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Franco La Cecla

Essere amici
Essere amici
Premessa

Dio vi assista o amici miei


Nei travagli della vita, nel servizio
E nei festini scapestrati d’amicizia
E nei dolci segreti dell’amore
Dio vi assista, o amici miei,
Anche nelle bufere, e nel dolore d’ogni giorno,
Nel paese straniero, nel deserto del mare,
E nei tetri abissi della terra!
ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN 1.

Per noi l’amicizia è interessante proprio perché evade ogni definizione: il modo in cui
l’amicizia agisce, esprimendo costanza e fluidità in diversi mondi sociali, è eccitante e
problematico per la gente che la pratica e per chi la studia.
AMIT DESAI ed EVAN KILLICK 2.
Chi scrive è un antropologo, qualcuno che deve stare attento a non
generalizzare. L’amicizia è un fenomeno universale, di cui si trovano tracce
nei testi piú antichi che ci sono pervenuti e nelle lande piú diverse del mondo,
dalle tribú amazzoniche fino alle compagne e ai compagni di prigionia, alle
rifugiate e ai rifugiati delle guerre piú recenti, ai marginali delle nuove città di
Papua, agli amici del bar o alle collegiali giapponesi online. Però cosa si
intenda per amicizia è una variabile tutt’altro che universale, epoca per epoca,
cultura per cultura, si presenta come un legame che costituisce la società in
modi che dipendono dal peso che viene dato agli altri tipi di legame. A volte
è una forza centrifuga che si libera dalla reciprocità dei legami di parentela,
altre invece li conferma, altre ancora è un mondo parallelo. Occorre che il
lettore sappia che, dopo questa premessa, quando parlo di amicizia, mi
riferisco anzitutto (per motivi di competenza diretta) alla strana costellazione
che essa rappresenta oggi per noi occidentali, soprattutto europei. Nel corso
della narrazione entreranno in ballo altri sistemi, altre forme di amicizia e, di
volta in volta, sarà chiaro che queste non rientrano nella nostra concezione
anche se possono somigliarle. È un po’ difficile oggi esimersi dal pensare che
quando Aristotele scriveva i capitoli dell’Etica nicomachea, o quando Michel
de Montaigne trattava dell’amicizia, lo facevano pensando di esprimere
concetti universali, o forse piú semplicemente erano convinti che l’idea di
universale greco e francese dovesse espandersi a tutto il mondo. Oggi
riusciamo a essere piú cauti e, pur non disprezzando la nostra storia di
amicizia, possiamo confrontarla con altre che sono emerse per farci capire
quanto singolare sia la nostra. L’attenzione all’amicizia in antropologia è
qualcosa di recente, e tuttora nutre un vivacissimo dibattito, si alimenta di una
nuova letteratura, di monografie, lavori sul campo, osservazioni partecipanti
che raccontano la ricchezza di una peculiarità umana (ma anche qui abbiamo
dubbi, l’amicizia non è peculiare agli umani, i cavalli 3, le galline e altri
animali contraggono legami di amicizia) di cui sappiamo ancora molto poco.
Anzi sta proprio qui la qualità precipua dell’amicizia, che pur praticandola
rimane qualcosa di indefinibile e di difficilmente fissabile.
1. A . S . PUŠKIN , Poesie, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 169.
2. A . DESAI ed E . KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship. Anthropological Perspectives,
Berghahn, New York - Oxford 2010, p. 1.
3. H . SIGURJÓNSDÓTTIR , M . C . VAN DIERENDONCK, e A . G . THÓRHALLSDÓTTIR , Friendship
Among Horses-Rank and Kinship Matter, Iceland University of Education, Reykjavík 1997.
Introduzione

Ci sono sette tipi di persone che è bene non avere per amici: le persone influenti o di
alto rango; i giovani; gli uomini forti, che non sono mai malati; gli uomini cui piace il
sake; gli uomini d’armi fieri e coraggiosi; gli uomini falsi; gli uomini avidi.
Tre sono invece i tipi di persone che è raccomandabile avere come amici: le persone
che fanno regali; i medici; gli uomini saggi.
KENKŌ 1.

Quando si parla di amicizia lo si fa come se di questo «fatto della vita»


sapessimo già tutto. Al nostro tempo è dato poco interrogarsi sulla singolarità
di questo legame che non costituisce istituzioni, ma che in realtà è l’aspetto
inafferrabile, costruttivo e distruttivo al tempo stesso, di ogni stare insieme. Il
mondo antico s’interrogava molto sull’amicizia e lo faceva indagando su
qualcosa che preesisteva e resisteva a ogni definizione. Nel Filebo di
Platone 2, Socrate tenta di costringere i bei giovani di un ginnasio a darne una
descrizione e il dialogo si conclude nel nulla di fatto. Lui che voleva dare una
mano (sempre un po’ provocatoria, sorniona e cinica) a un giovane
innamorato e timido finisce per interrogare il giovane che è l’oggetto delle
intenzioni dell’innamorato, ma s’impelaga in una serie di contraddizioni.
L’amicizia è qualcosa che avviene tra eguali? Non ne siamo davvero certi. Si
ama in amicizia chi somiglia a noi o chi invece è diverso? Ancora: sono i
migliori a essere amici tra di loro, i «buoni», «gli eccellenti», oppure non è
vero che l’amicizia c’è anche tra i cattivi, tra coloro che sono amici nel
compiere cattive azioni? Qual è la natura di questa affezione? Per i tempi di
Socrate è l’attrazione tra erastes ed eromenos, tra amante e amato, e questa
attrazione si basa su impulsi e sentimenti nobili e meno nobili, va dal volere
somigliare all’altro al volerlo «carpire» in maniera non diversa dalla natura
del desiderio. Lasciando Socrate e venendo piú vicino a noi, quando Michel
de Montaigne parla della sua grandissima amicizia «inconsolabile» con La
Boétie sta ancora parlando di qualcosa che ha la natura di un’affinità elettiva
con componenti erotiche o si tratta in maniera diversa di un’elezione
spirituale inafferrabile e tenace? 3. Oggi, quando parliamo di amicizia, è
possibile esimersi dal parlare di antipatia e simpatia, di quelle imprendibili
molle che ci fanno avvicinare o allontanare da qualcuno?
Nel film L’amico americano (1977) di Wim Wenders, Dennis Hopper
interpreta la parte di un criminale introverso, Tom Ripley, che entra nella vita
di un artigiano di cornici di Amburgo, Jonathan Zimmermann (interpretato da
Bruno Ganz). È affascinato dalla competenza manuale di Jonathan e dal suo
«occhio» per i falsi (che fanno parte del commercio di Tom). Questa simpatia
e curiosità non impedisce però a Tom di indurre Jonathan a diventare killer
occasionale e di entrare nella partita pericolosa tra due gang. A un certo
punto, però, quando Jonathan ancora non sa di essere «usato» da Tom, questi
gli dice che ha un grande desiderio, vorrebbe molto diventare suo amico. E
aggiunge che sa che questo è impossibile. Tom è l’«amico americano» che
fino alla fine sarà ambiguo, tentato tra il sentimento di un’amicizia vera (per
cui gli salva la vita) e l’impossibilità di uscire dal suo ruolo. Come se
l’amicizia, o la sua impossibilità, facesse risaltare in maniera particolare le
pastoie quotidiane, il già dato, i compromessi e gli impegni da cui non
riusciamo a svincolarci. L’amicizia come un’avventura che non tutti possono
permettersi di correre.
In un magnifico racconto di Solženicyn, Accadde alla stazione di
Kocetovka (1962) 4, è narrata un’altra situazione esemplare. Durante
l’invasione nazista della Russia, in una stazione ferroviaria si vive
l’emergenza. Un onesto individuo che voleva andare a combattere al fronte
viene, per la sua spiccata miopia, assegnato a dirigere il traffico dei treni. È
un uomo di provincia ma ha interessi e una sensibilità fuori dal comune.
Soffre della lontananza della moglie e del figlio rimasti in Bielorussia, tagliati
fuori dal fronte della guerra. È però preciso e attento e si dà molto da fare
perché i profughi raggiungano posti piú sicuri, i soldati e i rifornimenti
arrivino alle prime linee. A un certo punto, in stazione capita un uomo
dall’aspetto singolare. Imbacuccato in un cappotto chiaramente non suo, ha
un’aria smarrita ma simpatica e parla in un modo che al capostazione risulta
familiare. È un uomo di cultura, fa battute sottili e ha un senso dell’umorismo
che subito contagia il nostro addetto ai treni. Parlano, fumano, si scambiano
opinioni. L’imbacuccato è rimasto tagliato fuori dal suo battaglione e vuole
tornarvi. Il capostazione lo vuole istradare sul prossimo convoglio che passa
per Stalingrado. L’altro gli chiede dove si trovi e come si chiamasse prima
(siamo in pieno stalinismo, le città sono state da poco ribattezzate con nuovi
nomi). Il capostazione ha un dubbio terribile. Possibile che quest’uomo non
sappia del cambiamento di nome di Stalingrado? A cosa è dovuta questa sua
ignoranza? È uno sprovveduto, un intellettuale (parlando con lui ha saputo
che è un attore e gli ha confidato la sua passione per il teatro) oppure è una
spia? Tutta l’affinità e la simpatia si mutano in una lotta interna al
capostazione. Cosa deve fare? Seguire il suo istinto e fidarsi o consegnare
quest’uomo come pericolosa spia? Finirà per accompagnarlo in un ufficio
vicino e lasciarvelo, e poi fare in modo che venga consegnato alle autorità.
Non saprà piú nulla di lui, anche se per anni sarà tormentato dal dubbio di
avere sbagliato.
Solženicyn ci mette di fronte alla tipica situazione in cui l’amicizia, una
nascente amicizia, viene contrapposta a un contesto dove sono solo i ruoli che
contano. Non c’è posto per affinità e simpatia, soprattutto in guerra, dove
ognuno può essere un nemico. Non c’è bisogno di essere in guerra, sembra
suggerire Solženicyn, basta essere in un mondo in cui i ruoli sono quelli
dettati da un regime o da una configurazione politica. Tutto è definito da
appartenenze e non da qualcosa di cosí inafferrabile come le simpatie e le
affinità. L’amicizia non costituisce istituzione, non è piú forte dei ruoli, però
costituisce legame al punto tale da potere scardinare i ruoli, se uno volesse.
Qui sta la pericolosità dell’amicizia, il suo essere qualcosa d’inafferrabile che
però si contrappone all’istituito e al costituito e può infrangerlo e farlo
saltare.
Questo è il suo manifestarsi nelle nostre società, un’attrazione, un legame
piú o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali
o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un
«fuori» salutare, un potersi chiamare fuori di tanto in tanto, una valvola di
sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile, la mano sulla
spalla, lo sguardo di comprensione o di complicità. È apparentemente un fatto
«meno importante» (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un
fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro questa
«svalutazione», che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una
strategia interessante, se si può chiamare tale una deriva sommersa. L’«out of
focus» dell’amicizia le consente di resistere alla famelica intrusività della
società contemporanea. Dietro la sua «inutilità» si cela la difesa inconscia che
la nostra società fa di questo baluardo.
Perché sí, per altre strade l’amicizia è proprio la base di quella lotta per la
libertà di scelta che ci ha portato a questa contemporaneità. Essa è la chiave
sia della definizione di individuo e dei suoi diritti, sia della reciprocità tra
liberi che dovrebbe sostenere le radici piú profonde del nostro mondo. È una
relazione tra persone che l’Occidente nella sua voglia autodistruttiva è
riuscita a mantenere in ombra, a parte, sviluppandone però le premesse che
sono presenti in tutte le società.
Si potrebbe dire che l’Occidente è ambiguo nei confronti dell’amicizia:
quando non riesce a farne mercato, preferisce metterla tra le cose «private». È
questo «reservoir» di una non ben definita «privacy» che ci rende miopi di
fronte alla natura invece fondante dell’amicizia come tessuto politico
quotidiano, spazio pubblico ogni volta ricomposto ed elastico alle fluttuazioni
della vita in comune. Oggi è interessante comprendere il perché di questo
gioco ideologico sull’amicizia, il preferire metterlo tra le cose che rendono la
vita piacevole, il «leisure time».
Gli antichi sapevano che l’amicizia non è un turismo dell’anima, ma il
luogo in cui essa si può meglio manifestare. Si può dire che l’ipocrisia
occidentale nei confronti dell’importanza dell’amicizia è parte di quel non
vedere, del contrario della «volontà di sapere», della dissezione anatomica
che l’Occidente ha fatto di se stesso. Una miopia che ci dà respiro e ci
consente di vivere la nostra vita come qualcosa d’inedito e indefinibile. Forse
è per questo che da orizzonti diversi la filosofia contemporanea è arrivata a
porsi come fine quell’arte di vivere di cui l’amicizia era parte preponderante.
Ne sono testimoni gli ultimi lavori di Michel Foucault, ma anche il pensiero
sulla convivialità di Ivan Illich, le riflessioni di Gilles Deleuze e Félix
Guattari, i saggi di Emmanuel Lévinas e il suo rapporto d’amicizia con
Maurice Blanchot, le riflessioni di Jacques Derrida e di Stanley Cavell, un
gran lavoro che è soltanto cominciato, e di cui l’antropologia è fattore
integrante e a volte richiamo verso la concretezza del vissuto di cui, come
disciplina, si occupa in chiave fenomenologica con buona umiltà.
1. KENK Ō, Ore d’ozio [1330-32], a cura di M. Muccioli, SE, Milano 2002, p. 75.
2. PLATONE , Filebo, trad. e note di C. Mazzarelli, in ID ., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale,
Bompiani, Milano 2000.
3. M . DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2014.
4. A . SOL ŽENICYN , Accadde alla stazione di Kocetovka [1962], in Una giornata di Ivan
Denisovič, a cura di O. Discacciati, Einaudi, Torino 2017.
Di cosa è fatta l’amicizia?

L’amicizia postula l’onestà, è l’unica condizione, anche se difficile.


INGMAR BERGMAN 1.

Non è un piacere avere amici che arrivano da lontano?


CONFUCIO 2.

Cos’è l’amicizia? Cos’è per la nostra società che negli ultimi anni si è
appropriata di buona parte degli spazi dell’informalità e cos’è per altre
culture e società? Il bello dell’occuparsene sta nel fatto che è una sostanza a
cui non si guarda proprio perché fa parte delle cose che diamo per scontate e
che non rientrano in istituzioni ben definite. Quando ci si accorge di essere
diventati amici di qualcuno non si va né da un funzionario del Comune né da
un prete a fare ratificare la cosa.
Il problema dell’amicizia sta nel fatto che non si può parlare di essa se
non si sa cosa essa «ci fa». L’amicizia – questo lo aveva capito Epicuro – è
un piacere, anzi è il piacere della vita per eccellenza, ma non nel senso che
esso «conforta» e «consola», ma nel senso piú profondo e proprio di
godimento della vita, cioè si può sentire piacere nel vivere solo se si vive
l’amicizia che è un compartire lo stare al mondo. Come se essa fosse una
forma di senso, di sensibilità, senza la quale la vita non è apprezzabile e
perfino percepibile. Per questo, rispetto a Socrate il problema non è definire
l’amicizia come legame tra pari, ma intanto definirla come possibilità del
godimento, anzi come possibilità a posteriori, cioè evidenza che precede la
possibilità, esperienza di una soddisfazione che precede il domandarsi se è
possibile. L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non
sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una
costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune che è
però già tutto sotto il dominio del piacere e della sensibilità.
Anche queste affermazioni sono povere rispetto alla fenomenologia
dell’amicizia, essa sola può riempire il vuoto delle definizioni, ribaltarle e
renderle inutili e parziali.
La temporalità dell’amicizia è il qui e ora che si ripete per confermare il
qui e ora dell’ultima volta che ci siamo visti, sentiti, pensati, ma questo
tempo è quello della sospensione, non è un tempo di preparazione. La vita
nell’amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di
vivere per questo, perché c’è l’amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo
carattere di «compito» e l’esistenza da qualunque sospetto di «doversela
meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in
un’altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle
piú assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha
completamente smarrito il senso che non c’è un oltre, ma che esso è già qui,
che c’è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio
della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
L’amicizia non è una virtú (anche se una frase di Epicuro che ci è
pervenuta suona cosí, l’amicizia come virtú), essa non è prevedibile e non si
basa su un giusto scambio di valori. È un ambito che si crea per una
circostanza fortuita: può essere legata ad affinità, a simpatie, a qualche
interesse in comune, ma non si sviluppa in base a queste premesse. Rispetto a
esse è un di piú.
L’amicizia «sospende» il tempo, come già detto, ne fa «vita adesso». Al
pari di ciò che Vladimir Jankélévitch dice dell’avventura 3 lo sospende perché
lo ri-inizia. Quando ci si rivede con un amico, con un’amica, non lo si fa per
commemorare un passato ma per farlo ripartire. Spesso a distanza di tempo ci
si rivede, ed è come se si ricominciasse da dove ci si è lasciati. Il tempo, e ciò
ci stupisce ogni volta, è irrilevante rispetto a certe amicizie. Si riparte, come
se ci si fosse visti ieri l’ultima volta. Anche questo è un sospendere il tempo,
perché il tempo dell’amicizia è un tempo parallelo alla vita, non ne segue le
lancette, ha le sue: gelose, proprie, nascoste. Nel piacere dell’amicizia io non
faccio conto del tempo che è trascorso tra questa e l’ultima volta che ci siamo
visti.
Aristotele nell’Etica nicomachea insiste sull’importanza per gli amici
della contiguità e della frequentazione: ma noi sappiamo che l’amicizia
spesso non ne ha bisogno. Emmanuel Lévinas e Maurice Blanchot sono
grandissimi amici. Si sono visti una sola volta da giovani, ma questo legame
dura per tutta la vita. È sostenuto dalla differenza tra i due, da diversi modi di
vedere le cose, di vivere, e allo stesso tempo da una profonda concisione,
dalle poche parole che si scambiano al telefono, dallo scriversi e dal «sapere»
l’uno dell’altro. Quando muore la moglie di Lévinas, è Blanchot che telefona,
che dice le parole che solo un amico può dire perché una scomparsa venga
assorbita in due. Per la prima volta si chiamano per nome, Maurice,
Emmanuel, e si danno del tu 4. Sarà anche l’ultimo incontro tra i due.
L’altro tipo di sospensione riguarda il giudizio. Tra amici, negli anni ci si
arriva a conoscere con tutti i difetti e i pregi. Accade ad esempio tra ex
amanti, che dopo avere vissuto una passione intensa diventano amici e quindi
«realisti», l’altro, l’altra non sono piú pervasi dall’aura della perfezione e
dell’incanto. Diventano sempre piú quello che sono. Questo però, invece di
alterare il rapporto, lo rafforza, lo rende profondo. Perché non ci si giudica, si
accetta dell’altro la pigrizia, il nervosismo, le cattive abitudini, l’incaponirsi
nelle strade sbagliate, il non saper vivere, perfino il narcisismo. Non è questo
che conta. S’innesca un magnifico meccanismo che aiuta a guardare oltre.
È proprio nell’amicizia che si godono i vantaggi del malinteso 5, questo
rimedio che ci insegna che non è detto che ci si debba capire per andare
avanti. Essa non si basa sul capirsi, ma su un apparente andare d’accordo e a
volte nemmeno su questo, ma sulla fiducia che non si potrà se non andare
d’accordo. È la simpatia per l’altro che ci fa saltare i preamboli. Il malinteso è
sempre dietro l’angolo. I migliori sanno come usarlo, sanno come fare finta
di niente quando si scopre che l’altro non ha capito, che è di tutt’altra
opinione, anzi ha detto qualcosa che poteva pure ferirci. Succede che si faccia
un viaggio, e che durante il tragitto l’amica o l’amico mostri una parte di sé
che non avevate previsto e che va all’opposto dei motivi che vi hanno attirato
verso quella persona. La bravura è «fare finta di niente», capire che c’è una
zona dell’altro che occorre non esplorare. Il malinteso funziona come una
bugia a fin di bene, sta a voi decidere se vale la pena troncare una relazione o
chiudere un occhio e appianare il possibile ostacolo. Ci sono amici che hanno
imparato a fare questo gioco da ciascuna parte. È una delle astuzie della
contiguità. Nelle geografie ristrette, nei luoghi in cui ci si incontra ogni sera,
nei bar che illuminano le nostre solitudini compartite questo gioco viene
generosamente giocato. Agli amici basta dell’amico un simulacro, la
confusione della persona con il personaggio. Non è cattiveria, è prudenza, ci
sarà tempo per approfondire, se è questo che vogliamo. Ma tra la profondità e
la leggerezza nell’amicizia preferiamo la leggerezza.
Il carattere «aereo» dell’amicizia le è intrinseco, proprio perché essa
comincia con una «volatilità» che è propria ai rapporti che non sono definiti
se non da se stessi, che non hanno obblighi estrinseci. Volatilità significa
anche che c’è la possibilità che duri pochissimo, poco, molto, moltissimo.
L’amicizia galleggia, fa il surf sulle occasioni della vita, ne sfrutta la
dimensione mobile, lascia e riprende, torna a lasciare. È un «tourbillon de la
vie», come cantava Jeanne Moreau in Jules e Jim di Truffaut, davvero.
Il bello di questo rapporto è che non tutte le amicizie sono importanti, non
tutte ci cambiano, non tutte significano per noi la stessa cosa. Che siano
profonde o meno, durature o passeggere, esse si muovono, come già detto,
nella meravigliosa dimensione del malinteso. Il malinteso che ci aiuta a non
dover approfondire il rapporto con tutti, che ci difende dalla tentazione di
diventare troppo intimi o dall’altrui invadenza. Quello che ci permette di
frequentare gente con cui spartiamo solo qualcosa o con cui è bello passare
qualche tempo, che ci consente di non essere capiti fino in fondo e di non
dover capire.
L’amicizia è una topologia, anche: le amiche, gli amici diventano i luoghi
del nostro stare al mondo. Con essi possiamo trovare il nostro, di mondo,
diventano i punti di riferimento di un continente tutto nostro.
C’è un aspetto «spaziale» dell’amicizia, la sua componente geografica.
Essa ci amplia la mappa del mondo percorribile, ci rende familiari delle parti
che non conoscevamo, ci consente di sentirci a casa in territori lontani e
inesplorati. La nostra geografia segue le oscillazioni dell’amicizia, le sue
ampiezze e le sue contrazioni.

Quando avete amici tra i mari (zhi ji ), il piú remoto angolo della terra sembra
vicino 6.

Come con il tempo, cosí con lo spazio, l’amicizia ritaglia una dimensione
a parte, rifà la storia e la geografia, il mondo diventa il nostro mondo, ubi
amici, ibi patria 7, quello in cui ai luoghi si sostituiscono le persone, alle città
il volto delle persone che ci rendono la vastità del globo qualcosa di
conoscibile, di percorribile.
Ci sono amici con cui si condivide una «passione per il mondo», come la
definiva il grande fotografo Luigi Ghirri. È una forma di amicizia con gli
occhi rivolti all’esterno, con la voglia di conoscere, con il «desiderio fisico»
del mondo, di vederlo, esplorarlo, conoscerlo, averci a che fare. Sono gli
amici per cui si parte e a cui si racconta. Sono coloro che ci fanno capire che
l’amicizia è un’osmosi che si trasmette dalle persone ai luoghi. È una cosa
rara, preziosa, quasi un segreto che ci si dice tra pochi, ma che rinnova il
senso della complessità e ricchezza, che lo fa diventare vita oltre che mondo.
Lo sanno bene gli antropologi che senza «amici», che loro chiamano
ingiustamente «informatori», non andrebbero da nessuna parte. È la storia, ad
esempio, di Franz Boas e di George Hunt, il suo informatore tra gli indiani
dell’isola di Vancouver. È figlio di una Tlingit e di un bianco. Sarà costui,
dall’inizio del Novecento in poi, il vero tramite tra l’antropologo e le culture
della British Columbia e soprattutto i Kwaiutl. Senza il suo appoggio sarebbe
impossibile a Boas non solo avere traduzioni delle lingue locali, ma
convincere le tribú a farsi filmare, a offrire le proprie maschere e i propri
totem, e addirittura a «mettersi in scena» per delle vere e proprie «fiction» in
cui gli indiani recitano se stessi 8. È un rapporto complesso, che diventerà
sempre piú un’amicizia profonda, che segnerà il destino di entrambi.
Sono amicizie difficili queste, piene di incomprensioni, spesso complicate
da difficoltà linguistiche, da aspettative da parte di entrambi, come se si
trattasse di uno scambio che ci si aspetta equo, ma che non lo può essere mai
davvero. C’è la storia dell’informatore di Clifford Geertz che gli chiede in
prestito la macchina da scrivere e che quando gli viene richiesto di restituirla
si offende perché per lui quella macchina da scrivere è il segno di una
«parità» con l’antropologo 9. Allo stesso tempo sono esempi di un salto
coraggioso tra mondi diversi, di un andare oltre le incredibili differenze e
diffidenze e nei casi piú fortunati cementano amicizie «sul campo» che
spesso sono uno dei motivi per cui gli antropologi vi ritornano.
Ho viaggiato recentemente con Michael Taussig per le comunità nere del
Pacifico colombiano presso le quali negli ultimi quarant’anni ha svolto il suo
«fieldwork» da antropologo, e mi sono reso conto che adesso, e da parecchi
anni, per Taussig tornare non è piú una maniera di continuare il campo, ma di
rivedere le persone che sono diventate i luoghi, quel tessuto di amici e
amiche per cui le storie, lo sfruttamento e le violenze a cui esse sono state
sottoposte e i pericoli che hanno corso e corrono ancora nella guerra tra
narcos, paramilitari, guerriglieri si sono confusi nella stessa storia personale
dell’antropologo 10.
1. I . BERGMAN , Lanterna Magica [1988], trad. di F. Ferrari, Garzanti, Milano 2013.
2. S . LEYS (a cura di), I detti di Confucio, ed. it. a cura di C. Laurenti, Adelphi, Milano 2006, p.
37.
3. V . JANKÉLÉVITCH , L’avventura, la noia, la serietà [1963], Einaudi, Torino 2018.
4. M . LÉVINAS e S . HAMMERSCHLAG , The final meeting between Emmanuel Lévinas and
Maurice Blanchot, in «Critical Inquiry», vol. 36, n. 4 (estate 2010), pp. 649-51.
5. F . LA CECLA, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Bari 1997.
6. Verso tratto dal poema di Wang Bo, Farewell to Vice-Prefect Du [ca. 649 - ca. 676], riportato
da Ping Wang nel suo saggio The chinese concept of friendship. Confucian ethics and the literati
narratives of pre-modern China, in C . RISSEEUW e M . VAN RAALTE (a cura di), Conceptualizing
Friendship in Time and Place, Leiden, Boston 2017.
7. P . BROWN , Tesori in cielo [2016], Carocci, Roma 2018.
8. C . MARABELLO , Sulle tracce del vero. Cinema, antropologia, storie di foto, Bompiani, Milano
2011.
9. C . GEERTZ , Antropologia e filosofia, frammenti di una biografia intellettuale [2000], il
Mulino, Bologna 2001.
10. F . LA CECLA, Dando vueltas con Miguel, postfazione a M . TAUSSIG , Il mio museo della
cocaina [2004], Mileu, Milano 2019.
Usi spurii, Facebook e altri imbrogli

Non è possibile essere amico di molti secondo perfetta amicizia, come non è possibile
amare molti allo stesso tempo: infatti pare somigliare a un eccesso.
Secondo il proverbio, non si arriva a conoscersi reciprocamente prima di aver
consumato la quantità di sale di cui si dice, e quindi prima di ciò non ci si può accettare e
riconoscere reciprocamente come amici, prima cioè che ciascuno si mostri reciprocamente
all’altro come degno di amicizia e di fiducia. Invece quelli che mostrano sentimenti di
amicizia reciproca in modo affrettato vogliono essere amici, ma non lo sono, tranne nel
caso che siano anche amabili e lo sappiano; il desiderio di amicizia è rapido a nascere,
l’amicizia no.
ARISTOTELE 1.

