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Nel reticolo, la Maclura

In <i>Prateria</I>, William Least Heat-Moon scrive circa undici pagine sulla <i>Maclura
pomifera</I>, che qui da noi è considerata al più una curiosità botanica. Nelle sue peregrinazioni,
Least Heat-Moon desiderava procurarsi un bastone fatto di legno di <I>Maclura</I>, e da tempo
cercava un ramo che si prestasse a quell’uso: “lungo un metro e spesso un pollice” (strana
commistione di diverse unità di misura).
Cercando un ramo di quella lunghezza e di quello spessore, Least Heat-Moon finisce per esplorare i
confini della contea, “finendo, per così dire, nella mente di Thomas Jefferson” e trovando anche un
orologio che sfruttava la corrente galvanica data dall’acido della <i>Maclura</I>.
In Kansas la pianta di <i> Maclura</I> viene detta anche “siepe”, un po’ come da noi i fichi d’india
sono detti “sipale”. Ma il nome più comune è “arancio Osage” dal nome della tribù che lì viveva
prima che i caucasici la sterminassero.
Il frutto della <i>Maclura</I> è commestibile, ma non è buono, tanto che anche gli indiani Osage lo
snobbavano. Dire di una persona che vale meno di una “palla di siepe” è dire che è totalmente
inutile.
La <i>Maclura</I> è arrivata nella Chase County poco dopo la Guerra Civile, con i primi pionieri
fermamente intenzionati ad evitare che i loro campi agricoli fossero brucati dal bestiame (ancora il
conflitto pastori-contadini). Per recintare ottanta acri di campo occorreva un gallone di semi di
<i>Maclura</I>.
“I primi pionieri non avevano né il tempo né i soldi per costruire muretti con le pur numerose pietre
dei campi (pochi posti oltre alla Chase County hanno pietre così ben squadrate che sembrano fatte
apposta per costruire muretti), né potevano contare sul legname perché gli alberi del fondovalle
erano sufficienti solo per la legna da ardere e per costruire le case e i granai: recintare quaranta acri
di frumento con uno steccato era impensabile. Il filo di ferro, a quei tempi non spinato era un
materiale così inaffidabile – cedevole in certi punti e fragile in altri- che il caldo, il freddo, o una
mucca caparbia potevano romperlo facilmente. I pionieri, come dimostravano le numerose lettere ai
giornali, erano convinte che la civiltà non seguisse il bestiame lasciato libero al pascolo, bensì
l’aratro a versorio, e che dovesse essere per forza preceduta da un buon recinto. Prima o poi, per
delimitare la terra, per appropriarsene, per strapparla agli Indiani, per reclamarne il diritto di
proprietà e per renderla produttiva, la recinzione era non meno necessaria dell’aratro. Ben prima che
lo dicesse Robert Frost, i pionieri credevano che soltanto i selvaggi si opponessero alle recinzioni –
dimora del diavolo secondo i cristiani-. E credevano pure che i recinti non favorissero solo un buon
vicinato ma anche il progresso della comunità. E sapevano che i recinti separavano animali e colture
ma univano la gente in un vincolo utilitario. Una terra ricca ma impossibile da recintare per
mancanza di materiali, era sempre l’ultima ed essere rivendicata, e i contadini impararono presto
che il rapporto tra recinti e profitti era diretto: si raccoglieva solo ciò che si poteva proteggere, e un
aratro senza recinto era come un martello senza chiodi o un fucile senza pallottole.
