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OceanofPDF.

com
Dr. Faith G. Harper

SPEGNI STO C***O DI


CERVELLO
OceanofPDF.com
Traduzione di Sara Puggioni

Pubblicato per

LIBRERIA pienogiorno

da
FullDay Srl

©
2023 FullDay Srl, Milano

Unfuck your brain

©
Faith Harper, 2017

First published in US by Microcosm Publishing, 2017

Published by arrangement with Nordlyset Literary Agency and Otago Literary Agency

Promozione e distribuzione EDIGITA

UUID: 5a7a6f22-7600-44f1-a89f-1c9cf86124fc
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Indice
Introduzione
Parte prima - ECCO A VOI IL CERVELLO
1. In che modo il nostro cervello si incasina
2. Come il trauma riconfigura il cervello
3. Spegnere il c***o di cervello
4. Stare meglio: rieducare il cervello
5. Ottenere aiuto
Parte seconda - ECCO A VOI IL CERVELLO DI
FRONTE ALLA VITA
6. Ansia
7. Rabbia
8. Dipendenza
9. Depressione
10. L’importanza di onorare il lutto
Conclusione
Letture consigliate
Ringraziamenti
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LIBRERIA
pienogiorno
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INTRODUZIONE

Ansia, stress,
irritabilità, a volte persino rabbia, scelte di
vita sbagliate,
relazioni tossiche, una perdita traumatica...
questi sono alcuni
esempi delle cose che ci incasinano il
cervello.
O, come mi ha detto
qualcuno: «Ah, ok, un normale
lunedì mattina».
Molto di ciò che
chiamiamo disagio psicologico è in
realtà un caso di chimica del
cervello impazzita. E gran
parte di tutto questo deriva dagli
eventi
stressanti e
traumatici che dobbiamo affrontare.
Siamo sempre stati
abituati a ritenere i nostri poveri
geni responsabili per tutti i
diversi modi in cui reagiamo
a una situazione di stress e trauma.
Ma
ricerche recenti
mostrano che solo il due-cinque per cento delle
diagnosi
deriva da un gene difettoso. Quindi adesso sappiamo che
la
causa dei problemi è molto più probabilmente
l’ambiente che ci
circonda, e il modo in cui reagiamo a
esso.
Queste cose –
ansia, depressione e tutto il resto – sono
strategie adattive.
Se non credete a nient’altro di quello
che ho da dire, spero che
almeno crederete a questo:
sentimenti del genere sono normali.
Siamo
configurati
per l’autoconservazione e la sopravvivenza, ed è
esattamente quello che fa il nostro cervello quando si
comporta da
schizzato.
I nostri
comportamenti sono risposte alle stronzate con
cui dobbiamo fare i
conti un giorno sì e l’altro pure. Il
nostro cervello non reagisce
solo ai grandi eventi
traumatici che ci stravolgono l’esistenza, ma
anche alle
relazioni e alle interazioni tossiche che viviamo
quotidianamente: tutti quei modi impercettibili con cui
la gente ci
dà sui nervi, viola i nostri confini e non
rispetta il nostro
bisogno di sicurezza, creando una
miscela esplosiva delle due
cose.
E
A QUEL PUNTO sentirsi incasinati diventa un
circolo vizioso.
Ci sentiamo strani e pazzi perché ci
sentiamo strani e pazzi.
Deboli. Spezzati.
Fondamentalmente difettosi. E questa
è la sensazione più
tremenda di tutte. Fondamentalmente difettosi
significa
impossibili da aggiustare. Quindi perché darsi la pena di
provare?
Ma cosa
succederebbe se fossimo in grado di
comprendere da dove vengono
tutti
questi pensieri e
sensazioni? E di capire qual è l’origine di
tutto lo schifo
che ci succede nella testa? E se in realtà fosse
tutto
perfettamente comprensibile? Significherebbe che
potrebbe
essere possibile RIMEDIARE.
È importante,
c***o. La probabilità di stare meglio
aumenta se conosciamo
l’origine di un problema e se
non ci concentriamo solo sui sintomi.
Per esempio, se
curiamo lo stress, l’ansia o la depressione, senza
cercare
le cause dello stress, dell’ansia e della depressione, non
stiamo facendo tutto quello che è in nostro potere per
MIGLIORARE
DAVVERO le cose.
È come se vi
venisse un’eruzione cutanea (portate
pazienza, analogia disgustosa,
lo so). Potete curare lo
sfogo e magari farlo anche passare, ma se
non capite a
cosa siete allergici, è alquanto probabile che il
problema
si ripresenterà.
Lo stesso vale per
il cervello. Se riuscite a capire meglio
perché fate le cose che
fate, la parte relativa al
miglioramento diventa molto più facile.
E
non è
necessario spiegarlo con paroloni super complicati
perché
abbia senso e sia utile.
Sono una
psicoterapeuta. Una consulente abilitata, con
specializzazioni
aggiuntive in sessuologia, life coaching
integrato e nutrizione
clinica. Sono una terapeuta
trauma-orientata, il che significa che
oltre a tutto il resto
mi occupo di trattare i traumi. Questo ha
due
conseguenze:
1. che alle occasioni sociali mi evitano come la peste;
2. i miei pazienti sembrano stare molto meglio e molto
più in
fretta
dei pazienti dei miei colleghi che non
includono il lavoro
e la
consapevolezza del trauma
nella loro pratica clinica.
Sia
chiaro che non me la sto tirando, sono i miei
pazienti a fare TUTTO
il lavoro. Io sono solo il coach.
Sono quella che regge l’enorme
striscione con su scritto:
“Da questa parte, Forrest!” sulla
linea del traguardo.
Lavoro nell’ambito
della salute mentale da abbastanza
decenni perché siate autorizzati
a commentare: «Cavoli,
sei vecchia», e posso dirvi che la nostra
attuale
comprensione del trauma è piuttosto recente. Diversi
anni
fa
ho lavorato per un programma che era il primo
nella mia città a
tenere gruppi di recupero per il trauma.
In quei gruppi, mi resi
conto che concentrarsi sulle storie
anziché sulle etichette che ci
appiccicavamo sopra
(depressione, ansia, dipendenza etc.) aiutava
le
persone a
stare meglio. Da allora ho studiato diverse altre
modalità
di trattamento del trauma, e ho convinto parecchie
agenzie e
programmi ad adottare un modello di cura
trauma-orientato.
Attualmente
esercito privatamente e mi concentro
sulle relazioni e
sull’intimità.
E indovinate un po’ qual è il
problema più grosso che incontro?
Il trauma. Solleva la
sua orrida testa ovunque. Ho scoperto che
quando
spiegavo tutto quello che stava succedendo in modo
semplice,
i
miei pazienti dicevano: «Oh, c***o! È proprio
così!» Questo libro
esiste perché nessun altro ha mai
messo insieme tutta ’sta roba in
modo semplice e pratico.
E ho visto come la comprensione del
problema
aiuti le
persone a star meglio molto più in fretta.
Sto per dire una
cosa che potrebbe rivelarsi
controproducente per i miei affari: non
penso che tutti
abbiano bisogno della terapia. Penso che ciascuno
di
noi
possa impegnarsi per star meglio, trovando la strada che
gli è
più congeniale. Alcuni meditano, altri vanno in
palestra, altri
ancora hanno un life coach, e qualcuno va
da un terapeuta. Altri
fanno qualcosa di completamente
diverso. Sono tutte alternative
valide.
Perché, insomma…
ognuno è una storia a sé.
Qualunque sia il risultato finale, sono
convinta che tutto
funzioni meglio se si capisce il perché.

A
chi si rivolge questo libro?
A
coloro che chiedono di continuo: «Ma PERCHÉ?»
A
quelli che da piccoli hanno tirato scemi gli adulti con
domande
su
come funzionava il mondo, per poter capire
quale posto occupavano
in
esso.
A chi ODIA
sentirsi dire cosa fare dagli altri. A chi
vuole semplicemente gli
strumenti e le informazioni di
cui ha bisogno per capire cosa fare
per se stesso. Questo si
può fare da soli oppure con l’aiuto
di un terapeuta
rockstar che sa fare di meglio che non comandarvi a
bacchetta. A ogni modo, sapete di essere gli artefici della
vostra
c***o di vita, perché sicuro come l’oro siete
responsabili di
tutte le conseguenze.
A chi ne ha fin
sopra i capelli di pensare di essere fuori
di testa. O stupido. Di
sentirsi dire che è «troppo
sensibile». O che semplicemente deve
«imparare ad
accettarsi». A chi è stufo marcio di stare male, ma
ancora
più del fatto che gli altri credano che ci goda a
stare male.
Come se qualcuno potesse mai scegliere di essere
infelice. Come se semplicemente vi rifiutaste di stare
meglio. Come
se voleste essere infelici. Lo vedrebbe
anche un cieco che non è
così. Ma siete a un punto
morto, e non avete idea del perché.
Questo libro parla
del perché siete infelici, in modo che
possiate fare qualcosa al
riguardo.

Cosa
succede in questo libro?
Okay,
so cosa state pensando: “È tutto fantastico, cara
dottoressa. Ma
come mi aiuterà questo libro? Che cosa lo
rende tanto speciale e
diverso dagli altri undici miliardi
di manuali di autoaiuto che già
rischiano di far crollare
gli scaffali della mia libreria? Dire che
sono scettico è un
eufemismo”.
Parole sante.
Dovete esserlo. Anche la mia libreria è
zeppa fino a scoppiare.
Probabilmente ho letto quasi
tutto quello che avete letto voi.
Questo
libro è diverso, sul serio. E per ben tre ragioni.
La
prima? Vi darò qualche nozione scientifica. Non
scienza complicata,
arida e barbosa, ma il tipo di scienza
che vi fa dire: «Oh, porca
miseria, questo sì che ha senso,
perché c***o nessuno me l’ha mai
spiegato così prima?»
Nella professione privata ho scoperto che NON
ci vuole
una laurea per capire ’sta roba. In genere sono in grado
di
spiegarvi quello che vi serve sapere in circa cinque-dieci
minuti
(o in un numero di pagine equivalente, dipende
dai casi).
La
seconda? Non vi butterò addosso tutta questa
scienza per poi dire:
«Già, un bel casino… è proprio uno
schifo essere te» e prendere
la porta. Vi darò invece
parecchi consigli pratici e DAVVERO
applicabili per stare
meglio.
Non tutti hanno il
tempo di concedersi il tipo di ritiro
in stile Mangia, prega, ama
(e chiaramente, non sono
affatto invidiosa o roba simile). La
maggior
parte di noi
deve alzarsi ogni mattina, affrontare la vita vera, e
nel
frattempo cercare di capire come stare meglio. Stare
meglio non
significa che non dovete continuare a fare il
bucato. Perciò
cercheremo di districarci da tutto questo
casino usando le nostre
forze come i miti che siamo.
Perché la volete sapere una cosa? La
situazione non è
senza speranza. Voi non siete senza speranza. STARE
MEGLIO SI PUÒ. Se foste pazienti del mio studio,
rimetteremmo
in riga quei demoni insieme. Questa è la
cosa che più si avvicina.
Ed è roba che funziona.
Terzo? Ho
intenzione di passare in rassegna una marea
di opzioni di cura
papabili. Non sono contraria ai farmaci
e alla medicina
occidentale,
ma credo che siano da
considerare una delle molte strade
disponibili.
Approccio
olistico significa prendersi cura della persona nel suo
complesso. E dobbiamo escogitare un piano che funzioni
per
noi.
Per esempio, la mia miglior linea di difesa è
mangiare sano, essere
costretta a fare esercizio di tanto in
tanto, prendere integratori
alle erbe e includere
agopuntura, meditazione, massaggi e pedicure
nel mio
regime di benessere. E combatterò chiunque fino
all’ultimo pezzo (sì, citazione dalla Storia fantastica)
per la
mia convinzione che la pedicure sia terapeutica. Per mio
figlio sono il football, il sollevamento pesi, gli esercizi di
grounding, la meditazione, un ambiente scolastico
altamente
strutturato, il neurofeedback, e una
combinazione di integratori e
farmaci occidentali. Tutti
noi abbiamo bisogni unici. Strano a
dirsi,
la pedicure non
compare sulla sua lista. Perciò snocciolerò un bel
po’ di
opzioni di cui magari non avete mai sentito parlare per
darvi una mano a creare il vostro piano di attacco
personale.
Infine, nel corso
del libro ci saranno mini-esercizi che
vi aiuteranno a elaborare il
lavoro che state facendo. Non
sono compiti a casa, non dovete
superare un esame. Ma
avere modi per elaborare tutto quello che
potrebbe
capitarvi è importante. Ma, per l’amore del cielo, non
voglio che il mio libro vi crei più ansia di quella che
avete. Non
usatelo se non vi serve. Ma è qui se ne avete
bisogno.

PRONTI, VIA!: PRENDETEVI LA TEMPERATURA


Quanto spesso nella vita vi siete davvero
concessi di provare ciò che
provate? Di rado se non mai,
scommetto.
Questo libro è tutto incentrato sul trovare un
modo di superare i vari
tipi di schifezze che ci intralciano per
avere la vita che desideriamo e il
senso di pace e scopo cui
aneliamo. Il genere di stronzate che chiamiamo
eventi traumatici. È
rivolto anche alle persone con reazioni fortissime di
stress,
ansia, dolore, rabbia, depressione, e/o comportamenti dipendenti,
ovvero tutte le abilità di coping che sviluppiamo per andare avanti
nella
vita senza tentare di porvi fine.
Tutte cose che possono rendere la lettura
stressante. Qualche paragrafo
potrebbe rivelarsi un pugno nello
stomaco perché tocca una verità
fondamentale della vostra vita e
della vostra esperienza. E il vostro
cervello non sarà felice di
provare quella sensazione. Potrebbe reagire
così: «‘Fanculo sto
casino e sbatti via questo libro».
Perché in genere ci viene detto di non provare
emozioni negative.
Sono brutte e vanno evitate. E vedremo meglio
perché questa qui è una
stronzata bella e buona.
Nel frattempo, però, può essere davvero utile
soffermarsi su ciò che
provate. Prendervi la temperatura, per così
dire. E avere pronto un piano
se si alza troppo. Più avanti nel
libro imparerete altri esercizi che potrete
adottare. Ma iniziamo
con i più semplici.
Chiudete gli occhi e notate:

cosa succede nel vostro corpo?


cosa state pensando? (Potrebbero non essere
pensieri veri e propri ma
spezzoni di ricordi)
cosa provate al riguardo? Date un nome a
queste emozioni. Valutatene
la gravità.
adesso che cosa succede fisicamente nel vostro
corpo?
e, sul serio, nel vostro quotidiano, quali
circostanze vi danno una mano
ad andare avanti e quali peggiorano
le cose?

L’esercizio potrebbe rivelarsi difficilissimo.


Molte persone non hanno
uno straccio di idea di come si sentono. E
va bene così. Siete stati
addestrati a disconnettervi dalle
emozioni. Vi è stato detto che quello che
provavate era sbagliato.
Che non vi era permesso sentirvi così.
Quindi se non lo sapete… ammettete anche
questo. Potreste scoprire
che, ripetendo l’esercizio, con il tempo
ricomincerete a connettervi a
quello che provate. Il fatto di non
sapere NON fa di voi un libro di
autoaiuto fallimentare. È solo un
altro pezzo di informazione vitale che vi
dice dove siete in questo
momento.
Ciò che fa questo esercizio è restituirvi il
potere di appropriarvi di
quello che succede dentro di voi.
Avete il permesso di provare ciò che provate
.
Imparare a riconnettervi con la realtà della
vostra esperienza vi aiuterà
a trovare le risorse di cui avete
bisogno per andare avanti. Perché ve lo
meritate. Dovremmo onorare
il passato, dovremmo ricordarlo, e
dovremmo rispettare ciò che ci
ha insegnato. Ma non dobbiamo
continuare a viverci. Quella casa è
pericolante e tossica e assolutamente
troppo piccola per
contenervi. Non sostiene la vostra esperienza presente
e sicuro
come l’oro non si adatta ai vostri obiettivi futuri.

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PARTE PRIMA - ECCO A VOI IL
CERVELLO

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1. IN CHE MODO IL NOSTRO
CERVELLO SI INCASINA

Risposta
breve? Il
trauma.
Questo libro parla
in sostanza del trauma. E delle
nostre reazioni traumatiche, delle
schifezze dell’esistenza
e della stronzaggine degli altri che ci
impediscono di
vivere alla grande. Parla anche di come creiamo
strategie
di coping per affrontare lo schifo che i dottori fighi
chiamano ansia, depressione, dipendenza, rabbia,
eccetera.
Tali strategie sono
parte essenziale del complicato
processo che il vostro cervello
mette
in atto dopo che vi è
successo qualcosa di brutto. In realtà il
cervello sta solo
cercando di fare il suo lavoro, che consiste nel
proteggervi nel modo migliore che conosce. Ma spesso
finisce invece
per non essere di grande aiuto. È come
quell’amico che si offre di
prendere a pugni qualunque
testa di c***o che vi rompe le scatole.
Gratificante, ma
non molto utile nel lungo periodo.
Questo libro parla
anche delle schifezze della vita in
generale e della stronzaggine
delle altre persone. Roba
che potrebbe non essere
traumatica in
sé, ma che non
rende le cose più facili. I modi con cui gestiamo le
cose
che non sono un trauma a pieno titolo… ma di certo non
sono
gattini, arcobaleni e orsetti di peluche. Come
succede per il
trauma,
le strategie adattive che creiamo
per queste situazioni tendono a
diventare sempre meno
utili con il passare del tempo e decisamente
estenuanti.
La buona notizia è
che, indipendentemente da quanto
a lungo siete bloccati in queste
sabbie mobili, potete
riconfigurare la vostra risposta e spegnere
il
c***o di
cervello.

Perché
il mio cervello è un casino infernale?
Abbiamo
la tendenza a separare il benessere mentale
da quello fisico. Come
se
non si influenzassero di
continuo in un fottutissimo circolo
vizioso,
o qualcosa
del genere.
Le cose che
impariamo sul cervello di solito ricadono
nella categoria “salute
fisica”. Invece, pensieri sentimenti
e comportamenti ricadono nella
categoria “salute
mentale”.
Quindi in che punto
del corpo si collocano pensieri e
sentimenti? Pare quasi che la
mente
sia una specie di
palloncino gonfiato a elio che ci fluttua sopra
la
testa.
Magari lo teniamo per la cordicella, ma non è veramente
parte
di noi (anche se siamo ritenuti comunque
responsabili di tutto
quello
che fa).
Quest’immagine di
un cervello disincarnato non è
utile. Non ha uno straccio di
senso.
E quello che
sappiamo davvero del cervello è questo:
che almeno una parte di
esso
risiede nell’intestino, dove
ci sono microrganismi unici i quali
comunicano con il
cervello vero (tramite l’asse intestino-cervello…
una cosa
concreta) tanto sistematicamente da essere considerati un
secondo cervello. Il quale gioca un ruolo enorme nel
guidare le
nostre emozioni. Mai avuto una reazione di
pancia? Ecco, quella è
una cosa reale.
Questo significa
che, anziché essere una cosa con cui
abbiamo un legame esile e che
ci ficca nei casini ogni due
per tre, la mente in realtà risiede
all’interno del nostro
corpo e agisce come un centro di controllo
processando
enormi quantità di informazioni e prendendo decisioni
prima ancora che noi siamo consapevoli della necessità
di
farlo.
I pensieri, i
sentimenti e i comportamenti vengono da
QUI.
Sono radicati nella profondità del nostro corpo
fisico, nel modo in
cui il cervello percepisce il mondo che
ci circonda, sulla base
delle
esperienze passate e delle
informazioni attuali. Quindi dire che
conoscere cosa
succede nel nostro cervello e come funziona è
un’impresa titanica potrebbe essere l’eufemismo del
secolo. E
quando ce ne rendiamo conto davvero,
capiamo che il modo in cui
interagiamo con il mondo è
una risposta del tutto normale, se
prendiamo in
considerazione il funzionamento del cervello e le
nostre
esperienze passate. Se va tutto liscio e l’atterraggio è
morbido,
non notiamo alcun problema. Ma cosa succede
quando capita un
atterraggio brusco? Quando il controllo
del traffico cerebrale non
gestisce le cose nel modo
corretto, ne vediamo gli effetti:
diamo di matto;
evitiamo cose importanti che è necessario affrontare;
siamo perennemente incazzati;
ci comportiamo da merde con le persone a cui
teniamo;
introduciamo nel corpo schifezze che sappiamo non
ci fanno
bene;
facciamo cose che sappiamo idiote, inutili o
distruttive.
Nessuna di queste cose è d’aiuto, neanche per sogno.
Ma tutte
hanno senso.
Le cose brutte
capitano. Il cervello immagazzina le
informazioni per cercare di
evitarle in futuro. Si è
semplicemente adattato alle circostanze
della vostra vita
e ha iniziato a fare cose per proteggervi, che
dio
lo
benedica. Certe volte queste risposte sono utili. Altre
volte
diventano un problema più grosso del problema
reale. Non sta
CERCANDO di mettervi nei casini
(anche
se a volte lo fa).
E se non siete alle
prese con un trauma specifico? Le
strategie adattive, le cattive
abitudini e i comportamenti
folli funzionano tutti in modo simile.
E
la ricerca sta
dimostrando che tali questioni sono in realtà alcune
delle
più facili da curare in terapia… a patto di concentrarsi sul
vero problema, anziché solo sui sintomi.
Ho scoperto che una
delle cose più utili che faccio
come terapeuta è spiegare cosa
succede dentro il cervello
e in che modo il lavoro che facciamo in
terapia mira a
riconfigurare le nostre reazioni a determinate
situazioni.
Le strategie su cui
lavoriamo in terapia (e le strategie e
le abilità che le persone
trovano da sole) hanno lo scopo
di riportare il cervello a
elaborare
le informazioni senza
scatenare reazioni eccessive. Le reazioni
eccessive sono il
modo con cui il nostro cervello si adatta e ci
protegge
tutte le volte che percepisce una situazione come una
minaccia… così che siamo preparati a fare qualunque cosa
sia
necessaria per restare vivi. È come se si attivasse una
specie di
modalità battaglia, come nei videogiochi. Anche
se il “nemico” è
solo un tizio qualunque accanto a voi, il
quale non ha la più
pallida idea di aver appena toccato un
nervo scoperto.
Se riusciamo a
riguadagnare il controllo, possiamo
reagire a queste minacce
percepite nel modo più sicuro e
razionale possibile.
Lasciate che vi
spieghi cosa intendo.

Il
cervello spiegato semplice
Dunque,
se in questo libro c’è una parte complicata, è
quella che state
per leggere. Perché il cervello è piuttosto
complicato. Ma il
livello di difficoltà sarà solo quello
assolutamente necessario a
spiegare le cose che volete
sapere su ciò che succede. Quindi
tenete
duro, ce la
faremo.
La corteccia
prefrontale (la chiameremo pfc),
in sostanza
la parte davanti del cervello, è quella responsabile
del
funzionamento esecutivo, che comprende la
risoluzione
di
problemi, i comportamenti orientati a uno scopo e la
gestione delle
interazioni sociali. In sostanza, la funzione
esecutiva è il
pensiero puro e semplice.
Sta grossomodo
dietro la fronte (ecco perché si chiama
così). Questa è la parte
del cervello che si è evoluta più di
recente, ed è anche quella
che ci differenzia
maggiormente dalle altre specie. È la parte
incaricata di
ricevere le informazioni dal mondo e di orientare
pensieri e azioni di conseguenza.
La corteccia
prefrontale è anche la parte che ci mette di
più a svilupparsi
mentre cresciamo. Raggiunge la piena
maturità solo intorno ai
venticinque anni. Ciò non
significa che non esiste nei bambini,
negli adolescenti e
nei giovani adulti e di certo non vi dà carta
bianca per
commettere delle cazzate da giovani. Però significa che
la
nostra struttura cerebrale crea reti di comunicazione
nuove e
più
complesse – nuove vie di comunicazione –
man mano che diventiamo
più vecchi e saggi. Se le cose
vanno per il verso giusto, la pfc
continua a lavorare
sempre meglio: un indubbio beneficio
dell’invecchiamento.
Tenete però bene a
mente la precisazione se le cose
vanno per il verso giusto.
Quindi la corteccia
prefrontale è la parte che in teoria è
al comando.
Ed è, ovviamente,
strettamente connessa al resto del
cervello. La porzione ventrale
(il lato b della pfc,
per così
dire) è legata direttamente a una regione del tutto
diversa
del cervello… la parte in cui sono immagazzinate le
emozioni. Inoltre, tutta quanta la pfc
riceve feedback dai
sistemi di attivazione del cervello (niente
paura, di tutto
questo parleremo meglio più avanti).
Perciò qualunque
informazione venga inviata alla pfc
da queste altre parti del cervello ha un impatto sull’intero
sistema di pensiero. C’è una regione della pfc
chiamata
corteccia cingolata anteriore (
acc).
Il suo compito è
gestire il dialogo fra la pfc
(cervello pensante) e il sistema
limbico (cervello emotivo). La acc
gestisce il dialogo
cerebrale fra ciò che sappiamo e ciò che
proviamo… e poi
dà suggerimenti su quello che dovremmo fare
riguardo a
tutta quanta la faccenda.
E la struttura di
quest’area è dannatamente
STRANA.
Le cellule cerebrali qui si chiamano neuroni fusiformi o
neuroni di von Economo e sono supermodelle alte e tutte
gambe
anziché tizi bassi e zazzeruti come altrove. E
questi figli di
buona
donna possono sollevare un bel po’
di casino, per giunta. Inviano
segnali molto più
velocemente del resto dei neuroni, quindi la
reazione
emotiva è una botta che sale rapidissima.
Perché questi e
perché qui? Solo gli esseri umani e le
grandi scimmie hanno i
neuroni fusiformi. Molti
scienziati credono che facciano parte
della
nostra
evoluzione verso un’intelligenza superiore.
Per pensare di più,
dobbiamo sentire di più. E poi
tenere entrambe le cose in
considerazione quando
prendiamo decisioni. Per la nostra
sopravvivenza le
emozioni sono altrettanto importanti dei pensieri.
E
avete già capito benissimo dove sto andando a parare.

Quella
stronza dell’amigdala
E
la parte mediana del cervello che ho menzionato?
Quella che balla
il
tango con il didietro della pfc?
Quello è
il sistema limbico, seppellito nelle pieghe del cervello,
alle spalle della pfc.
Se la pfc si occupa del
pensiero, il
sistema limbico ha a che fare con le emozioni. E gran
parte delle emozioni sono legate al modo in cui
immagazziniamo i
ricordi.
L’amigdala e
l’ippocampo sono due componenti chiave
del sistema limbico. La
maggior parte di ciò che oggi
sappiamo del modo in cui i traumi
influenzano il
cervello è legato alle ricerche sull’amigdala. Il
suo
compito è collegare i ricordi alle emozioni. Tombola. Ma,
per
essere più precisi, si è scoperto che l’amigdala
immagazzina solo
un tipo specifico di ricordi, non tutti.
All’amigdala non
gliene potrebbe fregare di meno di
dove avete lasciato le chiavi
dell’auto. La sua funzione è
gestire la memoria episodica
autobiografica. In sostanza è
il posto dove viene immagazzinata la
conoscenza basata
sugli eventi. Tempi, luoghi, persone. Non la
ricetta del
dolce alla banana della prozia. Le vostre storie
riguardanti il mondo e il modo in cui funziona. Le cose
che vi
succedono.
Dunque, perché è
così dannatamente importante? I
ricordi episodici vengono
immagazzinati nell’ippocampo
come le nostre storie: la nostra
interpretazione degli
eventi con le reazioni emotive
corrispondenti.
Si tratta di
ricordi legati a importanti risposte emotive. Se vi è
successo qualcosa di davvero significativo, le emozioni
legate a
quel
ricordo ci restano attaccate come il pelo del
gatto o l’adesione
statica. Perciò quando avremo una
reazione emotiva in futuro,
l’amigdala tirerà fuori
immediatamente quel file di memoria
episodica
autobiografica per decidere come reagire.
Quello che si
accende insieme, si struttura insieme.
Poniamo che
riceviate dei fiori. I fiori sono fantastici,
giusto? Certo… a
patto che i vostri ricordi legati al
ricevere dei fiori siano
felici.
Magari il vostro compagno
vi ha portato dei fiori una volta e poi
si
è dichiarato.
Perciò quando in futuro riceverete dei fiori, vedrete
dei
fiori, passerete in auto davanti al furgone di un fiorista,
proverete delle sensazioni positive.
Ma poniamo che
abbiate ricevuto dei fiori quando una
persona amata è morta, in
maniera terribile e
all’improvviso. Una persona gentile che sapeva
del vostro
dolore vi ha mandato dei fiori. Ma adesso perfino
l’odore
vi fa venire la nausea.
L’amigdala ha
trasformato il ricordo dei fiori in una
vera e propria
mnemotecnica di determinate emozioni. Una
tecnica mnemonica
come
“Trenta giorni ha novembre,
con april, giugno e settembre…” per
ricordare il numero
dei giorni dei mesi. Roba che non sono stata
capace di
scordarmi dalle elementari.
Il compito
dell’amigdala è assicurarsi che non
dimentichiate cose molto
importanti. Ricordare cose
belle importanti è meraviglioso. Nessuno
ha da ridire sui
ricordi piacevoli. Il ricordo persistente di cose
brutte
importanti può rivelarsi uno schifo spettacolare.
È uno schifo
perché l’amigdala non va troppo per il
sottile, soprattutto quando
si tratta di proteggerti.
Soprattutto nel caso in cui cammini per
strada in un
giorno di primavera e senti l’odore dei fiori in
boccio nel
giardino della vicina. E di colpo hai l’impressione di
dare
di matto, perché anche se il tuo corpo è ancora nel
giardino
della vicina, la tua mente è al funerale della
persona amata.

