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Marina Innorta

I quaderni di My Way Blog

#1 - Esercizi per

Calmare la mente

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Copyright © 2018 Marina Innorta

Tutti i diritti riservati

www.mywayblog.it
Email myway.marina@gmail.com

ISBN: 9791220035378

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Introduzione

I “Quaderni di My Way Blog” sono una serie di brevi guide con esercizi
ispirati soprattutto alla mindfulness e alla psicologia positiva.
Questo che stai leggendo è il n.1 e contiene dieci esercizi utili per
calmare la mente: per ridurre cioè quella sensazione di fretta, stress e
ansia che talvolta domina le nostre giornate.
Prima di lasciarti alla lettura del Quaderno e ai suoi esercizi, una breve
presentazione e alcune istruzioni per l’uso.
Io mi chiamo Marina Innorta, sono una sociologa, ho un master in
comunicazione della scienza e da diversi anni sono appassionata di
psicologia positiva, mindfulness e self-help, temi che tratto sul mio blog:
www.mywayblog.it.
Non sono una professionista del benessere mentale (psicologa, coach o
altro). Tutto quello che scrivo si basa sui tanti libri che leggo su questi
temi, e sulla mia esperienza personale.
Sono una persona molto ansiosa e ho sofferto spesso di attacchi di
panico. Ho affrontato questi problemi, come è giusto che sia, con l’aiuto
degli specialisti adatti; ma ho anche svolto molta ricerca e molto lavoro
su me stessa in autonomia (se ti interessa questa storia, la puoi leggere nel
mio libro La rana bollita. Una storia d’ansia, attacchi di panico e
cambiamento che trovi su Amazon in versione cartacea e anche in
eBook).
Tutti gli esercizi che troverai in questo Quaderno li ho sperimentati io
stessa più volte. Ho selezionato quelli più significativi, cercando di
proporre una certa varietà: ci sono esercizi che si possono fare scrivendo,
disegnando, camminando, o seduti alla scrivania mentre si lavora.
Se quella che hai per le mani è l’edizione cartacea, troverai, alla fine
di ogni esercizio, alcune domande per riflettere e lo spazio per annotare
le tue osservazioni. Ti invito quindi a usare questo libricino proprio come
se fosse un quaderno per i tuoi appunti. Se lo spazio che ho lasciato sotto
gli esercizi non dovesse bastarti, troverai qualche altra pagina per gli
appunti anche alla fine, dopo la bibliografia.
Se invece hai acquistato la versione eBook, troverai le stesse domande
alla fine di ogni esercizio, ma, per ovvi motivi, non lo spazio per
scrivere. In questo caso ti consiglio di comprare un bel quaderno e di

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usarlo per le tue annotazioni a mano a mano che sperimenterai le diverse
pratiche.
Gli esercizi non devono essere eseguiti nell’ordine in cui compaiono.
Anzi, ti invito a scegliere tu quali ti sembrano più adatti a te, quando farli,
quali ripetere e quali abbandonare. Il senso di questo Quaderno non è
tanto di proporre un percorso strutturato, passo dopo passo, ma di dare
degli stimoli, dei suggerimenti, dei piccoli assaggi. Sta poi a te trovare
cosa ti si addice, cosa ti fa bene, cosa vuoi approfondire. Nutro fiducia
nelle capacità di ognuno di noi di scoprire e capire cosa ci fa bene o cosa
al contrario non ci serve.
Buona lettura e, soprattutto, buona pratica!

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Una passeggiata in collina

Un pomeriggio di maggio di qualche anno fa.


È sabato, o forse domenica. Sono in una zona collinare poco fuori città
per fare una passeggiata assieme a un’amica. Camminiamo lungo un
sentiero di pietre bianche e grigie, appena un po’ polveroso, che
costeggia un frutteto. Alla nostra destra si apre un bel panorama di colline
verdi interrotte a tratti da spazi brulli e rossicci. È la giornata ideale per
una camminata: c’è il sole, l’aria è limpida e non fa troppo caldo. Un
leggero venticello mi accarezza il viso e il corpo si muove agile un passo
dopo l’altro.
Peccato però che da tutto questo io non stia ricavando alcun piacere.
Sì, ho la vaga sensazione di essere in un bel posto e che sia una bella
giornata, ma me ne accorgo appena perché da circa venti minuti sono
molto impegnata a raccontare alla mia amica una questione di lavoro che
mi sta dando parecchie preoccupazioni. Tutta la mia attenzione è rivolta
verso i miei pensieri, e tutto il resto resta sullo sfondo, lontano, non a
fuoco.
Giuro che adesso, a distanza di qualche anno, non riesco nemmeno a
ricordare quale fosse il problema di cui stavo parlando, ma in quel
momento doveva sembrarmi qualcosa di molto importante, meritevole di
tutta la mia attenzione e concentrazione. Ci comportiamo così quando
siamo sotto stress. Nella nostra mente proliferano pensieri e
preoccupazioni che assorbono completamente la nostra attenzione. Se
fossi stata più consapevole di questo meccanismo, invece restare così
tanto sintonizzata sul mio stato d’animo del momento, avrei potuto
prestare più attenzione a quello che avevo attorno, lasciando i pensieri
sullo sfondo. Avrei potuto portare in primo piano il paesaggio, il mio
corpo in movimento, i piedi che si muovevano un passo dopo l’altro. O
anche avrei potuto concentrarmi maggiormente sulla persona che era con
me.
Se avessi fatto qualcuna di queste cose, molto probabilmente sarei
riuscita a ridurre la tensione e lo stress che provavo. Non sarebbe stato
sufficiente a fare scomparire il problema (qualunque fosse), ma mi sarei
sentita meglio. Avrei potuto gustare ogni momento di quella passeggiata
primaverile, e questo mi avrebbe permesso di mettere un po’ di spazio
tra me e i miei problemi per poi tornare a guardare a quello che mi

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preoccupava con nuove energie. Invece, malgrado l’innegabile
piacevolezza della situazione - passeggiata, verde, panorama, clima
ideale – la mia mente continuava a tirarmi dentro ai pensieri, alimentando
inutilmente una spirale di emozioni negative.

La mente scimmia

Secondo il buddhismo, la nostra mente è come una scimmia nervosa. È


inquieta, agitata, capricciosa, bizzarra, incostante, confusa, indecisa,
incontrollabile. Si comporta proprio come una scimmia che saltella da un
ramo all’altro, afferra al volo una liana, si butta per terra per poi
arrampicarsi sul primo albero. Allo stesso modo la nostra mente passa da
un pensiero all’altro, producendo associazioni, ricordi, aspettative,
preoccupazioni, intenzioni, speranze.
Senza soluzione di continuità, noi pensiamo ininterrottamente, e quando
i pensieri cominciano a proliferare, allora diventano come un fiume in
piena e ci travolgono.
Quando siamo completamente assorbiti dalle storie che ci racconta la
nostra mente, ci comportiamo come se avessimo il pilota automatico
innescato. Siamo un po’ assenti, distratti, con la testa altrove e facciamo
quello che siamo abituati a fare senza essere ben presenti alla situazione.
Ci sono momenti della giornata in cui questo fenomeno può essere
particolarmente evidente. Al mattino, mentre ci prepariamo per andare al
lavoro, è facile che la mente vada verso gli impegni che ci aspettano.
Facciamo colazione pensando ad altro, con gesti automatici rifacciamo il
letto, ci laviamo la faccia, mettiamo le chiavi e il cellulare nella borsa,
ma la nostra mente è altrove e a volte può succedere che dopo essere
usciti ci rendiamo conto di avere dimenticato a casa qualcosa di
importante. Lo stesso facilmente ci accade mentre guidiamo la macchina,
o quando svolgiamo qualche attività di routine al lavoro. Siamo distratti, i
pensieri ci portano via da quel che stiamo facendo. Si produce uno
scollamento tra la realtà del momento e i nostri pensieri che ci trasportano
altrove.
Tutto questo fa parte del normale funzionamento della nostra mente.
Allontanarci dal presente è quello che facciamo quando fantastichiamo,
facciamo progetti, elaboriamo idee. Gli scienziati parlano a questo
proposito di mind wandering, vagabondare della mente (o anche pensiero
errante). È una modalità perfettamente normale di funzionamento della

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nostra mente, ed è connessa alla pianificazione, alla creatività e
probabilmente anche all’apprendimento[1].
Detto questo però, sappiamo anche che quando i pensieri si fanno
troppo rumorosi e agganciano la nostra attenzione al punto che ci
perdiamo in essi, il nostro umore tende a peggiorare, soprattutto quando il
contenuto di questi pensieri in qualche modo ci disturba. Accade allora
che ci mettiamo a rimuginare: abbiamo un problema, piccolo o grande che
sia, ci pensiamo, lo rigiriamo in mille modi, alimentando le emozioni
negative collegate. Sguazziamo dentro al problema, seguendo il nostro
chiacchiericcio mentale e ci allontaniamo dalle soluzioni.
Un’altra conseguenza negativa dell’avere la mente troppo affollata
consiste in una serie di automatismi di cui non ci rendiamo nemmeno
conto. Siamo così impigliati nel nostro mondo interiore che ci manca
totalmente lo spazio. Spazio per cosa? Per osservare il mondo che ci
circonda, per cogliere le opportunità che ci offre, per agire con
consapevolezza invece che limitarci a reagire agli stimoli.
Il nostro stile di vita, tra l’altro, tende a favorire questo scollamento tra
la realtà del presente e il flusso della nostra coscienza. Siamo bombardati
da stimoli, informazioni, sollecitazioni, in un modo che non ha precedenti.
È facile che ci ritroviamo ad avere la testa sintonizzata su tanti canali
diversi. Siamo, come si dice, iper-connessi: la posta elettronica e svariati
altri sistemi per ricevere e inviare messaggi; i social media con le loro
bacheche piene di fotografie, video, frasi, discussioni. Il mondo dentro i
nostri cellulari scoppia di cose, ma anche il mondo là fuori non scherza
quanto a complessità. Ci sono vetrine colme di ogni genere di merce (e se
non troviamo quello che vogliamo, ci pensano i giganti delle vendite
online a rimediare). Abbiamo centinaia di canali televisivi a
disposizione, cataloghi sterminati di libri da leggere, videogiochi, sale
cinematografiche, riviste. C’è tanto di tutto, dai beni materiali a quelli
immateriali. Alcune delle cose che ho elencato vengono considerate
positive, un arricchimento; altre al contrario sono stigmatizzate come
negative, perdite di tempo, fonte di distrazione. Ma a prescindere da
questo, è certo che mai come ora ci troviamo a processare ed elaborare
una quantità enorme di informazione.
Non c’è da stupirsi quindi se la nostra mente tende a essere sempre più
sovraffollata e se ci capita sempre meno spesso di trovarci immersi nel
silenzio, di essere concentrati, di fare e di pensare a una sola cosa alla
volta.
La mente scimmia è quella che si fa distrarre facilmente, che resta
impigliata in mille cose anche quando tu vorresti concentrarti. È anche

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quella che ti critica quando cerchi di fare qualcosa, che ti rimprovera, che
non è mai contenta dei risultati. La mente scimmia è quella che fa
continuamente da megafono alle tue paure.
Cercare di zittire la mente scimmia a suon di minacce di solito non
funziona. Così come non funzionano quelle soluzioni semplicistiche
secondo le quali basta riempirsi la testa di positività e tutto andrà bene.
La mente scimmia (o anche le scimmie nella tua mente, se preferisci) non
smetterà di fare baccano solo perché tu desideri che sia così. L’unica cosa
che si può fare, esattamente come si fa con un animale irrequieto, è
cercare di calmarla.
Gli esercizi di questo Quaderno servono proprio a questo: calmare la
mente, rallentare la proliferazione dei pensieri, fare spazio, cercare
dentro di noi un luogo calmo - come mi piace chiamarlo - in cui godere di
un po’ di quiete e silenzio. Calmare la mente, rallentare i pensieri e
imparare a lasciarli andare, è un sollievo di per sé; ma ha anche un
ulteriore risvolto positivo: ci rende a poco a poco più consapevoli della
realtà per come è. Perché? Perché ci aiuta a prendere le distanze dalle
rappresentazioni della nostra mente.
Un effetto collaterale del proliferare dei pensieri infatti è che certe
interpretazioni della realtà e certe reazioni tendono a diventare
automatiche. Quando la nostra testa è piena di chiacchiere rumorose
infatti non abbiamo quello spazio mentale necessario a mettere in dubbio
il nostro consueto modo di guardare il mondo. Abbiamo quindi bisogno di
sederci un attimo con noi stessi, di respirare, di introdurre spazio tra i
pensieri e tra le cose che facciamo. Solo così possiamo sperare di
disinnescare i nostri automatismi e aprirci a una visione più chiara della
realtà.

Mindfulness

Gli esercizi per calmare la mente che ho selezionato per questo primo
Quaderno sono quasi tutti ispirati a quell’insieme di pratiche che vanno
sotto il nome di mindfulness.
Mindfulness è una parola inglese che può essere tradotta con il termine
“consapevolezza”. Significa prestare attenzione a quello che succede
nel momento presente, un attimo dopo l’altro, senza vagare con la mente.
Possiamo considerarla un’abilità, un’attitudine, forse in un certo senso
anche uno stile di vita.

