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LA PAURA
Traduzione di Giovanna Paterniti
La paura
ad Ann-Marie,
per questi bei quindici anni
di amicizia e collaborazione
Nota della traduttrice.
In Nor vegia è d’uso darsi sempre del «tu». Quasi nessuno si dà del «lei»: vi si
ricorre a volte con le persone anziane, o se si vuole sottolineare una certa distanza da
qualcuno per cui si prova una forte antipatia.
Per non togliere autenticità al racconto, nella traduzione ci si è attenuti alla forma
usata nell’originale, estendendo l’uso del «tu» oltre gli ambiti italiani consueti e
riservando il «lei» a pochissimi casi particolari.
Parte prima
Natale 20 08
La bambina invisibile
a. Le citazioni sono tratte dalla canzone tradizionale Musevisa (Alf Prøysen) [N. d. T.].
Camera con vista
− Gesú Bambino non può avere duemila e otto anni, − disse Ragnhild e
sbadigliò. – Nessuno vive in eterno!
− No, − le disse Yngvar. – Gesú in effetti è morto piuttosto giovane. A
Natale festeggiamo il giorno in cui è nato.
− Allora dovremmo avere dei palloncini. Non è un vero compleanno senza
i palloncini. Tu credi che a Gesú Bambino piacessero i palloncini?
− A quei tempi i palloncini non esistevano. Adesso però è ora di fare la
nanna, bambina mia. È quasi l’una! È già Natale, a dire il vero.
− Ho battuto il mio record! – esultò Ragnhild. – L’una è piú tardi delle
undici?
Yngvar annuí rimboccandole il piumino per la quarta volta in due ore.
− Adesso è ora di fare la nanna.
− Perché l’una è piú tardi delle undici, se una è un numero piccolo e undici
è un numero grande? Posso restare alzata cosí tanto anche a capodanno?
− Vedremo. Nanna!
Le diede un bacio sul naso e andò alla porta.
− Papà…
− È ora di fare la nanna. Guarda che papà si arrabbia se non ti sdrai e ti
metti a dormire. Capito?
Premette l’interruttore della luce e la stanza rimase immersa nel bagliore
rossastro proveniente da una catena di cuoricini luminosi appesa tutt’intorno a
una delle finestre.
− Ma papà… solo una cosa…
− Che cosa?
− A dire il vero è un po’ stupido regalare un microscopio a Kristiane, tanto
lo rovina e basta.
− Può darsi. Ma era il regalo che desiderava.
− Perché non regalarlo a me il microsc…
− Ragnhild! Adesso mi sto arrabbiando! Sdraiati subito, altrimenti…
Il fruscio del piumino lo azzittí.
− Notte papà, ti voglio bene.
Yngvar sorrise chiudendo la porta.
− Anch’io ti voglio bene. A domani!
S’incamminò silenziosamente lungo il corridoio. Kristiane dormiva già da
un pezzo, ma era capace di svegliarsi per una piuma di pollo che cadeva sul
pavimento. Trattenne il respiro quando passò davanti alla sua porta. Poi
trasalí.
Il telefono? All’una di notte della vigilia di Natale?
In due balzi raggiunse la porta del soggiorno per far cessare quel frastuono
il piú in fretta possibile. Per fortuna Johanne lo aveva preceduto: parlava a
bassa voce, in piedi accanto all’albero di Natale, che versava in uno stato
miserevole da quando Jack, il bastardino color marrone-giallognolo di
Kristiane, si era scatenato come una furia rovesciandolo in un caos di
ghirlande e luci elettriche. La suocera aveva deposto fra i regali, ben
impacchettato, un osso: al cane non c’era nulla da rimproverare.
− Arriva, − sentí che diceva Johanne subito prima di passargli il telefono.
Aveva quell’espressione rassegnata che gli dava sempre una fitta al cuore.
Allargò le braccia come per scusarsi ancora prima di afferrare il cellulare.
− Stubø.
Johanne si mise a vagare senza meta per la stanza. Raccoglieva un gioco
qua e un libro là, per poi posarli dove non avrebbero dovuto stare. Spostò una
stella di Natale sporcando di terra la tovaglia. A furia di girare si ritrovò in
cucina, ma non aveva nessuna voglia di vuotare la lavastoviglie e infilarci
dentro quel che restava della pila di piatti sporchi. Era molto stanca e decise
invece di bersi l’ultimo rimasuglio in fondo alla bottiglia ormai quasi vuota di
vino rosso che le aveva regalato la sorella. A detta della madre costava piú di
tremila corone, il che avrebbe palesemente significato gettare perle ai porci,
quindi Johanne finí di riempirsi il bicchiere con del vino italiano da poco in
un cartone posato sul piano della cucina.
− Bene, − sentí dire al marito. – A dopo, allora. Passa a prendermi alle sei.
La telefonata si concluse cosí.
− Alle sei, − gemette Johanne. – Ci capiterà mai di dormire un po’ di piú?
Bevve un gran sorso di vino e si sedette sul divano.
− È stata proprio una bella serata, − disse Yngvar lasciandosi sprofondare
accanto a lei. – Tuo padre, come al solito, è stato dolce e snervante allo stesso
tempo, e tua madre… tua madre…
− È stata terribile con me, buona con Ragnhild, brava con Kristiane e
condiscendente con te. E incantevole con Isak, quando finalmente è arrivato.
Come sempre. Chi è morto?
− Eh?
− Lavoro.
Johanne fece un cenno del capo al cellulare appoggiato sul tavolino da
salotto.
− Ah. Un caso delicato.
− Quando ti chiamano per lavoro la vigilia di Natale suppongo che sí, sia
proprio un caso delicato. Di cosa si tratta?
Yngvar prese il bicchiere e se lo portò alle labbra con tale impeto che
quando lo posò gli erano rimasti dei baffi rossi. Poi si bloccò, guardò
l’orologio e corse in cucina. Johanne lo sentí sputare nel lavandino.
− Può darsi che debba guidare, − disse asciugandosi con la manica mentre
tornava indietro. – E comunque devo essere in grado di pensare lucidamente.
− Tu pensi sempre lucidamente.
Lui sorrise e ritonfò accanto a lei. Il tavolino da salotto era ancora
ricoperto di carta da pacchi, bicchieri, tazzine da caffè e bottiglie di bibite.
Con una grazia di cui nessuno lo avrebbe creduto capace quell’omone posò i
piedi in mezzo al caos e accavallò le gambe.
− Eva Karin Lysgaard, − disse sorseggiando acqua da una bottiglietta di
marca Farris che aveva preso in cucina. – È morta.
− Eva Karin Lysgaard? Il vescovo? Il vescovo Lysgaard?
Lui annuí.
− E come è morta? Voglio dire, dal momento che telefonano a te si tratta di
un crimine, no? È stata assassinata? Un vescovo assassinato? Come? E
quando?
Yngvar bevve un altro po’ d’acqua e si stropicciò il volto come se quel
gesto potesse renderlo piú lucido.
− Ne so pochissimo. Dev’essere successo soltanto…
Lanciò una rapida occhiata all’orologio.
− Poco piú di due ore fa. È stata accoltellata, è tutto quello che so. A dire il
vero, non si sa con certezza se è stata uccisa con un coltello, ma per ora
sembrerebbe che la causa di morte sia una profonda ferita da taglio nella
regione del cuore. E l’hanno uccisa per strada. All’aperto, quindi. Non so
altro. Il distretto dell’Hordaland normalmente non ci chiederebbe assistenza
in un caso del genere, per lo meno non cosí in fretta. Ma questo… be’… A
ogni modo, io e Sigmund Berli partiamo domani.
Johanne si tirò su e posò il bicchiere di vino. Dopo un attimo lo spinse con
risolutezza piú in là, verso il centro del tavolo.
− Accidenti, − fu tutto quello che riuscí a dire.
Rimasero seduti in silenzio. Johanne si sentí attraversare da un brivido
freddo e le venne la pelle d’oca. Eva Karin Lysgaard. Il vescovo di Bjørgvin,
una donna indulgente e sempre in primo piano. Assassinata. La sera della
vigilia di Natale. Johanne cercava di dare un senso ai propri pensieri, ma era
come se la mente girasse a vuoto.
Proprio il sabato prima, il giorno di quel dannato matrimonio, il
«Magasinet», il supplemento settimanale del «Dagbladet», aveva dedicato al
vescovo Lysgaard un servizio di oltre quattro pagine. Johanne non avrebbe
avuto nemmeno il tempo di sfogliarlo, ma quando aveva visto quella storia in
copertina si era comprata il quotidiano con l’intenzione di leggere l’articolo
piú avanti. Ancora non era riuscita a trovare l’occasione per farlo.
All’improvviso si allungò sopra al bracciolo e si mise a frugare nel
portariviste.
− Ecco qui, − disse appoggiandosi il «Magasinet» sulle ginocchia. − Il
vescovo senza frusta.
Yngvar le cinse le spalle con un braccio e insieme si chinarono sulla
rivista. In copertina c’era la foto di una donna di una certa età. Aveva gli
occhi a mandorla, ma tagliati in giú, che le conferivano un’aria triste anche
quando sorrideva. Le iridi erano di un marrone intenso, quasi nere, le
sopracciglia spesse e scure; le ciglia sembravano ancora incredibilmente
lunghe nonostante le rughe intorno agli occhi.
− Una bella donna, − mormorò Yngvar e fece per girare pagina.
− Non bella, a dire il vero. Particolare. Caratteristica. Con quest’aria da
persona buona, come in effetti era… da viva.
Johanne continuava a fissare la foto. Yngvar fece un lungo sbadiglio.
− Scusa, − disse scuotendo rapido il capo. – Ma è meglio se cerco di
dormire il piú possibile. Anzi, dovremmo dare una sistemata qui prima di
andarcene a letto, altrimenti ti toccherà fare tutto da sola domani e potrebbe…
− Per strada, − lo interruppe lei. – Hai detto che è stata uccisa per strada?
La sera della vigilia di Natale?
− E quasi per miracolo l’ha trovata una pattuglia della polizia, una delle
poche in circolazione. Era lí, sdraiata per terra. Da un certo punto di vista
abbiamo un grosso vantaggio: per una volta, a quanto pare la stampa non è
riuscita a mettere le grinfie su un omicidio nel giro di due minuti. Senza
contare che domani i quotidiani non escono.
− Non che la stampa online sia meglio, − borbottò Johanne, lo sguardo
ancora inchiodato alla fotografia del vescovo di Bjørgvin. – Anzi, è anche
peggio. Per non parlare di radio e televisione. Di fronte a un caso del genere
non conta proprio nulla che siano tutti in vacanza. Ma perché devi partire? La
polizia di Bergen non è perfettamente in grado di sbrigarsela da sola?
Yngvar sorrise.
In verità la Kripos non era piú quella di una volta. Per cinquant’anni era
stata una sorta di gruppetto elitario di investigatori comunemente
soprannominato Commissione omicidi, poi aveva sviluppato, a poco a poco,
un’organizzazione piú complessa con competenze di spicco in indagini di tipo
tattico e soprattutto tecnico. Alla polizia criminale era stato assegnato un
numero sempre piú elevato di incarichi a livello sia nazionale sia
internazionale. Per l’opinione pubblica, fino al nuovo millennio era rimasta
un organo di sostegno alle inchieste della polizia ordinaria sui casi piú
importanti. In modo particolare sui casi di omicidio. Ma i tempi cambiano e la
criminalità si evolve. Nel 2005 la Kripos in realtà aveva cessato di esistere e
lasciato il posto a un ente chiamato Unità nazionale per la lotta al crimine
organizzato e d’altro genere, il cui acronimo sarebbe stato Unlcoag. Contro
questo nuovo nome si erano levate violente proteste ed era stato fatto notare,
senza troppi giri di parole, che suonava come una poco appetibile onomatopea
del vomito. Alla fine i dipendenti l’avevano avuta vinta e la Kripos aveva
potuto prepararsi a festeggiare i suoi cinquant’anni nel febbraio del 2009 con
il nome antico e armonioso che aveva sempre avuto. I compiti invece erano
cambiati e tali erano rimasti, in linea con il nome respinto.
Le unità di polizia dispiegate sul territorio erano diventate piú grandi, piú
forti e molto piú competenti. Il grande paradosso della lotta al crimine era che
una criminalità crescente e piú professionale aveva dato vita a strutture di
polizia piú ampie e con maggiori competenze. Se la cavavano. Almeno per
quanto riguardava la parte tattica delle indagini.
Yngvar accostò la bocca all’orecchio di Johanne.
− È che sono bravissimo, sai…
Lei sorrise controvoglia.
− Oltretutto farà uno scalpore tremendo, − aggiunse lui e sbadigliò. –
Secondo me quelli di Bergen ne hanno paura. E se è me che vogliono, è me
che avranno.
Si alzò e si guardò intorno con aria scoraggiata.
− Sistemiamo il grosso?
Johanne scosse la testa.
− Che cosa ci faceva in giro? – chiese lentamente.
− Eh?
− Che cosa aveva da fare fuori, di sera tardi, la vigilia di Natale?
− Non ne ho idea. Forse stava andando da qualche amico.
− Ma…
− Johanne. È tardi. Non ne so niente, del caso, a parte il fatto che devo
prepararmi ad andare a Bergen decisamente troppo presto domani mattina.
Non ha davvero senso star qui a rimuginare sulla base delle scarne
informazioni che abbiamo, lo sai bene anche tu. Mettiamo un po’ in ordine,
oppure andiamo a letto.
− Andiamo a letto, − disse Johanne alzandosi.
Entrò in cucina, prese una bottiglietta di acqua minerale Farris e decise di
portarsi in camera anche il «Magasinet». A quel che restava da fare ci avrebbe
pensato l’indomani.
− C’è qualcosa che non va? – le chiese all’improvviso Yngvar, visto che si
era fermata in mezzo alla stanza senza dar cenno di volersi muovere in una
direzione o nell’altra.
− No, niente. È solo che… mi sento cosí… triste.
Stupita, alzò gli occhi.
− Hai ragione, è una notizia che fa dispiacere, − disse Yngvar e le posò una
mano sulla guancia.
− No, non proprio. Ecco… È che di solito non mi coinvolgono…
preferisco non lasciarmi coinvolgere dai tuoi casi. Ma lei, il vescovo, aveva
sempre quell’aria cosí… buona.
Yngvar sorrise e la baciò con delicatezza.
− È una cosa che sappiamo solo io e te, − le disse prendendole una mano. –
E poi… anche i buoni vengono uccisi. Andiamo, su…
Fu una notte insonne per Johanne. Quando alla fine il giorno la reclamò,
aveva letto l’articolo sul vescovo Eva Karin Lysgaard cosí tante volte da
saperlo a memoria.
Senza però ricavarne il minimo aiuto.
Un uomo
Ciao, Harald!
A causa delle festività natalizie ho fatto un controllo molto rapido e
molto poco scientifico delle indicazioni fornite dall’ufficio immigrazione
oggi, vigilia di Natale. Il dottor Brå è stato disponibile a ricevermi nel suo
ambulatorio stamattina. Gli ho sottoposto alcune fotografie della dentatura
del cadavere che io stesso avevo scattato (le ho fatte ad Aker Brygge
domenica mattina, non di qualità, ma valeva la pena di tentare). Lui le ha
confrontate con gli appunti e le radiografie in suo possesso e alla luce del
materiale tenderebbe a concludere che il defunto sia il già citato minorenne
curdo in cerca di asilo politico. Tutti i documenti inerenti al caso sono stati
inviati in copia all’istituto di Medicina legale. Suppongo che una
conferma/smentita ufficiale arriverà subito dopo capodanno. Forse
addirittura nei giorni feriali tra Natale e capodanno, se le circostanze
saranno favorevoli. Stilerò personalmente un rapporto in merito non appena
tornerò in ufficio. E adesso… FERIE !
Buon Natale!
Bengt
Non era mai accaduto che Johanne si tirasse indietro. Faceva solo molta
fatica a iniziare. Dopo il dottorato in Criminologia nel 2000, aveva portato a
termine altri due progetti. Aveva discusso una tesi, Violenza sessualizzata:
uno studio comparato delle condizioni di vita e delle esperienze precoci su
colpevoli di reati a sfondo sessuale e contro il patrimonio, con cui si era
guadagnata una borsa di studio che le aveva dato modo di compiere un esame
altrettanto approfondito sugli errori giudiziari in Norvegia. Verso la fine di
quel secondo lavoro era nata Ragnhild. Yngvar e Johanne si erano trovati
d’accordo sul fatto che lei sarebbe rimasta a casa finché la bambina non
avesse compiuto due anni, ma mentre era ancora in maternità lei si era
lanciata in un nuovo progetto, uno studio sulle prostitute minorenni, sul loro
background, sulle loro condizioni e reali possibilità di riabilitazione.
Quell’estate aveva ricevuto un incarico dalla Direzione nazionale della
polizia.
Era stata Ingelin Killengreen in persona a contattarla. Il direttore generale
della polizia aveva ricevuto inequivocabili pressioni politiche per mettere in
agenda i cosiddetti crimini d’odio.
Il problema era che quei crimini non esistevano.
O meglio, esistevano.
Ma non da un punto di vista puramente numerico. Non da un punto di vista
statistico. La Direzione nazionale della polizia, in collaborazione con il
distretto di Oslo, aveva già avviato una mappatura di tutte le denunce fatte nel
2007 per reati il cui movente fosse riconducibile alla razza, all’appartenenza
etnica, alla religione o alle inclinazioni sessuali. Il rapporto conclusivo era
proprio dietro l’angolo e Johanne aveva già visionato la maggior parte del
materiale.
Si trattava di cifre molto basse.
Nell’intera Norvegia nel 2007 erano stati schedati trecentonovantanove
crimini d’odio. Di tutti questi, piú del trentacinque per cento erano casi
erroneamente classificati negli Strasak, i registri della polizia riguardanti le
cause penali. In altre parole c’erano stati poco piú di duecentocinquanta reati
per i quali si potesse parlare di crimini d’odio.
In un intero anno. In un Paese di quasi cinque milioni di abitanti.
Se paragonati al numero complessivo di denunce fatte alla polizia, 256 casi
erano talmente pochi da risultare di per sé ben poco interessanti.
Alla politica, però, interessavano eccome. Poiché ogni singolo attacco
motivato da odio era indubbiamente uno di troppo, poiché i numeri del
sommerso in quel genere di criminalità dovevano essere grandi, e poiché il
secondo governo Stoltenberg – la cosiddetta coalizione rosso-verde – avrebbe
preferito presentarsi alle elezioni nell’autunno del 2009 con un asso nella
manica da offrire a qualunque minoranza gridasse sdegnata ogni volta che un
omosessuale veniva picchiato in centro o che dei vandali imbrattavano e
danneggiavano la sinagoga ebraica vicino a St Hanshaugen, a Johanne era
stato assegnato l’incarico di studiare il fenomeno piú da vicino.
L’incarico era stato formulato in modo cosí vago che lei aveva passato
l’intero autunno a cercare di definire e circostanziare il lavoro che la
aspettava. Inoltre, aveva iniziato a raccogliere una quantità piuttosto ampia di
dati dagli altri Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Anche diverse nazioni
europee avevano da tempo sistematizzato e in parte rielaborato quei
particolari reati. Il materiale era cresciuto senza che lei fosse ancora riuscita a
decidere esattamente come e in che direzione muoversi.
Poi era arrivata la crisi finanziaria.
E tutti quei miliardi pubblici.
Diversi settori di ricerca norvegesi erano stati rinvigoriti da una pioggia di
risorse, e dato che anche alla polizia erano stati dati forti incentivi purché
contribuisse a tenere oliate le ruote dello Stato e a evitare il collasso
economico, Johanne si era ritrovata per le mani una cifra che era il quadruplo
di quella a sua disposizione fino a poche settimane prima. Le si era cosí
aperto un ventaglio di nuove possibilità, fra cui poter approfittare di un
maggior numero di giovani ricercatori e assistenti scientifici. Al tempo stesso,
i nuovi mezzi avevano creato nuovi problemi: Johanne era prossima alla
stesura definitiva del progetto quando le carte in tavola erano cambiate.
Non era semplice e lei faceva fatica a iniziare.
Ma l’idea la stimolava.
Era sera. Kristiane si era mostrata insolitamente accomodante dai genitori
di Isak e Ragnhild aveva ritrovato tutta la sua vivacità non appena avevano
ricevuto ognuna il proprio sacchettino di dolci natalizi. Visto che Kristiane
sarebbe rimasta dai nonni per trascorrere tre giorni delle feste natalizie con
suo padre, anche Ragnhild aveva insistito per rimanere. Isak aveva sorriso
compiaciuto, come sempre, e detto che andava bene. Probabilmente si era
reso conto da tempo di quello che anche Yngvar e Johanne avevano
realizzato, e cioè che Kristiane era piú tranquilla, dormiva meglio ed era piú
felice se aveva Ragnhild accanto.
La casa era silenziosa. I vicini del piano di sotto dovevano essere partiti.
Quando Johanne era rientrata, verso le otto, le loro finestre erano tutte buie.
Lei invece era andata di stanza in stanza ad accendere tutte le luci e aprire
tutte le porte: di sera Jack, il cane, aveva l’abitudine di vagare per casa, se non
lo chiudevano in camera di Kristiane, e il suo zampettio strascicato e il tonfo
sordo di quando si sdraiava facevano sentire Johanne un po’ meno sola, le
rare volte in cui in effetti era da sola. Alla fine prese il portatile e andò in
soggiorno, si accomodò sul divano con il laptop sulle ginocchia e si mise a
navigare in Internet sorseggiando un bicchiere di vino, senza concentrarsi piú
di tanto. Aveva appena deciso di andare su ordspill.no per giocare a una
specie di scarabeo quando squillò il telefono.
− Ciao, sono io.
Ne era passato di tempo dall’ultima volta che sentire la sua voce l’aveva
resa cosí felice.
− Ciao, amore mio. Come va laggiú?
Yngvar rise.
− Praticamente ho intralciato la polizia di Bergen, mi sono reso ridicolo
andando a trovare il vedovo in casa sua poche ore dopo che aveva saputo
della morte della moglie, ho già litigato con il figlio della vittima, credo, e per
finire ho mangiato cosí tanto a cena che adesso mi sento male.
Rise anche lei.
− Però! Dove ti sei sistemato?
− Al Sas Hotel che c’è a Bryggen. Una bella stanza, mi hanno innalzato di
rango e dato la suite quando hanno capito da dove arrivavo. Non che sia
proprio sovraffollato, qui, a Natale.
− Allora sapevano perché ti trovi lí?
− No. Davvero incredibile. Sono passate quasi ventiquattr’ore esatte da
quando hanno trovato morta la Lysgaard e neanche un giornalista che abbia
già iniziato a ficcanasare. Tutti questi pranzi e cene di Natale devono averli
proprio sfiniti.
− O forse è stata l’acquavite. O forse, semplicemente, è che la polizia di
Bergen è piú brava a tenere la bocca chiusa dei colleghi di Oslo. Fra l’altro,
ho appena visto il telegiornale. Le hanno dedicato un breve servizio, ma
hanno detto solo che era morta, niente di piú.
All’altro capo sentí dei rumori da cui dedusse che Yngvar si stava
allentando il nodo alla cravatta. Tutt’a un tratto si commosse: lo conosceva
talmente bene da captare addirittura cose del genere mentre era al telefono
con lui.
− Scusa un attimo, − disse Yngvar. – Il tempo di sfilarmi le scarpe e
togliermi questo maledetto cappio al collo. Ecco. E da voi come va? È stata
dura riordinare tutto da sola stamattina, con le bambine intorno? Devi essere
stanchissima. Mi dispiace aver…
− È andato tutto bene. Come vedi me la cavo anche con una notte insonne
alle spalle. Le bambine sono scese in giardino a giocare per un paio d’ore,
l’unica cosa è stata che…
Era riuscita ad allontanare il pensiero dell’estraneo per tutto il pomeriggio
e tutta la sera, ma in quel momento una fiammata d’ansia le attraversò il
corpo e la fece ammutolire.
− Pronto? Johanne?
− Sí, sí. Ci sono.
− Tutto bene, tesoro?
Yngvar avrebbe sicuramente minimizzato l’accaduto, avrebbe sospirato
con rassegnazione e l’avrebbe esortata a non avere sempre tutta quella
tremenda paura per le bambine. Non avrebbe mostrato la minima
comprensione, se lei gli avesse detto che non riusciva a smettere di pensare al
fatto che un esimio sconosciuto sapeva il nome della sua figlia maggiore.
Senza contare poi che quel tizio era cosí ben imbacuccato, con tanto di
berretto e sciarpa, che avrebbe potuto benissimo essere un vicino, avrebbe
ribattuto Yngvar se lei gli avesse raccontato quell’episodio; e cosí un po’ di
gelo, lieve ma spiacevole, sarebbe sceso fra loro e le avrebbe reso difficile
prendere sonno piú tardi, da sola, senza altri rumori intorno che l’ansimare e
le continue flatulenze di Jack.
− No, niente, − rispose cercando di mettere un sorriso in quelle parole. –
Sarà che non ci sei. Siamo soli, Jack e io. Ragnhild è voluta restare dai
genitori di Isak.
− Ma che bello! Isak è proprio generoso. Lui…
− Come se tu non lo fossi con sua figlia! Come se…
− Va bene, va bene. Non intendevo… Sono contento che sia stata una bella
giornata per tutti voi e che tu abbia l’intera serata solo per te. Non è certo una
cosa che capita spesso, no?
Johanne spostò il portatile sul tavolino da salotto e si avvolse meglio nella
coperta.
− Hai ragione, − disse, sorridendo per davvero. – In effetti è anche
piacevole starsene un po’ da soli ogni tanto. Fatta eccezione per Jack, certo. A
proposito, dev’esserci qualcosa che non va nella sua pappa. Fa delle scorregge
orrende.
Yngvar rise.
− Che cosa stai facendo?
− Un po’ lavoro, un po’ vado su Internet. Bevo del vino. Mi manchi da
impazzire.
− Ottimo. Tutto quanto. Tranne il lavoro. È Natale! Io ho intenzione di
prendermi la serata libera. Sono stanco morto. Domani spero di riuscire a
interrogare il figlio del vescovo. Dio solo sa come andrà a finire, già non mi
sopporta…
− Scommetto che non è vero. Tu piaci a tutti, Yngvar. E visto che sei il piú
bravo bravissimo poliziotto del mondo andrà sicuramente tutto bene.
Yngvar rise di nuovo.
− Devi smetterla di fare questo giochino con le bambine! Poco prima di
Natale eravamo in coda alla cassa al supermercato quando Ragnhild
all’improvviso si è alzata in piedi nel carrello e ha strombazzato a gran voce
che il suo papà era il piú piú piú… credo che abbia detto «piú» almeno dieci
volte… il piú bravo bravissimo poliziotto del mondo! Che imbarazzo. La
gente rideva.
− Ha ragione Ragnhild, − disse Johanne, sorridendo ancora. – Sei il piú
bravo del mondo, anzi di piú.
− Sí, sí… Buonanotte…
− Buonanotte, amore.
La voce di Yngvar svaní. Johanne fissò il telefono per un po’, come nella
speranza che lui fosse ancora all’altro capo e che potesse consolarla e
rassicurarla sul fatto che quell’uomo al di là della staccionata non era
pericoloso. Poi si alzò lentamente, posò il telefono e si avvicinò alla finestra.
La luna nuova splendeva obliqua sopra la casa dei vicini. C’era ancora un
freddo secco. Il gelo attanagliava Oslo, ma il cielo era limpido da giorni e in
settimana c’erano stati dei tramonti spettacolari. I pochi fiocchi sparsi di neve
che erano scesi la mattina si erano posati sull’erba in uno strato trasparente,
come una garza. Il cielo era di nuovo limpido, era buio e Johanne si sentí
finalmente pronta per andare a dormire.
Una donna guardava dalla finestra senza sapere se sarebbe mai piú riuscita
ad addormentarsi. Forse stava già dormendo. Tutto le pareva irreale ed
estraneo come in un sogno. In quella casa ci era nata, in quella stessa stanza;
abitava lí da sempre e da sempre guardava da quella finestra con i listelli di
legno che formavano una croce, dividendo cosí il panorama in quattro angoli
di mondo, come le aveva raccontato il padre quando lei era piccola e credeva
a qualunque cosa gli uscisse di bocca. Al momento, però, era tutto contorto e
alterato. Alla pioggia sul vetro era abituata; pioveva spesso, quasi sempre, a
Bergen, e lei stava piangendo e non aveva idea di cosa fosse ciò che vedeva.
La sua vita era stata distrutta: ciò che vedeva dalla piccola casa non le
apparteneva piú.
Aveva aspettato ventiquattr’ore, era stata una lunga notte e il giorno era
trascorso ancor piú lentamente, in un’incertezza di cui non riusciva a liberarsi.
Come nella vita aveva seguito dei binari determinati da circostanze al di fuori
del suo controllo, cosí si era dovuta rassegnare anche a quelle lunghe, eterne
ore di attesa. Non aveva avuto alternative, per lo meno non prima che la
donna alla televisione raccontasse ciò che lei aveva già capito da esattamente
ventiquattr’ore, e cioè da quando, seduta in poltrona davanti allo schermo, si
era svegliata all’improvviso con l’angoscia che le serrava la gola e le faceva
tremare le mani.
Aveva aspettato tante altre volte.
Aveva aspettato una vita intera e si era abituata a farlo.
Ma stavolta era stato diverso. Aveva avuto la netta sensazione di qualcosa
che non poteva essere vero, che non doveva essere vero, ma che lei comunque
sapeva perché era cosí che aveva vissuto molto a lungo: completamente sola.
Suonarono alla porta. La donna fu colta cosí alla sprovvista – era
tardissimo – che si lasciò sfuggire un gridolino.
Aprí la porta e lo riconobbe. Era passata un’eternità dall’ultima volta che si
erano visti, ma i suoi occhi erano rimasti uguali. Lui piangeva, come lei, e le
chiese se poteva entrare. Lei avrebbe preferito di no. Non era lui che voleva
vedere. Non voleva vedere nessuno.
Quando lo fece accomodare e chiuse la porta alle sue spalle implorò Dio di
svegliarla.
Ti prego, buon Dio, ti prego. Ti supplico.
Svegliami adesso.
La cosa peggiore in assoluto era stata che non lo sapeva, pensò Niclas
Winter. Aveva vissuto per cosí tanto tempo sull’orlo del collasso economico
che quando aveva saputo che l’acquirente non era piú interessato aveva
ricominciato a bere un po’ troppo e un po’ troppo spesso. Per non parlare poi
di tutto il resto che buttava giú per calmarsi i nervi. E dire che aveva smesso
da un pezzo di prendere quella robaccia. L’ottundimento dei sensi lo rendeva
indolente. Piatto. Improduttivo.
Non era cosí che voleva sentirsi.
Quando la crisi finanziaria aveva cominciato a imperversare in ogni
settore, nell’autunno del 2008, in Norvegia non aveva sortito gli stessi effetti
che in molti altri Paesi. Con diverse migliaia di miliardi di corone in banca e
una «cassetta degli attrezzi» molto ben fornita, politicamente parlando, la
coalizione rosso-verde era riuscita a mettere in atto delle contromisure
talmente solide, costose ed efficaci che nessuno se lo sarebbe mai neanche
potuto immaginare qualche mese prima. La nazione norvegese aveva
pompato oro nero dal Mare del Nord per cosí tanto tempo che, nonostante il
terremoto economico degli Stati Uniti, almeno nell’immediato era risultata
invulnerabile. È vero che il mercato immobiliare norvegese, gonfio da
scoppiare, aveva subito un tracollo all’inizio dell’autunno, ma sarebbe
accaduto comunque nel breve periodo. A ogni modo, segni di ripresa ce
n’erano già. Il numero dei fallimenti si era moltiplicato negli ultimi mesi e, a
detta di molti, quel che era accaduto andava considerato come un salutare
repulisti di imprese che comunque non avrebbero saputo sopravvivere.
Nell’edilizia la disoccupazione era aumentata, ma la questione era stata
affrontata con grande serietà. Non andava dimenticato che quel settore si
reggeva soprattutto su una forza lavoro «di importazione». Polacchi, baltici e
svedesi avevano la simpatica prerogativa di tornarsene volentieri in patria
quando di lavoro non ce n’era piú, per lo meno chi non aveva afferrato bene
che avrebbe potuto ricevere dei bei soldini grazie all’assistenza sociale
norvegese. Inoltre c’era un numero piuttosto consistente di economisti pronti
a sostenere, per lo meno nella loro cerchia e senza farlo trapelare, che un tasso
di disoccupazione intorno al quattro per cento avrebbe giovato alla flessibilità
della manodopera nel suo complesso.
Tutto sommato l’azienda Norvegia andava avanti, se non come prima
comunque senza grandi e catastrofiche conseguenze per il Paese e i suoi
abitanti. Le persone compravano ancora da mangiare, avevano ancora bisogno
di vestiti per sé e per i propri figli, si concedevano come sempre una buona
bottiglia di vino nel fine settimana e continuavano ad andare al cinema
esattamente come prima.
Erano i generi di lusso a non avere piú abbondanza di acquirenti.
E per qualche motivo l’arte veniva considerata un genere di lusso.
Niclas Winter tolse la carta argentata alla bottiglia di champagne che aveva
comprato il giorno in cui sua madre era morta. Si sforzò di ricordare se gli
fosse mai capitato di aprirne una, ma quando si mise ad armeggiare con la
gabbia metallica ogni dubbio svaní. Sí, aveva bevuto una considerevole
quantità di quella nobile bevanda francese, soprattutto negli ultimi anni, ma
sempre offerta da qualcun altro.