Combatti,
Fuggi, Bloccati
E
questo ci porta all’ultima parte del nostro discorso sul
cervello,
quella in cui parliamo del tronco encefalico.
Il
tronco
encefalico è alla base del cervello (torna, no?).
È la
prima
parte a formarsi, ed è localizzata fra il collo e
le vertebre della
schiena. Sapete già che il cervello ha
l’aspetto di un ammasso di
pasta stracotta, giusto? Questa
è la parte che inizia a separarsi
dal resto degli spaghetti, si
raddrizza un po’ e va a formare il
midollo spinale.
Il tronco
encefalico è il nostro strumento di
sopravvivenza fondamentale.
Mentre i muscoli cardiaci
regolano bisogni elementari come la
respirazione e il
battito del cuore, il tronco
encefalico ne controlla il ritmo,
la velocità e l’intensità.
Quindi batterà velocissimo
durante un attacco di panico, per
esempio. Vi dirà: STAI
ATTENTO, POTREMMO
MORIRE. Mica roba da niente.
Essere vigili,
coscienti, consapevoli di quello che ci sta
intorno? Compiti del
tronco encefalico.
Perciò quando il
tronco encefalico dice EHI EHI EHI
CHE
CAZZO o «Attenzione pericolo!», in realtà sta
inondando la
corteccia prefrontale di sostanze
neurochimiche che ne modificano
il
modo di operare.
Il tronco
encefalico sarà anche un rompiscatole, ma ha
un sacco di
responsabilità. Quando avverte un pericolo,
le azioni
comportamentali della corteccia prefrontale
diventano tre:
Combatti,
Fuggi o Bloccati.
COMBATTI equivale a “Fagli il
mazzo prima che lo
facciano a te”.
FUGGI equivale a “Porta via il
culo da qui, è
pericoloso.
BLOCCATI equivale a “Se ti
fingi morto e non
reagisci forse smetterà”.
Provo a fare un
esempio concreto, in modo che il
percorso sia più chiaro.
Fingiamo che le
parti del cervello siano personaggi
reali.
La corteccia
prefrontale riceve informazioni
dall’esterno e le comunica
all’amigdala.
L’amigdala, come
fosse un’amica a cui chiedi consiglio,
risponde: «Ah questo me lo
ricordo! L’ultima volta che è
successo sei stata male! E stare
male non ti piace!»
Il tronco
encefalico dà man forte, esclamando:
«Schiodati da qui, cretina!
Star male non ti piace!»
E noi qui potremmo
reagire in tre modi:
Diamo ascolto alle
“amiche” e diciamo: «Tanti saluti!»
alla situazione minacciosa.
Oppure reagiamo.
Oppure ci
blocchiamo e ci fingiamo morti nella
speranza che la situazione si
risolva da sé.
Il problema è che qualunque cosa, all’amigdala, può
sembrare
minacciosa: un esame, una scadenza lavorativa
o il fatto di poter
diventare lo spuntino di una tigre. Il
tronco encefalico si è
evoluto abbastanza da sapere come
evitare di diventare lo spuntino
di
una tigre, ma a volte
non abbastanza da evitare un ingorgo nel
traffico o le
persone che ci vengono addosso col carrello al
supermercato (teste di c***o peggiori dei dinosauri
affamati), che
possono quindi essere giudicate come
situazioni minacciose e
mandano
in tilt l’intero sistema.
Se
mescoliamo tutto otteniamo dei cervelli narratori
Credo
che tutti noi questo lo capiamo, fino a un certo
punto. L’idea che
gli esseri umani siano dei narratori di
storie, intendo. Ma solo
fino
a un certo punto. Perché non
parliamo davvero del fatto che sia una
funzione evolutiva
concreta. In parte perché sono ricerche
piuttosto
nuove,
e anche perché è parecchio strano, se ci si pensa.
Non raccontiamo
storie semplicemente perché
desideriamo farlo: DOBBIAMO
farlo. È un impulso
umano biologico. In effetti, siamo talmente
configurati
per raccontare storie che lo facciamo perfino nel
sonno.
È il motivo per cui sogniamo.
Il cervello ha una
modalità predefinita. Tutto lo ha,
giusto? Una specie di stato di
quiete. Un interruttore
spento è in modalità predefinita, che si
attiva quando
accendete la luce.
Quando è il
cervello a essere attivato, invece, lo fa per
concentrarsi su
qualche
input esterno come un problema
da risolvere, qualcuno di cui
occuparsi, qualcosa da fare
che esige una concentrazione
focalizzata
e consapevole. Il
resto del tempo, il cervello è in modalità
predefinita.
Sveglio e consapevole, ma a riposo.
I ricercatori sono
riusciti a mappare il cervello in
modalità predefinita ed è qui che
le cose si fanno
dannatamente interessanti. Il cervello in modalità
predefinita è il cervello che racconta storie.
Vi è capitato di
sicuro. State guidando diretti a casa.
Non dovete occuparvi di
nulla,
la strada potreste farla a
occhi chiusi, non siete impegnati sul
serio. Proprio in
quel momento, si attiva la modalità narrativa. Vi
raccontate una storia su quello che cucinerete per cena o
guarderete
alla tv, o sulle commissioni che dovete fare.
Queste conversazioni
non consistono di elenchi puntati:
in realtà vi raccontate una vera
e propria storia di ciò che
farete.
Un cervello
narratore è quasi sempre una cosa
fantastica.
Le storie sono spesso delle prove generali per gli
eventi
della
vita, il che le rende utilissime se ci stiamo
preparando a
testare
sul campo una nuova abilità.
Le storie ci permettono di trattenere una quantità
maggiore
di
informazioni di quanto potremmo fare
altrimenti. La pfc
è strutturata per trattenere circa
sette informazioni (due
più,
due meno). Se
cerchiamo di destreggiarci con un numero
maggiore
di
questo, iniziamo a perderci i pezzi. Le storie, però,
ci
aiutano a
trattenere quantità infinitamente
maggiori di informazioni
perché
creano percorsi.
Le storie sono la modalità principale attraverso cui
comunichiamo
con gli altri. Secondo il ricercatore
Lewis Mehl-Madrona,
sono i
circuiti neurali del
nostro cervello collettivo, culturale.
Non sono
solo il
modo con cui tratteniamo le informazioni
all’interno, ma
anche quello con cui le condividiamo
con l’esterno.
Ovviamente
il cervello narratore ha anche la capacità
di diventare un problema
serio. Iniziamo a raccontarci (e
a credere) determinate storie su
di
noi e sul mondo che ci
circonda. Il nostro cervello è fatto per
bramare la
certezza. VOGLIAMO
vedere schemi in quello che
succede in modo da poter prendere
decisioni migliori sul
mondo e di come restare al sicuro mentre lo
abitiamo. Il
cervello è un figlio di buona donna cocciuto che ha
già
una storia pronta riguardo a ciò che è reale e vero del
mondo.
L’avete già
visto succedere, non è vero?
Indipendentemente dall’avere o meno
sotto gli occhi
prove a dimostrazione del contrario, si rimane
nondimeno determinatissimi a perseguire il corso
d’azione
intrapreso. Ecco perché le elezioni possono
rivelarsi un circo di
matti. O perché le persone perdono
una fortuna al casinò. Il
cervello emotivo prende una
decisione per noi e il cervello
razionale
deve affannarsi a
escogitare una ragione per la quale si è fatta
quella scelta.
Il cervello è
in grado di razionalizzare qualunque
cosa.

Sì,
è possibile rieducare il cervello
Il
cervello è uno stronzetto adattabile, e poco ma sicuro
è possibile
rieducarlo. Non mi credete? Dovreste, sono un
dottore. Ma se fate
parte di quella cerchia che ribatte:
«‘fanculo la tua laurea, io
voglio le prove», andate su
YouTube e cercate “Fratelli Lumière
arrivo del treno”. È
una clip di soli quarantacinque secondi. Vi
aspetto qui.
Ci siete? Bene.
Adesso provate a immaginare: Parigi,
1895. Questi fratelli erano
pionieri della fotografia e
presentarono al pubblico la prima
“immagine in
movimento” a una mostra d’arte. Erano entusiasti
del
loro progetto… ma non ottennero la reazione che si
aspettavano.
Al contrario, gli spettatori andarono fuori di
testa e si misero a
urlare per il terrore, nascondendosi
sotto le sedie. Tutti quanti,
dal primo all’ultimo.
L’unica
informazione che il loro cervello aveva
registrato era: C’E’
UN TRENO CHE STA PER
SPIACCICARVI, LEVATEVI DAI BINARI!
Perché? I treni
erano pericolosi e fino a quel momento
non erano mai esistite
immagini di treni in movimento.
Il loro cervello percepì il treno
come reale anziché
filmato.
Quando l’avete
guardato, il vostro cervello ha dato i
numeri? Be’, no. Sapete che
cos’è un film. I vostri
meccanismi neurali sono addestrati a
capire la differenza
fra treno rappresentato e treno vero.
E adesso il vostro
cervello ha bisogno di imparare a
distinguere fra pericolo reale e
pericolo percepito.
Ricordate che il cervello di chiunque ha
problemi
con la
differenziazione, soprattutto quando si parla di
sopravvivenza. Come il bimbetto che chiama tutti gli
animali
cagnolino finché non impara che esistono anche
cavallini,
gattini, lama e grandi squali bianchi.
Cioè, il vostro
cervello ipotizza pericolo finché non si
riesce a convincerlo del
contrario. Ecco la versione
semplice: dobbiamo riportare al comando
la corteccia
prefrontale. Darle la possibilità di decidere se ci
troviamo
o no davanti a un pericolo. Dobbiamo convincere la pfc
e
l’amigdala a stringersi la mano e a fare il rispettivo
lavoro, il
che significa COLLABORARE, per la
miseria.

È
ufficiale: non siete pazzi.
L’ha appena detto un dottore
È
vero, vi ho costretti a leggere un sacco di roba sul
cervello, ma è
roba importante. Perché vuol dire che
quello che facciamo, quello
che pensiamo e come ci
sentiamo ha senso, maledizione.
Sia che vi
ritroviate sulla difensiva pronti ad attaccare,
o totalmente fuori
di
testa o catatonici e scollegati, è la
vostra modalità di
sopravvivenza a reagire. Il problema è
quando succede in situazioni
che non rappresentano
reali minacce alla vita. L’amigdala vi ha
portato via la
capacità di gestire la situazione in maniera
razionale
usando la corteccia prefrontale e si è messa a strillare:
«Al
riparo!» e tutte le risposte razionali sono finite fuori dalla
finestra.
La reazione “al
riparo” non è negativa in sé. È il genere
di pensiero di cui
abbiamo bisogno quando sentiamo
degli spari o le sirene che
annunciano un pericolo. Ci
serve scavalcare il funzionamento
esecutivo se tocchiamo
per sbaglio un fornello rovente. Se non lo
facessimo,
significherebbe che mentre la mano brucia, noi siamo
intenti a una decostruzione intellettuale dell’esperienza,
con
l’amigdala e il tronco encefalico che urlano come
indemoniati sullo
sfondo. Non stiamo parlando di
cinema sperimentale postmoderno.
Stiamo parlando
della VITA.
Vogliamo un cervello in grado di tenerci vivi,
giusto? Non solo
capace di ricordare la combinazione
dell’armadietto della prima
media e tutte le parole di
Shake It Off di Taylor Swift.
Ma nel farlo, ci
protegge anche da tutto quello che
PERCEPISCE
come pericolo, non soltanto dal pericolo
REALE.
La nostra capacità di distinguere fra pericolo
reale e pericolo
percepito è un sistema imperfetto. Il
cervello preferisce andare
sul
sicuro, anche se ciò
significa dare i numeri quando non è davvero
necessario.
Facciamo un altro
esempio: diciamo che state cercando
di fare la spesa, ma passando
nella corsia delle piante il
vostro cervello entra in modalità
attacco di panico perché
vedete (di nuovo) dei fiori che vi
ricordano un lutto
traumatico. Vi ritrovate, quindi, a uscire di
corsa dal
supermercato prima che il panico vi porti a svenire e
senza
aver comprato niente per cena.
Magari vi dite: “Ma
che cavolo, Io, era solo la corsia
delle piante. Semplici garofani
e
rose. Non è morto
nessuno, e ora tocca di nuovo mangiare ramen
istantanei”. O forse non capite neanche perché avete
perso la
testa.
La parte razionale,
quella che dice “Sono semplici
garofani e rose, datti una c***o di
calmata” richiede la
discriminazione dello stimolo.
Avete presente:
la capacità di decidere se qualcosa è davvero
un problema oppure
no.
La discriminazione
dello stimolo appartiene alla
dimensione del pensiero, non a quella
delle emozioni. Il
che significa che avviene nella corteccia
prefrontale, e
una volta che il tronco encefalico va in modalità
fuori di
testa, è difficilissimo rimettere in funzione la corteccia
prefrontale. Però è possibile, rieducando il nostro
cervello a
reagire in modi più adatti alla vita presente
anziché alla
vita passata.
La reazione di
discriminazione dello stimolo è basata
su tutte le nostre
esperienze
e abitudini passate, ed è
tanto più radicata quanto più le
esperienze sono state
traumatiche. Se uno stimolo è collegato a un
ricordo
vivido, il corpo inizia a produrre ormoni e
neurotrasmettitori per prepararsi a reagire. Il cervello
non
formula
davvero pensieri nuovi quanto
configurazioni e combinazioni diverse
di pensieri vecchi.
Ecco perché un
veterano può dare di matto alla vista di
un sacco della spazzatura
sul bordo della strada, dopo
essere stato in Iraq e aver prestato
servizio in zone
imbottite di ordigni esplosivi improvvisati.
Ecco perché una
persona vittima di abusi può andare
fuori di testa dopo aver
sentito
un certo odore che
associa al suo carnefice.
Il cervello conosce
la sua storia. È stato addestrato a
fare qualunque cosa necessaria
per rimanere al sicuro.
Crea storie relative alla vostra esperienza
attuale o a
possibili esperienze future sulla base di informazioni
passate. Non si rende conto o non si fida del fatto che in
realtà
SIETE al sicuro.

PRONTI, VIA!: TRIGGER WARNING


Ovunque, su Internet la parola “trigger”
ricorre come il prezzemolo.
Ma un trigger, in questo contesto,
significa solo la parte
causale
di una
situazione di tipo causa-ed-effetto.
Talvolta sappiamo perfettamente quali saranno
i nostri trigger. Per
esempio, l’ansia potrebbe essere un dannato
gremlin che vi portate
aggrappato alla schiena. Potreste essere
consapevoli che un primo
appuntamento, o un’occasione di parlare in
pubblico o ancora una
riunione col capo farà schizzare l’ansia alle
stelle. Oppure che un viaggio
in macchina durante il quale è
impossibile trovare un’area di sosta pulita
con un bagno che non
sia un cesso vi provocherà un attacco di nervi (e
perché non esiste
un’app per questo? Il problema è reale).
Certe volte, però, non ne avete la più pallida
idea. Co-

me succede per altri problemi, potremmo avere una


predisposizione
genetica a certe reazioni e/o potrebbe essere il
prodotto dell’ambiente in
cui siamo cresciuti o in cui viviamo
adesso. E questo rende difficile capire
quali sono i nostri
trigger.
La prossima volta che sentite di stare
entrando in modalità
“espulsione”, fatevi queste domande. E dopo
esservi calmati scrivete le
risposte:

quale emozione specifica stavate


provando?
dove collochereste quell’emozione su una scala
da 0 a 100?
quali specifici sintomi avete provato (la reazione
emotiva)?
cos’altro stava succedendo quando è accaduto?

Scrivete tutto quello che ricordate, non importa quanto


banale. Perché
gli schemi ricorrenti sono il modo in cui
individuiamo i nostri trigger.

Un altro metodo è tenere un diario dell’umore


(su un’app oppure sulla
cara vecchia carta). Potrebbe sembrare un
bel po’ impegnativo, ma può
davvero aiutare a individuare i trigger
fino a che non vi sarete abituati a
farlo mentalmente durante il
giorno. Ecco una guida rapida su come
realizzare un diario
dell’umore.

DIARIO SETTIMANALE DELL’UMORE SONO IO DI CATTIVO


UMORE O… SEI TU CHE FAI
PENA?
UMORE SITUAZIONE ORDINE DI SINTOMI
GRANDEZZA (0-
100)

LUNEDÌ

MARTEDÌ

MERCOLEDÌ

GIOVEDÌ

VENERDÌ

SABATO

DOMENICA

OceanofPDF.com
2. COME IL TRAUMA RICONFIGURA IL
CERVELLO

Un
trauma è un evento che accade al di fuori della
nostra
comprensione di come dovrebbe funzionare il
mondo. Una reazione
traumatica si ha quando la nostra
capacità di affrontare
ciò
che è successo va in tilt e
influenza altre parti della nostra
vita.
Ci sono moltissime
cose che possono operare come un
trauma e molte, a essere sinceri,
non vengono neanche
prese in considerazione dai manuali
diagnostici.
È una
delle cose che mi fa inca***re, perché induce le persone a
vergognarsi del fatto che il loro trauma non sia
abbastanza
traumatico da attirare l’attenzione. E questa è
una stronzata
bella e buona. Perché a parte le definizioni
e i termini
altisonanti, un trauma è una situazione del
tipo: “Cosa c***o era
QUELLO?”
Un trauma può
essere un incidente, una ferita, una
malattia grave, una perdita… o
un qualunque tipo di
evento che vi prende a calci nel
sedere.
Alla fine della
fiera, però, tutti noi viviamo il trauma in
modo diverso, e siamo
esposti a troppe cose perché sia
possibile elencarle. In più,
creare una lista che prende in
considerazione solo le grandi
categorie “diagnosticabili”
trascura altre esperienze che non
dovrebbero essere
trascurate.
Secondo una stima,
negli Stati Uniti, circa la metà della
popolazione vivrà un trauma
diagnosticabile, anche se
secondo studi più recenti il dato è
salito al settantacinque
per cento. Mentre il sette-otto per cento
soffrirà di
disturbo da stress post-traumatico nel corso della
vita.
E
questi sono solo i traumi diagnosticati. Le “regole”
ufficiali
per diagnosticare una reazione traumatica sono alquanto
limitate, il che mi fa credere che quel numero sia ben più
alto.
Aver subìto abusi
da bambini è qualcosa che tutti
riconosciamo come trauma, mentre
essere stati vittime
di bullismo non è necessariamente etichettato
nello
stesso modo, nonostante sia stato la causa di diversi
suicidi.
Quindi lasciamo stare gli elenchi. Perché il
trauma non funziona
spuntando la casellina giusta nella
categoria giusta. Vi prego
invece
di credermi quando
dico che le vostre esperienze e le vostre
reazioni
sono
valide e reali e che siete degni di attenzione e di avere
l’opportunità di guarire.
Infatti non
sappiamo perché alcune cose sono peggiori
di altre per certe
persone. Mi rendo conto che è un’idea
ben strana, ma ognuno è
diverso. La vita, la storia e le
esperienze di ciascuno sono
diverse. E lo sono anche le
nostre predisposizioni
genetiche.
E
sentite questa: adesso sappiamo addirittura che i
traumi possono
indurre mutazioni genetiche che
vengono trasmesse da una
generazione
all’altra. Se avete
un bisavolo, un nonno o un genitore con una
grave storia
di trauma, siete fatti in modo da reagire in maniera
diversa da chi proviene da una famiglia i cui membri non
hanno
vissuto drammi esistenziali. Quindi non solo i
geni influenzano le
reazioni traumatiche, ma le reazioni
traumatiche influenzano i
nostri
geni.
Invece, a livello
fisico, come abbiamo già detto, della
risposta al trauma ha
l’esclusiva l’amigdala.
Esistono diversi
livelli di intensità. Talvolta non siamo
in vera e propria modalità
traumatica, ma continuiamo a
notare schemi e abitudini strani nei
nostri pensieri e nei
nostri comportamenti. Magari non siamo andati
completamente fuori di testa, ma controllarsi richiede
molta più
energia di quanto dovrebbe. Nessuno ha
tempo da dedicare allo
sforzo
concentrato di non andare
in pezzi per mesi o anni di seguito.
In sintesi: tutti
noi abbiamo delle fragilità e tutti siamo
vulnerabili. Ma per
qualche ragione, talvolta teniamo
botta e talvolta andiamo in tilt.
Perché succede?

Come
gestiamo il trauma
Avete
presenti le cose più grosse che ci capitano? Le
cose che pensiamo
siano le più terrificanti? Questi eventi
terribili non sempre
provocano una reazione traumatica
a lungo termine.
Circa i due terzi
delle volte, il cervello non si comporta
da stronzo. Ciò significa
che la maggior parte delle volte
riusciamo a trovare un modo
per dare un senso al trauma
e ristabilirci senza gravi conseguenze
a
lungo termine.
Questo non vuol dire che non avete affrontato una
tempesta di merda epica. Significa solo che siete stati in
grado di
trovare una via d’uscita da quell’esperienza
senza l’interferenza
a lungo termine dell’amigdala.
In un mondo
perfetto, le cose brutte non succedono.
Certo, come no. Buona
fortuna
a trovarlo. Il secondo
scenario migliore è che quando le cose
brutte
succedono,
corriamo al riparo e poi ne usciamo incolumi. E a dire
il
vero, va così la maggior parte delle volte. Ripensate a tutti
i
casini che vi è toccato gestire in vita vostra e che a lungo
andare
non vi hanno più di tanto mandato fuori di testa.
Questo non vuol
dire, però, che la ripresa sia stata
immediata né facile, dico
bene?
La maggior parte
delle volte, ci vogliono circa tre mesi
per ristabilire
l’equilibrio
dopo un trauma. Vale a dire che
dopo novanta giorni i sensori
emotivi
non funzionano
più a velocità supersonica e tornano alla
normalità.
Usare la parola
normalità è un’assoluta fesseria,
ovviamente. E
ovviamente, indipendentemente da
quanto bene ci riprendiamo non c’è
più niente di
veramente normale. I traumi ci cambiano per sempre.
Quindi la cosiddetta normalità è piuttosto una nuova
normalità.
Troviamo una maniera di vivere e affrontare
quello che è successo,
la perdita del mondo per com’era,
e di accettare come è adesso.
Continuiamo a provare
sentimenti riguardo a quello che è accaduto,
che non
spariranno mai del tutto. Ma dopo qualche mese
l’amigdala
non è più fuori controllo. La modalità
dirottamento si è
disattivata.
All’incirca un
terzo delle volte, però, non recuperiamo
una nuova normalità;
abbiamo invece una reazione
traumatica e sviluppiamo un disturbo da
stress post-
traumatico, o ptsd.
Che cos’è il
ptsd? Il dizionario
Oxford lo definisce così:
Una condizione di stress
emotivo e mentale
persistente che si verifica in seguito a una
lesione o a un
grave shock psicologico e che implica tipicamente
disturbi del sonno e un costante ricordo vivido
dell’esperienza,
con reazioni attenuate agli altri e al
mondo esterno.
Buona
definizione. Ma la versione senza fronzoli è che
il ptsd
è il mancato recupero dopo un evento
traumatico. In parole
ancora più povere: il ptsd
è una
bruttissima bestia.
Il National Center
for ptsd, che ha sedi
in tutti gli Stati
Uniti, ha compiuto degli studi al riguardo,
ponendo a
tutti gli intervistati una semplice domanda: Che cosa vi
rende più esposti al disturbo da stress-post traumatico?
Molti
degli
indicatori che hanno trovato sono chiarissimi:
essere esposti direttamente come vittime o testimoni
oculari;
vivere un episodio molto grave o assistere qualcuno
che è
rimasto
seriamente ferito in un incidente;
credere di essere in pericolo o che lo sia una persona
cara
e
sentirsi impotenti;
aver avuto una reazione fisica o emotiva grave
durante la
situazione
traumatica.
Anche
il nostro passato può renderci più suscettibili a
una reazione
traumatica:
aver vissuto altri traumi in giovane età;
avere altri problemi di salute mentale o famigliari
con
problemi di
salute mentale;
avere poco sostegno da parte della famiglia e degli
amici,
o perché
si è isolati o perché le persone vicine
non capiscono la
vostra
esperienza;
aver vissuto di recente cambiamenti esistenziali
stressanti, o aver
perso di recente una persona cara;
essere donna o appartenere a una minoranza
culturale
(perché, tanto
per cominciare, è
statisticamente provato che è più
probabile
vivere un
trauma se si appartiene a una di queste
categorie);
fare uso di sostanze che alterano la mente, come
droghe o
alcol;
essere più giovani;
avere meno istruzione;
provenire da un gruppo culturale o da una famiglia
in cui è
meno
probabile che si parli dei problemi.
Non penso ci sia nulla di sorprendente, anche se
l’ultimo punto
dell’elenco è roba grossa. Rileggetelo.
Quando ne parliamo, le
cose migliorano.
Ma perché? Perché
certe persone e non altre? Cos’ha da
dirci la scienza del cervello
in merito?
La questione non è
tanto la natura del trauma in sé. Né
la sua gravità. E non è
neanche del tutto una funzione di
come siamo fatti e delle nostre
esperienze. Tali cose
influenzano la nostra capacità di guarire,
questo è certo.
Tuttavia, se fosse così facile, potremmo creare in
anticipo
un diagramma di flusso che aiuti a individuare chi
svilupperà il ptsd e
chi no. Ma non possiamo, perché il
modo in cui guariamo riguarda
tanto il presente e il
futuro immediato quanto il passato.
Le ricerche
mostrano che non riusciamo a trovare una
nuova normalità perché la
capacità del cervello di
elaborare l’esperienza viene distrutta
nei primi trenta
giorni successivi al trauma. È per questo motivo
che il
ptsd non può
essere diagnosticato nel primo mese: non
sappiamo se riusciremo a
rimetterci in carreggiata
oppure no.
Quei primi
trenta giorni sono decisivi. Tempo e
spazio sono necessari
per
una buona ripresa, per
elaborare quello che è successo, per trovare
il modo di
formulare una visione del mondo per come lo vogliamo,
basandoci sulla nostra esperienza nel mondo reale. In
questo
periodo,
abbiamo bisogno di sostegno relazionale.
Il nostro cervello è
costruito per connettersi, e
miglioriamo in connessione ad altre
persone.
Non avere quel
tempo e quelle connessioni è un
indicatore molto probabile del
fatto
che siamo diretti nel
territorio della reazione traumatica.
E di solito ci sono
ottime ragioni quando non si ha quel
tempo o quelle persone.
Vedete, in generale
i traumi non sono esperienze
isolate. Spesso sono complessi e
continuati. Per esempio,
le persone che vivono relazioni abusanti
sanno bene che
di rado si verificano aggressioni singole. La
violenza
è
ciclica e ripetuta. Se prestate servizio nell’esercito o
lavorate in un settore ad alto rischio, vivete cose terribili
con
regolarità e sapete che possono verificarsi in
qualunque momento di
qualunque giorno. Il trauma ci
mette in modalità sopravvivenza per
quei primi trenta
giorni. Ma nel frattempo altri potrebbero
susseguirsi a un
ritmo tale da non lasciarci un momento di respiro.
Perciò
il cervello interrompe il processo di elaborazione in
modo
che possiamo continuare a sopravvivere. In
sostanza ci dice: «Siamo
ancora in trincea, adesso non
abbiamo tempo di elaborare quello
schifo».
Certe volte non è
questione di un trauma ripetuto, ma
sono le esigenze della vita
quotidiana a provocare lo
stallo. Talvolta non abbiamo il tempo e
lo
spazio per
guarire dall’esperienza dolorosa. Perché dobbiamo
continuare ad alzarci al mattino, ad andare al lavoro, a
dar da
mangiare al cane, a cercare la scarpa sinistra di
nostro figlio che
non si trova da nessuna parte. Il nostro
cervello sovraccarico può
arrivare solo fino a un certo
punto. Prenderci cura di noi stessi
spesso diventa un
lusso che non ci possiamo permettere, anziché una
necessità che non possiamo ignorare.
E certe volte il
nostro cervello non ha meccanismi per
dare senso al trauma.
Indipendentemente dal tempo e
dallo spazio che ci diamo per
guarire,
non riusciamo a
collocare l’esperienza in modo che assuma il
significato
di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Riecco il
cervello narratore, bloccato nella ripetizione della stessa
storia
che non funziona.
Qualunque sia la
ragione, il cervello può interrompere
il processo di guarigione
senza preavviso e la nostra
“nuova normalità” diventa
un’esperienza trauma-
orientata anziché di recupero. Iniziamo a
evitare tutto
quello che ci ricorda il trauma, perché
compartimentalizzare è l’unico modo per sentirsi al
sicuro.
E gli esseri umani
hanno capacità di adattamento
straordinarie. La tecnica
dell’evitamento può funzionare
alla grande per molto tempo.

Che
aspetto ha il trauma nella vita quotidiana
Come
fate a sapere che state affrontando un trauma?
Una volta che
iniziate a funzionare dopo un’esperienza
trauma-orientata, sarete
in grado di vedere degli sprazzi
della vostra vita futura grazie al
cervello che, per
superare il trauma, elabora delle strategie
adattive.
Questo è solo un termine da professori per dire che
creiamo modi fantastici di evitare le risposte traumatiche
in modo
da
non doverle affrontare. Ma è un edificio
costruito su fondamenta
instabili. Presto inizieranno a
formarsi delle crepe. Ecco cosa si
intende per strategie
adattive:
Attivazione
. L’amigdala fa sempre il cappellaio
matto
e voi vi ritrovate a dar fuori quando non dovreste o
vorreste.
Potreste sapere il perché oppure no. Ma il
vostro cervello
può
elaborare qualcosa che considera
una minaccia di cui voi
non siete
neppure coscienti e
di colpo crollate in mezzo al
supermercato.
Evitamento
. Vi scoprite a evitare cose che scatenano
l’attivazione. Il supermercato mi ha fatto star male?
Posso
sempre
fare la spesa online.
Intrusione
. Iniziano a emergere pensieri, immagini,
ricordi collegati all’esperienza traumatica. Le cose da
cui
il
cervello vi sta proteggendo non se ne vanno
davvero. E
iniziano a
rispuntare senza il vostro
consenso e senza che lo
vogliate. Ed è
diverso dal
ruminare, che per definizione è indugiare su un
brutto
ricordo intenzionalmente. E non riuscite a
gestire tutto
quello che
riemerge.
Pensieri e sentimenti negativi
. In questa situazione,
c’è
da stupirvi che non vi sentiate mai bene? E neanche a
posto?
Questi
sono in sostanza i quattro cavalieri
dell’Apocalisse ptsd.
È il modo in cui noi esperti
diagnostichiamo il disturbo da stress
post-traumatico
conclamato. Quando sono presenti, significa che a
un
qualche livello state rivivendo il trauma nella vostra testa
in
ogni
momento.
Ma non tutti coloro
che hanno una reazione traumatica
sviluppano un ptsd
conclamato. Una diagnosi è una lista,
alla fin fine. Se qualcuno vi
sta valutando cercherà di
capire se presentate un certo numero di
questi sintomi o
più. Perciò mentre alcune persone avranno i
requisiti per
il ptsd,
altre non riscontreranno sintomi sufficienti per
una diagnosi.
Tuttavia sapere di
non soddisfare i requisiti non vi
mette al sicuro né vi fa sentire
magicamente meglio,
giusto? È chiaro che in questo momento non
state
bene e
ci sono buone probabilità che le cose peggioreranno.
Lo si è registrato
esaminando i primi soccorritori
dell’11 settembre. Fra le persone
che mostravano alcuni
dei sintomi della reazione traumatica, il
venti
per cento
ha evidenziato un peggioramento dei sintomi che due
anni
più tardi, al momento della rivalutazione, ha portato
a una
diagnosi
di ptsd. Sta a
vedere, porca la miseria, che se
continuate a rivivere il
trauma,
quelle connessioni non
faranno che continuare a rafforzarsi nel
vostro cervello.
Pensieri,
sentimenti e comportamenti indotti dalla
reazione traumatica
possono
essere difficili da
comprendere. Non solo per le persone che vi
stanno
attorno, ma anche per voi stessi. Avete mai vissuto un
momento
del genere? Un momento in cui avete pensato:
“Ma che c***o,
cervello?” Siete completamente
disorientati e le persone che vi
vogliono bene si sentono
impotenti.
Ma date tregua a
quel cazzone del vostro cervello. Sta
cercando di dare un senso a
un
casino che in realtà
potrebbe non avere alcun senso. E vi chiede di
reagire a
certi eventi in modo iperattivo. Vi ricorda le vostre
storie.
E quei ricordi scatenano emozioni negative. E lui
reagisce
in
modo protettivo senza che voi nemmeno vi
rendiate conto di quello
che
sta succedendo.
Okay, allora. A che
genere di sintomi bisogna prestare
attenzione? Bella domanda,
intelligentone! L’elenco è
piuttosto lungo.
Rivivere il trauma:
avere la sensazione di stare rivivendo il trauma anche
se
ve lo
siete lasciato alle spalle e siete fisicamente al
sicuro;
sognare di ritrovarvi di nuovo nell’evento traumatico
(o
magari un
evento simile);
avere un reazione emotiva spropositata quando
qualcosa o
qualcuno vi
ricorda il trauma. Tipo dare di
matto, anche se in quel
momento
siete al sicuro, e/o
una serie di sintomi fisici
(sudorazione,
battito
cardiaco accelerato, sensazione di svenire,
difficoltà a
respirare, mal di testa, etc.).
Evitare il ricordo del trauma
:
fare cose che vi distraggono da pensieri o sensazioni
riguardanti il
trauma, e/o evitare di parlarne quando
salta fuori
l’argomento;
evitare cose associate al trauma come persone, luoghi
e
attività.
Molto spesso queste zone di evitamento
diventano sempre più
ampie;
bisogno di avere il controllo in ogni circostanza,
come
sedersi nei
posti che sembrano i più sicuri in
pubblico, evitare la
vicinanza
fisica con gli altri,
evitare le folle. (Se lavorate in un
settore
in cui
l’addestramento alla sicurezza è di primaria
importanza,
potrebbe essere un riflesso automatico e
non indicare
necessariamente un ptsd);
avere difficoltà a ricordare aspetti importanti del
trauma
(chiudere fuori lo schifo);
sentirsi completamente intorpiditi o distaccati da
tutto o
riguardo
a tutto;
mancanza di interesse per attività regolari e
divertenti.
Non
essere in grado di godersi le cose,
anche se dovrebbero
essere
piacevoli;
non essere connessi ai propri sentimenti e stati
d’animo in
generale. Sentirsi semplicemente…
svuotati;
non vedere un futuro per se stessi, ma solo un
ripetersi
delle
stesse cose anziché un miglioramento.
Altri sintomi medici o emotivi
:
disturbi di stomaco, difficoltà a mangiare, desiderio
di
alimenti
dolci (più confortanti per un corpo
stressato);
difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno. O
dormire
troppo. In ogni caso, sentirsi perennemente
esausti;
non avere risorse sufficienti per prendersi cura di sé
sotto
aspetti importanti (fare esercizio fisico,
mangiare cibi
sani,
andare regolarmente dal medico,
fare sesso più sicuro con
partner
selezionati);
alleviare i sintomi con sostanze (droghe, alcol,
nicotina,
cibo) o
comportamenti (gioco d’azzardo,
shopping o stronzate da
imbecilli
che producono
endorfine come sfidare i treni);
ammalarsi più spesso o notare che i disturbi cronici
stanno
peggiorando;
ansia, depressione, senso di colpa, irrequietezza,
irritabilità e/o
rabbia.
C’è
da stupirsi, quindi, della confusione che regna
quando si tratta di
distinguere fra reazione traumatica e
altre diagnosi? Il ptsd
è, perciò, la risposta più semplice.
Ma le reazioni traumatiche,
come ho accennato prima,
possono indossare una maschera e fingersi
altre cose.
Ansia e depressione sono due delle principali. Talvolta
possono anche travestirsi da disturbo bipolare e
schizofrenia. Ho
lavorato con più di una persona
etichettata come schizofrenica, ma
quando abbiamo
iniziato a parlare del contenuto delle “voci”, ci
siamo resi
conto che erano flashback traumatici. E questo discorso
vale anche per il disturbo da deficit dell’attenzione e
iperattività (
adhd),
rabbia e irritabilità, problemi
relazionali e di attaccamento, e un
senso distorto del
giusto e dello sbagliato.
Non c’è nulla
che non va in nessuna di queste altre
diagnosi di per sé. Anzi,
possono essere necessarie per
ottenere il rimborso delle cure. Le
diagnosi sono uno
strumento che gli specialisti usano come
abbreviazione
per dire “presenza di questi sintomi”. E possono
esistere
da sole, senza un trigger traumatico. Ma il problema
quando
si tratta di ottenere aiuto sono i casi in cui la
causa sottostante
è
proprio il trauma.
Ed è così che
imbocchiamo la strada del fallimento. Le
diagnosi legate al trauma
sono trattate con più successo
di molti altri problemi, se capiamo
a
cosa rispondono i
sintomi e li gestiamo in quel contesto.
Spegnere il c***o
di cervello è, quindi, possibilissimo.
E
va bene, non è davvero un trauma. Però ho il cervello
sempre
incasinato. Che succede?
Dunque,
avete comprato questo libro perché pensavate
di dover spegnere il
cervello. Ma la faccenda del trauma
non vi fa suonare alcun
campanello. Non è il vostro caso.
Però continua a non piacervi
quello che succede nella
vostra testa, e volete fare qualcosa al
riguardo.
Magari avete un
modo di reagire meno intenso di una
reazione traumatica, ma che
funziona sostanzialmente
nello stesso modo. Anche se la vostra
amigdala non è in
modalità dirottatore terrorista, i ricordi e le
emozioni
sono ancora legati, giusto? L’amigdala ha l’abitudine di
comportarsi in modi idioti che vi rendono la vita difficile.
Che cos’è
l’abitudine? Una tendenza o pratica inveterata o
regolare,
in special modo una che è difficile abbandonare.
Avete fatto
qualcosa e ha funzionato. Avete continuato a
farla e ha continuato
a
funzionare. E anche se a un certo
punto ha iniziato a fare le bizze
o
a smettere di
funzionare del tutto, quel coglione del vostro
cervello
ha
continuato ad aggrapparsi al fatto che quel qualcosa
funziona,
perché non ha escogitato un’opzione migliore.
Quindi continua a
scatenare una risposta dell’amigdala,
legando ricordo ed emozione.
Potrebbe non essere una
reazione trauma-orientata estremamente
iperattiva, ma
nondimeno è presente.
È il motivo per
cui le dipendenze sono così difficili da
contrastare. Imparare a
SMETTERE di fare una cosa è
durissima, una volta che abbiamo strutturato una
particolare
risposta. Ecco perché questo libro contiene un
capitolo dedicato
alle “Dipendenze”. Anche se potreste
pensare di non averne
bisogno perché non siete
tossicodipendenti, prendete in
considerazione l’idea di
leggerlo. Ci sono informazioni fantastiche
per tutti.
Perché sì, schemi
mentali e comportamentali possono
SENZ’ALTRO
avere aspetti di dipendenza.
Per esempio, magari
siete cresciuti in una famiglia
dove nessuno parlava dei propri
sentimenti. La cosa non
era incoraggiata e se cercavate di farlo la
reazione era di
disagio generalizzato. Così avete imparato in
fretta
che
parlare dei vostri sentimenti andava contro le regole.
Non
siete
stati vittime di abusi, non siete stati
traumatizzati.
Ma se quando
cercavate di farlo venivate
immancabilmente zittiti, è probabile
che
abbiate
sviluppato una connessione cerebrale secondo cui
parlare di
queste cose mette le persone a disagio. Il che
potrebbe farvi
sentire
ansiosi, in colpa o frustrati.
Ora, fate un salto
avanti di vent’anni. Il vostro fidanzato
vuole che parliate dei
vostri sentimenti e voi vi ritrovate a
brancolare in una bizzarra
nebbia emotiva tutte le volte
che ci provate. Ansiosi, col senso di
colpa, esasperati. Lui
vi chiede: «Ma che c***o ti prende?», e voi
non ne avete
idea.
La buona notizia è
che questo libro servirà anche a voi.
E funzionerà più
rapidamente, perché il vostro problema
non ha la stessa presa salda
che ha un trauma. L’unica
cosa che dovrete fare è lavorare sul
riconoscimento degli
schemi e sulla chiarezza piuttosto che su una
più
complessa ristrutturazione della risposta. Andrete alla
grande
in tempo zero.