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Il concetto di mindfulness così come lo conosciamo oggi ci arriva
dagli studi e dalle intuizioni di un biologo molecolare americano di nome
Jon Kabat-Zinn. Negli anni Sessanta, quando ancora era studente,
cominciò a interessarsi allo yoga e alla meditazione, con l’aiuto di un
maestro Zen. Continuando a fare lo scienziato e a coltivare questi suoi
interessi, Kabat-Zinn maturò l’idea che l’antica tradizione delle tecniche
meditative potesse aiutare le persone a sopportare meglio condizioni di
stress e di dolore.
Così, alla fine degli anni Settanta, con il sostegno dell’Università di
Boston, Jon Kabat-Zinn fondò il suo programma per la riduzione dello
stress basato sulla mindfulness (conosciuto con l’acronimo MBSR -
Mindfulness-Based Stress Reduction). L’idea era che insegnando alle
persone a essere più presenti a se stesse e al proprio corpo, praticando
esercizi di yoga e di meditazione, si possano rendere più sopportabili e
affrontabili situazioni di grande stress e dolore. I primi destinatari dei
corsi di mindfulness erano persone di ogni età che soffrivano di varie
malattie, dall’AIDS al cancro, dall’ipertensione alle malattie cardiache.
Come racconta lo stesso Jon Kabat-Zinn in uno dei suoi libri più famosi[2],
con il corso MBSR, le persone:
“imparano a prendersi cura di sé, non come alternativa ma come essenziale
complemento ad altre forme di terapia medica.”
Ma in che modo? Imparando a prestare attenzione, momento per
momento, a ciò che accade; coltivando uno stato di aperta
consapevolezza. Con l’aiuto degli esercizi di yoga e di meditazione si può
imparare a contenere quel proliferare incontrollato di pensieri che altro
non fa che alimentare stress e preoccupazioni. Con calma, pazienza, e
costanza si apprende come essere più calmi, aperti, accoglienti, e si
possono sviluppare le qualità necessarie a navigare nella vita affrontando
le inevitabili tempeste e turbolenze. Si coltiva uno stato di presenza, che
significa essere sempre più spesso attenti e coinvolti nell’esperienza che
stiamo vivendo, in ciò che accade dentro e fuori di noi.
Ciò che c’è di rivoluzionario nella mindfulness – rivoluzionario
rispetto al comune modo di pensare nella nostra cultura – è l’idea di
accettazione.
Molte correnti di psicologia, crescita personale e self-help degli scorsi
decenni, ponevano una forte enfasi nel concetto di cambiamento.
Dobbiamo cambiare! Avere maggiore autostima, pensare positivo,
superare le nostre debolezze, rafforzare disciplina, costanza e forza di
volontà, essere estroversi e disinvolti nelle relazioni con gli altri,

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acquisire sicurezza in noi stessi. Ci chiedevano, alla fine dei conti, di
aderire a un modello: il modello della persona di successo, con una forte
autostima e fiducia in sé, abituata a stare al mondo, capace di attirare
simpatia e di raggiungere ambiziosi traguardi.
Con la mindfulness invece si è andato rafforzando un approccio al
benessere psicologico molto più dolce, che non ti dice come dovresti
essere, ma ti spinge, sopra ogni cosa, a osservare come sei e ad
accettarti profondamente.
Questo non equivale a rinunciare a cambiare, a essere migliori, a
raggiungere dei traguardi. Non è un tipo di accettazione passiva, fatalista,
come a dire: “siamo nelle mani del destino, non possiamo farci niente”. È
invece un modo per dire che non può esistere felicità, soddisfazione,
appagamento per la vita, se prima non impariamo a capire chi siamo e a
rivolgere a noi stessi, esattamente così come siamo, uno sguardo
amorevole, comprensivo, materno.
La mindfulness è come una carezza, un invito a massaggiare le parti
che ci fanno male, invece di accanirci contro le nostre stesse ferite. È una
voce che ti dice che tu vai bene così come sei. Il percorso di crescita,
quello vero, non quello posticcio degli slogan motivazionali, parte solo
così, dall’accettazione incondizionata della tua realtà del momento, che
comprende te stesso così come sei e la situazione in cui ti trovi.
L’idea di accettazione che si coltiva con la mindfulness riguarda anche
le condizioni di sofferenza e di disagio con le quali tutti prima o poi
siamo chiamati a confrontarci. La mindfulness ci dice la verità su un
aspetto della condizione umana che al giorno d’oggi si ha la tendenza a
nascondere: cioè che soffrire di tanto in tanto è inevitabile.
Grazie anche al grande livello di benessere e di sicurezza che ha
raggiunto la nostra società, le persone si trovano sempre meno attrezzate
ad affrontare il dolore, le perdite, le difficoltà, o anche il semplice
disagio, la fatica, la mancanza di comfort. Con la mindfulness
riconosciamo che non è possibile evitare la sofferenza.
È normale e sacrosanto cercare di prendere le distanze dai nostri guai e
in una certa misura cercare di scansare il dolore, ma se la fuga diventa la
nostra modalità abituale di affrontare i problemi, allora questi invece di
risolversi non faranno altro che moltiplicarsi. Praticare mindfulness
invece ci insegna proprio a fare i conti con quel che c’è, bello o brutto
che sia.
Negli anni ottanta, l’equipe di Jon Kabat-Zinn comincia a condurre i
primi studi scientifici per valutare l’efficacia dei programmi MBSR, e i
risultati sono buoni. A poco a poco la mindfulness si diffonde, gli studi

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scientifici aumentano, molti ospedali decidono di offrire corsi di MBSR;
Jon Kabat-Zinn comincia a scrivere libri, le sue idee e i suoi protocolli si
diffondono in mezzo mondo.
Oggi possiamo trovare una grande quantità di libri dedicati a questo
tema. La meditazione di derivazione buddhista è diventata oggetto di
studio da parte della scienza e si moltiplicano idee e approcci ispirati più
o meno direttamente alle tradizioni contemplative orientali.
Ritengo che uno dei motivi di grande successo della mindfulness stia
nel fatto che ne abbiamo sempre più bisogno. Le nostre vite sono
frenetiche, le nostre menti continuamente bombardate di stimoli. Siamo
pieni di pressioni sociali di ogni tipo che ci dicono di continuo come
dobbiamo essere per andare bene e come dovrebbe andare la nostra vita
per essere degna di essere vissuta. Teniamo in grande considerazione il
nostro io, perché la nostra è una cultura individualista ed egocentrica, e
viviamo condizioni di stress continue perché questo io è continuamente
minacciato: da quello che pensano gli altri di noi, dai risultati che non
riusciamo a ottenere, dal non riuscire a guadagnare abbastanza soldi, dal
non sentirci abbastanza riconosciuti o realizzati, dal non sapere affermare
in pieno la nostra individualità.
Il senso di inadeguatezza, la paura e l’ansia per il futuro, la mancanza
di autocompassione, stanno diventando tratti sempre più caratterizzanti la
nostra psicologia. Abbiamo un gran bisogno di una carezza e di una voce
gentile che ci dica: “è tutto ok, non avere paura, va bene così, tu vai bene
così, qualunque cosa accada”.
La mindfulness è questa carezza che possiamo imparare a rivolgere a
noi stessi. Calmare la mente con questo tipo di pratiche ci aiuta in molti
modi. Il primo, e più ovvio, è che ci rilassa, ci rassicura, ci aiuta a gestire
meglio lo stress e la tensione.
Ma non è tutto qui. Quando la mente è calma e ben bilanciata accadono
anche altre cose interessanti. Diventiamo più consapevoli di noi stessi,
dei nostri meccanismi interiori, delle reazioni automatiche, e talvolta
disfunzionali, che tendiamo a innescare.
Il filosofo Blaise Pascal diceva che:
“tutte le miserie dell'uomo dipendono dalla sua incapacità di starsene tranquillo
da solo in una stanza”.
Questi esercizi servono proprio a questo: a stare per un poco soli con
noi stessi, in quiete, lasciando depositare i pensieri. Un po’ come accade
quando il mare, dopo l’agitazione della tempesta, si placa: la sabbia si
deposita sul fondo e l’acqua diventa cristallina.

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#1 Respirare (per rilassare il corpo e la mente)

L’essere umano può sopravvivere settimane senza mangiare, giorni senza


bere, ma solo pochi minuti senza respirare. Però ci interessiamo molto di
quello che mangiamo, mentre al respiro prestiamo decisamente meno
attenzione. Probabilmente perché respirare – a differenza del bere e del
mangiare - è un atto il più delle volte involontario, automatico, e quindi
difficilmente è oggetto di una attenzione attiva. Ciò non toglie che il
respiro è molto importante, e che imparare a respirare bene può
migliorare, e non di poco, la qualità della nostra vita.
Chiunque si può rendere conto che il respiro si muove in sintonia con il
nostro stato d’animo. Per esempio, tendiamo a respirare velocemente
quando siamo spaventati, in ansia, agitati, ma anche se siamo eccitati o
sorpresi. Al contrario, negli stati di calma e di rilassamento il nostro
respiro tende a farsi più lento e più profondo. È vero quindi che le nostre
emozioni influenzano il respiro; ma è vero anche il contrario: il nostro
modo di respirare può influenzare come ci sentiamo.
Questo vale praticamente sempre nella relazione tra corpo e mente. La
mente è in grado di influenzare il corpo. E si tratta di un fenomeno già
ampiamente riconosciuto, basti pensare a tutte le malattie cosiddette
psicosomatiche. Ma, anche se risulta meno evidente, anche il corpo
influenza la mente. Negli ultimi anni sono emerse molte conferme in
questa direzione da parte delle neuroscienze, così come da parte della
psicologia applicata[3]. Per esempio, è stato dimostrato che fare il gesto di
sorridere ci rende più allegri. O che assumere con il corpo certe posizioni
di apertura ed espansione aumenta il nostro senso di sicurezza e di
padronanza delle situazioni. E anche che esiste una stretta relazione tra il
nostro apparato digerente e il cervello, e che quindi lo stato di salute
dello stomaco e dell’intestino può influenzare il nostro umore. Quella tra
corpo e mente è una relazione complessa, non ancora del tutto compresa,
che va in entrambe le direzioni.
Ciò è vero anche riguardo al respiro: il modo in cui ci sentiamo
influenza il modo in cui respiriamo, e il modo in cui respiriamo può
modificare il modo in cui ci sentiamo.
La tradizione dello yoga ha sviluppato una vera e propria scienza
pratica della respirazione: il pranayama.
Il “prana”, nello yoga, è l’energia vitale che sovrintende il
funzionamento di tutto il corpo. Ma è anche un principio cosmico e

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metafisico. Il respiro è una delle manifestazioni del soffio vitale.
Pranayama significa letteralmente controllo dell’energia vitale, che
secondo gli antichi yogi si poteva ottenere attraverso una serie di pratiche
respiratorie.
Noi siamo abituati a pensare al respiro come se fosse composto di due
parti, due movimenti: inspirazione ed espirazione. Lo yoga invece presta
attenzione anche a un terzo elemento: la pausa. Tra inspirazione ed
espirazione c’è sempre un momento di pausa. Il respiro quindi è composto
di quattro momenti: inspirazione, pausa a polmoni pieni, espirazione,
pausa a polmoni vuoti.
Le tecniche di pranayama vengono normalmente insegnate all’interno
dei corsi di yoga. Però, per assaggiare e toccarne con mano l’efficacia,
possiamo anche sperimentare qualche piccolo esercizio di respirazione
per conto nostro. A patto però di prenderla con estrema dolcezza, senza
forzare mai, perché, come dicono gli antichi testi:
“Come un leone, un elefante, una tigre si addomesticano a poco a poco, così
anche il prana deve essere controllato per gradi, altrimenti distrugge chi lo
pratica” [4]
Uno degli esercizi più semplici (e privo di potenziali effetti collaterali
spiacevoli), è la cosiddetta respirazione quadrata. Ecco come si fa. Per
prima cosa mettiti in una posizione comoda che ti consenta di tenere la
schiena ben dritta. Si può stare seduti su una sedia, o anche per terra. Se
però la posizione seduta ti è scomoda, allora sdraiati sulla schiena con le
braccia rilassate distese lungo il corpo.
L’esercizio funziona in questo modo: svuota i polmoni (cioè espira), e
poi trattieni il respiro a polmoni vuoti contando lentamente fino a quattro.
A quel punto inspira con calma, contando ancora fino a quattro, e trattieni
il respiro a polmoni pieni contando fino a quattro. Espira, contando
ancora fino a quattro, e poi ecco che il ciclo si è chiuso e può
ricominciare con il respiro trattenuto a polmoni vuoti.
Difficile?
Ci possiamo arrivare per gradi. Prima respira senza pause, cercando
solo di rendere l’inspirazione della stessa durata dell’espirazione. Inspira
(1, 2, 3, 4), espira (1, 2, 3, 4).
Esegui qualche ciclo di respirazione in questo modo, con calma. La
cosa importante è mantenere una respirazione calma, rilassata, quanto più
possibile simile alla tua respirazione naturale. Devi solo avere
l’accortezza di rendere la durata dell’inspirazione pari a quella
dell’espirazione, contando

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lentamente fino a quattro. Puoi anche fare qualche prova accorciando i
tempi (per esempio contando fino a tre), oppure allungandoli (contando
fino a cinque, o anche sei), finché non ti sembra di avere trovato il tuo
ritmo.
Poi, una volta che ti sei impratichito, puoi cominciare a fare l’esercizio
completo, introducendo i due momenti di pausa, anch’essi della stessa
lunghezza.

Bisogna
aver cura però di mantenere sempre una respirazione rilassata. Se i due
momenti di pausa, in cui si deve trattenere il respiro, dovessero risultare
troppo faticosi, meglio non sforzarsi. In questo caso fermiamoci al primo
passaggio, inspirazione ed espirazione della stessa lunghezza, e lasciamo
perdere le pause.
Si può fare durare l’esercizio per il tempo che si vuole, ma secondo
Andre Van Lysebeth[5] - profondo conoscitore dello yoga e autore di
diversi libri di divulgazione in materia – quando l’esercizio comincia ad
annoiare è bene interromperlo, e riprendere nel caso più tardi. Il
consiglio è: continuare finché la nostra mente è disposta a concentrarsi
sull’esercizio. Durante questo tipo di pratiche la nostra attenzione
dovrebbe essere del tutto assorbita da quello che stiamo facendo. È
(anche) per questo che fare un semplice esercizio di respirazione come
questo ha un effetto rilassante. Da un lato è l’effetto stesso del respiro:
respirare in modo calmo e tranquillo è di per sé rilassante; dall’altro lato,
concentrarsi sul respiro e contare la durata delle sue quattro fasi, ha
l’effetto di placare la mente scimmia. Se sei impegnato a contare e a
respirare seguendo un preciso ritmo, la mente non è che nel frattempo può
continuare con il suo solito chiacchiericcio, si deve fermare e
concentrarsi su quello che stai facendo. È per questo che bisogna smettere
di fare l’esercizio se cominciamo ad annoiarci, perché il passaggio

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successivo alla noia è l’automatismo. Se ci siamo impratichiti un po’, è
facile scivolare in uno stato di torpore in cui da una parte continuiamo a
praticare la nostra respirazione quadrata, ma dall’altra ci assentiamo e
lasciamo che la mente cominci a vagare. Ecco, per fare bene questi
esercizi bisogna mantenere uno stato vigile: rilassato, ma vigile. Lo scopo
è essere presenti e attenti a quello che stiamo facendo.

Dopo avere fatto l’esercizio di respirazione, prendi il tuo quaderno,


segna la data e aggiungi le tue osservazioni sull’esercizio.

