atto disperato ciò che oggi si
chiama poesia? Non può andare avanti se non per disintegra¬
zione e denigrazione della parola ciò che si chiama oggi poesia
scritta? se non cambiando d’attimo in attimo modi che diver¬
ranno passato e cadranno nell’oblio in meno d’un battere d’oc¬
chio? La natura, già se ne lamentava Essenin, d’attimo in attimo
scompare. L’uomo davanti ai mezzi automatici, capitola, anch’e¬
gli diventa pupazzo da fantascienza, si destituisce.
4 La conferenza del ’57 presentava un periodo finale in più, ri¬
spetto al testo definitivo del ’63:

Così, tra gli artisti d'oggi, sono arrivati a snodare qualche vol¬
ta canti tragici e puri Valéry e Mahler, Braque e Kandinsky, e
alcuni contemporanei pittori e poeti e musicisti di casa nostra.
Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che
la sorte di tutti.

p. 815
UNGARETTI COMMENTA UNGARETTI In « La Fiera Let¬
teraria », Roma, a. XVIII, n. 37, 15 settembre 1963, pp. 1-2 e
a. XVIII, n. 38, 22 settembre 1963, pp. 1-2. Questo commento
di U. alle proprie poesie dell 'Allegria e del Sentimento del
Tempo era stato dettato al magnetofono dall’autore per una se¬
rie di radiotrasmissioni dal titolo « Ungaretti letto e commen¬
tato da Ungaretti », che andarono in onda a cura di Elio Filippo
Accrocca e Furio Sampoli nella primavera-estate del 1963. La
« Fiera » lo pubblicò, per concessione della Radio Italiana, in
due puntate nel -settembre dello stesso anno. Il titolo e i sot-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1015

totitoli, che si sono messi tra parentesi quadre, sono forse reda¬
zionali. U. utilizzò solo in minima parte questo autocommento
nelle Note da lui stese per l’edizione definitiva di tutte le sue
poesie: vedi Vita d’un uomo / Tutte le poesie, Mondadori,
1969, pp. 497-542.
Poiché di questo commento non s’è trovato il manoscritto, e il
testo della « Fiera » è in qualche punto incompleto, si è do¬
vuto in tali punti emendarlo, e le correzioni si sono poste tra
parentesi quadre.

1 Quest’ultimo paragrafo e la seconda parte di quello prece¬


dente, riprendono un passo di Costanza del canto nella poesia
italiana, del 1935 (vedi p. 274).

p. 829
A PROPOSITO DI CRISI DEL LINGUAGGIO (Prolusione
'all’Incontro tra poeti italiani e sovietici) In « La Fiera Lette¬
raria », Roma, 20 ottobre 1957. Questo discorso venne letto in
occasione di un Incontro tra poeti italiani e sovietici, organizza¬
to dalla Associazione Italia-URSS e svoltosi a Roma, l’8 otto¬
bre 1957. Sulla « Fiera Letteraria » venne pubblicato col titolo
A proposito di crisi del linguaggio / Uno scrittore, un poeta
è sempre impegnato, titolo che, pure riproducendo un’espressio¬
ne del testo, è, come molti di quelli della « Fiera », impro¬
babilmente dell’autore. Un ciclostilato rinvenuto tra le car¬
te del poeta, e che deve essere stato distribuito durante i la¬
vori dell’Incontro, reca il titolo Prolusione di Giuseppe Un¬
garetti all’« Incontro tra poeti italiani e sovietici ». Solo l’oc¬
chiello, nella « Fiera », ha qualche possibilità di risalire a U.
Sulla « Fiera Letteraria » del successivo 10 novembre, poi, sotto
il titolo Incontri e scontri di Ungaretti, veniva pubblicata una
lettera dell’autore al Direttore che indicava numerosi errori nel
testo stampato del discorso, errori che sulla scorta di tale let¬
tera si sono qui corretti.
In questo testo, per una sua buona metà, U. utilizzò alcune pa¬
gine del discorso Riflessioni sulla difficoltà d’intendimento della
poesia, che aveva letto a Milano una settimana prima, appor¬
tandovi qua e là delle variazioni. Le pagine in questione sono
le prime due, da « Alcuni anni fa, e precisamente nel 1950 » a
« e che ritengo possegga la poesia, la vera »; poi, .più avanti, il
brano da « Le mie convinzioni rimangono dunque quelle che
sono sempre state » a « alla storia intesa biologicamente »; quin¬
di parte delle ultime pagine, all’incirca da « È errore parlare di
Decadentismo riferendosi all’arte d’oggi » alla fine, ma soppres¬
sivi tutti i passi riferentisi a Leopardi.
1 Nel suo Traduzioni, Edizioni di Novissima, Roma 1936, in cui
1016 Note

le due poesie di Essenin tradotte vennero raccolte, U. così affer¬


mava a loro proposito nella Nota preposta ai testi:
Volli fare la traduzione delle Due poesie di 'Essenin per conosce¬
re il motivo della riluttanza opposta dalle masse rurali russe al
regime sovietico. In realtà quella traduzione è dovuta principal¬
mente ai miei amici Maria Miloslawsky ’e Franz Hellens. Hellens
visse a lungo col poeta russo nel '22 a Parigi ed ebbe da lui
preziose indicazioni a voce sulla sua arte. Maria Miloslawsky e
Hellens mi procurarono una traduzione letteralmente perfetta
sulla quale ho lavorato. La prima di queste poesie tradotte fu
pubblicata sulla « Gazzetta del Popolo » nel '33, la seconda,
nello stesso anno sulla « Cabala ».
2 Vedi l’intervista radiofonica Sulla poesia, p. 768. La cita¬
zione del brano, qui e in Riflessioni sulla difficoltà d’intendi¬
mento della poesia, mostra qualche modificazione del testo ri¬
spetto a quello del ’50.

p. 835
INTERVISTA CON F. CAMON In II mestiere dì poeta, Au¬
toritratti critici a cura di Ferdinando Camon, • Lerici, Milano
1965, pp. 23-30. L’intervista ebbe luogo a Venezia nel gennaio
1965.
1 U. qui è stato tradito dalla memoria. Lo scritto citato da Ca¬
mon, Vecchie carte / Bei libri di guerra, pubblicato nell’« Ap¬
prodo » del gennaio-marzo 1958, è un vecchio articolo del ’30
inedito, riesumato nel ’58 appunto, e la guerra di cui vi si
parla, è la prima e non la seconda guerra mondiale.
2 Nel dattiloscritto definitivo dell’intervista, di cui si conserva
copia tra le carte di U., figurava a questo punto la seguente
domanda-e-risposta, che non appare nel volume:
Camon Barante la guerra, lei non fu fatto ufficiale. Come
mai?
Ungaretti Sono stato allievo ufficiale, a Campolongo. Non avevo
né desiderio né intenzione di fare l’ufficiale, ma sono stato man¬
dato d’autorità al corso; e alla fine del corso sono stato riman¬
dato al Reggimento perché inetto al comando.
3 Vedi Su «Udii una voce» di B.M. Turoldo, p. 772 del pre¬
sente volume.

p. 842
DELLE PAROLE ESTRANEE E DEL SOGNO D’UN UNI¬
VERSO DI MICHAUX E FORSE ANCHE MIO Questo te¬
sto fu scritto per il numero dei « Cahiers de l’Herne » dedi¬
cato a Michaux (« Les Cahiers de l’Herne», 8, Henri Michaux,
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1017

1966), dove apparve, nella traduzione di Jaccottet (pp. 45-46),


col titolo Réflexions sur le vide de la parole et sur Vunivers
révé par Michaux, et peut-ètre par moi. Venne poi incluso in
Innocence et mémoire, col nuovo titolo La parole et le vide
(A Henri Michaux).
Da due numeri della rivista « Confluences », il 20 (juin 1943)
e il 27 (décembre 1943), U. aveva tradotto due testi di Michaux,
rispettivamente Lece Homo e La lettre, pubblicando poi quelle
traduzioni in « Prosa », Quaderni internazionali a cura di Gian¬
na Manzini, n. 1, 1945, pp. 136-139, col titolo Parole di Henri
Michaux: «La lettera», «Ecce Homo».

Cultura
p. 847
MISSIONE DEL LETTERATO In Dopo il diluvio, Somma¬
rio dell’Italia contemporanea, a cura di Dino Terra, Garzanti,
Milano 1947, pp. 3-11. Lo scritto di U, è il primo dei 32 saggi
di scrittori italiani che costituiscono il volume antologico. Ven¬
ne incluso in Innocence et mémoire, a chiusura e in certo mo¬
do a sigillo del volume, col titolo Mission de l’écrivain.
In più punti cambiato qua e là, talvolta sensibilmente, nella ve¬
ste formale, e con la sostituzione di due brani, come si speci¬
ficherà nelle note 1) e 3), esso venne poi letto al Secondo Con¬
vegno internazionale per la Civiltà e la Pace cristiana, a Fi¬
renze, nel giugno del 1953, e pubblicato, col titolo Responsa¬
bilità del poeta, nel volume Preghiera e Poesia, Atti del II
Convegno internazionale per la Civiltà e la Pace cristiana, Ci¬
viltà e Pace, Firenze 1954, pp. 79-86. Nella « Relazione » fio¬
rentina, era inoltre aggiunto un periodo di esordio:
Ciò che dirò non ha peso se non come testimonianza della mia
esperienza, lunga esperienza, d’uomo e d'artista.
Tale relazione venne anche pubblicata, col titolo II poeta e la
sorte dell’uomo, in « Giovedì » del 2 luglio 1953, pp. 1 e 5.
Nel testo qui dato, s’è tenuto conto di alcune correzioni por¬
tate dall’autore su copie dattiloscritte delle due redazioni del
saggio posteriori alle stampe.
1 In Responsabilità del poeta, tutto il passo successivo, fino
alla fine del paragrafo (da « Un libro che scorrevo l’altra se¬
ra » a « quanto più l’umano essere alle altre la accomuni », cioè)
è sostituito dal seguente (in cui tra l’altro U. si rifà a letture
più recenti):
Anche Dante la pensava così, e nel suo trattato Monarchia
1018 Note

annotava che come il lavoro degli Antichi ci ha arricchiti delle


verità che le opere che essi ci hanno legato contengono, così è
giusto 'che ciascuno di noi lavori per legare alla posterità opere
nuove.
Al riguardo voglio registrare un’osservatone sentita fare a pro¬
posito dei Classici da un acuto uomo: « Quando uno scrittore
verrà considerato dai posteri come un classico vero, si scoprirà
che il suo stile reca in sé una certa oscurità. Ciò avverrà per¬
ché .il vero classico dice le cose con proprietà di lingua, e cia¬
scuna un'unica volta, e gli è, persino a se stesso, inimitabile l’o¬
pera sua. Gli altri artisti invece, anche se portati alle stelle dai
loro contemporanei, ripetono sempre le medesime cose, e le
vanno ripetendo perché non le sanno dire se non con improprietà
e il loro successo è dovuto al fatto che sono da chiunque imi¬
tabili ».
L'opera vera di poesia è quella che è arrivata in sé a distrug¬
gere il più possibile Iti parte della scimmia o del pappagallo o
del robot. La poesia è viva in ogni anima, e possono essere an¬
che labbra di un semplice ad esprimerla. Ma il sentirla e l’e¬
sprimerla sono due cose distinte, almeno l'esprimerla in modo
che risulti, serbando l’originalità d’impronta di chi l’esprime,
degna di qualche durata esemplare.
Il vivente segreto della natura tanto più diversifica dalle altre
ciascuna persona umana quanto più alle altre l’umano essere la
accomuni. Perché dunque stupirsi che nell’opera duratura di poe¬
sia l’umanità si manifesta conservando tracce di quel mistero
che è la sostanza stessa della poesia?
Un libro di Gilson che leggevo in questi giorni, Les méta-
morphose de la cité de Dieu, cita un parere dì Leibniz, e lo
cito a mia volta: « Non può esserci società senza amicizia, e non
può esserci amicizia senza anime; non può esserci amicizia e so¬
cietà se non di persone, che solo hanno un’anima; gli Stati non
ne hanno ».
Ecco ciò che soprattutto afferma l’opera di poesia, il valore uni¬
co e sacro di ciascuna persona umana.
2 Questo periodo è aggiunto a penna da' U. su un dattiloscritto
precedente la stampa, ma la correzione è chiaramente posteriore
alla stampa stessa (fra l’altro è in inchiostro verde, mentre le
correzioni che precedono la pubblicazione sono in inchiostro ne¬
ro), e pare alludere al famoso pan pascaliano, discusso nel Se¬
condo discorso su Leopardi (vedi p. 482).
3 Questo paragrafo finale (dopo « umanità pura? »), è sostituito
dal seguente, in Responsabilità del poeta:
Dante era un poeta e non un filosofo né un teologo, e, a diffe¬
renza del Leibniz che si citava, era portato a sognare, nell’azio-
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1019

ne di bene per le terrene funzioni, universale e autonomo lo


Stato, era portato a sognare la pace assicurata nel mondo dalla
politica. Diceva però: A prezzo di umiltà verrà assicurata, assi¬
curata da gente che finalmente non brami terra né ricchezza,

ma sapienza, amore e virtute.

Si può ottenere nel mondo umiltà tanto sovrumana, tanta sag¬


gezza? Era generoso sognarlo: è necessario che tanto bene la
buona volontà di ciascuna persona si dedichi a conseguire. Ri¬
peto: la buona volontà di ciascuna persona, poiché, e meglio che
per chiunque altro, per Dante, l’abilitazione al bene non può
operarsi se non in ciascuna persona, nell’anima.

Come uomo cristiano so che della vita siamo depositari e non


arbitri e che nessun uomo ha il diritto di seviziare, di terro¬
rizzare, di uccidere il suo simile. Come uomo civile so che se
ci fosse un’altra guerra forse non rimarrebbe ritta una scheggia
di Firenze, né dell'Italia mia patria. Di opere di un sublime
slancio, di un complesso di opere tra le più belle innalzate da
umane nazioni verso il Divino Spirito, forse non rimarrebbe
nemmeno l’ombra del ricordo.
E prevedibile purtroppo che dal mondo non verrà sempre se
non odio moltiplicatore di odio.
Di certo sappiamo soltanto che in ciascuna persona, nell’anima,
arde la poesia: « Sarò con voi a soffrire » ha promesso il Cro¬
cifisso « sino alla consumazione dei secoli ». Nel fuoco d’amore
che nelle anime Egli ha acceso, è l’unica speranza. Qualcuno ne
sente l’ardore e, con la parola ispirata, sa farlo ad altri sen¬
tire.
C’è da aggiungere che la seconda metà del discorso fiorentino,
Responsabilità del poeta, quella che recava le varianti più im¬
portanti rispetto a Missione del letterato, cioè, era stata pubbli¬
cata poco dopo ch’esso fu pronunciato, con la sola omissione
del passo che va da « Dante era un poeta e non un filosofo »
a « se non in ciascuna persona, nell’anima » e col diverso ti¬
tolo La responsabilità dell’artista, nella « Fiera Letteraria » del
19 luglio 1953.

p. 855
L’ARTISTA NELLA SOCIETÀ MODERNA In « Aut Aut »,
Milano, n. 11, settembre 1952, pp. 381-390. Il testo stampato
dall’UNESCO, su un foglio volante di quattro pagine, in occa¬
sione della Conferenza veneziana del ’52, e ripreso in « Aut
Aut », iniziava con alcuni paragrafi, da U. soppressi su un dat¬
tiloscritto del discorso durante la preparazione del presente vo¬
lume, che dicevano:
1020 Note

Sono il primo Artista che ha qui l’onore di prendere la parola.


È privilegio che il Comitato ordinatore mi conferisce per accen¬
tuare, poiché sono Italiano, quel significato di affetto verso la
mia Patria che intende avere la scelta di Venezia a sede- della
nostra prima Conferenza. '
Ringrazio il Comitato dell’onore e dò a tutti il benvenuto cor¬
diale degli Artisti italiani.
Siamo qui convenuti, Artisti di tante provenienze, di tante tra¬
dizioni e di tante mire diverse, e ciò che ci ha adunati e ci
unisce è che, in tanta diversità, sappiamo tutti che un unico e
medesimo segreto di poesia mosse, muove e muoverà sempre
l’arte.
Col titolo Significato dell'arte d’oggi il discorso venne ripro¬
dotto anche ne « Il Popolo » del 24 settembre 1952, p. 3, men¬
tre una parte di esso, e precisamente da « Certo noi sappiamo
che il linguaggio mediante il quale l’uomo tenta di afferrare la
poesia » a « e suggerito da sé i modi dell’arte per svelarne
l’orrore », venne pubblicata nella « Fiera Letteraria » del 5 otto¬
bre 1952, p. 4, con un occhiello. Un poeta di fronte alla mis¬
sione dell’arte, e un titolo, La libertà è indivisibile, ch’è un’e¬
spressione tolta di peso dal testo, quasi certamente redazionali.
1 Sul dattiloscritto già citato, U. aggiunse qui nel ’67 « un Ro¬
sai, un Fautrier, un Burri, un Guttuso ».

p. 847
[ INTERVENTION A LA Ie RENCONTRE EST-OUEST] In
« Comprendre », Venezia, numéro 16, Septembre 1956, p. 258.
L’incontro tra scrittori occidentali e sovietici, organizzato dalla
Società Europea di Cultura, ebbe luogo a Venezia dal 25 al 31
marzo 1956. U. pronunciò il suo intervento nella 5a seduta della
Rencontre, il 28 marzo.

p. 870
L’AMBIZIONE DELL’AVANGUARDIA In «Il Verri», Mi¬
lano, a. Vili, n. 10, ottobre 1963, pp. 42-45. Ad eccezione del
paragrafo finale, questo testo riproduce sostanzialmente la Let¬
tera a Leonardo Sinisgalli apparsa ad apertura del primo nu¬
mero di «Civiltà delle Macchine», nel gennaio 1953. Poche e
poco rilevanti le varianti. La Lettera iniziava con le parole:
« Caro Sinisgalli, mi chiedi quali riflessioni mi vengono sugge¬
rite dal progresso moderno, irrefrenabile, della macchina. Tocca
esso l’arte del poeta? È implicita in esso un’ispirazione poetica?
Ho detto una volta... », e proseguiva quindi come nello scritto
del « Verri ». Il quale stava a rappresentare l’intervento di U.
alla discussione sul tema « Avanguardia e impegno » promossa
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1021

dalla rivista diretta da L. Anceschi, e a cui parteciparono fra


gli altri R. Barilli, U. Eco, G. Devoto, A. Giuliani, R. Assun¬
to, G. Dorfles, E. Battisti, A. Porta.

1 Vedi Naufragio senza fine, pp. 264-65.


2 La Lettera in « Civiltà delle Macchine » proseguiva a questo
punto:

E non dico ciò solo per alludere a sistemi come il fordismo,


che le esigenze della lavorazione meccanica impongono, e che
riducono l’uomo a un automa: mi si potrebbe rispondere che,
quantunque ora sia tirannica, la macchina sostituirà sempre più
la parte automatica dell’operaio.
3 Quest’ultimo paragrafo, s’è detto, è l’unico nuovo rispetto al
testo del ’53.
Il manoscritto del testo del « Verri », reca inoltre un post
scriptum che non apparve nella rivista, avendo il poeta deciso
alla fine di rinunciarvi, ma che si riproduce qui di seguito a
titolo documentario:

P.S. Per il senso preciso nel quale va inteso ciò che dico del¬
l’Avanguardia, riporto da un mio intervento alla TV (27.4.1963) :
« Capisco le difficoltà di fronte alle quali si trova un artista:
l’arte non è uno strumento di precisione come quello fondato
sui calcoli, che pure l’arte deve emulare poiché, alla percezione
dei sensi, va incessantemente trasformando mondo e società; ca¬
pisco che il compito dell’artista d’oggi non è compito facile
e ch’egli possa trovare anche chi l’accusi di non essere un uomo
che tenga conto della vocazione umana dell’artista. Quando io
guardo Guernica di Picasso e vedo il toro che si avventa, mo¬
strando ora qua ora là nei fori della rete, il muso stralunato,
l’occhio orrendo, e vedo nelle stesse maglie poi affacciarsi l’uo¬
mo sereno che aspetta sereno il mostro per affermare l’umana
libertà, sempre alla fine vittorioso, questi effetti anche se sono
raggiunti con mezzi non accademici, so che sono dovuti a una
grande conquista umana. Quando io guardo gli Otages di Fau-
trier, e sono le pitture dove si vede Come durava fatica a spez¬
zare le sue catene la passione di libertà della Resistenza, so che
il pittore ha compiuto opera umana in modo stupendo. Quando
io guardo un quadro di Burri e vedo che, ritornato dai campi
di concentramento nazisti, egli mostra come un bubbone che si
vuota, la fantasia di quei carnefici, e mostra il sangue e il fuoco
che furono il prezzo della libertà, come un’eruzione imposta da
un disumano cratere, io sento che Burri è profondamente umano.
In realtà Burri era tornato da un campo di prigionia ameri¬
cano, ma questa unicità di senso della lettura ungarettiana (arte/
libertà) in Picasso, Fautrier e Burri, attesta quanto fosse indi-
1022 Note

spensabile per lui verificare un risvolto morale nell’arte « infor¬


male » degli anni Cinquanta con cui veniva solidarizzando.
%

p. 874
LA CULTURA NEL TEMPO In « Civiltà delle macchine »,
Roma, a. . XI, n. 6, novembre-dicembre 1963, pp.- 17-18. Lo
scritto di « Civiltà delle macchine » venne più tardi ripubbli¬
cato senza cambiamenti, e con lo stesso titolo, in « Homo », a.
Vili, n. 4, aprile 1967, pp. 15-17. Il nostro testo tiene comun¬
que conto di alcune aggiunte ad esso apportate dall’autore in
un dattiloscritto del 1966. I brani aggiunti -nel ’66 sono posti
tra parentesi quadre.
Il dattiloscritto del ’66, che recava il titolo Industria e cultura,
era stato preparato per essere letto a una tavola rotonda pro¬
mossa da « Civiltà delle macchine » per il 30° anniversario del-
l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, sostenitore fi¬
nanziario della rivista, da tempo passata dalla direzione di Leo¬
nardo Sinisgalli a quella di Francesco d’Arcais; ma venne poi
forse sostituito all’ultimo momento da un altro discorso, per¬
ché tra le carte di U. si trova un ulteriore dattiloscritto, con
il medesimo titolo e anch’esso del ’66, anch’esso preparato per
la stessa occasione, e non ricavato da uno specifico scritto
precedente, anche se molti dei temi in esso espressi si trovano
già in suoi scritti anteriori. Però neppure è da escludere che
proprio questo secondo scritto, che riproduciamo qui di seguito,
fosse quello in realtà destinato dapprima alla lettura, e che poi
U. avesse stabilito di riprendere in sua vece, ampliandolo, lo
scritto del ’63.