E
se amo una persona con una grave storia traumatica?
Roba
tosta, eh? Volete bene a una persona che fa una
fatica boia a
riprendersi da un trauma. Volete essere
d’aiuto. E sentirvi
incapaci di farlo è la sensazione più
brutta del mondo. Rischiate
un serio crollo e uno stress
da trauma secondario. Eh sì, perché
vedere una persona
vivere un trauma può essere un’esperienza
traumatica di
per sé.
Ci sono due cose da
tenere a mente in questi casi:
non è la vostra battaglia;
… ma le persone migliorano se hanno relazioni
supportive.
Non è la vostra battaglia. Non siete voi a
stabilire i
parametri, non siete voi a decidere cosa è meglio e cosa è
peggio.
Per quanto sappiate tutto dell’altra persona, non
ne conoscete i
processi interiori e vi dico di più: potrebbe
addirittura non
conoscerli neanche l’interessato. Potreste
davvero sapere molte
cose, ma non siete voi a vivere la
sua vita.
Dire a qualcuno
cosa dovrebbe fare, come dovrebbe
sentirsi o cosa dovrebbe pensare
non è di nessun aiuto.
Anche se avete ragione. Anche se l’altro
vuole che glielo
diciate… gli avete appena portato via il potere di
fare il
lavoro che ha bisogno di fare per riprendere in mano la
sua
vita. Se continuate a salvare una persona, limitate la
sua capacità
di migliorare.

ma
le persone migliorano se hanno relazioni
supportive. La
cosa
migliore è chiedere alla persona
amata cosa potete fare per esserle
di sostegno quando è
in difficoltà. È il tipo di piano d’azione
che potete mettere
a punto con un terapeuta (se uno di voi o
entrambi
ne
vede uno) o chiederglielo direttamente.
Chiedeteglielo.
Chiedetegli se vuole sostegno quando
sta male, se ha bisogno di
solitudine, di un bagno caldo,
di una tazza di tè. Chiedete cosa
potete fare e fatelo, se si
tratta di cose sane.
Potrebbe essergli
utile anche avere un suo piano di
sicurezza (alla fine del libro
trovate degli esempi in
questo senso), con indicato il vostro ruolo
specifico.
Questo aiuterà a circoscrivere il vostro intervento e vi
impedirà di creare scenari in cui impersonate il bagnino
di turno o
di permettere comportamenti pericolosi e/o
autosabotanti.
Potreste aver
bisogno di mettere limiti invalicabili e di
proteggere voi stessi.
Non è solo per il vostro benessere,
ma vi aiuterà a essere di
esempio perché la persona
amata capisca l’importanza di fare lo
stesso.
Amate tutto della
persona che vi sta accanto.
Ricordatele che il trauma non la
definisce. Accettate le
conseguenze del suo comportamento e
celebrate
i
successi quando arriverà a sviluppare modi di essere
nuovi e più
sani. Siate la relazione che sostiene il
cammino della
guarigione.

PRONTI, VIA!: DATE UN NOME AL BASTARDO


Date alle vostre reazioni negative un vero e
proprio personaggio che le
contenga. Chiamatelo come un ex
orribile, un insegnante delle elementari
antipatico, o Kim Jong-un.
Fate in modo che quello stronzo sia un
personaggio reale.
Le emozioni sembrano così sproporzionate e
inafferrabili che
trasformarle in un’entità reale e definita contro
cui lottare aiuta davvero
. A
quel punto potete discutere con l’
epico ciuffo di Donald Trump
(o chi per
lui, ma personalmente ritengo che tutte le cose
negative debbano essere
associate a quei capelli) ogni volta che si
presenta.
Adesso potete concentrarvi su quell’entità
come fareste con una
persona vera che vi minaccia in una situazione
del mondo reale. Potete
negoziare, urlargli contro, rinchiuderla in
una scatola. Ha dimensioni
gestibili di vostra scelta e un aspetto
appropriatamente ridicolo che vi
consente di ridergli in faccia
mentre lo prendete a calci nel sedere.

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3. SPEGNERE IL C***O DI CERVELLO

Se
intitolassimo i primi due capitoli di questo libro Ecco
il vostro
cervello, il resto si intitolerebbe Ecco il vostro
cervello in
terapia.
Durante la mia
carriera ho lavorato sia con bambini
che con giovani e adulti alle
prese col trauma e ho
scoperto un’analogia che funziona nella
maggior parte
dei casi.
I bambini adorano la parte schifosa e
gli adulti
apprezzano la comprensione simbolica che ne
ricavano.
Il trauma è come
una ferita che ha formato una crosta e
tuttavia non è guarita
completamente. Sembra chiusa,
ma l’infezione è ancora in corso
sotto la pelle. Cova
anche quando non ci rendiamo conto della sua
presenza,
o quando troviamo il modo di ignorarla. Ma cosa succede
se
non puliamo quella ferita?
I bambini adorano
questa parte perché: «Schizza
dappertutto! Escono sangue e pus e fa
male ed è super
schifosa!»
Assolutamente.
Dobbiamo pulirla
perché guarisca.
E la cicatrice che
rimane?
Qui arrivano gli
adulti.
“Le cicatrici
sono medaglie. Un promemoria del fatto
che siamo guariti”.
Creiamo nuovi modi
di sentirci al sicuro che non ci
provocano altra sofferenza nel
lungo
periodo.
Elaboriamo le nostre esperienze con persone sicure e
affidabili che tengono a noi. Rieduchiamo il nostro
cervello a
PENSARE anziché REAGIRE.
Quelle ferite? Le
curiamo.

La
raffinata scienza del disincasinare
Poiché
le nostre emozioni sono legate tanto
strettamente ai ricordi nel
cervello, ha senso che i ricordi
degli avvenimenti passati uniti
alle
esperienze presenti
possano suscitare una reazione potente.
Ma il nostro
cervello non è fatto per aggrapparsi a
determinate emozioni per
lunghi periodi di tempo. Le
emozioni sono costruite come parte del
nostro circolo
vizioso delle informazioni.
QUELLO CI PIACE! →
ANCORA!
oppure
QUELLO FA SCHIFO! →
FALLO SMETTERE!
Le emozioni
influenzano i pensieri e i comportamenti.
Sono un segnale
psicologico
inviato al resto del cervello.
Una volta svolto il loro lavoro,
dovrebbero sparire.
Sapete quanto
dovrebbe durare davvero un’emozione?
Novanta secondi.
Dico sul serio, solo un minuto e
mezzo perché faccia il suo
corso.
Lo so che state
pensando: “Questa dice solo delle
stronzate!” Perché se fosse
davvero così, come fanno
allora le nostre emozioni a durare ore,
giorni o anni?
Novanta secondi? Non credo proprio.
Le emozioni durano
di più perché continuiamo ad
alimentarle col pensiero. Lo facciamo
ripetendoci
all’infinito la stessa storia riguardo alla situazione
scatenante. È qui che smettono di essere emozioni e
iniziano a
diventare stati d’animo.
Continuiamo ad
alimentarle anche coi comportamenti.
La mia definizione preferita
di
follia è continuare a fare la
stessa cosa e aspettarsi un
risultato diverso. Perciò quando
siamo reattivi anziché
proattivi, non facciamo che
rinforzare lo schema.
Poniamo che siate
rimasti coinvolti in un terribile
incidente d’auto mentre
percorrevate una strada che
solitamente è molto trafficata. Ha
assolutamente senso
che dopo aver vissuto quell’esperienza, il
ripercorrere la
stessa strada mandi il vostro cervello nel panico.
Quindi
iniziate a evitarla. Alla fine, quello diventa il vostro
modus
operandi, al punto tale che non prendete neanche
più in
considerazione l’idea di avvicinarvi. Non volete
avere un crollo
all’idea di percorrerla. Rivolete indietro la
vostra vita, per la
miseria! Ma continuando a evitare di
farlo state rafforzando la
routine di quel comportamento
e i sentimenti di panico che
associate
al ricordo
dell’incidente.
Continuare a
pensarci diventa una cosa che non siamo
in grado di controllare. Il
rimuginare è una forma di
attenzione sgradita e ossessiva rivolta
ai
nostri schemi di
pensiero. È uno stallo. Un errore nel codice.
Rimuginiamo sull’incidente al punto da credere di
impazzire, perché
sembra che la ruminazione abbia
preso il controllo.
In sostanza,
continuiamo ad alimentare quella
particolare risposta emotiva (
ansia,
paura) e quei
particolari pensieri (
su quella strada si
verificano gli
incidenti) ripetendo lo stesso comportamento
adattivo
che abbiamo usato in origine per rimanere al sicuro (
non
guidare lungo quella strada, succedono delle cose brutte lì!).
E
così manteniamo il circuito di feedback in un circolo
vizioso.
Okay, d’accordo,
può darsi. E tutti quei ricordi che non
sono rimuginare? I
sentimenti che andremmo al capo
opposto del pianeta pur di evitare?
Magari invece vi
rifiutate di prestare qualunque attenzione
all’idea
di
guidare su quella strada.
Ruminare? Col
c***o!
Ancora la
dannatissima configurazione del cervello.
Evitare una certa
emozione
vi costringe a rimanervi
aggrappati tanto quanto rimuginarci sopra.
Ricordate
l’analogia della ferita? Si sta infettando.
Sia il rimuginare
che l’evitamento funzionano
esattamente allo stesso modo: un nastro
di Möbius di
niente cambia mai e non stiamo andando da nessuna
parte. Il
rimuginare è un modo di insistere nel cercare di
dare
un
senso a un’esperienza, ma facendolo in maniera
insensata. E
l’evitamento è semplicemente rifiutarsi di
riconoscerlo a livello
conscio. Ruminazione ed
evitamento sono tentativi di controllare la
nostra
esperienza, anziché prenderla per l’informazione che era
destinata a essere e trovare modi per elaborarla tramite le
nostre
reazioni.
Quando
ci troviamo in circostanze in cui ci viene
sottratto il controllo,
perfino il ricordo di quell’evento è
SERIAMENTE
la situazione più scomoda di SEMPRE.
È
un promemoria del fatto che abbiamo molto meno
controllo sul
mondo
esterno di quanto vorremmo
averne. Ed è qualcosa che spaventa a
morte. Sia la
ruminazione che l’evitamento sono modi in cui il
nostro
cervello reagisce nel tentativo di riprendere il controllo.
Se
mi ci fisso, posso trovare un modo per evitare che
succeda di
nuovo.
Se lo evito, posso cancellarlo sia dal
passato che dal presente e
dal
futuro. Sembra molto più
sicuro che ricordare un avvenimento,
riconoscerlo per
quello che è stato e poi lasciarlo andare.
Quando veniamo
attivati da un trigger ci ritroviamo su
un terreno instabile.
Vogliamo solo che la terra smetta di
muoversi. Rivogliamo indietro
la
sensazione di controllo.
Se abbiamo l’impressione che ciò che
credevamo solido
sotto i piedi non è mai stato davvero tale, ciò
significa che
dobbiamo vivere in una perenne ambiguità. E
l’ambiguità è assolutamente controintuitiva rispetto alle
cose
che il cervello sta cercando di fare e che continua a
raccontarci
allo scopo di mantenerci al sicuro.
L’ambiguità preme il bottone:
ALLARME ROSSO.
Ricordate tutte
quelle cose sofisticate sul cervello del
primo capitolo? Poiché è
strutturato per tenerci vivi,
quando ci sentiamo minacciati la
parte
istintiva prende il
sopravvento. Ma a differenza di altre specie
con
cui
condividiamo questo pianeta, quando la minaccia è
sparita, non
siamo tanto bravi a lasciar andare la
sensazione, a espellere tutti
gli ormoni e i
neurotrasmettitori e a tornare alla vita
quotidiana.
E la corteccia
prefrontale non è in grado di controllare le
reazioni
istintive; può solo elaborarle. Può offrire diverse
informazioni e diversi modi di rispondere. Può mettere
alla prova
nuovi scenari. La pfc
fornisce feedback. Può
negoziare. Ma NON
è al comando nei momenti di stress
elevato. Non siamo pazzi
a
pensare che il nostro cervello
razionale sia stato dirottato dal
cervello animale.
Abbiamo questa sensazione PERCHÉ
È COSÌ.
E a voler essere
sinceri, il nostro cervello animale è
incazzato nero per la
spettacolare ingratitudine verso il
duro lavoro che gli tocca per
tenerci in vita.
Non è un segno di
debolezza che continui a succedere.
È un istinto di sopravvivenza
radicato. Non possiamo
riprendere il controllo con la pura e
semplice
forza della
volontà. Il cervello animale l’avrà vinta tutte le
volte e ci
ricaccerà indietro con un “Ti ho detto di no” quando
ci
proviamo.
Guarire il trauma
significa elaborare lo schifo anziché
cercare di sopraffarlo. Al
posto di un attacco frontale in
stile Braveheart, creiamo modi
per avere nuove
conversazioni sicure e supportate. Non usciamo di
prepotenza dalla nostra zona di comfort, creiamo una
bolla più
ampia
che ci aiuti ad andare avanti finché non ci
rendiamo conto di non
averne più bisogno.
Disincasinarsi
subito dopo un evento traumatico
Okay,
ricordate quando ho continuato a blaterare dei
primi trenta giorni?
Dicendo che sono un periodo
decisivo per riprendersi da un trauma?
Eh
già. Perché,
porca miseria, se ci vengono concessi tempo e spazio
per
elaborare una cosa terribile che ci è successa, questo fa
tutta
la differenza del mondo.
Se avete esperienza
con l’esercito, o con personale di
primo soccorso (vigili del
fuoco, polizia, medici
d’urgenza) avrete sentito espressioni come
“rapporto post
missione” o “debriefing”. In modo analogo, se
siete stati
vittime di un incidente traumatico in cui sono stati
coinvolti professionisti (polizia, dottori etc.), a un certo
punto
avete dovuto raccontare la vostra storia.
Parlare di quello
che è successo è un buon primo passo
per la maggior parte delle
persone. Il problema sorge
quando siamo costretti ad “attenerci ai
fatti”, perché
concentrarsi sulla ripetizione degli eventi, prima
di aver
avuto il tempo di metterci le emozioni, potrebbe
allontanarci
ancora di più dal contenuto emotivo della
nostra esperienza.
Quando succede
qualcosa, un episodio si trasforma
istantaneamente in un ricordo.
Se
ci vengono concessi
spazio e supporto, abbiamo gli strumenti per
elaborare
quel ricordo al livello emotivo in cui è stato
immagazzinato. “
Solo i fatti” dev’essere soltanto
l’inizio
del processo di guarigione, perché non è neanche
lontanamente utile come “
tutti i sentimenti”.
Perciò se qualcuno
vi ha dato questo libro dopo un
trauma molto recente sta dicendo
che
vi è vicino e vuole
aiutarvi. O magari l’avete comprato voi perché
una
vocina nella testa vi ha detto che avreste dovuto farlo.
Comunque
sia andata, è il momento di prendervi cura di
voi stessi, roba
tosta. Vi serve lo spazio per guarire.
Non ho trovato una
grande differenza fra le cose che
aiutano a guarire quando un
trauma
è fresco e quelle che
bisogna fare quando è più vecchio. Però ho
scoperto che
guarire è molto più facile quando non diamo al
cervello
la possibilità di iniziare a mappare segnali distorti che
ci
incasinano. Ed essere in grado di farlo ci dà molte meno
probabilità di dover lottare con un disagio mentale
cronico come
risultato del trauma, o perlomeno tale
disagio sarà meno grave/più
gestibile.
E so anche che ci
meritiamo il tempo necessario per
concentrarci su noi stessi e sul
processo di guarigione.
Indipendentemente da quanto sembri sciocco,
o
da
quanto siamo impegnati, o da quanto chi ci sta attorno
minimizzi
o
manifesti disagio al riguardo.
Ci meritiamo
qualunque opportunità che abbiamo per
riprendere in mano la nostra
vita.

Disincasinarsi
molto più tardi
Poi
ci sono quelli così sfortunati da non aver avuto la
possibilità di
affrontare il trauma nella finestra di
ristabilizzazione dei
novanta
giorni. Ciò significa che
avete mesi, anni o decenni in più di
cervello incasinato
da districare. Non è assolutamente una
situazione senza
speranza. Perché questo vuol dire che siete dei
SOPRAVVISSUTI. Il vostro cervello
ha trovato dei modi
per farvi andare avanti anche se tutto quello
che
vi
circondava era folle. E HA FUNZIONATO.
Il problema è che
adesso non funziona più. Anziché
essere una soluzione, è diventato
un problema. Quindi il
cervello va fatto rientrare nei ranghi e
rieducato.
Dovete insegnargli
di nuovo a usare la corteccia
prefrontale per distinguere fra
minacce
reali e minacce
percepite. Quando il sistema di feedback funziona
come
dovrebbe, l’amigdala non impazzisce e non dice al tronco
encefalico di attivare la modalità “fuori di testa”.
Molto del lavoro
che faccio nella pratica privata
consiste nel guidare le persone
attraverso l’elaborazione
delle loro storie aiutandole al contempo
a rimanere
ancorate al presente. Questo serve a ricordare che in
questo momento della vita hanno il controllo della loro
esperienza,
anche se non è stato così in passato. È
straordinario rendersi
conto che è possibile provare
qualcosa e non esserne sopraffatti.
Ecco cosa significa
davvero riprendersi il proprio potere.
Se qualcuno dei
miei pazienti ha un compagno o un
ami-co supportivo o un famigliare
disponibile, mostro
loro co-me contribuire al processo. Capiamo
quale
sarà
esattamente il loro ruolo in modo che possano essere di
sostegno anziché perdere la testa e peggiorare la
situazione.
(Alcune delle cose più imbecilli si fanno con
le migliori
intenzioni, non è così?)
Molte persone fanno
queste cose in terapia, ma non
tutti. Se lavorate con un terapeuta,
se è bravo rimarrà a
bordo campo, offrendovi suggerimenti e
feedback da una
prospettiva esterna. Se state affrontando uno di
questi
problemi, la parte più difficile l’avete voi,
indipendentemente dal fatto che i vostri supporter siano
amici,
famigliari, professionisti, o solo la vostra volontà
di stare
meglio. Che abbiate un aiuto o lo facciate per
conto vostro, ho
scoperto che sapere perché queste
tecniche funzionano le fa
funzionare molto più
velocemente. Sapere com’è configurato il
cervello aiuta a
sentirsi meno frustrati, stupidi e in colpa.
Perché
uno
degli ostacoli più grossi al miglioramento è la vergogna.
Vergogna di se stessi e degli altri perché non stiamo già
dando
segni di miglioramento. O, tanto per cominciare,
dell’avere avuto
un problema.
E vaffanculo.
Ricordate cosa vi
ho detto riguardo al fatto che siete dei
sopravvissuti? Se avete
arrancato nel fango tutti questi
mesi, anni, decenni, lottando
contro
un cervello
impazzito, VI MERITATE DI
STARE MEGLIO. Vi
meritate di riavere indietro la vostra
vita.
Non siete
spezzati in modo irreparabile.
Quindi, mettiamoci
al lavoro.

PRONTI, VIA!: CAVALCATE L’ONDA


Le emozioni durano novanta secondi. E dato che
non siete PER
NIENTE il genere di persona che legge i box prima del
testo
(diversamente da me), sapete che questo significa che le
emozioni sono
intese come un segnale che qualcosa esige la vostra
attenzione. Sono fatte
per durare solo il tempo sufficiente per
attirare la vostra attenzione, e
spariscono dopo che avete deciso
come agire.
Il problema è che abbiamo la tendenza a fare
una di queste due cose
anziché prestare attenzione: o perseveriamo
(senza agire), o andiamo
dritti in modalità evitamento. Entrambe le
cose peggiorano il casino che
abbiamo nel cervello.
Sforzatevi di rimanere per cinque minuti con
l’ansia che provate
anziché reagire. Tutto ciò significa essere
consapevoli della vostra
esperienza emotiva attuale. Potete
scrivere a ruota libera mentre
elaborate. Potete praticare la
respirazione. Potete fare qualunque cosa
tranne evitare il
sentimento o distogliere l’attenzione. Lo scopo è
rieducare se
stessi al fatto che non durerà per sempre. Potete stare da
schifo
per qualche minuto, ma non è una condizione permanente. Giuro
sul
mio Roomba

che non durerà per sempre… e io adoro il mio robot


aspirapolvere, è
l’impiegato del mese tutti i mesi!
Se prestate attenzione a ciò che provate, lo
supererete molto più in
fretta che se lo evitate. Ho notato che mi
annoio dopo circa tre minuti che
mi sono impegnata a provare il mio
sentimento per cinque minuti. Sono
pronta a prepararmi un caffè, a
leggere un libro, a scovare i biscotti che ho
nascosto a me stessa,
o a fare qualunque altra cosa tranne perseverare
.

OceanofPDF.com
4. STARE MEGLIO: RIEDUCARE IL
CERVELLO

Questa
è la parte generale del libro. Quella dove
sistemiamo tutte le
stronzate che si inventa il nostro
cervello. Ovviamente, non tutti
reagiscono nello stesso
modo alle situazioni. Se così fosse,
mettere
a posto i
casini sarebbe facilissimo, e io non avrei un mestiere.
Di
conseguenza i temi legati ad alcune cose specifiche che
succedono
alle persone vengono trattati più avanti. Con
questo intendo tutti
gli aspetti della condizione umana
che, a un certo punto della
vita,
ciascuno di noi può
provare: depressione, ansia, rabbia,
dipendenza,
reazione
al lutto e stress... avete presente?
Ma prima vorrei
darvi un’idea degli stadi attraverso cui
si verifica il trauma: uno
schema che ci aiuta a capire
come rimediare meglio al casino. So
BENISSIMO
che
uno schema universale che, una volta rispettati i passaggi,
VOILÀ, faccia andare tutto
automaticamente meglio per
tutti, non esiste.
La vita fa quello
che fa, e la metà delle volte ci
limitiamo a cercare di
sopravvivere. Quindi quello che
altri chiamano stadi, io lo chiamo
un’intelaiatura. È bene
avere un’idea di dove ci si trova per
potersi concentrare
su ciò che funziona meglio in quel momento.
E se tra
qualche ora (o la settimana prossima, o l’anno prossimo)
vi ritrovate cinque passi avanti o due indietro? Si riparte
da lì.
Niente di difficile.
Okay, adesso mi
state guardando con il sospetto che vi
rifilerò tutte le solite
stronzate da manuale di self-help
con un pizzico del guru di turno
che sbraita: «Come sta
andando?» E va bene, forse un pochino. Ma
solo la roba
che funziona meglio, nulla di trascendentale. Sta
tutto
nella scienza del cervello. E in un po’ di turpiloquio.
Quindi
venitemi dietro, e cerchiamo di capire cosa va
bene per voi.
Torniamo alle
intelaiature. Una delle migliori proviene
dal libro di Judith
Herman
Guarire dal trauma. Le sue
definizioni da persona adulta
(e le
mie meno tradizionali)
sono elencate qui sotto.
1. Sicurezza e stabilizzazione
Porca vacca! È finita, vero? Posso starmene un attimo in
pace senza
che qualcuno mi prenda a calci nel sedere?
Sarebbe possibile,
universo?
1. Ricordo ed elaborazione del lutto
Che c***o è stato?
Cos’è successo? Perché nessuno mi
ha detto che la merda può
pioverti addosso in questo
modo? Che batosta.
1. Ricostruzione
Va bene. Quindi forse, ma solo forse, il mondo non è
tutto uno
schifo assoluto e posso sentirmi bene di nuovo.
Non che quello che
è
successo non sia stato un casino
spettacolare. Però non tutto è un
casino spettacolare e
non tutti sono dei pezzi di merda
integrali.
Sicurezza e stabilizzazione
Se
il trauma ha comportato una violazione del nostro
senso di
sicurezza
nel mondo, recuperarlo sembra quasi
impossibile. L’evento si è
trasformato in un ricordo
molto vivido che scatena continuamente la
reazione
“Combatti, Fuggi, Bloccati”. Sicurezza e stabilizzazione
è
lo stadio che serve per capire tutto quello che sta
succedendo
nel
nostro cervello e riprendere il controllo
sul corpo. È il riavvio
del cervello quando si scatena il
caos. Il libro della Herman si
concentra su questo stadio,
e il mio pure. Perché è la parte più
difficile… e senza di
questa tutto il resto è impossibile.
Ricordo
ed elaborazione del lutto
È
la parte che chiamiamo esposizione narrativa del
trauma. È lo
spazio che dobbiamo concederci per
elaborare la nostra storia
quando
siamo in grado di farlo
senza che i trigger scatenino una reazione
incontrollata.
Serve a diventare padroni della propria storia
anziché
farsi sopraffare da essa. Riguarda il trauma per come lo
ricordiamo,
e i pensieri e i sentimenti intrecciati ai
ricordi dell’evento. Se
immaginiamo il trauma come
emozioni intrappolate nel corpo, questo
è
il modo in cui
le metabolizziamo e le espelliamo. Può essere fatto
in
qualunque modo sicuro: con un terapeuta, con una
persona cara
straordinaria, in un gruppo di sostegno o da
soli tenendo un
diario.
Ricostruzione
È
un modo complicato per dire riprendere in mano la
propria vita.
Significa trovare una maniera perché il
trauma abbia la giusta
collocazione nel quadro
complessivo della vita, anziché
controllarne
ogni aspetto.
Ha a che fare col dare significato alla nostra
esperienza.
Può essere molto difficile, me ne rendo conto. Non vuol
dire che la situazione che abbiamo vissuto non fosse
orribile e
incasinata, ma che possiamo usarla per
diventare più forti, per
sostenere gli altri, per non lasciare
che ci controlli. Significa
avere relazioni positive basate
su tutto ciò che siamo e non
solo dal nostro trauma.
Potrebbe anche voler dire riconnetterci
alla
nostra
spiritualità, se è stata una parte importante della nostra
identità. Significa essere consapevoli che, qualunque cosa
ci
accadrà, potremo contare su noi stessi. Un
sopravvissuto cazzuto
che
chiunque sarebbe fortunato ad
avere al suo fianco.
E
va bene, ammetto che è più facile dirlo che farlo, ma
vediamo come
iniziare.