In una delle puntate piú divertenti della serie televisiva South Park c’è un
personaggio, Stan, che si rifiuta di entrare in Facebook. I suoi amici fanno di
tutto per convincerlo, lo prendono in giro, lo minacciano. Alla fine gli creano
essi stessi il profilo.
Ecco cosa gli accade:

Stan controlla il suo profilo: «Informazioni di base, …Oddio!»


Il papà di Stan appare online con un’aria severa.
Papà: «Stan, perché non vuoi essere amico con la nonna?»
Stan: «Papà, davvero, non mi sembrava il caso di prendere questa cosa in
considerazione».
Papà: «La nonna è in ospedale, e tu non pensi sia il caso di darle l’amicizia?»
Stan: «Va bene, aggiungerò la nonna agli amici».
Papà: «Meglio cosí. Poi ti ho mandato una vignetta e tu non hai nemmeno risposto» 2.

La prima persona che gli chiede l’amicizia è sua nonna. E ovviamente lui
capisce che aveva ragione a non volersi iscrivere, perché è la logica di
Facebook che lo costringe ad appiattire tutto su un solo piano. Aristotele
direbbe che anche i rapporti familiari sono una forma di amicizia e con lui
sarebbe d’accordo l’antropologo Marshall Sahlins 3, che si è battuto per
rileggere la parentela secondo i termini di una reciprocità che l’accomuna ad
altri tipi di legami e alleanze. Però come non dare ragione al nostro
personaggio? La nonna che gli chiede l’amicizia trasforma un rapporto ben
preciso, quello tra una generazione e un’altra, quello che transita attraverso
una contiguità che è fatta di corpi accanto, di protezione, di trasmissione di
storie, in una generica formula vuota: friendship. L’orrore di Facebook è
duplice. Da una parte ha bisogno di usare i legami che noi stabiliamo con gli
altri, di infilarcisi dentro facendoci credere che dipendono da lei, una nuova
Lilith (della tradizione mistica ebraica) che si frappone nel coito tra due
sposi, per assorbire lo sperma di lui e frustrare il desiderio di lei. Facebook ci
espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione
quotidiana della nostra socialità intima e allargata. È un gesto di puro
latrocinio, perché su questo nostro lavoro specula e ci pianta le sue
pubblicità. La gravità dell’invenzione di Zuckenberg non è il fatto che lui
venda i nostri profili al migliore offerente, ma il fatto stesso che riduce
l’amicizia a friendship. Una solitudine affollata da spettri dell’amicizia.
Il detto di Aristotele «Amici, non ci sono amici» 4 tramandato da Diogene
Laerzio e su cui Jacques Derrida ha costruito un intero anno di seminari, qui
suona perfettamente. Sbandierare il numero di amici, pensare che basti un
like per diventarlo, che basti un contatto, significa umiliare il legame che
l’amicizia costituisce nella società, ridurla a gossip e a people, mentre essa è
la chiave piú importante della democrazia. Facebook opera qualcosa di
mostruoso e di ben congegnato: appiattire la nostra sfera amicale al «privato»
del buco della serratura, ridurla a un’invidia mimetica da studenti delle
medie, eliminare dall’amicizia tutta la sua carica pubblica e quindi eversiva.
L’amicizia costituisce, nelle nostre società occidentali ma anche in molte
altre, il tessuto del sociale, quella trama dentro cui possiamo filare il nostro
percorso, quel luogo geografico e non solo di legami, alleanze, complicità,
ma anche di inimicizie, antipatie, evitazioni.
L’intelligenza di Facebook è di avere occupato un’area che si rifiutava
alla formalizzazione, avere colonizzato un ambito che è fluttuante, anti-
istituzionale, revocabile. Lo ha fatto prima che altri lo facessero,
sostituendosi ai movimenti politici (ma dando a essi e alle loro intenzioni
«monopolizzatrici» uno strumento micidiale) che avevano cercato di farlo.
Nella sua apparente gigioneria essa ha sfrondato l’amicizia di ogni «fatto
della vita», ne ha trasformato le qualità e le esigenze, lealtà, conoscenza
reciproca, fiducia, in un simulacro di vuote ombre. René Girard 5 ci aveva
prevenuto di fronte a un simile pericolo. Il nostro desiderio nei confronti del
mondo è malato di una triangolazione. Riusciamo a volere solo invidiando.
Riusciamo a comprare perché ci sembra di imitare il desiderio altrui.
Facebook è solo l’applicazione ultima di questa incapacità di intestarsi il
desiderio. Al posto di avere una vita vera con la persona che amo, do questa
persona a un amante che mi permetta di desiderarla, è la storia dell’Eterno
marito di Dostoevskij 6. Al posto di avere una vita vera con i miei amici la
consegno ai fattorini squallidi dei social. Facebook svuota la geografia reale
dell’amicizia e la sostituisce con un elenco. Bisogna rileggersi Aristotele per
capire quanto è grave tutto questo:

La presenza e la prossimità sono la condizione dell’amicizia, la cui energia si perde


nell’assenza o nella lontananza. Gli uomini sono detti buoni o virtuosi sia dal punto di
vista delle capacità, delle possibilità, dell’habitus, sia in atto. Nell’amicizia accade lo
stesso: gli amici che dormono o che vivono in luoghi separati non sono amici in atto.
L’energia dell’amicizia trae la sua forza dalla presenza o dalla prossimità. Se pure non la
distruggono, l’assenza o l’allontanamento attenuano o estenuano l’amicizia, la snervano 7.

Commentando il passo, Jacques Derrida sottolinea:

Il proverbio che Aristotele cita a tal proposito evidenzia bene l’assenza, o


l’allontanamento. È per lui sinonimo di silenzio: gli amici sono separati quando non
possono parlarsi (è «l’aprosegoria», la non allocuzione, parola rara che compare solo in
questo proverbio «l’aprosegoria ha sciolto piú di un’amicizia»). Non si tratta solo della
distanza tra due luoghi, benché Aristotele vi faccia pure cenno, ma di ciò che allora per lui
va di pari passo con la separazione topologica, cioè l’impossibilità dell’allocuzione o del
colloquio 8.

E Derrida aggiunge:

Domanda: che se ne farebbe questo discorso della telecomunicazione in generale? E


che se ne farebbe del telefono e di tutte le nuove dislocuzioni che dissociano l’allocuzione
dalla compresenza nello stesso luogo? Ci si può parlare da molto lontano, lo si poteva già
e Aristotele non ne teneva conto. Ancora un’aporia. [Aristotele dice] «se uno dagli amici è
separato da una grande distanza, come Dio rispetto all’uomo, non c’è piú amicizia
possibile» 9.

Si può non essere d’accordo con Aristotele sulle distanze. L’amicizia


spesso supera tutto questo, anzi si manifesta, come ho scritto nei capitoli
precedenti su una «sospensione» che le consente di ricominciare a distanza di
tempo e anche di spazio. In realtà il suo nemico non è un divario temporale o
geografico, ma il presumere che ci siano «surrogati» alla presenza vera delle
persone. Mentre l’attesa può incrementare il senso di amicizia, dei surrogati
consolatori possono svuotarla.
Ho cercato qualche anno fa di affrontare la questione inventando un
termine, «surrogato di presenza», che spieghi la strana costellazione del
nostro parlare ad assenti, del nostro prendere un surrogato, la voce,
l’immagine, la mail scritta per la presenza tutta intera 10. Questa nostra
singolarità, che è una delle conseguenze della scrittura (non
dimentichiamolo), fa di noi degli evocatori di presenza e quindi di fantasmi di
presenze vere. Noi dobbiamo «credere» per fede che nella voce di una
persona che sentiamo per telefono e che non sappiamo situare nello spazio
(dov’è questa voce? È accanto a me o altrove?) ci sia la presenza fisica tutta
intera. Questo provoca un numero impressionante di «malintesi» ma anche
uno «sfibramento» effettivo delle nostre relazioni. Un amore, un’amicizia,
gestita per telefono o su Skype, o su chat somiglia a una specie di «messa in
attesa». Ogni telecomunicazione è un «hold», un tenere in attesa, nel senso
che essa «mantiene la relazione» in attesa che questa diventi fisica,
compresenza. Nella presenza come surrogato c’è la nostra maledizione
perché questo «hold» ci rimanda alla nostra solitudine, ci priva dei corpi delle
amiche e degli amici e del corpo, ed è una caratteristica tipica della civiltà
contemporanea, il rimandare la vita vera, il fare di tutto per «registrarla» e
poterla vivere piú tardi. Questo surrogato non è nulla di diverso dal desiderio
traslato di cui parla René Girard, è l’incapacità di vivere in prima battuta, ma
solo indirettamente.
Nel trattare «i surrogati di presenza» notavo che tutte le nostre
teletecnologie sono affette da una nostalgia permanente, da un «delay». La
promessa di realtà che contengono ne trasforma l’ambito in un’ansia di futuro
che nega al presente ogni valore.
Facebook e tutte le piattaforme social che vi somigliano sono un vero
pericolo per la democrazia, perché ne trattano il materiale piú prezioso come
se fosse qualcosa di puramente mercificabile. Se dei legami sociali si fa
commercio, allora essi perdono qualunque autenticità e consistenza. Non si
può credere in amicizie «pagate», non ci si può fidare di amicizie che si fanno
usare da terzi per altri scopi. Qui c’è una chiave del futuro lavoro sulle nostre
democrazie che va assolutamente affrontata. Come le nostre culture sono
arrivate a rifiutare i matrimoni «arrangiati», matrimoni il cui scopo è
puramente patrimoniale o di alleanza fra terze persone, clan, genitori, casate,
cosí dobbiamo arrivare a rifiutare ogni uso improprio dell’amicizia da parte
di terzi, soprattutto se questi terzi sono soggetti commerciali, finanziari,
informatici e oggi, come non mai, politici (non è un caso che questo sia il
nuovo lavoro dei servizi segreti e delle agenzie che fanno della rete la propria
politica).
La cosa grave è che la rivoluzione informatica ha preso una strada che le
abbiamo consentito: quella dello sfruttamento della socialità informale 11. Con
la scusa di essere «friendly» ha occupato lo spazio tra noi e i nostri amici.
Non glielo dobbiamo piú permettere, non ce lo possiamo piú permettere. La
socialità è quanto di piú prezioso abbiamo, è l’autopoiesi sociale che crea
tessuto, cultura, futuro, e quindi l’unica vera democrazia che non è fatta di
«friends» ma di amici che verificano nella propria vita vera – tra di loro, in
maniera non mediata – l’onestà che li lega.
1. ARISTOTELE , Etica nicomachea, trad., intr. e note di C. Natali, Laterza, Roma 1999, pp. 327 e
319-21.
2. D . MILLER , «You Have 0 Friends», commento alla puntata di aprile 2010 (378) di South Park,
in ID ., The ideology of friendship in the era of Facebook, Creative Commons, ISSN 2049-1115,
http://dx.doi.org/10.14318/hau7.1.025
3. M . SAHLINS , La parentela. Cos’è e cosa non è [2013], Elèuthera, Milano 2014.
4. J . DERRIDA , Politiche dell’amicizia [1994], Raffaello Cortina, Milano 1995.
5. R . GIRARD , Menzogna romantica e verità romanzesca, le mediazioni del desiderio nella
letteratura e nella vita [1961], Bompiani, Milano 1965.
6. F . DOSTOEVSKIJ , L’eterno marito [1870], trad. di C. Coïsson, Einaudi, Torino 2016.
7. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 327.
8. DERRIDA , Politiche dell’amicizia cit., p. 261.
9. Ibid., p. 262.
10. F . LA CECLA, Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana, Bebert, Bologna 2015.
11. S . VAIDHYANATHAN , Antisocial Media. How Facebook Disconnects Us and Undermines
Democracy, Oxford University Press, Oxford 2018.
L’amicizia si basa sulla sua revocabilità

Nel servire il signore, la meschinità porta alla disgrazia; nei rapporti di amicizia porta
all’allontanamento.
CONFUCIO 1.

L’amicizia è sostenuta dalla sua potenziale rottura. Essa ne è sostanziata,


si dà solo come qualcosa che possa essere revocabile in ogni momento.
Questo ne è il paradosso fondamentale. Se non sono libero di smettere di
essere amico non sono piú amico. Se chi mi è amico è trattenuto dal revocare
la sua amicizia da qualcosa che le è estraneo, un interesse, una paura, uno
scrupolo, allora vuol dire che l’ambito in cui essa viveva non c’è piú.
L’amicizia è un legame che si basa sul suo possibile tradimento. La sua
autenticità sta proprio nel non dare alcuna garanzia di continuità che sia al di
fuori di essa.
In ogni amicizia è sospesa la possibilità del tradimento. La revocabilità ne
sostanzia l’esistenza. Non si insiste mai abbastanza su questo punto. Per
quanto l’amicizia sia sotto il segno della reciprocità, la garanzia che essa
permanga è che quest’azione non sia mai eterodiretta. Non si è amici se ci si
sente in dovere di esserlo. E anche gli obblighi che essa può comportare non
possono mai essere considerati alla stregua di diritti e doveri reciproci.
Cos’è la revocabilità? È qualcosa molto poco formalizzabile e
istituzionale. Non si rescinde con un atto pubblico un’amicizia, essa
semplicemente si attenua, si trasforma in semplice conoscenza, si
«raffredda». Essa è «mitigabile», può essere attenuata, il piú delle volte non
coscientemente, «accade». Oppure la fine di un’amicizia può essere dovuta
alla fine delle condizioni che l’avevano accesa, il cambiamento di gusto, la
differenza dovuta alle abitudini, la mancanza di lealtà (la lealtà è la
condizione del proseguimento dell’amicizia, la dimostrazione che essa non si
basa su interessi esterni), un’offesa che infrange l’accordo non scritto per cui
gli amici pensavano di essere all’unisono.

Se uno rimane uguale a se stesso, e l’altro diviene migliore e molto superiore per virtú,
il primo dovrà considerare amico il secondo, oppure ciò non è piú possibile? Ciò diviene
piú evidente nei casi in cui la differenza è grande, come tra gli amici d’infanzia, infatti se
uno rimane immaturo intellettualmente, e l’altro diviene un uomo superiore, come
potranno essere ancora amici, se a loro non piacciono le stesse cose, né si rallegrano né
addolorano per le stesse cose? Non avranno nemmeno gli stessi sentimenti di piacere o di
dolore nei rapporti reciproci e senza di questo non è possibile vivere insieme 2.

Chi non ha vissuto la fine di un’amicizia? E non ne ha sentito


l’irreparabile dolore, ma allo stesso tempo la necessità? Era cambiato
qualcosa. L’altro ci ha deluso, o siamo stati noi a deluderlo. L’amicizia può
essere «tradita», secondo delle circostanze che possono o no dipendere da chi
la tradisce. Spesso è il mio cambiamento come persona che tradisce
l’amicizia, non un gesto o un fatto in particolare. Può succedere per restare
fedeli a se stessi, nel migliore dei casi – per non perdere l’amicizia con se
stessi, ma anche per distrazione, per leggerezza, per ignavia.
Nell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert 3 l’amicizia giovanile
tra Charles Deslauriers e Frédéric Moreau, appare, nella fase matura e già
calante del loro mondo, come qualcosa di completamente andato. E
ricordando l’episodio piuttosto patetico della visita a un bordello in Turchia
possono solo dirsi l’un l’altro: «È la cosa migliore che ci sia accaduta!»
Cicerone ricorda nel De amicitia:

Spesso accade che gli interessi di due amici non coincidano piú o che le loro posizioni
politiche non siano piú le stesse 4.

E Aristotele osserva

[...]che le amicizie spesso soccombano quando uno dei due o entrambi si rendono
conto di non essere amici nel modo che pensavano 5.

L’amicizia presuppone la sua revoca perché è un «a priori» che non può


essere definito pena il suo asservimento a principî che le sono subalterni.
Questo legame è tenuto in piedi solo da se stesso, è condizione di se stesso,
quindi fluttuante, revocabile.
Non può mai essere data per scontata. Il presumere che l’altro ti debba per
forza essere amico è spesso proprio una delle cause dell’indebolimento
dell’amicizia stessa. Questo vale per la nostra costellazione «occidentale»
(come vedremo piú avanti in altre culture l’amicizia viene «stipulata» in
maniera tale da costituire una garanzia di continuità).
In questo essa somiglia all’amore, una costellazione occidentale che
presuppone l’assoluta libertà. Se non si ama liberamente non si ama, e alla
fine dell’amore basta la sua interna giustificazione: «Non ti amo piú» 6 è la
risposta secca a chi vorrebbe saperne il perché. Però, nella stravaganza della
nostra società, a questo rapporto «assolutamente libero» su cui non devono
gravare ragioni esterne, i genitori, il patrimonio, l’etnia, l’appartenenza
politica o la fede religiosa, viene richiesta una «messa in scena», un atto
giuridico, un pacsi, un rito, una cerimonia che «sigilli», si dice, l’amore tra
due persone. Di questo «sigillo» si è fatta una bandiera di lotta e uno dei temi
«politici» dell’amore nelle sue versioni Lgbt e di quante nuove identità
sessuali si presentino. All’amore non basta se stesso, esso vuole nella nostra
società una «ratifica sociale». Una garanzia che riconosca socialmente un
legame.
All’amicizia nella nostra società questo non serve, essa non vuole
cerimonie né riti, anzi rifugge il sindaco come l’impiegato comunale, il prete
come il rabbino, l’imam o il roshi. L’amicizia, si potrebbe dire, sa bene che
qualunque proiezione in avanti del legame è di per sé qualcosa che lo mette in
pericolo, facendolo diventare un vincolo. Alla società non dovrebbe
interessare granché servirsi della nostra amicizia come qualcosa su cui fare
conto. Sono i social, oggi, come ho detto nel capitolo precedente, a mettere a
repentaglio proprio questa dimensione «imprendibile» e inutilizzabile
dell’amicizia. Se sono un terzo, esterno all’amicizia tra voi due, non ho il
diritto di godere dei vantaggi che derivano dal vostro legame di reciprocità.
In questo senso Facebook ruba letteralmente una cosa che appartiene solo alle
persone che l’hanno creata e che la tengono in vita. È un furto bell’e proprio.
L’amicizia può a volte essere transitiva. A patto che io non pretenda di
entrare automaticamente nel cerchio della vostra reciprocità. A me come
estraneo è completamente interdetta quest’area. Introdurmi in essa significa a
volte qualcosa di molto grave perché comporta il dare per scontato che una
storia unica tra voi due possa essere attribuita a estranei. Non è detto che se tu
sei mia amica o amico lo sarai anche degli amici e delle amiche mie. Può
accadere, ed è un privilegio concesso a un terzo. L’amicizia fluttua e consente
transizioni, ma ci sono regole che vanno rispettate in esse, e consistono nel
fatto che il passaggio richiede il consenso vitale di coloro che sono già amici.
A noi non è consentito, come nell’epica islandese, di poter «vendere gli
amici»:

Temo che mio fratello Snorri abbia commerciato amici e venduto l’amicizia di
Sighvatur e Sturia in cambio di quella di Kolbeinn 7.

Per noi l’espressione «amici degli amici» può significare l’annacquatura o


l’inesistenza di un’amicizia traslata oppure un rapporto mafioso di
condizionamento reciproco.
È vero però che c’è una dimensione piú allargata dell’amicizia, che
possono esistere compagnie di amiche e di amici che, come nel Decamerone,
passano insieme il tempo mentre fuori infuria il male. C’è allora una
circolarità che si nutre delle relazioni particolari. C’è una grande gioia delle
amiche o degli amici a presentarsi come tali di fronte a persone a cui sono piú
o meno legate. Come se il legame particolare tra due persone fosse sempre
una sorpresa, e il manifestarlo in pubblico qualcosa che suscita
l’ammirazione o l’invidia. Nel gruppo si ridefiniscono spesso i contorni delle
singole amicizie.
Le feste spesso hanno questo carattere, di instillare nei partecipanti una
voglia piú generale di stare insieme, un godere dei benefici dell’amicizia già
consolidata, uno sfiorarla per intuirne la dimensione nascosta (e i segreti che
solo gli amici e le amiche di lunga data tengono per sé). E anche per i gruppi
vale la questione della revoca. Spesso a festa finita si torna in una simpatica
indifferenza.
Per Aristotele, l’amicizia è etica di per sé e il suo frutto è l’acquisizione
della sapienza. Non bisogna diventare amici, però, al fine di acquisire la
sapienza. L’amicizia non può essere usata, essa è un a priori, un numero
primo dell’esistenza.
Ovviamente questo ci riconduce al fatto che non tutte le amicizie sono
basate sull’assoluto disinteresse e sulla gratuità. Spesso finiscono quelle in
cui emergono l’interesse o l’utilità ed essi vengono meno per entrambi o per
uno dei due. Da queste rotture ci si rimette piú facilmente che da altre.
Perché sí, a fronte della volatilità dell’amicizia, ci sono delle rotture di
amicizie profonde durate anni che fanno piú male della fine di un amore.
Nel Diario di Malinowski scritto alle isole Trobriand l’antropologo
polacco scrive:

Sono terribilmente depresso e rattristato dal fallimento di questa amicizia che mi era
essenziale. La prima reazione di ritenermi responsabile di ogni cosa predomina, e mi sento
«capitis diminutio», un uomo da poco, diminuito, di infimo valore. Un amico non è
solamente un valore aggiunto; c’è un fattore vettoriale: moltiplica il vostro valore
individuale 8.

La rottura di un’amicizia tronca via una parte di noi, ci chiude l’accesso


non solo all’amica o all’amico, ma a tutto il mondo che costei o costui
portava con sé. È vita che se ne va, che ci viene negata improvvisamente. Ci
fa tanto piú male, quanto piú pensavamo che quel mondo fosse diventato
anche nostro, che ci potessimo muovere in esso con l’agilità regalataci da chi
ce ne aveva mostrato le stanze e i giardini annessi.
C’è la fine della parte di noi che somiglia all’amico, a volte
irrecuperabile. A volte, a distanza di anni, si ritrova l’amico perduto in noi, in
un modo, in un gesto, nel nostro sguardo, nell’accento della voce, o lo si
cerca nella folla o nell’inaspettata somiglianza di un volto nuovo.
Tra le cause di rottura, «i fatti della vita». L’amico con cui ci
confidavamo le avventure, le storie d’amore, si sposa o comincia una
relazione stabile, e improvvisamente il suo ambito di confidenza viene
troncato. La sua intimità diventa estranea, proprio perché essa copre un’area
che adesso egli o ella condivide in esclusiva con qualcun altro. È l’esperienza
tipica della fine delle amicizie giovanili, il sentirsi traditi dal cambiamento
che l’altro o l’altra ha fatto. Non che quell’ambito non ci sia ancora
potenzialmente, ma esso è entrato in una zona sospesa, buia. A volte, a
distanza di anni, amici e amiche tornano perché le loro storie sono finite,
perché un matrimonio è andato a pezzi. E l’amicizia si riattiva in quella zona
che era rimasta sospesa. C’è in questo, nella nostra società, uno strano
malfunzionamento. Come se gli amori fossero ancora concepiti
gerarchicamente come coronamento di un’affettività che vede nell’amicizia
solo una fase «immatura». Salvo poi ritrovarla alla caduta delle illusioni, alla
curva delle separazioni o di fronte a un altro tipo di rottura.
Tra le cause di rottura i cambiamenti di «censo». Uno dei due arricchisce
e il suo mondo mette in imbarazzo il modo di chi è rimasto modesto o
semplicemente di chi non pensava di dover arricchire. L’imbarazzo è anche
dell’arricchito e rimanda al fatto che forse l’eguaglianza è uno dei requisiti
dell’amicizia. Non è essenziale, si può essere amici di gente piú potente di
noi e piú nota, piú affermata, ma in genere la condizione comune aiuta
parecchio. C’è una solidarietà nei confronti delle difficoltà della vita che
rende l’amicizia un’avventura. Essa finisce quando uno dei due si è «messo
in salvo» in un buon conto corrente. La contiguità, la coabitazione, il
condividere uno spazio comune presuppone una «condizione comune». I
ricchi o gli arricchiti possono fare finta di essere ancora amici dei loro amici
meno ricchi o poveri, sanno bene però che il loro atteggiamento somiglia piú
alla munificenza o alla magnanimità e che queste due qualità non c’entrano
con la natura dell’amicizia stessa. Perché essa duri è necessario che ci
sentiamo davvero su una stessa barca. Se tu ne sei sceso e mi guardi da lí io
smetto di pensarti come una parte di me.

