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Essere amici
Essere amici
Premessa
Per noi l’amicizia è interessante proprio perché evade ogni definizione: il modo in cui
l’amicizia agisce, esprimendo costanza e fluidità in diversi mondi sociali, è eccitante e
problematico per la gente che la pratica e per chi la studia.
AMIT DESAI ed EVAN KILLICK 2.
Chi scrive è un antropologo, qualcuno che deve stare attento a non
generalizzare. L’amicizia è un fenomeno universale, di cui si trovano tracce
nei testi piú antichi che ci sono pervenuti e nelle lande piú diverse del mondo,
dalle tribú amazzoniche fino alle compagne e ai compagni di prigionia, alle
rifugiate e ai rifugiati delle guerre piú recenti, ai marginali delle nuove città di
Papua, agli amici del bar o alle collegiali giapponesi online. Però cosa si
intenda per amicizia è una variabile tutt’altro che universale, epoca per epoca,
cultura per cultura, si presenta come un legame che costituisce la società in
modi che dipendono dal peso che viene dato agli altri tipi di legame. A volte
è una forza centrifuga che si libera dalla reciprocità dei legami di parentela,
altre invece li conferma, altre ancora è un mondo parallelo. Occorre che il
lettore sappia che, dopo questa premessa, quando parlo di amicizia, mi
riferisco anzitutto (per motivi di competenza diretta) alla strana costellazione
che essa rappresenta oggi per noi occidentali, soprattutto europei. Nel corso
della narrazione entreranno in ballo altri sistemi, altre forme di amicizia e, di
volta in volta, sarà chiaro che queste non rientrano nella nostra concezione
anche se possono somigliarle. È un po’ difficile oggi esimersi dal pensare che
quando Aristotele scriveva i capitoli dell’Etica nicomachea, o quando Michel
de Montaigne trattava dell’amicizia, lo facevano pensando di esprimere
concetti universali, o forse piú semplicemente erano convinti che l’idea di
universale greco e francese dovesse espandersi a tutto il mondo. Oggi
riusciamo a essere piú cauti e, pur non disprezzando la nostra storia di
amicizia, possiamo confrontarla con altre che sono emerse per farci capire
quanto singolare sia la nostra. L’attenzione all’amicizia in antropologia è
qualcosa di recente, e tuttora nutre un vivacissimo dibattito, si alimenta di una
nuova letteratura, di monografie, lavori sul campo, osservazioni partecipanti
che raccontano la ricchezza di una peculiarità umana (ma anche qui abbiamo
dubbi, l’amicizia non è peculiare agli umani, i cavalli 3, le galline e altri
animali contraggono legami di amicizia) di cui sappiamo ancora molto poco.
Anzi sta proprio qui la qualità precipua dell’amicizia, che pur praticandola
rimane qualcosa di indefinibile e di difficilmente fissabile.
1. A . S . PUŠKIN , Poesie, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 169.
2. A . DESAI ed E . KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship. Anthropological Perspectives,
Berghahn, New York - Oxford 2010, p. 1.
3. H . SIGURJÓNSDÓTTIR , M . C . VAN DIERENDONCK, e A . G . THÓRHALLSDÓTTIR , Friendship
Among Horses-Rank and Kinship Matter, Iceland University of Education, Reykjavík 1997.
Introduzione
Ci sono sette tipi di persone che è bene non avere per amici: le persone influenti o di
alto rango; i giovani; gli uomini forti, che non sono mai malati; gli uomini cui piace il
sake; gli uomini d’armi fieri e coraggiosi; gli uomini falsi; gli uomini avidi.
Tre sono invece i tipi di persone che è raccomandabile avere come amici: le persone
che fanno regali; i medici; gli uomini saggi.
KENKŌ 1.
Cos’è l’amicizia? Cos’è per la nostra società che negli ultimi anni si è
appropriata di buona parte degli spazi dell’informalità e cos’è per altre
culture e società? Il bello dell’occuparsene sta nel fatto che è una sostanza a
cui non si guarda proprio perché fa parte delle cose che diamo per scontate e
che non rientrano in istituzioni ben definite. Quando ci si accorge di essere
diventati amici di qualcuno non si va né da un funzionario del Comune né da
un prete a fare ratificare la cosa.
Il problema dell’amicizia sta nel fatto che non si può parlare di essa se
non si sa cosa essa «ci fa». L’amicizia – questo lo aveva capito Epicuro – è
un piacere, anzi è il piacere della vita per eccellenza, ma non nel senso che
esso «conforta» e «consola», ma nel senso piú profondo e proprio di
godimento della vita, cioè si può sentire piacere nel vivere solo se si vive
l’amicizia che è un compartire lo stare al mondo. Come se essa fosse una
forma di senso, di sensibilità, senza la quale la vita non è apprezzabile e
perfino percepibile. Per questo, rispetto a Socrate il problema non è definire
l’amicizia come legame tra pari, ma intanto definirla come possibilità del
godimento, anzi come possibilità a posteriori, cioè evidenza che precede la
possibilità, esperienza di una soddisfazione che precede il domandarsi se è
possibile. L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non
sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una
costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune che è
però già tutto sotto il dominio del piacere e della sensibilità.
Anche queste affermazioni sono povere rispetto alla fenomenologia
dell’amicizia, essa sola può riempire il vuoto delle definizioni, ribaltarle e
renderle inutili e parziali.
La temporalità dell’amicizia è il qui e ora che si ripete per confermare il
qui e ora dell’ultima volta che ci siamo visti, sentiti, pensati, ma questo
tempo è quello della sospensione, non è un tempo di preparazione. La vita
nell’amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di
vivere per questo, perché c’è l’amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo
carattere di «compito» e l’esistenza da qualunque sospetto di «doversela
meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in
un’altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle
piú assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha
completamente smarrito il senso che non c’è un oltre, ma che esso è già qui,
che c’è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio
della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
L’amicizia non è una virtú (anche se una frase di Epicuro che ci è
pervenuta suona cosí, l’amicizia come virtú), essa non è prevedibile e non si
basa su un giusto scambio di valori. È un ambito che si crea per una
circostanza fortuita: può essere legata ad affinità, a simpatie, a qualche
interesse in comune, ma non si sviluppa in base a queste premesse. Rispetto a
esse è un di piú.
L’amicizia «sospende» il tempo, come già detto, ne fa «vita adesso». Al
pari di ciò che Vladimir Jankélévitch dice dell’avventura 3 lo sospende perché
lo ri-inizia. Quando ci si rivede con un amico, con un’amica, non lo si fa per
commemorare un passato ma per farlo ripartire. Spesso a distanza di tempo ci
si rivede, ed è come se si ricominciasse da dove ci si è lasciati. Il tempo, e ciò
ci stupisce ogni volta, è irrilevante rispetto a certe amicizie. Si riparte, come
se ci si fosse visti ieri l’ultima volta. Anche questo è un sospendere il tempo,
perché il tempo dell’amicizia è un tempo parallelo alla vita, non ne segue le
lancette, ha le sue: gelose, proprie, nascoste. Nel piacere dell’amicizia io non
faccio conto del tempo che è trascorso tra questa e l’ultima volta che ci siamo
visti.
Aristotele nell’Etica nicomachea insiste sull’importanza per gli amici
della contiguità e della frequentazione: ma noi sappiamo che l’amicizia
spesso non ne ha bisogno. Emmanuel Lévinas e Maurice Blanchot sono
grandissimi amici. Si sono visti una sola volta da giovani, ma questo legame
dura per tutta la vita. È sostenuto dalla differenza tra i due, da diversi modi di
vedere le cose, di vivere, e allo stesso tempo da una profonda concisione,
dalle poche parole che si scambiano al telefono, dallo scriversi e dal «sapere»
l’uno dell’altro. Quando muore la moglie di Lévinas, è Blanchot che telefona,
che dice le parole che solo un amico può dire perché una scomparsa venga
assorbita in due. Per la prima volta si chiamano per nome, Maurice,
Emmanuel, e si danno del tu 4. Sarà anche l’ultimo incontro tra i due.