Primissima
cosa: sicurezza e stabilizzazione
La
sezione che segue è piena di attività che chiamano
in gioco la
corteccia prefrontale e scavalcano la presa del
potere da parte del
tronco encefalico che scatena la
reazione Combatti, Fuggi,
Bloccati. Insegnare alla corteccia
prefrontale a concentrarsi
su
qualcos’altro impedisce che
la reazione ostile da parte del
cervello prenda il
sopravvento.
Nel
suo libro La biologia delle credenze, Bruce Lipton
paragona il
tentativo di interrompere il dirottamento da
parte dell’amigdala
allo strillare contro uno stereo perché
non ci piace la musica che
sta suonando sperando che da
solo possa farci qualcosa. L’amigdala
fa lo stesso: emette
segnali di pericolo, ma non ha più capacità di
fermarsi di
uno stereo dopo che abbiamo premuto il tasto Play.
Nemmeno se è una schifezza inascoltabile.
NON
POTETE
intrattenere una conversazione logica
direttamente con l’amigdala. QUALUNQUE
cosa si
decida di fare deve passare per una negoziazione tramite
la
corteccia prefrontale. Perché l’amigdala è in modalità
protettiva (o terrorista, a seconda della pazienza a
disposizione
in
questo momento) ed è lei che comanda. È
qui che ristabilizziamo noi
stessi e ristabiliamo il nostro
senso di sicurezza. Facendo in modo
che la corteccia
prefrontale entri di soppiatto e metta in pausa lo
stereo,
possiamo negoziare con l’amigdala convincendola a darsi
una
bella calmata, e a lasciare che gli adulti tornino al
lavoro.
Sì,
è possibile davvero fare qualcos’altro e pensare ad
altro. Ma
dobbiamo allenarci a farlo.
La
reazione traumatica non si sviluppa da un giorno
all’altro, giusto?
Non è che una sera andiamo a letto tutti
pimpanti e il mattino dopo
ci svegliamo in preda a un
attacco di nervi. Il cervello ha creato
il
circuito di risposta
sulla base delle informazioni ricevute nel
corso
del
tempo, perciò anche imparare a spegnerlo richiederà
tempo.
Alcuni
giorni andranno meglio di altri. Potrebbe
capitarvi di stare da dio
e
poi di venire centrati come da
una tonnellata di mattoni da ogni
genere di che-c***o-è-
appena-successo?!
Quelle
giornate lì non sono il massimo, vero?
Niente
di tutto questo fa di noi dei falliti, significa solo
che stiamo
ancora crescendo. Ai miei pazienti dico: «Alla
fine sarà tutto OK.
Se non lo è ancora, significa che non
siamo alla fine».
E
assaggi di OK qui e là ci danno
respiro e spazio per
immagazzinare energia in vista della prossima
battaglia
contro quell’ansia che cerca di mangiarci vivi. Non è
esattamente il modo più tecnico per definire il problema,
ma
dovrebbe esserlo.
L’aspetto
più importante perché questa roba funzioni è
fare pratica di tali
tecniche quando il cervello non è in
modalità “stronzo” anziché
cercare di impararle quando
si è già completamente in tilt. Provare
nuove tecniche di
rilassamento e strategie di adattamento quando ci
sentiamo al nostro meglio ci aiuterà a capire quali
funzionano.
Perché,
come sapete bene, riprendere il controllo del
cervello quando è
stato preso in ostaggio è difficilissimo.
C’è
un’espressione riguardante i musicisti che dice: «I
dilettanti si
esercitano finché non gli riesce bene, i
professionisti si
esercitano finché non riescono più a
sbagliare». Non sto cercando
di rifilarvi imperscrutabili
perle di saggezza zen… il concetto è
che la strada per la
sala da concerti è esercitarsi, esercitarsi,
esercitarsi.
Dimostrare di riuscire a farlo una volta è facile,
diventare
così bravi che è come una seconda natura è tutto un
altro
paio di maniche.
Ma
è questo a riconfigurare una reazione traumatica:
farlo così spesso
che diventa semplicemente quello che si
fa. E quando
incontriamo un trigger, utilizziamo le
strategie di coping.
Provare
buone strategie adattive quando NON
siamo in
modalità schizzata renderà più facile avere accesso
quando lo siamo. Avere accanto persone di cui ci fidiamo
e che
possono sollecitarci a usare le strategie che
funzionano può
rivelarsi molto prezioso.
Ovviamente,
è probabile che abbiamo la sensazione
che il panico arrivi sempre
nei momenti peggiori, per
esempio quando guidiamo da soli in
autostrada. Perciò
avere un insieme di strategie adattive semplici
oltre a
quelle più complesse potrebbe rivelarsi prezioso.
Potrebbe
essere un talismano concreto (una pietra o un
altro oggetto che
portiamo con noi), un mantra che ci
ripetiamo, o le coping cards
che
trovate nel box qui sotto.
È vero, sembrano fuffa da psichiatra
della domenica. Ma
funzionano così dannatamente bene che non posso
non
parlarvene.

Tecniche
di grounding
Mi
chiedono spessissimo di insegnare alle persone una
sola strategia.
Nuovi terapeuti, nuovi genitori affidatari e
primi soccorritori,
che
non sono psicologi ma si trovano
ugualmente a dover aiutare la
gente
a gestire
un’emergenza, vogliono tutti sapere: «Qual è la cosa
valida universalmente che chiunque può fare per aiutare
una persona
che sta passando un brutto momento?» E la
risposta migliore che ho
è: «Aiutarla a radicarsi di nuovo
nel suo corpo e nel presente».
Quando
innescato da un trigger, il cervello rivive un
evento passato
anziché
reagire al presente. Le attività di
grounding, ossia di
radicamento,
aiutano a tornare nel
nostro corpo e nel momento presente, anziché
rivivere i
ricordi. Il grounding è uno dei modi migliori per
gestire
la sofferenza emotiva, perché contribuisce a farci
rimanere nel
presente e rammentare che la sofferenza è
legata al ricordo, e non
ha il potere di procurare dolore in
questo momento. Sento dire di
continuo che è una
strategia utilissima.
Alcune
persone non vogliono rimestare nella loro
storia ed elaborare il
trauma. E va bene così. Ma tutti
desiderano un modo per gestire lo
schifo che riemerge
quando vivono una reazione traumatica. Il
grounding
aiuta molto. Sul serio. È il modo migliore per dire:
«Ehi,
amigdala? Rallenta, per la miseria».
Grounding mentale
Le
tecniche di grounding mentale mirano ad ancorarci
al momento
presente
focalizzando l’attenzione sulla
situazione attuale e su ciò che ci
circonda. Potremmo
usare dei mantra o un elenco. E sì, possiamo
dire
queste
cose ad alta voce. A noi stessi, a qualcun altro. Se siamo
sull’autobus e non vogliamo attirare l’attenzione,
possiamo farlo
mentalmente o sottovoce. Qualunque
cosa funzioni. (… e se vi
mettete gli auricolari, la gente
penserà che state canticchiando da
soli, e non reagendo a
uno stimolo interno).
Per
esempio, potremmo elencare tutti i colori di una
stanza, o
descrivere
un oggetto che abbiamo in mano.
Potrebbe
consistere nel ripetersi più volte una frase.
Una delle mie
preferite l’ho sentita di recente:
«Vaffanculo, amigdala!» A
quanto pare per quella persona
funziona a meraviglia!
Alcuni
fanno una specie di gioco di categorizzazione,
elencando tutti i
film
o i libri che preferiscono, o
qualcosa che richiede un tipo diverso
di concentrazione.
Qualcuno
potrebbe ripetersi le cose da fare,
mentalmente o a voce alta, o
gli
step necessari a portare a
termine un’at-tività.
Tutte
queste tecniche sono un modo per ricordare al
cervello dove siamo
in
quel momento e che abbiamo più
controllo di quanto crediamo su
quello che succede
dentro di noi anche quando è stato premuto il
bottone
del panico.
Grounding fisico
Quando
si è bambini, viviamo ogni momento nel
nostro corpo e nelle nostre
esperienze. È solo quando
cresciamo che ci rendiamo conto che il
corpo può essere
in un posto e la mente in un altro. È fantastico
quando il
corpo è a lezione di matematica e la mente al parco
giochi. Ma con il passare del tempo può diventare un
problema. Vi è
mai capitato di arrivare a casa senza
ricordare nulla del tragitto?
Le tecniche di grounding
fisico sono modi per ricordare a noi
stessi
che viviamo
nel nostro corpo e che abbiamo la titolarità di questa
esperienza.
Il
grounding fisico può comprendere la consapevolezza
del respiro.
Semplicemente far caso all’atto di inspirare
ed espirare. Quando ci
scopriamo a vagare con la mente,
dobbiamo ricordare a noi stessi di
concentrarci sul
respiro.
Possiamo
provare a camminare e far caso a ogni passo.
Se ci accorgiamo che
mentre camminiamo continuiamo
a rimuginare, proviamo a farlo
tenendo
in mano un
cucchiaino d’acqua e concentriamoci sul tentativo di non
versarla.
Tocchiamo
gli oggetti che ci stanno intorno. Talvolta
specifici oggetti
sensoriali hanno particolari capacità
tranquillizzanti. In genere
vengono suggeriti alle persone
che reagiscono in modo diverso dal
punto di vista
neurologico (come le persone con disturbi dello
spettro
autistico), ma possono essere d’aiuto a chiunque. Cose
come: una palla di cotone intrisa di olio di lavanda tenuta
in un
contenitore sottovuoto che viene aperto per
innescare una reazione
positiva. Qualcosa da masticare.
Plastilina che può essere
schiacciata, boccette di
brillantini da scuotere, un talismano in
tasca come una
pietra levigata o qualcosa con un significato
spirituale. Un
anello da far ruotare attorno al dito.
Saltare
su e giù.
Fare
in modo che i piedi siano a contatto col
pavimento, togliendo le
scarpe e sentendo il terreno
sotto di noi.
Possiamo
anche provare a mangiare qualcosa
lentamente e prestare attenzione
ai
sapori e alla
consistenza. L’uva e l’uva passa funzionano bene in
questo senso. Volete sapere una cosa interessante?
Persone a cui
l’uva passa non piace (alzo la mano) non
fanno una piega quando la
usano per fare questo
esercizio.
Se
siete a vostro agio a essere toccati, potete fare in
modo che una
persona di cui vi fidate vi posi le mani
sulle spalle e vi ricordi
gentilmente di rimanere nel
vostro corpo.
Se
il contatto fisico non peggiora le cose, abbracciamo
qualcuno.
Andiamo a fare un massaggio. Facciamoci le
coccole con il partner.
L’atto di toccare ed essere toccati
rilascia ossitocina. Il tocco
fa bene anche al cuore e al
sistema immunitario. Quindi
usiamolo.
Grounding calmante
Il
grounding calmante è essenzialmente self-
compassion
(autocompassione) e self-care in una
situazione difficile.
Proviamo
a pensare a cose che ci fanno sentire meglio.
Visualizziamo
qualcosa
che ci piace, come la spiaggia o
un tramonto. Un tramonto sulla
spiaggia? Ve lo appoggio
senza riserve.
Richiamiamo
alla mente un posto sicuro e
immaginiamoci circondati da quella
sicurezza.
Programmiamo
un’attività o una coccola cui pensare
nell’immediato futuro,
come un dolce della nostra
pasticceria preferita, un bagno caldo,
un
film visto cento
volte e che continuiamo ad amare, una partita di
baseball
e un secchiello di pop-corn, o una passeggiata nel nostro
parco preferito.
Possiamo
portare con noi ritratti delle persone e dei
posti cui teniamo di
più
e concentrarci su queste
immagini.
Provare
tutte queste forme differenti di grounding e
mettere a punto quelle
che funzionano meglio quando ci
sentiamo estremamente sotto
pressione. Se vi
incuriosisce l’idea di approfondire uno di questi
ambiti,
potete anche dare un’occhiata ai consigli di lettura che
trovate alla fine del libro.
Ma
la cosa più importante di tutte è che abbiamo
capito cosa succede:
il cervello ha fatto il suo lavoro nel
tenervi al sicuro, e adesso
siamo pronti a riprendere in
mano le redini e ad andare avanti. Ed
è
una cosa
fantastica, vero?
Ottenere aiuto con il
grounding
Se
c’è qualcuno che ci sostiene in questo percorso,
condividiamo
queste cose con lui/lei e chiediamo il suo
appoggio nel processo di
ritrovare il radicamento.
Se
state leggendo queste cose per aiutare una persona
che cerca nuove
strategie di coping, potete suggerirlo con
tatto o addirittura
farglielo vedere, senza dire: “Ehi,
adesso ti do una mano io con
quel c***o di cervello che ti
ritrovi”. Per esempio, talvolta io
metto qualche goccia di
olio essenziale sulle lampadine del mio
studio e spiego al
paziente che mi serve concentrarmi sul profumo.
In
genere sono a piedi scalzi, quindi parlerò del fatto che mi
piace
sentire i piedi a contatto del pavimento. Potrei
anche accennare ai
colori sulle pareti, alla consistenza
delle coperte nella stanza,
al
materiale sensoriale che
tengo per i bambini e che apprezziamo
anche
noi adulti.
Se
mi accorgo del disagio di un amico o di un
famigliare con cui ho
abbastanza confidenza da toccarlo
anche quando è in crisi, potrei
posargli le mani sulle
spalle e premere con delicatezza parlando di
quello che
vedo.
Molti
terapeuti stanno iniziando a usare strumenti
sensoriali di cui chi
pratica terapia occupazionale parla
da decenni. Anche cose come
copertine imbottite da
posarsi in grembo, sui piedi o attorno alle
spalle possono
essere di grande aiuto.
Meditazione
mindfulness
D’accordo,
iniziamo per prima cosa dalle definizioni.
C’è la diffusa tendenza
a usare mindfulness e
meditazione come termini intercambiabili.
Oppure in
modo non intercambiabile ma che comunque crea una
gran
confusione. In realtà non sono intercambiabili, ma
nemmeno
dovrebbero crearvi una gran confusione in
testa.
La
meditazione è quando si riserva intenzionalmente
del tempo
per fare qualcosa che ci fa stare bene. Esistono
meditazioni di
tutti
i tipi: preghiera, esercizio fisico, arte
etc.
La
mindfulness è SIA una
generica consapevolezza del
mondo (notare la vostra esistenza e
l’esistenza di tutto ciò
che vi circonda) SIA
una pratica formale di meditazione.
Sono due cose, non una.
Perciò
possiamo meditare senza essere particolarmente
consapevoli ed
essere
consapevoli senza meditare. Ma
meditazione e mindfulness si
sovrappongono quando
facciamo meditazione mindfulness, che
significa
riservare del tempo per concentrarsi intenzionalmente
sulla
consapevolezza del mondo… che comprende anche
il funzionamento
della nostra mente.
Ho
elencato i miei libri preferiti sull’argomento nei
suggerimenti di
lettura. C’è gente molto più preparata di
me su tali faccende. Ma
ecco le linee guida essenziali per
iniziare.
Sedete con la schiena dritta.
Se riuscite a farlo stando
a
terra o su un cuscino senza un sostegno per
la
schiena, buon per
voi. Se avete bisogno di una sedia
con lo
schienale rigido,
usatela. Se non riuscite proprio
a sedervi,
non c’è problema
nemmeno in questo caso.
Mettetevi nella
posizione più comoda per
voi. La
ragione per cui stare seduti è
meglio che sdraiarsi è
che lo scopo è risvegliarsi, non
addormentarsi. Ma lo
scopo è
anche non avere un male cane, quindi non
stressatevi.
Sfuocate lo sguardo senza chiudere gli occhi ma
facendo in
modo di vedere senza vedere. Avete capito
cosa intendo. Occorre
prendere una distanza visiva
perché ciò cui
dovete prestare
davvero attenzione si
trova all’interno di
voi.
E adesso inspirate ed espirate. E concentratevi sul
respiro. Se non l’avete mai fatto prima vi
risulterà
strano e
difficile. Ma per la cronaca, se anche lo
avete
fatto un miliardo
di volte, ci sono ancora buone
probabilità
che sarà strano e
difficile.
Se vi accorgete di essere distratti,
limitatevi a
etichettarlo come “pensiero” e tornate a
concentrarvi
sul
respiro. Pensare non è un fallimento,
neanche per
idea. Succede.
E l’obiettivo è notarlo e riportare la
mente al momento
presente. Quindi è un successo in
entrambi
i casi.
Molti si sentono malissimo durante la meditazione,
convinti di
essere
degli inetti perché vengono
continuamente distratti dal
chiacchiericcio del pensiero.
Non è un problema. Il cervello sta
cercando
disperatamente di raccontare una storia. Salteranno fuori
distrazioni di tutti i tipi. Potremmo ritrovarci a pensare a
cosa
cucinare per cena. O a una conversazione avuta al
lavoro. Oppure se
ci servono un paio di scarpe da
ginnastica nuove o se andare a
vedere
un film nel fine
settimana.
Perché
l’impostazione predefinita del cervello è la
modalità narratrice,
ricordate? E dato che non siamo
distratti da accadimenti esterni,
l’impostazione
predefinita ha ogni genere di storie da raccontare.
Ma il
punto della meditazione mindfulness è proprio qui: le
ricerche
dimostrano che interrompe il processo
narrativo, quando si credeva
che l’unico modo per farlo
fosse una distrazione offerta da eventi
e stimoli esterni.
E
non fingerò assolutamente che questa roba sia facile
da mettere in
pratica quando si è in difficoltà. Ma è
importante almeno
provarci. Perché parte dell’attacco di
ansia o di panico sono le
storie che il nostro cervello
inizia a raccontarci riguardo
l’attacco
stesso. E in genere
non sono storie piacevoli. Perché le sostanze
chimiche
rilasciate in quel frangente sono fatte per accelerare la
respirazione e la frequenza cardiaca. Quindi il cervello
insiste a
ripetere che stiamo per avere un infarto o
smettere di respirare.
Non
succederà. Quando notiamo
questo tipo di pensiero, dobbiamo
ricordare a noi stessi
che è una reazione biochimica, non la
realtà.
Dobbiamo
continuare a respirare. Lo sforzo
consapevole e costante di
respirare
e rilassarsi rallenterà
il battito cardiaco e ci aiuterà a far
circolare più ossigeno.
È un riequilibrio chimico, letteralmente.
La meditazione
rilascia sostanze chimiche che contrastano
l’incasinamento del cervello: dopamina, serotonina,
ossitocina ed
endorfine. Ed è più economico del CrossFit.
Seimila anni di pratica
buddista avranno ben qualcosa da
offrire, no?
Dobbiamo
trattare le reazioni corporee come
qualunque altro pensiero
casuale.
Avere prurito è
comune. Se sentiamo prurito, dobbiamo etichettarlo
come pensiero tre volte prima di cedere all’impulso di
grattarci. Potremmo rimanere stupiti di quanto spesso il
cervello
crea cose per attirare la nostra attenzione. Le
prime volte che
meditavo, iniziava a colarmi il naso. La
mia insegnante di
meditazione si rese conto della mia
spettacolare capacità di
distrarmi e iniziò a tenere dei
fazzoletti di carta vicino al suo
cuscino. Non mi era
permesso alzarmi. Usavo il fazzolettino e
tornavo
a
concentrarmi sul respiro. Ovviamente, se avete un dolore
vero,
non
ignoratelo. Sistematevi in modo più comodo
ed evitate di fare gli
eroi.
Se
avete accanto qualcuno, può dare un’imbeccata alla
mindfulness
dicendo qualcosa tipo: «Ehi, cosa ti passa per
la testa in questo
momento?» Oppure spingervi verso il
rilassamento progressivo:
«D’accordo, iniziamo dalle
mani. Le tieni strette a pugno,
potresti stendere le dita
anziché conficcarti le unghie nei palmi?»
Certe volte la
meditazione sembra più fattibile se qualcuno medita
insieme a voi: contribuisce a farci sentire supportati e a
tenerci
sul pezzo.

Preghiera
Quindi
abbiamo appena definito la meditazione
mindfulness, giusto? La
meditazione non è altro che
ascoltare. È il processo di
zittire se stessi in misura
sufficiente a sentire cosa succede
dentro
di noi. La mente
ha un talento spiccato per la creazione di una
quantità
interminabile di chiacchiere cui spesso rispondiamo
senza
neanche ascoltare. La meditazione è la
disponibilità ad ascoltare
se stessi prima di ribattere.
Cosa
c’entra la preghiera con questo? Posso vedervi
alzare gli occhi al
cielo. Preghiera? La religione non fa
per me. Ma quello che la
nostra
cultura ha deciso di
chiamare preghiera è semplicemente parlare
a. Parlare a
noi stessi o a qualcosa di più grande di noi
dei
nostri
bisogni, desideri e intenzioni. Ricordate il cervello
contastorie? La preghiera è un meccanismo naturale del
cervello che
narra. Parlare della nostra situazione in
questo modo può essere
molto più potente che parlare a
un amico, a un famigliare o a un
terapeuta. È
un’esperienza di radicamento che ci aiuta a essere
più
consapevoli dei nostri pensieri, sentimenti e
comportamenti. È
questo che sta succedendo. È questo che
voglio. È questo l’aiuto
di cui ho bisogno.

Musica
A
chi non piace la musica, giusto? Solo alle stesse
persone che
odiano
il profumo del pane appena sfornato
e non capiscono quanto sono
adorabili i cuccioli di
bradipo.
Sapete
quanta parte della giornata passiamo ascoltando
musica? Tipo QUATTRO
ORE, per la miseria. La musica
è primordiale. Di recente
alcuni scienziati del mit
hanno
messo a punto dei test per dimostrare che nel cervello ci
sono
neuroni specifici che prestano attenzione solo alla
musica,
ignorando
tutti gli altri segnali uditivi. Il cervello
ha stanze per la
musica.
E forse la musica è venuta prima
del linguaggio. Ed è per questo
che si è sviluppato… per
accompagnare la musica. E guardate quanta
architettura
è stata progettata attorno al nostro bisogno della
musica.
In tutte le culture, i luoghi di culto sono stati costruiti
attorno al bisogno di creare musica in comunione.
La
musica è al tempo stesso primordiale e comunitaria.
E
ciascuno usa la musica in modi diversi. Alcuni
vogliono musica
rilassante per calmarsi quando sono
stressati. Altri ascoltano roba
rumorosa e martellante che
si accorda con quello che succede dentro
di loro. Altri
ancora vogliono pezzi allegri e ballabili per avere
il
loro
momento di gloria.
Sono
cresciuta ascoltando vecchi album blues su vinile
mentre gli altri
bambini meno strani guardavano i
cartoni. Quindi indovinate un po’
qual è la musica che
trovo più rilassante? I vecchi album blues su
vinile. O,
quando mi serve qualcosa per darmi una scossa, mi piace
ascoltare la musica con cui mi alleno. Ha un ritmo che
collego al
movimento fisico. Posso usarla per ballare
mentre sbrigo le
faccende
di casa, o anche mentre guido
per prepararmi all’evento a cui sto
andando.
Cosa
funziona per voi?
Avere
della musica che aiuta il cervello a collegarsi a
uno stato
rilassato
oppure a uno energico ma non tanto
da arrivare a essere in preda al
panico può essere davvero
benefico. Soprattutto adesso che tutti
quanti, compresi i
cuccioli di bradipo, hanno smartphone su cui è
possibile
caricare una playlist. Pensate a quali canzoni siete.
Qual
è
il vostro canto di battaglia? Il vostro inno personale? Le
canzoni
che riflettono la parte migliore di voi? Quelle che
vi ricordano
che
la vita vale la pena di essere vissuta?
Tenetele a portata di mano
per quando ne avrete
bisogno.
Esercizi
di self-compassion
L’autocompassione
è l’esatto contrario dell’autostima.
L’auto-
stima viene
da fuori. Siete andati alla grande a un esame?
Fantastico per
l’autostima. Avete cannato in modo
spettacolare? L’autostima è
finita giù dallo scarico.
Self-compassion
significa essere gentili con se stessi
come lo si sarebbe
nei
confronti dei nostri migliori amici.
È onorare intenzionalmente le
nostre imperfezioni di
esseri umani. Non vuol dire perdonarci per
cose che
abbiamo sbagliato, e non è una scusa per essere degli
stronzi. In realtà, gli individui dotati di self-compassion
sono
anche più inclini a essere persone migliori perché
pensano di
valere lo sforzo.
Trattiamoci
con gentilezza, comprensione e rispetto. E
chiediamoci: cosa direi
se
fosse successo a uno dei miei
migliori amici? Cosa direbbe il
Buddha
in una situazione
del genere?
Quando
ho insegnato alle persone le abilità di
autocompassione suggerite
da
Kristin Neff e Christopher
Germer (vedi la sezione letture
consigliate) ho assistito a
cose straordinarie. La prima volta che
è
successo stavo
tenendo una lezione a un uditorio di terapeuti che
lavoravano alla tesi di dottorato. Una di queste persone
era una
donna già laureata in medicina.
Quindi:
gente tosta, determinata, con risultati
accademici di tutto
rispetto.
Ho chiesto loro di mettersi
le mani sul cuore e ricordare a se
stessi
che provavano
sofferenza e che quella sofferenza faceva parte della
condizione umana. Di darsi il permesso di essere gentili
con se
stessi e di perdonarsi per i propri difetti.
La
suddetta terapeuta laureata in medicina, dottoranda
e super
qualificata, ha fatto l’esercizio e ha iniziato a
piangere. Questa
donna, che guardavo con ammirazione,
non aveva mai trovato il tempo
di concedersi la stessa
compassione che mostrava alle persone con
cui
lavorava.
Provate
anche voi.
Mettetevi
le mani sul cuore e date voce alla vostra
esperienza di dolore.
Ricordate a voi stessi che soffrire fa
parte dell’essere umani.
Dite a voi stessi che vi sono
concessi gentilezza e perdono, e che
iniziano come un
lavoro interiore.
Vi
fa sentire ridicoli? Io mi sono sempre sentita
stucchevole quando
ho
provato il self-talk positivo, ma
ho anche scoperto che FUNZIONAVA.
Pensateci come a
un modo di parlare sopra a quel c***o di monologo
dell’amigdala.
Sì, lo so che in questo
momento stai dando di testa.
Passerà e ti sentirai meglio. Continua
a respirare.
Hai tutto sotto controllo.
Potrebbe non sembrarti così.
Ma il tuo tasso di successo nel
superare casini grossi è
del cento per cento. Non avrai intenzione
di
interrompere la sequenza di vittorie!
Sai cosa fa schifo? Questo
momento. Sai cosa aiuta?
Che non dura per sempre. E ti sei meritato
un premio
per averlo affrontato.
Potete
mettere le strategie di self-talk sulle coping
cards, se le usate.
Ed
è una cosa per cui potete chiedere
aiuto, assolutamente. Dite alle
persone che mantra usate
e fate in modo che loro ve lo ricordino
quando siete in
difficoltà.
Esercizio
fisico
Lo
so, lo so. ’Fanculo il CrossFit e ’fanculo i beveroni
agli
spinaci. Però l’esercizio fisico rilascia endorfine. La
versione
breve? Le endorfine hanno spettacolari abilità
da ninja: bloccano
la
percezione del dolore e rinforzano
le sensazioni positive, entrambe
cose che contrastano la
reazione da stress. E perciò quella gente
super allenata
che dice di provare lo sballo del corridore non vi
sta
raccontando frottole. Schizzati, può darsi. Ma di sicuro
dicono la
verità.
Siete
assolutamente liberi di scegliere la forma di
esercizio fisico che
riuscite a tollerare. Non sono una fan
della fatica fisica in nome
della salute. Ma il mio dottore
continua a dirmi che alzarmi per
prendere un biscotto
non conta come addominali, perciò devo fare
qualcosa. A
me piace nuotare, camminare e fare trekking: li trovo
molto più rilassanti e meditativi degli sport di squadra
competitivi
(ma se invece sono la vostra passione… fate
pure, certa gente è
proprio strana!). Meglio ancora
quando vado a camminare con la mia
migliore amica.
Facciamo esercizio e intanto spettegoliamo a ruota
libera
su tutti quelli che conosciamo.
Trovate
qualcosa che non vi faccia schifo. Può essere
intenso o dolce, non
importa, ma provate qualcosa. La
maggior parte dei centri sportivi
offrono una lezione o
una settimana gratuite, quindi andate a
vedere
com’è.
Avevo una paziente che si era innamorata della boxe
dopo
essere stata a una prova gratuita. Era un ottimo
esercizio fisico e
la faceva sentire più forte e con un
maggior controllo delle sue
esperienze.

Uscite
di casa
Certe
volte fare qualunque cosa sembra andare oltre le
nostre forze. Se è
già abbastanza difficile restare in piedi,
di sicuro è fuori
questione meditare, fare esercizio fisico
o qualunque altra fuffa
misticheggiante.
Se
non siete in grado di fare nient’altro, cercate di stare
all’aperto. Anche solo per rimanere seduti su una
panchina a bere
il caffè del pomeriggio o roba del genere.
Il sole stimola la
produzione di vitamina B e serotonina,
cose che vi daranno una
spintarella chimica senza esser
costretti a mandar giù una pillola.
È difficile stare seduti
al sole e sentirsi da schifo al tempo
stesso. Fidatevi, ho
provato. In genere mi sento meglio a dispetto
di
me
stessa.
Se
abitate in un posto grigio e cupo, potete prendere in
considerazione
una lampada solare da tenere nello
spazio in cui lavorate. Quando
mio
fratello lasciò il Texas
per andare a studiare sulla East Coast, si
ritrovò a
combattere contro il disturbo affettivo stagionale (
sad).
Semplicemente non prendeva sole sufficiente per
contrastare la
malinconia. La lampada ha fatto una
differenza enorme.

Quando
siete pronti
Una
volta acquisite un certo numero di abilità che vi
aiutano a gestire
le reazioni che stavano gestendo voi,
potreste prendere in
considerazione di lavorare sulla
vostra storia.
La
parte sulle strategie di coping è davvero
importantissima. Troppe
persone si sentono costrette a
parlare di quello che gli è successo
senza un modo per
sentirsi al sicuro mentre lo fanno. È un trigger
potentissimo e finisce per traumatizzarle un’altra volta.
Perciò
queste sono cose che fate solo quando vi sentite
pronti, quando e
se
raccontare la vostra storia è una cosa
che vi aiuta a voltare
pagina, e insieme a qualcuno che
può starvi accanto in questa
esperienza.
Scrivere
o tenere un diario
Esercizi
di scrittura o tenere un diario, in particolare
prendendosi il
tempo
di farlo lentamente con carta e
penna, può essere un buon inizio
per
condividere la
vostra storia. Potrebbero emergere cose di cui
ignoravate
l’esistenza, o che non credevate di aver bisogno di
dire.
Di seguito trovate qualche idea da cui partire.
Usate un libro che contiene specifici suggerimenti di
scrittura
legati alla vostra situazione. Per esempio,
molte persone che
hanno affrontato traumi sessuali
infantili
hanno trovato molto
utili gli esercizi presentati
in The Courage to Heal
di
Ellen Bass e Laura Davis. Ho
pazienti che
li fanno tra una seduta
e l’altra e poi
rivedono insieme a me
quello che hanno scritto.
Scrivete lettere ad altre persone. Non lettere da
spedire davvero,
ma ciò che vorreste dire loro se vi
fosse
possibile farlo.
Potrebbero essere rivolte alla
persona che
vi ha fatto del male. O
alle persone che
amate ma che non capiscono
quello che state
passando. Immaginare cosa volete dire loro
potrebbe
essere un buon
punto di partenza per capire voi stessi.
E
magari anche per
avviare un dialogo con loro, se
possibile.
Scrivete una lettera al vostro io futuro. Scrivete tutto
quello
che avete passato per arrivare nel posto
più
sano cui ambite in
futuro. Elencate tutte le cose che vi
sono
successe e il modo in
cui le avete superate…
come se lo aveste
già fatto. Potreste
rimanere stupiti
da quello che vi viene in
mente.

Raccontare
la vostra storia
Significa
nient’altro che parlare del vostro trauma e di
altre cose che hanno
avuto impatto sulla vostra vita come
le ricordate e le percepite.
Non
stiamo parlando della
verità, ma della storia che portate con voi e
che ha
influenzato per così tanto tempo il modo in cui siete
configurati.
Abbiamo
parlato del fatto che il cervello è un narratore.
Creare una nuova
storia significa innanzitutto capire
quella che ci portiamo dietro.
Certe volte è una sorpresa
anche per noi. Non ci rendiamo neanche
conto di tutta la
roba odiosa che ci raccontiamo finché non la
diciamo ad
alta voce.
Preparare
le persone a questo passaggio è una parte
importante nella terapia
del trauma, anche se molti di
noi sono in grado di farlo con
l’aiuto
di amici, famigliari
o altre persone care. Sebbene la terapia di
gruppo possa
essere molto utile, probabilmente non sarà la sede in
cui
racconterete tutti i particolari della vostra storia, poiché
può
rivelarsi un trigger per gli altri componenti. Negli
anni in cui ho
lavorato coi gruppi, creavamo un titolo per
l’evento (per esempio,
“quando è avvenuto lo stupro”)
mentre esaminavamo le
problematiche legate a esso, ma
non discutevamo i dettagli
dell’accaduto.
Il
lavoro di condividere la storia in genere inizia con un
terapeuta
qualificato… perché noi abbiamo le
competenze necessarie a
lasciarvi spazio e a tollerare le
sensazioni forti che emergono
senza
giudicare,
correggere o lasciar interferire la nostra esperienza
personale.
Se
invece volete fare questa conversazione con un
amico, un famigliare
o
un’altra persona cara, tenete a
mente che questa persona potrebbe
avere casini suoi.
Ascoltare i vostri potrebbe non essere
tollerabile, ed è
giusto così. Potrebbe credere di riuscirci, ma
poi rendersi
conto di essere turbata. Prima di cominciare, datele
facoltà di fermarvi in qualunque momento. Capita spesso
che i
pazienti raccontino la loro storia prima al terapeuta
e poi
chiedano
alla persona cara di partecipare a una
seduta in cui gliela
raccontano alla presenza dello
psicologo.