Lo champagne sgorgò a getto e lui rise fra sé e sé mentre versava il vino
spumeggiante e frizzante in un bicchiere di plastica posato sul bordo
dell’ingombro tavolo da lavoro. Appoggiò la bottiglia a terra, per sicurezza, e
si portò il bicchiere alle labbra.
I trecento metri quadrati dell’atelier, in origine un magazzino, erano
inondati di luce naturale. Agli estranei il caos doveva sembrare totale in
quell’enorme stanzone con i lucernai sul soffitto e grandi finestre ad arco
lungo la parete di sudest, ma Niclas Winter aveva tutto sotto controllo.
Saldatrice e saldatoio, il computer e dei vecchi water, i cavi provenienti dal
Mare del Nord e una mezza carcassa di automobile. L’atelier sarebbe stato un
paradiso per qualunque undicenne curioso, che comunque non sarebbe mai
riuscito a intrufolarcisi. Niclas Winter aveva tre fobie: i grandi uccelli, i
lombrichi e i bambini. A malapena era riuscito a sopravvivere alla propria
infanzia e detestava doversene ricordare ogni volta che gli capitava di vedere
dei ragazzini giocare e urlare e divertirsi. Il fatto che l’atelier si trovasse a soli
duecento metri da una scuola elementare costituiva una triste realtà con cui a
stento aveva imparato a convivere. Per il resto il locale era davvero perfetto,
l’affitto era basso e i bambini per lo piú si tenevano a debita distanza da
quando lui aveva appeso sulla porta il cartello «Attenzione – cane libero» e la
figura di un dobermann.
Il locale aveva all’incirca la forma di un rettangolo, sedici metri
abbondanti per diciotto. Il caos era concentrato tutto lungo le pareti: una
cornice di cianfrusaglie e beni di prima necessità circondava un ampio spazio
centrale. Quello spazio era sempre pulito e vuoto, fatta eccezione per
l’installazione a cui Niclas Winter stava lavorando al momento. Contro uno
dei muri corti erano schierate quattro installazioni già finite, ma che lui non
aveva ancora mostrato a nessuno.
Sorseggiò lo champagne, era leggermente troppo dolce e non abbastanza
freddo.
Quella era la cosa migliore che avesse mai fatto.
L’opera era intitolata I was thinking of something blue and maybe grey,
darling ed era stata acquistata da StatoilHydro.
Al centro dell’installazione si ergeva un monolito alto sei metri di
manichini aggrovigliati gli uni agli altri, un evidente riferimento al monolito
del parco di Vigeland. A causa della rigidità che caratterizzava i manichini,
fatta eccezione per ginocchia, gomiti, anche e spalle, la figura che formavano
risultava per cosí dire irta di aculei. Teste su colli quasi spezzati, dita rigide e
piedi con lo smalto sulle unghie puntavano morti in ogni direzione. Ad
avvolgerli c’era un luccicante filo spinato in argento. Argento vero,
naturalmente: solo il filo spinato gli era costato una piccola fortuna.
Avvicinandosi ci si accorgeva che quei nudi manichini senza vita avevano ai
polsi orologi preziosi e intorno al collo, quasi tutti, delle collane. Quando lui
li aveva presi, i manichini erano letteralmente asessuati: solo le spalle larghe e
la mancanza di seni distinguevano gli uomini dalle donne, oltre a una
indefinita prominenza sull’inguine. Niclas Winter era stato costretto a
rimediare: aveva acquistato talmente tanti peni artificiali su un sito porno da
ottenere un significativo sconto sulla quantità e li aveva poi montati sui
manichini castrati. I peni finti venivano pubblicizzati come «naturali», una
palese falsità. Erano giganteschi. Decise di laccarli con degli spray di colori
fluo per renderli ancora piú evidenti.
− Perfetto, − mormorò dopo fra sé e sé, e svuotò il bicchiere in un sorso.
Fece alcuni passi indietro e inclinò la testa da una parte.
La sua ultima mostra era stata un successo fenomenale. Tre installazioni da
esterno erano rimaste esposte su Rådhuskaia, il molo nella zona centrale di
Oslo, per quattro settimane. La gente era entusiasta. I critici anche. Aveva
venduto tutto. Per la prima volta nella sua vita era stato a un passo dal
liberarsi dei debiti. E ancor meglio: StatoilHydro, che già aveva acquistato
Vanity Fair, reconstruction, aveva ordinato I was thinking of something blue
and maybe grey, darling sulla base di uno schizzo preparatorio. Il prezzo
stabilito era di due milioni di corone. Mezzo milione gli era stato versato
come anticipo, ma quei soldi, e molti altri ancora, erano già stati spesi per il
materiale.
Poi quei maledetti avevano cambiato idea.
Niclas Winter di contratti non ne capiva molto e quando, furente, si era
presentato dall’avvocato mostrandogli la lettera che era arrivata in ottobre,
aveva capito che era giunto il momento di procurarsi un agente. StatoilHydro
infatti era nel suo pieno diritto: il contratto aveva una clausola di disdetta.
Peccato che lui quel documento lo avesse letto solo di sfuggita prima di
firmarlo, stordito di felicità com’era.
«Nell’attuale clima finanziario, – scrivevano nella lettera, per scusarsi, – il
segnale veicolato avrebbe effetti controproducenti per dipendenti e
proprietari». Farfugliavano di «una certa prudenza per quanto riguarda i
consumi superflui».
Bla bla bla. Andate a farvi fottere!
Quella maledetta lettera era arrivata quattro giorni prima che sua madre
morisse.
Mentre lui le sedeva accanto nelle sue ultime ore, piú per salvare le
apparenze che per un dolore autentico, tutto si era ribaltato. Niclas Winter era
uscito dalla stanza dell’Hospice Lovisenberg in cui sua madre era morta con
un sorriso sulle labbra, una nuova speranza e un mistero da risolvere.
E ce l’aveva fatta.
C’era voluto del tempo, naturalmente. Sua madre era stata cosí nebulosa
che Niclas aveva passato molte settimane a cercare lo studio giusto, si era
stressato parecchio e aveva preso diverse cantonate strada facendo, ma adesso
aveva risolto tutto. L’incontro era fissato per il primo giorno feriale dopo
capodanno, e l’uomo che avrebbe visto lo avrebbe reso ricco sfondato.
Si versò altro champagne e bevve.
Quella lieve ebbrezza lo faceva sentire decisamente meglio. La sua ultima
opera era terminata: se StatoilHydro non aveva saputo approfittare di
un’occasione simile, ci avrebbe pensato qualche altro acquirente. Con i soldi
che adesso sarebbero diventati suoi, Niclas avrebbe potuto accettare l’invito
ad allestire una mostra a New York in autunno. E l’avrebbe fatta finita con
quegli insensati lavoretti extra che gli risucchiavano forze e creatività. E
avrebbe dato un taglio netto anche alla droga, finalmente. E all’alcol. Avrebbe
lavorato giorno e notte, senza preoccupazioni.
Niclas Winter era quasi felice.
Un rumore, gli sembrò di sentire un rumore. Un clic quasi impercettibile.
Si girò a metà. Un gatto sul tetto, probabilmente. Alzò gli occhi.
Qualcuno lo afferrò. Niclas non capí neanche cosa stesse succedendo
quando due mani gli si strinsero intorno al volto costringendolo ad aprire la
bocca. Quando gli piantarono una siringa nella guancia sinistra, piú che
spaventarsi si meravigliò. L’ago gli si conficcò e svuotò nella lingua, e il
dolore che provò in quell’istante fu cosí intenso da strappargli un grido.
L’uomo dietro di lui gli immobilizzò le mani. Un calore intenso cominciò a
diffondersi fulmineo dalla bocca, Niclas faticava a respirare. Lo sconosciuto
lo afferrò quando cadde. Lui sorrise e cercò di allontanare il velo che gli
oscurava la vista battendo ripetutamente le palpebre. Non riusciva a respirare.
I polmoni non ce la facevano piú.
Si accorse a malapena che qualcuno gli stava rimboccando la manica
sinistra del maglione. Questa volta l’ago si conficcò nella vena blu all’interno
del gomito.
Era il 27 dicembre 2008 e le undici e trenta del mattino erano passate da
tre minuti. Quando Niclas Winter morí, all’età di trentadue anni, subito prima
del suo debutto internazionale in campo artistico, sorrideva ancora di stupore.
− Non darti tanto da fare per me, − gli disse Yngvar Stubø con un
significativo gesto della mano. – Ho già bevuto tre caffè oggi e berne un altro
non mi fa certo bene.
Lukas Lysgaard si strinse appena nelle spalle e si sedette in una delle due
poltrone gialle. Quella del padre. Anche stavolta Yngvar si trattenne
dall’accomodarsi al posto di Eva Karin e optò invece per andare a prendersi
una delle sedie intorno al tavolo da pranzo.
− Come procedono le indagini? Avete fatto dei passi avanti? – chiese
Lukas con un tono che non tradiva certo un interesse degno di nota.
− E il mal di testa come va? – chiese Yngvar.
Il giovane si strinse di nuovo nelle spalle, poi si passò una mano fra i
capelli e chiuse gli occhi.
− Un po’ meglio adesso, grazie. Va e viene.
− È tipico dell’emicrania, dicono.
Una pendola batté lentamente due colpi. Yngvar resistette alla tentazione
di controllare sul suo orologio: era sicuro che le due fossero già passate.
Sentiva una leggera corrente sul collo, come se ci fosse una finestra
socchiusa. Nell’aria c’era odore di bacon e di qualcos’altro che lui non
riusciva a identificare.
− Purtroppo non ci sono grandi novità.
Si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
− Abbiamo parecchio materiale che verrà sottoposto a indagini piú
accurate. Ci sono buone probabilità di trovare tracce biologiche sulla scena
del crimine. Dal momento che è stata la polizia stessa a trovare il corpo, e per
di piú poco dopo l’omicidio, o almeno cosí pare, confidiamo nel fatto che le
prove raccolte siano il piú possibile incontaminate.
− Ma non avete idea di chi sia stato?
Yngvar non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia.
− No. Certo che no. Rimangono ancora…
− I giornalisti speculano in tutte le direzioni. Sostengono di avere delle
fonti in polizia, e secondo queste fonti si starebbe dando la caccia a un pazzo.
Una di quelle «bombe a orologeria»… − disse, sottolineando il concetto con
un esplicito gesto della mano, − che gli psichiatri rimettono in libertà un po’
troppo presto. Rifugiati in cerca di asilo politico, per esempio. Somali. O altri
del genere.
− Ovviamente è possibile che quella che stiamo cercando sia una persona
malata. Tutto è possibile. A questo punto delle indagini, però, la cosa davvero
importante è non fossilizzarsi procedendo solo in una direzione.
− Dal momento che la pattuglia è arrivata cosí in fretta, l’omicida non può
certo essere andato molto lontano. Ho letto oggi sul giornale che si ipotizza
siano passati dieci, quindici minuti da quando mia madre è morta a quando è
stata trovata. La vigilia di Natale non ci saranno poi cosí tanti indiziati fra cui
scegliere. Che se ne vanno a zonzo per le strade la sera tardi, voglio dire.
Evidentemente si pentí subito di aver pronunciato quelle parole e afferrò
un bicchiere contenente del liquido giallo che Yngvar suppose fosse succo di
arancia.
– No, − commentò lui. – A parte tua madre, per esempio.
– Senti, − ribatté Lukas e vuotò il bicchiere prima di proseguire. – Io
capisco come può apparire la situazione, ovviamente. Darei qualunque cosa
per sapere che ci facesse mia madre fuori a quell’ora la vigilia di Natale. Ma
non lo so. Okay? Non lo so! Noi… cioè, io, mia moglie e i nostri tre figli
trascorriamo il Natale una volta con i suoi e una volta con i miei. Quest’anno i
miei suoceri erano nostri ospiti. Mia madre e mio padre erano a casa da soli.
Io l’ho chiesto a mio padre, certo che gliel’ho chiesto, santo cielo…
Fece una smorfia.
− Io gliel’ho chiesto, ma lui si è rifiutato di rispondermi.
− Capisco, − gli disse Yngvar accondiscendente. – Capisco. È proprio per
questo che vorrei farti alcune domande in proposito.
Lukas allargò le braccia, rassegnato.
− Prego! Chiedi pure.
− A tua madre piaceva fare passeggiate?
− Eh?
− Le piaceva camminare?
− E a chi non piace… Sí. Sí, le piaceva camminare.
− Anche la sera? Molti hanno l’abitudine di prendere una boccata d’aria
prima di coricarsi. Anche tua madre ce l’aveva?
Per la prima volta da quando Yngvar Stubø aveva incontrato Lukas
Lysgaard tre giorni prima, gli sembrò che stesse effettivamente riflettendo
sulla risposta da dare.
− Sono passati molti anni da quando abitavo con i miei, − disse alla fine. –
Io… Il primo figlio ci è nato quando avevamo vent’anni, mia moglie e io. Ci
siamo sposati l’estate in cui abbiamo finito le superiori e…
Si interruppe e un sorriso gli illuminò il volto segnato dal pianto.
− Eravate molto giovani, − disse Yngvar. – Non credevo che ci si sposasse
ancora cosí giovani.
− Mia madre e mio padre, mio padre soprattutto, avevano mosso forti
obiezioni all’eventualità che andassimo a vivere insieme senza essere sposati.
E dal momento che noi eravamo convinti del nostro… Ma tu mi hai chiesto se
mia madre aveva l’abitudine di uscire la sera per fare quattro passi.
Yngvar annuí appena, e con la maggior discrezione possibile tirò fuori dal
taschino il blocchetto per gli appunti.
− In effetti, sí. Per lo meno aveva quest’abitudine quando io abitavo con i
miei. Al tempo in cui era ancora un semplice pastore andava spesso a trovare i
membri della comunità dopo l’orario di lavoro. Era uno di quei pastori che
fanno volentieri qualche visita a domicilio, mia madre. Capitava piuttosto
spesso che uscisse la sera e non tornasse a casa prima che io mi fossi
addormentato. Ma non è mai successo che andasse a trovare qualcuno… la
vigilia di Natale.
Si strinse nelle spalle.
− A dire il vero era una gran bella cosa da parte sua andare da chi aveva
bisogno di lei a quell’ora, perché… Aveva paura del buio.
− Aveva paura del buio, − ripeté Yngvar. – E comunque, le piaceva fare
quattro passi la sera. Qui a Bergen, se non ho capito male. Dopo che vi siete
ritrasferiti qui, giusto?
− No… cioè… Quando mia madre è stata nominata vescovo, io ero già
adulto. Non sono sicuro che andasse ancora a trovare molte persone. Da
vescovo, voglio dire.
Fece un profondo respiro e afferrò il bicchiere. Quando si accorse che era
vuoto rimase seduto a rigirarselo fra le dita. Agitava il ginocchio sinistro,
come se la gamba gli formicolasse.
− A dire il vero quando ero ragazzo non è che mi interessasse molto cosa
facevano i miei la sera. Al contrario, erano loro a voler sapere che cosa facevo
io.
Il sorriso era sincero, questa volta.
− Ero un ragazzo come tutti gli altri. Andavo oltre i limiti. Avevo la
fidanzata. In effetti non ci ho mai pensato, ma forse mia madre ce l’aveva
questa abitudine di uscire a camminare la sera. Anche a Stavanger. Ma
quando siamo tutti qui, con mia moglie e i miei figli, lei non esce,
ovviamente.
− Voi abitate a Os, è esatto?
− Sí. A una mezz’oretta da qui. A meno che non sia l’ora di punta, perché
allora ci vuole davvero un’eternità. Veniamo a trovarli spesso. E anche loro
vengono spesso da noi. Visto che mia madre non esce mai a passeggiare la
sera quando è da noi o quando noi siamo qui…
− Scusami se ti interrompo, significa che vi fermate qui a dormire?
Quando venite dai tuoi?
− Ogni tanto. Di norma, no. I ragazzi si fermano spesso qua per la notte,
loro sí. I miei sono dei nonni in gamba. Alla vigilia di Natale o in occasione
di qualche festività pernottiamo sempre qui. Ci fa piacere bere un
bicchierino…
− Non sono astemi, i tuoi genitori?
− No, per niente.
− Che cosa intendi con «per niente»?
− Eh? Che cosa intendo… Un bicchiere di vino rosso per accompagnare il
pasto lo bevono volentieri. A mio padre piace bere un bicchierino di whisky
quando si festeggia. Sono persone assolutamente normali, questo intendevo
dire.
− È capitato che tua madre bevesse alcolici prima di queste passeggiate
serali?
Lukas Lysgaard fece un sospiro eloquente.
− Senti… − disse stizzito. – Ti ho già spiegato che è qualcosa che mi
sfugge! Ricordo, è vero, che a mia madre piaceva fare quattro passi la sera,
ma allo stesso tempo so che aveva paura del buio. Aveva molta paura del
buio. La prendevano tutti in giro per questa sua fobia, perché proprio lei, piú
di chiunque altro, avrebbe dovuto sentirsi sicura visto che il Signore le era
vicino. E il Signore ti è vicino in ogni momento…
Queste ultime parole furono accompagnate da una lieve smorfia, poi Lukas
Lysgaard si appoggiò allo schienale della poltrona e posò il bicchiere.
− Posso dare un’occhiata all’appartamento? – chiese Yngvar.
− Eh… sí. No, voglio dire… Mio padre è a casa mia. A rigor di termini mi
sembrerebbe piuttosto inappropriato che ti mettessi a ficcanasare nelle sue
cose senza il suo permesso.
− Non ho nessuna intenzione di ficcanasare, − ribatté Yngvar con un
sorriso mostrandogli il palmo delle mani. – Figuriamoci. Vorrei solo dare
un’occhiata superficiale. Come ti ho già spiegato diverse volte, ritengo
fondamentale riuscire a farmi l’impressione piú precisa possibile delle vittime
su cui indago. È per questo che mi trovo qui. Qui a Bergen, intendo. Cerco di
farmi un’idea completa di tua madre. Vedere la casa dove abitava può essermi
utile. Non credo sia un problema, no?
Lukas si strinse di nuovo nelle spalle. Yngvar lo prese come un segno del
fatto che fosse d’accordo con lui e si alzò. Mentre si infilava il blocchetto per
gli appunti in tasca chiese a Lukas di fargli strada.
− Cosí questa volta mi evito figuracce, − gli disse con un sorriso.
La casa di Nubbebakken era vecchia ma ben tenuta. La scala che portava al
piano di sopra era incredibilmente stretta e poco vistosa in confronto al resto
dell’abitazione. Lukas lo precedette mettendolo in guardia da una sporgenza
del soffitto.
− Questa è la loro camera da letto, – disse aprendo una porta.
Rimase fermo con la mano sulla maniglia, ostruendo cosí parzialmente
l’ingresso alla stanza. Yngvar raccolse il messaggio implicito e si limitò a fare
capolino dentro.
Un letto matrimoniale, rifatto.
Il copriletto patchwork, formato da pezze di stoffa dei piú svariati colori,
conferiva luce e calore a quella stanza grande e piuttosto vuota. Sui comodini
erano impilati dei libri e c’era un quotidiano piegato sul pavimento accanto al
letto dal lato piú vicino alla porta. A Yngvar sembrò si trattasse del «Bergens
Tidende». Un grande quadro era appeso sopra il letto, una rappresentazione
astratta nei colori del blu e del lilla. Dietro la porta c’era un armadio spazioso
che Yngvar riuscí a vedere riflesso nello specchio fra le due grandi finestre.
− Grazie, − disse a Lukas accompagnando la parola con un cenno del capo,
poi si spostò.
Il resto del piano era occupato da un bagno ristrutturato di recente, da due
camere da letto piuttosto impersonali, una delle quali era la stanza da ragazzo
di Lukas, e da un grande studio dove i coniugi avevano ognuno la propria
ampia scrivania. Yngvar smaniava dalla voglia di poter osservare piú da
vicino le scartoffie, ma la disponibilità di Lukas sembrava essersi già quasi
esaurita e cosí optò per indicare le scale. Nel raggiungerle passarono davanti a
una stretta porta con una chiave in ferro battuto infilata nella serratura e lui
suppose che da lí si prendesse la scala per andare in soffitta.
− Perché abitano qui? – chiese mentre scendevano al piano terra.
− Che cosa?
− Perché non abitano nella residenza vescovile? Per quanto ne so io, del
vescovato di Bjørgvin fa parte anche la residenza vescovile di Landåslien.
− Questa è la casa dove mio padre ha passato l’infanzia: quando sono
tornati a Bergen i miei hanno scelto di viverci. E quando mia madre è stata
nominata vescovo, mio padre ha insistito per trasferirsi di nuovo qui, credo
fosse una condizione che aveva imposto lui in cambio del suo consenso. Al
fatto che lei diventasse vescovo, voglio dire.
Mentre percorrevano il lungo corridoio che portava al soggiorno Yngvar
chiese: − Ma non è statuito per legge? Per quanto ne so io si ha il dovere di…
− Senti, − lo interruppe Lukas, premendosi gli occhi con pollice e indice. –
Ricordo che c’è stato grande scompiglio, ma hanno ottenuto quello che
volevano, di piú non saprei dirti. Sono stanchissimo. Non potresti domandarlo
a qualcun altro? Per favore…
− Ma certo, − si affrettò a rispondere Yngvar. – Ti lascio in pace. L’unica
cosa è che avrei bisogno di dare un’occhiata a quella stanza.
Indicò la piccola camera da letto in cui era entrato per sbaglio un paio di
giorni prima.
− Fa’ pure, − mormorò Lukas indicando la porta con il braccio teso.
Fu solamente dopo aver varcato la soglia che Stubø si rese conto che
Lukas non si era messo di mezzo. Al contrario, il figlio del vescovo era
tornato in soggiorno lasciandolo da solo. Si diede un rapido sguardo intorno.
Le tende erano aperte e non si sentiva piú quell’odore dolciastro di sonno.
La stanza era piú fresca di come se la ricordava e i vestiti che aveva visto
posati sulla sedia adesso non c’erano piú.
Per il resto sembrava tutto come prima.
Si chinò a leggere i titoli sui dorsi dei libri impilati sul comodino: una
voluminosa biografia sull’eroe di guerra Jens Christian Hauge, un giallo di
Unni Lindell e un vecchio e consunto esemplare de I frutti della terra di Knut
Hamsun rilegato in pelle.
Yngvar Stubø restò immobile, zitto, con i sensi all’erta. In quella camera
Eva Karin Lysgaard aveva vissuto le sue notti, ne era certo. Aprí con
circospezione l’anta dell’armadio. Gonne e vestiti appesi accanto a camicie e
camicette stirate occupavano una metà, mentre l’altra era suddivisa da ripiani.
Un ripiano per la biancheria intima, un ripiano per le calze. Un ripiano per i
pantaloni e un ripiano per cinture e borsette eleganti. Il ripiano piú in basso
era per tutto quello che non aveva un ripiano specifico.
Non si conservano gli abiti di tutti i giorni nella stanza degli ospiti, pensò
lui richiudendo silenziosamente l’armadio.
Fu sopraffatto da un sentimento di avversione, come spesso gli accadeva
quando si immergeva nella vita di altre persone sulla scia di una tragedia.
− Hai finito? − sentí che gridava Lukas.
− Sí, certo, − gli rispose lui, lasciando correre per un’ultima volta lo
sguardo sulla stanza prima di uscire in corridoio. – Grazie.
Arrivato alla porta d’ingresso Yngvar si voltò e tese la mano per salutare.
− Mi domando quando finirà tutto questo, − disse Lukas, senza stringergli
la mano. – Tutto questo dolore.
− Non finirà mai, − disse Yngvar lasciando cadere la mano. – Mai.
Lukas Lysgaard si lasciò scappare un singhiozzo.
− Ho perso la mia prima moglie e una figlia già adulta, − aggiunse Yngvar
a bassa voce, − piú di dieci anni fa. Uno stupido, banale incidente domestico.
Non credevo fosse possibile provare cosí tanto dolore.
Il volto di Lukas cambiò: l’espressione di rifiuto e di difesa che aveva
sempre avuto svaní, e lui si portò le mani dietro la nuca in un gesto disperato.
− Scusami, − bisbigliò. – Scusami. Perdere una figlia… mi dispiace. Io me
ne sto qui a…
− Non c’è niente di cui doversi dispiacere, − gli disse Yngvar. – Il dolore
non è qualcosa di relativo. Il tuo dolore è grande abbastanza di per sé. Fra un
po’ imparerai a conviverci. Andrà meglio, Lukas, vedrai. La vita ha la
sacrosanta tendenza a curare sé stessa.
− Era solo mia madre. Ma tu hai perso…
− Mi capita ancora di svegliarmi in piena notte credendo che Elisabeth e
Trine siano vive. Mi ci vuole un secondo, forse due, per capire dove mi trovo
nel tempo. E il dolore che provo in quel momento è esattamente lo stesso del
giorno in cui sono morte. Ma dura molto meno, questo sí. E magari mezz’ora
dopo sono lí che dormo tranquillo e beato.
Accennò un sorriso.
− Ora però devo proprio andare.
Mentre usciva sulla breve scala in pietra lo investí un freddo pungente. La
pioggia cadeva di traverso e lui si alzò il bavero mentre si dirigeva verso il
cancello del giardino senza voltarsi indietro.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che una delle fotografie sullo
scaffale di quella che veniva fatta passare per la stanza per gli ospiti era
scomparsa. Il giorno di Natale di fotografie ce n’erano quattro, adesso
soltanto tre. Una di Lukas bambino sulle ginocchia del padre, una di tutta la
famiglia in barca e il ritratto di un Erik Lysgaard molto serio e decisamente
giovane con il tocco da laureato in testa. La nappa gli ricadeva su una spalla e
il cappello era correttamente di traverso.
Quando Yngvar aprí il cancello, senza poter trattenere una smorfia per lo
stridio dei cardini, si domandò se fosse stato un errore di valutazione non
chiedere a Lukas che fine avesse fatto l’ultima fotografia.
D’altra parte, però, con molta probabilità non avrebbe ottenuto risposta.
Per lo meno non una risposta credibile.
Che esistesse davvero qualcuno capace di credere a storie del genere era
inconcepibile.
Johanne sedeva con il portatile sulle ginocchia e navigava senza uno scopo
preciso. Aveva visitato i siti del «New York Times» e del «Washington Post»,
ma faceva fatica a concentrarsi. Almeno, le pagine del «National Enquirer»
servivano a svagarla.
Ragnhild dormiva già della grossa e Isak stava mettendo a letto Kristiane.
Johanne si sorprese a desiderare che si fermasse ancora un po’, desiderio che
per altro non le faceva molto piacere. Per allontanare da sé il pensiero decise
di controllare le e-mail. Aveva tre nuovi messaggi nella casella della posta in
arrivo: un paio di irritanti offerte promozionali, una delle quali reclamizzava
un prodotto per dimagrire a base di astice e artiglio d’orso, e poi una e-mail
con un mittente che sul momento dovette frugare nella memoria per
riconoscere.
Karen Ann Winslow.
Johanne se la ricordava, Karen Winslow. Avevano studiato insieme a
Boston due matrimoni e un’eternità prima. Erano i tempi in cui lei credeva
ancora che sarebbe diventata psicologa e non immaginava certo che di lí a
poco avrebbe temporaneamente rinunciato a una prestigiosa formazione per
seguire un corso all’Fbi che le sarebbe quasi costato la vita.
Aprí il messaggio, che arrivava da un indirizzo privato e non rivelava
niente sul lavoro di Karen.
Cara Johanne!
Ti ricordi di me? Ne è passato di tempo dall’ultima volta! Ci siamo
proprio divertite insieme a scuola, e ti ho pensata di tanto in tanto. Come
stai? Sei sposata? Hai figli? Non vedo l’ora di saperlo.
Ho messo il tuo nome su Google e ho trovato questo indirizzo. Spero sia
giusto.
Sai, fra poco verrò in Norvegia per un matrimonio. Il 10 febbraio una
mia cara amica sposa un cardiologo norvegese. Le nozze si terranno a
Lillesand, una cittadina non lontana da Oslo. Tu vivi ancora lí?
Ci andrò senza mio marito e i nostri tre figli (due femmine e un maschio,
dei bambini fantastici!) a causa di altri impegni familiari. Arriverò a Oslo
tre giorni prima delle nozze e sarebbe davvero emozionante incontrarti!
Che ne dici? Abbiamo un mare di cose da raccontarci. Fatti sentire il prima
possibile, per favore. In ogni caso alloggerò al Grand Hotel, in centro a
Oslo.
Con tanto affetto,
Karen
Carissima Karen!
Grazie mille per la tua e-mail. Certo che ho voglia di vederti! Io vivo a
Oslo e sei la benvenuta a casa nostra, se decidi di fermarti per qualche
giorno. Devo avvisarti, però, ho avuto la fortuna di mettere al mondo due
figlie che fanno per dieci.
Le dita scorrevano rapide sulla tastiera. Johanne non pensava, era come se
esistesse una linea diretta fra le sue mani e tutto quello che aveva vissuto
negli ultimi diciassette anni. Come se niente dovesse essere rielaborato,
soppesato: era come se non stesse ragionando, ma semplicemente
raccontando. Scrisse delle bambine, di Yngvar, del suo lavoro. Karen
Winslow era molto lontana, dall’altra parte dell’oceano: la sua vecchia
compagna di scuola non conosceva nessuno lí in Norvegia e lei non doveva
tener conto di niente. Johanne le scrisse della sua vita da ricercatrice, dei suoi
progetti, dei suoi timori di non essere una madre abbastanza brava per una
figlia che nessuno capiva tranne lei. Neanche lei, a dire il vero. Scriveva
senza reticenze a una ragazza di cui era stata amica un tempo, quand’era
giovane e libera.
Era quasi una confessione.
− Et voilà, − disse Isak mettendole un grosso piatto davanti. – Spaghetti
alla carbonara con un piccolo tocco bizzarro! Non avevi pancetta e cosí ci ho
messo del prosciutto. Non avevi uova e cosí ho fatto della salsa con un po’ di
formaggio alle erbe che ho trovato. Non avevi nemmeno gli spaghetti e cosí
ho usato le tagliatelle. E per finire ho cosparso il tutto con una quantità
pazzesca di aglio tritato, rosolato appena. Non proprio degli spaghetti alla
carbonara…
Johanne annusò il profumo che c’era nell’aria.
− Un profumino celestiale, − disse con aria assente. – C’è del vino nella
credenza angolare, se hai voglia di aprire una bottiglia. Io preferisco
dell’acqua. Mi prenderesti una Farris?
Fissava lo schermo mordicchiandosi discretamente il labbro inferiore.
Con un gesto risoluto evidenziò tutto il testo, eccetto le prime tre righe,
premette il tasto Canc e concluse cosí il breve messaggio rimasto:
Fammi sapere al piú presto i dettagli del tuo soggiorno. Non vedo l’ora
di incontrarti, Karen. Davvero!
Con i migliori auguri,
Johanne
− A chi stai scrivendo con tanto impegno? – le chiese Isak mettendo i piedi
sul tavolino e appoggiandosi il piatto sul petto prima di iniziare a strafogarsi.
Il suo «galateo» a tavola l’aveva sempre irritata.
L’ex marito non sapeva proprio cosa fossero le buone maniere.
Isak afferrò il bicchiere di vino rosso pieno fino all’orlo con l’intera mano
e bevve rumorosamente, con la bocca ancora piena di cibo.
− Mangi come un porco, Isak.
− A chi stai scrivendo?
− A un’amica, − rispose lei laconica. – Un’amica di vecchia data.
Poi chiuse il portatile, lo posò accanto a sé e si chinò sul piatto. Il sapore
era buono come il profumo lasciava intendere. E cosí restarono lí seduti,
senza scambiare una parola, fino a quando non ebbero finito di mangiare.
Quando impugnò la maniglia, Trude Hansen non ricordava piú dove stesse
andando. Vacillò e le venne in mente che, tanto, qualcosa per arrivare fino al
mattino dopo già ce l’aveva. Il sollievo che provò fu cosí intenso che le
cedettero le ginocchia e dovette appoggiarsi alla parete quando lasciò la
maniglia.
L’odore là dentro era sempre peggio.
Doveva fare qualcosa.
Fra poco, pensò mentre entrava barcollando nel piccolo soggiorno. In una
nicchia c’era un letto sfatto con un sacco a pelo posato sopra. Infilato in fondo
al sacco a pelo c’era un nécessaire da toilette di Hello Kitty. Qualcuno aveva
disegnato sull’immagine della gattina un paio di zanne e una benda da pirata.
Finalmente, nonostante le mani non volessero ubbidirle, riuscí a tirar fuori la
busta del nécessaire e ad aprirne la cerniera. Ogni cosa era al suo posto.
L’occorrente. Tre dosi.
Come in innumerevoli occasioni, anche allora valutò se fosse il caso di
usare tutta la roba in una volta sola. Intorpidita e piú che altro per abitudine,
calcolò quante probabilità avesse di farla davvero finita se fosse volutamente
andata in overdose. E come sempre accadeva quando pensava certe cose nelle
rare occasioni in cui aveva abbastanza eroina da poter contemplare un
suicidio, come sempre anche allora allontanò quel pensiero. Presumibilmente
non sarebbe morta. E quando si fosse ripresa non avrebbe piú avuto roba a
disposizione.
L’idea di restare senza droga era piú terribile del pensiero di continuare a
vivere.