L’altro tipo di sospensione riguarda il giudizio. Tra amici, negli anni ci si
arriva a conoscere con tutti i difetti e i pregi. Accade ad esempio tra ex
amanti, che dopo avere vissuto una passione intensa diventano amici e quindi
«realisti», l’altro, l’altra non sono piú pervasi dall’aura della perfezione e
dell’incanto. Diventano sempre piú quello che sono. Questo però, invece di
alterare il rapporto, lo rafforza, lo rende profondo. Perché non ci si giudica, si
accetta dell’altro la pigrizia, il nervosismo, le cattive abitudini, l’incaponirsi
nelle strade sbagliate, il non saper vivere, perfino il narcisismo. Non è questo
che conta. S’innesca un magnifico meccanismo che aiuta a guardare oltre.
È proprio nell’amicizia che si godono i vantaggi del malinteso 5, questo
rimedio che ci insegna che non è detto che ci si debba capire per andare
avanti. Essa non si basa sul capirsi, ma su un apparente andare d’accordo e a
volte nemmeno su questo, ma sulla fiducia che non si potrà se non andare
d’accordo. È la simpatia per l’altro che ci fa saltare i preamboli. Il malinteso è
sempre dietro l’angolo. I migliori sanno come usarlo, sanno come fare finta
di niente quando si scopre che l’altro non ha capito, che è di tutt’altra
opinione, anzi ha detto qualcosa che poteva pure ferirci. Succede che si faccia
un viaggio, e che durante il tragitto l’amica o l’amico mostri una parte di sé
che non avevate previsto e che va all’opposto dei motivi che vi hanno attirato
verso quella persona. La bravura è «fare finta di niente», capire che c’è una
zona dell’altro che occorre non esplorare. Il malinteso funziona come una
bugia a fin di bene, sta a voi decidere se vale la pena troncare una relazione o
chiudere un occhio e appianare il possibile ostacolo. Ci sono amici che hanno
imparato a fare questo gioco da ciascuna parte. È una delle astuzie della
contiguità. Nelle geografie ristrette, nei luoghi in cui ci si incontra ogni sera,
nei bar che illuminano le nostre solitudini compartite questo gioco viene
generosamente giocato. Agli amici basta dell’amico un simulacro, la
confusione della persona con il personaggio. Non è cattiveria, è prudenza, ci
sarà tempo per approfondire, se è questo che vogliamo. Ma tra la profondità e
la leggerezza nell’amicizia preferiamo la leggerezza.
Il carattere «aereo» dell’amicizia le è intrinseco, proprio perché essa
comincia con una «volatilità» che è propria ai rapporti che non sono definiti
se non da se stessi, che non hanno obblighi estrinseci. Volatilità significa
anche che c’è la possibilità che duri pochissimo, poco, molto, moltissimo.
L’amicizia galleggia, fa il surf sulle occasioni della vita, ne sfrutta la
dimensione mobile, lascia e riprende, torna a lasciare. È un «tourbillon de la
vie», come cantava Jeanne Moreau in Jules e Jim di Truffaut, davvero.
Il bello di questo rapporto è che non tutte le amicizie sono importanti, non
tutte ci cambiano, non tutte significano per noi la stessa cosa. Che siano
profonde o meno, durature o passeggere, esse si muovono, come già detto,
nella meravigliosa dimensione del malinteso. Il malinteso che ci aiuta a non
dover approfondire il rapporto con tutti, che ci difende dalla tentazione di
diventare troppo intimi o dall’altrui invadenza. Quello che ci permette di
frequentare gente con cui spartiamo solo qualcosa o con cui è bello passare
qualche tempo, che ci consente di non essere capiti fino in fondo e di non
dover capire.
L’amicizia è una topologia, anche: le amiche, gli amici diventano i luoghi
del nostro stare al mondo. Con essi possiamo trovare il nostro, di mondo,
diventano i punti di riferimento di un continente tutto nostro.
C’è un aspetto «spaziale» dell’amicizia, la sua componente geografica.
Essa ci amplia la mappa del mondo percorribile, ci rende familiari delle parti
che non conoscevamo, ci consente di sentirci a casa in territori lontani e
inesplorati. La nostra geografia segue le oscillazioni dell’amicizia, le sue
ampiezze e le sue contrazioni.
Quando avete amici tra i mari (zhi ji ), il piú remoto angolo della terra sembra
vicino 6.
Come con il tempo, cosí con lo spazio, l’amicizia ritaglia una dimensione
a parte, rifà la storia e la geografia, il mondo diventa il nostro mondo, ubi
amici, ibi patria 7, quello in cui ai luoghi si sostituiscono le persone, alle città
il volto delle persone che ci rendono la vastità del globo qualcosa di
conoscibile, di percorribile.
Ci sono amici con cui si condivide una «passione per il mondo», come la
definiva il grande fotografo Luigi Ghirri. È una forma di amicizia con gli
occhi rivolti all’esterno, con la voglia di conoscere, con il «desiderio fisico»
del mondo, di vederlo, esplorarlo, conoscerlo, averci a che fare. Sono gli
amici per cui si parte e a cui si racconta. Sono coloro che ci fanno capire che
l’amicizia è un’osmosi che si trasmette dalle persone ai luoghi. È una cosa
rara, preziosa, quasi un segreto che ci si dice tra pochi, ma che rinnova il
senso della complessità e ricchezza, che lo fa diventare vita oltre che mondo.
Lo sanno bene gli antropologi che senza «amici», che loro chiamano
ingiustamente «informatori», non andrebbero da nessuna parte. È la storia, ad
esempio, di Franz Boas e di George Hunt, il suo informatore tra gli indiani
dell’isola di Vancouver. È figlio di una Tlingit e di un bianco. Sarà costui,
dall’inizio del Novecento in poi, il vero tramite tra l’antropologo e le culture
della British Columbia e soprattutto i Kwaiutl. Senza il suo appoggio sarebbe
impossibile a Boas non solo avere traduzioni delle lingue locali, ma
convincere le tribú a farsi filmare, a offrire le proprie maschere e i propri
totem, e addirittura a «mettersi in scena» per delle vere e proprie «fiction» in
cui gli indiani recitano se stessi 8. È un rapporto complesso, che diventerà
sempre piú un’amicizia profonda, che segnerà il destino di entrambi.
Sono amicizie difficili queste, piene di incomprensioni, spesso complicate
da difficoltà linguistiche, da aspettative da parte di entrambi, come se si
trattasse di uno scambio che ci si aspetta equo, ma che non lo può essere mai
davvero. C’è la storia dell’informatore di Clifford Geertz che gli chiede in
prestito la macchina da scrivere e che quando gli viene richiesto di restituirla
si offende perché per lui quella macchina da scrivere è il segno di una
«parità» con l’antropologo 9. Allo stesso tempo sono esempi di un salto
coraggioso tra mondi diversi, di un andare oltre le incredibili differenze e
diffidenze e nei casi piú fortunati cementano amicizie «sul campo» che
spesso sono uno dei motivi per cui gli antropologi vi ritornano.
Ho viaggiato recentemente con Michael Taussig per le comunità nere del
Pacifico colombiano presso le quali negli ultimi quarant’anni ha svolto il suo
«fieldwork» da antropologo, e mi sono reso conto che adesso, e da parecchi
anni, per Taussig tornare non è piú una maniera di continuare il campo, ma di
rivedere le persone che sono diventate i luoghi, quel tessuto di amici e
amiche per cui le storie, lo sfruttamento e le violenze a cui esse sono state
sottoposte e i pericoli che hanno corso e corrono ancora nella guerra tra
narcos, paramilitari, guerriglieri si sono confusi nella stessa storia personale
dell’antropologo 10.
1. I . BERGMAN , Lanterna Magica [1988], trad. di F. Ferrari, Garzanti, Milano 2013.
2. S . LEYS (a cura di), I detti di Confucio, ed. it. a cura di C. Laurenti, Adelphi, Milano 2006, p.
37.
3. V . JANKÉLÉVITCH , L’avventura, la noia, la serietà [1963], Einaudi, Torino 2018.
4. M . LÉVINAS e S . HAMMERSCHLAG , The final meeting between Emmanuel Lévinas and
Maurice Blanchot, in «Critical Inquiry», vol. 36, n. 4 (estate 2010), pp. 649-51.
5. F . LA CECLA, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Bari 1997.
6. Verso tratto dal poema di Wang Bo, Farewell to Vice-Prefect Du [ca. 649 - ca. 676], riportato
da Ping Wang nel suo saggio The chinese concept of friendship. Confucian ethics and the literati
narratives of pre-modern China, in C . RISSEEUW e M . VAN RAALTE (a cura di), Conceptualizing
Friendship in Time and Place, Leiden, Boston 2017.