INDUSTRIA E CULTURA

Francesco d’Arcais, sopravvalutando la mia competenza, mi ha


chiesto in occasione del 30° anniversario dell’IRI, di esporre il
mio modo d'intendere il rapporto tra industria e cultura. Se
c’è chi benevolmente voglia ascoltarmi, ecco come modestamente
l’intendo.
Di momento in momento in questi nostri tempi tutto cambia
favolosamente. Dalla fine della guerra ad oggi, guardandosi in gi¬
ro, non riconoscerebbe più quasi nulla, uno che d’improvviso
tornasse a rivedere il mondo solo ora dopo gli anni atroci. In
questi ultimi venti anni i mezzi dell’uomo sono cresciuti infi¬
nitamente di più che in qualsiasi altro periodo della storia. In
tutti i campi della sua cultura, dalla cultura d’informazione a
quella rigorosamente scientifica di ricerca e di scoperta, l’uo¬
mo dipende da strumenti che di continuo perfeziona, rinnova,
va facendo più potenti e moltiplica.
Saggi e Scritti vari 1943-1970 1023

La nozione dì spazio e di tempo è mutata. Tutto si è tanto acce¬


lerato che non abbiamo quasi più la possibilità di misurare lo
spazio che ci fugge davanti. Il ritmo di questi nostri tempi è
così rapido che ci sembra non scorra più, non sìa più che il
presente; che ci sembra che l’umanità segni il passo sebbene
tanto avanzi l’estendersi delle sue cognizioni e la potenza dei
suoi mezzi materiali; che ci sembra che la prospettiva del pas¬
sato all’uomo si sia oscurata e non gli maturi più storia seb¬
bene nessun tempo sia stato più di questo gravido di eventi.
Dice uno dei pensieri di Blaise Pascal, un pensiero famoso,
proverbiale, che tutti ricorderanno: « Le silence éternel de ces
espaces infìnis m’efiraie ». Questo pensiero è da Leon Brunsch-
wigg così commentato: « Questo penetrante grido è d’uno scien¬
ziato e d’un Cristiano. Per il geometra l’universo offre l’imma¬
gine dell'infinito e dell’eterno, e così l’universo gli sembra par¬
tecipare degli attributi della divinità. Ma l’Iddio del Cristiano
è un essere morale, è sensibile al cuore. E l’universo del geo¬
metra, quell’universo infinito è muto, è destituito di qualsiasi
vita morale, non parla al cuore e non dà testimonianza di Dio.
Alla parola di Pascal conviene opporre - prosegue Brunschwigg
- il celebre pensiero di Kant che esprime il sentimento contra¬
rio, la soddisfazione dell’essere intelligente che capisce l’uni¬
verso e unisce il suo destino individuale alla sorte dell’intero
mondo uguagliati da quella rivelazione della legge morale che
innalza l’essere intelligente sino a Dio. Nella conclusione della
Critica della Ragion pratica, Kant dice infatti: "Due cose riem¬
piono l’animo d’un’ammirazione e d’un rispetto sempre rina¬
scenti e che più s’accrescono più vi torni il pensiero e maggior¬
mente vi si applichi: il cielo stellato su di noi, la legge morale
in noi" ».
Ai suoi tempi, il Leopardi parlava, pensando all’originaria ispi¬
razione della poesia, di spavento della bellezza. Oggi noi potrem¬
mo parlare, alludendo al nostro stato di gente vivente nella se¬
conda metà del Ventesimo secolo, di spavento della materia. La
materia, i suoi mezzi, lo dicevamo da principio, ì mezzi di sem¬
pre più paurosamente crescente potenza che il sapere dell’uomo
trae incessantemente dalla materia, ci soverchiano, fanno ogni
giorno più soverchiante la materia. Lo stesso infinito del geo¬
metra di Pascal, tenendo dietro alle dispute dei fisici odierni,
sarebbe scomparso, derivato com’era dalla determinazione della
realtà fisica in. quel quadro di uno spazio e di un tempo che
non per fisima esistevano una volta.
Se le misure dell’esterno universo che ha da stabilire il micro-
fisico, oppure il macrocosmologo, divengono tanto difficili, sem¬
pre più approssimative, sebbene nella loro precarietà paradossal¬
mente precise, in modo allucinante sempre più precise, e frut-
1024 Note

tino tanti materiali portenti, la legge morale, la legge dell’uni¬


verso dell’anima « sensibile al cuore » come sentiva Pascal, « in¬
tuibile dal pensiero » come pensava Kant, è l’unico fondamento,
rimane l'unico fondamento della verità, rimane Punica misura
della cultura poiché essa — costantemente^ superando le difficoltà,
le immani difficoltà che-, sempre maggiori, sempre più invadenti,
tentano di soffocare la libertà e la dignità della persona umana -
insorge per tutelarle, e le salva dal continuo pericolo mosso dal¬
lo stesso sapere dell’uomo fattosi nei suoi mezzi esterni quasi
più forte dell’uomo stesso.
Chi foggia i mezzi della cultura d’oggi, non dimostra di sapere
di esserne responsabile rinunciando a foggiarli, non si torna in¬
dietro, l’industria non potrebbe rinunciare à se stessa né ai
suoi progressi senza ormai paralizzare qualsiasi lavoro conce¬
pito dall’uomo per il suo sostentamento e il suo pratico avan¬
zamento, ma essa dimostra di volerne assumere la responsabilità
solo quando la punge coscienza che primo suo dovere, primo suo
compito è di aiutare ciascuno a dominare il proprio tempo tanto
che, pure riflettendo del proprio tempo gli aspetti terribili e
gli aridi, pure riflettendone la cultura e le polemiche che la cul¬
tura ingenera, ciascuno - negli slanci intimi del cuore, nell’essen¬
ziale affidarsi a un ritmo individuale dei propri tempi, nel dare
insomma incremento di sviluppo a quante attività siano, come
la poesia e il culto del sacro e di conseguenza l’arte, preroga¬
tive dell’uomo per salvaguardare i beni universali del perso¬
nale esistere - ciascuno si possa commisurare al tradizionale rit¬
mo, addietro possa risalire sino all’origine remotissima dell’u¬
mana voce, sino al punto che gli renda consueta nei fini la pre¬
senza della storia mentre essa va nel suo cerchio riflettendogli
i segni imperscrutabili dell'Eterno.
Avere luce nel cuore, è del resto, sempre stato arduo. Guai a
non volere sapere che non va nemmeno provato a spegnerla.

p. 880
[EN FACE D’UNE CRISE DE LANGAGE...] Questo testo è
tratto dalla fotocopia di un dattiloscritto senza titolo (quello
qui adottato è un’espressione tolta al testo), datato Paris, le 18
novèmbre 1966, e recante in margine la didascalia: '« Interven-
tion de M. Giuseppe Ungaretti, membre de la Délégation ita-
lienne, au sujet de la "Création artistique" (Section 3.33 du
projet de Programme de l’UNESCO pour 1967-1968) ».

Fa riferimento all’alluvione del 4 novembre 1966, che recò fra


l’altro danni enormi al patrimonio culturale e artistico della
città.
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DI G. UNGARETTI
a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay
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Nitti definisce l'impresa, di Fiume un « delitto » / Il caldo ap¬
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Idee e lettere della Francia d’oggi / L’uomo buio, « L Italia Let¬
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Idee e lettere della Francia d’oggi / Il passato di Lautreamont,
« L’Italia Letteraria », 27 aprile.
Idee e lettere della Francia d’oggi / Odore di bruciato, « L’Ita¬
lia Letteraria », 22 giugno.
La critica alla sbarra, « Gazzetta del Popolo », Torino, 31 di¬
cembre.

1931
Prefazione a: Aldo Capasso, Il passo del cigno ed altri poemi,
Buratti, Torino.
Il premio « Umberto Fracchia » a Bruno Barilli, « L’Italia Let¬
teraria », 18 gennaio.
Ora lo ricordo / In memoria di Umberto Fracchia, « L’Italia
Letteraria », Roma, 25 gennaio.
Borghesia, « Gazzetta del Popolo », Torino, 30 gennaio.
Cause della crisi moderna, « Gazzetta del Popolo », 28 febbraio.
Lo scrittore italiano, « Gazzetta del Popolo », 22 marzo.
Viaggio in Egitto / Per mare interno, « Gazzetta del Popolo »,
9 luglio.
Viaggio in Egitto / Una grande avventura, « Gazzetta del Po¬
polo », 11 luglio.
Viaggio in Egitto / La colonna romana, « Gazzetta del Popo¬
lo », 16 luglio.
Viaggio in Egitto / Pianto nella notte, « Gazzetta del Popolo »,
21 luglio.
Viaggio in Egitto / Rivalità di tre potenze, « Gazzetta del Po¬
polo », 1° agosto.
Notes et discussions f Histoire de Dada, « La Nouvelle Revue
Frangaise », Paris, 1“' Aout, p. 328.
Bibliografia 1035

Viaggio in Egitto / Il lavoro degli italiani, « Gazzetta del Po¬


polo », 6 agosto.
Viaggio in Egitto / Chiaro di luna, « Gazzetta del Popolo », 14
agosto.
Viaggio in Egitto / Il deserto, « Gazzetta del Popolo », 29 a-
gosto.
Viaggio in Egitto / La risata dello Dginn Rull, « Gazzetta del
Popolo », 12 settembre.
Viaggio in Egitto / Il povero nella città, « Gazzetta del Popo¬
lo », 24 settembre.
Un écrivain fiamand d’expression frangaise: Franz Hellens, « Ca-
hiers du Sud », Octobre, pp. 515-519.
Risposta alla Inchiesta mondiale sulla poesia, « Gazzetta del
Popolo », 21 ottobre.
Viaggio in Egitto / Il cotone e la crisi, « Gazzetta del Popolo »,
24 novembre.
Viaggio in Egitto / Giornata di fantasmi, « Gazzetta del Popo¬
lo », 3 dicembre.
Necrologio di Arnaldo Mussolini, « L’Italia Letteraria », Roma,
27 dicembre.

1932
Il premio « Fracchia » ad Aldo Capasso / Un giudizio di Unga¬
retti, « Gazzetta del Popolo », Torino, 13 gennaio.
Il lamento del castagno, « Gazzetta del Popolo », 16 gennaio.
Ritratto di un uomo di cuore: Pasquale Paoli, eroe Corso, « Gaz¬
zetta del Popolo », 28 gennaio.
Una giornata di neve, « Gazzetta del Popolo », 11 febbraio.
Non dimenticare!, « Gazzetta del Popolo », 26 febbraio.
A veglia con Torquato Tasso, « Gazzetta del Popolo », 11
marzo.
Lettera al Direttore [in risposta all’articolo La corte di Salomone
di Marco Ramperti nell’« Ambrosiano » dell’8.3.1932], « L’Ita¬
lia Letteraria », Roma, 10 aprile.
Elea e la primavera, « Gazzetta del Popolo », 12 aprile.
La pesca miracolosa, « Gazzetta del Popolo », 5 maggio.
La rosa di Pesto, « Gazzetta del Popolo », 14 maggio.
Il papiro della calma, « Gazzetta del Popolo », 26 maggio.
Vesuvio, « Gazzetta del Popolo », 2 giugno.
Mistero di Pompei, « Gazzetta del Popolo », 17 giugno.
Vecchia Napoli, I, « Gazzetta del Popolo », 3 luglio.
Popolo d’Italia in guerra, « Il Tevere », Roma, 8 luglio.
Il premio del Gondoliere / Intervista con A. Mezio, « Il Teve¬
re », 18 luglio.
Vecchia Napoli, II, « Gazzetta del Popolo », 19 luglio.
1036 Bibliografia

Introduzione a « Eupalino », « L’Italia Letteraria », Roma, 9


ottobre?
Viaggio nel paese dell’acqua / Il Polesine di Ferrara, « Gazzetta
del Popolo », 3 dicembre. f
Viaggio nel paese dell'acqua / Crescete e moltiplicate, « Gazzet¬
ta del Popolo », 20 dicembre.
Viaggio nel paese dell’acqua / La pesca delle anguille, « Gazzet¬
ta del Popolo », 29 dicembre.

1933
Vita di Arnaldo, « L’Italia Letteraria », Roma, 1° gennaio.
Da Pomposa a Ferrara, « Gazzetta del Popolo », Torino, 29 gen¬
naio.
Maria Signorelli, nel catalogo della mostra di Milena Barilli, A-
driana Pincherle e Maria Signorelli, Sala della Nazione, Firenze
[Buona parte del testo scritto da U. per la Signorelli è ripor¬
tata nella recensione Mostra Barilli-Pincherle-Signorelli, « Il Te¬
vere », Roma, 15 aprile ’33 ].
Annunziatori di Pasqua, « Gazzetta del Popolo », 16 aprile.
Anversa vista da un grattacielo, « Gazzetta del Popolo », 25
aprile.
Visita al porto di Anversa / Le navi nel serraglio, « Gazzetta
del Popolo », 7 maggio.
Storia dell'« Historico », « L’Italia Letteraria », 7 maggio.
« Libro di preghiere », di Carlo Visconti-Venosta, « L’Italia Let¬
teraria », 14 maggio.
Haikaismo, « L’Italia Letteraria », 21 maggio.
Arte fiamminga / Breughel il vecchio, « Gazzetta del Popolo »,
30 maggio.
Poma nelle Fiandre, « Gazzetta del Popolo », 4 giugno.
Poesia e umanità di Ungaretti [Le prime mie poesie...], « La Tri¬
buna », Roma, 6 giugno.
Il mondo pacificato, « Il Tevere », Roma, 17 giugno.
Visita a un grande pittore, « Gazzetta del Popolo », 24 giugno.
Ungaretti [Le prime mie poesie...], « Gli oratori del giorno »,
Roma, luglio.
Furono città, « Gazzetta del Popolo », 27 luglio.
Uomini e pietre di Gand, « Gazzetta del Popolo », 10 agosto.
Olanda metodica e formalista / Dove le bestie, i fiumi e il mare
sono addomesticati dall’uomo, « Gazzetta del Popolo », 15 ago¬
sto.
Poesia e pittura, « L’Italia Letteraria », 20 agosto.
Nel paese dei bimbi, « Quadrivio », Roma, 27 agosto.
La pietra filosofale di Rembrandt, « Gazzetta del Popolo », 23
settembre.
Bibliografia 1037

Storia di’un secolo / Autodafé e aringhe, « Gazzetta del Popolo »,


26 ottobre.
Gloria al marinaio d’Italia, « Gazzetta del Popolo », 29 otto¬
bre.

1934
Prefazione a: Marcello Gallian, Tempo di pace, Edizioni di
« Circoli », Roma (pp. 9-12).
Attualità dell'arte, « La Tradizione », Palermo, a. VII, gennaio-
febbraio, pp. 3-8.
Foggia / Fontane e Chiese, « Gazzetta del Popolo », Torino^ 20
febbraio.
Foggia: Fontane e Chiese, « Il Gazzettino », Foggia, 24 feb¬
braio.
Il Gargano favoloso, ovvero la giovane maternità, « Gazzetta del
Popolo », 6 marzo.
Pasqua in Capitanata / L’angelo nella caverna, « Gazzetta del
Popolo », 1° aprile.
Ungaretti a Milano [corsivo di cronaca che riporta « l’introdu¬
zione alla conferenza... sul tema Arte attuale » tenuta da Unga¬
retti all’Istituto Fascista di Cultura, in piazza Beigioioso], « L’I¬
talia Letteraria », Roma» 22 aprile.
Lucerà, città di Santa Maria, « Gazzetta del Popolo », 15 mag¬
gio.
Lucerà dei Saraceni, « Gazzetta del Popolo », 5 giugno.
Luglio pugliese, « Circoli », Roma, n. 4, luglio-agosto, pp. 9-10.
Appunti per la poesia d’un viaggio da Foggia a Venosa / Il pia¬
no delle fosse, « Gazzetta del Popolo », 22 agosto.
Alle sorgenti dell’acquedotto pugliese, « Gazzetta del Popolo »,
9 settembre.
Egitto di sera, « Gazzetta del Popolo », 24 ottobre.

1935
Come si lavorano e si vendono i diamanti, « Sapere », Milano,
15 febbraio, pp. 113-115.
«Dentro la guerra» [di Ottone Rosai], «Circoli», Roma, a. V,
n. 1, marzo, p. 102.
Dostoievski e la precisione, « Gazzetta del Popolo », Torino, 6
marzo.
Riflessioni sulla letteratura, « Gazzetta del Popolo », 13 marzo.
Caratteri dell’arte moderna, « Gazzetta del Popolo », 11 mag¬
gio.
Visita all’osservatorio vesuviano, « Sapere », 5 luglio, pp. 11-13.
Sfinge etrusca, « Gazzetta del Popolo », 4 agosto.
L’inno al ponte etrusco, « Gazzetta del Popolo », 5 settembre.
1038 Bibliografia

1925/1935
[vedi Ilota a Poesia e civiltà, p. 929].

1936
Prefazione a: Ettore Serra, Stambul ed altri paesi, Emiliano de¬
gli Orfini, Genova (pp. 7-8).
Noticina politica, « Quadrivio », Roma, 12 gennaio.
Ridicola giostra, « Quadrivio », 19 gennaio.
A un bestemmiatore, « Quadrivio », 26 gennaio.

1937
Un poeta [Chaplin], « Cinema », Roma, n. 11, 25 gennaio, p. 62.
Interventi all’Incontro Europa-America Latina, in: Entretiens f
Europe Amérique Latine, Buenos Aires, Septembre 1936, Insti-
tut International de Coopération Intellectuelle, (pp. 56, 78-
80, 82-85, 134-136, 139-140, 150-153, 181).

1938
[Le secret de Lautréamont], in: Comte de Lautréamont, Gsuvres
complètes, G.L.M., Paris (p. 392).

1939
Difesa dell’endecasillabo, « Corrente di vita giovanile », Milano,
15 giugno, p. 7.

1940
Egitto di sera, « Beltempo », Almanacco delle Lettere e delle
Arti, Edizioni della Cometa, Roma, pp. 266-267.

1941
Le origini del Romanticismo italiano, « Fanfulla », Sao Paulo do
Brasil, 11 maggio, pp. 4-5.
Antonio Pedro, in: Antonio Pedro, Primera exposi?ào em S.
Paulo, Catalogo com 25 reprodugSes e um ensaio por Ungaretti,
Agosto (pp. non numerate).
Sulla narrativa, « Beltempo », Almanacco delle Lettere e delle
Arti, Edizioni della Cometa, Roma, pp. 97-98.

1942
Antonio Pedro, O préfacio da sua exposigào em S. Paulo, « Va¬
riante », Lisboa, Numero da Primavera, pp. 65-72.
Bibliografia 1039

Carattere dell’arte moderna, « Beltempo », Almanacco delle Let¬


tere e delle Arti, Edizioni della Cometa, Roma, pp. 172-174.

1943
Immagini del Leopardi e nostre, « Nuova Antologia », Roma, 16
febbraio, pp. 221-232.
Il poeta dell’oblio, « Primato », Roma, 15 maggio.
Giornata di fantasmi, « Parallelo », Roma, primavera, pp. 9-10.