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#2 Sedersi ad ascoltare (per osservare ciò che accade)

Anche questo secondo esercizio si basa sulla respirazione, ma in un modo


diverso. Nell’esercizio #1 abbiamo cercato di respirare in un certo modo,
rendendo l’inspirazione lunga come l’espirazione e introducendo le pause
della stessa lunghezza. Stavolta invece useremo il respiro come se fosse
un’àncora per la nostra attenzione. L’obiettivo è di osservare il respiro
così come è, senza preoccuparci di modificarlo in alcun modo.
Questo esercizio è una forma di meditazione, però io preferisco non
usare questa parola in questo contesto. La meditazione è una pratica
millenaria, comprende molte scuole, ed è radicata all’interno di diverse
tradizioni spirituali e religiose. Qui invece vogliamo solo sperimentare
qualche esercizio che ci aiuti a osservare meglio il funzionamento della
nostra mente e possibilmente a smorzare la tendenza a restare impigliati
nelle nostre reti di pensiero. Possiamo chiamarlo pratica del respiro, o
esercizio di attenzione sul respiro, senza necessariamente fare riferimento
alla meditazione e all’insieme così complesso e profondo di significati
che si porta dietro.
Per fare l’esercizio, come prima cosa dobbiamo scegliere una
posizione. Il modo classico di praticare l’attenzione sul respiro è da
seduti (per terra su un cuscino o su un tappetino, ma anche su una sedia).
Se però abbiamo problemi a stare seduti è possibile farlo anche sdraiati
(con qualche accortezza). La posizione ha una sua importanza, ma non ci
dobbiamo fissare sui dettagli. Cerchiamo una postura eretta, con testa,
collo e schiena allineati (se è possibile); così facendo il respiro tende a
fluire più liberamente. Inoltre, con questa postura, andiamo a cercare con
la posizione del corpo quell’atteggiamento di autonomia, accettazione e
attenzione che vogliamo coltivare dentro di noi.
Se vogliamo stare seduti su una sedia, scegliamone una che ci consenta
di tenere i piedi bene appoggiati per terra. Teniamo la schiena dritta, se è
possibile staccata dallo schienale, in modo che si sostenga da sé (se
invece non è possibile, perché la schiena ci fa male o ci sentiamo troppo
scomodi, allora appoggiamoci pure). Le mani le possiamo tenere sulle
ginocchia, oppure in grembo.
Seduti in terra, ci sono svariate posizioni tra cui scegliere. Senza farla
troppo complicata, l’ideale è avere un cuscino, o un panno ripiegato in
modo da creare uno spessore di 15-20 centimetri. Possiamo sederci con

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le gambe incrociate, oppure stare in ginocchio con il cuscino (o il panno)
tra le gambe. Un accorgimento per rendere confortevole la posizione è
assicurarsi di avere le anche più in alto delle ginocchia. Possiamo
procedere per tentativi, variando l’altezza del sostegno, fino a ritrovarci
con le ginocchia più in basso delle anche. Anche qui, cerchiamo di tenere
la schiena dritta e il collo in asse, ma ricordiamoci di non assumere una
posizione rigida o difficile da mantenere.
Infine, se proprio seduti siamo scomodi, si può praticare anche da
sdraiati. In terra, su una coperta o su un tappetino da ginnastica (o, alla
peggio, sul letto), assumendo quella posizione che nello yoga si chiama
Shavasana, o posizione del cadavere: ti metti supino (con la pancia
all’insù per intenderci), rilassi le gambe e i piedi che tenderanno
naturalmente a ricadere ai lati. Le braccia saranno lungo il corpo, con i
palmi delle mani rivolti verso l’alto (aiuta a tenere aperto il torace). Se
ne senti l’esigenza - magari per problemi di cervicale - puoi mettere sotto
la testa un cuscino o un panno ripiegato. Se scegli la posizione sdraiata è
necessario fare particolare attenzione a evitare l’intorpidimento. Il rischio
infatti è di comunicare al nostro corpo e al nostro cervello che siamo
pronti per dormire. Invece vogliamo fare la nostra pratica di osservazione
del respiro, e per farla dobbiamo essere svegli e attenti. Per questo la
posizione sdraiata sul letto deve essere considerata proprio l’ultima
spiaggia, da utilizzare solo se per motivi fisici non possiamo farlo da
seduti o da sdraiati sul tappetino.
Non è necessario un abbigliamento particolare per questo esercizio;
bisogna però essere comodi. Quindi niente abiti che stringono in vita e via
le scarpe. In inverno può essere una buona idea coprire le gambe con una
coperta.
Una volta sistemata la posizione, le istruzioni da seguire sono molto
semplici: osservare il respiro. Non c’è altro da fare se non ascoltare il
respiro così come è: inspirazione ed espirazione. Può essere utile
scegliere un punto su cui focalizzare l’attenzione, per esempio le narici,
che sono proprio il punto di ingresso e di uscita dell’aria dal nostro
corpo. Oppure la pancia che si alza e si abbassa, o il torace.
Mantenere l’attenzione fissa sul respiro per più di qualche secondo non
è affatto facile. Ti accorgerai subito che arriveranno dei pensieri. Appena
ti accorgi che la tua attenzione è stata distratta da un pensiero, non dovrai
fare altro che riportarla gentilmente al respiro.
Potrai sentire inoltre l’impulso a muoverti, qualche prurito o qualche
formicolio. Osserva questi fenomeni. Cogli l’attimo in cui la mente ordina

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al tuo braccio di grattarsi e se ci riesci non fare nulla, resta a osservare
l’impulso.
E torna sempre al respiro. Inspirazione ed espirazione. Il continuo
interscambio tra interno ed esterno.
Il punto di questa pratica sul respiro è questo: non riuscirai a farlo. Ti
accorgerai che arrivano i pensieri, arrivano le emozioni, arriva
l’irrequietudine del corpo e della mente (o al contrario l’intorpidimento e
la noia) e restare concentrati sul respiro sarà difficile.
Questo non è un problema: non stai sbagliando niente perché è proprio
così che funziona. L’obiettivo non è eliminare, scacciare o reprimere i
pensieri. L’obiettivo è osservare questo movimento: respiri, arriva un
pensiero, torni al respiro; senti un prurito o un formicolio, torna al
respiro; ecco arrivare un’emozione, torna al respiro.
Si cerca con questo esercizio di entrare in una modalità di
osservazione. Non c’è nulla da fare, non c’è un obiettivo da raggiungere,
non stiamo cercando di rilassarci, di scacciare i pensieri negativi, o cose
del genere. Stiamo solo cercando di diventare osservatori di quello che
accade al nostro corpo e alla nostra mente. Un po’ come se fossimo al
mare a guardare le onde che si infrangono sulla spiaggia. Non ci verrebbe
mai in mente di cercare di intervenire per cambiare le onde, giusto?
Cercare di farle diventare più grandi, o più piccole, con più o meno
schiuma, lente o veloci. Lo stesso è quello che dobbiamo fare con questo
esercizio: osservare.
Osserva quindi tutto ciò che accade dentro di te e cerca di non reagire
in modo automatico ma riporta continuamente l’attenzione al respiro con
grande gentilezza e pazienza.
Per ottenere dei benefici da una pratica come questa bisognerebbe farla
quasi tutti i giorni e per un periodo di tempo non troppo breve (almeno
una ventina di minuti, ma sarebbe meglio il doppio). Però, lo scopo di
questo Quaderno è di presentare alcuni esercizi da sperimentare, come
degli assaggi, e poi ognuno può scegliere cosa approfondire e praticare
più spesso. Quindi, il mio consiglio è di fare questo esercizio per 5 minuti
(o 10 se ti trovi abbastanza a tuo agio) per qualche giorno di seguito,
magari una settimana. Usa un timer (scegli una suoneria dolce) in modo da
evitare di dovere sbirciare l’orologio ogni momento. Sperimenta così
cosa significa inserire questa pausa, questo momento di vuoto,
all’interno della tua giornata. Poi valuta tu se cercare di farla diventare
un’abitudine o se non fa per te (almeno in questo momento e in queste
condizioni). Non ci sono obblighi da queste parti, né ansie da prestazione.
Prova, riprova, scegli. Se decidi che questa pratica di attenzione al

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respiro ti piace e vuoi approfondire, allora trova un libro che tratti il tema
in modo adeguato (troverai qualche suggerimento alla fine del Quaderno),
o, meglio ancora, cerca un corso di mindfulness dalle tue parti. Ormai in
molte città è facile trovare il protocollo MBSR, che, come dicevo anche
nei paragrafi introduttivi, è quello più studiato dal punto di vista
scientifico. Frequentare uno di questi corsi è un ottimo modo per
avvicinarsi alla mindfulness, ma anche per consolidare una pratica già
iniziata da soli. Un corso con un’insegnante esperto consente di sciogliere
molti dubbi e anche di personalizzare la tua pratica nel modo migliore.
Ma, prima di decidere se impegnarti o meno ad approfondire questa
pratica, puoi cominciare con questo semplice esercizio per tutta la
settimana, e annota qui sotto le tue osservazioni.

Annota ogni giorno, per una settimana, se hai fatto la pratica di


osservazione del respiro. Quali sono i pensieri che intervengono mentre
cerchi di tenere la tua attenzione sul respiro? Come ti sentivi prima e
dopo la pratica? È cambiato qualcosa?

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#3 Il mindful check-in (per rompere gli automatismi)

Uno dei problemi più insidiosi e meno facile da riconoscere tra quelli
causati dalla nostra mente scimmia è quello degli automatismi. I nostri
pensieri e le nostre reazioni a ciò che ci accade nella vita sono molto
meno liberi di quel che crediamo. In verità, al nostro cervello non piace
sprecare energie. Al contrario, ama gli schemi, la prevedibilità, le strade
già battute. Costruisce dei percorsi preferenziali e tende a usare sempre
quelli.
Ogni volta che ci troviamo davanti a una situazione (una persona, una
circostanza, un problema), la nostra mente corre subito al passato alla
ricerca di una situazione simile, e, ricordando gli eventi già accaduti, si
prefigura cosa sta per accadere nel prossimo futuro. Le preoccupazioni
che affollano la nostra mente nascono talvolta da questo meccanismo.
Esempi?
Sono in ritardo. La mia esperienza (il passato) mi dice che a quest’ora
c’è traffico e quindi mi aspetto di trovare la strada intasata. E questo mi fa
preoccupare e innervosire. Mi innervosisco prima ancora di sapere se ci
sarà traffico o meno, perché ragiono sulla base di esperienze passate.
Devo chiedere l'aiuto di un collega sul lavoro. Già altre volte lui si è
dimostrato poco disponibile. Mi aspetto delle difficoltà e quindi mi
avvicino già carica di tensione e sulla difensiva.
Sto per sostenere un esame orale. In passato sono sempre stata più
brava negli esami scritti e meno in quelli orali. So che non renderò al
massimo durante il colloquio, e quindi mi sento tesa e poco fiduciosa.
I ricordi del passato servono per interpretare la situazione presente
e per anticipare come andranno le cose nel futuro. Lo facciamo
continuamente, ma spesso questo lavorio interno avviene al di sotto della
soglia di consapevolezza, e non ce ne accorgiamo.
Come sarebbe la nostra vita se invece potessimo liberarci di queste
anticipazioni ansiose? Se potessimo osservare il presente ogni volta con
occhi completamente nuovi e le nostre reazioni fossero di volta in volta
dettate da ciò che sta accadendo veramente adesso e non da quello che
crediamo di vedere in base alla nostra esperienza passata?
Per certi versi, concordo, sarebbe un disastro. L’esperienza del passato
ci serve, eccome se ci serve. Ci aiuta a evitare errori, a essere più veloci,
a scansare i pericoli, a migliorare le nostre prestazioni. Però è anche vero

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che l’esperienza in alcune situazioni limita il nostro potenziale, ci induce
a reazioni consuete e automatiche, ci ingabbia in schemi che non sempre
ci sono utili.
Certo non possiamo – né avrebbe senso farlo - dimenticare il passato, o
annullare le nostre esperienze pregresse. Però possiamo riconoscere che
ogni istante della nostra vita è un istante nuovo di zecca, che possiamo
scegliere ogni volta come agire e reagire, a patto di diventare consapevoli
di ciò che accade nella nostra mente nell’attimo in cui elaboriamo la
situazione e decidiamo, spesso in modo automatico, come comportarci.
Enormi potenzialità sono nascoste lì, in quell’istante, nello spazio tra
uno stimolo e il modo in cui rispondiamo.
Per esempio, nel momento in cui il tuo compagno o la tua compagna per
l’ennesima volta dice quella cosa che a te dà fastidio, e tu reagisci come
tuo solito senza nemmeno pensarci, e poco dopo siete lì che litigate e non
ti capaciti di come sia successo ancora. Oppure quando sul lavoro si è
creata la solita situazione, quella in cui ti ritrovi sommerso di cose da
fare e sei costretto a fare straordinari, o a portarti il lavoro a casa, e ti
senti in trappola e stringi i denti e dici a te stesso che ce la puoi fare, ma
ti senti male, la notte non dormi, e senti salire la rabbia. O ancora quando
hai un piccolo problema di salute, e ti spaventa, ma invece di andare dal
medico ti attacchi a internet sperando di trovare qualche informazione
rassicurante, e invece quello che leggi ti spaventa ancora di più, e ti
convinci che potresti avere qualcosa di grave.
Questi sono tutti esempi di reazioni automatiche che portano a
conseguenze indesiderate. Può essere che nessuno di questi esempi ti si
addica, ma agiamo tutti in base a degli automatismi: non riusciamo a
cogliere lo spazio, la distanza, il respiro che c’è tra uno stimolo (qualcosa
che sta accadendo) e la nostra risposta. Se trovi quello spazio,
quell’attimo, diventi anche capace di cambiare la tua risposta, di rompere
l’automatismo e agire finalmente in un modo diverso, probabilmente più
efficace, sicuramente più libero.
Ecco, gli esercizi di mindfulness servono anche a questo: ad acquisire
consapevolezza e a imparare a mettere una pausa, un respiro, un battito di
ciglia tra stimolo e risposta.
La nostra reazione agli stimoli esterni (o anche interni talvolta) si
svolge su tre diversi livelli:
il pensiero
le emozioni
il corpo.
Facciamo un esempio.