I potenti, evidentemente, si servono di specie distinte di amici, alcuni sono loro utili e
altri piacevoli, ma quasi mai gli stessi hanno entrambi i ruoli, infatti i potenti non cercano
persone insieme piacevoli e virtuose, né utili a compiere belle azioni, ma si rivolgono alle
persone argute e spiritose, quando vanno in cerca del piacere, o si rivolgono ad altri, abili
a compiere quanto gli viene ordinato e tali qualità quasi mai si trovano riunite nella stessa
persona. Abbiamo detto, certo, che l’uomo eccellente è insieme piacevole e utile, ma
essendo tale non è amico di chi è piú potente, tranne nel caso che costui sia superiore
anche in virtú; se non, essendo lui inferiore, non si realizza un rapporto proporzionale
adeguato. E non è affatto comune che i potenti siano superiori in virtú 9.

Nella nostra società è difficile che questo tipo di «rottura» venga piú
evidenziata, come se un supposto «stare al mondo» presupponesse non dire
mai ai nostri amici arricchiti quanto sono diventati diversi da noi.
Poi c’è la possibilità del recupero. Che cosa magnifica il ritorno degli
amici, delle amiche! Il ritorno vero, non quello segnato da chi dopo anni vi
chiede l’amicizia su Facebook convinto che questo basti a riagganciare un
rapporto (un altro dei disastri di questa nefandezza). L’amico che si fa avanti
era scomparso nel rancore, nel silenzio, pensavate avesse finito per odiarvi e
invece vi viveva parallelamente, sapendo di voi come voi sapevate di lui. Un
miracolo magnifico e quello che ne ritorna: mondi, prospettive. La cosa piú
impressionante è che vi viene restituita una parte di voi che solo lei o lui
aveva e che vi accorgete non era irrilevante. Ci sono cose che capite solo
adesso di voi perché un amico di ritorno ve le ha restituite.
1. LEYS (a cura di), I detti di Confucio cit., p. 53.
2. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 36.
3. G . FLAUBERT , L’educazione sentimentale (1869), trad. di G. Raboni, Garzanti, Milano 2005.
4. M . T . CICERONE , Laelius de amicitia - Lelio, l’amicizia [44 a.C.], trad. di N. Flocchini,
Mursia, Milano 1991.
5. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 369.
6. F . LA CECLA, Lasciarsi. I rituali dell’abbandono nell’era dei social network, Elèuthera,
Milano 2014.
7. P . DURRENBERGER e G . PÀLSSON , The importance of friendship in the absence of states.
According to Iceland sagas, in DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit., p. 59.
8. B . MALINOWSKI , Giornale di un antropologo [1967], Armando, Roma 1999, p. 30.
9. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 329.
La politica dell’amicizia

In materia di prestiti, di assistenza nel lavoro, di socializzazione, l’amicizia gioca una


parte funzionale altrettanto importante quanto la pura parentela, che da sola implica il piú
delle volte diritti e doveri spesso meno vitali di quelli prodotti dall’amicizia.
J . GILLIN 1.

Come si è detto, ogni amicizia si basa su una comunità, ma forse si potrebbero


escludere l’amicizia tra parenti e quella tra i membri di una compagnia, invece le amicizie
tra i cittadini, i membri della tribú, i compagni di navigazioni e simili sembrano essere
principalmente di tipo comunitario, dato che evidentemente si basano su una sorta di
accordo. Nello stesso gruppo si potrebbe porre anche quella verso gli ospiti stranieri.
Il proverbio «le cose degli amici sono comuni» è corretto, l’amicizia consiste nella
comunità.
ARISTOTELE 2.

L’amicizia non è un’istituzione, non si basa su regole scritte e codificate,


non può essere data «per acquisita». È fuori dalla legge perché è la zona di
carne viva che la precede ma non la presuppone. Ha sempre carattere di
«eccezione». Sulla sua eccezionalità, però, si è costruita la storia delle nostre
democrazie.
Essa sfugge al legame di parentela, di «sangue» ma anche al legame
identitario, di clan, di etnia, di classe, di censo. È una costellazione che ha piú
a che fare con il gusto comune, con la possibilità di costruire «una zona a
parte», con l’aleatorietà e la non formalizzazione dei rapporti. Che questo
tipo di legame abbia costituito per il mondo greco da un certo momento in
poi il modello del rapporto tra i cittadini dev’essere ancora fonte di stupore.
Come osserva argutamente il filosofo Giuseppe Girgenti, «i Greci
avevano un problema effettivo con la parentela» 3. Non è un caso che la
tragedia greca sia fittamente punteggiata di situazioni drammatiche nelle
relazioni tra padre e figli, figli e madre, figlie e madre, ma anche moglie e
marito. E tutta la mitologia greca non è certamente un esempio di «sacra
famiglia» né di relazioni di parentela modello, con Kronos che divora i suoi
figli, con Zeus seduttore e Atena gelosa: è tutto un pullulare di eccezioni
piuttosto che di regole.
E la stessa politica di Pericle nei confronti delle famiglie aristocratiche di
Atene è una critica all’inalienabilità dei rapporti di parentela. Vale la pena qui
di accennare al lavoro di una storica francese, Nicole Loreaux 4 sulla stasis,
cioè sulla guerra civile nella polis. È interessante che l’amicizia tra cittadini
nell’Atene del V secolo a.C. non escluda la guerra civile perché essa fa parte
della «rottura» che l’amicizia presuppone (la revoca anche qui). La guerra
civile mette a repentaglio la vita della polis, ma chi non vi partecipa è
cacciato dalla città, ostracizzato. La stasis è una guerra fratricida. Essa però
deve concludersi con un nuovo patto che preveda l’oblio della guerra stessa e
il ritorno a una condizione amicale.
Essendo l’amicizia un’istituzione anti-istituzionale. è estremamente
rischioso affidare a essa le basi della città e della democrazia. Si esercita nella
scelta, nel legame che non è mai dato, ma è eletto. Per questo può essere
rescisso. La cosa impressionante è che, a distanza di duemilacinquecento
anni, di essa non «si possa fare nulla» di istituzionale eppure vi sia contenuto
il fondamento della libera scelta di convivenza tra i cittadini.
Per primi gli Ateniesi intorno al V secolo a. C. trasformarono l’amicizia,
di cui già Omero ed Esiodo parlavano, in qualcosa che atteneva direttamente
al bene pubblico. L’amicizia come elezione tra persone libere per costituire
una città libera.
Ancora Jacques Derrida su Aristotele:

L’amicizia sarebbe originariamente e da parte a parte politica. Non è ciò che è


confermato dal libro III della Politica? Non si sottolinea che tutto ciò che accade nella
polis è «opera dell’amicizia»? che la scelta deliberata del vivere assieme è l’amicizia
stessa? Vivere assieme, coabitare nello stesso luogo, contrarvi matrimonio o partecipare
alla vita della fratria, praticare sacrifici, etc., tutto questo definisce la polis. […]. Il telos
dello Stato è il «vivere-bene» e il vivere-bene corrisponde alla positività di un vivere
assieme. Non è niente di meno che l’amicizia in generale. La polis non si costituisce nella
dispersione o nella separazione, né ci si raccoglie in un luogo col semplice fine di
rispondere reattivamente alle ingiustizie, o per limitarsi ad assicurare gli scambi. Le è
necessario il progetto finale di una comunità del vivere-bene per famiglie, case, filiazioni.
E ciò in vista di una vita perfetta e autarchica. La forza e il movimento di questo legame
sociale come legame politico, il telos che ne assicura l’origine al pari del fine, è appunto la
philia. Essa sembra dunque politica da parte a parte. La sua forza di collegamento o di
attrazione lega lo Stato (la città, la polis) alla fratria (famiglia, generazione, filiazione,
fraternità in generale) e contemporaneamente al luogo 5.

Questa relazione tra lo stare in un luogo e l’amicizia è oggi quanto mai


attuale. Avere reso astratte le caratteristiche della cittadinanza ci ha
allontanato dal suo senso di accordo tra contigui, un accordo che non può
essere neutro. Il fine di questo vivere insieme è un vivere bene in un luogo.
Questo è il senso dell’insediarsi, del fondare città, del farle vivere. Se si
smarrisce quest’idea di finalità amicale non si capisce nulla oggi del senso
dell’essere cittadini. Che non è una questione di diritti – e doveri – ma di
condivisione di un progetto di convivenza, e questo vale sia per coloro che
già «sono» in un luogo che per i nuovi arrivati. La condizione
dell’accoglienza degli immigrati dovrebbe essere un accordo reciproco, il
costruire insieme una buona convivenza.
La stessa amicizia però non è soggetta alla politica, ma la precede, ne è
condizione.
Ancora Aristotele:

Tra gli amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno ancora bisogno
dell’amicizia, e il culmine della giustizia è considerato un sentimento vicino all’amicizia 6.

È quello che sosteneva anche Montaigne: non può esserci


un’identificazione totale tra giustizia e amicizia e tra politica e amicizia.
Montaigne cita l’esempio del segreto tra amici, che non può essere rivelato
anche se in certe circostanze sarebbe giusto.

Se uno affidasse al vostro silenzio una cosa che all’altro fosse utile sapere, come ve la
cavereste? L’unica e suprema amicizia esclude tutti gli altri obblighi. Il segreto che ho
giurato di non svelare a nessuno, posso, senza spergiuro, comunicarlo a chi non è un altro:
è me 7.

Interrogarsi oggi sull’amicizia significa comprendere come siamo arrivati


dove ci troviamo, garantendole un ruolo che la lascia nella sua indefinitezza,
ma che è costitutivo della nostra maniera «moderna», «laica», attuale di stare
insieme. Se c’è qualcosa che definisce le nostre società democratiche oggi è
proprio il contrapporsi ad altre in cui il legame è costituito da ruoli, gerarchie
e alleanze predeterminate: da clan, famiglie, tribú, vincoli matrimoniali e
parentali. Quello che sostanzia le moderne democrazie è che l’amicizia ne è il
campo costituente, proprio perché precede ed è la condizione sine qua non
del legame libero tra cittadini.
La Grecia, l’Occidente che a essa si ispira non sono stati l’unico mondo
che ha riflettuto sull’amicizia come base della convivenza civile.
Quando il gesuita Matteo Ricci si trova già da parecchi anni in Cina (vi è
entrato nel 1583), accettato finalmente come un grande saggio che apporta al
Celeste Impero la sua esperienza di uomo dell’Occidente, si rende anche
conto che l’opera di evangelizzazione dell’immenso Paese è quasi
impossibile. Non per la sua vastità, ma per la «completezza» di esso, perché
come all’Imperatore cosí al suo Impero nulla manca e di nulla ha bisogno.
Allora comprende che l’unico modo che ha di «entrare» in esso è a partire da
una dissertazione sull’amicizia 8. L’attenzione dei mandarini è tutta al
«funzionamento» armonico della società. Per i valori confuciani l’amicizia è
la base su cui si può appoggiare la politica.
Secondo l’etica confuciana, che al tempo in cui Matteo Ricci viveva in
Cina ne permeava l’intera società, la gente impara ad amare l’umanità non in
generale, ma attraverso una particolare espressione dell’etica quotidiana.
Nel coltivare quelle relazioni profonde, intrinseche che costituiscono la
condizione iniziale di ciascuno e che ne collocano la traiettoria vitale
all’interno della famiglia, della comunità e del cosmo una persona diventa
esperta nella conduzione (ren: ). È un concetto chiave del confucianesimo
che si basa sulla preoccupazione per le relazioni umane e per i ruoli
all’interno di esse. Etimologicamente, il carattere consiste di due
componenti: la radice per «gente» ( ) a sinistra e il numero due ( ) a
destra. Insieme il carattere si riferisce alla relazione tra due persone. Ren è il
legame d’affetto tra due persone e quindi significa due persone insieme 9.
Questa enfasi sui legami tra le persone riguarda l’importanza delle
relazioni familiari, quelle di sangue, ma anche, per estensione, quelle amicali.
In un certo senso la nozione di amicizia nella cultura cinese è simile a quella
del termine greco philia, che significa uno stato di vicinanza e di «essere caro
a qualcuno» o di «avere caro qualcuno» 10, per virtú di sangue, letteralmente o
simbolicamente. Nella cultura cinese c’è inoltre l’idea non solo della
coscienza di questa relazione, ma dell’importanza della cura quotidiana di
essa.
Nella prefazione dell’amico cinese di Matteo Ricci, Feng Yingjing, uno
scrittore della dinastia Ming, al libro sull’amicizia, viene detto:

Gli uccelli si riuniscono in amicizia per cantare e gli uomini hanno amici per vivere 11.

Questi per Confucio erano: l’amore tra padri e figli, la correttezza tra i
governanti e i loro sudditi, il rispetto tra i fratelli maggiori e quelli minori, la
differenza tra mariti e mogli e la fiducia tra amici.
Matteo Ricci, per inserirsi in questo contesto, si serve di un ritorno al
mondo classico latino e greco, e lo fa con un duplice intento. Il primo è
utilizzare il tema dell’amicizia come ponte tra un mondo pagano e un mondo
cristiano (con Epitteto), il secondo è far capire alla società che lo accoglie che
egli nutre le stesse preoccupazioni che stanno alla base del Celeste Impero, le
regole della convivenza e del buon dominio. Afferma:

La relazione tra amici è piú intima di quella che c’è tra tra fratelli: perciò gli amici si
chiamano tra loro «fratelli» e i piú intimi tra i fratelli sono «amici» [...].
Ragion d’essere dell’amicizia sono il bisogno reciproco e il mutuo aiuto [...].
Una nazione può stare senza tesoro, ma non può stare senza amici [...] 12.

Al mondo cinese interessa quello che scrive Matteo Ricci perché è una
società estremamente attenta e preoccupata della «tenuta» della società stessa.
Per i cinesi intorno a Ricci, la questione principale è quella della politica,
intesa come coesione, buon governo, buona relazione tra i sudditi e con il
governo. L’etica confuciana è immanente, si preoccupa anzitutto del
benessere del Celeste Impero, conscia che l’equilibrio su cui esso si basa è
costantemente in pericolo. La cosa interessante è che anch’essa fa dipendere
la buona politica dall’amicizia e non viceversa. Cioè da un legame che non
può essere stabilito, né garantito.
Negli stessi anni Montaigne scrive di amicizia, a partire dall’amicizia
«perfetta» tra lui e lo scomparso La Boétie.

Quell’amicizia che abbiamo nutrito tra di noi, finché Dio ha voluto, cosí completa e
perfetta che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile e, fra i nostri contemporanei,
non se ne trova traccia alcuna. Per costruirne di simili è necessario il concorso di tante
cose che è già molto se la fortuna ci arriva una volta ogni tre secoli. Non c’è nulla a cui
sembra che la natura ci abbia indirizzato come alla società. E Aristotele dice che i buoni
legislatori hanno avuto piú cura dell’amicizia che della giustizia 13.

Montaigne per sottolineare la precedenza dell’amicizia sulla giustizia


afferma qualcosa di apparentemente singolare: «Se gli uomini fossero
virtuosi, non avrebbero amici».
Come se l’amicizia fosse un fenomeno singolare dell’essere umano,
legato alla «ingiusta» scelta, molto poco egualitaria, di un altro essere umano
tra molti. Una forma di ingiustizia che va contro l’idea di uguaglianza e
reciprocità.

Perché ci sia un dono vero, non deve sussistere reciprocità, ritorno, scambio,
controdono, debito. Se l’altro mi dà indietro o mi deve qualcosa, o mi deve restituire
quello che le o gli ho dato, non si tratta di un dono [...].
Se vuoi essere giusto non c’è spazio per l’amicizia: tutto diventa dare e avere, o dare e
restituire, il che è disgustoso 14.

Torniamo alla premessa di questo libro: che esamina l’amicizia a partire


da ciò che essa è diventata nelle nostre società – una «non istituzione» – ma a
tal punto fondante da essere in procinto di sostituire oggi altri legami e altri
leganti del tessuto sociale. C’è qui la nostra differenza «occidentale» rispetto
ad altre società. La «caduta» dei legami di parentela rispetto ai legami scelti è
sicuramente un fenomeno che riguarda noi da vicino. Si tratta di un orizzonte
che deriva dall’impostazione politica delle nostre società, ma anche da
un’effettiva trasformazione endogena del senso dei legami in essa.
Probabilmente è questo che rende le nostre democrazie particolarmente
fragili perché soggette alle fluttuazioni dell’amicizia, e a quelle
dell’inimicizia travestita sotto forma di competizione o di sottomissione
dell’altro. L’inimicizia è una costellazione che spesso nasce dalla
gemmazione dell’amicizia stessa, come vedremo in un prossimo capitolo.
Certo, la nostra società sottolinea in maniera radicale la solitudine della
scelta, il fatto che i rapporti siano frutto di una scelta libera o di una revoca
libera. E questo la differenzia da altre dove politicamente il ruolo della
parentela, dell’appartenenza etnica o di clan gioca come elemento fondante,
assicurazione che la società sia costituita da gente che non sfugga ai doveri
della reciprocità. In questo senso, come vedremo, il fatto che la «reciprocità»
sia una questione di sentimenti e non di «fatti», diritti, doveri piú o meno
permanenti differenzia molte società rispetto alla nostra. Diciamo che
l’amicizia nelle nostre società si è alleggerita in maniera speciale da ogni
pretesa della «giustizia» nei suoi confronti. Va ricordato che questo è un
vantaggio da certi punti di vista perché costituisce una zona «elastica» della
morale quotidiana. L’amicizia come potenziale legame di convivenza di
molte persone nello stesso luogo dà luogo a delle regole quotidiane di
convivenza che non hanno a che fare con la «legge», ma molto di piú con
regole di buon comportamento quotidiano.
Siamo nella zona del prepolitico, una dimensione importantissima – si
pensi oggi all’accento sul «comune», sugli spazi e le pratiche che vanno
difese da ogni pretesa di «governo» nei loro confronti.
Come abbiamo raccontato in un libro sull’argomento Piero Zanini e io 15,
c’è una sfera molto duttile che costituisce un legame tra le persone che
vivono in uno stesso luogo, fatta di abitudini e gesti comuni, di evitazioni e di
regole per «non pestarsi i piedi l’un l’altro». L’amicizia nelle nostre società (e
in altre) fa parte di una zona malleabile e vaga, ma importante perché «fa»
società, ne produce i legami prima ancora che questi portino a delle regole.
Se parliamo della nostra società dobbiamo ovviamente riferirci a qualcosa
di piú recente di Aristotele o Montaigne, a quelle idee della Rivoluzione
francese alla base di molte nostre democrazie (che, vedremo in un capitolo
piú avanti, sono state preparate nei salons parigini del Seicento e Settecento).
Si pensi alla trilogia «liberté, egalité, fraternité» e in particolare alla
«fraternité» come un valore mutuato dalla tradizione giudaico-cristiana, ma
affermato laicamente come legante «emozionale» – quindi fluttuante e
liberamente autodefinentesi – di una società che punta all’eguaglianza e alla
libertà. Anzi, proprio la libertà è connessa con il fluttuare libero della
fraternità, che non è un dovere, ma è proposta come uno dei fondamenti
«naturali» (con tutta la problematica che ne consegue) della società.
L’universalismo dei diritti umani qui tocca un punto cruciale. Non può
esserci eguaglianza se non nello sviluppo della tendenza naturale degli
uomini e delle donne a stabilire una reciprocità «appassionata». La fraternità
non è un fine da perseguire come l’uguaglianza, ma ne è il presupposto. Se la
fraternità si sviluppa, allora c’è il «clima» adatto alla libertà e
all’uguaglianza.
L’illuminismo pone come universalismo la fraternità dando un colpo forte
all’aspetto religioso di essa, ma in realtà facendosene erede in maniera diretta
e fedele. Non è un caso che nello sviluppo del dibattito politico dei secoli che
sono venuti dopo sia stata proprio la fraternità a essere ignorata perché essa
non rientra nel campo dei «cambiamenti» e delle «riforme» che bisogna
imporre alla società. La fraternità, si può dire, è data, come sostanza della
natura del contratto sociale, ne è la libera garanzia. È molto importante
riprendere oggi questo dibattito che fa dell’Occidente, in effetti, un produttore
di tesi universalistiche. Come vedremo piú avanti anche in società diverse
dalla nostra c’è una cosmologia dell’amicizia. L’antropologia sta negli ultimi
anni scavando sulle capacità delle società di costruirsi sulla reciprocità.
Torniamo alla nostra società. Come porsi oggi di fronte alla fragilità di
questo legame e però alla sua natura politica? È possibile davvero credere
ancora nell’amicizia come base della tenuta della democrazia? Essa è
minacciata in ogni momento dalle intenzioni autoritarie, anche se travestite
da social, o dai nuovi padroni, multinazionali, finanziarie e nuove destre o
sinistre populiste e autoritarie. È possibile difendere la società, volendo
riprendere un’espressione cara a Foucault? Come fare quando l’istanza di
reciprocità e di uguaglianza che sostanzia il diritto degli individui a costruire i
legami di una società è cosí in pericolo?
Probabilmente abbiamo bisogno di renderci conto che la sfera
dell’amicizia è fragile, ma resiste, e che certamente abbiamo bisogno di
inventarci un modo di proteggerla da intrusioni. È lo spazio, la «sfera del
«prepolitico» che va difesa da chi vorrebbe governarla o eliminarla. Qui non
si tratta di «riformare» la società, ma di garantirne la libera autopoiesi,
l’imprevedibile proporsi e riproporsi laddove essa non è soffocata da
prescrizioni e proscrizioni.
È quanto a me ha insegnato la frequentazione con Ivan Illich e con il suo
pensiero. La «convivialità» 16 è la sfera del prepolitico che va garantita, ma
questo implica una considerazione prepolitica. Quando Illich recupera negli
anni Settanta, molto prima della radical left di ispirazione negriana, la
fenomenologia storica dei «commons», degli usi civici, delle terre collettive o
del lavoro collettivo, tenta anche di salvare questa sfera dall’uso che il
capitalismo fa oggi come non mai del «settore informale» 17. La società va
difesa da ogni pretesa di uso della sua parte vitale e Illich pensava che questo
richiedesse un ripensamento della legge e del diritto. La sua «convivialità»
significava non un’ingenua pretesa di «spontaneità», ma una democrazia
basata sulla garanzia di spazi di autonomia del sociale stesso. Per questo alla
fine della vita Illich era tornato a riflettere sulla storia dell’ospitalità e
sull’amicizia come arte di vivere 18.
C’è qualcosa da aggiungere a questo capitolo. Si tratta del passaggio
dall’amicizia tra due individui all’amicizia tra piú persone. È qui il nodo della
politica. Perché nella frase attribuita ad Aristotele, «Amici, non ci sono
amici», c’è insito non solo il dubbio rispetto alla tenuta dell’amicizia e al
numero possibile di amici, ma l’idea che non sia cosí facile passare dai due ai
piú.
La pluralità è l’ideale della polis, di una città retta da cittadini amici, ma è
davvero possibile esserlo in tanti? Entra qui in ballo la proprietà transitiva,
l’amicizia come contagio, come «grappoli» di esseri che si sentono legati. La
«moltitudine», le «masse» sembrano solo un insulto rispetto a quest’idea.
Forse non basta la solidarietà di classe, forse non basta avere «lo stesso
nemico» per essere amici (eppure quest’illusione – oggi diremmo sovranista
– ancora ci turlupina con buona pace di Carl Schmitt).
Per essere amici in tanti ci vuole l’idea che si possa vivere bene insieme
in un luogo, direbbe Aristotele. Ci vuole un senso di cura per noi stessi, per
chi ci circonda e per i luoghi dove viviamo. Il contrario forse dell’odio di
classe o di nazione. Dobbiamo praticare dunque il contagio dell’amicizia
fidandoci della sua misteriosa influenza non solo sulle persone ma sui luoghi
di cui prenderci cura.
1. J . GILLIN , The Barama River Caribs of British Guiana [1936], Peabody Museum of American
Archaeology and Ethnology, Cambridge (Mass.) 1975, p. 51.
2. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., pp. 344 e 335-37.
3. G . GIRGENTI , Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova 2011.
4. N . LOREAUX , La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene [1997], Neri Pozza, Milano
2015.
5. DERRIDA , Politiche dell’amicizia cit., p. 232.
6. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 313.
7. MONTAIGNE , Saggi cit., p. 219.
8. M . RICCI , Dell’Amicizia [1595], a cura di F. Mignini, Quodlibet, Roma 1997.
9. PING WANG, The chinese concept of Friendship cit.
10. E . BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società
[1969], Einaudi, Torino 1976, p. 257.
11. RICCI , Dell’Amicizia cit., p. 57.
12. Ibid., pp. 65, 75 e 89.
13. MONTAIGNE , Saggi cit., pp. 219-20.
14. Ibid., pp. 58 e 59.
15. F . LA CECLA e P . ZANINI , Una morale per la vita di tutti i giorni, Elèuthera, Milano 2012.
16. I . ILLICH , La convivialità [1973], Red Studio, Milano 2018.
17. ID ., Lavoro-ombra [1980], Mondadori, Milano 1985, e ID ., La perdita dei sensi [2002],
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009. Vedi anche F . LA CECLA, Ivan Illich o l’arte di vivere,
Elèuthera, Milano 2018.
18. I . ILLICH e J . BROWN , We the People, KPFA (radio), Berkeley, 22 marzo 1996.
Inimicizia

La migliore amica ha infranto il patto


L’amica inutile, l’amica che non vale
Non sarò piú una sorella maggiore
Non prenderò piú una sorellina.
Una donna hausa nigeriana 1.
L’amicizia tra noi non si fondava solo sul fatto di avere gli stessi nemici.
Jacques Derrida su Deleuze 2.
All’età di 24 anni, un giovane antropologo brasiliano, Carlos Fausto, si
imbarca per il suo primo «campo». Dopo un viaggio di tre giorni sul fiume
Xingu, arriva dalle parti di un villaggio parakanã. Non sa la lingua degli
indigeni e s’installa nell’infermeria gestita dalla Funai, l’agenzia governativa
che si dovrebbe occupare dei loro interessi. I Parakanã lo trattano con
indifferenza. Passano i giorni, Carlos non è né un buon cacciatore né un buon
pescatore, lentamente parla con gli indigeni e trascrive quello che gli dicono.
È però veloce nell’apprendere, i Parakanã si stupiscono che impari cosí in
fretta e danno il merito al block notes su cui trascrive strani segni. Passano i
mesi ed è sempre piú benvenuto. Ma ha bisogno di amici.

