Sei sulla pagina 1di 254

2

Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Facci caso
Introduzione
L’era della distrazione
Alla scoperta dell’attenzione
Ti presento la tua attenzione
Pillola rossa o pillola blu?
L’attenzione divisa e il “supervisore centrale”
Il nostro radar interiore non sa di essere acceso!
Veleni e antidoti dell’attenzione
Chi erra erra
La nostra macchina del tempo
Ma io lo faccio sempre!
Riprendere i sensi
L’ambiguità e l’attenzione
Tutto questo ti ha fatto pensare alla meditazione, per caso?
Intenzione - Ora - Senza giudicare
Il non sforzo nell’esercizio più difficile al mondo
Puntare il dito… verso se stessi
Il gioco delle sensazioni
Tu sei più dei tuoi pensieri
Guardarsi dentro senza diventare ciechi
Concettuale o non concettuale, questo è il problema
La strana palla e la concentrazione di un samurai
Il sesto senso
Il bodyscan: la seconda pratica di consapevolezza
La mente del principiante
Un altro senso
Il cervello “sottosopra”
Accogliere, accettare e “lasciare andare”…
La scrittura espressiva

3
I pattern di pensiero e il timbro
La gestione dei contenuti interiori
Le mappe più importanti
Il flow
Sei la somma delle cinque persone che frequenti maggiormente
Le relazioni sono come una pianta, se non le curi appassiscono
L’insegnamento del barista
Un centro di gravità
Le relazioni difficili
La curiosità nelle relazioni
Relazioni e ascolto
La mia storia
Conclusioni
Postfazione. di Luca Mazzucchelli
Consigli di lettura
Ringraziamenti
Copyright

4
Il libro

“S
tai a ento!” Ti sarà capitato, almeno una volta nella vita,
di sentirti dire una frase del genere. Smartphone, social,
stress, tv, lavoro dirottano continuamente la tua
concentrazione a destra e a sinistra con lo scopo di intrattenerti,
informarti, senza però lasciarti le risorse e il tempo per riflettere
veramente su chi sei e cosa vuoi.
In questo libro Gennaro Romagnoli, psicoterapeuta e creatore di
Psinel, il podcast di crescita personale più ascoltato in Italia, ti
spiegherà che cos’è davvero l’attenzione e come puoi allenarla per
non perderti più le piccole cose quotidiane che rendono la vita
preziosa. Scoprirai, infatti, che l’attenzione si comporta come i
muscoli del nostro corpo: se non la alleni e se non la usi, si deteriora.
Sperimenterai che, come qualunque risorsa, anche l’attenzione è
limitata e ha diverse qualità, in base a come decidi di utilizzarla o in
relazione a ciò che ti circonda. Sì, perché an-che il contesto determina
la qualità e la quantità della tua attenzione.
E attraverso esercizi, aneddoti, prove e teorie di grandi scienziati
che si sono occupati di questo tema, ti accorgerai che gestire la tua
attenzione significa saper gestire la tua vita, ristabilire le tue priorità,
dare la giusta cura e valore alle relazioni e agli affetti, per ricalibrare
gli obiettivi e ritrovare il tuo equilibrio. Quando non sei concentrato
su ciò che stai facendo, infatti, non sei davvero “lì presente” e lo
stesso vale per qualsiasi esperienza della vita: dal prestare maggiore
attenzione a ciò che fai sul lavoro al darne di più alle persone che ami
e che fanno parte del tuo mondo. E questo è il più bel regalo che puoi
fare a te stesso e agli altri.

5
L’autore

Gennaro Romagnoli è uno psicoterapeuta specializzato in ipnosi e


meditazione. Nel 2008 ha fondato il blog Psinel, diventato poi il
podcast di self-help più ascoltato in Italia, in cui aiuta la sua
community a intraprendere un percorso di sviluppo personale basato
sulla ricerca scientifica. Nel 2020 ha lanciato Clarity, la prima app
italiana per imparare a meditare e a gestire meglio le emozioni e i
pensieri.

6
Gennaro Romagnoli

FACCI CASO
Come non farti distrarre dalle sciocchezze e dare attenzione a ciò che conta
davvero nella vita

7
Facci caso

A mia madre

8
Introduzione

“Stai attento!”
A chiunque è capitato, almeno una volta nella vita, di sentirsi dire
una frase del genere, quasi sicuramente tra i banchi di scuola. Se in
quel momento un alunno avesse alzato la mano e avesse chiesto
all’insegnante di turno: «Mi scusi, ma lei che cosa intende per “stare
attenti”?», è probabile che la sfortunata si sarebbe trovata a dover
spiegare qualcosa che abbiamo imparato a conoscere solo negli
ultimi decenni. Ed è un vero peccato che i maestri di un tempo – e
purtroppo anche molti di oggi – non conoscessero il funzionamento
dell’attenzione, uno dei processi più importanti della nostra attività
cerebrale e sociale, come cercherò di dimostrare in queste pagine.
Se ci pensiamo per qualche istante, diventa chiaro a ciascuno di
noi che la realtà soggettiva, il modo in cui viviamo e percepiamo ciò
che ci circonda, varia in base alle cose a cui prestiamo maggiormente
attenzione. Non solo, viviamo in un’epoca che stimola al massimo
livello la nostra “capacità di restare attenti”, facoltà continuamente
dirottata a destra e a sinistra allo scopo di intrattenerci, informarci e
orientarci nelle azioni quotidiane. Dopotutto non è difficile
immaginare che la qualità e la quantità di attenzione che prestiamo
a un certo “oggetto” gli donino valore, e questo lo sanno bene i
politici, i mass media e chiunque tenti di accaparrarsi questa
“preziosa merce”.
In questo libro imparerai che cos’è davvero l’attenzione e come
puoi allenarla, scoprirai che si tratta di un “muscolo” che segue le
stesse regole degli altri muscoli: o lo usi o si deteriora. Sperimenterai
che, come qualunque risorsa, anche l’attenzione è limitata e ha
diverse qualità, in base a come decidi di utilizzarla o in relazione a
ciò che ti circonda. Sì, perché anche il contesto determina la qualità e
la quantità della tua attenzione. E attraverso esercizi, aneddoti,

9
prove e teorie di scienziati che si sono occupati di questo tema, ti
accorgerai che gestire la tua attenzione significa saper gestire la tua
vita, perché è proprio di questa che stiamo parlando. Quando non
sei concentrato su ciò che stai facendo, non sei davvero “presente”;
se in questo momento leggi le parole in modo distratto, non stai
leggendo davvero questo libro. Lo stesso vale per qualsiasi
esperienza della vita, dal prestare maggiore attenzione a ciò che fai
al lavoro al darne di più alle persone che ami e che fanno parte del
tuo mondo. Scoprirai, infine, che questo è il più bel regalo che puoi
fare a te stesso e agli altri.
Vedrai che l’ostacolo più grande in questo percorso, questo
“piccolo viaggio” che stiamo per fare insieme, sono proprio le cose
che “già sai” o che “pensi di sapere” su come funziona l’attenzione.
Non dico che sto per rivelarti tutti i magici segreti del “focus
mentale”, ma grazie alla mia professione di psicologo conosco le
persone e so che più una cosa è familiare più è difficile accettare su
di essa nuovi punti di vista… Lascia che mi spieghi meglio: tutti
siamo capaci di correre, e anche se non lo facciamo come
allenamento siamo in grado di accelerare il passo e prendere
velocità. Ora, questa abilità è la stessa identica che serve per
affrontare una maratona o i 100 metri? La risposta è no! Lo so che
pensiamo tutti di saperlo fare, ma solo se ci mettiamo d’impegno
scopriamo che un conto è “correre per diletto”, altro è invece farlo
con un obiettivo specifico.
Lo stesso vale per l’uso dell’attenzione. Tutti siamo convinti di
sapere di che cosa si tratta, tutti pensiamo di riuscire a spostare
intenzionalmente il nostro focus su ciò che ci interessa senza
distrarci, ma pochi, in realtà, lo sanno fare adeguatamente. E nel
corso di questo libro ti mostrerò come farlo nel modo migliore
possibile, sempre a partire dai risultati della ricerca. Tranquillo, non
appesantirò la tua lettura con nozioni di “psicologia accademica”,
voglio però chiarire che, oltre alle storielle e agli aneddoti che
leggerai, la maggior parte degli esercizi e delle intuizioni che metto
a tua disposizione sono il frutto del lavoro dei miei colleghi
ricercatori. Come disse Newton: “Se ho visto più lontano è perché
sono sulle spalle dei giganti”.
Buona lettura e buon viaggio…

10
L’era della distrazione

Ti è mai capitato di accorgerti di essere distratto? Se si prendono i


giornali e le riviste degli ultimi anni si leggono sull’argomento frasi
del tipo: “La tecnologia sta riducendo il nostro span di attenzione”;
“Ormai abbiamo l’attenzione di un pesce rosso”; “I social
danneggiano l’attenzione dei nostri ragazzi” e così via. In parte è
vero, l’attenzione oggi viene messa a dura prova: qui cercherò di
mostrarti il perché e anche come rimediare a tutto questo. Dire
semplicemente che bisogna “stare attenti alla tecnologia” non è un
gran consiglio, anche se utile, così come sostenere che “non bisogna
svolgere troppi compiti contemporaneamente” (parleremo in
seguito di multitasking).
La verità è che la nostra attenzione si è evoluta per “saltellare” da
un oggetto all’altro in modo rapidissimo: perché? Se un nostro
antenato si fosse perso a rimirare troppo a lungo un paesaggio, un
fiore o qualsiasi altro spettacolo, avrebbe rischiato grosso. Quindi la
nostra attenzione si è allenata nel corso dei secoli a passare da uno
stimolo all’altro a grande velocità, anche se noi non ce ne rendiamo
conto. Proprio in questo istante, mentre leggi, non sei
completamente staccato dal mondo, soprattutto se ti trovi in un
luogo pubblico. È come se una parte di te continuasse a monitorare
ciò che accade all’esterno. E se quel che avviene intorno a te diventa
più interessante, per un motivo qualsiasi, ecco che cattura la tua
attenzione in modo quasi involontario; anzi, tolgo il “quasi”.
Lo so, forse ti sembrerà strano questo “saltellare con
l’attenzione”, dopotutto è probabile che tu riesca, per esempio, a
guidare per chilometri e chilometri senza rischi. Quindi, che cosa
succede? Come approfondiremo più avanti, noi abbiamo delle
abilità che non richiedono troppe “risorse mentali consapevoli” e
che vengono dette “automatismi”. Quando impari a guidare l’auto,

11
le prime volte, ti serve tutta la tua attenzione, perché una sola,
piccola distrazione può condurti all’errore. Via via che cominci a
prendere confidenza, la guida diventa sempre più automatica, al
punto che puoi contemporaneamente seguire un discorso
importante del tuo compagno di viaggio, ascoltare la radio e non
uscire di strada. Ma se a un certo punto si scatena una pioggia
battente? Se ti sorprende uno di quegli acquazzoni che ti
costringono a mettere i tergicristalli al massimo? Be’, con tutta
probabilità chiederai al tuo compagno di viaggio di interrompere il
discorso importante, abbasserai il volume della radio e magari
inizierai a stare più attento alla guida. Passerai rapidamente, e senza
bisogno di un controllo volontario, dalla modalità “pilota
automatico” a quella di “controllo manuale”.
Perciò il processo attenzionale non solo “saltella” in
continuazione tra uno stimolo e l’altro ma è anche in grado di
regolarsi in base alle esigenze e alle circostanze. Insomma, ci
troviamo di fronte a uno dei sistemi cognitivi più raffinati e decisivi
per la nostra specie. L’Homo sapiens appare sul pianeta circa
trecentomila anni fa; a un certo punto accade qualcosa di
eccezionale, e l’ominide acquisisce capacità cognitive superiori
(intorno a settantamila anni fa) e inizia a migrare per il mondo e a
costruire artefatti che glielo faranno conquistare. Come ricorderai,
però, la nostra storia, che comincia con l’invenzione della scrittura,
quando cioè avviene il noto passaggio da “cacciatori-raccoglitori” ad
“agricoltori”, conta solo diecimila anni. Ora ti starai chiedendo,
forse, che cosa c’entri questo riassunto di storia con il tema del libro
che tieni tra le mani; il motivo è semplice: il cervello dell’uomo si è
evoluto maggiormente nella prima fase, quella dei “cacciatori-
raccoglitori”, e da questo deriva tutta una serie di funzioni che ci
siamo portati dietro fino a oggi. Abilità ereditate dai nostri antenati
che ci consentono di salvare la pelle in caso di pericolo, ma che, al
contrario, non ci aiutano a mantenere l’attenzione mentre leggiamo
un testo o cerchiamo di memorizzare delle informazioni. Questo è
uno dei motivi principali per cui il nostro cervello tende a fare
quegli errori che da qualche decennio vengono chiamati bias, errori
sistematici del pensiero che derivano dalla nostra evoluzione.
Oggi viviamo in un mondo che richiede un altro tipo di

12
attenzione, tuttavia siamo ancora dotati di quella “precedente” e
questo libro può servire a farci fare un piccolo upgrade al nostro
software mentale per renderlo maggiormente adeguato ai nostri
tempi.
Che cosa c’è di diverso rispetto a settantamila anni fa? Be’, il
primo dato è che il mondo è più sicuro, più ricco e zeppo di
“superstimoli”. Lo so, sembra una bestemmia dire che il mondo è
più “ricco” e più “sicuro”, ma posso assicurarti che i dati sono chiari
in tal senso (vedi, a questo proposito, i lavori di Hans Rosling e
Steven Pinker che puoi trovare tra i miei consigli di lettura alla fine
di questo libro), le cose stanno così, anche se i sistemi di
comunicazione non lo raccontano. Perché non lo raccontano? Perché
i media cercano la tua attenzione, vivono di attenzione, le loro
quotazioni in borsa dipendono dalla capacità che possiedono di
attrarre l’attenzione di più persone possibile e il più a lungo
possibile. Perciò, se dico che ieri un aereo è atterrato e i passeggeri
sono tutti sani e salvi non attiro l’attenzione di nessuno (se non dei
diretti interessati); se invece dico che l’aereo è esploso in aria, ecco
che immediatamente ho catturato l’attenzione di tutto il mondo.
Questa è un’altra eredità del passato, l’essere più attratti dalle cose
“negative” che da quelle “positive”, perché queste ultime hanno un
basso valore evolutivo. Sapere che in quel luogo ci sono tante cose
belle è meno significativo che sapere che nello stesso luogo ci sono
dei pericoli importanti. In altre parole, la tua mente provvede
sempre e costantemente a proteggere la tua vita.
Chi si occupa di comunicazione, di ideare slogan pubblicitari, di
costruire messaggi politici per i social o per i mass media, usa questi
bias (le nostre tendenze ereditarie) per direzionare la nostra
attenzione. Tutte le fonti di informazione attuali si nutrono della
nostra attenzione e usano ogni mezzo per catturarla e mantenerla,
anche quando questo va contro i nostri interessi personali.
Chi lavora nel marketing ama spesso ripetere che siamo nell’“era
dell’attenzione”, perché è questo il vero oro per chi cerca di vendere
qualcosa. Se non hai “gli occhi addosso” – the eyeballs, come dicono
gli americani –, se non hai l’attenzione della gente, allora hai voglia
a creare messaggi persuasivi. Ebbene, alla luce di quanto detto
finora, noi non ci troviamo davvero nell’era dell’attenzione ma in

13
quella della distrazione. Perché a furia di intrattenerci non siamo
più capaci neanche di stare qualche minuto con le mani in mano. Se
ti guardi attorno quando sei in mezzo alla gente non puoi non
notare che pochi restano fermi senza fare nulla, la maggior parte si
impegna con le nuove tecnologie, magari una rivista o un libro. Tale
incapacità sembra derivare da un comportamento acquisito proprio
negli ultimi anni, e raggiunge livelli davvero paradossali. Per
dimostrartelo ti racconto per sommi capi i risultati di un recente
studio.
Vengono reclutati alcuni soggetti a cui si chiede di aspettare in
solitudine in una stanza per 15 minuti, senza fare nulla. Immagina
di essere uno di loro: ti fanno entrare in una stanza asettica, dove ci
sono soltanto una sedia e un tavolino con sopra uno strano oggetto.
È una scatoletta con un bel pulsantone; lo sperimentatore ti guarda e
ti dice: «Bene, tra poco la lascerò solo in questa stanza. Quello che
vede davanti a sé è un dispensatore di lievi scosse elettriche. Ora
gliene faccio provare una». Così ti afferra dolcemente la mano e…
zac! ti appioppa una spiacevole ma sopportabile scossa. Lo
sperimentatore non aggiunge altro, chiude la porta e ti lascia solo
con i tuoi pensieri e quello strano “dispensatore di scosse”. Ora devi
sapere che, come per la maggior parte della popolazione, anche per
te la noia sarà così insopportabile da indurti ad autosomministrarti
delle scosse. No, non sono impazzito, è il risultato dell’esperimento,
anzi di ben undici esperimenti condotti dal professor Timothy
Wilson, docente di psicologia all’Università della Virginia, in
collaborazione con l’Università di Harvard: ben due terzi dei
partecipanti hanno iniziato a giocherellare autosomministrandosi
delle scosse, in alcuni casi anche in modo ripetuto e prolungato.
Insomma, sembra che sia preferibile essere distratti da qualcosa di
doloroso piuttosto che provare a restare senza fare nulla. Sì, siamo
nell’era della distrazione!
Nei capitoli che seguono non scoprirai solo come utilizzare al
meglio la tua attenzione, ma capirai anche perché i soggetti
dell’esperimento appena menzionato si siano comportati in quel
modo. Un piccolo spoiler: tra le spiegazioni va considerato che nella
stanza c’è solo quell’oggetto; se ci fosse stato un ukulele,
probabilmente avremmo assistito a una serie di improvvisazioni

14
musicali piuttosto che a una serie di “scosse autosomministrate”.
Ma prima di arrivare a comprendere tutto ciò, e a imparare ad
“allenarci”, è necessario capire con che cosa abbiamo a che fare,
perché come capita di sovente non c’è nulla di più nascosto di ciò
che abbiamo proprio sotto i nostri occhi!

15
Alla scoperta dell’attenzione

L’attenzione è un processo di selezione attiva e passiva delle


informazioni che prendiamo in esame in un determinato momento.
In realtà sarebbe più corretto parlare di “processi”, che insieme ci
aiutano a muoverci agilmente nel mondo; perché senza la capacità
di usare in modo corretto un tale insieme di processi non puoi
neanche spostarti agilmente in una stanza, figuriamoci nel mondo. I
processi sono tantissimi ed eviterò di elencarli tutti, anche perché
hanno nomi tecnici, ma proverò comunque a farti prendere
dimestichezza con il concetto di “processo attenzionale” attraverso
delle piccole esperienze.
Ora passiamo a un altro termine della definizione, quello più
interessante per noi in questa parte del testo: la “selezione” delle
informazioni. In questo preciso momento, mentre leggi, sei
bombardato da diverse informazioni: alcune di queste arrivano
dall’ambiente che ti circonda: suoni, colori, profumi, campi
elettromagnetici che non vedi e altro. Tuttavia, per riuscire a
comprendere ciò che stai leggendo è necessario che tu riesca a
mettere da parte una buona fetta delle informazioni esterne
(distrazioni) per focalizzarti sul senso di questi segni grafici. In base
alla tua capacità di selezione delle informazioni riuscirai più o meno
a capire le parole lette, tuttavia c’è ancora un altro aspetto – anzi, ce
ne sono parecchi – e cioè che queste informazioni non sono rilevanti
per tutti. Infatti, se sei esperto della materia tenderai a leggere
questo testo in modo molto rapido, sia perché riconosci dei termini a
te familiari sia perché sei convinto di sapere dove voglio andare a
parare. Quindi la tua selezione sarà determinata da ciò che già
conosci sull’argomento o da ciò che credi di conoscere. Non solo, se
per caso proprio adesso sei distratto, e stai leggendo in modo “poco
attento”, ti resterà un ricordo superficiale di tali parole. È per questo

16
che se due persone leggono lo stesso libro e poi gli chiediamo di
farci un rapido riassunto, potremmo ottenere due resoconti molto
diversi, perché ciascuno seleziona le parti del testo in base al grado
di interesse e di attenzione che vi dedica.
Ti è mai capitato di andare al cinema e rimanere profondamente
colpito da un film e poi parlarne con un amico? E che al tuo amico il
film non sia piaciuto quanto è piaciuto a te? Questo succede perché
interessi personali, conoscenze e anche la capacità di porre
attenzione variano da persona a persona, creando dei filtri
attenzionali che ci portiamo dietro e che sono indispensabili per
riuscire a gestire l’enorme mole di informazioni a cui siamo
sottoposti ogni giorno. Non so se sia vero, ma da anni gira la storia
secondo cui un uomo del Settecento si misurava con la stessa
quantità di informazioni che gestiamo noi quotidianamente, ma
nell’intero arco della propria vita. Non so come siano riusciti a fare
un confronto simile, ma è evidente che se come me hai vissuto a
cavallo tra l’epoca analogica e quella digitale, ti sarai certamente
accorto di quanto il mondo sia diventato più complesso, veloce e in
continuo cambiamento. In sostanza, negli ultimi trecento anni la
quantità di cose che quel filtro deve selezionare e gestire è
aumentata in modo sconvolgente.
I nostri sensi sono “limitati per natura”, sappiamo di non poter
ascoltare gli ultrasuoni che riesce a percepire un pipistrello o il
nostro cane. Sappiamo tutti che intorno a noi ci sono frequenze dello
spettro visivo che non riusciamo a vedere e così via. In altre parole,
il nostro filtro attenzionale deve primariamente fare i conti con
alcuni limiti fisici o, meglio, fisiologici. E ciò sta a significare che, per
quanto tu possa cercare di stare attento, non potrai mai davvero
catturare tutte le informazioni che ti arrivano in un dato momento,
neanche adesso e neanche se tu fossi chiuso da solo in una stanza e
avessi dieci occhi e venti orecchie. Se a tali limiti aggiungiamo la
soggettività di ciascun individuo, cioè i suoi interessi, le sue
esperienze di vita, la sua cultura di appartenenza, scopriamo
facilmente come ognuno abbia “il proprio mondo”, un unico e
peculiare “punto di vista” che viene costruito e mantenuto a partire
dal proprio modo di “selezionare le informazioni”, che determina
ciò che comunemente chiamiamo “consapevolezza”. Dove tu punti

17
il tuo focus (la tua attenzione) diventi consapevole e allo stesso
tempo inconsapevole di ciò a cui non stai facendo caso, come un
regista che decide a tavolino quali scene mettere in evidenza e quali
lasciare sullo sfondo.
È un concetto semplice, ma del quale ci dimentichiamo fin troppo
rapidamente, perché la nostra percezione non è quella di avere “un
pezzo” di consapevolezza ma, al contrario, di averla tutta. È una
sorta di completamento del cervello molto simile a quello che
succede quando si guarda un film o, meglio, quando si guardavano i
film, che un tempo altro non erano che una serie di fotografie (i
fotogrammi) presentati ad altissima velocità. Non è una realtà fluida
e completa quella che ci appare, ma una realtà composta da tante
immagini che, per via dei limiti fisici del nostro occhio, percepiamo
come un filmato unitario. Tale effetto di “completamento del filtro
attenzionale” ha richiesto molti anni di studi legati alla percezione, e
abbiamo dovuto attendere la psicologia sperimentale per iniziare a
studiarlo in modo adeguato.
Ora, prima di mostrarti altre ricerche che ci raccontano meglio il
funzionamento della nostra attenzione, è bene iniziare a soffermarci
su tale “selezione”, che non determina solo che tipo di informazioni
entreranno ma anche quale genere di “film” uscirà. Lo so, è una
faccenda un po’ strana, ma per fortuna la nostra attenzione è
costantemente presente e possiamo usare la lettura di queste pagine
come esempio principale per illustrare il suo funzionamento. Se stai
leggendo con attenzione è probabile che tu non stia ascoltando tutto
ciò che ti circonda, che tu abbia addirittura perso momentaneamente
la percezione di essere seduto da qualche parte, le sensazioni fisiche
del tuo corpo a contatto con la sedia. Forse non avverti neppure di
tenere tra le mani questo libro, il suo peso, la consistenza delle
pagine, le sfumature di colore; se la tua lettura avviene in un luogo
pubblico, non ti sei neanche accorto magari di quella bella ragazza o
di quel bel ragazzo che ti ha guardato con interesse. In definitiva, la
qualità della tua attenzione determina la qualità della tua
consapevolezza, e posso assicurarti che qui si gioca tutta la partita
che chiamiamo “vita”.
Ma è proprio così che succede? Davvero quando rivolgiamo
l’attenzione altrove perdiamo pezzi di informazione preziosi,

18
oppure è solo un’illusione? Per rispondere a questa domanda ti
racconto un’interessante metodica sperimentale che si chiama
“ascolto dicotomico”. È piuttosto semplice, ti mettono in testa un
paio di buone cuffie e ti sparano nelle orecchie alcune cose, per
esempio una serie di nomi di città nell’orecchio destro e nomi di
vegetali in quello sinistro. Lo sperimentatore ti chiede di portare
tutta la tua attenzione su uno dei due, dicendoti che al termine
dell’ascolto ti verrà chiesto di ricordare che cosa hai ascoltato.
Quindi, se ti viene detto di ascoltare l’orecchio destro saranno da
ricordare le città, se quello sinistro saranno invece i vegetali. Ora
immaginiamo che ti domandino proprio i nomi che hai sentito
nell’orecchio destro e poi ti facciano il test di memoria; in realtà gli
sperimentatori sono “crudeli”, così mentre ti chiedono le città che
hai appena ascoltato con il destro, di tanto in tanto ti chiedono anche
se nel sinistro hai sentito parlare di pomodori (o qualsiasi altro
vegetale). L’aspetto interessante, che conferma l’idea di filtro
attenzionale, è che se ti concentri su uno dei due orecchi cancelli il
ricordo dell’altro. Quindi, chi si concentra sulle città tenderà a
ricordare solo quelle e non i vegetali, e viceversa. C’è solo un caso in
cui la persona ricorda molto bene cose dette nell’orecchio opposto:
se viene pronunciato il suo nome. Come puoi immaginare, il tuo
nome assume dei significati di primaria importanza lungo l’arco
della vita, per cui è più che normale che esso ci catturi. Per cui, se
vuoi attirare l’attenzione di un amico ricordati che il modo più
potente per farlo è chiamarlo per nome.
Tale semplice studio dimostra quanto siamo bravi a “tagliare
pezzi di realtà”, quanto sia facile cancellare informazioni preziose
quando non vi prestiamo attenzione in modo intenzionale. Ma ciò
che m’interessa mostrarti attraverso questo esperimento, ciò che
davvero mi sta a cuore, è evidenziare come se sposti il tuo focus
volontariamente puoi decidere che cosa “portare a casa” e che cosa
lasciare andare. Ovviamente non è facile come scegliere del cibo nel
bancone frigo del supermercato ma il margine di miglioramento è
incredibile, e te ne accorgerai continuando a leggere e svolgendo gli
esercizi che ti verranno proposti lungo l’arco della lettura.
L’analogia più semplice per descrivere questo complesso
processo, regolato da diversi circuiti cerebrali, è immaginarlo come

19
un raggio di luce che può variare di ampiezza e intensità. Se infatti
concentriamo la luce su un punto può diventare precisa e intensa
come un laser, e così si regola la nostra attenzione; allo stesso modo,
se prendiamo quella stessa fonte di luce e la distribuiamo su una
zona più ampia, vediamo più cose ma con meno precisione. Un’altra
possibile analogia è quella con la fotocamera, a cui ho accennato:
sono entrambe valide e allo stesso tempo limitate, perché la nostra
attenzione è molto, molto più di un fascio di luce o di una macchina
fotografica che riprende passivamente il mondo. Per fortuna, come
vedremo, si tratta piuttosto di un processo attivo su cui possiamo
“mettere le mani”, qualcosa che possiamo migliorare
intenzionalmente, e in queste pagine spero di riuscire a spiegarvi
come.

ESERCIZIO
È un piccolo esperimento per iniziare a portare nel quotidiano ciò che stai
apprendendo in queste pagine. Prova a notare quando le persone
chiamano qualcuno “per nome” e/o quando pronunciano il tuo nome.
Osserva come la gente reagisce al “nome proprio”. Mi raccomando, cerca di
non esagerare nell’uso dei nomi propri, nella vita di tutti i giorni, per quanto
alcuni “guru” della crescita personale ripetano che sia importante utilizzarli:
è diventato ormai il marchio di fabbrica di chi tenta di venderti qualcosa,
per cui, usa parsimonia.

20
Ti presento la tua attenzione

Nella figura in basso, puoi osservare un’immagine formata da tre


cerchi. Ti chiedo semplicemente di fare questo esperimento: guarda
al centro dell’immagine, provando a tenere fermo lo sguardo su
quel punto, e sposta la tua attenzione su uno dei tre cerchi a tua
scelta. Devi tenere gli occhi fermi ma spostare l’attenzione, proprio
come quando vuoi ascoltare una conversazione senza essere
scoperto, quindi senza guardare la scena ma indirizzando solo la tua
attenzione uditiva su quelle parole.

21
A questo punto, se sei come la maggior parte delle persone, avrai
notato che quando sposti l’attenzione su uno dei tre cerchi questo
tende ad apparirti più scuro e in “primo piano”. Non hai avuto
questa percezione? Riprovaci. Appena indirizzi la tua attenzione su
uno dei tre cerchi puoi osservare che tale “fascio attentivo” sembra
accentuare il profilo del cerchio su cui orienti le tue “risorse
attentive”. Come puoi vedere, la semplice attenzione, anche non
diretta dallo sguardo, fa risaltare le caratteristiche visive di
quell’oggetto mettendolo più a fuoco e facendolo sembrare più
vicino, come se fosse in primo piano. Questo è ciò che succede
quando sposti la tua attenzione su qualcosa, non solo la percepisci

22
meglio ma sembra saltare fuori dal contesto, per diventare più
rilevante. È una sorta di zoom psicologico che ci consente di
aumentare la definizione di ciò che osserviamo e insieme di metterlo
al centro del nostro campo percettivo.
L’effetto che hai appena osservato è stato progettato per creare
una piccola esperienza che ci aiuti a “toccare con mano” gli effetti
della nostra attenzione sulla realtà fisica che ci circonda. La stessa
identica cosa ti capita tutti i giorni e con tutti i sensi: se in questo
momento, mentre leggi il libro, ti capitasse di ascoltare alcuni amici
che parlano di un tema per te importante è probabile che il tuo
fascio attentivo si allarghi cercando di comprendere il testo che hai
di fronte e contemporaneamente il loro discorso. Il risultato sarebbe
quello di distribuire questo fascio su più fronti riducendone
l’efficacia. Dopotutto è uno scotto che possiamo pagare, se
consideriamo che i nostri amici potrebbero tramare alle nostre
spalle. Non lo dico in senso paranoico, ma in termini “evolutivi”: se
qualche secolo fa venivi estromesso dalla società per un qualsiasi
motivo rischiavi seriamente la vita; ecco la ragione per cui siamo
così attratti dal gossip, perché rappresenta una sorta di cronaca del
comportamento etico delle persone appartenenti alla tua cerchia, al
tuo gruppo. Quindi, se per caso senti fare il tuo nome mentre sei
impegnato in altro, quell’informazione potrebbe avere una certa
rilevanza per te, ed entrando nel tuo “fascio di luce” limiterà le tue
risorse.
Sarebbe meglio dire che, essendo le nostre risorse attentive
limitate, quando allarghiamo il “fascio di luce” siamo costretti a
distribuirle su più fronti, diminuendone la potenza. Ora, per la
maggior parte del tempo la “dimensione del raggio” dipende dalle
situazioni in cui ci troviamo, da come le percepiamo e da ciò che
sappiamo già dalle nostre conoscenze pregresse. Nella nostra
quotidianità questo fascio si sposta perlopiù in modo del tutto
automatico, appoggiandosi su ciò che sembra rilevante per la
soddisfazione dei nostri bisogni e per la nostra sopravvivenza.
Fortunatamente viviamo in un mondo molto più sicuro di quando è
stato progettato il nostro cervello e possiamo decidere di soffermarci
a guardare un tramonto o il colore di un fiore senza rischiare la vita.
Questo è ciò che facciamo quando studiamo qualcosa, quando

23
desideriamo approfondire un certo argomento, quando decidiamo
di affinare una determinata abilità o anche più semplicemente
quando vogliamo origliare senza essere scoperti. Sembra banale, ma
per la nostra sopravvivenza è molto meglio che il cervello utilizzi i
propri schemi di base che sono perlopiù automatici, perché sono
decisamente più veloci dei processi che possiamo controllare. Come
hai appena sperimentato, però, a fare la differenza è dove decidi di
riporre la tua attenzione, perché ciò ti consente di mettere a fuoco e
rendere più importanti determinati stimoli (o pezzi di realtà, come
abbiamo visto siamo una sorta di filtro attivo) rispetto ad altri.
L’aspetto volontario dell’attenzione è il sale principale di questo
testo, attraverso il quale cercherò di mostrarti che puoi allenare tale
intenzionalità e ricevere da essa una valanga di vantaggi psicologici.
È chiaro a tutti che saper spostare volontariamente l’attenzione,
saper decidere che cosa è importante, renderlo più rilevante grazie
alla “concentrazione” sono tutte abilità rinomate e conosciute.
Tuttavia molti non sanno che la nostra attenzione influenza
pesantemente anche il nostro mondo interiore, da ciò che pensiamo
a ciò che proviamo a livello emotivo.
Ti è mai capitato di fissarti, per esempio, su un pensiero in
particolare? Se non ti è capitato non sei umano, e forse il mio libro
non ti serve, ma la verità è che succede a tutti. Infatti quel fascio di
attenzione quando si sofferma troppo su qualcosa ci si appiccica, in
un certo senso, ed è come se tenessimo un programma (un software)
sempre aperto, e come sappiamo dai nostri gingilli elettronici più
applicazioni apriamo e più lento diventa il computer. Quindi la
nostra attenzione non ha solo a che fare con il mondo esterno ma
anche con quello interno; la capacità di fare un calcolo a mente, per
esempio, richiede che tu sia in grado di trattenere sul tuo “tavolo
mentale” le informazioni per tutto il tempo necessario a compiere
quelle operazioni. Anche lì serve attenzione, devi cioè distribuire
parte di quella consapevolezza dal mondo esterno al tuo mondo
interno. Questo tavolo mentale viene chiamato dai miei colleghi
“memoria di lavoro”, ed è una sorta di scrivania su cui appoggiamo
tutto ciò che passa attraverso la nostra consapevolezza. Spero stia
diventando evidente che l’attenzione è in relazione con la nostra
mente, non è la semplice osservazione passiva di una macchina da

24
presa, come abbiamo detto, ma è un processo attivo anche se non ce
ne rendiamo sempre conto. Se l’effetto di Tse (vedi l’immagine a p.
23), dal nome del neuroscienziato cognitivo Peter Ulric Tse, non ti
ha ancora presentato la tua attenzione, forse mostrarti alcuni studi
legati alle neuroscienze ti servirà: sono un po’ truci, ma fanno
comprendere bene la differenza tra “visione e percezione” e tra
“focus e consapevolezza”.
Ora mi scuso anticipatamente con gli addetti ai lavori ma vorrei
che i concetti fossero semplici; allo stesso tempo vorrei però
utilizzare degli esempi tratti dalla realtà. Esiste un disturbo
neurologico chiamato “Neglect”, o negligenza emispaziale
unilaterale, che si verifica quando alcune parti del cervello vengono
compromesse (in seguito a traumi, ictus ecc.). È una sindrome che
mostra pienamente il legame tra attenzione e consapevolezza,
perché i soggetti che ne sono affetti perdono la capacità di esplorare
la parte controlaterale del corpo, con una conseguente errata
percezione di quella porzione di spazio. Solitamente è l’emisfero
destro a essere investito, di conseguenza le persone non sono
“consapevoli” dello spazio fisico del lato sinistro del corpo. La
situazione che si presenta è piuttosto bizzarra, i soggetti colpiti
tendono a farsi la barba solo dal lato sinistro del volto, si vestono
stando attenti solo a quella parte e così tutto il resto. Perciò è
definita “negligenza emispaziale”, perché viene apparentemente
cancellata una porzione di spazio. Detto in questi termini sembra
che la loro “telecamera interna” si sia rotta e che non riesca più a
inquadrare un pezzo dello spettro visivo, per l’esattezza una metà
del campo visivo, ma non è così.
Un semplice esperimento rende più chiara questa distinzione.
Immagina di avere di fronte un paziente affetto da Neglect (per
fortuna la sindrome è spesso transitoria) e di mettergli davanti un
foglio bianco pieno di pallini. Poi chiedigli di cerchiare tutti i pallini
che vede. Bene, scoprirai senza troppe sorprese che tende a cerchiare
tutti i pallini che si trovano sulla destra del foglio. E quando gli
domanderai se li ha cerchiati tutti lui ti dirà in modo convinto di
averlo fatto. Ora arriva il bello: se invece di cerchiare quei pallini gli
chiedi di cancellarli con una gomma, lui li cancella tutti, perché? Si è
detto che la metafora migliore per parlare di attenzione è quella del

25
fascio di luce, giusto? Ecco, immaginiamo un fascio di luce che deve
individuare quei pallini cerchiandoli; ogni volta che nota lo stimolo
il nostro fascio ci si ferma sopra il tempo necessario a riconoscerlo e
a prendere la penna per cerchiarlo. Poi si stacca da quello stimolo
per passare a quello successivo, ed è proprio questo che non è in
grado di fare la persona affetta da Neglect, non riesce a staccare il
fascio di luce per portarlo sugli stimoli successivi. Ma se gli
permettiamo di cancellare i “segnetti” volta per volta non resterà
“imbrigliato” in quei punti, perché l’attenzione potrà liberarsi dagli
stimoli e quindi riuscirà a notarli tutti, anche quelli presenti nella
parte sensoriale danneggiata.
Questa patologia ci consente di toccare con mano la differenza tra
percezione e visione: non è quest’ultima a essere danneggiata,
altrimenti ci basterebbe spostare lo sguardo, ma è la percezione delle
cose. Esattamente come per i tre cerchi di Tse, non è il tuo sguardo a
determinare se un oggetto sembra emergere o meno dallo sfondo,
ma è la tua attenzione, che può essere diretta anche senza rivolgervi
il senso principale. Per questo ti ho chiesto all’inizio di provarci
mantenendo gli occhi fissi sul cerchio centrale, per dimostrarti la
differenza tra lo sguardo e la percezione dello stimolo. Non solo, il
fatto che il nostro fascio resti “impigliato” negli stimoli visivi
quando una parte del cervello è danneggiata dimostra che tale focus
non dipende dagli oggetti su cui si posa ma su come ci si posa. La
tua attenzione non dipende dal trovarti di fronte a qualcosa di
bellissimo, ma dal fatto che tu sia presente a quella situazione o
meno.
Come molte persone amo passeggiare per la mia città, Padova, e
mi capita spesso di notare qualcosa di incredibilmente bello che non
avevo mai visto. Non un nuovo edificio, piuttosto un dettaglio
architettonico di un palazzo antico, un’opera d’arte che si trova in
una zona che ho attraversato magari migliaia di volte, senza mai
accorgermi della sua presenza. Poi un bel giorno spunta fuori quel
particolare che non avevo mai notato: perché? Forse non era
sufficientemente bello da attrarre la mia attenzione? No! Forse era
posizionato in modo da essere invisibile? La risposta è ancora
negativa. La vera ragione sta nel mio “grado di attenzione” nel
momento in cui ci sono passato davanti. Non solo, determinante è

26
anche che cosa ho visto prima di passare da quelle parti. Insomma, il
meccanismo attentivo è tutt’altro che passivo come possiamo
ingenuamente immaginarlo. È un processo complesso e attivo che
non si limita a inquadrare il mondo come puro dato, ma lo elabora e
lo trasforma sulla base della propria esperienza. È fondamentale
allora imparare a riconoscere tale processo per rendere quel fascio di
energia più “allenato”: è possibile infatti addestrarlo, migliorarlo,
renderlo più preciso e anche più ampio. Prima di fare tutto ciò
dobbiamo però andare a vedere che cosa lo “direziona”, quali strade
prende e perché, e per farlo dobbiamo analizzare i nostri
comportamenti “automatici”.

ESERCIZIO
Fai una passeggiata nel luogo in cui vivi e cerca almeno due o tre elementi
che ti sembra di non aver mai visto. Evita di cercare cose nuove, perché in
qualsiasi luogo tu viva sono convinto tu possa trovare due o tre particolari
su cui non hai mai riposto la tua attenzione. Più cose riesci a trovare e più
bravo sei! Da più tempo erano presenti, magari una casa antica o un albero
secolare, e più significa che stai iniziando ad allargare la tua
consapevolezza.

27
Pillola rossa o pillola blu?

Prima di proseguire vorrei che ti soffermassi un attimo sulla frase


che ho scritto sotto. Se hai seguito i miei lavori precedenti l’avrai già
incontrata, nel caso non sia così ti chiedo solo di leggerla
rapidamente. Sei pronto? Via:

Mamme con
le
le culle
Allora, l’hai letta? C’era scritto “Mamme con le culle”? Se la tua
risposta è affermativa, ti invito a rileggere la frase finché non ti
accorgi della presenza di un piccolo errore. Mi raccomando, non
continuare a leggere fino a quando non ti sembra di aver scovato
l’“inghippo”; se invece l’hai trovato, avrai notato che ci sono due
articoli “le”: “Mamme con le le culle”. Tengo corsi in pubblico da
quasi vent’anni, e ogni volta una grande fetta di partecipanti non si
accorge della ripetizione e casca nel tranello, ma al tempo stesso c’è
sempre qualcuno che alza la mano e dice: «No, caro mio, lì c’è un
errore, ci sono due articoli!». Al che mi congratulo e replico più o
meno così: «Bene, è del tutto normale saltare uno dei due articoli
perché questo gioco sfrutta l’automatismo della lettura. Quindi, chi
ha notato l’errore è perché probabilmente non legge molto». Questa
affermazione fa irritare le persone ma è vera. (Piccola nota a
margine: quando ho parlato con i due redattori che hanno
collaborato alla stesura di questo libro li ho coinvolti in questo
gioco, ed entrambi non hanno notato l’errore, probabilmente perché
leggere fa parte del loro mestiere.) Ciò che ci fa cadere in errore è
proprio il fatto di affidarci agli automatismi, qualcosa di cui non
possiamo fare a meno: sarebbe troppo impegnativo dover ogni volta
“reimparare a leggere” per riconoscere quell’articolo in più.

28
Uno degli esempi più noti per mostrare come funzionano gli
automatismi è la guida. Se hai la patente ti sarai certamente
immedesimato nella scena raccontata prima, dove via via che
aumenta la pioggia battente sei costretto a limitare le distrazioni per
concentrarti sulla strada. In altre parole, è come se stessi togliendo il
pilota automatico per recuperare i comandi manuali, quelli che gli
psicologi chiamano “comportamenti controllati”.
Quando hai imparato a guidare l’auto dovevi controllare ogni
singolo movimento, stare attento alla frizione, alla pressione sul
freno, sull’acceleratore e così via. Con la pratica, quei
comportamenti sono diventati automatici, e hai scoperto di poter
fare a meno di tutta quell’attenzione e accortezza per poterle
dedicare ad altro. Se ci pensi è una meraviglia che attraverso la loro
ripetizione siamo in grado di modificare i nostri comportamenti sino
a renderli automatici. C’è un problema, però, una questione a tratti
paradossale: noi creiamo automatismi per risparmiare energia ma
tale parsimonia può trasformarsi in uno degli ostacoli più grandi
per la nostra attenzione! Ti è mai capitato di scendere o salire una
rampa di scale e sbagliare nella valutazione della quantità di
gradini, quando pensi che ci sia ancora un gradino che invece non
c’è? Hai provato quella strana sensazione come di vertigine
improvvisa, come se ti mancasse d’un tratto il terreno sotto i piedi?
Ecco, ciò accade perché l’automatismo della discesa-salita delle scale
s’inceppa temporaneamente, il corpo si comporta come se ci fosse
ancora un gradino e ha un breve sussulto. Pensaci qualche istante
perché questo fenomeno, che probabilmente hai sperimentato
diverse volte, illustra in modo piuttosto preciso il punto centrale di
questo capitolo: per quanto utili siano gli automatismi essi
rappresentano anche una delle cause principali della nostra
mancanza di attenzione al mondo circostante.
Ora facciamo un passo in avanti nella comprensione di come
funzioniamo e uno indietro sulla nostra scala evolutiva
soffermandoci sull’apprendimento di un bambino. Alla nascita
abbiamo tutti due paure innate: quella dei rumori forti e improvvisi
e quella del vuoto, il resto delle nostre paure viene appreso durante
la crescita, con l’esperienza. Immaginiamo quel che accade nel
sistema corpo-mente di un bambino quando si trova di fronte al

29
fuoco; incuriosito dal colore e dal movimento della fiamma vi si
avvicina per capire di che cosa si tratta. Allunga una mano finché la
sensazione di bruciore dalla periferia del corpo non raggiunge il suo
sistema nervoso centrale, che elabora lo stimolo del dolore. A questo
punto il bambino ritrae la mano e magari scoppia a piangere; la
prossima volta che vedrà una fiamma non penserà più “Che cosa
succede se la tocco?”, ma ne starà alla larga. Il ricordo di quel
dolore, infatti, creerà una “mappa del mondo” che gli consentirà di
non dover nuovamente avere esperienza diretta di quel bruciore per
starne alla larga. Ovviamente le cose sono più complesse di così ma
l’esempio illustra bene come l’apprendimento ci aiuti a creare delle
mappe che facilitano il nostro muoverci nel mondo senza dover
avere ogni volta un’esperienza diretta di esso. Così, quando scendi
le scale e fai l’errore di valutazione di cui parlavamo poco fa, ciò che
succede è che la mappa che hai creato sulla quantità di gradini
presenti non coincide più con il mondo!
C’è un momentaneo scollamento tra la mappa e il mondo,
qualcosa a cui non pensiamo troppo spesso, eppure quando siamo
dentro le nostre mappe, nei nostri automatismi, tendiamo a non
vedere ciò che ci circonda. Perché è troppo più facile, e a volte
inevitabile, muoverci attraverso questi schemi di pensiero
“prefabbricati” che ci aiutano a interpretare quanto ci accade. A
mano a mano che cresciamo queste mappe diventano sempre di più,
al punto che in talune situazioni diventiamo completamente ciechi
alla realtà circostante per chiuderci dentro le nostre convinzioni (che
sono mappe). È un po’ come se guidassimo guardando il GPS invece
della strada; non lo facciamo perché siamo stupidi, tutt’altro, lo
facciamo perché il computer di bordo ci fa risparmiare un sacco di
energie. Ed ecco perché probabilmente hai letto i due articoli “le”
nella frase che ha dato inizio a questo capitolo, perché dentro di te
hai una mappa su come devono essere disposte le parole e su dove
vanno messi gli articoli. La frase dell’esempio viola questa mappa,
costringendoti a uscire dall’automatismo per poter osservare
l’errore; in sostanza, devi smetterla di guardare il GPS e dare
un’occhiata fuori dal veicolo. Come visto poco fa, se stai guidando
con il pilota automatico e scoppia un temporale ciò che succede, di
norma, è che metti da parte le “mappe” per poter guardare con

30
maggiore attenzione il “territorio”, cioè la strada. Non hai bisogno
che qualcuno ti inviti a rallentare o a diminuire le distrazioni, è
pressoché certo che lo farai da solo perché ne va di mezzo la tua
incolumità, la tua stessa sopravvivenza che – lo abbiamo visto –
guida le nostre azioni dall’inizio dei tempi.
Allora perché tutti questi incidenti d’auto? Perché ci distraiamo
alla guida nonostante un sistema così collaudato? I motivi sono tanti
ma i principali sono legati alla velocità, alle distrazioni e all’uso di
sostanze. Quando andiamo troppo veloci c’è uno scollamento
ancora tra “mappa” e “territorio”, perché in realtà all’interno delle
nostre belle auto superaccessoriate non percepiamo il pericolo. In
definitiva andare a 50 o 100 chilometri all’ora è la stessa cosa per la
nostra percezione e per le nostre mappe. Anche perché le macchine
di oggi hanno un’eccellente tenuta di strada anche ad alta velocità,
ma sono i nostri sensi a non essere cambiati e ad avere necessità di
essere allenati a certe prestazioni.
Lo stesso vale per le distrazioni; non ci passa neanche per la
mente che leggere un SMS potrebbe costarci la vita, eppure succede.
È difficile da realizzare, ma quando andiamo a 100 chilometri all’ora
percorriamo circa 28 metri al secondo; prova a pensare quanti sono
28 metri e immagina di percorrerli in un secondo. Significa che se
per leggere un SMS ci impieghi due secondi (prova a contarli nella
tua mente) per quasi 60 metri non vedi ciò che hai davanti! E
chiaramente più aumenta la velocità e più ogni singola distrazione
può trasformarsi in un reale pericolo. Ma perché non ce ne
accorgiamo? È sempre una questione di mappe: la sicurezza
dell’abitacolo, la sua insonorizzazione, la consapevolezza di riuscire
nella maggior parte dei casi a vedere gli ostacoli e schivarli ci
portano ad avere un’insana sicurezza nel nostro modo – automatico
– di guidare.
Per quanto riguarda le sostanze è chiaro quanto queste alterino i
nostri riflessi ma soprattutto come aumentino a dismisura quel
senso di sicurezza che ci porta ad andare più forte e a distrarci con
maggiore facilità. Ora, la sicurezza alla guida non è il tema che tratto
qui, ma è evidente come questo argomento sia legato all’attenzione,
anche perché – non so se lo sai – la causa della maggior parte degli
incidenti (con qualsiasi mezzo di locomozione) è quasi sempre da

31
attribuire a errori umani. Per questo i miei colleghi si sono messi a
studiare l’attenzione a livelli sempre più sottili, sino a individuarne i
limiti e le potenzialità, e a modificare l’ambiente affinché essa possa
essere sollecitata nel modo corretto. È il caso dei controllori di volo
che sono oggetto di studio privilegiato degli psicologi della
percezione; come puoi intuire, se qualcosa va storto nella torre di
controllo può capitare un grosso guaio, ma riprenderemo questo
tema più avanti quando parleremo di come “superare i limiti della
nostra percezione”.
Ora devi sapere che qualsiasi gesto abituale può creare una
mappa che ti allontana anche solo momentaneamente dal mondo
circostante, lo sanno molto bene i prestigiatori che ci aiutano a
capire come funziona questo complicato processo. Quando vedi un
illusionista che ripete un certo gesto più volte, di solito lo fa per
abituare il tuo occhio a quel movimento. Così, quando lo ha ripetuto
almeno tre volte (questo è ciò che loro raccontano) tu sei talmente
abituato a quel movimento che non fai più caso a che cosa sta per
fare né con la mano che compie l’azione né con l’altra. È una sorta di
effetto “abituazione”: l’occhio si abitua, crea una mappa che indica
“la mano continua a fare quel gesto” e da quel momento in poi
diventi cieco a tutto ciò che fa in modo diverso. Un abile
borseggiatore, per esempio, ti toccherà più volte in un punto del
corpo, solitamente lontano da dove desidera mettere le mani, e poi
cercherà di far coincidere quel tocco ripetuto con il borseggio, di
modo che il tuo corpo non lo registri nemmeno.
Sguardo e attenzione (mappa e territorio). Un altro trucco di
prestigiatori e malfattori che illustra come funzioniamo è quello che
rivela il modo in cui la nostra attenzione sembra collegata alla
direzione dello sguardo. A scuola, il professore di turno ti ha mai
detto «Guardami mentre parlo» o qualcosa del genere? Se provi a
volgere lo sguardo altrove mentre una persona ti sta parlando,
questa si mostrerà subito parecchio indispettita, anche se sappiamo
bene che è possibile ascoltare una conversazione senza
necessariamente “guardarla”. Eppure è largamente assodato che
dove vanno i nostri occhi va anche la nostra attenzione, lo sanno
bene i prestigiatori, che infatti sono i primi a guardare dove tu non
dovresti guardare. La cosa curiosa è che più il gioco viola i nostri

32
automatismi e meglio riesce, perché spiazza quel computer interno
che attraverso le mappe crede di vedere il mondo. Lo stesso succede
in vari spettacoli artistici; per esempio, i comici devono portare la
mente su determinate mappe per poi violarle, ed è proprio questo
che crea l’effetto divertente, cioè che diverge da dove pensavamo di
stare andando.
La distinzione mappa/territorio è molto nota ai miei colleghi, ma
è qualcosa con cui ci confrontiamo tutti quotidianamente, anche
senza rendercene conto. Come abbiamo visto, la nostra attenzione è
una sorta di filtro che capta la realtà circostante, non riesce a
prenderla tutta ma ne seleziona alcune parti. Tale selezione è
guidata da diversi fattori, tra cui la quantità di attenzione che stiamo
porgendo, la quantità di rumore di fondo e da una grande varietà di
processi psicologici. Per alcune persone non è facile da accettare, ma
noi non siamo davvero a contatto con il mondo che ci circonda,
perché questo è costantemente mediato da ciò che pensiamo,
proviamo, dai nostri limiti percettivi e dalla mole immensa di
informazioni che abbiamo intorno e che aumentano giorno dopo
giorno. Questa riflessione è in realtà antichissima e possiamo farla
risalire storicamente al mito della caverna di Platone, ripresa ai
giorni nostri dal film Matrix. In entrambe le storie si racconta che
potremmo non renderci conto di non essere a contatto diretto con la
realtà, ma che questa viene mediata da numerosi fattori che in molti
casi ci impediscono di vedere le cose come stanno.
Ecco che stiamo iniziando ad avvicinarci a uno degli aspetti più
importanti della nostra attenzione, che come avrai intuito non verrà
spiegata semplicemente come modalità per stare più attenti
(funziona cognitiva); attraverso di essa, invece, ti mostrerò come
fare la cosa più difficile in assoluto, vale a dire essere presente a te
stesso e al mondo che ti circonda: questo per me significa realmente
“lavorare sulla propria attenzione” e su se stessi nel XXI secolo.
Qualche anno fa i ricercatori della Oxford University si sono chiesti
se la capacità di essere presenti e attenti a ciò che facciamo possa
essere una valida “misura” della felicità. Così hanno progettato
un’applicazione per smartphone che non faceva altro che inviare, in
modo casuale durante la giornata, alcune notifiche. In tali
comunicazioni veniva chiesto alla persona che cosa stesse facendo e

33
a che cosa stesse pensando in quel momento, e poi di valutare come
si sentisse. La mole di dati raccolti è stata impressionante, e tutti
indicavano la stessa conclusione: chi ha risposto che stava pensando
a ciò che faceva in quell’istante, quindi era attento e intento nel
proprio compito, risultava essere anche più felice.
Ora potrei entrare nei meccanismi neurobiologici, ma forse è un
po’ presto e non è lo scopo ultimo di questo libro. Tuttavia è
evidente che se stai svolgendo un compito in modo attento e
intenzionale la sensazione che avrai sarà di piacere; al contrario se lo
fai distrattamente e senza coinvolgimento potresti provare
frustrazione e noia. Se non sei qui a leggere queste parole in realtà
sei altrove! L’esempio che mi piace spesso tirare in ballo è il gioco di
società Risiko. Se non ci hai mai giocato puoi pensare a un qualsiasi
altro gioco di società che ti costringa a restare concentrato a lungo.
Se hai partecipato qualche volta a uno di questi giochi ti sarai di
certo reso conto di una cosa interessante: se sei coinvolto in ciò che
fai il tempo vola, al contrario se non sei nel gioco ti annoi
terribilmente. È anche per questo che i bambini riescono a giocare
per ore e ore, perché sono pienamente coinvolti nel gioco, ed è anche
per questo che possono riguardare migliaia di volte lo stesso film,
perché hanno “poche mappe”.
Ora è chiaro che tali schemi – le mappe – ci servono per
comprendere il mondo, per esempio l’apprendimento della lingua ti
consente di leggermi in questo momento. Tuttavia se anticipi troppo
ciò che sto scrivendo cadi nell’errore di “mamme con le le culle”,
cioè rischi di dare per scontato ciò che sto per raccontarti. E più mi
conosci e più lo darai per scontato, cioè più credi che la tua mappa
descriva il mio mondo e più rischi di non vedere ciò che viola le tue
aspettative. Spero quindi stia diventando evidente che l’attenzione
di cui voglio parlare qui non è solo da intendersi come orientamento
e vigilanza, ma è qualcosa che potremmo riassumere nella parola
“consapevolezza”. È il processo dell’attenzione a generare
consapevolezza, e questa è sicuramente uno dei doni più belli che tu
possa fare a te stesso e alle persone che ti circondano. (Più avanti
parleremo di come e quanto l’attenzione sia il fondamento di ogni
buona relazione: questo è un libro di crescita relazionale, non solo di
crescita personale.)

34
Uno dei miei più cari amici di professione fa il regista; diversi
anni fa, quando era impegnato nella formazione in una scuola per
sceneggiatori, mi ha detto: «Sai, ho capito che bisogna guardare
tutto, anche i programmi più trash, perché non sai mai da dove
potrà venire fuori una buona idea». Sembra un discorso
qualunquista, in realtà è molto profondo e vero, perché quando
guardiamo un film casereccio non sappiamo davvero quanto
impegno sia stato profuso, magari anche solo per farlo sembrare tale
(chiunque abbia visto la serie TV “Boris” mi capisce perfettamente).
Le mappe, cioè i nostri apprendimenti che si trasformano in
aspettative sul mondo, sono importantissime ma è fondamentale
anche saperle mettere da parte per poterci godere ciò che capita
intorno a noi. Se vai al cinema intento a capire le “tecniche di
ripresa” è facile che non ti godi pienamente la trama del film, non ti
identifichi con i personaggi, non sei davvero presente all’esperienza
che l’autore ha disegnato per te.
Ora, questa storia mi serve per svelarti che altre ricerche hanno
dimostrato con chiarezza che per il cinquanta per cento del tempo
noi siamo persi tra le nostre mappe! Sì, esattamente in questo
momento, per metà del tempo le mie parole hanno fatto scattare le
tue mappe, in alcuni casi conducendoti a nuove intuizioni o
aiutandoti a vedere concetti vecchi sotto una nuova luce, in altri
sono state delle vere e proprie distrazioni. Quando sei perso tra i
tuoi pensieri fai molta fatica a notare ciò che sta succedendo intorno
a te e – come vedrai – anche dentro di te.
La ricerca legata alla consapevolezza in psicologia sta provando
con argomenti sempre più convincenti quanto sia essenziale saper
gestire le distrazioni interiori. Queste possono disturbarci, perché
noi non funzioniamo come un computer, che è un’ottima metafora,
ma in realtà per noi quelle mappe diventano filtri, che selezionano
solo alcune informazioni che siano il più possibile coerenti con il
filtro stesso. Per esempio, se ti convinci che il tuo vicino di casa
programmi delle feste proprio nelle sere che precedono i giorni in
cui devi svegliarti presto al mattino, è facile che tu inizi a
interpretare tutti i suoi atteggiamenti come minacciosi e rivolti
contro di te. In altre parole, noi creiamo delle simulazioni che sono
delle teorie sul mondo che guidano il nostro agire, ma non sempre

35
tali teorie sono vere; più che teorie sono “ipotesi” sul mondo. Una
volta creato questo schema il nostro cervello, che è programmato
per risparmiare energia, tenderà a utilizzarlo di continuo. Così, un
semplice sguardo di traverso del tuo vicino può essere interpretato
in modo truce, quando magari ti stava solo per salutare.
Nelle prossime pagine ti mostrerò come funzionano queste
mappe, come puoi aggiornarle e come metterle da parte per godere
pienamente del mondo. Tutto questo imparando a gestire la tua
attenzione che, come spero tu abbia già iniziato a capire, è il motore
di tutto il processo. Non è solo un “ricettacolo passivo” delle
informazioni, ma è un computer che continua a creare mappe che
diventano filtri per la realtà che ci circonda, e questo c’influenza
pesantemente anche se di norma neanche ce ne rendiamo conto. Il
tema principale di questo lavoro non è l’attenzione, infatti, ma la
consapevolezza che si sviluppa lavorando… sull’attenzione.

ESERCIZIO
Osserva i tuoi automatismi; non sarà facile farlo mentre sono in atto, ed è
probabile che tu te ne accorga solo dopo averli messi in pratica. Limitati a
contare tutte le volte che riesci a notare l’automatismo in qualsiasi ambito,
tranne mentre guidi perché lì è troppo facile. Quando ci riesci, evita di
giudicare negativamente le tue azioni; anzi, devi essere contento di aver
notato quella tua modalità di comportamento. Lo scopo di questo esercizio
non è evitare l’automatismo ma riconoscerlo!

