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Anne Holt

LA PAURA
Traduzione di Giovanna Paterniti
La paura

ad Ann-Marie,
per questi bei quindici anni
di amicizia e collaborazione
Nota della traduttrice.

In Nor vegia è d’uso darsi sempre del «tu». Quasi nessuno si dà del «lei»: vi si
ricorre a volte con le persone anziane, o se si vuole sottolineare una certa distanza da
qualcuno per cui si prova una forte antipatia.
Per non togliere autenticità al racconto, nella traduzione ci si è attenuti alla forma
usata nell’originale, estendendo l’uso del «tu» oltre gli ambiti italiani consueti e
riservando il «lei» a pochissimi casi particolari.
Parte prima
Natale 20 08
La bambina invisibile

Era la ventesima notte di dicembre.


Uno di quei sabato sera che promettono tanto e poi non mantengono era
scivolato in modo impercettibile nell’ultima domenica prima del Natale. La
gente stava ancora facendo baldoria in ristoranti e locali notturni mentre
malediceva la violenta nevicata che si era inaspettatamente abbattuta su Oslo
alcune ore prima. La temperatura si era poi innalzata fino a tre gradi sopra lo
zero e dell’atmosfera natalizia non restavano altro che una grigia fanghiglia
sui cumuli di ghiaccio e pozze di neve sciolta.
Una bambina era ferma al centro alla strada, nel bel mezzo di
Stortingsgaten.
A piedi nudi.
− Quando le notti si fanno lunghe, − cantava piano, − e il freddo si fa
pungente…
Indossava una camicia da notte color giallo pallido con delle coccinelle
ricamate sulla pettorina. Dal vestito spuntavano due gambette sottili come
bacchette cinesi e affondate fino alle caviglie nella neve fangosa. La gracile
bambina seminuda era cosí fuori luogo in quel quadro notturno che nessuno si
era ancora accorto di lei. L’ondata dei festeggiamenti prenatalizi stava per
raggiungere il suo apice e tutti avevano il loro bel daffare. Una bambina
seminuda che canticchiava nel bel mezzo di una via della capitale in piena
notte diventava invisibile, proprio come gli entusiasmanti animali africani in
uno dei libri che aveva a casa: erano stati ingegnosamente nascosti nei disegni
di paesaggi norvegesi come ghirigori sulla corteccia e nel fogliame, quasi
impossibili da scoprire tanto erano fuori luogo.
− … allora la piccola mamma topo dice…
Erano usciti tutti a divertirsi, anche se in realtà erano ben pochi quelli che
si stavano divertendo. Una donna, appoggiata al vetro blindato della
gioielleria Langgaard, fissava il proprio vomito. Un rivolo rosso scuro di salsa
di lamponi non ancora digerita scorreva fra i resti di costolette, polpette di
maiale, neve fangosa e sabbia mista a sale. Sull’altro lato della strada una
banda di giovani schiamazzanti stonava canzonacce rivolte a lei, trascinandosi
dietro un compagno sfinito verso il teatro nazionale, senza curarsi del fatto
che aveva perso una scarpa. Davanti a ogni locale erano assiepati capannelli
di fumatori che tremavano per il forte vento. Raffiche salate provenienti dal
fiordo spazzavano le vie e si mescolavano alle esalazioni di tabacco bruciato,
superalcolici e profumi nauseanti: l’odore di una notte metropolitana
norvegese in prossimità del Natale.
Ma nessuno faceva caso alla bambina che canticchiava immobile nel bel
mezzo della strada, fra due argentei binari del tram.
− … e la piccola mamma topo… e la piccola mamma topo…
Si era incantata.
− … e la piccola mamma topo…
Il tram numero 19 partí dalla fermata cento metri piú in su, vicino al
palazzo reale. Quasi fosse una slitta pesante come il piombo e carica di
persone che non sapevano bene dov’erano dirette, accelerò appena lungo la
lieve discesa verso l’Hotel Continental. Alcuni sapevano a malapena
dov’erano stati. Altri dormivano. Altri farfugliavano di ulteriori
festeggiamenti, alcolici e nuove donne con cui provarci prima che fosse
troppo tardi. Altri ancora avevano lo sguardo perso nel vuoto di quel tepore
denso che si adagiava sui vetri come grigia e umida opacità.
Un uomo all’ingresso del Theatercaféen alzò lo sguardo dalle costose
scarpe che aveva scelto per la serata confidando che la neve si sarebbe fatta
attendere ancora. Aveva i piedi fradici e sarebbe stato difficile togliere il sale
che gli striava le calzature, una volta asciutte.
Fu lui il primo ad accorgersi della bambina.
Spalancò la bocca in un grido di avvertimento. Ma prima che potesse
prender fiato qualcuno lo spintonò da dietro e fu già tanto se riuscí a tenersi in
piedi.
− Kristiane! Kristiane!
Una donna vestita con il bunad, l’abito tradizionale, inciampò nella
voluminosa gonna. D’istinto si aggrappò all’uomo con le scarpe Enzo Poli
rovinate, che non aveva ancora recuperato del tutto l’equilibrio. Caddero a
terra tutti e due.
− Kristiane, − piangeva la donna cercando di alzarsi.
Il tram avanzava sferragliando.
Il conducente, in procinto di concludere uno spossante doppio turno, si
accorse finalmente della bambina. Si udí lo stridio del metallo contro il
metallo quando frenò con tutte le sue forze sulle rotaie bagnate e coperte di
ghiaccio.
− … allora la piccola mamma topo dice ai suoi piccolini, − canticchiava
Kristiane.
Il tram era a sei metri da lei e ancora proseguiva la sua marcia, quando la
madre riuscí a tirarsi in piedi e gridò di nuovo: − Kristiane!
In seguito qualcuno avrebbe detto che l’uomo che era sbucato dal nulla
sembrava Batman. Sarà stato per via dell’ampio mantello, poiché in effetti era
basso, leggermente sovrappeso e calvo, per di piú. Dal momento che tutti gli
occhi erano fissi sulla bambina e sulla sua disperata madre, nessuno capí bene
come fece quel tizio, con una agilità degna di nota, a infilarsi davanti al tram
cigolante e, senza rallentare, ad afferrare con un braccio e stringere a sé la
piccola. Si era appena allontanato dalle rotaie quando il tram scivolò piano
sopra le orme seminvisibili della bambina e si fermò. Un lembo strappato
dall’orlo del mantello scuro sventolava appena, impigliato nel paraurti del
tram.
La città tirò un sospiro di sollievo.
Non si sentiva nessuna automobile, schiamazzi e risate si erano spenti. Le
campanelle del tram erano mute. Erano rimasti tutti in silenzio, come se non
riuscissero a credere fino in fondo che fosse andata bene. Il conducente del
tram sedeva immobile al posto di guida, con le mani tra i capelli e gli occhi
spalancati. Perfino la madre se ne stava impietrita ad alcuni metri di distanza
dalla figlia, nel suo bunad ormai rovinato e con le braccia inerti lungo i
fianchi.
− Se nessuno cade in trappola, − continuava a canticchiare Kristiane,
senza guardare l’uomo che la teneva in braccio.
Qualcuno iniziò timidamente a battere le mani, altri si unirono, gli applausi
si levarono alti e allora fu come se la donna con il bunad si risvegliasse
all’improvviso.
− Tesoro, − gridò. Fece di corsa i pochi passi che la separavano dalla
bambina, la tirò a sé e se la strinse forte al petto. – Non fare mai piú una cosa
del genere! Promettilo alla mamma, mai, mai piú!
Johanne Vik sollevò un braccio, senza pensare e senza lasciar andare la
figlia. L’uomo rimase impassibile quando il palmo di lei gli diede un violento
schiaffo. Senza nemmeno sfiorare il bruciante segno rosso che gli era rimasto
sulla guancia, sorrise obliquo, fece un cenno del capo lungo e profondo, come
un addio all’antica, si girò e se ne andò.
− … ma fa’ bene attenzione, − cantava la ragazzina, − fra poco tutti
insieme festeggerem di nuovo il Natale!
− Tutto bene? È tutto a posto?
Sempre piú persone vestite a festa si precipitavano fuori dall’Hotel
Continental. Parlavano tutte contemporaneamente, tutte sapevano che era
successo qualcosa, ma solo pochissime che cosa. Alcune parlavano di un
investimento, altre del tentativo di rapire la piccola Kristiane, la strana figlia
della sorella della sposa.
− Tesoro mio, − piangeva la madre. – Non devi fare cosí!
− La signora era morta, − disse Kristiane. – Ho tanto freddo.
− Ma certo che hai freddo!
La madre cominciò a camminare in direzione dell’hotel, a piccoli passi
rigidi per non cadere. Davanti alle porte c’era la sposa. Il corpetto dell’abito
nuziale, senza spalline, era ornato di paillette dai riflessi bianchi; la seta
spessa ricadeva in pesanti pieghe sui fianchi stretti scendendo fino ai piedi
calzati da un paio di scarpe ornate di perle anch’esse di un bianco splendente.
La regina della serata era bella proprio come si conviene, truccata alla
perfezione e con i capelli ancora impeccabilmente acconciati come all’inizio
del pranzo di nozze, molte ore prima. Dal colorito della pelle al di sopra delle
spalle nude si sarebbe detto che avesse fatto la luna di miele in anticipo.
Sembrava non avere nemmeno freddo.
− Come va? − chiese alla nipotina con un sorriso, accarezzandole la
guancia mentre la sorella le passava accanto.
− Zietta! − disse Kristiane, anche lei con un sorriso. – La zia sposa! Come
sei bella!
− Non si può certo dire lo stesso di tua madre, − borbottò la sposa.
Solo Kristiane la sentí. Johanne non degnò la sorella di un’occhiata.
Arrancò oltre, verso il tepore. Avrebbe tanto voluto salire nella sua stanza
d’albergo, infilarsi a letto sotto il piumino con la figlia, magari farsi un bagno,
un bel bagno caldo. La sua bambina era gelata e andava riscaldata il piú in
fretta possibile. Anche se Kristiane, che fra poco avrebbe compiuto
quattordici anni, pesava come se ne avesse dieci, Johanne stava quasi per
collassare sotto il suo peso. E un passo sí e uno no calpestava la gonna del
bunad, che le pendeva ancora tutta sbilenca. I capelli, che aveva raccolto
intrecciandoli a corona, si erano tutti scomposti. Quell’acconciatura era stata
un’idea di Yngvar e realizzarla le era costato un bel po’ di stress nelle ore
precedenti il matrimonio. La festa non era cominciata che da pochi minuti e
lei già si sentiva come Brunilde in uno spettacolo del periodo fra le due
guerre.
Un uomo grande e grosso arrivò di corsa dal piano di sopra.
− Che cosa è successo? Che cosa… Kristiane sta bene? E tu?
Yngvar Stubø cercò di fermare la moglie, ma lei lo allontanò sibilando a
denti stretti: − Che idea stupida! Siamo a dieci minuti di taxi da casa. Dieci
minuti!
− Ma quale idea? Ma cosa… La porto io, Johanne, dài. Ti si è rovinato il
vestito, e sarebbe…
− Non è un vestito! È un bunad! Ed è stata una tua idea! Questa orrenda
acconciatura e questo albergo e portare Kristiane con noi! Poteva morire!
Fu sopraffatta dal pianto e lentamente lasciò andare la figlia, che l’uomo
sollevò con delicatezza tra le braccia possenti. Insieme salirono la scalinata,
senza aggiungere altro. Kristiane continuava a canticchiare con quella sua
voce sottile e argentina: − Ciao, ciao, salta qui e salta lí, trallallerollerollà,
ma che bel Natale sarà! a

− Kristiane si è addormentata, Johanne. Il medico ha detto che sta bene.


Non c’è motivo di tornare a casa adesso. Sono già le…
L’uomo lanciò un’occhiata al televisore muto. Sullo schermo, l’Hotel
Continental dava ancora il benvenuto alla signora e al signor Yngvar Stubø.
− … le tre e un quarto. Sono le tre di notte passate, Johanne.
− Voglio tornare a casa.
− Ma…
− Non avremmo mai dovuto accettare questo invito. Kristiane è ancora
troppo piccola.
− Ha quasi quattordici anni, − ribatté Yngvar stropicciandosi il viso con le
mani. – Permettere a una quattordicenne di partecipare al matrimonio di sua
zia non è di sicuro da irresponsabili. E a dire il vero è stata molto generosa tua
sorella a offrirci la suite e la baby-sitter.
− E che baby-sitter! − esclamò Johanne a denti stretti, sputando fuori
l’ultima parola in una nuvola di goccioline di saliva.
− Albertine si è addormentata, − disse Yngvar rassegnato. – Si è
addormentata sul divano dopo che anche Kristiane si era addormentata,
finalmente. E cos’altro avrebbe dovuto fare? È venuta per questo, Johanne,
perché Kristiane la conosce bene. Non potevamo aspettarci di piú da lei, se
non che facesse quel che le era stato detto di fare, e infatti è scesa a prendere
Kristiane dopo la torta e l’ha accompagnata qui in camera. È stata una
disgrazia imprevedibile! Una disgrazia imprevedibile, solo questo. E tu lo
devi accettare.
− Una disgrazia? E tu chiami disgrazia il fatto che una ragazzina come…
come Kristiane riesca a uscire dalle porte chiuse a chiave di un albergo senza
che nessuno se ne accorga? Che la baby-sitter dorma tanto profondamente da
sembrare morta a Kristiane? Che fra l’altro la conosce cosí bene da chiamarla
ancora «signora»! È una disgrazia, che quella bambina si metta a gironzolare
per un edificio pieno di gente? Gente ubriaca! E che poi finisca nel bel mezzo
di una strada, in piena notte, seminuda e scalza e…
Si portò le mani al viso ed esalò un singhiozzo profondo. Yngvar si alzò
dalla sedia e si lasciò cadere pesantemente accanto a lei sul bordo del letto.
− Perché non ce ne andiamo a dormire? − le mormorò. – Domani ci
sembrerà tutto meno brutto. In fondo è andata bene, dovremmo esserne
contenti, no? Cerchiamo di riposare un po’, adesso.
Lei non rispose. La sua schiena curva sobbalzava a ogni respiro.
− Mamma.
Johanne si asciugò in fretta la faccia e si girò verso la figlia con un gran
sorriso.
− Sí, tesoro?
− A volte sono proprio invisibile.
Dal corridoio arrivavano risatine soffocate e sghignazzi. Qualcuno propose
un brindisi, una voce d’uomo esigeva di sapere dove si trovava la macchina
per il ghiaccio a cubetti.
Johanne si infilò a letto silenziosamente. Accarezzando con lentezza i
sottili capelli biondi della ragazzina accostò le labbra al suo orecchio.
− Non per me, Kristiane. Tu non sei mai invisibile per me.
− Oh, sí, − disse la figlia con una risatina. – Anche per te. Io sono la
bambina invisibile.
E prima che la madre riuscisse a ribattere, nel momento stesso in cui le
campane del municipio annunciavano che un’altra mezz’ora di quella
ventesima notte di dicembre era passata, Kristiane si addormentò.

a. Le citazioni sono tratte dalla canzone tradizionale Musevisa (Alf Prøysen) [N. d. T.].
Camera con vista

Nell’istante in cui le campane del municipio batterono le tre e trenta decise


che ne aveva abbastanza.
In piedi davanti alla finestra guardava quel che si riusciva a vedere.
E non era un granché.
Dieci ore prima una fitta nevicata aveva ricoperto Oslo, rendendola
immacolata e luminosa. Nel silenzio vuoto dell’ufficio si era immerso cosí
profondamente nel lavoro da non accorgersi nemmeno che il tempo era
cambiato. Ora la città si stendeva scura e informe sotto di lui. Non pioveva,
ma il tasso di umidità era cosí elevato che la condensa formava dei rivoli sul
vetro della finestra. La fortezza di Akershus si intravedeva a stento, una vaga
ombra dall’altra parte della darsena. Le onde grigie e indolenti erano l’unico
segno che la scura superficie tra il molo di Rådhuskaia e Nesodden, fino alla
penisola di Hurumlandet, fosse in effetti mare e fiordo.
Le luci però erano molto belle: le lanterne delle navi e i lampioni
attraverso il vetro bagnato si trasformavano in piccole stelle scintillanti.
Sulla scrivania era tutto pronto.
I regali di Natale.
Una crociera ai Caraibi per suo fratello, sua sorella e le loro famiglie. È
vero che si trattava di una delle navi della sua compagnia, ma era comunque
un’offerta generosa.
Un gioiello per la madre, che avrebbe compiuto sessantanove anni il
giorno della vigilia e che di ricevere diamanti non si stancava mai.
Un elicottero telecomandato e una tavola da snowboard nuova per il figlio.
Niente per Rolf, proprio come avevano deciso e come decidevano ogni
volta, salvo poi pentirsene sempre.
E venti milioni di corone in opere di bene.
Era tutto.
Con i regali se l’era cavata in fretta. Gli erano bastati poco meno di un’ora
dal suo gioielliere di fiducia ad Amsterdam in novembre, un giretto in un
centro commerciale di Boston la stessa settimana e venti minuti davanti al
computer per comporre un biglietto d’auguri simpatico per le famiglie dei
parenti quella notte. Di immagini allettanti della Martinica e di Aruba ce
n’erano in abbondanza nel sito della sua compagnia armatrice. Il biglietto era
venuto bene ed era anche personalizzato: un ritocco ed ecco tutti i parenti
schierati lungo il parapetto della MS Princess Ingrid Alexandra nella brezza
marina.
A richiedere molto tempo erano stati i soldi da dare in beneficenza.
Marcus Koll jr ci metteva l’anima in ogni singola donazione. Disseminare
tutt’intorno a sé doni caritatevoli era il regalo che si concedeva a ogni Natale.
Lo faceva sentire bene e gli riportava alla mente il nonno. Quell’anziano
signore, che rappresentava quanto di piú prossimo a Dio il piccolo Marcus
fosse mai riuscito a immaginare, una volta gli aveva posto una domanda: un
uomo aiuta dieci persone in difficoltà e se ne attribuisce il merito, un altro
aiuta una sola persona in difficoltà e lo tiene per sé, nessuno mai lo
ringrazierà; quale dei due è migliore?
Quel ragazzino di dieci anni aveva detto il primo, e si era poi trovato a
dover lottare per difendere la sua idea. A lungo Marcus jr aveva sostenuto che
l’intenzione del benefattore non era determinante: quel che contava erano i
risultati, e dieci era meglio di uno. L’anziano signore aveva a lungo
argomentato l’opposto. Fino a quando il ragazzo, a quindici anni, non aveva
cambiato idea. Il nonno aveva fatto lo stesso, e cosí la discussione era andata
avanti. Poi, all’età di novantatre anni, Marcus Koll sr era morto, affidando a
una cartelletta grigio-verde con il logo delle ferrovie dello Stato un’esistenza
elegantemente ordinata. Quei fogli dimostravano che per tutta la sua vita di
adulto aveva elargito in beneficenza il venti per cento dei suoi guadagni; non
il dieci come voleva una certa tradizione del sindacato dei lavoratori, ma il
venti per cento. Un quinto dei guadagni della sua intera vita il nonno lo aveva
donato a chi se la passava peggio di lui.
Marcus jr aveva sfogliato il contenuto della cartelletta il giorno delle
esequie. Era stato come compiere un viaggio nel tempo, attraverso gli eventi
bui del XX secolo. C’erano le ricevute dei trasferimenti di denaro alle vedove
indigenti prima della guerra e ai bambini ebrei dopo. Ai profughi ungheresi
nel 1956. Save the Children aveva ricevuto una piccola somma ogni mese a
partire dal 1959 e il nonno aveva dato il suo generoso contributo anche a
diverse organizzazioni umanitarie dopo ogni catastrofe o quasi a partire dal
1920: dai naufragi nel periodo fra le due guerre, attraverso le carestie nel
Biafra, fino allo tsunami nel Sudest asiatico. Era morto solo cinque giorni
dopo l’ondata di maremoto del 2004, ma era riuscito a trascinarsi all’ufficio
postale di Tøyen e a inviare cinquemila corone a Medici senza frontiere.
Come macchinista con una moglie casalinga, cinque figli e, col tempo,
quattordici nipoti, non doveva essere stato molto facile per lui ridursi la busta
paga prima e la pensione poi, anno dopo anno. E senza mai arrogarsene il
merito. Le somme erano state pagate in vari uffici postali, tutti
sufficientemente lontani dal suo appartamento in una palazzina di Vålerenga
perché nessuno lo riconoscesse. Il benefattore aveva sempre un nome fittizio,
ma la calligrafia rivelava che era lui.
Il nonno non aveva aiutato una persona senza attribuirsene il merito, ne
aveva aiutate a migliaia.
Proprio come suo nipote.
A dire il vero il contributo di Marcus Koll jr alle organizzazioni umanitarie
e alla ricerca era di un ordine di grandezza ben diverso. Ci sarebbe mancato
altro. In poche settimane lui guadagnava piú di suo nonno in un’intera vita.
Ma immaginava che la gioia di donare fosse esattamente la stessa per
entrambi e che non esistesse una vera risposta al quesito morale del nonno.
Condividere non era una questione di nobiltà per nessuno dei due Marcus
Koll: era solo questione di sentirsi soddisfatti della propria vita. E come il
nonno si era concesso quel pizzico di vanità lasciando che il nipote venisse a
conoscenza delle sue azioni una volta che tutto era finito e la discussione era
morta e sepolta, in ogni senso, cosí anche il nipote teneva un accurato
resoconto delle donazioni. Venivano effettuate con la massima discrezione,
tramite numerosi passaggi che rendevano impossibile al ricevente identificare
il vero benefattore. Quei soldi li donava a titolo personale, non coinvolgevano
le sue aziende; il denaro proveniva dal suo reddito e ci pagava le tasse prima
di devolverlo attraverso una serie di giri noti a lui solo. E nessuno al di fuori
del Marcus Koll piú giovane, o Lillemarcus come tutti lo chiamavano, otto
anni di lí a due mesi, sarebbe mai venuto a sapere che cosa facesse il padre
ogni notte tra l’ultimo sabato e l’ultima domenica prima di Natale da quando
aveva compiuto trentacinque anni.
Gli dava sempre una grande tranquillità, una tranquillità di cui aveva
davvero bisogno.
Il cuore gli batteva troppo forte nel petto.
Passeggiava avanti e indietro. Non era una stanza particolarmente grande e
non lasciava certo indovinare l’ingente quantità di denaro che si produceva
dietro quella vecchia scrivania in rovere. La sede di lavoro di Marcus Koll jr
era ad Aker Brygge, una zona molto ben quotata un paio di crisi finanziarie
prima, anche se ora aveva perso valore. A lui però andava bene.
Si posò una mano sul petto sforzandosi di respirare lentamente. Era come
se i polmoni fossero indipendenti dalla sua volontà, annaspavano alla ricerca
di aria, troppo in fretta, troppo a fondo. Era lí, inchiodato al pavimento. Non
riusciva a muoversi: stava morendo. Gli formicolavano le punte delle dita
delle mani. Le labbra gli si erano gonfiate e una sensazione di intorpidimento
alla bocca gli dava l’impressione che la lingua si fosse inspessita e seccata.
Avrebbe potuto respirare solo dal naso, che però era tappato. Non respirava
piú. Sarebbe morto nel giro di pochi secondi.
Si vide dal di fuori, come aveva letto che poteva accadere e come gli era
già accaduto molte altre volte. Era all’esterno del suo corpo, leggermente di
traverso, con una prospettiva quasi a volo d’uccello, e vedeva un
quarantaquattrenne tracagnotto con le borse sotto agli occhi. Riusciva a
fiutare la propria paura.
Una violenta ondata di calore lo investí e gli permise di tornare in sé.
Barcollando raggiunse la scrivania, afferrò un sacchetto di carta dal primo
cassetto in alto. Con l’indice e il pollice destri arricciò l’apertura, la carta gli
sfuggí di mano, poi riuscí ad avvicinare il sacchetto alle labbra e iniziò a
respirare il piú a fondo e il piú regolarmente possibile.
Quel sapore metallico non accennava a svanire.
Gettò lontano da sé il sacchetto di carta e appoggiò la fronte alla finestra.
No, no. Non era malato. Il cuore era a posto, anche se, a farci caso, sentiva
delle fitte sotto la scapola e al braccio, al braccio sinistro. No. No, nessun
dolore lí.
Non farci caso.
Respira.
Gli sembrava di avere le mani coperte di insetti, ma non aveva il coraggio
di muoverle per scuoterli via. Si sentiva la testa leggera e assente, come se
non fosse la sua. I pensieri si rincorrevano con una rapidità tale da renderli
indistinguibili. Frammenti di immagini e frasi sconnesse turbinavano sempre
piú in fretta, una giostra che lo fece vacillare. Cercò di farsi venire in mente
una ricetta, la ricetta di una pizza, una pizza broccoli e feta, una pizza
americana che aveva preparato migliaia di volte e di cui non si ricordava piú.
Non era malato. Nessuna emorragia cerebrale. Niente nausea. Stava bene.
Che si trattasse di un tumore? Sentiva una fitta alla parte destra del corpo,
la parte del fegato, del pancreas, la parte per i tumori e la malattia e la morte.
Lentamente aprí gli occhi. Un angolo della sua coscienza sapeva che non
era malato. Doveva concentrare l’attenzione su quello, non su una vecchia
ricetta e sulla morte. L’umidità del vetro della finestra gli aveva lasciato la sua
impronta gelida sulla fronte, facendogli lacrimare gli occhi.
Il respiro era piú leggero. Quel pulsare martellante che fino ad allora aveva
sentito contro i timpani, allo sterno, nelle punte delle dita e all’inguine con
una intensità dolorosa, adesso andava affievolendosi.
La città di Oslo era ancora lí, oltre il vetro, fuori da quella stanza con vista
sulla darsena, sul fiordo e sulle isole. Marcus Koll jr aveva appena donato una
fortuna in opere di bene e avrebbe proprio voluto sentire il calore che quella
particolare notte prima di Natale gli dava sempre, una appagante felicità
legata alle feste, ai regali, alla gioia del figlio per le vacanze, alla madre che
era ancora viva, sbraitante e intrattabile come sempre, all’aver pagato ciò che
era suo dovere pagare e al fatto che tutto era come doveva essere. Avrebbe
voluto pensare alla vita che ancora non era finita, se solo fosse riuscito a
respirare adagio.
A calmarsi. A calmarsi del tutto.
Il suo sguardo cadde su un nottambulo, uno dei pochi che ancora
vagabondavano sulla banchina apparentemente senza scopo né ragione. Erano
quasi le cinque di una domenica mattina. I locali erano ormai chiusi. L’uomo
là sotto era da solo. Ondeggiava e aveva dei problemi a tenersi in equilibrio
sulla pavimentazione sdrucciolevole.
A un tratto si esibí in un paio di disperati passi di danza, aggrappato al
berretto come fosse un punto saldo, e scomparve oltre il bordo della banchina.
Di colpo tutto cambiò. Il cuore tornò a essere quello di sempre, la
pressione sul petto si affievolí. Marcus Koll jr raddrizzò la schiena e aguzzò la
vista. Era come se all’improvviso le mucose fossero tornate lisce, la lingua si
reidratò, la bocca si inumidí di nuovo. I pensieri finalmente si riallinearono e
ripresero a susseguirsi secondo un ordine logico. Calcolò in fretta quanto
tempo gli sarebbe servito per uscire dall’ufficio, scendere le scale e
raggiungere il molo. Ma ancor prima che il calcolo fosse terminato, vide
accorrere delle persone. Erano cinque o sei uomini, tra cui un vigilante della
Securitas, e gridavano a voce cosí alta che riusciva a sentirli perfino lui,
cinque piani piú in alto e al di là di una finestra a triplo vetro. L’uomo in
uniforme si stava già calando verso l’acqua.
Marcus Koll jr si voltò e decise di tornare a casa.
Si rendeva conto solo in quel momento di sentirsi stanchissimo.
Se si fosse sbrigato sarebbe riuscito a dormire almeno tre ore prima che il
ragazzino reclamasse quel che gli spettava. In fondo era domenica e il Natale
era vicino. Sulle alture che circondavano la città forse era rimasta un po’ della
neve caduta il giorno prima. Potevano andare in slitta. E magari anche sciare,
se si fossero addentrati nel bosco.
L’ultima cosa che fece Marcus Koll jr prima di uscire fu aprire un
barattolino che teneva nel primo cassetto in alto e in cui conservava delle
pillole ovali, bianche. Probabilmente erano scadute. Era passato cosí tanto
tempo. Ne fece rotolare una sul palmo della mano. Un attimo dopo la rimise
nel barattolino, riavvitò il tappo, infilò il barattolino nel cassetto della
scrivania e lo chiuse a chiave.
Era tutto finito, per questa volta.
Si sentivano già le sirene in arrivo.

− Arriva la polizia? Sono loro? Qualcuno ha chiamato l’ambulanza?