I contadini dell’Illinois centrale, che furono i primi a praticare l’agricoltura in un territorio vasto e
fertile ma quasi privo di alberi e pietre, dopo aver tentato invano di recintare la terra con muretti di
zolle d’erba o con fossi ad alzaia, tornarono all’idea delle siepi dei loro avi inglesi: ma per usare le
siepi avevano bisogno di una pianta che, oltre ad avere la capacità di resistere al clima capriccioso
della prateria, fosse tanto compatta da essere a prova di maiale, tanto alta da essere a prova di
cavallo, e tanto robusta da essere a prova di toro. Essi tentarono col salice, col noce nero, col
pioppo, con la robinia, col gelso, col ligustro, con l’uva spina, col rovo, col melo selvatico, con la
thuja e con parecchi tipi di rose, ma sempre con scarso successo. Nel 1839 il professor Jonathan
Turner di Jacksonville, Illinois – un predicatore dall’animo mistico e scientifico al contempo –
affermò che il Creatore non poteva avere commesso l’evidente errore di creare le praterie senza un
materiale per cintarle e cominciò a fare esperimenti con una pianta originaria della regione
compresa tra i tratti intermedi dell’Arkansas River e del Red River. Nel 1847 Turner cominciò a
propagare e vendere quella pianta, fino ad allora nota come il miglior legno da archi del Nord
America – e forse di tutto l’emisfero boreale-, un albero che i cacciatori francesi di pellicce
chiamavano <i>bois d’arc</I> e che tuttora alcuni abitanti delle Ozark Hills chiamano
<i>bodark<I/> o, rovesciando i due termini <i>bowdark</I> o <i>bow wood</I> (legno per archi);
ma oggi i nomi legati alle recinzioni hanno generalmente sostituito quelli antichi derivati dagli archi
indiani. Per una sorta di strana combinazione quell’albero, mentre forniva archi e bastoni che
aiutavano gli Indiani a difendere il territorio, consentiva anche ai pionieri bianchi di recintare la
terra. Il professor Turner propose di chiamare la <i>Maclura</I> siepe della prateria e disse: - È la
nostra pianta, Dio l’ha fatta per noi e noi la chiameremo col nome dell’ «oceano verde» che è la
nostra casa.
Meriwether Lewis la descrisse per la prima volta con il nome di «melo Osage» in una lettera del
1804 indirizzata aThomas Jefferson, cui allegò alcune talee prese da un albero del vivaio di St
Louiscurato da Pierre Chouteau, un famosissimo bianco dedito al commercio con gli Indiani che
cinque anni prima aveva piantato i semi della <i>Maclura</I> comprati da un indiano Osage venuto
da una zona distante trecento miglia. Oggi abbiamo fondati motivi per credere che molti degli
aranci Osage diffusi nel nord-est degli Stati Uniti discendano dal vivaio di Chouteau, a quel tempo
meta di molti viaggiatori: John Bradbury e Thomas Nuttal, ad esempio, lo descrissero nei loro diari.
In un messaggio rivolto al Congresso due anni dopo la lettera di Lewis, Jefferson accennò alla
possibilità di usare quella siepe per cintare la terra. Poiché la suddivisione del territorio in contee –
il grande reticolo americano, espressione tipica del razionalismo settecentesco – era un parto della
sua mente, Jefferson aveva compreso quale importanza poteva avere l’arancio Osage nel rafforzare
il dominio agricolo e poilitico dei bianchi, e nell’estenderlo alle regioni dell’America situate a
ponente degli Appalachi.
Dopo aver letto i rapporti della spedizione di Lewis e Clark, Jefferson si rese conto che nelle
pianure il suo sistema territoriale aveva bisogno di una pianta come la <i>Maclura</I>, cioè di una
pianta che fosse <b>l’incarnazione vivente della suddivisione territoriale della nuova civiltà
americana: un elemento essenziale come la costituzione per il governo, o come una pattuglia di
polizia per un quartiere, una cosa che definisce, delimita e impone il rispetto della legge</B>.
Thomas Nuttal, il cosiddetto padre della botanica americana, descrisse la pianta nel 1811 e la
chiamò con il nome del suo ricco amico William Maclure, un geologo filantropo che visse per un
certo tempo a New Harmony, Indiana, culla della scienza nel West e sede della Geological Survey,
l’ente governativo deputato al frazionamento territoriale. Gli anelli della catena che lega la
<i>Maclura</I> a William Maclure e alle contee di Thomas Jefferson mi sembrano largamente
casuali, ma le strette interconnessioni tra gli archi Osage e la suddivisione territoriale derivano dalla
natura stessa dell’albero.