36
L’attenzione divisa e il “supervisore centrale”

La guida dell’auto ci aiuta non solo come metafora per capire la


differenza tra mappe (GPS ) e territorio, ma è utile anche per
comprendere un altro fenomeno legato agli automatismi, la
cosiddetta “attenzione divisa”. La nostra attenzione è costantemente
divisa, è “selettiva”, seleziona cioè solo le informazioni rilevanti in
un determinato contesto.
In questo istante, anche se ti trovi in mezzo alla gente, puoi
comunque continuare a leggere queste parole comprendendole alla
perfezione e allo stesso tempo stare attento all’ambiente circostante.
Lo puoi fare perché l’attenzione è in grado di dividersi in tanti
modi, più la dividiamo e meno risorse riusciamo a mettere su un
determinato stimolo. Mentre guidi fai un sacco di cose senza
rendertene conto perché le hai automatizzate con l’esperienza;
potresti seguire anche un discorso molto complesso, tuttavia più la
strada si fa impervia e meno riuscirai a prestare davvero attenzione
al tuo interlocutore. Se le condizioni della strada non sono pessime
potrai continuare ad ascoltarlo, e anche se non te ne accorgi, la tua
capacità di gestire l’attenzione sarà tanto meno intensa quanto più
sarai costretto a suddividerla su più stimoli.
Ora, come è possibile dividere l’attenzione? In realtà lo facciamo
di continuo, anche quando siamo seduti comodamente a casa sul
divano mentre leggiamo abbiamo intorno mille distrazioni che
potrebbero portarci lontano da ciò che stiamo facendo. Non solo,
ogni parola che leggiamo può aprire la porta a una serie infinita di
associazioni che dividono l’attenzione; se, per esempio, adesso ti
imbatti in una parola che ti ricorda, magari, un esame universitario
su cui hai fatto fatica, ecco che quella semplice sequenza di lettere è
in grado di farti pensare a due cose contemporaneamente. Così
mentre cerchi di restare concentrato sul testo, dentro di te si apre un

37
altro “programma” che cerca di capire perché gli siano tornate in
mente proprio quelle cose.
La verità è che l’automatismo, oltre a essere un meccanismo che
possiamo acquisire con l’esercizio e la ripetizione, è proprio il modo
preferito dal nostro cervello per gestire le risorse mentali. Non
appena crede di poter agire “automaticamente”, ecco che divide
l’attenzione e di conseguenza le risorse preferendo innestare il
“pilota automatico”. Abbiamo prove talmente concrete del fatto che
il cervello tenda a rendere automatici la maggior parte dei nostri
meccanismi psichici che negli ultimi anni molti ricercatori hanno
ottenuto riconoscimenti internazionali sfruttando proprio tali studi.
Premi Nobel per l’economia come Herbert Simon, Daniel Kahneman
e Richard Thaler hanno creato un campo di studi definito “finanza
comportamentale”, il cui assunto dice che in realtà siamo dei
pessimi decisori perché siamo influenzati da alcuni automatismi
della mente, oggi noti al grande pubblico come bias o “euristiche”.
Quindi la nostra attenzione non si divide solo quando facciamo più
cose – vedi il fenomeno del multitasking – ma lo fa naturalmente
dentro se stessa per poter “ragionare” o darci l’impressione di
ragionare. Abbiamo quindi numerosi processi inconsci che possono
catturare e dirottare la nostra attenzione: alcuni di questi sono
gestibili, come vedremo, altri sono inevitabili.
La maggior parte di ciò che pensiamo scaturisce in realtà da sotto
la superficie del “pensiero” e dei “concetti”; non possiamo perciò
controllare davvero il nostro comportamento ma possiamo decidere
intenzionalmente dove indirizzare la nostra attenzione nel tentativo
di influenzare quei processi. Per anni gli scienziati cognitivi hanno
creato vari modelli sul funzionamento dell’attenzione, molto simili
tra loro, perché tutti prevedono un organo superiore di controllo,
esecutivo, che sia in grado di gestire il marasma automatico dei
nostri pensieri, qualcosa che risponda alla semplice domanda: “Chi
dirige la baracca?”, che cosa fa funzionare l’attenzione in modo
corretto? Più l’ambiente che stiamo esplorando e le azioni che
stiamo compiendo sono usuali e meno sforzo farà l’“organo
esecutivo”; al contrario, meno conosciamo l’ambiente e più sarà
costretto a intervenire. È l’organo di controllo del cervello che, per
così dire, “si oppone” agli automatismi, è quello che devi far entrare

38
in gioco quando sei a dieta e non vuoi correre direttamente al frigo.
Non si attiva automaticamente, ma solo in risposta a stimolazioni
esterne o attraverso un controllo attivo e intenzionale, quindi o
dall’esterno o dall’interno. Ed è proprio tale organo che sei costretto
a chiamare in causa se scoppia un acquazzone mentre stai guidando;
fa una valanga di cose per te, anch’esso in parte in sordina e in parte
alla luce del sole.
Se gli automatismi ti consentono di risparmiare energia, di fare
più cose contemporaneamente e in modo rapido e preciso, questo
“supervisore centrale” ne fa altrettante:

a) distribuisce le risorse attentive. Il “supervisore centrale” è in


grado di stabilire quante risorse portare su uno specifico
stimolo/situazione. Tu puoi decidere se ascoltare il tuo
interlocutore in macchina o guardare la strada; non è facile da
afferrare, ma sicuramente lo avrai fatto migliaia di volte. Magari
scegliendo di ascoltare ciò che ti dice tua moglie o tuo marito
invece che continuare a seguire il TG ;
b) ti fa affrontare l’imprevisto. Ogni volta che sei di fronte a una
situazione nuova devi disattivare il “pilota automatico” per
poter esplorare il territorio che ti circonda. Comportarti come se
conoscessi già quell’ambiente è il modo migliore per
inciampare; il “supervisore centrale” si attiva spontaneamente
ogni volta che si trova di fronte a nuovi stimoli;
c) inibisce le azioni abituali. Quando un amico ti dice: «Mi
raccomando, quando incontri Matteo non parlare di dolci, ha
appena scoperto di essere diabetico», se prima con Matteo
parlavi spesso di dolci, ecco che dovrai fare uno sforzo attentivo
volontario per inibire la tendenza a parlarne: è sempre il
“supervisore centrale” a occuparsene;
d) seleziona e inibisce le informazioni. Come nell’esperimento
sull’ascolto dicotomico, se chiediamo alle persone di ascoltare
solo dall’orecchio destro si verificherà un’inibizione dell’entrata
in memoria di tutte le informazioni provenienti dall’orecchio
sinistro. Questo aspetto di inibizione è molto importante – lo
vedremo più avanti – perché contribuisce alla creazione di una
vera “attenzione sostenuta”;

39
e) gestisce i feedback. Anche in una situazione usuale, dove
l’attenzione è divisa, se siamo sufficientemente attenti riusciamo
a notare la qualità delle nostre azioni attraverso i feedback che
riceviamo dall’ambiente. Ecco, è sempre il “supervisore
centrale” a gestire tale raffinata operazione di aggiustamento
continuo basato sul feedback;
f) esegue azioni poco apprese. Quando stai apprendendo
qualcosa, più ciò è complesso e più sarai costretto ad appellarti
al “supervisore centrale”;
g) organizza in modo sequenziale i compiti. Per preparare una
buona torta, prima devo mettere un ingrediente e poi l’altro; lo
diamo per scontato, ma il nostro cervello fa continui piani sul
mondo – le simulazioni di cui parlavamo prima – e li ordina in
base alla rilevanza dei compiti che deve affrontare. Ancora una
volta la ricerca dimostra che è il “supervisore centrale” a
occuparsene;
h) non controlla direttamente il comportamento. Questo
“supervisore centrale” è un po’ “sfigato”, perché in realtà non
controlla direttamente le nostre azioni ma modula l’attivazione
degli schemi automatici. Se hai mai provato a fare una dieta o a
cambiare abitudini sai perfettamente che non basta farlo una
sola volta o ripetere allo specchio di voler cambiare. Dovrai
costantemente inibire il desiderio e le azioni che ti portano in
automatico a mangiare o a comportarti in un certo modo: devi
“modulare” la risposta delle tue mappe.

Potrei continuare a lungo mostrandoti tutto ciò che fa l’organo


esecutivo del cervello, che in realtà non è un singolo “organo” ma
un insieme complesso di reti neurali, più precisamente reti che si
trovano nei lobi frontali e prefrontali del cervello, all’incirca dietro la
tua fronte. Sappiamo che è lui a occuparsi di tutto questo, perché se
un incidente colpisce quelle aree perdiamo proprio le abilità che ho
appena descritto. L’aspetto interessante è che non perdiamo le
nostre conoscenze, cioè l’insieme di mappe che abbiamo costruito,
ma perdiamo la capacità di selezionarle e gestirle. Tutte le ricerche
sull’attenzione ci hanno portato a riconoscere qualcosa che
sappiamo da sempre: dentro di noi c’è una sorta di “Io” che

40
dobbiamo imparare a governare per crescere. Per Platone questo
“Io” era un cocchiere (o meglio, un auriga) alle prese con due
cavalli, uno bianco che rappresenta tutte le qualità alte dell’animo
umano e uno nero che al contrario rappresenta tutte le
concupiscenze oscure e istintive. Al centro del carro o biga c’è
appunto il cocchiere, che è intento a gestire queste due parti, ed è il
nostro organo supervisore che risiede nella parte più recente del
cervello. La stessa metafora è stata ripresa da Freud, questa volta
rappresentando il cavallo bianco come il “Super-io”, l’insieme di
insegnamenti morali, e il cavallo nero come l’“Es”, la parte degli
istinti. Il povero cocchiere sarebbe l’“Io”, costantemente costretto a
guidare queste due bestie che per la maggior parte del tempo tirano
in direzioni opposte.
Come vedi, per quanto antiche queste metafore hanno colto
abbastanza bene il nostro funzionamento, e spero sia chiaro che
questo organo superiore è il cocchiere che deve gestire i cavalli, che
sono in realtà molti più di due. Qui non ci occupiamo solo di
scoprire come dominare al meglio questi cavalli, rendendo il
cocchiere più forte e consapevole, ma anche imparando a condurre
meglio tutto il mezzo di trasporto. Se fosse un cocchio, quindi con
un possibile passeggero al suo interno, per guidare le azioni
dobbiamo certo avere un conducente forte e in gamba, ma non
dobbiamo dimenticare che la carrozza ha un proprietario… che sei
tu. E come vedremo, rendere il “pilota” più consapevole fa sì che tu
possa capire di essere di più del cocchiere, dei cavalli e anche della
carrozza!
Questo capitolo dedicato all’attenzione divisa serve a ricordarti,
all’inizio di questo percorso, che in realtà la tua mente è
necessariamente “divisa in più parti”. Noi cercheremo attraverso la
consapevolezza di creare un focus sempre più attento, preciso e
allenato, ma questo non impedirà alla mente di dividersi in
determinate situazioni. Per quanto diventiamo bravi a riconoscere le
mappe, a metterle da parte per indirizzare la nostra attenzione su
ciò che abbiamo davanti a noi, ci sarà sempre una piccola parte della
mente intenta a fare altro. Nel campo della psicologia tutti sanno,
addetti ai lavori e curiosi, che la maggior parte della nostra attività
psichica è “inconscia” o “inconsapevole”, e per anni siamo andati

41
alla ricerca dei meccanismi sotterranei che guidano le nostre azioni.
Per anni abbiamo cercato di capire che cosa volessero davvero i
cavalli, ma le attuali ricerche in ambito psicologico ci mostrano che
dovremmo allenare la nostra consapevolezza per usufruire
pienamente del potere degli aspetti inconsci, che analizzeremo in
modo quanto più semplice possibile tra qualche capitolo.
Come scoprirai, puoi accedere tanto più facilmente alle tue
risorse inconsce quanto più riesci a direzionare la tua parte conscia.
Lo so, sembra un paradosso ma le cose stanno proprio così, e non
serve un filosofo o uno psicologo per afferrare il concetto: dobbiamo
accettare che dentro di noi avvengono milioni di operazioni
istantanee, che non possiamo né controllare né prevedere, e neanche
conoscere, tipo i processi chimici che avvengono nelle nostre cellule
e che si trasformano in contenuti mentali. Allora, ciò che ci resta è
solo la loro “consapevolezza”, vale a dire la capacità di coglierli e
osservarli quando emergono dalla parte inconscia; più avanti
vedremo anche come gestirli al meglio. Ma posso assicurarti che non
devi diventare bravo a “usare il tuo inconscio”, perché funziona
benissimo da sé; piuttosto, devi diventare più bravo a gestire la tua
consapevolezza, questo è il vero superpotere.

ESERCIZIO
Presta attenzione ai modi in cui tendi a suddividere la tua attenzione; anche
adesso, mentre leggi, la tua attenzione è necessariamente suddivisa, ma
non è facile notarlo. Per questo un buon allenamento è iniziare ad
accorgerci di quanto, quando e come l’attenzione si divida, senza cercare di
capire perché e senza giudicare quando ce ne rendiamo conto. Nelle pagine
che seguiranno capirai perché continuo a ripeterti “senza giudicare”; limitati
a osservare, a prendere nota di tutte le volte che cogli la tua attenzione
suddivisa.
Come abbiamo visto succede in ogni istante, ecco perché ti consiglio di
mettere un promemoria sul cellulare che ti ricordi di prestare attenzione alla
divisione delle tue risorse attentive. Mi raccomando, ricordati… senza
giudicarti negativamente; per ora devi solo osservare che cosa succede
senza intervenire!

42
43
Il nostro radar interiore non sa di essere acceso!

È probabile che con tutte le distinzioni nel processo attentivo che


abbiamo già considerato io ti abbia leggermente confuso, soprattutto
se ti stai chiedendo se i processi automatici sono la nostra parte
inconscia e quelli controllati, quelli del supervisore, la parte conscia.
La questione è piuttosto complessa, così per chiarire faremo adesso
una semplice distinzione tra attenzione “implicita” ed “esplicita”.
Quando decidi di prestare attenzione in modo consapevole a
qualche cosa stai usando la tua attenzione esplicita, ma
contemporaneamente è accesa anche quella implicita; se durante la
lettura di queste righe scoppiasse un incendio intorno a te, posso
assicurarti che te ne renderesti conto. Potrà essere un suono forte ad
attirare la tua attenzione, il calore della stanza o più di frequente
l’odore di fumo. Sono tutti segnali che dicono al tuo supervisore di
smetterla di dare attenzione a queste parole per qualcosa di più
importante. L’attenzione implicita funziona come una sorta di
“radar” che scandaglia le condizioni ambientali quando non ci
portiamo attivamente la nostra attenzione. È sempre il nostro caro
supervisore a rendersi conto che qualcosa non va e che è bene
spostarsi su altro, e questo dovrebbe farti comprendere che tale
processo non è né conscio né inconscio, cioè non rappresenta
nessuna di queste due categorie. Sarebbe facile pensare che l’aspetto
che “controlla” sia quello consapevole mentre quello automatico sia
inconsapevole, in realtà si tratta di un processo unitario che può
avere vari gradi di consapevolezza e inconsapevolezza.
In questo momento mi auguro che tu stia respirando, e anche se
fino a qualche secondo fa non ne eri consapevole lo stavi facendo
egregiamente. Però adesso, magari solo per qualche istante, il tuo
respiro è diventato consapevole, è cioè entrato nella tua attenzione
“esplicita”. Facciamo un esempio che tutti conoscono, le notifiche

44
sul cellulare: se hai uno smartphone saprai che ogni volta che
scarichi una nuova applicazione questa ti chiede se può inviarti
delle notifiche. Ora, immagina di essere intento in questa lettura; sei
coinvolto in ciò che stai leggendo e provi anche un certo piacere nel
comprendere concetti che non ti sono usuali. Per fare ciò devi
rivolgere attivamente la tua attenzione sul testo e se a un certo
punto ti arriva una notifica devi interrompere per un attimo la
lettura. La notifica non viene notata dalla parte esplicita che sta
leggendo il libro ma da quella implicita, che ti protegge
scandagliando l’ambiente esterno. È per questo che dovresti
eliminare le notifiche delle varie applicazioni, perché ogni volta che
arrivano mentre stai facendo altro, oltre a interromperti, ti
costringono a dividere ulteriormente le tue risorse attentive che,
come abbiamo visto, sono limitate. Facendo appello a una nostra
parte arcaica, ancora attiva con la funzione di proteggerci, rischiamo
invece di subire talmente tante interruzioni da vanificare il processo
di apprendimento (nel caso della lettura).
Gli studiosi che si occupano di attenzione hanno da tempo
coniato un termine interessante chiamato “superstimolo”, cioè uno
stimolo arricchito a tal punto da essere più interessante del normale.
È stato introdotto per due motivi, il primo è a scopi di marketing: se
ho la tua attenzione ti vendo più cose; il secondo è per ragioni di
sicurezza. Da quando la psicologia si occupa di percezione e
sicurezza ha scoperto che la cosa migliore non è (solo) insegnarci le
norme necessarie in un determinato ambito (vedi la legge 626) ma
anche che è bene disegnare gli ambienti in modo che inducano
comportamenti virtuosi e quindi più sicuri. E per farlo si avvale
delle ricerche sul marketing, che indicano apertamente di che forma,
colore, odore, suono ecc. debba essere uno stimolo affinché attiri la
nostra attenzione. Quanto potente deve risultare uno stimolo per
farci passare da un’attenzione implicita a una esplicita?
Chi si occupa di applicazioni digitali ha capito benissimo che le
notifiche hanno tale effetto, ed è per questo che anche se provi a
disattivarle ogni volta che rientri in quella dannata app, continua a
chiederti se vuoi riattivarle. Perché il successo di queste tecnologie è
legato alla quantità di attenzione che gli diamo, più persone e per
più tempo ci stanno sopra e più salgono le loro azioni in borsa. E

45
tutto questo è spiegabile attraverso il passaggio da un’attenzione
implicita a una esplicita, quindi tu sai implicitamente di avere i
social sul tuo smartphone, ma se sei intento in questa lettura non
t’importerà di andare a vederli (almeno spero… anche se con queste
parole un po’ di desiderio te l’ho messo, vero?); se però ti arriva la
notifica ecco che il tuo desiderio aumenta a dismisura, anche se ti
sforzi di ignorarla. In qualche modo, per qualche istante, quel suono
o immagine dirotteranno la tua attenzione, il che significa che ci
impiegherai più risorse. E quando qualcosa diventa esplicito e
investito dalle nostre risorse interiori, ecco che inizia ad acquisire
una determinata importanza ai nostri occhi, anche se razionalmente
non ce l’ha. Esattamente come hai visto poco fa nell’illusione dei tre
cerchi, dove metti più attenzione non solo l’oggetto appare più
chiaro ed evidente (il cerchio risulta più scuro) ma sembra anche
emergere rispetto agli altri. Lo stimolo illuminato dalla
consapevolezza diventa prioritario nella mente, e il nostro
supervisore ha la tendenza a creare piani organizzati basati su tali
priorità. Se le notifiche insistono ecco che il tuo smartphone diventa
più rilevante delle frasi che stai leggendo, anche soltanto se l’idea di
dover rispondere diventa una distrazione; tutto ciò senza contare
che a ogni interruzione e ripresa della lettura sprechi un sacco di
energie, perché il supervisore consuma tantissimo, soprattutto
quando viene costantemente dirottato a destra e a sinistra.
Per fortuna adesso abbiamo capito come funziona la nostra
attenzione e come occuparcene al meglio. La ricerca degli ultimi
anni conferma che la si può allenare e che ogni buon addestramento
necessita di esercizi specifici, come quelli che stai trovando qua e là
all’interno del testo. Alcuni potranno apparire bizzarri e forse
banali, ma t’invito a mettere da parte per qualche istante le prime
impressioni e ad aprirti all’esperienza. Come scoprirai tu stesso, in
questo nostro viaggio lo spirito d’avventura è un requisito
apprezzato; non sei costretto a “fare i compiti”, non siamo a scuola,
ma posso garantirti che facendoli comprenderai meglio i concetti
illustrati in queste pagine. Quindi, prima di passare agli ostacoli che
minano la nostra attenzione, vediamo subito un piccolo esercizio.

46
ESERCIZIO
Adesso porta la tua attenzione ai suoni che ti circondano, prova a notarli e a
contarli. Non credo che tu sia in una stanza anaecoica (cioè
ultrainsonorizzata), nel caso esci e fai l’esercizio altrove. Poiché è probabile
che alcuni dei suoni che ti circondano ora fossero presenti già da prima,
allora considera questi, quelli già presenti. Osserva come, mentre leggi
queste istruzioni, in realtà la tua “parte implicita” sta già facendo questo
lavoro in silenzio, rendila più consapevole e presente. Di nuovo, evita di
giudicarti con durezza se ti accorgi di non riuscire a fare l’esercizio o se noti
che le distrazioni ti hanno portato lontano da queste parole.

47
Veleni e antidoti dell’attenzione

La tendenza comune è credere che se il mondo fosse un posto


migliore, dove la tecnologia fosse in armonia con la natura, non
avremmo problemi di attenzione. Forse in parte è vero, ma se ci
ragioniamo sopra per un istante realizziamo che le cose sono più
complesse di come appaiono. Se immaginiamo un uomo delle
caverne intento nelle sue faccende quotidiane, di certo non
possiamo figurarcelo come tranquillo e rilassato su un’amaca, ma
alle prese con diversi grattacapi del suo tempo, per esempio stare
attento a non essere mangiato dalle bestie feroci. Questo stato di
allerta doveva essere sempre acceso, sia quando era a caccia sia
mentre faceva l’amore con la propria compagna, un radar quindi
costantemente attivato e spesso iperattivato.
Nonostante questa considerazione è pur vero che il mondo
moderno è progettato per attirare la nostra attenzione anche quando
non lo vogliamo: l’esempio delle notifiche è emblematico.
L’attenzione – essendo parte del nostro cervello e quindi del nostro
corpo – risente di tutte le cose che facciamo: se dormiamo bene
funziona meglio, se mangiamo in modo corretto funziona meglio; se
togliamo le notifiche funziona meglio e se ci alleniamo possiamo
renderla sempre più forte. Vediamo allora quali sono gli ostacoli
principali oggi: già identificarli e ridurli o migliorarli può fare una
grande differenza.

Sonno e stanchezza
Il primo – sottovalutato – ostacolo all’attenzione è la nostra
stanchezza, cioè la quantità di energia che riusciamo a mobilitare
nella nostra quotidianità. Se siamo troppo stanchi, se abbiamo

48
dormito male o troppo poco la nostra attenzione non funzionerà
correttamente. Pensa, basta solo un’ora in meno di sonno per avere
un risultato molto inferiore ai diversi test di attenzione esistenti, e la
mancanza di sonno può danneggiare profondamente la qualità della
vita e la salute sino a condurci alla morte. Purtroppo non sto
esagerando. Alcuni studi iniziati a metà degli anni Ottanta e
proseguiti fino a fine Novecento, hanno preso in esame diecimila
dipendenti pubblici del Regno Unito, monitorandone le abitudini
notturne. La relazione tra ore di sonno e aspettativa di vita è
risultata sconvolgente: chi dormiva due ore in meno della media del
sonno necessario (in relazione all’età) aveva il doppio delle
probabilità di morire prematuramente.
Non voglio spaventarti, ma solo mostrarti gli effetti deleteri della
mancanza di sonno, che costituiscono la fonte principale della
stanchezza e di molte altre forme di défaillance dell’attenzione. Noi
non ce ne accorgiamo perché il cervello è eccezionale e ci dà
l’impressione di funzionare bene anche se abbiamo molto sonno
arretrato; lo fa solo fino a una certa soglia, ovviamente, dopodiché
inizia a farti sbadigliare o a causare i noti “microsonni”, che
risultano parecchio dannosi per la tua incolumità, soprattutto se per
lavoro guidi o utilizzi macchinari pericolosi.
Quindi se hai problemi di insonnia il mio consiglio è quello di
farti aiutare; sono diffusi tanti rimedi utili, come le cosiddette
istruzioni di “igiene del sonno” (sul mio sito le trovi); ma se sai di
avere una difficoltà seria in questo ambito fatti aiutare, esistono
specialisti nella cura dell’insonnia. Se hai meno di 20 o 30 anni forse
non ti pesa questa mancanza di sonno, ma posso assicurarti che con
l’avanzare dell’età può diventare un problema da non sottovalutare.
Per cui, se sei insonne e desideri migliorare la tua attenzione, i
consigli che troverai qui ti faranno bene ma non conteranno più di
tanto se non ti occupi della qualità del tuo sonno.

La nostra attenzione segue dei cicli


Se mi stai leggendo da poco più di 20 minuti è probabile che tu non
senta la minima stanchezza e che riesca a comprendere pienamente

49
ciò che leggi. Se invece sono già passati più di 40 minuti è probabile
che la tua attenzione inizi a perdere potenza; è del tutto normale, a
quanto pare riusciamo a mantenere un’attenzione focalizzata per
circa 30-45 minuti, dopodiché vi è un naturale decadimento. No,
non ti addormenti, soprattutto se hai curato il tuo sonno, ma accusi
un abbassamento della soglia di attenzione. È per questo che chi
lavora guidando sulle autostrade non può fare viaggi tanto lunghi
senza costanti pause, e da qualche tempo a questa parte le forze
dell’ordine vigilano su limiti e controlli introdotti per evitare che si
guidi troppo a lungo. Perché è stato necessario? Sicuramente gli
interessi economici avevano e hanno un peso rilevante: più
velocemente trasporti qualcosa da un punto a un altro e più sei
libero per altri lavori. Ma una delle ragioni principali, di cui
raramente si parla, è la perdita di risorse attentive, un problema di
cui non ci rendiamo conto a sufficienza.
Personalmente ho fatto avanti e indietro da Padova a Mantova
per oltre dieci anni, percorrendo circa 350 chilometri a viaggio. Il
tragitto durava un’ora e mezza, a volte due in base al traffico.
Quando lo affrontavo al mattino arrivavo dritto dritto al mio
poliambulatorio, e lavoravo fino a sera; quando però dovevo tornare
a Padova, dopo aver visto una decina di pazienti, posso assicurarti
che la mia attenzione accusava il colpo. Eppure, in modo forse un
po’ avventato, prendevo l’auto e guidavo fino a casa. Ero più
giovane ma anche meno consapevole, e diverse volte mi sono
dovuto fermare in una piazzola di sosta a schiacciare un pisolino,
perché sentivo gli occhi chiudersi per il sonno.
Tendiamo a non accorgerci di questo calo; la prossima volta che
devi fare qualcosa che richiede la tua massima attenzione
cronometrati con un timer, e fai una piccola pausa di 5, massimo 10
minuti dopo circa 40-45 minuti. Ti renderai conto di essere più
riposato e attento; se a tutto questo aggiungi un buon sonno e una
corretta alimentazione, ecco che hai già fatto un grosso lavoro per
aumentare le tue risorse attentive. Una recente ricerca ha dimostrato
che tenere gli occhi chiusi per circa due minuti raddoppia la nostra
memoria e la nostra creatività, semplicemente perché elimina
temporaneamente le informazioni dal campo visivo e concede lo
spazio necessario al nostro cervello per ricaricarsi. Mi raccomando,

50
gli occhi si chiudono durante le pause!

Il sovraccarico di informazioni
Come abbiamo visto, via via che il progresso avanza, con esso
avanza anche il numero di informazioni a cui siamo sottoposti. Tale
sovraccarico è dannoso per la nostra attenzione, perché essendo
limitata può selezionare solo alcune parti dell’enorme quantità di
input che ci arrivano. In questo rientra anche uno speciale ostacolo
che magari ti stupirà: avere tante opzioni. Quando uscirono i primi
studi che dimostrarono come avere troppe possibilità di scelta fosse
dannoso, la cosa sembrava abbastanza inusuale; oggi, con il fatto
che abbiamo accesso a moltissime opportunità di scelta, soprattutto
grazie al digitale, è molto meno sorprendente. Sarà capitato a tutti,
infatti, di passare un’infinità di tempo a scegliere che cosa guardare
la sera, magari perché abbiamo uno dei tanti servizi On demand. Ma
è qualcosa che si conosce da sempre: se vado in una pizzeria che ha
troppe opzioni ci metto sicuramente più tempo a scegliere, a meno
che io non sia una di quelle persone che prende sempre la stessa
pizza. Oggi puoi abbonarti e avere film, serie TV , videogiochi e
musica potenzialmente infiniti, hai accesso a una varietà di scelta
mai vista in precedenza. Ebbene, più aumentano le opzioni e più
fatica fa la nostra cara attenzione nella loro accurata selezione;
cerchiamo quindi di ridurre le opzioni, soprattutto quando abbiamo
bisogno della nostra completa attenzione.
All’ostacolo del sovraccarico possiamo far confluire anche il
rumore. Gli studi sull’effetto dei rumori ambientali hanno
dimostrato che anche questi ci rubano attenzione. Prova a pensarci,
se siamo in un luogo assordante facciamo quasi fatica a sentire noi
stessi, però è qualcosa di ancora più sottile a coinvolgere la nostra
attenzione implicita. Secondo diverse ricerche, più un istituto
scolastico si trova lontano dai rumori più le prestazioni migliorano;
lo si è compreso comparando le posizioni geografiche degli studenti
con i loro voti. In altre parole, anche se non te ne rendi conto, se vivi
accanto a un luogo molto rumoroso questo consuma la tua
attenzione, lo fa in modo sottile e impercettibile ma significativo.

51
Perciò l’ideale sarebbe esserne consapevoli e cercare di porvi
rimedio, oppure, nel caso sia impossibile, cercare di fare delle pause
dal frastuono. Se per esempio siamo operai a contatto con
macchinari rumorosi, chiediamo di poter fare le pause
allontanandoci; lo so, possiamo abituarci a tutto ma se hai notato di
essere particolarmente distratto dal rumore, potrebbe non essere
una tua “fissazione”.
Oggi le leggi normano la quantità di rumore massima consentita
nei luoghi di lavoro, puoi facilmente scaricare una app che ti
consenta di valutare il numero di decibel presenti intorno a te
(secondo la normativa vigente, dagli 85 decibel in su sono richiesti
dei DPI , cuffie antirumore e altri dispositivi del genere). Tieni però
sempre conto che non è tanto dell’intensità del rumore che stiamo
parlando, quella chiaramente ci disturba, quanto della pervasività,
cioè avere rumori costanti di sottofondo sovraccarica il sistema e ci
costringe a utilizzare maggiori risorse attentive.

Il multitasking
Finalmente ci siamo, parliamo di semiovvietà, perché la maggior
parte delle informazioni legate all’attenzione che troviamo oggi in
circolazione puntano su questo tema. Ed è una verità che spero ti sia
diventata chiara comprendendo un po’ meglio come funziona
questo delicato processo. Sì, è vero, più cose facciamo
contemporaneamente e più siamo costretti a spalmare le nostre
risorse attentive, e proprio come una crema più la spalmi e meno è
intenso il sapore. Non solo, il multitasking è spesso una sorta di
illusione, non riusciamo infatti a fare davvero più cose ma
saltelliamo tra un compito e l’altro, ed è questo che disturba
l’attenzione più di tutto, il cosiddetto task switching (cambiamento di
compito). Tendiamo a credere quindi di poter fare più cose insieme
ma in realtà passiamo da un compito all’altro in modo rapidissimo.
Il principio è semplice, meno cose fai e più il tuo “fascio
attentivo” è profondo e acuminato, e viceversa; è una tematica
divenuta nota a causa della crescente complessità della società, dove
molti di noi sono costretti a fare più cose nello stesso momento. Ma

52
la verità è che lo facciamo da sempre a un qualche livello, ecco
perché non ho dedicato il classico capitolo al multitasking come
tanti miei colleghi hanno fatto in passato. Più avanti ti mostrerò
come spostare efficacemente la tua attenzione, e in quel contesto
vedrai con maggiore chiarezza che il multitasking può essere
deleterio, ma per il resto delle operazioni quotidiane va più che
bene. Diventa un ostacolo, però, quando non ci rendiamo conto di
metterlo in atto, ed è su questo che ti invito sin d’ora a fare mente
locale; se ti ritrovi a essere più stanco del solito, più oberato del
solito, prova a notare se non stai facendo troppe cose
simultaneamente.

I contenuti interiori
Pensieri, preoccupazioni, emozioni e sentimenti possono occuparci
la mente (la scrivania della memoria di lavoro) e rendere meno
intensa la nostra attenzione. Chiunque abbia provato, per varie ed
eventuali, emozioni molto forti, come quelle legate a grandi perdite,
sa bene che in quel periodo la sua attenzione non ha funzionato più
così correttamente e liberamente. Perché una parte di noi è dedicata
all’elaborazione del dolore, oppure semplicemente è stata dirottata
su altri contenuti a causa di emozioni intense: se hai appena litigato
in modo acceso con un tuo collega e non sei riuscito a “scrollarti di
dosso” quelle sensazioni, è difficile che tu riesca a tornare con lo
stesso livello di concentrazione sulle tue mansioni lavorative.
Non credo di averti sorpreso dicendoti che le emozioni intense
dirottano la tua attenzione, ma forse non è altrettanto scontato
prendere atto che i nostri pensieri possano diventare ostacoli.
Abbiamo esperienza diretta anche di questo: se ti chiedo di tenere a
mente un numero di telefono e contemporaneamente ti do alcune
indicazioni stradali, con buone probabilità ricorderai il numero e
dimenticherai le indicazioni. Continuando a leggere scoprirai che è
possibile imparare a riconoscere i nostri contenuti e i nostri stati
interni e apprenderai come gestirli al meglio attraverso l’uso
intenzionale dell’attenzione… Questo, infatti, è l’ostacolo più
comune e allo stesso tempo meno conosciuto e riconosciuto della

53
nostra attenzione.

La noia
È una categoria particolare che potrebbe rientrare in quella
precedente, la gestione dei contenuti interiori. La noia è uno stato
emotivo e cognitivo che tutti in una certa misura conosciamo bene.
Se stai seguendo una conferenza, un film o un concerto e ti stai
annoiando questo ovviamente disturberà la tua attenzione, tenderai
a pensare ad altro e non vedrai l’ora che finisca. Il paradosso è che la
noia si nutre di mancanza di attenzione, meno attenzione riponi in
ciò che leggi e più ti annoierai, più credi di sapere dove andrò a
parare (affidandoti alle mappe, alle tue conoscenze) e più ti
annoierai, più sei perso dentro i tuoi pensieri più le mie parole
diventano tediose. Questo ci conduce direttamente al prossimo
ostacolo.

Concepire l’attenzione come un fenomeno passivo


È facile pensare e immaginare che se un libro ti annoia, un film ti fa
sbadigliare o il discorso di un tuo amico ti fa venire “il latte alle
ginocchia” sia colpa loro. Il libro potrebbe essere scritto meglio, il
film dovrebbe essere girato e montato affinché non ci si distragga
neanche per un istante, e tutti abbiamo degli amici che non sanno
raccontare storie. La verità è che abbiamo avuto per anni
l’impressione soggettiva che l’attenzione non fosse una cosa a sé, un
meccanismo cognitivo come abbiamo descritto finora (tra l’altro
indipendente dai contenuti della memoria), ma che fosse una sorta
di “porta” attraverso la quale entravano gli stimoli in modo passivo.
Se lo stimolo era affascinante ecco che l’attenzione si attivava, se era
noioso e ripetitivo ecco che la porta si chiudeva. La verità è che le
cose non stanno così.
L’attenzione è un filtro dinamico e attivo che seleziona parti
dell’ambiente in modo sia esplicito (volontario e controllato) sia
implicito (involontario e automatico). Se sei uno studente lo sai

54
bene, sei costretto a studiare cose che non ami particolarmente,
pertanto non puoi affidarti alla qualità dello stimolo ma alla tua
intenzionalità, quella che viene spesso chiamata “forza di volontà”.
Devi fare appello a quella per portare avanti lo studio, e in realtà
vale per qualsiasi impegno che ci prendiamo. Perché un conto è
leggere un libro per piacere, diletto e curiosità, un altro è doverlo
fare sapendo che si sarà valutati, che si dovranno poi ripetere
concetti e parole di quel testo. Quindi, vedere l’attenzione come
qualcosa di passivo è già un ostacolo, perché ti impedisce di
allenarla: è troppo facile stare attenti quando si va a vedere un film
d’azione pieno di effetti speciali che magari adoriamo; mentre non
lo è altrettanto sorbirsi un film d’autore lungo ore, magari con due
minuti consecutivi di dialoghi. Sì, lo so che cosa stai pensando, che
dipende dal livello di interesse che ciascuno nutre, e avresti
perfettamente ragione, ma questo ancora non basta; la tua mente,
anche se sei interessato a queste parole, farà comunque uno sforzo
per comprenderle, e se sei abbastanza stanco tra poco, per quanto il
tuo interesse sia alto, dovrai fare sforzi continui e intenzionali per
continuare a leggere.
Il vero ostacolo, qui, è di origine psicologica: se pensi che la tua
attenzione dipenda dagli stimoli o dal tuo interesse è un po’ come se
delegassi a tali caratteristiche il potere del tuo focus, della tua
concentrazione. Quindi se non ho interesse e non ci sono stimoli
sufficienti non sono più capace di prestare attenzione, ma le cose
non stanno davvero così: siamo sempre capaci di prestare
intenzionalmente attenzione alle cose, e questo è un superpotere che
può cambiare profondamente il tuo modo di vedere e utilizzare
l’attenzione. Ricordi quando abbiamo parlato del Risiko e del
coinvolgimento personale? Se non ti coinvolgi mentre giochi a
Risiko o a un qualsiasi altro gioco di società non ti diverti e il tempo
“non passa più”. Al contrario, se ti coinvolgi il tempo vola e ti ritrovi
a fare l’ultimo attacco magari alle cinque del mattino, scommetto
che può essere successo anche a te. Più avanti approfondiremo il
sottile legame tra percezione del tempo e attenzione, davvero
affascinante!
L’antidoto alla noia e al concepire l’attenzione come passiva è
proprio cercare di coinvolgerti in ciò che fai attivamente. Tra poco

55
vedremo degli esercizi specifici per farlo: sono semplici e li puoi fare
anche dopo aver letto il libro, ma il metodo migliore è farli mentre
leggi, in modo da non avere solo l’esperienza intellettuale ma anche
quella di prima mano. Un piccolo esperimento che puoi provare
subito, ancora prima di capire come funziona questo fenomeno, è
semplicemente cercare di indirizzare la tua attenzione “sul pezzo”
quando stai svolgendo attività che sai che per te risultano noiose,
come ascoltare una conferenza o dover inserire dei dati in un
programma. Visto che sai di doverle affrontare, prova a fare in
questo modo: svolgi quel compito come se la salvezza del mondo
dipendesse da questo. No, evita di entrare in ansia e di convincerti
davvero di dover salvare il mondo, è solo un trucco per far sì che il
tuo cervello riponga il massimo possibile di risorse attentive su ciò
che stai per fare.
Chiediti: in quale contesto o situazione mi piacerebbe provare
meno noia, mi piacerebbe sentirmi più coinvolto? Tutte le risposte a
queste domande richiedono intenzionalità, cioè la capacità di
portare attenzione a ciò che desideriamo, in modo sostenuto e
volontario. Le neuroscienze hanno scoperto che c’è una sorta di
“muscolo cerebrale” per farlo e adesso lo portiamo in “palestra”.

ESERCIZIO
Fai mente locale su quali possono essere gli ostacoli alla tua attenzione, tra
quelli appena considerati e anche tra quelli che tu ritieni tali. E durante
questi giorni prova a eliminarne o ridurne qualcuno. Se, per esempio, hai
notato di lavorare sempre con la musica in sottofondo perché sei convinto
che aiuti la tua concentrazione, prova a spegnerla di tanto in tanto, potresti
scoprire che quei suoni ti illudono di essere più concentrato ma in realtà
rubano parti della tua attenzione. Poi segui l’ultimo consiglio del capitolo e
chiediti quali sono le situazioni nelle quali vorresti provare maggiore
coinvolgimento e prova a seguire i consigli di poco fa: elimina le distrazioni,
evita di passare da un compito all’altro, fai delle pause e cerca di
coinvolgerti in maniera volontaria. Provaci, tra poco vedremo esattamente
come fare ma è meglio che tu abbia una piccola esperienza personale su
come cercare di coinvolgerti e concentrarti su pochi compiti per volta.

56
Questo ti consentirà di toccare con mano l’effetto prodotto dagli ostacoli
sulla risorsa più importante che possiedi, la tua attenzione!

57
Chi erra erra

Più uno stimolo è poco attraente e maggiore sarà l’intenzionalità che


dovrai metterci per poter usufruire delle tue risorse attentive. È una
cosa banale: se ti propongo argomenti che ami e lo faccio in modo
interessante non hai bisogno di tanta “energia di attivazione” per
decidere di prendere in mano questo libro e leggerlo tutto d’un
fiato. Se invece fosse un professore o qualcun altro a chiederti di
leggere questo stesso testo ecco che l’energia di attivazione
necessaria per mobilitarti sarà più alta. Questo non vale solo per
farti alzare dalla sedia e prendere il libro, ma anche per tutta la
durata della lettura che richiede la tua attenzione sostenuta.
Eccoci finalmente al consiglio più semplice di questo nostro
percorso e allo stesso tempo il più difficile. È una cosa comune nel
campo della crescita personale e della salute in generale, il fatto cioè
che i consigli più banali siano anche quelli maggiormente evitati.
Tutti sappiamo che cosa è necessario fare per dimagrire, seguire una
dieta e fare movimento, ma quanti mettono in pratica queste
semplici indicazioni quando è necessario? Non tutti, e molte persone
sono alla costante ricerca della “dieta magica”, mentre in realtà sono
questi consigli basici che funzionano. Perciò, quando tra poco ti
mostrerò il “circolo dell’attenzione sostenuta” potresti subito
pensare che si tratti di qualcosa di assolutamente semplice da fare, e
in effetti lo fai ogni giorno, ma la verità è che è difficile farlo con
intenzione, proprio come non è facile andare in palestra tutte le
settimane se vogliamo mantenere una certa forma fisica.
Ora, fatta questa doverosa premessa, torniamo alla nostra cara
attenzione. Abbiamo visto in parte come funziona e che fa una
terribile fatica a restare ferma. La parte “implicita” continua a
scandagliare il territorio intorno a noi; se in questo momento stai
leggendo il libro in un luogo pubblico la tua parte “implicita” sarà

58
particolarmente attiva nella rilevazione di eventuali pericoli. Non
solo, si è detto che a distrarci contribuiscono anche i nostri
“contenuti mentali”: idee, ipotesi, giudizi e opinioni su ciò che
stiamo facendo. “Sarà vero che l’attenzione saltella oppure è solo
una metafora bla bla bla…”: la nostra mente parte e si fa domande
su ciò che sta osservando con una tale intensità che alla fine non lo
“vede” più. Se costruisci troppe ipotesi su ciò che stai leggendo in
questo momento e le segui, rischi di perdere il filo del discorso, e
che cosa fai quando succede? Che cosa fai ogni volta che nel corso
della lettura ti accorgi di non aver compreso ciò che hai letto negli
ultimi secondi, a volte minuti? Spero sia chiaro che non mi riferisco
alla possibilità che il testo sia troppo complesso, ma in generale.
Capita a tutti che dopo un po’ di tempo trascorso sulle pagine
l’attenzione vada altrove; ecco, in quel momento come ti comporti?
Se sei come la maggior parte dei comuni lettori ti renderai conto di
esserti perso e cercherai di tornare indietro, seguendo uno schema
come quello raffigurato:

Come vedi, si tratta di quattro fasi separate delle quali però non
siamo completamente consapevoli: la prima fase è quella di “focus”,
dove inizi a leggere e la tua concentrazione a mano a mano
aumenta; la seconda è quella della “perdita del focus”. Ho scelto la
lettura come esempio perché è ciò che stai facendo in questo preciso
momento e perché è esperienza comune il fatto di “perdersi” senza

59
rendersene conto immediatamente; infatti la terza fase è il renderci
conto di esserci persi; infine, la quarta – forse la più strana per chi
non conosce questi meccanismi – è il perdonarsi e tornare
intenzionalmente e con gentilezza sul “punto di focus”.
Se sei come la maggior parte dei miei corsisti ti starai forse
ponendo alcune domande relative alla quarta fase, magari anche
dicendo a te stesso: “Ma a che cosa diavolo mi serve essere gentile
per tornare indietro?”. Allora lascia che ti faccia una delle domande
per me più importanti su questi temi: se quando ti perdi tratti te
stesso in modo “negativo e cattivo”, magari rimproverandoti per
aver perso il filo, questo aumenta o diminuisce la probabilità che tu
torni a leggere? Pensaci per qualche istante, trattarti male quando ti
perdi facilita la tua motivazione a continuare nella lettura o la
ostacola? La risposta è abbastanza scontata: la ostacola! Sì, esatto, se
ti sei accorto di avere un brutto modo di trattare te stesso quando
perdi la concentrazione sappi che ciò può rappresentare un ostacolo
importante. Non ne abbiamo parlato prima perché non sarebbe stato
troppo chiaro come “ostacolo”, ma posso assicurarti che non si tratta
di una visione edulcorata della realtà: essere gentili con noi stessi
quando ci perdiamo è la chiave per creare un circolo virtuoso
dell’attenzione, che ci conduce con maggiore facilità alla creazione
di una vera “attenzione sostenuta”.
Abbiamo visto come l’attenzione “saltelli” naturalmente, non ci
possiamo fare niente, lo fa per il nostro benessere, per farci
sopravvivere. Trattarla male perché ha questa tendenza sarebbe
come prenderti a schiaffi ogni volta che non ricordi qualcosa; fidati,
oltre al fatto che ti fai male non serve a niente. Infatti, come hanno
dimostrato gli studiosi del comportamento, le punizioni non
modificano il nostro modo di comportarci, lo estinguono
momentaneamente per poi tornare, spesso più forte di prima.
Notare di esserci distratti, invece – la terza fase che a breve
discutiamo meglio –, e tornare intenzionalmente e con gentilezza,
aumenta la facilità di riandare al tuo punto di focus. In aggiunta a
questo, ogni volta che ti perdi e ti accorgi di esserti perso, stai
attivando una serie di “reti neurali differenti” – come le ha definite
Peter Malinowski, ricercatore in neuroscienze cognitive – che
diventano a mano a mano sempre più forti, si tratta dei muscoli di

60
quel “supervisore centrale” di cui ci siamo occupati. Più i suoi
“muscoli” sono forti e allenati e più saremo in grado di mantenere
un’attenzione sostenuta.
Perché solitamente non ci accorgiamo delle fasi terza e quarta?
Nella maggior parte dei casi non ne abbiamo bisogno, perché
pensiamo che quel continuo distrarci faccia parte del gioco, finché
non siamo davvero costretti a restare sul pezzo. Chiunque abbia
studiato controvoglia sa bene a che cosa mi riferisco, ma vale per
qualsiasi attività umana. Di solito, dopo un po’ di volte che ci
perdiamo (e ci giudichiamo duramente senza accorgercene),
semplicemente ci diamo allo sport più famoso e gettonato:
molliamo! Scommetto che se non conosci il mio lavoro o non hai mai
approfondito questi temi ti sarai fermato alle prime due fasi, è
esperienza comune, infatti, quella di concentrarci (o cercare di farlo)
e di perderci.
Sappiamo intuitivamente di poterci concentrare a vari gradi, nel
senso che sai, in questo momento della tua lettura, quanto intento
sei (non precisamente, ma ne hai un’idea), e sai che a un certo punto
potresti perderti. Ma se sei come la maggior parte delle persone,
vedrai la seconda fase come una sorta di fallimento della tua
attenzione e non come un suo movimento fisiologico. Ecco perché
abbiamo dedicato diversi capitoli a descrivere come funziona
l’attenzione; se ti avessi mostrato queste quattro fasi prima,
probabilmente avrei generato solo tanta confusione. E invece sono
proprio le ultime due fasi quelle più importanti, proprio quelle a cui
solitamente non facciamo caso perché sono rapidissime e
automatiche e tutti le sperimentiamo, anche se non ne abbiamo
consapevolezza.
Ora il punto centrale per addestrare la tua attenzione a diventare
davvero sostenuta è ciò che solitamente manca, la consapevolezza di
ciò che ci accade dentro. No, tranquillo, non devi analizzare i tuoi
pensieri, capire che cosa ti ha distratto o valutare momento per
momento in che punto del circolo ti trovi, è sufficiente fare caso a
quando “ti perdi”! In questa prima fase del nostro training la cosa
più importante che tu possa fare per iniziare a percepire un
immediato miglioramento è quella di accorgerti quando non sei più
focalizzato. È in quel momento magico che puoi ritornare con

61
gentilezza su ciò che stavi osservando, è in quel preciso istante che
sviluppi l’intenzione di restare “sul pezzo”. I neuroscienziati hanno
individuato delle aree precise che si accendono e si spengono in
concomitanza con il fatto di essere concentrato oppure distratto, e il
vero esercizio è tornare a riattivare quelle aree. Per farlo devi
allenarti a notare il frangente in cui non sei più presente alla tua
esperienza di quel momento, sembra facile ma non lo è per niente.
Su 30-40 minuti di attenzione sostenuta ti capiterà numerose volte di
dover riportare indietro il tuo focus, ma solo poche volte sarà un
atto intenzionale e quindi volontario. E solo in quelle poche puoi
decidere di cambiare il rapporto che hai con te stesso quando ti
perdi: se noti di essere eccessivamente duro devi ammorbidirti ed
essere più gentile, altrimenti – come abbiamo visto – si crea un
circolo vizioso opposto, che ti conduce a gettare la spugna.
Ecco allora un piccolo esercizio da cominciare a svolgere, magari
proprio mentre leggi queste parole e utilizzando il libro non solo per
avere più informazioni sulla tua attenzione ma come piccola
palestra. Inizia quindi a osservare tutte le volte che ti distrai e riesci
a tornare gentilmente su queste parole; quando ci riesci, fai un gesto
che ti ricordi di questo piccolo successo, potrebbe essere una
“autopacca sulle spalle” (mi raccomando stai attento se ti trovi in
mezzo alla gente) oppure puoi mettere una piccola spunta
sull’agenda del tuo smartphone o su un quaderno o un pezzo di
carta. Non è tanto importante segnarlo fisicamente, lo è di più
notarlo davvero e tornare indietro gentilmente. Quante volte? Non
spaventarti, ma più porterai attenzione a tale circolo e più ti
accorgerai di essere distratto; questo all’inizio può preoccupare le
persone, tu evita di farlo: è solo un effetto positivo del fatto che stai
acquisendo sempre più consapevolezza su come funzioni. Per cui se
riesci a “coglierti in fallo” anche centinaia di volte, non sei impazzito
o particolarmente incline alle distrazioni, è proprio l’attenzione che
funziona così.
Ricordati che non devi analizzare la distrazione, non devi cercare
di capire il motivo per cui ti sei distratto, ma devi solo notarlo,
congratularti con te stesso per esserci riuscito e tornare con
gentilezza indietro. Perché devi congratularti? Ormai dovresti
averlo capito, perché è il momento più importante di tutto il circolo,

62
è il momento in cui sforzi il tuo potere decisionale e intenzionale.
Quali saranno gli effetti a lungo andare? Be’, in realtà ci sono ancora
tanti aspetti da vedere, ma se ci pensi bene queste cose ti capitano
tutti i santi giorni. Diventerai sempre più bravo a spostare
l’attenzione dove desideri, anche se lo stimolo è noioso e poco
interessante, scoprirai come trattarla al meglio ed evitare di restare
incastrato nelle distrazioni. Sembrano piccole cose, ma come
vedremo insieme tra poco questo è uno dei più grandi superpoteri
della mente, che per anni è stato visto solo come un modo di
“prestare attenzione”, ma è molto molto di più.
Se sapessi di poter prestare attenzione in modo qualitativo (cioè
una buona attenzione) a qualsiasi cosa e quasi a comando, non
sarebbe male, vero? Questo può aiutarti in molti campi, ma serve un
pizzico di pazienza, un po’ come quando vai in palestra: all’inizio ti
faranno male i muscoli e troverai alcuni movimenti quasi
“innaturali”; ma a furia di ripeterli pazientemente il tuo corpo
cambierà e con esso le sue possibilità di movimento. Quando inizi a
prestare attenzione alla tua attenzione (ciò che chiameremo
“metacognizione”) la prima cosa che noti è che “saltella” ed è poco
disciplinata, soprattutto quando deve focalizzarsi su cose che non ti
piacciono.
Per alcune persone provare l’esercizio di poco fa è triste, perché si
rendono conto di quanto tendano a perdersi, magari anche in
situazioni che dovrebbero essere piacevoli. Evita di preoccuparti, è
un effetto dell’allenamento, sono i muscoli che si rendono conto di
se stessi: sembra assurdo, ma molte volte finché non vai in palestra a
sforzare determinati gruppi muscolari è come se non sapessi
neanche della loro esistenza. Lo stesso capita con le distrazioni, fino
a quando non ci porti la tua attenzione non ti accorgi di distrarti, e
ciò viene anche percepito come una sorta di fallimento. E se pure tu
sei italiano come me sappi che temiamo terribilmente il fatto di
fallire, di non essere all’altezza delle situazioni, eppure è l’unico
vero modo per apprendere le cose: sapere che si cadrà numerose
volte e che dovremo rialzarci ancora e ancora.
Se ci pensi bene il nostro circolo è esattamente questo, notare
quando cadi (quando l’attenzione “fallisce”) e rialzarti. Dopo tanti
anni trascorsi a parlare di questi temi posso quasi leggerti nella

63
mente e sapere che probabilmente ti infastidisce che io continui a
ripetere l’avverbio “gentilmente” e il sostantivo “gentilezza” ma è
fondamentale, e in caso non ti abbia ancora convinto che più ti tratti
male e meno voglia hai di concentrarti, ti racconto una storiella.
Immagina di avere appena adottato un cucciolo di cane e dopo
un po’ di tempo decidi di portarlo a spasso per fargli fare i suoi
bisognini. Lo accompagni lungo l’argine del fiume che hai sotto
casa, dove c’è il classico fiumiciattolo che scorre e un piccolo
sentiero laterale. I cuccioli sono molto curiosi, e aspettarti che non si
distragga durante il percorso è alquanto irrealistico. Il cane
continuerà a essere distratto dai suoni, dagli insetti, da altri animali
o dalla sua semplice curiosità di esplorare il mondo. Stai
camminando, e ogni volta che il cane esce dal sentiero lo strattoni
con cattiveria e gli urli che è uno stupido. Questo aiuterà il cane a
restare sul percorso senza uscirne? No, il cane lì per lì ti darà ascolto
perché spaventato ma non appena ne avrà occasione lo rifarà.
Allora qual è la soluzione? È tirare il guinzaglio con gentilezza,
segnalando la giusta direzione ma senza imprimere troppa forza,
non deve essere percepita come una punizione. Questo ti garantirà
che non si distragga più? No, essendo un cucciolo (in realtà anche
da adulto) continuerà a farsi distrarre e a cambiare strada, a volte
anche solo per cercare il posto giusto per fare i suoi bisogni. Tu devi
lasciarlo esplorare, e quando vedi che si allontana troppo dal
sentiero, gentilmente lo riporti sulla “retta via”. Dopo diverse
ripetizioni di questo movimento si creerà come una collaborazione
tra te e il cagnolino: lui è libero di esplorare e quando gli dai il
segnale – gentile – di tornare sul sentiero lo farà. Non sempre e
meccanicamente come se fosse un robot, ma il più delle volte lo farà
fino quasi a leggerti nel pensiero, diventerà cioè in grado di
prevedere i tuoi movimenti quasi prima che tu te ne renda conto.
La nostra attenzione è molto simile a quel cucciolo, è curiosa e
cerca costantemente di trovare stimoli nuovi, e proprio come il
cucciolo si fa guidare dalle distrazioni più eclatanti: suoni forti,
oggetti in movimento e stimoli vari. È brutto da dire, ma la tua
intenzionalità, il tuo superpotere che è in grado di riportare il cane
sul sentiero è il guinzaglio: più lui è addestrato a seguirti e più puoi
allungare quel guinzaglio, fidandoti che a una tua minima mossa il

64
cane tornerà indietro. Ecco, la forza e la lunghezza del guinzaglio
dipendono dalla tua capacità di notare le distrazioni, metterle da
parte e tornare gentilmente al tuo focus. Purtroppo, però, noi siamo
più stupidi del cane (o meglio, siamo molto più complessi) per cui
non basta farlo qualche volta, non si tratta di una tecnica da mettere
in atto, ma di un atteggiamento mentale basato sulla consapevolezza
che prima o poi ti perderai e sull’esperienza diretta del tornare,
gentilmente.
Lascia che ti racconti una bella testimonianza su questa
cosiddetta “gentilezza” o autocompassione verso i nostri errori.
Stavo facendo formazione per una grande azienda italiana (una
delle più importanti) quando il capo del personale mi chiede di fare
una chiacchierata con lui. Avevo già svolto sei interventi di
formazione, a cadenza mensile, ed ero incuriosito e allo stesso
tempo timoroso per quell’invito. Entrati nel suo ufficio principesco,
mi dice: «Vede dottore, la prima volta che ha parlato di “gentilezza”
con se stessi ci sono rimasto male. Io arrivo da una lunga carriera
militare, e nel mio addestramento non c’era assolutamente spazio
per la gentilezza, anzi! Devo ammettere però, e gliene do atto, che
iniziando a svolgere i suoi esercizi ho capito che diventare più
gentile con me stesso mi ha cambiato profondamente… Grazie!». In
realtà il discorso è proseguito ancora per un bel po’; io cercavo di
spiegargli che non era farina del mio sacco ma che si trattava della
messa in pratica di un sacco di studi, ricerche e bla bla bla. Da
ingegnere questo aspetto lo rendeva ancora più contento, ma il più
felice ero io, che avevo potuto toccare con mano i risultati della mia
formazione e ne avevo verificato l’effetto non solo con i miei
pazienti dello studio, ma anche con il personale di un’azienda
mastodontica, di formazione perlopiù tecnica. Non lo racconto per
impressionarti ma solo per aggiungere una verifica sul campo che
ciò che hai appena letto può avere profonde ripercussioni positive
sulla tua vita quotidiana, e non solo sul lavoro o quando sei
“formalmente costretto” a restare attento.
Ma perché fatichiamo tanto a essere gentili? La prima
motivazione è già stata accennata: crediamo che un comportamento
sbagliato cesserà se lo puniamo. Chi conosce gli studi ormai secolari
del comportamentismo sa che non è vero, i comportamenti non si

65
estinguono (per usare una terminologia tecnica, vale a dire cessano)
se li punisci, anzi spesso diventano ancora più forti dopo la
punizione. Questo è riconducibile a cose che apprendi nella tua vita,
che impari e puoi in un qualche modo “disimparare”; ma il fatto che
la tua attenzione saltelli non è qualcosa che hai appreso male, non è
un comportamento disadattivo imitato in qualcuno che ti è stato
accanto, è il funzionamento naturale dell’attenzione.
Quindi non si tratta di disimparare a essere distratto ma di
apprendere come restare attento, che non è proprio la sua faccia
speculare. Al contrario, è ampiamente dimostrato che rinforzare
certi comportamenti ne aumenta la frequenza di manifestazione: per
rinforzo s’intende una specie di premio che viene dato o tolto a
seconda dei casi.
Non mi credi? Vai da una persona che conosci e che magari ti
stima, e quando la vedi con un certo abito che ti piace falle un
complimento. Se per lei/lui quel complimento equivale a un rinforzo
(e può accadere se ti stima per il tuo gusto, la tua eleganza o da altri
“punti di vista”) allora è probabile che inizierà a indossare quel capo
d’abbigliamento con maggiore frequenza. La cosa interessante è che
lei/lui non se ne renderà conto, semplicemente quando sarà di fronte
al guardaroba penserà: “Ma sì, metto questo, lo so che sto tanto bene
con il rosso”. Ecco perché non devi solo “essere gentile” con te
stesso, ma anche soddisfatto di aver notato la distrazione: devi
“congratularti” per averla notata, assurdo, vero? Lo pensavo anche
io, ma quel che cerco di trasmetterti è qualcosa di talmente sottile
che puoi rendertene conto solo provandolo in prima persona; è un
po’ come nuotare o andare in bicicletta, posso essere bravissimo con
le parole ma non riuscirò mai a descrivere che cosa si prova nel
farlo. Ecco perché trovi tutti questi piccoli esercizi disseminati nel
libro, sono pensati per farti fare piccole esperienze dirette di
consapevolezza.
Hai mai sentito dire che “solo chi non fa niente non sbaglia”? È
una sorta di proverbio che comunque ha molto senso. Viviamo in
una società che non solo mette a dura prova la nostra attenzione ma
in generale le nostre prestazioni, di qualunque genere esse siano.
Siamo chiamati di continuo a dimostrare quanto valiamo, quanto
riusciamo a produrre, quanto siamo giusti e precisi e tutto questo

66
ovviamente crea ondate di ansia da prestazione. Così gli errori sono
considerati male, quando in realtà, proprio come dice il titolo di
questo capitolo “solo chi erra erra”, dove si gioca con il doppio
significato di “errare” che in italiano significa sia sbagliare che
muoversi.
Ti ricordi la figura del “cavaliere errante” nella letteratura
cavalleresca? Ecco, lui non si sbagliava ma si muoveva, viaggiava,
quindi nell’etimologia stessa del termine “errore” ritroviamo l’idea
di movimento: solo chi fa sbaglia. D’accordo, non è un libro
sull’errore e su come affrontarlo, ma se ci pensi iniziare a vedere le
distrazioni come la cosa più importante, come il momento centrale
da afferrare, è già una sorta di addestramento ad accogliere gli errori
della vita quotidiana. È bene però sottolineare che il circolo va fatto
tutto, se ti limiti cioè a notare gli errori e a essere gentile senza
tornare sul compito non stai rafforzando quei muscoli, hai solo
trovato una nuova scusa per non allenarti. Dopo aver notato la
distrazione (l’errore) ed essere stato gentile con te stesso devi
riportare con intenzione il tuo focus sul pezzo, altrimenti diventa
una sorta di fuga da quell’impegno. Devi aprirti consapevolmente
alla possibilità di perderti, è un gioco dove se non ti perdi non
ritrovi la strada di casa.
Mentre ti prepari a essere più gentile con te stesso e più accorto a
come tratti gli errori, cioè le distrazioni, ti ricordo ancora che questo
è un allenamento, proprio come andare in palestra. Il processo ti
sembrerà semplice mentre fai cose facili, ma se stai facendo cose
difficili e non sei allenato, ecco che forse farai fatica a usare la
metacognizione e l’autocompassione (o gentilezza). È un po’ come
se ti avessi appena mostrato come si alzano dei pesi e tu volessi
iniziare con 100 chili, se sei già forte di tuo allora può funzionare,
ma sempre con accortezza. Se invece non sei allenato rischi di farti
male, di giudicarti negativamente invece che con gentilezza, e nel
giro di qualche tentativo convincerti che tutto questo non faccia per
te o peggio che siano cavolate. Quindi, vai con calma e prima di
passare al prossimo capitolo elenca alcune situazioni semplici nelle
quali puoi prestare attenzione nel modo descritto dal nostro circolo,
una di queste attività la stai facendo in questo preciso momento…
Una delle scoperte più affascinanti sul nostro “circolo

67
dell’attenzione” è che la capacità di focalizzarti su qualcosa e quella
di renderti conto delle distrazioni non fanno parte delle stessi reti
neurali: è come dire che il muscolo che ti consente di restare
appiccicato ai tuoi oggetti di attenzione non è lo stesso che nota e
mette da parte le distrazioni e le interferenze. Questo è un dato
scientifico molto importante perché dà forza al nostro modello di
ciclo dell’attenzione che, come vedremo, non è stato inventato da
me ma riprende un’antica tradizione. Ora, tali attività hanno il
massimo del loro sviluppo intorno ai 20 anni, con il formarsi della
nostra corteccia prefrontale, zona ormai riconosciuta da tempo come
sede di complesse reti deputate alle funzioni superiori (attenzione,
memoria, percezione ecc.), e nel corso del tempo tendono a
deteriorarsi. Interessante è stata la scoperta che, con l’avanzare
dell’età, la causa principale dell’incapacità di mantenere
un’attenzione sostenuta non è legata alla rete deputata al focus ma a
quella relativa alla capacità di notare le distrazioni.
Esercitarci a notare le distrazioni e tornare gentilmente al nostro
focus è quindi un allenamento che richiede più “reti cerebrali”, che
va eseguito esattamente come descritto nel nostro ciclo
dell’attenzione. Perché se ci limitiamo a cercare di restare nel focus,
come faremmo di norma perché convinti che stare attenti significhi
quello, rischiamo di perdere l’aspetto più importante dell’attenzione
sostenuta: saper riconoscere le distrazioni, metterle da parte e
tornare al nostro obiettivo.