Ristrutturare
la vostra storia
Raccontare
la nostra storia in maniera coerente spesso
può aiutare a
comprendere le parti che non hanno senso,
o a vedere altre
prospettive. Potremmo scoprire che ci
sono più cose di quelle che
ci
siamo ripetuti nella testa.
Questo non rende meno orribili le
esperienze orribili,
però può aiutarci a trovare un senso e a
lavorare in
direzione del perdono.
Ricordate
tutti quei concetti scientifici sul fatto che
abbiamo una reazione
emotiva e poi creiamo una storia a
sostegno di quella risposta? Una
delle cose migliori che
potete fare per scardinare questo
meccanismo
è pensare a
come state pensando.
La
magia sta qui. Il cervello è in continuo
cambiamento… e noi
possiamo modellare quel processo.
È vero, il trauma modifica la
nostra struttura genetica ma
noi possiamo modificarla di nuovo. Le
esperienze della
vita rimodellano il nostro dna
istante dopo istante. Quello
che vi serve sapere è che non siamo
destinati alla
prigione delle esperienze passate.
Pensate alla storia che raccontate a voi stessi e agli
altri.
Riesaminate il racconto che avete condiviso
dell’esercizio
precedente. Quali aspetti potrebbero
mancare? Cos’altro bisogna
includere?
In che modo è una storia della vostra sopravvivenza?
Chi sono gli altri buoni? Le persone che si sono
occupate di voi e
vi hanno sostenuti? Che cos’hanno
fatto e
come l’hanno fatto?
Prendete in considerazione le cose che avete fatto e di
cui non
andate orgogliosi. In che modo sono state
le
decisioni migliori
che siete stati in grado di prendere
per
voi stessi all’epoca?
Che cosa avete imparato da
esse che potete
usare per andare
avanti?

Tornare
là fuori: ricostruzione
Ricostruzione
significa riconnettersi a noi stessi e al
mondo che ci sta intorno.
È
il modo in cui ci rimettiamo
in gioco, facciamo pace con il nostro
cervello e viviamo
una vita piena. Questa parte può essere
difficile, perché
spesso siamo spinti a farlo prima di essere
pronti… prima
di sentirci al sicuro. E chiaramente non funziona in
questo modo. Quando la “ricostruzione” è imposta dalla
volontà
di altri, diventa un’altra forma di trauma… perché
vi è stato
portato via il potere… di nuovo.
Lo
fate quando siete pronti. E sì, potreste dover
costringere voi
stessi, in una certa misura. Ma adesso
avete il radicamento e le
abilità di coping per ricordare
che siete al sicuro.
Ce
l’avete fatta.

Usate
la vostra storia per creare significato
Le
persone più sane sono quelle che trovano senso nel
caos. Quelle che
riescono sempre a scovare il diamante in
una montagna di
letame.
Le
cose orribili che succedono non vengono rese meno
orribili con
stronzate tipo: «Oh, è stata la volontà di Dio,
hai imparato una
lezione». Perché se Dio avesse voluto
insegnarmi qualcosa,
esistevano modi più semplici per
farlo, ne sono piuttosto
sicura.
Però
dalle cose orribili che succedono possiamo
apprendere abilità di
resilienza e forza. Possono renderci
esseri umani migliori, più
forti, più compassionevoli, più
impegnati.
Imparate dal passato
. Il vostro passato è la vostra
esperienza di apprendimento, non la strada
ben battuta
che il
cervello insiste a continuare percorrere.
Cosa
avete imparato che
volete portare avanti? Cosa avete
imparato
di voi stessi e della
vostra capacità di
sopravvivere e guarire?
Cosa potete lasciar
andare per
poter voltare pagina?
Imparate dal futuro
. Sapete dove volete andare, che
tipo di
persona volete essere. Chiedete a questa
persona cosa avete
bisogno di fare ora per arrivare a
quel
traguardo. Chiedetele di
condividere i segreti del
successo.
Usate entrambi nel presente
. Continuate a essere
consapevoli di cosa e come pensate. Cosa
portate con
voi dal
passato? Cosa dal futuro? Cosa avete da
offrire
agli altri come un
beneficio di ciò che avete vissuto?
Quale
empatia e supporto
siete in grado di
condividere? Come potete
aiutare altri a non
sentirsi
soli? Come potete agire per
indurre un cambiamento
nella
vostra comunità?

Trovate
il perdono
Il
perdono è una magia seria, profonda e potente.
Moltissimi pensano
che il perdono significhi perdonare
coloro che ci hanno fatto del
male. E in parte è vero. Ma
io ho scoperto che in realtà lavoriamo
per perdonare
NOI STESSI. Le
persone con cui siamo più arrabbiati e di
cui ci vergogniamo di più
siamo NOI STESSI. E ci siamo
portati dietro questo peso per anni.
È
di estrema importanza ricordare a noi stessi che
abbiamo fatto il
meglio che potevamo con le
informazioni e le competenze di cui
disponevamo in
quel momento. Ed è quasi altrettanto importante
ricordare che le persone che ci hanno fatto del male sono
anch’esse
ferite e incasinate.
Thích
Nhất Hạnh era un monaco zen vietnamita molto
famoso, l’uomo che
Martin Luther King definì «apostolo
di pace e nonviolenza» quando
lo candidò al Premio
Nobel per la Pace.
Era
anche un uomo che aveva avuto un padre abusante.
Ha raccontato di
essersi immaginato il padre come un
bambino di tre anni, prima che
il
mondo lo trasformasse
nell’uomo rabbioso che era diventato da
adulto. E ha
affermato di aver immaginato anche se stesso come un
bambino di tre anni davanti al padre. Lui bambino di tre
anni che
sorrideva al padre di tre anni, che ricambiava il
sorriso.
Non
l’ha definita una pratica di perdono, ma
indubbiamente lo è.
Ricordate quello che vi ho detto
sulla self-compassion? La
compassione è fondamentale
per il perdono. Prima verso noi stessi,
poi verso gli altri.

Costruire
relazioni con confini sicuri
Nessuno
si prefigge intenzionalmente di avere pessime
relazioni. Però
abbiamo l’abitudine di scegliere persone
che ci consentono di
riprodurre sempre lo stesso nastro.
Quando abbiamo padronanza della
nostra storia,
possiamo pensare a un modo di fermare il nastro e
tornare al comando del nostro cervello, e rimarremo
stupiti dalla
quantità di schifezze che abbiamo
sopportato.
Nel
corso di questo processo saremo in grado di
definire limiti chiari
e
di disincasinare anche le nostre
relazioni. Magari inizieremo a
escludere delle persone
dalla nostra vita, quando ci renderemo
conto
che non
tollerano la nostra nuova spina dorsale. Può essere una
cosa
molto difficile da elaborare. Assicuriamoci di avere il
sostegno di
persone più sane, in grado di appoggiarci
mentre lavoriamo sulla
ridefinizione di nuovi confini.
Se
i nostri confini sono stati violati in passato,
potremmo non sapere
come crearne di nuovi che non
siano né troppo rigidi né troppo
permeabili.
Cominciamo, allora, facendoci queste domande.
1. È una persona che mi sprona a essere migliore o è qui
perché
preferisco avere qualcuno anziché stare da
sola?
2. Stare da sola è lo stesso che sentirsi sola? Se non è
così,
come capisco la differenza e come gestisco
le
due situazioni in
modo diverso?
3. Comunico i miei confini in maniera efficace o mi
aspetto che gli
altri capiscano cosa voglio?
4. Quali sono i miei confini? Quali sono determinanti? Che
cosa è
negoziabile? Che cosa non rappresenta un
problema?
5. Questi confini sono cambiati nel corso del tempo?
Prevedo che
magari in futuro cambieranno?

OceanofPDF.com
5. OTTENERE AIUTO

Esistono
numerosi modi di prendere a calci nel
didietro il nostro cervello
per
dargli una raddrizzata. E
molti di essi saranno cose che fate da
soli.
Ma
certe volte le vostre forze non bastano. Se non
migliorate, o non
lo
fate rapidamente quanto vorreste,
potrebbe essere utile ottenere
l’aiuto di qualcuno che ha
le competenze, le risorse, la formazione
e una
prospettiva sulla vostra situazione che a voi mancano.
Il
mio scopo in questo capitolo è aiutarvi a prendere in
considerazione
modi diversi per tornare a stare bene.
Molte delle cose che ho
trovato utili non sono diffuse
nella pratica della medicina
occidentale, anche se ho
notato che le cose stanno cambiando, e in
fretta.
È
un argomento che mi sta molto a cuore, tanto che
una quindicina di
anni fa, quando riuscii a far dimettere
una paziente dall’ospedale
con la melatonina anziché
l’Ambien, credo di aver letteralmente
urlato per
l’entusiasmo. L’Ambien è un sedativo piuttosto forte,
in
genere prescritto per l’insonnia. Probabilmente avete
sentito
anche voi storie pazzesche di gente diventata
sonnambula con quel
farmaco. La melatonina, invece, è
un integratore da banco. Si
tratta
di un ormone che
produciamo naturalmente e serve a stabilizzare il
ritmo
circadiano. Molte persone che la usano hanno scoperto
che non
solo aiuta ad addormentarsi, ma anche a
mantenere il sonno: senza
la
ricetta, gli effetti collaterali e
il costo dell’Ambien. Era la
prima volta che vedevo un
cambiamento in ambito medico. Oggi sempre
più
specialisti occidentali (me inclusa) adottano cure
complementari
olistiche o le consigliano ai loro pazienti.
Ebbene
sì, sono una di quelle persone che adorano la
fuffa alternativa.
Quella che ha basi scientifiche, però. Tutto
quello che mi è
capitato di consigliare è supportato da
una marea di ricerche che
posso mostrare ai miei
pazienti e alle altre persone coinvolte. Ho
avuto
conversazioni straordinarie con diversi medici che ho
interpellato in merito alle terapie complementari e con
cui ho
condiviso le mie ricerche.
Nelle
pagine che seguono vi presenterò moltissima
medicina
complementare. Tuttavia, c’è un motivo per cui si
chiama così:
serve come aggiunta, non come rimpiazzo.
Ho una formazione (e la
qualifica) di psicoterapeuta. E
non consiglierei MAI
di smettere di assumere farmaci
prescritti che hanno aiutato la
gente
a restare viva.
Ma
credo anche nella moderazione… compresa la
moderazione della
moderazione! Perciò diamo
un’occhiata alle opzioni di cura
disponibili che
potrebbero avere benefici su questa faccenda del
cervello
che vi affligge.

Terapia
della parola tradizionale
Dunque,
eccoci qui. Questo è pane per i miei denti. Io
sono una terapeuta
della parola dalla testa ai piedi. La
psicoterapia ha fantastiche
capacità di guarire, accanto ad
altri trattamenti o talvolta da
sola. Un bravo terapeuta ha
il vantaggio della formazione e una
prospettiva che voi
non avete perché non sta vivendo l’esperienza
che state
vivendo voi, almeno non in questo momento. Può
fornire
punti di vista, coaching e interventi per
contribuire al vostro
percorso verso lo stare meglio.
Se
siete alla ricerca di un terapeuta, preferite qualcuno
che sia
abilitato. I life coach e altri professionisti
accreditati
del
genere possono fare un lavoro
straordinario, ma probabilmente non
hanno la
formazione e le risorse necessarie per aiutarvi a superare
il percorso emotivo più intenso come farebbe un
terapeuta. In
realtà, io collaboro con diverse figure di
questo tipo che chiedono
il mio supporto per essere
sicure di avere qualcuno a portata di
mano
se il lavoro
che svolgono con un paziente innesca una risposta al
trauma che non sono in grado di gestire.
Se
affrontate un trauma, cercate un terapeuta con una
formazione
specifica in questo campo e informatevi su
che genere di
preparazione
e quali qualifiche ha.
Dovreste trovare tutto sul suo sito web, e
non
vergognatevi di chiedere in caso contrario!
Se
sapete già che tipo di terapia preferite, come per
esempio quella
cognitivo-comportamentale, cercate
informazioni in quell’ambito. Se
per voi è importante un
certo background spirituale, cercate anche
quello!

Farmaci
allopatici
Allopatico
significa banalmente cure convenzionali.
Medicina occidentale. La
roba che conosciamo già. I
farmaci con la ricetta. Non c’è niente
che non va con le
cure allopatiche, i farmaci salvano la vita. Se
mi
rompo
un braccio, non voglio che qualcuno mi ci metta sopra
un
impacco di erbe, voglio che me lo sistemino e lo
ingessino.
Qual
è il problema, allora? Nel complesso, la nostra
società è sempre
più orientata a considerare i farmaci
come la prima (e unica) linea
di difesa nella gestione di
disturbi legati alla salute mentale,
anziché concentrarsi
sulle cause che ne sono all’origine. Siete
ansiosi e
depressi? Abbiamo il farmaco giusto. E anziché usarlo
per
aiutare ad alleviare i sintomi mentre si lavora sulle
cause
profonde,
si trasforma in una routine di continui
aggiustamenti farmacologici
e
poco altro.
Questo
porta a sovramedicazione, effetti collaterali, e
altri farmaci per
contrastarli. Vediamo sempre più casi di
persone che assumono
farmaci fino a intossicarsi.
Non
sempre i farmaci funzionano bene come chi li
produce vuol farci
credere. La maggior parte delle
persone dopo un po’ smette di
prenderli proprio per
questo motivo. Uno studio a lungo termine,
confermato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha
dimostrato
che nei Paesi in via di sviluppo, dove gli antipsicotici
non
sono nemmeno disponibili, i tassi di guarigione sono
stati PIÙ
ELEVATI
. Perché se i farmaci non c’erano, non
potevano essere la via privilegiata di cura. Quindi
venivano
trattate
le cause, e al posto delle pillole
venivano offerti significato e
senso di appartenenza alla
comunità. E le persone si sentivano
meglio.
La
medicina allopatica non dev’essere – e spesso non
dovrebbe
proprio essere – l’unica cura. Anche se in certi
casi aiuta a
stare meglio più in fretta. Il mio amico Aaron
è un medico (sì, un
dottore VERO
che può prescrivere
farmaci, non come me che mi limito a
blaterarne)
usa
questa analogia:
Immaginate di essere su una
barca in mezzo
all’oceano e che ci sia una falla. Potreste essere
in grado
di mettere in azione una pompa per aspirare abbastanza
acqua
da consentirvi di tornare a terra. Potreste riuscire
a riparare la
falla immergendo le mani nell’acqua. Ma
probabilmente otterreste un
risultato molto migliore
usando la pompa per ridurre la quantità
d’acqua e poter
arrivare più agevolmente alla falla. Il farmaco è
la
pompa che vi terrà a galla mentre voi e il vostro
terapeuta
riparate la falla insieme.
Proprio
così: i farmaci talvolta aiutano. Ma come? Se
sappiamo che una
reazione al trauma modifica la
chimica cerebrale, quali sono i
farmaci che aiutano a
rimetterla a posto? Per usare sfacciatamente
un’altra
analogia del dottor Aaron:
Immaginate di essere in una
base dell’aeronautica
militare. È tutto a posto quando
all’improvviso si
spengono le luci e il radar ammutolisce.
Ovviamente
non penserete che siccome fino a un attimo prima
andava
tutto bene, le cose stiano ancora così. Penserete
a un attacco.
Quando si ha un disturbo dell’umore, è
come trovarsi in quella
situazione. Dobbiamo
ripristinare le comunicazioni in modo che il
rilevatore
di minacce, che presumiamo stia facendo il suo lavoro,
riprenda a dialogare con l’unità di risposta alla
minaccia.
Il
farmaco deve essere uno strumento, qualcosa che
può salvarci la
vita, NON
l’unica cura. E non dovrebbe
mai essere un meccanismo per
controllare le persone
anziché i sintomi, cosa che
invece succede sempre più
spesso.
È
anche vero che si tende a guardare gli psicofarmaci
con sospetto e
uno degli effetti collaterali di tale trend è
che AUMENTA
anche lo stigma e la vergogna che
circondano i disturbi di questo
tipo.
È
importante ricordare che più facciamo per sostenere
la capacità del
corpo ad adattarsi e guarire da solo,
meglio è. I farmaci possono
essere parte integrante di
questo percorso, anche se di rado sono
gli
unici
strumenti che utilizziamo.

Medicine
naturopatiche
Lo
so, lo so: «Tieni, mastica questa corteccia» sembra
un’ottima
sintesi.
Parte
della cattiva stampa di cui godono gli integratori
alimentari è
dovuta al fatto che molti di quelli presenti
sul mercato non
valgono
una cicca. Nel 2015 il
procuratore generale di New York ha testato
una serie di
integratori e ha mandato una raffica di lettere di
diffida
alle aziende produttrici sulla base del fatto che molti di
quelli esaminati non contenevano alcun ingrediente
attivo. E
l’Università di Guelph, in Canada, ha studiato
degli integratori e
ha scoperto diversi ingredienti non
dichiarati in etichetta, molti
dei quali in grado di
provocare reazioni allergiche a chi li
assume.
Oppure
sono versioni sintetiche del prodotto anziché estratti di
erbe o di alimenti integrali. E le molecole sintetiche in
genere
hanno molti più effetti collaterali perché il corpo
umano ha
difficoltà a riconoscerle come nutrienti.
Perciò,
sì, le indagini sull’efficacia di determinati
integratori a base
di erbe o alimenti sono legittime. Per
non parlare del fatto che ci
sentiamo stupidi e/o truffati
quando non funzionano. Anch’io anni
fa sono stata
vittima di un caso del genere, una volta che ho
acquistato
della kava a buon mercato, che mi ha resa irritabile e
non
poco schizzata. Ho avuto paura di riprovarla, finché non
ho
imparato
come trovare e usare prodotti di qualità. Ero
così brava a
informarmi sui farmaci, ma chissà come non
mi era venuto in mente
che avrei dovuto fare lo stesso
con gli integratori!
Adesso
sono una fan sfegatata dei supplementi a base
di alimenti integrali
ed erbe. È una cosa di cui vale la
pena parlare con il vostro
medico. Ormai diversi medici
occidentali stanno aprendosi a questo
tipo di trattamenti,
ed esistono anche molti praticanti olistici
seri.
Quando
si tratta di gestire stress, ansia, depressione e
altri sintomi
legati al trauma, vi sono alcune formule
usate con successo da
secoli. La kava cui accennavo sopra
ne è un buon esempio, come
anche
l’erba di san
Giovanni… e magari altre che avete visto
pubblicizzate. In
genere i miei consigli variano da paziente a
paziente, a
seconda della presentazione e della reazione traumatica
individuali, ma qui ci vorrebbe un libro intero.
Vale
davvero la pena rivolgersi a un erborista, a un
esperto di medicina
cinese o a un nutrizionista clinico
prima di comprare prodotti a
casaccio. Non occorre
acquistare pacchetti di lusso per beneficiare
delle cure
naturopatiche.

Altre
terapie complementari
Le
terapie complementari non sono pensate per
diagnosticare o curare i
disturbi. Sono concepite per
sostenere la capacità naturale del
corpo di guarire. Sposo
in pieno l’approccio che prevede di fornire
al corpo e alla
mente ciò di cui hanno bisogno per curarsi da soli
tutte le
volte che è possibile. Molti trattamenti sono supportati
da
miriadi di ricerche che ne dimostrano l’efficacia. E molti
possono
essere usati o da soli o in combinazione con le
pratiche
occidentali.
Di seguito vi presento alcuni dei più
diffusi e supportati da studi
scientifici.
Digitopressione/agopuntura
Digitopressione
e agopuntura si basano sugli stessi
princìpi, ma l’agopuntura
prevede di infilare aghi nella
pelle mentre con la digitopressione
si
premono
particolari punti del corpo.
Comunque,
nell’uno e nell’altro caso, funziona
stimolando certi punti del
corpo per favorire la
guarigione e/o ridurre il dolore. Ormai
sappiamo che le
reazioni traumatiche sono la risposta di tutto il
corpo alle
canagliate che il sistema limbico cerca di farci,
giusto?
Ecco, gran parte di quella reazione viene comunicata
tramite il
nervo
vago, che è una parte fondamentale del
sistema nervoso
parasimpatico. La cosa più interessante
però è che più cose
impariamo sul nervo vago, più
scopriamo corrispondenze con le mappe
dell’agopuntura
vecchie di cinquemila anni. Quindi quella roba
bizzarra
degli aghi qualche senso ce l’ha, dopotutto!
Se
siete interessati a una combinazione di
digitopressione e terapia
della parola, esistono forme
utilizzate da alcuni terapeuti: la più
diffusa è l’Emotional
Freedom Technique (
eft),
che unisce digitopressione e
strategie di self-talk. L’
eft
potete farla da soli con la
guida di un esperto, utilizzando gli
stessi punti di
attivazione usati dall’agopunturista (se vi danno
fastidio
le persone che vi toccano, lo apprezzerete sicuramente).
Il
self-talk aiuta a inserire in un nuovo quadro le storie
che il
cervello vi racconta, creandone allo stesso tempo di
nuove.
Esistono
moltissimi video gratuiti che illustrano il
processo di base, anche
se un terapeuta vi aiuterà a
modificarli per lavorare sulla vostra
situazione specifica.
Massaggio
Sapete
tutti cos’è il massaggio, non c’è bisogno che ve
lo spieghi. Ma
le persone rimangono stupite quando lo
consiglio per guarire
problemi
emotivi e non solo il
dolore fisico. Innanzitutto, il dolore fisico
può essere un
sintomo di un disagio psicologico. Ma anche se non
fosse
così, il massaggio può essere un modo sicuro per
imparare a
rilassarsi e a sentirsi a proprio agio
fisicamente. Il massaggio
funziona come un reset del
sistema nervoso. Dopo un trauma capita
spessissimo di
sentirsi scollegati dal proprio corpo. Mi rendo
anche
conto che per alcuni tipi di trauma il massaggio può
rappresentare
un trigger molto potente. Non
costringetevi a uscire dalla vostra
zona di comfort, nel
modo più assoluto. Alcune persone sono più a
loro agio
con la pedicure e un massaggio ai piedi. Altri
preferiscono
un bagno caldo o un idromassaggio
piuttosto che farsi mettere le
mani
addosso da qualcuno.
Qualsiasi cosa possa aiutarvi a riconnettervi
con il vostro
corpo facendovi sentire contemporaneamente al sicuro
può davvero contribuire a disincasinarvi molto più
velocemente.
Trattamento chiropratico
Cosa?
Manipolazioni della colonna vertebrale per
problemi di salute
mentale? Non è per chi ha mal di
schiena? Vale ancora quello che ho
detto sopra, che un
dolore fisico può essere la spia di un
malessere
psicologico. La chiropratica è un trattamento olistico
basato
sull’idea che un’azione mirata alla colonna
vertebrale migliori
la funzionalità del sistema nervoso.
Supporto per il dolore e il
sistema nervoso? Entrambe
componenti di enorme peso della reazione
traumatica
per molte persone. E certe volte questi sintomi fisici
sono
molto peggio di quelli emotivi.
Numerosi
chiropratici (come pure i massaggiatori e gli
agopunturisti)
offrono
inoltre anche assistenza
nutrizionale.
Guarigione energetica
(riflessologia, reiki)
La
guarigione energetica è una di quelle cose che per
anni sono
sembrate super strampalate perfino a me. Poi
mi sono informata e
l’ho
provata e… WOW
.
Si basa
sull’idea che i nostri corpi operano su tutte quelle
frequenze che possiamo sfruttare per favorire la
guarigione.
Bizzarro? Non poi così tanto. Uno studio ha
mostrato che la
guarigione energetica è efficace come
terapia fisica. L’Università
della California adesso ha un
intero LABORATORIO
che studia l’attività elettrica del
corpo. Mica male, no?
La
riflessologia consiste nell’applicare pressione alle
zone delle
orecchie, delle mani e dei piedi con l’idea che
queste aree siano
collegate ad altri punti del corpo (e la
teoria polivagale lo
dimostra). Il reiki (un termine
giapponese che sta per energia
vitale guidata) consiste
nell’incanalare l’energia allo scopo
di attivare il processo
di autoguarigione del corpo e può essere
fatto sia
dall’insegnante che per conto proprio. Queste forme di
guarigione energetica (fra le altre) ci aiutano a
individuare i
punti
bloccati del corpo dove tratteniamo il
trauma, in modo da poterlo
lasciar andare.
Anche
la digitopressione è considerata una forma di
guarigione energetica
oltre che di agopuntura.
Biofeedback/neurofeedback/trattamento
alpha-stim
Il
biofeedback è il monitoraggio elettronico di tutte le
funzioni
corporee che insegna a controllare reazioni
automatiche. Il
neurofeedback si concentra in particolare
sui segnali del cervello
con lo stesso obiettivo di aiutare
gli individui a gestire le
risposte di quest’organo.
Abbiamo molto più controllo sul corpo e
sul cervello di
quanto crediamo, e sia il biofeedback che il
neurofeedback possono essere di grande aiuto
nell’incrementare o
addirittura velocizzare il
disincasinamento offrendoci un feedback
immediato
quando mente e corpo iniziano a entrare in modalità
Combatti, Fuggi, Bloccati. In sostanza, giocate a un
videogame
nella
vostra testa. Potreste pensare a Tron, ma
in realtà vi viene
data una roba più simile a Pac-Man, che
potete completare
solo quando mantenete le onde
cerebrali nella zona ottimale per il
vostro benessere. Un
esempio? Mio figlio ha usato il neurofeedback
per
lavorare sull’autocontrollo e la gestione degli impulsi. Nel
suo gioco erano stati impostati parametri che lo
aiutavano a
concentrarsi su quella parte del cervello.
Quando vinceva la
partita,
sentiva proprio la pressione
del sangue che affluiva in quella
parte
della corteccia
prefrontale. E abbiamo perfino notato cambiamenti
nella
scrittura dopo solo un paio di sedute!
In
questa sezione è incluso anche il trattamento Alpha-
Stim perché,
sebbene sia passivo, obbedisce agli stessi
princìpi. È pensato per
aumentare le onde cerebrali alfa
(che sono la grandiosa
combinazione
di calma e allerta
che tutti agogniamo). Funziona come il
neurofeedback,
eccetto che il dispositivo fa il lavoro per voi
anziché
richiedervi di allenare quello stato cerebrale. Aiuta nei
disturbi del sonno, ansia e una serie di altre condizioni.
Io lo
uso
nel mio lavoro, soprattutto quando i pazienti
lavorano su una
narrativa del trauma centrale che però
lascia degli strascichi da
“lavoro terapeutico tosto”.
Aggiustamenti
nutrizionali
Quando
siamo stressati lo zucchero non ci basta mai. Il
cervello ha
bisogno
di glucosio per mantenere la forza di
volontà e l’energia…
motivo per cui è così difficile stare a
dieta: vi manca il glucosio
che vi serve per la forza di
volontà. Tipicamente, più stressati e
indaffarati siamo,
peggio mangiamo. Quindi è il solito c***o di
circolo
vizioso capace di tirarvi scemi.
Sono
consapevole del fatto che si combattono
numerose guerre
nutrizionali.
Capire qual è la cosa
migliore per noi può rivelarsi una faticaccia
improba.
Paleo? Vegano? Senza glutine? COSA
C***O DOVREI
MANGIARE
? Risposta breve: il nostro corpo
funziona al
meglio quando ce ne prendiamo cura, mangiando i cibi
integrali e sani di cui gli esseri umani si sono nutriti per
secoli.
E qualunque dieta vi renderà più consapevoli di
quello che vi
mettete in bocca, poco ma sicuro. Quindi
non faccio la talebana su
quello che dovreste mangiare.
Nella
mia pratica io mi occupo anche di lavoro
nutrizionale e mi sono
capitati molti casi di persone che
avevano bisogno di apportare
modifiche alla dieta e
introdurre integratori. Dopo una/due sedute
non li ho
più visti perché tutto ciò di cui avevano bisogno erano
alcune valutazioni e consigli essenziali per orientarsi nel
sovraccarico di informazioni disponibili.
Il
legame alimentazione-benessere psichico
richiederebbe un libro a
parte, ma qui vi presento alcuni
princìpi base che possono
rivelarsi
preziosi senza
scendere troppo in dettagli da fissati.
1. Se mangiamo sano circa l’ottantacinque per
cento
delle volte e
ci concediamo di sgarrare per il restante
quindici per cento
possiamo mantenere un buon
funzionamento.
2. Evitate il più possibile i cibi
industriali. Lo sapete
qual è la
cosa più importante da ricordare delle
etichette alimentari?
Cercare di evitare i cibi che ce le
hanno.
Più un alimento è
raffinato e lavorato
industrialmente, più è
probabile che il
vostro corpo
non lo riconoscerà.
3. Molte persone intolleranti ai latticini
riescono a bere
il latte
crudo: io per esempio riesco, mio figlio
no. Ma
potrebbe valer la
pena provare.
4. I dolcificanti artificiali sono spazzatura.
Aspartame,
saccarina,
sucralosio, quelli venduti in belle
confezioni colorate? Ridurre
le calorie non vi servirà
a niente sul
lungo periodo. Una buona
opzione è un
dolcificante naturale come la
stevia.
5. Se avete il sospetto che qualcosa vi faccia
star male,
provate a
eliminarlo per ventuno giorni. Vedete
come
vi sentite. Passato
quel periodo,
reintroducetelo. Notate una
differenza? Sarà il
vostro
corpo a dirvi quello di cui avete
bisogno.
Sostegno tra pari
Vi
è un esteso corpo di ricerche che dimostrano che il
supporto tra
pari ha un ruolo cruciale nel benessere e nel
processo di recupero
di
molte persone. Ha senso.
Qualcuno con esperienze di vita simili
alle
nostre
possiede un livello di empatia, comprensione e
compassione
che
altri non hanno. Esistono professionisti
della cura straordinari,
ma
spesso entriamo in
connessione con le persone che hanno fatto il
nostro
stesso percorso.
Vengono
indicati con nomi diversi, quali coach per il
recupero o sponsor.
Esistono anche professionisti clinici
che scelgono di condividere
loro esperienze di vita con i
pazienti come parte della
pratica.
Se
è disponibile questo tipo di sostegno, provate.
Parlare con una
persona che è stata nello stesso abisso in
cui vi trovate spesso è
la strategia migliore per cercare un
modo di uscirne, non lo
pensate
anche voi?
Sostegno naturale
Sono
le persone che vi vogliono bene. Famigliari,
amici, insegnanti,
colleghi di lavoro e così via che vanno
oltre il loro ruolo per
aiutarvi a stare meglio. Avere
persone che vi vogliono bene e basta
è
importantissimo
nel percorso di recupero. Usatele! Se si offrono di
aiutarvi, permetteteglielo! Ci vuole molto più coraggio ad
accettare
aiuto che a respingerlo. Siate così coraggiosi da
consentire agli
altri di starvi vicini.

SCEGLIERE LA PERSONA GIUSTA


In questo capitolo abbiamo parlato di un’ampia
gamma di opzioni di
cura, non solo della decisione se prendere la
pillola rossa o quella azzurra.
Oltre a queste, è importante anche scegliere la persona giusta cui
rivolgersi.
Non esiste una soluzione magica, eccetto
chiedere consiglio e feedback
a persone che conoscete, fare domande
allo specialista riguardo alla sua
pratica, e trovare qualcun altro
se non vi convince o non vi sembra
rispondere ai vostri
bisogni.
Verificate se ha una pagina web. Vi sentite
attratti da questa persona e
dal suo stile? Siete a vostro agio
all’idea di incontrarla? Ha una visione
della guarigione che
corrisponde alla vostra?
Stendete un elenco delle cose importanti che
cercate in un
professionista della cura, e dei vostri obiettivi. Se
il lavoro che state
facendo non soddisfa l’elenco, cambiate
persona.
È cruciale tenere a mente che il trattamento non equivale a pagare per
avere un amico. Il trattamento
funziona quando mira ad aiutarvi a
elaborare ciò che vi è successo,
a guarire e a voltare pagina. Se il tempo
che passate con questa
persona è speso a rimuginare e rigurgitare anziché
ottenere nuove
prospettive, vi sta facendo più male che bene. Trovare un
professionista con cui vi piace lavorare perché vi sostiene e vi
guida verso
la guarigione è di vitale importanza. Se è un buon
professionista, non ci
rimarrà male nel caso decidiate che fareste
un lavoro migliore con
qualcun altro. Anzi, dovrebbe sapervi
consigliare e darvi qualche
referenza di persone con cui pensa
possiate andare d’accordo. Lo scopo
della terapia è sentirsi
meglio, non lavorare con una persona piuttosto che
con
un’altra.
Dovete scegliere quello che è meglio per voi e
per la vostra vita. Non
avete alcun dovere nei confronti del vostro
terapeuta, se non pagarlo per i
servizi che vi offre.