Prese la busta del nécessaire e fece arrancando i pochi passi che la
separavano dal divano verde contro la parete opposta. Era ricoperto di
bottiglie vuote di birra dal giorno precedente. Nel corso della notte qualcuno
aveva lasciato cadere una sigaretta accesa su uno dei cuscini e per un attimo
lei rimase incantata a guardare quel grande tondo bruciato con un buco nero al
centro.
Sopra al divano era appesa la fotografia di Runar, scattata il giorno in cui
aveva ricevuto il sacramento della confermazione.
Trude la afferrò e la gettò fra le bottiglie di birra.
Runar la fissava da quella grossa immagine su carta telata con la cornice
d’oro. Aveva i capelli ricci per la permanente, tagliati corti sopra le orecchie e
lasciati lunghi sul collo. L’abito era azzurro pastello, la stretta cravatta rosa.
Era cosí bello, pensò. Era suo fratello, era piú grande di lei e quel giorno in
chiesa era indubbiamente il piú elegante di tutti. Poi, quando finalmente la
cerimonia era finita e mamma non vedeva l’ora di andarsene a casa, prima
che qualcuno degli altri genitori potesse far domande sul ricevimento, lui
l’aveva sollevata ed era corso fino alla fermata dell’autobus tenendola con un
braccio solo. Nonostante lei avesse nove anni e fosse parecchio sovrappeso.
Avevano mangiato ali di pollo.
Mamma, Runar e lei.
Runar non aveva ricevuto neanche un regalo, dal momento che tutti i soldi
erano stati spesi per il vestito nuovo, il parrucchiere e il fotografo. Ma
avevano mangiato ali di pollo e patatine fritte e Runar aveva anche bevuto
una birra. Lui aveva sorriso. Lei aveva riso. Mamma aveva un buon profumo
di pulito.
Apatica, tirò fuori il cucchiaio e il Bunsen che Runar le aveva dato. Fra
poco si sarebbe sentita meglio. Fra pochissimo. Se solo le mani fossero state
un po’ piú accomodanti.
La sua mente intorpidita cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da
quando Runar era morto. 19+19? No. Sbagliato. Dal 19 al 19 c’erano trentun
giorni. O trenta? Non ricordava quanti giorni avesse il mese di novembre. E
neanche quanti giorni fossero passati dopo. Non riusciva nemmeno a
ricordare esattamente che giorno fosse.
L’unica cosa che sapeva con certezza era che Runar era morto il 19
novembre.
Lei era a casa. Lo stava aspettando. Runar aveva promesso di passare.
Doveva solo procurarsi dei soldi. Procurarsi l’eroina. Procurarsi tutto quello
di cui lei aveva bisogno: Runar avrebbe aiutato la sua sorellina, come aveva
sempre fatto.
Solo che era in ritardo. In maledetto ritardo. Poi era arrivata la pula.
Erano arrivati lí. Avevano suonato il campanello, la mattina prestissimo.
Quando Trude aveva aperto le avevano raccontato che quella notte Runar era
stato rapinato nel Sofienbergparken. Lo avevano ritrovato con delle gravi
ferite alla testa, presumibilmente era già morto. Qualcuno aveva chiamato
l’ambulanza e quando l’ambulanza era arrivata lui sicuramente era già morto.
La donna poliziotto aveva un’espressione grave e forse aveva anche
cercato di consolarla.
Lei ricordava solo di essersi ritrovata con un foglietto in mano. Il numero
di telefono e l’indirizzo di una agenzia di pompe funebri. Cinque giorni dopo
si era svegliata cosí tardi da capire subito che non ce l’avrebbe mai fatta ad
arrivare in tempo al funerale.
Dopodiché i poliziotti non avevano fatto piú niente.
Non avevano arrestato nessuno.
Non le avevano fatto sapere piú niente.
Quando svuotò la siringa in una vena del poplite quel bel calore si diffuse
con una tale rapidità da lasciarla senza fiato. Trude ricadde lentamente sul
divano verde. Le sue braccia scheletriche si strinsero intorno alla fotografia di
Runar. Il suo unico pensiero prima che ogni cosa si trasformasse in calde nubi
di nulla, fu che il fratello aveva dato a lei le ultime tre ali di pollo, il giorno in
cui aveva ricevuto il sacramento della confermazione e per la prima volta la
mamma gli aveva fatto bere una birra.
Alla polizia non importava di quelli come Runar.
Di quelli come lei e Runar.
Trude Hansen credeva che quel giorno fosse il 31 dicembre, ne era quasi
certa.
Nel minuscolo appartamento regnava ancora il caos: avanzi di cibo,
bottiglie vuote, vestiti sporchi, pezzetti di carta stagnola sparsi ovunque e, in
un angolo, un cartone di pizza che il gatto terrorizzato aveva usato per i suoi
bisogni. Adesso il povero animale se ne stava seduto sul davanzale di una
finestra a miagolare lamentoso.
− Vieni qui, Pusi! Dài, Pusi Pusi, vieni qui. Su, vieni dalla mamma!
Il gatto soffiò e inarcò la schiena.
− Non essere arrabbiato con la mamma, dài!
Aveva una voce dolce e acuta. Non ricordava se aveva dato da mangiare a
Pusi. Probabilmente no. Non oggi, almeno. Forse neanche ieri. No, neanche
ieri, perché si era cosí arrabbiata quando quello stupido animale aveva
pisciato sulla pizza.
− Micio micio…
Trude si allungò verso il gatto, che schizzò sul divano come un razzo
peloso e cominciò ad affilarsi gli artigli sui cuscini con movimenti ritmici e
regolari.
«Non può che essere il 31 dicembre», pensò Trude.
Cercò di aprire la finestra. Si era deformata e le si spezzò un’unghia, ma
alla fine ci riuscí, di colpo e con uno schianto secco. Una ventata di aria
gelida attraversò la stanza maleodorante e Trude si piegò sul davanzale,
sporgendo fuori il busto.
Sopra i palazzi verso oriente, quelle vecchie case che nascondevano il
Sofienbergparken, vide i fuochi d’artificio. Sfere di luce rossa e verde
scendevano piano verso terra mentre il cielo era illuminato da fontane
luminose. L’odore di polvere pirica si era già diffuso per le strade. Lei
adorava l’odore lasciato dai fuochi d’artificio. Per fortuna c’era sempre chi
non riusciva a trattenersi fino a mezzanotte.
Le restava soltanto una dose. L’aveva tenuta da parte per la sera: il giorno
era stato sopportabile grazie a una bottiglia di superalcolico che qualcuno
aveva nascosto sotto il letto.
Difficile dire che ora fosse.
Proprio mentre stava per chiudere la finestra ecco che Pusi sgusciò fuori. Il
gatto avanzò rapido lungo lo stretto cornicione, poi, un paio di metri piú in là,
si accoccolò e cominciò a miagolare.
− Pusi, vieni qui! Su, Pusi, vieni dalla mamma!
Pusi iniziò a lavarsi leccandosi il pelo con meticolosità. Ritmicamente,
ogni quattro leccate si passava una zampa dietro l’orecchio.
− Pusi! – farfugliò Trude con tutta la severità di cui era capace,
allungandosi verso il gatto. – Vieni subito qui!
Sentí di aver perso il contatto con il pavimento. Se si fosse tenuta bene al
telaio fra i due rettangoli inferiori di quella vecchia finestra divisa in quattro,
sarebbe forse riuscita a stendere l’altro braccio abbastanza da afferrare il gatto
per la collottola. Si aggrappò con le dita alla struttura in legno. Il vento gelido
le soffiava sulle braccia nude, e Trude cominciò a battere i denti.
− Pusi! – fece in tempo a dire per un’ultima volta, poi perse l’equilibrio e
cadde.
Dato che abitava al terzo piano e che quando era precipitata aveva toccato
l’asfalto con la testa e con la spalla sinistra, era morta sul colpo. La polizia era
stata avvisata immediatamente da un uomo che se ne stava alla finestra a
fumarsi una sigaretta dalla parte opposta della strada. Considerando che quel
tizio era stato in grado di raccontare l’accaduto e che la porta
dell’appartamento vuoto di Trude era chiusa dall’interno con una catenella di
sicurezza, non si trovò alcuna ragione per compiere ulteriori indagini. Si era
trattato di un incidente. Un incidente fortuito.
Il 31 dicembre 2008, mezz’ora prima che i festeggiamenti per il nuovo
anno avessero inizio, non era rimasta una sola persona al mondo che potesse
offrire un pensiero a Runar Hansen. Era stato ucciso in un parco nella zona
orientale della città il 19 novembre, a quarantun anni. Dopo la morte della
sorella, di lui non restava nemmeno un vago ricordo annebbiato dalla droga.
E non c’era piú nessuno che si curasse nemmeno di Pusi, rimasto sul
cornicione.
− Non so se sia stato corretto da parte mia informarti. A dire la verità non
ci sono segni di effrazione e il preside non vorrebbe mettere di mezzo la
polizia. È solo che io…
− Potresti raccontarmi, − la interruppe Johanne, poi tossí e disse: − Potresti
raccontarmi di nuovo tutto dall’inizio?
Cercò una posizione comoda sulla sedia per smettere di agitarsi.
− Sí, dunque…
La vicepreside Live Smith si passò una mano tra i folti capelli grigi. Già
quando l’aveva raggiunta nel corridoio della scuola e le aveva chiesto di
seguirla nel suo ufficio non sembrava molto convinta di quel che stava
facendo. Adesso era come se ne fosse pentita e volesse chiudere al piú presto
la faccenda.
− Dal momento che in effetti siamo una scuola speciale, − disse con una
certa esitazione, − per ogni bambino abbiamo una documentazione piuttosto
consistente. Come ben sai, i nostri allievi presentano delle tipologie di
disabilità anche molto diverse fra loro, e quindi per massimizzare l’offerta
formativa del singolo…
− Conosco questa scuola e so che cosa offre, − la interruppe Johanne, −
visto che mia figlia la frequenta.
La sua voce era quella di un’estranea. Dura e piatta. Tossí di nuovo e
dovette prendere il bicchiere d’acqua che aveva davanti nonostante le
tremassero le mani.
− Tutto bene?
Live Smith stava fissando la striscia d’acqua che colava sul maglione di
Johanne.
Johanne posò il bicchiere.
− Ho solo la gola un po’ secca. Starò covando qualche malanno. Dimmi
pure.
Si costrinse a un sorriso e fece un movimento rotatorio e impaziente con la
mano. Live Smith si sistemò la giacca, si ravviò i capelli dietro le orecchie e
disse risentita: − Sei stata tu a chiedermi di raccontarti di nuovo tutto
dall’inizio.
− Sí, scusa, potresti semplicemente…
− Be’… per farla breve, quando sono venuta qui venerdí scorso, per
organizzare la riapertura della scuola, ho avuto la sensazione che ci fosse
entrato qualcuno.
Indicò l’ufficio con un gesto della mano. Era un locale spazioso con un
archivio addossato a una delle pareti lunghe; su quella stessa parete c’era una
porta che conduceva a una stanza piú piccola che si poteva chiudere a chiave.
Per il resto i muri erano tappezzati di variopinti disegni fatti dai bambini e
racchiusi dentro cornici dell’Ikea. Le tende erano di un rosso sgargiante a pois
gialli e ondeggiavano lievi all’aria calda che saliva dal termosifone sotto la
finestra.
− Ho avuto la sensazione di qualcosa di estraneo… C’era un… un odore
diverso, forse… Anzi, no. Piuttosto, era come se ci fosse un’atmosfera
diversa.
Sembrava imbarazzata. Sorrise prima di aggiungere: − Sai…
Johanne sapeva.
− Non che io creda nel soprannaturale, − disse Live Smith e sorrise di
nuovo, sulla difensiva, − ma anche tu avrai provato quella sensazione come
di…
− Non c’è niente di soprannaturale, − la interruppe Johanne. – Al contrario.
È una delle capacità piú raffinate di cui siamo dotati. L’inconscio registra cose
che noi non sempre riusciamo a far emergere. Potrebbe trattarsi di un oggetto
che è stato spostato, per esempio. Oppure, come hai detto tu, è possibile che
sia rimasto nell’aria un odore quasi impercettibile. Quanto piú abbiamo
sperimentato, tanto piú le esperienze che abbiamo accumulato sono in grado
di raccontarci quello che a prima vista non sappiamo definire. Alcune persone
sono piú brave di altre a capire le proprie sensazioni.
Riuscí finalmente a bere un po’ di acqua.
− A volte loro stesse si definiscono chiaroveggenti, − aggiunse.
Il sarcasmo rallentò i battiti troppo rapidi del suo cuore.
− E poi questa cosa del fascicolo, − disse Live Smith.
Di nuovo un fugace sorriso ad accompagnare ogni frase, come se la
vicepreside cercasse di sminuirsi. Di sminuire ciò che la preoccupava. Come
se non bisognasse prenderla troppo sul serio. A Johanne in un’altra situazione
sarebbero venuti i nervi per quella gestualità tipicamente femminile, ma al
momento era tutta concentrata sul mantenere la voce ferma.
− Il fascicolo su Kristiane, − disse annuendo.
− Sí, il fascicolo è…
Live Smith inspirò e si bloccò, come in cerca dell’espressione meno grave
da utilizzare. Sparito. Andato perduto. Rubato.
− … forse è stato solo scambiato di posto, − concluse infine.
Ma i suoi occhi dicevano tutt’altro.
− Come lo hai scoperto?
− Stavo prendendo un fascicolo diverso dallo stesso cassetto e mi sono
accorta che non era chiuso a chiave. Il cassetto, voglio dire. Non che fosse
forzato o cose del genere, semplicemente non era chiuso a chiave. Mi sono
arrabbiata con me stessa, perché a quanto mi ricordavo ero stata io l’ultima a
chiudere tutto a chiave prima delle vacanze di Natale. Ci sono anche dei dati
riservati di carattere medico, e io…
Al sorriso questa volta seguí una leggera alzata di spalle.
Johanne non disse nulla.
− Dal momento che non c’erano segni di effrazione né sulla porta, né su
armadio e cassetti, ho pensato che si trattasse di una mia dimenticanza. Per
sicurezza ho controllato comunque che fosse tutto a posto. E lo era. Tutto
tranne il…
− Tranne il fascicolo su Kristiane.
− Esatto.
Johanne sentí l’impulso quasi irresistibile di cancellare quel sorriso dalla
faccia della vicepreside.
− Perché non volete fare denuncia alla polizia? – chiese invece.
− Il preside sostiene che non può esserci stata alcuna effrazione. Niente è
stato rovinato. Non ci sono segni sulle porte, per lo meno non visibili a occhio
nudo. Non è stato rubato nulla. Non che ci siano cose di grande valore in
questa stanza, solo il computer, forse.
Rise. Una risatina forzata ad alta voce.
«E la mia bambina?» pensò Johanne. La vita di Kristiane, tutti i suoi
esami, le diagnosi e le non-diagnosi, le cure mediche e gli errori, gli sviluppi e
le devianze. L’intera vita di sua figlia era stata fiduciosamente registrata e
raccolta in un fascicolo messo insieme nel corso di anni e che ora non c’era
piú.
− A dire il vero i fascicoli dei bambini sono un tantino piú importanti del
suo computer, − commentò Johanne.
Finalmente quel sorriso si spense.
− Ovvio, − disse Live Smith. – Anche per questo mi è sembrato giusto
avvisarti. Forse però ha ragione il preside e si tratta di un mio errore. Vedrai
che il fascicolo spunterà fuori oggi stesso. Ho solo pensato che… vista la
sensazione che ho avuto, e dato che tu lavori in polizia…
− Io non lavoro in polizia. Sono assunta dall’Università.
− Sí, certo. È tuo marito che lavora in polizia, il padre di Kristiane.
Johanne non aveva voglia di rettificare un’altra volta. Si alzò dalla sedia e
lanciò un’occhiata alla stanza sul retro adibita ad archivio.
− Hai fatto bene ad avvisarmi, − disse. – Potrei vedere l’archivio?
− L’archivio?
− L’archivio, sí.
− A dire il vero solo il preside e io possiamo… Come ti ho detto, abbiamo
regole molto severe in fatto di…
− Voglio guardarlo e basta! Non toccherò nessun fascicolo!
La vicepreside si alzò. Senza una parola andò alla porta, scelse la chiave
giusta dal grosso mazzo che aveva e aprí. Tastò la parete interna accanto allo
stipite di sinistra. Sul soffitto un neon dalla luce intensa crepitò e lampeggiò
per poi finalmente assestarsi su un costante ronzio ad alta frequenza.
− È quello lí, − disse succinta, indicando con un gesto della mano.
Due delle pareti erano completamente occupate da armadi, grigi armadi
metallici smaltati con ante. Johanne osservò quello che la vicepreside le aveva
indicato. La serratura sembrava piuttosto robusta. Lei si avvicinò ancor di piú,
sbirciò da sopra gli occhiali.
− C’è un piccolo graffio, qui, − disse dopo qualche secondo. – È nuovo?
− Un graffio? Fammi vedere.
Insieme si misero a studiare la serratura.
− Io non vedo niente, – disse Live Smith.
− Qui, − insistette Johanne, puntandoci sopra una penna. – Un po’ di
traverso. Vedi?
Live Smith si chinò in avanti. Quando strizzava gli occhi il labbro
superiore si contraeva facendola somigliare a un topolino zelante.
− No…
− Ma sí, qui.
− Io non vedo niente!
Johanne sospirò e si raddrizzò.
− Potresti aprirlo, per favore? – le chiese.
Questa volta Live Smith cedette senza alcuna discussione. Il grosso mazzo
di chiavi tintinnò di nuovo e qualche secondo dopo l’anta si aprí. L’interno era
suddiviso in sei cassetti, ognuno dotato di una propria chiave e serratura.
− Questo è il cassetto in cui era conservato il fascicolo di Kristiane, − disse
la vicepreside indicando quello piú in alto.
Pur con tutta la sua buona volontà, Johanne non riuscí a scovare alcuna
traccia di effrazione. Osservò quella piccola serratura da ogni lato. L’armadio
era vecchio, sí, con qualche graffio sullo smalto qua e là, ma la serratura
sembrava intatta.
− Grazie, − mormorò.
Live Smith richiuse a chiave.
− Ecco, − disse sollevata. – Mi dispiace davvero tanto averti allarmata
senza motivo.
− No, no, − ribatté Johanne con un sorriso forzato. – L’ho detto e lo ripeto,
è sempre meglio essere previdenti. Grazie.
Aveva ormai raggiunto la porta quando si rese conto di avere ancora
addosso il giaccone. Sentiva molto caldo, stava quasi sudando.
− Avvisami se il fascicolo salta fuori, − le disse.
− Quando salterà fuori, − la corresse con una risata la vicepreside. –
Naturalmente. Fra l’altro, volevo anche dirti che è davvero una gioia vedere i
grandi progressi di Kristiane.
Fu come se quella donna di mezza età fosse andata incontro a un
cambiamento di personalità. Niente piú sorrisi sciocchi. E le mani, che fino a
quel momento avevano giocherellato nervosamente con i capelli ravviandoli
dietro le orecchie, rimasero tranquille, posate in grembo quando si sedette.
Johanne restò in piedi.
− È una ragazza affascinante, − proseguí Live Smith. – Come ne abbiamo
tante qui, certo, ma la cosa davvero speciale di Kristiane è l’imprevedibilità
nella sua grande prevedibilità. Abbiamo avuto molti autistici in questa scuola,
ma…
− Kristiane non è autistica, − disse rapida Johanne.
Live Smith si strinse nelle spalle.
Ma non sorrise.
− Autistici, afflitti da sindrome di Asperger o semplicemente… speciali.
Ha ben poca importanza come si decide di chiamarli. Quello che volevo dire è
che siamo molto felici di averla qui. Ha una straordinaria capacità di
apprendimento, non semplicemente di memorizzazione. Riesce a fare delle
domande che lí per lí sembrano le piú impensabili, ma che poi, però, valutate
in base alle premesse che lei stessa ha posto, risultano di una logica
impressionante.
E questa volta il suo fu un sorriso autentico. Rise addirittura, una risata
gioiosa e trillante che Johanne non le aveva mai sentito fare. Per saperne cosí
poco della famiglia, quella donna conosceva Kristiane benissimo.
− Ma tu tutto questo lo sai già. Volevo semplicemente farti capire che non
sono solo gli insegnanti che lavorano piú a stretto contatto con tua figlia a
essersi affezionati a lei. Tutti noi siamo contenti di prenderci cura di Kristiane
e impariamo da lei qualcosa di nuovo ogni giorno.
Johanne si sistemò la sciarpa. Quando si passò la lingua sul labbro
superiore sentí sapore di sale.
− Grazie, − disse in tono pacato.
− Sono io che dovrei ringraziare. Ho il piú bel lavoro possibile e
immaginabile, e sono i ragazzi come tua figlia a farmi sentire grata per ogni
giorno che passo qui a scuola. Sono cosí tanti i nostri bambini che incontrano
ostacoli ovunque. Capita che facciano tre passi avanti e due indietro. Ma non
Kristiane.
− Devo andare, − disse Johanne.
− Ma certo. Conosci la strada, vero?
Johanne annuí e aprí la porta. Quando se la richiuse alle spalle, sentí un
odore di sapone in pasta stuzzicarle le narici. Percorse a passo rapido il lungo
corridoio, con gli stivaletti che ticchettavano sul linoleum appena lucidato.
Quando finalmente raggiunse le grandi porte a vetro dell’ingresso, non le
sembrò vero di poterle spalancare.
Il freddo dell’inverno la investí, adesso riusciva a respirare meglio.
Rallentò e cacciò le mani nelle tasche del giaccone. Come al solito
Kristiane aveva insistito per parcheggiare a qualche centinaio di metri dal
cortile della scuola, in modo da poter fare a piedi esattamente lo stesso
percorso di sempre.
L’atteso cambiamento atmosferico era arrivato.
Il freddo secco e prolungato aveva indurito il suolo preparandolo all’arrivo
dei fiocchi di neve asciutta e leggera che adesso stavano imbiancando l’intera
regione dell’Østlandet. Negli ultimi giorni delle vacanze scolastiche, le piste
da sci nei polmoni verdi che la capitale aveva ancora i mezzi per mantenere
erano tutte un brulicare di ragazzi e genitori coi figli piccoli. Sulle piste da
slittino veniva sparata ogni giorno neve farinosa. I campi da calcio, coperti di
ghiaccio, erano attraversati in lungo e in largo da grandi e piccini muniti di
badili e vanghe. Non era solo la città a essere diventata piú luminosa grazie al
suo manto bianco, era come se tutti i suoi abitanti avessero tirato un collettivo
sospiro di sollievo vedendo che la natura presentava il certificato di avvenuta
guarigione. Almeno per la stagione in corso.
Johanne si avvolse meglio la sciarpa intorno al collo per proteggersi dalla
neve e cercò di pensare in modo razionale.
Con grande probabilità il fascicolo era semplicemente finito nel posto
sbagliato.
Solo che lei non riusciva a crederci.
– Merda, − borbottò. – Merda merda merda.
Non capiva perché si sentisse cosí inquieta. Sí, lei era piú o meno sempre
preoccupata per Kristiane, ma questa volta stava davvero esagerando.
Scambiato di posto, aveva detto Live Smith.
Accelerò.
Una nuova e spaventosa angoscia la attanagliava. L’aveva assalita per la
prima volta quando aveva visto quell’uomo al di là della staccionata del loro
giardino. L’uomo che loro non sapevano chi fosse, ma che chiamava Kristiane
per nome. L’unica certezza riguardo alla costante inquietudine che l’aveva
tormentata da quel momento in poi era non avere nessuno con cui
condividerla. Isak trattava Kristiane come se fosse una bambina forte e
normale e spazzava via con una risata qualunque preoccupazione. Yngvar
aveva sempre consolato Johanne in precedenza, per lo meno nei momenti
peggiori. Adesso però era diventato meno paziente. L’espressione rassegnata
che gli si dipingeva in viso ogni volta che lei accennava al fatto che qualcosa
nella figlia non era come avrebbe dovuto la spingeva sempre piú spesso a
tacere. Aveva letto troppo, questo si diceva per tranquillizzarsi. Tutte le
conoscenze che aveva acquisito nel corso degli anni trascorsi con Kristiane si
erano trasformate in un fardello. Se Ragnhild sapeva già che gli sconosciuti
potevano rappresentare un pericolo, Kristiane da questo punto di vista era
spesso totalmente incapace di discriminare. Sarebbe stata in grado di
andarsene con chiunque.
Maniaci sessuali.
Ladri di organi.
Johanne non doveva pensarci. C’era sempre qualcuno a prendersi cura di
Kristiane, sempre.
Era quasi arrivata alla macchina. Non era trascorsa neanche un’ora da
quando aveva parcheggiato, eppure l’auto era completamente ricoperta di
neve. Oltretutto era anche passato uno spazzaneve che ne aveva lasciato un
cumulo alto un metro fra la vecchia Golf e un’angusta strada a senso unico.
Johanne si fermò. Non aveva la vanga nel bagagliaio. E aveva anche
dimenticato i guanti nell’ufficio della vicepreside.
Per la prima volta osò formulare il pensiero che l’ossessionava: qualcuno li
teneva d’occhio.
Anzi, non li teneva d’occhio, ma la teneva d’occhio.
Kristiane.
La famiglia Vik Stubø non aveva mai avuto tende alle finestre del
soggiorno. Poter essere visti dalla strada non li imbarazzava, e senza tende la
stanza era molto piú luminosa. Negli ultimi giorni, però, lei aveva cominciato
a chiedersi come sarebbe stato avere un tessuto leggero davanti ai vetri. Una
protezione dagli sguardi di chi si muoveva fuori, da coloro che lei non
conosceva ma che c’erano. La sua parte razionale sapeva che un uomo al di là
della staccionata di un giardino, un tizio gentile in un negozio di peluche e un
fascicolo scolastico andato smarrito non costituivano affatto una
persecuzione. Il suo intuito però le diceva tutt’altro.
Furiosa, a mani nude, cominciò a spazzare via la neve dall’automobile. Le
dita si intorpidirono quasi subito, ma non si fermò prima di aver liberato tutta
la macchina. Poi cominciò a demolire a pedate il mucchio compatto lasciato
dallo spazzaneve. Le bruciavano le dita dei piedi e le dolevano le anche
quando decise che sarebbe bastato per uscire dal parcheggio.
Si accomodò sul sedile anteriore, infilò la chiave nel quadro di accensione
e la girò. Andò anche troppo su di giri e si immise nella carreggiata,
schiacciando la neve che non aveva spazzato via. Cambiò marcia e proseguí
al doppio della velocità consentita. Arrivata al primo incrocio si rese conto di
quello che stava facendo e frenò di colpo, appena in tempo per evitare la
collisione con un furgone proveniente dalla sua destra.
Per un poco restò lí, china in avanti, le mani posate sul volante.
L’adrenalina rese limpidi i suoi pensieri e in uno sprazzo vide l’assurdità di
credere che qualcuno potesse avere interesse a tenere d’occhio una strana
quattordicenne del quartiere di Tåsen.
Non appena rimise in moto, si sentí inquieta esattamente come prima.
La neve che cadeva fitta attutiva ogni rumore. Era come se la pace dei
giorni di festa aleggiasse ancora sul quartiere. Rolf Slettan aveva deciso di
tornare a casa a piedi dal lavoro, anche se ci voleva un’ora e mezza dalla
clinica veterinaria a Skøyen fino a casa loro a Holmenkollåsen. I marciapiedi
erano coperti da un metro circa di neve fresca e l’ultimo paio di chilometri
aveva dovuto percorrerlo camminando nella stretta striscia di asfalto liberata
dallo spazzaneve al centro della via. Le rare automobili che di tanto in tanto
passavano slittando lo costringevano ogni volta ad arrampicarsi sui cumuli
ancora candidi che fiancheggiavano la strada. Aveva il fiatone ed era sudato
fradicio. Ma dopo l’ultima curva si mise a correre.
Da quella distanza la casa sembrava una scena tratta da un film nazista. La
neve bianca sopra il portale sporgeva da entrambi i lati, coprendo in parte il
motto «Casa dolce casa» inciso a caratteri grossolani. Enormi cumuli di neve
si erano depositati in tutto il cortile, che fra qualche ora avrebbe avuto
bisogno di un’ulteriore ripulita.
Si fermò nella piazzola davanti al portale.
Marcus non poteva essere già tornato. Uno strato di neve intatta, spesso
una decina di centimetri, testimoniava che da un pezzo nessuno passava di lí.
Lillemarcus era da un compagno di scuola e non sarebbe rientrato prima delle
otto. La casa era silenziosa e buia, ma le numerose lampade da esterno in
ferro battuto erano piacevolmente illuminate e facevano risplendere la neve. Il
tetto coperto di torba era scomparso sotto la coltre bianca. Era come se le due
teste di drago che sporgevano pesanti alle estremità potessero librarsi da un
momento all’altro e volare via sulle loro nuove ali candide.
Rolf si stava spazzando via la neve dai pantaloni quando l’impronta di uno
pneumatico attirò la sua attenzione. Un veicolo aveva svoltato e si era fermato
nella piazzola davanti al portale, lasciando un profondo solco a forma di arco.
Non poteva essere successo da molto. Rolf si accovacciò e si accorse che si
intravedeva ancora il disegno del battistrada. Pensò che si trattasse di
qualcuno che aveva accostato per invertire la marcia. Si alzò e seguí con gli
occhi le tracce dei copertoni che si allontanavano per poi reimmettersi nella
via.
Strano.
Fece qualche passo, con prudenza, per non rovinare le impronte che, di
colpo, si fecero meno nitide; dopo un altro mezzo metro diventarono quasi
invisibili, riducendosi a un vago accenno che proseguiva fino in strada.
Rolf si voltò e si mise a seguirle dalla parte opposta. Erano ben visibili,
come quelle nella piazzola. Con una inquietudine che non sapeva spiegarsi
bene nemmeno lui tornò fin dove le tracce avevano inizio e le seguí
cautamente fino alla piccola piazzola e da lí in avanti fino al punto in cui si
mescolavano con i solchi che altri pneumatici avevano scavato sulla via. Non
c’erano cumuli di neve lasciati dagli spazzaneve a separare la strada dalla loro
proprietà. Rolf e Marcus avevano affidato quel compito a una ditta che due
volte al giorno mandava un trattore. E il trattore, verosimilmente, era passato
subito dopo lo spazzaneve.
Non riusciva nemmeno lui a capire esattamente che cosa stesse cercando.
All’improvviso si rese conto che il veicolo in questione doveva essersi
fermato. Doveva essere stato lí per un pezzo, anche se era vero che aveva
nevicato a lungo. La differenza di profondità fra le impronte era notevole.
Dalla larghezza del battistrada ne dedusse che doveva trattarsi di
un’automobile. Di certo non di un furgone, né di un mezzo ancora piú grande.
Mentre risaliva la strada, probabilmente l’automobile aveva accostato e si era
trattenuta nella piazzola per un po’. La neve cadendo si era accumulata dietro
le ruote posteriori, mentre le tracce al riparo della macchina erano rimaste ben
piú visibili rispetto a quelle arretrate.
Tutt’a un tratto Rolf udí il rumore di un motore che si accendeva. Alzò gli
occhi e si girò giusto in tempo per vedere una macchina piú in su, all’altezza
della fermata dell’autobus dove la via curvava verso est, che si scostava dal
ciglio della strada e si immetteva sulla carreggiata. La neve che cadeva e la
luce fioca del crepuscolo gli impedivano di leggere la targa. D’istinto si mise
a correre, ma prima che avesse percorso quei cinquanta metri l’automobile era
già sparita. Scese di nuovo il silenzio. L’unica cosa che si sentiva era il respiro
di Rolf che, piegato sui talloni, scrutava le impronte. Fiocchi leggeri di neve
danzavano nell’aria e scendevano a posarsi sul disegno di quel battistrada che
gli era familiare. Rolf tirò subito fuori il cellulare, attivò la macchina
fotografica e scattò. Era cosí buio che il flash si azionò in automatico.
− Pezzi di merda, − mormorò. Poi tornò indietro di corsa, con il telefono
stretto in mano.
La tranquilla strada secondaria che si inerpicava verso la cintura boschiva
intorno a Oslo non era certo un’arteria di passaggio. I terreni adiacenti alle
abitazioni erano molto ampi, e le ricche case della zona sorgevano sparse qua
e là, ben lontane da sguardi indiscreti. Nell’ultimo periodo l’area era stata
oggetto di un’ondata di furti con scasso. Tre vicini erano stati ripuliti ben bene
nel periodo natalizio, mentre si trovavano in vacanza, nonostante gli allarmi e
i controlli delle società di vigilanza. Secondo la polizia, si trattava di
professionisti. Quattro settimane prima la famiglia che abitava in fondo alla
strada era stata vittima di una rapina. Tre uomini si erano introdotti in casa in
piena notte e avevano preso il padre in ostaggio, costringendo il figlio, un
ragazzo di diciannove anni, a seguirli fino a Majorstua per prelevare tutto il
possibile dai quattro bancomat e dalle tre carte di credito che si erano
procurati minacciando e sparando contro una preziosa opera d’arte.
Le tracce nelle vicinanze del portale erano ancora ben visibili. Rolf Slettan
cercò di tenere il cellulare alla stessa distanza dal suolo e scattò un’altra
fotografia. Le avrebbe scaricate sul computer e ingrandite per confrontarle.