ESERCIZIO
Prendi il quaderno per i nostri esercizi… Ah, forse non te l’avevo ancora
chiesto ma l’ideale sarebbe avere un quaderno dedicato solo agli esercizi di
questo libro. Puoi anche usare un file di note sul tuo smartphone o sul tuo
computer, l’importante è trovare un luogo da trasformare in “palestra per
l’attenzione”.
Bene, sul quaderno fai una lista di tutte le attività che svolgi per le quali è
richiesta una vera attenzione sostenuta. Saranno diverse, scegli le prime
due, molto semplici, e la prossima volta che le metti in atto prova a portarci
sopra tutta la tua attenzione. Lo scopo principale dell’esercizio è coglierti

68
distratto e tornare gentilmente a ciò che stavi facendo.

69
La nostra macchina del tempo

Entrare in un luogo sapendo già che cosa tende a distrarti potrebbe


esserti d’aiuto. Parafrasando una vecchia pubblicità: se lo conosci lo
eviti. Di base la nostra attenzione è attratta da ciò che non conosce,
da suoni forti e oggetti in movimento. Tuttavia quando dobbiamo
sostenere la nostra attenzione per un periodo prolungato, cerchiamo
sempre di farlo in ambienti dove non ci siano rumori troppo intensi
e movimenti non prevedibili, lo facciamo in automatico. Per cui la
distrazione più frequente è caratterizzata dalle nostre mappe
mentali e da come funzionano.
Non so se durante la lettura di queste pagine ti è capitato di
distrarti per lungo tempo, magari hai continuato a leggere un bel po’
di righe prima di renderti conto di esserti distratto. Fermati un
istante e pensaci: dov’eri in quel momento? A che cosa stavi
pensando? Lo so, sono domande strane, se hai delle preoccupazioni
recenti è facile che i tuoi pensieri siano andati in quel luogo; ma non
è detto, la nostra mente è bizzarra da questo punto di vista, segue
una strana logica detta “disponibilità”. Se per esempio fai
l’autotrasportatore o il pilota di aerei è facile che le mie parole ti
abbiano fatto pensare al tuo lavoro, e magari fatto fantasticare per
un certo tempo su come applicarle proprio a tale contesto. È
possibile che tu abbia iniziato a pensare a che cosa farai tra poco, a
che cosa mangerai per cena o pranzo, o a dove andrai in vacanza la
prossima estate. Ed è altrettanto possibile che invece tu sia andato a
pensare a qualcosa che è accaduto qualche giorno (o anche anni) fa,
magari di inerente alla distrazione.
Come vedi, tutte queste “interferenze” che potremmo chiamare
“mentali” (date dai nostri contenuti interiori) sono molto raramente
nel presente. In altre parole, la tua mente quando ti distrai si
comporta come una sorta di macchina del tempo, che ti mostra

70
scenari del passato e programmi per il futuro e molto, molto
raramente discute del presente. Ma spero sia ovvio che l’attenzione
di cui stiamo parlando è qualcosa che fai nel momento presente e
non nel passato o nel futuro, sei attento adesso mentre leggi e non
prima o dopo. Perché succede? Ancora una volta la spiegazione è
evolutiva (ebbene sì, Darwin è stato uno dei più grandi psicologi…
senza saperlo): come abbiamo già visto, la nostra mente si comporta
come un simulatore della realtà, deve per forza continuare a fare
piani su ciò che farà, anche tra qualche secondo e non
necessariamente tra un anno (anzi, tra un anno non ci pensa proprio
a programmare, semmai sogna che cosa potrebbe accadere), e per
farlo si avvale di ciò che già conosce, quindi delle informazioni che
sono presenti nella nostra memoria. Per cui non è sconvolgente
pensare che se da un lato deve prevedere e dall’altro deve pescare
da ciò che già conosce, ci si ritrovi all’improvviso dentro uno di
questi due “spazi temporali”. E quando dico “ci si ritrovi” non lo
faccio in modo metaforico o astratto, perché se ci pensi quando ti
distrai ed entri dentro questi contenuti mentali, non appena te ne
rendi conto la sensazione è proprio quella di esserti perso, smarrito
per qualche istante, e di non aver avuto contatto con il presente.
Magari mentre leggi un libro l’effetto è meno intenso perché la tua
attenzione va di pari passo con la capacità di continuare a leggere,
ma se stai guardando un film è più evidente fino a dove ti sei
lasciato trasportare dai contenuti mentali, perché ti accorgi di avere
perso troppe informazioni e di non riuscire più a seguire.
È per questo che di tanto in tanto chiediamo a chi ci sta accanto:
«Scusa ma che cosa c’entrano questo e quello?». Il più delle volte
non è perché siamo stupidi e non riusciamo a capire il linguaggio
del film, ma ci siamo distratti e abbiamo passato un po’ di tempo
dentro noi stessi invece che con gli occhi incollati allo schermo (o
sarebbe meglio dire con l’attenzione incollata allo schermo). Alcune
persone descrivono queste distrazioni come “rapimenti”; per usare
le parole di un mio amico: «È come se all’improvviso, senza
rendermene conto, mi ritrovassi su un taxi, e quando mi accorgo di
esserci salito e scendo mi rendo conto di essere stato portato
altrove».

71
ESERCIZIO
La prossima volta che ti ritrovi distratto prova a fare mente locale e cerca di
comprendere dove sei finito. Con tutta probabilità potrai finire in tre zone
differenti: nel passato, nel futuro oppure in una sorta di pensiero senza
tempo. Notalo e quando te ne accorgi congratulati con te stesso: non è
facile rendersene conto, quindi torna a ciò che stavi facendo.

72
Ma io lo faccio sempre!

Una delle domande più frequenti quando si parla di ciclo


dell’attenzione suona più o meno così: «Io ho 50 anni e da oltre
trenta devo prestare attenzione a un macchinario: perché non ho
ancora sviluppato i superpoteri di cui parla?».
Sin dall’inizio di questo nostro viaggio ti ho annunciato che
l’attenzione è in realtà una sorta di superpotere, non è qualcosa che
ti consente semplicemente di guardare dieci puntate della tua serie
TV preferita senza stancarti o di raccogliere le energie prima di tirare
un rigore. È una meta-abilità, cioè una competenza che sta sopra
tutte le altre (non proprio tutte ma quasi); in sostanza, se non riesci a
prestare attenzione non puoi tirare un pallone a canestro, non puoi
guidare l’auto, non puoi ascoltare musica e goderne, non puoi
parlare con un amico… e potrei andare avanti a lungo. Essendo una
competenza tanto vasta e complessa non è facile acquisirne la
padronanza, perché magari la stiamo esercitando altrove.
Sicuramente chi è allenato nella lettura è anche più attento sul
lavoro e viceversa, dato che si tratta dello stesso muscolo, come
abbiamo visto. Tuttavia non è così frequente che le persone riescano
a creare un reale circolo virtuoso dell’attenzione, accorgendosi delle
distrazioni e tornando con intenzione al proprio compito.
Senza le due parti di gentilezza e intenzione non si riesce a
raggiungere la vetta più alta dell’apprendimento, quella che lo
psicologo svedese Anders Ericsson ha definito “maestria”. La
ripetizione è sicuramente “la madre di tutte le abilità” come dice
Anthony Robbins, ma io preferisco pensare invece in termini di
repetita iuvant, la ripetizione aiuta ma non conduce alla maestria.
Questo ce lo dicono gli studi di Anders Ericsson, noti al grande
pubblico per l’erroneo ma affascinante teorema delle diecimila ore.
Secondo la sua tesi tutti i geni del passato, i grandi maestri, prima di

73
essere stati tali hanno dovuto svolgere diecimila ore di pratica. Se
conosci questo ambito sai che il numero è solo una stima, e che in
realtà non si riferisce alla semplice “ripetizione” o a fare “esercizio”
ma a un particolare tipo di allenamento che è stato definito “pratica
deliberata”. Ora, quante persone conosci che magari hanno la
patente da decine di anni, guidano tutti i giorni, ma non sono
migliorate di una virgola? Io tantissime, me compreso!
Da ragazzo ero appassionato di motori, e appena compiuti i 18
anni mi sono subito precipitato nella scuola guida più vicina a casa
mia; ho preso la patente nel 1997, senza faticare più di tanto. Il mio
istruttore era contento perché sapevo già un po’ guidare, e da quel
giorno ho guidato tantissimo; tieni conto che per dodici anni ho
fatto circa 400 chilometri alla settimana, che non sono tanti se
confrontati con quelli che fa il tassista o l’autotrasportatore, ma in
media sono molti. Qualche tempo fa un amico ha insistito affinché
andassimo a guidare “in pista”, c’ero già stato con la moto anni
prima e mi ero reso conto dell’enorme differenza tra guidare su
strada e farlo in quel contesto. Ma mentre con la moto giravo da un
paio di anni la macchina era sotto al mio sedere da decenni, eppure
ho guidato malissimo. Va bene, non è la stessa cosa che andare su
strada, ma la verità è che noi raggiungiamo a un certo “livello di
competenza”, quello che ci serve per muoverci agilmente nei luoghi
e contesti a noi più abituali, e poi non miglioriamo più. A meno che
non ci sia uno sforzo deliberato in tal senso, il che significa fare
prove, sfidare i propri limiti, prendere lezioni di guida (sportiva o
sicura), e per fare tutto ciò serve intenzionalità! Senza l’intento di
voler migliorare non facciamo quello sforzo in più che ci consente di
fare il “salto di qualità” verso la “maestria”.
Perché ci accontentiamo di come sappiamo guidare? Perché fare
questo sforzo intenzionale è dispendioso in termini di attenzione e
quindi di energia mentale, e come continuerò a ripetere la
caratteristica essenziale dei nostri cervelli è che tendono al
risparmio. Lo fanno a tal punto da illudersi di conoscere qualcosa
anche se ne sanno pochissimo: l’esempio lampante è il famoso
effetto Dunning-Kruger, che ci porta a sovrastimare le nostre
competenze. L’aspetto curioso e inquietante allo stesso tempo di tale
effetto psicologico è che colpisce chi “sa poco”, proprio come ha

74
colpito me quando mi sono ritrovato in pista con l’auto convinto di
poter guidare come faccio sempre. L’analogia con il nostro fisico
aiuta ancora una volta. Quando vai in palestra ti attribuiscono una
“tabella” (o scheda) nella quale ci sono gli esercizi che devi compiere
per ottenere i risultati che hai concordato con il tuo personal trainer
(o semplicemente con il “tizio” della palestra). All’inizio dovrai
soltanto ripetere quegli esercizi, ancora e ancora fino a quando senti
che puoi aumentare lo sforzo, cioè che sei diventato più forte. Se ti
fai mantenere la stessa scheda per anni, e ripeti solo quegli stessi
identici esercizi, di certo sarai in forma, più in forma della media
della popolazione. Ma a un certo punto la forma fisica cesserà di
migliorare, la manterrai ma non la migliorerai, perché per crescere
devi aumentare gradualmente lo sforzo e farlo in modo
intenzionale.
Ecco perché anche se fai un mestiere in cui sei costretto a
utilizzare in modo massiccio le tue risorse attentive, non è detto che
questo ti porti o ti abbia condotto a livelli più alti di consapevolezza
e “attenzione”. Quindi ora spero sia chiara la ragione per cui non si
tratta di numero di ore ma di un modo particolare di fare pratica,
molto più faticoso perché necessita da parte tua di quella speciale
“intenzionalità” nel volere migliorare. Vediamo quali sono i
passaggi delineati da Ericsson per una buona “pratica deliberata”:

1. Obiettivi graduali e definiti. Per espandere una qualsiasi abilità


è bene sapere esattamente in quale contesto e quale operazione
desideriamo migliorare, in modo da poter programmare un
training. Quante volte ti sei fermato a chiederti se sei stato
davvero attento? Scommetto non troppe, probabilmente ci hai
pensato in concomitanza con il fallimento dell’attenzione,
proprio come io ho fallito in pista con l’auto, e se avessi voluto
migliorare avrei dovuto definire l’ambito e lavorare su quello.
2. Concentrazione e impegno totali. Una volta identificato il da
farsi è bene cercare di metterci “anima e cuore”. Nel caso
“bizzarro” dell’attenzione, per migliorarla dobbiamo osservarla,
attraverso quel fenomeno che abbiamo chiamato
“metacognizione”, cioè la capacità di notare che cosa ci passa
per la mente. Lo definisco “bizzarro” perché, come abbiamo

75
visto, l’attenzione non è il semplice restare sul pezzo ma è la
capacità di notare ciò che ci passa per la testa, le distrazioni e le
interruzioni. Tu sei perfettamente capace di prestare attenzione,
ma non sei altrettanto in grado di mettere da parte le distrazioni.
3. Feedback immediato e pertinente. Hai mai pensato come sia
possibile che tante persone hanno la patente? Non è una
domanda stupida, lascia che mi spieghi meglio. Guidare è
un’operazione difficilissima, lo sappiamo visto che da anni
cerchiamo di costruire un’intelligenza artificiale in grado di farlo
al posto nostro. Si impara perché il feedback alla guida è
immediato, se lo fai male esci di strada o fai un incidente, e oltre
a esserci in ballo migliaia di euro (per eventuali danni) vengono
messe a repentaglio la vita e la salute delle persone. Capisci che
il feedback è istantaneo, chiaro e pertinente. E ogni azione
umana che contenga questi tre punti viene appresa più
velocemente delle altre. Quando perdiamo “il filo del discorso”
raramente lo attribuiamo a una mancanza di concentrazione, di
allenamento, tendiamo a vederla come una componente dello
stimolo, cioè del contenuto che stiamo osservando. Se è poco
interessante è normale che io mi annoi, per questo i libri più
belli della storia (i classici) vengono poco letti, perché sono
difficili e la gente attribuisce la mancanza di attenzione proprio
a tale complessità. Quando invece abbiamo un migliore giudizio
e quindi sappiamo di essere corresponsabili della distrazione,
vediamo le varie défaillance come il segnale che non stiamo
facendo bene le cose e non come il normale movimento del
fascio attentivo. Da oggi tu sai che la tua attenzione saltella, ed è
del tutto normale ritrovarsi distratti, per cui ogni feedback che
noti, cioè quando ti accorgi di non essere più attento, si
trasforma in una vera risorsa per l’apprendimento. Ecco perché
continuerai a trovare frasi che ti dicono “nota la
distrazione/interruzione e mettila gentilmente da parte”, ancora,
ancora e ancora.
4. Ripetizione con riflessione e perfezionamento. Come anticipato
è chiaro che la ripetizione è fondamentale ma non basta;
Ericsson ci parla di “riflessione”, cioè della capacità di osservare
come sta andando la ripetizione. Sia durante sia dopo l’esercizio,

76
ci sono prove del fatto che prendere qualche istante di
riflessione (post-azione) ci aiuta a comprendere meglio come
agire la volta successiva.

Ecco, ora posso davvero riprendere la frase che dà il titolo al


capitolo, chiedendoti: «Hai mai strutturato la tua attenzione in
questo modo?»; nota che ho detto “attenzione” e non il tuo lavoro.
Perché se lo hai fatto per il tuo mestiere allora è probabile che tu sia
diventato più bravo e lo stesso è necessario fare con l’attenzione. Se,
per esempio, devi prestare attenzione a una macchina quando
lavori, per prima cosa inizia a fare un bel “piano d’attacco”, cioè
creare gli obiettivi chiari del primo punto, del tipo: “Resterò
concentrato sulla macchina per i prossimi 30 minuti”; poi ti metti lì e
riprendi il nostro “ciclo dell’attenzione sostenuta” (focus, perdita del
focus, accorgersi della perdita o metacognizione e ritorno gentile sul
compito). Il feedback che devi utilizzare è la distrazione, è il
momento più importante prima di passare alla quarta fase, cioè
tornare gentilmente sul compito. Facendolo, potresti renderti conto
che tendi a passare dalla distrazione al focus saltando le fasi terza e
quarta, oppure una sola delle due: nota anche questo e nel caso
riparti. Ecco, facendo una cosa del genere sicuramente si ottiene un
incremento dell’attenzione, perché è una meta-abilità, che tendiamo
a confondere con l’abilità stessa.
L’attenzione ti serve per guidare l’auto ma non è la guida
dell’auto, tu puoi continuare a guidare tranquillamente anche senza
il minimo sforzo attentivo, se le condizioni ambientali lo
consentono. Potremmo dire che la guida e l’attenzione sono due
muscoli diversi che però si sostengono a vicenda, più forte è
l’attenzione meglio riesci a guidare, più sai tecnicamente guidare e
più riesci a gestire ad arte la tua attenzione. Il caso della guida è
particolare, ma in generale la differenza non è solo nella prestazione,
cioè che quando sei distratto fai peggio le cose, ma nel fatto che non
le stai vivendo in prima persona. Ciò è legato a come funzionano le
nostre mappe che, come abbiamo visto, si frappongono tra noi e i
nostri sensi. Ed eccoci a un altro motivo per cui non ci alleniamo
davvero: per addestrare l’attenzione è necessario connettersi ai
propri sensi, sembra una cosa strana perché pensiamo di essere

77
sempre “con gli occhi aperti” ma in realtà non è esattamente così.
Prima di approfondire la parte sulle mappe ti lascio un esercizio
da fare, è un mini-training che si basa sui quattro passaggi della
pratica deliberata che abbiamo appena visto e che si uniscono a un
piccolo esercizio, noto in tutto il mondo come “tecnica del
pomodoro”. Consiste nell’utilizzo di un timer (se vuoi, a forma di
pomodoro), settato su uno slot temporale di 25 minuti; forse ne hai
già sentito parlare leggendo o guardando qualcosa riguardo alla
produttività e alla motivazione. L’idea è di portare avanti una certa
attività per un minimo di 25 minuti, senza distrazioni, e quando
suona la sveglia, piccola pausa di 5 minuti, poi se uno vuole riparte
con un altro “pomodoro” (cioè altri 25 minuti di esercizio).
Ora è possibile che tu sia d’accordo con me sulla necessità di
doverti allenare, sul fatto di poterlo fare in modo intenzionale, di
prenderti degli slot di tempo predefiniti (i pomodori) per lavorarci
sopra, ma non so quanto tu sia disposto a fermarti qualche minuto
dopo l’esercizio per scrivere le tue impressioni. Questa pratica,
comune a molti ambiti, ha dimostrato di essere più efficace di
quanto non si possa credere, qualcuno l’ha chiamata “riflessione
post-azione”. Nel caso fosse così, sappi che non sei solo; già doversi
allenare non è sempre piacevole, se in più ci dobbiamo fermare per
“ragionarci sopra” la cosa diventa ancora più noiosa. Ma le ricerche
in ambito aziendale che hanno applicato queste pratiche – fermarsi a
ragionare per qualche istante, cercando di non giudicare la qualità
del lavoro ma le azioni compiute, ripercorrendole – hanno
dimostrato che la “riflessione a posteriori” aumenta l’efficacia
dell’apprendimento. Per prima cosa imprime maggiore forza a tutto
ciò che impariamo, sia ciò che funziona sia ciò che non funziona. Poi
ci spinge a portare attenzione al momento presente, a quel che è
appena stato fatto e non al passato o al futuro. Consente di dare la
giusta rilevanza alle singole azioni che compiamo per fare qualcosa,
permettendoci di capire in quali siamo più bravi a indirizzare la
nostra attenzione e in quali meno. Nella bibliografia troverai alcune
ricerche interessanti che dimostrano l’efficacia della riflessione su
ciò che hai fatto; stai attento, però, non significa giudicarsi
ulteriormente male, come siamo soliti fare, ma casomai cercare di
osservare ciò che abbiamo fatto come se fossimo degli spettatori, con

78
tutto ciò che ci salta in mente.

ESERCIZIO
Durante il tuo lavoro (o in qualsiasi attività) decidi un piccolo obiettivo su
cui lavorare, punta la sveglia o un timer a 25 minuti e inizia a lavorare
cercando di prestare attenzione a ciò che fai, completamente. Fai in modo
che quella azione sia molto specifica e delimitata, così da poterla valutare.
Ogni volta che arriva una distrazione, la noti, la metti da parte e torni
gentilmente al tuo compito. È meglio se puoi fare questo esercizio a casa o
in un luogo tranquillo, cosicché tu possa fermarti a pensare un attimo a
come sono andate le cose. Se vuoi, scrivi due o tre righe su come ti sei
sentito, se è stato difficile seguire il ciclo dell’attenzione e soprattutto come
ti sei comportato!

79
Riprendere i sensi

Come abbiamo visto fin qui l’attenzione è un processo


multifattoriale che vede un sacco di elementi divisi tra loro in
collaborazione, circuiti del cervello differenti che però conducono a
quella sensazione di attenzione e di percezione unitaria del mondo.
In realtà la nostra macchina da presa biologica non è così raffinata
da poter vedere le cose come fa una moderna camera HD , ha una
risoluzione molto inferiore e deve usare dei trucchi per riuscire a
percepire il mondo come una “continuità” senza interruzioni. E
questa è anche una delle ragioni per cui possiamo dedicarci alla
separazione continuativa dell’attenzione senza neanche rendercene
conto. È la tua “attenzione implicita” a creare quel senso di
continuità, lo fa sempre attraverso complessi processi cerebrali che
non è necessario conoscere. Ciò che è importante iniziare a tenere a
mente è che vedi molto meno di quanto pensi di vedere. Infatti il tuo
cervello tende ad accomodare le informazioni in entrata, non solo
per motivi fisici (l’impossibilità di vedere alcuni spettri
elettromagnetici o di udire determinate frequenze) ma anche per
comodità, e si torna sempre al nostro “risparmio energetico”.
Qualche giorno fa stavo passeggiando con Chiara, mia moglie,
nel centro di Padova, percorrevamo una strada che conosciamo
molto bene e che facciamo tutti i giorni. A un tratto lei si ferma e mi
dice: «Guarda che belle quelle finestre: incredibile, non le avevo mai
notate». Neanche io le avevo mai notate eppure sicuramente erano
sempre state lì davanti ai nostri occhi, e forse, a questo punto del
testo, hai già capito perché non le avevamo mai viste. Bravo, a causa
delle mappe, che comportandosi come un GPS che ci fa risparmiare
energia, invece di farci rimappare il territorio ogni volta che ci
torniamo si affida alle vecchie conoscenze. Questo è fantastico per il
nostro comportamento, tuttavia più cresciamo e più tendiamo ad

80
affidarci alle mappe invece che ai nostri sensi, i quali hanno molti
difetti ma sono il nostro primigenio e naturale “contatto con il
mondo”, qualcosa che precede le mappe come cercherò di farti
toccare con mano in questo capitolo.
Qualche tempo fa stavo seguendo un documentario
sull’intelligenza artificiale, si parlava della celebre “guida
autonoma” di quinto livello. L’ingegnere intervistato diceva che più
l’auto era dotata di sensori affidabili più era in grado di muoversi
agilmente tra gli ostacoli perché capace di costruire simulazioni
precise dell’ambiente circostante. Noi facciamo più o meno la stessa
cosa, più siamo a contatto con i nostri sensi (i sensori) e più siamo
capaci di “riprodurre” una mappa attendibile del mondo esterno.
Ma proprio come un’automobile a guida autonoma, non ci
affidiamo soltanto a ciò che c’è là fuori ma anche a ciò che sappiamo
di quello che c’è là fuori. Lascia che mi spieghi meglio: l’intelligenza
artificiale per poter funzionare ha bisogno di dati, informazioni che
prende dal web e nel caso specifico dalle mappe che trova in rete.
Per potersi muovere in autonomia deve fare questo doppio lavoro,
prendendo informazioni dall’esterno e dall’“interno”: se trova un
ostacolo non segnalato nelle mappe, i sensori devono essere pronti a
rilevarlo e ad agire di conseguenza. Contemporaneamente il
programma interno viene aggiornato, quindi nella mappa di quel
percorso viene segnalato l’ostacolo; è una costante comunicazione a
due vie: una proviene dall’interno (le mappe) e una dall’esterno
(l’ambiente), ciò che viene captato dai sensi.
Il primo passo per allenare davvero la nostra attenzione è
rafforzare i nostri “sensori”, cioè i nostri sensi, renderli
maggiormente acuti riprendendo dimestichezza con essi. Quindi le
mappe non sono utili per dirigere l’attenzione? Sono sicuramente
utilissime per creare percorsi che ci aiutino a risparmiare le energie,
ma quando dobbiamo rafforzare e gestire la nostra attenzione, la
chiave è quella di rivolgerci ai nostri sensi. Oggi esistono numerose
teorie su come funziona l’attenzione ma tutte partono dall’idea che
gli input vengano recepiti dal nostro apparato sensoriale e
convogliati in una sorta di magazzino temporaneo sensoriale. Sul
quale poi i diversi filtri, le nostre mappe, agiscono attivamente
categorizzando e quindi dando senso a quella cosa percepita. Più sei

81
abituato a recepire quel tipo particolare di input e più velocemente
lo inserirai tra le tue mappe, riconoscendolo e agendo di
conseguenza; meno sei abituato e più dovrai fare uno sforzo di
comprensione per accomodarlo insieme a tutte le altre esperienze.
Quindi, riesci a riconoscere queste parole perché assomigliano a
schemi che tu hai dentro, schemi che hai reso rapidi grazie
all’esercizio e che rendono la tua mente in grado di dare senso alle
frasi che leggi.
Ora proviamo qualcosa di davvero difficile: cerca di non dare un
senso alle parole che stai leggendo, prova a guardare queste lettere
senza capire che cosa c’è scritto… È impossibile, vero? Se ci pensi è
pazzesco, non puoi disimparare a leggere per poter “non capire”
questa serie di parole. Così funzionano gli schemi, più siamo
abituati a utilizzarli e più scattano rapidamente e in automatico, per
questo forse hai letto il doppio “le” in “mamme con le le culle”. Il
linguaggio poi ha un “accesso privilegiato”, visto che siamo dotati
di aree specifiche per la sua elaborazione e comprensione. Ora tutto
questo ragionamento serve a mostrarti che l’atto di prestare
attenzione e la conseguente “categoria linguistica” che ne emerge
sono due cose separate, anche se non ce ne rendiamo conto. Lo
stesso vale per le singole lettere che osservi in questo momento:
l’atto di leggerle con attenzione è diverso dalla loro comprensione.
Facciamo un piccolo esercizio: ti avviso, è molto strano ma provaci,
richiede solo qualche secondo.

ESERCIZIO
Ovunque tu sia in questo momento, tra poco stacca gli occhi dal testo e
guarda gli oggetti che ti circondano, a uno a uno. Se sei da solo puoi
indicarli con il dito, e a mano a mano che passi in rassegna gli oggetti prova
a non nominarli dentro di te. Sì, hai capito, li guardi per ciò che sono, non
per il loro nome, che vedrai emergerà in un nanosecondo. Ma se sei
abbastanza aperto, attento e rapido, potresti notare quel leggero spazio tra
la percezione di ciò che guardi e il nome, tra la mappa e il territorio. Se non
ci sei riuscito, tranquillo, riprovaci più tardi, magari tra qualche capitolo,
quando avremo approfondito questi concetti.

82
Questo esperimento è di Alfred Korzybski, un genio dello scorso
secolo, filosofo, matematico e ingegnere polacco, noto per la frase:
“La mappa non è il territorio”. Nel campo della crescita personale
questa affermazione è stata presa come una sorta di invito a
“costruirsi le proprie mappe”, mentre se vogliamo trarre il massimo
dal superpotere dell’attenzione dobbiamo fare il contrario,
concentrarci sul territorio, cercare di vedere quello che c’è e non ciò
che pensiamo ci dovrebbe essere; l’unico modo per farlo è osservare
come emergono le nostre mappe e si frappongono tra ciò che è
davanti ai nostri occhi e ciò che pensiamo, tra mappa e territorio.
Sembra impossibile, vero? Continua a leggere e scoprirai che non è
poi così difficile fare una cosa del genere. Se ci pensi bene, quando
guardi un tramonto, o sei rapito da uno sguardo, sei in quel luogo di
mezzo, sei nella percezione di ciò che stai vivendo in quel momento.
Esistono due modi di fare esperienza del mondo: il primo è
questo, diretto e di difficile trasmissione a parole; il secondo è quello
che invece possiamo descrivere con il linguaggio. Il primo viene
definito come “Sé esperienziale”, è la parte di te che fa esperienza
delle cose; il secondo invece “Sé narrativo”, è la parte di te che
racconta, giudica, soppesa che cosa ti è accaduto e lo trasforma in
una bella narrazione, una storia. Più siamo dentro il nostro “Sé
narrativo” e meno riusciamo a fare esperienza diretta del mondo: se
sei troppo intento a ragionare su chi sarà l’assassino mentre guardi
un giallo ti perderai gran parte dell’esperienza che il regista ha
progettato per te. È il classico “stare troppo nella testa” che tutti
conosciamo e che risulta essere una delle cause principali della
nostra inconsapevolezza quotidiana, un aspetto che possiamo
migliorare proprio ritornando ai nostri sensi, alla consapevolezza,
all’attenzione.

ESERCIZIO
Hai mai visto una persona “imbambolata” tra i propri pensieri? Scommetto
che ogni tanto capita anche a te; succede quando veniamo rapiti dal nostro
“Sé narrativo”, da quel chiacchiericcio interno, con una tale intensità da

83
perderci in esso. Se ti capita spesso, inizia fin da oggi a fare questo piccolo
esercizio: quando ti torna in mente questo meraviglioso libro che stai
leggendo (cerco di influenzarti positivamente), magari perché sei perso tra i
tuoi pensieri, prova a portare attenzione alle sensazioni fisiche del tuo
corpo, in modo fermo e gentile. Lo stai facendo adesso? È strano, vero? Più
avanti scoprirai perché è essenziale farlo, per ora porta soltanto attenzione
alle tue mani, ai tuoi piedi o alla tua bocca. Puoi portare attenzione dove ti
pare, in realtà, ma le parti che ti ho indicato sono più sensibili, il che
significa che non devi sforzarti eccessivamente per percepirle.
Tengo a sottolineare che “sentire” il proprio corpo, spostare l’attenzione
intenzionalmente sui sensi, non è per nulla facile, perché un secondo dopo
che lo hai fatto entra in scena quel “Sé narrativo” che commenta ciò che stai
facendo e spesso non in modo lusinghiero. Quella parte di te non ama
essere messa da parte, perché è là dentro che noi ci sentiamo
particolarmente al sicuro, perché è solo nelle nostre mappe che tutto è
netto e distinto. Come sappiamo, però, la realtà non è così chiara e
prevedibile: dobbiamo allenarci non a cercare la chiarezza ma a ricercare la
consapevolezza.

84
L’ambiguità e l’attenzione

Le nostre mappe sono lì per facilitare le nostre azioni, per


programmarle, simularle, pescare insegnamenti dal passato per
portarli nel futuro e molto altro. Insomma, fanno un sacco di cose
per noi, tuttavia hanno l’estrema tendenza a cercare di dare senso a
ciò che vediamo anche quando questo “senso” non esiste. La nostra
mente sente come la necessità di dare un significato a ciò che vede
anche se non lo conosce davvero, perché le consente di incasellarlo e
di non trovarsi in una posizione di ambiguità.
Se un giorno inventassimo la macchina del tempo e ci trovassimo
nel Duecento e dovessimo spiegare da dove proveniamo e che cosa
c’è nel futuro, certo non potremmo essere granché precisi nelle
descrizioni, ma sicuramente potremmo raccontare un sacco di cose,
anche se non le conosciamo bene. Potremmo dire che un giorno
avremo delle macchine volanti (ancora prima di Leonardo), simili
agli uccelli, favoleggiare sulle nostre tecnologie, dicendo che sono
simili ai loro utensili e così via. Anche se non sappiamo come
funziona davvero un aereo o un computer, sapremmo darne una
buona descrizione, a volte anche tecnica. Lo so che sembra assurdo
ma è così: che tu sia un ingegnere o un impiegato statale, sapresti
descrivere a grandi linee che cosa succede nel nostro tempo. Le
descrizioni però sarebbero profondamente diverse, perché
l’ingegnere in teoria sa esattamente come costruire quelle cose e
come funzionano, ma l’impiegato? Come può saperlo anche lui?
Perché il simulatore interno – a cui abbiamo dato molti nomi
(mappa, GPS , “Sé narrativo”) – deve necessariamente darsi una
spiegazione delle cose che vede e che utilizza, anche se la
descrizione non risulta del tutto accurata e veritiera.
Ebbene sì, il problema nasce sempre dalla tendenza propria del
cervello di risparmiare energia, e se si trova in una situazione di

85
ambiguità deve aggiornare le mappe di continuo, e questo è molto
dispendioso. Più le cose risultano ambigue ai nostri sensi e più
intervengono le mappe a dargli una certa forma. Un esempio che
conosciamo tutti è quello di vedere forme riconoscibili in stimoli
casuali, come le nuvole, le stelle, le montagne. E una volta che gli
abbiamo attribuito una forma, facciamo fatica a rivedere l’aspetto
ambiguo e casuale…
Osserva questa figura.

Che cos’è? Se dici due linee con quattro pallini è la risposta

86
giusta, ma se per caso hai visto delle “boe” e una piscina farai fatica
a riconoscere dei semplici segni grafici. E se ti dicessi che è un
orsetto che sta scalando un albero e di cui intravedi solo le zampe?
Prova a guardarlo per qualche istante da questa prospettiva. Ecco,
se l’hai fatto probabilmente non riuscirai più a vedere le singole
linee e i pallini, ma immaginerai l’orso che scala l’albero. Lo so, è
banale, ma una volta che il cervello ha dato un “significato”, crea la
sua mappa e smette di affidarsi ai sensi perché questo gli consente
di fare economia, e ogni volta che rivedrà quell’immagine in giro
non dovrà più chiedersi “Ma che razza di roba è?”, e si affiderà a ciò
che già conosce. È la stessa, identica questione di cui abbiamo
parlato all’inizio, a proposito degli automatismi e del “gradino
mancante”: la tua mente fa queste operazioni alla velocità della luce
e crea una mappa di quanti gradini sta percorrendo.
La verità è che noi prevediamo continuamente il futuro ma le
previsioni non possono essere perfette, lo sappiamo tutti. Io la
chiamo “la sindrome del veglione di Capodanno”. A tutti sarà
capitato di voler programmare la festa perfetta e quindi di spendere
le stesse energie di quando si organizza appunto il veglione di
Capodanno. Che cosa succede? Più ci si aspetta che vada nel modo
previsto e meno accadrà. No, tranquillo, se tu per lavoro organizzi
feste lo sai che meglio la allestisci e più alta è la probabilità di un suo
successo, però sai anche che devi prepararla benissimo affinché tutto
vada secondo i tuoi piani; se poi sei un vero professionista sai
adattarti a eventuali imprevisti. Invece tutti noi che non siamo
organizzatori di feste rischiamo di cadere nel tranello di immaginare
qualcosa che poi non accade: più le aspettative sono alte e meno
accettiamo che le nostre previsioni possano fallire. In altre parole, il
desiderio che tutto vada bene ci spinge a rifugiarci nelle nostre
mappe, perché lì dentro le cose sono perfette, ma purtroppo più ci
rifugiamo in esse e meno siamo in grado di adattarci a ciò che sta
accadendo davvero davanti ai nostri occhi. Le mappe sono
incredibilmente utili per togliere “ambiguità” al mondo, ma la verità
è che il mondo è terribilmente ambiguo, per quanto si cerchi di
prevederlo.
Lo stimolo più ambiguo con cui abbiamo a che fare è la nostra
vita: che cosa farò domani? Come sarò tra un anno? Come mi sentirò

87
se accadrà X e Y? Ecco perché ho definito le mappe “Sé narrativo”,
perché quella parte di noi parla proprio di noi, non sta prevedendo
l’andamento dei mercati, e se lo fa è solo perché ha un interesse
personale nel farlo. Se ti lasciassi in silenzio in una stanza e potessi
trascrivere tutto ciò che pensi, la maggior parte dei tuoi pensieri
saranno rivolti a te stesso, e quando penserai agli altri lo farai
sempre a partire da te. È naturale, dirai, tutto passa attraverso la tua
testa, ma la verità è che non ci accorgiamo di partire sempre dal
nostro punto di vista, che quel chiacchiericcio interno parla sempre
e costantemente di noi, ed è noi che cerca di mettere al sicuro con le
proprie mappe. Per questo la saggezza orientale ha battezzato quella
parte con il termine “ego”, che sembra una roba brutta ma non lo è
affatto. “Quella persona è piena di ego”: quando diciamo così
intendiamo qualcuno che “pensa solo a se stesso”. In realtà tutti
pensiamo principalmente a noi stessi, non perché siamo egoisti (in
alcuni casi sì) ma perché tutto passa attraverso di noi, tutto passa dai
nostri sensi, e quando si trasforma in “mappa” tendiamo a
dimenticarci che si tratta di “roba” nostra.
Le mappe ci illudono che la qualità della nostra attenzione derivi
da quanto bene conosciamo quel particolare contenuto su cui ci
focalizziamo. In parte è vero, alcune cose ci attirano maggiormente,
ma il processo di attenzione e consapevolezza è diverso dal
contenuto su cui ci soffermiamo. Se vogliamo addestrare la nostra
attenzione nel modo più profondo e preciso possibile,
distinguendola dalle mappe, allenandola al meglio come si farebbe
in palestra con una serie di esercizi per tonificare specifici gruppi
muscolari, dobbiamo tornare ai nostri sensi, e tra poco vedremo
come farlo in modo strutturato.

ESERCIZIO
Guarda il cielo e cerca qualche nuvola; quando l’hai trovata attribuiscile una
forma, vedendoci un’immagine qualsiasi. Ora prova a guardare quella
nuvola per ciò che è, una forma irregolare e senza un senso preciso, cerca
cioè di staccarti dalla tua interpretazione. Vedrai, non è facile per nulla!
Divertiti ad attribuire più e più forme e significati a quella nuvola: questo

88
esercizio ti farà toccare con mano quanto tendiamo a fissarci sui significati
che attribuiamo, e se riuscirai a dare più interpretazioni allenerai la tua
mente a essere più flessibile.

89
Tutto questo ti ha fatto pensare alla meditazione,
per caso?

Se conosci come funziona la meditazione probabilmente qualcosa ti


sarà risuonato nel corso della lettura, se hai acquistato questo libro
perché conosci il mio lavoro allora lo saprai, non è un segreto che
gran parte della mia attività degli ultimi anni è stata dedicata allo
studio e alla pratica della “meditazione di consapevolezza”. E come
mai te ne parlo soltanto adesso? Perché la gente, perlopiù, non sa
che cosa sia la meditazione e spesso la confonde con degli strani
rituali orientali, gruppi di persone con la testa rasata e abiti color
zafferano, che ripetono strane frasi, a gambe incrociate, l’incenso,
oppure l’andare a ritirarsi sui monti.
In realtà esistono vari tipi di pratica meditativa, ma quelli che
hanno dato maggiori risultati sono quelli legati alla nostra
consapevolezza. Si tratta di semplici esercizi di attenzione sostenuta,
identici a quelli che abbiamo discusso poco fa, solo che danno una
particolare priorità all’aspetto sensoriale. Potremmo dire che la
pratica di meditazione più potente per addestrare l’attenzione non è
altro che la capacità di accorgerci quando finiamo nelle nostre
mappe, per riportare gentilmente l’attenzione ai sensi. Riconoscendo
l’intervento del “Sé narrativo” e ritornando al “Sé esperienziale”: se
poco fa hai provato a mettere in pratica ciò che abbiamo detto nei
confronti del “circolo dell’attenzione sostenuta”, quasi sicuramente
ti sarai accorto che è molto difficile tenere fuori dai piedi i contenuti
mentali. Sì, escludere il mondo esterno per lavorare meglio non è
così difficile come mettere in secondo piano l’aspetto narrativo dei
nostri pensieri, quella vocina interna che giudica, valuta, compara
costantemente ciò che facciamo con ciò che pensiamo di voler fare. È
la stessa vocina che per alcune persone diventa una vera e propria
tortura quando si trasforma in “ruminazione”, un termine tecnico
della psicologia per indicare una persona che “pensa troppo”,

90
spesso in modo negativo su ciò che ha fatto o che sta per fare.
Come ti ho anticipato, i tuoi contenuti interni parlano sempre di
te; sì, anche quando stai pensando ad altri quelle mappe lo fanno a
partire da ciò che pensano di te o in riferimento a te. Non voglio dire
che siamo tutti egocentrici, sto dicendo invece che quella parte di
“ego” è necessariamente autocentrata, e quando esagera può
diventare un problema. Negli ultimi anni i miei colleghi che si
occupano di psicopatologia (le “malattie” mentali) hanno compreso
che a mantenere le forme più rigide di depressione e disturbi
dell’umore in generale è proprio questa continua ruminazione su se
stessi. Così hanno iniziato a progettare delle pratiche per uscire dalle
mappe (di decentramento), cioè tecniche per uscire
dall’autoriferimento. Tranquillo, non voglio trasformare questo libro
in un testo troppo specialistico a uso degli psicologi, ma solo
raccontarti la sorpresa di questi esperti quando altri colleghi gli
hanno fatto notare che ciò che stavano cercando, quel qualcosa che
gli permettesse di decentrare i pazienti, esisteva da millenni: la
meditazione di consapevolezza. In pratica erano alla ricerca di un
sistema che facesse uscire i pazienti dalla loro testa per tornare in
contatto con il mondo, e quasi intuitivamente avevano iniziato a
sviluppare metodiche che passavano attraverso i sensi. Per esempio,
portare attenzione alle mani e ai piedi, come abbiamo fatto poco fa.
Tutto questo è emerso pienamente quando a metà degli anni
Settanta un giovane immunologo ha iniziato a portare la “pratica
della consapevolezza” all’interno di un ospedale collegato
all’Università del Massachusetts, proponendo alcuni corsi per la
riduzione dello stress ai pazienti interessati. Mi riferisco a Jon Kabat-
Zinn, biologo americano famoso in tutto il mondo per la
formalizzazione del concetto di mindfulness, di cui quasi sicuramente
hai già sentito parlare, e dalla quale forse ti sei tenuto alla larga
perché sai essere una forma di “meditazione”. Se sei arrivato fin qui
e hai intuito che questo libro può davvero aumentare la tua capacità
di gestire l’attenzione (e migliorare la tua vita sotto molti punti di
vista), continua a seguirmi anche se parliamo di qualcosa che a molti
“non suona bene”, cioè l’idea di dover applicare principi
orientaleggianti o simili (tranquillo, non lo faremo).
Si diceva che esistono numerose forme di meditazione, la

91
maggior parte delle quali ha come scopo principale quello di
“conoscere se stessi” aumentando la nostra capacità di osservare i
contenuti interiori che girano per la nostra mente. Di solito, invece,
siamo invischiati con i nostri contenuti interiori, ed è come se
fossimo costantemente dentro al flusso dei pensieri, saltellando da
un pensiero all’altro. Se stiamo bene, se siamo belli rilassati e sereni,
tale saltellamento non ci darà disturbo, se invece siamo tesi o intenti
a fare qualcosa di importante, ecco che quei contenuti possono
trasformarsi nella distrazione peggiore che esista. Come vedremo
più avanti, tale “distrazione” non ti porta solo lontano dal momento
presente e dalla realtà ma ti allontana da ciò che è davvero
importante per te.
Ora torniamo per qualche istante a ciò che ci siamo raccontati
sull’attenzione. Se sono riuscito a spiegarmi bene spero sia chiaro
che il “quando” spostiamo l’attenzione sulle cose è fondamentale,
cioè il fascio attentivo assume le sue proprietà nel momento
presente, non nel passato, non nel futuro, ma in ciò che c’è qui e ora.
Ed è proprio questo lo scopo principale della maggior parte delle
tecniche di meditazione, in particolare le metodiche che sono state
studiate in laboratorio, al punto tale che oggi non si possa più
parlare di “presenza” senza inserire il termine “pratica meditativa”.
Quindi ciò che stai per apprendere non è il come “si medita” – ci
sono tanti tipi di pratica, lo abbiamo detto – ma la forma mentis che
sta alla base delle meditazioni che negli ultimi cinquant’anni hanno
dato i migliori risultati scientifici. Ed è qualcosa di meno romantico
e orientaleggiante di quanto si possa immaginare, è molto più simile
al nostro secco e a tratti meccanico circolo dell’attenzione,
l’accorgerti di esserti distratto per tornare (ancora, ancora e ancora)
sul tuo punto di focus, cioè nel presente di ciò che stai facendo.
Il modo migliore per comprenderlo a fondo, però, è avere come
punto di focus principale una sensazione fisica e non un pensiero. Si
è detto, infatti, che le parti del cervello che formano i contenuti
mentali (pensieri, piani e anche sentimenti) sono diverse da quella
che “sente”, vede, ascolta e sta leggendo queste parole. È strano,
perché in realtà si tratta di una stretta collaborazione: da un lato
devi prestare attenzione e guardare queste lettere, dall’altro devi
comprenderle. Però mentre per comprendere il testo non è

92
necessario alcuno sforzo (almeno me lo auguro), a stancarsi è in
realtà la tua attenzione, cioè la tua capacità di continuare a seguire il
filo del discorso.
Ho scelto la lettura come esempio perché è quello che stai
facendo in questo preciso momento (così come io sto digitando
queste parole “qui e ora”, anche se tu le leggerai “là e dopo”) ma è
difficile osservare tutti i passaggi che fa la tua mente mentre leggi,
perché le parole fanno parte delle “mappe”, del “Sé narrativo”. E
ogni singola parola può potenzialmente portarti lontanissimo da ciò
che stai leggendo, perché può avere un significato per te molto
particolare che ti connette ad altri contenuti mentali che possono
distrarti. In realtà è un piacere lasciare che la mente faccia
collegamenti mentre leggiamo, e se siamo allenati possiamo riuscire
a ritornare in carreggiata per riprendere il filo del discorso. Ma per
poter davvero notare la differenza tra l’aspetto concettuale (il Sé
narrativo) e l’aspetto sensoriale (il Sé esperienziale) dobbiamo
cercare di scollegare le due cose artificiosamente. Questo è, in modo
molto secco e tecnico, ciò che fanno la maggior parte delle pratiche
di meditazione che hanno ricevuto talmente tante prove scientifiche
in questi anni da convincere migliaia di professionisti e ricercatori a
praticarla loro stessi.

ESERCIZIO
Se hai uno smartphone e vai sul tuo app store (da dove scarichi le
applicazioni) puoi trovarne una che ti introduce alla pratica della
consapevolezza: cerca “Clarity meditazione”, si chiama “Clarity”… ed è
gratuita!

93
Intenzione - Ora - Senza giudicare

Jon Kabat-Zinn descrive la mindfulness come la capacità di portare


intenzionalmente la propria attenzione al presente, momento per
momento, senza giudicare moralmente ciò che osserviamo. Ho
racchiuso questa “definizione operativa” nell’acronimo IOS
( Intenzione - Ora (nel presente) - Senza giudicare) che è tutto ciò che
serve a un praticante per iniziare a sperimentare la meditazione di
consapevolezza. No, non è un abbaglio se hai notato che si tratta di
qualcosa di molto simile al nostro ciclo dell’attenzione, infatti è la
stessa cosa, anche qui spostiamo intenzionalmente la nostra
attenzione nel presente e quando ci accorgiamo di esserci distratti lo
notiamo e torniamo gentilmente al nostro “focus”.
Il modello IOS aggiunge a quel modo di prestare attenzione l’idea
di “non giudizio”, che significa cercare di non seguire la moltitudine
di commenti, valutazioni e storie che costruiamo nella mente mentre
cerchiamo di stare attenti (il “Sé narrativo” che si attiva). Forse ti
sembrerà una sorta di forzatura far coincidere questi due modelli,
magari per convincerti che meditare è il modo migliore per allenare
il “focus”, ma in realtà è il frutto dei risultati della ricerca. Che
hanno ampiamente dimostrato come questa pratica espanda la
capacità di stare attenti nella propria vita, sotto numerosi punti di
vista, non solo a scuola o sul lavoro. È anche la capacità di essere più
attenti alle cose della vita in generale, al tramonto davanti a una
finestra, al profumo della primavera, alle persone che ci stanno
accanto, al cibo che mangiamo tutti i giorni.
Tengo a ripeterti che queste non sono belle metafore, non è la
saggezza orientale che ci illumina il cammino, ma è il risultato di
studi che spiegano quanto tale esercizio alleni fisicamente il cervello.
Non hai bisogno di credermi, vai su Google Scholar (il database di

94
Google che si occupa di raccogliere la letteratura scientifica) e cerca
la parola mindfulness, scoprirai che poche altre cose hanno così tante
evidenze sperimentali a loro favore. Avrei potuto riempire questo
libro (e altri dieci) soltanto citando e raccontando la montagna di
ricerche che sono state fatte e che hanno dimostrato come questo
modo di “usare il cervello”, faccia bene a tantissime cose.
Considerato che qui ci occupiamo di “attenzione”, vediamo adesso
qualcosa di incredibile circa l’utilità di certe pratiche, e poi una
semplice meditazione che puoi fare in pochissimo tempo ottenendo
risultati eccellenti.
Correva l’anno 2002 e stavo seguendo un corso di psicologia della
percezione davvero molto interessante; tra gli esperimenti che ci
proposero sul funzionamento della percezione, uno in particolare
mi colpì: il professore ci mostrò un piccolo video dove apparivano
dei numeri in sequenza, e ci disse che tra un numero e l’altro
potevano apparire una o due lettere che avremmo dovuto tenere a
mente. A una prima prova fu facilissimo individuarle, al che il
professore ci avvisò che la volta successiva sarebbe stato più
difficoltoso. Il filmato partì e tutti vedevano solo una lettera: il
docente aveva ottenuto quella che è detta tecnicamente attentional
blink (cecità attenzionale), un fenomeno percettivo che tende a
cancellare alcune informazioni a causa della elevata velocità di
presentazione degli stimoli. Il prof ci teneva a parlarcene, perché
l’applicazione e la scoperta di quel fenomeno era servita a
migliorare le abilità dei controllori di volo; come puoi immaginare
perdere un aereo sullo schermo perché sono presenti troppi velivoli
contemporaneamente è un rischio esageratamente alto. Era bello per
un giovane studente di psicologia apprendere della collaborazione
tra psicologi e ingegneri per la costruzione di apparecchi che
consentissero una migliore interazione tra uomo e macchina (oggi
esistono interi corsi di laurea su questo tema).
Perché ti racconto questa storia? Perché all’epoca tale cecità
selettiva era data come assodata, una sorta di limite biologico
dell’attenzione; un po’ come non poter vedere alcune parti dello
spettro elettromagnetico (la luce) o udire determinati suoni (come i
nostri cani). Tuttavia un noto studio del 2011 ha voluto mettere a
confronto i praticanti di meditazione con i non praticanti attraverso

95
vari test di attenzione compreso quello appena descritto. E hanno
scoperto che i praticanti erano nettamente più bravi nella capacità di
dirigere la propria attenzione e riuscivano a vedere le due lettere
(non sempre, ma molte più volte di chi non meditava). Questo
studio ha dimostrato non solo che l’attenzione può essere allenata
(cosa non scontata) ma che può addirittura condurci a sviluppare
una “superattenzione”, più intensa e più profonda di quella delle
persone che non praticano.
Magari tu sei un operaio e hai acquistato questo libro nella
speranza di poter migliorare la tua attenzione sul lavoro e ti stai
chiedendo: “Ma perché diavolo dovrei meditare?”. Vedremo infatti
che non è necessario, però è importante fare un pizzico di pratica
per comprendere fino in fondo i concetti qui esposti. Perché ti sto
parlando di qualcosa che tu già sai fare in parte, ma allo stesso
tempo non sai di saperlo fare; un po’ come nuotare: in realtà tutti
sappiamo naturalmente galleggiare sin dalla nascita; ma per quanto
sia naturale, se cerco di spiegare a parole, a un adulto che non sa
nuotare, come si fa e gli dico che galleggerà quasi spontaneamente
questo tenderà a non fidarsi.
Abbiamo visto come la nostra mente generi un sacco di
automatismi che tendono a frapporsi tra noi e la realtà; più che
distrarci, in realtà interferiscono con il processo portandoci lontano
dal momento presente e questo si traduce anche in una distrazione.
Quando però osservi i tuoi automatismi rischi di incepparli: hai mai
guidato con accanto un perfezionista della guida che ti corregge di
continuo? Se ti è capitato, scommetto che non solo desideravi
lanciarlo dal finestrino ma che quell’insistenza ha rischiato davvero
di farti commettere qualche errore. Quando cerchi di controllare un
comportamento automatico lo interrompi o ne modifichi
temporaneamente il funzionamento: se ti concentri troppo sui
movimenti che fai mentre scendi le scale di corsa, rischi di
inciampare. Allora, forse, ti sembrerà assurdo cercare di osservare
questi automatismi; ecco perché è fondamentale la pratica della
meditazione, perché ti allena a osservare ma senza interferire, o a
interferire il meno possibile.
La prova più semplice è la pratica di meditazione più nota (e
fraintesa) nel mondo, oltre che una delle più antiche: l’attenzione al

96
respiro. Lo ripeto, non voglio che questo testo diventi un corso di
meditazione, ma devo essere onesto: a oggi, è il metodo più potente
per allenare l’attenzione e non solo; tra le risorse ti consiglio ancora
la mia app “Clarity”, che ti guida passo passo verso
l’apprendimento di questo incredibile metodo. Adesso vedremo
solo un paio di tecniche che ti saranno utili per avere esperienza di
ciò che stai leggendo, e una di queste è proprio l’“attenzione al
respiro”.
Perché il respiro? In questo momento stai respirando, e spero tu
sia d’accordo con me che per fortuna questa azione è automatica ma
che allo stesso tempo può essere gestita da te. Puoi decidere di fare
un respiro più profondo oppure di trattenere il fiato, quindi agire
sull’automatismo inibendolo o deviandolo temporaneamente. Ma se
porti molta attenzione al tuo respiro, senza cercare di modificarlo in
alcun modo, scopri qualcosa di assolutamente bizzarro: lo
modifichi. In realtà non è una vera modifica ma più una leggera
oscillazione nel suo funzionamento automatico. Se in questo
momento stai provando un po’ di ansia, tranquillo, è del tutto
normale, perché spesso tendiamo a provare ansia proprio perché
cerchiamo di controllare l’incontrollabile, come il flusso del respiro o
lo scorrere dei pensieri. La consapevolezza che si sviluppa portando
attenzione al presente, attraverso le sensazioni in modo intenzionale
– argomento di cui stiamo parlando dal primo capitolo –, ti consente
di osservare i tuoi automatismi senza interferire, se lo fai con una
certa costanza ti permette anche di lasciar scorrere i tuoi pensieri
senza identificarti con loro, di gestire la mente… attraverso la
consapevolezza. Insomma, io ti avevo avvisato che questo non era
un semplice libro sull’attenzione, perché queste cose possono
cambiarti la vita in meglio!

ESERCIZIO
Facciamo un piccolo esperimento insieme, che consiste proprio nel portare
attenzione al tuo respiro, per motivi che puoi scoprire se scarichi la mia app
e le mie dieci lezioni gratuite. È bene respirare con la bocca chiusa,
cercando di far passare l’aria solo dal naso (se sei raffreddato puoi respirare

97
con la bocca). Tutto ciò che ti chiedo di fare è di chiudere gli occhi e di
contare 5 respiri: sei pronto? Se non hai tempo adesso, mi raccomando,
fallo appena puoi… Via!
Hai contato i respiri? Com’è stato, facile o difficile? Ora vorrei che lo
ripetessi tenendo a mente l’acronimo IOS , portando con intenzione la tua
attenzione al presente, cioè a tutto ciò che è presente e non a ciò che
vorresti sentire. Devi concentrare la tua attenzione sul flusso dell’aria che
entra e che esce, non su come dovresti o vorresti respirare, non sulla
quantità di aria che entra ed esce, ma semplicemente osservare il respiro
così com’è. Cosa dici, non è facile perché quando ci porti sopra la tua
attenzione tendi a modificare il respiro? È proprio ciò di cui parlavamo poco
fa; ti assicuro che se ti eserciti riuscirai a osservarlo senza interferire, ed è
uno degli insegnamenti più importanti di questa pratica: la capacità di
osservare i nostri automatismi riconoscendoli come tali e senza modificarli.
Certo, una minima modifica la noterai sempre, soprattutto nei primi atti
respiratori, perché la tua attenzione cambia la fisiologia del corpo: lo so,
sembra assurdo ma è così. Ricorda che il tuo cervello non è solo nella tua
testa, ma è distribuito in tutto il corpo. I famosi “nervi”, cioè i neuroni,
partono dalla testa, arrivano alla colonna vertebrale e si espandono fino alla
punta delle dita delle mani e dei piedi. Quando pensi a una parte del corpo
questa si attiva in qualche modo, compreso il respiro, del quale però puoi
chiaramente sentire l’interferenza, ed è forse per questo che è una delle
pratiche più famose. Se ci pensi, infatti, che cosa può esserci di più presente
dell’aria che entra e che esce?
Ricorda che il tuo scopo non è contare i respiri o cercare di farlo in un
modo particolare; magari hai imparato la respirazione diaframmatica e credi
che sia “il modo giusto di respirare” e allora continui ad aggiustarlo. Questo
succede perché ti affidi alla mappa “bisogna respirare così”: non c’è niente
di male, magari è stato il tuo fisioterapista a consigliarti di respirare in quel
modo. Però l’esercizio che stiamo facendo è diverso, non è una tecnica di
respirazione controllata, è l’osservazione di come naturalmente tendi a
respirare. E vuoi sapere una cosa? Se non sei un atleta e non hai mai
meditato non hai la più pallida idea di come fluisca il tuo respiro; farlo può
essere un’esperienza nuova tale da farti sentire “incapace”: non ti
preoccupare, è normalissimo; se invece ti senti già bravo, complimenti!
Ora riproviamo a fare 5 respiri consapevoli senza interferire, in modo
intenzionale e notando tutti i giudizi che emergono. Quando li noti devi

98
metterli da parte, gentilmente, e sempre con gentilezza ritornare al tuo
respiro; ricorda che il compito più importante è notare proprio quando la
tua mente inizia a vagare, è quello il momento centrale dove stai davvero
allenando l’attenzione. Un piccolo trucco per massimizzare la tua capacità di
“sentire” l’aria che entra ed esce è osservare che durante l’inspirazione l’aria
è più fredda mentre durante l’espirazione è leggermente più calda. Dove la
senti? Tra le narici e il labbro superiore: più piccola è l’area che riesci a
percepire e più potente è l’allenamento. Mi raccomando, devi “sentire” l’aria
che scorre, non visualizzarla e non ripetere a voce dentro di te che cosa devi
fare; all’inizio non sarà facile, la vedrai entrare e uscire, ti dirai un sacco di
cose tipo “lo sto facendo bene? ma è davvero possibile sentire solo l’aria?”.
Nota tutte queste cose e trattale come distrazioni, mettile gentilmente da
parte e torna con altrettanta gentilezza al respiro.
Per adesso non mi interessa che tu sia in grado di fare 5 o 50 respiri di
seguito senza distrarti, ma che tu sia in grado di sintonizzarti sulle tue
sensazioni e notare quando ti distrai. Quindi, se perdi il conto, non
preoccuparti, torna indietro e riparti da dove ti ricordi di essere arrivato, e
prima di passare al prossimo capitolo ripeti l’esercizio dei 5 respiri
consapevoli tenendo a mente il modello IOS e ricordandoti che sei bravo
non se non ti distrai ma se cogli le distrazioni. Come vedremo meglio, il
cervello invecchiando non perde la capacità di restare focalizzato ma fa
molta più fatica a notare le distrazioni: è questa parte del cervello che tende
a perdere colpi ed è proprio quella che stiamo allenando.

