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Presentazione

Franck racconta con piglio da romanziere le irripetibili vicende di


personalità straordinarie come Apollinaire e i cubisti, Braque e Picasso,
Utrillo e Valadon, Jarry e i primi surrealisti, Modigliani e Kandinskij,
Gertrude Stein e Hemingway, Man Ray e Cocteau…, al tempo in cui Parigi
era lo scenario di incontri e scontri che hanno segnato la cultura del xx
secolo. Solo nella favolosa Parigi dei primi trent’anni del Novecento, infatti,
è stato possibile incontrare una tale varietà di artisti di genio. Ad attrarli sulle
due rive della Senna, nei mitici quartieri di Montmartre e Montparnasse, era
la sete di vita e di libertà, erano il vino e le belle ragazze, le amicizie e il
sogno della fama e della gloria, il sapore eccitante delle polemiche e delle
rivalità.

Dan Franck, scrittore francese, è autore di numerosi romanzi, tra cui Les
Calendes greques (Premio opera prima, 1980), Le Cimitère des Fous,
Apolline, La Séparation (Prix Renaudot 1991), tradotto in diciassette lingue,
e My Russian Love. Oltre alla sua attività di scrittore, Franck è anche
sceneggiatore per il cinema e la televisione. Con Garzanti ha pubblicato anche
Libertad! (2005) e Mezzanotte a Parigi (2011).

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gli elefanti
saggi

DAN FRANCK

MONTMARTRE & MONTPARNASSE

La favolosa Parigi d'inizio secolo

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A Simon Michaël

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Prefazione

Un mondo senza arte sarebbe un mondo cieco, chiuso nei confini di regole
semplicistiche. È per questo che i totalitarismi, quando prendono il potere,
censurano, proibiscono, mettono al rogo. Così muore lo sguardo del
pensiero, del sogno, della memoria e dell’espressione delle differenze. La
terra dove nascono gli artisti.
Questo vocabolo, che li qualifica più che non li definisca, fa arricciare il
naso e suscita pettegolezzi. Quanto l’Arte è nobile, maiuscola, semplice e
bella, tanto l’artista è minuscolo, oggetto di disprezzo e spesso di rifiuto. È
che la sostanza è stata troppo spesso occultata a favore della forma. Dopo le
tute di Picasso, le cravatte di legno di Vlaminck e i cappelli di Braque, le risse
surrealiste, qualche ingenuo e molti malevoli scambiano la parte per il tutto, il
travestimento per l’opera d’arte, e dimenticano (o ignorano) che l’abito non
conta che per ciò che è: un’apparenza. I pittori del Lapin Agile così come i
poeti della Closerie des Lilas ostentavano a volte abiti stravaganti,
organizzavano feste incredibili, tiravano fuori la pistola e provocavano i
borghesi in mille modi per una ragione essenziale: a quel tempo, i borghesi
non li amavano. I borghesi si tenevano sulla fortezza di un ordine antico
mentre gli scrittori e i pittori se l’intendevano con l’anarchismo come faranno
più tardi con il comunismo e il trotzkismo. Mondi inconciliabili.
Tuttavia, usi e costumi a parte, c’è l’opera. Prima di tutto l’artista produce
opere d’arte: Picasso può vestirsi come gli pare, Alfred Jarry mettere mano
alle armi tutte le volte che vuole (e non sono state poche), Breton e Aragon
fare a pugni con gente che disprezzano – i loro eccessi contano poco se
pensiamo alle strade che hanno aperto. Sono questi sublimi agitatori che
fanno l’arte moderna. Dal 1900 al 1930, non si sono accontentati di condurre
quella vita d’artista che li ha resi detestabili ad alcuni e che molti hanno
invidiato: hanno soprattutto inventato il linguaggio del secolo.
Sono stati odiati anche per questo. Gli scandali dell’Ubu Roi, della Sacre
du Printemps, della «cage aux fauves», dei «cubisti» o del Bonheur de vivre
esposto da Matisse al Salon des Indépendants del 1906, danno la misura della
violenza suscitata dalle avanguardie. Stravinskij, benché fosse stato fatto

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oggetto di scherno, accettava quella violenza; pensava che non toccasse al
pubblico mostrarsi indulgente verso gli artisti, ma all’artista capire il rifiuto
che a volte gli si oppone: lui stesso se avesse ascoltato le sue opere qualche
anno prima non le avrebbe tenute in nessun conto.
Le avanguardie disturbano sempre. Ma la società finisce per integrarle. Le
tendenze più moderne fanno dimenticare le audacie delle precedenti
generazioni. Ai suoi tempi, l’impressionismo aveva provocato il furore del
pubblico e della critica. Il neo-impressionismo l’aveva fatto impallidire prima
di apparire a sua volta sotto colori più spenti in confronto agli orrori fauves,
questi ultimi spazzati via dalle mostruosità cubiste. In poesia, i romantici
sono stati detronizzati dai parnassiani e questi dai simbolisti nei quali Blaise
Cendras vedeva «poeti già archiviati». In musica, Bach supera la tradizione
classica post-barocca, Haydn, Mozart e Beethoven aprono l’orchestra alle
macchine sinfoniche di Berlioz, che ci appaiono armoniose se confrontate
alla dodecafonia. Quanto a Erik Satie, era tanto se la critica della sua epoca
gli concedeva lo statuto di musicista...
All’inizio del secolo, la Francia è la capitale delle avanguardie. Ma non
solo. A Montmartre coabitano due scuole. Una si inscrive senza rotture nella
tradizione di Toulouse-Lautrec: Poulbot, Utrillo, Valadon, Utter e gli altri non
hanno mai provocato i fulmini che cadranno sulle teste degli abitanti del
Bateau-Lavoir. Là, si rispettavano le forme. Qui le si sconvolge per cercare la
nuova arte. Mescolando le lingue e le culture, attingendo ad un humus di
incredibile diversità, gli spagnoli Gris e Picasso, l’olandese Van Dongen,
l’italo-polacco Apollinaire, lo svizzero Cendrars, ma anche i francesi Braque,
Vlaminck, Derain e Max Jacob, infrangevano ogni regola per liberare la
pittura e la poesia. Dall’altra parte della Senna, a Montparnasse, lavorano
l’italiano Modigliani, il messicano Diego Rivera, Krogh lo scandinavo, i russi
Soutine, Chagall, Zadkine, Diaghilev, i francesi Léger, Matisse, Delaunay –
tra i tanti. Negli anni Venti arriveranno gli scrittori americani, il romeno
Tzara, gli svedesi, altri russi, e cittadini di tutte le nazioni. Parigi diventerà la
capitale del mondo. Sui marciapiedi, non saranno più cinque, o dieci, o
quindici, come a Montmartre, ma centinaia, migliaia. Un pullulare di una
ricchezza ineguagliata, neanche anni dopo, a Saint-Germain-des-Prés. Pittori,
poeti, scultori, musicisti. Da tutti i paesi, di tutte le culture. Classici e
moderni. Ricchi mecenati e mercanti per caso. Le modelle e i loro pittori.
Scrittori ed editori. Squattrinati e miliardari.
Prima della grande guerra, se Picasso era già ricco, la maggior parte dei
suoi compagni viveva in una povertà incredibile. Dopo il ’18, si

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comperavano Bugatti e hôtels particuliers. Finiva il tempo degli imbrattatele
geniali. Guillaume Apollinaire, morto due giorni prima dell’armistizio, si
porta via l’epoca dei pionieri. Modigliani, scomparso nel 1920, conclude
l’elenco delle vite vagabonde vissute da Villon e Murger. Il bulgaro Jules
Pascin chiude per sempre la porta dei primi trent’anni del secolo: il tempo
delle bohèmes.
Avevano scelto di vivere a Parigi, città fraterna, generosa, che aveva
saputo offrire la libertà a tutta quella gente venuta da fuori. Oggi Picasso,
Apollinaire, Modigliani, Cendrars e Soutine non potrebbero vivere a Parigi.
Li avrebbero respinti lontano dalla Senna. Lo spagnolo per uso di droga,
l’italo-polacco per ricettazione, l’italiano per scandalo sulla pubblica via, lo
svizzero per furto, il russo per miseria cronica e mendicità appena
mascherata.
Potremmo aggiungere altre ragioni. Tutte dimostrerebbero che gli artisti,
oggi come ieri, camminano più sovente sui bordi che non al centro della
strada. Restano ciò che non hanno mai smesso di essere, restano quello che li
rende così particolari. Sono spostati.
Parlare degli artisti di ieri, significa anche amare quelli di oggi. La memoria
è riflesso, l’ombra, una proiezione. Al di là degli anni, gli artisti restano i
fratelli dei loro predecessori.
Erano prima di tutto esigenti. Modigliani, Soutine, Picasso, votati solo alla
loro arte, criticavano Van Dongen e alcuni altri, passati dalla parte del gran
mondo. Li consideravano rinnegati, compromessi. Tecnici, artigiani della
pittura. E un artigiano non è un artista. Pierre Soulages mi ha detto perché
sono diversi: «L’artista e l’artigiano sanno tutte e due dove vanno; ma l’artista
ignora la strada che prenderà per arrivare alla sua meta». Geniale.
L’artista lavora da solo, non impiega nessuno e non ha una professione.
Dipingere o scrivere non dipende da una faccenda di mestiere; è come
respirare. Anche i suoi attrezzi sono incerti. Se manca l’idea, se
l’immaginazione viene meno, se la testa non funziona, niente e nessuno potrà
salvare l’artista soffocato dal niente. E nessuno potrà prendere il suo posto:
l’opera d’arte è unica come unico è l’artista. Le cariatidi di Modigliani sono
incomparabili. Se capita a Robert Desnos di comprare un carboncino di
Picasso venduto come un’opera di Braque è perché durante il grande periodo
del cubismo analitico i due artisti dipingevano insieme. Tanto l’uno che
l’altro cercavano. Il dubbio costituisce l’eterno linguaggio dell’artista davanti
a se stesso. L’opera nuova non è mai acquisita. Non appoggia su niente,
nemmeno sulla precedente. Il successo, la curiosità sono effimere. Ogni volta

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bisogna ripartire da zero. Questo zero è un abisso. Un vuoto. L’artista vive
solamente sulla sua ispirazione. Se questa viene a mancare, è la fine. Così
procede l’uomo davanti all’opera che sta nascendo

Montmartre & Montparnasse nasce negli studi del Bateau-Lavoir e cresce


sui marciapiedi della Ruche e di Montparnasse. Incrocia un romanzo, Nu
couché.1 Ne riempie gli spazi, i vuoti e i misteri non svelati.
Ho scritto questi due libri insieme, per diversi anni, riposandomi dell’uno
sull’altro, incapace di dividerli, di separarli. Sono i fratelli siamesi della stessa
avventura letteraria: l’uno romanzo, l’altro cronaca. Non avrei potuto scrivere
Nu couché senza scrivere Montmartre & Montparnasse, e Montmartre &
Montparnasse non esisterebbe senza Nu couché. La storia degli uomini che
hanno fatto crescere l’arte moderna è così ricca che un solo libro non mi è
bastato per esaurire i pezzi del caleidoscopio che da tanti anni vado
osservando. Sono compagni straordinari ma tenaci. Frequentandoli, ho
dimenticato i motivi che mi avevano condotto a loro.
Avevo iniziato prima Nu couché. La prima versione non funzionava.
Troppo pesante. La realtà sommergeva l’invenzione. I personaggi nati dal
mio immaginario si arrendevano agli eroi del Bateau-Lavoir e del carrefour
Vavin. Quelli forse un romanzo se lo meritavano, ma lo meritavano anche
questi.
Ho ricominciato. Ho tolto dal Nu couché le scale che mi avevano permesso
di arrampicarmi all’assalto della mia fortezza. Le ho sistemate altrove. E ho
scritto i due libri parallelamente.
Nu couché visita gli studi, i caffè e i bordelli dell’epoca attraverso
invenzioni che non appartengono solamente ai testimoni del momento. È
come una creazione fissata in una cornice.
Montmartre & Montparnasse esplora il quadro nelle sue luci e nella sua
ricchezza. Racconta gli artisti che vivevano a Parigi nei primi decenni del
nostro secolo con la voce del narratore.
Non sono uno storico dell’arte. Lo scrittore ha la sua lingua. Questa è la
mia. È come scrivere un altro romanzo: quello dei personaggi, dei luoghi,
delle opere che il secolo, voltando pagina, porterebbe su un’isola deserta, se
gli piacesse di ritrovare se stesso all’ombra della propria memoria.

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***

... Fare in modo, almeno per un po’, di avere un


aspetto meno terribile: biancheria, scarpe lucide,
capelli pettinati, gesti educati.
Verlaine a Rimbaud

Due uomini salgono su per la rue Didot, a Parigi, nel XIV arrondissement.
Hanno appena compiuto vent’anni. Sono compagni di classe. Non parlano,
camminano in fretta.
Alla loro sinistra, gli alti muri di cinta dell’ospedale. Passano sotto il
portico, seguono viali che li portano in un edificio, poi in un altro, fino a una
grande stanza lunga e stretta dove gli dicono di aspettare. L’uomo che
cercano, un vecchio carcerato recidivo, non è lì.
Si informano. Gli dicono di pazientare. Finalmente, un’infermiera li
conduce in una grande sala. Ci sono sei letti di ferro sistemati da una parte e
dall’altra di una finestra che si apre sul giardino.
L’uomo che sono venuti a trovare occupa il letto di mezzo, a destra della
finestra. Il suo nome è scritto su un foglio sopra il cuscino. Ha i capelli grigi,
gli occhi di fauno, una fronte massiccia, una barba incolta. Porta un berretto
e una camicia grossolana con il timbro dell’ospedale.
I due visitatori si presentano. L’uomo disteso si alza a sedere, sbarazza il
letto dai giornali e dai libri che lo ingombrano. Poi si alza. Infila un paio di
pantaloni logori, un gilè pieno di macchie e una veste da camera
dell’ospedale.
Precede i visitatori nel corridoio.
Si affrettano verso il cortile. Lì, per più di un’ora, si scambiano confidenze
incrociando vecchi malaticci che sbirciano severamente quello strano trio
composto da due studenti ben messi e da un ricoverato che ha l’aria di un
barbone.
Si separano.

Un anno dopo, l’uomo ha lasciato l’ospedale Broussais. Cammina a fatica,


appoggiandosi a un bastone. In una via di Montmartre incrocia uno dei suoi

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giovani visitatori e non lo riconosce. Questi si ferma e si presenta. Parlano
per qualche minuto.
«Mi offra un bicchiere», chiede il vecchio carcerato.
Apre un portamonete semivuoto e dice che lì dentro c’è tutta la sua
fortuna. Qualche moneta. Dice anche che un cameriere, giudicandolo troppo
mal messo, l’ha appena buttato fuori da un bistrot.
Entrano in un caffè e ordinano qualcosa.
«Dove abita?», chiede lo studente
L’altro alza tristemente le spalle.
«Io non abito. Dormo dove posso.»2

Così parlava il poeta. Non alla fine di questo secolo ma alla fine del
precedente. L’uomo senza casa è Paul Verlaine. Quelli che lo ascoltano Pierre
Louys e André Gide. Oggi Verlaine dormirebbe nel metrò.
La miseria ha i denti aguzzi.

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I
GLI ANARTISTI DELLA BUTTE
MONTMARTRE

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Il maquis di Montmartre

In cima alla Butte Montmartre si erge la basilica di


Notre-Dame de la Galette. Questo orrendo
fabbricato, una delle vergogne della nostra epoca,
fa lo sberleffo a Parigi che domina dall’alto –
prova materiale che i riccastri sono sempre
onnipotenti.
Le père Peinard,1897

All’inizio del secolo, Montmartre e Montparnasse si fronteggiano. Due


colline da cui nasceranno le bellezze del mondo di ieri e anche quelle di oggi.
Due sponde del fiume Haussmann che, costruendo case e viali per i borghesi,
ha respinto il popolino ai confini di Parigi. Un sistema usato da sempre per
rivalutare il centro. A destra, il Bateau-Lavoir. A sinistra, l’atmosfera fumosa
della Closerie des Lilas. Tra i due, scorre la Senna. E tutta la storia dell’arte
moderna.
Montmartre innalza il suo Sacré-Coeur. Bisanzio sulla Senna. Un patè tutto
bianco che si alza, si alza, si alza sopra i mulini a vento, le vigne e gli orti.
Thiers ha dato inizio allo spettacolo. Provocando Montmartre, ha scatenato
la Comune. I parigini hanno conservato i cannoni della città che si trovavano
là. Evidentemente non è per un caso che il Sacré-Coeur sia stato costruito
proprio là dove ha avuto inizio la Comune: un modo per fare espiare la colpa
della rivoluzione.

La basilica sovrasta oscuri alberghetti, cabaret allegri, esili baracche di


legno o di cartone incatramato che si arrampicano anche loro su per la
collina, in un intreccio di lillà e di biancospini. Nel cuore di questo
sottobosco fuori da ogni norma, Isadora Duncan e le sue allieve danzano alla
greca in tunica e a piedi nudi, gioiose. Montmartre è un villaggio. Vi si può
cantare, danzare, mangiare, dormire per pochi soldi. Le palazzine private
dell’avenue Junot non sono ancora state costruite. Le case chiuse tengono
tavola imbandita sulla rue d’Amboise. Si sognano ancora le sottane della

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Goulue, i fianchi di Rayon d’Or, il passo di Valentin le Désossé, aiuto notaio
durante il giorno, ballerino la notte, unico uomo della Quadrille Réaliste le
cui spaccate esaltavano le folle dell’Elysée-Montmartre, che tra poco sarebbe
stato soverchiato dalle ali del Moulin Rouge.
Bruant insulta i borghesi. Satie suona le sue gymnopedies al Chat Noir, in
boulevard Rochechouart, dove Alphonse Allais fa il suo debutto. Alla
direzione: Rodolphe Salis. Quando, quindici anni prima della fine del secolo,
il locale passa la mano al Mirliton, il giornale «Le Chat Noir» continua a
graffiare a tutto spiano. Allais arriva a intingere la penna nel calamaio di
un’identità più conosciuta: firma i suoi articoli con uno pseudonimo,
Francisque Sarcey, che in realtà è il nome di un critico d’arte drammatica in
carne ed ossa e molto in vista al giornale «Le Temps». Uno scherzo tra i tanti.
Jane Avril, amante del poeta, posa per Toulouse-Lautrec, che non è il primo
pittore in un quartiere dove aleggiano le grandi ombre di Géricault, Cézanne,
Manet, Van Gogh, Moreau, Renoir, Dufy, Degas. Già si intravedono le
silhouettes di quelli che verranno, artisti che in punta di piedi vanno a
imparare nei musei, si installano dove c’è un posto libero e attendono la loro
ora. Prima Montmartre, poi Montparnasse. Dopo, se le muse li porteranno
lontano, il mondo intero.
È forse per proteggersi, per coltivare le sue differenze che Montmartre si è
istituita in libero Comune? Certo, lo si può considerare uno scherzo, ma non
è solo questo. C’è anche un desiderio di singolarità, di libertà che, agli albori
del secolo, spinge qualche «indigeno» del quartiere a decidere che la place du
Tertre sarà la capitale di un territorio autonomo. Si vota. La proposta vince
con la maggioranza assoluta. Dopo di che, viene eletto un sindaco. Jules
Depaquit, disegnatore di professione, viene dunque scelto come primo
amministratore della Comune libera di Montmartre. Aveva ottenuto le sue
credenziali qualche anno prima transitando per la guardina della prefettura di
polizia: aveva lasciato capire di essere l’autore dell’attentato al ristorante Very
in boulevard Magenta.
Scagionato (i responsabili erano in realtà anarchici che avevano voluto
vendicare Ravachol, arrestato a un tavolo del locale), aveva guadagnato una
notorietà che era aumentata dopo l’elezione, al punto di diventare una figura
essenziale della sua nuova patria: cantato da Francis Carco, lodato da Roland
Dorgelès, ammirato da Nino Frank e da Tristan Tzara che vedrà in lui uno dei
precursori del movimento dada. Avrebbe anche sedotto Picasso che sarebbe
andato spesso ad ascoltarlo declamare i suoi versi al Lapin Agile.
Jules Depaquit ha lasciato un’opera che Satie ha messo in musica per la

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Comédie di Parigi, e che fu trascritta da Darius Milhaud e messa in scena dai
Ballets Russes con la scenografia di Derain nel 1926: Jack in the Box. In
questa pantomima un uomo che porta un grosso orologio attraversa e
riattraversa la scena senza che si possa capire quale sia il suo ruolo. Che
veniva svelato solo all’inizio dell’ultimo atto: quell’uomo era un orologiaio.
Depaquit si guadagnava la vita vendendo disegni ai giornali umoristici. La
perdeva nei bistrot in cui entrava diritto per uscirne piegato in due.
Regolava scrupolosamente l’impiego del proprio tempo: una settimana di
lavoro assiduo, tre settimane di bisboccia. Non si sa quando gli sia venuta
l’idea di quella parola d’ordine strettamente politica che avrebbe mobilitato
tutte le sue energie ufficiali: ottenere l’indipendenza del suo popolo e la
separazione di Montmartre dallo Stato francese.
Vantava i meriti di questo nuovo statuto in mille comuni stranieri situati
per la maggior parte in Seine-et-Oise, dove veniva invitato come
plenipotenziario di una nuova nazione. Il programma: vino e fanfare.
All’interno delle sue frontiere, Depaquit aveva messo a punto un metodo
infallibile per bere gratis. Quando non aveva più un soldo, entrava in un
caffè. Triste e abbattuto. Il cappotto sulle spalle, una valigia in mano. Gli
chiedevano:
«Dove va, signor Depaquit?».
E lui rispondeva, una lacrima tra le ciglia: «Me ne torno al mio paese».
«Dov’è il suo paese?».
«Sedan».
«Sedan? Così lontano?».
«Certo, così lontano. Capirete la mia tristezza...».
Piangevano insieme. Si apriva una bottiglia per consolarsi, la si vuotava
per tirarsi su. Quando il dolore era dimenticato, Depaquit saltava sul tavolo e
urlava: «La Prussia è entrata in Sedan, ma Montmartre resisterà!».
Si alzavano i bicchieri al valore delle truppe della Butte, truppe che di
solito si arrendevano all’alba, dopo grandi bevute.
Depaquit, lui, acclamato dai suoi, non poteva risolversi a capitolare, come
Napoleone III.
Salvo, forse, quel giorno in cui tutta Montmartre prese le armi e rivestì le
uniformi dei soldati del ’70 per difendere Francisque Poulbot, il pittore dei
ragazzini della Butte.
Poulbot era un appassionato di feste e sfilate. Ogni anno, per consolare la
sua compagna che non era ancora riuscita a farsi portare davanti al sindaco,
organizzava un finto matrimonio a cui partecipava tutta la gente dei dintorni.

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Per l’occasione, tutti si travestivano e passavano la notte a ballare, bere e
applaudire la sposa.
Il padrone di casa di Poulbot voleva sfrattarlo. Il pittore aveva chiamato i
suoi alla riscossa, e aveva detto loro di mettersi le uniformi dei soldati che
avevano difeso Parigi assediata prima della rivoluzione della Comune, e di
barricarsi a casa sua, pronti a vendere cara la pelle nel caso il padrone
attaccasse.
Quest’ultimo aveva però ceduto prima dell’assalto finale. Ma Poulbot
aveva mantenuto la convocazione. Il giorno fissato, le stradine di Montmartre
erano affollate di corazzieri, zuavi, lanceri, artiglieri e federati, tutti muniti di
fucili e dall’aspetto marziale. A quanto dice Roland Dorgelès, a notte avanzata
le truppe di Montmartre furono raggiunte da soldati della guardia nazionale
venuti da Montparnasse, ugualmente travestiti e muniti di baionette affilate
che sfilavano marciando davanti ai veri agenti allibiti.
Le pattuglie sciamarono sui boulevard, spianando il fucile contro i passanti
che uscivano dai cinema. Si giocò alla guerra fino all’alba. L’armistizio fu
firmato dopo che, sciabola sguainata e squilli di tromba, le truppe del
generale Poulbot avevano attaccato il Moulin de la Galette.
Le feste e le provocazioni di questi buontemponi attiravano curiosi e
turisti, venuti dai grandi boulevard in redingote e cilindro. Per fortuna gli
omnibus tirati dai cavalli non salivano fino in cima alla Butte ma si
fermavano sulla place Blanche, dopo di che bisognava arrampicarsi per le
strette stradine. Montmartre si teneva in disparte, proteggendo le proprie
particolarità. Aveva i suoi cantori, che appartenevano tutti alla stessa famiglia.
Famiglia di cui non si era ancora palesato il ramo cadetto, più attento
all’incrociarsi delle arti, e di cui faranno parte Pablo Picasso, Max Jacob e
Guillaume Apollinaire.
Per il momento, Depaquit e i suoi conducono la danza. In piedi sui tavolini
dei caffè, Carco canta la Marsigliese e Mac Orlan sveglia gli amici suonando
la tromba sotto le finestre. Tutti in fondo al cuore sono anarchici. Mangiano,
ma male, bevono molto più della media, dormono qui e là, dove trovano e
quando possono, non ancora nel metrò, la cui linea nord-sud unisce
Montmartre a Montparnasse. I loro documenti non sono sempre in regola, il
loro domicilio vagamente fisso, gli capita di tendere la mano.
Qualcuno imbratta tele che si vendono a fatica. Altri fanno musica. Molti
sono diventati maestri nell’arte di servirsi nel piatto del vicino. Ma il vicino è
generoso: fa credito e chiude un occhio. Sui fornelli dei bistrot bollono
marmitte nelle quali i ristoratori affondano i mestoloni per i loro clienti

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squattrinati. È la zuppa del popolo. Pittori e poeti la dividono con i libertari
che, agli inizi del secolo, affollano Montmartre.
Il caso non basta a spiegare perché si siano incontrati, in un quartiere alla
periferia della città, ai margini dei grandi boulevard. Le sinuose stradine in
salita in cui ci si è battuti corpo a corpo solo pochi anni prima albergano gli
uomini, i giornali e la memoria. Libertad tiene i suoi incontri popolari in rue
Muller. Il giornale «L’Anarchie», che non ha né direttore né capo redattore, e
il cui codice morale e tipografico proibisce l’uso delle maiuscole, è
accampato in rue Chevalier-de-la-Barre. «Le Libertaire» sta in rue d’Orcel. I
suoi redattori ritrovano gli amici e i loro lettori nella sala interna di Zut, un
caffè della rue Norvins che la polizia chiuderà tra poco per proteggere le
orecchie dello Stato dai discorsi sovversivi che i clienti tengono al banco.
Steinlen, pittore svizzero autore dei manifesti del Chat Noir, predicherà
altrove la rivoluzione imminente. E Monsieur Dufy sarà schedato in
Prefettura per avere ospitato un confratello la cui tavolozza era imbrattata di
rossi e di nero incendiari.
Negli anni che precedono la prima guerra, Juan Gris sarà incarcerato per
essere stato confuso con Garnier, personalità di spicco nella banda Bonnot e
nel mirino della gendarmeria. Pierre Mac Orlan, cronista della Butte,
attribuisce a un elettricista del suo Quai des Brumes un ruolo che veniva
spesso interpretato dai libertari del quartiere: la fabbricazione di documenti
falsi. È lui che aiuta il disertore in cerca di una nuova identità, e accompagna
il suo gesto con una frase tipica dei tempi e del luogo: «Sono ricercato dalla
polizia per una storia di stampa anarchica».1
Signac, Vallotton e Bonnard partecipano a lotterie in cui le loro opere sono
messe all’asta a beneficio esclusivo del «Revolté», giornale libertario fondato
da élisée Reclus e Jean Grave. A queste lotterie partecipa anche Van Dongen,
amico dell’anarchico Félix Fénéon. Nel 1897, Van Dongen illustra la
traduzione olandese di un’opera di Kropotkin, L’anarchia, la sua filosofia, il
suo ideale. Vlaminck proclama ad alta voce i suoi propositi violenti (con
qualche variante, ahimè, durante l’Occupazione).

Gli anarchici e gli artisti, tuttavia, anche se condividono gli ideali, non si
battono allo stesso modo. Pittori e poeti non giocano con le macchine
infernali degli attentatori. Ma spesso li sostengono. E sono in prima fila per
quanto riguarda le messinscene, le farse, le beffe, le provocazioni e gli
scherzi di ogni genere. Anche loro voltano le spalle al confort dolciastro dei
letti borghesi. A Montmartre, come più tardi a Montparnasse, si oppongono

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risolutamente alle geometrie ben composte dei comportamenti.
Sono ribelli.

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Litrillo

BERE MOLTO: Chauffer le four, churluper, faire


jambe de vin.
Aristide Bruant

A sedicimila leghe da Parigi, in piena prosa transiberiana, Cendrars si


disperava: «Di’, Blaise, siamo molto lontani da Montmartre, vero?».
Prima della guerra, la Butte era ancora centro, e tutto intorno c’era il
mondo.
Chi contribuì maggiormente allo sviluppo e anche, purtroppo, alla rovina
della Butte, è Utrillo. Senza volerlo, così come non voleva dipingere. È
successo così. Quando le sue Places du Tertre e i suoi Moulins de la Galette
presero il volo per le vendite di Drouot, tutti i pittorucoli della Butte e di
Navarra ne scarabocchiarono copie e si misero a dipingere alla maniera di...
Bisognava pur mangiare, d’accordo, ma finì che si fecero fuori Montmartre
Un bel tipo, Utrillo.
Un ragazzo del posto, nato nel 1883 in rue de Poteau, in un clima libero se
non liberato, più vicino alle prediche del père Peinard che al manuale dei
rapporti amorosi messo in versi da Géraldy.
Sua madre era Suzanne Valadon. Piccola, la faccia rotonda, di una bellezza
decisa, occhi azzurri straordinariamente luminosi che hanno acceso più di
una passione. Una delle rare donne che non aveva fatto la ballerina e di cui
Montmartre ha conservato il ricordo. Una indipendenza di costumi e di
spirito che contrastava con la saggezza dell’epoca.
Veniva dalla campagna. Figlia di una domestica e di un padre che se n’era
andato dopo la sua nascita. Venuta giovanissima a Parigi, la bugia facile:
diceva di avere qualche anno di meno, di essere nata in una famiglia ricca e
ingannava tutti sul suo nome: Suzanne le fu suggerito più tardi; per lo stato
civile era Marie-Clémentine, e per gli artisti che la usavano come modella
Maria.
Aveva fatto mille mestieri prima di diventare acrobata al Circo Fernando.
In seguito a una caduta, era stata costretta a cambiare attività ed era diventata

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modella. Posò, liberamente e quando ne aveva voglia, per Puvis de
Chavannes, per Toulouse-Lautrec e per due notori antidreyfusardi, firmatari
nell’ottobre del 1898 del manifesto di Barrès della Lega della Patria Francese:
Renoir e Degas. Quest’ultimo l’aveva incoraggiata a dipingere.
Era stata l’amante di quasi tutti i suoi mentori: anche di Erik Satie. Il
musicista le aveva mandato trecento lettere in sei mesi. La chiamava «mon
petit Biqui», cosa che non commuoveva la bella Suzanne. L’idillio durò poco
e fu piuttosto animato: la signora sapeva difendersi.
Suzanne ebbe un figlio, Maurice, nato da un padre di cui non si sa granché
se non niente: contrariamente ad alcune tesi e ipotesi, non fu certamente il
pittore e critico d’arte catalano Miguel Utrillo, grande amico di Picasso
durante i suoi primi anni a Montmartre. La maggior parte degli amici di
Utrillo, senza dubbio con ragione, vedevano in Miguel soprattutto un amante
generoso nel riconoscere la paternità. Nulla conferma d’altra parte
l’affermazione di Francis Carco, che pretende che il padre dell’artista sia stato
un certo Boissy, pittore, povero e alcolizzato.
Per qualche anno, Suzanne Valadon conduce una vita sregolata, da madre
nubile. Poi si sposa una prima volta con un procuratore amico di Satie, un
uomo ricco che manda Maurice al Sainte-Anne e che Suzanne finisce per
rimpiazzare con uno dei migliori amici del figlio. Il nuovo eletto si chiamava
André Utter. Faceva l’elettricista e, nelle ore libere, il pittore. Quando lo
distolse dal suo lavoro perché si consacrasse al proprio, Suzanne Valadon era
sui quarantacinque, Utter aveva vent’anni meno di lei e tre meno di Maurice.
Il patrigno era il più giovane del trio – a cui bisogna aggiungere la nonna
materna, che viveva con il resto della tribù.
Una famiglia bizzarra, ma comunque una famiglia. La mamma dipingeva
sotto gli occhi di due giovanotti: uno era suo figlio, l’altro suo marito. I due
ragazzi si amavano di amore fraterno ed erano colleghi: dipingevano anche
loro. Sotto questo profilo, il quadro era dunque molto armonioso. Ma si
facevano molti pettegolezzi.
Suzanne pescava anche altrove e da molto tempo. A causa di Maurice. Si
era dato molto precocemente al culto della dea bottiglia. Non come i suoi
amici della Butte che, vivendo alla luce del sole, lavoravano di giorno e
bevevano la notte. Utrillo beveva di continuo. Un dramma per sua madre. Un
calvario per lui. Un orrore per i vicini, che dovevano subire le urla del pittore
quando Utter e Valadon lo rinchiudevano per tenerlo un po’ a secco.
Insultava la madre e il patrigno. Faceva a pezzi i loro quadri. Buttava tutto
dalla finestra. Mentre Suzanne Valadon, disperata, cadeva in crisi di nervi

19
rumorose e movimentate, il ragazzo s’impadroniva del flauto e suonava un a
solo, lui che non sapeva leggere una sola nota di musica e capiva a stento
l’utilità di chiudere i buchi del flauto con le dita.
Intorno a lui, i vicini sognavano soltanto che facesse silenzio. Che si
mettese a dipingere.
Tutto era cominciato con il suggerimento di uno psichiatria consultato da
Suzanne al Sainte-Anne: «Trovategli un’occupazione che lo tenga lontano dal
vino».
Aveva fatto come Degas con lei, qualche anno prima: l’aveva incoraggiato
a dipingere. Lo chiudeva a chiave in una stanza con pennelli e colori, gli dava
una pila di cartoline postali e diceva: «Ti aprirò quando avrai finito».
Quando Utrillo dipingeva, nient’altro contava per lui. Non pensava né a
bere né a mangiare. Ma, come aveva finito, si buttava sulla bottiglia.
Detestava dipingere all’aperto. Gli sguardi della gente gli pesavano come
una dura indiscrezione. Per non essere spiato, si appoggiava a un muro. E
quando insistevano, si girava verso gli importuni, che finivano per battersela
sotto una grandinata d’insulti. Dopo qualche anno passato a recriminare
contro la curiosità dei contemporanei avidi dello spettacolo della pittura,
Utrillo finì per rappresentare il piccolo mondo di Montmartre prendendo
come modello soltanto cartoline postali.
Francis Carco, che l’aveva visto al lavoro, ha testimoniato della calma
serietà con la quale sceglieva tra le cartoline che aveva raccolto, e della cura
meticolosa con la quale ingrandiva il soggetto, riportandone le misure con
l’aiuto di un compasso e di un regolo sul cartone che gli serviva da supporto.
Dorgelès, che gli fu amico, ha notato l’esigenza quasi morbosa con la quale il
pittore teneva che ogni cosa fosse rappresentata esattamente:
La sua produzione non gli sembra mai abbastanza fedele. Conta le file di pietre, copre
con cura i tetti, intonaca le facciate. Per renderne il colore, spezza i tubi e si infuria
perché non trova quello giusto. «Le facciate non sono in bianco argento, no? Né in
bianco di zinco... Sono in gesso...». Vuole ottenere lo stesso bianco gessoso. Gli viene
così l’idea strampalata di dipingere le case con un misto di colla e di gesso che
applica con un coltello. (...) Spesso, prendeva come soggetto una chiesa (...) «Mi
piace fare le chiese», ci spiegava.1

Il venerdì era un giorno tranquillo. Grazie alle chiese, appunto. Utrillo le


adorava. Soprattutto la cattedrale di Reims, per il culto particolare che
riservava a Giovanna d’Arco. Il venerdì era consacrato alla Pulzella. I cassetti
e i ripiani del pittore erano ingombri di medaglie, busti e oggetti vari che si

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riferivano alla santa. Pregava per lei.
Il sabato ritrovava le gioie dell’inferno. Un medico che l’aveva ospitato per
alcune settimane confidò a Francis Carco che beveva tra gli otto e i dieci litri
di vino al giorno. E che una sera, dopo essersi scolato tutto, dalla cantina al
solaio, era entrato nella camera matrimoniale, aveva scoperto le riserve di
acqua di Colonia della coppia e si era bevuto tutte e cinque le bottiglie.
Sulla Butte, i ragazzi di Montmartre lo chiamavano Litrillo. Lo seguivano a
passi misurati quando, dopo aver dimenticato la sua disperazione, il pittore
percorreva le stradine, i gomiti stretti alla vita, facendo tuf tuf tuf e fingendo
di lanciare getti di vapore, per imitare il più possibile una locomotiva
demoniaca che, affermava, si era appena rovesciata, lasciando al mondo un
solo superstite, cioè lui, tuf tuf tuf – dopo di che, tornava a casa a giocare con
un trenino, vero, dopo aver sistemato le rotaie sul pavimento.
Il poeta André Salmon racconta che una volta, sfuggito alla duplice
sorveglianza della madre e del patrigno, Utrillo si era rifugiato in un hôtel di
Montmartre, le tasche piene di fuochi d’artificio. Poi, chiuso nella stanza, li
aveva fatti esplodere, dando fuoco alla casa. Erano arrivati pompieri e
poliziotti. Alcuni gridavano «Al fuoco!». «Al folle!», rispondevano altri.
Ma non era pazzo, povero Maurice. L’avrebbe proclamato pubblicamente,
dopo che Francis Carco aveva pubblicato un libro su di lui.2 In totale
disaccordo con il ritratto che lo scrittore aveva tracciato di lui, Utrillo si era
chiuso a doppia mandata nel suo studio della rue Cortot, e aveva buttato dalla
finestra decine di disegni sul retro dei quali aveva scritto: «Carco dice che
sono pazzo. No, non sono pazzo. Sono alcolizzato».
Quando, istruiti da Suzanne Valadon, gli osti di Montmartre gli chiudevano
la porta in faccia, andava a ubriacarsi nelle bettole della Chapelle o della
Goutte d’Or. Tornava a casa con la faccia tumefatta. L’indomani sua madre
riceveva una cartolina impostata la sera prima, in cui suo figlio, che l’adorava
e l’ammirava, aveva scritto soltanto: «Non ubriaco!».
Quando non aveva più un soldo, scambiava un dipinto con un bicchiere di
vino, o di assenzio. Oppure si sedeva sul marciapiede e distribuiva le sue
opere ai passanti. Per qualche franco accettava di dedicare una tela e di
consegnarla lui stesso. Per un po’ meno vendeva le sue vedute di Montmartre
nelle bottegucce di Pigalle, da Jacobi, macellaio in pensione, o da Soulié, un
lottatore convertito al mercato dell’arte.
Utrillo deve la sua salvezza come artista a un ex clown ed ex pasticciere
installato in una vecchia farmacia della rue Laffitte. Clovis Sagot si era legato
con gli artisti offrendo loro dolci e sciroppi che aveva scoperto nelle cantine

21
della sua officina. Diceva di essere un mercante di quadri; a detta di molti
(soprattutto di Picasso che fu anche lui suo cliente), era soltanto un rigattiere.
Eppure aveva una conoscenza incontestabile nel campo dell’arte. Sufficiente
in ogni caso per capire rapidamente i vantaggi che poteva trarre dalla pittura:
alla vigilia della guerra, la galleria Clovis Sagot faceva pubblicità in termini
inequivocabili:

Clovis Sagot aveva cominciato in piccolo. Aveva proposto a Utrillo di


comprargli le tele piccole a cinque franchi, a dieci le medie e a venti le più
grandi. Maurice non si era lasciato sfuggire questa occasione insperata che gli
avrebbe permesso di bere liberamente. Aveva moltiplicato le vedute di
Montmartre e i bicchieri sul banco. Poi, spinto da Suzanne Valadon, aveva
abbandonato Sagot per un altro mercante, Libaude, ex banditore di cavalli e
animatore di riviste, che aveva accettato di occuparsi del figlio a condizione
che la madre garantisse per lui. Firmato il contratto, aveva offerto all’artista
una cura disintossicante che, una volta di più, non sarebbe servita a niente.

Qualche anno più tardi, dopo il successo di Montparnasse, da Utrillo era


andata la modella preferita da tutti i pittori dell’epoca: Alice Prin. Foujita,
Kisling, Man Ray e molti altri avevano già rappresentato questa giovane
donna vivace e sfacciata, conosciuta in tutto il mondo per i suoi trascorsi, il
suo modo di fare e la sua silhouette. Anche Maurice Utrillo voleva farle un
ritratto.
L’aveva messa in posa davanti al cavalletto e aveva continuato a dipingere
per tre ore. Alla fine della seduta, Kiki de Montparnasse aveva chiesto di
vedere il ritratto.
«Certo!», aveva risposto Utrillo.
Si era fatto da parte, la giovane donna si era avvicinata. Aveva guardato
come pietrificata il dipinto, poi di colpo era scoppiata a ridere – la risata che
tutti i bistrot della rive gauche conoscevano bene. Si era chinata ancora una
volta per essere sicura di non ingannarsi. Ma no, aveva visto giusto. Sulla tela

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non c’era la figura della sua faccia né del suo corpo. Niente che si riferisse a
lei. Per tre ore Utrillo aveva dipinto una casetta di campagna.

23
La vita in blu

Vi sono in questo momento, come in ogni paese,


d’altra parte, tanti stranieri in Francia che è
interessante studiare la sensibilità di quelli che, tra
loro, essendo nati altrove, sono tuttavia arrivati qui
abbastanza giovani per essere formati dalla grande
civiltà francese. Questi stranieri introducono nel
loro paese di adozione le impressioni della loro
infanzia, che sono le più vive di tutte, e
arricchiscono il patrimonio spirituale della loro
nuova patria, così come il cioccolato e il caffè, per
esempio, hanno esteso il dominio del gusto.
Guillaume Apollinaire

La Montmartre del Mirliton, quella del Moulin de la Galette e della


Quadrille Réaliste, è la Montmartre nazionale. Con i suoi nomi che cantano
da soli, evocando immediatamente la grazia e la magia di un luogo: la place
du Tertre. La magia di un’epoca: l’incrociarsi di due secoli. La magia dei
personaggi: Bruant, Toulouse-Lautrec, la Goulue, Valadon, Utrillo, Mac
Orlan, Carco, Dorgelès...
Al loro fianco, già presenti da qualche anno, c’erano anche gli stranieri:
artisti, ma non soltanto.
La Francia del Secondo Impero aveva incoraggiato l’immigrazione per
realizzare le sue nuove grandi opere. L’industria delle miniere e dei metalli
reclutava la manodopera con le inserzioni. C’erano anche i contadini – molti
polacchi –, gli studenti – molti romeni –, gli intellettuali e gli artisti sfuggiti
alle persecuzioni zariste – molti ebrei. A questo riguardo, la Francia aveva
una reputazione piuttosto buona: nel 1791 era stata il primo paese ad
accordare agli ebrei la cittadinanza e l’eguaglianza dei diritti. Ne aveva
ricavato un’immagine che aveva varcato tutte le frontiere. All’inizio del
secolo, la Francia incarnava la nazione della libertà, della tolleranza e dei
diritti dell’uomo. Centinaia di pittori e di scrittori erano venuti a vivere in

24
Francia poiché solo qui potevano esprimere la ricchezza, la sensibilità e il
linguaggio che non avevano diritto di cittadinanza nei loro paesi. L’arte
moderna, nata sulle sponde di Montmartre e di Montparnasse, è il frutto di
questa amalgama continua.
Ai suoi tempi, Bordeaux aveva accolto uno spagnolo illustre, che era
morto tra le sue mura: Francisco Goya. All’alba del secolo un altro pittore,
anche lui spagnolo, sbarca in Francia: Pablo, Diego, Joseph, Francisco de
Paula, Juan, Népomuceno, Crispin de la Santissima Trinidad, Ruiz y Picasso.
Il giovanotto ha diciannove anni. Ha la reputazione di essere un artista
straordinario. A dieci anni disegnava come il suo insegnante di disegno.
Quando suo padre depone ai suoi piedi pennelli e colori, rinunciando a
un’arte in cui il figlio già lo supera, ha quattordici anni. A sedici anni è
accolto brillantemente all’Accademia Reale di Madrid. Quando arriva a
Parigi, non è più soltanto un enfant prodige.
Picasso non conosce ancora la Francia e conta di non restarci a lungo. Se
ha deciso di lasciare il paese natale è perché gli sembrava troppo povero,
troppo angusto, e perché la sua famiglia gli sembrava a volte troppo pesante.
Ma pensa che se dovesse decidere di oltrepassare per sempre i Pirenei, sarà
piuttosto per scegliere l’Inghilterra e i suoi preraffaelliti.
Picasso è a Parigi per l’Esposizione Universale del 1900. Una delle sue
opere, Les Derniers Moments (ricoperto nel 1903 per dipingerci sopra la Vie),
è stata scelta per rappresentare il suo paese. In occasione di questa
manifestazione ritrova gli amici spagnoli di Montmartre. Decide di restare.
In un disegno di quell’epoca, Picasso si è ritratto con gli amici davanti alla
porta dell’Esposizione. Il disegno la dice lunga sul posto che si è già scelto
nella banda: il primo. È il più piccolo di tutti, ma sotto la sua figura, in
grande, più leggibile dei nomi scritti sotto il profilo di quelli che lo seguono,
ha scritto: «Io».
I cinque spagnoli sono a braccetto: Pichot, Ramon, Casas, Miguel Utrillo,
Casamegas. C’è anche una donna, Louise Lenoir, Odette come modella, che è
stata l’amante di Picasso.
Questi spagnoli conoscevano già la Francia, specialmente Montmartre. A
Barcellona, in omaggio al Chat Noir parigino, hanno fondato un caffè-cabaret
che hanno chiamato El Quatre Gats. È qui, grazie ai manifesti, che Picasso ha
scoperto la cultura europea, l’impressionismo, Cézanne, Gauguin, Rodin...
Poiché i suoi amici stanno a Montmartre, Picasso viene a Montmartre. Un
pittore catalano, Isidre Nonell, gli cede il suo studio in rue Gabrielle. Poi
abita in boulevard Clichy, in una camera messa a sua disposizione da un altro

25
spagnolo, Manyac. La sua sagoma tarchiata, la frangia che cade sull’occhio
nero e vivace, l’odore del trinciato che sfugge da una pipetta corta, diventano
presto familiari tra la gente di Montmartre.
Lo si incontra spesso in compagnia del suo più vecchio amico, Manuel
Pallarès, e di uno scrittore catalano, Jaime Sabartès, che gli sarà fedele fino
alla morte. Da Ninell, in rue Gabrielle, Picasso abita con il suo amico
Casamegas, che conosce dall’epoca dei Quatre Gats.
Casamegas è probabilmente il più «politicizzato» degli artisti della colonia
spagnola. È legato al movimento libertario. Troviamo la sua firma accanto a
quella di Picasso in calce a una petizione che chiede la liberazione degli
anarchici spagnoli, imprigionati a Madrid nel 1900. Forse è a causa di questa
amicizia che Picasso sarà per un certo periodo sospettato dalla polizia
francese di appartenere al movimento anarchico – cosa che si rivelerà falsa
malgrado un’autentica simpatia per questa causa e per alcuni dei suoi
difensori, come Francisco Ferrer, la cui esecuzione, nel 1909, lo sconvolgerà.
Politico, Casamegas è anche sensibile, fragile e molto innamorato. Si è
infatuato di Germaine, una ragazza che posa come modella a Montmartre e, a
volte, nel letto di Picasso. Ma la sua fiamma si consuma da sola. Parla di
suicidio. Per fargli cambiare idea, Picasso lo trascina in Spagna. Ma i bordelli
non spengono la sua passione. Casamegas ritorna a Parigi. La sera del suo
arrivo, invita a cena alcuni amici in un ristorante di boulevard Clichy. C’è
anche Germaine. Casamegas annuncia a tutti che lascia la Francia per
ritornare definitivamente in Spagna. Germaine non mostra nessuna reazione.
Il pittore le chiede ancora di sposarlo. Lei alza le spalle. Casamegas tira fuori
una rivoltella, se la punta alla tempia e si spara un colpo in testa.
Picasso, molto scosso per la fine tragica dell’amico, lo dipinge in molte
tele, come La Mort de Casamegas (1901) e Casamegas dans son cercueil
(1901). La Femme au Chignon (1901), sguardo duro e bocca contratta,
rappresenta senza dubbio Germaine.
La morte di Casamegas segna una svolta nella sua opera. Fino ad allora,
aveva dipinto alla maniera di Toulouse-Lautrec. Picasso ammirava
quest’artista che aveva scoperto ai Quatre Gats. Sceglieva personaggi e
soggetti che il suo predecessore non avrebbe rifiutato, e li dipingeva con
colori vivaci molto apprezzati dal pubblico – come Le Moulin de la Galette
(1900). Si vendevano bene, i suoi quadri. Ma a poco a poco Picasso
abbandona questo stile e si dà a una pittura più tragica, più intima, una pittura
che corrisponde alla miseria in cui vive la comunità spagnola di Montmartre.
È il periodo blu.

26
Molti hanno detto che questo blu monocromo era ispirato dalla pittura di
El Greco. Corrisponde all’epoca dolorosa di Picasso, a un ripiegamento su se
stesso. Suggerisce la malinconia e la pena, la povertà e la miseria, spesso
morale, che accompagna l’artista poco dopo il suo arrivo a Parigi. Picasso va
spesso al carcere femminile di Saint-Lazare a guardare le prigioniere, e figure
di prigioniere appaiono spesso nelle sue opere e testimoniano dell’interesse
che Picasso nutriva all’epoca per una certa immagine del dolore.
Il blu si addice a questa visione del mondo e alle condizioni nelle quali
lavora, chiuso la notte nello studio, illuminato dalla lampada a petrolio.
Si pone allora le stesse domande che si fanno tutti i suoi amici: come fare
per vivere, dipingere e mangiare?
Il meno povero di tutti è lo scultore e ceramista Paco Durrio. È stato
allievo di Gauguin. È rimasto suo amico. Possiede disegni, acquerelli e una
quindicina di tele dell’esiliato delle isole Marchesi. È lui che lo farà conoscere
a Picasso.
Paco è molto ospitale e la sua tavola è a disposizione degli amici. Quando
questi non vanno da lui, è lui che li va a cercare: spesso lascia del pane e una
scatola di sardine davanti alla porta di Picasso. Ha il culto degli amici. Sul
letto di morte dirà: «È seccante lasciare gli amici».
Il primo ad approfittare di questa generosità non è Picasso ma un catalano,
Manuel Martinez y Hugué, detto Manolo. È tutto nero, occhi e capelli,
povero, devoto, sveglio, commediante nato. È il solo con cui Picasso parli
ancora catalano. Nei bistrot lo presenta come sua sorella. Vorrebbe scolpire
ma non può farlo, per mancanza di materiale. Allora dipinge, eroicamente,
perché nessuno compra i suoi quadri. Mangia come può, dorme dove lo
ospitano, rubacchia tutto quello che trova.
Un’estate Paco gli presta la casa. Quando ritorna, dopo qualche settimana,
lo scultore lo accoglie con una gioia un po’ forzata. Restituisce le chiavi e se
la batte. L’altro fa il giro della casa. Tutto a posto, salvo i Gauguin. Manolo li
ha venduti a Vollard.
«Tu», dice un giorno Picasso all’amico, «nessun plotone ti giustizierebbe».
«Perché?», chiede Manolo.
«Perché li faresti ridere troppo!».
È diventato un maestro nell’arte di sopravvivere giocando. Ha imparato il
metodo nei luoghi di culto. Quando è arrivato a Parigi, la sua prima visita è
stata a una chiesa. Si era trovato in presenza di un fedele ben messo che non
sapeva dove sedersi. Una donna era uscita dall’ombra. Gli aveva porto una
sedia, l’altro le aveva dato una moneta, l’uomo si era seduto, la donna era

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scomparsa. Manolo aveva ripetuto varie volte l’operazione, cosa che gli
aveva permesso di rifocillarsi con cibi più sostanziosi di un’ostia intinta
nell’acqua benedetta.
Quando non va in chiesa, applica il metodo della lotteria. Bussa alle porte
delle case di Montmartre e mostra il disegno di un busto in marmo che dice
di volere scolpire.
«Cento soldi per un numero!».
Scambia la moneta che gli danno con un pezzo di cartone numerato. Poi se
ne va. Nessuno vince mai: il busto non esiste. Quando gli chiedono che
numero è uscito, risponde: «Quello di Salmon!».
Qualche anno dopo, quando finalmente ha i soldi per comperare il
materiale di cui ha bisogno, prende in giro Kahnweiler, che acquista
regolarmente le sue sculture. Per una di queste, Manolo gli chiede un
aumento.
«Perché?», chiede il mercante.
«Perché sarà meglio delle altre».
«Dici sempre così».
«Questa volta è vero».
«Vedremo dopo...».
«Allora non posso più lavorare».
Kahnweiler non è solo un commerciante. È un esteta e un amico dei suoi
artisti. Manolo lo sa. E insiste: «Sarà più grande di tutte le altre. Mi occorre
più materiale, ma la venderò più cara».
«È davvero più grande?»
«Infinitamente».
Kahnweiler gli dà qualche banconota in più. Sotto i folti capelli neri,
l’occhio nero di Manolo manda riflessi dorati.
L’estate passa. All’inizio dell’autunno, Kahnweiler riceve la scultura dello
spagnolo. È una donna accovacciata. Non più grande né più piccola delle
altre opere dell’artista. Il mercante chiama Manolo.
«Mi avevi promesso una scultura grande».
«È questa».
«Non mi sembra...».
«L’hai guardata male».
Manolo si pianta davanti al suo lavoro.
«Si tratta di una donna...».
«Lo vedo bene».
«Questa donna è accovacciata».

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«Vedo anche questo».
«E se si alzasse?».
«Se si alzasse?», riprende Kahnweiler, dubbioso.
«Se si alzasse, sarebbe grande! Grandissima!».

Picasso, lo spagnolo, se la cavava meglio. Per vivere aveva un ottimo


sistema: dipingeva e vendeva le sue tele. Già allora. Simile e diverso allo
stesso tempo. Di tutti gli artisti cresciuti sotto la facciata di Montmartre, non
sarà solo il più ricco ma tra quelli che hanno conosciuto la miseria per meno
tempo.
Picasso era troppo orgoglioso per mandare disegni umoristici all’«Assiette
au Beurre», al «Cri de Paris» o al «Charivari», come facevano Marcoussis,
Gris, Van Dongen, Warnod e tanti altri. Diffidava del «secondo mestiere»:
«Quando si ha qualcosa da dire, da esprimere, qualsiasi compromesso è
insopportabile».1 Non accettava le proposte dei giornali. Aspettava i
mercanti.
Il primo, il suo compatriota Manyac, gli aveva ceduto una camera nel suo
appartamento di boulevard Clichy. Gli versava una mensilità di 150 franchi in
cambio della sua produzione. Era poco, ma bastava a non morire di fame.
Finché Picasso rimane nello stile di Toulouse-Lautrec, Manyac lo
appoggia. Ma quando inizia il periodo blu, il mercante lo abbandona:
invendibile. Picasso deve risolversi a trattare con mercanti che si occupano
d’arte come altri si occupano di frutta e di verdura.
La maggior parte erano rigattieri. Mettevano la mercanzia in vendita sul
marciapiede, davanti alla loro bottega. Tra un vecchio ferro da stiro e un
passeggino senza ruote, i passanti curiosi potevano trovare un’opera di
Utrillo, del Doganiere Rousseau o di Picasso.
Come gli altri, lo spagnolo deve trattare con Libaude e, soprattutto, con
Clovis Sagot, da cui era già passato Utrillo.
In un primo momento, i contatti con l’ex pasticciere erano facili: era
rotondo e amabile come la pasta. E poi apprezzava veramente la pittura. Se
non proprio la pittura, almeno i colori. Le cose si guastavano dal momento in
cui si cominciava a parlare di soldi. Quando non se ne parlava, Sagot faceva
in modo di portare la conversazione su questo argomento, che era il suo
prediletto. Succedeva così, ogni volta che sbarcava da Picasso, un mazzo di
fiori in mano. Lo offriva gentilmente poi chiedeva al pittore: «Le piace?».
Picasso scuote la testa.
«Potrebbe dipingerlo?».

29
Lo spagnolo borbotta.
«Sì?».
«Non so...».
«Ma sì!», esclama il mercante. «Un mazzolino così bello!», ostentandolo
davanti agli occhi di Picasso.
«Io le do i fiori, lei li dipinge, poi... poi...?».
Picasso non risponde.
«...Poi, per ringraziarmi, mi fa un regalino: mi offre il quadro». Sagot
sorride beato.
«E sono gentile! Le lascio i fiori!».
Un giorno propone a Picasso di acquistare qualche tela.
«Quanto?».
«Settecento franchi».
«Non se parla».
Il pittore lascia la rue Laffitte e torna sulla Butte.
La sera stessa, dato che non ha niente da mettere sotto i denti, si pente della
sua intransigenza. Il giorno dopo, torna da Sagot.
«Cambiato parere?».
«Veramente non ho scelta».
«Fantastico!», esclama il mercante, aprendo le braccia al suo artista.
«Prendo tutto. Cinquecento franchi».
«Settecento!».
«Perché settecento?».
«Ma ieri...».
«Ieri era ieri!».
Picasso furibondo lascia la bottega.
L’indomani, dopo una serata di carestia, è di ritorno.
«Oggi», esclama Sagot raggiante, «sono di buonumore».
«Cioè?», arrischia Picasso insospettito.
«Cioè? Trecento franchi».
Il pittore lascia la partita.
Picasso aveva a che fare anche con il père Soulié, l’anziano lottatore che
aveva già imbrogliato Utrillo. La sua bottega si trovava di fronte al Circo
Medrano. Il père Soulié era prima di tutto e soprattutto un alcolista, poi
rigattiere, specializzato nella copravendita di letti e di vecchi materassi. Era
diventato mercante di quadri per un gioco di scambi: vendeva agli artisti tele
in cambio di tempere o disegni quando non avevano altra moneta con cui
pagare. Queste opere – Renoir, Lautrec, Dufy... – venivano in seguito esposte

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direttamente sul marciapiede.
Soulié trattava i pittori come clienti più o meno ordinari, mercanteggiando
su tutto, rifiutandosi di far credito. Un giorno va da Picasso per fargli
un’ordinazione. Ha assoluto bisogno di un mazzo di fiori per il giorno dopo:
l’aveva promesso a un cliente. Picasso non ha niente in magazzino.
«Allora me ne faccia uno!», suggerisce il mercante. «Cosa ci vuole?».
«Mi manca il bianco».
«Che bisogno ha del bianco!».
«Potrebbe anticiparmi i soldi per comperarlo...».
«Lasci perdere il bianco! È talmente banale!».
Picasso dipinge un mazzo di fiori che il mercante gli compera per venti
franchi. Quando lo porta via, non è ancora asciutto. E oltretutto si tratta di un
prezzo eccezionale, dovuto al fatto che glielo aveva ordinato. Di solito pagava
tre franchi una tempera. E Picasso non era il meno quotato: proprio dal père
Soulié aveva comperato per cinque franchi un’opera del Doganiere
Rousseau, Portrait de Mme M. Il quadro stava sul marciapiede. Picasso lo
osservava sotto lo sguardo interessato del mercante.
«Prenda questa signora, starà bene da lei!».
E poiché il pittore non si decideva: «Cento soldi! Può dipingerci sopra, e
siccome è un formato grande, se mi fa un bel mazzo di fiori, glielo ricompro
allo stesso prezzo!».
Picasso aveva comperato la tela ma non l’aveva ridipinta.

Il primo vero mercante che Picasso ha conosciuto era una mercantessa:


Berthe Weill. I suoi pittori la chiamavano «La Merweil»... Era una donnetta
strabica, che portava lenti di ingrandimento al posto degli occhiali. Viveva
con poco, accontentandosi di una percentuale molto bassa sui prezzi dei
quadri. Dormiva e mangiava nella sua galleria di rue Victor Massé, un
negozietto con dei fili tesi sui quali, appesi con mollette da bucato,
penzolavano opere di Matisse, Derain, Dufy, Utrillo, Van Dongen. A cui si
aggiunsero ben presto dipinti di Marie Laurencin, Picabia, Metzinger, Gleizes
e naturalmente di Picasso. Amante delle arti, Berthe Weill ha contribuito alla
diffusione dell’arte moderna tanto quanto Vollard, Paul Guillaume,
Rosenberg e Kahnweiler.
Aveva aiutato molto Picasso, da cui aveva acquistato, con
l’intermediazione di Manyac, una parte delle opere del periodo Toulouse-
Lautrec e poi, dopo che il mediatore se n’era andato, qualche tempera del
periodo blu. Ma solo qualcuna.

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A credere ai libri contabili che aveva mostrato a Francis Carco nel 1908,
Berthe Weill comperava un Utrillo a dieci franchi, un Dufy a trenta franchi
(quanto un Rouault), un Matisse a settanta franchi, un Toulouse-Lautrec a
seicento franchi. La quotazione di Picasso oscillava tra i trenta e i cinquanta
franchi.2 Weill rivendeva le opere a collezionisti abbastanza fortunati come
André Level, Marcel Sembat (già appassionato di Matisse) o Olivier Saincère,
che diventerà segretario generale dell’Eliseo quando Raymond Poincaré sarà
nominato presidente. Così questa donnetta energica e devota ai suoi pittori
era arrivata a fare conoscere Picasso al di fuori dello stretto perimetro della
Butte Montmartre.

Berthe Weill era del genere autoritario. Il commissario del IX


arrondissement ne fece l’amara esperienza un giorno del 1917. Berthe Weill
aveva organizzato la prima mostra di Modigliani in una galleria della rue
Taitbout. Aveva chiesto a Blaise Cendrars di comporre una poesia che
accompagnasse un disegno del pittore sui cartoncini d’invito.
La sera della vernice, c’era tanta gente in galleria quanta fuori. Da una
parte, amatori d’arte; dall’altra, passanti sbalorditi dai nudi esposti in vetrina.
Mandano un agente, che ne riferisce al commissario. Quest’ultimo manda a
dire che bisogna togliere i nudi. Berthe Weill rifiuta. La convocano
immediatamente nell’ufficio di polizia. Berthe attraversa la strada tra le urla e
i lazzi dei signori in ghette e delle dame in cappellino.
Il commissario è fuori di sé: «Le ordino di togliere di mezzo tutte quelle
porcherie».
«E perché?», chiede la gallerista.
«Questi nudi!...».
L’uomo di legge non riesce a parlare. Quando si riprende, la voce rauca
dalla rabbia, risponde: «Quei nudi... Si vedono i peli!».
Berthe Weill dovette chiudere. Per aiutare Modigliani, che viveva in una
miseria nera, Berthe Weill gli comperò cinque dipinti. Lo sosteneva con la
stessa testardaggine con cui aveva sostenuto Picasso durante i suoi primi anni
parigini, quando anche lei diffidava delle opere del periodo blu. Ma mentre il
pittore spagnolo avrebbe imboccato un giorno la strada della ricchezza,
l’italiano non avrebbe mai fatto fortuna.

32
Due americani a Parigi

Avevo mostrato a un cliente due studi di Cézanne. E


lui, subito: «Non voglio queste cose con tanta tela
non dipinta...».
Ambroise Vollard

Il periodo blu non piaceva nemmeno ad Ambroise Vollard.


Aveva scoperto Picasso tramite Manyac e aveva venduto opere del pittore
spagnolo nel 1901, poi nel 1906. In passato aveva esposto Manet, Renoir,
Cézanne, Van Gogh, Gauguin. La sua attività era del tutto diversa da quella
dei rigattieri – mercanti di colori ai quali, almeno all’inizio del secolo,
assomigliava Berthe Weill. Vollard aveva beni al sole. È stato uno dei primi
ad acquistare le opere di Derain e di Vlaminck e a interessarsi allo scultore
Maillol. Era molto legato a Pissarro, creolo come lui, che gli aveva fatto
scoprire gli impressionisti.
Il fiore all’occhiello di Ambroise Vollard era stata l’organizzazione nel 1895
di un’esposizione di opere di Cézanne che Durand-Ruel e i fratelli Bernheim
avevano rifiutato. Nelle sue memorie descrive minuziosamente tutti gli sforzi
che aveva dovuto fare per scoprire il ritiro del pittore, che nascondeva
accuratamente il proprio indirizzo.1 Dopo averlo scoperto, aveva avuto un
colloquio con il figlio dell’artista, al quale aveva parlato del progetto
dell’esposizione. Alcuni giorni dopo aveva ricevuto un enorme rotolo
contenente centocinquanta opere del pittore. Mancandogli i mezzi, Vollard le
espose incorniciate da grossolani listelli.
La sua fortuna e quella di Cézanne incominciano allora. Vollard può
consacrarsi ai pittori che ama e ammira, senza rinunciare all’attività di editore
che lo appassiona: sceglie le carte migliori, gli incisori migliori per pubblicare
libri illustrati dagli artisti (come un La Fontaine illustrato da Chagall, un
Verlaine da Bonnard, un Mirbeau da Rodin...).
Con gli anni, la galleria Vollard doveva diventare uno dei luoghi sacri
dell’arte moderna. Si trovava in rue Laffitte, la principale arteria del mercato

33
della pittura a Parigi, dove c’erano anche Berheim e Durand-Ruel (che aveva
aperto una succursale a New York nel 1886). Degas, Matisse, Rouault,
Picasso e molti altri giovani artisti vi passavano spesso per osservare la
produzione dei loro fratelli maggiori.
La vetrina di Vollard non assomigliava a quella degli altri. Quando la notò
per la prima volta dopo aver visto i Renoir, i Pissarro e i Monet accatastati in
doppia fila in rue Laffitte, Chagall non credeva ai suoi occhi: sporcizia e
vecchi giornali. Quanto all’abito faceva perfettamente il monaco: spinta una
porta, il visitatore scopriva un ufficio, una stufa, una scultura di Maillol sul
fondo, quadri girati verso la parete, alcune tele di Cézanne nemmeno
incorniciate. E polvere dappertutto. Si capiva la battuta di Vlaminck, quando
raccontava che in occasione della sua prima mostra da Vollard mandava tutti i
giorni la sua donna di servizio a spolverare i mobili e i quadri.
Dietro la scrivania, mezzo addormentato, siede un uomo. Un creolo nativo
dell’Isola della Riunione. Di una quarantina d’anni. Alto, massiccio, calvo, la
barba corta. Renoir dirà: «Assomiglia a uno scimpanzé». I clienti pensano:
“Non ha nessun interesse per la pittura”. Quando qualcuno entra nella sua
galleria, Vollard si scomoda appena. Apre un occhio, chiede che cosa vuole,
ascolta, comincia ad alzarsi poi torna a sedersi e risponde: «Torni domani».
Il giorno dopo mostra le opere che è andato a scovare nella sua grotta di
Alì Babà: la cantina dei tesori. Si siede di nuovo dietro alla scrivania, si
assopisce fino al momento in cui il visitatore mostra una tela.
«Questa?».
«Cinquanta franchi», risponde Vollard senza esitare.
«Quaranta».
«Le avevo detto cinquanta... Me ne propone quaranta... Facciamo
settanta».
«Ma...».
Vollard scuote la testa, inutile discutere.
«E che cosa mi prova che quest’opera non è un falso?».
«Niente».
«Come, niente?».
«Quest’opera è datata 1830. Non ero ancora nato... Vai a sapere!».
Il cliente scruta il mercante con aria dubbiosa e chiede: «Potrebbe
mostrarmi uno o due Cézanne?».
Vollard glieli mostra. Il cliente va in estasi.
«Quanto, questo?».
«Duecento franchi».

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«Pensa che le quotazioni di Cézanne aumenteranno?».
«Che cosa vuole che ne sappia!».
Il cliente esita. Vollard acconsente a dare qualche spiegazione: «Ho
comperato questa tela l’anno scorso per dodici franchi. Gliela vendo circa
venti volte più cara...».
«Questo prova che le quotazioni sono in rialzo».
«Questo prova che sono in rialzo oggi! Ma forse domani questo quadro
non varrà più neanche i suoi dodici franchi».

Sotto queste maniere rozze e sgradevoli, Vollard nascondeva una grande


scaltrezza. Era come un gatto in agguato. Quando voleva un pittore, finiva
per averlo. Non acquistava solo due o tre tele, ma tutta la produzione. Così
aveva fatto con Vlaminck e Derain: affascinato dalla violenza pittorica dei
fauves, era andato nello studio del primo e poi in quello del secondo, aveva
osservato, burbero, le opere che vi si trovavano e aveva detto: «Compero».
«Che cosa?».
«Tutto».
Di solito non firmava contratti: bastava la parola.
Quando vendeva – solo se ne aveva voglia – non era più un gatto ma una
volpe. Grazie ad Alice Toklas, sappiamo a che gioco aveva giocato con
Gertrude e Leo Stein.
Immaginiamo la scena. Due americani, appena sbarcati in Francia, entrano
nella bottega di Vollard. Lei, massiccia come un taglialegna, in sandali di
cuoio stringati; i capelli cortissimi accentuano ancora di più il suo aspetto
mascolino; è tarchiata, ha la grazia di un bue, il pugno di una guardia del
corpo, un sorriso passabile, la voce alta, perentoria e inesauribile. Lui, molto
rigido, severo, con cappello, barba rossa e gilè. Accanto alla sorella sembra
quasi gracile. Poi Vollard, assopito dietro la scrivania, con addosso il suo
leggendario mantello e i suoi scarponi così grandi e vecchi con le punte
rivoltate all’insù, come babbucce.
Non si alza. Non sa di trovarsi davanti ai più grandi mecenati di Parigi. Dal
loro arrivo, nel 1903, gli Stein hanno visitato tutte le gallerie e tutti gli studi.
Hanno da spendere una fortuna, e vogliono investirla in opere d’arte.
Impassibile, sonnecchiando, Vollard aspetta. Leo chiede se possono vedere
qualche paesaggio di Cézanne. Vollard si alza pesantemente. Imbocca la scala
che porta ai suoi tesori. Passano cinque minuti prima che il mercante ritorni,
con in mano una piccola tela. La mostra. È una mela.
«Scusi», fa notare Gertrude. «Un frutto non è un paesaggio... Noi

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vorremmo vedere un paesaggio».
«Pardon!», esclama Vollard.
Scende di nuovo la scala e sparisce. Gli americani si mettono a ridere.
Il mercante ritorna con una tela più grande. La mostra ai due visitatori che
la guardano con grande interesse. Questa volta è Leo che parla. Dice: «Signor
Vollard, non vogliamo importunarla... Ma noi vorremmo un paesaggio. E lei
ci porta un nudo!».
A sua volta Vollard guarda la tela: è una donna di schiena. «Scusatemi!
Ritorno subito...».
Per la terza volta, ridiscende la scala. Riappare qualche minuto più tardi,
portando un grande quadro.
«Volete un paesaggio? Ecco un paesaggio!».
Il dipinto è incompiuto. C’è un paesaggio, ma minuscolo. Il resto della tela
è vuoto.
«È già meglio», ammette Gertrude Stein. «Ma se potessimo vedere
un’opera più piccola e completamente finita, ne saremmo felici».
«Vado a vedere», borbotta Vollard.
Riparte. I due pazientano. Sentono dei passi. Ma non è il mercante: una
donna piuttosto anziana sbuca dalla scala, li saluta amabilmente ed esce dal
negozio.
Leo e Gertrude si guardano, non capiscono. Ridono. Rumore di altri passi,
e compare un’altra donna.
«Buonasera».
La donna segue la prima in rue Laffitte. Gertrude scoppia in una risata
sonora e dice a suo fratello che secondo lei il mercante è pazzo. Le due donne
che sono appena passate sono pittrici che lavorano nei sotterranei della
galleria. Ogni volta Vollard chiede loro di dipingere in fretta una mela, un
nudo, un frammento di paesaggio, e quando li mostra, giura che si tratta di
Cézanne! In realtà, di Cézanne non ce n’è neanche l’ombra!
Ma Vollard ritorna. Presenta una nuova tela: un vero paesaggio finito e
bellissimo. I due americani comprano il Cézanne e se ne vanno.
Vollard avrebbe spiegato ai suoi amici di avere ricevuto la visita di due
americani un po’ sciocchi che ridevano continuamente. Aveva subito capito
che più ridevano più avrebbero comperato.
Non si era sbagliato: era stato così bravo a farli ridere che gli Stein
tornarono spesso. Nello stesso anno acquistarono due nudi di Cézanne, un
Monet, due Renoir e due Gauguin.
La cantina di Vollard era un luogo magico e dalle molte funzioni.

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Conteneva capolavori ma anche una cucina e una sala da pranzo. Perché al
mercante piaceva ricevere. Non era solo accigliato e abile. Era anche curioso,
un chiacchierone che adorava conoscere e diffondere pettegolezzi,
appassionato alla letteratura popolare, di grande cortesia specialmente con le
signore, che adorava anche se non si era mai sposato. Una volta che
Vlaminck gli aveva chiesto perché fosse rimasto celibe, aveva risposto che
una sposa legittima, senza dubbio, gli avrebbe fatto una quantità di domande
su Cézanne: «Si rende conto? Che noia dover stare a spiegare!».
Alla sua tavola si mangiava soprattutto pollo al curry, piatto caratteristico
della sua isola natale, La Riunione. Il mercante invitava gli artisti e i clienti
che gli erano simpatici. In particolare Rouault, che mangiava tutti i giorni in
sua compagnia, e l’irascibile Degas, antisemita e rompiscatole, che non aveva
mai perdonato a Berthe Weill di avere aperto la galleria vicino a casa sua.
Vollard raccontava che un giorno in cui era andato da Degas per montargli
una tela, aveva per sbaglio lasciato cadere un pezzetto di carta di mezzo
centimetro quadrato che era andato a finire in una scanalatura del pavimento.
Degas si era messo a urlare:
«Attento! Mi mette in disordine lo studio!».
L’immondo rifiuto era stato immediatamente raccolto.
Una sera che il mercante l’aveva invitato a cena Degas aveva posto sette
condizioni: non voleva burro nei piatti, niente fiori sulla tavola, solamente un
filo di luce, voleva che il gatto fosse chiuso in una stanza, che non ci fossero
cani, che le signore non fossero profumate, che la cena fosse servita
esattamente alle sette e mezzo.
Buon appetito...
I suoi invitati sapevano che, subito dopo avere ingoiato l’ultimo boccone,
Vollard avrebbe incrociato le mani dietro la testa, si sarebbe appoggiato al
muro perdendosi nei suoi sogni...
Aveva la malattia del sonno: si addormentava a tavolo, in carrozza, alla
scrivania, e si lamentava continuamente di avere dormito male. Dava la colpa
al suo letto, giurava che l’avrebbe cambiato – e invece l’aveva sempre tenuto,
così come il cappotto e le scarpe, anche se dieci volte alla settimana si
riprometteva di buttarli nella spazzatura. Era quasi sempre in uno stato di
sonnolenza che faceva dire ai suoi amici (e ai suoi nemici) che si era
arricchito dormendo. I pittori per i quali posava, soprattutto Renoir, lo
supplicavano di non cadere tra le braccia di Morfeo durante le sedute. Per
tenerlo sveglio, Bonnard lo obbligava a tenere un gatto sulle ginocchia.
Cézanne arrivò a farlo sedere su uno sgabello piazzato su quattro picchetti

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piantati in cima a una pedana.
«Se cade, cade anche lo sgabello e tutto il resto!».
«E allora?».
«Allora, si sveglierà!».
Un supplizio. Dopo centoquindici sedute e qualche caduta, il modello
chiede: «Abbiamo quasi finito?»
«Non proprio!», risponde Cézanne.
«È soddisfatto, almeno?».
Il pittore indietreggia, guarda il dipinto e risponde: «Non sono scontento
del davanti della camicia...».
Ambroise Vollard doveva morire in un incidente d’auto nel 1939. L’autista
guidava mentre il mercante dormiva. Dell’incidente furono date due versioni.
Secondo la prima, la limousine era passata sopra una buca della strada;
Vollard, che dormiva profondamente, aveva battuto la testa. Dunque sarebbe
morto dormendo. Troppo bello per essere vero. George Charensol sostiene
una tesi più realistica:2 l’auto era sbandata e un bronzo di Maillol, che si
trovava sul piano sotto il finestrino posteriore, era caduto fracassando il
cranio del mercante d’arte. Deve essere proprio così che è morto Ambroise
Vollard: toccato da una duplice grazia, Maillol e il sonno.

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Cyprien

Si parla di Max Jacob. C’è una lucciola contro un


muro: è Max Jacob che ascolta.
Raymond Queneau

Per una strada di Montmartre, di ritorno dalla galleria di Vollard, passa un


uomo appena illuminato dalla fiamma bluastra dei lampioni a gas. È avvolto
in una pellegrina da pastore bretone di panno grigio foderata di flanella rossa.
I capelli radi, la testa grossa, le spalle strette, una bocca arguta e uno sguardo
ora fisso ora mobile che non si dimenticano. Porta il monocolo. Sotto la sua
dignitosa eleganza si intravede la miseria tipica di tanti aspiranti pittori della
Butte.
Quando gli chiedono della sua infanzia, racconta che un gruppo di zingari
l’aveva rapito quando aveva tre anni; e che lo avevano praticamente fatto a
pezzi prima di abbandonarlo qualche anno più tardi davanti all’école
Normale.
Non bisogna credergli: Max Jacob è un poeta.
Ha anche altre corde al suo arco: dipinge da sempre. Al liceo di Quimper il
suo professore di disegno lo considerava un imbrattatele, un fatto che
denotava da parte sua una colpevole mancanza di perspicacia.
I suoi genitori avevano sperato di mandarlo all’école Normale, ma lui
aveva scelto la Coloniale, di cui peraltro frequentò solo qualche classe. Alla
leva era stato scartato per debolezza fisica. Un bel giorno, senza bagagli,
senza cappotto, solo con qualche franco sottratto al portafogli materno, era
arrivato a Parigi. Aveva scoperto subito che la pittura non dava da vivere,
proprio come la letteratura. Era stato insegnante di piano, precettore,
impiegato, critico d’arte, spazzino, apprendista falegname, giovane di studio
di un procuratore legale, segretario, impiegato di commercio, bambinaia.
È di una povertà inaudita. Veste con eleganza, ma è solo grazie alla
generosità del padre, sarto a Quimper. Adesso sta andando verso il boulevard
de Clichy per conoscere un pittore di cui ha appena visto sessantaquattro
quadri in una mostra nella galleria di Ambroise Vollard: Pablo Picasso.

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La sua pittura lo ha affascinato. Non assomiglia per niente, spiegherà, a
quella di pittori che si sforzano di passare il più armoniosamente possibile
dalla luce all’ombra, o viceversa. Non assomiglia nemmeno
all’impressionismo, che scandalizza ancora il pubblico nonostante
l’entusiasmo che comincia a nascere per Renoir e Degas. Non è paragonabile
ai lavori degli artisti che Max Jacob chiama «i grandi decoratori», figli
putativi di Delacroix e di Rubens, che mettono in fila metri di pittura. Non è
vicina né al tocco divisionista di Signac, né agli imitatori dei preraffaelliti
come Puvis de Chavannes o Maurice Denis. Ha meno mordente dell’opera di
Toulouse-Lautrec. Eppure...
[Picasso] li imitava tutti, ma le sue imitazioni erano sospinte da un tale turbine di
genio che nei tanti quadri di questa mostra si sentiva soltanto la forza esplosiva di
una personalità totalmente nuova e originale .1

Max Jacob trova il pittore nell’appartamento che divide con Manyac, in


boulevard de Clichy. Gli manifesta la sua ammirazione sotto lo sguardo
interessato di una dozzina di spagnoli che stanno facendo cuocere fagioli su
una lampada ad alcol. Picasso ringrazia. I due si congratulano, si stringono le
mani e si abbracciano senza capire bene quel che si dicono: lo spagnolo parla
la propria lingua, il francese pure, sia lo spagnolo sia il francese parlano una
sola lingua. Ma sentono che tra loro c’è una specie di attrazione magnetica.
Picasso mostra le sue opere: decine di tele impilate le une sulle altre. Invita
il visitatore a mangiare e a bere con gli amici. Cantano. Poiché non
conoscono le stesse canzoni, Beethoven serve da corale comune: fino a notte
fonda le chitarre accompagnano il canto delle sinfonie.
Il giorno dopo Max Jacob invita a casa il suo nuovo amico. Come sempre,
lo spagnolo arriva con la sua banda. Max legge i suoi versi per un uditorio
che non ci capisce niente, se non il tono e i gesti. Ma basta. Picasso piange
per l’emozione. Dichiara a Max Jacob che è l’unico poeta francese dell’epoca.
In cambio del complimento, l’unico poeta francese dell’epoca offre al suo
lodatore alcuni dei suoi beni più preziosi: una xilografia di Dürer, alcune
stampe di épinal di cui è uno dei rari collezionisti, e tutte le litografie di
Daumier che possiede.
Picasso lo fa entrare nella sua banda. Ridono, cantano, ballano per notti
intere.
Il gruppo ha molti rifugi. Il primo si chiama Le Zut, un piccolo caffè della
rue Ravignan dove vanno tutti gli anarchici della Butte. Tre locali in fila, uno
più sinistro dell’altro. Qualche lampada a petrolio illumina il locale, piuttosto

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lugubre, gestito da un omino in zucchetto e barba lunga che porta pantaloni
di velluto marrone, zoccoli e una cintura di flanella di un rosso squillante. Si
chiama Frédéric Gérard, soprannominato Frédé. Il suo locale è aperto ai
poveri, agli esclusi. Non conosce la musica, ma suona la chitarra, a volte il
violoncello. Canta romanze parigine, spesso accompagnato da qualche artista
che viene a dargli una mano. Fuori, prostitute, malavitosi, disertori, bande
che si sfidano al coltello, falsari.
L’insegna dello Zut lo dice chiaramente: «Birra». È l’unico tipo di alcol.
Niente vino né digestivi: Frédé versa la birra spumeggiante direttamente dalla
brocca nei bicchieri posati sulle botti che servono da tavoli. A volte serve
uova al prosciutto. Quando da fuori viene un rumore di spari, punteggiatura
abituale della banda degli Apaches, rassicura i suoi amici immigrati: se arriva
la polizia, li nasconderà. Hanno tutti paura di essere espulsi. Ma Frédé lo
sbruffone, Frédé l’anarchico parigino veglia su di loro.
Ha qualche anno di più del grosso della sua truppa e capisce questi uomini
liberi che vivono come ragazzi. Non hanno le responsabilità sociali e familiari
che pesano così pesantemente sulle rispettabili spalle di quelli che abitano in
basso lontani dalla Butte. Qui, l’unica famiglia è quella degli amici. E la vita
sociale è la vita d’artista: disordinata, fuori dalle regole. Il modo di fare dei
pittori e dei poeti non è né più né meno che la declinazione gestuale dei
discorsi appassionati di Libertad e del père Peinard. Anche per Picasso e per
Max Jacob.
Nel 1902 lo spagnolo si rifugia per qualche mese al suo paese. Quando
torna a Parigi, divide diverse camere d’albergo con un amico scultore. È roso
dalla miseria e scoraggiato per l’insuccesso della sua pittura. Max, che ha solo
cinque anni più di lui, fa la parte del fratello maggiore. Chiama Picasso «mon
Petit». Dando prova di una generosità incredibile, si fa assumere come
magazziniere nei negozi Paris-France, bazar diretti da suo cugino. Il poeta fa
le pulizie e, spingendo un carretto, le consegne. Prima di farsi licenziare otto
mesi dopo per «assoluta incapacità», divide lo stipendio con Picasso.
I due amici vivono insieme in una camera che Max ha affittato in
boulevard Voltaire. La vita di bohème è difficile. Una sera che stanno
guardando dalla finestra li prende lo stesso pensiero. Picasso è il primo a
liberarsene. Prende l’amico per il braccio e dice: «Non sono cose da pensare,
queste».
Dormono a turno: Max la notte, quando Pablo dipinge; e Pablo di giorno,
quando Max lavora. Quando sono insieme, la sera, il commesso di Paris-
France infonde un po’ di coraggio all’amico. È il momento in cui Manyac,

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Berthe Weill e Ambroise Vollard dimostrano di non apprezzare i dipinti del
periodo blu.
A volte, spacciandosi per un certo Maxime Febur, ricco collezionista, Max
entra in una galleria. Chiede: «Avete dipinti di Picasso?».
La maggior parte delle volte rispondono di no. Non lo conoscono. Ma Max
li aggredisce: «Come? Ma se è un genio! Che errore per una galleria come la
vostra non esporre un’artista di questa forza!».
Per Picasso, Max Jacob è la provvidenza fatta persona: non solo lo aiuta,
ma gli fa anche scoprire il mondo delle lettere che fino ad allora era stato per
lui del tutto indecifrabile. E Picasso si comporta come farà sempre, lo
riconoscerà lui stesso: lui non dà, lui prende.
Per Max Jacob le cose sono più semplici: Picasso è la persona più
importante che ha al mondo. Dirà: «La porta della mia vita». Lo ammira in
assoluto. Affascinato, per esempio, dalla civetteria dell’amico, lo guarda, a
bocca aperta, mentre sceglie con cura un paio di calzini che si accordino ai
pantaloni che indossa quel giorno...
Il poeta canta la pittura. Il pittore disegna il poeta. Dopo Baudelaire e
Delacroix, Zola e Cézanne, Picasso e Jacob aprono le danze della penna e dei
colori per il loro tempo. Dopo di loro, verranno altri poeti e altri pittori:
Braque e Reverdy, Gris e Canudo, Léger e Cendrars... Picasso stesso si
avvicinerà a Salmon, ad Apollinaire, poi a Cocteau, a éluard, a Breton, a
Reverdy, a René Char... Ma è Max Jacob che gli ha fatto scoprire Ronsard,
Verlaine, Vigny, Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, aprendogli gli orizzonti
della poesia ai quali resterà sensibile per tutta la vita. Max Jacob è stato il
primo pilastro della banda di Picasso, almeno di quella che succederà agli
spagnoli. Sarà sempre Max Jacob a favorire la frequentazione del bel mondo,
l’incontro con i sarti-mecenati, Paul Poiret o Jacques Doucet...
Picasso non è stato il solo ad approfittare della generosità e delle tante
ricchezze del poeta. Per Francis Carco, senza Max Jacob «la Butte avrebbe
senza dubbio perduto il suo spirito più luminoso».2 È innegabile.
Prima Montmartre e poi Montparnasse l’hanno amato follemente. Quando
arrivava, con la sua redingote nera, il cilindro e il monocolo, lo
applaudivano, lo acclamavano, lo festeggiavano. Apprezzato dai borghesi
nell’intimità per l’intelligenza, lo spirito, le battute un po’ sfacciate, i modi
che potevano essere simili ai loro. Apprezzato dai suoi amici in miseria per la
generosità che lo spingeva a dividere tutto con loro. Ebreo, ma convertito.
Bretone, e orgoglioso di esserlo. In apparenza, vivacissimo, «pettegolo e
sublime, servizievole, premuroso, divertente, profondo, seduttore,

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beffardo».3 Ma terribilmente sensibile, capace di mettersi a piangere
chiedendo perdono. Pieno di ironia, colpiva al cuore con le sue frecciate.
Stimato dalle donne per le sue maniere perfette, lui che non amava che gli
uomini.
Si era innamorato di qualche donna, tre al massimo. La prima si chiamava
Cécile – diventerà Mademoiselle Léonie, l’amante di Matorel nel Saint
Matorel. Nessuno la conosceva. Fernande Olivier parla di lei ma senza
dubbio non l’ha mai incontrata. Stando a una lettera indirizzata da Max Jacob
a Apollinaire nel 1903, aveva intenzione di fidanzarsi con lei:
Ieri mi sono dimenticato di dirti che stasera non sono libero. Ho promesso di
presenziare a un pranzo di fidanzamento... Sì! I mio fidanzamento: mi sposerò tra due
o tre mesi. Il presente biglietto serve da invito.4

La ragazza aveva diciotto anni. Lavorava ai magazzini Paris-France.


L’idillio fu breve. Secondo lui, Max ruppe il fidanzamento perché era troppo
povero per poterla aiutare. Aveva pianto, al momento di lasciarla.
Dopo la guerra, un giorno che era seduto a un caffè di Pigalle in
compagnia di Juan Gris e di Pierre Reverdy, era passata una donna. Max era
arrossito e aveva balbettato: «Cécile!».
I suoi due amici avevano visto allontanarsi una matrona senza bellezza né
grazia.
Prima di essere un amante perfetto o imperfettamente soddisfatto, Max
Jacob era soprattutto uno dei grandi poeti del suo tempo, abile nell’usare sia
l’alessandrino sia il verso libero e il poema in prosa. Ma si era sempre
nascosto dietro agli altri, nascondendo il proprio talento e sostenendo di
essere solo un autore minore. E questo non soltanto nei primi anni del
secolo, ma anche più tardi, quando sarebbe arrivato a una vera notorietà – il
che non significa, purtroppo per i poeti, la ricchezza.
Quando Apollinaire pubblica Alcools, George Duhamel, critico del
«Mercure de France», scrive che certe poesie sono plagi di Verlaine, Rimbaud
e Moréas, e che altre sono ispirate a Max Jacob. Max prende la penna e
risponde a Duhamel che la sua asserzione è falsa, e sostiene di non avere mai
scritto poesie prima dell’incontro con Apollinaire. Non era vero. La grande
virtù di Max Jacob, dirà Larbaud, era l’umiltà.
Negli anni Trenta, in piena miseria, accetterà di esibirsi su un palcoscenico.
Ogni sera, davanti alla sala piena, comincerà lo spettacolo con questa frase:
«Signore e signori, voi non mi conoscete. Nessuno mi conosce. Eppure, io

43
sono nel Larousse».
Jacob era poeta. Poeta, non romanziere. La differenza? L’aveva spiegata
una sera a Pierre Béarn, nel proprio minuscolo appartamento parigino, in
presenza di un giovanotto di nome Charles Trenet: «Il romanziere scriverà
Une robe verte e un poeta scriverà Une robe d’herbes» (un vestito verde –
un vestito d’erbe).5
Si era fatto le ossa come impiegato in un bazar. La direzione gli aveva
chiesto di scrivere un discorso per il funerale del figlio di un grosso fornitore
della casa. Max si era documentato circa il fornitore in lutto e aveva scritto un
elogio circostanziato e argomentato che vantava i meriti civici, morali,
economici e finanziari del defunto. Ma aveva mancato il bersaglio: il defunto
in questione non aveva avuto il tempo di dare prova delle sue capacità: infatti
si trattava di un bambino.
Il suo primo racconto, Le Roi Kaboul et le Marmiton Gauvin, era stato
regalato agli scolari meritevoli durante una distribuzione di premi.
Trattandosi di una scuola laica, lo avevano pregato di sostituire le chiese con
i municipi, e i curati con gli istitutori. Ma questo era in contraddizione con il
personaggio: Max Jacob non meritava il titolo di moralista esemplare più di
quanto meritasse quello di ateo praticante.
Distribuiva lui stesso i suoi libri, li pubblicava come
autore o, in qualche caso, per sottoscrizione presso Kahnweiler: così
accadeva con Saint Matorel (1911) e Le Siège de Jérusalem (1914), illustrato
con acqueforti di Picasso. Aveva finanziato lui stesso l’edizione di
Phanérogame e di Cornet à dés.
«Vivi da poeta», gli aveva detto Picasso quando Max lavorava a Paris-
France.
Era senza dubbio un modo per suggerirgli di lasciare non solo il carrello da
fattorino, ma anche il pennello. Max dipingeva tempere figurative, usando
colori, polvere di riso, cenere di sigaretta, nerofumo, caffè e polvere. Non
rinunciò mai alla pittura. Ma abbandonò i diversi mestieri che aveva fatto
fino ad allora per mettere nuove corde al suo arco: la scrittura, certo, ma
anche la cartomanzia.
Leggeva le linee della mano, i fondi di caffè, conosceva la cabala e il
linguaggio degli astri. A tutti gli amici offriva talismani, disegni, pietre, pezzi
di rame o di ferro incisi da geroglifici incomprensibili, feticci di ogni genere,
a volte ricoperti di segni cabalistici. Quelli che non gli erano simpatici si
vedevano assegnare oggetti molto pesanti, che l’astrologo consigliava loro di
tenere sempre addosso, per evitare che la cattiva sorte intervenisse a

44
richiamarli all’ordine. Così i nemici di Max Jacob andavano in giro tirandosi
dietro nella borsa una lastra di ghisa o portandosi in tasca una pietra bella
pesante.
Si era fatto conoscere come astrologo pubblicando sull’«Intransigeant»
l’oroscopo di Joseph Caillaux. Da allora, tutti gli chiedevano di predire
l’avvenire. La gente di Montmartre, che lo pagava con un piatto di minestra o
un paio di calzini. Il sarto Poiret, che non poteva scegliere un vestito senza
chiedere il parere di Monsieur Max. Le signore di mondo, che andavano
pazze per quell’ometto così strano e così divertente, la cui presenza era molto
decorativa ai pranzi di Auteuil e di Passy.
Max Jacob era incredibilmente divertente. Oltre ai suoi talenti come
scrittore e astrologo, era uno straordinario imitatore. Imitava i genitori (sua
madre cantava arie di operette), gli uomini politici, le stelle del varietà,
lanciava in alto la gamba, i pantaloni rimboccati e peli in vista, gracidando sui
toni acuti come una ballerina ululante. Oppure si avvolgeva un fazzoletto
rosso intorno alle spalle come uno scialle e faceva la vecchia signora
scandalizzata... Adorava farsi notare: «Il bisogno di piacere è per me una
passione sfrenata», confesserà.6
Una sera ci fu una lite al Lapin Agile. Succedeva spesso. Un tale fu ferito al
ventre con un colpo di cavaturaccioli. Cosa piuttosto insolita. Max Jacob
dovette comparire come testimone. Arrivò, vestito con molta cura. Quando
toccò a lui testimoniare, si mise a parlare a voce bassissima, blesa, facendo in
modo che non si sentisse niente all’infuori della parola «cavaturaccioli»,
pronunciata dieci volte a voce alta.
Il presidente del tribunale era furibondo. Max Jacob fu rimandato al suo
posto, e lì si mise a piagnucolare, proclamando a voce alta che se avesse
saputo che l’avrebbero maltrattato a quel modo non sarebbe mai venuto...
Ridevano tutti come pazzi.
Nelle serate, il suo humour e il suo talento di imitatore facevano
meraviglie. La gente di mondo che l’aveva invitato perché era chic fare
sfoggio di un pazzoide di buone maniere, saliva il giorno dopo le pendici di
Montmartre per farsi leggere le carte.
Succedeva che la borghesia elegante venisse a incanaglirsi sulla Butte.
Dorgelès descrive i signori in frac che visitavano gli studi dei pittori, non
tanto per comperare quadri quanto per sbirciare le modelle – che
supponevano, ben inteso, fossero le amanti degli artisti; le signore sbalordite
davanti alle lampade a petrolio, così desuete, le cucine-stanze da bagno, così
spartane, i riti di queste tribù... Quando sbarcavano dalle loro rutilanti

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automobili o dalle loro carrozze guidate da cocchieri in nero, quelle signore
provavano un po’ di disagio. «È carino qui, ma un po’ in capo al mondo».
«Certo, ci sono molti alberi...». Sollevavano la gonna frou frou per affrettarsi
verso il 7 di rue Ravignan, dove officiava quel cabalista che non sempre
conoscevano, il cartomante che Paul Poiret, il loro amatissmo sarto, aveva
consigliato. Aprivano la porta. E subito dal mistero incantatore così
affascinante da scoprire cadevano nella realtà di tutti i poeti di questo mondo.
Una catastrofe!
Nel 1907 Max Jacob abitava in fondo a una corte, una specie di stanzino
stretto tra due case che dava sulle pattumiere. Il locale era minuscolo (come
tutti i locali da lui abitati) e molto scuro. Si sarebbe detto un vecchio
sgabuzzino per la spazzatura che era stato sbarazzato delle scope e dei rifiuti
per essere affittato a cento franchi l’anno. Non ingannava sull’estrema
indigenza del poeta, che scriveva con un portapenne da due soldi, mangiava
riso e latte, si faceva prestare cinquanta centesimi per prendere il tram,
stringeva la cinghia per renderli il più presto possibile, e spendeva la maggior
parte delle sue magre entrate in combustibile per la lampada a petrolio che
bruciava giorno e notte, tanto quell’unica camera era buia. «La politica del
petrolio ha la meglio sulla politica del riso!», diceva allegramente quando lo
si compiangeva. Aveva conosciuto tempi peggiori: inverni passati in una
stanza senza riscaldamento, senza cappotto e mangiando una pagnotta al
giorno.
Faceva le pulizie con cura. La stanza era ammobiliata con una rete posata
su quattro mattoni, una tavola, una sedia, un baule nel quale il poeta
conservava i suoi manoscritti. Con una lotta tenace aveva ottenuto dal
proprietario che facesse un’apertura nello zinco del tetto per mettervi un
lucernario. Sul muro più grande erano disegnati con il gesso i segni dello
Zodiaco, un Cristo, un autoritratto di quando ancora portava la barba, e varie
iscrizioni, una delle quali attirava immediamente lo sguardo: «Non andare
mai a Montparnasse».
Max riceveva il lunedì. Era molto cortese con i clienti. Li accoglieva lui
stesso e li pregava di prendere posto in un angolo della camera, dove già
attendevano, seduti, diversi abitanti del quartiere.
Tornava dall’altra parte a predire la buona ventura al cliente che era stato
interrotto.
Un magnifico paravento a quattro ante divideva la stanza. Max lo cedette
un giorno a un tedesco amatore d’arte che, dopo avere comperato qualche
tela ai pittori del Bateau-Lavoir, aveva acquistato anche alcuni manoscritti

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(forse anche i primi frammenti del Saint Matorel). Quando aveva promesso
di farne un’edizione con acqueforti e incisioni, a Max erano venute le lacrime
agli occhi. Quando poi il tedesco gli aveva offerto qualche biglietto di banca,
Max si era sentito in Paradiso. A quel punto il sant’uomo gli aveva chiesto di
cedergli il paravento, e Max aveva accettato. Peccato, le quattro ante erano
state dipinte da Picasso. Ma quando si sa che il giovane appassionato d’arte –
come lo definivano le cronache dell’epoca – si chiamava Daniel-Henry
Kahnweiler, si capisce perché era così interessato al paravento.
Le signore che venivano da tanto lontano erano immediatamente colpite
dall’odore del posto. Si turavano il naso, vittime di quella mescolanza di
effluvi – tabacco, petrolio, incenso e etere. Il tabacco perché Max fumava. Il
petrolio perché si doveva pure illuminare la stanza. L’etere perché il poeta ne
faceva un uso tale che la sua camera «era più odorosa della bottega di un
farmacista».7
Pierre Brasseur riporta una frase di Max Jacob, che illustra perfettamente le
contraddizioni morali del capo del druidismo, una scuola di poeti che
contava tra i due e i cinque aderenti, e la cui attività consisteva nel tagliare
vischio in rue Ravignan:
L’onestà è una piccola casa dove c’è profumo d’incenso, il che è molto spiacevole, e
una sola porta che si trova subito; la disonestà è molto più grande, sa di miele e di
alcol, non si trova nessuna porta eppure ve ne sono molte; guardatene, perché questa
casa è seducente e se ne esce a fatica.8

Max Jacob avrebbe voluto essere un santo. E senza dubbio deve avere
pensato di esserlo diventato il 22 settembre 1909, alle quattro del pomeriggio.
Quel giorno, mentre ritornava a casa, Cristo gli era apparso sul muro della
sua stanza. Rivelazione fondamentale che aveva trasformato la sua vita e che
lui stesso ha raccontato:
... Dopo avere tolto il cappello, mi apprestavo, da buon borghese, a mettermi le
pantofole, quando lanciai un grido. C’era un Ospite sul muro. Caddi in ginocchio, gli
occhi mi si riempirono di lacrime. Un benessere ineffabile era sceso dentro di me,
stavo immobile senza capire. Mi sembrò che tutto mi fosse stato rivelato... E
istantaneamente, appena i miei occhi ebbero incontrato l’Essere ineffabile, mi sentii
spogliato del mio corpo materiale, e ricolmo didue sole parole: morire, nascere.9

Più lirico:
Sono ritornato dalla Bibliothéque Nationale, ho deposto la borsa; ho cercato le

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pantofole e quando ho alzato la testa c’era qualcuno sul muro! c’era qualcuno! C’era
qualcuno sulla tappezzeria: il mio corpo è caduto: spogliato da un fulmine! Oh!
attimo imperituro! Oh! Verità! Oh! Perdono! È in un paesaggio, in un paesaggio che
ho disegnato un tempo, ma Lui! Quale bellezza! eleganza! dolcezza! Le spalle! Il suo
modo di muoversi! Indossa una veste di seta gialla e paramenti blu. Si volta e vedo la
sua faccia calma, radiosa...10

Ci saranno altre rivelazioni nella vita di Max Jacob. Per la maggior parte
piuttosto strampalate.
Il 17 dicembre 1914, mentre è comodamente seduto al cinema, intento a
seguire appassionatamente le avventure di cappa e spada degli eroi di Paul
Féval, un importuno si siede al suo fianco. Max è obbligato a stringersi nel
cappotto. Borbotta, appoggia il braccio sul bracciolo e si rituffa nelle
avventure della Bande aux habits noirs. Poi dà un occhiata verso destra. E lì,
stupore, perfezione, sbalordimento: il nuovo vicino non è altro che il Signore
in Se Stesso. Seduto tranquillamente in una sala di cinema. Braccia e gambe
incrociate, si suppone, manca solo che si lecchi un gelato! Max è in
ginocchio. Lo spettacolo non è sullo schermo. È in platea.
Un’altra volta, mentre sta pregando in chiesa, sente una voce: «Max! Sei
ben brutto!».
Il penitente si volta. E chi vede al suo fianco? Una signora in bianco: la
Vergine Maria. Grida: «Ma no, signora Vergine! Le assicuro che sta
esagerando!».
Lui stesso ha raccontato questo incontro improvviso a André Billy. Si può
pensare quello che si vuole. L’essenziale – un cinema vale l’altro – è che Max
Jacob decide di accelerare le operazioni necessarie alla buona causa: la
propria conversione.
Ci si dedica da quando il suo visitatore in seta gialla e paramenti blu si è
incarnato sul muro di casa sua. Ma non è facile: il parroco della chiesa di
Saint-Jean-Baptiste in place des Abbesses ha sorriso; quello del Sacré-Coeur
anche. Perché questo ostracismo? «Devono avere informazioni deplorevoli
sul mio conto», suppone Max Jacob.11
Quanto a loro, gli amici, scoppiano a ridere. Picasso, che Max vuole come
padrino, ha proposto Fiacre come nome di battesimo. Max protesta: oltre che
ridicolo, questo nome, che è quello del patrono dei cocchieri e dei giardinieri,
contiene anche una discreta allusione alle sue preferenze.
Sfidando lo scherno, i sogghigni, le difficoltà che la chiesa pone sul suo
cammino, il poeta, clown saltellante e tragico, ottiene alla fine ciò cui aspira:

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dopo aver fatto lunghe indagini per saggiare la sua fede, i padri di Sion,
specialisti in conversioni di questa natura, adottano la nuova pecorella. Max è
convertito. Il padrino, magnanimo, ha accettato di cambiare Fiacre in
Cyprien, che è uno dei suoi nomi.
La rivelazione, e poi la conversione, non cambieranno niente nelle
abitudini del nuovo cattolico. Da una parte prega. E senza smettere mai. Al
punto che i suoi amici si domandano: perché prega tanto? A Vlaminck
sembra di vedervi un godimento misto a una punta di masochismo.
Sicuramente non ha torto. Poiché Cyprien fa ugualmente del proselitismo, e
in condizioni molto strane. Così una sera, in fondo a una bettola malfamata
di Pigalle, tenta di convertire una prostituta. Inginocchiato davanti a lei,
tenendole le mani per convincerla: «Abbraccia la fede!».
«Dov’è?».
«Bacia...».
«Mai sul lavoro!».
La signorina guarda, sconcertata, quel tipo con il monocolo, calvo, vestito
con un cappotto nero impeccabile ma logoro, che le racconta storie degli
angeli e di Gesù bambino. In quel momento entra il protettore che, a prima
vista, giudica le cose in modo diverso. Si precipita verso il corruttore della
sua donna, lo solleva per il colletto, gli prende le mani e gli spezza di netto i
pollici.
Max ricomincia, ma altrove. In poco tempo ha da rimproverarsi tante di
quelle debolezze che le chiese di Montmartre non gli bastano più. Va più
lontanto, dove i preti non lo conoscono. Là è più facile confessarsi. Le sue
preferenze per i signori, la passione per le droghe, le sue scappatelle
straordinariamente variate, i suoi mormorii da confessionale, fanno inorridire
i confessori. Soprattutto quando si ripetono.
Tornando a casa, Max passa dalla farmacia notturna della stazione di Saint-
Lazare. Compera una bottiglia di etere. Chiuso nella sua camera, sniffa
mentre parla con Dio e con la vergine Maria. Dà loro del tu, racconta la sua
giornata come a due buoni amici. I vapori farmaceutici lo portano via su
piccole nuvole bianche su cui si adagia comodamente. Spesso, troppo
spesso, a dire dei vicini e della custode che, del tutto senza volerlo, inalano
anche loro quelle amare fragranze.
Lo scandalo viene sempre soffocato perché gli vogliono bene, al poeta. In
rue des Abbesses lo conoscono tutti. Ascolta i pettegolezzi del villaggio e li
diffonde, ci si confida con lui, e lui si inchina davanti alla droghiera come
davanti a una principessa... È forse meno credibile di Utrillo, che racconta

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che Max ha tentato di violentarlo dopo avergli fatto prendere l’etere? A chi
credere? E perché scegliere? Sia l’uno sia l’altro possono essere annoverati
tra i maggiori personaggi di Montmartre. Ciascuno alla sua maniera. È un
altro paradosso di Max Jacob: Montmartre non gli piaceva. Non si fidava dei
«pallidi ruffianelli che le romanze stupidamente rendono poetici», dei
«piccoli falsari», dei suoi «piccoli briganti» che popolavano il quartiere.
Preferiva l’umanità della Parigi operaia e borghese. Ma stava lì perché lì
abitavano i suoi amici. Quando se ne andranno, se ne andrà anche lui. Grazie
a un miracolo che gli fornirà i mezzi per espatriare.
Il miracolo si era manifestato in un incidente.
Un giorno, mentre attraversava un viale, era stato investito da una
macchina. Ne aveva ricavato qualche ferita superficiale, ma soprattutto una
piccola somma dall’assicurazione. Aveva confidato a Vlaminck di aver tanto
pregato la Vergine Maria, che lei si era impietosita. Piuttosto che vederlo
mendicare o morire di fame, aveva provocato l’incidente. Grazie a quei soldi,
Max Jacob aveva potuto vivere un po’ meglio – o almeno un po’ meno male.

Alla vigilia della sua morte, riusciva ancora a vedere il lato buono delle
cose. Arrestato dai gendarmi, aveva mandato molte lettere agli amici. In una
scriveva che i due poliziotti erano «molto gentili» con lui.
Erano gentili perché avevano accettato di impostare la lettera. Ma intanto lo
avevano portato a Drancy. Qualche settimana prima del suo arresto, Max
aveva scritto, sul registro della chiesa di Saint-Benoît, dove era andato in
ritiro. «Max Jacob: 1921-1944». Una premonizione. Max sapeva. Sulla
strada che lo portava alla morte, aveva mandato una lettera al parroco di
Saint-Benoît:
Signor Curato, scusi questa lettera di un naufrago scritta con la compiacenza dei
gendarmi. Voglio dirle che tra poco sarò a Drancy. Ci sono state conversioni durante
il viaggio. Ho fiducia in Dio e nei miei amici.
Ringrazio Dio per il martirio che comincia.

Fu messo a Drancy, non come cattolico ma come ebreo. Mandò molti SOS
agli amici, chiedendo aiuto. Guitry, Cocteau, Salmon e alcuni altri erano
intervenuti presso la Gestapo e le autorità tedesche. Il 15 marzo 1944 avevano
finalmente ottenuto l’ordine di scarcerazione. Ma era troppo tardi. Max Jacob
era morto dieci giorni prima per una broncopolmonite fulminante.
Una delle sue ultime lettere era per André Salmon. Lo pregava di trovare
Picasso perché lo salvasse.

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Non sappiamo che cosa fece Picasso, e nemmeno se fece qualcosa. Alcuni
lo hanno accusato di non essersi mosso, altri di essersi mosso poco, altri lo
hanno giustificato: come apolide era lui stesso in pericolo.

La passione esclusiva, spesso smisurata, che Max Jacob nutriva per


Picasso gli aveva causato non pochi dolori. Il poeta era gravemente
paranoico: André Salmon racconta una storia che dimostra la sua sensibilità
eccessiva. Un giorno aveva letto a Max una poesia che stava scrivendo, e che
metteva in scena un serpente. Max era poi tornato a casa. Picasso l’aveva
trovato in lacrime: credeva che Salmon l’avesse paragonato a un serpente.
Bastava che Picasso non rispondesse alle lettere del poeta perché questi ne
soffrisse orribilmente. A questo proposito la corrispondenza scambiata tra i
due è eloquente.
Picasso a Max, 1902:
Caro Max, è molto che non ti scrivo. Non è perché non mi ricordi di te ma lavoro
molto e per questo non ti ho scritto.

Picasso, nel 1903:


Mio caro Max, anche se non ti scrivo spesso non pensare che ti abbia dimenticato (...)
Lavoro come posso non ho abbastanza soldi per fare altre cose che vorrei passo
giornate senza poter lavorare ed è molto seccante.

Max nel 1904:


Forse non hai ricevuto la mia ultima cartolina: perciò te ne scrivo un’altra, il che
non è cosa da poco perché non avendo neanche due soldi ho dovuto vendere qualche
libro. Non ho bisogno di dirti che la mia camera è a tua disposizione...

Max da Quimper nel 1906:


Caro amico, parto domani 16 aprile alle otto di sera, sarò a casa dopodomani alle
nove del mattino. Che gioia rivedervi tutti! che gioia rivederti, mio caro amico.12

Potremmo pubblicare altre lettere, il risultato sarebbe lo stesso: Picasso


lavora, Max attende.
Max aveva un «trucco» che gli amici conoscevano: nelle sue lettere, più
che le parole, era la firma che rivelava l’affetto che il poeta aveva per coloro
ai quali scriveva: se la J di Jacob scendeva verso il basso della pagina, voleva
dire che gli voleva bene. Se la consonante era corta, a dispetto di tutte le

51
parole dolci che lasciavano intendere l’amicizia più pura, non gli voleva
bene. Per Picasso, la J era lunghissima.
Nel 1927, durante un lungo silenzio del pittore, in una lettera a Jean
Cocteau, Max si lascia andare:
Non sono contento di lui! Ah no!... no... no! Ha forse paura... ma di che cosa ha
paura? Che voglia farmi invitare a colazione? che gli chieda tre franchi? (...) Vuole
forse porre fine all’intimità di rue Ravignan? Già prima della fine della guerra, tutto
ciò era morto, a pezzi...13

Qualche anno dopo, Paul Léautaud conferma:


Max Jacob, in questo momento assolutamente senza soldi, è andato a trovarlo
[Picasso]. Max Jacob agli inizi ha reso grandi servizi a Picasso. Era commesso in un
grande magazzino. Pagato niente. Eppure trovava il modo di permettere a Picasso di
mangiare e di lavorare bene o male alla sua pittura. Max Jacob è, sembra, un uomo
incapace di chiedere per sé. Picasso gli ha detto: «E allora, Max, come va?». Max
Jacob gli risponde: «Non va, ma sai, proprio per niente, per niente». Picasso: «Su,
su, Max, si sa bene che sei ricco». Max Jacob, con la sua abituale finezza: «Sì,
Picasso, lo so che per te bisogna che io sia ricco».14

Una delle ultime immagini che Max Jacob conserverà del suo più vecchio
amico, del suo fratello, del suo compagno della prima ora, è un pranzo a
Saint-Benoît, il 1° gennaio del 1937. Sembra che sia l’unica volta che Picasso
sia andato a trovare il poeta nel suo ritiro. Era arrivato alla fine del
pomeriggio, con l’autista, accompagnato dal figlio Paulo e da Dora Maar.
Avevano pranzato insieme. Max era al settimo cielo. Durante tutto il pasto,
aveva preso in giro il suo ospite. Almeno è così che Max ha raccontato
l’incontro. A mezzanotte, al momento di ripartire, Picasso aveva proposto a
Max Jacob di portarlo a Parigi. Il poeta aveva gridato: «Ah! No!».
La grossa automobile si era messa in moto verso la capitale.
Sette anni più tardi, mentre ritornava a sua volta verso il nord, verso il
campo di Drancy in cui la religione della sua infanzia l’aveva ricacciato, può
darsi che Max Jacob abbia ripensato a uno scambio di battute che aveva
avuto con Picasso durante la loro ultima cena. Il poeta aveva chiesto al
pittore: «Perché sei venuto il 1° gennaio?».
Il pittore aveva risposto: «Il 1° gennaio è il giorno della famiglia».
«Ti sbagli», aveva replicato il poeta. «Il 1° gennaio è il giorno dei morti».

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Guillaume il benamato

C’est exquis! delicieux! admirable! Mony, tu es un


poète archi-divin, viens me baiser dans le sleeping-
car, j’ai l’âme foutative.
Guillaume Apollinaire

Picasso, Max Jacob, Guillaume Apollinaire. Nascerà tra poco, sulla cima di
Montmartre, un’arte che abbraccerà il mondo della pittura. Questi tre sono i
primi lancieri del nuovo che avanza.
Max Jacob fa la conoscenza di Apollinaire alla fine del 1904. È Picasso che
lo porta in un bar del quartiere Saint-Lazare, l’Austin Fox, in cui ha
incontrato il poeta la sera prima. L’Austin Fox è un luogo di incontro dei
fantini e di appuntamento per quelli che aspettano il treno: come Apollinaire,
che abita ancora a casa di sua madre, al Vésinet.
La prima volta che lo incontra, Max è sedotto dall’eleganza di colui che gli
contenderà il posto più alto del podio vicino a Picasso. Guillaume Apollinaire
è un bel giovanotto, che indossa una giacca inglese e un gilè attraversato da
una catena da orologio. Assomiglia a un Pierrot lunaire con una testa a forma
di pera. La descrizione corrisponde punto per punto, rotondità per rotondità,
a un ritratto che Picasso eseguirà del suo amico poeta nel 1908.
Soprattutto, Max Jacob vede Apollinaire come lo vedranno tutti quelli che
lo avvicineranno: i pittori, gli scrittori, i poeti, i mercanti d’arte, gli editori – i
molti amici così come i pochi nemici.
Guillaume Apollinaire è seduto a un tavolo. Fuma una pipetta. Stringe
mollemente la mano a Picasso e a Max Jacob senza smettere di conversare
con i suoi vicini, mediatori, agenti di commercio. Parla loro di Petronio e di
Nerone. Tira fuori un libro dalla tasca, poi un altro, poi un terzo: sembra che
le pieghe dei suoi vestiti nascondano opere di ogni tipo, prosa, versi,
filosofia, curiosità, che Guillaume mostra, tende, riprende, legge – poi cerca
altrove, si entusiasma, ride, compone una quartina, parla di una città,
canticchia, descrive un’immagine, l’odore di un piatto, gli accenti di una
poskotznika, lancia un richiamo improvviso, chiede una birra, si lascia

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andare all’indietro e disserta sulla letteratura erotica, passa a Buffalo Bill,
all’imperatore romano Pertinace, a Paul Fort e a Jean Papadiamantopoulos,
tira fuori un numero della «Revue Blanche» da una delle sue tasche-cassetto,
pregando i presenti di riflettere a un problema essenziale sul quale ha egli
stesso dissertato a lungo: perché si dovrebbe spregiare la tiara di Saitafernes
per la sola ragione che potrebbe essere falsa?
Si alza di scatto e ordina: «Andiamo a passeggio».
Poi si trascina dietro una corte di letterati e di artisti attraverso Parigi, da
una stranezza all’altra. Ogni tanto si mette a canticchiare, si ferma a prendere
nota di qualcosa, poi propone all’improvviso di cercare un’automobile per
andare dalle parti di Rueil, nella foresta di Saint-Cucufa.
È di una curiosità insaziabile. Lo interessa tutto ciò che è nuovo,
imprevisto, bizzarro. È capace di fermarsi davanti a un gruppo di muratori
intenti a costruire un muro e di osservarli per ore. Dopo di che mormora, con
l’aria più seria del mondo: «Quello dei muratori è un vero mestiere, non
come la poesia...».
La sua cultura è prodigiosa, e prodigiosamente varia. Parla cinque lingue.
Legge tutto. Ha una vera passione per Nick Carter, Fantômas e Buffalo Bill.
Non perde un numero, li legge avidamente camminando per strada.
«È una occupazione poetica del più grande interesse!», dice.
Offre questi romanzi a puntate agli amici. Ben presto, tutta la banda si dà al
saccheggio della biblioteca di Montmartre, in boulevard de Clichy. Leggono
per intere giornate. Alla sera commentano le avventure di Juve e di Fandor.
Max Jacob sognerà di fondare una «Società degli Amici di Fantômas». Più
tardi i surrealisti adoreranno questo genere di racconti: con quella rapidità
degna della scrittura automatica, i loro autori non facevano forse della prosa
surrealista senza saperlo? Quanto a Cendrars, arriverà a intitolare una poesia
con il nome del loro eroe. Di più: concepirà Moravagine come un seguito di
Fantômas. Tuttavia, eccetto il ritmo indiavolato delle avventure, le due opere
sono molto diverse. Una è nata nell’immaginario di uno scrittore. L’altra è il
risultato di un lavoro su commissione, eseguito da un grafomane di talento,
mondano patentato, amante delle belle macchine – Pierre Souvestre – e dal
suo negro, giornalista al «Poids Lourd», nonché autore di un manuale sulla
manutenzione dell’automobile – Marcel Allain.
Apollinaire mette a disposizione degli amici le istruzioni per l’uso letterario
di Fantômas. I due autori lavorano per l’editore Fayard: ogni mese devono
consegnare un volume di circa quattrocento pagine. L’obiettivo dell’editore è
semplice: fare meglio di Gaston Leroux.

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Souvestre e Allain hanno messo a punto un metodo da rally-men. Si
vedono per tre giorni, il tempo di inventare una storia e di strutturarla
secondo un piano preciso. Dopo di che tirano a sorte i capitoli, pronti a
cambiarne alcuni in caso di necessità. Poi, ciascuno se ne va a casa propria,
bocca al dittafono, il più vicino possibile a una dattilografa che porta via i
rulli di cera senza che gli autori si rileggano. Il risultato è uno stile a cento
all’ora con testacoda grammaticali multipli.
Pur ammettendo che l’opera è scritta «come viene», Apollinaire ne ammira
lo sfrenato immaginario – conforme, d’altra parte, alla campagna
pubblicitaria, la prima del genere, che ha salutato la nascita di Fantômas nel
1911.
Il suo stesso lavoro letterario è caratterizzato da una grande varietà. È
questo che fa la ricchezza del personaggio. Apollinaire scrive in versi, in
prosa, poemi, calligrammi, racconti, articoli, testi erotici. Dati i costumi e la
morale dell’epoca, teme lo scandalo. E nasconde sotto una falsa copertina,
nel ripiano più alto della sua biblioteca, la sua opera migliore, quella che
Picasso considera il libro più bello che abbia mai letto: Les Onze Mille
Verges.
Qualche mese dopo il suo incontro con Max Jacob e Picasso, Apollinaire
diventa responsabile di un’enigmatica rivista di cultura fisica, per la quale il
pittore disegna tre schizzi del poeta nudo, muscoloso come un sollevatore di
pesi, con una testa piccola dallo sguardo stupito sopra quel corpo d’atleta.
Poi dirige due collane di libri: una si chiama Les Maîtres de l’Amour, l’altra
Le Coffret du Bibliophile. Vi pubblica le opere dell’Aretino e del marchese de
Sade, e contribuisce così a farlo uscire dalle prigioni della censura.
Il suo desiderio di piacere è tale che sono in pochi a resistergli. Grazie ai
suoi paradossi, è a proprio agio ovunque, anche nel gran mondo. Nelle serate
parigine Apollinaire, in frac, si inchina davanti alle signore per baciare
delicatamente le loro mani bianche. Tiene discorsi da sapiente, poi scoppia in
una risata enorme, infantile, un po’ volgare. È capace delle gentilezze più
squisite come degli scherzi meno eleganti. Sotto lo sguardo sbalordito dei
compagni, un giorno finge di essere un pio ebreo, entra in un bordello della
rue des Rosiers e rivolgendosi alla maîtresse le chiede se la ditta rispetta le
leggi religiose.
Compera «Le Temps», e spiega all’edicolante che soffre di coliche
croniche e aggiunge che «Le Temps», a patto di essere applicato sul ventre al
punto giusto, cura benissimo questo disturbo.
Sempre nella vena scatologica, che gli piace particolarmente, si diverte a

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passare davanti al banco di una pasticceria del passage Guénégaud, a
sollevare la gamba sui dolci esposti all’esterno, depositando l’impronta
delicata di un peto odoroso.
Con un gesto più gentile, cucina per Vlaminck pere alla mostarda
accompagnate da insalata selvatica all’acqua di Colonia...
Di primo acchito, tutto ciò non corrisponde all’immagine che offre di sé:
un borghese ben messo, incravattato, con gilè e catena da orologio. Amante
degli agi e delle comodità. Impiegato in una banca della rue de la Chaussée-
d’Antin. Superstizioso, ama farsi predire l’avvenire ed evita di passare sotto
le scale. Abita dalla madre, in una lussuosa casa del Vésinet. La sua infanzia è
trascorsa, come su un tappeto di seta, sui gradini dei palazzi della Riviera
italiana e della Costa Azzurra di Nizza e di Monaco. Il suo vero nome è
Wilhelm Apollinaris (il nome di una bevanda che ritroviamo nelle Onze Mille
Verges) de Kostrowitzky. È discendente di un ufficiale dell’armata reale delle
Due Sicilie (e non di un prelato della Chiesa cattolica, come si è creduto per
molto tempo) e della figlia di un ufficiale polacco della camera privata del
papa.
Paroloni per una realtà molto semplice: Guillaume Apollinaire è meticcio e
apolide. È il figlio di un uomo che se n’è andato qualche anno dopo la sua
nascita, lasciando nella sua scia un profumo di mistero romanzesco, e di una
donna, la Kostrowitzka, che ci immaginiamo libera, abituata a portare i figli
da una camera d’albergo all’altra, passando da città e palazzi a seconda del
caso, del gioco, degli amanti, delle stagioni. Per l’epoca, il colmo della
sregolatezza. Circostanze aggravanti: Guillaume era stato a suo tempo
dreyfusardo, vicino alle tesi libertarie, collaboratore di un giornale dai colori
decisamente neri, «Le Tabarin».
Diversamente da Max Jacob, quando si incontrano Guillaume ha già
pubblicato. Non libri, certo, ma articoli. Sulla «Revue d’Art Dramatique» e
sulla «Revue Blanche», il cui segretario di redazione, lo scrittore Félix
Fénéon, è stato portato in tribunale per le sue simpatie anarchiche. La
redazione della «Revue Blanche» era prestigiosa, e Guillaume vi ha
avvicinato molti scrittori che sono o diventeranno famosi: Zola, Gide, Proust,
Verlaine, Jarry, Claudel, Mallarmé (che aveva testimoniato al processo di
Fénéon), Octave Mirbeau, Jules Renard, Julien Benda...
Con alcuni amici, tra cui Alfred Jarry e Mécislas Goldberg, Apollinaire ha
anche fondato una rivista, che ha una sede sociale (il domicilio di sua
madre), un segretario di redazione (André Salmon), un titolo («Le Festin
d’Esope») e di cui sono usciti nove numeri. Nel 1904 pubblicherà

56
L’Enchanteur pourissant.
Apollinaire ha ancora altri titoli. Qualche anno prima, appena ventenne, ha
scritto un piccolo libro erotico che è diffuso clandestinamente: Mirely, ou Le
petit trou pas cher. Tutto un programma. E, ancora prima, quando lui, sua
madre, e il fratello Albert sono sbarcati a Parigi senza che gli restasse più
niente della ricchezza grazie alla quale la Kostrowitzka aveva fatto la gran
vita, il poeta aveva scritto articoli di rèclame, come si chiamava allora la
pubblicità. Aveva anche fatto il negro per un famoso scrittore, che
pubblicava, firmandoli con il proprio nome, romanzi popolari a puntate nel
giornale «Le Matin». Aveva anche scritto a pagamento, per uno studente, una
tesi di dottorato sugli scrittori dell’epoca della rivoluzione.
Così vivono i poeti. Quando non fanno del giornalismo – storie di cani
investiti da una carrozza (come Dorgelès), cronache d’arte (come Salmon),
cronache teatrali (come Léautaud) – pubblicano racconti sui giornali (come
Alain Fournier), o scrivono libri licenziosi per un libraio del faubourg
Poissonnière, Jean Fort (come Alfred Jarry o Pierre Mac Orlan che, una volta
tanto, si firma con il suo vero nome: Pierre Dumarchey).
Al Fox, dove Picasso e Max Jacob vanno ad aspettare il nuovo amico
all’uscita dal lavoro, Apollinaire non smette di fare sfoggio delle sue
competenze. Perché è stato anche segretario e precettore di francese. E ha un
diploma, quello dell’Unione degli Stenografi. Lo guardano stupiti. E lui,
superbo: «Scrivo con la stessa velocità con cui parlo».
«A cosa ti serve?».
«Assolutamente a niente...».
Tanto più che non compone né come Salmon, né come Jacob. Non ha
bisogno o quasi di uno scrittoio. È più vicino a Erik Satie, di cui gli piace
ricordare che lavora alle sue opere camminando da Arcueil a Montparnasse,
fermandosi ad annotare le note alla luce dei lampioni. Come il musicista, il
poeta passeggia per Parigi canterellando un’aria, sempre la stessa, sulla quale
le sue rime e suoi versi vanno a posarsi «come un’ape sul fiore», scriverà
Max Jacob – che continua così: «Era una poesia terribilmente ispirata.
Allungava le note per mettere una sillaba in più o le accorciava per
sopprimerla». Paul Léautaud, invitato una sera a casa di Apollinaire, sentirà
sua moglie canticchiare la stessa aria... mentre ricopiava i versi del marito.