1944
Nota introduttiva in: XXII Sonetti di Shakespeare, scelti e tra¬
dotti da Giuseppe Ungaretti, Documento, Editore Libraio, Roma
(pp. 7-8).

1945
Appunti sull’arte poetica di Shakespeare, « Poesia », Roma, Qua¬
derno primo, gennaio, pp. 132-135.
Nota del traduttore [alla sua traduzione Delle immagini inse¬
guite ovvero: Il sarto cinese, da Jacob Cow ou Si les mots sont
des signes di Jean Paulhan], «Poesia», Roma, Quaderno secon¬
do, maggio, p. 351.
Souvenirs sur Jean Paulhan, « Présence », Roma, a. II, n. 29, 22
Juillet, p. 4.

1946
Nota del traduttore [alla sua traduzione di poesie di William
Blake], «Le Tre Arti», Roma, a. II, n. 1, gennaio, p. 4.
Testimonianza su Valéry, « Poesia », Milano, III-IV, gennaio,
pp. 144-146.
Poesia brasiliana, Traduzioni e note, « Poesia », Milano, III-IV,
gennaio, pp. 188-231.
Per una traduzione shakespeariana, « Poesia », Milano, III-IV,
gennaio, pp. 378-380.
Umanità dell’arte, « Alfabeto », Roma, a. II, n. 3-4, 15-28 feb¬
braio.
Poeta e uomini, « L’Universitario », Roma, a. II, n. 6, 30 mar¬
zo, p. 3.
L’« Angelo Mai » del Leopardi, « La Fiera Letteraria », Roma,
a. I, n. 1, 11 aprile, pp. 1-2.
Attualità dell’arte, « Sicilia del Popolo », Palermo, 22 aprile.
Inno al ponte etrusco, « Alfabeto », Roma, a. II, n. 7-8, 15-30
aprile.
Nota a: Mario de Andrade, Canti ispirati dall’amica, in « Mon¬
do latino », Roma, a. I, n. 2, pp. 7-10.
1040 Bibliografia

Riflessioni sullo stile, « Inventario », Milano, a. I, n. 2, estate,


pp. 11-17.
[Per la questione di Trieste], «La Fiera Letteraria», Roma, 19
luglio, p. 1.
Nota introduttiva in: Giuseppe Ungaretti, 40 Sonetti di Shakes¬
peare {Vita d’un uomo, 4 / Traduzioni, I), Mondadori, Milano
(PP. 7-41).
Della metrica e del tradurre, « La Fiera Letteraria », Roma, a.
I, n. 28, 17 ottobre, pp. 1-2.

1947
Testimonianza per Arturo Martini, « La Fiera Letteraria », Roma,
10 aprile.
Ragioni d’una poesia, « Voce del Popolo », Taranto, a. 64, n. 20,
16 maggio.
Presentazione a: Poeti prigionieri, a cura di M. Biancorosso, A.
Marchetti, M. Sancipriano, Berruti, Torino.
Missione del letterato, in: Dopo il diluvio, Sommario dell’Ita¬
lia contemporanea, a cura di Dino Terra, Garzanti, Milano, pp.
MI.
Sete di Cristo, « Il Simbolo », voi. IV, Credo in Gesù Cristo
amore infinito, Pro Civitate Christiana, Assisi, pp. 29-38.
Ansiosa sete di Cristo, « Il Mattino di Roma », a. I, n. 29, 24
dicembre, p. 3.

1948
Libertà, « Cantachiaro », Roma, a. V, n. 13, 26 marzo, p. 3.
Une journée à Marino, in: Hommage à Henry Church, « Mesu-
res », Paris, 15 Avril, pp. 28-29.
Civiltà meccanica e poesia, « Il Giornale », Napoli, 15 agosto.

1949
11 povero nella città, Edizioni della Meridiana, Milano, pp. 128
[Contiene il saggio sul Don Chisciotte di Cervantes, alcuni degli
articoli di viaggio già pubblicati nella « Gazzetta del Popolo »
di Torino, e due poesie].
Ragioni di una poesia, « Inventario », Milano, a. II, n. 1, pri¬
mavera, pp. 6-19.
Sentimento di Dio, in: Il problema di Dio, a cura di G. Savio
e T. Gregory, Editrice Universale, Roma, pp. 327-348.
Fabrizio Clerici, testo del catalogo della mostra personale di Cle¬
rici, galleria dell’Obelisco, Roma, 20 aprile.
Poesia e libertà, « Il Popolo », Roma, 24 aprile.
Bibliografia 1041

Prefazione a: Premio Saint-V incent 1948 / I poeti scelti, a cura


di G. Ungaretti e D. Lajolo, Mondadori, Milano (pp. 15-17).
Prefazione a: Luca Ruffini, Poesie, Edizioni di Comunità, Mi¬
lano.
Presentazione a: Elio Filippo Accrocca, Portonaccio, All’Insegna
del Pesce d’Oro, Milano.
Prefazione a: Sandro Bevilacqua, Pietre rosse, Carabba, Lanciano-
Roma.
Introduzione al catalogo del Concorso per bambini « Superga »
(Torino, luglio 1949), Stabilimento tipografico Roggero e Tortia,
Torino.
Carlo Quaglia, testo del catalogo della mostra personale di Qua¬
glia, galleria del Naviglio, Milano, 10-23 dicembre.
Galoppo del rosso (Prefazione per la mostra del pittore Carlo
Quaglia), « Il Popolo », Roma, 14 dicembre.

1950

Pittori italiani contemporanei, Cappelli, Bologna [Volume a cu¬


ra del Premio «La Colomba» di Venezia],
Sulla poesia / Pensieri, « Il Popolo », Roma, 6 aprile.
Le profond langage esthétique, « Synthèses », Bruxelles, 4e an-
née, n. 47, Avril, pp. 143-153.
Un’edizione monumentale [il Canzoniere di F. Petrarca a cura di
G. Contini], «Il Popolo», Roma, 4 maggio.
Storia di una traduzione / Saint-John Perse, « Il Popolo », Ro¬
ma, 13 maggio,
I prodigi del comico, « Sequenze », Quaderni del cinema, Par¬
ma, n. 9, maggio, p. 33.
Nota introduttiva in: Giuseppe Ungaretti, «Fedra» di fean Ra¬
tine (Vita d’un uomo, 7 / Traduzioni, III), Mondadori, Milano
(pp. 5-11).
Premessa a: Blaise Pascal, Il buon uso delle malattie, Avver¬
tenza di don Giuseppe De Luca, traduzione di Giulio Locatelli,
Morcelliana, Brescia (pp. 11-15).
Histoire d’une traduclion, « Les Cahiers de la Pleiade », Paris,
X, Été-Automne, pp. 81-85.
Intervento alla 2a seduta della Società Europea di Cultura (Ve¬
nezia, 30 maggio 1950), « Comprendre », Venezia, numero 2,
Octobre, pp. 42-43.
Secondo discorso su Leopardi, « Paragone », Firenze, a. I, n. 10,
ottobre, pp. 3-35.
Taccuino di un giramondo / Città di Santa Maria, « Il Popolo »,
Roma, 8 ottobre.
Taccuino di un giramondo / La città senza croci, « Il Popolo »,
Roma, 14 ottobre.
1042 Bibliografia

Lucerà jiei Saraceni, « Il Foglietto », Foggia, 23 novembre.

1951
Risposte a un’intervista, in: AA.VV., Confessioni di scrittori
(Interviste con se stessi), Quaderni della Radio, XI, Edizioni
Radio Italiana, Torino (pp. 98-101).
Sur « Le Naif », « Marginales », 6e année, numéro 22, Mars,
Hommage à Franz Hellens, pp. 69-72.
Presentazione, nel catalogo Pericle Fazzini, Fondazione Premi
Roma per le Arti, Roma.
Lo scultore del vento (Prefazione al catalogo della mostra di
Pericle Fazzini a Palazzo Barberini), « Il Popolo », Roma, 8
aprile.
« Dell’inseguire immagini ovvero II sarto cinese » di Jean Paul-
han, traduzione e nota-, « La Fiera Letteraria », Roma, 8 aprile.
Interventi alla 2a e alla 4a seduta del Consiglio esecutivo della
Società Europea di Cultura (Roma, 12-14 febbraio 1950), « Com-
prendre », Venezia, numéro 3, Mai, pp. 32 e 43.
Góngora al lume d’oggi, « Aut Aut », Milano, n. 4, luglio, pp.
291-308.
Góngora al lume d’oggi, in: Panorama dell’arte italiana, a cura
di M. Vaisecchi e U. Apollonio, Lattes, Torino, pp. 291-305.
A Rome, « Nouvelle Revue Frangaise », Hommage à André Gide,
Paris, Novembre.
Intervento alla 4a seduta del Consiglio esecutivo della Società
Europea di Cultura (Venezia, 20-22 settembre 1951), « Compren-
dre », Venezia, numéro 4, Décembre, pp. 34-37.
L’été viendra, « Comprendre », Venezia, numéro 4, Décembre,
pp. 87-91.

1952
Difficoltà della poesia, « L’Approdo », Roma, a. I, n. 1, gen¬
naio-marzo, pp. 9-12, e a. I, n. 2, aprile-giugno, pp. 31-34.
Premessa a: David Maria Turoldo, Udii una voce, Mondadori,
Milano (pp. VII-X).
Le voci tragiche di Guido Gonzato, Il Milione, Milano, pp.
XXI.
L’artista nella società moderna, « Aut Aut », Milano, n. 11, set¬
tembre, pp. 381-390.
Significato dell'arte d’oggi, « Il Popolo », Roma, 24 settembre,
P- 3.
Un poeta di fronte alla missione dell’arte / La libertà è indivi¬
sibile, « La Fiera Letteraria », Roma, 5 ottobre, p. 4.
Gide a Roma, « Inventario », Milano, a. IV, n. 5-6, settembre-
dicembre, pp. 129-130.
Bibliografia 1043

Commento al Canto Primo dell’« Inferno », « Paragone », Firen¬


ze, n. 36, dicembre, pp. 5-21.

1953

Presentazione di: Jean Paulhan, L'incontro Paulhan-Vdilati, «Gio¬


vedì », Roma, 1° gennaio.
Vecchi fogli [collage di brani tratti da quattro suoi articoli di
viaggio pubblicati sulla « Gazzetta del Popolo » nel 1933: Furo¬
no città, Olanda metodica e formalista, La pietra filosofale di
Rembrandt, Autodafé e aringhe], «L’Approdo», Roma, a. II,
n. 1, gennaio-marzo, pp. 38-46.
Lettera a Leonardo Sinisgalli, « Civiltà delle Macchine », Roma,
a. I, n. 1, gennaio, p. 7.
Nota del traduttore [accompagna la sua traduzione di poesie
di William Blake], «Giovedì», Roma, a. II, n. 15, 9 aprile,
p. 6.
Bona, in: Tre pittori della fantasia / Bona, Alberto Martini,
Giuseppe Vivìani, catalogo della mostra, 28 marzo-11 aprile, gal¬
leria del Milione, Milano; e testo del catalogo della mostra per¬
sonale di Bona a Roma.
Bona, « Le Disque Vert », Bruxelles, a. I, n. 2, Mai-Juin.
Quelques réflexions suggérées à l’auteur par sa poésie, in: Giu¬
seppe Ungaretti, Les Cinq Livres, Texte fran?ais établi par l’Au-
teur et Jean Lescure, Les Editions de Minuit, Paris (pp. 9-45).
Il poeta e la sorte dell'uomo, « Giovedì », Roma, 2 luglio pp.
I e 5.
La responsabilità dell'artista, « La Fiera Letteraria », Roma, 19
luglio.
II messaggio del libro, « L’Approdo », Roma, a. II, n. 4, luglio-
agosto, pp. 37-40.
Presentazione a: Amleto Pedroli, Poesie, ediz. privata, Man-
drisco.
Prefazione a: Giacomo Natta, L'ospite dell’Hotel Roosevelt,
Edizioni della Meridiana, Milano (pp. 7-10).
Fazzini, « Alfabeto », Roma, a. IX, n. 21-22, 15-30 novembre.

1954
L'artiste dans la société moderne, in: L'artiste dans la società
contemporaine (Témoignages recueillis par l’UNESCO, Conféren-
ce Internationale des Artistes, Venise, 22-28 Septembre 1953),
UNESCO, Paris, pp. 23-30.
Responsabilità del poeta, in: Preghiera e Poesia, Atti del Secon¬
do Convegno internazionale per la Civiltà e la Pace cristiana, Ci¬
viltà e pace, Firenze, pp. 79-86.
1044 Bibliografia

Risposta all’inchiesta Che ne pensate di Salvador Dali, « La Fie¬


ra Letteraria », Roma, 30 maggio.
Préface a: Rome / Peintres et écrivains, Mermod, Lausanne (pp.
XI-XXII).
Piccolo discorso al Convegno di San Pellegrino sopra « Dietro
il paesaggio » di Andrea Zanzotto, « L’Approdo », Roma, a. Ili,
n. 3, luglio-settembre, pp. 59-62.

1955
Il Canto I dell’« Inferno », in: AA.W., Letture dantesche, a
cura di Giovanni Getto, voi. I, Inferno, Sansoni, Firenze (pp.
3-23).
Gli devo gratitudine [testimonianza per Giuseppe De Robertis],
« La Fiera Letteraria », Roma, 3 aprile.
Roberto Fasola, testo del catalogo della mostra personale di Fa¬
sola, galleria Selecta, Roma, 30 aprile.
Dna lettera [su Gerard de Nerval], «L’Albero», Lucugnano
(Lecce), n. 23-25, luglio-settembre, pp. 44-45.
Góngora sous nos yeux, « Monde Nouveau », Paris, n. 92, Sep-
tembre, pp. 146-171.
Introduzione a una scelta di sue poesie, in: Vittorio Masselli e
G.A. Cibotto, Antologia popolare di poeti del Novecento, Val¬
lecchi, Firenze, voi. I (pp. 211-218).
Indefinibile aspirazione, « La Fiera Letteraria », Roma, a. X, n.
51, 18 dicembre, p. 3.
Una poesia nata dal fuoco [testimonianza per Alfonso Gatto],
« La Fiera Letteraria », Roma, 25 dicembre.
[Nel 1955-56, U. effettuò inoltre dodici trasmissioni per la Ra-
diodiffusion Fran?aise (Jean Amrouche, Entretiens avec Ungaret¬
ti). La prima trasmissione andò in onda il 15 novembre 1955,
martedì; le successive una ogni settimana a partire dalla se¬
guente, stesso giorno e stessa ora. Il testo di tali trasmissioni
è stato pubblicato nel 1972. Vedine i dati bibliografici a p. 1051.

1956
Per Roberto Fasola, « Civiltà delle Macchine », Roma, a. IV, n.
2, marzo-aprile, p. 79.
Un miracolo di poesia operato con coraggio [testimonianza per
Gianna Manzini], «La Fiera Letteraria», Roma, 6 maggio,
P- 3.
Colori colmi di poesia [testimonianza per Enrico Prampolini],
« La Fiera Letteraria », Roma, 20 maggio, p. 8.
Una grande amicizia [testimonianza per Enrico Pea], « Corriere
d’informazione », Milano, 11-12 agosto.
Intervento alla 5a seduta della Rencontre Est-Ouest (Venezia, 25-
Bibliografia 1045

31 marzo 1956), « Comprendre », Venezia, numero 16, Septem-


bre, p. 258.
Dolore e poesia, in: AA.W., Il dolore e la gioia, Studium
Christi, Roma (pp. 107-128).
Bona, testo del catalogo della mostra personale di Bona, galleria
Selecta, Roma, 3-12 dicembre.
Guarienti, Savinio, Tornabuoni, testo del catalogo della mostra
dei tre artisti, galleria Aureliana, Roma.

1957
Magistero di Jouve, « La Fiera Letteraria », Roma, 24 marzo.
Presentazione a: Pierre Jean Jouve, Poesie, a cura di Nelo Risi,
Carucci, Roma (pp. VII-IX).
Testimonianza a Umberto Saba / Da poeta a poeta, « Il Popo¬
lo », Roma, 18 settembre.
Prefazione a: Biagia Marniti, Più forte è la vita, Mondadori, Mi¬
lano.
A proposito di crisi del linguaggio / Uno scrittore, un poeta è
sempre impegnato, « La Fiera Letteraria », Roma, 20 ottobre.
[Una lettera con la richiesta che venissero corretti degli errori
in questo testo apparve nel successivo numero della « Fiera Let¬
teraria » del 10 novembre, sotto il titolo Incontri e scontri di
Ungaretti.\
Edita Broglio, testo del catalogo della mostra personale della
Broglio, galleria del Vantaggio, Roma, 29 ottobre.
Riflessioni sulla difficoltà d’intendimento della poesia, « Coscien¬
za », Unione per lo sviluppo dei valori morali, Milano, pp. 15.

1958
Vecchie carte / Dei libri di guerra, « L’Approdo Letterario »,
Roma, n. 1, gennaio-marzo, pp. 91-94.
Relazione per l’aggiudicazione del Premio « Corrado Alvaro » a
Pasquale Festa Campanile, « La Fiera Letteraria », Roma, 20
aprile.
Figlio di Lucca, « Il Veltro », Roma, a. II, n. 6-7, giugno-lu¬
glio, pp. 9-11.
Quaderno Egiziano, 1931, «Letteratura», a. V, n. 35-36, set¬
tembre-dicembre, pp. 6-55 [Contiene gli articoli di viaggio pub¬
blicati nel ’31 sulla « Gazzetta del Popolo », e corrisponde al¬
l’intera prima sezione del Deserto e dopo, Mondadori, Milano
1961, pp. 11-114, che reca il medesimo titolo. Il fascicolo di
« Letteratura » era interamente dedicato a U. per il suo settan¬
tesimo anno].
Due discorsi per le onoranze nel settantesimo anno, in « Lette¬
ratura », Roma, a. V, n. 35-36, settembre-dicembre, pp. 264-267.
1046 Bibliografia

[La rivista «Commerce»] in Hommage à «Commerce» / Let-


tres et Arts à Paris 1920-35, Palazzo Primoli, Roma, 5 Dicembre
[1958]-30 Janvier [1959], Istituto Grafico Tiberino, Roma,
pp. 14-16.

1959
La voce più profonda [discorso tenuto il 21.12.1958 per il rice¬
vimento della cittadinanza onoraria di Cervia], «La Fiera Lette¬
raria », Roma, 8 febbraio.
La furia d’essere vero [testimonianza per Leonida Répaci], «La
Fiera Letteraria », Roma, 15 marzo.
La rivista « Commerce », « Prospettive meridionali », Napoli, a.
V, n. 3-4-5, marzo-aprile-maggio, p. 123.
Tagore, in: Omaggio a Tagore, Rome-New York Foundation, Ro¬
ma, marzo.
Prefazione a: Ettore Serra, La casa in mare, Poesie liguri, Ce-
schina, Milano.
Prefazione a: Murilo Mendes, Siciliana, a cura di A. Chiocchio,
Sciascia, Caltanissetta-Roma (pp. 5-7).
Il mio Brasile e un suo poeta [Murilo Mendes], «Successo»,
Milano, n. 2, giugno, p. 129.
Premessa a: Caterina Vassalini, In Grecia, Rebellato, Padova
(PP. 5-7).
Saluto [a Franco Gentilini], «La Fiera Letteraria», Roma, 2
agosto.
Ricordo di Pea, « L’Approdo Letterario », Roma, n. 8, ottobre-
dicembre, pp. 28-31.
Introduction à la IIe Rencontre Est-Ouest, « Comprendre », Ve¬
nezia, numero 20, pp. 281-284.

1960
Prefazione a: Palma Bucarelli, Jean Fautrier, Il Saggiatore, Mi¬
lano (pp. 9-11).
Testimonianza, in: Omaggio a Apollinaire, a cura dell Ente Pre¬
mi Roma, Grafica, Roma, p. 61 [ripete Le départ de notre jeu-
nesse del 1924].
Il premio Nobel 1960 / Saint-John Perse, « Paese Sera-Libri »,
Roma, 19 novembre.
Presentazione della conferenza di Francois Mauriac La vocation
de l’homme blanc, « Comprendre », Venezia, numéro 21-22, pp.
190-191.

1961
Il deserto e dopo (Vita d’un uomo, 11 f Prose di viaggio e sag-
Bibliografia 1047

gi, I), I poeti dello Specchio, Mondadori, Milano, pp. 451. [Con¬
tiene gli articoli di viaggio sull’Egitto, la Corsica, la Campania,
la Valle del Po, le Fiandre, l’Olanda e le Puglie, pubblicati nel¬
la « Gazzetta del Popolo » di Torino tra il 1931 e il 1934, e Pàu
Brasil, le traduzioni (con note) di poesia brasiliana pubblicate in
« Poesia », III-IV, 1946.]
Tagore, « Notizie dall’India », Roma, marzo.
Wladimiro Tulli, testo del catalogo della mostra personale di
Tulli, galleria Numero, Roma, 26 aprile-9 maggio.
Presentazione a: Virgilio Budini, Il riso rotto, Guanda, Parma.
Discorso per Valéry, « L’Approdo Letterario », Roma, n. 14-15,
settembre, pp. 39-55.
Della Giovanna-Mezio-Sinisgalli, Incontro con Giuseppe Ungaret¬
ti, « L’Approdo Letterario », Roma, n. 16, ottobre-dicembre, pp.
117-125.
Relazione alla seduta inaugurale delPVIII Assemblea Generale
della Società Europea di Cultura (Roma, 27 marzo 1961), « Com¬
prenda », Venezia, n. 23-24, 1961-62, pp. 244-249.