La <i>Maclura pomifera</I> è un monotipo, vale a dire che in tutto il mondo è l’unico membro del
proprio genere; però nell’era preglaciale molte specie le erano affini. Come abbiamo già visto nel
caso della radice del pane, anche qui i nomi comparativi in lingua volgare sono forvianti perché la
<i>Maclura </I> non è un arancione un melo (talvolta chiamato melo dei cavalli), ma è un piuttosto
lontano parente dell’albero del pane e del gelso. (Nel XIX secolo durante i tentativi di impiantare
l’allevamento del baco da seta nel Kansas orientale, i contadini diedero ai bruchi la foglie della
<i>Maclura</I> ma ottennero una seta di qualità scadente). Mentre le foglie somigliano a quelle
dell’arancio, il frutto, così affascinante per chi lo vede la prima volta o per un bimbo che voglia
giocare con una palla, è grande come un pompelmo e quando è maturo ha un colore intermedio tra
il limone e la limetta. Ma il legno interno del tronco ha uno stupendo color ocra screziato dal quale
deriva un altro nome della pianta, legno giallo. Pare che le palle da siepe scaccino gli insetti (a tal
fine si mettono in cantina e in cucina), ma le quaglie, gli scoiattoli e i topi di bosco ne mangiano il
nocciolo dopo averne bucato la spessa polpa intrisa di una linfa lattea e resinosa. Durante la grande
spedizione del 1819-20 nei territori del West guidata da Stephen Long, il botanico Edwin james
scrisse della linfa: «Eravamo tentati di mettercela sulla pelle dove formava una vernice sottile e
flessibile che ci dava, pensavamo, una certa protezione contro le zecche». Nel 1828 Timothy Flint,
probabilmente per spiegare l’effetto repellente della linfa, disse del frutto: «All’aspetto è molto
attraente, ma al gusto è la mela di Sodoma». Insomma, dire che una palla di siepe è inutile significa
ignorare che serve a segnare il tempo, a sfamare gli animali selvatici, a scacciare gli scarafaggi e a
proteggere dalla febbre causata dalle zecche, per non parlare del seme che produce un albero
insuperabile per costruire gli archi e per realizzare la suddivisione territoriale ideata da Jefferson.
Ma in quanto a palla da gioco, anch’io sono d’accordo che la mela da siepe non vale una cicca come
il vecchio Jack Tal dei Tali.
Il legno della <i>Maclura</I> che gli uomini hanno ammirato per migliaia di anni, e fra i più
pesanti d’America: un metro cubo allo stato naturale pesa più della metà di un metro cubo di
calcare, ed è quasi altrettanto duro perché smussa rapidamente le punte da tornio e le lame da sega;
inoltre, pur essendo prodigiosamente flessibile, è due volte e mezzo più resistente del legno di
quercia: un arco di arancio Osage, fatto con una pianticella ben stagionata e flesso con un tendine di
bufalo, può scagliare una freccia di corniolo con tanta forza da farla penetrare in un bisonte fino alle
penne, e tutt’oggi alcuni arcieri considerano il suo legno superiore al celeberrimo tasso usato per gli
archi inglesi. Nel 1811 John Bradbury, incoraggiato da Jefferson, fece un viaggio di esplorazione
lungo il Missouri River e disse che il prezzo di un arco di <i>Maclura</I> era elevatissimo poiché
ammontava ad un arco e ad una coperta.
I bianchi erano disinteressati agli archi, ma coi tronchi sufficientemente dritti degli aranci Osage
facevano gli assali dei carri, i mozzi delle ruote, le pulegge, i manici degli attrezzi, i pali del
telegrafo, gli isolatori, i manganelli e le traversine ferroviarie: un esperimento della Pennsylvania
Railroad dimostrò che le traversine di quercia, castagno e catalpa marcivano in due anni, mentre
quelle di <i>Maclura</I> dopo venticinque anni erano ancora sane e sembravano praticamente
nuove. La <i>Maclura</I> servi anche a costruire la chiglia e le centine di almeno un battello a
vapore e il primo vagone-mensa del mondo. Il legno dell’arancio Osage, pur così duro, resistente
agli insetti e imputrescibile da servire in certi casi a pavimentare le strade in blocchetti gialli, è tanto
morbido ed elastico che i rabdomanti ne usano i rami a forcella per cercare l’acqua. Grazie al suo
potenziale calorico, i contadini hanno insegnato ai pionieri a usare il legno e le sue radici poco
profonde, arancioni come una carota lavata, per preparare certe tinture con cui ancora all’inizio del
secolo si coloravano le divise grigioverdi dell’esercito.