Sembra ricco, Apollinaire, ma è povero: sua madre – maman, come dice –


gli assicura un minimo mensile. Maman beve sodo, rum e whisky.
Al Vésinet, nella grande casa in mezzo a un parco, Vlaminck e Derain

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hanno incontrato la Kostrowitzka. Portava a spasso i cani, due setter a pelo
fulvo. Teneva in mano un frustino. I due pittori si sono chiesti se usava lo
stesso frustino con il suo amante, un certo Monsieur Weill (che Max Jacob
prenderà a torto per il padre di Guillaume), impiegato in Borsa, che si era
dato da fare per trovare un lavoro ai ragazzi Kostrowitzky. I vicini
propendevano per il sì.
Albert, il più giovane dei suoi due figli, vicino all’organizzazione cattolica
di Marc Sangnier, è un giovanotto tranquillo e ragionevole. Sua madre lo sta
a sentire con interesse e ammirazione. L’altro, il poeta, che pure ama di un
amore protettivo, non lo capisce. Un buono a niente in Borsa, nei lavori
manuali, quasi in tutto. Non ha mai un soldo in tasca e ha sempre paura di
non averne abbastanza. Vorrebbe barattare il posto stabile e fisso di uno
stimato impiegato di banca con l’incerto status di poeta. Ma che cosa è un
poeta?
Ogni volta Guillaume incassa i rimproveri della madre senza nemmeno
sognarsi di difendersi: ama quella donna, la difende. Maledirà Max Jacob,
colpevole di avere scritto una canzone in suo onore, che gli amici, quando
vogliono prenderlo in giro, cantano in coro:
Sposare la madre di Apollinaire
La madre di Apollinaire
Che figura ci farei?
Che figura ci farei?

Guillaume ha l’aria di un ragazzo obbediente. Sua madre non ha letto quasi


niente degli scritti del figlio (che non glieli manda), e quando darà
un’occhiata all’Hérésiarque & Cie metterà subito da parte quel libro pieno di
storie scabrose e incomprensibili. Un giorno dirà a Paul Léautaud: «Scrive
anche l’altro mio figlio! Quello che sta in Messico!».
«Che genere di letteratura?».
«Cose molto complicate... Articoli per giornali finanziari».
Per lei Guillaume è un bambino piuttosto insopportabile.
Quando si trova in Renania, ragazzino di ventun anni perso nella grande
Germania dove viaggia come precettore, gli scrive come se portasse ancora i
calzoni corti. Vuole sapere che cosa fa, come spende i soldi, se si interessa
ancora alla sua famiglia, gli dà quasi l’ordine di leggere i giornali tedeschi per
imparare la lingua, di non mettere tutti i soldi nel portafogli altrimenti i ladri,
più furbi di lui, li troverebbero subito... Lo sgrida perché ha dimenticato di
scrivere il giorno di Natale, gli raccomanda di leccare BEN BENE i

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francobolli, di comperare un paio di scarpe se non costano più di otto
marchi, di bere a tavola, vino, birra, oppure latte, di non fare sciocchezze.
Vuole sapere se le lenzuola vengono cambiate regolarmente e se lui si lava
abbastanza, se c’è chi pensa ai suoi vestiti. Con incredibile autorità, esige che
le risponda subito, e non con una delle sue solite lettere che sembrano scritte
da un imbecille. Infine, viene pregato di correggere l’ortografia:
Stai attento quando scrivi una lettera: è vergognoso che un ragazzo che ha fatto i tuoi
studi faccia continuamente errori di ortografia. Capisco che sono solo errori di
disattenzione, ma se scrivi così ad altri, le commenteranno in modo più severo. Ed è
una vergogna.1

Fino a ventisette anni, Guillaume abiterà a casa di mamma. A ventotto, a


ventinove anni, andrà a trovarla tutte le domeniche e, ogni volta, ritualmente,
le porterà un fagottino di biancheria da lavare. In cambio, sarà rifornito di
vasi di marmellata fatta in casa. E se ne andrà rimpinzato di merluzzo o di
pasta.
Alla madre non piacciono i suoi amici. Né quelli di Montmartre, né
Vlaminck, né Derain, che Apollinaire ha portato una prima volta al Vésinet,
un giorno che, la borsa vuota e lo stomaco nelle scarpe, aveva pensato di
poter nutrire se stesso e gli amici alla tavola di famiglia: aveva sperato che la
madre avrebbe invitato tutti e tre a dividere il pranzo con i suoi ospiti. Erano
stati fatti entrare in un’anticamera, tra il biliardo e la sala da musica. Su una
cassapanca c’era una gabbia con una scimmia cieca; anche lei affamata, aveva
rosicchiato le sbarre dorate al punto di perdere la vista.
Seduti su rigide sedie, i tre amici avevano ascoltato senza dire una parola,
con l’acquolina in bocca, il rumore delle forchette e dei coltelli che
arrivavano dalla stanza vicina. Avevano incominciato senza di loro. Antipasti,
primo piatto, formaggi, dolci. Anche la scimmia si era ammotulita. Erano stati
finalmente accolti nella sala da pranzo, ma solo dopo che gli invitati se
l’erano battuta, loro e la loro ospite, all’arrivo degli artisti.
Avevano mangiato gli avanzi.
Guillaume Apollinaire aveva ereditato dalla madre il peccato della gola. «Il
vino gli gorgogliava nello stomaco, la carne gli schioccava tra i denti», ha
scritto Chagall.2 Gli piaceva mangiare, rimpinzarsi, mandar giù un piatto
dopo l’altro, ricominciare fino a non avere più un minimo di fame, di sete. A
sazietà, sempre.
A tavola era raggiante. Le guance belle piene, il pancione sistemato come si

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deve, il colletto aperto, la cintura allentata di un buco, aspettava il segnale di
partenza e si sfrenava sulla carta dei piatti e dei vini. Sceglieva i cibi più vari
perché, a parte la carne rossa, gli piaceva tutto. I cibi che apprezzava di più
erano la trippa e i pasticcini canditi, e poi il risotto, di cui sorvegliava
personalmente la cottura quando invitava a pranzo gli amici.
Al ristorante Apollinaire era uno spettacolo: il tovagliolo intorno al collo,
divorava un pollo spezzandone le ossa con i denti e con le dita, il colletto
slacciato, spalancando le piccole labbra sporche di salsa, il sorriso che si
allargava nel corso del pranzo. Si alzava all’improvviso dopo aver
trangugiato due porzioni di manzo lessato al sale grosso e tre costolette,
dicendo: «Aspettatemi. Adesso bisogna che vada a cacare al Lutétia». Perché
conosceva le migliori toilette di Parigi, e le consigliava sempre agli amici.
Quando ritornava, se c’era Carco a tavola, il poeta finiva il pasto, ordinava
un caffè e prendeva un brodino come digestivo.
Se c’erano Derain e Vlaminck, magari da Chartier, in rue Montmartre,
facevano a gara a chi mangiava di più. La regola era semplice e conviviale.
Bisognava mangiare tutti i piatti del menu. E quando avevano finito,
ricominciavano. Chi lasciava per primo aveva perso, e pagava il conto.
Apollinaire non lo pagava quasi mai.
Era parsimonioso oltre misura. Per non dire di più. Paura di restare senza
soldi, angoscia di fronte alle entrate aleatorie dei diritti d’autore...
Anche qui aveva preso dalla madre, che aveva conosciuto prima gli alti,
poi gli alti e i bassi, infine solo i bassi. Avevano dovuto adattarsi. Guillaume
era stato educato a una scuola severa...
Tuttavia non è mai stato come Arpagone con la sua cassaforte, e questo per
una buona ragione: non aveva nessuna cassaforte. È stato spesso molto
povero, mai ricco. Era piuttosto come un bambino che si tiene stretti i suoi
pochi soldi.
Un classico di Apollinaire al ristorante era di mettere la mano in tasca,
impallidire, poi esclamare: «Ho dimenticato il portafogli!». E lo faceva così
spesso che ogni tanto si tratteneva dal mangiare, fino al momento in cui
Vlaminck diceva: «Non preoccuparti. Tocca a me pagare».
Riprendeva subito coraggio e tre piatti in umido.
Soupault racconta che durante la guerra accompagnava spesso Apollinaire,
che lavorava allora alla censura, negli edifici della Borsa. Passavano per rue
de la Banque, dove si trovava un rigattiere. Guillaume si fermava al banco.
Guardava tutto: le vecchie chiavi, i porta-penne, le buste, le ceramiche, i pesi,
e le misure... Si stupiva davanti a quegli oggetti. Chiamava il mercante:

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«Questo vaso, quanto costa?».
«Dieci soldi...».
«Dieci soldi?».
Lo contemplava ancora, ammirato, poi lo posava bruscamente, con una
smorfia: «Troppo caro».
Prendeva in mano una vecchia pipa, accarezzava la schiuma o la radica, ne
ammirava la forma, e chiedeva: «Per questa pipa?».
«Due soldi».
«Due soldi? Ma non li vale!».
Desolato, proseguiva per la sua strada. Il giorno dopo ritornava, e anche se
il vaso costava cinque soldi e la pipa un soldo solo, non comperava né l’uno
né l’altra.
Per farlo arrabbiare, bastava aprire i suoi armadi e fingere di rubare
qualcosa. Apollinaire ordinava, supplicava, esigeva la restituzione delle sue
proprietà. Che gli venivano sempre restituite, e sempre tra mille risate. Perché
non ci si poteva arrabbiare con Guillaume. Quella sua debolezza era
ammessa. Sapevano come trattarlo: bastava non chiedergli niente.

Quest’uomo che spendeva con parsimonia, si dava generosamente ai suoi


amori. Quando conosce Picasso e Max Jacob, è appena tornato da Londra. È
andato a tentare la sua ultima chance presso una ragazza di cui è follemente
innamorato. Si chiama Annie Playden. L’ha conosciuta tre anni prima, dalla
viscontessa de Milhaud. A quel tempo Apollinaire insegnava il francese alla
bambina di casa, Gabrielle. L’inglese veniva insegnato da una governante
inglese, la bella Annie. Se ne è innamorato a Parigi e l’ha seguita in Renania,
dove la famiglia ha piantato le sue aristocratiche tende. Questo viaggio gli ha
permesso di dimenticare un altro amore, Linda, di visitare la Germania e di
scrivere di questo paese: le Rhénanes e qualche bella pagina che riprenderà
nel Poète Assassiné nell’Hérésiarque & Cie.
Ma la sua principale occupazione, più dei corsi di francese per la piccola
Gabrielle, è la governante inglese. Le manda poesie che ha già dedicato a
Linda e che altre, più tardi, si vedranno dedicare a loro volta, ognuna
convinta di essere l’unica. Le parla in francese, lei risponde in inglese. Si
capiscono poco, ma per la ragazza la faccenda è chiara: lui la sta
corteggiando. E la conquista, senza dubbio. «L’ho amato carnalmente, ma le
nostre anime erano lontane», confida la bella.3
Comunque, nelle sue lettere, lei lo chiama chéri...
Per quasi un anno allacciano rapporti amorosi e clandestini. Poi, un brutto

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giorno, Annie li scioglie: «Kostro», come lo chiama, ha una natura selvaggia
e collerica, che urta il temperamento casto e riservato della ragazza. Un
giorno la porta sull’orlo di un precipizio e la mette davanti alla scelta: «O mi
sposi o ti butto giù».
Annie lo convince che lo scambio proposto non è equo. Il giorno dopo
prende il largo e Guillaume si ritrova solo e abbandonato.
Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Sa conquistare ma non sa
conservare le sue conquiste. Lo respingono. È il maleamato. E ne soffre. A
tutte scrive lettere in versi, prima per conquistarle, poi per continuare, alla
fine per ricominciare. Fiamma e passione. Foga e voluttà. Adora il
sentimento quanto l’erotismo. Niente può fermarlo. Annie Playden non vuole
più saperne di lui? Non può crederci. Lei stessa non può credere a ciò che
dice. Non può che credere a lui, che canta il suo amore in poesia.
Ma Annie resiste, e Guillaume ritorna a Parigi. Per un po’. Amoreggia con
una vicina, ma quando sa che Annie è tornata in Inghilterra parte subito.
Propone all’amata di rapirla, le offre matrimonio, figli, ricchezza, la ricopre
di cappelli e di boa che allarmano la famiglia benpensante della ragazza. Una
sera le tende un tranello. La invita a mangiare da uno dei suoi amici, uno
scrittore albanese. Annie deve rientrare alle nove. Qualche minuto prima
delle nove sente strani rumori nella stanza vicina. Va a vedere: la compagna
dello scrittore albanese sta preparando un letto.
«Per chi è la camera?», chiede.
«Ma è per noi!», risponde soavemente Kostro.
Alle nove e dieci, Annie Playden è di ritorno a casa. Si barrica dietro l’ira
dei suoi genitori.
Guillaume torna a Parigi con la coda tra le gambe. Ma non demorde.
L’anno dopo è di nuovo a Londra. Questa volta propone alla sua dulcinea un
titolo di contessa: no! Le propone di fuggire in Francia. Ancora no! Ma che
cosa vuole, allora?
«Niente!», grida lei.
E poiché il poeta insiste ancora, per farla finita Annie compie un nuovo
passo: aveva attraversato la Manica per sfuggirgli, metterà un oceano tra di
loro. L’Atlantico li separerà per sempre. Apollinaire non andrà mai in
America.
Annie, tuttavia, avrà la sua Chanson du mal-aimé, così come Louise avrà,
quindici anni più tardi, i suoi Calligrammes:
Adieu faux amour confondu

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Avec la femme qui s’éloigne
Avec celle que j’ai perdue
L’année derniere en Allemagne
E que je ne reverrai plus.

(Addio falso amore confuso / Con la donna che si allontana / Con quella che ho
perduto / L’anno scorso in Germania / E che non rivedrò più.)

Quando rientra da Londra, nel 1904, Apollinaire lascia la banca e diventa


redattore capo della «Guide des Rentiers». Non sa niente di Borsa, ma finge
di saperne. Quando metterà la sua penna al servizio della pittura, diventando
il cantore degli artisti suoi amici, molti – e non soltanto le malelingue –
riprenderanno lo stesso ritornello in un’altra canzone: diranno che non sa
niente di pittura, e che ancora una volta finge di sapere.
Comunque per il momento non ha ancora scritto molto sull’arte. Ne
conversa al Fox così come farà più tardi al Flore. La sua corte non è
composta solo da Picasso e da Max Jacob. Conta anche uno scrittore che
ammira molto, Alfred Jarry, e due pittori fauves che ha incontrato in treno tra
Le Vésinet e Parigi: Vlaminck e Derain. La banda è al completo. Le manca
solo una sede.
È Picasso che la scopre, nel 1904, quando ritorna dal suo quarto viaggio in
Spagna. Il suo amico Paco Durrio, scultore ceramista, ha lasciato il suo
studio di Montmartre. Una costruzione bizzarra in un luogo inverosimile: è
una vecchia fabbrica di pianoforti costruita nel 1860, in cui si sono sistemati
alcuni artisti dividendo il locale con pannelli di legno. L’edificio è addossato
sul fianco della collina, e vi si entra dall’ultimo piano. Poi si scende,
passando per corridoi oscuri, bollenti l’estate e ghiacciati l’inverno. Gli studi
prendono luce da grandi finestre che si aprono su Montmartre. Al primo
piano c’è una presa d’acqua, l’unica. E qualche gabinetto. Il soffitto delle
stanze ai piani inferiori costituisce il pavimento di quelle di sopra. Si sente
tutto: i materassi che cigolano, i gemiti, i canti, le urla, il rumore dei passi...
Attraverso gli interstizi delle tavole di legno, si sa tutto dei vicini. Le porte
chiudono a stento.
Ma Picasso ne è incantato. Se la gode con gli occhi questa strana
costruzione di legno che non assomiglia a niente. La battezza la Maison du
Trappeur. Max Jacob ha un’altra idea: la baracca assomiglia a certe barche
con il fondo piatto sulle quali le lavandaie lavano la biancheria sulla Senna.
Le dà un nome che, partito dalla rue Ravignan, farà il giro del mondo: il
Bateau-Lavoir.

63
La bella Fernande

I miei occhi sono bilance per pesare la sensualità


delle donne.
Blaise Cendrars

Picasso abita in alto, cioè al piano terreno. Sulla porta dello studio, con il
gesso, ha scritto queste parole, ispirate alle insegne dei caffè: «Au rendez-
vous des poètes». Quando apre la porta, il visitatore (e ne arrivano molti)
scopre un piccolo ingresso che dà su una camera minuscola con il parquet in
pezzi. Poi entra in una stanza ammobiliata con un divano letto e una stufa di
ghisa arrugginita. Ristagna un odore di tabacco scuro, di petrolio e di olio di
lino. Nella penombra si distingue un catino che serve da lavabo. Sopra, una
salvietta e un pezzo di sapone. Ci sono anche una sedia di paglia, cavalletti,
tele di tutte le misure, tubi di colore sul pavimento, pennelli, recipienti pieni
di trementina. Un cassetto del tavolo ospita un topo bianco addomesticato a
cui Picasso è molto affezionato, e che non spaventa la cagnetta Frika,
un’amabile bastardina. Una grande lampada a petrolio costituisce l’unica
illuminazione. In un angolo della stanza, una tinozza di zinco contiene decine
di libri. Qui un baule nero che serve da sedile. Là, un secchio pieno d’acqua.
Un gran casino, dappertutto.
Salvo che sul letto.
Sul letto, in posa languida, riposa una giovane donna di ventitré anni, alta,
bionda, bella, di una grazia squisita, che il pittore contempla con tutta la
potenza magnetica dei suoi occhi neri. Fernande Olivier. È la sua grande
amante. Quella che sostituisce le donne dei bordelli e le altre che sono venute
e che sono andate, con le quali il giovane Pablo si è fatto le ossa. Non le ha
ancora detronizzate tutte. Ma lo farà.
Picasso ha visto Fernande per la prima volta vicino alla fontanella della rue
Ravignan. Poi l’ha incontrata davanti alla pompa dell’acqua, al primo piano.
Si sono scambiati qualche parola. Anche lei abita al Bateau-Lavoir. Si sono
visti di nuovo, sulla place Ravignan, dove Picasso si accampa con la sua
banda. Il pittore l’ha intrigata per via dei «suoi grandi occhi neri, acuti e

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pensosi allo stesso tempo, pieni di un fuoco contenuto».1 Le è sembrato
quasi senza età. Le è piaciuto il disegno delle labbra, un po’ meno il naso
grosso che ha qualcosa di volgare. Ha mani da donna. È mal vestito, goffo.
Lo immagina timido e orgoglioso.
Lui è stato sedotto dal suo portamento, dai suoi cappelli, un’eleganza alla
quale non è abituato.
Una sera di pioggia la incontra nei corridoi scuri della Maison du Trappeur.
Tiene tra le mani un gatto, che ha appena raccolto su una grondaia. Glielo
regala.
Lei gli racconta la sua vita, molte spine e poche rose: un’infanzia infelice,
genitori che la rifiutano, un marito impiegato di commercio a cui si è legata
per sfuggire all’inferno della famiglia; un bambino perso, un divorzio
penoso, dopo botte e ferite, un legame con uno scultore che l’ha incoraggiata
a fare la modella. Qualche amante. Sogni, malinconie...
Picasso è pazzo di lei. Un mattino chiede a Apollinaire di aiutarlo a ripulire
il Rendez-vous des Poètes. Per tutta la giornata puliscono i pavimenti, i muri
e perfino il soffitto con una scopa. Alla sera, il pittore presenta l’atelier a
Fernande. Spera che cederà...
Cade, in effetti, lunga distesa, vittima dell’effetto congiunto degli odori
dell’acqua di Colonia, della trementina, del petrolio e della candeggina. Ma
non per sempre e neanche per molto: Fernande ha i suoi amanti e Picasso ha
l’enigmatica Madeleine, una modella misteriosa che possiamo riconoscere
nella Femme aux casque de cheveux e nella Femme à la chemise. Soprattutto
è la modella del magnifico Nu assis (1905) che verrà acquistato da Gertrude
Stein.
Eppure Picasso è innamoratissimo. Un vero colpo di fulmine. Lui, il
giovane spagnolo ancora rozzo, non molto curato, che parla male il francese,
grande frequentatore di bordelli, al braccio di questa donna splendida,
elegante, profumata e un po’ borghese, come lo saranno tutte le sue donne.
La divora con uno sguardo implorante. Nasconde le cose che lei dimentica.
Quando lei si sveglia, lui è lì che la guarda in estasi. Dimentica gli amici, non
dipinge che lei. La supplica di venire a vivere con lui. Fernande esita, ha
paura della sua gelosia e della sua violenza. Picasso la opprime con le sue
richieste, ma quando le fa dei regali lei si commuove. Non ha un soldo, ma le
regala libri, tè, bottiglie di profumo – quei profumi di cui lei va pazza, così
odorosi e forti che quando è da qualche parte, basta annusare e dicono:
«Madame Picasso è da queste parti!».
La disegna continuamente. Lei posa e si guarda intorno. C’è un gran

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disordine nella stanza, ma la cosa non la disturba. In compenso però la
simpatia del padrone di casa non scusa la «sua mancanza di pulizia»:
Fernande si ripromette di fargli capire che quando si riceve una signora
bisogna essere puliti. Si è già assegnata un ruolo nell’educazione del
giovanotto. Sarà un lavoro duro. Oltretutto Picasso è geloso. Di tutto e di
tutti, come lo sarà sempre, per tutta la vita. Non sopporta che le sue donne o i
suoi amici si allontanino da lui, fino a quando non è lui a deciderlo. Si
comporta con Fernande come si comporterà cinquant’anni dopo con
Françoise Gilot, alla quale consiglierà, e non per scherzo, di portare un velo
sulla testa e un abito lungo fino ai piedi. «Così saresti ancora meno alla
portata degli altri, non potrebbero possederti, nemmeno con gli occhi».2
Vorrebbe metterla in clausura nel suo studio, la bella Fernande. Che non
esca. Che rinunci a posare altrove. Già Picasso non sopporta che le donne
della sua vita non siano esclusivamente dipinte da lui. Una volta Fernande
posa, mezzo svestita, un seno ben in vista, per Van Dongen (La belle
Fernande, 1906). Picasso la prende a sberle. E un giorno che la sospetta di
avere attirato di proposito lo sguardo di un cliente seduto in un bar, le fa una
scenata omerica. Da allora non esce più. Picasso preferisce occuparsi di tutto,
spese comprese, piuttosto che di rischiare uno scambio di occhiate.
Questo aspetto possessivo del personaggio diverte i suoi amici. Apollinaire
prende in giro simpaticamente il pittore quando gli fa dire, nella Femme
assise:
Per avere veramente una donna, bisogna averla rapita, chiusa a chiave e tenerla
sempre occupata.3

Picasso va dal caldo al freddo. Non è mai tiepido. In questo universo di


grande povertà, traccia arabeschi coniugali multicolori: Fernande non
lavorerà più, le comprerà dei libri, farà tutto per lei.
Una mattina, le promette una sorpresa per la sera: «Mi regalerai il mio
ritratto?».
Le mani nelle tasche della tuta, Picasso sorride enigmatico e ripete:
«Sorpresa...».
Quando lei arriva, la sera, Picasso la aspetta con impazienza. Le fa vedere
qualcosa che ha appena comperato: una piccola lampada a olio, una pipa con
una lunga cannuccia di bambù con il fornello d’avorio.
«È una nuova marca di tabacco?».
«Vieni...».

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La fa stendere sulla stuoia. Si stende al suo fianco. Compie strani gesti che
Fernande guarda con sospetto: apre una scatola che contiene una pasta scura
che sembra ambra, ne arrotola una pallina tra le dita, la infila sulla punta di
un ago, accende la lampada a olio, scalda la pallina sulla fiamma, la posa
sull’estremità della pipa e aspira. Poi porge la pipa alla compagna. Così
Fernande scopre che da Picasso si fuma, e non solo tabacco. Picasso è anche
un grande consumatore di oppio.
Si addormentano all’alba.
Fernande rimane con lui tre giorni: Picasso lavora durante la notte.
Quando se ne va, Fernande è innamorata.

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Il Bateau-Lavoir

C’era una volta un poeta così povero, messo così


male, e così privo di mezzi che, quando l’Académie
Française gli offrì una seggio, chiese il permesso di
portarselo a casa.
André Salmon

Fernande conosce Guillaume Apollinaire. Lo trova grosso, gioviale,


amabile. Elegante, la testa a pera, gli occhi molto vicini, le sopracciglia a
virgola, la bocca piccola, l’aria di un bambino. Calmo, grave, dolce, enfatico,
seducente.
Max Jacob: lo sguardo sfuggente, la bocca spiritosa e cattiva, le spalle
strette, un’aria da provinciale. È colpita dal senso di inquietudine che sembra
animarlo, e da come ha paura delle donne.
Si vedono tutte le sere. Quasi sempre da Pablo. Apollinaire si autoinvita
spesso, Max Jacob mai: bisogna pregarlo.
Si mangia a tavola, dividendo un tovagliolo di cui ciascuno ha un angolo,
e su cui Apollinaire scriverà un racconto. Spesso ci sono ostriche portoghesi,
perché a otto soldi la dozzina è un piatto che possono permettersi. E quando
non possono, scendono nel seminterrato del Bateau-Lavoir, bussano alla
porta di legno su cui sta scritto «Sorieul. Coltivatore», e cercano di
comperare a credito carciofi, asparagi, cipolle che Sorieul, per un miracolo
inspiegabile, riesce a fare crescere.
Apollinaire recita i suoi versi, in modo maldestro e senza grazia. Max
Jacob, divertente, brillante, fa ridere tutti fino all’alba. Nella Femme assise,
trasformato da Apollinaire in Moïse Deléchelle, è «un uomo color cenere con
un corpo musicale in tutte le sue parti». E che cosa fa, questo uomo-
orchestra?
Si batte il ventre per imitare i suoni profondi del violoncello; con i piedi imita le
risonanze rauche della raganella; la pelle tesa delle guance è un cembalo sonoro
quanto quello degli zigani che si esibiscono nei ristoranti, e i denti, sui quali batte

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con un portapenne, danno il suono cristallino delle orchestre di bottiglie che suonano
certi artisti al music-hall, o che sono l’attrazione di certi grandi organi meccanici
nelle giostre alla fiera.1

Si travestono e recitano commedie improvvisate.2 La cagnetta Flika,


attaccata a una catena di ferro che si trascina dietro, si incarica dei rumori.
Nei piani inferiori, il pittore Jacques Vaillant moltiplica gli effetti grazie alle
sue feste, rumorose e indiavolate. Tornato il silenzio parlano d’arte, di poesia,
di letteratura. Quando Guillaume Apollinaire perde l’ultimo treno per Le
Vésinet, dorme al Bateau-Lavoir, su un materasso di fortuna, o in una camera
d’albergo in rue d’Amsterdam.
La mattina, se è inverno e se l’inverno è freddo, Picasso rimane a letto, a
scaldarsi sotto le coperte. Se è estate, si alza e dipinge nudo. Quando bussano
alla porta, se sta lavorando non apre. Se insistono, scaccia l’intruso a forza di
insulti. Se si tratta del pasticciere della rue des Abbesses, risponde Fernande.
Grida: «Non posso aprire, sono nuda!... Lasci i pacchetti davanti alla porta!».
È un metodo per rimandare il pagamento: il giorno prima aveva fatto
l’ordine, chiedendo di consegnare a domicilio: avrebbe pagato il debito
quando avrebbe potuto...
Un altro sistema è quello di rubare le bottiglie di latte lasciate all’alba sulla
porta degli appartamenti borghesi. Ma bisogna alzarsi presto...
Quando arriva un mercante, la portinaia li avvisa. Dalla casa vicina, dove
abita, sorveglia le entrate e se l’ospite non assomiglia a un creditore si
precipita a bussare alla porta dei pittori e grida: «Questa volta è una cosa
seria!».
Se vanno da lui, Picasso nasconde Fernande sotto le lenzuola e apre la
porta. Riceve Sagot o Libaude, cercando di mostrarsi gentile. Non solo non
gli piacciono, ma gli piace ancor meno vendere opere che molte volte
considera non finite. Dopo, non riesce più a dipingere per diversi giorni.
Ci si consola da Azon in rue Ravignan. Grazie a André Salmon, ci
mangiano a credito e abbondantemente per qualche anno. Visto che la
padrona era una assidua lettrice del «Matin», il giornalista-poeta-scrittore si
era fatto passare per l’autore del romanzo a puntate di cui la signora era
un’avida lettrice. Smascherato in seguito a una denuncia, si sarebbe
rassegnato a mangiare meno.
Si va anche da Vernin in rue Cavallotti, una trattoria popolare frequentata
da operai e impiegati. Quando il debito è troppo alto, impegnano qualcosa al
Monte di Pietà, che si trova nelle vicinanze, pronti a riscattarlo appena

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possibile. I giorni fortunati, quando riesce il colpo, fanno mettere il pranzo
sul conto di un altro. E se c’è Max Jacob sono a posto: pagherà suo padre.
Aveva fatto un accordo con il trattore: Max avrebbe pagato i suoi pasti il più
spesso possibile, e se lasciava un debito alla fine del mese, suo padre
l’avrebbe regolato. A una condizione: che i menu fossero sempre composti
da un antipasto, un primo, formaggio o dessert, un caffè a mezzogiorno, e un
quarto di vino rosso la sera.
All’insaputa del padre, Max aveva rinegoziato il patto. Era in grado di
trasformare l’antipasto, primo, formaggio, dessert, caffè e vino in birre, vino
chinato, cognac e altri alcolici che offriva agli amici. Così facevano festa,
grazie all’equivalente di un pasto al giorno.
Ritornati a casa, capita che Picasso tiri fuori la lampada ad alcol, la pipa e
la scatoletta con l’oppio. Questa droga gli era stata fatta scoprire da una
coppia di frequentatori della Closerie des Lilas, a Montparnasse. Altri clienti
del caffè si drogavano, tra loro forse Alfred Jarry (nelle Minutes de sable
mémorial si parla di una dose di oppio, con labbra astrali, corpi astrali e
apposito narghilè),3 e sicuramente Blaise Cendrars, a Pasqua e a New York:
«Gli ho dato dell’oppio per farlo andare più in fretta in paradiso».
A partire dal 1910 la cocaina sostituirà l’oppio, poi il consumo generale si
abbasserà: durante la guerra l’uso di stupefacenti sarà represso più
severamente.
All’epoca del Bateau-Lavoir l’oppio era di moda: lo si comperava dagli
ufficiali di marina che lo portavano dalla Cina e dall’Indocina. Bastava
andare in un negozio della rue Croix-des-Petits-Champs, chiedere «una
scatoletta», mettere venticinque franchi sul banco e si veniva via con tutto il
materiale necessario.
Così equipaggiati, gli invitati della Maison du Trappeur si stendevano sulla
stuoia che Fernande aveva già sperimentato. Poi bevendo tè freddo al limone
si lasciavano andare alla magia dei paradisi artificiali.
Prendevano anche l’hashish, che secondo Fernande Olivier faceva strani
effetti. Una sera che avevano fumato a casa di Princet, un matematico (nel
quale, stranamente, alcuni vedranno il teorico del cubismo), Apollinaire ha
una crisi d’ubiquità: si crede al bordello. Quanto a Picasso, piomba in una
specie di trance dolorosa, grida, si lamenta, dice che dopo aver scoperto la
fotografia aveva capito che la sua arte non valeva più niente, e che la cosa
migliore da fare era uccidersi.
Si era fumato molto, a Montmartre, fino al 1908. Quell’anno, un pittore
tedesco del Bateau-Lavoir, Wiegels (il Krauss del Porto delle nebbie), si era

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impiccato dopo aver preso etere, hashish e oppio. Picasso giura di smettere.
Max Jacob continua allegramente. Prima della guerra, Guillaume Apollinaire
fumava oppio con Picabia (quasi tutti i giorni, afferma quest’ultimo); ne
consumava ancora quando conobbe Lou: nei primi mesi del 1915 andò con
la musa dei Calligrammes in una fumeria d’oppio, a Nizza.
Più spesso, tuttavia, più che fumare gli artisti bevono. Eccetto Vlaminck,
che beveva acqua, e Picasso, che beveva moderatamente. Sui banconi dei
caffè della Butte si allineavano file di bicchieri.
Non andavano più allo Zut, chiuso dalla polizia per via della proliferazione
anarchica. Ma avevano seguito il père Frédé, che aveva preso Le Cabaret des
Assassins, tenuto precedentemente da mamma Adèle, un’amica della Goulue
che era succeduta a un illustratore e poeta comunardo, André Gill: Le Lapin à
Gill, ribattezzato Au Lapin Agile, in rue des Saules, diventò uno dei luoghi
sacri di Montmartre, e il ritrovo preferito della banda di Picasso. Ci venivano
anche Dorgelès, Carco, Mac Orlan. Sull’insegna era dipinto un coniglio che
saltava fuori da una casseruola, in omaggio allo spezzatino di coniglio al vino
bianco, specialità di mamma Adèle.
Il Lapin era una costruzione immersa nel verde, con bar, sala, terrazza e
animali a profusione. L’interno era scuro, lustrato tutti i giorni dalla moglie di
Frédé, Berthe la Bourguignonne. Lampade a petrolio appese a fili di ferro
fissati al soffitto volteggiavano sotto paralumi rossi, che diffondevano una
luce da taverna. Sui muri erano appesi un grande Cristo bianco scolpito da
Wasselet, opere di Utrillo, Poulbot e Suzanne Valadon, oltre a un autoritratto
di Picasso vestito da Arlecchino (Au Lapin Agile, 1905). Un grande camino in
gesso serviva da riparo a un commando di topi bianchi, che disputavano il
loro territorio a una scimmia, a una cornacchia addomesticata e soprattutto
all’asino di Frédé, Aliboron detto Lolo, che brucava tutto e dappertutto, che
dipingeva a tempo perso: una sua opera sarà esposta al Salon des
Indépendants del 1910. Ma ne riparleremo.
Berthe stava ai fornelli e la cucina era buona. Frédé teneva la cassa e
faceva credito. Si beveva bene, spesso troppo. La bevanda consigliata dal
padrone e apprezzata dalla clientela era la «combine», un misto di ciliegie,
vino bianco, granatina e liquore di ciliegia. I fine settimana, il bar e la grande
sala erano pieni degli habitués della casa ai quali si mescolavano i curiosi
venuti a provare emozioni forti in quel posto pieno di ragazze e di artisti.
Tutta Montmartre frequentava il Lapin. È lì che Picasso e Fernande
avevano incontrato il tonitruante Harry Bauer (il pittore l’aveva
soprannominato El Cabo) e il tranquillo Charles Dullin, che si infiammava

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solo quando poteva appagare il suo amore per il teatro recitando versi di
Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e Laforgue. Non li recitava: li interpretava con
tutto se stesso. Il ciuffo sulla fronte, lo sguardo scintillante, viveva la sua
poesia come se gli bruciasse dentro e avvinceva i clienti che tacevano per
ascoltarlo. Dopo di che Dullin chiedeva un obolo e mangiava un panino
offerto da Berthe.
Frédé era felice di ricevere Picasso e i suoi amici. Il pittore era un intimo
non solo della casa, ma anche della famiglia. Aveva fatto il ritratto della figlia
di Berthe, che doveva sposare Pierre Mac Orlan: La Femme à la corneille
(1904) rappresenta Margot e la sua cornacchia addomesticata. Andava al
Lapin con Fernande, con Max Jacob, Guillaume Apollinaire e i suoi amici,
tutti pittori o poeti, che costituivano la sua guardia personale. Picasso era un
punto d’attrazione attorno al quale si riunivano tutti. Gertrude Stein, la prima
volta che l’aveva visto arrivare a casa sua, accompagnato dal grosso
Apollinaire, dal longilineo Salmon e da quei tre armadi che erano Braque,
Derain e Vlaminck, aveva pensato che sembrava Napoleone scortato dai suoi
granatieri.
Forse gli altri non erano granatieri, ma Picasso, lui, era innegabilmente un
capobanda.

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La gabbia delle belve

Ciò che nella vita avrei potuto fare solo lanciando


una bomba – il che mi avrebbe condotto al patibolo
– ho tentato di realizzarlo nell’arte, con la pittura,
impiegando al massimo il colore puro.
Maurice de Vlaminck

«Hai mai sentito parlare di Racine, La Fontaine e Boileau?», chiede


ironicamente Max Jacob a Salmon poco dopo il loro primo incontro:
«Ebbene, siamo noi!».
Quando arriva per la prima volta al Bateau-Lavoir, Salmon scopre Picasso
che sta dipingendo a piedi nudi nel suo atelier. A lume di candela. Smette di
dipingere e fa vedere le sue tele al nuovo venuto. Come un demiurgo, passa
da un dipinto all’altro, spostando i telai e le cornici, presentando il suo lavoro
senza il minimo commento, andando da un angolo all’altro dello studio per
cercare nel mucchio un certo dipinto. A sua volta Salmon, come Jacob,
Apollinaire e tanti altri, è conquistato dalle invenzioni prodigiose che scopre
quella sera.
Alto, magro, anche lui fumatore di pipa, Salmon scrive già poesie e fa il
giornalista. Con Paul Fort, pilastro di una Montparnasse di là da venire,
aveva fondato una rivista famosa, «Vers et Prose». Sotto un aspetto asciutto e
severo, nascondeva un grande talento inventivo che divertiva molto il
piccolo mondo della Maison du Trappeur.
C’era anche André Derain, che abitava in uno studio della rue Tourlaque
(lo stesso che aveva occupato Bonnard), in fondo alla rue Lepic. Cresciuto in
un ambiente piuttosto agiato, Derain aveva lasciato il politecnico, a cui lo
avevano indirizzato i genitori, per le strade tortuose di Montmartre e della
pittura. Di quella vocazione industriale aveva tuttavia conservato il gusto per
il lavoro manuale. Amava comperare al mercato delle pulci vecchi apparecchi
che riaggiustava e si metteva in casa. Uno dei suoi passatempi preferiti era
quello di fabbricare piccoli aeroplani di cartone che cercava di fare volare.
Collezionava strumenti musicali malandati e ridava loro un’anima. Leggeva

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molto e sapeva tutto sulla letteratura del suo tempo. La sua pittura, profonda,
ordinata, solida, aveva qualcosa di terreno, una potenza che si ritrovava nei
suoi modi e nella sua struttura. Le sue modelle raccontavano che a volte le
prendeva sulle ginocchia per lavorare, le stringeva alla vita con una mano e
dipingeva con l’altra. Aveva bisogno di vedere, ma anche di toccare.
Prima di installarsi in rue Tourlaque, Derain aveva vissuto a Chatou, il
paese in cui era nato. È là che aveva incontrato il suo grande amico
Vlaminck, con il quale andava a dipingere sulle rive della Senna, e che aveva
presentato a Matisse. Un incontro destinato a produrre un frutto scandaloso:
il fauvisme.
Erano sicuri che un giorno sarebbero diventati famosi, e avevano deciso
che il primo che avesse conosciuto la fama, simbolizzata dalla pubblicazione
di una fotografia su un giornale, avrebbe offerto un pasto pantagruelico al
suo infelice concorrente. Vlaminck vinse: arrivò una mattina da Derain, con
in mano «Le Petit Journal». La sua faccia compariva nella terza pagina:
Derain, stupefatto, aveva letto la didascalia: si trattava della pubblicità delle
pillole lassative Pink, apprezzate da «Maurice Vlaminck, artista pittore».
Vlaminck, Derain, Manguin, Marquet, Camoin, e soprattutto Matisse,
dovevano fare scandalo al Salon d’Automne del 1905. Questo Salon era stato
istituito due anni prima per permettere ai giovani artisti di esporre.
Corrispondeva al Salon des Indépendants, fondato da Seurat e Signac, in
opposizione ai Salons ufficiali, con le giurie e i premi. Da sempre gli artisti
osteggiati dalle accademie si erano ritirati dalle manifestazioni, quando non
erano stati addirittura cacciati dai censori. Così a suo tempo Courbet e, più
tardi, Degas, Pissarro e Manet, che avevano esposto in un Salon creato per
l’occasione da Napoleone III, il Salon des Refusés.
Matisse, Vlaminck e i loro complici avrebbero provocato a loro volta
qualche scandalo al terzo Salon d’Automne. Erano arrivati con dipinti di cui
avevano fabbricato le cornici con legno ottenuto a credito da un falegname di
Chatou. Avevano abbandonato le regole stabilite dall’impressionismo e dal
puntinismo – secondo Vlaminck, una strada senza uscita per la pittura. Per
Matisse, «la pittura divisionista distrugge il disegno».1
I nuovi agitatori rappresentano la luce mediante la sola potenza del colore.
L’estate precedente il Salon, Matisse aveva scritto a Derain da Collioure,
incitandolo a raggiungerlo per scoprire la luce eccezionale di quel villaggio
dei Pirenei Orientali. Derain aveva accettato l’invito. I due avevano lavorato
insieme. Derain aveva scoperto in quel posto una nuova concezione della
luce che equivaleva a negare le ombre: «Mi sono lasciato andare al colore per

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il colore», scrive al suo amico Vlaminck.
Le sue Vue de Collioure (1905) lo dimostrano chiaramente. Quanto alla
Femme au chapeau (1905) di Matisse, con i suoi blu, i suoi rossi, i suoi
verdi, una danza inaudita di colori buttata in faccia ai visitatori, aveva
provocato risate e reazioni rabbiose – e anche lo scetticismo di André Gide,
che aveva parlato di pittura «raziocinante», teorica, estranea a ogni intuizione.
Questi pittori erano più nella linea di Gauguin e dell’espressionismo di Van
Gogh che in quella di Cézanne. Le loro opere, dai colori e dai contrasti
violenti, erano raggruppate in un’unica sala che il critico Louis Vauxcelles,
molto in vista ma ostile all’arte moderna, aveva definito «cage aux fauves»,
ovvero «gabbia delle belve». Era nato il fauvisme. Tre anni dopo, con altri, lo
stesso critico, per la pittura di Braque esposta da Kahnweiler, parlerà di
«cubi». È da qui che verrà la parola cubismo. Vauxcelles, a suo modo, era un
visionario...
Lo scandalo era stato tale che il presidente della Repubblica aveva rifiutato
di inaugurare la manifestazione. La stampa si era scatenata. «Le Figaro»
aveva parlato di un vaso di colore versato sulla testa del pubblico. Tra i testi
consacrati ai fauves, Vlaminck si divertiva a far vedere questo articolo del
«Journal de Rouen», del 20 novembre 1905:
Arriviamo nella sala più stupefacente di questo salone, che pure di cose stupefacenti
abbonda. Qui ogni descrizione, ogni rendiconto, ogni critica, diventano impossibili.
Le opere esposte – a parte i materiali impiegati – non hanno alcun rapporto con la
pittura. Un’accozzaglia informe. Blu, rossi, gialli, verdi – macchie di colore
giustapposte a caso. Il gioco barbaro e ingenuo di un bambino che si esercita con la
scatola di colori che gli hanno appena regalata.2

I critici non si erano ancora abituati all’idea che la pittura non mirava più a
rappresentare oggettivamente il mondo e la natura. Per questo c’era la
fotografia. Lo scandalo, dalla fine del XIX secolo, derivava dal fatto che gli
artisti si allontavano sempre di più dalla realtà, ricomponendo il mondo
secondo il loro punto di vista. Non si davano più alla sola rappresentazione
(come se fosse possibile ricalcare la natura su una tela!) ma cercavano
l’espressione. A questo riguardo, l’arte negra gli sarebbe stata molto utile.
Dopo avere scandalizzato in materia di luce e prima di dimostrarsi quasi
irresponsabili in materia di forme, i pittori stavano scendendo nell’arena della
critica, ostentando opere nelle quali il rosso non era il colore più aggressivo.
Li avrebbero infilzati con mille banderillas. Matisse, Derain, ma anche
Vlaminck.

75
Ancora più sfrenato del suo amico di Chatou, Maurice de Vlaminck
dipinge la luce schiacciando i tubi di colore sulla tela. Dipinge d’istinto,
brutalmente, senza preoccuparsi di alcuna teoria. Continua a coltivare a lungo
una violenza che il suo amico si sforza di mettere a freno. Quando Derain
prende la strada della scuola e dell’accademia, Vlaminck rompe con lui.
Vlaminck, biondo-rossiccio, sguardo ingenuo in una faccia ostinata, a
volte chiusa, era davvero un violento. Mangiava, urlava e rideva a gola
spiegata. Detestava non solo le scuole e le accademie, ma anche i musei, i
cimiteri, le chiese. Sosteneva che era stata la sua anarchia a portarlo al
fauvisme.
Ho soddisfatto così la mia voglia di distruggere le vecchie convenzioni, di
«disobbedire», in modo da ricreare un mondo sensibile, vivo, libero.3

E concludeva dicendo che se avesse fatto il pittore, il più grande fauve


sarebbe stato l’anarchico Ravachol.
Era una sua opinione. Vlaminck ne aveva un certo numero, di opinioni, e
le esprimeva sempre con forza. Anche a pugni, se occorreva. Quel che valeva
per lui, valeva anche per i suoi. Georges Charensol racconta che un giorno
Vollard, invitato a pranzo da Vlaminck, aveva smesso di mangiare quando
aveva visto la figlia del pittore, una ragazzina di sette anni, accendersi una
sigaretta a tavola. Le aveva fatto notare gentilmente che fumare, alla sua età...
La ragazzina, gli aveva risposto: «Di che cosa t’impicci, vecchio coglione?».4
Con grande gioia del papà, che non era certo più tenero con i suoi
contemporanei.
A Vlaminck Montmartre non piaceva veramente. Ci andava di tanto in
tanto per far festa con gli amici, poi all’alba ritornava a piedi in banlieue.
All’epoca in cui aveva incontrato Picasso, andava avanti a forza di espedienti
per dar da mangiare alla moglie e alle tre figlie.(Le sue prime tele, dipinte con
colori schiacciati direttamente dal tubo, si spaccano, per la cattiva qualità dei
colori e del supporto.) Faceva gare di ciclismo e di canottaggio, o
strimpellava il violino in orchestre zigane. Si esibiva anche nelle fiere. Per
qualche franco, faceva a pugni con avversari grandi e grossi e si faceva
mettere al tappeto prima della fine del secondo round. Scriveva anche libri
perché, diceva, la materia prima era meno cara di quella della pittura. Aveva
scritto qualche romanzo dal titolo significativo: D’un lit dans l’autre o La
Vie en culotte rouge. Più tardi avrebbe scritto un’autobiografia, sconvolgente
e non sempre tenera con i suoi compagni di una volta.

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Aveva creduto che la fortuna gli avesse finalmente sorriso quando aveva
venduto la sua prima tela al Salon des Indépendants. Ma poi si era informato
e aveva scoperto che il suo benefattore veniva da Le Havre e che aveva scelto
le due tele che gli erano sembrate più brutte per regalarle a suo genero. La
prima era firmata Vlaminck e la seconda… Derain.
Il terzo della banda era Georges Braque. Normanno, nato ad Argenteuil.
Suo nonno e suo padre dirigevano un’impresa di imbianchini. L’uno e l’altro
dipingevano da dilettanti. Braque aveva studiato ai Beaux-Arts di Le Havre
dove aveva anche lavorato con un pittore decoratore. Era arrivato a
Montmartre nel 1900, aveva seguito corsi di disegno e poi rinunciato alla
pittura praticata da suo padre per un’arte meno artigianale. Aveva abitato in
rue des Trois-Frères e, nel 1904, aveva preso uno studio in rue d’Orsel, non
lontano dal Bateau-Lavoir. Aveva incontrato Picasso nel 1907 – più tardi
degli altri.
Braque era alto, muscoloso, i capelli scuri e ricciuti, calmo, solido,
camminava come un orso. Incantava le ragazze con cui ballava al Moulin de
la Galette. Quando prendeva l’omnibus della linea Batignolles-Clichy-Odéon,
che attraversava la Senna per raggiungere la rive gauche saliva sull’imperiale
e cantava, accompagnandosi con la fisarmonica.
Braque era riconoscibile per la tuta da meccanico, le scarpe giallo canarino
e il cappello calcato sulla fronte. Per qualche mese, tutta la banda aveva
portato lo stesso cappello: durante una vendita pubblica il pittore ne aveva
comperato un centinaio a un prezzo irrisorio, e li aveva regalati agli amici.
Kees Van Dongen, olandese, robusto come Braque, rossiccio e barbuto, si
era installato nella Maison du Trappeur nel 1905: aveva fatto tutti i mestieri:
venditore di giornali sui grandi boulevard, imbianchino, fattorino, lottatore
da fiera. Come molti, vendeva anche disegni al giornale satirico «Assiette au
Beurre», e altri, a carattere erotico, a «Frou-Frou», oppure a pubblicazioni
vendute sottobanco. È uno dei pochi pittori del Bateau-Lavoir ad avere
dipinto la vita di Montmartre, cercando le sue modelle tra le prostitute da
marciapiede, le bottegaie della place du Tertre e le ballerine del Moulin de la
Galette. Gli altri, pur abitando a Montmartre, si erano tenuti lontani dai
soggetti dipinti da Willette, Utrillo, Poulbot e Toulouse-Lautrec.
Van Dongen viveva con gli stranieri di Montmartre ma dipingeva come i
francesi. Detestava ogni teoria artistica e non partecipava alle serate di
Picasso. La cosa l’avrebbe portato lontano dagli sconvolgimenti dell’arte
contemporanea, nel cuore dei salotti parigini tra le dame dell’alta società, che
sognavano di vedersi ritratte con perle e orecchini da quel gigante che di lì a

77
poco avrebbe organizzato feste grandiose e fastose nel suo studio di Denfert-
Rochereau.
André Salmon, sempre molto severo, criticava la sua pittura, troppo
colorata per il suo gusto, e pensava che Van Dongen confondesse la tavolozza
dei suoi colori con le borse del trucco delle sue modelle. Quanto a Picasso,
l’aveva presto sfuggito, pensando che Van Dongen, essendo più a proprio
agio a Deauville che altrove, fosse diventato un pittore mondano. Può anche
darsi che non gli avesse perdonato di avere fatto tanti ritratti a Fernande
Olivier, ed essere stato così all’origine di tante scenate (gelosa pure lei, la
bella Fernande si difendeva dicendo che anche Picasso aveva dipinto tante
altre donne...).
Al Bateau-Lavoir, Van Dongen aveva vissuto in una tale miseria che non
aveva voluto più metterci piede. Divideva uno studio con la moglie Guus e la
figlia Dolly. Guus era vegetariana. Dai Van Dongen si mangiavano solo
spinaci. La famiglia era molto ospitale, in uno spazio in cui i cavalletti si
contendevano il posto con i letti, la culla, la tavola, tra il brusio dei vicini, il
caldo insostenibile d’estate, il freddo d’inverno, e i pochi soldi che bastavano
appena a nutrire la piccola. Molte volte Picasso, Max Jacob e André Salmon
avevano fatto una colletta per comperare un po’ di borotalco nella farmacia
più vicina. Quando finalmente Dolly si era addormentata, fasciata e sazia, i
Van Dongen contavano i soldi per vedere se potevano comperarsi qualcosa
da mangiare. Il che non era sempre possibile.
Quando Vollard gli aveva comperato qualche tela, Van Dongen aveva
installato la sua famigliola in un appartamento della rue Lamarck, e si era
affittato un atelier vicino alle Folies-Bergère. L’aveva fatta finita con gli
spinaci, e non lo si vedeva più sulla Butte. Andava più volentieri dalle parti
del Palais-Royal. Mangiava cibi in umido e carne rossa in un ristorante di cui
diventò cliente abituale e che sfruttava la presenza del pittore:

Anche Juan Gris viveva in famiglia. Era venuto al Bateau-Lavoir nel 1906
e si era installato nello studio lasciato da Van Dongen. Era un giovanotto di
diciannove anni, con la pelle olivastra, gli occhi e i capelli neri. «Un
cucciolone pieno di vita, affettuoso, buono, un po’ goffo», dirà Kahnweiler
che sarebbe stato senza dubbio il suo migliore amico a Parigi.5

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Come gli altri, Gris campava in condizioni miserabili. Aveva venduto
disegni ai giornali illustrati fino al giorno in cui Sagot gli aveva comperato
qualche tela. Su una parete del suo studio, scriveva con il carboncino le cifre
corrispondenti ai prodotti che comperava a credito nei negozi della Butte.
Quando aveva messo insieme un po’ di soldi, chiedeva a Reverdy di fare il
conto e poi pagava i debiti.
Gris si era tenuto sempre ai margini della banda Picasso. Abitava lì vicino,
ma rifuggiva la baraonda del Lapin Agile. Beveva poco, solo caffè. Lo si
incontrava nei corridoi della Maison du Trappeur, malinconico e solitario.
Accarezzava la cagnetta del suo compatriota con la mano sinistra, dicendo
che se l’avesse morso gli sarebbe rimasta la mano destra per dipingere.
Picasso provava una violenta gelosia per Juan Gris. Non apprezzava
l’amicizia che gli manifestava Gertrude Stein e meno ancora quella che lo
legava a Kahnweiler. Negli anni Venti, Diaghilev aveva ordinato a Gris le
scene e i costumi del suo nuovo balletto, Cuadro Flamenco, ma alla fine
aveva cambiato idea e aveva dato il lavoro a Picasso. Questa vicenda non
aveva certo facilitato i rapporti tra i due pittori.
Il più vecchio non aveva molto da rimproverare al giovane, se non la sua
indipendenza e il fatto che fosse anche lui spagnolo. Ancora una volta,
Picasso voleva essere il solo e l’unico.
Gris era rimasto al Bateau-Lavoir per quindici anni. Due donne hanno
diviso la sua vita: Josette, che aveva conosciuto nel 1913, e la madre di suo
figlio. Quando c’era il sole, appendevano il bambino per le fasce allo stipite
della finestra. Picasso voleva molto bene a questo bambino, così come alla
figlia di Van Dongen.
Gris morì a quarant’anni per una leucemia che i medici aveva preso per
tubercolosi. L’agonia fu terribile. Abitava allora nel quartiere di Boulogne,
vicino alla casa di Kahnweiler, che dal suo giardino lo sentiva urlare.
Quando aveva saputo della morte del compatriota, Picasso era rimasto
molto colpito. Gertrude Stein, irritata da tanto dolore che seguiva tanta
inimicizia, gli aveva fatto severamente notare che le sue lacrime erano fuori
luogo.
Di tutti i pittori che vivevano al Bateau-Lavoir, Gris era quello che si
teneva più distante dalla banda di Picasso. Gli altri dividevano tutto: la casa,
la tavola, le feste e anche l’abbigliamento.
Il gruppetto sceglieva i vestiti alla domenica, al mercato Saint-Pierre.
Quando poi sfilava per le vie di Montmartre, offriva uno spettacolo molto
pittoresco.

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Derain, fedele alla sua pittura, aveva adottato il genere fauve: abito verde,
gilè rosso, scarpe gialle, cappotto bianco a quadri neri e marroni, il tutto
importato dall’Inghilterra; in seguito, più sobriamente, sceglierà il blu e solo
il blu: la tuta da meccanico per lavorare, e abiti, tutti blu, appesi con cura dal
più sporco al più pulito nel suo armadio, per le serate mondane.
Vlaminck, anche lui seguace della scuola di Chatou, sfoggiava un tweed a
quadri, una bombetta decorata con una piuma e una magnifica cravatta
multicolore, in legno, che Guillaume Apollinaire ammirava per il doppio uso
che si poteva farne: manganello in caso di scontri, violino quando la si girava
per fare suonare le corde di budello di gatto tese sul retro.
Quando non si metteva in ghingheri in previsione delle battute spiritose
che ci si aspettava da lui ai pranzi eleganti a cui era invitato, buttava sul
genere mago – cappa di seta, gibus, e monocolo – o sulla moda brettone:
giacca con cappuccio e alamari.
André Warnod portava una cappa di velluto, Francis Carco calzava
impeccabili guanti bianchi (ne possedeva quattro dozzine), Mac Orlan, che si
incontrava nelle stradine di Montmartre con il suo basset alle calcagna,
sfoggiava maglioni multicolori e calze da ciclista.
Picasso aveva optato per la tuta blu da operaio, espadrillas, coppola,
camicia di cotone rossa a pois bianchi, comperata al mercato di Saint-Pierre.
Aveva provato a farsi crescere la barba (che troviamo nell’Autoportrait en
bleu del 1901), ma se l’era tagliata subito. Avrebbe finito per detestare il
genere «pittore» e gli artisti che lo ostentavano. Ragione per cui, quando si
sarà disfatto della sua leggendaria tuta blu, avrebbe criticato Modigliani e i
suoi eccessi. Eppure già all’epoca del Bateau-Lavoir il pittore italiano (che era
venuto a Parigi nel 1906) si faceva notare per l’eleganza del suo
abbigliamento: abiti di velluto e camicie sempre impeccabili. Era vestito con
eleganza classica, come Guillaume Apollinaire, che non si era mai vestito in
modo bizzarro, a differenza dei suoi amici.
Con le loro tenute variopinte, i pittori della rue Ravignan facevano del
surrealismo ante litteram. Scendevano di notte per le stradine di Montmartre,
urlando: «Viva Rimbaud! Abbasso Laforgue!». Certe volte finiva a pugni.
Come quel giorno in cui, sul Pont des Arts, Derain, per mostrare la propria
forza, aveva stortato il corrimano della scala. Dopo di che lui e sua moglie si
erano azzuffati clamorosamente, fino al momento in cui era spuntata la
polizia. La scena era terminata al commissariato.
Avevano il culto del disordine. Soprattutto in arte. Amavano i poeti
maledetti. Agli strapuntini dei teatri, preferivano la pista del Moulin de la

80
Galette dove, per quattro soldi, si potevano danzare per tutto il pomeriggio
polke e quadriglie, che facevano bruciare i piedi e l’anima. Tra poco
avrebbero scoperto le strane forme dell’arte negra. Intanto la banda scendeva
verso i boulevard per applaudire altri artisti, vicini a quelli della Butte
Montmartre: pugilatori e saltimbanchi.

81
Dalla parte dei saltimbanchi

Il bambino mi ha preso la mano e io l’ho tenuta


stretta perché mi proteggesse dall’infelicità.
Max Jacob

Picasso invidiava Braque e Derain che boxavano. Una volta aveva tentato
di infilare i guantoni contro quest’ultimo. Un diretto destro l’aveva messo al
tappeto, e così aveva rinunciato. Si accontentava di contemplare, affascinato,
i colpi scambiati sul ring delle sale frequentate dalla banda.
Andavano anche al circo. Preferivano il Circo Medrano, che era succeduto
al Circo Fernando, dipinto da Toulouse-Lautrec, Degas e Seurat. Ci andavano
più volte la settimana. Erano amici dei clown: Alex, Rico, Antonio e
soprattutto Grock, che allora era agli inizi. Apollinaire doveva coltivare
questa passione fino alla morte, andando ad applaudire Guignol alle Buttes
Chaumont durante la guerra, lui che era già membro dell’associazione Nos
Marionettes, ovvero Le Nostre Marionette. Nel 1905, nella «Revue
Immoraliste», di cui era uscito solo un numero, nelle sue cronache di pittura,
letteratura, e teatro, Apollinaire aveva parlato degli Arlecchini e delle
Colombine che si vedono a Roma, stabilendo un legame tra sé e Picasso.
Incanterebbero Picasso, queste figure.
Sotto gli orpelli scintillanti di questi saltimbanchi svelti, si sentono davvero i giovani
del popolo, versatili, furbi, ingegnosi, poveri e bugiardi.

Quando lasciava la collina di Montmartre per scendere verso il boulevard


Rochechouart, dove c’era il circo, Picasso si ricongiungeva al mondo della
giovialità e dell’apertura. Non rideva mai come al bar del Medrano. Ne
amava le quinte più che il proscenio, ed è così, d’altra parte, che dipingeva la
gente del circo: non durante la rappresentazione, ma per strada, intenti a
provare i loro numeri, in famiglia, nella vita di tutti i giorni. Questo periodo
felice, illustrato dalla riapparizione del tema dei Saltimbanchi (1905), aveva
messo fine al periodo blu. Picasso era entrato nel periodo rosa, che per molto

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tempo si è attribuito, a torto, all’arrivo di Fernande nella sua vita. In effetti,
l’apertura al mondo che caratterizza questo stile era iniziata ai tempi di
Madeleine.
Madeleine è un punto di riferimento essenziale nella vita di Picasso, tanto
sul piano affettivo quanto nel suo percorso artistico. È stata una delle prime
donne che hanno contato nella sua vita, ancor prima di Fernande. Per ragioni
misteriose, il pittore ne tacerà l’esistenza fino alla morte di Fernande,
rifiutandosi di contraddirla quando si attribuiva il ruolo che spettava all’altra.
Secondo Pierre Daix, solo Max Jacob aveva conosciuto Madeleine. A Pierre
Daix lo aveva confidato lo stesso Picasso:
Un giorno del 1968, Picasso aveva tirato fuori, al mio arrivo a Mougins, un
bellissimo ritratto di profilo che non era riuscito a trovare fino a quel momento
perché il cartone si era incastrato nella cornice di uno dei quadri della sua
collezione. «È la Madeleine», mi disse; poi, vedendo la mia sorpresa: «Per poco non
ho avuto un figlio da lei...». Precisazione che ci riportava al 1904. Ora, se si guarda
come il tema della maternità è risorto nella sua opera, troviamo che nella splendida
tempera della Maternité rose il viso della Madonna è infinitamente più vicino a
quello, aguzzo, di Madeleine, che non a quello di Fernande.1

Picasso ha sempre considerato Arlecchino come il proprio doppio.


Quando dipinge la Famille de Arlequin con un bambino, o la Famille
d’acrobates avec une singe, è la propria paternità che rappresenta. E quindi,
in filigrana, Madeleine invece che Fernande. D’altra parte non è un caso che
Maternité rose inauguri quello che viene chiamato il «periodo rosa» di
Picasso.
Questa faccenda della maternità poneva grossi problemi alla coppia
Picasso. Fernande Olivier non poteva avere bambini. Era probabilmente una
dramma per lei, e lo era anche per il suo amante. Il periodo rosa della loro
vita racchiude un oscuro episodio che è rimasto segreto per parecchi anni.
Nel 1907 Fernande Olivier decide di adottare un bambino. Va
all’orfanotrofio di rue Caulaincourt e porta a casa una bambina, che viene
chiamata Raymonde (ma André Salmon la chiama Léontine, e nessuno può
dire con esattezza che età avesse: senza dubbio una decina d’anni). Per
qualche settimana ci si occupa molto di lei, a questo universo nuovo che si
apre nella Maison du Trappeur. Picasso, da buon papà artista, fa il suo ritratto
a inchiostro di China (Portrait de Raymonde, 1907). Ma la piccola è
ingombrante: è turbolenta. Non possono più dormire di giorno e lavorare di
notte. Non è più come prima. Bisogna trovare una soluzione.

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In verità la cosa non è poi tanto complicata: quando un peso diventa
troppo pesante, basta posarlo. Metterlo altrove. Portarlo là dove lo si è preso.
In qualche modo, restituirlo.
Così, dopo avere giocato per tre mesi con i suoi nuovi genitori, Raymonde
– sembra contro la volontà del padre – viene ricondotta all’orfanotrofio di
rue Caulaincourt. Max Jacob, il buon Max Jacob, viene incaricato della
missione.
Nella Négresse du Sacré-Coeur, André Salmon ha romanzato la scena.2
Max, devoto samaritano, si fa redarguire da un impiegato dei Bambini
Assistiti, che lo prende per un padre indegno. La regola era che se non fosse
ritornato sulla sua decisione non avrebbe più potuto adottare di nuovo la
ragazzina. Lei scoppia a piangere. Max anche. Porta Raymonde a mangiare in
un ristorante e ci lascia tutti i soldi che ha in tasca. La sera torna in rue
Caulaincourt, poi scappa a gambe levate.
Chissa se quel giorno aveva preso l’etere?
La storia è stata confermata a Hubert Fabureau.3 Ma né Fabureau né
Salmon fanno il nome di Fernande o di Picasso: parlano vagamente di un
ménage d’artistes. Nella Négresse du Sacré-Coeur Max Jacob appare come
Septime Febur (nome che utilizzava per parlare bene di Picasso nelle
gallerie).
Perché tante precauzioni intorno a Picasso? Perché i suoi laudatori l’hanno
protetto così bene e così a lungo, per rompere la legge del silenzio solo molto
più tardi? Perché della prima epoca del Bateau-Lavoir (quella che precede la
nascita del cubismo) si ricordano solo le adorabili chiassate di questo
straordinario giovanotto?
Perché Picasso, solo cinque anni dopo il suo arrivo a Parigi, è già al centro
di uno spazio in cui tutti convergono, vittime o eroi del suo potere e del
fascino che esercita su coloro che lo avvicinano.
Al Bateau-Lavoir è onnipresente: lo si ammira, ci si definisce in rapporto a
lui, ispira gli altri, gli altri lo ispirano. Attira tanto per quello che fa quanto
che per quello che è. Ci si preoccupa di lui. Si va verso di lui più di quanto
lui non vada verso gli altri. Perfino Guillaume Apollinaire, che si distingue
per il fatto di non abitare a Montmartre, che si guadagna da vivere in modo
diverso, che fa colpo sul gruppo per i suoi abiti, le sue maniere e i suoi
atteggiamenti, sembra spesso a rimorchio dell’amico. Così per tutto,
comprese le illustrazioni che il pittore concede agli amici poeti per le loro
opere: non si preoccupa sempre di sapere di che cosa si tratti, dà quello a cui

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sta lavorando, a volte solo uno schizzo, un abbozzo, il cui valore è
determinato soprattutto dalla sua firma.
Picasso, attorno al quale tutti si riuniscono, ama unire attorno a sé sia le
persone sia i generi. Anche le coppie. Gli piaceva combinare matrimoni. È lui
che presenta Marie Laurencin a Guillaume Apollinaire, Marcelle Dupré a
Georges Braque, Alice Princet a André Derain.
Picasso è egualmente al centro dei conflitti tra gli uni e gli altri. Fino alle
Demoiselles d’Avignon erano rari quelli che criticavano le sue opere,
ammirate all’unanimità. Il Bateau-Lavoir è come un laboratorio in cui ci si
scambiano idee, punti di vista, scoperte, il tutto unito a una straordinaria
fraternità artistica, da cui la gelosia, per il momento e solo in questo campo, è
bandita. Con l’eccezione di Juan Gris, meno sicuro degli altri, tutti sanno che
un giorno la miseria finirà, e che il loro lavoro verrà riconosciuto. Tutto sta
nell’aspettare quel giorno. E aspettano insieme, mostrandosi le nuove opere,
quadri e poesie. La scuola era comune, arricchita da linguaggi diversi.
L’arte non è ancora fatta di grandi rivalità. Solo un artista si prestava a
questo ruolo.
Chi? Picasso.
Furiosamente geloso lui stesso delle donne, degli uomini, degli uomini che
girano intorno alle donne, delle donne che non girano intorno a lui, degli
uomini che non si accontentano del ruolo di discepoli e di ammiratori, è
normale che susciti intorno alla sua persona altrettanta gelosia.
Questa gelosia è puramente affettiva. Apollinaire, Max Jacob e André
Salmon non si misurano certo con lui con le proprie opere. Invidiano la
predilezione che Picasso accorda ora all’uno ora all’altro. Il più infelice è
senza dubbio Max Jacob, detronizzato da Apollinaire sul podio della poesia,
da Fernande Olivier su quello dell’affetto, e tra poco da Braque su quello
della creazione artistica.
Si poteva credere che queste connivenze così bene orchestrate fossero
eterne. Il tempo ha dimostrato che non lo erano affatto. Sono durate il tempo
della povertà e delle rivoluzioni artistiche. Picasso ha amato e poi
abbandonato Max Jacob. Ha amato e abbandonato André Salmon. Ha amato
Guillaume Apollinaire, che prende il primo posto, e che dopo la guerra e la
sua morte viene rimpiazzato da Jean Cocteau. Tutti avevano riconosciuto in
Picasso il portabandiera dell’arte moderna. Molti hanno sofferto della
mancanza di affetto a volte solo passeggera, ma che li feriva profondamente.
Picasso, quanto a lui, passava, come un imperatore, in mezzo ai suoi, senza
preoccuparsi dei loro piagnistei, delle loro maldicenze, delle piccole infelicità.

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Era al suo posto. Il primo.

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Il tempo dei duelli

Se scrivo è per fare arrabbiare i miei confratelli; per


fare parlare di me e per cercare di farmi un nome.
Quando si ha un nome si ha successo con le donne
e negli affari.
Arthur Cravan

Gioco di mani, gioco di villani. In rue Ravignan, in onore di Alfred Jarry


che sguaina la spada alla Closerie des Lilas, si spara e si duella dappertutto.
Picasso non si separa mai dalla sua pistola. Spara (in aria) per sbarazzarsi
degli importuni. Spara quando rientra al Bateau-Lavoir, a capo di una banda
di allegri buontemponi odorosi di alcol. Spara dalla finestra per svegliare i
vicini.
Una sera invita tre tedeschi a vedere le sue opere al Bateau-Lavoir. Poi li
porta al Lapin Agile. Per strada, i visitatori gli parlano d’arte e di teoria
estetica. Picasso non lo sopporta. Tira fuori la rivoltella e spara. I tre tedeschi
si danno alla fuga.
Quando qualcuno gli parla male di Cézanne, tira fuori la rivoltella e
minaccia: «Zitto!».
Quando Berthe Weill avanza qualche riserva circa il denaro che gli deve,
lui non fa una piega, tira fuori la pistola e la posa sul tavolo. Una volta che si
annoia in un caffè, tira qualche proiettile in direzione del soffitto. Per fortuna
non colpisce mai nessuno.
Dorgelès aspetta all’angolo di una casa il bellone che gli ha rubato la
morosa. E Apollinaire, seduto al tavolino di un caffè, aspetta che Max Jacob,
scelto come padrino, discuta le procedure con un critico che ha provocato a
duello a causa di una stroncatura. Il duello non si farà. Ci si limiterà a
incrociare i ferri intorno ai conti che i due contendenti hanno dovuto pagare
per le consumazioni dei testimoni.
A quei tempi si mandano con la stessa facilità sia fiori che padrini. Sui
giornali, cronisti specializzati si occupano di liti mondane, di maldicenze
smascherate, di pettegolezzi delle sale d’armi, in cui ci si allena alla scherma.

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Questi giornalisti passano all’alba sull’isola della Jatte o al velodromo del
Parc des Princes, luoghi preferiti dai duellanti. Fortunatamente per i due
amici del Bateau-Lavoir, se Picasso è il campione di tiro con la pistola, i suoi
spari sono sempre senza conseguenze, e se Apollinaire è il re dei duelli, si
tratta sempre di duelli non combattuti.
Il primo è nel 1907. Il secondo, poco prima della guerra. Il terzo lo oppone
a Fabian Avenarius Lloyd, alias Arthur Cravan, che diceva di essere il nipote
di Oscar Wilde per parte di madre. Un avversario di tutto rispetto: due metri
per cento chili.
Cravan aveva molte corde al suo arco: era un provocatore, un anarchico,
un violento e un pazzo scatenato. Una vera vocazione. Aveva acquisito la sua
patente di nobiltà sui banchi del collegio, quando un professore che aveva
avuto il torto di rimproverarlo si era ritrovato sulle sue ginocchia, senza
mutande e sculacciato a regola d’arte.
Era solo l’inizio.
Scacciato dalla scuola, Cravan si era spinto fino a Berlino dove aveva
preso l’irritante abitudine di andare a spasso con quattro donnine allegre sulle
spalle. La polizia lo aveva espulso, argomentando che Berlino non era un
circo.
Parigi era più liberale. Cravan aveva fatto i suoi conti. Visto che una notte
con una prostituta costava meno di una notte in albergo, aveva unito l’utile al
dilettevole. Poi si era improvvisato poeta-commediante: sulla scena chiedeva
il silenzio a colpi di tromba e di manganello.
Alla libreria Brentanos era rimasto il tempo di un libro: assunto come
commesso, era stato licenziato per aver buttato un volume in faccia a un
cliente che gli chiedeva di sbrigarsi.
Per difendersi meglio, si era perfezionato nella boxe, diventando campione
dilettante: si allenava alla Closerie des Lilas. Apriva la porta, insultava e si
batteva con i clienti, finché non veniva cacciato.
Le sue occupazioni erano ancora più diverse e varie di quelle di
Apollinaire. Le enumerava senza complessi: era stato di volta in volta, a volte
simultaneamente, cavaliere d’industria, marinaio nel Pacifico, mulattiere,
raccoglitore di arance in California, incantatore di serpenti, topo d’albergo,
taglialegna in Australia, ex campione di boxe in Francia, nipote del
cancelliere della regina, autista a Berlino, scassinatore.
Era soprattutto poeta e giornalista, responsabile di una rivista di cui erano
usciti solo cinque numeri che distribuiva personalmente guidando un
camioncino scassato: «Maintenant». La sua prosa vantava le qualità e i meriti

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dello zio, Oscar Wilde, e criticava i difetti di tutti gli altri.
Tra i suoi bersagli preferiti:
Gide: Ha un’ossatura fragile, mani da fannullone (...) Ha una faccia
malaticcia, e dalle sue tempie si staccano piccole squame di pelle poco più
grandi della forfora, inconveniente a cui il popolino dà una spiegazione
dicendo volgarmente di qualcuno: «si sta spelando».1
Suzanne Valadon: Conosce bene le sue piccole ricette, ma semplificare
non significa essere semplici, vecchia baldracca!2
Delaunay: Ha una faccia da porco sovraeccitato o da cocchiere di lusso
(...) Prima di incontrare sua moglie, Robert era un asino; forse ne aveva
tutte le qualità.3
Marie Laurencin: Ecco una che avrebbe bisogno di qualcuno che le tiri su
le sottane e glielo metta... da qualche parte.
Apollinaire, nello stesso articolo, era descritto come ebreo e serioso
(Cravan si affrettava a precisare di non avere alcun pregiudizio contro gli
ebrei, di preferirli anzi ai protestanti).
È quel che si dice non badare ai mezzi pur di raggiungere l’obiettivo.
Guillaume manda i padrini dal direttore della rivista «Maintenant». Più che
per se stesso, era offeso per Marie Laurencin, con la quale aveva vissuto
diversi anni.
Dopo complicate trattative, gli intercessori avevano ottenuto che Cravan
pubblicasse una doppia rettifica. I due nuovi testi attenuavano i precedenti
senza cambiarne affatto il senso.
Per Apollinaire: Guillaume Apollinaire non è assolutamente ebreo, ma
cattolico romano. Al fine di evitare per l’avvenire equivoci sempre possibili,
tengo ad aggiungere che il signor Apollinaire, con il suo pancione,
assomiglia più a un rinoceronte che a una giraffa e che, in quanto alla
testa, assomiglia più a un tapiro che a un leone, che butta più
sull’avvoltoio che sulla cicogna dal lungo becco.
Per Marie Laurencin: Eccone una che avrebbe bisogno che qualcuno le
tirasse su le sottane e le mettesse una grossa astronomia nel Théâtre des
Variétés.
La cosa era finita lì. Arthur Cravan doveva ancora fare parlare di sé per
qualche tempo. Aveva venduto un vero Matisse e un falso Picasso, e aveva
guadagnato abbastanza soldi per raggiungere la Spagna all’inizio della guerra.
Quanto ad Apollinaire, aveva rimesso la spada nel fodero, e si era messo a
rileggere le poesie e le prose scritte in onore di Marie Laurencin.

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Era stato Picasso a presentargli la ragazza nel 1907. L’aveva notata dal
mercante Sagot. Allora Marie Laurencin aveva vent’anni e studiava pittura
all’accademia Humbert, in boulevard de Clichy. Aveva come vicino di
cavalletto un certo Georges Braque.
Fernande Olivier l’ha descritta con una faccia da capra, uno sguardo
miope, un naso puntuto, un colorito d’avorio ingiallito, mani lunghe e rosse,
un’aria di ragazzina viziosa. Senza contare che era una posatrice, si ascoltava
parlare, faceva la finta ingenua.
Fernande la detestava. Probabilmente perché, dato che nel gruppo le
donne erano così poche, Marie Laurencin poteva insidiare il suo titolo di
prima donna. André Salmon, più poetico ma non meno crudele, riassume
tutto in due parole. Marie Laurencin? «Una bella brutta».4
Apollinaire, riferendo nel Poète assassiné il ruolo dell’Oiseau du Bénin
(Picasso) nell’incontro tra Tristouse Ballerinette (Marie Laurencin) e
Croniamantal (lui stesso), dice:
L’Oiseau du Bénin si girò verso Croniamantal e gli disse: «Ieri sera ho visto la tua
donna».
«Chi è?», chiese Croniamantal.
«Non lo so, l’ho vista, ma non la conosco, è una ragazza veramente giovane, come
piacciono a te. Ha il viso scuro imbronciato e infantile di quelle che sono destinate a
fare soffrire, e alla grazia delle mani che si alzano per respingere, manca quella
nobiltà che i poeti non potrebbero amare perché impedirebbe loro di soffrire. Ho visto
la tua donna, ti dico. È la bruttezza e la bellezza insieme».5

Precisazione: queste righe furono scritte tre anni dopo la rottura.


Marie Laurencin era tanto magra quanto il suo amante era grasso. Il che
non impediva loro di trovare molti punti d’incontro, a cominciare dalla loro
storia: lei era nata in una famiglia creola e non aveva conosciuto suo padre.
Viveva ancora a casa della madre, ad Auteuil, mentre Guillaume aveva
appena lasciato la sua. Abitava in rue Léonie (che sarebbe diventata rue
Henner) e non andava più al Vésinet se non per la visita rituale della
domenica.
Quando andava da lui, Marie Laurencin saliva i due piani saltando alla
corda. E così faceva scendendo. Guillaume la seguiva. La portava al Bateau-
Lavoir, dove più che amata era sopportata. Le veniva rimproverata una
ingenuità fittizia, che mal dissimulava una propensione troppo evidente per i
gusti della borghesia. Ma ciò che dispiaceva a tutti seduceva Apollinaire, che
aveva le stesse inclinazioni. Il gentile Doganiere Rousseau l’aveva capito

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molto bene e li aveva disegnati tutti e due (La Muse ispirante le Poète, 1909):
non erano affatto somiglianti ma come grande caricatura era perfetta, lui
vestito da notaio e lei da padrona di casa.
Guillaume e la sua musa ricevevano nel nuovo appartamento del poeta.
Era proibito disturbare, sporcare, sedersi sul letto o mangiare senza
autorizzazione. Picasso e Max Jacob, che vi cenarono diverse volte, una sera
furono duramente rimproverati dal loro ospite perché, approfittando del fatto
che lui si era voltato, si erano azzardati a rubare due fette di salame da un
piatto.
Apollinaire cucinava e la sua musa gli faceva da aiutante. Se un piatto era
troppo cotto, erano scenate. Lo stesso se non lo era abbastanza. Guillaume
era esigente, autoritario, piuttosto tirannico e geloso come Picasso. L’ideale
per le signore. Ritrovava il sorriso se la tavola era apparecchiata bene, la
carne tenera e i vini adatti.
Allora Marie diventava il suo piccolo sole. Soprattutto se gli invitati
avevano fatto una colletta comprando di che migliorare il solito menu di casa
Apollinaire: l’inevitabile stracotto di manzo con risotto. Che era sempre
meglio del pasto di mele crude innaffiate di cognac offerto una sera a Jean
Metzinger e Max Jacob.
Quando si presentavano tutte le condizioni per passare una serata
piacevole, era una gioia vedere il poeta divorare gli antipasti (cocomeri e
lumache), buttarsi sul piatto forte, prendere a volte una porzione
supplementare di uno dei suoi piatti preferiti (la trippa), trangugiare il dessert
(pasticcini glassati), offrirsi una sorpresa portata da un invitato. Poi, toltosi il
colletto inamidato, il padrone di casa si rimboccava le maniche e aiutava in
cucina.
Quando le cose andavano bene in famiglia, Apollinaire era di una
galanteria ineccepibile. Non ammetteva che ci si burlasse della sua cara
Marie. La difendeva con la stessa sollecitudine con cui aveva preso le armi
per difendere la madre, quando era stata presa in giro da Max, il quale, per
scherzo, aveva composto una piccola canzone anche in onore della musa:
Ah l’envie me démange
De te faire un ange
De te faire un ange!
En chatouillant ton sein
Marie Laurencin
Marie Laurencin

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(Mi divora la voglia / di farti fare un angelo, / di farti fare un angelo! / Solleticandoti
un seno / Marie Laurencin, / Marie Laurencin)

Marie Laurencin è stata certamente la musa del poeta così come Fernande
Olivier è stata quella del pittore. Una ha i suoi colori, l’altra le sue parole:
Alcools è una parte di Calligrammes.
Sono tuttavia rare le donne della Butte che, come quelle di Picasso e di
Apollinaire, sono entrate nella vita degli artisti ispirando dipinti e poesie.
Francis Carco ne conviene, in termini squisiti:
Le donne non hanno avuto un ruolo importante nella nostra banda. Le si prendeva
com’erano, per un mese o due, poi loro se ne andavano e noi scrivevamo versi
pensando che avrebbero anche fatto bene a non venire.6

È evidentemente un’esagerazione, come spesso nei testi di Carco. Ma


essenzialmente le cose stavano così. C’erano donne, senza dubbio, al Bateau-
Lavoir: Kees Van Dongen era sposato, e anche Juan Gris. Ma quando quei
signori dipingevano, le signore si occupavano del patrimonio. Niente di più.
Per fortuna, dopo qualche anno le molte donne di Montparnasse si
sarebbero aggiunte a quelle di Montmartre. La storia non sarebbe la stessa se
Suzanne Valadon, Fernande Olivier e poi Marie Larencin non avessero dato
la mano alle loro amiche della rive gauche, Kiki, Beatrice Hastings, Marie
Vassilieff, Youki, Gertrude Stein, Sylvia Beach, Jeanne Hébuterne, Adrienne
Monnier e tante altre, che sosterranno un ruolo considerevole nello sviluppo
dell’arte dopo la Prima guerra mondiale. Allora nessuno potrà superare né
eguagliare l’intollerabile misoginia di un cronista di «Vers et Prose» che, nel
1907, racconterà con invidia l’incanto provato da Alfred de Musset una sera
in cui aveva potuto passeggiare da solo al museo del Louvre. Non perché
fosse solo, ma perché era «al riparo dalle sue contemporanee».7 A quel punto
il cronista si era messo a raccontare ai lettori della rivista la gioia che lui
stesso provava quando si trovava il venerdì ad Avignone. Perché il venerdì?
Perché in quel giorno, in memoria della Passione, le donne non uscivano. Un
vero paradiso. Una meraviglia.
Il nome di questo grand’uomo? Charles Maurras.

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Gósol

Mettere ordine nel caos, questo è creare.


Guillaume Apollinaire

Un mattino di primavera dell’anno 1906, una carrozza scoperta si era


fermata all’inizio della gradinata di rue Ravignan. Un uomo era sceso
pesantemente, aveva detto al cocchiere di andare a sedersi a un tavolo del
bistrot e si era diretto di buon passo verso l’ingresso del Bateau-Lavoir. La
portinaia, che aveva assistito alla scena, aveva pensato che una persona così
non poteva che essere utile ai suoi inquilini. Era corsa per i corridoi fino
all’atelier di Picasso. Aveva bussato alla porta e aveva annunciato: «Una
persona importante, forse viene per voi!».
«Che genere?», aveva domandato una voce dall’interno.
«Genere rue Laffitte. Un mercante proprio per bene».
Era effettivamente un mercante e veniva dalla rue Laffitte: era Vollard.
Avendo saputo da Apollinaire che Picasso aveva abbandonato il periodo blu
per opere più vivaci, voleva dare un’occhiata.
Un’ora più tardi, quando arrivano a loro volta in rue Ravignan, André
Salmon e Max Jacob assistono a uno spettacolo davvero incredibile: il
mercante sta uscendo dalla Maison du Trappeur con due tele che i poeti
riconoscono immediatamente: Picasso! Le carica sulla carrozza e poi con lo
stesso passo pesante rientra in casa. Passa qualche minuto, e Vollard riappare.
Questa volta carica sulla carrozza tre tele. Poi quattro! Poi cinque! Alla fine ci
sono almeno venti tele sulla carrozza.
Vollard sale, prende posto di fianco al cocchiere. La carrozza fa un giro e
scende, verso i grandi boulevard: Max Jacob è fuori di sé dalla gioia, ha gli
occhi umidi. Abbraccia Salmon, ringraziando tutti gli dei del cielo per essere
venuti in aiuto del suo venerato amico.
Quel 1906 si presentava come un anno fortunato. Al Bateau-Lavoir era già
comparso un collezionista che sembrava un po’ strambo ma che ciò
nonostante aveva comperato diverse opere di Picasso. Lo aveva scoperto
grazie a Berthe Weill. Si chiamava André Level. Aveva raccontato una storia

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strampalata ma così generosa da guadagnarsi la stima di tutti. Level, a cui
mancavano i fondi per comperare da solo dipinti contemporanei, si era
associato con alcuni amici e aveva fondato un’associazione, La Peau de
l’Ours. Gli undici soci versavano una quota annua che veniva gestita da
Level. E Level visitava le gallerie e gli studi per scoprire giovani pittori di cui
proponeva le opere ai suoi «associati». Le tele erano attribuite per sorteggio;
era convenuto anche che tutte le tele sarebbero state messe in vendita dieci
anni dopo la fondazione della Peau de l’Ours. Una parte dei guadagni
sarebbe andata ai pittori.
Come non essere sedotti dall’idea? Tanto più che, su proposta di Level, gli
amici dell’associazione avevano deciso che nel 1906 avrebbero comperato
solo opere di Picasso. E adesso ecco che arrivava anche Vollard!
Aveva comperato per duemila franchi. Duemila franchi oro! Quella sera si
era bevuto champagne in abbondanza, al Bateau-Lavoir. L’indomani Picasso
si compra un portafogli. Lo infila nella tasca interna della giacca, che chiude
con una spilla da balia.
Qualche giorno più tardi, Picasso e Fernande Olivier partono in vacanza:
Barcellona poi Gósol, un villaggio della Catalogna sperduto tra le montagne.
Max Jacob e Apollinaire li scortano fino alla Gare d’Orsay. Scendono per
la rue Ravignan tenendo ciascuno un manico della cesta in cui Picasso aveva
messo i tubetti di colori e i pennelli.
Una carrozza porta l’allegra brigata fino alla stazione. Al treno li aspettano
altri amici. Urla di gioia.
Il soggiorno a Gósol dura fino all’estate. Qui Picasso porta a conclusione
un quadro iniziato l’inverno precedente e che non riusciva a finire. Un
quadro di estrema importanza nell’evoluzione della sua pittura.

Qualche mese prima aveva ricevuto un’altra visita, che aveva riempito il
suo borsellino di un benessere passeggero. Portati da Henry-Pierre Roché,
due strani Jules e Jim si erano presentati alla porta dell’atelier: Gertrude e Leo
Stein. Dopo avere comperato dei Cézanne da Vollard, avevano acquistato la
Femme au chapeau di Matisse nella «cage aux fauves», la «gabbia delle
belve» al Salon des Indépendants. Poi Leo si era fermato all’improvviso
davanti a un quadro di Picasso esposto da Sagot. Era ritornato con la sorella
per mostrarglielo. Ma a lei non piaceva.
«Sono le gambe che le danno fastidio?», aveva chiesto Sagot.
«I piedi».
«Allora tagliàteli via!».

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Non ne avevano fatto niente. Leo Stein alla fine aveva comperato, per
cinquanta franchi, la Fillette au panier de fleurs (1905). Poi aveva convinto
la sorella ad accompagnarlo fino allo studio di quel pittore spagnolo di cui
nessuno dei due aveva, fino ad allora, sentito parlare. L’intermediario era
stato Roché, che frequentava la banda del Bateau-Lavoir così come
frequentava tutto ciò che a Parigi contava in campo artistico. Nel corso di
questa prima visita gli Stein avevano comperato parecchi quadri. Per qualche
settimana Picasso aveva potuto acquistare del materiale, facendo così a meno
di ricoprire vecchie tele per dipingerne di nuove.
Gertrude e Picasso diventano grandi amici. Affascinato dal suo fisico,
Picasso propone all’americana di farle il ritratto. Lei accetta. Picasso la voleva
come Ingres aveva dipinto il Portrait de monsieur Bertin: seduta, massiccia,
definitiva.
Incomincia la prima seduta. Il pittore installa la sua modella su una
poltrona sfondata. Lui si siede su una sedia di fronte al cavalletto. Abbozza il
disegno: Gertrude raggomitolata su se stessa, le mani sulle ginocchia,
leggermente curve. Una potenza quasi maschile, ferma, come in attesa.
Il primo giorno tutto va per il meglio. La famiglia Stein viene a prendere la
sua eroina all’uscita del lavoro. Tutti sono incantati, al punto di giudicare che
il quadro, così com’è, può essere considerato finito, pagato, portato via,
esposto.
«E che altro?», chiede Picasso.
«Volete che torni domani?», chiede Gertrude con quella voce bassa e
profonda che corrisponde tanto bene all’atteggiamento che l’artista aveva
rappresentato sulla tela.
Gertrude ritorna, non solo il giorno dopo, ma ancora per parecchi mesi.
Tutti i pomeriggi lascia la rue de Fleurus per andare a Montmartre, spinge la
porta del Bateau-Lavoir e si siede di fronte al pittore, sulla poltrona sfondata.
A volte Leo viene a fare una visitina. A volte entra Fernande. Gli Stein le
sembrano un po’ ridicoli. Soprattutto Gertrude, con i suoi completi di velluto
a coste e i sandali con i lacci. Ma le riconosce una certa testardaggine: ce n’è
bisogno per rimanere per ore immobile davanti a Pablo, che non dice una
parola.
Per mostrarsi gentile, Fernande propone di leggere a Gertrude le Favole di
La Fontaine. L’offerta viene accettata. Così passano i giorni, tra letture di libri
e conversazione. Improvvisamente, dopo novanta sedute di posa, Picasso
abbandona i pennelli. Davanti a Gertrude, costernata, confessa: «Non vi vedo
più quando vi guardo».

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Aveva appena dipinto la faccia.
La cancella e parte per Gósol.
Un amico scultore gli aveva parlato di questo villaggio catalano, non
lontano da Andorra, nei Pirenei, e della sua estrema povertà. Vi si arrivava a
dorso di mulo, poi il mondo spariva. Intorno c’era solo la natura, i bruni e i
gialli delle montagne, la semplicità di una vita non toccata dalla modernità.
Gli abitanti, gentili e ospitali, erano per la maggior parte contrabbandieri,
proprio ciò di cui Picasso aveva bisogno.
È a Gósol che prende forma la nuova maniera che doveva portarlo, due
anni dopo, al compimento della rivoluzione artistica costituita dalle
Demoiselles d’Avignon. Nella nudità del paesaggio, in mezzo a quella gente
semplice, Picasso affina il suo stile. Cerca ciò che Gauguin aveva scoperto a
Tahiti: una purezza, una forma di primitivismo. Qualcosa d’altro. Una novità.
Per Picasso si tratta di definire ciò che lo distingue dall’arte tradizionale,
richiamandosi ai valori della sua giovinezza, quando dipingeva gli emarginati
di Montmartre o le donne della prigione Saint-Lazare. Una critica: della
pittura, della società, della cultura ufficiale. Rovesciare le convenzioni,
ritrovare se stesso com’era una volta, giovane simpatizzante anarchico, spirito
libero.
Dapprima dipinge alla maniera di Ingres, il cui Bain turc, al Louvre,
l’aveva affascinato. È Fernande à sa toilette, un’opera di un classicismo
estremo. Poi si fondono ispirazioni diverse: le statue iberiche prima della
conquista romana, come quelle al Louvre; la vergine di Gósol, del XII secolo,
dai lineamenti enfatizzati, le orbite smisurate, vuote; i lavori di Matisse,
anche, e quelli di Derain. Picasso guarda in se stesso, cerca, scopre. E dipinge
il Grand nu rose (1906): Fernande su uno sfondo rosa. Nuda. I capelli tirati
su, le mani giunte. Con un volto più scuro del corpo, niente sguardo ma
occhi senza orbite, allungati, come tagliati. Inespressiva. Priva di ogni
soggettività psicologica. L’abbozzo di una maschera.
Quando torna a Parigi, in fuga da un’epidemia di tifo che era scoppiata a
Gósol, Picasso si pianta davanti al ritratto di Gertrude Stein e, senza
nemmeno rivedere la modella, di getto, dipinge la testa che aveva cancellato.
L’abbozzo di una maschera. I contrafforti delle Demoiselles d’Avignon. La
prima manifestazione di un’arte nuova: il cubismo.

96
Un pomeriggio in rue de Fleurus

MATISSE, colore. PICASSO, forma.


Due grandi tendenze, un solo grande fine.
Wassily Kandinsky

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La
casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si
mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a
cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un
caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce,
completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet,
Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di
quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave;
una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così
diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti
dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi.
Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della
padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono
esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori,
scrittori, poeti, borghesi... Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si
beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata.
Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la
compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da
una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire.
Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss
Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una
sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È

97
scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per
via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno
scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato
ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere
infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto
niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni
pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste
condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua abitudine, non diceva
una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese.
Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della
rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete,
hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha
fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non
se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse
settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si
avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a
Gósol: «È Gertrude Stein?».
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei che finirà per
assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane,
ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la
fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera. E,
vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È
lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da
Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso,
che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose,
e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che
Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che
le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione:
chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano,
perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione,

98
non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le
battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista
professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non
turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a
sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua
persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio
innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo
fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue
opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier. Indossa un abito di
velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui
sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo
indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti
che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il
suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le
chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che
scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha
appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto
l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il
proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de
Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si
compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il
suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da
contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori
che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani,
né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale
e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude
Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di
essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora
può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino
a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna.
Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno
sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame

99
Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla
causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella,
con la chitarra in mano. Si è addormentata e lo strumento è caduto. Avevano
giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un
pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta
posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo
lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento.
Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti
di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si
ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno
spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il
polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto
alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da
cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma
sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente,
per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere»,1
diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba
curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare
tedesco» – ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà
per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato».
Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un
quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono
canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge
circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il
primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione
spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein
hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.
Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello
Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno
ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso

100
dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici
anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua
cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-
Lavoir.

101
Il bordello di Avignone

Ecco la vera Tahiti, cioè: ecco Tahiti fedelmente


immaginata.
Paul Gauguin e Charles Morice

A Montmartre, così come sul quai di Saint-Michel, ribolle un calderone il


cui contenuto nessuno ha ancora veramente gustato, ma che si annuncia
bruciante: il primitivismo, l’arte negra.
Picasso è andato a Gósol e Matisse ritorna da Collioure. La frontiera
spagnola separa il villaggio di montagna dal piccolo porto di pescatori. Ma
l’arte non si cura delle frontiere. Sui monti, Picasso scopre una semplicità
nuova. Sul mare, Matisse esplora un universo simile.
Gertrude sa come e dove è avvenuto l’incontro. Assisa sul suo trono, sotto
il ritratto dipinto dall’uno e non lontana dalla Femme au chapeau dell’altro,
si diverte a raccontare la storia.
Un giorno, non un sabato, Matisse doveva andare da lei. In rue de Rennes
si era fermato di colpo davanti alla vetrina di Heymann (soprannominato Le
Père Sauvage), un mercante di curiosità esotiche, dov’era esposta una
statuetta africana di legno nero. Era entrato e l’aveva comperata per cinquanta
franchi. Si trattava di una statua Vili del Congo, che rappresentava un
personaggio seduto, a testa alta, gli occhi vuoti. La cosa straordinaria di
questa statua era che le forme e le proporzioni erano determinate
dall’immaginario più che dalle esigenze della rappresentazione e che,
contrariamente alla scultura occidentale, non si teneva conto della
muscolatura.
Matisse era venuto in rue de Fleurus. Era passato anche Picasso, appena
tornato da Gósol. Aveva visto la statuetta. L’aveva osservata a lungo, poi era
ritornato a Montmartre. Uno shock.
Il giorno dopo, Max Jacob l’aveva trovato nel suo studio, occupato a
disegnare strane teste, i cui occhi, naso e bocca erano costruiti con un solo
tratto. Max, d’altra parte, si era divertito a smentire la signora di rue de
Fleurus, e aveva sostenuto che la statua Vili era stata mostrata a Picasso da

102
Matisse, a casa sua, nel corso di un pranzo a cui erano presenti anche
Apollinaire e Salmon.
Apollinaire non ne ha parlato, e Salmon ha dimenticato.
Matisse conosceva l’arte negra perché era andato spesso al Museo
Etnografico del Trocadero, che esponeva oggetti oceanici, africani e
americani importati dai coloniali. Questi oggetti erano ammassati in armadi
polverosi, se non addirittura presentati nelle casse che erano servite per il
viaggio. Apollinaire si era rivoltato contro una presentazione così disinvolta
di tali ricchezze e aveva proposto che fossero accolte al Louvre – dove
Picasso si recava sovente per ammirare la statuette iberiche. A quel tempo, il
pittore spagnolo non frequentava ancora il Museo del Trocadero.

In questo gioco a due, entra anche un terzo personaggio, il cui ruolo è stato
determinante: André Derain.
Derain si era appassionato all’arte negra molto tempo prima degli altri.
Conosceva il Trocadero. E anche il British Museum, dove nel 1906 aveva
scoperto le opere primitive della Nuova Zelanda. Ne aveva parlato a lungo a
Matisse e a Vlaminck durante le comuni ricerche sul fauvisme:
Sono emozionato dalle visite a Londra al Museo nazionale e a quello dell’Arte negra.
È stupefacente, di una espressività sconvolgente.1

È Derain che spingerà Picasso a visitare il Museo Etnografico. Ed è lui,


soprattutto, che gli mostrerà una maschera Fang. Questa maschera
provocherà nel pittore spagnolo uno shock paragonabile a quello ricevuto
vedendo la statua Vili di Matisse.
Questa maschera ha una storia, che è anteriore alla famosa sera in cui
Matisse si era presentato in rue de Fleurus dopo essere entrato da Heymann.
Se Gertrude Stein è sicuramente all’origine dell’incontro tra Matisse e
Picasso, non è la madrina dell’arte negra. Carco, Dorgelès, Warnod e
Cendrars possono testimoniarlo.
La madrina è un padrino: Maurice Vlaminck. Si trova una sera a
Argenteuil, sulle rive della Senna, dove dipinge da ore. Lascia la Senna ed
entra in un caffè. Ordina un vino bianco al seltz. Ha appena finito di bere la
prima sorsata quando nota tre oggetti curiosi stipati sopra un ripiano tra due
bottiglie di Pernod. Si alza e si avvicina. Dato che è stato molte volte al
Trocadero con Derain, riconosce subito tre sculture negre. Due sono dipinte
in ocra rossa, ocra gialla e bianco: vengono dal Dahomey. L’altra è nera:
Costa d’Avorio. Il pittore non le vede più come le curiosità che aveva

103
l’abitudine di osservare al Museo Etnografico e che gli sembravano, come a
Derain, semplici «feticci barbari». Questa volta è profondamente turbato.
Secondo le sue stesse parole, «sconvolto nel profondo». Queste statuette gli
rivelano l’arte negra.
Le compera, pagando da bere a tutti. Poi se le porta a casa.
Alcuni giorni dopo riceve la visita di un amico di suo padre. Quest’uomo
nota gli oggetti africani e gliene offre altri tre: due statue della Costa d’Avorio
e una maschera Fang, che la moglie giudica tanto brutta da non volerla in
casa. Vlaminck è al settimo cielo. Appende la maschera sopra al letto. Derain,
quando la vede, è paralizzato dall’emozione. Vuole comperarla. Vlaminck
rifiuta.
«Nemmeno per venti franchi?».
«Nemmeno per venti franchi».
Otto giorni dopo, Derain ritorna. Offre cinquanta franchi. Vlaminck cede.
L’amico porta la maschera nel suo atelier, in rue Tourlaque. È lì che Picasso
la scopre. Così inizia il suo interesse per l’arte negra.

Il fatto di sapere se il primo è stato Matisse e il secondo Picasso, o Picasso


il primo e Matisse il secondo, alla fine ha poca importanza. C’è stato Gósol
per Picasso e Collioure per Matisse, Derain per entrambi... e Gauguin per
tutti.
Perché anche Gauguin era stato affascinato dalle sculture oceaniche e
africane scoperte a suo tempo in occasione dell’Esposizione Universale. Una
sua retrospettiva organizzata intorno alle Tahitiennes al Salon d’Automne del
1906 aveva sconvolto insieme Matisse, Picasso e Derain. È da lì che avevano
cominciato a collezionare quelle ricchezze venute da altri tempi, da un’altra
cultura, che contestavano l’arte tradizionale e elevavano la soggettività del
creatore ad altezze mai raggiunte prima di allora. I primitivi – riconosciuti
come «artisti puri» da un Kandinsky ancora russo-tedesco – esprimevano
«nelle loro opere solo l’essenza interiore, escludendo ogni contingenza».2
Matisse e Picasso integrano a poco a poco l’arte negra nella loro creazione.
Il primo aggiungendola ai suoi quadri, il secondo facendo della statuaria
negra il centro delle sue composizioni. A partire da quel momento infine, il
duello Matisse-Picasso si dispiega su tele immense, su immensi capolavori.
Matisse attacca per primo. Al Salon des Indépendants del 1906, espone una
sola tela: Le Bonheur de vivre. Diventerà leggendaria. È gigantesca, sia per la
sua dimensione (175 x 241 cm) che per la sua novità. Costituisce un misto di
quel primitivismo che l’artista ha scoperto a Collioure, di un fauvisme

104
incivilito, di una poesia onirica che ricorda L’Aprés-midi d’un faune di
Mallarmé, della deformazione dei corpi alla Gauguin. Le Bonheur de vivre
rompe con il neo-impressionismo.
I critici, naturalmente, si danno alla pazza gioia. D’accordo con le risate e
gli scherzi della gente, parlano di «divagazioni trascendentali», di «tela
vuota», di pensiero musicale, letterario ma per niente plastico. Scherniscono
la giustapposizione dei colori, i contorni a volte troppo sottili a volte troppo
pesanti, le deformazioni anatomiche, l’abbandono del puntinismo per le
campiture di colore. Anche Signac, che pure aveva acquistato un altro
oggetto di scandalo, Luxe, Calme et Volupté, pensa che Matisse sia fuori
strada. A suo tempo Signac, con l’amico Seurat, aveva sofferto l’ostracismo
degli impressionisti romantici: Pissarro aveva dovuto imporlo contro il
parere di Monet e di Renoir.
Matisse, che si rivelerà terribilmente conservatore nei confronti del
cubismo, si trova alla testa dell’avanguardia nel 1906. L’anno precedente, agli
Indépendants, a proposito di Luxe, Calme et Volupté, Charles Morice, che
pure era amico di Gauguin, lo aveva rimproverato di essersi messo con la
cricca «dei puntinisti e dei coriandolisti». La cerimonia era ricominciata
qualche mese più tardi con La Femme au chapeau. Matisse è il più
scandaloso degli innovatori.
Persino i suoi fedeli esitano. Anche Leo Stein è sconcertato davanti al
Bonheur de vivre. Ci va, ci ritorna, alla fine la tela gli appare per quello che è:
l’avvenimento del Salon, l’opera che segna il secolo che inizia, quella che
consacra Matisse come il grande maestro della pittura moderna. La compera.
L’anno dopo, il pittore è recidivo. Si tratta del Nu bleu: Souvenir de Biskra
(1907), ispirato a un viaggio in Algeria nella primavera del 1906. La critica,
ancora una volta, rimane chiusa a questi contorni bizzarri, deformati alla
maniera di Gauguin, a quel viso simile a una maschera, a quella pelle iridata
di blu. Louis Vauxcelles riconosce di non capire lo «schematismo vacillante»,
di cui Matisse e Derain (che espone Les Baigneuses) sono i primi architetti.
Altri definiscono l’artista un «volpone» e la sua pittura «un universo di
bruttezza». Anche questa volta Leo Stein e sua sorella acquistano il quadro.

Durante tutto quel periodo, lontano dal Couvent des Oiseaux in cui il
«fauve raffinato» sta per installare la sua accademia (prima di ripiegare sul
convento del Sacré-Coeur, agli Invalides), Picasso lavora. Nella confusione
del Bateau-Lavoir, prosegue le proprie ricerche. Sotto lo sguardo turbato di
Max Jacob disegna forme e figure che assomigliano alle incisioni delle

105
caverne preistoriche. Dopo il Portrait de Gertrude Stein, dipinge
l’Autoportrait (1906) e l’Autoportrait à la palette (1906). Poi dipinge diversi
busti di donne, in particolare Buste de Femme à la grande oreille (1907).
Prepara la risposta a Matisse. Affila le armi. Conosce l’opera del rivale
perché l’ha vista dagli Stein. Come molti, anche Picasso ne è stato sconvolto.
Ma secondo lui quelli che affermano che la pittura di Matisse è rivoluzionaria
si sbagliano. È certamente un vertice dell’arte, ma dell’arte classica. Il
linguaggio è più moderno, è vero, ma per esprimere la tradizione. Lo afferma
anche Kandinsky pressappoco nella stessa epoca: Matisse è uno dei grandi
maestri della pittura contemporanea, un genio dei colori, un genio del colore,
ma un impressionista viscerale che, come Debussy, non ha rotto con «la
bellezza convenzionale».
Dicono che Matisse sia andato troppo lontano? Picasso pensa che Matisse
si sia fermato troppo presto. La rottura, quella vera, sarà lui a realizzarla:
Picasso.
Dopo mesi di ricerche e di schizzi preparatori, nell’inverno del 1906
Picasso inizia Les Demoiselles d’Avignon. È la risposta al Bonheur de vivre
di Matisse.
Come risulta dai disegni preparatori, Picasso intendeva inizialmente
rappresentare un marinaio in un bordello, e far entrare uno studente di
medicina nella stanza in cui stavano l’uomo e le cinque donne. Perché
Avignone? Perché, eseguendo l’opera, Picasso pensava alla Calle d’Avignon,
vicino alla quale abitava a Barcellona e dove acquistava carta e colori.
Quanto al marinaio, si ispirava a Max Jacob, che aveva detto a Picasso di
essere nato a Avignone, una città che, d’altra parte, contava allora molte case
chiuse. Nel corso degli studi preparatori Picasso aveva dipinto l’amico poeta
vestito con una maglia da marinaio. Inizialmente una delle donne doveva
essere Fernande Olivier, l’altra Marie Laurencin, e la terza la nonna
avignonese di Max: Pierre Daix ha contestato la cosa, peraltro confermata da
Picasso stesso a Kahnweiler nel 1933.3
Nel corso del lavoro, il marinaio è sparito, e lo studente si è trasformato in
donna. Il quadro finito rappresenta cinque donne, di cui quattro in piedi,
nude. I loro visi ricordano le statuette iberiche e le maschere negre.
All’opposto dell’opera di Matisse, piena di linee curve, di colore, e
straordinariamente armoniosa, l’opera di Picasso è scura, di una violenza
inaudita. I corpi delle donne sono sconquassati, tagliati ad angoli vivi, piedi
grandi, mani grosse, seni taglienti o inesistenti, i nasi schiacciati, storti, una
malagrazia in certi movimenti, facce come maschere, occhi spalancati che

106
fissano lo spettatore, un’orbita vuota e nera, l’asimmetria iberica a destra, la
statuaria greca a sinistra, geometrie nette che preludono al cubismo.
Pierre Daix nota molto giustamente che la violenza del Bordel ricorda la
foga di Une Saison à l’enfer e che Picasso, all’epoca della composizione
della tela, leggeva assiduamente Rimbaud.4
Non si tratta più di poesia, di indolenza, di rêveries alla Mallarmé. Siamo
in un bordello, nella più dura realtà. A Matisse, Picasso oppone quest’opera,
ancora più grande del Bonheur de vivre. Non è la fine, fosse anche la più
moderna, dell’universo precedente, ma l’inizio di un nuovo mondo. Il Bordel
sta al Bonheur come il Sacre di Stravinsky sta agli ultimi Quartetti di
Beethoven.
Non lo capisce nessuno. Quando Picasso mostra l’opera a qualche amico
del Bateau-Lavoir, c’è un certo imbarazzo. Braque se la cava dicendo: «È
come se tu volessi farci mangiare stoppa e bere petrolio!». Manolo, come sua
abitudine, fa una battuta: «Se andassi alla stazione a prendere i tuoi genitori e
arrivassero con una faccia del genere, ammetti che non ne saresti contento!».
Leo Stein è orripilato. Altri dicono che l’opera non è finita. Derain ha paura
che Picasso finisca per impiccarsi dietro il suo quadro. Ma il peggio è
Apollinaire. Lui, sempre pronto a difendere le audacie dell’arte moderna,
soprattutto quando si tratta di Picasso, questa volta tace. Non dedica al
quadro nemmeno una parola e non ne menziona neanche l’esistenza nei suoi
articoli critici.
Solo Gertrude difende l’artista. Senza tuttavia arrivare a comperare il
quadro...
La tela rimane a lungo negli studi di Picasso. Viene esposta per la prima
volta nel 1916, al Salon d’Antin, organizzato da André Salmon. È Salmon
che in questa occasione suggerisce che, per ragioni di convenienza e di
censura, il Bordel d’Avignon (come lo chiamava Picasso) o il Bordel
Philosophique (come lo chiamavano Apollinaire e Salmon) diventi Les
Demoiselles d’Avignon. Picasso accetta a malincuore: quel titolo non gli
piacerà mai.
Dopo l’esposizione al Salon d’Antin, l’opera fu arrotolata e vista da pochi.
Nel 1923 André Breton convince Jacques Doucet, sarto e mecenate, ad
acquistarla. Nel 1937 viene acquistata da una galleria di New York, che poi la
vende al Museum of Modern Art.
Ancora oggi si discute molto sulle Demoiselles. Gli storici dell’arte
dibattono fra loro per riuscire a dare una risposta a due domande sulle origini
del quadro: qual è il ruolo dell’arte negra nella sua composizione? L’opera

107
può essere considerata come il punto di partenza del cubismo?
Agli inizi si era detto che l’arte iberica si ritrovava nella parte destra del
quadro, la più «rivoluzionaria»: il suo influsso era riconoscibile nel tratto,
nella forma delle orecchie e degli occhi delle due donne, una in piedi, l’altra
accovacciata; che quest’ultima era stata dipinta sulla traccia di un ritratto di
contadino fatto a Gosól – come provava, senza contestazioni possibili, un
carnet di schizzi. E si era anche detto che l’occhio vuoto della donna a sinistra
testimoniava, al contrario, l’influenza dell’arte negra. In appoggio a questa
tesi, gli storici hanno avanzato qualche data tendente a provare che Picasso,
quando aveva iniziato a dipingere le Demoiselles, conosceva la statua Vili di
Matisse e la maschera Fang acquistata da Derain a Vlaminck, ma non, o
quasi, il Museo Etnografico del Trocadero. Mancavano dunque le fonti di
ispirazione.
È vero che Picasso cominciò ad acquistare un po’ più tardi gli oggetti negri
che avrebbero ben presto ingombrato l’atelier del Bateau-Lavoir (L’Oiseau
du Bénin, nome scelto da Apollinaire per designare Picasso nel Poete
assassiné, si riferisce a un pezzo appartenente alla collezione del pittore). È
vero anche che ne possedeva meno di Matisse. Infine, a partire dagli anni
1938-39, Picasso stesso sostiene che, se all’epoca del Bateau-Lavoir tutti
avevano visto l’influenza dell’arte negra nelle Demoiselles, era per la buona
ragione che tutti scoprivano in quel momento queste novità culturali; ma che
in verità bisognava vedervi un’influenza quasi esclusivamente iberica.
L’apporto dell’arte negra nell’opera del pittore è ugualmente contestato da
Pierre Daix e da Pierre Reverdy. Contrariamente a Daix, Reverdy argomenta
piuttosto confusamente, negando l’influenza di Cézanne nel cubismo, quella
di Ingres nelle opere del 1905 e quella della scultura negra nel periodo che
precede il cubismo. Il poeta si sbaglia. Tuttavia va perdonato: scrive negli
anni Venti, quindi più vicino ai fatti; venera il suo modello, tanto essenziale
all’arte, secondo lui, quanto Descartes lo era stato per la filosofia.
John Richardson ha tentato di introdurre una novità in questo dibattito tra
specialisti: afferma, suffragato dal parere di antropologi e storici d’arte, che i
visi delle Demoiselles sono repliche incontestabili di maschere africane; e che
Picasso ha rifatto quelle facce dopo avere visitato il Museo del Trocadero.
Richardson ricorda inoltre che all’epoca in cui Picasso negava l’apporto
dell’arte negra in quest’opera, la guerra di Spagna si era conclusa con la
vittoria di Franco: rivendicare l’influenza iberica nel Bordel voleva dire per
Picasso rivendicare le proprie origini spagnole. Tra l’elaborazione del Bordel
e le idee sostenute dal pittore prima degli anni Quaranta, ci sono stati

108
Guernica, l’incarico della direzione del Museo del Prado affidatagli dai
Repubblicani, infine i massacri commessi dalle truppe africane che facevano
parte dell’esercito franchista. La Spagna allora era tanto più da difendere in
quanto era stata torturata e sconfitta. Era una questione essenziale, per
Picasso. Che si era infuriato con André Salmon, il quale doveva seguire la
guerra per «Le Petit Parisien» dalla parte dei monarchici. Da quel giorno si
rifiutò di stringergli la mano e se ne allontanò.
La seconda questione, quella del cubismo, rimane aperta. Salmon e Jacob
hanno sempre pensato – e scritto – che Les Demoiselles d’Avignon
costituiscono il punto di partenza del cubismo. Anche Kahnweiler, che
diventerà il mercante di Picasso, è di questo parere. In effetti, se si osserva la
parte destra del quadro, vi si riconoscono chiaramente le forme nuove che
saranno il modo di dipingere dei cubisti. Ma Pierre Daix precisa:
Si considera oggi, dopo l’esposizione al Museum of Modern Art di New York, nel
1989-90, che la nascita del cubismo implica, oltre alla ricostruzione delle forme
naturali, l’approfondimento dell’espressione cézanniana dei volumi che si è
manifestata prima in Braque nel 1908 e in Picasso nella versione finale delle Trois
Femmes.5

Per Daix, le Trois Femmes sono come il compimento del lavoro iniziato
dalle Demoiselles d’Avignon. Ancora una volta, gli studiosi si contraddicono.
E Matisse?
Matisse ha visto il Bordel d’Avignon nell’atelier del Bateau-Lavoir (vi era
stato portato dagli Stein), e ha capito benissimo contro che cosa e contro chi
era diretta la violenza di Picasso: contro l’arte cosiddetta moderna, quindi
contro di lui. Lui, Matisse, per l’opinione pubblica non passava forse per il
rappresentante della tendenza più nuova della pittura francese? È furioso.
Matisse proclama che «affosserà» Picasso.
La rivalità tra i due è grande. A credere a Salmon, si manifesta tra i
«picassiani» anche in modi molto puerili: Matisse regala a Picasso un ritratto
della figlia Margherita (1907) – un brutto ritratto, precisa lo scrittore. La
banda entra allora in un bazar di rue des Abbesses e compra delle freccette.
Tornano al Bateau-Lavoir e le tirano sul ritratto. Per fortuna sono proiettili
con la punta di gomma.
Matisse, da parte sua, si chiedeva chi fossero i mascalzoncelli che
scrivevano frasi in suo onore sui muri di Montmartre: «Matisse ti fa
impazzire!».6
La sua strada, tuttavia, doveva presto portarlo dalla parte delle giurie e

109
delle accademie di pittura: un altro mondo...
Nel 1908, i rapporti tra i due pittori si raffreddano. Braque viene rifiutato
dal comitato che decide le presenze al Salon d’Automne. Matisse, che tre anni
prima aveva fatto scandalo nello stesso Salon, è membro del comitato.
Dicono anche che abbia criticato il cubismo. Le unghie dei fauves si sono
spuntate.
Per fortuna i dissapori non durano a lungo. Agli inizi della Prima guerra
mondiale, Matisse e Picasso vanno a cavallo insieme al Bois de Boulogne. Si
fanno visita negli studi. Si scambiano quadri. Durante il conflitto, sfuggono
alla mobilitazione. Nel 1937 sono tutti e due condannati dai nazisti come
rappresentanti di spicco dell’«arte degenerata». Quando i tedeschi entrano a
Parigi, Matisse non c’è. Picasso custodirà le sue opere depositate in una
camera blindata, attigua alla propria, in una banca. Per Matisse, secondo
Brassaï, Picasso è «il compagno e il rivale, la bestia nera e il fratello d’armi».7
Dopo la guerra, Picasso va spesso a trovare Matisse, a Nizza. Matisse è
malato. Non c’è più rivalità, tra loro. Parlano della loro pittura e di quella
degli altri. Matisse si mostra quasi paterno. Sa che tra poco morirà. Racconta.
E Picasso ascolta. La rue de Fleurus è lontana. Non hanno più bisogno che
Gertrude Stein decida chi di loro è il migliore. Sanno di essere i due grandi
maestri dell’arte contemporanea.

110
Il gentile Doganiere

Un uccellino
Sulla spalla di un angelo
Canta le lodi
Del gentile Rousseau.
Guillaume Apollinaire

Un pittore strano, che non ci si aspetterebbe in questo posto, frequenta la


banda del Bateau-Lavoir. Ha circa sessantacinque anni, l’aspetto di un
vecchio signore molto perbene, con bastone e cappello floscio. Trotterella,
un po’ curvo, da Plaisance, dove abita, fino in cima alla Butte. Il suo viso
rispecchia una bontà generosa e una grande propensione ai sentimenti:
arrossisce alla minima contrarietà. Henri Rousseau entra nella terza età ed è
appena uscito dall’infanzia. La sua pittura riflette un’ingenuità che élie Faure
ha paragonato a quella di Utrillo. L’uno e l’altro, secondo lui, vivono nello
stesso stato di innocenza.
Lo chiamano il Doganiere Rousseau, perché è stato impiegato al dazio di
Parigi, incaricato di verificare le derrate alimentari che entrano nella capitale.
A cinquant’anni è andato in pensione per consacrarsi alla pittura. Non ha
seguito nessuna scuola d’arte. È assolutamente autodidatta. Ignora la
prospettiva e tutte le regole della pittura. Dipinge d’istinto, con grande cura.
La sua è una storia semplice, soprattutto quando non è Apollinaire a
raccontarla:
Ti ricordi, Rousseau, del paesaggio azteco,
Delle foreste dove crescono il mango e l’ananas,
Delle scimmie che versavano il sangue delle angurie
E del biondo imperatore fucilato?

I quadri che dipingi, li hai visti in Messico,


Un sole rosso ornava la fronte dei bananieri,
E, valoroso soldato, hai scambiato la tunica
con il dolman blu dei bravi doganieri.

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Il poeta pecca per eccesso di immaginazione quando scrive che Henri
Rousseau rappresenta i paesaggi scoperti durante la guerra del Messico, alla
quale avrebbe partecipato in qualità di sergente dell’esercito francese. In
realtà il Doganiere Rousseau non è mai andato né in Messico né in America.
È stato solo a Angers, durante il servizio militare, e all’Esposizione
Universale del 1889, dove forse ha scoperto i paesaggi esotici ricostruiti che
in seguito l’avrebbero ispirato. Apollinaire si sbaglia quindi quando, in forma
lapidaria, sostiene che le opere di Rousseau «sono l’unica cosa che l’esotismo
americano abbia dato alle arti plastiche».1
E Blaise Cendrars non è più veritiero quando, a sua volta, mette mano alla
leggenda:
Vieni in Messico!
Sugli altopiani fioriscono i tulipani
Le liane tentacolari sono i capelli del sole
Si direbbero la tavolozza e i pennelli di un pittore
Colori che stordiscono come colpi di gong,
Rousseau ci è stato
Ne ha abbagliato la propria vita.2

Rousseau è Rousseau, e basta. Non appartiene a nessuna scuola e a


nessuna epoca. Né agli impressionisti, di cui tuttavia è contemporaneo, né ai
sostenitori dell’arte negra. Ai fauves forse, ma solo per errore: Le lion ayant
faim è stato effettivamente appeso a fianco delle tele di Matisse, di Vlaminck
e di Derain al famoso Salon d’Automne del 1905. Louis Vauxcelles, che
ammira Rousseau, scrive che il suo caso dimostra «che la persona più
ignorante e incolta può essere un grande artista». Si è detto di Rousseau che
fosse come un sordomuto della pittura, solo e intuitivo, che andava
tranquillamente per la propria strada che nessuno divideva con lui e di cui lui
stesso ignorava le regole – se c’erano regole.
Il paradosso di questo artista, assolutamente unico nel suo genere, è che
testimonia di un classicismo certo difficilmente classificabile, ma che non si
può paragonare con le audacie dei creatori del Bateau-Lavoir – anche se è
grazie a loro che è diventato famoso.
È stato Alfred Jarry a presentarlo alle due autorità del «Mercure de
France», Alfred Valette e sua moglie Rachilde, poi ad Apollinaire. Jarry, nato
anche lui a Laval, è stato il grande amico del Doganiere, e non sappiamo se
anche lui, come molti altri, lo amasse per la sua pittura o per la sua
stravaganza. Comunque è lui, il meno conservatore degli autori, che porta il

112
buon Rousseau al «Mercure de France», che ha contribuito moltissimo a
farlo conoscere. Poi vengono i pittori dell’avanguardia, conquistati dello
sguardo meravigliato con cui Rousseau osserva la natura.
Picasso per primo. Nel 1908 acquista – per cinque franchi – dal père
Soulié, una tela di Rousseau: Le Portrait de Mme M. (1895), che ritrae la sua
prima moglie. In seguito ne comprerà altre. Picasso è evidentemente
interessato dal primitivismo che si sprigiona dall’opera del Doganiere.
Picasso, che cercava di allontanarsi da ogni accademismo, scopre una
maniera che non è la sua, ma che è sicuramente di grande valore.
Il Doganiere Rousseau abita in rue Perrel, vicino a Montparnasse. Solo:
due volte vedovo, aveva perso tutti i suoi figli, tranne uno.
Affisso alla sua porta, c’è un cartoncino:
Disegno, pittura, musica. Corsi a domicilio, prezzi modici.