Queste sirene sono della polizia, cazzo! Chiamate un’ambulanza! Aiutatemi!
Il vigilante della Securitas era appeso per un braccio al bordo del molo.
Aveva una gamba posata su una viscida traversa a meno di mezzo metro dalla
superficie dell’acqua, mentre l’altra dondolava avanti e indietro in un
disperato tentativo di mantenere l’equilibrio di quel pesante corpo ben
allenato.
− Attaccati a me, su! Afferrati alla giacca!
Un ragazzo si sdraiò di pancia sulla fanghiglia di neve sciolta e afferrò il
vigilante per la manica della giacca con entrambe le mani. Aveva gli occhi
che brillavano. Gli mancavano ancora due mesi per diventare maggiorenne,
ma una benedetta barba scura gli aveva permesso di girare di locale in locale
senza che nessuno gli domandasse quanti anni aveva. Essendo squattrinato si
era piú che altro dovuto accontentare dei resti di birra che riusciva a rubare.
Adesso si sentiva perfettamente sobrio.
− Non è questo qui, − ansimò afferrando meglio la manica. − Quello che è
caduto in acqua è molto piú in là!
− Eh? Cosa?
Il vigilante della Securitas fissava il corpo che stava disperatamente
cercando di tirare fuori dall’acqua. Teneva ben saldo fra le dita il bavero della
giacca a vento, ma la persona dentro quei vestiti ciondolava nell’acqua, inerte
e pesante come il piombo, con il cappuccio che galleggiando si apriva e si
chiudeva.
− Aiuto, − gridò una voce in quell’acqua nera, molto piú al largo. −
Aiutatemi, sto...
La voce affogò.
Il ragazzo dalla barba corta e ispida lasciò andare il vigilante.
− Resisti! − gridò. − Ci penso io all’altro!
Si alzò, si tolse le scarpe, si sfilò il bomber e si tuffò senza alcuna
esitazione in quelle acque scure. Riemerse pressappoco nel punto in cui aveva
visto dibattersi l’ubriaco.
− Sono due? Sono caduti in due? Li hai visti? Li avete visti? − ruggí il
vigilante ancora appeso al molo per un braccio. Con l’altra mano teneva
stretto quello che senza ombra di dubbio era un corpo: una testa girata dalla
parte opposta, due braccia e una giacca a vento scura. Era molto pesante.
Pesantissimo. Gli facevano male le braccia e non si sentiva piú le dita.
Però non mollava.
Il ragazzo che si era appena tuffato boccheggiava e ansimava. Il primo
scioccante impatto con il freddo si era trasformato in un dolore formicolante,
cosí violento e intenso che i polmoni minacciavano lo sciopero. Il ragazzo si
teneva a galla muovendosi con tanta frenesia che il busto emergeva per intero
dall’acqua. Sotto di lui un abisso buio e incolore.
− Là, − gridò dalla banchina un poliziotto senza fiato. − Proprio dietro di
te!
Il ragazzo si girò. Piú di riflesso che per aver visto davvero chissà che
allungò la mano. Le sue dita trovarono qualcosa intorno a cui stringersi e
tirarono. L’uomo mezzo annegato riemerse con un ruggito, come se avesse
iniziato a gridare già sott’acqua. Il suo soccorritore lo teneva saldamente per i
capelli. Il nottambulo ubriaco tentò di liberarsi dalla presa e al tempo stesso di
aggrapparsi al ragazzo. Scomparvero entrambi. Quando riemersero, pochi
secondi dopo, il piú vecchio era sdraiato di schiena con le braccia aperte e le
gambe a fior d’acqua. Urlava di dolore visto che il soccorritore non gli
mollava i capelli, anzi li stringeva ancora di piú mentre si avvolgeva una fune
intorno all’altro braccio, senza nemmeno domandarsi da dove arrivasse.
− Ce l’hai? − gridò il poliziotto. − L’hai presa?
Il ragazzo tentò di rispondere, ma la bocca gli si riempí d’acqua, allora
fece un cenno con il braccio intorno a cui aveva dato quattro giri di fune.
− Tira! − ansimò con voce quasi impercettibile, inghiottendo altra acqua. −
Tira...
Mai avrebbe immaginato che il freddo potesse essere cosí intenso. L’acqua
penetrava in ogni singolo poro della pelle. Gelidi aghi lo trafiggevano in tutto
il corpo. Aveva male alle tempie, come se qualcuno stesse cercando di
fargliele penetrare nel cervello, e gli sembrava di avere i seni frontali pieni
zeppi di ghiaccio. Non si sentiva piú le mani e in un istante di puro terrore
arrivò a credere che i testicoli fossero scomparsi. L’inguine gli bruciava, un
paradossale e cocente calore che si diffondeva fin dentro le cosce.
Era rallentato nei movimenti. Si accorse che i suoi occhi erano morti, come
se qualcuno li avesse spenti. Tutto era bagnato, freddo e scuro. Non poteva
essere passato piú di un minuto da quando si era tuffato, ma lo sfiorò l’idea
che quella potesse essere l’ultima cosa che avrebbe sperimentato in vita sua:
perdere le palle nelle profondità di un mare dicembrino per colpa di un idiota
ubriaco ad Aker Brygge.
A un tratto era fuori.
Sdraiato per terra, su una coperta che sembrava di carta stagnola, e
qualcuno stava cercando di spogliarlo.
Lui aveva afferrato i pantaloni e se li teneva ben stretti.
− Rilassati, − gli disse un poliziotto, doveva essere lo stesso che gli aveva
lanciato la fune. − Dobbiamo solo toglierti questi vestiti bagnati. Fra poco
arriva il personale sanitario.
− Le mie palle, − gemette il ragazzo. − Le dita... sono...
Girò la testa dall’altra parte. C’erano poliziotti ovunque, adesso, a pochi
metri di distanza due di loro stavano posando a terra un corpo da cui usciva
acqua a fiumi. I poliziotti facevano una gran fatica e quello non dava alcun
cenno di vita.
Non appena ebbero adagiato il corpo, arrivò di corsa un portantino con una
barella su ruote. Il piú anziano dei due poliziotti lo allontanò risoluto vedendo
che voleva aiutarli a spostare di nuovo il cadavere.
− È morto. Pensa ai vivi.
− Merda, − si lagnò il ragazzo tentando di alzarsi. − È morto? Non ce l’ha
fatta?
− Non è quello che hai salvato tu, − gli rispose tranquillo il poliziotto
mentre cercava a fatica di svestirlo. − Sarebbe stato comunque troppo tardi. Il
tuo uomo è quello laggiú, si è appena rimesso il berretto.
Sghignazzò e scosse la testa. I suoi movimenti erano rapidi e il giovane
temerario, che aveva finalmente ritrovato la certezza di possedere ancora gli
organi genitali, rimase lí, inerte, a farsi spogliare. C’erano tre poliziotti che
stavano finendo di circoscrivere la zona con il nastro segnaletico bianco e
rosso, poi uno di loro coprí il cadavere sulla barella con un telo impermeabile.
− Tu-tu-tu-tu, − disse l’uomo con il berretto avvicinandosi. − Vo-vo-volevi
fo-forse sco-sco-te-tennarmi? Eh?
Lui i vestiti li aveva ancora addosso, qualcuno gli aveva gettato una
coperta di lana sulle spalle. Batteva i denti, ma non solo: tutto il corpo
tremava al punto che l’acqua gli schizzava via dalle ciocche di capelli che
spuntavano dal berretto fradicio.
Il ragazzo, sdraiato a terra, non ricordava alcun berretto.
− Ho sa-sa-salvato il be-berretto, − ridacchiò l’altro. − L’ho te-tenuto stre-
stretto!
− Via, − gli disse il poliziotto con espressione rassegnata. – Va’ lí!
Indicò un’ambulanza parcheggiata di traverso sul molo che gettava fasci
intermittenti di luce blu su tutti quegli uomini in uniforme.
− Chi-chi-chi è que-quello là? − domandò invece l’uomo sbirciando
interessato in direzione del corpo senza vita sulla barella. − No-no-non l’ho
mica vi-visto io in a-acqua!
− Adesso smettila... Arne! Arne, porta questo tizio all’ambulanza, tanto
non ci capisce granché.
Con modi decisi l’uomo intirizzito venne condotto all’ambulanza.
− Avrebbe anche potuto ringraziarti, − disse il poliziotto, e fece cenno di
avvicinarsi a uno dei soccorritori. − Sei stato coraggioso a buttarti in acqua.
Non è una cosa che avrebbero fatto in molti. Ecco qui!
Si alzò e posò una mano sulla spalla di un uomo in uniforme giallo
fosforescente.
− Bada tu al nostro eroe, − gli disse con un sorriso. − È tutto infreddolito.
− Prendo un’altra barella. Due secondi e...
Il ragazzo scosse la testa e tentò di alzarsi in piedi. Era nudo sotto quella
pesante coperta e qualcuno gli aveva messo ai piedi delle scarpe da ginnastica
troppo grandi senza che lui se ne accorgesse. L’autista dell’ambulanza lo
afferrò per un braccio quando vide che barcollava.
− Sto bene, − borbottò il ragazzo stringendosi ancora di piú la coperta
addosso. − Ma ho un freddo, cazzo…
− Forse è meglio se mi procuro una barella, − disse esitante l’autista
dell’ambulanza. − Solo…
− No, no…
Il ragazzo si diresse a passi incerti verso l’ambulanza. Arrivato quasi al
bordo della banchina si fermò un attimo. Le folate di vento salato provenienti
dal fiordo gli fecero realizzare all’improvviso quanto fosse stato vicino alla
morte. Gli venne da piangere: imbarazzato, si tirò la coperta fin sugli occhi.
Poi, facendo un piccolo passo di lato, pestò la coperta e inciampò. Per non
perdere del tutto l’equilibrio afferrò la prima cosa che gli capitò fra le mani.
Era il telo che copriva il cadavere.
Le cose si mettevano davvero male.
Non potevano essere passati piú di cinque minuti da quando stava
gironzolando lungo la banchina di Aker Brygge, da solo, insoddisfatto e senza
i soldi per prendere un taxi che lo riportasse a casa. Nel giro di quei trecento
secondi scarsi aveva nuotato in acque gelide, aveva avuto la certezza di essere
sul punto di morire, aveva salvato un uomo che stava per annegare, aveva
ricevuto elogi dalla polizia, aveva rischiato di congelarsi le palle. Nello stesso
lasso di tempo due autopattuglie con in totale sei agenti in uniforme e due
ambulanze perfettamente equipaggiate erano giunte sul posto. Il che era
piuttosto incredibile, considerato il poco tempo a disposizione. Inoltre il
vigilante della Securitas, non appena risalito sul molo e dopo che la polizia si
era presa carico del corpo senza vita che lui aveva tenuto stretto, aveva fatto
arrivare lí dagli edifici commerciali della zona ben cinque dei suoi colleghi.
E nel mezzo della baraonda di uomini in uniforme, oltre a una donna
solitaria, una trentina di persone piú o meno alticce vagabondavano qua e là
senza dare troppa importanza allo sbarramento provvisorio. Quel drammatico
tableau attraeva come carta moschicida chiunque si trovasse nei dintorni
quella domenica mattina all’alba. E dato che non erano passati nemmeno
cinque minuti da quando la banchina di Aker Brygge era pressoché inanimata,
la polizia non era ancora riuscita a capire esattamente quale fosse il legame
fra il vigilante, il giovane nuotatore, l’ubriaco e il cadavere che due agenti
avevano fatto grandi sforzi per tirare fuori dall’acqua. Le forze dell’ordine
seguivano una loro routine, questo è vero, ma era notte, regnava il caos ed era
stata data priorità assoluta al salvataggio dei vivi. Per questo motivo, o forse
perché un agente era caduto in acqua nel tentativo di portare in secco il
cadavere, fino a quel momento erano stati soltanto in due a vedere da vicino il
corpo morto. Uno, piuttosto giovane, se ne stava chino a vomitare dieci o
quindici metri al di là del nastro bianco e rosso, senza che nessuno se ne fosse
accorto, l’altro invece aveva coperto il cadavere e a bassa voce stava
ragguagliando il coordinatore dell’operazione sui fatti, quand’ecco che il
ragazzo con la barba corta e ispida perse l’equilibrio per lo sfinimento.
Cadde all’indietro. La coperta gli scivolò di dosso. Per un attimo si
preoccupò piú di non mostrarsi nudo che di mettere le mani avanti e cosí
mentre cadeva finí per aggrapparsi al telo impermeabile che copriva il
cadavere. Il telo restò impigliato all’altra estremità della barella, che quindi
cominciò a inclinarsi. Per un breve istante sembrò quasi che il peso del
cadavere potesse bastare a impedire la catastrofe totale, ma il ragazzo non
mollò la presa. Capitombolò a terra senza niente altro addosso se non quelle
grosse scarpe da ginnastica. Si sentí nitidamente il colpo dell’occipite che
sbatteva sul terreno ghiacciato e lui gridò di dolore prima di perdere
conoscenza per un secondo o forse tre.
La prima cosa che lo colpí quando rinvenne fu l’odore.
C’era qualcosa sopra di lui, qualcosa che lo stava soffocando, che gli
toglieva il respiro con quella esalazione marcescente di carne andata a male e
liquame. Qualcuno gridò e il ragazzo aprí gli occhi. Il cadavere si era adagiato
su di lui in modo perfettamente simmetrico rispetto al suo corpo, come un
bacio della morte, e i suoi occhi guardavano dritto all’interno del cappuccio
della giacca a vento.
Là dentro c’era qualcosa che a rigor di logica avrebbe dovuto essere una
testa.
In fondo si trovava all’interno del cappuccio di un bomber.
A quanto sarebbe poi risultato dal rapporto di polizia scritto alcune ore piú
tardi, si ipotizzava che il corpo si trovasse in mare da circa un mese; quelle
stesse pagine avrebbero sottolineato il fatto che probabilmente erano stati i
vestiti a tenerlo insieme. Da un punto di vista clinico il cadavere sarebbe stato
definito come «molto gonfio, parzialmente decomposto»; l’estensore del
referto avrebbe quindi concluso che non si era potuto stabilire con certezza se
il defunto fosse maschio o femmina. I vestiti facevano però pensare che si
trattasse di una persona di sesso maschile.
Il ragazzo che aveva trascorso il sabato sera a intrufolarsi in questo o quel
locale a caccia di birra e di donne e che impavido si era gettato nelle acque
del fiordo in pieno inverno per salvare un’altra vita, svenne per la seconda
volta. E questa volta il suo stato di incoscienza durò piú a lungo: quando
riaprí gli occhi era sdraiato in un letto dell’ospedale di Ullevål e sua madre
era seduta accanto a lui. Non appena la vide il ragazzo scoppiò a piangere.
Singhiozzava come un bambino aggrappandosi al caldo e rassicurante
abbraccio della madre e intanto cercava di cancellare l’ultima cosa che aveva
visto e vissuto prima che una benedetta oscurità lo allontanasse dal mostro del
fiordo.
Da una cavità in quella massa informe, all’incirca là dove un tempo
doveva esserci stato un occhio, all’improvviso aveva fatto capolino un pesce,
un minuscolo pesce argentato, non piú grande di un’acciuga, che aveva gli
occhi neri e muoveva rapido le pinne; si erano fissati, il ragazzo e il pesce, poi
quest’ultimo aveva fatto un guizzo, era saltato fuori dalla testa del morto e si
era infilato nella bocca del ragazzo spalancata in un grido.
Andando da un amico

− D’ora in poi al cenone della vigilia di Natale mangeremo sempre pesce!


Yngvar Stubø prese dal piatto con le dita la testa di merluzzo, poi ne
succhiò fuori l’occhio e lo masticò con aria pensierosa. La suocera, che
sedeva proprio di fronte a lui al tavolo ovale, strinse le labbra e sollevò il
volto, distogliendo lo sguardo con le sopracciglia inarcate. Suo marito, che
aveva già bevuto un bicchierino di troppo, indicò il genero con coltello e
forchetta.
− Ma bravo! I veri uomini del pesce mangiano proprio tutto!
− A dire il vero, − ribatté la moglie, − nella nostra famiglia le costolette di
maiale alla vigilia sono una tradizione che va avanti ininterrottamente da
quando…
− Mi dispiace, mamma!
Johanne Vik sospirò appoggiando le posate sul tavolo.
− È stato uno sbaglio, va bene? Uno sbaglio stupido e piuttosto
insignificante, a essere sincera! Perché non la pianti e basta, con la storia delle
costolette? Il Medio Oriente è in fiamme, c’è una crisi finanziaria devastante e
tu devi fare tutto questo casino solo perché Strøm-Larsen si è confuso e ha
scordato la mia ordinazione? Cristo, mamma, a tutti quelli seduti a tavola il
merluzzo piace, non è poi cosí…
− Non ti si addice affatto questo modo di esprimerti, tesoro. E comunque
posso dirti per esperienza che Strøm-Larsen non dimentica niente. È da prima
che tu nascessi che mi servo dal miglior macellaio della città e…
− Mamma, non potresti limitarti a…
Johanne si azzittí, esibí un sorriso forzato e guardò la figlia minore,
Ragnhild. Fra poco avrebbe compiuto cinque anni e fissava incuriosita il
padre, intento a divorare l’altro occhio del pesce.
− È buono, papà?
− Mmm… strano e interessante e buono.
− Di che cosa sa?
− Sa di occhio di pesce, − rispose Kristiane battendo ritmicamente la
forchetta sul piatto. – Lo dice anche il nome. Occhio di pesce, coda che
cresce.
− Non fare cosí, dài, − la richiamò la nonna materna in tono gentile. – Fai
la brava bambina della nonna e smettila con tutto quel rumore.
− Per certe persone il pesce è buono da mangiare, − disse Ragnhild. – E
per certi pesci le persone sono buone da mangiare. Cosí siamo pari. Gli
squali, per esempio. Gli squali festeggiano la vigilia di Natale, papà?
Mangiano bambine per cena, prima di aprire i regali?
Rise di cuore.
− Non sono solo gli squali a mangiare le persone, − aggiunse Kristiane, a
cui come sempre sfuggiva il senso dell’umorismo della sorellina.
Gli avvenimenti del sabato notte sembravano miracolosamente non aver
avuto ripercussioni fisiche su di lei, solo il naso che colava un po’ e un lieve
raffreddore. Che effetto avessero avuto sul piano psicologico era invece
difficile stabilirlo. Fino a quel momento Kristiane non aveva detto una parola
sull’accaduto. L’unico, piccolo cambiamento che a Johanne pareva di
intravedere era che, nei quattro giorni seguiti al matrimonio della sorella, i
momenti in cui la figlia snocciolava testi imparati a memoria duravano piú a
lungo.
Come al solito Yngvar considerava positivo anche quello: la ragazzina era
in una fase in cui faceva piú domande, ragionava, era curiosa e non solo
ripetitiva.
− Molte specie di pesci hanno una alimentazione mista, − disse Kristiane
lentamente, con lo sguardo fisso nel vuoto, in lontananza. – In determinate
condizioni mangerebbero anche carne umana, se potessero.
− Adesso parliamo di cose piú piacevoli, − suggerí la nonna. – Cos’è che
desiderate piú di tutto?
− Ma lo sai, nonna. Ti abbiamo dato la lista dei nostri desideri un sacco di
tempo fa. E l’uomo morto che hanno tirato su dalla darsena nel fine settimana,
per esempio, la sera in cui mamma si è arrabbiata tantissimo con me perché
io…
Johanne lanciò un’occhiata implorante a Yngvar.
− La nonna ha ragione, − si affrettò a dire, visto che lui non l’aveva notata.
– È la vigilia di Natale e quindi possiamo parlare di cose…
− Era rimasto a mollo nell’acqua per tantissimo tempo, − proseguí
Kristiane e finí di inghiottire quel che aveva in bocca prima di ricaricare la
forchetta. – L’hanno scritto sul giornale. Per questo si è gonfiato. Proprio
come un pallone. Perché il corpo umano è salato e risucchia l’acqua che lo
circonda. Si chiama osmosi. Quando due liquidi con diversa pressione
osmotica, e cioè diverso equilibrio idrico-salino, sono separati da una
membrana semipermeabile, ad esempio le pareti cellulari in un corpo umano,
l’acqua penetra all’interno per compensare…
La nonna era visibilmente impallidita. Il nonno, che se ne stava lí a bocca
aperta, a un tratto la richiuse con un colpo secco che tutti sentirono.
− Questa bambina, − sghignazzò. – Anzi, ormai sei una ragazza, Kristiane.
− Sai davvero un sacco di cose, bravissima, − commentò tranquillo Yngvar
e si pulí la bocca con un enorme tovagliolo bianco. – Nonna e mamma, però,
hanno ragione: la morte non è proprio l’argomento che di solito…
− Ma Yngvar, – lo interruppe la figliastra, − questo significa che un
cadavere si gonfia ancora di piú quando è in acqua dolce anziché in mare,
vero?
− Mamma, che cos’è un cadavere?
Ragnhild aveva preso dal piatto del padre quel che rimaneva della testa di
pesce, se l’era messo sul naso e sbirciava attraverso le cavità oculari vuote.
− Buuuhh, − gridava ridendo. − Che cos’è un cadavere?
− Un cadavere è una persona morta, − rispose Kristiane. − E quando le
persone morte restano in mare per tanto, tanto tempo, allora i pesci e i granchi
se le mangiano.
− E anche gli squali, − aggiunse la sorellina. – Soprattutto gli squali.
− Il cadavere era stato divorato? – chiese il nonno con evidente curiosità. –
Sul giornale non c’era scritto. È uno dei tuoi casi? Su, Yngvar, racconta! Da
quello che ho letto sull’«Aftenposten» oggi, non si conosce ancora l’identità.
− Il caso è del distretto di Oslo e io non ne so piú dei giornali. Lavoro per
la polizia criminale, no? − rispose il genero con un sorriso a denti stretti. –
Noi della Kripos collaboriamo raramente con il distretto di polizia di Oslo, e
quando lo facciamo diamo solo assistenza tecnica. Scambiamo informazioni
sulle persone scomparse. Collaboriamo a livello internazionale. Cose del
genere. Come ho già spiegato piú di una volta, fra l’altro. E adesso dico che è
ora di cambiare argomento, va bene?
Yngvar si alzò risoluto e iniziò a sparecchiare. Intorno alla tavola scese il
silenzio. Si sentiva solo il rumore di piatti e posate che venivano sistemati in
lavastoviglie misto al canto attutito delle voci bianche del coro dei
Sølvguttene proveniente dal televisore nell’appartamento al piano di sotto.
Johanne si sorprese a provare disgusto per gli avanzi di pesce che buttava
nella pattumiera man mano che ripuliva i piatti.
Come al solito aveva aspettato fino all’ultimo per andare a prendere le
tipiche costolette natalizie. Quando era arrivata dal macellaio, quella stessa
mattina verso le dieci, Strøm-Larsen le aveva già vendute tutte.
Dell’ordinazione che lei giurava di aver fatto per telefono oltre due settimane
prima nessuno sapeva niente. La commessa si era scusata, dicendosi
dispiaciutissima per la situazione a dir poco incresciosa che si era creata, ma
di costolette, comunque, non ne avevano piú. Il titolare non era riuscito a
trattenersi dal farle un velato rimprovero, sottolineando che gli ingredienti del
cenone di Natale andrebbero presi per tempo, ben prima della vigilia. Il
pensiero di servire alla madre in quell’occasione delle costolette da quattro
soldi comprate in un supermercato come Rimi o Maxi le era sembrato ancora
piú remoto dell’idea di servire del merluzzo.
− Avrei dovuto prendere quel maledetto maiale da Rimi e poi giurare che
era di Strøm-Larsen, − bisbigliò al marito infilando l’ultimo piatto in
lavastoviglie. – Non ha mangiato praticamente niente!
− Peggio per lei, − le bisbigliò Yngvar di rimando. – Rilassati, dài.
− Che ne dite di arieggiare un po’? – chiese a un tratto la nonna a voce
alta. – Non per il merluzzo, ovviamente, che è sano e anche buono… Solo che
il profumo delle costolette di maiale arrosto è l’atmosfera stessa del Natale,
ecco!
− Fra poco si sentirà il profumo del caffè, − ribatté Yngvar allegro. – Lo
beviamo il caffè con il dolce, vero?
Al piano di sotto i Sølvguttene stavano cantando il salmo natalizio Deilig
er jorden. Ragnhild si uní al coro e andò di corsa al televisore per accenderlo.
− Niente Tv adesso, Ragnhild!
Johanne cercò di sorridere quando fece capolino da dietro la parete corta
della cucina aperta.
− Non guardiamo la televisione la vigilia di Natale, lo sai. E tanto meno
mentre siamo a tavola.
− Veramente, a me sembra un’ottima idea, − protestò la nonna. – Tanto ci
siamo seduti a tavola troppo presto. Sarebbe bello ascoltare un po’ i
Sølvguttene. Sono cosí natalizie, quelle splendide voci. I ragazzi soprano
sono una delle cose piú belle in assoluto, secondo me. Vieni, Ragnhild, che
cerchiamo il canale giusto, io e te.
Un bicchiere di vino rosso si infranse sul pavimento con un colpo secco.
− Non importa, non importa!
Yngvar gridava e rideva e faceva un gran baccano.
Johanne si affrettò verso il bagno.
− L’anima pesa ventun grammi, − disse Kristiane.
− Ah, davvero?
Il nonno si riempí il bicchiere di acquavite fino all’orlo per la quinta volta.
− Sí, − gli rispose seria Kristiane. – Quando qualcuno muore il suo peso
diminuisce di ventuno grammi. Ma è una cosa che non si vede. Non si vede e
non si ride e non si…
− Non si vede?
− L’anima. Non si vede che se ne va via.
− Kristiane, − chiamò Yngvar dalla cucina. – Adesso dico sul serio: basta.
Basta parlare di morte e decomposizione, va bene? E poi questa cosa del peso
dell’anima è una stupidaggine. L’anima non esiste. È solo un concetto
religioso. Vuoi un po’ di tè con il miele per dessert?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane in tono monotono.
− Oh, no…
Johanne era tornata dal bagno. Si sedette sui calcagni accanto alla figlia.
− Guardami, tesoro mio. Guarda la mamma.
Con delicatezza le sollevò il mento con una mano.
− Yngvar ti ha chiesto se vuoi del tè. Tè con il miele. Ne vuoi?
− Dam-di-rum-ram.
− Non credo proprio che sia una buona idea dare del tè alla bambina
quando si trova in questo… stato, no? Vieni dalla nonna, dài, che ascoltiamo
questi ragazzi che cantano cosí bene! Vieni qui dalla nonna, tesoro.
Yngvar era in cucina, nascosto alla vista della suocera. Fece un cenno a
Johanne e le disse muovendo le labbra senza voce: − Lascia perdereeee! Fai
finta di non sentirla.
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane.
− Avrai proprio il regalo che desideri, − le bisbigliò Johanne. – Quello che
desideri di piú, vedrai.
Johanne sapeva che non sarebbe servito. Era Kristiane a decidere dove
voleva stare. Nei quattordici anni che aveva trascorso a strettissimo contatto
con lei, tanto da far fatica certe volte a distinguere sé stessa dalla figlia, non
era ancora riuscita a capire che cosa la portasse da uno stato all’altro. Alcuni
schemi li avevano imparati, sia lei che Yngvar che Isak, il padre di Kristiane.
Routine e consuetudini, alimenti che era meglio evitare o che potevano farle
effetto, medicine che avevano provato per poi trovarsi d’accordo sulla loro
inefficacia. Alcune delle strade imboccate avevano reso un po’ piú facile la
vita con Kristiane, ma quasi sempre la figlia vagava in un mondo tutto suo,
seguendo un percorso tutto suo, e lo faceva a proprio, incomprensibile
piacimento.
− Mamma ti vuole un bene dell’anima, − le bisbigliò Johanne. Con le
labbra le fece il solletico all’orecchio, e Kristiane sorrise.
− Adesso arriva papà, − disse.
− Papà arriva fra poco. Quando avrà finito di mangiare con il nonno e la
nonna verrà qui dalla sua bambina.
Lo sguardo di Kristiane era del tutto privo di espressione. Era come se i
suoi occhi si muovessero indipendentemente l’uno dall’altro, e questo
spaventò Johanne. Di solito si limitavano a fissare qualcosa che gli altri non
potevano vedere.
− La signora era…
− Si chiama Albertine, − la interruppe Johanne. – Albertine stava
dormendo.
− Faceva un freddo terribile. Non riuscivo a trovarti, mamma.
− Ma ti ho trovato io. Alla fine.
Johanne era cosí concentrata sulla figlia da non accorgersi di sua madre.
Per prima cosa sentí il suo profumo, un profumo che le aveva regalato la
sorella e che costava piú di quanto lei spendesse in cosmetici e igiene
personale in un anno intero.
Vattene, cercò di dirle con tutta sé stessa. Inarcò la schiena e fece un
minuscolo passo di lato, sempre restando seduta sui calcagni.
− Kristiane, − disse la madre di Johanne in tono fermo e tranquillo. – Vieni
qui dalla nonna. Per prima cosa andiamo ad aprire il pacco rosso con il nastro
rosa. È il tuo regalo. Dentro il pacco c’è una scatola con un coperchio.
Quando avrai aperto la scatola e tolto anche l’altro coperchio, troverai un
microscopio. Proprio quello che desideravi. Adesso mi dài la mano e…
Allungò una mano verso di lei.
Johanne era ancora accovacciata, con i palmi posati sulle esili cosce di
Kristiane.
− Microscopio, − disse Kristiane. – Dal greco micrón, «piccolo», e
skopéin, «guardare».
− Proprio cosí, − disse la nonna. – Ora vieni, su.
I Sølvguttene avevano finito di cantare. Ragnhild spense il televisore.
Anche al piano di sotto fecero lo stesso. Dalla cucina si diffondeva il profumo
del caffè e il mondo fuori era silenzioso come lo è solo in quest’unica sera
dell’anno, quando le chiese sono vuote e le campane tacciono e piú nessuno
va e viene.
La mano lunga e sottile della nonna si infilò in quella di Kristiane.
− Nonna, − disse la ragazzina con un sorriso. – Voglio il mio microscopio.
Ma era Johanne che guardava, e i suoi occhi restarono fissi sulla madre
finché non si decise a seguire la nonna sino al divano per aprire un regalo che
sapeva già cos’era.
Johanne si alzò, tutta indolenzita, e rimase ferma lí, in piedi.
Una strana ondata di felicità la attraversò per poi svanire ancor prima che
fosse riuscita a intuire di cosa si trattasse.

Per Eva Karin Lysgaard la felicità era un concetto solidissimo.


La felicità consisteva nella fede in Gesú Cristo. Ogni singolo giorno da
quando, a sedici anni, aveva incontrato il Redentore durante un’escursione
aveva provato la gioiosa sensazione data dalla Sua vicinanza. Parlava con Lui
di continuo, e le capitava spesso di ottenere anche delle risposte. Perfino nei
momenti di dolore, e una donna di sessantadue anni di momenti simili ne
aveva sperimentati, Gesú era con lei, come consolazione e sostegno e infinito
amore.
Erano quasi le undici di sera della vigilia del Suo compleanno.
Eva Karin Lysgaard aveva un appuntamento con Gesú: un patto stretto con
suo marito, Erik, e il Signore. Quando tutto nella loro vita era sembrato buio e
senza via d’uscita, ecco che avevano trovato una soluzione alle difficoltà. Non
era stata la strada piú facile quella che avevano scelto di imboccare, ce n’era
voluto di tempo per individuarla, e sarebbe per sempre rimasta una questione
fra loro tre, fra lei, Erik e il Redentore.
E adesso Eva Karin Lysgaard era in cammino.
La pioggia che il vento sospingeva dalla baia di Vågen sapeva di sale.
Dietro molte finestre di quel pittoresco complesso di case in legno si
intravedevano ancora delle deboli luci: per molti la vigilia di Natale non era
ancora finita. Eva Karin inciampò in un cubetto di porfido nel momento in cui
svoltò l’angolo di Forstandersmauet ma ritrovò subito l’equilibrio. Aveva gli
occhiali appannati e bagnati e non ci vedeva bene. Ma non importava. Quella
era la sua via, l’aveva percorsa infinite volte prima di allora.
Stupita, si fermò per un breve istante.
Erano proprio dei passi che sentiva alle sue spalle.
Camminava ormai da piú di venti minuti e non aveva incontrato altri esseri
viventi, a parte un gatto da cortile e degli uccelli marini che gridavano
lamentosi sopra la baia.
− Vescovo Lysgaard?
Lei si girò verso la voce.
− Sí? – rispose con un sorriso.
C’era qualcosa di strano nella voce dell’uomo, qualcosa di forestiero. Era
dura, forse. Diversa, in ogni caso.
− Chi sei? Come posso aiutarti?
Nell’istante in cui la colpí con il coltello lei si rese conto di essersi
sbagliata. Nei sedici secondi che intercorsero fra l’attimo in cui comprese che
sarebbe morta e l’attimo in cui cessò di vivere, non oppose alcuna resistenza.
Non disse una parola e si lasciò cadere a terra, in strada, con quell’uomo
sopra di lei, l’uomo con il coltello: di lui non le importava. Era lei che aveva
sbagliato. Per tanti lunghi anni aveva creduto che Gesú fosse al suo fianco e,
nella presuntuosa convinzione che Lui avesse perdonato e accettato, aveva
vissuto in una menzogna che era troppo grande per poter continuare a
reggerla.
Nell’istante in cui morí, quando non c’era piú nulla da vedere e tutte le
sensazioni dell’esistenza erano svanite, si domandò che cosa Lui, che era la
vita eterna, non avesse accettato, se la menzogna o il peccato.
«Sarà stato lo stesso», pensò.
E morí.