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Stai camminando verso la tua auto e ti accorgi che c'è un foglio sul
parabrezza.
Probabilmente stai pensando che si tratta di una multa e questo ti
procura emozioni spiacevoli, nervosismo, preoccupazione. Anche il
corpo viene coinvolto in questo movimento emozionale: la tensione si può
manifestare nelle spalle, nel collo, o nella pancia, o puoi notare il battito
cardiaco che aumenta un pochino.
Non è detto che la reazione parta dal pensiero. Forse provi prima una
emozione sgradevole alla vista del foglietto e subito dopo pensi alla
multa. O magari il tuo corpo reagisce immediatamente e solo dopo
realizzi cosa ti ha messo in allarme o a disagio. Non è importante cosa
viene prima e cosa dopo. L’importante è capire che di continuo ciò che ci
accade, accade su questi tre livelli: corpo, pensiero, emozione.
A mano a mano che ti avvicini all’auto, la situazione potrebbe anche
peggiorare. Magari sei in bolletta e quella multa per te è un vero
problema. Magari già ti immagini i rimproveri di tuo marito o di tua
moglie. E con una certa rabbia pensi: “certo che i vigili sono svelti a fare
multe per divieto di sosta, ma per le cose serie non ci sono mai…”.
La rabbia si mescola al disappunto. Lo stomaco si contrae ancora un
po’ e stringi le mani a pugno. Forse ti torna in mente il ricordo di altre
multe che hai preso in passato, stai biasimando te stesso per la tua
disattenzione e provi un leggero senso di vergogna.
Pensieri, emozioni e reazioni del corpo continuano ad alimentarsi e
tutto succede in fretta, molto in fretta, prima ancora di avere verificato se
c’è davvero una multa sul parabrezza. E se fosse un volantino
pubblicitario? O il biglietto di un amico che ha riconosciuto la tua auto e
ti ha lasciato un saluto? In questo contesto non è importante capire se
quella multa è reale o meno. È importante invece osservare quel processo
al rallentatore, vedere come funziona il triangolo della consapevolezza:
pensieri, emozioni, reazioni del corpo. L’obiettivo è riuscire ad acquisire
consapevolezza di questo processo mentre si sta verificando, in modo
da non inserire il pilota automatico, mantenendo così un livello di auto-
riflessione su quello che ci sta accadendo. In questo caso per esempio,
con un buon livello di consapevolezza interiore, possiamo bloccare sul
nascere la reazione da stress… almeno finché non ci siamo accertati che
ci sia davvero una multa! E se poi scopriamo che la multa c’è davvero,
possiamo evitare che le nostre emozioni, come una cascata, ci portino
molto oltre l’effettiva portata del contrattempo.
L’esercizio del mindful check-in serve ad allenare la consapevolezza:
si tratta di fermarsi a passare in rassegna quello che sta succedendo in

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tutti e tre i livelli. Solo per osservare, senza bisogno di cambiare niente o
di giudicare qualcosa come buono o cattivo. Lo puoi fare in qualsiasi
momento, anche adesso mentre leggi.
Il corpo
Il tuo corpo in questo momento cosa ti sta dicendo?
Per prima cosa osserva la postura: sei rannicchiato o aperto? dritto o
storto? hai accavallato le gambe? le spalle sono rilassate o tese verso
l'alto con il collo incassato? È una semplice osservazione. Certo, se vuoi
ne puoi anche approfittare per correggere la postura, ma lo scopo
dell'esercizio è solo di prendere consapevolezza, registrare cosa succede.
Oltre alla postura, prova passare in rassegna tutto il corpo, dalla testa
ai piedi. Che sensazioni ci sono? Caldo, freddo, tensione, pressione,
indolenzimento, leggerezza.
Se eserciti la tua attenzione in questo modo, probabilmente ti accorgi
subito di una cosa: che di solito, a tutto quello che succede nel corpo non
ci badi molto (a meno che non ti faccia molto male da qualche parte).
Lasciamo le sensazioni fisiche in sottofondo perché siamo molto più
attirati dai pensieri, oppure da ciò che accade nel mondo attorno a noi.
Sotto sotto abbiamo un po’ la pretesa che il corpo se ne stia sempre
buono, che faccia il suo lavoro in silenzio, senza disturbarci con i suoi
limiti e i suoi dolori.
Ma è sano lasciare al corpo questo ruolo così marginale?
Con questo esercizio intanto alleniamo la capacità di ascoltare il
nostro corpo che, a differenza della mente, è sempre ben radicato nel
momento presente, e a volte ci lancia segnali importanti.
Emozioni
Non è facile definire esattamente cosa sia un’emozione. È qualcosa che
vive in una terra di mezzo tra il corpo e la mente. È uno stato mentale e
fisiologico assieme.
Prova ora, nel corso dell'esercizio, a definire il tuo stato d'animo in
questo momento. Sei tranquillo? O provi paura o ansia? Sei di umore
allegro? O sei triste? Provi irrequietudine, o invece sei calmo?
Dopo esserti avvicinato al tuo stato emotivo, cerca di capire come
questo si manifesti nel corpo. L’ansia potrebbe esprimersi con una
tensione muscolare, l’irrequietezza come bisogno di muoversi, la calma
con una sensazione di calore o di morbidezza.
Nulla di tutto questo va per forza cambiato o giudicato. Si tratta solo di
osservare e di riconoscere cosa c’è riguardo alle emozioni e radicarsi
ancora di più nel corpo, osservando dove e come le emozioni si
manifestano.

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I pensieri
Osservare i pensieri può risultare più facile rispetto alle sensazioni del
corpo o alle emozioni. Prova a identificare con chiarezza a cosa stai
pensando in questo momento, con l’obiettivo di acquisire consapevolezza
delle storie che ti stai raccontando. Osservare i propri pensieri è un modo
per evitare di identificarsi con essi. Puoi immaginare che siano come
parole che scorrono su di uno schermo.
A cosa stai pensando in questo momento? Forse che questo esercizio è
stupido? O che devi smettere di leggere perché hai da fare? O non stai
pensando a niente di particolare e sei concentrato nella lettura. O ancora
c’è qualche preoccupazione o pensiero forte che occupa di continuo la tua
mente. Qualsiasi cosa sia registralo, prendine consapevolezza.
L’obiettivo di questo esercizio - come di tutte le pratiche di
mindfulness - non è mai quello di giudicare o di modificare qualcosa. La
pratica serve ad accorgersi di quello che succede, a osservare quel
triangolo di pensieri, sensazioni ed emozioni che ci accompagna in ogni
istante della vita. Certo, se mentre fai l’esercizio riesci a rilassarti un po’,
se prendi coscienza di qualche pensiero particolarmente molesto e riesci
a lasciarlo andare… bene; ma considera tutto questo come un eventuale
beneficio collaterale. L’importante è l’osservazione, perché è attraverso
l’osservazione che si acquisisce la conoscenza necessaria a innescare dei
reali cambiamenti. Con questo tipo di esercizi diventiamo giorno dopo
giorno sempre più capaci di cogliere gli spazi entro cui inserire una
pausa, interrompere un automatismo, e fare un’altra scelta, stavolta più
consapevole.

Dopo avere fatto il mindful check-in, prendi il tuo quaderno, segna la


data e aggiungi le tue osservazioni sull’esercizio.
Cosa hai osservato nel corpo? Cosa hai osservato nei pensieri? Cosa
hai osservato nelle emozioni?
Automatismi: c’è una qualche reazione automatica che ti capita spesso
di avere? Descrivila brevemente.
La prossima volta che ti capita quella situazione, prova a fare
l’esercizio del mindful check-in e poi annota cosa hai osservato
riguardo al corpo, alle emozioni e ai pensieri.

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#4 La passeggiata con gusto (per ritrovare la bellezza dietro l’angolo)

Quando la nostra mente è agitata, o anche solo sovraffollata di pensieri,


tendiamo ad attraversare la nostra giornata sfrecciando da una
occupazione all’altra, pervasi da un senso costante di urgenza e ansia.
A volte ho la sensazione che sia la nostra mente scimmia a farci vedere
la giornata come una sequenza interminabile di impegni gravosi che ci
fanno andare in affanno. Sai, quella vocina molesta che ti dice che non ce
la farai, che arriverai di nuovo in ritardo, che quella situazione al lavoro
sta per trasformarsi in un enorme problema, che i tuoi pavimenti non sono
abbastanza puliti e che non avresti dovuto mandare tuo figlio a scuola
vestito in quel modo.
A volte, al contrario, è proprio l’organizzazione della nostra vita,
sempre di corsa, schiacciati dagli impegni, con troppe cose a cui badare,
a nutrire la scimmia nella nostra testa, che trova buon gioco nell’agitarsi e
nel rimproverarci di continuo.
Qualunque sia la direzione del legame causa-effetto, un possibile
rimedio all’affanno e alla perenne rincorsa del tempo, sta nel cominciare
ad assaporare la vita. Assaporare è una bella parola: evoca il gusto, la
lentezza, l’idea dell’assaggio, dell’attenzione. Secondo alcuni psicologi[6]
assaporare la vita significa avere la capacità di prestare attenzione alla
gioia, al piacere e ad altri sentimenti positivi che proviamo nella vita.
Significa essere presenti, coinvolti e attenti quando sperimentiamo
esperienze positive: non lasciare cioè che ci scivolino addosso mentre
siamo distratti pensando ad altro.
Ogni mattina, per andare a lavorare, prendo l’auto. Guidare in genere
mi piace, sono un tipo prudente e se non c’è traffico per me stare al
volante è rilassante. Per andare in ufficio percorro un tratto di tangenziale
e quando esco mi trovo su una strada a scorrimento veloce che costeggia
un grande parco. Vado verso una zona collinare; davanti a me non ci sono
palazzoni o fabbriche, ma un orizzonte aperto in cui si vedono i colli
ricoperti di verde. L’ultimo tratto poi è praticamente campagna, con
grandi pini che costeggiano la via. Tra l’uscita dalla tangenziale e
l’ufficio sono solo pochi minuti, ma se concedo a me stessa di prestare
attenzione a quello che mi circonda, sono minuti piacevoli. Sto guidando,
mi sento al sicuro dentro la mia auto; c’è questo paesaggio gradevole che

25
si apre davanti a me, sempre lo stesso, ma un po’ diverso ogni giorno a
seconda della stagione e delle condizioni del tempo.
Qualche anno fa, in un momento in cui stavo male a causa dell’ansia e
degli attacchi di panico, non mi soffermavo mai a guardare quello che
avevo attorno. Ero sempre molto preoccupata, la mia mente ruminava
problemi su problemi. Quel tragitto in auto avrebbe potuto essere una
piccola parentesi gradevole prima di arrivare in ufficio. Però io non ero
in grado di fare attenzione, perché i pensieri mi trascinavano altrove e
l’anticipazione del futuro (la giornata lavorativa con i suoi normali
problemi) mi impediva di assaporare quella breve parentesi di
piacevolezza.
Adesso non è più così; se adesso la maggior parte delle mattine mi
ricordo di prestare attenzione a quello che mi circonda e di non farmi
travolgere dai pensieri, è anche grazie al fatto che mi sono esercitata a
lungo con le pratiche di mindfulness. La passeggiata consapevole è forse
una delle pratiche più belle da fare. Richiede un pochino di tempo,
almeno venti minuti, meglio ancora mezz’ora, ma ne vale la pena.
Quello che devi fare è semplicemente uscire di casa per una
passeggiata. Se c’è bel tempo meglio ancora, ma anche se dovesse esserci
cielo coperto o un po’ di pioggia si può fare lo stesso. Lascia a casa il
cellulare se puoi, oppure se proprio preferisci portarlo, mettilo in tasca e
ricordati di non tirarlo fuori per una controllatina veloce ai tuoi social o
quel che è. Se vicino a te c’è uno spazio verde, può essere una buona idea
andare in quella direzione, ma anche se sei in città, nel tuo quartiere, va
bene lo stesso.
Cammina e guardati attorno. Cerca di notare tutte le cose gradevoli che
incontri mentre cammini. Per esempio una pianta, un bel cancello in ferro
battuto, un campanile che si staglia alto nel cielo, le nuvole, un bambino
vestito di rosso. Concentrati anche sugli odori, se ne avverti: la strada
bagnata se ha appena piovuto, qualche cespuglio fiorito, il profumo di
pane o di dolci se passi vicino a un forno. Puoi anche soffermarti sulle
sensazioni del tatto: il tepore del sole sul viso, i piedi comodamente
avvolti nelle scarpe che pestano il terreno, la brezza tra i capelli.
Cammina con naturalezza e cerca di registrare tutti questi particolari
positivi che accompagnano la tua passeggiata. Assapora con calma ogni
momento. Immergiti nella bellezza che hai attorno. Anche se ti sembra che
ce ne sia poca, guardati attorno con attenzione e vedrai che qualcosa di
bello che colpisce il tuo sguardo c’è sempre.
Camminare di solito calma la mente, e l’effetto è sicuramente
potenziato se mentre camminiamo, invece di farci tenere ostaggio dai

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pensieri, cerchiamo di restare presenti a ciò che abbiamo attorno,
allenando l’osservazione. Se poi dirigiamo con consapevolezza
l’attenzione verso quello che c’è di bello attorno a noi, verso la
piacevolezza degli oggetti e delle sensazioni, allora la nostra passeggiata
può diventare davvero rigenerante.
La ripetizione di questo genere di esercizi ci porta poi naturalmente, un
giorno dopo l’altro, a prendere l’abitudine di essere più attenti e
consapevoli, a notare tutto il bello che c’è attorno a noi e ad assaporare i
momenti piacevoli durante le nostre giornate.

Dopo avere fatto la passeggiata consapevole, prendi il tuo quaderno,


segna la data e aggiungi le tue osservazioni sull’esercizio.
Cosa hai notato di bello attorno a te? Cosa ti ha colpito?
Come ti sentivi prima di fare l’esercizio? E dopo? È cambiato
qualcosa?
Pensi di farlo ancora? Se sì, prendi un impegno con te stesso e decidi
quando andrai a fare la tua prossima consapevole.