Nel momento in cui si cacciò in tasca il telefonino, si accorse di un mozzicone
di sigaretta. Prima probabilmente era nascosto dalla neve, e adesso era tornato
visibile in una delle orme lasciate dai suoi stivali. Si chinò e cominciò a
raschiare con grande cautela la neve all’interno dell’impronta. Saltò fuori un
secondo mozzicone. Poi un terzo. Quando osservò il primo alla luce di uno
smorto lampione, non notò nulla di particolare. Nemmeno la marca era
leggibile.
Tre sigarette. Rolf aveva smesso da molti anni, ma ricordava ancora che
per fumarne una ci volevano all’incirca sette minuti. Sette per tre ventuno.
Nel caso in cui il guidatore si fosse acceso una sigaretta dopo l’altra sarebbe
rimasto lí per quasi mezz’ora.
Secondo la polizia si trattava di malfattori provenienti dall’Europa dell’Est.
I giornali avevano allertato la popolazione a tenere gli occhi aperti: a quanto
pareva, infatti, la banda o le bande si informavano dettagliatamente prima di
colpire. I mozziconi potevano valere come prova.
Rolf li infilò con cura in uno dei sacchetti neri di plastica che portava
sempre con sé per raccogliere gli escrementi canini. Poi se lo mise in tasca e
si incamminò verso casa.
Avrebbe telefonato subito alla polizia.
Il cellulare si era spento senza alcun motivo. Forse erano state le bambine.
A ogni modo non aveva ricevuto il messaggio di Yngvar. Al rumore dei passi
sulle scale si irrigidí, poi sentí quella voce familiare: − Sono io, sono tornato!
− Lo vedo, − ribatté Johanne con un sorriso e gli accarezzò una guancia
quando lui la baciò. – Ma non dovevi andare a Bergen?
− Sono andato a Bergen, ma visto che c’è tutta una serie di cose su cui
posso lavorare anche da qui, ho preso il volo del pomeriggio e sono tornato.
Mi fermo per tutta la settimana, credo.
− Che bello! Hai fame?
− Ho già mangiato. Non hai ricevuto il mio messaggio?
− No. Il cellulare ha qualcosa che non va.
Yngvar si sfilò la cravatta dopo aver armeggiato con il nodo cosí a lungo
che alla fine Johanne si era offerta di aiutarlo.
− Dovrebbero sparare al tizio che ha inventato questo stupido accessorio, −
borbottò lui. – E questa che roba è?
Corrugò la fronte e con il capo accennò alle pile di documenti e libri,
riviste e fogli sparsi sul divano e che ricoprivano quasi per intero il tavolino
da salotto. Johanne sedeva là in mezzo nella posizione del loto, con gli
occhiali sul naso e un boccale da birra pieno di tè fumante in mano.
− Mi avvicino all’odio, − rispose lei con un sorriso. – Sto studiando l’odio.
− Dio mio, − gemette lui. – Come se non ne avessi abbastanza di cose del
genere, visto il lavoro che faccio. Che cosa stai bevendo?
− Tè. Due parti di Lady Grey, una parte di China Pu-Erh. Ce n’è ancora nel
thermos in cucina, se ne vuoi un po’.
Yngvar si tolse le scarpe senza usare le mani e andò a prendere una tazza.
Johanne chiuse gli occhi. L’inspiegabile inquietudine che l’aveva assalita
era ancora lí, dentro di lei, ma trascorrere un rumoroso pomeriggio con le
bambine le era stato d’aiuto. Ragnhild, che avrebbe compiuto cinque anni il
21 gennaio e quasi non parlava d’altro, aveva organizzato le prove generali
del compleanno per tutti i suoi orsacchiotti e le sue bambole. A cena Johanne
e Kristiane avevano mangiato con in testa un berretto che Ragnhild aveva
preparato appiccicando adesivi di Hannah Montana su due paia delle sue
mutandine. Kristiane aveva tenuto una lunga conferenza sulla rivoluzione dei
pianeti intorno al Sole e concluso il tutto dichiarando che lei da grande
avrebbe fatto l’astronauta. Dal momento che il concetto di tempo di Kristiane
poteva essere un tantino ostico e che raramente le capitava di interessarsi a
qualcosa per piú di due o tre giorni consecutivi, Johanne presa
dall’entusiasmo aveva tirato fuori tutti i libri di quando era piccola e nutriva
lo stesso identico sogno.
Una volta messe a letto le bambine, l’inquietudine era tornata.
Per tenerla in scacco aveva deciso di lavorare.
− Racconta, dài, − le disse Yngvar mentre si accomodava in poltrona.
Teneva la tazza a pochi centimetri dal mento, lasciando che il vapore gli si
posasse sulla pelle come una maschera idratante.
− Che cosa?
− Dell’odio.
− Ne sai sicuramente piú tu di me.
− Su, non scherzare. Mi interessa davvero. Che cosa fai?
Johanne bevve un sorso dal boccale. La miscela di tè era rinfrescante e
leggera, con un odore asprigno.
− Pensavo, − rispose adagio, poi fece una breve pausa. – Pensavo di
avvicinarmi al concetto di odio dall’esterno. Di esaminarlo anche dall’interno,
ovviamente, ma credo che per dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio e su
chi li commette sia necessario approfondire il concetto di odio. Con tutti
questi soldi che improvvisamente si sono riversati su di noi…
Sollevò lo sguardo, come se stesse visualizzando i propri pensieri.
− … forse potrei coinvolgere la ragazza di cui ti ho parlato.
− Quale ragazza?
− Charlotte Holm. Studiosa di Storia delle idee. Te l’ho raccontato che ha
scritto… – si diede una rapida occhiata intorno, poi tirò fuori un libriccino e
lo sollevò.
− Amore e odio: un’analisi dal punto di vista della storia delle idee, −
lesse lentamente Yngvar.
− Interessante, − commentò lei, e posò il libriccino. – Ho parlato con
l’autrice ed è probabile che inizierà a collaborare con noi già da febbraio.
− Per cui in quanti sareste, inclusa lei? – chiese Yngvar con la fronte
aggrottata, come se il pensiero che un gruppo di ricercatori potesse usare i
soldi dei contribuenti per immergersi nell’odio lo rendesse profondamente
scettico.
− Quattro. Forse. Sarà divertente. Ho sempre lavorato piú o meno da sola,
finora. E tutto questo…
Sollevò un foglio con una mano e con l’altra descrisse un arco come ad
abbracciare le scartoffie che la circondavano.
− È tutto odio legale. L’odio verbale protetto dalla libertà di espressione.
Dal momento che le ragioni dell’odio espresso nei confronti delle minoranze
di solito coincidono ad arte con i moventi di quella che senza dubbio si
configura come criminalità d’odio, ritengo interessante esaminare i punti di
contatto. Capire dov’è il confine.
− Il confine?
− Quali affermazioni si possono considerare come libertà di espressione e
fino a che punto.
− Credo quasi tutte.
−Sí. Purtroppo.
− Purtroppo? Dovremmo ringraziare di poter dire quello che ci pare e
piace, in questo Paese!
− Certo. Ma ascolta un attimo…
Johanne raccolse meglio le gambe sotto di sé. Yngvar la guardava.
Quand’era arrivato a casa aveva piú che altro una gran voglia di tuffarsi a
letto, nonostante non fossero nemmeno le dieci. Era estenuato da una giornata
troppo lunga e troppo improduttiva, ma adesso non sentiva alcun bisogno di
dormire. Con il passare degli anni lui e Johanne avevano finito per sviluppare
un modello di convivenza in cui quasi tutto ruotava intorno al lavoro di lui,
alle preoccupazioni di lei e alle bambine. Quando l’aveva vista cosí, immersa
in un mare di carte, e non l’aveva sentita nominare le figlie neanche una volta,
si era ricordato in un lampo di essere innamorato pazzo di lei.
− La libertà di espressione è molto ampia, − disse Johanne cercando un
articolo in quel caos. – E cosí dev’essere. Ma com’è noto ha una serie di
limitazioni. La piú interessante è quella contenuta nel paragrafo 135a del
codice penale. Senza stare ad annoiarti con troppa giurisprudenza, volevo
solo…
− Non mi annoi. Mai.
− Oh, sí.
− Non adesso, per lo meno.
Un fugace sorriso, poi lei proseguí: − Alcuni, pochi, sono stati condannati
per aver violato la legge. Pochissimi. La questione controversa, o forse dovrei
parlare piuttosto di una questione di priorità, va considerata in rapporto alla
libertà di espressione. E a giudicare dalle carte che mi circondano… – allargò
le braccia rassegnata prima di riuscire finalmente a trovare il libro che stava
cercando, − è proprio la libertà di espressione a predominare. Punto.
− È ovvio, − disse Yngvar. – Per fortuna. In fondo siamo una società
moderna.
− Ma che moderna e moderna. Mi sono immersa in tutto quello che questi
omofobi idioti hanno detto negli ultimi…
− Non è che siano proprio scientifiche, le tue osservazioni.
Lei si interruppe, espirò a fondo e incrociò le mani dietro la nuca.
− In questo esatto istante neanch’io mi sento molto scientifica. Sono
stanca. Rassegnata. Perché la definizione di crimine d’odio risulti appropriata
non basta che il colpevole odi la vittima in quanto individuo. L’odio
dev’essere rivolto contro la vittima in quanto rappresentante di un gruppo. E
se c’è qualcosa che mi riesce davvero difficile concepire è l’odio nei confronti
di un gruppo in una società come quella norvegese. A Gaza sí, posso capirlo.
A Kabul. Ma qui? Nella sicura e socialdemocratica Norvegia?
Si riempí la bocca di tè e aspettò qualche secondo prima di inghiottirlo.
− Ho passato due mesi a leggermi e rileggermi le dichiarazioni pubbliche
su musulmani, neri e altre minoranze etnico-culturali. È «pensiero di gruppo»
del peggior tipo. Tutta una contrapposizione continua fra «noi» e «loro».
Le sue dita mimavano le virgolette.
− Alle fine mi è venuta la nausea. La nausea, Yngvar! Non so come faccia
una normalissima madre musulmana norvegese, o perché no un padre, a
dormire sonni tranquilli. E chissà come si sentono la sera, quando preparano i
bambini e li mettono a letto e gli leggono la storia della buona notte,
conoscendo le schifezze che la gente dice e scrive su di loro, le opinioni che
circolano su di loro, i sentimenti…
Socchiuse gli occhi e si tolse gli occhiali.
− È come se fosse diventato tutto legale, − disse. – E quasi tutto dovrebbe
esserlo, chiaro. La libertà politica di espressione in Norvegia rasenta
l’assoluto. La cultura dell’espressione, invece…
Alitò sulle lenti e le pulí con un lembo della camicia.
− Mi dispiace, − disse con un sorriso a labbra strette. – È solo che sarei
preoccupata a morte, io, se sapessi di appartenere a una minoranza malvista e
avessi dei figli.
Yngvar rise sommessamente.
− In questo senso, di sicuro avresti molto da imparare. Sulle
preoccupazioni per i figli, intendo. Ma…
Si alzò e spinse la tazza di tè dal lato opposto del tavolino. Raccolse i libri
e i fogli che si trovavano vicino a Johanne e li spostò all’estremità del divano,
poi si sedette accanto a lei. La cinse con un braccio. La baciò sui capelli, che
odoravano di pancake.
− Ma questo che cosa c’entra con i crimini d’odio? – le chiese a bassa
voce. – Siamo d’accordo tutti e due che non stiamo parlando di reati, ma della
libertà d’espressione e della sua difesa.
− È che…
Lei cercò le parole giuste.
− Siccome la sostanza di quello che viene detto, − riprese, ma si interruppe
di nuovo. – Siccome il contenuto di quello che viene scritto e detto combacia
perfettamente con… con le idee di quegli altri, quelli che picchiano… quelli
che uccidono… ecco, allora secondo me…
Afferrò la tazza, ma non bevve.
− Se vogliamo poter dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio, dobbiamo
sapere che cosa li provoca. E non mi riferisco semplicemente ai modelli
interpretativi tradizionali, quelli basati sulle condizioni in cui i soggetti sono
nati e cresciuti e sulle perdite che hanno vissuto, oppure sulla storia dei
conflitti bellici, sulla suddivisione delle risorse, sui contrasti religiosi
eccetera. Dobbiamo sapere cos’è che li scatena. Avrei voglia di indagare sulle
eventuali correlazioni fra quelle che si considerano espressioni d’odio legali
da una parte e i crimini d’odio illegali dall’altra.
− Se le prime possano favorire i secondi, cioè?
− Anche.
− Ma non è evidente? Non per questo possiamo impedire quelle
espressioni, però!
− È una correlazione che non si può dare per scontata. Bisogna indagarla.
− Papà! Papà!
Yngvar balzò in piedi. Johanne chiuse gli occhi e pregò intensamente che
Kristiane non si svegliasse. Non riusciva a sentire che la voce bassa e
rassicurante di suo marito mescolata ai lamenti assonnati di Ragnhild. Scese
di nuovo il silenzio. I vicini del piano di sotto dovevano essere già andati a
dormire. Quella sera avevano guardato un film d’azione decisamente
movimentato e rumoroso, dandole un gran fastidio: era come stare in prima
linea.
− È andata bene, − disse Yngvar riaccomodandosi sul divano accanto a lei.
– Ha fatto solo un brutto sogno, probabilmente. Non era del tutto sveglia.
Dove eravamo rimasti?
− Non saprei, − gli rispose lei con aria esausta. – Davvero.
− Pensavo che fossi contenta all’idea di questo progetto, contenta di
portarlo avanti, voglio dire.
Johanne gli posò una mano sulla pancia e si accoccolò meglio sotto il suo
braccio.
− È cosí. Ma in questo momento mi sento in overdose da odio. Non ti ho
nemmeno chiesto com’è andata la tua giornata.
− Non chiedermelo, ti prego.
Johanne lo sentí rilassarsi a poco a poco sotto il peso del suo braccio. Il
respiro gli si fece piú lento e profondo e anche lei si adeguò a quel ritmo. La
cintura gli andava stretta, Johanne se ne accorse dai salsicciotti di grasso che
traboccavano sopra i pantaloni.
− Che ne dici di mettere delle tende, Yngvar?
− Eh?
− Delle tende, − ripeté lei. – Qui in soggiorno. È come se le finestre
fossero diventate grandissime e scurissime, adesso che è inverno.
− Solo se posso fare a meno di sceglierle, comprarle e appenderle.
− Okay.
Era arrivato il momento di alzarsi. Johanne avrebbe dovuto mettere in
ordine tutti quei documenti sparsi, perché se le bambine si fossero svegliate
prima di lei, cosa che puntualmente accadeva, il caos sarebbe stato ancor
peggio di quanto già non fosse.
− Hai un odore cosí buono… − bisbigliò.
− Tutto di me è buono, − disse lui assonnato. Nella sua voce c’era una
rassicurante tranquillità, una sensazione che lei non provava da tempo. –
Senza contare che sono il piú piú piú bravo bravissimo poliziotto del mondo.
Il 9 gennaio intorno all’ora di cena suonarono alla porta di una villa grigia
in Hystadveien, nel comune di Sandefjord.
Synnøve Hessel se ne stava sdraiata sul divano, immersa in uno stato
oscillante fra sonno e realtà, in un dormiveglia di cupi sogni. Di notte non
riusciva a dormire, le ore piú buie parevano tanto lunghe quanto sprecate. Era
impossibile cercare Marianne mentre tutti dormivano e tutto era chiuso, ma
riposare era ugualmente impossibile. I giorni diventavano sempre piú difficili.
Di tanto in tanto si assopiva, come in quel momento.
Non che ci fosse molto altro da fare.
Il conto corrente che avevano in comune non era stato toccato, mentre del
conto di cui Marianne era unica titolare Synnøve non aveva ancora saputo
niente. Aveva contattato tutti gli ospedali della Norvegia, invano. Telefonato a
tutti gli amici. Anche ai conoscenti piú superficiali e ai parenti piú lontani
aveva chiesto se avessero saputo qualcosa di Marianne dopo il 19 dicembre.
Due giorni prima si era fatta coraggio e aveva finalmente chiamato i suoceri.
L’ultima volta che aveva avuto loro notizie era stata quando aveva letto la
terribile lettera che i due le avevano spedito nel momento in cui era diventato
chiaro che Marianne avrebbe lasciato il marito per andare a vivere con
un’altra donna. La telefonata era stata una perdita di tempo. Non appena la
madre di Marianne aveva capito chi c’era all’altro capo del filo si era lanciata
in due minuti di scenata sconnessa per poi riattaccare. Synnøve non era
riuscita nemmeno a dirle per quale ragione l’aveva chiamata.
Di Marianne ancora nessuna traccia.
Synnøve non toccava praticamente cibo da una settimana e mezzo. I giorni
successivi alla scomparsa li aveva passati a cercare, mentre le notti le aveva
trascorse facendo lunghissime camminate in compagnia dei suoi husky.
Adesso non ne aveva piú la forza. Nelle ultime quarantott’ore i cani avevano
dovuto accontentarsi del loro box. Il giorno prima si era dimenticata la pappa.
Quando improvvisamente se n’era accorta erano già le due di notte. Il suo
pianto aveva spaventato il capobranco, che si era messo a guaire e
scodinzolare pretendendo un sacco di attenzioni e rifiutandosi di mangiare
prima di averle avute. Synnøve aveva finito per strisciare dentro una delle
cucce e lí si era addormentata, con Kaja fra le braccia. Dopo mezz’ora si era
svegliata tutta intirizzita.
Suonarono di nuovo alla porta di casa. Synnøve rimase sdraiata. Non
voleva visite. Molti erano passati a trovarla, ma solo pochi avevano avuto il
permesso di entrare.
Din don.
Ancora una volta il campanello.
Indolenzita si alzò dal divano e piegò la coperta. Le era venuto il torcicollo
e cominciò a massaggiarsi mentre si trascinava verso la porta, preparandosi a
convincere l’ennesimo amico che preferiva stare da sola.
Quando aprí e sui gradini vide Kjetil Berggren le girò la testa per il
sollievo. Avevano ritrovato Marianne, pensò, e Kjetil Berggren era venuto di
persona a darle la buona notizia. Era stato solo un terribile malinteso, ma
adesso Marianne sarebbe tornata e tutto sarebbe stato come prima.
Kjetil Berggren aveva un’aria molto seria. Synnøve fece un passo indietro,
nel corridoio. La porta d’ingresso si aprí del tutto. Dietro di lui c’era una
donna. Avrà avuto una cinquantina d’anni, indossava un cappotto pesante e, al
posto della sciarpa per proteggersi dal freddo pungente di gennaio, portava un
collarino ecclesiastico.
Il pastore aveva in volto la stessa espressione grave del poliziotto.
Synnøve arretrò di un altro passo, poi si afflosciò e cadde in ginocchio sul
pavimento portandosi le mani sul viso. Si conficcò le unghie nella pelle e
sulle guance comparvero strisce rosse di sangue. Gridava: un ululato costante
e lamentoso che non somigliava a niente che Kjetil Berggren avesse già
sentito. Solo quando Synnøve cominciò a sbattere la testa sul pavimento lui
tentò di afferrarla da sotto le ascelle e rimetterla in piedi. Lei lo colpí con
forza, violentemente, poi si afflosciò di nuovo.
E per tutto il tempo quell’urlo.
Un suono intenso di dolore a cui i cani nel giardino sul retro risposero: sei
siberian husky ulularono come i lupi che quasi erano. Il coro di lamenti si
levò verso la bassa coltre di nubi. Lo si poteva sentire fino a Framnes,
sull’altra sponda del grigio e desolato fiordo invernale.
Quando l’uomo al telefono aveva detto di essere della polizia, Marcus Koll
jr in un attimo di sbigottimento aveva creduto che gli stessero facendo uno
scherzo. Quando pochi secondi piú tardi aveva capito di essersi sbagliato si
era alzato e messo a camminare avanti e indietro per il soggiorno. All’inizio si
era cosí concentrato nello sforzo di suonare imperturbabile che non aveva
afferrato un bel niente di quel che gli dicevano.
Non era possibile che sapessero qualcosa.
Non era nemmeno lontanamente pensabile, cercava di convincersi.
Si fermò davanti alla grande finestra rivolta a sud.
Il prato in discesa era illuminato. Sul pendio gli abeti carichi di neve
rilucevano di un azzurro ghiaccio quasi fluorescente in contrasto con
l’oscurità compatta che si estendeva al di là dello steccato. Una bassa coltre di
nubi nascondeva la città e il fiordo. Da dove si trovava lui era come se non
esistesse alcun mondo al di fuori della sua proprietà.
A parte la voce al telefono.
− Chiedo scusa, − disse Marcus cercando di comunicare un sorriso. –
Potresti essere cosí gentile da ripetere tutto da capo? La linea era un po’
disturbata.
− La segnalazione, − disse l’uomo con una certa impazienza. – Ci hai
telefonato per darci informazioni sulla banda dei topi d’appartamento, lunedí
scorso.
Un leggero soffio di vento fece cadere un po’ di neve dall’albero piú
vicino: i cristalli induriti risplendettero alla luce del lampione. In fondo al
giardino due maestosi pini dai tronchi dritti e nudi e con le chiome
tondeggianti si ergevano come rigidi soldati al posto di vedetta.
Marcus si lasciò invadere dal sollievo.
Non si era sbagliato. Non sapevano nulla, ovviamente.
Non c’era ragione di preoccuparsi.
− Ah, − si limitò a dire, e deglutí. – Non sono stato io.
− Ma lei non è Rolf Slettan, − disse la voce all’altro capo del filo, −
numero di telefono 2307****?
− No, non sono io, − rispose Marcus, concentrandosi per riuscire a
respirare tranquillamente. – È il mio compagno. Rolf. È stato lui a chiamarvi.
Io sono Marcus Koll jr. Proprio come ho detto quando ho risposto al telefono.
Seguirono due o tre secondi di silenzio.
Il silenzio dell’essere diversi, pensò Marcus. Il breve frammento di tempo
dello smarrimento muto. O del disprezzo. O di tutti e due. Lui ci era abituato,
cosí come chiunque si abitua al proprio marchio se lo porta abbastanza a
lungo. Subito prima che Lillemarcus iniziasse ad andare a scuola, Marcus
Koll jr aveva rilasciato un’intervista al «Dagens Næringsliv», che gli aveva
dedicato un intero servizio: l’unico omosessuale con compagno e figlio sulla
lista dei cento piú ricchi del Paese. Sperava con questo di proteggere
Lillemarcus: tutti avrebbero saputo e si sarebbero evitati spiacevoli bisbigli e
lunghe pause.
Non tutti leggevano il «Dagens Næringsliv», aveva realizzato alcune
settimane piú tardi.
− Ah, ecco, − sentí finalmente dire al poliziotto che aveva telefonato. – E
lui… è in casa? Rolf Slettan?
− Sí, ma sta mettendo a letto nostro figlio.
Il silenzio all’altro capo del filo durò cosí a lungo che Marcus cominciò a
credere che la conversazione si fosse interrotta.
− Pronto! – disse ad alta voce.
− Sí, pronto… − rispose l’uomo. – Dunque… mi potresti far richiamare?
La pratica con le informazioni che ci ha dato è rimasta in sospeso e io avrei
delle domande da…
− Gli dico di richiamare al numero che compare qui sul display? – lo
interruppe Marcus.
− Eh… sí, va bene. Digli di chiedere dell’agente Pettersen. Riesci a farmi
richiamare stasera?
− Non credo, no, − rispose Marcus. – Abbiamo degli impegni stasera. Se
però si tratta di una cosa importante naturalmente farò in modo che vi
ritelefoni. Fra una mezz’oretta…
− Sí… sarebbe meglio. C’è stato un altro furto ieri e sarebbe…
− Va bene. Riferirò.
Senza nemmeno accomiatarsi Marcus interruppe la conversazione e posò il
telefono sul tavolino del soggiorno. Si accorse che era troppo buio.
Lentamente attraversò la stanza accendendo una luce dopo l’altra, finché il
soggiorno non fu cosí luminoso che la vista panoramica dalla finestra
affacciata sul giardino finí quasi per svanire nel nitido contrasto fra interno ed
esterno.
Rolf gli aveva raccontato delle impronte di pneumatici davanti al portale.
Marcus si era prima stupito, poi quasi irritato perché Rolf si era cosí
intestardito su alcune tracce insignificanti lasciate da qualcuno che si era
fermato nello slargo lungo la via, uno slargo che non era recintato e quindi
costituiva una sorta di piazzola per chi percorreva quella strada. Da quando la
neve aveva cominciato ad accumularsi dopo capodanno, infatti, lui aveva
notato che di impronte ce n’erano praticamente sempre.
Solo dopo che Rolf aveva avuto la possibilità di spiegarsi meglio, Marcus
si era mostrato disponibile a discutere della questione. Aveva finito per
ammettere che in effetti era piuttosto strano che qualcuno si fosse fermato lí a
lungo, come la diversa profondità delle tracce di pneumatici e i mozziconi di
sigaretta gettati per terra sembravano indicare. Quando poi Rolf aveva
testardamente provato a convincerlo che la stessa auto si era fermata un po’
piú in là mentre lui esaminava le tracce davanti al portale e che era poi
scomparsa non appena lui se n’era interessato, Marcus aveva chiuso la bocca.
La sensazione netta di Rolf che qualcuno li stesse controllando trovava una
perfetta corrispondenza nella sua crescente inquietudine. Sempre piú spesso
gli capitava di lanciarsi occhiate alle spalle senza sapere bene perché neanche
lui. Da cosa o da chi si volesse guardare. Fino a quel momento non era
riuscito a mettere le mani su niente di piú concreto, ma già prima di Natale la
sensazione di un’ombra che lo seguiva si era fatta sempre piú intensa. Solo
dopo capodanno aveva capito che il panico che dopo molti anni era tornato ad
assalirlo facendolo quasi crollare quattro giorni prima di Natale non era
semplicemente frutto dei rimorsi di coscienza che lo tormentavano.
Era come se qualcuno lo stesse tenendo d’occhio.
Il problema, per come la vedeva Marcus Koll jr, era che chi lo sorvegliava
probabilmente non aveva nulla a che fare con le effrazioni e la banda dei furti.
Sempre che fosse vero che qualcuno lo spiava.
− No, − disse ad alta voce, e si riaccomodò in poltrona.
Non poteva che essere frutto dell’immaginazione.
Non doveva che essere frutto dell’immaginazione.
Lui stesso in quel periodo si sentiva piuttosto nervoso, fin troppo nervoso
anzi, e le osservazioni di Rolf potevano benissimo riguardare una coppietta di
giovani innamorati che si era appartata. Una pausa baci e sigarette. Oppure,
perché no, poteva trattarsi di un automobilista responsabile che si era fermato
per parlare al cellulare.
Suonarono alla porta.
«Baby-sitter», pensò chiudendo gli occhi.
Erano le dieci e lui si sentiva troppo stanco per uscire.
Fra tre mesi e cinque giorni sarebbero stati dieci anni esatti dalla morte del
padre.
Marcus Koll jr aprí gli occhi, si alzò e si tirò forte i lobi delle orecchie per
riprendersi. Il campanello della porta di casa suonò di nuovo. Mentre
attraversava il soggiorno decise che il 15 aprile sarebbe stato il giorno in cui
tutte le sue preoccupazioni sarebbero finite. Anche se quel giorno aveva
ormai perso il significato originario, lui se ne sarebbe servito lo stesso per fare
di quella data una pietra miliare della sua vita. Il 15 aprile sarebbe stato il
giorno della svolta e tutto sarebbe tornato come prima. L’importante era
arrivarci. La casa sul colle si sarebbe trasformata di nuovo in un fortino: la
cornice di sicurezza che racchiudeva la sua famiglia, ben lontana dal dominio
paterno.
Era una promessa che faceva a sé stesso, e per qualche ragione questo lo
aiutò a sentirsi un pochino meglio.
Prima dell’alba
Johanne provò una strana soddisfazione quando la sveglia suonò già alle
cinque e mezza di lunedí 12 gennaio. Come mai l’avevano puntata cosí
presto? Non se lo ricordava, quindi se ne rimase distesa, immersa in una
piacevole terra di mezzo fra sogno e realtà, mentre Yngvar si gettava su quel
molesto frastuono per farlo tacere. Il caldo secco sotto il piumino la invogliò a
stringerselo addosso ancora di piú. Quando Yngvar si sdraiò di nuovo con un
gemito, lei strisciò fino alla sua schiena.
− Devo andare, − borbottò lui. – Ho il volo per Bergen fra due ore.
− Ragnhild dorme, − bisbigliò Johanne, − Kristiane e Jack sono da Isak. E
se aspettassi un quarto d’ora?
Gli costò la colazione, e quando un’oretta dopo si ritrovò seduto in
macchina alla volta di Gardermoen, in ritardo e con lo stomaco che
brontolava e bruciava, si era quasi pentito.
Johanne, al contrario, non si sentiva cosí bene da tempo. La serata con
Karen Winslow si era conclusa solo alle tre di notte. Sarebbe durata anche di
piú, se Karen il giorno dopo non avesse dovuto guidare fino a Lillesand, a piú
di duecento chilometri da lí. Yngvar aveva portato con sé Ragnhild il sabato
mattina, quand’era andato a trovare il suocero e il nipotino Amund, ed era
stato via tutto il pomeriggio. Johanne aveva dormito fino a tardi, come non le
capitava da tempo. Dopo una lunga colazione e tre ore passate a leggersi i
giornali era andata in piscina a Tøyenbadet e aveva nuotato per
millecinquecento metri. La sera Sigmund Berli aveva fatto un salto a trovarli.
Senza essere stato invitato. Si era presentato con pizza da asporto Dolly
Dimple’s e birra tiepida. L’ospite inatteso aveva fornito a Johanne un buon
pretesto per andarsene a dormire prima delle dieci.
E le aveva fatto bene.
La felicità che le aveva dato rivedere la sua vecchia compagna di studi non
era ancora svanita. Ragnhild era andata a letto troppo tardi la domenica e
ormai era arrivata a un’età in cui il giorno dopo si recupera un po’ del sonno
perso la notte. Johanne si era messa il gigantesco pigiama di Yngvar, si era
preparata un bel po’ di caffè e si era accomodata sul divano con il portatile in
grembo.
Controllò la posta. Aveva nove mail nuove. Quasi tutte di scarsissimo
interesse, una era una richiesta da parte della polizia. Scorse il testo e si rese
conto che era la stessa ricevuta da Yngvar il sabato mattina. Riguardava
l’omicidio di Marianne Kleive. La polizia aveva ricevuto l’elenco completo
degli ospiti al ricevimento di nozze tenutosi all’Hotel Continental e come da
prassi voleva sentire se qualcuno avesse informazioni potenzialmente
rilevanti in merito al caso. Johanne cancellò subito la mail. Voleva pensare il
meno possibile a quella sera fatale in cui Kristiane per poco non era stata
investita da un tram.
Karen Winslow aveva già risposto alla domanda che lei le aveva spedito
solo il giorno prima. Johanne si avvolse meglio nel plaid e aprí la mail mentre
sorseggiava il caffè bollente.
Cara Johanne!
Che bello è stato rivederti! Una serata meravigliosa e una passeggiata
interessante (!) per la città! Conoscere tuo marito è stato fantastico e devo
proprio ammetterlo: il mio avrebbe un paio di cosucce da imparare da lui. Il
calore e la generosità che ha dimostrato quando ci siamo presentate lí in
piena notte sono andati oltre ogni aspettativa.
Ti sto scrivendo dall’aeroporto di Oslo. Il matrimonio è stato una favola,
ma il viaggio in auto andata e ritorno da Lillesand è stato un incubo…
Come d’accordo, ti metterò al corrente delle parti piú rilevanti della
nostra ricerca, informazioni riservate comprese, non appena possibile. E per
rispondere alla domanda della tua mail di questa mattina: il nome «The
25’ers» si basa sulla somma delle cifre che compongono i numeri 19, 24 e
27 (te l’avevo accennato, vero?) La nostra teoria è appunto che i numeri 24
e 27 facciano riferimento alla lettera di san Paolo ai Romani, per la
precisione al capitolo 1, versetti 24 e 27. Dagli un’occhiata. Il numero 19
vanterebbe un significato in qualche modo «magico» nel Corano. È troppo
complicato da spiegare per mail, ma se cerchi «Rashad Khalifa» su Google
capirai che cosa intendo. Se i nostri esperti di numerologia hanno ragione,
il nome «The 25’ers» è piuttosto inquietante…
Stanno annunciando l’imbarco del mio volo, devo scappare.
E non dimenticarti che tu e la tua famiglia avete promesso di venire a
trovarci questa estate!!!
Auguri di cuore per tutto e un grosso abbraccio,
Karen
Johanne esitò.
… vituperassero fra loro i loro corpi…
Significherà giacere l’uno con l’altro, mormorò fra sé e sé prima che i suoi
occhi trovassero il versetto 27.
Anche se capiva la sostanza di quel che c’era scritto, Johanne chiuse quel
libro consumato e si appoggiò il portatile in grembo. Avrebbe dovuto pensarci
subito, invece che mettersi a frugare nella libreria di Yngvar. L’aveva già fatto
una volta e lui era rimasto arrabbiato per ore quando lo aveva saputo.
Ci mise due minuti a trovare gli stessi versetti sul web in una edizione piú
recente. Il versetto 24:
Lukas Lysgaard aveva aspettato che gli altri dormissero. Aveva scritto un
messaggio a Astrid in cui le spiegava di essere preoccupato per il padre e che
quindi sarebbe andato a controllare che fosse tutto a posto, ma che sarebbe
tornato in nottata. L’auto era parcheggiata in strada, per non rischiare di
svegliare qualcuno con il motore della saracinesca del garage.