− Gesú Bambino non può avere duemila e otto anni, − disse Ragnhild e
sbadigliò. – Nessuno vive in eterno!
− No, − le disse Yngvar. – Gesú in effetti è morto piuttosto giovane. A
Natale festeggiamo il giorno in cui è nato.
− Allora dovremmo avere dei palloncini. Non è un vero compleanno senza
i palloncini. Tu credi che a Gesú Bambino piacessero i palloncini?
− A quei tempi i palloncini non esistevano. Adesso però è ora di fare la
nanna, bambina mia. È quasi l’una! È già Natale, a dire il vero.
− Ho battuto il mio record! – esultò Ragnhild. – L’una è piú tardi delle
undici?
Yngvar annuí rimboccandole il piumino per la quarta volta in due ore.
− Adesso è ora di fare la nanna.
− Perché l’una è piú tardi delle undici, se una è un numero piccolo e undici
è un numero grande? Posso restare alzata cosí tanto anche a capodanno?
− Vedremo. Nanna!
Le diede un bacio sul naso e andò alla porta.
− Papà…
− È ora di fare la nanna. Guarda che papà si arrabbia se non ti sdrai e ti
metti a dormire. Capito?
Premette l’interruttore della luce e la stanza rimase immersa nel bagliore
rossastro proveniente da una catena di cuoricini luminosi appesa tutt’intorno a
una delle finestre.
− Ma papà… solo una cosa…
− Che cosa?
− A dire il vero è un po’ stupido regalare un microscopio a Kristiane, tanto
lo rovina e basta.
− Può darsi. Ma era il regalo che desiderava.
− Perché non regalarlo a me il microsc…
− Ragnhild! Adesso mi sto arrabbiando! Sdraiati subito, altrimenti…
Il fruscio del piumino lo azzittí.
− Notte papà, ti voglio bene.
Yngvar sorrise chiudendo la porta.
− Anch’io ti voglio bene. A domani!
S’incamminò silenziosamente lungo il corridoio. Kristiane dormiva già da
un pezzo, ma era capace di svegliarsi per una piuma di pollo che cadeva sul
pavimento. Trattenne il respiro quando passò davanti alla sua porta. Poi
trasalí.
Il telefono? All’una di notte della vigilia di Natale?
In due balzi raggiunse la porta del soggiorno per far cessare quel frastuono
il piú in fretta possibile. Per fortuna Johanne lo aveva preceduto: parlava a
bassa voce, in piedi accanto all’albero di Natale, che versava in uno stato
miserevole da quando Jack, il bastardino color marrone-giallognolo di
Kristiane, si era scatenato come una furia rovesciandolo in un caos di
ghirlande e luci elettriche. La suocera aveva deposto fra i regali, ben
impacchettato, un osso: al cane non c’era nulla da rimproverare.
− Arriva, − sentí che diceva Johanne subito prima di passargli il telefono.
Aveva quell’espressione rassegnata che gli dava sempre una fitta al cuore.
Allargò le braccia come per scusarsi ancora prima di afferrare il cellulare.
− Stubø.
Johanne si mise a vagare senza meta per la stanza. Raccoglieva un gioco
qua e un libro là, per poi posarli dove non avrebbero dovuto stare. Spostò una
stella di Natale sporcando di terra la tovaglia. A furia di girare si ritrovò in
cucina, ma non aveva nessuna voglia di vuotare la lavastoviglie e infilarci
dentro quel che restava della pila di piatti sporchi. Era molto stanca e decise
invece di bersi l’ultimo rimasuglio in fondo alla bottiglia ormai quasi vuota di
vino rosso che le aveva regalato la sorella. A detta della madre costava piú di
tremila corone, il che avrebbe palesemente significato gettare perle ai porci,
quindi Johanne finí di riempirsi il bicchiere con del vino italiano da poco in
un cartone posato sul piano della cucina.
− Bene, − sentí dire al marito. – A dopo, allora. Passa a prendermi alle sei.
La telefonata si concluse cosí.
− Alle sei, − gemette Johanne. – Ci capiterà mai di dormire un po’ di piú?
Bevve un gran sorso di vino e si sedette sul divano.
− È stata proprio una bella serata, − disse Yngvar lasciandosi sprofondare
accanto a lei. – Tuo padre, come al solito, è stato dolce e snervante allo stesso
tempo, e tua madre… tua madre…
− È stata terribile con me, buona con Ragnhild, brava con Kristiane e
condiscendente con te. E incantevole con Isak, quando finalmente è arrivato.
Come sempre. Chi è morto?
− Eh?
− Lavoro.
Johanne fece un cenno del capo al cellulare appoggiato sul tavolino da
salotto.
− Ah. Un caso delicato.
− Quando ti chiamano per lavoro la vigilia di Natale suppongo che sí, sia
proprio un caso delicato. Di cosa si tratta?
Yngvar prese il bicchiere e se lo portò alle labbra con tale impeto che
quando lo posò gli erano rimasti dei baffi rossi. Poi si bloccò, guardò
l’orologio e corse in cucina. Johanne lo sentí sputare nel lavandino.
− Può darsi che debba guidare, − disse asciugandosi con la manica mentre
tornava indietro. – E comunque devo essere in grado di pensare lucidamente.
− Tu pensi sempre lucidamente.
Lui sorrise e ritonfò accanto a lei. Il tavolino da salotto era ancora
ricoperto di carta da pacchi, bicchieri, tazzine da caffè e bottiglie di bibite.
Con una grazia di cui nessuno lo avrebbe creduto capace quell’omone posò i
piedi in mezzo al caos e accavallò le gambe.
− Eva Karin Lysgaard, − disse sorseggiando acqua da una bottiglietta di
marca Farris che aveva preso in cucina. – È morta.
− Eva Karin Lysgaard? Il vescovo? Il vescovo Lysgaard?
Lui annuí.
− E come è morta? Voglio dire, dal momento che telefonano a te si tratta di
un crimine, no? È stata assassinata? Un vescovo assassinato? Come? E
quando?
Yngvar bevve un altro po’ d’acqua e si stropicciò il volto come se quel
gesto potesse renderlo piú lucido.
− Ne so pochissimo. Dev’essere successo soltanto…
Lanciò una rapida occhiata all’orologio.
− Poco piú di due ore fa. È stata accoltellata, è tutto quello che so. A dire il
vero, non si sa con certezza se è stata uccisa con un coltello, ma per ora
sembrerebbe che la causa di morte sia una profonda ferita da taglio nella
regione del cuore. E l’hanno uccisa per strada. All’aperto, quindi. Non so
altro. Il distretto dell’Hordaland normalmente non ci chiederebbe assistenza
in un caso del genere, per lo meno non cosí in fretta. Ma questo… be’… A
ogni modo, io e Sigmund Berli partiamo domani.
Johanne si tirò su e posò il bicchiere di vino. Dopo un attimo lo spinse con
risolutezza piú in là, verso il centro del tavolo.
− Accidenti, − fu tutto quello che riuscí a dire.
Rimasero seduti in silenzio. Johanne si sentí attraversare da un brivido
freddo e le venne la pelle d’oca. Eva Karin Lysgaard. Il vescovo di Bjørgvin,
una donna indulgente e sempre in primo piano. Assassinata. La sera della
vigilia di Natale. Johanne cercava di dare un senso ai propri pensieri, ma era
come se la mente girasse a vuoto.
Proprio il sabato prima, il giorno di quel dannato matrimonio, il
«Magasinet», il supplemento settimanale del «Dagbladet», aveva dedicato al
vescovo Lysgaard un servizio di oltre quattro pagine. Johanne non avrebbe
avuto nemmeno il tempo di sfogliarlo, ma quando aveva visto quella storia in
copertina si era comprata il quotidiano con l’intenzione di leggere l’articolo
piú avanti. Ancora non era riuscita a trovare l’occasione per farlo.
All’improvviso si allungò sopra al bracciolo e si mise a frugare nel
portariviste.
− Ecco qui, − disse appoggiandosi il «Magasinet» sulle ginocchia. − Il
vescovo senza frusta.
Yngvar le cinse le spalle con un braccio e insieme si chinarono sulla
rivista. In copertina c’era la foto di una donna di una certa età. Aveva gli
occhi a mandorla, ma tagliati in giú, che le conferivano un’aria triste anche
quando sorrideva. Le iridi erano di un marrone intenso, quasi nere, le
sopracciglia spesse e scure; le ciglia sembravano ancora incredibilmente
lunghe nonostante le rughe intorno agli occhi.
− Una bella donna, − mormorò Yngvar e fece per girare pagina.
− Non bella, a dire il vero. Particolare. Caratteristica. Con quest’aria da
persona buona, come in effetti era… da viva.
Johanne continuava a fissare la foto. Yngvar fece un lungo sbadiglio.
− Scusa, − disse scuotendo rapido il capo. – Ma è meglio se cerco di
dormire il piú possibile. Anzi, dovremmo dare una sistemata qui prima di
andarcene a letto, altrimenti ti toccherà fare tutto da sola domani e potrebbe…
− Per strada, − lo interruppe lei. – Hai detto che è stata uccisa per strada?
La sera della vigilia di Natale?
− E quasi per miracolo l’ha trovata una pattuglia della polizia, una delle
poche in circolazione. Era lí, sdraiata per terra. Da un certo punto di vista
abbiamo un grosso vantaggio: per una volta, a quanto pare la stampa non è
riuscita a mettere le grinfie su un omicidio nel giro di due minuti. Senza
contare che domani i quotidiani non escono.
− Non che la stampa online sia meglio, − borbottò Johanne, lo sguardo
ancora inchiodato alla fotografia del vescovo di Bjørgvin. – Anzi, è anche
peggio. Per non parlare di radio e televisione. Di fronte a un caso del genere
non conta proprio nulla che siano tutti in vacanza. Ma perché devi partire? La
polizia di Bergen non è perfettamente in grado di sbrigarsela da sola?
Yngvar sorrise.
In verità la Kripos non era piú quella di una volta. Per cinquant’anni era
stata una sorta di gruppetto elitario di investigatori comunemente
soprannominato Commissione omicidi, poi aveva sviluppato, a poco a poco,
un’organizzazione piú complessa con competenze di spicco in indagini di tipo
tattico e soprattutto tecnico. Alla polizia criminale era stato assegnato un
numero sempre piú elevato di incarichi a livello sia nazionale sia
internazionale. Per l’opinione pubblica, fino al nuovo millennio era rimasta
un organo di sostegno alle inchieste della polizia ordinaria sui casi piú
importanti. In modo particolare sui casi di omicidio. Ma i tempi cambiano e la
criminalità si evolve. Nel 2005 la Kripos in realtà aveva cessato di esistere e
lasciato il posto a un ente chiamato Unità nazionale per la lotta al crimine
organizzato e d’altro genere, il cui acronimo sarebbe stato Unlcoag. Contro
questo nuovo nome si erano levate violente proteste ed era stato fatto notare,
senza troppi giri di parole, che suonava come una poco appetibile onomatopea
del vomito. Alla fine i dipendenti l’avevano avuta vinta e la Kripos aveva
potuto prepararsi a festeggiare i suoi cinquant’anni nel febbraio del 2009 con
il nome antico e armonioso che aveva sempre avuto. I compiti invece erano
cambiati e tali erano rimasti, in linea con il nome respinto.
Le unità di polizia dispiegate sul territorio erano diventate piú grandi, piú
forti e molto piú competenti. Il grande paradosso della lotta al crimine era che
una criminalità crescente e piú professionale aveva dato vita a strutture di
polizia piú ampie e con maggiori competenze. Se la cavavano. Almeno per
quanto riguardava la parte tattica delle indagini.
Yngvar accostò la bocca all’orecchio di Johanne.
− È che sono bravissimo, sai…
Lei sorrise controvoglia.
− Oltretutto farà uno scalpore tremendo, − aggiunse lui e sbadigliò. –
Secondo me quelli di Bergen ne hanno paura. E se è me che vogliono, è me
che avranno.
Si alzò e si guardò intorno con aria scoraggiata.
− Sistemiamo il grosso?
Johanne scosse la testa.
− Che cosa ci faceva in giro? – chiese lentamente.
− Eh?
− Che cosa aveva da fare fuori, di sera tardi, la vigilia di Natale?
− Non ne ho idea. Forse stava andando da qualche amico.
− Ma…
− Johanne. È tardi. Non ne so niente, del caso, a parte il fatto che devo
prepararmi ad andare a Bergen decisamente troppo presto domani mattina.
Non ha davvero senso star qui a rimuginare sulla base delle scarne
informazioni che abbiamo, lo sai bene anche tu. Mettiamo un po’ in ordine,
oppure andiamo a letto.
− Andiamo a letto, − disse Johanne alzandosi.
Entrò in cucina, prese una bottiglietta di acqua minerale Farris e decise di
portarsi in camera anche il «Magasinet». A quel che restava da fare ci avrebbe
pensato l’indomani.
− C’è qualcosa che non va? – le chiese all’improvviso Yngvar, visto che si
era fermata in mezzo alla stanza senza dar cenno di volersi muovere in una
direzione o nell’altra.
− No, niente. È solo che… mi sento cosí… triste.
Stupita, alzò gli occhi.
− Hai ragione, è una notizia che fa dispiacere, − disse Yngvar e le posò una
mano sulla guancia.
− No, non proprio. Ecco… È che di solito non mi coinvolgono…
preferisco non lasciarmi coinvolgere dai tuoi casi. Ma lei, il vescovo, aveva
sempre quell’aria cosí… buona.
Yngvar sorrise e la baciò con delicatezza.
− È una cosa che sappiamo solo io e te, − le disse prendendole una mano. –
E poi… anche i buoni vengono uccisi. Andiamo, su…
Fu una notte insonne per Johanne. Quando alla fine il giorno la reclamò,
aveva letto l’articolo sul vescovo Eva Karin Lysgaard cosí tante volte da
saperlo a memoria.
Senza però ricavarne il minimo aiuto.
Un uomo

Niente gli era di aiuto.


Niente lo avrebbe mai potuto aiutare. Si erano offerti di restare con lui,
ovviamente. Come se fosse di loro che aveva bisogno. Come se la vita per un
attimo potesse tornare a essere sopportabile solo perché degli estranei gli
sedevano vicino, sulla poltrona di lei: quella poltrona gialla e consunta, con il
poggiatesta, messa di traverso davanti al televisore, con un lavoro a maglia
non ancora finito in una cesta di vimini lí accanto.
Gli avevano chiesto se aveva qualcosa.
Una volta sí che aveva qualcosa. O meglio, qualcuno. Alcune ore prima
aveva Eva Karin. Per una vita intera aveva avuto Eva Karin e adesso non
aveva piú nessuno.
Suo figlio, avevano detto loro. Gli avevano chiesto di suo figlio. Se volesse
avvisarlo lui, suo figlio Lukas, altrimenti potevano occuparsi loro della
faccenda. Erano state proprio queste le parole usate dalla donna che si era
seduta sulla poltrona di Eva Karin. Occuparsi della faccenda. Come se si
trattasse di una faccenda. Come se ci fosse ancora alcunché di cui occuparsi.
Lui non provava alcun dolore.
Il dolore faceva male. Il dolore provocava dolore. Ma tutto quello che lui
percepiva adesso era una mancanza di esistenza. Un vuoto che lo portava a
fissarsi le mani come se appartenessero a qualcun altro. Strinse a pugno la
destra, con una veemenza tale da conficcarsi le unghie nel palmo. Nessun
dolore, da nessuna parte, nessuna esistenza, solo un grande e incolore nulla
dove Eva Karin non c’era piú.
Anche Dio lo aveva abbandonato. Questo lo aveva capito.
Il tempo aveva smesso di scorrere.

Il suo orologio si era fermato. Scosse irritata il braccio e capí di essere


molto piú in ritardo del previsto. Doveva far rientrare le bambine e vestirle
con gli abiti della festa cercando di non indispettire Kristiane.
Andò alla finestra.
Sul prato davanti a casa, all’interno della recinzione che dava su Hauges
Vei, Ragnhild e Kristiane avevano racimolato una quantità di brina sufficiente
a costruire il pupazzo di neve piú piccolo del mondo. Era alto appena dieci
centimetri, ma anche dal primo piano lei ne vedeva il berretto fatto con una
foglia di quercia ingiallita e la bocca formata da minuscoli sassolini.
Johanne incrociò le braccia e si appoggiò al davanzale. Come al solito era
Ragnhild quella che costruiva e dirigeva, mentre Kristiane si limitava a
starsene lí, perfettamente immobile. Anche se lei non riusciva a distinguere le
parole della figlia piú piccola da lassú, la sentiva comunque chiacchierare
ininterrottamente, come se ad ascoltarla ci fosse la persona piú interessata del
mondo.
E forse era proprio cosí.
Johanne sorrise quando Ragnhild si alzò di colpo, si allontanò dal piccolo
capolavoro e si mise a cantare a squarciagola. Adesso la sua voce arrivava
fino a lei. Å leva det er å elska risuonava per tutto il vicinato, chissà poi dove
lo aveva imparato quel canto religioso. Che accompagnasse la costruzione di
un pupazzo di neve, però, doveva essere stata un’idea di Kristiane.
Una figura catturò l’attenzione di Johanne. Un uomo, forse, che lei non
aveva proprio idea da dove fosse sbucato. Dava l’impressione di non sapere
bene nemmeno lui dove andare. Per qualche strano motivo la inquietò. Sí,
c’erano dei ragazzi del quartiere che ogni tanto saltavano fuori dal nulla, ma
gli adulti che percorrevano le vie di un’area residenziale avevano sempre una
meta. Molti lei li riconosceva, dopo tanti anni passati in quel mozzicone di
strada.
L’uomo continuò il suo vagabondare con le mani in tasca. Aveva il berretto
calato fin sopra gli occhi e la sciarpa ben avvolta intorno al collo, tanto che gli
nascondeva la parte inferiore del volto. E qualcosa nella sua andatura le fece
pensare che non fosse poi cosí giovane.
Scosse di nuovo la mano sinistra. L’orologio era ancora fermo, forse aveva
la pila scarica. Probabilmente erano in ritardo. Stava per allontanarsi dalla
finestra quando l’uomo si fermò accanto ai bidoni dell’immondizia.
I loro bidoni dell’immondizia.
Johanne sentí la paura esploderle dentro, come sempre le capitava quando
non aveva il pieno controllo su Kristiane. Per un istante rimase immobile
senza sapere bene se correre giú o seguire la scena dalla finestra. Senza aver
proprio scelto restò ferma dov’era.
Forse l’uomo aveva chiamato le bambine.
Fatto sta che tutte e due lo guardarono, e anche se Ragnhild era girata di
spalle i movimenti delle sue braccia rivelavano che gli stava parlando. Lui le
rispose qualcosa e le fece cenno di avvicinarsi. Ma nessuna delle due si
avvicinò, anzi, Ragnhild arretrò di un passo.
Johanne corse via.
Sfrecciò attraverso tutto l’appartamento, nel soggiorno, nel corridoio, e
raggiunse l’annesso che era diventato la stanza dei giochi delle bambine;
quasi ruzzolò precipitandosi giú per le scale, e poi corse fuori nel freddo
gelido, senza scarpe né pantofole ai piedi.
− Kristiane, − gridò cercando di conferire alla propria voce un tono di
quotidianità. – Ragnhild! Dove siete?
E nell’istante stesso in cui girò l’angolo della casa vide le bambine.
Ragnhild se ne stava di nuovo accovacciata davanti al piccolo pupazzo di
neve. Kristiane stava guardando un uccello o un aeroplano, a ogni modo
aveva gli occhi rivolti al cielo e, senza curarsi della madre, tirò fuori la lingua
per catturare qualcuno dei fiocchi leggeri che avevano iniziato a cadere.
Dell’uomo, nessuna traccia.
− Mamma! − esclamò Ragnhild severa. – Non si può uscire scalzi.
Johanne abbassò gli occhi sui propri piedi.
− Oh, no! – disse con un sorriso. – Ma dove ce l’ha la testa la mamma?
Ragnhild rise di gusto e la indicò con una spada giocattolo rossa.
Kristiane continuò la sua caccia ai fiocchi di neve.
− Quell’uomo chi era? – chiese amichevolmente Johanne.
− Quale uomo?
Ragnhild si leccò il moccio che le colava in abbondanza da tutte e due le
narici.
− Quello che parlava con voi. Quello che…
− Io non lo conosco, − rispose Ragnhild. – Guarda che bel pupazzo di neve
abbiamo fatto! E senza neve!
− Bellissimo. Adesso però dovete tornare a casa, tutte e due. Dobbiamo
prepararci per il pranzo di Natale. Che cosa vi ha chiesto quell’uomo?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane sorridendo verso il cielo.
− Niente, − rispose Ragnhild. – Andiamo al pranzo di Natale? E papà
viene con noi?
− No, papà è a Bergen, lo sai. Però quell’uomo vi avrà detto qualcosa, no?
Ho visto che…
− Ci ha solo chiesto se avevamo passato un bel Natale, − rispose Ragnhild.
– Ma tu non hai molto freddo ai piedi, mamma?
− Sí. Venite, dài. Tutte e due. Su, andiamo!
Stranamente, fu Kristiane a incamminarsi. Johanne prese Ragnhild per
mano e la seguirono.
− E tu che cosa gli hai risposto?
− Gli ho detto che è stato un Natale superfantastico con la panna!
− Voleva… Ha cercato di convincerti ad andare da lui?
Raggiunsero il sentiero di ghiaia e costeggiando la parete della casa
arrivarono alle scale. Kristiane parlava fra sé e sé, ma aveva un’aria felice e
soddisfatta.
− Sííí… − rispose Ragnhild esitante. − Ma lo sappiamo bene, mamma, che
non dobbiamo mai avvicinarci a qualcuno che non conosciamo. O andare via
con lui o cose cosí.
− Esatto! Brava, tesoro!
Johanne si stava congelando le dita e fece una smorfia quando, sollevato il
piede dalla ghiaia, lo posò sulla gelida scalinata di pietra.
− Mi ha chiesto se avevo ricevuto dei bei regali, − disse a un tratto
Kristiane prima di aprire la porta di casa, che si era richiusa sbattendo con un
colpo secco alle spalle di Johanne. – Solo a me. A Ragnhild no.
− Eh? E tu come lo sai che l’ha chiesto solo a te?
− Lo so perché lo ha detto lui. Ha detto…
Tutte e tre si fermarono. A Kristiane era venuto quello sguardo strano,
come rivolto verso l’interno, come se stesse cercando in un archivio dentro la
sua testa.
− «Ehi, ragazze! Ciao! Avete passato un bel Natale? E tu, Kristiane, hai
ricevuto dei bei regali?»
Lo disse con una voce piatta. Poi scese il silenzio.
− Eh già, − disse alla fine Johanne con un sorriso forzato. – Gentile da
parte sua. E ora dobbiamo metterci i vestiti della festa, su, in fretta. Dobbiamo
andare dal nonno e dalla nonna, Kristiane. Papà passa a prenderci fra poco.
− Ah…
Di colpo Ragnhild si lasciò cadere a terra e iniziò a piagnucolare: − Perché
Kristiane può avere il suo papà e io no?!
− Papà deve lavorare, te l’ho già detto. E poi tu ti diverti sempre dai nonni
di Kristiane.
− Non voglio! Non voglio!
La bambina indietreggiò e cominciò a scivolare giú per i gradini di testa
con le braccia tese, come se stesse nuotando. Johanne la afferrò per un braccio
e la tirò su, usando un po’ piú forza di quanto avesse effettivamente
intenzione. Ragnhild urlò.
L’unica cosa a cui Johanne riusciva a pensare in quel momento era che
Kristiane doveva essersi sbagliata.
− Voglio il mio papà, − gridava Ragnhild. Cercò di divincolarsi dalla presa
materna. – Papà! Il mio papà! Non quello stupido del papà di Kristiane!
− Guai a te se ti sento dire ancora queste cose, − sbottò Johanne dando una
spintarella a Kristiane per farla entrare e al tempo stesso trascinandosi dietro
la figlia minore. – Sono stata chiara?
Di colpo Ragnhild smise di piangere, sbalordita dalla rabbia della madre. E
scoppiò invece a ridere.
Ma Johanne continuava a pensare una sola cosa: Kristiane non si sbagliava
mai. Mai.

− Capita a tutti di sbagliare. Non devi arrabbiarti.