Vive in miseria. Due volte alla settimana, prepara un ragù che nasconde
sotto il letto e che deve bastargli per una settimana. Disgraziatamente per lui,
tutti i poveri del quartiere conoscono il giorno in cui cucina. Non appena il
ragù è pronto, arrivano tutti dal Doganiere. La settimana dura solo due
giorni...
Riceve qualche allievo e fa il ritratto ai negozianti del quartiere (quando il
Museum of Modern Art di New York deciderà di raccogliere le opere di
Rousseau, ne troveranno una da un idraulico, un’altra da un agricoltore...).
Fino al momento in cui Vollard, Uhde e Paul Rosenberg s’interessano a lui,
solo qualche amico compera le sue tele: Delaunay, Serge Férat e la sua
sorellastra, Hélène d’Oettingen.
La miseria non impedisce al Doganiere di invitare gli amici a casa. Dopo
avere risparmiato e digiunato per otto giorni, manda regolarmente biglietti
d’invito che illustrano le sue serate artistiche. Ecco il programma del 1° aprile
1909:
Programma
Céciliette (polca)
Le campanelle (mazurca)
Eglantine (Valzer)
Polca dei bebè
Sogno di un angelo (mazurca)
Clémence (valzer)3

A queste festicciole intime partecipano il panettiere e il droghiere, che

113
consentono la sopravvivenza di Henry Rousseau, e la banda del Bateau-
Lavoir quasi al completo. L’ospite fa sedere gli invitati su una fila di sedie.
Lui si siede vicino alla porta per fare entrare i nuovi arrivati. Si mangia e si
beve quel che c’è – niente, a volte. Ognuno recita una poesia o una
filastrocca. Dopo di che Rousseau si impadronisce del violino e suona una
romanza. Quando è stanco, si allunga vestito sul vecchio divano del suo
atelier, e si sveglia al mattino, meravigliato dal mondo e pronto a dipingere.
Poiché la solitudine gli pesa, decide di fondare un nuovo focolare. Si
innamora di una donna, le fa una corte assidua, e dato che i genitori di lei
sembrano piuttosto restii ad abbandonare la loro unica figlia ed ereditiera
nelle mani di un pittore senza un soldo, Rousseau chiede agli amici di
venirgli in aiuto. Un bel giorno, va da Vollard arrabattandosi sotto una tela
più grande di lui. Vollard dice che è molto bella. «Perfetto», dice il pittore.
«Può rilasciarmi un attestato in cui si dice che sto facendo progressi?».
Il mercante non crede alle proprie orecchie. Rousseau gli spiega che,
poiché intende sposarsi, gli serve un certificato di buona condotta per indurre
i genitori della sposa a concedergli la sua mano.
«Quanti anni ha la sua fidanzata?», chiede Vollard. «Non è maggiorenne?
Ha ancora bisogno del consenso dei genitori?».
«No,» risponde Rousseau con un sorriso estatico. «Ha cinquantaquattro
anni».
Ottiene l’attestato da Vallard, e anche uno di Apollinaire. Ma il matrimonio
non si farà. Il Doganiere Rousseau resta celibe.
Gli ci sono voluti mesi per finire il ritratto di Marie Laurencin e di
Guillaume Apollinaire. Non perché gli mancasse l’ispirazione.
Semplicemente vuole dipingervi un mazzo di garofani e così ha dovuto
aspettare la stagione giusta.
Apollinaire racconta che quando Rousseau dipingeva un quadro di
ispirazione fantastica, la realtà della sua pittura lo prendeva alla gola: preso
dal panico, correva alla finestra...
Alcuni testimoni, tra cui Georges Claretie, giornalista del «Figaro»,
raccontano questa storia. In seguito a una truffa di cui era rimasto vittima,
Rousseau era stato condannato alla prigione. Quando il giudice gli aveva
concesso la condizionale, il pittore aveva esclamato: «Grazie signor
presidente! Per sdebitarmi, se lo desidera, potrei fare il ritratto alla sua
signora!».
Non appena il suo avvocato, maître Guilhermet, aveva finito l’arringa, il
Doganiere gli aveva chiesto, a voce alta: «Adesso che hai finito, posso andar

114
via?».
L’avvocato Guilhermet riconosceva due grandi meriti ad Alfred Jarry:
avere fatto l’Ubu Roi e il Doganiere Rousseau. Ma, come molti altri, si era
chiesto a lungo se le buffonate dell’artista dipendevano da un’autentica
ingenuità o da un talento di consumato commediante. Se lo era chiesto una
prima volta un giorno che il suo cliente telefonava dal suo studio. Rousseau
chiamava Laval e urlava nel ricevitore. L’avvocato gli aveva suggerito di non
parlare a voce così alta: «Ti si sente!».
«Tu mi senti, ma non gli altri!».
«Ma sì... il telefono...».
«Sciocchezze», aveva ribattuto Rousseau.
Poi aveva posato la mano sul ricevitore per precisare: «Sto parlando con
gente che abita a Laval. È lontano, Laval! Come vuoi che mi sentano, se non
grido?».
I suoi amici, pittori o no, si divertono alle sue ingenuità, così simili alle sue
opere. Picasso gli vuol bene e lui vuole bene a Picasso. Gli dice: «Noi due
siamo i pittori più grandi della nostra epoca, tu nel genere “egizio”, io nel
genere moderno».4 Lo spagnolo non aveva detto niente. Doveva essere
d’accordo.
Nel 1908, qualche mese prima di lasciare il Bateau-Lavoir, Picasso decide
di organizzare un banchetto in onore del Doganiere Rousseau. Si tratta di
festeggiare la tela che ha appena comprato dal père Soulié e il suo autore.
La festa è stata lungamente preparata. Fernande e Picasso hanno attaccato
rami d’albero alle travi e sul soffitto. Maschere negre sono appese ai muri.
Davanti alla vetrata, è stato innalzato un trono: una sedia su una cassa. Dietro
alla sedia, sulle pareti, tra bandiere e lampioncini, è appeso uno striscione:
«Onore a Rousseau!». Su un cavalletto, al centro dello studio, adorno di
stoffe variegate e di ghirlande, c’è Le Portrait de Mme M.
La tavola è apparecchiata: un’asse sostenuta da cavalletti, sulla quale sono
stati disposti piatti e posate prestati dal ristorante Azon. Il pasto, ordinato a
Félix Potin, è stato pagato da tutti: per l’occasione al Bateau-Lavoir si è fatta
una colletta.
Si aspetta. Alle otto, il cibo non è ancora arrivato. Gli invitati incominciano
a entrare nella stanza: Braque, Jacques Vaillant, Dalize, Gertrude Stein e Alice
Toklas, con un cappello nuovo.
Alle otto e mezza, ancora niente. Ci si informa. Félix Potin ha sbagliato
giorno. Panico. Tutti al posto di combattimento. In un batter d’occhio, si
disperdono per rue Ravignan, rue Lepic e rue des Abbesses per fare il giro

115
dei negozianti amici. Si ritrovano nei bar vicini con quello che sono riusciti a
recuperare: dolci e riso. Tornano in fretta alla Maison du Trappeur. Marie
Laurencin è troppo ubriaca e devono portarla in braccio. Nell’atelier, Marie si
butta sulle torte che erano state posate sul divano. Si rialza, sbattendo gambe
e braccia, e finisce, frignante e zuccherosa, tra le braccia degli invitati. In un
attimo, sono tutti collosi e impiastricciati. Fernande incomincia a insultare la
fidanzata di Apollinaire. Bisogna separarle.
Ritornata la calma, si siedono a tavola. In quel momento la porta si apre su
Apollinaire, che si era offerto di portare Rousseau in carrozza. Il pittore,
sbalordito e felice, si ferma immobile sulla soglia, il suo cappellino in testa, il
bastone nella mano sinistra e il violino nella destra. Lo spingono, lo tirano, lo
festeggiano. Apollinaire recita una poesia. Salmon anche. Bevono. Marie
Laurencin, sempre petulante, canta canzoni normanne. Guillaume la
rimprovera sottovoce. Ma non basta a calmare i suoi ardori, e lui la porta
fuori. Quando tornano, Marie sembra più calma.
Rousseau si installa sul trono. Salmon balla sul tavolo. Bisogna calmarlo.
Picasso lo butta fuori. Leo Stein si è messo davanti al festeggiato per
proteggerlo dagli assalti della compagnia. Ma il pittore si è assopito. È
proprio sotto un lampioncino. Gocce di cera gli cadono una dopo l’altra sul
cranio. Quando si sveglia, è tutto contento per quel bel cappellino che gli si
sta formando sulla testa. Ma il lampioncino prende fuoco. Devono
arrampicarsi sulle sedie e sul tavolo per spegnere il principio d’incendio.
Ristabilito l’ordine, il Doganiere prende il violino, e si mette a cantare arie
della sua giovinezza:
Ahi, ahi, ahi, che mal di denti!

Sommerso dagli applausi, attacca con un’altra filastrocca:


Non mi piacciono i grandi giornali
Che parlano di politica
Che cosa me ne importa se gli esquimesi
Invadono l’Africa

Provato dallo sforzo, si riaddormenta.


Nel corso della nottata, altri visitatori bussano alla porta: Frédé con l’asino
Lolo, che si mette a brucare allegramente abiti e cappelli. Una coppia di
americani, in abito da sera, stupefatti davanti alle manifestazioni artistiche di
questi sporcaccioni di francesi, se ne vanno immediatamente.

116
All’alba gli invitati fanno una colletta per offrire una carrozza al Doganiere
Rousseau. Lo accompagnano fino alla carrozza, gli mettono sulle ginocchia
bastone e violino, gli danno grandi baci. Questa festa, una delle ultime del
periodo d’oro di rue Ravignan, è stata commentata in vari modi. Secondo
Fernande Olivier si era trattato, per la banda, di «fare uno scherzo al
Doganiere». In un articolo pubblicato nel 1914 nelle «Soirées de Paris»,
Maurice Reynal descrive gli avvenimenti come se, in effetti, si fosse voluto
prendere in giro il Doganiere Rousseau. Gertrude Stein rimane neutrale.
Salmon polemizza con le interpretazioni malevole. Difende il pittore:
Non abbiamo amato Henri Rousseau per la sua goffaggine, per la sua ignoranza del
disegno; non gli abbiamo voluto bene per il suo enorme candore (...) Noi l’abbiamo
amato, come uomo, per la sua purezza, il suo coraggio davanti a una vita crudele, per
una specie di angelicità e, come artista, per il suo sorprendente senso della
grandezza, per la sua magnifica ambizione della grande composizione quando, a
parte Picasso, Matisse, ma con minore profondità, pochi artisti si dedicavano in quel
periodo a grandi composizioni.5

È probabile che se Picasso ha organizzato la festa a casa sua, se ha


sistemato e ripulito la Maison du Trappeur, se ha messo da parte Les
Demoiselles d’Avignon e sgombrato tutto, non sia stato per prendere in giro
un cattivo pittore, ma per festeggiare un artista che amava e ammirava.
Certo, Henri Rousseau lo faceva ridere. Lo divertivano la sua ingenuità e le
sue fantasie di vecchio bambino. Ma tutti ridevano e tutti si divertivano.
Eppure non tutti pensavano, come Reynal e Derain (che doveva poi cambiare
parere), che il Doganiere Rousseau fosse un imbecille (Derain a Salmon,
dopo che questi ebbe pubblicato un articolo sul pittore: «E allora? È il trionfo
dei coglioni?»). E anche se Picasso scherzava, non lo prendeva certamente in
giro, e nemmeno Apollinaire. A sentire Max Jacob, Picasso non l’avrebbe
permesso. Beatrice Hastings, futura fidanzata di Modigliani, l’aveva scoperto
a sue spese: Picasso non l’aveva più ricevuta dopo averla sentita sparlare di
Rousseau.
Rousseau, comunque, tirava dritto per la propria strada senza mai
prendersela. Lo prendevano in giro? Ridevano? Era la prova che si
interessavano a lui. E in fatto di pittura, nessuno poteva dargli lezioni. Sapeva
quanto valeva...
Rousseau ha avuto il merito di inaugurare una serie di banchetti, dedicati
in altri luoghi e in altri tempi a Braque e ad Apollinaire. E avrebbe anche
concluso con un’apoteosi l’epoca di Montmartre. Perché tra poco gli artisti

117
attraverseranno la Senna per mettere a fuoco Montparnasse.
Un mese prima della sua morte, Rousseau si innamora, ma Eugénie-
Léonie, ahimè, lo rifiuta. Il Doganiere difende la propria causa:
...Dunque, noi dobbiamo procreare, ma alla nostra età non abbiamo niente da temere.
Sì, mi fai soffrire, poiché, fortunatamente, mi sento ancora bene. Uniamoci, e vedrai
se non sono capace di servirti.6

Non ne avrà il tempo. Un giorno di settembre del 1910, gli amici ricevono
una partecipazione: Henri Rousseau è morto all’ospedale Necker, vittima di
una cancrena. Tutti sono invitati al funerale religioso nella chiesa di Saint-
Jean-Baptiste de la Salle, in rue Dutot.
Non ci va nessuno. L’invito è stato mandato troppo tardi. Il funerale è già
stato celebrato.

118
Il furto della Gioconda

...lo accompagna una guardia repubblicana.


Apollinaire, ci sembra ingiusta questa severità
inammissibile dell’amministrazione penitenziaria, ci
sembrano ingiuste le manette.
«Paris-Journal», mercoledì 13 settembre 1911

I Picasso traslocano.
Gli uomini che trasportano i pochi mobili dal Bateau-Lavoir al nuovo
appartamento di boulevard de Clichy non credono ai loro occhi. Pensano a
un colpo di fortuna, a un’eredità. Per quale miracolo uno può lasciare una
strana baracca di legno, sporca e malandata, per una bella casa borghese con
l’atelier che dà sul Sacré-Coeur, e le stanze con vista sugli alberi dell’avenue
Frochot? Un salotto, una camera, una sala da pranzo, un locale di servizio,
calma, ogni confort.
Un sogno che si realizza.
Tutto cambia, anche i mobili. Dal bric-à-brac allo chic: mobili in mogano,
maniglie fabbricate in Italia, buffet antichi in rovere, divano Louis-Philippe,
pianoforte... La camera è una vera camera, il letto un vero letto, con la
testiera in rame. In mostra, cristalli e porcellane. Ancora di più: quando
arriva nella nuova casa, Madame Picasso scrive a Gertrude Stein per
chiederle di domandare a Helène, la cuoca, di cercarle «una cameriera»!
Quaranta franchi al mese, vitto e alloggio.
Quando scova la perla rara, Madame Picasso le concede una camera nella
quale mette la tavola rotonda, l’armadio in finto noce e tutti i mobili della
casa del Bateau-Lavoir.
Una vita da signori, tranne che per la cameriera, pregata di mettersi un bel
grembiulino bianco quando serve a tavola. Pulizia tutti i giorni in tutte le
stanze, salvo che nell’atelier di Monsieur. Qui le geometrie diventano
sinusoidali. Tele, pennelli, tubi di colore, tavolozze. Maschere e statue negre
un po’ ovunque, strumenti musicali, mobili eterocliti. Senza contare le
collezioni: ninnoli blu, tazze, bottiglie, pezzi di arazzo sfilacciati, scatole,

119
vecchie cornici. E che dire della scimmia, del cane, dei tre gatti?
Monsieur ha chiesto che non si tocchi niente, soprattutto la polvere:
quando è ben stesa dappertutto, non gli dà fastidio; è quando viene rimossa
dal piumino che diventa pericolosa: va a cadere sulle tele. Per evitare
problemi, non si entra. Proibizione assoluta. In quella stanza si pulisce una
volta ogni tre mesi, non di più. Nel resto dell’appartamento, ci si dà da fare
quando i signori si svegliano, di solito la mattina tardi. La signorina ne
approfitta per oziare, cosa che non piace alla padrona: la «cameriera» trascura
il servizio.
Nel suo nuovo appartamento Picasso diventa irritabile, nota Fernande. Si
rifugia nello studio, una specie di Bateau-Lavoir ricostruito. Esige cibi sani:
pesce, legumi e frutta, adatti a una salute che pensa sia diventata cagionevole.
Si mette a dieta. Beve più acqua che vino. Si incupisce. Esce poco e di
malavoglia. È perché ormai non frequenta più gli amici di una volta? Frank
Haviland, commerciante di porcellane di Limoges, amante dell’arte negra,
anche lui pittore, riceve alla grande nel suo atelier dell’avenue d’Orléans. E
Paul Poiret, sarto famoso, fa inviti fastosi. Non è ancora arrivato al culmine,
ma ci sta arrivando. Grazie a lui, le donne non portano più il busto. Ama
l’arte e gli artisti.
Quando va in boulevard de Clichy, ammira tutto, in blocco. Le tele esposte
nell’appartamento sono magnifiche, straordinarie, meravigliose, mirabili,
uniche. I cuscini sublimi. La vista splendidissima. Paul Poiret è l’uomo dei
superlativi.
Tutto ciò soddisfa senza dubbio Picasso, che a volte preferisce la vacca
grassa mondana alle vacche magre dei tempi eroici. Ma l’eccesso lo irrita.
Ritrova il suo buonumore solo la domenica, quando vengono gli amici:
Salmon, Apollinaire, Max Jacob. O quando va a trovare il suo vecchio amico
Manolo, emigrato a Céret.
A quel tempo, Céret è un piccolo villaggio catalano nei Pirenei orientali.
Così come si era rifugiato a Gósol qualche anno prima, Picasso ci va la prima
volta nell’estate del 1911. Qui ritrova se stesso, in mezzo ai frutteti, alla
campagna e alle vecchie case.
Prima abita in albergo, poi in una casa isolata tra le montagne. Alla sera,
raggiunge gli amici. Da Parigi arriva Braque, poi Fernande. Per un po’ la
coppia sembra ritrovare l’armonia di un tempo. Picasso dipinge come a
Gósol. Quando rientrerà a Parigi, la sua pittura sarà cambiata. Come a Gósol,
il soggiorno è interrotto da un imprevisto sconvolgente
Nel 1906 c’era stata l’epidemia di tifo. Nel 1911 un grosso titolo è apparso

120
su «Paris-Journal»: hanno rubato La Gioconda al Louvre. Quando, il 29
agosto, un certo Géry-Piéret confessa sulle colonne dello stesso giornale di
aver rubato tre statuette al museo, Picasso e Fernande fanno precipitosamente
le valigie e rientrano in fretta e furia a Parigi. L’ora è grave.
Questo Géry-Piéret Picasso lo conosce bene. Troppo bene. È un
avventuriero belga, amico di Apollinaire, di cui è stato anche segretario. Il
poeta l’ha incontrato al tempo in cui lavorava come giornalista al «Guide des
Rentiers». Lo ha presentato a Picasso che, nel 1907, ha comperato da lui, per
cinquanta franchi, due teste iberiche in pietra che venivano dal Louvre. Il
museo a quei tempi era un colabrodo. In tutti e due i sensi. Francis Carco
racconta che Roland Dorgelès aveva installato per qualche settimana un busto
di uno dei suoi amici scultori nella Galerie des Antiques, senza che nessuno
se ne accorgesse. Picasso stesso, per fare una battuta di spirito, un giorno
aveva detto a Marie Laurencin: «Vado al Louvre. Hai bisogno di qualcosa?»
Géry-Piéret aveva dunque le sue entrature al Louvre. Le cose forse non
erano così facili come le descrive Blaise Cendrars, che con l’esagerazione e il
talento romanzesco per l’invenzione che caratterizzano le sue testimonianze
presenta l’avventuriero belga come un buontempone che scommette una
bottiglia di champagne: avrebbe portato via dal Louvre un oggetto prezioso
nascosto sotto il cappotto, e per di più dopo avere stretto la mano ai
guardiani. Ma, insomma, resta il fatto che questo Géry-Piéret, pieno di
risorse, ha veramente venduto due sculture a Picasso. Il guaio è che dopo la
sparizione della Gioconda ha venduto una terza scultura al «Paris-Journal»
(per duecentocinquanta franchi, molto meno certo dei cinquantamila franchi
proposti per la restituzione di Monna Lisa), e il quotidiano si è così
assicurato una pubblicità a buon mercato, mettendo in mostra la statuetta
prima di restituirla. Inoltre il vecchio segretario del poeta afferma anche di
avere ispirato il furto della Gioconda. «Paris-Journal» pubblica quindi un
editoriale di fuoco che critica la permeabilità del museo. Lo stesso
Apollinaire ha scritto il 24 agosto un articolo in questo senso per
«L’Intransigeant», che inizia con questa parole: «La Gioconda è così bella
che la sua perfezione fa ormai parte dei luoghi comuni dell’arte». E poi: «Il
Louvre è sorvegliato peggio di un museo spagnolo».
Questo prova la sua ingenuità, poiché la giustiza può pensare che abbia
partecipato alla faccenda. Apollinaire ha in qualche modo fatto da
intermediario tra l’amico avventuriero e l’amico pittore. Nel 1907 infatti
aveva tentato di persuadere Picasso a rendere le statuette, ma quest’ultimo si
era rifiutato: «Le aveva incise per cercare di scoprire gli arcani di quell’arte

121
antica e insieme barbara».1 Le due teste iberiche erano una delle basi delle
sue ricerche sul primitivismo, e hanno un ruolo nell’elaborazione delle
Demoiselles d’Avignon: la bocca rotonda della donna di destra, le orecchie
smisurate di tre figure, l’asimmetria generale.
È per questa ragione che Picasso e Fernande ritornano precipitosamente da
Céret: se Géry-Piéret ha restituito la terza testa rubata, può darsi che i
funzionari del Louvre, assistiti dai signori della Prefettura, vadano alla ricerca
delle altre due. Apollinaire, da parte sua, ha capito bene il pericolo.
Va quindi incontro ai suoi amici alla stazione, e tutti e tre partono alla volta
di boulevard de Clichy. Un unico problema: come sbarazzarsi del corpo del
reato?
Il poeta è disperato, si accusa di negligenza, maledice l’indelicatezza
dell’amico, prevede il marchio dell’infamia e il disonore. Picasso non è meno
preoccupato del compare. Fernande Olivier, testimone più calma e piuttosto
crudele, nota che assomigliano «a bambini pentiti, spaventati».2
In quest’ora grave, riappare un dato essenziale che i due artisti avevano un
po’ dimenticato: sono stranieri. Potrebbero essere espulsi.
Passano la serata in boulevard de Clichy, immaginando mille soluzioni
prima di decidersi per quella che sembra la meno pericolosa: buttare le
statuette nella Senna. È Fernande che lo racconta. Detto fatto. O quasi.
Fernande dà una mano. Prendono una grossa valigia, ci mettono dentro le
sculture. Lei spinge il poeta e il pittore verso la porta. Blaise Cendrars ne farà
una descrizione molto fantasiosa. Vanno rasentando i muri, guardandosi
intorno, curvi sotto il peso della valigia. Poi l’immaginazione dello scrittore
fa risuonare un rumore improvviso che sospinge i due ricettatori sotto un
androne, con il cuore in gola. Li porta verso la Senna, uno dietro l’altro, uno
che sorveglia la prima linea, l’altro le retrovie. Fino al momento in cui un
movimento nell’ombra, più preoccupante degli altri, li fa tornare a precipizio
verso casa, sudati, in preda al panico, quasi di corsa.
Quando Fernande apre la porta, alle due del mattino, sono lividi. E la
valigia è sempre lì.
«Vuota?».
«No, piena», borbotta Picasso.
Entrano. Riflettono. Alla fine adottano la soluzione già sperimentata da
Géry-Piéret: restituiranno le sculture iberiche al «Paris-Journal». Saranno
tenuti al corrente solo Chichet, il direttore, e André Salmon, che lavora lì. La
pubblicità offerta al giornale val bene il segreto.

122
Apollinaire passa la notte sul divano del salotto. All’alba riprende la valigia
e mette in esecuzione il piano previsto. Secondo Albert Glaizes, Picasso lo
accompagna. I due arrivano alla Gare de l’Est passando per i boulevard
esterni, sistemano la valigia al deposito bagagli e aspettano l’ora di apertura
degli uffici del «Paris-Journal».
Il giorno dopo, tramite il giornale, il Louvre recupera le sculture.
Bene!
Mica tanto. La mattina del 7 settembre, all’ora del lattaio, suonano alla
porta di Apollinaire.
Polizia.
Perquisizione.
Arresto.
Il poeta viene spedito in Quai des Orfèvres. Incolpato di ricettazione e
complicità nel furto. Portato direttamente alla prigione della Santé. «Mi
sembrò che, ormai, fossi in un posto fuori dalla terra e che fossi sul punto di
essere annientato». Non ha diritto ad alcun riguardo. Alla cancelleria riceve
una camicia, un asciugamano, lenzuola e coperta. Passando per oscuri
corridoi lo portano nell’undicesimo reparto, cella quindici:
Prima di entrare in cella
Ho dovuto mettermi nudo
E com’è sinistra la voce che ulula
Guillaume che cosa sei diventato.

Non ha capito niente. È completamente suonato. Su uno dei montanti della


cuccetta scopre l’identità di uno di quelli che l’hanno preceduto: «Dedé di
Ménilmontant, per omicidio».
Aspetta.
…passano lente le ore
così come passa un funerale.

In boulevard de Clichy ci si fa piccoli piccoli. Passa un giorno. Si


comincia a sperare, ma il giorno dopo, all’alba, campanello. Polizia
giudiziaria. L’uomo è in borghese, il che non gli impedisce di tirare fuori la
sua tessera di riconoscimento e di pregare Pablo Picasso di seguirlo al
Palazzo di Giustizia.
In camera da letto, il pittore si toglie il pigiama: «Picasso, tutto tremante, si
veste in fretta e furia; ho dovuto aiutarlo; per la paura aveva perso la testa».3

123
Lo si può capire: è spagnolo, sospettato dalla polizia francese di simpatie
anarchiche. Rischia al peggio l’arresto, al meglio l’espulsione.
Fernande lo consola come può. Lo guarda camminare sul boulevard in
compagnia del suo Cerbero. Salgono sull’autobus Pigalle-Halle-aux-Vins.
Picasso giura che non c’entra con questa storia, che non sa nemmeno di che
cosa si tratti. Ma il gendarme non può farci niente. La cosa non lo riguarda.
Gabinetto del giudice istruttore. Picasso, interrogato come testimone, ripete
di non sapere niente di niente. Non importa. La giustizia ha le sue
informazioni.
«Quali?».
«Un poeta che dice di essere vostro amico».
«Non conosco poeti».
Farfuglia, Picasso. Il giudice lo informa della deposizione del poeta.
Apollinaire ha fatto il nome di Picasso in relazione a Géry-Piéret, ladro di
opere d’arte. Il sunnominato Géry-Piéret si è recato a casa del pittore e gli ha
venduto due teste iberiche.
«Non ne so niente», ripete Picasso senza convinzione.
«Dice anche che voi ignorate la provenienza di queste opere d’arte».
«Non c’entro».
«Abbiamo un testimone».
Il testimone è in attesa da quattro ore nei sotterranei del Palazzo di
Giustizia, il naso contro le sbarre. Lo fanno uscire dal suo buco e lo portano,
ammanettato, in una stanza attigua al gabinetto del giudice.
Questi apre la porta. Il testimone entra. Ha la faccia scavata, è pallido,
stravolto, ha gli occhi rossi, una barba di due giorni, ha perso la cravatta e il
solino è mezzo staccato. Gli fanno segno di sedersi. Picasso lo guarda poi,
subito, si volta. Fissa il muro che ha di fronte.
«Conosce quest’uomo?», chiede il magistrato.
«No», dichiara Pablo Picasso.
Guillaume Apollinaire, sulla sua sedia, ha un sobbalzo.
«No», ripete Picasso, intestardendosi come un bambino. «Non ho mai
incontrato questo signore».
Non dice altro.
Ma, subito, comincia a balbettare, si dispera, scoppia a piangere, si
rimangia quello che ha detto. Apollinaire, in lacrime anche lui, non riesce a
dire una parola.
Il giudice, interdetto, da dietro la scrivania guarda quei due bambini – in
preda a incubi ancora più terrificanti di quelli notturni – che si lamentano

124
come se il cielo di Babbo Natale gli fosse caduto sulla testa. Uno lo rimanda a
casa. L’altro in cella alla Santé.
Lo stesso giorno Géry-Piéret, sotto il nome fittizio di Baron Ignace
d’Ormessan (che Apollinaire aveva usato in L’Hérésiarque & Cie), scrive al
giudice per discolpare il carcerato.
Intanto, a Parigi, ci si dà da fare. Da una parte gli amici di Apollinaire,
guidati da André Salmon, René Dalize, André Tudesq e André Billy, lanciano
una petizione che chiede la liberazione del poeta (Frantz Jourdain, presidente
del Salon d’Automne, si rifiuta di firmarla); dall’altra, la stampa razzista, sotto
le bandiere di Léon Daudet e di Urbain Gohier, si dà alla pazza gioia:
Uno dei ladri del Louvre, il segretario del pornografo ebreo, o polacco che sia, è un
belga. Quando si sapranno tutti i particolari su questa banda, si scoprirà che è
composta da stranieri e da meticci.4

Dietro le sbarre, il meticcio si dispera:


In una fossa come un orso
Io vado a spasso ogni mattina
Giriamo giriamo giriamo
Il cielo è azzurro come una catena
In una fossa come un orso
Io vado a spasso ogni mattina.

Per fortuna dura poco. Il 12 settembre Guillaume Apollinaire viene


liberato. Ma non è ancora finita. Gleizes fa incontrare il poeta con il sostituto-
procuratore Granié. Questi non lo rassicura affatto: ha protetto un individuo
che ha rubato allo Stato, ha ricettato oggetti rubati in un museo nazionale.
«Che cosa rischio?», chiede Apollinaire.
«Il tribunale di prima istanza».
«E poi?»
«La condanna».
Il poeta è stravolto.
«L’ideale sarebbe andare in Corte d’Assise...».
«Mi scusi?».
«Non può negare la sua colpevolezza», argomenta il sostituto. In prima
istanza, i giudici applicheranno la legge senza discussioni. In Assise, ci si può
spiegare...
Apollinaire non ci tiene affatto a spiegarsi in Corte d’Assise.
«Non ci sarebbe un’altra soluzione?».

125
«Il non luogo a procedere».
«C’è qualche possibilità?».
«Vedremo...».
C’era, una possibilità. E ad Apollinaire è stata offerta. Nel gennaio del 1912
viene prosciolto da ogni accusa. Ma questa storia, drammatica, ha qualche
conseguenza. Lui non ne parlerà mai. Ma nel profondo del suo cuore, come
può il maleamato non provare una gran pena per il tradimento di Picasso?
Albert Gleizes racconta:
Uno dei suoi amici più cari lo aveva rinnegato, aveva perso la testa fino al punto di
dichiarare di non averlo mai incontrato. Apollinaire me ne ha parlato con amarezza,
con emozione.5

Per un po’ gli amici del poeta trattano Picasso con una certa freddezza. Una
caduta in disgrazia peraltro non così dura. Ma intanto Picasso è pieno di
paure. Ne è ossessionato. Non vuol più salire sull’omnibus della linea
Pigalle-Halle-aux-Vins con cui era stato portato al Palazzo di Giustizia. Per
strada si volta di continuo. Ha paura di essere pedinato. Si agita ogni volta
che in boulevard de Clichy suona il campanello.
Cinquant’anni dopo, su «Paris-Presse», Picasso avrebbe confessato al
giornalista che lo intervistava sul furto della Gioconda che quando pensava a
come si era comportato quello che provava era ancora vergogna, pura e
semplice vergogna.6 Lo possiamo capire. Perché, quanto a lui, Apollinaire
aveva protetto così bene l’amico pittore che il suo nome non era mai apparso
su un giornale. E nemmeno nei libri dedicati alla storia dei rapporti tra lui e
Picasso. André Billy, testimone dell’epoca e di questa disgraziata vicenda,
nella sua prefazione all’opera poetica di Guillaume Apollinaire,7 arriva
addirittura a non rivelare l’identità di Picasso. Si limita a parlare del pittore
X…
La Gioconda viene ritrovata nel 1913. Era stata rubata da un italiano che
lavorava al Louvre e che voleva restituire l’opera al suo paese.
Apparentemente, il cerchio era chiuso. Per tutti, meno che per Apollinaire.
Tre anni dopo, scoppia la Prima guerra mondiale. Il poeta si arruola
subito. E tutti gli amici pensano che questa decisione di combattere per un
paese che non è il suo abbia il senso di una rivincita. È come se Apollinaire
volesse coprire le manette del disonore con i tre colori della bandiera. Un
modo per fare dimenticare il sorriso, devastante, di Monna Lisa.

126
Separazioni

Faccenda F. O. Niente da dire: mi monto, mi monto.


Sono già innamorato con l’immaginazione. Sarei
molto deluso se non ci fosse niente. Più che deluso.
Paul Léautaud

Il furto della Gioconda è il fulcro attorno al quale sta per iniziare una
nuova era, dolorosa per alcuni, felice per altri, fertile di forme e di colori. È il
tempo delle svolte e delle rotture. Sul libro delle arti, vibra la pagina di
Montmartre. «Andrò al Lapin Agile a ricordarmi della mia giovinezza
perduta», scriverà Blaise Cendrars.
Marie Laurencin rompe con Guillaume Apollinaire. Ad Auteuil un
soggiorno alla Santé non lo si perdona. Fernande Olivier sostiene che Marie
non ha scritto una sola lettera al suo innamorato in prigione. Il disonore si è
aggiunto alle numerose infedeltà del poeta e a dissapori diventati cronici:
Marie aveva già rifiutato di sposarlo per il suo cattivo carattere. E poi, a detta
di Picasso, la coppia si annoiava, a letto... Quando si conoscono gli ardori di
cui testimonia Mony Vibescu nelle Onze Mille Verges...
Apollinaire, profondamente ferito, lascia Auteuil e va a vivere per qualche
mese da Robert e Sonia Delaunay. Si vendicherà di Tristouse Ballerinette:
Ero una sconosciuta, pensava, ed ecco che Croniamantal mi ha reso famosa in tutto il
mondo.
Tutti mi trovavano brutta con la mia magrezza, la bocca troppo grande, i denti storti,
la faccia asimmetrica, il naso di traverso. Eccomi diventata bella, me lo dicono tutti
gli uomini. Mi prendevano in giro per il mio modo di camminare mascolino e a scatti,
per i gomiti puntuti che quando cammino si muovono come zampe di gallina. Adesso
mi trovano così graziosa che le altre donne mi imitano. Che miracoli può fare l’amore
di un poeta!1

Durante la guerra il poeta in questione invierà qualche lettera più amabile


alla sua musa. Ma lei, a sentire Philippe Soupault, sarà spietata. Soupault, che
ammira profondamente Apollinaire, non ammette che la giovane donna

127
possa beffarsi così crudelmente e sordidamente dell’uomo con cui ha vissuto
per molti anni. A tutto ciò, Marie Laurencin aggiunge due difetti
imperdonabili agli occhi dell’autore del Nègre: è di una pretenziosità del tutto
ingiustificata dalla sua opera; e, peggio ancora, si è legata a Marcel
Jouhandeau...
Apollinaire, dunque, attraversa un periodo difficile, sia perché la sua musa
l’ha abbandonato sia per l’incertezza della sua condizione: non ha ancora
ottenuto il non luogo a procedere, gli attacchi della stampa di destra lo hanno
spaventato, teme di non poter ottenere la naturalizzazione e, al solito, ha
paura di essere espulso dalla Francia.
Per aiutarlo, gli amici André Salmon, René Dalize, André Tudesq, André
Billy e Serge Jastrebzoff acquistano una rivista, «Les Soirées de Paris», di cui
gli affidano la direzione. In un solo numero, gli abbonati passano da quaranta
a... uno.2 Ma le richieste di ufficio stampa affluiscono dal mondo intero, per
la gioia di Apollinaire. Una volta al mese, in compagnia di Serge Jastrebzoff,
fa il giro di Parigi in taxi per consegnare la rivista alle librerie.
Serge Jastrebzoff, più conosciuto come pittore con il nome di Serge Férat,
è il fratellastro della baronessa d’Oettingen. Russa, ricca, colta, mondana, la
baronessa abita in un hôtel particulier in faubourg Saint-Germain, e si
interessa a tutto: pittura, letteratura, e anche a Croniamantal, di cui è stata
l’effimera amante.

Nemmeno dalle parti di Clichy va tutto bene. Anche qui, Monna Lisa ha
provocato qualche danno. È forse perché Fernande si è mostrata molto dura
nei confronti di Apollinaire, o perché in questa situazione ha dimostrato
un’ironia che trasparirà anche dai suoi scritti, e che Picasso non apprezza
affatto? Oppure perché è volubile, o perché la mondanità le ha fatto girare la
testa. Comunque sia, la coppia è in crisi.
Si sono anche fatti commenti sull’irascibilità del pittore, che a quell’epoca
lavora in coppia con Braque. Si è anche parlato dell’incomprensione della
bella Fernande per il lavoro di Picasso. Comunque sia, le nuvole si sono
accumulate. Lei gli rimprovera di preoccuparsi troppo di ogni piccolo
malanno fisico e lui di comperare troppi vestiti e troppi profumi. Lei dice che
Picasso è «una testa di rapa», che non sa far altro che dipingere, che è solo
un bambino precoce. Lui critica le sue continue lamentele.
Le scenate si gonfiano, si moltiplicano. Un giorno, Fernande Olivier
prende il volo. Va a posarsi altrove per qualche giorno, poi ritorna ad ali
spiegate. Ma la situazione è ormai irrecuperabile. E va sempre peggiorando

128
fino al 1912 (anni dopo Picasso confesserà che la prima volta che si era
separato dalla sua musa di Montmartre, non era stato per storie di acqua di
Colonia o per sciocchezze riguardanti i vestiti: era stato a causa di Raymonde,
la bambina adottata e poi restituita).
La banda, per il momento, fa come se niente fosse. Ha lasciato il Lapin
Agile per il Grelot, in place Blanche, o per L’Ermitage, boulevard de
Rochechouart: come fanno da sempre, seguono Picasso. I pittori si trovano
tra di loro, sotto l’occhio sospettoso dei clienti abituali che bevono birra al
banco. Ognuno al proprio posto e che nessuno si muova. Quando le ragazze
cedono alle chiacchiere degli artisti, cambiando campo per lo spazio di un
incontro, esplodono le liti: si vede perfino Picasso far mordere la polvere a
un tizio che l’aveva urtato.
Gli habitué – Max Jacob, Apollinaire, Braque – fanno da arbitro, assistiti
dai nuovi arrivati: Férat e la baronessa sua sorella, Metzinger, Marcoussis, i
futuristi italiani.
Questi ultimi si orientano subito: cercano in tutti i modi di farsi notare.
Portano calzini assortiti alle cravatte ma di diverso colore. Sono pittori e
poeti. Il loro capofila, Filippo Tommaso Marinetti, ha risolto il problema
dell’alessandrino e del verso libero. Lo prova un estratto della poesia Train
de soldats:
tlactlac ii ii guiiii
trrrrrr trrrrrr
tatatatòo-tatatatòo
(ROUES)
urrrrrr
cuhrrrr
gurrrrrrr
(LOCOMOTIVE)
fuufufufuufufu
fafafafafa
zazazazazaza
tzatzatzatza, tza3

Al di là dell’aspetto provocatorio del loro modo di vestirsi, delle


declamazioni e degli atteggiamenti di sfida nei riguardi dei borghesi, bisogna
dare ai futuristi il ruolo che gli spetta nelle rivolte che verranno: sono i primi,
prima di Dada e dei surrealisti, a tentare di accendere la miccia delle
esplosioni future. Ma lo fanno con una evidente goffaggine, soprattutto
quando si vantano di essere i precursori dell’arte di domani. Dovevano a

129
ogni modo rispettare le indicazioni date dal Manifesto del Futurismo, firmato
da Marinetti e pubblicato dal «Figaro» del 20 febbraio 1909:
Articolo 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una
bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano
adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un’automobile ruggente,
che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.

Articolo 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – , il


militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si
muore e il disprezzo della donna.

Articolo 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni


specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà
opportunistica o utilitaria.

Fanno una mostra da Bernheim-Jeune. «La Nouvelle Revue Française» li


stronca. Jacques Copeau parla di «una prosa declamatoria, incoerente e
buffonesca».4 Apollinaire scrive: «Ai giovani pittori futuristi si potrebbe
anche dare credito, se la iattanza delle loro dichiarazioni, l’insolenza dei loro
manifesti non escludessero l’indulgenza che saremmo tentati di concedere
loro».5 In futuro molti futuristi si schiereranno a fianco di Mussolini.
Qualcosa accade anche in casa Picasso: Fernande s’invola con Ubaldo
Oppi, pittore futurista. Quando ridiscenderà sulla terra, Fernande capirà che
il presente si coniuga ormai all’imperfetto: anche Picasso se n’è andato.

Picasso è a Céret con Eva Gouel. Eva era la fidanzata di Marcoussis. Si


sono visti spesso all’Ermitage, in quattro. Poi Picasso e lei, soli. Sostenendo
che il suo studio di boulevard de Clichy è troppo piccolo, il pittore ne ha
affittato un altro nel vecchio Bateau-Lavoir. Non la Maison du Trappeur, ma
una stanza al piano inferiore. È qui, senza dubbio, che ha incominciato a
sostenere il ruolo dell’innamorato clandestino, che porta avanti nell’inverno
del 1911 e nella primavera dell’anno dopo.
Non è una sbandata, e Marcoussis è molto triste. Gli amici lo incoraggiano
a dimenticare: non è facile. Gli consigliano di mostrarsi magnanimo: ci
prova. Quando non ce la fa e si lascia andare alla collera, gli consigliano di
prendere esempio da Cristo.
«E che cosa ha fatto Cristo?».
«Ha perdonato la donna adultera».
«Facile, non era la sua!».

130
Picasso è innamorato pazzo di questa giovane donna di appena trent’anni,
fine, carina, con un carattere costante e gioioso. La dipinge e annota, sotto al
quadro, Ma jolie. Per sfuggire a Fernande, la conduce nei Pirenei e poi,
poiché teme qualche visita intempestiva, s’imbarca per Sorgues, dove lo
raggiunge Braque. Così finisce, nella mediocrità, una passione di otto anni.
Con Fernande sparisce il nume tutelare del Bateau-Lavoir: ne era stata la
regina, e l’unica.
Non doveva mai più rivedere Picasso. Dopo la rottura, Fernande lavora da
Poiret, poi da un antiquario e infine in una galleria. Recita poesie al Lapin
Agile, fa la cassiera in una macelleria. Negli anni Trenta vive miseramente
dando lezioni di francese agli americani scesi in massa a Montparnasse. Max
Jacob va a trovare Picasso per chiedergli di aiutarla. Picasso non muove un
dito. Allora Fernande decide di pubblicare i suoi ricordi. Va al «Mercure de
France». La fanno salire in un ufficio oscuro dove lavora un uomo con gli
occhiali che per proteggersi dal freddo indossa due giacche. La prima è
logora, macchiata, scucita. L’altra è solo sporca. Più corta della prima, ma
meno sciupata: senza dubbio questa è la ragione per cui il suo proprietario ha
deciso di portarla sopra l’altra.
Grandi fogli di giornale sono stesi per terra. I titoli del giorno sono
ricoperti da pezzi di pane che seccano al riparo dei manoscritti che debordano
dai ripiani.
L’uomo solleva gli occhiali, saluta la donna e si presenta. Si chiama Paul
Léautaud. Ama gli animali, particolarmente i gatti. Quando non lavora al
«Mercure», si occupa dei suoi protetti. Cerca loro una casa accogliente, o
comunque del cibo. Le croste di pane sono per loro. Se la signorina vuole
accomodarsi...
Fernande Olivier ha sentito parlare di Paul Léautaud. È stato poco dopo la
rottura con Picasso. Forse da Guillaume Apollinaire. Léautaud cenava in
compagnia di una donna, bevendo champagne. Stava portando il bicchiere
alle labbra, quando la sua ospite l’aveva fermato gridando: «Ma non fa un
brindisi?».
«Certamente», aveva risposto.
Poiché però non diceva una parola, la donna aveva esclamato: «Se non sa
far di meglio, beva almeno alla salute delle bestie!».
«Certamente!».
Léautaud aveva avvicinato il suo bicchiere a quello della donna e,
sorridendo, aveva mormorato: «Alla sua salute, cara signora...».
Fernande Olivier racconta le sue miserie all’autore del Petit Ami, che ne è

131
scosso. A modo suo, che non è mai il modo solito:
Partita la signora F.O. ho detto alla signora de Graziansky (impiegata agli
abbonamenti) che, comunque, se è così in difficoltà come dice, essendo ancora una
bella donna, potrebbe prendersi un amante.6

Quando la rivede, la esamina e si dice che deve sicuramente avere un


«sedere meraviglioso». Ma, purtroppo, anche «la pelle rosea delle bionde».
Poi ci ripensa. Dev’essere rossa. Finisce per chiederglielo: è castana-
rossiccia. Un giorno la trova bella, il giorno dopo assolutamente sgradevole:
«Ha delle macchie rosa sul petto, sopra il seno».
Coglie fiori per lei nel suo giardino e glieli porta in rue de la Grande-
Chaumière, dove abita. Di fronte c’è l’Accademia di pittura. È un po’ geloso:
pensa che se lei vuole fare all’amore, non ha che l’imbarazzo della scelta. Gli
dispiace di essere così vecchio – sessant’anni – mentre lei è così giovane –
gliene dà quaranta, ne ha quarantasei.
È innamorato, Léautaud. Ancora più intensamente quando capisce che lei
ha ancora «i suoi periodi», ma meno intensamente quando Fernande gli
racconta della sua vita d’artista, della bohème, del Lapin Agile, delle recite di
poesie. «Preferisco di gran lunga una bella puttana borghese».
Ma quando Fernande va da lui, più spesso durante il giorno, avrebbe
voglia. Solo che Léautaud è timido. Non osa. È seduta sulla sedia a sdraio in
giardino. Lui scopre delle «gambe enormi», un cuscinetto di grasso alla vita,
braccia come cosce, i seni sul ventre. Non importa: «Ero davvero eccitato».
Ha comperato una bottiglia di champagne che finisce per bere da solo dopo
che lei se n’è andata.
Presto Fernande gli fa delle confidenze: Marie Laurencin ignorava il
piacere; Apollinaire poteva fare all’amore solo completamente vestito; Max
Jacob frequentava sergenti e baffute guardie repubblicane. In rue Ravignan
c’era un carbonaio che era innamorato di lei e che deponeva il carbone
davanti alla porta della Maison du Trappeur senza mai chiedere un soldo.
«Sessualmente» lei se l’intendeva molto bene con Picasso.
Fernande è sempre molto legata a Picasso: preoccupata quando sa che è
malato, lo difende sempre, comunque. Quando parla di lui, Léautaud legge
sul suo viso l’emozione, forse il rimpianto.
Ma un giorno Fernande esplode: il problema, con Picasso, era che lei si
annoiava terribilmente. Picasso non parlava mai, sempre assorbito dal suo
lavoro. Ma Fernande dimentica, e si arrabbia quando Léautaud le racconta
della confidenza che gli ha fatto Serge Férat a proposito del famoso giorno in

132
cui il pittore e Apollinaire sono stati messi a confronto nel gabinetto del
giudice istruttore. Fernande grida allo scandalo, dice che si tratta di storie di
gelosia, che Picasso avrebbe portato via un’amante a Férat il quale si sarebbe
così vendicato...
Su richiesta di Georges Charensol, Léautaud scrive la prefazione alle
memorie di Fernande Olivier (di cui il «Mercure» ha pubblicato solo qualche
estratto, in quanto Valette aveva giudicato che l’opera non si sarebbe
venduta). Quando Picasso sa che il libro sta per essere stampato, tenta di
intervenire presso l’editore Stock per fermare la pubblicazione: propone di
pagare tutte le spese. Riesce solo a ritardarla: il libro uscirà nel 1933.
Circa vent’anni dopo, sempre in miseria, Fernande Olivier scriverà una
nuova opera, Souvenirs intimes. La moglie di Braque informa Picasso. Non
si sa se è stato per rinviarne la pubblicazione o per compiere un gesto
generoso e disinteressato (come farà con Hans Hartung, aiutandolo a passare
in Spagna durante l’Occupazione), resta il fatto che il pittore farà avere alla
sua vecchia amante una somma piuttosto consistente.
Per trent’anni, l’opera resterà chiusa nel cassetto di Fernande Olivier.

133
Il cubismo

La natura, per noi, è più profondità che superficie.


Paul Cézanne

Marie Laurencin se n’è andata, Fernande pure. Max Jacob, dopo avere
ceduto alle seduzioni di Cécile e forse anche di un’altra donna, per poco non
si innamora di una delle sue cugine. Nel 1912, a Quimper, il giorno
dell’Assunzione, sta guardando passare la processione quando qualcuno lo
chiama. Si gira e vede un cugino e due cugine. Una si chiama éva. Max guida
i giovani verso il vescovado. In giardino c’è un gelso. Le cugine spingono
Max ad arrampicarsi su per il tronco. Max compie la prodezza. éva ne è
conquistata: un poeta sportivo!
Tanto basta perché éva gli offra le sue labbra. Max la bacia. È piuttosto
fiero di «avere conquistato la signorina éva».1 Ma, prodezza per prodezza,
preferisce i gelsi, e rinuncia rapidamente alle ragazze: Max ritorna ai suoi
amori particolari.
Nella banda di Picasso, Max è sempre presente, ma incomincia a perdere
terreno. Per molte ragioni.
Prende troppo etere: Picasso, che non tocca più droga dopo la morte di
Wiegels, non sopporta la dipendenza dell’amico. Prende qualunque cosa, e
poiché questo fatto gela le riunioni degli amici Max Jacob inventa
continuamente dei pretesti per giustificare il suo vizio. Pretende di soffrire di
mal di denti e di calmare il dolore con l’assunzione di etere. I suoi genitori,
dai quali a volte si reca, si stupiscono che dolori curati in questo modo
precipitino il figlio nel delirio. Esigono che vada da un dentista scelto da loro.
Max Jacob, che odia i dentisti e non soffre assolutamente di denti, si propone
per un po’ di sospendere le sue pratiche farmaceutiche. Lo fa forse in
Bretagna, ma non a Montmartre.
È una prima colpa.
La seconda è frutto della sua morbosa suscettibilità, che trasforma spesso
semplici inezie in cataclismi distruttori. Non solo nei riguardi di Picasso, ma

134
anche con Apollinaire che, a volte, lo tratta con freddezza. Sono rivali di
fronte al pittore. Max Jacob si lamenta spesso del fatto che il poeta non pensa
che a ridere con lui, senza prendere veramente in considerazione il suo
lavoro letterario.
Mentre Picasso guadagna in danaro e Apollinaire in notorietà (ha ottenuto
tre voti al Goncourt per L’Hérésiarque & Cie), Max rimane nell’ombra.
Questa situazione alimenta la sua paranoia. In lettere di una ingenuità che
ricorda quella del Doganiere Rousseau, Max rimprovera ad Apollinaire di
sfuggirgli, di passare da Montmartre senza passare a salutarlo, di non
invitarlo mai alle sue feste, di prendersi gioco di lui, pur giurandogli una
eterna e indefettibile amicizia.
Max prova un certo risentimento nei confronti di Picasso. Picasso è ricco,
adesso. Da quando Vollard gli ha comperato i quadri dimentica i vecchi amici
e la complicità nata nella miseria condivisa. Per Max è una pena,
disgraziatamente fa precipitare la situazione: poco dopo il banchetto in onore
di Rousseau al Bateau-Lavoir, vende qualche disegno di Picasso e giustifica il
gesto con la povertà (reale) nella quale si trova e di cui gli altri non soffrono
più.
Picasso detesta sentire il vecchio compagno di miseria raccontare – e
quindi ricordare – il periodo delle vacche magre e la solidarietà che li legava
a quei tempi.
Max, diversamente dagli altri, naviga controcorrente.
Nel 1911 pubblica, a proprie spese, La Côte. Recueil de chants celtiques,
anciens, inedits. L’opera, come confesserà anni dopo a Tristan Tzara,2 l’ha
concepita per farsi beffe di Paul Fort, di Francis Jammes e, più in generale,
della letteratura popolare, che giudica «grottesca» (il che confermerebbe la
tesi di André Salmon, secondo il quale Max Jacob fingeva di amare quel tipo
di letteratura per compiacere Apollinaire). Vende personalmente le copie del
libro e si guadagna così da vivere. Questo modo di guadagnarsi il pane gli
sembra una «mendicità mascherata». Forse Picasso la pensa allo stesso
modo.
Mentre gli altri traslocano in appartamenti più grandi e lussuosi, Max resta
nelle stamberghe di rue Ravignan, rue du Chevalier-de-la-Barre o rue
Gabrielle. A volte viene invitato da Picasso a Céret, ma non può pagarsi il
viaggio. Il pittore deve scrivere a Kahnweiler per chiedergli di dare all’amico
poeta un po’ di soldi per il biglietto e come «argent de poche».
Fortunatamente nei Pirenei rifiorisce la grande amicizia. E se a Montmartre
Max offre una spalla su cui piangere a Fernande, qui si lega d’amicizia con

135
éva, di cui apprezza la vivacità e la devozione a Picasso. Picasso ritrova così
il primo posto nel Pantheon affettivo di Max.
Vanno in Spagna per assistere a una corrida: «La Spagna è un paese di
quadrati e di angoli»3 nota Max Jacob. L’idea è piuttosto sciocca ma sarà
ripresa da Gertrude Stein, che considererà subito la Spagna come il paese del
cubismo.

A Céret il poeta disegna paesaggi geometrici.


Non fa passeggiate, e i suoi amici neppure. Al timo e alla lavanda delle
montagne, preferiscono i caffè, pieni di eteromani e di «pederasti» (scrive
Max ad Apollinaire) o l’interno delle case. Lavorano molto. Max dipinge e
scrive versi. Picasso, sulla scia di Braque, fa collage.
Non è la prima volta che i due pittori lavorano insieme a Céret: già
all’epoca di un precedente soggiorno si erano ritrovati in una casa isolata in
mezzo alle montagne. La loro complicità è antica: risale al 1908, l’anno dopo
il Salon des Indépendants, in cui Braque aveva esposto i suoi primi paesaggi
dell’Estaque. Le loro ricerche sulle forme e sui volumi, sebbene diverse e
portate avanti individualmente, dovevano inevitabilmente condurli uno verso
l’altro.
Per Picasso, tutto ha origine nell’arte negra e iberica. Questa doppia
influenza si fa sentire nel mitico dipinto Les Demoiselles d’Avignon che il
pittore conserva coperto o arrotolato nel suo studio. Pochi visitatori hanno
avuto il privilegio di vedere l’opera. Tuttavia, anche se provoca un vero
shock, gode di una reputazione considerevole che si accrescerà con gli anni.
Per Braque, tutto deriva da Cézanne.
A suo tempo, il maestro di Aix è stato deriso e disapprovato come lo sono
stati i fauves e come lo saranno i cubisti, come è stato per Berlioz e come sarà
per James Joyce: è il destino delle avanguardie. Cézanne, che ammirava
Delacroix, ammirato da Gauguin, rifiutato dai saloni ufficiali, esposto ai lazzi
e alla stupidità dell’ambiente, era stato per vent’anni senza esporre. Camille
Mauclair, eminente specialista delle belle arti, se ne era congratulato: la pittura
di Cézanne era, ai suoi occhi, «la più memorabile buffonata degli ultimi
quindici anni».
Dieci anni prima della sua morte, grazie a Vollard, Cézanne era stato
finalmente riconosciuto: non solo per la sua opera anteriore, nata dal lavoro
con Pissarro e con gli impressionisti di Auvers-sur-Oise, ma anche per le
ricerche sulle forme, i volumi, l’ordine dei piani, la frammentazione, le
deformazioni. «Cézanne ha elevato la natura morta al rango di oggetto morto

136
esteriormente ma interiormente vivo», riassume magistralmente Kandinsky.4
Voleva scoprire «le assise geologiche» della Sainte-Victoire, e lo faceva
rispettando la percezione umana dello spazio. Secondo lui, bisognava trattare
la natura «secondo la sfera, il cilindro e il cono». Si capisce perché
Apollinaire abbia decretato che le ultime opere di Cézanne erano
essenzialmente cubiste e, soprattutto, l’interesse che Picasso aveva per lui.
E ancora di più Braque.
Dopo la morte di Cézanne, accompagnato da Othon Friesz, Braque scende
a l’Estaque, vicino a Marsiglia, e dipinge diverse opere, strutturate,
semplificate e monocrome, che espone al Salon des Indépendants del 1907.
L’anno dopo, il Salon d’Automne accetta solo due quadri degli otto che ha
presentato. Braque rifiuta questa umiliazione. Kahnweiler li espone allora
nella sua galleria, in rue Vignon, e chiede ad Apollinaire una presentazione.
Le Maisons à l’Estaque sono tra le tele esposte. Sono quelle che i signori del
Salon d’Automne hanno rifiutato: cubi color ocra, case senza porte e senza
finestre, volumi incastrati gli uni negli altri. Non più la rappresentazione
oggettiva della natura, ma la sua interpretazione reinventata al di fuori dei
canoni tradizionali. Una semplificazione, un’organizzazione e una
deformazione dei volumi che corrispondono a un approccio già conosciuto:
quello di Picasso. Trattandosi di Braque, era quasi una vocazione. Secondo
Jean Paulhan, il pittore di Le Havre, appena arrivato a Parigi, era andato al
Louvre a copiare le opere di Raffaello. All’inizio le sue copie erano
abbastanza simili al modello. Ma più dipingeva, più deformava...
Kahnweiler espone anche il Grand Nu (1908) di Braque, che costituisce
una risposta alla violenza delle Demoiselles e delle Trois Femmes di Picasso,
di cui Braque critica il primitivismo e la durezza, che gli sembrano esagerati.
Il Grand Nu, parente prossimo del Nu debout (1907) di Matisse, è un’opera
di ispirazione cézanniana, angolosa, senza chiaroscuri, meno primitiva e più
«leggibile», tuttavia, delle opere di Picasso. È la prima grande tela di Braque e
costituisce un testo fondamentale del cubismo che sta per nascere.
A Matisse non piace. Fa parte della giuria del Salon d’Automne che ha
cacciato Braque, si è fatto beffe di quei «cubi» e gli ha voltato le spalle. La
definizione è ripresa da Louis Vauxcelles, nel numero di «Gil Blas» del 14
novembre 1908. Poi, quasi simultaneamente, dal critico Charles Morice. Il
nome di questa scuola (se si tratta di una scuola) è stato dunque
probabilmente inventato da Matisse. Certo più tardi Matisse ha negato. Ma
Kahnweiler e Apollinaire confermano. E i cubi di cui si parla si riferiscono
alle opere di Braque, non a quelle di Picasso. Matisse affermerà più tardi che

137
il primo quadro cubista che ha visto era un’opera di Braque che Picasso gli
aveva mostrato nel suo studio. Uno studio da cui si era allontanato subito,
infuriato con il pittore spagnolo che aveva saputo farsi fiancheggiare da
Derain e Braque. E, senza dubbio, un po’ in colpa per avere rifiutato
quest’ultimo al Salon d’Automne...

Perché un tale scandalo intorno alle opere di due pittori? Perché mettono
in causa la tradizione. La prospettiva non esiste più, e nemmeno il
chiaroscuro, che pensano sia un trucco utilizzato per rendere la profondità,
nient’altro. Abbandonano il principio che risale al Rinascimento secondo il
quale lo spettatore di un’opera la guarda da un unico punto di vista.
Osservano un paesaggio e chiudono alternativamente l’occhio destro e il
sinistro: non si vede la stessa cosa. Così come succede quando cambia il
punto di vista. Queste differenze sono essenziali. I cubisti ne tengono conto.
John Berger attribuisce una doppia origine al cubismo: Cézanne, per
l’importanza data alla relatività dell’angolo visivo; e Courbet, che apporta alla
tradizione pittorica classica una materialità che va oltre quella prodotta dalla
luce e dall’ombra.
Prima di Cézanne ogni quadro era in una certa misura simile a una vista attraverso
una finestra. Courbet aveva cercato di aprirla per uscire fuori. Cézanne aveva rotto il
vetro. La stanza era diventata parte del paesaggio, l’osservatore parte della veduta.5

Per Courbet, il materialismo. Per Cézanne, la dialettica. Per tutti e due, a


condizione che stiano insieme, il materialismo dialettico. Il cubismo, nessuno
lo ha mai contestato, è stato una rivoluzione.
L’impressionismo, a suo tempo, aveva scandalizzato un pubblico poco
abituato al fatto che i pittori mostrassero una realtà interpretata – fosse anche
da leggi ottiche. I cubisti vanno ancora più lontano: non rispettano le luci e le
ombre. Braque: «Mi dicevano: basta mettere le ombre. No, quello che conta
subito prima è il pensiero che ci si fa».6
Oppongono un’arte di concezione a un’arte d’imitazione. Non si curano
del rispetto delle sensazioni visive raccomandato dagli impressionisti. Ciò che
vogliono, è mostrare l’oggetto nella sua essenza. Come lo si concepisce, non
come lo si vede. In questo, si avvicinano a Gauguin, che pensava che
l’impressionismo aveva un attrezzo, l’occhio, staccato dallo spirito. Picasso:
«Quando un pittore cubista pensava: “Dipingerò una ciotola”, si metteva al
lavoro, sapendo che una ciotola in pittura non aveva niente in comune con

138
una ciotola nella vita».7
L’utilizzo di figure geometriche permette di presentare tutte le sfaccettature
di un oggetto, al di là della sua apparenza immediata. Non si tratta di «rendere
una somiglianza». Bisogna andare più lontano. Il colore stesso non deve
adattarsi a fenomeni passeggeri, come la luce, l’angolo d’incidenza, il tempo,
tutti elementi che rappresentano l’irruzione del mondo esterno; deve piuttosto
inscrivere l’oggetto in ciò che esso ha di durevole. Braque: «Non ho più
bisogno del sole, porto la mia luce con me».
Gli impressionisti trovavano le sorgenti della loro ispirazione là dove
vivevano, cioè per molti di loro vicino a Parigi, sulla riva del fiume, vicino
all’acqua, dove la luce varia. I cubisti abitano in città, e quando la
abbandonano scelgono villaggi del sud, dove i rilievi sono più duri di quelli
delle rive della Senna o di Auvers-sur-Oise. Baudelaire: «Il mezzogiorno è
brutale e positivo». E gli oppone il Nord, «sofferente e inquieto», che si
consola «con l’immaginazione».8 Derain scrive da Collioure a Vlaminck: «Da
tutte le parti la luce fa sentire il suo immenso clamore di vittoria. Non è come
quelle nebbie del Nord, così pronte a provare compassione per il tuo
dolore».9
Come definire meglio l’opposizione tra antichi e moderni?
I cubisti integrano nelle loro opere elementi della vita quotidiana che,
secondo loro, giocano un ruolo nella percezione artistica: gli alberi, le case,
gli strumenti musicali, le insegne dei negozi, i manifesti pubblicitari, i
giornali, gli oggetti quotidiani. I collage permettono di opporre le materie, le
strutture, i colori, per metterli insieme in giustapposizioni eterodosse che
fanno sembrare diversi gli oggetti usuali – così come i violini e le chitarre di
Picasso, specialmente Le Violon (1913), composto di carta incollata intorno a
una scatola di cartone.
I cubisti utilizzano materiali semplici, addirittura grossolani, che si
oppongono a una visione preziosa dell’arte: non vi sono gioielli, stoffe
eleganti, ma sabbia, carta, legno. Si trovano ai margini di un secolo in cui la
scienza ha molto da dire. È l’epoca della radioattività, della bachelite, del
neon, del cinematografo e della relatività di Einstein. I cubisti sono
risolutamente moderni. Voltano la spalle al romanticismo.
I fauves, da parte loro, erano andati molto lontano nella ricerca sul colore:
sdoppiandolo dalla realtà visibile, l’avevano piegato al solo sguardo del
pensiero. Come dirà Fernand Léger, che approderà al cubismo nella sua
ultima tappa, bisogna ormai occuparsi della composizione e dello spazio.

139
Picasso: «Eravamo alla ricerca di una base architettonica nella composizione,
di una austerità capace di reinstaurare l’ordine».

140
Capicordata

Che cos’è l’arte pura secondo la concezione


moderna? È creare una magia suggestiva che
contenga contemporaneamente l’oggetto e il
soggetto, il mondo esterno all’artista e l’artista
stesso.
Charles Baudelaire

Dopo un primo periodo chiamato precubista o cézanniano, segnato dalla


deformazione dei corpi e degli oggetti, Braque e Picasso si orientano verso
una nuova strada: il cubismo analitico, al cuore del loro impegno. Piuttosto
che utilizzare il chiaroscuro, inganno che si fonda su un’illusione, tentano di
esprimere la terza dimensione dell’oggetto – profondità e volume –
rappresentandolo da diversi punti di vista, secondo piani sovrapposti. Perché
questi oggetti siano facilmente identificabili, li scelgono nella vita quotidiana.
Questa momento è segnato dalla monocromia, grigi e ocre, e dall’austerità.
I due pittori fondano le loro ricerche su un lavoro di costruzione,
elaborando sculture in carta, ferro e cartone. Replicano così direttamente a
Baudelaire che vedeva nella scultura, eccetto la scultura «dell’epoca
selvaggia», un’arte di second’ordine, o «complementare». È come se
prendessero in senso contrario il punto di vista del poeta, liberando un
positivo da un negativo. Che cosa rimprovera Baudelaire alla scultura? Di
non autorizzare il punto di vista unico, di obbligare lo spettatore a girarle
intorno per scoprirne la ricchezza (se c’è): di mostrare «troppe facce
contemporaneamente».1
Quella che secondo Baudelaire è una debolezza, costituisce agli occhi di
Braque e di Picasso una ricchezza. Partono quindi dalle loro costruzioni
«leggere» e tentano di tradurre sulla tela i risultati ottenuti. Così vanno dalla
scultura alla pittura, o ancora dalla pittura alla scultura, in un lavoro di
andata-ritorno da cui nasceranno, per esempio, la Tête de Fernande (1909),
scolpita da Picasso a partire dai ritratti della donna dipinti a Horta de Ebro, o,

141
nel 1912, la serie delle chitarre, basata su un modello tridimensionale in
cartone.
Il problema, in queste rappresentazioni che si vorrebbero totali, è che
scompare ogni punto di riferimento.
Il Portrait de Daniel-Henry Kahnweiler (1910), capolavoro del cubismo
analitico, fu eseguito in due tempi, dopo numerose sedute di posa. La prima
stesura non aveva soddisfatto Picasso, poiché il quadro gli sembrava
incomprensibile. Allora vi aveva aggiunto quelli che chiamava «attributi»,
riferimenti e segni grazie ai quali l’occhio potesse appoggiarsi: l’ombra di un
orecchio, il profilo del naso, un frammento di cravatta, l’abbozzo di una
capigliatura, le mani incrociate...
Ed è precisamente per ridare una chiarezza alle loro opere che i due pittori
arriveranno a una nuova maniera nel loro lavoro, il cubismo sintetico. Questa
volta si tratta di introdurre nel quadro un dettaglio, un segno che permetta di
identificare l’oggetto, restituendo così allo spettatore gli indizi che prima gli
erano stati tolti. È il chiodo che Braque dipinge in trompe-l’oeil in Broc et
cruche (1910), i caratteri di stampa, i collage e i frammenti di materia che
appariranno presto in Gris e Picasso, poco prima che questi utilizzi lo smalto
Ripolin. La ricerca consiste anche nel rendere con la pittura, per mezzo dei
collage di carta sulla tela, il rilievo e il volume degli oggetti (come le
chitarre).
L’invenzione del cubismo da parte di Braque e Picasso costituisce dunque
un’opera comune fondata su analoghe preoccupazioni e ricerche parallele.
Questa eccezionale complementarietà non ha equivalente nella storia
dell’arte.
Chi ha fatto che cosa?
Questa domanda, un po’ vana, non si giustifica se non per rendere a
Cesare quel che è di Cesare, e a Braque quello che gli ha tolto la notorietà di
Picasso.
L’impronta di Cézanne è Braque, più profondamente.
Ma quella del primitivismo è Picasso. Se Picasso ha «cézannizato» il suo
primitivismo, è stato sotto l’influenza di Braque.
La prima opera qualificata come cubista è di Braque. Ma quella di cui si è
detto che apriva la strada è di Picasso.
La prima tela cubista esposta in un salone ufficiale, il Salon des
Indépendants del 1908, è di Braque. Fernande Olivier ha sostenuto che
Braque si era ispirato a un’opera di Picasso (Les Trois Femmes, 1908), e che
lo spagnolo era furioso con il compagno. Ma Apollinaire non ne fa parola, e

142
Max Jacob afferma il contrario: Picasso, che non esponeva mai nelle
manifestazioni ufficiali (non si fidava dell’imbecillità della critica e degli
scandali che alimentava), avrebbe spinto Braque a esporre.
Nel 1912 Braque entra in un negozio di chincaglieria e compera un rotolo
di carta imitazione legno. Ne incolla un pezzo su una tela (Compotier et
verre, 1912). Così inventa il collage. Picasso ci arriverà a sua volta,
realizzando il primo collage con un pezzo di tela cerata (Nature morte à la
chaise cannée, 1912).
Nel 1911, a Céret, nel Portugais, Braque aveva utilizzato il trompe-l’oeil, le
sagome con le lettere e i numeri, per rappresentare un musicista visto
dall’altra parte di una vetrina di caffè, sulla quale quelle lettere e quei numeri
erano stampati. Un anno dopo, Picasso, nel Violon, inserisce una partitura
sulla quale appaiono due parole: Jolie éva (in omaggio al suo nuovo amore).
In precedenza aveva dipinto su telai ovali, riprendendo un’idea di Braque.
Nel 1912 Braque usa cenere e sabbia mescolate all’olio. Picasso lo farà
qualche mese più tardi.
Nell’autunno del 1912 Picasso realizza una scultura in cartone, La Guitare,
ispirata alle costruzioni cubiste in carta elaborate da Braque alla fine
dell’anno precedente.
Dunque?
Allora potremmo dare ragione a Pierre Cabanne quando, a proposito di
Picasso (che era d’accordo), parla di «scienza del furto legittimo».2
Oppure a Nino Frank, molto più severo:
Picasso è sicuramente uno degli eroi del nostro tempo e il suo più ammirevole artista,
preda da sempre di quel sacro egoismo che lo fa approfittare di tutto e di tutti,
prendendo ciò che serve in tutte le tasche, sfruttando amicizie e amori, ficcando tutto
alla rinfusa nel suo lavoro. Qualcuno ha sostenuto che Picasso sia stato il macrò
dell’epoca, e un po’ è vero.3

Oppure si potrebbe concordare con Jean Cocteau, che durante la guerra


saprà forzare così bene la porta del suo adorato Picasso, che questi lo porterà
con sé negli studi di Montparnasse, i cui battenti si aprivano solo a metà:
appena sapevano che Picasso stava arrivando, gli artisti correvano a
nascondere le loro opere.
Mi porterà via il mio modo di dipingere gli alberi, diceva uno, e l’altro: mi porterà
via il sifone, sono stato io a dipingerlo per primo; si dava un’enorme importanza a
ogni minimo dettaglio, e se i colleghi temevano le visite di Picasso è perché sapevano

143
che il suo occhio avrebbe visto tutto, ingoiato tutto, digerito tutto, e restituito tutto
nei suoi quadri con una ricchezza di cui essi erano incapaci.4

Possiamo ascoltare Picasso stesso spiegare, molto tempo dopo l’epoca


cubista, che durante tutti quegli anni Braque e lui si vedevano ogni giorno
(con grande rabbia di Max Jacob e Gertrude Stein, entrambi gelosi di una
complicità artistica da cui erano esclusi). Prima a Montmartre, poi a Céret, a
Sorgues e a Montparnasse. Giudicavano e si criticavano. Braque ha parlato di
una complicità paragonabile a «una cordata in montagna». Certamente uno
era più ispirato dai paesaggi e dalle nature morte, mentre l’altro passava senza
difficoltà dall’oggetto al ritratto. Ma volevano elaborare un’arte collettiva,
anonima, e le loro opere erano quasi fatte in comune. Al punto che quelle del
periodo analitico si distinguevano appena le une dalle altre. La maggior parte
non erano firmate, e se mai lo furono più tardi. A questo proposito
Kahnweiler, a volte smentisce, a volte conferma. Nota5 che tra il 1908 e il
1914 i due pittori firmavano dietro le tele e vede in questa pratica il desiderio,
comune ad altri artisti, di non rompere la geometria del dipinto affermando la
sua origine. Ma altrove6 si avvicina a Picasso riconoscendo, a lui e a Braque,
un’intenzione di «esecuzione impersonale».
Questa intenzione, che stava evidentemente a cuore ai due artisti, non è
stata condivisa con nessun altro: l’hanno rivendicata per loro e solo per loro.
Vedevano di buon occhio solo Derain (in parte) e Gris (soprattutto). Non
Léger, che pensava di essere uno dei fondatori del cubismo (ruolo che gli era
riconosciuto da Kahnweiler).
Derain era stato uno dei primi pittori a interessarsi all’arte negra. Era anche
un grande ammiratore di Cézanne. Dopo un soggiorno all’Estaque, aveva
dimostrato che, indipendentemente dai colori, le forme e la composizione
erano fondamentali nella rappresentazione della natura. Nelle sue
Baigneuses, esposte al Salon des Indépendants del 1907, si affermava la
geometrizzazione delle linee, a cui probabilmente si era ispirato Picasso per
cancellare le rotondità della prima versione delle Demoiselles d’Avignon.
Derain, elemento essenziale nella nascita del cubismo, ha poi ceduto il passo
ai due inventori del collage.
Gris, più intellettuale, più «scientifico» di Braque e di Picasso, aveva
lavorato sul collage e sul trompe-l’oeil parallelamente a loro. Diceva:
«Cézanne parte da una bottiglia per arrivare a un cilindro, io parto da un
cilindro per arrivare a una bottiglia». Al Salon des Indépendants del 1912
espone il suo Hommage à Picasso (1912) in onore di colui che considerava il

144
capofila dei cubisti. Dopo la dichiarazione di guerra, poiché i suoi padri
fondatori non lavorano più insieme, diventa l’araldo del cubismo ortodosso.

La guerra separa Braque e Picasso. Molti anni dopo, Picasso confiderà a


Kahnweiler che l’ultima volta che aveva visto Braque e Derain era stato il 2
agosto 1914, il giorno in cui li aveva accompagnati alla stazione di Avignone.
Si trattava certamente di un’immagine, ma con un senso: dopo, niente era più
stato come prima.
Braque, sottotenente al fronte, è ferito a Neuville-Saint Vaast, poi trapanato
al cranio. Picasso potrà vantarsi soltanto di un grado gentilmente conferitogli
da Apollinaire, ripreso poi per scherzo da Derain: generale del cubismo.
Braque e Picasso si rivedranno solo episodicamente. La cordata si era
spezzata. Un po’ come quelle forme esplose che avevano inventato insieme e
che, così disarticolate, squinternate e sconvolte, sembravano anticipare la
figura di una guerra che avrebbe polverizzato il mondo.
Con il passare degli anni, Braque tratta freddamente il suo antico
compagno. Picasso va su tutte le furie: non capisce la ragione di questo
comportamento.
Contrariamente a Max Jacob, Braque sa difendersi, e non si lascia
invischiare nelle manovre, a volte meschine, sempre sgradevoli, che Picasso
metteva in atto con chi gli era legato.
Picasso afferma che nessuno gli aveva voluto bene come Braque, che era
stato una specie di Madame Picasso. Per tornare all’antica condizione, Braque
pretendeva un rapporto alla pari. Se bisognava giocare, bisognava essere in
due. Negli anni Cinquanta, ne fece una clamorosa dimostrazione sotto lo
sguardo di Françoise Gilot.
Picasso si era autoinvitato da Braque, che abitava allora vicino al Parc
Montsouris, in una casa straordinaria costruita dall’architetto Auguste Perret.
Braque si era comportato piuttosto freddamente, soprattutto con Françoise
Gilot. Picasso c’era rimasto male. Tanto più che l’amico non li aveva neanche
invitati a colazione. Rientrato a casa, in rue des Grands-Augustins, Picasso
aveva tolto dal muro un quadro di Braque che stava lì da tempo.
Qualche settimana dopo, aveva deciso di tornare da Braque con la sua
amica. Voleva mettere alla prova i sentimenti di Braque nei suoi confronti:
sarebbero arrivati qualche minuto prima dell’ora di pranzo. Se Braque non li
avesse invitati, avrebbe saputo come comportarsi e avrebbe definitivamente
rotto.
Picasso e Françoise Gilot si presentano davanti alla casa di Braque poco

145
prima di mezzogiorno. Il padrone li fa entrare. Picasso annusa il delizioso
profumo di un arrosto quasi pronto, e si aspetta che Braque faccia aggiungere
due posti a tavola. «Ma», nota Françoise Gilot, «se Pablo conosceva a
memoria il suo Braque, Braque conosceva ancora meglio il suo Picasso».7
Braque sa che se lo invita a colazione, Picasso vincerà il braccio di ferro e
riderà della sua debolezza.
Entrano nell’atelier. Per un’ora Braque mostra le sue ultime opere. Il
profumo dell’arrosto arriva fin lì. Picasso è felice all’idea di vincere il duello.
Braque ancora di più.
Propone a Picasso e a Françoise Gilot di mostrare loro qualche scultura.
Picasso fa notare che la carne dovrebbe essere pronta. Braque non risponde e
suggerisce di vedere alcune litografie. Sono quasi le due. Picasso si agita.
Dice a Braque che Françoise non conosce i suoi dipinti fauves.
«Non sia mai», risponde Braque.
Braque ha capito il gioco di Picasso, i dipinti fauves sono nella sala da
pranzo.
Scendono. In tavola ci sono tre coperti, non uno di più.
Passa una mezz’ora, l’invito non è ancora stato proposto. Picasso si
intestardisce: per prolungare il tempo, prega l’ospite di mostrare loro di
nuovo le tele già viste. Braque acconsente, in tutta calma. Rimangono un’ora
al primo piano, poi un’ora nell’atelier. Alle quattro e mezza il profumo
dell’arrosto è svanito, è già l’ora della merenda. Picasso se ne va. È allo
stesso tempo in preda alla collera e all’ammirazione. Come conclusione di
questa passeggiata digestiva, Picasso riappende di nuovo al muro del suo
studio la tela di Braque.
I due pittori si amavano e si rispettavano, ma erano diventati rivali. La
rivalità era aggravata dalla gelosia quasi congenita di Picasso. Come
Fernande Olivier (ma con più ironia e di distacco), Françoise Gilot ne ha
dato testimonianza. Racconta la rabbia di Picasso quando scopre che
Reverdy, dopo avere pubblicato un’opera illustrata da lui, ne pubblica una
seconda illustrata da Braque. E la collera che lo prende quando viene a sapere
che lo stesso Reverdy passa più tempo da Braque che non da lui. O ancora, il
giorno in cui va da Braque e vi trova René Char che da molte settimane non
si era visto in rue des Grands Augustins.
Quando Braque muore, Picasso gli rende omaggio con una litografia. Ci
scrive: «Ancora oggi posso dire ti voglio bene». Qualcuno ne resta sorpreso,
ricordando la sua battuta di una volta: «Braque ha voluto dipingere le mele,
come Cézanne, e non ha mai saputo dipingere altro che patate». O quelli che,

146
come Sonia Delaunay, ricordano le insopportabili maldicenze pronunciate da
Picasso nei confronti del suo vecchio compagno.
Anche quando era morto Juan Gris, le sue lacrime erano parse
sorprendenti. Picasso aveva qualcosa del coccodrillo.

147
I «cubisteurs»

Si potrebbe forse credere che io sia contro il


cubismo per partito preso. Assolutamente no:
preferisco tutte le eccentricità di uno spirito anche
banale alle opere piatte di un borghese imbecille.
Arthur Cravan

Nel 1912 la galleria La Boétie, a Parigi, espone quasi duecento quadri


definiti cubisti. Due anni prima i pittori presenti, che si riunivano nei loro
atelier, specialmente a Puteaux, da Jacques Villon, avevano fondato la
Section d’Or. Nel 1911, al Salon des Indépendants, sala 41, era stata
organizzata la prima esposizione collettiva cubista. Erano presenti Delaunay,
Gleizes, Léger, Metzinger, Jacques Villon, Marcel Duchamp, Kupka, Picabia,
Lhôte, Segonzac, Archipenko, Roger de La Fresnaye e Le Fauconnier.
Ma non c’erano né Braque né Picasso.
Loro espongono soltanto nella galleria di Kahnweiler o in quella di Uhde.
Questo rifiuto ostinato di mescolarsi a coloro che rivendicano ad alta voce un
titolo che dovrebbe andare loro di diritto segna il disprezzo che provano per
quelli che Braque chiama i «cubisteurs». Picasso, ancora più esplicito, non
esita ad affermare: «Non esiste, il cubismo».1 Tanto provocatorio quanto la
frase che doveva pronunciare negli anni Venti: «L’arte negra? Non la
conosco...», che traduce, oltre al desiderio di distinguersi, il suo disgusto per
le scuole e le teorie.
È sostenuto in questo dai suoi adoratori.
Reverdy, lo si è visto, esclude l’influenza di Cézanne, di Ingres e dell’arte
negra nell’opera del maestro. Durante la guerra, invitato da Léonce
Rosenberg da Lapérouse, arriverà a battersi con uno dei difensori dell’«altro
clan», al punto che Max Jacob suggerirà di creare due gruppi: quello di
Braque, Gris, Picasso, Reverdy, e quello di Lhôte, Metzinger e i loro amici.
Cocteau è ancora più esclusivo:
Quando parlo di cubismo, chiedo che non si legga mai: Picasso. Un quadro di

148
Picasso non potrebbe essere cubista, più di quanto un dramma di Shakespeare possa
essere shakespeariano.2

Robert Desnos è più severo con i «cubisteurs», ma più sottile nei confronti
di Picasso:
Mentre tanti pittori si sono rinchiusi nella sterile formula del cubismo, felici di avere
finalmente trovato un modo per velare la loro impotenza con l’illeggibilità, Picasso
non ha mai saputo che cosa fosse una formula. Picasso crea così come sente.3

Braque e Picasso pensano che i pittori della Section d’Or non hanno fatto
altro che aggiungere alle loro opere qualche forma geometrica, ma che questa
aggiunta non c’entra con il loro modo di lavorare. Non danno retta a chi
vuole fare intendere che il cubismo sia stato influenzato da Bergson (che pure
lo escluderà). O ancora a coloro che dicono che il cubismo deriva dalla
matematica. Si beffano delle esegesi semplicistiche che tenderebbero a
provare che le ricerche dei cubisti si fondano sui lavori di vari scienziati,
specialmente di Princet, il matematico che lavorava in una compagnia di
assicurazioni e che frequentava la banda del Bateau-Lavoir.
Se Princet si diverte a tracciare figure geometriche che mirano a dimostrare
le relazioni di causa-effetto tra il compasso e il pennello, questo riguarda i
pittori della Section d’Or. Non certo Braque né Picasso. A loro le storie della
terza, della quarta o della quinta dimensione non interessano. Non hanno mai
fatto ricorso a leggi matematiche o geometriche che potessero renderli
dipendenti da un sistema. Per loro non esiste alcuna teoria del cubismo.
Gleizes, Metzinger e Raynal (tra gli altri) coltivano altre terre.
Picasso, come sempre, ha lanciato il sasso nello stagno e se n’è andato.
Quando la superficie si increspa, lui è già altrove. Lontano dagli altri.
Lo stesso per Braque, che molto più tardi confiderà a Jean Paulhan: «È da
molto tempo che me la sono battuta: non sarò certo io a fare dei Braque su
misura».4
Quando lo scandalo del cubismo è al massimo, i due fondatori dell’arte
nuova lasciano a combattere sul campo i loro alleati. Specialmente Max Jacob
che, contrariamente ad altri, si considera un oracolo di fronte agli anatemi, al
rumore e al furore. A chi si trova disorientato davanti a un’opera cubista, dà
quattro consigli:
1° Arrivate davanti al quadro senza partito preso dimenticando i facili sarcasmi.
2° Guardate la pittura come si guarda una pietra tagliata. Apprezzatene le

149
sfaccettature, l’originalità del taglio, il suo gioco con la luce, la disposizione delle
linee e dei colori (...)
3° Tenersi a un dettaglio che dia la chiave dell’insieme, fissarlo per un po’ e il
modello apparirà.
4° Su quest’ultimo paragone lasciatevi trasportare verso le regioni dell’Allusione
potente e squisita.5

Anche Max Jacob si considera cubista. Cubista letterario (come Reverdy).


A un’opera già irsuta, complessa, straordinariamente ricca, inclassificabile,
fatta di poemi in prosa, stralci di conversazioni ascoltate qua e là, giochi di
parole, ginnastica di uno spirito molto agile, Jacob aggiunge la corda cubista:
Il cubismo in pittura è l’arte di lavorare il quadro in se stesso al di fuori di ciò che
esso rappresenta, e di dare il primo posto alla costruzione geometrica, procedendo
per allusioni alla vita reale. Il cubismo letterario fa lo stesso in letteratura,
servendosi della realtà come di un mezzo e non come di un fine.6

I benpensanti, comunque, non capiscono Le Cornet à Dés più di quanto


non abbiano capito l’Estaque, le bagnanti, le chitarre e gli altri strumenti di
una musica troppo atonale per i loro gusti. Per loro il cubismo è un attacco
portato al naturalismo, un attacco che viene dall’estero. Nel mirino c’è l’Italia
che vuole silurare l’arte francese con i suoi sottomarini futuristi. E la
Germania, che delega le sue artiglierie a Wilhelm Uhde e a Daniel-Henry
Kahnweiler, i mercanti dei cubisti. Senza contare la Russia, che danza sulle
nostre tradizioni – Debussy! Ravel! – grazie alla spia Diaghilev e ai suoi
balletti.
Nel 1912 un deputato socialista insorge contro il fatto che questa pittura
venuta dall’estero sia esposta nei musei nazionali. Si parla di «Kubismo», di
arte «boche». Allo scoppio della guerra, il furore aumenta.
Ci si mette anche la medicina. Dopo lunghe riflessioni il dottor Artault di
Vevey, chiamato in causa da Guillaume Apollinaire, spiega il cubismo come
lo sfruttamento di un fenomeno patologico:
In effetti è sufficiente osservare con gli occhi semichiusi un quadro cubista per
ritrovarvi, in mezzo agli zigzag e alle luci decrescenti, le deformazioni e le forme
sfuocate degli oggetti caratteristiche delle irizzazioni monocrome e saltellanti di
quella patologia che chiamiamo scotoma scintillante, sintomo evidente
dell’emicrania oftalmica.7

Per la medicina, dunque, Braque, Picasso e compagni soffrono di

150
emicrania. Modo asettico di esprimere il parere medico e l’opinione comune:
hanno battuto la testa.
Anche Léon-Paul Fargue, che ammirava Lautréamont e amava Jarry, non
capisce questa pittura che secondo lui soffre di una crisi di «intellettualismo».
Si batte per un ritorno al grande impressionismo e butta gli artisti cubisti nella
spazzatura dell’arte:
Siete pittori da luogo pubblico – da ristorante vegetariano. Siete istruiti a metà, avete
«la testa troppo debole per l’istruzione». Andate in battaglia soltanto con le vostre
idee da caserma, le vostre idee da scuola, le vostre sagge idee rivoluzionarie, che non
sanno nemmeno di petrolio, ma di pipa spenta, di acido, di tovagliolo umido, di
senape vecchia, come le sale dei banchetti letterari.8

Le frecciate arrivano anche da personaggi che si sarebbero potuti pensare


più aperti. Arthur Cravan, fedele all’immagine che vuole dare di sé, si
scatena.

Metzinger? Un fallito che si aggrappa al cubismo.9 Il suo colore ha l’accento tedesco.


Mi disgusta.
Marcoussis? Insincero. Come davanti a tutte le tele cubiste, si sente che ci dovrebbe
essere qualcosa. Ma cosa?
Gleizes? Nessun talento.
De Segonzac? Porcheriole.
Archipenko? Paccottiglia.10
E via dicendo.

Anche Montmartre entra in gioco. Dorgelès, allora giornalista al «Paris-


Journal», non sopporta questa demolizione del soggetto, della forma, del
colore. Vede i suoi migliori amici, Gleizes, Marcoussis, Delaunay (il
distruttore della Tour Eiffel), e Maurice Raynal (che chiama
l’«esthématicien»), impegnarsi in un lavoro che nega la tradizione, gli
impressionisti insieme ai «pompiers». La squadra sostituisce il pennello.
L’importante è farsi notare.
Sostenuto dall’amico André Warnod, Dorgelès decide di farsi sentire a sua
volta. Non c’è bisogno di scrivere testi assassini, di pronunciare scomuniche
con voce tonante: lo fanno già altri. Meglio provocare il ridicolo. Fare uno
scherzo di cui parli tutta la stampa.
Lancia un movimento: l’eccessivismo. E un pittore: Joachim-Raphaël
Boronali, futurista italiano, nato a Genova. Questo artista, di cui in effetti la
stampa comincerà a parlare, non assomiglia a nessun altro. È di colore grigio,

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a pelo lungo, cammina a quattro gambe e non parla: raglia. È l’asino del père
Frédé, Aliboron, anagrammato in Boronali.
Un mattino, Dorgelès va a cercare un ufficiale giudiziario in faubourg
Montmartre. Gli racconta il progetto e gli spiega che cosa vuole. Monsieur
Paul-Henry Brionne, specialista in pedinamenti coniugali e in constatazioni di
adulterio, non crede ai suoi occhi e alle sue orecchie. Ma si mette a ridere e
accetta.
Lo scrittore e l’ufficiale giudiziario salgono alla Butte dove li attende André
Warnod. Lui e Dorgelès fanno uscire Lolo dal Lapin Agile, gli attaccano alla
coda un pennello imbevuto di blu oltremare, mettono una tela bianca su uno
sgabello, collocato dietro il posteriore dell’asino. Lo coccolano, lo attirano
con le carote e la bestia, tutta contenta, agita la coda. Così lascia la sua prima
impronta di animale artista.
L’ufficiale giudiziario prende nota.
Gli amici spostano la tela per dare più vigore al lavoro in corso, e dato che
la monocromia non basta all’artista, cambiano tavolozza, intingendo in altri
barattoli il pennello fissato alla coda.
Dopo l’oltremare, il rosso, il cobalto, il cadmio e l’indaco. Quando l’asino
dà qualche segno di stanchezza, Berta gli offre il suo tabacco da masticare e
l’ufficiale giudiziario le sue sigarette. Poi Frédé canta Le temps des cerises e
l’asino comincia a battere il tempo. Quando si ferma definitivamente, il
dipinto dal titolo Et le Soleil s’endormit sur l’Adriatique si offre agli sguardi
meravigliati degli amanti dell’arte.
L’ufficiale giudiziario prende nota.
Dieci giorni dopo si apre il Salon des Indépendants. Et le Soleil
s’endormit sur l’Adriatique è esposto in buona posizione. Alcuni amici di
Dorgelès, messi a parte dello scherzo, fanno finta di entusiasmarsi davanti a
questa grande opera di un futurista italiano che nessuno ancora conosce ma
che, senza dubbio, farà strada, fino a raggiungere le vette dell’arte moderna:
«Ricordate questo nome: Joachim-Raphaël Boronali, grande maestro
dell’eccessivismo».
Se lo ricorderanno. Vanno in estasi. Criticano. Trovano che è un po’ fauve
per quanto riguarda il cielo, di forme vaghe, troppo impregnato della
personalità del pittore, enigmatico se non simbolico: che cosa rappresentano
queste tracce rosse al centro della tela: un naso, la luna, un divino Pierrot?
«Le Matin», «Comoedia», «La Lanterne», tutta la stampa ne parla. E ancora di
più quando Dorgelès arriva alla redazione del «Matin», sventolando le prove
dello scherzo. Stupore e incertezza, che durano solo qualche ora. Il giorno

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dopo, a grossi caratteri neri, sulla prima pagina del quotidiano, campeggiano
le parole che definiscono il cubismo così come viene considerato all’epoca:
Un asino caposcuola.

L’ufficiale giudiziario ha testimoniato.

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Guillaume Apollinaire prende l’ascensore

Felici coloro che sanno. Se fossi uno di loro, saprei


rifare i miei quadri.
George Braque

Lunedì 1° ottobre 1912: «vernissage» al Salon d’Automne. Monsieur


Frantz Jourdain, presidente della manifestazione, accoglie, sui gradini del
Grand Palais, il ministro dell’Istruzione. Dopo i complimenti d’uso,
l’onorevole assemblea percorre i corridoi e le sale.
Qualche giorno prima, scesi da Montmartre e da Montparnasse, i più ricchi
in carrozza, i più poveri spingendo le carrette su cui erano ammucchiati i loro
quadri, chiamandosi a voce alta, ridendo e cantando, gli artisti sono arrivati al
Grand Palais per appendere le opere accettate dalla giuria.
Le autorità prendono visione. Vanno in estasi davanti a Renoir, Degas,
Bonnard, Vuillard, Manet. Bisbigliano rispettosamente davanti a Fantin-
Latour e Maillol. Alzano impercettibilmente le sopracciglia, ma con tatto,
passando accanto ai vecchi rivoluzionari, ormai ammessi al museo, persino ai
posti d’onore: Matisse, Van Dongen, Friesz. Si stupiscono davanti al Portrait
de Cézanne fatto dal caro Pissarro. Alla fine entrano in una stanza più buia.
Un’oscenità bella e buona. Stringono il pince-nez, si tolgono il monocolo.
Mousieur Frantz Jourdain e i suoi vice-presidenti hanno dovuto per forza
ripescare alcune di quelle croste cubiste, dato che, spiega il notabile al signor
ministro dell’Istruzione, il Salon d’Automne rappresenta comunque l’arte
moderna. Non era possibile evitarli. Tanto più che due di loro, un certo
Albert Gleizes e un certo Jean Metzinger, hanno pubblicato un libro
sull’argomento: si intitola Du Cubisme e se ne parla molto sui giornali.
Coraggio, tagliamo la corda.
Non tutti sono d’accordo. Paul Fort, poeta, Claude Debussy, compositore,
Guillaume Apollinaire, giornalista, per esempio. Guardano, discutono. Un po’
in disparte sta Louis Vauxcelles, che fa la cronaca dell’avvenimento per «Gil
Blas», e che ha abbondantemente preso in giro Picabia, «il cubista raffinato»,
Léger «tubista», Picasso «Ubu-Kub», e molti altri, presi allegramente a

154
sciabolate per pagine e pagine.
Il nostro giudice in materia d’arte dà il braccio alla signora. Sta per lanciare
una delle sue tipiche frecciate quando due imbrattatele, sbucati da dietro le
geometrie di Dunoyer de Segonzac o di Roger de La Fresnaye, lo circondano,
lo insultano, lo buttano a terra tra le risate di Marcoussis, Metzinger, Picabia,
Lhôte, Le Fauconnier, Gleizes, Léger, Duchamp e Villon.
Si parla di scambio di biglietti, di armi e di testimoni.
La sera stessa, nell’«Intransigeant», Guillaume Apollinaire così racconta
l’accaduto:
Questa mattina ha avuto luogo un piccolo incidente. Alcuni pittori cubisti hanno
attaccato uno dei nostri colleghi, M. Vauxcelles, e l’hanno ricoperto di ingiurie. Ma
tutto si è limitato a uno scambio di parole forti.1

Due giorni dopo, nelle colonne dello stesso giornale, l’ingiuriatore


ingiuriato risponde al direttore:
Fatemi l’onore di credere che non è nel mio carattere lasciarmi ingiuriare
«abbondantemente» senza rispondere. Ho in effetti detto ai due screanzati giovanotti
che l’incidente avrebbe dovuto concludersi con un duello. Si sono subito rifiutati,
evidentemente perché i principi della morale cubista proibiscono loro di battersi.
Vi prego di pubblicare questa lettera, poiché sarei desolato di essere messo in cattiva
luce davanti ai vostri numerosi lettori.
Credetemi, il vostro devoto
Louis Vauxcelles
P.S. Ancora una parola. I due suddetti giovani avrebbero forse potuto attendere «per
attaccarmi» che io fossi solo. Madame Vauxcelles mi dava il braccio quando è
avvenuto l’incidente. Ora, è tra uomini che si devono regolare certe questioni.2

Il cubismo, come si vede, ha bisogno di avvocati. Il più energico di tutti è


Guillaume Apollinaire. Per lui la difesa del cubismo, attaccato ovunque,
diventa un combattimento, una missione. Si tratta anche di sostenere
un’avanguardia della quale sente di far parte come poeta. È da lì che prende
le mosse.
Apollinaire sa quel che deve al simbolismo, che ha liberato il verso dalle
costrizioni e dalle pesanti regole della prosodia. Ma si sente ancora più
moderno, vuole essere il grande difensore del verso libero. Come i pittori
cubisti, vuole coniugare la poesia con le cose della vita, con le novità, con le
figure e mettere sulla tavolozza i propri colori: una cultura sbalorditiva, una
incredibile fantasia.

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Nel 1913, per le edizioni del «Mercure de France», pubblica Alcools, una
raccolta di testi scritti tra il 1898 e il 1912. Un bouquet di fiori della sua
memoria e di immagini dell’attualità: Guillaume alla Santé, Guillaume che
soffre i mille mali d’amore, insonne e angosciato; ma anche gli hangar di
Port-Aviation, papa Pio X, i prospetti, i manifesti, le stenodattilografe,
l’aeroplano, le sirene. La punteggiatura è eliminata. Il ritmo lo dà il taglio dei
versi.
L’anno dopo Apollinaire comincia a scrivere i Calligrammes. Il gioco delle
lettere che formano figure non è nuovo. Ma come non vedere in queste
poesie-immagini l’applicazione di ciò che le parole contenevano già negli
Alcools e che le riproduzioni dei titoli dei giornali, i giochi tipografici, i
disegni integrati, le scale musicali, sottolineano e rinforzano: i collage cubisti?
La faccia letteraria delle invenzioni pittoriche? La parte più avanzata
dell’avanguardia? Un’invenzione generosa, proteiforme, le cui declinazioni
ritroveremo quindici anni dopo nel 42° parallelo di Dos Passos?
Quando difende la modernità degli altri, Apollinaire difende anche se
stesso. Partecipa a una rivoluzione dell’arte moderna di cui non è solo il
cronista compiacente. Pensa che deve impegnarsi per il nuovo linguaggio
come ci si impegnava nel 1789 per la rivoluzione. È un poeta. La sua arma è
la penna. È con la penna che si batte.
Tra il 1910 e il 1914 lavora a «L’Intransigeant». Salmon è al «Paris-
Journal» (firma con un pseudonimo, La Palette, e presto andrà al «Gil Blas»,
dove partirà all’assalto della fortezza Vauxcelles).
Agli occhi degli amici, Apollinaire è un poeta eccezionale, un amico
meraviglioso, ma un pessimo critico. Picasso non lo prende sul serio:
secondo lui «sente» più che non sappia. Per Braque non capisce niente,
confonde Rubens con Rembrandt. Vlaminck ironizza sulla «sua
incompetenza e la sua verve di fantasista». Altri ancora, come Juan Gris, si
divertono a scoprire scritta dal giornalista un’idea formulata da loro in
risposta a una sua domanda.
Lo si utilizza quando si tratta di dare battaglia: Guillaume adora ogni
novità, e si precipita quando c’è qualche porta da sfondare, è il cantore delle
avanguardie, pronto a mettere in cantina cose ancora del tutto valide.
L’impressionismo, per esempio. Nella prefazione al catalogo dell’esposizione
di Braque (1908), dopo aver parlato di «qualche maestro splendidamente
dotato» (che non cita), suona la carica: «L’ignoranza e la frenesia, ecco le
caratteristiche dell’impressionismo»; l’impressionismo «non è stato che un
momento poveramente religioso delle arti plastiche»; gli impressionisti hanno

156
tentato di «esprimere febbrilmente, affrettatamente, irragionevolmente, il loro
stupore davanti alla natura».
È febbrile, affrettato e irragionevole. Quanto a Braque, di cui dopo tutto
deve parlare, dato che Kahnweiler lo celebra dopo che i Salon ufficiali gli
hanno chiuso le loro porte, «esprime una bellezza piena di tenerezza e la
madreperla dei suoi quadri illumina e rende iridescente il nostro sapere».
Poesia più che critica. Frasi che attraversano la pittura senza coglierne sempre
le rotture, parole scintillanti come una tavolozza in versi, immagini,
un’immensa buona volontà, una mancanza di analisi a volte sconcertante.
In questa presentazione delle opere di Braque rifiutate al Salon d’Automne,
Apollinaire si felicita che il successo abbia ricompensato Picasso, Matisse,
Derain, Vlaminck e qualche altro, e deplora il fatto che non abbia ancora
toccato Vallotton, Odilon Redon, Braque e... Marie Laurencin. Se lei è
(ancora) la sua musa, lui è il suo trovatore. La canta ovunque, su tutti i toni.
Nel 1908, nei Peintres nouveaux: «Mlle Laurencin ha saputo esprimere,
nella grande arte della pittura, un’estetica interamente femminile».
Stesso anno, sull’«Intransigeant», dove Apollinaire tiene una rubrica, La
Vie Artistique: «Non trovo le parole per definire la grazia tutta francese di
Marie Laurencin».
Nel 1909, a proposito del Salon des Indépendants: «Marie Laurencin
apporta all’arte una grazia forte e precisa del tutto nuova».
Al Salon d’Automne del 1910, in cui Marie è stata rifiutata: «Notiamo che
artisti importanti come André Derain, Marie Laurencin, Puy, ecc., non hanno
esposto».
Nel 1911: «Il clou del Salon avrebbe potuto essere la sala dei cubisti, se
fossero stati esposti tutti, se non mancassero Delaunay e Marie Laurencin».
Poco dopo, il critico rimpiange ugualmente l’assenza di Picasso, Derain,
Braque e Dufy; nessuno, a parte lui, si sognerebbe di associare Marie
Laurencin, che si dedicava alla pittura su porcellana e le cui opere evocavano
pastelli un po’ troppo gonfi, a quei quattro!
Ci sono pittori, peraltro, che a Guillaume non piacciono. Forse perché non
piacciono neanche a Picasso, forse perché questi artisti non partecipano
all’arte nuova e scandalosa. Van Dongen, che preferisce la geometria rotonda
delle perle alle linee spezzate delle figure cubiste, viene strapazzato su
«L’Intransigeant».
1910: «I quadri di Monsieur Van Dongen sono l’espressione di ciò che i
borghesi malati di enterite oggi chiamano audacia».
Qualche mese dopo, «Van Dongen fa progressi nella banalità».

157
Nel 1911, non è che «un vecchio fauve» che espone «cose simili a
manifesti». Due anni dopo i suoi quadri sembrano al critico «i più inutili del
mondo».
Una frecciata, di passaggio, a Vlaminck: «Si rovina il temperamento
dipingendo biglietti da visita». Una cattiveria per Matisse (1907), dietro la
quale si indovina l’ombra di Picasso: «Henri Matisse non innova: rinnova».
Presto ritornerà l’ora dei complimenti. Apollinaire, allora, contribuirà a
rafforzare la fama definitiva di Matisse.
Quando si tratta di Picasso, è semplice. Apollinaire non lo criticherà mai.
Quando non gli piace, se non gli piace, preferisce non scriverne. Così, dopo
Les Demoiselles d’Avignon: come Braque, Derain, e qualcun altro che ha
visto la tela al Bateau-Lavoir, non ha apprezzato senza dubbio l’opera; o
perlomeno, la sua novità lo ha paralizzato. Ma, a partire dal 1910, batte la
grancassa. Ha ritrovato l’energia necessaria per consacrare l’amico e per
elevarlo al posto che, ai suoi occhi, gli spetta di diritto: il più alto.
In «Poésie», una rivista pubblicata nel sud-ovest, parla del Salon
d’Automne usando per la prima volta la parola «cubismo» e criticando la
«metafisica plastica» che i giornalisti hanno scoperto tra gli espositori, tra i
quali Jean Metzinger; secondo lui si tratta di «una piatta imitazione senza
forza di opere non esposte e dipinte da un artista dotato di una forte
personalità – e che, inoltre, non ha rivelato a nessuno i suoi segreti. Questo
grande artista si chiama Pablo Picasso». Nello stesso articolo, precisa il
proprio pensiero: «Il cubismo del Salon d’Automne sembrava una ghiandaia
che sfoggiasse le piume del pavone».
Il pavone è d’accordo, naturalmente. Ma non gli altri. In risposta agli
articoli comparsi sull’«Intransigeant», la redazione riceve ben presto le
lamentele sempre più numerose dei pittori vittime degli articoli di
Apollinaire, e risponde con rettifiche che feriscono il critico, il quale invia i
suoi padrini. La direzione finisce per spostare la cronaca nelle pagine
secondarie. Apollinaire lascia «L’Intransigeant» per «Paris-Journal».

Apollinaire non era Baudelaire, e Picasso non era il suo Delacroix.


Sessant’anni dopo i Salon del suo illustre antenato, non c’è dubbio che
Apollinaire si proponesse di sostenere il ruolo di critico soggettivo e
appassionato, non didascalico ma ludico rivendicato dall’autore delle Fleurs
du Mal. Purtroppo il fatto è che non riesce mai a scendere in profondità. E
non riesce certo ad arrivare alla finezza di analisi di pagine come quelle della
Madeleine dans le Désert o delle Dernières Paroles de Marc Aurèle3 o,

158
ancora, dell’Eugène Delacroix,4 scritte da Baudelaire nel 1845 e nel 1846.
Apollinaire ha le sue opinioni, certo, ma troppo spesso gli piace che siano
condivise: non tanto dai suoi lettori, il che sarebbe ragionevole, ma da coloro
che ha vicino. Gli capita di cambiare idea in funzione del gusto dei suoi
amici, oppure, cosa ancora più grave, secondo l’andamento dei suoi rapporti
con loro. In poche parole: Apollinaire si dà tutto all’amicizia. E questo gli
crea altri problemi.
Nel 1911, quando i pittori cubisti si trovano riuniti per la prima esposizione
collettiva nella sala 41 del Salon des Indépendants, Apollinaire parte in
quarta. Prende la difesa dei «cubisteurs». E così contribuisce a dar vita a un
movimento che secondo Braque e Picasso non esiste. Apollinaire ammette il
ruolo preponderante di Picasso nel processo di creazione, lo ricorda
continuamente nei suoi scritti, ma poi contraddicendo l’opinione sua e di
Braque – e di Kahnweiler – proclama che il cubismo è una scuola, formata
da Braque, Gris, Gleizes e, beninteso (ma lo sostiene solo in certi articoli),
dall’immancabile Marie Laurencin. Senza dimenticare Metzinger, Lhôte,
Delaunay, Archipenko, Le Fauconnier, Dunoyer de Segonzac, Luc-Albert
Moreau e Fernand Léger – tutti lodati, fino allo scoppio della guerra, con
maggiore o minore entusiasmo.
Apollinaire non sa più che cosa fare. Ama troppo intensamente, dà troppo
di sé, non è capace di fare distinzioni. È diviso tra l’amicizia per Picasso,
quella per la coppia Delaunay (che detesta lo spagnolo), la riconoscenza
verso Picabia che, più ricco di tutti i suoi compagni di fortuna e di sfortuna,
gli finanzia la pubblicazione delle Méditations esthétiques. E quando, per
compiacere Picasso, Braque e Kahnweiler, si decide a gettare a mare la
zavorra, sforzandosi di prendere le distanze da quella che ormai anche a lui
appare come una visione schematica, è troppo tardi: il male (o il bene, per
qualcuno) è fatto. Apollinaire ha difeso così abilmente la pittura nuova che
questa appare tutta organizzata in un movimento, in una scuola. Al punto che
molti, come Vlaminck e Carco, finiranno per chiedersi che cosa ne sarebbe
stato del cubismo senza Guillaume Apollinaire.

159
Il poeta e il mercante

L’arte è figlia del proprio tempo.


Wassily Kandinsky

Il cubismo senza Apollinaire? È una domanda che Daniel-Henry


Kahnweiler non si pone. Non scrive sui giornali ma sa anche lui come
difenderli, i suoi pittori. È il mercante dei cubisti così come i Bernheim lo
sono di Matisse, come Durand-Ruel è stato quello degli impressionisti e
Vollard quello di Cézanne, di Gauguin e dei Nabis.
A ventitré anni, Kahnweiler ha aperto una galleria in una vecchia bottega
che era appartenuta a un sarto polacco, in rue Vignon (vicino all’Opéra).
Soltanto sedici metri quadrati. Ma Kahnweiler può contare su
venticinquemila franchi in oro ricevuti dai suoi – una famiglia di finanzieri
tedeschi. Una scommessa rischiosa: ha un anno di tempo per dimostrare quel
che vale. Se fallirà nel commercio dei quadri, ritornerà al lavoro in banca.
Kahnweiler ha successo. Al Salon des Indépendants compra quadri di
Derain e di Vlaminck. Poi si occupa di Van Dongen e di Braque. Nel 1907 –
Wilhelm Uhde gli ha parlato delle Demoiselles d’Avignon – va al Bateau-
Lavoir e incontra Picasso. Diversamente da tanti, rimane affascinato dal
grande dipinto. Lo capisce subito: è una vera rivoluzione, nella storia
dell’arte. Vuole comprarlo, ma Picasso non glielo vende, con il pretesto che
non è finito. Kahnweiler deve accontentarsi dei disegni preparatori. Ma
ritorna. E quando Vollard esce di scena, ne prende il posto.
Fernande Olivier dirà di lui che era testardo e coraggioso. Uno che non
mollava finché non aveva ottenuto ciò che voleva.
Evidentemente Kahnweiler applica un suo metodo, perché si comporterà
allo stesso modo quarant’anni dopo. Si autoinvita da Picasso. Sta lì, non si
muove. Picasso cerca di provocarlo. Rimproveri, sgarberie. Lui si difende
con calma, o annuisce benevolmente. Capita anche che si diano a discussioni
filosofiche. E Kahnweiler sta bene attento a non avere la meglio. Una vittoria
nel campo della teoria avrebbe come conseguenza una sconfitta nella
battaglia commerciale. Picasso non accetterebbe mai di andare al tappeto due

160
volte di fila. Passano le ore. Noia. Kahnweiler non si muove dalla poltrona. E
Picasso finisce per cedere. Vende.
Françoise Gilot racconta che nel ’44-45, quando Kahnweiler non aveva un
contratto di esclusiva, Picasso lo metteva in concorrenza con un altro
mercante, Louis Carré, la cui galleria, una delle più importanti dell’epoca, si
trovava in avenue de Messine. Convocava i due nel suo studio, in rue des
Grands-Augustins, e li faceva aspettare in anticamera. Ce li lasciava per quasi
un’ora. Poi invitava uno dei due a seguirlo nello studio. Di solito Louis
Carré. Era la regola di Picasso: chi ama fa soffrire l’amato. E così teneva il
mercante preferito sui carboni ardenti.
Nello studio si discuteva. E più a lungo del dovuto: il tempo necessario
perché il visitatore in anticamera, arrovellandosi, finisse per ridursi come uno
straccio. Quando Picasso e Carré tornavano, Kahnweiler era pallido, livido.
Se poi Carré mostrava un’aria soddisfatta, come se avesse combinato buoni
affari (anche se non era affatto vero), il povero Kahnweiler passava al verde.
A quel punto Picasso lo faceva entrare a sua volta nello studio. Sapeva che
ormai poteva chiedere il prezzo che voleva. «È stato allora che ho capito la
tecnica di Picasso: lui faceva con le persone quello che si fa con i birilli –
quando se ne prende di mira uno per farne cadere un altro», ha scritto
Françoise Gilot.1
In questo gioco tra gatto e topo era sempre il formaggio a trionfare. Erano
lontani i tempi in cui Braque, Derain, Vlaminck e Picasso, in tuta, entravano
nella piccola galleria di rue Vignon, si toglievano il berretto e dicevano:
«Padrone, siamo qui per la paga».
Kahnweiler è stato il mercante dei cubisti. Un titolo, questo, che
rivendicava con orgoglio. Bisogna riconoscere che Apollinaire, a sua volta,
avrebbe potuto chiedergli ironicamente: ma quali cubisti?
Se Kahnweiler si riferiva a Braque, Picasso, Gris e Léger – «i quattro
grandi cubisti», a suo parere – il titolo era incontestabile. Altrimenti, era
un’usurpazione. Lo sapeva bene Apollinaire, che aveva dovuto subire non
pochi attacchi da parte di un uomo che, coscientemente o no, invidiava
l’intimità che lo legava a Picasso.
Apollinaire e Kanhweiler sono entrambi amici della pittura nuova. La
difendono con grande forza, ciascuno con le proprie armi. Kahnweiler, come
Vollard prima di lui, pubblica anche testi di poeti illustrati dai suoi pittori.
Vere e proprie meraviglie per bibliofili, stampate in cento esemplari.
È lui il primo editore di Apollinaire, che è il suo primo autore. Nel 1909
esce L’Enchanteur pourrissant, con trentadue xilografie di Derain (il Saint

161
Matorel di Max Jacob, illustrato da Picasso, uscirà nel 1911). Tiratura, cento
esemplari. In cinque anni, se ne vendono cinquanta copie. Un piccolo
assaggio: «La signorina lo toccò e sentì che aveva il corpo davvero ben fatto.
Lo amò fino all’estremo, docile alla sua volontà, e nascose tutto a sua madre
e ad altri».2
Kahnweiler ammira il poeta, rispetta l’erudito – ma disprezza il critico. Lo
giudica mondano, pensa che conosca poco la storia dell’arte. Per lui, le
Méditations esthétiques non sono altro che una serie di chiacchiere
melanconiche. Non sopporta l’aspetto aneddotico degli articoli, meno ancora
l’energia con la quale il poeta aveva preso la difesa dei pittori cubisti riuniti
nella sala 41 del Salon degli Indépendants del 1911. E quando Apollinaire si
ripete, l’anno dopo, con gli artisti della Section d’Or, Kahnweiler si infuria.
Vuole che il critico faccia una distinzione netta tra chi è cubista e chi non lo è.
Da che parte sta, Apollinaire?
Il mercante chiede a Braque e a Picasso di costringere il loro amico a
prendere posizione, ma i due si rifiutano di farlo. È probabile che
condividano l’opinione di Kahnweiler, ma non vogliono offendere il poeta.
Apollinaire, che ha appena pubblicato Alcools per le edizioni del «Mercure
de France» (con il suo ritratto fatto da Picasso in frontespizio), quando sa dei
maneggi di Kahnweiler, prende la penna e gli scrive:
Ho saputo che a voi i miei scritti sulla pittura non sembrano interessanti. La cosa mi
sembra singolare. Ho difeso soltanto pittori che voi avete scelto dopo di me. Vi
sembra giusto cercare di demolire qualcuno che tutto sommato è l’unico che sia stato
capace di gettare le basi della futura comprensione artistica?3

Il mercante risponde:
Una lettera singolare, la vostra. Leggendola, mi sono chiesto se dovevo offendermi.
Ho preferito ridere.4

Per Kahnweiler la faccenda è chiara: i pittori che lui espone in rue Vignon,
e di cui vende le opere all’estero, sono i soli pittori cubisti. Gli altri sono solo
cattivi imitatori. Non se ne occupa.
Nel 1912 stipula un contratto con i suoi artisti. Le condizioni sono
semplici. Il mercante si impegna a comprare tutta la loro produzione a
condizioni definite in anticipo. Esige l’esclusiva. I prezzi variano a seconda
del formato. Derain è pagato meglio di Braque, che prende tre volte meno di
Picasso. Picasso ha discusso le clausole una per una: concede a Kahnweiler

162
un’esclusiva di tre anni per tutta la sua opera, escludendo la produzione
precedente e i ritratti su commissione; potrà tenere per sé cinque quadri
all’anno e un gruppo di disegni; oltre ai dipinti, Kahnweiler comprerà le
tempere e almeno venti disegni all’anno.
Il mercante firma. Ha fiducia. La clientela non manca. Non è più composta
soltanto da Gertrude Stein e da un gruppetto di francesi illuminati. Già da
qualche tempo i collezionisti stranieri sbarcano a Parigi per conoscere i
famosi cubisti.
Primo fra tutti, un russo. Si chiama Sergej Cˇukcin, è un industriale tessile
ed è proprietario del palazzo Trubeckoj a Mosca. Ha comprato opere di
Derain e di Matisse. Matisse è andato a Mosca apposta per appendere alle
pareti del suo palazzo La Danse e La Musique. Accanto ai Van Gogh, ai
Monet, ai Cézanne, ai Gauguin.
È dal 1908 che Cˇukcin si interessa a Picasso. Ha comprato i quadri più
importanti dei periodi blu, rosa e cubista. (Dopo la rivoluzione del 1917, la
sua collezione passerà allo stato e andrà ad arricchire i musei di Mosca e di
San Pietroburgo.) Il suo intermediario privilegiato è sempre Kahnweiler.
Kahnweiler si batte su tutti i fronti – eccetto quello dei Salon. Raccomanda
ai suoi pittori di seguire l’esempio di Picasso, e proibisce loro di esporsi ai
sogghigni dei critici che visitano il Grand Palais in compagnia delle autorità.
In Francia, per vedere le opere di Braque, Derain, Gris e Picasso bisogna
andare in casa dei collezionisti. O nella piccola galleria di rue Vignon. O
all’estero. Paradossalmente, infatti, mentre nessuno di questi artisti espone
più nei Salon ufficiali a Parigi, le loro opere si possono trovare a Berlino,
Colonia, Monaco, Amsterdam, Londra e Mosca.
Tanto per cominciare.

163
La Pelle dell’Orso

Ritorneremo tutti in rue Ravignan! (...) è lì che


siamo stati davvero felici.
Pablo Picasso

Sono tutti a Parigi, quel lunedì 2 marzo 1914. Hôtel Drouot, sale 6 e 7.
Curiosi, giornalisti, mercanti arrivati dalla Germania, gente di mondo,
amatori d’arte illuminati – come Marcel Sembat, deputato socialista di Parigi.
Tra la folla, si nota la guardia del corpo di Picasso: Max Jacob,
Kahnweiler, Serge Férat e la baronessa d’Oettingen. In prima fila, davanti a
Henry Beaudoin, banditore d’asta, e ai suoi due esperti, siedono Druet e i
fratelli Bernheim, membri fondatori della Peau de l’Ours. Aspettano che
l’asta incominci. Dieci anni dopo avere creato la loro associazione, vendono.
Dal 1904, ogni associato ha versato nella cassa comune 250 franchi all’anno.
Hanno diviso i quadri tra di loro, come previsto dal regolamento che si erano
dati. Oggi li mettono all’asta. È previsto che recuperino il capitale versato,
più un interesse minimo (il 3,5%). Il 20% del guadagno toccherà ad André
Revel, gestore dell’associazione, come pagamento delle sue prestazioni. Il
resto andrà diviso fra gli artisti. L’operazione non è stata concepita a fini
speculativi ma per far conoscere l’arte moderna e per aiutare i pittori. Nella
prefazione del catalogo è scritto:
Dieci anni fa un gruppo di amici si è riunito per formare una collezione di quadri, e
soprattutto per abbellire le pareti delle loro case. Dato che ormai i grandi dipinti del
passato sono inarrivabili, e dato che gli associati sono per la maggior parte giovani,
fiduciosi nell’avvenire, si è deciso di dare fiducia ad artisti anche loro giovani o
scoperti di recente. Ai membri di questa associazione sembra cosa onorevole correre i
rischi del nuovo...

Che cosa hanno comperato, in dieci anni? Centocinquanta opere: Van


Gogh, Gauguin, Odilon Redon, Vuillard, Maurice Denis, Bonnard, Vallotton,
Signac, Sérusier, Maillol; ma anche Dufy, Van Dongen, Herbin, Dufrenoy,
Flandrin, Roger de La Fresnaye, Othon Friezs, Marquet, Metzinger, Rouault,

164
Dunoyer de Segonzac, Verhoeven, Vlaminck, Derain, Matisse, Willette e
Picasso. Quasi classici, fauves e, soprattutto, quelli che tutti adesso, all’asta,
stanno aspettando: i cubisti. I cubisti, è vero, sono presenti con opere meno
geometriche di quelle che stanno facendo scandalo altrove, ma è la prima
volta che affrontano il mercato nazionale. La vendita dell’associazione La
Peau de l’Ours – lo sentono tutti – è un test decisivo per l’arte moderna.
Henry Beaudoin si aggiudica la prima opera per 720 franchi. È l’Aquarium
di Bonnard, presentato in catalogo come Studio di pesci e crostacei.
Vlaminck va meno bene con Ecluses à Bougival, aggiudicato per 170
franchi.
Il Boulevard Maritime di Dufy, proposto a 100 franchi, viene aggiudicato
per 160 franchi.
Metzinger, con un paesaggio cubista, si ferma a 100 franchi. Roger de La
Fresnaye vede i cubi della sua Nature Morte aux anses arrivare a 300 franchi.
Utrillo va da un massimo di 300 a un minimo di 150 franchi. Derain, 300
franchi per il Vase de arès, 215 per Péches dans un assiette, 210 per La
Chambre.
Meno bene di Marie Laurencin che, con 475 franchi, giustifica
l’ostinazione del suo vecchio compagno Apollinaire. Molto meno bene di
Dunoyer de Segonzac: La Mare, prezzo di partenza 300 franchi, viene
aggiudicato a 800 franchi.
Le Violoncelliste di Gauguin arriva a 4000 franchi. Tanto quanto i Fleurs
dans un verre di Van Gogh. Con étude de femme e La Mer en Corse, Matisse
è quotato 900 franchi. Feuillages au bord de l’eau supera i 2000 franchi, e
Compotier de pommes et oranges arriva a 5000. Meglio di Van Gogh.
Applausi in sala.
Ma Picasso non si è ancora fatto sentire. Lui è al di sopra della mischia. Le
tele comprate dagli amici di André Level sono state dipinte qualche anno
prima delle ultime opere cubiste. Ma non importa. Ciò che si sta per giudicare
non è il periodo blu o il periodo rosa: è l’uomo, il suo spirito innovatore – e i
suoi seguaci. Dopo tanto lavoro nell’ombra, il Bateau-Lavoir è sceso in una
sala d’aste. E quando mette in vendita il primo cartone di Picasso (Femme et
enfants) Beaudoin, a suo modo e senza saperlo, segna la fine di Montmartre,
la Montmartre di quegli splendidi artisti in attesa della gloria.
Perché la gloria è arrivata, è lì. Femme et enfants viene aggiudicato per
1100 franchi. Ed è un semplice cartone. L’Homme à la houppelande arriva a
1350 franchi. Les Trois Hollandaises a 5200.
La sala è tutto un brusio. Meglio di Matisse! I commessi portano una tela

165
gigantesca: la Famille de saltimbanques (1905). Prezzo base: 8000 franchi
(André Level l’aveva pagata 1000 franchi). Le offerte salgono. Entusiasmo,
rabbia. I critici ostili affilano le punte delle matite. I difensori del cubismo si
fregano le mani. E quando il martello del banditore batte sul tavolo, è come
se calasse a colpire il vecchio mondo. 11.500 franchi. Il prezzo più alto
raggiunto quel giorno.
Tutti in piedi. Applausi fragorosi. Molti se ne vanno. Le malelingue, e sono
numerose, fanno notare che il mercante che ha acquistato L’Homme à la
houppelande e Famille de saltimbanques è un tedesco: Justin Tannhauser.
Tra cinque mesi, esattamente tra cinque mesi, qualcuno lo giudicherà un
segno premonitore. Per il momento si alzano e si avviano verso l’uscita.
Si imbattono in un altro tedesco. Daniel-Henry Kahnweiler sta sgomitando
per uscire. Vuole correre a dare la notizia a Picasso. La vendita ha fruttato
complessivamente 115.000 franchi. Una bella cifra. Un grosso affare. I quadri
di Picasso hanno reso un quarto del totale.
Kahnweiler si precipita verso una carrozza. Perché Picasso non è venuto
all’asta. È altrove, come sempre.
Dov’è, Picasso, in questo giorno di gloria?
Non è a Clichy e nemmeno a Montmartre. Ha passato il Rubicone, ha
attraversato la Senna. Va nel gran mondo dove risplendono le luci elettriche,
lontano dalle candele di Montmartre.
Picasso ha lasciato la terra della sua nascita artistica. Non sta più al Bateau-
Lavoir. È sulla rive gauche. A Montparnasse.