1962
Shakespeare / I Sonetti, « La voce delle arti e delle lettere »,
Roma, a. VI, n. 1, gennaio, pp. 1-2, e a. VI, n. 2, febbraio,
pp. 1-2.
Festeggiamo Villaroel, in: Giuseppe Villaroel / Cinquant’ anni di
vita letteraria, a cura del Comune di Catania, Olschki, Firenze,
p. 283.

1963
Presentazione a: Dante Alighieri, La Divina Commedia, Fratelli
Fabbri, Milano (fase. 1, pp. 1-4).
Parole per Gadda, « Palatina », Parma, a. VII, n. 25, gennaio-
marzo, pp. 3-5.
La pittura di Fautrier, testo del catalogo della mostra personale
di Jean Fautrier, galleria l’Attico, Roma, 26 gennaio.
Incontro Ungaretti-Jean Fautrier, « L’Approdo Letterario », Ro¬
ma, n. 22, aprile-giugno, pp. 95-98 (dall’« Approdo TV », n. 12,
andato in onda il 27 aprile 1963).
Bicordo di Barilli, « Galleria », Caltanissetta-Roma, a. XIII, n.
3-5, maggio-ottobre, pp. 207-209.
Franco Gentilini, testo del catalogo della mostra personale di
Gentilini, galerie Rive Gauche, Paris, Mai.
L’anabasi di Mirko, « Notiziario della galleria d’arte La Nuova
Pesa », Roma, 24 giugno, pp. non numerate.
Ungaretti commenta Ungaretti, « La Fiera Letteraria », Roma, 15
1048 Bibliografia

settembre, pp. 1-2 [Il Porto Sepolto e L’Allegria], e 22 settem¬


bre, pp. 1-2 [Sentimento del Tempo].
La Roma di Quaglia, Bestetti, Roma, pp. non numerate.
Prefazione a: Teresa Monteverdi, Paesaggi, Guanda, Parma.
L'ambizione dell’Avanguardia, « Il Verri », Milano, n. 10, otto¬
bre, pp. 42-45.
La cultura nel tempo, « Civiltà delle Macchine », Roma, a. XI,
n. 6, novembre-dicembre, pp. 17-18.
Ricordo di Amrouche, « The New Morality », Roma, n. 6, in¬
verno, pp. 49-52.

1964
Testimonianza per Giuseppe De Robertis, « L’Approdo Lettera¬
rio », Roma, n. 25, gennaio-marzo, p. 122.
Un vecchio poeta ti saluta, mondo nuovo, « Epoca », Milano,
a. XV, n. 710, 3 maggio, pp. 28-29.
Préface a: Giacomo Leopardi, CEuvres, Collection UNESCO
d’oeuvres représentatives, Cino Del Duca, Paris (pp. 7-29).
Prefazione a: Dianella Selvatico Estense, Un giorno all’improv¬
viso, All’insegna del pesce d’oro, Milano (p. 11).

1965
Discorsetto del traduttore, in: Giuseppe Ungaretti, Visioni di
William Blake (Vita d’un uomo, 12 / Traduzioni, IV), I poeti
dello Specchio, Mondadori, Milano (pp. 11-15). [In questo vo¬
lume è di U., firmata G.U., anche la sezione finale della voce
Ermetismo (p. 495), nell 'Appendice curata da Mario Diacono,
che contiene un glossario dei simboli e delle probabili fonti di
Blake relativamente ai testi tradotti.]
Risposte a un’intervista, in: Ferdinando Camon, Il mestiere di
poeta, Lerici, Milano (pp. 23-30).
Presentazione a: Eternità di Roma, a cura di Massimo Di Mas¬
simo, Editalia, Roma (pp. 9-12).
Anna Salvatore, testo del catalogo della mostra personale della
Salvatore, galleria La Barcaccia, Roma, 21 gennaio-10 febbraio.
In memoria di Franco Costabile, « L’Europa Letteraria », a. VI,
n. 35, maggio-giugno, p. 84.
Ioan Mirea, testo del catalogo della mostra personale di Mirea,
libreria dell’« Europa Letteraria», Roma, 25 giugno-10 luglio.
Dante le Juste, in: Hommage à Dante, Académie Royale de
Langue et de Littérature Fran?aises, Bruxelles, pp. 15-29, e nel
« Bulletin de l’Académie », Bruxelles, Tome XLIII, n. 4, pp.
302-317.
Bibliografia 1049

1966

Il Carso non è più un inferno, All’insegna del pesce d’oro, Mi¬


lano, pp. 78. [Il volumetto contiene, insieme a sette poesie del
Porto Sepolto nel testo primitivo del 1916 e in quello definitivo,
il testo del discorso tenuto da U. nel Castello di Gorizia il 20
maggio 1966, e un Ricordo dell’autore del primo incontro con
Ettore Serra e della stampa del 1916 del « Porto Sepolto », ch’è
la ristampa di uno scritto del 1936.]
Réflexions sur le vide de la parole et sur l’univers rèvé par
Michaux, et peut-étre par moì (traduction de Philippe Jaccottet),
« Les Cahiers de l’Herne », 8, Henri Michaux, Paris, pp. 45-46.
Per Giuliani, « Il Verri », Milano, n. 20, febbraio, pp. 64-66.
Prefazione a: Francesco Maria Taliani, Veli stracciati, Monda-
dori, Milano.
Verità e forma, introduzione al catalogo Forma e verità 1, a
cura dello Studio Forte 63, Marchi, Firenze, maggio.
Viaggetto in Etruria, con un’acquafòrte di Bruno Caruso, ALUT,
Roma, pp. 16 [180 esemplari numerati. Contiene due scritti del
1935, Sfinge etrusco e Inno al ponte etrusco].

1967
Il ricordo di Apollinaire in Trastevere, « Capitolium », Roma,
a. XLII, n. 2, febbraio, pp. 89-92.
Corrado Cagli, testo del catalogo della mostra personale di Ca¬
gli, Galleria d’Arte Moderna, Palermo, 25 marzo-25 aprile, e
del catalogo delle mostre personali di Cagli, Librerie Rizzoli,
Roma e Milano, ottobre e novembre.
Invenzione della pittura d’oggi, presentazione a: L’opera com¬
pleta di Vermeer, Classici dell’Arte, 11, Rizzoli, Milano (pp.
5-8).
Piero Dorazio, testo del catalogo della mostra personale di Do-
razio, galleria dell’Ariete, Milano, aprile.
La cultura nel tempo, « Homo », Roma, a. Vili, n. 4, aprile,
pp. 15-17.
Un mese di lavoro (André Breton, Guillaume Apollinaire, Mau¬
rice Utrillo, ]an Vermeer, Corrado Cagli), « L’Approdo Lette¬
rario », Roma, n. 38, aprile-giugno, pp. 3-31.
Testimonianza su M. Puccini, in Omaggio a Mario Puccini, Ar-
galia, Urbino, pp. 111-112.
Presentazione a: Fontane d’Italia, Editalia, Roma.
Commento dell’Autore alla « Canzone », in Giuseppe Ungaretti,
Morte delle Stagioni, Fògola, Torino, pp. 127-144. [È il testo
di quattro lezioni sulla Canzone della Terra Promessa tenute
alla Columbia University di New York nel 1964.]
1050 Bibliografia

1968 .
Piero Dorazio: Un intenso splendore, « Civiltà delle macchine »,
Roma, a. XVI, n. 1, gennaio-febbraio, Qp. 37-38.
50 immagini di architetture di Luigi fioretti, De Luca, Roma,
pp. non numerate.
Una conversazione registrata: Giuseppe Ungaretti, Piero Dora¬
zio, Beverly Pepper, nel catalogo della mostra personale di Be¬
verly Pepper, galleria Marlborough, Roma, febbraio.
Interpretazione di Poma, Discorso, « Capitolium », Roma, pp.

16. , j-
Raffaele Castello, testo del catalogo della mostra personale di
Castello, Kunstverein Mtinchen, Marz-April.
Carlo Guarienti, testo del catalogo della mostra personale di
Guarienti, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, e del cata¬
logo della successiva mostra personale di Guarienti, galleria To-
ninelli, Roma, 20 aprile.
Capogrossi, testo del catalogo della mostra personale di Capo¬
grossi, galleria del Naviglio, Milano, 15-31 maggio.
Dalle « Lezioni su Leopardi »: Sul frammento « Spento il diur¬
no raggio » (« Canti », XXXIX), « Galleria », Caltanissetta-Roma,
a. XVIII, n. 4-6, luglio-dicembre, pp. 178-179. [Fascicolo dedi¬
cato a Ungaretti per il suo ottantesimo compleanno, contenente
inoltre il testo di una lettera inviata da U. al signor Domenico
Allasia nell’agosto 1918 dalla « Zona di guerra » in Francia.]
Ma poétique (Fragments d’un discours prononcé à Stockholm et
Uppsala, Novembre 1968), « L’Herne », 11, Ungaretti, Paris,
pp. 122-124.
Trois entretiens avec le po'ete, interviews de Glauco Natoli
(1949), Denis Roche (1965), et Piero Sanavio (1968), « L’Her¬
ne », 11, Ungaretti, Paris, pp. 245-254.

1969
Innocence et mémoire, Traduit de 1 italien par Philippe Jaccot-
tet, N.R.F., Les Essais CXLIII, Gallimard, Paris, p. 376.
[Contiene una scelta di saggi e scritti dal 1943 al 1967, con
la sola eccezione del testo Innocence et mémoire, del 1926.]
Ragioni d’una poesia, in: Giuseppe Ungaretti, Vita d un uo¬
mo / Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Mondadori, Mi¬
lano (pp. LXV-CI). [Nello stesso volume sono di interesse cri¬
tico le Note dell’autore alle sue poesie (pp. 495-584), in parti¬
colare la Nota introduttiva, le note al Porto Sepolto e a Sen¬
timento del Tempo, e il testo delle Quattro lezioni sulla « Can¬
zone » della Terra Promessa, tenute alla Columbia University
di New York nel 1964.]
Le départ de notre jeunesse, in: Annalisa Cima, Allegria di
Bibliografia 1051

Ungaretti, Tre poesie inedite, una prosa rara e dodici fotografie


di Ugo Mulas, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano.
Poesia di Vinicius de Moraes, « L’Approdo Letterario », Roma,
n. 45, gennaio-marzo, p. 14.
Giuseppe Ungaretti ricorda Lorenzo Vianì, in occasione della
mostra di Lorenzo Viani, galleria Levi, Milano, 5-25 febbraio.
Introduzione a: Virginia Dortch Dorazio, Balla, An album of
bis Life and Work, Alfieri, Venezia.
Capogrossi, nel catalogo della mostra di Capogrossi, galleria Marl-
borough, Roma, marzo-aprile.
Raffaele Castello, testo del catalogo della mostra personale di
Castello, Deutsche Bibliothek-Goethe Institut, Roma, 10 novem-
bre-5 dicembre.

1970
Prefazione a: Oswald de Andrade, Memorie sentimentali di Gio¬
vanni Miramare, Feltrinelli, Milano (pp. V-VII). [È l’ultimo
scritto in prosa di U. uscito mentre egli era in vita.]
Presentation of Alien Gìnsberg’s Poems (Naples, 1966), Translat-
ed from thè Italian by Italo Romano, « Books Abroad », Nor¬
man, Oklahoma, volume 44, number 4, Autumn, Homage to
Ungaretti, pp. 559-563. [Prima pubblicazione del testo su Gins-
berg; nello stesso fascicolo, pp. 606-611, un’intervista con U.
di Michael Ricciardelli.]

1971
Idee del Leopardi sulla crisi del linguaggio e sulla lingua, « Ci¬
viltà delle Macchine », Roma, a. XIX, n. 3-4, maggio-agosto,
pp. 19-26.

1972
Definizione dell’Umanesimo, « L’Approdo Letterario », Roma,
n. 57, marzo, Omaggio a Ungaretti, pp. 64-74 (Nello stesso nu¬
mero, pp. 75-77, Due fogli di diario).
Ungaretti a Paulhan: Otto lettere, a cura di Luciano Rebay,
« Forum Italicum », voi. VI, n. 2, State University of New
York at Buffalo, pp. 277-289.
Lettere a un fenomenologo, con un saggio di Enzo Paci, Unga¬
retti e l’esperienza della poesia, e 16 fotografie di Paola Mat¬
tioli, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, pp. 68 (le lettere di
U., pp. 39-68).
Giuseppe Ungaretti / Jean Amrouche, Propos improvisés. Texte
mis au point par Philippe Jaccottet, N.R.F., Gallimard, Paris,
pp. 132.
*

•lirajì-osTsm

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INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

'
Accadrà? (Ungaretti),XCIIn. Al conte Pepoli (Leopardi),
Accrocca, Elio Filippo, 1014 468, 469, 962
Acqueforti (Ungaretti), 971 Alcools (Apollinaire), 45
« Action frangaise, L’ », 248 Alembert, d’, Jean le Rond,
Ad Angelo Mai (Leopardi), 257
439, 442, 454, 464, 468, Alessandro Magno, 436
470, 475, 478, 481, 497, « Alfabeto », 985, 997
500, 502, 515, 801, 809, Alicot, F., 241
Alla luna (Leopardi), 464
959, 1004
Alla Nascita di Nostro Si¬
Adonais. An Elegy on thè
gnore (Góngora), 778,
Death of John Keats
1008
(Shelley), 984
Alla noia (Ungaretti), 300,
Adone (Marino), 447, 530
825, 826
Adonis (La Fontaine), 447 Alla Primavera (Leopardi),
Affrica (Petrarca), 409 XCIIn.-XCVn., 457, 470,
Agostino, Sant’, 408, 648, 486-488, 491, 809, 963,
664, 854, 980 966, 969, 1004
Aimée (Aimée), 69, 70 Alle fonti del Clitunno
Aimée (Rivière), XXVI, 68, (Carducci), 967
68n., 72, 86 Allegria (Ungaretti), XIII,
Ajalbert, Jean, 29 XXX-XXXII, XXXIV,
Alain, 641, 642 XXXVIII, XLIX, LI,
Alain-Fournier, Henri, 32 LVIII-LXIII, LXVII,
À la Maison d'Art / Giu¬ 267, 660, 673, 674, 744,
seppe Ungaretti et la mis- 747, 761-763, 815, 821,
sion du poète, 928 822, 825-828, 835, 836,
À la recherche du temps 839, 891, 913, 926, 986,
perdu (Proust), 31 999, 1014
Alberto Magno, 393 Allegria di Naufragi (Unga¬
Album de vers anciens (Va¬ retti), XXIV, LXXVIII,
léry), 100 815, 816, 820, 823, 892,
Alchimie (Canseliet), LVIII 893, 925, 926, 986
1056 Indice dei nomi e delle opere

Allegria- di Ungaretti (Ci¬ XLVI, LXXII, 915, 929


ma), 895 Angiolieri, Cecco, 292, 293
All’Italia (Leopardi), 433, Annotazioni (Leopardi), 486
460, 469, 962 Ansermet, Ernest, 862
À l'ombre des jeunes fil- Antigone {Antigone), 668
les en fleurs (Proust), 29, Antigone (Sofocle), 666
31, 32 Antologia dei poeti negri
Al Principe Don Sigismon¬ d’America (a cura di Pic¬
do Chigi (Monti), 502 cioni e Cacciaguerra),
Al Torcibudella (Bontem- XXV, 711, 994
pelli), 907 Antologia dei saggisti fran¬
Ambrogio, Sant’, 786 cesi contemporanei, 215
Ame et la Danse, L’ (Va¬ Antologia della nuova pro¬
léry), 103 sa francese, 143, 908
Amendola, Giovanni, 58 Antonio, Marco, 336
A mia moglie (Saba), 676 A.O. Barnabooth (Larbaud),
Aminta (Tasso), 454 146
Amor di cantate, perché À partir du desert, vedi De¬
m’hai sì ferito? (Jacopo- serto e dopo, Il
ne), 913 Apollinaire, Guillaume, XII,
Amore, L’ (Ungaretti), 826 XXXIII, XLV, 20-24, 26,
Amour fou, L’ (Breton), 41, 45, 46, 60, 245, 279,
XLVI, 659 298, 615-619, 655-657,
Anabase (Saint-John Perse), 702, 719, 720, 804, 824,
578, 579, 649, 651, 989, 837, 895, 985, 986
1005 Appressamento della mor¬
Analisi letteraria in Italia, te, L’ (Leopardi), L
I' (D’Arco Avalle), XCII « Approdo Letterario, L’ »,
n. XCVn., 971, 982, 985,
Anassagora, 80, 303 987, 990, 993, 994
Anceschi, Luciano, 597, 983, Appunti per Valéry, vedi
1021 Va citato Leopardi per
Ancora per Mallarmé (Un¬ Valéry?
garetti), XCIIn., 210, 917 Appunti sul poeta del ri¬
Andrade, de, Oswald, 707- cordo (Ungaretti), 947
709, 994 Après-midi d’un Faune, L’
André Breton (Ungaretti), (Mallarmé), 209, 487,
XCIIIn., 655, 990 577, 967, 984
Ange, L’ (Valéry), 423, 426, A proposito di crisi del lin¬
642 guaggio (Ungaretti), 829,
Angioletti, G.B., XXXII, 1013, 1015
Indice dei nomi e delle opere 1057

A proposito di un saggio Attualità dell’arte (Unga¬


su Dostojevski (Ungaret¬ retti), 930, 1000-1002
ti), XLII, 47, 896, 1001 Auctarium Philologicum
Aragon, Louis, 76, 101, (Meurs), 967
147, 148, 229, 657, 664, Augusto, Giulio Cesare Ot¬
847, 892-894, 900 taviano, 189, 317, 409,
Arangio Ruiz, Wladimiro, 754
491 Au sujet d’ « Adonis » (Un¬
À rebours (Huysmans), 624 garetti), 913, 927
Aretino, Pietro, 858 « Aut Aut», 971, 972, 1019
Argonauta, L' (Ungaretti), Averroè, 392, 393
302 Aytré qui perd l’habitude
Ariosto, Ludovico, 513 (Paulhan), 533, 647, 988
A riposo (Ungaretti), 925 « Azione, L’ », XVIII, 892,
Aristotele, 303, 392, 393, 910
448, 580
Arland, Marcel, 61n., 230
Armance (Stendhal), 97 Babeuf, Frangois-Noèl, 153
À Rome (Ungaretti), 901 Bacchelli, Riccardo, 58, 662
Artaud, Antonin, 659, 664, Bach, Johann Sebastian, 67,
718 843
Arte, affari e abracadabra Bacone, Ruggero, 396, 397,
(Ungaretti), XCIVn., 178, 943
915 Baignée (Valéry), 987
Arte della magia e il potere Balcon, Le (Baudelaire), 289
della fede, vedi Magia, Baldini, Antonio, 58, 119n.,
scienza e religione 491
Arte e denaro (Ungaretti), Balzac, de, Honoré, 355,
912 941
Artista nella società moder¬ Bandiera, Manuel, 703
na, U (Ungaretti), XCIV Banfi, Antonio, 737
n., 855, 1019 Baratelli, Mario, 907
Art Magique Surréaliste, L’ Barbe finte (Ungaretti),
(Breton), XLIV XCIVn., 117, 903, 905
Asfodelo, Un (Ginsberg), Barbusse, Henri, 28-30
719 Barilli, Bruno, 58, 605, 662,
A Silvia (Leopardi), 419, 678-680, 907, 1021
425, 464, 469, 696, 788, Barlozzini, Guido, 969
805, 810, 903, 926, 957, Barrès, Maurice, XLI, 36,
960, 962 37, 63, 79, 894
Assunto, R., 1021 Barth, Karl, 486, 967
1058 Indice dei nomi e delle opere