Marcus Koll jr sorrideva al figlio che stava scuotendo rabbiosamente il
libretto di istruzioni.
− Vieni qui, dài. Proviamo a farlo insieme.
Il ragazzino tenne il broncio per un attimo, poi, controvoglia, andò da lui e
sbatté il libretto sul tavolino del soggiorno. L’elicottero era rimasto sul tavolo
della sala da pranzo, montato solo in parte.
− Rolf aveva promesso di aiutarmi, − disse sporgendo il labbro inferiore.
− Lo sai come sono i clienti di Rolf, a volte.
− Ricchi, tonti e con dei cagnolini bruttissimi!
Il padre tentò di nascondere un sorriso.
− Su, su. Se una bulldog inglese decide di partorire il giorno di Natale, i
cuccioli nasceranno il giorno di Natale, belli o brutti che siano.
− Rolf dice che i bulldog li creano in allevamenti superselettivi. Che non
sono nemmeno in grado di pratorire.
− Partorire.
− Dovrebbero vietarlo. È maltrattamento di animali.
− Sono d’accordo. Fa’ vedere.
Prese il libretto di istruzioni e cominciò a sfogliarlo mentre andava verso il
sontuoso tavolo da pranzo. Aveva fatto tradurre il testo da un professionista
per facilitare il montaggio, ma il modellino davanti ai suoi occhi era talmente
grande che per un attimo si pentí. Anche se il figlio dimostrava di avere un
insolito talento per la meccanica, forse questo era davvero un po’ troppo. Il
commesso del negozio di Boston aveva precisato che l’età consigliata per
quel giocattolo era sedici anni, visto e considerato tra l’altro che l’elicottero
pesava un chilo: avrebbe potuto costituire un pericolo, una volta in volo.
− Mhm… − disse il padre grattandosi la barba incolta. – Non è che ci
capisca molto.
− Il problema è il rotore, − gli spiegò il ragazzino. – Guarda qui, papà!
Le sue abili dita cercavano di mettere insieme le pale, ma c’era qualcosa
che non andava e dopo un po’ lui si stufò e posò il rotore smontato con un
sospiro. Il padre gli arruffò i capelli.
− Un po’ piú di pazienza, Lillemarcus! Pazienza! Quello sarebbe stato il
regalo di Natale giusto per te!
− Non chiamarmi Lillemarcus, te l’ho già detto. E poi non sono io che
sbaglio, c’è qualcosa che non va nelle istruzioni.
Marcus Koll jr prese una sedia, si accomodò ed estrasse gli occhiali dal
taschino. Il figlio si sedette accanto a lui e il padre sentí i suoi riccioli biondi
solleticargli il volto quando si chinò in avanti, verso il libretto. Un delicato
profumo di sapone e biscotti allo zenzero lo fece sorridere, e dovette
trattenersi dal desiderio di abbracciarlo, di stringerlo forte a sé, di percepire il
calore che avere un figlio gli dava, nonostante tutto e tutti.
− Sei la cosa piú bella che mi sia capitata, − gli disse sottovoce.
− Sí, sí. Uffa. Che cosa significa questo? «Passare la barra d’acciaio piú
lunga nell’anello sganciato alla base della pala numero 4 del rotore». Ma di
barra d’acciaio ce n’è una sola! Allora perché c’è scritto «piú lunga»? E
questo stupido anello quale sarebbe?
Il sole dicembrino inondava di una silenziosa luce bianca il soggiorno.
Fuori l’aria era limpida e fredda. Cristalli di brina ricoprivano completamente
gli alberi, come se qualcuno li avesse laccati con uno spray in occasione del
Natale. Fra i rami bianchi al di là delle finestre, laggiú in basso, si intravedeva
il fiordo di Oslo, grigio-blu e immobile, senza alcun segno di vita. Il crepitio
del fuoco nel caminetto si mescolava al russare dei due setter inglesi
accoccolati in una grande cesta di vimini accanto alla porta. Dalla cucina
cominciava a diffondersi il profumo del tacchino, una tradizione su cui Rolf
aveva insistito parecchio quando finalmente, cinque anni prima, si era lasciato
convincere a trasferirsi lí.
Marcus Koll jr viveva la sua vita in un cliché e gli piaceva.
Quando, nove anni prima, suo padre era morto, a lui non mancava molto a
compiere trentacinque anni e aveva rifiutato l’eredità paterna. Georg Koll non
aveva mai dato niente al figlio, se non un bel nome. Il nome era quello del
nonno e gli aveva permesso di far finta che suo padre non esistesse per tutto il
periodo in cui lui, bambino, non capiva perché non avesse mai tempo per
vederlo, se non ogni tanto nel fine settimana. A dodici anni si era reso conto
che la madre non riceveva nemmeno il minimo a cui per legge aveva diritto
per mantenere lui e i suoi due fratelli minori, a quindici aveva deciso di non
rivolgere mai piú la parola a suo padre. Quell’uomo si era giocato tutte le
carte che aveva avuto a disposizione. Era stato proprio per il suo
quindicesimo compleanno che gli erano arrivate cento corone in un biglietto
di auguri, mandato per posta e con cinque parole scritte in una calligrafia che
lui sapeva non essere quella del padre. Era diventato adulto nel momento
stesso in cui aveva riposto i soldi nella busta e rispedito il tutto al mittente.
Troncare quel rapporto era stato sorprendentemente facile. Si vedevano
cosí di rado che quei due, tre incontri all’anno potevano anche essere evitati
senza troppi problemi. Nel suo cuore lui aveva eletto a padre un altro: Marcus
Koll sr. E quando era riuscito ad ammettere con sé stesso che il suo vero
padre non desiderava affatto esserlo e non sarebbe mai cambiato, si era sentito
sollevato. Libero. Pronto per qualcosa di meglio.
E la sua eredità non la voleva.
Era un’eredità consistente.
Georg Koll aveva fatto un sacco di quattrini con l’edilizia negli anni
Sessanta e Settanta. Ben prima del grande crollo immobiliare durante l’ultima
crisi finanziaria novecentesca, la maggior parte delle sue fortune era stata
trasformata in altri e piú sicuri investimenti. Georg compensava
abbondantemente il talento di padre e sostegno familiare, di cui era cosí
dolorosamente sprovvisto, con la sua bravura nel far fruttare i soldi. A
differenza di altri aveva approfittato degli anni in cui spopolavano gli yuppie
per consolidare i propri investimenti, anziché metterli a rischio puntando su
potenziali guadagni a breve termine.
Quando Georg Koll morí, lasciò un patrimonio costituito da una
compagnia armatrice di navi da crociera di media grandezza, sei remunerativi
palazzi in centro e un portafoglio di azioni che negli ultimi cinque anni aveva
giocato un ruolo primario nel complesso dei suoi cospicui introiti. La morte lo
aveva chiaramente colto di sorpresa: aveva appena cinquantotto anni, era
snello e in forma, quando un violento ictus lo aveva colpito mentre tornava a
casa dal lavoro un giorno di fine agosto. Dal momento che non si era
risposato e che non era stato trovato nessun testamento, l’intero patrimonio
era andato in eredità a Marcus Koll jr, a sua sorella Anine e al fratello minore
Mathias.
Un patrimonio di cui Marcus non voleva neanche un centesimo.
A quindici anni aveva rispedito al padre il suo sporco denaro, a venti aveva
ricevuto la risposta. Una lettera. Alle orecchie dell’uomo era arrivata la
diceria che il piú grande dei suoi figli fosse omosessuale. Marcus aveva
scorso con gli occhi il foglio e capito fin troppo in fretta dove il padre voleva
andare a parare. Un conto era che prendesse risolutamente le distanze dalla
condotta di vita del figlio, riflettendo una mentalità non insolita nel 1984. Ma
che un non credente inveterato gli prospettasse una visione del futuro
perfettamente allineata alle piú cupe rappresentazioni di Sodoma e Gomorra,
era davvero troppo. Per di piú gli rammentava la nuova e tremenda pestilenza
proveniente dall’America che colpiva esclusivamente gli omosessuali e li
faceva morire di una morte dolorosa, con vesciche e pus come una vera e
propria peste bubbonica. Georg Koll non credeva si trattasse di una punizione
divina, certo che no: era la natura stessa a intervenire. Quella malattia mortale
era il risultato di una selezione naturale; nel giro di qualche generazione
chiunque fosse come il figlio sarebbe stato sterminato. A meno che lui non
scegliesse di rigare dritto. Una vita da omosessuale sarebbe stata una vita
senza famiglia, senza certezze, senza legami né doveri, né quella particolare
felicità che derivava dall’essere buoni cittadini e persone utili alla società.
Fino a che il figlio non fosse arrivato ad ammettere tutto questo e non avesse
garantito di aver cambiato idea, poteva considerarsi diseredato.
Dal momento che la legittima per i figli risultava davvero insignificante in
rapporto all’intero patrimonio di Georg Koll, quella minaccia aveva una sua
consistenza. A Marcus però non importava granché. Bruciò la lettera e cercò
di dimenticarsela. E quando nel 1999, quindici anni piú tardi, l’eredità arrivò
fu chiaro che il padre, confidando nella propria immortalità, aveva tralasciato
di fare testamento.
Marcus rimase caparbiamente sulle sue: i soldi del padre non li voleva
comunque.
Solo quando il nonno, che fra l’altro non parlava mai del figlio maggiore,
riuscí a convincerlo che lui era l’unico dei tre fratelli a possedere le
competenze professionali per occuparsi del patrimonio di famiglia, Marcus jr
cominciò a dubitare della decisione presa. Suo fratello insegnava, sua sorella
faceva la commessa in una libreria. Lui invece era laureato in Economia
aziendale; visto che fratello e sorella insistevano sul fatto che la soluzione
migliore sarebbe stata costituire una nuova società che includesse tutti i beni
del loro defunto padre, di cui loro tre fossero comproprietari e che avesse
Marcus a capo e come amministratore, alla fine lui cedette.
«Prendila come uno scherzo del destino, − gli aveva detto Mathias
sghignazzando. – Quello stronzo si è tenuto stretto i soldi che spettavano alla
mamma e anche a noi per tutta la vita… e poi… lui si è dato tanto da fare per
tenerci lontano dai suoi quattrini, ed ecco che siamo proprio noi a poterli
spendere per goderci la vita».
Ironia del destino, aveva pensato Marcus alla fine.
− Papà, − disse Lillemarcus impaziente. – E qui che cosa c’è? Che
significa?
Marcus Koll jr sorrise con aria assente e distolse a fatica lo sguardo dal
panorama della collina, del fiordo e del cielo bianco. Si accorse di avere fame.
− Ecco, − disse mettendo al suo posto una minuscola vite. – Adesso il
rotore è pronto, abbiamo finito. Non resta che fare cosí… Mi aiuti?
Il ragazzino annuí e posizionò le quattro pale.
− Ce l’abbiamo fatta! Ci siamo riusciti! Andiamo fuori a provarlo?
Adesso? Subito? Dài…
Con una mano afferrò il telecomando e con l’altra l’elicottero finalmente
montato, con grande delicatezza, come se non riuscisse a credere fino in
fondo che stesse insieme.
− Fa troppo freddo. Troppo freddo. Te l’ho detto ieri, può darsi che ci
vogliano anche un paio di settimane per poter uscire con l’elicottero.
− Ma papà…
− Hai promesso, Lillemarcus. Hai promesso che non avresti insistito.
Piuttosto, perché non chiami Rolf? E senti se torna a casa in tempo per il
pranzo di Natale?
Il ragazzino esitò un attimo, poi posò tutto quello che aveva in mano senza
una parola. Un repentino sorriso gli illuminò il volto.
− Arrivano la nonna e tutti gli altri! – gridò correndo fuori.
La porta sbatté alle sue spalle. Quel colpo risuonò nelle orecchie di Marcus
Koll jr per poi svanire; a riempire l’ampio soggiorno non rimasero che il
debole russare dei due cani, impassibili, e il crepitio del camino. Gli occhi di
Marcus si posarono sul fuoco, poi iniziarono a vagare rapidi per l’intera
stanza.
Viveva proprio in un cliché.
La casa a Åsen.
Grande, ma in posizione discreta, arretrata rispetto alla strada, solo il piano
superiore risultava visibile ai passanti. I ridicoli pannelli in legno che
ricoprivano le pareti esterne lui aveva deciso di eliminarli non appena
acquistata la proprietà, cosí come la torba sul tetto e il portale davanti al
garage con il motto «Casa dolce casa», inciso nel legno grezzo con teste di
drago alle estremità. Subito prima che iniziassero i lavori, però, Rolf era
entrato nella sua vita e in quella di Lillemarcus. Rolf aveva riso a crepapelle
la prima volta che aveva visto quel capolavoro e in tutta serietà si era rifiutato
di trasferircisi se Marcus Koll jr non gli prometteva di conservare quel tocco
originale e a dir poco rustico che contraddistingueva l’abitazione.
Siamo una famiglia tipica con un pizzico di eccentricità, diceva Rolf della
loro quotidianità, con un sorriso.
Un po’ piú ricchi della maggior parte delle persone, pensava sempre
Marcus, ma non lo diceva mai.
Rolf non pensava ai soldi. Pensava alla vita familiare, con Lillemarcus al
centro di una nutrita cerchia di zie e zii, cugini e cugine, una nonna e tanti
amici che andavano e venivano e quasi sempre si riunivano lí, nella casa di
Åsen, pensava ai cani e all’annuale settimana di caccia in autunno con gli
amici, i vecchi amici, i ragazzi con cui Marcus era cresciuto e che non aveva
mai smesso di frequentare; Rolf rideva sempre di cuore per la vita felice,
convenzionale e onesta che conducevano.
Rolf era sempre cosí contento.
Tutto era esattamente come Marcus aveva desiderato.
Era riuscito a trasformare in qualcosa di buono persino il denaro del padre.
Georg Koll aveva condannato il figlio alla perdizione, credendolo spacciato:
cancellando il suo futuro, invece, gliene aveva paradossalmente donato uno. I
primi, turbolenti anni erano ormai acqua passata e Marcus aveva evitato la
malattia che si era brutalmente portata via molti di quelli che conosceva, nel
dolore e nella vergogna e spesso anche in solitudine. Ringraziava che non
fosse capitato a lui, e quando aveva bruciato la lettera aveva deciso che Georg
Koll si stava sbagliando, si stava profondamente e clamorosamente
sbagliando. Lui sarebbe diventato quello che il padre non era mai stato: un
uomo.
− Papà!
Il ragazzino entrò di corsa nel soggiorno e spalancò le braccia.
− Stanno arrivando tutti! Rolf ha detto che la bastardina ha fatto tre
cuccioli e che è andato tutto bene e che sta tornando a casa e che non vede
l’ora di…
− Okay, okay.
Marcus rise e si alzò per seguire il figlio nell’ingresso.
Sentí il rumore di diverse automobili nel cortile, gli ospiti stavano
arrivando.
Sulla porta del soggiorno si fermò un attimo e si voltò.
Il dubbio che lo aveva roso e tormentato per diverse settimane si era
finalmente dissolto. Aveva un istinto molto sviluppato e, fidandosene, aveva
guadagnato una fortuna. All’inizio dell’estate 2007 aveva lottato per
settimane contro un irrefrenabile bisogno di vendere tutto e uscire dal mercato
azionario. Era rimasto sveglio notte dopo notte per studiare analisi e rapporti,
ma aveva trovato un unico segno che qualcosa non andasse: la stagnazione
del mercato immobiliare americano. Quando, piú tardi quella stessa estate, era
arrivato il primo declassamento di pacchetti obbligazionari legato agli incerti
prestiti subprime, dalla sera alla mattina si era deciso. Nell’arco di tre mesi
aveva incassato piú di un miliardo in azioni americane, con un profitto
enorme. Qualche mese piú tardi gli era capitato di svegliarsi in piena notte per
puro e semplice sollievo. Il patrimonio era stato in deposito alla DnB NOR
fino a che gli interessi non avevano iniziato a diminuire.
Allora Marcus Koll jr si era messo a investire in beni immobili, in un
periodo in cui avevano dei prezzi molto convenienti.
Nel giro di qualche anno gli introiti delle vendite sarebbero stati
formidabili.
Marcus doveva proteggere sé stesso e i suoi cari.
Ne aveva il diritto. Era suo dovere.
Georg Koll ci aveva messo lo zampino dall’aldilà, per tentare ancora una
volta di rovinargli la vita, ma Marcus Koll jr non glielo avrebbe permesso,
assolutamente no.
− Posso?
Yngvar Stubø accennò con il capo a una poltrona gialla davanti al
televisore. Erik Lysgaard non ebbe nessuna reazione. Rimase semplicemente
seduto lí, in una poltrona dello stesso tipo ma di colore piú scuro, con lo
sguardo fisso davanti a sé e le mani posate in grembo.
Solo allora Yngvar si accorse del lavoro a maglia e dei lunghi e quasi
invisibili capelli grigi rimasti attaccati al poggiatesta sopra lo schienale. Prese
una delle sedie disposte intorno al tavolo da pranzo e si sedette lí.
Respirava affannosamente. I lievi postumi di una sbronza lo affliggevano
fin da quando si era alzato alle cinque e mezza del mattino, e poi aveva sete.
Il volo da Gardermoen a Bergen era stato tutt’altro che piacevole. È vero che
l’aereo era quasi vuoto, non erano in molti a smaniare per andare da Oslo a
Bergen alle sette e venticinque della mattina di Natale, ma c’erano state forti
turbolenze e lui aveva dormito troppo poco.
− Non si tratta di un interrogatorio, − esordí, non essendogli venuto in
mente niente di meglio da dire. – Quello lo faremo poi, alla centrale. Quando
ti sentirai…
Quando ti sentirai meglio, stava per dire, ma si trattenne.
Il soggiorno era luminoso e accogliente. Non era né in stile moderno né in
stile antico. Alcuni mobili erano chiaramente molto usati, come le due
poltrone con lo schienale alto davanti al televisore. Anche l’arredamento della
sala da pranzo sembrava ereditato. Il divano, invece, dietro l’angolo della
stanza a forma di l, era color crema, con la seduta profonda e dei cuscini
colorati. Yngvar ne aveva visto uno identico in una brochure di Bohus che
Kristiane a tutti i costi aveva voluto leggere a letto. La parete piú lunga era
interamente occupata da una libreria, con scaffali anche intorno alle finestre; i
titoli lasciavano intuire che i coniugi Lysgaard avevano interessi molteplici e
conoscevano diverse lingue. Un grosso volume con caratteri cirillici sulla
copertina era posato sul tavolinetto da caffè tra le due poltrone. I quadri alle
pareti erano cosí fitti che risultava assai difficile farsi un’idea della singola
opera. L’unica ad attirare immediatamente l’attenzione era una copia del
Kristus di Henrik Sørensen, raffigurante un messia biondo e con le braccia
aperte in gesto di accoglienza. Forse non era nemmeno una copia, sembrava
piuttosto un dipinto originale; forse si trattava di uno dei molti schizzi che
l’artista aveva fatto in vista del quadro vero e proprio, conservato nella chiesa
di Lillestrøm.
L’oggetto che risaltava di piú in assoluto era un imponente presepio sulla
credenza. Doveva essere largo piú di un metro per circa cinquanta centimetri
in altezza e in profondità. Era racchiuso in una sorta di teca con un vetro sul
davanti, come un tableau. Fra angeli, minuscoli pastori, pecore e i Re Magi
ecco Gesú Bambino su un giaciglio di paglia. All’interno della misera stalla
risplendeva un lume nascosto con tale accuratezza da dare l’impressione che
Gesú avesse l’aureola.
− Viene da Salisburgo, − disse Erik Lysgaard, cosí inaspettatamente che
Yngvar sobbalzò.
Poi si azzittí di nuovo.
− Non intendevo mettermi a fissarlo cosí, − spiegò Yngvar con un sorriso
discreto. – È solo che… è davvero… incantevole.
Per la prima volta il vedovo alzò gli occhi.
− Eva Karin lo dice sempre. Incantevole, cosí dice sempre del presepe.
Emise una sorta di sbuffo lamentoso, come se si stesse sforzando di non
piangere. Yngvar spostò appena la sedia verso di lui.
− Molti, − disse piano, fermandosi poi a riflettere per un momento. – Molti
nei prossimi giorni verranno a dirti che sanno come ci si sente. Anche se in
realtà sono davvero pochi quelli che lo sanno davvero. Certo, di solito le
persone della nostra età…
Yngvar avrà avuto una decina d’anni meno di Erik Lysgaard.
− … hanno vissuto sulla propria pelle che cosa significa perdere qualcuno,
ma quando c’è di mezzo un crimine è ben diverso. Non solo una persona ci
viene portata via all’improvviso, ma per di piú rimaniamo con molte domande
senza risposta. Un crimine del genere…
«Non ho la piú pallida idea di che genere di crimine sia questo qui», pensò
mentre parlava. A rigor di termini non era ancora stato accertato un bel niente.
− … è un oltraggio non solo alla vittima, ma a molti altri. È una cosa che
sfinirebbe chiunque. È…
− Scusa…
Il figlio di Erik, Lukas Lysgaard, aprí bocca per la prima volta da quando
aveva accolto Yngvar e lo aveva fatto accomodare in soggiorno. Sembrava
che avesse pianto molto e aveva un’aria esausta, ma composta. Fino ad allora
era rimasto silenzioso e immobile accanto alla finestra che dava sul giardino,
la piú lontana; in quel momento, però, aggrottò la fronte e avanzò di qualche
passo verso il centro della stanza.
− A essere sincero, non credo che mio padre abbia bisogno di essere
consolato. Non da te, in ogni caso. Con tutto il rispetto. Preferiremmo essere
lasciati soli. Se abbiamo acconsentito a questo interrogatorio… – si corresse
subito, − a fare questa conversazione, che non è un interrogatorio, è stato
ovviamente perché vorremmo aiutare la polizia, per quanto ci è possibile.
Viste e considerate le circostanze. Come sai, io sono disponibile a sottopormi
a un interrogatorio in centrale quando volete, ma riguardo a mio padre…
Il padre, seduto in poltrona, si sollevò visibilmente, raddrizzò la schiena,
batté le palpebre e alzò il mento.
− Cos’è che vuoi sapere? – chiese a Yngvar fissandolo dritto negli occhi.
«Sono stato un idiota», pensò lui.
− Mi dispiace, − disse. – Certo che avrei dovuto lasciarvi in pace. È solo
che… una volta tanto non abbiamo il fiato dei giornalisti sul collo. Una volta
tanto, forse, sarebbe possibile avere un minuscolo vantaggio su quelli là fuori.
Con il pollice indicò alle proprie spalle, come se ci fosse già una folla di
giornalisti in attesa sui gradini.
− Ma avrei dovuto pensarci meglio. Vi lascerò in pace, oggi. Certo.
Si alzò e prese il cappotto appoggiato a una delle sedie intorno al tavolo in
sala da pranzo. Erik Lysgaard lo guardava stupefatto, con la bocca semiaperta
e una ruga sulla fronte, subito sopra le lenti spesse incorniciate da una pesante
montatura nera.
− Non hai nessuna domanda da farci? – chiese cortesemente.
− Oh, sí. Innumerevoli. Ma come ho appena detto: possono aspettare. Ti
dispiace se uso un attimo il bagno prima di andarmene?
L’ultima domanda era rivolta al figlio.
− In corridoio, seconda porta sulla sinistra, − borbottò Lukas.
Yngvar fece un leggero cenno del capo a Erik Lysgaard e si avviò alla
porta. Arrivato al centro della stanza si girò.
Esitava.
− Solo una cosa, − disse grattandosi una guancia. – Potrei sapere che cosa
ci faceva il vescovo Lysgaard fuori da sola alle undici di sera la vigilia di
Natale?
Seguí uno strano silenzio.
Il figlio guardò il padre, ma a dire il vero il suo sguardo non aveva nulla di
interrogativo. Era sospeso, inespressivo, come se Lukas non sapesse la
risposta o trovasse la domanda poco interessante. Da parte sua, Erik Lysgaard
appoggiò le mani sui braccioli, si adagiò contro lo schienale e inspirò a fondo
prima di guardare Yngvar dritto negli occhi.
− Non è cosa che ti riguardi.
− Come?
A Yngvar venne piuttosto inopportunamente da ridere.
− Come hai detto, scusa?
− Ho detto che non è cosa che ti riguardi.
− No, certo. Credo proprio che saremo costretti a…
Di nuovo scese il silenzio.
− Ne riparleremo, − concluse infine. Salutò il vedovo sollevando una mano
e uscí dalla stanza.
Quella risposta cosí stupefacente e assurda gli aveva fatto dimenticare per
un attimo la sua urgenza, ma quando si chiuse la porta alle spalle, si rese
conto che avrebbe dovuto fare in fretta.
− Nel corridoio, la seconda porta a destra, − borbottò fra sé e sé. Appoggiò
la mano sulla maniglia e aprí.
Una camera da letto. Non grande, sui dieci metri quadri. Rettangolare, con
una finestra sulla parete corta di fronte alla soglia. Sotto la finestra c’era un
letto singolo, rifatto con cura, con un copriletto lilla. Vicino alla testata, sopra
al cuscino, erano posati degli abiti piegati. Indumenti da notte, suppose
Yngvar, e inspirò a fondo dal naso.
Decisamente non era la stanza degli ospiti.
Odore dolciastro di sonno misto a un debole, quasi impercettibile profumo.
La porta non si apriva del tutto, sbatteva contro un armadio all’interno
della camera.
Doveva chiuderla e cercare il bagno.
In quella piccola stanza non c’era nessuna scrivania, solo un largo
comodino con una pila di libri sopra e una lampada sotto una mensola con
quattro foto incorniciate, ritratti di famiglia. Yngvar riconobbe subito Erik e
Lukas, c’era anche una vecchia immagine in bianco e nero che doveva
rappresentare la famigliola molti anni prima, quando Lukas era piccolo, in
barca, d’estate.
Sulla parete fra l’armadio e il letto era appeso un dipinto nei toni vivaci del
rosso e sullo schienale di una sedia in legno ai piedi del letto erano adagiati
dei vestiti. Le tende erano spesse, scure e tirate.
Nient’altro.
− Ehi! Hai sbagliato porta!
Yngvar balzò indietro nel corridoio. Lukas Lysgaard gli stava venendo
incontro rapido, agitando le mani.
− Ma che fai? Ficchi il naso in giro per casa? Chi ti dà il diritto di…
− Nel corridoio, seconda porta a destra. Me lo hai detto tu! Stavo solo…
− Seconda porta a sinistra! Qui!
Lukas indicò stizzito la porta di fronte a Yngvar.
− Oh. Mi dispiace. Non volevo…
− Cerca di fare in fretta, per favore. Vorrei restare solo con mio padre il
prima possibile.
Lukas Lysgaard era sui trentacinque anni. Un uomo ordinario con le spalle
larghissime. Aveva i capelli scuri, con una abbondante stempiatura, e gli occhi
azzurri. Probabilmente. Era difficile a dirsi, erano piccoli e nascosti da
occhiali che riflettevano la luce del lampadario.
− Mia madre soffriva di insonnia, di tanto in tanto, − disse mentre Yngvar
apriva la porta giusta. – E allora si metteva a leggere. Cosí, per non disturbare
mio padre…
Fece un cenno del capo in direzione della piccola camera da letto.
− Eh già, − disse Yngvar entrando in bagno.
Fece con tutta calma.
Avrebbe dato chissà cosa per rivedere quella stanza. Si arrabbiò per non
essere stato piú sveglio, per non aver notato altri particolari. Per esempio non
riusciva a ricordare come fossero i vestiti appoggiati sullo schienale della
sedia: da festa, rimasti lí dalla sera della vigilia, o da tutti i giorni? Non aveva
neanche fatto caso ai titoli dei libri impilati sul comodino. Non c’era
assolutamente ragione di credere che un membro della famiglia c’entrasse con
l’omicidio di quella che pareva essere stata una moglie e una madre molto
amata. Yngvar Stubø però sapeva meglio di chiunque altro che per risolvere
un omicidio di strada il piú delle volte bisognava cercare un legame con la
vittima. Poteva trattarsi di qualcosa che la famiglia ignorava. O forse c’era
qualche dettaglio a cui né lui né altri avevano fatto caso.
Ma che forse aveva una certa importanza.
A ogni modo una cosa era sicura, pensò Yngvar mentre si chiudeva la patta
e tirava l’acqua: Eva Karin Lysgaard doveva avere enormi problemi di
insonnia, se cercava rifugio nella cameretta della domestica ogni volta che
non riusciva a dormire. Una spiegazione piú plausibile era che i coniugi
dormissero effettivamente ognuno per conto proprio.
Si lavò le mani, se le asciugò con cura e tornò in corridoio.
Lukas Lysgaard lo stava aspettando. Senza una parola gli aprí la porta di
casa.

− Allora… immagino vi farete risentire, − disse senza porgergli la mano


per salutarlo.
− Ovvio.
Yngvar si mise il cappotto e uscí sulla piccola veranda. Stava per augurare
buon Natale, ma per fortuna proprio all’ultimo riuscí a trattenersi.
Lo sconosciuto

− Buon Natale, allora! Divertiti!


Mentre l’ispettore capo Silje Sørensen saliva a passo rapido la scalinata,
salutò con un gesto della mano un collega che si era fermato per farsi quattro
chiacchiere uscendo dal grande edificio che ospitava la centrale di polizia,
ormai semivuota. Tutti i servizi al pubblico erano chiusi eccetto la guardiola,
dove un assonnato poliziotto l’aveva salutata con un cenno del capo attraverso
la parete di vetro nel momento in cui era entrata di corsa dall’ingresso di
Grønlandsleiret 44, che ricordava tanto una sorta di chiusa.
− I ragazzi mi stanno aspettando in macchina, – gli gridò come
spiegazione. – Sono solo passata a prendere gli sci, sono rimasti in ufficio
perché…
Il collega era già uscito. Silje Sørensen era arrivata al piano giusto,
ansimando girò l’angolo del corridoio e rallentò in prossimità del suo ufficio.
Armeggiò con le chiavi, che dopo un giorno e una notte in auto erano gelide.
Oltretutto in quel mazzo ce n’erano fin troppe, almeno la metà apriva porte
che lei da tempo aveva dimenticato quali fossero. Finalmente trovò quella
giusta ed entrò.
L’architetto che aveva progettato la centrale aveva vinto un premio, ma si
stentava a crederci. Proseguendo oltre lo stretto ingresso ci si illudeva di
trovarsi in un ambiente arioso e luminoso. Il gigantesco atrio si allungava in
altezza per molti piani, circondato da gallerie a ferro di cavallo. Gli uffici,
invece, erano piccoli alveari collegati da corridoi lunghi e opprimenti. Per
Silje Sørensen restava un posto dall’atmosfera pesante, indipendentemente da
quanto lo si arieggiasse.
Dall’esterno la centrale sembrava un edificio che avesse mal sopportato il
succedersi delle stagioni, sbilenco e storto com’era, aggrappato all’altura fra
la prigione di Oslo e la chiesa del quartiere di Grønland. Nel corso dei suoi
quindici anni in polizia Silje Sørensen aveva visto il comune, lo Stato e
parecchi cittadini ottimisti ed entusiasti cercare lentamente di riqualificare la
zona, ma il bel Middelalderparken era troppo lontano per dar lustro alla
logora centrale, e dal suo ufficio il teatro dell’opera era soltanto un obliquo
tetto bianco che si intravedeva appena, sopra palazzine sporche e sotto una
cappa di gas di scarico.
Silje Sørensen si trattenne dall’aprire la finestra, perché aveva fretta.
Il suo sguardo si posò sulla scrivania. In ufficio teneva tutto
meticolosamente in ordine, a differenza che in qualunque altro posto. Il
cumulo delle pratiche inevase al lato opposto della scrivania le aveva fatto
rimordere la coscienza quando aveva smontato il venerdí prima di Natale. Il
contenitore di quelle già sbrigate, invece, era vuoto, e le venne male al
pensiero dello stress che l’avrebbe assalita quando fosse tornata al lavoro.
Al centro della scrivania vide un fascicolo che non riconobbe.
Si chinò e lesse il post-it giallo che ci avevano attaccato sopra.

All’ispettore capo Silje Sørensen.


Qui di seguito allego documenti riguardanti Hawre Ghani, data presunta
di nascita 16/12/1991. Ti pregherei di metterti in contatto con il sottoscritto
il piú presto possibile.
Ispettore Harald Bull,
tel. 937***** / 231*****

I ragazzi si sarebbero arrabbiati e sarebbero diventati intrattabili se si fosse


trattenuta troppo in ufficio. Era anche vero però che, quando li aveva lasciati
nell’auto parcheggiata in divieto di sosta e con il motore acceso, se ne stavano
silenziosamente seduti dietro, ognuno con il proprio Nintendo Ds in mano.
Dal momento che avevano ricevuto i giochi il giorno prima e che l’interesse
per la novità era ancora vivo, non sarebbe stato forse cosí grave farli aspettare
un po’.
Si sedette e senza nemmeno togliersi la giacca aprí il fascicolo.
In cima c’era una fotografia. Era in bianco e nero, a grana grossa e con
ombre molto nette. Poteva essere l’ingrandimento di una foto tessera, ma
difficilmente avrebbe soddisfatto i nuovi requisiti richiesti per un passaporto.
Il ragazzo, perché piú che di un adulto pareva proprio si trattasse di un
ragazzo, aveva gli occhi socchiusi e la bocca aperta. A volte capitava che i
soggetti in arresto facessero delle smorfie mentre venivano fotografati in
modo da rendersi meno riconoscibili; per qualche ragione, però, lei non
credeva che il ragazzo stesse facendo quel giochino. Le passò per la mente
che la fotografia fosse stata scattata in fretta e furia e che il fotografo non
avesse avuto voglia di farne un’altra.
Hawre Ghani non doveva contare molto.
Non doveva essere abbastanza importante.
Quella fotografia la commosse.
Le labbra del ragazzo erano umide, quasi ci avesse passato la lingua subito
prima. Il labbro superiore cosí pieno e l’arco di Cupido cosí pronunciato
avevano qualcosa di infantile e vulnerabile. La pelle intorno agli occhi era
liscia e le guance non mostravano tracce di barba. L’accenno di un paio di
baffi sotto un naso talmente pronunciato da nascondere quasi il resto del volto
era l’unico indizio del fatto che si trattasse di un ragazzo in avanzata pubertà.
Quel viso aveva qualcosa di sproporzionato, tipico degli adolescenti, qualcosa
che ricordava un cucciolo. Con un rapido calcolo a mente Silje stabilí che
Hawre Ghani doveva aver appena compiuto diciassette anni.
Continuando a sfogliare i documenti capí anche che non aveva vissuto
molto di piú.
Nonostante lei avesse lavorato per molti anni di seguito nella sezione
Crimini violenti e a sfondo sessuale e nonostante avesse visto piú di quanto da
giovane studentessa della scuola di polizia avesse mai immaginato possibile,
alla fotografia successiva fece un balzo indietro. Qualcosa che doveva essere
un volto era racchiuso da un cappuccio scuro. Tutti i tratti del viso erano stati
cancellati, la pelle era di un colore innaturale e orribilmente rigonfia. Una
delle orbite era grossa e vuota, l’altra appena visibile. Il labbro superiore del
cadavere era in parte scomparso, lasciando il posto a una fenditura irregolare
che scopriva quattro denti bianchi e uno d’argento. Che fosse d’argento era
solo una supposizione: in fotografia appariva come un contrasto scuro e
illogico in una fila di denti di un bianco abbagliante.
Continuò a scorrere rapidamente la documentazione.
Il penultimo foglio di quel sottile fascicolo era un rapporto scritto in prima
persona da un poliziotto dell’ufficio immigrazione che lei non aveva mai
sentito nominare. Il rapporto in questione portava la data del 23 dicembre
2008.
Due giorni prima.

Il sottoscritto si trovava in centrale la mattina odierna in concomitanza


con il trasferimento di due immigrati con permesso di soggiorno non valido
arrestati nel dormitorio per stranieri di Trandum. Durante il fermo ho avuto
occasione di ascoltare una conversazione fra due colleghi su un cadavere
non identificato rinvenuto nella darsena di Oslo alle prime ore di domenica
21 dicembre. Uno di loro ha accennato al fatto che il cadavere,
parzialmente decomposto, aveva un dente d’argento nell’arcata superiore.
La mia reazione è stata immediata, dal momento che per sei settimane ho
tentato invano di rintracciare il minorenne curdo richiedente asilo politico
Hawre Ghani in seguito alla sua richiesta di soggiorno in Norvegia.
Durante una rissa fra bande al centro commerciale Oslo City in settembre
(per altro registrata come episodio a sé stante, caso numero 98*****
37***/08), Hawre Ghani perse l’incisivo destro superiore. Dopo il fatto fu
incarcerato e io stesso quel medesimo giorno lo accompagnai sotto scorta
dal dentista. Lo scortato espresse il desiderio di un dente d’argento anziché
di una capsula bianca e, per quanto si sa, il dente d’argento gli fu poi
impiantato grazie alla collaborazione fra il Centro di tutela dei minori, il
Centro di accoglienza profughi e il suddetto dentista.
Dal momento che finora non è stata registrata alcuna richiesta fra quelle
di persone scomparse che possa dare riscontro positivo in merito al
cadavere rinvenuto nella darsena di Oslo, pregherei il responsabile del caso
di contattare il medico dentista dottor Dag Brå, Tåsen Senter, tel.
2229****, per un confronto tra le radiografie del suo archivio e la dentatura
del defunto.