99
Il non sforzo nell’esercizio più difficile al mondo

I nostri contenuti mentali, si è detto, ci attirano a tal punto da farci


perdere il contatto con il momento presente; se in questo istante stai
pensando ad altro, non solo non senti il tuo corpo ma non capisci
neanche le parole che leggi. In realtà non è del tutto vero, dipende
da quanto sei distratto, cioè da quanto sei identificato con ciò che
pensi invece di ciò che senti (o leggi). Se hai fatto gli esercizi ti sarai
reso conto che portare attenzione al respiro significa portarla al
proprio corpo: nel momento in cui ti concentri sul respiro inizi a
sentire di più tutto il corpo fisico.
C’è un problema, all’inizio dell’esercizio tutti tendiamo a cercare
di sentire il respiro per escludere il pensiero: se senti intensamente
una parte del tuo corpo riesci momentaneamente a “non pensare”.
Ma lo scopo dell’esercizio non è diventare così concentrato da non
sentire altro che le sensazioni, è piuttosto connetterti con le
sensazioni che già ci sono. In altre parole, in questo momento hai
una miriade di sensazioni che arrivano dal tuo corpo, solo che non ci
presti attenzione: l’aria continua a entrare e a uscire anche se tu non
la senti. Quindi, durante l’esercizio, non devi cercare quel che non
c’è ma sentire ciò che c’è, sintonizzarti con le sensazioni che sono già
presenti “qui e ora”! Per cui se non riesci ancora a sentire il flusso
dell’aria che entra ed esce dal naso porta la tua attenzione su altri
punti del corpo dove riesci a sentirla, per esempio la pancia che si
gonfia e si sgonfia. La cosa migliore per addestrarsi è cercare di
notare cosa c’è restando su quel punto senza giudicarci e notando
tutte le distrazioni; per riuscire a farlo bene serve tempo, non
tantissimo, forse basta il tempo di leggere queste pagine.
La ricerca ha dimostrato che fare 10 o 20 respiri al giorno come
appena descritto è una manna dal cielo, in grado di aumentare la
tua memoria, la tua concentrazione e di dare più significato e sapore

100
alla tua vita. Di nuovo, non è una mia idea, non mi devi credere
“per fede”, ma è il risultato di infiniti studi che hanno cercato di
capire quale fosse il minimo sforzo necessario per trarre vantaggio
da questo stato che potremmo chiamare “presenza”: ecco, il minimo
sono 20 respiri al giorno. E a quanto pare bastano due settimane di
pratica per avere dei profondi cambiamenti a livello cerebrale,
cambiamenti positivi che ti rendono via via più presente anche nella
vita quotidiana. Questo esercizio è identico a quello che abbiamo
fatto sul “circolo dell’attenzione”, solo che qui andiamo a raffinare
la gestione del nostro mondo interiore, che in caso non fosse ancora
chiaro risulta essere la distrazione peggiore di tutte.
Il paradosso dell’esercizio è legato al fatto che tu sei connesso ai
tuoi sensi, costantemente; quindi la tua intenzione non è creare delle
sensazioni, immaginarle o cercare di sentirle dove non le senti, ma è
connetterti a ciò che è già presente. Per alcuni sarà più facile che per
altri, ma posso assicurarti che è possibile farlo e che quando ci riesci
scopri che quella sensazione è sempre stata lì ma è minata di
continuo dal quel simulatore interno che vuole fare, giudicare,
valutare, programmare, e che ti porta avanti e indietro nel tempo
invece che farti sentire il momento presente. È strano, vero, parlare
di “momento presente”? Perché nel momento in cui ne parliamo lui
se n’è già andato, ma puoi allenarti a notare il suo scorrere senza
provare ad anticiparlo, senza ricercare sensazioni del passato ma
solo sintonizzandoti su ciò che riesci a sentire qui e ora, perché le
sensazioni che cerchi sono già lì, e quando ci riesci davvero puoi
farlo “senza sforzo”.
In realtà, come hai visto, lo sforzo è necessario, consiste nel
praticare queste cose tutti i giorni, nel predisporsi a voler notare
quando perdiamo il focus per tornarci gentilmente, ancora e ancora
e ancora, ecco lo sforzo. Non dovresti invece sforzarti di sentire le
sensazioni nel presente, perché sono naturalmente “qui e ora”; se
stai davvero sentendo i tuoi piedi, le tue mani e l’aria che entra ed
esce, le stai sentendo adesso, non puoi sentire il loro “ricordo”. Ecco
perché le sensazioni sono così importanti, perché ci ancorano al
momento presente. Al contrario, i concetti e i contenuti mentali
possono sì essere elaborati e tenuti in mente qui e ora ma perlopiù
fanno riferimento a cose accadute “là e dopo”, per cui ci portano

101
rapidamente lontani dal presente.
C’è un trucco in tutto questo: in realtà, è sempre necessaria
l’intenzionalità che presuppone uno sforzo, nel caso specifico quello
di provare a spostare la tua attenzione in un modo che
probabilmente sarà nuovo per te. E se ti eserciterai a sufficienza,
scoprirai che la capacità di essere consapevole di ciò che ti capita nel
presente aumenterà a tal punto che moltissimi compiti che un tempo
ti richiedevano “sforzo” diverranno sempre meno impegnativi per
l’energia profusa e sempre più immersivi dal punto di vista
dell’esperienza.
Ricapitolando, fare l’esercizio del respiro seguendo il modello IOS
ti consente di:

1. entrare in contatto con le tue sensazioni e di conseguenza essere


ancorato al presente;
2. osservare i tuoi automatismi per notare quanto la tua attenzione
tenda a modificarli;
3. notare le distrazioni e tornare gentilmente al respiro;
4. imparare gradualmente come funziona la nostra mente (spoiler
dei prossimi capitoli).

102
Puntare il dito… verso se stessi

È davvero possibile osservare il mondo senza “giudicarlo”? Come


abbiamo visto nell’esercizio di Korzybski, quello strano dove indichi
le cose cercando di non nominarle, farlo è molto difficile, anzi,
potremmo tranquillamente dire impossibile. E allora come si
spiegano l’affermazione di Kabat-Zinn e il modello IOS che chiedono
di “non giudicare”?
Ciò che s’intende non è evitare di formulare giudizi, ma di notare
se emergono e trattarli come fossero distrazioni per tornare al
presente. Farlo non è per nulla facile, per questo all’inizio è bene
allenarsi in silenzio come se “meditassimo”; ma se tu già mediti o
hai scaricato la mia app scoprirai che meditare è molto di più, anche
se il principio di base è quello che abbiamo appena visto. È un
allenamento dell’attenzione, che consiste nel portare
intenzionalmente il tuo focus sul momento presente mettendo da
parte tutto ciò che non c’entra con la sensazione, compresi i giudizi
che sono la parte più consistente. Via via che pratichi questo
esercizio ti renderai conto che l’emergere dei giudizi ti distrae solo
se tu vi aderisci, cioè se gli vai dietro con la testa: “Mmm… questa
cosa di seguire i respiri mi sembra strana, a me non piace per niente,
non ci riesco, ma che cosa vuol dire?”. Se provi l’esercizio ti
accorgerai che sorgono immediatamente pensieri di questo tipo, che
giudicano la pratica, giudicano quello che stai leggendo e anche se
lo stai facendo bene o male, se ti procura piacere o dispiacere ecc.
Ecco, quando affiorano questi pensieri e ti accorgi di esservi
incastrato, di provare quasi piacere nel seguirli, quello è il momento
più importante, perché li riconosci per ciò che sono, “valutazioni
momentanee” che puoi mettere da parte. Non svaniscono, spesso
restano lì sullo sfondo, il tuo compito è tenere in primo piano la
sensazione del respiro mentre i contenuti mentali sorgono e

103
scompaiono, nascono e muoiono; sì, hai capito bene, se tu continui a
tornare ancora e ancora sul presente, quei pensieri si comportano
come ogni cosa al mondo, che ha un inizio e una fine. Tu puoi
imparare a osservare tutto questo, e la cosa più difficile all’inizio è
proprio notare come giudichi te stesso e il mondo.
Se vuoi conoscere una persona ponigli delle domande relative a
giudizi sul mondo, perché come tende a giudicare fuori da sé
tenderà a farlo anche dentro di sé. Ciò significa che se per caso tu sei
una di quelle persone intransigenti, che giudicano duramente i
comportamenti altrui, tenderai a fare altrettanto con te stesso. Va
detto però che questo non coincide con il fatto che tu sia una
persona “retta” perché giudichi duramente, anzi a volte è proprio il
contrario, indica semplicemente la tua tendenza a “puntare il dito”
all’esterno. Uno dei miei maestri diceva sempre: «Ricordati che
quando punti il dito verso il prossimo ce ne sono tre che puntano
verso te stesso». È un bel modo per dire “stai attento a come
giudichi gli altri”, perché spesso dentro a quel giudizio si rivela il
tuo modo di giudicare te stesso: è la famosa trave negli occhi di chi
vede pagliuzze.
Il tuo compito, in questo viaggio verso una maggiore
consapevolezza, non è cercare di capire il motivo per cui giudichi, il
perché sei duro o morbido con te stesso. Ciò che devi fare è
semplicemente notare l’emergere dei giudizi, osservarli come tali e
tornare gentilmente a fare quel che stavi facendo. Se lo fai mentre
segui il respiro è molto più facile notare questi contenuti mentali, se
invece lo fai nella quotidianità è un po’ più difficile, ma sin da ora ti
invito a provarci. Immagina di avere una sorta di timbro mentale:
quando riconosci il giudizio ripeti dentro di te “ecco il giudizio” e
poi prosegui per la tua strada. Il mio consiglio è di notarlo su di te,
non sugli altri, evita di raccontare in giro che tutti tendiamo a
giudicare e che lì dentro capirebbero meglio se stessi, perché non ci
credono e penseranno che tu sia un po’ strano. Nota il tuo modo di
giudicare, non quello degli altri, perché il loro non puoi “lasciarlo
andare” e tornare sul momento presente. Fallo mentre sei seduto e
senti il tuo respiro che entra e che esce, perché in quel momento
puoi notare quanto è difficile, quanto tendi a giudicare tutto e
quanto questo ti allontani dal momento presente.

104
Non giudicare è impossibile, perché nel momento in cui qualcosa
entra nel tuo campo attentivo viene subito messo all’interno di un
sistema di categorie mentali: è il processo di categorizzazione. Una
scorciatoia mentale che ci aiuta a muoverci agilmente nel mondo,
soprattutto in quello sociale che è di sicuro quello che ci mette più a
dura prova, come vedremo. Il sistema di categorizzazione scatta
spontaneamente, e per anni i miei colleghi hanno pensato che non
potesse esistere una cognizione senza categorizzazione; in sostanza,
non puoi pensare a un certo contenuto mentale se non hai un
contenitore già predisposto. Se non conosci l’italiano non puoi
leggere queste parole, giusto per fare un esempio immediato,
tuttavia se tu non conoscessi il senso di queste parole ciò non le
renderebbe invisibili. Cioè non spariscono, se tu non hai la categoria
mentale, semplicemente tendono a entrare dentro un’altra categoria:
“lingue che non conosco”.
Questo sistema è stato studiato con attenzione dagli psicologi
sociali, perché le categorie sono le stesse responsabili di vari errori
di interpretazione come i pregiudizi. Avere dei “pre-giudizi”
significa che abbiamo già delle categorie dove incasellare le
informazioni: tali “cassetti mentali” hanno come sempre lo scopo di
farci risparmiare energia. Così, se vedi un tizio con un aspetto poco
raccomandabile in un vicolo buio, non hai bisogno di approfondire
per capire che è bene evitarlo perché potrebbe essere una persona
pericolosa, ti bastano pochi segnali. Poi magari è solo un po’ troppo
tatuato e pieno di piercing, come la maggior parte dei ragazzi di
oggi, tuttavia saperlo non basta, perché il sistema scatta in
automatico a meno che tu non ci abbia lavorato parecchio. Diciamo
che se sei un tatuatore e sei abituato a vederne, allora non ti scalfirà
minimamente perché la tua categoria sarà diversa, in qualche modo
più ampia, conoscendo molte persone tatuate sai che non tutti sono
“criminali”.
Le categorie mentali si creano per differenze e similitudini, anche
se non ce ne rendiamo conto influenzano i nostri pensieri e
comportamenti: uno degli esempi più eclatanti è dato da quello che
viene definito “bias implicito”, un errore di ragionamento legato alla
tendenza a pre-giudicare una persona diversa da noi senza
rendercene conto. Immagina di essere chiamato a partecipare a un

105
esperimento di psicologia, ti viene detto che dovrai guardare uno
schermo e selezionare alcune parole in corrispondenza a certe
immagini. Prima di iniziare ti chiedono quanto sei tollerante verso la
diversità, se hai pregiudizi nei confronti delle persone con la pelle di
colore differente dal tuo ecc. Scelgono solo quelli (o quelle) che
dichiarano apertamente di non avere alcun pregiudizio, magari
perché sono sposati con persone di Paesi diversi o semplicemente
perché sono convinti della stupidità del razzismo. Inizia
l’esperimento: ti mostrano immagini di nomi da associare a volti; lo
scopo è notare se associ parole che riguardano “aspetti
pregiudizievoli” (furto, disprezzo, insicurezza ecc.) a persone
diverse da te. Le prove sono tante, ma il risultato finale è lo stesso,
una sconvolgente scoperta: anche se affermi di non avere pregiudizi,
il tuo sistema di categorizzazione si comporta come se li avessi.
Tende ad attribuire maggiormente parole negative a persone diverse
da te e a rallentare quando devi fare l’opposto, dimostrando una
sorta di resistenza mentale a collegare termini positivi a persone
diverse.
Questo filone di studi ha dimostrato che per quanto ci possiamo
pensare privi di pregiudizi, le cose non stanno affatto così,
purtroppo gli schemi scattano ancora perché i nostri cervelli sono
tarati per proteggerci (infatti succede anche ai nostri cugini primati).
Un recente studio ha dimostrato che se facciamo fare il nostro gioco
dei respiri alle persone prima di svolgere questi esperimenti, il bias
implicito diminuisce fin quasi a sparire. Questo esito magari non ti
sorprenderà, invece si è trattato di una scoperta eccezionale
soprattutto per chi come me studia l’attenzione e la consapevolezza.
Perché dimostra in una certa misura che cercare di connetterci al
momento presente permette realmente di mettere da parte (seppur
temporaneamente) quel sistema categoriale per consentirci di
guardarci attorno con maggiore accuratezza. È una sorta di prova
sperimentale del fatto che siamo immersi in una sorta di “Matrix”
(la caverna di Platone) che ci impedisce di vedere come è fatto il
mondo, anche se magari è un’esagerazione. Forse è più corretto dire
che gli schemi modificano il nostro modo di guardare il mondo, e
per quanto ci riguarda, per lo scopo principale di questo libro, ci
distraggono, ci portano lontani dal momento più importante per la

106
nostra attenzione: il presente.
Quando rivolgi attenzione a qualche cosa il primo contatto è
sempre sensoriale, poi emergono le categorie o schemi o mappe che
guidano la percezione. Lo scopo della nostra pratica di
consapevolezza è notare il passaggio dal contatto sensoriale alla
categoria, sfida difficile perché quest’ultima emerge
rapidissimamente. Per fortuna, per sviluppare la nostra attenzione,
non è necessario essere “iperconsapevoli”, ci basta iniziare a notare
la differenza tra quando siamo presenti e quando non lo siamo.
Evitando di chiederci troppo perché emergono certe categorie,
perché ci sono degli schemi sempre identici e così via, perché se ci
pensi il valutare è sempre un giudizio, una considerazione che ti
porta lontano dal momento presente.
Durante i nostri esercizi ti chiedo di evitare di “valutare la
valutazione”, e il modo migliore per farlo è “timbrare” mentalmente
il giudizio quando lo noti, e cercare di tornare con intenzione nel
presente, a ciò che stavi facendo. Come abbiamo visto, il metodo più
efficace è farlo mentre mediti, ma puoi tranquillamente iniziare nella
quotidianità, in qualsiasi momento, anche adesso. Posso assicurarti
che se riuscirai a lasciar andare quel giudizio, senza ricamarci sopra,
senza aggiungervi altro, e tornerai a fare ciò che facevi, questo
esercizio ti darà tantissimo sul lungo periodo, perché da solo è in
grado di svelarti un sacco di cose su di te. Proprio come osservare il
modo in cui gli altri giudicano il mondo può rivelarti molto su come
loro stessi si trattano, la stessa cosa capiterà a te se porterai questa
qualità di attenzione ai tuoi giudizi. Dico “qualità” perché non si
tratta del semplice ragionare sulle cose, anzi, è proprio il contrario,
si tratta di notare quando emergono tali ragionamenti e metterli da
parte, senza dargli corda, senza cercare di districarli. Non è facile
per nulla, perché quando parte un ragionamento il nostro cervello
vuole chiuderlo, vuole portarlo a termine: si chiama effetto
Zeigarnik e forse è utile raccontartelo per capire meglio come
funzioniamo.

ESERCIZIO

107
Prima di proseguire fermati qualche istante e torniamo a contare qualche
respiro, magari 10 o anche 20. Puoi anche non contare, mettere un timer a
3 minuti, e portare la tua attenzione al respiro come abbiamo fatto poco fa,
con la bocca chiusa cercando di percepire il flusso dell’aria che entra ed
esce. Ma questa volta presta particolare attenzione ai giudizi, immagina di
timbrarli come “giudizio” e poi torna al tuo respiro, sempre in modo
intenzionale e gentile.

Siamo agli inizi del XX secolo, quando una giovane psicologa


lituana, Bluma Zeigarnik, è al ristorante e viene rapita da un
fenomeno che ai suoi occhi appare straordinario: i camerieri
riescono a tenere a mente elenchi lunghissimi di ordinazioni senza
scriverli da nessuna parte. E cosa ancora più interessante, quando i
commensali hanno saldato il conto, i camerieri dalla memoria
prodigiosa sembrano dimenticare quasi completamente gli ordini
consegnati. Perché? Dopo aver svolto numerosi studi, Bluma
Zeigarnik scopre qualcosa che sotto sotto sappiamo tutti: il cervello
tende a chiudere i processi che inizia. Per cui se io ti dicessi: «Rosso
di sera…», il tuo cervello avrebbe la tendenza quasi compulsiva a
completare questo proverbio (se lo conosci). La nostra parte che
giudica, il “Sé narrativo”, non è cattiva, fa queste cose per motivi di
assoluto rispetto e sempre legati alla nostra sopravvivenza, tuttavia
vuole risolvere-prendere in carico-comprendere qualsiasi cosa le
passi davanti, compulsivamente, e per questo non è per nulla facile
lasciare andare il giudizio dopo che lo abbiamo notato, perché lei
vuole “chiudere il cerchio”, vuole capire “perché sto pensando
proprio questo”. L’effetto Zeigarnik viene usato da tutti i
commediografi, sceneggiatori e registi di ogni tempo quando
finiscono una certa scena lasciandoti con il fiato sospeso. Tanto che
in termini tecnici si dice proprio usare un cliffhanger (restare appesi)
per intendere quell’espediente narrativo che stimola la curiosità nel
pubblico attivando il desiderio di portare a termine il “processo”.
Tutto questo però lo comprendi a fondo solo se provi a “sporcarti
un po’ le mani” e, lo ripeto, la pratica della meditazione di
consapevolezza è la scelta migliore. Perché in quel “silenzio”
diventiamo più capaci di osservare il flusso interminabile dei nostri

108
pensieri e notiamo quanto è difficile farci caso e staccarsi da essi,
perché la sensazione è proprio quella di non portare a termine un
compito, di non ascoltare qualcosa di importante che ci viene detto,
magari dalla nostra parte più profonda. No, per imparare davvero a
utilizzare al meglio la nostra consapevolezza, dobbiamo trattare il
giudizio come se fosse una distrazione e non come una cosa
“interessante” da capire. Purtroppo non sempre è piacevole…

ESERCIZIO
Ogni volta che riesci a notare che stai “ricamando” esageratamente sulle
questioni della tua vita e torni a fare ciò che stavi facendo hai totalizzato un
“punto” molto importante. Fallo durante la quotidianità, ti basta notarlo una
o due volte al giorno per iniziare a espandere la tua capacità di restare nel
presente.

109
Il gioco delle sensazioni

Per riuscire a creare una sorta di stato di “non giudizio”, bisogna


prestare particolare attenzione a come ci fanno sentire le cose che
emergono nella nostra mente. In altre parole, se ciò che stiamo
sperimentando come distraente è piacevole o spiacevole, due
caratteristiche di base della nostra esperienza per la formazione di
ogni sorta di giudizio.
Ogni cosa spiacevole, che non ci piace, tendiamo a scacciarla e a
evitarla, ogni cosa che ci procura piacere, al contrario, tendiamo a
volerla provare più volte, attaccandoci. Proviamo così avversione e
attaccamento verso tutto ciò che ci circonda, e questo è uno dei
primi filtri del giudizio nella nostra quotidianità ma ancora di più
durante la pratica di consapevolezza. Tecnicamente si traduce nel
cercare di evitare i pensieri negativi, che possono sorgere mentre
cerchi di restare nel presente, scacciandoli via con forza e senza
gentilezza. Questo crea una sorta di effetto boomerang, così quel
pensiero negativo permane invece che transitare, come ogni
contenuto mentale nella tua esperienza. Al contrario, quando
soggiunge un pensiero piacevole, un bel ricordo o una valutazione
positiva su qualcosa che stiamo provando, pensiamo subito: “Oh,
che bello, questa è la sensazione corretta, è la sensazione giusta che
dovrei provare ogni volta che cerco di restare nel presente”. Il
cercare di riprodurre o scovare quella sensazione positiva ti porta al
contrario a essere assente, a costruire aspettative su come dovresti
sentirti quando sei davvero presente e attento.
Come avrai capito, attaccarti alle sensazioni positive che provi o
cercare di scacciare quelle negative è il primo passo per far sì che
proliferi il pensiero al posto della presenza, per entrare nel “Sé
narrativo” invece che in quello “esperienziale”. Allora che cosa
bisogna fare? Come per il giudizio, il primo passo è sempre quello

110
della consapevolezza: bisogna osservare ciò in cui si è incastrati o
che si cerca di evitare. Ricordi il ciclo dell’attenzione? Il primo passo
(dopo i due classici che conosciamo tutti) è proprio la
metacognizione, la capacità di accorgerti di esserti perso, ed è la
parte più importante, perché senza di essa non puoi tornare
gentilmente con intenzione. Al contrario, sarà il tornare meccanico
di sempre, che nella maggior parte dei casi va benissimo, ma se vuoi
allenare davvero la tua attenzione e in generale diventare più
consapevole, è bene invece iniziare a notare. Questo è il passo più
importante, “notare” e successivamente tornare con intenzione e
gentilezza, sempre senza seguire il flusso dei pensieri, senza
chiederci perché è sorta quell’idea, quel pensiero, quella sensazione.
Molti miei studenti, quando iniziano un percorso come “Clarity”
(l’app di cui ti ho parlato, utile a espandere la consapevolezza), sono
sorpresi di tutta questa descrizione nel non cercare di seguire il
pensiero, fino a quando non ci provano. Alcuni, perplessi, chiedono:
«Scusi, mi hanno sempre detto che avere un giudizio è importante,
saper distinguere tra il bene e il male, e se mi viene in mente
qualcosa di bello, perché non dovrei seguirlo?». La risposta non è
facile. La più semplice è che la mente tende di continuo a giudicare,
fa sempre “differenze” tra bene e male, bello e brutto e così via. Un
altro aspetto da considerare è che questa è una “palestra per
l’attenzione”, non devi certo stare tutto il giorno a pensare se
giudichi o meno, fallo in questo “spazio protetto”, dove puoi
esercitarti e sperimentare. Il modo migliore per farlo è chiudere gli
occhi portando tutta l’attenzione al momento presente e in
particolare ai nostri sensi.
L’ho già chiarito, non devi diventare un “praticante” di
meditazione, ma è necessario farne un pochino per toccare con
mano i concetti di cui stiamo parlando, perché finché restano solo
“concetti” (mappe, schemi ecc.) fanno fatica a essere appresi
realmente.
Ora, se non hai mai praticato la meditazione, ti anticipo che cosa
potrebbe accadere facendola senza un’esperienza di base: provi a
notare come giudichi il mondo, suddividendolo in contenuti mentali
positivi e negativi, e ci riesci “solo dopo”. Non riesci cioè a beccarti
esattamente nell’attimo in cui ti distrai, quando ti attacchi al

111
pensiero bello o scappi da quello brutto, magari ti succede dopo
qualche istante, dopo che tutto è passato. Evita di preoccuparti, è
normale, e tieni a mente che già il fatto di notarlo, anche se dopo, è
un grande traguardo; se ti dedicherai attivamente a notare questo
genere di giudizi prima o poi lo osserverai anche nella tua
quotidianità, ma non è questo lo scopo. L’obiettivo è sempre quello
di rendere la tua mente più forte, in grado di notare dove s’incastra
per lasciare andare, e tutto questo ha risvolti positivi sull’attenzione
e in generale sulla tua consapevolezza.
Un’altra importante motivazione per notare come metti in atto il
gioco delle sensazioni è legata a una delle tentazioni più nocive per
il nostro equilibrio psicologico: la tendenza a scappare, a evitare
tutto ciò che non ci piace e non ci fa stare bene. Non intendo evitare
fisicamente qualcosa che non ami, ma evitarlo mentalmente. Non so,
da qualche tempo stai immaginando di prendere a pugni il tuo
vicino e pensi che sia sbagliato, che non sia giusto pensare cose del
genere, e anzi temi che se ci pensi troppo prima o poi lo prenderai a
pugni per davvero. La verità è che il nostro cervello non funziona in
questo modo, al contrario: essendo una macchina che fa previsioni,
ciò che vedi con l’occhio della mente è solo una delle tante
previsioni che ti costruisci. Se la nascondi, se cerchi di non pensarci
perché temi di agire, in realtà stai preparando il terreno a farlo
davvero, perché ciò a cui non presti consapevolezza tende a farti
agire automaticamente. Lo so, sembra incredibile ma le cose stanno
esattamente così, e tra poco cercherò di dimostrarti perché tendiamo
ad avere una paura del genere, qui ti anticipo che è frutto della
società moderna e di come interpretiamo il nostro mondo interiore,
non solo dei meccanismi di sopravvivenza che abbiamo visto sin
qui.
Possiamo dire lo stesso per la tendenza opposta, quella a voler
provare solo sensazioni positive, piacevoli; questo in realtà non ci fa
mai trovare pace, perché ci abituiamo molto in fretta alla quantità di
piacere che proviamo creando una sorta di assuefazione. Alcuni
miei colleghi leggono questo fenomeno come una sorta di “ruota del
criceto”, dove per quanto tu possa correre alla ricerca della
sensazione piacevole, il tuo grado di “soddisfazione” ti costringerà a
correre sempre più forte, e a creare aspettative sempre più grandi

112
che… ti allontanano dal momento più importante, il qui e ora!

ESERCIZIO
Prova a osservare quante volte ti perdi dentro pensieri piacevoli e
spiacevoli, nota se tendi a fantasticare sulle vacanze da organizzare o a
evitare il pensiero del prossimo evento negativo. Mi raccomando, cerca di
non “giudicare il giudizio”: se scopri di attaccarti ai pensieri positivi e di
evitare quelli negativi, sei semplicemente un essere umano come tutti. Ma
se di tanto in tanto riesci a mettere da parte la fantasia piacevole per
tornare a ciò che stavi facendo, o a soffermarti qualche istante in più sul
pensiero spiacevole, sappi che stai già facendo un superesercizio di
addestramento dell’attenzione.

113
Tu sei più dei tuoi pensieri

Se potessimo prendere un pezzo di carta o un macchinario


fantascientifico in grado di leggere e trascrivere ogni nostro
pensiero, come lo immagineremmo? Sarebbero pensieri ordinati o
disordinati? Se non sei abbastanza consapevole del tuo mondo
interiore probabilmente risponderai “pensieri ordinati”, ma le cose
non stanno proprio così. Facci caso: stai leggendo questa pagina
quando d’un tratto ti ritrovi a pensare a che cosa mangerai per cena,
a come appari agli occhi di chi ti sta guardando leggere o a come si
chiamava quel tuo compagno di classe delle superiori. D’accordo,
magari non ti ho letto nel pensiero ma se hai provato a fare il nostro
esercizio del respiro e hai iniziato ad aumentare la tua
consapevolezza di certo ti sarai accorto che in quel momento pensi a
tutto e al contrario di tutto, e sai perché?
Perché il pensiero è come un computer che continua a creare
ipotesi sul mondo, a volte lo fa in modo lineare ma perlopiù lo fa in
modo ridondante e apparentemente casuale. Ci piace credere che il
pensiero, quella vocina che dentro di te continua a costruire scenari,
a programmare, si comporti in modo “razionale” e ben conoscibile,
ma in realtà gli studiosi di psicologia hanno provato che non è così,
al punto da vincere dei premi Nobel per aver dimostrato che il
nostro modo di ragionare non è affatto razionale (vedi i testi di
Daniel Kahneman). L’analogia più bella sul nostro modo di
ragionare è quella che riprende la differenza tra il comportamento di
una mosca o di un’ape quando entrano in una bottiglia: se prendi
una bottiglia vuota e ci fai entrare un’ape, una volta esplorato
l’interno l’insetto uscirà senza alcun problema volando verso l’alto.
Al contrario, se ci entra una mosca, anch’essa esplorerà ma poi farà
molta più fatica a uscirne, perché tenderà a sbattere a destra e a
sinistra in modo apparentemente casuale. Se rovesciamo la bottiglia,

114
però, tutto cambia: l’ape, avendo un programma fisso e prestabilito,
tenderà ad andare verso l’alto restando imprigionata; al contrario, la
nostra mosca, a furia di sbattere a destra e a sinistra prima o poi
riuscirà a uscire.
Ora, ti sembrerà assurdo, ma il nostro pensiero è più simile al
movimento della mosca, cioè un movimento rapidissimo e casuale
che cerca di trovare soluzioni in continuazione e senza sosta. Mi
scuso con gli entomologi per l’incredibile semplificazione – e forse
per gli errori – ma è solo una metafora che mi serve per mostrare
come funziona il nostro mondo interiore. Perché in fondo saper
sfruttare al massimo la nostra attenzione significa saper gestire
questo caos apparente.
La nostra società razionale ci ha fatto credere che ogni pensiero
che abbiamo sia pericoloso. Forse tutto ha avuto inizio con la
religione, per cui a un certo punto “non puoi pensare una certa cosa
perché è peccato”, e quindi i pensieri sono trattati al pari delle
azioni. “Non pensare male perché poi agirai male”: sì, è chiaro che
se pensi male del mondo è possibile che otterrai ciò che pensi – la
nota “profezia che si autoavvera” – ma non sempre le cose stanno
così. Ti faccio un esempio: un giorno il tuo capo ti dice qualcosa di
davvero offensivo e tu passi la giornata a pensare di prenderlo a
schiaffi. Lo fai? Oppure passa davanti a te una bellissima donna o
un bellissimo uomo e il tuo pensiero parte costruendo scenari di
ogni genere con quella persona. Questo ti spinge compulsivamente
a saltargli addosso? Spero di no!
Se dovessi seguire ogni tuo pensiero non staresti fermo un attimo,
e ci sono persone che lo sanno bene, che sono talmente vittime delle
loro elucubrazioni che finiscono negli studi dei miei colleghi. E vuoi
sapere una cosa interessante? La maggior parte di questi problemi
sono legati proprio al tentativo di controllare quel pensiero, di
gestire con la “volontà” la programmazione incessante delle nostre
mappe, il continuo simulare la realtà. Il pensiero diventa ordinato
solo quando tu gli dai una forma attraverso le parole, l’azione, la
scrittura, la comunicazione, la creazione di progetti o la tua
metacognizione, la capacità di renderti conto che stai pensando a
qualcosa di specifico. Ma fino a quando “transita” nella tua testa il
pensiero è solo un’indicazione sul mondo e non la rappresentazione

115
di pulsioni inconsce che, se non agite, ti faranno impazzire, perché
se la vedi in questo modo è chiaro che inizierai a temere di pensare
certe cose, di guardarne altre e così all’infinito.
Questo continuo controllo, unito all’evitamento del pensiero, può
creare dei veri problemi. La soluzione è iniziare fin da ora a vedere
il tuo pensiero come un computer che costruisce ipotesi al tuo
servizio: non sei tu al servizio del tuo pensiero, è esattamente il
contrario. Lui è abile nel farti credere di essere il padrone, ma in
realtà tu sei molto di più di quei singoli pensieri, sei lo sfondo
indefinito dove nascono e muoiono quelle mappe, e attraverso gli
esercizi che stai scoprendo in questo libro potrai imparare a
scegliere i contenuti più appropriati e lasciare andare quelli
inappropriati, potrai osservarti generare il pensiero e questo ti darà
maggiore libertà d’azione e flessibilità mentale.
L’addestramento dell’attenzione che hai intrapreso fin qui è
essenzialmente “non concettuale”, perché i “concetti” sono le mappe
che tendono ad allontanarci dal presente: ci riusciamo portando
attenzione consapevole ai nostri sensi, a ciò che vediamo, ascoltiamo
e percepiamo qui e ora. Questo significa che i pensieri e i concetti
sono inutili o non ci influenzano? Assolutamente no, ed è chiaro che
se ti ripeti tutto il giorno che sei stupido questo può influenzarti
negativamente, ma la soluzione non è ripeterti che sei
intelligentissimo, piuttosto iniziare a considerare le parole che ti dici
per ciò che sono: semplicemente parole, ipotesi sul mondo che forse
neanche ti appartengono perché ti sono state messe in testa da
qualcun altro. Aumentare il nostro grado di consapevolezza
attraverso un’attenzione aperta e non giudicante, rivolta ai nostri
sensi, ci rende via via sempre più abili nella gestione dei nostri stati
interiori. Ti prego però di non credermi sulla parola, sperimenta
sulla tua pelle!

ESERCIZIO
Nota quante volte durante la giornata ti passano davanti agli occhi ipotesi
mentali che poi non metti in pratica. Più è piccolo quello che noti e più
bravo sei! È facile, infatti, notare quando un tizio ci fa arrabbiare e noi

116
immaginiamo di conciarlo per le feste (almeno per me lo è), oppure vedere
un bell’esemplare di maschio o femmina e perdersi in fantasie. È più
complicato farlo con eventi meno rilevanti; se per caso hai già iniziato a
seguire “Clarity” sicuramente ti sarai accorto di quante cose “abbozziamo”.

117
Guardarsi dentro senza diventare ciechi

Lo psicologo e filosofo Paul Watzlawick ha coniato una frase


illuminante per il mondo della psicologia: “Guardarsi dentro rende
ciechi”. Che cosa significa? Proprio ciò che abbiamo detto sinora: se
ti guardi dentro alla ricerca di certezze con troppa insistenza rischi
di esserne catturato e di non vedere più il mondo esterno. Se cerchi
di dare risposta a domande per le quali non esiste una risposta
esatta – “Mi divertirò sicuramente questa sera?” –, se provi a
controllare il tuo mondo interiore come se fosse un oggetto fisico,
rischi di sabotarlo. A questo proposito Giorgio Nardone, psicologo e
psicoterapeuta, fondatore con Watzlawick del CTS , Centro di terapia
strategica di Arezzo, racconta una bella storiella ai suoi pazienti per
fargli entrare in testa il concetto, la metafora del millepiedi e della
farfalla, che ti ripropongo.
Un giorno una farfalla era rimasta totalmente affascinata da un
millepiedi, in particolare non riusciva a capire come potesse
muovere tutti quei piedini senza inciampare, senza sbagliare ma con
una coordinazione invidiabile. Al che, incuriosita, chiese: «Che bello
vederti camminare con tutti quei piedi, ma come fai?». Il millepiedi
ci pensò e si bloccò! In questa storia c’è pressoché tutto quello che
abbiamo visto dell’interferenza tra comportamenti automatici e
controllati: se cerchiamo di controllare gli automatismi rischiamo di
bloccarli o deviarli. Ora forse sarai un po’ confuso, anzi spero che tu
lo sia, perché poco fa ti ho chiesto di osservare il tuo respiro e notare
tutto ciò che emergeva: quello non era forse guardarsi dentro? Sì, è
guardare dentro cercando di non controllare i contenuti che
compaiono, nello stesso modo con cui osservi il tuo respiro che entra
e che esce, quindi senza cercare di forzarlo, senza cercare di
respirare in un certo modo e notando qualsiasi pensiero, astrazione,
emozione, giudizio venga fuori.

118
In altre parole, la presenza di cui ci stiamo occupando ti consente
di guardarti dentro senza diventare cieco, cioè senza inseguire il tuo
mondo concettuale ma cercando costantemente di osservarlo senza
interferire o interferendo il meno possibile. Non è facile per nulla,
infatti le parole di Watzlawick non fanno riferimento al nostro modo
comune di pensare ma a quello di una persona sofferente, che cerca
di capire, controllare, comprendere il proprio mondo interiore. Ed è
ormai assodato che quanto più soffriamo in una data situazione
tanto più tendiamo a perderci dietro i nostri pensieri, a farli
proliferare sino a trasformarli, nei casi peggiori, in ruminazione.
Perché? Perché quella tua parte interna – il GPS , l’ego, il “Sé
narrativo”, chiamala come vuoi – è nata per risolvere i problemi,
non quelli che hai dentro ma quelli che si presentano all’esterno. Se
c’è un problema tecnico nella tua azienda, lei ti aiuta, se non ti piace
dove hai messo quella lampada in casa, è inutile pensarci, la prendi
e la sposti. Ma se hai un pensiero spiacevole, non puoi prenderlo e
spostarlo; sì, puoi notarlo e metterlo da parte, ma ciò non implica
che non si presenterà più. Non significa cercare di capire perché
stiamo pensando a quello, come se una volta ricevuta la risposta
smettessimo di produrre quel genere di contenuti, ma affidarsi a
una parte di noi che è più grande: non sono i contenuti ma è il
contenitore dei contenuti.
Lo so, se è la prima volta che senti parlare di queste cose, forse ti
starà girando un po’ la testa; è normale, perché la nostra cultura si
fonda sulle storie e sulle narrazioni, e per quanto riguarda la
psicologia, per anni abbiamo visto questi processi come se fossero
dei racconti, al punto che nel campo della crescita personale l’idea
della mappa e del territorio è stata malintesa: “Visto che non
possiamo davvero conoscere il territorio tanto vale modificare le
mappe”, come a dire che se ti racconti abbastanza a lungo una
bugia, prima o poi ci credi (fake it ’til you make it, dicono gli
anglosassoni). Invece i nostri esercizi fanno il contrario, ci fanno
rendere conto che ciò che ci passa per la mente non è altro che un
insieme di ipotesi e valutazioni, che possono influenzarci anche
pesantemente, ma quando riusciamo a osservarle con
consapevolezza rivelano la loro natura: sono ipotesi transitorie sul
mondo. Non è necessario addolcirle con immagini meravigliose di

119
te “sempre attento”, visualizzando te stesso come un essere perfetto,
come potresti aver sentito dire da qualche parte. La nostra
attenzione è preziosa e merita quella qualità di consapevolezza in
grado di notare quando tendiamo a identificarci troppo con
contenuti mentali che, invece di chiarirci le idee, ci impediscono di
vivere pienamente l’esperienza nel qui e ora, l’unica veramente
importante. Una volta affinata la nostra consapevolezza possiamo
poi dedicarci a cose più pirotecniche, come il visualizzarsi forti e
belli.
Come abbiamo visto all’inizio, la nostra mente odia l’ambiguità,
avere una mappa sicura di ciò che potrebbe accadere la fa stare
tranquilla e le dà “sicurezza”, per questo cerca di continuo di
trovare un senso a ciò che la circonda, anche quando questo senso
non c’è. Noi ci comportiamo proprio come se fossimo degli
scienziati: osserviamo il mondo, costruiamo delle ipotesi sul mondo
e le sperimentiamo; non appena una nostra ipotesi funziona la
diamo per assodata e diventa una convinzione (un insieme di
mappe). Tutto questo non è un male, anzi, è il metodo migliore che
la natura abbia scovato per farci vivere serenamente in un mondo
che in realtà non possiamo capire al cento per cento, ci offre
sicurezza e stabilità. Dato che non amiamo le ambiguità tendiamo a
riempire il mondo di mappe, ma spero sia ormai chiaro che
imparare a dominare un tale “bisogno” di prevedere il mondo,
allenandoci a gestire i nostri contenuti interiori, è il migliore
addestramento a una vera flessibilità cognitiva. Vale a dire la
capacità di adattare il pensiero alle cose che cambiano senza restare
impigliati nelle ipotesi di partenza, imparando così ad aggiornare il
GPS senza affezionarsi a nessuna mappa.

ESERCIZIO
Prova a fare questo esperimento: esci sul terrazzo, o ancora meglio vai a
fare una breve passeggiata nel verde (camminare nella natura aumenta le
facoltà cerebrali) e fermati a sentire la sensazione del vento sulla pelle. Stai
fermo per qualche istante, se non riesci a percepire il vento prova a sentire
la temperatura dell’ambiente cercando di identificare una piccola parte del

120
corpo dove la senti meglio. Come sempre, nota quando un contenuto
interiore ti porta lontano al punto da farti diventare “cieco” alla sensazione
del vento che soffia. Mi raccomando, non spaventarti se per il 90 per cento
del tempo sei perso nei pensieri… Per il momento, è normale!

121
Concettuale o non concettuale, questo è il problema

Se vuoi imparare una materia scolastica o un insieme di nozioni


dovrai fare affidamento su un apprendimento di tipo concettuale, se
invece vuoi imparare a nuotare, andare in bicicletta, giocolare con
delle palline, allora dovrai affidarti a un apprendimento del tutto
diverso, lo potremmo definire “non concettuale”.
L’attenzione è qualcosa del genere; spero sia evidente per tutti
che se voglio imparare a suonare uno strumento devo avere una
base “concettuale”; anche adesso le istruzioni che ti sto dando sono
concettuali ma in realtà servono per portarti in un mondo “non
concettuale”, che conosci bene perché ne fai esperienza quotidiana
ma di cui non ti accorgi perché sei molto più abituato a gestire le
informazioni e i concetti. L’addestramento dell’attenzione non è
concettuale, è fondamentale che tu te ne renda conto. Se per esempio
devi imparare a fare una cosa specifica è ovvio che devi conoscerla e
che può esserti utile conoscere tutto un insieme di informazioni. Ma
di per sé ciò non cambia la portata della tua attenzione, della tua
consapevolezza, che invece si basa su un modo di conoscere
ancestrale, una modalità che potremmo dire “di prima mano” che
nel tempo sostituiamo con l’esperienza assodata (le mappe).
Di nuovo, non è un male, perché se un meccanico dovesse ogni
volta reimparare come si smonta un motore sarebbero guai, è bene
che abbia una conoscenza concettuale di quei meccanismi per poter
agire senza doverci pensare ogni volta. Ma se quello stesso
professionista vuole aumentare la propria concentrazione sul lavoro
mentre opera sui motori, non conta quanto si affidi alle proprie
conoscenze ma quanto riesce a osservare il momento presente. È
chiaro che deve sapere da che parte cominciare, quali sono i
componenti del motore, insomma deve avere un “database” di
concetti: se non sa concettualmente come è fatto un certo

122
componente non potrà riporvi attenzione. In ogni caso questo non è
un libro sull’aggiornamento professionale e tutti ci auguriamo che i
nostri meccanici sappiano dove mettere le mani. Sappiamo anche,
però, che se non sono “focalizzati” possono essere teoricamente i
più preparati del mondo ma questo non li aiuterà a stare più attenti.
Come spero di averti già spiegato, l’unico vero modo per farlo è
mettere momentaneamente da parte le mappe e le conoscenze per
poter guardare con i propri occhi.
Le conoscenze e le tecniche che stai apprendendo qui sono solo
impalcature concettuali che non ti servono a niente se non provi gli
esercizi e se non ti metti in gioco. Io stesso, quando ho incontrato
per la prima volta la mindfulness, non credevo fosse possibile uscire
dai propri schemi, pensavo fosse una sorta di illusione ipnotica
dovuta al restare concentrati su un punto a lungo o l’effetto di una
distrazione. Poi, sperimentando (come vedrai nella parte finale del
libro), giorno dopo giorno, mi sono dovuto ricredere e ho osservato
come e quanto in realtà noi siamo sempre nel “non concettuale”, che
viene riempito dai contenuti che si presentano nella nostra
coscienza. È come se pensando a che cosa mangerai domani,
mettessi questo contenuto su un tavolo e non riuscissi più a vedere il
resto della stanza, come se fossi completamente catturato dal
programma “che cosa mangerò domani”. In uno stato di
consapevolezza aperta, non giudicante, gentile e sensoriale,
riusciamo a vedere la scrivania e qualche volta a renderci conto che
ciò che c’è sul tavolo non è poi così importante per i nostri obiettivi
personali.
Qual è il modo migliore per riconoscere i concetti? È quello di
rivolgerci attivamente alla parte “opposta” del nostro cervello, che
invece di elaborare le informazioni virtuali si occupa di elaborare le
informazioni sensoriali. Se sei una persona che tende a pensare
troppo e ne sei consapevole, la prossima volta prova a spostare con
gentilezza la tua attenzione su una parte del tuo corpo, una che senti
bene magari, come i piedi, le mani o la bocca. Se lo fai con gentilezza
potresti notare un’immediata presa di consapevolezza e una minore
morsa da parte dei pensieri; stai attento, però, perché farlo troppo
significa farsi trascinare dal “gioco delle sensazioni”. In sostanza, se
riesci a sentire il tuo corpo questo toglierà un po’ di forza all’aspetto

123
concettuale permettendoti di osservare meglio ciò che ti circonda; se
invece lo usi come tecnica di distrazione da quei pensieri, perché per
qualche istante non ci pensi, allora stai evitando il tuo mondo
interiore. Ecco perché ci tengo che tu faccia un po’ di esercizio
seduto, che non solo ti fa toccare con mano ciò che stai leggendo ma
ti aiuta a comprendere bene la differenza tra “distrarti” e
“disidentificarti” da quei contenuti.
Prima di proseguire lascia che faccia un po’ di chiarezza su due
termini difficili anche da scrivere e pronunciare: identificazione e
disidentificazione. Tecnicamente, quando un pensiero ti cattura al
punto da farti allontanare dal momento presente, diciamo che ti sei
identificato con esso. Pensaci, è proprio ciò che accade, non è una
semplice distrazione ma è come entrare in un mondo
completamente diverso da quello che ti circonda. Non succede
sempre, ma se provi i nostri esercizi lo sperimenterai più e più volte,
perché al pensiero non piace restare con le mani in mano. E per
risolvere i nostri problemi interiori ed esteriori deve come “entrare”
in quella stanza, e il modo migliore per farlo è l’identificazione con i
nostri concetti. Viceversa, quando riesci a notare quei pensieri per
ciò che sono, delle distrazioni rispetto a ciò che stai facendo e al
momento presente, ti stai disidentificando da essi. Tutti tendiamo a
identificarci con i nostri pensieri, ma non solo, anche con le persone
e le cose che ci circondano; per esempio, quando leggi un libro e
dopo ti senti un po’ come se lo avessi scritto tu o come se quelle
parole parlassero proprio di te. È un fenomeno che accade ogni volta
che dobbiamo capire qualcosa di esterno, al punto che quando
vediamo una persona soffrire, in parte soffriamo anche noi.
Ora l’obiezione più comune a quanto detto finora è: «Ma scusa, se
io sono completamente identificato con ciò che sto facendo non sono
al massimo della mia concentrazione?». Sì, certo, ma questo libro
tratta di “attenzione e consapevolezza” non di concentrazione. Ecco,
ora ti vedo con la testa che gira, ma è molto più semplice di quanto
non appaia: se sei tutto concentrato su qualcosa non sei presente ma
sei immerso in quel qualcosa. Non è un male, se ti è utile per portare
avanti i tuoi compiti, infatti, come continuo a dirti, non devi essere
sempre “presente” ma imparare a sviluppare la metacognizione che
ti permette di notare quando non sei presente. Più avanti

124
approfondiremo meglio questo concetto con lo “stato di flow o
flusso”, un tema tanto noto quanto poco compreso. Prima lascia che
ti mostri in modo molto chiaro il superpotere che stai sviluppando
attraverso una straordinaria ricerca e alcune storie legate a dei
grandi maestri di arti marziali.

125
La strana palla e la concentrazione di un samurai

Hai mai visto uno di quei film di arti marziali dove il protagonista è
talmente focalizzato sul proprio avversario da vedere quasi la scena
al rallentatore? Proprio in stile Matrix, dove Neo, il protagonista, a
un certo punto inizia a vedere tutti che si muovono al ralenti mentre
lui è chiaramente in grado di muoversi in modo ultraveloce. Ora,
uscendo dal mondo del cinema, quella sorta di attenzione che
rallenta il tempo esiste davvero! Sì, e la cosa straordinaria è che con
molta probabilità te ne sei accorto tu stesso in svariate occasioni,
solo che forse non lo sai, come quando hai dovuto prendere un
treno.
Quando è stata l’ultima volta che ne hai preso uno? Io sono
cresciuto accanto a una ferrovia, dal terrazzo della cucina dei miei
genitori vedevo passare ogni giorno decine di treni a meno di 10
metri di distanza in linea d’aria. In pratica da bambino trascorrevo il
tempo a guardare i treni, alcuni veloci e altri più lenti, ma già da
piccolo avevo notato un fenomeno strano: se concentravo a
sufficienza la mia attenzione con l’intento di leggere le scritte sui
vagoni, il treno sembrava rallentare per qualche istante. Come tutti i
bambini pensavo di avere un superpotere, ma in realtà anche i miei
amici avevano la stessa impressione, poi sono cresciuto e ho
completamente dimenticato quel modo strano che avevo di fissare i
treni. Fino a qualche anno fa, quando mi sono imbattuto in uno
studio interessante che lega la consapevolezza alla velocità percepita
degli oggetti, una ricerca che sembra confermare ciò che le
rappresentazioni dei combattenti di arti marziali raccontano da
secoli sotto forma di mitologia: che se siamo davvero tanto presenti
tendiamo a percepire il tempo come dilatato, più lento del normale.
Prima di parlarti di questo studio vorrei che tu pensassi all’ultima
volta che hai guardato un treno in corsa; se per caso hai cercato di

126
soffermarti su qualche dettaglio, tipo una scritta o il volto di una
persona, hai probabilmente provato quel rallentamento del tempo.
Non solo, se guidando l’auto ti è capitato di incrociare lo sguardo di
un altro conducente che procedeva nella direzione opposta alla tua,
ecco, anche in quel caso hai fatto una cosa del genere. Pensaci, due
auto che sfrecciano a velocità uguali e in direzione contraria,
mettiamo anche solo a 50 chilometri orari, quando si incontrano la
loro velocità totale è di 100 chilometri orari, e a quella velocità
vertiginosa riusciamo a guardare una persona negli occhi e a capire
che anche noi siamo stati visti. Lo so, sembra banale ma è lo stesso
fenomeno, ed è importantissimo; in particolare, il nostro sguardo è
specializzato nei volti perché per millenni abbiamo avuto a che fare
con “facce”, e chi riusciva a individuarle più velocemente, magari
quando erano nascoste tra i boschi, aveva salva la vita. Non c’entra
con il nostro discorso, ma è la ragione per cui tendiamo a vedere
volti in mezzo a figure ambigue, perché il nostro cervello si è
specializzato nel loro riconoscimento.
Ora torniamo alla nostra attenzione che ci fa diventare come dei
ninja in grado di fermare il tempo. Lo studio è nuovamente di Peter
Tse e suoi collaboratori (lo stesso dei tre cerchi dove hai “incontrato”
per la prima volta la tua attenzione) e anch’esso include l’utilizzo di
forme geometriche. Queste forme appaiono su uno schermo, a volte
lampeggiando altre volte transitando; sono tutte figure molto
semplici, il compito dei soggetti è quello di valutare per quanto
tempo permangono sullo schermo. Quindi, se tu fossi un soggetto
dell’esperimento, ti troveresti davanti uno schermo sul quale
appaiono e scompaiono diverse figure geometriche, tra le quali una
molto particolare inserita dagli sperimentatori e chiamata “la strana
palla”. Al termine di ogni sessione ti viene chiesto di valutare
quanto tempo sono rimaste sullo schermo alcune figure; come è
facile immaginare, la strana palla viene valutata come quella che
permane maggiormente sullo schermo. In realtà non è così, la sua
permanenza è la stessa di molte altre figure, solo che le sue qualità
attirano l’attenzione e la percezione del tempo si dilata.
Si tratta di un fenomeno molto singolare, perché non è legato alla
piacevolezza o alla spiacevolezza dell’evento soggettivamente
percepito: in generale le cose che ci piacciono sembrano durare

127
meno mentre quelle che odiamo sembrano durare un’eternità.
Questo è un fenomeno diverso, legato alla quantità di attenzione che
dai al momento presente, al di là della valutazione di piacevolezza o
meno (il gioco delle sensazioni), al di là dei concetti: quando sei nel
“qui e ora” il tempo rallenta. Se hai provato a fare l’esercizio dei
respiri scommetto che quei pochi minuti ti sono sembrati
un’eternità; questo non è successo soltanto perché per alcuni è molto
“noioso” ma perché portare attenzione al presente significa farlo
“momento per momento”, e ogni volta che riesci a notare il flusso
dell’aria che entra ed esce quella sensazione di pochi istanti si dilata.
Quindi l’immagine del samurai seduto in meditazione o del
combattente che si prepara allo scontro meditando non è poi così
una leggenda; forse non riuscirai a fermare il tempo come Neo in
Matrix ma se inizierai a svolgere questi esercizi diverrai
gradualmente sempre più capace di gestire la tua attenzione.

ESERCIZIO
Cerca un treno o delle auto in transito e prova, restando fermo in un punto,
a focalizzare la tua attenzione su un piccolo dettaglio, tipo una scritta. Ciò
che desidero è che tu possa fare esperienza diretta della dilatazione del
tempo legata alla tua attenzione: più focus metterai in questo esercizio e
più la percezione del tempo che si modifica sarà significativa. Fallo con
apertura, semplicemente nota che quando ti focalizzi le cose durano di
più… tutte le cose! Quindi se vuoi massimizzare un momento piacevole, ti
basta prestarci maggiore attenzione.

128
Il sesto senso

Tutto dunque passa attraverso i nostri sensi, e l’addestramento di


cui stiamo parlando non è affatto una novità; il padre della
psicologia americana, Williams James, scriveva nel testo del 1890,
Principi di psicologia: “La facoltà di riportare costantemente indietro
l’attenzione vagante è la vera radice della saggezza, del carattere,
della volontà … Un’educazione che favorisse lo sviluppo di questa
facoltà sarebbe l’educazione per eccellenza … ma è più facile
definire questo ideale che fornire delle istruzioni pratiche per
crearla”.
William James aveva capito l’importanza cruciale di saper gestire
l’attenzione tessendone le lodi e spingendosi oltre, quando
affermava che l’attenzione sarebbe “l’educazione per eccellenza”; al
tempo stesso, però, aggiungeva che “è più facile da definire l’ideale”
che non riuscire a dare istruzioni pratiche per raggiungere tale
obiettivo. Ciò che forse trascurava James era che all’interno di varie
forme di meditazione si praticava, da millenni, proprio quanto
descritto da lui: sviluppare la capacità di notare l’attenzione vagante
per riportarla, in modo gentile, sul momento presente.
Probabilmente all’epoca di James non si considerava il confronto
con le religioni e i diversi sistemi di pensiero che proponevano
qualcosa di simile.
Chi si è occupato di sviluppare tali abilità ha capito che il
laboratorio più importante per farlo è il corpo, e il contatto costante
che questo ha con il mondo. Prima abbiamo visto che l’attenzione è
“conoscibile” solo se partiamo dal considerare i nostri sensi come la
parte centrale del processo: non ciò che pensiamo del mondo ma
come vi entriamo in contatto attraverso i nostri sensi. “Niente è
nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi” diceva Aristotele,
tutto passa da qui: vista, udito, olfatto, gusto e tatto; se chiediamo

129
alle persone che cosa s’intenda per “attenzione” (o stare attenti) la
maggior parte si riferirà ad aspetti visivi, non è un caso che gran
parte del funzionamento del cervello sia deputato alla visione.
Tuttavia non è il senso più esteso del corpo, che è piuttosto il tatto o
meglio la propriocezione, la capacità di percepire il proprio corpo
nello spazio. È attraverso la pelle che crei il primo contatto con il
mondo e continui a farlo, senza rendertene conto. In questo
momento, se stai leggendo seduto, probabilmente non sei
consapevole della miriade di informazioni tattili che arrivano dal
tuo corpo: la sensazione della sedia, la temperatura della stanza, il
calore degli abiti che indossi, la sensazione del libro che hai tra le
mani e tanto altro. Sembrano tutte informazioni secondarie, ma se in
realtà perdessi per qualche istante l’equilibrio il tuo corpo lo
ristabilirebbe in men che non si dica. E lo farebbe a partire dalla
enorme quantità di “sensazioni” che stai provando in questo
momento.
Come abbiamo visto, quando portiamo intenzionalmente la
nostra attenzione sui sensi depotenziamo la rete concettuale
consentendoci di essere maggiormente attenti. Ciò che non aveva
ipotizzato James è proprio questo, che quella “attenzione vagante”
non capita solo quando un oggetto esterno cattura la nostra
attenzione ma con molta più facilità avviene quando ci lasciamo
trascinare dai nostri pensieri. È in quel momento che perdiamo
contatto con il mondo, si disattivano le zone del cervello legate alla
percezione sensoriale del corpo e si attivano alcune reti neurali
deputate al “vagheggiamento mentale” (DMN , Default Mode
Network). E infatti una delle metodologie più antiche e rinomate di
meditazione consiste proprio nel portare attenzione (IOS ) alle
sensazioni del corpo, quelle che comunemente chiamiamo “tatto”
ma che sono qualcosa di più profondo.
Secondo i neuroscienziati il fatto che tu possa in questo momento
sapere esattamente com’è posizionato il tuo corpo nello spazio –
pensaci qualche istante, puoi farlo senza dover guardare come sono
messe le gambe o le braccia –, ecco, questa capacità rappresenta un
vero e proprio “senso alternativo”. Se all’improvviso o in modo
graduale e non percepibile la stanza dove ti trovi si rovesciasse, lo
capiresti, non solo per la forza di gravità ma perché tutto il tuo

130
corpo ti segnalerebbe che qualcosa non sta andando come dovrebbe
andare. Non solo, ormai è assodato che la capacità di rivolgere
attenzione consapevole al proprio corpo (alla “interocezione”, cioè
le sensazioni che proviamo al nostro interno) è un modo formidabile
per entrare in contatto con il mondo emotivo, il quale sembra
parlare proprio attraverso il corpo (per approfondire, vedi il
marcatore somatico nel processo decisionale, tema trattato dal
neuroscienziato Antonio Damasio nel testo del 1994 L’errore di
Cartesio: emozione, ragione e cervello umano).
Ora questi discorsi scientifici mi servono solo per convincerti che
solitamente non diamo abbastanza attenzione al corpo e alle
sensazioni tattili che produce in continuazione. Si tratta sempre
della nostra attenzione consapevole, perché prestare troppa
attenzione al corpo in modo sbagliato ci rende “ciechi”, rischia cioè
di portarci a creare inferenze su che cosa potrebbe significare anche
la più piccola sensazione. Ecco perché è fondamentale imparare a
osservarlo nel presente, con intenzione e senza giudicarlo, cioè
notando tutte le “ipotesi” e i “giudizi”, lasciandoli andare
gentilmente e tornando al nostro corpo. Se ci pensi bene è proprio
attraverso il corpo che si crea il contatto con il mondo, lo hai fatto da
quando eri nella pancia di tua madre, è qualcosa di antico e allo
stesso tempo ancora presente in te. Con “contatto” potremmo
parlare di tutti i sensi, perché in realtà il suono non è altro che una
vibrazione che entra in contatto con i tuoi organi di senso (fa vibrare
il timpano ecc.); lo stesso vale per la luce che entra fisicamente in
contatto con gli occhi e da tale incontro si attivano i fotorecettori. E
ancora, per l’olfatto, i cui recettori specifici, in contatto con gli odori,
si attivano quasi meccanicamente. Tutti i sensi entrano “in contatto”
con la realtà, e qualche millesimo di secondo dopo scattano le
mappe che vanno a interpretare, aggiustare e raffinare la sensazione.
Se scattano troppe mappe non sentiamo più niente e ci allontaniamo
da quella sensazione di contatto, che è proprio quella che andiamo a
ricercare per allenare la nostra attenzione.
Piccola nota. È ovvio che non entriamo direttamente in contatto
con il mondo, perché ci sono continue traduzioni che filtrano ciò che
vediamo, ascoltiamo e sentiamo nelle relative rappresentazioni
mentali. Tuttavia è esperienza comune che esistono gradi di

131
lontananza dalla realtà, e che quando siamo a contatto coi nostri
sensi, mettendo da parte le rappresentazioni mentali, ci troviamo
anche nel grado più vicino alla “realtà” (per quanto ciò sia possibile,
ma questo è un discorso più filosofico che psicologico).