Baruzi,«Joseph, 486 Bibbia (Blake), 719


Bastianelli, Giannotto, 297, Blake, William, LV, LXIII,
678 99, ,237, 239, 528, 596-
Battisti, E., 1021 598, 719, 808, 852, 971,
Baudelaire, Charles, XIX, 975, 977, 982, 983
XXX-XXXIII, LII, LVI, Bianche, Jacques-Emile, 27,
LXXXII, 10-14, 23, 24, 30
53, 56, 62, 67, 76, 85, Blanchot, Maurice, LXXX
91, 98, 117, 157, 188, Bloy, Leon, 244, 245
194, 208, 210, 215, 288, Boccaccio, Giovanni, 409,
289, 291, 294, 300, 312, 729, 878, 943
329, 354, 355, 483, 517, Boccioni, Umberto,
518, 543, 852, 857, 895, XXXVIII, 861, 873
905, 966, 976 Bohr, Niels, 811, 833
Bayet, Albert, 260 Boileau-Despréaux, Nicolas,
Bazaine, maresciallo, 174 579, 1005
Beatrice, 389, 417 Boine, Giovanni, 87
Beethoven, van, Ludwig, 479 Bolaffio, Vittorio, 677
Béguin, Albert, 888 Bonaventura, San, 394, 944,
Belgion, Montgomery, 232 945
Belleville (Garric), 198 Bonifacio Vili, 221, 333,
« Beltempo », 918 395
Benda, Julien, 238 Bonservizi, Nicola, 894
Bérénice (Racine), 926 Bontempelli, Massimo, 361,
Berg, Alban, 653 907
Berge, André, 233 Bonvesin de la Riva, 424
Bergerat, Emile, 29 Borghesia (Ungaretti), 929
Bergotte (A la rechercbe du Borromini, Francesco, 314
temps perdu), 593, 594 Bosco sacro, Il (Eliot), 983
Bergson, Henri, XII, XXIX, Bossuet, Jacques-Bénigne,
XXXVIII, XXXIX, 566
LVII, LXXXII, 73, 79, Botta, Carlo, 960
80, 82-89, 233, 621, 637, « Botteghe oscure », 899
898, 1003 Bourges, Elémir, 28
Bernard, Emile, 865 Bourget, Paul, 29, 97, 289
Bernardo, San, 782, 783, Bouvard e Pécuchet (Bou-
1012 vard et Pécuchet), 47, 50,
Bernoville, Gaètan, 151 448, 748
Berti, Luigi, 901 Bragaglia, Anton Giulio, 53
Bertley, James, 308 Brancusi, Constantin, 617
Betocchi, Carlo, 987, 998 Braque, Georges, 861, 1014
Indice dei nomi e delle opere 1059

Bréal, Michel, 494, 495 Caffi, Andrea, 899


Breme, di, Ludovico, 458- « Cahiers de la Plèiade »,
461, 463, 464, 467, 469, 549, 978, 979, 989, 990
478, 497, 498, 953, 954, Caillois, Roger, 352, 354,
956, 1003 359
Bremond, Henri, 903 Cajumi, Arrigo, 183, 915
Breton, André, XL-XLII, Caliban parie (Guéhenno),
XLIV-XLVI, XLVIII, 38, 198
61n„ 75, 76, 78, 101, 147, Calitri (Ungaretti), 971
148, 229, 234, 247, 656, Calligrammes (Apollinaire),
658, 660, 664, 847, 892- 46, 60
894, 900, 985, 988, 990 Calmet, Augustin, 486, 967
Brève histoire de notre Camilla [Eneide), 387, 388
jeunesse, vedi Doctrine Camóes, de, Luiz Vaz, LXVI,
de « Lacerba », La 412, 413, 732
Broglie, de, Louis, 811, 833 Camon, Ferdinando, 835-
Bronzino, 951 841, 1016
Brunetière, Ferdinand, 184 Campana, Dino, LXV, 693
Bucarelli, Palma, 671, 672, Canova, Antonio, 347, 603
991 Canseliet, E., LVIII
Bucher, Jeanne, 662 « Cantachiaro », 763, 1002
Biichner, Georg, 662 Canti (Leopardi), XXIV,
« Bullettin de l’Académie », XXXIII, LVII, LXIV,
942 LXXII, LXXXIII, XCIV
Burchiello, 76, 78, 701 n, 13, 194, 325, 327,
Burckhardt, Jacob, 737, 739 454, 457, 662, 696, 810,
Bùrger, vedi Thore, Théo- 861, 935, 958, 959, 961,
phile 966
Burri, Alberto, LXXXII, Cantico del Gallo silvestre
LXXXIII, 873, 1019, 1021 (Leopardi), 469, 478, 962
Burroughs, William, 717
Canti d'innocenza e d’Espe¬
Butor, Michel, 685
rienza (Blake), 719, 982
Byron, George Gordon, lord,
Canti orfici (Campana), LXV
243, 460, 498, 954
Canzoni (Leopardi), 326,
468, 962, 1003
Canzoniere (Petrarca),
Cacciaguerra, Perla, 711,
LXXIII, LXXV, 404, 409,
713, 994
Cadamosto, Alvise, 124, 712 410, 415, 416, 419, 424,
Caetani, Marguerite, 661, 452, 698, 980
665, 899, 991 « Capitolium », 985
1060 Indice dei nomi e delle opere

Capogrossi, Giuseppe, Caves du Vatican, Les (Gi-


LXXÌIII de), 97
Capricci di Vegliardo (Badi¬ Ceccardi di Roccatagliata,
li), 678, 679 Ceccardo, 682
Carafa d’Andria, duca, 715 Cecchi, Emilio, 53, 58, 117,
Caratteri dell’arte moderna 119n, 154, 662, 912, 913,
(Ungaretti), 277, 920-922 924
Caravaggio, 357, 446, 449, Cendrars, Blaise, 245, 655,
588, 950, 951 893, 918
Cardano, Gerolamo, 662 Cervantes de Saavedra, Mi¬
Cardarelli, Vincenzo, 16, 58, guel, XVIII, 145, 504,
662, 998 505, 512, 514, 516, 517,
Carducci, Giosuè, 57, 154, 519, 521, 522, 525, 527,
167, 168, 181, 239, 350, 539, 887, 970, 971
404, 405, 574, 967, 983 Cesare, Caio Giulio, 163,
Carli, Mario, 919 236
Caro, Annibai, 351, 739 Cézanne, Paul, XXXIII,
Carrà, Carlo, XXXI, 16, 54, XXXIV, 24, 67, 280, 355,
90, 279, 280, 504, 523- 356, 589, 640, 724, 794,
527, 678, 824, 861, 970 795, 808, 832, 861, 865,
Carso non è più un inferno, 867, 873
Il (Ungaretti), 923 Challemel-Lacour, Paul, 851
Cartesio, 259, 762, 851 Chamfort, 250
Cartes sur les dunes (Bre- Champs magnétiques, Les
ton), 660 (Breton-Soupault), XLII,
XLV
Caruso, Bruno, 985
Chants de Maldoror, Les
Casanova, Giacomo, 728
(Lautréamont), 91, 93,
Casella, Alfredo, 418, 437
242, 244-247, 250, 657,
Cassou, Jean, 865
899, 918, 977
Castelvetro, Lodovico, 263,
Charmes (Valéry), LII, 103,
313, 402, 404 234, 621, 638, 987
Castro, Fidel, 717 Charpentier, H., 906
Cavafìs, Costantino, 666- Chateaubriand, Frangois-Au-
669, 978, 979, 991 guste-René, 957
Cavafy, ultimo alessandrino Chénier, André, LXIII,
(Ungaretti), LXXXIX, 666, 583, 810
991 Chesterton, Gilbert Keith,
Cavalcanti, Guido, 274, 371, XCVn.
372, 438, 566, 751, 782, Chevelure, La (Baudelaire),
824 289
Indice dei nomi e delle opere 1061

Chiarini, Giovanni, 324 Collana di perle (Vermeer),


Chi mi condurrà pei campi 595
(Ungaretti), 925 Colombo, Cristoforo, 515,
Chimismi Lirici (Soffici), 521, 530, 565
16, 45 Come divenni editore di Un¬
Church, Henry, 646 garetti (Serra), 923
Chuzeville, Jean, 55, 174 Commemorazione del futu¬
Ciarletta, Nicola, 691, 997 rismo (Ungaretti), XCIIn.,
Cicerone, Marco Tullio, 108, 170, 913
336 Commemorazione del Pe¬
Cima, Annalisa, 895 trarca (Ungaretti), 947
Cimabue, 784, 1009 Commento a Canti di Gia¬
Cimetière marin, Le (Valé¬ como Leopardi fatto da
ry), 643, 987 Giuseppe Ungaretti /
Cinq Livree, Les (Ungaret¬ Breve discorso introdutti¬
ti), 896, 922, 997, 1000 vo / Proemio, 953
Cinque maggio, Il (Manzo¬ Commento al Canto Primo
ni), LIV, XCIVn., 347, dell’« Inferno » (Ungaret¬
348 ti), XCVn., 367, 940-942,
Cino da Pistoia, 553 946
« Commerce », 183, 233,
« Circoli », 971
661-665, 829, 899
« Civiltà delle Macchine »,
Compendio (Locke), 494
XCVIn., 1020-1022
Comte de Lautréamont et
Clair de Terre (Ungaretti),
Dieu, Le (Pierre-Quint),
660
242, 248
Clard, Henry, 29 Concerto (Vermeer), 594
Claudel, Paul, 67, 664, 900, Condillac, de, Etienne-Bon-
901, 906 not, 258
Clef de la Poésie (Paulhan), Confessioni (Sant’Agostino),
648 408
Clemente IV, 396 Confucio, 708
Clemente, San, 791 Congedo ad una polemica
Cochin, Augustin, 257, 919 (a proposito dell’endeca¬
Cocteau, Jean, 61n. sillabo) (Flora), 913
Codice di Perelà, Il (Palaz¬ Conquéte méthodique, Une
zeschi), 45 (Valéry), 635
Cognizione del dolore, La Conrad, Joseph, 81
(Gadda), 993 « Conscientia », 118
Coi miei occhi (Saba), 673 Considérations sur la littéra-
Coliseum, The (Poe), 984 ture italienne moderne
1062 Indice dei nomi e delle opere

(Ungaretti), XCIIn., 55, Crisi dei versi, La (Flora),


897 912
Considerazioni sulla storia Crispi, Francesco, 213
del mondo (Burckhardt), « Criterion », 864
737 Critica della Ragion pratica
Consiglio, Alberto, 932, (Kant), 796, 1023
933, 937, 995 Critica e i dilettanti, La
Contini, Gianfranco, 423- (Montano), 904
425, 429 Croce, Benedetto, XVII, L,
Contu, Raffaele, 116, 903 LXIX, LXXXI, 57, 82,
« Convegno, Il », 901 344-346, 348, 361, 909,
Convivio (Dante), 803 938, 939, 1002
Copeau, Jacques, 66 Croix de bois, Les (Dorge-
Copernico, 521 lès), 29, 30
Corazzini, Sergio, 78
Corneille, Pierre, 22
Corot, Jean-Baptiste-Camil- Da Góngora e da Mallarmé
le, 588 (Ungaretti), 971-973, 1009
Correggio, 603, 639 Dalle « Lezioni sul Leopar¬
« Corrente di vita giovani¬ di »: Sul frammento
le », 912 « Spento il diurno raggio
« Corriere della Sera », 491 in occidente » (Ungaret¬
« Corriere padano », 923 ti), XCIIIn., XCIVn.
Corso, Gregory, 717 Dall’estetica all’Apocalisse o
Corydon (Gide), 98 I denti di Zimbo (Unga¬
Costanza del canto... (Unga¬ retti), LX, XCIIn., 123,
retti), 922, 1000, 1001, 904, 905
1015 Dama dal cappello rosso
Coup de dés (Mallarmé), (Vermeer), 595
XXVII, LXXVIII, 210, Damaso, Alonso, 542
450, 794, 807, 832, 906 D’Amico, Mario, 983
Courbet, Gustave, 861, 873, Dannazione (Ungaretti), 296,
951 926
Crémieux, Benjamin, 55, D’Annunzio, Gabriele, XCV
662 n., 37, 57, 209, 352, 574,
Crépuscule du matìn (Bau¬ 352, 574, 624, 693, 887,
delaire), 289 967
Crise da Filosofia Messiàni¬ D’Annunzio, Gabrielino,
ca, A (Andrade), 707 907
Crise du concept de littéra- Dante, LV, LXIV-LXVI,
ture, La (Rivière), 61n. LXXI, LXXIII, LXXIV,
Indice dei nomi e delle opere 1063

LXXVII, LXXVIII, 119, 280, 658, 659, 724, 728,


145, 211, 221, 251, 258, 824, 861, 873
261-263, 271, 274, 285, Definizione dell’Umanesimo
293, 305, 310, 318, 333, (Ungaretti), XCVn.
350, 353, 368-373, 376- Degas, Hilaire-Germain-Ed-
378, 380, 382-385, 388- gar, 207, 357
393, 395-400, 403-405, Dei della Grecia, Gli (Schil¬
410, 416-419, 432, 437, ler), 456, 967
439, 461, 465, 472, 479, Del fingere poetando un so¬
499, 533, 543, 553, 558, gno (Leopardi), 488
566, 699, 729, 740, 744, De Libero, Libero, 987
751, 755, 781, 803, 814, Delille, Jacques, 456, 457,
824, 841, 854, 856, 875, 486, 957, 967
Della metrica e del tradur¬
877, 878, 905, 917, 928,
re (Ungaretti), 571, 974,
940, 941, 943-947, 971,
977
1017, 1019
Dell’Arte e del Sentimento
Dante e Virgilio (Ungaret¬
(Ungaretti), 903
ti), XCVn., 887
Delle parole estranee e del
Dante le Juste (Ungaretti),
sogno d’un universo di
942 Michaux e forse anche
D’Arco Avalle, Silvio, XXV, mio (Ungaretti), XCVIn.,
XLIV, LXV 842, 1016
Darwin, Charles Robert, Del più e del meno (Unga¬
307 retti), 912
Daudet, Leon, 28, 29, 236 Delteil, Joseph, 146
Daumal, René, 664 Demoiselles d’Avignon, Les
Daumier, Honoré, 525 (Picasso), XXXIV
David, Jacques-Louis, 724, De Monarchia (Dante), 221,
861 333, 1017
David con la testa di Golia Demonio meridiano, Il (Cal-
(Caravaggio), 449 met), 967
Dazzi, Arturo, 675 Derain, André, 54
De Anima (Aristotele), 944, De Republica (Cicerone),
945 479, 480
Debenedetti, Giacomo, 673, De Rerum Natura (Lucre¬
992 zio), 967
Debussy, Claude, 67 Dermée, Paul, 895
Decamerone (Boccaccio), 409 De Robertis, Giuseppe,
De Chirico, Giorgio, XXXI, LXV, 299, 325, 689, 710,
XLVI, LXXX, 54, 279, 924
1064 Indice dei nomi e delle opere

De Sanctis, Francesco, 324, Dionigi d’Alicarnasso, 579,


410, '411 1005
Descaves, Lucien, 28, 29 « Diorama », 274, 922
Deserto, Il (Ungaretti), 970 Disco/setto su Blake (Un¬
Deserto e dopo, Il (Unga¬ garetti), XCIIn., XCIVn.,
retti), 887, 939, 970, 982, 596, 982
994 Discorsetto sul traduttore
Des Esseintes (A rebours), (Ungaretti), 982, 983
624, 625 Discorso per Valéry (Unga¬
Desnos, Robert, 659, 697 retti), XLIX, L, LXXXIX,
Devoto, Giacomo, 1021 624, 987
Diacono, Mario, vedi D’A¬ Discorso storico d’un Ita¬
mico, Mario liano intorno alla poesia
Diaghilev, Sergej, 61 - romantica (Leopardi), 432,
Dialogo di Federico Ruysch 458
e delle sue mummie (Leo¬ Discorso sulle passioni del¬
pardi), 959 l’amore (Pascal), 516, 517
Dialogo di Plotino e di Por¬ Disgrazie di Bontempelli,
firio (Leopardi), 935 Le (Ungaretti), 907
Dialogo di Firn andrò e di
« Disque Vert, Le », 245,
Eleandro (Leopardi), 769,
899
Distruzione della sintassi.
793, 800, 832
Immaginazione senza fili.
Dialogo di Tristano e di un
Parole in libertà (Mari¬
amico (Leopardi), 788,
netti), 45, 916
805
Di un difetto della critica
Diario d’uno scrittore (Do¬
(Paulhan), 183
stoevskij), 174, 914
Di un difetto della crìtica
Didone [Eneide), 404, 442
(Ungaretti), XCIIn., 182,
Dietro al reale (Ginsberg),
915
719 Divina Commedia, 310, 367,
Dietro il paesaggio (Zanzot-
370, 377, 384, 387, 416,
to), 693, 694, 698 729, 854, 940-942, 946,
Difesa dell’endecasillabo 947
(Ungaretti), XCIIn., 154, Doctrine de « Lacerba », La
912, 913 (Ungaretti), XCIIn., 39,
Difficoltà della poesia (Un¬ 894, 899
garetti), LXXXIX, XC, Dolore, Il (Ungaretti),
XCVIn., 792, 1009, 1012 XXXIII, XLII, 790, 835,
Dingley, l’illustre écrivain 839, 986, 1000, 1009
(Tharaud), 28 Domenico, San, 394, 944
Indice dei nomi e delle opere 1065

Dommartin, Henry, 245 Duchamp, Marcel, XXXIV


Don Abbondio (I Promessi Duclos, Jacques, 257
Sposi), XCIVn. Du cóté de chez Swann
Don Chisciotte (Cervantes), (Proust), 31, 145
504, 505, 514, 517, 521, Due poesie (Esenin), 1016
860, 970, 971 Duhamel, Georges, 28, 30
Don Chisciotte [Don Chi¬ Dulcinea (Don Chisciotte),
sciotte), 513, 518-520, 520, 523
523, 525, 529 Durée et Simultanéité
Don Giovanni (Mozart), 653 (Bergson), XXXIX, 82,
Donna che scrive una let¬ 88
tera (Vermeer),' 592, 594 Dylan, Bob, 716, 717
Donna e la sua servente
(Vermeer), 594
Donna me prega (Cavalcan¬ Eckart, Johannes, 664
ti), 566 « Eclair, L’ », 63n.
Donne, John, 528, 551 Eco, Umberto, 912
Données immediates de la Ecole des indifférents, L’
conscience, Les (Bergson), (Giraudoux), 146
Ecrit sur l’eau (Mioman-
XXIX, XXXVIII, 80, 86
« Don Quichotte », 893, dre), 28
Einstein, Albert, 64, 88,
894, 910
Dopo l’intervista con Qua¬ 811, 833
simodo / Una lettera di Elena o la primavera (Un¬

Ungaretti, 909 garetti), 970


Dorfles, G., 1021 Eliot, T.S., LUI, 624, 631,
Dostoevskij, Fedor, XLII, 9, 632, 662, 677, 906, 983
47, 48, 50, 51, 54, 64, Elisabetta I, 411, 539
67, 98, 130, 134, 174-177, Eloge du bourgeois frangais

253, 254, 260, 274, 275, (Johannet), 149, 912


293, 328, 329, 332, 747- Eloges (Saint-John Perse),
749, 752, 829, 852, 868, 578, 649, 1005
914, 915, 931, 977 Elskamp, Max, 664
Dostoievski e la precisione Eluard, Paul, 894, 900
(Ungaretti), XLII, 50, Endecasillabo, L' (Ungaret¬
896, 1000, 1001 ti), 912
Drieu la Rochelle, Pierre, Enea [Eneide), LXIX, LXXI,
146, 148, 894 LXXIV, LXXVII, 370,
Ducasse, Isidore, vedi Lau- 378, 382, 383, 385, 388
tréamont Eneide, LXIX, LXX, 189,
1066 Indice dei nomi e delle opere

317, 498, 739, 754, 773, Ev olution créatrice, L’


868, 947 (Bergson), 86
Engels, Friedrich, 663 Exil (Saint-John Perse), 651
Enrico, infante del Porto¬
gallo, 124
Epaves du del, Les (Rever- Faguet, Emile, 85, 184, 289
dy), 76n. Falqui, Enrico, 675, 986
Epicuro, 347 Falsi poeti, I (Holderlin),
Epilogo a Vaichiusa (Unga- 967
retti), 922 Falzoni, Giordano, 990
Eraclito, 667, 1002 « Fanfulla », XCVn., 950
Ermengarda (Adelchi), 349 Fargue, Léon-Paul, 148, 245,
Ermete Trismegisto, 661, 662, 804, 900, 908
XXXVIII Fattori, Giovanni, 355
Erode Attico, 668 Faulkner, William, 663, 685
Erodoto, 124 Fautrier, Jean, XXXII,
«Esame», 117 LXXXIII, 670-672, 873,
Eschilo, 48, 51, 256, 337, 888, 911, 1019, 1021
479, 749, 900 Favola di Polifemo e Gala¬
Esenin, Sergej A., 830, 975, tea (Góngora), 541, 542
1016 Federico II di Svevia, 875
Esordio (Ungaretti), XCIIn., Fedra (Fedra di Racine),
60, 897 580-583, 980
« Esprit Nouveau, L’ », 894 Fedra (Pizzetti), 678
« Esquire », 717 Fedra (Racine), LXIII, 577,
Estetica di Bergson, L’ 970, 979, 981, 989, 1005
(Ungaretti), XCIIn., 79, Fedro (Eupalinos), 111
898 Féline, Pierre, 628
Etudes (Rivière), 67 Femmes damnées / Delphi-
Etudes et opinions, 899 ne et Hippolyte (Baude¬
Eupalino (Eupalinos), 112 laire), 966
Eupalino, vedi Eupalinos Ferdinando II, 616
ou l’Architecte Ferlinghetti, Lawrence, 717,
Eupalinos ou VArchitecte 718
(Valéry), XXIII, 103, 111, Ferrara, Mario, 691
903 Feu, Le (Barbusse), 29, 30
Eurialo (Eneide), 387, 388, Feuilles tomhent, les oiseaux
498 s’envolent, Les (Bourges),
Euripide, 666 28
« Europe Nouvelle, L’ », Ficino, Marsilio, 311, 446,
198, 897 841
Indice dei nomi e delle opere 1067