Silje Sørensen prese in mano l’ultimo foglio del fascicolo.


Era la copia di un messaggio manoscritto indirizzato a Harald Bull:

Ciao, Harald!
A causa delle festività natalizie ho fatto un controllo molto rapido e
molto poco scientifico delle indicazioni fornite dall’ufficio immigrazione
oggi, vigilia di Natale. Il dottor Brå è stato disponibile a ricevermi nel suo
ambulatorio stamattina. Gli ho sottoposto alcune fotografie della dentatura
del cadavere che io stesso avevo scattato (le ho fatte ad Aker Brygge
domenica mattina, non di qualità, ma valeva la pena di tentare). Lui le ha
confrontate con gli appunti e le radiografie in suo possesso e alla luce del
materiale tenderebbe a concludere che il defunto sia il già citato minorenne
curdo in cerca di asilo politico. Tutti i documenti inerenti al caso sono stati
inviati in copia all’istituto di Medicina legale. Suppongo che una
conferma/smentita ufficiale arriverà subito dopo capodanno. Forse
addirittura nei giorni feriali tra Natale e capodanno, se le circostanze
saranno favorevoli. Stilerò personalmente un rapporto in merito non appena
tornerò in ufficio. E adesso… FERIE !
Buon Natale!
Bengt

Ps.: Ho parlato con l’istituto di Medicina legale ieri. Alcuni elementi


indicherebbero che il ragazzo sarebbe stato ucciso con un oggetto simile a
una garrotta. La testa è rimasta attaccata per miracolo, mi ha detto la
persona con cui ho parlato. Si dovrebbe valutare se sia il caso di informare
fin da ora la sezione Crimini violenti e a sfondo sessuale.

Silje Sørensen chiuse il fascicolo e si appoggiò allo schienale della sedia.


Sudava. Il buon umore di quando aveva messo piede in ufficio si era come
volatilizzato e si pentí di non aver lasciato lí quel fascicolo senza nemmeno
toccarlo.
Sentiva un intenso bisogno di aprirlo di nuovo, solo per rivedere il viso di
quel ragazzo, il giovane curdo senza genitori, senza radici, senza casa, con un
dente d’argento e le guance glabre. Le era capitato innumerevoli volte di
imbattersi in quei ragazzini, Dio solo sapeva se non capitava anche troppo
spesso, ciononostante non era mai stata capace di prendere le distanze da casi
del genere. Di tanto in tanto la sera, quando faceva un salto in camera dei suoi
due figli – che ormai ritenevano di essere troppo grandi per il bacio della
buonanotte, ma che non si addormentavano mai prima che lei avesse
rimboccato ben bene il loro piumino –, le succedeva di provare qualcosa di
simile al senso di colpa.
Forse vergogna, addirittura.
Un colpo di clacson squarciò il silenzio e le fece balzare il cuore in gola.
Sbirciò dalla finestra e guardò giú, verso la rotonda davanti all’ingresso e alla
guardiola.
− Mamma! Mammaaa, arrivi o nooo?
Il piú giovane dei suoi figli gridava sporgendosi dal finestrino, e Silje
Sørensen sentí un’irritazione improvvisa. Con rapidi gesti mise il fascicolo di
Hawre Ghani in cima alle pratiche da sbrigare, poi staccò il post-it con il
numero di Harald Bull e se lo ficcò in tasca.
Quando si chiuse la porta alle spalle e si precipitò verso l’atrio nella
speranza di arrivare in tempo per evitare che il figlio ricominciasse a urlare, si
era completamente dimenticata del motivo per cui era passata dal
Grønlandsleiret nelle prime ore del pomeriggio di Natale, facendo una tappa
sulla strada per andare a cena dai suoceri.
Gli sci.
Erano ancora là, dietro la porta dell’ufficio. E quando Silje Sørensen
finalmente si ricordò di averli dimenticati, era già troppo tardi.

Non era ancora troppo tardi, concluse il caporedattore. La sigla sarebbe


partita nel giro di due minuti, ma dal momento che la notizia era ben lontana
dall’essere di prim’ordine, sarebbero senza dubbio riusciti a far leggere due
righe in studio con una foto del vescovo sullo sfondo verso la fine della
trasmissione. Batté fulmineo sui tasti una richiesta al direttore di produzione e
la inviò.
− Scrivi subito un testo per Christian, − tuonò rivolto alla giovane
assistente. – Brevissimo. E fai anche un controllo incrociato con l’agenzia Ntb
per verificare che sia tutto corretto. Un necrologio sbagliato non è esattamente
quello che ci serve, nemmeno in una giornata cosí povera di notizie.
− Che sta succedendo? – domandò Mark Holden, una delle massime
autorità in fatto di politica interna nell’intera Nrk. – Chi è morto?
Prese il foglio che l’assistente teneva in mano, lo lesse in un secondo e
mezzo e poi lo cacciò di nuovo in mano alla ragazza, che non aveva fatto
quasi in tempo ad accorgersi che glielo aveva tolto.
− Come mi dispiace, − disse Mark Holden senza un briciolo di empatia
nella voce. – Non era vecchia, che io sappia. Quanti anni aveva? Sessanta?
Sessantadue? Suppergiú. Di che cosa è morta?
− Non hanno scritto niente in proposito, − rispose con aria assente il
caporedattore. – Non ricordo di aver sentito che fosse malata. In questo
momento però devo concentrarmi sulla trasmissione. Se tu potessi…
Con un gesto allontanò il giornalista, ben piú anziano di lui, e inchiodò lo
sguardo su uno dei molti monitor presenti in quell’enorme stanzone. Partí la
sigla, i titoli erano proprio come dovevano essere e i presentatori piú eleganti
del solito, in un giorno di festa.
Il caporedattore si appoggiò allo schienale e mise i piedi sul tavolo.
− Ancora lí? – chiese all’assistente. – L’annuncio che il vescovo è morto
va dato oggi, sai, non la settimana prossima!
Solo in quel momento si rese conto che la ragazza aveva gli occhi
traboccanti di lacrime e le mani che tremavano. Lei fece un bel respiro e si
impose di sorridere.
− Certo, − mormorò. – Subito.
− Ma la conoscevi?
Anche questa volta la voce di Mark Holden era priva di qualsiasi calore,
denotava solo una curiosità ormai profondamente radicata, un bisogno quasi
automatico di fare domande su tutto e tutti.
− Sí. Lei e il marito sono amici dei miei genitori. Ma è anche che lei era…
La voce le si incrinò.
− Sí, lei era… molto amata dalla gente, − disse il caporedattore esitante. Si
infilò la matita fra i denti e tornò con i piedi ben piantati per terra. – Lascia, −
disse allungando una mano verso il foglietto con gli appunti. – Ci penso io
all’annuncio. Tu invece comincia invece a scrivere un pezzo da mandare in
onda con le foto d’archivio nel notiziario delle nove. Un minuto circa. Okay?
La ragazza annuí.
− «Il vescovo di Bjørgvin, Eva Karin Lysgaard, ci ha lasciato
improvvisamente ieri, la vigilia di Natale, all’età di sessantadue anni».
Il caporedattore parlava ad alta voce, mentre le sue dita sfrecciavano sulla
tastiera.
− «Eva Karin Lysgaard era originaria di Bergen, dove aveva esercitato
come pastore per gli studenti universitari prima di ricoprire la stessa funzione
in carcere. Per un lungo periodo aveva lavorato nella parrocchia di Tjensvoll a
Stavanger. Nel 2001 era stata nominata vescovo e si era distinta come… –
schioccò le labbra esitante, poi di colpo ricominciò a scrivere, − mediatrice
all’interno della Chiesa, soprattutto fra i due schieramenti opposti nell’accesa
discussione sulla questione dell’omosessualità. Eva Karin Lysgaard era una
figura molto amata nella sua città natale e questo è emerso in modo evidente
quando ha celebrato una funzione allo stadio di Brann dopo che la squadra
locale, nel 2007, ha vinto il suo primo scudetto in quarantaquattro anni. Il
vescovo Lysgaard lascia il marito, un figlio e tre nipoti».
− È proprio necessario citare questa cosa della partita di calcio? – gli
chiese Mark Holden. – Non è poco serio, dato il contesto?
− Ma no, − sghignazzò il caporedattore, e con un clic inviò il pezzo al
direttore di produzione. – Si può fare. Senti un po’, Mark…
Mark Holden stava frugando in un’enorme ciotola piena di dolciumi.
− Mmm…
− Di che cosa si può morire a quell’età?
− Smettila, dài. Di qualunque cosa, naturalmente. Non ne ho idea. Strano
che non abbiano scritto niente in merito. Nessun «dopo una lunga malattia» o
simili. Sarà stato un ictus. Un infarto. Roba del genere.
− Aveva solo sessantadue anni…
− E allora? La gente muore anche molto prima. Io stesso benedico ogni
giorno in piú che passo su questa Terra! Per lo meno se posso mangiarmi un
po’ di cioccolato ogni tanto.
Mark Holden non riusciva a trovare niente che gli piacesse. Accanto alla
ciotola c’erano tre dolcetti alla liquirizia e due cioccolatini al cocco che aveva
scartato.
− I piú buoni te li sei mangiati tutti tu, − borbottò acido.
Il caporedattore non rispose. Qualcosa lo aveva fatto ammutolire, e
mordicchiava la matita con tale energia che la spezzò. Aveva gli occhi fissi
sul monitor davanti a sé, ma non sembrava prestarvi molta attenzione.
− Ehi! – gridò di colpo alla giovane assistente. – Beate! Vieni qui!
Lei esitò un attimo, poi si alzò e lasciò la postazione di lavoro per fare
come aveva detto lui.
− Quando avrai finito il pezzo per il notiziario delle nove, − le disse il
caporedattore indicandola con il mozzicone di matita, − mettiti a fare qualche
telefonata, va bene? Scopri di cosa è morta la signora. Sento puzza di…
Arricciò il naso come fosse un coniglio.
− … di una storia. Chissà…
− Fare qualche telefonata? A quest’ora? La mattina di Natale?
Il caporedattore sospirò rumorosamente.
− Vuoi diventare una giornalista o no? Su, è ora di rimboccarsi le maniche!
Beate Krohn rimase impassibile.
− Non hai detto che i tuoi genitori la conoscevano? – insistette lui. – E
allora chiamali! Forza! Chiama chi diavolo ti pare, ma scopri di cosa è morta
Eva Karin Lysgaard! Okay?
− Okay, − mormorò la ragazza, già intimorita al solo pensiero di quelle
telefonate.

Non era mai accaduto che Johanne si tirasse indietro. Faceva solo molta
fatica a iniziare. Dopo il dottorato in Criminologia nel 2000, aveva portato a
termine altri due progetti. Aveva discusso una tesi, Violenza sessualizzata:
uno studio comparato delle condizioni di vita e delle esperienze precoci su
colpevoli di reati a sfondo sessuale e contro il patrimonio, con cui si era
guadagnata una borsa di studio che le aveva dato modo di compiere un esame
altrettanto approfondito sugli errori giudiziari in Norvegia. Verso la fine di
quel secondo lavoro era nata Ragnhild. Yngvar e Johanne si erano trovati
d’accordo sul fatto che lei sarebbe rimasta a casa finché la bambina non
avesse compiuto due anni, ma mentre era ancora in maternità lei si era
lanciata in un nuovo progetto, uno studio sulle prostitute minorenni, sul loro
background, sulle loro condizioni e reali possibilità di riabilitazione.
Quell’estate aveva ricevuto un incarico dalla Direzione nazionale della
polizia.
Era stata Ingelin Killengreen in persona a contattarla. Il direttore generale
della polizia aveva ricevuto inequivocabili pressioni politiche per mettere in
agenda i cosiddetti crimini d’odio.
Il problema era che quei crimini non esistevano.
O meglio, esistevano.
Ma non da un punto di vista puramente numerico. Non da un punto di vista
statistico. La Direzione nazionale della polizia, in collaborazione con il
distretto di Oslo, aveva già avviato una mappatura di tutte le denunce fatte nel
2007 per reati il cui movente fosse riconducibile alla razza, all’appartenenza
etnica, alla religione o alle inclinazioni sessuali. Il rapporto conclusivo era
proprio dietro l’angolo e Johanne aveva già visionato la maggior parte del
materiale.
Si trattava di cifre molto basse.
Nell’intera Norvegia nel 2007 erano stati schedati trecentonovantanove
crimini d’odio. Di tutti questi, piú del trentacinque per cento erano casi
erroneamente classificati negli Strasak, i registri della polizia riguardanti le
cause penali. In altre parole c’erano stati poco piú di duecentocinquanta reati
per i quali si potesse parlare di crimini d’odio.
In un intero anno. In un Paese di quasi cinque milioni di abitanti.
Se paragonati al numero complessivo di denunce fatte alla polizia, 256 casi
erano talmente pochi da risultare di per sé ben poco interessanti.
Alla politica, però, interessavano eccome. Poiché ogni singolo attacco
motivato da odio era indubbiamente uno di troppo, poiché i numeri del
sommerso in quel genere di criminalità dovevano essere grandi, e poiché il
secondo governo Stoltenberg – la cosiddetta coalizione rosso-verde – avrebbe
preferito presentarsi alle elezioni nell’autunno del 2009 con un asso nella
manica da offrire a qualunque minoranza gridasse sdegnata ogni volta che un
omosessuale veniva picchiato in centro o che dei vandali imbrattavano e
danneggiavano la sinagoga ebraica vicino a St Hanshaugen, a Johanne era
stato assegnato l’incarico di studiare il fenomeno piú da vicino.
L’incarico era stato formulato in modo cosí vago che lei aveva passato
l’intero autunno a cercare di definire e circostanziare il lavoro che la
aspettava. Inoltre, aveva iniziato a raccogliere una quantità piuttosto ampia di
dati dagli altri Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Anche diverse nazioni
europee avevano da tempo sistematizzato e in parte rielaborato quei
particolari reati. Il materiale era cresciuto senza che lei fosse ancora riuscita a
decidere esattamente come e in che direzione muoversi.
Poi era arrivata la crisi finanziaria.
E tutti quei miliardi pubblici.
Diversi settori di ricerca norvegesi erano stati rinvigoriti da una pioggia di
risorse, e dato che anche alla polizia erano stati dati forti incentivi purché
contribuisse a tenere oliate le ruote dello Stato e a evitare il collasso
economico, Johanne si era ritrovata per le mani una cifra che era il quadruplo
di quella a sua disposizione fino a poche settimane prima. Le si era cosí
aperto un ventaglio di nuove possibilità, fra cui poter approfittare di un
maggior numero di giovani ricercatori e assistenti scientifici. Al tempo stesso,
i nuovi mezzi avevano creato nuovi problemi: Johanne era prossima alla
stesura definitiva del progetto quando le carte in tavola erano cambiate.
Non era semplice e lei faceva fatica a iniziare.
Ma l’idea la stimolava.
Era sera. Kristiane si era mostrata insolitamente accomodante dai genitori
di Isak e Ragnhild aveva ritrovato tutta la sua vivacità non appena avevano
ricevuto ognuna il proprio sacchettino di dolci natalizi. Visto che Kristiane
sarebbe rimasta dai nonni per trascorrere tre giorni delle feste natalizie con
suo padre, anche Ragnhild aveva insistito per rimanere. Isak aveva sorriso
compiaciuto, come sempre, e detto che andava bene. Probabilmente si era
reso conto da tempo di quello che anche Yngvar e Johanne avevano
realizzato, e cioè che Kristiane era piú tranquilla, dormiva meglio ed era piú
felice se aveva Ragnhild accanto.
La casa era silenziosa. I vicini del piano di sotto dovevano essere partiti.
Quando Johanne era rientrata, verso le otto, le loro finestre erano tutte buie.
Lei invece era andata di stanza in stanza ad accendere tutte le luci e aprire
tutte le porte: di sera Jack, il cane, aveva l’abitudine di vagare per casa, se non
lo chiudevano in camera di Kristiane, e il suo zampettio strascicato e il tonfo
sordo di quando si sdraiava facevano sentire Johanne un po’ meno sola, le
rare volte in cui in effetti era da sola. Alla fine prese il portatile e andò in
soggiorno, si accomodò sul divano con il laptop sulle ginocchia e si mise a
navigare in Internet sorseggiando un bicchiere di vino, senza concentrarsi piú
di tanto. Aveva appena deciso di andare su ordspill.no per giocare a una
specie di scarabeo quando squillò il telefono.
− Ciao, sono io.
Ne era passato di tempo dall’ultima volta che sentire la sua voce l’aveva
resa cosí felice.
− Ciao, amore mio. Come va laggiú?
Yngvar rise.
− Praticamente ho intralciato la polizia di Bergen, mi sono reso ridicolo
andando a trovare il vedovo in casa sua poche ore dopo che aveva saputo
della morte della moglie, ho già litigato con il figlio della vittima, credo, e per
finire ho mangiato cosí tanto a cena che adesso mi sento male.
Rise anche lei.
− Però! Dove ti sei sistemato?
− Al Sas Hotel che c’è a Bryggen. Una bella stanza, mi hanno innalzato di
rango e dato la suite quando hanno capito da dove arrivavo. Non che sia
proprio sovraffollato, qui, a Natale.
− Allora sapevano perché ti trovi lí?
− No. Davvero incredibile. Sono passate quasi ventiquattr’ore esatte da
quando hanno trovato morta la Lysgaard e neanche un giornalista che abbia
già iniziato a ficcanasare. Tutti questi pranzi e cene di Natale devono averli
proprio sfiniti.
− O forse è stata l’acquavite. O forse, semplicemente, è che la polizia di
Bergen è piú brava a tenere la bocca chiusa dei colleghi di Oslo. Fra l’altro,
ho appena visto il telegiornale. Le hanno dedicato un breve servizio, ma
hanno detto solo che era morta, niente di piú.
All’altro capo sentí dei rumori da cui dedusse che Yngvar si stava
allentando il nodo alla cravatta. Tutt’a un tratto si commosse: lo conosceva
talmente bene da captare addirittura cose del genere mentre era al telefono
con lui.
− Scusa un attimo, − disse Yngvar. – Il tempo di sfilarmi le scarpe e
togliermi questo maledetto cappio al collo. Ecco. E da voi come va? È stata
dura riordinare tutto da sola stamattina, con le bambine intorno? Devi essere
stanchissima. Mi dispiace aver…
− È andato tutto bene. Come vedi me la cavo anche con una notte insonne
alle spalle. Le bambine sono scese in giardino a giocare per un paio d’ore,
l’unica cosa è stata che…
Era riuscita ad allontanare il pensiero dell’estraneo per tutto il pomeriggio
e tutta la sera, ma in quel momento una fiammata d’ansia le attraversò il
corpo e la fece ammutolire.

− Pronto? Johanne?
− Sí, sí. Ci sono.
− Tutto bene, tesoro?
Yngvar avrebbe sicuramente minimizzato l’accaduto, avrebbe sospirato
con rassegnazione e l’avrebbe esortata a non avere sempre tutta quella
tremenda paura per le bambine. Non avrebbe mostrato la minima
comprensione, se lei gli avesse detto che non riusciva a smettere di pensare al
fatto che un esimio sconosciuto sapeva il nome della sua figlia maggiore.
Senza contare poi che quel tizio era cosí ben imbacuccato, con tanto di
berretto e sciarpa, che avrebbe potuto benissimo essere un vicino, avrebbe
ribattuto Yngvar se lei gli avesse raccontato quell’episodio; e cosí un po’ di
gelo, lieve ma spiacevole, sarebbe sceso fra loro e le avrebbe reso difficile
prendere sonno piú tardi, da sola, senza altri rumori intorno che l’ansimare e
le continue flatulenze di Jack.
− No, niente, − rispose cercando di mettere un sorriso in quelle parole. –
Sarà che non ci sei. Siamo soli, Jack e io. Ragnhild è voluta restare dai
genitori di Isak.
− Ma che bello! Isak è proprio generoso. Lui…
− Come se tu non lo fossi con sua figlia! Come se…
− Va bene, va bene. Non intendevo… Sono contento che sia stata una bella
giornata per tutti voi e che tu abbia l’intera serata solo per te. Non è certo una
cosa che capita spesso, no?
Johanne spostò il portatile sul tavolino da salotto e si avvolse meglio nella
coperta.
− Hai ragione, − disse, sorridendo per davvero. – In effetti è anche
piacevole starsene un po’ da soli ogni tanto. Fatta eccezione per Jack, certo. A
proposito, dev’esserci qualcosa che non va nella sua pappa. Fa delle scorregge
orrende.
Yngvar rise.
− Che cosa stai facendo?
− Un po’ lavoro, un po’ vado su Internet. Bevo del vino. Mi manchi da
impazzire.
− Ottimo. Tutto quanto. Tranne il lavoro. È Natale! Io ho intenzione di
prendermi la serata libera. Sono stanco morto. Domani spero di riuscire a
interrogare il figlio del vescovo. Dio solo sa come andrà a finire, già non mi
sopporta…
− Scommetto che non è vero. Tu piaci a tutti, Yngvar. E visto che sei il piú
bravo bravissimo poliziotto del mondo andrà sicuramente tutto bene.
Yngvar rise di nuovo.
− Devi smetterla di fare questo giochino con le bambine! Poco prima di
Natale eravamo in coda alla cassa al supermercato quando Ragnhild
all’improvviso si è alzata in piedi nel carrello e ha strombazzato a gran voce
che il suo papà era il piú piú piú… credo che abbia detto «piú» almeno dieci
volte… il piú bravo bravissimo poliziotto del mondo! Che imbarazzo. La
gente rideva.
− Ha ragione Ragnhild, − disse Johanne, sorridendo ancora. – Sei il piú
bravo del mondo, anzi di piú.
− Sí, sí… Buonanotte…
− Buonanotte, amore.
La voce di Yngvar svaní. Johanne fissò il telefono per un po’, come nella
speranza che lui fosse ancora all’altro capo e che potesse consolarla e
rassicurarla sul fatto che quell’uomo al di là della staccionata non era
pericoloso. Poi si alzò lentamente, posò il telefono e si avvicinò alla finestra.
La luna nuova splendeva obliqua sopra la casa dei vicini. C’era ancora un
freddo secco. Il gelo attanagliava Oslo, ma il cielo era limpido da giorni e in
settimana c’erano stati dei tramonti spettacolari. I pochi fiocchi sparsi di neve
che erano scesi la mattina si erano posati sull’erba in uno strato trasparente,
come una garza. Il cielo era di nuovo limpido, era buio e Johanne si sentí
finalmente pronta per andare a dormire.

Una donna guardava dalla finestra senza sapere se sarebbe mai piú riuscita
ad addormentarsi. Forse stava già dormendo. Tutto le pareva irreale ed
estraneo come in un sogno. In quella casa ci era nata, in quella stessa stanza;
abitava lí da sempre e da sempre guardava da quella finestra con i listelli di
legno che formavano una croce, dividendo cosí il panorama in quattro angoli
di mondo, come le aveva raccontato il padre quando lei era piccola e credeva
a qualunque cosa gli uscisse di bocca. Al momento, però, era tutto contorto e
alterato. Alla pioggia sul vetro era abituata; pioveva spesso, quasi sempre, a
Bergen, e lei stava piangendo e non aveva idea di cosa fosse ciò che vedeva.
La sua vita era stata distrutta: ciò che vedeva dalla piccola casa non le
apparteneva piú.
Aveva aspettato ventiquattr’ore, era stata una lunga notte e il giorno era
trascorso ancor piú lentamente, in un’incertezza di cui non riusciva a liberarsi.
Come nella vita aveva seguito dei binari determinati da circostanze al di fuori
del suo controllo, cosí si era dovuta rassegnare anche a quelle lunghe, eterne
ore di attesa. Non aveva avuto alternative, per lo meno non prima che la
donna alla televisione raccontasse ciò che lei aveva già capito da esattamente
ventiquattr’ore, e cioè da quando, seduta in poltrona davanti allo schermo, si
era svegliata all’improvviso con l’angoscia che le serrava la gola e le faceva
tremare le mani.
Aveva aspettato tante altre volte.
Aveva aspettato una vita intera e si era abituata a farlo.
Ma stavolta era stato diverso. Aveva avuto la netta sensazione di qualcosa
che non poteva essere vero, che non doveva essere vero, ma che lei comunque
sapeva perché era cosí che aveva vissuto molto a lungo: completamente sola.
Suonarono alla porta. La donna fu colta cosí alla sprovvista – era
tardissimo – che si lasciò sfuggire un gridolino.
Aprí la porta e lo riconobbe. Era passata un’eternità dall’ultima volta che si
erano visti, ma i suoi occhi erano rimasti uguali. Lui piangeva, come lei, e le
chiese se poteva entrare. Lei avrebbe preferito di no. Non era lui che voleva
vedere. Non voleva vedere nessuno.
Quando lo fece accomodare e chiuse la porta alle sue spalle implorò Dio di
svegliarla.
Ti prego, buon Dio, ti prego. Ti supplico.
Svegliami adesso.

− Ma non c’è nessuno sveglio a quest’ora!


Beate Krohn fissava rassegnata il caporedattore. Era quasi mezzanotte. I
due erano soli in redazione, fra monitor muti e sfarfallanti e il ronzio dei
computer e del sistema di aerazione. Qua e là qualcuno aveva appeso delle
decorazioni natalizie: un festone rosso scintillante, una ghirlanda fatta di
bandierine della Norvegia. In un angolo c’era uno spelacchiato albero di
Natale con in cima una stella messa di sbieco. La maggior parte dei
cioccolatini e dei dolcetti che erano stati lasciati lí per consolare chi avrebbe
dovuto lavorare a Natale era già stata mangiata. Fogli di carta e vecchi
giornali erano sparsi un po’ ovunque.
− E i tuoi genitori?
Non demordeva. Si era acceso una sigaretta: una violazione alle regole cosí
eclatante che, anche senza volerlo, lei ne era rimasta davvero impressionata.
− A quest’ora anche loro stanno dormendo, − rispose. – Oltretutto li
spaventerei a morte se chiamassi cosí tardi. Abbiamo delle regole per le
telefonate, nella nostra famiglia. Non prima delle sette e mezza del mattino e
non dopo le dieci di sera. A meno che non sia morto qualcuno.
− Appunto! È morto qualcuno.
− Intendevo dire che…
Lui la interruppe con una profonda boccata e un impaziente cenno della
mano.
− Adesso ti faccio vedere io come si fa in certe occasioni, − sghignazzò
con la sigaretta fra le labbra. – Guarda e impara!
Smanettò sul cellulare, poi se lo appoggiò all’orecchio destro.
− Pronto? Ehi, Jonas! Ciao! Sono Sølve…
Tre secondi di silenzio.
−Sølve Borre, cazzo! Dell’Nrk! Dove sei?
Beate Krohn una volta aveva letto che, in qualunque parte del mondo, la
frase di apertura piú frequente di un dialogo al cellulare era finalizzata a
chiarire dove si trovasse l’interlocutore. Da quel momento era stata molto
attenta a non chiederlo mai.
− Senti un po’, Jonas. Il vescovo Lysgaard è morto ieri sera, lo sai di
sicuro. È che…
Evidentemente fu interrotto e ne approfittò per fare un altro tiro di
sigaretta.
− Certo… certo… Ma... volevo solo controllare la causa del decesso. Solo
per curiosità. Ho una sensazione, capito…
Pausa.
− Ma allora, non potresti chiamare uno di loro? Ci sarà pur qualcuno
laggiú che ti deve un favore. Non potresti…
Fu di nuovo interrotto. Una densa nuvola di fumo lo avvolgeva e Beate
Krohn cominciò a temere che sarebbe scattato l’allarme antincendio. Fece un
passo indietro per non impregnarsi di fumo i vestiti.
− Va bene, Jonas! Va benissimo! Aspetto la tua chiamata! E fottitene
dell’orario…
Interruppe la comunicazione.
− Fatto, − disse, le dita che correvano sulla tastiera. − Vieni qui che ti
insegno una cosa. Guarda un po’ questo comunicato.
Beate si chinò esitante sopra la sua spalla e lesse l’agenzia della Ntb che
annunciava la morte del vescovo Lysgaard. Il contenuto non era cambiato da
quando lo aveva letto l’ultima volta.
− Vedi qualcosa di strano? − le chiese il caporedattore.
− No.
La ragazza tossí discretamente e si girò dall’altra parte.
− Non so quanti comunicati del genere ho letto in vita mia, − disse lui,
impassibile. – Un’infinità, non c’è dubbio. Alla fine sono tutti uguali.
Abbastanza solenni sul piano formale, per il resto piuttosto banali. Però…
dicono quasi sempre qualcosa in piú del semplice fatto che una persona è
morta. «Il signor Tal dei tali è morto inaspettatamente nella sua casa… »,
«Pinco Pallino ci ha lasciato dopo una breve degenza in ospedale… »,
«Mister X è deceduto in un incidente d’auto a Drammen ieri sera». Cose del
genere.
Le sue dita disegnarono cosí tanti punti di domanda nell’aria che la cenere
si sparse su tutta la tastiera, già molto consumata: le lettere quasi non si
leggevano piú.
− E invece qui, − indicò lui, − qui c’è scritto solo che «il vescovo Eva
Karin Lysgaard è morto ieri sera. Aveva sessantadue anni… » E bla bla bla.
− Non è detto che debba per forza significare qualcosa… − ribatté lei.
− No, certo, − disse il caporedattore con un ampio sorriso. – Probabilmente
non significa nulla. Ma dovremmo controllare, questo sí. Sai come mai un
tizio come me è diventato giornalista alla Nrk ad appena ventun anni e senza
aver studiato?
Con un gesto eloquente si indicò il naso.
− Ce l’ho dentro, sai.
Il telefono squillò. Beate Krohn lo guardò piena di stupore, come se il
caporedattore le avesse appena fatto un gioco di prestigio.
− Sølve, − sbraitò lui infilando il mozzicone di sigaretta in una bottiglietta
di acqua Farris. – Sí, appunto.
Per alcuni secondi restò in silenzio. Quella sua espressione sfacciata svaní,
gli occhi si assottigliarono. Si allungò a prendere una penna e scrisse alcuni
illeggibili appunti sul margine di un giornale.
− Grazie, − disse infine. − Grazie mille, Jonas. Sono in debito con te,
okay?
Per un attimo rimase seduto con lo sguardo fisso sul telefono, poi di colpo
lo rialzò su di lei. Era come trasfigurato.
− Eva Karin Lysgaard è stata uccisa, − disse adagio. – È stata uccisa la
vigilia di Natale, cazzo!
− Come… − iniziò Beate Krohn afflosciandosi su una sedia. – Come fai a
sapere… Ma con chi hai parlato?
Il caporedattore si appoggiò allo schienale della sua poltrona da ufficio e la
guardò dritto negli occhi.
− Spero che tu abbia imparato qualcosa stasera, − le disse a bassa voce. – E
la cosa piú importante, la piú importante in assoluto che dovresti aver
imparato è la seguente: come giornalista vali zero, se non hai delle buone
fonti. Spaccati la schiena per tutto il tempo che serve a trovarle e non
infischiartene mai. Mai.
Beate Krohn cercò invano di non arrossire.
− E adesso, − disse lui con un sorriso disarmante mentre si accendeva
un’altra sigaretta, − adesso è ora di iniziare a telefonare per davvero. Adesso
sí che è ora di svegliare la gente!
Piccole chiavi, grandi stanze