7. P . BROWN , Tesori in cielo [2016], Carocci, Roma 2018.
8. C . MARABELLO , Sulle tracce del vero. Cinema, antropologia, storie di foto, Bompiani, Milano
2011.
9. C . GEERTZ , Antropologia e filosofia, frammenti di una biografia intellettuale [2000], il
Mulino, Bologna 2001.
10. F . LA CECLA, Dando vueltas con Miguel, postfazione a M . TAUSSIG , Il mio museo della
cocaina [2004], Mileu, Milano 2019.
Usi spurii, Facebook e altri imbrogli
Non è possibile essere amico di molti secondo perfetta amicizia, come non è possibile
amare molti allo stesso tempo: infatti pare somigliare a un eccesso.
Secondo il proverbio, non si arriva a conoscersi reciprocamente prima di aver
consumato la quantità di sale di cui si dice, e quindi prima di ciò non ci si può accettare e
riconoscere reciprocamente come amici, prima cioè che ciascuno si mostri reciprocamente
all’altro come degno di amicizia e di fiducia. Invece quelli che mostrano sentimenti di
amicizia reciproca in modo affrettato vogliono essere amici, ma non lo sono, tranne nel
caso che siano anche amabili e lo sappiano; il desiderio di amicizia è rapido a nascere,
l’amicizia no.
ARISTOTELE 1.
In una delle puntate piú divertenti della serie televisiva South Park c’è un
personaggio, Stan, che si rifiuta di entrare in Facebook. I suoi amici fanno di
tutto per convincerlo, lo prendono in giro, lo minacciano. Alla fine gli creano
essi stessi il profilo.
Ecco cosa gli accade:
La prima persona che gli chiede l’amicizia è sua nonna. E ovviamente lui
capisce che aveva ragione a non volersi iscrivere, perché è la logica di
Facebook che lo costringe ad appiattire tutto su un solo piano. Aristotele
direbbe che anche i rapporti familiari sono una forma di amicizia e con lui
sarebbe d’accordo l’antropologo Marshall Sahlins 3, che si è battuto per
rileggere la parentela secondo i termini di una reciprocità che l’accomuna ad
altri tipi di legami e alleanze. Però come non dare ragione al nostro
personaggio? La nonna che gli chiede l’amicizia trasforma un rapporto ben
preciso, quello tra una generazione e un’altra, quello che transita attraverso
una contiguità che è fatta di corpi accanto, di protezione, di trasmissione di
storie, in una generica formula vuota: friendship. L’orrore di Facebook è
duplice. Da una parte ha bisogno di usare i legami che noi stabiliamo con gli
altri, di infilarcisi dentro facendoci credere che dipendono da lei, una nuova
Lilith (della tradizione mistica ebraica) che si frappone nel coito tra due
sposi, per assorbire lo sperma di lui e frustrare il desiderio di lei. Facebook ci
espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione
quotidiana della nostra socialità intima e allargata. È un gesto di puro
latrocinio, perché su questo nostro lavoro specula e ci pianta le sue
pubblicità. La gravità dell’invenzione di Zuckenberg non è il fatto che lui
venda i nostri profili al migliore offerente, ma il fatto stesso che riduce
l’amicizia a friendship. Una solitudine affollata da spettri dell’amicizia.
Il detto di Aristotele «Amici, non ci sono amici» 4 tramandato da Diogene
Laerzio e su cui Jacques Derrida ha costruito un intero anno di seminari, qui
suona perfettamente. Sbandierare il numero di amici, pensare che basti un
like per diventarlo, che basti un contatto, significa umiliare il legame che
l’amicizia costituisce nella società, ridurla a gossip e a people, mentre essa è
la chiave piú importante della democrazia. Facebook opera qualcosa di
mostruoso e di ben congegnato: appiattire la nostra sfera amicale al «privato»
del buco della serratura, ridurla a un’invidia mimetica da studenti delle
medie, eliminare dall’amicizia tutta la sua carica pubblica e quindi eversiva.
L’amicizia costituisce, nelle nostre società occidentali ma anche in molte
altre, il tessuto del sociale, quella trama dentro cui possiamo filare il nostro
percorso, quel luogo geografico e non solo di legami, alleanze, complicità,
ma anche di inimicizie, antipatie, evitazioni.
L’intelligenza di Facebook è di avere occupato un’area che si rifiutava
alla formalizzazione, avere colonizzato un ambito che è fluttuante, anti-
istituzionale, revocabile. Lo ha fatto prima che altri lo facessero,
sostituendosi ai movimenti politici (ma dando a essi e alle loro intenzioni
«monopolizzatrici» uno strumento micidiale) che avevano cercato di farlo.
Nella sua apparente gigioneria essa ha sfrondato l’amicizia di ogni «fatto
della vita», ne ha trasformato le qualità e le esigenze, lealtà, conoscenza
reciproca, fiducia, in un simulacro di vuote ombre. René Girard 5 ci aveva
prevenuto di fronte a un simile pericolo. Il nostro desiderio nei confronti del
mondo è malato di una triangolazione. Riusciamo a volere solo invidiando.
Riusciamo a comprare perché ci sembra di imitare il desiderio altrui.
Facebook è solo l’applicazione ultima di questa incapacità di intestarsi il
desiderio. Al posto di avere una vita vera con la persona che amo, do questa
persona a un amante che mi permetta di desiderarla, è la storia dell’Eterno
marito di Dostoevskij 6. Al posto di avere una vita vera con i miei amici la
consegno ai fattorini squallidi dei social. Facebook svuota la geografia reale
dell’amicizia e la sostituisce con un elenco. Bisogna rileggersi Aristotele per
capire quanto è grave tutto questo:
E Derrida aggiunge:
Nel servire il signore, la meschinità porta alla disgrazia; nei rapporti di amicizia porta
all’allontanamento.
CONFUCIO 1.
Se uno rimane uguale a se stesso, e l’altro diviene migliore e molto superiore per virtú,
il primo dovrà considerare amico il secondo, oppure ciò non è piú possibile? Ciò diviene
piú evidente nei casi in cui la differenza è grande, come tra gli amici d’infanzia, infatti se
uno rimane immaturo intellettualmente, e l’altro diviene un uomo superiore, come
potranno essere ancora amici, se a loro non piacciono le stesse cose, né si rallegrano né
addolorano per le stesse cose? Non avranno nemmeno gli stessi sentimenti di piacere o di
dolore nei rapporti reciproci e senza di questo non è possibile vivere insieme 2.
Spesso accade che gli interessi di due amici non coincidano piú o che le loro posizioni
politiche non siano piú le stesse 4.
E Aristotele osserva
[...]che le amicizie spesso soccombano quando uno dei due o entrambi si rendono
conto di non essere amici nel modo che pensavano 5.
Temo che mio fratello Snorri abbia commerciato amici e venduto l’amicizia di
Sighvatur e Sturia in cambio di quella di Kolbeinn 7.
Sono terribilmente depresso e rattristato dal fallimento di questa amicizia che mi era
essenziale. La prima reazione di ritenermi responsabile di ogni cosa predomina, e mi sento
«capitis diminutio», un uomo da poco, diminuito, di infimo valore. Un amico non è
solamente un valore aggiunto; c’è un fattore vettoriale: moltiplica il vostro valore
individuale 8.
I potenti, evidentemente, si servono di specie distinte di amici, alcuni sono loro utili e
altri piacevoli, ma quasi mai gli stessi hanno entrambi i ruoli, infatti i potenti non cercano
persone insieme piacevoli e virtuose, né utili a compiere belle azioni, ma si rivolgono alle
persone argute e spiritose, quando vanno in cerca del piacere, o si rivolgono ad altri, abili
a compiere quanto gli viene ordinato e tali qualità quasi mai si trovano riunite nella stessa
persona. Abbiamo detto, certo, che l’uomo eccellente è insieme piacevole e utile, ma
essendo tale non è amico di chi è piú potente, tranne nel caso che costui sia superiore
anche in virtú; se non, essendo lui inferiore, non si realizza un rapporto proporzionale
adeguato. E non è affatto comune che i potenti siano superiori in virtú 9.