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#5 Lasciare andare le preoccupazioni (per fare spazio quando la
mente è troppo affollata)

Tra tutti i pensieri che tendono a occupare la nostra mente scimmia, le


preoccupazioni sono tra i più insidiosi.
Quando siamo preoccupati i nostri pensieri sono rivolti al futuro, in
particolare a qualcosa che temiamo possa accadere. Preoccupandoci -
cioè pensando in anticipo alla possibilità che si verifichi una certa
evenienza - cerchiamo di esercitare una qualche forma di controllo sul
futuro. Anticipiamo un possibile problema che potrebbe verificarsi e così
possiamo farci trovare pronti se dovesse verificarsi sul serio.
Da questo punto di vista quindi preoccuparsi ha senso, soprattutto se
c’è un’azione ben precisa che ti consente di fare fronte alla tua
preoccupazione.
Per esempio: stamattina ero preoccupata che potesse venire a piovere e
avevo da fare diverse commissioni in giro. Nel momento in cui prendo
l’ombrello e lo metto nella borsa, ho risolto la mia preoccupazione. Se
devo andare dal dottore e mi preoccupo del fatto che ci sarà da aspettare
a lungo, posso portarmi dietro un libro e risolvere così il problema
dell’attesa. Se un gruppo di colleghi mi ha invitato a una cena in un
ristorante che non conosco, e io sono vegetariana e mi preoccupa non
sapere se troverò qualcosa da mangiare, alzo il telefono, chiamo il
ristorante e chiedo cosa c’è nel menù.
Queste preoccupazioni sono addirittura salutari. Ci consentono di
anticipare il futuro e di pianificare le cose affinché vadano al meglio.
Non tutte le preoccupazioni però sono di questo tipo. Spesso ci
ritroviamo preoccupati per questioni sulle quali non abbiamo controllo.
Mi posso preoccupare che mio figlio si faccia male andando in giro in
motorino, che la mia preparazione per l’esame non sia sufficiente e di
prendere un brutto voto, che si verifichino certi problemi sul lavoro. Mi
posso preoccupare della salute dei miei cari, della crisi economica, dei
terremoti, degli attentati. Quando la situazione non è al cento per cento
nelle nostre mani, e non abbiamo quindi la possibilità di dare una
soluzione certa al problema, allora le preoccupazioni possono diventare
persistenti, si annidano nella nostra mente e scavano, rendendoci
irrequieti.

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Possiamo provare a venire a patti con le nostre preoccupazioni. Se,
come abbiamo visto, il problema si può affrontare, basta agire e possiamo
smettere di preoccuparci. Se, invece, quello che ci preoccupa non
dipende completamente da noi, possiamo ragionare così: farò del mio
meglio affinché questa cosa vada bene, ma per il resto non la posso
controllare, e quindi è inutile che mi preoccupo. Per esempio se è l’esame
a preoccuparmi cercherò di prepararmi nel migliore dei modi, se il
pensiero riguarda la salute prenoterò al più presto una visita medica e
adotterò uno stile di vita più salutare. Una volta fatto questo, preoccuparsi
è inutile. Se non ho il controllo sul risultato finale, posso solo fare del
mio meglio e poi lasciare il resto nelle mani di quel che sarà.
Questo modo di lavorare sulle preoccupazioni lo possiamo definire di
tipo “cognitivo”: ragioniamo cioè su cosa voglia dire preoccuparsi, sulla
natura delle nostre preoccupazioni; acquisiamo consapevolezza dei nostri
meccanismi mentali e cerchiamo di smontarli, usando un approccio di tipo
razionale. Ci diciamo quindi - e abbiamo ragione - che ha senso
preoccuparsi solo delle cose che possiamo controllare, nella misura in
cui questo ci spinge ad agire nel migliore dei modi, e che invece
dobbiamo imparare a lasciare andare tutte le preoccupazioni che
riguardano eventi al di fuori del nostro controllo. Il ragionamento non fa
una piega, ma non sempre funziona. Anche se sul piano razionale
sappiamo bene che certe preoccupazioni sono del tutto inutili, questa
consapevolezza di solito non è sufficiente a fare scomparire il problema
dalla nostra mente. Siamo creature complesse, la nostra parte emotiva
risponde a logiche che hanno poco a che fare con il buon senso e con i
ragionamenti.
Prendi per esempio la paura di volare. Ci sono statistiche
incontrovertibili che dimostrano che è molto più pericoloso andare in
macchina a lavorare tutti i giorni, piuttosto che prendere un aereo. Eppure,
su chi ha paura di volare questo ragionamento fa ben poca presa.
Cercare di mettere a tacere le nostre paure e le nostre preoccupazioni
utilizzando il buon senso in alcuni casi può diventare addirittura
controproducente se si traduce in un braccio di ferro, in una lotta
interiore. È molto meglio imparare a essere dolci e comprensivi con la
nostra parte emotiva, imparare a dialogarci, anziché cercare di reprimerla
ogni volta che è di intralcio ai nostri piani.
Quindi possiamo pensare anche a un modo diverso di trattare con le
nostre preoccupazioni, accanto a quello cognitivo che abbiamo visto
prima. Proviamo per esempio a fare questo: osservare e lasciare andare.

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Il primo passaggio è prendere coscienza del fatto che ci stiamo
preoccupando. Le preoccupazioni spesso fanno da sfondo ai nostri
pensieri. Siamo mentalmente focalizzati su altro, per esempio stiamo
lavorando, o guidando la macchina, o siamo impegnati in una
conversazione, e le preoccupazioni stanno lì, a come il brusio di
sottofondo in un bar. Può capitare – almeno a me capita – che il nostro
umore diventi cupo, che ci troviamo a percepire uno stato d’ansia, senza
capire il perché. Ecco, qualche volta il motivo è che che ci stavamo
preoccupando di qualcosa – spesso per più di una cosa alla volta – e
questo brusio incessante di preoccupazioni fa precipitare il nostro umore
anche se non abbiamo del tutto focalizzato il contenuto dei nostri pensieri.
Vale allora la pena prestare attenzione a cosa succede dentro la nostra
testa e lasciare che il contenuto delle nostre preoccupazioni emerga, che
divenga consapevole, oggetto della nostra attenzione. Cosa c’è che non va
in questo momento? Temi che l’esame vada male? Che la salute di tuo
marito possa peggiorare? Che il tuo capo al lavoro possa arrabbiarsi?
Che quel lavoro nel quale ti sei tanto impegnato non vada così bene come
speri?
Guardiamo per un attimo questi pensieri e lasciamo semplicemente che
siano.
Quando una preoccupazione si affaccia alla nostra mente, invece di
affrettarci a scacciarla, cerchiamo di metterla a fuoco, senza esprimere
alcun giudizio e senza cercare di cambiarla in nessun modo. Limitiamoci
a riconoscerla come “preoccupazione”, come se volessimo metterci sopra
una etichetta.
Tutto qui, prendiamone semplicemente atto. Acquisiamo
consapevolezza: nella nostra mente abitano molti tipi di pensiero diversi,
e tra questi ci sono le preoccupazioni per qualcosa che temiamo possa
accadere in futuro.
Va bene così, non c’è nulla di male ad avere preoccupazioni, tutti gli
esseri umani ne hanno. Non giudichiamo come negativo quello che stiamo
pensando o provando. Limitiamoci a prenderne atto.
Questa presa di consapevolezza di ciò che accade nella nostra mente,
non deve però in nessun modo trasformarsi in un fissarsi sulle
preoccupazioni. Non ti sto dicendo di scandagliare la tua mente in ogni
istante della tua giornata a caccia di preoccupazioni, e di esaminarle
minuziosamente una per una al microscopio. Tutto al contrario,
l’approccio di consapevolezza, prevede un riconoscere cosa sta
accadendo (etichetta: “questa è una preoccupazione”) e subito dopo
lasciare andare. I pensieri – preoccupazioni comprese – naturalmente

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vanno e vengono nella nostra mente, proprio come accade con il respiro.
Ogni giorno respiriamo migliaia di volte: inspiriamo, tratteniamo l’aria
per un istante dentro di noi, e poi con l’espirazione la lasciamo andare.
Lo stesso accade con i pensieri: arrivano, si fermano per un po’ e poi li
lasciamo andare. Sono come eventi atmosferici che accadono nella nostra
mente, come nuvole nel cielo spinte dai venti: passano e vanno. Se invece
li tratteniamo, ci aggrappiamo a loro, ci identifichiamo con loro, allora in
qualche circostanza ci fanno stare male.
Imparare a lasciare andare le preoccupazioni è molto salutare. Se
siamo persone con una certa tendenza all’ansia ci ritroveremo
probabilmente più volte invischiati in circoli viziosi di preoccupazioni
che si alimentano l’una con l’altra. Ogni volta che questo accade,
impariamo a fare l’esercizio. Riconosciamo la preoccupazione per quella
che è, mettiamoci sopra la sua brava etichetta e diciamo a noi stessi:
“d’accordo, sono preoccupato per questa cosa; c’è qualcosa che posso
fare al riguardo?” Se sì, lo faccio subito, agisco il prima possibile. Se no,
allora lascio andare la preoccupazione.
Lasciare andare è diverso da scacciare. Non stiamo dicendo: ehi,
dannate preoccupazioni, mi sono rotto di voi, andate via. Non significa
quindi cercare di allontanare questo tipo di pensieri fastidiosi cercando
un diversivo, una distrazione, un qualcosa d’altro che occupi la nostra
mente. Significa invece fare lo stesso movimento del respiro: quando
espiriamo non stiamo scacciando via l’aria dai nostri polmoni,
gentilmente la lasciamo andare. Lo stesso possiamo imparare a fare con le
nostre preoccupazioni. Le osserviamo, le riconosciamo per quello che
sono, non le giudichiamo e, con leggerezza, e le lasciamo andare.
Se questo movimento del lasciare andare ti sembra difficile (e in effetti
anche secondo me lo è) puoi usare qualche strategia specifica.
La sera, prima di andare a dormire, scrivi su un foglio le tue
preoccupazioni. Fa un semplice elenco delle ansie e delle paure che
occupano la tua mente in quel momento. Prendi tutto quello che ti causa
stress, le piccole e le grandi cose, quelle e-mail alle quali non hai ancora
trovato il modo di rispondere, la visita dal dottore che devi fare la
prossima settimana, la scuola di tuo figlio, quella montagna di panni da
stirare. Lasciale andare così le tue preoccupazioni, lascia che escano
dalla tua mente per confluire nel foglio. Quando hai finito di scrivere, il
foglio lo puoi pure appallottolare e buttare via, non ha importanza. Poi
goditi la tua meritata nottata di riposo.
Per ottenere lo stesso effetto c’è anche una applicazione web piuttosto
carina. Vai sul sito: www.pixelthoughts.co e segui le istruzioni. Ti aiuterà

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a vedere le tue preoccupazioni da un punto di vista diverso.
Oppure fai un’altra cosa. Apri Google Maps e cerca la tua città o il
luogo in cui ti trovi in questo momento. In basso a sinistra troverai un
riquadro con la scritta “satellite”, cliccaci sopra e vedrai la mappa
trasformarsi nella vista da satellite. A questo punto muovi lentamente la
rotella del mouse all’indietro. Piano piano vedrai allargare la tua visuale,
vedrai tutto il paese, poi l’Europa, l’Africa e Medio Oriente, l’Oceano. E
poi vedrai solo il nostro pianeta, questo globo di terra e acqua sospeso
nello spazio che accoglie l’umanità intera.
Non ti sembra che in questa prospettiva le tue preoccupazioni ne
possano uscire quanto meno ridimensionate?
Come probabilmente avrai capito, questi non sono esercizi miracolosi
per fare dissipare in un lampo ogni tuo problema. Sono al contrario come
gocce, piccoli spazi di consapevolezza che puoi fare entrare nel tuo
quotidiano per renderlo più leggero, arioso, lieve. Lasciare andare le
preoccupazioni è un movimento bello, un po’ come una danza. Le vedi, le
osservi senza giudicare, e poi gentilmente le lasci andare. Poi torneranno,
certo, ma quello che succede è che smettono di avere la potenza di una
morsa e cominciano a somigliare a semplici eventi che fanno avanti e
indietro nella tua mente, senza avere più il potere di tenerla in ostaggio.

Prendi il tuo quaderno e fai l’elenco delle cose che ti preoccupano.


Cerca di essere preciso: cosa temi esattamente che possa accadere?
C’è qualcosa che ancora puoi fare al riguardo? Se sì, cosa? Descrivi
quali azioni concrete puoi fare per evitare che si verifichi quello che ti
preoccupa.
Se hai già fatto del tuo meglio e il risultato finale non è nella tua sfera
del controllo, prova a lasciare andare la preoccupazione seguendo i
suggerimenti dell’esercizio.
Ci sei riuscito? Cosa ti aiuta maggiormente a lasciare andare le tue
preoccupazioni? Scriverle su un foglio? Scriverle in una bolla e
osservare mentre si rimpicciolisce? Osservarle da un’altra prospettiva?