Ma per un certo periodo l’arancio Osage è stato molto utile agli agricoltori americani insediatisi fra
il Wabash River e il 100° meridiano grazie ad un’altra caratteristica, e precisamente grazie alle
spine. Non tozze e uncinate come quelle delle rose né lunghe e micidiali come quelle della robinia –
che dopo la puntura fanno male per ore-, le spine dell’arancio Osage, pur modeste, sono abbastanza
lunghe e robuste da respingere sia gli uomini che gli animali senza danneggiarli (a parte i topi
catturati e infilzati sulle spine dall’averla maggiore Una volta mi sono imbattuto in una piccola
<i>Maclura</I> ornata di minuscoli teschi di roditori: sembrava il territorio segnato da una tribù di
omuncoli cannibali). Se le spine dell’arancio Osage sono strumenti perfetti, è quasi perfetta anche la
sua capacità di adattarsi al clima e al terreno della prateria, di crescere da semi o pianticelle
economicissime e di resistere agli insetti. La pianta, una volta che abbia messo radice, reagisce alla
potatura infoltendo i contorti rami laterali e crescendo in altezza di oltre un metro l’anno. I tronchi
più grossi servono a fare pali o legna da ardere. I contadini dicono che i pali di cedro, di catalpa, di
robinia, e di albero del caffè, usati per i recinti di filo spinato, durano una vita, ma che i pali di
<i>Maclura</I> possono durare due vite. E dicono pure che un tempo i cowboy, certi della
longevità di quel legno, nascondevano ogni anno una bottiglia di whiskey – indispensabile nelle
lunghe notti della prateria – dentro il buco di un palo malfermo di arancio Osage.
Poiché la Chase County si trova a nord della zona originaria della <i>Maclura</I>, in tempi
preistorici queste colline ne erano prive, ma oggi, soprattutto sulle alture sudoccidentali, la prateria
è disseminata da lunghe e scure file di siepi. Ogni tanto questi alberi costeggiano le strade
ombreggiandole – uno stupendo regalo per chi ci cammina in luglio-, in altri casi formano un segno
netto nel verde, simile alla firma minuta di un contadino defunto che , apposta in calce ai suoi
campi, ne rivela ancora i confini. L’arancio Osage, importato nella contea dopo il 1870, decretò la
fine dei muretti di pietra e delle annose dispute fra contadini e allevatori di bestiame sfociate negli
incentivi alla recinzione e nelle leggi sul bestiame: gli incentivi consistevano in sovvenzioni di 128
dollari per ogni miglio di recinto a siepe, e le leggi consistevano nelle disposizioni che imponevano
agli allevatori l’obbligo di contenere il bestiame. Occorsero però molto tempo e molte azioni legali
prima che gli abitanti del Kansas si decidessero a seguire l’esempio dell’Inghilterra dove non erano
i contadini a dover proteggere le colture bensì gli allevatori a dover cintare gli animali. Tuttavia la
Chase County non adottò mai una legge sul bestiame, e di conseguenza i contadini furono quasi
sempre costretti a proteggere i campi; ma con l’andar del tempo alcuni allevatori progressisti
compresero che un robusto recinto proteggeva il bestiame sia dagli incroci indesiderati con tori
randagi di altra razza, sia dagli animali portatori della febbre del Texas causata dalle zecche.