166
II
MONTPARNASSE VA ALLA GUERRA

167
La Ruche

Ecco la Montparnasse che è diventata per i pittori e


i poeti ciò che Montmartre era per loro quindici
anni fa: la casa della semplicità, della bellezza,
della libertà.
Guillaume Apollinaire

Non c’è il Sacré-Coeur, dall’altra parte della Senna. All’inizio del secolo, il
Mont Parnasse è il regno delle scuderie, delle fattorie. Qualche luna-park
tirato su all’angolo dei boulevard, greggi di capre lungo le strade...
Ci vivono uomini di lettere piuttosto che uomini di immagini. Tanti poeti
vestiti di nero, pochi pittori con la tuta blu. Molta saggezza, tra le accademie
di pittura e le case in pietra dai grandi portoni. Montparnasse si regge su
rapporti schizoidi: i borghesi vanno a passeggio sullo sterco di cavallo.
Nessun monumento intorno al quale raccogliersi.
I colori sono quelli della poesia. Una volta, gli studenti salivano dal
quartiere latino a declamare versi sulle alture ingombre dei rifiuti delle cave.
Poi sono arrivati i giovani contadini, gli stallieri, i ragazzi degli orti, gli operai
che hanno lavorato per aprire il boulevard Raspail.
C’era anche qualche scultore. Lavoravano nei giardini, nei magazzini
vuoti. E poi gli architetti, che avevano costruito case borghesi per i borghesi,
avevano sistemato nelle corti studi per gli artisti. Vetrate e lucernari, plafoni
alti. Molti studi li avevano ricavati anche da fattorie abbandonate. Avevano
diviso i grandi spazi, messo vetrate.
Montparnasse si è dunque aperta alle Belle Arti. Ci sono accademie di gran
nome. In quella di Bourdelle e in quella di Othon Friesz l’insegnamento è più
libero, meno accademico. Ci sono corniciai e mercanti di colori. C’è il
mercato dei modelli e delle modelle, alle porte dell’Académie de la Grande
Chaumière o dove la strada incrocia il boulevard Montparnasse: pugili,
dattilografe, operai – molti italiani, un po’ più sfacciati.
Anche Montparnasse ha i suoi Bateau-Lavoir: «cités d’artiste» i cui abitanti
vengono, vanno, ritornano, secondo i quattrini che hanno in tasca. C’è

168
l’impasse du Maine, dove lavora lo scultore Bourdelle. C’è la cité Falguière –
che chiamano anche la «Villa Rosa», per via del colore dei muri. Ci ha
vissuto Foujita. E anche Modigliani, buttato fuori dalla padrona di casa,
Madame Durchoux, perché non pagava mai l’affitto.
C’è soprattutto la Ruche. Si alza, la rotonda della Ruche, nell’impasse de
Dantzig. Uno dei centri di Montparnasse. Tutti gli artisti ci sono passati,
almeno una volta. Molti ci sono rimasti. La Ruche è il Bateau-Lavoir degli
artisti ebrei venuti dai paesi dell’Est.
La Ruche è stata costruita da un mecenate, Alfred Boucher, scultore
pompier. Chiusa l’Esposizione Universale del 1900, Boucher ha raccolto i
pezzi dei padiglioni costruiti da Gustave Eiffel e li ha rimessi insieme su un
suo terreno non lontano dai mattatoi di Vaugirard. Molti studi, intorno al
corpo principale – quello che era il Pavillon des Vins, dal tetto simile a un
alveare. Ai due lati dell’ingresso, due cariatidi che provengono dal padiglione
dell’Indonesia. La cancellata esterna viene dal padiglione della donna. Sale di
esposizione e piccole costruzioni (c’è anche un teatro di trecento posti dove
Louis Jouvet si farà le ossa) si alzano in mezzo ai prati e ai viali. Viale dei
Fiori, viale d’Amore, viale dei Tre Moschettieri...
Boucher affitta gli studi agli artisti poveri per poche lire. Ogni artista ha a
sua disposizione un’unica stanza. La chiamano «la bara»: un triangolo con un
soppalco dove l’inquilino dorme su un materasso sottile sottile. Niente acqua,
niente gas, niente elettricità. Corridoi bui, spazzatura dappertutto, grondaie
bucate. Ma sui pianerottoli circolari, oltre le porte numerate, si sentono gli
italiani che cantano, gli ebrei che discutono, gli strilli delle modelle negli studi
dei russi.
Prima della guerra, lo racconta lui stesso, Chagall fa la vita dell’esiliato.
Lavora solo, fino a tardi. Riceve pochissimo. Solo qualche visitatore,
Cendrars per primo, poi Apollinaire. Quando tornano a casa, la notte,
ubriachi e rumorosi, gli altri artisti della Ruche buttano sassolini contro le sue
finestre, perché si unisca a loro. Ma Chagall, figlio di una povera famiglia di
Vitebsk, aiutato da un avvocato russo deputato della Duma, è il più serio di
tutti. Lavora da solo alla sua pittura. Dice che è una pittura di stati d’animo.
Dipinge nudo, non si lamenta mai. Il lunedì mangia una testa di aringa, il
martedì una coda, gli altri giorni della settimana croste di pane. C’è un
balcone interno, nel suo studio.
A eccezione di qualcuno, come il normanno Fernand Léger, grande amico
di Archipenko, la maggior parte degli inquilini della Ruche viene dunque
dall’Europa dell’Est. La domenica ritrovano qualcosa dei loro paesi. Vengono

169
venditori ambulanti, suonatori di fisarmonica, saltimbanchi. Dal quartiere di
Saint-Paul sale a Montparnasse un mercante ebreo dalla lunga barba nera.
Ferma il suo carretto davanti alla cancellata, vende aringhe, pasticcio di
fegato, pane nero: sono odori e sapori che ricordano l’infanzia.
Sono tutti immigrati, arrivati qualche anno prima della guerra. Ancora non
esiste quella Scuola di Parigi che sarebbe diventata famosa in tutto il mondo.
Archipenko, scultore russo arrivato nel 1908. Lipchitz, scultore lituano,
arrivato un anno dopo. Kikoïne, anche lui lituano, nipote di un rabbino,
socialista, che aveva studiato alla scuola di Belle Arti di Vilnius con
Krémègne e Soutine. Krémègne, che aveva attraversato la frontiera da
clandestino nel 1912, sempre triste, maldestro, un po’ geloso di Soutine.
Mané-Katz, che aveva lasciato Kiev per la Ruche nel 1913. Chana Orlov,
arrivato lo stesso anno. Kisling, il polacco, allievo molto brillante della scuola
di Belle Arti di Cracovia, pieno di allegria, amava le feste, il vino e la pittura.
Léon Bakst, pittore e decoratore, che aveva realizzato nel 1909 le scene di
Cléopâtre, il primo dei Ballets Russes che avrebbero furoreggiato al Théâtre
du Châtelet, con la Pavlova e Nijinskij. Soutine, il più povero, che
dipingendo canta canzoni in yiddish. E poi Zadkine, arrivato nel 1909, a
diciannove anni, e Epstein, e Gottlieb, Marevna, gli scultori Lipsi, Joseph
Csaky, Léon Indenbaum…
Quando scoprono la Francia, hanno vent’anni. Si sono lasciati dietro la
famiglia, gli amici, una tradizione. Non hanno altra arma che le matite e i
pennelli. A casa loro, li hanno potuti usare solo fino a un certo punto. Il
numero chiuso nelle università, la severità dei costumi... La legge chassidica
condanna l’idolatria e, quindi, la riproduzione del corpo umano.
Tu non farai statue né altre figure di ciò che sta in alto nel cielo, o di ciò che è in
basso sulla terra o di ciò che è nelle acque sotto la terra.1

All’Est l’arte ebrea è arte religiosa. Non c’è altra tradizione. Gli ebrei,
chiusi nei ghetti, sono chiusi al mondo esterno. I pittori fanno come i
bambini: di giorno disegnano ciò che si può mostrare, la notte ciò che va
tenuto nascosto. Alla luce, la vita quotidiana dello shtetl. Nell’ombra, tutte le
immagini proibite, nascoste e poi figurate sul foglio bianco, chiusi come
clandestini nelle loro stanze. Per emanciparsi, c’è solo una via: partire.
E bisogna partire anche per sfuggire all’antisemitismo ufficiale, ancestrale.
In molti paesi, le porte delle università sono chiuse agli ebrei. L’Accademia
Reale di San Pietroburgo per loro è proibita.

170
Quando arrivano, questi uomini senza radici sanno dire in francese
soltanto una parola: «Paris». Hanno scelto questa città perché qualche amico
gli ha mandato a dire che a Parigi si può vivere e dipingere da uomini liberi.
A Parigi gli artisti ebrei lavorano come gli altri, hanno il diritto di dire e di
mostrare quello che vogliono. Certo, vivono in miseria, ma la maggior parte
di loro ha sempre vissuto così. Non conoscono la lingua, ma la impareranno.
L’importante è che finalmente possono dipingere alla luce del giorno. Liberi,
lontano dalle scuole – tanto dall’impressionismo che dal cubismo da poco
scoperto. Parigi, come scriverà De Chirico di lì a poco, è il luogo in cui
convergono uomini, idee, stati d’animo, creatività. Parigi, per tutta questa
gente, è la capitale del mondo.

171
Ubu Roi

Dio è il percorso più breve dallo zero all’infinito.


C’è da chiedersi: in che senso?
Alfred Jarry

Fino alla guerra, i pittori della Ruche non hanno rapporti con gli artisti del
Bateau-Lavoir. Un fiume separa i due mondi. Quando la banda Picasso
passava la Senna, era quasi sempre per incontrare gli scrittori amici di
Guillaume Apollinaire. Perché Montparnasse brulicava di poeti, poetucoli,
poetastri – ancora con il basco sulla testa. Montparnasse non viveva ancora
sui ritmi congiunti del Dôme e della Rotonde, ma sulle cadenze dei versi della
Closerie des Lilas.
La Closerie è il primo dei locali che faranno la fama del quartiere. Una
volta la Closerie era solo una stazione di posta sulla strada per Fontainbleau.
La gloria e il nome le sono derivati dalla prossimità con il Bal Bullier, in
avenue de l’Observatoire, di fronte al Luxembourg. Lì, fino alla guerra,
ballavano sotto ai lillà. Poi andavano a bere nel piccolo bistrot in cima al
boulevard dove si mescolavano Saint-Michel e Montparnasse, gli studenti e
gli artisti. Devono essere stati davvero tanti, quelli che hanno brindato
all’ombra della statua del maresciallo Ney, fucilato in avenue de
l’Observatoire! L’avevano spostata lì, vicino alla Closerie, al momento della
costruzione della ferrovia di Sceaux.
La Closerie è anche stata una delle fortezze dei sostenitori di Dreyfus. E la
retrovia del Flore, dove Charles Maurras raduna i suoi Camelots. La
frequentavano anche Monet, Renoir, Verlaine, Gide e Gustave le Rouge. E un
poeta il cui ruolo è stato essenziale nell’incontro tra gli artisti di Montmartre e
quelli di Montparnasse: Paul Fort.
Oggi le Ballades françaises non le cantano più in molti, a parte questa:
Le p’tit cheval dans le mauvais temps,
qu’il avait donc du courage!

(Che coraggio, il cavallino, nella tempesta!)

172
Ma Paul Fort è un principe. Il principe dei poeti. Lo eleggono dopo
Verlaine, Mallarmé e Léon Dierx. Cinque giornali, «La Phalange», «Gil Blas»,
«Comoedia», «Les Nouvelles» e «Les Loups», organizzano nel 1912 un
referendum per nominare il successore di Dierx, appena morto.
Trecentocinquanta voti vanno a Paul Fort – considerato l’erede migliore della
tradizione letteraria francese.
Paul Fort non ha un soldo. Quando gli chiedono di che cosa viva,
risponde, sorridendo: «Ma della mia penna, no?».
Copia le sue opere e le vende ai collezionisti di manoscritti e di autografi.
Ogni martedì raduna i suoi alla Closerie des Lilas, tenuta allora dal père
Combes. I presenti fanno allegramente onore alla poesia, al vino, alla festa,
alle canzoni.
Paul Fort ha faccia e modi da moschettiere. Magro, i capelli lunghi, i baffi
sottili, una cravatta nera sotto una giacca abbottonata fino al collo, ride, fa un
brindisi, racconta una storia, un poco bleso. È lui a condurre la danza.
Spesso, a mezzanotte, con la sua voce stridula, improvvisa poesie geniali. A
volte, si mette a cantare, in piedi su un tavolo. Lo accompagnano un
pianoforte, altre voci. E grandi evviva, fino all’alba.
Il suo compare, Jean Papadiamantopoulos, in arte Jean Moréas, ascolta,
scherza, recita versi nei fumi e nelle nebbie dell’alcol. La sua cultura è
prodigiosa, le sue letture vanno da Chateaubriand a Vaugelas, da Barrès a
Madame de La Fayette. Eccolo lì, seduto al solito tavolo, ubriaco, il cilindro
inclinato sul monocolo, il monocolo ciondolante sui baffi tinti, i baffi che
solleticano una bocca che butta a destra – una bocca da cui escono parole
scortesi e lodi sperticate a Barrès e Maurras. Cosa che in fondo non spiace al
suo compagno di una sera, segretario di redazione del «Mercure de France»,
che è venuto alla Closerie per la prima volta e che sta giurando che non ci
rimetterà più piede. Si chiama Paul Léautaud, due cose gli hanno dato
fastidio: la sporcizia di Moréas – una leggenda confermata – e il tasso
d’alcolismo generale. Per di più, quella sera, Léautaud è di umore nero. Ha
appena saputo che in cinque anni e mezzo il Petit Ami ha venduto
cinquecento copie.
Nel 1905 Paul Fort, con Moréas e Salmon, ha fondato una rivista che
diventerà famosa: «Vers et prose». I tre amici si sono fatti prestare duecento
franchi, li hanno covertiti in francobolli e hanno spedito duemila lettere a
duemila abbonati presunti.
«Vers et prose» può essere considerato un vero e proprio monumento della
letteratura francese – fino alla guerra, di cui fu vittima. Ha aperto le sue

173
pagine a grandi poeti e scrittori: Maeterlinck, Stuart Merrill, Barrès, Gide,
Maurras, Jules Renard, Apollinaire… La sede è in casa del suo fondatore, in
rue Boissonade. Il nome lo ha trovato Pierre Louys. «Vers et prose» si
propone di riunire «il gruppo eroico di poeti e scrittori che hanno rinnovato
il senso e la forma delle lettere francesi, e hanno ridato vita al piacere – da
tanto abbandonato – per l’alta letteratura e per il lirismo».
I poeti del simbolismo ricorrono alla forza dell’immagine – una forza
misteriosa che l’analisi non può spiegare. Si tratta di evocare «l’anima delle
cose, (...) le segrete affinità delle cose con la nostra anima».1 Bisogna
suggerire, non descrivere.
La rivista riunisce tutte le tendenze della «giovane letteratura». Paul Fort,
comunque, è l’araldo di un simbolismo la cui ora di gloria è già passata da
qualche anno.
I grandi difensori del simbolismo sono Henri de Régnier, Saint-Pol Roux
e, un giorno su tre, Jean Moréas – perché Jean Moréas cambia scuola più
spesso della camicia. Sono contro i romantici – Chateaubriand, Hugo,
Lamartine. E contro i parnassiani – Banville, Leconte de Lisle, Baudelaire,
Coppée. Rimproverano loro di avere voluto creare una poesia analitica,
critica, e di non aver saputo conquistare i giovani. Maltrattano anche
Flaubert, e Catulle Mendès, che considera Verlaine un poeta di seconda
categoria.
Il simbolismo, nonostante tutto, non ha segnato a lungo la storia della
letteratura. È stato soprattutto un momento di passaggio, una reazione durata
non più di una decina di anni.
L’obiettivo principale dei simbolisti, e dei post-simbolisti, è la conquista
del ritmo. Bisogna infrangere le regole della convenzione, liberare
l’alessandrino dalle sue dodici catene, arrivare al verso libero. Le colonne di
«Vers et prose» sono piene di dibattiti e di riflessioni su questo tema. Nella
discussione sarebbe intervenuto lo stesso Mallarmé, in un testo pubblicato
dopo la sua morte – in cui deplorava, nell’alessandrino, «un abuso della
cadenza nazionale, il cui impiego, come quello della bandiera, dovrebbe
restare del tutto eccezionale».
Già dal primo numero la rivista può contare su quattrocento abbonati.
Arrivano abbonamenti da tutto il mondo. Ai sottoscrittori, la redazione offre
libri in omaggio. Apre le sue pagine alla pubblicità: editori, librerie,
fabbricanti di scaffali, banche, agenzie finanziarie.
Nel 1910 vengono fondate le edizioni Vers et Prose. Organizzano banchetti
giganteschi che riuniscono anche cinquecento invitati in onore dei poeti più

174
amati. Il martedì, alla Closerie, non sono così tanti a far festa. Ma il rumore è
altrettanto forte. Non vengono soltanto da Montparnasse. Molti attraversano
la Senna, vengono da Montmartre. Quando bussano alla porta per assistere ai
martedì di Paul Fort, i pittori del Bateau-Lavoir non si trovano su un terreno
estraneo: l’ebbrezza dei loro colori si fonde splendidamente con i giochi di
parole dei poeti della Closerie des Lilas.
Nel 1905, alla Closerie, la banda di place Ravignan si lega a un amico di
Apollinaire che qualche volta frequenta il Fox, Alfred Jarry. Jarry comunica a
tutti la sua passione per le armi da fuoco. «Jarry, celui qui revolver», dirà
Breton a proposito di questo monumento vivente che i surrealisti venerano e
con il quale condividono due passioni: la poesia e il tiro con proiettili veri.
Guillaume Apollinaire è il primo a parlare di lui:
Alfred Jarry mi è apparso come la personificazione di un fiume, un giovane fiume
senza barba, i vestiti bagnati da annegato. Baffetti cadenti, redingote dalle falde
ciondolanti, camicia floscia e scarpe da ciclista – tutto aveva qualcosa di molle, di
spugnoso: era ancora umido, il semidio, sembrava che fosse uscito poche ore prima,
tutto inzuppato d’acqua, dal letto in cui scorreva la sua onda.2

Jarry è l’inventore della patafisica, di cui Ubu e Faustroll saranno i primi


cantori. Che cos’è la patafisica? «Una scienza che noi abbiamo inventato e il
cui bisogno si faceva universalmente sentire».3 Questa scienza si propone di
osservare il mondo a partire dalle eccezioni, dai paradossi, al di fuori delle
abitudini e dei conformismi del pensiero (René Daumal, poi Boris Vian e
Raymond Queneau, tutti membri del Collegio di Patafisica, svilupperanno il
lavoro di Jarry).
Quando Apollinaire lo incontra, Jarry ha già pubblicato molti articoli
nell’«Art littèraire» e sul «Mercure de France» – e opere come César-
Antéchrist, Les Jours et les nuits, Le Surmâle. È conosciuto soprattutto per
una commedia scandalosa che ha sconvolto la Parigi benpensante,
tranquillamente seduta nella platea del Théâtre Oeuvre il 9 dicembre 1896.
Alla prima battuta – «Merdre!» – tutto il pubblico era balzato in piedi.
Alfred Jarry abita in rue Cassette, in un appartamento fatto a sua misura se
non a sua immagine. È situato al terzo piano e mezzo. Guillaume Apollinaire
e Ambroise Vollard vanno spesso a trovarlo. Si bussa a una porta
piccolissima, incassata nella scala. Quando il battente viene aperto, il
visitatore se lo prende in pieno petto. Poi una voce che viene dall’interno gli
intima di abbassarsi, in modo che l’inquilino possa vederlo in faccia.
Se è un amico, Jarry lo prega di entrare. Il visitatore scopre allora una

175
stanza dal soffitto bassissimo. Ci si può stare soltanto piegati. Il padrone di
casa ha diviso in due gli appartamenti, contando di raddoppiare i profitti
affittandoli a persone di piccola statura. Vollard, che è alto, racconta che Jarry
ci sta giusto in altezza, e che la civetta che vive con lui ha la testa imbiancata
dalla calce del soffitto. Jarry stesso ha mèches bianche tra i capelli, perché
ogni tanto ci sfrega contro. Non sappiamo se la civetta fosse di carne e ossa o
di porcellana – anche se André Breton si lamentava del fetore che mandava la
gabbia.
Jarry dorme su un letto molto basso e scrive stando tutto allungato. Su una
parete è appeso un suo ritratto (poi scomparso) dipinto dal Doganiere
Rousseau. A quanto pare, Jarry vi era rappresentato in compagnia di un
pappagallo e di un camaleonte. Si vedevano soprattutto, a quanto racconta
André Salmon, i ritocchi fatti da Jarry. Aveva ritagliato la sua silhouette, in
modo che al centro della tela ci fosse un bel buco.
Jarry non tollera di vedere se stesso in un dipinto. Non tollera di vedersi,
in assoluto.
Quando vuole sgranchirsi le gambe, prende la bicicletta e va a Plessis-
Chenet, in riva alla Senna. Vicino alla proprietà di Valette, direttore del
«Mercure de France», e di sua moglie Rachilde, scrittrice di romanzi (il cui
vero nome è Marguerite Eymery), Jarry ha comprato un minuscolo terreno.
Sopra, ci ha costruito una baracca, il Tripode, una costruzione in legno che
occupa quasi tutta la superficie della «proprietà» – 16 metri quadrati. Ci passa
tutta l’estate, mangiando i pesci che pesca.
Jarry mangia pochissimo. Se mangia molto, lo fa solo per ridere. Seduto
un giorno a un tavolino di un bistrot della rue de Seine con Salmon, chiama
il padrone.
«Un cognac, per favore».
«È tutto?».
«No, vorrei anche un caffè».
«Ma...».
«Un caffè, un pezzo di gruviera e una composta di frutta».
«Allora volete un dessert!».
«Per incominciare, sì. Poi mi porterete mezzo pollo».
«E poi?».
«Poi un piatto di maccheroni».
«Una costata le andrebbe?».
«Al sangue».
«Tutto insieme?».

176
«Nell’ordine».
L’oste fa un cenno di intesa.
«Dopo la carne, vorrei un’insalata», aggiunge Jarry, «e una minestra».
«È tutto?».
«No, vorrei anche un Pernod, molto forte».
Il padrone del ristorante gli mette una mano sulla spalla. Sospira: «Basta!
Finirà per star male!».
«Tiri via la mano. E mi porti un bicchierino di inchiostro rosso».
«Sarà fatto».
Jarry scioglie un pezzo di zucchero nel bicchiere e si beve tutto
l’inchiostro.
Quel giorno è a dieta. Di solito mangia carne fredda e cetrioli, cosa che
non gli impedisce di bere molto. Soprattutto «erba santa», il nome poetico
con cui chiama l’assenzio. Secondo Rachilde, la sua migliore amica, che gli
sarà fedele fino alla morte, beve due litri di vino bianco e tre Pernod da
quando si alza al momento della colazione, e poi alcolici a tavola, caffè con
grappa come digestivo, molti aperitivi prima di cena. Prima di andare a letto,
poi, si riempie lo stomaco con una dose di Pernod, una di aceto e una punta
di inchiostro.
Nessuno lo ha mai visto ubriaco. Si è ammalato solo una volta. Quando,
per fargli uno scherzo, la figlia di Valette ha sostituito l’alcol del suo bicchiere
con acqua troppo pura.
Quando incontra per la prima volta Apollinaire, i due camminano tutta la
notte per le strade di Parigi. Sul boulevard Saint-Germain, un tale gli si
avvicina e gli chiede la strada per Plaisance. Jarry leva di tasca la pistola e
gliela punta addosso, ordinandogli di arretrare. Poi gli indica la strada.
Le pistole sono la fissazione del nostro Ubu letterario. Sono innumerevoli i
racconti sulle sue prodezze.
Una sera, a pranzo da Maurice Raynal, gli si avvicina Manolo, l’amico di
Picasso. Vuole soltanto fare la sua conoscenza. Ma Jarry non ne ha voglia.
Gli intima di lasciarlo in pace e di uscire dalla stanza il più in fretta possibile.
Lo spagnolo non si muove. Jarry tira fuori la rivoltella e tira sulle tende.
Un’altra volta, seduto al tavolino di un caffè con una signora, per qualche
ragione misteriosa prende in antipatia un vicino di tavolo. Si alza, estrae la
pistola, spara su uno specchio. Lo specchio esplode. Tutti terrorizzati. Jarry si
siede, con calma, poi si gira verso la signora e le dice: «Ora che il ghiaccio è
rotto, possiamo parlare».*
Mentre si esercita a stappare a pistolettate bottiglie di champagne nel

177
giardino di una casa che ha affittato a Corbeil (l’ha chiamata «Le
Phalanstère»), arriva una vicina, sconvolta.
«Basta, signore! Potreste uccidere mio figlio!».
«Niente paura», replica Jarry, «gliene faremo un altro!».
Una vanteria. A Jarry le donne non piacciono. E nessuno ha mai saputo di
una sua relazione.
Jarry spara perché per strada un signore gli impedisce il passaggio, spara
per far tacere un gruppo di bambini che gli danno fastidio, spara perché non
riesce a salire su un omnibus stracarico. E anche quando è senza rivoltella,
non disarma.
Una sera va a un concerto. All’ingresso si presenta con indosso una
camicia di carta sulla quale è dipinta a china la cravatta. La sua tenuta non
viene apprezzata, e lo mandano in loggione. Non dice niente. Ma quando si fa
silenzio e il maestro sta per dare inizio alla musica, Jarry si alza e grida: «È
uno scandalo! Perché fanno entrare in sala gli spettatori delle tre prime file?
Non vedete che danno fastidio a tutti con i loro strumenti?».
Il 28 maggio 1906, dopo avere ricevuto l’estrema unzione e redatto il
testamento, Jarry scrive a Rachilde:
Il padre Ubu, che non ha rubato il suo riposo, cercherà di dormire. Crede che il
cervello, durante la decomposizione, funzioni al di là della morte e che il Paradiso
siano i suoi sogni. Il padre Ubu, a certe condizioni – vorrebbe tanto ritornare al
Tripode – dormirà, forse, per sempre.

Il giorno dopo, aggiunge un post-scriptum:

Riapro la lettera. È venuto il dottore. Crede di salvarmi.4

Lo salva davvero. Jarry sopravviverà per un anno e mezzo. Ogni giorno,


armato di due rivoltelle e di un bastone, va dal medico. Una situazione
tremenda. È roso dai debiti e dalla tubercolosi. Nasconde a tutti il suo
sfacelo. Si veste con gli abiti smessi dagli amici. Aspetta la fine.
Il 29 ottobre 1907, poiché Jarry non apre la porta del terzo piano e mezzo,
Valette fa forzare la serratura. Lo scrittore è sul letto, incapace di muoversi.
Lo portano all’ospedale della Charité. Per due giorni respira a malapena,
instancabilmente. Mormora: «Io cerco, cerco, cerco...».
Il dottor Stephen-Chauvet, che lo ha in cura, nota che il malato è di una
calma eccezionale. Jarry è anemico, ha il fegato in poltiglia, il polso
debolissimo. Non si lamenta.

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Muore il 1° novembre per una meningite tubercolare. Soffriva anche di
un’intossicazione alcolica cronica, ma non è di questa che è morto.
Lascia in eredità alla sorella il Tripode e, si dice (lo dice per primo Max
Jacob), a Picasso la sua rivoltella. Non si sa che cosa sia successo della sua
bicicletta, una Clément modello di lusso 96 da pista, comprata nel 1886 e non
ancora pagata alla morte del proprietario.

Scomparso a trentaquattro anni, Jarry non ha avuto il tempo di sostenere


sulla scena il ruolo che gli spettava. I suoi scherzi, le sue stranezze,
costituivano un linguaggio che gli amici dell’epoca sapevano leggere,
Apollinaire per primo:
Alfred Jarry è stato un uomo di lettere raro. Certi suoi atti, anche minimi, certi suoi
scherzi da ragazzino – tutto era letteratura.5

Poi Breton:
(...) Con Jarry, ben più che con Wilde, la differenza che per tanto tempo si è pensato
dovesse darsi tra l’arte e la vita viene prima contestata e poi annullata in quanto
principio.6

Quale omaggio migliore si può rendere a Jarry, lui che voleva


assolutamente essere come Ubu e che per tutta la vita si è comportato come
quel personaggio che lui stesso aveva definito l’«anarchico perfetto»?
Ma il dramma di Jarry sta nel fatto che la sua reputazione si fonda su
un’impostura: Jarry non è il padre di Ubu. Non lo è mai stato.
La commedia che lo ha reso tanto famoso non è sua. Jarry è un autore, un
grande autore, come testimoniano i suoi libri: ma Ubu Roi è un’opera
collettiva alla quale lui non ha quasi partecipato. È stata scritta dagli studenti
del liceo di Rennes che volevano prendere in giro il loro professore di fisica,
il père Hébert, un uomo del tutto privo di autorità. Quando Jarry arriva al
liceo, a sedici anni, la tragedia esiste già, si intitola Les Polonais e ne sono
autori i fratelli Morin. Jarry è l’autore del nuovo titolo e del nome del
personaggio, che viene senza dubbio da una contrazione di Hébert – Hébée o
Eb, per gli studenti. Hébée, Ubu.
È Jarry, senza dubbio, che ha aggiunto le scene antimilitariste. Ma né la
Candela Verde né Cornegidouille sono opera sua. Ancora meno il famoso
«Merdre!» con cui si apre la prima scena. Charles Morin ha raccontato:
«Eravamo ragazzini, e naturalmente i nostri genitori non volevano che

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usassimo quella parola; allora abbiamo pensato di aggiungere una r: ecco
tutto!».7
Resta il fatto che se Ubu ha fatto il giro del mondo lo deve a Jarry. È lui
infatti che lo ha messo in scena. Prima al liceo di Rennes, dove recitavano gli
studenti. Poi in veri teatri. Anche con le marionette.
La critica si era entusiasmata. Avevano parlato di Shakespeare, di Rabelais.
«Vers et prose» salutò in questa «immortale tragedia burlesca uno dei
capolavori del genio francese». Molto tempo dopo la morte di Jarry,
«L’Action Française» esaltava ancora questa caricatura di Robespierre, di
Lenin, del bolscevismo in marcia. Da far morire dal ridere i fratelli Morin,
che non avevano detto una parola. Certo, erano un po’ seccati per il fatto che
Jarry si fosse spacciato per l’autore unico di un’opera che in realtà era stata
composta collettivamente. Ma per molto tempo non lo hanno mai smentito.
Perché, avrebbero detto, quella beffa giocata al mondo letterario li divertiva
moltissimo. E poi, legati com’erano al compagno di scuola, e sapendo che
Ubu gli era stato utilissimo all’inizio della carriera, erano contentissimi della
sua notorietà. Lo avevano anche autorizzato a fare dei Polonais quello che
voleva – alla doppia condizione che cambiasse il titolo e il nome dei
personaggi, in modo che nessuno potesse metterli in relazione con il padre
Hébert e il liceo di Rennes. Per il resto, Ubu, per i suoi veri autori, era
sempre e soltanto una cosa fatta per divertirsi. Una farsa. Anzi: una
coglionata.
Certo, Jarry è anche l’autore di Ubu enchâiné e dell’Ubu cocu, e il
personaggio di Ubu compare in altre sue opere (soprattutto in Les Minutes de
sable mémorial e in César-Antéchrist). Ma Ubu Roi non gli appartiene. Il suo
amico Ambroise Vollard lo sapeva benissimo, e durante la Grande Guerra
scrisse un seguito alla saga, Les Réincarnations du Père Ubu, illustrate da
Rouault.
Questa usurpazione ha pesato molto sul destino di Jarry, e sulle sue spalle.
Non si conoscono confidenze fatte da lui personalmente a proposito dei
Polonais. Ma una volta ha confessato:
Mi schiacciano, sotto il peso di Ubu. Non è che una goliardata, e non è nemmeno mia.
(...) Scrivevo e ho scritto ben altre cose, io. Ma sono tutti lì a bloccarmi la strada con
Ubu. Devo parlare come lui, muovermi come lui, devo viverlo, non vogliono altro.

La figlia di Valette e di Rachilde dice di aver sempre sentito chiamare Jarry


con il nome di Ubu:

180
Era come una maschera, ogni tanto se la toglieva, da noi, in famiglia. E certe volte ci
mettevamo tutti a parlare come Ubu.8

Quel ruolo si è impadronito di Jarry. E lui lo ha recitato, quel ruolo, e si è


anche preso tutti gli applausi. Sulla scena della sua esistenza, c’è Ubu. Un
misto di Macbeth, di Falstaff, di Gargantua, di Tykho Moon, di Pulcinella. Un
personaggio che si erge sul teatro della vita gridando «Merdre!». Un
personaggio che scandalizza i salotti mondani con le sue provocazioni, con la
sua insolenza, con i suoi modi aggressivi da libertario anarchico – lontano
mille miglia da quei bei culi benedetti affondati nel velluto delle accademie.
Un personaggio la cui vita, infine, non è altro che una tragicommedia in un
atto.

181
2 agosto 1914

Quel giorno, una folgore piombò sul cuore


dell’uomo.
Joseph Delteil

Ubu non è un essere ragionevole.


Neanche il secolo. Ha appena raggiunto l’età della ragione, quattordici
anni, e va in guerra.
Il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando cade sotto il piombo di
un fanatico serbo. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.
Il 31 la Germania lancia un ultimatum alla Francia e alla Russia. Lo stesso
giorno Jean Jaurès viene assassinato. Il 1° agosto la Francia si mobilita. Il
giorno dopo, sotto un sole radioso, le truppe lasciano la Scuola militare e le
caserme di Parigi. Pieni di entusiasmo, l’elmetto al fianco, in un tintinnio di
spade, di sciabole e di baionette, bandiere e musica in testa, risalgono i viali,
verso le stazioni. Corazzieri, dragoni, artiglieri, fucilieri e fanti passano
marciando. Tutti gridano: «A Berlino!». Contano di arrivarci in una settimana
per ritornare subito a Parigi, lo scalpo del Kaiser sulla punta delle baionette.
Nei caffè di Montparnasse, si celebrano le future vittorie. Il carrefour
Vavin ha detronizzato il Lapin Agile. Alla vigilia della guerra, seguendo
Picasso, gli artisti hanno attraversato la Senna. Sono fuggiti dai turisti che
salgono a Montmartre. Il seme è stato gettato sulla riva destra. Ma il raccolto
lo si farà a Montparnasse.
La Closerie des Lilas non è più di moda. Si è imborghesita. Il pastis passa
da sei a otto soldi. Per rappresaglia, pittori e poeti se ne vanno. Aprono la
porta di due bistrot saldamente ancorati da una parte e dall’altra di un
carrefour molto largo: il Dôme e la Rotonde. Il primo ha aperto qundici anni
prima dell’altro. Ci sono tre sale in cui i tedeschi, gli scandinavi e gli
americani giocano al biliardo. Il secondo ha una slot-machine e una terrazza
esposta al sole. Presto si ingrandirà, inglobando il Parnasse e il Petit
Napolitain. È qui che gli artisti brindano alle vittorie a venire.
Quel 2 agosto, il carrefour Vavin assomiglia a tutti gli altri carrefour di

182
Parigi. Tranne che qui a sud si fa festa, mentre a nord si piange. La Rotonde
ha fatto il pieno. Di fronte, il Dôme è vuoto. I tedeschi hanno lasciato i
biliardi. Finiranno con in testa l’elmetto a punta, dall’altra parte della
frontiera. I poveri pittorucoli che una volta giuravano che l’arte non aveva
frontiere, sono andati melanconicamente ad accompagnare alla stazione i loro
amici tedeschi, convocati dall’imperatore Guglielmo. Sono partiti per Berlino,
o per Zurigo. Tra le urla della folla.
È il periodo dell’antigermanismo forsennato, e in tutti i campi. L’arte non
sfugge alla regola. Il giorno dopo la vendita della Peau de l’Ours, «Paris-
Midi» pubblica un articolo che dimostra quale fosse l’opinione comune:
Opere grottesche e informi di stranieri indesiderabili hanno raggiunto quotazioni
molto alte. Così la misura e l’ordine – qualità tipiche della nostra arte nazionale –
finiranno per scomparire. Con grande gioia di Tannhauser e dei suoi compatrioti che,
un giorno, non compreranno più quadri di Picasso ma si porteranno via gratis il
Museo del Louvre che gli snob infiacchiti o gli intellettuali anarchici – loro
incoscienti complici – non saranno capaci di difendere.1

È sintomatico il comportamento dello stesso Apollinaire. Condanna


duramente Romain Rolland e tutti gli scrittori la cui unica parte è quella della
pace. Proclama e rivendica i propri sentimenti antitedeschi. In occasione della
pubblicazione di Alcools, afferma che i tedeschi hanno tradotto Zone, la
prima poesia di Alcools, senza avergli mai dato un solo marco di diritti
d’autore. «Quando non danno fuoco alle cattedrali francesi, derubano i poeti
francesi».2
È forse perché non andrà mai al fronte che André Gide è uno dei pochi a
predicare la riconciliazione franco-tedesca, senza la quale, scrive, non si potrà
fare l’Europa? Ma Gide, per molto tempo, continua a predicare nel deserto.
Tutta la letteratura francese dell’epoca, fino agli anni Trenta, è segnata da
quel gretto patriottismo già denunciato alla fine del secolo precedente da
Remy de Gourmont.
Nel 1917 si arriverà a cambiare il nome dell’acqua di Colonia in acqua di
Louvain, quello dei pastori tedeschi in pastori alsaziani. La rue de Berlin
diventerà rue de Liège, la rue Richard Wagner rue Albéric Magnard. «Spero
proprio che il giorno della pace cambino il nome alla rue de la Victoire», dirà
Paul Léautaud, scandalizzato.3
La Rotonde sfugge un po’ alla regola: qui il nazionalismo è meno feroce
che altrove. Mentre passano i soldati, père Libion, il proprietario del caffè,

183
offre da bere fin dal mattino. Distribuisce ai suoi artisti le delizie delle sue
cantine. Tiene una mano sul fianco, con l’altra si arriccia i baffi. È tutto
vestito di grigio, come sempre. Guarda i soldati che risalgono il boulevard.
Dai marciapiedi, le signore lanciano fiori. Gli ufficiali, tunica nera e pantaloni
rossi, salutano con aria marziale. La Marsigliese... Tutti commossi.
Ma quando i soldati passano davanti alla Rotonde, le note si fanno più
aspre e le parole cambiano di tono. I soldati, e gli spettatori, insultano quei
giovanotti dall’aria straniera che bevono sì alla salute delle marce militari ma
che, quanto a uniforme, sfoggiano le loro camicie colorate. E si sente quel
grido – lanciato per primo da Maurras – che strazierà a lungo le orecchie del
secolo: «Fuori i meticci!».
È vero che non sono francesi, e lo si vede. Ma sono anche doppiamente
stranieri. Come le loro voci quando parlano, così i loro costumi hanno un
accento diverso. Anche il loro modo di vivere, anche il lavoro che fanno.
Certi vengono da paesi lontani, altri no. Ma hanno le stesse abitudini –
incomprensibili alla maggior parte della gente comune. Si tengono ai bordi.
Ai margini. Sono lontani da tutta quella gente che va dietro ai soldati.
Ma c’è un equivoco. Saranno «meticci», ma non sono imboscati. Stranieri,
certo. Diversi, senza dubbio. Ma se rientrano nel caffè, al riparo dietro le
tende del père Libion, non è per vigliaccheria ma per proteggersi da quegli
insulti, odiosi oggi come sempre. E i meticci non lo dicono, ma lo hanno letto
tutti l’appello lanciato da due di loro, l’italiano Ricciotto Canudo e lo svizzero
Blaise Cendrars:
Gli stranieri amici della Francia, che durante il loro soggiorno qui hanno imparato
ad amarla come una seconda patria, sentono il bisogno imperioso di offrirle il loro
braccio.
Noi intellettuali, studenti, operai, uomini validi – nati altrove, ma venuti a vivere qui
– noi che abbiamo trovato in Francia il pane e il lavoro, raggruppiamoci in un fascio
di volontà al servizio di una più grande Francia.

E un’altra cosa che non dicono è questa: siccome il 1° agosto di quell’anno


cade di sabato, stanno aspettando il lunedì per iscriversi ai centri di
reclutamento.
Il lunedì, polacchi in testa, sono quasi in centomila ad andare in rue Saint-
Dominique per arruolarsi nella Legione. Poi, foglio di viaggio in mano,
vanno al carreau du Temple a comprarsi cappotti, pantaloni, giubbe, kepì.
Nel giro di qualche settimana, i vecchi del Bateau-Lavoir si separano per
sempre, e Montparnasse perde i suoi fratelli stranieri, partiti a difendere la

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patria adottiva nelle trincee del nord. Apollinaire va ad arruolarsi a Nizza.
Pablo Picasso va ad accompagnare alla Gare d’Avignon Braque e Derain, che
partono per la guerra. Moïse Kisling ritorna dall’Olanda apposta per
arruolarsi, e si arruolano anche Blaise Cendrars, Per Krogh, Louis
Marcoussis, Ossip Zadkine... Sono in tanti, ad arruolarsi – stranieri venuti a
Parigi qualche anno prima perché Parigi è la Francia, e la Francia è la patria
di Cézanne, degli impressionisti, di Van Gogh, della libertà...
Il 2 agosto, a Parigi, Frantz Jourdain, presidente illuminato del Salon
d’Automne, grida: «Finalmente, il cubismo è fottuto!». Probabilmente non la
pensano così Léger, Lhôte, e Dunoyer de Segonzac, mobilitati con la loro
classe di leva, e nemmeno Carco e Mac Orlan, anche loro in partenza. E
meno che mai Modigliani e il pittore italo-cileno Ortiz de Zarate, respinti dalla
Legione e dall’esercito perché sono troppo deboli e gracili per maneggiare il
fucile d’ordinanza. Anche Mané-Katz è troppo piccolo. E Ehrenburg rischia
la tubercolosi. Così restano a casa. Come Diego de Rivera, Brancusi, Gris e
Picasso.
Foujita parte per Londra, poi andrà in Spagna e infine tornerà a Parigi.
Pascin farà una tappa in Inghilterra prima di andare negli Stati Uniti dove,
prima di lui, sono arrivati Picabia e Duchamp. Delaunay, lui, ha bisogno di
un alibi. Alcuni sostengono che sia stato riformato per un soffio al cuore, o
addirittura per accessi di follia. Cendrars rompe con Delaunay. Come molti
altri, pensa che Delaunay si sia semplicemente imboscato in Spagna e in
Portogallo con la moglie Sonia.
Nei giorni, nelle settimane che verranno, che cosa resta a Montmartre e a
Montparnasse? Viali deserti, caffè che devono chiudere all’ora del
coprifuoco, il bal Bullier trasformato in deposito di munizioni. E una miseria
nera – ma questa volta, e per molto tempo, senza i colori della festa. C’è poco
da mangiare, poco da bere. Il sindaco del XIV, Ferdinand Brunot,
grammatico, professore alla Sorbona, dà le dimissioni per occuparsi
esclusivamente del suo arrondissement. Apre mense popolari per i poveri. Il
partito socialista ha le sue «soupes communistes». Negli studi i pittori rimasti
a Parigi muoiono di freddo e di fame, di povertà.
La Ruche viene requisita per far posto ai profughi venuti dalla regione
della Champagne. I prati si trasformano in orti. Tagliano gli alberi, ne fanno
legna da bruciare. Una mattina d’inverno, il portiere che, l’estate, si divertiva
a innaffiare i suoi inquilini con la canna dell’acqua, sale fino all’atelier di
Chagall. Chagall, partito in vacanza per Vitebsk alla vigilia della guerra, non è
potuto rientrare (ritornerà solo nel 1923). Il portiere prende tutte le tele che

185
trova. Si assicura che la pittura renda impermeabili le tele, poi, tutto
soddisfatto, ridiscende al pianterreno. Porta i quadri nella sua stamberga. La
tettoia è sconnessa. La smonta. Poi, con un sorriso da vero mecenate, la
rimpiazza con quella copertura piovuta dal cielo: i dipinti di Chagall.

186
Sotto i lampadari velati

Abbiamo a Montparnasse certi ritrovi per artisti che


al naturale temperamento di costoro danno
l’occasione di dimenticare – a spese della decenza e
fino alla danza – tutti i dolori, nazionali e no.
Max Jacob

Parigi la guerra, Parigi la miseria. La città si riveste dei colori spenti della
mancanza, delle restrizioni. Hanno schermato i lampioni, i fari delle
automobili. Alle finestre, i vetri si ornano di nastri di carta adesiva contro gli
spostamenti d’aria dei bombardamenti. Bisogna abituarsi a regole nuove.
Caffè e ristoranti chiudono presto. La miseria stende su tutti il suo grigiore. E
tutti scoprono la vecchia legge dei poveri: la vita è un tubo digerente; soltanto
i soldi fanno venire l’acquolina in bocca: quindici soldi un bollito, tredici una
porzione di spinaci, due soldi una libbra di pere, un soldo la cioccolata...
La guerra taglia i viveri a tutti gli artisti stranieri che vivono a Parigi. I
mercanti hanno abbandonato la città. Le gallerie sono chiuse. I soldi che
qualche artista riceveva dall’estero non arrivano più. Bisogna aspettare ore
per poter comprare un pezzo di carbone – tanto per riscaldarsi il tempo di un
rimpianto. Lo stesso Rodin, anche se è ammalato, gela sul suo monumento.
Nessuno pensa a fargli avere qualcosa da mettere nella stufa, per potersi
curare.
Gli artisti, comunque, sono solidali tra loro. Non è una novità. Già una
volta Caillebotte aveva sostenuto gli amici impressionisti comprando quadri,
organizzando esposizioni, sovvenzionando Monet, Pissarro e Renoir. Negli
anni Dieci, i russi di Parigi avevano organizzato balli di beneficenza per
venire in aiuto ai russi più poveri. Nel 1913, in «Vers et prose», Salmon, Billy
e Warnod avevano annunciato la creazione di un comitato di mutua assistenza
incaricato di raccogliere fondi per gli scrittori poveri. Dal 1914, nella sua
cameretta di rue Gabrielle, Max Jacob scrive agli amici partiti per il fronte e
riceve da loro le notizie che poi comunica a tutti. Nel 1915 il poeta organizza
una sottoscrizione per mandare nel Midi il pittore italiano Gino Severini, che

187
sta morendo di fame e di tubercolosi. Ortiz de Zarate, grande amico di Max
Jacob (anche a lui era apparso, su una parete, il Signore), fa la stessa cosa.
Un giorno trova Modigliani svenuto nello studio: chiama a raccolta gli amici
per mandare il pittore a curarsi in Italia, in famiglia.
Oltre alle mense municipali, ci sono anche mense organizzate da privati.
Come quella che Marie Vassiliev mette a disposizione dei pittori in impasse
du Maine, dove abita. Per tutta la durata del conflitto, da Marie Vassiliev si
incontrano gli artisti che abitano a Montparnasse da sempre, i superstiti della
coscrizione e del Bateau-Lavoir, i grandi personaggi degli anni della guerra e
del dopoguerra.
Marie Vassiliev viene dalla Russia. Dopo aver studiato pittura a Mosca, ha
soggiornato in Italia. È arrivata in Francia nel 1912. È stata allieva di Matisse,
poi ha fondato un’accademia di pittura nell’impasse du Maine. Secondo
Youki Desnos, poche settimane dopo il suo arrivo, mentre si riposa su una
panchina, Marie Vassiliev viene abbordata da un vecchio signore. È ben
messo, educatissimo, discreto, suona passabilmente il violino e dipinge in
modo superbo. Le chiede di sposarla. Ha quarant’anni più di lei. È stato
funzionario del dazio a Parigi. Si chiama Henry Rousseau.
Marie Vassiliev non accetta la proposta. Dipinge, scolpisce, fa le carte agli
amici. È grazie alla sua petulante generosità che, in quel tempo di guerra,
sono in tanti a poter ancora coniugare al presente un triste passato anteriore.
Dicono che prima del 1914 la zarina le mandasse un po’ di rubli, e dicono
anche che è stata vista a Monaco, intenta a distribuire volantini comunisti.
Alla fine della guerra, sarà sospettata di lavorare per conto dei bolscevichi.
La sua mensa è conosciuta da tutta Montparnasse. Dato che è un luogo
privato, non deve osservare il coprifuoco. Quando gli artisti bussano alla sua
porta, per loro è come se le promesse della notte cancellassero i tradimenti
del giorno.
Quadri alle pareti. Chagall, Léger, Modigliani. Per terra, tappeti sfrangiati.
Sui ripiani, le bambole-ritratto di feltro fabbricate da Maria Vassiliev per
venderle al sarto Poiret o ai borghesi della rive droite che le ammucchiano
sui divani nei loro salotti. Dappertutto sedie spaiate, pouf scuciti, centinaia di
oggetti pescati al mercato delle pulci.
Dietro al bar, in cucina, piccolissima, vispa come un diavoletto, officia la
fata del posto. Su due fornelli, uno a gas, l’altro ad alcol, Marie e una cuoca
fanno cuocere la zuppa per tutti. Una tazza di brodo, un po’ di verdura,
qualche volta un dolce, costano qualche decina di centesimi. I più ricchi
hanno diritto a un bicchiere di vino e a tre sigarette Caporal blu.

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Mangiano, cantano, suonano la chitarra. Recitano versi. Parlano in russo,
lanciano esclamazioni in ungherese, ridono in tutte le lingue. Quando urlano
le sirene dell’allarme, basta cantare più forte per nascondere la paura,
l’imminenza del pericolo.
Il giorno dopo, i pittori si ritrovano al Dôme o alla Rotonde. Ci passano
giornate intere. Fa un bel caldo, nei caffè. E si può rubare qualche avanzo.
Libion non brontola. Anche prima della guerra chiudeva un occhio se i suoi
clienti artisti facevano scivolare nella borsa o in tasca le sottocoppe e i
tovaglioli, che gli servivano per dipingere. Non transige solo su due punti: le
signore devono tenere il cappello in testa e i signori devono aprire altrove le
bottigliette di etere o le bustine di cocaina. Per il resto, il padrone è di una
bontà esemplare. Ha dato istruzioni ai camerieri perché non sollecitino i
clienti a replicare le ordinazioni. Così, con un café-crème – la bevanda tipica
in quei tempi di povertà – tutti possono starsene per un bel po’ al caldo.
Perché il café-crème? Perché è una cosa da poveri: non abbastanza buono da
essere bevuto in un sorso solo, non abbastanza cattivo da lasciarlo nella tazza,
caldo e non caro. I consumatori della Rotonde lo bevono a piccoli sorsi. Si
lavano nelle toilette, si scaldano al calore della stufa. Libion arriva al punto di
fare la coda dal tabaccaio per procurare ai suoi artisti le sigarette che loro non
possono comprarsi. Gli vuole bene, ai suoi artisti. Li protegge. Libion
sostiene a Montparnasse il ruolo che a Montmartre era del père Frédé.
La maggior parte dei pittori e dei poeti del Bateau-Lavoir sono al fronte,
ma quelli che sono rimasti a Parigi si ritrovano anche loro da Libion. I vecchi
di Montmartre scoprono i personaggi di Montparnasse – che a volte già
conoscono. Braque, Derain, Apollinaire sono al fronte. Max Jacob,
Vlaminck, Salmon e Picasso rappresentano la sparuta guarnigione di place
Ravignan. Frequentano gli artisti che stanno per impossessarsi del carrefour
Vavin per rivestirlo di colori luminosi come quelli della Butte di ieri: il
polacco Kisling, il giapponese Foujita, l’italiano Modigliani, lo svizzero
Cendrars, il lituano Soutine... Per tutti quelli che sono rimasti a Parigi, per i
soldati in licenza, i riformati, i convalescenti, passare la soglia della Rotonde
è come fare arretrare la Marna fino ai confini del mondo.

189
Chaïm e Amedeo

Mi tira lo stomaco.
Chaïm Soutine

Chaïm Soutine va alla Rotonde per imparare a leggere. Quando il pittore


non ha i soldi per pagare il café-crème alla sua insegnante in cambio delle
lezioni, Libion mette mano al portafogli. Contribuisce così alla diffusione
della lingua francese. Soutine ne ha davvero bisogno.
La miseria di Soutine è terribile. È consumato dentro, roso dall’angoscia,
divorato dal bisogno. Molti lo detestano. Chagall soprattutto. Non sopporta la
sua tetraggine, la sua rozzezza, la sua brutalità.
Soutine alla Rotonde sembra un Quasimodo con la febbre. Seduto in
fondo al caffè, ripete le parole che la maestra gli insegna. La maestra è brutta.
Soutine non la guarda. Si protegge con un cappotto grigio a brandelli. La
faccia gli affonda nelle spalle larghe. Il mento gli si piega sul collo, il collo è
infagottato in una sciarpa di lana. I capelli, di un nero lucente, sono coperti
da un cappello con la tesa abbassata sugli occhi ardenti. Soutine guarda tutto,
guarda dappertutto. Deve vedere chi lo ama, chi non lo ama, chi gli farà del
male, chi gli offrirà un café-crème o una sigaretta. Muore di freddo. Muore di
fame. Allora dice: «Mi tira lo stomaco». Fruga nelle pattumiere. Cerca un
vestito vecchio, uno straccio, un paio di scarpacce da scambiare con
un’aringa, un uovo.
Offrire un pasto a Soutine è il regalo più bello che gli si possa fare. A
tavola, un orco. Non inghiotte: si ingozza. Sgranocchia le ossa. Succhia la
salsa. Dalla fronte al mento, la faccia gli diventa una macchina masticatoria.
Cibo dappertutto. Si pulisce la bocca con le mani. Si lecca le dita. Non sa
come ci si comporta. Non sa vivere.
Gli piacciono le belle case. Ma non vuole sporcare. Un giorno che è
invitato in un hôtel particulier, da gente ricca, a un certo punto chiede scusa,
si alza. Lascia la tavola, scende nel parco. Cerca un albero. Si sbottona i
pantaloni e piscia contro il tronco. «Perché?» gli chiedono.
Con il suo accento spaventoso, risponde: «È così bello da voi che non

190
vorrei sporcare...».
Un’altra volta il suo mercante gli offre una camera in un albergo di lusso di
Marsiglia. Soutine sparisce e va a passare la notte vicino al porto, in un
bordello per marinai.
Gli piace la boxe. Quando tutti urlano perché uno dei pugili è al tappeto, la
faccia tumefatta, piena di sangue, Soutine sorride, beato. Si alza, applaude al
momento sbagliato, controtempo. La sua pittura è come lui. Tormentata,
violenta, ricca di deformazioni. E Soutine è selvaggio come la sua pittura.
Parossistico.
Non dipinge su tele nuove ma su croste che compra al mercato delle pulci,
a Clignancourt. Quando il risultato non lo soddisfa, cioè quasi sempre,
squarcia la tela a coltellate. Fa così anche quando qualcuno a cui ha fatto
vedere un suo lavoro non si dimostra abbastanza entusiasta. I pittori di
Montparnasse si sono passati parola: nessuno deve criticare le opere di
Soutine, altrimenti lui le fa a pezzi.
Quando non ha più tele, riprende quelle squarciate e le ricuce. Poi dipinge
quelle facce deformate, quelle membra contorte, quegli eccessi che fanno il
suo genio. È ancora più brutale di Van Gogh, più fauve di Vlaminck.
Non va nei Salon dove si espone la pittura contemporanea, passa le
giornate al Louvre davanti ai suoi venerati maestri fiamminghi. E anche
davanti a Courbet, a Chardin – davanti a Rembrandt, soprattutto, che per lui
è il migliore. Impara la luce. Sta cercando la via di scampo che la vita gli
nega. Curvo, gli occhi bassi, le mani infilate nelle tasche del cappotto in
fondo alle quali si sbriciolano mozziconi di sigaretta, cerca un osso da
rosicchiare, un bicchiere da bere, un dettaglio da dipingere, una ragione per
sorridere.
Quando la porta della Rotonde si apre su Modigliani, la sua faccia si
illumina di colpo. Lascia la lezione di lingua per guardare l’italiano che passa
in mezzo ai tavolini. Amedeo è l’esatto contrario di Chaïm. Va dall’uno
all’altro, sorride, stretto in un panciotto e in una giacca di velluto. Porta una
camicia di tela da materasso. Una lunga sciarpa lo segue come una scia. È
bellissimo, simpatico. Un attore.
Si siede davanti a uno sconosciuto, allontana tazza e piattino con le lunghe
mani nervose, tira fuori di tasca un taccuino e una matita, si mette a
canticchiare e incomincia a disegnare un ritratto senza nemmeno chiedere il
permesso del cliente. Un tratto solo. Firma. Stacca il foglio e lo tende
orgogliosamente al suo modello.
«È suo in cambio di un vermut».

191
Così beve, così mangia.
Soutine, lui, non ha un talento del genere. Si guadagna la vita caricando
casse alla stazione. Sarebbe d’accordo, quando Modigliani sostiene con forza
che gli artisti devono lavorare solo alla loro arte, e che dunque lui non si
sarebbe mai guadagnato da vivere altro che con i pennelli. Ma sa dirlo solo
sottovoce. E soltanto a se stesso.
Mentre l’italiano si toglie di tasca la Divina Commedia e declama ad alta
voce Dante per tutti i clienti del caffè, il lituano aspetta di tornare a casa sua
per leggere Baudelaire. E va da solo ai concerti. La musica classica lo manda
in estasi.
Soutine non da niente perché non ha niente. Modigliani ha solo i suoi
disegni, ma mezza Montparnasse ne possiede uno: quando non li scambia per
un bicchiere, li regala. Li vende anche, per qualche soldo. La sua generosità è
leggendaria: se ha due biglietti di banca, è capace di lasciarne cadere uno ai
piedi di un povero più povero di lui, e poi di dirgli che dev’essergli caduto
qualcosa. Lo racconta André Salmon: la prima volta che Modigliani aveva
incontrato Picasso, in un caffè di rue Godot-de-Mauroy, gli aveva regalato i
pochi soldi che possedeva.
Modigliani porta vestiti vecchi, lisi, ma li porta come un principe. È
sempre rasato di fresco. Si lava, anche se l’acqua è gelata. Soutine è sporco.
Un giorno, un dottore gli scoprirà un nido di cimici nell’orecchio destro.
Soutine proprio non piace alle donne. Non sa come abbordarle. È timido.
A Vilnius, una ragazza di una famiglia borghese ebrea si innamora di lui. Lo
invita a casa dei genitori. Soutine si comporta rozzamente, come al solito. Fa
schizzare salsa di pomodoro sulle pareti e rosso d’uovo sul tappeto. In vita
sua, comunque, molto gli è stato perdonato. Le buone maniere? Ben altri
sono i talenti degli artisti.
Quella volta, a Vilnius, aspettano che lui faccia la domanda di matrimonio.
Lui cerca le parole, i gesti. Non li trova. Maldestro, spaventato. Si fanno in
quattro per aiutarlo, ma lui non capisce. Per dargli una mano a capire, i
genitori della ragazza comprano un appartamento, destinato alla giovane
coppia. Lo portano a vederlo. Molto bello, dice Soutine. Chissà se ha pisciato
nel caminetto. Comunque, non dice una parola. Scendono. A pianterreno la
ragazza decide di scegliersi un altro marito.
Con gli anni, Soutine riesce a vincere la sua timidezza. In una camera
d’albergo, con una donna di servizio. Trova il coraggio di passarle il pollice
sul palmo della mano. È felice. Trova il coraggio di farle un complimento:
«Ha le mani lisce come piatti!».

192
A Parigi va al bordello. Si siede sul velluto rosso del divano. E quando la
sorvegliante batte le mani, e entrano le ragazze, e sorridono, e fanno
mossette, Soutine non guarda le più belle, le più desiderabili. Sceglie le più
brutte. Si porta in camera quelle che assomigliano di più ai suoi dipinti –
quelle dai tratti deformi, la pelle arrossata dall’alcol, dalle sconfitte.
Modigliani seduce. Le donne sono attratte dalla sua foga, dalla sua
bellezza, da quell’aria aristocratica che tutti gli riconoscono. Ha avuto un
figlio (lo ha sempre negato), nato da un suo amore passeggero con una
studentessa canadese, Simone Thiroux, che lo ama ancora e gli scrive lettere
toccanti:
Il mio pensiero più tenero va verso di voi in occasione di questo nuovo anno che io
vorrei fosse l’anno della riconciliazione tra di noi (...) Giuro sulla testa di mio figlio,
che per me è tutto, che non ho in mente niente di cattivo. Vi ho amato troppo, e soffro
talmente che reclamo questa cosa come un’ultima supplica (...) Vi supplico di avere
per me uno sguardo benevolo. Consolatemi un poco, sono troppo infelice e chiedo
solo un po’ di affetto, mi farebbe tanto bene...1

Ma Modigliani è innamorato di una poetessa inglese, corrispondente a


Parigi di «The New Age». Beatrice Hastings è bella, elegante. Spesso indossa
un vestito nero decorato dal suo amante. Beve whisky. Ha gli occhi verdi,
porta cappellini inverosimili. È esuberante, ricca, colta. Suona il piano. È
amica di Catherine Mansfield e, per l’epoca, un’indecente rivoluzionaria: si
batte per l’aborto.
Beatrice Hastings porta l’amante a Montmartre, dove vive. Fanno l’amore e
si picchiano, si insultano in pubblico, giocano all’amour fou, alla passione
devastante. Modigliani è geloso. Al Dôme, da Baty, da Rosalie o alla
Rotonde, contano i punti dei loro incontri di pugilato. Le scenate di
Modigliani sono plateali, clamorose. Soprattutto se scaldate da qualche
bicchiere di assenzio o di curaçao. Allora diventa violento. O magari si mette
a cantare a squarciagola per strada, abborda i passanti, piroetta su e giù per i
marciapiedi. Capita anche che si addormenti contro una pattumiera. Lo
sloggiano gli spazzini, al mattino.
Ci vogliono dieci bicchieri perché Soutine perda un po’ il controllo e
accetti di alzarsi e di tentare qualche passo di ballo maldestro –
accompagnandolo con un paio di strofe cantate in yiddish. Dopo di che, si
siede e piange.
Amedeo è lento a sgelarsi. La sua risata, una risata di bambino, si piega, si
spezza, si fa amara. Per finire in silenzio, in nostalgia.

193
Un po’ più tardi, Amedeo chiede a Soutine di cantare ancora. Soutine
risponde che non sa cantare.
«Allora di’ qualche parola in yiddish».
«Non parlo yiddish».
«Ma ieri...».
«Non hai sentito bene».
«E il tuo nome? Chaïm, non vuole dire vita?».
«Non mi ricordo».
Soutine ha dimenticato tutto. Giura di non parlare yiddish. Giura anche di
non provare più nessun interesse per la sua vita di una volta. Disprezza la sua
famiglia e il villaggio dove è cresciuto – e che, a differenza di Chagall e di
Mané Katz, non ha mai dipinto, anche se la sua attrazione per il sangue degli
animali deriva forse dai riti della sua infanzia.
Modigliani viene dal sud. Il sole d’Italia è più leggero della luna russa, e i
sefarditi sono più sensibili alle bellezze del mondo. Amedeo è ebreo, e vuole
che lo si sappia. Fa a pugni con gli antisemiti. E poi è italiano, e non lo
dimenticherà mai. A Parigi gli manca il suo paese, a Livorno non vede l’ora
di ritornare a Parigi. Dice sempre che l’Italia lo rimette in forze, ma che riesce
a dipingere soltanto quando è tormentato. Il suo tormento è Montparnasse.
La famiglia lo ha sempre sostenuto. Quando sceglie di abbandonare gli
studi per dedicarsi alla pittura, nessuno glielo impedisce. Nel 1902 si iscrive
alla scuola libera di nudo di Firenze, l’anno dopo all’Accademia di Belle Arti
di Venezia. Nel 1906 arriva a Parigi. I suoi sono d’accordo. Sua madre gli ha
dato un po’ di soldi. Ritornerà spesso a Livorno.
Soutine ha vissuto in un ghetto di Smilovitchi, vicino a Minsk. È il decimo
figlio di un piccolo sarto poverissimo – che picchia il figlio se lo sorprende a
disegnare. Anche i suoi fratelli più grandi lo prendono in giro per la sua
mania di fare l’artista. Il padre ha deciso: Chaïm farà il calzolaio. A sedici
anni, trasgredendo la Legge, Chaïm fa il ritratto del rabbino del villaggio. La
punizione è immediata: lo chiudono nella cella frigorifera del macellaio, lo
picchiano selvaggiamente. Ma alla fine il macellaio gli dà venticinque rubli.
Con quel denaro, Soutine parte per Minsk. Lì prende lezioni di disegno e
intanto lavora come ritoccatore in un laboratorio fotografico. Poi si iscrive
all’Accademia di Belle Arti di Vilnius, dove incontra Kikoïne e Krémègne.
Grazie alla generosità di un medico, parte per Parigi. A quel tempo Soutine
non ha letto quasi niente. Modigliani conosce Mallarmé e Lautréamont. Nella
biblioteca di famiglia ha scoperto, tra gli altri, Nietzsche, D’Annunzio,
Bergson, Kropoktin. Suo fratello è un militante socialista che prima di essere

194
eletto deputato conoscerà la prigione. In casa Soutine non si faceva politica.
Fino all’arrivo di Barnes, nel 1922, Soutine vive in una povertà che rasenta
la miseria più nera. Modigliani può contare, di tanto in tanto, sul sostegno
della famiglia.
Quando arriva a Parigi, nel 1906, Modigliani scende in un buon albergo
alla Madeleine. Segue i corsi della Scuola d’Arte Colarossi, poi affitta uno
studio a Montmartre. Passa da una camera d’albergo all’altra, abita per un po’
al Bateau-Lavoir, poi in una rimessa in cima alla rue Lepic. Nel 1910 finisce a
Montparnasse. I soldi che la madre gli ha mandato dall’Italia li ha spesi senza
risparmio. E non lo rimpiange. Quello che conta è la sua libertà. E la sua arte.
Modigliani è coraggioso. Alla dichiarazione di guerra vuole arruolarsi. Le
autorità militari lo respingono perché è troppo debole. Ne prova una gran
pena – cosa che non gli impedisce di dichiarare a voce alta il suo
antimilitarismo. Un giorno lo prendono a botte perché ha insultato alcuni
soldati serbi di passaggio a Montparnasse.
Soutine, lui, ha paura di tutto. Anche degli impiegati statali, che gli
ricordano i funzionari antisemiti del suo paese. Quando deve presentarsi in
qualche ufficio, si fa accompagnare da un amico – nel caso si sentisse male.
Soutine ha pochi amici. Lui e Kikoïne sono nati nella stessa città. Hanno
studiato pittura a Minsk. Hanno viaggiato insieme da Vilnius a Parigi. Abitano
tutti e due nello stesso quartiere di artisti, ma non si parlano. Chaïm non
stima i suoi compatrioti – né Kikoïne né Krémègne, che si vanta di essere il
suo grande rivale.
Modigliani lo conoscono tutti. Nel 1907, un anno dopo il suo arrivo a
Parigi, ha conosciuto il dottor Paul Alexandre, che è stato il suo primo
mecenate, e uno dei primi a procurargli l’hashish. Il dottore ha affittato una
casa in rue du Delta. Ci vengono gli artisti poveri, come Gleizes, Le
Fauconnier, Drouard, Brancusi. Modigliani attacca sulle pareti i suoi quadri.
Paul Alexandre ha posato per lui. È Paul Alexandre che lo ha convinto a
esporre al Salon des Indépendants del 1908.
Apollinaire ha aiutato Modigliani a vendere qualche quadro. Paul
Guillaume, il suo primo mercante, gli è stato presentato da un altro amico,
Max Jacob. Con Max, Modigliani parla di religione e di ebraismo. Gli ha fatto
un ritratto e glielo ha regalato con questa dedica: «A mio fratello, con grande
tenerezza».
Modigliani è anche legato a Frank Haviland, che gli offre la propria casa
come studio.
Fa scoprire Parigi a Anna Achmatova. Insieme, recitano poesie di Verlaine.

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Protegge Utrillo, il suo grande amico della Butte. Lo sente più vicino di
Picasso.
Modigliani è anche l’amico di Soutine. Lo ha preso sotto la sua protezione.
È lui che gli ha insegnato a masticare con la bocca chiusa, a non infilare la
forchetta nel piatto dei vicini, a non russare quando si addormenta al
ristorante. Per Chaïm, Amedeo è come un fratello. Gli giura eterna
riconoscenza.
I due uomini sono profondamente diversi ma i legami che li uniscono
sono solidi. Come Soutine, Modigliani distrugge, quando ne è insoddisfatto,
gran parte del suo lavoro – tele, sculture. A Livorno, ha buttato nel canale
molte sculture.
L’uno e l’altro hanno il culto dell’indipendenza. Non fanno parte di
nessuna banda. Non si sentono vicini né a quelli del Bateau-Lavoir né ai
futuristi italiani – per i quali Modigliani non ha voluto garantire. Non sono
cubisti, non sono fauves, non hanno frequentato l’accademia Matisse, vanno
di rado dagli Stein, in rue des Fleurus. Vogliono essere liberi, fuori da
qualsiasi scuola.
L’uno e l’altro devono combattere contro lo stesso nemico che li distrugge
dentro. Modigliani soffre di una lesione polmonare contratta quando era
bambino – e che, a forza di alcol e di droghe, finirà per degenerare in
tubercolosi. Soutine ha il verme solitario e gli fa male lo stomaco. A forza di
saltare i pasti finirà per prendersi un’ulcera. Ogni tanto l’italiano è preso da
spaventosi accessi di tosse. Il russo manda giù quantità impressionanti di
bismuto che alleggeriscono a stento la morsa del dolore. Infine, ognuno di
loro si porta dentro il proprio dramma. Il dramma di Chaïm, lo sanno tutti, è
la sua infanzia. Per capire quanto gli pesi il suo passato, basta vederlo
camminare per strada, curvo, le mani infilate nelle tasche del cappotto
logoro.
Amedeo nasconde il suo dramma sotto la sua esuberanza. Cerca di
soffocarlo con l’alcol, con la droga. Ma Soutine non si fa ingannare. Conosce
il dolore profondo che Amedeo tenta di vincere. Sa che cosa cerca di
dimenticare con le donne o al banco del bistrot. Lo sa perché una volta, nel
1910, hanno abitato insieme alla Cité Falguière. A quel tempo Modigliani
combatteva contro se stesso, contro gli attacchi della malattia, per realizzare il
suo solo, vero, grande sogno. Non la pittura. La scultura. Solamente la
scultura.

196
La Villa Rosa

Survage:«Perché nel ritratto mi hai fatto un occhio


solo?».
Modigliani: «Perché con uno guardi il mondo; con
l’altro guardi dentro di te».

Nella corte della Cité Falguière, Foujita, Brancusi, Soutine e Lipchitz


guardano Modigliani che scolpisce. Mazzuolo e scalpello in mano, l’italiano
dà grandi colpi sui blocchi di pietra. Diventeranno teste, cariatidi. Sono le
«colonne di tenerezza» destinate a un «Tempio della Bellezza». Niente
bottiglie, niente bicchieri. Per la prima volta dopo tre anni dal suo arrivo a
Parigi, Amedeo beve poco. Non ha ancora scoperto l’hashish – che gli farà
vedere nuovi colori. Del resto in questo periodo Modigliani non pensa alla
pittura.
L’italiano alza gli occhi, guarda il sole. Scolpisce. Dalla pietra si alza un
velo di polvere che gli entra in gola, gli scende nei polmoni. Un accesso di
tosse. Batte con il mazzuolo sullo scalpello. Si ferma, prende un annaffiatoio
e bagna la scultura. Altri colpi di mazzuolo. Un altro accesso di tosse. Lascia
cadere il mazzuolo e lo scalpello. Si piega in due, porta la mano alla bocca. E
rinuncia.
Non ha i soldi per comprare la pietra che gli serve per le sue sculture, e
allora si procura il calcare dai muratori italiani che stanno costruendo la
nuova Montparnasse. Quando non possono darglielo, chiama qualche amico,
aspetta che si faccia buio e va con una carriola a rubarlo nei cantieri deserti.
A volte la piccola banda scende nel metrò in costruzione e porta via qualche
traversa, che va subito a finire nella corte della Villa Rosa.
La sera, Modigliani e Brancusi parlano di Rodin. Non apprezzano, di
Rodin, quell’eccesso di modellato, tutta quella creta che ingombra il suo
studio. Per loro la scultura su pietra è più naturale. Rodin è un accademico.
Loro preferiscono la libertà e le invenzioni dell’arte negra. Le opere di
Modigliani, con quella facce allungate e deformate, mostrano questa
influenza. Vengono in mente le sculture esposte al Musée de l’Homme, al

197
Trocadero – già scoperte da Matisse, Picasso, Vlaminck, Derain.
Paul Guillaume, che nel 1914 diventerà il mercante dell’italiano, espone
nella sua galleria di rue de Miromesnil opere primitive che evidentemente gli
inquilini della Cité Falguière già conoscono. Georges Charensol racconta che
un giorno che si trovava nella sua galleria in compagnia di Francis Carco
aveva visto Paul Guillaume prendere una statuetta del Congo e strofinarla per
terra, tra la polvere. Carco aveva chiesto al mercante perché lo facesse.
«Semplice», aveva risposto tranquillamente Paul Guillaume. «La sto
invecchiando».
Tra il 1909 e il 1914 Modigliani lavora la pietra: Brancusi gli dà una mano.
Il romeno è arrivato a Parigi nel 1904. È venuto a piedi da Bucarest. Figlio di
due contadini poveri, li ha lasciati all’età di nove anni. Ha imparato da solo a
leggere e a scrivere. Presta i suoi attrezzi, offre il suo studio. Per lui, come
per Foujita, Zadkine o Lipchitz, Amedeo è solo uno scultore. Conoscono i
suoi disegni a matita blu, ma non sanno che usa anche i pennelli. Nel 1914, in
«The New Age», Beatrice Hastings pubblica qualche articolo dedicato al suo
amante. Non una sola volta si parla di pittura. Sua figlia Jeanne scriverà: «La
vocazione prima del giovane Dedo, appena uscito dall’infanzia e nato all’arte
(...), era proprio la scultura».1
È qui che ha origine la tragedia di Modigliani: poco prima della guerra,
deve rinunciare alla sua vocazione. La pietra è troppo cara. I compratori non
si sbilanciano. Lui rifiuta lavori che gli permetterebbero forse di continuare.
E poi c’è quella polvere che gli arriva fino ai polmoni. Modigliani scolpisce.
Si mette a tossire. Una volta gli amici lo trovano svenuto ai piedi delle sue
sculture. Le giornate passate al sole, a Livorno o altrove, non servono. La
cattiva salute non gli permette di realizzare il suo sogno: diventare scultore.
E allora farà il pittore. I quadri dipinti durante la guerra e quelli che
verranno dopo portano il segno di questo desiderio irrealizzato: sembrano
sculture su tela. Quelle forme pure, quei corpi dalle membra allungate,
ricordano stranamente le teste scolpite tra il 1906 e il 1913.
Nel 1913 Modigliani lascia la Cité Falguière per il boulevard Raspail. Ha
trovato uno studio in una corte. Una costruzione di vetro. Freddo, vento e
pioggia passano dagli interstizi. Lui ci dipinge e ci vive. Declama Dante.
Quando ha troppo freddo, si rifugia dagli artisti più ricchi, con la scusa di
fargli il ritratto. Così può contare su un tetto e su un po’ di materiale per
dipingere. Fa il ritratto di Frank Haviland, di Léon Indenbaum, di Jacques
Lipchitz con la moglie. Quest’ultimo quadro lo dipinge in un giorno, come fa
sempre. Ma Lipchitz dice che secondo lui il ritratto non è finito. Amedeo non

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è d’accordo, se ci lavora ancora finirà per rovinarlo. Lipchitz insiste: ma è
solo per poterlo pagare di più. Alla fine, Modigliani gli dà retta. Il ritratto di
Lipchitz e della moglie è uno dei pochi che non abbia dipinto di getto.
Dopo il lavoro, Modigliani beve. Passa dall’hashish alla cocaina. Un
giorno che gli amici gli hanno dato un po’ di soldi per comprarne una dose
collettiva, ritorna «beato e sniffante, perché se l’era fatta fuori tutta da solo».2
Le dilapida senza risparmio, le sue febbri e le sue furie. Ma è un’anima
grande. Vlaminck, che pure è così duro nelle critiche, scriverà:
L’ho conosciuto bene, Modigliani! L’ho conosciuto quando aveva fame. L’ho visto
ubriaco. L’ho visto con un po’ di soldi. Mai l’ho visto mancare di grandezza e di
generosità, mai l’ho visto dare il minimo segno di bassezza. Mai l’ho visto irritato,
infuriato, perché la potenza del denaro, che lui tanto disprezzava, si opponeva alla
sua volontà, al suo orgoglio.3

Rosalie è la prima a far le spese delle intemperanze di Modigliani. Italiana,


è una vecchia modella di Montparnasse. Ha aperto un bistrot in rue
Campagne-Première.
Prima della guerra, Rosalie serviva pasta al ragù ai suoi clienti – i muratori
che lavoravano nel quartiere, i pittori senza soldi, i topi venuti dalle ex
scuderie lì vicino. La clientela è rimasta fedele. Che i topi diano fastidio o no,
il prezzo è lo stesso. E se non va bene, si è pregati di sloggiare. Rosalie ha i
suoi prediletti, e fa sempre a modo suo. Svelta dietro i fornelli, la lingua
pronta, cova con occhio materno e deciso i quattro tavoli della vecchia
cremeria che lei chiama ristorante. Quando bussano, Rosalie apre la porta. Se
il nuovo venuto non le piace, la richiude. Accetta tutti quelli che non hanno
soldi: a loro una tazza di zuppa gliela offre – o gliela dà a credito. Non fa
entrare quelli che vengono da lei perché non è caro, e gli snob travestiti da
americani.
Tra i suoi clienti, Rosalie prova una tenerezza particolare per un
quadrupede che viene da Arcueil. Ha conosciuto il cane insieme al suo
padrone, un impagliatore di sedie: il cane tirava il carrettino, l’impagliatore lo
spingeva. L’artigiano ha riaggiustato le sedie del locale. Il lavoro è durato
quattro giorni. La bestia ne ha approfittato. Quando è partito, aveva la pancia
piena. Quando la pancia gli è tornata vuota, al cane è venuta un’idea: ha
rifatto la strada da Arcueil a Parigi. Solo, a naso. Poi è tornato a casa. È
andata avanti dodici anni. Il cliente più fedele di Rosalie.
Con Modigliani.
Tra l’ostessa e l’artista nasce una grande amicizia. Si adorano, e litigano

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continuamente. Lei gli rimprovera di bere troppo, lui ordina altro vino. Per la
gioia degli altri clienti, si scambiano insulti urlando. Vola di tutto, meno che i
piatti. Quando è davvero in collera, il pittore stacca uno dei suoi tanti disegni
appesi alla parete, e lo straccia. Quando torna il giorno dopo, pentito, ne
porta uno nuovo. Che distruggerà quanto prima. È come un gioco, il loro.
Che si fa più duro quando nel locale di Rosalie arriva Utrillo. Non è raro,
allora, che le passeggiate dei due ubriaconi finiscano al posto di polizia di rue
Delambre. In casi di emergenza come questi, bisogna far intervenire il
commissario Zamaron.
Responsabile del reparto stranieri alla prefettura di polizia di Parigi,
Zamaron è un amico degli artisti. Le pareti del suo ufficio sono ricoperte di
quadri: Suzanne Valadon, Modigliani, Soutine, Kikoïne e, soprattutto, Utrillo.
Il commissario ha un debole per Utrillo.
Quando un pittore si trova nei pasticci, Zamaron lo aiuta. Quando non è di
servizio, va al Dôme o alla Rotonde a trovare gli amici. Spesso, prende le
loro difese contro Descaves, l’altro poliziotto di Parigi appassionato d’arte.
Descaves gli dà una miseria, ai pittori di Vavin. Prende quadri in cambio dei
suoi servizi, e quando ne compra qualcuno versa un acconto e dice all’artista
di andare a ritirare il resto in prefettura – dove nessuno, naturalmente,
metterà mai piede.
Quando esce dal posto di polizia, Modigliani fa il giro degli amici. Va al
Dôme, alla Rotonde o da Rosalie.
A volte costeggia il cimitero di Montparnasse, prende il boulevard Raspail
all’altezza di Edgar-Quinet e imbocca la rue Schoelcher, sulla destra.
Cammina lungo le mura del cimitero fino a una piccola casa. Sale le scale
tutto allegro, bussa a una porta. Gli apre una giovane donna: éva Gouel, che
nasconde il pallore sotto uno spesso strato di trucco. È malata. Di
tubercolosi, dicono. Ha tentato di nasconderlo all’amante – che ha il terrore
della malattia. Non ha detto niente per paura che lui la lasci. Ma Picasso le è
rimasto fedele. L’accompagna dai medici e nelle cliniche dove éva si fa
ricoverare regolarmente.
La coppia ha passato i primi mesi di guerra nel sud. Picasso esce raramente
dalla casa di rue Schoelcher: nei caffè, capita spesso che Picasso venga
insultato dai soldati in permesso che non capiscono come mai quest’uomo,
con quella bella donna al fianco, non sia al fronte.
La porta-finestra dello studio si affaccia sulle tombe del cimitero di
Montparnasse. La stanza, molto grande, è ingombra di tubi di colore, di
tavolozze, di pennelli. Per paura di restare senza materiale, il pittore si è fatto

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grandi scorte. Decine e decine di tele sono allineate contro le pareti. Il
pavimento è pieno di carta – quella che Picasso usa per i collage.
Non smette mai di dipingere: non solo sui quadri – ormai più vicini a
Ingres che al cubismo – ma anche sugli oggetti, sulle sedie, sulle pareti. Non
sopporta gli spazi vuoti.
Dà le spalle alla finestra. Porta un paio di pantaloncini corti. Ha la faccia
tirata. Sembra in ansia. Non è per la guerra – della guerra parla soltanto per
chiedere notizie degli amici. È per éva.
Quando arriva Modigliani, Picasso sta guardando una busta appena
arrivata. Osserva il visitatore con uno di quegli sguardi dei suoi occhi neri
che fanno tanta impressione. L’italiano non si commuove. Racconta come ha
passato la notte. Picasso lo ascolta distrattamente. éva è uscita dalla stanza.
I due pittori si scambiano le notizie. Kahnweiler è in Svizzera. I fratelli
Rosenberg comprano i cubisti. Gertrude Stein e Alice Toklas sono tornate
dall’Inghilterra e ripartiranno per Palma. Vlaminck lavora in una fabbrica
d’armi e, la sera, scrive mediocri romanzi.
«Max Jacob si chiede come si possa essere antimilitaristi e lavorare per i
militari», fa notare Picasso.
«È stato precettato», obietta Modigliani.
La conversazione finisce di colpo. Amedeo non sa che la sua esuberanza
irrita lo spagnolo. Picasso, che ormai sta per prendere il volo verso gli
splendori del gran mondo, ha dimenticato i tempi del Bateau-Lavoir. Amedeo
non sa neanche che qualche mese dopo, durante un bombardamento,
Picasso, non avendo sottomano una tela, ricoprirà un’opera del pittore
italiano con una natura morta dipinta a colpi di spatola.
Dieci minuti dopo, i due uomini non hanno più niente da dirsi. Modigliani
si alza, lascia l’atelier, scende le scale, sparisce nel grigiore della rue
Schoelcher.
Picasso riprende la busta che stava per aprire prima dell’arrivo
dell’italiano. È una busta già usata. Tipico del parsimonioso amico che gli
scrive. Ma è un amico dei più fedeli. E Picasso non può fare a meno di
sorridere immaginandosi il poeta – così raffinato, acuto, elegante, distinto,
mellifluo come un prete, teatrale come un papa, ingenuo come un bambino –
con i piedi nella neve e le mani sporche di fango.
Apre la busta e si immerge nella lettura delle ultime avventure militaresche,
e amorose, di Guillaume Apollinaire.

201
Le dame e l’artigliere

Se mai io morissi al fronte


Ti metteresti a piangere,
Lou, amore mio.
Guillaume Apollinaire

Apollinaire è soldato. Un poeta in guerra. Un po’ più entusiasta degli altri.


Per avere il suo posto nel quadro d’onore degli apolidi, infatti, deve
cancellare il ricordo di una fotografia: quella apparsa sui giornali
nell’autunno del 1911, che lo mostrava, le manette ai polsi, mentre lo
portavano in prigione. Una vergogna terribile per un uomo che voleva
soltanto essere definitivamente riconosciuto dal paese che l’aveva accolto.
Le cose sono andate per le lunghe. La sua buona volontà è stata ostacolata
dalle scartoffie. Quando uno è nato a Roma da una madre polacca e da un
padre troppo distratto per riconoscerlo, la faccenda va meditata. Quanto alla
Legione, assalita dai volontari, non arruola più nessuno.
In attesa che le autorità militari si decidano, Apollinaire raggiunge gli amici
a Nizza.
Tre settimane dopo il suo arrivo, sta pranzando in un ristorante della città
vecchia. Lo invitano a un tavolo vicino. C’è anche una giovane di trent’anni,
bella, brillante. È un attimo. Il poeta dimentica Marie Laurencin, la musa che
lo ha tradito e che è partita per la Spagna con il marito, sposato da sei
settimane. Si chiama Otto von Waetgen e, a sentire André Salmon, «è meglio
come incisore che come pittore».1
La donna che infiamma il cuore di Apollinaire è bruna, piena di vita. La
sua voce e i suoi gesti ondeggiano tra i convitati e i bicchieri di cristallo. È
contemporaneamen-te «imprudente e sfrontata, frivola e scatenata».2 Gli
occhi ardenti, un eccesso di energia, un’infanzia costretta da preghiere e
genuflessioni, un matrimonio a ventitré anni, un rapido divorzio, un
cognome nobile che le dà un buon profumo da avventuriera: Louise de
Coligny-Châtillon. Da una parte si diverte a fare l’infermiera volontaria,

202
dall’altra recita il ruolo di mondana frivola e del tutto emancipata. Apollinaire
ha le lacrime agli occhi.
Il giorno dopo il loro primo incontro, le dichiara il suo amore
appassionato. Cinque giorni dopo, le fa mandare tutti i suoi libri. E le
promette di scriverne uno per lei, solo per lei. Poi, un po’ più terra terra, le
chiede di uscire con lui. Preferibilmente, senza testimoni. È già il suo
«servitore a vita».3
Si rivedono pochi giorni dopo in una casa dove si fuma oppio. Poi in vari
ristoranti, sulla riva del mare, su spiagge deserte. Dappertutto, salvo che in
albergo. Ogni volta che Guillaume tenta di aprire una porta, Louise gli
sussurra che sono amici e che tali devono restare. Ogni tanto, sdraiata,
fumando, gli offre una mano e qualche promessa. L’artigliere se ne ricorderà:
Vorrei che tu ed io fossimo nel mio studiolo
vicino alla terrazza, stesi sul letto, a fumare,
vorrei che tu mi amassi.4

Passato il tempo delle droghe, vanno a passeggio dandosi il braccio, e


forse succede qualcosa di più – ma comunque è ancora troppo poco.
Soprattutto quando la donna confessa al suo timidissimo innamorato che il
suo cuore è già preso da un certo Toutou, soldato di artiglieria.
«È una cosa seria?» chiede Guillaume.
«No. Ho anche altre storie».
«Allora andiamo».
«No».
Dopo due mesi di questa cura, Apollinaire è senza fiato. Affretta le
formalità per il suo arruolamento e si prepara per la grande partenza. È allora
che Louise gli cede. Non si tratta più di poco o molto. È la grande passione.
Al punto che, dopo qualche giorno, Guillaume quasi si pente di essersi
arruolato. Al momento della dichiarazione di guerra, certi amici gli avevano
proposto di fuggire in Svizzera. Aveva rifiutato. Adesso che è stato destinato
a Nîmes, ci ripensa.
Parte, comunque.
L’indomani, Louise si presenta al portone della caserma. Chiede di
Guillaume Kostrowitzky, secondo cannoniere al 38° Reggimento di artiglieria,
78a Batteria.
Guillaume corre da lei.
Vanno all’hôtel.

203
Nove notti.
Poi Apollinaire passa all’addestramento.
Scopre le gioie delle manovre, delle corvée di mensa e degli appelli.
Impara a cavalcare. Gli fa male il culo. Soffre di coliche. Non ha soldi, è in
preda all’angoscia più profonda. Porta i baffi, come pretende il regolamento.
Nelle lettere alla donna amata – piene di dichiarazioni appassionate – non
tace niente della sua condizione di povera recluta. La rassicura, la guerra
durerà al massimo un anno. Forse meno, a sentire Picabia. Cinque mesi
prima della mobilitazione, Picabia aveva previsto il conflitto; adesso ne
prevede la fine per il mese di febbraio. Apollinaire è fiducioso, e patriota: «Il
valore e la forza dei francesi vinceranno».5 Noi siamo molto virili. Gli altri
valgono così poco...
Quando Lou non risponde abbastanza in fretta alle sue lettere – dopo tre
giorni al massimo – il cannoniere si dispera, fa il broncio, le ricorda le loro
notti d’amore. A questo punto gli vengono in mente altre pratiche. La
minaccia di prenderla a scudisciate, si dipinge come la punta di lancia della
virilità nazionale, pronta a introdursi ferocemente nelle sue private trincee per
compiere il suo dovere di prode.
In risposta, Lou scrive che leggendo le sue lettere «fa manina».
Lui si trattiene. Le manda il suo ritratto dipinto da Picasso.
Il 1° gennaio 1915 Guillaume ottiene un permesso di due giorni e
raggiunge Lou a Nizza. Passano la maggior parte del tempo a letto. Sul treno
del ritorno, tra Nizza e Marsiglia, Apollinaire viaggia in compagnia di una
sconosciuta. Insegna lettere al liceo delle fanciulle di Oran. Si chiama
Madeleine Pagès. Si rivedranno.
Cinque giorni dopo il ritorno a Nîmes, Apollinaire, orgogliosissimo, entra
nel plotone degli allievi ufficiali. Fa cavalcate sempre più lunghe. Segue corsi
per artiglieri. Perché vuole fare l’artigliere? Perché è un artista, risponde.
La condizione di apprendista-militare non gli pesa affatto. Riceve pacchi
da Sonia Delaunay, un maglione dalla moglie di Archipenko, cento soldi da
Paul Léautaud, una lettera da Blaise Cendrars. Cendrars scrive: «Je ne peux
pas dire où nous SOMME».* Guillaume è tutto contento: la censura costringe
a farsi ingegnosi. Si vergogna della propria inattività, si sente colpevole di
non essere al fronte. Questo lento scorrere del tempo gli consente il piacere
di continuare con l’amante una straordinaria corrispondenza fantasmatica.
Dato che non può vedere, immagina. Sogna le sue natiche. La immagina
muovere la mano – e non trattiene la propria. Le ricorda i loro 69 e altre
figure numeriche. Lei è la donna della sua vita. A paragone, Annie Playden,

204
Marie Laurencin, le altre sue amanti, che descrive tutte come magnifiche e
instancabili a letto, non sono che: «m... da».
Quando Lou gli racconta minuziosamente le sue avventure con altri
uomini, non nasconde la sua gelosia. Due, d’accordo. Tre, eventualmente.
Ma di più, è vizio. Un giorno che nella sua lettera lei gli parla molto
dell’Italia, le chiede poeticamente: «C’è forse un italiano, dentro il mio bel
vasetto di fiori, in questo momento?». Si paragona, lui, l’artigliere casto,
votato a una vita ascetica, a lei che apre il suo cuore e il suo letto come si
apre un lupanare. Vigliaccata per vigliaccata, le consiglia di stare attenta
perché i segni del piacere stanno già facendo appassire il suo viso.
Quando è offeso, non si rivolge più alla sua adorata Lou, alla cara Lou, al
suo cuoricino, ma alla «cara amica», alla «vecchia consorella». Non firma più
«Gui» ma «Guillaume Apollinaire». Fa il comprensivo, il buon amico, si
sforza di provocare una gelosia che potrebbe rassicurarlo descrivendo le
giovani donne che gli passano davanti e che potrebbe portarsi in albergo.
Quando gli sembra che il loro amore stia proprio andando a rotoli, si erge
davanti a Lou non come un amante ma come un uomo che conta. Le manda
un po’ di soldi. Quando Lou va a Parigi, le presta l’appartamento di
boulevard Saint-Germain. Insiste sul suo ruolo di poeta. Lou deve
conservarle, le sue lettere e le sue poesie, perché, finita la guerra, saranno
pubblicate. In previsione di questo, scriverà ormai solo sulla facciata della
pagina in modo da facilitare la composizione e aggiungerà a parte i passaggi
più personali. Ha già un titolo: Ombre de mon Amour.
Il giorno di Pasqua, Guillaume Apollinaire parte per il fronte. È uno dei
rari momenti della sua vita in cui si ricorderà di non essere francese, e che il
suo paese è la Polonia. Compiange la sua patria che ha tanto sofferto a causa
della guerra. Vede il suo popolo come il più nobile e il più infelice. Se parte,
è anche per difenderlo.
Il 9 aprile fa testamento a favore di Lou. Le suggerisce di concludere un
accordo con il «Mercure de France» per il suo Alcools – che, pensa, frutterà
un po’ di soldi. Redige un inventario della sua produzione letteraria, dei
contratti, firmati e non firmati, degli acconti e delle percentuali che può
esigere a suo nome se per disgrazia non potesse farlo lui. In attesa, è pregata
di comportarsi in modo corretto nell’appartamento di boulevard Saint-
Germain. Da una parte perché nella casa abita un senatore, dall’altra perché
lui ha diritto a non pagare l’affitto per la durata della guerra e vuole che
questa disposizione venga mantenuta; infine gli sembra che far festa a Parigi
mentre altri sono sotto il fuoco a Verdun sarebbe piuttosto sconveniente...

205
Quando Lou si lamenta di soffrire di anemia, le risponde subito come il
marito virile che vorrebbe essere: fatti vaccinare; come l’amante pieno di
attenzioni che non è più: fai bollire l’acqua per venti minuti; come il geloso
infuriato che non può nascondere la sua acredine: se non baciassi sulla bocca
uomini ammalati di tifo, non ti succederebbe niente.
A eccezione dell’ultimo consiglio, si rivolge a Lou con lo stesso piglio
autoritario di sua madre, la Kostrowitzka, che esige che lui le scriva, vuole
che le dica con chi dorme, vuole sapere chi è questa «Contessa» de Coligny –
giovane, vecchia, vedova? Gli prodiga ammonimenti che la dicono lunga
sulla sua ignoranza a proposito della situazione di suo figlio – tanto da far
pensare che in fondo non si interessi a lui, che non sia altro che un’egoista
autoritaria che si preoccupa solo di se stessa. Con lo stesso tono che usava
dieci anni prima, prega suo figlio (trentaquattro anni!) di stare attento quando
cavalca nei boschi in primavera, di stare attento ai buchi enormi che fanno, a
quanto sembra, le bombe, perché «sarebbe terribile se tu ci cadessi dentro
con il cavallo. E anche a piedi».6 La cosa peggiore, secondo la Kostrowitzka,
sono le bombe che scoppiano nei boschi. Perché fanno cadere gli alberi. Da
qui, due consigli materni: «Stai attento a non farti schiacciare da un albero».
E poi: «Chiedi ogni giorno alla Santa Vergine che ti protegga».
L’11 aprile il poeta diventa davvero un soldato. Con suo grande orgoglio, è
nominato agente di collegamento. Va a cavallo nella campagna, è un camerata
tra i camerati, scrive alla luce di una lanterna che brucia grasso di bue. La
guerra ha un bell’aspetto.
Si fa complice di Toutou, l’altro amante artigliere. Quando Lou va da lui,
la prega di trasmettergli i suoi saluti. Attraverso Lou, si rivolge al rivale come
a un confratello: lo tiene al corrente dei progressi in materia di tiro, gli chiede
se per caso gli cresce un sitometro. In mancanza di informazioni, non esita a
usare le maniere forti: manda lettere raccomandate a Toutou, ingiungendogli
di dargli notizie della loro comune innamorata. E a lei ricorda un po’
seccamente che se si è arruolato è per difendere la sua patria.
Purtroppo la bella sembra prendere le distanze. La carne si è pacificata. Il
poeta è sempre «dritto come un 75», ma l’opposta artiglieria non risponde. O
molto raramente. Si chiamano sempre «mio Gui» o «mia cara Lou». Fingono
grandi premure. Apollinaire manda soldi senza far resistenza. Sugli anelli che
i soldati fanno con i bossoli degli obici, incide parole d’amore. Ostentando
un tono autoritario, le ricorda che lei gli appartiene in tutto e per tutto. In un
campo, almeno: «Lou è soltanto al mio coso che parla».
Le suggerisce di andare a cercare nella sua biblioteca, di leggere Les Onze

206
Mille Verges, di non parlarne a nessuno ma di trarne profitto. Già che c’è,
può anche divertirsi con Le Nouveau Chatouilleur des Dames, incluso in
uno dei tomi dell’Enfer de la Bibliothèque Nationale, di cui è stato il
fondatore.
Quando Lou non risponde regolarmente alle lettere, la rimprovera con
severità. E si spazientisce quando gli manda il tè in tavolette – dovrebbe
sapere che queste tavolette fondono solo nell’acqua bollente e che l’acqua
bollente in guerra non si trova. Queste esasperazioni, che si alternano alle più
infiammate dichiarazioni d’amore, sono un sintomo del dolore del poeta. Una
volta di più, è il maleamato della storia. Lou si allontana, come si erano
allontanate Annie Playden e Marie Laurencin. Louise accetta di essere sua
amica, sua corrispondente, sua amante forse, ma è questo forse ciò che fa
disperare l’artigliere: lui vuole tutto. L’uomo è il padrone, la donna gli si
sottomette, stanno insieme per tutta la vita, l’amore è reciproco.
Altrimenti bisogna cercare altrove.
Questo altrove può portare a un’amica della sorella di un amico che
dall’aprile del 1915 incomincia a scrivere regolarmente al poeta. Si chiama
Jeanne Burgues-Brun, ha scritto un romanzo e qualche poesia sotto lo
pseudonimo di Yves Blanc. All’inizio è sua madrina di guerra, e lo resterà
fino alla fine. L’artigliere ha tentato astutamente di portarla più vicina al suo
cuore, ma lei si è assolutamente rifiutata: niente flirt tra di noi. E neanche una
fotografia. Malgrado le insistenze del soldato, non gli ha mai mandato un suo
ritratto, e la loro intimità resterà strettamente letteraria. Si incontreranno una
sola volta, alla fine della guerra, nei giardini del Luxembourg.
Peggio per lei.
Comunque, ce n’è un’altra.
È la giovane donna incontrata in treno, nel gennaio del 1915. Era molto
giovane, non più di vent’anni. Aveva lunghe ciglia. Era andata a passare il
Natale dal fratello che abitava a Nizza, e ritornava a Oran, in Algeria. Lui
baciava Lou nel corridoio. Quando il treno è partito, Guillaume si è seduto di
fronte alla sconosciuta. Avevano parlato. Di Nizza, di Villon, e di Alcools,
uscito due anni prima. A Marsiglia l’aveva aiutata a scendere e le aveva
portato la valigia. Poi, non si sa mai, le aveva chiesto l’indirizzo.
Bisogna saper rischiare. In aprile Apollinaire volta le spalle a Lou, che non
ha scritto da tre giorni. Manda alla sconosciuta una cartolina postale, i suoi
omaggi rispettosi, e un bacio sulla mano, stando bene attento a controllare le
parole. Due settimane dopo, nella rete del portalettere c’è un pesce per lui:
una scatola di sigari spedita da Oran. È più di quanto non sperasse. Il gesto

207
merita una risposta. Sta molto attento. Ci mette un po’ di guerra, qualche
considerazione generale, un pugno di versi, un complimento: che
meraviglioso ricordo, quel viaggio in treno! Rispettosi omaggi, Guillaume
Apollinaire.
Passano sei giorni. Arriva una cartolina. Questo basta perché il
«Signorina» dell’inizio lasci il posto a un «Mia piccola fata», più tenero,
meno impersonale. Un passo avanti. Ma Guillaume vuole avanzare ancora
più in fretta. Lancia una sonda: parla di Goethe, di Scott, di Nerval e, di
passaggio, cita Laclos e i suoi vizi con la V maiuscola. Come è strano il caso:
questo Laclos non era anche lui in artiglieria?
Poi risale alle mani. E le dice che vorrebbe fare un anello e regalarglielo.
Potrebbe mandargli la misura del dito? Non l’indice, né il medio! Ma certo,
l’anulare! E, già che c’è, anche una piccola fotografia. Lui la terrebbe dalla
parte della spada e della rivoltella – che per combinazione è anche quella del
cuore.
È stato troppo precipitoso. La risposta è meno spontanea delle precedenti.
Gentile, amabile, ma senza calore. Per fortuna, non dura. La ragazza gli
manda un po’ di cioccolata. Il soldato risponde con petali di rose e un nuovo
anello, con incastonato un pezzetto di rame su cui è incisa la «M» di
Madeleine.
Lui le rimprovera di firmare con un freddo MP, a cui lui risponde, cinque
settimane dopo l’inizio della corrispondenza, con un «mia piccola fata
adorata». Che diventa «mia carissima, piccola fata» qualche giorno più tardi.
È il 10 luglio 1915. Con un sospiro estasiato, l’artigliere fa un passo avanti:
«Vi ho amata da quando vi ho vista».7
Il giorno dopo dà della «mia cara Lou»8 alla signorina che abita a casa sua,
in boulevard Saint-Germain. È sempre affettuoso, ma il tono cambia.
Tra la Francia e l’Algeria si scatena un vero bombardamento di doni:
l’artigliere riceve una bottiglia di acqua di Colonia, e manda un portapenne
fatto con le sue mani con «due pallottole tedesche». Madeleine risponde con
fazzoletti, nastri di seta, sigarette, torroni, dolcetti al miele già sgranocchiati –
per ricordare i baci. Lui replica con matite, calamai e tagliacarte ricavati da
bossoli, cuori ritagliati nelle cinture di soldati nemici, caricatori, il suo kepì,
ali di farfalla, libri e poesie che, con la consueta previdenza, le chiede di
conservare in vista di una futura pubblicazione.
Molte di queste poesie sono già state mandate a Lou o alla madrina, ma
non importa: è l’intenzione quella che conta, e l’intenzione non è la stessa.

208
Con Lou, Guillaume era appassionato, passionale, fisico, violento. Non può
correre a quel modo con Madeleine, che è timida, che sa tutto delle buone
maniere ma così poco degli uomini. Apollinaire mette i guanti del poeta. A
parte un bacio che dopo qualche tempo poserà sul seno della fanciulla, è
letterario, saggio, tenero, dolce e autoritario insieme. Lo riconosce lui stesso.
E non parla più di frustini, di staffili, di sculacciate – ma evoca un quadro di
Fragonard, La Correction conjugale. Di sfuggita, e solo per saggiare il
terreno.
È tanto sincero con Madeleine quanto era stato vanitoso con Lou. Non ha
più bisogno di mettersi in mostra. In una lettera datata luglio 1915, mette a
nudo il proprio cuore. Ammirava – e ammira ancora – il talento di Marie
Laurencin, ispiratrice del Pont Mirabeau e di Zone. Ha creduto di amare Lou,
che in fondo non è stata altro che una donna di passaggio grazie alla quale ha
superato il dolore per la mancanza di Marie; adesso prova pietà per lei,
perché gli sembra solo un giocattolo nelle mani degli uomini; le si era
attaccato fisicamente, ma il suo spirito ne era rimasto lontano. Madeleine? A
lei può confidare tutto il bene che pensa di Gogol’ e tutto il male che pensa di
Henry Bordeaux. La letteratura è uno degli argomenti principali della loro
corrispondenza. Il resto gira intorno alla guerra (non tanto spesso) e al loro
amore. Le propone un mucchio di bambini. Poi le propone di diventare la
sua fidanzata. Il 10 agosto 1915 chiede la sua mano alla madre. Dopo di che
si comporta come un genero modello: dichiara di volere un gran bene alla
mamma della sua dama, anche se non l’ha mai vista. Promette che andrà a
trovarla alla prima licenza. Le scrive. Le invia baci filiali.
I due giovincelli si danno ormai del tu. Madeleine manda qualche
fotografia. Lui cerca le sue curve dietro l’ombra color seppia. I suoi fianchi,
il suo seno. In seguito, arriverà a pregarla di essere un po’ meno pudica,
arriverà a chiederle, per esempio, per la gioia del proprio olfatto – di cui
vanta la sensibilità –, di dare alle sue lettere il profumo delle sue parti più
intime. Per ringraziarla della buona volontà, le manda una raccolta di poesie,
Case d’armons (così si chiamava il cassone del cannone da 75) – incise
grazie all’aiuto dei suoi camerati artiglieri e sulla cui copertina è scritto Aux
armées de la République, Alle armate della Repubblica. La manda anche a
Lou, con i bollettini di sottoscrizione: «Cerca di piazzarne qualcuno». Il
ricavato sarà per lei: «Se ne vendi anche solo venti a 20 franchi, potrai pagare
il dentista...».
Il 25 agosto il maresciallo d’alloggio Apollinaire, nuovamente promosso,
annuncia la promozione alla sua futura famiglia. È molto orgoglioso. E molto

209
contento, un mese dopo, di adottare il nuovo elmetto grigio, che non brilla
più al sole, e la divisa regolamentare blu aviazione che sostituisce quella di
prima, rosso brillante, troppo visibile dai tiratori nemici. Ma non è tanto
questa funzione rassicurante che soddisfa Apollinaire quanto il piacere di
toccare quella stoffa dalla consistenza setosa.
Sta per cambiare tutto.
In novembre, Apollinaire si presenta come volontario in fanteria. È
nominato sottotenente al 96°, al fronte. La guerra in pantofole è finita. Scopre
le trincee e la miseria dei fanti. Il poeta diventa davvero soldato.
Fino ad allora aveva intrattenuto una fitta corrispondenza con tutte le sue
donne, senza dimenticare gli amici parigini. Aveva mandato articoli al
«Mercure de France» e ad altre riviste, si era preoccupato che li
pubblicassero, che lo informassero della reazione dei lettori. Il fragore degli
obici, quel loro miagolare come gatti, l’aveva divertito. Un bombardamento
di artiglieria era come un gran fuoco d’artificio. Dormiva in rifugi con teli di
tenda al posto del tetto. Guardava rapito le bisce acciambellate ai suoi piedi, i
topi che gli passavano di corsa tra le gambe, le mosche dal muso simile a
quello dei bulldog, i ragni, così affascinanti. Se si lamentava, era solo per la
noia. I suoi amici di Montmartre e di Montparnasse si preoccupavano per lui,
tanto raffinato e abituato alle comodità, sprofondato nei rigori della guerra –
ma lui non ne soffriva.
«Com’è bella, la guerra!». Questa iscrizione, che aveva inciso sulla
scatola del dentifricio nel 1915 (e che ricorda l’«Ah, Dio, com’è bella, la
guerra» dei Calligrammes), gli sembrerà presto del tutto inattuale – anche se
le prime cannonate le definisce «stupefacenti».
Il fronte è un’altra cosa. Brutalmente, il sottotenente Kostrowitzky scopre i
razzi di segnalazione, le mitragliatrici, le Maria Luisa, le scatole di merda, i
secchi di carbone che cadono dal cielo, i cannoni, l’orrore della vita di
trincea. I tedeschi lì, a due passi. La terra sconvolta dalle esplosioni. È in
prima linea, bocconi sulla terra intrisa di sangue, le cannonate sopra la testa.
La notte, si stende sul fango. Passa notti intere senza dormire. Trema dal
freddo. Si lava quando può, deve resistere agli assalti alla baionetta, ai gas.
Prova i morsi del filo spinato, dei vermi, dei pidocchi. Si ripara dietro sacchi
di sabbia o mucchi di cadaveri. Impara a scavare, a riparare la trincea, di
notte, troglodita delle ombre. In qualche mese, il suo reggimento ha perso
quasi trentamila uomini. I compagni muoiono uno dopo l’altro. In una lettera
a Madeleine la supplica di aspettarlo se lo faranno prigioniero. La nomina
erede di tutti i suoi averi al posto di Lou, cui aveva lasciato il suo patrimonio

210
in marzo.
Pensa alla morte, certo. Ma non ha paura. Non si lamenta mai, salvo con le
autorità militari, pronte a convocare consigli di guerra per qualsiasi
sciocchezza. Se bisogna combattere, è il primo a lanciarsi fuori dalla trincea.
Ha un gran coraggio. I suoi uomini gli vogliono bene perché li protegge, si
assicura che abbiano da mangiare, divide con loro il fuoco e i pacchi, anche
le coperte, quando sono un po’ più asciutte delle loro. Kostrowitzky è troppo
complicato: lo chiamano «Kostro l’exquis» o «Cointreau-Whisky».
Portato via dal turbine della guerra, «Cointreau-Whisky» combatte.
Appena ha un secondo libero, scrive a Madeleine. La violenza e la rabbia che
ha dentro soverchiano la sua abituale riservatezza. In dicembre le manda una
lettera piena di furore erotico. L’unica. Nella sua mente, nel profondo delle
sue speranze, gli porterà la licenza che ha chiesto da mesi.
La licenza arriverà a Natale. Sarà il suo regalo più bello. Partito dal fronte,
il sottotenente arriva direttamente a Marsiglia, senza neanche fermarsi a Parigi
per salutare gli amici. Dopo tanti mesi di continui scambi di lettere, non ha
che un desiderio: arrivare a Laumur, in Algeria, e rivedere finalmente la
giovane donna di ventidue anni di cui ha chiesto la mano e con cui ha
passato soltanto qualche ora, in treno, un anno prima. Quando l’artigliere
non era ancora diventato un ussaro.

211
Lo scrittore dalla mano mozza

La prima qualità di un romanziere


è di essere un bugiardo.
Blaise Cendrars

«Ti mando una battuta di uno dei miei amici, che è anche uno dei migliori
poeti di oggi: Blaise Cendrars. Braccio amputato!».1
Il 6 novembre 1915 Guillaume Apollinaire annunciava a Madeleine la
ferita di Frédéric Sauser, alias Blaise Cendrars, cittadino svizzero, che con
l’italiano Ricciotto Canudo aveva redatto l’appello agli stranieri in difesa
della Francia.
Un personaggio straordinario, Cendrars. A meno di trent’anni, è passato e
ripassato dovunque. È scappato di casa a quindici anni e ha viaggiato di
paese in paese – Germania, Inghilterra, Russia, India, Cina, America, Canada.
Poi si è fermato a Parigi, una prima volta nel 1907, la seconda due anni prima
della dichiarazione di guerra.
Ha fatto mille mestieri. Si è fatto le ossa frequentando gente di ogni tipo e
di ogni classe sociale. Sostiene apertamente idee libertarie e anarchiche. È
anche poeta. Il poeta viaggiatore.
A New York, nel 1912, il giorno di Pasqua, straziato dalla miseria, entra in
una chiesa presbiteriana. Ha voglia di riposarsi per un po’, al caldo. Suonano
la Creazione di Haydn. Quando torna nella sua stanza, si siede al tavolo e si
mette a scrivere una poesia. Si addormenta. Si sveglia qualche ora più tardi,
si rimette al lavoro. Va avanti così tutta notte. Il mattino, a mente fresca,
rilegge ciò che ha scritto. Nato nella miseria, questo testo si intitola Les
Pâques à New York.
Tre mesi dopo, Cendrars è a Parigi. Vive come capita. Con qualche amico
anarchico, fonda una rivista, «Les Hommes Nouveaux». Finanzia il primo
numero vendendo i biglietti di uno spettacolo che ha organizzato al Palais
Royal. Abita con un altro poeta in una camera d’albergo, in rue Saint-
étienne-du-Mont. Miseria, ancora e sempre. Si sposta al Dantzig, vicino alla

212
Ruche. Beve vino bianco al Cinq Coins. Guadagna appena da vivere
collaborando a riviste e vendendo edizioni originali comperate anni prima.
Alla Ruche incontra Modigliani, Chagall e Fernand Léger. Durante una
conferenza sull’anarchia conosce Victor Serge, che tradurrà in russo il suo
primo romanzo, L’Or.
Ma il suo desiderio più grande sarebbe conoscere Guillaume Apollinaire.
Perché lui? Perché difende le avanguardie. Perché un tipo che è stato
sospettato di aver rubato la Gioconda non può non essere un avventuriero.
Di ritorno dall’America, Cendrars ha spedito Les Pâques à New York ad
Apollinaire. Nessuna risposta. Un giorno di settembre del 1912, Cendrars
entra nella libreria delle edizioni Stock. Trova L’Hérésiarque & Cie.
Incomincia a leggere. Non ha un soldo, si infila il libro in tasca e esce. Gli va
male: un poliziotto che passava di lì lo ha visto. Blaise viene arrestato e
chiuso in carcere al Dépot. E che cosa fa? Scrive all’autore dell’Hérésiarque,
gli chiede di pagare il suo debito alle edizioni Stock e di intervenire per farlo
liberare. Ma lo mettono fuori prima che abbia avuto il tempo di spedire la
lettera.
Qualche mese più tardi, Cendrars incontra Apollinaire al Flore (questa è la
versione di Miriam Cendrars; Cendrars, invece, sostiene di essere stato
invitato a casa di Apollinaire e di averci incontrato i Delaunay; altri dicono
che Apollinaire abbia scritto a Cendrars dopo avere ricevuto Les Pâques à
New York, chiedendogli di andare a trovarlo).
Apollinaire ha sette anni più dell’autore di Pâques. È in compagnia di
Robert Delaunay e di sua moglie Sonia. Secondo Salmon, Delaunay si era
fatto conoscere perché aveva dipinto di blu certi pesci rossi. Era
assolutamente privo di spirito, non sorrideva mai. Apollinaire lo considerava
il grande maestro dell’orfismo e ammirava molto il modo di vestirsi suo e di
sua moglie: Sonia in tailleur viola, blusa di panno, taffetas e tulle, rosa, blu,
scarlatto; Robert in cappotto rosso con il colletto blu, scarpe a due colori,
giacca verde, gilè blu, cravatta rossa. Questo prima della guerra. Nell’agosto
del ’14, la coppia Delaunay se la fila in Spagna.
Blaise fa subito amicizia con Sonia Delaunay. Parlano in russo. Lei lo
invita nel suo studio di rue des Grands Augustins. Qui, davanti a molti
invitati, tra i quali – dicono alcuni – Guillaume Apollinaire, Cendrars legge
Les Pâques à New York:
Seigneur, c’est aujourd’hui le jour de vore Nom,
J’ai lu dans un vieux livre la geste de votre Passion

213
Et votre angoisse et vos efforts et vos bonnes paroles
Qui pleurent dans le livre, doucement monotones...

(Signore, oggi è il giorno del tuo Nome, / Ho letto in un vecchio libro le gesta della
tua Passione / e la tua angoscia e la fatica, le buone parole / che piangono nel libro,
monotone, dolci...)

È un incanto, una libertà totale nella metrica, un approccio diretto al


mondo moderno, alla città, alle strade, alla gente che passa... Del tutto nuovo,
rispetto al vecchio simbolismo.
Apollinaire è affascinato (ma se questa lettura c’è davvero stata, lui doveva
essere affascinato già da tempo: Cendrars, come abbiamo visto, glielo aveva
già fatto avere il suo poemetto). Sta lavorando a una nuova raccolta di poesie
che uscirà presso il Mercure de France in aprile: Alcools, che si chiama
ancora Eau de vie. Mette insieme opere composte dal 1898, le classifica
secondo un ordine non cronologico, poi, improvvisamente, decide di togliere
tutta la punteggiatura: pensa che basti il ritmo del verso. (Pierre Reverdy
giocherà invece con gli spazi bianchi disposti tra una parola e l’altra, tra un
verso e l’altro – procedimento che verrà utilizzato anche da Jean Cocteau nel
Cap de Bonne-Espérance).
Mentre corregge le bozze di Alcools, Apollinaire decide di incominciare il
libro con una poesia nuova, composta probabilmente durante l’estate e letta
in ottobre da Gabrielle Buffet e Picabia, nel Giura. È lì che hanno trovato il
titolo, Zone.2 Zone sarà pubblicata una prima volta, in dicembre, nelle
Soirées de Paris.
A la fin tu es las de ce mond ancien
Bergère ò tour Eiffel le troupeau des ponts bèle ce matin
Tu en as assez de vivre dans l’antiquité grecque et romaine

Ici mème les automobiles ont l’air d’ètre anciennes


La religion seule est restèe toute neuve la religion
Est restèe simple comme les hangars de Port-Aviation

(Adesso sei stanco di questo mondo antico / Pastora oh Tour Eiffel il gregge dei ponti
bela stamattina / Ne hai abbastanza di vivere nell’antichità greca e romana / Qui
anche le automobili hanno l’aria di essere antiche / Solo la religione è rimasta nuova
/ Semplice come gli hangar di Port-Aviation.)

La stessa modernità che è in Cendrars, versi senza metrica (non è una


novità in Apollinaire), la città, la strada, anche la religione...

214
Quando Alcools esce in libreria, Cendrars rende omaggio ad Apollinaire.
Ma è irritato. Zone assomiglia troppo a Pâques. Gli dicono che Guillaume è
offeso perché lui non ha scritto niente su Alcools. Allora gli manda una
lettera molto breve in cui più o meno scopertamente gli rimprovera di non
avergli dedicato Zone. Questa faccenda pesa sui rapporti tra i due poeti.
Cendrars manifesta grande freddezza nei confronti di Apollinaire. Apollinaire
cerca inutilmente di arrivare a una spiegazione.
Comunque nessuno può provare niente e nessuno proverà niente. Neanche
Tristan Tzara che, come racconta Jacques Roubaud, ogni tanto tirava fuori le
bozze di Alcools corrette dopo La Prose du Transsibérien e commentava
perfidamente: «Credete che sia Apollinaire che ha fatto tutto! Ma c’è
Cendrars!».3
Solo che c’è un fatto: le poesie di Alcools sono anteriori al Transsibérien –
e in questo testo, peraltro, Cendrars fa un omaggio a Apollinaire:
«Pardonnez-moi de ne plus connaìtre l’ancien jeu des vers»
Comme dit Guillaume Apollinaire.4

(«Perdonatemi se ho dimenticato l’antico gioco dei versi» / Come dice Guillaume


Apollinaire.)

Continuando con questo piccolo gioco, si potrebbe anche ricordare che


certi Sonnets dénaturés, scritti nel 1916, fanno pensare ai Calligrammes. O
ancora che le poesie senza punteggiatura di Cendrars sono state composte
dopo Alcools... Ma Apollinaire non è Picasso e Cendrars non è Braque. Non
c’è niente che li leghi uno all’altro. Le fonti di ispirazione dei due poeti sono
del tutto personali, anche se si incrociano, anche se risentono di altre
esperienze. La modernità dell’epoca si era già espressa in pittura con il
cubismo e il futurismo. Apollinaire non aveva certo bisogno di Cendrars per
scrivere le sue poesie, e Cendrars non voleva certo inimicarsi Apollinaire.
Comunque, se proprio cercava una rivincita, Cendrars se la prenderà qualche
anno dopo, quando sosterrà che Alcools, il titolo che aveva sostituito Eau de
vie, lo aveva trovato lui.
Forse era così. O forse no. Cendrars – e questa è anche la sua ricchezza –
era un gran chiacchierone... Secondo Hemingway, Cendrars era «un buon
amico, fino a che non beveva troppo, e, a quel tempo, erano più interessanti
le sue bugie delle storie vere raccontate da altri...».5
Cendrars crede forse veramente di aver ispirato, dopo Apollinaire, anche

215
Charlie Chaplin? Perché, secondo lui, in Charlot soldato6 Chaplin gli
avrebbe rubato il personaggio di Bikoff, travestito da tronco d’albero nella
Main coupée.
E ancora. È vero che Cendrars ha copiato in biblioteca, per conto di
Apollinaire (che lavorava anche lui per conto di un altro), i romanzi della
Tavola Rotonda che sarebbero poi usciti presso le edizioni Payot?
Senza dubbio.
È vero che Cendrars – come lui ha sostenuto – ha fatto il negro per
Apollinaire, scrivendo per lui libri erotici o qualche capitolo di opere storiche
romanzate, alle quali avrebbero contribuito anche René Dalize, Maurice
Raynal e André Billy?
Forse sì, forse no.
È vero che Cendrars si è completamente inventato la storia del funerale di
Withman quale poi è stata riportata da Apollinaire in un numero del
«Mercure de France» del 1913 – cosa che ha valso al poeta i fulmini di Stuart
Merril e di numerosi lettori di quella rivista così perbene?
Senza dubbio.
Walt Whitman è uno dei più grandi poeti americani del XIX secolo. In
Francia, l’unica raccolta delle sue poesie, Leaves of grass (Foglie d’erba),
aumentata di anno in anno, ha profondamente influenzato i poeti di «Vers et
prose». La sua vita affascina il giovane Cendrars, che condivide con
Whitman il gusto per i viaggi, per la gente più diversa e per la libertà.
Cendrars fa ad Apollinaire un resoconto del funerale del poeta, morto
vent’anni prima. Basandosi su queste informazioni, che gli sembrano
verosimili, Apollinaire si abbandona al più sfrenato lirismo. Dato che
l’articolo viene pubblicato sul «Mercure» il 1° aprile, qualcuno potrebbe
anche credere a uno scherzo. Forse lo è. Ma solo per Blaise Cendrars.
Secondo il cronista del «Mercure de France», Whitman stesso avrebbe
organizzato il proprio funerale – ma più che altro come una buona occasione
per far baldoria. Avrebbe quindi previsto fanfare, un banchetto, botti di birra
e di whisky. Sarebbe intervenuta una folla di alcolizzati, giornalisti, uomini
politici, contadini, pescatori di ostriche, giovanottini aggraziati e omosessuali.
Tutta questa gente avrebbe seguito la bara picchiandoci sopra allegramente. Il
funerale sarebbe finito in un’orgia mostruosa. La polizia, chiamata d’urgenza,
avrebbe arrestato cinquanta persone.
Apollinaire ci aveva dato dentro. I lettori anche. Poi, un’ondata di proteste.
Come poteva una rivista seria come il «Mercure de France» tollerare un
articolo come quello, in cui Walt Withman veniva descritto come un

216
omosessuale, un depravato, un alcolizzato?
Otto mesi dopo, Apollinaire aveva dovuto rispondere. Assumeva la piena
responsabilità del suo articolo. Sosteneva di averlo scritto a partire dal
racconto di un testimone. Ma si rifiutava di citarne il nome, limitandosi a dire
che la testimonianza gli era stata resa «in presenza di un giovane poeta di
talento, Blaise Cendrars».7 Il colpevole non era stato smascherato ma doveva
stare in guardia.
Per finire, è vero che Cendrars si è inventato da cima a fondo la storia del
funerale di Withman, poi scritta da Apollinaire, così onirica e così
assolutamente inverosimile?
Certamente. Tanto più che nessuno lo aveva visto al capezzale di Whitman
– contrariamente alle sue affermazioni.
Apollinaire ha sempre ammirato Cendrars, e non lo ha mai nascosto.
Anche Cendrars ha ammirato Apollinaire, benché nei suoi scritti trapeli a
volte qualche ambiguità che si potrebbe attribuire a un’ombra di invidia.
Apollinaire
1900-1911
Per 12 anni unico poeta di Francia

scrive Cendrars in Hamac.8 Perché dodici anni? Perché dopo arriva


Cendrars...
Finita la guerra i due tornano amici. Nel 1918, le edizioni della Sirène, di
cui Blaise Cendrars è direttore letterario, pubblicano Le Flâneur des deux
rives di Apollinaire. Più tardi Blaise, nella sua corrispondenza, riprenderà
un’espressione tipica di Apollinaire – omaggio definitivo al camerata poeta:
prima della firma, userà spesso una formula che tutti gli amici di Guillaume
conoscono: «Con la mia mano amica».
Il 3 agosto 1914, il giorno dopo la dichiarazione di guerra della Germania
alla Francia, Blaise Cendrars si arruola. Un mese dopo si sposa. Poco dopo
raggiunge il suo corpo d’armata, il 1° Reggimento Stranieri di Parigi.
Un anno di guerra per la sua patria adottiva. All’inizio, come Apollinaire,
come Cocteau, Cendrars scopre un mondo che affascina la sua
immaginazione di poeta. Ma dura poco. Lui rimane un anarchico – libero,
duramente critico nei confronti del militarismo. Il suo sguardo è spietato, fin
dai primi giorni. Storie incredibili. Come quando i soldati passano per la
cittadina di Chantilly, dove Joffre e i suoi accoliti dello stato maggiore stanno
studiando i piani di battaglia. Ma al generale dà noia il rumore degli scarponi

217
della fanteria che marcia a passo cadenzato. E allora, per ristabilire il silenzio
indispensabile ai suoi neuroni tricolori, fa spargere sulle strade tonnellate di
paglia.
Cendrars racconta con toni sarcastici anche la storia di quella volta che il
suo reggimento deve raggiungere il mare del Nord. Bisogna fare in fretta per
bloccare i tedeschi. Ma bisogna anche addestrare i soldati, renderli duri,
spietati, efficienti perché verrà il momento di combattere. Un ufficiale ha
un’idea geniale. Ma il fatto è che il genio dei militari non ha niente a che
vedere con il genio come noi lo intendiamo normalmente. Così viene deciso
che il treno che doveva trasportarli segua i soldati, costretti a marciare. Zaino
in spalla, i soldati si sfiancano lungo la ferrovia. La locomotiva li segue piano
piano. Davvero un’idea da grande artista!
Blaise sopporta tutto: gli scherzi da caserma, le corvè, il fronte, gli scontri
corpo a corpo. Resiste perché al suo fianco c’è sempre l’ombra di un ometto
che più tardi diventerà il protagonista di un suo grande racconto:
Moravagine. Il suo compagno più caro per tutta la durata della guerra. Il più
fedele, soprattutto. Gli altri, i suoi compagni in carne e ossa, morivano uno
dopo l’altro.
Il 28 settembre 1915, in Champagne, una granata taglia di netto la mano
amica dello scrittore. Blaise Cendrars perde il braccio destro.
A Carency, in maggio, mentre combatte nello stesso reggimento, Braque si
prende una ferita alla testa, e Kisling un brutto colpo di baionetta. Kisling
ottiene il congedo, la Croce di Guerra con palme e, soprattutto, la ricompensa
cui aspirano tutti gli artisti stranieri che combattono in trincea: la nazionalità
francese.