OceanofPDF.com
PARTE SECONDA - ECCO A VOI IL
CERVELLO DI FRONTE ALLA VITA

Tutti
noi abbiamo la maledizione di vivere in tempi
frenetici. Anche
quando
le cose vanno più o meno lisce e
la nostra vita è tutto sommato
positiva, quest’epoca non è
strutturata sulla calma, l’inattività,
il tempo e lo spazio
per pensare e rilassarsi. Ricordate quando le
vacanze
erano l’occasione per divertirsi e vivere delle avventure?
Oggi è un momento per andare da qualche parte e
starsene tranquilli
senza dover pensare o fare niente.
Molte delle persone con cui
lavoro
hanno bisogno
soltanto di più tempo per rilassarsi. Non sono pazzi,
sono
solo esausti, per la miseria.
E
lo sfinimento è una cosa reale. Ci sono un sacco di
malanni fisici,
come la fibromialgia, che potrebbero
essere spiegati meglio come
spossatezza surrenale. Forse
ci stiamo addentrando un po’ nel
territorio della fuffa,
ma acquista un casino di senso quando
pensiamo a
quello che succede nel corpo quando dobbiamo reagire
allo
stress. Le ghiandole surrenali secernono gli ormoni
che ci aiutano
a
reagire allo stress acuto. Se questi ormoni
sono secreti di
continuo
perché siamo sottoposti a stress
cronico, ha senso che la
produzione ormonale inizi a
diminuire. Laddove l’insufficienza
surrenalica
conclamata è rilevabile nel sangue, deficit di portata
minore non sono individuabili.
Ma
potrebbero manifestarsi in altri modi quali
stanchezza, dolori
fisici, scolorimento della pelle, perdita
dei capelli, giramenti di
testa causati dalla pressione bassa
e così via.
Quindi
sì, è piuttosto probabile, c***o, che una quantità
di malesseri
come disturbi dell’umore, ansia, rabbia e
dipendenze abbiano tutti
un legame con il logorio
provocato da una continua reazione fisica
da
stress
(indotta dal trauma o meno).
Mmh,
come? Collega la bocca al cervello, signorina. Hai
appena sostenuto
che gli ormoni dello stress sono secreti dalle
ghiandole surrenali.
Quindi che cazzo c’entra questo con il
cervello?
Domanda
eccellente, intelligentone! È vero che lo
sporco lavoro lo fanno le
ghiandole surrenali… ma loro (e
tutte le altre) non secernono
alcunché finché l’ipofisi (nel
cervello) non ordina loro di
farlo. Le ghiandole surrenali
(fra le altre) possono fare la parte
del cattivo, ma il
controllo ce l’ha ipofisi. Possono eseguire il
pestaggio ma
non danno l’ordine di farlo.
E
da chi prende ordini l’ipofisi? Bum! Rieccoci tornati
alla
casella di partenza.
Il
cervello (nello specifico, l’ipotalamo) è il boss, il capo
allenatore. Il capo allenatore si coordina con il
quarterback
(l’ipofisi), che poi dice al resto della squadra
(il corpo) come
deve giocare. L’ipotalamo e l’ipofisi
controllano il sistema
ormonale E quello nervoso
mediante
un dialogo costante.
Qual
è la risposta magica, quindi? Vorrei tanto essere la
tipa cazzuta
in
grado di darvela. Ma come sapete bene, la
vera risposta magica
sarebbe meno stress. E questa
sarebbe una risposta assolutamente da
idiota… perché
non è nemmeno lontanamente possibile di questi
tempi,
giusto? Dobbiamo concentrarci invece su strategie
migliori
per
gestire lo stress in modo da riuscire a fare
quel che dobbiamo
senza
dare fuori di testa e
distruggerci fisicamente.
Questa
metà del libro è la parte della nostra missione
(se si sceglie di
accettarla) in cui iniziamo a esplorare i
modi specifici in cui il
corpo e la mente esprimono lo
stress. L’incasinamento spettacolare,
se volete. Venitemi
dietro mentre vi faccio lo spiegone: giuro che
molte delle
cose che state pensando, provando e facendo
acquisteranno
una quantità smodata di senso.
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6. ANSIA

Non
adorate anche voi le definizioni del vocabolario?
L’ansia è… la
condizione di essere ansioso.
Beh,
c’è poco da scherzare.
La
cosa interessante è che la parola “ansia” (e la sua
definizione,
“essere ansioso”) non è moderna, nemmeno
un po’. In realtà,
il termine “ansioso” veniva usato più
all’inizio del XIX
secolo rispetto all’inizio del XXI.
Sapete
cosa significa? Che l’ansia è una classica
condizione umana con
cui combattiamo da secoli. La vita
moderna è stressante, nulla da
dire. Ma non è la fonte
dell’ansia umana. L’umanità di per sé
è un’esperienza che
genera ansia in un mucchio di gente.
Com’è
tipico dei nerd, ho cercato la radice della parola
“ansia”. Viene
dal latino anxia, che a sua volta deriva dal
verbo angere,
che vuol dire “stringere, soffocare”. Porca
vacca, ci avevano
visto giusto.
L’ansia
copre un territorio molto vasto: può essere un
disagio minimo, uno
stress di livello medio, il panico
totale. E come gli antichi
Romani
sapevano bene, è
un’esperienza largamente somatica. Ossia, è una
cosa che
provate fisicamente almeno tanto quanto mentalmente.
Ed
è sempre una sensazione di estremo disagio. Il
vostro corpo lo fa
apposta a farvi sentire in quel modo,
per spingervi a occuparvi del
problema. C’è anche un
parolone per dirlo: disequilibrio.
Quindi,
ecco la nostra definizione operativa: l’ansia è
uno stato di
totale disequilibrio corporeo di un’intensità
tale da esigere
attenzione e azioni correttive immediate
da parte vostra. Può
scatenarsi davanti a una minaccia
reale o percepita, sia attuale
che
prevista.
Ecco
perché è così difficile da ignorare. Lo scopo per
cui il corpo
genera quella sensazione è esigere la vostra
piena attenzione come
farebbe un bimbetto nudo che
corre per strada sotto una tempesta di
neve con una
manciata di orsetti gommosi in una mano e un machete
insanguinato nell’altra.
Di
sicuro non è qualcosa che è possibile liquidare con
un’alzata di
spalle, non vi pare?
L’ansia
esige fino all’ultima briciola di attenzione che
abbiamo,
indipendentemente dal fatto che non sia
proprio il momento giusto o
che l’ansia in sé sia fuori
luogo. Quindi capite come è legata
alle reazioni
traumatiche, giusto? Se abbiamo il genere di storia
che
ci
dice di stare continuamente in guardia, è facilissimo che
l’ansia
sia la nostra condizione di default.

Sintomi
dell’ansia
Sintomi riguardanti pensieri
e sentimenti
Eccessiva preoccupazione
Ruminazione (pensieri in modalità ruota da
criceto)
Irritabilità/rabbia (Strano, eh? La rabbia
è
un’emozione
culturalmente accettata quindi la
usiamo
come sostituto di molte
delle cose che
proviamo davvero. Date
un’occhiata al capitolo
sulla
rabbia!)
Paure irrazionali/fobie specifiche
Paura del palcoscenico/fobie sociali
Iperconsapevolezza di sé
Sentimenti di paura
Sensazione di impotenza
Flashback
Comportamenti ossessivi, pignoleria,
perfezionismo
Comportamenti compulsivi
Insicurezza
Sensazione di “perdere la testa” o
“impazzire”
Sintomi fisici
Difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno
Irrequietezza
Tensione muscolare
Tensione al collo
Dispepsia cronica
Dolore allo stomaco e/o nausea
Battito accelerato
Sentir pulsare il sangue nelle orecchie
Intorpidimento o formicolio alle dita dei piedi, ai piedi,
alle
dita delle mani e alle mani
Sudorazione
Debolezza
Mancanza di fiato
Vertigini
Dolore al petto
Sensazione di caldo e freddo (sensazione di brividi e
febbre senza
innalzamento della temperatura
corporea)
Dolori lancinanti/sensazione di aver subìto un
elettroshock

Ovviamente ci sono tonnellate di altri sintomi. Questi


sono i più
comuni e una lista esaustiva delle cose che
potreste provare
durante
un attacco d’ansia
richiederebbe un intero opuscolo. Potete trovare
una
serie di elenchi dettagliati su Internet, compresi quelli
che
suddividono tutte le diverse categorie di sintomi
d’ansia.
Anche
molte altre cose che facciamo sono strategie
adattive di gestione
dell’ansia. Il disturbo ossessivo-
compulsivo è una reazione
d’ansia da cima a fondo, così
come è alla base di molti
comportamenti autolesionistici.
Numerose diagnosi psichiatriche
hanno
origine da un
nucleo ristretto di problemi fondamentali, e l’ansia
è
assolutamente uno di questi.
Ma
torniamo a noi: i sintomi dell’ansia. Il nostro corpo
fa tutta una
serie di cose odiose per attirare la nostra
attenzione e spingerci
a
cambiare rotta.
Vi
è suonato qualche campanello? Probabilmente non
stareste neanche
leggendo queste parole se la risposta
fosse stata fin dall’inizio:
«Naa, io sto sempre una
meraviglia».

AVVERTENZA
Sono sicura che leggendo l’elenco avete
pensato: vale per tutto,
dall’ansia all’Ebola. Che è proprio il
motivo per cui un sacco di gente
finisce al pronto soccorso
convinta di avere un infarto mentre invece è un
attacco d’ansia. È
ANCHE la ragione per cui molti non hanno capito che
stavano avendo
un infarto perché credevano si trattasse di un attacco
d’ansia.
Nella formazione di pronto soccorso psichiatrico suggeriamo che
nel
caso di una persona che manifesta sintomi di un attacco d’ansia,
occorre chiederle se è consapevole di quello che sta succedendo e
se è già
capitato in passato. Se la risposta è “no”, allora bisogna
trattarla come la
potenziale situazione d’emergenza medica che
potrebbe essere e
chiamare il 118.

Soffro
davvero d’ansia o semplicemente a volte sono
ansioso?
Fate
delle domande fantastiche! Come nel caso di ogni
altro problema di
salute mentale, la risposta sta nel capire
se l’ansia controlla la
vostra vita anziché essere un modo
legittimo con cui il corpo vi
dice di alzare il culo e fare
qualcosa.
Dal
punto di vista clinico, se dite che è un problema,
concorderò. Chi
vi conosce meglio di voi?
Certe
persone desiderano un modo più formale di
valutare se stessi. Ci
sono in circolazione diverse scale di
valutazione dell’ansia. Negli
Stati Uniti una di quelle più
diffuse si chiama oasis
(Overall Anxiety Severity and
Impairment Scale, che misura la
gravità
dell’ansia e il
livello di compromissione che essa provoca): è
stata
messa a punto dal National Institute of Health ed è ben
supportata dalle ricerche.
Non
troverete una soglia magica (del tipo, sotto siete a
posto, sopra
siete ansiosi a mille). Ma può essere un buon
punto di partenza per
aprire un dialogo con un terapeuta
o solo riflettere sulle vostre
esperienze.
Il
questionario oasis vi
chiede di riflettere sulle vostre
esperienze della settimana
precedente e di valutarle su
una scala da 0 a 4, in cui 0 equivale
a
“nessun problema”,
1 a “episodi rari”, 2 a “episodi
occasionali”, 3 “piuttosto
frequenti” e 4 “sempre presenti,
grazie per avermelo
ricordato, c***o”.
È
vero, sto interpretando un po’, ma ormai lo sapete,
giusto?
Comunque, ecco quali sono le domande.
La settimana scorsa, quanto spesso vi siete sentiti
ansiosi?
La settimana scorsa, quando vi siete sentiti ansiosi,
quanto
intensa o grave era la vostra ansia?
La settimana scorsa, quanto spesso avete evitato
situazioni,
luoghi, oggetti o attività a causa
dell’ansia o
della paura?
La settimana scorsa, in che misura l’ansia ha interferito
con la
vostra capacità di fare le cose che
dovevate fare
al lavoro, a
scuola o a casa?
La settimana scorsa, in che misura l’ansia ha interferito
con la
vostra vita sociale e relazionale?

State
vivendo un momento del tipo: “Porca vacca, sono
io!”? Non siete i
soli. Negli Stati Uniti, studi approfonditi
hanno dimostrato che in
un dato anno circa quaranta
milioni di americani adulti dai
diciotto
anni in su (il 18,1
per cento della popolazione) soddisfano i
criteri
di un
disturbo d’ansia e il settantacinque per cento degli
individui con un disturbo d’ansia hanno avuto l’episodio
d’esordio prima dei ventun anni.

L’ansia
somiglia davvero molto allo stress
Proprio
così. E spesso l’ansia nasce dallo stress cronico.
La grande
differenza? Lo stress ha trigger esterni. Lo so,
lo so, anche
l’ansia, ma seguitemi.
Lo
stress può provocare ansia, ma anche una marea di
altre reazioni
emotive (la depressione è probabilmente la
più grave). L’ansia è
una risposta interna ai fattori di
stress.
Pensateci
come a un diagramma di flusso:
stress →
ansia
O
qualunque altro stato emotivo spiacevole. Succede
tutto così in
fretta che nel vostro cervello finisce per
confondersi. Ma in
realtà
fra le due cose c’è un rapporto
di causa ed effetto.
Se
vi interessa saperne di più al riguardo un buon libro
è Perché
alle zebre non viene l’ulcera? di Robert Sapolsky.

Ma
allora da dove viene questa c***o di ansia?
Parlando
in generale, il corpo umano fa di tutto per
mantenere una
condizione
di equilibrio. E allora perché
vi manda fuori di testa con questa
cosa dell’ansia? È
sensato come sbattere allegramente la testa
contro il
muro, no?
Di
nuovo, tutto si riconduce al modo in cui è
configurato il cervello.
Non potete dirmi che non sono
sul pezzo.
Versione
breve: siamo strutturati per avere reazioni
fisiche forti perché
tali reazioni ci mantengono in vita.
Sentirsi ansiosi è uno
strumento di sopravvivenza di
fondamentale importanza.
Versione
lunga: se qualcosa scatena una reazione
ansiosa, il vostro corpo
viene inondato di norepinefrina e
cortisolo. I quali fanno le cose
che vi descrivo di seguito.
Norepinefrina:
è rilasciata tramite il sistema nervoso
centrale allo scopo di
preparare il corpo (incluso il
cervello) all’azione. Aumenta la
concentrazione e
l’attenzione come pure la circolazione sanguigna,
la
pressione e le pulsazioni cardiache.
Il
cortisolo è il classico ormone dello stress.
Aumenta la
concentrazione di zuccheri nel sangue e inibisce il
sistema
immunitario. Molte persone che soffrono di
stress cronico prendono
peso, in particolare “grasso
addominale”, a causa della continua
produzione di
cortisolo. La cosa importante da sapere qui è che
quando
il cortisolo viene rilasciato insieme alla sua complice, la
norepinefrina, crea forti associazioni nella memoria con
determinati
stati d’animo, per produrre segnali di
avvertimento riguardo a ciò
che dovete evitare in futuro.
La
cosa interessante dell’ansia come risposta allo stress

l’aspetto positivo, diciamo – è che significa che il corpo
sta
ancora reagendo. Questo è radicalmente diverso dalla
depressione,
che è in sostanza una risposta strutturata di
impotenza appresa
(sempre Robert Sapolsky).
I
sintomi dell’ansia sono strategie di coping attive di
fronte al
pericolo. Il problema sorge solo quando il
cervello decide che
quasi
tutto e quasi qualunque posto
rappresenta una minaccia. E, bum:
è proprio qui che
abbiamo la reazione traumatica.
Anche
dopo aver capito quali sono i fattori scatenanti,
l’ansia non è
qualcosa che potete superare con uno sforzo
di volontà, a causa
dell’entrata in campo del micidiale
duo chimico. Di conseguenza,
nel momento esatto in cui
venite presi dall’ansia o da un vero e
proprio attacco di
panico, dovete fare qualcosa per metabolizzare
queste
due sostanze chimiche. Quando arriva l’ansia, dovete
prenderla di petto.
E
uno qualunque degli esercizi che trovate alla fine di
questo
capitolo
o nel capitolo 4 possono essere usati per
gestire il problema non
appena si presenta. Date all’ansia
un nome stupido o immaginatevela
come un
personaggio idiota. Se potete, procuratevi qualcosa di
ghiacciato da stringere in mano. Fate qualche esercizio di
respirazione profonda.
Quando
non vi sentite in ansia, potete intraprendere
un lavoro più a lungo
termine per riconfigurare il vostro
cervello.

Come
si diventa ottimisti?
Come
succede sempre quando si riallena il cervello, ci
sono cose che
aiutano davvero a combattere l’ansia. Non
sto parlando di una
panacea che vi farà stare meglio da
subito, ma l’idea di allenarsi
a essere ottimisti ha qualche
merito. C’è un tizio che si chiama
Martin Seligman ed è
un vero e proprio pezzo da novanta nel mio
campo.
Stava studiando l’impotenza appresa quando si è accorto
che
esistevano determinate caratteristiche comuni a tutte
queste
persone
fastidiosamente ottimiste.
Permanenza.
Le persone ottimiste non rimuginano
sugli eventi negativi e li
considerano intoppi temporanei.
E sono convinte che, se vengono
negati, spariscono più in
fretta. Credono inoltre che le cose
positive capitino per
ragioni permanenti. In sostanza, il mondo è
fondamentalmente a loro favore.
Pervasività.
Le scimmiette felici tendono a
circoscrivere il fallimento
tenendolo
al suo posto. Lo
ritengono collegato a QUELL
’area
specifica, anziché
pensare di essere un fallimento IN
OGNI CAMPO
.
Tendono anche a far sì che le cose in cui
sono brave
informino il resto della loro vita, anziché tenerle
confinate al settore circoscritto cui appartengono. Essere
una
schiappa a baseball non significa che adesso
cucinerete un risotto
schifoso. E se il risotto è uno
spettacolo, è indice del fatto che
VOI
siete uno spettacolo.
E che dovreste cucinare più spesso. E
invitarmi a cena,
vado pazza per il risotto.
Personalizzazione.
I nostri allegroni attribuiscono gli
eventi negativi alle
circostanze
negative anziché dare la
colpa a se stessi, ma considerano le
circostanze positive
segnali del fatto che sono persone in gamba.
Quindi in
sostanza, i fallimenti sono eventi, non persone. Ma i
successi sono persone, non eventi. Ditemelo, che vi
piaccio!
Capire
cosa ci rende ottimisti fece venire un’idea a
Seligman: se possiamo
imparare l’impotenza e il
pessimismo, allora perché non potremmo
imparare
l’ottimismo e un atteggiamento positivo? Soprattutto se
conosciamo i tre indicatori fondamentali a cui puntiamo?

PRONTI, VIA!: SFIDATE I MOSTRICIATTOLI


Seligman ha creato un modello ABCDE
mirato ad aiutarvi a
ristrutturare il vostro modo di
pensare in senso ottimista. E, sì, somiglia
un casino alla Rational
Emotional Behavior Therapy di Albert Ellis e alla
Cognitive
Behavior Therapy di Aaron Beck. Ci copiamo tutti a vicenda.
Terapeuti e ricercatori sono proprio delle teste di c***o.
Pensate all’ultima volta in cui vi siete
sentiti ansiosi e scrivete qualche
appunto per ciascuna di queste
cinque lettere. Per cominciare, limitatevi
alle prime tre categorie
(A-B-C). Cercate esempi di pessimismo e
negatività e
sottolineateli. Vi siete rimproverati molto più di quanto vi
aspettavate?
A
sta per Avversità
. Quali stronzate succedono che in generale
scatenano la
vostra reazione ansiosa? Solo i fatti, baby. Descrivete che cosa
è
successo (chi, cosa, dove, quando) nel modo più preciso.
B
sta per Belief (
credenza
). Quali sono le vostre credenze riguardo a
questo evento?
Siate sinceri, se l’ansia si scatena spesso, probabilmente il
vostro schema mentale va nella direzione di “C***o, che casino!”
Cosa
stavate pensando esattamente?
Cosa avete detto a voi stessi? Non importa se
è esplicito, brutto o
strano. Scrivetelo. Se ha portato a galla un
ricordo o un flashback, conta
anche questo!
C
sta per Conseguenze
, anche se a dire la verità dovrebbe stare per
Cioccolatino.
Seligman non è d’accordo con me sul fatto che quando
pensate di
essere in una situazione di merda dovreste mangiarvi un
cioccolatino. Invece, lui vuole che esaminiate come avete reagito
alla
situazione e le vostre credenze. In che modo questi pensieri
hanno
influenzato il vostro stato d’animo? Come vi siete
comportati? Che cosa è
successo fisicamente? Quali emozioni avete
provato? Come avete reagito?
Lasciate passare qualche giorno, poi
riprendete in mano la lista e
aggiungete le altre categorie (D-E).
Questa parte sarà molto più difficile: si
tratta di lavorare
attivamente per contrastare quel pessimismo e insegnare
a voi
stessi l’ottimismo. Ma potete farcela, splendori! Ci vuole pratica,
insistete!
D
sta per Discussione.
È il momento in cui vi mettete letteralmente a
discutere
con quei mostriciattoli negativi che il cervello spara dappertutto
e concentrate l’attenzione su un modo nuovo di adattarvi. Ricordate
il
cervello narratore? Ecco, create una storia diversa. Ci sono
quattro
maniere differenti in cui potete mettervi in
discussione:
1. Prove? C’erano prove che le vostre credenze
avessero una base reale?
Se qualcuno dice: «Ti odio», la
convinzione che questa persona vi detesti
ha qualche prova a suo
favore, no? Ma la maggior parte delle credenze
non è supportata da
prove.
2. Alternative? C’è un altro modo con cui
potete guardare a quella
situazione? Quali erano le circostanze non
permanenti (non sempre
cannate gli esami, eravate esausti per
essere stati male)? Quali sono i
dettagli (fare schifo a basket non
fa di voi una schiappa di essere umano e
neppure una schiappa di
atleta)? Qual è stato il contributo di altri alla
situazione (è
davvero tutta colpa vostra?)?
3. Implicazioni? Okay, magari avete combinato
un casino. È davvero
una catastrofe senza rimedio? È possibile
mettere le cose in prospettiva (e
va bene, sono andato/a male a
quel colloquio di lavoro… ciò significa che
nessuno mi assumerà di
qui all’eternità?)?
4. Utilità? Solo perché qualcosa è vero, non
vuol dire che sia utile.
Come potete inquadrare l’esperienza perché
assuma significato per la
vostra vita? Avete più rispetto per cose
o persone che hanno valore per
voi? Potete dimostrare meglio quel
rispetto, adesso?
E infine, E
sta per Energizzazione
. Qual è stato l’esito di concentrare
l’attenzione su un
modo diverso di reagire? Anche se eravate ancora
alquanto ansiosi,
avete gestito la situazione meglio che in passato?
Continuando a
fare così, notate che l’ansia sta finalmente iniziando ad
attenuarsi? Come vi sentite dopo la discussione? Il vostro
comportamento
è cambiato? I vostri sentimenti? Avete notato
qualcosa nel problema che
non avevate notato in precedenza? Magari
anche trovato una soluzione?
Adesso andate a festeggiare il successo, siete
i miei idoli!

OceanofPDF.com
7. RABBIA

Se
vi è mai capitato di cercare una definizione di
rabbia, non penso
l’abbiate trovata molto utile; in genere
si tratta di un sinonimo
anziché di una definizione.
Leggete fuffa del genere e pensate:
“No,
no… so cosa sono
l’irritazione, l’antagonismo, la furia. Sono
tutte forme di
rabbia. Ma cosa cavolo è davvero la rabbia?”
La
rabbia è un’emozione. Già, altro che palle. Ma
seguitemi.
La
parola emozione deriva dal latino emovere,
che significa
“muovere fuori”.
Okay,
ADESSO
sì che stiamo andando da qualche
parte.
Quindi,
prima di tutto, un promemoria generale:
Le emozioni sono risposte
istintive scatenate da
eventi esterni e memorie interne di eventi
passati.
Hanno origine nella parte mediana del cervello,
separate
dai
processi razionali e cognitivi della corteccia
prefrontale.
Perciò
la rabbia è una risposta istintiva diretta
all’esterno. Ha senso,
giusto? Nel suo nucleo, la rabbia è
una risposta istintiva che ha
lo
scopo di proteggerci dal
pericolo spingendoci a un’azione
concertata.
Ecco
fatto: una definizione che è realmente utile.
La
rabbia (e l’aggressività indotta dalla rabbia) è attivata
nello
stesso modo delle altre emozioni. Nel caso della
rabbia, la triade
specifica di attivazione è amigdala,
ipotalamo e la sostanza grigia
periacqueduttale. Ogni tipo
di minaccia attiva queste aree in modo
diverso. Che è
una roba da cervelloni, ma non così importante per
il
discorso che stiamo facendo.
La
cosa importante da ricordare è che se pensiamo di
correre un
rischio, di essere minacciati, il tronco
encefalico entra in
modalità
Fight Club. La rabbia è come
ci prepariamo a quella lotta.
La
parte interessante è che la
rabbia riceve diversi input dalla
corteccia prefrontale.
Vale per tutte le emozioni, ovviamente, ma
la
rabbia è
alquanto interessante per il fatto che la sua espressione
varia moltissimo da cultura a cultura. Il che significa che
molte
reazioni vengono insegnate, poi negoziate dalla
corteccia
prefrontale. Come funziona?

Una
cultura della rabbia
Perché
sono tutti perennemente incazzati come dei
tori?
Non
è necessario guardare un video su YouTube per
vedere qualcuno
perdere le staffe. Basta restare nel
negozio di alimentari, nel
parcheggio della chiesa o al
ristorante del centro commerciale un
tempo sufficiente, e
vedrete qualcuno dare in escandescenze per una
stronzata di scarsa importanza nel grande schema delle
cose.
Magari
questa persona siete voi. O qualcuno a cui
volete bene. Oppure
qualcuno che tollerate a malapena
ma con cui vi tocca fare i
conti.
Esistono
molte teorie sul perché abbiamo tutti questa
rabbia, e hanno tutte
senso.
Siamo:
eccessivamente distratti
eccessivamente stimolati
sovraccarichi
sopraffatti dalla vita quotidiana.

Chiunque
perderebbe le staffe.
Ma
in numerosi altri Paesi analogamente sovra-cosati,
non si assiste
neanche lontanamente al livello di reazioni
di rabbia che abbiamo
negli usa e in Europa.
Una
ricercatrice svedese affascinata dalle differenze culturali
ha
analizzato una serie di studi sulla rabbia, paragonando
usa,
Giappone e Svezia, e i suoi risultati sono molto
interessanti. Ha
dimostrato che in Giappone, per
esempio, agli individui viene
insegnato esplicitamente
che esiste un’enorme differenza fra come
vi sentite
interiormente e il modo in cui lo presentate al mondo.
Non
è una cosa che i cittadini giapponesi imparano da
chi li circonda,
è
nel curriculum scolastico. Fin da
bambini vine loro insegnato a
gestire le emozioni
negative.
Per
contro, quando agli occidentali viene chiesto di
esprimere emozioni
spiacevoli, hanno molta difficoltà a
farlo. Spesso descrivono le
emozioni come interne, non
cose che hanno conseguenze sul
comportamento. Con
un’eccezione interessante: la rabbia.
La
rabbia è considerata una forza di cambiamento
positiva che ci aiuta
a superare gli ostacoli, ad affrontare
la paura e a diventare più
autonomi. Uno studio ha
rivelato che il quaranta per cento degli
statunitensi
ritiene che la propria rabbia abbia conseguenze
positive
sul lungo termine.
Ciò
significa che la rabbia non solo è accettabile a un
certo livello,
spesso è una BUONA
cosa.
E
le regole e i valori culturali relativi alla rabbia ci
stanno
mettendo in guai seri.
“Ero arrivato al punto di rottura!”
“Mi stavo sfogando!”
“Ho perso le staffe!”
“Ho perso la testa!”
“Non ci ho visto più!”
“Ho scatenato la rabbia!”

Il
messaggio sottinteso in queste spiegazioni è che la
rabbia
controlla
noi, non noi la rabbia. Forse è per questo
che adoriamo i film in
cui Liam Neeson ammazza tutti.
Parliamo
della rabbia in un modo che ci porta a
credere che sia valida, che
sia al comando, e che debba
essere agita. Ci aspettiamo che la
rabbia
esiga
soddisfazione… e capiamo che il nostro compito, quindi,
è
assicurare una risposta correttiva. Da quando siamo
bambini, quella
rabbia non solo è permessa, è un modo
positivo di affrontare le
situazioni.
Non
sto dicendo che la rabbia sia sempre un male, o
che sia sempre una
forza negativa. Nessuno ha mai
ottenuto pari diritti chiedendoli
educatamente e
vedendoseli concedere. E l’energia che ci dà può
aiutarci
a reagire nel modo adeguato in determinate situazioni.
Se
i miei figli sono in pericolo, la mia reazione di
rabbia mi
spingerà
a proteggerli. Ma la mia rabbia contro
la cassiera che va in pausa
quando finalmente è arrivato il
mio turno? Probabilmente non è
produttiva per nessuna
delle persone coinvolte.

Che
cos’è la rabbia?
La
rabbia, come tutte le emozioni, non è buona o
cattiva, giusta o
sbagliata.
È,
e basta.
Le
emozioni sono informazioni, che hanno lo scopo di
aiutarci a
prendere
decisioni che ci proteggeranno e ci
terranno al sicuro. Vengono
scatenate nella parte
mediana del cervello, nell’amigdala, sulla
base delle
informazioni che elaboriamo in quel momento e dei
ricordi
di situazioni del passato.
Le
emozioni positive costituiscono un feedback del
tipo “vai avanti”.
Il nostro cervello ci sta dicendo: «Sì! Sì i
cioccolatini! Sì
andare a camminare con le amiche! Sì
film divertenti! Sono cose che
mi fanno stare bene,
facciamole!»
Le
emozioni negative sono l’esatto contrario. Sono il
gatto acquattato
nell’angolo con le orecchie appiattite che
soffia: «No! Non
voglio! Non mi fa sentire per niente
bene, né al sicuro! Fallo
smettere!»
La
rabbia innesca la reazione Combatti, Fuggi, Bloccati.
Provare
una gran rabbia è un aspetto normale
dell’essere umani. Perdere la
testa no.
Come
dico ai miei pazienti: vi è permesso ESSERE
pazzi, ma non vi è permesso AGIRE
da pazzi.
Incazzarsi
da morire perché qualcuno vi ha fregato il
parcheggio che stavate
aspettando?
Assolutamente
legittimo.
Dare
di matto per questo? Non molto utile.
Non
molto utile per chi vi sta accanto, non molto utile
per la società
in generale e – per ragioni di mero
egoismo – non molto utile
neanche per voi.
Quando
diamo in escandescenze ogni due per tre,
stiamo impostando il
nostro
cervello perché sia in uno
stato di continua eccitazione che alla
fine ci frigge i
circuiti (e al contempo allontana le persone che
amiamo).
Programmiamo noi stessi per essere costantemente
all’erta.
Perciò reagiamo molto più velocemente di
quanto fossimo abituati a
fare, e percepiamo più
situazioni come pericolose, ostili o
minacciose. Diamo di
continuo la caccia alle ombre.
Il
nostro cervello non ha modo di riposare e ricaricarsi
e iniziamo a
fare i conti con diversi altri sintomi associati
a questa modifica
della configurazione. Sommati
insieme, tali sintomi sono noti come
disfunzione del
sistema nervoso autonomo. Molti
problemi di
salute
comuni (cardiopatie, pressione alta, allergie alimentari)
come
anche molti problemi legati al cervello
(depressione, ansia,
disturbo
da stress post-traumatico)
sono collegati a una costante reazione
aumentata.
E
qui torniamo alla rabbia, perché la rabbia è il
principale
colpevole sotto questo aspetto.
Per
citare un famoso detto buddhista, la rabbia è come
tenere in mano
un
carbone ardente e aspettarsi che la
persona con cui siamo
arrabbiati
finisca incenerita.

La
rabbia è un’emozione secondaria
E
lo sapete cosa è DAVVERO
un casino della rabbia? Di
questa emozione che culturalmente
crediamo
ci porti al
successo? Che non è neanche un’emozione primaria.
Lo
so, vi state chiedendo: e cosa c***o vorrebbe dire,
signora
psicologa
so-tutto-io?
Significa
che anche se è la prima emozione che
riconosciamo in noi stessi, e
l’emozione sulla base della
quale agiamo (o reagiamo), vi
garantisco che non è
davvero la prima cosa che provate in nessuna
situazione.
La rabbia è un’emozione secondaria.
Per
semplificare, possiamo usare un modello per
spiegare la rabbia, che
è
scatenata da:
dolore;
aspettative non soddisfatte;
bisogni non soddisfatti.