Il viaggio in auto gli fece bene. Mentre la madre aveva sempre adorato la
luce, Lukas era un uomo a cui piaceva la notte. Da bambino si sentiva al
sicuro nell’oscurità. La notte era sua amica, fin da quando lui era piccolo e
abitava nella grande casa di Nubbebakken. Già a sei, sette anni gli capitava
spesso di svegliarsi e restare affascinato dalle ombre che danzavano sulle
pareti della sua camera. La grossa quercia, quella con i rami che arrivavano a
toccare la finestra, era illuminata da dietro grazie a un solitario lampione
giallo e dava vita a ghirigori bellissimi sopra il suo letto. Spesso, quando non
riusciva a dormire, sgusciava fuori dalla sua stanza e saliva alla chetichella la
ripida scala che portava in soffitta. In quella semioscurità, fra bauli e mobili
vecchi, fra abiti mangiucchiati dalle tarme e giocattoli cosí antiquati che
nessuno sapeva a chi fossero appartenuti in origine, poteva stare seduto per
ore e ore a fantasticare.
Lukas Lysgaard lasciò Os e si immerse nelle umide tenebre invernali di
una sonnolenta Bergen. Aveva finalmente preso una decisione.
Quando ripensava alla sua fanciullezza aveva ben poco di cui lamentarsi.
Era un bambino amato e ne era consapevole. Quando era piccolo la fede
religiosa dei genitori gli aveva fatto bene. Aveva adottato il loro Dio con la
stessa naturalezza con cui qualunque bambino fa propri gli ideali dei genitori
finché non diventa grande abbastanza da ribellarsi. La sua era stata una
ribellione all’insegna del silenzio. Se prima considerava il Signore come una
rassicurante figura paterna – pronta al perdono, attenta e onnipresente – a
dodici anni aveva cominciato a dubitare.
Nella casa di Nubbebakken non c’era spazio per il dubbio.
La fede in Dio della madre era assoluta. La sua indulgenza nei confronti
degli altri, indipendentemente dal loro credo e dalle loro convinzioni, la sua
generosità e clemenza anche verso i piú deboli dei caduti, erano cementate
nella certezza del Salvatore figlio di Dio. Da adolescente Lukas si era reso
conto che sua madre non era una che credeva. Lei sapeva. Eva Karin
Lysgaard era sicura del fatto suo e lui non aveva mai trovato il coraggio di
metterla di fronte alle sue incertezze. Dio aveva smesso di rispondere alle sue
preghiere, e lui si era sempre piú allontanato dal cristianesimo, fino a cercare
altrove le risposte alle domande esistenziali che si poneva.
Dopo il servizio militare si era iscritto a Fisica e aveva rigettato la
religione. Ancora in totale silenzio. Lui e Astrid si erano sposati in chiesa,
ovviamente. Tutti i loro figli erano stati battezzati. Adesso ne era contento:
sua madre era stata al settimo cielo ogni volta che aveva presentato alla
comunità un nipotino dopo avergli amministrato personalmente il sacramento
del battesimo.
Da sempre c’era qualcosa di diverso a casa dei suoi, pensò mentre si
avvicinava a Nubbebakken.
Quand’era piccolo non se n’era mai accorto. Dopo la morte della madre
aveva cercato di ricordare quando avesse cominciato a provare la sensazione
latente che Eva Karin nascondesse un segreto. Forse era stato un processo
graduale, che si era sviluppato parallelamente all’indebolimento della sua
fede. Nonostante la sua fosse sempre stata una madre molto presente, tanto
sul piano psicologico quanto su quello fisico, man mano che Lukas cresceva
si era fatta strada in lui l’impressione di dividerla con qualcun altro. Era come
un’ombra che aleggiava sulla casa. Una mancanza.
Lui aveva una sorella. Non poteva essere altrimenti.
Era difficile capire il come e il perché, ma doveva essere collegato alla
conversione della madre a sedici anni. Forse lei era incinta. Forse desiderava
abortire e allora Gesú le aveva parlato. Questo avrebbe potuto spiegare
l’unico argomento su cui la madre si era sempre mostrata intransigente, a
tratti quasi fanatica: non era dato agli uomini togliere una vita creata da Dio.
Calcolò rapidamente che la madre aveva sedici anni nel 1962.
Non doveva essere facile trovarsi incinte senza essere sposate nel 1962,
tanto meno per una ragazza cosí pura.
La donna nella foto gli assomigliava come una goccia d’acqua, questo se
lo ricordava bene, anche se le poche volte che aveva degnato di una certa
attenzione quel ritratto aveva provato riluttanza, anzi, quasi avversione per
quella giovane senza nome dai denti belli e un po’ storti.
Lukas avrebbe trovato quella fotografia. E poi avrebbe trovato sua sorella.
A Nubbebakken parcheggiò un po’ distante dalla casa del padre.
Arrivato sulla soglia, cercò di non far tintinnare troppo il mazzo di chiavi.
Quando fu dentro, si fermò e tese l’orecchio.
La casa dei suoi non era mai stata completamente silenziosa. Le assi di
legno scricchiolavano, i cardini cigolavano, i rami grattavano le finestre ogni
volta che si alzava il vento, l’orologio a pendolo ticchettava cosí forte che di
solito lo si sentiva in gran parte del piano terra, le tubature sospiravano a
intervalli regolari: la casa d’infanzia di Lukas era sempre stata una casa viva.
I pavimenti erano vecchi e lui ricordava ancora dove mettere i piedi per non
svegliare nessuno.
In quel momento era tutto morto.
Fuori non c’era un alito di vento, e quando calpestò una tavola del
pavimento che gemeva sempre sotto il suo peso, l’unica cosa che sentí fu il
battito del proprio cuore nelle tempie.
Raggiunse la stretta scala e trattenne il respiro fino a quando non arrivò al
primo piano. La porta della camera di suo padre era socchiusa. Il suo respiro
regolare e lento gli fece supporre che stesse dormendo profondamente. In
punta di piedi, Lukas raggiunse la porta della scala che portava in soffitta.
Come al solito la vecchia chiave in ferro battuto era nella toppa e lui sollevò il
saliscendi e lo tirò a sé mentre girava la chiave, come sapeva di dover fare. Il
colpo secco della serratura che scattava gli fece di nuovo trattenere il respiro.
Il padre continuava a dormire.
Con infinita lentezza aprí la porta.
Alla fine sgattaiolò dentro.
A ogni gradino metteva i piedi il piú possibile a ridosso della parete, come
aveva imparato a fare a sei anni. Riuscí ad arrivare abbastanza
silenziosamente nel grande stanzone polveroso. Impugnando la torcia
tascabile che teneva attaccata alla cintura, cominciò la sua ricerca.
E si ritrovò faccia a faccia con la propria infanzia.
Negli scatoloni impilati accanto alla finestrina rotonda in uno dei frontoni
c’erano vestiti e scarpe che aveva usato da bambino. Accanto a quelli altri
scatoloni di vestiti: sua madre non aveva buttato niente. Cercò di ricordare
quando fosse salito in soffitta l’ultima volta e si rese conto di non esserci piú
stato dal loro primo trasferimento, quando lui aveva dodici anni e aveva
pianto nel sonno per due mesi all’idea di dover lasciare Bergen.
Ciononostante, tutto gli sembrava stranamente familiare.
L’odore della soffitta era ancora lo stesso. Odore di polvere e palline di
naftalina, odore dolciastro di metallo misto a lucido da scarpe, altri odori
indefinibili e rassicuranti.
Di colpo girò le spalle agli scatoloni accanto alla finestra e tornò
silenziosamente verso la scala. Con la torcia illuminò il pavimento nel punto
in cui finivano i gradini. Vide chiaramente le proprie impronte nella polvere
spessa e altre senza un disegno preciso, come di una pantofola. Ce n’erano
parecchie, a guardare con attenzione, e andavano in entrambe le direzioni:
qualcuno era stato lí di recente.
Si scoprí a sorridere. Suo padre aveva sempre creduto che la soffitta fosse
un posto sicuro. Quando Lukas era piccolo aveva dovuto fingersi sorpreso a
ogni vigilia di Natale per i doni che riceveva: il padre li teneva nascosti lassú
in attesa di quella sera e non poteva certo immaginare che suo figlio era
diventato bravissimo ad aprirli e richiuderli in modo che nessuno se ne
accorgesse.
Lukas raddrizzò la schiena e si guardò intorno.
La soffitta era bella grande, quanto un intero piano della casa: cento metri
quadrati, se non ricordava male. Fu preso dallo sconforto al pensiero di
quanto tempo avrebbe dovuto passare a frugare in mezzo a tutto quel
ciarpame, tra cianfrusaglie e ricordi sentimentali, per trovare qualcosa di cosí
piccolo come una foto.
Il fascio di luce danzò di nuovo sulle impronte vicino alle scale.
Le orme delle pantofole, quasi invisibili, andavano nella direzione opposta
a quella in cui Lukas si era mosso: si addentravano nel lato occidentale della
soffitta, il lato con la finestrella chiusa. Le seguí cautamente.
Un rumore da sotto lo fece irrigidire.
Dei passi, senza dubbio. Poi il silenzio.
Lukas trattenne il respiro.
Suo padre si era svegliato. Era come se riuscisse a sentirlo respirare, anche
se dovevano esserci piú di quindici metri fra loro. Gli sembrò che suo padre
fosse davanti alla porta della scala che saliva in soffitta.
Merda, dissero le labbra di Lukas senza emettere suono. Non l’aveva
chiusa del tutto, per paura di far rumore una volta ridisceso. Probabilmente
suo padre stava andando in bagno e si era accorto che era aperta.
A volte, quando ci si dimenticava di chiuderla a chiave, capitava che si
riaprisse da sola. Lukas chiuse gli occhi e pregò Dio per la prima volta da
tempo immemore.
«Ti prego, fa’ che mio padre creda che si sia aperta da sola».
E la sua preghiera fu ascoltata.
Sentí il padre borbottare a bassa voce, poi la porta che veniva sbattuta.
E chiusa a chiave.
Dio non aveva esaudito del tutto la sua preghiera: Lukas era rimasto chiuso
dentro e non aveva proprio idea di come avrebbe potuto spiegarlo. Dalla sua
bocca sgorgò un fiume di imprecazioni silenziose, fino a quando non gli
venne in mente che avrebbe potuto servirsi dell’abbaino. Aveva solo sei anni
quando per la prima volta era strisciato fuori dalla finestrella sul tetto,
vicinissimo al comignolo, era sceso aggrappandosi alla scaletta, si era
spostato lungo la grondaia e poi si era arrampicato sulla grande quercia
accanto alla sua camera.
Da lí arrivare a terra era facile.
Per prima cosa doveva trovare la fotografia della sorella.
Aspettò dieci minuti per essere certo che il padre si fosse riaddormentato.
Poi cominciò ad avanzare silenziosamente.
Fu cosí facile che quasi non ci credeva. Sotto una cassa da frutta piena di
giornali vecchi, su un poggiapiedi che gli pareva risalisse al periodo in cui
erano vissuti a Stavanger, c’era la fotografia. Quando il fascio di luce la colpí,
la cornice cesellata brillò. Solo in quel momento Lukas si rese conto che era
d’argento: con il passare degli anni il metallo si era ossidato, ma la pesantezza
e il colore non lasciavano dubbi.
Sentí una fitta quando la luce si fermò su quel volto sorridente.
La donna doveva avere sui vent’anni, anche se stabilire un’età era piuttosto
difficile. Non si vedeva molto dei vestiti che indossava: una camicetta con un
colletto ricamato su tutte e due le punte forse con dei fiori, bianco su bianco, e
un cardigan piú scuro, leggero, cosí pareva, tinta unita.
«Non molto moderno», pensò lui.
Tolse rapido l’immagine dalla cornice. Sperava di trovare il nome del
fotografo o qualche altra annotazione che avrebbe potuto fargli fare un passo
avanti nella caccia alla sorella che per molto tempo aveva pensato di avere e
che ora aveva deciso di trovare a ogni costo.
Niente.
L’anonimato assoluto. Lukas posò la cornice e raggiunse una vecchia
poltrona accostata alla parete bassa verso sud. Si sedette mettendosi la torcia
in bilico su una spalla, in modo da illuminare la foto.
Se sua madre fosse stata incinta nel 1962, la donna del ritratto adesso
avrebbe avuto quarantasei o quarantasette anni, considerato che lui non aveva
mai saputo con esattezza in che periodo dell’anno fosse avvenuta la supposta
conversione.
La fotografia quindi doveva essere stata scattata per lo meno venticinque
anni prima.
Nel 1984.
A quell’epoca lui di anni ne aveva cinque. E della moda imperante quando
aveva cinque anni ne sapeva poco, a parte il fatto che il fratello maggiore del
suo migliore amico indossava maglioni di lana mohair in colori pastello
infilati dentro i pantaloni e che sfoggiava una favolosa permanente.
Sfiorò il volto della fotografia con la punta delle dita.
La donna non aveva la permanente e, anche se indovinare i colori di
un’immagine in bianco e nero era difficile, lui avrebbe scommesso che la sua
giacca era rossa.
Lukas non aveva mai sentito la mancanza di una sorella. Era cresciuto con
la sensazione di essere unico: il solo e unico figlio con cui i genitori erano
stati benedetti. Non aveva mai avuto difficoltà a farsi degli amici e casa sua
era sempre stata aperta a tutti. I compagni lo invidiavano: Lukas aveva tutte le
attenzioni dei suoi e spesso riceveva in regalo le ultime novità prima ancora
che i genitori degli amici avessero fatto in tempo a valutare se potevano
permettersele.
La donna del ritratto gli parlava, questa era la sua impressione.
Fra di loro c’era qualcosa, un amore comune.
Poi tutt’a un tratto si infilò la fotografia sotto la camicia, incastrandola
sotto la cintura. Aveva rimesso la cornice dove l’aveva trovata. Andò verso
l’abbaino sperando di riuscire ancora ad aprirlo, dopo tanti anni.
Non ci fu nessun problema.
Fu investito dall’aria fredda e umida e per un attimo chiuse gli occhi.
Quando li riaprí si chiese se ce l’avrebbe ancora fatta a infilarsi in
quell’apertura stretta. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa su cui salire e
lo sguardo gli cadde subito su un piccolo sgabello-scaletta appoggiato alla
parete. A Stavanger lo tenevano in cucina. Lo sollevò con grande cautela, lo
aprí e lo posizionò esattamente sotto l’abbaino. Le spalle passavano a
malapena dall’apertura, ma se fosse riuscito a farci passare anche il torace il
resto non sarebbe certo stato un problema.
C’erano però altre sfide da risolvere.
Capí immediatamente che sarebbe stata una follia pensare di percorrere il
tetto e calarsi sulla quercia al buio: la fioca luce del lampione solitario non
sarebbe stata sufficiente, e dal momento che gli serviva avere le mani libere
per raggiungere l’albero da lassú, la torcia gli sarebbe stata di ben poco aiuto.
Avrebbe potuto fissarla alla cintura, questo sí, ma non sarebbe bastato.
Lukas Lysgaard era un ventinovenne padre di tre figli, non piú un
ragazzino impavido e incosciente. Con grande prudenza e senza far troppo
rumore riuscí a tornare con i piedi per terra.
Si sedette di nuovo in poltrona. Tirò fuori il cellulare e digitò un Sms che
spedí a Astrid.
«Mi fermo a dormire da mio padre. Ti telefono domani. Lukas».
Poi tolse la suoneria.
Avrebbe aspettato la luce dell’alba, anche se in quel periodo dell’anno
arrivava tardi. Tirò di nuovo fuori la fotografia di quella che ormai era sicuro
fosse sua sorella e la fissò a lungo alla luce azzurrata della Maglite.
Magari aveva anche dei nipoti.
In ogni caso una sorella ce l’aveva.
a. La citazione è tratta dal Corano, nella versione a cura di Hamza Roberto Piccardo,
Newton Compton, Roma 2006 [N. d. T.].
La figlia scomparsa
Yngvar Stubø si sentiva cosí stanco quando si era svegliato che per un
attimo si era domandato se fosse il caso di mettersi alla guida dell’auto a
noleggio che aveva a disposizione. Sicuramente non aveva un tasso
alcolemico superiore ai valori consentiti: si era limitato a un solo drink, per
quanto forte. Ciononostante si sentiva addosso una pesantezza, una
sonnolenza che non riusciva a scrollarsi via e che gli rendeva difficile alzarsi.
Era come se stesse covando qualche malanno.
Dopo tre tazze di caffè, due porzioni di uova strapazzate con il bacon e un
croissant fresco, però, gli era sembrato tutto molto piú facile.
Era quasi a Os.
Non aveva voluto preavvisare del suo arrivo, e questo naturalmente era
stato un azzardo – non poteva essere certo di trovare Lukas Lysgaard –, ma
preferiva sfruttare il vantaggio psicologico garantito da una visita non
annunciata della polizia. Non era mai stato a casa di Lukas, e quando la voce
metallica del Gps cominciò a insistere perché svoltasse a destra proprio
mentre oltrepassava un terreno che non mostrava la minima traccia
dell’esistenza nemmeno di una carrareccia nella direzione indicata, Yngvar
decise di chiedere a qualcuno. Vide una donna sulla sessantina che percorreva
in tutta fretta una pista ciclabile e che dava l’impressione di sapere bene dove
stesse andando.
− Scusa, − l’apostrofò schiacciando il comando per abbassare il finestrino,
− conosci bene la zona?
La donna annuí con aria scettica.
Lui le disse quale indirizzo stava cercando, ma questo non la rese piú
loquace.
− Lukas Lysgaard, − aggiunse rapido Yngvar Stubø quando si accorse che
la donna stava per andarsene. – Sto cercando Lukas Lysgaard!
− Oh, − disse lei con un sorriso malinconico. – Povero ragazzo. Terza
traversa sulla destra. Segui la strada per trecento metri circa, svolta a sinistra
quando vedi una casetta rossa fatiscente e vai sempre dritto. Vedrai una villa
bianca dove la strada fa una curva, prosegui fino in cima alla collina e ci sei.
È una casa gialla, con il garage doppio.
Yngvar ripeté le indicazioni, ricevette un cenno di assenso in risposta,
ringraziò cortesemente e ripartí.
Arrivato nelle vicinanze della casa diede un’occhiata all’orologio sul
cruscotto.
Otto e dieci.
Forse era troppo tardi.
Dal momento che Lukas lavorava a Bergen, molto probabilmente la
mattina usciva presto. Yngvar ne sapeva poco delle infrastrutture del
Vestlandet, ma nei giorni successivi alle vacanze natalizie si era reso conto
che nelle ore di punta il traffico proveniente da sud e diretto verso Bergen era
in grado di bloccare completamente la circolazione da Flesland fino in città e,
anche se Flesland si trovava a nordovest rispetto a Os, a quanto aveva capito
avvicinandosi a Bergen si rimaneva imbottigliati nelle stesse code a
fisarmonica.
Svoltò e si fermò davanti a una grande casa gialla degli anni Ottanta, con
le finestre a bovindo, gli infissi in legno e tutti i contrassegni tipici di
un’abitazione funzionale e decisamente poco curata dal punto di vista
estetico.
Parcheggiò e andò alla porta.
Dall’interno gli arrivarono grida di bambini seguite dai rassegnati gemiti di
quella che suppose essere la moglie di Lukas. Un flebile miagolio lo fece
arretrare, scendere di qualche gradino la scalinata in pietra e alzare lo
sguardo. Sul tetto del portico c’era un gatto tigrato. Quando Yngvar incrociò i
suoi occhi verdi il gatto scivolò silenzioso lungo la grondaia, scese seguendo
il muro e riuscí a intrufolarsi in casa nello stesso istante in cui la porta si
apriva.
− Buongiorno, − disse Yngvar salendo i tre gradini che lo separavano dalla
donna e tendendole la mano.
Astrid Tomte Lysgaard lo fissò stupefatta.
− Buongiorno, − rispose cortesemente, e gli strinse la mano.
− Yngvar Stubø. Della Kripos. Sto lavorando al caso di omicidio di tua
suocera e…
− Lo so chi sei, − lo interruppe Astrid senza invitarlo a entrare. – Ma
Lukas non c’è.
− Ah. È già andato al lavoro?
− Probabile. Si è fermato a dormire da suo padre.
− Capisco.
Yngvar sorrise. Astrid Tomte Lysgaard non si era ancora preparata per
uscire: indossava un accappatoio troppo grande da cui spuntavano due gambe
bianco latte che non lasciavano dubbi sulla sua eccessiva magrezza, e aveva
zampe di gallina e borse sotto gli occhi fin troppo visibili per la sua età.
− Mi dispiace, − disse allargando le braccia con fare rassegnato. – Siamo
un po’ in ritardo oggi, perciò se non vuoi nient’altro…
La testa di un bambino sui tre anni sbucò da dietro la madre.
− Ciao! – disse con un sorriso. – Io mi chiamo William e la nonna è morta
proprio morta.
− Ciao, io mi chiamo Yngvar e sono un poliziotto. È tuo quel gatto che ho
appena visto?
− Sí, si chiama Borghild.
− Proprio il nome giusto per una bella gattona cosí a, − gli disse Yngvar. –
E adesso corri a vestirti! Non vai a scuola fra poco?
− Hai sentito? – gli disse Astrid con un pallido sorriso, arruffandogli i
capelli con una mano. – La polizia ha detto che devi andare a vestirti. E
bisogna sempre fare quello che dice la polizia.
Il bambino si voltò di scatto e corse via.
− Va tutto bene? – le chiese Yngvar a bassa voce.
− Sai com’è…
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
− Per Lukas è molto difficile, − aggiunse, e si asciugò l’occhio sinistro con
un movimento fulmineo. – Una cosa è che Eva Karin ci abbia lasciato, ma
vedere Erik cosí…
Aveva mani piccole e dita lunghe e affusolate. Teneva le braccia conserte e
con ritmici gesti nervosi si lisciava i capelli dietro le orecchie.
− E come se non bastasse Lukas si è messo in testa che…
Il clacson di un’automobile risuonò in strada. Yngvar si voltò e vide una
macchina con il sedile posteriore carico di bambini uscire dal passo carraio
della casa accanto. L’uomo alla guida fece un cenno di saluto ad Astrid, e lei
sollevò appena la mano per ricambiare.
− Che cosa si è messo in testa Lukas? – le chiese Yngvar visto che lei non
concludeva la frase.
− No, non saprei esattamente…
La gatta Borghild si avvicinò alle gambe nude di Astrid e cominciò a
strusciarsi.
− Adesso devo proprio andare, − disse lei facendo un passo indietro. –
Devo preparare i bambini per la scuola. Mi dispiace che ti sia fatto tutto il
viaggio fin qui per niente.
− Non è certo colpa tua!
Ancora una volta Yngvar indietreggiò e scese qualche gradino.
− Chiedo scusa per il disturbo, − le disse. – So benissimo come vanno,
certe mattine.
Senza aggiungere altro, la donna si chiuse la porta alle spalle. Yngvar andò
alla macchina, che si aprí in automatico. Si sedette al posto di guida e
cominciò ad armeggiare con quella stupida chiave a scheda che secondo la
Renault era meglio di una normalissima chiave di avviamento. La infilò nella
fessura e schiacciò il pulsante Start, ma non accadde nulla.
− Che tu lo voglia o no, devi funzionare!
Con un gesto violento tolse la chiave a scheda dalla fessura e la sbatté
contro il cruscotto, poi ricominciò da capo la procedura e tenendo premuto il
pedale del freno inserí la chiave a scheda nella fessura e schiacciò il pulsante
Start. Il motore si avviò.
Dopo aver guidato per cinque minuti con l’idea di tornare a Bergen,
Yngvar cambiò programma e decise che sarebbe andato a Nubbebakken.
Andare a parlare con Lukas all’università sarebbe potuta sembrare
un’iniziativa piú grave di quel che era, e siccome Astrid aveva detto che le
condizioni di Erik continuavano a peggiorare poteva darsi che Lukas avesse
pensato di fermarsi da lui, anche se si trattava di un giorno feriale.
Accelerò.
Aveva cominciato a piovere e dietro la fitta coltre di nubi il sole iniziava a
colorare il mondo di grigio.
Lukas si svegliò che l’abbaino non era piú nero ma di un color grigio
fuliggine. Non sentiva il braccio destro. Lo mosse con grande prudenza:
girandosi nel sonno aveva finito per schiacciarlo fra la poltrona e il peso del
proprio corpo. Riattivare la circolazione del sangue fu come infilare la mano
in un vespaio. Formicolio, dolore, e fece una smorfia quando, una volta in
piedi, cominciò a scuotere il braccio con tale energia da aver male alla spalla.
Erano già le nove e dieci di martedí 13 gennaio.
Avrebbe dovuto partecipare a un consiglio di istituto alle nove. Diede
un’occhiata al display del cellulare e si accorse che c’erano cinque chiamate
perse. Tre erano di un collega che sarebbe dovuto andare alla sua stessa
riunione, due di Astrid.
Sperò intensamente che lei non avesse poi cercato di rintracciarlo
chiamando suo padre. Forse no, visto che negli ultimi tempi sua moglie non
sopportava di parlare con il suocero.
Si stiracchiò tutto, rapidamente, per eliminare gli acciacchi della notte.
Da sotto non sentiva alcun rumore: forse il padre dormiva ancora.
La fotografia della sorella era sotto la camicia, dove l’aveva infilata prima
di dormire. Si era tutta incurvata nel corso della notte, ma senza piegarsi.
Lukas allacciò la cintura piú stretta di un buco per essere certo di non
perderla. Poi si arrampicò sullo sgabello e aprí l’abbaino.
Le mattine di gennaio erano sconfortanti.
Tutto era grigio. I colori in letargo. La quercia sembrava una sagoma nera
contro tutto quel grigio. Lukas si issò attraverso la stretta apertura e facendo
forza sulle braccia sollevò il resto del corpo. Una volta seduto sul tetto si
fermò a riprendere fiato, poi piantò i talloni sulla scaletta che scendeva dal
comignolo, ma avvertí una paura che da ragazzo non aveva mai provato.
Quando era piú o meno a metà strada dalla grondaia, sentí un’auto
avvicinarsi. Si irrigidí.
Sentí il motore spegnersi e il rumore di una portiera che veniva richiusa.
Il cancello cigolò e Lukas udí dei passi che senz’ombra di dubbio si
dirigevano verso la porta di casa di suo padre.
Qualcuno suonò il campanello. Da sotto riuscí a sentirne chiaramente lo
squillo, per quanto attutito e distorto da due piani di edificio. Fino a quel
momento non aveva nemmeno osato spostare gli occhi, ma si decise
finalmente a guardare giú. Da dov’era seduto vedeva benissimo la minuscola
veranda con la scala in pietra e lo zerbino a griglia per pulirsi le scarpe.
Capí subito di chi si trattava.
La porta si aprí.
Lukas trattenne il respiro, teneva gli occhi fissi sull’uomo là sotto. Se a
Yngvar Stubø fosse venuto in mente di alzare lo sguardo lo avrebbe visto
all’istante.
Si sentivano nitidamente le voci là sotto.
– Buongiorno, − disse il poliziotto. – Scusa il disturbo. Sto cercando
Lukas. Vorrei solo farmi due chiacchiere con lui su un paio di dettagli. È qui?
Come sempre la voce del padre suonò piatta e disinteressata:
− No.
− No? Ho parlato con sua moglie e…
Yngvar Stubø fece un passo indietro. Lukas chiuse gli occhi.
− Mi scusi, − disse l’uomo robusto laggiú. – Certo, avrei dovuto telefonare
prima di venire. Tutto bene? C’è qualcosa che possiamo…
− Tutto bene, − lo interruppe la voce del padre di Lukas, poi la porta di
casa si richiuse con un colpo sordo.
Lukas era già zuppo. Aveva lasciato la giacca nell’auto e la pioggia gelata
gli scendeva dal collo giú per la schiena. D’istinto si sporse in avanti per
cercare di proteggere la fotografia. Riaprí gli occhi.
Yngvar Stubø era fermo a cinque metri dal muro della casa e teneva la
testa leggermente obliqua. Quando i loro sguardi si incrociarono il poliziotto
piegò piú volte il dito indice verso il basso. Accennò un sorriso e scosse
appena la testa prima di indicare il cancello.
Lukas deglutí, aveva caldo e freddo insieme.
Ci avrebbe messo tre minuti a scendere dal tetto e in quel lasso di tempo
avrebbe dovuto inventare una spiegazione incredibilmente convincente. Senza
contare poi che non doveva farsi vedere dal padre: dare una spiegazione a
Yngvar Stubø bastava e avanzava.
Quando raggiunse il suolo dopo essere saltato da uno spesso ramo a quasi
due metri da terra, non gli era ancora venuto in mente niente da dire.
La verità, forse, pensò per una frazione di secondo, poi scacciò l’idea e alla
chetichella fece il giro della casa, fino al cancello dove Stubø lo stava
aspettando.
Johanne aveva compreso ormai da tempo che la verità era la prima vittima
di qualunque guerra. Le riusciva comunque difficile accettare che la realtà
potesse essere distorta cosí tanto come nell’articolo che cercava di leggere
mentre Ragnhild faceva fare colazione al suo orsetto.
− Guarda! – esclamò estasiata la figlia indicando il muso del pupazzo tutto
impiastricciato. – All’orsetto piacciono un sacco i fiocchi d’avena.
− Non fare cosí, − borbottò Johanne. – La tua colazione devi mangiarla tu.
Bevve un sorso di caffè. Si sentiva ancora il corpo appesantito e
indolenzito per i sonniferi che aveva preso ed era in ritardo, ma non riusciva
proprio a staccarsi dal giornale.
− Che cosa stai leggendo, mamma?
Ragnhild aveva ficcato il muso dell’orsetto nella ciotola di fiocchi d’avena,
latte e marmellata di fragole. Johanne non alzò nemmeno gli occhi. Non
sapeva come avrebbe potuto spiegare a una bambina di cinque anni la guerra
in corso nella striscia di Gaza.
− Sto leggendo di alcune persone cattive, − rispose con aria assente.
− Le persone cattive vanno in prigione, − le disse Ragnhild allegra. – Papà
le cattura e le sbatte in gattabuia!
− Gattabuia? – Johanne sbirciò la figlia da sopra il giornale. − E questa
parola dove l’hai sentita?
− Gattabuia, cella, segrete, carcere. Sono la stessa cosa. C’è anche una
cosa che si chiama dentizione preventiva.
− Detenzione preventiva, − la corresse lei. – È Kristiane che ti insegna
queste parole?
− Mhm… − le rispose Ragnhild mettendosi a leccare il muso dell’orsetto.
– Perché sul giornale parlano delle persone cattive?
− È un’intervista, − le rispose Johanne. – A un uomo che si chiama…
Guardò la fotografia di Ehud Olmert. Di scatto voltò pagina.
− Adesso non c’è proprio tempo per questo, − disse alla figlia con un
sorriso. – Perché non cominci a lavarti i denti? Poi vengo io ad aiutarti.
La bambina si cacciò il pupazzo sotto braccio e scomparve in bagno.
Johanne stava ripiegando l’«Aftenposten» per riporlo quando lo sguardo le
cadde su un trafiletto in prima pagina che la costrinse, con una certa
riluttanza, a cercare l’articolo a pagina cinque a cui si riferiva.
Il caso Marianne è ancora un mistero: oltre trecento testimoni interrogati
finora.
Se c’era qualcosa di cui non aveva proprio bisogno la mattina presto era
doversi rapportare all’ennesimo omicidio. Ciononostante non riuscí a
trattenersi dal dare un’occhiata all’articolo. La polizia non seguiva ancora
piste certe, o per lo meno non ne seguiva nessuna che desiderasse rendere
pubblica, ma la conclusione al momento era che l’omicidio fosse avvenuto
all’interno dell’albergo. Niente infatti stava a indicare che il cadavere fosse
stato spostato. L’ispettore capo Silje Sørensen assicurava che l’assassinio di
Marianne Kleive, quarantadue anni, maestra di scuola materna, aveva la
massima priorità e che le indagini si sarebbero intensificate. Lei contava che il
caso venisse risolto, ma, come ammoniva fin da questo momento, forse ci
sarebbe voluto del tempo. Molto tempo.
Johanne aveva consapevolmente evitato di interessarsene. Da quando era
stato ritrovato il cadavere aveva tralasciato la lettura dei vistosi trafiletti dei
tabloid come anche degli articoli piú seri dell’«Aftenposten». Le era bastato il
matrimonio di sua sorella, non aveva certo bisogno di approfondire un
omicidio che era stato compiuto dove si trovava Kristiane.
Non capiva esattamente che cosa l’avesse spinta a occuparsene proprio
quel giorno. Irritata, gettò via il giornale.
Un pensiero. Un minuscolo pensiero affiorò nella sua mente. Un pensiero
che non voleva avere.
Di colpo balzò in piedi.
– No, − disse stringendo i pugni. – No.
Senza nemmeno sparecchiare la tavola andò in bagno pestando i piedi,
come se il suono dei suoi passi sul parquet potesse scacciare l’inquietante
germoglio di consapevolezza che si stava radicando in lei.
− Adesso ti aiuta mamma a lavare i denti, − disse a voce
ingiustificatamente alta e tolse di mano lo spazzolino a Ragnhild, con un
gesto cosí brusco da farla scoppiare a piangere. – Non c’è nessun motivo per
mettersi a piangere, Ragnhild. Su, apri la bocca.
«La signora era morta».