ESERCIZIO
Fermati per qualche istante, prendi carta e penna o il quaderno degli
esercizi e scrivi tutte le sensazioni che stai provando in questo momento.
Esempio: sento le mie dita sulla tastiera, sento il mio sedere sulla sedia,
sento i calzini e la differenza di temperatura tra un piede e l’altro ecc.
Mi raccomando, prima di scrivere devi sentire davvero quella specifica
sensazione, poi scrivi. Più sono piccole le sensazioni che riesci a rilevare e
più bravo sei. Per esempio, in questo momento sento uno spiffero d’aria
sull’orecchio sinistro… Ecco, fai qualcosa del genere anche tu!

132
Il bodyscan: la seconda pratica di consapevolezza

Il nostro non è un corso di meditazione, anche perché ne ho già fatti


diversi ai quali puoi accedere gratuitamente grazie alla app
“Clarity”. Però, si è detto, c’è solo un modo per capire davvero bene
come funziona: provare a farla. Non basta conoscere la teoria per
nuotare, anche se tecnicamente saresti già predisposto per farlo. Lo
stesso vale per l’attenzione, tu sai già prestare attenzione al mondo,
hai già sperimentato che cosa significa avere una sensazione “di
prima mano”, ma questo non significa che tu sappia esattamente
come addestrarla.
Queste pratiche non sono diventate famose perché “pittoresche”
ma perché hanno avuto dei risvolti pratici molto concreti nel campo
della salute mentale. Tra di essi c’è proprio l’idea di restare “in
contatto” con la realtà; vedi, quanto più soffriamo per qualche
motivo e tanto più tendiamo a staccarci dal mondo circostante,
tecnicamente la chiamiamo “dissociazione”. Ecco, gli psicologi
clinici dello scorso secolo avevano compreso il sottile legame tra
sensazioni fisiche, propriocezione e quantità di dissociazione. Più
una persona era dissociata e meno riusciva a percepire il proprio
corpo. Al di là di eventuali problematiche neurologiche, non riuscire
a sentire il proprio corpo è comune in moltissime psicopatologie. So
già che cosa stai facendo, stai cercando di sentire il tuo corpo mentre
leggi queste parole, vero? Se inizi a non sentire qualche parte forse ti
starai preoccupando, ma stai tranquillo, mi serve solo per mostrarti
che le sensazioni sono molto più importanti di quanto ci abbiano
raccontato.
La lotta tra sensazioni e dati oggettivi non è nuova: già Socrate,
per mano di Platone, raccontava che se si prende un gruppo di
persone e gli si chiede di valutare la temperatura di una stanza,
ognuno dirà la sua in modo soggettivo, e questo non è utile per la

133
conoscenza. Ma se troviamo il modo di misurare la temperatura con
una scala di riferimento, ecco che quella misura diventa oggettiva e
utile per la conoscenza umana. Pertanto, da Socrate in poi, le
sensazioni soggettive sono diventate quasi “inutili” dal punto di
vista della conoscenza, ed effettivamente per una conoscenza
oggettiva non sono così necessarie, me per quella soggettiva sono
fondamentali.
Lavorando con gli sportivi conosco bene la loro grande tenacia e
anche la loro capacità, in determinati contesti, di disconnettersi così
tanto dal corpo da riuscire a compiere imprese incredibili. Chi si
spara corse chilometriche, gli ironmen e cose del genere, deve in un
qualche modo scollegarsi dal corpo per poter riuscire a durare il più
a lungo possibile: è una mossa rischiosa che un atleta conosce bene.
Ora devi sapere che anche tu fai la stessa identica cosa: percepisci un
piccolo dolorino al piede mentre sei al lavoro e lo metti da parte; se
si ripresenta il venerdì sera mentre giochi a calcetto con gli amici, lo
rimetti da parte, e se fai troppo a lungo questo gioco dissoci quella
parte rischiando di farti davvero male. Non temere, è raro che
accada, almeno non così; però la cosa migliore da fare, se stiamo
male e continuiamo a girarci attorno con la mente, è andare da un
medico, cioè fare un’azione concreta, che è ciò che possiamo gestire
meglio di noi stessi.
In altre parole, se non possiamo controllare direttamente che cosa
pensiamo, o proviamo a livello emotivo, l’unico aspetto su cui
abbiamo un buon margine di intervento sono le nostre azioni. Un
tizio può farti andare su tutte le furie, ma sei sempre tu a decidere se
prenderlo a calci o meno; la rabbia, purtroppo, così come altre
emozioni intense, sono in grado di farci dissociare così tanto da noi
stessi da iniziare ad agire in automatico, uno dei modi peggiori di
comportarci quando siamo disregolati, cioè quando perdiamo il
controllo delle nostre emozioni. Se riesci a restare in contatto con il
corpo quando ti arrabbi rendi tale dissociazione molto più difficile e
di conseguenza diventi più bravo a gestire le emozioni. Non è facile,
soprattutto se tendi a perdere le staffe rapidamente, e questo non è
un corso di gestione emotiva, tuttavia attenzione ed emozioni sono
strettamente legate tra loro.
Ora lascia che ti presenti un piccolo esercizio che ho ideato a

134
partire da ciò che hai appena letto e che ha già aiutato migliaia di
persone a migliorare il contatto con il proprio corpo e con il
momento presente. Si chiama “Piedi, mani e bocca”, che sono i punti
su cui ti chiedo di prestare quella speciale qualità di attenzione che
possiamo definire “presenza” e consapevolezza. Tradizionalmente
prende il nome di bodyscan o scansione corporea, e probabilmente
l’avrai già fatta altrove, soprattutto se segui il mio lavoro. No, non è
quello che fai alla fine della lezione di yoga dove ti chiedono di
rilassarti e ti invitano a visualizzare delle cose. Perché stare attenti
non significa rilassarsi (neanche meditare lo significa in realtà), e
visualizzare un fiume che scorre pacifico magari ti farà sentire bene
ma non allena la tua attenzione. Forse, se ho fatto un buon lavoro
nelle pagine precedenti, non avrei neanche bisogno di dirti che se
visualizzi qualcosa non sei presente, sei nelle tue “mappe”.
Se per caso ci eri già arrivato da solo, complimenti; se invece non
è ancora chiaro questo passaggio ti invito a praticare questo
esercizio e rileggere poi le parti iniziali del libro; in realtà ti invito a
farlo comunque, specie se eri completamente a digiuno di questi
concetti: una volta che hai imparato a nuotare puoi tornare indietro
e vedere se le indicazioni dell’istruttore erano adeguate e raffinare il
tuo stile. Quindi tra poco ti chiederò di staccare gli occhi dal libro
per circa 5 o 10 minuti, in base al tuo tempo a disposizione, e fare
quanto segue.

1. Trova un posto tranquillo dove poterti sedere comodamente ma


non troppo; non devi essere sdraiato (potresti però preferisco di
no, almeno per ora), ma seduto con la schiena bella dritta.
2. Tieni mani e gambe separate, cioè non incrociate o in contatto
tra di loro, questo rende l’entrare in contatto con te stesso più
difficile ma anche più efficace.
3. Se vuoi puoi staccare la schiena dalla sedia, secondo tradizione,
ma se vuoi appoggiarla va bene lo stesso, l’importante è che tu
resti sveglio durante tutto il processo.
4. Porta attenzione in modo consapevole e intenzionale partendo
da un piede a tua scelta (per motivi tecnici, se fossi nella mia
aula inizieremmo dal piede sinistro), e inizia a spostare il tuo
focus sulle sensazioni tattili del piede. Se non le senti all’inizio,

135
puoi muoverlo leggermente ma senza esagerare.
5. Quando ti sembra di aver sentito tutto ciò che c’è da sentire
passi all’altro piede, e prosegui nello stesso modo; poi passi alle
mani, sempre una alla volta e sempre in modalità IOS , fino ad
arrivare alla bocca, sentendo le labbra, la lingua e tutto ciò che
riesci a percepire.
6. Ricorda di usare il modello IOS , e che lo scopo non è sentire il
tuo corpo ma è notare tutto ciò che già stai sentendo, quindi
evita di esagerare con i movimenti; non devi sentire tutto ciò che
dovrebbe esserci ma solo ciò che riesci davvero a sentire.
7. Per sviluppare intenzione evita di saltellare da una parte
all’altra del corpo, una volta che hai deciso di sentire la mano
sinistra, la scansioni tutta anche se ti sembra che sia più facile
sentire la mano destra. Non inizi dalla bocca e poi vai ai piedi,
ma segui uno schema ben preciso (piedi, mani e bocca),
altrimenti non alleni la capacità di spostare intenzionalmente
l’attenzione nel presente.
8. Il vero allenamento avviene quando la tua mente parte e inizia a
vagare perdendosi tra le mappe; come noterai lo fa di continuo e
tu di continuo devi accorgertene e tornare gentilmente al punto
di focus. Per cui, se eri sul dito della mano destra ritorni su quel
dito.
9. Se invece ti perdi così tanto da dimenticare dove ti trovavi,
ritorna con gentilezza e pazienza alla sensazione di partenza.
Ricorda, non è determinante che tu senta ogni singolo
millimetro della tua pelle, l’importante è che tu riesca a
osservare il tuo mondo interiore senza identificarti e poi tornare
ogni volta gentilmente al presente (ancora, ancora e ancora).

Ci hai provato? Mi raccomando, appena possibile sperimentalo; ti


ricordo che tra le risorse puoi trovare una versione audio, che ti
guida a fare questi esercizi. Se non ci avevi mai provato
probabilmente è stato parecchio impegnativo restare sulla
sensazione “pura”, su quel momento di contatto, vero? Se così non
fosse, o non mi fossi spiegato bene io su che cosa vorrei che tu
sentissi, oppure sei particolarmente portato, forse lavori molto con il
corpo o semplicemente sei più consapevole della media delle

136
persone. Se ci pensiamo bene, in realtà, anche l’attenzione al respiro
equivale a questo stesso esercizio, solo che in più lì dobbiamo stare
attenti a non modificare troppo l’automatismo; ma in fin dei conti si
tratta sempre di percepire delle sensazioni che potremmo definire
“tattili”. Qualcuno le chiama “cinestesiche” perché hanno a che fare
con il movimento (kinesis), ed è molto importante distinguerle dalle
interferenze del mondo delle mappe che tende costantemente a
mostrarci altro: immagini del corpo, immagini della sua posizione,
pensieri negativi su quello che stiamo facendo (i giudizi) ecc.
In sostanza, per sentire davvero il contatto che allena l’attenzione
dovresti sentire e basta, non visualizzare le parti del tuo corpo o
parlarti dentro; so però che è davvero difficile, soprattutto per
alcune persone. Io continuo a parlarmi dentro, ma quando me ne
accorgo noto questo mio chiacchiericcio, lo metto gentilmente da
parte e ritorno sulla sensazione fisica. Altre persone invece, quando
esplorano il corpo immaginano, visualizzano quella parte, quasi in
automatico. Sì, anche quelle immagini sono distrazioni: se ci fai
caso, potrai notare che emergono una frazione di secondo dopo che
hai portato attenzione alle sensazioni fisiche, sono – in una certa
misura – delle mappe, e il nostro scopo è uscire dalle mappe per
tornare a guardare il territorio. Ho scelto appositamente mani, piedi
e bocca perché sono le parti maggiormente innervate, quelle cioè che
senti con più facilità; mi raccomando, mentre provi l’esercizio
ricorda di tenere a mente il modello IOS e anche il “gioco delle
sensazioni” (ti basta notare i giudizi e metterli gentilmente da parte).
Il gioco delle sensazioni è mutuato dalla tradizione buddhista ed
è quella qualità che viene definita “equanimità”, cioè cercare di
trattare ogni cosa che sorge dalla mente allo stesso modo, come una
“distrazione” ma senza accezioni negative o positive. E quando
lavoriamo sul corpo il gioco delle sensazioni è particolarmente
feroce, perché è facile che emergano sensazioni spiacevoli e
piacevoli, e sta a noi ricordare di trattarle sempre allo stesso modo.
Il tuo compito è osservare, non valutare, e anche se tale valutazione
emerge di continuo l’esercizio sta proprio nel notarla e tornare
indietro ancora e ancora. Chissà quante volte ho già ripetuto questa
frase, ma sta proprio qui la chiave dell’esercizio: riuscire a osservare
ancora e ancora il momento presente, perché quando ci riusciamo

137
questo è sempre “nuovo”, è sempre diverso da prima, anche se la
nostra mente sembra registrarlo come tutte le altre volte. Si tratta di
un altro superpotere che sviluppi allenando la tua attenzione:
diventi capace di apprezzare ciò che hai sotto al naso, ciò che già
possiedi, le relazioni della tua vita, il cibo che mangi, le persone che
incontri e anche il tuo lavoro.

ESERCIZIO
Hai ora un esempio lampante di come le mappe ci siano sempre e in alcuni
casi siano particolarmente utili: se in questo momento qualcosa ti distrae e
perdi il punto dove stai leggendo, la tua mente farà una fotografia di dove
ti trovi e, se sei allenato con la lettura, lo ritroverai in un batter d’occhio.
Succede proprio per la sottile interazione tra mappe e territorio: leggi
queste parole ancora prima di averle realmente terminate, anteponendo ciò
che sai a ciò che vedi.
Ripetere l’esercizio “Piedi, mani e bocca” (così come anche il respiro) ti
consente di osservare questa sottile dinamica di intreccio continuo tra
pensieri e realtà circostante.

138
La mente del principiante

In Oriente usano un modo pittoresco per descrivere la difficoltà


nell’osservare il presente, dicono che bisogna mantenere una “mente
da principiante”, cioè presupporre non di sapere, come facciamo di
solito, ma di non sapere. Questo aiuta a mettere da parte le mappe,
che sono la nostra conoscenza pregressa, ma non solo, ci aiuta a
riconoscere il momento presente, perché quando ci siamo questo è
fresco e nuovo. Non è il ricordo della sensazione piacevole provata
ieri, o di quella spiacevole provata poco fa, non è l’idea di come ti
dovresti sentire, è semplicemente ciò che senti qui e ora.
Tutto il nostro tempo mentale è cosparso di momenti che si
ripetono uno di seguito all’altro, e per la miriade di motivazioni che
abbiamo visto la mente non cerca di esaminare ogni istante, sarebbe
troppo dispendioso, allora crea un’illusione di continuità, proprio
come lo fa a livello percettivo (tutte le illusioni ottiche lo dimostrano
ampiamente). Così mentre leggi queste parole tu in realtà non le stai
guardando come se fosse la prima volta, altrimenti non riusciresti a
leggerle; ma se per esempio conosci il tema, perché magari segui il
mio lavoro online, allora potresti fare l’errore di pensare di sapere
già tutto e quindi perderti aspetti nuovi che magari non avevi
notato. Intendo dire che non possiamo davvero guardare il mondo
come se fosse la prima volta, però esistono vari livelli di assunzione
di ciò che stiamo guardando; se pensi di sapere già tutto su questo
argomento è probabile che tu possa perderti le informazioni nuove.
È una sorta di passo indietro mentale che ci aiuta a ricordare che se
mettiamo da parte ciò che pensiamo di sapere, i nostri giudizi,
riusciamo a osservare meglio le cose.
Mi piace spesso raccontare che anche in Occidente, con modalità
differenti, siamo arrivati a capire qualcosa del genere, prima
nell’antica Grecia, grazie a Sesto Empirico, e poi nella

139
contemporanea fenomenologia del secolo scorso con il concetto di
epoché (dal greco, “sospensione”), che consiste nella “sospensione
volontaria del giudizio”, un modo particolare di osservare il mondo
che ci circonda del tutto simile a ciò che è stato tramandato per
millenni in Oriente. Solo che noi occidentali ci abbiamo messo in
mezzo una tonnellata di meravigliosa e intricata teoria, mentre gli
orientali hanno sviluppato pratiche precise (oltre a quelle di
carattere religioso) per ottenere quella sospensione del giudizio. Gli
esercizi che abbiamo esaminato e quelli che ti ho consigliato sono
più che sufficienti per iniziare a sviluppare la “mente del
principiante”, la capacità di osservare ciò che abbiamo davanti agli
occhi mettendo da parte i giudizi.
Ti racconto una storia. Quando ero adolescente sognavo di fare il
batterista, appassionato com’ero studiavo tutti i giorni e adoravo
andare a sentire concerti dei miei gruppi preferiti. Di tanto in tanto
però andavo anche ad ascoltare le band locali, musicisti alle prime
armi (in realtà come me all’epoca), e molte volte mi rovinavo
letteralmente la serata: invece di godere della compagnia dei miei
amici, del locale, della gente e della musica, stavo tutto il tempo ad
ascoltare se la band era tecnicamente competente. Questo continuo
giudicare mi portava lontano dallo scopo principale della serata:
divertirmi con gli amici. Un giorno mentre stavo parlando male
dell’ennesima band un mio amico mi guarda e mi dice: «Gennà,
belìn, ma quante storie ti fai? Non vedi quanto ci stiamo
divertendo?» (devi immaginare un forte accento ligure). È stata
come un’illuminazione, mi aveva d’improvviso “risvegliato” al vero
senso dello stare lì in quel momento: ascoltare la musica e non
giudicarla, godermi la serata e il momento presente, non diventare il
prossimo giudice di “X-Factor”.
Questa è stata la prima lezione sulla mente del principiante. La
seconda mi è arrivata da un mio supervisore; come forse saprai noi
psicologi ci rivolgiamo spesso a delle figure chiamate “supervisori”:
sono professionisti, più esperti di noi, con i quali discutiamo dei
nostri casi clinici e cerchiamo di farci aiutare. Mentre parlavo delle
strategie che avevo adottato per aiutare un paziente m’interrompe e
mi dice: «Sai Gennaro, il nostro lavoro è molto complesso e per
questo serve conoscere bene gli strumenti, tu li conosci bene ma gli

140
strumenti devi lasciarli dentro al tuo zaino, e lo zaino lo metti sulle
spalle, non fra te e il paziente»… Boom!… Un altro pugno sul muso
che mi ha dato subito una svegliata: se volevo aiutare i miei pazienti
non dovevo pensare agli strumenti (mappe) ma dovevo “stare con
loro” (territorio).
Come vedi questo principio antichissimo è tutt’ora molto valido
ed è pienamente in linea con il tragitto che stiamo percorrendo
insieme: se desideri migliorare il tuo modo di prestare attenzione a
ciò che ti circonda adotta la mente del principiante. Per farlo devi
essere presente, spostare intenzionalmente la tua attenzione a ciò
che è presente qui e ora e non a ciò che pensi ci debba essere o a ciò
che c’era prima. Personalmente trovo molto utile adottare questo
atteggiamento mentale di apertura alle esperienze “come se fossero
nuove” mentre pratico l’attenzione consapevole al respiro. Perché,
se ci fai caso, noterai che ogni respiro è effettivamente nuovo, è
sempre leggermente diverso dal precedente, è sempre un altro
respiro. Quando riesco a portare la mia consapevolezza a ogni
respiro, la pratica diventa più semplice, più leggera, perché di solito
ci sono stormi di pensieri giudicanti che ti dicono: «Sei appena al
secondo respiro, chissà se riuscirai ad arrivare a 10 o a 20…». Se
riesci a sentire ogni respiro come nuovo non t’importa neanche di
aver perso il conto dei respiri, tanto quello che stai per sentire è
nuovo e necessariamente differente dai precedenti. Ogni momento è
diverso dall’altro e portarci sopra la nostra consapevolezza è una
manna dal cielo che rende ogni istante della vita più bello. Non è
“fare finta che sia nuovo”, è sentire che effettivamente ogni cosa
transita nel tempo; per dirlo con le parole del Buddha: “Tutto è
impermanente”; o come Eraclito (nello stesso periodo storico):
“Tutto scorre”.
Restare nel momento presente osservandolo come “nuovo” è la
chiave per ottenere una mente del principiante, che non è utile solo
per la tua attenzione ma in ogni campo della vita. Riuscire a vedere
ogni azione come nuova è la sfida di ogni musicista che ripete per
l’ennesima volta la stessa scala, della ballerina che ripete lo stesso
passo, del genio matematico che ripete gli stessi passaggi, è la chiave
per la resilienza, per la capacità di rialzarsi e riprovare ancora e
ancora. Ed è la chiave per la già citata “pratica deliberata”, che ti

141
spinge di volta in volta a ripetere certe azioni con intenzione e non
in modo meccanico: per facilitare questo movimento interiore il
modo migliore di procedere è mettersi nei panni del principiante.
Un musicista che si esercita ancora e ancora su quella stessa scala e
che riesca a farlo con “presenza” è anche maggiormente in grado di
percepire che ogni scala è sempre diversa, è sempre una nuova
scala.
L’obiezione classica di chi non ha ancora sperimentato questo
tipo di lavoro sull’attenzione è: «Scusa, ma come posso lavorare
bene se devo far finta di non sapere ciò che faccio?». In realtà, avere
una mente da principiante non significa fare finta di non sapere; per
esempio, in questo momento tu puoi leggere queste parole, non hai
bisogno di ripassare come si legge per farlo. Non hai neanche
bisogno di sapere come si fa a leggere, giusto? Se sai guidare l’auto
puoi decidere di portare la tua attenzione sulla strada guardandola
con presenza (con la mente del principiante) senza necessariamente
perdere la capacità di guidare. L’abilità appresa che ti consente di
guidare è diversa da quella che ti consente di prestare attenzione,
sono intimamente legate, è ovvio, ma sono due cose diverse. Ci
serve sapere che sono differenti, altrimenti la capacità di spostare la
nostra attenzione dipenderebbe dall’abilità specifica in questione; in
parte è così ma gli studi dimostrano che si tratta di due facoltà
collegate ma diverse.
Un esempio eclatante è legato ad alcuni videogame utilizzati per
la riabilitazione delle abilità di lettura nei bambini con deficit
dell’attenzione; questi giochi non hanno nulla a che vedere con la
capacità di leggere (non ci sono lettere, parole o frasi), ma lavorano
esclusivamente sull’abilità di spostare l’attenzione. Il fatto
interessante è che se il deficit è nell’attenzione, ecco che il paziente
torna a leggere in modo fluido, senza dover imparare a “leggere
meglio” ma lavorando solo sulla capacità di prestare attenzione, e
questo dimostra ancora che si tratta di un muscolo a parte, che
possiamo allenare al di là dei concetti. Addestrarsi ad affrontare le
cose con la mente del principiante non è un semplice trucco per
riuscire a vedere meglio davanti a noi, ma nel tempo diventa una
predisposizione che ci prepara a restare di più nel presente, perché
quando una cosa è “nuova” sei naturalmente nel presente.

142
ESERCIZIO
Il nuovo nel vecchio. Gira per casa e osserva l’arredamento e ciò che ti
circonda; prova a guardarti attorno come se fosse la prima volta, come se
non avessi mai visto quelle cose. Non devi ingannarti, ma fare come
nell’esercizio che chiedeva di indicare gli oggetti senza nominarli, solo che
questa volta la sensazione che devi avere è di non averli mai visti. Se sei già
allenato con la nostra pratica e magari hai già usato “Clarity” sarà più facile,
se invece è la prima volta che lo fai è possibile che non sia altrettanto
semplice. Bastano pochi secondi di questa sensazione per raggiungere già
un buon risultato. Come sarebbe se questo fosse il primo libro che leggi
davvero nella tua vita?

143
Un altro senso

Se la propriocezione è considerata da noi occidentali come il “sesto


senso”, nella tradizione orientale ne esiste un settimo che è la mente.
Coloro che praticano la meditazione, indagando per ore e ore la
propria mente, hanno scoperto ben prima di noi psicologi che tutto
ciò che passa dai sensi è successivamente rielaborato da “qualcosa”.
Finora ti ho presentato il training dell’attenzione come se fosse
esclusivo appannaggio della parte “non concettuale”. Lo abbiamo
fatto perché è il modo migliore per “separare” tra loro le facoltà,
proprio come faresti in palestra scegliendo esercizi che allenino
gruppi muscolari specifici. Per farlo devi tenere ferme alcune parti
del corpo e muovere solo quelle che desideri migliorare; abbiamo
fatto lo stesso noi, tenendo ferma la mente per concentrare le nostre
risorse sull’aspetto della consapevolezza, della nostra attenzione.
Ma è ovvio che senza mente (le mappe) non possiamo svolgere il
nostro lavoro quotidiano, saremmo come dei bambini in balia del
mondo, un’immagine pittoresca e poetica che però non ci aiuta a
vivere meglio.
Se vuoi migliorare la tua attenzione in uno specifico campo devi
apprendere tutto ciò che è possibile sapere in quel contesto; non si
tratta di dire: “Ecco, ora che sei capace di restare nel presente hai la
serenità assoluta e puoi fare ciò che vuoi”. No, non è questo! Se vuoi
muoverti agilmente nel mondo devi costruire delle mappe e allo
stesso tempo essere presente a ciò che fai, così se la mappa è troppo
distante dal territorio te ne rendi conto e puoi comportarti di
conseguenza. Essere attenti non significa restare nel presente
fregandosene di ciò che accade intorno, ma essere presenti a tutto
ciò che accade, e se emerge una qualche mancanza di informazioni
la cosa migliore da fare è andare a cercarle e apprenderle.
In altre parole: solo se sei presente hai l’elasticità mentale giusta

144
per riuscire a notare se ti servono altre informazioni. Ricordi la
storia dello zaino di poco fa? Il tuo zaino deve essere pieno degli
strumenti necessari per il tuo cammino, tutti quelli che riesci a
collezionare nella vita, ma non deve frapporsi tra te e il mondo. È
importante ricordarlo, soprattutto nell’epoca in cui viviamo,
talmente complessa da farci credere di sapere le cose anche quando
non le sappiamo. Ricordi l’effetto Dunning-Kruger? Non vorrei mai
che l’importanza che stiamo dando in queste pagine all’allenamento
della consapevolezza ti suggerisse che imparare non serve a niente
perché “basta restare nel presente”. Non è così. Non esiste uno stato
realmente e puramente non concettuale, ci possiamo avvicinare con
l’esercizio ma non elimineremo mai l’influenza di ciò che sappiamo.
Per questo dobbiamo studiare e allo stesso tempo diventare
consapevoli di come mettiamo in pratica ciò che studiamo. I concetti
sono impalcature per farci fare esperienza in modo più agile, per
consentirci movimenti senza enormi dispendi energetici, vanno
appresi, sono il nostro “sistema operativo”.
La base per assimilare i contenuti di questo libro è la tua capacità
di vedere e interpretare queste parole sotto forma di concetti. Senza
tale abilità le lettere che le compongono non sarebbero altro che
tanti segni grafici senza senso: è la tua conoscenza concettuale a dare
forma alle parole. Una volta che hai appreso tali competenze esse
non si frappongono più tra te e il mondo, ma diventano una chiave
per interpretarlo: perché sia una “buona mappa” deve essere
appresa con intenzionalità e consapevolezza. Come vedi, si tratta di
due cose che non possiamo eliminare, non puoi far finta di non
sapere ciò che sai ma puoi imparare a metterlo da parte per
guardare meglio ciò che ti circonda; e se hai appreso bene le tue
mappe, queste salteranno fuori al momento giusto.
È complesso, lo so, ma spero di spiegarmi meglio riprendendo
l’esempio della guida. Quando inizi a guidare hai bisogno di tutte le
tue risorse attentive, non puoi pensare ad altro e non vuoi avere
nessun’altra distrazione. Ogni piccolo diversivo ti fa sbagliare e
perdere la concentrazione; stai ancora imparando, e via via che
apprendi hai sempre meno bisogno di risorse attentive, fino a
renderlo un comportamento (quasi) completamente automatico. Se
per caso arrivano delle difficoltà sulla strada, il nostro sistema

145
interno passa dal pilota automatico a quello controllato senza la
minima difficoltà, a patto che sappiamo già guidare. Meno hai
affinato quell’automatismo e più dovrai costantemente controllare
se stai guidando in modo corretto, ma se hai esperienza il cambio
avverrà spontaneamente, e se ci metterai abbastanza
consapevolezza riuscirai anche a renderti conto di come migliorare.
È come cantare una canzone: se non sai le parole fai molta più fatica,
puoi ricordarti molto bene l’intonazione ma solo se conosci il testo
puoi concentrarti più sulla parte interpretativa. Tornando al nostro
zaino, una volta che hai davvero appreso le basi di qualche cosa non
hai bisogno di controllare costantemente se le hai portate con te
nello zaino, questo è un effetto dell’incertezza e dell’ambiguità del
mondo che ci costringono a guardarci dentro male, senza i nostri
occhiali della consapevolezza.
Quindi una delle cose migliori che tu possa fare per migliorare le
prestazioni in qualsiasi ambito è cercare di apprendere per bene le
basi di quei comportamenti, quelli che nella musica chiamiamo
“rudimenti” e nello sport “fondamentali”. Abilità che diventano
meta-abilità, cioè competenze che diventano la base per altre
competenze, come la lettura che ti consente di imparare altre cose.
Una volta apprese al meglio le basi possiamo concentrarci
maggiormente su altri aspetti: il nostro cervello è un simulatore, più
informazioni precise ha a disposizione e meglio riesce a simulare.
Tuttavia dobbiamo sviluppare una certa fiducia in ciò che sappiamo
senza cercare di capire se sappiamo o meno, una cosa un po’
particolare che posso spiegare solo attraverso un esempio.
È una storia che amo raccontare, legata agli esami universitari. Se
hai mai dovuto studiare migliaia di pagine per affrontare un esame,
sai che a un certo punto la domanda cruciale che tutti si pongono è:
“Ma sono davvero sicuro di sapere tutto?”; tradotto per noi
significa: sono sicuro di aver riempito lo zaino con tutto ciò che mi
serve per affrontare questa sfida? La risposta purtroppo non c’è,
perché non esiste un unico magazzino mentale dove riporre le cose,
queste si “sparpagliano” nella nostra mente ed è difficile diventare
certi di sapere. Allora che si fa di solito? Ci si fa interrogare da un
amico oppure si prova a cavarsela da soli, magari aprendo a caso
alcune pagine del libro, per capire se riusciamo a richiamare alla

146
memoria quelle informazioni. Da questo punto di vista potremmo
dire che non sappiamo se abbiamo tutto ciò che ci serve nello zaino
finché non ci mettiamo alla prova, fino a quando cioè non ci
interrogano. Come dire che non sai se ciò che hai messo nel tuo
zaino ti sarà davvero utile fino a quando non ne avrai bisogno, non
sai se ti servirà la torcia fino a quando non resterai al buio.
Che cosa succede quando il professore o l’amico di turno ci fanno
le domande per l’esame? Che spontaneamente una parte di noi
chiama a raccolta tutte le cose che sappiamo sul tema, un po’ come
succede quando si mettono dentro un motore di ricerca alcune
parole chiave e questo inizia a presentarci tutto ciò che conosce su
quel tema. Non lo fa in modo casuale, il motore di ricerca ci
presenterà le informazioni in ordine di importanza: prima quelle che
ci sembrano più rilevanti e poi a mano a mano tutte le altre, proprio
come farebbe Google. Non sempre però tale rilevanza è reale, se per
caso hai sentito più e più volte un certo nome ecco che quello
diventa più disponibile, sembra una sciocchezza ma ci hanno
costruito sopra il “bias di disponibilità” che potremmo tradurre in
“se hai sul tavolo un martello vedi tutte le cose come se fossero dei
chiodi”. Ecco che a questo punto entra in campo la consapevolezza,
la nostra presenza che dovrebbe essere in grado di farci notare che
stiamo aderendo eccessivamente a quella mappa, e quindi smetterla
di trattare tutto come chiodi.
Quando stai bene e fai cose poco impegnative riesci naturalmente
a mettere da parte le mappe erronee, ma quando invece le cose
diventano difficili o abbiamo la testa troppo piena ecco che ci
dimentichiamo di fare quel passetto indietro che ci aiuta a vedere
con maggiore chiarezza dove stiamo andando.

ESERCIZIO
Quante cose sai? Lo so, è una domanda terribile perché anche se tu non ne
sei consapevole devi sapere che sai molte più cose di quante pensi di
saperne. La nostra memoria, infatti, è enorme, nessuno è ancora riuscito a
calcolarne la quantità in gigabyte ma sappi che è davvero sterminata.
Immagina di dover mettere tutti i ricordi della tua infanzia in formato

147
digitale, non ti basterebbero tutti i computer che hai in casa.
Fai una prova, prendi il quaderno degli esercizi e scrivi tutte le cose che
sai fare e che magari fai ogni giorno; poi dai un voto da 1 a 10 (dove 1 sta
per “nulla” e 10 per “tantissimo”) e valuta quanto ti senti davvero sicuro di
quelle competenze acquisite. Chiaramente dovrai concentrarti a migliorare
la definizione delle mappe che ti sembra di vedere in modo meno
accurato… insomma, tornare un po’ a studiare! Considerando che tanto devi
apprendere per tutta la vita – che tu lo voglia o meno – tanto vale decidere
consapevolmente che cosa imparare.

148
Il cervello “sottosopra”

Come abbiamo visto, la “sensorialità” è il canale che ci consente di


entrare in contatto con il mondo circostante e anche con il nostro
mondo interiore. Continuiamo a ricevere input provenienti
dall’ambiente esterno e dai nostri stati interiori, che vengono
amalgamati e integrati nelle mappe mentali, che a loro volta
diventano delle guide che facilitano le nostre azioni e allo stesso
tempo, però, ci allontanano dal mondo.
Ricordi il bambino che si spaventa per il fuoco? Da un punto di
vista delle neuroscienze, di come è costituita la struttura del
cervello, quando il bimbo tocca il fuoco per la prima volta lo fa
attraverso i propri sensi, in una direzione che i ricercatori
definiscono bottom-up, cioè dal basso verso l’alto, dai sensi verso i
centri più moderni del cervello, la neocorteccia (per moderni
s’intende più “recenti”). Il bambino dopo essersi scottato crea una
mappa che gli dice: “Non toccare il fuoco o ti farai di nuovo male”;
tale rappresentazione, adesso, si trova proprio nella parte più alta
del cervello, la più moderna (non è proprio così, ma è un buon
modo per capirci), e la prossima volta che il piccolo si troverà di
fronte al fuoco non dovrà accedere ai sensi per sapere che è qualcosa
che brucia. Quindi il processo attentivo non avverrà più dal basso
verso l’alto, cioè dai sensi alle mappe, ma farà il percorso inverso,
dalle mappe ai sensi, cioè dai concetti alle sensazioni. Tutto questo è
profondamente importante per comprendere che l’allenamento
consapevole della tua attenzione non è una favoletta ma è il risultato
di anni di ricerche in psicologia e neuroscienze.
Il nostro circolo dell’attenzione – che potremmo rivedere adesso
in questa sequenza: focus, vagheggiamento mentale (distrazione),
metacognizione (mi accorgo della distrazione), lasciar andare la
distrazione e tornare all’oggetto di attenzione – è qualcosa che hai

149
davvero nella testa. Ognuno dei passaggi citati è rappresentato da
un circuito neurale specifico nel cervello che con la pratica diventa
sempre più forte e connesso. Si tratta di cinque circuiti fondamentali
per la nostra sopravvivenza, che sono indicatori di abilità specifiche
legate all’attenzione: 1) il circuito dell’allerta, necessario per porre la
tua attenzione su un qualsiasi oggetto; 2) la DMN (Default Mode
Network), la parte che si accende quando la mente vaga; 3) il
circuito della “salienza”, che ci fa rendere conto di ciò a cui stiamo
pensando, che cosa è “saliente per noi” in un determinato momento
rispetto a tutti gli altri stimoli a cui siamo sottoposti. Infine abbiamo:
4) gli organi esecutivi che ti consentono di lasciar andare la
distrazione senza giudicarla; 5) la rete di orientamento che riporta
l’attenzione sull’oggetto di partenza.
La neuroplasticità (o plasticità cerebrale). Una delle scoperte più
importanti dello scorso secolo riguarda proprio la fisiologia del
cervello umano, perché per anni abbiamo creduto che le cellule
cerebrali fossero praticamente “ferme”. Nascevi con un cervello di
un certo tipo, solitamente cablato in base alla genetica e alle prime
esperienze di vita, e poi te lo tenevi per tutta l’esistenza con la sola
possibilità di cercare di non perdere troppi neuroni. Questo era
legato a evidenze abbastanza marcate del fatto che il nostro cervello
sembra raggiungere una sorta di maturità durante i primi dieci anni
di vita, successivamente perde le proprie preziose cellule (i neuroni)
per non recuperarle mai più. Poi abbiamo scoperto che per il
cervello non è importante quante cellule nervose ha, ma come sono
interconnesse tra loro: più connessioni (sinapsi) ci sono e più
funziona bene. Fino ad arrivare ai nostri giorni, quando abbiamo
appreso che il cervello termina la propria maturità intorno ai 20 anni
ma poi continua a evolvere per tutta la vita: lo sospettavamo da anni
ma lo abbiamo definitivamente scoperto con i tassisti di Londra.
A quanto pare uno degli esami di ammissione professionali più
complessi al mondo è proprio la licenza per diventare un tassista a
Londra, perché è una città complicatissima da attraversare e la
prova implica una conoscenza mnemonica di tutte le possibile
strade e vie per raggiungere una determinata zona. I neuroscienziati
si sono chiesti se tale allenamento avesse degli effetti concreti sul
cervello e la risposta è stata affermativa: i tassisti avevano le aree del

150
cervello deputate alla memorizzazione visuo-spaziale (l’ippocampo)
più grandi dei non tassisti. Tali differenze si rilevavano non solo tra
tassisti e altre categorie professionali ma anche all’interno della
stessa categoria: più ore di servizio maturavano e più grande era il
loro ippocampo. Insomma il nostro cervello si comporta proprio
come un muscolo, se lo usi lo mantieni in forma e puoi via via
renderlo più forte e più grande, al contrario se non lo utilizzi lo
perdi. L’allenamento che ti propongo qui è realmente in grado di
aumentare la forza dei circuiti dell’attenzione che abbiamo descritto
poco fa, rendendoli più connessi tra loro, più rapidi e più efficienti, e
tutto questo è provato da una miriade di ricerche nel campo delle
neuroscienze.
Il training più efficace per riuscirci è la pratica della attenzione
deliberata, che esiste da secoli ed è rappresentata dalla meditazione
di consapevolezza. Ma come ti ho detto più volte, non è necessario
meditare per rafforzare l’attenzione perché già i semplici esercizi
descritti la rafforzano. Quindi considerando la mente come un
canale a due vie, una sensoriale e l’altra rappresentativa (top-down,
dalle aree della neocorteccia ai sensi, e bottom-up, dai sensi alle aree
della neocorteccia), la consapevolezza che stiamo sviluppando ci
consente di migliorare tali processi di elaborazione degli stimoli, ma
volendo possiamo usare il processo per cambiare noi stessi, per
apprendere come utilizzare al meglio le nostre risorse mentali.
Nelle prossime pagine vedremo come sfruttare tale effetto, che ci
aiuta a riconoscere i nostri contenuti mentali e non ci consente solo
di mettere da parte le distrazioni ma anche di vederle per ciò che
sono, offrendoci la possibilità di agire in modo più flessibile e libero.
Puoi in altre parole imparare a usare l’attenzione per ristrutturare i
tuoi contenuti mentali semplicemente osservandoli, e questo già
basta a giustificare la messa in atto degli esercizi che hai visto finora
e che ti consiglio di portare avanti nella tua quotidianità. Tutto
questo sembra avere un effetto diretto sul top-down: ti accorgi di
come le tue mappe influenzano le tue azioni, aiutandoti a non
reagire più in modo automatico e meccanico ma a prendere
decisioni e ad agire con maggiore consapevolezza.
Ora la ricerca però è altrettanto chiara nel dire che se vogliamo
modificare anche la parte più profonda che usa il circuito opposto, il

151
bottom-up, lavorando non solo sulle rappresentazioni ma anche sui
circuiti più antichi del cervello, ecco che dobbiamo meditare con una
certa frequenza. Quindi, a un primo stadio di addestramento ci si
accorge dei propri contenuti mentali e si apprende come metterli da
parte e non reagire a essi, e questo è già abbastanza per
quintuplicare (come minimo) le nostre risorse attentive. Allo stesso
tempo, tale lavoro ci aiuta a osservare gli schemi mentali,
rendendoci più consapevoli di noi stessi. A un secondo stadio della
pratica, che solitamente si raggiunge meditando tutti i giorni,
avvengono dei cambiamenti più profondi negli schemi antichi del
cervello, che ne consentono una modifica intensa, al punto che oggi
molte forme di psicoterapia includono questo tipo di esercizi
meditativi perché sembra che possano plasmare in modo strutturale
il funzionamento del cervello, rendendolo più forte, attento, agile e
giovane.
Come già ampiamente specificato, questo non è un corso di
meditazione, e il fatto che i circuiti dell’attenzione e della pratica
meditativa siano gli stessi non è una forzatura dei neuroscienziati
ma è il frutto della ricerca. Che ci ha condotti ad analizzare i
cambiamenti del cervello dei meditanti esperti scoprendo lo stesso
identico effetto riscontrato nei tassisti: più pratica avevano alle
spalle e più il loro funzionamento attentivo era ottimale, al punto
tale da raggiungere stati di presenza incredibili in chi ha nel
bagaglio oltre quarantamila ore di meditazione. Sono risultati
tangibili che non si sono rilevati solo attraverso la scansione del
cervello ma anche attraverso compiti particolari come la capacità di
resistere al dolore (molto più alta in chi medita), la capacità di non
trasalire quando arrivano rumori forti, la capacità di prestare
attenzione per lungo tempo a un oggetto specifico ecc. Quindi ciò
che stiamo facendo non è diventare un po’ più attenti ma allenare
concretamente il cervello a sviluppare abilità che si potrebbero
rilevare a livello cerebrale; attraverso una pratica continuativa di
meditazione è possibile non solo lavorare a livello delle
rappresentazioni top-down ma ricablare anche il bottom-up, e tale
lavorio sembra modificare in meglio anche la nostra personalità.
Ti racconto questo non per motivarti a meditare (attività che fa
bene praticamente a chiunque) ma per mostrarti ancora che

152
“attenzione” è molto di più di ciò che forse hai pensato sino a oggi.
Coltivare la tua attenzione equivale a coltivare gli aspetti più
importanti del tuo cervello e della tua vita. Continua a leggere e
scoprirai che non sto esagerando! Per ora concentriamoci su come
lavorare con ciò che ci “distrae” maggiormente dal presente, cioè le
nostre rappresentazioni dall’alto.

ESERCIZIO
Fermati per qualche minuto ad ascoltare il tuo respiro o a fare una qualsiasi
pratica di meditazione che abbiamo già svolto. Oggi il tuo compito è quello
di osservare quanto è difficile restare a contatto con il bottom-up (i nostri
sensi) e non lasciarci trascinare dalle nostre mappe (il top-down). Come dici,
“L’ho già fatto”? Ripetilo, posso assicurarti che questi esercizi sono
cumulativi, più li fai e più migliori e quando migliori capisci meglio anche i
concetti che stai leggendo… Ricordati, stiamo imparando a nuotare e le
parole non riescono bene a esprimere che cosa si prova a restare a galla.

153
Accogliere, accettare e “lasciare andare”…

Per riuscire ad avere quella consapevolezza, quella metacognizione


che ti dice: “Ehi, guarda che stai trattando tutto come se fosse un
chiodo”, è necessario non solo accorgerci ma anche lasciare andare
quella mappa. Per farlo dobbiamo renderci conto e accogliere questa
“notifica” mentale senza ricamarci troppo sopra, senza aderire al
dibattito che può crearsi al nostro interno. Se ricordi, poco fa
abbiamo visto che quando un contenuto mentale produce piacere
tendiamo ad attaccarci a esso; in realtà noi siamo bravi ad attaccarci
anche alle cose non piacevoli, ma non perché vogliamo trattenerle,
bensì perché vogliamo capirle e risolverle. Non c’è nulla di male in
questa tendenza della mente, tuttavia è una di quelle inclinazioni
che maggiormente ci portano lontano dai nostri obiettivi e dalla
nostra concentrazione.
Se durante la lettura di queste pagine inizi a pensare che non ti
piace qualcosa che ho scritto, magari perché non ti “suona bene”,
ecco che la tua mente sarà andata a pescare tutte le motivazioni, tutti
i perché di questa ipotesi mentale, e invece di continuare a leggere ti
sei perso tra i pensieri. No, tranquillo, lasciare andare quella
distrazione non significa perdere la tua capacità “critica”; infatti il
modo migliore per studiare non è soffermarsi ogni tre righe a
chiedersi se siamo d’accordo, ma quando troviamo qualcosa sul
quale non concordiamo possiamo fermarci un attimo, segnarcelo da
qualche parte e poi tornare a leggere. Perché? Perché quel pensiero
non ti lascerà andare facilmente; come abbiamo visto, hanno la
tendenza a portare a termine il processo, così hai due scelte: o lasci
che si completi mentre tu continui a riportare la tua attenzione
gentilmente sulle parole, oppure ti fermi per qualche istante, scrivi
su che cosa non sei d’accordo e poi ritorni a leggere. Perché scrivere?
Perché scrivere e/o parlare non sono la stessa cosa di “pensare”: i

154
nostri pensieri sono molto più ipotetici di quanto ci piaccia pensare
(ti ricordi quando abbiamo detto che il pensiero assomiglia a una
mosca?), e fino a quando non li trasformiamo in azioni, mettendoli
su carta o parlandone, restano in quel reame di ambiguità che non ci
aiuta a proseguire con il lavoro.
Ecco allora un piccolo esercizio per chi si tortura con i dubbi: se
sei bravo e già abbastanza consapevole, ogni volta che sorge un
dubbio lo noti e torni gentilmente e con fermezza a ciò che stavi
facendo. Ti posso assicurare che se quel dubbio è davvero
importante tornerà a farti visita in un altro momento; mentre se
proprio non riesci a metterlo da parte con gli esercizi che stai
apprendendo qui, allora usa carta e penna, un espediente secolare
che ha un’efficacia incredibile. Non solo ti aiuta a lasciare andare
quel contenuto mentale perché lo metti nero su bianco e interrompi
l’effetto Zeigarnik, ma anche perché scrivere ti costringe a fare
chiarezza, liberando spazio mentale. Sì, il nostro spazio mentale è
limitato, ed equivale più o meno alla RAM dei computer: dentro di
noi ci sono diversi magazzini di memoria, i più noti anche al grande
pubblico sono quelli della memoria a breve termine e a lungo
termine. Tutti sappiamo di poter tenere a mente una certa quantità
di informazioni, e allo stesso modo sappiamo che se non ci poniamo
sufficiente attenzione cercando di memorizzare volontariamente
quelle informazioni, difficilmente passeranno nel magazzino a
lungo termine. Se ti dico il mio numero di telefono dovrai ripeterlo
più e più volte affinché entri nel magazzino a lungo termine, a meno
che tu non riesca ad associare il numero a delle immagini e/o a delle
emozioni (come nelle mnemotecniche).
La parte più importante per la nostra esposizione, però, non è il
magazzino potenzialmente infinito che abbiamo dentro ma è la
memoria temporanea (la RAM ), che deve svolgere un lavoro molto
faticoso. È chiamata “memoria di lavoro” ed è l’equivalente di un
impiegato con una grossa scrivania; a mano a mano che recepisce gli
stimoli dai sensi lui prende queste informazioni, le accatasta sul
tavolo e di volta in volta le elabora. È un impiegato strano, perché a
volte fa le cose alla luce del sole, come quando decidi di imparare a
memoria un numero di telefono, ma per la maggior parte del tempo
fa le cose senza che tu te ne renda conto. È comunque un ottimo

155
impiegato, perché senza che ce ne accorgiamo mette in ordine tutte
le pratiche da svolgere, eppure non è troppo intelligente e tende a
fare numerosi errori, uno di questi è il citato “bias di disponibilità”.
In altre parole, se sul suo tavolo c’è un documento con scritto sopra
“oggi è una pessima giornata” tenderà a vedere tutto ciò che elabora
successivamente sotto quella pessima luce. Se vedrà sulla scrivania
in primo piano un martello penserà che ogni altro problema
successivo vada affrontato con quell’arnese; in realtà non lo fa
perché è davvero stupido, ma sempre e ancora per motivi di
risparmio energetico.
Ora la cosa più interessante per noi è scoprire che quando
proviamo a portare quella qualità di attenzione in modo formale,
quindi magari sedendoci in meditazione, ci accorgiamo che su
quella scrivania c’è davvero di tutto, non solo ciò che ci abbiamo
appena appoggiato. È come se quell’impiegato andasse a ripescare,
appena ne ha occasione, tutto ciò che non siamo riusciti a elaborare,
quindi se per caso non hai mai perdonato il tuo amico Matteo
perché ti ha rubato la fidanzata, ogni volta che senti il nome
“Matteo” potrebbe tornarti alla mente quella faccenda e passare
minuti e a volte ore a trastullarti con quel pensiero. Questo è solo un
esempio e non è necessario che si tratti di un trauma, così
funzionano il mondo per associazioni della nostra mente e il nostro
impiegato: molte volte riusciamo a far girare per così tanto tempo
alcuni contenuti mentali da far sì che siano costantemente presenti
sulla scrivania. E se ti osservi con consapevolezza, impari a
riconoscerli, a volte in modo sottile e a volte in modo netto. Ed è in
quel momento che fai una delle cose più importanti per la tua
attenzione, liberi la RAM accogliendo quel pensiero e lasciandolo
andare.
Conosco già le principali obiezioni a questo “lasciare andare”, che
recitano più o meno così: «Ma scusa, se io lo lascio andare non è che
questo poi torna? Non è che in realtà non lo sto elaborando proprio
perché è una sorta di richiesta della mia mente che io lo elabori?».
Da un certo punto di vista è possibile, ma se quel contenuto non ti
serve in quel contesto, allora sappi che ti sta consumando la RAM , sta
occupando tutta la scrivania e a furia di starci diventa per te sempre
più “rilevante” impadronendosi di tutta la tua coscienza. E questo ti

156
porta alla distrazione peggiore a cui tu possa andare incontro, e
scommetto che ti è già successo. È una cosa naturale, che accade a
tutti. Se vuoi allenare la tua attenzione devi imparare a lasciare
andare quei contenuti, soprattutto quando non c’entrano con ciò che
stai facendo e attirano moltissimo il tuo desiderio di risolverli.
Vediamo insieme un superstrumento per lavorare con le cose che
ci assillano maggiormente, liberando RAM anche senza praticare la
nostra meditazione.

157
La scrittura espressiva

Per liberare la nostra RAM e imparare a lasciare andare “a cuor


leggero” possiamo affidarci alla scrittura. Il metodo migliore che tu
possa utilizzare lo abbiamo già intravisto, ed è la tua capacità di
notare quei contenuti e metterli da parte per tornare gentilmente al
punto di focus, ma non è sempre facile e non è sempre possibile,
soprattutto quando i contenuti interiori hanno una certa valenza
emotiva.
Prima di mostrarti questo incredibile esercizio vorrei farti notare
che ciò che abbiamo visto finora è praticamente una sorta di
“sistema completo per la tua gestione interiore”, perché se davvero
impariamo a lasciare andare le cose che ci incastrano, a notare i
pattern (le sequenze ripetute) che continuano a ripresentarsi, prima o
poi, grazie alla consapevolezza, impariamo a riconoscerli. Ti ricordi
del cagnolino, che lasciandogli lo spazio adatto e trattandolo con
gentilezza s’instaura una sorta di feedback tra di voi? Qui è la stessa
cosa, se noti che ogni volta che sei al lavoro e stai portando
attenzione consapevole a ciò che fai, continui sempre a pensare a
quel “maledetto” del tuo capo, ecco che a furia di posarci sopra la
tua consapevolezza prima o poi sperimenterai un naturale “lasciare
andare”. Più ti alleni a lasciare andare le cose non pertinenti in quel
momento e più diventi bravo a notare l’emergere di cose non
pertinenti. Questo significa che stai nascondendo a te stesso che il
tuo capo è brutto e cattivo? Assolutamente no, siamo già bravissimi
da soli a nasconderci le cose e a evitare le situazioni che ci fanno
soffrire; anzi, se accoglierai quei pensieri capirai anche come
rapportarti meglio con il tuo capo. Non è nascondere la polvere
sotto il tappeto, anche perché per lasciarla andare davvero devi
riconoscere questa tua tendenza e iniziare a farci i conti.
Tutto ciò funziona se sei davvero allenato con il modello IOS ; non

158
è che se l’hai provato un paio di volte diventa una sorta di tecnica
per gestire i pensieri, altrimenti non avrei perso tutto questo tempo
a descriverti in diverse salse come applicarlo, ti avrei semplicemente
detto: «Quando sorge un pensiero distraente fai così e cosà» e tutto
sarebbe finito lì. Te lo dico perché la tecnica che stiamo per vedere
sembra in apparenza una sorta di “panacea” che ti consente di
superare qualsiasi evento negativo, ma non è così. Ti aiuta a
guardare in faccia ciò che non ti piace e al contempo elaborarlo quel
tanto che serve a liberare un pezzetto di RAM ; in pratica, portandoci
attivamente la nostra consapevolezza, stiamo dicendo al nostro
“impiegato” di aver visto la pratica e di lavorarci sopra in
background per portarla a termine.
Finora ho volutamente lasciato da parte i concetti di “conscio” e
“inconscio”, ma è ovvio che ciò di cui stiamo parlando viaggia a
livello inconsapevole per la maggior parte del tempo. E in caso tu
non te ne sia accorto, almeno l’80 per cento della nostra attività
psichica è inconscia o meglio inconsapevole, non solo per la quantità
di materiale presente sulla scrivania e nei magazzini ma per tutto ciò
che precede il pensiero: miriadi di reazioni chimiche delle quali non
siamo lontanamente consapevoli.
Perché parlare di inconscio? Perché per riuscire davvero a lasciare
andare i contenuti mentali devi iniziare a fidarti di quella parte che
ti sostiene in ogni istante; anche adesso, mentre leggi, continui a
respirare, a notare le sensazioni del mondo, a pensare, e tutto questo
accade spontaneamente. Non ne abbiamo parlato prima perché è
facile pensare che la consapevolezza sia conscia e l’automatismo (le
mappe) sia invece inconscio, ma non è così semplice; infatti, puoi
diventare consapevole del tuo respiro e nel momento in cui ci poni
la tua attenzione non è più inconsapevole. Il nostro scopo non è
quello degli psicoanalisti, cioè far emergere tutto l’inconscio e
rimpiazzarlo con il conscio, ma è imparare a fidarci di noi stessi, del
fatto che se lavoriamo con consapevolezza sui nostri contenuti
mentali, anche quando li lasciamo andare la nostra mente sarà in
grado di farci i conti, così come fa i conti da decenni con miriadi di
informazioni diverse. Lo so, sono cose che andrebbero provate sulla
propria pelle e che facilmente ci confondono. Più avanti, quando ti
racconterò la mia storia, renderò tutto ancora più chiaro, è una

159
promessa, ma prima vediamo insieme come funziona la “scrittura
espressiva” che può benissimo rientrare nei nostri strumenti di
autoconsapevolezza, oltre a liberare la RAM e rendere la nostra
attenzione più acuta.
Innanzitutto lascia che ti dica che per anni noi psicologi ci siamo
chiesti il valore della scrittura, ed esistono in merito centinaia di
sperimentazioni. Tuttavia la più completa in assoluto ci arriva da
uno psicologo sociale, James Pennebaker, che ha studiato la scrittura
per quarant’anni giungendo ad alcune semplici regole per
utilizzarla e trarne il massimo vantaggio.

1. Scegli un tema che ti torna in mente in modo ricorrente (una


tipica distrazione interiore che hai notato) o qualsiasi altra cosa
del passato su cui vorresti lavorare.
2. Prendi carta e penna (o qualsiasi altro supporto, anche una
tastiera) e trova un posto tranquillo dove poter scrivere di
seguito per almeno 20 minuti consecutivi. Devi superare il
quarto d’ora; se vuoi, poi puoi proseguire anche per 10 ore ma il
minimo deve essere tra i 15 e i 20 minuti di scrittura
continuativa su quel tema. Se superi quel tempo stai dicendo
alla tua mente di continuare a occuparsi di quella cosa anche
quando l’esercizio termina.
3. Scrivi a ruota libera, infischiandotene delle regole grammaticali,
della punteggiatura e di tutto ciò che potresti scrivere. Per
questo motivo devi fare “voto di cancellazione”, vale a dire che
ciò che scrivi lo devi eliminare, altrimenti mentre sei intento nel
compito ti sorgono dubbi del tipo: “E se qualcuno lo leggesse?”.
Evitiamoli da principio facendo voto di cancellazione.
4. Stai sul pezzo. Ti renderai conto che non è facile, perché
scrivendo tenderai ad andare in altri reami, proprio come fa la
nostra attenzione; ogni volta che te ne rendi conto cerca di
tornare sul tema scelto. Anche a costo di ripetere le stesse cose
più e più volte.
5. Ripeti per almeno quattro giorni il tema sullo stesso argomento;
questa è la fase più difficile perché ti sembrerà davvero di
riscrivere le stesse cose, ed è per questo che devi cancellarle
giorno per giorno: il tuo scopo non è scrivere qualcosa di

160
sensato ma è “vomitare” su carta tutto ciò che ti passa per la
testa nei confronti di quella situazione.

Pertanto, se scopri che le cose che ti portano lontano dalla tua


attenzione sono cinque, dovresti fare l’esercizio per cinque
settimane, lasciando almeno due o tre giorni di pausa tra un tema e
l’altro. Ti avviso, se la tematica che hai scelto è dolorosa, non sarà
facile, e per i primi minuti dopo la scrittura non ti sentirai bene: è un
effetto del compito. Non preoccuparti, se lo farai per bene scoprirai
che questo effetto tende a svanire, e nei giorni successivi (secondo le
ricerche, anche nei mesi) ti sentirai molto più libero mentalmente.
Spero sia chiaro che questo compito non serve a elaborare i
traumi della propria vita, si può farlo ma da psicoterapeuta ti
consiglio di rivolgerti a qualche mio collega specializzato nei traumi,
ci metterai di meno e sarà più semplice. Sappi che se ti imbatti in un
vero trauma, da elaborare in psicoterapia, il primo segnale è che fai
fatica a scriverlo, perché il solo pensarlo ti fa soffrire molto; in
questo caso, non provare neanche a fare l’esercizio e rivolgiti a uno
specialista. Ci tengo a dirlo: ho fatto fare questo compito a migliaia
di persone e nessuno ha ottenuto risultati straordinari, sta tutto nelle
tue mani, adesso siediti e inizia a scrivere!