Ovviamente
è un po’ più complicato di così, dato che
in genere non è
scatenata da uno solo di questi trigger,
ma da un groviglio di
tutti
quanti messi insieme.
Ecco
come usare il modello dab
che ho delineato sopra:
1)
Sono ferito? È successo qualcosa che mi fatto sentire
insicuro?
In pericolo? Sottovalutato? Indegno? Non
apprezzato? O solo triste?
Di tutte le cose che mi hanno
fatto perdere le staffe nel corso
degli
anni, perché questa
situazione è particolarmente sgradevole? Era la
persona
che ho percepito mi stesse facendo del male? È una
situazione particolare che mi infastidisce più di altre? È
stato un
problema per me in passato? È uno di quei
maledetti TRIGGER
di cui blatera la gente?
Analizziamo
meglio la cosa: perché il dolore?
2)
Avevo aspettative che non sono state soddisfatte? Il
mio
cervellino se ne andava in giro tutto garrulo
convinto che sarebbe
successa una certa cosa e non è
successa? Era un’aspettativa
realistica? (Siate sinceri,
okay?) Se lo era, mi ha cambiato la
vita
quando non è
stata soddisfatta? Qualcuno vi frega il parcheggio che
avevate visto prima voi. Bello stronzo. Era ragionevole
aspettarsi
che si attenesse alle regole civili del
parcheggio? Certo che sì,
c***o. A meno che non
vogliamo ritrovarci nel caos più completo…
la gente deve
rispettare qualche c***o di regola, per la miseria.
Ma
vi
ha cambiato la vita? Non proprio. Troverete un altro
posto
libero
(alla fine) e parcheggerete (alla fine).
Dopodiché, si spera,
passate ad altro. Perciò andiamo
avanti con l’analisi. Era
un’aspettativa ragionevole, tanto
per cominciare? Il mondo è
finito perché non è stata
soddisfatta? Certe cose sono davvero
serie, altre no.
Ditevi la verità. È un’aspettativa per cui vale
la pena
sentirsi feriti?
3)
Avevo bisogni che non sono stati soddisfatti? Questa
è
difficile. Perché come facciamo a definire che cos’è un
bisogno?
Se siete buddisti, potreste pensare che neanche
esistono, giusto?
Sul
piano esistenziale avete
ragionissima. Ma sul piano psicologico, il
cervello è
configurato per tenervi in vita. Se qualcosa minaccia il
senso dell’equilibrio del cervello, vi ritroverete inondati
di
sostanze chimiche che strepitano REAGISCI
,
dritte
dall’amigdala.
Alcune cose innescheranno questa reazione più di altre.
Il pericolo
imminente è la più ovvia. Abbiamo bisogno di
sentirci al sicuro.
Abbiamo bisogno di sapere che le
persone care sono al sicuro. Se il
vostro cervello
percepisce una minaccia diretta a voi, al vostro
innamorato, ai vostri figli, al vostro cagnolino, si ATTIVA
:
Proteggi ciò che è importante per te! ARRABBIATI
!
Esistono
altri bisogni di sicurezza che non possiamo
ignorare. Gli esseri
umani sono configurati per le
relazioni. Abbiamo bisogno di
relazioni
stabili per
sentirci bene. Il nostro cervello questo lo sa, anche
quando la società ci dice: «Non hai bisogno di nessuno
tranne di TE
STESSO
, campione!» Stronzate. Viviamo in
comunità non
perché non c’è spazio ma perché
dobbiamo farlo per sopravvivere.
Perciò questo bisogno
porta con sé quello della sicurezza emotiva.
Abbiamo
bisogno di sentirci sostenuti nelle relazioni con gli
altri.
Abbiamo bisogno di avere idea di cosa aspettarci.
Abbiamo bisogno
di
sentirci amati. Qui c’è in ballo
qualcosa di più di qualche testa
di c***o che ci fotte il
parcheggio. C’è in ballo il bisogno umano
fondamentale
di sentirsi supportati dagli altri nel mondo. Abbiamo
bisogno di sapere che siamo al sicuro con le persone che
amiamo,
che
loro ricambiano l’amore e che non ci
faranno del male, perlomeno
non intenzionalmente.
Abbiamo
bisogno di uscire incolumi dai vicoli bui alle
due del mattino.
Abbiamo bisogno di allontanarci
dall’autista fuori di zucca che
rischia di venirci addosso in
autostrada. Ma abbiamo anche bisogno
di
una comunità
di persone che ci amano follemente e ci fanno sentire
al
sicuro.
La
rabbia di cui facciamo più fatica a liberarci è quella
che ci rode
il culo quando il contratto non viene
rispettato. Quando la persona
con cui avevamo bisogno
di sentirci più sicuri ha fatto qualcosa
che
ha messo in
dubbio quella sicurezza.
Sono
sicura che riuscite a capire perché sono ormai
anni che rimango
fedele a questo modello di
comprensione della rabbia. Contribuisce
a
dare un senso
a moltissime situazioni che ci tocca affrontare ogni
giorno.
Sapere
da dove viene la rabbia è molto più che metà
della battaglia. È
tipo il novanta per cento.
Quante
volte vi è capitato di rendervi conto del perché
vi sentivate in un
certo modo e poi quel sentimento è
semplicemente… sparito?
Dopodiché
c’è l’altro dieci per cento.
Lo
schifo può essere reale e venirne a capo è una fatica
d’inferno.
Ma
come abbiamo detto sopra, gestire la rabbia è come
gestire
qualunque
altra informazione che dobbiamo
prendere in considerazione per
risolvere una situazione.
Non è né buona né cattiva, e non
dev’essere per forza
l’impulso trainante delle nostre
decisioni.

PRONTI, VIA!: DA DOVE VIENE LA VOSTRA RABBIA?


Quando è stata l’ultima volta che avete
provato rabbia? Quando non
siete davvero in pericolo imminente o
davanti a una minaccia reale, e
dopo aver usato il modello DAB per
analizzare la situazione, provate a
farvi le domande che
seguono.
1) Quali sono le radici alla base della
rabbia? Una volta che le avete
individuate, erano legittime oppure
avevano a che fare più con voi e il
vostro vissuto che con la
situazione attuale? Se non ne siete sicuri,
riflettete su quando
avete notato di provare rabbia. Cosa succedeva
attorno a voi…
visioni, odori, rumori, persone? Cosa stavate facendo? Cosa
stavate
pensando? È emerso qualche ricordo particolare in quel
momento?
2) Se le radici sono legittime, sono qualcosa
che è necessario affrontare
o è una di quelle stronzate ordinarie
che capitano? Una multa, il piatto
sbagliato consegnato al takeaway
etc.?
3) Se dev’essere affrontato, qual è il modo
migliore per farlo? Come
potete raddrizzare le cose con il minor
disagio possibile? Cosa potete fare
per evitare di rimanere
ulteriormente feriti (fisicamente, emotivamente e
mentalmente)?
Riuscite a ridurre al minimo il danno (fisico, emotivo,
mentale)
per gli altri? Dev’essere affrontato immediatamente oppure può
aspettare finché non avete ritrovato la calma e vi sentire al
sicuro? C’è
qualcun altro con cui potete parlare in grado di
fornirvi una prospettiva
sana e supportiva… un terapeuta, un amico,
un mentore, un famigliare?
Qualcuno che vi conosce, vi vuole bene e
che vi farà notare gli
atteggiamenti da testa di cavolo se
necessario?
4) Dopo aver agito (anziché reagito), valutate
i risultati. Ha funzionato?
È una strategia che potete utilizzare
di nuovo? Provate ancora rabbia o
adesso vi sentite meglio e su un
terreno più sicuro?

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8. DIPENDENZA

Iniziamo
subito con una verità universale.
Praticamente
chiunque è dipendente da qualcosa, a un certo
punto della sua
vita.
Già,
probabilmente anche voi. Di sicuro io. Se avete
scelto questo libro
con l’intenzione di aiutare una
persona cui tenete, una delle prime
cose che potete fare è
riconoscere le vostre stesse difficoltà con
qualche forma
di dipendenza.
Sì,
lo so che sembra una stronzata grossa come una
casa, ma datemi
retta
un minuto e vedrete che ha un
senso.
Prendiamo
in considerazione la parola inglese per
dipendenza, cioè
“addiction”. Il termine è rimasto
invariato fin dalla prima metà
del XVI secolo, quando era
usato per descrivere qualcuno vincolato
o devoto. Ancora
attuale, no?
La
dipendenza è stata definita dai primi studiosi della
mente (Freud e
simili) e dai primi creatori di gruppi di
sostegno (alcolisti
anonimi
e simili) sulla base di ciò che
vedevano e sentivano, e che poteva
essere misurato
all’epoca. La teoria accettata era che la
dipendenza fosse
una funzione del desiderio più l’uso
compulsivo.
Era
un modello semplice, ed è stato la base iniziale nel
fornire le
cure
per la dipendenza. Ma non teneva conto
di tutte le cose che una
dipendenza può essere,
soprattutto alla luce di ricerche più
recenti nel campo
delle neuroscienze.
Anche
se siamo ben lontani dall’avere un quadro
definitivo, oggi sappiamo
che la dipendenza è MOLTO
di
più che il desiderio unito all’uso compulsivo. La
neurobiologia
della dipendenza è spettacolarmente
complessa, benché nuovi studi
stiano iniziando a fornirci
visioni differenti rispetto a quella
che
avevamo in
passato. Sappiamo che la dipendenza da sostanze attiva i
circuiti del piacere nel cervello, sebbene in misura
diversa a
seconda delle persone. Il che contribuisce a
spiegare perché alcuni
individui siano più inclini alla
dipendenza da una certa sostanza
mentre altri trovino
che la stessa li faccia stare da schifo.
Sappiamo anche che
la sola previsione dell’uso può scatenare la
produzione di
dopamina nel cervello, cosa che spiega i
comportamenti
dipendenti anche in assenza di assunzione.
Gabor
Maté, nel suo libro In the Realm of Hungry Ghosts,
ha fornito
questa definizione della dipendenza, che ho
sempre usato fin da
quando l’ho letta per la prima volta, e
che ho perfino inserito
nella mia tesi di laurea.
La dipendenza è
qualunque comportamento ripetuto,
legato o meno a una sostanza, in
cui una persona si
sente costretta a persistere indipendentemente
dall’impatto negativo che esso ha sulla sua vita e su
quella degli
altri.
La dipendenza implica:
1. comportamento compulsivo e preoccupazione per
esso;
2. capacità compromessa di controllare il
comportamento;
3. persistenza o ricaduta nonostante le prove del
danno;
4. disattenzione, irritabilità o desiderio intenso quando
l’oggetto
– sia esso una sostanza, un’attività o altro – non
è
immediatamente disponibile.
Alcune dipendenze sono evidenti e hanno conseguenze
gravi, come
perdere la casa per il gioco, altre sono meno
gravi e più facili da
intraprendere mentre si continua a
vivere la vita di tutti i
giorni.
Quelli che si fanno fuori un
sacchetto di patatine o un vassoio di
muffin dopo una
giornata difficile, per esempio. O vanno a
comprarsi
l’ottavo paio di sandali neri che non metteranno mai.
Questo
per dire che, mentre alcune dipendenze ci
escludono del tutto dalla
società, altre ci tengono a
malapena a galla in mezzo agli altri e
altre ancora
diventano una barriera fra noi e il resto del mondo.
Alla
fin fine, è solo una questione di gradi.
Come
capiamo quando entriamo nel territorio della
dipendenza? In quanto
terapeuta orientata alle relazioni,
la mia risposta è semplice:
quando la dipendenza diventa la
nostra relazione primaria.
Magari non nel cuore o nella
testa. Ma nei comportamenti sì. Quando
non abbiamo il
controllo e preferiamo dedicare tempo, risorse ed
energie alla dipendenza anziché alle persone che
amiamo. O,
ammettiamolo… a noi stessi.

Da
dove vengono le dipendenze
Da
dove hanno origine le dipendenze? E perché dico
che praticamente
chiunque ha una qualche sorta di
dipendenza?
Quando
siamo schiavi di una dipendenza al punto che
assume la precedenza
sulle nostre relazioni con gli altri,
abbiamo un problema. È un
meccanismo di coping che è
passato dal rassicurarci al controllarci
completamente.
La
dipendenza è il territorio delle persone sensibili.
Empatiche.
Quelle che notano per prime le zone oscure,
nascoste e distorte
della
società. Subito, però, impariamo
anche che indicare quelle
discrepanze comporta una
punizione. La società ci insegna che i
bravi ragazzi e le
brave ragazze non notano queste cose. E che, se
anche lo
fanno, DI CERTO non ne
parlano. Quindi ci prendiamo
carico di tutta la merda oscura e
distorta e la mandiamo
giù, finché quella non inizia a mangiarci
vivi. Iniziamo a
pensare che sia tutta colpa nostra. Che
chiaramente
non
siamo delle brave persone. E che le relazioni non sono
sicure.
L’unico modo per andare avanti è usare un
meccanismo di
adattamento e sostegno.
Se
avete vissuto un trauma, se siete stati feriti così
profondamente
da
non fidarvi più del mondo, siete
molto ma molto più esposti al
comportamento
dipendente.
A
un certo punto nella vita, la maggior parte di noi
inizia a usare
qualcosa che ci aiuta a stare meglio.
Bramiamo qualcosa che non
riusciamo ad avere. E così,
soddisfiamo quel bisogno con altre
cose,
che
probabilmente sono d’aiuto per un certo periodo di
tempo.
Calmano la fame rabbiosa che avvertiamo, e ci
aiutano a dimenticare
quello di cui abbiamo bisogno
davvero.
In realtà, le
dipendenze sono solo strategie di coping
andate storte.
Il
confine fra adattamento sano e dipendenza è ampio,
grigio e
nebuloso. È un’estesa zona indefinita nella quale
iniziamo a
perdere il controllo sulla nostra strategia
adattiva, sia essa una
sostanza, un’attività o un
comportamento, che finisce per
controllarci e reclamare
fette sempre maggiori della nostra
vita.
Le
abilità di coping sono intese ad aiutarci a rimanere
con i piedi
per
terra e superare i momenti difficili. Non
mirano a rimpiazzare la
realtà, o le nostre relazioni reali.
Perciò quando non riusciamo a
esserci completamente
per le persone che amiamo… Quando non ci
sentiamo
del tutto sicuri dentro di noi… Questo significa che
qualunque cosa stiamo usando per andare avanti sta
funzionando come
una dipendenza.

Come
guariamo
Esistono
due strategie fondamentali per affrontare le
dipendenze. Il modello
tradizionale è basato
sull’astinenza: l’unico modo di uscirne è
non cedere in
alcun modo alla dipendenza.
La
seconda è la riduzione del danno. Questo metodo
somiglia un po’ a
una negoziazione, per trovare modi di
ridurre il danno che la
dipendenza procura.
Vediamo
come potrebbero funzionare nel concreto
alcuni di questi
trattamenti.
Astinenza
Sono
cresciuta nel contesto degli alcolisti anonimi. Mio
padre era in
riabilitazione, così passavamo un sacco di
tempo alle riunioni,
agli
eventi e alle conferenze degli aa,
e avevamo la casa sempre piena di gente tornata sobria
da poco.
Quando
furono creati, più di ottant’anni fa, gli aa
erano
unici nel loro genere. L’idea è che persone che hanno
vissuto l’esperienza offrano il loro supporto e aiutino altri
nel
percorso per raggiungere la sobrietà. In più, si basa
sulla nozione
di affidarsi a un potere superiore,
qualunque esso sia per voi. Non
deve essere per forza un
dio onnipotente. Per alcuni potrebbe
essere
semplicemente la comunità più ampia che li circonda,
relazioni sane
o sintonizzarsi con la propria voce
autentica. Molte persone che
hanno difficoltà con servizi
basati sulla fede sono a disagio in un
contesto del genere.
E in alcuni gruppi sono emersi elementi
normativi che
paiono escludenti. Per esempio, molti gruppi
ritengono
che sobrietà significhi non assumere alcuna sostanza che
altera la
mente, nemmeno farmaci per un disturbo
mentale.
È
un peccato perché il modello aa
può essere di grande
beneficio nella guarigione. E non dovreste
smettere di
assumere i farmaci che vi mantengono sani mentre vi
liberate dalle dipendenze che vi hanno precipitati nella
follia.
Esistono
moltissimi gruppi che onorano queste
differenze nelle convinzioni,
siano essi gli alcolisti
anonimi, i narcotici anonimi, doppia
diagnosi anonimi o
qualunque altro programma sul modello dei dodici
passi.
E se non bastasse, esistono anche incontri online
disponibili
ventiquattr’ore su ventiquattro e nella
maggior parte dei Paesi del
mondo.
Ci
sono altri programmi oltre a quello tradizionale in
dodici passi
anch’essi basati sull’astinenza. Anch’essi
esistono da tempo,
ma si focalizzano su ricerche più
recenti per rendere efficace la
sobrietà. Questi
programmi in generale sono incentrati maggiormente
sull’autoefficacia e sul locus of control interno (cioè
avere
pieno controllo della propria vita attraverso le nostre
azioni)
che non sul supporto relazionale e di un potere
superiore.
Si
tratta di una semplificazione, ma quel che voglio dire
è che
esistono opzioni oltre al modello dei dodici passi. E
alternative
differenti significano una possibilità più ampia
di trovare
qualcosa che vada bene per voi.

Riduzione
del danno
Ci
sono due casi in cui la riduzione del danno è la
scommessa
migliore:
1. quando è ciò che DOVETE fare
2. quando è ciò che VOLETE fare
Allora,
ecco come stanno le cose. Da alcune
dipendenze è possibile
liberarsi
del tutto e il recupero
può essere ottenuto attraverso la totale
astinenza. In fin
dei conti, si può vivere per sempre senza bere
alcol o
comprare un gratta e vinci.
Altre
volte, però, l’astinenza non è una scelta
praticabile. Dipendenza
dal cibo? Bisogna comunque
mangiare tutti i giorni. Dipendenza dal
lavoro? La
maggior parte dei maniaci del lavoro non è così ricca da
potersi licenziare e andare a meditare in un ashram per
ottenere
sostegno durante la riabilitazione.
Dipendenza
dal sesso? Anche se immagino che possiate
sostenere la tesi che
l’astinenza è una strategia di cura
appropriata, non ho ancora
lavorato con nessuno
d’accordo sul fatto che rinunciare al sesso
sia un’opzione.
E dato che la maggior parte ha una relazione a
lungo
termine, nemmeno i loro partner sono dell’avviso.
Inoltre,
alcune persone non VOGLIONO
rinunciare
alla sostanza o al comportamento fonte della dipendenza.
Per esempio, una persona dipendente dal sesso potrebbe
voler
continuare a usare pornografia in modo
consapevole e assertivo,
senza
che il consumo prenda il
controllo della sua vita. Qualcun altro
potrebbe voler
usare le sostanze in modo controllato, anziché in un
modo che ha un impatto negativo sulla sua vita.
E
sì, lo so. Alcune dipendenze sono così follemente
pericolose che
l’astinenza è probabilmente l’unica scelta
capace di salvarvi la
vita.
La
maggior dei programmi di riabilitazione basati
sull’astinenza,
però, non ammettono una
disintossicazione mirata alla riduzione del
danno, o l’uso
di sostanze meno pericolose per mitigare gli effetti
della
rinuncia a quelle dannose.
Alcune
sostanze richiedono una disintossicazione sotto
sorveglianza medica
per evitare complicazioni gravi o
addirittura la morte. La
disintossicazione non è la stessa
cosa della cura della dipendenza
e
della riabilitazione,
naturalmente. Ha unicamente lo scopo di
aiutare
il
vostro corpo a liberarsi del veleno in circolo senza
rischiare
di
morire, in modo che POSSIATE
passare alla
cura e alla riabilitazione.
Ovviamente,
disintossicarsi da alcune sostanze è
difficilissimo, anche se non
implica rischi medici.
Chiunque sia dipendente dalla caffeina sa
che
quando
non si assume la dose abituale, ci si sente male. Anche se
l’espressione più adatta sarebbe “di merda”.
La
disintossicazione pura e semplice (che avvenga sotto
sorveglianza
medica o legandovi al letto lontani dalla
caffettiera) può
rappresentare una barriera
insormontabile per alcune persone.
Sebbene
esistano
sempre più programmi medici gratuiti, ovviamente essi
non
possono compensare il salario perso durante il
ricovero, non
forniscono servizi di cura dei figli, etc.
Per
tutte queste ragioni e altre ancora, la riduzione del
danno sta
diventando un’opzione di trattamento più
frequente per molte
persone.
Esistono
programmi a livello nazionale (in Italia, per
esempio, itardd
- Rete Italiana Riduzione Del Danno,
NdT). E ci sono una marea
di professionisti della cura che
utilizzano un’ampia gamma di
strategie correlate nella
loro pratica terapeutica. E sì, io sono
una di loro.
Anziché
pensare di dover raggiungere la totale
astinenza prima di dedicarsi
alla parte emotiva, io credo
che il comportamento dipendente sia un
modo con cui le
persone gestiscono i loro traumi, e che sia
necessario
lavorare sul trauma sottostante e trovare altri modi di
affrontarlo prima di sottrarre loro la strategia che usano
per
combatterlo. Fino a che la dipendenza non diventa la
strategia di
coping meno utile, curarla sarà un’impresa
titanica.

Disincasinare
la dipendenza
Non
ho più ragione o torto di chiunque altro, ma faccio
questo mestiere
da parecchio tempo e ho scoperto modi
di supportare la
riabilitazione
che funzionano meglio per
le persone con cui lavoro e con la mia
visione del mondo.
Ora,
chiunque dica di avere il modo MIGLIORE
di
curare la dipendenza è un c***o di bugiardo. Io non direi
mai
un’assurdità del genere. Quindi prendete i miei
suggerimenti per
quello che sono… suggerimenti,
appunto. Usate tutto quello che
funziona per voi e
lasciate perdere il resto.
Ecco
cosa chiedo ai miei pazienti.
1.
Considerate il posto che la dipendenza occupa nella
vostra vita
come
una relazione sostitutiva.
Come
abbiamo già visto, si parla di dipendenza quando
qualcosa comincia
a
sostituire le relazioni autentiche,
tanto da diventare la parte più
importante della nostra
vita e di cui diventiamo schiavi.
Riabilitazione significa
riconoscere questo fatto. Magari
non
pensate di avere
relazioni che valga la pena di salvare. Magari non
pensate
che valga la pena di salvare VOI
stessi. Mi permetto di
dissentire, ma non spetta a me. Io
suggerisco,
gentili
lettori, che diate spazio alla possibilità che esistano
buone
relazioni da vivere. E la dipendenza attuale è una stronza
bastarda e malevola che non vi amerà mai quanto
meritate. Una volta
che prendiamo consapevolezza del
nostro coinvolgimento nella
dipendenza e ricordiamo a
noi stessi che la stiamo privilegiando,
diventa sempre più
difficile continuare a compiere quella scelta.
Non fatene
uso senza essere consapevoli di quello che state
facendo.
È più difficile incasinare se stessi e le persone che si
amano
intenzionalmente e con cognizione di causa.
2.
Siete responsabili di voi stessi. Davvero. Anche se
avete la
sensazione di non esserlo. Anche se avete la
sensazione di non
esserlo mai stati.
Alla
fin fine, l’uso cambierà perché lo volete voi.
Cambierete
perché vorrete essere migliori, perché
vorrete che le vostre
relazioni siano migliori. Anche se
venite mandati in riabilitazione
da un tribunale, restare
sobri o meno dipenderà da quanto lo
vorrete, giusto?
Non importa ciò che le persone vi dicono di fare,
farlo o
meno dipende solo da voi. Ricordatelo. Cosa volete VOI?
Quello che state facendo vi sta portando nella direzione
giusta?
3.
È molto più facile INIZIARE
a fare qualcosa di
nuovo che SMETTERE
di fare qualcosa di vecchio.
Molti
clinici bravissimi hanno paura di lavorare su
soggetti con
dipendenze
perché pensano che l’obiettivo
sia di indurre qualcuno a smettere
di fare qualcosa. Io
adotto l’atteggiamento contrario, e mi
concentro
sull’aggiungere comportamenti più sani e costruire
relazioni più sane anziché focalizzarmi sulla dipendenza
in sé. Se
costruite un io più sano, spesso la dipendenza
diventa sempre meno
necessaria come strategia di
coping. Di recente mi hanno chiesto:
«Quanto spesso la
terapia consiste semplicemente nell’indurre le
persone a
uscire di più?» E la risposta è: un casino! Non c’è
bisogno
di imprese mirabolanti, dovrete solo riuscire ad
aggiungere
ogni giorno una piccola cosa che vi fa stare
meglio anziché peggio.
Ce la fareste? E riuscireste a
prestare attenzione a come QUELLA
COSA vi fa sentire
anziché cedere alla dipendenza?
4. Ricordate che sobrietà e recupero sono uno
spettro.
Spetta
a voi scegliere il punto migliore e decidere
quando cambia.
Praticate
l’astinenza se funziona per voi.
Adottate la riduzione del danno se
funziona meglio.
Parte del percorso consiste nel capire chi siete e
chi
potete essere in relazione alla dipendenza. Ho lavorato
con
persone che hanno capito in fretta che giocare una
partita di poker
li avrebbe fatti ricadere nell’uso di eroina
nel giro di un mese.
Per loro funzionava solo l’astinenza
totale. Poi ho lavorato con
persone che hanno ridotto
l’uso di droghe pesanti con la marijuana.
Alcuni, in
seguito, hanno rinunciato anche a quella. Siete
responsabili di tutte le conseguenze del vostro
comportamento. Per
esempio, se vi obbligano a fare un
test per le droghe e vi sgamano,
non potete dare la colpa
a questo libro.
5.
Piantatela con le stronzate.
Con
voi, con gli altri. Di gettar fumo negli occhi delle
altre persone
e
convincervi che state prendendo buone
decisioni quando sapete fin
troppo bene che non è vero.
Piantatela. Può darsi che finora non
abbiate avuto molto
controllo sulla vostra vita, ma considerate
questo come la
mia autorizzazione da mamma per RIPRENDERVELO.
Avete l’obbligo di rendere conto. Se agite sotto ordine
della
vostra dipendenza, ammettetelo onestamente. Non
date la colpa a
nessun altro. Ricordatevi che è una scelta
che fate voi. Fatela in
maniera consapevole. Anziché
dirvi: «Il mio partner mi ha lasciato
quindi è colpa sua se
sono un tossico, non riesco a gestire tutto
quanto»,
provate con: «Il mio partner mi ha lasciato e questo ha
scatenato tutti i miei problemi con l’abbandono. Ho
scelto di farmi
perché è una strategia di coping che ha
funzionato alla grande e
provare qualcos’altro mi sembra
un’impresa che va oltre le mie
forze». Potreste scoprire
che è più difficile farvi del male con
la dipendenza
quando ve ne assumete consapevolmente la
responsabilità.
6.
Individuate i vostri trigger.
Se
chiudete gli occhi, continuerete a finire nella merda.
Se tenete
gli
occhi aperti, potete iniziare a mettere
insieme una mappa. Quando
vi
renderete conto di agire
ascoltando la dipendenza, chiedete a voi
stessi di risalire
a cosa vi ha portati lì. L’acronimo halt
(Hungry, Angry,
Lonely, Tired) è grandioso nella cura delle
dipendenze:
sono affamato? Arrabbiato? Solo? Stanco? Se unite la
consapevolezza dei trigger alla responsabilità delle vostre
azioni,
diventa via via più difficile restare sul cammino
della
dipendenza.
7.
Perdonatevi gli errori.
Siete
dei cazzoni. Io pure. Benvenuti nel club degli
esseri umani.
Abbiate
un po’ di self-compassion al
riguardo. L’autocompassione è il
contrario dell’autostima.
Ha a che fare con l’interiorità più
che con i successi e gli
insuccessi esteriori. Significa perdonare
se
stessi per i
fallimenti e i casini che facciamo perché siamo umani.
E
no, non vuol dire che potete essere una faccia da culo
autocompiaciuta. Anzi, le ricerche mostrano che se siete
consapevoli
della vostra fragilità, e vi prendete cura di voi
stessi nei
momenti
in cui siete più vulnerabili e fuori
fase, vi assumete più
responsabilità delle vostre azioni.
Kristin Neff ha scritto un
libro
straordinario intitolato La
self-compassion. Il potere dell’essere
gentili con se stessi. Se non
l’avete ancora fatto, leggetelo.
Mi ha cambiato la vita.
8.
E perdonate le bastardate che vi hanno fatto.
Vi
ho sentiti. Vi sono successe cose terrificanti. Roba
davvero
pesante.
E succederanno di nuovo. Certe volte la
gente è bastarda
all’ennesima potenza. Il perdono non
riguarda loro, riguarda la
quantità di stronzate che volete
portarvi dietro. Secondo me non
poi
tante. Il perdono
non significa dare campo libero alle teste di
c***o. Vi
aiuterà invece a porre confini più sicuri in modo da
sapere come proteggervi meglio in futuro. E aprirà la
porta a
dialoghi più veri con le persone che vi
circondano, anziché
continuare a conversare solo coi
vostri demoni.
9.
Prevedete la vostra continua imperfezione umana.
Fate
del vostro meglio per fare del vostro meglio. Ma
sul serio. Farete
c***ate. Potreste perfino avere una
ricaduta. E la sapete una cosa?
O
vinciamo o impariamo.
Perciò prendete gli errori come nuovi modi di
ottenere
informazioni valide su voi stessi. Che cosa avete fatto in
maniera diversa stavolta? Cosa potete prendere da questa
esperienza
e
fare in modo diverso la prossima volta? Per
onorare le nostre
c***ate
con franchezza ci vuole un gran
fegato. E quindi avete le capacità
di tirar fuori un
coraggio epico.

PRONTI, VIA!: DOVE POTETE DIRE DI SÌ?


La dipendenza è spesso trattata come una
mancanza di forza di
volontà. Nancy Reagan ci ha detto che era
semplicissimo: tutto quello che
dovete fare è semplicemente dire di NO
.
Perciò questo diventa il nostro dialogo
interiore. Perché certe volte non
riusciamo semplicemente a dire di
no? Questo ci fa precipitare in una
spirale di vergogna e ostacola
la nostra capacità di provare self-
compassion.
Se le dipendenze sostituiscono altre
relazioni, questo dovrebbe essere il
nostro primo passo per
guarire.
Dunque, sedetevi e fate una lista: a cosa
potete dire di “sì”?
Non come rimpiazzo della dipendenza. Non anziché
o in cambio
della
rinuncia a qualcos’altro. La vita non è un gioco a
somma zero, in fin dei
conti. E sentirsi dire di rinunciare alla
cosa che vi ha aiutati di più in
passato non è giusto. So che
quello è il vostro obiettivo, naturalmente. Ma
non dobbiamo
cominciare da lì se non siete pronti.
Dite semplicemente di sì a qualcosa di nuovo.
Qualcosa che amavate
ma che non fate più. Qualcosa che avete sempre
voluto provare.
Ampliate i confini della vostra vita
aggiungendo qualcosa di nuovo.
Cosa succede? Cosa cambia? Di
cos’altro avete bisogno adesso? Di cosa
non avete più
bisogno?

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9. DEPRESSIONE

Depressione
è una di quelle parole di cui ci riempiamo
la bocca e che usiamo in
modo talmente indiscriminato
che ha perso il suo significato. Io,
per
esempio, ho usato il
termine depressa per descrivere come mi
sono sentita
quando il negozio biologico ha smesso di tenere i miei
biscotti preferiti, anche se incazzata nera con l’assurda
convinzione che avessero leso i miei diritti sarebbe stata una
descrizione di gran lunga più accurata.
Depressione
non è la vostra squadra del cuore che
perde ai supplementari,
smarrire il vostro orologio
preferito, essere licenziati o rompere
con il partner.
Senza nulla togliere al fatto che tutte queste cose
sono
uno schifo a diversi livelli, in sostanza sono perdite che
provocano gradi comprensibili di lutto (che è
l’argomento del
prossimo capitolo). Il lutto e la perdita
possono indubbiamente
essere traumatici, e possono
indubbiamente portare alla
depressione.
Ma se ci
vengono concessi lo spazio e il tempo appropriati,
guariamo.
La depressione è un problema molto più
insidioso. E talvolta non ha
nulla a che fare con una
perdita identificabile.
Esattamente come l’ansia, la depressione è legata alla
biochimica
dello stress. L’ansia è una reazione
biochimica eccessiva allo
stress. È il corpo che cerca di
entrare in modalità
sopravvivenza per proteggere se
stesso, sulla base di ciò che
ritiene sia vero.
La
depressione, invece, è il modo con cui il corpo dice
«niente di
quello che farò migliorerà le cose, è tutto uno
schifo a
prescindere». La depressione è una reazione di
impotenza
acquisita biochimica allo stress.
La
depressione è il modo con cui il corpo dice «se nulla
di quello che
faccio produce qualche differenza, è inutile
godersi alcunché».
Robert Sapolsky, sì di nuovo lui,
definisce la depressione come «un
disturbo
genetico/neurochimico che richiede un forte innesco
ambientale e la cui manifestazione tipica è l’incapacità di
apprezzare i tramonti».
Io la definisco
un caso clinico di ’sti cazzi.
Nel
suo libro Tribù, Sebastian Junger parla della
depressione in
relazione alla rabbia per il modo in cui è
scatenata come parte
della reazione Combatti, Fuggi,
Bloccati. Se la rabbia vi prepara a
combattere, allora la
depressione è il modo del vostro cervello di
ritrarsi nel
guscio… di non farsi notare, di non muoversi troppo,
di
non fare cose che potrebbero mettervi ancora più in
pericolo.
La
depressione non è la stessa cosa della tristezza, del
lutto,
dell’affrontate il trauma o la perdita. La depressione
è lo
spegnimento completo di tutte le cose che rendono
l’essere umani
un’esperienza gioiosa. Il sintomo più grave
e coerente della
depressione è l’anedonia, un parolone
per dire l’incapacità
di provare piacere. Se combattete
contro la depressione,
provate
emozioni di ogni genere –
senso di colpa, vergogna, rabbia,
irritabilità, disperazione,
lutto schiacciante –, ma di rado fate
esperienza del
piacere, della gratitudine, della connessione e
della
gioia.
E se cercate di raggiungerli, spesso e volentieri ve li
sentite strappar via di mano. La depressione è il ladro di
tutte le
cose meravigliose che rendono la condizione
umana degna di essere
vissuta.
Il
termine depressione viene dal latino deprimere, che
significa
schiacciare giù. Già, proprio così. La depressione
agisce
come una vera e propria àncora che vi trascina nel
fango. Una
diagnosi di disturbo depressivo maggiore
richiede la presenza per
almeno due settimane di
anedonia quotidiana. Altri sintomi molto
comuni sono:
scarsa energia/spossatezza;
dolore cronico a bassa intensità;
concentrazione altalenante, difficoltà a prendere
decisioni;
sentirsi in colpa e/o inutili;
dormire un sacco o dormire di merda (che sia non
dormire affatto o
dormire male);
sentirsi irrequieti a mille o rallentati (come muoversi
sott’acqua
o avere il cervello avvolto
nell’ovatta);
pensieri intrusivi di morte (ideazione morbosa) o suicidi
(ideazione suicida);
cambiamento nelle abitudini alimentari (e cinque per
cento o più
di aumento o perdita di peso come
conseguenza);
irritabilità, rabbia, scarsa tolleranza allo stress.