Johanne risentí la voce di Kristiane con la stessa nitidezza che avrebbe
avuto se la figlia fosse stata accanto a lei in quel momento.
− Albertine, − disse a voce alta. – Era di Albertine che stava parlando.
− Io non voglio la baby-sitter, − gridò Ragnhild, e addentò lo spazzolino.
«La signora era morta».
Kristiane lo aveva detto e ripetuto diverse volte quando, confusa e
infreddolita, era stata riportata in albergo dopo essere uscita in Stortingsgaten
durante i festeggiamenti per le nozze della zia.
− Mamma, − strillò Ragnhild cercando di tenere i denti serrati. – Mi fai
male cosí!
− Scusami, − le disse Johanne, e lasciò cadere lo spazzolino come fosse
incandescente. – Scusa, tesoro mio! Mamma è proprio una sciocca.
Si mise in ginocchio e la abbracciò, affondò il viso nel suo collo e la
strinse forte a sé.
− Cosí mi soffochi, − ansimò Ragnhild. – Mamma! Non riesco a respirare!
Johanne si staccò da lei e la afferrò per le spalle con tutte e due le mani, la
guardò dritta negli occhi e tirò fuori un sorriso forzato.
− Adesso mi devi aiutare, − le disse, prima di deglutire a fatica. – Puoi
aiutare mamma, eh?
− Sííí...
Ragnhild aggrottò la fronte. Aveva l’aria di chi si aspetta con l’inganno
qualcosa che non sopporta.
− Chi è che Kristiane chiama «signora»? – le chiese Johanne cercando di
sorridere ancor di piú.
− Tutte le donne che non conosce, − rispose Ragnhild.
− E magari anche quelle che non conosce molto bene, non è vero?
− No…
− Ma sí! Come Albertine, per esempio. Vi ha fatto da baby-sitter solo
cinque o sei volte. Può capitare che Kristiane la chiami ancora «signora» ogni
tanto, non è vero?
Ragnhild scoppiò a ridere. Le lacrime impigliate nelle ciglia rilucevano
nell’intensa luce del bagno.
− Ma no, mamma! Kristiane Albertine la chiama Albertine. Ma noi non
stiamo con la baby-sitter questa sera, vero? Tu stai a casa con me e…
«La signora era morta».
− Ma certo, − rispose lei, e si alzò. – Io sto qui con te, certo.
Poi Johanne smise di essere presente.
Non fu lei a tirar fuori una pastiglia di fluoro e infilarla in bocca a
Ragnhild. Non era Johanne Vik quella che con grande tranquillità se ne andò
in cucina a preparare il pranzo da portare via senza nemmeno gettare
un’occhiata al giornale. E quando arrivò alle scale che scendevano fino alla
porta d’ingresso riconobbe a stento la morbida manina di sua figlia.
«L’anima. Non si vede che se ne va via».
Il cenone della vigilia di Natale.
Le parole di Kristiane quando parlavano della morte.
− Mamma, − le disse Ragnhild in tono pacato con gli stivali ai piedi. –
Adesso mi sembri tanto strana stranissima.
Johanne non ebbe la forza di ribattere.
E nemmeno di sorridere.
Astrid Tomte Lysgaard non era piú sicura che le piacesse davvero tanto
silenzio quando Lukas era al lavoro e i bambini a scuola. Nessuna delle sue
amiche era rimasta a casa se non nel periodo obbligatorio del primo anno di
vita del bambino, ma lei aveva l’impressione che quasi tutte le invidiassero la
pace che secondo loro regnava a casa sua fra le otto e mezza e le quattro e un
quarto.
Anche a lei per molto tempo era piaciuta quella tranquillità.
I lavori domestici quotidiani raramente le portavano via piú di tre ore,
spesso ancor meno. Anche se era lei ad accompagnare e andare a riprendere i
bambini e a occuparsi della spesa, il tempo libero che le restava non era poco.
Leggeva, faceva lunghe passeggiate, due volte alla settimana andava in
palestra al Nautilus in Idrettsveien. Qualche rara volta le capitava di sentirsi
sfiorare dalla noia, ma era una sensazione che non durava mai a lungo. Che
tutto fosse già stato fatto e che la cena fosse in tavola quando Lukas tornava
dal lavoro dava serenità ai loro pomeriggi e alle loro serate, rendeva piú
piacevole la convivenza, migliorava la vita familiare. Potevano usare il
proprio tempo per stare con i bambini anziché per le faccende di casa e Lukas
le dimostrava quotidianamente la sua gratitudine per la scelta che aveva fatto.
Dopo la morte della suocera, però, tutto era cambiato.
Lukas soffriva in un modo che la spaventava.
Sembrava cosí assente.
Meccanico.
Parlava poco e capitava che fosse brusco, anche con i figli. Di solito era
sempre lui a fare i compiti con il piú grande, negli ultimi tempi però aveva
perso la capacità di concentrarsi perfino sugli esercizi della seconda
elementare. In cambio si era messo a sistemare il garage, con l’intenzione di
appendere delle mensole nuove lungo tutta la parete corta interna. Doveva
fare molto freddo a starsene là fuori tutte le sere e, quando finalmente tornava
dentro, cenava in silenzio e se ne andava a dormire senza nemmeno sfiorarla.
La casa era cosí silenziosa… E a lei questo non piaceva.
Posò il ferro da stiro in verticale e si avvicinò alla finestra per accendere la
radio. Era proprio ora che la smettesse di piovere. Gennaio era sempre stato
un mese molto triste, ma questo era peggio del solito. La bassa pressione
aveva su di lei un brutto effetto, fisicamente parlando: erano giorni che
soffriva di un leggero mal di testa.
Quel mattino stava peggio che mai, sentiva delle vere e proprie fitte alle
tempie. Provò a massaggiarsele con tocchi leggeri, ma non ottenne alcun
beneficio. Meglio andare in bagno a prendere un analgesico; poi avrebbe
finito di stirare.
Nell’armadietto dei medicinali che tenevano chiuso a chiave non ne era
rimasto neanche uno, di analgesico. Astrid cercò disperatamente fra cerotti di
Asterix e pastiglie di fluoro, flaconi di disinfettante e collutorio. Ma contro il
dolore non c’era niente, a parte delle supposte per bambini.
Le parve che il mal di testa fosse peggiorato soltanto perché non aveva
trovato il farmaco giusto.
«Le pillole per l’emicrania di Lukas», pensò.
Solo che non erano nell’armadietto dei medicinali. Lukas era dell’idea che
la serratura non fosse molto robusta e che una medicina cosí forte potesse
essere pericolosa per un bambino di otto anni curioso e con una spiccata
abilità manuale. Teneva quelle pillole chiuse a chiave in un cassetto
dell’imponente scrivania nella stanza che aveva adibito a studio. Astrid
sapeva dov’era la chiave: dietro una prima edizione de Il giro del mondo in
ottanta giorni che Lukas aveva ricevuto in dono dai genitori per i suoi
vent’anni.
Astrid non aveva mai aperto quel cassetto ed esitò prima di infilare la
chiave nella toppa.
Fra di loro, fra lei e Lukas, di segreti non ce n’erano.
Forse avrebbe dovuto telefonargli e chiedergli il permesso.
Era suo marito, pensò rassegnata, e lei voleva solo una pillola per lenire il
mal di testa. Lukas non le aveva mai proibito di guardare in quel cassetto.
Non sarebbe stato da loro imporsi reciprocamente un divieto, di qualunque
genere.
Con uno scricchiolio quasi impercettibile la serratura scattò. Astrid aprí il
cassetto e si trovò sotto gli occhi una fotografia. Una donna. E la fotografia
doveva essere vecchia. Prima rimase a fissarla lí dov’era, poi la sollevò
delicatamente e la guardò alla luce intensa della lampada da scrivania.
C’era qualcosa di noto in quel volto. Solo che lei non riusciva a dargli una
collocazione precisa. In un certo senso la forma del viso e il naso dritto le
ricordavano Lukas, ma doveva trattarsi di un caso. La donna del ritratto aveva
anche quella particolarità, un incisivo superiore parzialmente sovrapposto
all’altro, ma probabilmente erano in molti ad avere i denti cosí. Lill Lindfors,
per esempio, la famosa cantante e attrice finnico-svedese. Glielo diceva
sempre quando erano molto giovani e lei amava ogni cosa di Lukas: sei come
Lill Lindfors.
Anche se non aveva idea di chi fosse la donna del ritratto, la colpí la
singolare sensazione di aver già visto quell’immagine. Solo che non riusciva
proprio a farsi venire in mente dove. E mentre fissava la donna si accorse che
il mal di testa le era passato. In tutta fretta ripose la fotografia dove l’aveva
trovata, chiuse a chiave il cassetto e rimise la chiave nel solito nascondiglio.
Uscendo dallo studio di Lukas si chiuse cautamente la porta alle spalle,
come se avesse fatto qualcosa di scorretto.
La sconsolante mole di carte riguardanti i crimini irrisolti impilate sulla
scrivania del suo ufficio demoralizzavano Silje Sørensen. Nonostante tutte le
scartoffie fossero state accuratamente ordinate in fascicoli, c’era posto a
malapena per una tazza. Silje si sedette, scostò un mucchietto di ritagli di
giornale e posò il caffè prima di iniziare a rivedere tutto da capo.
C’era bisogno di stabilire delle priorità.
I casi si stavano accumulando.
Le azioni piú o meno legali organizzate dal sindacato della polizia per
protestare contro le pessime condizioni di lavoro, gli stipendi inadeguati, la
carenza di personale e la minaccia di cambiamenti nel sistema pensionistico,
nel corso dell’ultimo anno avevano portato all’inasprimento delle trattative fra
Stato e polizia. Gli agenti non erano piú disponibili a fare gli straordinari. I
casi, come tutto il resto, richiedevano tempi piú lunghi. Gli oltre undicimila
membri dell’organizzazione avevano cominciato a cambiare l’ordine delle
priorità. Anche se le cifre non erano ancora state elaborate, sembrava che già
a gennaio del 2008 la percentuale di casi risolti fosse radicalmente diminuita
rispetto al 2007. I poliziotti facevano valere il proprio diritto ad avere del
tempo libero e si ammalavano con maggior frequenza: stranamente, ogni
tanto in contemporanea e spesso e volentieri prima dei fine settimana, quando
le sfide che i tutori della legge si trovavano a dover affrontare aumentavano.
E i malfattori in genere se la cavavano meglio.
I cittadini si sentivano meno protetti. La polizia, che aveva sempre goduto
di grande rispetto, stava perdendo la simpatia della popolazione. I giornali
riportavano con frequenza crescente storie di vittime di violenze che non
riuscivano a sporgere denuncia perché le stazioni locali di polizia erano
sguarnite, storie di uffici dislocati in zone rurali che restavano chiusi per tutto
il fine settimana, storie di persone derubate costrette ad aspettare per giorni i
rilievi della scientifica, sempre che la scientifica prima o poi arrivasse.
Silje Sørensen era membro del sindacato ma aveva da tempo rinunciato a
tenere il conto delle sue ore di straordinario. L’unico metro di misura che
utilizzava erano le reazioni della sua famiglia: quando i figli diventavano un
po’ troppo indisciplinati e il marito si faceva taciturno, allora lei cercava di
passare piú tempo a casa. Altrimenti svicolava in ufficio ogni volta che
poteva, indipendentemente dall’orario di lavoro canonico.
In quanto figlia unica di un armatore, nessuno si era mai neanche
lontanamente aspettato che entrasse alla scuola di polizia. Quando aveva
saputo della sua scelta professionale, la madre era entrata in uno stato di choc
e di isteria che era durato per tutto il primo anno di corso. Avevano speso una
fortuna in collegi in Svizzera e Inghilterra ed ecco che la figlia buttava via il
suo futuro per lavorare nel pubblico! E se proprio voleva insudiciarsi
frequentando autori di crimini violenti, per non dire di peggio, perché mai non
poteva fare l’avvocato? Magari proprio per la polizia?
Era esattamente una reazione del genere che Silje si era aspettata.
Il padre, invece, aveva fatto un gran sorriso e l’aveva baciata sulla fronte
quando lei gli aveva raccontato di essere stata ammessa alla scuola di polizia.
Silje Sørensen non si era mai ribellata, né da bambina né da adolescente.
Non aveva mai protestato: né quando a dieci anni le avevano imposto di
trasferirsi all’estero e accontentarsi di vedere i genitori solo in vacanza, né
quando nell’estate dei suoi quindici anni aveva dovuto trascorrere due mesi in
una scuola francese in Svizzera in cui le giornate iniziavano alle sei e mezza e
le suore cattoliche non lesinavano metodi punitivi che probabilmente la
Convenzione di Ginevra aveva proibito. Silje non si era opposta nemmeno
quando il padre aveva deciso di farle fare cinque anni di scuola in due e
mezzo: era riuscita a prendere il bachelor in inglese a nemmeno diciannove
anni. Quando era diventata maggiorenne, anche per premiarla della sua
taciturna pazienza e del suo encomiabile impegno, il padre aveva donato a lei,
la sua unica figlia, metà del proprio patrimonio.
La scuola di polizia era stata la prima, risoluta azione di protesta di Silje
Sørensen.
Quando, nel suo primo anno di attività, era stata messa a lavorare agli
ordini della leggendaria Hanne Wilhelmsen, si era resa subito conto che la sua
scelta ribelle e sovversiva avrebbe fatto la sua felicità. Quasi tutto ciò che
sapeva del mestiere di poliziotto lo aveva imparato da quella mentore
ricalcitrante e taciturna. Nonostante Hanne Wilhelmsen fosse sempre piú
impopolare a causa del suo stile autoritario, Silje non aveva mai smesso di
ammirarla. Quando avevano sparato all’ispettore capo Wilhelmsen durante
una drammatica azione di polizia nel Nordmarka, lasciandola paralizzata dalla
vita in giú, Silje aveva sofferto come se fosse stata sua sorella. Che Hanne
avesse poi voltato le spalle ai pochi amici che le erano rimasti nella grande e
sporca centrale di Grønlandsleiret era una cosa che lei non era mai riuscita a
superare.
Silje Sørensen era orgogliosa della sua professione, ma gli angusti limiti
entro i quali era costretta a operare la scoraggiavano.
Decise che innanzitutto avrebbe suddiviso i casi in base alla gravità.
Accoltellamenti insignificanti e futili risse da bar che non avevano provocato
ferite mortali finirono in un mucchio a parte.
«Probabilmente ve la caverete», pensò rassegnata, cercando di ignorare
che diversi di quei crimini avevano per protagonisti noti malfattori.
Archiviare quei casi sarebbe stata una forte provocazione nei confronti delle
vittime. Ormai però era cosí che funzionavano le cose, e in osservanza alle
direttive impartite dal procuratore generale e dalla Direzione nazionale della
polizia lei non aveva nulla di cui preoccuparsi se privilegiava i casi piú gravi
rispetto ai meno gravi. I cittadini forse faticavano a capire la definizione di
«grave» secondo il metro della polizia, ma lei non poteva farci nulla.
Dopo un’oretta i fascicoli erano stati suddivisi in cinque gruppi.
Silje bevve gli ultimi sorsi di caffè tiepido, poi prese tre di quei mucchi e li
infilò nell’armadio alle sue spalle.
Ne restavano due.
Il piú piccolo era quello dei casi di omicidio. Tre fascicoli: il primo era
piuttosto sottile e il secondo quasi altrettanto esile, il terzo invece era talmente
rigonfio che per tenerlo insieme aveva dovuto legarlo con due elastici doppi
incrociati.
All’improvviso si alzò e si avvicinò alla bacheca di sughero sulla parete
opposta a quella dove si trovava la sua postazione di lavoro. Diede una rapida
occhiata a ognuno dei foglietti appesi, poi ne staccò uno e lo mise sulla
scrivania, mentre gli altri finirono tutti nel grosso cestino per la carta straccia.
Dall’armadio tirò fuori tre fogli di formato A4. Ci stavano giusti giusti uno
accanto all’altro nella parte superiore della bacheca.
«Runar Hansen», scrisse in pennarello rosso sul primo foglio.
«19/11/08».
Sul foglio successivo scrisse il nome di Hawre Ghani.
«24/11/08».
Mordicchiando il tappo del pennarello si fermò a riflettere un attimo, poi
aggiunse un punto di domanda.
«24/11/08?»
Non era ancora possibile stabilire con esattezza quando Hawre Ghani fosse
stato assassinato, ma che fosse stato assassinato era ormai certo. Il medico
legale aveva trovato prove inconfutabili di garrottamento, nonostante le
deplorevoli condizioni del cadavere. Che il ragazzo si fosse impiccato
avvolgendosi un filo di acciaio intorno al collo fino a quando la testa non si
era quasi staccata dal corpo e che poi si fosse gettato in mare era poco
probabile. L’istituto di Medicina legale sull’ora del decesso aveva fatto solo
supposizioni, ma la polizia non aveva trovato alcuna prova che il ragazzo
fosse ancora vivo dopo essere scomparso con quel cliente lunedí 24 novembre
davanti alla stazione centrale di Oslo. Erano stati visionati i filmati di ognuna
delle telecamere di sicurezza, naturalmente, ma non si era scoperto niente di
nuovo. Tutto sembrava concordare con la versione fornita dal ragazzo di
strada Martin Setre: quel tizio li aveva adescati subito fuori dalla stazione.
«Maledetto furbastro», pensò rassegnata Silje Sørensen.
«Marianne Kleive», scrisse sull’ultimo foglio.
19/12/08.
Rimise il tappo sul pennarello e arretrò di due passi.
Sentí il bordo della scrivania dietro di lei e ci si sedette sopra.
Tre omicidi. Tutti e tre irrisolti. Per Runar Hansen aveva la coscienza
sporca. Non osava nemmeno guardarlo il suo sottile fascicolo, preferiva
fissare il suo nome, l’anonimo nome di un tossico picchiato e rapinato nel
Sofienbergparken senza che nessuno si fosse preoccupato di quanto stava
accadendo. Che cosa era stato fatto, per Runar Hansen? Un rapido
sopralluogo nelle ore successive al ritrovamento del cadavere, un rapporto
steso dal medico legale e un piccolo trafiletto sull’«Aftenposten», oltre agli
interrogatori di due testimoni che non erano stati in grado di dire niente altro
se non che Runar Hansen era senza fissa dimora, senza un lavoro stabile e che
aveva una sorella di nome Trude.
Per lo meno durante le indagini sul caso Hawre Ghani era successo
qualcosa. L’identikit era stato diffuso ma non reso pubblico, perché si pensava
che i tempi non fossero ancora maturi per una cosa del genere. L’esperienza
insegnava che sarebbero stati inondati di segnalazioni: la faccia di quell’uomo
era talmente comune che li avrebbero sommersi di riconoscimenti. Knut Bork
continuava il suo lavoro nell’ambiente della prostituzione. Lei stessa aveva
richiesto una ricostruzione della vita del ragazzo a partire dal suo arrivo in
Norvegia, in modo da avere un quadro il piú completo possibile dell’infelice
destino di Hawre Ghani.
Il caso Marianne Kleive procedeva a ritmo serrato.
L’omicidio di una maestra quarantaduenne di scuola materna aveva gli
ingredienti giusti per suscitare un bel circo mediatico. Le fotografie private su
cui «VG» era riuscito a mettere le grinfie solo due ore dopo che il caso era
stato reso pubblico mostravano una donna di rara bellezza. Una folta
capigliatura bionda ondulata, le gambe lunghe e un corpo slanciato e atletico.
Proprio il tipo di lesbica adorata dalla stampa. C’era qualcosa in lei che le
ricordava la pallamanista Gro Hammerseng, omosessuale anche lei. Sotto il
suo nome sul pannello di sughero Silje Sørensen appese la prima pagina
strappata da un «VG» di alcuni giorni prima. E se la moglie di Marianne
Kleive, Synnøve Hessel, non era esattamente una celebrità, aveva comunque
un posto di tutto rilievo nell’ambiente cinematografico norvegese, tanto che i
giornali potevano usare epiteti ideali per incrementare le vendite come «la
famosa e pluripremiata» per riferirsi alla sofferente vedova della vittima. Una
donna molto fotogenica anche lei, tra l’altro, perfino in giacca a vento e
capelli scompigliati a un’altitudine di 5208 metri al campo base Everest Nord
in Tibet.
Anche il fatto che l’omicidio avesse avuto luogo nel rispettabile Hotel
Continental giocava un ruolo non da poco. Due giorni dopo il ritrovamento
del cadavere «VG» aveva pubblicato un’intera pagina su un certo Fritjof
Hansen, un’anima semplice di cui l’albergo si serviva per i lavoretti piú
disparati. Era stato lui a trovare il cadavere della donna e, grazie alla sua
entusiastica passione per Csi, si era premurato di impedire a chiunque
l’accesso alla scena del crimine fino all’arrivo della polizia, che aveva cosí
potuto raccogliere le tracce. La fotografia sul giornale lo mostrava seduto in
poltrona, con una lattina da mezzo litro di birra e una confezione di patatine:
sul volto aveva l’espressione di chi porta sulle spalle il carico delle sofferenze
del mondo intero.
A volte Silje Sørensen avrebbe desiderato che i mezzi di comunicazione di
massa non esistessero; di tanto in tanto avrebbe voluto che la libertà di stampa
se ne andasse a quel paese.
Prese la tazza di caffè.
Era vuota.
Corrugò la fronte e cominciò a spostare lo sguardo da una foto all’altra.
Senza distogliere gli occhi dal pannello di sughero tastò con la mano alla
ricerca del pennarello e dopo averlo trovato gli tolse il tappo con i denti e
andò a scrivere «Sofienbergparken» sotto il nome di Runar Hansen e la data
della sua morte. Sotto il nome di Hawre Ghani scrisse «prostituzione
minorile» e per finire, sotto l’immagine di Marianne Kleive in cima al
Gaustatoppen in una giornata di sole con indosso il reggiseno di un bichini,
jeans tagliati e scarponi da trekking, scrisse «convivenza omosessuale».
Nello stesso istante in cui si riappoggiò alla scrivania bussarono alla porta.
Si tolse il tappo del pennarello di bocca e gridò: − Avanti!
Knut Bork obbedí.
− Buongiorno! – disse con il fiatone. – Ho pensato che era meglio…
− Vieni qui, − gli disse Silje Sørensen. – Mettiti accanto a me.
L’agente Knut Bork si strinse nelle spalle ed eseguí la sua richiesta.
− Che stai facendo? Questo cosa sarebbe? – le chiese, indicando il
pannello di sughero con un cenno del capo.
− Sono tre casi di omicidio che mi sono stati assegnati, − gli rispose Silje.
− Tre sono troppi.
− Ne avevo quattro. Ho rinunciato a uno. Non noti qualcosa di strano?
− Qualcosa di strano? Dovrei prima leggere la documentazione e…
− No. Tu i casi li conosci, Knut. Limitati a guardare il pannello, solo
questo.
Lui corrugò la fronte senza dire una parola.
− Sofienbergparken, − lesse. – Prostituzione minorile, convivenza
omosessuale.
Non trovava alcun nesso fra quelle parole.
− Per quale ragione lo conoscono tutti, il Sofienbergparken? – gli chiese
lei.
− Ah… be’… Con tutte le ambulanze che…
− No. Cioè, sí, anche quello, ma… cos’altro? Non mi riferisco alla parte a
ovest della chiesa di Sofienberg, ma a quella dietro, la parte est.
− Omosessuali, − rispose lui senza esitazione. – Compravendita e scambio
di prestazioni omosessuali. Non è certo un posto dove andrei quand’è buio.
− Appunto, − disse Silje con un mite sorriso. – È lí che Runar Hansen è
stato ritrovato. Lo hanno ucciso una fredda e piovosa notte di novembre, fra
mezzanotte e mezzanotte e mezza. È praticamente l’unica cosa che abbiamo
scoperto: quando è stato ammazzato, cioè.
− Era omosessuale?
− Non ne ho idea. Ma basiamoci su ciò che sappiamo finora: attieniti alla
reputazione di quel posto. Capisci a che cosa sto alludendo?
Silje lo guardava: un’ombra di stupore gli attraversò gli occhi quando
comprese il punto.
− Maledizione! – esclamò passandosi una mano sull’incolta barba bionda.
– Strano che la Llh non si sia ancora fatta sentire!
La Llh, l’associazione nazionale di lesbiche e omosessuali, cercava da
tempo di spingere il ministero della Giustizia a prendere in considerazione
con la dovuta serietà i casi di violenza omofoba. Silje Sørensen aveva sempre
ritenuto che il vero problema fosse che le aggressioni contro gli omosessuali
raramente si distinguevano in modo palese da una qualunque aggressione
compiuta in stato di ebbrezza. Contro donne. Contro uomini. Contro
eterosessuali e omosessuali. Le persone bevevano. Diventavano aggressive.
Picchiavano, accoltellavano, violentavano e uccidevano. Per ogni vittima
omosessuale Silje avrebbe potuto sciorinare un centinaio di vittime
eterosessuali. Non riusciva proprio a capire perché la Llh la assillasse tanto.
Questo però sí che era strano.
− Runar Hansen è in un parco noto per la compravendita e lo scambio di
prestazioni omosessuali, − disse lentamente. – Hawre Ghani sparisce con un
cliente omosessuale. Marianne Kleive è sposata con una donna. Tutti e tre
vengono uccisi, ma con modalità diverse e in luoghi diversi e da vivo nessuno
dei tre ha mai avuto a che fare con gli altri due. Per quanto ne sappiamo noi,
ovviamente. Solo che…
Socchiuse gli occhi.
− Sono stata incaricata di coordinare le indagini su tre omicidi indipendenti
e in tutti e tre spunta la questione omosessualità. Quante probabilità ci sono
che capiti una cosa simile?
− Molto poche, − rispose Knut Bork mentre si mordicchiava l’unghia del
pollice. – Ma che cazzo succede? E poi… Silje… parlando seriamente, com’è
che nessuno si è reso conto di un collegamento del genere, finora?
Lei non rispose. Rimasero in silenzio a fissare il pannello di sughero. A
lungo.
− Del primo caso, non gliene frega niente a nessuno, − disse a un tratto. –
Del secondo nessuno sa niente. O meglio: la gente ha letto sui giornali che è
stato ritrovato un cadavere nella darsena di Oslo, e di sicuro saranno uscite un
paio di righe sul fatto che si trattava di un giovane profugo. Ma niente di piú.
Quanto a Marianne Kleive… il caso è…
Esitò cosí a lungo che Knut Bork finí per completare la frase rimasta in
sospeso: − Il caso è cosí particolare e assurdo che l’omosessualità della
vittima sembrerebbe una cosa del tutto secondaria.
Silje si avvicinò al pannello di sughero e tolse i fogli bianchi e i ritagli di
giornale che ci aveva attaccato, poi li accartocciò tutti insieme e li gettò nel
cestino. Knut Bork restò immobile a braccia conserte mentre lei girava
intorno alla scrivania e si sedeva.
− Tutto questo, − gli disse in tono fermo, − tutto questo io e te ce lo
terremo per noi. Almeno per il momento. Potrebbe trattarsi di un semplice
caso, ogni collegamento potrebbe essere un caso. Ma può anche darsi che si
tratti di…
− Qualcosa di atroce, − completò Knut Bork. Gli sanguinava il pollice.
Per la seconda volta nel giro di tre settimane Johanne era rimasta a casa da
sola, e questo le faceva quasi paura. L’appartamento le sembrava sempre cosí
strano quando mancavano i rumori che facevano le bambine. Si sorprese a
camminare in punta di piedi per non far baccano.
− Su, ripigliati, − mormorò tra sé e sé mettendo su un cd di canzoni che
Line Skytter aveva scelto e registrato e poi le aveva donato a Natale.
Kristiane sarebbe rimasta da Isak fino a venerdí, mentre Ragnhild un
mercoledí sí e uno no si fermava a dormire dai nonni materni.
Aveva cercato piú volte di mettersi in contatto con Yngvar, ma rispondeva
sempre la segreteria del suo cellulare. Probabile che fosse in riunione. Quando
finalmente era spuntato il giorno dopo quell’inquieta e angosciosa notte,
aveva dovuto ammettere a sé stessa che doveva parlarne con Yngvar: dubbi
non ne aveva piú, a differenza della notte prima, quando aveva continuato a
cambiare idea. Ormai aveva preso una decisione, e aver preso una decisione
bastava a farle apparire tutta quella storia meno nera.
Se solo avesse saputo che cosa aveva davvero visto Kristiane.
Anche se aveva capito che qualcosa doveva aver visto, non sapeva ancora
esattamente che cosa. Non le era sembrato il caso di esercitare ulteriori
pressioni sulla figlia. Forse avrebbe potuto insistere piú avanti, pensò,
vagando silenziosa e senza scopo a piedi nudi.
Le canzoni che Line le aveva registrato non erano esattamente il suo
genere: andò allo stereo e smorzò la voce di Kurt Nilsen nel bel mezzo di un
ritornello.
Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non aveva fame.
A quanto pareva, la riunione di Yngvar non finiva piú: erano passate tre
ore da quando gli aveva lasciato il primo messaggio chiedendogli di
richiamarla.
Avrebbe potuto lavorare.
O leggere.
Guardare un film, magari.
Senza rifletterci, afferrò il telefono e digitò il numero di Isak. Lui rispose
subito.
− Ciao, sono Johanne.
− Ciao −. Gli sentí un sorriso nella voce.
− Telefonavo solo per…
− Per sapere come sta Kristiane, − completò lui. – Sta benissimo. Siamo
stati alla Bislet bad. In realtà i bambini possono entrare in piscina solo nel fine
settimana, ma Kristiane è cosí tranquilla e silenziosa che la tizia
all’accettazione la lascia entrare.
− Non la farai andare da sola nello spogliatoio femminile?
− Ma certo. È troppo grande per venire con me in quello maschile! Le sta
spuntando il seno, te ne sei accorta? E qualche pelo in mezzo alle gambe! La
ragazzina cresce, Johanne, e ovviamente io la lascio andare nello spogliatoio
femminile da sola.
Lei non ribatté.
− Johanne, − aggiunse lui in tono rassegnato, − Kristiane se la cava
benissimo! Adesso ci stiamo preparando dei tacos e lei ha cotto tutta la carne
trita da sola. Si è messa ad affettare le verdure e lo sa fare bene. Quando è da
me, prepariamo sempre la cena insieme. Ha quasi quattordici anni, Johanne.
Non potrai continuare a trattarla come una bambina per tutta la vita.
Lei è una bambina.
La bambina piú vulnerabile del mondo.
− Pronto?
− Sí… − mormorò Johanne. – Ci sono. Sono contenta che ve la passiate
bene, volevo solo sentire se…
− Vuoi parlare con lei? È qui vicino a me.
In sottofondo si sentí un gran baccano.
− Oh oh, − disse Isak. – È caduto qualcosa. Ti dispiace richiamarmi fra un
attimo?
− Ma no, non ti preoccupare, non è necessario. Ci vediamo venerdí. Ciao!
− Ciao!
La voce di lui svaní e lei posò il telefono sbattendolo con un po’ troppa
noncuranza sul tavolino. Andò alla grossa finestra senza piú premurarsi di
camminare piano, lo fece, anzi, pestando irritata i piedi sul pavimento, incerta
se ce l’avesse con sé stessa o con Isak.
Non si era ancora procurata le tende.
Era caduta cosí tanta neve che la recinzione che dava su Hauges Vei non si
vedeva piú. I cumuli erano enormi: la gente ormai non sapeva piú dove
ammassare la neve che spazzava dai vialetti di accesso e dai passi carrabili. In
mancanza di altri posti la spargeva in mezzo alla strada, con la conseguenza
che in gran parte quei cumuli tornavano da dove erano venuti ogni volta che
passava lo spazzaneve.
Non c’era anima viva in giro. Il vetro gelido della finestra la fece
rabbrividire. Il grosso pupazzo di neve che i ragazzini della casa di fronte
avevano costruito nel fine settimana la fissava con i suoi occhi nero carbone.
Aveva perso il naso. Le braccia fatte con ramoscelli di betulla sporgevano
rigide ai due lati come artigli di strega. Aveva un berretto vecchio in testa e
una sciarpa di un rosso sgargiante che gli copriva metà faccia.
Le ricordava l’uomo accanto alla recinzione.
Johanne si scostò.
L’indomani avrebbe messo le tende alle finestre.
All’improvviso si rese conto di essersi sbagliata.
L’angoscia che la tormentava da Natale non era iniziata con l’uomo
accanto alla recinzione. La sensazione che qualcuno tenesse d’occhio
Kristiane non era dovuta all’estraneo che le aveva chiesto cosa avesse
ricevuto per Natale. Il motivo per cui quella volta la sua reazione era stata
tanto violenta era che la paura si era già insinuata in lei. La ricerca di quelle
maledette costolette di maiale e tutto quel trambusto per preparare un cenone
che piacesse a sua madre aveva temporaneamente rimpiazzato l’angoscia.
Non era stato l’uomo accanto alla recinzione a fargliela venire: era già
dentro di lei, fin dalle nozze della sorella. Quando Kristiane si era
immobilizzata sulle rotaie del tram e Johanne si era convinta che sarebbe
morta, fin da quel momento aveva compreso che la sua disperazione non
dipendeva soltanto dall’aver visto la figlia in pericolo. In fondo era andato
tutto bene e, malgrado lei di natura fosse un po’ troppo ansiosa, non le era mai
capitato di sentirsi cosí, a parte la volta in cui Wencke Bencke l’aveva
subdolamente minacciata cinque anni prima.
Johanne si precipitò al portatile e si collegò in rete.