161
I pattern di pensiero e il timbro

Se hai iniziato a fare gli esercizi proposti qui, certo non ti avrà
sorpreso trovare l’esercizio della scrittura, perché molti dei nostri
contenuti mentali sono spesso ridondanti e si presentano alla nostra
coscienza con una certa frequenza. Non parlo solo delle cose
spiacevoli o piacevoli che, come abbiamo visto, per la loro carica
emotiva ci restano “appiccicati” perché desideriamo elaborarli. Mi
riferisco in generale a come funziona la nostra mente, che da bravo
computer continua a elaborare gli input trasformandoli in
rappresentazioni mentali (mappe) e continuando a proporceli.
Questo non accade sempre per motivi inconsci che dobbiamo
risolvere, per questioni lasciate in sospeso, ma capita per come
naturalmente funziona questa macchina, che deve sempre e di
continuo cercare di prevedere che cosa accadrà. E per farlo fa
continue scorribande tra i ricordi e li proietta nel futuro; non è un
male, anzi, è un bene che faccia questo lavoro, fino a quando tale
movimento non ci distrae da ciò che è importante per noi in un
determinato istante.
Se in questo momento pensi alle vacanze, la tua mente inizierà a
mettere sul tavolo del nostro impiegato (memoria di lavoro) un
sacco di previsioni su che cosa fare in vacanza, su come andrà e su
come ti sentirai in quel momento. E se lasci che il pensiero si
frapponga tra queste parole e la loro comprensione, tra qualche riga
ti chiederai: «Che cosa sto leggendo?». Ma se hai già iniziato a fare
gli esercizi di certo avrai sperimentato ciò che chiamiamo il “timbro
mentale consapevole” cioè la capacità di riconoscere un certo
contenuto mentale e di tornare gentilmente su ciò che stavi facendo.
Questo timbro è tecnicamente la tua metacognizione, la capacità di
accorgerti di che cosa ti sta girando per la testa; ovviamente non
puoi sapere che cosa c’è lì dentro al cento per cento ma puoi iniziare

162
a renderti conto di quanto tendi a identificarti eccessivamente con i
tuoi contenuti, perdendo la capacità di stare nel presente.
Ti ricordi quando abbiamo parlato del “timbro”? Bravo, era la
parte dedicata ai “giudizi”; avrei potuto semplicemente dirti di
notarli e tornare gentilmente al tuo punto di focus ma in realtà i
giudizi sono mappe complesse che necessitano di questo piccolo
trucco iniziale. Più un contenuto mentale è complesso (o
emotivamente carico) e più tende ad attirare la nostra attenzione,
facendoci identificare con esso per poterlo comprendere e/o
risolvere. Ma in realtà, se lo facciamo nel momento sbagliato, invece
di risolverlo si tramuta in una sorta di lotta interiore tra il nostro
desiderio di restare attenti e la tendenza interna a voler
“maneggiare” quei pensieri. Abbiamo visto che se qualcosa è
davvero impegnativo da “digerire” mentalmente è bene fermarsi e
utilizzare la “scrittura espressiva”; ma non possiamo sempre
fermarci e scrivere, anzi, per farlo come descritto serve tempo e
programmazione. Allora, che fare? Probabilmente lo hai già capito,
dobbiamo imparare a riconoscere gli “schemi” che emergono con
maggiore frequenza, sono temi, copioni di comportamento,
modalità di interazione che a poco a poco impariamo a riconoscere.
Il modo più semplice, divertente e allo stesso tempo efficace è
prendere nota dei nostri schemi e dargli dei “nomignoli” stupidi: se
per esempio mi accorgo che tutti i lunedì mattina passo il tempo a
pensare a quanto sarebbe stato bello restare a letto e ciò mi tortura
durante il lavoro, quando mi accorgo dell’emergere di questa storia
che mi racconto potrei dire a me stesso “ecco il dormiglione!” e poi
proseguire. Non deve essere una punizione, un modo cattivo di
trattarti, ma deve diventare un appellativo gentile che ti ricordi che
continuare a restare appiccicato a quella storia non è utile in quel
momento.
Ora ti chiedo, quante volte ti sei accorto di aver perso tempo
dietro alle numerose storie che ti racconti durante la giornata? Non è
un male che accada, ma se succede mentre fai altro questo ti drena
energia, è come se lasciassi aperti tanti software sul tuo computer che
vanno a saturare la RAM rendendo i processi lentissimi e a volte
incastrandosi. Quando li noti, li “timbri” mentalmente con
un’etichetta, è un po’ come se dicessi al tuo processore che hai

163
risolto momentaneamente quella questione, che l’hai riconosciuta e
presa in carico (capisci, non stai scappando da quel contenuto) e che
può tornare a occuparsi di ciò di cui si stava occupando. Questa
distinzione è fondamentale: non stai evitando i contenuti, anzi, li
stai riconoscendo e mettendo da parte temporaneamente. Se sono
davvero importanti torneranno in un momento migliore, ma
considera che non stai scappando, stai solo dando nuove priorità al
tuo “impiegato” interno.
Quali sono gli schemi che girano con maggiore probabilità dentro
di noi? Ne esistono tantissimi in base alla nostra esperienza di vita,
tuttavia ci sono dei “denominatori comuni” che possiamo prendere
in esame, uno di questi lo abbiamo già visto: la tendenza a
continuare a giudicare tutto. Non mi riferisco a una semplice
valutazione o al discernimento tra bene e male, intendo proprio che
tendiamo a ricamare su ogni input che entra nella nostra coscienza,
ne abbiamo parlato nella parte dedicata al “non giudizio”. Imparare
a osservare come giudichiamo il mondo e noi stessi è un modo
eccezionale per scovare i nostri schemi interiori, notando se siamo
violenti, nervosi, esigenti, “vacanzieri” ecc. E quando li notiamo
possiamo dire: “Ciao violento… ciao esigente… ciao pigrone”; come
vedi, sono cose negative, anche perché quelle positive, nella
maggioranza dei casi, sono più facilmente riconoscibili e gestibili,
ma non meno distraenti.
Ti immagino, se è la prima volta che leggi cose del genere
penserai: “Ma devo mettermi a scrivere in quel modo strano e poi
anche fare questo stupido gioco del timbro… Servirà a qualcosa?”.
Capisco bene questo tipo di pensieri, ma devo dirti che i due esercizi
che hai appena visto (e anche i precedenti) sono delle vere e proprie
“bombe” che funzionano in casi davvero intensi, come nel mio
studio, per esempio. Stai davvero apprendendo delle metodiche che
funzionano, e non perché piacciano a me, ma perché sono state
comprovate da numerosi studi e dall’esperienza clinica di migliaia
di terapeuti. In particolare nella mia professione li uso con efficacia
da almeno un decennio in tantissimi contesti: dal lavoro con gli
sportivi a quello con le grandi aziende.
Non voglio tirarmela, ma in questi anni ho avuto la fortuna di
lavorare con le aziende italiane più importanti e con diversi sportivi,

164
tutti ai massimi livelli nelle loro rispettive discipline. Questo
appunto non vuole certo impressionarti ma mostrarti che se queste
cose hanno funzionato per loro, per migliorare la loro vita e la
gestione delle loro risorse attentive, non vedo perché non
dovrebbero funzionare anche per te. Essenziale, però, è che una
volta compreso di avere una macchina molto potente tu ne faccia
buon uso, cioè che tu segua i nostri esercizi come se andassi in
palestra, facendoli un paio di volte; comprenderli solo teoricamente
non serve a un granché. Quando esci dalla palestra, soprattutto i
primi tempi, come ti senti? Se sei un essere umano come me ti
sentirai “tutto rotto”, perché i muscoli non sono abituati a quei
movimenti; lo stesso accadrà con questi esercizi: inizialmente ti
sembrerà di fare una doppia fatica dovendo restare nel presente,
notare le distrazioni, eventualmente “timbrarle”, tornare
gentilmente alla tua attenzione ecc. È un graduale processo di
rieducazione dell’attenzione che può essere svolto anche da soli,
basta seguire con cura le istruzioni contenute in questo libro;
tuttavia, come ogni “rieducazione”, non si tratta di una passeggiata,
e più t’impegnerai in questi compiti e più ne trarrai benefici per la
tua capacità di spostare l’attenzione sul mondo che ti circonda, e
anche dentro te stesso.
Come vedremo tra poco, tutto ciò può tradursi in un
miglioramento della vita sotto tutti i punti di vista, perché
l’attenzione è la facoltà più importante che possediamo, non solo
per “stare attenti” ma per dare valore alle cose della vita. Ecco allora
come gestire le “timbrature”.

1. Crea uno spazio sul tuo smartphone dove scrivere gli “schemi”
che riesci a notare durante la giornata. Puoi usare anche carta e
penna, ma dovresti averli sempre con te; i dispositivi elettronici
tornano molto utili perché sono sempre con noi.
2. Non ti aspettare di riconoscerli solo perché ti sembra già di
sapere che “stai sempre a pensare ai soldi”, per esempio; non è
solo questo, sono pattern che devi notare in quel preciso
momento, non cose che “immagini” potrebbero distrarti.
3. Quando ne noti uno molto frequente, inizia il vero esercizio: gli
dai un bel nome per il tuo “timbro mentale” e ogni volta che ti

165
accorgi di incastrarti in quel processo, lo timbri, cioè lo nomini
mentalmente (“Ecco il giudichino!”), cerchi di essere gentile con
te stesso (ricorda il ciclo dell’attenzione) e ritorni a ciò che stavi
facendo.
4. Una cosa è certa, se è un pattern frequente tenderà a tornare più
e più volte e tu altrettante volte dovrai notarlo, timbrarlo e
tornare al presente. Ti avviso, non devi farlo sempre, basterà
notarlo tre o quattro volte al giorno per iniziare a trarre
beneficio da questo strumento.
5. Sorridi. A furia di “timbrare” ti capiterà prima o poi di farlo
quasi spontaneamente, come se avessi addestrato l’impiegato (la
memoria di lavoro) a farlo per te; quando succede è come se ti
accorgessi in anticipo della distrazione. A quel punto, sorridi, fai
un leggero sorriso: questo rinforzerà il processo aumentando la
probabilità che accada nuovamente.

166
La gestione dei contenuti interiori

Nel caso tu non te ne sia accorto, ciò di cui ci stiamo occupando da


un lato ti rende più “attento”, perché ti consente di notare gli
ostacoli principali alla tua attenzione, le mappe; dall’altro, questa
capacità di trattare i tuoi contenuti interiori si trasforma, con un
buon esercizio, in una vera e propria metodologia per gestire ciò che
passa nel teatro della tua mente. Ricapitolando, per “contenuti
interiori” intendo qualsiasi rappresentazione mentale (immagini,
suoni, sensazioni ricordate) e anche il tuo mondo emotivo, le nostre
irrinunciabili emozioni. Ora, la mia intenzione non è trasformare
questo libro in un corso per la gestione dei contenuti interiori, ma è
ovvio che potrebbe diventarlo, perché questo è il superpotere a cui
puntiamo dall’inizio: renderci conto di ciò che ci passa per la testa,
riconoscerlo, trattarlo adeguatamente (con gentilezza e rispettando
il “gioco delle sensazioni”) e tornare al nostro “punto di focus”.
La “timbratura” di cui abbiamo appena parlato è un espediente
molto efficace per mettere insieme tutte queste cose; non l’ho
inventato io (come non ho inventato il 90 per cento di ciò che viene
trattato in questo testo) ma è frutto della ricerca in una pratica
terapeutica abbastanza recente, la ACT (Acceptance and
Commitment Therapy), terapia dell’accettazione e dell’impegno. La
cito perché ritengo sia stata in grado in questi anni di trasformare i
concetti legati alle pratiche di mindfulness in metodi operativi e
semplici da applicare nella vita di tutti i giorni, senza
necessariamente sedersi in meditazione. Tanto che invece di parlare
di “disidentificazione” dai propri contenuti mentali – ciò che
avviene durante la pratica di meditazione seduta – si parla di
“defusione”, un concetto gemello che però rende meglio l’idea di ciò
che accade quando ci distraiamo. Tendiamo cioè a “fonderci” con i
nostri contenuti mentali; quando invece riusciamo a pensare bene, a

167
pensare “liberamente” (a mente libera), è come se riuscissimo a de-
fonderci da quei contenuti. Sì, lo so, è lo stesso identico fenomeno
della disidentificazione, solo che qui non ci si riferisce a uno stato
“assoluto” di abbandono dei concetti, ma a un leggero
allontanamento, il cosiddetto “passo indietro” già compreso a livello
intellettuale dai fenomenologi (epoché), che libera la nostra RAM e ci
consente di funzionare meglio.
Gli esperti di questa disciplina dicono: “Impariamo a portare i
nostri pensieri con leggerezza invece che stringerli con forza”; e per
riuscire a farlo si sono inventati un sacco di tecniche e strategie, una
delle quali è il “timbro” dei pensieri, che serve sempre a farci capire
che i pensieri non sono azioni o eventi fisici e non dovremmo
trattarli alla stessa stregua. Se un oggetto in casa non mi piace posso
buttarlo via o metterlo in cantina, ma se un pensiero o un’emozione
non mi piacciono non posso fare altrettanto, anzi più cerco di
liberarmene e meno funziona. Lo abbiamo provato tutti, credo,
magari al mattino quando ci siamo svegliati con la famosa “canzone
nelle orecchie”… Ecco, in quel momento la cosa peggiore che si
possa fare per non sentire più quella canzone è cercare di non
ascoltarla, provare a sostituirla con un altro pensiero, un’altra
canzone, un altro contenuto mentale. Questo genera dentro di noi
un conflitto tra due parti: quella che apparentemente desidera
ascoltare la canzone e quella che vuole cambiarla o eliminarla, e
purtroppo il campo di battaglia tra queste due fazioni, siamo noi.
Nel tentativo di far prevalere un contenuto mentale su un altro
perdiamo energie, tendiamo a ritornare ancora e ancora a pensare a
ciò a cui non volevamo pensare e a lungo andare potremmo
diventare “fobici” verso un certo pensiero.
Hai capito bene, se per caso non vuoi pensare che sei basso, alto,
magro, grasso, pelato (come me) o non vuoi che ti torni in mente
una certa idea, non vuoi che la gente parli di “certe cose”, in realtà
stai attuando degli evitamenti che sul lungo periodo ti
indeboliscono. E vuoi sapere una cosa interessante per noi? Quegli
stessi evitamenti ci impediscono di essere presenti, quindi di usare
efficacemente le nostre risorse attentive. Tutto questo giro di parole
non assomiglia forse a ciò che abbiamo già detto? Le risposte sono
tante ma la principale è legata all’evitamento: quando si parla negli

168
esercizi di “timbrare” o “osservare” (per mettere da parte) i propri
pensieri, la gente crede che sia un modo per scappare da quei
pensieri. Invece il primo passo per qualsiasi presa di consapevolezza
è l’accettazione di ciò che sta capitando, e per accettazione non mi
riferisco a un “arrendersi” a ciò che stai provando ma piuttosto
all’“abbracciare”, andare verso quelle sensazioni e quei pensieri.
Fare il “passo indietro” non serve a evitare il contenuto mentale ma
a guardarlo meglio nella sua interezza senza scappare, serve per
farci capire che molte energie che sprechiamo durante il giorno sono
allocate per evitare determinati pensieri, emozioni, stati d’animo. E
più li evitiamo e meno capaci di gestirli diventiamo: semplice da
comprendere difficile da applicare, perché ti accorgerai di avere
instaurato dei “giri mentali” così raffinati per scappare dai contenuti
mentali.
Quindi il primo motivo per cui parliamo di defusione e di ACT è il
voler presentare questa idea di “evitare di evitare”, lasciando andare
i nostri pensieri, riconoscendoli per ciò che sono e non cercando di
eliminarli o nasconderceli, ma portandoci verso di loro. La seconda
ragione è che l’ACT ha sviluppato una vasta serie di strumenti per
fare il “passo indietro” senza necessariamente sedersi in
meditazione, e tra poco ne vedremo qualcuno. Infine perché l’ACT si
è occupata di mettere in fila alcune cosette tanto care a chi come me
si occupa di “crescita personale” e non solo di clinica, mi riferisco in
particolare al lavoro sui “valori” che vedremo tra poco. Tengo a
precisare che mi piace l’approccio di ACT perché non ha cercato di
mettere i diritti sulle proprie scoperte, in parte perché sono dei veri
ricercatori e in parte perché i loro strumenti appartengono a diversi
approcci. L’idea di base è semplice: quando abbiamo un obiettivo
chiaro e valori chiari (le cose importanti per noi) su cui focalizzarci,
tutto ciò che di interiore “bussa alla porta della coscienza” va
riconosciuto, accolto e gentilmente messo da parte per tornare
sull’obiettivo.
Vediamo adesso alcuni strumenti dedicati alle “distrazioni
importanti”, tipo pensieri ricorrenti, emozioni intense ecc. In realtà,
uno dei più potenti lo abbiamo visto, la scrittura espressiva, ma non
sempre abbiamo tempo per prendere carta e penna. Questi esercizi
si basano sempre sul diventare consapevoli di non essere più nel

169
presente e ci aiutano a tornarci in modo gentile e intenzionale anche
quando i pensieri sono di una certa portata. Sperimentandoli ti
renderai conto che la chiave è sempre la tua consapevolezza: non
appena ti accorgi di esserti incastrato, quella scintilla di presenza è
già sufficiente per avviare il processo di defusione. Piccola nota che
sento di dovere ribadire: i contenuti disturbanti di cui ci stiamo
occupando non sono aspetti traumatici o clinici, se così dovessero
essere te ne accorgeresti da solo perché faresti molta fatica a
lavorarci con le metodiche qui presentate. In tal caso il consiglio è
sempre quello di rivolgerti a un professionista che possa aiutarti a
sbarazzarti di quei “giri mentali” e tornare ad avere la tua RAM
libera.

Sto pensando a…
La prima tecnica che ti propongo è una semplice frase da
aggiungere quando ti accorgi di essere eccessivamente “fuso” con i
tuoi pensieri. Quando succede, di’ dentro te stesso: “Sto pensando
che… bla bla bla”. Facciamo un esempio comune. Immaginiamo che
tu abbia appena fatto un errore sul lavoro o in qualsiasi altro
contesto; a un certo punto la tua vocina interiore dice: “Sei proprio
uno stupido”, e lo fa con una certa veemenza. Ammettiamo che tu
abbia già un pizzico di dimestichezza con i nostri esercizi; questa
crea consapevolezza e ti fa rendere conto che sei “fuso” con l’idea di
esserti comportato da stupido. A quel punto ti fermi un istante,
osservi ciò che hai appena detto (senza cercare di capire perché e
come) e dici a te stesso: “Bene, ora sto pensando che sono uno
stupido”.
Capisci che cosa succede? Che dire a te stesso che quello è un
pensiero è molto diverso da crederci e basta, perché nel momento in
cui scopri che si tratta di un semplice pensiero ecco che tutto si
alleggerisce. Ovviamente non è una pillola magica e non funziona
sempre, con tutti e con tutto, altrimenti avrei già vinto il Nobel da
un pezzo! Ripetilo anche quando non ti senti particolarmente
consapevole, funziona lo stesso se riesci a notare il tipo di pensiero e
a dire a te stesso: “Sto pensando che…”.

170
Abbandonare la lotta
Abbiamo visto che dentro di noi spesso s’instaura una “lotta” tra
parti, una dice “Devi stare attento”, l’altra “No, voglio pensare alle
vacanze”; se lasci che questo tira e molla prosegua ti ritroverai fuori
focus ed esausto. Poni attenzione a questo processo in modo gentile
e accogliente immaginando di lasciare andare la lotta e tornando
sempre con gentilezza a ciò che stavi facendo ogni volta che riesci a
rendertene conto. Se la lotta è persistente tu insisti gentilmente,
vedrai che a mano a mano diverrà sempre meno incessante fino a
estinguersi naturalmente la maggior parte delle volte.
Anche in questo caso, se la lotta è troppo intensa puoi usare carta
e penna e lavorarci sopra con il nostro diario; tuttavia, riuscire a
rendertene conto in quel momento e metterla da parte con questi
esercizi risulta essere più efficace nel tempo.

Cambiare tono di voce


Hai una vocina interiore che ti tortura? Se ti fermi ad ascoltarla ti
rendi conto presto che usa un tono piuttosto duro. In questo caso
potresti provare a giocare con quella voce, magari rendendola più
rapida o più lenta sino a farla diventare “stupida” o irriconoscibile.
Potresti attribuirle la voce di Paperino o di qualsiasi personaggio ti
faccia sorridere e prendere le cose con leggerezza. Mi raccomando,
quando fai questo esercizio ricordati che il tuo scopo non è scappare
da quella voce, ma è giocarci per capire che si tratta di uno dei tanti
pensieri che ti attraversano ogni giorno e che non puoi “controllare”
i tuoi pensieri e neanche le tue emozioni ma puoi decidere le tue
azioni!

Accogliere le sensazioni
Se la distrazione che ti porta lontano è una sensazione fisica o un
sentimento, anche in questo caso la cosa migliore è riconoscerla e
accoglierla. Per farlo, un buon metodo è portarci sopra la tua

171
consapevolezza non giudicante e aperta; immagina di poterla
accogliere comodamente, respiraci dentro, senti il tuo respiro che
entra ed esce da quella sensazione e nota come ciò la renda più
leggera e maneggevole.

Gentilezza e compassione
Questi due elementi, che sembrano usciti da un film romantico, sono
in realtà la chiave per trattare i contenuti disturbanti, perché in un
solo colpo ti consentono di maneggiare con “leggerezza” anche le
cose più pesanti. Non è facile farlo ma immaginare di cullare quella
tua parte come se fosse tuo figlio o un cucciolo che ami è una buona
strategia. Se emergono contenuti intensi prova a notarli e a pensare
di cullare un bambino, di stringerlo a te per qualche istante prima di
tornare al tuo presente. Ricorda che la gentilezza è parte integrante
del ciclo dell’attenzione: essere gentile con te stesso è la cosa più
importante per evitare di perdere motivazione e riuscire a tenere
con leggerezza quei contenuti mentali.

Defusione linguistica
Questa metodica richiederà qualche passaggio in più ma ne vale la
pena, perché è in grado di smascherare le nostre mappe
mostrandoci quanto le parole che ci diciamo non siano altro che
parole, segni linguistici a cui noi attribuiamo il “peso” che ci grava
addosso.
Forse questo gioco l’hai fatto più volte da bambino, ora lo dovrai
fare in un luogo riservato se non vuoi essere preso per matto. Per
prima cosa ti chiedo di pensare a una parola comune come “acqua”.
Nota poi quante cose collegate a questo concetto emergono
spontaneamente; se sei abbastanza consapevole ti renderai conto che
la parola sarà per te associata a diversi altri concetti: l’acqua da bere,
l’acqua di un fiume, del mare. Lascia per qualche secondo che la tua
mente vada a infilarsi in tutti i suoi “rivoli concettuali” e quando
pensi di averne trovati abbastanza fermati. Adesso arriva la parte

172
imbarazzante: con un cronometro, per circa 40 secondi ripeti ad alta
voce “acqua”, in modo rapido, prestando attenzione a come muovi
la bocca mentre lo fai… Sei pronto? Via!… “Acqua, acqua, acqua,
acqua”… L’hai fatto? Non so se ti è successo ma di solito la parola
perde completamente di senso, a volte ne assume altri o
semplicemente si scolla da tutte le altre mappe rivelando la propria
natura. Scommetto che per qualche istante il termine “acqua” ha
perso tutte le associazioni che arrivavano prima, giusto? Se non è
accaduto è perché devi ripetere più velocemente e per più tempo il
gioco, che non ha solo lo scopo di rivelare la natura delle nostre
associazioni mentali ma può essere utilizzato come tecnica di
defusione.
Se durante gli esercizi noti delle parole che ti danno
particolarmente fastidio, annotale e poi usale in questo esercizio per
un po’. Se ti dici “stupido” ogni volta che sbagli, oltre a tutto quello
che abbiamo visto, tu prova a ripetere a pappagallo la parola
“stupido” finché non perde il suo valore simbolico.

Come portare questi esercizi nella quotidianità


Per prima cosa ti invito a scegliere l’esercizio che preferisci e a
costruirti una serie di segnali che ti aiutino a ricordare di utilizzarli.
Un modo può essere usare il tuo smartphone, con dei promemoria;
un altro è quello di mettere in giro dei post-it con scritte le parole
chiave che ti servano a ricordare di praticare l’esercizio. Questo non
vale solo per le tecniche che abbiamo appena visto ma per tutti i
consigli proposti in questo libro: se non li applichi nella tua vita
difficilmente ne trarrai grandi benefici. Per quanto tempo? Non
esiste un tempo determinato ma di solito una settimana di pratica è
sufficiente per prendere dimestichezza con la tecnica; per cui applica
questi promemoria e porta avanti un esercizio per volta a settimana.
Se hai tempo e sei bravo puoi mettere insieme più esercizi, senza
esagerare: due, massimo tre alla settimana sono più che sufficienti.
Ripeto il disclaimer. Questi consigli non sostituiscono un consulto
con un professionista: se hai pensieri e contenuti mentali troppo
disturbanti la scelta migliore che tu possa fare è farti aiutare. Perché

173
questi contenuti sono spesso le distrazioni più importanti, e se il
nostro stato mentale è costantemente disturbato e gli esercizi
presentati non dovessero aiutare a ristabilire la giusta attenzione,
allora fatti aiutare. Considera l’intervento terapeutico non come il
dover aggiustare qualcosa che si è rotto, ma come liberare la RAM in
modo da poter agire in modo più libero e consapevole.

174
Le mappe più importanti

Come avrai notato il lavoro che stiamo facendo qui non è


aggiungere ma togliere qualcosa. Ora ti immagino dirmi, con gli
occhi fuori dalle orbite: «Scusa, ma mi hai appena riempito di nomi
strani, tecniche di timbratura, defusione e cose del genere!…»; è
vero, ma il loro scopo non è aggiungere concetti o mappe, è
l’opposto. Lo scopo di tutte le cose che ci siamo detti finora non è
che tu sappia a memoria questi termini ma che, attraverso gli
esercizi, possa aumentare la tua attenzione e di conseguenza la tua
consapevolezza. Quindi puoi tranquillamente dimenticare ogni
termine che hai letto, l’importante è sperimentare queste metodiche
con la pratica. Se ciò ti sorprende significa che non sono stato ancora
abbastanza chiaro: ciò che più ti distrae e ti allontana dalla tua
attenzione sono i tuoi contenuti interiori (le mappe).
Tuttavia dobbiamo passare da altre mappe per uscire dalle nostre
mappe, quello che gli psicologi hanno definito: “Al di là del
pensiero, attraverso il pensiero”. Visto che purtroppo non possiamo
che comunicare attraverso concetti, è da qui che dobbiamo passare
per capire che non sempre è bene restare “nei concetti”. È inevitabile
però passarci, ed è utile coltivarli come software da affinare con
l’esercizio, lo studio e la conoscenza, per poi mettere questo zaino
dietro alle nostre spalle ed essere presenti alla nostra vita. Immagina
il nostro impiegato modello che organizza le informazioni sul suo
tavolo, la nostra memoria di lavoro, e nel farlo tende a dare priorità
alle cose che gli sono più “vicine”, le cose più in alto nella fila dei
“documenti”. In base a quale criterio organizza quella fila?
Come abbiamo visto, i bias ci mostrano che la mente tende spesso
a sbagliare in certe operazioni, sempre per motivi legati al risparmio
energetico, così per lo stesso motivo organizza le cose in base a ciò
che ritiene più importante (o almeno così dovrebbe fare). Questi

175
principi sono noti nel campo della crescita personale come “valori”,
ciò che è davvero importante per te in un determinato momento. Se
tu stessi scrivendo una tesi o un articolo dedicato all’attenzione su
una rivista prestigiosa, leggeresti queste parole con maggiore cura
rispetto a chi ha deciso di acquistare questo libro perché è stato
attratto dal titolo o dal colore della copertina. Perché per te sarebbe
“più importante” cogliere le informazioni necessarie per il tuo
lavoro, si tratta sempre di quell’aspetto selettivo della nostra
attenzione che è guidato principalmente dai nostri interessi
personali, da ciò che ci sta a cuore.
Ora, se un po’ conosci questi temi ti starai chiedendo magari che
cosa c’entrino i nostri valori con l’allenamento dell’attenzione. Te lo
spiego subito: se devi svolgere un compito di attenzione selettiva,
come stare attento a qualcosa di specifico, sai che ogni volta che
arriva una distrazione (interna o esterna) tu la noti e gentilmente
torni al tuo compito. Ma non sempre ciò che stiamo facendo è
preciso nella mente, ecco perché avere un obiettivo chiaro è un buon
presupposto per la tua attenzione, in modo da sapere dove
ritornare. Quindi, la prima mappa utile da utilizzare è avere ben
chiaro l’obiettivo che stiamo perseguendo in quel preciso momento.
Sappiamo tutti, ormai, che senza obiettivi non si arriva da nessuna
parte. Purtroppo, però, anche avere obiettivi chiari non garantisce
sempre di sapere quale direzione dare alla nostra attenzione, e allora
entrano in gioco i valori, perché si trovano a un livello gerarchico
più alto rispetto agli obiettivi.
In altre parole, scegli le mete in base ai tuoi interessi, cioè in base
a ciò che ha valore per te, e saperlo e tenerlo a mente è un’ottima
bussola per utilizzare al meglio gli strumenti che ci siamo dati qui,
per sapere dove tornare quando ci distraiamo e anche per dare
senso alla vita. Se per caso stai leggendo questo libro per portare
avanti i tuoi obiettivi professionali e li hai già ben chiari davanti a te,
sappi che questo esercizio ti guiderà nonostante tu possa pensare di
avere “già” ben chiaro perché fai ciò che fai, può aiutarti ad avere
una direzione. Ti avviso, questa parte è forse la più complessa, ma
comprenderla ti aiuterà a capire bene tutto il testo, anche le parti
precedenti e ti aiuterà a fare la cosa più importante: esercitarti.
Che cosa sono i valori? Sono concetti sovraordinati che indicano

176
ciò che è davvero importante per te, lo ripetiamo perché non è facile
afferrarlo, soprattutto se è la prima volta che ne senti parlare. Avrai
certo sentito più volte dire “non ci sono più i valori di una volta”,
intendendo che ogni società ha dei valori che però, esattamente
come i nostri interessi personali, tendono a cambiare nel tempo. Ci
sono comunque valori sui quali tutti concordano: amore, amicizia,
libertà, conoscenza, salute ecc. È fondamentale sapere che di fatto
“non esistono”, sono direzioni ideali che guidano il nostro agire, ma
non troverai mai l’amore puro, l’amicizia pura, la libertà pura ecc. È
esattamente come seguire un punto cardinale: se decidi di
“raggiungere” il nord non ci arriverai mai, cioè anche se tu arrivassi
al punto più a settentrione di dove ti trovi adesso, ci sarebbe sempre
un altro nord da raggiungere rispetto alla tua posizione. Non è un
gioco intellettuale, è proprio così. Anche qui, se teniamo con troppa
forza i “nostri valori” rischiamo di incastrarci, di credere che il nord
esista davvero senza mai arrivarci, e come puoi immaginare ciò non
porta solo “distrazione” ma anche a una profonda insoddisfazione
personale.
Ora prendiamo un esempio che a me piace molto. Immagina che
per te sia importante mangiare bene e in modo sano, quindi avere
come valore il benessere e la salute; ogni volta che vai al
supermercato, se hai chiari questi valori, non riempirai il carrello di
schifezze, perché le tue azioni saranno guidate da questi “punti
cardinali”. È un atteggiamento nobile che richiede la tua attenzione
per essere portato avanti, tuttavia può capitare che tale valore
diventi un ostacolo. Ora pensa di essere ancora al supermercato ma
stavolta, oltre alla spesa settimanale, devi preparare la festa di
compleanno di tuo figlio. Se “stringi” troppo il valore della salute
rischi di acquistare solo cose sane che certo non faranno piacere a
tuo figlio e ai suoi amici, devi per così dire renderti conto che sei
troppo “fuso” con quel valore, metterlo da parte per poter fare
piccoli strappi alle regole (cioè ai tuoi valori). Perché anche se i
valori sono importantissimi, e noi li seguiamo spesso senza saperlo
(vedremo come approfittare di questa cosa), sono comunque mappe,
ipotesi sul mondo e non verità assolute!
Come vedi, la quantità di identificazione (o fusione, per usare la
terminologia ACT ) con i nostri contenuti mentali, di qualsiasi genere

177
essi siano, ci impedisce di essere mentalmente flessibili, qualità
fondamentale per poter allenare la nostra presenza. Tuttavia i valori
sono la mappa più importante per migliorare le nostre abilità, in
qualsiasi ambito, anche in quello che stiamo vedendo qui, cioè la
capacità di “restare sul pezzo”, come se divenissero dei fari da
seguire quando le distrazioni diventano molte e facciamo fatica ad
ancorarci al presente. Sono essenziali ma allo stesso tempo
dobbiamo trattarli come mappe, sono delle direzioni e non sono i
tuoi veri e inconsci “bisogni inespressi”, ci tengo a sottolinearlo
perché per anni la psicologia è stata vista come la disciplina che
“analizza le cose sconosciute e pericolose che bussano alla porta
dell’inconscio”. Non è così, le cose sono molto più semplici, davvero
assomigliamo di più al nostro smartphone che non a un terreno
stratificato da scavare giorno dopo giorno.
Te lo dico perché tra poco ti chiederò di fare mente locale sui tuoi
valori, su ciò che è davvero importante per te, perché è stato
dimostrato avere un effetto benefico non solo sulla capacità di
portare avanti i nostri obiettivi ma anche sulla nostra salute in
generale. E quando le persone iniziano a chiedersi “che cosa è
davvero importante per me”, tendono a cercare e cercare ancora e
ancora come se ci fosse una verità dentro di loro da raggiungere. Mi
dispiace dirtelo, è molto meno romantico di così e per fortuna,
perché se così fosse tutti saremmo sempre in balia di questa ricerca
di noi stessi che in realtà ci porta fuori strada. Non fraintendermi,
tutta la psicologia che funziona è per me conoscenza di se stessi, ma
pensare di riuscire a conoscerci così come possiamo farlo con il
quartiere di una città è una pia illusione che può condurci a perdere
tempo in un’analisi personale senza fine.
Quindi, la prima regola dei valori è che non ne esistono di giusti
o corretti, ma soltanto quelli che in quel determinato contesto sono
importanti per te. Facciamo un piccolo esercizio: “Perché è
importante per te migliorare la tua attenzione?”; prenditi qualche
istante per pensare alla risposta. L’hai fatto? Bene, se ci sei riuscito
avrai raccolto un bel po’ di ipotesi, e forse ci saranno più cose che
assomigliano a un valore: “È importante perché posso lavorare
meglio”; “è importante perché prestare attenzione migliora la
qualità della vita” e così via. Come vedi non è facile notare quali

178
sono i valori, il primo è “lavorare meglio”, il secondo è “migliorare
la qualità della vita”, ma se uno scava ancora potrebbe scoprire che
desidera lavorare meglio perché vuole avere più “libertà” personale
o sostenere la propria famiglia, o essere riconosciuto come una
persona in gamba.
I valori sono tanti e anche abbastanza diversi tra loro, ma nel caso
tu sia intenzionato a migliorare davvero la tua attenzione sarebbe
bene che iniziassi a selezionarne uno da tenere a mente come una
bussola. Se per esempio hai detto: “È importante perché stare
attento nella mia vita significa preservare la salute” (magari fai
l’autista), ecco che hai trovato un valore. Che cosa farne? Tante cose,
ma la prima e più importante è usarlo come modalità per tornare
agilmente a ciò che stavi facendo, per cui se immaginiamo un autista
che ha preso questo libro per migliorare la propria capacità di stare
sul pezzo, ogni volta che si accorge di perdersi in modo esagerato,
può ritrovare la strada richiamando il suo valore, il “perché faccio
ciò che faccio”. Che – attenzione – non è sempre evidente, cambia in
base ai contesti e fa sempre parte delle nostre rappresentazioni, per
cui si tratta solo di un espediente per tornare nel presente e
motivarci a proseguire con i nostri esercizi senza farci distrarre
eccessivamente.

ESERCIZIO
Se non lo hai fatto, fermati per qualche istante, prendi carta e penna (o il
quaderno dedicato al nostro percorso) e scrivi perché hai deciso di
migliorare la tua attenzione. Fai un piccolo tema come se fossi a scuola,
diciamo che circa 10 minuti di scrittura possono essere sufficienti per un
lavoro iniziale.

Una delle storie più incredibili sull’importanza dei valori la


troviamo nel lavoro di Viktor Frankl e nel suo meraviglioso libro
Uno psicologo nei lager, che descrive la sua storia nei campi di
concentramento nazisti, dove è stato prigioniero per diversi anni.
Attraverso quel supplizio ha compreso diversi aspetti dell’animo

179
umano, come l’estrema importanza di dare valore alle azioni che si
compiono, anche se apparentemente sono prive di senso. L’autore ci
descrive compiti e lavori che i nazisti facevano fare ai prigionieri
completamente senza senso, tipo trasportare sacchi di cemento da
una parte all’altra del campo, e di come chi riuscisse a trovarvi un
senso aumentava le probabilità di sopravvivenza. Lo psichiatra,
neurologo e filosofo Frankl (non era uno psicologo come
suggerirebbe il titolo del libro) ci racconta di quanto il desiderio di
uscire e condividere con il mondo le atrocità che stava vivendo gli
consentisse di andare avanti. Non solo, anche il pensiero che un
giorno avrebbe rivisto la propria moglie e la propria famiglia lo
motivavano a non mollare e a trovare un senso in quelle azioni
disumane e inutili. Voler condividere con il mondo e rivedere i
propri cari hanno guidato le sue azioni a non perdere la speranza e
soprattutto ad attribuire un significato ai giorni che passavano.
Lo so, è un esempio estremo ma mostra chiaramente come tenere
a mente ciò che è “importante” per noi faccia tutta la differenza del
mondo. Una storiella illustra bene questo passaggio: ci sono tre
muratori che stanno lavorando e gli viene chiesto che cosa stiano
facendo; il primo risponde “sto costruendo un muro”, il secondo
“sto costruendo una chiesa” e il terzo “sto costruendo la casa del
Signore”. Il primo parla del proprio mestiere, il secondo della
propria carriera e il terzo della propria vocazione, cioè spinto da un
valore più grande. È chiaro che se nel lavoro pensi di fare qualcosa
di valore per te e per gli altri, la prospettiva con cui ti impegni è del
tutto diversa dal pensare di dover semplicemente portare a casa lo
stipendio. Queste cose, sotto sotto, le sappiamo tutti, ma non tutti
sappiamo come attingere a tali significati della vita, e devo dirti fin
da ora che è molto meno romantico di quanto si possa immaginare.
Il “senso della vita” è ciò che è importante per te in questo
momento, è una direzione nel futuro ma non si trova nel futuro! È
qualcosa di presente, qui e ora. Se leggi questo libro tanto per
“svagarti” non c’è alcun male, ma se lo stai leggendo perché ritieni
sia importante saper gestire l’attenzione perché questo ti rende più
consapevole (nel lavoro, con i figli, con il tuo partner ecc.), ecco che
il tuo modo di leggere cambia profondamente. Acquisisce un
significato legato a ciò che è davvero importante per te adesso, non

180
tra qualche anno o mese e neanche ciò che ti interessava ieri. Ecco la
ragione per cui lavorare intenzionalmente sulla definizione di ciò
che è essenziale per noi può dare una direzione a tutte le nostre
risorse e ai nostri obiettivi. Valori e obiettivi non sono la stessa cosa.
Gli obiettivi sono ciò che pianifichi di fare, e i valori sono il perché
decidi di farlo: se vuoi imparare l’inglese puoi creare un percorso
chiaro e definito per tappe, ma la qualità del “perché” renderà tutto
diverso. Se devi impararlo perché pensi sia utile conoscerlo dato
ormai lo si parla in tutto il mondo è un conto, se invece ti innamori
di una persona che parla solo inglese è tutt’altra faccenda. Ho scelto
l’amore perché sicuramente è il valore che perseguiamo
maggiormente e universalmente, tutti vogliamo sentirci amati;
qualcuno afferma che sia il valore dietro ogni nostra azione, e io
sono abbastanza d’accordo. Ma il valore non è solo il “motivo”
(come nel caso della relazione sentimentale), è una mappa
particolare nella quale ci si può perdere ed è facile non capire
esattamente quale direzione abbia.
Il problema più grande dei valori è che vengono scambiati per
qualcosa di indissolubile e allo stesso tempo qualcosa che ha a che
fare con la nostra parte spirituale o etica; in parte è vero, ma
possiamo tranquillamente spiegarli senza parlare né di spirito né di
comportamento etico. L’esempio più tipico è questo: immagina di
essere il membro di una squadra di calcio che sta giocando una
partita dura; risultato a fine primo tempo: 2-2. All’improvviso
appare davanti a te il classico “genio della lampada” che ti propone
un patto, se vorrai potrà farti vincere la partita per magia con il
risultato che desideri. Che fai, accetti?
No, tranquillo, non è un test su quanto sei onesto, ma serve a
mostrarti la differenza tra valori e obiettivi: vincere la partita è un
obiettivo, mentre “come” la vinci ha a che fare con i tuoi valori. Il
modo in cui decidi di portare avanti il gioco, l’impegno dei
giocatori, le tattiche e tutto il resto emergono da ciò che è importante
per te durante la partita, la vittoria invece fa parte degli obiettivi,
così come il numero di gol che servono per piazzarsi bene in
campionato. Se rispondi subito «Sì, voglio assolutamente vincere la
partita» significa che per te giocare a quel gioco non è abbastanza di
valore rispetto all’obiettivo. Un giocatore interessato a migliorare il

181
proprio gioco e a godersi le partite non accetterebbe il patto del
“genio”, mentre uno che non ha troppa voglia di giocare o che teme
di perdere, cioè è troppo attaccato all’obiettivo, lo farebbe subito.
Ripeto, non è questione di onestà ma di quanto è importante per te
quel processo, la cosa che stai facendo, il valore che gli attribuisci. La
tua attenzione è legata a doppia mandata a questo concetto: da un
lato il “perché faccio ciò che faccio” guida le tue azioni, anche se non
te ne rendi conto; dall’altro lato, ciò a cui dai maggiore attenzione
diventa importante per te.
L’abbiamo visto prima descrivendo in modo fumettistico la
nostra memoria di lavoro, come un impiegato che si trova sul tavolo
delle cose da fare: più attenzione hai dato a una certa mansione e
più sarà in alto nelle priorità di quell’impiegato zelante. Fare
chiarezza sui valori significa quindi da una parte diventare più
bravi a direzionare i nostri sforzi, sapendo di poter contare su una
guida interiore; dall’altra parte ci aiuta a capire quali sono i valori di
fondo di ciò che facciamo, anche senza rendercene conto. Fare
chiarezza sui valori significa fare chiarezza sugli ideali che guidano
le tue azioni, spesso senza che tu ne sia consapevole. E devi sapere
che molte volte tali ideali non hanno niente di “ideale”, ma sono
solo semplici abitudini mentali che hai acquisito osservando le
persone che ti circondano.
Se compi azioni in linea con i tuoi valori non solo riesci a
mantenere meglio la tua focalizzazione su ciò che desideri e su ciò
che è importante per te (ricordiamoci che “valore” significa proprio
“investire”, dare valore alle cose) ma ti senti anche più soddisfatto
dei tuoi sforzi personali. Perché sai che li stai facendo per una
motivazione più ampia, per una sorta di ideale che non è quasi mai
personale: sì, se ci farai caso scoprirai che i valori più importanti
implicano le altre persone. Nonostante tale “impersonalità” i valori
li scegli tu e prevedono delle azioni, perché se qualcosa è importante
per te lo puoi dimostrare solo attraverso dei gesti. Se è importante la
salute tenderai a fare certe cose e non altre, se è la libertà idem e
avanti in questo modo.
Tengo a sottolineare che quanto detto, così come gli esercizi che
seguono, sono stati comprovati dalla ricerca, e se ti ci impegni
funzionano davvero. Lo dico perché spesso si confonde una buona

182
idea con ciò che invece è testato sul campo: a volte le idee buone
sono anche verificate, altre volte no. Questa credo appartenga al
primo caso, perché anche solo fare mente locale sui nostri valori è
stato dimostrato avere un potere sulla direzione che vogliamo dare
alla nostra vita, per cui figuriamoci sulla nostra attenzione, scopo
principale del libro.
Come ti accennavo, questa è la parte più complessa, perciò non
preoccuparti se questo tema ti sembra difficile: è sicuramente
impegnativo, ma attraverso alcuni esercizi capirai meglio come
funziona. Lo scopo dei compitini che trovi di seguito non è scoprire
il tuo vero valore o l’insieme dei tuoi inconsci “valori guida” ma
serve a fare soltanto un pizzico in più di chiarezza. Perché se tieni a
mente perché fai ciò che fai questo rafforza la tua motivazione e
soprattutto dà una direzione alle tue risorse attentive, oltre che dare
senso alla vita.

Che cosa è davvero importante per me? Strategie per


scoprirlo
Prendi carta e penna e prova a rispondere a questa domanda. È
difficile? Sì, è difficilissima, e ora ti aiuterò con una strana strategia,
forse un po’ macabra, chiamata anche “Il funerale”, ma io ti
presento la mia versione leggermente più allegra. Purtroppo
entrambe le versioni prevedono che tu sia già morto. La prima ti
chiede di immaginare il tuo funerale e ascoltare che cosa dicono di
te le persone che ami; a me non piace tantissimo, ma sai… de
gustibus. Io ne uso un’altra, nella quale noi non ci siamo più: ci
troviamo in un futuro molto lontano, diciamo l’anno 2427, quando
uno storico scopre tutta la tua storia e decide di scriverci un articolo
approfondito sottolineando ciò che di importante hai seguito nel
corso della tua vita. Immagina di scrivere questo pezzo in modo
dettagliato, scoprirai facilmente ciò che è importante per te, se essere
visto come “curioso”, “amante della libertà”, “fedele compagno”
ecc. Prendi nota di almeno due o tre valori che emergono dalla
descrizione, quelli che ti piacciono di più, scegli quelli che ti

183
sembrano risuonare maggiormente in quel momento, senza
pensarci. Nel corso dei prossimi giorni prendi uno dei valori scelti,
posiziona una sveglia a 10 minuti e inizia a scrivere un tema sul
ruolo che riveste quel valore nella tua vita. Evita di preoccuparti,
nessuno lo leggerà o lo correggerà, per cui scrivi a ruota libera per
10 minuti consecutivi ciò che pensi, senti e immagini di quel valore.
Fai lo stesso per i restanti valori individuati, se vuoi nello stesso
giorno (dedicando a ognuno un piccolo tema di 10 minuti) oppure
in giorni differenti.
Questo esercizio è potente e ha come effetto quello di chiarire i
nostri valori, di farci accorgere che stiamo perseguendo quello
sbagliato e ci permette di individuare la strada da prendere. Non
voglio che tu mi creda, l’unico modo per sapere se lavorare su
queste cose ti aiuta davvero è quello di farle, metterti lì con pazienza
e intenzione (ricordi la “pratica deliberata”?) e fare gli esercizi. Se
non funzionano avrai perso qualche minuto del tuo tempo, se invece
funzionano avrai fatto un passo importante verso la comprensione
di te stesso e delle tue azioni e potrai usare quei valori come bussola
per perseguire i tuoi obiettivi.

L’ultima telefonata
Un altro trucco mentale per riuscire a capire che cosa è davvero
importante per noi sta nella simulazione di un’ultima telefonata.
Immagina di essere chiuso dentro una casa e di sapere che di lì a
poco questa esploderà; hai qualche ora di tempo e il tuo cellulare a
disposizione: chi chiami? che cosa gli dici? quali sono le ultime cose
che desideri comunicare agli altri?
Come vedi, anche questo esperimento mentale implica qualcosa
di tragico, perché purtroppo è in momenti del genere che riusciamo
a capire quel che è davvero importante per noi e che rimettiamo in
ordine le nostre priorità. Anticamente era così nota l’importanza di
tali momenti che vi era il famoso memento mori.

184
La partita
Infine torniamo all’esempio della partita insidiosa ferma sul 2-2, con
la proposta del genio malefico: accetteresti di vincere direttamente il
match senza giocare più la partita? Ora pensa a un obiettivo che stai
perseguendo in questo periodo e immagina che possa apparire un
“genio” a farti quella proposta: che fai, accetti? Se la tua risposta è
no, prendi carta e penna e cerca di motivarla, nel farlo emergerà ciò
che è importante per te in quel processo, i tuoi valori. Se invece hai
risposto affermativamente, significa che per te l’obiettivo in quel
contesto è più importante del processo per raggiungerlo. Allora
chiediti: che cosa dovrei aggiungere al processo affinché divenga
più importante per me? come dovrebbe avvenire? Prenditi almeno
10 minuti per ciascuna risposta, ripetila a mano a mano che prosegui
nel percorso per raggiungere il tuo obiettivo e scoprirai i valori di
base che guidano le tue azioni e determinano la tua capacità di
indirizzarci sopra la tua attenzione.

185
Il flow

Ora proprio chi avrebbe più bisogno di questo capitolo avrà forse
già abbandonato la lettura vedendo tutti gli esercizi di cui abbiamo
discusso, perché leggendo quel discorso avrà pensato: “Sì, ma io a
volte sono talmente preso dal mio lavoro da non avere neanche il
tempo di notare le distrazioni, sono completamente assorbito da ciò
che sto facendo e lavoro molto bene quando accade”. Quello
specifico stato mentale è stato studiato in modo accurato dai miei
colleghi e prende diversi nomi: il più noto è “stato di flusso” (flow) o
“stato di prestazione ottimale”. Per parlare con i nostri termini, è il
perfetto connubio tra utilizzo delle mappe e consapevolezza verso
ciò che stiamo facendo nel presente, ci capita spesso anche se non ce
ne rendiamo conto.
Se questo libro ti piace particolarmente, se ritieni che sia
importante imparare a gestire le proprie risorse mentali, se ti piace
leggere di psicologia, allora è probabile che tu abbia vissuto piccoli
stati di flusso proprio tra queste righe. Ogni volta che ci
immergiamo del tutto in un compito, qualcosa che sappiamo fare
abbastanza bene e che sia sufficientemente sfidante, entriamo in uno
stato di flusso caratterizzato da una totale concentrazione, da una
soddisfazione intrinseca e dalla abilità di fare le cose quasi senza
sforzo. Atleti, musicisti e performer la chiamano spesso “la zona”, ma
se ci pensi si tratta di qualcosa che incrocia alla perfezione i due
modi di funzionare della nostra psicologia, che sono rappresentati
dalle nostre mappe (automatismi, “Sé narrativo”, bottom-up ecc.) e
dai nostri sensi e dalla loro elaborazione. Secondo lo psicologo di
origine ungherese Mihály Csíkszentmihályi, pioniere e ideatore del
termine flow, questo viene descritto come uno stato che può essere
analizzato e realizzato incrociando due variabili: la quantità di sfida
e la quantità di preparazione. Laddove possiamo vedere la sfida

186
come ciò che rappresenta la quantità di attenzione necessaria per
fare qualcosa (i nostri sensi), competenza e abilità come le nostre
mappe, ciò che abbiamo appreso e che riusciamo a mettere in
pratica.
Se sono presenti poca sfida e poca abilità il risultato sarà di
“apatia” nei confronti di quella presentazione, aumentando la sfida
e tenendo ferma la quantità di competenze si va verso la
preoccupazione, l’ansia e l’agitazione. Mentre se la sfida resta bassa
e cresce la competenza si va verso stati di rilassamento e noia; se la
sfida corrisponde o è al limite un po’ più alta della competenza,
allora si crea un circuito magico, dove l’impegno e la prestazione si
fondono e ci perdiamo in questo stato ottimale di performance. La
sensazione soggettiva è di profondo benessere, sia durante la
prestazione sia dopo, al punto che questo stato può creare un senso
di dipendenza: personalmente suono quasi tutti i giorni i miei
strumenti, non tanto perché abbia delle particolari mire musicali ma
perché mi fa stare bene, mi fa accedere a profondi stati di flusso. La
ricetta per raggiungerli è ormai di dominio pubblico e si compone di
5 ingredienti che possono aiutarci non solo ad aumentare nella
nostra vita la presenza di flow ma anche a farci capire come
applicarlo nella sfida ingaggiata in questo libro: la nostra attenzione.

Ecco i 5 ingredienti del flow:

Obiettivo chiaro
Compito autotelico, cioè intrinsecamente piacevole
Feedback chiaro e immediato
Senso di sfida non esagerato
Presenza e focus assoluti

Obiettivo chiaro
Come abbiamo già detto, per poter dirigere al meglio le nostre
risorse è necessario avere un obiettivo chiaro davanti a noi,
dobbiamo sapere esattamente perché stiamo facendo ciò che
facciamo. In parte può essere utilissimo avvalersi dei veri timoni

187
della mente, i “valori”, ma possiamo anche lasciarli da parte perché,
come vedremo, tale stato non è la stessa cosa che cercare di restare
presenti e attenti, anche se in un certo senso è il massimo grado di
eccellenza delle nostre prestazioni.
Quindi, per prima cosa, devi sapere ciò che stai facendo, il che
implica che devi già saperlo fare, devi avere un certo livello di
competenza in quel campo.

Compito autotelico
Quando ciò che stai facendo è soddisfacente di per sé, e il compito
stesso è la gioia e non il traguardo che si raggiunge, si parla di
processi “autotelici” (con un senso intrinseco). Suonare uno
strumento, fare sport e anche fare l’amore con il proprio partner
sono tutti ottimi esempi di esperienze intrinsecamente soddisfacenti.
Anche qui rientra il discorso sui “valori”: se qualcosa è davvero
importante per te tenderà a diventare autotelica, se al contrario non
ha valore tenderai a vederla come un obiettivo che è meglio se viene
raggiunto nel modo più rapido e indolore possibile (grazie al nostro
“genio” che risolve le partite di calcio). Quindi se ciò che fai è
allineato con ciò che è importante, ecco che puoi accedere allo stato
di massima prestazione anche se quel compito non è in apparenza
autotelico. Se per te è importante leggere questo libro, allora la
lettura stessa sarà per te un piacere, al punto che forse verso la fine ti
dispiacerà anche doverci salutare.

Feedback chiaro e immediato


Come abbiamo accennato, noi ci muoviamo in un mondo ambiguo e
tutto ciò che possiede un feedback chiaro e immediato ci aiuta a
muoverci con maggiore certezza. Guidare l’auto è un esempio di
azione con feedback chiaro e immediato (altrimenti vai a sbattere);
oggi, grazie alla tecnologia, possiamo usare strumenti che ci aiutano
ad avere un feedback diretto sulle nostre azioni: quanti passi
facciamo, come batte il cuore, quante calorie consumiamo ecc. Nel

188
nostro ciclo dell’attenzione abbiamo visto che esiste un feedback
abbastanza chiaro, anche se non facile da cogliere, ed è la
distrazione. È nel momento in cui sei distratto che ricevi il feedback
più importante di tutti per quanto riguarda la capacità di stare
attento.

Senso di sfida non esagerato


Il compito deve essere sfidante ma non troppo più alto delle
competenze che già possediamo, altrimenti tendiamo a scivolare
nella preoccupazione di non riuscire a farlo. Se la sfida è
sufficientemente alta e noi abbastanza preparati ecco che il flusso
emerge in modo spontaneo, con tutti i suoi benefici per le nostre
azioni.

Presenza e focus assoluti


Infine, per sviluppare tale stato è necessario essere del tutto assorbiti
da ciò che stiamo facendo, qualcosa che tende a presentarsi
spontaneamente nell’interazione tra sfida e competenza ma che
possiamo massimizzare attraverso l’uso consapevole dell’attenzione
che abbiamo già visto. In particolare, attraverso quella capacità di
tornare intenzionalmente a ciò che stiamo facendo senza giudicarci,
ancora e ancora.

Il nome tecnico dello “stato di flusso” spiega in modo convincente


già i propri propositi in quanto studio della esperienza ottimale,
dove lo scopo non è trovare la “concentrazione assoluta” ma è
cercare uno stato di equilibrio perfetto dove le azioni sono senza
sforzo e l’individuo non ha altro desiderio che fare ciò che sta
facendo. Mihály Csíkszentmihályi è annoverato tra gli “psicologi
positivi”, come colui che ha scoperto una delle tante versioni di
quella che potremmo definire “felicità”. Tale stato, infatti, è
caratterizzato da una profonda soddisfazione per ciò che stiamo
facendo, al punto tale che in quel preciso momento vogliamo fare

189
solo quella cosa lì e non aneliamo a nessun altro compito. È diverso
rispetto al training consapevole che abbiamo visto finora, ma è
anche molto simile perché nel momento in cui siamo davvero
presenti a ciò che stiamo facendo, entriamo in uno stato di flusso.
L’ideale, quindi, sarebbe che ogni azione che per noi richiede
attenzione potesse consentirci di accedere a uno stato simile, e per
farlo dobbiamo fare uno sforzo particolare: spostare la motivazione
verso quell’azione da estrinseca a intrinseca. Quell’azione, cioè, deve
diventare motivante di per sé e non dipendere dal fatto che ci
attragga in modo particolare, non solo dal grado della sfida quindi,
ma da quanto noi ci riteniamo in grado di affrontarla, da quanto ci
sentiamo realmente preparati e da quanto siamo davvero
competenti. Ecco perciò la risposta a chi magari, a questo punto, si
sarà chiesto: “Ma scusa, se questo stato è così meraviglioso per la
nostra attenzione perché ce lo presenti solo adesso?”. Perché è uno
stato ideale, che di norma dipende più dal tipo di sfida che stiamo
affrontando che dalla nostra capacità di restare presenti a ciò che
stiamo facendo. A volte viene confuso con il modo corretto di usare
l’attenzione, ma non è così, perché chiunque abbia esperienza con il
tentativo consapevole di stare attento saprà che lo stato di flusso
non è sempre raggiungibile perché non è sempre prevedibile la
difficoltà della sfida, e quando facciamo finta di saper fare qualcosa,
per poter entrare in quello stato, cioè quando ci convinciamo di
saper fare qualcosa che in realtà non sappiamo fare, ecco che le cose
diventano pericolose.
Abbiamo già visto che siamo tutti vittime dell’effetto Dunning-
Kruger, cioè sopravvalutare le nostre abilità soprattutto quando ne
abbiamo un pochino. Se non sai suonare la chitarra di certo sarebbe
assurdo convincersi di saperlo fare e crederci. Ma se sai fare qualche
accordo e qualche nota la cosa non è così assurda, e infatti anche se
sai fare poche cose potresti comunque accedere allo stato di
esperienza ottimale, a patto che tu continui a ripetere quelle “poche
cose” che sai fare molto bene e che le sfide che ti poni non superino
le tue competenze.
Non vorrei essere frainteso, questo è lo stato di azione “perfetto”,
dove vuoi solo essere in quel momento, dove il tempo scorre
serenamente, non provi sforzo e tutto sembra filare nel modo

190
migliore possibile. Non solo, ha profondi effetti benefici sul corpo e
sulla mente, infatti il mio consiglio è di riempire la tua vita di stati di
flusso, non solo per allenarti a riconoscere quello stato e a
mantenerlo, ma soprattutto perché ti fa bene! Allo stesso tempo,
però, scommetto che se hai acquistato questo libro è perché gli
aspetti su cui desideri migliorare la tua attenzione non sempre ti
conducono a tali stati, altrimenti il mio libro sarebbe rimasto sullo
scaffale di quella libreria. Piuttosto fatichi a stare attento, come tutti
gli esseri umani, soprattutto quando devi prestare attenzione a cose
non così piacevoli come quelle che ti portano allo stato di flusso.
Possiamo comunque utilizzarlo come un modello di esperienza
ottimale, uno stato della mente molto positivo (che ci fa bene) che
può esserci utile riconoscere soprattutto in fase di training, di
qualsiasi tipo esso sia.
Ora riprendiamo i passaggi che caratterizzano il flow e
applichiamoli a un ambito della nostra vita nel quale desideriamo
essere più focalizzati:

1. Pensa a un’azione che vorresti compiere nello stato di flusso,


qualcosa che sia per te sfidante ma non troppo, che senti già di
poter affrontare. Se hai preso questo libro con un obiettivo
chiaro da raggiungere, usalo. Descrivilo in due o tre righe.
2. Se l’azione che hai scelto è molto articolata, spezzettala in sotto-
azioni: se per esempio hai scritto che vorresti essere più
concentrato mentre suoni uno strumento, specifica esattamente
quale tecnica e stile musicale intendi apprendere. Cerca di
restringere il campo a qualche cosa di specifico, tipo: “Vorrei
essere focalizzato quando faccio le scale”.
3. Soddisfazione intrinseca: è il passaggio più difficile perché le
cose non sono sempre autoteliche per noi, anzi! Per questo puoi
affidarti ai tuoi valori, al lavoro che abbiamo fatto nelle pagine
precedenti; tra le azioni che hai scritto seleziona quelle che
rivestono per te un ruolo davvero importante e se non lo hanno
attribuisciglielo. Se per esempio hai selezionato le scale musicali,
prova a tenere in mente che quell’esercizio sarà la base per poter
suonare un giorno tutta la musica che desideri o che
svolgendolo migliorerai il tuo sound.

191
4. Scrivi le tue motivazioni intrinseche: perché vuoi davvero
migliorare quell’azione che hai selezionato?
5. Stabilisci i feedback: cerca di capire quali sono i segnali che ti
indicano che sei sulla buona o cattiva strada. Nel nostro esempio
musicale potrebbe essere un metronomo, un maestro, registrarti
e riascoltarti. Più il feedback che trovi è rapido e immediato, più
velocemente accederai allo stato di flusso, e non solo: più
rapidamente apprenderai.
6. Scrivi tutti i feedback concreti che potresti già avere o che
potresti costruire per la tua attività.
7. Competenza. Se durante quei passaggi noti di non essere
abbastanza competente, studia e preparati: senza abilità non si
accede ad alcuno stato di flusso e si rischia di essere ingannati
dalla illusione della conoscenza (effetto Dunning-Kruger).
Assumiti la responsabilità di dover migliorare e sforzati di
attribuire le tue incapacità al compito; non perché sia così, anche
se a volte i compiti sono davvero difficili, ma perché se pensi che
dipenda dall’esterno perdi potere personale. Se il compito è
troppo difficile torna indietro e cerca un “sotto-compito” più
semplice che ti consenta di esercitarti e passare a livelli sempre
più alti di competenza.
8. Scrivi tutto ciò che secondo te dovresti migliorare per poter
aumentare il tuo livello di competenza in quel determinato
ambito.