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#6 Osservare e disegnare (per riconnettersi con la natura)

La mindfulness comprende un atteggiamento calato nel presente, attento a


ciò che accade, dentro e fuori di noi. Se la mente scimmia si fa troppo
rumorosa, e salta a grande velocità da un ramo all’altro, finisce con
l’assorbire tutta la nostra capacità di attenzione. Intendiamoci: perdersi
nel proprio mondo interiore capita a tutti, e non è necessariamente una
cosa negativa. Ma, come già si è detto, la proliferazione incontrollata di
pensieri può danneggiare il nostro benessere se ci impedisce di essere
presenti, a contatto con il corpo e con quello che ci circonda. Per questo
l’osservazione è una risorsa importantissima: ci aiuta a uscire dal circolo
vizioso dei pensieri, riprendendo il contatto con la realtà così come si
presenta qui e ora.
In molte pratiche di mindfulness – e qualcuna l’abbiamo vista – si
dirige l’osservazione verso l’interno. Osserviamo le sensazioni del
corpo, oppure osserviamo il respiro, i pensieri, le emozioni che
insorgono momento dopo momento.
Possiamo però anche rivolgere lo stesso tipo di attenzione e curiosità
agli oggetti che ci stanno attorno.
Questa pratica si può fare con ogni tipo di oggetto, anche un vaso o un
soprammobile. Però io preferisco utilizzare un oggetto della natura: una
pianta, un albero, una foglia, le nuvole in cielo, o ancora con il nostro
animale domestico.
Diverse ricerche[7] infatti suggeriscono che gli ambienti naturali
favoriscono le emozioni positive come la meraviglia, il senso di
connessione, la speranza. È qualcosa che probabilmente abbiamo
sperimentato tutti nella vita passeggiando nei boschi, nei parchi,
osservando il mare da una barca (o anche dalla spiaggia), sdraiati per
terra ai giardini con lo sguardo perso nel cielo. La natura ci fa stare
meglio, ma non dobbiamo aspettare per forza le vacanze o il fine
settimana per potere sollecitare in noi il senso di calma e di connessione
evocato dalla natura. Possiamo infatti cominciare a fare caso alla natura
che è già nella nostra vita: uno scorcio che possiamo vedere dalla
finestra, l’albero giù in cortile, una pianta d’appartamento, il gatto o il
cane.
Per fare questo esercizio scegliamo un oggetto della natura che
abbiamo a portata di mano e osserviamolo con curiosità, come se fosse la

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prima volta che lo vediamo. Cerchiamo cioè di adottare quella che viene
chiamata anche mente del principiante: facciamo come se fosse la prima
volta che osserviamo quell’oggetto, lasciamo andare tutti i nostri giudizi,
le nostre esperienze pregresse, tutto quello che sappiamo, o che crediamo
di sapere. Immaginiamo di essere davanti a un oggetto misterioso, mai
visto prima. Lasciamoci attirare dai dettagli, dalle sfumature del colore,
dai percorsi delle linee, dai giochi di luci e ombre.
Cerca di rilassarti in questa osservazione e di connetterti alla natura
attraverso l’elemento che stai osservando.
Poi, volendo, possiamo prolungare l’esercizio e fare un ulteriore
passaggio: prendi carta e matita e disegna l’oggetto che stai osservando.
Per disegnarlo dovrai osservarlo con maggiore attenzione, dovrai
sforzarti di essere preciso nel cogliere i dettagli e riprodurre quello che
vedi sulla carta.
Non importa se non sei bravo a disegnare. L’obiettivo non è fare un bel
disegno o una riproduzione fedele. È guardare qualcosa di noto con uno
sguardo nuovo, senza dare niente per scontato e connettersi alla bellezza
della natura attraverso l’osservazione.
Io faccio questo esercizio di tanto in tanto, con i miei gatti, mentre
dormono. Sono una schiappa totale in disegno, anche perché non mi sono
mai esercitata. Quindi mi sento doppiamente principiante: cerco di
osservare il gatto come fosse la prima volta che lo vedo, senza dare
niente per scontato, e cerco di capire come riprodurne i tratti con la
matita, prestando attenzione a come è fatto.
Il risultato è orribile, ma l’esercizio ha sempre un effetto calmante: mi
aiuta nei momenti in cui mi sento, per così dire, presa all’amo dai miei
pensieri, o anche per concludere una giornata particolarmente intensa
durante la quale ho lavorato molto con la testa.
Aiuta a sganciarci dai circoli viziosi, dalla ruminazione, e qualche
volta, se riusciamo ad aprirci, ci aiuta a vedere la bellezza che abbiamo
vicino e a goderne.

Prendi il tuo quaderno, o un foglio bianco, e prova a disegnare un


oggetto della natura (o un animale) che hai davanti.

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#7 Risvegliare i sensi (per riconnettersi con il corpo)

Vista, udito, olfatto, tatto e gusto. I cinque sensi sono come delle porte che
ci mettono in contatto con il mondo esterno. Siamo costantemente in
rapporto con l’ambiente che ci circonda e lo percepiamo attraverso i
nostri sensi, che in ogni momento ci dicono qualcosa sul mondo e al
contempo sul nostro corpo. La sensazione del vento sul viso, per esempio,
mi comunica qualcosa sul mondo esterno - sento che c’è vento, se è
freddo o tiepido, se è un vento forte o una leggera brezza - e nello stesso
tempo quella sensazione mi parla del mio corpo, della sensibilità della
pelle, della sensazione di piacere o di disagio che provo.
Anche qui si tratta, attraverso l’esercizio, di imparare a farci caso. Il
nostro corpo ci manda continuamente segnali e informazioni, ma non
sempre prestiamo attenzione. Quando la nostra mente è troppo affollata di
pensieri, quando siamo preda di emozioni profonde che ci scuotono,
quando sfrecciamo tra un impegno e l’altro, non facciamo molto caso a
quello che ci dicono i nostri sensi. Possiamo mangiare un panino di fretta,
in piedi, con la mente in affanno verso il nostro prossimo appuntamento, e
non accorgerci letteralmente di cosa stiamo mangiando. Magari ce ne
accorgiamo solo mezz’ora dopo quando il nostro stomaco comincia a
lamentarsi.
L’esercizio dei cinque sensi si può fare ovunque: alla scrivania in
ufficio, seduti in autobus o in metropolitana, mentre attendi il tuo turno dal
medico o alla posta. Se è possibile, siediti in una posizione confortevole,
con la schiena dritta, la testa allineata, le spalle rilassate. Appoggia i
piedi per bene sul pavimento con tutta la pianta, e lascia braccia e mani
rilassate, sulle gambe o sulla scrivania. Prima di cominciare, dedica
qualche istante ad ascoltare il respiro, rivolgendo a te stesso
un’attenzione calma e benevola. Ora porta la tua consapevolezza verso i
tuoi cinque sensi, uno alla volta.
Partiamo con l’udito. Comincia ad ascoltare i suoni attorno a te. Anche
se sei in un luogo silenzioso, qualche rumore dovrebbe comunque
raggiungerti. I suoni possono risultare piacevoli, spiacevoli, o neutri; ma
non importa, cerca solo di prestarci attenzione, senza giudicarli. Osserva
come alcuni sono più vicini, altri più lontani. Alcuni sono continui (per
esempio il rumore di una lavatrice in funzione); altri entrano ed escono
dal tuo campo di consapevolezza (per esempio una macchina che passa

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giù in strada). Forse ti può succedere di notare qualche suono di cui prima
non eri consapevole: c’era ma non attirava la tua attenzione. Per esempio,
se io in questo momento mi metto in ascolto, mi rendo conto del rumore
della ventola del computer, al quale di solito non faccio caso.
Concentrati sui suoni per un paio di minuti, poi lascia andare e passa
gli odori.
Per molti animali l’olfatto è il senso più sviluppato: vivono in un
mondo fatto di odori. Non è così per l’uomo, noi non siamo
particolarmente sensibili agli odori. Se stai facendo l’esercizio dei cinque
sensi a casa tua, e nessuno è in cucina a pasticciare con i fornelli,
probabilmente non senti alcun odore particolare. Però proviamo lo stesso.
Inspira lentamente e prova a concentrarti sull’olfatto. Forse senti il
profumo che hai messo stamattina, o l’aroma persistente del
bagnoschiuma. Potresti sentire l’odore della carta, se sei in ufficio, in una
biblioteca, o vicino alla tua libreria. O forse sei fortunato, è primavera, la
finestra è aperta e da fuori sta entrando il profumo dei fiori o dell’erba.
Oppure potresti avere deciso – e potrebbe essere una buona idea – di
accendere una candela profumata prima di cominciare l’esercizio, in
modo da avere almeno un odore percettibile su cui concentrarti. In tutti i
casi, lascia che per un minuto o due tutta la tua attenzione si focalizzi lì,
nel percepire gli odori attorno a te. Poi lascia che la tua attenzione si
sposti su qualcosa che puoi percepire con la vista.
Osserva un oggetto davanti a te, guardalo bene, nota come la luce si
riflette, se ci sono ombre, le sfumature di colore. Lasciati rapire dai
dettagli. L’oggetto che stai osservando potrebbe essere molto comune,
qualcosa che hai avuto sotto gli occhi molte altre volte; ora che lo stai
osservando con tanta attenzione, potresti notare particolari ai quali non
avevi mai fatto caso prima. Trattieniti ancora uno o due minuti in questa
osservazione, e poi sposta la tua attenzione sul gusto.
Il gusto normalmente si attiva quando abbiamo del cibo in bocca, o
anche quando tocchiamo qualcosa con la lingua. Però, se ti concentri,
noterai che anche quando non stai mangiando il tuo senso del gusto non è
affatto spento. Per esempio, potresti ancora avere in bocca il retrogusto di
qualcosa che hai mangiato o bevuto poco fa. O il sapore fresco del
dentifricio. Oppure puoi limitarti a portare l’attenzione alla lingua e alla
saliva. Puoi anche decidere di passare la lingua sui denti, o sulla parte
interna delle guance, così da diventare più consapevole di qualche sapore
che potresti non avere ancora notato.
Infine, l’ultimo passaggio: il tatto. Porta l’attenzione alle sensazioni
della pelle a contatto con la sedia, i vestiti, i piedi sul pavimento. Mentre

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gli altri sensi si concentrano su un organo localizzato in una precisa parte
del corpo (gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie) il tatto è diffuso:
l’organo che lo percepisce infatti è la pelle, che ricopre tutto il nostro
corpo. Potresti quindi sentire sensazioni diverse, anche contrastanti,
provenire dal tatto: la suola delle scarpe appoggiata al pavimento
potrebbe essere dura e ruvida, forse un po’ fredda, mentre le gambe
potrebbero rimandare una sensazione più calda e avvolgente, quella della
stoffa morbida dei pantaloni, o delle calze. Puoi anche osservare la
pressione del tuo corpo sulla sedia, dei piedi sul pavimento, mentre al
contrario la testa e le spalle sono libere e a contatto con l’aria. Prenditi
qualche minuto per scansionare il tuo corpo dalla testa ai piedi
soffermandoti sulle sensazioni tattili che provi.
Alla fine dell’esercizio, se vuoi, puoi fare qualche respiro più lento e
consapevole e osservare cosa è successo.

Dopo avere fatto l’esercizio dei cinque sensi, prendi il tuo quaderno,
segna la data e aggiungi le tue osservazioni sull’esercizio.
Ti ha aiutato a tornare presente? Ti senti diversamente rispetto a
quando hai cominciato? Quale senso hai avvertito con maggiore
chiarezza e quale meno?

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#8 Tre respiri (per combattere la dipendenza da internet e altre
compulsioni)

Quante volte ti capita di perderti durante una giornata? Quante volte, cioè,
smarrisci la tua intenzione, ti lasci trascinare dagli eventi, ti dimentichi di
quello che ti eri riproposto di fare. Non è affatto facile restare lucidi e
presenti, soprattutto in questa nostra era della distrazione, circondati
come siamo da tanti diavoletti tentatori pronti a deviare altrove la nostra
attenzione.
Essere connessi a internet in ogni momento ha un impatto sulle nostre
vite. Internet significa accesso immediato a una quantità illimitata di
informazione, intrattenimento, socializzazione. Un vero e proprio paese
dei balocchi. Internet è il migliore alleato possibile della mente scimmia.
Stai pensando all’estate? Ecco che l’istante dopo ti sei tuffato a
controllare alberghi e recensioni di qualche località esotica che da
sempre vuoi visitare. Pensi che sabato prossimo non sarebbe male andare
al cinema? Basta un click per scoprire cosa c’è in programma e dare un
occhio alle trame dei film. Ti senti di umore un po’ scuro e avresti un gran
bisogno di una pacca amichevole sulle spalle? Cosa c’è di meglio che
postare un selfie, o condividere una frase a effetto e contare like e
cuoricini? Quando qualcuno interagisce con i nostri contenuti sui social
media mostrando apprezzamento proviamo una sensazione piacevole.
Così piacevole che a forza di frequentare questi luoghi di ritrovo virtuali,
possiamo sviluppare una forma di dipendenza.
Ogni tanto qualcuno obietta che i social sono strumenti neutri e che il
problema è nostro che non ci sappiamo limitare o che li usiamo
scorrettamente. No, è vero l’esatto contrario. I social sono disegnati,
programmati, e strutturati apposta per alimentare i nostri comportamenti
compulsivi. I loro proprietari vogliono che noi trascorriamo più tempo
possibile connessi alla loro piattaforma e studiano ogni minimo dettaglio
per tenerci incollati lì.
Quindi, se ti capita spesso di perdere un tempo eccessivo con il tuo
telefono e di smarrirti senza riuscire a portare a termine di compiti che ti
eri prefisso, devi sapere che non sei proprio un gonzo, ma sei caduto in
una trappola molto bene congegnata. Questo però non deve servire come
giustificazione, bensì ad acquisire consapevolezza di cosa sono davvero
questi strumenti, perché solo così possiamo imparare a farne buon uso.

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Ora, molto probabilmente sei consapevole dell’esistenza di questo
problema, e forse hai provato diverse volte a risolverlo. Ti sei imposto
dei limiti, hai cercato di stare disconnesso più tempo possibile, hai
promesso a te stesso che non avresti più consentito al tuo telefono di
sottrarre tempo allo studio, al lavoro, alle faccende domestiche, alla
scrittura del tuo romanzo… Ma, ha funzionato?
Forse, ma non credo di sbagliare di molto se dico che probabilmente
hai ottenuto qualche risultato nell’immediato, ma poi basta un attimo di
distrazione e il comportamento compulsivo torna a impossessarsi di te,
malgrado la tua buona volontà di resistergli.
Questo è quello che succede quando cerchiamo di liberarci di una
cattiva abitudine (o anche di una vera e propria dipendenza) facendo leva
solo sulla forza di volontà.
Il ragionamento suona grossomodo così: una parte di me vorrebbe tanto
continuare a perdere tempo su internet, perché adoro i video dei gattini,
mi piace seguire i gruppi di discussione, e provo un brividino di piacere
ogni volta che qualcuno apprezza quello che condivido. Senza parlare poi
del piacere che provo nel fare crescere la mia fattoria virtuale, o nel
combattere contro un drago enorme dopo avere passato mesi ad allenare
il mio avatar virtuale.
Ecco, questa parte di te vorrebbe tanto passare buona parte della
giornata in queste attività, perché sono piacevoli e, almeno
nell’immediato, ti fanno sentire appagato.
Però c’è un’altra parte di te che sa che fare così non va bene, perché
devi tenere fede agli impegni che hai preso con te stesso, perché hai la
casa da pulire, il lavoro da finire, i libri che ti aspettano. Quindi, decidi
che da questo momento in avanti devi assolutamente importi dei limiti
ferrei.
Ogni volta che c’è un devo, ogni volta che cerchiamo di imporci di fare
(o di non fare) qualcosa, attingiamo alla nostra riserva di forza di
volontà. Decidiamo di non cedere al comportamento compulsivo – che
tanto ci attira – applicando una forza contraria. È una sorta di braccio di
ferro che facciamo giocando contro noi stessi e ha un effetto certo: ci
stanca.
Non sto dicendo che non dobbiamo mai fare leva sulla nostra forza di
volontà. Dico solo che ingaggiare una lotta titanica tra parti di noi in
contrasto tra loro non è l’unica strategia, e forse nemmeno quella ottimale.
In molti casi può essere molto più efficace prenderci per mano e condurci
dolcemente verso la retta vita. Invece di lottare contro noi stessi,