− Mi spiace… – esclamò Yngvar Stubø fermandosi di colpo sulla porta. –


Ti ho svegliato?
Lukas Lysgaard batté le palpebre e scuotendo la testa mormorò: − No,
no… Anzi, a dire il vero sí, − rettificò. − Non ho praticamente chiuso occhio
questa notte, e cosí quando mi sono seduto qua…
Sollevò il viso pallido e sorrise. Yngvar quasi non lo riconosceva. Le
ampie spalle erano incurvate, i capelli unti e sotto gli occhi c’erano due borse
scure. Nell’occhio sinistro un capillare si era rotto e lo sguardo era rosso
sangue.
− Capisco, − disse Yngvar tirando fuori da sotto la scrivania un’altra sedia.
Lukas Lysgaard si strinse nelle spalle. Yngvar non capí se quel gesto stesse
a significare che non gli importava molto di cosa capiva o non capiva lui, o se
fosse invece un modo di scusarsi perché si era addormentato.
− I lupi sono già in azione, − disse mentre si sedeva. – Per la stampa è stata
solo una questione di tempo.
L’altro annuí.
− Vi hanno già cercati? – gli chiese Yngvar dando un’occhiata all’orologio.
Quasi le nove e mezza.
Lukas Lysgaard annuí ancora, lentamente.
− E comunque grazie di essere venuto, − gli disse Yngvar con un gesto
della mano. – Vedo che il mio collega ha già sbrigato tutte le formalità. Ti
hanno offerto qualcosa da bere? Caffè? Acqua?
− No, grazie. E tu qui che cosa ci fai?
− Io?
− Sí, tu.
− In che senso?
Lukas Lysgaard si sporse in avanti e puntò i gomiti sulla scrivania.
− Tu lavori per la Kripos, la polizia criminale.
Yngvar annuí.
− La Kripos non è piú quella di una volta.
− No…
Yngvar non capiva dove quell’uomo volesse andare a parare.
− Per quanto ne so io, adesso la Kripos è innanzitutto un’unità che opera a
livello nazionale nella lotta alla criminalità organizzata. Pensate che sia stata
la mafia a uccidere mia madre?
− No, no, no!
Per un attimo Yngvar ebbe l’impressione che Lukas Lysgaard ci credesse
veramente, ma un sorriso senza gioia e quasi impercettibile gli fece cambiare
idea.
− Per risolvere questo caso sono state messe in campo le forze migliori, −
gli spiegò, e si versò del caffè da un thermos. – E secondo qualcuno anch’io
ne faccio parte. Tuo padre come sta?
Nessuna risposta.
− A ogni modo, ho pensato che fosse il caso di informare te per primo, −
proseguí Yngvar spingendo un fascicolo verso di lui.
Lukas Lysgaard non accennò neanche ad aprirlo.
− Tua madre è morta per una ferita d’arma da taglio. L’hanno colpita al
cuore. Quindi è morta molto in fretta.
Yngvar scrutò il volto dell’altro alla ricerca di segnali che gli indicassero
se fermarsi o proseguire.
− Non ha altre ferite, eccetto un paio di scorticature che molto
probabilmente sono da attribuire alla caduta. A quanto pare, quindi, non ha
opposto resistenza.
− Lei era…
Lukas si portò la mano stretta a pugno davanti alle labbra e tossí.
− Era una donna di sessantadue anni. Non ci si può certo aspettare che
avesse molte risorse per opporsi a un assassino.
Tossí di nuovo, poi aggiunse rapido: − O a un’assassina. Suppongo che
esistano anche assassini donne.
− Assolutamente sí.
Yngvar annuí e si passò una mano sulla guancia mentre valutava se fosse il
caso di riprendersi il fascicolo che l’altro non aveva nemmeno toccato. Il
silenzio fra loro durò un po’ troppo a lungo. La situazione si stava facendo
imbarazzante, e Yngvar si rendeva sempre piú conto che l’atteggiamento poco
amichevole di Lukas Lysgaard non era affatto cambiato nelle ultime
ventiquattr’ore. L’altro fissava il piano della scrivania, a braccia conserte.
− Mia moglie è una criminologa, − disse Yngvar a un tratto. – Si è laureata
in Giurisprudenza. E ha studiato anche Psicologia.
Per lo meno Lukas aveva alzato gli occhi. Una ruga di stupore gli si palesò
sopra la radice del naso.
− È molto piú giovane di me, − aggiunse Yngvar.
Nemmeno i piú ostinati fra i testimoni o i piú ostili fra gli arrestati
riuscivano a restare impassibili quando Yngvar senza preavviso cominciava a
parlare della propria famiglia. Sembrava un comportamento cosí poco
professionale che l’interrogato finiva per irritarsi, o stupirsi, o mostrare un
sincero interesse.
− A volte lei dice che…
Yngvar sollevò la tazza e bevve un lungo sorso di caffè, lentamente e
rumorosamente.
− Che preferirebbe che i suoi cari morissero di una lunga e dolorosa
malattia piuttosto che saperli vittime di un crimine, anche se questo
implicasse una morte piú rapida.
Non appena lo ebbe detto, come sempre si sentí la coscienza sporca per
aver abusato di Johanne attribuendole convinzioni che non aveva. Ma quella
punta di rimorso svaní quando vide la reazione di Lukas Lysgaard.
− Che cosa… Che cosa intendi dire? Mi sembra terribile augurare una cosa
del genere a una persona a cui si vuol bene, e…
− Già, non è vero? Io sono d’accordo con te. Ma quello che sostiene mia
moglie è che la famiglia della vittima di un crimine si ritrova inevitabilmente
al centro di indagini anche molto dettagliate, e questo può trasformarsi in un
peso terribile. Se si muore per altre ragioni, invece…
Yngvar sollevò le mani con il palmo rivolto verso l’alto.
− È tutto finito. La famiglia viene sommersa dalla solidarietà altrui e
nessuno fa domande. Mia moglie si ostina a sostenere che morire per cause
naturali ha l’effetto di sigillare i segreti di una famiglia, mentre se si è vittime
di un crimine, ecco che…
Yngvar scosse bonariamente la testa e infilò una chiave immaginaria in
una invisibile serratura.
− Tutto deve venire fuori ed essere messo in bella vista. È questo che
sostiene. Non che io sia d’accordo con lei, ripeto, ma è anche vero che non ha
tutti i torti. Non trovi?
Lukas Lysgaard lo guardava di sottecchi, senza mostrare alcun segno di
accordo o disaccordo in merito. Yngvar non gli staccava gli occhi di dosso.
− Suppongo, − disse all’improvviso Lukas sporgendosi sulla scrivania che
li separava, − che quello che stai cercando di raccontarmi in realtà è che
esisterebbero dei segreti nella mia famiglia. Segreti che potrebbero spiegare
perché mia madre sia stata pugnalata e uccisa per strada! – Verso la fine della
frase la sua voce divenne stridula.
− Come se la colpa fosse sua, no? Di mia madre, la piú gentile, la piú
premurosa…
La voce gli si incrinò del tutto e Lukas scoppiò a piangere. Yngvar restò in
perfetto silenzio, con la tazza di caffè nella mano destra e una penna in bilico
fra l’indice e il medio della sinistra.
− Mia madre di segreti non ne aveva, − aggiunse Lukas Lysgaard in tono
disperato mentre si asciugava le lacrime con il dorso della mano. – Non mia
madre, no. Lei proprio no.
Yngvar continuava a tacere.
− Mia madre e mio padre si amavano sopra ogni altra cosa, − proseguí. –
Avranno sicuramente passato dei brutti momenti, avranno litigato come tutti,
ma erano sposati da quando avevano diciannove anni, e cioè…
Singhiozzò mentre contava a mente.
− Da piú di quarant’anni! Sono stati sposati per piú di quarant’anni e tu
adesso vieni a dirmi che tra di loro c’erano dei segreti! Una cosa davvero…
davvero…
Yngvar prese qualche rapido appunto sul blocchetto che aveva davanti, poi
lo allontanò da sé facendolo cadere per terra. Dopo averlo raccolto lo
riappoggiò sulla scrivania con il foglio su cui aveva scritto girato verso il
basso.
− Che sfacciataggine, − concluse Lukas Lysgaard con voce piatta, –
insinuare che mia madre avesse…
− Mi dispiace molto se ti sono sembrato sfacciato, − lo interruppe Yngvar
Stubø. – Non volevo proprio. Ma è interessante che ti scaldi tanto sul
matrimonio dei tuoi quando io stavo solo dicendo che ognuno di noi ha delle
esperienze personali che non desidera condividere con altri. Cose che ha fatto.
Cose che ha evitato di fare. Cose, magari, che hanno finito per procurargli dei
nemici. Cose che hanno ferito qualcuno. Questo naturalmente non significa
che…
Lasciò apposta la frase in sospeso, nella speranza che il suo contenuto
risultasse ambiguo al punto giusto.
− Mia madre e mio padre di nemici non ne hanno, − ribadí Lukas Lysgaard
cercando palesemente di ricomporsi. – Anzi, mia madre veniva considerata
una negoziatrice, una paladina della negoziazione. Sia per quanto riguarda la
sua vocazione, sia nella vita privata. Non ha mai neanche accennato al fatto
che qualcuno potesse volerla morta. È davvero…
Deglutí, si passò piú volte una mano fra i capelli.
− Quanto a mio padre, ecco…
Inspirò a fondo, come un rantolo.
− Mio padre ha sempre vissuto all’ombra di mia madre.
Espirò, lentamente, e in quell’attimo cambiò tono. Come se a un tratto si
fosse rassegnato. Come se parlasse a sé stesso.
− Logico, in effetti. Mia madre con la sua carriera e mio padre che non è
mai andato oltre la laurea breve. A quanto pare non voleva…
Si bloccò di nuovo.
− Come si erano conosciuti? – gli chiese Yngvar con grande tranquillità.
− Alle superiori. Erano in classe insieme.
− I tipici fidanzatini del liceo, − disse Yngvar con un sorriso contenuto.
− Mia madre sentí la vocazione a sedici anni. Proveniva da una
normalissima famiglia di operai, suo padre lavorava alla Bmv.
− In Germania?
Yngvar si mise a sfogliare stupito il fascicolo che aveva davanti.
− Alla Bmv, non alla Bmw. La Bergens Mekaniske Verksted, le officine
meccaniche di Bergen. Era membro dell’Nkp, il Partito comunista, e ateo
convinto. Mia madre è stata la prima della sua stirpe ad andare alle scuole
superiori. È stata dura per mio nonno vedere la propria figlia studiare
Teologia, ma al tempo stesso era… orgogliosissimo di lei. Purtroppo non è
vissuto abbastanza da vederla diventare vescovo. Sarebbe stato…
Si strinse nelle spalle.
− Mio padre, invece, proviene dall’ambiente accademico. Mio nonno…
mio nonno paterno, intendo, era professore di Storia all’università di Oslo.
Poi, quando mio padre aveva otto, dieci anni si trasferirono a Bergen. Anche
mia nonna insegnava, a quei tempi era una cosa piuttosto insolita per una
donna…
Si interruppe di nuovo.
− Sai com’è, − sospirò infine. − Mio padre per molti versi è considerato…
come dire… un debole?
Singhiozzò nel pronunciare quella parola e le lacrime ricominciarono a
scendere copiose.
− Ma non lo è affatto. È un padre fantastico. Intelligente e colto. Molto
premuroso. Solo che non è mai riuscito a… a fare tutto… a diventare come…
Sai, i suoi genitori avevano riposto grandi speranze in lui. Avevano molte
aspettative.
Singhiozzò e si passò una mano sulla bocca.
− Mio padre è un tipo piú riflessivo rispetto a mia madre. Da un punto di
vista religioso… è piú rigido, in un certo senso. Lo ha sempre affascinato il
cattolicesimo. Non fosse stato per la posizione e il ruolo di mia madre,
probabilmente si sarebbe convertito molto tempo fa. In autunno mia madre ha
partecipato a un convegno a Boston e lui l’ha accompagnata. Ha visitato ogni
chiesa cattolica della città.
Lukas Lysgaard esitò un istante.
− Oltretutto lui è piú severo con sé stesso di quanto non lo fosse mia
madre. Probabilmente non ha mai superato del tutto il fatto di aver deluso i
suoi genitori. È figlio unico, sai.
Aggiunse l’ultima frase come se bastasse da sola a spiegare ogni cosa, o
quasi.
− Anche tu sei figlio unico, se non sbaglio.
Yngvar sbirciò di nuovo le carte che aveva davanti, girò il blocco e
scarabocchiò rapido un paio di frasi.
− Sí.
− E hai… ventinove anni?
Yngvar aveva appena letto la data di nascita di quell’uomo e ne era stupito:
il giorno prima gli aveva dato sui trentacinque anni.
− Sí.
− I tuoi genitori quindi erano sposati già da quattordici anni quando sei
nato.
− Hanno studiato a lungo. Per lo meno mia madre.
− E non hanno avuto altri figli?
− Non che io sappia.
La circospezione sarcastica era tornata e Yngvar gli chiese con un sorriso
disarmante: − Per affermare che i tuoi si amavano molto, su cosa ti basi?
L’altro lo guardò con aria sinceramente stupita.
− Su cosa... In che senso, scusa? – E senza aspettare risposta proseguí: −
Lo dimostravano centinaia di volte al giorno! Il modo in cui si parlavano, le
esperienze che condividevano, tutto quanto… santo cielo, ma che razza di
domanda è?
Aveva uno sguardo che incuteva quasi paura, con quell’occhio rosso
sangue spalancato. D’un tratto si irrigidí e smise di respirare.
− Qualcosa non va? − gli chiese Yngvar dopo qualche secondo. – Signor
Lysgaard! È tutto a posto?
L’uomo espirò adagio.
− Emicrania, − rispose a bassa voce. – Ultimamente ho dei disturbi alla
vista.
Lo disse con voce piatta e monotona, continuando a sbattere le ciglia.
− Ho come un baluginio in una metà della…
Sollevò una mano e la tenne a mo’ di divisorio fra l’occhio destro e il
sinistro.
− Questo significa che fra venticinque minuti praticamente esatti avrò un
mal di testa cosí tremendo da non riuscire nemmeno a descrivertelo. Devo
andare. Devo tornare a casa.
Si alzò talmente di slancio da rovesciare la sedia. Per un attimo perse
l’equilibrio e dovette appoggiarsi alla parete. Yngvar guardò l’orologio.
Aveva riservato l’intera giornata a un colloquio che, ora come ora, era appena
agli inizi. A dire il vero, ciò che aveva saputo era già sufficiente per qualche
riflessione, ma il fastidio che quella interruzione forzata gli procurava era
difficile da nascondere. Poco importava. Lukas Lysgaard sembrava del tutto
smarrito.
− Ti faccio riaccompagnare a casa, – disse Yngvar a bassa voce. – C’è
qualcos’altro che posso fare per te?
− No. A casa. Subito.
Yngvar Stubø prese il cappotto che Lukas Lysgaard aveva appeso a un
gancio sulla parete e glielo porse, ma l’altro non fece nemmeno il gesto di
volerselo infilare. Si limitò ad afferrarlo e a trascinarselo dietro mentre si
muoveva a scatti verso la porta. Yngvar fece qualche rapido passo e lo
precedette.
− Vedo che non ti senti bene, − gli disse con la mano sulla maniglia. –
Perciò rimandiamo il resto della conversazione a un momento migliore. Ma
c’è una domanda che purtroppo non posso non farti subito. La stessa che hai
sentito ieri.
L’uomo di fronte a lui non cambiò minimamente espressione; pareva quasi
non sapere nemmeno che Yngvar si trovava ancora in quella stanza.
− Che cosa ci faceva tua madre da sola fuori, a piedi, di sera tardi, la
vigilia di Natale?
Lukas Lysgaard sollevò il capo. Guardò Yngvar dritto negli occhi, si
umettò le labbra e deglutí sonoramente. Era evidente che gli costava
un’enorme fatica raccogliere le forze in vista del dolore che sarebbe arrivato.
− Non lo so, − rispose. – Non ho la piú pallida idea del perché fosse uscita
da sola a quell’ora.
− Le piaceva fare una passeggiata la sera? Prima di andare a letto? Voglio
dire, era sua abitudine…
Lukas continuava a fissarlo.
− Devo andare, − disse con voce roca. – Adesso. Non ho idea di dove
stesse andando mia madre e di cosa dovesse fare. Lasciami tornare a casa. Ti
prego.
«Stai mentendo, – pensò Yngvar, e gli aprí la porta. – Te lo leggo in faccia
che mi stai mentendo».
− È la verità, − disse Lukas Lysgaard, poi uscí barcollando nel corridoio.

− Tu non saresti in grado di mentire neanche se ti pagassero per farlo –.


Line Skytter rise raccogliendo le gambe sotto di sé sul divano.
− Ma smettila, − ribatté Johanne, stupendosi di sentirsi leggermente offesa.
− Io sono una specialista in fatto di menzogne!
− Menzogne degli altri, sí. Ma non tue. Se avessi comprato le costolette di
maiale al supermercato e avessi detto a tua madre che venivano da qualche
negozio figo tipo Strøm-Larsen, il tuo naso sarebbe diventato lungo un
chilometro. Buon per te che hai deciso di comprare il merluzzo.
− Che però non era abbastanza buono per mia madre, − borbottò Johanne
nel suo bicchiere di vino.
− Dài, fregatene, − le disse Line rassegnata. – Tua madre è dolcissima. È
brava con le bambine e buona come il pane. Solo un po’… incontinente a
livello emotivo, tutto qui. È come se dovesse dare fiato per forza a tutto
quello che pensa. Lascia perdere! Cin cin!
Johanne sollevò appena il bicchiere e rannicchiò le gambe. La sua migliore
amica, nonché quella di piú vecchia data, si era inaspettatamente presentata
alla porta un’ora prima con due bottiglie di vino e tre Dvd in un sacchetto di
plastica. Un lieve fastidio aveva tormentato Johanne per i primi minuti: non
vedeva l’ora di passare un’altra serata in solitudine davanti allo schermo del
suo portatile. Ma ora che erano lí, sedute ai due estremi del grande divano,
non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era sentita cosí distesa.
− Sono davvero stanchissima, − disse con un sorriso, prima di soffocare un
prolungato sbadiglio. − È solo quando mi rilasso che me ne accorgo.
− Non puoi dormire! Dobbiamo vederci…
Scorse rapidamente i Dvd sparsi sul tavolino.
− Notte brava a Las Vegas prima di tutto. Ashton Kutcher è troppo dolce.
E non sono ammesse critiche. Adesso dobbiamo solo divertirci.
Diede un finto calcio a Johanne, che scosse rassegnata la testa.
− Ma quanto tempo butti via a guardare questa roba, eh? – le chiese.
− Non fare tanto la sofisticata. Questa roba piace anche a te!
− Posso almeno guardarmi il telegiornale, prima? Sai, solo per avere un
minimo ancoraggio alla realtà. Poi ci tuffiamo in quelle melensaggini…
Line rise e sollevò di nuovo il bicchiere, come in un gesto di approvazione.
Johanne accese il televisore con il telecomando, giusto in tempo per vedere
gli ultimi secondi dei titoli di apertura. La prima riga, come ci si poteva
aspettare, era: «Ucciso per strada il vescovo Eva Karin Lysgaard: la polizia
ancora senza tracce».
− Che cosa? – esclamò Line a bocca aperta, tirandosi su sul divano. –
Uccisa la Lysgaard? Ma che…
Riappoggiò i piedi per terra, posò il bicchiere e si sporse in avanti con i
gomiti puntati sulle ginocchia.
− Lo hanno scritto su tutti i giornali in rete e lo hanno ripetuto alla radio
tutto il giorno, − disse Johanne alzando il volume. – Ma tu dov’eri?
− A sciare, − rispose Line. – Ieri sera ho sentito che era morta, ma non
sapevo che la avessero… ssst!
Christian Borch indossava un abito scuro e aveva una espressione grave in
volto.
«Oggi la polizia ha confermato che il vescovo di Bjørgvin, Eva Karin
Lysgaard, è stato ucciso la sera del 24 dicembre. Ieri ne era stato comunicato
il decesso, ma le circostanze della sua morte sono state rese note solamente
questa mattina».
L’immagine dello studio lasciò il posto a quella di una piovosa Bergen con
un giornalista che presentò brevemente il caso: in pratica, due minuti sul
nulla.
− È per questo che Yngvar è partito? – chiese Line di colpo girandosi
verso Johanne.
Lei assentí con un lieve cenno del capo.
«Per quanto ci è dato sapere, gli inquirenti non hanno ancora nessuna pista
utile alla soluzione del caso».
− Cioè hanno un sacco di piste, − commentò Johanne, − ma non hanno
idea di dove li porteranno.
Line la azzittí. Rimasero sedute in silenzio a guardare l’intero servizio, che
durò all’incirca dodici minuti. L’incredibile lunghezza non era dovuta soltanto
alla scarsità di notizie tipica del periodo natalizio: si trattava di un fatto molto
speciale. Lo si vedeva dalle interviste ai poliziotti e ai membri della Chiesa, ai
politici e alla gente comune fermata a caso per strada: tutti erano visibilmente
toccati dall’accaduto, cosa piuttosto inconsueta per dei norvegesi. A molti si
incrinava la voce, alcuni scoppiavano a piangere davanti alle telecamere.
− Quasi come quando è morto re Olav, − disse Line spegnendo la
televisione.
− Be’… lui è morto di vecchiaia, bello tranquillo nel suo letto.
− Sí, certo. Mi riferivo… all’atmosfera, ecco. Ma chi mai può aver pensato
di ammazzare una donna del genere? Era cosí… come dire… cosí gentile…
Cosí buona!
Johanne si ricordò di aver reagito nello stesso identico modo quando lo
aveva saputo, quasi due giorni prima. Eva Karin Lysgaard non solo sembrava
una brava persona, ma era anche dotata di buone capacità diplomatiche.
Teologicamente parlando si trovava piú o meno al centro di quel frammentato
paesaggio che costituiva la Chiesa di Norvegia. Non era una radicale, ma
nemmeno una conservatrice. Per quanto riguardava la questione
dell’omosessualità, che aveva imperversato per molti anni nell’ambiente
ecclesiastico e avvicinato sempre piú la Norvegia a una costituzione laica,
Eva Karin Lysgaard era stata la principale artefice del fragile trattato di pace:
ci sarebbe stato spazio per entrambi i punti di vista. Personalmente lei non
avrebbe avuto nulla in contrario alla consacrazione di un’unione omosessuale,
ma al tempo stesso aveva lottato duramente affinché i suoi oppositori
potessero godere appieno del diritto di rifiutarla. Il vescovo Eva Karin
Lysgaard si era dimostrato aperto e di ampie vedute: un tipico rappresentante,
insomma, degli appartenenti a una Chiesa di Stato molto diffusa e popolare.
Anche se lei in realtà non lo era affatto. Nutriva, anzi, forti dubbi di principio
sull’insufficiente autogoverno della Chiesa e non si faceva sfuggire occasione
per difendere il suo punto di vista.
Sempre amichevole. Sempre tranquilla e con quel sorrisetto scaltro sulle
labbra in grado di smorzare i toni di qualche espressione tagliente che le
capitava di lasciarsi sfuggire le rare volte in cui si faceva coinvolgere troppo.
Di solito capitava a proposito dell’aborto.
Eva Karin Lysgaard aveva posizioni estremiste riguardo a un unico
argomento: era contraria all’aborto. Sempre e assolutamente e in qualunque
circostanza. Nemmeno dopo una violenza sessuale, nemmeno se la madre
rischiava la vita era disposta ad accettare che si potesse intervenire per
recidere un’esistenza: per il vescovo Eva Karin Lysgaard quanto creato da
Dio era inviolabile, le sue strade erano imperscrutabili e un uovo fecondato
aveva diritto alla vita se era cosí che il Signore aveva voluto.
Strano ma vero, Eva Karin Lysgaard veniva rispettata per questa sua
convinzione in un Paese in cui le discussioni sull’aborto si erano comunque
concluse già nel 1978. I pochi che ancora portavano avanti la lotta contro la
legge che contemplava la possibilità di abortire venivano solitamente
considerati come dei conservatori ridicoli e anche piuttosto estremisti, per lo
meno agli occhi dell’opinione pubblica. Perfino le attiviste donne
moderavano i toni durante gli incontri con Eva Karin Lysgaard. Avendo una
motivazione cosí squisitamente di principio, lei prendeva le distanze da chi
collegava la causa dell’aborto all’emancipazione femminile.
L’aborto era per lei una questione di sacralità della vita, non di sesso.
− Mi domando che cosa abbia provato, nel bosco, − disse Johanne
all’improvviso.
− Nel bosco? Credevo l’avessero uccisa per strada.
− Non mi riferivo all’omicidio, ma a quella volta che… Le hanno dedicato
un intero servizio sul «Magasinet» di sabato scorso, non lo hai letto?
Line scosse la testa e si versò altro vino.
− Siamo andati su alla baita nel fine settimana. Ho sciato davvero
tantissimo, ma non ho letto neanche un giornale.
«Non lo fai mai, indipendentemente da dove sei», pensò Johanne, e sorrise
mentre le diceva: − La Lysgaard raccontava di aver incontrato Dio in un
bosco a sedici anni. Raccontava che era successo qualcosa di molto speciale,
ma senza entrare nel dettaglio.
− Non è Gesú che incontrano?
− Eh?
− Credevo, − disse Line, − che si usasse l’espressione «incontrare Gesú»
quando qualcuno si converte.
− Dio o Gesú, − mormorò Johanne. – Non saprei…
Si alzò di scatto e andò in camera da letto; quando tornò aveva il
«Magasinet» in mano, e cominciò a sfogliarlo mentre si sedeva.
− Trovato, − disse, e prese un bel respiro. – «Ero in una situazione molto
difficile. A noi esseri umani capita spesso durante l’adolescenza. Le cose ci
appaiono molto piú grandi di quanto non siano in realtà. È capitato anche a
me. È stato allora che ho incontrato Gesú».
− Visto? – esclamò Line. – Avevo ragione io!
− Sst! «Che cosa è successo?» È la giornalista a fare questa domanda.
Johanne lanciò una rapida occhiata a Line al di sopra degli occhiali e
proseguí la lettura: − «È una questione fra me e Dio, – ha riso il vescovo
mostrando delle fossette in cui ci si sarebbe potuti nascondere. – Tutti noi
abbiamo delle stanze segrete. È cosí che stanno le cose. È cosí che staranno
sempre».
Ripiegò lentamente il giornale.
− E adesso è ora di guardare il film, − disse Line.
− Tutti noi abbiamo delle stanze segrete, − ribadí Johanne fissando il
ritratto di Eva Karin Lysgaard in copertina.
− Io no, − commentò Line con leggerezza. – Ci guardiamo Notte brava a
Las Vegas prima, oppure passiamo direttamente a Il diavolo veste Prada? A
dire il vero io non l’ho ancora visto e Meryl Streep la guardo sempre con
piacere.
− Anche tu hai un paio di stanze segrete, Line.
Johanne si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi prima di proseguire: − È
solo che hai perso le chiavi.
− Può darsi, − rispose Line senza perdere il sorriso. – Ma quello che non
sappiamo male non ci fa!
− In questo ti sbagli di grosso, − ribatté Johanne indicando con gesto pigro
Il diavolo veste Prada. – È proprio quello che non sappiamo a farci male.
Il mercato delle vanità