218
Il principe frivolo

...Prima di lui, nei caffè di boulevard Montparnasse


si sentivano soltanto grandi discussioni letterarie su
autori o su scuole; dopo di lui, divagazioni, battute
raffinate, giochi di parole. Come se lui, per scherzo
e senza dirlo, avesse comunicato a tutti quella sua
arte del tutto particolare di cambiar le carte in
tavola.
André Salmon

Parigi sconcerta chi ci ritorna dal fronte. Dopo quindici giorni di licenza
passati tra le braccia della fidanzata in carica, Apollinaire si ferma a Parigi
solo per qualche ora. La città è in guerra, ma è tutto diverso dal fronte. Certo,
la notte ci sono le incursioni degli Zeppelin. Preceduti dal suono delle sirene,
grigi, oblunghi, passano volando a centocinquanta metri di altezza. Li
prendono a cannonate. I parigini più curiosi riescono a vedere, sotto la luce
dei riflettori, l’aviere tedesco nella navicella, il braccio alzato, la bomba in
mano. Ma sono pochi, quei curiosi. Gli altri aspettano la fine dell’allarme in
cantina.
Certo, sono in molti a soffrire la fame. E quell’inverno fa un freddo
terribile. Ma quanti imboscati! Jean Hugo racconta che Léon-Paul Fargue si
serve della complicità di un sottufficiale del Val-de-Grâce per fare riformare i
suoi amici. Apollinaire lancia qualche frecciata all’indirizzo dei suoi camerati
sistemati nelle fabbriche. Cendrars non è certo più tenero con tutti quelli che
se la sono battuta in Spagna o negli Stati Uniti. Nel 1915, Derain ha finito
quasi per litigare con Vlaminck – al quale rimprovera in termini appena velati
di essersi messo al riparo nelle retrovie.
Che cosa fanno gli altri, quelli che la guerra ha rifiutato, quelli che ha
rimandato a casa dopo averli mezzi massacrati nelle trincee?
Bevono café-crème alla Rotonde. Aspettano che tutto finisca. Oppure, che
tutto incominci. I rivoluzionari russi, specialmente.
A Parigi sono in qualche migliaio a sperare nell’arrivo del gran giorno.

219
Rifugiati, lontani dal loro paese, spiano le mosse di una possibile rivoluzione.
Come rifugio, hanno scelto Montparnasse.
Lenin abita in rue Marie-Rose, dalle parti di Alésia. Ci sono anche Martov,
Ilia Erenburg (che si guadagna la vita facendo traduzioni e portando in giro i
turisti russi) e Trockij, che ha accettato il posto di corrispondente in Francia
offertogli da un giornale di Kiev, la «Kievskaya Mysl».
Trockij è arrivato a Montparnasse alla fine del mese di novembre del 1914.
Prima ha abitato in una camera d’albergo di rue d’Odessa; poi, quando
l’hanno raggiunto la moglie e i bambini ha traslocato in rue de l’Amiral-
Mouchez, ai confini di Montsouris. Oltre al suo lavoro alla «Kievskaya
Mysl», ha ristrutturato un giornale appena fondato da un gruppo di immigrati
russi. Resta due anni in Francia, prima di essere espulso.
Trockij va spesso alla Rotonde, e anche da Baty, all’angolo tra Raspail e
Montparnasse (si dice anche che abbia lasciato un conto da pagare in questo
ristorante, vantato da Apollinaire per la qualità dei vini, dove si dà
appuntamento la gente elegante con il portafogli pieno).
Qualche anno dopo, la presenza dei due rivoluzionari russi verrà messa in
dubbio. Ma i testimoni dell’epoca sono categorici.1 Anche se tendono un po’
alla caricatura, come Vlaminck che racconta che un giorno, alla Rotonde,
Trockij gli avrebbe detto: «Mi piace, la tua pittura (...) ma dovresti dipingere
minatori, operai, lavoratori, dovresti esaltare il lavoro, fare l’apologia del
lavoro!».2 Comunque, questi testimoni sono d’accordo nel riconoscere che
non è perché Trockij era già amico di Diego Rivera (lo raggiungerà in
Messico molti anni dopo) che lui e i suoi compagni bolscevichi si occupano
di questioni di arte figurativa.
Certe situazioni, in effetti, sono difficili da immaginare. Sembra
impossibile pensare che Lenin, Trockij, Martov, tutti quei menscevichi o
bolscevichi, passassero le serate in mezzo al fumo della Rotonde, tra vapori
di etere e sniffate di cocaina. Con Modigliani che grida slogan antimilitaristi,
Soutine che borbotta qualcosa tra i denti, tremando dal freddo sotto il
cappotto, senza nient’altro indosso, Derain, in licenza, che fabbrica
aeroplanini di carta e glieli fa volare nella tazzina...
La presenza di Max Jacob nella Montparnasse degli artisti è più verosimile.
Un giorno, nel 1916, il poeta entra alla Rotonde. Racconta a tutti il suo
«servizio militare»: è stato un mese a Enghien come lettighiere civile; i feriti
erano ancora pochi, è rimasto trenta giorni in un giardino pieno di fiori, tra
madri e spose in lacrime, a mettere in ordine le sue poesie e i suoi manoscritti

220
in vista di una pubblicazine postuma.
Poi parla di Picasso, naturalmente. E ne parla male. Ma sottovoce, perché il
pittore è in lutto: Eva non ha resistito alla tubercolosi che la consumava da
mesi. Ci sono andati in pochi, al suo funerale. C’era Juan Gris... Era tutto
così triste che Max ha dovuto buttar giù qualcosa. Vino, soltanto vino. Poi si
è messo a raccontare storielle sconce. È diventato amico, molto amico, del
cocchiere delle pompe funebri. E tutti a dirgli che si comportava male...
Da quel giorno Picasso è offeso con lui. E Max ci è rimasto male. Con
tutto quello che ha fatto per lui! Con tutto quello che gli ha dato!
All’altro capo della sala, un giovane sta ad ascoltare. Al nome di Picasso,
drizza le orecchie.
È seduto al bar, di fronte al père Libion. Muove il suo stivaletto d’aviatore,
allacciato stretto alla caviglia. I pantaloni rossi cadono, impeccabili, sulle
fibbie di cuoio giallo. La tunica nera è di grande effetto, più ancora l’elmetto
color malva (le malelingue dicono che è l’ultima creazione di Paul Poiret) che
il poeta fa oscillare con noncuranza, ostentando un pizzo bianco al polso.
È tornato dalla guerra. Prima lo hanno destinato all’intendenza, a Parigi.
Poi ha ottenuto di essere trasferito in un reparto di ambulanze al comando del
conte étienne de Beaumont. Ha trovato tutto quanto fantastico. Proprio
carino. Al mattino, non c’è niente di meglio che svegliarsi al rumore delle
cannonate. E non c’è niente di più bello di un cielo azzurro segnato
dall’esplosione di una granata, a cascata intorno a un aeroplano.
Il soldato tanto chic ostenta la sua personcina al ritmo di un pensiero
vivace, delicato, prodigato senza sforzo, come una manna, sui fiorellini che
ha intorno e da cui si sforza, «faiblesse oblige», di farsi amare.
«L’ammirazione mi lascia freddo, mormora». «La mia opera ha bisogno di
amore. È tutto d’amore, il mio raccolto».3
Un po’ di amore non gli basta, molto amore è appena sufficiente. Ha
bisogno di amori appassionati. Spesso il suo raccolto è molto magro.
Vlaminck, appena entrato alla Rotonde, gira al largo: ha individuato le
mobili ali graziose di Cocteau.
Si avvicina a Salmon e Carco che, seduti allo stesso tavolo, guardano il
soldato gentiluomo sogghignando.
«È il figlio spirituale di Picasso e di Max Jacob», brontola Vlaminck. «Lo
hanno messo a balia da Anna de Noailles».4
Salmon alza il bicchiere: «All’Ariel dei salotti!».5
Carco brinda: «All’idolo delle vecchie signore!».

221
E precisa: «Al sarto delle Arti!».
Aggiunge: «Al teorico profumato».6
«Al principe frivolo», conclude Vlaminck.
Che è il titolo di un libro pubblicato da Cocteau nel 1910, cinque anni
prima. Ai pittori e ai poeti della rive gauche non piace affatto. Loro lo
detestano, quel dandy. Detestano tutto ciò che rappresentano lui e la rive
droite. Anche se qualche anno dopo cambieranno parere, anche se Cocteau,
entrato a forza in una cerchia di persone che lo rifiutavano, finirà per farci il
nido, diventando amico intimo di quasi tutti, è pur sempre vero che agli inizi
i suoi modi erano proprio quelli di un estraneo.
Francis Carco gli riconosce un merito: «Senza Jean Cocteau, chi avrebbe
pensato che il cubismo potesse affascinare gli snob?».7 Secondo Philippe
Soupault, Apollinaire non lo stimava molto: «Non fidatevi di Cocteau (...) è
un imbroglione, un camaleonte».8 Reverdy lo definiva «l’antipoeta», «un
esibizionista, un imitatore, un fanatico del successo, un furbone, specialista
nell’imbrogliare le cose». E André Salmon: «Venuto dalla rive droite, dove
sarebbe ritornato a tutta velocità – Taxi! – per non tornare mai più, il poeta
(...) se ne andava dopo avere piegato a inattese raffinatezze dialettiche i
pittorucoli del café-crème».9
Anche Max Jacob lo attacca. E Cocteau replica con qualche frecciata niente
male: Max Jacob è «un parvenu del cristianesimo. Un toccatutto tenero e un
po’ sporco».10 O ancora: «Un Jean-Jacques Rousseau da WC, un danzatore
da sacrestia». Il che non impedirà ai due uomini di diventare i migliori amici
al mondo. Cocteau, lo sappiamo, si darà da fare – troppo tardi – per salvare
Max Jacob, imprigionato a Drancy.
Si darà da fare anche per se stesso, nel 1942, con le autorità di Vichy. Cosa
che gli varrà la solida inimicizia di Philippe Soupault. Soupault racconta che
nel 1983, a un’asta pubblica di lettere e manoscritti originali nel corso della
quale era stato venduto il testo originale di Champs magnétiques, aveva
scoperto due lettere di Cocteau datate 1942 e indirizzate a Pétain. Dopo che
Jean Marais e lui stesso erano stati presi di mira dalla Milizia e dalla stampa
collaborazionista, l’autore chiedeva al maresciallo di intervenire perché la sua
commedia Renaud et Armide, che era stata proibita, andasse comunque in
scena alla Comédie Française. Soupault cita qualche passo:
Avevo deciso, con gli attori della Comédie, di scrivere per loro una grande commedia
lirica che esaltasse ciò che la vostra nobiltà ci insegna. (...) La mia vita è

222
impeccabile, la mia opera senza macchia. Sono cugino dell’ammiraglio Darlan. Ma
se mi rivolgo a voi, signor Maresciallo, è perché vi venero.11

Quanto ai surrealisti, disprezzano Jean Cocteau da sempre. Nei Pas


perdus,12 André Breton arriva a scusarsi di dover scrivere il suo nome. Vede
in lui ciò che i poeti e pittori di Montparnasse avevano visto prima della
Grande Guerra: l’arrivismo forsennato, la mondanità, quel suo farsi in
quattro per la principessa Bibesco, per la principessa di Polignac, per
l’imperatrice Eugenia, per Liane de Pougy, moglie del principe romeno
George Ghika, e per gli artisti che condividevano il suo gusto per i salotti
dorati: il musicista Reynaldo Hahn e il pittore Jacques-émile Blanche.

Brilla. Jean Cocteau brilla, brilla dappertutto. Quando arriva a


Montparnasse, il suo gioiello più bello, quello che esibisce con maggior
piacere, è la sfavillante parure dei Ballets Russes.
Il gruppo Mir Iskustva è stato fondato a San Pietroburgo nel 1898. Sotto la
direzione del coreografo Fokine, riunisce musicisti e pittori. Nel 1909 il
gruppo si insedia a Parigi, al Théâtre du Châtelet. Fokine e Sergei Diaghilev
hanno capito che se vogliono rompere con il balletto classico devono
coinvolgere gli artisti contemporanei. Da questo punto di vista, sono i
fondatori del balletto moderno. Voltando le spalle alla vecchia musica di
circostanza, commissionano alcune opere a compositori del tutto nuovi:
Auric, De Falla, Milhaud, Prokof’ev, Satie, Stravinskij. Dopo Bakst, le scene
vengono firmate da Derain, Braque e Picasso.
Nijinskij e la Karsavina mandano il pubblico in delirio – o su tutte le furie.
Succede con Le Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, e
soprattutto con Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij, la cui prima ha
luogo al Théâtre du Châtelet nel maggio del 1913. Uno scandalo all’altezza di
quello della prima dell’Ernani. Il pavimento del teatro scricchiola sotto il
peso delle perle e delle pellicce. La Parigi delle arti e delle lettere è presente al
gran completo: Debussy, Ravel, Gide, Proust, Claudel, Sarah Bernhardt,
Réjane, Isadora Duncan... E naturalmente Jean Cocteau.
Appena comincia lo spettacolo, è un tumulto. La platea è divisa tra quelli
che sostengono Stravinskij e la coreografia di Nijinskij e tutti gli altri. Da una
parte si applaude, dall’altra si fischia. Insulti, bastonate. Nessuno ascolta la
musica. I ballerini, imperturbabili, continuano a danzare. Passando tra le file,
in cappello a cilindro, guanti color panna e abito da cerimonia, Apollinaire
bacia la mano alle signore eleganti – quando non fingono di non vederlo.

223
Lo scandalo del Sacre è paragonabile a quello provocato dall’esposizione
dei pittori cubisti al Salon des Indépendants qualche mese prima.
Cocteau sa bene come approfittarne.
Conosce Diaghilev da qualche anno, ha incontrato Stravinskij nel 1911. Un
anno più tardi, scrive un balletto musicato da Reynaldo Hahn: Le Dieu bleu,
che sarà messo in scena dai Ballets Russes nel maggio del 1912.
La grande idea di Cocteau è quella di unire le avanguardie. Porta a
Diaghilev ciò che ancora gli manca: la collaborazione dei pittori che, come la
compagnia di San Pietroburgo, mandano il pubblico su tutte le furie. Vuole
essere l’orchestratore dell’arte nuova, dell’arte totale.
Dopo averlo preso in giro, si avvicina al cubismo. Albert Gleizes gli fa
conoscere gli artisti della Section d’Or. È un inizio. Ma non basta.
Quando arriva a Montparnasse, Cocteau si rende subito conto (lo ha
scritto) che, siccome gli altri sono partiti per il fronte, «Parigi è da
conquistare».
Parigi è Picasso. Cocteau sa far bene i suoi conti. Se Picasso ha al suo
seguito grandi personaggi come Max Jacob, Pierre Reverdy o Guillaume
Apollinaire, non c’è ragione perché lui, Jean Cocteau, non debba far parte
della banda. Ci si mette d’impegno. Ogni volta che ne ha la possibilità,
Cocteau (che allora ha ventisei anni) fa a Picasso piccoli regali. Gli manda un
po’ di tabacco. Scrive lettere di un tragico nitore: «Caro Picasso, bisogna che
mi faccia subito il ritratto perché sto per morire».13
Poche settimane prima della morte di Eva, con l’aiuto di Edgar Varèse,
riesce a forzare senza troppe difficoltà la porta dello studio di rue Schoelcher.
Ne rimane abbagliato:
Come pochi altri, io credo di poter entrare del tutto naturalmente nel tuo regno e di
essere degno di tradurlo nella mia lingua, in modo tale che la mia sintassi obbedisca
alle stesse regole della tua.14

Una rivelazione, insomma.


Dopo questa prima visita, Cocteau sogna soltanto di ritornare. Come Max
Jacob, sa che quello con Picasso è l’incontro decisivo della sua vita. E
pazienza se per arrivare al suo scopo deve passare per la Rotonde, e stare con
quei cubisti che proprio non capisce – una banda di pittori mal vestiti, che
sprecano il loro tempo in chiacchiere senza senso, e guardano l’eleganza con
occhi idioti. Sogna di vedere il proprio ritratto firmato dal pittore spagnolo.
Nel gennaio 1915 Picasso ha disegnato un ritratto di Max Jacob alla mina

224
di piombo. Quanto alla tecnica, questo ritratto assomiglia stranamente a
quello di Ambroise Vollard, dello stesso anno. Nel microcosmo del carrefour
Vavin le due opere hanno l’effetto di una bomba: Picasso sta forse
abbandonando il cubismo per un realismo più classico, che ricorda Ingres?
Beatrice Hastings ne ha parlato in «The New Age».
Se ha fatto il ritratto a Max Jacob, perché non può farlo anche a me?, si
chiede Cocteau.
Ma come ottenere questo immenso favore? Una strada ci sarebbe. Anche
se non è nuova. L’idea gli è venuta guardando l’Arlecchino dipinto da
Picasso durante l’ultima fase della malattia di éva. Léonce Rosenberg, che ha
comperato il quadro, gli ha confermato la passione di Picasso per la gente del
circo.
Cocteau posa una monetina sul bancone, sorride a Libion e scende
elegantemente dallo sgabello. Controlla la piega dei pantaloni rossi, sposta il
sottogola dell’elmetto sul polso sinistro, saluta i presenti con amabilità. E va a
realizzare il suo piano.

225
Il gallo e l’Arlecchino

Rientro. Ci sono stati grandi temporali e ho perso in


due giorni l’abbronzatura che mi era costata due
mesi.
Jean Cocteau

Cocteau abita in rue d’Anjou al 10. Gli piace ricevere. È qui che lo
incontra Jean Hugo, pronipote di Victor Hugo:
Il poeta, in piedi in mezzo a una cerchia di ammiratori e di ammiratrici, teneva in
mano il ricevitore del telefono e diceva quanto fosse stupefacente immaginare tutti
quei meandri percorsi dalle parole lungo il filo che serpeggiava sul tappeto.1

È in quella stessa casa che Cocteau legge a un areopago di visitatori la


poesia Le Cap de Bonne-Espérance, dedicata all’aviatore Roland Garros, che
gli ha fatto scoprire la gioia del volo:
donc
cet ange ailleurs distrait

cela peut
chez nous apparaître
L’adorable géant ra len ri se condense

Il poeta sta dietro un leggio decorato di fiori dipinti. Porta un vestito nero e
una cravatta bianca. All’occhiello ha una gardenia. Gliene portano una al
giorno, dice. Non da Parigi – troppo banale. Da Londra.
Quando ha finito la lettura, chiede l’opinione degli invitati. Misia Sert, la
figlia dello scultore polacco Cyprien Godebski, e grande amica di Diaghilev,
applaude, spalleggiata dal commediografo Roland Bertin e dalla pittrice
Valentine Grosz, futura moglie di Jean Hugo, che aveva introdotto l’ospite
nella cerchia di Montparnasse. André Breton, nella sua uniforme di medico
militare, non dice una parola. Sparisce alla fine della recita.
Questo, prima dell’incontro con Picasso. Poi molta acqua passerà sotto i

226
ponti.
Cocteau apre i suoi armadi. Sceglie la tenuta che gli sembra più adatta, e
che si trova lì per un balletto che sta preparando per Diaghilev. Pantaloni e
camicia variopinti, colori vivaci, a losanghe: un costume da Arlecchino.
Lo indossa. Al momento di uscire si rende conto che andare in giro per
Parigi in tempo di guerra vestito a quel modo potrebbe causargli qualche
noia. Allora nasconde il travestimento sotto un cappotto molto lungo. Che
però lascia scoperte le caviglie. Se gli chiedono qualcosa, dirà che si tratta di
una tuta mimetica.
Prende al volo un taxi, si fa portare in rue Schoelcher. Sale le scale.
Batticuore. Come lo accoglierà Picasso, questo bell’invitato? La vedovanza
gli impedirà forse di dipingerne il dolce profilo?
Suona. Picasso apre la porta. Il poeta si toglie con noncuranza il cappotto –
ed eccolo lì, piume e spirito: di tutti i colori. Ma Picasso non dice una parola.
Non mette una tela sul cavalletto sotto la luce della vetrata che si apre sul
cimitero di Montparnasse, non prende pennelli e tavolozze. Cocteau è
disperato. Si consolerà riscrivendo la storia:
Nel 1916 Picasso voleva farmi un ritratto in costume d’Arlecchino. Questo ritratto è
stato realizzato alla maniera cubista.2

Quando Cocteau arriva da lui, Picasso si sta rimettendo dal dolore per la
morte di éva. Si consola con Gaby, una giovane donna di Montparnasse, alla
quale succederà Irène Lagut, che lascerà Serge Férat per lo spagnolo, che
aprirà presto il suo cuore a Paquerette, un’indossatrice di Poiret, poi a Olga,
la sua prima moglie.
Cocteau aspetta. Dato che per il momento i pennelli di Picasso sono
occupati altrove, posa per Modigliani e per Kisling.
Come Cendrars, Moïse Kisling è stato riformato dopo la battaglia di
Carency. Sopravvive grazie all’aiuto di uno scrittore polacco, Adolphe Basler
(grande ammiratore di Manolo), che vende i quadri dell’artista nel proprio
appartamento.
Kisling va in giro per Montparnasse, sempre allegro, con una tuta stracciata
e sandali malconci. I vestiti che portava quando è arrivato da Cracovia non
sono che un ricordo. Si è adeguato agli abiti e alle abitudini dei suoi nuovi
amici. È molto coraggioso. Lo era anche prima della guerra. Nel 1914 si batte
a duello con un altro pittore polacco, Leopold Gottlieb. Nessuno conosce la
ragione dello scontro fratricida. Il massacro ha luogo al Parc des Princes,

227
vicino a una pista dove si stanno allenando alcuni ciclisti. André Salmon è il
padrino di Kisling e Diego Rivera di Gottlieb. I due contendenti si affrontano
prima alla pistola – due colpi da venticinque metri – poi alla sciabola. Kisling
non ha mai usato un’arma bianca. Volano le lame, i ciclisti scendono di
bicicletta e vengono ad applaudire, i padrini chiedono una pausa per
medicare le ferite. I due polacchi rifiutano. Si battono per un’ora, con un
accanimento che procura loro un numero soddisfacente di ferite. Il duello ha
termine quando la spada di Gottlieb stacca un pezzo di naso a Kisling. E lui,
la faccia coperta di sangue, sorridente, girandosi, grida: «Quarta spartizione
della Polonia!».
Sei settimane dopo, l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.
In attesa che Picasso gli apra il suo cuore, Cocteau va un giorno in rue
Joseph-Bara, nello studio di Kisling. C’è anche Modigliani. I due pittori
devono fare il ritratto al poeta. Quest’ultimo ha portato una bottiglia di gin e
due limoni: gli piacerebbe posare davanti a una natura morta.
«Impossibile!», dichiara Amedeo.
Le nature morte non gli piacciono.
«...Ma adoro il gin-fizz!».
Prende la bottiglia di gin, spreme i limoni, scova un sifone di seltz. Si scola
un bicchiere. Poi due. Poi tre. Poi la bottiglia.
Kisling è fuori di sé dalla rabbia.
Cocteau aspetta sempre.
Ancora qualche settimana e, finalmente, Picasso comincia un ritratto del
poeta. Sa che quel vivace giovanotto sta per fargli cambiare mondo e
universo? Sa che il Bateau-Lavoir, già così lontano, colerà a picco, quando
loro due, Cocteau e Picasso, a braccetto, irromperanno insieme nel gran
mondo?
Probabilmente lo sa. Lo sanno tutti. È la tesi di Maurice Sachs, secondo il
quale i reduci di Montmartre, Max Jacob e Picasso per primi, cedono alle
lusinghe di Cocteau perché hanno bisogno di un «abile agente di
pubblicità».3 E in cambio della sua abilità gli offrono di entrare a far parte
dell’avanguardia. Cocteau sarà un «animatore» meraviglioso – e come tale lo
utilizzeranno. Ma c’era, tra di loro, «un’amicizia di facciata che nascondeva
rivalità profonde e un terribile disprezzo».4
È senz’altro esagerato, ma c’è del vero. Presto arriverà Parade. Picasso e
Cocteau lavoreranno ancora insieme con i Ballets Russes. Ma poi il pittore
prenderà le distanze dal poeta. Gertrude Stein racconta un episodio molto

228
significativo.5 Picasso si trova un giorno a Barcellona. Viene intervistato da
un giornale catalano. Si arriva a parlare di Jean Coteau. Picasso dice che
Cocteau a Parigi è così celebre che tutti i parrucchieri di lusso hanno in
negozio le sue poesie.
L’intervista viene pubblicata sulla stampa francese e Cocteau la legge.
Cerca di parlare con Picasso per chiedergli una spiegazione. Picasso non si fa
trovare. Per spegnere l’incendio che minaccia la sua reputazione, Cocteau
dichiara a un giornale francese che non è stato il suo amico Picasso a parlare
di lui in quel modo, ma Picabia. Purtroppo Picabia smentisce. Cocteau torna
alla carica con Picasso. Lo supplica di confermare la responsabilità di
Picabia. Ancora nessuna risposta.
Poco dopo, Picasso e la moglie (si tratta senza dubbio di Olga) vanno a
teatro. Incontrano la madre di Cocteau, che chiede al pittore di confermarle
di non essere l’autore delle maldicenze diffuse su suo figlio dalla Spagna.
Picasso non dice niente. Ma sua moglie non sopporta di veder soffrire una
madre, e alla fine le risponde che effettivamente Picasso non avrebbe mai
parlato in quei termini di Jean Cocteau.
Il poeta si rassicura: fra lui e Picasso non ci sono ombre.
Tuttavia altre nubi stanno addensandosi. Quando, negli anni Venti, Picasso
si riavvicina ai surrealisti, che detestano «le veuf sur le toit». Cadono le prime
pioggerelle. Che diventano un acquazzone quando, durante e dopo la guerra
di Spagna, Picasso si schiera apertamente a sinistra. L’uragano vero e proprio
si scatena dopo la Seconda guerra mondiale. Anche se sfuggirà piuttosto
miracolosamente all’epurazione, bisogna ammettere che Cocteau si era
quantomeno spinto un po’ troppo lontano. A lui si deve in particolare un
omaggio pubblico a Arno Breker...
Anche se molto più tardi lo perdonerà, anche se negli anni Sessanta gli
aprirà di nuovo la sua porta, Picasso non dimentica. E non è l’unico. C’è una
storia raccontata da Françoise Gilot. Picasso è a Saint-Tropez con Paul Eluard
(il cui vero nome è Eugène-émile-Paul Glindel). Arriva uno yacht. Ne scende
un diavoletto: Jean Cocteau. Eluard lo tratta con freddezza. L’altro insiste
tanto che Eluard finisce per stringergli la mano – ma gelidamente. Meglio di
niente. L’Arlecchino scriverà che Eluard è per lui «un grande amico».6 Anche
Picasso, del resto, non si comporta da amico con Cocteau. Cambierà
atteggiamento solo dopo la morte di Eluard, nel 1952.7
C’è una domanda alla quale nessuno potrà mai dare una risposta.
A Montparnasse, negli anni in cui furoreggia Cocteau, c’è un altro poeta

229
che brilla come lui – e di una fiamma tanto diversa quanto più duratura. Un
poeta che aveva scritto anche lui, oltre alle poesie, romanzi e commedie. Un
poeta dal talento proteiforme e che, benché sappia fare il baciamano nei
salotti, non ha mai dovuto sforzarsi di entrare a far parte della cerchia dei
geni dell’avanguardia – per la semplice ragione che è uno di loro. Lo
conosciamo già: è Guillaume Apollinaire.
Apollinaire e Cocteau si conoscono dalla fine del 1916. All’inizio i loro
rapporti sono offuscati da dubbi e sospetti. Scrivendo a Picasso nella
primavera del ’17, Apollinaire confida che tra lui e Cocteau le cose vanno un
po’ meglio. Forse perché in una lettera scritta a marzo Cocteau si è
praticamente inginocchiato:
Vi giuro che finiremo per lavorare insieme e che ero sicuro che ci saremmo incontrati.
Perdonatemi di avere un po’ insistito, a costo di apparire «il giovanotto che cerca di
farsi ben volere». Agivo con coraggio e gravità per la causa comune e godevo della
vostra diffidenza perché mi sembrava quella di un muratore esperto che senza farsi
riconoscere mette alla prova un altro muratore per vedere come sa lavorare.8

O forse perché Picasso, secondo Cocteau, aveva insistito moltissimo


affinché i due poeti si frequentassero?
Mi rallegro per il nostro incontro, così importante. Picasso se lo augurava di tutto
cuore. «Basta che andiate d’accordo con Apollinaire», mi continua a dire...9

Vanno d’accordo con alti e bassi. Cocteau si lamenta che Apollinaire lo


giudichi «sospetto». Apollinaire, secondo Vauxcelles, accusa Cocteau di voler
prendere il posto che lui stesso aveva preso a Max Jacob accanto a Picasso. E
poi c’è tutto quel cancan di pettegolezzi mondani che complica le cose.
Quando Cocteau aveva proclamato che durante la guerra Parigi era una
città da conquistare, probabilmente pensava a un posto assai preciso: quello
che proprio Apollinaire aveva dovuto lasciare. Ed ecco la domanda che non
può che restare senza risposta: quale sarebbe stato il destino di Cocteau se
Apollinaire non fosse morto?

230
La ferita del poeta

La guerra è il ritorno legalizzato allo stato


selvaggio.
Paul Léautaud

Al fronte, 17 marzo 1916


Settore 139

Davanti a Berry-au-Bac, nel bosco sulla collina, Guillaume Apollinaire sta


sistemando la trincea. Ci tende sopra un telo di tenda – protezione illusoria
contro le granate che esplodono tutt’intorno.
Mette l’elmetto e si siede nel fango. Dopo la licenza passata a Lamur, con
Madeleine e sua madre, è tornato alla sua unità in gennaio. Ha seguito per
due mesi un addestramento intensivo. Ha comandato la sua compagnia. Il 14
marzo è di nuovo in trincea. Il giorno della partenza ha scritto a Madeleine,
nominandola di nuovo erede di tutti i suoi beni. Una lettera tra le tante.
Le scrive quasi ogni giorno. Le promette un amore eterno, giura che
appena ne avrà il tempo si occuperà delle pratiche per il matrimonio. È
tenero ma non appassionato. Quando la giovane donna sembra
preoccuparsene, la rassicura, spiegandole a mezze parole che il pensiero della
censura lo trattiene dall’abbandonarsi a dichiarazioni intempestive. A volte
sembra esasperato dalla sua insistenza. La prega di essere «gentile» e di
adottare un registro più letterario, capace di elevare lo spirito. Le consiglia di
perfezionare il suo inglese, di non mangiare pesce, le raccomanda di distrarsi,
si preoccupa dei suoi piedi ammalati: «Massaggiali delicatamente dalle dita
alla caviglia per due minuti tutte le sere».1
Tutto molto ragionevole. Queste lettere sono l’immagine della saggezza
borghese che domina la loro storia: fidanzamento, richiesta di matrimonio
alla madre, attenzioni calorose e confortanti... È davvero questo che vuole
Guillaume?
Non ha più scritto a Lou. L’hanno tagliato, l’alloro. La sua ultima lettera è
del mese di gennaio: le chiede di mandargli una ricevuta del monte di pietà di

231
Nizza perché possa recuperare un orologio che aveva impegnato. Scrive
invece, di tanto in tanto e in modo affettuoso, a Marie Laurencin. E agli amici
di Parigi, specialmente Picasso, al quale ha regalato un anello fatto con le sue
mani.
Scrive poesie. Manda al «Mercure de France» qualche pagina delle
Anecdotiques, in cui si parla della guerra, del futurismo, di Stendhal, di
Giovanna d’Arco. Per ogni evenienza, ha sempre in tasca un libro, lo tira
fuori appena sul fronte c’è un po’ di calma.
Non si lamenta, mai, ma è giù di corda. È in preda a una «grande
melanconia». Non per la mancanza di Madeleine, ma per la guerra. Si è
abituato alla pioggia, alla vita di caserma, alle marce e alle manovre sotto la
neve, ai gas asfissianti. Ma non si rassegna all’imbecillità dello stato
maggiore. Ha dovuto scrivere una relazione per spiegare i motivi per cui gli
uomini della sua compagnia portano l’elmetto mentre quelli della compagnia
vicina hanno il kepì. E senza dubbio è al corrente della disciplina severissima
cui sono sottoposti i soldati. È il momento dei tribunali militari. Le
mutilazioni volontarie sono punite con la pena di morte. Ogni soldato ferito
alle mani, con macchie nerastre intorno alla piaga, rischia l’esecuzione:
possono essere tracce di polvere da sparo, e allora sarebbero la prova che il
colpo è stato sparato a bruciapelo. Molti soldati vengono passati per le armi
perché una scheggia li ha colpiti alla mano.
Anche il rifiuto all’obbedienza viene duramente punito. Nel marzo 1915,
vicino a Souain, la 2a Compagnia del 336° Fanteria riceve l’ordine di
attaccare le trincee nemiche. Gli uomini si rifiutano di muoversi: sono sfiniti
dagli attacchi e dai contrattacchi e dovrebbero passare per un tratto scoperto
di centocinquanta metri pieno di filo spinato e battuto dalle mitragliatrici
tedesche. Un suicidio.
Davanti a questa manifestazione di indisciplina, in un primo momento il
generale comandante la divisione pensa di prendere a cannonate le trincee
francesi. Poi, su intervento del colonnello comandante l’artiglieria, cambia
tattica. Ordina che si scelgano sei caporali e diciotto uomini tra i più giovani.
Gli ostaggi sono portati davanti al tribunale militare e immediatamente
condannati a morte.
Capita anche che gli uomini da condannare non siano designati dai loro
ufficiali e sottufficiali, ma tirati a sorte. Poi li fucilano al posto dei loro
commilitoni che si sono rifiutati di andare all’attacco sotto il fuoco delle
batterie nemiche, calpestando cadaveri, sdraiandocisi sopra per ripararsi dalle
bombe.

232
Il sottotenente Apollinaire non è certo stato insensibile al caso del
sottotenente Chapelant. Vent’anni, ufficiale mitragliere del 98° Fanteria.
Nell’ottobre del 1914 la sua postazione al Bois des Loges è stata attaccata. I
tedeschi li hanno circondati – lui, le sue due mitragliatrici e i suoi quattro
aiutanti. Li hanno fatti prigionieri. Mentre lo portano via, Chapelant viene
ferito davanti alle linee tedesche. Rimane due giorni in mezzo al filo spinato.
I barellieri lo raccolgono, lo portano davanti al suo colonnello. Il colonnello
lo manda sotto processo. Perché? Perché è passato al nemico.
Quando gli leggono la sentenza – condannato a morte – Chapelant è in
barella. Lo legano alla barella, alzano dritta la barella, gli sparano dodici
colpi.
Fatti del genere demoralizzano i soldati. Apollinaire ne è colpito
dolorosamente, come tutti. Derain scrive alla madre:
Sacrificano migliaia di vite per niente, come se niente fosse, senza scopo, senza
un’idea, senza un progetto. Qualcuno si è preso tutto il potere e dispone degli altri, li
usa come strumenti che non si consumano e non si stancano, gli chiede senza tregua
di ripetere le fatiche più penose. È sconvolgente, l’incoscienza dei comandanti.2

Qualche settimana prima di prendere posizione davanti a Berry-au-Bac,


Apollinaire va in licenza. Due giorni. Ne ritorna deluso: com’è dolce la
guerra a Parigi! Max Jacob gli ha buttato giù il morale: secondo lui la guerra
durerà trent’anni. Un’esagerazione, senza dubbio. Ma anche Guillaume non
crede che la pace possa essere firmata prima della fine del ’17, o addirittura
nell’inverno del ’18.
L’unica buona notizia, la migliore dopo tanto tempo, è in una lettera
ufficiale ricevuta qualche giorno prima. È su carta intestata del Ministero
della Giustizia, direzione degli Affari civili, e concede a Guillaume
Kostrowitzky, detto Guillaume Apollinaire, la nazionalità francese.
Finalmente!
La tiene in tasca, quella lettera, accanto a un numero del «Mercure de
France». La sfiora con la mano, la riapre. Tutto intorno, il bombardamento
continua. Può soltanto cercare di ripararsi.
Sono le quattro del pomeriggio del 17 marzo 1916.
Apollinaire si mette a leggere un libro. Volta qualche pagina.
All’improvviso sente un’esplosione, a una quarantina di metri. E,
contemporaneamente, una botta sull’elmetto. Un colpo leggero, a destra,
vicino alla tempia. Si porta la mano alla testa. C’è un buco, nell’elmetto.
Qualcosa di caldo gli cola lungo la guancia. Sangue.

233
Chiede aiuto. Lo portano all’ospedale da campo. Ha una scheggia di
granata da 150 ficcata nella tempia destra. Il medico del 246° Reggimento gli
fascia la testa. Gli portano la sua cassetta d’ordinanza, lo fanno dormire. Il
giorno dopo, alle due del mattino, gli fanno un’incisione nell’ambulanza che
sta trasportandolo all’ospedale di Château-Thierry e gli estraggono alcune
schegge. Il 18 marzo scrive a Madeleine per informarla del suo stato: la ferita
è leggera, è solo stanco.
Il 22 gli fanno una radiografia. Gli fa molto male. Questo non gli
impedisce di appuntare nell’agenda la storia del suo ferimento. E nemmeno
di scrivere a Madeleine, a Yves Blanc e a Max Jacob.
Il 25 dovrebbero trasferirlo da Château-Thierry, ma la febbre lo blocca a
letto fino al 28. Il 29 arriva al Val-de-Grâce, a Parigi. Gli amici vanno a
trovarlo. È perfettamente lucido. La ferita è pulita, la piaga si sta
rimarginando.
Ma Apollinaire sente un gran dolore alla testa, ha le vertigini. I medici
rilevano uno stato di grande stanchezza. Il braccio sinistro gli pesa. Il 9 aprile,
Serge Férat lo fa trasferire all’ospedale dell’ambasciata italiana, in quai
d’Orsay, dove presta servizio come infermiere. Passano i giorni. Apollinaire è
colpito da una paralisi, perde conoscenza. Il 9 maggio, alla Villa Molière (una
sezione distaccata del Val-de-Grâce situata a Auteuil, in boulevard de
Montmorency), Apollinaire viene trapanato alla testa. Gli tolgono un ascesso.
Il giorno 11 manda un telegramma a Madeleine: l’operazione è riuscita.
L’ha tenuta informata, con biglietti spesso molto brevi, dell’evoluzione
della malattia e di tutti i suoi trasferimenti. In agosto, quando Madeleine
manifesta il desiderio di raggiungerlo, la supplica di non farlo. Le chiede di
scrivergli lettere gioiose, una alla settimana, non di più. La prega anche di
rimandargli il suo libretto di artigliere e l’anello che le aveva affidato. E una
copia di Case d’Armons. E due acquerelli di Marie Laurencin. Sta facendo
con lei la stessa cosa che aveva fatto con Lou: si riprende ciò che gli
appartiene e che le aveva regalato.
Madeleine, a sua volta, sta per uscire dalla vita di Guillaume Apollinaire.
Forse perché un’altra donna, Jacqueline, che è venuta a trovarlo a Villa
Molière, prenderà presto il suo posto? O perché, come riconosce lui stesso
nella lettera spedita in Algeria, è diventato «molto irritabile»? Comunque sia,
quando ritorna alla vita civile, con indosso una magnifica uniforme sulla
quale è appuntata la Croce di Guerra ricevuta in giugno, la testa fasciata da
una fascia di cuoio che sostituisce il turbante delle prime settimane,
Guillaume Apollinaire non è più lo stesso. Non è solo irritabile. Manifesta un

234
patriottismo eccessivo, che sorprende gli amici. È irrequieto, meno allegro,
deluso dall’egoismo che lo circonda e dalla vita parigina, così lontana dalle
miserie del fronte.
Ci ritorna, comunque, a quella vita. Ritrova il Flore, l’appartamento in
boulevard Saint-Germain. Ritorna alle feste, alle cene. Andrà avanti così per
tutto il tempo della guerra: ventisette mesi.
Ventisette mesi. È anche il tempo che gli resta da vivere.

235
L’arte del falso

La mimetizzazione, usata dai militari, è stata


inventata dai cubisti. È stata un po’ la loro
rivincita, se vogliamo.
Jean Paulhan

Nel febbraio del 1916, Apollinaire scrive a Madeleine per darle un bella
notizia: ha un’uniforme nuova. È di quel colore blu aviazione che è stato
adottato di nuovo, in sostituzione della giacca rossa e dei pantaloni blu.
Apollinaire avrebbe preferito il kaki dell’armata d’oriente. O, meglio ancora,
a macchie di colori diversi, quasi arlecchineschi – tali da confondersi con i
colori naturali, rendendo chi li indossa quasi invisibile. L’idea gli è stata
suggerita da Picasso. Un anno prima, Picasso ha scritto all’amico poeta per
comunicargli una sua teoria: anche dipinti di grigio, i cannoni si vedono
troppo distintamente; per occultarli è necessario giocare con le forme, usando
colori vivaci disposti come le pezze del costume di Arlecchino.
Nel Poète assassiné Apollinaire scrive che l’Oiseau du Bénin (Picasso)
mimetizza pezzi d’artiglieria pesante. E l’Oiseau du Bénin, secondo Gertrude
Stein, guardando passare un convoglio militare sul boulevard Saint-Germain,
avrebbe detto: «Siamo stati noi, a farlo!».
Noi: i cubisti.
Cominciano a fare esperimenti all’inizio della guerra, in Francia, vicino a
Toul. Un decoratore ha l’idea di occultare un cannone e gli artiglieri sotto un
telone dipinto dei colori del terreno. Lo Stato maggiore manda un aeroplano
a sorvolare la mimetizzazione. L’aviatore non vede altro che alberi.
Qualche mese dopo, a Pont-à-Mousson, un telefonista riceve l’ordine di
trasmettere il comando del fuoco. Il cannone ha appena finito di sparare
quando viene colpito e fatto a pezzi da un obice nemico. Il telefonista si
chiede: non si potrebbe adottare un sistema di protezione tale da fondere
nella natura uomini e armi?
Il telefonista fa il pittore. Pensa che si potrebbe giocare sulle forme e sui
colori. Ne riferisce allo Stato maggiore. Nel febbraio del 1915, il ministero

236
della Guerra accetta di costituire un squadra che lavori sotto la sua direzione.
È così che Lucien Guirand de Scevola (di cui Apollinaire aveva parlato prima
della guerra nelle sue cronache artistiche)1 mette insieme la prima unità
mimetica della storia militare. Trenta volontari all’inizio, più di tremila
mimetizzatori e ottomila fabbricanti tre anni dopo. E una sigla più che
significativa: un camaleonte dorato su fondo rosso.
Chi chiama, Scevola? Chiama uomini che non sanno niente di guerra e di
strategie: i pittori cubisti. Jean Paulhan: «Proprio quei dipinti cui l’opinione
pubblica aveva ostinatamente rimproverato di non assomigliare a niente, nel
momento del pericolo si trovarono ad essere i soli capaci di assomigliare a
tutto».2
I pittori cubisti, meglio di chiunque altro, sanno giocare con le forme e con
i piani. Dipingono sulla superficie della tela oggetti senza corpo ma ribaltati
in tutte le loro sfaccettature. Rappresentano l’oggetto nella sua integrità e non
più soltanto quale si mostra al punto di vista di chi guarda. Lo faranno anche
in questo caso. E faranno anche il contrario. Mimetizzeranno gli oggetti
facendone sparire il volume. Altri oggetti virtuali emergeranno, creati a
partire da un solo piano che fingerà una totalità. È il principio del richiamo,
del simulacro: l’occhio dell’aviatore nemico, sorvolando un falso cannone
dipinto di piatto e in trompe-l’oeil, deve credere che quel cannone sia vero,
quale che sia l’angolo sotto il quale lo guarda. E se l’artiglieria è lì, nascosta
sotto rami falsi, l’occhio dell’aviatore nemico deve credere che i rami siano
veri, quale che sia l’angolo dal quale li osserva. Nemmeno le fotografie aeree
devono permettere di distinguere l’inganno. Perché non si tratta solo di
nascondere qualcosa. Bisogna anche indurre il nemico in errore.
Agli ordini del capitano Guirand de Scevola, i cubisti si mettono al lavoro.
Sembra quasi incredibile: questi pittori, tanto vilipesi prima della guerra,
considerati i grandi difensori dell’arte tedesca, gli artisti al soldo di
Kahnweiler, di Uhde e di altri Tannhauser, si danno un gran da fare per la
difesa della patria francese! Pittori, ma anche scultori, scenografi, disegnatori,
architetti: Bouchard, Boussingault, Camoin, Dufresne, Dunoyer de Segonzac
(che dirige il laboratorio di mimetizzazione di Amiens), Forain, Roger de La
Fresnaye, Marcoussis, André Mare, Luc-Albert Moreau, Jacques Villon.
Anche Braque fa parte della squadra per qualche mese, nel 1916. Ma, benché
Scevola insista, Derain e Léger sono respinti.
Per tutta la durata della guerra questi artisti dipingono alberi che verranno
fabbricati nelle retrovie, nei circhi, nelle scuole di Belle Arti – alberi vuoti e

237
dotati di una scala interna in modo che un osservatore possa salire a spiare le
trincee nemiche. (È da qui che viene l’idea del Bikoff di Cendrars – a cui si
sarebbe ispirato Charlie Chaplin.) Poseranno fogliame dipinto a colori
naturali sugli elmetti e sui cannoni, faranno sparire gli spigoli delle auto e dei
camion coprendoli di colori e di reti di rafia, trasformeranno le centrali di tiro
e i posti di osservazione in false rovine, in muri finti, in mulini di cartone, in
ciminiere, covoni di paglia, cadaveri di uomini o di animali. Disegneranno su
tele gigantesche finte foreste in cui si nasconderanno mitragliatrici vere,
ferrovie, per chilometri. Occulteranno interi villaggi, trincee, ponti.
Scolpiranno teste in cima a un’asta che i soldati faranno apparire dalle trincee
per attirare il fuoco nemico. Nel 1917, sulla collina di Messine, si alzeranno
centinaia di fanti, dipinti su grandi teloni, a mettere in fuga i tedeschi.
La mimetizzazione sarà ripresa da tutti gli eserciti del mondo. I cubisti
francesi aiuteranno gli inglesi e gli italiani. I tedeschi ci arriveranno nel 1917.
Al ritorno della guerra, molti di questi pittori proveranno disgusto per un’arte
di cui avevano potuto percepire tutta la sordida realtà: gli alberi sconquassati,
i villaggi sconvolti, i monumenti sottosopra, i cadaveri dalle membra
dilaniate e sparse... E qualcuno di loro si chiederà: il cubismo, che aveva
illustrato la guerra con tanta efficacia, l’aveva forse anche prefigurata?

238
Dalla parte dell’America

Oggetto-dardo.
Marcel Duchamp

Nel 1914, Georges Braque raggiunge il 224° Reggimento di fanteria.


Sergente, poi tenente, combatte in prima linea. Nel maggio del 1915 viene
ferito alla testa nella battaglia di Carency. Subisce la trapanazione del cranio.
Nel 1916 è congedato.
Léger ha combattuto nelle Argonne e a Verdun. Vittima dei gas, è stato
congedato qualche mese prima della fine della guerra.
Nel settembre del 1915, Derain raggiunge l’82° Reggimento di artiglieria.
Partecipa all’ecatombe di Verdun e del Chemin des Dames. La pace lo
restituisce alla vita civile.
Roger de La Fresnaye rimane in fanteria finché la tubercolosi non lo
inchioda in un letto d’ospedale nel 1918.
Kisling rimane ferito durante un corpo a corpo a Carency. Cendrars perde
un braccio in Champagne, Apollinaire ritorna a Parigi dopo il Bois des
Buttes... Tutti biasimano i loro amici d’anteguerra, che bene o male hanno
continuato a lavorare e a vendere le loro opere. Non quelli rifiutati
dall’esercito, come Modigliani o Ortiz de Zarate, ma quelli che sono scappati.
Delaunay in Spagna, Picabia e Cravan in America.
L’America è una storia di prima della guerra che ricomincia a
Montparnasse qualche mese dopo l’armistizio.
Il 17 febbraio 1913 si è aperta a New York l’International Exhibition of
Modern Art, manifestazione più conosciuta con il nome di Armory Show. È
la prima esposizione americana di arte contemporanea internazionale e,
secondo Hélène Seckel, «il rilancio – se non la nascita – del mercato d’arte».1
Questa esposizione avrà ripercussioni considerevoli, poiché è qui che si
danno i primi incontri tra gli artisti europei e i collezionisti che arriveranno a
Parigi negli anni Venti.
Le opere dell’Armory Show vengono esposte in una vecchia sala d’armi

239
(«Armory») vicino al Greenwich Village. Uno dei promotori è un avvocato
americano, John Quinn, che, dopo una lunga battaglia, ha ottenuto che le
opere d’avanguardia siano esenti dalla tassa di importazione. Con l’aiuto di
Henri-Pierre Roché (futuro autore di Jules et Jim) ha anche comprato molte
opere venute dalla Francia. Anche Walter Pach, traduttore di élie Faure in
inglese, ha messo insieme qualche quadro per l’esposizione – specialmente i
pittori cubisti della Section d’Or.
All’Armory Show sono esposte circa milleseicento opere di artisti europei
– tra i quali Cézanne (è in questa occasione che il Metropolitan Museum di
New York compera il suo primo quadro), Braque, Gauguin, Gleizes,
Kandinsky, Léger, Marcoussis, Picasso, Duchamp e Picabia.
Nel 1913 solo Picabia è abbastanza ricco da pagarsi la traversata
dell’Atlantico. È l’unico artista francese presente all’Armory Show. La
stampa americana consacra intere colonne a questo pittore, nato da padre
cubano e madre francese, che incarna l’immagine stessa dell’avanguardia.
Da giovane Picabia è stato impressionista, poi puntinista, vicino ai fauve,
vagamente cubista e infine, a sentire Apollinaire, orfista. L’America gli dà il
gusto della meccanica e delle tecnologie. Scopre le auto veloci, la ricchezza
della modernità. Inaugura un nuovo periodo della sua pittura, fondato sul
gusto per le macchine. Picabia è affascinato da New York. Per lui la città
americana è la città del futuro, la città del cubismo.
Tornato in Francia, Picabia riceve il foglio di mobilitazione con malcelato
disgusto. Ma ci sa fare, e riesce a diventare l’autista di un ufficiale. A Parigi.
Sempre meglio che a Verdun. Ma quando si tratta di ripiegare su Bordeaux,
Picabia chiama in aiuto il padre. Un funzionario dell’Ambasciata di Cuba a
Parigi riesce a farlo mandare all’Avana, incaricato di una missione
commerciale ufficiale.
L’Avana non è l’America. Picabia ci è andato per le insistenze della moglie
Gabrielle Buffet. Resta all’Avana due mesi, poi torna in America. Da lì passa
a Madrid, visita la Svizzera, va di nuovo a New York, poi torna in Spagna.
Nell’estate del ’14, in Spagna arrivano Delaunay, sua moglie e il poeta-
boxeur Arthur Cravan.
Cendrars non è tenero con quei tre. Erano amici. Sono stati insieme a feste
in cui ci si scatenava e si beveva molto. Ballavano il tango al Bal Bullier, si
facevano notare per i loro vestiti preziosi e stravaganti. Cravan furoreggiava,
i pantaloni macchiati di colore, la camicia piena di buchi attraverso i quali si
intravedevano tatuaggi osceni.
È stata la dichiarazione di guerra a fargli mettere la testa a posto. Gli

240
scatenati di ieri si ritrovano tutti a Lisbona. La lasciano al volo non appena il
Portogallo dichiara a sua volta guerra alla Germania. Arrivano a Madrid. Ma
in Spagna le frontiere non sono tanto sicure.
Cravan decide di partire per l’America. Per pagarsi la traversata, sfida Jack
Johnson per il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Lo ha
incontrato qualche volta nelle palestre di allenamento, a Berlino e a Parigi.
Johnson, a sentire Cendrars, fa il pugile a tempo pieno e il ruffiano a metà
tempo.
I due si sono messi d’accordo. L’incontro si farà in un’arena di Madrid
(Cendrars dirà a Barcellona). È stato annunciato a colpi di manifesti e di
annunci sui giornali: una vera corrida. Alla vigilia dell’incontro, Cravan ha
prenotato un posto su un transatlantico in partenza per New York. Sapendo
che non arriverà a fare il peso, ha chiesto al suo avversario di non colpirlo
troppo forte e di non farlo andare al tappeto almeno per qualche round.
L’incontro dura pochissimo. La versione di Cendrars, che dice di aver
parlato con un «testimone oculare» (come per il funerale di Whitman), ci
mostra un Cravan pietrificato dalla paura, tutto ripiegato su se stesso,
immobile, curvo tra le urla della folla – di fronte a un Johnson che prima si
diverte, poi lo prende a calci nel sedere per farlo muovere un po’ e alla fine
gli tira una sventola gigantesca che abbatte di colpo il nipote di Oscar Wilde.
«Uno, due, tre...», conta l’arbitro.
Cravan ha già levato le tende. Mentre la folla e l’organizzatore lo cercano,
mentre Johnson giura di fargli la pelle, lui se ne sta nella cabina della nave a
curarsi le ferite.
A New York dà scandalo. Duchamp e Picabia, saputo che alcune signore
della buona società hanno organizzato una conferenza sull’arte moderna,
decidono di farsi rappresentare di fronte a quel pubblico di snob e di
ignoranti dal più pazzo di loro. Scelgono Cravan. Prima della conferenza lo
invitano a cena. Cravan mangia poco e beve molto. Si presenta in orario.
Nella sala, in visibilio e pronte a svenire, lo aspettano le signore. Il
conferenziere, dando loro le spalle, si toglie la giacca, le bretelle, la camicia, i
pantaloni, poi si volta e si mette a insultare le signore della prima fila, poi
tutte le altre. I poliziotti lo portano via. I suoi amici pagano la cauzione.
Cravan arriva in Canada, da cui fuggirà travestito da donna. Si arruola
come meccanico su un nave da pesca in partenza per Terranova, apre
un’accademia di boxe in Messico e sparisce nell’Oceano, dopo avere sposato
la scrittrice americana Mina Loy.
Quanto a Jack Johnson, nessuno l’ha più rivisto su un ring.

241
Cendrars ha sempre riconosciuto l’«immenso» talento poetico di Arthur
Cravan. Ma non gli ha mai perdonato di avere abbandonato la Francia alla
vigilia della guerra. Come non ha mai perdonato ai suoi amici di New York,
«quei fifoni di tutte le risme sbattuti fin lì dalla bufera che infuriava
sull’Europa», una banda «di disertori, di internazionalisti, di pacifisti, di
neutrali».2
Tra di loro, c’è un personaggio fondamentale dell’arte moderna – forse
neutrale, certamente pacifista, ma in nessun caso disertore: Marcel Duchamp.
Che cosa fa in America?
Dà scandalo.
È arrivato a New York nel 1915, preceduto da una reputazione quasi
diabolica. Due anni prima era stato la vedette europea dell’Armory Show. Il
suo Nu descendant un escalier aveva provocato proteste, entusiasmi,
disgusto, venerazione. La stampa l’aveva incensato, deriso, votato al fuoco
dell’inferno o alle grazie di tutti i paradisi.
Non era la prima volta. Già nel 1912, durante il Salon des Indépendants a
Parigi, gli amici cubisti gli avevano chiesto di non esporre il suo quadro.
Gleizes e le Fauconnier avevano mandato i suoi due fratelli, Jacques Villon e
Raymond Duchamp-Villon, perché lo convincessero a non esporre il Nu
descendant un escalier, troppo audace per la rappresentazione del
movimento.
Duchamp aveva obbedito. Ma l’anno dopo il suo Nu era appeso al Salon
della Section d’Or. E lui era partito per l’America.
Duchamp aveva venduto all’Armory Show le quattro opere esposte, e
aveva guadagnato abbastanza soldi per lasciare l’Europa in fiamme e andare a
New York. Era stato riformato per debolezza cardiaca – ma la cosa non lo
preoccupava. Confessava di non provare il patriottismo preteso dalla morale
del tempo. Quando, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, gli sembrerà di
dover fare qualcosa, si arruolerà nella missione militare francese come
segretario. Durata del servizio: sei mesi.
Quando arriva a New York, Duchamp ammette le proprie ascendenze: un
po’ di impressionismo, un po’ di fauvisme, un po’ di cubismo. Non gli piace
molto Cézanne, ma ha un grande amore per Monet e un rispetto profondo
per Matisse. Afferma di aver provato un’intensa emozione all’esposizione di
Braque nel 1910, da Kahnweiler.
Tuttavia chi lo ha più influenzato non è un pittore. È uno scrittore:
Raymond Roussel. Duchamp ha sempre detto di essersi messo a lavorare a
La Marièe mise à nu par ses célibataires dopo aver visto la rappresentazione

242
di Impressions d’Afrique al Théâtre Antoine, nel 1912, in compagnia di
Guillaume Apollinaire.
Raymond Roussel è il tipo classico del giovane ricco che si muove nelle
alte sfere della Belle Epoque. Philippe Soupault dice che gli fa venire in
mente il Proust di Caubourg: stessa eleganza, stesso gusto per la raffinatezza,
stessa passione letteraria. Dopo lo scacco della sua prima opera, La
Doublure, Roussel ha una crisi della «tremenda malattia»3 di cui soffre da
tempo. Anni dopo, gli capiterà di rotolarsi per terra in preda alla rabbia per
non essere riuscito a raggiungere le vette sublimi della creazione letteraria.
Va in giro con una specie di grossa auto-roulotte con varie stanzette, un
bagno, una cucina. Roussel scrive con le tendine abbassate perché lo
spettacolo della vita non lo distolga dal lavoro. Fa lo stesso a casa, dove paga
un giardiniere per curare fiori che non guarda nemmeno. Spende i suoi soldi
per pubblicare libri che non si vendono, per produrre spettacoli teatrali che
provocano a teatro la calma piatta o, al contrario, urla, furore e anatemi.
Come Impressions d’Afrique.
Ha fatto una riduzione teatrale del suo libro per conquistare un pubblico
che in libreria lo aveva ignorato. Soltanto Edmond Rostand giudica l’impresa
con benevolenza. Il pubblico si scatena. La sua violenza è diretta proprio
contro ciò che affascina Marcel Duchamp: la novità del linguaggio, la
modernità dello spettacolo, le macchine in scena, e specialmente gli automi,
uno dei quali raffigura uno schermidore. Roussel trova le sue idee dove le
cercano anche le avanguardie: nella rivoluzione della tecnica, nel movimento,
nella velocità, nel cinema.
Sia Duchamp sia Roussel abbandonano la loro arte quando sono ancora
giovani. E tutti e due si dedicano al gioco degli scacchi e diventano tra i
giocatori più brillanti del momento (Roussel è l’inventore di uno scacco
matto di alfiere e cavallo che sarà molto apprezzato da Tartakower). Nessuno
dei due ha mai fatto parte di una scuola.
Duchamp ha le sue buone ragioni per rifiutarsi di appartenere a un gruppo:
il fatto che il suo Nu sia stato censurato dai suoi stessi colleghi della Section
d’Or lo ha disgustato. In America, come in Francia, resterà dunque solo. E
non gli farà certo cambiare idea l’esclusione dalla Section d’Or degli scrittori
e dei pittori dadaisti voluta dai cubisti Survage, Gleizes e Archipenko.

A New York Duchamp, con la sua pipa e i suoi sigari, passa


tranquillamente da un salotto all’altro, ridendo tra sé nel vedersi considerato
un oggetto di culto e di scandalo. È il Comandante di tutte le Avanguardie.

243
Dà lezioni, molto vaghe, di francese a graziose signorine, insegnando loro le
migliori volgarità della lingua. Scopre il jazz, gioca a scacchi, fuma, beve e
balla in compagnia di Man Ray, del musicista Edgar Varèse, di Francis
Picabia, di Arthur Cravan e Mina Loy. Le donne passano, scompaiono,
ritornano. Rifiuta di sposarsi (si sposerà una volta, per tre mesi, senza
rimpianti). La libertà, è dentro di sé che la si trova. E la si coltiva da soli.
Il denaro? Nessun problema. Ci vuole quel che ci vuole, nient’altro. Suo
padre ha sempre aiutato i tre figli. E adesso tocca ai suoi mecenati americani.
Duchamp vive in casa di Louise e Walter Arensberg, che gli pagano le opere
non in denaro ma in mesi di affitto. Sulle pareti degli Arensberg sono appesi
dipinti di Cézanne, Matisse, Picasso, Braque. Sono due persone dedite
appassionatamente alla modernità, alla difesa delle avanguardie.
Con gli Arensberg e l’amico Man Ray, Duchamp fonda la Società degli
Artisti Indipendenti. La regola è simile a quella degli Indépendants di Parigi:
espone chi vuole. E senza censura.
Duchamp forza il gioco. Manda agli Artisti Indipendenti, perché venga
esposto, un orinatoio, lo intitola Fontaine, lo data e lo firma con il nome di
un fabbricante di articoli igienici: R. Mutt. Nuovo scandalo. L’orinatoio non
viene tolto dalla mostra, ma lo nascondono dietro una tenda. Duchamp dà le
dimissioni.
Che cosa cerca, Duchamp, al di là della provocazione immediata? Cerca di
inventare forme nuove, cerca un’arte che escluda le costrizioni in cui
finiscono per restare implicati i pennelli, i colori, le tele – gli strumenti
consueti della pittura. Pensa anche lui alla quarta dimensione, invisibile allo
sguardo. A questo si riferisce il suo orinatoio. La sua ricerca aprirà la strada a
tanti altri. Come scrive Pierre Cabanne, «l’esempio di Duchamp ha originato
la più grande mutazione artistica della seconda metà del secolo, la sintesi neo-
dada che ha il suo sbocco nella pop-art».4
Fontaine non è il primo «ready-made» proposto da Duchamp. L’idea di
questi oggetti, sottratti alla loro funzione originale, gli era venuta a Parigi, un
giorno del 1913: aveva fissato una ruota di bicicletta su uno sgabello. Poi
aveva anche comprato uno scolabottiglie. Se li teneva in casa, questi oggetti,
senza dargli troppa importanza.
A New York, prima dell’orinatoio, aveva comperato una pala da neve in
legno e ferro, che aveva sospesa al soffitto del suo atelier. Titolo dell’opera:
In Advance of the Broken Arm (In previsione del braccio rotto). Seguiranno
presto À Bruit secret – un gomitolo di corda stretto tra due lastre di ottone;
Pliant de Voyage – un fodero di macchina da scrivere Underwood;

244
L.H.O.O.Q. – una riproduzione della Gioconda con disegnati i baffi.
Duchamp scriverà alla sorella chiedendole di scrivere un breve testo (andato
perduto) e di mettere la sua firma in basso allo scolabottiglie, trasformato in
un altro ready-made.
A partire dagli anni Venti, i ready-made si fanno più complicati. L’artista
non si accontenta più di firmare oggetti già esistenti: li mette insieme. Ed ecco
Why Not Sneeze (Perché non starnutire, 1920), costituito da cubetti di
marmo, un termometro e un osso di seppia in una gabbia per uccelli; e Fresh
Widow (Vedova allegra, 1920), una finestra a due battenti, in proporzioni
ridotte, firmata con uno pseudonimo femminile che Duchamp utilizzerà
spesso e che ritroveremo nella poesia di Robert Desnos: Rrose Sélavy.
Duchamp ha spiegato la scelta di questo nome. Voleva cambiare identità.
All’inizio aveva pensato di prendere un nome ebraico. Alla fine aveva
preferito giocare sull’inversione di sesso. L’idea di Rrose Sélavy gli era
venuta quando Picabia gli aveva chiesto di aggiungere la sua firma a quella
degli amici (Metzinger, Segonzac, Jean Hugo, Milhaud, Auric, Péret, Tzara,
Dorgelès), sul suo dipinto intitolato L’Oeil cacodylate (1921): «Mi sembra di
avere scritto: Pi Qu’habilla Rrose – la parola arrose ha due erre, è per questo
che ho aggiunto una erre. Pi Qu’habilla Rrose Sélavy».
E concude: «Era un gioco di parole».5
Duchamp ha la passione delle parole. Sui suoi ready-made aggiunge
spesso una breve frase, «destinata a portare lo spirito dello spettatore verso
altre regioni – più verbali».6 Il titolo dell’opera alla quale lavora tra il 1915 e
il 1916, La Marièe mise a nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre), si
arricchisce dell’avverbio même, che resta un nonsenso, ma un nonsenso
volontario – cosa che riempie di ammirazione Breton. Breton, del resto,
giudica Duchamp l’uomo più intelligente del XX secolo.
Questi giochi di parole Duchamp li ha presi da Raymond Roussel. Hanno
anche questo in comune, i due. Il senso del ribaltamento, della
manipolazione, del gioco. La Rrose Sélavy di Duchamp ha qualcosa in
comune con quel «Napoléon premier empereur» che Roussel fa diventare
«Nappe ollé ombre miettes hampe air heure».
Giochi di parole e macchine si ritrovano anche nell’opera di Francis
Picabia, grande amico di Duchamp a New York. Anche per lui l’America è il
grande laboratorio dell’avvenire.
I due camminano insieme per le strade delle città americane. Uno è grasso,
l’altro è magro. Picabia ha una faccia da bambino paffuto e compensa la

245
bassa statura con scarpe speciali. Duchamp è un granduca alla Roger
Vailland. Aspettano con impazienza la fine della guerra in Europa. Si vedono
spesso al 291, 5th Avenue, nella galleria di un fotografo americano di origine
austriaca, Alfred Stieglitz, punto di ritrovo di tutta l’avanguardia artistica dei
due continenti. Stieglitz espone artisti a cui dà sempre l’intero ricavato delle
eventuali vendite. Si guadagna da vivere con la fotografia, e questo gli basta.
La galleria pubblica una rivista, «291», al quale si ispirerà Picabia, quando
nel gennaio del 1917, a Barcellona, fonderà «391» (che terminerà le
pubblicazioni a Parigi nel 1924). Dato che la guerra non gli impedisce di
viaggiare, Picabia divide i suoi piaceri e le sue depressioni tra Barcellona,
New York e la Svizzera. Con Cravan, Gleizes, Roché, Varèse, Duchamp,
Marie Laurencin e Isadora Duncan. Dipinge, scrive, va a trovare i figli che
vivono a Gstaad, si fa curare da un neurologo di Losanna. A Zurigo
frequenta un omino con il monocolo che farà molto parlare di sé: Tristan
Tzara.
Per Cendrars, il franco-cubano è «le rastaquouère (nome spregiativo
riferito ai sudamericani) dell’arte per l’arte».7 Quanto al romeno, «il gran
muftì Tristan Tzara», non è che un frequentatore di bar sempre circondato da
spie, esteti e pacifisti di ogni genere, rifugiati in Svizzera.
Duchamp è forse il solo a sfuggire ai colpi dell’uomo dalla mano mozza.
Eppure Duchamp è come gli altri – che non sono, o non sono soltanto, un
branco di vigliacchi terrorizzati dal rumore delle cannonate. Il punto
d’incontro tra i dadaisti che si radunano intorno a Tristan Tzara al Cabaret
Voltaire di Zurigo, Cravan, Duchamp e Picabia, dentro e fuori i salotti di New
York, e, infine, i surrealisti, che adoreranno quei tre, è che tutti costoro
proclamano a voce alta un’idea del tutto scandalosa per i tempi: sono
appassionatamente contro la guerra.

246
Dada & C.

...Io sono contro l’azione. Sono per la


contraddizione continua. Per l’affermazione, anche,
io non sono né pro né contro. Non do spiegazioni
poiché odio il buon senso.
Tristan Tzara

Dall’altra parte dell’Atlantico, lontano da New York, chiusi nell’Europa in


guerra, due uomini giocano a scacchi. Uno ha quarantacinque anni. Ha la
fronte alta, è calvo, ha i baffi, un pizzetto. L’altro porta il monocolo. Ha
appena vent’anni. Una lunga ciocca nera gli cade sulla fronte. Cereo. Miope.
Il più anziano è russo, il giovane romeno. Sono a Zurigo, al Cabaret
Voltaire – l’indirizzo è 1, Spiegelgasse. A Zurigo vivono Romain Rolland,
James Joyce e Jorge Luis Borges.
I due non hanno molto in comune, a parte il gusto degli scacchi, una
robusta diffidenza nei confronti della guerra che sta mettendo a ferro e fuoco
il continente, e la passione per gli pseudonimi. Vladimir Il’icˇ Ulianov.
Samuel Rosenstock.
Il rivoluzionario e il poeta.
Lenin e Tzara.
Lenin è andato a Zimmerwald. Nel settembre del 1915, i delegati socialisti
riuniti in questo villaggio vicino a Berna hanno pubblicato un manifesto nel
quale condannano la guerra imperialista combattuta dalle grandi potenze.
Affermazione che non costituisce certo una garanzia del loro pacifismo –
tutt’altro.
L’altro è visceralmente ostile alla guerra. A questa, ma anche a tutte le altre.
Come Duchamp a New York o Aragon a Parigi, Tzara non ha fondato un
gruppo o un partito che si batta per la pace. La politica non lo riguarda. E,
per il momento, non riguarda nemmeno gli altri due. Ai tempi del Cabaret
Voltaire, Tzara è un giovanotto indisciplinato a cui piacciono Villon, Sade,
Lautréamont e Max Jacob. Ma non è venuto a Zurigo per rivoluzionare il
mondo. È qui per continuare gli studi.

247
Dada nasce l’8 febbraio 1916, alle sei di sera. La parola non vuol dire
niente, ed è per questo che l’hanno scelta. La si deve a un tagliacarte infilato a
caso in un dizionario. Questa assenza assoluta di ogni significato corrisponde
alla volontà dei fondatori – la volontà di esprimere l’assurdo, il grottesco.
Hugo Ball, Christian Schad e Richard Huelsenbeck (tedeschi), il poeta e
scultore Jean Arp (alsaziano), Marcel Janco e Tristan Tzara (romeni), sono in
rivolta non solo contro la guerra, ma anche contro la cultura che l’ha
provocata. Promuovono la ricerca di un assoluto da opporre alla morale
basata su valori ancestrali: Lavoro, Famiglia, Patria, Religione.
Il gruppo si riunisce al Cabaret Voltaire, fondato da Hugo Ball. Ci vengono
poeti, scrittori, pittori, studenti, per la maggior parte emigrati, antimilitaristi,
spesso rivoluzionari: oltre a Lenin, passano al Cabaret Karl Radek e Willy
Münzenberg.
Hugo Ball organizza spettacoli di un genere nuovo, in cui si mescolano
musica, pittura, poesia, danza, maschere, percussioni. L’espressione deve
essere spontanea. La poesia non è più trasmessa soltanto attraverso la
scrittura. Si tratta di andare oltre Baudelaire, Rimbaud, Jarry e Lautréamont.
Le parole possono essere inventate, gridate più che declamate. Gli artisti si
esibiscono insieme, urlando, battendo con oggetti diversi su casse, su scatole
di latta. Ballano. Giocano, trascinando il pubblico. Aggiungendo alla poesia
suoni, parti di frasi, frammenti di testi e di canti negri, Tzara stabilisce un
parallelo con le ricerche pittoriche di Picasso, Matisse e Derain – e anche con
i collage di Arp, esposti alla Galleria Dada.
In giugno, nasce la rivista «Cabaret Voltaire». Tirata in cinquecento copie,
contiene illustrazioni di Max Oppenheimer, Picasso, Modigliani, Arp, Janco,
una poesia di Apollinaire, una del poeta futurista italiano Marinetti, la prima
realizzazione scenica di una poesia simultanea firmata, cantata e detta in
tedesco, francese e in inglese da Huelsenbeck, Janco e Tzara: L’Amiral
cherche une maison à louer. Hugo Ball, che firma l’editoriale, definisce
«Dada» «una rivista internazionale».
Il 14 luglio ha luogo la prima serata Dada. In programma: canti negri,
concerto e danze Dada, poesie movimentiste e simultanee, danze cubiste.
Qualche giorno più tardi, Tristan Tzara legge al Cabaret Voltaire il suo
Manifeste de M. Antypyrine, poi incluso ne La Première Aventure céleste de
M. Antipyrine, che sarà ripresa a Parigi nel 1920. L’opera viene pubblicata
nella collezione Dada, con incisioni di Marcel Janco. Tzara ne manda qualche
esemplare a New York, introducendo così il movimento Dada negli Stati
Uniti. L’antipyrine è una medicina molto usata dall’autore per calmare le sue

248
nevralgie, e l’avventura celeste di cui si parla permette a Tzara di redigere il
primo Manifesto Dada:
Dada è la nostra intensità; che erige baionette senza conseguenza la testa Sumatrale
del bebè tedesco; Dada è l’arte senza pantofole né parallelo (...) sappiamo bene che i
nostri cervelli diventeranno morbidi cuscini che il nostro antidogmatismo è
altrettanto esclusivo del funzionario che non siamo liberi e che gridiamo libertà
Necessità severa senza disciplina né morale e sputiamo sull’umanità. Dada resta nel
quadro europeo delle debolezze, è comunque merda, ma d’ora in avanti noi vogliamo
cacare in colori diversi, per adornare il giardino zoologico dell’arte, di tutte le
bandiere dei consolati do do bong hibo aho hibo aho.1

«Dada 1», raccolta letteraria e artistica, esce nel luglio 1917, con un anno di
ritardo. Poi escono «Dada 2» e «Dada 3». Dopo poco, Tristan Tzara pubblica
il Manifesto Dada 1918. Lo ha stimolato l’arrivo di Picabia (i due si sono
scritti spesso prima di incontrarsi, nel gennaio 1919). L’energia di Picabia
bilancerà la perdita costituita dalla diserzione dei fondatori del Cabaret
Voltaire.
Questo testo avrà notevoli ripercussioni in tutta Europa, soprattutto in
Francia, dove i futuri surrealisti applaudiranno calorosamente la violenza,
l’audacia, la giustezza di questo attacco furioso ai valori tradizionali.
Tzara disprezza quelli che cercano ragioni, cause, spiegazioni per ogni cosa
– anche per la parola «dada», che per alcuni è un cavallo di legno, per altri
una balia, per i Kru africani la coda di una vacca sacra, per i russi e per i
romeni due volte la parola sì...
Tzara sostiene che l’opera d’arte non ha niente a che fare con la bellezza,
dato che – lo si dovrebbe stabilire «per decreto, obiettivamente, per tutti» – la
bellezza è morta. La critica è quindi inutile, in quanto del tutto personale.
L’uomo è un caos che niente può ordinare. Amare il prossimo è ipocrisia,
conoscere se stessi un’utopia. La psicanalisi è «una malattia pericolosa, che
addormenta le tendenze dell’uomo a contraddire la realtà e conferma il
sistema borghese». La dialettica porta ad opinioni che comunque
appartengono a altri, e che avremmo scoperto da soli. Ognuno parla per sé,
Tzara per primo, che non cerca di convincere nessuno e non incoraggia
nessuno a seguirlo. «Così è nato DADA, da un bisogno di indipendenza, di
diffidenza verso la comunità».2
Niente gruppi. Niente teorie. Abbasso i futuristi e i cubisti: sono solo
«laboratori di idee formali». Cézanne guarda una tazza dal basso, i cubisti
dall’alto, i futuristi la vedono in movimento. «L’artista nuovo non dipinge

249
più: protesta». Nel cervello, e nell’organizzazione sociale, ci sono parti che
bisogna distruggere. Conta solo il «bumbum» personale. La scienza
speculativa e l’armonia, che producono ordine, sono inutili, come tutti i
sistemi. La morale atrofizza lo spirito. «C’è da fare un gran lavoro distruttivo,
negativo. Lavorare di scopa, far pulizia».
Le parole di Tzara hanno la potenza di proiettili, solo che non uccidono
nessuno. Il Manifesto Dada 1918 è un dichiarazione di guerra alla guerra. O
al vecchio mondo. Un testo di una forza inaudita, che parla di un’umanità
nuova dopo la carneficina. Sarà la punta di lancia del movimento Dada, e
saprà mettere insieme sensibilità molto diverse fra loro. Di queste sensibilità,
se ne impadroniranno i surrealisti, e molto presto. Non saranno i soli. Marcel
Duchamp, a New York, vedrà in Dada molti punti in comune con il proprio
pensiero:
Dada è stata la punta estrema della protesta contro l’aspetto fisico della pittura. Era
un’attitudine metafisica. Ed era intimamente e coscientemente legato alla
«letteratura». Una specie di nichilismo (...). Un modo di uscire da uno stato d’animo
– di evitare di essere influenzati dal proprio ambiente, o dal passato: di allontanarsi
dagli stereotipi – di affrancarsi. La forza di vacuità di Dada è stata molto salutare.
Dada ha detto: «Non dimenticate che non siete vuoti come pensate!».3

Un linguaggio che non verrà certo adottato dai rappresentanti del punto di
vista ufficiale – letterati compresi. Nel settembre del 1919, alla riapparizione
della «NRF» («Nouvelle Revue Française»), la redazione, in un articolo non
firmato, stigmatizza questa nuova tendenza venuta dall’estero:
È davvero irritante che – come sembra – Parigi apra le porte a stupidaggini di questo
genere, che ci arrivano direttamente da Berlino. L’estate scorsa la stampa tedesca si
è occupata a più riprese del movimento Dada e delle esibizioni in cui i fedeli della
nuova scuola ripetono all’infinito le mistiche sillabe: Dada dadada dada da.4

André Gide rettifica un po’ il tiro e giudica Dada in modo più obiettivo.
Parla di «una scuola» e la contrappone al cubismo. Vede Dada come
«un’impresa di demolizione». Dopo la guerra che ha visto proliferare tante
rovine, dice, sembra del tutto normale «che lo spirito non voglia arrivare in
ritardo rispetto alla materia; ha diritto, anche lui, alle sue rovine. Ci penserà
Dada».5

Se in Svizzera c’è «Dada», in altri stati d’Europa c’è «391» (i primi quattro
numeri vengono pubblicati in Spagna, i tre seguenti in America, il numero 8

250
a Zurigo, gli ultimi undici a Parigi), e a Parigi ci sono «SIC» e «Nord-Sud».
Queste riviste cercano di opporsi al vuoto culturale dei quotidiani, le cui
scarse pagine sono dedicate quasi esclusivamente alla guerra. Occupano
anche lo spazio lasciato vuoto dalla scomparsa delle altre riviste: sopravvive
solo il «Mercure de France», troppo tradizionale per gli agitatori dell’arte
nuova. Comunque le primedonne della letteratura non possono che essere
offuscate da questi poeti più giovani e dal sangue caldo. Nomi nuovi, scrittori
sconosciuti – che stanno per prendere il volo da queste riviste poco stimate,
per diventare nel giro di pochi anni gli Hugo, gli Zola, i Flaubert del XX
secolo.
«SIC (Son, Idées, Couleurs, Formes)» prende il posto della rivista di
Ozenfant, «L’Elan», uscita nel 1915 e nel 1916. È opera di un uomo solo:
Pierre Albert-Birot. Prima della guerra, era poeta e scultore. Poi ha messo su
un piccolo commercio di cartoline postali, stampate a proprie spese, che
vende ai soldati e ai loro familiari. Per pubblicare le sue poesie e quelle degli
amici, decide di fondare una rivista. Si iscrive alle liste dei disoccupati e con
la sovvenzione finanzia il suo progetto. «SIC» – otto pagine, cinquecento
copie, sessanta centesimi – esce nel gennaio 1916. La sede sociale, al numero
37 di rue de la Tombe-Issoire, è anche il domicilio del direttore – il quale è
l’autore di tutti gli articoli e di tutte le poesie del primo numero, che si apre
con queste parole:
La nostra volontà:
Agire. Prendere iniziative, non aspettare che ci vengano d’Oltre-Reno.

Per agire, Pierre Albert-Birot agisce. Quando pubblica la sua rivista, non
conosce nessun poeta. È solo e piuttosto inesperto. Ma si butta – e
raccoglierà presto i frutti del suo coraggio: incontra Severini, che accetta di
dargli qualche poesia. Tanto basta per lanciare «SIC».
«Nord-Sud» non è sbrigliata e piena di entusiasmo come le sue due rivali.
La testata si ispira al nome della linea del metro che attraversa Parigi da
Montmartre a Montparnasse. Quando appare il primo numero, nel marzo del
1917, la reputazione di Reverdy non va oltre una piccola cerchia. Di
professione correttore di bozze, cattolico, si è arruolato; poi, alla fine del
1914, è stato riformato. Non ha più denaro di quanto ne abbia Albert-Birot,
ma sa destreggiarsi meglio. Un ricco poeta cileno gli dà una mano. Anche
Jacques Doucet lo aiuta, così come Paul Guillaume (riformato per ragioni di
salute), che su ogni numero paga una pagina di pubblicità per la sua galleria.
Juan Gris contribuisce con un disegno in copertina. La sua eleganza contrasta

251
con lo stile e i colori di «SIC», che quanto a effetti tipografici si dà a volte ad
esercizi di alta acrobazia.
Che «Nord-Sud» sia una rivista d’avanguardia non lo si vede, lo si scopre.
Lo dimostreranno nel corso del tempo – fino all’apparizione dell’ultimo
numero, nel maggio 1918 – Pierre Reverdy, Guillaume Apollinaire, Max
Jacob e la baronessa d’Oettingen (che usa due pseudonimi: Roch Grey e
Léonard Pieux). E questo malgrado la divergenza tra Reverdy e Apollinaire
(il primo rimprovera al secondo l’eccessiva attività giornalistica) e uno
screzio tra Max Jacob e lo stesso Reverdy (che non accetta che l’autore del
Cornet à dés si proclami l’inventore della poesia in prosa, un titolo a cui lui
stesso pensa di aver diritto).
Nel giugno del 1917 Cocteau fa una rapida apparizione come collaboratore
esterno. La sua firma non si vedrà più: Reverdy non si fida dell’autore di
Parade. Come non si fida dei futuristi italiani, sistematicamente rifiutati a
«Nord-Sud» (ma benvenuti a «SIC»), fatta eccezione per Marinetti –
probabilmente perché nel numero 2 questi avanza qualche riserva riguardo
agli eccessi del movimento che ha contribuito a lanciare.
In compenso fanno la loro apparizione sulla rivista nuove firme, e non da
poco: André Breton nel maggio del ’17; Tristan Tzara il mese dopo; Philippe
Soupault in agosto; Louis Aragon nel marzo del ’18 (vi pubblica la sua prima
poesia, Soifs de l’Ouest); Jean Paulhan in maggio.
Ritroviamo gli stessi nomi a fianco di Tristan Tzara: Reverdy in «Dada 3»,
Aragon, Breton, Soupault in «Dada 4-5», dove firma anche Georges
Ribemont Dessaignes. Alla fine, tutti questi autori collaborano anche al
«SIC» di Pierre Albert-Birot, in cui appaiono anche i nomi di Raymond
Radiguet e di Pierre Drieu La Rochelle.
Per quale caso queste firme si ritrovano in queste tre riviste, una
pubblicata a Zurigo e le altre due a Parigi, tutte legate ai movimenti
d’avanguardia letterari e artistici che nascono nell’Europa in guerra?
È tutto merito di una sola persona. Colui che, nel primo editoriale del suo
primo numero, «Nord-Sud» celebra come l’uomo che «ha tracciato nuove
vie, aperto nuovi orizzonti», e al quale la rivista tributa tutto il suo affetto e
tutta la sua ammirazione.
Guillaume Apollinaire.
Ancora lui.

252
I compagni del Val-de-Grâce

È nei nostri primi incontri con Soupault e Aragon


che ha inizio l’attività che, a partire dal marzo
1919, doveva dare i suoi primi frutti con
«Littérature», per poi esplodere con Dada e infine,
ricaricandosi da cima a fondo, sboccare nel
surrealismo.
André Breton

Gli hanno trapanato il cranio, ma sta abbastanza bene. È un po’ nervoso, si


stanca in fretta, ma è in grado di ricevere gli amici. Sta nella sua camera
d’ospedale, indossa l’uniforme, la fronte bendata, i capelli rasati. È volubile.
È generoso.
Pierre Albert-Birot, che ha da poco scoperto i suoi scritti, viene a
chiedergli di collaborare alla sua rivista. Dal fronte, Apollinaire aveva già
mandato una poesia che «SIC» aveva pubblicato sul quarto numero:
L’Avenir. Promette ad Albert-Birot di mandargliene altre. E per più di un
anno mantiene la promessa. Insieme i due mettono in scena Les Mamelles de
Tirésias. Apollinaire scrive anche la prefazione per Trente et un poèmes de
poche, pubblicato dalle edizioni «SIC». Quando esce dal Val-de-Grâce, il
poeta partecipa puntualmente alle riunioni che il direttore del giornale tiene a
casa sua, tutti i sabati, in rue de la Tombe-Issoire. Ci porta i suoi amici, Serge
Férat, Max Jacob, Blaise Cendrars, Roch Grey. E altri. Così la rivista si
arricchisce di nuove firme che contribuiscono alla sua diffusione. Apollinaire
è un amico fedele, anche se non prende troppo sul serio Pierre Albert-Birot,
con tutte le sue ingenuità. Come la teoria del «nunismo», sviluppata per
pagine e pagine dal signor direttore: un’arte dell’immediatezza che tira in
ballo il mondialismo e l’universalismo, che si applica pretenziosamente alla
poesia, alla pittura, al teatro – e che non convince quasi nessuno.
Con Tzara i rapporti sono più complicati.
Da Zurigo, il padre del dadaismo ha spedito dovunque le sue
pubblicazioni. Quando scopre «SIC», manda le sue opere a Pierre Albert-

253
Birot. Mettendo tutte le sue energie al servizio della causa, Tzara si è messo in
contatto con tutti gli artisti d’avanguardia dell’Europa in guerra, per offrire
loro le pagine del suo giornale. Ha scritto a Cendrars, a Max Jacob e a
Reverdy, e naturalmente anche ad Apollinaire, che ci mette un po’ a
rispondere. Nel giugno del 1916, il «Cabaret Voltaire» pubblica una sua
poesia senza chiedergli l’autorizzazione. Apollinaire non se la prende. Ma si
preoccupa: sarà conveniente scrivere su un giornale stampato in Svizzera –
un paese la cui neutralità potrebbe venire messa in dubbio dal fatto che vi si
parla anche tedesco?
Esita. Tzara insiste. Apollinaire finisce per rispondergli. In due lettere, una
datata dicembre 1916 e l’altra gennaio 1917, gli rimprovera di non sostenere
con più forza la Francia di fronte alla Germania. Critica «la disparità delle
nazionalità» nella redazione di «Cabaret Voltaire», e certe «tendenze
germanofile». Conclude con queste parole: «Viva il cubismo francese, Viva la
Francia, Viva la Romania».1
Poiché Tzara aveva tracciato un ritratto apologetico di Apollinaire su
«Dada 2», ringrazia, insiste e firma:
Credo che potrebbe essere compromettente per me, soprattutto al punto in cui siamo
di questa guerra multiforme, collaborare a una rivista, per buono che sia il suo
spirito, che ha collaboratori tedeschi, anche se favorevoli all’intesa.2

Forse che, indipendentemente dai suoi sentimenti ultra-patriottici,


Apollinaire abbia paura della censura, che apre e legge la corrispondenza con
paesi stranieri?
Comunque sia, questa germanofobia diventa un motivo di scontro tra lui e
Reverdy. Quest’ultimo, in effetti, ha sollecitato subito la partecipazione di
Tzara a «Nord-Sud». Ma corre voce che il poeta romeno sia iscritto nella
«lista nera» delle spie tedesche. Di certo si sa che Tzara è stato interrogato
dalla polizia svizzera sui suoi contatti con ambienti tedeschi e bolscevichi...
Anche se diffida di Dada, è comunque ancora Apollinaire a mettere
(indirettamente) in relazione il gruppo del Cabaret Voltaire con i futuri
surrealisti. André Breton, in effetti, vede per la prima volta i primi due
numeri della rivista in boulevard Saint-Germain 202, da Apollinaire.
I due si sono incontrati per la prima volta il 10 maggio 1916 al Val-de-
Grâce, dove Apollinaire ha appena subito la trapanazione del cranio. Il
maggiore ha trentasei anni. Il più giovane venti. È piuttosto bello: gli occhi
verdi, una faccia massiccia e ben disegnata. Un anno prima ha scritto a quel

254
«grandissimo personaggio», che è per lui Apollinaire. Poi ha approfittato di
una licenza per fargli visita.
Breton è chiamato alle armi nel febbraio del 1915. Dopo avere passato tre
mesi al 17° Reggimento di artiglieria di Pontivy, in base al suo diploma di
PCN (studi di medicina) viene destinato a Nantes come infermiere militare.
Non ha scelto la medicina per vocazione ma «per eliminazione» e perché gli
sembrava che «la professione medica fosse quella che consentiva anche altre
attività culturali».3
È all’ospedale militare di Nantes che Breton incontra Jacques Vaché, un
personaggio che passerà come un meteorite e che tanta influenza avrebbe
avuto su di lui. Vaché – che nessuno conoscerà veramente e che morirà per
un’overdose di oppio all’età di ventidue anni – affascina Breton con la sua
condotta assolutamente libera in quei tempi terribili, per la scioltezza del suo
aspetto e delle sue parole, per la sua assoluta insubordinazione. Non dà la
mano a nessuno, mai. Gira per le strade di Nantes vestito un giorno da
ussaro, un giorno da aviatore. Quando incontra un conoscente dice,
indicando Breton: «Ti presento André Salmon» – dato che Salmon è più
famoso.
Vaché ha un solo punto in comune con Apollinaire: è anche lui un
ammiratore di Jarry. Per il resto, sono su fronti opposti. Anche Breton, d’altra
parte, molto vicino a Vaché, non sopporta i discorsi nazionalisti del poeta
artigliere. Dopo tre settimane sul fronte della Mosa, in quella terrificante
macelleria, pensa che la guerra non sia altro che il più orribile degli orrori.
Come Louis Aragon, Paul Eluard, Benjamin Péret e Philippe Soupault –
futuri surrealisti – Breton odia il periodo passato sotto le armi. E, come quei
quattro, lascia il campo di battaglia con la certezza che soltanto una
rivoluzione totale avrebbe potuto lavare la civilizzazione dalla sozzura di
questa barbarie. Ecco perché Dada doveva sembrargli una delle poche vie di
salvezza possibili. In questo, Vaché gli era più vicino di Apollinaire. D’altra
parte, Breton dirà di aver riposto su Tristan Tzara le speranze che gli erano
state ispirate da Vaché.4
Quando Breton incontra Guillaume Apollinaire, ne è abbagliato e
dimentica ogni divergenza. Torneranno a farsi sentire, quelle divergenze, nel
giugno del 1917, in occasione della rappresentazione di Les Mamelles de
Tirésias. Vaché, presente allo spettacolo, aprirà gli occhi a Breton – che si
renderà definitivamente conto dell’abisso che separa i suoi due amici, e farà
la sua scelta di campo, allontanandosi da Apollinaire.

255
Per il momento, comunque, Apollinaire resta il più grande poeta del suo
tempo. Breton – uomo dalle passioni a volte definitive a volte provvisorie – è
rimasto conquistato dal Valéry di Monsieur Teste, da Rimbaud, da
Lautréamont, da Mallarmé. Adesso soccombe al fascino di Apollinaire.
Apollinaire lo incanta per il suo carisma, per l’immensa cultura, per lo spirito
nuovo che ancora incarna ai suoi occhi. Conoscerlo è un’«occasione rara».5
Ciò che mi soggiogava in Apollinaire era quella sua capacità di prendere dalla strada
i materiali di cui si sarebbe servito nel suo lavoro. Se appena decideva di farne una
poesia, riusciva a dare dignità anche a un frammento di conversazione.6

È Apollinaire che presenta a Breton un altro dei suoi ammiratori, di cui ha


fatto pubblicare una poesia nella rivista «SIC». Si chiama Philippe Soupault.
I due scoprono subito di avere molti punti in comune. Soupault è figlio di un
medico. È un borghese elegante, un dandy. Sotto le armi, non ha conosciuto
la trincea. Ma fa parte di un gruppo di soldati che prima di partire per il
fronte sono usati come cavie (molti ne moriranno) per sperimentare un
vaccino contro il tifo. Avvelenato, resta in ospedale per molti mesi.
Anche Soupault nutre un odio terribile per questa guerra che non finisce
mai. Scrive rabbiosamente, con violenza. L’ispirazione gli cade addosso come
un acquazzone improvviso. Se è al caffè, chiede al cameriere una penna, si
chiude in se stesso e compone una poesia. Sarà l’inventore della scrittura
automatica e coautore, con Breton, dei Champs magnétiques.
Il terzo moschettiere dei surrealisti è anche lui uno studente di medicina.
Porta i baffetti, ha un anno più di Breton e come lui segue le lezioni
all’ospedale di Val-de-Grâce. Suo padre si chiama Louis Andrieux. Fa
l’avvocato, è stato deputato, prefetto di polizia, ambasciatore, senatore. Il
figlio non porta il suo nome. D’altra parte, non c’è nessuna prova che sia suo
figlio. Almeno per lo stato civile. Perché quando l’amante di Louis Andrieux,
Marguerite Toucas-Massillon (che ha trentatré anni meno di lui), ha messo al
mondo il bambino, il signor prefetto ne denuncia la nascita sotto il nome di
Louis Aragon, di padre e madre ignoti. Perché Aragon? Perché il signor
prefetto, dicono, aveva un’amante spagnola che si chiamava così.
La faccenda è così grave che bisogna tenerla nascosta sia allo stato civile
sia ai vicini di casa. Così si fa credere al giovane Aragon che la nonna
(materna) sia sua madre – ma adottiva. Il vero padre gli viene presentato a
volte come patrigno, a volte come tutore. La sua vera madre diventa sua
sorella. Trasformazioni, giochi da funamboli. La morale – in apparenza – è

256
salva. È forse per questo che il giovane Louis ha diritto di frequentare buone
scuole a Neuilly e di iscriversi al PCN. Nel 1917 il signor prefetto dà ordine
alla madre di dire al giovanotto tutta la verità: lei non è sua sorella, e il
patrigno è suo padre. Se deve andare in guerra a farsi uccidere, tanto vale che
sappia come stanno le cose.
In guerra Aragon non si fa uccidere. Ma combatte con coraggio e si
guadagna una medaglia. Quando lui e André Breton si incontrano, sono nella
stessa situazione: alternano periodi sotto le armi a periodi di studio.
Compagni di camerata al Val-de-Grâce, scoprono di avere molto in
comune. Parlano di Picasso, Derain, Matisse, Max Jacob, Alfred Jarry,
Mallarmé, Rimbaud. Parlano di Lautréamont, il più grande di tutti – che
Aragon ha scoperto nel catalogo di una piccola libreria che sarebbe diventata
grande, in rue de l’Odéon, al numero 7.
Aragon stupisce Breton con la sua cultura. Ha letto tutto. È molto brillante.
La sua voglia di piacere agli altri si manifesta sia nella ricchezza del
linguaggio che nel modo di vestire. È sempre elegante. Questa gran voglia di
essere amato la si intuisce dal suo modo di fare e di parlare, così ricercato, da
quello sguardo ironico e insieme pieno di calore che rivolge a coloro che
vuole sedurre – e che seduce.
Aragon e Breton, quando non sono al Val-de-Grâce, in mezzo a soldati che
la guerra ha fatto impazzire, si danno appuntamento nella libreria di rue de
l’Odéon. Lì possono comprarli, i libri, ma anche prenderli in prestito.
Possono anche ascoltare autori, leggere le loro opere, e sfogliare le riviste
d’avanguardia, «Sic», «Nord-Sud», «Dada», alle quali ormai collaborano gli
scrittori e i poeti della generazione che sta affermandosi. Sul retro di «Nord-
Sud» vengono indicati due indirizzi per gli abbonamenti: il domicilio di
Pierre Reverdy (rue Cortot, 12) e la libreria della rue de l’Odéon. Questa
Casa degli Amici dei Libri, aperta nel 1915, avrà un ruolo importante nella
diffusione della cultura per i prossimi due decenni. La dirige una piccola
signora dalle guance rosee, dai capelli biondi, piuttosto rotondetta: Adrienne
Monnier.

257
Agli amici dei libri

Un negozio, un piccolo magazzino, un baraccone


da fiera, un tempio, un igloo, un palcoscenico, un
museo delle cere e dei sogni, una sala di lettura, e a
volte soltanto una libreria – con libri da vendere o
da prendere in prestito, e clienti, gli amici dei libri,
venuti a sfogliarli, a comperarli, a portarseli via. E
a leggerli.
Jacques Prévert

È una mattina d’inverno. Adrienne e la sua commessa aprono la libreria,


sistemano un bancone sul marciapiede. Poi rientrano, si nascondono nel
negozio, spaventate, commosse, intimidite dai passanti che si fermano, uno
dopo l’altro, per guardare dentro le cassette. Ci sono vecchi libri che
provengono da biblioteche famigliari, riviste di letteratura e di arte figurativa,
opere di autori contemporanei. La libraia non ha abbastanza soldi per
comprare tutti i libri che vorrebbe. La sua scelta dipende prima di tutto da
esigenze economiche. Da Adrienne Monnier si trovano i libri pubblicati dal
«Mercure de France» e dalla «Nouvelle Revue Française» – di cui ha
comprato i libri invenduti e tenuti in magazzino. Poi, l’intera collezione di
«Vers et prose»: Paul Fort le ha ceduto le copie invendute –
seimilaseicentosessanta numeri pagabili a rate.
Non tutti i numeri della rivista si vendono allo stesso modo. Certi non li
richiede mai nessuno, altri restano sugli scaffali soltanto qualche ora. Come il
quarto numero. Il primo a comprarlo è stato André Breton. La libraia ne è
stata molto impressionata:
Breton non sorrideva. Rideva ogni tanto – una risata breve, sardonica, che lui faceva,
parlando, senza alterare i tratti del viso, un po’ come fanno le donne incinte che si
preoccupano della loro bellezza. (...). Il labbro inferiore, sviluppato in modo quasi
anormale, rivelava, ad applicare le regole della fisiognomica classica, una forte
sensualità governata dall’elemento sessuale (...) Si sentiva in lui, davvero, la
presenza di ciò che Freud avrebbe chiamato il potere libidico del capo.1

258
Ritorna spesso, Breton. Compra altri numeri di «Vers et prose».
Qualche tempo dopo, capita in libreria un giovanotto con baffetti,
cappello, guanti color perla. È molto elegante. Nella tasca destra ha un
volume di Verlaine, in quella sinistra una raccolta di Laforgue. Con grande
gentilezza, chiede alla libraia il quarto numero di «Vers et prose».
Adrienne Monnier cerca nella cassetta dedicata alla rivista di Paul Fort, lo
trova, glielo porge.
«Che cos’ha di speciale, questo numero?» gli chiede.
«Apra a pagina 69».
A pagina 69 c’è il testo che ha affascinato André Breton: La Soirée avec
monsieur Teste di Paul Valéry.
Lo si sarebbe visto spesso in libreria, Louis Aragon. Arriva, incomincia a
parlare, va avanti per ore. Ne sono tutti incantati. Qui, finalmente, può
sfogarsi. Non è come al Val-de-Grâce, con quelle chiacchiere grossolane che
turbano la sua naturale delicatezza.
Aragon, come Breton e Soupault, scrive sulle riviste vendute da Adrienne
Monnier, – «SIC», ma anche «Dada». Quando uno dei clienti più fedeli
chiede un giorno alla libraia se gli presta i due primi numeri del giornale di
Zurigo, si sente rispondere: «D’accordo, ma a condizione che non tagli le
pagine – in modo che io possa rimandarla in Svizzera, questa cosa
tremenda».
Il cliente è Jean Paulhan.
Un’altra volta la porta si apre su un omone dalla testa a pera, che prima di
entrare ha accuratamente esaminato la vetrina. Cerca la libraia con gli occhi,
le punta contro un dito accusatore, dice: «Non è un po’ esagerato che in
questa vetrina non sia esposto nemmeno un libro di un combattente?».
È Guillaume Apollinaire.
A quel tempo, ha ancora un grande ascendente su Breton. E Breton ne ha
parlato molto a Adrienne Monnier. Le ha detto di avere per lui un
«attaccamento fanatico», di essere il suo discepolo.
Mi ricordo di un paio di scene veramente indimenticabili: Apollinaire, seduto davanti
a me, che chiacchiera amichevolmente, e Breton, in piedi, addossato al muro, lo
sguardo fisso, quasi in preda al panico, come se stesse guardando non l’uomo che era
lì, ma l’Invisibile, il dio nero. In attesa dei suoi ordini.2

Apollinaire non è il solo poeta vivente ammirato da Breton. C’è anche


Pierre Reverdy, il fondatore di «Nord-Sud». Breton considera la sua «magia
verbale» del tutto incomparabile, apprezza il suo gusto spiccato per la teoria,

259
ma gli rimprovera un eccesso di foga nella discussione e il suo entusiasmo
nel sostenere «uno stile che sia l’equivalente poetico del cubismo».3
Ma queste accuse sono poca cosa rispetto ai fulmini che Breton lascia
cadere sullo sfortunato poeta che, un giorno del 1917, aveva deciso di fare
una lettura di una delle sue opere alla presenza di André Gide.
L’imprudente era andato a trovare Adrienne Monnier e le aveva detto:
«Cara Adrienne, monsieur Gide vorrebbe assolutamente ascoltare una lettura
dei miei versi qui da lei. È d’accordo?».
Adrienne aveva accettato, tanto più che organizzava spesso incontri di
questo genere – ai quali invitava gli amici: Léon Paul Fargue, Paul Léautaud,
Max Jacob, Erik Satie… Dopo le letture, c’era sempre un piccolo rinfresco –
qualche bottiglia di porto, panini, pasticcini...
Il poeta era poi andato da Gide: «Caro maestro, Mademoiselle Monnier mi
ha pregato di dirle che le piacerebbe moltissimo che io leggessi Le Cap nella
sua libreria, e che voi foste presente».
«Naturalmente», aveva risposto Gide.
Le Cap è Le Cap de Bonne-Espérance e il poeta...
Nel maggio del 1917, nel diciassettesimo numero di «SIC», c’è una poesia
firmata Jean Cocteau, Restaurant de nuit. Il testo fa scalpore, non tanto per
la qualità letteraria quanto per l’acrostico che contiene: le prime lettere di
ogni verso compongono una frase d’insulti al direttore della rivista. Vi si
legge: «Pauvres Birots». Cocteau nega di averla scritta. Vengono accusati
Metzinger, Warnod e altri. L’autore della beffa è Théodore Fraenkel, grande
amico di André Breton.

Adrienne Monnier non è solo libraia, bibliotecaria, organizzatrice di letture.


È anche editrice. Tra i libri che ha pubblicato c’è un capolavoro, l’Ulysses di
James Joyce, nella versione francese. Il testo originale, in lingua inglese,
viene pubblicato per la prima volta da un’amica di Adrienne, Sylvia Beach.
Sylvia Beach è americana. Figlia di un pastore, è innamorata della Francia.
Ha scoperto la libreria di Adrienne attraverso un’inserzione pubblicitaria per
«Vers et prose». Nel 1919, consigliata e sostenuta da Adrienne Monnier,
Sylvia Beach apre la sua libreria: Shakespeare & Co., in rue Dupuytren. Due
anni dopo, traslocherà in rue de l’Odéon 12, di fronte alla Maison des Amis
du Livre.
Da Sylvia Beach tutti gli scrittori americani che arrivano a Parigi dopo la
guerra sono a casa loro. La libreria è un punto d’incontro, un recapito per la
posta, il primo posto in cui passano i letterati venuti da Oltre-Atlantico. Tra di

260
loro c’è Hemingway. Sylvia gli fa credito, gli presta tutti i libri che vuole. E
c’è Ezra Pound, che ha fatto venire James Joyce a Parigi.
Nel 1918, a New York, la «Little Review» ha cominciato la pubblicazione
di Ulysses. Nel 1920, su denuncia della Società per la Soppressione del Vizio,
la pubblicazione è proibita. (Bisognerà aspettare il 1933 perché la giustizia
americana autorizzi la pubblicazione di Ulysses, che sarà edito dalla Random
House.) Nel 1921, Ulysses è finito. Sylvia Beach propone a Joyce di fare
uscire la versione inglese in Francia. Joyce accetta. L’opera viene pubblicata
il 2 febbraio 1922, quando il suo autore compie quarant’anni.
Valéry Larbaud ha scoperto Ulysses sulla «Little Review». L’opera
affascina il giovane, figlio di un ricco farmacista, proprietario e produttore
dell’acqua minerale di Saint Yorre, a Vichy. Scrive a Sylvia Beach di essere
«assolutamente impazzito per l’Ulysses».4 Vuole tradurne qualche episodio
per la «NRF».
Nel dicembre del 1921, Valéry Larbaud tiene una conferenza su Joyce nella
libreria di Adrienne Monnier. Adrienne e Joyce gli chiedono di fare una
traduzione integrale dell’Ulysses. Dopo molte esitazioni, l’autore di
Barnabooth si impegna a occuparsi dell’ultimo episodio, quello di Penelope.
Tutto il resto dell’opera viene tradotto dal giovane Auguste Morel e da un
magistrato inglese, Stuart Guilbert. Larbaud e Joyce, insieme, controllano alla
fine l’intera traduzione.
Nel febbraio del 1929, alla Maison des Amis du Livre viene presentata la
versione francese dell’Ulysses. Adrienne Monnier ne manda una copia a Paul
Claudel, cliente assiduo della libreria, a quel tempo ambasciatore francese a
Washington. Claudel risponde:
Mi scuserà se le restituisco il libro, che ha forse un certo valore commerciale ma per
il quale non ho alcun interesse. Già una volta ho perso qualche ora a leggere il
Ritratto dell’artista da giovane, dello stesso autore, e mi è bastato.5

Due anni dopo, Adrienne Monnier scrive di nuovo a Paul Claudel. In


Francia si è saputo che negli Stati Uniti circola un’edizione pirata di Ulysses,
ripresa dall’edizione di Sylvia Beach. La libraia chiede all’ambasciatore
d’intervenire presso le autorità americane per farla ritirare. Con vari pretesti,
Claudel rifiuta. E aggiunge:
L’Ulisse, come il Ritratto, è pieno di bestemmie immonde. Ci si sente tutto l’odio di un
rinnegato – afflitto peraltro da una mancanza di talento veramente diabolica.6

261
Paul Claudel è incapace di gustare il midollo modernista dell’Ulysses.
Detesta Joyce, e a sua volta è odiato dai moschettieri del surrealismo, Breton,
Aragon, Soupault, Fraenkel – tutti amici di Adrienne Monnier e tutti schierati
dalla parte di Joyce nella polemica scoppiata nel mondo delle lettere.
«SIC», «Nord-Sud» e «Dada» hanno chiuso da tempo. Il loro posto è stato
preso da «Littérature», la rivista di André Breton e dei suoi amici – che
attaccherà furiosamente Paul Claudel e tutti gli «autori di poemi patriottici
infami, per professione di fede cattolici e nauseabondi».7 Adrienne Monnier
ha sempre accettato tutto – ma non perdonerà mai ad André Breton di aver
attaccato sua eccellenza l’ambasciatore: in rue de l’Odéon non si venderà più
«Littérature».
Ma questa è una storia del dopoguerra.

262
Giorni di festa a Parigi

La mia coscienza è biancheria sporca e domani è


giorno di bucato.
Max Jacob

Il fronte è a cento chilometri da Parigi. La guerra peggiora. Ha la febbre, la


guerra, ha l’orticaria. Per curarle, si cambia dottore – Joffre, Lyautey – o si
somministrano rimedi potentissimi, e cioè mortali: lanciafiamme, gas
asfissianti. Si parla di impiegare l’aviazione come arma d’attacco. Si dice che
gli americani si uniranno alle forze della Triplice Intesa. Si teme che i russi, in
preda a disordini piuttosto incomprensibili, chiedano l’armistizio. Le trincee
sono piene di cadaveri. I feriti affollano le retrovie.
A Montparnasse, tutto va bene. Quanto a fame e sete ci si arrangia – alla
Rotonde, da Marie Vassiliev, alla panetteria della Samaritaine, dove sono
ritornati i croissant. La notte, contravvenendo al coprifuoco, pittori e artisti
attraversano la città oscurata per arrivare in un lussuoso appartamento di
Auteuil o di Passy, dove il padrone in abito da sera offre da bere per il solo
piacere di ubriacarsi insieme a loro. Un’altra sera, ci si trova nello studio di
qualche artista. Per tutta la notte, sempre in barba al coprifuoco, continuano
ad arrivare sconosciuti. Si sono portati dietro un po’ di pane, un po’ di
formaggio. Ne offrono un po’ agli altri. È come un rito.
Cendrars divide notti e incubi con il suo braccio amputato, Kisling con il
calcio di fucile che gli ha sfondato il torace, Braque e Apollinaire con le lame,
le seghe e i martelli che gli hanno aperto il cranio. Ma ci si consola delle ferite
facendo festa. Bisogna dimenticarla, la guerra.
Nel luglio del 1916, in una galleria adiacente i saloni del sarto Paul Poiret,
si tiene il Salon d’Antin. Non è la prima manifestazione artistica dopo l’inizio
della guerra (Germaine Bongard, sorella di Poiret, aveva già organizzato
qualche esposizione), ma è senz’altro la più importante. La si deve ad André
Salmon, che insieme agli artisti francesi ha voluto invitare anche gli stranieri
per ricordare la solidarietà di cui hanno dato prova verso la Francia.
Krémègne di fianco a Matisse, che è vicino a Severini, a Léger, De Chirico,

263
Kisling, Van Dongen, Zarate. C’è anche Max Jacob: francese ma anche
bretone – ha tenuto a precisare.
L’hôtel particulier di Paul Poiret si trova in avenue d’Antin (oggi avenue
Franklin D. Roosevelt) al numero 26. Ci si arriva lungo un grande viale,
attraverso un parco che ricorda quello di Versailles. La mostra ha luogo in
una galleria piuttosto piccola. Un’intera parete è occupata da un’opera
eseguita anni prima, ma che il pubblico non ha mai visto poiché l’autore si è
sempre rifiutato di esporla: Les Demoiselles d’Avignon.
Mentre nella galleria molti gridano allo scandalo, nel parco si esibiscono i
poeti. Max Jacob legge Le Christ à Montparnasse. Cendrars, monco, e
Guillaume Apollinaire, la testa ancora fasciata, sono applauditi.
La sera, concerto. Debussy, Stravinskij, Satie, interpretati da George Auric,
Arthur Honegger, Darius Milhaud e qualcun altro. È proprio qui, con i suoi
amici musicisti, che Cocteau intuisce come dovrà fare per mettere
definitivamente le mani su Picasso.
Qualche giorno dopo, gli propone di lavorare a un balletto realista che sta
scrivendo con Erik Satie per Serge Diaghilev e i Ballets Russes. Lo spettacolo
mette in scena attori da circo che fanno i loro numeri per indurre i curiosi a
entrare sotto il tendone.
Sembra che sia stata la presenza di Picasso a far decidere Diaghilev, al
quale in un primo momento Parade non interessava affatto. In autunno
Diaghilev incontra Picasso, Satie e Cocteau, e firma il contratto. Il musicista e
il librettista si mettono subito al lavoro. Picasso ha lasciato lo studio della rue
Schoelcher per un villino di Montrouge. Non ci starà molto.

Alla fine del 1916 si aprono altri luoghi d’incontro, per gli artisti. Il primo
di questi si trova in rue Huyghens numero 6, in fondo a un cortile. Qui, un
pittore svizzero, émile Lejeune, mette il suo studio a disposizione dei pittori,
dei poeti e dei musicisti che vogliono esporre le loro opere, leggerle o
eseguirle.
Blaise Cendrars, Jean Cocteau e Ortiz de Zarate fondano l’associazione
Lyre et Palette (Lira e Tavolozza). Il pubblico che assiste alle manifestazioni
promosse da questa associazione è dei più eterogenei: i frequentatori abituali
del carrefour Vavin, in pullover e pantaloni lisi, siedono a fianco delle
signore della rive droite in pelliccia e collana di diamanti, portate lì da
Cocteau. In una sala a volte surriscaldata a volte gelida, questi due mondi si
incontrano. Fuori, le grosse automobili lucide impediscono il passaggio alle
carrette che trasportano i quadri da esporre o le sedie prestate per una sera

264
dalla vecchina che le noleggia al Luxembourg.
Il 19 novembre, giorno di apertura della prima manifestazione di Lyre et
Palette, Kisling, Matisse, Modigliani, Picasso e Ortiz de Zarate espongono
insieme. Paul Guillaume ha prestato pezzi importanti d’arte africana. La sera,
Erik Satie, venuto a piedi da Arcueil, si mette al pianoforte per suonare brani
dal titolo decisamente dada: Airs à faire fuir, Danses de travers, Versets
laïques et somptueux, Véritables préludes flasques pour un chien.
L’indomani e i giorni seguenti è la volta di quelli che vengono chiamati i
Nuovi Giovani e che diventeranno il Gruppo dei Sei e che si è costituito
proprio in questa occasione: Arthur Honegger, Darius Milhaud, Francis
Poulenc, Georges Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre.
Il 26 novembre, Cendrars, Max Jacob, Reverdy e Salmon leggono i loro
testi. Cocteau recita una poesia di Apollinaire, che è ancora troppo debole.
Apollinaire si tiene un po’ in disparte, indossa una splendida uniforme da
ufficiale comprata il giorno prima alla Belle Jardinière, e stivali di cuoio
naturale nuovissimi. Fa il gesto di togliersi la polvere dalla casacca blu
aviazione, si tocca orgogliosamente sulla fronte la benda nera. Una giovane
donna gli mette una mano sul braccio. Si chiama Jacqueline, ma la chiamano
Ruby per il colore dei capelli. Non conosce quasi nessuno. Apollinaire l’ha
incontrata per caso dopo averla vista molte volte in compagnia del fidanzato,
il poeta Jules-Gérard Jordens – caduto al Bois de Buttes, dove anche lui è
stato ferito.
Il 31 dicembre 1916, per festeggiare l’uscita del Poète assassiné, una
raccolta di racconti e di novelle, gli amici di Guillaume decidono di
organizzare un pranzetto molto intimo – duecento persone – in un ambiente
appartato – il Palais d’Orléans, in avenue du Maine. Il menu è molto
spiritoso. Lo hanno messo insieme Max Jacob e lo stesso Apollinaire:
Antipasto cubista, orfista, futurista, ecc.,
Pesce dell’amico Meritarte
Zona di controfiletto Croniamantal
Aretino di Cappone all’Eresiarca
Meditazioni estetiche in insalata
Formaggi in Corteo di Orfeo
Frutta del Festino di Esopo
Biscotti del Brigadiere mascherato

Vino bianco dell’Incantatore


Vino rosso della Case d’Armons
Champagne degli Artiglieri

265
Caffè delle Serate di Parigi
Alcools

Un successone. Il pranzo si conclude con una battaglia a mollica di pane.


Da una parte del tavolo, Rachilde, Paul Fort, André Gide e qualche altro
personaggio delle Belle Arti e delle Belle Lettere. Dall’altra, un gruppo di
artisti più giovani, rumorosi e assolutamente maleducati. Si divertono tutti
moltissimo.
Due settimane più tardi, nuovo banchetto. Da Marie Vassiliev, questa volta,
e in onore di Braque, tornato anche lui alla vita civile dopo avere subito la
trapanazione del cranio. Il comitato organizzatore, che comprende
Apollinaire, Gris, Max Jacob, Reverdy, Metzinger, Matisse, Picasso e altri,
invita gli amici a partecipare, pagando una quota di sei franchi. (André
Salmon sostiene che per tutto il tempo della guerra Picasso non ha scritto a
Braque neanche una volta.)
Non è un grande successo. Purtroppo Marie Vassiliev ha invitato Beatrice
Hastings, già separata da Modigliani. Lei è venuta, ma non da sola.
L’accompagna il nuovo amante in carica, lo scultore Alfredo Pina. Avevano
detto a Modigliani di non venire, per favore. Ma Modigliani viene. Paga i
suoi sei franchi, saluta gli amici, poi, pensando evidentemente che i soldi che
ha pagato gli diano diritto a mettere in scena un piccolo spettacolo, si
avvicina a Beatrice e incomincia a recitarle all’orecchio Dante e Rimbaud.
Quando Pina cerca di entrare anche lui in scena, Modigliani lo respinge verso
le quinte. L’altro tira fuori una pistola. Un attimo di sbalordimento. Poi rissa
generale. Max Jacob fa da arbitro. Apollinaire conta i punti. Juan Gris
guarda, sgomento, quegli energumeni urlanti e variopinti che si agitano come
galli da combattimento. Imperturbabile dietro la barba e gli occhiali, Matisse
cerca di calmarli. Finisce che Modigliani viene buttato fuori, ingloriosamente.
Picasso, in un angolo, canticchia all’orecchio di Paquerette, la sua modella
preferita. Ma l’idillio è quasi alla fine.
Un mese dopo, il pittore vola via, portato dalle ali leggere di Cocteau.
Visita Napoli e Pompei, raggiunge Diaghilev a Roma, cade tra le braccia di
Olga, e ritorna il 18 maggio 1917 sulla scena del Théâtre du Châtelet.
Va in scena Parade, balletto in un atto, testo di Jean Cocteau, musica di
Erik Satie, costumi e scene di Pablo Picasso.
Uno scandalo come quello di Ernani. Con in più la modernità. I nobili
venuti quella sera a inebriarsi con i conturbanti profumi dell’arte cubista,
difesa da Cocteau nel programma, rabbrividiscono un pochino. Per

266
cominciare, la Marsigliese. Perfetto. Il sipario tricolore con Arlecchini,
cavallerizza e venditori ambulanti, va tutto benissimo. Ma la ragazza col
cappello a punta! Il nero che serve! La giumenta con le ali! Il cowboy con i
grattacieli sulla schiena! E la musica! Niente note, soltanto rumore!
La principessa Eugène Murat, con in testa il suo diadema, non si risparmia.
Dà del mon cher al suo accompagnatore e colpetti di ventaglio ai vicini se
appena smettono di soffiare con tutto il fiato che hanno in corpo nei fischietti
con i quali si sono esercitati nel pomeriggio, in previsione della serata. La
contessa di Chabrillan e la marchesa d’Ouessan strillano: «Meticci!
Imboscati! Rossi!». È così eccitante! Le signore di mondo cercano quei
disgraziati di artisti per infilarli con i loro spilloni. Ci sono spettatrici in abito
da sera, che danno il braccio a signori in frac o in divisa, pieni di insegne
della legion d’onore e di bigiotteria militare. Qualcuna, come la principessa di
Polignac, è in uniforme da infermiera – per ricordare a Guillaume Apollinaire
che non era il solo, lui, ad aver servito la patria. Perché Guillaume, che
difende i suoi amici, indossa la divisa. La benda sulla fronte, fa impressione a
molti spettatori. Vicino a lui, Cocteau continua a saltellare per controllare che
in sala ci sia il suo pubblico: abiti di lusso insieme alle giacche di velluto.
Vicino a lui, un signore sta dicendo a un amico: «Se avessi saputo che
stupidaggine era, avrei portato i bambini!».
L’indomani, la critica si scatena. Parade viene salutata come una
manifestazione della più pura arte tedesca. I cronisti sparano a vista sulle
macchine da scrivere, le dinamo, le sirene. E mettono alla gogna Diaghilev
che, qualche settimana prima, si era permesso di far volare L’uccello di fuoco
sulla bandiera rossa dei bolscevichi.
Erik Satie, il primo a essere preso di mira dai giornalisti, a un cronista del
«Carnet de la Semaine», che lo accusa di aver oltraggiato il gusto francese e
di mancare di talento, di immaginazione e di mestiere, risponde con queste
parole:
Caro amico, signore,
voi non siete che un culo. Ma un culo senza musica.

Il cronista lo querela per ingiurie e diffamazione. Satie viene condannato a


una pena detentiva con il beneficio della condizionale. È sconvolto – almeno
quanto Picasso il giorno in cui è comparso davanti al giudice per il furto delle
sculture iberiche. Pensa di essere rovinato: la fedina penale sporca, i diritti
d’autore sequestrati, la proibizione di viaggiare (lui che l’unico viaggio che

267
conosceva era da Parigi ad Arcueil e ritorno). Non ha i soldi per pagarsi un
avvocato, per ricorrere in appello. Per aiutarlo, gli amici – Gris, Cocteau e
Max Jacob in testa – fanno il giro delle conoscenze importanti.

In quello stesso mese di maggio del ’17, il presidente Poincaré nomina


Philippe Pétain comandante in capo dell’esercito. Lassù, nelle pianure del
nord, i battaglioni decimati escono dalle trincee per chiedere che la
carneficina finisca.
Per dare l’esempio, Pétain da l’ordine di fucilare quattrocento ribelli.
Quattrocento soldati che si aggiungono ai quarantamila morti del Chemin des
Dames.

268
Colpo di fulmine

Era solo, una folta frangia scura gli cadeva sulla


fronte, aveva occhiali di tartaruga, una camicia di
cotone a quadri rossi e bianchi, baffetti a forma di
M, un abito di ottima stoffa inglese...
Youki Desnos

Piantato dietro il bar della Rotonde, i baffi in agguato, Libion sta in


guardia. Cendrars è appena entrato, la valigia in mano: da un albergo
all’altro, sta di nuovo traslocando. Si avvicina a Max Jacob, intento a
ricopiare uno dei suoi manoscritti per il sarto Doucet. Potrebbe essere vestito
come lo ha descritto Léautaud: scarpini scalcagnati, calzerotti di lana,
pantaloni a quadri stinti e troppo corti, giacchetta corta e stretta, un vecchio
cappello.
Cendrars si siede. Max gli racconta dell’incontro di pugilato tra Reverdy e
Diego de Rivera a proposito del cubismo. Il pittore e il poeta sono venuti alle
mani. Tutto è incominciato al Lapérouse, durante un pranzo offerto da
Léonce Rosenberg, per finire da Lhôte, in mezzo ai ninnoli Louis Philippe.
Reverdy ha difeso il cubismo di Braque, Gris e Picasso, senza curarsi degli
artisti che si trovavano lì. Rivera si è sentito offeso e l’ha preso a schiaffi.
Reverdy gli ha tirato i capelli. Hanno dovuto buttarli fuori.
Libion non ascolta le chiacchiere che gli arrivano dalla sala. Sta
sorvegliando i movimenti di una mezza dozzina d’agenti ciclisti. Si sono
fermati davanti al caffè, scendono di bicicletta, si radunano vicino all’entrata.
«Retata!», dice Libion a voce alta.
La cosa non impressiona nessuno: la clientela ci è abituata. Da quando i
rivoluzionari russi e i pacifisti di ogni colore hanno scelto la Rotonde come
quartier generale, i signori della prefettura si fanno vedere regolarmente. Tutti
quelli che sono contro la guerra sono considerati disfattisti. Una parola che in
francese non esiste, secondo il generale Joffre. Ma che obbliga a certe
precauzioni. Così, per qualche settimana, Libion ha coperto le pareti di
manifesti patriottici – come prove a discarico. Ma non sono bastati a tener

269
lontani i delatori, gli informatori e i poliziotti in borghese che dall’inizio
dell’anno assediano i locali considerati equivoci: la Rotonde per prima,
seguita da vicino dal Dôme e dalla Closerie des Lilas. Il ristorante Baty è
meno disturbato: le tovaglie bianche e il menu – molto caro – giocano a
favore dei clienti.
Entra, di colpo, una squadra di signori impettiti. Passano di tavolo in
tavolo, chiedono i documenti. Se qualcuno cercasse di darsela a gambe, gli
agenti ciclisti appostati sul marciapiede lo riacciufferebbero subito. Ma questa
volta va bene: il controllo viene effettuato sul posto e non al commissariato.
I gendarmi circondano un piccolo giapponese che indossa un vestito color
prugna. Una collana gli brilla al collo. Gli orecchini gli danno un aspetto
proprio strano.
«Lei è una signora?».
«Un signore», risponde il giapponese.
«È da provare».
«Sono già stato sposato una volta, e sto per risposarmi», replica il
giapponese con un sorriso divertito.
Indica una giovane donna che se ne sta in disparte chiacchierando con la
sua vicina, senza prestargli la minima attenzione.
«Il colpo di fulmine, signori».
«Documenti».
Gli agenti si curvano, per leggere meglio: Fujita Tsuguharu, detto Foujita,
nato nel 1860, a Tokio, Giappone.
«Professione del padre?».
«Generale dell’armata imperiale».
«Da quando è in Francia?».
«1913. Ma poi sono andato a Londra».
«Come mai?».
Foujita lancia uno sguardo scrutatore alla sconosciuta, che non l’ha ancora
notato. Risponde agli agenti. «Lavoravo per un pittore. Dipingevamo
insieme, poi lui firmava i quadri, li vendeva e non mi pagava».
«Allora perché è rimasto?».
«Per guadagnarmi da vivere».
Il gendarme aggrotta la fronte.
«Mi sono fatto imbrogliare, se è questo che volete sapere».
«Vogliamo sapere tutto, e nei particolari».
«Questo pittore era proprietario di una scuderia», spiega Foujita con
calma. «Il problema era che lui sapeva dipingere tutto, tranne che i cavalli.