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possiamo trovare il modo per ridurre il conflitto, per riallineare la nostra
volontà e dirigerla verso una direzione unica.
Io ho sperimentato questa situazione in modo molto chiaro quando
cercavo di smettere di fumare. Mi ci sono voluti più di cinque tentativi
per riuscirci, e mi accorgevo ogni volta che la cosa funzionava solo
quando cominciavo ad apprezzare i benefici dello stare senza fumare.
Finché la mia attenzione era focalizzata sul desiderio di fumare e sulla
necessità di combattere, di resistere a questo desiderio, restavo attaccata
a un filo: bastava un niente a farmi capitolare. Quando invece riuscivo a
ridurre questo conflitto, quando smettevo di desiderare così forte la
sigaretta e trovavo piacevole non essere costretta a fumare, allora la mia
identità di ex-fumatrice si rafforzava.
Adesso non tocco una sigaretta da oltre tre anni. Non sarebbe mai stato
possibile resistere al desiderio di fumare per un periodo di tempo così
lungo. Se continuo a non fumare non è grazie a una forza di volontà
mostruosa, ma è grazie al fatto che non desidero più la sigaretta, mentre
apprezzo moltissimo tutti i benefici che mi ha portato smettere di fumare.
Per fare questo passaggio serve un elemento chiave che chiamerei
consapevolezza. Devi cioè imparare a essere presente nel momento in cui
cedi al comportamento compulsivo, osservare cosa sta succedendo,
capire il perché. Devi diventare molto amico di quel te stesso birichino
che sta su internet invece di studiare, che si accende una sigaretta dietro
l’altra, che mangia un intero pacco di patatine e dopo ne vuole ancora.
Questo tipo di consapevolezza non è facile da acquisire. A volte il
motivo per cui ci lasciamo andare a comportamenti compulsivi può essere
molto radicato, profondo, complesso. E potremmo avere bisogno di uno
psicoterapeuta andare a fondo al problema. Però, possiamo fare qualche
passetto in avanti nella strada della consapevolezza anche da soli, usando
uno strumento potente: l’auto-osservazione.
Intanto ci mettiamo tranquilli: nessuno sta dicendo che devi chiudere
internet e metterti a fare qualcosa di faticoso o spiacevole. Lasciamo pure
che le nostre compulsioni si presentino quando vogliono e non facciamo
niente per contrastarle. Diciamo che va bene così, almeno per il
momento… però prendiamoci l’impegno di fare una cosa molto semplice:
tre respiri. Tre respiri di consapevolezza.
Quando la tua mano corre al pacchetto di sigarette, quando prendi in
mano il cellulare per controllare le notifiche, quando stai andando ad
aprire il frigorifero per aggredire quell’avanzo di torta, fermati solo un
momento e fai tre respiri. Tre respiri profondi, consapevoli, in piena
presenza, e limitati a osservare quello che stai facendo. Non ti

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giudicare, non ti condannare, non sforzarti a fare niente. L’obiettivo di
questo esercizio non è modificare il tuo comportamento, ma osservare la
tua compulsione, scoprire come ti senti quando provi l’impulso
irrefrenabile di fare una certa cosa che sai essere sbagliata per te in
questo momento. Datti il tempo di tre respiri. Uno, due, tre… e poi vai
pure avanti a fare quello che stavi facendo. Senza nessuna forzatura,
nessun giudizio, nessun obiettivo da raggiungere. Solo tre respiri
consapevoli, durante i quali puoi cogliere l’occasione di osservare la tua
compulsione per imparare di più su cosa ti spinge ad adottare certi
comportamenti.
Potresti scoprire che fumi quando sei annoiato, che resti attaccato ai
social quando senti il bisogno di una gratificazione immediata. Potresti
scoprire che ti fa paura il vuoto e allora lo riempi, o che al contrario
quando senti di avere troppi impegni e troppe responsabilità una parte di
te cerca di fuggire.
Potrebbe anche succedere che già al secondo respiro una parte di te
dice: ma che cavolo sto facendo? e scopri che l’impulso compulsivo si
attenua immediatamente.
Con questi tre respiri ti avvicini a capire il tuo perché. Perché fumi,
perché mangi quando non dovresti, perché butti il tuo tempo su Internet. È
una risposta molto importante, perché più sei consapevole dei tuoi
perché, più puoi trovare forze, strategie e motivazione per modificare il
tuo comportamento. Ma questo per ora non ci interessa. L’obiettivo è solo
mettere una pausa di tre respiri – tra l’impulso e l’azione e di approfittare
di questa breve pausa per osservare. Ricorda: osservare, non giudicare. Il
tempo di tre respiri.

Prendi il tuo quaderno. C’è un comportamento compulsivo che vorresti


ridurre? Scrivi quale.
Prova a usare la tecnica dei tre respiri nel momento in cui stai per
mettere in atto questo comportamento. Cosa hai osservato? Come ti
sentivi?

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#9 Un rituale di concentrazione (per ritrovare il focus nel mezzo del
caos)

Molti di noi lavorano in uffici affollati e caotici. Luoghi dove regnano


confusione, interruzioni continue, rumori molesti. Probabilmente, se i
marziani sbarcassero domani sulla terra si domanderebbero chi è quel
pazzo che pensa che ambienti del genere siano adatti per lavorare.
Anche chi è così fortunato da lavorare in un ambiente protetto e
silenzioso, non è immune dal morbo della distrazione. Siamo immersi in
un flusso continuo di notizie, notifiche, messaggi, e-mail. Tutto attorno a
noi congiura per farci perdere concentrazione. Ormai siamo abituati a
lavorare in modo discontinuo, frammentato, superficiale. Questa modalità
frenetica di gestire il tempo del lavoro è stata, soprattutto negli anni
passati, addirittura considerata come un modello positivo, con il mito del
multitasking. E purtroppo c’è ancora qualcuno che ci crede.
Fare una telefonata, leggere le prime tre righe di una e-mail, prendere
un appunto, aprire un file, cominciare un compito, poi passare a
quell’altro, rispondere al telefono, riprendere il compito A, ripassare al
compito B, non senza prima avere letto le prime due righe di un’altra e-
mail.
Ecco, c’è chi questo lo chiama multitasking, ovvero fare più cose
assieme. Si tratta più che altro di un’illusione[8]. Ci fa sentire senza
dubbio molto indaffarati, e forse anche un po’ importanti (“santo cielo,
tutte queste scadenze! Come farò?”), ma incide negativamente sulla
qualità e anche sulla quantità del lavoro che riusciamo a svolgere. Questa
modalità di lavorare (o anche di studiare) ci rende superficiali, ci fa
commettere molti errori, ci innervosisce e ci stanca.
Quando frequentavo l’università, ormai molti anni fa, passavo molte
ore a studiare immersa nel silenzio di casa mia. Non c’era uno
smartphone a portata di mano, né un computer collegato a Internet, né un
tablet. L’unica fonte di possibile interruzione era il telefono di casa, un
grosso affare grigio con una rotella bianca, che troneggiava inamovibile
nell’ingresso. Poi c’era la televisione e un certo numero di libri, giornali
e fumetti in giro per casa. Nulla di così potente come un browser capace
di collegarti in un decimo di secondo con il resto del mondo, o di così
intrusivo come una notifica che trilla sul più bello. Non ho mai avuto
grandi difficoltà a concentrarmi. Certo studiare era faticoso e non sempre

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ne avevo voglia, ma una volta chiusa la porta della mia camera e
sistemato libri, appunti ed evidenziatori sulla scrivania, niente e nessuno
venivano a disturbarmi.
Adesso, da adulta, con meno grilli per la testa di quelli che potevo
avere a vent’anni, paradossalmente concentrarmi mi riesce più difficile.
Anche in questo momento, mentre scrivo queste pagine, nel silenzio di
casa mia, mi succede spesso di ritrovarmi mio malgrado a dare una
controllatina ai social o alle e-mail. Le distrazioni ci attirano come un
buco nero.
Ora, non c’è niente di male nel distrarsi di tanto in tanto. Il problema
nasce quando, una distrazione dopo l’altra, una interruzione dopo l’altra,
ci troviamo a un certo punto completamente smarriti. Cosa stavamo
facendo? E perché?
Forse ci siamo interrotti un attimo per cercare una informazione su
Internet e da lì siamo partiti a navigare aprendo una finestra dopo l’altra.
Forse stavamo cercando di portare a termine un compito, ma poi è
arrivata una e-mail che richiedeva con urgenza la nostra attenzione, e un
attimo dopo è suonato il telefono, e quello dopo un collega è entrato a
chiedere il nostro aiuto… E così a un certo punto ci troviamo persi, il
tempo comincia a correre via, perdiamo di vista le nostre intenzioni,
cominciano a subentrare vissuti di frustrazione e fastidio, ci sentiamo
stanchi anche se non abbiamo ancora concluso granché.
Funziona così il lavoro nell’era della distrazione: ci abituiamo a essere
superficiali, a fare più cose assieme, a passare distrattamente da una
attività all’altra finché non viene sera. Sembra che ci diamo un gran da
fare, ma poi, stringi stringi, siamo stati davvero produttivi?
Chi fa lavoro d’ufficio in realtà di medie e grandi dimensioni non può
molto contro questo sistema: l’organizzazione del lavoro è questa. In
alcuni uffici ci sarà più calma, in altri meno, ma difficilmente ci possiamo
liberare di telefoni, e-mail, e interruzioni varie. Però, se anche non
abbiamo il potere di modificare l’ambiente e l’organizzazione del nostro
lavoro, possiamo prendere consapevolezza del problema e tentare alcune
piccole soluzioni.
Una strategia che funziona è quella di stabilire un preciso rituale, da
eseguire ogni volta che ci rendiamo conto di esserci irrimediabilmente
persi. Non importa se è stata una interruzione esterna, o se siamo stati noi
che per stanchezza, noia o altro, a un certo punto ci siamo fatti sedurre da
qualche distrazione. In tutti i casi, quando ci accorgiamo di avere perso il
focus, e di essere partiti per la tangente, possiamo eseguire un rituale, che
ci aiuti a tornare presenti e a riprendere il filo delle nostre attività.

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Un esempio di rituale potrebbe essere questo di seguito descritto.
1. Appena ti accorgi di esserti perso, per prima cosa chiudi tutti i file
e le finestre aperte del computer. Ovviamente ricordati di salvare
il tuo lavoro, e poi fai piazza pulita di tutto.
2. Alzati dalla sedia, fai qualche passo, mettiti in ascolto del tuo
corpo. Senti cosa ti dice. Stira le braccia, muovi il collo, fai
qualche piccolo esercizio di stretching. Approfitta di questo
momento per connetterti il più possibile con il tuo corpo e lascia
andare la confusione di pensieri, stress e preoccupazioni che
affollano la tua mente.
3. Torna alla tua scrivania, siediti e fai tre respiri, con calma (come
nell’esercizio precedente). Quando hai fatto, poni a te stesso
questa domanda: qual è la cosa più importante di cui mi devo
occupare ora? Questo ti serve per riconnetterti con le tue priorità,
e per riprendere il tuo lavoro in modo efficace, riportando
l’attenzione su quello che è importante in questo momento.
Questo è solo un esempio di rituale. Ne puoi costruire uno tuo in base
alle tue abitudini e a cosa ti fa sentire maggiormente a tuo agio. Per
esempio, potresti decidere di andare a bere un bicchiere d’acqua, oppure
di fermarti un minuto o due in silenzio a osservare fuori dalla finestra, o
ancora di fare cinquanta passi all’aperto se ne hai la possibilità. Qualsiasi
rituale va bene, se ti aiuta a lasciare andare per un attimo lo stress, a
riconnetterti con il tuo corpo e a ricordare qual è la tua priorità del
momento.
Puoi decidere di eseguire il rituale ogni volta che ne senti il bisogno.
Potresti tenere un appunto in un posto ben visibile (per esempio un post-it
attaccato alla base del monitor) che ti ricordi di farlo ogni volta che ti
senti perso o sopraffatto dalle interruzioni e dalle distrazioni.
Oppure puoi decidere di eseguire il tuo rituale più volte a cadenza fissa
nel corso della giornata, per esempio ogni due ore, oppure ogni novanta
minuti. Puoi usare il timer del tuo telefono, o cercare un’applicazione che
ti invii una notifica a intervalli regolari. Va bene qualsiasi cosa ti ricordi
di verificare se sei concentrato o perso chissà dove e di fare il tuo rituale
se ne senti il bisogno.
In ogni caso, qualsiasi sia il rituale che fa per te, io ti consiglio di
inserire sempre la domanda: qual è la cosa più importante di cui mi
devo occupare in questo momento?
Farsi questa domanda – e poi agire di conseguenza – è un ottimo
antistress. Può capitare – a me per esempio capita spesso – di avere la
sensazione di essere sopraffatti da troppi compiti da portare a termine. A

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volte il lavoro si fa stressante, le scadenze premono, imprevisti ed errori
ci gettano del panico. A volte è la combinazione tra impegni lavorativi e
impegni personali a farsi troppo stringente. La nostra mente rischia il
corto circuito in queste situazioni: abbiamo tanto da fare, ci sembra di non
avere il tempo sufficiente, questo ci mette ansia, e se l’ansia supera un
certo livello subentrano confusione, incapacità di concentrazione,
difficoltà nel risolvere i problemi (e pure qualche bruciore di stomaco).
Allora il nostro rituale serve a spezzare il corto circuito. La domanda:
qual è la cosa più importante di cui mi devo occupare in questo
momento? ci serve per focalizzare l’attenzione su una cosa sola, quella
importante qui e ora, sgombrando il campo da tutto quello che faremo
dopo, o in un altro momento. Ogni istante ha la sua priorità. Imparare a
riconoscere, momento per momento, la cosa più importante da fare – e
farla – può essere un toccasana contro lo stress e un importante tonico per
la nostra produttività.
Nei prossimi giorni prova a mettere a punto il tuo rituale di
concentrazione e poi descrivilo nel tuo quaderno.
L’hai eseguito oggi? Ti è servito? Cosa hai osservato sul tema delle
distrazioni?