Google ci mise quella che le parve un’eternità ad aprirsi, e quando lei
digitò il nome di quella giallista famosa in tutto il mondo lo sbagliò per ben
quattro volte prima di far partire la ricerca, che le forní ventiseimilanovecento
risultati. Tentò una scrematura: l’unica cosa che le interessava sapere era se la
scrittrice vivesse ancora in Nuova Zelanda.
Wencke Bencke era riuscita a farla franca con gli omicidi. Con grande
sangue freddo e senza che Johanne fosse mai riuscita a capirne bene i
moventi, quella donna aveva ucciso alcune celebrità tra l’inverno e la
primavera del 2004. Johanne aveva aiutato Yngvar e Sigmund in un’indagine
molto complessa, ma non erano mai arrivati a nulla, a parte convincersi che
Wencke Bencke era colpevole. Non erano stati in grado di provare niente. Un
bel giorno di primavera, quand’era ormai chiaro che l’assassino non sarebbe
mai stato preso, la celebre autrice aveva fatto in modo di incontrare Johanne.
Mentre lei spingeva la carrozzina della piccola Ragnhild appena nata, Wencke
Bencke, tranquilla e sorridente, l’aveva raggiunta e aveva ammesso tutto. Non
era stata una confessione utilizzabile in tribunale, ma il messaggio era arrivato
forte e chiaro a Johanne. La latente minaccia che la scrittrice aveva lasciato
cadere subito prima di riprendere la sua passeggiata nel sole primaverile era
stata altrettanto astuta, ma non cosí ambigua, e aveva terrorizzato Johanne. La
paura non se n’era andata del tutto fino a quando, l’anno dopo, Wencke
Bencke non si era sposata con un maori di quindici anni piú giovane e si era
trasferita in Nuova Zelanda. Era tornata in Norvegia solo per il lancio del suo
ultimo libro, cosa che aveva spinto Johanne a ignorare sistematicamente le
pagine culturali dei quotidiani per gran parte dell’autunno.
Ecco.
Un trafiletto di «VG» pubblicato in settembre.
Wencke Bencke sotto il sole circondata da pecore. Lei e il marito avevano
acquistato una fattoria nei pressi di Te Anau. In autunno l’autrice non era
tornata in patria nemmeno in occasione della pubblicazione di un nuovo libro,
e allora quelli di «VG» erano andati da lei.
«Per me, adesso, questa è casa mia, − dice orgogliosa la scrittrice di fama
mondiale, mostrando un gregge di pecore di notevoli dimensioni. – Scrivo
meglio, qui. Vivo meglio, qui. E qui voglio restare».
Johanne respirò un po’ piú sollevata.
Wencke Bencke non c’entrava nulla.
L’angoscia che la tormentava si era manifestata per la prima volta il 19
dicembre, la sera in cui Marianne Kleive era stata uccisa. Johanne sbatté le
ciglia e il numero 19 le apparve come una luminosa incisione verde sul retro
delle palpebre.
Quel maledetto numero 19.
Riaprí gli occhi, ma il suo sguardo era perso nel vuoto.
Squillò il telefono.
Eva Karin Lysgaard era stata assassinata il 24 dicembre.
Niclas Winter, di cui aveva letto sul giornale la notte prima, era morto il 27
dicembre.
Era morto. Non era stato ucciso. Era morto di overdose.
Il telefono non smetteva di squillare. Lo prese. Era Yngvar.
19, 24 e 27.
La somma delle cifre che compongono questi tre numeri è 25.
Mandare in overdose un drogato è un modo piuttosto noto per camuffare
un omicidio.
Il telefono smise di squillare. Dopo pochi secondi ricominciò.
− Pronto, − disse lei con voce piatta mentre accostava il telefono
all’orecchio.
− Ciao, tesoro. Ho visto che mi hai cercato un sacco di volte. Scusa se non
ti ho chiamato prima. Sono stato in riunione tutto il pomeriggio. Non
riusciamo ad arrivare da nessuna parte e…
− Non fa niente, − mormorò Johanne. − Non era nulla di importante.
− Va tutto bene? Hai una voce un po’… strana…
− No, no. Va tutto bene, davvero. Stavo… dormendo. Mi ha svegliato il
telefono. Credo che me ne andrò a letto.
− A quest’ora?
− Sonno arretrato. Ti dispiace se ci risentiamo in un altro momento? Non
vorrei che mi passasse il sonno…
− Ma certo…
La delusione di Yngvar era cosí palese che lei per poco non cambiò idea.
− Dormi bene, – aggiunse poi lui.
− Ciao, tesoro. Ci sentiamo domani mattina, okay? Buonanotte.
Restò seduta a lungo con il telefono muto in mano. Dallo stereo proveniva
la voce lamentosa di Toni Braxton che cantava Un-Break My Heart. Sentí il
motore di un’auto in folle in Hauges Vei. Il vento doveva aver cambiato
direzione, perché il costante e lontano ronzio del traffico in Maridalsveien e
sul frequentatissimo Ring si udiva con una nitidezza tale che era come avere
una tubatura che perdeva in bagno.
Anche se nell’articolo su Niclas Winter pubblicato dal «Dagens
Næringsliv» non si parlava esplicitamente delle sue tendenze sessuali,
leggendo fra le righe era possibile intuire molte cose. L’uomo era malato di
Aids: la causa poteva essere attribuita al suo abuso di eroina, ma non era da
escludere il sesso non protetto con altri uomini. L’installazione CockPitt, per
lo meno, dava da pensare in quella direzione.
Eva Karin Lysgaard era in effetti una donna eterosessuale, sposata e con un
figlio, ma si era anche distinta come una fervida sostenitrice dei diritti degli
omosessuali.
Marianne Kleive era sposata con un’altra donna.
Johanne si alzò dal divano e si rese conto di essere molto affamata.
Ma non piú impaurita.
Tracce
Marcus cercava di pensare ai lati positivi della vita. A tutto ciò che era
bello e buono e che fino a quel momento aveva reso la sua esistenza degna
degli sforzi fatti. A quello che c’era un tempo, prima che lui si rendesse
brutalmente conto che la vita si basava su un errore. Un fraintendimento.
Una rapina.
Era una rapina, tutto quanto, e metteva in ombra qualunque cosa a cui
avrebbe potuto pensare per riuscire finalmente a dormire.
Rolf russava piano.
Lentamente Marcus si tirò su a sedere. Fra un cambio di posizione e l’altro
inseriva delle brevi pause. Alla fine mise i piedi giú dal letto, si alzò e a
piccoli passi andò in bagno. La porta che dava sul corridoio cigolava e cosí
aveva deciso di passare dalla pseudostazione termale in miniatura che
confinava con la camera da letto. Una volta dentro, chiuse la porta attento a
non svegliare Rolf.
Una luce fioca era rimasta accesa. Lillemarcus aveva il suo bagno
personale, ma preferiva andare in quello dei genitori quando si alzava la notte.
Persino in quella tenue illuminazione Marcus aveva una cera orribile e
sussultò guardandosi allo specchio. Le borse sotto gli occhi erano cosí gonfie
che i due cerchi scuri sembravano in procinto di trasformarsi in salsicciotti e
la pelle era talmente pallida da apparire azzurrognola. Era sempre piú grasso,
non aveva mantenuto il buon proposito per l’anno nuovo neanche una volta in
quei primi quindici giorni del 2009. L’odore del suo corpo gli solleticava le
narici: sudore notturno, pigiama non lavato e paura. Distolse lo sguardo dal
proprio riflesso spettrale e uscí nell’ingresso.
La porta di Lillemarcus era socchiusa. Lí Marcus poteva muoversi piú
disinvoltamente. A quell’ora della notte sarebbe anche potuta crollare la casa
e il bambino non se ne sarebbe accorto. Marcus si fermò sulla soglia, a
guardare il figlio addormentato.
La camera era immersa in una luce bluastra e fredda proveniente dalla
lampada da notte sopra il letto, una navicella spaziale in viaggio nella
galassia. Giochi e libri erano fittamente allineati sulle mensole lungo una
parete e sullo schermo del Pc brillavano le stelle di uno screen saver che
Lillemarcus si era scaricato da Internet da solo. Il vecchio orsacchiotto
consumato che doveva per forza stare nel letto con lui al momento di
addormentarsi giaceva abbandonato sul pavimento. Aveva perso un occhio
molto tempo prima, l’altro fissava cieco il soffitto. A passo felpato, senza
urtare nessuno dei tanti oggetti sparsi qua e là, Marcus entrò e andò a
raccogliere il peluche. Se lo accostò al viso per un istante e inspirò l’odore di
tutto ciò che aveva significato.
Silenziosamente si chinò sul figlio, gli sistemò Freddy tra le braccia e lo
coprí meglio con il piumino. Lillemarcus grugní, schioccò le labbra e si girò
di colpo, stringendosi all’orsacchiotto.
Un bisogno quasi irrefrenabile di sdraiarsi lí, accanto a lui, colse Marcus
all’improvviso, tanto da farlo singhiozzare. Sarebbe tornato forte. Voleva
essere il padre capace di consolare il figlio quando si svegliava per un incubo
e aveva bisogno di lui. Nel caso, si sarebbe sdraiato accanto a Lillemarcus, lo
avrebbe cinto con un braccio e gli avrebbe sussurrato storie dei vecchi tempi e
dello spazio cosmico. Il bimbo si sarebbe stretto a lui con un sorriso, i suoi
capelli gli avrebbero solleticato il naso. Sarebbero stati loro due nel mondo
intero, come prima che arrivasse Rolf, come prima che diventassero tre.
Come prima che quella cosa tremenda si insinuasse in lui.
Indietreggiò lentamente, fino a uscire dalla stanza.
Non sapeva che fare.
Non sapeva che farsene della vita, delle notti, di quella notte. L’oscurità
rideva sprezzante di lui da ogni angolo e Marcus sentiva il cuore battergli
sempre piú forte. Corse alle scale: voleva scendere nel suo studio, chiudere la
porta, guardare la televisione, accendere tutte le luci e far finta che fosse
giorno.
Per poco non sbatté la porta richiudendosela alle spalle quando finalmente
arrivò nello studio. Con l’affanno sferrò un pugno al pannello di comando
dell’impianto elettrico, ma non accadde nulla. Si ricompose e con un solo dito
premette correttamente tutti i sensori. Ed ecco lo studio inondato di luce e il
televisore che si accendeva. Era già sintonizzato sulla Nrk, che trasmetteva
Dansefot Jukeboks. Prese il telecomando posato sulla scrivania e abbassò il
volume della musica prima di cambiare canale e mettere la Cnn. Si accasciò
sull’ampia e morbida poltrona da ufficio e reclinò la testa all’indietro.
L’ulcera lo tormentava e si sentiva in gola un sapore amarognolo e acre. Da
sotto lo sterno una fitta di dolore gli si diffondeva per tutto il corpo. Aveva
l’impressione che la sua mente girasse a vuoto e si sentiva scoppiare la
vescica, nonostante non fosse passata neanche mezz’ora dall’ultima volta che
era andato in bagno.
Questo non era piú vivere.
D’un tratto si raddrizzò e prese la chiave dell’antica credenza angolare che
era rimasta nella casa quando l’aveva acquistata. All’inizio la trovava bizzarra
e piuttosto volgare, con quelle decorazioni tradizionali, ma col passare del
tempo aveva imparato ad apprezzarla. Soprattutto perché quel mobile risaliva
al XVIII secolo ed era in ottime condizioni, quindi valeva una fortuna. Quando
infilò la vecchia chiave nella serratura dell’anta e la girò, ebbe la sensazione
che i gambi di quei fiori grassi e grotteschi cercassero di afferrarlo.
L’anta nascondeva cinque piccoli cassetti. Aprí quello piú in alto. Era lí
che teneva le pillole di cui non aveva mai fatto parola a Rolf. Non era
neanche mai stato necessario: sia queste che quelle nella scatola che custodiva
in ufficio erano rimaste intatte per molti anni. Se le rovesciò sul palmo della
mano e tornò alla poltrona. Le fece rotolare sul sottomano in pelle di vitello.
Marcus non sapeva se medicine del genere smettessero di fare effetto una
volta superata la data di scadenza. Ma ne dubitava. Difficile che perdessero
ogni efficacia. Se le avesse buttate giú tutte insieme probabilmente sarebbe
bastato. Ne prese una e se la mise sulla lingua per prova.
Il sapore era sempre lo stesso. Stucchevole e leggermente salato.
Sarebbe stato meglio per Lillemarcus se lui non ci fosse stato piú.
Rolf si sarebbe preso cura del bimbo.
Rolf era un padre migliore di lui. Agendo come aveva agito, Marcus si era
reso colpevole di un reato, ma non solo: non era neanche piú degno di essere
padre. La sua vita intera era essere padre, e ora la sua vita da padre era finita.
Lacrime silenziose gli rigavano le guance mentre si infilava in bocca
un’altra pillola.
E un’altra ancora.
Un lieve stordimento lo spinse ad appoggiare la schiena alla poltrona e a
chiudere gli occhi. Si inumidí l’indice con un po’ di saliva e lo premette alla
cieca sulla scrivania. L’ennesima pillola gli si attaccò al dito e finí sulla punta
della sua lingua.
L’ultima cosa che fece prima di addormentarsi fu aprire il cassetto della
scrivania e spazzarci dentro le pillole rimaste con il fianco della mano.
Non era nemmeno abbastanza uomo da togliersi la vita, pensò intorpidito
prima che un sonno benedetto finalmente piombasse su di lui.
Johanne lesse il messaggino sul display del cellulare due volte, senza
sapere se provare sollievo o rabbia. Da una parte era un bene che il fascicolo
di Kristiane custodito nell’archivio scolastico fosse stato ritrovato,
ovviamente, dall’altra però la impensieriva che l’istituto avesse una politica
cosí indulgente per quanto riguardava l’accesso ai dati sensibili. Nel momento
in cui si chiuse la porta dello studio alle spalle si rese conto che avrebbe
dovuto essere contentissima. Se il fascicolo di Kristiane era stato davvero
semplicemente messo nel posto sbagliato, l’inquietante sensazione che
qualcuno tenesse d’occhio sua figlia avrebbe dovuto abbandonarla.
Infilò il telefonino in borsa e uscí alla chetichella dall’edificio, senza farsi
vedere da nessuno. Erano soltanto le due del pomeriggio, ma non riusciva a
concentrarsi su niente, a parte cercare di mettersi in contatto con Yngvar. Non
si era ancora fatto sentire e al cellulare non rispondeva.
Aveva perso il conto delle volte che aveva provato a chiamarlo.
Il vedovo del vescovo Lysgaard era seduto sulla solita poltrona con lo
sguardo fisso nel vuoto del soggiorno quasi buio. Solo una piccola lampada
accanto al televisore e una candela accesa sul tavolino da caffè diffondevano
un caldo bagliore giallognolo nella stanza. Lukas si era accomodato sulla
poltrona della madre. Gli sembrava di percepirne il calore sulla schiena: i
contorni della madre di cui sentiva la mancanza con una intensità che non
avrebbe mai immaginato prima che morisse.
− Per lo meno adesso sappiamo il motivo, − disse pacatamente. – La
mamma è morta per una sua convinzione. È morta per la sua generosità, papà.
Per la sua fede in Dio.
Erik continuava a tacere. Aveva detto a malapena qualche parola da
quando il figlio era arrivato tre ore prima, si era perfino rifiutato di assaggiare
quel che Lukas gli aveva portato da mangiare. Una tazza di tè era l’unica cosa
che aveva accettato di buttare giú.
Per lo meno si era dimostrato disponibile a leggere il giornale.
In un certo senso lo si poteva considerare un segno di vita, pensò Lukas.
− Perché non mi ha cercato nessuno? – chiese il padre cosí
inaspettatamente che Lukas rovesciò qualche goccia di tè. – Certe cose io non
dovrei venire a saperle dai giornali.
− Hanno telefonato a me. L’ispettore capo Sørensen mi ha chiamato questa
mattina da Flesland. Yngvar Stubø è dovuto tornare a Oslo in tutta fretta e
secondo me non sarebbe stata una buona idea mandare qualcun altro a parlare
con te. A lui ti sei… abituato. Io lo so che non ascolti la radio e non guardi la
televisione. Non rispondi nemmeno al telefono. E allora ho pensato che la
cosa migliore fosse che tu venissi a saperlo da me. Sono arrivato il prima
possibile, papà.
Erik gli lanciò una lunga occhiata esitante. Aveva gli occhi cerchiati di
rosso e dagli angoli della bocca partivano due profonde rughe scure, una per
lato, che scendevano verso il mento. Il naso era piú affilato e come piú grosso.
Alla luce tremolante della candela pareva un uomo mezzo morto.
− Che voce da malato, − gli disse il padre. – Hai il raffreddore?
− Sí –. Lukas accennò un sorriso. − Non sono molto in forma. Ma è bello
saperlo, papà. Che c’era un motivo particolare per cui la mamma è stata
uccisa. Dobbiamo essere fieri che…
Il padre singhiozzò. Un rantolo, un potente sbuffo, poi si passò il dorso
della mano sugli occhi.
− Non ne voglio parlare, − disse ad alta voce.
− Ma papà, è tutto piú facile adesso. Secondo Stubø è una svolta
fondamentale, lui è quasi certo che si risolverà il caso. Adesso per noi sarà piú
facile continuare a vivere, sapendo che…
− Hai sentito?! Hai sentito che cosa ti ho detto?!
Il padre aveva cercato di gridare, ma la voce non gli reggeva.
− Non voglio parlarne! Né ora né mai!
Lukas prese fiato per dire qualcosa, ma cambiò idea.
Non c’era piú niente da dire.
Prima o poi il dolore del padre sarebbe arrivato a una svolta, di questo lui
era certo. Com’era successo a lui quando si era sentito stranamente sollevato
dopo la telefonata di Stubø mentre stava aiutando William a vestirsi, cosí
anche il padre con il tempo avrebbe trovato consolazione nel fatto che Eva
Karin fosse morta per qualcosa in cui credeva.
Non aveva piú senso insistere per sapere chi fosse la donna della
fotografia.
Quando Astrid la sera prima sul tardi gli aveva raccontato di averla data a
Yngvar Stubø lui si era messo a urlare, si era arrabbiato e aveva imprecato.
Nel bel mezzo della sfuriata aveva perfino rotto un vaso di cristallo,
buttandolo per terra in cucina: era esploso in mille pezzi, e solo quando lui
aveva visto lo sguardo terrorizzato della moglie e intuito in lei il timore di
diventare il bersaglio della sua rabbia era riuscito a darsi una calmata.
Adesso non era piú cosí importante quella fotografia.
L’omicidio di sua madre stava per trovare una spiegazione, e a quanto
pareva la soluzione del caso non aveva nulla a che fare con una presunta
sorella. Al telefono Yngvar Stubø gli aveva promesso di rendergli la foto non
appena ne avesse fatta una copia, sottolineando che non la riteneva essenziale
per le indagini come invece aveva creduto all’inizio. Il corpo sarebbe stato
riconsegnato ai familiari e il funerale si sarebbe potuto tenere già nel giro di
cinque giorni.
Questo sarebbe stato un bene per tutti loro.
Anche per suo padre, pensò. Per suo padre sarebbe stato ancor piú
importante che per chiunque altro mettere finalmente un punto fermo.
Quando tutto fosse finito Lukas avrebbe anche potuto, in assoluta
tranquillità, cercare la sorella. Al di là di quello che ne pensava Astrid.
Almeno adesso non aveva piú bisogno di insistere con il padre per sapere
come mai aveva tolto dalla stanza di sua madre quella fotografia per poi
nasconderla in soffitta.
La gola gli faceva ancora male. Il tè aveva un sapore amaro e lui posò la
tazza.
Suo padre si era addormentato. Per lo meno questa era l’impressione che
dava: aveva gli occhi chiusi e la magra cassa toracica si alzava e si abbassava
a un ritmo lento e costante.
Lukas decise di fermarsi lí. Chiuse gli occhi, si coprí con la vecchia
coperta patchwork della madre e si addormentò.
Viaggio di una lunga giornata verso la notte
L’uomo che ventinove giorni prima aveva salvato la vita a una ragazzina
che rischiava di essere travolta da un tram in Stortingsgaten a Oslo stava
bevendo dell’acqua minerale di marca da un bicchiere a gambo lungo. Chissà
se la sua valigia era stata imbarcata. Era arrivato in ritardo. In quel momento
si trovava a bordo del volo British Airways BA0117 da Heathrow
all’aeroporto Jfk di New York, ed era uno dei tre passeggeri in prima classe.
Mentre gli altri due erano già alla quarta flûte di champagne, lui aveva
cortesemente rifiutato un secondo bicchiere di acqua offertogli dallo steward.
Si godeva il posto spazioso e la tranquillità nella parte anteriore della
cabina. La tenda che li separava dai passeggeri in Economy trasformava il
rumore alle loro spalle in un brusio a bassa frequenza che, mescolato al ronzio
sordo e regolare dei motori, gli procurava una certa sonnolenza.
Quell’ultimo tratto del viaggio di ritorno lo stava facendo senza
nascondere chi era. Le misure di sicurezza estreme adottate dopo l’11
settembre per il traffico aereo e i controlli alle frontiere rendevano rischioso
cercare di tornare in patria sotto mentite spoglie. Dal momento che non aveva
prenotato il volo in anticipo e che tutti i posti erano ormai esauriti a parte
quelli in prima classe, aveva dovuto sborsare piú di settemila dollari per un
biglietto di sola andata per gli Stati Uniti. Non aveva potuto fare altrimenti.
Era arrivato il momento di tornare a casa. Doveva tornare a casa, e stava
viaggiando sotto la sua vera identità: Richard Anthony Forrester.
Nei due mesi che aveva trascorso in Norvegia non aveva mai telefonato
negli Stati Uniti. La Nsa, la National Security Agency, controllava tutto il
traffico elettronico in entrata e in uscita dal Paese, e correre certi rischi non
era affatto necessario. Le istruzioni erano state chiare: nel caso in cui lui per
un imprevisto avesse avuto bisogno di mettersi in contatto con
l’organizzazione, avrebbe dovuto chiamare un numero di emergenza in
Svezia. Ma non si era reso necessario.
Durante il soggiorno di Richard A. Forrester in Norvegia il suo portatile
aveva registrato una vivace attività: si trovava in Gran Bretagna, e se ne
prendeva cura un tizio basso e tarchiato con bei denti e folti capelli scuri
tagliati a spazzola. L’uomo aveva viaggiato in lungo e in largo per la
campagna grazie a una offerta speciale della Forrester Travelling. L’agenzia
era di Richard: l’aveva fondata due anni dopo che la moglie e il figlioletto
erano stati uccisi da un pirata della strada ubriaco che era scappato non
appena li aveva travolti, per andare poi a schiantarsi quattro chilometri piú in
là e morire.
In teoria Richard A. Forrester risultava in Inghilterra dal 15 novembre. Si
trattava di una semplice misura di sicurezza, ovviamente, tanto nessuno
avrebbe mai fatto domande in proposito.
Reclinò del tutto il sedile e si coprí con la morbida coperta. Erano solo le
nove del mattino, ma aveva dormito poco la notte prima. Chiudere gli occhi
per un po’ gli avrebbe fatto bene.
Quando Susan e il piccolo Anthony erano morti, la sua vita era finita.
Aveva cercato di seguirli in cielo tentando il suicidio. L’unica cosa che
aveva ottenuto era stata quella di non potersi piú considerare un membro del
corpo dei marine. Di soldati con tendenze suicide non avevano alcun bisogno.
A Richard si prospettava un futuro senza lavoro, senza moglie e senza figlio;
non gli restava che una misera pensione, una valigia di vestiti e un premio
assicurativo legato all’incidente che lui non voleva riscuotere.
− Posso offrirle qualcos’altro? – gli chiese sottovoce la bella assistente di
volo, chinandosi sul sedile vuoto accanto al suo. Con un sorriso aggiunse: −
Caffè? Tè? Uno spuntino?
Lui ricambiò il sorriso e scosse la testa.
I primi tre mesi dopo la catastrofe Richard li aveva passati piú che altro a
vagabondare, di norma ubriaco marcio e accecato da una rabbia incandescente
che investiva tutto e tutti. Una volta era stato giustamente buttato fuori da un
locale notturno a Dallas: semisvenuto, era rimasto a terra in un vicolo finché
un uomo sbucato dal nulla non gli era comparso davanti proponendogli un
incontro con il Signore. E siccome lui non aveva altri incontri in programma,
aveva lasciato che l’uomo lo aiutasse a rimettersi in piedi e lo accompagnasse
a una piccola cappella due quartieri piú in là.
Aveva incontrato il Signore quella stessa notte, come l’estraneo aveva
predetto.
Richard Forrester si passò una mano tra i capelli. Gli piaceva l’idea di
farseli ricrescere, anche se per ora erano solamente dei mozziconi di pochi
millimetri. La sua era una capigliatura folta senza alcun accenno di
stempiatura e lui aveva sempre portato i capelli corti, ma quando se li era
rasati a zero il suo aspetto era stranamente cambiato, e non di poco.
Si accomodò meglio sul sedile, spense la luce sopra la sua testa e abbassò
la tendina.
Il Dio che aveva incontrato a Dallas una notte di novembre del 2002 era
molto diverso da quello che conosceva a casa. I suoi genitori erano metodisti,
come quasi tutti nel quartiere della cittadina di cui era originario. Da bambino
Richard aveva vissuto la religione piú come una presenza sociale in una
comunità pronta ad accoglierti che come un rapporto personale con Dio. Ogni
domenica si andava alla funzione e a volte c’era qualche mercatino legato alla
chiesa; poi c’erano la squadra di calcio e l’associazione delle madri, c’erano
le grigliate e gli intrattenimenti natalizi. Richard era cresciuto all’ombra di un
Dio accomodante che non lo aveva mai colpito piú di tanto.
Quando l’estraneo lo aveva portato in quella piccola cappella Richard
aveva incontrato l’Onnipotente. Era stata la notte della sua rivelazione. Dio
era arrivato con una tale violenza che all’inizio lui aveva creduto di morire,
ma alla fine si era ritrovato in uno stato di pace e di totale abbandono. La
notte trascorsa nella cappella aveva significato la catarsi per Richard
Forrester. Quando finalmente il giorno era sorto lui si era sentito rinato.
La sua vita di marine pronto a sacrificarsi per la patria, la sua vita di marito
e di padre appartenevano al passato.
Era appena iniziata la sua vita di soldato al servizio del Signore.
Non aveva piú toccato un goccio d’alcol.
Mentre Richard Forrester ascoltava il ronzio basso dei motori dell’aereo,
gli apparve davanti agli occhi l’immagine di quella bella bambina.
Lei lo aveva visto. Quando la donna che sarebbe dovuta morire era scesa
da sola nello scantinato si era venuta a creare un’opportunità che lui non
poteva lasciarsi sfuggire. La bambina era comparsa all’improvviso, e per un
attimo Richard si era sentito disperato all’idea di ciò che sarebbe stato
costretto a fare.
Poi aveva capito che si trattava di un’innocente.
Proprio come Anthony, che era nato prematuro e con danni cerebrali che
gli avrebbero impedito per sempre di diventare spiritualmente adulto. La
ragazzina era cosí. Richard lo aveva capito dopo pochi secondi.
Per essere davvero certo della propria intuizione l’aveva tenuta d’occhio.
Dopo averla salvata dal tram era stato facile farsi dire il suo nome da uno di
quei turbati spettatori vestiti a festa. Richard era rimasto dall’altra parte della
strada, a guardare la madre che riportava dentro la figlia. Un tizio, uno che se
ne stava là fuori a intrattenere i sempre piú numerosi ospiti che uscivano a
fumare con la sua drammatica testimonianza oculare dell’accaduto, gli aveva
gioiosamente fornito nome e cognome della madre quando lui aveva
accennato all’intenzione di mandarle dei fiori. L’indirizzo lo aveva trovato su
Internet.
Purtroppo la ragazzina gli aveva impedito di uccidere la donna come
pianificato, camuffando l’omicidio da disgrazia, ma non era stata colpa sua.
Per fortuna lui aveva avuto abbastanza prontezza di spirito da ripulire sia il
corpo sia la borsetta della donna, trovare i biglietti per l’Australia e portar via
il cellulare. Poi si era chiuso nella camera d’albergo di lei, aveva preso i
bagagli e pagato il conto. Il caos alla reception era stato provvidenziale,
trasformandolo in un signor nessuno in mezzo a tutta quella folla di festaioli
ubriachi. La valigia della donna l’aveva nascosta in fondo a uno sgabuzzino
per le scope non chiuso a chiave, sotto un pesante cartone cosí impolverato
che probabilmente nessuno lo toccava da anni. Non si dovevano accorgere
subito che la donna era scomparsa, quindi aveva fatto in modo di guadagnare
tempo inviando degli Sms brevi e insignificanti nei giorni immediatamente
successivi. Ogni minuto in piú fra l’omicidio e l’inizio delle indagini riduceva
le possibilità di trovare il colpevole.
− Posso portarle un cuscino? – sentí improvvisamente sussurrare
l’assistente di volo.
Senza nemmeno aprire gli occhi scosse il capo in segno di diniego.
La madre della bambina era isterica. Comprensibile che gli avesse dato un
ceffone quando aveva salvato la vita alla ragazzina. Ma durante le feste di
Natale lui si era avvicinato alla casa bianca in cui vivevano tenendosi a circa
duecento metri di distanza: un uomo era uscito da una casa vicina e aveva
costeggiato la recinzione scambiando due chiacchiere con le bambine che
giocavano in giardino; la madre aveva visto tutto dalla finestra e si era
spaventata a morte, sembrava fuori di sé quando le aveva fatte rientrare.
Un po’ come Susan, aveva pensato, sebbene non si concedesse di pensare
molto spesso a Susan. Anche lei era sempre in ansia per Anthony.
Non era la prima volta che lo sperimentava: le persone che lui sorvegliava
finivano per avere l’angosciante sensazione di essere osservate. Naturalmente
però non lo vedevano mai, cosí come la madre della bella bambina non lo
aveva visto quando lui l’aveva seguita fino a scuola nella sua anonima auto a
noleggio, ricevendo un’ulteriore conferma del fatto che si trattava di una
bambina speciale. E comunque lei aveva percepito la sua presenza. Il padre
della ragazzina, che Richard ci aveva messo un po’ di tempo a capire chi
fosse, si era lasciato prendere dall’ansia già la prima volta. Richard doveva
scoprire se la bambina si comportava in modo diverso quando non era con la
madre, e aveva seguito e osservato padre e figlia in tre diverse occasioni.
L’uomo aveva iniziato quasi subito a gettarsi occhiate alle spalle.
Anche il tizio che viveva sui colli sopra la città in una distorta imitazione
di famiglia aveva avuto la stessa reazione, si era sentito osservato. Il suo
amante gli era sembrato un pazzo isterico quando si era messo a zompettare a
destra e a manca scattando fotografie a tracce di pneumatici un lunedí di due
settimane prima. Richard si era tenuto a debita distanza, in osservazione. Due
ragazzi di colore erano arrivati a bordo di una grossa Bmw. Secondo lui erano
pachistani, Oslo ne era piena. Avevano evidentemente una qualche faccenda
in sospeso, perché si erano fermati nel piccolo spiazzo davanti all’abitazione
della famiglia fasulla ed erano rimasti lí a lungo, gesticolando energicamente
e fumandosi una montagna di sigarette prima di ripartire.
Il sodomita aveva sentito la sua presenza, ma non l’aveva visto. Come tutti
gli altri.
Non lo vedevano e, riflettendoci bene, nemmeno sentivano la sua presenza.
Ciò che sentivano era la vicinanza del Signore, pensava Richard Forrester.
E se quella copia pervertita di un padre di famiglia stavolta l’aveva scampata,
presto sarebbe arrivato il suo momento.
Richard Forrester sorrise e si addormentò.
− Era Yngvar Stubø, − disse Lukas un po’ stupito mentre posava il telefono
sul tavolino da caffè. – Sta venendo qui.
− E perché? Non avevi detto che era tornato a Oslo?
Per lo meno suo padre aveva ricominciato a parlare.
− A quanto pare è di nuovo qui.
− E perché ha telefonato?
− Vuole parlare con te. Di persona.
− Con me? E perché?
− Non… non lo so. Ma ha detto che si tratta di una cosa importante. Ha
anche detto che ha cercato di telefonarti. Hai staccato la spina del telefono
fisso?
Lukas si chinò a sbirciare dietro la poltrona del padre.
− Ma non si fa. È importante che tu sia reperibile.
− Ho il diritto di essere lasciato in pace.
Lukas non ribatté. Inquieto, cominciò a passeggiare avanti e indietro per il
soggiorno. Solo allora si rese conto che in quella casa era da prima di Natale
che non si facevano le pulizie. A eccezione della gigantesca pila di riviste in
abbonamento che troneggiava accanto al televisore, era tutto a posto. Il padre
teneva in ordine, questo sí, ma niente di piú. Quando Lukas passò il dito sulla
liscia superficie della credenza, rimase una traccia lucida. Il presepe era
ancora nella sua teca; la lampadina interna si era fulminata e quello che prima
appariva come un quadro vivente fortemente evocativo si era ridotto a un
lugubre ricordo di un Natale che lui avrebbe preferito dimenticare. Quando
svoltò l’angolo del soggiorno a L e si avvicinò al divano, dei batuffoli di
polvere si sollevarono spostandosi silenziosamente sul parquet. Si fermò,
appena fuori dal campo visivo del padre, e annusò l’aria.