Come ogni antropologo solitario sul campo cercavo amici, e la mia concezione
personale di amicizia era chiara (a me). Era basata su un concetto di amicizia come un
legame affettuoso, mutuo, intimo e leale tra due o piú persone che non dipenda dal fare
parte di un gruppo di solidarietà tra nativi, come una famiglia, una tribú, o un’altra
affiliazione del genere. Per me l’amicizia era un’acquisizione, non qualcosa di già dato: un
legame che implica generosità, intimità e fiducia reciproca. Anche se, come dice il
proverbio, «i regali fanno amici», ma una reciprocità obbligatoria per me non faceva parte
del concetto di amicizia. Un amico è un alter ego di qualche sorta, una versione
esteriorizzata di noi stessi, qualcuno da cui ci si aspetta una prossimità e una franchezza
che abbiamo solo con noi stessi (o che immaginavamo di avere fino a Freud). Quando
diciamo «amicizia formale o rituale» passiamo da connotazioni quali spontaneità, gratuità
e libera scelta all’opposto, a un legame istituzionalizzato e obbligatorio. Relazioni di
questo tipo sono molto comuni nell’Amazzonia indigena 3.
Carlos si occupa sempre piú di registrare e di ripetere i canti rituali del
villaggio ed è invitato a partecipare agli stessi cantando e ballando. Viene
piazzato il piú delle volte accanto al giovane Japokotoa, considerato uno
scavezzacollo dalla tribú per avere rubato una giovane moglie a uno dei capi
e averla messa incinta. Questi è tenuto dal villaggio in una posizione di
«prova». La prossimità rituale con Japokotoa fa sí che Carlos diventi «pajè»,
suo amico rituale. Nei mesi che seguono, ogni volta che si incontrano,
Japokotoa lo guarda con uno sguardo minaccioso e allo stesso tempo un
sorriso e gli ripete: «Prima o poi ti ucciderò».
Carlos comincia a capire, ora che è piú addentro al significato del rito che
egli stesso balla e canta come straniero, che lo stesso rito si basa sulla messa
in scena dei sogni degli uomini parakanã: questi, imbevuti di spirito guerriero
sognano i nemici e sognano di poterli sottomettere in una relazione
cacciatore/preda che costituisce un legame di estrema prossimità. Nelle
tensioni con le tribú vicine, spesso, per attenuare l’aggressività ed evitare il
conflitto, si può abbracciare il nemico per suggerirgli una prossimità. Che
può però diventare pericolosa. Il nemico «amicalizzato» è molto piú esposto
alla possibilità di essere ucciso, ma anche di uccidere. È questa doppia figura
dell’amicizia che si basa su un concetto che a noi può sfuggire, ma che è
determinante per molti gruppi amazzonici.

La nozione euro-americana di amicizia non implica l’alterità: tende verso la fraternità


piuttosto che verso l’inimicizia. Un amico è un fratello o una sorella, un meta-
consanguineo, una relazione data non dal sangue ma da un senso diffuso di identità
condivisa (di gusti, valori, ambiente sociale, opinioni politiche etc.) e associata a lealtà,
condivisione, confidenza, Invece l’amicizia formale non è solo differente perché è
formale, ma anche per una nozione distinta di persona come entità plurale divisa tra sé e
gli altri. L’amicizia amazzonica si basa sull’idea di pluralità dei sé, implicando una
nozione di «agente» completamente estraneo all’idea di spontaneità ed autonomia del
mondo occidentale 4.

L’amico formale è sospeso tra l’essere vicino e allo stesso tempo altro, e
quindi nel contempo straniero e ospite, amico e nemico. Si avvicina all’idea
di xenos o di hospes/hostes del mondo greco latino, secondo la ricostruzione
di Émile Benveniste 5 per cui ospitalità e ostilità hanno una radice comune –
lo straniero va accolto, ma rimane potenziale nemico.
Derrida ha inventato una parola, «ostiptalità», per parlare dell’ambiguità
dell’ospitalità stessa.
Fernando Santos-Granero sostiene che in Amazzonia esistono vari gradi
di amicizia con «gli altri» che non sempre sono strettamente formalizzati, ad
esempio tra gli indios della Guiana sono amici i partner commerciali della
costa caraibica, fra gli Jivaro i potenziali alleati in una guerra intertribale, e in
genere l’amicizia è una forma di allargamento geografico «utilitario» della
propria sfera di rapporti 6.
È quanto conferma un altro antropologo, Thomas Kiefer, che ha lavorato
nelle Filippine tra i Tausug di Jolo, una tribú islamizzata nell’arcipelago di
Sulu. Qui esiste una forma di amicizia istituzionalizzata che è tutta in
funzione dell’aggressività nei confronti delle tribú vicine 7.
Come ricorda Derrida, si può anche essere uniti in amicizia dal fatto di
avere gli stessi nemici.

Gli uomini Jivaro stabiliscono rapporti commerciali tra appartenenti alle tribú che
parlano l’Jivaro, cioè le stesse con cui in passato hanno avuto scontri per prenderne come
trofeo le teste. Si fanno visita e si scambiano doni per potere confermare questo rapporto
di amicizia formale 8.

Tra i Koghi della Sierra di Santa Marta in Colombia ritroviamo il sospetto


massimo nei confronti dei potenziali amici.

[...] in Colombia, il Mama, il sacerdote, dichiara che il perfetto Koghi non ha amici,
perché l’amicizia non esiste tra i Koghi. Ci sono uomini della sua famiglia e uomini di
altre famiglie, gente dello stesso Tuxè, villaggio e gente di altri Tuxè. Lo stesso Mama
chiede agli uomini Koghi di non diventare amici tra di loro perché questo può condurre
all’adulterio. Se due uomini sono insieme frequentemente, si innamoreranno della moglie
dell’altro e questo porterà a un conflitto 9.

Come si vede, in buona parte di questi casi si tratta di amicizia tra uomini,
anche se Carlos Fausto racconta che in periodi di crisi le donne parakanã
possono partecipare alla caccia agli amici nemici. Santos-Granero aggiunge:

In sintesi, se i nativi dell’Amazzonia rischiano le loro vite per commerciare con il


nemico, non è solo per ottenerne beni, ma perché i beni ottenuti nello scambio
costituiscono lo speciale legame che si ha con i nemici. Commerciare con il nemico
implica un certo rischio, e una certa competizione e attrito soprattutto se coloro con cui si
commercia non sono indigeni. Lo scambio con coloro che sono al di fuori dei confini del
proprio gruppo ha poco valore intrinseco e si pensa spesso che i beni acquisiti abbiano
pericolosi poteri, ma essendo simboli del coraggio o del carisma di chi commercia con i
nemici, assumono la forma di capitale simbolico, un capitale che diventa prestigio e potere
per chi lo possiede 10.

Gli antropologi amazzonisti hanno introdotto insomma un concetto nuovo


di «amicizia» come predazione. Un amico è una potenziale preda, qualcuno
con cui si stabilisce un legame pericoloso che si vorrebbe di assoggettamento,
ma che può anche mutarsi nel contrario. Qui l’amicizia ha al suo interno tutta
la pericolosità di un rapporto aleatorio in cui non ci sono garanzie se non
quelle «stipulate». Con il nemico si ha una relazione intima. Viene da pensare
per un verso alla teoria del capro espiatorio di René Girard 11, all’idea che alla
radice di un patto sociale vi sia una violenza incancellabile e che postula dei
sacrifici (umani). O alla teoria del nemico di Carl Schmitt come base della
politica 12. Non si potrebbe avere secondo Schmitt nessun soggetto politico se
non nell’unità contro un nemico. La mia impressione, legata ai dati
antropologici che stanno emergendo in questi anni dal lavoro degli
amazzonisti, è che qui l’amicizia mantenga tutto il potenziale dell’ambiguità,
senza forse postulare una teoria hobbesiana o un discorso sull’origine mitica
della violenza. Bisogna «guardarsi» dagli amici proprio perché essi ci sono
«prossimi», e quindi siamo potenzialmente fragili nei loro confronti, ma allo
stesso tempo non possiamo fare a meno di averne perché essi allargano
l’orizzonte oltre il quale possiamo spingerci. C’è nell’amico/nemico delle
società amazzoniche tutto il rischio di avere a che fare con l’estraneità, ma
anche l’esotismo che vi è connesso. La guerra con l’amico/nemico è
l’immagine di uno sconfinamento che corrisponde alla «territorialità nuova»
che ogni amicizia comporta.
Questa ambiguità intima ha sempre sconcertato gli autori classici.
Cicerone si domandava come fosse possibile che un amico potesse diventare
un nemico, citando una frase di Scipione che pare dicesse: «Bisognerebbe
amare essendo pronti a detestare un giorno». Certo accade che un’amicizia si
trasformi in un’inimicizia, che vecchi amici diventino i nemici piú acerrimi.
Proprio perché è nella natura inaspettata e gratuita dell’amicizia che si può
aprire la voragine. Quello che fino al giorno prima si era dato per scontato,
quella che era sembrata normale routine di un rapporto di doni reciproci, di
fiducia reciproca si rompe, perché entra il sospetto che uno dei due «ci
marci». Basta un niente per farci pensare di essere andati troppo in là.
Proprio perché l’amicizia si basa su una scelta «ingiusta» – ci si sceglie
tra tanti –, questa ingiustizia può portare al contrario. Il nemico è l’ex amico
che conosce fin troppo di noi, che ci conosce nelle debolezze che gli abbiamo
mostrato proprio perché lui le capiva. Il rancore che si forma nelle rotture
amicali è forse uno dei veleni peggiori della vita, qualcosa che se non curato
ci accompagna per rovinare il resto degli anni. Amici che stimavamo, che
ammiravamo, diventano estranei che conosciamo troppo bene. Alle amicizie
profonde che diventano inimicizie manca il beneficio del malinteso, quel
cuscinetto che ci permette di ignorare alcune mancanze altrui e nostre.
L’inimicizia non è data tra completi sconosciuti. Il nemico è, come
l’amico, uno specchio di noi stessi. L’inimicizia parla di una cesura tra
identità che fino a poco tempo fa non si rendevano conto della differenza che
comunque esisteva tra loro. Come se l’inimicizia riconoscesse l’incolmabile
divario che separa ciascuno di noi e di cui l’amicizia è un ponte
magnificamente fragile e provvisorio.
«Amici non ci sono amici», la frase attribuita da Diogene Laerzio ad
Aristotele, e che ha riempito un intero libro di Derrida, può anche significare
che alla base di ogni amicizia può esserci una potenziale inimicizia.
Derrida suggerisce che si tratti di una constatazione riguardo
l’impossibilità di avere molti amici o l’impossibilità dell’amicizia perfetta, o
una frase pronunciata come vocativo, «O amici, non ci sono amici!», quasi
una trappola verbale e una messa in prova.
L’amico diventato nemico ricorda un’altra costellazione. C’è stato un
momento nell’Italia accademica della fine degli anni Novanta in cui si
praticava una forma di predazione proprio nei confronti degli amici. Con
cinismo e crudeltà veniva perfino teorizzato lo sport di approfittare degli
amici, di fare loro dei torti, di renderli subalterni alle proprie logiche di
carriera. Era un mondo maschile spietato che non sapeva se non tradire
l’amicizia, giustificando i tradimenti col dire «tanto tu sei amico, quindi mi
capisci». Una logica al massacro che come risultato ha creato una
generazione intellettuale in cui la lotta col coltello era l’unica possibilità. Ho
sempre pensato che l’amicizia non si possa dare via in cambio di altro, che
come dice Aristotele «gli amici sono beni» 13 o, come sa il proverbio, «chi
trova un amico trova un tesoro», ma nel mondo accademico questa era (ed è)
considerata pura ingenuità.
1. M . G . SMITH , Cooperation in Hausa society, in «Information», n. 11, International Science
Council, Paris 1957, pp. 1-20.
2. J . DERRIDA , Ogni volta unica, la fine del mondo [2003], Jaca Book, Milano 2005, p. 210.
3. C . FAUSTO , The friend, the enemy, and the anthropologist: hostility and hospitality among the
Parakanã (Amazonia, Brazil), in «The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 18. The
return to hospitality: strangers, guests, and ambiguous encounters (2012), pp. 196-209.
4. Ivi.
5. BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società cit.
6. F . SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship. Amazonian sociality beyond kinship and
affinity, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 13 (2007), pp. 1-18.
7. T . M . KIEFER , Institutionalized friendship and warfare among the Tausug of Jolo, in
«Ethnology», vol. 7, n. 3 (luglio 1968), pp. 225-44.
8. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
9. D . J . HRUSCHKA , Friendship, Development, Ecology and Evolution of a Relationship,
University of California Press, Berkeley 2010.
10. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
11. R . GIRARD , Il capro espiatorio [1982], Adelphi, Milano 1987.
12. C . SCHMITT , Il Nomos della Terra [1950], Adelphi, Milano 1991, e ID ., Le categorie del
politico [1932], il Mulino, Bologna 1972.
13. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 331.
Cappellino per non antropologi

Lungi dall’essere considerate entità unitarie, le persone melanesiane sono concepite


tanto come individui quanto come «dividui». Esse contengono al loro interno una società
generalizzata. Di fatto, le persone sono frequentemente costruite come l’ambito composito
e plurale delle relazioni che le producono. Una singola persona può essere immaginata
come un microcosmo sociale.
MARILYN STRATHERN 1.

Come già accennato all’inizio, nella letteratura antropologica fino a


qualche tempo fa si affermava che l’amicizia fosse un tipico valore
occidentale. Solo l’Occidente avrebbe sviluppato un culto dell’individuo tale
da consentirgli di sottrarsi a legami tribali o religiosi e di andare verso una
società in cui ognuno è libero di costituire legami provvisori o duraturi con
chi vuole. È una società secolarizzata nel senso che non pensa che il legame
principale sia quello etnico, comunitario, ma nemmeno l’appartenenza a un
luogo e a un’identità nazionale o regionale. Quest’affermazione è vera fino a
un certo punto, proprio perché l’abbondanza di nuova letteratura
antropologica in questo campo ci racconta che in altre culture e società,
accanto ai legami di parentela e di appartenenza a una comunità, a una
religione, a un’identità d’origine vi siano quelli della pura e semplice
amicizia: per dirlo in «antropologhese», la parentela, il kinship, non pervade
tutto lo spazio sociale, ma in essa è possibile rintracciare la reciprocità
dell’amicizia, della friendship.
Tre raccolte di saggi recenti molto nutriti di ricerche sul campo, The
Anthropology of Friendship, a cura di Sandra Bell e Simon Coleman; The
Ways of Friendship, a cura di Amit Desai ed Evan Killick, e Friendship,
Descent and Alliance in Africa, a cura di Martine Guichard, Tilo Grätz e
Yousouf Diallo 2 hanno spianato il campo a un nuovo approccio e chiarito che
si può parlare di amicizia anche in società in cui la parentela è un legame
forte e l’identità è definita dall’appartenenza a un gruppo. Come a voler
ribadire il carattere «sfuggente» e fluttuante dell’amicizia, che non ricade in
definizioni e istituzioni che debbono sostanziare piú o meno stabilmente una
società. La problematica è molto interessante e il dibattito è aperto.
Fernando Santos-Granero la riassume cosí:

Alcuni autori sostengono che l’amicizia ha poche possibilità di fiorire in società dove
la parentela (kinship) rimane forte (Bell e Coleman 1999). Seguendo Montaigne questi
autori pensano che l’amicizia e la parentela costituiscano forme diverse di interazione
sociale. Mettono in guardia, però, contro una distinzione troppo rigida tra parentela e
amicizia. In molte società queste si sovrappongono piuttosto che opporsi. [...] In contrasto
a questa idea molti antropologi insistono che laddove relazioni di amicizia si possono
trovare in quasi tutte le società umane, i modelli di amicizia variano in maniera
sostanziale, rendendo difficile un’unica definizione di essa 3.

Nell’Etica nicomachea Aristotele enumera vari tipi di amicizia. Tra


queste la prima è l’amicizia tra familiari, che è la base sulla quale poi è
costruita la convivenza tra cittadini amici. Da un certo punto di vista è quello
che l’antropologia sostiene ultimamente. I legami «di sangue» sono legami di
reciprocità e non legami «biologici». Un’antropologa britannica, con vasta
esperienza in Malesia ma anche studi di campo in Inghilterra, Janet Karsten,
definisce la parentela come una relazione in cui vengono scambiate sostanze
– si potrebbe aggiungere sostanze vitali dal punto di vista materiale e
simbolico, culturale 4. Marshall Sahlins ultimamente è andato piú in là
definendo cosa la parentela è e cosa soprattutto non è, adducendo un’enorme
quantità di materiale antropologico per raccontare come si può essere
imparentati senza aver nessun legame biologico e come la parentela è per
moltissimi gruppi umani definita anzitutto da una reciprocità 5. Da questo
punto di vista essa è una forma di amicizia, di cui probabilmente viene
sottaciuta una possibile revoca. Si rimane figli e nipoti, zii e padri, fratello e
sorella anche se vengono a cadere le condizioni di reciprocità. Al fondo la
questione che Sahlins pone è quella di invitare gli antropologi a guardare
meno alle strutture di parentela come qualcosa di fisso e immutabile. Però il
suo ragionamento sorvola su un punto fondamentale. In moltissime culture è
la parentela ad assimilare l’amicizia, non il contrario. L’idea che i legami
familiari siano forme di reciprocità amicali è il «nostro» punto di vista,
«occidentale», ma a molte culture interessa l’opposto, quello di far diventare
parenti gli amici, di allargare la parentela alla rete di persone che sono esterne
alla famiglia, al clan, alla tribú, al villaggio.
Tra gli Hopi dell’American South West i rapporti anche tra individui non legati da
parentela erano espressi con termini di parentela, si potevano avere 14 madri e anche gli
antropologi venivano incorporati nel conto 6.

Cosí si può chiamare zia e zio chiunque cominci a frequentare


assiduamente una casa, come in molti luoghi nonno e nonna, ma anche padre
e madre, figli e figlie, nipoti sono coloro che siamo abituati a vedere nella
vita quotidiana o con cui è importante che intratteniamo rapporti per allargare
il nostro ambito di azione. Sono parenti i padrini e le madrine, i compari e le
comari, ma anche coloro con cui si fa commercio. Diventano «wantok»
coloro che per gli aborigeni di Papua aiutano gli indigeni di una tribú a
trovare una collocazione e una forma di sopravvivenza in città. «Wantok»
viene probabilmente dal pidgin «one talk», sono coloro con cui si può parlare
senza timore 7. In altri casi, in Cina 8 o in Cile tra i Mapuche 9 o in India sono
parenti i nati nello stesso anno e tra di loro si stipula un patto rituale che
definisce pubblicamente che sono legati, sono amici che si trasformano in
fratelli o sorelle. Questa caratteristica che dà ragione ad Aristotele o a Sahlins
non deve però farci dimenticare che se c’è un’assimilazione dell’amicizia alla
parentela è perché si tratta «culturalmente» di due entità che vengono vissute
differentemente. Si potrebbe descrivere quest’uso della reciprocità come un
meccanismo politico che consente nella vita quotidiana di sintonizzare i
legami in modo che possano consentirci vicinanze e lontananze. Occorre non
dimenticare che in molti casi è importante per un individuo o per un gruppo
che appartiene a un’identità geografica potersi sottrarre a essa. L’amicizia è
un modo di sottrarsi a vincoli familiari o parentali che diventano scambi
obbligatori.
È quello che racconta Stefano Allovio sui gruppi Medje-Mangbetu del
Congo nordorientale. Questi organizzano dei rituali di circoncisione in
comune con tribú circostanti (tra cui i pigmei). I bambini circoncisi
mescolano il loro sangue e questo crea alleanze tra gruppi lontani, rendendo
possibile scambi tra di essi e nuove strategie matrimoniali. Oggi gli stessi
rituali vengono praticati in ospedale dove le circoncisioni hanno luogo 10.
Ci sono culture in cui l’amicizia è di gran lunga preferita alla parentela,
come accade ad esempio in Papua Nuova Guinea tra i Telefolmin.
Nonostante il sentimento di orgoglio della tribú, molto poco viene fatto per l’unità del
gruppo […]. In piú, poiché le obbligazioni personali non sono definite in termini di
appartenenza al gruppo o di parentela, un uomo non può contare sugli altri perché fanno
parte della stessa tribú o famiglia. Piuttosto è il numero e la qualità delle amicizie che
conta. Cioè, i Telefolmin non pensano in termini di parentela o non parentela, ma in
termini di amici con cui c’è una lunga storia di stretta associazione ed estranei (che
possono essere anche parenti) 11.

Un’antropologa americana, Robinette Kennedy, che ha lavorato alla fine


degli anni Ottanta a Creta racconta che, nei paesi di montagna, le donne si
sentono piú vicine alle amiche che ai loro parenti 12.
Per quanto l’amicizia postuli una reciprocità, spesso lo fa in modo meno
coagente, in base a un’idea della gratuità dello scambio in cui la restituzione
non è per forza prevista e in parti uguali. È il tema di molte ricerche sul dono.
Anche se questo dovrebbe circolare non è detto che lo faccia secondo una
«giustizia» redistributiva (ed è anche quello che nel potlach, la grande festa
annuale di redistribuzione dei beni, tra gli indiani dell’isola di Vancouver
spesso conduceva a lunghe trattative e a volte a liti).
Diciamo che l’amicizia è uno strumento duttile per potere modulare la
reciprocità, ed essa si può trasformare in parentela se serve a rafforzare i
vincoli che altrimenti resterebbero labili.
Siamo nel dominio di quella «morale per la vita quotidiana» di cui mi
sono occupato con Piero Zanini. La costituzione di reciprocità sostanzia la
vita quotidiana, ma è sottoposta a una duttilità che consente a individui e
gruppi di giocare con le sue diverse modulazioni. Tra amici è piú possibile
muoversi liberamente che tra parenti, anche se in certe circostanze conviene
assicurarsi che l’amicizia abbia caratteri duraturi.
Torniamo a Marshall Sahlins e alla sua definizione di «reciprocità
dell’essere» in cui rientra perfettamente l’amicizia.

In breve l’idea è che la parentela sia una forma di «reciprocità dell’essere», vale a dire
una relazione fra persone le cui esistenze sono intrinsecamente connesse, dalla quale
derivano «le persone reciproche», gli «esseri transcorporei», l’«appartenenza
intersoggettiva» e cosí via 13.

Verso la fine del suo saggio Sahlins dice qualcosa che apre uno spiraglio
inaspettato sull’intero discorso:

In conclusione vorrei soffermarmi sulla preziosa intuizione di Vivieros de Castro,


secondo cui la parentela, lo scambio dei doni e la magia sono modalità diverse di uno
stesso ordine animista. Ovvero sono tutte transazioni intersoggettive dei poteri dell’essere,
che operano attraverso la mediazione tipicamente umana dell’intenzione e dell’influenza,
diventando quindi altrettante realizzazioni della «misteriosa efficacia della
relazionalità» 14.

Questo discorso si applica perfettamente al legame d’amicizia. La


parentela, lo scambio di doni ma anche l’amicizia sono forme assimilabili alla
magia, cioè a quell’idea presente in molte culture che i legami tra persone,
ma anche tra persone e altre presenze – animali, piante, paesaggi, risorse –
siano un ambito di influenze reciproche. L’amicizia fa parte della «misteriosa
efficacia della relazionalità», cioè del potere trasformativo delle identità che
agisce su chi la pratica. Anche se ci riesce difficile pensare in questi termini
oggi, è indubbio che crediamo ancora nello «spell», nell’effetto da sortilegio
che le persone possono avere su altre. L’incantesimo che c’è nell’amicizia è
davvero una parte dell’efficacia che la relazione può avere e che può
condizionare, trasformare, spingere, accrescere o sottrarre nel caso di una sua
revoca.
L’amicizia quindi è una forma di magia, di «efficacia», qualcosa che si
situa allo stesso livello della cura che uno sciamano opera sul corpo di un
paziente, ma anche del «trucco» che lo stregone opera per alterare lo stato dei
presenti, proprio come un «mago» che artatamente stupisce chi lo circonda.
L’amicizia sarebbe insomma una dimensione «potenziata» dell’essere
insieme, qualcosa che al di là della commensalità e della convivialità fa
effetto in chi la opera e in chi ne è l’oggetto. Non abbiamo sempre pensato
che gli amici possano migliorarci, ma che le cattive amicizie possano portarci
sulla «mala strada»?
1. M . STRATHERN , The Gender of the Gift. Problems with Women and Problems with Society in
Melanesia, University of California Press, Berkeley 1988, p. 13.
2. S . BELL e S . COLEMAN (a cura di), The Anthropology of Friendship, Berg, Oxford 1999;
DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit.; M . GUICHARD , T . GRÄTZ e Y . DIALLO (a
cura di), Friendship, Descent and Alliance in Africa, Berghahn, Oxford 2014.
3. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
4. J . CARSTEN , After Kinship. New Departures in Anthropology, Cambridge University Press,
Cambridge (Mass.) 2004.
5. SAHLINS , La parentela cit.
6. F . R . EGGAN , Social Organization of the western Pueblos, University of Chicago Press,
Chicago 1950.
7. F . NICOLA , Wantok, tesi di laurea all’Università «Bicocca», Milano 2014.
8. A . SMART , Expressions of interest. Friendship and guanxi in Chinese Societies, in BELL e
COLEMAN (a cura di), The Anthropology of Friendship cit.
9. M . COURSE , Making friends, making oneself. Friendship and the Mapuche person, in DESAI e
KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit.
10. S . ALLOVIO , La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale, Laterza, Roma 1999.
11. R . CRAIG , Marriage among the Telefolmin, in R . M . GLASSE e M . J . MEGGITT (a cura di),
Pigs, Pearlshells and Women, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1969.
12. R . KENNEDY , Women’s friendship in Crete. A psychological perspective, in J . DUBISH ,
Gender and Power in Rural Greece, Princeton University Press, Princeton 1986.
13. SAHLINS , La parentela cit.
14. Ibid., p. 70; E . VIVIEROS DE CASTRO, The gift and the given. Three nano-essays on kinship
and magic, in S . C . BAMFORD e J . LEACH (a cura di), Kinship and Beyind. The Genealogical Model
Reconsidered, Bergham, New York 2009, pp. 237-68.
Altre culture, altre amicizie

Un amico leale vale diecimila parenti.


EURIPIDE

«‘Ahla qurba al-suhba» (l’amicizia è la migliore parentela) per esempio i fratelli, dice
Husayn, sono imposti su di te. Se potessi scegliere non vorrei mai averli intorno. Sei
obbligata nei loro confronti, anche se non ti piacciono.
MICHELLE OBEID 1.