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#10 La doccia consapevole (per lavare via lo stress)

Fare la doccia in modo consapevole può essere un modo meraviglioso


per concludere la giornata, (o per cominciarla). Soprattutto per chi ha
molti impegni di lavoro e familiari, può essere difficile ritagliarsi un
momento di silenzio per sé. La doccia però la facciamo tutti in qualche
momento. Quei dieci minuti sotto il getto dell’acqua calda ce li
concediamo comunque, quindi tanto vale approfittarne per farlo in modo
consapevole.
Qualche anno fa, in un periodo in cui mi sentivo molto tesa e
preoccupata per il lavoro, una sera mentre facevo la doccia ho realizzato
una cosa che sul momento mi è sembrata davvero terribile: ero lì,
nell’intimità del mio bagno, avvolta nei vapori dell’acqua, ma non ero
sola. Era come se avessi lasciato la porta spalancata e avessi permesso a
tutti di entrare e di invadere il mio spazio. La mia mente infatti continuava
a frullare girando attorno agli stessi problemi ed era come se fossero tutti
lì con me, sotto la doccia. Ora, diciamolo chiaramente: chi vorrebbe mai
fare la doccia con i colleghi, il capo e i clienti?
Messa così fa un po’ ridere, non è vero? Eppure, è esattamente quello
che facciamo ogni volta che concediamo alla mente scimmia di prendere
il sopravvento e di ruminare in continuazione: diventiamo incapaci di
mettere un confine tra noi e i nostri pensieri, problemi, preoccupazioni.
Allora cominciamo con il tracciare una linea semplice e decidiamo che
quando la porta del bagno è chiusa le preoccupazioni – a prescindere dal
fatto che siano o meno fondate – le lasciamo fuori. Per riuscirci non
dobbiamo fare altro, ancora una volta, che concentrarci sul presente e
sulle sensazioni del corpo; e per fare questa operazione la doccia è
l’ideale.
Puoi cominciare lasciando scorrere l’acqua calda mentre con calma ti
spogli. Concentrati sul rumore dell’acqua e sulle sensazioni del tuo corpo
mentre si libera dei vestiti. Forse hai i piedi su un morbido tappeto,
oppure sono infilati nelle tue pantofole preferite. Se è inverno potresti
provare un piccolo brivido di freddo, non troppo fastidioso però, poiché
sai che tra un instante ti scalderai sotto l’acqua.
Mentre fai la doccia, concentrati sulla sensazione dell’acqua che ti
colpisce la nuca, o il collo, e da lì scorre lungo tutto il tuo corpo. Puoi

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sentire la consistenza del bagnoschiuma sulle dita. Se inspiri a fondo,
forse senti l’aroma del sapone e la sensazione avvolgente del vapore.
Se quei pensieri fastidiosi e un po’ intrusivi dovessero tornare a
riaffacciarsi, non c’è bisogno che ti affretti a scacciarli. Osservali per un
attimo, così come sono. Forse potresti provare un moto di amicizia e
compassione verso te stesso, in fondo fai un sacco di fatica ad affrontare
tutte le difficoltà di questo periodo. Osserva quindi da questa nuova
prospettiva i tuoi pensieri, senza cercare di reprimerli, ma nello stesso
tempo senza lasciare che ti prendano all’amo. E poi lasciali andare,
lascia che fluiscano via nello scarico, assieme all’acqua che ti scivola
addosso.
Per fare la doccia con questa intenzione non è necessario impiegare più
tempo del normale. Certo, se non siamo proprio di fretta è meglio, ma
anche se dovesse essere una doccia di pochi minuti, possiamo comunque
scegliere di farla con questo atteggiamento di consapevolezza.
Poi, volendo, possiamo anche fare un piccolo passo avanti e allargarci
per un istante oltre il nostro sé.
Già, perché siamo così abituati a dare importanza a noi stessi, ai nostri
problemi, alle nostre preoccupazioni, che abbiamo la tendenza a
dimenticare che non siamo soli, e anzi viviamo immersi in una rete
fittissima che ci collega alle altre persone. Questa tendenza ego-centrica
può avere delle conseguenze negative sul nostro umore e sul nostro livello
di benessere psicologico perché amplifica il senso di isolamento e spesso
non ci consente di vedere ciò che ci accade nella giusta prospettiva.
Finiamo così con il dare fin troppa importanza ai nostri problemi e ai
nostri fallimenti e perdiamo di vista il disegno collettivo.
Ma cosa c’entra tutto questo con la doccia?
Proprio con l’esercizio della doccia consapevole possiamo cominciare
ad alzare lo sguardo dal nostro ombelico e cominciare a fare alcune
considerazioni che forse non ci vengono spontaneamente alla mente. Per
esempio, cominciamo a considerare che abbiamo acqua corrente, per di
più calda, a disposizione nelle nostre case in qualsiasi momento. Questa
acqua che sgorga così facilmente dai rubinetti del nostro bagno viene da
lontano. Proviene dalle sorgenti, dai pozzi, dai fiumi e dai laghi. Viene
incanalata, raccolta, purificata, resa potabile e poi immessa nella rete
idrica della nostra città. Migliaia di persone hanno lavorato e lavorano
affinché ciò accada. E poi c’è l’impianto che consente di scaldare
l’acqua, il rubinetto, il miscelatore e tutte queste cose sono state inventate,
fabbricate, e poi montate da qualcuno, affinché tu possa godere del
privilegio di fare una doccia ogni sera tornato a casa dal lavoro.

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Proprio facendo la doccia ti puoi connettere al resto del mondo e alla
natura; all’acqua – elemento essenziale senza il quale la vita non sarebbe
nemmeno possibile – e anche alla scienza e alla tecnologia che hanno
permesso all’acqua di entrare nelle nostre case; a tutte le persone, del
presente e del passato, che hanno inventato, progettato e realizzato tutto
quel complesso e sofisticato sistema che consente a te, adesso, di fare una
doccia. Mica male eh?
Quanto poco spesso ci soffermiamo a riflettere su queste cose? Cosa
vuoi che sia una doccia… una doccia è una doccia, tutti ne abbiamo una in
casa, che sarà mai? E invece se ci pensi attraverso la doccia puoi
connetterti con l’intero universo. E quando ti senti connesso con
l’universo intero, diventi maggiormente consapevole di un sacco di cose
che prima davi per scontate, e forse potrebbe anche succedere che quelle
preoccupazioni che un istante prima ti invadevano la mente, diventino un
po’ più piccole. Attraverso questa meditazione sotto la doccia puoi
cominciare ad aprire la mente a nuove idee e prospettive, rompere
qualche schema, e anche, perché no, cominciare a pensare in grande.
Finché siamo immersi in quello che lo psicologo Russ Harris chiama
“smog mentale”[9] è difficile che ci venga qualche idea interessante su
come rendere migliore la nostra vita. La mente scimmia, che sembra tanto
vivace e irrequieta, alla fine tende a girare sempre attorno agli stessi
snodi, che probabilmente hanno come centro noi stessi, l’immagine che gli
altri hanno di noi, i nostri desideri, i nostri bisogni, le nostre aspettative.
Calmare la mente, fare in modo che questi pensieri smettano di proliferare
incontrollati è già un buon obiettivo in sé, ma forse possiamo fare anche
un passo avanti: aprirci a una modalità di pensiero diversa, più ariosa,
capace di contemplare qualcosa oltre al nostro io ipertrofico. L’esercizio
della doccia può aiutarci anche in questa direzione. Lasciamo che l’acqua
si porti via lo stress della giornata e approfittiamone per alzare lo
sguardo un po’ oltre.

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Bibliografia essenziale ragionata

Se ti interessa approfondire il tema della mindfulness, capire come nasce, quali sono i
concetti di fondo e avere qualche istruzione di base per la pratica, ti consiglio questi
testi:
Jon Kabat-Zinn, Vivere momento per momento, Corbaccio, 2016 (questa del
2016 è una edizione italiana rivista e aggiornata, il libro nella sua versione
originale risale al 1990).
Ronald D. Siegel, Qui e ora, strategie quotidiane di mindfulness, Erickson,
2016.
Elisha Goldstein, Il momento è adesso, Sperling & Kupfer, 2012 (da cui ho
tratto l’esercizio #3 Il mindful check-in).

Ancora sul tema mindfulness è molto interessante il libro scritto dallo psichiatra
Alberto Chiesa, Gli interventi basati sulla mindfulness. Cosa sono, come agiscono,
quando utilizzarli, Giovanni Fioritti Editore, 2011. Si tratta di un libro tecnico,
rivolto soprattutto agli addetti ai lavori, che riporta le evidenze scientifiche
sull’utilizzo della mindfulness in svariate condizioni di disagio psicologico. Ha un
taglio accademico, ma è molto ben scritto, anche per semplici curiosi.

Sul tema dei pensieri e di come possiamo imparare a non lasciarci agganciare, sono
sicuramente da leggere i libri di Russ Harris. In particolare, La trappola della
felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere (Erickson, 2010) e Se il
mondo ti crolla addosso. Imparare a veleggiare tra le ondate della vita (Erickson
2012).

Per quanto riguarda il tema del respiro, ho consultato principalmente due fonti:
Andre Van Lysebeth, Pranayama. La dinamica del respiro, Astrolabio, 1973,
un testo classico sul pranayama, che forse risente un po’ del tempo, ma che
resta autorevole e completo.
Gianni Pellegrini, Martin Merz e Alessandra Minisci, Il respiro. Significati e
pratica del soffio vitale, che fa parte dell’opera Yoga. Teoria e pratica
pubblicata in allegato al “Corriere della sera” nel 2017.

Gli esercizi #8 Tre respiri e #10 La doccia consapevole sono tratti dal libro di
Paolo Subioli, Zen in the city. L’arte di fermarsi in un mondo che corre, Edizioni
Mediterranee, 2015, che contiene molti altri esempi di pratiche informali.

Sempre di Paolo Subioli, un libro utile per analizzare e migliorare il nostro rapporto
con i media digitali, è Ama il tuo smartphone come te stesso. Essere più felici al
tempo dei social grazie alla Digital Mindfulness, Red!, 2017.

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Ancora sul tema dei social media e su come combattere le distrazioni, diverse
considerazioni e strategie utili le puoi trovare nel libro di Andrea Giuliodori,
Riconquista il tuo tempo. Vinci le distrazioni. Riprendi il controllo delle tue
giornate. Cambia la tua vita, Rizzoli, 2018.

La domanda chiave “Qual è la cosa più importante di cui mi devo occupare ora?”
nell’esercizio #9 Un rituale di concentrazione è stata ripresa dal libro Una cosa
sola. L’unico metodo per fissare le priorità e ottenere risultati eccezionali, di Gary
Keller e Jay Papasan, Tre60, 2014.

Sull’importanza del rapporto con la natura, anche per i più piccoli, si possono vedere i
libri di Richard Louv, L’ultimo bambino nei boschi. Come ravvicinare i nostri figli
alla natura, Rizzoli, Milano, 2006, e, in inglese The Nature Principle: Reconnecting
With Life in a Virtual Age, Algonquin Books, Chapel Hill, 2012.

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Sommario

Introduzione
Una passeggiata in collina
La mente scimmia
Mindfulness
#1 Respirare (per rilassare il corpo e la mente)
#2 Sedersi ad ascoltare (per osservare ciò che accade)
#3 Il mindful check-in (per rompere gli automatismi)
#4 La passeggiata con gusto (per ritrovare la bellezza dietro l’angolo)
#5 Lasciare andare le preoccupazioni (per fare spazio quando la mente è troppo
affollata)
#6 Osservare e disegnare (per riconnettersi con la natura)
#7 Risvegliare i sensi (per riconnettersi con il corpo)
#8 Tre respiri (per combattere la dipendenza da internet e altre compulsioni)
#9 Un rituale di concentrazione (per ritrovare il focus nel mezzo del caos)
#10 La doccia consapevole (per lavare via lo stress)
Bibliografia essenziale ragionata

51
[1]
J.W. Schooler, M. D. Mrazek, M. S. Franklin, B. Baird, B. W. Mooneyham, C. Zedelius, J. M. Broadway,
“The Middle Way: Finding the Balance between Mindfulness and Mind-Wandering”. In B.H. Ross: The
Psychology of Learning and Motivation, Vol. 60, Burlington: Academic Press, 2014, pp. 1-33.

[2]
Jon Kabat-Zinn, Vivere momento per momento. Sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia
con la saggezza del corpo e della mente, TEA, Milano, 2004.
[3]
Su questo tema una lettura interessante è il libro Perché Einstein non portava i calzini, di Christian
Ankowitsch, Vallardi, 2016 .

[4]
La citazione è tratta dal Hatayoga Pradipik a, uno dei testi principali dell’Hata Yoga, risalente al XV secolo.
Io ho estratto la citazione del volume Il respiro. Significati e pratica del soffio vitale, di Gianni Pellegrini,
Martin Merz e Alessandra Minisci, che fa parte dell’opera “Yoga. Teoria e pratica” pubblicato dal Corriere
della sera nel luglio 2017.

[5]
Andre Van Lysebeth, Pranayama. La dinamica del respiro, Astrolabio, Roma, 1973.
[6]
F. Bryant, J. Veroff, Savoring: A new model of positive experience, Psychology Press, 2017.

[7]
Per una panoramica si può vedere il libro di Richard Louv, L’ultimo bambino nei boschi, Rizzoli, 2006, e,
dello stesso autore, solo in inglese, The nature principle, Algonquin Books, 2012.

[8]
Le ricerche che hanno dimostrato l’impatto negativo del multitasking sulla produttività sono diverse.
Una delle più citate è di J.S. Rubinstein, D.E. Meyer, J.E. Evans, “Executive control of cognitive
processes in task switching”, Journal of Experimental Psychology: Human Perception and
Performance, 2001 Aug; 27(4):763-97.
[9]
Russ Harris, Se il mondo ti crolla addosso, Erickson, 2013.

52
Indice
Introduzione 1
Una passeggiata in collina 1
La mente scimmia 1
Mindfulness 1
#1 Respirare (per rilassare il corpo e la mente) 1
#2 Sedersi ad ascoltare (per osservare ciò che accade) 1
#3 Il mindful check-in (per rompere gli automatismi) 1
#4 La passeggiata con gusto (per ritrovare la bellezza
1
dietro l’angolo)
#5 Lasciare andare le preoccupazioni (per fare spazio
1
quando la mente è troppo affollata)
#6 Osservare e disegnare (per riconnettersi con la natura) 1
#7 Risvegliare i sensi (per riconnettersi con il corpo) 1
#8 Tre respiri (per combattere la dipendenza da internet e
1
altre compulsioni)
#9 Un rituale di concentrazione (per ritrovare il focus nel
1
mezzo del caos)
#10 La doccia consapevole (per lavare via lo stress) 1
Bibliografia essenziale ragionata 1

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