La cosa peggiore in assoluto era stata che non lo sapeva, pensò Niclas
Winter. Aveva vissuto per cosí tanto tempo sull’orlo del collasso economico
che quando aveva saputo che l’acquirente non era piú interessato aveva
ricominciato a bere un po’ troppo e un po’ troppo spesso. Per non parlare poi
di tutto il resto che buttava giú per calmarsi i nervi. E dire che aveva smesso
da un pezzo di prendere quella robaccia. L’ottundimento dei sensi lo rendeva
indolente. Piatto. Improduttivo.
Non era cosí che voleva sentirsi.
Quando la crisi finanziaria aveva cominciato a imperversare in ogni
settore, nell’autunno del 2008, in Norvegia non aveva sortito gli stessi effetti
che in molti altri Paesi. Con diverse migliaia di miliardi di corone in banca e
una «cassetta degli attrezzi» molto ben fornita, politicamente parlando, la
coalizione rosso-verde era riuscita a mettere in atto delle contromisure
talmente solide, costose ed efficaci che nessuno se lo sarebbe mai neanche
potuto immaginare qualche mese prima. La nazione norvegese aveva
pompato oro nero dal Mare del Nord per cosí tanto tempo che, nonostante il
terremoto economico degli Stati Uniti, almeno nell’immediato era risultata
invulnerabile. È vero che il mercato immobiliare norvegese, gonfio da
scoppiare, aveva subito un tracollo all’inizio dell’autunno, ma sarebbe
accaduto comunque nel breve periodo. A ogni modo, segni di ripresa ce
n’erano già. Il numero dei fallimenti si era moltiplicato negli ultimi mesi e, a
detta di molti, quel che era accaduto andava considerato come un salutare
repulisti di imprese che comunque non avrebbero saputo sopravvivere.
Nell’edilizia la disoccupazione era aumentata, ma la questione era stata
affrontata con grande serietà. Non andava dimenticato che quel settore si
reggeva soprattutto su una forza lavoro «di importazione». Polacchi, baltici e
svedesi avevano la simpatica prerogativa di tornarsene volentieri in patria
quando di lavoro non ce n’era piú, per lo meno chi non aveva afferrato bene
che avrebbe potuto ricevere dei bei soldini grazie all’assistenza sociale
norvegese. Inoltre c’era un numero piuttosto consistente di economisti pronti
a sostenere, per lo meno nella loro cerchia e senza farlo trapelare, che un tasso
di disoccupazione intorno al quattro per cento avrebbe giovato alla flessibilità
della manodopera nel suo complesso.
Tutto sommato l’azienda Norvegia andava avanti, se non come prima
comunque senza grandi e catastrofiche conseguenze per il Paese e i suoi
abitanti. Le persone compravano ancora da mangiare, avevano ancora bisogno
di vestiti per sé e per i propri figli, si concedevano come sempre una buona
bottiglia di vino nel fine settimana e continuavano ad andare al cinema
esattamente come prima.
Erano i generi di lusso a non avere piú abbondanza di acquirenti.
E per qualche motivo l’arte veniva considerata un genere di lusso.
Niclas Winter tolse la carta argentata alla bottiglia di champagne che aveva
comprato il giorno in cui sua madre era morta. Si sforzò di ricordare se gli
fosse mai capitato di aprirne una, ma quando si mise ad armeggiare con la
gabbia metallica ogni dubbio svaní. Sí, aveva bevuto una considerevole
quantità di quella nobile bevanda francese, soprattutto negli ultimi anni, ma
sempre offerta da qualcun altro.
Lo champagne sgorgò a getto e lui rise fra sé e sé mentre versava il vino
spumeggiante e frizzante in un bicchiere di plastica posato sul bordo
dell’ingombro tavolo da lavoro. Appoggiò la bottiglia a terra, per sicurezza, e
si portò il bicchiere alle labbra.
I trecento metri quadrati dell’atelier, in origine un magazzino, erano
inondati di luce naturale. Agli estranei il caos doveva sembrare totale in
quell’enorme stanzone con i lucernai sul soffitto e grandi finestre ad arco
lungo la parete di sudest, ma Niclas Winter aveva tutto sotto controllo.
Saldatrice e saldatoio, il computer e dei vecchi water, i cavi provenienti dal
Mare del Nord e una mezza carcassa di automobile. L’atelier sarebbe stato un
paradiso per qualunque undicenne curioso, che comunque non sarebbe mai
riuscito a intrufolarcisi. Niclas Winter aveva tre fobie: i grandi uccelli, i
lombrichi e i bambini. A malapena era riuscito a sopravvivere alla propria
infanzia e detestava doversene ricordare ogni volta che gli capitava di vedere
dei ragazzini giocare e urlare e divertirsi. Il fatto che l’atelier si trovasse a soli
duecento metri da una scuola elementare costituiva una triste realtà con cui a
stento aveva imparato a convivere. Per il resto il locale era davvero perfetto,
l’affitto era basso e i bambini per lo piú si tenevano a debita distanza da
quando lui aveva appeso sulla porta il cartello «Attenzione – cane libero» e la
figura di un dobermann.
Il locale aveva all’incirca la forma di un rettangolo, sedici metri
abbondanti per diciotto. Il caos era concentrato tutto lungo le pareti: una
cornice di cianfrusaglie e beni di prima necessità circondava un ampio spazio
centrale. Quello spazio era sempre pulito e vuoto, fatta eccezione per
l’installazione a cui Niclas Winter stava lavorando al momento. Contro uno
dei muri corti erano schierate quattro installazioni già finite, ma che lui non
aveva ancora mostrato a nessuno.
Sorseggiò lo champagne, era leggermente troppo dolce e non abbastanza
freddo.
Quella era la cosa migliore che avesse mai fatto.
L’opera era intitolata I was thinking of something blue and maybe grey,
darling ed era stata acquistata da StatoilHydro.
Al centro dell’installazione si ergeva un monolito alto sei metri di
manichini aggrovigliati gli uni agli altri, un evidente riferimento al monolito
del parco di Vigeland. A causa della rigidità che caratterizzava i manichini,
fatta eccezione per ginocchia, gomiti, anche e spalle, la figura che formavano
risultava per cosí dire irta di aculei. Teste su colli quasi spezzati, dita rigide e
piedi con lo smalto sulle unghie puntavano morti in ogni direzione. Ad
avvolgerli c’era un luccicante filo spinato in argento. Argento vero,
naturalmente: solo il filo spinato gli era costato una piccola fortuna.
Avvicinandosi ci si accorgeva che quei nudi manichini senza vita avevano ai
polsi orologi preziosi e intorno al collo, quasi tutti, delle collane. Quando lui
li aveva presi, i manichini erano letteralmente asessuati: solo le spalle larghe e
la mancanza di seni distinguevano gli uomini dalle donne, oltre a una
indefinita prominenza sull’inguine. Niclas Winter era stato costretto a
rimediare: aveva acquistato talmente tanti peni artificiali su un sito porno da
ottenere un significativo sconto sulla quantità e li aveva poi montati sui
manichini castrati. I peni finti venivano pubblicizzati come «naturali», una
palese falsità. Erano giganteschi. Decise di laccarli con degli spray di colori
fluo per renderli ancora piú evidenti.
− Perfetto, − mormorò dopo fra sé e sé, e svuotò il bicchiere in un sorso.
Fece alcuni passi indietro e inclinò la testa da una parte.
La sua ultima mostra era stata un successo fenomenale. Tre installazioni da
esterno erano rimaste esposte su Rådhuskaia, il molo nella zona centrale di
Oslo, per quattro settimane. La gente era entusiasta. I critici anche. Aveva
venduto tutto. Per la prima volta nella sua vita era stato a un passo dal
liberarsi dei debiti. E ancor meglio: StatoilHydro, che già aveva acquistato
Vanity Fair, reconstruction, aveva ordinato I was thinking of something blue
and maybe grey, darling sulla base di uno schizzo preparatorio. Il prezzo
stabilito era di due milioni di corone. Mezzo milione gli era stato versato
come anticipo, ma quei soldi, e molti altri ancora, erano già stati spesi per il
materiale.
Poi quei maledetti avevano cambiato idea.
Niclas Winter di contratti non ne capiva molto e quando, furente, si era
presentato dall’avvocato mostrandogli la lettera che era arrivata in ottobre,
aveva capito che era giunto il momento di procurarsi un agente. StatoilHydro
infatti era nel suo pieno diritto: il contratto aveva una clausola di disdetta.
Peccato che lui quel documento lo avesse letto solo di sfuggita prima di
firmarlo, stordito di felicità com’era.
«Nell’attuale clima finanziario, – scrivevano nella lettera, per scusarsi, – il
segnale veicolato avrebbe effetti controproducenti per dipendenti e
proprietari». Farfugliavano di «una certa prudenza per quanto riguarda i
consumi superflui».
Bla bla bla. Andate a farvi fottere!
Quella maledetta lettera era arrivata quattro giorni prima che sua madre
morisse.
Mentre lui le sedeva accanto nelle sue ultime ore, piú per salvare le
apparenze che per un dolore autentico, tutto si era ribaltato. Niclas Winter era
uscito dalla stanza dell’Hospice Lovisenberg in cui sua madre era morta con
un sorriso sulle labbra, una nuova speranza e un mistero da risolvere.
E ce l’aveva fatta.
C’era voluto del tempo, naturalmente. Sua madre era stata cosí nebulosa
che Niclas aveva passato molte settimane a cercare lo studio giusto, si era
stressato parecchio e aveva preso diverse cantonate strada facendo, ma adesso
aveva risolto tutto. L’incontro era fissato per il primo giorno feriale dopo
capodanno, e l’uomo che avrebbe visto lo avrebbe reso ricco sfondato.
Si versò altro champagne e bevve.
Quella lieve ebbrezza lo faceva sentire decisamente meglio. La sua ultima
opera era terminata: se StatoilHydro non aveva saputo approfittare di
un’occasione simile, ci avrebbe pensato qualche altro acquirente. Con i soldi
che adesso sarebbero diventati suoi, Niclas avrebbe potuto accettare l’invito
ad allestire una mostra a New York in autunno. E l’avrebbe fatta finita con
quegli insensati lavoretti extra che gli risucchiavano forze e creatività. E
avrebbe dato un taglio netto anche alla droga, finalmente. E all’alcol. Avrebbe
lavorato giorno e notte, senza preoccupazioni.
Niclas Winter era quasi felice.
Un rumore, gli sembrò di sentire un rumore. Un clic quasi impercettibile.
Si girò a metà. Un gatto sul tetto, probabilmente. Alzò gli occhi.
Qualcuno lo afferrò. Niclas non capí neanche cosa stesse succedendo
quando due mani gli si strinsero intorno al volto costringendolo ad aprire la
bocca. Quando gli piantarono una siringa nella guancia sinistra, piú che
spaventarsi si meravigliò. L’ago gli si conficcò e svuotò nella lingua, e il
dolore che provò in quell’istante fu cosí intenso da strappargli un grido.
L’uomo dietro di lui gli immobilizzò le mani. Un calore intenso cominciò a
diffondersi fulmineo dalla bocca, Niclas faticava a respirare. Lo sconosciuto
lo afferrò quando cadde. Lui sorrise e cercò di allontanare il velo che gli
oscurava la vista battendo ripetutamente le palpebre. Non riusciva a respirare.
I polmoni non ce la facevano piú.
Si accorse a malapena che qualcuno gli stava rimboccando la manica
sinistra del maglione. Questa volta l’ago si conficcò nella vena blu all’interno
del gomito.
Era il 27 dicembre 2008 e le undici e trenta del mattino erano passate da
tre minuti. Quando Niclas Winter morí, all’età di trentadue anni, subito prima
del suo debutto internazionale in campo artistico, sorrideva ancora di stupore.

Ragnhild Vik Stubø se la rideva proprio di cuore. Johanne le sorrise,


raccolse i dadi e li lanciò di nuovo.
− Non sei tanto brava a Yahtzee, mamma.
− Sfortunata al gioco, fortunata in amore, sai. Mi consolo cosí.
I dadi si fermarono mostrando due 1, un 3, un 4 e un 5. Johanne esitò un
istante, poi lasciò in tavola i due 1 e fece l’ultimo tiro che aveva a
disposizione.
Squillò il telefono.
− Non imbrogliare mentre non ci sono, − ordinò alla figlia con simulata
severità e si alzò.
Il cellulare era in cucina. Premette il tasto verde.
− Johanne, − disse concisa.
− Ciao, sono io.
Sentí una punta di irritazione: Isak non si presentava mai. Avrebbe dovuto
essere un privilegio di Yngvar quello di dare per scontato che lei riconoscesse
immediatamente la sua voce. In fondo erano passati piú di dieci anni da
quando lei e Isak si erano separati. Lui era il padre della sua figlia maggiore,
certo, ed era una fortuna per tutti che loro due riuscissero a collaborare. Allo
stesso tempo, però, Isak non era piú un membro stretto della famiglia, anche
se si comportava come tale.
− Ciao, − gli rispose con voce piatta. – Grazie ancora per aver
riaccompagnato Ragnhild a casa. Kristiane come sta?
− Sí… È per questo che ti ho chiamata. Ecco, adesso tu non… Prometti di
non…
Johanne sentí un brivido correrle giú per la schiena, proprio fra le scapole.
− Che cosa? – gli chiese sentendolo esitare.
− Ecco, allora… Sono al Sandvika Storsenter. Dovevo cambiare dei regali
e cosí… io e Kristiane… Ora, il problema è che… Se ti arrabbi però è inutile.
Johanne cercò di deglutire.
− Che cosa è successo a Kristiane? – gli chiese, costringendosi a non
alzare il tono di voce.
Sentiva Ragnhild in soggiorno che continuava a lanciare i dadi.
− È sparita. Cioè, non è che è sparita. È che… non la trovo piú. Volevo
solo…
− Hai… Hai perso Kristiane? Al Sandvika Storsenter?
Ebbe davanti agli occhi quell’enorme centro commerciale, il piú grande
dell’intera Scandinavia, su tre piani, con piú di cento negozi e talmente tante
uscite che si sentí mancare e dovette appoggiarsi al bancone della cucina.
− Rilassati, Johanne. Ho avvisato la direzione, la stanno già cercando. Hai
presente quanti bambini ci sono che si perdono qua dentro ogni giorno? Un
sacco! Starà gironzolando in qualche negozio per i fatti suoi, sicuro. Ti
telefono solo per sapere se c’è qualche negozio in particolare qui dentro che le
piace…
− Hai perso mia figlia, cazzo!
Aveva gridato, senza pensare a Ragnhild. La bambina scoppiò a piangere e
Johanne cercò di consolarla a distanza mentre proseguiva la conversazione.
− A dire il vero è nostra figlia, − ribatté Isak all’altro capo del telefono. –
E non è…
− Ragnhild, non preoccuparti. Mamma si è solo spaventata un po’. Un
attimo che arrivo…
Ma la bambina non si tranquillizzò, anzi.
− Non voglio che qualcuno mi perda, mamma! – gridò lanciando i dadi per
terra.
− Prova nella boutique del pupazzo, − sibilò Johanne a Isak. – È quel
negozio dove uno si costruisce il suo orsetto come vuole. È in fondo al
corridoio che unisce la parte vecchia alla parte nuova del centro commerciale.
− Mamma! Mamma! Chi è che mi ha perso?
− Sst, tesoro! Mamma arriva subito. Nessuno ti ha perso, non preoccuparti.
Arrivo!
Johanne ringhiò nel microfono del telefono: − Tieni acceso il cellulare. Fra
venti minuti sono lí. Telefonami subito se ci sono novità.
Interruppe la conversazione, si infilò il cellulare nella tasca posteriore dei
pantaloni, corse in soggiorno, prese in braccio la figlia minore e la consolò
come poté mentre attraversava rapida l’appartamento, verso le scale che
scendevano alla porta d’ingresso.
− Io non ti perdo di sicuro, tesoro. Non c’è niente di cui preoccuparsi. La
mamma è qui con te!
− Perché hai detto che qualcuno mi ha pe-pe-perso?
Ragnhild singhiozzava, ma per lo meno si era tranquillizzata un po’.
− Hai capito male, tesoro. A volte capita, sai.
Quando arrivò alle scale rallentò e cominciò a scendere tranquillamente.
− Adesso ci facciamo un bel giro. Andiamo al Sandvika Storsenter.
− Davvero? – chiese Ragnhild sorridendo fra le lacrime.
− Proprio cosí.
− E che cosa mi compri?
− Niente, tesoro. Dobbiamo solo… dobbiamo solo passare a prendere
Kristiane, sai.
− Kristiane torna domani, − protestò la bambina. – Questa sera io e te
giochiamo al cinema con i popcorn, sul divano.
− Mettiti gli stivali. In fretta, per favore…
Il cuore le batteva come un tamburo. Boccheggiando, Johanne si infilò la
giacca, poi si stampò un bel sorriso sulla faccia e disse alla figlia: − La tua
giacca ce la portiamo dietro. Vieni.
− Io voglio il berretto! E i guanti! Fa freddo fuori, mamma!
− Ecco qui, − le rispose Johanne afferrando qualcosa da una mensola, −
puoi vestirti in macchina.
Senza nemmeno chiudere a chiave la porta di casa prese la bambina per
mano e scese di corsa la scala esterna, poi proseguí lungo il vialetto di ghiaia
per raggiungere l’auto che, fortunatamente, aveva lasciato parcheggiata
davanti al portone.
− Mi fai male, − protestò Ragnhild. – Mamma, mi stringi troppo la mano!
Johanne si sentiva mancare. Provava la stessa paura di quando aveva
tenuto fra le braccia Kristiane per la prima volta. Molto bene, aveva detto
l’ostetrica. Bella e sana, aveva detto Isak. Ma lei sapeva che non era cosí.
Aveva chinato lo sguardo su quella figlioletta che aveva appena mezz’ora di
vita: era troppo silenziosa, e c’era qualcosa in lei che per poco non aveva
mandato in pezzi Johanne.
− Salta su, − disse un po’ troppo duramente a Ragnhild mentre apriva la
portiera posteriore, – che ti allaccio la cintura di sicurezza.
Squillò il telefono. Non ricordava dove lo aveva cacciato e continuava a
palparsi le tasche della giacca.
− Ti suona il sedere, − disse Ragnhild mentre si infilava in macchina.
− Pronto! – esclamò Johanne ansimando nel cellulare dopo averlo
ripescato nella tasca dei pantaloni.
− L’ho trovata! – rise Isak, con quella sua voce lontana. – Era nel negozio
degli orsetti, proprio come dicevi tu, e sta benissimo. Un signore si è preso
cura di lei, erano lí che chiacchieravano tutti tranquilli quando sono arrivato
io!
− Che signore?
− Che signore? Ma come? Ti telefono per dirti che Kristiane è qui con me,
sana e salva, esattamente come immaginavo, e tu ti metti a questionare su…
− Lo sai, no, che i centri commerciali sono un eldorado per i pedofili?
Le sue parole rimasero sospese nell’aria gelida come nuvolette di vapore
grigio.
− Mamma, non mi allacci la cintura di sicurezza?
− Un attimo, tesoro. Ma che razza…
− Eh, no. Sinceramente, Johanne, questo è davvero troppo!
Isak Aanonsen si arrabbiava molto di rado.
Perfino quando, un’eternità prima, Johanne una sera tardi si era alzata dal
divano e gli aveva detto chiaro e tondo che non vedeva come il loro
matrimonio si potesse salvare, aggiungendo anche che si era già procurata i
moduli necessari per metterci una definitiva riga sopra, perfino allora Isak
aveva cercato di essere positivo. Era rimasto seduto in salotto ancora un po’,
mentre Johanne in lacrime se n’era andata a letto. Un’ora dopo aveva bussato
alla porta della loro camera, già nell’ottica che non fossero piú cosí intimi. La
cosa piú importante era Kristiane, le aveva detto. Kristiane sarebbe stata
sempre la cosa piú importante per tutti e due e lui desiderava che, prima di
provare a dormire, affrontassero le questioni pratiche riguardanti la figlia.
Allo spuntar del giorno avevano raggiunto un accordo e da allora in poi Isak
vi si era attenuto fedelmente. Johanne poteva contare sulle dita di una mano le
volte in cui negli anni seguenti lui aveva mostrato qualche minimo segno di
irritazione.
In quell’esatto istante era furibondo.
− La tua è isteria pura! L’uomo che stava parlando con Kristiane era solo
un tizio qualunque che evidentemente si era accorto di… di che tipo di
bambina è. Era gentile e Kristiane gli ha sorriso e lo ha salutato con la mano
quando ce ne siamo andati. Adesso lei è qui che…
Johanne sentiva il consueto «dam-di-rum-ram» di Kristiane in sottofondo.
Si mise a piangere, silenziosamente, per non spaventare Ragnhild piú di
quanto non avesse già fatto.
− Mi dispiace, − bisbigliò nel microfono. – Mi dispiace, Isak, scusami.
Davvero. È solo che mi sono spaventata a morte…
− Ci siamo spaventati tutti e due, − le rispose lui dopo un attimo di
esitazione. La sua voce era quella di sempre, il tono di nuovo amichevole. –
L’importante è che sia andato tutto bene. Credo che sarebbe meglio per te se
la riportassi a casa vostra già oggi. Che ne dici?
− Grazie. Grazie mille, Isak. Credo proprio che sarebbe molto bello averla
qui con me.
− Ci starò insieme un’altra volta, io.
− Perché non resti anche tu? − scappò detto a Johanne.
− Lí da voi? Ma certo! Va bene!
In un lampo Johanne ebbe davanti i suoi occhi blu scuro, che in quel volto
mai sbarbato si assottigliavano in due fessure quando lui sorrideva. Quello
strano sorriso sbieco di cui un tempo lei era cosí innamorata.
− Una mezz’oretta e arriviamo, − aggiunse Isak. – Devo comprare
qualcosa, già che siamo qui?
− No, grazie. Venite e basta. Vi aspetto.
La conversazione si interruppe.
Una violenta stanchezza si impossessò di Johanne. Posò le braccia sul tetto
dell’auto. Il metallo era cosí freddo che rabbrividí. Forse avrebbe potuto
raccontare a Isak dell’uomo in giardino il giorno di Natale, spiegargli che la
sua paura non era campata per aria, che lei aveva dei validi motivi per essere
ansiosa, che l’uomo sapeva come si chiamava Kristiane, nonostante le
bambine non lo conoscessero, se lei…
No.
Lentamente si raddrizzò e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
− Vieni, − disse a Ragnhild, chinandosi sulla figlia con un sorriso. – Al
centro commerciale non ci andiamo piú. Isak e Kristiane ci stanno
raggiungendo qui.
− Ma noi dovevamo vedere un film e giocare al cinema, − protestò
Ragnhild. – Tu e io! Da sole!
− Possiamo giocare al cinema con Isak e Kristiane. Ci divertiremo un
sacco, vedrai. Vieni, su.
Controvoglia la bambina scese dal seggiolino e uscí dall’auto.
Mentre percorrevano a ritroso il vialetto di ghiaia, Ragnhild si fermò
all’improvviso e con le mani sulle anche disse in tono severo: − Mamma!
Prima avevamo una fretta terribile di andare al centro commerciale. Adesso
dobbiamo tornare a casa. Prima dovevamo giocare al cinema, solo tu e io, e
adesso invece ci sono anche Isak e Kristiane. Papà ha proprio ragione…
− Ha proprio ragione? Su cosa? – le chiese Johanne con un sorriso,
accarezzandole la testa.
− Che ci sono delle volte che tu proprio non ti sai decidere. Ma sei la
mamma piú brava del mondo lo stesso. La piú brava supermamma del mondo
con la panna montata.

Silje Sørensen, ispettore capo della sezione Crimini violenti e a sfondo


sessuale del distretto di polizia di Oslo, aveva bevuto due tazze di cioccolata
con la panna montata e aveva la nausea.
Le fotografie che aveva davanti non contribuivano certo a migliorare le
cose.
La sera di Natale quell’anno cadeva in un giorno feriale: l’ideale per chi
desiderava farsi delle lunghe vacanze. L’antivigilia di Natale capitava di
martedí e quindi erano stati in molti a prendersi il lunedí libero, per quanto in
realtà sarebbe stato un giorno lavorativo, sentendosi cosí autorizzati a starsene
a casa poi anche il 23. Il 24, il 25 e il 26 dicembre erano festivi per tutti,
mentre il 27, un sabato, era lavorativo per il solo settore terziario: per i meno
ligi al dovere, quindi, il Natale del 2008 si era trasformato in un’occasione per
farsi due settimane ininterrotte di ferie, dal momento che non avrebbe avuto
molto senso ricominciare a lavorare il lunedí 29: capodanno cadeva a metà
della settimana seguente.
La Norvegia funzionava solo per un quarto, ma non Silje Sørensen.
La vista di quell’ingente mole di pratiche da sbrigare sotto Natale l’aveva
messa di cattivo umore. Alla fine era stato piuttosto facile convincere la
famiglia che la cosa migliore per tutti sarebbe stata che lei tornasse a lavorare
per un giorno.
O forse era il pensiero di Hawre Ghani a distrarla di continuo, qualunque
cosa stesse cercando di fare.
Sfogliò rapidamente le immagini del cadavere, tirò fuori la fotografia
scattata quando il ragazzo era vivo e un documento che lei non aveva ancora
visto, poi richiuse il fascicolo.
Il pomeriggio del 25 dicembre aveva telefonato all’ispettore di polizia
Harald Bull, come da richiesta. L’interesse che quell’uomo aveva dimostrato
per discutere di lavoro il giorno di Natale le era sembrato piuttosto scarso: con
«il piú presto possibile» intendeva infatti il 5 gennaio. Nonostante il budget a
disposizione per gli straordinari fosse stato sforato già da tempo a quel punto
dell’anno, decisero comunque di ricorrere all’agente Knut Bork,
incaricandolo di indagare sul rifugiato curdo in cerca di asilo politico. Bork
era giovane, single e ambizioso, e Silje Sørensen era rimasta molto colpita dal
rapporto che aveva finito di scrivere e lasciato sulla sua scrivania quella
mattina stessa.
Diede una scorsa alle pagine.
Hawre Ghani era arrivato in Norvegia un anno e mezzo prima,
probabilmente a quindici anni. Senza genitori. Siccome non era in possesso di
alcun documento utile alla sua identificazione, la sua età era stata subito
messa in dubbio dalle autorità norvegesi.
Nonostante le dispute sulla sua data di nascita, Hawre era stato mandato in
un centro di accoglienza a Ringebu. Lí di ragazzi come lui ce n’erano molti,
minorenni solitari che speravano nell’asilo politico. Era scappato dopo tre
giorni e da allora era stato piú o meno costantemente in fuga, fatta eccezione
per alcuni giorni passati in cella ogni volta che quel furbo ragazzo di strada
non era stato furbo abbastanza.
Aveva cominciato a prostituirsi l’anno prima.
A quanto si apprendeva dai tanti verbali stesi su di lui, si vendeva a caro
prezzo, spesso e a chiunque.
Almeno in una occasione Hawre Ghani aveva rapinato un cliente,
circostanza questa che era venuta alla luce per puro caso.
Aveva rubato un paio di Nike Shox nere nello Sportshuset, un negozio
dello Storo Storsenter, un centro commerciale di Oslo. Uno dei vigilantes
aveva bloccato il ragazzo e lo aveva costretto a rimanere sdraiato per terra
fino all’arrivo della polizia tre quarti d’ora dopo. Durante la perquisizione
seguita all’arresto, tra gli effetti personali di Hawre Ghani era saltato fuori un
portafoglio beige di marca Montblanc contenente carta di credito, documenti
e ricevute intestati a un noto giornalista sportivo. L’uomo non era affatto
interessato a denunciare l’accaduto, si leggeva nell’asciutto rapporto
dell’agente Knut Bork, ma diversi colleghi che conoscevano l’ambiente della
prostituzione avevano confermato che sia il ragazzo sia la vittima della rapina
ne erano abituali frequentatori.
A un certo punto si era tentato di mettere in contatto Hawre Ghani con un
cosiddetto mufer, un curdo nordiracheno in possesso di un Midlertidig
opphold Uten rett til Familiegjenforening, il permesso di soggiorno
provvisorio senza diritto al ricongiungimento familiare. L’uomo, che in
Norvegia aveva vissuto di carità per piú di dieci anni e parlava bene il
norvegese, lavorava part time come leader di un’associazione giovanile nel
quartiere di Gamlebyen. Si occupava di giovani profughi problematici e, fino
a quel momento, aveva ottenuto eccellenti risultati con loro, ma con Hawre le
cose non erano andate cosí bene. Dopo tre settimane il ragazzo aveva
coinvolto altri quattro del gruppo in una serie di furti negli scantinati dei
quartieri bene di Oslo, in un tentativo di svuotare un bancomat con l’aiuto di
un piede di porco e nell’impresa di rubare e distruggere una Audi TT di
quattro anni.
Silje Sørensen fissò la fotografia di quel ragazzino immaturo. Aveva il
naso molto pronunciato, mentre le labbra sembravano quelle di un bambino di
dieci anni. La pelle era liscia.
Forse lei era un’ingenua.
Ma certo che era un’ingenua, nonostante tutti quegli anni in polizia durante
i quali le illusioni erano scoppiate come bolle di sapone man mano che saliva
di grado nella gerarchia.
Hawre, però, era giovane. Se avesse quindici piuttosto che diciassette anni
era ovviamente impossibile dirlo, ma la fotografia era stata scattata al suo
arrivo in Norvegia e lei avrebbe giurato che il giorno della maggiore età per
lui fosse ancora ben lontano.
E, comunque, ora tutto questo non aveva piú grande importanza.
Posò lentamente la fotografia, proprio sul bordo nell’angolo della
scrivania.
E lí sarebbe rimasta fino a che non avrebbe risolto il caso. Se davvero
qualcuno aveva ucciso Hawre Ghani, come per altro gli indizi al momento
sembravano indicare, lei avrebbe trovato il suo assassino.
Hawre Ghani era stato ammazzato e se nessuno si era occupato di lui
quand’era in vita, qualcuno si sarebbe occupato di lui almeno da morto.