Altre culture, altre amicizie. Vivieros de Castro, lo studioso brasiliano che


negli ultimi anni è diventato una vera e propria star dell’antropologia,
incrociando il suo pensiero con quello dei filosofi francesi come Jacques
Derrida, Gilles Deleuze e Felix Guattari, ha fatto il suo «lavoro di campo»
nella «selva» tra gli Araweté, una tribú tupi dell’Amazzonia brasiliana. Ne ha
narrato la vita in un bellissimo libro, dove uno dei capitoli è dedicato
all’amicizia.
Qui le giovani coppie senza figli contraggono amicizia tra di loro.
L’iniziativa è degli uomini, ma spesso sono le donne a suggerirla. Questa
relazione di amicizia tra coppie (apîhi-pihâ)può essere definitiva come anche
provvisoria. Si possono avere piú relazioni di scambio tra coppie, ma mai
contemporaneamente.

La marca caratteristica della relazione apîhi-pihâ è l’allegria (tori). Gli apîhi-pihâ


(amici dello stesso sesso) mantengono una relazione di cameratismo, senza nessuna
connotazione aggressiva. Si rallegrano reciprocamente, stanno sempre abbracciati, sono
compagni assidui nella foresta, usano liberamente dei beni dell’altro. Quando gli uomini
del villaggio vanno alla caccia collettiva, le donne apîhi-pihâ vanno a dormire nella stessa
casa. […] gli amici di sesso opposto ricevono l’epiteto di tori pā (rallegratori). Il cemento
di questa relazione è la mutualità sessuale. Gli apîhi-pihâ cambiano di coniuge
temporaneamente, secondo due metodi, gli uomini vanno nella casa dell’amico occupando
la sua amaca e la mattina dopo tornano alla propria sposa, oppure le donne passano a
risiedere per alcuni giorni nella casa dell’apîno. In entrambi i casi il quartetto è sempre
visto insieme, nel patio di una delle due case. [...] Il luogo per eccellenza per questo tipo
di amicizia e di scambio è la foresta, soprattutto nella stagione della raccolta del miele. Per
sapere se un uomo sia stato compagno di sesso di una donna con un legame di amicizia il
criterio decisivo è «lui l’ha portata nella foresta» per tale occasione. [...] Avere amici è
segnale di maturità, assertività, generosità, forza vitale, prestigio. Apîhi, è la donna pura
positività sessuale, senza il peso della convivenza domestica.
Nelle feste apîno e apîh si dipingono, e profumano mutualmente. Caccia, sesso,
pittura, profumo, il mondo dell’apîhi-pihâ è un mondo ideale. In cielo gli dèi hanno lo
stesso tipo di relazione 2.

Tra fratelli questo tipo di relazione è interdetta, proprio perché


potenzialmente tra fratelli c’è un accesso alle rispettive mogli, che però può
creare gelosie. Tra apîhi-pihâ non ci sono gelosie.
Come accennato nel capitolo precedente, in culture diverse dalle nostre
scopriamo modulazioni diverse dell’amicizia. Sempre Santos-Granero:

Nel suo saggio sul dono Mauss sosteneva che sebbene in teoria nelle società arcaiche e
primitive il dono, centrale nelle relazioni di amicizia, sia generosamente offerto, la
transazione in sé si basa su una forma di obbligo basato su un interesse personale. E
aggiungeva che l’amicizia formalizzata, come quella presente nelle transazioni
commerciali, dovrebbe essere vista come una relazione sociale piuttosto che personale.
Bell e Coleman (1999) mettono in guardia rispetto alle aspettative occidentali: intimità,
confidenza, affetto non sono tratti universali dell’amicizia. Questa può essere anche
contratta tra non uguali, socialmente, etnicamente, economicamente, posto che sia
caratterizzata da uno scambio equilibrato ed escluda ogni tipo di dominazione di una parte
sull’altra. La tensione tra la scelta e l’obbligo, il personale e il sociale, l’altruismo e
l’egoismo, l’affettività e la formalità, il simile e il diverso è presente, mi viene da dire, in
tutti i tipi di amicizia 3.

Si sta tra quello che Cohen 4 chiama amicizia inalienabile, cioè una
relazione permanente – a volte formalizzata ritualmente – e quindi
strumentale e l’amicizia come legame scelto, sostenuto dall’affettività e
quindi legata alle fluttuazioni e soggetta alle rotture.
Negli ultimi anni, come ho anticipato nel «cappellino per non
antropologi» è dall’antropologia amazzonista che è arrivata gran parte delle
novità riguardanti la parentela e l’amicizia e le forme combinate di queste due
costellazioni. La diversità rispetto alla nostra concezione di amicizia qui è piú
lampante: da una parte c’è la pratica dell’amicizia come relazione utilitaria,
come «alleanza» definitiva, un patto stipulato con vantaggi reciproci.
Dall’altra l’idea di amicizia come possibile «predazione». L’amico è colui
che va «cannibalizzato» – nel passato fisicamente, per esempio tra i
Tupinambà del Brasile che divoravano il nemico/amico (assoggettato, reso
prigioniero, ma anche adottato dalla tribú) come se fosse un proprio doppio.
Questa predazione e cannibalizzazione può essere anche solo simbolica, il
nemico reso amico diventa un rafforzamento, una duplicazione dell’io.
Nel mondo amazzonico tutto ciò si complica nella continua ricerca di
possibilità di alleanze con individui non consanguinei. C’è anche una forma
di dis-imparentamento, si fanno diventare estranei coloro che pur essendo
parenti non lo sono in maniera diretta. La dialettica tra parentela e amicizia,
in piccoli gruppi come le tribú amazzoniche si basa sull’invenzione
dell’estraneità (c’è la molla dell’esogamia, cioè del matrimonio con non
consanguinei, che gioca un ruolo fondamentale).
Cosí sintetizza sempre Fernando Santos-Granero:

Nella nativa Amazzonia ci sono almeno tre sfere in cui si possono stabilire relazioni di
amicizia con gli «altri». La prima è quella degli «altri» di famiglia, o gli altri che «non
sono altri» cioè gente alla cui individualità si è già legati per consanguineità o affinità in
vari gradi di vicinanza. Esempi di amicizia in questa sfera sono ad esempio i legami
cerimoniali tra i Gè, ma anche alcuni casi di «amigri» (un termine mutuato dallo
spagnolo) tra gli Jivaro. La seconda sfera è quella dei «vicini» o gli altri «interni», coloro
che appartengono allo stesso gruppo etnico, ma sono separati da distanze geografiche. A
questi appartengono gli amici «sessuali» apîhi-pihâ tra gli Awaretè e i compadres tra i
Piro. Finalmente c’è la sfera degli altri stranieri, gli altri «al di fuori», cioè persone che
non appartengono al proprio gruppo etnico e che sono generalmente considerati nemici
ma con cui si possono stabilire alleanze di amicizia. […] Si tratta spesso di amicizie
commerciali, tra uomini non legati da parentela o affinità, potenzialmente pericolosi gli
uni agli altri, appartenenti a gruppi etnici differenti. Il fine di queste amicizie è di fornire
agli «stranieri» un’identità che sia legittima e non ostile. Ad un certo livello sono di
questo tipo le relazioni molto formali, di ayompari, di comparatico. Le visite sono
altamente ritualizzate e comportano dialoghi cerimoniali tra gli amici che commerciano.
Gli uomini compongono canzoni dove esprimono l’affetto per gli «ayompari». Queste
canzoni somigliano alle canzoni d’amore che gli Asheninka uomini e donne si dedicano
reciprocamente. In un primo momento della relazione i potenziali amici si chiamano
«mamathani» un termine che significa «fidanzati». Quando la relazione si approfondisce
si passa a «fratelli». Comunque tra gli Asheninka quando due uomini (due Asheninka
appartenenti agli stessi gruppi tribali) decidono di stabilire un’amicizia commerciale,
smettono di chiamarsi con i termini di parentela o di affinità e si chiamano semplicemente
«ayompari» 5.

Gli Asheninka, un gruppo indigeno dell’Amazzonia peruviana,


definiscono ayompari gli amici «mestizos», meticci (cioè non indigeni),
mentre questi tra di loro si definiscono compadres. Probabilmente il bisogno
di allargare i confini della propria rete parentale data dal 1600, ed è dovuto
all’esigenza di ampliare le reti di scambio e il possibile accesso a spose
lontane, non appartenenti al gruppo asheninka. Nell’etica asheninka c’è un
particolare accento sull’importanza della generosità, del dare senza aspettarsi
nulla in cambio e sullo status superiore dei rapporti di amicizia ayompari
rispetto a quello degli ordinari rapporti di parentela. Ayompari è visto come
una relazione tra uguali, laddove l’uguaglianza è sentita come un ulteriore
valore non praticabile con i parenti. Perfino quando accade che tra
consanguinei si diventi amici, si preferisce chiamarsi ayompari piuttosto che
con i termini di parentela 6.
Un caso di amicizia nel mondo amazzonico è quello con lo sciamano, con
cui si stabilisce un legame particolare che è a volte molto piú forte del legame
di parentela. Queste alleanze sciamaniche si intrecciano con l’amicizia che gli
apprendisti sciamani mantengono con i loro maestri con cui c’è spesso un
legame affettivo anche dopo avere finito il periodo di formazione. I maestri
sciamani spesso istruiscono diversi novizi allo stesso tempo, e quando questo
accade gli studenti mantengono relazioni amichevoli tra di loro.
Nei capitoli precedenti abbiamo visto che in Occidente non si stipula
un’amicizia né di fronte a un funzionario civile, né dinanzi a un sacerdote. Ci
sono eccezioni per il mondo russo ortodosso.
Un personaggio come Pavel Florenskij 7, teologo e sacerdote ortodosso
nel mondo moscovita, morto in un lager siberiano, aveva contratto, con un
vero e proprio rito, un matrimonio mistico con il suo miglior amico Sergej
Troickij (il quale poi aveva avuto il torto di innamorarsi e di sposare la sorella
di Florenskij, portando alla rottura dello stesso mistico sponsale).
In altre culture ci sono numerosi casi di riti che vengono celebrati per
suggellare un’amicizia.
Ci sono forme di rito tra amici nei Mapuche, una popolazione indigena –
sono un milione in Cile e quarantamila in Argentina. Per essere un che, una
persona vera, bisogna andare oltre le relazioni di parentela, formare relazioni
volontarie che durino durante la vita. Queste si «fanno» bevendo insieme, un
atto che prende il nome di wenüywen, scambio di vino tra amici maschi. Si
forma un cerchio: un donatore inizia versando e offrendo del vino a qualcuno
del cerchio. Questi lo accetta dimostrando di avere fiducia (il vino per i
Mapuche è una sostanza pericolosa, può essere avvelenato o tramite di
stregoneria). Poi il vino continua il giro in senso antiorario.
Sono le donne a vendere il vino al mercato, gli uomini non lo possono
fare. Lo scambio di vino non è necessariamente reciproco.
Anche ai funerali si fa il rituale con il vino, serve a ripagare il debito che
il defunto ha lasciato, debito di reciprocità e di scambio. Qui però ognuno
beve direttamente senza aspettare che gli venga offerto 8.
In Cina c’è un fenomeno riportato dalla tradizione orale tra le minoranze,
ma anche tra gli stessi Han: si tratta di alleanze rituali tra bambini nati nello
stesso anno. Sono rituali rumorosi, nel caso dei maschi, preceduti da lunghe
negoziazioni su diritti e doveri. Il rito consiste in un giuramento da entrambe
le parti da sigillare in genere in un tempio. È un modo di fissare nel cielo la
relazione tra i nati nello stesso anno. seguono banchetti e libagioni 9.
In India Amit Desai ha studiato un caso di rituale d’amicizia nel villaggio
di Markakasa nell’Orissa: la mahāprasād. Serve a «salvarsi» dalla gelosia dei
fratelli e dalle dispute con loro, ma anche dal pericolo di stregoneria che ne
può conseguire. Viene detto phul-phulwāri. Si fa un dono al tempio di
Jaganath a Puri (un villaggio vicino), ci si scambia acqua benedetta del
Gange che viene spruzzata addosso ai futuri amici con le foglie di una pianta
di basilico indiano. Spesso il rituale precede lo stesso sentimento amicale
(prem) e viene eseguito per accrescere i legami tra due famiglie. I figli degli
amici rituali possono diventare a loro volta amici rituali, mentre ai fratelli
questo legame viene interdetto. È un modo di creare una parentela rituale
parallela ed è qualcosa che esula dalle divisioni di casta.
La cerimonia può essere officiata da un sacerdote ma anche da un
barbiere. I due potenziali amici siedono di fronte, alla presenza di due
monticelli di argilla che simboleggiano Parvati e Ganesha. Ognuno dei due
porta un cocco, cinque o dieci rupie, dell’erba e della polvere gialla che
spalmano l’uno sulla fronte dell’altro. Poi i due contraenti si imboccano con
dei cibi rituali, si abbracciano, rompono ognuno il cocco che hanno portato e
ne distribuiscono i pezzi ai presenti. Le obbligazioni reciproche sono vaghe,
ma la durata è per la vita. La mahāprasād, si dice, è meglio del rapporto tra
fratelli perché non c’è nessun interesse personale 10.
Un tipo di ritualità particolare è quello che lega gli amici con un
«segreto». In culture diverse dalla nostra il segreto gioca un ruolo di suggello
dell’amicizia. Somiglia alle nostre società segrete e spesso implica dei riti e
delle maledizioni.
Stefano Allovio racconta che tra i Medje-Mangbetu presso cui ha vissuto
c’è un rituale di circoncisione comune che apre la tribú al mondo esterno.
Questo può anche essere stipulato come patto di sangue:

I due contraenti si siedono l’uno di fronte all’altro e si fanno vicendevolmente un


taglio sull’avambraccio, con l’ausilio di due pezzi di canna da zucchero entrambi
raccolgono alcune gocce del proprio sangue e dopo averli scambiati li succhiano
ingerendo il sangue dell’altro. Successivamente pronunciano queste parole:
«A partire da oggi se conoscerai (sessualmente) mia moglie che tu possa morire, se
vorrò prendere moglie nella tua famiglia e ti rifiuti che tu possa morire, se qualcuno parla
male di me e non me lo dici che tu possa morire, se qualcun vuole avvelenarmi e tu non
fai niente per fermarlo che tu possa morire. Se invece non rifiuti di darmi moglie, se mi
avverti in caso di pericoli, che la tua nébba (casa) sia fortunata e protetta» 11.

A questo rituale però se ne aggiunge uno ancor piú segreto, il nebeli, di


cui non si può parlare (le cose del nebeli, dice Allovio, non si possono
raccontare, ma non per questo non si possono non sapere), che viene praticato
dopo lunghe e dolorose iniziazioni. In esso si stabiliscono alleanzeal di fuori
della parentela e della tribú, alleanze che ribaltano le stesse regole interne al
villaggio e alla parentela. I rituali si svolgono nella foresta, al buio e
rasentano o implicano forme di incesto – ammesse perché chi le pratica si
muove al buio.
Per altre culture il segreto all’opposto è uno dei motivi per cui non si
possono avere amici vicini. Ad esempio, tra i Senufo della Costa d’Avorio
nell’Africa occidentale, il migliore amico dev’essere qualcuno lontano e gli
amici possono solo essere in numero limitato sia per gli uomini che per le
donne, e al di fuori del proprio gruppo matrilineare e sub-etnico. Questo per
ridurre i danni del pettegolezzo e del tradimento. Confidarsi con gli amici può
essere piú rischioso che farlo con i parenti.
In conclusione per quello che riguarda culture diverse dalle nostre, si
possono riprendere le sintesi di Martine Guichard, che in un recente saggio si
domanda dove si nascondano gli amici degli altri.
Uno dei motivi per cui nelle società diverse dalla nostra l’amicizia può
sembrare meno presente è perché «ama travestirsi da parentela». Già lo aveva
notato Julian Pitt-Rivers in un saggio del 1973 12. La Guichard aggiunge:

L’amicizia ama mascherarsi come parentela particolarmente nelle società non


occidentali. Il fatto che gli amici possano essere figurativamente chiamati «fratelli» o
«sorelle» ne oscura la visibilità agli estranei, inclusi gli antropologi, e favorisce le
interpretazioni sbagliate della vera natura delle relazioni esistenti tra persone non
consanguinee, che applicano l’idioma della parentela all’amicizia. Allo stesso tempo,
incrementa il rischio di sottostimare la vera importanza dell’amicizia in contesti esotici e
rinforza la visione che essa sia un fenomeno raro nelle società non occidentali 13.

1. M . OBEID , Friendship, Kinship and Sociality in Lebanese Town, in DESAI e KILLICK (a cura
di), The Ways of Friendship cit.
2. E . VIVIEROS DE CASTRO, C . DE CAUX e G . ORLANDINI HEURICH, Araweté. Un povo tupi da
Amazónia, SESC, São Paulo 2017.
3. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
4. Y . A . COHEN , Patterns of friendship, in ID . (a cura di), Social Structure and Personality. A
Casebook, Holt, Rinehart & Winston, New York 1961, pp. 351-86.
5. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
6. E . KILLICK , Ayompari, «Compadre, Amigo, Forms of Fellowship in Peruvian Amazonia», in
DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit..
7. P . A . FLORENSKIJ , L’amicizia [1914], trad. di P. Modesto, Castelvecchi, Roma 2012.
8. M . COURSE , Making friends, making oneself. Friendship and the Mapuche person, in DESAI e
KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit.
9. G . D . SANTOS , On same-year siblings, in rural South China, ibid.
10. A . DESAI , A matter of affection. Ritual friendship in Central India, ibid.
11. ALLOVIO , La foresta di alleanze cit.
12. J . PITT -RIVERS , The Kith and the Kin, in J . GOODY (a cura di), The Character of Kinship,
Cambridge University Press, Cambridge 1973, pp. 89-105,
13. M . GUICHARD , Where are other people friends hiding? Reflections on anthropological
studies of friendship, in M . GUICHARD , T . GRÄTZ e Y . DIALLO , Friendship, Descent and Alliance in
Africa. Anthropological Perspectives, Berghahn, New York 2014.
La lingua dell’amicizia

L’essenza del linguaggio è bontà, o ancora l’essenza del linguaggio è amicizia e


ospitalità 1.
EMMANUEL LÉVINAS

Caro Geerhard,
mi permetta di unire il ricordo della sua lotta e vittoria con l’introduzione del nome di
battesimo nei nostri rapporti. Nonostante tutto il piacere provato per la Sua ultima lettera a
cui rispondo ora, ho avvertito un sentimento addirittura doloroso, all’idea che ora non
potevamo stare assieme. Le è davvero impossibile? Ora – ne sono convinto – c’è fra noi
un certo rapporto di uguaglianza che ha la sua tonalità fondamentale nella riconoscenza, ci
troviamo nella piú profonda situazione della vita che prometterebbe una collaborazione
feconda e bella.
Lettera di Walter Benjamin a Geerhard Scholem, St Moritz, settembre 1917 2.
Come cambia il linguaggio quando si diventa amici? Nella lettera di
Walter Benjamin a Geerhard (Gershom) Scholem, che inaugura un rapporto
epistolare che durerà per tutta la vita di Benjamin (questi è rimasto in Europa,
Scholem è emigrato in Israele e tenterà fino all’ultimo di convincere l’amico
a raggiungerlo prima che sia troppo tardi), c’è l’incipit del linguaggio nuovo.
Benjamin chiama per nome l’altro, invocando una «riconoscenza» che li
unisce nell’uguaglianza. Qui riconoscenza sta nel doppio significato, c’è
gratitudine per essersi incontrati, ma c’è anche la coscienza di essere in una
situazione comune, ci si riconosce come appartenenti a una circostanza – età,
identità, affinità, passioni e preoccupazioni e in piú uno sguardo comune sulla
contemporaneità. «Ti riconosco» suggerisce che qualcosa ci ha portati vicino
e adesso mi accorgo «di averti già conosciuto», anche se non è vero
biograficamente. Riconosco in te un volto, un’anima, un moto comune che fa
di te una «somiglianza» con qualcosa che conoscevo già. È a partire da
questo che posso chiamarti per nome, che non è soltanto un dettaglio della
tua biografia, no, riconosco te nel tuo nome, per me d’ora in poi il tuo nome
non sarà uno dei tanti Geerhard o uno dei tanti Walter, ma mi apparterrà
come appartiene a te.
Montaigne, descrivendo i propri sentimenti per l’amico scomparso, scrive
che già senza essersi incontrati i loro nomi si cercavano:

Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il
che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo
ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo
attraverso i nostri nomi 3.

Questo chiamarsi per nome apre un futuro, perché è fecondo di tutte le


declinazioni del nostro esserci ritrovati (anche qui l’amicizia inventa un
passato, perché nella riconoscenza duplica e sostiene – fa del nostro
conoscerci un dato – il presente). Ci si può dare del tu, anche se questo
dipende da ogni contesto linguistico. Ci sono lingue in cui l’intimità si
sottolinea apostrofandosi con un «vous» o con un «usted», che è carico di un
rispetto affettuoso e caldo per l’altra, per l’altro.
In altre lingue, in altre culture, c’è un nome con cui si viene battezzati
solo dagli amici, dall’amica, dall’amico. Può essere una «inciuria», un
nickname che gioca con un nostro difetto, oppure un nomignolo legato a
qualcosa che ci è accaduto una volta con gli amici. In alcune culture tra amici
non ci si può chiamare che con nomi che ci sono stati dati da loro e che non
sono gli stessi con cui ci chiamano in famiglia o in occasioni pubbliche.
Ci si rivolge agli amici con una lingua che diventa un ambito esclusivo,
un «intendere» per intendersi. C’è un comune «brodo della vita» dentro cui le
nostre parole si immergono. Quando ti chiamo «mi rivolgo a te» davvero,
cioè espongo il mio volto a riflettere il tuo. Su questo apparire del volto la
mistica ortodossa ha costruito una magnifica parte di sé. Lo ricorda Olivier
Clément 4, e da un ambito completamente diverso questa epifania viene
ripresa da Lévinas 5.
Il volto dell’altro è l’inalienabile alterità nella sua manifestazione di
fronte a noi, adesso, ma allo stesso tempo è il ricordo del fatto che il nostro
volto non lo vedremo mai nello stesso modo sorprendente di stupirci. È il
ricordo di quanto noi siamo volto per gli altri e per coloro che ci sono vicini.
Cosa ci si dice tra amici? Di tutto ovviamente, ma l’attività principale è
continuare un discorso sul mondo, sul vivere, su cosa avviene intorno. È
questo commento che è il campo proprio dell’amicizia, lo spazio comune di
una distanza che consente di «vedere meglio», di «assorbire, assumere,
comprendere». Gli amici costruiscono un ambito dentro il quale il mondo può
essere commentato, diventare oggetto di un’attenzione che è feconda perché
allarga la relazione ad abbracciare qualcosa che non riguarda il puro ambito
di due io che si incontrano. Gli amici si prendono cura l’uno dell’altro, ma si
preoccupano, si prendono cura anche del mondo in cui vivono. Questa non è
un’intenzione benevola, ma l’essenza stessa dell’amicizia. Che è una maniera
di «installarsi» nel mondo.
Questo linguaggio, che è presente anche nelle amicizie poco profonde,
ovviamente ha a che fare con l’emergenza di una complicità. Gli altri, il
mondo là fuori, devono adesso fare i conti con la nostra seppur iniziale,
seppur fragile alleanza. Questo linguaggio comune si manifesta con allusioni,
usi, scorciatoie, con parole che usiamo solo tra noi per intenderci al volo, a
volte è un’invenzione totale, come accade tra i bambini che si inventano
codici e lingue segrete. Diventa il discorso che insieme costruiamo e a cui
non è immediato fare accedere altri. Rinnova la lingua, la rende da strumento
di comunicazione luogo fecondo dove il mondo viene ricreato dalle nostre
parole.
E soprattutto ci consente una separazione salutare da esso, uno stare sullo
stesso balcone a osservare, un fermarsi sul bordo a commentare prima di
ributtarsi nella mischia, di ricominciare a nuotare.
Nel dolore ci fa staccare per un momento dall’attrito che la vita e il
mondo ci fa, nella gioia ci restituisce la possibilità di essere «piú ampi»
perché la felicità stessa è difficile goderla da soli. Non vi è mai successo,
quando ricevete una buona notizia, che la prima cosa che vi viene voglia di
fare è cercare l’amico o l’amica che lei o lui soli sono in grado di gioire con
voi? Com’è raro e quanto è fortunato poter avere qualcuno che ha lo stesso
vostro singulto di allegria o di tristezza.
E poi ci sono le costellazioni del «botta e risposta» del «badinage»,
cazzeggiare, rallier, quel parlare che è un gioco in sé, quel giocare sui vari
livelli, rovesciare, parlare per enigmi, cambiare il tono, subentrare con un
falsetto, sforzare i limiti del dire e del gesticolare.
Tutto questo in presenza: c’è poi il vasto campo dello scriversi.
Dice Confucio: «Scrivere serve a raccogliere gli amici».
E gli fa eco John Donne: «Piú dei baci, sono le lettere che fondono i
cuori, | che fanno parlare gli assenti».
Oggi non ci sono piú tanto le lettere, ma la presenza della lingua scritta
degli amici è forte, forse è l’unica fonte di libertà di cui possiamo usufruire
nei social. Consente come negli epistolari di raccontarci e di farci raccontare,
di intessere e rinnovare la complicità, e dà al nostro scrivere una dimensione
di distanza ravvicinata (anche se i social ci danno l’illusione di una prossimità
che si basa proprio sul continuo rimando di essa). Però nessuno come gli
adolescenti sa farne tesoro. Spesso andando oltre le ridicole forme da essi
suggerite (si pensi alla povertà degli emoticon, di fronte all’infinita ricchezza
di sfumature della complicità o dell’avversità emotiva).
1. E . LÉVINAS , Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 2016, p. 314.
2. W . BENJAMIN , Lettere 1913-1940, raccolte e presentate da G. Scholem e T. W. Adorno,
Einaudi, Torino 1966.
3. MONTAIGNE , Saggi cit., pp. 250-51.
4. O . CLÉMENT , L’altro sole [1975], trad. di M. Cassola, Jaca Book, Milano 1977.
5. LÉVINAS , Totalità e infinito cit.
Oscenità

Fece piovere sulla mia razza, sui miei genitori e su di me le peggiori ingiurie,
trattandomi da piccola vipera partorita da un caimano ubriaco, da porta-sfortuna di un
leone sdentato e di una tigre senza zanne né artigli, oltre a qualche epiteto di immondizia
che non saprei ripetere […]. Lungo la strada, senza dubbio allettato dai miei cento denari,
Koniba mi disse con voce dolce, con un tono di rimprovero amicale: «Stavo scherzando
con te, come ho il diritto di fare in quanto “dimadjo”, servo di casa, e nonno, ma tu non
hai colto il mio scherzo […]. Sei un maleducato, un pessimo figlio dei Peul».
AMADOU HAMPATÈ BA 1.