270
Così i cavalli li dipingevo io, e lui pensava al resto: l’erba, il sole – al
tramonto, all’alba gli steccati, i bei paesaggini... E la firma, naturalmente. Un
giorno è andato a vendere i quadri e non l’ho più visto».
«È allora che è venuto in Francia?».
«Prima ho fatto il modellista a Londra, da Sir Gordon Selfridge. Vendono
ancora tailleur tagliati da me».
Gli agenti guardano il suo vestito color prugna.
«E questo, l’ha fatto lei?».
«Cucito a mano. A qualcuno di voi potrebbe interessare una gonnellina
dello stesso colore?».
Gli agenti effettuano un immediato ripiegamento verso l’uscita. Con tappa
al bar, presidiato da Libion, le mani sui fianchi. Lo avvertono che se
continuano le denunce, il locale sarà proibito ai militari.
Foujita cerca lo sguardo della giovane donna seduta tre tavoli più lontano.
Lei ha venticinque anni, gli occhi ridenti, i capelli corti, il naso all’insù,
quella prontezza di spirito che è tipica delle ragazze di Parigi. Si è voltata una
volta verso di lui. Non sembra colpita dall’abito color prugna. Ma il piccolo
giapponese non se ne stupisce. Quando è arrivato in Francia, andava in giro
con Isadora Duncan e suo fratello, che a quel tempo predicavano il ritorno
agli ideali greci. E lui portava un nastro in testa, una clamide allacciata sulla
spalla, una collana di grosse pietre, una borsetta da donna e i piedi nudi. E
nonostante questa tenuta le donne gli cadevano ai piedi.
Quando fa i conti, Foujita riconosce tutto ciò che deve alle donne:
Marcelle gli ha insegnato a bere il brodo senza far rumore e a non succhiare il
cucchiaio al dessert; Marguerite l’arte di baciare; Renée a entrare al cinema
senza pagare il biglietto. Margot gli ha insegnato un buon numero di insulti
ispirati agli animali; Yvonne a impegnare l’orologio al Monte di Pietà e a
lasciarcelo il tempo di qualche presa di cocaina; Gaby a stendere i pantaloni
sotto il materasso, la notte, per trovarli al mattino perfettamente stirati. Che
cosa potrebbe insegnargli, questa? E, prima di tutto, come si chiama?
Foujita si alza e si avvicina alla donna. Si inchina cerimoniosamente.
Scambiano qualche parola. Poi il giapponese se ne va.

L’indomani ritorna alla Rotonde. Entra, sorridente, con un’espressione da


conquistatore. Dà il braccio alla sua ultima conquista: la giovane donna del
giorno prima. È riuscito a conoscere il nome – Fernande – e l’indirizzo – rue
Delambre. Lei sembra perdutamente innamorata di questo diavolo di un
giapponese che l’ha conquistata grazie a una semplice camicia. Una casacca

271
azzurra che lei indossa tutta orgogliosa, come se fosse un abito regale.
Foujita, che è in grado di cucire una tunica in meno di un’ora, ha passato la
notte su questa camicia. È riuscito a sapere l’indirizzo della sua futura
fidanzata – abita vicino al Dôme – e gliel’ha portata il mattino dopo. E dato
che Fernande Barrey non voleva restare in debito, quando lui aveva detto che
faceva freddo lei aveva preso un’accetta, aveva fatto a pezzi l’unica sedia
della stanza e l’aveva buttata nella stufa.
Tredici giorni dopo, si sposano al municipio del XIV arrondissement.
Foujita si è fatto prestare i sei franchi necessari alle pubblicazioni di
matrimonio da un garzone della Rotonde, che poi ha rimborsato facendo il
ritratto della moglie. Hanno scelto un testimone, e siccome ce ne volevano
due hanno chiamato un professionista, in attesa davanti al municipio.
Qualche settimana dopo, Madame Foujita esce di casa, diventata il loro
domicilio coniugale, con una cartella di disegni sotto il braccio. Va sulla rive
droite, dove sta la maggior parte dei mercanti d’arte. Sorpresa dalla pioggia,
raccontano, entra da Chéron, gli dà due acquerelli in cambio di un ombrello,
e se ne torna a Montparnasse senza avere venduto niente.
Ma intanto ha conquistato Chéron. Dopo avere guardato a lungo gli
acquerelli, il commerciante attraversa la Senna e si precipita in rue Delambre.
Non guarda neanche le stuoie sul pavimento, le lampade ornate di
ideogrammi, le tavole con le gambe tagliate, e – lusso inaudito – una vera
vasca da bagno. Vuole solo conoscere l’artista, vuole che gli mostri i suoi
lavori. Compra tutto. Non gli assicura solo il pane, a Foujita, ma anche il
companatico. Sette franchi e cinquanta per ogni acquerello. Minimo garantito
quattrocentocinquanta franchi al mese.
Per festeggiare, Foujita regala alla moglie una gabbia con un canarino. Poi,
mettendo insieme arte tradizionale giapponese e avanguardia europea, si
lancia per una strada dove nessuno può seguirlo. Una volta, per mancanza di
soldi, dipingeva animali e fiori a tempera e a pastello. Adesso si può
permettere i colori a olio. Seduto per terra nell’ex scuderia di rue Delambre
che è diventata il suo studio, sereno in mezzo a tutti i suoi colori, Foujita
dipinge tele che presto tutta Parigi si contenderà. Dopo Van Dongen e
contemporaneamente a Picasso, sta per scoprire il piacere della ricchezza.
Arrivano i soldi. E la fama.

272
Un pittore e il suo mercante

In fondo sono i grandi pittori che fanno i grandi


mercanti.
Daniel-Henry Kahnweiler

Chi va via perde il posto all’osteria. Kahnweiler, cittadino tedesco rifugiato


in Svizzera, dopo che i suoi beni (i suoi quadri) sono stati confiscati, finisce
per dare fondo alle sue riserve: e non ce la fa più a pagare i suoi artisti. Il suo
posto resta vuoto. Ma lo occupano subito.
Vince il più svelto: Léonce Rosenberg. Consigliato da André Level e Max
Jacob, compra le opere di Gris, di Braque, di Léger, di Picasso e diventa il
mercante in carica dei cubisti. Eppure – lo dice lui stesso – è un mercato di
cui non aveva alcuna esperienza. E non basta. Qualche anno dopo la fine
della guerra consiglierà a Mirò di tagliare il quadro La Ferme per poterlo
vendere a clienti che abitano in appartamenti piuttosto piccoli. Alla fine, sarà
Hemingway che riuscirà a comprarlo, giocandoselo ai dadi con altri
collezionisti.
Léonce Rosenberg paga relativamente poco i suoi pittori – anche se in
qualche caso li paga più di Kahnweiler. Ma in genere loro non si lamentano –
dato che non saprebbero da chi altro andare. E anche, come nota Max Jacob,
perché «senza di lui, molti pittori farebbero gli autisti o gli operai in
officina».1
Picasso è il solo a resistergli. E finisce per mettersi con suo fratello, Paul
Rosenberg – più intelligente, più raffinato. Paul sarà il suo mercante negli
anni tra le due guerre.
Anche Modigliani cambia mercante. Era con Paul Guillaume e passa a
Léopold Zborowsky. Grande sostenitore dell’arte contemporanea, Zborowsky
è uno dei primi mercanti a pubblicare i cataloghi delle mostre. È un poeta
polacco sorpreso dalla guerra a Parigi, dove studiava alla Sorbona. Sotto un
abito elegante nasconde una povertà che non ha niente da invidiare a quella
del suo pittore. Ma ha un cuore d’oro. E una parola di platino. «Tu vali due

273
volte Picasso», dice ad Amedeo la prima volta che lo incontra.
«Può dimostrarlo?».
«Possiamo parlarne».
Sono a una mostra di Lyre et Palette. Kisling ha fatto le presentazioni.
L’artista e il suo futuro mercante vanno al bar del Petit Napolitain.
Modigliani ha appena guadagnato due bigliettoni per due giorni di lavoro.
Uno lo ha lasciato cadere nel cappello di Ortiz de Zarate che ha organizzato
una mostra ambulante a favore degli artisti vittime della guerra.
Si siedono, ordinano due café-crème. Ne offrono uno anche a un povero
pittore. Ha un soprabito stracciato, una camicia logora, scarponi militari in
pessimo stato. Tossisce. Modigliani infila una mano in tasca e, senza farsi
accorgere, lascia cadere il secondo e ultimo biglietto di banca.
Poi si abbassa, raccoglie il biglietto e lo sventola sopra il tavolo:
«Guardate! Dieci franchi!».
Lo mette davanti al pittore: «È per te... Era sotto la tua sedia».
L’altro vuole dividere.
«Neanche per idea!», grida l’italiano. «Io ho appena guadagnato un sacco
di soldi».
Così se ne va anche il frutto della seconda giornata di lavoro.
Il pittore paga il suo giro e se ne va.
Zborowsky è uno strano giovanotto. Molto elegante, la giacca ben tagliata,
la barba rasata in modo impeccabile, un accento simile a quello di Soutine,
vuole assolutamente lavorare con Amedeo. Gli propone un compenso di
quindici franchi al giorno, più il costo della modella e del materiale.
Per Picasso sarebbe un’elemosina. Per Modigliani è una fortuna.
Guarda, interdetto, quell’individuo che gli assicura un ottimo stipendio
stabile – mentre fino a ieri la sua quotazione era un bicchierino di cognac al
banco. Un tipo che basterebbe scostargli la cravatta per vedere i bottoni che
mancano alla camicia rammendata e il petto incavato – un tipo che, si vede
benissimo, è affamato quanto lui... Quindici franchi al giorno!
«Ho qualche amico pieno di talento», dice il livornese.
Gli parla di Chaïm Soutine. Poi sta per fare l’elenco di tutti i suoi amici in
miseria, ma il mercante lo interrompe con un gesto.
«Bisogna che le spieghi. Francamente...».
Gli espone la situazione: non ha niente. La guerra lo ha sorpreso a Parigi,
dove studiava letteratura francese alla Sorbona. Vende in casa opere d’arte,
libri e incisioni, perché sa parlare bene ed è piuttosto abile nel contrattare.
Non ha mai avuto la vocazione. Non ce l’ha neanche adesso. Ma Lyre et

274
Palette gli ha rivelato il genio di Modigliani. Vuole dedicarsi a sostenerlo.
Allora, sì o no?
Amedeo posa il suo album sul tavolino del bistrot. Guarda fisso
un’americana, sola a un tavolino vicino. Disegna il suo ritratto. Forse sta
pensando a un altro incontro con un mercante. Era capitato prima che Paul
Guillaume lo prendesse sotto contratto. Quel tipo aveva trattato per un
gruppo di disegni a un prezzo basso, molto basso, bassissimo. A un certo
punto Modigliani aveva preso i disegni, ci aveva fatto un buco, poi aveva
infilato una cordicella nel buco, era andato in gabinetto e aveva attaccato le
sue opere sopra la tazza. Poi era tornato di là e aveva detto al mercante:
«Glieli regalo, i disegni. Li usi al cesso, per pulirsi».
Modigliani strappa dall’album il foglio che ha appena disegnato.
«Sì o no?», chiede di nuovo Léopold Zborowsky.
Modì dà il foglio all’americana. Lei prende il disegno, lo osserva con
sospetto, interesse, bontà, gioia, meraviglia, gratitudine, felicità. Poi, quando
è in preda all’estasi, Amedeo dice: «Sono tre birre».
Le birre arrivano subito.
«Voglio la firma!», esige l’americana.
«I santi non sono sempre angeli», nota Zborowsky.
«Perché la firma?».
«Per il valore!», sussurra la donna. «Forse un giorno lei diventerà
famoso!».
Sulla diagonale del foglio, Modigliani copre il ritratto con la firma. Poi ridà
il disegno all’americana. Dopo averlo guardato con gratitudine, interesse,
sospetto, lei lo straccia rabbiosamente.
Modigliani si gira verso Zborowsky e fa toccare i due bicchieri: «Sì».

Ogni giorno, il mercante parte all’assalto delle gallerie. Amedeo non gli
chiede mai i conti, ma solo anticipi. Per pagare i bar, i ristoranti, i mazzi di
fiori. E Zborowsky fa quello che può. Quando non può, impegna al Monte di
Pietà i gioielli della moglie, gioca a poker alla Rotonde, traffica con altri
mercanti, chiede prestiti ai commercianti. A volte lo si incontra seduto a un
tavolo della Rotonde. È due giorni che non mangia. La sua vita non è più
invidiabile di quella di Max Jacob, che passa di tavolo in tavolo cercando di
vendere le sue opere, pubblicate a sue spese, o di quella dei clienti che
escono dalle toilette dove vanno a lavarsi perché dove abitano non c’è il
bagno. Probabilmente, come fanno tanti altri, passando davanti al banco
Zborowsky ruba pezzi di pane. Quando trova un collezionista, svende le

275
opere di Modigliani. Dà via per una miseria dipinti che cinque anni dopo
sarebbero stati valutati cento volte tanto.
Zborowsky vive per Amedeo. Si sacrifica per lui, per alleviare la sua
miseria rinuncia al tabacco, al carbone, al cibo. Lo fa perché lo ammira, e
perché gli vuole bene. Si batte tutto il giorno per difendere quel pittore in cui
nessuno crede – tranne certi collezionisti svizzeri, che, convinti da un articolo
di Francis Carco pubblicato da un giornale di Ginevra, hanno comprato
qualche nudo a un prezzo irrisorio.
Zborowsky cerca clienti dappertutto. Perfino tra i negozianti del carrefour
Vavin. Quando non ha proprio altre risorse, Modigliani tratta direttamente
con loro. Francis Carco racconta che un giorno che il mercante era nel Midi,
Amedeo aveva incontrato sua moglie Hanka e le aveva chiesto di posare per
lui perché doveva vendere due quadri a un parrucchiere. Hanka aveva
accettato in cambio di un terzo quadro. Alla fine della posa, siccome le tele
erano ancora umide, Hanka aveva deciso di venire a ritirare la sua il giorno
dopo. Quando era tornata, i tre quadri erano spariti: due li aveva presi il
parrucchiere e il terzo un imprevisto collezionista.
Hanka poserà molte volte per Modigliani, e così farà Lunia, un’amica della
coppia. Quando ha i cinque franchi per pagarle, Zborowosky cerca modelle
professioniste. E, appena può, cerca anche di procurare al suo pittore il
materiale necessario – i pennelli, i colori, le tavolozze, le tele. Più la solita
bottiglia, naturalmente.
Amedeo dipinge in albergo. Poi a casa del suo mercante, in rue Joseph-
Bara. Adesso non lavora più come quando era con Chéron, prima della
guerra. Chéron, si dice, chiudeva l’artista nella cantina della galleria con una
bottiglia di cognac e lo lasciava uscire solo quando aveva finito il quadro.
Modì arriva dagli Zbo nel pomeriggio. Per finire un quadro ha bisogno di
una posa di qualche ora. È sempre gentile con le modelle. Finito il lavoro,
divide con loro i fagioli comprati da Hanka nel negozio vicino. Poi esce.
Qualche volta ritorna, di notte, per chiedere un acconto di qualche franco. Al
primo piano spengono la lampada e fingono di dormire.
Modì porta da Zborowski i suoi amici. Soutine per primo. Continua a
insistere perché il mercante si occupi di lui. Ma il polacco non è convinto.
Forse perché le maniere di Soutine spaventano sua moglie. Hanka adora
Modigliani, ma non quando è con Soutine. Un giorno che erano tutti a tavola,
Modigliani si era alzato, aveva guardato Soutine e gli aveva detto: «Adesso ti
faccio il ritratto».
E glielo aveva fatto. Sulla porta della sala da pranzo. La cosa non era

276
affatto piaciuta alla signora Zborowsky.
Molte volte, Modigliani porta con sé la ragazza che dalla primavera del ’17
ha sostituito Beatrice Hastings. L’hanno soprannominata Noce di Cocco per il
contrasto tra i suoi capelli scuri, dai riflessi rossi, e la pelle chiarissima,
diafana.
Jeanne Hébuterne ha seguito un corso di disegno all’Atelier Colarossi. È
dolce e timida quanto Beatrice Hastings era pronta a infuriarsi, nervosa. Ha
occhi verdi, purissimi come acqua di sorgente. È bella e fragile, assente,
impenetrabile. Una tristezza infinita vela il suo sguardo profondo. È come un
piccolo animale spaventato che cerca un posticino nel mondo dei grandi. I
suoi genitori, Eudoxie e Achille Casimir, cattolici praticanti, severi, rigorosi,
non tollerano che la figlia si leghi a un artista ebreo, italiano, senza soldi, e
molto più vecchio di lei. Lei ha diciannove anni. Modigliani ne ha
trentacinque.
Per Amedeo e Jeanne, Zborowsky ha trovato un piccolo studio in rue de la
Grande-Chaumière, di fronte a quello che un tempo era stato di Paul
Gauguin. Continua a vegliare sul suo protetto. Alla sua maniera, che non è
certo quella dei grandi mercanti.
Qualcuno, anni dopo, gli rimprovererà un certo dilettantismo, e una
mancanza di affidabilità – peraltro difficile da contestare. Daniel-Henry
Kahnweiler parlerà delle sue leggerezze. Ma queste critiche non contano, di
fronte all’essenziale. E l’essenziale è il lavoro di Modigliani. Tra il 1916 e il
1920, e cioè durante gli anni di Zborowsky, Modigliani dipinge la maggior
parte dei suoi quadri. Specialmente la straordinaria serie dei nudi. Eppure,
quando il mercante muore, dodici anni dopo il pittore italiano, è rovinato, in
miseria. Proprio come Modigliani.

277
Rue Joseph-Bara, 3

Portinaia? Sì, ma portinaia di una casa di artisti.


André Salmon

Le ragazze si emancipano. Amori fuggevoli nascono una sera per morire il


mattino dopo. Cendrars dice che la guerra svuota le case: gli uomini sono al
fronte, le donne cercano di sostituirli nei letti vuoti. Le passioni amorose
portano via le anime come fuscelli di paglia.
Kisling si è innamorato di Renée-Jean, bionda, vent’anni, la frangia tagliata
netta a filo delle sopracciglia, vivace, appassionata. Porta i pantaloni, e le
calze spaiate – come i futuristi italiani.
Kisling ha avuto un’eredità da uno scultore americano con il quale aveva
fatto baldoria prima del 1914, e così può organizzare un matrimonio
grandioso, la più bella festa del quartiere in tempo di guerra. Tutta
Montparnasse è stata invitata. Diretto al municipio, il corteo parte dalla casa
di Kisling, in rue Joseph-Bara. Sono tutti ubriachi di vino e di gioia. Fanno
tappa alla Rotonde, poi al Dôme, dove il père Cambon offre da bere. Da un
bicchiere all’altro, da un caffè all’altro, il gruppo si è ingrossato. È un «sì»
piuttosto confuso quello che Kisling scambia con Renée. Il vice-sindaco non
ha mai visto una cosa simile. Quella banda di pazzi, di soldati in licenza che
fanno risuonare gli scarponi nella sala dei matrimoni... E adesso, poi, che la
sposa tratta lo sposo da «piccolo coglione polacco», perché lui, antimilitarista
dichiarato, si dispera all’idea di aver sposato la figlia di un comandante della
guardia repubblicana, e di ritrovarsi con un suocero ufficiale... Che
vergogna! Che disastro!
Mangiano, bevono. Poi la compagnia fa un giro per i bordelli del
boulevard Saint-Germain e torna nell’atelier di Kisling. Max Jacob recita una
delle sue parti migliori, l’imitazione di Jules Laforgue. Modigliani continua a
andargli dietro, lo supplica di lasciargli recitare Dante, Rimbaud, Baudelaire,
qualsiasi cosa, pur di poter recitare anche lui. Poi va nella stanzetta accanto
allo studio e torna fuori drappeggiato nelle lenzuola della giovane sposa. Sale
su uno sgabello, fa il fantasma, si mette a declamare Dante, Amleto... Intanto

278
Renée-Jean urla di rabbia, non tollera che si possano usare le sue lenzuola,
fosse anche per recitare Shakespeare. Quindi grandi corse su e giù per scale,
e un rumore terribile, e strilli, con gli inquilini che rispondono alle urla di
Amedeo e alle invettive della signora Salomon.
La signora Salomon è la portinaia. Una bretone testarda, minuscola,
pettinata da strega, ma devota a tutti gli artisti che popolano il suo universo.
Li difende contro le sue consorelle delle case vicine.
D’estate passa le notti stesa davanti alla porta, d’inverno nella portineria
dove, come il Doganiere Rousseau, dorme vestita. Non c’è modo di sfuggire
alla sua sorveglianza. Appena sente rumore di passi, balza fuori dalla sua
stanzetta. Di giorno e di notte, cova la sua nidiata con uno sguardo a volte
severo a volte scrutatore.
Ha un affetto particolare per Kisling. Quando lui ritorna dalla guerra,
ferito, si preoccupa che beva molto latte per curare la tosse che lo sta
distruggendo. Ogni volta che Kisling entra o esce, la signora Salomon sbuca
dal suo posto di osservazione, si aggiusta il pince-nez e gli chiede: «E il
latte?».
«Domani, domani!».
Lui le dà un bacio sui capelli spettinati. Lei brontola, per principio.
Ha accolto Renée-Jean come si accoglie un uccellino caduto dal nido.
Spera che la vita coniugale spenga la sete di Kisling – che, prima di rivestire
l’uniforme, rientrava molto spesso all’alba, sempre ubriaco fradicio e
raramente solo.
Purtroppo la vita del suo protetto non cambia con il matrimonio. La porta
dello studio rimane sempre aperta: il mattino, dalle nove, alle modelle che si
succedono dietro le sue tele; il pomeriggio, agli amici: la sera, a chiunque
abbia voglia di divertirsi. E la povera signora Salomon è costretta a soffrire in
continuazione di un terribile mal di testa – a causa del fonografo a tromba
sempre in funzione dai Kisling.
«Mi rovina le orecchie! E anche il gusto!».
Detesta Frehel, detesta il tango argentino.
Quando la musica tace, si sente il fracasso della piattaforma con le ruote
sulla quale il pittore fa salire le modelle. La tira, la spinge, la fa girare,
secondo la luce. E quando finalmente trova il posto giusto, si mette a cantare
una canzonetta con una voce che sembra un ruggito, e intanto balla una
danza da pellerossa, saltellando.
Questo per quanto riguarda l’ultimo piano. Ma ci sono anche gli altri,
perché Kisling non è l’unico inquilino del numero 3 di rue Joseph-Bara.

279
André Salmon ha vissuto lì prima di attraversare la strada per andare ad
abitare al numero 6. Ogni sera un passante che porta a spasso i cani gli
segnala – certo involontariamente – che è ora di andare a dormire. Alle
undici – un vero e proprio rito – l’uomo pronuncia un nome, uno solo e
sempre lo stesso: «Goujat!» (cafone). Le bestiole, infatti, approfittano
dell’ora della passeggiata per mordere o infastidire qualcuno, il quale insulta
il padrone dei cani, il quale, a orario fisso, replica con questa ingiuria così
squisitamente letteraria. Non si sa come si chiamassero le bestie. Il loro
padrone abita vicino alla rue Stanislas e lavora al «Mercure de France». Si
chiama Paul Léautaud.
Rembrandt Bugatti, scultore di animali e fratello di Ettore (il costruttore di
automobili), ha abitato al piano rialzato del numero 3. Si è ucciso nel 1915.
L’anno prima, Jules Pascin aveva lasciato l’ultimo piano per ritornare a
Montmartre.
I nuovi inquilini mettono in imbarazzo la signora Salomon. Soprattutto
l’ultimo venuto: Leopold Zborowsky, mercante. Abita al primo piano, in un
appartamento di due stanze che divide con altri. C’è sua moglie, Hanka. Poi
c’è un’amica, Lunia Czechowska, moglie di un polacco che è al fronte. Infine
c’è Amedeo Modigliani, che vive altrove ma che viene lì a dipingere.
Generoso, da parte di Zborowsky. Ma una noia per gli altri inquilini della
casa.
C’è un via vai continuo, da un piano all’altro. Modigliani che va a farsi
prestare qualche tubetto di colore da Kisling, e poi Kisling che scende a
riprenderseli, e intanto incontra Salmon che sta salendo, ed ecco Apollinaire
nell’atto di aprire una porta, e una modella che sta cercando lo studio dove
deve andare a posare, e Renée-Jean che si è appena svegliata, Lunia che
chiede a tutti se pensano che tra lei e Modigliani ci sia qualcosa, Hanka che
protesta perché teme una visita di Soutine, e Soutine che sale fino dagli Zbo,
e Zbo che scende le scale stringendo sotto il braccio gli ultimi disegni di
Modigliani.
La signora Salomon segue e sorveglia l’andirivieni dei suoi inquilini.
Quando sono particolarmente rumorosi e agitati, si consola pensando al
dolore che avrebbe provato se per disgrazia uno di loro non fosse ritornato
dalla guerra. Quando si allunga nel letto, la sera, dopo una pesante giornata
di lavoro, tende l’orecchio. Ha paura di un altro rumore, ben più pericoloso
degli strilli e delle risate di una mezza dozzina di pittori e di poeti: il borbottio
degli Zeppelin, le esplosioni...

280
Le mammelle di Tiresia

...Sono ancora molto nervoso, irascibile, sembra


che ne avrò per più di un anno prima di rimettermi
dal trauma che quasi mi ha ucciso.
Guillaume Apollinaire

Kisling, Foujita, Modigliani, Apollinaire – sono tutti innamorati. E anche


Picasso. Fernande è ormai lontana, éva sepolta, Gaby, Paquerette e le altre
dimenticate. Sulla tela – grande, risplendente, sovrana – appare Olga
Khokhova. Venticinque anni, russa, figlia di un colonnello dell’esercito dello
zar, ballerina dei Ballets Russes. Picasso l’ha incontrata a Roma, nella troupe
di Diaghilev. L’ha seguita a Napoli e a Firenze, l’ha ritrovata a Parigi, è andato
insieme a lei a Barcellona, con la compagnia di ballo.
Picasso non è più lo stesso. Porta un completo, cravatta, fazzoletto al
taschino, catena da orologio. I suoi amici spagnoli non lo riconoscono più. I
Ballets Russes gli hanno dato la gloria – molto più della pittura.
Nuovi amori... Nel marzo del ’17, Ruby dice a Apollinaire di essere
incinta. Il bambino non verrà alla luce. Che sia un caso o no, in quel
momento Apollinaire sta preparando una commedia basata sul tema del
ripopolamento della Francia, Les Mamelles de Tirésias. L’opera va in scena il
24 giugno 1917 al Théâtre Renée-Maubel di Montmartre. Il programma
distribuito al pubblico è sotto il segno di Picasso: in copertina c’è uno dei
suoi disegni. Un evento teatrale che avrà grande risonanza. Più ancora di
Parade. Sarà «il grande evento dell’avanguardia nel 1917».1
L’idea di produrre Les Mamelles de Tirésias è di Pierre Albert-Birot. Una
sera del novembre 1916 in rue de la Tombe-Issoire, nella sede della sua
rivista, in compagnia di Guillaume Apollinaire, Birot dice che «SIC», oltre
alla poesia, dovrebbe pubblicare anche testi teatrali. Apollinaire gli propone
un dramma che ha scritto nel 1903: la storia di Thérèse, diventata Tiresia, e
che, come l’indovino di Tebe, cambia sesso e prende il potere sugli uomini
(sotto certi aspetti, l’opera ricorda L’assemblea delle donne di Aristofane).

281
Birot è d’accordo. Apollinaire rivede il testo, e profondamente. Aggiunge
anche un prologo, che esprime le intenzioni profonde dell’autore:
Vi presento una commedia il cui fine è quello di riformare i costumi...

Rifiuta il passato:
Quel teatro senza grandezza, senza virtù, che uccideva le lunghe sere di prima della
guerra…

Sostiene che le donne devono avere parti all’altezza di quelle degli uomini:
Voglio anche essere deputato, avvocato, senatore Ministro, presidente.

È decisamente antimilitarista:
Spengono le stelle a colpi di cannone...

È un’orgia di travestimenti, di giochi di parole, di eccessi. Può sembrare


una provocazione. In primo luogo perché il pacifismo (piuttosto nuovo per
Apollinaire) è considerato disfattismo. E poi perché in questi tempi di
massacri, se è senza dubbio ben visto incoraggiare la procreazione, non è
consigliabile mostrare su una scena di teatro una donna che si apre il corsetto
per liberare una moltitudine di palloncini.
Cominciano le prove. Secondo Pierre Albert-Birot non è una messinscena:
è una «messa in burla».2 Gli attori non sono professionisti (Apollinaire stesso
aveva pensato di recitare). Le scene, disegnate da Serge Férat, sono state
realizzate all’ultimo momento, e la partitura musicale – che doveva essere
eseguita da un’orchestra al completo – è eseguita solo da una pianista, dato
che gli strumentisti sono introvabili a causa della guerra. I cori sono diretti da
Max Jacob. La musica è firmata da Germaine Albert-Birot.
Apollinaire non è mai stato un appassionato di musica. Nel 1917, durante
un concerto alla Salle Gaveau, mentre l’orchestra suonava un’opera di César
Franck, lui scriveva una poesia. Poi aveva approfittato dell’intervallo per
battersela senza farsi accorgere. Durante le prove delle Mamelles, applaude
fragorosamente la pianista, ma più per il suo vitino che per la qualità
dell’interpretazione. Gli piace Satie perché è un amico. Pensa che le
Mamelles vadano difese soprattutto perché sono un’opera d’avanguardia.
Quando Birot gli chiede che cosa bisogna scrivere sulla copertina del
programma, Apollinaire suggerisce di scrivere il titolo, Les Mamelles de

282
Tirésias, ma Birot obietta che non basta, che ci vuole qualcosa di
caratteristico.
«Scriviamo “dramma”», propone Apollinaire.
«È troppo breve, il pubblico può pensare che si tratti di un dramma
cubista».
Apollinaire riflette un istante e dice: «Scriviamo “dramma surnaturalista”».
«Non va», replica Birot. «Noi siamo lontani dal naturalismo quanto dal
soprannaturale».
«Allora scriviamo semplicemente “Les Mamelles de Tirésias, dramma
surrealista”».
La parola è detta. Ed è proprio per rendere omaggio a Guillaume
Apollinaire che André Breton e Philippe Soupault la riprenderanno.
Breton assiste alla rappresentazione delle Mamelles. È deluso sia dal testo
sia dalla recitazione. Alla fine del primo atto, nota uno spettatore che si agita
in platea. È Jean Vaché, in uniforme da ufficiale inglese. Ha in mano la
pistola, minaccia di sparare. Breton riesce a calmarlo. Seguono lo spettacolo,
ma senza nessuna partecipazione. Vaché non tollera «quel lirismo a buon
mercato, quel cubismo di maniera delle scene e dei costumi».3
Alla fine, un putiferio. In un certo senso, questo è il primo della lunga
serie di scandali che segneranno la strada del surrealismo. Stampa e pubblico
si scatenano. Malgrado la prudenza di Pierre Albert-Birot, l’opera viene
tacciata di cubismo, Apollinaire messo alla gogna, e Picasso, per via del
disegno sulla copertina del programma, crocefisso sull’altare dell’arte
nazionale. Il cubismo, sempre considerato di ispirazione «boche» – crucca –
non è certo più amato di quanto lo fosse nel 1914.
Tuttavia ci sono pittori che si considerano i rappresentanti del cubismo
ortodosso e che rivendicano apertamente l’appartenenza a questa scuola. Al
punto che all’uscita della rappresentazione delle Mamelles de Tirésias,
mandano ai giornali una lettera di protesta, precisando che non esiste alcun
rapporto tra il loro lavoro e «certe fantasie letterarie e teatrali». In realtà, è
Picasso che prendono di mira. L’atto d’accusa è firmato da Gris, Hayden,
Kisling, Lipchitz, Lôthe, Metzinger, Rivera e Severini.4 Apollinaire è
sconvolto. Pensa che Blaise Cendrars non sia estraneo all’attacco.
Il giorno dopo la rappresentazione delle Mamelles de Tirésias al Théâtre
Renée-Maubel, Apollinaire viene destinato all’ufficio stampa del ministero
della Guerra: la Censura. In quel momento, collabora all’«Excelsior»,
all’«Information», a «Nord-Sud», la rivista di Pierre Reverdy, e a «SIC», di

283
Pierre Albert-Birot. Prima, aveva lavorato con André Billy a «Paris-Midi». E
non aveva perso lo spirito polemico e protestatario che faceva la gioia degli
amici. Così a «Paris-Midi» mandava notizie inventate sostenendo che
venivano da Londra, da Tokyo, da New York.
Riprendendo la tradizione di Paul Fort, tutti i martedì Apollinaire riunisce
gli amici al Café de Flore, tra le cinque e le sette. Max Jacob li chiama «i
martedì di Paul Flore». Pierre Reverdy parla della «fauna del Flore».
Ha rivisto Lou una volta, per caso, in place de l’Opéra. Ma la passione è
ormai spenta. Apollinaire vive con Jacqueline, nell’appartamento del
Boulevard Saint-Germain. All’ultimo piano. Ci si arriva salendo tutta una
serie di scale. Attraverso una fessura nella porta, Apollinaire può vedere chi
arriva. Se è un usciere, non apre. Sul battente, è appeso un cartello: «Si prega
di non rompere».5
L’appartamento è percorso da corridoi tortuosi ingombri di libri, piccole
sculture, feticci. È un posto strano, un’infilata di stanzette dove, non si sa
come, sono stati sistemati grossi mobili massicci. Quadri alle pareti. Altri
quadri contro il muro. Apollinaire è la goffaggine in persona, non è capace di
piantare un chiodo senza pestarsi le dita.
La stanza preferita dal poeta è la sala da pranzo. Buia, minuscola, arredata
con sedie sbilenche e una tavola con sopra piatti sbreccati. D’inverno, il
caminetto acceso. C’è anche una cucina. E uno studio con un tavolo da
lavoro messo davanti a una piccola finestra. Una scala interna porta alla
camera da letto. Attraverso una porta a vetri, si arriva su un minuscolo
balcone, da cui si vedono i tetti di Parigi.
Qui Apollinaire si rimette dalla sua ferita. Ha un enfisema. La morte in
guerra dell’amico d’infanzia, René Dalize, a cui sono dedicati i
Calligrammes, lo ha profondamente colpito. Dalize, il compagno di tutte le
feste, con il suo eterno ombrello sotto braccio – lui che si guardava allo
specchio e si diceva: «Che disastro di esistenza!».
Apollinaire è allora al massimo della gloria: riconosciuto ovunque,
continuamente sollecitato, pieno di progetti. Ma ha lasciato al fronte un po’
della sua gioia di vivere. L’avvenire lo preoccupa. È sempre più irascibile.
Quando vanno a cena da lui, gli amici stanno attenti a non mettere in
disordine, per non urtare la sua suscettibilità. Guardano, piuttosto inquieti,
l’elmetto d’artigliere bucato in corrispondenza della tempia che troneggia su
un tavolo all’ingresso.
Nel gennaio del 1918, il poeta viene ricoverato all’ospedale per una
congestione polmonare. Ne esce poco dopo. Anche la guerra, intanto, ha

284
cambiato faccia.

285
Parigi-Nizza

Al dessert è stato stappato lo champagne. A 120


chilometri da Parigi. O, forse, sopra Parigi, quella
sera. Poi tutta la compagnia è scesa in cantina. A
fare dello spirito.
Max Jacob

Nella primavera del 1918 Parigi ha fame, ha freddo. Ma non ha sonno. La


pancia è vuota, ma questo non impedisce di andare ai concerti, a teatro, al
cinema. Max Jacob scrive le sue poesie su carta da imballaggio, ma riesce a
trovare i sigari per Picasso. La sera i nottambuli fanno man bassa su tutte le
bottiglie che possono trovare; poi, a piedi o in taxi, cercano un posto in cui
andare a bere e dimenticare la loro miseria. Le automobili vanno lentamente.
Poi, una supera le altre. I suoi occupanti hanno deciso dove andare. Si
ritrovano tutti da qualche parte, a volte in una panetteria della rue de la Gaîté,
a volte nella sala interna di un grande magazzino della rive droite. Bottiglie e
cibarie vengono messe in comune.
In marzo, dopo due anni di strategia difensiva, i tedeschi hanno attaccato
in forze le linee francesi e inglesi. Sfondano il fronte. Foch ha un bel dire che
il paese non perderà un solo metro di terra, e Clemenceau può esortare fin
che vuole i soldati a non arretrare a nessun costo. La guerra è a settanta
chilometri da Parigi. La notte, tuona la Grande Berta. Terrificante. Cannoni
Krupp lunghi trenta metri, a lunga gettata, montati su rotaie, capaci di spedire
proiettili a trenta chilometri di altezza e a cento chilometri di distanza. I
tedeschi li chiamano «Pariser Kanonen». Le cannonate hanno colpito
Grenelle, Vaugirard, la chiesa di Saint Gervais e il Champ-de-Mars. Un
proiettile è caduto in rue Liancourt. Un altro esplode a Port Royal, in una sala
della maternità Baudelocque, uccidendo molti bambini e le loro madri. Mezzo
milione di parigini scappano da Parigi verso il sud della Francia. Tra loro ci
sono Soutine, Foujita, Cendrars, Kisling, Modigliani, Jeanne, Zborowsky e
sua moglie.
Questi ultimi partono per sfuggire ai bombardamenti, ma anche perché

286
sperano che il sole di Nizza faccia bene a Modigliani, la cui tubercolosi si è
aggravata, e a Jeanne, che è incinta. Eudoxie Hébuterne, quando l’ha saputo,
ha deciso di partire con loro: non è il caso di abbandonare la figlia nelle mani
di questo artista ebreo, maleducato, incoerente, senza talento.
Abitano nella stessa città – a Nizza – ma non vanno d’accordo. Così il
futuro padre deve andare all’albergo mentre Jeanne e sua madre prendono un
appartamento in rue Massena.
Modigliani rimane a Nizza quasi due anni. Il sole allevia i suoi dolori,
certo. Ma deve restare lì anche perché si era fatto rubare i documenti. Dipinge
molto, beve smodatamente in compagnia dei tanti amici che ha ritrovato a
Nizza: Survage, lo scultore Archipenko, Paul Guillaume, il pittore Osterlind.
Un giorno, Osterlind porta Modigliani a casa di Renoir. Paralizzato dai
reumatismi, il pittore non può lasciare la poltrona a rotelle. Dipinge con i
pennelli legati alle mani. Grazie a un sistema di contrappesi, fa scendere e
salire la tela che sta dipingendo. Lavora senza sosta, vuole finire più quadri
che può, prima di morire. Dipinge anche per aiutare i bambini poveri del
posto. Evita i mercanti d’arte. Riceve ancora qualche amico. Come Monet –
che si è messo in viaggio per incontrarlo un’ultima volta. È lì, paralizzato
sulla sua poltrona a rotelle, se vuole fumare devono mettergli la sigaretta tra
le labbra, eppure accoglie l’amico ottuagenario con queste parole: «E allora,
Monet? Ti si abbassa la vista, a quanto pare...».
Renoir apre la porta anche ai giovani artisti. Per questo ha ricevuto
Modigliani. Prova a parlargli, ma Modigliani non apre bocca.
«Vada a vedere i miei ultimi nudi», propone Renoir.
Amedeo e Osterlind vanno nello studio. L’italiano guarda senza dire
niente. Tace anche quando tornano da Renoir.
«Allora?».
Allora niente. Osterlind fa qualche commento. Chissà perché, Modì resta
in silenzio.
«Ha notato il colore della pelle?».
Silenzio.
«La linea del seno?».
Niente.
«E quei culi? Quando dipingo un culo ho l’impressione di toccarlo...».
Modigliani guarda il vecchio pittore. Dice, bruscamente: «Non mi
piacciono, i culi».
Poi se ne va. Renoir è sconcertato, Osterlind rosso di vergogna.
Zborowsky passa le giornate cercando di vendere i quadri di Modigliani

287
negli alberghi, porta a porta. Ma si rende conto che Modigliani non ha più
successo con i ricchi sfaccendati del sud di quanto ne avesse con i mercanti
d’arte a Parigi. Ritorna nella capitale.

A Parigi, Apollinaire è uscito dall’ospedale. Ha lasciato gli uffici della


censura per il ministero delle Colonie. Il 2 maggio sposa Jacqueline Kolb.
Cerimonia religiosa nella chiesa di Saint-Thomas-d’Aquin. I testimoni sono
Ambroise Vollard e Gabrielle Buffet-Picabia. Quelli dello sposo sono lo
scrittore Lucien Descaves e Pablo Picasso.
Due mesi dopo, anche Picasso si sposa. Dopo il rifiuto di Gaby e di Irene
Lagut, Olga Khokhlova accetta. Diaghilev l’aveva avvertito: «Una russa, la si
sposa». Non è stato semplice per via della situazione di Olga: le sue carte non
erano in regola, e a causa della Rivoluzione russa era piuttosto difficile farle
regolarizzare. Ma Apollinaire era intervenuto presso il fratello di Lucien
Descaves, che lavorava alla prefettura. E il matrimonio era stato fissato per il
12 luglio 1918 al municipio del VII arrondissement.
Quando Max Jacob riceve la lettera dove Picasso gli fa sapere di averlo
scelto come testimone, quasi sviene dalla gioia – tanto più che la data del
matrimonio corrisponde a quella del suo compleanno. Corre all’Hôtel Lutétia,
dove abita la futura sposa. Non la trova. Potrebbe andare a Montrouge, dove
vive ancora Picasso – ma se poi non lo trova in casa? Allora manda una
lettera. In estasi. Per posta pneumatica:
Caro padrino, solo la morte potrebbe impedirmi di essere al municipio del VII venerdì
alle undici; e, morendo, soffrirei di non esserci stato.

C’è stato. Alle undici del mattino, Pablo Diego José Francisco de Paula
Juan Nepomuceno Crispin de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso, nato a
Malaga (Spagna) il 25 ottobre 1881, artista pittore, sposa Olga Khokhlova,
nata a Niegin (Russia) il 17 giugno 1891, senza professione, in presenza dei
testimoni: Guillaume Apollinaire, trentasette anni, letterato, decorato con la
Croce di Guerra; Max Jacob, quarantadue anni, letterato; Valerien Irtchenko
Svetlov, cinquantaquattro anni, capitano di cavalleria; Jean Cocteau,
ventisette anni, letterato.
Il matrimonio religioso ha luogo nella chiesa russa di rue Daru, tra nuvole
d’incenso e canti ortodossi.
Qualche settimana dopo, Picasso lascia la casa di Mont-rouge per l’Hôtel
Lutétia.
È lì, la sera del 9 novembre 1918. La guerra sta per finire. Nel pomeriggio,

288
mentre sta passeggiando sotto i portici di rue de Rivoli, incontra una vedova
di guerra. Un colpo di vento agita il velo nero della donna, lo manda a
sbattere contro la sua faccia. Picasso torna in albergo, si mette davanti a uno
specchio, si guarda. Quell’incontro lo ha sconvolto. Gli sembra un presagio
funesto. Prende una matita, disegna la faccia riflessa nello specchio. In quel
momento, suona il telefono. Va a rispondere. Poi mette giù il ricevitore. Resta
immobile, a lungo. Torna a disegnare.
Anni dopo, se gli chiederanno a quando risale il suo ultimo autoritratto,
risponderà: «Il giorno della morte di Guillaume Apollinaire».

289
Finale di partita

Non andremo più nel bosco, l’alloro è tagliato.


Gli amanti stanno per morire, dicono menzogne le
amanti.
Guillaume Apollinaire

Il 3 novembre Guillaume esce di casa in compagnia di Vlaminck e di sua


moglie, che ha invitato a pranzo.
Sul boulevard Saint-Germain, i due uomini discutono dell’ultimo testo
teatrale del poeta, Couleurs du temps, che la compagnia Art et Liberté deve
mettere in scena tra quindici giorni – con la scenografia di Vlaminck.
Quando si lasciano, Apollinaire va all’«Excelsior», il giornale a cui collabora
regolarmente.
La sera ha la febbre alta. Si stende sul letto, sotto il quadro di Marie
Laurencin che lo ritrae insieme a Max Jacob e a Picasso. Si sente male, ma
non è come le altre volte. Non vuole ancora andare all’ospedale. Troppo
spesso ha dovuto andarci, da quando è stato ferito.
La febbre sale ancora. Guillaume suda. Jacqueline è preoccupata. Ma non
chiama il medico. Aspettano.
L’indomani passa Max Jacob. Poi Picasso. Ritornano. Sono andati da
Cocteau, in rue d’Anjou, per chiedergli di avvertire il dottor Capmas. Forse è
una congestione polmonare. Ma non si sa.

È la spagnola. Pare che questa forma di influenza sia stata portata in


Europa da marinai spagnoli arrivati dall’Asia. In realtà è venuta dagli Stati
Uniti, con i corpi di spedizione dell’esercito americano. Uccide ancora più in
fretta della guerra. Venticinque milioni di morti in due anni. Sul Chemin des
Dames, i generali firmano una tregua per evacuare i malati. A Parigi i carri
funebri vanno in corteo, uno dietro l’altro, verso il cimitero. Uno di quei
carri ha trasportato Edmond Rostand.
Guillaume Apollinaire vede arrivare la morte. Al fronte l’aveva vicina tutti
i giorni e non ne ha mai avuto paura. Qui lo prende il panico. Supplica il

290
dottor Capmas di salvarlo. Non vuole andarsene così. Non capisce. Se l’è
cavata con una scheggia in testa, non dovrà crepare, adesso, per colpa di un
microbo!
Vengono gli amici. Ritornano. Jacqueline Apollinaire, Serge Férat, Max
Jacob, non lo lasciano mai. Ci sono fiori, in casa. Sopra i tetti, un cielo
grigio, di piombo. E al 202 di boulevard Saint Germain, questo 9 novembre
del 1918, alle cinque della sera, la morte.
Come passano lente le ore passano, come passa un funerale.

Guillaume Apollinaire è steso sul letto, nella sua uniforme d’ufficiale. La


guerra sta finendo. Più di otto milioni di morti, venti milioni di feriti. Portano
un poeta, sotto un tricolore, a Saint-Thomas-d’Aquin, poi al cimitero Père-
Lachaise.
Una sezione del 237° Territoriale rende gli onori. Madame de Kostrowitzky
apre il corteo. C’è Picasso. Ci sono Max Jacob, André Salmon, Blaise
Cendrars, Pierre Mac Orlan, Paul Fort, Jean Cocteau, Metzinger, Fernand
Léger, Jacques Doucet, Paul Léautaud, Alfred Valette, Rachilde, Léon-Paul
Fargue, Paul Guillaume… E tanti altri. L’armistizio è stato firmato da due
giorni. Per le strade, la folla festeggia la vittoria. Gridano: «Morte a
Guillaume».
Il Kaiser, non il poeta.
Gli obici miagolavano un amore da morire
Gli amori che se ne vanno sono più dolci degli altri
Piove Pastora piove e il sangue sta per seccarsi
Gli obici miagolavano Ascolta cantare i nostri
Rosso porpora Amore salutato
Da quelli che stanno per morire.

La sera del giorno del funerale, Pablo Picasso lascia l’Hôtel Lutétia e torna
alla casa di Montrouge. Mette insieme le sue cose. Il giorno dopo scrive a
Gertrude Stein per informarla che va ad abitare in rue La Boétie. Attraversa
un’altra volta la Senna.

291
III
MONTPARNASSE CITTÀ APERTA

292
Kiki

Kiki? Se lo meritava proprio che la chiamassero la


regina di Montparnasse.
André Salmon

Un sole freddo brilla su Parigi, finalmente in pace. È l’ora della


smobilitazione. Arrivano i turisti. I primi sono gli americani dei corpi di
spedizione. Hanno scoperto la Francia in tempo di guerra. Hanno scambiato
la divisa con l’abito da sera e ritornano per divertirsi.
I bistrò del boulevard Montparnasse sono pieni. I più vecchi come i nuovi,
come il Café du Parnasse che strizza l’occhio alla Rotonde.
Libion osserva, tristemente. Non è la concorrenza che lo preoccupa, ma le
autorità. Lo hanno già multato parecchie volte o condannato alla chiusura:
una volta perché alcuni disertori, o pretesi tali, bevevano al bar; poi perché i
bolscevichi e i loro simpatizzanti si sedevano al banco – come Kikoïne,
denunciato per le sue relazioni con i rivoluzionari russi. Adesso perché i
fumatori consumano troppo: Libion ha comperato delle sigarette bionde, di
contrabbando, pare, per offrire qualche tiro ai suoi clienti più poveri. Glielo
si rimprovera. Lui minaccia di vendere (cosa che farà). Rien ne va plus.
Scorge una strana donna che conosce: l’ha già vista in compagnia di
Soutine, e che riconosce perché porta un cappello da uomo, una vecchia
cappa rattoppata e scarpe troppo grandi. Una ragazza. Diciott’anni, a dir
tanto. Il colorito pallido, i capelli corti, di un nero scurissimo. Una bellezza
particolare, fatta di sguaiataggine e vivacità, una sfrontatezza di linguaggio
che si ritrova nei suoi gesti, nel contegno, nei sorrisi. Tuttavia questa volta
non risponde niente a Kisling che, voltandosi verso Libion, chiede ad alta
voce: «Chi è questa nuova puttana?».
Lei si limita a tirare fuori dalla tasca un fiammifero, lo gratta, soffia sulla
fiamma e si annerisce delicatamente il sopracciglio sinistro.
«E allora, chi è questa puttana?».
La giovane non risponde. Aspetta che Kisling ricominci per riempirlo di
insulti accuratamente studiati, ai quali il polacco risponderà in termini di

293
baldracca, vecchia sifilitica impestata e altre piacevolezze che metteranno di
buonumore la sala. Dopo di che, fatto eccezionale per l’epoca, il pittore
assumerà la ragazza come modella per un periodo di tre mesi.
Così esordisce Alice Prin, soprannominata Kiki e poi Kiki di
Montparnasse, regina del quartiere, portafortuna degli artisti, figura
leggendaria e conosciuta in tutto il mondo, che poserà per Kisling, Foujita,
Man Ray, Per Krogh, Picasso, Soutine, Derain e molti altri. Diventerà la
protetta di tutti i pittori di Vavin, il personaggio più in vista di quella
Montparnasse del dopoguerra di cui contribuirà, con i suoi trascorsi e la sua
foga, a diffondere l’odore sulfureo fino in America.
Fino ad allora, Kiki non ha avuto molta fortuna. La linea della sua vita
incrocia più spesso la valle delle miserie che le vette della felicità. È nata in
Côte d’Or ed è cresciuta così in fretta che ha conosciuto la strada prima di
trovare un posto più confortevole. Il padre, mercante di legna e carbone, si
era eclissato da tempo.
Figlia naturale: è il primo scandalo di Kiki. Che tocca anche la madre, che
la morale di provincia di quesi tempi aveva spedito a Parigi, alla maternità
Baudelocque, dove i medici ostetrici ce la mettevano tutta per dissuadere le
signore celibi a farsi mettere incinte un’altra volta.
La piccola Alice vive quindi con la nonna in compagnia di una caterva di
cugini e cugine, tutti figli dell’amore come lei. Ingiustizia e povertà: il nonno
fa il cantoniere a un franco e cinquanta al giorno, la nonna sgobba nelle case
dei borghesi della città. La madre manda quel che può. A scuola, la maestra
non ama i poveri, e così Kiki passa le mattinate in fondo alla classe e i
pomeriggi incollata al muro, in castigo. La sera, quando non ci sono più
fagioli nelle pentole di casa, Alice e la cugina vanno a bussare alla porta delle
Suore della Carità. L’esperienza non avvicinerà certo la ragazzina alla croce e
all’aspersorio.
A dodici anni Kiki parte per Parigi. L’ha chiamata la madre. La ragazzina
conosce meno questa donna che le faceva visita un mese all’anno che la
nonna, che l’ha allevata e che lei adora. Sul treno che la porta a Parigi,
annega le lacrime nelle provviste per il viaggio: salsiccia all’aglio e vino
rosso.
A Parigi la piccola scopre le carrozze a cavalli. E i viali, dritti e puliti.
«Di’, mamma, gli mettono su la cera per farli brillare così?».
Riesce a far ridere la madre, che non è certo molto allegra. Ha lasciato
Baudelocque per una stamperia dove fa la linotipista. Sperando che la figlia
prenda il suo posto, la manda alla scuola comunale, in rue de Vaugirard. Kiki

294
vi rimane il tempo per odiare per sempre lo studio. «Ho tredici anni passati.
Ho appena lasciato la scuola per sempre. So leggere e contare, questo
basta!».1
La ragazzina entra in una stamperia come apprendista-rilegatrice: per
cinquanta centesimi alla settimana, rilega il Kama-sutra. Poi, a suo modo, fa
la guerra. Lavora in una officina di calzature che rimette a nuovo gli scarponi
dei soldati. Arrivano dal fronte: la piccola Kiki li disinfetta, li ammorbidisce
con l’olio e li rimette in forma. Dalle scarpe passerà alla saldatura, ai
dirigibili, agli aeroplani e alle granate. Sempre nella miseria più nera. Mangia
lenticchie ai sassolini offerte dalle mense popolari, e porta scarpe da uomo
numero 40, trovate nella spazzatura.
A quattordici anni viene nutrita, ripulita e alloggiata da una panettiera che
ha un negozio in place Saint-Charles, nel XV arrondissement. In piedi alle
cinque per servire gli operai che vanno al lavoro. Partenza alle sette per le
consegne nelle case dei borghesi che dormono ancora. Alle nove pulizie,
spesa, cucina e assistenza al garzone pasticciere. Che è già un tipo gagliardo.
A soli quindici anni si esibisce nell’onnipotenza della sua giovane età.
«Ti andrebbe?».
«Non ancora».
Ma si turba, la piccola Alice, quando dalla finestra della sua camera vede
due innamorati che si baciano per strada. «Mi sono sentita così strana! Mi
sono rotolata sul letto e era bellissimo... e dopo, ho avuto tanta paura».2
La paura passerà.
Kiki decide di dominarla, attirando il suo vicino di pianerottolo nel
retrobottega. Baci e carezze la portano al quinto cielo. Ma il sesto la spaventa,
e il settimo ancora peggio. Meglio aspettare un po’.
Kiki si trucca. Alla sua età questo non si fa. La fornaia un giorno la scopre
mentre si sta pitturando la faccia e grida: «Puttanella!».
Non doveva dirlo. E si prende un pugno nello stomaco. Dopo di che, la
ragazzina se la dà a gambe.
Finisce a posare, nuda, nell’atelier di uno scultore. La prima seduta va
benissimo. La seconda si chiude con una sentenza senza appello. La madre,
avendo saputo dai vicini che sua figlia si compromette con un vegliardo per
la bellezza di un’arte di cui ignora tutto, si precipita, constata e urla:
«Puttana!... Ignobile puttana!».
Tra la madre e la figlia finisce tutto. La madre ritorna dal suo futuro sposo,
un linotipista soldato, più giovane di lei; la piccola finisce presso una

295
cantante dell’Opéra Comique.
È impiegata come cameriera tuttofare. Ma dato che la specialità di Kiki è
soprattutto quella di uscire senza permesso, l’artista lirica non è d’accordo.
Scacciata di nuovo, si rifugia dalla sua amica éva, che vive in una stanza
minuscola a Plaisance. Il letto è grande ma non abbastanza per tre. Ogni tanto
éva riceve un operaio corso più vecchio di lei, che in cambio di due franchi
al giorno e di un pezzo di salsiccia dispone del letto e della padrona di casa.
«Guarda di nascosto», consiglia éva all’amica. «Così, impari».
Kiki si siede e segue lo svolgimento delle operazioni. Aspetta che passi la
febbre. Non le fa né caldo né freddo. È contenta perché, reggendo il
moccolo, può mangiare a piacimento la salsiccia trascurata dalla coppia. Ma
si chiede se lei è normale.
«Perché?», domanda éva.
«Perché sono ancora vergine».
«A quindici anni?».
«Ho conosciuto solo il pressappoco».
«Ma è terribile! Vieni con me, andiamo a risolvere il problema».
Le due amiche aspettano in piedi in boulevard de Strasbourg. éva ha
promesso all’amica di trovarle un vecchio.
«I vecchi, la prima volta, fa meno male».
Kiki è d’accordo. Ne conosce, di vecchi. Una o due volte, ne ha portato
uno dietro la Gare de Montparnasse, non lontano da una capanna che gli
serviva da casa. Per due franchi aveva diritto di guardarle i seni. Per cinque
poteva toccare. Mai di più, e mai più in basso. Kiki non è una sgualdrina, ha
solo bisogno di mangiare.
Il primo giorno in boulevard de Strasbourg éva trova un cinquantenne
accettabile. Lo presenta a Kiki. Sa di buono ed è d’accordo. Offre caffè e
brioche. La mezzana si allontana. Kiki segue il fortunato, che la porta a casa
sua, a Ménilmontant. È un artista di varietà, per la precisione un clown. Le
mostra dei costumi belli quanto quelli di Fratellini. Le dà da mangiare arrosto
di maiale e le fa bere un po’ di buon vino. Poi si occupa della sua toilette, le
fa indossare una camicia da notte e la mette a letto. Kiki è quasi innamorata.
Si lascia rincalzare ben stretta, ascolta la ninna nanna che il clown le suona
alla chitarra, e si addormenta dopo alcune cosette non spiacevoli.
Bilancio del giorno dopo: la signorina è arrivata al sesto cielo, ma non ha
perso niente.
Incontra un pittore, Robert, che le offre una cioccolata e la porta a casa. Si
spoglia per primo. Ha le calze tagliate in punta: roba da fare andare tutto

296
all’aria. Kiki non riesce a smettere di ridere. «Non sapevo che esistessero i
mezzi guanti per i piedi!».
L’altro si offende: «Ma se è l’ultima moda!».
Provano. Quasi ci riescono. Ma non del tutto. Non completamente. Robert
ha un’idea. Ritorna una sera con due dame pescate al Dôme.
«Guarda come si fa, e impara la lezione».
Kiki guarda. Una, due, tre volte. Ma se è brava a seguire la lezione, non sa
assolutamente fare i compiti. Robert perde la pazienza. La manda a battere il
marciapiede in boulevard Sébastopol. Per un po’ le spiegherà che è come
andare al fronte, solo che non ci sono i tedeschi ma gli yankee. Alleati,
dunque. Kiki non si decide. Preferisce continuare a farsi picchiare dal suo
pittore-ruffiano, finché questi, per fortuna, da un giorno all’altro scompare
per sempre.
Kiki trasloca, va a abitare in una catapecchia in rue de Vaugirard, un
hangar dietro Montparnasse. Scopre la Rotonde, i pittori, gli scultori. Come
tutti i clienti di père Libion, ruba il pane che sporge dal bancone, si lava nelle
toilette e infila le poche monete che possiede nella macchinetta mangiasoldi,
sperando di vincere il prezzo di una brioche.
Trova ancora di meglio: Soutine, che a volte la ospita alla Cité Falguière,
bruciando metà del suo atelier per riscaldarlo. La presenta a altri artisti, che
iniziano la ragazza ai paradisi artificiali, ma ancora troppo lontani, ahimè, da
quel settimo cielo che le interessa più di ogni altra cosa.
È finalmente un pittore polacco, Maurice Mendjizky, che si manifesta come
l’angelo salvatore che Alice aspetta da tanto tempo. Le toglie ciò che lei non
vuole più e le regala il soprannome Kiki, tenero diminutivo di Alice in
greco.3
Mendjizky è il primo uomo della sua vita. Posa per lui prima che per quelli
che diventeranno i suoi amici migliori: Kisling e Foujita.
La prima volta che va dal giapponese, lui abita ancora nell’atelier di rue
Delambre. Quando entra, Kiki porta un cappotto e un abito rosso, è a piedi
nudi.
«Spogliati», ordina il pittore.
Kiki si toglie il cappotto, sotto non ha niente: l’illusione dell’abito rosso è
dovuta a un quadratino di tessuto tenuto con gli spilli alla scollatura del
mantello. Foujita guarda la modella, affascinato dal pube imberbe. Si
avvicina per guardare meglio.
«Non ci sono i peli?».
«Crescono durante la posa».

297
Kiki prende una matita nera dal tavolo e si disegna una pelosità di
circostanza.
«Così va bene?».
«È divertente», assicura Foujita.
Kiki lo allontana dal cavalletto e prende il suo posto.
«Non muoverti».
La modella prende le matite, le succhia, le mordicchia, e disegna il ritratto
del pittore. Quando ha finito, dice: «I soldi per la posa, per favore».
Foujita, stupefatto, paga. Kiki prende il disegno.
«Arrivederci, signore!».
Va al Dôme, dove un collezionista americano compera il ritratto di Foujita.
Il giorno dopo, il pittore giapponese la ritrova alla Rotonde.
«Devi ritornare nel mio atelier, e lasciarti dipingere».
«D’accordo!», dice Kiki.
Foujita realizza una grande tela, Nu couché de Kiki. Non aveva mai fatto
quadri così grandi. Lo manda al Salon d’Automne. Tutta la stampa ne parla.
Il signor ministro si congratula. L’opera viene acquistata per 8000 franchi,
cosa insperata. Il pittore invita la modella a festeggiare l’avvenimento. Al
dessert, le offre qualche biglietto di banca. Kiki scompare. Quando, qualche
ora più tardi, ricompare nell’atelier della rue Delambre, indossa un abito, un
cappotto e un cappello nuovi, e scarpe brillanti come cristalli.
«Voglio dipingerti così!», grida Foujita.
«No», risponde Kiki, «ho appuntamento con un altro».
«Un pittore?».
«Kisling».
All’epoca, Montparnasse conta tre Kiki: Kiki van Dongen, Kiki Kisling e
Kiki Kiki.
Foujita non può che inchinarsi davanti alla forza dell’omonimia.

298
La morte a Montparnasse

Era un figlio delle stelle, e per lui la realtà non


esisteva.
Leopold Zborowsky

Kiki Kisling aspettava sempre Kiki a piè fermo.


Quando diceva le nove erano le nove. Per lui. Per lei, era quaranta minuti
dopo. La cosa dava luogo a dichiarazioni severe e sonore, di cui si lamentava
la signora Salomon, tanto delicata d’orecchie. I due Kiki si azzuffavano a
base di insulti, che tutte e due maneggiavano alla perfezione.
Ma si amavano teneramente. Quando Madame Kiki era triste, Monsieur
Kiki cercava di farla ridere. Cantava e ballava per lei, spingendola a seguirlo.
Facevano anche gare di rumori. Ma si zittivano quando arrivavano i vicini. A
volte era Zborowsky, a volte un voyeur venuto a lustrarsi gli occhi.
C’era anche Modigliani. Era tornato da Nizza nel maggio del 1919, e
Jeanne l’aveva raggiunto tre settimane più tardi. Nel novembre dell’anno
precedente, era nata una bambina, Jeanne. Avevano dovuto prendere una
balia perché, secondo la testimonianza della prima moglie di Blaise Cendrars,
né il padre, né la madre, né la nonna sapevano occuparsene.
Quando ritrova il padre di sua figlia a Parigi, Jeanne è di nuovo incinta. Il
7 luglio 1919, Modigliani si impegna per scritto a sposarla appena ricevuti i
documenti necessari alle pratiche amministrative. L’impegno era
controfirmato da Jeanne stessa, da Zborowsky e da Lunia Czechowska. Molti
anni dopo, Lunia confesserà alla figlia di Modigliani che spesso si era presa
cura di lei nell’appartamento degli Zbo, in rue Joseph-Bara.
Modigliani a volte suonava il campanello la notte, ubriaco fradicio, per avere notizie
della figlia. Lunia gli gridava dalla finestra di non fare rumore, lui taceva, si sedeva
un momento sui gradini, poi ricominciava.1

Beve sempre. Beve troppo. Non smette più di tossire. Scopre i testi di
Isidore Ducasse, alias conte de Lautréamont, che legge in compagnia di

299
André Breton su una panchina dell’avenue de l’Observatoire: il fondatore di
«Littérature» ha pubblicato le Poésies nel secondo numero della rivista, dopo
essere andato a copiarle alla Bibliothèque Nationale.
Modigliani riceve le modelle nell’atelier della rue de la Grande-Chaumière,
traccia un segno, ingoia una sorsata di rum, trascina i piedi su un pavimento
sporco di carbone. Quando esce, è per andare al caffè. Scambia bicchieri con
disegni, distribuisce i soldi raccolti ai più poveri, trangugia un sandwich,
tossisce, beve, segue una banda di amici, incespica sul sagrato della chiesa di
Alésia, cade e finisce per addormentarsi sotto la pioggia.
Cerca Zborowsky per chiedergli qualche soldo, dimenticando che
Zborowsky è a Londra per una mostra dedicata al suo cliente e amico.
Attraversa la Senna e sale a Montmartre, abbraccia Utrillo e Susanne Valadon,
canta per loro il Kaddish, ridiscende verso la riva sinistra, scrive
frettolosamente a sua madre su una delle cartoline già affrancate che lei gli ha
mandato. Sta male, ma nessuno lo sente mai lamentarsi per la tubercolosi che
lo consuma. Neanche Jeanne Hébuterne, la cui diafana fragilità lui protegge
con un silenzio assoluto. Da mesi Zbo tenta di persuaderlo a farsi ricoverare
in un sanatorio in Svizzera. Ogni volta, Amedeo risponde con le stesse
parole: «Smettila di farmi la morale».
Ma la morte è lì intorno e lui senza dubbio lo sa. Beve per allontanare la
sofferenza, il dolore, la miseria che lo assillano da tanto tempo. Fuori, la
guerra è finita da più di un anno. Dentro di lui, ha scavato le sue trincee e
prepara il terreno per l’assalto finale.
Una sera del gennaio del 1920, Amedeo lascia la Rotonde con gli amici.
Piove a dirotto. Sprofonda dalle parti della Tombe-Issoire, aspetta due ore al
freddo, riparte verso Denfert e si siede sotto il leone di Belfort. Tossisce. Ma
non ha più la forza di bere. Ritorna, traballando sull’asfalto, appoggiandosi ai
muri, fino alla rue della Grande-Chaumière. Sale la scala troppo ripida che
porta allo studio. Crolla sul letto, di fianco a Jeanne. Sputa sangue.
Il 22 gennaio, il pittore Ortiz de Zarate, che abita nella stessa casa, bussa
alla porta. Ritorna a Parigi dopo una settimana di assenza. Non ha notizie di
Modigliani. Né lui, né Zborowsky, anche lui a letto ammalato, né nessun
altro. Ortiz bussa, bussa e bussa di nuovo. Nessun rumore. Il cileno aspetta
qualche minuto, poi sfonda la porta.
Amedeo è sdraiato sul letto. Tra le braccia di Jeanne. Rantola adagio.
Chiama l’Italia: cara Italia. La stufa è spenta. Un velo di ghiaccio ricopre le
scatole di sardine buttate per terra, le bottiglie vuote, il silenzio lugubre
dell’alba.

300
Ortiz de Zarate scende i gradini quattro a quattro e chiama un medico, che
ordina di trasferire immediatamente il malato all’Ospedale della Carità, in rue
Jacob.
Due giorni dopo, il 24 gennaio 1920, il poeta è stroncato da una meningite
tubercolare. Sono le 20 e 45. La notizia fa il giro di Montmartre e di
Montparnasse. Gli amici arrivano da ogni parte. Si assiepano davanti
all’ospedale. Pittori, poeti, mercanti, modelle: sono tutti là, increduli,
inorriditi. Modigliani è morto. Modigliani è morto.
Dentro, in una sala dove c’è un catafalco, Kisling si sporge sul viso
dell’amico. Ha le mani bianche di gesso. Aiutato dal pittore svizzero Conrad
Moricand, prende l’impronta della maschera mortuaria. Questa si disfa,
staccando pezzi di carne. Chiamano Lipchitz in aiuto. Mette insieme i
frammenti e realizza la maschera in bronzo.
Il giorno dopo, molto presto, altri amici circondano un’ombra ieratica che
fende la folla, sui marciapiedi. È pallida, magra, minuscola. Si stringe il
ventre con le mani. Ha l’andatura ondulante delle donne incinte. Jeanne
Hébuterne. Non ha dormito in rue de la Grande-Chaumière, ma all’albergo.
Quando è andata via, la donna delle pulizie ha trovato un pugnale sotto il
cuscino.
La conducono, corridoio per corridoio, fino all’obitorio. Vuole che la
lascino sola. Resta lì a lungo. Si taglia una ciocca di capelli e la depone sul
petto del padre dei suoi due figli. Poi se ne va. Nessuno riesce a convincerla
a entrare in clinica dove le hanno prenotato una stanza. Ritorna dai genitori,
in rue Amyot. Vi passa la sera. L’inizio della notte. Alle tre del mattino, si
alza, attraversa l’appartamento, raggiunge il salotto, apre la finestra, scavalca
la balaustra e si butta nel vuoto.
Cinque piani.
L’indomani, un muratore scopre il suo corpo sgangherato. La prende tra le
braccia e sale. Non si sa se ad aprire è il padre o il fratello. Non si sa perché
chi apre chiede all’uomo di portare il corpo fino in rue de la Grande-
Chaumière, numero 8. Si può solo immaginare l’orrore, l’indicibile – il
terrore dei due uomini uno di fronte all’altro.
Il muratore ridiscende. Depone il corpo sulla sua carriola. La spinge. Rue
Lhomond, rue Claude-Bernard, rue des Feullantines, rue du Val-de-Grâce,
boulevard de Montparnasse, rue de la Grande-Chaumière. Al numero 8, la
portinaia non lo fa passare. Occorre un documento della polizia. L’uomo
riprende la carriola, con dentro il cadavere. Va al commissariato della rue
Delambre. O a quello della rue Campagne-Première. Ottiene il documento.

301
Attraversa di nuovo boulevard Montparnasse, fino alla rue de la Grande-
Chaumière.
Gli amici sono stati avvertiti. Jeanne Léger stende il corpo su un drappo
russo offerto da Maria Vassiliev. Arriva Salmon. Poi Kisling, poi Carco. Tutta
Montmartre, Tutta Montparnasse. Il giorno dopo, Jeanne resta sola. C’è il
funerale di Modigliani. È Kisling che ha pagato le esequie e avvisato la
famiglia. Emanuele, fratello di Amedeo, deputato socialista, ha scritto:
«Sotterratelo come un principe».
Sarà così, e anche meglio. I pittori, i poeti, le modelle hanno fatto una
colletta per i fiori. I pittori hanno riunito i loro quadri: li venderanno per
aiutare la piccola Jeanne Modigliani, orfana di padre e di madre, di cui si
occuperà la famiglia paterna. Tutti pensano a questa bambina che non è lì
mentre una folla enorme, fitta e silenziosa, accompagna suo padre nell’ultimo
viaggio.
Agli incroci, gli agenti si irrigidiscono sull’attenti quando passano i carri, i
fiori e le corone. I mercanti cominciano a fiutare l’affare. Cercano, in questa
folla tristemente riunita, quelli che possiedono le opere di Modigliani. Uno di
loro si avvicina a Francis Carco, che cammina con gli altri e gli propone di
comperare i suoi Modigliani. La fortuna bussa alla porta, ma è la porta di una
tomba.
Modigliani è sepolto al Père-Lachaise. Jeannne Hébuterne la porteranno
invece a Bagneux.
Sarà per il giorno dopo. Presto, alle otto, per evitare la gente e la
confusione. Un carro funebre miserando davanti alla rue de la Grande-
Chaumière. Una bara stretta, la famiglia l’accompagna in fretta, furtiva, prima
che la voce si propaghi.
Ma la voce si è già propagata. In fondo alla rue de la Grande-Chaumière ci
sono due taxi e un’auto privata. Salmon, Zborowsky, Kisling, le mogli e tanti
fiori bianchi.
Dieci anni dopo, la famiglia Modigliani otterrà dalla famiglia Hébuterne
che Jeanne si riunisca a Amedeo, al Père-Lachaise. A quel punto Modigliani
non era più un artista ebreo maledetto e sconosciuto.
Al Père-Lachaise riposava già un altro caro scomparso, il pittore di parole
che tante volte aveva offerto la sua penna al poeta delle forme e dei colori:
Guillaume Apollinaire.
Montparnasse senza Guillaume, Montparnasse senza Amedeo... Non era
finita solo la guerra. Era finita anche una gioventù. E una storia.

302
Pugilato a Drouot

Vorrei vivere da povero, con molti soldi.


Pablo Picasso

C’era stata la Montmartre del Chat Noir, di Toulouse-Lautrec, di Depaquit,


Poulbot, Valadon e Utrillo; la Butte del Bateau-Lavoir, le tute blu, gli scherzi
insolenti e le feste del Lapin Agile. Si traversava la Senna per andare a
stringere la mano dei poeti, Alfred Jarry, Paul Fort e Blaise Cendrars. La
guerra aveva disperso i gruppi come l’esplosione di una bomba.
Montparnasse aveva conosciuto la durezza dei tempi di guerra, le feste
clandestine, gli incontri alle pacifiche esposizioni. E stava per raccogliere ciò
che Montmartre aveva seminato. La vita si era fatta più gioiosa. L’armistizio
era stato firmato, ci si preparava a dimenticare la guerra. La morte di
Modigliani era stata l’ultima tragedia di quei tempi. Si stava mutando pelle, a
Montparnasse. Il passato si faceva ricordo. Stavano arrivando i surrealisti.
Come tanti altri, pittori e poeti scendevano dalle carrozze a cavalli per salire
su automobili scoppiettanti che puntavano dritto verso l’avvenire.
Quelli del Bateau-Lavoir, i fauves, i cubisti, erano stati come pionieri. Ma
Picasso aveva disertato. Max Jacob stava per ritirarsi sulle rive della Loira.
Van Dongen portava giacche di daino e camicie bianche immacolate che gli
andavano come fazzoletti di seta. Recitava la parte dell’uomo di mondo sulle
spiagge di Deauville, dava il braccio a contesse e marchese che si
precipitavano poi nell’atelier dell’artista, a Denfert-Rochereau, per posare
con tutti i loro gioielli o per incanaglirsi la notte nelle feste stravaganti
generosamente prodigate dall’olandese.
Derain si apprestava a comprarsi una reputazione sportiva con la sua
collezione di Bugatti, ad ammobiliare un hôtel particulier in rue du Douanier
Rousseau, un appartamento in rue d’Assas, un altro in rue de Varennes e un
castello a Chambourcy. I due grandi fauves di Chatou non si sarebbero più
visti fino a quando l’ambasciatore Abetz non ebbe l’infelice idea di riunirli
per un sinistro viaggio nella Germania nazista.
Alla Tourillière, tra Beauce e Perche, Vlaminck stava in agguato dei suoi

303
nemici (ne aveva molti), il fucile a pallettoni in mano. Vestito di tweed, lo
sguardo perduto sulle sue proprietà, insultava Picasso, Derain, Kisling e
mezza umanità. Quando la rabbia si faceva insostenibile, saltava sulla sua
Chenard e si sfogava sulle strade di campagna, facendo scappare le galline.
Juan Gris manteneva le distanze, come aveva sempre fatto. Andava spesso
al sud, per curarsi delle crisi di asma che i medici pensavano fossero un
sintomo della tubercolosi, e che forse lo erano, e che però si erano rivelate
meno micidiali della leucemia che se lo sarebbe portato via nel 1927.
Braque, vicino di Derain in rue du Douanier Rousseau (si era fatto
costruire una casa dall’architetto Perret), non frequentava più Picasso. Non
frequentava più nessuno.
Erano passati quindici anni dai tempi dello Zut e dell’Austin Fox. Nei
salvadanai tintinnavano monete d’oro. Tuttavia, al di là delle case, delle
proprietà, delle splendide automobili, il danaro non sarebbe riuscito a
cambiare la testa di quella gente. Forse erano diventati borghesi. Ma non
piccoli borghesi, mai. Daniel-Henry Kahnweiler, che li aveva conosciuti tutti
agli inizi e che in seguito aveva frequentato molti di loro, lo ha detto e
ripetuto:
Nessuno di loro, nemmeno Derain e soprattutto Picasso, ha cambiato profondamente
genere di vita (...) Quello che si sa della vita, non della vita privata ma della vita
domestica di questi pittori, è che in fondo hanno pochissimi bisogni. Non si sono
imborghesiti sul piano della vita quotidiana.

Ma non si vogliono più bene e non cercano occasioni per incontrarsi. Un


avvenimento sta tuttavia per riunirli: la vendita della collezione di quadri di
Kahnweiler, mercante riconosciuto dei cubisti prima del 1914.
I suoi beni, così come quelli di Uhde e di altri cittadini tedeschi residenti in
Francia, erano stati messi sotto sequestro per i cinque anni della guerra.
Firmato il Trattato di Versailles, con la Germania che recalcitrava all’idea di
pagare i danni di guerra, si parlava di indennizzare i creditori vendendo le
proprietà confiscate al nemico. Per quanto riguardava la pittura, alcuni erano
contrari (Kahnweiler, evidentemente), altri favorevoli, Léonce Rosenberg in
testa. Quest’ultimo faceva un calcolo che era allo stesso tempo giusto e
sbagliato. Primo, pensava di preservare la propria posizione di primo
difensore dei cubisti impedendo ai mercanti tedeschi di recuperare le
centinaia di quadri che componevano il suo magazzino – cosa che, a parte
ogni considerazione morale, stava in piedi. Secondo, pensava che i prezzi
delle tele cubiste sarebbero andati alle stelle – cosa che non si verificò,

304
perché il mercato si era rapidamente saturato con la vendita di quasi
ottocento quadri.
Léonce Rosenberg era spalleggiato da tutti coloro che, una quindicina di
anni dopo il rifiuto all’esposizione di Braque al Salon des Indépendants del
1908, pensavano, speravano, sognavano che quest’ultimo colpo inferto al
cubismo l’avrebbe fatto fuori definitivamente. Quando la speranza dà la
mano all’imbecillità, e il braccio all’oscurantismo...
Kahnweiler rientra a Parigi nel febbraio del 1920 (un mese dopo la morte
di Modigliani). Si associa a un amico d’infanzia, cosa che gli permette di
aggirare il problema della nazionalità e di aprire la galleria Simon in rue
d’Astorg. Aperta la galleria, deve affrontare un doppio impegno: riprendere i
rapporti con i pittori che si erano staccati da lui durante la guerra e
allontanare la minaccia di vendita delle opere sequestrate.
Aveva perso Picasso, e non lo avrebbe ritrovato molto presto. Gli ostacoli
erano due. Lo spagnolo rimproverava al tedesco di non essersi fatto
naturalizzare, come gli aveva consigliato – il che avrebbe evitato quel
sequestro, dannoso per l’artista, e poi il mercante doveva al pittore ventimila
franchi, una somma che non aveva a disposizione.
I due dovevano rivedersi solo dopo il pagamento del debito, verso il 1925.
Comunque, Picasso non avrebbe lasciato Paul Rosenberg, succeduto al
fratello Léonce.
Gli altri pittori, Gris per primo, si mostrarono fedeli. Alcuni lo furono solo
per qualche anno: Vlaminck, Derain, Braque e Léger finirono per passare
dalla parte di Rosenberg.
Kahnweiler non poté impedire la vendita delle opere confiscate dallo stato
francese. Né lui né nessuno dei suoi amici. Era riuscito solo a ricomprare
sotto mano i quadri ai quali era più legato (tra questi, nessuno era firmato da
Picasso: la lite continuava). Dato che la sua nazionalità gli impediva di agire a
viso scoperto, aveva fondato un sindacato con alcuni amici e con alcuni
membri della sua famiglia che agivano per conto suo.
A Drouot, tra il 21 e il 23, ebbero dunque luogo le cinque vendite della
collezione acquistata prima della guerra da Daniel-Henry Kahnweiler (quattro
relative alla galleria, una comprendente opere di proprietà personale). Era
stato un disastro. Sotto tutti i punti di vista. Robert Desnos, che aveva
comperato un disegno a carboncino presentato come un’opera di Braque
mentre si trattava di un Picasso, era scandalizzato:
I quadri erano impilati senz’ordine, alcuni disegni arrotolati erano piegati nei

305
cartoni, altri, in rotoli, erano nascosti accuratamente perché non li si potesse vedere;
altri ancora, chiusi nei cesti o nascosti dietro alla pedana. Il tutto in una sporcizia e
in un disordine indescrivibili che giustificherebbero le peggiori rappresaglie da parte
dei pittori in causa: i signori Braque, Derain, Vlaminck, Gris, Léger, Manolo,
Picasso. L’allestimento, specialmente, testimoniava di una incompetenza o di un
servilismo commerciale degne di ogni ingiuria.1

In occasione della prima vendita, il 13 giugno 1921, Braque apre il fuoco.


Secondo Gertrude Stein era stato più o meno incaricato dai suoi colleghi per
attaccare Léonce Rosenberg, promosso esperto. Non potevano andare né Gris
né Picasso, spagnoli, né Marie Laurencin, diventata tedesca con il
matrimonio, né lo scultore Libchitz, russo. Vlaminck non aveva le qualità
richieste, dato che aveva fatto la guerra nelle retrovie. Avrebbero potuto
mandare Derain o Léger. Ma toccò a Braque, ufficiale francese, decorato con
la Croce di Guerra e con la Legion d’Onore e, oltre a tutto, gravemente ferito
al fronte.
Braque se la cavò coraggiosamente. Attaccò duramente Léonce Rosenberg,
accusandolo di tradire i cubisti, di essere un mascalzone e per di più anche un
vigliacco. L’altro aveva risposto al suo aggressore dando al suo aggressore
del «porco normanno», dopo di che era finito al tappeto, e poi al posto di
polizia, dove i due contendenti erano stati portati dagli agenti intervenuti per
mettere fine al pugilato. Matisse, arrivato nel frattempo, aveva preso le difese
del delegato dei pittori cubisti dopo che Gertrude Stein gli aveva spiegato di
che cosa si trattava: «Braque ha ragione, quest’uomo ha derubato la
Francia!».2
Curate, ma non cicatrizzate le ferite, il banditore d’asta si era trovato di
fronte ai mercanti: Bernheim giovane, Durand-Ruel, Paul Guillaume,
Leopold Zborowsky e numerosi stranieri. C’erano anche banchieri, pittori,
mecenati e scrittori. Senza dimenticare i conservatori dei musei francesi, che
però alzarono così raramente la mano che la maggior parte delle opere
d’avanguardia sfuggiranno loro.
Un bilancio molto triste.
I mercanti avevano comperato poco. Léonce Rosenberg perché non aveva
più soldi, il fratello Paolo perché pensava di aver comperato abbastanza
Picasso a partire dagli anni di guerra, gli stranieri perché, al di fuori di
Picasso e di Derain, non conoscevano gli artisti le cui tele si stavano
svendendo. Non ci fu alcun rialzo clamoroso nelle quotazioni dei pittori.
Il sindacato di Kahnweiler poté aggiudicarsi la maggior parte dei quadri di

306
Gris e di Braque. Tra i più venduti, Derain seguito da Vlaminck. Giorno dopo
giorno, seduta dopo seduta, il calcolo di Léonce Rosenberg si era rivelato
sbagliato: i prezzi precipitavano. Il mercato non era in grado di assorbire la
totalità delle opere. Quelli che ne appofittarono non furono quindi i
professionisti dell’arte, ma intenditori intelligenti che spesso agivano per
conto di altri. Come il pittore svizzero Charles-Edouard Janneret, che non si
chiamava ancora le Corbusier, e che comperò numerosi Picasso per conto di
un banchiere svizzero, Raoul La Roche. Come Louis Aragon che, per 240
franchi, prese per sé La Baigneuse, di Braque. Come Tristan Tzara e Paul
Eluard. Ma soprattutto André Breton che acquistò opere di Léger, Picasso,
Vlaminck, Braque e Van Dongen.
I poeti erano quindi presenti, ma non erano più gli stessi. Quelli di prima
della guerra erano spariti o si erano appartati. Il loro posto sarebbe stato
occupato da altri. E questi nuovi poeti avrebbero comperato le opere dei
pittori del Bateau-Lavoir, diventando gli intermediari tra le ex tute blu e i
nuovi mecenati. Occupando il terreno lasciato dagli scrittori di ieri, avrebbero
contribuito a cambiare il volto di Montparnasse. C’erano i surrealisti, a
Drouot, all’inizio degli anni Venti. Ormai il gioco era passato nelle loro mani.

307
Scene surrealiste

È in questo periodo che André Breton e io


scoprimmo quel procedimento (in quel momento lo
vedevamo solo come un procedimento) a cui, in
memoria di Guillaume Apollinaire, demmo il nome
di «surrealismi».
Philippe Soupault

Nel 1919 André Breton ha ricevuto, nella stanza miserabile che occupa
all’Hôtel des Grands Hommes, in place du Panthéon, la visita dei suoi
genitori che vengono a ordinargli di smettere di fare il dada in compagnia di
clown poco raccomandabili. Se non avesse ripreso gli studi di medicina, gli
avrebbero tagliato i viveri.
Cosa che viene fatta. Dal Val-de-Grâce Breton è passato in rue Sébastien-
Bottin, dove le edizioni Gallimard hanno impiegato il giovanotto a compiti
adatti all’età: spedizione della «Nouvelle Revue Française» agli abbonati;
correzione delle bozze del libro di Marcel Proust, Le Côté de Guermantes.
Ma è di questi anni la sua grande opera, Champs magnétiques, con Philippe
Soupault.
Nel 1919, la mia attenzione si era fissata sulle frasi più o meno incomplete che, in
piena solitudine, all’avvicinarsi del sonno, diventano percettibili alla mente senza
che sia possibile scoprirne una preliminare determinazione. Queste frasi,
notevolmente immaginose e di una sintassi del tutto corretta, mi erano apparse come
elementi poetici di prim’ordine.1

Ogni mattina, per quindici giorni, Breton e Soupault scrivono al caffè La


Source, in boulevard Saint-Michel, e all’Hôtel des Grands Hommes.
Rispettando il principio che nega la logica a profitto delle immagini e, di
consequenza, spezza la censura per liberare l’ispirazione, i due modificano la
velocità della scrittura secondo i giorni, vietandosi di distruggere e di
correggere, lavorando sia separatamente sia insieme, a volte uno dopo l’altro
(secondo il procedimento che diventerà la regola dei cadavres esquis),

308
fermandosi alla fine della giornata e ricominciando il giorno dopo. Così
scrivono quest’opera fondata su una rivelazione che aveva turbato Breton e
che costituisce la chiave di volta del movimento, sogni, sonno ipnotico,
medium, scrittura automatica.
Secondo gli autori, Les Champs magnétiques devono costituire l’atto di
nascita del surrealismo, in un’epoca in cui il surrealismo non si chiama
ancora così. Perché tutto è ancora Dada.
Dada, scandali.
Le cose sono incominciate nel gennaio del 1920, solo qualche giorno dopo
l’arrivo di Tzara a Parigi. La squadra di «Littérature», con in testa Breton e
Aragon, ha fatto una lettura di poesie al Palais des Fêtes, in rue Saint-Denis.
Il pubblico, che si aspettava una conferenza di André Salmon sulla crisi dei
cambi (come era stato annunciato sui manifesti e sui giornali), ha scoperto un
branco di pazzoidi che declamavano versi di Soupault, di Tzara, di Albert-
Birot e di qualche altro. Versi che con La Crise du change non avevano a che
vedere più di quanto ne avessero le opere di Picabia esposte davanti a una
platea di curiosi, il cui numero si era rarefatto con il passare dei minuti.
Alcuni giorni dopo, i futuri surrealisti organizzano la seconda
manifestazione pubblica di Dada, al Grand Palais, il 5 febbraio 1920.
La domanda posta era semplice: come attirare il pubblico? Niente di più
semplice: diffondendo un comunicato stampa in cui si annuncia che Charlie
Chaplin è a Parigi, e che avrebbe incontrato al Grand Palais i suoi amici
dadaisti – i suoi complici anzi, dato che, proprio come Gabriele D’Annunzio,
Henry Bergson e il principe di Monaco, Charlot ha aderito al movimento.
Charlie Chaplin non c’è, e nemmeno Bergson o D’Annunzio: ma Tzara,
Breton e Aragon leggono i loro manifesti davanti a una sala stracolma. Le
spiegazioni con l’uditorio sono severe e animate.
Il 27 marzo 1920 nuova provocazione, questa volta alla Maison de
l’Oeuvre dove, venticinque anni prima, Ubu Roi aveva già fatto scandalo.
Con il pretesto di smontare l’assurdità delle regole del teatro classico, gli
«attori» si sono scatenati. Ribemont-Dessaignes ha rotto i timpani dei presenti
facendo suonare Le Pas de la chicorée frisée, opera pianistica composta a
partire da note poste sul pentagramma del tutto a caso.
André Breton, protetto da una corazza di cartone ornata di un bersaglio,
aveva letto Le Manifeste cannibale di Francis Picabia, che termina con
queste parole:
Dada, lui, non sente niente, non è niente, niente, niente

309
È come le vostre speranze: niente.
Come i vostri paradisi: niente.
Come i vostri idoli: niente.
Come i vostri uomini politici: niente.
Come i vostri eroi: niente.
Come i vostri artisti: niente.2

Il 26 maggio 1920 alla Salle Gaveau ha luogo il festival Dada. La stampa e


gli uomini-sandwich per le strade della capitale hanno dato ampio rilievo al
pezzo forte: tutti i Dada si faranno rapare a zero pubblicamente. Lo spettacolo
si darà sia sulla scena (grazie ai signori Aragon, Breton, Eluard, Fraenkel,
Ribemont-Dessaignes, Soupault, Tzara...) sia in platea, che si spera affollata e
vendicativa.
Tzara apre lo spettacolo esibendo Le Sexe de Dada, enorme fallo di
cartone montato su palloni. Poi «il celebre illusionista» Philippe Soupault si
presenta, pitturato di nero, in vestaglia, armato di un coltellaccio; libera
cinque palloni su cui sono scritti i nomi di coloro che vanno fatti scoppiare:
un papa (Benedetto XV), un soldato (Pétain), un uomo di Stato
(Clemenceau), una donna di lettere (M.me Rachilde), un Cocteau – che
muore per primo, bucato dalla lama del poeta surrealista.
In sala, il tumulto. Se Gide, Dorgelès, Jules Romains, Brancusi, Léger,
Metzinger, non muovono un dito, gli altri si agitano: pomodori, carote, rape,
arance volano in scena dove Ribemont-Dessaignes, travestito da imbuto, è il
primo a essere preso di mira. Qui si canta la Madelon, là si tenta di intonare
una vendicatrice Marsigliese. Picabia viene sfidato da uno spettatore che gli
intima di venire a spiegarsi al tiro a segno. Più lontano, un giovane tarchiato
si alza e urla: «Evviva la Francia e le patate fritte!».
È Benjamin Péret, che tra non molto salirà sulla scena del surrealismo.
Dadaismo o surrealismo? Per il momento, è l’uno e l’altro, o uno dentro
l’altro, senza che nessuno ancora lo sappia. Ma Breton non ne può più. Tzara
lo ha deluso. Rispetta il poeta, ma non l’agitatore. Ciò che andava bene a
Zurigo non va necessariamente bene a Parigi. Non basta gridare. Ci vuole
l’azione. Meno sterilità, più efficacia. Dada è libertario, e Breton ne conviene:
«Dada è uno stato della mente (...) Dada, è il libero pensiero artistico».3 Ma
se il cuore di Tzara è libertario, quello di Breton batte per Lenin. E questo
vuol già dire, per quanto riguarda le questioni di metodo, dalla parte di
Stalin.
Il 13 maggio 1921, a partire dalle ore 20 e 30, nella Salle des Sociétés

310
Savantes, in rue Danton, si apre il «processo a Barrès». Si tratta di una
messinscena, di una messa sotto accusa e di una messa in giudizio dello
scrittore Maurice Barrès. Da parte di chi? Ufficialmente del gruppo Dada; in
realtà, di André Breton. Perché? Perché Barrès rappresenta ciò che il gruppo
di «Littérature» (così come una certa sinistra e molti intellettuali di ogni tipo)
detesta maggiormente: il patriottismo, il nazionalismo, il conservatorismo.
Tristan Tzara è contrario a questo processo. Pensa che Dada non sia
abilitato a giudicare nessuno. È esattamente questa l’opinione che gli
rimprovera Breton, e per contrastarla ci mette tutta la sua energia perché il
processo abbia luogo. Si tratta di giudicare tanto Barrès che Tzara. L’atto di
accusa esprime, a questo riguardo, il doppio senso dato all’affaire dallo
stesso Breton:
Dada, giudicando che sia arrivato il momento di mettere al servizio del suo spirito
negatore un potere esecutivo e avendo deciso di usare questo potere prima di tutto
contro coloro che rischiano di ostacolare la sua dittatura, prende da oggi misure atte
ad abbattere la loro resistenza.

Dunque, la resistenza di Maurice Barrès, accusato di «crimini contro la


sicurezza dello spirito».
Il tribunale è composto da un presidente, André Breton, e da due giudici:
Pierre Deval e Théodore Fraenckel. Per l’accusa: Georges Ribemont-
Dessaignes. Per la difesa: Louis Aragon e Philippe Soupault.
Numerosi i testimoni: dadaisti e personalità cooptate per incerte ragioni:
Benjamin Péret, Drieu la Rochelle, Tristan Tzara (suo malgrado), Rachilde, il
poeta simbolista Louis de Gonzague-Frick…
L’accusato non compare. Invitato a presentarsi davanti alla corte, lascia
precipitosamente Parigi. Al suo posto mettono un manichino di stoffa che
troneggia sotto uno striscione su cui è scritto: «A nessuno è concesso
ignorare Dada». Giudici e avvocati indossano il berretto e la vestaglia bianca
degli studenti di medicina.
Breton legge l’atto d’accusa, che lui stesso ha redatto. La requisitoria si
rivela piuttosto morbida, volta a consacrare Dada piuttosto che a condannare
Barrès. (Ribemont-Dessaignes fa la sua parte a malincuore; l’arringa insiste
sui punti voluti dal Presidente. Quanto ai testimoni... testimoniano. Il «milite
ignoto» viene chiamato alla sbarra. Infagottato in un’uniforme militare, ha la
maschera antigas e marcia al passo dell’oca. La sua irruzione sulla scena
provoca i soliti fischi, la solita Marsigliese e la solita fuga di Picabia a cui le
risse non piacciono affatto.

311
Benjamin Péret, che ha recitato bene la sua parte, rientra dietro le quinte e
toglie la maschera antigas. Tristan Tzara prende il suo posto. È il testimone
più atteso. Eccolo di fronte a Breton. Tra i due uomini è in gioco ben più di
una parodia di processo: è Zurigo contro Parigi, il passato di fronte
all’avvenire, Dada e il surrealismo.
Tzara lancia i dadi:
Non ho alcuna fiducia nella giustizia, anche se è la giustizia di Dada. Converrà con
me, signor presidente, che noi siamo tutti una banda di buffoni e che dunque le
piccole differenze tra grandi e piccoli buffoni non hanno alcuna importanza (...).

BRETON: Sa perché le abbiamo chiesto di testimoniare?


TZARA: Naturalmente: perché sono Tristan Tzara. Anche se non ne sono del tutto
sicuro.
SOUPAULT: La difesa, persuasa che il testimone voglia prendere il posto
dell’accusato, chiede se il testimone osi confessarlo.
TZARA: Il testimone dice merda alla difesa.
BRETON: Dopo Maurice Barrès potreste citare qualche altro gran porco?
TZARA: Sì, André Breton, Théodore Fraenkel, Pierre Deval, Georges Ribemont
Dessaignes, Louis Aragon, Philippe Soupault, Jacques Rigaut, Pierre Drieu la
Rochelle, Benjamin Péret, Serge Charchoune.
BRETON: Il testimone vuole forse insinuare che Maurice Barrès gli è altrettanto
simpatico dei porci che sono suoi amici e che ha appena finito di enumerare? (...)
Forse il testimone vuole farsi passare per un perfetto imbecille o cerca di farsi
internare?
TZARA: Sì, ci tengo a passare per un imbecille, ma non cerco di fuggire dal
manicomio in cui passo la vita.
André Breton sperava probabilmente che Maurice Barrès sarebbe stato
condannato alla pena capitale. La giuria, composta da dodici spettatori,
decide altrimenti: lo scrittore si becca vent’anni di lavori forzati. Dopo il
verdetto, Breton prepara la seconda manche.
Un anno dopo il processo Barrès, mentre Picabia ha preso le distanze sia
dal gruppo di «Littérature» sia dagli amici di Tzara, Breton convoca un
Congresso Internazionale per la Determinazione delle Direttive e la Difesa
dello Spirito Moderno. Questo congresso deve riunire i direttori delle
principali riviste del momento e qualche artista indipendente: Paulhan
(«Nouvelle Revue Française»), Ozenfant («L’Esprit Nouveau»), Vitrac
(«Aventure»), Breton («Littérature»), Auric, Delaunay, Léger.
Giudicando che le modalità di un tale congresso (chiamato Congresso di
Parigi) non corrispondano allo spirito di libertà proprio dei dadaisti, alla fine

312
Tzara rifiuta di parteciparvi. Breton allora fa una mossa sbagliata, come più
tardi ammetterà lui stesso: sostenendo che Tzara fa dell’ostruzionismo
sistematico al suo progetto, pubblica un comunicato stampa firmato dai
membri del comitato del Congresso (manca solo Paulhan) nel quale Tzara è
vilipeso come «il promotore di un movimento» venuto da Zurigo (è inutile
designarlo altrimenti) e che «non corrisponde più oggi a nessuna realtà».4 A
scanso di ogni fraintendimento, il comitato accusa Tzara di essere «un
impostore avido di pubblicità».
È molto. È troppo. In risposta alle affermazioni xenofobe di Breton, Tzara,
assistito da Eluard, da Ribemont-Dessaignes, e da Erik Satie, indice, alla
Closerie des Lilas, una riunione di tutto il movimento, dei suoi simpatizzanti
e degli artisti convocati al Congresso di Parigi. Breton si presenta. Man Ray,
Zadkine, Eluard, Metzinger, Roch Grey, Survage, Zborowsky, Charchoune,
Brancusi, Férat e molti altri hanno risposto all’appello di Tzara. Breton viene
condannato dalla maggioranza dei presenti per la disonestà del suo modo di
procedere: non è solo l’unico promotore di un comunicato presentato come
collettivo, ma oltre a questo ha attaccato una personalità allo scopo di
nuocerle. Gli artisti gli ritirano la fiducia accordatagli per organizzare il
Congresso di Parigi, che naufraga.
Breton si vendica. Dopo qualche giorno, «Comoedia» pubblica un testo
nel quale accusa Tristan Tzara di essersi attribuito l’invenzione della parola
«dada», di aver contato poco nella redazione del Manifeste Dada 1918, di
godere di un’influenza poco determinante poiché prima di lui c’erano stati
Vaché, Duchamp, Picabia…
Infine Breton, dopo questi colpi bassi, tenta di rimettere insieme il gruppo
di «Littérature». La rivista, fondata nel 1919, ha accolto i sopravvissuti del
simbolismo (Gide, Valéry, Fargue secondo Breton), i poeti amici di
Apollinaire (Salmon, Jacob, Reverdy e Cendrars), Morand, Giraudoux, Drieu
La Rochelle. Poi sono venuti Vaché, Eluard, Tzara, che hanno eclissato
Valéry e Gide: Reverdy ha preso le distanze, troppo cattolico per credere al
surrealismo.
Dopo l’insuccesso del Congresso di Parigi, la rivista diventa il braccio
armato del movimento. Breton abbandona temporaneamente le scaramucce
contro Dada. Fa pulizia da quella parte e piazza le sue truppe in ordine di
battaglia: Aragon, Péret, Limbour, Vitrac. A questi aggiunge una nuova
recluta che piazza subito all’avanguardia del suo esercito: Robert Desnos.

313
Il dormiente risvegliato

Surrealismo, n.m. Automatismo psichico puro


mediante il quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente sia per iscritto che con ogni altro
mezzo, l’effettivo funzionamento del pensiero.
Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo
esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni
preoccupazione estetica o morale.
André Breton

Quando Desnos viene congedato, ha ventidue anni. Breton ventisei. Breton


è colpito dalla «grande forza di resistenza e di attacco» del giovane.1 In
effetti, Desnos è un fenomeno. Piccolo, bruno, ciuffo sugli occhi, gli occhi
viola color ostrica cerchiati di bistro, vestito da menefreghista. Appassionato,
impetuoso, pronto ad amare follemente o a odiare, nemico di ogni
compromesso. Amico degli anarchici della Banda Bonnot. Sempre in
guardia. Poiché non sa fare a pugni, un amico gli ha dato qualche lezione di
boxe. Questo non gli impedisce di collezionare lividi e sbucciature: quando
arrivano gli imbecilli, è il primo a buttarsi nella mischia.
È altrettanto prodigo di pugni che di audace nella scrittura. Desnos è il
mago degli acrostici, degli anagrammi, dei bisticci di parole, delle invenzioni
sillabiche di ogni genere. La libertà che manifesta in questo campo,
rompendo la logica e le costrizioni grammaticali, si accorda con ciò che sta a
cuore ai surrealisti. Breton non si sbaglia.

Sui giornali scrive di tutto, ma con un talento straordinario. Ha


incominciato traducendo prospetti pubblicitari in lingue di cui non conosce
una parola. Ha continuato con articoli sulla filossera, la navigazione a vela, la
coltura della patata dolce, i cani vittime di incidenti, i reportage falsi e falsità
di ogni tipo.
È amico di Eugène Merle, un furbacchione, cuor d’oro, fondatore di
«Paris-Soir» (che Jean Prouvost ricomprerà nel 1930) e del «Merle Blanc»,

314
«il giornale che fischia e irride ogni sabato», dal 1919. Ottocentomila
esemplari di scherzi, pettegolezzi, unghiate in salsa nera di allegri anarchici.
Quando, un giorno del 1927, Eugène Merle vuole lanciare un nuovo
quotidiano, «Paris-Matin», chiamerà alla riscossa uno dei redattori più
prolissi del «Merle Blanc», un giovanotto di ventiquattro anni che ha più di
una corda letteraria al suo arco: Georges Simenon. Insieme, sotto l’occhio
complice e divertito di Desnos, i due montano una beffa a scoppio ritardato.
Firmano un contratto secondo il quale lo scrittore si impegna a scrivere in tre
giorni e tre notti un romanzo che «Paris-Matin» avrebbe pubblicato una
puntata dopo l’altra. Per eliminare ogni sospetto, Simenon si impegna a
raccontare una storia scelta dal pubblico. E il pubblico sarà messo in grado di
assistere alla nascita dell’opera. Perché non si tratta di chiudersi in una stanza
ma, al contrario, di esporsi alla vista del più grande numero di persone
possibile. Come? Scrivendo in una gabbia di vetro installata davanti al
Moulin Rouge.
La gabbia verrà fabbricata. Georges Simenon prenderà un acconto di
venticinquemila franchi sui centomila che gli toccheranno alla fine della
prova. Una prova passata alla posterità e salutata con tutti gli onori da mille
testimoni dell’epoca, ingannati da qualcuno più furbo di loro.2 Youky
Desnos descrive, André Warnod si complimenta, Florent Fel ammira, Louis-
Martin Chauffier delira e... e Merle si diverte: poiché non sono mai esistiti né
gabbia di vetro, né romanzo scritto in tre giorni, né pubblico affascinato.
Solo Simenon era vero. All’ultimo momento l’operazione era stata annullata.

Anche Robert Desnos gioca. I suoi giochi, tuttavia, non assomigliano a


quelli del suo padrone. Breton lo chiama il «dormiente sveglio», perché più
di qualsiasi altro Desnos cede alla tentazione dei grandi sonni surrealisti.
È René Crevel che, nel 1922, introduce il sonno ipnotico nella cerchia dei
surrealisti. L’anno prima una veggente si era felicitata per il suo talento
medianico.
Il sonno ipnotico, come tutti i fenomeni che derivano dal sogno o da
attività psichiche non controllate, è in sintonia assoluta con il surrealismo,
«che vuole soprattutto cancellare la frontiera tra sogno e realtà, incoscio e
conscio», e che «si costituisce come un fenomeno di frontiera, la messa in
relazione dell’inconscio che dà e la coscienza che riceve e mette a frutto».3
Presto vi si abbandonano tutti. È come una transe collettiva. Crevel vi si
immerge per primo. Si addormenta, le dita intrecciate con Max Morise,
Robert Desnos e André Breton, in una stanza in penombra e isolata dal

315
rumore e nel sonno declama, canta, sospira, racconta storie soporifere.
Quando si sveglia, non si ricorda di niente.
La volta dopo, è Desnos che ci prova. Completamente incosciente, gratta il
tavolo. Secondo Crevel, questo gesto indica un desiderio di scrittura. Si mette
un foglio davanti a Desnos, gli si infila una penna tra le dita. Miracolo!
Scrive. Crevel osserva. Lui, che Soupault ammirava per la rapidità con la
quale è in grado di scrivere un libro, quasi spinto da una forza straordinaria
(Aragon è senza dubbio il solo a testimoniare di una simile facilità di
scrittura), non crede alla scrittura automatica: i due termini gli sembrano
contraddittori. Non interviene.
Malgrado tutti i loro sforzi, Ernst, Eluard e Morise non riescono ad
addormentarsi. Soupault resta in disparte, e anche Aragon. Desnos, lui, non
fa che cadere nelle braccia di Morfeo. Parla, scrive, sogna. Si addormenta per
niente... spesso a casa di Breton. Una notte, non riuscendo a svegliare il
poeta, Breton va a cercare un medico che viene accolto con grida e insulti.
Un’altra volta, Desnos entra in comunicazione telepatica con Marcel
Duchamp che, da New York e con la mediazione di Rrose Sélavy, gli detta
alcune frasi. Del resto, gli renderà omaggio:

Rrose Sélavy conosce bene il mercante di sale.4

Rincara la dose con Crevel che, un giorno di sonno collettivo, propone ai


presenti di andare a impiccarsi all’attaccapanni. Desnos preferisce inseguire
Eluard in giardino, con in mano un coltello da cucina: ci vuole tutta la forza
di Breton per evitare un omicidio. E tutta la persuasione del capo per mettere
fine all’esperimento:
Negli anni, Robert Desnos si è abbandonato Corps et Biens (è il titolo di uno dei suoi
libri) all’automatismo surrealista. Ho tentato, da parte mia, di trattenerlo, appena mi
sono reso conto che la sua struttura psichica era sul punto di cedere. Sì, continuo a
credere che per questa strada, dopo un certo limite, c’è la minaccia della
disintegrazione.5

Certamente. Ma viene da chiedersi ancora: durante le sedute di spiritismo


che riunivano gli adepti del gesto e della parola automatici, Desnos faceva
finta di dormire?

Al risveglio, comunque, è piuttosto agile. Non solo con le parole, ma


anche con i pugni.

316
Dopo averlo introdotto nella squadra di «Littérature», Breton ne fa uno dei
perni delle future battaglie. Non ha dimenticato l’essenziale, il suo primo
obiettivo: Dada è sempre nel mirino. Ma prima dell’assalto finale, è meglio
allenarsi. Il fallimento del Congresso di Parigi risale al 22 aprile. Otto mesi
più tardi, le scaramucce riprendono.
L’11 dicembre, al Théâtre Antoine ci sono due opere in cartellone: Locus
Solus di Raymond Roussel e una commedia patriottica, La Guerre en
pantoufles.
È ancora con l’etichetta di Dada e non con quella del surrealismo che
Breton e i suoi vanno a sostenere Roussel. Aragon, Desnos, Breton, e
qualcun altro si sparpagliano nella sala. Per tutta la durata di Locus Solus
applaudono, si complimentano con l’autore a voce molto alta e intellegibile,
rispondendosi gli uni con gli altri sopra le invettive degli spettatori più
tranquilli. La Guerre en pantoufles li scatena.
«Viva la Germania!», grida Aragon.
«Abbasso la Francia!» replica Desnos.
«E allora?», chiede un attore, che continua a seguire il copione.
«Allora merda!», urla Breton da una balconata.
Un gran tumulto. Con grande soddisfazione di Raymond Roussel: «La cosa
ha fatto molto rumore e sono diventato celebre dall’oggi al domani (...)
Come risultato il titolo di una delle mie opere era diventato famoso».6
Al punto che scriverà due riviste teatrali andate in scena lo stesso anno:
Cocus Solus e Blocus Solus ou Les Bâtons dans les Ruhrs.
Diciotto mesi dopo, i surrealisti difendono L’étoile au front, dello stesso
Roussel. Lo scandalo è tale che bisogna calare il sipario al terzo atto. A uno
spettatore che gli urla furibondo, «Voi battete le mani a pagamento!», Robert
Desnos risponde: «Le batterò sulla vostra guancia!». Pam! Una sberla sonora
e ben aggiustata.
Il colpo seguente viene portato da André Breton al Théâtre Michel, in rue
des Mathurins, il 6 luglio 1923. Questa volta, è preso di mira Dada e
solamente Dada.
Quel giorno, Tzara ha raggruppato gli amici per uno spettacolo tranquillo
ma bizzarramente eterogeneo, La Soirée du coeur à Barbe, che propone al
pubblico opere di Stravinskij, del Groupe des Six, poesie di Cocteau,
Soupault, Eluard e Apollinaire, danze, film inediti (uno di Man Ray) e la
rappresentazione di Coeur à gaz, commedia in tre atti di Tristan Tzara.
Il problema è che né Soupault né Eluard sono stati consultati, e che
nessuno dei due può concepire che le proprie opere possano essere lette

317
insieme a quelle di Cocteau. Così sono presenti in sala, in compagnia dei
soliti rinforzi.
All’inizio, lo spettacolo si svolge senza scontri. Ma, dopo la parte musicale,
un giovane dadaista, Pierre de Massot, sale sulla scena e comincia a leggere
un testo che condanna, come «morti sul campo dell’onore», Gide, Picabia,
Duchamp e Picasso. Picasso assiste allo spettacolo. Anche Breton. Prendendo
le difese del pittore, si arrampica sulla scena. Desnos e Péret lo raggiungono.
Immobilizzano l’oratore. Breton alza il bastone e gli rompe il braccio. La sala
urla contro gli aggressori e si rivolta contro Breton. Tzara, che osserva da
lontano, chiama la polizia. Breton, Desnos e Péret vengono espulsi. Ritorna la
calma, ma non per molto. Il pezzo di Tzara è appena incominciato quando un
giovane, alto e biondo, molto distinto, dallo sguardo sognante, si alza,
interpella l’autore, esigendo una spiegazione: «Perché ha fatto cacciare fuori
Breton?».
Ma i poliziotti sono ancora in teatro. Si precipitano su Paul Eluard, subito
circondato dai suoi amici e protettori. Poeti e poliziotti vengono alle mani.
Tzara appare sulla scena. Subito, cambiando bersaglio, Eluard si butta su di
lui e lo schiaffeggia. Lo fa anche Crevel, che si è avvicinato. La rissa si
estende al pubblico, ai macchinisti. Prosegue all’esterno. Il giorno dopo, il
direttore del teatro rifiuta la sala per un’altra rappresentazione. L’arte, sì. La
boxe, no.
È solo molto tempo dopo che Breton perdonerà Tzara per avere chiesto
l’aiuto della polizia per buttarlo fuori dal Théâtre Michel. Dedicherà così Les
Pas perdus al padre di Dada: «A Tristan Tzara, al romanziere del 1924, al
truffatore, al vecchio pappagallo, all’informatore della polizia». Nei Pas
perdus è contenuto un testo, Lachez tout, che suona come un addio
definitivo a Dada:
Lasciate tutto.
Lasciate Dada.
Lasciate la moglie, lasciate l’amante.
Lasciate le speranze e i timori.
Seminate i figli in un angolo del bosco.
Lasciate la preda per l’ombra.
Lasciate se necessario una vita agiata, ciò che
vi si dà per una sistemazione di sicuro avvenire.
Andate sulla strada.7

I due, tuttavia, si ritroveranno. Ma bisognerà aspettare gli anni Trenta e la

318
pubblicazizone del Secondo Manifesto del Surrealismo.

Il 1924 segna la grande svolta del movimento. Breton, in effetti, non si


accontenta di pubblicare Les Pas perdus. Pubblica anche il Manifesto del
Surrealismo.
In quel periodo, Aragon pubblica Le Libertinage, Péret Immortelle
maladie, Eluard, Mourir de ne pas mourir e Artaud (che Breton contatta
quell’anno) L’ombilic des limbes.
Oltre alle pubblicazioni che gli conferiscono una posizione nel mondo
delle lettere, il gruppo dispone di un indirizzo, rue de Grenelle 15, sede del
Bureau de Recherches Surréalistes, aperto tutti i giorni dalle quattro e mezzo
alle sei e mezzo. Inaugurerà anche una galleria, in rue Jacques Callot, diretta
da Roland Tual, genio dell’immaginario che, purtroppo, non ha scritto una
riga. Soprattutto, sta per lanciare «La Révolution Surréaliste», il cui primo
numero uscirà in dicembre sotto l’egida dei due direttori Pierre Naville e
Benjamin Péret.
Infine, il 1924 segna un cambiamento importante nella vita di André
Breton. Questo cambiamento è da mettere in relazione con la morte di
Anatole France e con lo scandalo provocato dai surrealisti. Breton detestava
lo scrittore:
Eravamo del tutto insensibili alla pretesa trasparenza del suo stile, e soprattutto ci
ripugnava il suo troppo famoso scetticismo. (...) Sul piano umano ritenevamo che il
suo atteggiamento fosse il più bieco e disprezzabile: aveva fatto tutto ciò che
bisognava fare per guadagnarsi i suffragi sia della destra sia della sinistra. Era
marcio di onori e di sufficienza.8

Il giorno del funerale, Aragon, Breton, Eluard, Delteil, Drieu e Soupault


pubblicano contro Anatole France un libello di rara violenza: Un cadavre.
Breton, soprattutto, ci va pesante. Sotto il titolo Refus d’inhumer, ovvero
Sepoltura rifiutata, scrive:
Loti, Barrès, France, rileviamo comunque con un bel segno bianco l’anno che ha
mandato a dormire questi tre sinistri signori: l’idiota, il traditore, il poliziotto.9

«Avete mai schiaffeggiato un morto?», chiedeva Aragon:


Penso che ogni ammiratore di Anatole France sia un miserabile (...). Esecrabile
istrione dello spirito, bisognava proprio che rispondesse all’ignominia francese
perché questo popolo oscuro fosse a tal punto felice di avergli dato il proprio nome!

319
Balbettate dunque a vostro piacere su questa cosa putrida, per questo verme che a
sua volta sarà preda dei vermi. (...) A volte ho sognato una gomma per cancellare
l’immondizia umana.

Il libello collettivo contro Anatole France doveva costare caro ad André


Breton. Questi testi di una estrema violenza gli avevano fatto perdere il posto
che occupava da diversi anni, un impiego che l’aveva portato a Drouot, in
occasione della vendita della collezione di Kahnweiler. Perché allora Breton
comperava non solo per sé, costituendosi a basso prezzo una collezione di
cui avrebbe rivenduto i pezzi negli anni seguenti, assicurandosi così vitto e
alloggio, ma anche per uno che lo pagava per questo. Un uomo che, per
molti anni, aveva fatto vivere la maggior parte degli artisti di Montaparnasse,
pittori e poeti: il sarto mecenate Jacques Doucet.

320
Il sarto delle arti

Grazie a Monsieur Doucet non avevo altro da fare


fino alla fine del mese che andarmene a spasso in
campagna, sdraiarmi sull’erba, fumare,
fantasticare.
Blaise Cendrars

Nel 1924, Jacques Doucet non è più giovanissimo e l’alta moda non
l’interessa più. D’altra parte, detesta che lo si presenti come un uomo della
moda. Certamente, è stato, e rimane, uno dei grandi liberatori della donna
della Belle Epoque, colui che ha introdotto la leggerezza nei tessuti, i pizzi, i
plissé, le trasparenze, i ricami. Ha deciso che le donne non dovevano più
piegarsi sotto il sovraccarico di forme artificiali e strette nei busti, ma
mostrarsi come sono, in abiti aderenti, scollati, senza artifici.
Ha vestito le più grandi dame del suo tempo. Le sue sfilate sono vere
manifestazioni artistiche. La domenica, a Longchamp, duchesse e contesse si
compiacciono di mettere in mostra i suoi colori pastello, morbidi e delicati.
Le attrici sono sue amiche, Sarah Bernhardt e Réjane le sue confidenti. Ma
ora ha un unico desiderio, vendere la casa di moda. Perché prima di tutto è
un collezionista. Un brav’uomo un po’ pazzo, anche se non si vede. Piuttosto
bello, molto elegante, i capelli d’argento, la barba morbida e perfettamente
tagliata. Porta le ghette e, sotto, scarpe scintillanti: si dice che usi una vernice
speciale e le faccia passare nel forno ogni volta che le usa.
Ha modi bruschi, e sebbene mantenga la metà degli scrittori di Parigi ha
pochi amici. Eppure è un sentimentale, un innamorato, un solitario che non
ha avuto fortuna in amore. Prima si è innamorato di una ragazza che l’ha
rifiutato, poi di una seconda che è morta prima di accettare, di una signora
sposata, M.me R., che ha messo in stato d’assedio per convincerla a
divorziare. Nella dote della futura sposa, ha messo un palazzetto che ha
iniziato a fare costruire in rue Spontini, di fronte al Bois de Boulogne.
Quando alla fine la bella ha accettato di arrendersi a una ragione così
irragionevole, Jacques Doucet ha comperato quadri di La Tour, di Fragonard

321
e di Boucher, porcellane e ninnoli cinesi che sono andati a raggiungere i
Watteau, i Goya, i Chardin, le sculture e le centinaia di opere del XVIII
secolo che aveva già acquistato (nel 1906, nel corso di una prima vendita al
Drouot, il sarto aveva messo in ordine le sue collezioni).
M.me R., purtroppo, non abiterà mai questo palazzo di sogno: muore
qualche giorno prima che la separazione dal marito venga finalmente
pronunciata.
Doucet non si è più ripreso. Nel 1912 vende la sua collezione. Ne ricava
sette milioni di franchi oro che decide di consacrare allo sviluppo di una
biblioteca d’arte.
Dal 1909, di fronte al suo palazzo di rue Spontini, aveva affittato un
appartamento in cui conservava i manoscritti e le edizioni rare che aveva
acquistate con cura. Aveva incaricato un critico d’arte, René-Jean, di
assisterlo. Aveva fatto ingrandire il primo locale, che sarebbe diventato una
delle più grandi biblioteche di Francia. Durante e dopo la guerra se ne
occuperanno André Suarès, André Breton e Marie Dormoy. Jacques Doucet
la donerà poi all’Università di Parigi.
Il collezionista sapeva fare prova di magnificenza. Un giorno che assiste a
una seduta di prova nella sua casa di moda, una delle clienti esclama:
«Quando ascolto il Tristano, vado in estasi, mi lascio andare e mi possono
fare tutto quello che vogliono».
«Perfetto», mormora tra sé Doucet.
La cronaca non dice se gli piacesse Wagner, ma rispettava abbastanza la
sua cliente per fare le cose in grande. Affitta un appartamento, l’arreda con
mobili raffinati e invita la melomane. Lei arriva. Appena Doucet chiude la
porta del salotto, si sente una musica dall’altra parte della parete.
«Venga a vedere», le propone.
E conduce la sua dulcinea in una stanzetta dove alcuni musicisti suonano
pezzi del Tristano.
Un paradiso!
Doucet era stato altrettanto generoso con gli artisti che aveva contribuito a
sovvenzionare durante e dopo la guerra. E, come aveva fatto con la sua bella,
aveva preteso da loro un dono: non quello della persona, ma di uno scritto.
Perché non solo contava di acquistare edizioni originali e manoscritti, per rari
che fossero (Baudelaire, Rimbaud, Chateaubriand, Verlaine, Mallarmé,
Flaubert, e poi, Claudel, Jammes, Gide...), voleva anche che gli scrittori e i
poeti che sovvenzionava scrivessero per lui.
André Suarès, uno dei primi con cui aveva preso contatto, era stato

322
incaricato di scrivergli una lettera alla settimana sulla letteratura
contemporanea o su un argomento di attualità. Nel 1916 Pierre Reverdy
aveva ricevuto cinquanta franchi per ogni scritto che trattava dei movimenti
artistici dell’epoca. Doucet l’aveva aiutato anche per la rivista «Nord-Sud».
Lo aveva aiutato materialmente e gli aveva prodigato molti consigli. Lo aveva
anche spinto a scartare Cocteau dalla redazione. Il che non aveva impedito a
quest’ultimo di parlare del «mio vecchio amico Doucet» quando Edmond
Radiguet aveva approfittato a sua volta della generosità del mecenate
(cinquanta franchi alla settimana in cambio di una cronaca).1
Anche André Salmon era stato retribuito per le sue opinioni sulla
letteratura. E lo stesso Max Jacob, attraverso il quale Jacques Doucet voleva
avere notizie sulle avanguardie. Ne aveva avute, ma non quelle che sperava.
Il poeta gli faceva resoconti dettagliati della rissa tra Reverdy e Diego de
Rivera; della rappresentazione delle Mamelles de Tirésias; dei litigi di Erik
Satie con i critici. Insomma, gli aveva offerto tutta la gamma dei suoi gusti e
disgusti in letteratura e in poesia. Ma si era categoricamente rifiutato di cedere
alla richiesta del mecenate di parlargli di Picasso:
Non ho scritto niente su Picasso. Gli fa orrore che si scriva su di lui. Gli fanno orrore
l’incomprensione e l’indiscrezione e io ho per lui un tale rispetto e tanta gratitudine
che non potrei fare niente che possa dispiacergli (...). C’è gente che è campata
inventando storie su di lui... Insomma... più tardi... vedremo... ma molto più tardi...
anzi, a pensarci bene, proprio mai, credo...2

Gli vende qualche manoscritto, Le Siège de Jérusalem, il Cornet à dés, il


Christ à Montparnasse, alcuni autentici, altri ricopiati per l’occasione. Gli
consiglia di rivolgersi ad Apollinaire e a letterati meno conosciuti, a pittori
poveri e ancora anonimi. Quando non ha soldi, non esita a chiedergli un
prestito, e lo ricambia regalandogli qualche tempera.
Anche Blaise Cendrars era stato avvicinato. A quel tempo, Cendrars
saltava i pasti. Era andato al «Mercure de France» a portare una poesia. Con
chi avrà parlato? Con Rachilde Valette o con Léautaud? Resta comunque il
fatto che quando l’interlocutore accetta la poesia, Cendrars gli chiede un
acconto. All’altro, per poco non gli viene un colpo: «Un acconto di che
cosa?».
«Di soldi, per favore».
La tensione sale, l’altro si fa rosso in faccia.
«Sappiate, signore, che il “Mercure” non retribuisce mai testi in versi».
«Non importa, risponde lo scrittore alzando le spalle. Lo metta in prosa e

323
mi dia dei soldi».
Non gli danno proprio niente. Non si sa se abbia lasciato lo scritto al
«Mercure».
Poco tempo dopo, si dice, Cendrars riceve la visita del cameriere personale
di Jacques Doucet che gli riferisce la proposta del padrone: una lettera al
mese in cambio di un regolare mensile di cento franchi. La proposta gli
sembra sfacciata: «Il signor Doucet non è mio amico, perché mai dovrei
scrivergli una lettera al mese? E poi, per dirgli cosa, dato che non ho il
piacere di conoscerlo?».3
Risposta negativa, dunque. Con un regalo: il rifiuto di Cendrars è
notificato per iscritto, il che vale una lettera gratuita per il collezionista. Ma
nella lettera, Cendrars fa anche una contro-proposta: accetta di scrivere a
Doucet, a condizione che si tratti di un libro – un capitolo al mese.
L’incaricato va al palazzo di rue Spontini e ritorna. Posa sul tavolo di
Cendrars un biglietto da cento franchi e un abbozzo di un accordo. In
risposta – due lettere gratuite! – il poeta precisa i termini del contratto: si
tratterà di un piccolo libro scritto in dodici mesi, tante pagine al mese, tante
righe per pagina, tante parole per riga, pagabili in anticipo il primo di ogni
mese. I diritti restano dell’autore. Così è stato scritto L’Eubage (L’indovino).
E Cendrars assicura di non aver avuto altri rapporti con Doucet.
Anche André Breton godrà della manna lasciata cadere dal sarto mecenate.
Nel dicembre del 1920 viene assunto come bibliotecario. Il suo incarico
consiste nello scegliere le opere che gli sembrano corrispondere alla
sensibilità dell’epoca. Ha anche il compito di informare il suo settantenne
padrone a proposito dell’arte moderna. Gli farà comprare Les Demoiselles
d’Avignon (25000 franchi), La Charmeuse de serpents del Doganiere
Rousseau, opere di Derain, di De Chirico, Seurat, Duchamp, Picabia, Ernst,
Masson, Miró.
Nel 1922, Breton coopta Aragon per studiare un progetto di ampliamento
della biblioteca – che poi verrà proposto a Jacques Doucet. Si tratta di
acquistare opere che la letteratura classica e ufficiale misconosce o ignora.
Oltre a Lautréamont e Raymond Roussel, già integrati, gli suggeriscono di
aprire le porte a Pascal, Kant, Hegel, Fichte, Bergson, Sade, Restif de La
Bretonne, Sue, Jarry, Dada. E gli consigliano di comprare i manoscritti di
Jean Paulhan, Tristan Tzara, Paul Eluard, Benjamin Péret, Robert Desnos,
Jacques Baron, George Limbour – il fior fiore del surrealismo.
Breton non nasconde le sue intenzioni. Vuole aiutare gli amici. E ci riesce.
Doucet s’innamora di Aragon e lo finanzia, come tutti gli altri. In cambio,

324
ottiene pagine del Paysan de Paris e due lettere regolari su temi letterari. Così
il sarto di Neully-Passy contribuisce a mantenere questa banda di giovani
letterati le cui gesta alimentano la cronaca scandalistica dei quartieri alti.
L’idillio, come abbiamo visto, finisce nel 1924, in occasione della morte di
Anatole France. Davanti alla violenza dei loro attacchi al morto, Jacques
Doucet prende la gomma del padrone e cancella i contratti che lo legano ai
surrealisti. Almeno secondo Breton. Marie Dormoy è meno categorica.
Sostiene che Doucet era stato messo al corrente di certe battute ironiche e
piuttosto sgradevoli fatte su di lui dai suoi giovani amici, e che allora aveva
convocato il gruppo surrealista nel suo ufficio e aveva detto che avrebbe
onorato ogni suo debito ma che la loro collaborazione non sarebbe più
andata avanti. Tranne quella con Aragon.
Nel 1926 Aragon si era innamorato di Nancy Cunard, erede della
compagnia di navigazione Cunard Line. Ora, la madre di Nancy era
introdotta alla corte d’Inghilterra, e la cosa poteva risultare utile agli affari del
sarto. Così Doucet aveva raddoppiato il mensile di Aragon, chiedendogli di
tenerlo informato sulle occupazioni e sui piaceri di un giovane di mondo a
Parigi. Il giovane di mondo aveva tenuto fede al suo impegno fino al 1927 –
quando, dopo essersi iscritto al Partito Comunista, aveva rotto con Doucet
per ragioni politiche.
André Breton aveva sempre riconosciuto le qualità del mecenate e del
collezionista che l’aveva tanto aiutato in numerose occasioni (quando si era
sposato con Simone Kahn, nel 1921, Doucet gli aveva offerto viaggi e regali,
e per rassicurare la famiglia della sposa gli aveva raddoppiato il salario). Ma,
qualche anno dopo, Breton avrebbe messo la sordina agli elogi:
Poiché penso che non ci vada di mezzo il segreto professionale e che non sia senza
interesse, ai nostri giorni, chiarire i rapporti tra artista e collezionista, lasciatemi
dire che i cordoni di tale borsa non si aprivano volentieri a favore dei giovani
pittori.4

Ma pare che ci fosse anche di peggio. Nelle storie raccontate da Breton, ci


sono episodi alla Clovis Sagot (il mercante che aveva consigliato a Gertrude
Stein di tagliare i piedi a una figura dipinta da Picasso). Una volta lo scrittore
aveva convinto il collezionista a comperare una tela di Max Ernst esposta agli
Indépendants. L’opera rappresentava cinque vasi uguali con dentro cinque
mazzi di fiori uguali. Prezzo 500 franchi.
«Chieda al pittore che ci faccia due vasi per duecento franchi», aveva
suggerito Doucet.