Avrai notato che questi passaggi sono un esempio perfetto di come


apprendere e migliorare in qualsiasi campo, ma non sono il modello
esatto di come si utilizza la nostra attenzione. Come anticipato, sono
la via di mezzo perfetta tra la capacità di restare presenti e l’utilizzo
delle nostre competenze (le mappe), in modo che queste non siano
una distrazione dal momento presente ma un modo per entrarci con
maggiore consapevolezza. È uno stato ideale che purtroppo richiede
che siano rispettati i punti che abbiamo elencato, ma nella realtà
delle cose non possiamo sempre sapere se siamo adeguatamente
preparati per un certo compito o se riusciremo a trovare un reale
appagamento intrinseco in ciò che stiamo per fare.
Riuscire a individuare i momenti di flow, provare a sperimentarlo

192
il più possibile, fa bene; ci sono numerose ricerche che dimostrano
quanto la nostra soddisfazione personale sia collegata alla quantità
di stati di flusso che sperimentiamo, tuttavia non vorrei illuderti
dicendoti che se ti addestri per bene potrai metterlo alla prova in
ogni compito che la vita ti richiede. Non è così, e illuderci che lo sia
può addirittura essere controproducente. Mi spiego meglio: è
evidente che essere in tale stato rappresenta l’equilibrio perfetto
della prestazione e che idealmente, in quella condizione, tutto fila
liscio; ma non è un caso che tenda a svilupparsi in contesti specifici,
dove gli obiettivi possono essere molto chiari, i feedback altrettanto
e anche la possibilità di restare per un tot di tempo nel presente. Tali
condizioni, però, si presentano di rado, ora tu puoi facilitarle
applicando i passaggi che hai appena visto, ma la verità è che nella
vita le cose non sempre sono chiare, gli obiettivi non sempre sono
cristallini e i feedback ancora meno.
Adesso il pericolo è iniziare a credere che se non siamo nello stato
di flusso “c’è qualcosa che non va”: ecco, questo è l’ostacolo
principale a ogni processo di apprendimento. È come dire che se hai
appena imparato a suonare la chitarra, e ti fanno male le dita, c’è
qualcosa di sbagliato che stai facendo. Invece purtroppo il dolore
alle dita è parte essenziale del processo di apprendimento. Creare
aspettative simili su come andranno le nostre prestazioni è il modo
migliore per prepararci alla disfatta, perché anteponiamo la mappa
che dice “Ora andrà tutto liscio” alla realtà che potrebbe essere
diversa. Inoltre tale stato, come accennato, è talmente piacevole da
creare una forte dipendenza e tenerci legati alla nostra zona di
comfort, cioè quello spazio di azione dove noi ci sentiamo a nostro
agio, che come ormai sanno anche le pietre è un limite che non ci
consente di crescere.
Al contrario, il processo della consapevolezza attiva,
rappresentata dal nostro circolo dell’attenzione, ti mette in una forte
posizione scomoda, soprattutto se non hai mai provato a restare nel
presente e notare quando non ci sei più. Questo è il vero
addestramento della mente già ipotizzato da William James e giunto
sino a noi grazie ai maestri dell’antichità, qualcosa che sembra
simile al flow ma che in realtà ne riprende solo alcuni punti, come
l’ultimo esaminato: la capacità di restare focalizzati su ciò che

193
stiamo facendo. Ma nello stato ottimale che stiamo analizzando non
facciamo alcuno sforzo intenzionale per restare nel presente, anzi
non è neppure necessaria la metacognizione, cioè la capacità di
renderci conto di esserci distratti, perché in quello stato perfetto,
non siamo distratti. E se arrivasse qualche distrazione, mentre siamo
nel flow, non ce ne renderemmo neanche conto, perché questo stato è
qualcosa che ci allontana da ciò che ci circonda. Sì, ci avvicina a ciò
che stiamo facendo ma non siamo proprio nel momento presente: se
sto suonando la chitarra e sono tutto preso da ciò che sto facendo,
non mi accorgo che ho lasciato l’acqua sul fuoco, non mi accorgo del
profumo del pane che mia moglie sta sfornando e non mi accorgo
dell’espressione annoiata di mio figlio.
Attenzione, non voglio dipingerti il flow come “brutto e cattivo”
ma fare una giusta distinzione tra la presenza e l’attenzione, alle
quali è dedicato questo testo, e lo stato di flusso. Una delle
caratteristiche del flow è chiamata anche “dissoluzione del Sé”, tema
che tra l’altro rientra anche nelle pratiche di meditazione ma che qui
indica la circostanza di essere talmente dentro l’azione da
dimenticarti di te stesso. Mentre scrivo – anche in questo momento –
mi capita spesso di essere così preso da ciò che sto facendo da
dimenticarmi di andare in bagno o di bere, e scommetto che a volte
è successo anche a te. È chiaro che è meraviglioso attingere a questo
stato, ed è per questo che gli stiamo dedicando tante pagine, ma è
fondamentale evitare di confondere la presenza con il flusso, perché
sono cose distinte. Tuttavia la buona notizia è questa: allenandoti a
restare presente stai addestrando il muscolo principale della
esperienza ottimale, la capacità di allocare intenzionalmente le tue
risorse nel “qui e ora”, che è la parte meno gestibile di tutti i punti
che compongono il flow. In poche battute potremmo riassumere
dicendo che il flow dipende dal contesto mentre la presenza dipende
da te! In realtà anche la presenza dipende dal contesto, nel senso che
quando siamo davanti a cose nuove, che non conosciamo e che
attirano la nostra attenzione, è più facile essere presenti, ma non
possiamo affidarci al contesto, altrimenti sarebbe come dire che
siamo capaci di suonare la chitarra solo quando siamo in una sala di
registrazione.

194
Nota sul contesto
La ricerca in psicologia ha ampiamente provato che il contesto in cui
ci troviamo ci influenza tantissimo, al punto che l’economista
comportamentale Richard Thaler, autore del libro Nudge. La spinta
gentile (con Cass Sunstein), ha vinto il Nobel per aver provato
quanto il contesto possa influenzare le nostre azioni. La spiegazione
è semplice: più ciò che ti circonda ti conduce in una certa direzione,
più facilmente prenderai quella strada. Quindi se vuoi imparare a
suonare la chitarra, dovrai averla vicina a te (a meno di 20 secondi,
dicono le ricerche), dovrai fare in modo che tu possa sederti e in
poco tempo esercitarti. Quindi, tenere davanti i tuoi quaderni e tutto
il materiale che facilita quella azione. In pratica, dovrai diminuire
tutte le frizioni con l’ambiente esterno, per far sì che il contesto sia
d’aiuto e non un ostacolo. Come direbbero gli esperti di “abitudini”,
devi creare dei segnali caldi che ti dicano che cosa fare, potrebbero
essere dei post-it, dei promemoria sul tuo smartphone o delle
immagini che ti portino in quello stato. Ti sembrerà assurdo e forse
banale ma posso assicurarti che ci hanno fatto decine e decine di
studi, e se possiamo convincere degli adolescenti a non consumare
più le famigerate bevande zuccherate semplicemente rendendole
meno accessibili, allora ognuno di noi può manipolare con efficacia
il proprio ambiente affinché si trasformi in un aiuto alla propria
concentrazione e non un ostacolo. Vediamo alcuni rapidi consigli.

1. Studia il tuo ambiente. Osserva l’ambiente in cui sei e in base ai


tuoi propositi cerca di avvicinare a te tutto ciò che ti serve per
restare “sul pezzo”. Dovrebbe essere a meno di 20 secondi da
dove ti trovi in quel momento: se vuoi andare a correre tutte le
mattine, scarpe e tuta da ginnastica devono essere a portata di
mano.
2. Usa dei promemoria. Per ricordarti anche cose banali usa i
promemoria, diverranno nel tempo i tuoi alleati. La nostra
memoria non è così brava a tenere tutto a mente, usa la
tecnologia o anche dei semplici post-it che ti ricordino i tuoi
propositi. I promemoria possono anche essere oggetti, colori e
segnali di vario genere che ti ricordino una certa azione da

195
mettere in atto. Non necessariamente una scritta, potrebbe
essere l’arredamento di una stanza, per esempio se metti un
cuscino per meditare, sai già che cosa potresti fare in quel luogo.
Non solo, i promemoria sono utili per liberare la nostra RAM
mentale; in sostanza, anche se sei bravo a tenere a mente le cose
scrivile. Perché ogni cosa che aggiungi alla tua memoria è un
pizzico di risorsa mentale in meno che puoi usare nella tua
prestazione.
3. Riduci al minimo le distrazioni. Se hai l’abitudine a fare quella cosa
con il cellulare davanti a te, spegnilo o mettilo in un’altra
camera. Ogni notifica interrompe la tua attenzione e ti costringe
a ripartire, anche se non te ne rendi conto.

Il flusso in compagnia
L’ultimo tema legato al flow di cui voglio parlarti è se sia meglio e
più frequente provare tale stato da soli o in compagnia; sembra una
domanda scontata, perché in tutti i passaggi di cui abbiamo discusso
per ottenere tale stato non c’è l’indicazione: “fallo in compagnia”,
eppure alcuni studi sembrano dimostrare che il flusso in compagnia
crea un legame molto forte tra le persone e rende i “compiti” più
piacevoli. Come l’hanno capito? Hanno analizzato gruppi di
studenti, ai quali è stato dato un compito che facilitasse l’accesso allo
stato di flusso, ma solo ad alcuni è stato chiesto di farlo insieme ad
altre persone. Sono stati questi ultimi ad avere trovato più piacevole
il compito, e come dicevamo è un fenomeno comune, un conto è
andare a un concerto da solo e godere delle note che si ascoltano, un
altro è andarci in compagnia. Le relazioni umane sono croce e
delizia della nostra psiche, nel senso che senza di esse non possiamo
davvero sentirci soddisfatti e appagati, e allo stesso tempo sono
proprio queste a minare spesso la nostra serenità. Un fatto è certo:
quando sperimentiamo emozioni positive desideriamo
ardentemente condividerle con altre persone, che siano vicine o
lontane da noi. Questo è uno dei motivi per cui sui social si trovano
tante cose belle, non solo perché abbiamo la tendenza a mostrare il
nostro “lato migliore”, ma perché sono le cose belle che ci piace

196
condividere con le persone.
C’è un bell’aneddoto in proposito narrato da Goethe nelle sue
memorie. Essendo un nobile agiato, lo scrittore tedesco poteva
viaggiare per il mondo, e un giorno, proprio mentre si trovava in
Italia, per l’esattezza sul lago di Garda, chiese al cocchiere di
fermarsi per ammirare il paesaggio: «Che peccato, tutta questa
bellezza e nessuno con cui condividerla» sarebbero state le sue
parole. Ora lasciamo stare che accanto a lui ci fosse il povero
cocchiere, il quale avrà pensato: “Bene, io sono nessuno”, ma la
storia è bella perché è vera, nel senso che tutti abbiamo sperimentato
quella sensazione di voler condividere qualcosa di bello con gli altri.
Pensaci, sei a casa e stai guardando la tua squadra del cuore che
inizia a vincere “di brutto”. Che fai? Be’, scrivi subito al tuo amico
con cui condividi la stessa passione; affronti un esame e va alla
grande? Che fai, te lo tieni per te o lo racconti alle persone a te più
care?
Un ultimo aspetto legato agli stati di flusso e alle relazioni
consiste nel fatto che quando sperimentiamo con gli altri questo
genere di stati entriamo in una sorta di “risonanza” con loro, che
stringe i legami e ci fa sentire maggiormente apprezzati. Come
vedremo tra poco le relazioni sono lo stadio più importante del
nostro training, perché un conto è riuscire a essere focalizzati
quando siamo da soli, tutt’altro è farlo in mezzo ad altre persone.

ESERCIZIO
Prova a notare quali sono le attività che già naturalmente ti conducono in
uno stato di flusso: una volta trovate, segnale da qualche parte e inizierai a
renderti conto che queste azioni sono solitamente quelle che ti danno
maggiore soddisfazione. Poi, prova a distinguere quelle che fai da solo da
quelle che fai con altri e cerca di mixarle tra loro. Quindi, se scopri di
percepire il flow quando vai in bici da solo la domenica, prova a uscire con
un altro appassionato di ciclismo e nota se aumenta il senso di flow o se
diminuisce.

197
Sei la somma delle cinque persone che frequenti
maggiormente

Hai mai sentito questa frase? È un po’ la versione motivazionale del


vecchio adagio “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, quindi
dovremmo riempire le nostre vite solo di relazioni positive,
arricchenti e non conflittuali, il che è possibile unicamente in un
mondo fatato che purtroppo non esiste. Chiunque abbia intorno a sé
delle altre persone sa quanto le relazioni possano diventare
conflittuali, soprattutto con chi ci sta più vicino. Ne abbiamo già
accennato, ma credo che una bella metafora tratta dal lavoro di
Arthur Schopenhauer possa rendere molto meglio questa idea. Per
descrivere il funzionamento delle relazioni il grande filosofo tedesco
utilizzava la seguente analogia.
Immagina un gruppo di porcospini che si apprestano a passare la
notte in una giornata fredda d’inverno. Per riuscire a scaldarsi
cercano una zona riparata, tipo una grotta, e si avvicinano l’uno
all’altro per potersi scambiare il calore vicendevolmente. Come puoi
immaginare, se si stringono troppo rischiano di ferirsi a causa dei
loro aculei acuminati, pertanto dovranno trovare una distanza
giusta per potersi avvicinare ma senza farsi del male.
Da questa storiella impariamo che se stiamo troppo “vicini” alle
persone ogni loro movimento può ferirci, tuttavia sarebbe sbagliato
anche stargli alla larga perché ciò ci impedirebbe di godere del loro
calore per la notte. Bisogna quindi trovare la giusta via di mezzo; se
torniamo alla massima dello “zoppo” è evidente che se io evito di
stare con tutte le persone che non mi piacciono, perché le ritengo
stupide, ignoranti, antipatiche ecc., sicuramente mi sto proteggendo
ma a lungo andare diventerò sempre meno capace di tollerare tutti
quegli aspetti. E vuoi sapere una cosa poco divertente? Se non
risolvi quel problema con Giovanni che ti fa sempre irritare, e tagli i
ponti con lui, prima o poi una persona simile a Giovanni la ritrovi

198
altrove. Ciò non significa che devi circondarti di persone che ti
mettano a disagio o in difficoltà, però non puoi scappare dalle
relazioni perché hai letto su un libro che ti “fa male stare con loro”.
Sarebbe infatti un bell’evitamento, che come abbiamo visto è una
delle cause principali dell’insoddisfazione moderna. La ricerca in
merito è piuttosto chiara: chi riesce ad affrontare le proprie difficoltà
non solo cresce e diventa più forte ma si sente anche più soddisfatto
della propria vita; chi invece scappa, si nasconde, usa scorciatoie,
non cresce, rischia di illudersi di conoscere le cose (Dunning-
Kruger) ed è spesso molto meno soddisfatto.
La psicologia positiva in pratica ha scoperto qualcosa che sotto
sotto sappiamo tutti: la qualità della soddisfazione della nostra vita
è direttamente proporzionale alla qualità delle relazioni che
intessiamo. Puoi essere bello, forte, saggio e ricco ma se non hai
nessuno con cui stare, con cui condividere, con cui confrontarti
rischierai di non goderti per nulla tutto ciò che hai accumulato e
ricevuto dalla vita. Chi segue il mio lavoro di divulgazione online in
questi anni sa che ho scelto di coniare il termine “crescita
relazionale” per sottolineare l’importanza cruciale delle relazioni e
della loro gestione per il nostro miglioramento personale. È un
nome, un’etichetta, che serve per ricordarci quanto la vera sfida
della nostra vita sia caratterizzata dalla cooperazione con le persone
che ci circondano, dal dover sopportare lo zio assillante e l’amico
lamentoso, non perché devi per forza “subirli” ma perché se fuggi a
quelle relazioni le ritroverai altrove. Puoi passare anni a meditare in
una grotta raggiungendo gli stati più alti dell’essere, il focus
assoluto e la comunione con il divino, ma se non esci da quel luogo
e non ti immetti nel flusso della vita, che è composto da relazioni,
tutto quel tempo sarà servito a poco. Magari potrai scrivere saggi
meravigliosi su quanto emerso dalla tua meditazione, rendendo
migliore la vita di altre persone, ma la tua sarà povera, perché la
vera ricchezza non vale nulla se non possiamo condividerla.
Uno dei miei maestri usava proprio far fare una sorta di
esperimento mentale ai suoi studenti: «Immagina che tutto ciò che è
presente sulla terra sia di tua proprietà, possiedi tutto, ogni
ricchezza: come ti fa sentire?». Gli allievi rispondevano: «Wow, è
una sensazione grandiosa, è tutto mio». Allora il maestro

199
continuava: «Bene, adesso che senti di avere tutto, immagina però di
essere da solo in questo mondo fittizio, non hai una compagna o un
compagno, non hai amici, parenti e vicini: come ti senti?». La
risposta era ovviamente drammatica: avere tutto a disposizione ma
non poterlo condividere non serve pressoché a nulla. Perché è
attraverso le persone che noi diamo senso al valore delle cose e a noi
stessi, confrontandoci con gli altri (a volte in modo pessimo),
ricevendo e scambiando “attenzione”.
No, puoi stare tranquillo, non è cambiato radicalmente
l’argomento del libro, anche se ci stiamo avvicinando alla fine di
questo viaggio, se fossimo in barca avremmo da poco “avvistato
terra”, perché se le relazioni danno qualità alla vita, ciò che dà
qualità alle nostre relazioni è la quantità (e qualità) di attenzione che
diamo agli altri. Quindi non siamo per nulla sfuggiti al “campo
gravitazionale” dell’attenzione!
Abbiamo visto che dare attenzione alle cose in modo intenzionale
richiede forza e motivazione, perché siamo naturalmente portati a
risparmiare energia mentale. Questo ci fa muovere agilmente per il
mondo, perché sappiamo dove si trova la scarpiera di notte, così
non ci inciampiamo, sappiamo quanti gradini hanno le scale del
nostro condominio, sappiamo a che altezza staccare le frizione, tutto
senza pensarci. Così se un giorno qualcuno cambiasse la nostra
scalinata (per assurdo) non ci renderemmo conto del cambiamento
se non dopo aver provato quella sensazione di stordimento tipica di
quando si sbaglia la quantità di gradini. È come se le mappe del
mondo che ci formiamo facessero fatica ad aggiornarsi, perché
richiedono energia, e non so se ti sei mai accorto ma, allo stesso
modo, fai fatica a notare i cambiamenti nelle persone che vedi
spesso. Forse qualche volta non hai neppure notato che tua moglie
ha cambiato pettinatura, che il tuo vicino di casa zoppica dopo un
piccolo incidente o che il tuo capo ha il volto accigliato perché ha
discusso con la moglie. Tutti abbiamo esperienza di questa “fissità
dell’attenzione”, soprattutto quando non vediamo una persona da
un po’ di tempo, in quel momento allora riusciamo a notare se è
ingrassata o dimagrita, se ha cambiato colore di capelli e se le è
comparsa qualche ruga sul volto.
In sintesi, con il tempo tendiamo a trattare le relazioni più strette

200
come tratteremmo l’ambiente circostante, dando per scontato che
restino sempre uguali. Lo so che è poco romantico da dire, ma
questo è uno degli ostacoli più grandi nelle relazioni, soprattutto in
quelle intime. Non so se hai mai sentito dire all’interno di una
coppia la frase “Smettila di darmi per scontato”: ecco, qui è
riassunto l’effetto che hanno le mappe sulla nostra intimità. Per
fortuna, dato che si tratta di un fenomeno simile a quello esaminato
nelle pagine precedenti e che abbiamo visto come una “distrazione”,
possiamo fare altrettanto con le nostre relazioni. Perché non c’è
regalo più grande che tu possa fare a una persona che donargli la
tua completa e assoluta attenzione, e non è affatto un’esagerazione:
inizia fin da adesso a prestare più attenzione alle persone che ti
circondano e scoprirai quanto è straordinario. Non solo si
sentiranno più ascoltate loro e si apriranno a te, ma tu stesso
scoprirai aspetti più profondi della relazione, ed entrerete davvero
in contatto tra di voi. E si è visto che la chiave per dirigere con
intenzione il nostro potente focus è proprio legata al “contatto” che
abbiamo con il mondo, il contatto che si sviluppa tra i nostri sensi e
gli input che provengono dall’ambiente circostante. E qual è il primo
contatto con il mondo? Be’, quello con nostra madre, con i nostri
genitori (i caregiver), con le persone a noi più vicine, è questo il
contatto primario e anche il più importante per la nostra
sopravvivenza. Non solo quando siamo neonati e indifesi, dove è
necessario affidarci sempre agli altri, ma anche da adulti le relazioni
restano il sale della vita, ciò che dà significato e senso alle nostre
azioni.
Abbiamo visto nella parte dedicata ai valori come le cose
acquisiscano valore in base all’attenzione che gli diamo: se dai
attenzioni alla tua auto, la porti spesso dal meccanico, la fai pulire e
manutenere, la proteggi dalle intemperie, sul lungo periodo potresti
persino farla diventare un’auto d’epoca. Se fai il contrario, invece,
nel giro di pochi anni si rovina e perde drasticamente valore. La
stessa cosa capita in qualsiasi campo, anche nelle relazioni. È
l’attenzione, dunque, la risorsa che maggiormente serve a dare
valore alle relazioni e alle cose che ci circondano. Ecco perché
parliamo di un argomento così apparentemente fuori luogo, ma
spero di averti finalmente convinto che è tutt’altro che fuori tema,

201
anzi è il tema centrale delle nostre vite ed è il modo più saggio di
utilizzare le nostre risorse attentive.

202
Le relazioni sono come una pianta, se non le curi
appassiscono

La parola “amore”, nel contesto di questo libro, potrebbe essere


benissimo sostituita da “attenzione”: dare amore agli altri significa
prestargli attenzione. Ti sei mai chiesto perché la maggior parte
delle persone trova l’amore vicino a sé? Lo so, la risposta non ti
piacerà: perché è più disponibile e ci si può scambiare meglio
attenzione, circostanza che oggi si sta diluendo grazie o a causa del
digitale. Però, prima di dare attenzione agli altri devi darne a te
stesso.
Ti racconto un’analogia che illustra bene questo passaggio. Hai
mai preso l’aereo? Se ti è capitato, certo non ti saranno sfuggite le
curiose manovre di sicurezza spiegate dagli assistenti di volo prima
del decollo, informazioni ritenute talmente importanti che ti fanno
togliere gli auricolari per assicurarsi che tu stia ascoltando. Ecco,
durante quella procedura, a un tratto dicono qualcosa del genere:
«In caso di perdita di pressione scenderanno dall’alto delle
maschere per l’ossigeno: se avete accanto dei bambini indossatele
prima voi e poi fatele indossare ai vostri figli». Perché dovremmo
indossarle prima noi? Se uno ha delle nozioni minime di medicina
potrebbe subito pensare che si tratti di una manovra profondamente
sbagliata, infatti sono sufficienti pochi secondi senza ossigeno
perché il nostro cervello abbia gravi ripercussioni, soprattutto in età
infantile. Tuttavia, se tu non la indossi e svieni, i tuoi figli da soli
non riusciranno a indossarle, è per questo che prima devi pensare a
te e poi a loro.
Questa è una meravigliosa metafora del concetto che se non ami
prima te stesso difficilmente potrai amare gli altri: lo so, è un po’
tirata come analogia ma rende bene l’idea. Bisogna però evitare di
fraintenderla: non significa che prima dobbiamo pensare a noi stessi
e poi agli altri, così da giustificare il nostro egoismo in una società

203
altamente autocentrata. Il senso è che se non ti ami non puoi dare
amore; se immaginiamo l’attenzione che diamo agli altri come se
fosse una sorta di moneta, potremmo dire che prima è necessario
accumularne per noi e solo dopo possiamo darne agli altri. Forse ti
suonerà strano: se per caso stai pensando “Eh, ma io penso agli
altri”, ecco, sappi che questo è un problema, così come lo è
l’opposto, cioè pensare solo a se stessi, cosa molto più frequente
nella nostra società.
Esiste un modo per amare se stessi senza seguire i classici consigli
da rivista (comprati un nuovo abito)? La risposta è sì, e l’abbiamo
approfondito in queste pagine: riprendere i tuoi sensi e spostarli su
te stesso in modo intenzionale e non giudicante, cercando di essere
gentile quando le cose si fanno difficili. Ecco, questo è un modo
splendido di amare se stessi. Sto parlando proprio della
meditazione, una pratica che ha ormai spopolato in tutto il mondo
non tanto perché è di moda (come si è detto) ma perché funziona
bene e non richiede di abbracciare alcuna ideologia, semplicemente
occorrono impegno e dedizione.
Come si fa?
Se ti chiedo di dare più attenzione a un amico o al tuo partner che
cosa ti viene in mente? Forse avrai pensato a “vederlo” meglio o
ascoltarlo o addirittura toccarlo: ancora una volta sono tutti
riferimenti ai sensi, ma in particolare ne usiamo uno per l’attenzione
agli altri, qualcosa che ci fa capire subito se la persona davanti a noi
è interessata o meno, ed è l’ascolto. Sì, d’accordo, se uno non ci
guarda ci viene spontaneo pensare che non ascolti, ma la verità è che
non sempre gli occhi vanno dove si dirige l’attenzione e la prova di
tale ascolto arriva solo in un secondo momento. Facciamo un
esempio: hai mai sentito dire “Sono tanto innamorata di lui perché
mi riempie di attenzioni”? Che significa? Di certo non che le fa tanti
regali, perché io posso farti molti doni ma se non ascolto le tue
esigenze e ciò che davvero desideri, ecco che farò dei regali a caso.
Al contrario, se ti ascolto con attenzione, magari anche a distanza di
mesi ti farò un regalo splendido per il tuo compleanno, perché ti ho
sentita dire: “Sarebbe proprio bello avere in regalo quelle scarpe…”.
Ascoltare il prossimo è una delle cose che dimostra
maggiormente attenzione, ed è anche un metodo splendido per

204
addestrare la nostra attenzione relazionale, che è diversa da quella
che abbiamo quando siamo da soli, è più complessa perché c’è
anche “l’altro”. Quando tengo i miei corsi in pubblico chiedo alle
persone di fare un piccolo esperimento di focalizzazione, come
l’attenzione al respiro che abbiamo trattato nei primi capitoli, poi
domando se hanno avuto difficoltà. Per ingannarli, gli faccio fare
solo qualche respiro, così non si rendono conto di quanto sia
difficoltoso restarci sopra, poi chiedo di fare una cosa strana:
«Prendetevi per mano». È molto divertente perché spesso insegno in
aziende enormi con personale esclusivamente maschile, così mi
trovo davanti una folla di uomini in giacca e cravatta, di solito
ingegneri per formazione, che a un tratto si devono tenere per mano
come se fossero tornati alle scuole elementari.
Questo semplice contatto mano nella mano modifica
completamente la capacità di prestare attenzione a se stessi e
all’ambiente circostante, perché le relazioni (strette o distanti)
possono avere un grande effetto su di noi. Alcuni studi hanno
dimostrato che basta uno sguardo accigliato che incroci per la strada
a modificare leggermente il tuo umore, oppure che un sorriso di una
bella ragazza o di un bel ragazzo può farti addirittura sbandare con
l’auto. Tu stesso puoi metterti alla prova ascoltando un discorso di
dieci minuti in TV o su internet e verificare quanto ricordi di ciò che
hai sentito, e fare poi la stessa cosa con un tuo vicino di casa: noterai
che la quantità di attenzione e di informazioni trattenute è molto
diversa. Perché quando parliamo con gli altri siamo spesso
concentrati su come ci vedono, su come ci giudicano, e invece di
ascoltarli pensiamo alla cosa giusta da dire, alle parole più
intelligenti per mostrarci scaltri o alla battuta più divertente per
risultare simpatici. E più facciamo così e meno riusciamo davvero
ad ascoltare una persona, a entrarci in sintonia, a notare ciò che
realmente ci piace di lei o meno.
Ora potresti pensare che tale mancanza di attenzione sia dovuta
all’imbarazzo della relazione, e in parte avresti ragione, ma non del
tutto. Infatti, è molto più probabile che tu non stia ascoltando
qualcuno che conosci bene rispetto a chi invece non conosci. È
sempre una questione di mappe; se lavoro da dieci anni con Luigi e
lui mi dice sempre le stesse cose (o almeno io credo sia così), non ho

205
bisogno di ascoltarlo davvero con attenzione, a meno che non sia il
mio principale o non abbia qualcosa di davvero importante da
comunicarmi. Se non credi che le cose possano andare così, puoi
testarle tu stesso con un collega con cui ti relazioni quotidianamente,
prova a fargli un discorso senza troppo senso e vedrai che lui ti
risponderà come se avesse capito, come se fosse chiaro quello che gli
hai detto. Esempio: «Ehi Luigi, ma lo sai che tutto quello che stiamo
facendo non è ciò che pensavamo di non dover fare l’altro giorno,
sei d’accordo?». Con tutta probabilità prima vedrai uno sguardo
perso nel vuoto, del tipo “Ma che cavolo stai dicendo?”, poi magari
ti dirà: «Ma sì, certo, sono d’accordo anche io»; se invece Luigi è un
“bastian contrario” potrebbe dirti: «No, non sono affatto d’accordo»,
senza avere ovviamente compreso ciò che hai detto.
Allenati ad ascoltare gli altri, soprattutto le persone che ti stanno
accanto, posso assicurarti che ti cambierà la vita in positivo,
soprattutto se riesci ad applicare il nostro modo speciale di porre
attenzione alle cose: ascoltando con tutto te stesso,
intenzionalmente, stando nel presente e senza giudicare e ogni volta
che ti perdi, chiedi semplicemente di ripetere e ti perdoni. Per fare
tutto ciò devi già aver sperimentato i nostri esercizi, ed è anche per
questo motivo che parliamo di un tema così importante come le
relazioni verso la fine di questo testo, perché se prima non hai
sperimentato su te stesso sarà difficile che tu possa riuscirci con gli
altri. Per fortuna è sufficiente sapere che la tua attenzione è
importante nella relazione per aumentare il tuo grado di presenza,
già questo fa la differenza ma spesso non basta.
Per riuscirci devi adottare due piccoli accorgimenti tecnici al tuo
modo di comunicare: oltre a restare nel presente, devi avere la
capacità di restare in silenzio senza parlare sopra gli altri; anzi, devi
forzarti a restare zitto e se dentro di te si formulano un sacco di
ipotesi devi notarle e metterle da parte. Il tuo compito non è
consigliare e dire che cosa ne pensi ma è ascoltare. La seconda
manovra tecnica consiste nel fare domande al posto di affermazioni;
se per caso chi hai accanto a te non parla molto, poni tu delle
domande, e nel caso si crei silenzio, prova a restare in quello spazio
vuoto per qualche istante. Se sei un chiacchierone come me
probabilmente farai un sacco di fatica a restare in silenzio. Bene,

206
questo esercizio è essenziale proprio per i soggetti verbosi come noi,
vedrai che le persone che ti stanno accanto, i tuoi amici, parenti e
partner, ti saranno grati per questo cambiamento. Mi raccomando,
però, evita di dirgli: «Sì, ora ti sto ascoltando con consapevolezza»,
perché non capirebbero e rischieresti di vanificare gli sforzi di
un’attenzione non giudicante.
Nel momento in cui ti vanti di aver scoperto come ascoltare le
persone stai creando delle aspettative in te e negli altri, e le
aspettative sono mappe e tra le più pericolose in assoluto. Fai questi
esperimenti in segreto, ti posso assicurare che nessuno se ne
accorgerà e tutti, senza saperlo, si sentiranno meglio in tua
compagnia. Il modo migliore per sperimentarlo è con il tuo partner
e con le persone a cui tieni davvero; evita di farlo come se andassi in
palestra, prova invece ad ascoltare davvero che cosa ha da dirti,
metti da parte il tuo zainetto di conoscenze e di consigli e lascia che
sia lui o lei a parlare. Un ulteriore espediente tecnico, insieme al
silenzio e alle domande, è la parafrasi. Dopo aver ascoltato con
attenzione una persona, prova a parafrasare ciò che ha appena
detto. Non con l’intento di mostrarle quanto sei bravo a ripetere, ma
con lo scopo di capire se hai capito. Se per esempio hai ascoltato
l’altra persona descriverti i programmi per il vostro sabato sera,
potresti replicare: «D’accordo, quindi correggimi se sbaglio, tu
desideri che sabato sera facciamo X e Y, giusto?». Questa è una
tecnica retorica ben conosciuta, soprattutto dagli psicoterapeuti, ma
non è una metodica per indirizzare il pensiero degli altri, va fatto
come esercizio di reale ascolto, per vedere quanto di ciò che ci ha
detto il nostro interlocutore ci è rimasto, e non – ripeto – per dare
sfoggio della nostra memoria.
Ora il mio consiglio è di provare ad ascoltare le persone che ti
circondano, cercando di essere presente, stando in silenzio, ponendo
domande ed eventualmente parafrasando. Ricordati ancora che lo
scopo non è sembrare bello e buono agli occhi dei tuoi interlocutori,
ma che tu sia davvero presente alla relazione. Se ci farai sufficiente
caso noterai che non è per nulla facile restare in ascolto, soprattutto
se il tempo diventa tanto, se superi già i 15 minuti potrebbe apparirti
una tortura. Non dimenticare di applicare tutto ciò che abbiamo
visto nella parte dedicata alla consapevolezza, sii gentile con te

207
stesso, lo scopo non è restare focalizzato tutto il tempo ma accorgerti
di quando non lo sei più e ritornare gentilmente a quelle parole.
Non temere di dover ripetere alcune domande di chiarificazione,
perché a volte non capiamo e la cosa più stupida che si possa fare è
far finta di aver capito, uno degli sport nazionali di maggior
successo.
Modificare leggermente l’ambiente in cui avvengono tali
interazioni può esserti d’aiuto; se per caso desideri migliorare il tuo
ascolto sul lavoro, metti qualche promemoria che ti ricordi di farlo,
per esempio la foto di un grande orecchio. Se invece vuoi portare
con te tale consapevolezza appunta i promemoria sullo smartphone,
su un braccialetto, un anello che richiami quella cosa, un
portachiavi. Qualsiasi stimolo che ti ricordi di ascoltare con
maggiore attenzione l’altro va bene, più ne metti e meglio è, ma non
dimenticare che lo scopo del training è che tu ti renda conto da solo,
durante le tue interazioni quotidiane, che non stai ascoltando, e poi
riportare gentilmente il tuo focus a quelle parole, ancora, ancora e…
indovina? Ancora!
Se vuoi puoi sperimentare gli esercizi che seguono con il tuo
partner o i tuoi colleghi, ti assicuro che aumenteranno la vostra
intesa di coppia. Vediamone alcuni insieme.

Ascolto attivo. Posizionatevi uno di fronte all’altra con un timer


(quello dello smartphone va benissimo) e decidete sin dal principio
per quanto tempo parlerete. Se decidete di parlare 10 minuti,
ognuno avrà quell’intervallo di tempo per parlare mentre l’altro
dovrà restare in completo silenzio per il rispettivo tempo. Attento,
10 minuti non sono pochi, scoprirai che è tremendamente difficile,
per cui iniziate con 2 minuti e poi proseguite.
Immaginiamo A e B che svolgono l’esercizio. Si posiziona il timer
e A inizia a parlare, mentre B fa l’esercizio, cioè ascolta con la
massima attenzione, restando in silenzio e notando tutte le volte che
la mente vaga per riprenderla e portarla gentilmente sul discorso.
Quando scade il timer invertite i ruoli, B parla e A ascolta; appena la
sveglia suona vi abbracciate e provate a non tirare più fuori i temi
emersi in questo spazio, soprattutto se sono dolorosi. Potrete
parlarne il giorno successivo in un’altra sessione di allenamento; se

208
volete aumentate via via la durata, ma senza esagerare, 10-15 minuti
sono più che sufficienti.
Attenzione: non è necessario parlare di argomenti dolorosi,
potete anche decidere di raccontarvi vicendevolmente le vostre
vacanze più belle.

Lo sguardo. Un esercizio molto simile, che in realtà potrebbe essere


inglobato nel precedente, consiste nel sedersi uno di fronte all’altra e
guardarsi negli occhi. È semplice ma ancora più difficile, perché
dopo pochi istanti la mente volerà altrove, pensando a tantissime
cose, che magari si riferiscono alla persona che stai guardando
oppure no, pensieri del tutto sconnessi dalla situazione presente.
Qualsiasi sia la natura e la qualità del pensiero che emerge
dobbiamo trattarlo come una distrazione, ce ne rendiamo conto e lo
mettiamo gentilmente da parte per tornare a osservare il nostro
interlocutore.
Data la difficoltà nel guardare le persone negli occhi a lungo, ti
consiglio di farlo con chi conosci bene, anche perché la ricerca ha
dimostrato che bastano 2 minuti per creare un legame molto forte
anche tra sconosciuti. Sì, hai capito bene, se riesci a guardare una
persona negli occhi per 2 minuti senza farti arrestare per molestie, la
vostra intesa migliorerà drasticamente. Ovviamente nella
quotidianità ti sconsiglio di fissare le persone troppo a lungo,
secondo alcuni gli sguardi fissi negli occhi non dovrebbero durare
più di alcuni secondi per poi spostarsi altrove e ritornare sullo
sguardo.
Se senti di avere difficoltà nel guardare le persone negli occhi in
generale, esercitati portando con te la qualità di attenzione di cui
abbiamo discusso nell’arco del nostro viaggio. Evita di fissarle
troppo a lungo ma dedica almeno 2 o 3 secondi a guardarle dritto
negli occhi, sia quando sono loro a parlare sia quando tocca a te
farlo. Ricordati che il vero nemico, anche in questo caso, non è l’altra
persona ma sono i tuoi pensieri, i tuoi giudizi che proliferano non
appena lasci scorrere le associazioni mentali. Ora hai scoperto che
puoi osservarle per ciò che sono, “associazioni” a volte senza alcun
senso concreto.

209
Il contatto fisico. Anche il contatto fisico può portarci lontano dal
momento presente. Ricordi i miei corsisti che si prendono per
mano? Quando una persona ci sfiora fisicamente, la nostra mente
parte subito per la tangente a immaginare qualsiasi cosa, un po’
perché potremmo non essere così abituati al contatto umano e un
po’ perché ogni contatto corporeo genera una risposta emotiva quasi
immediata. Così invece di sentire il calore umano dell’altro la nostra
mente corre subito a chiedersi il perché di quel contatto, al punto
che uomini e donne in determinati contesti non possono neanche
abbracciarsi perché potrebbero dare adito a comportamenti
sconvenienti. Sto esagerando, ma la verità è che il contatto umano è
molto complesso e se ti sei già allenato al contatto con te stesso, il
bodyscan, ecco che le cose saranno molto più facili.
Anche questo esercizio può essere fatto in coppia, anzi sarebbe
meglio farlo così, magari a casa. Le regole sono identiche agli
esercizi precedenti: timer, uno di fronte all’altra, ci si prende per
mano o si appoggiano le mani sulle gambe dell’altra persona.
Questa volta non è necessario fare a turno, si svolge insieme la
sessione di contatto, notando tutte le volte che la mente parte per la
tangente per riportarla gentilmente indietro, e quando termina ci si
ferma e si discute per qualche istante. Se lo fai con una persona che
conosce i temi trattati in questo libro, potete parlare di quanto vi
siete distratti, di che cosa vi ha distratto e di come vi siete sentiti;
tale ragionamento “post-azione” può diventare un utilissimo
strumento per le sessioni successive o per fare maggiore chiarezza
sui pattern di pensieri (i contenuti interiori, le mappe) che emergono
quando “tocchiamo” gli altri.

210
L’insegnamento del barista

Per riuscire davvero a utilizzare la nostra attenzione e dare valore


alle relazioni che ci circondano dobbiamo fare un passetto ulteriore,
a un tema che tecnicamente potrebbe essere riassunto con una frase:
“Tenere a mente la mente degli altri”. È un concetto complesso il cui
significato si può però cogliere bene attraverso una storiella, una
metafora di mia invenzione che con tutta probabilità ti risuonerà.
Immagina che ti venga a trovare un amico e ti proponga di
andare a fare un aperitivo. Magari anche tu, come me, vivi in una
città come Padova e ti ritrovi in un bar nel bel mezzo di una serata
studentesca. Quando arrivi il locale è pieno di gente, per fortuna al
bancone c’è Michele, uno dei proprietari, che conosci da un sacco di
anni, si può dire che siete cresciuti insieme. Appena lo vedi, pensi:
“Uff… menomale che c’è Michele, mi vedrà e con un pizzico di
fortuna mi servirà da bere prima che a tutti questi studentelli”.
Nello stesso preciso istante anche Michele, tra un’ordinazione e
l’altra, incrocia il tuo sguardo e pensa: “Uff… menomale che è
Genna (diminutivo per gli amici), capirà che sono impegnatissimo e
non si offenderà se lo servirò per ultimo, dopotutto siamo amici da
vent’anni”.
Ti sembra una scena surreale? Se ci pensi bene capirai che non lo
è affatto, anzi potrebbe capitarci tutti i giorni e la filmografia italiana
è zeppa di fraintendimenti del genere, o parlando con linguaggio
tecnico, di “perdita di mentalizzazione”, cioè della capacità di
prendere in esame anche la mente di chi ci sta attorno. Riflettendoci,
è assimilabile a quella che abbiamo definito “metacognizione”, cioè
la capacità di renderci conto dei nostri stessi pensieri (meta significa
“sopra” e cognizione sta per “pensieri”), mentre la mentalizzazione è
lo stesso tipo di osservazione ma fatta sugli altri. Ovviamente è
molto più difficile farlo perché non abbiamo davvero accesso ai

211
pensieri altrui, possiamo dunque soltanto ipotizzare che al nostro
amico Michele piacerebbe che noi attendessimo, e lui può solo
ipotizzare che noi pretendiamo di essere serviti per primi.
Se però ci si conosce molto bene, a volte basta uno sguardo per
indovinare gli stati mentali altrui e comportarci di conseguenza. La
maggior parte dei litigi tra le persone derivano proprio
dall’incapacità di fare questa operazione mentale, che in realtà
facciamo ogni secondo quando ci troviamo di fronte una persona,
anche se non la conosciamo, e deduciamo tutto da come è vestita, da
altri segnali minimi tipo le espressioni del volto, in sintesi dal suo
non verbale. Ancora una volta, si tratta di un ottimo retaggio del
nostro passato, quando in pochi istanti, dall’espressione di un volto,
dovevi capire se si trattava di un viso amichevole o se dovevi temere
per la tua incolumità. E le basi neuronali di tale attività sono state
scoperte proprio in Italia, grazie ai celebri “neuroni specchio”
rilevati nei laboratori dell’Università di Parma negli ultimi anni del
Novecento dall’équipe del professor Giacomo Rizzolatti.
Nota per nerd: i “neuroni specchio”. Siamo negli anni Novanta e
alcuni ricercatori stanno studiando un set di neuroni specifici nelle
scimmie, più precisamente un insieme di neuroni presenti nella
corteccia pre-motoria. Un pezzo di cervello che si attiva prima di
fare qualsiasi movimento volontario. I ricercatori erano abbastanza
naïf e decidono di non tenere le scimmie chiuse in gabbia ma di
lasciarle libere di agire e interagire in una stanza, con tutto ciò che lì
era presente. Un giorno (qui siamo nella leggenda) un ricercatore
entra nella stanza, prende una nocciolina, che era destinata ai suoi
soggetti, e si accorge con stupore che le cortecce pre-motorie di
alcuni esemplari connessi a un macchinario iniziavano a sparare
(termine tecnico per indicare un neurone che si accende). La
sorpresa dipendeva dal fatto che la scimmia in questione se ne stava
ferma a osservarlo e non stava compiendo alcuna azione volontaria.
Perché i neuroni si attivavano se l’animale era fermo? Dopo
numerose indagini i ricercatori scoprono alcuni gruppi di cellule
nervose che “sparano” quando osservano un’azione di fronte a sé. I
neuroni della scimmietta erano stati attivati dalla semplice
osservazione della “presa” della nocciolina da parte del ricercatore,
erano quindi in grado di “imitare” le azioni di chi gli stava di fronte.

212
Ora, è ovvio che esista un sistema del genere, basta osservare i
cuccioli e i bambini, e infatti filosofi e psicologi ne avevano già
ipotizzato l’esistenza, ma trovare una parte del corpo specifica,
adibita proprio a tale scopo è stata una scoperta rivoluzionaria. Sin
dall’inizio ti ho detto che il nostro cervello è una sorta di
“supersimulatore” della realtà, continua a creare ipotesi sul mondo
in base a ciò che incontra (l’esperienza) e a ciò che impara (le
mappe). Lo fa soprattutto con le persone che lo circondano, non solo
quelle intime ma anche gli sconosciuti per strada, al punto che se
vedi una persona che trasporta un grosso peso e riesci a leggervi nel
volto la fatica sentirai anche tu un po’ di fatica e magari ti verrà
l’istinto di aiutarlo. È per questo che quando guardi una partita di
calcio o di qualsiasi altro sport, e magari conosci bene quel gioco
(cioè hai mappe precise di come funziona), è come se anche tu fossi
in campo, soffri, ti affanni quasi allo stesso modo che se stessi
affrontando una prestazione atletica. È come se il tuo cervello, per
comprendere ciò che sta osservando, dovesse simularlo, creare una
rappresentazione più simile possibile di ciò che sta osservando.
Secondo altri ricercatori che hanno partecipato a tale scoperta,
come il professor Vittorio Gallese, questo meccanismo è
onnipresente in ogni esperienza estetica, anche quando non
osserviamo un’azione. Se fai un giro in un museo, mentre contempli
le opere il tuo cervello si sta chiedendo come abbia fatto l’artista a
crearle e tenta di riprodurle dentro di sé. Quindi se stai guardando
la Gioconda è come se per qualche istante tu stessi imitando i
movimenti di Leonardo, quasi dipingessi “con lui”, se guardi il
David stai usando lo scalpello come Michelangelo, ed è una cosa
meravigliosa da sapere, soprattutto se apprezzi l’arte. Più sei
competente in quello specifico ambito e più la simulazione nella tua
mente si avvicinerà a quella vera, quindi se non hai mai preso un
pennello in mano o uno scalpello la simulazione certo avverrà ma
non con la stessa precisione.
Questo meccanismo è sempre attivo, anche adesso il tuo cervello
sta imitando il mio modo di scrivere, e mentre lo fa si comporta
come se volesse essere sempre un passo avanti. Lo abbiamo già
visto, gli serve a diminuire l’ambiguità degli eventi che accadono,
che di per sé non sarebbero prevedibili ma di cui invece

213
continuiamo a fare previsioni. Più la situazione è complessa e più
queste previsioni sono poco accurate, tranne in casi rari, e che cosa
c’è in natura di davvero poco prevedibile a parte il tempo
atmosferico? Il comportamento umano! Ci piaccia o no, è poco
prevedibile, anche se siamo spinti per vari motivi a prevederlo di
continuo, e a volte ci salva. Se ogni tanto guidi in autostrada, ti sarà
capitato sicuramente di prevedere quando l’auto di fronte a te sta
per effettuare un sorpasso anche se non ha inserito la freccia, a me
questo ha salvato la vita in tante occasioni. Non è una magia, il
cervello riconosce quei pattern ripetitivi di quando uno sta per
sorpassare, vede delle lievi accelerazioni, osserva un leggero
avvicinamento alla corsia di sorpasso e se si riesce a vedere l’autista
lo si può scrutare mentre guarda gli specchietti retrovisori. Quando
ne va di mezzo la sopravvivenza siamo bravissimi a leggere nella
mente delle persone e a prevederne le intenzioni, ma non sempre
funziona così. Nella nostra complessa vita sociale non siamo
altrettanto bravi, anzi ci affidiamo a scorciatoie di pensiero erronee,
solo per risparmiare un pizzico di energia.
Date queste premesse spero sia evidente che mentalizzare non
significa farsi un’idea grossolana della mente delle altre persone ma
richiede uno sforzo particolare, quello di fare ancora una volta il
nostro proverbiale “passo indietro” che ci aiuta a vedere meglio la
complessità della situazione. Non è la semplice empatia che ti porta
a provare i sentimenti degli altri e a metterti “nei loro panni”, questo
è solo uno dei passaggi richiesti dalla mentalizzazione, che ha
caratteristiche cognitive, cioè che appartengono alle nostre mappe.
In particolare, questo è evidente se ripensiamo a quando abbiamo
conosciuto una persona che oggi frequentiamo con una certa
assiduità, per esempio il nostro partner. Se ripensi alle prime volte
che l’hai incontrato ti accorgerai che il tuo modo di vederlo era
completamente diverso, se non fuorviante, rispetto alla persona che
conosci oggi. Come mai? Sempre per i nostri cari meccanismi di
sopravvivenza, che per aiutarci a interpretare la situazione nel modo
più rapido ed economico si affidano alla cosiddetta “prima
impressione”, che si forma nel giro di pochi istanti non appena
incontriamo uno sconosciuto. Ci basiamo su elementi minimi come
il volto, il modo di camminare, l’abbigliamento, il tono di voce, il

214
nome (sapessi quanta gente mi guarda strano perché mi chiamo
Gennaro ma ho l’accento del Nord Italia), ma non ci preoccupiamo
di sapere se è scortese, perché magari è arrivato in ritardo, o forse
perché abbiamo parlato di un argomento per lui spinoso, insomma
non sappiamo un sacco di cose. Ma il cervello non sopporta di non
sapere, per cui deve per forza creare una piccola mappa nella quale
inserire la persona appena incontrata; non solo, se la mappa non
viene mai messa in discussione noi possiamo passare una vita intera
nella convinzione che “Mario, quello del bar sotto casa, è in realtà
un farabutto”, anche se ci abbiamo parlato davvero solo due o tre
volte.
I miei colleghi avranno di certo riconosciuto il processo di
formazione dei cosiddetti “stereotipi” o pregiudizi, cioè valutazioni
sommarie delle realtà sociali e non che ci circondano. A questo
aggiungiamo che noi tutti possediamo una “teoria della mente” (e
che Dunning-Kruger è sempre in agguato, un po’ come Freddy
Krueger, perdona il gioco di parole), cioè crediamo di conoscere le
intenzioni e i bisogni di chi ci sta di fronte, perché questo è l’unico
modo per tenere a bada la nostra mente curiosa che teme
l’ambiguità. Così sappiamo che il nostro vicino di casa è timido, è
introverso, forse ha qualche problema psicologico, si dice, ma la
verità è che le cose non sono così semplici. Noi la chiamiamo
“psicologia ingenua”, non tanto perché sia davvero ingenua ma
perché tutti formuliamo ipotesi del genere anche senza rendercene
conto. Ecco, tali teorie della mente che tendiamo a costruire, un po’
perché siamo biologicamente predisposti (i neuroni specchio), un
po’ perché ci consente di risparmiare energia mentale, sono
l’ostacolo principale alla mentalizzazione e con essa a relazioni
realmente profonde.
Per “mentalizzare” e vivere meglio le tue relazioni hai bisogno di
tutto ciò che ci siamo raccontati finora: essere presente, avere una
mentalità da principiante, andare oltre gli automatismi e le mappe,
mettere da parte i giudizi sommari e così via. Come dici, lo fai già
naturalmente? Certo e ci mancherebbe, lo facciamo quando una
persona ci sta davvero a cuore o quando ci accorgiamo che sta per
lasciarci. Ho assistito mille volte a una situazione del genere: una
coppia di ragazzi, uno dei due sembra meno interessato alla

215
relazione (l’avrai sentito anche tu, scommetto…); a un tratto, quello
più interessato, quello che dimostra maggiore amore si stufa e
decide di lasciare l’altro. Perché si sente sempre in secondo piano:
«Arrivano prima i suoi amici e poi arrivo io, prima il lavoro, prima il
calcetto ecc.». Se questo ragazzo era solo un po’ distratto e non
sapeva come comportarsi, ecco che questa sberla, la minaccia «Ti
lascio se non ti curi di me», lo porta a dover mentalizzare. Così
arrivano nel mio studio e mi dicono: «Dottore, io non riesco davvero
a capire che cos’abbia Margherita in questo periodo…»; e quando
indago scopro che non sa neanche quali sono i piatti preferiti della
sua ragazza, che non si interessa minimamente alla sua vita e ai suoi
sentimenti.
No, non sto descrivendo il classico narcisista che ormai impazza
in tutti i siti di psicologia (dovremmo dedicare un altro libro a
questo genere di fraintendimento), ma semplicemente persone che
per varie ed eventuali non hanno ancora imparato che “tenere a
mente la mente degli altri” è la cosa più bella che possiamo fare per
loro, e anche per noi. Tutto ciò può essere riassunto nel semplice e
allo stesso tempo complicato “stare attenti alle relazioni perché sono
il sale della vita”, senza il quale non riusciamo davvero a dare
significato a ciò che ci circonda. Non voglio certo buttarti giù, nel
caso tu non avessi un partner: qualsiasi relazione umana può dare
maggiore senso alle nostre vite, anche quella con Mario che prima ti
sembrava un farabutto.

ESERCIZIO
Serve ad allenare il tuo modo di mentalizzare le relazioni che ti circondano.

1. Fai un elenco di tutte le persone che conosci (vai di brainstorming):


scrivi chiunque come primo passo. Prenditi il tuo tempo per scrivere
anche le relazioni meno significative.
2. Seleziona le 10 persone che senti maggiormente vicine a te e fai una
scaletta che vada dalla “più vicina” a quella più lontana. La prima
potrebbe essere il tuo partner, i tuoi genitori, i tuoi figli ecc.
3. Ora, partendo dal primo rispondi alla domanda: “Che cosa pensa di me
la persona X?”. Prova a mettere qualsiasi cosa in quello scritto, luci e

216
ombre: entrambe si devono riferire a ciò che tu credi lei pensi di te,
cerca di essere il più realistico possibile inserendo appunto gli aspetti
positivi e quelli negativi. Per farlo, sforzati di entrare nei suoi panni,
non dire ciò che tu pensi di te stesso o ciò che pensi di quella persona.
4. Periodicamente torna sulla tua “classifica” e aggiornala. Ti renderai
conto di come cambia in base alle tue esperienze di vita e che ti aiuterà
molto nell’addestrare la tua capacità di entrare nei panni degli altri
senza confonderti con i loro stessi panni, ricordandoti che non sono i
tuoi.

Può apparire un esercizio semplice ma non lo è affatto. Non limitarti


a leggerlo, mettilo in pratica con carta e penna. Ti sorprenderai di
quello che credi che gli altri pensino di te. E tale lavoro ti renderà
molto più flessibile, consentendo una maggiore capacità di
modificare la tua opinione in base agli elementi di realtà che
raccoglierai nelle tue relazioni in futuro.

217
Un centro di gravità

Come forse ti sarai accorto, il concetto di mentalizzazione, tenere a


mente la mente degli altri, assomiglia tantissimo a quello di
empatia, che letteralmente significa “sentire dentro” ed è il termine
più comune per descrivere la capacità delle persone di comprendere
gli stati emotivi altrui.
In realtà le cose non sono così semplici, tutti (più o meno) siamo
dotati della capacità di sentire dentro ciò che sentono gli altri, grazie
ai nostri neuroni specchio. Tuttavia tale abilità non è intenzionale,
scatta al di là della nostra consapevolezza, al punto da farci agire
inconsciamente portandoci verso le persone oppure scappando da
loro. Se sei un medico o un operatore sanitario lo sai bene, magari ti
devi confrontare con una famiglia disperata che se la sta prendendo
con te, tu da un lato empatizzi con la loro sofferenza e dall’altro tenti
di fuggirvi, perché sai che ciò che sta accadendo non è colpa tua.
Un caso molto particolare ma a cui in realtà abbiamo preso parte
tutti, anche senza essere medici, è quello di un nostro amico che si è
appena lasciato con la ragazza e desidera parlare con noi. Lo
capiamo bene, perché magari ci siamo passati, e trascorriamo
qualche serata con lui, ma standoci insieme le sue parole ci fanno
soffrire perché riaprono dentro di noi quegli stessi meccanismi di
abbandono che lui stesso sta sperimentando, per cui ci
allontaniamo. Se invece non siamo passati attraverso quella
sofferenza, il nostro simulatore interiore quando vede l’amico
soffrire si chiede che cosa significa soffrire in quel modo e ci fa
assaggiare comunque un pezzetto del suo “boccone amaro”.
Questo succede sempre, che tu lo voglia o meno entri in
risonanza con le persone che ti circondano; la cosa di cui però non
siamo consapevoli è che accade ogni volta che incrociamo lo
sguardo di qualcuno. Con la differenza che più siamo legati a quella

218
persona e più le sue parole potranno ferirci (ricordi i porcospini?),
perché conoscendola abbiamo già diverse simulazioni attendibili
dentro di noi. Ora, se ci tieni davvero tanto a lui o a lei,
probabilmente accetterai la momentanea identificazione con i suoi
problemi e resterai al suo fianco, nonostante tutto. Ma se non ci tieni
troppo appena inizi a percepire la sua sofferenza vorresti scappare,
fuggire ed evitare. Come fai? In molti modi ingegnosi: il primo è
dargli dei consigli concreti, questo ti fa sentire bene e fa sentire bene
per un momento anche l’altra persona. Un altro modo è quello di far
finta di ascoltarla e in realtà pensare dentro di te ad altro; insomma
potrei continuare a elencare questa lunga trafila di tattiche di
distanziamento, ma la maggior parte hanno un solo e unico scopo:
evitare la sofferenza. E non perché impari la lezione e ti comporti
meglio con gli altri ascoltandone gli errori, ma nel senso che stare
accanto a persone che soffrono equivale a prenderci carico di un
pezzetto di quella situazione. Per evitarlo facciamo di tutto:
normalizziamo, sminuiamo, usiamo l’ironia, distraiamo a nostra
volta e così via.
Come fare, dunque, per scambiare questa empatia poco gestibile
con la mentalizzazione? In realtà lo sai, serve ancora la nostra cara
consapevolezza che, se ci pensi, è proprio la capacità di osservare
ciò che capita a noi senza identificarci con tutti i contenuti mentali
conseguenti. E sono proprio quei contenuti che tendono a colorare
di negatività la relazione e a farci scappare. “Mmm… stasera non
esco con Marco, non so perché ma stare con lui mi rende irrequieto”:
hai mai provato qualcosa del genere? La crescita personale richiede
una continua e spietata assunzione di responsabilità, ciò significa
che se soffri mentre un tuo amico/collega/conoscente ti parla, non è
lui a generare in te quelle sensazioni ma sei tu a provarle. Lo so, non
è vero al cento per cento, perché se stessi con un’altra persona non
proveresti quelle sensazioni, ma credere che sia colpa dell’altro è il
modo migliore per de-responsabilizzarti e perdere potere personale.
Come abbiamo visto, se il tuo capo ha il potere di farti perdere le
staffe, significa che tu non hai più potere nei suoi confronti, ma non
devi pensare “Ah, ho capito, quindi è colpa mia, sono peggio di ciò
che pensassi”, piuttosto significa: “Ah, ho capito, posso gestire
questa cosa, al di là di chiunque cerchi di destabilizzarmi”. Per farlo

219
è necessario trovare un punto di presenza dentro di noi che ci aiuti
ad ascoltare gli altri senza identificarci con i loro problemi, o meglio,
notando quando succede e tornando gentilmente al nostro ascolto. I
praticanti di meditazione hanno inventato un sistema semplice – ma
di difficile applicazione se non siamo addestrati – ed è la
compassione, termine che in italiano purtroppo non rende bene
perché viene spesso confuso con “pena”, cioè con un sentimento
negativo nei confronti di ciò che stiamo osservando. Per gli orientali
è semplicemente quella gentilezza che abbiamo usato come
atteggiamento di fondo per tornare nel presente, perché la nostra
tendenza è quella di trattarci duramente, di vedere le perdite di
attenzione come fallimenti e non come il procedere naturale e
saltellante del nostro focus. Per essere molto tecnici, potremmo dire
che l’atteggiamento giusto per stare accanto a chi soffre, e in
generale alle persone che amiamo, è composto da presenza, empatia
e metacognizione.
Sappiamo che la presenza è necessaria per ascoltare il prossimo,
per sentire dentro di noi ciò che sente lui e far quindi scattare la
molla empatica; successivamente, se siamo molto attenti, notiamo
questo meccanismo di identificazione con gli stati altrui e nel notarlo
ce ne distacchiamo. Attenzione, non sto dicendo che devi distaccarti
apposta dalla situazione con qualche tecnica, ma che il semplice
notare di esserti incastrato e identificato, se sei sufficientemente
presente, è già abbastanza per fare quel passettino indietro che ti
consente di osservare le stesse cose con maggiore leggerezza. Una
metafora può aiutarci ancora una volta a comprendere meglio: è
come se il flusso di contenuti mentali (e fisici, vedi le emozioni)
fosse simile a una cascata, tu stai sotto questo flusso d’acqua,
continuo e pesante. Quando te ne accorgi puoi fare un passo
indietro e lasciarti la cascata davanti, la tua testa sarà nettamente più
leggera senza tutta quell’acqua, però sei ancora abbastanza vicino
da bagnarti e sentire gli spruzzi che ti arrivano negli occhi. Non sei
del tutto staccato dall’esperienza, sei però sufficientemente lontano
da non reagire in automatico a ogni spruzzo e abbastanza vicino da
poter vivere ciò che sta accadendo qui e ora.
Oggi, grazie agli studi sulla presenza e sulla mentalizzazione,
sappiamo che non si tratta soltanto di una metafora: addestrare il

220
personale clinico di un ospedale a tali tecniche equivale ad avere
una percentuale molto più bassa di burnout lavorativo, che è causato
proprio dalle continue identificazioni con il dolore dei pazienti.
Tutto ciò non nasce in ambito clinico ma dal desiderio umano di
conoscersi, che si è sviluppato nell’antichità per giungere sino a noi,
sotto forma di rituali e di filosofie. Sembra che ti stia parlando solo
di cose negative, la verità è che quando stiamo bene non ci curiamo
di dove vada a finire la nostra mente, anche se a volte dovremmo,
perché i pensieri positivi possono distrarci quanto quelli negativi,
soprattutto se ci identifichiamo con essi invece di vivere l’esperienza
presente (ecco la ragione del gioco delle sensazioni). Tuttavia lo
stato di uscita dal presente ci capita proprio quando viviamo
esperienze forti (non connotiamole per forza in positive e negative)
a contatto con le altre persone. E “gli altri” sono gli attivatori
emotivi più potenti del pianeta, penso non ci sia bisogno di fare
esempi per comprenderlo.
Noi psicologi stiamo raccogliendo le intuizioni di filosofi,
pensatori e mistici del passato per comprendere che cosa abbiano
scoperto di utile durante i propri studi. Molte sono raccolte tra
queste pagine, seppure in forma narrativa, una in particolare però la
voglio condividere con te adesso. Tengo a precisare che non
appartengo a nessuna setta o scuola religiosa, e spero neanche tu.
Sto parlando di Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo, scrittore e
mistico armeno, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, il quale
parlava di una tecnica specifica per relazionarsi con gli altri nei
momenti difficili. Diceva di dividere l’attenzione in due parti, una
dedicata alla persona che stiamo ascoltando e un’altra al nostro
corpo, alle sensazioni fisiche che proviamo. Non significa andare
alla ricerca di come ci fa sentire l’altro, delle sensazioni che ci
procura, ma è inteso come il percepire una qualsiasi parte del corpo.
Perché secondo il filosofo questo ci permetteva di “ricordarci di noi
stessi” all’interno dell’interazione, una sorta di ancoraggio nel
presente effettuato sentendo le sensazioni che arrivano dal corpo. È
esattamente quanto abbiamo fatto prima parlando del bodyscan e
dell’importanza del corpo come fonte di sensorialità diffusa. Ricordi
il “centro di gravità permanente” che cerca Franco Battiato nella sua
celebre canzone? Ecco, quel testo pare sia tratto proprio dal lavoro

221
di Gurdjieff, e il “centro” sarebbe un punto ipotetico nel corpo che ci
impedisce di staccarci dal momento presente, un’ancora, appunto,
“un centro di gravità” che ci mantenga con i piedi per terra.
Questo è il consiglio – tanto articolato quanto indispensabile – per
poter lavorare con le altre persone, soprattutto in condizioni difficili:
senza tale presenza diventi una bandierina che si volta in base a
come cambia il vento. Ora non ti sto dicendo che diverrai immune a
tutte le persone che ti circondano, ma di certo saprai come evitare di
farti “distrarre”, come ascoltarli con attenzione, come allocare la tua
attenzione. E tutto questo diventa una palestra per la tua vita, per
ogni altra relazione… perché non è vero che sei la somma delle
cinque persone che frequenti, casomai sei la somma delle relazioni
che hai imparato a gestire meglio negli anni.