Nella nostra società è difficile che questo tipo di «rottura» venga piú
evidenziata, come se un supposto «stare al mondo» presupponesse non dire
mai ai nostri amici arricchiti quanto sono diventati diversi da noi.
Poi c’è la possibilità del recupero. Che cosa magnifica il ritorno degli
amici, delle amiche! Il ritorno vero, non quello segnato da chi dopo anni vi
chiede l’amicizia su Facebook convinto che questo basti a riagganciare un
rapporto (un altro dei disastri di questa nefandezza). L’amico che si fa avanti
era scomparso nel rancore, nel silenzio, pensavate avesse finito per odiarvi e
invece vi viveva parallelamente, sapendo di voi come voi sapevate di lui. Un
miracolo magnifico e quello che ne ritorna: mondi, prospettive. La cosa piú
impressionante è che vi viene restituita una parte di voi che solo lei o lui
aveva e che vi accorgete non era irrilevante. Ci sono cose che capite solo
adesso di voi perché un amico di ritorno ve le ha restituite.
1. LEYS (a cura di), I detti di Confucio cit., p. 53.
2. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 36.
3. G . FLAUBERT , L’educazione sentimentale (1869), trad. di G. Raboni, Garzanti, Milano 2005.
4. M . T . CICERONE , Laelius de amicitia - Lelio, l’amicizia [44 a.C.], trad. di N. Flocchini,
Mursia, Milano 1991.
5. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 369.
6. F . LA CECLA, Lasciarsi. I rituali dell’abbandono nell’era dei social network, Elèuthera,
Milano 2014.
7. P . DURRENBERGER e G . PÀLSSON , The importance of friendship in the absence of states.
According to Iceland sagas, in DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit., p. 59.
8. B . MALINOWSKI , Giornale di un antropologo [1967], Armando, Roma 1999, p. 30.
9. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 329.
La politica dell’amicizia
Tra gli amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno ancora bisogno
dell’amicizia, e il culmine della giustizia è considerato un sentimento vicino all’amicizia 6.
Se uno affidasse al vostro silenzio una cosa che all’altro fosse utile sapere, come ve la
cavereste? L’unica e suprema amicizia esclude tutti gli altri obblighi. Il segreto che ho
giurato di non svelare a nessuno, posso, senza spergiuro, comunicarlo a chi non è un altro:
è me 7.
Gli uccelli si riuniscono in amicizia per cantare e gli uomini hanno amici per vivere 11.
Questi per Confucio erano: l’amore tra padri e figli, la correttezza tra i
governanti e i loro sudditi, il rispetto tra i fratelli maggiori e quelli minori, la
differenza tra mariti e mogli e la fiducia tra amici.
Matteo Ricci, per inserirsi in questo contesto, si serve di un ritorno al
mondo classico latino e greco, e lo fa con un duplice intento. Il primo è
utilizzare il tema dell’amicizia come ponte tra un mondo pagano e un mondo
cristiano (con Epitteto), il secondo è far capire alla società che lo accoglie che
egli nutre le stesse preoccupazioni che stanno alla base del Celeste Impero, le
regole della convivenza e del buon dominio. Afferma:
La relazione tra amici è piú intima di quella che c’è tra tra fratelli: perciò gli amici si
chiamano tra loro «fratelli» e i piú intimi tra i fratelli sono «amici» [...].
Ragion d’essere dell’amicizia sono il bisogno reciproco e il mutuo aiuto [...].
Una nazione può stare senza tesoro, ma non può stare senza amici [...] 12.
Al mondo cinese interessa quello che scrive Matteo Ricci perché è una
società estremamente attenta e preoccupata della «tenuta» della società stessa.
Per i cinesi intorno a Ricci, la questione principale è quella della politica,
intesa come coesione, buon governo, buona relazione tra i sudditi e con il
governo. L’etica confuciana è immanente, si preoccupa anzitutto del
benessere del Celeste Impero, conscia che l’equilibrio su cui esso si basa è
costantemente in pericolo. La cosa interessante è che anch’essa fa dipendere
la buona politica dall’amicizia e non viceversa. Cioè da un legame che non
può essere stabilito, né garantito.
Negli stessi anni Montaigne scrive di amicizia, a partire dall’amicizia
«perfetta» tra lui e lo scomparso La Boétie.
Quell’amicizia che abbiamo nutrito tra di noi, finché Dio ha voluto, cosí completa e
perfetta che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile e, fra i nostri contemporanei,
non se ne trova traccia alcuna. Per costruirne di simili è necessario il concorso di tante
cose che è già molto se la fortuna ci arriva una volta ogni tre secoli. Non c’è nulla a cui
sembra che la natura ci abbia indirizzato come alla società. E Aristotele dice che i buoni
legislatori hanno avuto piú cura dell’amicizia che della giustizia 13.
Perché ci sia un dono vero, non deve sussistere reciprocità, ritorno, scambio,
controdono, debito. Se l’altro mi dà indietro o mi deve qualcosa, o mi deve restituire
quello che le o gli ho dato, non si tratta di un dono [...].
Se vuoi essere giusto non c’è spazio per l’amicizia: tutto diventa dare e avere, o dare e
restituire, il che è disgustoso 14.
Come ogni antropologo solitario sul campo cercavo amici, e la mia concezione
personale di amicizia era chiara (a me). Era basata su un concetto di amicizia come un
legame affettuoso, mutuo, intimo e leale tra due o piú persone che non dipenda dal fare
parte di un gruppo di solidarietà tra nativi, come una famiglia, una tribú, o un’altra
affiliazione del genere. Per me l’amicizia era un’acquisizione, non qualcosa di già dato: un
legame che implica generosità, intimità e fiducia reciproca. Anche se, come dice il
proverbio, «i regali fanno amici», ma una reciprocità obbligatoria per me non faceva parte
del concetto di amicizia. Un amico è un alter ego di qualche sorta, una versione
esteriorizzata di noi stessi, qualcuno da cui ci si aspetta una prossimità e una franchezza
che abbiamo solo con noi stessi (o che immaginavamo di avere fino a Freud). Quando
diciamo «amicizia formale o rituale» passiamo da connotazioni quali spontaneità, gratuità
e libera scelta all’opposto, a un legame istituzionalizzato e obbligatorio. Relazioni di
questo tipo sono molto comuni nell’Amazzonia indigena 3.
Carlos si occupa sempre piú di registrare e di ripetere i canti rituali del
villaggio ed è invitato a partecipare agli stessi cantando e ballando. Viene
piazzato il piú delle volte accanto al giovane Japokotoa, considerato uno
scavezzacollo dalla tribú per avere rubato una giovane moglie a uno dei capi
e averla messa incinta. Questi è tenuto dal villaggio in una posizione di
«prova». La prossimità rituale con Japokotoa fa sí che Carlos diventi «pajè»,
suo amico rituale. Nei mesi che seguono, ogni volta che si incontrano,
Japokotoa lo guarda con uno sguardo minaccioso e allo stesso tempo un
sorriso e gli ripete: «Prima o poi ti ucciderò».
Carlos comincia a capire, ora che è piú addentro al significato del rito che
egli stesso balla e canta come straniero, che lo stesso rito si basa sulla messa
in scena dei sogni degli uomini parakanã: questi, imbevuti di spirito guerriero
sognano i nemici e sognano di poterli sottomettere in una relazione
cacciatore/preda che costituisce un legame di estrema prossimità. Nelle
tensioni con le tribú vicine, spesso, per attenuare l’aggressività ed evitare il
conflitto, si può abbracciare il nemico per suggerirgli una prossimità. Che
può però diventare pericolosa. Il nemico «amicalizzato» è molto piú esposto
alla possibilità di essere ucciso, ma anche di uccidere. È questa doppia figura
dell’amicizia che si basa su un concetto che a noi può sfuggire, ma che è
determinante per molti gruppi amazzonici.
L’amico formale è sospeso tra l’essere vicino e allo stesso tempo altro, e
quindi nel contempo straniero e ospite, amico e nemico. Si avvicina all’idea
di xenos o di hospes/hostes del mondo greco latino, secondo la ricostruzione
di Émile Benveniste 5 per cui ospitalità e ostilità hanno una radice comune –
lo straniero va accolto, ma rimane potenziale nemico.
Derrida ha inventato una parola, «ostiptalità», per parlare dell’ambiguità
dell’ospitalità stessa.