Quando si è amici si può scorreggiare insieme.


Un giovane Muria Gond (tribú del Nord dell’India)
«Mi mangerei i tuoi intestini». «Sí, anch’io mi mangerei i tuoi».
Tra due Wandeki di Papua
Tra i pescatori Bozo in Mali gli amici dimostrano il loro affetto facendo commenti
pesanti sui genitali dei loro genitori.
DANIEL J. HRUSCHKA 2.

Ogni tanto in viaggio, quando sono solo, mi addormento con un brusio


nelle orecchie. È il ritorno di conversazioni scherzose, di battute, allusioni,
botte e risposte, spesso in dialetto tra gli amici «di casa», tra quelli che ho
lasciato a Palermo e spero mi aspettino. È un brusio della lingua che ha un
sapore speciale, che mi consente di avere un sorriso mentre sono in
dormiveglia. Suona come una musica piccante, mi rassicura su un’intima
complicità, rimbalza in me come se fossi parte di un commento a piú voci che
non finisce mai.
C’è una lingua che viene pronunciata solo tra amici, quel dire che
ammazza il tempo, che gioca con le parole, che spesso e volentieri diventa
oscenità, che forza il linguaggio ai suoi limiti. Una lingua che da ragazzi
bisogna imparare se non si vuole essere tagliati fuori, quella di Tom Sawyer o
dei ragazzi del muretto; quella delle bande giovanili; dei bambini terribili
delle favelas di Caracas che diventeranno i killer per conto dei narcos, delle
schivate verbali dell’Esquive, la magnifica pellicola di Kechiche sugli
adolescenti delle banlieues parigine. Nell’Esquive la parlano ragazzi e
ragazze, è un codice che mescola il verlan dei genitori al mélange tra berbero,
arabo, francese. Rapidissima, urlata, la conosciamo se siamo cresciuti per
strada, se i nostri genitori ci mandavano a giocare in cortile. Ed era una prova
da superare, un dimostrare di essere all’altezza di botta e risposta, capaci di
riposter, di rimandare al mittente lo sfottò, l’insulto, lo scherzo pesante, la
provocazione.
A tal punto importante che per alcune tribú sudafricane solo quelli che si
sono fatti la guerra (un’altra figura dell’amico/nemico) possono adoperare
questa lingua, in un rapporto di joking friendship. Lo scherzo è la chiave di
una relazione che ha il coraggio di «abbassare» qualunque discorso serio al
livello terra terra della fisicità. È lo scherzo che riduce i rapporti al loro
scheletro e ne gioca il limite – il limite che l’amicizia è in grado di sostenere
–, insultarsi tra amici significa verificare che l’ambito di essa sia
effettivamente percorribile. È una prova che viaggia tra il signifying dei ghetti
neri degli Stati Uniti, il babbío degli adolescenti siciliani, lo scherno, il
turpiloquio di Falstaff o quello che uno studioso di linguaggio, Don Brenneis,
chiama indirection, l’apparente fuori discorso, il commento esterno che «non
c’entra».
La lingua tra amici è una perenne invenzione. Non serve piú a
comunicare qualcosa, ma a sostenere il cerchio, a lanciare un po’ piú in là le
scorciatoie dell’intendersi. È spesso il gioco circolare del turn taking, giocato
magistralmente tra i «vecchietti» del Sud d’Italia che in cerchio stanno in
piazza a «non dirsi niente», ma a giocarsi la parola interrompendosi e
denigrandosi. È un gioco fatto di monosillabi, di scatti, brusche schivate,
ritornelli osceni, doppi sensi. La lingua viene rovesciata su di sé, resta puro
strumento di una schermaglia che non ha scopo né senso, che ha perso il
referente e che non vuol dir nulla, ma vuole rimbalzare, essere catturata e
liberata, avere un effetto immediato sui corpi dei parlanti. È liberatoria se si
sa giocare, discriminatoria se invece si è fuori dalle complicità o non si è
dentro abbastanza. Ha una creatività che ogni altro momento della lingua non
può raggiungere. Al pari – come vedremo nel capitolo seguente – della
«civiltà della conversazione» dei salons parigini del Seicento e Settecento
aborrisce qualunque forma di intellettualità, rifugge la scrittura, la
registrazione, è fatta per essere consumata subito e ha le sue regole interne –
molto spesso basate sull’evitare «discorsi seri», ma sul rendere tutto
contingente e immediato.
Ne è parte integrante, tra amici, l’oscenità – e in questo i salons parigini
si tengono indietro – preferendo le sottili allusioni e facendo di una generale
cortesia la regola assoluta (anche se il libertinismo dei salons rimanda
continuamente alle potenzialità erotiche dell’amicizia).
L’oscenità tra amici ha una funzione rituale: riporta al contingente e al
quotidiano ogni gesto e ogni parola.
Sottomette al «tu» e al vocativo ogni espressione, la vincola ai deittici e al
gesto che accompagna, fa dell’intero corpo proprio e degli amici una tavola
su cui scrivere e scolpire e colpire. Questi colpi non feriscono la relazione,
ma la ampliano, la rendono elastica ed estensibile e complice.
Troviamo l’oscenità nelle parole di Romeo quando parla con Mercuzio, la
troviamo spessissimo in Shakespeare, è bordone di fondo su cui il dramma
può permettersi di perdere le sue pieghe tragiche. Shakespeare ci mostra
quello che l’oscenità è, il riportare a terra tutte le cose, attività per eccellenza
esercitata tra amici. Rende possibili le vette dell’amore perché ricorda che
esso non è tutto. Dice Allan Bloom dell’oscenità in Shakespeare:

[...] l’oscenità cambia la trascendenza dell’amore in impulsi fisici ed effetti


dell’erotismo. La sproporzione tra quello che pensiamo l’amore debba essere e ciò che noi
in realtà siamo è tutta da ridere 3.

Bloom paragona il discorso osceno nei personaggi di Shakespeare alla


nostra incapacità di barcamenarci tra volgarità e piattezza «scientifica». Dice
che nella nostra società, paragonandola a quella descritta da Shakespeare,

[...] il problema non è che abbiamo troppa oscenità, ma che manchiamo di


immaginazione oscena. Non ci sono parole per la ricchezza possibile dell’esperienza
erotica – non parlo della nostra esperienza attuale, che sospetto sia piatta come il
linguaggio con cui ne parliamo. È incredibile, in contrasto, quante parole ed espressioni in
Shakespeare richiamano quella parte della nostra natura che ci è cosí cara. Non solo ci
insegna come parlare in maniera incantevole e divertente di sesso, ma ci aiuta a studiare il
fenomeno molto piú seriamente perché non è stato sterilizzato in anticipo per noi o messo
nei solchi di varie ideologie. La sua oscenità non è mai riduzionista, non scarta il
sovrapporsi immaginativo dei fatti, esprime ammirazione per le meraviglie e strane cose
che ci accadono quando siamo presi dalla passione sessuale.
Gli amici tra loro e le amiche tra loro parlano soprattutto di sesso e delle
sue implicazioni. Anche quando non se ne parla, è come se il discorso tra
amici e tra amiche fosse sempre «sessuato», coscientemente sessuato. La
fisicità sessuale prende il sopravvento e ci troviamo a far fronte a essa, a
doverla mettere in scena. Il linguaggio si frammenta e si iperspecializza e
prende le pieghe del corpo.
L’amico e l’amica diventano effettivamente il corpo a contatto che come
impronta, come le stigmate, si eccita di parole fisiche, si imprime di emozioni
fisiche condivisibili.
Si impara solo dopo parecchi anni a scoprirvi la libertà, il gusto, la
capacità di sdrammatizzare che ci aiuta cosí tanto a vivere, a non prendere
tutto troppo sul serio.
Al di là però dei «modi bruschi» 4 (per i maschi) da apprendere, c’è nel
linguaggio tra amici e tra amiche qualcosa di piú fondante, ed è quella
costruzione di un «altrove» che consente di commentare dall’esterno, da una
situazione di osservatori, la realtà. A differenza del pettegolezzo, a cui il
discorso tra amici può assomigliare, qui c’è la costruzione di un mondo
parallelo, il segreto di un ritrovarsi che diventa commento continuo a quello
che c’è fuori. È quello che Brenneis chiama appunto «indirection», il mondo
là fuori come scusa per parlarsi tra complici invece di dire le cose
direttamente, l’indirection è un’abilità retorica di far finta di parlare d’altro, il
saltare di palo in frasca, il gusto per le allusioni, il portare all’assurdo i
riferimenti a cose reali. La complicità è un contesto che consente salti tra
piani diversi e velocità nell’intendersi. «Capisci?» è il sincopato che
costituisce il tessuto del vai e vieni tra noi e la realtà ed esclude chi non va
allo stesso ritmo.
Vale per uomini e donne: la complicità è oscena nei confronti di chi non
ne fa parte. Gli uomini tra di loro parlano ovviamente di donne, di
quell’altrove di cui sentono la frontiera da cui possono essere respinti o
accolti. Questo guardare la frontiera si popola alternativamente di desideri e
di denigrazione degli stessi. Nell’oscenità con cui gli uomini parlano delle
donne c’è l’estraneità e il tentativo di definirla. Può essere grossolana,
aggressiva, fatta di dirty joking ma alla radice dell’oscenità c’è sempre
qualcosa che Simmel ha definito molto bene 5 (e che pertiene sia alla sfera
maschile che a quella femminile): «un gioco il cui strumento è la realtà».
È un gioco che può rivelarsi pesante, proprio per la natura stessa della
gestione del rapporto con l’estraneità, con l’altro sesso. Il dirty joking non è
un appannaggio dei discorsi tra uomini ed è sospeso tra desiderio e
aggressività, ha la natura di un gioco ambiguo.
Spesso nei lavori intrapresi collettivamente per la comunità si cantano
canzoni oscene, come accadeva nella zona di Panama ai lavoratori indiani
intenti a pestare i panni nel colore «indigo» 6.
O ai pescatori delle tonnare siciliane che cantavano «Za monica
n’cammisa, viremu a cu ci’ha ramu» (Questa monaca in camicia vediamo a
chi la diamo) con aperte allusioni sessuali.
In molte culture ci sono momenti femminili, di donne tra loro, che gli
uomini fanno meglio a evitare.
Laura Bohannan, nel suo magnifico libro Return to laughter 7 (Ritorno
alla risata), frutto della sua permanenza in un villaggio Tiv in Nigeria,
racconta che quando le donne Tiv raccolgono le erbe selvatiche nei campi gli
uomini non si avvicinano per paura delle molestie sessuali e dei canti osceni
diretti loro.
Bronisław Malinowski nel suo Giardini di corallo dice che le donne delle
Trobriand che raccolgono erbe selvatiche godono di uno speciale privilegio.
Gli uomini non devono avvicinarsi e, soprattutto nella parte meridionale
dell’isola dove Malinowski ha vissuto, le donne possono afferrare e
maltrattare ogni uomo che sia nei paraggi. Se fa parte del loro villaggio lo
insultano, ma se è uno straniero può essere aggredito verbalmente e umiliato
sessualmente. I canti femminili di raccolta sono osceni e alludono al piantare,
nel senso spiccatamente sessuale, dove la terra è una vagina aperta 8.
Nella tradizione contadina del Sud della Francia la «lessive», la lavata dei
panni da parte delle donne alla fontana, era un’occasione di discorsi, canti e
aggressività sessuale nei confronti dei malcapitati. E un caso simile viene
raccontato per la zona di Modica in Sicilia da Elio Vittorini nelle sue Città
del mondo.
Rosario, un pastore che è in giro con le pecore insieme al padre, si trova
bersaglio dell’aggressività delle lavandaie. Queste, rispondendo alla sua
intrusione nel loro mondo e accusandolo di cattive intenzioni, lo circondano e
lo legano infine a un albero. È un gioco fatto di provocazioni a cui Rosario
risponde, ma è un gioco pesante:
Le lavandaie non seppero limitarsi a una semplice custodia del prigioniero.
Mangiando pane e ricotta intorno a lui esse se ne prendevano gioco, era naturale, e presto
ve ne furono che passarono dagli scherzi di parola a qualche piccolo scherzo di mano. Una
gli sbottonò i pantaloni. Una seconda gli imbrattò di ricotta le vergogne. «Col sapone! Col
sapone!» gridarono alcune. [...]. Rosario rispondeva per le rime a quello ch’esse gli
dicevano. [...]. Cosí le esasperava, ed esse gli impiastricciarono di sapone anche il petto e
la gola, gli occhi, la fronte, le orecchie, sporcandolo da capo a piedi del sozzo colore
bruno che ha il sapone loro 9.

C’è qui l’ambiguità stessa dell’amicizia, il suo costituire complicità


contro. Può diventare spietata, può essere il gioco terribile dei ragazzini delle
favelas di Medellin che diventeranno sicari e narcos 10. Essa produce
complicità, ma anche «prede» di essa. E questo avviene sia all’esterno, nei
confronti dell’alterità rappresentata da un altro sesso, sia all’interno stesso
degli amici. Come si vede nel capitolo dedicato all’inimicizia, ogni amico è
potenzialmente una preda e quindi un nemico. Una sera ho assistito a
Sferracavallo, un paesino vicino Palermo, a una cena tra spazzini notturni. Il
gioco costante dell’alzarsi in piedi e provocarsi l’un l’altro, per poi
coalizzarsi tutti contro uno, metterlo al muro, accusarlo di non essere
abbastanza maschio e la risposta di questi, di volta in volta a simulare la
propria «frociaggine» e a rivoltarla sugli altri.
Può però essere giocato con una forma di complicità reciproca che
mantiene l’aspetto aggressivo senza però trasformare gli amici o le amiche in
nemici e nemiche. Anche se è molto impopolare dirlo, è un gioco che le
culture hanno saputo costruire nella dialettica uomo-donna in maniera molto
accurata. È il flirt di cui parla Simmel 11 come un’arte, un’estetica della
relazione, un gioco di botta e risposta, di seduzione accennata e rifiutata.
Questo gioco tra uomini e donne che molto spesso scambiamo per un gioco
di gerarchie e di dominazione mentre invece è proprio un momento in cui i
ruoli vengono «giocati», in opposizione alle regole dominanti.
È quello che ci raccontano Caroline e Filippo Osella del gioco tra
adolescenti nel Kerala, in India 12, una società molto controllata e dove le
relazioni tra uomini e donne sono «fissate» nelle regole dei matrimoni
combinati. Gli adolescenti giocano per strada in maniera pesante. Spesso
sono i maschi a prendere l’iniziativa cercando di attirare l’attenzione delle
ragazze, stabilendo un «tune», una cornice possibile dei futuri approcci. Sono
attacchi e risposte verbali, di gesti, provocazioni forti a cui le ragazze sanno
rispondere in maniera altrettanto forte. A un ragazzo che lancia l’osceno:
«Vorrei portarti tra le canne e scoparti», la ragazza risponde: «Tuo padre l’ha
già fatto!», umiliando cosí chi ha lanciato la provocazione, mettendo in ballo
l’inesperienza dell’altro e insultandone l’ambito familiare. Gli Osella dicono
che scambiare questo dirty joking per puro harassment, rende incapaci di
apprezzarne le sfumature e le ambivalenze. In Kerala, come in Tamil Nadu,
innocenza e pruderie formano parte della persona pubblica di buona parte
delle donne, in privato le donne parlano e scherzano su questioni sessuali e
flirtano con gli uomini. A noi esterni può sembrare che qui ragazzi e ragazze
siano intrappolati in una morale pubblica. L’uso che entrambi fanno
dell’oscenità spesso «mette in mostra» le stesse regole e le gioca.
Un altro autore che si è occupato dello stesso fenomeno, Kevin
Yelvington 13, mostra come non ci sia una prevalenza di chi provoca, le donne
possono prendere l’iniziativa, negli insulti e nei discorsi osceni.
Ciò non significa che non vi siano ambiti molto meno amicali, concordati,
ambiti in cui all’amicizia si sostituisce la violenza maschile nelle sue varie
forme. Ma negare la capacità femminile di gestire il dirty joking significa
ritenere di avere a che fare con delle educande incapaci di rispondere per le
rime e di indirizzare il gioco a proprio vantaggio. Per Simmel, nel flirting la
gerarchia diventa tutt’altro che chiara e definita. Spesso il potere è nelle mani
della donna: nel dire sí e no, nel concedersi e nel negarsi la donna dirige il
gioco, è quella che sceglie. Il fine del flirting non è la consumazione erotica.
Quello che si vince è un incremento di valore, dove un elemento
fondamentale è il fascino del rischio, il destino, e tutto ciò alimenta
l’attrazione del gioco stesso. Attirare e allontanare, negarsi e dirigere rendono
questo gioco possibile, e sono presenti per gli Osella nel caso del Kerala,
laddove è quasi impossibile che gli attori del flirting diventino effettivamente
partner sessuali.
Simmel sostiene che il flirt è un aspetto dell’estetica, ma di un’arte in cui
lo strumento dell’artista non è «un’apparenza di realtà, una sua simulazione»,
ma la realtà stessa.
Per Daniel Miller 14 questo gioco che mette in scena le regole e la loro
possibile sovversione è presente in altri ambiti. Attori che appartengono a
classi diverse, a etnie o identità usualmente gerarchizzate, possono metterle in
scena con insulti, col prenderne in giro gli stereotipi, scherzando attraverso le
categorie di razza e sesso. Lungi dal rinforzare un contesto sociale
dominante, agiscono nel confonderne la questione. Nello scherzo
l’impredicabilità e l’ambivalenza ne sono parte essenziale.
È quello che ho sentito raccontare a Capetown delle cene tra amici in casa
di Nadine Gordimer, ospiti i protagonisti della lotta contro l’apartheid, neri,
coloured, bianchi, dove intorno a un tavolo venivano fuori tutti gli stereotipi
di colore e di identità nera, zulú, xhosa, afrikaan, coloured, come chiave del
prendersi in giro reciprocamente.
Mi sembra che una delle chiavi dell’amicizia sia quella di essere un
terreno privilegiato per l’ambiguità, come se nella sua dichiarata piattaforma
d’uguaglianza si potessero vedere della realtà le molteplici sfumature e lati.
L’amicizia come garanzia della non definitività di ogni assunto e di ogni dato
per scontato.
1. A . HAMPATÈ BA, Amkoullel, l’enfant peul, Actes Sud, Paris 1991.
2. HRUSCHKA , Friendship. Development, Ecology and Evolution of a Relationship cit., p. 17.
3. A . BLOOM , Shakespeare on Love and Friendship, The University of Chicago Press, Chicago
1992, p. 21.
4. F . LA CECLA, Modi bruschi. Antropologia del maschio, Elèuthera, Milano 2000.
5. G . SIMMEL , Filosofia dell’amore (1911), Donzelli, Roma 2001.
6. L . CRAMER , Songs of west-indian negroes in the canal zone, in «California Folklore
Quaterly», vol. 5, n. 3, luglio 1946, p. 245.
7. L . BOHANNAN (Eleonore Smith Bowen), Return to Laughter, an anthropological Novel,
Natural History Library, New York 1954, pp. 75-76.
8. B . MALINOWSKI , Coral Gardens and their Magic [1935], Severus, Hamburg 2017.
9. E . VITTORINI , Le città del mondo, Rizzoli, Milano 1969, p. 125.
10. G . MESA , La quadra, Literatura Random House, Bogotà 2016.
11. SIMMEL , Filosofia dell’amore cit.
12. C . OSELLA e F . OSELLA , Friendship and flirting. Micro-Politics in Kerala, South India, in
«The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 4, n. 2 (giugno 1998), pp. 189-206.
13. K . A . YELVINGTON , Flirting in the factory (1996), ivi, vol. 2, n. 2 (giugno 1996), pp. 313-33.
14. D . MILLER , Modernity. An Ethnographic Approach. Dualism and Mass Consumption in
Trinidad, Berg, Oxford 1994.
Uomini e donne

Ci si chiede se l’amicizia possa esistere tra persone di sesso diverso. È una cosa rara e
difficile, ma questa amicizia è piú affascinante. [...] Talvolta simili unioni cominciano con
l’amore e finiscono per trasformarsi in amicizia.
MADAME DE LAMBERT 1.

La storia dell’amicizia tra donne percorre in modo parallelo quella


dell’amicizia tra uomini, sarebbe inutile affermarlo se da un certo punto di
vista la ricerca storica e antropologica non avesse dato un maggior peso alla
seconda rispetto alla prima. È solo una questione di ottica. Ad esempio è un
classico degli studi «mediterranei» dare risalto agli uomini insieme
all’osteria, al lavoro, nei luoghi pubblici e ignorare il peso delle donne tra di
loro, nelle relazioni di vicinato, nelle reti che decidono le strategie
matrimoniali, nei momenti di lavoro e di festa. In alcuni paesi dell’Andalusia
(negli anni Novanta del secolo scorso) poteva sembrare che gli uomini
avessero maggiore accesso all’amicizia perché piú liberi di muoversi, mentre
le donne apparivano confinate all’ambito domestico. In realtà le donne
costruivano forti reti di amicizia, ma le «velavano» all’interno della
quotidianità domestica (come se fossero un’estensione dell’ambito
familiare) 2.
I casi al presente oltre che al passato sono innumerevoli: donne quechua
che negli altipiani peruviani leggono il presente attraverso una messa in
comune e un’interpretazione dei sogni 3. Lo stesso avveniva fino a qualche
tempo fa in Calabria, dove le donne al mattino andavano a farsi visita
reciprocamente per raccontarsi i sogni e «addunarisi», rendersi conto 4. Donne
che si sottraggono alle relazioni familiari e parentali in un tessuto di
solidarietà che consente loro di allargarsi a luoghi esterni come i mercati. Nei
paesi boliviani le «cholas» che scendono a valle dalle comunità sulle
montagne a vendere i prodotti dei loro campi, patate, mais, carne di alpaca e
si ritrovano a mangiare al mercato una zuppa di pollo o una trota criolla. Non
c’è bisogno di scomodare Virginia Woolf o la piú recente letteratura dei
Women Studies per rendersi conto che l’amicizia femminile è un fenomeno
universale e universalmente riconosciuto, nonostante i rigurgiti del mai sopito
spirito patriarcale.
L’amicizia femminile apre la storia della letteratura giapponese nel Genji
monogatari, è presente nelle commedie di Aristofane, nelle poesie di Cecco
Angiolieri, nella letteratura antropologica sulle donne executive nel Giappone
di oggi 5. La si ritrova tra le Fujoshi, le «ragazze sessualmente trasgressive»
nello stesso Giappone di oggi. Le Fujoshi sono comunità di adolescenti che
online incarnano ruoli transgender ispirandosi ai manga piú amati. Sono un
fenomeno molto diffuso nei social e nella maggioranza dei casi questa
rappresentazione di sé cessa con l’uscita dall’adolescenza 6.
Un’ampia letteratura si è occupata negli ultimi decenni della differenza di
linguaggio se si tratta di «discorsi tra amici» o di «discorsi tra amiche».
L’antesignana di quest’attenzione è stata Deborah Tannen, valente linguista
con una grande capacità di divulgazione. I suoi lavori di etnolinguistica ci
hanno aiutato a capire il modo differente con cui uomini e donne
interloquiscono, si interrompono, si danno manforte o si contraddicono,
parlano del mondo «esterno», fanno gossip e costruiscono il proprio stare
insieme. Ovviamente questi lavori non hanno validità universale e sono
contestualizzati in geografie e storie precise. La stessa Tannen, non a caso ha
aperto ai discorsi che uomini e donne fanno tra loro con un testo il cui titolo
dice già molto dei contenuti: That’s not what I meant 7 (Non è questo che
intendevo dire). Uomini e donne, in situazioni di convivialità, usano registri
diversi, affrontano le questioni in modo differente, si interrompono (gli
uomini interrompono le donne e le donne rimproverano gli uomini di non
farle parlare). Anche qui ogni forma di generalizzazione è pericolosa.
Michael Foucault, parlando della storia dell’omosessualità, ha affermato
piú volte che questa era una manifestazione di un’«amicizia tra uomini» che
la società dell’ancien régime non ammetteva. Una vicinanza particolare in
situazioni di crisi, in guerra, in istituzioni oppressive che dava luogo a
un’intimità che come tale non era accettata dal mondo circostante. Foucault
sostiene che questa forma di amicizia maschile non aveva per forza contenuti
sessuali, ma che la stessa omosessualità è stata la forma con cui quel tipo di
relazione ha imparato a manifestare i propri diritti. Si potrebbero trovare
paralleli in altre forme di amicizie censurate dalla società, non solo quella tra
uomini tra loro e tra donne tra loro, ma anche quella tra uomini e donne.
Credo che si potrebbe leggere una certa storia europea come la guerra che
la «parentela» ha sferrato per secoli contro l’amicizia, come fenomeno
eversivo, come qualcosa di non facilmente controllabile e assimilabile.
Spostare tutto l’asse dell’amicizia maschile o di quella femminile
sull’omosessualità mi sembra non rendere giustizia all’omosessualità come
diritto alla differenza, né alla storia della «mascolinità» o dell’identità
femminile. C’è una tendenza che vorrebbe assimilare ogni forma di amicizia
tra uomini o tra donne alla categoria Lgbt. Come se l’amicizia non fosse una
sfumatura dell’erotismo, un gradiente che non gradisce l’essere assimilato
tout-court allo scambio sessuale. Credo che qui ci sia qualcosa fondamentale
da ribadire. Distinguere l’amicizia dai suoi «benefits» sessuali, significa
comprendere che la società non si costituisce solo a letto. I legami si formano
con un’elasticità che spesso non corrisponde alle ragioni del desiderio
sessuale tout-court. (C’è una forma di tardo freudismo in questa tendenza a
volere ridurre tutto alla genitalità dei rapporti, la società nel suo farsi è molto
piú sofisticata e ama le distinzioni e le differenze).
E l’amicizia tra uomini e donne? Ci viene in aiuto un fenomeno che si è
manifestato per due secoli e che ha avuto esito nella Rivoluzione francese. Si
tratta di quell’arte della conversazione che si afferma tra il Seicento e il
Settecento nei salons parigini intorno alle grandi dame aristocratiche. In
questi luoghi, che sono per eccellenza «antimonarchici» viene elaborata una
nuova idea dell’amicizia come base di una società liberata dal peso della
corte e di un sovrano assoluto.
Nei salons si sperimenta un tipo di amicizia il cui strumento è la
conversazione. Essa serve a instaurare un’autentica «libertà, uguaglianza,
fraternità» tra nobilitati delle lettere, alcuni dei quali si giovano del loro
talento naturale, altri della loro conversazione: tutti lasciano alla porta del
banchetto letterario il rango, i titoli, la professione, che sono di troppo in una
società elevata dalla lettura e dal contagio della lettura a uno stato di grazia
distributiva e commutativa.
Uno dei pilastri di questi laboratori d’amicizia è proprio l’amicizia tra
uomini e donne, liberata sia dai gravami dei matrimoni tra casate (che
continuano ma a cui viene dato un valore solo formale) che dai turbamenti
della passione.
Anne-Thérèse Marguenat de Courcelles, marchesa di Lambert, che è una
delle animatrici dei salons, scrive in un trattato sull’amicizia 8 che essa è
superiore alla «passione turbolenta» dell’amore.
Quando le veniva chiesto «se l’amicizia possa sussistere tra persone di sesso diverso»,
ella rispondeva che essa era non solo possibile, ma perfino superiore, per intensità,
complicità e seduzione 9.