C’era odore di vecchio. Di persona vecchia. Di casa vecchia. Non c’era
puzza, ma odore di chiuso con una nota dolciastra.
Lukas decise di pulire un po’ e andò verso il corridoio per prendere secchio
e detersivi nello sgabuzzino. Se non ricordava male, lí dentro avrebbe trovato
anche l’aspirapolvere. Quando però gli venne in mente che Yngvar Stubø
stava per arrivare, tornò sui suoi passi.
− Cambiamo un po’ l’aria, − disse a voce alta, e raggiunse la finestra del
soggiorno.
Faticò a tirare su il chiavistello, che gli ferí un pollice quando finalmente
cedette.
− Merda, − disse sottovoce succhiandosi il dito.
Che Yngvar Stubø fosse tornato a Bergen poteva essere un buon segno. A
quanto pareva le indagini stavano procedendo con una certa rapidità. Lukas
non aveva ancora sentito la radio o letto un quotidiano quel giorno, ma Stubø
gli era sembrato ottimista quando aveva telefonato.
Sentí il sapore dolciastro del ferro sulla lingua e si guardò il pollice
dolorante. Quando andò all’armadietto dei medicinali di sua madre per
cercare un cerotto suonarono il campanello.
Con il dito in bocca andò ad aprire.
− Avanti! – disse Silje Sørensen ad alta voce alzando gli occhi verso la
porta.
Johanne la socchiuse con cautela e infilò la testa nell’apertura.
– Avanti, − le ripeté l’ispettore capo con un cenno della mano. – Sono
contenta che tu sia riuscita a venire. Questa faccenda di «VG» mi ha fatto
diventare paranoica. Secondo Yngvar ho bisogno di un aggiornamento
immediato da parte tua. Non mi fido neanche piú del mio cellulare.
− Credo sia davvero l’ultima cosa di cui devi fidarti, − commentò Johanne
e si accomodò sulla sedia degli ospiti. – Avete idea da chi possa essere partita
la fuga di notizie?
− No. Abbiamo sempre avuto il problema della stampa che sa troppo, ma
questo è davvero il peggior esempio che io ricordi. Ogni tanto mi chiedo se i
giornalisti non ottengano le informazioni con il ricatto. Magari sanno
qualcosa su qualcuno di noi e fanno pressioni.
Di colpo sorrise e posò una bottiglietta di acqua minerale Farris e un
bicchiere davanti a Johanne.
− Hai sempre tanta sete, − le spiegò. – E io sono curiosissima. Yngvar mi
ha detto che il caso di Bergen molto probabilmente ha preso tutt’altra
direzione.
− Ecco… io non sono…
Squillò il telefono.
Silje esitò un istante, poi le fece un gesto di scusa, sollevò il ricevitore e se
lo portò all’orecchio.
− Sørensen, − rispose concisa.
Era qualcuno che aveva molto da raccontare. Dopo un po’ Johanne
cominciò a sentirsi imbarazzata. L’ispettore capo praticamente non apriva
bocca e la fissava con un’espressione neutrale, quasi assente. Alla fine
Johanne decise di aspettare in corridoio: assistere a una conversazione da cui
lei era esclusa la faceva sudare, e stava proprio per alzarsi quando Silje
Sørensen scosse energicamente il capo e sollevò una mano.
− E stai venendo qui a portarcelo? – chiese al telefono. – In questo
momento?
Di nuovo scese il silenzio.
− Bene, − disse Silje. – Immediatamente, per favore. Resto qui in ufficio
finché non arrivi.
Riattaccò. Sopra il dritto naso affilato si era formata una ruga di stupore
che correva obliqua fino al sopracciglio sinistro.
− Un testamento, − disse con aria pensierosa.
− Che cosa?
− Una donna che a quanto pare lavora come segretaria in uno studio legale
qui in città ha chiamato il numero per le segnalazioni. Ha raccontato di avere
per le mani un testamento a favore di Niclas Winter che secondo lei potrebbe
essere rilevante per le indagini sul suo omicidio.
− E…?
− Per fortuna la segnalazione è stata raccolta in tempi piuttosto rapidi e
uno dei miei ragazzi è riuscito a contattare questa donna. Sta venendo qui
proprio adesso, con il testamento.
− Ma… ma se la teoria su «The 25’ers» è corretta, che ruolo potrebbe
giocare un testamento?
Silje si strinse nelle spalle.
− Non ne ho idea. Ma il testamento sta arrivando e fra poco lo vedremo. E
tu cos’hai da raccontarmi? Yngvar mi ha proprio incuriosita, devo
ammetterlo.
Johanne aprí la bottiglietta e si versò dell’acqua nel bicchiere. L’anidride
carbonica sibilava un po’ e le solleticò le labbra quando bevve.
− Eva Karin Lysgaard non era semplicemente ben disposta nei confronti
degli omosessuali, − disse alla fine posando il bicchiere. – A quanto pare, era
lesbica lei stessa. In questo senso la teoria su «The 25’ers» ne uscirebbe
ulteriormente rafforzata.
L’espressione che si dipinse sul volto di Silje Sørensen non sarebbe stata
diversa se le avesse raccontato che Gesú Cristo in persona era tornato sulla
Terra e aveva occupato un letto in camera di Kristiane.
Marcus Koll jr si tirò sbigottito a sedere sul letto e mormorò qualcosa che
né Rolf né Lillemarcus furono in grado di decifrare.
− Hai dormito come un ghiro, − gli disse Rolf ridacchiando, mentre posava
un vassoio con caffè, succo di frutta e un toast al formaggio e prosciutto sul
suo comodino. – È l’una passata!
− Perché mi avete lasciato dormire cosí tanto?
Marcus si sottrasse all’abbraccio, era sudato e cercò di inumidirsi la bocca
per scacciare quel cattivo sapore di sonno.
− Ho come l’impressione che tu non abbia chiuso occhio questa notte, −
gli ripose Rolf. – E quando ho visto che finalmente eri tornato a letto non ho
avuto il coraggio di svegliarti.
− Abbiamo fatto volare l’elicottero, − gli disse entusiasta Lillemarcus. –
Che figata!
− Con questo freddo! – gemette Marcus. – Sulle istruzioni c’è scritto che la
temperatura deve essere sopra lo zero per usarlo. Altrimenti il carburante si
congela.
− Non potevamo mica aspettare la primavera! – ribatté Rolf con un sorriso.
– Ed è andata bene. Avevo tutto sotto controllo, Marcus.
− E io, − aggiunse il ragazzino, − lo sai che io lo so guidare da solo?!
− Per lo meno una volta che è in volo, − precisò Rolf. – Ecco qui i giornali
di oggi. Che orrore, questa storia della banda assassina! Siamo anche andati a
fare la spesa. Abbiamo comprato un sacco di cose buone per la cena. Ti
ricordi che abbiamo ospiti, vero?
Marcus non ricordava minimamente che avessero ospiti.
Afferrò «VG». La prima pagina gli strappò un singhiozzo.
− Ti senti male, papà? È per questo che hai dormito cosí tanto?
− No, no. Sono solo un po’ raffreddato. Grazie mille per la colazione.
Magari adesso me la godo mentre leggo il giornale e poi vi raggiungo di sotto,
eh?
Non alzò nemmeno lo sguardo su Rolf.
− Va bene, − disse il ragazzino e se ne andò.
− Tutto bene? – gli domandò Rolf. – Vuoi qualcos’altro?
− Tutto bene, grazie. Molto gentile. Scendo tra una mezz’oretta, okay?
Rolf esitava. Lo scrutò. Marcus esibí un’espressione indifferente e si leccò
significativamente il dito per sfogliare il giornale.
− Goditela, − gli disse Rolf e scese da Lillemarcus.
Non sembrava molto sincero, in effetti.
L’agente Knut Bork salutò con un cenno della mano Johanne prima di
porgere a Silje Sørensen un documento.
− Ecco qui, − le disse. – Non ho neanche avuto il tempo di dargli
un’occhiata.
Silje Sørensen aprí un cassetto e ne tirò fuori un paio di occhiali da lettura.
− A sentire la donna che l’ha portato, si tratterebbe di un patrimonio
piuttosto consistente, − proseguí Knut Bork. – E il testatore sarebbe morto
parecchi anni fa senza che Niclas Winter ricevesse nemmeno un briciolo
dell’eredità che gli spettava, secondo queste carte.
− Posso vedere? – chiese cautamente Johanne.
− Qui c’è bisogno di qualcuno che se ne intenda di giurisprudenza, −
commentò Silje senza nemmeno alzare gli occhi. – Questo è un documento a
dir poco sensazionale.
− Io me ne intendo di giurisprudenza.
Sia Knut Bork che il suo superiore la guardarono stupiti.
− Sono un giurista, − ripeté Johanne. – Anche se ho fatto il dottorato in
Criminologia, prima mi sono laureata in Legge. Non mi ricordo granché di
diritto successorio, ma se avete un codice civile a portata di mano il succo lo
capiamo di sicuro.
− Non finisci mai di stupirmi, − le disse con un sorriso Silje Sørensen
porgendole il testamento prima di avvicinarsi alla libreria accanto alla finestra
e tirarne fuori il grosso volume rosso del codice civile. – Ma se anche tu ne
sai quanto me del testatore, sarai d’accordo che ci servirà un intero esercito di
avvocati.
Johanne scorse la prima pagina, poi sfogliò il documento e diede
un’occhiata all’ultima.
− No, − disse. – Il nome non mi è nuovo, ma non so chi sia. Quello che
invece so è che questo testamento sarà valido solo…
Alzò gli occhi.
− … solo per i prossimi tre mesi, − concluse. – Fra tre mesi non varrà la
carta su cui è scritto. Almeno credo.
− Maledizione! – esclamò Silje mettendosi le mani sui fianchi. – Adesso sí
che non ci capisco piú niente. Ma proprio niente.
Richard Forrester capí che stava arrivando un altro pasto. Il profumo del
cibo caldo lo aveva svegliato. Meglio cosí. Anche se era ancora leggermente
annebbiato dal sonno profondo in cui era caduto, sentiva una certa fame. Il
menu che l’assistente di volo, anziché svegliarlo, aveva premurosamente
posato sul sedile vuoto accanto al suo aveva un aspetto invitante. Lo esaminò
con cura, poi scelse coscia d’anatra in salsa d’arancia, riso selvatico e insalata.
Come antipasto chiese degli asparagi freschi alla donna bionda che si chinò a
ritirare il menu.
− Acqua, per favore.
Sollevò una mano per rifiutare il vino bianco che lei gli stava offrendo.
Quando alzò la tendina che copriva l’oblò una luce intensa lo investí. Era
mezzogiorno e mezza, ora norvegese. Si tirò un po’ su per guardare
l’Atlantico sotto di lui, ma una coltre di nubi bianco-grigiastre si stendeva
sotto l’aereo come un enorme piumino, rendendo uniforme e poco
interessante il panorama. Solo un aereo che volava nella direzione opposta e
si trovava molto piú a sud interruppe la monotonia di tanto bianco. Quella
luce era fastidiosa e lui riabbassò la tendina a metà.
Sentiva una pace benedetta.
Gli capitava sempre dopo che aveva portato a termine un incarico.
Odiava i pervertiti con una intensità che gli aveva ridato la vita quando
ormai l’alcol stava prendendo il sopravvento su tutto il resto. Ne aveva
conosciuti un paio durante il servizio militare, cani codardi che tentavano di
nascondere le innominabili porcate che facevano insieme e che
immaginavano di essere abbastanza in gamba da poter difendere la patria. A
quel tempo, prima della redenzione, si era limitato a denunciarli. Tre casi
erano andati smarriti nei meandri della burocrazia militare senza che per
questo lui ci perdesse il sonno. Per lo meno, ponendoli al centro
dell’attenzione li aveva messi a disagio. Il quarto sodomita non era riuscito a
farla franca. Lo avevano radiato con disonore. A dire il vero, era stato a causa
delle avances a un giovane soldato semplice che aveva minacciato di
denunciare l’intero corpo dei marine, ma di sicuro non aveva guastato che lui
aveva fatto rapporto sull’esistenza di una sconveniente pornografia.
Il profumo di cibo si fece piú intenso.
Tirò fuori la Bibbia dalla borsa a tracolla.
Era morbida e consumata, con innumerevoli minuscole annotazioni ai
margini dei fogli sottili. Qua e là il testo era stato evidenziato in giallo. In
alcuni punti era cosí sbiadito che si faceva fatica a leggerlo, ma non
importava. Richard Forrester conosceva la sua Bibbia e i passi salienti li
sapeva a memoria.
Quando aveva dodici anni uno di loro ci aveva provato con lui.
Chiuse gli occhi e posò la mano sulla Bibbia.
La sua vita dopo la redenzione era stata la dimostrazione che la morte di
Susan e Anthony aveva uno scopo: dovevano tornare a Dio perché il Signore
potesse raggiungere lui. Con moglie e figlio vivi lui era rimasto sordo alla
chiamata del Signore, e doveva purificarsi prima di poter diventare un valido
servitore nella lotta per il trionfo del bene.
Quando l’uomo che lo aveva raccolto in quel vicolo a Dallas qualche mese
piú tardi lo aveva presentato a Jacob, lui era pronto. Jacob si chiamava
semplicemente Jacob ed era l’unico di «The 25’ers» che Richard avesse mai
conosciuto. Per quel che gli era dato sapere avrebbero potuto esserci anche
altri come lui a bordo di quello stesso aereo, e si sorprese a osservare di
nascosto la donna dalla parte opposta del corridoio.
In effetti aveva dovuto aspettare un altro paio di anni per conoscere il
nome dell’organizzazione e il suo significato. Quando aveva capito che
faceva causa comune con i musulmani, all’inizio si era infuriato. Jacob aveva
cercato di convincerlo che si trattava di una collaborazione giusta e
necessaria: condividevano i medesimi obiettivi e in piú i musulmani avevano
maggior esperienza di loro. Quelle argomentazioni però non avevano
convinto Richard, come non era servito fargli sapere che il sostegno
economico fornito dagli estremisti islamici era sostanzioso. A Richard
Forrester era chiaro che il gruppo si autofinanziava quasi totalmente e gli era
inconcepibile che dovesse prendere soldi da terroristi. A quell’epoca aveva
già ucciso due volte nel nome di Dio, ma non gli sarebbe mai passato per la
testa di ammazzare degli innocenti. Era rimasto scioccato esattamente come
tutti gli altri quando due aerei si erano schiantati sul World Trade Center e
odiava i musulmani quasi con la stessa intensità con cui odiava i sodomiti.
Solo quando una notte era stato svegliato dall’intensa presenza del Signore e
aveva ricevuto un ordine divino, solo allora aveva ceduto.
Dopo ogni incarico una cospicua somma di denaro veniva depositata sul
suo conto corrente personale. I soldi venivano dichiarati come compensi per
viaggi e attività organizzative e successivamente denunciati come tali al fisco.
All’inizio gliene derivava uno spiacevole imbarazzo.
Quei compensi cosí lauti lo facevano sentire un sicario.
Di colpo mise via la Bibbia.
L’assistente di volo tirò fuori il suo tavolino e gli serví l’antipasto.
Veniva ricompensato per quanto faceva, pensò mentre seguiva con gli
occhi le mani della donna che si muovevano con esperienza e rapidità. Ma
non era certo quello il motivo per cui uccideva.
Richard Forrester uccideva per ordine del Signore. I soldi erano solo lo
strumento indispensabile per portare a termine gli incarichi che riceveva e
accettava. Come adesso: non sarebbe riuscito a tornare a casa in fretta come
doveva se non avesse potuto pagarsi un biglietto in prima classe.
Ogni tanto, raramente, si era domandato da dove provenissero tutti i mezzi
che avevano a disposizione. Qualche notte gli era capitato di rimanere sveglio
a pensarci, ma la sua fede nel Signore era illimitata. Passava sopra piuttosto in
fretta al malessere che gli attanagliava lo stomaco quando a volte si stupiva
dell’ammontare del suo conto.
− Grazie, − disse all’assistente di volo, che gli aveva riempito di nuovo il
bicchiere d’acqua.
Cominciò a mangiare e decise di pensare ad altro.
− Mio padre conosceva Georg Koll, − disse Silje Sørensen. – Per affari,
piú che altro. L’ho visto solo un paio di volte da bambina, ma mi è bastato per
capire che era un gran pezzo di merda. Ai miei genitori non piaceva, neanche
a loro. Ma sapete come vanno le cose in certe cerchie…
Guardò gli altri facendo spallucce, come per scusarsi.
Né Johanne, né Knut Bork avevano la benché minima idea di come
andassero le cose nelle cerchie dei ricchi. Si scambiarono una rapida occhiata,
poi Johanne si rituffò nella lettura del documento che la segretaria
dell’avvocato aveva portato alla polizia.
− Per quel che ci capisco io, questo testamento è valido in tutto e per tutto,
− disse. – A meno che non ne sia stato redatto uno piú tardi, questo in effetti
è… – scosse piano la testa e alzò i fogli che teneva in mano, − un testamento
valido.
− Ma Georg Koll è morto molti anni fa, − disse Silje perplessa. – I figli
hanno ereditato il suo patrimonio! I figli nati dal suo matrimonio, intendo.
Non avevo idea che ne avesse anche un altro, di figlio. Viene detto in modo
esplicito, no?
Johanne annuí.
− «Mio figlio Niclas Winter», − citò.
− Forse nessuno sapeva della sua esistenza, − disse Silje. – Ricordo che
mio padre si era fatto una bella risata quando aveva saputo a chi sarebbe
andata l’eredità, perché Georg ormai erano anni che non aveva contatti con i
figli, da quando aveva lasciato la moglie. Loro erano ancora molto piccoli al
tempo. Quel tizio aveva davvero una pessima reputazione. La ex moglie e i
figli vivevano quasi in miseria a Vålerenga, mentre lui sguazzava nel lusso. È
Marcus Koll jr, il maggiore, a dirigere l’azienda di famiglia adesso. Credo che
abbiano cambiato qualcosa, ma…
Si girò verso il computer.
− Cerco Georg su Google, − mormorò, fissando incuriosita lo schermo. –
Bingo! È morto… il 15 aprile 1999.
− Praticamente quattro mesi dopo aver vergato questo testamento, − disse
Johanne con aria sempre piú pensierosa. – Quindi è poco probabile che ne
abbia scritto uno successivo. Credo proprio che il nostro amico Niclas Winter
sia stato privato con l’inganno della sua eredità!
− Ma nel nostro Paese non si possono estromettere totalmente da
un’eredità i figli legittimi! − esclamò Knut Bork. – Almeno, se la successione
è di una certa consistenza…
Johanne si mise a sfogliare il grande volume rosso.
− La legittima per i figli è di un milione di corone, − disse cercando la
sezione sul diritto successorio. – Questo Marcus quanti fratelli ha?
− Due, − le rispose Silje. – Una sorella e un fratello, se non ricordo male.
− Secondo questo testamento, − disse Johanne, − loro tre avrebbero
ricevuto un milione di corone ciascuno e il resto dell’eredità sarebbe andato a
Niclas Winter.
Silje fece un bel fischio acuto e lungo.
− Si parla di un sacco di quattrini, − disse. – Ma…
Knut Bork si alzò di scatto e prese il documento.
− Ci deve pur essere una data oltre la quale considerarlo prescritto, − disse
infervorato, come se in gioco ci fosse il suo patrimonio. – Non è che Niclas
Winter poteva arrivarsene bello beato dopo tutti questi anni e pretendere
che…
Ammutolí, irrigidendosi in una posizione che lo faceva somigliare a un
oratore appassionato.
− Merda, non dovevo lasciar andare cosí quella donna, − imprecò. – Ha
detto qualcosa tipo che Niclas Winter si era messo a telefonare praticamente a
casaccio a vari studi legali. Sua madre era mancata da poco, spiegava, e sul
letto di morte gli aveva confidato che da un avvocato di Oslo c’era un
documento importante che lo riguardava. Un documento che gli avrebbe
garantito il futuro. Forse lui non…
Si guardarono tutti e tre. Johanne aveva trovato la sezione sul diritto
successorio e teneva una mano infilata tra le pagine del codice civile.
− Ovviamente, ci sarebbe molto da controllare, − disse titubante. – Ma al
momento mi pare di capire che Winter non fosse al corrente di questo
testamento.
− E perché mai la madre avrebbe dovuto tenergli nascosto che sarebbe
potuto diventare ricco sfondato? Una madre si preoccuperebbe di…
− Forse la madre non voleva fargli scoprire l’identità del padre prima di
morire, − disse Silje. – Ci sono troppi elementi che non conosciamo. Non ha
molto senso continuare a fare ipotesi su ipotesi.
− In realtà qualcosa sappiamo, − osservò Johanne. – Sul «Dagens
Næringsliv» sono usciti un paio di articoli su Niclas Winter, dopo la sua
morte. Le sue installazioni sono molto piú quotate, e questo in un periodo in
cui di opere d’arte contemporanea quasi non se ne vendono. In un articolo si
diceva che non aveva eredi. C’era scritto che era… senza padre. La madre era
figlia unica e i suoi nonni entrambi morti.
− Quindi ne possiamo dedurre che Niclas Winter non aveva idea di chi
fosse suo padre, né di aver ereditato qualcosa, − disse Knut Bork,
appollaiandosi sul davanzale della finestra e posando un piede sulla sedia di
Johanne.
− Non in quel momento, − disse lei. – E in tal caso la prescrizione non
scatta prima di…
La carta sottile frusciava e scricchiolava mentre lei sfogliava il volume.
− Paragrafo 70, − citò in tono freddo. – Sei mesi. Ci sono sei mesi di
tempo. A partire dal momento in cui si viene a sapere del testamento, cioè.
Ma sono d’accordo con te, Knut. Per quanto ne so esiste anche un termine
ultimo di prescrizione per… Voglio dire, c’è…
Il resto della frase si perse in un borbottio mentre leggeva. Knut dondolava
impaziente il piede avanti e indietro; si avvicinò al volume per leggere anche
lui.
− Paragrafo 75, − disse Johanne ad alta voce, scorrendo la riga con il dito.
– «Il diritto di pretendere un’eredità decade nel caso in cui l’erede non se ne
avvalga entro dieci anni dalla morte del testatore». Come pensavo.
− Il 15 aprile di quest’anno, − precisò Silje. – A questa data cadrebbe in
prescrizione.
Lo screensaver del computer si avviò di colpo, dando vita a un silenzioso
spettacolo pirotecnico. Johanne fissò il cerchio rosso magnetico intorno a
sabato 17 gennaio. Di lí a due giorni sarebbe stato il 19 e sentí la pelle delle
braccia accapponarsi. Knut posò i piedi per terra e si alzò.
− Ma quindi Niclas Winter avrebbe potuto reclamare tutto ciò che i suoi
fratellastri avevano considerato loro per quasi dieci anni? – disse. – Non è
terribilmente ingiusto, eh?
Johanne era sovrappensiero.
− Ma perché ha interrotto ogni rapporto con i figli? – domandò a bassa
voce con lo sguardo perso nel vuoto.
− Georg Koll?
− Sí.
− Ve l’ho detto, era un gran pezzo di merda, cosí in generale. E poi ci sarà
stato qualcosa che c’entrava col fatto che Marcus è gay. I fratelli si sono
schierati dalla sua parte. Marcus Koll jr è stato uno dei primi che davvero…
Be’, è stato il primo di mia conoscenza a dichiarare apertamente la propria
omosessualità. Se ne è parlato molto. In quelle cerchie. Sapete com’è…
Knut di quelle cerchie continuava a saperne ben poco e Johanne pareva
non avere neanche sentito le ultime parole dell’ispettore capo.
− Anche Niclas Winter era gay, − disse con voce piatta.
− Questo Georg non credo potesse saperlo.
− Nei casi presi in considerazione negli Stati Uniti c’era un collegamento
fra…
Tutt’a un tratto il suo sguardo tornò a fuoco.
− Questi due uomini sono fratelli, quindi, − disse, a voce talmente bassa
che Knut fece fatica a capire. – Fratellastri. Negli Stati Uniti in un caso simile
è saltato fuori uno strano legame fra le vittime. E se…
Vagò con lo sguardo da uno all’altro.
− E se Marcus Koll jr fosse la prossima vittima?
I suoi occhi si spostarono da Knut al calendario.
– Il 19 è dopodomani, − disse. – Forse…
− Ma tu ci credi alla tua teoria? – la interruppe Knut, irritato. – O l’hai già
abbandonata? Se davvero dietro a questi omicidi ci sono «The 25’ers»,
avranno già fatto espatriare i loro uomini da un pezzo! «VG» ha rivelato tutto
quello che sappiamo. I colpevoli sarebbero proprio degli idioti se fossero… E
poi la Kripos negli ultimi due giorni è stata in contatto continuo con l’Fbi!
Okay, gli americani ci sono profondamente grati perché ci dedichiamo a
questa indagine ventiquattr’ore su ventiquattro e domani ci manderanno degli
uomini di supporto. Ma non hanno certo nascosto di essere convinti che i
colpevoli stiano già tornando a casa!
Johanne chiuse il codice civile con un colpo sordo.
− Se davvero crediamo che abbiano intenzione di uccidere ancora, −
proseguí Knut in tono scontroso, − allora sí che dovremmo seguire questo
bell’invito stampato nero su bianco.
Sventolò «VG».
− Dovremmo allertare tutti gli omosessuali su lunedí prossimo. E sul 24. E
sul 27. Sarebbe…
− Mandare una pattuglia male non fa, − disse Silje con una sfumatura di
rimprovero nella voce. – Un’autocivetta. Con agenti in borghese. In grande
tranquillità. Per informare Marcus Koll jr che…
− Dovrebbe saperne il meno possibile, − la interruppe Johanne. – Per lo
meno non deve scoprire niente di questo testamento. Meglio parlargliene in
altre circostanze, secondo me, e non certo tramite un paio di agenti in
borghese che vanno a trovarlo a casa. Non abbiamo neanche idea se sappia di
avere un fratellastro.
− Una pattuglia la mandiamo comunque, − replicò determinata Silje. – Del
testamento non diranno niente, tanto al momento siamo solo noi tre a sapere
che esiste. Invece potrebbero… esprimere una generica preoccupazione per
gli omosessuali con un certo ruolo pubblico. La storia degli omicidi la
conoscono tutti ormai. Dovrebbe funzionare.
L’ispettore capo si alzò con un rapido sorriso, come per comunicare che
l’incontro era terminato.
Johanne restò seduta, immersa nei propri pensieri, fino a quando Knut
Bork non fu uscito dalla stanza e la stessa Silje non fu sulla soglia, con la
mano sull’interruttore della luce.
− Tu resti qui? – le chiese. – Finiresti per sentirti molto sola, sai…
Eva Karin si siede. Il sole la inonda di calore e la luce è intensa. Strizza gli
occhi verso il cielo.
− Non farlo, − le dice l’uomo dagli occhi azzurro ghiaccio.
− Devo, − dice Eva Karin.
− Non farlo, − ripete l’uomo aprendo la borsa di lei.
E Eva Karin lascia che un adulto sconosciuto apra la sua borsa e ne tiri
fuori la lametta da barba che lei ha infilato in un lembo strappato della fodera.
L’uomo se la posa su una cicatrice che ha sul palmo e poi chiude la mano.
− Guarda, − le dice con un sorriso mentre apre lentamente il pugno col
palmo verso l’alto.
La lametta da barba non c’è piú.
La sua risata arriva da ogni dove, è il sussurrare del vento e il cinguettare
degli uccelli. Lui ride e lei non riesce a trattenere un sorriso e quando lui se ne
accorge batte le mani dolcemente.
− Adoro i miei giochi di prestigio, − le dice.
Eva Karin riposa. Dorme, quasi.
− La vita è inviolabile, − dice l’uomo. – Non dimenticarlo mai.
− Non la mia, − ribatte lei a occhi chiusi. – Io sono… una peccatrice.
Esita un po’ a usare quel termine. È troppo antiquato. Non sta bene in
bocca a lei: è una parola troppo grossa e da adulti e lei ha solo sedici anni.
− Peccatori lo siamo tutti, − dice lui in tono lieve. – Ma non per questo
vorrei che gli abitanti dell’intera città si mettessero a vagare sui sette colli per
togliersi la vita.
− Io… amo una ragazza.
Di nuovo una parola troppo grossa per lei. «Amo» va bene nell’oscurità, va
bisbigliata in modo quasi impercettibile.
− E sopra ogni cosa c’è l’amore, − dice lui con un sorriso, ed ecco di
nuovo il bosco ridere tutt’intorno a loro. – A pensarci bene, non credo di aver
detto mai niente di piú vero.
La mano di lui le sfiora un ginocchio. È pesante e leggera al tempo stesso.
Calda e fredda e qualcosa che lei non ha parole per descrivere.
− Ascolta me, − le dice lui improvvisamente serio. – Non ascoltare quelli
che credono di conoscermi.
− Io ho letto e riletto, − dice Eva Karin. – Ma non ho trovato consolazione.
− Ascolta quello che ti dico. Non ascoltare quello che dicono che io avrei
detto.
Si mette in ginocchio e si gira verso di lei. La sua testa si frappone tra Eva
Karin e il sole, trasformandosi in una sagoma scura circondata da una luce
talmente intensa da costringerla a chiudere gli occhi. E di nuovo Eva Karin
sente nelle mani di lui una pesante leggerezza quando le stringe intorno alle
sue.
− Io non sono rigido, Eva Karin. Può darsi che mio padre appaia un po’
strano e tonante a volte, questo sí, ma io ho vissuto troppo per mettermi a
giudicare l’amore.
Lei non lo vede, ma percepisce il suo sorriso.
− È la malvagità che io condanno. Le tenebre. Non la luce e l’amore, mai.
− Ma io…
− Sii sincera con te stessa e con me.
− Come posso…
− Io non do ricette di vita, Eva Karin. Ma troverai una soluzione. E se
inciamperai e cadrai, se dubiterai e avrai paura, non dovrai fare altro che
cercarmi. È un po’ che ti ascolto, sai, ho solo dovuto aspettare il momento
giusto.
Si alza del tutto e fa un passo di lato. Il calore del sole inonda Eva Karin,
che si porta la mano alla fronte per ripararsi dalla luce e alza gli occhi.
− Non tradire la tua capacità di amare, − le dice lui cominciando ad
allontanarsi. – E soprattutto: non usare il metro delle altre persone per la tua
vita.
A metà della piccola radura si gira ancora una volta verso di lei.
− Solo una cosa deve esserti sacra e inviolabile, − dice. – La vita.
− La vita, − sussurra lei. E lui se ne va.
Non se ne sarebbe andato mai piú.
Postfazione dell’autrice.
Questo libro è un romanzo e pertanto non è realtà. Essere uno scrittore significa
mentire, raccontar frottole, inventare. È bello creare il proprio universo. Allora si può,
per esempio, descrivere gli scantinati dell’Hotel Continental senza nemmeno sapere se
esistano. Io di impianti di condizionamento non so niente e nemmeno so se l’albergo
abbia un sistema di videocamere di sorveglianza piuttosto datato. Spero di essere
perdonata se ho usato quell’edificio come scenario per il mio racconto: gli si addiceva
proprio.
Verissimo è invece che in molti Paesi esistono gruppi uniti in modo particolare
dall’odio e dal disprezzo per altri gruppi. Vero è anche il fatto che alcuni di questi
gruppi esercitano una violenza sistematica sulle persone contro cui rivolgono il loro
odio. In certi casi si sono resi colpevoli di reati gravi, comprovabili, per finanziare i
loro oscuri progetti. Inoltre, è purtroppo vero che in tutto il mondo, da tempi
immemorabili, si commettono omicidi e violenze nel nome di diversi dèi. Tutti i
gruppi d’odio nominati in questo romanzo esistono, fatta eccezione per «The 25’ers».
L’Aplc non esiste. Questa organizzazione, però, ha un modello realmente esistente:
il Southern Poverty Law Center di Montgomery, in Alabama. Il suo sito
(www.splcenter.org), con i link indicati e i riferimenti alla letteratura in merito, mi è
stato molto utile nella stesura del romanzo.
Non avrei potuto scrivere La paura senza la pazienza, gli incitamenti affettuosi e la
tenace resistenza di quella che è mia moglie da ormai dieci anni, Tine Kjær. Ringrazio
lei e ringrazio nostra figlia Iohanne, che non riesce a capire perché, quattro mesi
all’anno, durante la fase finale della lavorazione di ogni romanzo, io debba passare
cosí tante ore nel mio studio. Si prospettano tempi migliori, tesoro mio.
Ringrazio anche Mariann Aalmo Fredin per il prezioso aiuto durante la stesura,
Berit Reiss-Andersen per la sua enorme conoscenza del diritto, materia che io ho da
tempo dimenticato, e mio fratello Evin Holt che ha sempre piccanti dettagli medici da
offrirmi. Ringrazio molto anche Kari Michelsen, che in un bar su una spiaggia
francese nel maggio del 2008 mi ha convinto a lasciar perdere un progetto già avviato
e a scrivere invece questo romanzo.
Per finire, un affettuoso ringraziamento a Picasso, che mi scalda i piedi mentre
scrivo, mi fa uscire con la pioggia e con il sole e mi dimostra un’immeritata,
incondizionata devozione.
Nydalen, Oslo, 15 giugno 2009
Il libro
M
ENTRE LA NEVE SCENDE SU OSLO L’ULTIMA DOMENICA
d’Avvento, una serie di omicidi spezza l’incanto del Natale. E
catapulta in prima linea due veterani del corpo di polizia, la
profiler Johanne Vik e suo marito, il commissario Yngvar Stubø.
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