Fernando Santos-Granero sostiene che in Amazzonia esistono vari gradi
di amicizia con «gli altri» che non sempre sono strettamente formalizzati, ad
esempio tra gli indios della Guiana sono amici i partner commerciali della
costa caraibica, fra gli Jivaro i potenziali alleati in una guerra intertribale, e in
genere l’amicizia è una forma di allargamento geografico «utilitario» della
propria sfera di rapporti 6.
È quanto conferma un altro antropologo, Thomas Kiefer, che ha lavorato
nelle Filippine tra i Tausug di Jolo, una tribú islamizzata nell’arcipelago di
Sulu. Qui esiste una forma di amicizia istituzionalizzata che è tutta in
funzione dell’aggressività nei confronti delle tribú vicine 7.
Come ricorda Derrida, si può anche essere uniti in amicizia dal fatto di
avere gli stessi nemici.
Gli uomini Jivaro stabiliscono rapporti commerciali tra appartenenti alle tribú che
parlano l’Jivaro, cioè le stesse con cui in passato hanno avuto scontri per prenderne come
trofeo le teste. Si fanno visita e si scambiano doni per potere confermare questo rapporto
di amicizia formale 8.
[...] in Colombia, il Mama, il sacerdote, dichiara che il perfetto Koghi non ha amici,
perché l’amicizia non esiste tra i Koghi. Ci sono uomini della sua famiglia e uomini di
altre famiglie, gente dello stesso Tuxè, villaggio e gente di altri Tuxè. Lo stesso Mama
chiede agli uomini Koghi di non diventare amici tra di loro perché questo può condurre
all’adulterio. Se due uomini sono insieme frequentemente, si innamoreranno della moglie
dell’altro e questo porterà a un conflitto 9.
Come si vede, in buona parte di questi casi si tratta di amicizia tra uomini,
anche se Carlos Fausto racconta che in periodi di crisi le donne parakanã
possono partecipare alla caccia agli amici nemici. Santos-Granero aggiunge:
Alcuni autori sostengono che l’amicizia ha poche possibilità di fiorire in società dove
la parentela (kinship) rimane forte (Bell e Coleman 1999). Seguendo Montaigne questi
autori pensano che l’amicizia e la parentela costituiscano forme diverse di interazione
sociale. Mettono in guardia, però, contro una distinzione troppo rigida tra parentela e
amicizia. In molte società queste si sovrappongono piuttosto che opporsi. [...] In contrasto
a questa idea molti antropologi insistono che laddove relazioni di amicizia si possono
trovare in quasi tutte le società umane, i modelli di amicizia variano in maniera
sostanziale, rendendo difficile un’unica definizione di essa 3.
In breve l’idea è che la parentela sia una forma di «reciprocità dell’essere», vale a dire
una relazione fra persone le cui esistenze sono intrinsecamente connesse, dalla quale
derivano «le persone reciproche», gli «esseri transcorporei», l’«appartenenza
intersoggettiva» e cosí via 13.
Verso la fine del suo saggio Sahlins dice qualcosa che apre uno spiraglio
inaspettato sull’intero discorso:
«‘Ahla qurba al-suhba» (l’amicizia è la migliore parentela) per esempio i fratelli, dice
Husayn, sono imposti su di te. Se potessi scegliere non vorrei mai averli intorno. Sei
obbligata nei loro confronti, anche se non ti piacciono.
MICHELLE OBEID 1.
Nel suo saggio sul dono Mauss sosteneva che sebbene in teoria nelle società arcaiche e
primitive il dono, centrale nelle relazioni di amicizia, sia generosamente offerto, la
transazione in sé si basa su una forma di obbligo basato su un interesse personale. E
aggiungeva che l’amicizia formalizzata, come quella presente nelle transazioni
commerciali, dovrebbe essere vista come una relazione sociale piuttosto che personale.
Bell e Coleman (1999) mettono in guardia rispetto alle aspettative occidentali: intimità,
confidenza, affetto non sono tratti universali dell’amicizia. Questa può essere anche
contratta tra non uguali, socialmente, etnicamente, economicamente, posto che sia
caratterizzata da uno scambio equilibrato ed escluda ogni tipo di dominazione di una parte
sull’altra. La tensione tra la scelta e l’obbligo, il personale e il sociale, l’altruismo e
l’egoismo, l’affettività e la formalità, il simile e il diverso è presente, mi viene da dire, in
tutti i tipi di amicizia 3.
Si sta tra quello che Cohen 4 chiama amicizia inalienabile, cioè una
relazione permanente – a volte formalizzata ritualmente – e quindi
strumentale e l’amicizia come legame scelto, sostenuto dall’affettività e
quindi legata alle fluttuazioni e soggetta alle rotture.
Negli ultimi anni, come ho anticipato nel «cappellino per non
antropologi» è dall’antropologia amazzonista che è arrivata gran parte delle
novità riguardanti la parentela e l’amicizia e le forme combinate di queste due
costellazioni. La diversità rispetto alla nostra concezione di amicizia qui è piú
lampante: da una parte c’è la pratica dell’amicizia come relazione utilitaria,
come «alleanza» definitiva, un patto stipulato con vantaggi reciproci.
Dall’altra l’idea di amicizia come possibile «predazione». L’amico è colui
che va «cannibalizzato» – nel passato fisicamente, per esempio tra i
Tupinambà del Brasile che divoravano il nemico/amico (assoggettato, reso
prigioniero, ma anche adottato dalla tribú) come se fosse un proprio doppio.
Questa predazione e cannibalizzazione può essere anche solo simbolica, il
nemico reso amico diventa un rafforzamento, una duplicazione dell’io.
Nel mondo amazzonico tutto ciò si complica nella continua ricerca di
possibilità di alleanze con individui non consanguinei. C’è anche una forma
di dis-imparentamento, si fanno diventare estranei coloro che pur essendo
parenti non lo sono in maniera diretta. La dialettica tra parentela e amicizia,
in piccoli gruppi come le tribú amazzoniche si basa sull’invenzione
dell’estraneità (c’è la molla dell’esogamia, cioè del matrimonio con non
consanguinei, che gioca un ruolo fondamentale).
Cosí sintetizza sempre Fernando Santos-Granero:
Nella nativa Amazzonia ci sono almeno tre sfere in cui si possono stabilire relazioni di
amicizia con gli «altri». La prima è quella degli «altri» di famiglia, o gli altri che «non
sono altri» cioè gente alla cui individualità si è già legati per consanguineità o affinità in
vari gradi di vicinanza. Esempi di amicizia in questa sfera sono ad esempio i legami
cerimoniali tra i Gè, ma anche alcuni casi di «amigri» (un termine mutuato dallo
spagnolo) tra gli Jivaro. La seconda sfera è quella dei «vicini» o gli altri «interni», coloro
che appartengono allo stesso gruppo etnico, ma sono separati da distanze geografiche. A
questi appartengono gli amici «sessuali» apîhi-pihâ tra gli Awaretè e i compadres tra i
Piro. Finalmente c’è la sfera degli altri stranieri, gli altri «al di fuori», cioè persone che
non appartengono al proprio gruppo etnico e che sono generalmente considerati nemici
ma con cui si possono stabilire alleanze di amicizia. […] Si tratta spesso di amicizie
commerciali, tra uomini non legati da parentela o affinità, potenzialmente pericolosi gli
uni agli altri, appartenenti a gruppi etnici differenti. Il fine di queste amicizie è di fornire
agli «stranieri» un’identità che sia legittima e non ostile. Ad un certo livello sono di
questo tipo le relazioni molto formali, di ayompari, di comparatico. Le visite sono
altamente ritualizzate e comportano dialoghi cerimoniali tra gli amici che commerciano.
Gli uomini compongono canzoni dove esprimono l’affetto per gli «ayompari». Queste
canzoni somigliano alle canzoni d’amore che gli Asheninka uomini e donne si dedicano
reciprocamente. In un primo momento della relazione i potenziali amici si chiamano
«mamathani» un termine che significa «fidanzati». Quando la relazione si approfondisce
si passa a «fratelli». Comunque tra gli Asheninka quando due uomini (due Asheninka
appartenenti agli stessi gruppi tribali) decidono di stabilire un’amicizia commerciale,
smettono di chiamarsi con i termini di parentela o di affinità e si chiamano semplicemente
«ayompari» 5.