Le file di siepi tuttora esistenti non sono soltanto il risultato dell’antica battaglia fra coltivatori e
allevatori di bestiame. I diari scritti dai primi uomini che avevano esplorato la prateria e le grandi
pianure indussero i pionieri a pensare che quelle terre fossero prive di alberi proprio perché non
avevano alberi: infatti i bianchi, consapevoli della notevole umidità prodotta da un boschetto per
traspirazione, immaginarono che un aumento di alberi avrebbe favorito le precipitazioni
aumentando l’umidità (senza pensare minimamente all’assorbimento e alla dispersione del vapor
acqueo dovuta ai venti quasi costanti). Di conseguenza la gente si convinse che le siepi di aranci
Osage avrebbero portato la pioggia. Dei quattro fattori essenziali alla crescita del seme – sole, terra,
acqua, protezione – due erano garantiti dalla terra e gli altri due potevano essere garantiti dalle siepi
di <i>Maclura</I>, che peraltro servivano anche da barriera antivento. Queste idee si rafforzarono
perché, dopo l’insediamento dei primi pionieri nel Kansas orientale, la media delle precipitazioni
aumentò con una certa frequenza. Il primo storico della Chase County, H. L. Hunt, elogiando
l’agricoltura bianca che aveva reso fertili quelle <i> inutili vastità desolate</I> scrisse: «Dal tempo
dei primi insediamenti la nostra contea ha subito un deciso cambiamento climatico provato dalle
dichiarazioni unanimi dei vecchi pionieri: costoro infatti dicono che , appena arrivati qui, non
potevano coltivare le patate senza coprire la terra con qualche materiale protettivo che mantenesse
l’umidità , e che il mais cresceva con mote difficoltà». Quei coloni, nuovi della regione, avevano
pensato che la grande siccità del 1860 fosse una cosa normale anziché una breve pausa del più vasto
ciclo pluviale.
Le siepi della Chase hanno ormai più di un secolo, ma non servono più a recintare i campi: queste
strisce alberate, non potate da anni e quindi alte dodici metri e piene di buchi (spesso dovuti agli
alberi tagliati per fare i pali del filo spinato), non recingono più nulla, ma sono preziose come
barriere antivento e come rifugio degli animali selvatici. Oggi gli agricoltori le maledicono perché,
cresciute a dismisura anche per la ragione che più nessuno ne taglia le radici, fanno ombra alle
colture e assorbono l’acqua fino a otto metri all’interno del campo inaridendo due acri di terra per
miglio di siepe, mentre i cowboy si lamentano che nei pomeriggi d’estate il bestiame smette di
pascolare e si ripara all’ombra delle siepi dove l’erba è scarsa. Una volta Slim Pinkston mi ha
detto: - Per allontanare un bue accaldato dall’ombra delle siepi, dove non mangia né ingrassa,
bisogna fare i salti mortali.
Nei primi tempi la siepe richiede molte cure. Per ottenere un recinto efficiente ci vuole molta fatica,
e occorrono cinque anni prima che una siepe sia cresciuta abbastanza per trattenere il bestiame. La
fila di pianticelle alte trenta centimetri che ho piantato anni fa in Missouri, malgrado le mie assidue
cure, non è ancora in grado di fermare un infante. Le piante giovani patiscono la siccità, il fuoco, il
bestiame e i roditori come il vitello. E’ una siepe che debba fungere da barriera va compattata
continuamente e potata una volta all’anno anche quando è già grande.
All’inizio nella prateria le siepi di arancio Osage si moltiplicarono rapidamente, ma l’epoca del loro
utilizzo come strumento agricolo finì più in fretta di quella dei battelli a ruota: come la locomotiva
soppiantò i battelli fluviali, così il filo spinato decretò la fine delle siepi che, seppur piacevoli e
cariche di storia, divennero anacronistiche. Probabilmente il filo spinato non venne inventato per
caso nell’Illinois, non lontano dal posto in cui il professor Turner aveva dimostrato che l’arancio
Osage era un’ottima siepe da prateria; e sembra inoltre che Joseph Glidden, autore dell’invenzione
brevettata nel 1874 da cui discende l’attuale filo spinato, avesse preso l’idea da un ramo spinoso di
<i>Maclura</I> (la natura crea e l’uomo elabora: dalla zucca è nata la borraccia).