E aggiungeva:

L’amicizia è una forma stabile, razionale di amore.


L’uomo è pieno di bisogni: se guarda a se stesso trova un vuoto che solo l’amicizia
può colmare: sempre agitato e preoccupato, può trovare pace e calma solo nell’amicizia.

Un’altra gran dama, Mademoiselle de Scudery, concorda:

[L’amicizia] piú dolce e delicata è quella che si stabilisce tra un vero honnête homme
e una donna dotata di una bella intelligenza, piacevole e solida e di un nobile cuore, a
condizione però che entrambi si astengano dall’amore 10.

Potrebbe sembrare un vezzo aristocratico se questi stessi salons non


avessero preparato la caduta della monarchia e se le loro animatrici e gli
animatori non avessero pagato di persona, prima per mano del sovrano, poi
con le loro teste durante la Rivoluzione, la diffusione di un’idea di
uguaglianza tra uomini e tra uomini e donne basata non sul censo o sul rango,
non sull’appartenenza a famiglie o a clan, ma a una comune umanità.
La conversazione è l’unica possibilità «civile» di costituire un nuovo tipo
di cittadinanza definito dalla libera elezione tra amici e amiche. Bisogna
praticare la conversazione come qualcosa che crea e mantiene l’amicizia e
che non può essere provata e riprovata se non nel suo farsi. Contro un
approccio intellettuale la conversazione non è trascrivibile, essa è valida solo
mentre si fa, e deve rispettare alcune regole tra cui il fare svanire l’io di chi
parla e allargare il campo all’ascolto. Non deve pesare, deve essere lieve e
vivace, godibile e capace di instaurare quella felicità che è possibile solo
nell’amicizia. Questo punto viene ribadito nelle lettere che le dame si inviano
e che inviano alle loro amiche e ai loro amici e amanti. La felicità su questa
terra è l’amicizia, essa è il culmine cui può aspirare l’umanità. Essa è
possibile se tra amici si pratica la virtú dell’honnêteté, che potrebbe essere
tradotta con «franchezza», «spontaneità», fuga da ogni infingimento: non è
una virtú romantica, non viene richiesta un’esposizione «del cuore»,
un’esondazione dei propri sentimenti, ma la cura della relazione, il non
gravare sull’amico o sull’amica.
Nel pieno dell’arte della conversazione, nei salotti parigini era d’uso fare
il ritratto degli amici e delle amiche. Erano bozzetti o veri e propri poemi che
delineavano i caratteri, virtú e difetti, scritti con una vena ironica e obbedienti
a una logica in cui il badinage, la galanteria scherzosa, aveva la nota
predominante. Spesso si mostravano i pregi come fossero difetti, e
nell’insieme le descrizioni erano abbastanza leggere da non toccare
nell’intimo coloro che ritraevano. Erano destinati a essere letti
pubblicamente. E spesso erano raccolte, florilegi e insiemi di ritratti.
Quest’arte tutta privata in cui alcune grandi dame dei salons emergevano
serviva a ravvivare l’idea di amitié nutrita da un’aristocrazia che in essa
vedeva il piú alto contributo alla civilization. Era una maniera molto efficace
di descrivere una società che voleva essere identificata con una certa arte di
vivere, contrapposta a quella della corte e propensa invece a un ideale di
amicizia tra eguali. Si esercitava in essa una «sprezzatura», una semplicità
frutto di grande elaborazione di maniere, una naturalezza che aveva in odio
ogni forma di affettazione e di retorica. Ironia, scherzo, galanteria dovevano
mantenersi lontani da ogni forma di codifica e di manierismo. Occorreva
distinguersi con una finezza di modi tale da non essere neppure notata. Era il
trionfo di una forma dentro cui i contenuti venivano trattati con uno spirito
che rifuggiva l’eccesso e la passione. Eppure è proprio in questi salons che si
è formata l’idea di un’individualità da far maturare nella conversazione. Eredi
di un’idea classica, greca e romana dell’amicizia come virtú civica furono
queste le palestre aristocratiche dell’égalité dei Lumi coniugata con la
fraternité, come felicità sociale tra amici cittadini.
I ritratti creati nei salotti parigini mantenevano una dimensione giocosa
anche se delineavano le caratteristiche salienti di ogni persona. Nella loro
mancanza di approfondimento psicologico c’era l’intenzione di non
offendere. In piú essi si occupavano di quanto dell’amicizia fosse bene
comune, dell’amico o dell’amica come personaggi all’interno di un gioco di
reciprocità. E obbedivano all’idea che non si potesse in effetti descrivere fino
in fondo l’amicizia, pena la riduzione di essa a qualcosa di già conosciuto e
non prodotto via via dal farsi delle relazioni nel comune contesto, le case, i
salotti, i castelli.
1. MME DE LAMBERT e L .-S . DE SACY, Sull’amicizia (1702), Medusa, Milano 2015.
2. S . UHL , Forbidden friends. Cultural veils of female friendship in Andalusia, in «American
Ethnologist», vol. 18, n. 1 (febbraio 1991), pp. 90-105.
3. A . CECCONI , I sogni vengono da fuori, esplorazioni sulla notte nelle Ande peruviane, Ed it.,
Firenze 2012.
4. M . MINICUCI , Il disordine ordinato. L’organizzazione dello spazio in un villaggio rurale
calabrese, in «Storia della città», n. 24 (1982), pp. 93-118.
5. HO SWEE LIN, Tokyo at 10. Establishing difference through the friendship networks of women
executives in Japan, in «The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 18, n. 1 (marzo
2012), pp. 83-102.
6. P . W . GALBRAITH , Fujoshi. Fantasy Play and Transgressive Intimacy among «Rotten Girls»,
in Contemporary Japan, in «Signs», vol. 37, n. 1 (settembre 2011), pp. 219-40.
7. D . TANNEN , Ma perché non mi capisci? Alla ricerca di un linguaggio comune tra donne e
uomini [1992], Frassinelli, Milano 1992.
8. MME DE LAMBERT e DE SACY, Sull’amicizia cit., p. 271.
9. B . CRAVERI , La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2006, p. 272.
10. Ibid., p. 272.
Comunione dei santi

Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria
immagine ideale. Perciò gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel
che è piú difficile a dirsi, i morti vivono, cosí tanta stima, ricordi, rimpianti ispirano i loro
amici.
MARCO TULLIO CICERONE 1.

So, per esempio, che il fantasma di Goya mi guarda da molti luoghi di Spagna. Come
mi piacerebbe fare un’intervista con il suo incredibile spirito, in questa terra dove esso
ancora spira.
RAY BRADBURY 2.

Io sarò con voi perché quando chiuderò gli occhi il mondo non sparirà.
Il direttore del Teatro di Medellin
Forse la dimostrazione piú palese del carattere resistente dell’amicizia è il
suo esistere in chiave intergenerazionale, anzi per meglio dire, in chiave
intertemporale. Quando al liceo cominciai a scoprire Petrarca e la sua poesia
la prima cosa che mi venne in mente è che la vicinanza che sentivo, la
consonanza con i suoi versi esulava da un fattore puramente estetico o
sentimentale. Era a Petrarca come uomo e individuo che mi sentivo vicino,
egli mi si palesava come amico. L’idea che un uomo che non potevo aver
incontrato potesse diventarmi caro cozzava con la mummificazione
accademica e scolastica della letteratura e della poesia. «Erano i bei capelli a
Laura sparsi» suonavano alle mie orecchie come parole di qualcuno che non
solo mi diventava vicino ma alla cui vicinanza tenevo. «Solo et pensoso i piú
deserti campi | vo mesurando a passi tardi e lenti» incontrava la mia
sensibilità là dove doleva la solitudine adolescenziale. Petrarca aveva capito
cosa si prova quando una delusione ti fa voltare le spalle al mondo e
rintanarti nel tuo vagabondare ha un valore che va al di là della semplice
autoconsolazione. Com’era possibile che i seicento anni che mi dividevano
da lui fossero poca cosa? Per la prima volta capii cos’era il rapimento che
aveva avvinto il Rinascimento al mondo classico e l’idea di classicità da quel
momento non si staccò piú dall’idea dell’amicizia attraverso i secoli.
Ho ritrovato molti anni dopo un sentimento analogo in un racconto di
Nadine Gordimer nella collezione di storie contenuta in Beethoven era per un
sedicesimo nero 3. La Gordimer rivede in sogno, o in dormiveglia, alcune
persone con cui ha condiviso passioni e vita, letteratura e passaggi
esistenziali: Edward Said, Susan Sontag. Sono stati grandi amici, sono morti
da poco, l’unione a essi non è della natura del ricordo, ma della presenza.
Una comunione di spiriti, si potrebbe dire una comunione spirituale e
intellettuale, ma anche fisica: la bellezza dell’uomo Said, il suo charme, la
sua eleganza. Non c’è rammarico in questa scrittura, ma la superiorità di una
comunione che non si spegne. Qui la comunione dei santi – che è una
categoria teologica – viene completamente trasformata in comunione reale,
che va oltre l’episodio transitorio della morte. Il legame rimane, forte, fisico,
incancellabile. È una Gordimer anziana che sa che anche lei tra poco
«sparirà» ma che sa che non si sparisce, che la comunione dei santi letterati
mantiene in vita gli amici. Il sentimento che essa esprime è talmente demodé
che si è confusi dalla sua sicurezza.
Per trovare qualcosa di simile occorre cercare nella grande letteratura
russa, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov fino a Pasternak o nei grandi film di
Tarkovskij. Quello che qui è osato è l’insulto massimo per la nostra
contemporaneità, l’idea di un’immortalità effettiva, non guadagnata dopo la
morte, ma maturata in vita. Un’immortalità dovuta alla sospensione del
tempo che l’amicizia produce, alla negazione teologica che l’amicizia
pronuncia nei confronti della morte.
Abbiamo perso l’idea della fisicità dell’immortalità. Abbiamo anche
dimenticato che la resurrezione promessa nel cristianesimo è una resurrezione
dei corpi. E questo ci ha fatto dimenticare i grandi dibattiti medievali sulla
resurrezione. È merito di Caroline Bynum 4 averceli fatti rivivere. La
resurrezione dei corpi è stata argomento di discussione per decine di secoli:
che tipo di corpo risorge? Quello di quando moriamo, quello affetto da
malattie e difetti? Un cieco risorge cieco, uno zoppo, zoppo, oppure i corpi
vengono composti nella loro completezza e nel loro massimo splendore? E la
resurrezione ci allontana dalle gioie terrene o semplicemente le illumina di
un’altra luce? In breve, risorgiamo con tutto il nostro mondo intorno, con i
legami e gli affetti che avevamo sulla terra o in una solitudine riscattata?
Nel poema arabo Il Libro della Scala che serví da modello alla
Commedia di Dante, l’autore visita il Paradiso e incontra i suoi poeti preferiti.
Nessuno di essi ricorda però di essere stato un poeta. Perché in Paradiso non
c’è bisogno della poesia, visto che esso è l’adempimento perfetto della
beatitudine a cui la poesia tende. I beati hanno dimenticato tutto perché sono
felici e questo basta 5.
Nel cristianesimo c’è un’oscillazione rispetto all’idea di vita eterna. Sarà
una contemplazione felice, ma anche l’illuminazione della vita terrena, il
disvelamento in essa dell’eternità che vi è contenuta.
Nessuno come Walter Benjamin, eretico ebreo e marxista eretico, ha
intuito questa dimensione. La comunione dei viventi e dei vissuti esiste
perché questi hanno preparato agli altri la strada e sono a essi uniti da uno
stesso movimento verso la redenzione. In una concezione teologica della
storia essa è una fibra intessuta da tutti i passaggi, i prestiti, i desideri che
uniscono le generazioni tra di loro. C’è un passo straordinario dove tutto
questo viene espresso:

Questa riflessione comporta che l’immagine di felicità che custodiamo in noi è del
tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza.
Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato,
con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a
noi. In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo
stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo
rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a
quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le
donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non piú conosciute? Se è cosí,
allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra.
Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima
di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto 6.

Per Benjamin il teatro privilegiato di questa comunione è la città, le sue


strade, come luogo dove il passato si manifesta come continuità, come
«appuntamento segreto»:

[...] siamo nella strada come in un tempo dialettico in cui il presente risuona
d’armoniche strane fatte dal rumore delle età 7,

e ancora:
L’Ora è l’immagine intima di Ciò che è Stato 8.

L’idea è che il passato, «i vissuti» hanno un diritto sui viventi. Questa che
antropologicamente potrebbe essere l’idea dei «revenants», l’idea che i
defunti sono presenti da qualche parte, ma che è compito dei viventi fissarli
nel loro altrove, qui è totalmente ribaltata. I vissuti non pretendono dai
viventi qualcosa che spetta loro (un sacrificio, l’offerta della birra di miglio, il
riscatto in maiali o in altri beni, il grande banchetto che li suggella nel loro
essere solo «antenati», come raccontano gli antropologi di altre culture), qui
essi sanno di essere legati da una storia comune da compiere, una
«redenzione» da portare avanti insieme. Per Benjamin era una missione
storico-teologica, per la Gordimer è l’alveo salvifico della letteratura come
amicizia vivente, per qualcun altro è la stessa comunione degli amici come
garanzia di immortalità.
C’è un accenno di questa «redenzione» come compito comune agli amici
nella rievocazione che Derrida fa di Lyotard:

[...] e ormai chi potrebbe dire un «noi» senza tremare? Chi può sottomettere un «noi»,
un «noi soggetto» al nominativo, il «we» inglese o un «noi» accusativo o dativo, l’«us»
inglese? in francese, c’è un solo «noi» anche nel riflessivo «noi, ci», sí, noi ci siamo
incontrati (nous nous sommes rencontrés), noi ci siamo parlati, scritti, noi ci siamo capiti,
noi ci siamo amati, noi ci siamo accordati – o no. Tra i vivi, sottoscrivere un «noi» può già
apparire impossibile, eccessivamente pesante o leggero, sempre illegittimo. Quanto piú,
allora, se ciò avviene da parte di un sopravvissuto che parla dell’amico? A meno che una
certa esperienza del «sopravvivere» possa darci, al di là della vita e della morte, ciò che
essa è la sola a darci, a dare al «noi», sí, la conoscenza della sua destinazione, del suo
senso e della sua origine. Il suo pensiero e forse il pensiero stesso 9.

Comunque sia, l’amicizia postula, anche allo sguardo piú disilluso e


materialista, uno «spreco» che fa urlare o che semplicemente rende poco
credibile la «scomparsa». L’amicizia va oltre l’estemporaneità della
scomparsa, si situa, perché lo crea, in uno spazio e un tempo diversi.
L’amicizia vive di presenze e di compresenze. Cosa importa che Čechov sia
morto? Per l’effetto che egli ha su di me la morte conta molto poco. E questo
vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa
dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo
condiviso.
Il nostro legame con chi ci ha preceduto è una garanzia del lavoro vitale
che compiamo nel nostro presente, ma è anche una riprova dell’imperdibilità
di ogni presente. Il presente scalfisce il muro del tempo, vi imprime dei segni
che si trasmettono a chi viene successivamente. L’amicizia ridefinisce
completamente il tempo, gli dà una spinta in avanti che lo sottrae alle sue
discontinuità e ai suoi tradimenti.
La pretesa di immortalità di ogni presente non è una pretesa teologica,
una «fede», ma scaturisce proprio dalla natura della nostra presenza al mondo
e dalla natura del legame che ci unisce ad altre presenze.
Il ruolo preponderante della ritualità funebre in gran parte delle culture
consiste proprio nel prendere sul serio la storia che ci unisce ai vissuti. Da
questo punto di vista la nostra società è la meno «storica» che sia mai esistita,
perché pretende di non occuparsi dei vissuti trasformandoli in defunti e
quindi annullando proprio la radice del legame storico che ci installa al
mondo.
Per moltissime culture il problema è come «fare i conti con i morti»,
perché non si può vivere il presente se non si sono regolati i conti con le
generazioni passate. Bisogna difendersi dai morti, come ci si difende da
potenziali nemici, bisogna ingraziarseli, tenerli buoni, allontanarli, ma anche
il disporli nella dimensione mitica è un modo di misurarsi con essi e di
rammentare che tutti noi saremo soggetti a questa trasformazione. Il
problema per buona parte delle culture «indigene» non è la paura della morte,
ma la paura del disordine tra generazioni. La storia va messa a posto, si
potrebbe dire, strano per società che abbiamo sempre considerato a-storiche.
La mitologizzazione della vita passata è la garanzia dell’eternità del presente.
Il mito è l’ombra che il presente getta sulle generazioni future. Riuscire a
concepire la nostra vita individuale oggi come comunque parte di una
mitologia efficace è il problema maggiore dei nostri tempi. L’aveva capito
Michel Leiris, siamo oggi inadeguati nel lanciarci nell’immortalità, ce ne
manca il coraggio, eppure al di là del fatto che lo vogliamo o meno c’è
qualcosa in noi che ne pretende una qualche forma e questo qualcosa è una
volta di piú l’amicizia.
La comunione dei santi postula che l’effetto tra i viventi e i vissuti non sia
solo in una direzione. D’altro canto chi «opera», chi fa qualcosa che sa andrà
oltre il suo tempo di vita già riceve un feedback dal futuro. Bisogna dare
ragione a Frank Kermode 10 quando dice che la letteratura è sempre
escatologica. In ogni opera letteraria è compresa la coda che va molto oltre il
tempo dell’autore. Alcune opere letterarie preparano, messianicamente, il
movimento della storia, la sua «redenzione», nella ricezione che i posteri
hanno dell’opera.
1. CICERONE , Laelius de amicitia cit., pp. 85-87.
2. R. Bradbury in J . L . GARCI , Ray Bradbury, humanista del futuro, Helios, Madrid 1971, p. 8.
3. N . GORDIMER , Beethoven era per un sedicesimo nero [1997], trad. di G. Gatti, Feltrinelli,
Milano 1998.
4. C . BYNUM , The Resurrection of the Body in Western Christianity, 200-1336, Columbia
University Press, New York 1995.
5. D . HELLER ROAZEN, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (2005), trad. di A. Cavazzini,
Quodlibet, Roma 2007.
6. W . BENJAMIN , Sul concetto di storia, in ID ., Opere complete, vol. VII, Scritti 1938-1940, a
cura di R. Tiedemann, ed. italiana a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi,
Torino 2006, pp. 483-84.
7. ID ., Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 907.
8. Ibid., p. 516.
9. DERRIDA , Ogni volta unica, la fine del mondo cit., p. 232.
10. F . KERMODE , Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo [1967], Sansoni, Firenze
2004.
Amicizia con Dio

Se uno degli amici è separato da una grande distanza, come Dio rispetto all’uomo, non
c’è piú amicizia possibile. Di qui nasce la questione difficile, se in fin dei conti gli amici
desiderano veramente per i loro amici i piú grandi beni, come per esempio di essere dèi,
perché allora non saranno piú degli amici per loro, né per conseguenza dei beni, giacché
gli amici sono dei beni.
ARISTOTELE 1.

Magari l’altro lato esiste


ed è anche lo sguardo
e tutto questo è l’altro
e questi quello
e siamo una forma che cambia con la luce
fino a essere solo luce, solo ombra.
BLANCA VARELA 2.

Nel Vangelo di Giovanni (15, 15), Gesú dice ai suoi discepoli, in una
circostanza che suona come un addio:

Non vi chiamo piú servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho
chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi 3.

Nell’originale greco amico è philos, lo stesso termine che Platone usa nei
dialoghi socratici e che Aristotele usa nell’Etica nicomachea. Giovanni lo usa
un’altra volta, quando si parla di Lazzaro, di cui Gesú, che era suo amico,
prima di resuscitarlo, piange la morte 4. Sappiamo da Émile Benveniste che
philos significa originariamente, ad esempio nell’Iliade, «caro», ma anche
«mio», «mia», indica un possessivo, una vicinanza scelta 5. Quando Giovanni
scrive, probabilmente sessant’anni dopo la morte di Cristo (ma il primo
manoscritto rinvenuto è di circa centoventi anni dopo), il greco che è la
lingua piú diffusa nell’impero romano è distante dal greco dell’Atene del V
secolo a.C., anche se risente di tutta l’influenza culturale di quel mondo. Non
è un caso che il Vangelo di Giovanni cominci con un discorso sul logos, un
concetto profondamente greco, che verrà tradotto in latino come «verbo».
Il discorso di Gesú sembra quasi una risposta ad Aristotele, all’idea
presente nell’Etica nicomachea che non si possa essere amici con Dio, primo
perché se ne è separati dalla distanza e secondo perché Dio non può essere
amico degli uomini in quanto non ha bisogni, di essi non ha bisogno.
L’amicizia nasce da un bisogno. La cosa interessante nell’affermazione di
Gesú ai suoi discepoli è che questi sceglie una categoria antropologica
umana, il modello umano dell’amicizia, si potrebbe dire un «fatto della vita»,
per indicare il tipo di rapporto che Dio intrattiene con l’umanità. Diciamo che
è un rovesciare la teologia, un antropomorfizzarla. Proprio perché nelle
parole di Gesú sembra che Dio abbia bisogno dell’amicizia degli uomini.
La cosa è ancora piú singolare se si pensa al peso che la fede e la
religione cristiana hanno avuto in Occidente. Nonostante l’importanza data al
matrimonio religioso e ad altre pratiche – battesimo, cresima – il messaggio
cristiano si basa su una singolarità che costituisce proprio la base del legame
d’amicizia.
E sempre Gesú nel Vangelo di Giovanni (15, 12-13):

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore piú grande dell’amore di chi depone la propria vita per i suoi
amici 6.

Qui l’amicizia non viene contrapposta al concetto di filiazione, Dio è


anche padre e quindi tutta l’umanità è affratellata da questa paternità. Questa
relazione però viene ridefinita come qualcosa che ha la natura dell’amicizia e
non una natura «gerarchica», fosse anche un rapporto da padre a figli. Cristo
è il capo di una Chiesa in cui i suoi apostoli sono amici tra di loro e con lui.
Questa relazione è la stessa che Cristo ha nei confronti dell’umanità tutta,
un’umanità di potenziali amici. Per capire l’enormità della dichiarazione basti
pensare che questa relazione non costituisce obblighi. È revocabile e
fluttuante come lo è l’amicizia. Gesú chiede che i suoi amici facciano ciò che
lui comanda – ma ciò che lui comanda è che siano amici con lui e tra di loro
– il suo comandamento è un doppio vincolo, si potrebbe dire – comanda che
siano liberi di essere amici – che essi siano un altro lui, uguali a lui e liberi di
revocare la simpatia, la vicinanza, liberi di far fluttuare questa stessa
vicinanza. Non può essere pretesa, non può essere effetto di una costrizione o
di un interesse esterno (ci guadagno a essere amico o amica, foss’anche il
Paradiso, Gesú invita a essergli amico senza interessi previsti). Qui si tratta
della stessa natura inafferrabile di un legame che non ne presuppone altri e
non è definito da altri. Qui, in questa indefinibilità, c’è il suo venire prima di
ogni altro legame.
C’è anche però l’idea che l’amicizia sia la strada per la conoscenza, qui
essere amici con Dio significa conoscere. (Il richiamo aristotelico all’idea che
l’amicizia sia la strada per la sapienza è d’obbligo, anche se l’aporia di una
divinità che si mette «in mezzo» all’amicizia umana cambia il gioco
generale).
Allo stesso tempo questo discorso ha una premessa: quel «deporre la vita
per i propri amici» che indica il valore fortissimo di questa amicizia, che in
qualche modo contrasta con l’idea che essa possa «fluttuare» ed «essere
revocata». L’amicizia come qualcosa che può portare a dare la vita per gli
amici non è però un discorso di rottura con quanto già il mondo antico
diceva.
Platone nel Convivio (179b) afferma:

Solo coloro che amano sono disposti a morire per gli altri e non gli uomini soltanto,
ma anche le donne 7.

E Aristotele nell’Etica nicomachea (IX, 8, 1169a):

Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in favore dei suoi amici e
della patria, anche se dovesse morire per loro.

Nella stessa tradizione ebraica precristiana il motivo della morte per gli
amici era già presente.
L’espressione «deporre la propria vita» è la traduzione del greco psuchen
tizenai, che significa sia rischiare la propria vita che darla 8.
Gesú assume tutto l’aspetto antropologico dell’amicizia come gli era
arrivato nel suo tempo e come aveva permeato il mondo antico di cui lui
faceva parte. Lo assume e lo «spinge» alle sue conseguenze e in piú ne
allarga il significato politico. Di questa amicizia che costituisce il farsi del
mondo umano fa parte anche la divinità. Non c’è altro legame se non questo
che precede ogni altra alleanza e obbligo.
In un passo del Vangelo di Luca c’è un’altra affermazione:

Fatevi amici con il denaro dell’iniquità, perché quando questo verrà a mancare essi vi
accolgano nelle dimore eterne (16, 9).