E
come si fa a stare meglio, allora?
La
brutta notizia è che non esiste un percorso magico
per guarire
dalla
depressione. Tuttavia, questa è ANCHE
una buona notizia, perché significa che potete cercare la
strada
che
funziona meglio per voi. E ’fanculo chiunque
vi dica che non state
facendo la cosa giusta. La cosa
importante è essere consapevoli
delle tante opzioni
disponibili fra cui scegliere… soprattutto
quando ci sono
persone che cercano di imporvi la loro visione della
cura.
È
solo da pochi anni che i professionisti hanno iniziato
a includere
la
cura trauma-orientata nella loro pratica. Se
la depressione è
predisposizione + trigger, allora non
avrebbe senso cercare i
possibili trigger? Ne abbiamo già
parlato, lo so. Ma consentitemi
di
rinfrescarvi
velocemente la memoria.
Molto
poco della nostra programmazione genetica è
scolpito nella pietra.
Dal due al cinque per cento di tutte
le malattie prese nel loro
insieme sono legate a un
singolo gene difettoso. Tuttavia,
moltissime
– e dico
moltissime – malattie stanno acquattate nel
nostro dna e
possono
essere risvegliate dalle condizioni giuste. Il
termine super figo
usato dai dottori di lusso è epigenetica.
Ehi, aspetta un
minuto, Doc. Ciò significa che la mia
depressione che è stata
risvegliata potrebbe venire anche
rimessa a nanna?
La
mia risposta da terapeuta rompiscatole è: Forse, ma
solo forse.
Se
sapete o avete il forte sospetto che il vostro disturbo
dell’umore
abbia una grossa radice traumatica, allora
potrebbe avere camionate
di senso curare il trauma
insieme agli altri sintomi.
Ehi, tipa,
questo significa che potrei non dover prendere
farmaci vita natural
durante? Che magari non la passerò ai
miei figli? Che magari non
continuerà a peggiorare un anno
dopo l’altro come ha fatto
finora?
Altri
forse, ma solo forse. Puah. Vorrei tanto conoscere la
formula
magica. Quello che posso dirvi è che le persone
tendono a trovare
un
modo migliore per gestire i loro
disturbi dell’umore se riusciamo a
sbrogliare la c***o di
matassa del trauma. Gestiscono i trigger
presenti e futuri
molto meglio. Certe volte riescono quasi a
neutralizzarli.
Se prendono farmaci, spesso riescono a diminuire le
dosi, o a trovare modi di non doverle aumentare di anno
in anno
come
in passato.
E
sì, ho visto la completa remissione dei sintomi un
buon numero di
volte. È possibile.
Non
è nemmeno detto che le persone debbano per
forza perpetuare
inconsciamente i cicli del trauma nei
figli. Possono insegnare loro
le strategie di coping che
hanno imparato. (Un libro magnifico?
Trauma Proofing
Your Kids di Peter Levin e Maggie Kline.)
E se
i figli si
trovano in difficoltà, loro saranno i primi a spingere
per
un aiuto immediato e precoce.
Questo
è un altro di quegli argomenti tosti, me ne
rendo conto. È dura
essere positivi riguardo a una
malattia che tende a mangiarsi vive
le
persone. Ma come
per ogni altra cosa, io credo davvero che
comprendere le
radici biochimiche del problema sia
straordinariamente
utile per sentirsi meno in trappola e fuori di testa. Non
siete
definiti dalla vostra depressione. Non siete deboli, e
non avete
fatto niente di sbagliato. Non vi meritavate
questo. Non è una
punizione per qualcosa. Avete beccato
la tempesta perfetta di
genetica + trigger e adesso
navigate a vista mentre cercate di
portar
via il culo da lì
per imboccare la strada che vi farà stare
meglio.
La
gente che combatte la depressione (o qualunque
altro disturbo
legato
alla mente) è TUTTO tranne che
pazza.
Sono
sopravvissuti, che reagiscono alla chimica del
cervello, la quale
rema contro tutte le cose che rendono
la vita degna di essere
vissuta. Quelli di voi che lo stanno
vivendo? Che dicono: «Fottiti,
depressione, oggi non
l’avrai vinta tu»?
Siete
le persone più coraggiose che io conosca.
Continuate
a combattere.

PRONTI, VIA!: COSA RIVOGLIO INDIETRO


La differenza fondamentale fra la depressione
e la tristezza è quanto ci
sottrae quando colpisce. È come uno
stato di polizia dove sono puniti non
solo i comportamenti
criminali, ma anche solo il pensiero criminale. La
depressione ci
porta via la vita e la volontà di vivere.
Siete mai stati in questo posto? Ci siete
adesso?
Mi piacerebbe moltissimo che questo fosse il
momento in cui tirate su
il telefono e iniziate a chiedere aiuto.
L’aiuto di famigliari e amici, l’aiuto
di professionisti. Ma so
quanto è dura fare quella telefonata… e quanto è
difficile ottenere
davvero l’aiuto che state chiedendo. Perché lo so che vi
sentite
sopraffatti.
So anche che se state leggendo questo libro e
siete arrivati fin qui, è lì
che siete diretti. State iniziando a
cogliere il barlume di un pensiero tipo:
«‘Fanculo ’sta merda,
rivoglio indietro la mia vita».
E se ci ho preso, qual è la cosa che volete
indietro più di tutte? Di tutte
le cose che rendono la vita degna
di essere vissuta e che la depressione vi
ha portato via, qual è
quella che vi manca di più in questo momento?
Potrebbe non essere
chissà che, e va bene così. Anzi, è magnifico perché
potrebbe
essere più facile riappropriarsene.
Non dovete fare niente, non ancora, a meno che
non lo vogliate. Ma lo
scopo di questo esercizio è iniziare con il
pensiero criminale che la
depressione vi ha proibito di fare. Il
pensiero che potete stare meglio e lo
meritate. Il pensiero che c’è
un mondo là fuori cui avete il diritto di far
parte e magari anche
di godervi.
Cominciamo da qui. Scrivete quei pensieri.
Ricordate quel mondo.
Questo è l’inizio della vostra nuova
storia.

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10. L’IMPORTANZA DI ONORARE IL
LUTTO

Ricordate
che abbiamo parlato della cronologia della
guarigione dal trauma?
Ecco, come abbiamo detto,
sebbene non esista alcun numero magico
associato al
tempo che ci serve per guarire, i ricercatori hanno
scoperto che la finestra temporale essenziale per
ristabilire
l’equilibrio è di novanta giorni. E i primi trenta
sono la parte
più rischiosa e necessaria di quel processo.
Quando qualcosa
interferisce con quell’esperienza, è
molto più probabile
manifestare sintomi di trauma
perduranti.
Un
elemento che aiuta a evitare la risposta traumatica è
avere lo
spazio per piangere. Piangere per ciò che vi ha
ferito. Piangere
per
ciò che avete perso. Piangere per la
vita che volevate e che non è
più la stessa.
Disturbi
come la depressione e l’ansia hanno forti
predisposizioni
genetiche, ma le ricerche mostrano
anche che richiedono un fattore
scatenante. Il lutto non
elaborato spesso agisce esattamente come
innesco. Non
avere lo spazio per guarire può indurre veri e propri
cambiamenti biochimici nel cervello.
E
non è troppo tardi, badate bene. Non importa se sono
passati trenta
giorni o trent’anni. Per molte persone,
guarire da una risposta
traumatica acquisita può voler
dire tornare indietro e fare il
lavoro che non era stato
loro permesso di fare in prima battuta. Il
lutto ci spaventa
a morte, che sia il nostro o quello di qualcun
altro. Dà la
sensazione di precipitare nel vuoto circondati dalle
tenebre in una caduta senza fine.
Quando
non compiamo o non ci viene permesso di
compiere il processo
necessario a guarire, questo spesso
porta a vivere un “lutto
traumatico”. Ossia un livello di
lutto irrisolto che si trasforma
in disagio psichico.
Mettiamoci
al lavoro per dare un taglio a questa
stronzata e concentrarci
sull’onorare il lutto.
Innanzitutto,
vediamo tre punti fondamentali: come ne
parliamo, come supportiamo
gli altri e come ci
assicuriamo di ottenere il sostegno che ci
serve
nel nostro
processo di guarigione. Il lutto è il processo
fondamentale di lasciar andare. Nel suo libro How Can I
Help?,
June Cerza Kolf fa notare che la paura principale
degli esseri
umani
è quella dell’abbandono. Nel suo
Diario di un dolore, C.S.
Lewis ha scritto: «Nessuno mi
aveva mai detto che il dolore
assomiglia tanto alla paura».
Il lutto è
rendersi conto della certezza
dell’abbandono. È la nostra peggiore
paura diventata
realtà.
Quindi
si capisce perché non parliamo molto del lutto.
Ci fa cagare sotto.
Abbiamo paura che parlarne in
qualche modo lo evocherà. Anche se a
livello razionale
sappiamo che l’abbandono è inevitabile nel corso
della
nostra esistenza su questo pianeta, quando succede ci
manda
al
tappeto.
Quando
parliamo del lutto, il nostro primo pensiero va
sempre alla morte.
Ma
il lutto è l’esperienza di qualunque
perdita, di qualunque
abbandono nelle nostre vite. Può
accompagnare la perdita del posto
di lavoro, di una
relazione (non solo a causa della morte), o la
perdita di
uno stile di vita che eravamo arrivati a dare per
scontato.
Possiamo provare le stesse sensazioni anche per
cambiamenti
felici. Sposarsi può essere bellissimo, ma
potremmo essere in lutto
per la perdita della nostra
esistenza da single. Diventare adulti è
una cosa cui tutti
guardiamo con impazienza, fino al momento in cui
dobbiamo elaborare il lutto per la perdita della libertà
dell’infanzia e della possibilità di rimettere le decisioni ad
altri.
La
nostra aspettativa culturale è possedere anziché
lasciar andare. La
perdita (l’abbandono) è un lasciar
andare obbligato riguardo al
quale abbiamo pochi
meccanismi per curare noi stessi o sostenere la
guarigione degli altri. Non parliamo dell’inevitabile
lasciar
andare di ciò che pensiamo di possedere.

Che
cos’è il lutto?
La
parola inglese per lutto, grief, significa
essenzialmente
profondo dolore e viene dal francese antico
grever, che
vuol dire “gravare”. Il lutto è quindi un peso
che portiamo.
Gabor
Maté, nel suo In the Realm of Hungry Ghosts, parla
del fatto
che il dolore emotivo attiva il cervello nello
stesso modo del
dolore
fisico. Quando soffriamo,
soffriamo nel senso LETTERALE
del termine. È un
fardello fisico come un osso fratturato o una
grave
malattia.
Questa
è una definizione semplice del lutto. Ma esso ha
la caratteristica
di non essere mai davvero semplice.
Esistono diversi tipi di lutto
complicato:
può essere complesso
, in special modo quando si
vivono
molte perdite ravvicinate al punto che si
legano
tutte fra loro;
può essere anticipatorio
, nel senso che sappiamo che
sta
arrivando e soffriamo ogni istante finché
la perdita
non si
verifica davvero. E comunque, anche se ce
l’aspettavamo, questo
non vuol dire che soffriremo
meno;
può essere disconosciuto
, nel senso che non viene
riconosciuto nella sua profondità dai
membri della
nostra rete
sociale o nella cultura più ampia. Abbiamo
regole culturali per
la quantità di lutto che ci è
concesso
provare, non è così? Un
aborto spontaneo è
considerato una perdita
minore di quella di un
bambino.
Un animale domestico è considerato
meno di una
persona.
Un vicino meno di un genitore. Un ex
partner
meno di quello
attuale. Il lutto può essere
disconosciuto
anche quando la
relazione non era sana.
Certe volte al
lutto si mescola il
sollievo, cosa che a
sua volta può
suscitare sensi di colpa. Per
esempio, la
perdita di un genitore abusante
è spesso un lutto
disconosciuto;
può essere ritardato
, nel senso che lo mettiamo da
parte e
continuiamo a funzionare finché non torna e
ci
manda al tappeto.
Usiamo il lavoro come meccanismo
protettivo… finché le cose non
esplodono;
può essere spostato
, nel senso che ci nascondiamo
dalla
vera fonte del dolore e reagiamo in maniera
sproporzionata a
qualcos’altro. Per esempio, qualcuno
può
sembrare impassibile
davanti alla morte di un
genitore, e mesi
dopo ritrovarsi a
piangere in modo
incontrollabile per aver
trovato un uccellino
moribondo
in giardino.

Le
banalità che la gente dice e che non aiutano
Il tempo guarisce tutto, sai?

Certo che sì, cazzo, lo so che alla fine andrà meglio.


Adesso però
non è così, ti pare? Perciò chiudi il becco.
È meglio così. Ha smesso di soffrire.

Può darsi. Io non ero pronto, però. O forse lo ero, ma


adesso il
mio lutto anticipatorio si è moltiplicato
all’ennesima potenza.
Ammettiamo che sia stata una
buona morte, o che io fossi preparato,
è
comunque
successo, c***o!
Dio non ci addossa mai più di quanto siamo in grado di
sopportare.

Dio (o qualunque potere superiore) non è una testa di


cazzo che si
diverte a escogitare test di resistenza al
dolore. Se Lei voleva la
mia attenzione o incoraggiare il
mio sviluppo personale, c’erano
modi molto più efficaci.
Alla gente succedono di continuo cose che
non sono in
grado di sopportare. Questo non ci rende dei falliti
agli
occhi della nostra fede. Non pregiudicare il percorso
spirituale
del
prossimo gettandogli in faccia stronzate del
genere, per l’amor del
cielo. E non lasciargli intendere
che non dovrebbe cercare
aiuto.
Devi essere forte.

E perché? Perché devo? Perché non posso essere


piccolo,
sofferente e distrutto come mi sento? Perché non
mi è permesso
vivere questa esperienza? Perché devo
fingere di stare meglio di
quanto sto? ‘Fanculo la forza
inautentica. In questo momento non
sono forte, perciò
non fingerò di esserlo.
Stai reggendo benissimo.

Questa stronzata fa il paio con “essere forte”. Che io lo


sia o
meno non c’entra. Non hai idea di quello che provo
dentro di me. E
non voglio che mi si facciano i
complimenti perché non metto a
disagio gli altri
lamentandomi e piangendo. Perché può darsi che a
un
certo punto io abbia bisogno di lamentarmi e piangere, e
adesso
avrò paura a farlo davanti a te.
So come ti senti.

Oh, Buddha dei miei stivali, no che NON


lo sai. Non
paragonare la tua perdita alla mia. Che fosse minore,
uguale o peggiore. Non cercare di portarmi via la mia
esperienza.
Il
lutto è unico per ciascuno di noi. Puoi
anche avere una buona idea
di come mi sento, ma ti
assicuro che non vivi la mia stessa
esperienza. Concedimi
di essere l’unica persona che sa esattamente
cosa sto
passando in questo momento.
Abbiamo
detto tutti queste stronzate e le abbiamo
sentite tutti. Magari la
persona cui le abbiamo dette non
si è sentita offesa, ma di sicuro
non sono state d’aiuto.
Quindi per favore, evitiamo le banalità.
Se non sapete
cosa dire, limitatevi a tenere chiusa la bocca e a
essere
presenti.
Se
vi sfugge qualcosa di stupido, riconoscetelo.
Ecco
invece alcune cose che POTETE dire.
Nessuna di
queste affermazioni è una panacea emotiva. Potrebbero
non
essere d’aiuto. Ma non sminuiranno l’esperienza del
lutto altrui.
Non sono un modo di plasmare o controllare
il comportamento della
persona in lutto in base alle
vostre aspettative o agli obiettivi
sociali.

In questo momento devi avere la sensazione che questo
dolore
non finirà mai”.

Mi spiace così tanto che ti sia capitato questo”.

Sembra più di quello che riesci a gestire”.

Non sentirti in dovere di essere forte se invece stai male e
hai bisogno di aiuto”.

Piangere è okay. Anche essere furibondi. O
intorpiditi.

Certe cose proprio non hanno senso”.

Non ho niente da dirti per farti stare meglio in questo
momento, ma sarò presente per te”.

Sono felice di aiutare in ogni modo che posso, ma non ho
bisogno di fare qualcosa per te per
sentirmi meglio. Offrirò
il
mio aiuto, ma non farò nulla se è quello
che preferisci”.
Oppure potete semplicemente stare zitti. Non è
necessario
blaterare di continuo per essere una
presenza curativa nella vita
di qualcuno.
Ecco
altri modi di prendersi cura di una persona in
lutto:
Ascoltate in maniera diversa.
Date alle persone lo
spazio
per raccontare la loro storia se lo
desiderano.
Non interpretate
né aggiungete il vostro filtro. Mostrate
apertura e ricettività
a quello che dicono e a come si
sentono.
Fate domande a risposta
aperta che li
incoraggino a continuare a
parlare se lo desiderano.
Convalidate le loro esperienze. Fate vedere
che vi
stanno a cuore
e che siete preoccupati per loro. Sono
tutti trucchi di base che i
terapeuti usano per costruire
relazioni con
i pazienti perché
sono semplicemente
buone capacità umane di entrare in
connessione con
altri esseri umani
.
Offrite sostegno che serva a soddisfare un bisogno
specifico
.
Non fate offerte vaghe. Certe volte quando
siamo in lutto non
sappiamo cosa ci aiuterebbe, ma se
qualcuno
si offre di portare i
bambini in piscina o lavare
i piatti, ci
rendiamo conto che
sarebbe meraviglioso.
Chiedete cosa potrebbe essere d’aiuto
. Va bene
anche dire
che non sapete cosa offrire di utile, ma se
c’è qualcosa che
potrebbe esserlo, sarete ben felici di
farlo. Se qualcun altro
nella vita della persona in lutto
agisce da
sostegno
primario/punto di riferimento,
chiedete a
loro.
Se dicono di no, ritiratevi in buon ordine
. Dite loro
che
l’offerta è sempre valida ma non
insistete.
Non aspettatevi che le persone siano in grado di
rispondere
alle domande o di prendere
decisioni
.
Evitate il più
possibile di chiedere durante i primi
giorni
del lutto. Quando ci
si sente completamente a pezzi,
tirarsi
insieme per essere
razionali è al di sopra delle
nostre
forze.
Prendete il dolore e la sofferenza della persona con
compassione.
Fate così anziché offrire storie positive
o
cercare di sistemare le cose, dare consigli
o
suggerimenti. Siate
disposti a non fare niente, a
limitarvi a
stare lì, a riconoscere
e onorare la persona,
il suo dolore e la
sua sofferenza. Solo aver
raccontato
la propria storia può essere
potentemente terapeutico.
Partecipate alla sua storia e alla sua esperienza
anziché
attenervi alla vostra idea di verità o a
ciò che
pensate debba
provare o fare.
Siate consapevoli del pregiudizio che la nostra
cultura ha
verso le storie di redenzione
. Non
cercate di cambiare,
riscrivere, reinquadrare o
invalidare le
storie di non redenzione
e non a lieto fine
della persona.
Date credito a sforzi piccoli o grandi, resistenza o
forza
davanti alle avversità senza
paternalismi.
Se
qualcuno sta
cadendo nella depressione, è importante
incoraggiare i
comportamenti che mostrano passi
avanti
verso la guarigione,
anziché limitarsi a
intervenire quando
sembra sopraffatto.
Tenete un piede nell’accettazione e uno nelle
possibilità,
ma non insistete a parlare sempre delle
possibilità.
Parlate della complessità della situazione,
comprese le
apparenti contraddizioni. Un E
è
infinitamente più potente di un MA
.
Tutte le volte che
scegliamo un «ma» quello
che stiamo dicendo
DAVVERO
è «ti sbagli»
anziché accettare le
contraddizioni che
tutti proviamo quan-
do
siamo in lutto.
Non dimenticate i sofferenti dimenticati
. Spesso a
essere
colpite da una perdita sono molte persone,
ma
noi ci concentriamo
su alcune, quelle principali.

PRONTI, VIA!: ONORATE IL LUTTO CON LE CERIMONIE


Abbiamo parlato di come il cervello umano sia
strutturato per le storie.
E la musica. E la connessione. C’è da
stupirsi, allora, che desideriamo le
cerimonie? L’antropologa
dell’Università Cornell Meredith Small chiama
le cerimonie i segni di punteggiatura della vita
.
Ha senso, giusto? Se la nostra memoria
operativa può trattenere sette
(due più, due meno) elementi di
conoscenza alla volta, c’è da meravigliarsi
se pensiamo per simboli
e navighiamo nel mondo all’interno di quella
realtà? Che creiamo
senso attraverso l’espressione creativa?
Abbiamo determinate cerimonie culturali per il
lutto. I funerali sono
l’esempio più comune. Ma i funerali sono
sempre più senz’anima. Una
casellina da spuntare, anziché
un’opportunità di elaborare il lutto. E così
molti avvenimenti
luttuosi non ottengono una cerimonia di chiusura.
Non perché non ne
abbiamo bisogno, ma perché non esiste un linguaggio
per quel
bisogno.
E qui è dove riempiamo il vuoto.
Per cosa siete in lutto che non riuscite
nemmeno a esprimere a parole?
Che cosa simboleggia la vostra
esperienza? Come potete usare questi
simboli per crea-

re significato? Cosa comporterebbe la vostra


cerimonia?

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CONCLUSIONE
La nuova normalità

Sappiate
di avere potere e valore
Le
cose migliorano. Sul serio. Non tornano perfette,
all’innocenza
pre-trauma. Però migliorano. E certe volte
sono più ricche e
profonde grazie al fatto che avete
ripreso le redini del potere
alle
vostre condizioni.
Certe
cose probabilmente rimarranno dei trigger.
Anniversari, circostanze
della vita.
Ma
la vostra relazione col trauma cambierà. Non sarà
più la belva che
controlla ogni vostra mossa.
Il
trauma somiglierà di più al vicino rompiscatole con
troppo tempo
libero.
Avete
presente.
Quello
che vi ricorda che la raccolta della spazzatura è
cambiata perché
c’è l’orario festivo. O che vi dice che il
vostro cane piange un
sacco quando non ci siete. O che il
tizio del piano di sotto è
uguale sputato all’identikit
dell’uomo che hanno mostrato al
telegiornale perché ha
rapinato un minimarket.
Sono
dei rompiscatole benintenzionati.
E
fate amicizia con queste persone come con il vostro
trauma.
Certe
volte vi danno informazioni utili. Voi dite grazie.
Prendete
l’informazione e agite di conseguenza. E
lasciate perdere il
resto.
Se
invece non vi serve agire, li ringraziate per aver
condiviso con
voi
informazioni che pensavano potessero
darvi una mano a sentirvi al
sicuro.
Ascoltate,
sorridete, e pensate: “’Fanculo, amigdala”, e
andate avanti con
la vostra vita.
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LETTURE CONSIGLIATE
Altre persone che hanno scritto roba favolosa

Molti dei libri che ho trovato utili nel corso degli anni
tendono a
rivolgersi a un pubblico specifico che potrebbe
non includere
intenzionalmente me o voi. Il lavoro di
Gary Chapman sui cinque
linguaggi dell’amore ne è un
ottimo esempio. Offre una struttura
straordinaria per
comunicare all’interno delle relazioni, ma i suoi
libri
sono scritti dal suo punto di vista secondo cui tutte le
relazioni romantiche sono cisessuali ed eterosessuali, e
che il
cristianesimo è la pratica spirituale di riferimento.
Non c’è
niente di male se anche voi la pensate così. Ma lo
dico come
avvertenza generale. Un libro in sé potrebbe
non essere adatto alla
vostra identità e al vostro percorso
esistenziale. Ma ciò non
significa che le idee che contiene
siano inutili. Come tutti noi
che
non sempre ci adattiamo
abbiamo imparato: prendete quello che
funziona e
ignorate il resto.
Dipendenza
Memoirs of An Addicted Brain: A Neuroscientist Examines
his
Former
Life on Drugs
di Marc
Lewis
In the Realm of Hungry Ghosts di Gabor Maté
Mangiando al chiaro di luna. Come le donne possono
trasformare
il
loro rapporto con il cibo di Anita Johnston, Orme
Editori, 2011,
Roma
Seeking Safety: A Treatment Manual for ptsd
and Substance
Abuse di Lisa M. Najavits
A Woman’s Addiction Workbook: Your Guide To In-Depth
Healing di
Lisa M. Najavits
Rational Recovery: The New Cure for Substance Addiction
di
Jack Trimpsey
12 Stupid Things That Mess Up Recovery: Avoiding Relapse
Through
Self-Awareness and Right Action
di Allen Berger
12 Smart Things To Do When The Booze and Drugs Are
Gone:
Choosing
Emotional Sobriety through Self-Awareness
and Right Action
di Allen Berger
- e tutti gli scritti
di Patrick Carnes sulla dipendenza
Ansia, depressione,
rabbia e altri disturbi dell’umore
Hello Cruel World: 101 Alternatives to Suicide for Teens,
Freaks,
and Other Outlaws
di
Kate Bornstein
Alive With Vigor! Surviving Your Adventurous Lifestyle
di
Robert Earl Sutter III
How To Not Kill Yourself: A Survival Guide for Imaginative
Pessimists
di Set Sytes
Bluebird: Women and The New Psychology of Happiness
di
Ariel Gore
Maps To The Other Side: The Adventures of A Bipolar
Cartographer
di Sascha Altman DuBrul
Follemente
felice
di Jenny Lawson, Sperling & Kupfer,
2017,
Milano
The Price of Silence: A Mom’s Perspective on Mental Illness
di Liza Long
Lutto
Being With Dying: Cultivating Compassion and Fearlessness
in
the
Presence of Death
di
Joan Halifax
Diario di un dolore di C.S. Lewis, Adelphi, 1990,
Milano
Black Swan: The Twelve Lessons of Abandonment Recovery
di Susan Anderson
The Journey from Abandonment to Healing: Surviving
Through and
Recovering From the Five Stages That
Accompany the Loss of Love
di Susan Anderson
Sign
Posts of Dying
di Martha Jo Atkins
Good
Grief
di Granger E. Westberg
How Can I Help? Reaching Out To Someone Who Is
Grieving di June
Cerza Kolf
Relazioni
Sex from Scratch: Making Your Own Relationship Rules
di
Sarah Mirk
Consensuality: Navigating Feminism, Gender, and
Boundaries
Towards
Loving Relationships di Helen Wildfell
How to Be an Adult in Relationships: The Five Keys to
Mindful
Loving
di David Richo
I
5 linguaggi dell’amore
di Gary Chapman, Elledici, 2008,
Torino
- più gli altri libri di Gary Chapman dedicati alle
relazioni che
usano il modello dei linguaggi dell’amore
Autocompassione
La self-compassion. Il potere dell’essere gentili con se stessi
di
Kristin Neff
The Mindful Path to Self-Compassion: Freeing Yourself from
Destructive Thoughts and Emotions
di Christopher Germer
The Self-Compassion Diet: A Step-by-Step Program to Lose
Weight
with Loving-Kindness
di
Jean Fain
Meditazione, mindfulness
e riduzione dello stress
Don’t Just Do Something, Sit There: A Mindfulness Retreat
with
Sylvia Boorstein
di
Sylvia Boorstein
Vivere momento per momento. Come usare la saggezza del
corpo e
della mente per sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e
la
malattia
di Jon
Kabat-Zinn, Corbaccio, 2021, Milano
A Path with Heart: A Guide Through the Perils and Promises
of
Spiritual Life
di Jack
Kornfield
- e quasi tutti gli scritti di Pema Chödrön, Thích Nhất Hạnh
e
sua santità il Dalai Lama
Trauma
The Broken Places. A Memoir
di Joseph McBride
Dear Sister: Letters from Survivors of Sexual Violence
a cura
di Lisa Factora-Borchers
Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza,
dall’abuso domestico al terrorismo
di Judith L. Herman, Magi
Edizioni, 2005, Roma
- più tutto quello
scritto da Peter A. Levine
OceanofPDF.com
RINGRAZIAMENTI

Quando
ho lasciato il mio lavoro sicuro qualche anno
fa, l’ho fatto per
concentrarmi sulla pratica privata e
scrivere il libro che volevo
scrivere da tempo. Si è trattato
di un grande salto nel buio per
una
vedova con due figli.
Per fortuna, è andato tutto bene.
Tuttavia,
questo non è il libro che volevo scrivere. Chi
l’avrebbe mai
detto.
Questo
libro è nato, inizialmente, dal fatto che ho
passato un quarto
d’ora
a scrivere il discorsetto di “cinque
minuti di scienza del
cervello” che faccio alla maggior
parte dei miei pazienti nel corso
degli anni. L’ho
mandato alla Microcosm Publishing che ha visto il
potenziale nella mia idea vaga e si è impegnata ad
aiutarmi a
svilupparla, che è una cosa che gli editori non
fanno più. A
proposito, l’altro libro è in lavorazione. E
abbiamo molte altre
idee per libri fantastici che bollono
in pentola. Perché nel
frattempo Elly Blue e Joe Biel da
miei editori sono diventati miei
amici. Sono brillanti,
incoraggianti e contano le volte che scrivo
“c***o” in un
manoscritto e suggeriscono sempre di aggiungerne
qualcun altro.
Ad Aaron Sapp e Allen Novian, per essere stati i primi
lettori che
hanno provato ad assicurarsi che non facessi
figure barbine sulla
parte di scienza del cervello. Posso
aver fatto casino comunque.
Non
è colpa loro,
ovviamente. Mandate tutte le lettere di reclamo
direttamente a me.
A
mio figlio Sammuel, che è stato il mio co-trainer alle
conferenze
sulla scienza del cervello e sul trauma,
parlando con coraggio
della
perdita del padre per aiutare
altri a capire.
Al
mio miglior amico, Adrian. Che è sempre molto più
bravo di tutti i
cavalli del re e di tutti i soldati del re. E
porta da mangiare,
per
di più.
Al
resto dell’equipaggio, perché se non vedete il vostro
nome
stampato non conta, c***o. Grazie per essere la
mia famiglia
Shannon,
Penny, Brianna, Hailee, Rowan e
Braedan.
A
Joe G. Che nel frattempo da fidanzato è diventato
mio marito.
Nonostante la mia determinazione a non
sposarmi mai più. Perché
(chiaramente), sposarsi è
un’idea del c***o. A meno che non si
tratti di Joe G. In
questo caso il mondo inizia ad avere molto più
senso per
chiunque conosca uno di noi due.
Ai miei supervisori, presenti e passati. Siete tutti così
intelligenti e motivati e BRAVI
nel vostro lavoro, che mi
tocca farmi il mazzo per starvi dietro e
non fare figure di
merda. È la miglior prevenzione dalla pigrizia
che una
ragazza potrebbe sperare!
E infine, a tutti i miei pazienti. PORCA
VACCA. Siete
delle leggende talmente cazzute che non riesco
neanche
a capacitarmi di quanto sono grata di far parte del vostro
cammino. Grazie per avere fatto tutto il lavoro sporco. E
per aver
interiorizzato la faccenda della scienza del
cervello così bene che
QUELLA è diventata il mio primo
libro.
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