1. M . OBEID , Friendship, Kinship and Sociality in Lebanese Town, in DESAI e KILLICK (a cura
di), The Ways of Friendship cit.
2. E . VIVIEROS DE CASTRO, C . DE CAUX e G . ORLANDINI HEURICH, Araweté. Un povo tupi da
Amazónia, SESC, São Paulo 2017.
3. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
4. Y . A . COHEN , Patterns of friendship, in ID . (a cura di), Social Structure and Personality. A
Casebook, Holt, Rinehart & Winston, New York 1961, pp. 351-86.
5. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit.
6. E . KILLICK , Ayompari, «Compadre, Amigo, Forms of Fellowship in Peruvian Amazonia», in
DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit..
7. P . A . FLORENSKIJ , L’amicizia [1914], trad. di P. Modesto, Castelvecchi, Roma 2012.
8. M . COURSE , Making friends, making oneself. Friendship and the Mapuche person, in DESAI e
KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit.
9. G . D . SANTOS , On same-year siblings, in rural South China, ibid.
10. A . DESAI , A matter of affection. Ritual friendship in Central India, ibid.
11. ALLOVIO , La foresta di alleanze cit.
12. J . PITT -RIVERS , The Kith and the Kin, in J . GOODY (a cura di), The Character of Kinship,
Cambridge University Press, Cambridge 1973, pp. 89-105,
13. M . GUICHARD , Where are other people friends hiding? Reflections on anthropological
studies of friendship, in M . GUICHARD , T . GRÄTZ e Y . DIALLO , Friendship, Descent and Alliance in
Africa. Anthropological Perspectives, Berghahn, New York 2014.
La lingua dell’amicizia
Caro Geerhard,
mi permetta di unire il ricordo della sua lotta e vittoria con l’introduzione del nome di
battesimo nei nostri rapporti. Nonostante tutto il piacere provato per la Sua ultima lettera a
cui rispondo ora, ho avvertito un sentimento addirittura doloroso, all’idea che ora non
potevamo stare assieme. Le è davvero impossibile? Ora – ne sono convinto – c’è fra noi
un certo rapporto di uguaglianza che ha la sua tonalità fondamentale nella riconoscenza, ci
troviamo nella piú profonda situazione della vita che prometterebbe una collaborazione
feconda e bella.
Lettera di Walter Benjamin a Geerhard Scholem, St Moritz, settembre 1917 2.
Come cambia il linguaggio quando si diventa amici? Nella lettera di
Walter Benjamin a Geerhard (Gershom) Scholem, che inaugura un rapporto
epistolare che durerà per tutta la vita di Benjamin (questi è rimasto in Europa,
Scholem è emigrato in Israele e tenterà fino all’ultimo di convincere l’amico
a raggiungerlo prima che sia troppo tardi), c’è l’incipit del linguaggio nuovo.
Benjamin chiama per nome l’altro, invocando una «riconoscenza» che li
unisce nell’uguaglianza. Qui riconoscenza sta nel doppio significato, c’è
gratitudine per essersi incontrati, ma c’è anche la coscienza di essere in una
situazione comune, ci si riconosce come appartenenti a una circostanza – età,
identità, affinità, passioni e preoccupazioni e in piú uno sguardo comune sulla
contemporaneità. «Ti riconosco» suggerisce che qualcosa ci ha portati vicino
e adesso mi accorgo «di averti già conosciuto», anche se non è vero
biograficamente. Riconosco in te un volto, un’anima, un moto comune che fa
di te una «somiglianza» con qualcosa che conoscevo già. È a partire da
questo che posso chiamarti per nome, che non è soltanto un dettaglio della
tua biografia, no, riconosco te nel tuo nome, per me d’ora in poi il tuo nome
non sarà uno dei tanti Geerhard o uno dei tanti Walter, ma mi apparterrà
come appartiene a te.
Montaigne, descrivendo i propri sentimenti per l’amico scomparso, scrive
che già senza essersi incontrati i loro nomi si cercavano:
Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il
che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo
ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo
attraverso i nostri nomi 3.
Fece piovere sulla mia razza, sui miei genitori e su di me le peggiori ingiurie,
trattandomi da piccola vipera partorita da un caimano ubriaco, da porta-sfortuna di un
leone sdentato e di una tigre senza zanne né artigli, oltre a qualche epiteto di immondizia
che non saprei ripetere […]. Lungo la strada, senza dubbio allettato dai miei cento denari,
Koniba mi disse con voce dolce, con un tono di rimprovero amicale: «Stavo scherzando
con te, come ho il diritto di fare in quanto “dimadjo”, servo di casa, e nonno, ma tu non
hai colto il mio scherzo […]. Sei un maleducato, un pessimo figlio dei Peul».
AMADOU HAMPATÈ BA 1.
Ci si chiede se l’amicizia possa esistere tra persone di sesso diverso. È una cosa rara e
difficile, ma questa amicizia è piú affascinante. [...] Talvolta simili unioni cominciano con
l’amore e finiscono per trasformarsi in amicizia.
MADAME DE LAMBERT 1.
E aggiungeva:
[L’amicizia] piú dolce e delicata è quella che si stabilisce tra un vero honnête homme
e una donna dotata di una bella intelligenza, piacevole e solida e di un nobile cuore, a
condizione però che entrambi si astengano dall’amore 10.
Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria
immagine ideale. Perciò gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel
che è piú difficile a dirsi, i morti vivono, cosí tanta stima, ricordi, rimpianti ispirano i loro
amici.
MARCO TULLIO CICERONE 1.
So, per esempio, che il fantasma di Goya mi guarda da molti luoghi di Spagna. Come
mi piacerebbe fare un’intervista con il suo incredibile spirito, in questa terra dove esso
ancora spira.
RAY BRADBURY 2.
Io sarò con voi perché quando chiuderò gli occhi il mondo non sparirà.
Il direttore del Teatro di Medellin
Forse la dimostrazione piú palese del carattere resistente dell’amicizia è il
suo esistere in chiave intergenerazionale, anzi per meglio dire, in chiave
intertemporale. Quando al liceo cominciai a scoprire Petrarca e la sua poesia
la prima cosa che mi venne in mente è che la vicinanza che sentivo, la
consonanza con i suoi versi esulava da un fattore puramente estetico o
sentimentale. Era a Petrarca come uomo e individuo che mi sentivo vicino,
egli mi si palesava come amico. L’idea che un uomo che non potevo aver
incontrato potesse diventarmi caro cozzava con la mummificazione
accademica e scolastica della letteratura e della poesia. «Erano i bei capelli a
Laura sparsi» suonavano alle mie orecchie come parole di qualcuno che non
solo mi diventava vicino ma alla cui vicinanza tenevo. «Solo et pensoso i piú
deserti campi | vo mesurando a passi tardi e lenti» incontrava la mia
sensibilità là dove doleva la solitudine adolescenziale. Petrarca aveva capito
cosa si prova quando una delusione ti fa voltare le spalle al mondo e
rintanarti nel tuo vagabondare ha un valore che va al di là della semplice
autoconsolazione. Com’era possibile che i seicento anni che mi dividevano
da lui fossero poca cosa? Per la prima volta capii cos’era il rapimento che
aveva avvinto il Rinascimento al mondo classico e l’idea di classicità da quel
momento non si staccò piú dall’idea dell’amicizia attraverso i secoli.
Ho ritrovato molti anni dopo un sentimento analogo in un racconto di
Nadine Gordimer nella collezione di storie contenuta in Beethoven era per un
sedicesimo nero 3. La Gordimer rivede in sogno, o in dormiveglia, alcune
persone con cui ha condiviso passioni e vita, letteratura e passaggi
esistenziali: Edward Said, Susan Sontag. Sono stati grandi amici, sono morti
da poco, l’unione a essi non è della natura del ricordo, ma della presenza.
Una comunione di spiriti, si potrebbe dire una comunione spirituale e
intellettuale, ma anche fisica: la bellezza dell’uomo Said, il suo charme, la
sua eleganza. Non c’è rammarico in questa scrittura, ma la superiorità di una
comunione che non si spegne. Qui la comunione dei santi – che è una
categoria teologica – viene completamente trasformata in comunione reale,
che va oltre l’episodio transitorio della morte. Il legame rimane, forte, fisico,
incancellabile. È una Gordimer anziana che sa che anche lei tra poco
«sparirà» ma che sa che non si sparisce, che la comunione dei santi letterati
mantiene in vita gli amici. Il sentimento che essa esprime è talmente demodé
che si è confusi dalla sua sicurezza.