Passo particolarmente ambiguo e che ha dato adito a molte interpretazioni


contraddittorie, che però si richiama direttamente al primato dell’amicizia su
ogni altro rapporto, sia anche quello di giustizia economica (la frase arriva
alla conclusione di una parabola dove si parla di un amministratore corrotto).
È probabile che la portata di questo «capitombolo» della divinità
nell’antropologia umana sia talmente difficile da comprendere che non sono
bastati due millenni. C’è in esso qualcosa di «inudibile», un’aporia – quel
comando di essere liberi amici – che ci lascia ancor oggi in balia di noi stessi
e di tutte le nostre possibilità di trasformazione (Gesú continua il suo discorso
nel Vangelo di Giovanni dicendo che è lui che ci ha scelti, non noi che
abbiamo scelto lui, come per voler alleggerire il peso di un eccesso che
improvvisamente cade su di noi).
L’Occidente è figlio di questo messaggio. Dove uno dei fenomeni
apparentemente piú banali e modesti della vita, l’avere amici, viene assurto a
base del vincolo su cui si basa la convivenza tra umani, ma anche tra umani e
divinità. Mi sembra che non si possa evitare di stupirsi di quanto la
dimensione antropologica dell’amicizia ci porti fin qui. C’è una questione
cosmologica, teologica se si vuole, che non riguarda però solo il mondo
cristiano (che peraltro si interroga poco sull’aporia su cui è fondato).
Nella gradazione umana dell’amicizia e nel suo primato su ogni altra
relazione qui si gioca qualcosa che troviamo anche altrove, in manifestazioni
in cui la divinità viene posta come «parte» della storia umana di amicizia.
Ad esempio, nella mistica islamica, e soprattutto nel sufismo di
derivazione mevleviana, quello che si richiama al messaggio di Jalāl ad-Dīn
Rūmī (1207-79).
Dio è, con una parola persiana (che era la lingua di Rūmī), l’amico per
eccellenza, «dost». E la biografia di Rūmī rivela la centralità della sua
amicizia con un altro mistico e maestro, Shams ad-dīn Tabrīzī. Questi,
secondo la tradizione, era un mistico nomade e influí in maniera
profondissima su Rūmī, ispirandogli un’idea del rapporto con Dio come
fusione mistica. I discepoli di Rūmī erano gelosi di questo fortissimo
rapporto d’amicizia con Shams ad-dīn Tabrīzī e lo allontanarono. Rūmī lo
andò a cercare, si ritrovarono, ma a un certo punto l’amico maestro sparí,
forse eliminato dai suoi discepoli. Tutta l’opera poetica e la danza dei
dervisci inaugurata da Rūmī si ispira al dolore per la perdita dell’amico e al
desiderio di fondersi con il Dio amico.

Al Suo cospetto, due «io» non trovano posto. Tu dici «io» e Lui dice «Io»; allora, o
muori tu dinanzi a Lui, oppure è Lui che morirà di fronte a te, perché ogni dualità
scompaia. Tuttavia, che Lui muoia non è possibile in alcun modo, né sul piano oggettivo
né in quello teorico. Poiché Egli è il Vivente, che non muore mai. La Sua grazia è di tale
pienezza che, se Gli fosse possibile, morirebbe per te perché venga abolita la dualità. Ora,
essendo la Sua morte impossibile, muori tu, affinché Egli in te si disveli e sia annientata la
dualità 9.

Uno dei maggiori esperti di mistica islamica e soprattutto sufi, Fabio


Alberto Ambrosio, riconduce la natura di questa amicizia mistica a qualcosa
che si collega alla differenza nella lingua di Rūmī e nell’arabo tra ‘ishq, che è
l’amore inteso come passione, e mahabba, che è l’amore come amicizia nel
senso della philia 10. Il primo tipo di amore ha connotazioni quasi o
esplicitamente erotiche, è una passione che brucia e che va verso l’oggetto in
cui vuole annullarsi; non è un sentimento legato al bisogno, secondo la
definizione aristotelica di amicizia, ma piuttosto un trasporto a cui non si può
resistere e che si esprime, ad esempio, nella danza dei dervisci, nell’estasi dei
rituali notturni in cui si ripete infinite volte il nome di Allah fin quando esso
non diventa un singulto collettivo che suona solo come «uh» (che significa in
turco «Lui»). Quest’amicizia con Dio spesso si confonde nell’ambiguità
dell’assenza di maschile e femminile nella lingua persiana e nell’arabo con
l’eros per l’amato o per l’amata. Cosí recita l’invocazione di Rābi’a al-
Adawiyya, mistica e poetessa sufi nata a Bassora (oggi Iraq) tra il 714 e il
718 d.C.

Mio Dio, le stelle splendono, gli occhi dormono, i re chiudono le loro porte e ogni
amato resta solo con il proprio amato: cosí io sto davanti a te 11.

Mi sembra che qui, come in altre mistiche, che siano di matrice induista o
buddista, quello che è importante è l’invocazione, cioè quello che cambia
completamente la relazione è quel potere rivolgersi alla divinità direttamente,
che ci sia o meno nella lingua il «tu» non importa (in arabo e in persiano non
si distingue il lei e il voi, dal tu). È l’idea del poter fare entrare la divinità nel
gioco quotidiano delle relazioni «scelte» che è la grande differenza. Questo
pensare che a ogni «presenza» corrisponda un principio personale (lo
vedremo nel capitolo successivo) e che se c’è una presenza «fuori dal
mondo» essa non può esimersi di essere allo stesso tempo all’interno delle
relazioni personali che lo costituiscono.
In una notte del gennaio 2016, nella casa della profetessa discendente da
Rūmī, sul Bosforo, abbiamo filmato dervisci che ripetevano per ore
l’invocazione «Ašhadu an la ilàha illa Allàh». A un certo punto, nel loro lento
concitato tenersi per le spalle e danzare, le voci sono diventate semplicemente
un singulto, un solo suono: «Uh, Uh», Lui, Lui, fuse nella notte indistinta e
nel fruscio della grande acqua 12.
1. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., VIII, 9, 1159a, 5-11.
2. B . VARELA , Poesía reunida 1949-2000, Libreia Sur, Lima 2016.
3. Il Vangelo secondo Giovanni, a cura di J. Zumstein, vol. II, Claudiana, Torino 2017, p. 710.
4. Ibid., pp. 689-778.
5. BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società
cit., p. 257.
6. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710.
7. PLATONE , Opere complete, Laterza, Bari 1976, vol. III, p. 161.
8. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710, nota 94.
9. J . AD -DĪN RŪMĪ, L’essenza del reale. Fihi-mâ-Fihi, Psiche, Milano 1995.
10. A . F . AMBROSIO , Danza coi Sufi. Incontro con l’Islam mistico, San Paolo, Milano 2013.
11. In C . GREPPI , Rābi’a, la mistica, Jaca Book, Milano 2003.
12. S . SAVONA e F . LA CECLA, Prayground, installazione alla mostra Pregare, un’attività
umana, Reggia di Venaria Reale, 2016.
L’amico del giaguaro

Gli uomini e le donne Tapirapé che cercano di diventare sciamani si imbarcano in una
strada onirica il cui obiettivo è di stabilire relazioni amichevoli con piú spiriti anchunga
possibili. Questi possono essere acquatici o terrestri, spiriti animali, del cielo, spiriti della
foresta o spiriti dei morti. Tutti questi spiriti sono potenzialmente pericolosi. Mentre
visitano i mondi invisibili nei sogni, gli apprendisti sciamani sono invitati di tanto in tanto
a visitare le case degli spiriti che incontrano sulla strada. Questi inviti spesso sono
trappole in cui un malintenzionato anchunga cerca di sodomizzare o di mangiare i novizi.
CHARLES WAGLEY 1.

Nel 1947, João Guimarães Rosa, l’autore brasiliano di Grande Sertão, si


reca nel Pantanal, la regione amazzonica tra Brasile, Bolivia e Paraguay. Qui
impara il tupi-guaraní e ascolta molte storie raccontate dai nativi. Poco dopo
scrive la prima versione di Mi tio el jaguareté (Mio zio giaguaro).
Un bianco è smarrito nella selva ed è notte. Dopo molto vagare vede una
luce e una casa. Bussa e gli apre un mestizo che lo accoglie. Offrendogli da
mangiare e da bere e bevendo egli stesso aguardiente, narra allo straniero dei
pericoli in cui questi avrebbe potuto incorrere nella foresta. Pericoli che non
sono ancora lontani. Macuncôzo, l’uomo della casa, parla in una lingua dove
si mescolano espressioni in tupi, onomatopee, ma anche ruggiti di animali.
Un idioma di frontiera che viene dal portoghese e dall’indio, dall’umano e dal
mondo animale. Il suo obiettivo è di calmare il bianco, di farlo addormentare
– forse per mettere in pratica intenzioni oscure. In un primo tempo si mostra
ospitale, offre da mangiare allo straniero, mentre gli parla dei movimenti dei
felini intorno alla capanna in cui si trovano. Poi mostra le pelli che ha
cacciato. Era stato chiamato per ripulire la regione dai giaguari ma a furia di
frequentarli come cacciatore ha cominciato a capirli. L’aguardiente gli
scioglie sempre di piú la lingua. Comincia a contraddirsi, e a essere brusco,
proibisce all’ospite di ripetere le sue parole, di commentarle. Dice che il
giaguaro è anche suo parente: «Onça é meu tio, o jaguaretê, tôdas...» (la
pantera è mio zio, il giaguaro, tutte...).
E poi: «Mas eu sou onça. Jaguaretê tio meu, irmão de minha mãe, tutira...
Meus parentes! Meus parentes!...» (Io sono pantera, il giaguaro mio zio,
fratello di mia madre, miei parenti, miei parenti).
Nel racconto l’ex cacciatore è l’unico che parla, è il narratore assoluto.
Nelle sue parole vediamo riflessa la paura dell’altro, i movimenti dell’altro.
Allo straniero racconta che da vicino la femmina del giaguaro odora come
fiore di «palo de ajo quando piove», piú bella di qualunque donna. Che lui è
diventato geloso dei maschi giaguari. Una di queste femmine la chiama
María-María, un nome che somiglia a quello di sua madre Mar’Iara María, lui
figlio di un’india e di un bianco. È diventato parente dei giaguari, usa un
termine tupi, «remuaci», che significa parente per lato materno. Come tale e
con la complicità dei giaguari, ha aiutato a ripulire la regione dagli esseri
umani, da ergastolani che fuggivano, dal negro Bijibo, dal bandito Riopôro,
dal Gugué aggredito nella sua amaca. Dice che si ubriaca solo quando beve
molto, molto sangue. L’ospite comincia a innervosirsi, e a un certo punto
estrae un revolver. Macuncôzo continua a parlare, dice che il giaguaro pensa
solo una cosa – che tutto è bello, buono, senza che nulla lo turbi. Se però
accade si arrabbia, ruggisce, ma lo fa senza pensare, in questo istante smette
di pensare.
L’aguardiente tradisce sempre piú Macuncôzo. L’ospite ha capito che di
fronte a lui sta un amico/nemico che vorrebbe divorarlo, «senza alcun
pensiero», che nelle sue parole si sente sempre piú presente l’eco della
foresta, il ruggire, il raspare delle unghie. Alla vista del revolver puntato
Macuncôzo in un improvviso momento di lucidità lo prega:

Non scherziamo, metta il revolver da parte. Sto calmo, calmo, Ói, mi vuole accoppare,
metta via la pistola. Ah, mi fa male, freddo, via, il rancho è mio, via mi uccide, adesso
arriva la compagna, la pantera, María-María... la pantera è mia parente. Perché mi uccide?
Non ho mai ucciso il nero, raccontavo cazzate. La pantera, sia buono, non mi faccia
questo. Io Macuncôzo. Non lo faccia, nhenhenhém... Heeé!... Hé... Aar-rrâ... Aaâh... non
mi uccida sono suo parente, mezzo fratello, famiglia... Araaã... Uhm... Ui... Ui... Uh...
uh... êeêê... êê... ê... ê... 2.

Guimarães Rosa era un attentissimo ascoltatore del mondo indigeno. I


suoi racconti riflettono una conoscenza della tradizione orale, la consuetudine
di decenni di frequentazioni nel mondo dei Minas Gerais come nel mondo
amazzonico 3. Il giaguaro è l’amico per eccellenza degli sciamani amazzonici.
Tuttora si racconta che l’uccisione di un giaguaro nella selva peruviana porta
alla morte immediata di uno sciamano. Durante il suo viaggio provocato da
sostanze allucinogene questi si trasforma nel felino, ne prende le sembianze,
e in tutta la cosmogonia india e precolombiana il giaguaro ha un ruolo
predominante. Chi è il giaguaro? È un essere umano che ha sembianze
diverse. Noi lo vediamo come felino, e lui ci vede come preda, ma in tutti gli
esseri viventi vi è un principio umano, solo che sta nascosto sotto sembianze
diverse o meglio ognuno lo vede in una prospettiva che ne nasconde l’identità
umana. È quello che recentemente ha riassunto Viveiros de Castro nelle sue
Metafisiche cannibali 4. Il «perspectivismo» significa che nelle culture indie e
soprattutto amazzoniche c’è una situazione dialogica in cui concorrono le
diverse prospettive degli esseri. Questo rende possibili le amicizie tra umani e
apparentemente non umani, come rende possibile pensare che gli umani siano
allo stesso tempo animali della foresta. Nel racconto di Guimarães Rosa c’è
l’idea che tutto questo sia anche molto pericoloso, che questa vicinanza sia
amicizia/inimicizia, divorare ed essere divorati.
Come dice Santos-Granero in un articolo chiave sull’amicizia tra umani e
non umani:

Per i popoli dell’Amazzonia il regno del sociale non include solo umani, ma anche
animali, piante, oggetti ed esseri invisibili, che per quanto non esattamente simili agli
umani, sono considerati umani in essenza. Gli sciamani amazzonici spesso hanno a che
fare dialogicamente con questi pericolosi, primordiali umani 5.

Ecco che il racconto di João Guimarães Rosa viene fuori in tutta la sua
acuta lettura del mondo indigeno. Essere giaguaro è una circostanza normale
se si vive nella foresta, e sentire come il giaguaro è una prospettiva che altera
completamente il rapporto tra mondo umano e mondo animale. È una stessa
società, una radice comune, e distinguere è difficile, anche se questa
immersione è pericolosa.

In questi casi gli apprendisti devono lottare contro gli spiriti maligni per salvarsi. Si
dice che spesso, invece di combattere gli anchunga, l’apprendista li fa diventare «amici
suoi» o possibili alleati. I compagni di questa associazione mistica si chiamano tra di loro
«tuhava» o amici, per quanto gli sciamani possono a volte rivolgersi agli spiriti amici
come «figli» (Wagley 1977). Sciamani di grande esperienza visitano i loro spiriti amici
trasformati in uccelli o in canoe oniriche. I loro spiriti compagni li invitano a mangiare
cibi e a bere pozioni. Gli sciamani che sono stati capaci di acquisire molti spiriti amici, si
dice sappiano camminare con gli spiriti (Wagley 1977). Cacciano insieme e si decorano
reciprocamente. Piú importante ancora gli sciamani Tapirepé possono convocare i loro
spiriti amici cantando durante la cura dei loro pazienti. In breve si dice degli sciamani
Tapirepé «che sono amici degli spiriti e che il loro potere si accresce in proporzione alla
capacità di fraternizzare, di vincere in combattimento i demoni della foresta. Gli sciamani
Matseninka (seipi’gari) sono ritenuti capaci di curare solo grazie alle buone relazioni di
amicizia con gli spiriti benigni conosciuti come saankarite, i puri, gli invisibili. I puri sono
i piú efficaci esseri benigni incapaci di far male, ma altrettanto pericolosi 6.

Nella Valle Sagrado, dove si concentrano i resti della cultura incaica e


dove essa è viva nel mondo quechua che la abita, ho seguito insieme a
Emanuele Fabiano, l’antropologo che ha fatto un bel documentario su di loro,
i «pablitos», chiamati in quechua ukuku. Sono una confraternita di danzatori
rituali indigeni travestiti da esseri per metà animali. Le loro maschere sono
lunghe vesti di lana a trecce bianche e rosse e un passamontagna che ne copre
completamente il volto. Sono incaricati di comunicare con gli spiriti animali e
con quelli della montagna e del ghiacciaio di Quylluriti. Parlano tra di loro in
falsetto, una lingua a metà tra mondo animale e mondo umano, e spesso
portano sulle spalle pupazzi che rappresentano lama o degli alter ego di cui si
servono per chiedere da bere (la chicha fermentata di mais) 7.
Tutto ciò potrebbe anche essere chiamato «animismo» con una parola che
agli antropologi non è cara piú per motivi accademici che reali. L’idea che ci
sia una familiarità tra gli esseri viventi, ma anche tra esseri viventi e
montagne, pietre, fiumi, e che questo comporti una «cura» delle relazioni, e
l’idea che in ogni «presenza» ci sia un principio di intenzionalità. Ad esempio
l’idea del mondo indigeno peruviano che le montagne siano «apu», presenze
potenti con cui relazionarsi con rispetto e timore e da ingraziare a proprio
beneficio.
Questa immersione degli esseri in uno stesso spazio relazionale è ancora
una volta stata raccontata come da nessun altro da João Guimarães Rosa in
molte delle sue pagine, sia in Corpo de Baile che nei racconti. Ce n’è uno in
particolar modo, intitolato Conversazione di buoi, dove i buoi che tirano un
carro su cui giace il cadavere del padre di un ragazzo che viene maltrattato
dall’uomo che ne ha preso il posto accanto alla madre diventano principio di
una semi-consapevole giustizia. João Guimarães Rosa racconta la
«prospettiva» dalla quale i buoi vedono il mondo degli umani, immersi nel
loro essere da cui emergono a tratti. Nella loro conversazione parlano dei
pericoli di diventare troppo vicini agli umani, di assumere troppa
«individualità», ma allo stesso tempo essi, che vivono immersi in uno stato
semicosciente dell’essere, non possono non provare compassione per il
ragazzo. Finiranno per travolgere il patrigno sotto le ruote del carro senza
quasi accorgersene 8.
Negli ultimi anni sono numerosi i testi di antropologia che parlano
dell’essere alberi, della partecipazione che la visione cosmogonica della
natura offre.
È interessante notare che questa lettura ha poco a che fare con un’idea
romantica di armonia o equilibrio. Farsi amici il giaguaro, il coccodrillo o il
pitone non è qualcosa di immediato. Passa per pratiche e assiduità, è l’idea
difficile di un patto che va costantemente rinnovato e curato. È la storia
descritta da Hampâté Bâ dello strano destino di Wangrin, traduttore e
mediatore tra il mondo dei bianchi e quello della foresta in Mali. Piú Wangrin
fa fortuna e piú si allontana dai suoi spiriti protettori, primo tra tutti il grande
serpente, il pitone. Wangrin diventa ricco, acquista case e auto fin quando
una notte infelice con la sua macchina veloce investe un pitone. Da quel
momento la sua fortuna ha termine, e Wangrin accetta che sia cosí, perché si
è dimenticato che aveva un’alleanza importante con l’amico rettile 9.
1. C . WAGLEY , Welcome of Tears. The Tapirapé Indians of Central Brazil, Waveland Press,
Long Grove 1977.
2. J . GUIMARÃES ROSA, Mio zio il giaguaro, trad. di R. Mulinacci, Guanda, Milano 1999.
3. A . MAURA , Las fronteras del lenguaje (Algunas consideraciones sobre el relato «Mi tio el
jaguareté», de J. G. Rosa), in J . GUIMARÃES ROSA, Un exiliado del lenguaje común, Et Caetera n.
0, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 1976.
4. E . VIVEIROS DE CASTRO, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale,
Ombre Corte, Milano 2017.
5. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
6. Ibid.
7. E . FABIANO , Il Signore di Quylluriti, https://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/sottosopra/Il-
Signore-di-Quylluriti-10774097.html
8. J . GUIMARÃES ROSA, Conversazione di buoi, in ID ., Sagarana (1946), a cura di L. Stegagno
Picchio, trad. di S. La Regina, Feltrinelli, Milano 1994.
9. A . HAMPÂTÉ BÂ, L’interprete briccone, ovvero Lo strano destino di Wangrin (1973), Lavoro,
Roma 2002.
Conclusioni

L’amico non è un altro io, ma un’alterità immanente nella stessità, un divenir altro
dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione
è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso.
L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione piú intima di sé.
GIORGIO AGAMBEN 1.

Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria
immagine ideale.
MARCO TULLIO CICERONE 2.

Il verbo che piú mi impressiona in questi pensieri di Agamben è quel


«disloca e deporta». Si tratta del sollievo, questo sollievo di non dovere
sostenere da solo la dolcezza, ma anche la ruvidezza, della presenza al
mondo. Come se l’essere al mondo comportasse una distrazione da sé,
l’evidenza che c’è qualcun altro accanto, a pochi passi, che si fa garante non
solo di ciò che sento, ma di ciò che sono – adesso, in questo assoluto
presente. Mi sembra che qui Agamben riprenda, molto piú che Aristotele,
Emmanuel Lévinas, l’idea che l’evasione 3 sia una forma salvifica dell’essere
al mondo, perché ci libera dall’essere concentrati sul nostro solo essere.
L’amicizia è «glissement» che ci traduce in altro, in altri, senza che quasi ce
ne rendiamo conto.
C’è in questo un movimento, quel dislocare, deportare, è come un
trasloco che occorre far fare alla nostra anima perché senta di non essere cosí
limitata. L’amicizia è una scommessa blasfema rispetto all’idea che in fin dei
conti siamo soli al mondo, questa constatazione che pretenderebbe di essere
realista. Invece c’è nella trama dell’essere un tale sfilacciamento, un tale
essere imbrigliati, perdere e acquisire pezzi, essere collaterali a noi stessi che
non è possibile pensare di essere gettati al mondo nella solitudine.
Agamben, riprendendo Aristotele, dice che c’è «un rango ontologico»
dell’amicizia, cioè essa definisce il nostro modo di essere al mondo, non ne è
un correlato, un «di piú». Siamo al mondo come «amici», il potenziale essere
nell’amicizia con qualcuno è il modo con cui si manifesta la nostra
individualità. Essa non ci viene «ridata» se non in un’alienazione nell’amico
o nell’amica. Quando, dopo un viaggio, dopo lunghi rimuginamenti e
dialoghi con noi stessi, ci sembra che la nostra solitudine improvvisamente
sbocchi nell’inatteso corrispondere di un amico o di un’amica, ecco che ci
rendiamo conto che la solitudine stessa era già accanto all’amica o all’amico.
Non potevamo permetterci di presumerlo, perché l’amicizia è sempre
«inattesa» o «in-attesa», e solamente il volto dell’altro, il suo tono di voce, il
suo accoglierci, il suo scherzare, il suo dire «qui sei!» ci spalanca la profonda
compagnia che avevamo travestito da solitudine. L’amicizia è la sorpresa
costante e inaspettata che nel profondo del nostro essere ce ne sono altri, ma
non in una maniera generica, ci sono proprio quegli altri di cui ci siamo
accorti e che si sono accorti di noi. In questo senso il nostro «io» non è molto
diverso dall’«io amazzonico», da quell’io che non può permettersi
l’isolamento da ciò che è vivo intorno. L’amicizia nella nostra società è il
resto di quel senso di sconfinamento che gli antropologi chiamano
«animismo», «reciprocità dell’essere». C’è una dimensione cosmologica in
ogni amicizia, uno «spargimento» dell’io nella geografia che lo circonda,
fatta di luoghi, alberi, animali, presenze e persone.
C’è nel nostro presentarci all’amicizia l’assunzione di una responsabilità,
direbbe Lévinas, siamo responsabili della presenza dell’amico e dell’amica,
non nel senso che «dobbiamo fare qualcosa per loro», ma nel senso piú
profondo che il piacere di stare al mondo è un compito che va scoperto e
svolto. Possiamo chiedere che esso venga svolto per noi e gli amici possono
chiederci di svolgerlo. La contiguità, la simpatia, il gusto del trovarsi fanno
parte non solo di un’arte di vivere, ma della responsabilità degli esseri
viventi. Il piacere dell’esserci riguarda la capacità di non farsi definire dai
«fatti della vita», ma di definirli tutti come avvolti dai fili dell’amicizia.
1. G . AGAMBEN , L’amico, Nottetempo, Milano 2007.
2. CICERONE , Laelius de amicitia cit., pp. 85-87.
3. E . LÉVINAS , Dell’evasione [1982], Elitropia, Milano 1984.
Il libro

L A VITA NELL’AMICIZIA È ADESSO, LO SENTIAMO SENZA DOVERCELO DIRE.

la pena di vivere per questo, perché c’è l’amicizia. Essa libera la


quotidianità dal suo carattere di «compito» e l’esistenza da qualunque
VALE

sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna


aspettare anni o in un’altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è
una delle piú assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha
completamente smarrito il senso che non c’è un oltre, ma che esso è già qui, che c’è
qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta
gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
L’autore

FRANCO LA CECLA insegna Antropologia visuale alla NABA di Milano. Ha


insegnato Antropologia culturale presso l’Università Vita e Salute San Raffaele di
Milano, allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna. Ha insegnato inoltre
all’Università di Berkeley, all’EHESS di Parigi e all’UPC di Barcellona. Il suo
documentario In altro mare ha vinto il San Francisco International Film Festival nel
2011. Tra i suoi libri ricordiamo Contro l’urbanistica (Einaudi 2015) e Ivan Illich e
l’arte di vivere (Elèuthera 2018). Con Stefano Savona ha curato l’installazione
Praytime e, con Lucetta Scaraffia, la mostra Pregare, un’esperienza umana, alla
Reggia di Venaria (2016).
Dello stesso autore

Contro l’urbanistica
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.

Frontespizio 3
Il libro 98
L’autore 99
Premessa 5
Introduzione 7
Di cosa è fatta l’amicizia? 11
Usi spurii, Facebook e altri imbrogli 17
L’amicizia si basa sulla sua revocabilità 23
La politica dell’amicizia 30
Inimicizia 40
Cappellino per non antropologi 46
Altre culture, altre amicizie 52
La lingua dell’amicizia 60
Oscenità 64
Uomini e donne 72
Comunione dei santi 78
Amicizia con Dio 84
L’amico del giaguaro 90
Conclusioni 96

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