Fidanzata ebrea, La (Rem- Fortuna di Apollinaire in


brandt), 591, 865 Italia, La (Jannini), 895
Fidia, 85 « Forum Italicum », 906,
« Fiera Letteraria, La », 917
LXVI, 117, 154, 157, Foscolo, Ugo, 188, 457, 741,
182, 183, 894, 902, 904, 761
912, 913, 915, 969, 971, Fox, Francis, 308
974, 977, 988, 990, 998, Fracchia, Umberto, 915
1015, 1019 Fragments du Narcisse (Va¬
« Figaro Littéraire », 909 léry), 641, 642, 987
Figlio del costruttore, Il Fragments d’un Journal
(Carrà), 280 d’enfer (Artaud), 664
Filippo II, 411, 539, 545 France, Anatole, 31, 32,
Filone di Alessandria, 567 100, 691, 692
Filosofia dell’effimero e Francesco d’Assisi, San, 390,
Bergson umorista, Una 391, 394, 395, 944, 945,
(Ungaretti), 898 947, 1012
Fine di Crono, La (Unga¬ Franck, César, 67
retti), 275, 752 Francois (Aimée), 68-70
Fine marzo (Ungaretti), 891 Francois, René, 663
Fiori del male, I, vedi Frateili, Arnaldo, XXVII,
Fleurs du mal, Les LXVII, 201, 202, 208,
Fiumi, I (Ungaretti), 821 210, 915, 920
Flaubert, Gustave, 47, 50, Frazer, James, XLIV
566, 748 Freud, Sigmund, XLI, XLIV-
Fleurs de Tarbes, Les (Paul- XLVI, XLVIII, 64, 80,
han), 352, 647, 988 130, 195, 205, 323, 657,
Fleurs du mal, Les (Baude¬ 659, 898
laire), 101, 329, 926 « Fronte », 578, 649
Flora, Francesco, XXXIV,
154-158, 160, 162-169,
491, 697, 698, 904, 912, Gadda, Carlo Emilio, 685-
913, 915 688, 993
Flugi d’Aspermont, France¬ Galileo, 82, 246, 263, 314,
sco, 616 317, 350, 448, 732, 753,
Flugi d’Aspermont, monsi¬ 754, 928
gnore, 616 «Galleria», XCIVn.,
Foà, Arturo, 910 XCVIn., 992
Fole, Le (Pea), 682, 683 Gama, de, Vasco, 124
Folgore, Luciano, 45 Gambetta, Leon, 175
Fort, Paul, 17 Gangale, Giuseppe, 120
1068 Indice dei nomi e delle opere

Gargiulo, Alfredo, 59, 117, Ginsberg, Alien, 714-720,


352, 710 932, 994-996
Garibaldi, Giuseppe, 260 Giobb^, 239
Garric, Robert, 198, 199 Gioconda, La (Leonardo),
Garrigou-Lagrange, Régi- XXXV, 158, 249
nald, 80 Giolli, Renato, 899
Gateau, Jean, 662 Giordani, Pietro, 497
Gauguin, Paul, 67 Giorgione, 640
« Gazette des Beaux-Arts », Giornale d’un scrittore, II,
585 vedi Diario d’uno scrittore
« Gazzetta del Popolo, La », Giornata di fantasmi (Un¬
LXII, 751, 896, 905, 909, garetti), 970
913, 918, 919, 922, 929, Giorni di festa (Papini),
939, 970, 971, 982; 985, 893
1001, 1016 Giotto, 377, 524, 824, 875,
Genèse des Chants de Mal- 878
doror, La (Malraux), 248 Giovacchino da Fiore, 396
Genonceau, Louis, 244 Giovacchino da Fiore (In¬
Geoffroy, Gustave, 29 ferno), 395, 496
George, Stefan, 208 Giovane maternità, La (Un¬
Georges (Aimée), 69 garetti), 970
Géricault, Théodore, 439, Giovanni, San, 853
604-606, 861, 873 Giovanni della Croce, San,
Gerusalemme Liberata, La 641, 784
(Tasso), 155, 947, 998 Giraudoux, Jean, 33, 146
Giani, Giampiero, 504, 970 Girolamo, San, 486
Giaurro (Byron), 460, 498 Girovago (Ungaretti), XXX,
Gide, André, 53, 65n., 67, 823
73, 85, 96-100, 145, 146, Giudizio Universale, Il (Mi¬
148, 165, 232, 233, 245, chelangelo), 377, 604,
289, 623, 631, 637, 663, 772, 805, 840, 876
665, 893, 901, 902, 950- Giuliani, A., 700-702, 993,
952 1021
Gide a Roma (Ungaretti), Giuseppe Ungaretti évoque
901 ses souvenirs sur André
Gilson, Etienne, 80, 1018 Gide, 901
Ginestra, La (Leopardi), Giuseppe Ungaretti: La
326, 479, 745, 788, 801, Canzone «Alla Primave¬
806, 854, 961 ra» di G. Leopardi, 966
Ginnastica spirituale, vedi Gladstone, William, 943
Punto di mira Goethe, Johannes Wolfgang,
Indice dei nomi e delle opere 1069

145, 218, 272, 273, 318, Guarnieri, Silvio, 140


413, 415, 416, 755, 868, Guéhenno, Jean, 198, 199
901 Guérin, de, Maurice,
Gogh, van, Vincent, 671 XXXIII, 10, 23, 895
Gogol, Nikolaj, 829, 834 Guérison sevère, La (Paul-
Goldoni, Carlo, 179, 314 han), 647
Goncourt, Edmond e Jules, Guernica (Picasso), 1021
28, 30 Guerrier appliqué, Le (Paul-
Góngora al lume d’oggi han), 647
(Ungaretti), LXXXVIII, Guglielmo d’Ockham, 396,
LXXXIX, XCIVn, XCVI 943
n., 528, 971, 972 Guittone d’Arezzo, 274,
Góngora y Argote, de, Luis, 309, 310, 751, 824
LXVI, LXVIII, LXXXVI, Guttuso, Renato, 1019
LXXXVIII, 316, 411,
413, 450, 504, 528-532,
534-539, 541-544, 550- Hals, Franz, 725
552, 577, 778, 779, 785, Hardy, Thomas, 662
787, 971, 972, 975, 1008 Hawthorne, Nathaniel, 663
Gore, vescovo, 307 Hazard, Paul, 324
Gorgia (Platone), 367 Hegel, Georg Wilhelm Frie¬
Gorkij, Maksim, 97, 834 drich, 85, 235, 264, 319,
Gosse, Edmund, 208 755, 855
Gourmont, de, Remy, 244, Heidegger, Martin, XXXVIII
245, 918 Heisenberg, Werner, 811,
Govoni, Corrado, 45, 57 833
Goya y Lucientes, Franci¬ Hélène (Valéry), 987
sco, 525, 558, 897 Hellens, Franz, XLIV, 664,
Gozzano, Guido, 78 830, 899, 919, 975, 1016
« Grammata », 666 Henley, William, 635
Grande, Adriano, 675, 987 Hennique, Leon, 29
Grand Meaulnes, Le (Alain- Hermaphrodito (Savinio),
Fournier), 32 45
Grassi, Giulio, 644 « Herne, 1’ », XC
Greco, Agesilao, 907 Héroet, Antoine, 663
Greco, El, 537, 724 Heure avec..., Une (Lefè-
Grido e Paesaggi, Un (Un¬ vre), 63n.
garetti), 839, 1000 Hitler, Adolf, 663
Groethuysen, Bernard, 149, Hdlderlin, Friedrich,
152, 646, 661-664, 909 XXXVIII, 237, 239, 456,
Gromo, Mario, 992 528, 664, 808, 967
1070 Indice dei nomi e delle opere

Hommage à André Gide, ve¬ LXXXI, LXXXVIII, 430,


di Gide a Roma 901, 947, 948
Hommage à Stéphane Mal¬ Incendiario, L’ (Palazze¬
larmé (Ungaretti), 906 schi), 45
« Horizon », 864 Inchiesta mondiale sulla
Hugo, Victor, 10, 11, 91, poesia, 905, 913, 929
107, 185, 329, 566, 804, Incidences (Gide), 97
983 Indefinibile aspirazione (Un¬
Huysmans, Joris-Karl, 245, garetti), LVIII, LIX,
624, 627 XCIVn., 741, 998, 1007
Hymne à la Mort, vedi In¬ Indifferenti, Gli (Moravia),
no alla Morte 205
Hymne à la Pitié, vedi In¬ Indole dell’Italiano (Unga¬
no alla Pietà retti), XCIVn., 897
Inedito petrarchesco, Un
(Weiss), 528n.
Ibsen, Henrik, 47, 64, 117 Inferno (Dante), LXXIII,
« Idea Nazionale », 909 LXXVIII, 395, 398, 418,
Idee del Leopardi intorno 461, 940, 941, 943, 945-
ad usi della lingua e pri¬ 947
me indicazioni sulla me¬ Infinito, L’ (Leopardi),
LXIII, LXXX, XCVn.,
trica delle Canzoni e sul
XCVIn, 155, 161, 440,
rapporto col Petrarca (Un¬
461, 470, 472, 478, 481,
garetti), XCVIn.
502, 823, 959, 962, 963,
Idee del Leopardi sulla cri¬
1004, 1013
si del linguaggio e della
Influenza di Vico sulle teo¬
lingua (Ungaretti), XCVn.,
rie estetiche d’oggi (Un¬
XCVIn. garetti), XCIIn, XCIIIn,
Idee e lettere della Fran¬
CXVn, XCVIn, 344, 938
cia d’oggi (Ungaretti), In Grecia (Vassalini), 978,
229, 893, 918 991
Idee politiche per Dostoiev- Ingres, Dominique, 67, 724,
ski (Ungaretti), 914 824, 951
Idilli (Leopardi), 503 In memoria (Ungaretti),
Igitur (Mallarmé), XXVIII, 819
210 Inni (Ungaretti), LXII,
Illuminations, Les (Rim- LXVII, 772, 840
baud), 45, 629 Inni Sacri (Manzoni), 786,
Immagini di Leopardi e no¬ 787, 804, 1009
stre (Ungaretti), LXVIII, Inno alla Morte (Ungaret-
Indice dei nomi e delle opere 1071

ti), 275, 752, 927, 932 tare intorno (Leopardi),


Inno alla Pietà (Ungaretti), XCIVn.
753, 840, 927 Io sono stato con amore in¬
Inno al ponte etrusco (Un¬ sieme (Dante), 553
garetti), 985 Ippolito (Fedra di Racine),
Inno a Venere (Platen), 581-583
967 Italia favolosa (Ungaretti),
Innocence et mémoire (Un¬ 970
garetti), XXIV, XXIX, « Italia Letteraria, L’ », 193,
LIX, LXI, LXII, XCVn, 893, 899, 903, 915-918,
135, 887, 905-908, 942, 920, 932, 937, 990, 995
953, 978, 982, 984, 987- « Italiano, L’ », LIX, 147,
992, 997, 998, 1000, 1007, 246, 904-908
1012, 1013, 1017 « Italie Nouvelle, L’ », 904
Innocenza e memoria (Un¬
garetti), LIX, LXII,
LXVII, XCIVn., 129, Jaccottet, Philippe, 887,
132, 904-906, 908 906, 949, 975, 984, 988,
Interno, U (Maeterlinck), 1012
245 Jacob, Max, 76, 78, 146,
Interpretazione di Roma 229, 245, 655, 664, 893
(Ungaretti), LXXXIX, 603, Jacob Cow (Paulhan), 258,
984 988
Introduction à la Méthode Jacopone da Todi, LXIV,
de Léonard de Vinci (Va¬ XCIVn., XCVn, 121,
léry), 634 274, 292, 310, 312, 351,
Introduction au discours 354, 715, 751, 780, 782,
sur le peu de réalité 784, 824, 913, 1009, 1012
(Breton), 664 Jacques Rivière riabilita il
Intrusa, L' (Maeterlinck), « sentimento » (Ungaret¬
245 ti), XCIIn, 66, 897, 898
« Inventario », 896, 901, Jahier, Piero, 678, 998
922, 930, 996, 997, 1000- Jammes, Francis, 664, 893
1002 Janni, Guglielmo, 922
Invenzione (Manzoni), 360 Jannini, P.A, 895
Invenzione della pittura Jarry, Alfred, XXXIII, 17,
d’oggi (Ungaretti), 982 23
Invetticoglia (Giuliani), 701 Jet d’eau (Baudelaire), 289
Invitation au Voyage (Bau¬ Jeune Parque, La (Valéry),
delaire), 289 L, 621, 638, 642, 656,
Io qui vagando al limi¬ 824, 987
1072 Indice dei nomi e delle opere

Johamjet, René, 149-152, 247, 295, 618, 695, 702,


909, 912 714, 822, 836, 924
Jolie Rousse, La (Apollinai- Lacrojx, editore, 241, 242,
re), 824 244
Jouhandeau, Marcel, 148, Lafcadio (Les caves du Va-
664 tican), 97
Journal (Gide), 952 La Fontaine, de, Jean, 447,
« Journal des Poètes, Le », 530
Laforgue, Jules, XXXIII,
927, 928, 930
23, 54, 820, 895
Jouve, Pierre-Jean, LXXXVI,
Lafragòla, Mario, 892
653, 654, 665, 919, 990
Lajolo, Davide, 696
Joyce, James, 205, 662, 719,
Lamartine, de, Alphonse-
867
Marie-Louis, 10
Jukebox all’idrogeno (Gin-
Lamento cairino (Ungaretti),
sberg), 994-996
Justine (Sade), 639 970
Lancret, Nicolas, 603
Larbaud, Valéry, 146, 148,
Kaddish (Ginsberg), 719, 245, 627, 661-663
720, 996 Las Casas, de, Bartolomé,
Kafka, Franz, 663, 867, 448
941, 977 Latini, Brunetto, 647
Kahn, Gustave, 17 Laura (Canzoniere), LXXV,
Kandinskij, Vasilij, 861, 403, 408, 415, 416, 419,
1014 420, 428, 437, 464, 733,
Kant, Immanuel, 796, 801, 782
802, 1023, 1024 Laurano, Renzo, 998
Kavafìs, vedi Cavafis Laurencin, Marie, 617
Keats, John, 456, 606, 967 Lautréamont, conte di,
Kennedy, John F., 717 XXXIII, XXXV, LVIII,
Kierkegaard, Soren, 662 LXVI-LXVIII, LXXI, 23,
Kilwardy, Roberto, 393 90-93, 215-237, 239, 241,
Klee, Paul, 670, 861, 873 242, 244-251, 657, 899,
Kostrowiska, Angelica, 616 901, 918, 977
Kostrowisky, Michele, 616 Lautréamont (a cura di
Kra, Simon, 143, 215, 908 Giolli), 899
Kubin, Alfred, 861 Lautréamont ovverosia O-
dore di bruciato (Unga¬
retti), XCIIn., 246, 918
« Lacerba », XXXV, 41, 141, Léautaud, Paul, 901
Indice dei nomi e delle opere 1073

Leconte de Lisle, Charles- 579, 580, 606, 630, 632,


Marie-René, 248 634, 639, 649, 650, 662,
Lefèvre, Frédéric, 63n., 198 688, 696, 715, 741, 744,
Léger, Fernand, 54 745, 751, 754-756, 761-
Leggende (Ungaretti), 269 764, 766, 769, 776, 782,
Leibnitz, Gottfried Wilhelm, 788, 793, 795-798, 800-
326, 664, 1018 802, 805, 806, 808-810,
Lenin, 126, 153, 687, 911 812, 813, 823, 824, 832,
« Leonardo », 39 841, 843, 850-852, 854,
Leonardo da Vinci, 103, 856, 857, 862, 871, 887,
113, 171, 252, 262, 263, 899, 901, 903, 905, 906,
271, 312, 313, 634, 638, 917, 928, 931-937, 941,
897, 903, 928 948-950, 953-963, 965-
Leonida, 336 969, 971, 995, 1003, 1004,
Leopardi, Giacomo, XVIII, 1023
XIX, XXIV, XXV, XXXI- Leopardi, Monaldo, 461,
XXXIII, XXXV-XXXVII, 494
XXXIX, XLII, XLIX- Leopardi et Mallarmé (Un¬
LIII, LV, LVII, LIX, garetti), 906
LXII-LXVI, LXVIII, Leopardi et Pétrarque (Un¬
LXX-LXXIII, LXXVIII- garetti), 887
LXXXIII, LXXXIX, XC, Lespès, Paul, 241, 242
XCIIIn.-XCVIn., 13, 14, Lettera sul Romanticismo
23, 40, 55, 57, 58, 103- (Manzoni), 458
109, 129, 133, 136, 137, «Letterature Moderne»,
141, 154, 155, 157, 158, 491
161, 167, 188-191, 194, Lettere scientifiche ed eru¬
217, 221, 228, 237, 239, dite (Magalotti), 904
240, 254, 255, 264, 271- « Lettres, Les », 151
274, 285-289, 292-295, Levi, Carlo, 991
298, 312, 317-319, 324- Lezione d’anatomia (Rem-
329, 331-334, 336, 338, brandt), 591
340-342, 346, 347, 350, L. H. O. 0. Q. (Duchamp),
351, 404, 413, 415, 416, XXXIV
419, 425, 430, 432-436, Libertà (Ungaretti), 1000,
438-440, 442-445, 448- 1002
450, 454, 455, 457-461, « Libri del giorno », 912,
463-465, 467-470, 472, 913
478, 480-485, 487-491, Libri Profetici (Blake), 719,
494, 495, 497-503, 514, 808, 977, 983
515, 520, 528, 544, 566, Limbour, Georges, 664
1074 Indice dei nomi e delle opere

Lindorq di deserto (Unga¬ Maflei, Scipione, XXVIII,


retti), 298, 299 502
Lironcurti, Mario, 118, 119 Magalotti, Lorenzo, 117,
« Littérature », XLI, 245, 904'
657, 847, 892-894, 918 Magia, scienza e religione
« Livres Choisis », 893 (Malinowski), XCIIIn.
Locke, John, 494, 495 Magistero di Pierre Jean Jou-
Lombroso, Cesare, 324 ve (Ungaretti), XCVIn.,
Longhi, Roberto, 586 653, 990
Mai, Angelo, 479, 480, 498
Longino, Cassio, 336
Malaparte, Curzio, 675, 991
Lorca, Federico Garcia, 512,
Malherbe, de, Francois, 184
662
Malinowski, Rodon, XLIV,
Loterie clandestine (Baril-
XCIIIn.
li), 680
Mallarmé, Stéphane, XIX,
Lotto, Lorenzo, 951
XXX, XXXIII, XXXIV,
Louys, Pierre, 101
XXXVI, XXXVIII, LI,
Lucrezio Caro, Tito, 239,
LII, LV, LIX, LXII,
967
LXIII, LXVI, LXVIII,
Luglio Pugliese (Ungaret¬
LXXXII, 10, 23, 56, 63,
ti), 971
Lugnani, Giovanna, 644 79, 85, 101, 107-109, 117,
Luigi XIV, 291 129, 133, 136, 141, 147,
Lutero, Martin, 120 157, 203, 204, 207-210,
Luzi, Mario, 987 215, 288, 289, 293, 294,
298, 300, 359, 413, 448,
450, 487, 551, 577, 578,
Maccari, Mino, 691 580, 597, 620, 624-626,
Machiavelli, Niccolò, 103, 629, 697, 764, 794, 795,
216, 903 807, 808, 820, 862, 895,
MacLeish, Archibald, 578, 905-907, 941, 967, 976,
649, 990, 1005 984
Madonna col' Bambino (Pie¬ Malraux, André, 248, 249,
ro della Francesca), 585, 664, 880
589 Mamelles de Tirésias, Les
Madonna del Canonico (Apollinaire), 21
Giorgio Van der Paele Mancuso, Dora, 921
(Van Eyck), 589 Manet, Edouard, 861, 951
Madre, La (Ungaretti), 1009 Manifesto del Surrealismo
Maeterlinck, Maurice, 78, (Breton), XL, XLIV
245 Manifesto tecnico della let-
Indice dei nomi e delle opere 1075

teratura futurista (Mari¬ « Mattino, Il », LIX, 898,


netti), XXXIV, 915 903-908, 912-914, 929,
Mantegna, Andrea, 852 932
Manzini, Gianna, 988 Maurras, Charles, 29, 60,
Manzoni, Alessandro, 79, 234, 897
XXXIX, XCIIn., 56-58, Médaille qui s’efface, La
157, 162, 167, 288, 346- (Tailhade), 851
350, 360, 361, 384, 435, Médaillon (Ungaretti), 927
436, 458, 566, 598, 604, Medea (Euripide), 666, 667
741, 786-789, 804-807, Mélanges et Pastiches
941, 1009 (Proust), 31
Manzoni, Enrichetta nata Memorie sentimentali di
Blondel, 786, 804 Giovanni Miramare (An-
Marianni, Ariodante, 887, drade), 994
974, 991, 996 Mendes, Murilo, 703, 704,
Marinetti, Filippo Tommaso, 990, 994
XXVIII, XXXII, XXXIV, « Mercure de France », 10,
XXXV, XXXVIII, 23,58, 241, 244, 864, 926
XXXIX, LVIII, 37, 41, Merlettaia, La (Vermeer),
45, 170, 171, 265, 295, 592
298, 915 « Messaggero, Il », 203
Marino, Giambattista, 447, «Messaggero Egiziano»,
529-531, 541, 663 888, 891
Maritain, Jacques, 80, 233, Messaggio, Il (Parini), 916
258, 259, 261 « Mesures », 646, 829, 864
Marivaux, de, Pierre-Carlet Metamorfosi, Le (Ovidio),
de Chamblain, 67, 68 352, 537
Marone, Gherardo, 714 Métamorphose de Dieu, La
Marradi, Giovanni, 203 (Gilson), 1018
Marthe (Aimée), 68, 70 Metastasio, 740
Martirio di San Matteo, Il Metrica o estetica? (Unga¬
(Caravaggio), 449 retti), 912, 913
Marx, Karl, 153, 663 « Mezzogiorno », 926
Masaccio, 791 Michaux, Henri, XLIV, XC,
Matière et mémoire (Berg¬ XCI, 646, 664, 899
son), XXIX, 86 Michel, Paul-Henri, 55
Matisse, Henri, 24, 861 Michelangelo, LXX, 208,
Matrimonio del Cielo e 218, 221, 256, 310, 323,
dell’Inferno (Blake), 99, 334, 362, 377, 445, 446,
977 551, 598, 603-605, 612,
Matteo d’Acquasparta, 395 761, 772, 787, 805, 840,
1076 Indice dei nomi e delle opere