325
Bisogna dire che Derain lo aveva messo sulla buona strada. Pierre
Cabanne racconta che un giorno Breton gli aveva portato nello studio il sarto
mecenate per fargli comperare una natura morta. Derain aveva tirato fuori di
tasca un metro, aveva misurato la tela e aveva detto: «Basandoci sul prezzo al
centimetro quadrato, questa tela le costerà quarantamila franchi».
Un’altra volta, davanti a un minuscolo Masson, Doucet aveva borbottato:
«Gli manca qualcosa, a questo quadro...».
E aveva continuato a scrutare la tela, grattandosi la barba, finché, come
preso da un’idea luminosa, aveva esclamato: «Voglio chiedere al pittore di
aggiungere qualcosa. Un uccello! Ecco, un uccello, sarebbe perfetto!».
Aragon non è stato più tenero con il suo vecchio mecenate. In Aurélien lo
chiama Charles Roussel e gli fa incontrare un pittore chiamato Zamora, che
non è altri che Picabia. Si riconoscono facilmente i piccoli difetti del pittore:
mondano, sempre pronto a invitare «fantini celebri, duchesse, letterati,
uomini ricchi e sfaccendati, donne graziose di ogni genere, giocatori di
scacchi, conoscenze fatte in viaggio, sui transatlantici».5
Il collezionista è presentato come un uomo chic, «curato come un
barboncino, e vestito con una ricercatezza che sfiorava il cattivo gusto a forza
di distinzione». Un ritratto piuttosto grossolano, forzato. Lo è un po’ meno
quando Aragon mette in scena un poeta della banda di Menestrel (cioè
Breton) che si fa mettere KO durante una rissa provocata dai surrealisti.
Questi cercano di mandare a monte la rappresentazione di una commedia di
Cocteau – che detestano. Dopo un breve combattimento, Menestrel-Breton
finisce con il naso in poltiglia e la cravatta piena di sangue. Roussel-Doucet
lo trascina subito in un caffè e, con uno sguardo avido, gli chiede: «Non
potrebbe scrivermi una piccola nota per la mia biblioteca, su questa strana
serata? Ho già il manoscritto della commedia, me l’ha venduto Cocteau. Lo
farei rilegare insieme alla sua nota...».6
Una presa in giro dopo l’altra, Aragon e Breton non hanno certo
dimostrato molta riconoscenza per un uomo al quale dovevano tanto. Non
poco, comunque. Perché a suo tempo era stato come se tutti, da Kisling a
Cendrars, passando per André Salmon, Max Jacob e Apollinaire, Radiguet,
Cocteau e Desnos, si fossero messi d’accordo per approfittare del danaro e
della generosità di un signore al quale la maggior parte di loro scriveva con
un’umiltà che rasentava come minimo il servilismo.
Cendrars come gli altri. Perché Cendrars non dice la verità quando
sostiene che Doucet si sia messo in contatto con lui attraverso il proprio

326
cameriere. Le cose sono andate molto diversamente. È Cendrars che scrive a
Doucet nel 1917, chiedendogli un aiuto di 500 franchi per finire il romanzo
La Fin du Monde. In cambio, gli propone un manoscritto – e alla fine gli
darà quello di Pâques à New York, del 1912. Dopo di che, i due si mettono
d’accordo per L’Eubage. Non c’è stato quindi un solo affare tra lo scrittore e
il suo mecenate, come sostiene Cendrars, ma almeno due. E non è certo lo
scrittore a dettare le condizioni, così come non aveva dettato i termini del
contratto precedente: chiedeva cinquecento franchi, Doucet gliene aveva
accordati centocinquanta.7 Può sempre trattarlo da «vecchio cicisbeo» come
farà nel Lotissement du ciel, ma questo non gli impedirà di ringraziarlo per
lettera della sua generosità, inchinandosi fin quasi a strisciare. E nessuno può
credere alla descrizione che Cendrars fa della biblioteca di Jacques Doucet: lo
si vede che accompagna il vecchio padrone in mezzo a un dedalo di casse e
di cartoni pieni di lettere, di manoscritti ricopiati ma senza nessuna opera
importante (a parte L’Eubage) – mentre il vecchio si lamenta di ricevere tanta
roba, e si lamenta, disperato: «Non la smetteranno mai di scrivere!».
Questo è Cendrars. Non Doucet.

327
Il sarto e il fotografo

Come molti artisti francesi, sono stato molto colpito


dai Ballets Russes e non sarei sorpreso se in
qualche modo mi avessero influenzato.
Paul Poiret

Doucet aveva venduto la sua casa di moda nel 1924. Era stato detronizzato
da sarti più giovani, specialmente da Paul Poiret, che aveva introdotto nella
moda colori più vivaci, verdi, rossi, blu, in sostituzione dei lilla e dei rosa dei
suoi predecessori. Aveva liberato definitivamente le donne dal busto, lanciato
il reggiseno, sviluppato l’abito stretto, aderente.
Paul Poiret, che si era fatto le ossa da Doucet, si dedica anche lui al
mecenatismo ma, se paragonato all’opera del maestro, con minor slancio.
Aveva conosciuto la sua ora di gloria tagliando un mantello di tulle nero
per Réjane. Se n’era andato dopo avere disegnato alcuni modelli per la sua
fidanzata, che li aveva fatti realizzare da una sarta: Doucet non glielo aveva
mai perdonato. Poiret, libero, ha preso rapidamente il volo, ha acquistato una
magnifica palazzina in Faubourg Saint-Honoré e ha cominciato a vestire le
dame dell’alta e dell’altissima società.
Non è insensibile alle arti della sua epoca. Più al cubismo che ai Ballets
Russes, di cui ammette di avere subito l’influenza. Ma, vanitoso di natura,
Paul Poiret non tralascia mai di precisare che la sua reputazione è molto
anteriore a quella di Bakst.
Negli anni d’oro di Montmartre, va spesso al Bateau-Lavoir. È lui,
abbiamo visto, che manda la sua clientela chic nel bugigattollo di Max Jacob,
dove le grandi dame si fanno fare le carte. Sempre lui che invita gli artisti a
feste grandiose in cui espone le sue teorie: secondo lui, la sartoria è un’arte
come le altre, al che Apollinaire risponde che se si tratta di arte, è arte
minore.
Non c’era una gran confidenza, tra i due.
Paul Poiret prova invece un particolare affetto per Max Jacob. Lo consulta
a proposito di tutto e di qualsiasi cosa: il colore della cravatta, delle calze,

328
come impiegare il tempo... Gli ha proposto di mettere in scena le sue
commedie in una palazzina della rue d’Antin – dove Picasso aveva esposto
Les Demoiselles d’Avignon durante la guerra. Ha tessuto intorno a Max Jacob
quella rete mondana che gli permette di scoprire porte a cui bussare quando è
disperato, senza un soldo.
Indirizzi a parte, il poeta non lo stima eccessivamente. Lo rimprovera di
non amare i suoi amici e di essere conservatore in materia artistica.
Il che è incontestabile. Curiosamente, benché ammirasse tutto quello che
vedeva al Bateau-Lavoir, Poiret non ha mai aderito al cubismo:
Non sono stato estraneo alle ricerche di Picasso, ma le ho sempre considerate come
esercizi di studio e speculazioni dello spirito, che non dovevano uscire da una cerchia
ristretta di artisti e che il pubblico avrebbe dovuto ignorare.1

La sua forza sta nella mescolanza dei generi.


È molto legato alla danzatrice Isadora Duncan. Dopo avere perso i suoi
due bambini, la Duncan confida a Poiret un progetto che le è venuto in
mente: vuole un nuovo erede che abbia il suo splendore fisico e lo splendore
intellettuale di un poeta di genio.
«Maeterlinck!», esclama subito Poiret.
Ha letto una delle sue opere la sera prima.
Isadora va a cercare Maeterlinck per chiedergli se accetta di farle fare un
figlio: lo scrittore rifiuta: è sposato, e le complicazioni della situazione...
Poiret ha anche pensato a Max Jacob. Ma non ha fatto il suo nome alla
danzatrice.
Fernande Olivier, che aveva lavorato da Poiret per un po’ di tempo dopo la
rottura con Picasso, ha confidato a Paul Léautaud che i suoi negozi servivano
da case d’appuntamento per le belle di giorno, e si lagnava che Poiret fosse in
apparenza amabile ma odioso con il personale. Unico premio di
consolazione, la sua collezione di quadri d’avanguardia, una delle più belle di
Parigi.
La collezione suscita anche l’ammirazione di un fotografo che, un giorno
dell’autunno del 1921, si presenta davanti all’ingresso principale della Maison
Poiret, avenue d’Antin. È un giovane americano dall’aspetto abbastanza
classico, che ha con sé una cartella con i suoi lavori. Lo ha mandato Gabrielle
Buffet-Picabia.
L’americano dà il proprio nome al portiere in livrea all’ingresso del
giardino. Gli fanno attraversare viali che tagliano prati piantati a crocus. Qua
e là, in mezzo ad aiuole che ricordano Versailles, sono disposti tavoli e sedie

329
dai colori vivaci.
Il visitatore sale i tre gradini della scalinata, ornata da due cerbiatte in
bronzo provenienti da Ercolano. Oltrepassa una delle dieci porte che si
aprono sull’interno, passa su un tappeto rosa illuminato da lampadari di
cristallo fino a uno scalone massiccio con la ringhiera in ferro battuto.
Un ragazzo lo precede nell’ascensore. Primo piano. Il giovane americano
percorre un corridoio che fiancheggia un gran numero di salottini di prova.
Sbocca in una grande stanza piena di nobili dame che chiacchierano,
seguendo con lo sguardo una indossatrice che presenta un nuovo modello.
Al centro troneggia una statua di Brancusi.
Il visitatore si avvicina a un commesso e gli chiede dove può incontrare
Monsieur Poiret, con il quale ha un appuntamento.
«Mi segua», dice l’altro.
Dalla sala l’americano viene condotto passo dopo passo fino alla porta di
un ufficio sulla quale è appuntato un cartellino:

ATTENZIONE! PERICOLO!
Prima di bussare chiedetevi tre volte:
«È proprio indispensabile che Lo disturbi?».

Dopo essersi fatto annunciare l’americano viene introdotto in una stanza.


Vede un uomo vestito con una giacca color giallo canarino e pantaloni a
righe. Ha una barba a punta, il cranio mezzo calvo. Il fotografo posa la
cartella sulla scrivania. Il sarto la apre, guarda attentamente, la chiude e dice:
«Bene, che cosa posso fare per lei?».
«Non so».
«Ma come? Ha già fatto fotografie di moda?».
«Mai, ma vorrei provare, solo che non ho uno studio».
«Quando si lavora con me, si lavora da me», replica freddamente Poiret,
indicando con un gesto il suo ufficio, i giardini, la seconda palazzina che si
scorge più lontano.
«I fotografi sono sul posto. Ha il materiale necessario?».
«Mi manca una camera oscura».
«Gliela presteremo».
Il fotografo viene autorizzato a fotografare mannequin e vestiti durante le
ore di pausa.
Ritorna e si mette al lavoro. Sviluppa le foto nella sua minuscola camera in
un alberghetto equivoco di Parigi. Poi ritorna da Poiret per mostrargliele.

330
«Molto belle!», esclama il sarto.
Prendendo l’occasione al volo, il fotografo americano gli chiede di essere
pagato. Poiret ha una smorfia di stupore.
«Non pago mai i fotografi. Sono le riviste che se ne occupano».
«Ma non conosco nessuno», grida il fotografo. «Sono appena arrivato in
Francia».
Poiret si mostra generoso, compera qualche fotografia e le paga duecento
franchi.

La sua fortuna cominciava allora a incrinarsi. Finisce in pochi anni: il sarto


non aveva saputo adattarsi allo stile più sobrio e meno ricco del dopoguerra.
A metà degli anni Venti, non restava più nulla dell’impero Poiret. L’uomo,
che si diceva vittima delle banche, degli esattori del fisco e di «minacce
socialiste», aveva lasciato Parigi per una casetta nell’Ile-de-France, dove
viveva da eremita. Imprecava contro la terra intera, aveva anche pensato di
sottoporre il proprio caso alla Lega dei Diritti dell’Uomo, ma alla fine ci
aveva rinunciato, nel timore che anche «quest’organismo fosse corrotto dallo
spirito massonico e, di conseguenza, incapace d’indipendenza».2
Aveva ancora un amico: il medico che lo curava. Quest’ultimo un giorno
va a trovare il fotografo americano per chidergli di accompagnarlo in
campagna da Paul Poiret, che sta scrivendo un libro di memorie che verrà
presto pubblicato. Occorre una fotografia.
In ricordo dei duecento franchi, il fotografo accetta. Poiret lo riceve con
l’eleganza e tutto il fasto che gli resta. Mangiano, bevono, fanno una
passeggiata. Quando ritornano a casa, la luce è troppo bassa per la foto. Si
lasciano malinconicamente.
Pochi giorni dopo il medico va dal fotografo americano, che gli scopre una
certa somiglianza con il Poiret dei tempi d’oro e si diverte a farlo posare.
Quando, una ventina d’anni dopo, Poiret muore, paralizzato dai rancori e
roso dalla paranoia, un settimanale chiede al fotografo americano se per caso
non ha in archivio una foto dello scomparso. Il fotografo manda il ritratto del
dottore. La fotografia viene pubblicata per illustrare un articolo dedicato alla
vita e all’opera di Paul Poiret. Nessuno verrà mai a conoscenza della piccola
truffa. Tranne il medico, naturalmente. E il fotografo americano.
Non si conosce il nome del primo. Il secondo abitava a Montparnasse
dall’estate del 1921. Si chiamava Man Ray.

331
Un americano a Parigi

Ho conosciuto un americano che fa delle belle


fotografie (...). Mi dice: «Kiki! Non guardarmi così.
Mi turbi...!».
Kiki de Montparnasse

Quando ritorna nella sua camera d’albergo dopo avere fotografato le


indossatrici di Paul Poiret, Man Ray chiude le tende della stanza, accende una
lampada rossa inattinica e comincia a sviluppare le lastre fotografiche. Ha
poco materiale a disposizione: i prodottti chimici indispensabili, due
bacinelle, carta e qualche accessorio.
Immerge i fogli nel bagno di sviluppo. Per sbaglio gliene scivola dentro
uno che non era stato impressionato. Dopo averlo tolto dalla bacinella, lo
posa sopra un imbuto di vetro. Poi accende la luce.
Un’immagine stava prendendo forma sotto i miei occhi. Non era affatto una semplice
silhouette di oggetti. Questi erano stati deformati e rifratti dai vetri che erano stati
più o meno in contatto con la carta e la parte direttamente esposta alla luce si
stagliava, come un rilievo, sul fondo nero.1

Per un po’ Man Ray lascia da parte le fotografie fatte da Poiret. Prende tutti
gli oggetti che ha a portata di mano, chiave, fazzoletto, matita, corda, e le
dispone sulla carta asciutta. Poi espone il tutto alla luce. Sviluppa e fa
asciugare.
L’indomani appende il frutto degli esperimenti sulle pareti della camera
d’albergo. La sera Tristan Tzara, che è arrivato a Parigi un anno prima, bussa
alla porta. Man Ray apre e gli mostra il suo lavoro. Il giovane romeno è
entusiasta. Per metà della notte, i due dispongono sulla carta mille oggetti,
sviluppano, ricominciano. Era nata la raygrafia: si possono fare fotografie
senza macchina fotografica. L’anno dopo, Man Ray pubblica il primo album
di raygrafie, Le Champs délicieux. La prefazione è firmata da Tristan Tzara.
Prima di diventare fotografo, Man Ray, figlio di un sarto ebreo di

332
Brooklyn, faceva il pittore. Aveva seguito i Corsi Ferrer, chiamati così perché
erano stati creati da simpatizzanti della causa anarchica, per la quale era
morto Francisco Ferrer (ammirato anche da Picasso). Aveva anche
frequentato tutti gli ambienti dell’avanguardia newyorchese all’epoca
dell’Armory Show. A cominciare dalla galleria di Alfred Stieglitz, al 291 della
5th. Avenue. Là ha incontrato Francis Picabia e soprattutto Marcel Duchamp,
al quale rimarrà sempre molto legato.
Man Ray possiede un apparecchio fotografico con il quale fotografa le
proprie opere. Nel corso del lavoro, scopre la ricchezza delle riproduzioni in
bianco e nero e finisce per «distruggere l’originale per conservare solo la
riproduzione».2 Da qui la considerazione «che la pittura è una forma
d’espressione superata»,3 che un giorno sarà detronizzata dalla fotografia. Più
tardi, rivedrà questa opinione.
A New York cerca modelle, non più per dipingerle ma per fotografarle.
Grazie al ritratto della scultrice Berenice Abbott, incontrata in un bar del
Village (a Parigi sarà la sua assistente per tre anni), vince il suo primo premio
di fotografia. In pochi mesi fotografa Edgar Varèse, Marcel Duchamp, le
scrittrici Djuna Barnes e Mina Loy, Elsa Schiapparelli (che non fa ancora la
sarta).
Duchamp è il primo a partire per Parigi. Appena messi insieme i soldi
necessari per il viaggio, Man Ray infila le sue tele e qualche oggetto dadaista
in un baule, s’imbarca su un transatlantico e raggiunge l’amico. Il pittore gli
ha riservato una camera in un alberghetto di Passy, in cui era sceso anche
Tristan Tzara. È così che Man Ray incontra i dadaisti e i surrealisti di Parigi,
con i quali stringe amicizia: Breton, Aragon, Eluard, Fraenkel, Soupault,
Desnos e gli altri.
È Soupault che ha l’idea di organizzare una mostra con le opere che Man
Ray ha portato da New York. Nel catalogo, i dadaisti presentano l’artista
come un mercante di carbone che è anche un magnate del chewing-gum,
ricchissimo e molto dotato per la pittura. Questi titoli non fanno vendere
neanche un’opera. Man Ray torna dietro ai suoi obiettivi. Fotografa per
primo i quadri di Picabia, poi fa la conoscenza di Cocteau e della sua rubrica
di indirizzi. È lanciato.
Qualche settimana prima, aveva incontrato una giovane donna che sarebbe
diventata la sua prima modella e poi l’egeria di Montparnasse per lunghi
anni. Era il 1921. Il fotografo si trovava in compagnia di Marie Vassiliev in
un caffè di Vavin, sul tipo del Dôme e della Rotonde. La sala era gremita.

333
C’era tutta la gente che frequentava il quartiere dopo l’armistizio: pittori
meno poveri, scrittori americani, danzatori svedesi, una armata di modelle,
un pellerossa con tutte le sue piume chiamato Colbert, il pittore Granowsky,
ebreo polacco travestito da cow-boy, un poeta lappone, alcuni russi – ormai
bianchi –, un bulgaro muto con un anello da tenda al naso, Cocteau con il
suo piccolo Radiguet, maschere in partenza per una festa o un ballo, uomini a
piedi nudi, un gruppo di donne piuttosto svestite, il pittore Jules Pascin
appena tornato dall’America, Antonin Artaud, un musicista nero intento a
provare un sassofono in sordina, Adamov, ancora molto giovane, i piedi
nudi nei sandali alla greca, roso dalla miseria.
A un tavolo in disparte, due ragazze stanno parlando a voce alta. Sono
truccate come arcobaleni, ingioiellate dalle orecchie ai polsi. Una di loro è
Kiki de Montparnasse. Sta rispondendo per le rime al cameriere che rifiuta di
servirla con il pretesto che è senza cappello. Il primo parla in tono fermo ma
gentile, l’altra replica che un bistrot non è una chiesa e che uno viene come
vuole.
«Uno Chambéry-fraisette, per favore», chiede Kiki. «E un altro per la mia
amica».
Il cameriere cede e chiama il padrone.
«Senza cappello, vi si potrebbe confondere».
«Con chi? Con le americane?».
Le americane possono entrare nei caffè anche senza copricapo.
«Non volevo dire questo», balbetta il padrone.
«E che cosa voleva dire?».
«Senza cappello, si potrebbe pensare che lei è una...».
«Una cosa?».
«Una puttana!».
Kiki si alza di scatto. Un piede (nudo) su una sedia, l’altro sul tavolo, con
la sua inimitabile sguaiataggine, parlando a voce alta, forte e stridula, spiega
al padrone dal colletto inamidato che lei non vende le sue grazie, cosa che
però non le impedisce di essere una vera bastarda nata in una vera provincia
francese, la Borgogna. Poi giura che non verrà mai più, né lei né i suoi amici,
e salta giù dal tavolo, svelando con un movimento della stoffa sapientemente
orchestrato anche ciò che non si usa svelare.
«Niente cappello, niente scarpe, e niente mutande!».
Man Ray chiama il cameriere con un gesto. Marie Vassiliev chiama le due
ragazze.
«Due bicchieri per le signorine», ordina l’americano.

334
«Venga qui con noi», propone la russa.
Kiki si siede.
«Sono con lei?», chiede il cameriere.
«Sì», risponde Man Ray.
«Perché non posso servire le signore sole...».
«A meno che abbiano il cappello», aggiunge Kiki.
Brindano. Bevono di nuovo. Lasciano il caffè per un altro. Poi per un
ristorante.
«Tu sei il nostro amico americano!», proclamano Marie e Kiki.
Mangiano, bevono.
«Il nostro amico americano ricco!».
Vanno al cinema a vedere La signora delle camelie.
«Ricchissimo!».
Le ragazze sono sedute di fianco al magnate del chewing-gum. Kiki guarda
lo schermo, appassionata come una bambino. Man Ray cerca la sua mano. La
prende. La stringe. Kiki non risponde ma non tira indietro la mano.
All’uscita le dice che le piacerebbe dipingerla, ma che sarebbe sommerso
dall’emozione, pensa di non esserne capace. Lei risponde che ci è abituata: la
prima volta tutti gli artisti per cui posa sono nello stesso stato.
«Allora suggerisco un’altra cosa. Si lasci fotografare».
«Certamente no!», grida Kiki.
Ma il giorno dopo va all’albergo dove risiede Man Ray, sale nella sua
camera e si spoglia: lui vuole fotografarla nuda.
Man Ray scatta qualche foto, poi scendono al caffè.
Le chiede di tornare il giorno dopo per una nuova seduta di posa. E anche
per vedere la prima serie di fotografie. Kiki ritorna. Insieme guardano il
lavoro della vigilia. Poi Kiki si spoglia mentre Man Ray prepara gli
apparecchi. È seduto sul letto, Kiki gli va vicino, nuda, lui le prende la mano,
lei lo bacia. Non si lasceranno più per sei anni.

335
Un tappo di radiatore firmato Rodin

E così verrà avanti sulla scena, come un bravo


bambino, con i suoi gesti misurati, la padronanza di
se stesso, e i suoi occhi che sembrano vedere senza
guardare, colui che ha disegnato soltanto donne e
gatti.
Roger Vailland

Mentre Kiki e Man Ray si addormentano sulle prime pagine del loro
amore, una ragazza di una ventina d’anni apre la porta dell’appartamento in
cui abita da sola in rue Cardinet. Ha il viso un po’ tondo, il corpo ben in
carne, i capelli castani, gli occhi neri e vivaci. È orfana da tre anni. Non
lavora: l’eredità dei genitori le basta.
Lucie Badoul depone su un tavolo la pila di libri che ha appena comperato.
Passa in bagno, si strucca con cura, recupera i libri e va nella camera da letto.
Una gattina rossa la segue. La ragazza scivola tra le lenzuola e prende uno dei
libri scelto soltanto perché le piaceva il titolo: La Femme assise. Non conosce
l’autore, Guillaume Apollinaire, e nemmeno il quartiere che descrive:
Montparnasse. Ma i caffè sembrano così straordinari, le persone che ci
vivono così libere, l’atmosfera così diversa da quella che lei conosce, che
viene presa da una specie di febbre.
Si alza, si veste, si rifà il trucco, prende la gatta sottobraccio e lascia la rue
Cardinet. Direzione: il metrò.
Scende alla stazione di Montparnasse e risale il boulevard fino a
quell’incredibile bistrò di cui parla Apollinaire: la Rotonde. Ma è strapieno. Il
pianterreno e anche il primo piano. Delusa, la ragazza sta per andarsene,
quando un gruppo di spagnoli libera un posto. Si siede e guarda. Mai, in
nessun luogo ha visto una tale animazione, una tale confidenza tra quelli che
entrano e quelli che escono, tutti habitué del posto, complici, amici. Lucia
resta affascinata.
Rientrerà a casa molto tardi. Il giorno dopo è ancora alla Rotonde. La sala,
questa volta, è meno affollata. Non si vedono solo i profili. Appaiono anche

336
le facce. Si stagliano.
Quest’uomo, per esempio, che entra adesso nel caffè.
È solo, è un asiatico. Ha una frangia sulla fronte. Porta occhiali di
tartaruga. Sotto una giacca ben tagliata stretta sui fianchi da una cintura di
tessuto appaiono i quadretti bianchi e rossi di una camicia di cotone. Lucia
guarda. Un velo scende su di lei. Capisce che l’uomo l’ha conquistata. Un
colpo di fulmine. Ma l’uomo gira i tacchi e se ne va. La ragazza rimane lì,
immobile. Chiama il cameriere e chiede un bicchiere di liquore. Poi un altro.
Un terzo... Ce ne vogliono sei perché abbia il coraggio di fare la domanda
che le sta a cuore. Si alza, si mette al centro del locale e chiede se qualcuno
conosce il giapponese che è appena uscito. Si alza uno sconosciuto che dice:
«Venga con me».
L’uomo è un pittore. Trascina la giovane donna fino a casa sua. In un
momento, con il carboncino, disegna il ritratto dell’asiatico.
«È lui?».
«Sì», risponde Lucie.
È sconvolta. Il pittore arrotola il disegno e glielo porge.
«Si chiama Foujita».
«Lo conosce?».
«Certamente!».
«Gli dia il mio indirizzo», chiede Lucie.
Scrive l’indirizzo su un biglietto, poi torna a casa. Appende il ritratto di
Foujita alla parete. Non esce per otto giorni. Aspetta. Ma l’uomo della sua
vita non compare. Allora Lucie torna a Montparnasse. Il pittore che aveva
fatto il ritratto di Foujita la porta al numero 5 di rue Delambre, dove c’è
l’atelier del giapponese, che guarda la ragazza, le regala un ventaglio e le dà
appuntamento per la stessa sera alla Rotonde.
Pranzano insieme, poi Foujita la porta all’hôtel, dove rimangono tre giorni
senza mai uscire. Quando ritornano alla Rotonde Lucie non si chiama più
Lucie, Foujita l’ha ribattezzata Youky, che in giapponese significa «Neve
Rosa». Aveva ancora questo soprannome quando, nel 1931, era caduta nelle
braccia di Robert Desnos.
La vita con Foujita? Un sogno. Certo, c’è Fernande. La sposa ufficiale non
abbandona facilmente il terreno, sebbene si sia risposata da molto tempo.
Quando Foujita espone il quadro Youky, déesse de la neige al Salon
d’Automne, Fernande aggredisce in pubblico l’amante del marito. Ma
quando se ne va, la festa comincia.
Negli anni Venti, va in scena Montparnasse Sons et Lumières. Un mucchio

337
di amici, incontri multipli, feste straordinarie. Venti invitati intorno al tavolo,
spesso due o tre volte tanto, qualche volta ancora di più.
Tutto dipende da chi fa gli inviti.
Se è il conte di Beaumont, nel suo palazzetto della rue Duroc, le sale di
ricevimento, i corridoi e le scale sono piene di gente. Si balla a tutti i piani. Il
più delle volte, gli invitati sono in maschera. Youky non sempre li riconosce.
Marcoussis mascherato da contadina. Van Dongen da Nettuno, Kisling da
prostituta meridionale... Le donne portano berretti con la visiera, mantelli da
ufficiali, gli uomini parrucche. Si vedono marinai, Pierrot, clown dalla faccia
bianca, toreador. Foujita, il re dei travestimenti, arriva spesso vestito da
donna. Una sera arriva tutto nudo, una gabbia in spalla, e nella gabbia una
donna. A volte mette degli anelli, altre volte gli orecchini, un turbante, il
gibus. Tutti ridono, ballano, le coppie si fanno e si disfano. Si beve molto.
Quando la festa non è in rue Duroc, è alla casa Watteau, in rue Jules-
Chaplain, feudo degli scandinavi. Almeno una volta all’anno organizzano un
ballo grandioso, dove sbarca tutta Montparnasse. E se non è lì, si trovano in
molti altri posti. Negli studi arredati per l’occasione, per esempio, con i pittori
che si incaricano della messinscena e anche dei manifesti affissi per le strade.
A Bullier, dove l’Unione degli Artisti Russi cede a volte il posto all’A.A.A.
(Aiuto Amichevole agli Artisti), che organizza serate per gli artisti bisognosi.
Si va anche al Bal des Quat’z’Arts, che inizia nel cortile dell’Accademia di
Belle Arti per terminare, la notte tardi – o il mattino presto –, con un bagno
rituale in place de la Concorde o nei giardini del Luxembourg. Al sabato o
alla domenica, a volte l’uno e l’altra, ci si ritrova al Bal Nègre, in rue Blomet,
vicino a Vaugirard. Béguine, punch, rhum, un gran battere di tamburi e le
note acute dei clarinetti. Tutta una folla che balla e fa baccano. Molti neri,
mulatti, soldati della Coloniale, e sempre più artisti.
Succede anche che si vada a ballare al Moulin de la Galette o al ballo dei
Pompieri, in rue de la Huchette, prima di ritrovarsi in posti più tranquilli,
all’ombra di una festa.
A volte, Youky e Foujita si fermano al Caméléon, all’angolo tra boulevard
Montparnasse e la rue Campagne-Première. Una volta durante la giornata il
locale era vuoto. Vi si mangiava una choucroute appena più cara degli
spaghetti di Rosalie. Qualche venditore ambulante vendeva materassi e calze
di seta ai rari clienti.
Ma dopo che Alexandre Mercereau, scultore di professione, ha deciso di
animare questo vecchio bistrot, il posto è pieno dalla mattina alla sera.
Soprattutto la sera. Il Caméléon è stato trasformato nella libera università di

338
Montparnasse. Vi si incontrano musicisti e poeti di ogni parte del mondo.
Eseguono le loro musiche e leggono i loro versi, tengono conferenze. Alla
domenica vengono in molti ad assistere agli spettacoli comici. Anche gente
dell’alta società. È stato visto Cocteau. E anche la contessa de Noailles.
La dama è un’ammiratrice di Foujita. Non tanto, forse, per la qualità della
sua pittura quanto per il fatto che anche lui dipinge come Van Dongen la
gente del gran mondo. Ha fatto il ritratto della contessa di Clermont-
Tonnerre, della contessa di Ganay, della contessa de Montebello. Perché non
quello della contessa de Noailles?
All’epoca, se Youky e Foujita passano la maggior parte del tempo a
Montparnasse, abitano però in rue Massenet, dalle parti di Passy. La contessa
de Noailles è una loro vicina. È lei che si sposta per la prima seduta di posa.
È molto piccola ma porta un’immensa collana di perle intorno al collo.
L’aiuta a tenersi diritta. Non ha molta ammirazione per gli artisti che le hanno
fatto il ritratto prima del pittore giapponese, ma ha una scusa: ammira solo se
stessa. Si piace sotto tutti gli aspetti, particolarmente quello della poesia che
pratica assiduamente. È una grande artista. Una poetessa immensa. Una
donna bellissima. Con uno sguardo magnifico. Una fronte che mostra la
sottile intelligenza che è la forza della sua seduzione. Un corpo da dea che a
volte conviene proteggere, capirete perché, caro Foujita, bisogna che anche
voi veniate a dipingermi a casa, quando sono a letto per fare riposare il mio
corpo, i miei muscoli, il mio pensiero.
Ci va, il devoto Foujita. Passa dalla scala di servizio perché il portiere non
ne vuol sapere di un piccolo giapponese male in arnese in una casa così
nobile. La contessa de Noailles lo aspetta. Riposa languidamente sotto il
baldacchino di seta. Indossa un abito di Poiret. Si tiene nella penombra. Si
muove continuamente. Chiacchiera. Foujita dipinge. Le sedute sono
interminabili. Quando finalmente il pittore pone fine al suo lavoro, la
contessa si infuria: non vi trova la grazia della sua persona, lo splendore del
suo carattere, la divinità del suo spirito. Ma è così. L’artista firma e se ne va.
Senza finire l’opera.
La vita con Foujita è un sogno perché anche la sua carriera si alza in volo
come in un sogno. Dopo che, nel 1922, Chéron ha esposto le sue tempere, è
richiestissimo, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti. I suoi quadri si
vendono molto cari. In pochi mesi è diventato uno dei re con più seguito e
dei più ricchi di Montparnasse. Per i ventun anni della fidanzata (che
diventerà presto sua moglie) decide che deve cambiare autista. Fino ad allora,
Youky aveva avuto diritto a un taxi personale, sempre ai suoi ordini: le si

339
fermava davanti non appena compariva sulla soglia di un ristorante o di un
locale notturno. L’autista era un signore ancora squattrinato, sebbene si
chiamasse già Albert Simonin.
In pieno successo, Foujita pensa che la sua futura moglie meriti di più di
un futuro scrittore al volante di una banale berlina. Nel 1924, per i suoi
ventun anni, le regala la cosa sognata da tutti i pittori alle prime armi: un’
automobile. E non è un’automobile qualunque: si tratta di una Ballot gialla
carrozzata da Saoutchik, con il tappo del radiatore firmato da Rodin, e
guidata da José Raso, basco, campione di pelota, promosso autista dal
maestro.
Il visone che l’accompagna è cosa da poco, la dattilografa alla quale
Foujita detta ormai la sua corrispondenza non è che una goccia nel mare dei
segni esteriori di un successo che aumenta da un anno all’altro.
Foujita a Saint-Tropez.
Foujita a Cannes, sulla Croisette.
Foujita che va in bicicletta per le strade di Deauville. Con chi? Con
Maurice de Rothschild, Van Dongen, le Dolly Sisters o Susy Solidor, vedette
della rivista, che si esibisce in costumi da bagno di conchiglie di madreperla
o addirittura di rete da pesca con cache-sex in sughero. C’è anche
Mistinguette, che André Salmon ha incontrato al Tribunale di Versailles, dove
la «regina delle piume» perseguiva rabbiosamente una cameriera che le aveva
rubato una delle sue centosettantadue pellicce.
Un universo sorprendente, impietoso, elegante, diabolicamente mondano
anche se, lo dicono tutti, Foujita non è cambiato.
Molta acqua è passata sotto i ponti, e i ponti sono cambiati. L’atelier della
rue Delambre si è offuscato nella memoria. Anche la casa della rive droite. A
partire dal 1927, Youky e Foujita vivono in rue du parc Montsouris, numero
3: un pianoterra, tre piani e una terrazza. Per i mobili, ci si è arrangiati con gli
amici. Un giovane scrittore in ascesa ha venduto loro un tappeto, qualche
poltrona e un bar americano molto originale. Firma le sue opere con il nome
di Georges Sim, abbreviazione di George Simenon. Anche lui è un habitué
delle feste che danno i Foujita nella loro dimora e che valgono quelle,
altrettanto famose, di Van Dongen. Anche lui va al Dôme e alla Rotonde, si
riempie la pipa di hashish, aspetta il suo turno nelle anticamere dei bordelli.
Anche lui esce da un bar per entrare in un altro, lascia un piacere per un
altro, per un altro ancora fino a che, la sera tardi, i fumi dell’hashish e
dell’alcool lo spingono sull’altra riva della Senna, al numero 28 di rue Boissy
d’Anglas, dove Jean Cocteau, realizzando la profezia di Maurice Sachs, è

340
diventato il più straordinario degli animatori.

341
Un cocktail, molti Cocteaux

...Radiguet, monocolo all’occhio, lontano,


pretenzioso, che si prendeva per Radiguet...
Pierre Brasseur

Dal 10 gennaio 1922 Cocteau celebra i suoi riti al Boeuf sur le Toit. Ha
preso d’assalto il bar di Louis Moysès con la sua banda. C’è tutto lo chic di
Parigi, più i musicisti del Groupe des Six, Diaghilev, Coco Chanel e altri. Ce
n’è abbastanza per fare del locale il centro rive droite dell’avanguardia in
marcia.
Cocteau regge la fiamma. Wiener e Doucet sono al piano, Williams alla
batteria. Nessuno li sta a sentire: si viene qui per farsi vedere. O per bere. O
per ammirare L’Oeil cacodylate di Picabia, acquistato da Moysès dopo che il
Salon des Indépendants l’aveva rifiutato. Si tratta di un occhio che Picabia
aveva disegnato quando soffriva di una malattia agli occhi curata con il
cacodylate (allusione medica che ricorda L’Antipyrine di Tristan Tzara).
Aveva chiesto agli amici di arricchire il quadro con le loro firme e qualche
parola: Isadora (Duncan) aime Picabia de toute son âme; Je le trouve TRES
(Tristan Tzara); Je n’ai rien à vous dire (Georges Auric); Je m’appelle Dada
depuis 1892 (Darius Milhaud); J’aime la salade (Francis Poulenc);
Couronne de mélanconie* (Jean Cocteau, con foto).
Dopo le prime incursioni a Montparnasse, Cocteau ha fatto molta strada. Si
è fatto inevitabile.
Con un raro senso tattico, il giovane poeta della Danse de Sophocle (venticinque anni
nel 1917) aveva finito per assicurarsi la sottomissione di quella gente di mondo da
cui lui aveva l’aria di rifuggire dopo averli conquistati con il proprio talento di
stratega, e dai quali tornava sempre, pieno di leggerezza, carico di doni tali da
lasciarli stupefatti dall’ammirazione.1

Salmon sa usare le parole, e anche se parla con una certa durezza ha


ragione: una decina d’anni dopo la sua apparizione negli ambienti artistici di
Parigi, Cocteau è arrivato dove voleva. Ognuno conosce ormai le ricercatezze

342
delle sue mondanità, ma sono ammesse. Anzi: ricercate. E si è pronti a
scusarlo, il poeta. Ha tanto bisogno di essere amato! È così brillante!
Certo.
D’altra parte, è ammiratissimo dai giovani. Quando propongono al giovane
Pierre Brasseur di incontrarlo, non esita. «Nel 1923 tutti i giovani
desideravano conoscerlo».2
Il futuro attore arriva in rue d’Anjou e scopre «questo personaggio in filo
di ferro che noi tutti ammiriamo». Il giovane resta affascinato. Soprattutto
dalle mani del poeta, «mani che ne valevano quattro e che volteggiavano
anche per dire buongiorno. Sapeva servirsene in modo meraviglioso.
Disegnava ogni cosa con le mani, la metteva in evidenza. Erano pennelli,
quelle mani, erano lampi, piume. Insomma, le più belle mani che abbia mai
visto!».
L’ospite porta il visitatore fino nella stanza da bagno. Incomincia a radersi
senza smettere di parlare.
Parole a rovescio, idee che cozzavano le une contro le altre: giochi d’idee, come
giochi di parole (...). Un fuoco d’artificio via l’altro. Bastava accennargli una parola,
un’idea, perché ne facesse un’invenzione poetica. Poi la metteva da parte, graziosa
immagine dei suoi meravigliosi riflessi (...). Non era mai in difficoltà, maledetto.

La seconda volta, Cocteau porta Brasseur nella sua camera da letto. I muri
sono ricoperti di numeri di telefono. Un altro visitatore, Georges Charensol,
allora giornalista al «Paris-Journal», farà notare l’ostentata modestia di questa
stanza in confronto al lusso borghese dell’ingresso, dove troneggia il ritratto
del padrone di casa dipinto da Jacques-Emile Blanche. Ma Brasseur è ancora
troppo giovane per notare questi dettagli. Tanto più che appena entra nella
stanza vede uscire da sotto il letto una specie di gigante. Ha il viso pesto e la
bocca impastata: l’oppio, senza dubbio, di cui i due uomini hanno abusato
per ore.
Cocteau indica quel fantasma mezzo addormentato e dice: «Questo è il
bambino che ho fatto stanotte».3
Joseph Kessel.
C’è di che impressionare un giovanotto.

La sera dell’inaugurazione del Boeuf sur le Toit, Picasso chiacchierava con


Marie Laurencin, e Brancusi con un giovane che aveva incontrato quache
volta in compagnia di Cocteau. Non era particolarmente bello. Aveva il

343
colorito chiaro, gli occhi pallidi, era piccolo, miope, spettinato. Si arrotolava
le sigarette, spandendo tabacco dappertutto. Tirava fuori di tasca un paio di
occhiali rotti e li teneva davanti all’occhio, come un monocolo.
Era stato André Salmon che, durante la guerra, aveva introdotto il giovane
nella banda di Cocteau. Il poeta lavorava allora all’«Intransigeant». Nel 1917,
aveva preso contatto con un suo vecchio amico disegnatore per ordinargli
una serie di disegni da pubblicare in prima pagina (Salmon l’aveva fatto
anche con Foujita). Il disegnatore aveva accettato la proposta: due
illustrazioni alla settimana. Poiché abitava a Saint-Maur (all’epoca Parc-Saint-
Maur), aveva incaricato il figlio delle consegne.
Il figlio era un ragazzino di quattordici anni, con i suoi bravi pantaloni
corti.
Un ragazzino simpatico dallo sguardo vivo da adulto, ancora ingenuo, ma candidato
alla crudeltà; sì, uno sguardo strano ombreggiato da un ciuffo malizioso, spesso,
come la visiera rigida di un berretto.4

Si chiamava Raymond Radiguet.


Due volte alla settimana, Raymond Radiguet porta i disegni del padre.
Dopo qualche visita, si rivolge a André Salmon: «Sa, anch’io disegno».
Salmon non ci fa caso.
«Vuole che le faccia vedere?».
Sotto lo sguardo stupito del giornalista, il ragazzo apre la cartella con i
disegni del padre, e tira fuori i suoi.
«Allora?».
André Salmon rimane senza parole.
«Potrebbe pubblicarli, forse...».
Poiché il segno non era malvagio – anche se mediocre – e l’amico
illustratore aveva bisogno di soldi, Salmon accetta. A una condizione: che il
ragazzo scelga una firma diversa da quella del padre.
«Nessun problema», replica Raymod Radiguet.
Sotto lo sguardo sbalordito del redattore, prende una stilografica e sigla:
«Rajki».
Passa una settimana. La volta seguente Raymond Radiguet mette sul tavolo
il disegno del padre, e vi aggiunge il suo.
Poi: «Non gliel’ho detto, ma io scrivo anche...».
Tira fuori una poesia.
«Vai a trovare Max Jacob», gli consiglia André Salmon.
L’indomani Raymond Radiguet telefona a Max Jacob; poi ritorna

344
all’«Intran» e chiede a Salmon se vuole aiutarlo a fare il giornalista. Infine
riesce a introdursi da Léonce Rosenberg, dove era stata organizzata una
lettura in memoria di Guillaume Apollinaire. Radiguet legge una poesia.
Cocteau è presente. Max Jacob facilita l’incontro. Cocteau, molto
impressionato, cade nelle braccia della giovinezza.
La sera dell’inaugurazione del Boeuf, Brancusi, avendo capito di non avere
niente a che fare con il posto, invita il giovane ad andare verso cieli più
semplici. Vanno a Montparnasse. All’alba, lo scultore propone di prendere il
treno.
«Sì, ma per dove?».
«Il sud».
Vanno alla stazione, salgono sul primo treno e si ritrovano in Bretagna.
Cambiano treno, e la notte dopo arrivano a Marsiglia. Ancora in smoking e
scarpe di vernice.
Trovano Marsiglia triste e vanno a Nizza. Nizza è deserta, così si imbarcano
per Ajaccio. Poiché ad Ajaccio ci sono troppo poche donne, vanno in giro
per l’isola. Ma l’isola non è grandissima, e undici giorni dopo si ritrovano a
Parigi. «Brancusi depositò Radiguet al Boeuf e non ci ritornò più», si limita a
ricordare Jean Hugo.5
Come Pierre Brasseur, anche Paul Morand, che incontra Radiguet per la
prima volta in occasione di un ballo mascherato da Paul Poiret, lo giudica
taciturno, arrogante e pretenzioso. Lo stesso Cocteau, affascinato, innamorato
pazzo, scriverà più tardi, critico e autocritico allo stesso tempo:
Aveva senza dubbio un piano, stava mettendo in esecuzione un programma a lunga
scadenza. Un giorno, avrebbe orchestrato la sua opera e, ne sono sicuro, avrebbe
fatto tutte le manovre possibili per metterla in vista.6

Ma non l’ha forse fatto? E Cocteau non l’ha forse aiutato?


Quando Raymond Radiguet comincia a scrivere la storia del legame che
unisce durante la guerra un giovane a una donna più vecchia di lui, il poeta
collabora. Non si sa fino a che punto. Forse si è accontentato, come ha detto
lui stesso, di chiudere a chiave in camera il suo pupillo, per obbligarlo a
vincere la pigrizia. Comunque è lui che è andato dall’editore Grasset a
leggergli le prime pagine del libro.
Bernard Grasset ha capito subito quale miniera d’oro gli si offrisse: un
autore giovanissimo, profumo di scandalo, padrini e protettori nella Parigi
delle arti, delle lettere e della mondanità.

345
Quando esce Le Diable au corps, nel marzo del 1923, la strategia è molto
efficace. L’editore Grasset lancia l’opera come un prodotto commerciale. Per
l’epoca, la pubblicità letteraria nei giornali, le varie informazioni stampa, gli
amici che scrivono sui giornali (specialmente Cocteau nella «Nouvelle Revue
Française»), è una novità assoluta. Risultato: cinquantamila copie vendute in
quindici giorni. «Bébé» (come Cocteau chiama Radiguet) può essere
contento.
E lo è. Durante l’anno che gli resta da vivere, beve il suo trionfo, fuma
oppio, e consuma tutto ciò che può, molto in fretta. Lascia dietro di sé
Marthe, l’eroina del Diable au corps, che lo cerca implorando nelle sale delle
redazioni; Beatrice Hastings, incontrata da Brancusi, tanto violenta e
appassionata con «Bébé» quanto lo era stata con Modigliani; e Jean Cocteau,
che non riesce ad accettare né quelle due né l’ultima conquista, Bronia
Perlmutter, una giovane modella di origine polacca, molto ricercata a
Montparnasse, dipinta da Nils Dardel e da Kisling, che è andata al Boeuf
vestita con un abito di Poiret, e che Raymond Radiguet si è portata in
albergo.
I più giovani dicono che vogliono sposarsi. Si nascondono all’Hôtel Foyot,
in rue de Tournon. Fuggono quello che le malelingue chiameranno presto Le
Veuf sur le Toit (Il Vedovo sul tetto), e che i cronisti definiranno: «un
cocktail, des Cocteaux».
Radiguet brucia la sua estrema giovinezza in questa Montparnasse
intorpidita dai balli e dai canti, illuminata dalle ghirlande di gioie costose,
drogata dalla cocaina venduta dalle dames pipì, le guardiane dei gabinetti dei
caffè e dei ristoranti, annegata nell’ebbrezza dell’alcool bevuto dagli artisti di
qui e d’altrove, i turisti stupefatti, gli americani che brindano alla felicità di
trovarsi lì, in questa città libera e magnifica. Più che mai, rive gauche, rive
droite, Parigi è una festa. Una festa grandiosa.
Ma solo qualche mese dopo l’uscita del Diable au corps, le luci si
abbassano all’improvviso. Il 12 dicembre 1923, Raymond Radiguet muore
per un attacco di febbre tifoidea. Quando viene trasportato dalla sua camera
all’Hôtel Foyot in una clinica del XVI arrondissement, è già troppo tardi. Il
professore mandato d’urgenza da un Cocteau distrutto non ha saputo
diagnosticare la malattia. Radiguet riceve l’assoluzione e muore tra atroci
dolori.
Coco Chanel organizza i funerali. La bara, i fiori, i cavalli, i finimenti...
tutto bianco. Cocteau, distrutto dal dolore, non assiste alla sepoltura. Qualche
anno più tardi, scriverà queste righe ammirevoli:

346
Radiguet era troppo libero. Ed è lui che mi ha insegnato a non appoggiarmi a niente.
(...) Dato che quel po’ di chiaroveggenza che avevo mi veniva da lui, la sua morte mi
ha lasciato senza direttive, incapace di guidare la mia barca, di aiutare il mio lavoro
e di badarvi.7

Raymond Radiguet aveva vent’anni.

347
Usa at home

Voi altri, voi giovani che avete fatto la guerra, siete


tutti una generazione perduta.
Gertrude Stein

In America, c’è il proibizionismo. In Europa, si può bere in pace. Altri


vantaggi: in Europa la vita non è così cara, e ci si trova un mucchio di amici
che non chiedono altro che di darvi una mano.
Sylvia Beach, per esempio. La sua libreria è una casa di accoglienza. I
viaggiatori possono farvi mandare la posta, e i libri di Shakespeare & Co.
sono a loro disposizione. Sylvia organizza incontri e favorisce gli scambi.
Quelli che vogliono trovarsi intorno a un tavolo a bere un bicchiere
uscendo dalla libreria, basta che risalgano la rue de l’Odéon, attraversino il
Luxembourg, rue Vavin, rue Bréa, prima a destra dopo il crocevia, rue
Delambre al 10. Qui c’è un bistrò tenuto da un americano: «Le Dingo,
American bar and restaurant». Di giorno, vi si mangia, ma è piuttosto caro.
La sera, vi si può bere in allegria. Flossie Martin, una ballerina, che ha fatto il
gran salto sopra l’Atlantico, dirige il balletto degli amici. Bevono forte e
parlano con l’accento yankee: il Dingo è uno dei luoghi sacri della colonia
americana. Gli scrittori, che a Parigi sono qualche centinaio, vi si ritrovano
dopo cena: Sherwood Anderson, Thornton Wilder, Eugène Jolas (che abita
alla Boisserie, una casa nel villaggio di Colombey-les-deux-églises), Sinclair
Lewis, Archibald Mac Leish, John Dos Passos, William Seabrook, Djuna
Barnes, Mina Loy, Robert MacAlmon (che sarà l’editore dei suoi amici
americani). C’è anche Georges Gershwin, che scrive Un americano a Parigi
in camere d’albergo; Ezra Pound, uno dei primi arrivati, corrispondente a
Parigi della «The Little Review», che avrebbe lasciato la Francia nel 1924 per
raggiungere l’Italia, e ahimè, il suo Duce. Natalie Clifford Barney e la sua
compagna Romaine Goddard Brooks, che tengono tavola imbandita
nell’hôtel di rue Jacob. C’è Henry Miller, di passaggio nel 1928, ma che si
fermerà più a lungo due anni dopo, mettendo a punto forse proprio al Dingo
il metodo infallibile che gli permette di mangiare ogni giorno: si metteva a un

348
tavolo, scriveva dodici parole che mandava a dodici clienti presenti nella
sala, chiedendo a ognuno di loro di invitarlo a pranzo una volta la settimana.
Miller che, per una bottiglia di champagne e di un incontro gratuito, redigeva
il prospetto del bordello più grande della rive gauche, lo Sphynx, che
avrebbe aperto nel 1931 (prendeva anche una commissione dello stesso tipo
sui clienti che si presentavano a suo nome).
C’è anche Sandy Calder con le sue sculture di filo metallico e il suo circo.
Ci sono soprattutto Scott Fitzgerald, Zelda e la piccola Scotty. Gatsby verrà
pubblicato tra poco ma, dopo l’uscita di This Side of Paradise nel 1920, i
giornali americani si contendono i racconti dello scrittore. Cosa che gli
consente di darsi alla pazza gioia.
È al Dingo che Fitzgerald incontra Hemingway. Venuto la prima volta a
Parigi nel 1921, ci era ritornato con la moglie Hadley e il figlio. Hemingway
conosce tutti gli anglosassoni di Parigi, specialmente Joyce con il quale fa
delle grandi bevute (quando è ubriaco lo scrittore irlandese canta arie
d’opera) e al quale ha dato lezioni di boxe.
La famiglia Hemingway ha abitato per un po’ nel V arrondissement, poi ha
traslocato in rue Notre-Dame-des-Champs. All’inizio Hemingway si
guadagnava da vivere scrivendo articoli sportivi per il «Toronto Star». Da
quando ha rinunciato al giornalismo, tenta di cavarsela giocando alle corse e
proponendo racconti che i giornali americani rifiutano uno dopo l’altro.
Scrive alla Closerie des Lilas, più tranquillo del Dôme o del Select (l’unico
poeta che vi si introntri è Blaise Cendrars). A volte lo accompagna il figlio
Bumby che impara a parlare mentre il padre lavora. Quando si avvicina l’ora
di pranzo, il gioco consiste nel cambiare posto e nell’andare da qualche parte
dove non ci siano tentazioni alimentari: come cedere a quelle tentazioni senza
denaro?
Hemingway ha trovato un itinerario che va bene per la sua miseria. Si tratta
prima di tutto di raggiungere il Luxembourg: piante e alberi hanno un buon
odore che non evoca quello di piatti allettanti. Tra la piazza dell’Observatoire
e la rue de Vaugirard, i passanti affamati non corrono rischi: non ci sono
ristoranti.
Se si vuole cambiare paesaggio e lasciare il giardino, Hemingway consiglia
di scendere per la rue Férou fino a Saint-Sulpice. Non si incontrerà nessun
ristorante tentatore. Si può poi andare verso la Senna, pur sapendo che lì si
trovano legioni di panettieri, pasticcieri, salumieri e altri demoni masticatori.
La cosa migliore è quindi girare a destra in rue de l’Odéon evitando la piazza
(dove tre ristoranti adescano il cliente) e di risalire al numero 12. Sylvia

349
Beach vi accoglierà sempre amabilmente. Spingerà la sua cortesia fino a
prestarvi dei libri. È così che Hemingway ha letto Turgenev, Gogol’ e
Cˇechov.
La sera, Hemingway va spesso al Dingo. La prima volta che vi incontra
Scott Fitzgerald, questi sta bevendo una coppa di champagne dopo l’altra.
Alla fine della serata, bisognerà alzarlo di peso per caricarlo su un taxi.
I due si rivedono qualche giorno dopo alla Closerie des Lilas. Fitzgerald
racconta a Hemingway come fa per pubblicare i suoi racconti sui giornali
americani: ne spedisce uno al «Post», poi, dopo che è stato pubblicato, lo
riprende, lo taglia, lo modifica e lo manda ad altri giornali.
Poiché Hemingway si indigna e tratta il compatriota da «puttana», questi
urla: «Ma io ho bisogno di soldi per scrivere buoni libri!».1
Dopo di che, Fitzgerald chiede all’amico se potrebbe accompagnarlo a
Lione per recuperare la Renault che Zelda e lui hanno dovuto lasciare lì a
causa del cattivo tempo.
Hemingway accetta. Un viaggio inenarrabile.
Scott perde il treno e Ernst parte da solo. Quando si ritrovano, il giorno
dopo, Scott ha già abbondantemente intaccato la sua dose quotidiana di
bottiglie. Gli serve per tirarsi su. Prendono un po’ di provviste per il viaggio
prima di andare al garage. La Renault aspetta. Si tratta di una berlina senza
tetto. Hem si stupisce, e Scott gli spiega: poiché a Marsiglia il tetto si era
ammaccato, Zelda l’aveva fatto levare. Era per questo che avevano
abbandonato l’automobile a Lione: si poteva dire che la pioggia gli aveva
tarpato le ali.
I due salgono in macchina, Scott al volante, Hem di fianco. Ben presto un
acquazzone li obbliga a fermarsi. Ripartono, si fermano, ripartono, si
fermano di nuovo. Ogni volta, o quasi, fanno il pieno di vino. Scott è felice:
non ha mai bevuto a canna. Ma all’improvviso, tra due sorsate, ha un colpo
di tosse. Che sia l’inizio di una congestione polmonare?
«Certo che no», risponde Hemingway.
«Certo che sì», obietta Fitzgerald.
Ed è anche grave. Ha conosciuto almeno due persone che sono morte di
congestione polmonare. Non vuole che gli capiti lo stesso, anche se pensa
che le cose si mettono male.
A Chalon-sur-Saône, si ferma davanti a un albergo: sta male, deve mettersi
a letto.
Una volta in camera, Scott si mette in pigiama e va a letto. Prima di

350
chiudere gli occhi, chiede a Hemingway di promettergli di occuparsi di sua
moglie e di sua figlia. Hemingway promette senza fare difficoltà, tanto più
che il polso del suo amico è del tutto normale, come il suo colorito. Ma ci
vuole un termometro. Chiamano il cameriere.
«Se ne esco», dichiara saggiamente Fitzgerald, «prendiamo il treno e vado
all’ospedale americano di Parigi».
Arriva il termometro. Scott lo infila sotto l’ascella: trentasette e sei.
«È tanto?», chiede l’ammalato.
«Non è niente».
«Quanto hai, tu?».
Per dovere d’amicizia, Hem si prova la febbre.
«Allora?», chiede Scott ansioso.
«Trentasette e sei».
«E non stai male?».
«Assolutamente no».
Fitzgerald salta giù dal letto, si toglie il pigiama e si veste in un attimo.
«Guarisco sempre in fretta».
Qualche giorno dopo, a Parigi, Scott invita l’amico Hem a colazione. Gli
deve parlare di un problema grave, doloroso. Zelda gli ha detto che il suo
pene è troppo piccolo per poter soddisfare una donna. Che fare?
«Vedere», risponde Hemingway.
Lasciano la tavola e si chiudono in bagno. Esito dell’esame: normale.
«Non è vero», risponde Scott. «In effetti è piccolissimo».
«È perché lo vedi dall’alto. Di profilo è perfetto».
«Ho bisogno di verificare».
«Andiamo al Louvre».
«A fare che cosa?».
«A confrontarlo con quello delle statue».
Due americani a Parigi...

Ma a Parigi c’è un’americana, che Hemingway non conosce ancora:


l’inquilina del numero 27 della rue de Fleurus: Gertrude Stein.
Quando va da lei per la prima volta, Hemingway ha ventitré anni. Lei lo
trova molto bello. E a quanto pare anche molto rispettoso. La signora è al
settimo cielo. Non solo il nuovo venuto rimpiazzerà forse Ezra Pound, che è
stato scacciato dopo che ha rotto una sedia, ma lo rimpiazzerà molto
vantaggiosamente: infatti si siede e rimane ad ascoltarla. Meglio ancora. Le
chiede consiglio. Non le ha forse proposto di leggere i suoi manoscritti?

351
Le mostra alcune poesie che le sembrano accettabili e un frammento di
romanzo decisamente brutto. Per orientarlo, la Stein gli fa leggere la sua
ultima opera: The Making of Americans. Hemingway rimane a bocca aperta: è
un capolavoro. Gertrude Stein scriverà che Hemingway le aveva detto: «Tutto
ciò che a me e a quelli della mia generazione resta da fare è consacrare la vita
per cercare di farlo pubblicare».2
E lo fa. Ricopia il manoscritto, corregge le bozze e segue la pubblicazione.
È proprio gentile, questo colosso, e devotissimo. Quando Gertrude Stein gli
consiglia di abbandonare il giornalismo per consacrarsi alla scrittura,
Hemingway, la mano sul cuore, giura che lo farà. Parte per gli Stati Uniti,
secondo i consigli della buona Gertrude. Ci va per lavorare in modo da non
dover più fare il giornalista al suo ritorno.
Un buon allievo, dunque. Del resto è quello che dicono di lui Gertrude
Stein e Sherwood Anderson: Hemingway, «un ottimo allievo!»
Perché questa qualità piuttosto che un’altra? Perché, scrive ancora la
grande Gertrude, ha eccellenti maestri: lo stesso Anderson e lei, Gertrude
Stein. Sì, lei è convinta che sono stati loro due a formare il piccolo. Che, lo
riconosce, aveva il suo talento: registrava ciò che loro gli dicevano senza
capire. La Stein lo paragona a Derain: è moderno ma sa un po’ di museo.
La versione di Hemingway non è naturalmente la stessa. Prima di tutto,
dalla Stein ci va quasi sempre da solo. Gertrude infatti non apprezza le mogli.
Per tenerle occupate, c’è Alice Toklas.
A Hemingway piace andare dalla Stein: gli offrono acquavite a volontà e
può guardare i magnifici quadri appesi alle pareti. La conversazione è
gradevole, anche se Miss Stein si dilunga di più e più a lungo sui pettegolezzi
legati alla vita dei pittori che sulle loro opere. Quanto ai corsi di educazione
sessuale che prodiga al visitatore, sono francamente esilaranti. Tenta di
persuaderlo che l’omosessualità maschile è sporca e viziosa mentre
l’omosessualità femminile è bella e grandiosa. Risposta, in petto, del
giovanotto: «Non basta scopare, bisogna salvare anche il culo».
Stima il suo lavoro, niente di più. Trova che The Making of Americans
abbia delle qualità ma anche molti difetti: è troppo lungo, ripetitivo,
indigesto. È per amicizia che corregge le bozze e si dà da fare per agevolare la
pubblicazione dell’opera. Nient’altro.
La cosa più importante, comunque, resta Gertrude Stein. Come sempre. La
sua vita, le sue opere. Miss Stein si augura di essere pubblicata nell’«Atlantic
Monthly» o nel «Saturday Evening Post», giornali dove, secondo lei,
Hemingway non può sperare di comparire: come scrittore non è all’altezza.

352
Gli altri autori americani o di lingua inglese non valgono molto di più.
Contano appena, assicura l’inquilina della rue de Fleurus. Huxley? Una
nullità. Lawrence? Un malato. Joyce? «Chiunque parlasse due volte di Joyce
davanti a lei, sarebbe stato inesorabilmente bandito».3 Per Gertrude Stein,
tutti gli scrittori che hanno fatto la guerra non pensano che a ubriacarsi e non
rispettano niente. Secondo una definizione diventata famosa, ma del tutto
idiota, sono «una generazione perduta».
A forza di parlare male di loro e di tutti, Gertrude Stein finirà per litigare
con la maggior parte di quelli che frequentavano la sua casa. Tranne Juan
Gris, perché è morto. Tutti gli altri, compreso il fratello Leo, si metteranno
contro di lei quando, nel 1934, pubblicherà in Francia le sue memorie.
Braque, Picasso, Tzara, Matisse, Salmon, pubblicheranno a loro volta una
serie di testi criticando i pettegolezzi della signora, la sua pretesa di arrogarsi i
titoli più diversi, la capacità di giudicare la pittura in funzione di affinità
personali piuttosto che in base all’opera stessa.
Hemingway, più tollerante, accetterà di rivederla. Ma non le sarà mai più
intimo. La loro vecchia amicizia gli sarebbe tornata in mente molti anni dopo,
negli anni Sessanta, alla vigilia del suicidio, quando avrebbe ripensato alla
sua giovinezza a Parigi per scrivere un libro che è prima di tutto un omaggio
alla libertà di quell’epoca: Parigi è una festa.

353
Un ebreo errante

Il cappello sulla nuca, assomigliava più a un


personaggio della Broadway della fine del secolo
scorso, che a quell’incantevole pittore che era, e più
tardi, quando si è impiccato, mi piaceva ricordarlo
così com’era quella sera, al Dôme.
Ernest Hemingway

Risalendo il boulevard de Montparnasse, di ritorno dalla casa di Gertrude


Stein o dalla libreria di Sylvia Beach, Hemingway passa davanti al Dôme. Un
uomo è seduto a un tavolo. Disegna. È in compagnia di due ragazze. Una è
bruna. L’altra è molto giovane, carina. L’uomo è vestito con eleganza: abito
blu, cravatta, camicia chiara stirata di fresco, scarpe di vernice. Ha una lunga
sciarpa di seta bianca e una bombetta inclinata sulla fronte. Di colorito
leggermente scuro, ha gli occhi neri, vivi e profondi, attraversati da
improvvisi lampi di malinconia. Ha una sigaretta tra le labbra.
Con un gesto, invita Hemingway a raggiungerlo.
«Bevi in bicchiere con noi!».
Lo scrittore ordina una birra. L’altro gli fa notare che ha soldi, che possono
bere un whisky. Poi gli presenta le due ragazze, sue modelle, gliene offre una.
Gli offre anche l’atelier. Ridono.
Quando arriva il cameriere, l’uomo con la bombetta gli chiede qualche
foglio di carta. Accartoccia e poi butta via il foglio sul quale stava
disegnando. Prende un fiammifero, lo accende, lo spegne, disegna sul foglio
che gli ha portato il cameriere, diluisce il segno con il fondo di caffè, schizza
il ritratto di una delle due ragazze che gli sta di fronte, senza smettere di
parlare. Ha una voce dolce, l’accento dell’Europa centrale. Un sorriso
profondo. Fa mille domande allo scrittore, diluisce gli acquerelli con l’acqua
di seltz. Continuano a chiacchierare. A poco a poco prende forma un nuovo
disegno, che Jules Pascin butta per terra. Poi chiede un altro foglio, e
ricomincia.
Quando Hemingway si allontana per ritornare a casa, Pascin propone alle

354
due ragazze di bere un bicchiere al Viking. Poi si ritrovano da Alfredo, in rue
des Martyrs, dove Pascin è un cliente abituale. I piatti sono mediocri, ma
poiché sono molto cari il pittore ha l’impressione di invitare i suoi ospiti in
uno dei migliori ristoranti di Parigi.
A mezzanotte sono in quindici a tavola: altre modelle, altri pittori, qualche
nottambulo. Pascin paga per tutti. Poi la notte prosegue in un locale di
Montmartre o di Montparnasse, al pianterreno di un bordello. Alcuni
salgono. Altri no. Pascin disegna le ragazze. È lì e altrove nello stesso tempo.
Circondato, festeggiato, adulato, a volte sorridente a volte solo con le sue
matite, le sue penne, i suoi bicchieri di acquavite. Beve molto. Beve troppo.
Gli amici fanno di tutto per ridurgli le dosi. Ci riescono raramente.
Pascin è il re di tutte le feste. Spesso, approfittando delle auto degli amici,
trasferisce il suo piccolo mondo in campagna o sui bordi della Marna. Le
donne sono quasi sempre più numerose degli uomini. Mangiano cibi freddi e
bevono vino. Mezzo nudi per via dei bagni. Tornano tardi la sera. La giornata
finisce in un bar.
Almeno una volta alla settimana, Pascin invia agli amici un cartoncino
d’invito. Sono pregati di andare da lui in boulevard Clichy 36, con chi
vogliono.
I primi arrivati trovano l’ospite in veste da camera, intento a radersi. Si
aggira per il corridoio, con la schiuma in faccia, mentre le sue modelle
preferite controllano che ci siano abbastanza prosciutti, polli, arrosti, vini e
liquori.
Aïcha, una giovane mulatta nata nel Pas-de-Calais, che il pittore ha
scoperto un giorno su un boulevard, è la più fedele. È molto affezionata a
Pascin, però posa anche per Kisling, Van Dongen, Foujita e altri. Aiuta a
spostare sedie e pouf per fare spazio nell’atelier. Berranno, rideranno,
balleranno... Forse arriverà una banda. La festa sarà grandiosa ma semplice.
Non una riunione mondana come quelle di Van Dongen. E forse, verso
mattina, Pascin proporrà di partire per Saint-Tropez. L’ha già fatto una volta.
All’alba, in una cinquantina, hanno preso il treno per un viaggio
improvvisato in riva al mare. Sono rientrati dopo qualche giorno di bevute e
altrettante notti di ebbrezza.
Un’altra volta, a Marsiglia, il pittore ha offerto un banchetto a tutti gli
amici. Non era rimasto più un solo posto libero. E lui era andato nel
ristorante vicino e aveva cenato da solo. È Francis Carco che lo racconta.
Una storia così bella che sembra inventata. Ma non importa, perché
corrisponde alla vera natura di Pascin. Se gli piacciono tanto le feste, è

355
perché non può stare solo.
Una delle sue distrazioni favorite era di offrire da bere a tutti. Lo faceva in modo così
simpatico da evitare ogni ridicolo. I suoi invitati gli portavano rispetto ubriacandosi.
Bisognava vederlo, allora, Pascin. Era raggiante, chiedeva che gli raccontassero
delle storie, le ascoltava, poi, quando tutti erano ubriachi, scatenava un baccanale al
quale prendevano parte tutti. Più si beveva, più era felice (...). Eppure, in certi
momenti, si sentiva la sua sofferenza. Soffriva di essere un estraneo dovunque, anche
a Montmartre, in mezzo a tutti i suoi amici.1

All’alba, dopo aver pagato per tutti, Pascin ritorna a casa da solo. Ha il
cuore pesante. E non è soltanto perché ha bevuto.
Al mattino arrivano altre ragazze. Lui gli fa indossare calze nere, le fa
posare, gli dà da mangiare, le porta a letto. Loro gli comprano i tubetti di
colore, gli sistemano l’atelier. Ci sono danzatrici a cui paga la scuola di ballo,
altre che gli preparano i pasti o fanno le pulizie. Queste funzioni,
essenzialmente teoriche, non impediscono loro di vestirsi di pizzi e di stoffe
leggere, di prendere pose spesso molto suggestive per il loro maestro e datore
di lavoro, a volte amante, sempre amico.
Sono molto giovani. Pascin non ha mai il coraggio di rimandarle a casa,
anche perché quasi sempre non abitano da nessuna parte, se non in
bugigattoli, casupole di campagna, posti di grande povertà. Allora rimangono
da lui, dormono sui divani o anche per terra, avvolte in una coperta. Pascin
ama la semplicità delle figlie del popolo.
Pascin è allo stesso tempo un principe orientale e – come lo ha definito
l’amico George Papazov, pittore e compatriota – «un ebreo – l’ebreo errante,
senza radici, scacciato, perseguitato».2 Un uomo di grande generosità,
circondato da una vera e propria corte, di cui non può fare a meno e che lo
segue da un bar a una festa, come una scia sfavillante. «Intorno a un tavolo
di ristorante con a capotavola Pascin si poteva vedere gente dalla pelle di tutti
i colori», ha notato uno dei suoi amici e convitati più assidui, Pierre Mac
Orlan.3
Prodigo quanto Modigliani, Pascin regala i suoi disegni a chi glieli chiede,
soldi a chi ne ha bisogno, oggetti personali a coloro che li ammirano, e paga
al bistrò i conti dei più poveri. Quando un amico viene da lui per comperare
un quadro, lo lascia scegliere, poi dice che manderà un biglietto con il prezzo
– ma il biglietto non arriverà mai. È la sua maniera di fare un regalo.
Nel suo studio c’è un cassetto sempre pieno di soldi. Quando arriva un
amico che ha bisogno, gli dice: «Apri il cassetto e prendi quello che ti

356
manca».
A volte, gli rubano i quadri, dato che tutto il contenuto del cassetto non
vale uno solo dei suoi disegni. Hanno una quotazione talmente elevata, i
disegni di Pascin, che circolano molti falsi. Pascin chiude un occhio. Quello
che guadagna gli basta, e largamente. Se apprezzasse i segni esteriori della
ricchezza, vivrebbe come Picasso o Derain: i suoi prezzi sono più alti di
quelli di Derain e soltanto la metà di quelli di Picasso. Ma non mette da parte
niente. Spende tutto. Più per gli altri che per sé. Oltre agli amici, alle modelle
(che paga molto più del normale) e ai pittorucoli di Montmartre e di
Montparnasse, mantiene due donne. È sposato con una ma ne ama un’altra.
Del resto, lui le ama tutte, le donne che passano nel suo studio per farsi fare il
ritratto – per la maggior parte nubili. Pascin è un alcolizzato, un gaudente, un
eccessivo, un fornicatore. Ma anche uno sradicato, un apolide, un
cosmopolita. In fondo, dietro la facciata di tanti eccessi si nasconde un uomo
timido, ansioso, tormentato dalle pene d’amore.

È nato in Bulgaria, sulle rive del Danubio. Figlio di commercianti agiati,


certo più ricchi dei Soutine o dei Krémègne. Il padre è turco-spagnolo, la
madre serbo-italiana. I suoi genitori si sono trasferiti in Romania alla fine del
secolo, e le cose gli sono andate bene. È qui che Pascin incomincia a
praticare quella sessualità la cui aura scandalosa lo seguirà per tutta la vita. Si
innamora della donna sbagliata. Prima di tutto perché lei ha trent’anni e lui ne
ha quindici. Poi perché lei dirige un’impresa i cui guadagni le valgono il
disprezzo dei benpensanti. È infatti l’unica proprietaria del più importante
bordello di Bucarest. C’è di che suscitare l’interesse del giovane Pascin. E di
che contrariare la famiglia.
Il padre spedisce il ragazzo in Germania. Grazie all’esperienza fatta con
l’amante e le sue impiegate – le ha disegnate tutte – il giovanotto è diventato
un maestro nell’arte del ritratto e della caricatura. Così, dopo che ha studiato
disegno a Monaco, Vienna e Berlino (dove si lega a George Grosz), viene
assunto da un giornale satirico su cui firma già Steinlen: il «Simplicissimus».
È la goccia che fa traboccare il vaso paterno. Non solo il giovanotto si è
allontanato dalla religione ebraica, non solo si è rifiutato di entrare nel florido
commercio famigliare, non solo ha fatto le sue prime esperienze di uomo e di
artista in un luogo innominabile. Adesso, era arrivato addirittura a mettere la
sua firma su un fogliaccio che non rispettava niente e nessuno.
Perché la famiglia non sia ulteriormente disonorata, il padre ordina al figlio
di cambiare nome. Così, Julius Mordecaï Pincas diventa Jules Pascin. Allo

357
stesso modo, per obbedire a un ordine paterno, Lautrec aveva cambiato il
suo nome in quello di Tréclau. Ma mentre il francese aveva rinunciato quasi
subito all’anagramma, il bulgaro lo conserverà per tutta la vita.
Quando Pascin arriva a Parigi, il 24 dicembre 1905, ha vent’anni. È un
uomo libero. Ha rotto con i suoi, ha voltato le spalle a un avvenire sicuro,
porta un nome che si è scelto e guadagna comodamente da vivere grazie al
mensile del «Simplicissimus». Cosa eccezionale per un immigrato che viene
dall’est, alla stazione c’è qualcuno che lo aspetta. I clienti del Dôme, in
maggioranza tedeschi, hanno attraversato la Senna per accogliere il pittore di
cui conoscono benissimo la firma. Ci sono Bing, Uhde, Wiegels e altri.
Imbarcano il nuovo venuto per Montparnasse, gli prendono una camera
all’Hôtel des écoles, in rue Delambre. E che la festa incominci!
La festa incomincia in boulevard Sébastopol, la sera di Natale, con un
regalo insperato: una ragazza.
Prosegue con i colori e immagini, al Louvre, dove Pascin, come tanti altri,
copia i dipinti dei maestri.
Passa da un piano all’altro dei bordelli pieni di clienti.
Finisce ogni giorno a Montmartre, negli alberghi in cui alloggia Pascin, che
non ha ancora affittato gli studi in cui tra un po’ arriveranno gli amici, quelli
che scriveranno di lui: Paul Morand, Pierre Mac Orlan, André Warnod,
Ernest Hemingway, André Salmon, Il’ja Erenburg.
La festa ricomincia ogni giorno al Dôme, dove Pascin dà appuntamento a
chi vuole incontrare.
Come Modigliani, non appartiene a nessuna scuola. E, come lui, non
frequenta i gruppi, se non marginalmente. Nel grande momento del Bateau-
Lavoir, incontra Picasso al Circo Medrano. È lui che guida il funerale del
pittore Wiegels, che aveva conosciuto in Germania e che era andato a
riceverlo alla stazione il giorno del suo arrivo a Parigi (Wiegels si era
impiccato e tutta la banda del Bateau-Lavoir lo aveva accompagnato al
cimitero di Saint-Ouen, Picasso e i suoi in tuta blu e tenute fantasiose, mentre
Pascin era vestito tutto di nero e aveva già in testa la sua leggendaria
bombetta).
Come a Modigliani, a Pascin piacciono le donne, le feste e l’alcool. È
anche lui generosissimo. È pieno di amici come l’italiano e come lui è molto
amato. Appartengono alla stessa generazione. La loro è una storia fondata
sull’esilio. Hanno una gran pena, l’uno e l’altro. Modigliani, per aver dovuto
rinunciare alla scultura, Pascin per una donna. Incarnano la loro epoca.
Modigliani, la miseria di prima della guerra, Pascin l’opulenza del

358
dopoguerra. Lo stesso tragico destino che li porterà via, tormentati tutti e due
da un dolore segreto, a dieci anni di distanza.
Pascin, comunque, non è un artista maledetto. A partire dal 1908, espone al
Salon d’Automne, ma anche a Berlino, Budapest e altrove. È lui a inaugurare
la galleria di Pierre Loeb, nel 1924. A volte dà scandalo, al punto che Berthe
Weill deve appendere le sue opere su una parete poco in vista della sua
galleria. Ciò non gli impedisce di ricevere in studio molti collezionisti.
Nel 1907, quando abita ancora all’Hôtel des écoles (lo lascerà nel 1908),
divide uno studio in rue Lauriston con Henry Bing, uno degli amici del
Dôme. Una sera, Bing annuncia una visita per il giorno dopo: una ragazza che
fa incisioni e dipinge miniature sull’avorio. Pascin decide di riceverla in veste
da camera, un fiore all’orecchio.
Lei è alta, bruna, ha un occhio storto: un brutto incontro con una stecca del
busto quando era piccola.
Basta un’ora, a Pascin, per conquistarla. Le offre abbastanza cognac per
indurla a stendersi sul materasso e per rilevare che la sua biancheria intima è
tutta cucita insieme. Questa forma arcaica di cintura di castità è una
precauzione presa dalla madre per assicurarsi della verginità della figlia – che
ha ventun anni.
Hermine David entra quel giorno nella vita di Jules Pascin. È la sua prima
moglie legittima: la sposerà tredici anni dopo. Per molti anni vivranno a volte
insieme a volte separati in camere d’albergo, in atelier provvisori, fino al
trasloco del pittore in boulevard de Clichy.
La seconda donna di Jules Pascin, ancora più importante di Hermine, si
chiama Cécile Vidil: Lucy per i frequentatori di Montparnasse. A quattordici
anni è apprendista-salumiera, l’anno dopo apprendista-sarta, poi modella
all’Accademia Matisse. È qui che incontra i due uomini della sua vita: Jules
Pascin e Per Krogh.
Il primo va all’Accademia Matisse al solo scopo di incontrare quella
donna, ritenuta una delle più belle di Parigi. È bruna, la pelle chiara, curve
deliziose. Pascin la invita a posare per lui. Lei dice sì. Lui le chiede di più. Lei
dice ancora sì. Succede in un albergo della place d’Anvers. Non si
rivedranno più per dieci anni.
Per Krogh è figlio del pittore Christian Krogh e figlioccio di Edvard
Munch. Anche lui incontra Lucy all’Accademia Matisse. Va a posare per lui.
La porta al Bal Bullier, e Lucy gli cade tra le braccia. Ballano il tango da
professionisti, fanno una tournée in Norvegia, poi tornano a Parigi. Si
sposano nel 1915.

359
Pascin è lontano. Nel giugno del 1914, due mesi prima della dichiarazione
di guerra, ha lasciato lo studio di rue Joseph-Bara 3, la strada in cui abitano
anche Zborowsky e Kisling. Va a Bruxelles, poi a Londra. Da lì parte per gli
Stati Uniti, dove lo conoscono: John Quinn aveva comperato alcune sue
opere per l’Armory Show.
Passa gli anni di guerra tra New York, gli Stati del Sud e Cuba. Manda
regolarmente un po’ di denaro agli amici pittori che combattono in trincea.
Nel 1918 sposa Hermine David. Due anni dopo diventa cittadino americano.
Il suo testimone è Alfred Stieglitz. Nell’ottobre del 1921 ritorna in Francia.
Va subito in rue Joseph-Bara a cercare i bauli che ha portato in cantina
prima della partenza. Nel cortile incontra la donna che ha occupato il suo
appartamento al quinto piano. È Lucy Vidil – ora Lucy Krogh. Ha un
bambino di tre anni. Non conta. Si abbracciano. Il calvario durerà dieci anni.

360
Al Jockey

Flessuosa, elegante, Madame L. aveva piccoli occhi


penetranti e una espressione molto particolare. Le
sue labbra erano atteggiate a un sorriso che
ricordava quello di una madonna. Senza dubbio
rappresentava un tipo di donna assolutamente
decisa, forse un poco misteriosa, ma gentile,
affascinante. Vestita alla moda dell’epoca, lasciava
intravedere la linea precisa del seno, perfetto. Non
si può negare che fosse fatta per le aspirazioni
sentimentali di un uomo. E che rispondesse al
desiderio sessuale di Pascin – un uomo
perennemente innamorato.
George Papazov

Lui l’ama alla follia, lei risponde senza grande passione. Quando Hermine
David se ne va a vivere a Montparnasse, Pascin resta a Montmartre. E lì
lavora, fa baldoria, aspetta Lucy. Lei viene, anche spesso, ma non si ferma.
Dice che non può lasciare il marito e il figlio, Guy. Lui la implora. Lei rompe.
Lui le propone di continuare a vedersi «come due amici». Lei non risponde.
Lui ricorre a trucchi da bambino: va nei caffè dove sa di trovarla, finge di
non notarla, la tratta con freddezza, aspetta, spera. Inutilmente. Torna a casa,
le manda un biglietto per informarla che pensa di passare in rue Joseph-Bara
a prendere le sue cose in cantina, le chiede quale giorno le farebbe comodo,
l’assicura che non disturberà.
E infatti non disturba. E non prende le sue cose, perché lasciarle lì può
sempre servire, prende lei. Passano qualche ora insieme, forse una mezza
nottata, poi lei se ne va. Ritorna. Lui la supplica di non abbandonarlo. Lei va
via. Lui torna a Montparnasse, in rue Joseph-Bara. Prende una camera
nell’albergo in cui si sono conosciuti dieci anni prima e le manda una lettera
per ricordarle l’anniversario. Le fa regali, le promette viaggi, pranzi sontuosi,
una vita meravigliosa. Lucy accetta, rifiuta, viene, si spoglia, posa per lui, si

361
occupa dello studio, gli procura le modelle, scivola tra le sue lenzuola, Pascin
è felice. Quando lei se ne va, sempre troppo presto, si mette a dipingere. Se
Lucy promette di venire, e poi non viene, Pascin si dispera. Le invia lettere
strazianti. Dice che non può lavorare stando ad aspettarla, che sa che lei
verrà, le chiede perché non è lì con lui. Ha bisogno di lei per dipingere, per
vivere. Se Lucy decide di diradare le proprie visite, tratta con lei perché torni
più spesso. Poi si vendica bevendo.
Quando esce, beve. Quando beve, si prende una ragazza e se la porta a
casa. Se non è una ragazza è un ragazzo. Quando arriva, la mattina, Lucy gli
fa una scenata. Pascin è felice. Lei gli dice che quando beve lui perde il
controllo, è pronto a fare qualsiasi cosa, e lui risponde che beve quando lei
non c’è: e che quindi lei è responsabile della sua salute, che peggiora di
giorno in giorno. Lucy alza le spalle, si volta, fa per andare via. Lui le corre
dietro. Lei si ferma, torna. Lui la fa sdraiare sul letto. Quando alla fine lei si
rialza, ricomincia il solito incubo. Quando sarà, la prossima volta?
Pascin, deve stare sempre con qualcuno, è come un bambino. Ha paura del
buio. Quando Lucy è lontana, è sempre buio. Si torce le mani, dice che ne
morirà. Hermine, sua moglie, cerca di aiutarlo. Anche lei posa per lui, anche
lei si occupa del suo studio e delle sue modelle. Hermine e Lucy si vedono
spesso, sono amiche. Ciascuna a suo modo, le due donne si sforzano di
salvare Pascin. È una causa persa, anche se nessuno lo sa ancora. Pascin
continua a pagare per tutti, invita il mondo intero alle sue feste. È un po’ più
solo, molto più triste, ma riesce ancora a ingannare tutti.
Esce in gruppo. Ci sono Nils Dardel e sua moglie Thora, alla quale
Modigliani aveva fatto il ritratto qualche mese prima di morire; Abdul
Wahab, pittore tunisino che ospiterà Hermine e Pascin nel suo paese, Georges
Eisenmann, un commerciante appassionato di jazz; i Salmon, i Cremnitz,
Fatima, Morgan, Claudia, Simone, Aïcha – le modelle più fedeli. C’è anche
Hermine. Ci sono soprattutto Lucy, Guy e Per. Nessuno nasconde niente a
nessuno. Tutti sanno, e chiudono un occhio. Non si danno scandali, qui.
Intorno a Pascin, tutto è ebbrezza, libertà. Il suono purissimo della passione,
della follia. Per non ignora la relazione di Lucy. E nemmeno Guy. Hermine
non se ne cura. Partono tutti insieme nella piccola automobile di Lucy. Verso
la campagna. Verso le rive della Marna. Verso il Jockey.
È qui che il mondo di Pascin incontra quello di Kiki. All’angolo tra
boulevard de Montparnasse e la rue Campagne-Première. In un locale aperto
nel novembre del ’23 da un vecchio fantino, Miller, e da un pittore
americano, Hilaire Hiler. Gli yankees hanno respinto il Caméléon all’altro

362
capo della strada. Ne hanno preso il posto. Hanno inaugurato la vita notturna
del quartiere qualche mese prima del «Select», che tra poco aprirà i suoi
cancelli. Ormai, Montparnasse è aperta tutta la notte. Si può cantare, ridere e
ballare sotto il sole e sotto le stelle. Il Jockey è lì per questo.
Fuori, indiani e cow-boy dipinti dallo stesso Hilaire Hiler sul muro nero, e
un mucchio di gente davanti all’ingresso, le auto parcheggiate ai bordi del
marciapiede, e soprattutto, miracolo della tecnica moderna, un’insegna
luminosa.
Dentro, il Far-West. Un bar, qualche tavolo, una pista da ballo. Musica,
fumo. Molti manifesti, alle pareti. Un cartello dice: «We only lost one
customer ...He died!» («Abbiamo perso un solo cliente... È morto»). Ragazze
seminude ballano insieme, ma nessuno ci fa caso. Quando non suona Hiler,
al piano c’è un nero. Jazz, sempre. Shimmy, fox-trot. Ci si insulta
simpaticamente in tutte le lingue.
Pascin è lì, seduto in un angolo. A volte sono con lui Hermine, Lucy, Per.
Spesso lui e Per sono soli. Vengono dal Dôme, dallo hammam o da qualche
altra parte. Certe notti, Pascin dorme nello studio in cui Per ha traslocato, in
rue du Val-de-Grâce. Parlano di Lucy. O della donna che sta entrando in quel
momento al Jockey e che si apre a stento un passaggio fino alla pista da
ballo, mentre tutti applaudono. È Kiki.
Kiki è la regina del Jockey. La sua bella sguaiataggine fa furore. Kiki
incomincia il suo numero dopo Marcelle, che imita le dive americane, e dopo
Chiffon, detta Chiffonnette, un metro e mezzo con i tacchi, che interpreta
canzoni marinare. C’è anche Floriane, alta, grottesca, che si sforza di danzare.
E Barbette, un travestito con la parrucca. Quando Ben, il pianista nero,
prende il sassofono e con tre note annuncia il numero della vedette,
scoppiano di applausi. Urlano per incoraggiare Kiki.
Kiki inizia prudentemente con Nini peau de chien, poi intona Les filles de
Camaret:
Les filles de Camaret se disent toutes vierges.
Les filles de Camaret se disent toutes vierges.
Mais quand elles sont dans mon lit
Elles préfèrent tenir mon vit
Qu’un cierge, qu’un cierge, qu’un cierge...

(Le ragazze di Camaret si dichiarano tutte vergini. / Le ragazze di Camaret si


dichiarano tutte vergini. / Ma quando sono nel mio letto / preferiscono tenersi il mio
paletto / Che un cero, che un cero, che un cero…)

363
Kiki sa cantare solo se è ubriaca. Dato che non si ricorda mai le parole
delle canzoni, una ragazza le sta vicina sulla pista e gliele suggerisce. È lei che
Pascin sta guardando. E anche Per. Ha una ventina d’anni. È bruna come
Kiki, come lei ha un viso tondo. Insegna ginnastica. Si chiama Thérèse
Maure, ma preferisce il nome che le dato Robert Desnos, suo ex amante, al
quale dava lezioni di boxe: Thérèse Treize (quando lui la chiamava per
strada, le lettere finivano per accavallarsi, e «Thérèse» diventava «Treize»).
Così, grazie a quel nome finto, i suoi genitori non sapranno niente delle
avventure della figlia nella Montparnasse di tutte le libertà.
Lei e Kiki si adorano. Si danno insieme alla pazza gioia. Kiki dimentica
tutto. Thérèse è la sua memoria. Non solo le suggerisce le parole delle
canzoni, ma le fa da agenda: è lei a ricordarle, all’indomani delle feste, che ha
dato venti appuntamenti alla stessa ora dello stesso giorno. Sottovoce, perché
Man Ray non senta. È sempre lei che balla con l’amica quando i giovanotti si
fanno troppo intraprendenti. Ed è ancora lei che, alla fine dello spettacolo,
aiuta Kiki a salire su un tavolo e l’aiuta a mettersi a gambe all’aria quando
Kiki decide di mettersi a testa in giù reggendosi sulle mani. Per la gioia dei
clienti. Kiki non porta mai le mutandine.
Quando il pubblico, scatenato, applaude fragorosamente, Thérèse Treize
prende un cappello e fa il giro della sala.
«Per gli artisti!».
Piovono monete e complimenti. Ma uno solo è il complimento che le
interessa: quello di Per Krogh. Si ricorda che un giorno ha ringraziato Robert
Desnos perché l’ha fatta ballare con quello scandinavo dal ciuffo
affascinante.
Dopo che si è allontanata di una decina di passi, Jules Pascin si china verso
il marito di Lucy e gli dice: «Formidabile, quella ragazza. Le piaci molto, sai».
Per Krogh sorride beato.
«Mazel Tov!», mormora Pascin.
E accenna tutto allegro un pas de deux.

364
Fotografie, fotografie...

Cercavo di fare con la fotografia quello che fanno i


pittori, con la differenza che io usavo la luce e i
prodotti chimici al posto dei colori. E senza
macchina fotografica.
Man Ray

Kiki non fa ancora l’amore con Mosjukin, l’attore russo. Non ha ancora
rifiutato le innumerevolii offerte del ministro messicano che posteggia la sua
Hispano-Suiza davanti al Jockey, e che vorrebbe portarla nella sua suite
dell’Hôtel Claridge prima, e poi al di là dell’oceano. È ritornata da New York
dove, ufficialmente, ha seguito una coppia che le aveva proposto di fare del
cinema e dove in realtà Kiki ha recitato il suo ruolo migliore: quello di
amante del marito.
Fila un amore men che perfetto con Man Ray. Lui è geloso, lei anche. Si
tirano grandi schiaffoni per un sì o per un no. Lei si diverte a cambiare i
numeri di telefono delle signore sulla rubrica del fotografo. Lui – a sentire
Kiki – tiene il broncio senza ragione per intere giornate. Una volta lui si
prende una malattia venerea e la accusa di averlo contagiato, e lei allora deve
procurarsi un certificato medico che in sostanza equivale a un certificato di
buona condotta. Un’altra volta lui le regala due vestiti di Schiapparelli e lei li
fa a pezzi con le forbici perché preferisce i suoi modelli personali.
Litigano sempre. Non smettono mai. Si buttano in faccia acqua, inchiostro.
A volte Kiki spalanca la finestra della camera d’albergo e si mette a urlare:
«All’assassino!».
I vicini si lamentano.
Traslocano.
Poco dopo il loro incontro, Man Ray affitta uno straordinario studio in rue
Campagne-Première, 31 bis. La casa è stata costruita da Arfvidsson nel 1911.
Alte vetrate, una scala che porta a una veranda, una stanza da bagno
trasformata in camera oscura. Quando Man riceve i clienti, Kiki si nasconde
nella veranda. La loro vita in comune non è semplice. Tengono lo studio ma

365
prendono in affitto anche un appartamento. Con stanza da bagno. Kiki
rimane per ore nella vasca. Ormai mangia tutti i giorni, e sta ingrassando. E
poi, miracolo dei miracoli, le crescono i peli del pube. È felice. S’impegna a
fare la donna di casa.
Con molte scenate.
Traslocano ancora. Un albergo in rue Delambre, un altro in rue Campagne-
Première, vicino allo studio. L’Hôtel Istria.
Sono andati a abitarci un mese dopo l’apertura del Jockey. Sono ancora lì.
Hanno come vicino Tzara. Tzara diventa il confidente di Kiki – che si
lamenta della freddezza di Man Ray.
Al piano di sopra Picabia, quando non c’è la moglie, viene con l’amante,
Germaine Everling.
Satie, di passaggio, compone la musica per un balletto che Picabia sta
mettendo in scena per i balletti svedesi di Rolf de Maré.
Marcel Duchamp, che ha lasciato il numero 37 della rue de Froidevaux e
gli amici Matussière, gioca a nascondersi con le sue donne. Loro lo cercano,
lo aspettano perfino sulla porta dell’unica stanza da bagno dell’albergo, a
pianterreno. C’è Mary Reynolds, una ricca americana con cui ha avuto una
relazione e che non vuole più vedere. C’è Fernande Barrey, con cui non ha
avuto una relazione e che comunque non vuole vedere. C’è Elsa Triolet, che
non ha ancora incontrato Aragon, e che si accontenterebbe di un bacio. C’è
Jeanne Léger, pazzamente innamorata, pronta a lasciare il marito pittore e ad
andare a abitare nella stanza che ha preso all’Hôtel Istria per stare più vicina a
Marcel. C’è infine Marcel, che, invece, lui, non vuol più sapere niente, non
vuol più sentire niente, niente di niente. L’unica cosa che vuole è giocare a
scacchi – una storia che le amanti non riescono a sopportare, e tanto meno
sua moglie, sposata da poche settimane. La sera non lo vede perché sta
facendo un torneo al Dôme, la notte perché dorme in un angolo della stanza.
Non lo vede quando si sveglia al mattino perché lui è in cucina, impegnato a
risolvere alla scacchiera un problema che gli ha provocato un incubo nel
sonno. Fino al giorno in cui non riesce più a muovere i pezzi perché la
moglie li ha incollati sulla scacchiera.
A volte Duchamp gioca con Man Ray. Per esempio, nel film di René Clair,
Entracte. I due sono seduti a una scacchiera, su un tetto a terrazza, finché
Picabia gli scaraventa via i pezzi con un getto d’acqua.
Man Ray, che fa anche lui esperimenti con il cinema, si occupa soprattutto
di fotografia. Lo invitano dappertutto – la gente del bel mondo, quelli della
bohème che ormai si sono arricchiti.

366
La marchesa Casati gli apre le porte delle dimore degli aristocratici. La
conosce nel 1922. La marchesa lo riceve indossando la sua tenuta abituale: tre
metri di pitone vivo intorno alla vita. Gli parla del suo amico Gabriele
D’Annunzio, poi gli fa visitare il giardino in cui dà le sue feste – con i tronchi
degli alberi dorati. Dopo di che tornano in casa e la marchesa lo prega di
mettersi al lavoro. Man Ray accende le sue lampade. Lo scontro tra le due
culture provoca un corto circuito: le lampade fanno saltare la luce.
Che fare?
La signora si mette in posa. Senza luci.
Tornato a casa, Man Ray sviluppa le fotografie. Gli sembrano malriuscite –
ma la marchesa le trova bellissime, le piace molto quel suo sguardo sfuocato,
dovuto a un movimento del tutto involontario.
«Ha fotografato la mia anima lo sa?».
Compra le fotografie – e presenta Man Ray ai propri amici altolocati. È
grazie a lei che Man Ray può prendere lo studio della rue Campagne-
Première.
Dopo la marchesa Casati, il conte de Beaumont, grande amico di Cocteau,
invita il fotografo a immortalare gli invitati dei suoi grandiosi balli in
costume. Poi è la volta della contessa Greffuhle, del conte Pecci-Blunt, del
Maraja d’Indore, del visconte e della viscontessa de Noailles – proprietari di
alcuni Goya, di un teatro in giardino, di cancelli con specchi verso l’interno,
di una sala da ballo che può diventare una sala cinematografica.
Man Ray fotografa Picasso in costume da torero, Tristan Tzara con il suo
monocolo in tutte le posizioni possibili, Ezra Pound, Sinclair Lewis ubriaco,
Antonin Artaud, Philippe Soupault, Matisse, Braque, Duchamp travestito da
Rrose Sélavy, Picabia al volante della sua Delage. Sorprende Joyce proprio
nel momento in cui si porta la mano agli occhi per ripararsi dalla luce delle
lampade. I più bei ritratti di Kiki di Montparnasse sono suoi. Porta Meret
Oppenheim, un’amica di Giacometti, nello studio di Brancusi, e la fotografa
nuda, le braccia e le mani sporche di inchiostro di stampa, vicino a un
torchio. Fotografa anche Brancusi. Diversamente dagli artisti di
Montparnasse, Brancusi non frequenta i caffè di Vavin. Vive in un grande
studio nell’impasse Ronsin. Tutto è bianco: le pareti, i soffitti, il caminetto.
Niente mobili. Per sedersi, pezzi di tronco d’albero. Il tavolo, intorno al quale
gli invitati si siedono a mangiare un cosciotto di montone arrostito sul fuoco
del caminetto, è costituito da una base fissata nel pavimento sulla quale è
posata una grande lastra di gesso.
Quando Brancusi riceve per la prima volta Man Ray, gli chiede di

367
insegnargli la fotografia. Pensa di essere il solo a poter fotografare le proprie
sculture. Comprano una macchina fotografica, un cavalletto, gli acidi per lo
sviluppo e la stampa. Brancusi si costruisce una camera oscura, dà una mano
di bianco alle pareti esterne. A un pranzo, durante il quale ha suonato il
violino con Erik Satie, fa vedere a Man Ray il risultato del suo lavoro:
qualche lastra piuttosto flou, chiare, piene di striature. Ma il maestro è molto
soddisfatto.
Man Ray fotografa non solo tutti i personaggi del suo tempo, ma anche
quelli che appartengono alla fine del secolo scorso. Ha anche fotografato la
faccia di Marcel Proust – che peraltro non ha mai incontrato. Perché Man
Ray non c’è mai stato, a Cabourg, al tempo in cui Philippe Soupault
incontrava l’autore della Recherche in quell’albergo sulla riva del mare –
ogni sera mettevano una poltrona di giunco sulla terrazza, e la poltrona
rimaneva vuota fino all’imbrunire, e finalmente, quando il sole era
tramontato, Proust si sedeva con grande precauzione e prima parlava del
tempo – «come le inglesi», diceva Soupault – poi delle sue malattie,
«compagne predilette».1 Portava un cappotto nero, parlava con una voce
lenta, un po’ lamentosa, aveva uno sguardo bellissimo, e il colorito pallido,
quasi cereo, dei grandi ammalati. Ma, come diceva Jean Hugo, «era soltanto
ai duchi, che parlava».2
Man Ray non è mai andato al bordello con lui, né ha ricevuto le
confidenze di Paul Léautaud – che raccontava, e scriveva, che per un certo
tempo Proust era solito farsi portare da un taxi fino alla porta di una casa
chiusa, e chiedere della padrona e pregarla di mandargli due o tre giovani
donne, poi le faceva salire sull’auto, di fronte a lui, offriva loro un bicchiere
di latte e ascoltava le loro storie d’amore e di morte. (Chissà se era lo stesso
bordello di rue Mayet dove una volta Léautaud era andato per cercare di
sistemare uno dei suoi gatti. La padrona gli aveva chiesto di seguirla e lo
aveva fatto entrare in una stanza dalle pareti curve. Lì c’erano sei donne
nude. E lei gli aveva detto: «Scelga il gatto che vuole, caro signore».)
Nel 1914, Man Ray non era ancora arrivato in Francia, non era al «Mercure
de France» quando Alfred Valette aveva ricevuto una lettera di Marcel Proust
che prima lo rimproverava a mezze parole per non aver pubblicato nessuna
recensione dei suoi libri; poi, del tutto apertamente, per aver consentito che
Rachilde scrivesse di non essere riuscita a finire Du Côté de chez Swann e di
ritenerlo «soporifero»; e infine – una specie di risarcimento – gli proponeva
di pubblicare un articolo a lui favorevole apparso sull’«écho de Paris»,3 a

368
firma di Jacques Blanche.
Certo, Man Ray non ha conosciuto Henri de Régnier, segretario perpetuo
dell’Académie Française, al quale Proust aveva scritto il 30 ottobre del 1919
per chiedergli che cosa dovesse fare per ottenere il premio dell’Académie per
À l’ombre des jeunes filles en fleurs.
Ma è a lui che Jean Cocteau si rivolge il 19 novembre del 1922. Gli chiede
di fare una fotografia di Marcel Proust e di stamparne solo due copie: una per
la famiglia, una per Cocteau. Se vorrà, Man Ray potrà stampare una terza
copia per sé. Man Ray accetta. Cocteau lo accompagna al capezzale dello
scrittore. Marcel Proust era morto il giorno prima.

369
Il dottor Argyrol e mister Barnes

Il dottor Barnes ha appena lasciato Parigi (...). Un


tintinnio aurifero di dollari lo annunciava,
cupidigia e avidità si alzavano davanti a lui come
apparizioni, lo seguivano, lo molestavano, lo
inseguivano simili a fuochi fatui.
Paul Guillaume

Una sera Man Ray parcheggia la sua Voisin davanti al Jockey. Scende, apre
la porta. Di colpo è preso da un’ondata di musica, di fumo, di risate. Prova a
aprirsi un passaggio fino alla pista da ballo, sta cercando Kiki. Si ferma a
scambiare qualche parola con Tristan Tzara – cravatta e monocolo, sposato
da poco. Ha incontrato una giovane pittrice svedese, Greta Knutson. La
famiglia di Greta è talmente ricca che ha promesso alla giovane coppia di
costruire una casa nel centro di Parigi su progetto di Adolf Loos, un
architetto austriaco.
Quella sera, Greta non c’è. Tzara è in compagnia di un’altra ereditiera,
grande amica, grande eccentrica, bruna, bella, slanciata, Nancy Cunard. Ai
polsi ha una collezione di rumoreggianti braccialetti d’avorio. Dicono che sia
stata l’amante di Aldous Huxley. Certo sarà l’amante di Aragon.
Aïcha, una giovane mulatta, la modella preferita di Pascin, si avvicina
all’americano. Gli chiede se vuole che posi per lui. Man Ray dice forse,
perché no, poi prende il biglietto da visita che la ragazza sfila dalla borsa:
«Aïcha Goblot, artista». Sorride e continua a cercare. Dov’è Kiki?
Finalmente la vede. Un cow-boy le sta chiedendo di ballare. Lei rifiuta. La
batteria si imballa. C’è Pascin, ai comandi. Man Ray riconosce la bombetta, la
sciarpa di seta bianca. A Pascin piace la musica, gli piace suonare il tamburo
o la grancassa. Man Ray va spesso alle sue feste. Ha assistito molte volte ai
litigi tra le sue modelle. Una volta, dopo una cena con grandi bevute, vanno
al bordello. Pascin e Man Ray vanno di sopra, ognuno con una ragazza. Ma
sono troppo ubriachi per commettere anche il minimo peccato.
Man Ray arriva alla pista. Il cow-boy tiene Kiki per la vita. Lei lo

370
allontana. Lui insiste. A questo punto Man Ray si arrabbia. Lui, che è capace
di inseguire la sua donna minacciandola con una pistola, salta addosso al
cow-boy, lo butta a terra. Si avvinghiano, rotolano uno sull’altro. Tutti
cercano di vedere. Applausi. Kiki urla a Man Ray: «Finiscilo! Ammazzalo!».
Quando Man Ray si rialza, Kiki lo abbraccia, orgogliosa. Poi si volta verso
il cow-boy sconfitto e lo copre di insulti. Kiki è fatta così. Non ha peli sulla
lingua. Al mattino, a chi le chiede se ha passato una buona notte, capita che
risponda: «Perfetta. Ho fatto l’amore...».
Quando le chiedono perché non porta le mutandine, risponde che i caffè
non hanno la toilette per le signore, e allora le basta sollevare la gonna per
fare in piena luce – e cioè per strada – ciò che gli uomini fanno al buio – e
cioè nel seminterrato.
André Breton non le piace. Glielo ha anche detto: «Parla troppo d’amore
per saperlo fare!».
Da allora il papa del surrealismo la detesta. Ma Man Ray la difende
sempre. Quando gli chiedono se Kiki è intelligente, risponde che lui ha
abbastanza intelligenza per due – anche se in questo caso è più presuntuoso
che generoso.
Man Ray la difende anche quando si mette nei pasticci a Villefranche, nel
Midi. È con l’amica Treize. Una sera entra in un bistrot. Il padrone vuole
mandarla via.
«Niente puttane, qui!».
Kiki gli tira in faccia una pila di piattini. Si scatena una rissa. Finisce che il
padrone del bistrot la denuncia. Il giorno dopo, un poliziotto si presenta
all’albergo: «Venga con me al commissariato».
Kiki si rifiuta.
Il poliziotto ritorna con il commissario di Villefranche accompagnato da
qualche agente. Il commissario invita Kiki a seguirla. Kiki gli risponde che
non c’è fretta. Il commissario cerca di indurla ad affrettarsi. Kiki lo insulta, lo
prende a botte. La portano nella prigione di Nizza. Man Ray si dà da fare con
gli amici. Il pittore Malkin fa pressione sul procuratore. Fraenkel, amico di
Breton e medico, firma un certificato in cui si sostiene che Kiki soffre di una
malattia nervosa. Quando esce dal tribunale, Kiki dice: «Il momento più duro
è stato quando l’avvocato mi ha detto: “Dica grazie a questi signori”».1
Kiki ha detto grazie, e ha ottenuto la sospensione della condanna. Man
Ray, che è andato a Nizza per il processo, la riporta al Jockey. Adesso Kiki
vanta un nuovo titolo di gloria: si è fatta dieci giorni di prigione.
Al Jockey Kiki passa da un tavolino all’altro a raccontare le sue ultime

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avventure. Le racconta a René Clair, a Foujita e a Kisling, che si tengono
piuttosto lontani dall’orchestra. Lì vicino c’è un altro gruppo, di cui fa parte
André Citroën, che tiene in mano un fascio di biglietti di banca. Seduto a un
altro tavolino, Fernand Léger bada che sua moglie non si avvicini troppo a
Marcel Duchamp o a Roland Tual. D’altra parte, il pittore è al corrente delle
scappatelle di Jeanne, e gliele perdona, e arriva a fare a pugni con i
maldicenti. È capitato che desse una lezione ai suoi amanti perché l’avevano
maltrattata. Per la stessa ragione ha preso a schiaffi Thérèse Treize.
Thérèse Treize bacia sulla bocca Per Krogh sotto gli occhi di Kiki. Pascin,
che ha lasciato la batteria, osserva la scena. Ma non è affatto contento. Sa già
che da questa relazione non gli verrà niente di buono. Purtroppo Lucy è
gelosa di Thérèse. Quando Per e Thérèse si incontrano in un albergo di
boulevard Edgar-Quinet, lei va a cercarli.
C’è meno animazione, adesso, al Jockey. Pascin incontra Soutine, appena
entrato insieme al pittore Michonze. Non lo saluta. Youki Foujita ha
raccontato a Kiki di aver presentato i due uomini al Select, l’altro locale di
Montparnasse aperto la notte e famoso per i suoi
Welsh Rarebit. Soutine aveva teso la mano a Pascin e gli aveva detto: «Mi
piace la sua pittura. Le sue donnine mi eccitano molto».
«Le proibisco di eccitarsi con le mie donne!» ha risposto Pascin,
furibondo.
Soutine, che forse ha dipinto un solo nudo in tutta la sua vita, gli ha preso
le mani, gliele ha strette: «Ma lei mi piace molto, Pascin. Mi piace
moltissimo!».
Kiki lascia Foujita e Kisling. Si avvicina a Soutine, il suo povero amico
che adesso è diventato ricco. Soutine è molto cambiato dagli anni della
guerra, quando la ospitava per la notte nel suo studio gelido. Non ha più
freddo, adesso. Non ha più fame. Non sembra più un barbone. Adesso fuma
Lucky Strike con il bocchino dorato e indossa gli abiti che ha sempre
sognato, un cappotto comodo, caldo. Un vero miracolo.
Questo miracolo ha una data: 1922. Ha anche un nome: Albert C. Barnes.
Barnes è un industriale americano, un po’ medico, un po’ psicologo, un
altruista con tendenze paranoidi. Ha fatto fortuna con la produzione e la
vendita di un antisettico di sua invenzione, l’Argyrol.
È nato a Filadelfia, in Pennsylvania. È cresciuto in un ambiente popolare
vicino alla cultura nera. Questo gli ha dato il gusto per l’arte africana, di cui
diventerà un esperto collezionista. È anche un appassionato di pittura
contemporanea ed è convinto che l’arte gli permetterà di aiutare il prossimo.

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Nella sua fabbrica ha cominciato con l’esporre artisti americani. Poi si è
interessato alla pittura europea. Prima della guerra ha mandato a Parigi un
suo rappresentante: William James Glackens, pittore americano, aveva
l’incarico di visitare gli studi e le gallerie e di comprare opere significative –
Cézanne, Van Gogh, Pissarro, Renoir, Picasso.
Nel 1912, dopo aver acquistato quadri di Renoir a New York, il dottor
Barnes arriva a Parigi. Conosce Ambroise Vollard, frequenta le aste. Compra
dipinti di Gauguin, Bonnard, Daumier, Matisse, e altri Cézanne, (tra cui Les
Baigneuses) e altri Renoir e Picasso. Compra anche quadri di Matisse da Leo
Stein. Nel 1914, prima della dichiarazione di guerra, Barnes ha comprato
cinquanta Renoir, quindici Cézanne e molti Picasso. È solo l’inizio. Un inizio
molto promettente.
Nel 1922 il collezionista compera un terreno a Merion, vicino a Filadelfia.
Fa costruire un museo per esporre la sua collezione. Agli inizi la fondazione è
destinata ai dipendenti della fabbrica che produce l’Argyrol – che potranno
istruirsi ammirando l’arte nera e la pittura contemporanea. Questa pedagogica
generosità va senza dubbio benissimo per i dipendenti della Barnes Company
e per tutti i privilegiati che ottengono il permesso di visitare il museo. Ma è
insopportabile per tutti gli altri. Secondo una regola a cui Barnes si era già
attenuto in occasione dell’Armory Show, rifiutandosi di prestare le sue opere,
i quadri non possono assolutamente uscire dalla sede della fondazione ed è
escluso qualsiasi tipo di riproduzione.
Opere d’arte importantissime vengono così sottratte alla vista degli storici e
degli appassionati. Resteranno inaccessibili per quasi settant’anni. Tra i tanti,
quasi duecento Renoir, molti Cézanne, sessanta Matisse – tra cui il Bonheur
de Vivre – e molti Modigliani.
Barnes ritorna a Parigi nel dicembre del 1922. Alloggia all’Hôtel Mirabeau,
in rue de la Paix. Convoca il mercante che ha scelto come intermediario: Paul
Guillaume, grande specialista d’arte africana, che possiede un buon numero
di opere di Matisse, Vlaminck, Derain e Modigliani. Tutte le mattine, per
quindici giorni, Guillaume viene a prendere il collezionista americano con la
sua Hispano-Suiza. Si apre un passaggio nella piccola folla di mercanti e
pittori che aspettano il dottor Barnes sul marciapiede dell’albergo, le cartelle
da disegno sotto il braccio. Lo porta in tutti i musei di Parigi, da tutti gli
antiquari, nei migliori ristoranti. Risponde con pazienza a tutte le domande di
Barnes sugli artisti contemporanei. E, intanto, pensa già alla sera, quando,
dopo aver bevuto il suo digestivo, Barnes si appoggerà allo schienale della
poltrona, i pollici infilati nei taschini del gilè, e dirà: «Se andassimo...?».

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«È un po’ tardi...».
«È stanco, forse?».
«No...».
«In marcia, allora!».
E Barnes balzerà in piedi, fresco come se fosse appena sceso dal letto dopo
una lunga notte di sonno, salirà sull’Hispano-Suiza e, instancabilmente,
riattaccherà con le sue domande: perché l’arte africana, perché il cubismo,
perché Matisse, perché Picasso, perché Lipchitz?
Va nello studio di Lipchitz guidato dal suo mentore. Non si rende conto
della miseria dell’artista – che non ha più mercanti e non vende niente.
Guarda soltanto le sculture. Si informa su tutto. Prende appunti. Poi compra
otto sculture e invita Lipchitz a pranzo. Lo scultore balbetta dalla gioia. Cerca
di nascondere la camicia bucata, per non sfigurare di fronte all’eleganza di
Paul Guillaume, agli occhiali d’oro, al sigaro e ai guanti di pelle del riccone
americano. Si sente in paradiso. È solo in purgatorio.
«Sto mettendo insieme un museo», spiega il dottor Barnes. «Ho bisogno
del suo aiuto».
Il dessert. Una torta.
«Ho bisogno di cinque bassorilievi per la facciata. Potrebbe scolpirli lei?».
La ciliegina sulla torta.
La stessa cosa succede con decine di artisti.
Di solito le domande finiscono quando si avvicinano a rue de la Boétie,
dove c’è la galleria di Paul Guillaume. Ma riprendono appena in galleria si
accendono le luci. Perché i fauves, perché Kisling, perché Vlaminck, perché
Marcoussis?
«Non so», farfuglia Paul Guillaume.
È sfinito.
«Non lo sa? Allora li faccia venire subito qui. Lo chiederò a loro».
È mezzanotte. Paul Guillaume chiama Vlaminck, Kisling, Marcoussis. Il
dottore fruga tra i quadri. Una sera si sofferma a guardare una tela dai colori
vivaci, le forme contorte, allungate. La posa, si allontana, l’osserva con
attenzione. Si vede un giovane con un orecchio mostruoso, un cappello in
testa, una blusa bianca con riflessi gialli, verdi, blu.
«Che cos’è?», chiede Barnes.
«Un Soutine», risponde Guillaume. «Le Petit Pâtissier».
«Conosce il suo mercante?».
«Zborowsky».
Barnes prende il cappotto e si dirige verso la porta.

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«Andiamoci», dichiara con tono deciso.
«Dove?».
«Ma dal mercante, da questo Zborowsky!».
«Adesso? Perché adesso?».
«Perché voglio comperare tutto. Questo Soutine è un genio».

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La croce di Soutine

... Credo che Soutine sia uno dei più grandi pittori
del nostro tempo. Dopo Goya, non vedo nessuno
che sia così straordinario.
Chana Orlov

«Mi ha comprato quadri per tremila dollari!», dice Soutine eccitatissimo.


«Anch’io disegno», dice Kiki. «Bisogna che te li faccia vedere».
«Da quel momento», continua Soutine, «i miei prezzi si sono messi a
correre come una Bugatti in pista. Oggi, per un mio quadro sono diecimila
dollari!».
Kiki lo guarda. Sono lontani i tempi in cui Soutine lottava contro le cimici
che riempivano il suo studio e che in mancanza di un posto più caldo gli si
erano annidate nell’orecchio. Quando non aveva niente da mangiare. Quando
andava in giro mezzo nudo sotto il cappotto. Quando, per mettersi elegante,
infilava le braccia nelle gambe dei mutandoni, facendo della cintura un
colletto e delle mutande una camicia.
Nessuno ha sofferto quanto lui. E soffre ancora. I cibi che una volta non
poteva pagarsi, adesso non può più mangiarli. Sogna i piatti del suo paese, le
carni speziate, le aringhe, le salse. Non può più mandare giù niente. A parte il
bismuto.
È irriconoscibile. L’immigrato chiuso, miserando, che imparava il francese
rannicchiato a un tavolino della Rotonde, ha vissuto una vera metamorfosi.
Porta camicie a pois, cravatte colorate – quelle cravatte che ha sempre
sognato. Non si era mai sentito tanto umiliato come quel giorno, quando un
collezionista armeno gli aveva chiesto di accompagnarlo in un negozio di
lusso, in place Vendôme. Il collezionista cercava cravatte di seta e voleva il
consiglio di Soutine per i colori. Ne aveva comprato tre dozzine. E non ne
aveva regalata neanche una al povero Soutine, che lo guardava pieno
d’invidia, stringendosi addosso il soprabito stracciato.
Da allora Soutine si è preso la rivincita. Non solo può andare a comprarsi
cravatte di seta in quel negozio di place Vendôme, ma può anche mettersi la

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crema sulle mani (sa di avere belle mani) per metterle in mostra davanti al
negoziante. Non ha più le unghie sporche, incrostate, come quando lavorava
il colore con le mani – dopo avere buttato rabbiosamente i pennelli. I capelli,
nerissimi, brillano: va da una suorina che glieli unge con un unguento
speciale. Ha anche l’automobile e un autista, Daneyrolles. Soutine spiega a
Kiki che l’auto non è sua, ma di Zborowsky, diventato ricco grazie a Barnes e
alla sua pittura. L’americano è andato in rue Joseph-Bara per vedere le opere
di Soutine. Ogni volta che il polacco ne tirava fuori una da sotto il letto,
gridava: «Wonderful! Wonderful!».
Zborowsky ha aperto una galleria in rue de Seine. Espone Utrillo, Derain,
Vlaminck, Kisling, Dufy, Friesz. Ha preso una casa nell’Indre. Ci vanno gli
artisti e le sue collaboratrici – come Paulette Jourdain, che ogni tanto posa
per Soutine.
Quando Soutine vuole andare al sud, chiama Daneyrolles, si stende sul
divano della sua auto americana e il giorno dopo si ritrova sulla riva del
mare. Non ama Parigi. Vuole dimenticarle, le sue disgrazie. Evita gli amici di
una volta, i posti che frequentava. Parla male della pittura di Modigliani,
l’unico che lo ha aiutato durante gli anni di guerra. Se la prende con Elie
Faure, che ha scritto il primo libro su di lui. Toglie il saluto a Maurice
Sachs che pure ha scritto un articolo molto favorevole sul suo lavoro.
Quando qualcuno lo riconosce in un caffè, e gli va vicino, e gli parla, lui lo
squadra freddamente.
«Non la conosco...».
E se quello insiste: «Non l’ho mai vista».
Poi si alza e se ne va.
L’orgoglio gli gioca un brutto tiro. Per poco non perde l’incontro con i
Castaing, mecenati importanti quanto Barnes.
I Castaing abitano in un castello vicino a Chartres e amano la pittura.
Marcellin si occupa della parte artistica di una rivista di cui è segretario di
redazione. Va spesso a Montparnasse per incontrare gli artisti.
Una sera, poco prima dell’arrivo di Barnes a Parigi, sbarca alla Rotonde.
Sua moglie Madeleine l’accompagna. Passa Soutine. Un pittore suggerisce ai
Castaing di comperare un suo quadro: il russo non ha un soldo, salta i pasti.
Lo chiamano. Marcellin chiede di vedere qualche quadro. Soutine dà un
appuntamento nella saletta di un caffè di rue Campagne-Première. Arriva in
ritardo. Ha con sé due quadri. C’è poca luce, i Castaing li guardano in fretta,
propongono di rivedersi il giorno dopo e gli danno un biglietto da cento
franchi, come acconto. Soutine lo straccia.