Anche dopo la diffusione degli efficienti ed economici recinti di filo spinato, gli abitanti della
contea (spinti, presumo, da un bisogno da un bisogno profondo che il filo spinato – la corona del
diavolo – non avrebbe mai potuto soddisfare) continuarono a piantare gli aranci Osage: infatti la
siepe alberata dava un irrinunciabile senso di protezione ai coloni che erano ancora molto legati alle
foreste e che, anche nelle successive generazioni, avrebbero trovate minacciose, oppressive e
tutt’altro che rassicuranti quelle vaste distese d’erba. I romanzi di Willa Carter, ambientati nella
prateria, sono intrisi di un’onnipresente atmosfera oppressiva. Una fattoria col viale d’ingresso
nettamente delimitato da siepi poteva ricordare una confortevole e sicura cascina inglese, e la
famiglia di pionieri, guardando la distante fila di alberi che segnava la proprietà, aveva sott’occhio
tutta la terra cui aveva dedicato la vita e vedeva ben protetto il suo capitale effettivo, il suo
investimento, la sua difesa contro l’infido mondo esterno. L’arancio Osage, non meno di un
documento legale, evidenziava la proprietà e segnalava al mondo la posizione raggiunta dalla
famiglia e il suo contributo alla civiltà. I confini della proprietà erano invisibili, mentre una fila
frangivento di aranci Osage, immobili come guardiani, costituiva una barriera tangibile.
Inoltre i recinti disciplinarono il territorio. Prima delle recinzioni, ciascuna famiglia di pionieri, per
andare al villaggio, in chiesa o dai vicini, seguiva il sentiero più comodo, e quindi la prateria era
intersecata da un groviglio di strade. Ogni famiglia aveva bisogno di attraversare il torrente o la
collina in un certo punto, e quindi tutti sconfinavano nella proprietà altrui. Un sistema funzionale di
ponti e di strade e il rispetto della proprietà richiedevano un’organizzazione ben più complessa di
quella esistente ai tempi in cui bastavano pochi sentieri collinari e poche strade sul fondovalle: ci
voleva il sistema ideato da Jefferson. Le siepi, come i marciapiedi urbani, disciplinarono la prateria,
delimitarono man mano le strade, incanalarono il traffico e tracciarono uno schema viario così
determinante che la gente cominciò a costruire le case rispettando il nuovo e tangibile reticolo e a
disporre i mobili –credenze e letti – contro pareti rigorosamente orientate secondo i quattro punti
cardinali, col risultato che ancora oggi la Chase County dorme in direzione nord-sud o est-ovest. E
siccome le stanze rettangolari sono in quadro col mondo esterno, i dormienti sono ben allineati
come una colonna di cifre su un registro contabile: così il loro sonno è perfettamente
compartimentato secondo il grandioso reticolo territoriale di Tom.
I cittadini possono dormire tranquilli sapendo che all’esterno dei muri corrono linee divisorie capaci
di difenderli da una natura così rigogliosa e invadente da costituire una minaccia costante di
prevaricazione e disordine. Per questo motivo, secondo me, la gente conserva le visibilissime siepi
di aranci Osage e taglia, diserba, brucia e sradica a forza di ruspe le <i>Maclura</I> debordanti che
invadono disordinatamente i pascoli in cui le erbe originarie e anonime predominano da sempre. Ed
è anche parzialmente per questo che gli abitanti della contea, magari senza averne coscienza. Fanno
la fila sulla Broadway di Cottonwood Falls sotto un temporale estivo per mangiare un pezzo di
bisonte alla brace cotto sui vecchi pali di arancio Osage.
E forse questo spiega pure come mai, in un martedì d’autunno, un viaggiatore del Missouri possa
mettersi a cercare per ore un arancio Osage adatto a fare un bastone da passeggio; come mai, dopo
averlo finalmente trovato, si scortichi tutte le braccia per prendere e come mai infine lo spunti, gli
tolga le spine, lo lisci e lo unga fino a renderlo lustro. E questo spiega anche perché, con quel
bastone in mano, costui si aggiri nella contea con una sensazione un po’ diversa da prima: infatti
l’arnese cui s’appoggia non è soltanto un bastone ma una sineddoche del posto.

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