841, 876, 902, 939, 951, Montherlant, de, Henri, 146


981 ' Monti, Vincenzo, 54, 456,
Michele (Gli indifferenti), 458, 502, 967
205, 206 Montignoso (Pea), 682, 683
Michelet, Jules, 610 Moraes, de, Vinicius, 705,
Mickiewicz, Adam, 392 706, 994
Migliori, B., 904 Morand, Paul, 893
Mille e una Notte, Le, 96, Morandi, Giorgio, 279, 698,
872 861
Miloslawsky, Maria, 830, Moravia, Alberto, 205, 206
975, 1016 Moréas, Jean, 211
Mio Fiume anche tu (Un¬ Moreau, Hégésippe, 289
garetti), 790, 1009 Moroncini, Francesco, 188,
Miomandre, de, Francis, 28 325
Mirbeau, Octave, 28 Mort de quelqu’un (Ro-
Moammed Sceab, 818, 819 mains), 146
Modernità e tradizione Morte del Papa, La (Pa¬
(Cajumi), 915 scoli), 461
Modigliani, Amedeo, 25, 54, Morte di Crono, La (Un¬
617, 657, 861 garetti), 301, 302, 926
Molière, 231, 249 Morte e resurrezione del¬
Momigliano, Attilio, 904 l’endecasillabo (Ungaret¬
Monaca di Monza >(I Pro¬ ti), 912
messi Sposi), 349 Mots Anglais, Les (Mallar¬
Mondrian, Piet Cornelis, mé), LXII, 907
LUI Mozart, Wolfgang Amadeus,
Monet, Claude-Oscar, XXX, 653
203, 698 Mucci, Velso, 691
Monfort, Eugène, 33 Muratori, Ludovico Anto¬
Monsieur Teste (Soirée avec nio, 448, 449, 952
M. Teste), 624 Musset, de, Alfred, 10, 243
Montaigne, de, Michel Ey- Mussolini, Benito, 58, 126,
quem, 89, 145, 184, 216- 141, 149, 153, 236, 675,
218, 233, 448, 603, 687, 892, 909-912
851 Mussorgski, Modesto, 67
Montale, Eugenio, 203, 674, Myskin, principe (L’idiota),
693, 987, 998 50, 748
Montano, Lorenzo, 59, 117,
118, 293, 904
Montesquieu, de, Charles- Nadja (Breton), XLVI, 659,
Louis de Secondat, 153 664
Indice dei nomi e delle opere 1077

Napoleone I, 348, 853 La», XIV, LIX, 31, 45,


Napoleone III, 175 58, 61n., 66, 67n., 68n.,
Marcisse (Valéry), 423 76n., 100, 147, 183, 198,
Nardelli, Federico, 907 230, 232, 634, 638, 646,
Natale (Góngora), 787 864, 894, 897, 901, 904,
Natale del 1813 (Manzoni), 906, 913, 917, 919, 922,
604, 786, 787, 804, 805 926, 927, 942
Natale del 1833 (Manzoni), « Nouvelles Littéraires », 198
786-788, 804, 805, 1009, « Nuova Antologia », 948
1012 Nuovo mago. Il (Ungaret¬
Natta, Giacomo, 689-692, ti), XLV, XCIIIn.
993 « Nuovo Paese, Il », 896,
Naufragio senza fine (Unga¬ 898
retti), XCIVn., 262, 913, « Nuovo Ricoglitore », 468
919, 920, 1021
Navi delle cavalle (Esenin),
830 Odissea, 541
Neiges (Saint-John Perse), Odor di terra (Pavolini),
651 LVII
Nella morte di una donna Odore di bruciato (Unga¬
fatta trucidare col suo retti), LXVI, 899, 918
portato dal corruttore per CEuvres (Nerval), 889
mano ed arte di un chi¬ CEuvres (Valéry), 927
rurgo (Leopardi), 461 Omero, 459, 699, 858, 955
Nerval, de, Gérard, 889 Omero (Rembrandt), 865
Nietzsche, Friedrich Wil¬ O notte (Ungaretti), 825
helm, 17, 64, 239, 254, Opera Prima (Papini), 15,
255, 264, 319, 324, 662,
45
756, 854, 855, 901, 917, Operette morali (Leopardi),
935 XXXIII, 13, 194, 325,
Nievo, Ippolito, 255
350, 468, 469, 958, 960,
Niso [Eneide), 387, 388,
962, 1006
498
Opus maius (Bacone), 396
Nostra salvezza, La (Unga¬
Opus minus (Bacone), 396
retti), 929
Opus tertium (Bacone), 396
Nostromo (Conrad), 81
«Notes et discussions», 894 Orazio, 858, 981
Nourritures Terrestres, Les Orestano, Francesco, 362
(Gide), 96 Orfano selvaggio (Ginsberg),
Nouveaux Prétextes, 926 719
« Nouvelle Revue Franose, Origini della poesia di Giu-
1078 Indice dei nomi e delle opere

seppe Ungaretti (Rebay), 484, 491, 516, 517, 519,


895 * 566, 761, 785, 787, 796-
Origini del Romanticismo 798, 801, 805, 811, 850,
italiano, Le (Ungaretti), 851( 854, 928, 964, 981,
XCVn., 950, 952 1009, 1023, 1024
Origo, Iris, 899 Pascoli, Giovanni, XXXV,
Orpbée (Valéry), 987 LVIII, LXXII, 57, 78,
Ortolani, Sergio, 987 295, 461, 463, 490, 574,
Ospite dell’Hotel Roosevelt, 693
IJ (Natta), 993 Pas perdus, Les (Breton),
Ossi di seppia (Montale), 61n., 247
674 Passato di Lautréamont, Il
Ovidio, 352, 537, 541, 981 (Ungaretti), 241, 899, 918
Passione, La (Manzoni), 162
Pasternak, Boris, 661, 829
« Paese Sera », 909 Pàu Brasil (Ungaretti), 887,
Pagliano-Ungari, Graziella, 994
894 Paulhan, Jean, XLII,
« Palatina », 993 LXXXVI, 49, 65n, 66,
Palazzeschi, Aldo, 45, 57, 142, 148, 183, 192, 233,
998 258, 352, 532-534, 645-
Palazzi, F., 904 648, 661-664, 901, 906,
Palinodia (Leopardi), 326 911, 917, 975, 978, 988-
Palinuro [Eneide), LXIX 990
Pancrazi, Pietro, 689, 815, Pauvert, Jean-Jacques, 894
888 Pea, Enrico, 681-684, 817,
Panzini, Alfredo, 57, 691 818, 993
Papini, Giovanni, XIV, 15, Pedro, Antonio, 723, 996
39, 40, 45, 57, 689, 815, Péguy, Charles, 87
888, 893 Pellegrinaggio (Ungaretti),
Papiro della calma, Il (Un¬ 821
garetti), 939 Pellicano, Il (Musset), 243
Paradiso (Dante), 285, 293, Pellico, Silvio, 467, 468,
389, 417, 942-947 498
« Paragone », 953 Pellizzi, Camillo, 571
Parini, Giuseppe, 193, 408, Pensées (Pascal), 484, 964
916 Pensieri (Leopardi), 327
Pascal, Blaise, XXXVII, Pensieri di varia filosofia e
213, 216, 217, 222, 232, di bella letteratura (Leo¬
235, 243, 250, 314-316, pardi), 106
334, 444, 447, 455, 480, Pensiero di Leopardi, Il
Indice dei nomi e delle opere 1079

(Ungaretti), 324, 915, 927, 471, 473, 528, 529, 532-


931, 932, 935 534, 539, 544, 550-554,
Pentecoste, La (Manzoni), 556, 558-560, 566, 570,
598 572, 582, 584, 624, 698,
Per Alien Ginsberg (Unga¬ 715, 729, 733, 744, 751,
retti), LXXXIX, 714, 994 755, 760, 772-774, 810,
Perché scrivete voi? (Unga¬ 840, 841, 860, 878, 887,
retti), XCIVn., 229, 917, 903, 905, 922, 933, 937,
918 950, 975, 976, 979, 980
Pereyra, Carlos, 124 « Phalange », 245
Perfections du noir (Unga¬ Philippe, Charles-Louis, 32
retti), 660 Pianto nella notte (Unga¬
Per Mallarmé (Ungaretti), retti), 970
XCIIn., 207, 916 Picasso, Pablo, XXXI,
Perrault, Charles, 579, 1005 XXXIV, 22, 54, 204, 280,
Perri, F., 915 537, 576, 617, 707, 724,
Perse, Saint-John, 549, 578- 728, 824, 861, 873, 1021
580, 649-652, 661, 662, Piccioni, Leone, XXV, 710,
664, 900, 901, 975, 977, 711, 713, 907, 932, 994
989, 990, 1005 Piccioni, Piero, 711
Per una donna inferma di Pico della Mirandola, 305
malattia lunga e mortale Piero della Francesca, 585,
(Leopardi), 461 586, 589
Pesca miracolosa, La (Un¬ Pierre-Quint, Leon, 242,
garetti), 970 248, 249
Petrarca, Francesco, XIV, Pietà di Pale strina (Miche¬
XXV, XXXII, LUI, LVI, langelo), 841, 951, 952
LVIII, LXIII-LXVI, Pietà Rondanini (Michelan¬
LXX, LXXIII, LXXV- gelo), 446, 604, 787, 805,
LXXX, LXXXVI, XCVn., 841, 902
13, 40, 54, 61, 76, 103, Pietro il Grande, 176, 914,
111, 117, 120, 129, 132, 915
135, 141, 158, 159, 189, Pignatari, Decio, 708
190, 199, 204, 255, 259, Pignato, Luca, 209
262, 263, 274, 285, 288, Pirandello, Luigi, 358
293, 300, 310, 312, 313, Pittura Metafisica (Carrà),
318, 322, 333, 350, 353, 16
400-406, 408, 409, 411, Pittura, poesia, e un po’ di
413-416, 419, 421, 423- strada (Ungaretti), XCIIn.,
425, 427-429, 435, 438, 20, 892, 985
442, 451-453, 464, 465, Più belle pagine di Lorenzo
1080 Indice dei nomi e delle opere

Magalotti, Le (a cura di Polemica dell’endecasillabo,


Montano), 117, 904 La (Flora), 913
Pivano, Fernanda, 714, 715, Poliziano, 168, 432, 454,
717, 718, 994-996 489
Pizzetti, Ildebrando, 678 Pollock, Leopold, 670
Plaisirs et les jours, Les Pompeati, Arturo, 904
(Proust), 31 Ponge, Francis, 664, 906
Platen, von, Augustus, 967 Pont traverse, Le (Paul-
Platone, XCIIn., 82, 103, han), XLII, 647
221, 303, 334, 338, 408, Pope, Alexander, 326
570, 773, 841, 902, 936, «Popolo d’Italia, II»,
937, 980 XVIII, 204, 268, 892,
Plotino, 936, 937, 980 894, 909, 910, 916, 947,
Pluies (Saint-John Perse), 989
651 Porfirio, 936
« Piume, La », 244 Porta, E., 1021
Poe, Edgar Allan, XXX, Porte Etroite, La (Gide),
XLVIII, L, 85, 195, 294, 96
328, 329, 490, 608, 629, Porto Sepolto, Il (Ungaret¬
662, 931, 984 ti), XXVI, XXXV, 13,
Poèmes à l’étrangère (Saint- 282, 357, 618, 674, 714,
John Perse), 651 815, 817, 819, 821, 822,
« Poesia », 532, 974, 987, 835-837, 892, 911, 926
988 Posizione storica e grandez¬
Poesia e civiltà (Ungaretti), za di Giambattista Vico
LXVIII, XCIVn, 303, (Ungaretti), 938, 939
919, 927, 1001 Pound, Ezra, 708
Poesia e pittura (Ungaret¬ « Pourquoi écrivez-vous? »
ti), 270, 920, 921 / Réponse (Ungaretti), 35,
Poesia e umanità di Unga¬ 893, 918
retti, vedi Prime mie poe¬ Poussin, Nicolas, 588
sie..., Le Povera Juliet (Giuliani),
Poésies (Lautréamont), 93, 701, 993
94, 241-245, 250, 657, 899 Povero nella città, Il (Un¬
Poésies (Valéry), 638 garetti), 504, 887, 970
Poeta dell’oblio, Il (Unga¬ Preambolo alla ristampa del¬
retti), XCVn., 398, 922, le « Annotazioni » (Leo¬
930, 947, 948, 953 pardi), 468
Poeti d’oggi (a cura di Pa- Précurseur de Des Esseintes,
pini e Pancrazi), 689, 888 Un (Ungaretti), 904
Indice dei nomi e delle opere 1081

Preda sua (Ungaretti), 970 Purgatorio (Dante), 417,


Prefazione alla 2“ edizione 418, 956
di « Porto Sepolto » (Un¬ Puskin, Aleksandr S., 254,
garetti), XXXI 663
Preliminari dell’endecasilla¬
bo (Flora), 913
Premiers principes d’Estbé- Quand’io son tutto volto
tique (Solfici), 41 in quella parte (Petrarca),
« Présence », 987 LXXV
Prezzolini, Giuseppe, 58 Quasimodo, Salvatore, 693,
Prigioni (Michelangelo), 256 695, 987, 998
Prima epistola (San Gio¬ Quelques réflexions suggé-
vanni), 853 rées à l’auteur par sa
Prima invenzione della poe¬ poésie (Ungaretti), 896,
sia moderna (Ungaretti), 922, 1000, 1001
930 Quer pasticciaccio brutto de
via Merulana (Gadda),
« Primato », 947
686
Primavera, La, vedi Alla
Primavera
Prime mie poesie..., Le (Un¬
Rabelais, Francois, 185, 205,
garetti), XCIIn., XCVn.,
685, 701
267, 816, 827, 920
« Raccolta, La », 891
Primo amore (Ungaretti),
Racine, Jean, LXIII, LXVI,
916
13, 62, 63, 157, 185,
« Procès Barrès, Le » (Sa-
230, 291, 411, 413, 447,
nouillet), 894
450, 455, 530, 566, 577-
Processo surrealista contro
580, 582-584, 624, 650,
Barrès, Il (Pagliano-Un-
787, 897, 955, 971, 979,
gari), 894 980, 991, 1005
Professor Pi (Giuliani), 701 Radeau de la Meduse, Le
Promessi Sposi, I (Manzo¬ (Géricault), 604
ni), XCIIn., 56, 349, 435 Raffaello, 85, 576, 824, 897,
Proust, Marcel, XIV, XIX, 951
27, 29-32, 63, 67, 86, Ragioni di una poesia (Un¬
117, 145, 148, 293, 329, garetti), XXXVII, XLI,
425, 585, 593, 594, 867, LXI, LXVIII, XCIVn.,
897, 931 747, 896, 920, 922, 928,
Punto di mira (Ungaretti), 930, 997, 1000-1003
XCIIn., XCIVn., 285, Ragioni d’una poesia (Unga¬
905, 913, 926 retti), LIX, 896, 922,
1082 Indice dei nomi e delle opere

997„ 999, 1000, 1006 Ribémont-Dessaignes, Geor¬


Raimondi, Giuseppe, 895 ges, 38, 894
Rambaud, Henri, 63n., 906 Ricordo d'Affrica (Ungaret¬
Rameau, Jean-Philippe, 67 ti),'825, 826, 926
Ramo d’oro, Il (Frazer), Riflessioni sulla letteratura
XCIIIn., 902 (Ungaretti), LI, 274, 922
Ranieri, Antonio, 995 Riflessioni sullo stile (Un¬
Rapporto con il Petrarca, garetti), LIX, LXXXIX,
e introduzione al com¬ XCVIn., 723, 996, 997,
mento dell’«Angelo Mai» 1000
(Ungaretti), XCIVn., Rigaut, Jacques, 894
XCVn. Rilke, Rainer-Maria, 208,
Rarefazioni (Govoni), 45 624, 664
Rebay, Luciano, 895, 906, Rimbaud, Arthur, XXXIII,
917 10, 23, 210, 215, 242,
Rebora, Clemente, 572, 678 245, 298, 629, 718, 764,
Red Devii, 248, 249 895, 905, 976
Régnier, de, Henri, 100 Rinomanza di Paul Valéry,
Religione e magia, vedi Ra¬ La (Ungaretti), XCIIIn.,
mo d’oro. Il XCIVn., 100, 902
Religion et culture (Mari¬ Rire, Le (Bergson), 81
tain), 258 Risata dello Dginn Rull, La
Rembrandt, Harmenszoon
(Ungaretti), 970
van Rijn, 314, 558, 588,
Risi, Nelo, 990
591, 864, 865
Risposta all'anonimo (Unga¬
« Renaissance, La », 64n.
retti), XCIIn., 203, 916
Renan, Joseph-Ernest, 184
Ritorno di Baudelaire, Il
Renoir, Auguste, XXX, 54,
(Ungaretti), XCIIn., 10,
203, 207, 861, 865
« République », 260 891
Requiem (Esenin), 830 Ritratto di Marguerite (O-
« Resto del Carlino, Il », rigo), 899
914, 915, 917 Rivai, Paul, 55
Reverdy, Pierre, XIV, Rivière, Jacques, XVI, XIX,
XLIV, XLV, 76, 76n., 78, XXVI, XLI1, 47, 50,
655 61n., 66-72, 230, 234,
« Revue des Deux Mondes », 646, 747, 748, 761, 897,
58, 233 906
Reyes, Alfonso, 662 « Rivista Rosminiana », 424
Rhumbs (Valéry), 106n., Robespierre, de, Maximilien-
627, 639 Fran^ois-Isidore, 153
Indice dei nomi e delle opere 1083