Per trovare qualcosa di simile occorre cercare nella grande letteratura
russa, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov fino a Pasternak o nei grandi film di
Tarkovskij. Quello che qui è osato è l’insulto massimo per la nostra
contemporaneità, l’idea di un’immortalità effettiva, non guadagnata dopo la
morte, ma maturata in vita. Un’immortalità dovuta alla sospensione del
tempo che l’amicizia produce, alla negazione teologica che l’amicizia
pronuncia nei confronti della morte.
Abbiamo perso l’idea della fisicità dell’immortalità. Abbiamo anche
dimenticato che la resurrezione promessa nel cristianesimo è una resurrezione
dei corpi. E questo ci ha fatto dimenticare i grandi dibattiti medievali sulla
resurrezione. È merito di Caroline Bynum 4 averceli fatti rivivere. La
resurrezione dei corpi è stata argomento di discussione per decine di secoli:
che tipo di corpo risorge? Quello di quando moriamo, quello affetto da
malattie e difetti? Un cieco risorge cieco, uno zoppo, zoppo, oppure i corpi
vengono composti nella loro completezza e nel loro massimo splendore? E la
resurrezione ci allontana dalle gioie terrene o semplicemente le illumina di
un’altra luce? In breve, risorgiamo con tutto il nostro mondo intorno, con i
legami e gli affetti che avevamo sulla terra o in una solitudine riscattata?
Nel poema arabo Il Libro della Scala che serví da modello alla
Commedia di Dante, l’autore visita il Paradiso e incontra i suoi poeti preferiti.
Nessuno di essi ricorda però di essere stato un poeta. Perché in Paradiso non
c’è bisogno della poesia, visto che esso è l’adempimento perfetto della
beatitudine a cui la poesia tende. I beati hanno dimenticato tutto perché sono
felici e questo basta 5.
Nel cristianesimo c’è un’oscillazione rispetto all’idea di vita eterna. Sarà
una contemplazione felice, ma anche l’illuminazione della vita terrena, il
disvelamento in essa dell’eternità che vi è contenuta.
Nessuno come Walter Benjamin, eretico ebreo e marxista eretico, ha
intuito questa dimensione. La comunione dei viventi e dei vissuti esiste
perché questi hanno preparato agli altri la strada e sono a essi uniti da uno
stesso movimento verso la redenzione. In una concezione teologica della
storia essa è una fibra intessuta da tutti i passaggi, i prestiti, i desideri che
uniscono le generazioni tra di loro. C’è un passo straordinario dove tutto
questo viene espresso:
Questa riflessione comporta che l’immagine di felicità che custodiamo in noi è del
tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza.
Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato,
con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a
noi. In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo
stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo
rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a
quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le
donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non piú conosciute? Se è cosí,
allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra.
Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima
di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto 6.
[...] siamo nella strada come in un tempo dialettico in cui il presente risuona
d’armoniche strane fatte dal rumore delle età 7,
e ancora:
L’Ora è l’immagine intima di Ciò che è Stato 8.
L’idea è che il passato, «i vissuti» hanno un diritto sui viventi. Questa che
antropologicamente potrebbe essere l’idea dei «revenants», l’idea che i
defunti sono presenti da qualche parte, ma che è compito dei viventi fissarli
nel loro altrove, qui è totalmente ribaltata. I vissuti non pretendono dai
viventi qualcosa che spetta loro (un sacrificio, l’offerta della birra di miglio, il
riscatto in maiali o in altri beni, il grande banchetto che li suggella nel loro
essere solo «antenati», come raccontano gli antropologi di altre culture), qui
essi sanno di essere legati da una storia comune da compiere, una
«redenzione» da portare avanti insieme. Per Benjamin era una missione
storico-teologica, per la Gordimer è l’alveo salvifico della letteratura come
amicizia vivente, per qualcun altro è la stessa comunione degli amici come
garanzia di immortalità.
C’è un accenno di questa «redenzione» come compito comune agli amici
nella rievocazione che Derrida fa di Lyotard:
[...] e ormai chi potrebbe dire un «noi» senza tremare? Chi può sottomettere un «noi»,
un «noi soggetto» al nominativo, il «we» inglese o un «noi» accusativo o dativo, l’«us»
inglese? in francese, c’è un solo «noi» anche nel riflessivo «noi, ci», sí, noi ci siamo
incontrati (nous nous sommes rencontrés), noi ci siamo parlati, scritti, noi ci siamo capiti,
noi ci siamo amati, noi ci siamo accordati – o no. Tra i vivi, sottoscrivere un «noi» può già
apparire impossibile, eccessivamente pesante o leggero, sempre illegittimo. Quanto piú,
allora, se ciò avviene da parte di un sopravvissuto che parla dell’amico? A meno che una
certa esperienza del «sopravvivere» possa darci, al di là della vita e della morte, ciò che
essa è la sola a darci, a dare al «noi», sí, la conoscenza della sua destinazione, del suo
senso e della sua origine. Il suo pensiero e forse il pensiero stesso 9.
Se uno degli amici è separato da una grande distanza, come Dio rispetto all’uomo, non
c’è piú amicizia possibile. Di qui nasce la questione difficile, se in fin dei conti gli amici
desiderano veramente per i loro amici i piú grandi beni, come per esempio di essere dèi,
perché allora non saranno piú degli amici per loro, né per conseguenza dei beni, giacché
gli amici sono dei beni.
ARISTOTELE 1.
Nel Vangelo di Giovanni (15, 15), Gesú dice ai suoi discepoli, in una
circostanza che suona come un addio:
Non vi chiamo piú servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho
chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi 3.
Nell’originale greco amico è philos, lo stesso termine che Platone usa nei
dialoghi socratici e che Aristotele usa nell’Etica nicomachea. Giovanni lo usa
un’altra volta, quando si parla di Lazzaro, di cui Gesú, che era suo amico,
prima di resuscitarlo, piange la morte 4. Sappiamo da Émile Benveniste che
philos significa originariamente, ad esempio nell’Iliade, «caro», ma anche
«mio», «mia», indica un possessivo, una vicinanza scelta 5. Quando Giovanni
scrive, probabilmente sessant’anni dopo la morte di Cristo (ma il primo
manoscritto rinvenuto è di circa centoventi anni dopo), il greco che è la
lingua piú diffusa nell’impero romano è distante dal greco dell’Atene del V
secolo a.C., anche se risente di tutta l’influenza culturale di quel mondo. Non
è un caso che il Vangelo di Giovanni cominci con un discorso sul logos, un
concetto profondamente greco, che verrà tradotto in latino come «verbo».
Il discorso di Gesú sembra quasi una risposta ad Aristotele, all’idea
presente nell’Etica nicomachea che non si possa essere amici con Dio, primo
perché se ne è separati dalla distanza e secondo perché Dio non può essere
amico degli uomini in quanto non ha bisogni, di essi non ha bisogno.
L’amicizia nasce da un bisogno. La cosa interessante nell’affermazione di
Gesú ai suoi discepoli è che questi sceglie una categoria antropologica
umana, il modello umano dell’amicizia, si potrebbe dire un «fatto della vita»,
per indicare il tipo di rapporto che Dio intrattiene con l’umanità. Diciamo che
è un rovesciare la teologia, un antropomorfizzarla. Proprio perché nelle
parole di Gesú sembra che Dio abbia bisogno dell’amicizia degli uomini.
La cosa è ancora piú singolare se si pensa al peso che la fede e la
religione cristiana hanno avuto in Occidente. Nonostante l’importanza data al
matrimonio religioso e ad altre pratiche – battesimo, cresima – il messaggio
cristiano si basa su una singolarità che costituisce proprio la base del legame
d’amicizia.
E sempre Gesú nel Vangelo di Giovanni (15, 12-13):
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore piú grande dell’amore di chi depone la propria vita per i suoi
amici 6.
Solo coloro che amano sono disposti a morire per gli altri e non gli uomini soltanto,
ma anche le donne 7.
Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in favore dei suoi amici e
della patria, anche se dovesse morire per loro.
Nella stessa tradizione ebraica precristiana il motivo della morte per gli
amici era già presente.