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«Io non chiedo l’elemosina!... Non li avete neanche guardati, i miei
quadri!».
È furibondo. I Castaing se ne vanno.
Dopo qualche settimana, Soutine espone Le Coq mort aux tomates in una
galleria vicino alla Madeleine. I Castaing vogliono comperarlo. Cercano e
trovano Zborowsky, ma lui dice che il quadro appartiene a Francis Carco.
Non aggiunge, tuttavia, che glielo aveva regalato qualche mese prima –
regalato, non venduto: perché in quel momento un quadro di Soutine non
valeva niente.
I Castaing insistono. Zborowsky corre da Carco – che, con un gesto molto
elegante, restituisce il dipinto e rifiuta i soldi che il polacco vorrebbe dargli in
cambio. I Castaing lo comperano. Poi ne comprano un altro e un altro
ancora. Quando vanno nello studio di Soutine, ci passano dieci ore filate.
Dopo, è Soutine che va da loro, al castello di Lèves. Ci passa settimane
intere. I suoi nuovi mecenati lo coccolano. Soprattutto Madeleine. Posa per
lui, è affascinata da quest’uomo che dipinge per fuggire da se stesso, con una
forza e un’energia incredibili. Che cerca vecchie tele del XVII secolo perché
il pennello vi scivola sopra morbidamente. Che si inginocchia a supplicare
una lavandaia – a cui sta facendo il ritratto – perché ritrovi una certa
espressione. Che può restare ore, giorni interi su un dettaglio. Che quando
dipinge esige silenzio e solitudine – al punto che nessuno può avvicinarsi e
rivolgergli la parola. Che si sveglia all’alba e chiama l’autista e si fa portare
subito al mercato, perché deve comprare pesci, soltanto pesci, perché gli è
venuta voglia di dipingere pesci. Che un mattino supplica Marcellin e
Madeleine di accompagnarlo su una stradina di campagna, perché ha visto
passare un cavallo meraviglioso. Il cavallo meraviglioso, in realtà, è soltanto
un vecchio ronzino sfiancato, tutto imbrattato di fango, attaccato a un carro
di saltimbanchi.
«Voglio dipingerlo!», esclama Soutine.
Gira intorno all’animale, quasi in trance. Marcellin Castaing tratta con i
saltimbanchi, che accettano di fare una tappa al castello in cambio di un
pasto. Quando i saltimbanchi si installano sul prato, Soutine si porta via quel
povero cavallo. Dipingerà un capolavoro.
Soutine è incredibilmente esigente con se stesso. Rifiuta di partecipare a
mostre collettive, nel timore di finire confuso tra i tanti. Fa a pezzi ogni tela
sulla quale qualcuno abbia qualcosa da ridire. E non bada soltanto al proprio
giudizio. Deve sentire anche il parere dei Castaing, di coloro che ha vicino.
Man Ray racconta che quando Barnes gli ha comprato i suoi quadri,

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Soutine si è ubriacato, poi ha preso un taxi e si è fatto portare nel Midi, a
Céret, a Cagnes-sur-Mer. Aveva sempre sognato di vedere il mare.
Più tardi, a Parigi, si metterà a distruggere sistematicamente i quadri che ha
dipinto nel Midi. Quando ne scopre qualcuno da Zborowsky, lo brucia. Se
una di quelle tele è finita in qualche galleria, fa di tutto per ricomprarla, per
scambiarla con una più recente. Se ci riesce, se la porta in studio e la fa a
pezzi con cura. I pezzi vanno a finire in un mucchio di altri frammenti. Certe
volte li riutilizza – li cuce insieme, li ridipinge. Ma il più delle volte, finiscono
in pattumiera. Qui qualche appassionato della sua pittura – quando non è
addirittura Daneyrolles, mandato da Zborowsky – va a recuperarli. E magari
li porta da Monsieur Jacques, il proprietario di un bistrot in rue Mazarine, che
li rimette insieme con ago e filo. Finché il quadro restaurato viene venduto a
un gallerista.
I primi quadri presi di mira da Soutine sono quelli dipinti a Céret. Ma
anche gli altri non si salvano. Il mercante René Gimple nasconde le opere di
Soutine quando sa che il pittore sta per venire nella sua galleria. E non lo
lascia mai solo in una stanza dove ci sia uno dei suoi quadri.
Soutine distrugge tutto, compresi i falsi firmati con il suo nome. Distrugge
i quadri dipinti al castello di Lèves o nella casa della Creuse di Zborowsky,
distrugge i quadri dipinti a Montparnasse, nei vari studi: in boulevard Edgar-
Quinet, in passage d’Enfer, in avenue du Parc-Montsouris, in rue de la
Tombe-Issoire, a villa Seurat – dove passeranno anche Dalí, Chana Orlov,
Lurçat e Henry Miller.
Nel 1925, la sola cosa che gli interessa è la sua Carcasse du boeuf. Ci
lavora nello studio di rue Saint-Gothard. Non è al suo primo tentativo. Già
molte altre volte è tornato dai mercati delle Halles o dalle fattorie intorno al
castello dei Castaing con tacchini, gallinacci, anatre, conigli, polli – tutti
spennati, spellati e frollati. Li ha appesi a un uncino e si è messo a dipingere.
Ma il bue è un’altra cosa. Il bue è Rembrandt, l’adorato Rembrandt. Ed è
anche il macellaio di Smilovitch, e la ghiacciaia nella quale Soutine bambino
è stato picchiato e poi rinchiuso per avere dipinto figure blasfeme. C’è una
sua straordinaria testimonianza:
Una volta ho visto il macellaio del villaggio tagliare la testa a un uccello e svuotarlo
del sangue. Volevo gridare, ma lui aveva l’aria così soddisfatta che quel grido mi è
rimasto in gola (...). Lo sento sempre lì, quel grido. Quando, da bambino, facevo un
ritratto, grossolano, del mio professore, cercavo di fare uscire quel grido, ma
inutilmente. Quando ho dipinto un bue squartato, è sempre quel grido che volevo
liberare.1

379
Soutine va alla Villette, compra un bue intero e lo appende a un gancio
nello studio. Passano i giorni. Il bue va in putrefazione. Paulette Jourdain,
devota tanto a Zborowsky che a Soutine, fa il giro dei mattatoi per comprare
sangue da versare sul bue squartato, in modo da rinfrescarne i colori. Soutine
le dà una mano. Passa sulla carne del bue il pennello intinto di sangue. Poi
riprende a dipingere.
Arrivano le mosche. Soutine non le vede neanche. Un odore pestilenziale.
I vicini lo denunciano. Una mattina, si presentano i funzionari dell’Ufficio
d’Igiene. Soutine si nasconde. Ha una paura terribile di tutto ciò che
assomiglia a una divisa. È Paulette Jourdain che si incarica di spiegare che
cosa ci faccia, lì, quel bue squartato. Poi riesce a convincere i funzionari
municipali a disinfettare lo studio, e chiede anche se ci sia un sistema per
evitare la decomposizione e quella puzza tremenda. Basta qualche iniezione di
ammoniaca, le dicono.
Da allora Soutine va in giro con una busta di siringhe. Fa iniezioni di
ammoniaca a tutto ciò che non si muove da un po’ di tempo – e che lui vuole
dipingere.

Kiki vorrebbe parlargli dei suoi amori, ma non lo fa. Sa che lui non è più
solo come in passato. Ha ritrovato una donna di Vilnius, un amore giovanile,
Deborah Melnik. Si dice che si siano sposati in chiesa e che abbiano avuto
una figlia. Ma Soutine fa in fretta a interrompere la relazione. Quando gli
parlano della figlia, dice di non essere il padre e taglia corto. Però non è più
selvaggio come una volta. Le donne, ormai, fanno parte della sua vita.
Nel 1937, si innamora di Gerda Groth, una rifugiata tedesca, ebrea e
socialista. La chiamerà Mademoiselle Garde perché, poco dopo il loro primo
incontro, lui ha avuto un attacco di ulcera e lei lo ha vegliato un’intera notte.
Andranno ad abitare insieme a villa Seurat poi a Civry, nella Yonne. Durante
la guerra, torneranno a Parigi.
Nel 1940 Mademoiselle Garde viene internata al Vel d’Hiv, poi al campo di
Gurs (miracolosamente, tornerà a Parigi nel 1943). Soutine incontra una
giovane donna di grande bellezza, fantasiosa, bizzarra. Gliela presentano i
Castaing, a un vernissage. Si chiama Marie-Berthe Aurenche. È stata la
seconda moglie di Max Ernst. Sarà l’ultima compagna di Soutine.
Durante l’Occupazione, Soutine è ricercato dalla Gestapo come ebreo e
apolide. Si aggira per Parigi, la tesa del cappello sugli occhi, per non farsi
riconoscere. Può mangiare soltanto zuppa di patate e passato di verdura. È
incredibilmente magro. Sta perdendo i capelli. Per curarli, si rompe in testa

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un uovo, poi nasconde la frittata sotto il cappello.
Trova rifugio in rue des Plantes, in casa di amici di Marie-Berthe
Aurenche. Esce soltanto di notte. Quando la portinaia lo denuncia alle
autorità d’occupazione, scappa in Touraine, a Champigny-sur-Veude. Marie-
Berthe lo trascina da un albergo all’altro, finché trovano una casa isolata.
Soutine soffre sempre di più. Nell’agosto del ’42 gli si perfora lo stomaco. Lo
portano all’ospedale di Chinon. Supplica che lo operino subito. Ma Marie-
Berthe decide di trasportarlo a Parigi, per farlo operare da uno specialista.
Noleggiano un’ambulanza. Tornano a Champigny, perché Marie-Berthe
Aurenche vuole recuperare alcune tele. Poi in altri posti, per prendere altri
quadri. Stanno in giro ventiquattro ore. Quando Soutine, alla fine di questo
mortale viaggio, arriva a Parigi, ha lo stomaco a pezzi. Lo operano il 7 agosto
1942. Muore il 9, alle sei del mattino. Sono pochi gli artisti che lo
accompagnano al cimitero di Montparnasse – dove da dodici anni lo
aspettano Pascin e le sue donnine. C’è Picasso. E c’è Max Jacob. Non
l’hanno ancora internato a Drancy. Sul petto ha la stella gialla.
Chaïm Soutine riposa al cimitero di Montparnasse, in una cappella della
famiglia Aurenche. Sopra la sua tomba non c’è la stella a cinque punte, ma
una croce. Non è la sola cosa che non va. La data di nascita non è quella
giusta. E hanno anche sbagliato a scrivere il nome.

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Scandalo alla Closerie des Lilas

Aveva dato qualche segno di stranezza, che tuttavia


non aveva allarmato la famiglia. Ma un giorno si
era lasciato andare a indecenti eccessi sulla
pubblica via: capirono allora che era un poeta.
Louis Aragon

Almeno per una mattina, i letterati riprendono possesso della Closerie des
Lilas. Un giorno di luglio del 1925, «Les Nouvelles littéraires» organizzano un
banchetto in onore del poeta Saint-Pol Roux, simbolista e cattolico, ritiratosi
a vivere a Camaret. Sono stati invitati anche i surrealisti – che hanno
collaborato a un numero della rivista dedicato al poeta. Gli perdonano le sue
stranezze religiose poiché vedono in lui un discendente di Mallarmé. André
Breton gli ha dedicato Clair de Terre. Vent’anni dopo, Aragon renderà di
nuovo omaggio alla «grande ombra» di colui che chiamava «il Magnifico».1
E poi i surrealisti non potevano non portare rispetto a un poeta che aveva
scritto una frase come questa:
Confesso, io sono mille, come le religioni e le eresie, e di buon grado lascio all’asino
della Sorbona le testarde insegne di una opinione immutabile.

Così Breton e i suoi amici sono alla Closerie. E non sono soli. C’è Lugné-
Poe, direttore del Théâtre de l’Oeuvre dal tempo in cui Jarry aveva dato
scandalo con Ubu Roi – e che Breton accusa di aver lavorato, durante la
guerra, per il contro-spionaggio. Madame Rachilde presiede il banchetto
d’onore. Breton dice: «Le sole parole banchetto d’onore ci facevano andare
in bestia».2 Nervi tesi. La presenza di piccoli personaggi del mondo letterario,
che i surrealisti disprezzano, non basta a spiegare da sola l’addensarsi della
collera. Qualcuno tra i surrealisti più agitati, ha posato davanti a ogni coperto
una risposta all’ambasciatore in Giappone, sua eccellenza Paul Claudel – il
quale, in una dichiarazione a «Comoedia» aveva sostenuto che il surrealismo
e il dadaismo erano sostanzialmente «pederastici». Nella risposta, si ricorda il

382
suo brillante stato di servizio durante la guerra: è stato incaricato di fare
grandi acquisti di lardo, in America Latina, per approvvigionare le armate
alleate. Nel volantino rosso sangue – su cui sono stampate parole non meno
sanguinarie:
Ciò che alla fine sta in piedi è solo un’idea morale – questa, per esempio: non si può
essere a un tempo ambasciatori di Francia e poeti. Cogliamo l’occasione per
dichiararci completamente estranei a tutto ciò che è francese, negli atti e nelle
parole. Dichiariamo di considerare il tradimento e qualsiasi altra azione che in un
modo o nell’altro possa nuocere alla sicurezza dello Stato molto più conciliabili con
la poesia di quanto lo sia l’acquisto «di grosse quantità di lardo» per conto di una
nazione di porci e di cani (...) Scrivete, pregate, sbavate. Noi reclamiamo il disonore
di avervi trattato una volta per tutte da pedante saccente e da canaglia.3

C’è elettricità, nell’aria. Un piccolo corto circuito basterebbe a far saltare le


valvole. È Madame Rachilde che dà il via alle ostilità. Ai bei tempi delle
manifestazioni Dada, lei era solita chiamare i poliziotti perché dessero una
bella lezione a quei giovani irrispettosi. Quel giorno, dà fuoco alle polveri
ripetendo una frase anti-tedesca che ha detto qualche giorno prima nel corso
di un’intervista: «Una francese non dovrebbe mai sposare un tedesco!».
Non lo dice a voce alta, ma sentono tutti. È un’affermazione che colpisce i
surrealisti proprio là dove sono più sensibili. La questione della Germania,
appunto. Prima di tutto perché un surrealista, come dice Aragon, dà sempre
una mano al nemico, soprattutto quando il nemico è asservito dal Trattato di
Versailles, dall’obbligo di pagare i risarcimenti e dall’occupazione della Ruhr
– anche se ha assassinato Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. E poi c’è
un’altra ragione per protestare. Breton si alza, dice con calma: «Quello che
dite, signora, è offensivo per il nostro amico Max Ernst».
Max Ernst annuisce. Lui e Breton hanno molte idee in comune. A Ernst
non importa niente della sconfitta della Germania, a Breton non importa
niente della vittoria della Francia. È più che sufficiente per mandare in
malora la pace armata.
Qualcuno tira una mela. Poi un’altra. Breton butta un tovagliolo in faccia a
Rachilde, le grida: «Donna da caserma!».
«Rachilde ci ha rotto le scatole!», rincara un partecipante.
Saint-Pol Roux tenta di calmare gli animi: «Andiamo, non si tratta così una
donna! Un po’ di galanteria!».
«Anche la galanteria ci ha rotto le scatole!».
È il segnale di partenza. Un’alluvione. Vola di tutto – pesce in salsa,

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verdura, vino, bicchieri, piatti...
Philippe Soupault prende lo slancio, si appende al lampadario e dondola, a
gambe tese, colpendo chiunque gli venga a tiro. Louis de Gonzague Frick,
che pranzava in una sala vicina, si butta anche lui contro i surrealisti. André
Breton rompe un vetro della finestra. Sul marciapiede c’è una piccola folla.
Max Ernst, usando le mani come un megafono, urla: «Abbasso la
Germania!».
Michel Leiris risponde: «Abbasso la Francia!».
«Viva la Cina!», grida un altro.
«Viva il Rif!», grida qualcuno, in omaggio ai Berberi di Abd-el-Krim che
stanno ribellandosi in Marocco.
Tra la gente sul marciapiede, una ragazza guarda verso le finestre della
Closerie. È russa. Non ha ancora trent’anni. Nel vano della finestra ha appena
visto un uomo che indossa lo smoking. Le ha tolto il fiato. Perché è bello.
Perché è di un’eleganza impeccabile. Perché in tutta quella confusione riesce
a muoversi con una magnifica calma.
L’uomo in smoking non la nota. Resta per un po’ alla finestra, guarda la
folla. Poi si volta. Per difendere Max Ernst, o Breton, o qualcun altro, tira
addosso al nemico un casco di banane. Elsa Triolet chiede a un amico chi sia
quell’uomo. Nessuno lo sa, evidentemente. Intanto la ragazza, giù, in
boulevard Saint-Michel, sale su una panchina per poter vedere meglio. Ma
l’uomo è scomparso. La ragazza lo cerca ancora con lo sguardo, poi scende,
si allontana. È emozionatissima. Sa di avere visto l’uomo della sua vita,
l’uomo che da sempre sta cercando.
All’interno della Closerie, in pieno disastro, Saint-Pol Roux tenta di
riportare la calma. Tutto inutile. Michel Leiris torna alla finestra e urla ancora:
«Viva la Germania!».
I curiosi ammassati sul marciapiede gli gridano di scendere. Quasi lo
linciano. Viene salvato dall’eroico arrivo delle forze dell’ordine. Lo portano
al posto di polizia. Qui, non meno eroicamente, lo pestano ben bene, a porte
chiuse. (Secondo Youki Desnos, sarà liberato grazie al’intervento di Robert
Desnos presso édouard Herriot.)
Lo scandalo è enorme. Il giorno dopo, la stampa in blocco si scatena
contro i surrealisti, accusati di essere «il terrore del boulevard
Montparnasse». La Società dei Letterati, l’Associazione degli Scrittori
Combattenti, in accordo con l’Action Française, chiedono che i nomi di
questi signori non vengano più menzionati, in modo da escluderli
dall’informazione.

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Non è la prima volta che gli agitatori surrealisti si trovano sul banco degli
accusati. Ma, prima d’ora, Montparnasse in generale e la Closerie in
particolare non avevano mai visto poeti, pittori e scrittori affrontarsi per
ragioni tanto estranee all’arte.
André Breton scriverà: «Questo episodio – il banchetto per Saint-Pol-Roux
– è importante perché segna la rottura definitiva del surrealismo con tutti i
conformisti dell’epoca».4
Ma c’è dell’altro. La mattina del banchetto, Breton e i suoi amici si sono
associati a una protesta che condanna la guerra del Marocco e l’invio di
contingenti francesi contro Abd-el-Krim. Sette anni dopo la fine della guerra,
hanno deciso di partecipare alla battaglia per la pace. Al di là delle grida e del
tumulto che fanno vacillare i vecchi muri della Closerie des Lilas, in quel
giorno di luglio del 1925 si delinea una realtà nuova. Paul Fort e le sue
ombre, che cantavano e componevano versi sorridendo, sono ormai molto
lontani. Sotto la guida dei surrealisti, Montmartre e Montparnasse si
apprestano ancora una volta a cambiare la loro storia. I poeti scoprono una
prosa nuova: la politica.

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Piccola geografia surrealista

Padre nostro che sei nei cieli, restaci.


Jacques Prévert

Il teatro surrealista va in scena su molti palcoscenici. Nei caffè, in casa di


Breton, o in rue du Château, nel XV arrondissement. I luoghi prediletti da
questi signori (a parte Simone Breton le donne sono rare e stanno sempre
zitte) sono i bistrot. Non al bancone, ma nelle salette in fondo, dove i posti
sono riservati. Ci vanno a ore fisse, come in ufficio. Lì si danno
appuntamento, giocano ai tarocchi, ai giochi del ritratto, delle domande e
delle risposte (si tratta di dare risposte a domande sconosciute). Lì si
svolgono indagini, si fanno domande intime che riguardano la sessualità o il
carattere di ognuno dei presenti, e che spesso provocano dissapori e tensioni.
Si analizza la stampa, si commentano gli avvenimenti e si regolano i conti –
con scarsa dolcezza, in genere. Gli amici sono invitati a prendere l’aperitivo,
a mezzogiorno o alle sette di sera. Qualche volta, sono lì in veste di candidati
all’esame di ammissione.
Breton c’è sempre, Aragon quasi sempre. Aragon è il solo al quale il padre
del Manifesto parli con rispetto, forse con ammirazione. Breton è capace di
collere omeriche, Aragon mantiene sempre una calma olimpica. Il suo sangue
freddo è molto utile negli scontri verbali.
Bevono granatine perché gli piace il colore, o liquori rari perché gli piace il
nome: Pick me up, Kiss me quick, Omnium cocktail, Dada cocktail, Pêle-
mêle mixture, Amer Picon, Porto flipp, Pastis gascon, Mandarin-curaçao. Il
Chambéry-fraisette ha un pregio in più: Apollinaire ne ha scritto
nell’Hérésiarque & Cie.
Ognuno paga la propria consumazione, è una regola assoluta. Breton, che
è diventato ricco grazie ai molti quadri comprati quando Kahnweiler ha
dovuto vendere il suo magazzino, si preoccupa sempre dei soldi degli altri.
Anche Paul Eluard è piuttosto ricco, ma è il solo. I ristoranti frequentati sono
quindi accessibili a tutte le borse.
Altra regola, l’assiduità. È quasi obbligatoria. Aragon è molto criticato

386
quando alle riunioni dei surrealisti preferisce il braccio e i braccialetti di
Nancy Cunard. Accettano di guardare le fotografie di Gala nuda che Eluard
continua a mostrare con grande soddisfazione. Ma con parole molto scelte si
rammaricano delle sue assenze, più o meno giustificate. Si sa che lui ama
Gala, la quale lo ama così come ama Max Ernst, il quale la ama così come
ama Eluard, il quale non si ribella al triangolo, a condizione di avere la sua
parte. Ma in ogni caso, quando Breton fa una convocazione, non ci sono
scuse, soprattutto se le assenze si ripetono. «Il papa» regna sull’assemblea dei
fedeli, e guarda tutti con il suo sguardo penetrante. Breton è il centro.
Massiccio, rigido nei suoi abiti scuri – spesso di un colore verde bottiglia – i
capelli ondulati pettinati all’indietro, Breton conta i presenti e nota gli assenti.
Quando arriva una donna, si alza e le bacia la mano. Il baciamano diventerà
un rito surrealista.

Dove si incontrano? Ai tempi di Dada si trovavano alla Source, in


boulevard Saint-Michel, vicino sia al Val-de-Grâce, in cui prestavano servizio
Aragon e Breton, che all’Hôtel des Grands Hommes dove abitava Breton. È
alla Source che Breton ha fatto leggere al suo migliore amico, Aragon, i due
quaderni dei Champs magnétiques, di cui «Littérature» avrebbe pubblicato i
primi tre capitoli. Con Aragon che doveva sforzarsi di non manifestare il
proprio dispiacere per non aver partecipato alla nascita del surrealismo, a
causa del servizio militare.
Ma si sarebbe preso la rivincita poco dopo, quando il gruppo lascia la
Source per inaugurare quel luogo sacro del dadaismo e poi del surrealismo
che sarà il caffè Certà, all’11 del passage de l’Opéra – scelto proprio «in odio
a Montparnasse e Montmartre».1 È al Certà che Breton, Tzara e Aragon
ricevono i candidati che vogliono aderire al movimento e gli amici del
gruppo, come Marcel Duchamp, Max Ernst, Jean Arp o René Crevel –
giovane, bello, fragile, sempre pronto a ribellarsi, a entusiasmarsi.
È al caffè Certà che Aragon riesce a guadagnare qualche franco in un
periodo di grande miseria. Per la «Revue Européenne», di cui è capo-
redattore, Soupault gli commissiona un testo sul passage de l’Opéra (che poi
sarà incluso nel Paysan de Paris).
Negli anni Venti, dopo il trasloco di Breton in rue Fontaine (vicino alla
place Blanche), i surrealisti tengono le loro riunioni in casa del fondatore del
movimento, oppure al Cyrano, in boulevard de Clichy. Rimangono lì fino
all’arrivo di Buñuel e di Dalí, nel 1929.
Quando passano sulla rive gauche, i surrealisti frequentano il caffè della

387
Mairie, in place Saint-Sulpice. A partire dal 1928, seguendo Man Ray, Aragon
e Desnos si riuniscono alla Coupole, dove vanno anche i pittori. Artaud e
molti altri restano fedeli al Dôme e alla Rotonde. Ma tutti, a Montparnasse,
sono passati nei due veri e propri luoghi sacri del surrealismo della rive
gauche.
Il primo si trova in rue Blomet, nel quartiere di Vaugirard. Si tratta di tre
fabbricati in mezzo alle erbacce. Nel 1922 ci hanno abitato André Masson e
Joan Miró. I due pittori si sono incontrati a Montmartre, nel giro di Max
Jacob. Lo spagnolo ha incontrato Picabia, e quindi la cultura francese, a
Barcellona. È arrivato a Parigi nel 1919.
Masson è stato ferito durante la guerra, e ne ha subito gravi conseguenze:
viene ricoverato per qualche tempo in un ospedale psichiatrico. Quando esce,
ad aspettarlo c’è la miseria. La stessa miseria che sta vivendo Miró. Fa la
comparsa, il fattorino, il correttore di bozze al «Journal Officiel». Nel 1922,
Max Jacob lo presenta a Kahnweiler, che gli propone subito un contratto.
Grazie a questa fortuna inaspettata, Masson va ad abitare in rue Blomet con la
moglie e la figlia. Nello stesso periodo ci arriva anche Miró. La leggenda
racconta che, sebbene fossero amici, nessuno dei due sapeva dove l’altro
stesse per traslocare.
Nel 1924, portato da Robert Desnos, Breton arriva in rue Blomet. Incontra
Masson, che gli presenta Miró. Lo stesso giorno, Aragon compra Terre
labourée. Poi, altri quadri, che riproduce nella «Révolution Surréaliste». Per
lui, Miró fa senza dubbio parte del gruppo.
Nel novembre del 1925 la maggior parte dei grandi nomi del surrealismo si
ritrova sull’invito di una mostra di Miró alla Galerie Pierre, in rue Bonaparte:
Breton, Aragon, Soupault, Naville, Eluard, Vitrac, Crevel (che, dopo avere
partecipato a Dada, si è definitivamente legato a Breton), Leiris, Max Ernst.
L’inaugurazione ha luogo a mezzanotte. Succede spesso, alla Galerie Pierre,
per le manifestazioni del gruppo. Naturalmente, Miró è presente. Lo spagnolo
non rifiuta il sostegno dei surrealisti. Ma a una condizione: di poter prendere
le distanze, se ne avrà voglia.
Masson è più entusiasta. Dà regolarmente disegni alla rivista di Breton. E a
Breton resterà fedele fino al 1928, quando si allontanerà dall’autoritarismo
del «capo» – cosa che gli varrà l’esclusione dal movimento.
Grandi e piccoli surrealisti passano nei primi anni in rue Blomet: Leiris,
Artaud, Roland Tual, Bataille (vicino al movimento ma senza mai aderirvi),
Limbour, Aragon. Leggono, bevono, fumano oppio. E non sono i soli. I
nuovi inquilini, che nel 1926 prenderanno il posto dei primi, si

388
abbandoneranno agli stessi piaceri, e con altrettanta allegria. Saranno lo
scultore André de La Rivière, il pittore Georges Malkin, e il poeta Robert
Desnos.
Desnos non è più innamorato di Thérèse Treize ma di Yvonne George,
un’attrice belga che canta quando le pare e che esige che il suo cavalier
servente (probabilmente innamoratissimo) le procuri i necessari tonificanti.
Desnos glieli procura, e intanto ne usa anche lui, e li divide con l’amico
Malkin, che ama Caridad de Laberdesque, una danzatrice.
Quando non dorme – o quando non fa finta di dormire – Desnos va al Bal
Nègre. È lui che ha contribuito a lanciare questa grande festa multicolore.
Spesso risale verso la Gaîté, in direzione del cimitero di Montparnasse.
Prende la rue du Château, dietro alla stazione, che sbocca non lontano dalla
vecchia cantina di Marie Vassiliev. Si ferma al numero 54. Spinge un cancello
e si ritrova davanti a una casa a un piano dove una volta c’era una ditta di
pellami. Sale qualche gradino e arriva in una grande stanza ornata da un
immenso telone di ispirazione cubista dipinto da Lurçat. Per terra ci sono
cuscini, oggetti di vario genere trovati al mercato delle pulci o nelle
pattumiere locali.
Contro la parete di fondo c’è uno strano mobile. Molto alto, comprende un
armadio a muro, un biorama con sabbia e serpenti vivi, un vero grammofono
con motore elettrico e, in cima, una gabbia piena di topini bianchi. Di fronte,
una veranda. Ospita gli amici di passaggio – cioè, quasi sempre, Benjamin
Péret. Louis Aragon sta vivendo un amore tumultuoso con Nancy Cunard e
sarà proprio in questa veranda, nella notte dal 6 al 7 novembre 1928, che
vedrà la propria vita cambiare decisamente e per sempre.
Dietro a una porta c’è lo studio di uno dei tre inquilini – un uomo alto, con
un ciuffetto in cima alla testa: il pittore Yves Tanguy. Sulla parete più grande
della stanza comune aveva dipinto un Cristo sanguinante. Ma lo ha cancellato
dopo aver subito un vero e proprio choc un giorno che, dall’imperiale di un
autobus, ha visto per la prima volta un quadro di De Chirico. Da allora ha
abbandonato l’espressionismo per darsi a opere più aggressive, pubblicate
dalle «Révolution Surréaliste».
Al primo piano vivono gli altri due inquilini della casa. Per il momento,
Marcel Duhamel non ha ancora inventato la Série Noire. Possiede un albergo.
Poiché è il più ricco dei tre, è lui che ha pagato i lavori di ristrutturazione
della casa.
L’ultimo della banda porta già il berretto che diventerà leggendario – così
come il mozzicone di sigaretta che tiene incollato all’angolo della bocca.

389
Scrive copioni per il cinema che gli vengono rifiutati (non per molto ancora)
e anche canzoni, in collaborazione con Desnos. Le propongono a Kiki, ma lei
non vuole, perché pensa che siano troppo intelligenti. Fa la comparsa nei
film degli amici.
Ha frequentato la scuola solo per marinarla. A sedici anni si è fatto le ossa
come rompiballe nei reparti del Bon Marché, il grande magazzino dove
lavorava. Faceva spedire false fatture a clienti veri, o preparava gli allarmi in
modo che suonassero tutti allo stesso momento, possibilmente nelle ore di
maggiore affluenza. Dato che non aveva ancora conosciuto Simone, faceva la
corte a una giovane commessa. I genitori della ragazza l’avevano denunciato,
e così si era ritrovato a correre sul marciapiede davanti al Bon Marché,
inseguito da due poliziotti.
Ha fatto il servizio militare in Meurthe-et-Moselle, poi a Costantinopoli,
dove ha incontrato i suoi grandi amici Duhamel e Tanguy – che aveva invano
tentato di farsi riformare ingoiando ragni vivi.
L’autore di Paroles ha incontrato l’autore di Corps et Biens in un caffè di
Montparnasse. Il primo stava per prendersela con un tipo che parlava troppo
forte, e il secondo si preparava a prendere le sue difese a pugni alzati. Florent
Fels, che si trovava lì, aveva fatto le presentazioni: Robert Desnos, Jacques
Prévert.
Avevano messo via i guantoni da boxe e si erano stretti la mano. Prévert
aveva fatto conoscere a Desnos Tanguy e Duhamel. Erano diventati amici. E
avevano scoperto di avere un punto in comune: erano nati tutti e quattro nel
1900. All’epoca del loro incontro avevano venticinque anni.
Così si è realizzata l’unione tra la rue Blomet e la rue du Chateau, e poi
quella tra Montparnasse, sulla rive gauche, e la rue Fontaine, sulla rive
droite. Per la fortuna di un surrealismo che si era appena trovato il proprio
nome – e che verrà praticato in modo molto diverso dal suo «papa» e dai
suoi «agitatori.»

390
I fannulloni di Rue du Château

Quasi tutto il tempo lo passavamo a andare in giro


per Montparnasse, questa eterna fiera...
Marcel Duhamel

La prima volta che quelli della banda di Prévert vanno da Breton, prima
sniffano una buona dose di cocaina, per sentirsi meglio. E si sentono tutti
così bene che ci tornano ogni giorno – e ogni giorno, gli altri vanno in rue
Blomet. Aragon, Queneau, Max Morise, Michel Leiris... Il primo giorno
Leiris si siede, rigido, prende una bottiglia di gin, la vuota, diventa sempre
più rigido, sempre più impenetrabile, sempre più silenzioso.
Lo farà molte altre volte.
Una volta viene anche Benjamin Péret. Prende una fisarmonica, fa un bel
respiro e allarga di colpo le braccia – con tanta forza che la fisarmonica si
spacca in due.
Non lo farà più.
Farà di meglio.
Il numero 8 della «Révolution Surréaliste»1 lo ha immortalato nel suo
sport favorito: la caccia al prete. Péret, in canottiera, parla con un
ecclesiastico, per strada. La didascalia, dice: «Il nostro collaboratore
Benjamin Péret nell’atto di ingiuriare un prete». È successo a Plestin-les-
Grèves, vicino a Lannion. È Marcel Duhamel che ha fatto la fotografia. Era
partito in compagnia di Prévert per andare a prendere i Tanguy e condurli in
vacanza da Masson, che aveva affittato una casa a Sanary. Avevano
attraversato Pontoise a tutta velocità, con i finestrini della Torpedo abbassati
perché Péret potesse sporgersi a urlare e a sparare con la sua rivoltella – di
cui usava e abusava come Alfred Jarry vent’anni prima.
Masson conosceva bene gli eccessi di Péret. Quando il pittore abitava in
avenue de Ségur (prima di trasferirsi in rue Blomet), Péret andava a trovarlo
tutti i giorni. E ogni giorno, per due settimane, si era ripetuta la stessa scena,
tale e quale. Péret passava davanti a una finestra aperta a pianterreno. Dentro

391
il portinaio, sua moglie e i tre figli, un piatto fumante sulla tavola. Péret
metteva dentro la testa e chiedeva cortesemente: «Com’è, la merda? Buona?».
Quanto a lui, aveva magari dovuto saltare il pasto da un giorno o due.
Dopo averci pensato per un paio di settimane, il valoroso difensore dei
valori famigliari aveva preso il coraggio a due mani, si era schiarito la gola e
quando l’assalitore si era presentato davanti alla finestra, era passato alla
controffensiva: «Sporco tedesco!» aveva mormorato.
E aveva chiuso in fretta la finestra per evitare il peggio.

Péret è un grande ammiratore di Breton. Non lo cotraddice mai, lo difende


sempre. Tranne quando l’abate Gegenbach gli si siede vicino. Allora Péret si
alza e gli dà un ceffone. L’uomo in abito talare si ritira. Breton ha un bel
rimproverare il suo surrealista più fedele, non c’è niente da fare: Péret non
intende ragioni. Poco importa che Gegenbach faccia parte del movimento (lo
condannerà qualche anno dopo), poco importa che sia innamorato di
un’attrice dell’Odéon, che balli al Jockey vestito da prete, che beva alla
Rotonde, con due ragazze sulle ginocchia, che vada al bordello, che si ritiri
all’abbazia di Solesmes soltanto quando non ha più un soldo. Resta sempre
un prete. Sul numero 5, «La Révolution Surréaliste» ha pubblicato una foto
dell’abate con la sua amica. Péret non ha potuto impedirlo. Così, si prende la
rivincita per strada. Appena vede l’ombra della sottana di un prete, si scatena.
Spesso lo accompagna Prévert. Neppure lui si tira indietro quando c’è uno
scandalo in vista.
Una sera è in boulevard de Clichy con quelli della banda di rue du
Château. Aspettano l’ora del film. Il marciapiede è pieno di passanti. Piove,
molti hanno l’ombrello. Breton detesta gli ombrelli. Soprattutto quando gli
impediscono di camminare in fretta. Esasperato, strappa l’ombrello a un
passante e, tenendolo a braccia tese, lo rompe in due senza sforzo. Prévert,
divertito, lo imita. Desnos non vuole essere da meno e rompe un terzo
ombrello. E poi fanno lo stesso anche Tanguy, Péret, Duhamel. La gente si
infuria. Breton schiaffeggia un tale che gli dà noia. Arriva la polizia. Bisogna
arrendersi all’evidenza: il film, sarà per un’altra sera.
Un’altra volta, Prévert, Duhamel e Tanguy sono sulla spiaggia, in Bretagna.
Prévert gioca a fare il satiro. Poi si rifugia in un ristorante in cui servono cibi
delicati e vini robusti. Al dessert, per spassarsela un po’, spalanca le finestre e
si mette a insultare la gente in piazza. Per pura fortuna, sfugge al linciaggio. Il
miracolo si ripete qualche giorno dopo, quando rompe il muso a un ciclista
che l’ha investito.

392
La cosa migliore, in queste condizioni, è tornarsene a casa.
Per i vicini, il 54 di rue de Château è un bordello. Come spiegare altrimenti
quel continuo andirivieni?
Durante il giorno, quelli della banda non lavorano. Schiumano i bar di
Montparnasse. Vanno al Ciné-Opéra. Desnos pare che ci vada tutti i giorni.
Prévert, più o meno, anche lui. Suo fratello Pierrot è operatore in un cinema
della rive droite, e fa passare lui e i suoi amici. Vedono e rivedono Il Golem,
Nosferatu, I fratelli Karamazov. La sera, quando ritornano, leggono
L’Histoire de l’oeil di George Bataille, pubblicato clandestinamente.
Sono sempre molto numerosi. Hanno affittato l’appartamento in tre, ci
dormono in quindici. Prima di dormire ascoltano dischi di jazz. Bevono,
fumano, fanno giochi strani.
Quali giochi?
Si siedono intorno a un tavolo, ognuno ha un foglio di carta. Ci scrive
sopra qualcosa poi, piegando il foglio, nasconde lo scritto tranne le ultime
parole e passa il foglio al vicino che, collegandosi alle parole scoperte, scrive
un’altra frase e così via. È un gioco inventato da Tzara. Prévert ha trovato
l’inizio della famosa frase che gli ha dato il nome – «cadavre exquis»:
Le cadavre exquis boira le vin nouveau.

(Il cadavere eccellente berrà il vino nuovo.)

A volte, giocano anche i pittori. Si formano squadre tra poeti e pittori, e


invece di scrivere si disegna. Man Ray-Miró-Morise-Tanguy; Breton-
Duhamel-Morise-Tanguy.
Parlano anche di politica. Si sono riavvicinati a «Clarté». La rivista,
fondata nel 1919 da Barbusse, ha accentuato il suo radicalismo nel 1924.
George Grosz sostiene che in questa Francia «intellettualmente fiacca, quasi
moribonda» – in cui «Romain Rolland, generalmente ritenuto il precursore di
un’umanità nuova, è un radicale piuttosto moderato, proprio come Herriot lo
è in politica»2 – il gruppo di «Clarté» costituisce il solo polo radicale
veramente interessante. Qualche anno dopo, la rivista diventerà l’organo
dell’opposizione di sinistra al PC. Per il momento, guida il movimento contro
la guerra in Marocco. Molti intellettuali aderiscono. Tra loro, i surrealisti. Ma
con «Clarté» bisogna affrontare il problema del comunismo. Nel 1926, nella
«Révolution Surréaliste», Breton ha pubblicato un lungo testo, Légitime
défense, per reagire agli attacchi di cui gli intellettuali sono fatti oggetto nel
giornale del PC, «L’Humanité». Risponde anche a una domanda di Pierre

393
Naville: i surrealisti sono pronti a una rivoluzione nei fatti? Sì, risponde
Breton; ma la rivoluzione dello spirito è altrettanto essenziale della
rivoluzione nei fatti. I membri del PC non sono i soli rivoluzionari.
Il grande interrogativo di quegli anni è sapere se i surrealisti aderiranno al
comunismo. Prévert ha qualche dubbio: «Mi metteranno in cellula...».3
Comunque non avrà bisogno del partito per fondare nel 1929 il gruppo
Ottobre e per mettere in scena i suoi spettacoli nelle periferie operaie.
Leiris e Tanguy esitano. Artaud e Desnos si rifiutano. Breton, Aragon,
Péret, Unik e Eluard fanno il gran passo nel gennaio del 1927 (Breton, deluso
dalla politica culturale del partito, farà rapidamente marcia indietro).
Pubblicano un testo, Au grand jour, nel quale spiegano la loro decisione.
Paulhan replica con una nota piuttosto acida sulla «NRF». Breton gli
risponde dandogli del «figlio di puttana francese». Paulhan manda i padrini,
Marcel Arland e Francis Crémieux, per organizzare un duello. Ma Breton non
accetta. Paulhan risponde con due righe indirizzate ai due amici e pubblicate
nella «NRF»:
Cari amici,
Grazie. Non vi ho disturbato invano; almeno, adesso sappiamo quale vigliaccheria si
nasconde sotto la violenza e il sudiciume di questo personaggio.4

Aragon aveva già anticipato la sua replica, prendendo le difese di Breton


con una lettera decisamente surrealista:
Signore,
esistono diversi tipi di porci. Ho sempre pensato che i peggiori fossero i porci
anonimi. Voi siete uno specialista dell’anonimato (...). Ma poi, insomma, siete troppo
stupido, non posso accontentarmi di lasciarvelo dire. Me ne frego di voi,
definitivamente.
P.S. Sbrigati con i testimoni, io me la batto dopodomani.5

Anche Crevel si iscrive al partito. E resterà iscritto più a lungo degli altri.
Scriverà sulle riviste comuniste, parteciperà ad azioni militanti. Nel 1935,
durante il Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura,
tenterà disperatamente di promuovere un avvicinamento tra comunisti e
surrealisti. Ma non ci riuscirà. Avrà uno scontro con Breton, poi andrà a
raccontarlo, piangendo, a Salvador Dalí.6 Pochi giorni dopo, disperato,
distrutto dalla tubercolosi, si ucciderà.
Péret, lui, è comunista dal 1926. Guadagna qualche soldo facendo il proto

394
all’«Humanité». Lascerà il PC quando le incompatibilità tra comunismo e
surrealismo gli sembreranno insormontabili. Nel 1936, in Spagna, sosterrà i
trockisti del POUM. La stessa cosa farà Pierre Naville – entrato nel partito nel
1926, direttore di «Clarté» lo stesso anno, escluso dal partito nel ’28, dirigente
della sezione francese della IV Internazionale, trockista.
Sulla rive droite, il surrealismo è più vicino al trockismo che al
comunismo. Sulla rive gauche, il surrealismo è più vicino all’anarchia. È più
gioioso, più festoso, più libertario. E meno dogmatico, meno rispettoso della
linea, meno incline alle scomuniche. Più morbido. In rue du Château vive
ancora lo spirito della vecchia Montparnasse. Certo, le luci, la modernità, e i
soldi, gli hanno tarpato le ali. Ma in Desnos e Prévert c’è un po’ di Jarry, un
po’ di Apollinaire. Breton fa venire in mente Matisse. Anche in mezzo a una
rissa, lui non perde il contegno. La differenza essenziale, almeno fino al 1928,
la ragione per la quale Montparnasse rimane Montparnasse e non può esser
confusa con la rue Fontaine, è che nel giro di Prévert regnano i fannulloni.
Nella scuola di rue Fontaine, i primi della classe si prendono sul serio.

395
Regolamenti di conti

... A una mia ispezione risulta oggi che Morise ha


passato il tempo a scrivere a macchina, che Vitrac
non ha fatto assolutamente niente...
André Breton1

Un giorno del 1928, Youky Foujita sta bevendo qualcosa alla Cigogne, in
rue Bréa. A un tavolo vicino un uomo in smoking ride in modo irritante. Ha
un ciuffo di capelli sugli occhi. Gioca con una cannuccia. Poiché la ragazza
sembra interessarsi alle sue manipolazioni, si siede al suo tavolo e le mostra
l’ultimo gioco inventato dai surrealisti: annoda tra loro gli involucri delle
cannucce di paglia e ne fa una specie di ragno di carta. Poi fa cadere una
goccia d’acqua proprio sul nodo e la bestiola agita le zampe.
A questo punto, l’uomo scoppia a ridere, poi si presenta. È Robert Desnos.
Youky lo tratta freddamente.
Il giorno dopo Youky prende l’aperitivo con Breton, che conosce per
averlo incontrato nei bar di Montparnasse. Gli racconta la scena e confessa
che Desnos non le è piaciuto affatto. Breton chiama subito un cameriere, si fa
portare un foglio di carta e scrive una lettera severa a questo compagno
surrealista che si comporta male con le signore. Youky tenta di fermare la
mano del Padre Fustigatore e l’invio della lettera. Niente da fare. Breton è
fuori di sé dalla rabbia.
Pochi giorni dopo, in un altro caffè, Youky nota Desnos. Lo invita al suo
tavolino, si scusa per aver provocato quella reazione di Breton. Ma Desnos se
ne infischia. È libero, è appena tornato da Cuba, è molto contento...
Youky lo invita a cena la sera stessa a casa di Foujita a Montsouris.
Diventano amici. Qualche anno più tardi, Youky Foujita diventerà Youky
Desnos. Non chiederanno a Breton di fare il testimone.
La lettera di fuoco inviata a Desnos è un sintomo del rigore del papa dei
poeti – «integro e rigido come una croce di Sant’Andrea», scriverà Salvador
Dalí.2 Breton dirige i surrealisti a bacchetta.

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Gioca su vari campi. Per esempio, ritiene che il commercio dei quadri,
praticato da lui stesso e da Eluard, sia un’attività nobile. Mentre ritiene che
non lo sia il lavoro del giornalista, con cui si compromettono Desnos (che
lavora a «Paris-Soir»), Crevel (segretario di redazione delle «Nouvelles
Littéraires»), Soupault e molti altri. (Nel 1944, a New York, Soupault incontra
Breton – che per sopravvivere fa il giornalista. Pierre Lazarev lo ha assunto
per leggere alla radio il notiziario. Breton si è imposto un limite e lo ha
sempre rispettato scrupolosamente: avrebbe letto tutte le notizie possibili e
immaginabili – salvo quelle che riguardavano il papa.)
La musica, che piace tanto a Masson, a Desnos e ai frequentatori della rue
du Château o del Bal Nègre della rue Blomet, non è affatto apprezzata in rue
Fontaine, al punto che la si ascolta di nascosto.
Se l’amore puro è una virtù (vedi Najda), l’omosessualità è un vizio. È un
credo da cui Breton non si scosterà mai. Il numero 11 della «Révolution
Surréaliste»3 riporta gli interventi tenuti nel corso di una di quelle tavole
rotonde che riuniscono i fedeli per discutere su un tema specifico. Il tema di
quel giorno è: «Che cosa pensate della pederastia?». Prévert non ne pensa
affatto male, e così pure Queneau, che deplora il pregiudizio contro
l’omosessualità così diffuso tra i surrealisti. Péret, Unik e Breton scendono in
campo. Breton soprattutto, pensa che, a eccezione di Sade, gli omosessuali
propongano «alla tolleranza umana un deficit mentale e morale che tende ad
erigersi a sistema».4
Senza dubbio questo atteggiamento spiega in parte il disprezzo che i
surrealisti hanno per Cocteau. E spiega anche l’antagonismo tra Breton e Il’ja
Erenburg, scrittore sovietico che vive a Parigi e fedelissimo di Mosca. Il
francese non rimprovera tanto al russo di avere continuamente voltato
gabbana per compiacere la direzione del partito, quanto di avere scritto
pagine violente contro i surrealisti, accusati di essere una banda di fannuloni,
di parassiti e, crimine dei crimini, di occuparsi quasi esclusivamente di
pederastia.
Durante la preparazione del Congresso degli Scrittori e Artisti
Rivoluzionari (AEAR), Breton incontra Erenburg che è appena uscito di casa
(vive a Montparnasse) per comprare le sigarette. Lo segue, lo schiaffeggia
metodicamente. Erenburg non reagisce.
Usando volta a volta scapaccioni e insulti, spesso gli uni e gli altri, l’autore
del Manifesto del Surrealismo non ha mai la mano leggera. Nei tempi lunghi,
è molto difficile evitare i suoi fulmini. Che sono assolutamente imprevedibili.

397
Nel 1929, per esempio, quando divorzia da Simone, considera colpevole di
lesa maestà chi rivolga la parola alla sua ex moglie. Le malelingue arrivano a
dire che forse la rottura con Pierre Naville dipende dal fatto che la compagna
(e futura moglie) di Naville, Denise Lévy, è cugina di Simone.
Rompere con Breton è quasi obbligatorio. E ogni volta si scatena un odio
tanto violento quanto violente sono le passioni suscitate da quest’uomo
dall’incredibile carisma. La brutalità dei dadaisti e dei surrealisti non è rivolta
solo contro gli estranei. Torna, come un boomerang, quando si tratta di
condannare o di espellere un membro del gruppo. (Nel 1946,
nell’Avertissement pour la réédition du Second Manifeste, Breton si mostra
dispiaciuto per queste «incresciose manifestazioni di nervosismo», e per «i
giudizi a volte affrettati» che egli stesso ha formulato.)
Soupault, che pure è stato uno dei fondatori del movimento e uno dei due
autori di Champs magnétiques, viene espulso con un rituale che prefigura i
grandi processi stalinisti. E così come molti intellettuali russi si sentiranno
come tanti orfani dopo essere stati espulsi dal partito, quando si ritroverà
solo, senza la bandiera surrealista alla quale stringersi, Soupault si ammalerà
di depressione.
Viene convocato una sera del novembre 1926. Come per il processo
Barrès, è Breton che conduce il gioco.
Entrai in una grande stanza, male illuminata. Mi resi conto che, secondo l’usanza, i
numerosi presenti formavano un tribunale – presieduto, ben inteso, da André Breton,
con l’assistenza di Louis Aragon e di Max Morise. L’atto d’accusa fu pronunciato in
un modo ostile, addirittura ingiurioso. Non mi aspettavo questa accoglienza da parte
di coloro che avevo fino ad allora considerati amici, che mi ero sforzato di aiutare
quando erano in difficoltà. Mi resi subito conto che questa «cerimonia», che a me
sembrava derisoria e anche piuttosto ridicola, era stata preparata in anticipo per
distruggermi. Non era nelle intenzioni degli organizzatori di ascoltare le mie
dichiarazioni. I giochi erano già stati fatti.5

Di che cosa è accusato, Philippe Soupault? Di non avere frequentato


abbastanza assiduamente il Cyrano, dove si tengono le riunioni del gruppo.
Di collaborare a «riviste borghesi» e di praticare una «attività letteraria
disordinata» scrivendo libri contestati dal gruppo. Di rifiutarsi di aderire al
Partito Comunista. Di fumare sigarette inglesi, aristocratiche, e non il tabacco
nero delle proletarie Caporal.
E di che cosa è accusato Artaud – espulso anche lui nello stesso periodo?
Di bassezze. Di essere un irrazionale. Un metafisico. «Una canaglia», «una

398
carogna». Di avere impregnato tutto il numero 3 della «Révolution
surréaliste» di quel carattere «semi-libertario», «semi-mistico»6 che ha
rischiato di portare il movimento verso derive estranee al suo fondatore – il
quale ha ripreso in mano il giornale per evitare sbandamenti del genere.
Due anni più tardi, quando Artaud, al Théâtre Alfred Jarry, metterà in
scena Le Songe «del vaghissimo Strindberg» (come lo definisce Breton),
diventerà un «informatore della polizia» che agisce «a fine di lucro e per
vanagloria».7 Il grande scrittore non se ne curerà: per lui, il surrealismo
aveva firmato la propria condanna a morte alleandosi con il comunismo.
Sempre nel 1926, sono Max Ernst e Joan Miró che sono sul banco degli
accusati per aver accettato di lavorare alla scenografia di uno spettacolo tra i
più conformisti: Romeo e Giulietta, montato da Serge Diaghilev. Il giorno
della rappresentazione, Breton, Aragon e altri vanno a teatro. Non sopportano
che quei due si compromettano con la potenza del danaro. Centinaia di
manifestini pieni di insulti piovono dalla balconata. Leiris spiega un
gigantesco stendardo su cui c’è scritto «Vive Lautréamont!». Aragon,
elegantissimo come sempre, insulta la folla, sostenuto dalle grida di Péret e
Desnos – ben presto soverchiate dai fischietti della polizia. La serata finisce al
commissariato.
Poi è la volta di De Chirico. Hanno adorato la sua prima maniera.
Detestano la seconda. Nel marzo del 1928, contro la volontà del pittore e per
rispondere a Léonce Rosenberg che espone i suoi quadri recenti, la galleria
surrealista ripropone le sue vecchie opere. Breton le aveva comprate nello
studio dove il pittore aveva vissuto a Montparnasse, passage d’Enfer, fino al
1913. Raymond Queneau si incarica dell’esecuzione. Sostiene che ci sono
due periodi nel lavoro di De Chirico: il primo periodo – e il periodo orribile.

L’11 marzo 1929 la rue du Château è il teatro di un altro regolamento di


conti. Non ha luogo all’interno della casa, dove vecchi inquilini hanno
ceduto il posto a nuovi venuti molto più ortodossi (Georges Sadoul e André
Thirion), ma nel caffè di fronte. Breton ha convocato l’intero gruppo dei
surrealisti per riflettere su alcuni temi: la rivoluzione, l’assassinio di Trockij
su ordine di Stalin, le azioni comuni...
I grandi assenti sono Naville, Artaud, Vitrac, Limbour, Masson, Tual,
Bataille. E due dei vecchi inquilini di rue du Château, Duhamel e Prévert, che
il comitato centrale surrealista non si è degnato di convocare a causa delle
«loro occupazioni» o del «loro carattere»8 (Man Ray e Tanguy, anche se

399
«dimenticati», sono intervenuti lo stesso).
In compenso sono venuti i giovani nuovi – che stanno sul banco dei
colpevoli. Sono quelli del Grand Jeu, Roger-Gilbert Lecomte, René Daumal e
Roger Vailland, riuniti intorno alla rivista che porta lo stesso nome. Li si
accusa di misticismo – e di preferire Landru a Sacco e Vanzetti (come dice un
titolo provocatorio della loro rivista). Roger Vailland, infine, è accusato di
aver pubblicato su «Paris-Midi» un elogio del prefetto di polizia Chiappe.
L’elogio, in realtà, è perlomeno canzonatorio. Incomincia con un paragone –
Chiappe è come un «nonno che colma di regali i suoi nipotini» (che sono
evidentemente gli agenti di polizia di Parigi) – e termina con un colpo al
cuore dell’«epuratore della nostra capitale».9 Ma Breton ci casca. Vailland è
giornalista. Questo basta per attirargli contro la collera dei surrealisti.
Il giorno dopo il processo del Grand Jeu, Ribemont-Dessaignes manda una
lettera in rue Fontaine: non sopporta più questo furore tribunalizio che anima
Dio e i suoi apostoli.
Ma non ha ancora visto niente. Nel 1930, Breton pubblica Le second
Manifeste du Surréalisme. È nello stesso tempo una risistemazione del
movimento, un richiamo ai suoi principi, e un attacco in piena regola contro
«i codardi, i simulatori, gli arrivisti», cioè contro coloro che hanno tradito e si
sono compromessi.
Si sa che Masson è geloso di Max Ernst e di Picasso, e che, proprio come
Artaud, è colpevole di «astensionismo sociale». Si è al corrente delle
debolezze di Desnos. Si sa anche che Naville (al quale Breton ha affidato,
insieme a Péret, la direzione della «Révolution Surréaliste», perché i due
sono «i più ribelli a qualsiasi concessione»)10 è entrato nel PC per uscirne tre
mesi dopo e farsi così una pubblicità a buon mercato, lui che ha un padre
ricchissimo. Si ritiene che George Bataille e Michel Leiris siano da punire, il
primo per avere fondato una rivista concorrenziale, «Documents», di cui il
secondo è segretario di redazione; e tutti e due per avere commesso il
supremo tradimento – facendo collaborare alla loro rivista i rinnegati Desnos,
Prévert, Masson, Limbour...
Dopo di che, Le second Manifeste aumenta la posta. Rende noto che
Vitrac, che ha avuto la sfortuna di scrivere per il teatro, è un «vero e proprio
sudicione intellettuale», che la penna di Limbour è intinta nelle «civetterie
letterarie», che Soupault non è che «un topo che gira in un topodromo»,
l’incarnazione «dell’infamia assoluta»...
Un po’ di tutto, e alla rinfusa. Per qualcuno, è troppo. Ribemont-

400
Dessaignes, Vitrac, Limbour, Morise, Baron, Leiris, Queneau, Boiffard,
Bataille, Desnos e Prévert, in risposta agli attacchi di Breton, pubblicano un
pamphlet intitolato Un cadavre. È un attacco molto violento contro André
Breton – falso fratello secondo alcuni, falso papa e falso vescovo per altri,
falso amico per molti, divoratore di cadaveri e intellettuale di professione per
certuni, sbirro e curato per tutti.
Questi iconoclasti utilizzano il titolo del pamphlet scagliato contro la
memoria di Anatole France nel 1924. E riprendono le parole con le quali
Breton stesso aveva concluso l’«omaggio»: «Quest’uomo non deve più far
polvere da morto». La frase era stampata sopra la faccia di Breton, con la
fronte cinta da una corona di spine, e una lacrima di sangue.
Breton, da parte sua, raduna le sue truppe vecchie e nuove. Per tenere uniti
coloro che restano con lui, ci vuole un obiettivo. E allora si prepara a sferrare
l’assalto finale a Montparnasse. Il primo aveva distrutto la Closerie des Lilas.
Questo, cinque anni dopo, sta per devastare un bar-dancing-ristorante che si
è appena aperto in boulevard Edgar-Quinet, non lontano dalla rue du Départ
e dalla gare di Montparnasse. Purtroppo questo luogo di piaceri notturni
porta un nome che i cavalieri del conte di Lautréamont non possono
ammettere di vedere esposto sulla vetrina di uno spaccio di bevande: si
chiama Le Maldoror.
Non sono tutti lì, la sera del 14 febbraio 1930, per la spedizione punitiva. I
nuovi arrivati, Buñuel, Giacometti, Magritte, Dalí, Sadoul, Thirion, non
vanno ancora tutti in prima linea. Qualcuno tuttavia viene a dare una mano
ad Aragon, Péret e Tanguy. Ma è Breton che varca la soglia del Maldoror
gridando che lo ha invitato il conte di Lautréamont. Ed è sempre lui che
effettua il primo lancio di piatti e bicchieri che manda in frantumi la vetrina.
«I surrealisti ci attaccano!» strilla una dama in pelliccia.
Thirion si becca un pugno nello stomaco. A Tanguy gli tocca un tegamino
di lumache allo champagne con un velo di burro fresco, a Eluard un
prosciutto ben stagionato. Una rissa infernale. Le signore in abito da sera e i
signori in frac si rifugiano nelle toilette. René Char tira una tovaglia giù dal
tavolo. Soufflé sui tappeti preziosi. Il barman tira un frutto e prende Aragon
all’occipite. Si scatena un’offensiva di Bordeaux millesimati seguiti da
qualche sedia e da un paio di tavoli. Vanno tutti a fracassarsi sulle porte delle
cucine. Fuori i tre cuochi! Qualcuno urla: «Chiamate la polizia!».
Si stappano altre bottiglie. Lancio di arrosti assortiti, di insulti salati, pepati,
piccanti. Le sirene della polizia. I poeti si raggruppano. René Char sanguina
dalla coscia, è stato colpito da un coltello da cucina. Breton ha la camicia a

401
brandelli.
Gli assalitori ripiegano verso l’ingresso, si fanno da parte per fare entrare
le guardie. In mezzo a tutto quel frastuono, Breton può constatare che l’onore
di Lautréamont è vendicato: il campo di Maldoror è cosparso di schegge di
vetro e di bottiglie, di tavoli fracassati, di zuppiere in frantumi, di grasso, di
salsa. Resti gratinati, glassati, polverizzati, ricoprono le pareti.
I surrealisti si ritirano. Char viene portato via in taxi. Gli altri si
incamminano lungo il muro del cimitero. L’occhio di Breton è illuminato da
quella luce che gli si accende dentro dopo le risse. Péret si frega le mani: a un
centinaio di metri, sullo stesso marciapiede, sta arrivando un prete. Aragon
ha il labbro superiore spaccato. Lascia i suoi, prende per rue Delambre.
Arriva al carrefour Vavin, volta a sinistra, passa davanti al Dôme e alla
Rotonde, prosegue fino ai tendoni rosso cupo di un ristorante che ha aperto
due anni prima. Lì, dalla sera dell’apertura, Elsa sta aspettando che venga il
suo momento.

402
Il Citroën della limonata

Da sei mesi la velocità con cui gli artisti lasciano


Montparnasse si è accentuata. Fuggono dagli
alberghi troppo costosi, dagli studi che ormai
vanno bene soltanto ai ricchi americani – e da un
pittoresco commercializzato dai pannelli
pubblicitari di quindici locali notturni e da una
serie di riviste e di giornali locali niente affatto
disinteressati.
Roger Vailland

La Coupole. Duemilaquattrocento metri quadrati. Pranzi, danze – e


seduzione, calore, incontri, un’emozione continua. Al pianterreno, il
ristorante. Nel seminterrato, un luogo per incontri ravvicinati. Al primo
piano, i biliardi.
Nel 1926 i signori Fraux e Lafon, cognati e ristoratori alverniati, comprano
un deposito di legna e carbone che sta di fronte al Select. Prima avevano
rilevato il Dôme dal père Chambon – ma questi se lo era ripreso dopo tre
anni di leale servizio. Così, Fraux e Lafon si erano dati a un altro sogno:
aprire in pieno Montparnasse il più grande ristorante del quartiere, se non
della capitale.
Quel sogno si realizza. I lavori iniziano nel gennaio del 1927. Meno di un
anno dopo, è tutto finito. Tre piani, tre modi diversi di spendere – di
spendersi. Al pianterreno si mangia sotto l’occhio degli artisti che hanno
dipinto i pilastri. Quelli che entrano dalla porta girevole che si apre sul
boulevard si ritrovano nel dominio di Bob, il barman, che officia i suoi riti
dietro il bancone. Da un’altra porta si passa dal bar al ristorante.
Quelli che preferiscono giocare a biliardo salgono al primo piano. La scala
è in fondo a destra. Dà su una terrazza dove si pranza l’estate e si gioca in
tutte le stagioni. Il pittore Othon Friesz è il grande sovrintendente ai giochi.
I nottambuli devono scendere nel seminterrato. Due orchestre, una di
blues, l’altra di tango – in modo che i ballerini possano abbracciarsi a ritmi

403
diversi.
Il pomeriggio, un altro tipo di abbracci. Il locale notturno si trasforma in
sala da tè. Qui signore molto truccate e piuttosto avanti con gli anni, vengono
a cercare giovanotti piuttosto squattrinati. Si scambia un certo savoir-faire
con un po’ di denaro. Funziona, a quanto pare. Funzionerà fino agli anni
Settanta.
Perché La Coupole? Perché il nome si accorda con quelli del Dôme e della
Rotonde. Appartengono tutte e tre alla stessa famiglia. Fraux e Lafon hanno
fatto aggiungere la cupola dopo che avevano trovato il nome del loro
capolavoro. È alta cinque metri, anche per via del fumo che prima appestava
le sale.
La sera dell’apertura, il 20 dicembre 1927, duemila persone vengono a
mangiare e bere. A un certo punto incominciano a mancare le munizioni –
milleduecento bottiglie di champagne sono evaporate in un attimo. Un
mucchio di taxi sciama per tutta Parigi a cercarne altre. Al loro ritorno, c’è
una tale folla intorno ai tavoli del buffet che i più furbi, dopo aver fatto
rifornimento di bottiglie, levano le tende. Vanno al Select, al Dôme, alla
Rotonde, si fanno portare i bicchieri e brindano in santa pace al nuovo
Montparnasse.
Nel 1914 alla Rotonde dal père Libion aveva tre camerieri. Alla Coupole
lavorano quattrocento dipendenti. Monsieur Fraux è soprannominato «il
Citroën della limonata». Le sue officine? La Coupole. Quattro anni prima
dell’apertura, André Warnod aveva detto: «Il commerciante che aprirà nel
quartiere il primo ristorante in funzione anche la notte farà fortuna, è
probabile – ma gli artisti lasceranno Montparnasse».1
Il ristorante è stato aperto. Fa fortuna. Gli artisti sono ancora lì.
Non per molto.
Ma sono ancora gli stessi?
Derain gira ormai in Bugatti. Man Ray ha comperato una Voisin, Kisling,
che vive più a Sanary che a Parigi, manda su di giri i motori delle sue due
Willys Knight americane. Picabia ha una Delage a sei cilindri. Cendrars
un’Alfa Romeo. Zborowsky non ha la patente, ma è ricco. Non durerà molto,
però. Non durerà molto neanche per Foujita che ha scambiato la Ballot di
Youky con una Delage decappottabile che il suo autista rifiuta di aprire
perché si vedrebbe il segno delle pieghe. Cambiare la capote sarebbe
comunque il meno, per Foujita. Il fisco gli ha appena consegnato
un’ingiunzione di pagamento per parecchie centinaia di migliaia di franchi –
comprese le ammende per parecchi solleciti inevasi, dal 1925 in poi. Foujita

404
ha licenziato il personale. Ha anche organizzato una grande mostra in
Giappone, spera di guadagnarci bene. Altrimenti dovrà vendere l’auto.
Intanto si prepara a lasciare la casa di Montsouris.
L’unico che non cambia è Pascin. È uno dei pittori più ricchi, ma non si
vede. Quando arriva alla Rotonde, circondato dalle sue modelle e dai suoi
fedeli, è sempre a piedi. Si apre un passaggio tra le limousine parcheggiate,
arriva al bar, offre da bere a tutti e si guarda intono per vedere se c’è Lucy
Krogh. Per il momento è felice. È appena ritornato da un viaggio negli Stati
Uniti. Lucy lo ha accompagnato. Lucy è incinta. Pascin non sa ancora che
una mammana l’ha stregata.
Pascin è fedele al suo unico amore.
Per altre coppie, è una gran confusione.
Youky sta per lasciare Foujita, all’orizzonte c’è già Robert Desnos, e
Foujita sta per rifarsi una vita con Mady Lequeux, indossatrice e cantante.
Paul Eluard, che ritorna da un giro del mondo in solitaria, ha perso Gala e
ha trovato per strada Nusch, ragazza senza un soldo. Gala, che ha esitato a
lungo tra Eluard e Ernst, li ha piantati tutti e due per non perdere l’occasione
che le ha offerto Dalí. Quando stava con Eluard la chiamavano «la cimice».
D’ora in poi diventerà, per molti, «il registratore di cassa».
Bronia si è consolata della morte di Radiguet, e sta per sposare René Clair.
Kiki fa grandi scenate al suo fotografo americano. Lui si sta innamorando
di una giovane americana, un’indossatrice splendida e molto decisa. È venuta
in Francia per studiare fotografia. Si presenta in rue Campagne-Première per
conoscere Man Ray. Dato che lui non è in casa, va ad aspettarlo in un caffè.
Dopo un po’, ecco Man Ray. Lei gli va incontro: «Buongiorno. Mi chiamo
Lee Miller e sono la sua allieva».
«Scusi?».
«Lee Miller... Ormai sono la sua allieva».
Lui la guarda, sconcertato: «Ma io non ho allievi!».
«Sì, me».
Man Ray le dice che il giorno dopo deve partire per Biarritz. Lei sorride,
seducente. Gli chiede: «Quando parte il nostro treno?».
Al bar della Coupole, Kiki lancia piatti in faccia a quel seduttore di Man
Ray, che si ripara buttandosi sotto al tavolo. Quanto a lui, è talmente geloso
di ogni uomo che si avvicini a Lee Miller che gira ormai con una pistola in
tasca, pronto a uccidere chiunque voglia insidiargli il posto. Così è la vita. La
ruota gira.
Poi Kiki si mette con un giornalista-disegnatore, Henry Broca. Broca lancia

405
riviste a Parigi e la sua fidanzata nel bel mondo. Kiki fa qualche mostra.
Vende le sue opere (naïves) e la sua fama. È stata eletta regina di
Montparnasse.
Derain salda i suoi conti con altrettanto entusiasmo. Adesso è un
cinquantenne attaccabrighe e ha un’amante ricchissima. Si chiama Madeleine
Anspach, ed è sposata a un banchiere belga. Quando, al bar della Coupole,
Derain beve troppo appassionatamente, si mette a fracassare, urlando,
bicchieri, sedie, tavoli. Poi salta sulla Bugatti, e parte per Barbizon a
centosessantacinque all’ora. Torna il giorno dopo. E si scusa, paga i danni.
Ogni tanto, indicando il motore della sua piccola macchina blu, proclama che
nessuna opera d’arte è così perfetta. Madeleine Anspach dice che è proprio
così, poi gli chiede un paio di volpi argentate. Il più delle volte, gliele
compra.
Ma il più passionale di tutti i clienti della Coupole è Louis Aragon. Le
conoscono tutti, le sue parate amorose.
Ma «parata» è una parola che non si addice a Denise Lévy, cugina di
Breton e futura moglie di Naville. Aragon se ne è innamorato follemente. Ma
se l’è portata a letto soltanto in un romanzo, Aurélien – in mancanza di
meglio. Denise è la sua castissima Bérénice.
Non così Nancy Cunard. Che, gloriosa, magnifica, ha preceduto l’entrata
di Elsa nella vita del poeta.
Tra il 1926 e il 1928, Nancy gli offre il suo braccio – quel braccio stretto da
braccialetti d’avorio che lasciavano il segno sulla faccia dei suoi uomini.
Porta un cappello, a volte una veletta, e un soprabito che si accordi a quello
del suo compagno. Lui mette in mostra uno dei bastoni di cui fa collezione.
Aragon è molto elegante, lei molto bella. E tutti e due sono completamente
liberi. Lei perché è in grado di fare tutto ciò che vuole – grazie a un
patrimonio colossale investito in alberghi e transatlantici. Lui perché Le Con
d’Irène, pubblicato clandestinamente (e illustrato da Masson), rende ancora
più sulfurea una reputazione di dandy dato alle cose dello spirito quanto a
quelle della vita. Lui è uno scrittore surrealista, lei una generosa ninfa egeria.
Lei se lo trascina dietro da una parte e dall’altra – in rue Le Regrattier, dove
vive (proprio come la Bérénice di Aurélien), in un’altra delle sue tante case. E
a letto. A letto se lo porta subito, quando decide che, tra tutti i frequentatori
del Cyrano, quello che vuole è lui, e solo lui.
Lui la segue senza opporre resistenza. È un giorno d’inverno, a Londra,
all’inizio del 1926. Aragon scopre una donna che non è soltanto libera, è
anche indipendente. Fa ciò che bisogna fare per non avere bambini, e fa

406
anche tutto ciò che bisogna fare per avere gli uomini che vuole. Li guarda, li
prende, se li porta in giro. Loro si ubriacano, giocano. Lei li butta via.
Aragon resiste, ma è un tormento. È ai suoi piedi. Lei può fare ciò che vuole.
Lo insulta con il suo accento inglese, lo guarda freddamente mentre lui brucia
le millecinquecento pagine del manoscritto della Défense de l’Infini in una
camera d’albergo a Madrid, gli rimprovera la sua gelosia, la sua ristrettezza di
vedute, anche per quanto riguarda il sesso. Lui è in ginocchio, paralizzato
dalla passione.
Viaggiano, in Spagna, in Olanda, in Germania. Nel luglio del 1928, sono a
Venezia. Aragon sta aspettando di ricevere i soldi ricavati dalla vendita della
Baigneuse (Nu bleu), il quadro di Braque comprato alla vendita Kahnweiler
nel 1922. L’ha pagato 240 franchi. Sei anni dopo vale cento volte tanto. Ma i
soldi non arrivano. Non può più vivere alle spalle di Nancy. Tanto più che
Nancy va a spasso in piazza San Marco con un altro. Si chiama Henry
Crowder, è un pianista di jazz che l’ereditiera della Cunard Line ha sottratto al
suo strumento. Aragon è solo nella sua camera d’albergo. Vuole morire. Ci
prova. Racconterà di essersi buttato nel Canal Grande. O di aver preso una
dose abbondante di sonnifero. Forse ha fatto l’una e l’altra cosa. Comunque
lo salvano. E quando finalmente arrivano i soldi, torna a Parigi.
Va a stare in rue du Château. Nel 1928, due giovani originari di Nancy,
comunisti e surrealisti, hanno affittato la casa occupata in precedenza da
Prévert, Tanguy e Duhamel. Si chiamano André Thirion e Georges Sadoul.
Mettono un stanza a disposizione di Aragon.
Ma Nancy torna da Venezia.
Ricomincia tutto.
Fino a quando?
Fino al giorno in cui una Bugatti, del tutto simile a quella di Derain, si
ferma davanti alla Coupole.
Ne scende una ragazza. È bruna, vivace, ha un berretto in testa e un topo
bianco in braccio. Fa la ballerina e viene da Vienna. Si chiama Lena Amsel.
Le stanno tutti intorno. Ma è Aragon che lei sceglie. È Aragon che la
conquista.
A quel tempo, cercavo di convincermi di essere innamorato di una donna, una tedesca
(...). Fingevo di non amarne più un’altra – un’inglese.2

La relazione con la «tedesca» non dura. C’è una donna, in un angolo del
bar. Guarda. Sa che è venuto il suo momento. Si china verso un amico,

407
Roland Tual – un surrealista che non ha mai dipinto né scritto niente. Gli
dice: «Voglio che mi presenti quell’uomo».
«Aragon?» chiede Tual.
«Aragon».
«Perché?».
Elsa Triolet fissa i suoi occhi neri in quelli di Tual. Gli dice soltanto:
«Perché sono tre anni che aspetto questo momento».

408
Una presa en passant

L’amore è un luogo in cui si riassume una vita. Ma


che dico si riassume – l’amore è un luogo dove una
vita prende forma.
Louis Aragon

Il 4 novembre 1928, Majakovskij è seduto a un tavolo della Coupole.


Majakovskij è uno dei più grandi poeti russi. È arrivato a Parigi qualche
giorno prima. Abita all’Hôtel Istria. È Elsa Triolet che lo ha invitato alla
Coupole. Conosce Majakovskij dall’infanzia. È stata innamorata di lui. Ma è
sua sorella Lili che lo ha conquistato. Lili Brik, dal cognome del marito – che,
quanto a lui, non se la prende più di quanto se la prendesse Eluard per la
relazione tra Gala e Max Ernst. Elsa si consola tra le braccia di Monsieur
Triolet, un francese di passaggio a Mosca nel ’17. Lui la porta a Haiti, poi a
Parigi, dove la sposa – e la lascia.
Majakovskij è circondato da un gruppo di amici che fanno parte della
banda di Il’ja Erenburg. È alto, grosso. Ha folti capelli castani, e mani grandi
e forti. Ma uno sguardo dolcissimo.
È seduto vicino a una ragazza di diciotto anni, Tatiana. Se ne è innamorato,
ma non può sperare di portarla con sé nel paese dei Soviet. Prima di tutto, ha
vent’anni più di lei, e poi non stanno dalla stessa parte: lui è un rosso, lei
bianca.
In quel momento, passa Aragon. Majakovskij lo fa chiamare. I due poeti si
conoscono di fama.
Aragon non parla una parola di russo, Majakovskij una parola di francese.
Per fortuna, c’è chi fa da interprete. Aragon invita Majakovskij in rue du
Château. Darà una festa in suo onore.
Il 5 novembre Aragon ritorna al bar della Coupole. Roland Tual lo chiama
e gli dice: «Vorrei presentarti un’amica».
L’amica è seduta a un tavolo. Ha un cappellino grigio, un cappotto di pelo
e un abito nero. È piccola, rossa, la pelle bianca, ha un’aria molto seria.
Aragon si siede. Sono le sei della sera. Prima di notte Elsa viene invitata

409
per il giorno dopo alla festa in onore di Majakovskij.
«Verrò», dice.
E ci va. Si unisce agli altri invitati. Aragon non si occupa affatto di lei. Si
preoccupa per Majakovskij. E anche per André Thirion, che si è rifugiato
sulla veranda, in preda a pene d’amore.
Aragon lo raggiunge. Da sotto, Elsa vede tutto. Capisce. Coglie
l’occasione. Sale le scale, entra nella veranda. Si guarda intorno e, come per
scherzo, dice: «A che cosa serve, questo posto? A fare l’amore?».
Si stringe ad Aragon. Thirion è sbalordito. «È passata di colpo all’attacco,
senza pudore, con quella volontà di conquista tenace, paziente, che ha
coltivato poi per tutta la vita».1 Il testimone se ne va, piuttosto imbarazzato.
Scende le scale, fa la guardia davanti al primo scalino, che nessuno salga. Un
quarto d’ora più tardi i due amanti, sorridenti, si uniscono agli altri. Ballano
al ritmo della musica di Duke Ellington e di Louis Armstrong – i dischi
lasciati da Marcel Duhamel.
Questa la storia raccontata da Thirion. Secondo Lily Marcou, Elsa e
Aragon si sono effettivamente trovati in rue du Château, ma hanno passato la
prima notte insieme all’Hôtel Istria – dove Majakovskij li ha incontrati sulle
scale. E quella sera Elsa ha chiesto a Vladimir Pozner di accompagnarla, e poi
di andarsene alla chetichella al momento opportuno.2

Io non ti amavo. Non ti amavo. Non ti ho detto che ti amavo, perché non ti amavo.3

Per il momento gli occhi di Elsa non hanno ancora lo splendore che
Aragon canterà più tardi. Lui preferisce gli occhi di Léna Amsel – più vivace,
più carina, e anche più pazza. Ma, come Nancy Cunard, Léna è troppo libera.
Ha dei flirt con altri uomini. Con uno scultore, soprattutto.
Elsa va in cerca del suo amante e non lo trova. Incontra Thirion, o Sadoul,
e gli chiede: «Avete visto Aragon?».
«No», rispondono loro, guardando da un’altra parte.
Certo che lo hanno visto. Ma Aragon gli ha chiesto di tacere. Non ha scelto
la russa perché ne sia innamorato. L’ha presa così, en passant. Voleva
vendicarsi di Lena e del suo scultore. Almeno, così dice a Thirion. Dice
anche che non si fida di Elsa. È troppo appiccicaticcia. E indiscreta. Si chiede
se non sia addirittura un’informatrice, se non lavori per la polizia. La polizia
sorveglia gli iscritti al Partito. E potrebbe servirsi di quella ragazza per
ottenere qualche confidenza sfuggita sul letto nella veranda in rue du
Château.

410
Aragon si sbaglia, certo. Elsa è innamorata pazza. Ma anche se ha vinto la
prima ripresa, la seconda non è ancora sua. Dovrà aspettare qualche
settimana. Allora giocherà con una abilità straordinaria. Definitiva.
Una sera, Aragon chiede a Thirion di andare al Jungle ad avvertire Lena,
con la quale ha un appuntamento alle undici, che lui tarderà. Il Jungle ha
sostituito il Jockey, morto sul campo d’onore dei costruttori edili: Helena
Rubinstein ha comprato tutti i fabbricati d’angolo tra la rue Campagne-
Première e il boulevard Montparnasse, per far costruire un nuovo palazzo.
Per continuare la festa, ai nottambuli è bastato attraversare la strada. Le stesse
persone ballano il blues su un’altra pista, ecco tutto.
Alle undici meno qualche cubetto di ghiaccio, Thirion entra e si siede a un
tavolo. La sala non è ancora piena: la notte è appena incominciata. Il
messaggero della rue du Château ordina da bere. Aspetta. Alle undici più
qualche bicchiere, una ragazza gli si siede davanti. Non è Léna Amsel. È Elsa.
Di colpo, fa caldo. La conversazione scivola subito su un argomento che
imbarazza Thirion ma che interessa molto ad Elsa: dov’è Aragon?
Tra rossori e pretesti, tergiversando, temendo l’arrivo di Lena, Thirion
finisce per vuotare il sacco: Aragon sta con un’altra donna.
«Chi?».
«Una ballerina».
«Sarà solo un’avventura».
«Non proprio».
Thirion continua a vuotare il sacco.
«È innamorato. Lo consola di tutto quello che deve aver sofferto con
Nancy Cunard».
«Innamorato, ha detto?».
«Un po’...».
«O più di un po’?».
«Molto».
«Molto come?».
Thirion sbuffa, sospira come un povero infelice.
«È proprio innamorato».
Elsa incassa il colpo. Non risponde. Piange.
A quel punto, di là dalla pista, una coppia. Léna Amsel e Louis Aragon.
«Ahi, ahi!», mormora Thirion.
«Ah!», grida Elsa.
Come un colpo di vento, si alza. Aragon la vede, gira su se stesso,
sparisce. Elsa guarda Léna. Le dice: «Venga a bere un bicchiere con me...».

411
Le due ragazze prendono posto al tavolo. Thirion è imbarazzatissimo. La
russa si gira verso di lui e lo spedisce via con un buffetto sulla guancia: «Ma
vada, corra dietro a Aragon! Non vorrei che facesse una pazzia!».
Thirion non se lo fa ripetere due volte. A mezzanotte meno due bicchieri
stracolmi, come se avesse due molle sotto le suole, si spara fuori dal Jungle,
si lancia in rue Campagne-Première, accelera in boulevard Raspail, vola
dietro il cimitero di Montparnasse, e finalmente frena in rue du Château.
Aragon si sta coscienziosamente ubriacando davanti al ritratto di Nancy
Cunard.
Ancora qualche minuto e arrivano Léna Amsel e Elsa Triolet. Le due
donne sono tutto un sorriso. Elsa si avvicina ad Aragon, gli fa una carezza,
poi annuncia il risultato delle trattative: Léna ha capito che il suo amore non è
niente in confronto alla passione di Elsa. Quindi, Léna se ne va.
Aragon non ha il tempo di dire una parola. Léna si volta verso André
Thirion, gli chiede: «Potrebbe accompagnarmi a un taxi?».
Quando il surrealista comunista (futuro gollista) ritorna, la casa di rue du
Château è al buio. Nella veranda dove una volta dormiva Benjamin Péret,
riposano il poeta e la sua musa.
Sipario.

Marie-Laure de Noailles, che quanto a passioni la sa lunga, paragona


Nancy Cunard a una specie rara di farfalla notturna. Elsa è l’edera. «È
difficile resistere all’edera».4
Madame Triolet non aveva potuto diventare Madame Majakovskij.
Diventerà Madame Aragon. Lili Brik sta con il più grande poeta russo, lei
vivrà con il più grande poeta francese.
In un batter d’occhio, Aragon è sistemato. Elsa lo porta via da rue du
Château e dalle cattive frequentazioni. Fa in modo che si rompano i rapporti
tra Aragon e tutti gli amici che avrebbero potuto fare da intermediari tra lui e
Nancy Cunard. E, dato che la vendetta è un piatto che si mangia freddo,
trentacinque anni dopo Elsa impedirà ad Aragon di muovere un dito quando
Nancy gli chiederà aiuto. L’ereditiera della Cunard Line, che aveva dilapidato
la sua fortuna e che tanto aveva dato ai surrealisti, ai repubblicani spagnoli e
ai neri americani, finirà per trovarsi una notte in un taxi, sola, ubriaca,
malata, spaventosamente dimagrita. Sarebbe bastato poco per evitarle di
finire in una sala comune d’ospedale.
Ma Aragon non sarebbe intervenuto.
Per Léna Amsel, la fine arriverà più in fretta. Il 3 novembre del 1929

412
Derain le propone di andare a far colazione a Barbizon. Porteranno con loro
Florence, lasciata l’anno prima da Max Ernst e sul punto di mettersi con
André Thirion, in rue du Château. E partiranno con due automobili, dato che
sulla Bugatti ci stanno soltanto due persone.
Prendono due automobili. Portano Florence. Vanno a Barbizon. Sulla
strada del ritorno, Léna e Derain, ciascuno al volante del proprio bolide,
fanno a chi va più veloce. La Bugatti è un macchina che va forte, ma ha un
difetto: è troppo leggera per la potenza del suo motore. Bisogna zavorrarla
con un peso nel cofano. Derain lo ha fatto. Léna no. I pneumatici non
tengono. La Bugatti di Léna, che segue quella del pittore, va via in derapata,
si ribalta una, due, tre volte, prende fuoco. Trovano due corpi bruciati.

Il 14 febbraio 1930, quando entra dalla porta girevole della Coupole, dopo
la spedizione del Maldoror, Aragon è l’uomo di una sola donna. È anche uno
dei pilastri della nuova Montparnasse abbandonata dagli artisti e detestata da
Joseph Delteil:
... Questo parlottare ozioso, questo luogo di vera perdizione, di annientamento, che sa
di cervello liquido e di coglioni molli, io lo odio! Le ultime barbe, gli ultimi rasoi, le
ultime cravattine a fiocco, tutto il ciarpame dello spirito, è lì che lo troviamo.
Montparnasse o la merda all’asta. Preferisco un somaro al pascolo.

Una volta, i turisti e il denaro avevano svuotato la vena artistica di


Montmartre. Adesso, manca il fiato a Montparnasse. Ci sono ancora le auto
scintillanti e il brillio dei gioielli, ma i pittori e i poeti cercano luoghi più
silenziosi. Qualcuno già scende verso la pianura, verso Saint-Germain des
Près – che, un giorno, prenderà il posto di Montmartre e di Montparnasse. La
maggior parte è altrove. In molti voltano le spalle a un modo di vivere e di
stare con gli altri che la Prima guerra mondiale si è portato via, e che
scomparirà definitivamente con la seconda.
Picasso non è più lì da molto tempo. Max Jacob se n’è andato sulle rive di
un altro fiume. Guillaume Apollinaire è morto. Vlaminck urla e strepita sulle
sue terre. Van Dongen firma contratti a Deauville. André Salmon racconta
quello che è successo, a braccio e senza tanti riguardi. Braque non viene più
da quelle parti. Derain conta i cavalli fiscali delle sue automobili. Juan Gris è
morto. Modigliani è morto. Kisling gioca a bocce nel sud. Zadkine non dà
più notizie di sé. Soutine non viene più. Cendrars è in viaggio.
Se ne restasse uno, sarebbe lui. Lui che saluta Bob il barista. Bombetta,
vestito blu scuro, sigaretta tra le labbra. Lui gli farebbe un sorriso, ad Aragon

413
– perché hanno qualcosa in comune: anche lui è uomo di una sola donna.
Già, se ne restasse uno, sarebbe lui.
Jules Pascin.

414
L’ultimo bohémien

Uomo libero, eroe del sogno e del desiderio


Mani sanguinanti che spingevano le porte d’oro
Spirito di carne Pascin disdegna di scegliere
Padrone della vita ordina la morte.
André Salmon

La barca dell’amore si è infranta sulla corrente


della vita.
Vladimir Majakovskij

È divorato dalla cirrosi. Da Lucy Krogh. Dal disgusto di se stesso. Da un


quadro all’altro, la libertà della sua pittura si sta perdendo. Gli piace la
scorrevolezza della penna, la leggerezza del lapis. Ma bisogna dipingere a
olio, perché si vende meglio. Bernheim giovane gli propone un contratto che
farebbe gola perfino a Derain, a Picasso. Ma non vuole diventare «un macrò
della pittura». Non firma. Per fare che cosa?
Per alloggiare Lucy Krogh. Per vestire Hermine David. Per mantenere le
tante modelle che si succedono nel suo studio, fiori da marciapiede, ragazzine
di appena tredici anni che fa posare senza dipingerle... Lui paga, loro
sorridono, fanno tre giravolte e poi se ne vanno.
Ma ritornano.
Per sfuggire ai suoi demoni, Pascin passa da un albergo all’altro, cerca
studi in cui nessuno lo possa trovare, dove ci saranno poche bottiglie e poche
ragazze.
Lucy gli ha trovato un piccolo hôtel particulier, la villa Camelia, alla Porte
de Vanves, ai confini di Montparnasse. Pascin ci si stabilisce. Spera che Lucy
lo raggiunga, che ci vivranno insieme.
Ma poi torna in boulevard de Clichy. Dipinge. Va in giro. Manda lettere
strazianti a Lucy, perché è sempre in ritardo, perché non è lì, perché hanno
deciso di non vedersi più, perché non sa rinunciare a lei. Lei gli rimprovera
di bere troppo, di non lavorare abbastanza, di rientrare dai suoi giri notturni

415
con la faccia piena di sangue. Ogni volta, lui le dice: «Sei cattiva. Sei troppo
cattiva».
Lucy, Lucifero.
Una sera del mese di maggio del 1930, Lucy gli dice che è tutto finito.
Pascin chiede di poter recuperare qualche quadro e certe cose che si trovano
nell’hôtel particulier di Porte de Vanves. Lei risponde:
«D’accordo, ma prima delle sette».
«Di sera?».
«Di mattina».
Pascin chiede aiuto all’amico Papazov. Aspettano tutta la notte davanti al
muro del cimitero di Montparnasse. Poi fermano due taxi. Si fanno portare a
Porte de Vanves.
Pascin torna in boulevard de Clichy.
Lucy torna in boulevard de Clichy.
Per un po’.
Non sanno vivere insieme. Non sanno separarsi. È così da dieci anni.
L’11 giugno 1930, Pascin si siede al tavolo dello studio. Scrive qualche
riga, in bella calligrafia. Poi sceglie un disegno. Si mette il completo blu
scuro che a Montmartre e a Montparnasse conoscono tutti. Ormai è usato,
come le scarpe, come la bombetta. Ma perché, per chi dovrebbe cambiarlo?
Esce di casa e va dal suo medico, il dottor Tzanck. Da quando lo cura, il
dottor Tzanck non vuole essere pagato. Pascin gli regala il disegno.
Attraversa la Senna, come ha fatto tante volte, dal 1905. Risale verso il
carrefour Vavin. Conosce ogni androne, ogni panchina, ogni albero. Entra
alla Coupole. Bob è al banco del bar. Pascin chiede un’acquavite. Poi paga i
vecchi conti.
«Salda i debiti, Monsieur Pascin?».
«Appunto».
Sera, notte. Pascin saluta Parigi. All’alba, in place Pigalle, incontra Pierre
Mac Orlan che sta uscendo da un bar.
«Venga a bere un ultimo bicchiere», gli propone.
Ma lo scrittore è stanco. Si allontana.
Pascin beve da solo l’ultimo bicchiere.
Torna a casa. Chiude la porta a chiave. L’alba arrossa Montmartre e le sue
colline. Pascin chiude gli scuri, non vuole vedere più niente.
Mette per terra due cuscini. E due catini, uno per parte. Dietro a un
cartoncino d’invito di una galleria di Berlino, scrive a Lucy qualche parola
d’addio.

416
Lucy, non volermene per quello che faccio. Grazie per i pacchi. Sei troppo buona,
bisogna che me ne vada perché tu sia felice!
ADDIO! ADDIO!

Va in bagno, prende il rasoio e si taglia il polso sinistro.


Ritorna nello studio, rilegge il testamento scritto la mattina: lascia il
contenuto del suo conto in banca e tutte le sue opere a Hermine David e a
Lucy Krogh.
Intinge un dito nel sangue che gli cola dal polso.
Scrive sulla porta dell’armadio: «Addio, Lucy».
Riprende il rasoio, si taglia il polso destro. Si allunga sui cuscini, posa gli
avambracci nei due catini.
Aspetta.
Dura troppo.
Gli torna in mente una figura. Un impiccato che ha visto una volta, da
piccolo.
Si alza. Va in cucina. In un cassetto trova una corda. Fa un nodo scorsoio,
se lo passa intorno al collo. Ritorna nell’atelier. Si guarda in giro. Vede la
maniglia della porta. Va vicino alla porta. Infila la corda nella maniglia, tiene
in mano l’altra estremità, si lascia cadere.

Il 15 giugno, Lucy lo trova. Si mette a urlare. Urla anche l’amica che


l’accompagna, urla il fabbro che ha forzato la porta. Poi il pianto di Hermine
David, il verbale del commissario, tutti i fiori portati dagli amici e il lungo
lamento che si propaga per Parigi quando si sa della sua morte, il cigolio
delle saracinesche delle gallerie abbassate in segno di lutto il giorno del
funerale, e i pianti e i sospiri, e i colori dei pittori, e i versi dei poeti. È come
una marea che batte ai bordi delle tombe, tre sassolini sulla pietra, tre tempi
di una misura dimenticata.
Guillaume Apollinaire.
Amedeo Modigliani.
Jules Pascin.

417
ringraziamenti

Grazie a Philippe Dagen per la sua mano amica.

418
Note

I. GLI ANARTISTI DELLA BUTTE


MONTMARTRE

Prefazione
1. Dan Franck, Nu couché, Seuil,1998.

2. «Vers et prose», n. 23, ottobre 1910; L’Echoppe, Paris, 1993.

Il maquis di Montmartre
1. Pierre Mac Orlan, Le Quai des brumes, Gallimard,1927.

Litrillo
1. Roland Dorgelès, Bouquet de bohème, Albin Michel, 1947.

2. Francis Carco, La Légende et la vie d’Utrillo 1928.

La vita in blu
1. Brassaï, Conversations avec Picasso, Gallimard, 1997.

2. Citato da Francis Carco in Bohème d’artiste, Editions du Milieu du


Monde, Ginevra, 1942.

Due americani a Parigi


419
1. Ambroise Vollard, Souvenirs d’un marchand de tableaux, Albin Michel,
1937.

2. Georges Charensol, D’une rive à l’autre, Mercure de France, 1973.

Cyprien
1. Conferenza al Museo delle Belle Arti di Nantes.

2. Francis Carco, Montmartre à vingt ans, Editions du Milieu du Monde,


coll. «Mémoires d’un autre vie», Ginevra, 1942.

3. Idem.

4. Max Jacob, Correspondance, éditions de Paris, 1953.

5. Pour les cinquante ans de la mort de Max Jacob à Drancy, Les Cahiers
Bleus, 1994.

6. Max Jacob, «Le Christ à Montparnasse», in Les écrits nouveaux, aprile


1919, émile-Paul Frères.

7. Warnod André, Les Berceaux de la jeune peinture, Albin Michel, 1925.

8. Pierre Brasseur, Ma vie en vrac, Ramsay, 1986

9. Max Jacob, «Récit de ma conversion», in Correspondance, éditions de


Paris, 1953.

10. Pour les cinquante ans de la mort de Max Jacob à Drancy, op. cit.

11. Max Jacob, «Le Christ à Montparnasse», in Les écrits nouveaux, op. cit.

12. Max Jacob et Picasso, Réunion des Musées Nationaux.

13. Idem.

14. Paul Léautaud, Journal Littéraire, Mercure de France, 1961.

420
Guillaume il bene amato
1. Guillaume Apollinaire, Correspondance avec son frère et sa mère,
presentata da Gilbert Boudar e Michel Décaudin, José Corti, 1987.

2. Marc Chagall, Ma vie, Stock, 1972.

3. Vladimir Divîs, Apollinaire, Cronaca di una vita, N.O.E.

La bella Fernande
1. Fernande Olivier, Souvenirs intimes, Calmann-Lévy, 1988.

2. Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, Calmann-Lévy, 1991.

3. Guillaume Apollinaire, La Femme assise, Gallimard, 1948.

Il Bateau-Lavoir
1. «La serviette des poètes», in L’Hérésiarque & Cie, Stock, 1984.

2. Guillaume Apollinaire, La Femme assise, op. cit.

3. Alfred Jarry, Les minutes de sable mémorial, Fasquelle, 1932.

La gabbia delle belve


1. Henri Matisse, lettera a Signac del 14 luglio 1905, in André Derain, Lettres
à Vlaminck, Flammarion, 1994, a cura di Philippe Dagen.

2. Maurice Vlaminck, Portraits avant décès, Flammarion, 1943.

3. Idem.

4. Georges Charensol, D’une rive à l’autre, op. cit.

421
5. Daniel-Henry Kahnweiler, Juan Gris, Gallimard, 1946.

Dalla parte dei saltimbanchi


1. Pierre Daix, Picasso créateur, Seuil, 1973.

2. André Salmon, La Négresse du Sacré-Coeur, Editions della Nouvelle


Revue Française, 1920.

3. Hubert Fabureau, Max Jacob, «La Nouvelle Revue Critique», 1935.

Il tempo dei duelli


1. Arthur Cravan, Maintenant, luglio 1913. Ripreso in Cravan, Maintenant,
Seuil-L’école des Lettres, 1995.

2. Arthur Cravan, Maintenant, marzo 1914.

3. Idem

4. André Salmon, Souvenirs sans fin, Gallimard, 1947.

5. Guillaume Apollinaire, Le Poète assassiné, Gallimard, 1947

6. Francis Carco, Da Montmartre au quartier Latin, Editions du Milieu du


Monde, Ginevra, 1942.

7. «Vers et prose», n. 12, dicembre 1907.

Un pomeriggio in rue de Fleurus


1. André Salmon, L’Air de la Butte, éditions de la Nouvelle France, 1945.

Il bordello di Avignone
1. André Derain, 7 marzo 1906, in Lettres à Vlaminck, op. cit.

422
2. Wassily Kandinsky, Du spirituel dans l’art, Denoël-Gonthier, 1969.

3. Daniel-Henry Kahnweiler, Huit entretiens avec Picasso, L’échoppe, 1988.

4. Pierre Daix, Picasso créateur, Seuil, 1987.

5. Pierre Daix, Dictionnaire Picasso, Robert Laffont, 1995.

6. André Salmon, Souvenirs sans fin, op. cit.

7. Brassaï, Conversations avec Picasso, op. cit.

Il gentile Doganiere
1. Guillaume Apollinaire, Anedoctiques, Gallimard, 1997.

2. Blaise Cendrars, «Prose du transsibérien et de la petite Jeanne de France»,


in Du monde entier, Gallimard, 1967.

3. Articolo di Guillaume Apollinaire in «Les Soirées de Paris», 15 gennio


1914.

4. Fernande Olivier, Picasso et ses amis, Stock, 1933.

5. André Salmon, Souvenirs sans fin, op. cit.

6. Lettera a Eugénie-Leonie V., 19 agosto 1910, citata da Philippe Soupault in


Ecrits sur la peinture, Editions Lachenal & Ritter, 1980.

Il furto della Gioconda


1. Guillaume Apollinaire, in Tendre comme le souvenir, Gallimard, 1952.

2. Fernande Olivier, Picasso et ses amis, op. cit.

3. Idem

4. In «L’Oeuvre», settembre 1911.

423
5. Albert Gleizes, «Apollinaire, la justice et moi», in Rimes et Raisons,
éditions de la Tête Noire, 1946.

6. Citato da Peter Read, in Picasso et Apollinaire, les métamorphoses de la


mémoire, Jean-Michel Place, 1995.

7. Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», 1965.

Separazioni
1. Guillaume Apollinaire, Le Poète assassiné, op. cit.

2. Roch Grey, «Les Soirées de Paris», in Presence d’Apollinaire, Galerie


Breteau, dicembre 1943.

3. «Vers et prose», n. 34, p. 189.

4. «Nouvelle Revue Française», agosto 1909.

5. «L’Intransigeant», 7 febbraio 1912.

6. Paul Léautaud, Journal littéraire, t. ix, Mercure de France, 1960.

Il cubismo
1. Max Jacob, Correspondance, op. cit.

2. Max Jacob, lettera a Tristan Tzara, 26 febbraio 1916.

3. Max Jacob, lettera a Guillaume Apollinaire, 2 maggio 1913.

4. Wassily Kandinsky, Du spirituel dans l’art, op. cit.

5. John Berger, Réussite et échec de Picasso, Dënoel-Les Lettres Nouvelles,


1968.

6. Jean Paulhan, Braque le patron, Gallimard, 1987.

424
7. Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, op. cit.

8. Charles Baudelaire, «Qu’est-ce que le romantisme?», in Salon de 1846,


Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», 1976.

9. André Derain, lettera a Vlaminck, citata in Philippe Dagen, André Derain,


Lettres à Vlaminck, Correspondance de guerre, Flammarion, 1994.

Capicordata
1. Charles Baudelaire, «Pourquoi la sculpture est ennuyeuse», in Salon de
1846, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», 1976.

2. Pierre Cabanne, Le Siècle de Picasso, Gallimard, 1992.

3. Nino Franck, Montmartre, Clamann-Lévy, 1956.

4. Jean Cocteau, Picasso, L’école des Lettres, 1996.

5. Daniel-Henry Kahnweiler, Mes galeries et mes peintres, entretiens avec


Francis Crémieux, Gallimard, 1961.

6. Daniel-Henry Kahnweiler, Juan Gris, op. cit.

7. Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, op. cit.

I «cubisteurs»
1. In «Paris-Journal», 1911.

2. Jean Cocteau, Essai de critique indirecte, Bernard Grasset, 1932.

3. Robert Desnos, écrits sur les peintres, Flammarion, 1984.

4. Jean Paulhan, Braque le patron, op. cit.

5. Testo apparso in La Publicidad, Barcellona, citato in Max Jacob et


Picasso, Réunion des Musées Nationaux, 1992.

425
6. Max Jacob, lettera alla madre, 1927.

7. Citato in «Paris-Journal», 15 maggio 1914.

8. «Nouvelle Revue Française», gennaio 1914.

9. Arthur Cravan, «Maintenant», n. 4, 1914.

10. Idem.

Guillaume Apollinaire prende l’ascensore


1. In «L’Intransigeant», 1° ottobre 1912.

2. In «L’Intransigeant», 3 ottobre 1912.

3. Charles Baudelaire, in Salon de 1846, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la


Pléiade».

4. Idem.

Il poeta e il mercante
1. Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, op. cit.

2. Daniel-Henry Kahnweiler, Mes galeries et mes peintres, entretiens avec


Francis Crémieux, op. cit.

3. Pierre Assouline, L’Homme de l’art, Balland, 1988.

4. Idem.

426
II. MONTPARNASSE VA ALLA GUERRA

La Ruche
1. Paul Léautaud, Journal littéraire, t. II (1907-1909), Mercure de France,
1968.

Ubu Roi
1. Robert de Souza, in «Vers et prose», n. 2, 1905.

2. Guillaume Apollinaire, in Contemporains pittoresques, Gallimard, 1975.

3. Alfred Jarry, Les Minutes de sable mémorial, op. cit.

4. Dottor Stephen Chauvet, Les Derniers Jours d’Alfred Jarry, in «Mercure


de France», n. 832, 15 febbraio 1933.

5. Guillaume Apollinaire, Contemporains pittoresques, op. cit.

6. André Breton, Anthologie de l’humour noir, Jean-Jacques Pauvert, 1966.

7. Charles Chassé, D’Ubu Roi au Douanier Rousseau, éditions de la


Nouvelle Revue Critique, 1947.

8. M.me Fort-Vallette, confidenze raccolte da Marcel Trillat e Nat Lilenstein,


in «Magazine littéraire» n. 48, gennaio 1971.

2 agosto 1914
1. «Paris-Midi», 3 marzo 1914.

2. Guillaume Apollinaire, Tendre comme le souvenir, op. cit.

427
3. Paul Léautaud, Journal littéraire, t. III, Mercure de France, 1956.

La Villa Rosa
1. Jeanne Modigliani, Modigliani sans légende, Jeanne Modigliani-Librairie
Gründ, Paris, 1981.

2. Jean Arp, citato da Billy Kluvre e Julie Martin in Kiki et Montparnasse,


Flammarion, 1989.

3. Maurice Vlaminck, Portrait avant décès, op. cit.

Le dame e l’artigliere
1. André Salmon, Souvenirs sans fin, op. cit.

2. André Rouveyre, Apollinaire, Gallimard, 1945.

3. Guillaume Apollinaire, Lettres à Lou, Gallimard, 1969.

4. Guillaume Apollinaire, Poèmes à Lou, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la


Pléiade», 1956.

5. Idem.

6. Guillaume Apollinaire, Correspondance avec son frère et sa mère, op. cit.

7. Guillaume Apollinaire, Tendre comme le souvenir, op. cit.

8. Guillaume Apollinaire, Lettres à Lou, op. cit.

Lo scrittore dalla mano mozza


1 Guillaume Apollinaire, Tendre comme le souvenir, op. cit., lettera del 6
novembre 1915.

2. Guillaume Apollinaire, Oeuvres poétiques, Gallimard, coll. «Bibliothèque

428
de la Pléiade», 1956.

3. Jacques Roubaud, Cahiers de la bibliothèque littéraire Jacques-Doucet,


n. 1, Doucet Littérature, 1997.

4. Blaise Cendrars, «Prose du transsibérien et de la petite Jeanne de France»,


in Du monde entier, op. cit.

5. Ernest Hemingway, Paris est une fête, Gallimard, 1964.

6. Blaise Cendrars, La Main coupée, Denoël, 1946.

7. Articolo apparso sul «Mercure de France» del dicembre 1913; Guillaume


Apollinaire, Anedoctiques, op. cit.

8. Blaise Cendrars, «Dix-neuf poèmes élastiques», in Du monde entier, op.


cit.

Il principe frivolo
1. Gustave Fuss-Amoré e Maurice des Ombiaux, Montparnasse, Albin
Michel, 1925.

2. Maurice Vlaminck, Portrait avant décès, op. cit.

3. Jean Cocteau, Essai de critique indirecte, op. cit.

4. Maurice Vlaminck, Portrait avec décès, op. cit.

5. André Salmon, Montparnasse, André Bonne, 1950.

6. Francis Carco, Mémoires d’une autre vie, op. cit.

7. Idem.

8. Philippe Soupault, Mémoires de l’oubli, Lachenal & Ritter, 1986.

9. André Salmon, Montparnasse, op. cit.

429
10. Jean Cocteau, lettera a Albert Gleizes, 1916, citata da Billy Klüver in Un
jour avec Picasso, Hazan, 1994

11. Philippe Soupault, Mémoires de l’oubli, op. cit., lettera autografa


indirizzata al maresciallo Pétain, firmata e datata febbraio 1942; 3 pagine 1/2
su 4.

12. André Breton, Les Pas perdus, Gallimard, 1969.

13. Lettera del 15 settembre 1915, citata da Billy Klüver in Un jour avec
Picasso, op. cit.

14. Jean Cocteau, Picasso, L’Ecole des Lettres.

Il gallo e l’arlecchino
1. Jean Hugo, Le Regard de la mémoire, Actes Sud, 1994.

2. Jean Cocteau, Picasso, op. cit.

3. Maurice Sachs, Le Sabbat, Gallimard, 1960.

4. Idem.

5. Gertrude Stein, Autobiographie d’Alice Toklas, Gallimard 1934.

6. Jean Cocteau, Picasso, op. cit.

7. Françoise Gilot, Vivre avec Picasso, op. cit.

8. Jean Cocteau et Guillaume Apollinaire, Correspondance, Jean-Michel


Place, 1991.

9. Jean Cocteau e Guillaume Apollinaire, lettera del 13 aprile 1917, in


Correspondance, op. cit.

La ferita del poeta

430
1. Guillaume Apollinaire, Tendre comme le souvenir, op. cit., lettera a
Madeleine del 24 gennaio 1916.

2. André Derain, lettera a Vlaminck datata 1° maggio 1917.

L’arte del falso


1. Guillaume Apollinaire, «Chroniques et paroles sur l’art», 1911, e «La vie
artistique», 1912, in Oeuvres en prose complètes.

2. Jean Paulhan, Braque le patron, op. cit.

Dalla parte dell’America


1. In Paris-New York, Editions du Centre Pompidou-Gallimard, 1991.

2. Blaise Cendrars, Le Lotissement du ciel, Denoël, 1949.

3. Raymond Roussel, Comment j’ai ècrit certains de mes livres, Jean-Jacques


Pauvert, 1963.

4. Pierre Cabanne, Duchamp et Cie, Terrail, 1996. Marcel Duchamp,


Entretiens avec Pierre Cabanne, Editions d’Art, 1995.

5. Marcel Duchamp, Entretiens avec Pierre Cabanne, op. cit.

6. Marcel Duchamp, Duchamp du signe, Flammarion, 1994.

7. Blaise Cendrars, Le Lotissement du ciel, op. cit.

Dada & C.
1. Tristan Tzara, Sept Manifestes DADA, Jean-Jacques Pauvert, 1979.

2. Idem.

3. Marcel Duchamp, Duchamp du signe, op. cit.

431
4. «La Nouvelle Revue Française», 1° settembre 1919

5. «La Nouvelle Revue Française», aprile 1920.

I compagni del Val-de-Grâce


1. Guillaume Apollinaire, lettera a Tristan Tzara, 14 gennaio 1917, citata da
Marc Dachy in Tristan Tzara dompteur des acrobates, L’échoppe, 1992.

2. Guillaume Apollinaire, lettera a Tristan Tzara, 6 febbraio 1918, citata da


Michel Sanouillet in Dada à Paris, Flammarion, 1993.

3. André Breton, Entretiens avec Madeleine Chapsal, luglio 1962, in


Madeleine Chapsal, Les écrivains en personne, UGE, 1973.

4. André Breton, Les Pas perdus, op. cit.

5. Idem.

6. André Breton, Entretiens avec Madeleine Chapsal, op. cit.

Agli amici dei libri


1. Adrienne Monnier, «Mémorial de la rue de l’Odéon», in Rue de l’Odéon,
Albin Michel, 1989.

2. Idem.

3. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, Gallimard, 1969.

4. Valery Larbaud, lettera a Sylvia Beach del 2 febbraio 1921. James Joyce,
Oeuvres complètes, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», 1995

5. Paul Claudel, lettera a Adrienne Monnier del 4 maggio 1929. James Joyce,
Oeuvres complètes, op. cit.

6. Paul Claudel, lettera a Adrienne Monnier del 28 dicembre 1931. James


Joyce, Oeuvres complètes, op. cit.

432
7. André Breton, Point du jour, Gallimard, 1970.

Un pittore e il suo mercante


1. Max Jacob, lettera a Jacques Doucet, in Correspondance, op. cit.

Le mammelle di Tiresia
1. Michel Decauin, prefazione a Guillaume Apollinaire, L’Enchanteur
pourissant, Gallimard, 1972.

2. Pierre Albert-Birot, in «Guillaume Apollinaire», quaderno speciale di


«Rimes et Raisons», éditions de la Tête Noire, 1946.

3. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, op. cit.

4. Pierre Cabanne, Le Siècle de Picasso, op. cit.

5. André Breton, Perspective cavalière, Gallimard, 1970.

433
III. MONTPARNASSE CITTÀ APERTA

Kiki
1. Kiki, Souvenirs, Henry Broca, 1929.

2. Idem.

3. Lou Mollgaard, Kiki Reine de Montparnasse, Robert Laffont, 1988.

La morte a Montparnasse
1. Jeanne Modigliani, Modigliani sans légende, op. cit.

Pugilato a Drouot
1. Daniel-Henry Kahnweiler, Mes galeries et mes peintres, entretiens avec
Francis Crémieux, op. cit.

2. Robert Desnos, Ecrits sur les peintres, op. cit.

Scene surrealiste
1. André Breton, Les Pas perdus, op. cit.

2. Citato da Michel Sanouillet in Dada à Paris, op. cit.

3. André Breton, Les Pas perdus, op. cit.

4. Citato da Michel Sanouillet in Dada à Paris, op. cit.

Il dormiente risvegliato
434
1. André Breton, Perspective cavalière, op. cit.

2. Pierre Assouline, Simenon, Julliard, 1992.

3. André Breton, Perspective cavalière, op. cit.

4. Gaëtan Picon, Journal de Surréalisme, Skira, Ginevra, 1976.

5. Robert Desnos, «Rrose Sélavy», in Corps et biens, Gallimard, 1953.

6. André Breton, Perspective cavalière, op. cit.

7. Raymond Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, op. cit.

8. André Breton, Les Pas perdus, op. cit.

9. André Breton, Entretiens avec André Parrinaud, op. cit.

Il sarto delle arti


1. François Chapon, Jacques Doucet ou l’art du mécénat, Perrin, 1996.

2. Max Jacob, Correspondance, op. cit.

3. Blaise Cendrars, Le Lotissement du ciel, op. cit.

4. André Breton, Entretiens avec André Parrinaud, op. cit.

5. Louis Aragon, Aurélien, Gallimard, 1944.

6. Idem.

7. François Chapon, Jacques Doucet ou l’art du mécréant, op. cit.

Il sarto e il fotografo
1. Paul Poiret, En habillant l’époque, 1930, e Grasset, 1986.

2. Paul Poiret, Art et phynance, Lutetia, 1934.

435
Un americano a Parigi
1. Man Ray, Autoportrait, Seghers, 1986.

2. Citato in Man Ray, Centre National de la Photographie, 1988.

3. Man Ray, Autoportrait, op. cit.

Un cocktail, molti Cocteaux


1. André Salmon, Montparnasse, op. cit.

2. Pierre Brasseur, Ma vie en vrac, op. cit.

3. Idem.

4. André Salmon, Souvenirs sans fin, op. cit.

5. Jean Hugo, Le Regard de la mémoire, op. cit.

6. Jean Cocteau, La Difficulté d’être, LGF, 1995.

7. Idem.

Usa at home
1. Ernest Hemingway, Paris est une fête, op. cit.

2. Gertrude Stein, Autobiographie d’Alice Toklas, op. cit.

3. Ernest Hemingway, Paris est une fête, op. cit.

Un ebreo errante
1. Francis Carco, Montmartre à vingt ans, op. cit.

436
2. Georges Papazov, Pascin!... Pascin!... C’est moi..., éditions Pierre Cailler,
1959.

3. Pierre Mac Orlan, «Le Tombeau de Pascin», in Pascin, di Yves Kobry e


Elisbeva Cohen, Hoëbeke, 1995.

Fotografie, fotografie...
1. Philippe Soupault, Histoire d’un blanc, Lachenal & Ritter, coll.
«Mémoires de l’oubli», 1986, p. 71.

2. Jean Hugo, Le Regard de la mémoire, op. cit.

3. «Mercure de France», Anthologie 1890-1940, Mercure de France, 1997.

Il dottor Argyrol e mister Barnes


1. Kiki, Mémoires, op. cit.

La croce di Soutine
1. Emile Szittya, Soutine et son temps, La Bibliothèque des Arts, 1955, in
Soutine, Catalogue Raisonné, Taschen, 1993.

Scandalo alla Closerie des Lilas


1. Louis Aragon, L’Homme communiste, Gallimard, 1946.

2. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, op. cit.

3. Jean-Jacques Brochier, L’Aventure des surréalistes, Stock, 1977.

4. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, op. cit.

Piccola geografia surrealista


437
1. «La Révolution surréaliste», 1° dicembre 1926.

I fannulloni di rue du Château


1. «La Révolution surréaliste», 1° dicembre 1926.

2. George Grosz, articolo apparso in Europa Almanach, 1925. Citato in


Paris-Berlin, éditions Centre Georges-Pompidou-Gallimard, 1992.

3. Citato da Marcel Duhamel, Raconte pas ta vie, Mercure de France, 1972.

4. «NRF», 1° novembre 1927.

5. Citato da Bernard Leuilliot, Aragon, correspondance générale, Gallimard,


1994.

6. Salvador Dalí, prefazione a René Crevel, La Mort difficile, Jean-Jacques


Pauvert, 1974.

Regolamenti di conti
1. Salvador Dalí, prefazione a René Crevel, La Mort difficile, op. cit.

2. Marzo 1928.

3. André Breton, in «La Révolution surréaliste», n. 11.

4. Philippe Soupault, Mémoires de l’oubli, op. cit.

5. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, op. cit.

6. André Breton, Second Manifeste du Surréalisme, in Manifestes du


Surréalisme, Jean-Jacques Pauvert, 1979.

7. Maurice Nadeau, Histoire du surréalisme, 1970, Seuil.

8. Roger Vailland, L’Hymne «Chiappe-Martia», «Paris-Midi», 15 settembre


1928

438
9. André Breton, Entretiens avec André Parinaud, op. cit.

10. André Breton, Second manifeste du surréalisme, op. cit.

Il Citroën della limonata


1. André Warnod, Les Berceaux de la jeune peinture, op. cit.

2. Louis Aragon, La mise à mort, Gallimard, 1965.

Una presa en passant


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3. Louis Aragon, La mise à mort, op. cit.

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446
Max Jacob nel 1915.
(RMN-Archives Picasso)

447
Picasso nell’atelier del Bateau-Lavoir nel 1908.
(Foto Gelett Burgess. D.R. RMN-Archives Picasso)

448
Utrillo, Suzanne Valadon e André Utter.
(Fonds Le Masle-Documentation MNAM-CCI)

449
Il Bateau-Lavoir, a destra, domina il «maquis» di Montmartre.
(© ND-Viollet)

Il cabaret del Lapin Agile verso il 1905: artisti-pittori, tra i quali Poulbot e
Dufy, ascoltano il père Frédé che suona la chitarra.
(© Harlingue-Viollet )

450
Picasso e Fernande Olivier a Montmartre nel 1906.
(RMN-Archives Picasso)

451
Guillaume Apollinaire e Annie Playden.
(D.R. Coll. O. Beer)

452
Lou.
(D.R. Coll. O. Beer)

453
Guillaume Apollinaire e Marie Laurencin.
(D.R. Coll. O. Beer)

454
Il doganiere Rousseau nel suo studio nel 1904.
(©Edimédia/Snark/Coll. J. Warnod)

455
In alto: Derain, Mme Derain, Vlaminck. In basso: Kisling, Florents Fels, Juan
Gris.
(Coll. O. Beer)

456
Guillaume Apollinaire dinanzi al giudice istruttore nel settembre 1911.
(Coll. Jean Kisling)

457
Guillaume Apollinaire.
(©Edimédia/Snark)

458
Braque in uniforme militare, fotografato da Picasso nello studio del
boulevard de Clichy nella primavera del 1911.
(©Edimédia/Snark)

459
André Breton e Théodore Fraenkel nel 1916-17.
(© Succession Picasso 1998. RMN-Archives Picasso)

460
Alice Toklas e Gertrude Stein, rue de Fleurus, 1923.
(Foto Man Ray. © Man Ray Trust/Adagp, Paris 1998. Archives de la
Fondation Erik Satie)

461
Matisse nel suo atelier di Issy-les-Moulineaux nel maggio 1913.
(Foto Henri Manuel. D.R. Photothèque Hachette)

462
Il commissario Zamaron nel suo ufficio alla prefettura di polizia.
(Foto Alvin Langdon Coburn. D.R. Documentation MNAM-CCI)

463
Picasso e Olga a Londra nel 1919.
(Archives de la Fondation Erik Satie)

464
Modigliani, Picasso e André Salmon davanti alla Rotonde.
(Foto Jean Cocteau. © Adagp, Paris 1998. © Photothèque des musées de la
ville de Paris/ cliché Coroyer )

In alto: Modigliani.
(Fonds Marc Vaux. Documentation MNAM-CCI)

465
In basso: Jeanne Hébuterne a vent’anni.
(Photothèque Hachette)

Alfred Jarry lascia la sua casa di Corbeille per recarsi a Parigi, 1898.
(© Harlingue-Viollet )

466
Paul Fort alla Closerie des Lilas, boulevard du Montparnasse, 1920.
(© Branger-Viollet)

467
Foujita nel 1928.
(Foto A. Kertész © Ministère de la Culture-France)

468
Arthur Cravan verso il 1902.
(Bibliothèque littéraire Jacques-Doucet)

469
Arthur Cravan nel 1916.
(Photothèque Hachette )

470
Seduta di posa nell’atelier del pittore Kees Van Dongen, 1927.
(© Bonney/BHVP)

471
Inaugurazione del Jockey. Da sinistra a destra: Man Ray, Hilaire Hiler, Ezra
Pound, il pianista Coleman, un cameriere, Curtiss Pöffer. Seduti: Tristan
Tzara e Jean Cocteau.
(Foto Man Ray. © Man Ray Trust/ Adagp, Paris 1998. © Edimédia/Snark )

472
Kiki de Montparnasse.
(Foto Man Ray. © Man Ray Trust/ Adagp, Paris 1998. Photothèque
Hachette)

473
Zborowski e Soutine.
(Foto Paulette Jourdain. Coll. O. Beer )

474
Soutine.
(Foto Paulette Jourdain. Coll. O. Beer)

Jacques Prévert, Simone Prévert, André Breton, Pierre Prévert en 1925.


(Foto D.R. Coll. Fatras succession Jacques Prévert.)

475
Blaise Cendrars.
(© Martinie-Viollet )

476
André Breton al Teatro dell’Opera con un cartello di Francis Picabia, 27
marzo 1920.
(© Adagp, Paris 118. © Edimédia/Snark/Bibi Doucée)

477
Jean Cocteau a bordo dell’Ile-de-France nel 1925. Fotografia con dedica di
Jean Cocteau.
(© Harlingue-Viollet )

478
Raymond Radiguet nel 1922.
(Foto Man Ray. © Man Ray Trust/ Adagp, Paris 1998. Archives de la
Fondation Erik Satie )

479
Un ballo a Montparnasse nel 1925. Si riconosce Foujita con la bombetta.
(Coll. Guy Selz. Photothèque Hachette)

480
Nancy Cunard.
(© Bonney/BHPV)

481
Elsa Triolet sulla terrazza della Coupole nel 1928 (particolare). È la prima
fotografia che Elsa diede ad Aragon.
(Fonds Elsa Triolet-Aragon, CNRS. Pubblicata per gentile concessione di
M. Jean Ristat)

482
Louis Aragon.
(Foto © Jean Ristat/Diff. Gallimard. Fonds Elsa Triolet-Aragon, CNRS)

483
Una seduta di automatismo psichico, 1924. Da sinistra a destra: Max Morise,
Roger Vitrac, Jacques Boiffard, André Breton, Paul Eluard, Pierre Naville,
Giorgio de Chirico, Philippe Soupault. In basso: Simone Collinet-Breton,
Robert Desnos, Jacques Baron.
(Foto Man Ray. © Man Ray Trust/ Adagp, Paris 1998)

484
Balletti russi a Bullier nel 1929. Da sinistra a destra: Iliazd, M. Guthier,
Florent Fels, Ganzo, Michonze con la moglie di Iliazd, Pascin e Caridad de
Laberdesque.
(© Musée d’art e d’histoire du judaïsme)

485
Pascin alla Coupole, primavera 1930.
(Fonds Henri et Jeanine Warnod. © Musée d’art e d’histoire du judaïsme)

486
SOMMARIO

Prefazione
I. GLI ANARTISTI DELLA BUTTE MONTMARTRE
Il maquis di Montmartre
Litrillo
La vita in blu
Due americani a Parigi
Cyprien
Guillaume il benamato
La bella Fernande
Il Bateau-Lavoir
La gabbia delle belve
Dalla parte dei saltimbanchi
Il tempo dei duelli
Gósol
Un pomeriggio in rue de Fleurus
Il bordello di Avignone
Il gentile Doganiere
Il furto della Gioconda
Separazioni
Il cubismo
Capicordata
I «cubisteurs»
Guillaume Apollinaire prende l’ascensore
Il poeta e il mercante
La Pelle dell’Orso
II. MONTPARNASSE VA ALLA GUERRA
La Ruche
Ubu Roi
2 agosto 1914
Sotto i lampadari velati
Chaïm e Amedeo

487
La Villa Rosa
Le dame e l’artigliere
Lo scrittore dalla mano mozza
Il principe frivolo
Il gallo e l’Arlecchino
La ferita del poeta
L’arte del falso
Dalla parte dell’America
Dada & C.
I compagni del Val-de-Grâce
Agli amici dei libri
Giorni di festa a Parigi
Colpo di fulmine
Un pittore e il suo mercante
Rue Joseph-Bara, 3
Le mammelle di Tiresia
Parigi-Nizza
Finale di partita
III. MONTPARNASSE CITTÀ APERTA
Kiki
La morte a Montparnasse
Pugilato a Drouot
Scene surrealiste
Il dormiente risvegliato
Il sarto delle arti
Il sarto e il fotografo
Un americano a Parigi
Un tappo di radiatore firmato Rodin
Un cocktail, molti Cocteaux
Usa at home
Un ebreo errante
Al Jockey
Fotografie, fotografie...
Il dottor Argyrol e mister Barnes
La croce di Soutine
Scandalo alla Closerie des Lilas
Piccola geografia surrealista
I fannulloni di Rue du Château

488
Regolamenti di conti
Il Citroën della limonata
Una presa en passant
L’ultimo bohémien
Note
I. GLI ANARTISTI DELLA BUTTE MONTMARTRE
Prefazione
Il maquis di Montmartre
Litrillo
La vita in blu
Due americani a Parigi
Cyprien
Guillaume il bene amato
La bella Fernande
Il Bateau-Lavoir
La gabbia delle belve
Dalla parte dei saltimbanchi
Il tempo dei duelli
Un pomeriggio in rue de Fleurus
Il bordello di Avignone
Il gentile Doganiere
Il furto della Gioconda
Separazioni
Il cubismo
Capicordata
I «cubisteurs»
Guillaume Apollinaire prende l’ascensore
Il poeta e il mercante
II. MONTPARNASSE VA ALLA GUERRA
La Ruche
Ubu Roi
2 agosto 1914
La Villa Rosa
Le dame e l’artigliere
Lo scrittore dalla mano mozza
Il principe frivolo
Il gallo e l’arlecchino
La ferita del poeta

489
L’arte del falso
Dalla parte dell’America
Dada & C.
I compagni del Val-de-Grâce
Agli amici dei libri
Un pittore e il suo mercante
Le mammelle di Tiresia
III. MONTPARNASSE CITTÀ APERTA
Kiki
La morte a Montparnasse
Pugilato a Drouot
Scene surrealiste
Il dormiente risvegliato
Il sarto delle arti
Il sarto e il fotografo
Un americano a Parigi
Un cocktail, molti Cocteaux
Usa at home
Un ebreo errante
Fotografie, fotografie...
Il dottor Argyrol e mister Barnes
La croce di Soutine
Scandalo alla Closerie des Lilas
Piccola geografia surrealista
I fannulloni di rue du Château
Regolamenti di conti
Il Citroën della limonata
Una presa en passant
Bibliografia scelta
Riviste
Inserto immagini

490
* «Glace» in francese significa sia «ghiaccio», sia «specchio».

491
* «Non posso dire dove siamo», ma «Somme» è il nome di una località dove
si combatteva.

492
* «Isadora ama Picabia con tutta l’anima»; «Lo trovo MOLTO»; «Non ho
niente da dirvi»; «Mi chiamo Dada dal 1892»; «Mi piace l’insalata», «Corona
di malinconia».

493

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