Roger des Genettes, Mada¬ St.-John Perse (Ungaretti),


me, 566 LXXXIX, 649, 989
Rognoni, Luigi, 1013 Saint-Pol-Roux, 657
Romains, Jules, 146 Saint-Simon, de, Claude-
Romanzo di Moscardino Henri de Rouvroy, 32
(Pea), 684 Saison en enfer, Une (Rim-
Romoif, Serge, 894 baud), 629
« Ronda, La », 58, 325, 695, Salices (Sannazzaro), 967
744, 747, 824, 864, 896, Salmon, André, 245, 655
1001 Salomone, 393
Ronsard, de, Pierre, 61, 82, Salvatori, Gigi, 682
572 Sampoli, Furio, 995
Rosa di Pesto, La (Unga¬ San ciò (Don Chisciotte),
retti), 970 518-520, 522, 523, 525
Rosai, Ottone, 279, 1019 Sanders, Ed, 995
Rosati, Salvatore, 974 San Girolamo (Caravaggio),
Rosmini, Antonio, 360 450, 953
Rosny, fratelli, 29 Sannazzaro, Jacopo, 454,
Rossi, Giovanni, 941 967
Rossi, Pellegrino, 460, 467 Sanouillet, Michel, 894
Rostand, Edmond, 616, 986 San Paolo, primo eremita
Rouault, Georges, 861 (San Girolamo), 487
Rousseau, Jean-Jacques, 184, Sapegno, Natalino, 835
185, 230, 449, 455, 457 Sarto cinese, Il (Paulhan),
Rousselot, abate, 156 532
Ruskin, John, 31 Sartre, Jean-Paul, 855, 868
Saul (Rembrandt), 865
Savinio, Alberto, 45, 59, 986
Saba, Umberto, 673-677,
Saviotti, Gino, 182, 915
987, 992, 998 Savonarola, Girolamo, 311,
Sabato del villaggio, Il (Leo¬
446, 841
pardi), 163, 167
Sbarbaro, Camillo, 689, 690
Sacerdote, Emanuele F., 992
Scève, Maurice, LXIII,
Sade, de, Donatien, 639
LXXX, 528, 551, 565, 663
Saffi, Aurelio, 59
Scheiwiller, Vanni, 990
Saggio (Locke), 494
Saggio sopra gli errori po¬
Schiller, von, Johann Chri¬
polari degli antichi (Leo¬ stoph Friedrich, 456, 967
pardi), 487, 967 Schlumberger, Jean, 901
Sainte-Beuve, de, Charles- Schoenberg, Arnold, 867
Augustin, 184, 810, 949 Schopenhauer, Arthur, 851
1084 Indice dei nomi e delle opere

Schroedinger, Erwin, 811, Serra, Ettore, 281, 282, 815,


833 822, 923, 925, 926
Schtyob, Marcel, 48 Serra, » Renato, 710
Scipione, Gino Bonichi det¬ Seurat, Georges, 589, 873
to, 279, 558, 607, 649, Severini, Gino, 861
690, 861 Sfinge etrusca (Ungaretti),
Seconda Conferenza di Giu¬ 985
seppe Ungaretti sul pen¬ Shakespeare, William,
siero di Vico, 938 LXVII, 11, 145, 179, 412,
Secondi idilli (Leopardi), 413, 551-553, 555, 556,
503 558, 560, 562, 563, 565-
Secondo discorso su Leo¬ 567, 570-572, 859, 868,
pardi (Ungaretti), LXXXI, 971, 973-975, 977, 1014
LXXXVIII, XCÌVn., Shelley, Percy Bysshe, 456,
XCVIn., 451, 953, 1013, 606, 967, 984
1018 « Sicilia del Popolo », 930,
Secret Livre, LVIII 992, 1002
« Selvaggio », 691 Sid Hamet ben Engeli (Don
Sémantique (Paulhan), 65n. Chisciotte), 505, 511
Seneca, 20, 250, 300 Sigieri di Brabante, 392,
Sentimento del Tempo (Un¬ 393, 942, 944
garetti), XXIV, XXV, Signac, Paul, 698
XXXIII, XXXIV, XXXVI, Significato dei sonetti di
XXXVII, XXXIX, XLIII, Shakespeare (Ungaretti),
XLVIII, XLIX, LII, LUI, LXXXIX, 551, 973
LIX, LXI, LXII, LXXVII, Silenzio in Liguria (Unga¬
424, 574, 665, 674, 715, retti), 825
762, 772, 774, 820, 823, Siila, Lucio Cornelio, 236
825, 826, 828, 837-841, Silone, Ignazio, 867
912, 916, 926, 927, 932, Sdori, Luigi, 949
990, 999, 1002, 1014 Silvia (A Silvia), 443, 444
Sentimento di Dio, vedi Sinisgalli, Leonardo, 691,
Ragioni di una poesia 693, 695, 987, 1020
Sentimento di Roma in Pe¬ Sintetismi (Folgore), 45
trarca (Ungaretti), 230, Si porta (Ungaretti), 891
947 Sirene (Ungaretti), 275, 752
Sera (Ungaretti), 296 Sobrero, Ornella, XCIVn.
Sera del dì di festa, La Socrate, 631, 662
(Leopardi), 442, 461, 465, Socrate (Eupalino), 111,
478, 481, 486, 488 113, 116, 336
Sereni, Vittorio, 693, 695 Soffici, Ardengo, XIV, XL,
Indice dei nomi e delle opere 1085

15, 41-45, 53, 57, 207, Souvenirs de la Cour d’As-


617, 895, 896, 924 sises (Gide), 96
Sofocle, 666, 1013, 1014, Spadini, Armando, 54
Sogliano, Mario, 998 Spaventacchio, Lo (Pea),
Sogno, Il (Leopardi), XCVn., 682, 683
XCVIn., 464, 488 Spencer, Herbert, 307
« Soir, Le », 928 Spento il diurno raggio in
Soirée avec M. Teste (Va¬ occidente (Leopardi), L,
léry), XLIV, 101, 146, LI, LXXX, CXIVn.,
621, 624, 635, 637, 656 XCVIn.
« Soiaria », 864 « Spettatore Italiano, Lo »,
Soledades (Góngora), 541, XCIIIn., 119n., 458, 498,
543-545, 547, 550, 972, 897, 909, 919, 956
973 Stagioni, Le (Ungaretti),
Solitudine (Ungaretti), 297 275, 301, 302, 752, 825
Solitudine, La (Savioli), 967 Stambul ed altri paesi (Ser¬
Solmi, Sergio, 987 ra), 923
Sonetti (Shakespeare), 551, « Stampa, La », 203
554-561, 564, 565, 567, Stato della prosa francese
569, 571, 574, 575, 577, (Ungaretti), XCIIn., 143,
973, 1014 907, 908, 917
Sonetti dell’harem (Pea), Stazio, Publio Papinio,
681 697
Sonetto amoroso (Góngora), Stendhal, 32, 97, 98, 230,
536, 538, 541 603, 639
Sonetto eroico (Góngora), Stevenson, Robert Louis,
540 48, 81, 82
Sono una creatura (Unga¬ Storia d’Italia (Botta), 960
retti), 296 Storia di una traduzione
Sopra il monumento di Dan¬ (Ungaretti), 977, 978
te (Leopardi), 460 Storia e cronistoria del Can¬
Sopra una poesia oscura zoniere (Saba), 674
(Paulhan), 664 Stravinski, Igor, XXXI, 204,
Sopra un difetto del pen¬ 824
siero critico (Paulhan), Sulla « Fedra » di Racine
664 (Ungaretti), LXXXIX,
Sorel, Georges, 149, 897 XCIVn., 577, 768
Soupault, Philippe, XLII, Sulla metrica del Leopardi
76, 101, 145, 146, 229, (Ungaretti), XCVn.
657, 847, 892 Sulla mitologia (Monti), 967
Soutine, Chaìm, 861 Sulla poesia (Ungaretti),
1086 Indice dei nomi e delle opere

LXXXIX, 768, 1006, 1016 Teseo [Fedra), 582, 583


Sul sonetto del Petrarca « Tevere, Il », XCIIIn, 907,
« Quand’io son tutto vol¬ 916/ 917, 929
to in quella parte » (Un¬ Teyssier, Paul, 990
garetti), XCVn., 947 Tharaud, Jean e Jéròme,
Surréalisme et la peinture, 28
Le (Breton), XLVI, 659 Thésée (Gide), 902
Sur un nouveau mal du Thibaudet, Albert, 79, 80,
siècle (Arland), 6ln.
89, 210, 898, 906
Thore, Théophile, 585
Su « Udii una voce » di D.
Tilgher, Adriano, 82
M. Turoldo (Ungaretti),
Tintoretto, 640
LXXXIX, 772, 1007
Titta Rosa, Giovanni, 904
Tiziano, 313, 640, 951
Tolstoi, Leone, 97, 829
Taccuino del Vecchio, Il Tommaso d’Aquino, San,
(Ungaretti), XXXVII, 151, 153, 390-393, 395,
LXXXII, LXXXIV, 839 944
Tailhade, Laurent, 851 « Traduzione, La », 928,
Taine, Hippolyte, 184 930
Tallone, Alberto, 423, 429, Traduzioni (Ungaretti), 533,
947 577, 578
Tasso, Torquato XXXII, Tramonto della luna, Il
LXX, 13, 154, 155, 158, (Leopardi), 347, 351, 445
188, 274, 350, 398, 399, « Tre Arti, Le », 974, 982
410, 454, 566, 732, 733, Tre celebrazioni leopardiane
751, 774, 824, 840, 841 di Napoli, Le (Ungaretti),
Tavoliere di luglio, Il (Un¬ 932
garetti), 970, 971 Tregua dell’endecasillabo,
Tebaide (Stazio), 967 La (Flora), 913
Tecchi, Bonaventura, 915 Trente ans de vie frangaise
Tempier, Stefano, 393 (Thibaudet), 79
« Tempo, Il », 891 « Tribuna, La », LXVII, 53,
« Tempo Presente », 899 201, 210, 920
Tendenze della poesia con¬ Trionfi, I (Petrarca), LXIII,
temporanea (Ungaretti), 553, 980
905 Trionfo d’Amore (Petrarca),
Teocrito, 541 947
Terra Promessa (Ungaretti), Trionfo della Fama (Pe¬
XXIV, LXIX, 839, 1000 trarca), 528, 972
Ìndice dei nomi e delle opere 1087

Trionfo della Morte (Pe¬ XLIV, XLIX, L, LII,


trarca), 956 LUI, LXI, 63, 67, 79,
Trois Règnes (Delille), 456, 85, 100-116, 141, 146,
486, 967 157, 165, 229, 234, 290,
Troppa intelligenza (Saviot- 291, 359, 423, 618, 620-
ti), 915 644, 656, 661, 662, 665,
Trucioli (Sbarbaro), 689 824, 858, 897, 903, 927,
Turno (Eneide), 387, 388 987, 1014
Turoldo, Davide Maria, Valigia delle Indie, La (Rai¬
774, 840, 1007 mondi), 895
Tutto per bene (Pirandel¬ « Valori Plastici », 247, 921
lo), 358 Van Dongen, Kees, 25
Tzara, Tristan, XLVIII, 38, Van Eyck, Jan, 590, 591,
658, 894 982
« Vanguardia, La », 931,
932
Ubertino da Casale, 395 « Variante », 729
Udii una voce (Turoldo), Variété (Valéry), 105, 641,
1008 913, 927
Ultime poesie (Ungaretti), Varillon, Pierre, 63n.
816 Vassalini, Caterina, 978,
Ultimi canti (Leopardi), 503 991
Ultimi cori per la Terra Vaugelas, de, Claude Favre
Promessa (Ungaretti), de Péroges, 762
LXXXII Vecchie carte (Ungaretti),
Ungaretti a Paulhan: Otto 835
lettere e un autografo ine¬ Veduta di Delft (Vermeer),
diti (Rebay), 906, 917 593
« Unione della Democrazia, Verdes hermanas del au-
L’», 888, 891 daz mozuelo (Góngora),
« Universitario, L’ », 998 537
Uomo buio, L’ (Ungaretti), Verhaeren, Emile, 17, 18
XCIIn., 237, 673, 918 Verlaine, Paul, 10, 78, 298,
Utrillo, Maurice, 985 895
Vermeer, Jan, 585-590,
592-595, 888, 985
Va citato Leopardi per Va¬ Verne, Jules, 172
léry? (Ungaretti), XCIVn., «Verri, II», 993, 1020,
104, 903 1021
Valeri, Diego, 693, 998 Versilia (D’Annunzio), 209,
Valéry, Paul, XXIII, XXXVI, 967
1088 Indice dei nomi e delle opere

Verso 'un’arte nuova clas¬ Vita d’un uomo / 40 So¬


sica (Ungaretti), XXXI, netti di Shakespeare (Un¬
13, 892, 916 garetti), 973, 975, 977
Viaggetto in Etruria (Un¬ Vita d’un uomo / Tutte le
garetti), 985 poesie (Ungaretti), XXIV,
Viaggio al Congo (Gide), LIX, LXVIII, XCIIn,
165 XCVn., 891, 896, 911,
Viani, Lorenzo, 682 913, 922, 970, 986, 1000,
Vico, Giambattista, XXXVI, 1015
XXXVIII, XLIX, LUI, Vita Nuova, La (Dante),
LVII, LXIII, LXIX, 285
LXX, 344, 346, 349, 352, Vittorelli, Jacopo, 694
355, 359, 361, 362; 448, Vocazione di San Matteo,
763, 887, 1003 La (Caravaggio), 450
Vieille fille, La (Balzac), « Voce, La », XV, 58, 618,
355 673, 689, 695, 714, 836,
Vigilia delle Indie, La (Rai¬ 864, 924
mondi), 895 « Voce delle arti e delle
Vigny, de, Alfred, 10 lettere, La », 973, 974
Vigolo, Giorgio, 987 Volgata, 486
Villani, Giovanni, 943 Vollard, Ambroise, 865
Villegas, Esteban, 663 Voltaire, 455, 457, 491,
Villon, Francois, 11, 25, 26, 762
54, 715, 858 Vossler, Karl, 439
Viottola, La (Vermeer), 594 Voyage, Le (Baudelaire),
Virgilio, LVIII, LXVI, 483
LXXI, LXXXVIII, 108,
161, 188, 189, 271, 317,
332, 368, 370, 378, 383, Wagner, Richard, XXX, 67,
385, 389, 398, 399, 405, 203, 733, 734
432, 459, 464, 498, 699, Watteau, Jean-Antoine, 603
715, 725, 739, 858, 868, Weiss, Roberto, 528, 972
955, 981 Wells, Herbert George, 172
Visioni di William Blake Werther (Goethe), 502, 503
(Ungaretti), XXXVII, 982, Whitman, Walt, 718
983 Winckelmann, Johann Joa-
Vita di San Paolo (San Gi¬ chim, 347, 724
rolamo), 966, 968 Woolf, Virginia, 663
Vita di un poeta / Giu¬ Wordsworth, William, 456,
seppe Ungaretti (Piccio¬ 967
ni), 907, 932 Woyzeck (Buchner), 662
Indice dei nomi e delle opere 1089

Wozzeck (Berg), 653 Zibaldone (Leopardi), XXIV,


XXIX, LXIV, 106, 189,
194, 317, 325, 329, 458,
Yeats, William Butler, 624 459, 470, 484, 497, 514,
634, 662, 754, 854, 934,
935, 949, 954, 956, 960,
965
Zang Tumb Tumb (Mari¬ Zola, Emile, 47, 50, 748
netti), LVIII Zona di guerra (Ungaretti),
Zanzotto, Andrea, 693-699, XCIIn., 5, 891
993 Zumbini, Bonaventura, 324
'

'

'I
INDICE GENERALE
IX Prefazione
di Carlo Bo

XXI Introduzione
di Mario Diacono

XCVII Cronologia

SCRITTI LETTERARI 1918-1936


a cura di Luciano Rebay e Mario Diacono
5 Zona di guerra (Vivendo con il popolo)
10 Il ritorno di Baudelaire
13 Verso un’arte nuova classica
17 La delusione di Verhaeren
20 Pittura, poesia, e un po’ di strada
27 Il premio Goncourt risuscita i morti?
34 Giovanni Papini: Giorni di festa
35 « Pourquoi écrivez-vous? » / Réponse
36 L’affaire Barrès / Témoignage
38 Histoire de Dada
39 La doctrine de « Lacerba »
46 Le départ de notre jeunesse
47 A proposito di un saggio su Dostojevski
50 Dostoievski e la precisione
53 Pittura cosmopolita
55 Considérations sur la littérature italienne mo¬
derne
60 Esordio
66 Jacques Rivière riabilita il « sentimento »
72 Gratitude à Jacques Rivière
75 Sottigliezza poetica di Reverdy
1094 Indice generale

79 L’estetica di Bergson
87 Lo stile di Bergson
90 Le secret de Lautréamont ,
95 André Gide
100 La rinomanza di Paul Valéry
104 Va citato Leopardi per Valéry?
111 Introduzione a Eupalino
117 Barbe finte
123 Dall’Estetica all’Apocalisse o I denti di Zimbo
129 Innocenza e memoria
132 Innocenza e memoria
135 Innocence et mémoire
139 L’esportazione letteraria
143 Stato della prosa francese
149 Originalità del fascismo
154 Difesa dell’endecasillabo
170 Commemorazione del futurismo
174 Dostoievski nazionalista e imperialista
178 Arte, affari e abracadabra
182 Di un difetto della critica
188 La poesia contemporanea è viva o morta?
198 Vogliamo essere audaci?
201 Critica e arte
203 Risposta all’anonimo
205 Un romanzo
207 Per Mallarmé
210 Ancora per Mallarmé
211 Classico, romantico...
215 Saggisti francesi
221 Notes et Pensées [De Giacomo Leopardi]
Idee e lettere della Francia d’oggi
229 I. Perché scrivete voi?
237 II. L’uomo buio
241 III. II passato di Lautréamont
246 IV. Lautréamont ovverosia Odore di bruciato

252 La critica alla sbarra


Indice generale 1095

257 Cause dell’attuale crisi


262 Naufragio senza fine (Risposta a un’inchiesta
sulla poesia)
267 [Le prime mie poesie...]
270 Poesia e pittura
272 L’action et l’esprit
274 Riflessioni sulla letteratura
277 Caratteri dell’arte moderna
281 Ricordo del primo incontro con Ettore Serra e
della stampa del 1916 del Porto Sepolto

CONFERENZE 1924-1937
a cura di Mario Diacono

285 Punto di mira


303 [Poesia e civiltà]
324 [Il pensiero di Leopardi]
344 Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi

SAGGI E SCRITTI VARI 1943-1970


a cura di Mario Diacono

CLASSICI

367 Commento al Canto Primo dell’ Inferno


389 [« Tra feltro e feltro »: Povertà, sapere e poe¬
sia]
398 Il poeta dell’oblio
423 Petrarca monumentale
430 Immagini del Leopardi e nostre
451 Secondo discorso su Leopardi
497 L’Angelo Mai del Leopardi
504 Il povero nella città [Discorso sul Don Chi¬
sciotte di Cervantes]
528 Góngora al lume d’oggi
551 Significato dei sonetti di Shakespeare
571 Della metrica e del tradurre
577 [Sulla Fedra di Racine]
585 Jan Vermeer
1096 Ìndice generale

596 «[Discorsetto su Blake]

INTERPRETAZIONE DI ROMA,

603 Interpretazione di Roma

CONTEMPORANEI
615 Guillaume Apollinaire
620 Testimonianza su Valéry
624 Discorso per Valéry
645 Souvenirs sur Jean Paulhan
649 St.-John Perse (Storia d’una traduzione)
653 Magistero di Pierre Jean Jouve
655 André Breton
661 La rivista « Commerce »
666 Cavafy, ultimo alessandrino
670 La pittura di Fautrier
673 Peregrinazione con Umberto Saba
678 Ricordo di Barilli
681 Ricordo di Pea
685 Parole per Gadda
689 Prefazione a L’ospite dell’Hotel Roosevelt di
Giacomo Natta
693 Piccolo discorso sopra Dietro il paesaggio di
Andrea Zanzotto
700 Per Giuliani
703 Siciliana di Murilo Mendes
705 Poesia di Vinicius de Moraes
707 Oswald de Andrade
710 Sull 'Antologia dei poeti negri d’America di Leo¬
ne Piccioni
714 [Per Alien Ginsberg]

POETICA

723 Riflessioni sullo stile


737 Poeta e uomini
741 Indefinibile aspirazione
747 Ragioni di una poesia
Indice generale 1097

768 Sulla poesia (Intervista Radiofonica)


772 Su Udii una voce di D.M. Turoldo
776 Dolore e poesia
792 Difficoltà della poesia
815 Ungaretti commenta Ungaretti
829 A proposito di crisi del linguaggio
835 Intervista con F. Camon
842 Delle parole estranee e del sogno d’un universo
di Michaux e forse anche mio

CULTURA

847 Missione del letterato


855 L’artista nella società moderna
867 [ Intervention à la Ie rencontre Est-Ouest]
870 L’ambizione dell’avanguardia
874 La cultura nel tempo
880 [En face d’une crise de langage...]

Note
887 Nota all’edizione
891 Scritti letterari 1918-1936
926 Conferenze 1924-1937
940 Saggi e Scritti vari 1943-1970

1025 Bibliografia degli scritti in prosa di Giuseppe


Ungaretti

1053 Indice dei nomi e delle opere


*

'

.
Giuseppe Unsaretti
VITA DI UN UOMO
SAGGI E INTERVENTI
5« Edl2. Meridiani
AME

<VR> 2109

Questo volume è stato impresso


nel mese di aprile dell’anno 1993
presso le Arti Grafiche delle Venezie di Vicenza
Gruppo Mondadori
Stampato in Italia - Printed in Italy

I Meridiani

ISBN 88-04-11459-2

9 788804 114598

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