L’espressione «deporre la propria vita» è la traduzione del greco psuchen
tizenai, che significa sia rischiare la propria vita che darla 8.
Gesú assume tutto l’aspetto antropologico dell’amicizia come gli era
arrivato nel suo tempo e come aveva permeato il mondo antico di cui lui
faceva parte. Lo assume e lo «spinge» alle sue conseguenze e in piú ne
allarga il significato politico. Di questa amicizia che costituisce il farsi del
mondo umano fa parte anche la divinità. Non c’è altro legame se non questo
che precede ogni altra alleanza e obbligo.
In un passo del Vangelo di Luca c’è un’altra affermazione:
Fatevi amici con il denaro dell’iniquità, perché quando questo verrà a mancare essi vi
accolgano nelle dimore eterne (16, 9).
Al Suo cospetto, due «io» non trovano posto. Tu dici «io» e Lui dice «Io»; allora, o
muori tu dinanzi a Lui, oppure è Lui che morirà di fronte a te, perché ogni dualità
scompaia. Tuttavia, che Lui muoia non è possibile in alcun modo, né sul piano oggettivo
né in quello teorico. Poiché Egli è il Vivente, che non muore mai. La Sua grazia è di tale
pienezza che, se Gli fosse possibile, morirebbe per te perché venga abolita la dualità. Ora,
essendo la Sua morte impossibile, muori tu, affinché Egli in te si disveli e sia annientata la
dualità 9.
Mio Dio, le stelle splendono, gli occhi dormono, i re chiudono le loro porte e ogni
amato resta solo con il proprio amato: cosí io sto davanti a te 11.
Mi sembra che qui, come in altre mistiche, che siano di matrice induista o
buddista, quello che è importante è l’invocazione, cioè quello che cambia
completamente la relazione è quel potere rivolgersi alla divinità direttamente,
che ci sia o meno nella lingua il «tu» non importa (in arabo e in persiano non
si distingue il lei e il voi, dal tu). È l’idea del poter fare entrare la divinità nel
gioco quotidiano delle relazioni «scelte» che è la grande differenza. Questo
pensare che a ogni «presenza» corrisponda un principio personale (lo
vedremo nel capitolo successivo) e che se c’è una presenza «fuori dal
mondo» essa non può esimersi di essere allo stesso tempo all’interno delle
relazioni personali che lo costituiscono.
In una notte del gennaio 2016, nella casa della profetessa discendente da
Rūmī, sul Bosforo, abbiamo filmato dervisci che ripetevano per ore
l’invocazione «Ašhadu an la ilàha illa Allàh». A un certo punto, nel loro lento
concitato tenersi per le spalle e danzare, le voci sono diventate semplicemente
un singulto, un solo suono: «Uh, Uh», Lui, Lui, fuse nella notte indistinta e
nel fruscio della grande acqua 12.
1. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., VIII, 9, 1159a, 5-11.
2. B . VARELA , Poesía reunida 1949-2000, Libreia Sur, Lima 2016.
3. Il Vangelo secondo Giovanni, a cura di J. Zumstein, vol. II, Claudiana, Torino 2017, p. 710.
4. Ibid., pp. 689-778.
5. BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società
cit., p. 257.
6. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710.
7. PLATONE , Opere complete, Laterza, Bari 1976, vol. III, p. 161.
8. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710, nota 94.
9. J . AD -DĪN RŪMĪ, L’essenza del reale. Fihi-mâ-Fihi, Psiche, Milano 1995.
10. A . F . AMBROSIO , Danza coi Sufi. Incontro con l’Islam mistico, San Paolo, Milano 2013.
11. In C . GREPPI , Rābi’a, la mistica, Jaca Book, Milano 2003.
12. S . SAVONA e F . LA CECLA, Prayground, installazione alla mostra Pregare, un’attività
umana, Reggia di Venaria Reale, 2016.
L’amico del giaguaro
Gli uomini e le donne Tapirapé che cercano di diventare sciamani si imbarcano in una
strada onirica il cui obiettivo è di stabilire relazioni amichevoli con piú spiriti anchunga
possibili. Questi possono essere acquatici o terrestri, spiriti animali, del cielo, spiriti della
foresta o spiriti dei morti. Tutti questi spiriti sono potenzialmente pericolosi. Mentre
visitano i mondi invisibili nei sogni, gli apprendisti sciamani sono invitati di tanto in tanto
a visitare le case degli spiriti che incontrano sulla strada. Questi inviti spesso sono
trappole in cui un malintenzionato anchunga cerca di sodomizzare o di mangiare i novizi.
CHARLES WAGLEY 1.
Non scherziamo, metta il revolver da parte. Sto calmo, calmo, Ói, mi vuole accoppare,
metta via la pistola. Ah, mi fa male, freddo, via, il rancho è mio, via mi uccide, adesso
arriva la compagna, la pantera, María-María... la pantera è mia parente. Perché mi uccide?
Non ho mai ucciso il nero, raccontavo cazzate. La pantera, sia buono, non mi faccia
questo. Io Macuncôzo. Non lo faccia, nhenhenhém... Heeé!... Hé... Aar-rrâ... Aaâh... non
mi uccida sono suo parente, mezzo fratello, famiglia... Araaã... Uhm... Ui... Ui... Uh...
uh... êeêê... êê... ê... ê... 2.
Per i popoli dell’Amazzonia il regno del sociale non include solo umani, ma anche
animali, piante, oggetti ed esseri invisibili, che per quanto non esattamente simili agli
umani, sono considerati umani in essenza. Gli sciamani amazzonici spesso hanno a che
fare dialogicamente con questi pericolosi, primordiali umani 5.
Ecco che il racconto di João Guimarães Rosa viene fuori in tutta la sua
acuta lettura del mondo indigeno. Essere giaguaro è una circostanza normale
se si vive nella foresta, e sentire come il giaguaro è una prospettiva che altera
completamente il rapporto tra mondo umano e mondo animale. È una stessa
società, una radice comune, e distinguere è difficile, anche se questa
immersione è pericolosa.
In questi casi gli apprendisti devono lottare contro gli spiriti maligni per salvarsi. Si
dice che spesso, invece di combattere gli anchunga, l’apprendista li fa diventare «amici
suoi» o possibili alleati. I compagni di questa associazione mistica si chiamano tra di loro
«tuhava» o amici, per quanto gli sciamani possono a volte rivolgersi agli spiriti amici
come «figli» (Wagley 1977). Sciamani di grande esperienza visitano i loro spiriti amici
trasformati in uccelli o in canoe oniriche. I loro spiriti compagni li invitano a mangiare
cibi e a bere pozioni. Gli sciamani che sono stati capaci di acquisire molti spiriti amici, si
dice sappiano camminare con gli spiriti (Wagley 1977). Cacciano insieme e si decorano
reciprocamente. Piú importante ancora gli sciamani Tapirepé possono convocare i loro
spiriti amici cantando durante la cura dei loro pazienti. In breve si dice degli sciamani
Tapirepé «che sono amici degli spiriti e che il loro potere si accresce in proporzione alla
capacità di fraternizzare, di vincere in combattimento i demoni della foresta. Gli sciamani
Matseninka (seipi’gari) sono ritenuti capaci di curare solo grazie alle buone relazioni di
amicizia con gli spiriti benigni conosciuti come saankarite, i puri, gli invisibili. I puri sono
i piú efficaci esseri benigni incapaci di far male, ma altrettanto pericolosi 6.
L’amico non è un altro io, ma un’alterità immanente nella stessità, un divenir altro
dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione
è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso.
L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione piú intima di sé.
GIORGIO AGAMBEN 1.
Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria
immagine ideale.
MARCO TULLIO CICERONE 2.
Contro l’urbanistica
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Ebook ISBN 9788858430316
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Frontespizio 3
Il libro 98
L’autore 99
Premessa 5
Introduzione 7
Di cosa è fatta l’amicizia? 11
Usi spurii, Facebook e altri imbrogli 17
L’amicizia si basa sulla sua revocabilità 23
La politica dell’amicizia 30
Inimicizia 40
Cappellino per non antropologi 46
Altre culture, altre amicizie 52
La lingua dell’amicizia 60
Oscenità 64
Uomini e donne 72
Comunione dei santi 78
Amicizia con Dio 84
L’amico del giaguaro 90
Conclusioni 96