ESERCIZIO
La prossima volta che ti trovi coinvolto in una discussione difficile prova a
indirizzare la tua attenzione a una parte del corpo. Ti consiglio le mani, i
piedi o la bocca, proprio come nell’esercizio fatto in precedenza, perché
sono zone facili da sentire. Mi raccomando, non dev’essere un modo per
distrarti, dovresti riuscire a fare due esercizi insieme: quello dell’ascolto
profondo e questo del sentire una parte del corpo. Non è semplice, ma
prima inizi a sperimentarlo e più facile diventerà applicarlo quando sarà
davvero necessario, per cui puoi farlo anche con relazioni non troppo
impegnative.

222
Le relazioni difficili

Non so se hai mai sentito la storiella del paese A e del paese B,


leggila con attenzione.
Un giorno un ragazzo decide di trasferirsi dal paese A al paese B,
per farlo deve prima parlare con il capovillaggio ed esporre le
proprie motivazioni. Così si reca dal grande capo e gli spiega che
non si trova più bene nel paese A, la gente lo mette da parte, non ha
veri amici, i parenti lo trattano male perché non riesce a tenersi un
lavoro, e ha saputo che nel paese B le cose sono diverse, è possibile
aprirsi a nuove opportunità ecc. Il vecchio ascolta in silenzio e poi
gli dice: «Certo, puoi partire quando lo desideri, ti chiedo però solo
un favore, non affrontare tutto il viaggio di fila, fermati a metà
strada; lì troverai una capanna con un maestro centenario molto
saggio che ti ospiterà e ti terrà compagnia». Il ragazzo acconsente e
tutto felice comincia il viaggio, saluta chi di dovere, prende il suo
cavallo e parte al galoppo; dopo ore e ore di percorso finalmente
vede del fumo in lontananza e capisce di essere nei pressi della
capanna del vecchio saggio. «Buongiorno, arrivo dal paese A, mi
manda il capo del mio villaggio» lo saluta il ragazzo. «Ottimo, mi fa
tanto piacere oggi avere compagnia, se lo desidera può fermarsi qui
per la notte e domani mattina ripartire riposato» gli risponde il
saggio, e il ragazzo acconsente. La sera, durante la cena il vecchio
maestro dice: «Bene, allora lei vuole andare nel paese B, mi dica
come si trovava in quello A…». «A dire il vero non benissimo, era
difficile entrare in relazione con le altre persone, ognuno pensa per
sé e a ognuno interessa solo il benessere di chi gli sta accanto. E poi
non sono mai riuscito a tenermi un lavoro, sempre per lo stesso
motivo» gli racconta il giovane. Il saggio resta in ascolto e a un tratto
dice: «D’accordo, immagino che lei sia curioso di sapere com’è fatta
la gente del paese B». Il ragazzo annuisce. «Be’, purtroppo devo

223
dirle che anche là le persone sono un po’ chiuse, e la maggior parte
pensa solo a se stessa, ci sono tanti lavori ma non è semplice tenerne
uno perché bisogna impararli davvero bene, insomma è necessario
impegnarsi.» Il ragazzo va a dormire e il giorno dopo riparte verso
la sua meta.
Qualche anno dopo la scena si ripropone, un ragazzo ha deciso di
trasferirsi nel paese B, si reca dal capovillaggio per avere la sua
approvazione. Al suo cospetto il ragazzo inizia a raccontare di aver
inventato un nuovo metodo di irrigazione dei campi e che tale
tecnica ha radicalmente migliorato l’agricoltura e l’economia del
paese A, così ha deciso di esportare la propria invenzione nel paese
B. Il capovillaggio si mostra rammaricato e teme di perdere questa
preziosa risorsa, ma sa anche quanto potrebbe essere utile agli
abitanti dell’altro villaggio, quindi gli concede il permesso di
trasferirsi, ma ancora una volta chiede la gentilezza di passare a
trovare il suo vecchio amico, il maestro saggio, che vive più o meno
a metà strada. Il ragazzo si prepara e parte, come l’altro si ferma
proprio nella casa del centenario, il quale come di consueto lo invita
a restare per la notte chiedendogli in cambio solo di scambiare
qualche parola durante la cena. Mentre stanno mangiando il saggio
chiede: «Allora hai deciso di andare a vivere nel paese B, come ti
trovavi nel paese A?». Il ragazzo risponde che è molto dispiaciuto di
lasciare la sua casa, perché è piena di amore, la gente è aperta e
cordiale, ha tanti amici, tanti ricordi e apprezza da sempre le
maniere e i modi della sua cultura ma sa anche quanto è importante
esportare il proprio lavoro. D’un tratto il ragazzo chiede al maestro:
«Sono preoccupato perché ci sono tante leggende sul paese B, lei che
lo conosce, come sono gli abitanti di quel posto?». Il vecchio resta
per qualche istante in silenzio e poi risponde: «Il paese B è pieno di
persone amorevoli che amano le proprie radici, la gente è cordiale e
gentile, sono sicuro che potrai trovarti molto bene».
Questa storiella ha tante implicazioni interessanti. La prima è che
se non ti trovi bene con alcune persone, invece di cercare i motivi
per cui le “scarti” continuamente prova a capire se il problema non
sei forse tu. Non nel senso che tu “hai dei problemi”, ma che se si
ripresentano sempre le stesse questioni con persone diverse, allora
devi iniziare ad assumerti la responsabilità di tali situazioni. Come

224
nella nostra storia, il primo ragazzo fugge dal proprio paese per
trovare persone migliori, e il saggio gli dice che di là non troverà
gente più accogliente ma ritroverà più o meno gli stessi
atteggiamenti, e non perché sia davvero così ma perché lui vede le
persone in quel modo.
Per renderci conto di come agiamo a contatto con gli altri serve
tanta consapevolezza, attenzione verso i nostri modi di interagire e
una tonnellata di responsabilità personale in tal senso.
Riconoscendo che l’unico modo per migliorarsi è quello di
assumersi le proprie responsabilità, comprendendo che se ogni volta
che trovo un nuovo amico poi le cose finiscono “sempre nello stesso
modo” allora c’è qualcosa da notare ed eventualmente modificare.
Attenzione, non sto dicendo che se trovi il capo maleducato che ti
calpesta devi lasciarglielo fare, perché anche lui è responsabile di ciò
che fa; se però ogni capo ti calpesta nello stesso modo forse sei tu
che glielo consenti. E anche se potrà apparirti assurdo, magari sei tu
che gli lasci spazio, in una sorta di profezia relazionale che si
autoavvera.

ESERCIZIO
Fai un elenco di tutte le relazioni, di qualsiasi tipo, che non sono finite bene
nel tuo passato. E prova a notare se ci sono dei pattern, cioè schemi
ricorrenti nel modo in cui sono terminati quei rapporti. Potresti renderti
conto di avere sempre la stessa modalità di reazione, notala, già questo
aumenta a dismisura la tua consapevolezza relazionale. Se osservi alcuni
pattern specifici che riesci a riconoscere chiaramente, attribuisci loro un
nomignolo (come abbiamo fatto nel gioco del “timbro”) e ogni volta che ti
rendi conto di reagire in quel modo, notalo e ripeti dentro te stesso quel
nome.
Esempio: immagina di aver notato che ogni volta che ti contraddicono
tendi ad attaccare con troppa forza le persone. Potresti aver osservato di
comportarti in quel modo come se fossi sempre una sorta di “guerriero
permaloso” che difende il proprio territorio. Quando ti accorgi di mettere in
atto quel comportamento o quel pensiero, di’ dentro te stesso: “Ecco il
guerriero permaloso!”; lo metti da parte e continui con la tua interazione

225
seguendo ciò che per te è davvero importante: i tuoi valori. Non è
essenziale che tu ci riesca sempre, ciò che conta è che tu riesca anche solo
qualche volta a mettere un pizzico di consapevolezza in questi automatismi
mentali per iniziare a smontarli.

226
La curiosità nelle relazioni

L’attenzione che abbiamo trattato in queste pagine è in sostanza


consapevolezza, che può essere direzionata per azioni che ne
richiedano grande quantità ma può anche essere soltanto una sorta
di forma mentis per vedere il mondo. Ricordandoci che siamo sempre
alla ricerca di “risparmio energetico” e per questo non poniamo
quasi mai la giusta cifra di attenzione perché tendiamo ad affidarci
ai nostri automatismi. Quando il nostro cervello si convince di aver
capito e conosciuto qualcosa, smette di cercare e si affida alle mappe
provvisorie che gli sembrano più utili in quel momento. Così
abbiamo l’emergere dei bias, scorciatoie diventate molto “popolari”
negli ultimi anni ma che non sono altro che abitudini mentali che ci
consentono di risparmiare tempo ed energie.
Ora, tale fenomeno è particolarmente rilevante all’interno delle
relazioni. Si è detto che non è per nulla facile mentalizzare, cioè
tenere a mente la mente degli altri, è più facile pensare che tutti
vedano il mondo nello stesso identico modo in cui lo vediamo noi.
Indossare i panni dell’altro non è semplice, richiede la capacità di
mettere sempre in discussione le nostre ipotesi di partenza, proprio
come dovrebbe fare un bravo scienziato che invece di confermare
ciò che già conosce tende costantemente a metterlo in dubbio (vedi il
“principio di falsificabilità” formulato da Karl Popper). Nelle
relazioni l’atteggiamento di apertura e revisione delle proprie
impressioni riveste un ruolo piuttosto importante, perché al
contrario di tutti gli altri oggetti che incontriamo nel mondo fisico le
relazioni sono le meno prevedibili in assoluto. Le persone che ci
circondano sono “piccoli universi” che hanno peculiarità uniche,
solo che per comodità tendiamo a pensare di poterle conoscere
affidandoci a categorie già in nostro possesso. Quando un nostro
amico, che è stato per tutta la vita carnivoro, diventa vegetariano,

227
facciamo fatica a immaginarci come ci sia arrivato e tendiamo subito
a pensare cose del tipo: “Ah, sarà stato convinto dalla sua ragazza”,
oppure: “È fatto così, segue sempre le mode”. Preferiamo darci delle
spiegazioni che per noi sono plausibili e che ci consentano di dare
ordine a un disordine che non possiamo in realtà prevedere.
Sì, è un bel casino! Per fortuna nella nostra percezione e anche
nell’esperienza comune le cose non vanno sempre così, non ci
affidiamo solo agli schemi comodi ma abbiamo anche la tendenza
opposta, che potremmo chiamare “istinto esplorativo”, che ci spinge
ad avventurarci in ambiti sconosciuti. Esattamente come per gli
stimoli “noiosi” che non ci attirano naturalmente, dobbiamo però
fare uno sforzo intenzionale per poter dare la giusta qualità di
attenzione alle relazioni, così da evitare di attivarci solo se quella
data persona ci sembra “interessante”. Perché? Intanto perché le
persone meritano di essere trattate come tali e non come categorie
che noi pensiamo di conoscere, altrimenti cadiamo tutti nel
fantastico effetto Dunning-Kruger. E poi perché l’“istinto di
curiosità” (mi piace chiamare così l’esplorazione) si attiva solo di
fronte a cose interessanti, a persone nuove e a nuovi tratti
caratteristici; la verità è che nella nostra quotidianità abbiamo a che
fare perlopiù con gente che già conosciamo, o meglio, che crediamo
di conoscere.
Un test che ho inventato e sperimentato negli anni ci aiuta a
comprendere bene se conosciamo o meno le persone che ci
circondano: l’ho chiamato “test del regalo di compleanno”. È
facilissimo, devi fare un elenco delle persone a te più vicine, che
frequenti assiduamente, e chiederti: “Che cosa potrei regalargli che
lo colpisca realmente nel profondo?”. Tutti ci troviamo di tanto in
tanto in questa situazione, fare i regali di compleanno o di Natale
non è una cosa semplicissima, e uno dei motivi principali è che
crediamo di conoscere i gusti delle persone che ci circondano ma
non sempre è così. I più disinvolti socialmente inizieranno a porre
domande strane ai propri amici – «Bello quell’orologio, ma ti
piacciono proprio quelli digitali, vero?» – nell’intento di carpire
informazioni giuste per un buon regalo. Ora, è davvero possibile
conoscere fino in fondo i bisogni e desideri di chi ci sta accanto? La
risposta è no, non possiamo monitorarlo di continuo, a meno che

228
non siano i nostri figli in specifiche età dello sviluppo ma per il resto
possiamo vivere tranquillamente senza mai approfondire tale
conoscenza.
Invece sono qui a dirti che tale modo di vedere le persone e le
relazioni, cioè una modalità di curiosità consapevole di non poter
davvero conoscere gli altri, con un’attenzione dedicata quando ci
parlano, con un reale interesse a sapere come sta chi ci circonda e
quali sono i suoi bisogni e desideri, ecco tutto questo fa bene
soprattutto a noi e poi agli altri. Le categorie mentali che abbiamo
trattato fin qui come distrazioni per la nostra attenzione sostenuta
sono anche degli ostacoli per la conoscenza degli altri; intendiamoci,
ciò non significa che bisogna eliminarle, anche perché come
abbiamo visto è impossibile, ma che dobbiamo diventare
consapevoli di tali meccanismi soprattutto quando dobbiamo “fare
un regalo”, cioè prenderci cura degli altri. Questo atteggiamento
mentale di apertura e curiosità è la chiave per una buona relazione,
ed è anche la chiave per tenere costantemente allenato il nostro
cervello in uno degli esercizi più difficili a cui è sottoposto ogni
giorno, solo che non ce ne rendiamo conto. Ci accorgiamo di tale
“esercizio” solo quando le nostre previsioni falliscono, quando
realizziamo che non sappiamo che cosa regalare a quella persona,
quando vediamo che un nostro caro amico sta soffrendo ma non lo
racconta, quando ci accorgiamo che il nostro collega ci tratta con
stizza perché ha appena ricevuto una cattiva notizia ecc.
I pericoli degli schemi nei quali infiliamo le persone che ci
circondano si annidano nei due lati opposti della conoscenza: da un
lato quando incontriamo qualcuno per la prima volta e ci formiamo
la “prima impressione” (non so se lo sai, ma ci vogliono pochi
secondi per formarla) per una sorta di meccanismo di difesa che ci
aiuti a interpretare nel modo più rapido possibile che cosa
potremmo aspettarci da quella interazione; dall’altro quando
pensiamo di conoscere bene una persona, e continuiamo a vederla
così come l’abbiamo sempre vista: in questo caso è utile il mio “test
del regalo di compleanno”. In entrambi i casi ciò che serve è ancora
la nostra cara attenzione, che nelle relazioni si può anche definire
come “curiosità relazionale”, il desiderio di conoscere chi abbiamo
di fronte e accanto. La prossima volta che ti trovi a contatto con

229
persone che non conosci o che credi di conoscere, metti da parte tali
schemi e prova a comportarti come se fossi una sorta di antropologo
che vuole esplorare le usanze e la cultura delle altre persone. È un
esercizio apparentemente semplice che richiede un sacco di energie,
metacognizione e attenzione, qualcosa che scatta in automatico
quando incontriamo delle persone sconosciute e un po’ meno con
quelle già conosciute.
È incredibile, se ci pensi, ne abbiamo parlato prima quando ti ho
chiesto di pensare a quando hai incontrato per la prima volta una
persona che oggi conosci molto bene. Se ci rifletti qualche istante
scommetto che le due percezioni sono profondamente diverse.
Perché già naturalmente siamo capaci di aggiornare le mappe, solo
che non lo facciamo con tutti e sempre, anche perché sarebbe
davvero estenuante; ma se utilizziamo il modo di spostare
l’attenzione che abbiamo analizzato finora anche tali situazioni
diventano preziosi momenti di crescita personale.

ESERCIZIO
La prossima volta che hai un appuntamento “sociale”, dove sai di essere
circondato da altre persone, prova questo esercizio: metti un bel
promemoria con timer sul tuo smartphone con la scritta “antropologo”;
quando appare la notifica, osserva e ascolta le persone che ti circondano
come se fossi un antropologo che deve comprendere usanze, credenze,
atteggiamenti e opinioni di un popolo sconosciuto. Ti avviso, non è per
niente facile, perché i tuoi schemi mentali ti riporteranno di continuo a
vedere quelle persone per ciò che hai appreso, cioè le “solite persone”, e
invece posso assicurarti che potresti notare aspetti di loro che avevi sotto il
naso e che forse ti erano sfuggiti. Ricordati di farlo con rispetto e curiosità,
non serve per interpretare la loro personalità, per fare finta di essere lo
psicologo che capisce gli altri o cose del genere. È un esercizio che devi fare
solo per te stesso senza condividerlo con gli altri, altrimenti lo rovini, a
meno che chi è insieme a te non abbia letto questo libro e sappia di che
cosa stiamo parlando.

230
Ora lascia che ti racconti la storia di una “prima impressione” molto
particolare. Quando sono arrivato a Padova, nel 1999, ho affittato
una stanza alla casa dello studente, una sorta di collegio statale
pieno di giovani studenti provenienti da tutto il mondo. Trascorrere
cinque anni a contatto con persone molto diverse tra loro, e diverse
da me, è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Nel
corso degli anni avevo incontrato qualche disabile nel mio piccolo
paesino di mare, ma non così tanti quanti ce n’erano nella mia casa
dello studente, che era una delle più attrezzate in tal senso.
Il mio primo giorno vedo un ragazzo sulla sedia a rotelle che si
avvicina a questa grande porta a vetri, faccio un passo in avanti e
gliela apro, lui mi gela con uno sguardo accigliato e mi dice:
«Grazie, ma sono capace anche da solo». Quel ragazzo si chiamava
Fabio, ne parlo al passato perché durante la stesura di questo libro
ho saputo, purtroppo, della sua dipartita a causa di un melanoma.
Fabio aveva perso l’uso delle gambe in un incidente automobilistico
all’età di 19 anni, ma con grande forza di volontà non si era fermato
e si era iscritto all’università. Ci rimasi un po’ male nel nostro primo
incontro, immaginavo che fosse arrabbiato con il mondo per la
propria condizione, in realtà le cose non stavano così. Negli anni ho
avuto il piacere di conoscerlo molto meglio, e quando gli ho
rammentato quell’episodio mi ha detto più o meno queste parole:
«Vedi Genna, io ero in pieno allenamento, e tutta la mia forza è nelle
braccia, aprire e chiudere quel portone per me è fonte di
soddisfazione, perché mi ricorda quanto sono ancora forte e
capace». Quel discorso mi aveva colpito al cuore, non mi stava
dicendo: «Ehi, non sono disabile, posso farcela da solo», ma: «Ehi,
togliti dai piedi, mi sto allenando».
Quando trascorri tanto tempo con persone con cui non sei
abituato a interloquire dopo poco diventano familiari, al punto che
ti dimentichi della carrozzina o di altri disagi. La mia casa dello
studente era piena di ragazzi con disabilità, anche molto diversi da
Fabio, tipo Luca che aveva la spina bifida e faceva fatica a
camminare e a parlare, ma era intelligentissimo. Ti bastava
trascorrere due minuti in sua compagnia per accorgerti che dietro
quelle difficoltà ad articolare le parole c’era un mondo ricchissimo,
fatto di interessi, bisogni, aspirazioni e desideri, come per ogni altro

231
giovane della sua età. Ho scelto il tema della disabilità perché per
me è stato determinante vedere questo cambiamento, da come li
“vedevo prima” a come oggi li percepisco adesso. Sì, perché
quell’effetto di familiarità non si è fermato alle persone conosciute
durante gli anni di università ma è emerso anche in altri contesti
della mia vita.
Noi tendiamo a differenziarci dagli altri anche solo per
caratteristiche minime, come ha dimostrato lo psicologo sociale
Henri Tajfel. Se metto in una stanza delle persone a caso, le
suddivido in base all’altezza e m’invento la sfida “alti contro bassi”
vedrai in un attimo formarsi uno spirito di coesione incredibile tra
loro. La cosa pazzesca è che potrei fare lo stesso anche con le
caratteristiche in comune, per esempio dire che tutte le persone che
sembrano simpatiche stanno sulla destra e tutte quelle antipatiche
sulla sinistra (nessun riferimento politico), e in un attimo le due
squadre diverrebbero talmente affiatate da compiere gesti
irrazionali, per esempio rinunciare a una vincita in denaro per
avvantaggiare il proprio gruppo e svantaggiare l’altro nel classico
“noi contro loro”.
Ora, le nostre differenze si sciolgono come neve al sole quando
entra in gioco una vera conoscenza dell’altro, quando prestiamo
davvero attenzione alle persone che ci circondano e le frequentiamo
con curiosità e apertura. Sempre nella mia casa dello studente,
appena arrivato ho avuto la fortuna, con altri miei coetanei, di
entrare a far parte di un gruppo di ragazzi molto più grandi, alcuni
avevano anche dieci anni più di me. Inizialmente era strano vedere
questi ragazzi (che dentro di me erano già degli uomini) stare
insieme a noi, studiare, fare festa ecc. Nel giro di pochissimo tempo
la sensazione della differenza di età è svanita, chi sembrava molto
più grande di me ha iniziato ad apparire sempre più vicino a me. Se
per caso lavori in un contesto dove ci sono persone con età molto
diverse tra loro non ti sarà sfuggito questo dettaglio, magari
all’inizio osservavi quelli maggiori di età in modo reverenziale,
come guarderesti un amico di tuo padre, oggi ci esci a cena e ci parli
di cose di cui non parleresti mai a tuo padre. È un effetto magico
della consapevolezza e della conoscenza: quando ci affacciamo sugli
altri con curiosità scopriamo che sono un “universo” vastissimo,

232
molto più ricco e complesso di quanto immaginiamo… Se vuoi una
misura, ricco almeno quanto il tuo!

ESERCIZIO

1. Fai un elenco di tutte le persone che devi frequentare ma che per


qualche motivo non ti piacciono. Non scegliere persone che conosci
troppo bene.
2. Ora chiediti: “Perché si comporta così con me?”; una volta che hai
scritto la risposta, chiediti: “Potrebbero esserci stati altri motivi per cui
tizio si comporta così nei miei confronti?”. Questa domanda punta alla
tua capacità di mentalizzare le intenzioni degli altri.
3. Seleziona una persona. Nei prossimi giorni prova a conoscerla meglio,
avvicinati con gentilezza e attiva la curiosità di sapere di più su di lei.
Non deve trasformarsi in stalking e neanche nel tentativo di farti
andare giù chi è troppo antipatico; se così fosse, cambia soggetto.
4. Ripeti l’intero processo con un’altra persona che per qualche motivo
reputi antipatica o caustica nei tuoi confronti, e prova a vedere se
grazie alla tua curiosità e alla tua rinnovata consapevolezza (la capacità
di stare davvero attento: il fulcro di questo libro) sei in grado di capirla
meglio.

Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco noto soprattutto per


la sua “società liquida”, nel saggio Modernità liquida ha scritto: “Viste
da lontano, le esistenze sembrano possedere una coerenza e
un’unità che nella realtà non possono avere ma che allo spettatore
appaiono evidenti. Si tratta di un’illusione ottica…”. Questo effetto
lo abbiamo ogni volta che rimiriamo una personalità pubblica o sui
media classici o sui nuovi media. L’aspetto interessante è che tale
illusione della conoscenza non si verifica solo con persone che
ammiriamo e che non conosciamo direttamente – è normale
invidiare un supervip milionario che sembra essere felice (anche se
sotto sotto sappiamo che così non è) – ma avviene anche attraverso
microconfronti che possiamo fare con chiunque. Con il vecchio

233
compagno di classe che oggi sembra essere l’uomo più in forma e
ricco di sempre, con i nostri vicini di casa e con i nostri colleghi. E
abbiamo la tendenza a fare i confronti solo con chi ci sembra abbia
ottenuto maggiori risultati dalla vita.
No, tranquillo, non voglio iniziare a lamentarmi che le persone
ignorano che abbiamo tutti dei lati nascosti, che ognuno ha i propri
problemi ecc. Voglio soltanto farti notare che le relazioni che ci
danno da pensare non lo fanno solo direttamente quando siamo al
loro cospetto, ma grazie alle nuove tecnologie possono inseguirti in
qualsiasi luogo. E i bias che applichiamo nella vita quotidiana
possono non solo diventare più insidiosi ma anche raddoppiare,
visto che non possiamo fare altro che riempire i “buchi” della nostra
conoscenza con l’immaginazione. Noi non siamo solo “animali
sociali” come spesso ci descriviamo, ma siamo intrinsecamente
relazionali, siamo composti di relazioni tra sostanze organiche e
inorganiche, le cellule del nostro corpo comunicano costantemente e
noi facciamo comunicare tra loro i nostri mondi concettuali e non
concettuali.
Insomma, occuparci della relazione attraverso l’attenzione
consapevole è forse una delle attività più produttive che possiamo
svolgere per dare senso, valore e forza alle nostre vite.

234
Relazioni e ascolto

Non è per nulla facile relazionarsi con il prossimo, lo abbiamo visto,


sembra semplice perché nasciamo e cresciamo in ambienti sociali ma
quando poi dobbiamo farci carico di tali relazioni le cose cambiano.
Quando siamo bambini il mondo gira tutto intorno a noi, al punto
che alcuni psicologi lo hanno battezzato “egocentrismo infantile”:
per motivi evolutivi il bambino non si vede disgiunto dal mondo
circostante e crede e pensa che tutto ciò che capita attorno a lui capiti
a lui. Via via che cresciamo, facciamo esperienza del mondo e
l’egocentrismo si riduce o per lo meno si dovrebbe ridurre, ma non
sempre è così, perché viviamo in un mondo particolarmente
autocentrato dove le industrie per venderci i loro prodotti fanno
leva sulla nostra vanità – molti spot televisivi potrebbero
racchiudersi in una frase: “Fatti un regalo, pensa di più a te stesso”
–, i social fanno leva sul nostro desiderio di affermarci e così via. Se
si unisce tutto questo alla nostra tendenza a iperproteggere i figli, a
fargli evitare qualsiasi esperienza negativa, la spinta a restare un po’
bambini in questo senso si rafforza.
Attenzione, però, non vorrei farti pensare che “si stava meglio un
tempo” quando i bambini non li si considerava neanche. Mi
interessa invece mostrarti tale tendenza evolutiva, per cui durante il
nostro sviluppo passiamo da uno stato egocentrico a uno
eterocentrico, che include l’altro. E anche se non te ne sei accorto
questo passaggio l’hai vissuto pure tu… Sai quando inizia a bussare
con forza alla nostra porta? Durante l’adolescenza, nel periodo di
esplosione ormonale, quando il nostro interesse slitta dai
“giocattoli” al desiderio di avere un partner e di vivere emozioni “in
relazione”. Se il nostro sviluppo psicosessuale non riceve intoppi,
nel giro di pochi anni abbiamo le prime esperienze e i primi legami
importanti, nei quali emergono anche i primi problemi: come

235
abbiamo visto, “ciò a cui teniamo ci tiene”.
Riuscire a portare la consapevolezza e l’attenzione alle relazioni
importanti della nostra vita è qualcosa di essenziale del quale,
purtroppo, comprendiamo l’importanza solo quando “c’è qualcosa
che non va”. Ti faccio un esempio tipico di uomini e donne, giovani,
che frequentano il mio studio: «Dottore, non so che cosa sia
successo, stiamo insieme da tre anni e tutto sembrava perfetto, poi a
un tratto lei (lui) mi ha lasciato. Mi rendo conto solo adesso che non
sono stato capace di starle accanto quando ha avuto un problema di
salute, che non ho voglia di ascoltare i suoi problemi e non ho la
minima intenzione di farmi andare giù quelle arpie delle sue
amiche».
Ti sembrerà un dialogo paradossale, ma posso assicurarti che la
realtà lo è ancora di più, infatti le persone non si accorgono di ciò
che è davvero importante fino a quando non lo perdono. Le
relazioni sono tra le cose che rischiamo di dare maggiormente per
scontate e allo stesso tempo sono quelle cose che rimpiangiamo per
il resto della vita, sono per esempio tra i rimpianti più frequenti sul
letto di morte. Il rimpianto non è di non aver avuto un compagno o
una compagna, ma di averlo avuto e non avergli dato la giusta
attenzione, la giusta presenza nei momenti decisivi, non avergli dato
quel valore che meritava (valore che si misura in attenzione e in
azioni). Anche se non posso leggerti nel pensiero, anche se non ti
conosco so che probabilmente ciò – o meglio, la persona – con cui
puoi sperimentare la tua “attenzione consapevole” è già nella tua
vita.
Tutti gli esercizi che abbiamo provato finora su come portare
questa qualità di presenza nelle relazioni, falli con chi hai già
accanto e non andare a cercare “nuove relazioni”, perché sarebbe
troppo facile così. Sono sicuro che ogni lettore può trarre beneficio
dal portare intenzionalmente la propria presenza nelle relazioni che
già vive e applicare questa forma mentis a quelle future che verranno.
Dopo averti parlato dei neuroni specchio, della “mentalizzazione” e
della presenza, spero di non doverti convincere ulteriormente circa
l’importanza della tua attenzione nelle relazioni, è qualcosa che dà
senso alle nostre vite e ci consente di vivere sereni. Se proprio non
vuoi farlo per gli altri, fallo per te stesso, perché è solo quando tu dai

236
valore agli altri che loro poi sono disposti a darlo anche a te. Stiamo
attenti, però, a non trattare la nostra attenzione come se fosse una
merce, perché se vediamo le nostre interazioni come favori che
facciamo agli altri non abbiamo capito un granché. Dare attenzione
al mondo che ci circonda, che sia bello o brutto, è un esercizio che
facciamo per noi stessi e che, per fortuna, si riversa sugli altri.
La prossima volta che un tuo amico vuole scambiare quattro
chiacchiere con te o vuole farti una confidenza, dagli tutta la tua
attenzione così come l’hai allenata in questo viaggio. Non solo
riuscirai a capire meglio che cosa vuole, ma ti sarà profondamente
grato soprattutto se ti limiti ad ascoltare, senza cercare di dare dritte
e consigli, a meno che non ti siano direttamente richiesti. Viviamo in
una società in cui la gente, per farsi ascoltare, paga dei professionisti
come me. All’inizio non ci credevo, pensavo che i miei pazienti
fossero tutti bisognosi di un aiuto tecnico, magari volevano superare
l’ansia, uscire dalla depressione, imparare a gestire la gelosia. Poi,
nel tempo, sono arrivati anche quelli che avevano soltanto bisogno
di essere ascoltati. Non sono molti ma ci sono, e forse ti sembrerà
incredibile che in una società così interconnessa una persona debba
pagare per farsi ascoltare da un’altra persona.
La verità è che ascoltare davvero e sentirsi ascoltati è tutt’altro
che facile, se sei stato per caso nello studio di uno psicologo sai che
cosa intendo: anche se di fronte a te hai il professionista più bravo
del mondo non è detto che ti faccia sentire accolto, compreso e
ascoltato. Per farlo, serve attenzione ed esercizio, e se lo farai con
dedizione scoprirai da solo quanto è difficile, perché le persone sono
in grado di muovere in modo potente il nostro mondo interiore e
quindi di farci “distrarre” dai nostri obiettivi e dai nostri valori. Una
cosa posso assicurartela, è la qualità della tua attenzione a
determinare la qualità delle tue azioni nei confronti di te stesso e del
mondo. Ti avevo avvisato all’inizio di questo viaggio, dicendoti più
volte: “Questo libro non parla solo di attenzione”… Spero che tu
abbia ormai compreso che la qualità della tua vita è direttamente
proporzionale alla tua capacità di gestire l’attenzione.

ESERCIZIO

237
Nota quando ti ritrovi a pensare sempre a te stesso; seguendo il gioco del
“timbro”, osserva questo continuo parlare di te e di tanto in tanto di’ a te
stesso: “Ecco il piccolo bambino egocentrico”. Scegli tu la frase, fai
comunque in modo che non sia offensiva, ma allo stesso tempo che ti
colpisca per la sua forza. Mi raccomando, non è un giudizio su te stesso, è
accorgerti che ti stai comportando in un certo modo. Come sempre, notalo,
e… indovina? Sì, proprio così, torna gentilmente a ciò che stavi facendo, in
questo caso torna ad ascoltare il tuo interlocutore con attenzione, apertura
e accoglienza. Ricordandoti che il suo mondo è grande almeno quanto il
tuo!

238
La mia storia

Vorrei concludere il nostro viaggio in modo un po’ arzigogolato,


raccontandoti come sono arrivato alla formulazione di tutte le idee
che hai letto, che cosa mi ha convinto a vedere l’attenzione non solo
come una sorta di strumento per lavorare meglio, per essere più
concentrati, ma come mezzo attraverso il quale dare più significato
al mondo che ci circonda partendo da noi stessi. Parlare di sé alla
fine è strano, perché la presentazione dell’autore di solito occupa le
pagine introduttive, mentre qui ho voluto prendermi l’ultima parte,
relegarla e regalarla solo a chi come te ha avuto la pazienza di
leggermi fino alla fine (o a chi come te ama saltare alle conclusioni),
perché può chiarire molte cose.
Sono sempre stato interessato ad aspetti legati alla mente umana.
Durante un campo estivo, avevo 8 anni, l’educatrice che ci seguiva
prendeva i bambini che non volevano fare il “pisolino” e li faceva
meditare. Ci portava in una stanza buia e ci faceva fare dei giochi di
visualizzazione che derivavano dallo yoga, di cui lei stessa si
professava maestra. Poi verso gli 11 anni iniziai a fare alcune
pratiche di visualizzazione legate alle arti marziali; il mio maestro di
karate invitava di tanto in tanto questo venerando marzialista, che
invece di farci combattere ci faceva sedere e meditare sul respiro,
una noia mortale. All’età di 13 anni successe qualcosa di
significativo, che avrei capito solo molti anni dopo: durante un
campo scuola, alla fine della terza media, un professore decise di
farci fare una sorta di “spettacolino” di fine anno. Tra le varie
rappresentazioni c’era un’esibizione con l’ipnosi; il prof era
appassionato di questa materia e ci aveva da poco raccontato come
fosse riuscito a farsi mettere dei punti alla mano (si era ferito in quei
giorni durante il campo scuola) senza anestesia, grazie a un esercizio
di autoipnosi. Io ero rimasto totalmente rapito dal suo racconto, al

239
punto che quando chiese chi volesse provare l’ipnosi per capire
quali soggetti scegliere io fui uno dei primi ad alzare la mano, anche
se non potevo perché aveva espressamente richiesto che solo gli
animatori potessero essere ipnotizzati (a causa dell’età, credo, noi
eravamo bambini e loro adolescenti). Il professore, vedendo il mio
interesse, decise comunque di farmi fare una prova, che purtroppo
non andò a buon fine perché dopo qualche tentativo mi liquidò con
la storia che ero troppo piccolo per poter essere ipnotizzato.
Trascorsero diversi anni e io mi dimenticai completamente di
quel giorno, finché non m’iscrissi alla facoltà di psicologia a Padova,
e incontrai Manuel nella mia casa dello studente: avevo 20 anni.
Manuel iniziò a parlarmi di ipnosi e di altre tecniche che non erano
presenti tra i libri di testo di psicologia e sembravano quasi delle
chimere. Gli altri studenti ci dicevano cose del tipo: «Sì, l’ipnosi,
sono cose che Freud ha abbandonato anni fa e tu vuoi studiarle
adesso». Per fortuna Manuel e io non stavamo inseguendo tecniche
antiquate ma gli insegnamenti dello psichiatra statunitense Milton
Erickson, una delle personalità più geniali dello scorso secolo, lo
scopritore di un modo tutto nuovo di fare ipnosi. Per circa una
decina d’anni non ho fatto altro che approfondire lo studio e
l’utilizzo dell’ipnosi su me stesso e sui miei pazienti, che per fortuna
sono sempre stati tanti, non perché io sia il terapeuta più bravo del
mondo ma perché ho utilizzato da sempre il web per comunicare e
questo mi ha dato una certa visibilità e con essa lo studio “pieno”.
Durante quegli anni ho seguito numerosi corsi e metodi di
autoipnosi usando me stesso come cavia: ho seguito seminari di
training autogeno, autoipnosi tradizionale, autoipnosi ericksoniana
e molti altri con nomi sempre più complessi. Ottenevo ottimi
risultati al punto da pubblicarli su varie riviste, siti internet e anche
su qualche libretto ormai disperso nei meandri di un web del tempo
che fu.
Intorno alla prima decade di questo millennio gli studi sugli stati
modificati di coscienza sono diventati il mio pane quotidiano, sul
mio blog puoi trovare traccia di questo percorso e anche del fatto
che a un certo punto mi sono messo in testa di “misurare” le mie
sedute di autoipnosi. Per farlo mi sono comprato alcuni
marchingegni che svolgevano il ruolo di EEG, elettroencefalogrammi

240
che mi consentissero di vedere che cosa succedeva alle mie onde
cerebrali (e a quelle dei miei pazienti) durante gli stati di trance
ipnotica.
Un giorno, mentre ero in libreria, mi cattura il titolo di un libro:
Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero; lo sfoglio
pensando si tratti di una sorta di autoipnosi dal nome affascinante,
ma qualcosa mi spinge ad acquistarlo. Il libro conteneva alcuni
audio per fare delle meditazioni guidate; ne ascolto uno e resto
piuttosto deluso dal fatto che la voce guida non utilizzi i raffinati
artifici retorici tipici dell’ipnosi per indurre quello stato modificato
di coscienza che nel libro è chiamato mindfulness. Insomma,
esperienza negativa con la parte pratica, metto via il libro e lo lascio
decantare un po’; poi un giorno, mentre lo sfoglio di nuovo, mi
imbatto in uno studio scientifico svolto da un certo professor
Richard Davidson, docente di psicologia e psichiatria, che nel 2006
non era un autore affermato come oggi. Lo studio affermava
qualcosa di incredibile: dopo solo otto settimane di pratica della
mindfulness il cervello subisce cambiamenti positivi rilevabili dagli
scanner della risonanza magnetica e dagli EEG .
Decido di provare su me stesso, con l’intento di misurare tutto
con i miei strumenti e di pubblicare un bel reportage sul mio blog,
qualcosa che si sarebbe dovuto intitolare, più o meno: “Mindfulness
vs autoipnosi in un esperimento esplorativo”. La mia
sperimentazione parte lentamente, con qualche minuto di pratica
(circa 10 minuti al giorno) e alcuni tentativi di misurazione
purtroppo falliti, a causa della poca sensibilità della mia
strumentazione casalinga. Il mio intento era di andare per piccoli
passi, avevo già partecipato ad alcuni incontri di meditazione
Vipassana e conoscevo il metodo, ma non mi ci ero mai realmente
dedicato. I risultati degli studi di Davidson erano piuttosto chiari,
quegli effetti erano presenti anche in chi praticava la meditazione da
tempo, non erano legati alle otto settimane o a quel metodo
specifico, così avevo deciso di fare un passetto alla volta. Purtroppo
mi accorgo che il mio caschetto (con 14 elettrodi) non riesce a
misurare bene le mie onde cerebrali, dopo circa tre mesi di pratica,
però, avevo raggiunto la mezz’ora di esercizio quotidiano.
L’esperimento è fallito, non sono riuscito nell’intento, ma

241
qualcosa era successo e stava succedendo: mi sentivo più calmo,
concentrato, capace di focalizzarmi meglio nel lavoro e nella vita
quotidiana. Ora questo potrà apparirti come una sorta di magica
illuminazione ma non è andata così. Per prima cosa mi sono chiesto
se non mi stessi autosuggestionando sull’efficacia di questo
strumento, dopotutto stavo divorando intere librerie sul tema
mentre mi esercitavo. Poi devi sapere che in quanto professionista
ho fatto moltissimo lavoro su di me, sia da solo sia accompagnato da
colleghi più esperti. Scoprire che alcuni lati di me si stavano
modificando semplicemente perché avevo deciso di sedermi a
osservare il momento presente mi ha letteralmente “preso a
schiaffi”, colpi che con il tempo si sono trasformati in dolci carezze.
La mia fortuna è stata che proprio nel momento in cui ho iniziato ad
aprirmi al mondo della consapevolezza, attraverso quella
esperienza, anche la comunità scientifica stava iniziando a essere
inondata di articoli sull’argomento.
A mano a mano che proseguivo con la pratica mi rendevo conto
di avere a che fare con qualcosa di diverso rispetto all’ipnosi, invece
di dissociarmi e staccarmi dalla realtà questa metodica faceva
l’esatto opposto, e nonostante non contenesse alcuna “suggestione”,
aveva su di me e sui miei pazienti degli effetti pazzeschi, duraturi e
riproducibili. Così mi sono lanciato nello studio di qualunque
tecnica terapeutica che utilizzasse la mindfulness e ne ho trovate
tantissime, tra cui la ACT che ho citato. Approfondendo quei modelli
ho scoperto un altro modo di approcciarmi alla terapia e alla crescita
personale, invece di cercare di trovare dentro di me risorse,
immagini potenziate, ripetere frasi motivazionali (le arcinote
affermazioni allo specchio), bastava mettermi lì e osservare il
momento presente, senza dover fare nulla se non focalizzarmi sul
“qui e ora”.
Non so se riesco a trasmettere a chi si approccia per la prima
volta a queste cose il cambiamento copernicano a cui stavo andando
incontro. Per anni avevo cercato metodiche per esplorare me stesso
e aiutare i miei pazienti, e tutte più o meno lavoravano stando
“dentro le mappe” e cercando di modificarle. La pratica della
consapevolezza, invece, non aveva questo obiettivo, non cercava di
cambiare nulla, non cercava di sostituire nulla, ma solo di osservare,

242
e attraverso tale consapevolezza moltissimi nodi tendevano a
sciogliersi in maniera naturale, solo per effetto della “presenza”.
Tutto questo quindici-vent’anni fa sembrava un misto tra un
“abbaglio” e una mia personale illusione, che fortunatamente però
veniva confermata da una valanga di ricerche nel campo delle
neuroscienze.
Attenti, non sto dicendo che la pratica dell’ipnosi e in particolare
della psicoterapia ipnotica sia inefficace rispetto alla meditazione,
piuttosto che i suoi effetti sono profondamente diversi, per quanto
io – e molti altri – abbia creduto per parecchio tempo che si trattasse
più o meno della stessa cosa. Per anni ho cercato di insegnare
l’autoipnosi ai miei pazienti con scarsi risultati e finalmente avevo
scoperto qualcosa che le persone potevano fare a casa da sole, più
innocua e controllabile dell’ipnosi e con risultati solidi. Nella terapia
continuo a utilizzare l’ipnosi, ma ci tengo a far provare ai miei
pazienti che si tratta di una cosa pressoché opposta allo stato di
presenza: per quanto a un primo sguardo sembrino due tecniche
identiche, conducono a “stati” profondamente diversi. Per il lettore
non avvezzo a tali diavolerie, la differenza sta proprio nella
presenza che uno ha nel “qui e ora”: se sei in stato di trance ipnotica
e qualcuno fa un rumore molto forte, ne salti fuori spaventato, come
quando sei sovrappensiero e qualcuno ti tira giù dalle nuvole di
colpo. Mentre se stai meditando e senti un colpo molto forte, trasali
in modo più leggero e tratti quel suono come una distrazione per
tornare al momento presente. A quanto pare i meditanti con molte
ore di esercizio alle spalle non fanno una piega anche se gli scoppia
un petardo accanto. Si può fare anche con l’ipnosi? Certo, ma per
riuscirci bisogna entrare così tanto in trance (o fornire delle
suggestioni specifiche) che il suono non viene neanche più recepito,
la persona deve essere talmente lontana dal “momento presente” da
non sentire.
Spero, nel corso di questo testo, di aver spiegato per bene che
invece la nostra attenzione è direttamente connessa con la capacità
di sentire, la pratica della meditazione consiste nel sentire di più,
non nel sentire di meno. Siamo fin troppo bravi a cercare di sentire
meno, a evitare le cose scomode, a scegliere le strade facili, a cercare
di non pensare davanti alla TV o con lo smartphone, a riempirci la

243
vita con così tante attività da non avere più neanche dieci minuti per
pensare a noi stessi.
Dopo aver passato parecchi anni a esplorare l’inconscio e le sue
straordinarie potenzialità, mi sono dedicato a qualcosa che sembra
in contrapposizione, la coscienza, o meglio la consapevolezza,
avendo constatato sulla mia pelle la sua efficacia. Se per caso hai
ascoltato il mio podcast saprai che sono fissato con l’idea
dell’autoaiuto, cioè che tu possa fare moltissimo da solo e che anzi,
in tante occasioni, anche quando abbiamo accanto un professionista,
siamo noi a doverci assumere la responsabilità delle azioni da
compiere. Sei tu a dover prendere i farmaci in un determinato
modo, sei tu a dover fare quegli esercizi posturali o di riabilitazione,
sei tu che devi affrontare il tuo mondo interiore. Questo non
significa che non sia necessario andare da medici e psicologi, è
fondamentale farlo soprattutto quando stiamo male, e inoltre sono
loro a darci le indicazioni migliori, ma siamo noi ad avere la
responsabilità della nostra salute e di noi stessi.
La mia ricerca non è nata come disciplina “clinica” per aiutare i
miei pazienti ma come percorso di crescita personale, e ciò che hai
letto in questo libro è il risultato di anni e anni di sperimentazioni
personali; ho davvero provato un po’ di tutto, e il viaggio mi ha
condotto all’attenzione consapevole, qualcosa che ormai dovresti
aver iniziato a conoscere e forse anche riconoscere nella tua vita.
Non è per moda se ci sono finito dentro (oggi parlano tutti di
mindfulness, ma nel 2006 eravamo davvero in pochi), non è stato per
un amore giovanile (quello è l’ipnosi, della quale sono ancora
infatuato), ma è per i risultati che mi ha dato e che ha dato alle
migliaia di splendide persone che ogni giorno frequentano i miei
canali sul web: oltre ventimila praticanti nella mia app “Clarity” e
anche nel mio studio. Così nel tempo mi sono indirizzato sulla parte
legata alla consapevolezza e a questi esercizi volontari
dell’attenzione, scoprendo che è solo l’altra faccia della stessa
medaglia. Sono passato dalla ricerca di risposte nella parte inconscia
della mente al cercare invece di osservare come funziona la mente.
Quando infatti riesci a osservare il tuo mondo interno, quando
riesci a essere consapevole della meravigliosa vastità dei tuoi
processi interiori (che non si limitano a quel chiacchiericcio che

244
ascolti di frequente), inizi a sviluppare una profonda fiducia verso te
stesso. Fiducia che parte dall’osservazione della tua semplice
fisiologia, si trasforma in un “centro di gravità permanente” e ti
consente di vedere i tuoi contenuti interiori per ciò che sono e di
lasciarli andare. Quando tocchi con mano la realtà di essere di più
dei tuoi pensieri… ecco, non hai bisogno di aggiungere altro ma solo
di vivere momento per momento la tua vita, e questa è per me la
crescita personale più equilibrata e moderna che possiamo avere.
Una volta che avremo addestrato la nostra “attenzione consapevole”
potremo dedicarci a ciò che è importante per noi, qualsiasi cosa essa
sia.

245
Conclusioni

Ricapitolando le principali tappe di questo nostro viaggio, ora sai


che la cosa più importante che possediamo è la nostra attenzione, la
risorsa senza la quale la nostra vita non assume un reale significato.
Ciò che mangi non ha sapore, ciò che tocchi non ha calore e ciò che
leggi in questo momento non ha un senso, se non ci riponi la tua
attenzione. Purtroppo questa abilità è stata fraintesa per anni,
scambiata per una sorta di canale passivo attraverso cui passano le
informazioni, mentre invece si tratta di un processo attivo, anzi
attivissimo, che coinvolge tutte le facoltà mentali e motorie (o
meglio somatiche). Senza la capacità di prestare attenzione non
saremmo in grado di ricordarci nomi, fatti, volti, e non riusciremmo
neanche a tenere a mente ciò che abbiamo letto dieci secondi fa.
Purtroppo, attualmente la nostra attenzione è messa a dura prova da
un mondo sempre più complesso e dall’enorme quantità di
informazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno. Per non parlare poi
della politica e del marketing, che cercano costantemente di pilotare
e veicolare le nostre preziose e limitate risorse attentive.
Chiunque provi a mantenere la propria attenzione su un qualsiasi
oggetto scopre, più o meno velocemente, che tale stato non dura a
lungo, dopo qualche minuto emergono numerose distrazioni che
non provengono dall’esterno. Immagina di stare studiando, quando
di colpo senti il clacson di un’auto che arriva dalla strada, per
qualche istante ti interrompi ma sarà facile tornare sui libri. Se
invece quel suono ti riporta alla mente quando hai preso la patente e
ti fa viaggiare tra i ricordi, ecco che allora ti stai seriamente
distraendo. La chiave non è tanto allenarsi a restare sui libri il più a
lungo possibile, anche perché come abbiamo visto i cicli
dell’attenzione durano 30-45 minuti e sarebbe bene fare delle pause
tra un ciclo e l’altro; la chiave è piuttosto riuscire a cogliere la

246
distrazione e tornare gentilmente a ciò che stavamo studiando. È il
nostro caro “circolo dell’attenzione”, che corrisponde all’attivazione
di specifiche reti neurali che addestriamo in un solo colpo, a patto
però di riuscire a cogliere quella distrazione tornando sui propri
passi.
La ricerca ha dimostrato che questo è il metodo migliore per
allenare la nostra attenzione, perché coinvolge proprio tutte le zone
del cervello che rappresentano i “muscoli dell’attenzione”. Sapere
esattamente quali sono e come addestrarli è il primo passo per
prendersene cura, e per farlo abbiamo parlato del mio modello IOS e
della meditazione di consapevolezza. Sì, perché a quanto pare
qualcuno, occupandosi di tutt’altro che di attenzione da un punto di
vista psicologico, ha iniziato a praticare alcune tecniche che sono
diventate famose in tutto il mondo. Queste tecniche, note in Oriente
nel pensiero buddhista e in Occidente attraverso alcune tradizioni
mistiche e filosofiche (vedi per esempio il testo Esercizi spirituali e
filosofia antica del filosofo francese Pierre Hadot), sembrano
anticipare gli studi delle attuali neuroscienze che ci indicano come
dovremmo addestrare il nostro cervello. Per questo motivo abbiamo
considerato una semplice tecnica di meditazione e ti ho consigliato
di scaricare la app “Clarity”, il mio percorso guidato e gratuito per
praticare la meditazione di consapevolezza.
Dalla meditazione abbiamo visto come tale capacità di mettere da
parte le distrazioni si possa trasformare attraverso la pratica in una
serie di metodiche per la gestione dei nostri contenuti interiori, che
sono in definitiva ciò che più ci distrae dalla nostra vita. Per farlo al
meglio, abbiamo affrontato il tema delle cose essenziali per noi, i
nostri valori e il legame intenso tra cose importanti e attenzione.
Semplice da pensare ma difficile da mettere in pratica: tutti
sappiamo che dovremmo dare attenzione alle cose importanti, ma
pochi si rendono conto che è proprio l’attenzione a renderle tali.
Quindi siamo passati a come sfruttare questo principio per dare più
significato alla nostra vita e a ciò che è più importante per ogni
individuo: l’altro. Così come la quantità e la qualità dell’attenzione
che dai alle cose che fai ne determina il valore – cioè se passi molto
tempo a giocare a scacchi significa che per te quel gioco è
importante – allo stesso modo la quantità di attenzione che diamo

247
alle nostre relazioni ne determina anche la qualità. E per quanto il
noto self-help tenda a concentrarsi maggiormente sul self, cioè su noi
stessi, la verità è che non esiste nessun “io” senza “l’altro”. Le
ricerche in psicologia sono molto chiare in merito: chi coltiva cattive
relazioni, chi soffre di solitudine è maggiormente esposto a tutta
una serie di problemi non solo psicologici ma anche fisici. Le
relazioni sembrano essere un fattore protettivo per molte patologie
ma non solo, senza buone relazioni facciamo fatica a trovare un vero
senso alla nostra vita.
Il mio personale augurio è che attraverso la lettura di questo libro
tu abbia potuto toccare con mano, seppur per qualche istante, il
valore essenziale della tua attenzione, come questa determini il
senso delle cose che fai, e in che misura essa sia una proprietà
indispensabile da allenare e proteggere dal decadimento del tempo.
E spero che attraverso tali insegnamenti io ti abbia motivato ad
approfondire temi fondamentali come la meditazione di
consapevolezza, attraverso la quale puoi realmente scoprire che sei
molto di più di ciò che pensi di essere. Non perché si abbia qualche
“potere magico”, ma perché osservandoti scoprirai quanto sei vasto,
più grande di ciò che credi, e che quei contenuti mentali si muovono
in un ambiente gigantesco. Se non hai svolto alcun esercizio indicato
e ti è piaciuto il contenuto di questo testo, allora ti invito a rileggerlo
e a mettere in pratica gli esercizi come se fosse un manuale
applicativo, perché solo in questo modo potrai realmente vivere
piccole esperienze di consapevolezza che ti guideranno a
comprendere sempre più a fondo che sei molto di più dei tuoi
pensieri.
Quindi, bando alle ciance e… ci vediamo e ci sentiamo su Psinel!
;-)

248
Postfazione
di Luca Mazzucchelli

Mentre cerco di scrivere la postfazione al bel libro di Gennaro


Romagnoli, mi rendo conto di quanto sia difficile concentrarsi
oggigiorno. Intorno a me sono troppe le distrazioni che fanno a gara
per assicurarsi la mia attenzione. Il telefono che squilla, la notifica di
una nuova e-mail, mia moglie nell’altra stanza che ha bisogno di me
per risolvere una problematica di lavoro.
Di norma seguo sempre delle indicazioni ben precise per
salvaguardare la mia attenzione: cellulare nell’altra stanza, notifiche
disattivate, sessioni di lavoro di 45 minuti senza distrazioni. Ma non
sempre è possibile rispettarle, come oggi per esempio, che è un
giorno nel quale sono costretto da una serie di contingenze a non
disconnettermi totalmente da quello che mi circonda e a lavorare da
casa.
E così realizzo che viviamo tutti una guerra nella quale – volenti o
no – siamo coinvolti: la guerra per l’attenzione.
I miei figli vogliono la mia attenzione: hanno ragione a desiderare
di rendermi partecipe delle loro scoperte e progressi.
I miei collaboratori vogliono la mia attenzione: devono
aggiornarmi sugli ultimi sviluppi di alcuni delicati progetti.
La pubblicità in televisione deve persuadermi rispetto agli
acquisti più in linea con i miei bisogni; il telegiornale mi deve
informare sulle ultime manovre politiche del governo; il sito internet
sul quale navigo deve attirare la mia curiosità rispetto a prodotti o
servizi che promuove.
Tutti vogliono attenzioni, perché l’attenzione è una risorsa
estremamente preziosa.
Ripenso a quando ho deciso di dedicare la mia attenzione a
Gennaro la prima volta. Era circa dieci anni fa, quando lasciò un
commento sul mio canale YouTube. Gli risposi, lui mi scrisse di

249
nuovo e così, un messaggio alla volta, è iniziata la nostra amicizia.
Prima la nostra comunicazione era strettamente legata ai temi
della psicologia e della divulgazione online, poi si è allargata a 360
gradi sui nostri interessi, progetti e vite personali.
Con il senno di poi, posso dire che la mia scelta di allora di
dedicare attenzione alla persona che stava dietro quel commento su
YouTube ha portato parecchio valore nella mia vita.
Di Gennaro ho sempre apprezzato la cultura, la serietà nello
studio e la fame di conoscenza. In questi anni l’ho sentito parlare a
più riprese dei concetti esposti in questo libro, ma non avevo ancora
il quadro completo del suo pensiero tra le mani, così come invece è
stato presentato in queste pagine.
In effetti l’importanza dell’attenzione è qualcosa di talmente
semplice che ci sfugge: le cose a cui tieni sono anche quelle a cui
rivolgi maggiore attenzione. E quando smetti di guardarle, quando
freni l’attenzione che gli dedichi, allora come per magia quella
situazione, persona o lavoro tendono a perdere valore, a spegnersi.
È una bella responsabilità decidere a che cosa dare attenzione e a
che cosa sottrarla. Se smettessi di dedicare attenzione ai miei tre
figli, andrei incontro a un rapporto rancoroso. Se smettessi di
dedicare attenzione a mia moglie, potrei aspettarmi un tradimento.
Se smettessi di portare l’attenzione sullo sviluppo dei miei lavori,
perderei di efficacia.
Dove metti l’attenzione, insomma, ottieni risultati.
Il libro di Gennaro ci ha mostrato che possiamo raccogliere
insegnamenti e soddisfazioni non solo dal dedicare attenzione ai
nostri cari o ai progetti più ambiziosi della nostra vita, ma anche alle
piccole cose: quando gustiamo il nostro pasto, se guardiamo un bel
film, mentre ci laviamo i denti.
La vita può essere bella e ricca di significato anche nelle piccole
cose. Sta a noi decidere se dare loro attenzione o passarvi oltre
distrattamente.

250
Consigli di lettura

Allen, Jon G., Fonagy, Peter e Bateman, Anthony, La mentalizzazione


nella pratica clinica, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2010.
Csíkszentmihályi, Mihály, Flow: The Psychology of Optimal Experience,
Harper Perennial, New York 2008.
Ericsson, K. Anders e Pool, Robert, Numero 1 si diventa. Sviluppa il
tuo potenziale segreto per migliorare in quasi tutto quello che vuoi,
trad. it. Sperling & Kupfer, Milano 2016.
Goleman, Daniel, Focus. Come mantenersi concentrati nell’era della
distrazione, trad. it. Rizzoli, Milano 2014.
Kahneman, Daniel, Pensieri lenti e veloci, trad. it. Mondadori, Milano
2013.
Langer, Ellen J., Mindfulness. La mente consapevole, trad. it. Corbaccio,
Milano 2015.
Malinowski, Peter, Neural Mechanisms of Attentional Control in
Mindfulness Meditation, in “Frontiers in Neuroscience”, 2013, 4,
pp. 7-8.
Mazzucchelli, Luca, Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati,
Giunti, Firenze 2019.
Pinker, Steven, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo
è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, trad. it. Mondadori,
Milano 2013.
–, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza,
dell’umanesimo, trad. it. Mondadori, Milano 2018.
Rosling, Hans, Rosling, Ola e Rönnlung, Anna Rosling, Factfulness.
Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno
meglio di come pensiamo, trad. it. Rizzoli, Milano 2018.
Segal, Zindel V., Williams, J. Mark e Teasdale, John D., Mindfulness.
Al di là del pensiero, attraverso il pensiero, con 2 CD audio, ed. it. a
cura di Fabio Giommi, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006.

251
Siegel, Daniel J., Mindfulness e cervello, trad. it. Raffaello Cortina,
Milano 2009.
Slagter, Heleen A., Davidson, Richard J. e Lutz, Antoine, Mental
Training as a Tool in the Neuroscientific Study of Brain and Cognitive
Plasticity, in “Frontiers in Human Neuroscience”, 2011, 5, p. 17.
Thaler, Richard H. e Sunstein, Cass R., Nudge. La spinta gentile. La
nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute,
felicità, trad. it. Feltrinelli, Milano 2014.
Wiseman, Richard, Il potere del sonno, trad. it. Vallardi, Milano 2017.

252
Ringraziamenti

La prima persona che desidero ringraziare è mia moglie Chiara. Potrei farle una
lunga dichiarazione d’amore “ma non mi basterebbe lo spazio di un libro”.
Ringrazio i miei familiari, che sono lontani da vent’anni, da quando mi sono
trasferito all’Università di Padova; ringrazio ancora mia mamma, mio padre, mia
sorella Silvia e Mena, teniamo duro!
Voglio poi ringraziare Luca Mazzucchelli per la splendida postfazione, Patrick
Cislaghi per avermi aiutato nella parte organizzativa.
Grazie di cuore a Marco, il mio socio, e a tutto il nostro superteam (Giuseppe,
Alice, Ferra, Giulia e Arianna) per avermi lasciato lo spazio e il tempo per scrivere
questo libro fra i nostri mille progetti. Ringrazio l’amico Franco Di Pietro, il regista
che menziono nel capitolo “Pillola rossa o pillola blu?”, Manuel Mauri per tutti gli
insegnamenti e le giornate passate a parlare di psicologia.
E infine ringrazio tutti gli “psinellini”, il nomignolo che ho dato alla community
che mi segue da anni attraverso il mio podcast Psinel…

253
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente
autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o
da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione
o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle
informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti
dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo
quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio,
prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo
consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere
alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni
incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

www.librimondadori.it

Facci caso
di Gennaro Romagnoli
© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835702948

COPERTINA || PROGETTO GRAFICO: MARA SCANAVINO PROJECT |


ELABORAZIONE DA IMMAGINI © SHUTTERSTOCK

254

Potrebbero piacerti anche