− Non darti tanto da fare per me, − gli disse Yngvar Stubø con un
significativo gesto della mano. – Ho già bevuto tre caffè oggi e berne un altro
non mi fa certo bene.
Lukas Lysgaard si strinse appena nelle spalle e si sedette in una delle due
poltrone gialle. Quella del padre. Anche stavolta Yngvar si trattenne
dall’accomodarsi al posto di Eva Karin e optò invece per andare a prendersi
una delle sedie intorno al tavolo da pranzo.
− Come procedono le indagini? Avete fatto dei passi avanti? – chiese
Lukas con un tono che non tradiva certo un interesse degno di nota.
− E il mal di testa come va? – chiese Yngvar.
Il giovane si strinse di nuovo nelle spalle, poi si passò una mano fra i
capelli e chiuse gli occhi.
− Un po’ meglio adesso, grazie. Va e viene.
− È tipico dell’emicrania, dicono.
Una pendola batté lentamente due colpi. Yngvar resistette alla tentazione
di controllare sul suo orologio: era sicuro che le due fossero già passate.
Sentiva una leggera corrente sul collo, come se ci fosse una finestra
socchiusa. Nell’aria c’era odore di bacon e di qualcos’altro che lui non
riusciva a identificare.
− Purtroppo non ci sono grandi novità.
Si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
− Abbiamo parecchio materiale che verrà sottoposto a indagini piú
accurate. Ci sono buone probabilità di trovare tracce biologiche sulla scena
del crimine. Dal momento che è stata la polizia stessa a trovare il corpo, e per
di piú poco dopo l’omicidio, o almeno cosí pare, confidiamo nel fatto che le
prove raccolte siano il piú possibile incontaminate.
− Ma non avete idea di chi sia stato?
Yngvar non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia.
− No. Certo che no. Rimangono ancora…
− I giornalisti speculano in tutte le direzioni. Sostengono di avere delle
fonti in polizia, e secondo queste fonti si starebbe dando la caccia a un pazzo.
Una di quelle «bombe a orologeria»… − disse, sottolineando il concetto con
un esplicito gesto della mano, − che gli psichiatri rimettono in libertà un po’
troppo presto. Rifugiati in cerca di asilo politico, per esempio. Somali. O altri
del genere.
− Ovviamente è possibile che quella che stiamo cercando sia una persona
malata. Tutto è possibile. A questo punto delle indagini, però, la cosa davvero
importante è non fossilizzarsi procedendo solo in una direzione.
− Dal momento che la pattuglia è arrivata cosí in fretta, l’omicida non può
certo essere andato molto lontano. Ho letto oggi sul giornale che si ipotizza
siano passati dieci, quindici minuti da quando mia madre è morta a quando è
stata trovata. La vigilia di Natale non ci saranno poi cosí tanti indiziati fra cui
scegliere. Che se ne vanno a zonzo per le strade la sera tardi, voglio dire.
Evidentemente si pentí subito di aver pronunciato quelle parole e afferrò
un bicchiere contenente del liquido giallo che Yngvar suppose fosse succo di
arancia.
– No, − commentò lui. – A parte tua madre, per esempio.
– Senti, − ribatté Lukas e vuotò il bicchiere prima di proseguire. – Io
capisco come può apparire la situazione, ovviamente. Darei qualunque cosa
per sapere che ci facesse mia madre fuori a quell’ora la vigilia di Natale. Ma
non lo so. Okay? Non lo so! Noi… cioè, io, mia moglie e i nostri tre figli
trascorriamo il Natale una volta con i suoi e una volta con i miei. Quest’anno i
miei suoceri erano nostri ospiti. Mia madre e mio padre erano a casa da soli.
Io l’ho chiesto a mio padre, certo che gliel’ho chiesto, santo cielo…
Fece una smorfia.
− Io gliel’ho chiesto, ma lui si è rifiutato di rispondermi.
− Capisco, − gli disse Yngvar accondiscendente. – Capisco. È proprio per
questo che vorrei farti alcune domande in proposito.
Lukas allargò le braccia, rassegnato.
− Prego! Chiedi pure.
− A tua madre piaceva fare passeggiate?
− Eh?
− Le piaceva camminare?
− E a chi non piace… Sí. Sí, le piaceva camminare.
− Anche la sera? Molti hanno l’abitudine di prendere una boccata d’aria
prima di coricarsi. Anche tua madre ce l’aveva?
Per la prima volta da quando Yngvar Stubø aveva incontrato Lukas
Lysgaard tre giorni prima, gli sembrò che stesse effettivamente riflettendo
sulla risposta da dare.
− Sono passati molti anni da quando abitavo con i miei, − disse alla fine. –
Io… Il primo figlio ci è nato quando avevamo vent’anni, mia moglie e io. Ci
siamo sposati l’estate in cui abbiamo finito le superiori e…
Si interruppe e un sorriso gli illuminò il volto segnato dal pianto.
− Eravate molto giovani, − disse Yngvar. – Non credevo che ci si sposasse
ancora cosí giovani.
− Mia madre e mio padre, mio padre soprattutto, avevano mosso forti
obiezioni all’eventualità che andassimo a vivere insieme senza essere sposati.
E dal momento che noi eravamo convinti del nostro… Ma tu mi hai chiesto se
mia madre aveva l’abitudine di uscire la sera per fare quattro passi.
Yngvar annuí appena, e con la maggior discrezione possibile tirò fuori dal
taschino il blocchetto per gli appunti.
− In effetti, sí. Per lo meno aveva quest’abitudine quando io abitavo con i
miei. Al tempo in cui era ancora un semplice pastore andava spesso a trovare i
membri della comunità dopo l’orario di lavoro. Era uno di quei pastori che
fanno volentieri qualche visita a domicilio, mia madre. Capitava piuttosto
spesso che uscisse la sera e non tornasse a casa prima che io mi fossi
addormentato. Ma non è mai successo che andasse a trovare qualcuno… la
vigilia di Natale.
Si strinse nelle spalle.
− A dire il vero era una gran bella cosa da parte sua andare da chi aveva
bisogno di lei a quell’ora, perché… Aveva paura del buio.
− Aveva paura del buio, − ripeté Yngvar. – E comunque, le piaceva fare
quattro passi la sera. Qui a Bergen, se non ho capito male. Dopo che vi siete
ritrasferiti qui, giusto?
− No… cioè… Quando mia madre è stata nominata vescovo, io ero già
adulto. Non sono sicuro che andasse ancora a trovare molte persone. Da
vescovo, voglio dire.
Fece un profondo respiro e afferrò il bicchiere. Quando si accorse che era
vuoto rimase seduto a rigirarselo fra le dita. Agitava il ginocchio sinistro,
come se la gamba gli formicolasse.
− A dire il vero quando ero ragazzo non è che mi interessasse molto cosa
facevano i miei la sera. Al contrario, erano loro a voler sapere che cosa facevo
io.
Il sorriso era sincero, questa volta.
− Ero un ragazzo come tutti gli altri. Andavo oltre i limiti. Avevo la
fidanzata. In effetti non ci ho mai pensato, ma forse mia madre ce l’aveva
questa abitudine di uscire a camminare la sera. Anche a Stavanger. Ma
quando siamo tutti qui, con mia moglie e i miei figli, lei non esce,
ovviamente.
− Voi abitate a Os, è esatto?
− Sí. A una mezz’oretta da qui. A meno che non sia l’ora di punta, perché
allora ci vuole davvero un’eternità. Veniamo a trovarli spesso. E anche loro
vengono spesso da noi. Visto che mia madre non esce mai a passeggiare la
sera quando è da noi o quando noi siamo qui…
− Scusami se ti interrompo, significa che vi fermate qui a dormire?
Quando venite dai tuoi?
− Ogni tanto. Di norma, no. I ragazzi si fermano spesso qua per la notte,
loro sí. I miei sono dei nonni in gamba. Alla vigilia di Natale o in occasione
di qualche festività pernottiamo sempre qui. Ci fa piacere bere un
bicchierino…
− Non sono astemi, i tuoi genitori?
− No, per niente.
− Che cosa intendi con «per niente»?
− Eh? Che cosa intendo… Un bicchiere di vino rosso per accompagnare il
pasto lo bevono volentieri. A mio padre piace bere un bicchierino di whisky
quando si festeggia. Sono persone assolutamente normali, questo intendevo
dire.
− È capitato che tua madre bevesse alcolici prima di queste passeggiate
serali?
Lukas Lysgaard fece un sospiro eloquente.
− Senti… − disse stizzito. – Ti ho già spiegato che è qualcosa che mi
sfugge! Ricordo, è vero, che a mia madre piaceva fare quattro passi la sera,
ma allo stesso tempo so che aveva paura del buio. Aveva molta paura del
buio. La prendevano tutti in giro per questa sua fobia, perché proprio lei, piú
di chiunque altro, avrebbe dovuto sentirsi sicura visto che il Signore le era
vicino. E il Signore ti è vicino in ogni momento…
Queste ultime parole furono accompagnate da una lieve smorfia, poi Lukas
Lysgaard si appoggiò allo schienale della poltrona e posò il bicchiere.
− Posso dare un’occhiata all’appartamento? – chiese Yngvar.
− Eh… sí. No, voglio dire… Mio padre è a casa mia. A rigor di termini mi
sembrerebbe piuttosto inappropriato che ti mettessi a ficcanasare nelle sue
cose senza il suo permesso.
− Non ho nessuna intenzione di ficcanasare, − ribatté Yngvar con un
sorriso mostrandogli il palmo delle mani. – Figuriamoci. Vorrei solo dare
un’occhiata superficiale. Come ti ho già spiegato diverse volte, ritengo
fondamentale riuscire a farmi l’impressione piú precisa possibile delle vittime
su cui indago. È per questo che mi trovo qui. Qui a Bergen, intendo. Cerco di
farmi un’idea completa di tua madre. Vedere la casa dove abitava può essermi
utile. Non credo sia un problema, no?
Lukas si strinse di nuovo nelle spalle. Yngvar lo prese come un segno del
fatto che fosse d’accordo con lui e si alzò. Mentre si infilava il blocchetto per
gli appunti in tasca chiese a Lukas di fargli strada.
− Cosí questa volta mi evito figuracce, − gli disse con un sorriso.
La casa di Nubbebakken era vecchia ma ben tenuta. La scala che portava al
piano di sopra era incredibilmente stretta e poco vistosa in confronto al resto
dell’abitazione. Lukas lo precedette mettendolo in guardia da una sporgenza
del soffitto.
− Questa è la loro camera da letto, – disse aprendo una porta.
Rimase fermo con la mano sulla maniglia, ostruendo cosí parzialmente
l’ingresso alla stanza. Yngvar raccolse il messaggio implicito e si limitò a fare
capolino dentro.
Un letto matrimoniale, rifatto.
Il copriletto patchwork, formato da pezze di stoffa dei piú svariati colori,
conferiva luce e calore a quella stanza grande e piuttosto vuota. Sui comodini
erano impilati dei libri e c’era un quotidiano piegato sul pavimento accanto al
letto dal lato piú vicino alla porta. A Yngvar sembrò si trattasse del «Bergens
Tidende». Un grande quadro era appeso sopra il letto, una rappresentazione
astratta nei colori del blu e del lilla. Dietro la porta c’era un armadio spazioso
che Yngvar riuscí a vedere riflesso nello specchio fra le due grandi finestre.
− Grazie, − disse a Lukas accompagnando la parola con un cenno del capo,
poi si spostò.
Il resto del piano era occupato da un bagno ristrutturato di recente, da due
camere da letto piuttosto impersonali, una delle quali era la stanza da ragazzo
di Lukas, e da un grande studio dove i coniugi avevano ognuno la propria
ampia scrivania. Yngvar smaniava dalla voglia di poter osservare piú da
vicino le scartoffie, ma la disponibilità di Lukas sembrava essersi già quasi
esaurita e cosí optò per indicare le scale. Nel raggiungerle passarono davanti a
una stretta porta con una chiave in ferro battuto infilata nella serratura e lui
suppose che da lí si prendesse la scala per andare in soffitta.
− Perché abitano qui? – chiese mentre scendevano al piano terra.
− Che cosa?
− Perché non abitano nella residenza vescovile? Per quanto ne so io, del
vescovato di Bjørgvin fa parte anche la residenza vescovile di Landåslien.
− Questa è la casa dove mio padre ha passato l’infanzia: quando sono
tornati a Bergen i miei hanno scelto di viverci. E quando mia madre è stata
nominata vescovo, mio padre ha insistito per trasferirsi di nuovo qui, credo
fosse una condizione che aveva imposto lui in cambio del suo consenso. Al
fatto che lei diventasse vescovo, voglio dire.
Mentre percorrevano il lungo corridoio che portava al soggiorno Yngvar
chiese: − Ma non è statuito per legge? Per quanto ne so io si ha il dovere di…
− Senti, − lo interruppe Lukas, premendosi gli occhi con pollice e indice. –
Ricordo che c’è stato grande scompiglio, ma hanno ottenuto quello che
volevano, di piú non saprei dirti. Sono stanchissimo. Non potresti domandarlo
a qualcun altro? Per favore…
− Ma certo, − si affrettò a rispondere Yngvar. – Ti lascio in pace. L’unica
cosa è che avrei bisogno di dare un’occhiata a quella stanza.
Indicò la piccola camera da letto in cui era entrato per sbaglio un paio di
giorni prima.
− Fa’ pure, − mormorò Lukas indicando la porta con il braccio teso.
Fu solamente dopo aver varcato la soglia che Stubø si rese conto che
Lukas non si era messo di mezzo. Al contrario, il figlio del vescovo era
tornato in soggiorno lasciandolo da solo. Si diede un rapido sguardo intorno.
Le tende erano aperte e non si sentiva piú quell’odore dolciastro di sonno.
La stanza era piú fresca di come se la ricordava e i vestiti che aveva visto
posati sulla sedia adesso non c’erano piú.
Per il resto sembrava tutto come prima.
Si chinò a leggere i titoli sui dorsi dei libri impilati sul comodino: una
voluminosa biografia sull’eroe di guerra Jens Christian Hauge, un giallo di
Unni Lindell e un vecchio e consunto esemplare de I frutti della terra di Knut
Hamsun rilegato in pelle.
Yngvar Stubø restò immobile, zitto, con i sensi all’erta. In quella camera
Eva Karin Lysgaard aveva vissuto le sue notti, ne era certo. Aprí con
circospezione l’anta dell’armadio. Gonne e vestiti appesi accanto a camicie e
camicette stirate occupavano una metà, mentre l’altra era suddivisa da ripiani.
Un ripiano per la biancheria intima, un ripiano per le calze. Un ripiano per i
pantaloni e un ripiano per cinture e borsette eleganti. Il ripiano piú in basso
era per tutto quello che non aveva un ripiano specifico.
Non si conservano gli abiti di tutti i giorni nella stanza degli ospiti, pensò
lui richiudendo silenziosamente l’armadio.
Fu sopraffatto da un sentimento di avversione, come spesso gli accadeva
quando si immergeva nella vita di altre persone sulla scia di una tragedia.
− Hai finito? − sentí che gridava Lukas.
− Sí, certo, − gli rispose lui, lasciando correre per un’ultima volta lo
sguardo sulla stanza prima di uscire in corridoio. – Grazie.
Arrivato alla porta d’ingresso Yngvar si voltò e tese la mano per salutare.
− Mi domando quando finirà tutto questo, − disse Lukas, senza stringergli
la mano. – Tutto questo dolore.
− Non finirà mai, − disse Yngvar lasciando cadere la mano. – Mai.
Lukas Lysgaard si lasciò scappare un singhiozzo.
− Ho perso la mia prima moglie e una figlia già adulta, − aggiunse Yngvar
a bassa voce, − piú di dieci anni fa. Uno stupido, banale incidente domestico.
Non credevo fosse possibile provare cosí tanto dolore.
Il volto di Lukas cambiò: l’espressione di rifiuto e di difesa che aveva
sempre avuto svaní, e lui si portò le mani dietro la nuca in un gesto disperato.
− Scusami, − bisbigliò. – Scusami. Perdere una figlia… mi dispiace. Io me
ne sto qui a…
− Non c’è niente di cui doversi dispiacere, − gli disse Yngvar. – Il dolore
non è qualcosa di relativo. Il tuo dolore è grande abbastanza di per sé. Fra un
po’ imparerai a conviverci. Andrà meglio, Lukas, vedrai. La vita ha la
sacrosanta tendenza a curare sé stessa.
− Era solo mia madre. Ma tu hai perso…
− Mi capita ancora di svegliarmi in piena notte credendo che Elisabeth e
Trine siano vive. Mi ci vuole un secondo, forse due, per capire dove mi trovo
nel tempo. E il dolore che provo in quel momento è esattamente lo stesso del
giorno in cui sono morte. Ma dura molto meno, questo sí. E magari mezz’ora
dopo sono lí che dormo tranquillo e beato.
Accennò un sorriso.
− Ora però devo proprio andare.
Mentre usciva sulla breve scala in pietra lo investí un freddo pungente. La
pioggia cadeva di traverso e lui si alzò il bavero mentre si dirigeva verso il
cancello del giardino senza voltarsi indietro.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che una delle fotografie sullo
scaffale di quella che veniva fatta passare per la stanza per gli ospiti era
scomparsa. Il giorno di Natale di fotografie ce n’erano quattro, adesso
soltanto tre. Una di Lukas bambino sulle ginocchia del padre, una di tutta la
famiglia in barca e il ritratto di un Erik Lysgaard molto serio e decisamente
giovane con il tocco da laureato in testa. La nappa gli ricadeva su una spalla e
il cappello era correttamente di traverso.
Quando Yngvar aprí il cancello, senza poter trattenere una smorfia per lo
stridio dei cardini, si domandò se fosse stato un errore di valutazione non
chiedere a Lukas che fine avesse fatto l’ultima fotografia.
D’altra parte, però, con molta probabilità non avrebbe ottenuto risposta.
Per lo meno non una risposta credibile.

Che esistesse davvero qualcuno capace di credere a storie del genere era
inconcepibile.
Johanne sedeva con il portatile sulle ginocchia e navigava senza uno scopo
preciso. Aveva visitato i siti del «New York Times» e del «Washington Post»,
ma faceva fatica a concentrarsi. Almeno, le pagine del «National Enquirer»
servivano a svagarla.
Ragnhild dormiva già della grossa e Isak stava mettendo a letto Kristiane.
Johanne si sorprese a desiderare che si fermasse ancora un po’, desiderio che
per altro non le faceva molto piacere. Per allontanare da sé il pensiero decise
di controllare le e-mail. Aveva tre nuovi messaggi nella casella della posta in
arrivo: un paio di irritanti offerte promozionali, una delle quali reclamizzava
un prodotto per dimagrire a base di astice e artiglio d’orso, e poi una e-mail
con un mittente che sul momento dovette frugare nella memoria per
riconoscere.
Karen Ann Winslow.
Johanne se la ricordava, Karen Winslow. Avevano studiato insieme a
Boston due matrimoni e un’eternità prima. Erano i tempi in cui lei credeva
ancora che sarebbe diventata psicologa e non immaginava certo che di lí a
poco avrebbe temporaneamente rinunciato a una prestigiosa formazione per
seguire un corso all’Fbi che le sarebbe quasi costato la vita.
Aprí il messaggio, che arrivava da un indirizzo privato e non rivelava
niente sul lavoro di Karen.

Cara Johanne!
Ti ricordi di me? Ne è passato di tempo dall’ultima volta! Ci siamo
proprio divertite insieme a scuola, e ti ho pensata di tanto in tanto. Come
stai? Sei sposata? Hai figli? Non vedo l’ora di saperlo.
Ho messo il tuo nome su Google e ho trovato questo indirizzo. Spero sia
giusto.
Sai, fra poco verrò in Norvegia per un matrimonio. Il 10 febbraio una
mia cara amica sposa un cardiologo norvegese. Le nozze si terranno a
Lillesand, una cittadina non lontana da Oslo. Tu vivi ancora lí?

Johanne constatò che il concetto americano di «non lontana da» avrebbe


subito una brutale battuta d’arresto sulla E-18, l’autostrada estremamente
pericolosa e ricca di curve che portava nel Sørlandet.

Ci andrò senza mio marito e i nostri tre figli (due femmine e un maschio,
dei bambini fantastici!) a causa di altri impegni familiari. Arriverò a Oslo
tre giorni prima delle nozze e sarebbe davvero emozionante incontrarti!
Che ne dici? Abbiamo un mare di cose da raccontarci. Fatti sentire il prima
possibile, per favore. In ogni caso alloggerò al Grand Hotel, in centro a
Oslo.
Con tanto affetto,
Karen

Almeno per quanto riguardava la posizione dell’hotel aveva ragione, pensò


Johanne chiudendo l’e-mail, poi andò su Google e inserí il nome completo di
Karen come chiave di ricerca.
Duecentosei risultati trovati.
A quanto pareva dovevano esistere almeno due americane con lo stesso
nome e cognome, visto che molte delle voci riguardavano una scrittrice di
libri per l’infanzia di settantatre anni. Se ricordava bene, Karen avrebbe
dovuto iniziare Giurisprudenza l’autunno in cui lei era andata a Quantico. E
per come l’aveva conosciuta, probabilmente aveva avuto una carriera
universitaria a dir poco brillante. Molte voci riguardavano un avvocato che
lavorava per uno studio legale in Alabama, l’American Poverty Law Center o
Aplc. Quella Karen Ann Winslow, che dopo una rapida scrematura di
parecchi articoli sembrava coetanea di Johanne, fra le altre cose aveva
condotto una azione contro lo Stato del Mississippi per chiudere i grandi
riformatori, dopo aver dimostrato che i piú elementari diritti dei bambini
venivano gravemente calpestati.
Nel momento stesso in cui vide la pagina web dell’Aplc, Johanne si
ricordò di averne già visitato il sito. Lo studio era fra i piú importanti degli
Stati Uniti per quanto riguardava la denuncia dei crimini d’odio. Oltre a
offrire assistenza gratuita alle vittime povere – quasi tutte afroamericane –
portava avanti un’ampia campagna a nome di nullatenenti e perseguitati e
un’imponente attività informativa che mirava a mappare i cosiddetti gruppi
dell’odio distribuiti sull’intero continente americano.
Johanne cliccò qua e là su quella home page cosí ricca di contenuti.
Fotografie dei dipendenti non ce n’erano: per ragioni di sicurezza, suppose
lei. Dopo aver letto per una decina di minuti si convinse che l’avvocato Karen
Ann Winslow dello studio legale Aplc corrispondeva alla sua vecchia
compagna di studi.
− Magnifico! – mormorò.
− Sono d’accordo, − disse Isak lasciandosi cadere sulla poltrona
esattamente di fronte al divano su cui era seduta lei. – Le bambine dormono
tutte e due, e col tuo permesso io darei un’occhiata al frigo per vedere se
posso cavarne qualcosa.
Johanne non alzò nemmeno lo sguardo dal computer. Era tornata su
Outlook.
− Fai pure, − borbottò in risposta. – Anzi, non è che quei würstel mi
abbiano proprio saziata.

Carissima Karen!
Grazie mille per la tua e-mail. Certo che ho voglia di vederti! Io vivo a
Oslo e sei la benvenuta a casa nostra, se decidi di fermarti per qualche
giorno. Devo avvisarti, però, ho avuto la fortuna di mettere al mondo due
figlie che fanno per dieci.

Le dita scorrevano rapide sulla tastiera. Johanne non pensava, era come se
esistesse una linea diretta fra le sue mani e tutto quello che aveva vissuto
negli ultimi diciassette anni. Come se niente dovesse essere rielaborato,
soppesato: era come se non stesse ragionando, ma semplicemente
raccontando. Scrisse delle bambine, di Yngvar, del suo lavoro. Karen
Winslow era molto lontana, dall’altra parte dell’oceano: la sua vecchia
compagna di scuola non conosceva nessuno lí in Norvegia e lei non doveva
tener conto di niente. Johanne le scrisse della sua vita da ricercatrice, dei suoi
progetti, dei suoi timori di non essere una madre abbastanza brava per una
figlia che nessuno capiva tranne lei. Neanche lei, a dire il vero. Scriveva
senza reticenze a una ragazza di cui era stata amica un tempo, quand’era
giovane e libera.
Era quasi una confessione.
− Et voilà, − disse Isak mettendole un grosso piatto davanti. – Spaghetti
alla carbonara con un piccolo tocco bizzarro! Non avevi pancetta e cosí ci ho
messo del prosciutto. Non avevi uova e cosí ho fatto della salsa con un po’ di
formaggio alle erbe che ho trovato. Non avevi nemmeno gli spaghetti e cosí
ho usato le tagliatelle. E per finire ho cosparso il tutto con una quantità
pazzesca di aglio tritato, rosolato appena. Non proprio degli spaghetti alla
carbonara…
Johanne annusò il profumo che c’era nell’aria.
− Un profumino celestiale, − disse con aria assente. – C’è del vino nella
credenza angolare, se hai voglia di aprire una bottiglia. Io preferisco
dell’acqua. Mi prenderesti una Farris?
Fissava lo schermo mordicchiandosi discretamente il labbro inferiore.
Con un gesto risoluto evidenziò tutto il testo, eccetto le prime tre righe,
premette il tasto Canc e concluse cosí il breve messaggio rimasto:

Fammi sapere al piú presto i dettagli del tuo soggiorno. Non vedo l’ora
di incontrarti, Karen. Davvero!
Con i migliori auguri,
Johanne

− A chi stai scrivendo con tanto impegno? – le chiese Isak mettendo i piedi
sul tavolino e appoggiandosi il piatto sul petto prima di iniziare a strafogarsi.
Il suo «galateo» a tavola l’aveva sempre irritata.
L’ex marito non sapeva proprio cosa fossero le buone maniere.
Isak afferrò il bicchiere di vino rosso pieno fino all’orlo con l’intera mano
e bevve rumorosamente, con la bocca ancora piena di cibo.
− Mangi come un porco, Isak.
− A chi stai scrivendo?
− A un’amica, − rispose lei laconica. – Un’amica di vecchia data.
Poi chiuse il portatile, lo posò accanto a sé e si chinò sul piatto. Il sapore
era buono come il profumo lasciava intendere. E cosí restarono lí seduti,
senza scambiare una parola, fino a quando non ebbero finito di mangiare.

Il bicchiere di pjolter era vuoto.


Il pjolter era la sua debolezza.
Nella generazione di Marcus Koll jr erano davvero in pochi a conoscerne il
significato e quelli che frequentava arricciavano il naso per il disgusto quando
lo vedevano miscelare whisky molto pregiato e soda in un bicchiere alto. Il
pjolter era il long drink che suo nonno beveva abitualmente: un pjolter ogni
sabato alle otto di sera, dopo essersi fatto il bagno settimanale e lo shampoo.
Marcus jr lo aveva bevuto per la prima volta il giorno in cui aveva ricevuto il
sacramento della confermazione. Aveva un sapore amaro, ma l’aveva buttato
giú. I veri uomini bevevano pjolter, almeno questo era quello che il nonno
sosteneva, e cosí quell’arcaico drink era diventato il contrassegno di Marcus
jr.
Valutò se fosse il caso di prepararsene un altro, ma allontanò l’idea.
Rolf era uscito. Un cavallo da dressage aveva male alla parte anteriore del
ginocchio sinistro e, considerando che aveva pagato quell’animale circa
mezzo milione di corone, il proprietario non era esattamente disposto ad
aspettare il 5 gennaio, quando la clinica veterinaria avrebbe riaperto. Gli orari
in cui Rolf si rendeva disponibile erano invece indicativi nel migliore dei casi
e ingannevoli nel peggiore. Capitava almeno un paio di volte a settimana che
lo chiamassero di sera e lui fosse costretto a uscire.
Lillemarcus dormiva.
I cani si erano messi tranquilli per la notte e la casa era immersa nel
silenzio.
Marcus Koll jr cercò di accendere il televisore. Una vaga inquietudine gli
impediva di decidere se andare a letto o guardarsi un altro telefilm. Cold
Case, per esempio, o simili. Una cosa qualunque, ecco, che fosse in grado di
mettere a tacere i suoi pensieri.
Ma il televisore non dava segni di vita. Marcus Koll jr sbatté il
telecomando contro la coscia e riprovò. Niente. Forse le batterie erano
scariche. Sbadigliò e decise di andare a dormire. Avrebbe controllato le e-
mail, si sarebbe lavato i denti e si sarebbe infilato a letto.
Strascicando i piedi uscí dal soggiorno, attraversò l’ingresso ed entrò nello
studio. Il computer era acceso. Nella casella della posta in arrivo non c’era
niente di interessante. Apatico, andò sul sito del «Dagbladet». Anche lí, niente
di interessante. Fece scorrere la pagina web sul video.
Artista controverso trovato morto.
Il titolo passò sotto ai suoi occhi e scomparve.
L’indice gli si bloccò sulla rotella del mouse. Risalí un poco.
Artista controverso trovato morto.
Il cuore cominciò a battergli all’impazzata. Si sentiva la testa vuota.
Non adesso, di nuovo. Non un altro attacco.
Non era panico quello che stava per travolgerlo.
Si sentiva forte. Lucido. Iniziò a leggere piano piano.
Quando ebbe finito, si disconnesse e spense il computer. Dal cassetto della
scrivania tirò fuori un piccolo cacciavite. Si accovacciò sul pavimento, tolse
quattro viti dal coperchietto del computer, lo aprí e ne tirò fuori delicatamente
l’hard disk. Da un cassetto diverso estrasse un secondo hard disk. Non fu
difficile sostituirlo all’altro. Rimise a posto il coperchietto, lo avvitò con
prudenza e ripose il cacciavite nel cassetto. Per finire spinse il computer sotto
la scrivania.
Poi se ne andò portandosi via l’hard disk che aveva appena tolto.
Era completamente sveglio.

La donna che aspettava davanti agli arrivi dei voli internazionali


all’aeroporto Gardermoen di Oslo si sentiva sveglia come un grillo, e ne era
stupita. Aveva fatto un lungo viaggio e oltretutto era da un paio di notti che
non riposava bene. Nelle ultime decine di chilometri che la separavano
dall’aeroporto aveva temuto di addormentarsi al volante. Adesso invece era
come se l’inquietudine che la rendeva insonne fosse tornata.
Controllò l’orologio per l’ennesima volta.
In effetti l’aereo era in ritardo, come indicava il monitor nell’atrio. Il volo
SK 1442 da Copenhagen sarebbe dovuto arrivare alle ventuno e cinquanta,
ma era atterrato solo quaranta minuti dopo. Da quel momento, però, erano
passati piú di tre quarti d’ora.
La donna passeggiava avanti e indietro all’imbocco del corridoio che
portava agli uffici doganali. L’aeroporto era silenzioso, quasi deserto, a
quell’ora tarda di un sabato sera sotto le feste natalizie. Le sedie del piccolo
bar dove, quando era arrivata, si era presa un caffè e un immangiabile trancio
di pizza tiepida, erano tutte vuote. Solo che lei non riusciva a sedersi per
l’agitazione.
Di solito gli aeroporti le piacevano. Quando era piú giovane, al tempo in
cui il principale aeroporto norvegese in realtà si trovava in Danimarca e il
piccolo Fornebu di Oslo era il piú grande del Paese, a volte la domenica
andava fin lí solo per starsene a guardare. Guardare gli aerei, la gente, i gruppi
di piloti sicurissimi di sé e di donne sorridenti che allora si chiamavano
semplicemente hostess ed erano bellissime. Era capace di rimanere seduta per
ore, sorseggiando tè dal suo thermos e fantasticando su tutte quelle persone
che andavano e venivano. Gli aeroporti le trasmettevano un’atmosfera
particolare di curiosità, aspettativa e nostalgia.
Adesso era inquieta, al limite dell’irritazione.
Ne era passato di tempo da quando l’ultimo passeggero era sbucato dal
corridoio che portava agli uffici doganali.
Si girò di nuovo verso il monitor e vide che non c’era piú la dicitura
«Ritiro bagagli» accanto a «SK 1442». Sapeva bene che cosa significava, ma
si rifiutava di accettarlo. Non ancora.
Marianne glielo avrebbe fatto sapere se avesse avuto qualche problema.
Avrebbe scritto un messaggio, telefonato. Glielo avrebbe comunicato.
Il viaggio da Sydney durava piú di trenta ore e includeva scali a Tōkyō e
Copenhagen. Era possibile quindi che ci fosse stato qualche problema. Da
qualche parte. A Tōkyō. A Sydney, magari. O, perché no, a Copenhagen.
Marianne glielo avrebbe comunicato.
Una punta di paura le si insinuò nella nuca. Tutt’a un tratto si decise e a
passo rapido corse fino all’imbocco del corridoio per gli uffici doganali. Era
meglio non infrangere il divieto di proseguire all’interno. Le misure di
sicurezza messe in atto nel campo dei trasporti aerei dopo l’11 settembre
2001, per quanto ne sapesse lei, magari contemplavano che i doganieri
avessero l’ordine di sparare per uccidere.
− Scusate! – disse a voce piuttosto alta, facendo capolino dall’altra parte
della parete. – Scusate! C’è qualcuno?
Nessuna risposta.
− Scusate! – ripeté a voce piú alta.
Un uomo con la divisa da doganiere sbucò da dietro la parete opposta, a
cinque metri di distanza da lei.
− Sí? Qui è divieto d’accesso!
− Certo, certo. È solo che… sto aspettando una persona del volo da
Copenhagen. Quello che è atterrato un’ora fa. SK 1442. Ma non è ancora
arrivata. Potresti… Potresti per favore essere cosí gentile da controllare se
sono rimasti dei passeggeri là dentro?
Per un istante ebbe l’impressione che si sarebbe rifiutato. Non era compito
suo svolgere mansioni di servizio per il pubblico. Invece, per qualche motivo,
non lo fece, si strinse nelle spalle e le sorrise.
− Credo proprio che non ci sia piú nessuno. Aspetta un attimo.
Scomparve.
Forse aveva il cellulare scarico.
Ma certo, pensò la donna con un sospiro di sollievo. Dio solo sapeva
quant’era complicato trovare dei telefoni pubblici oggigiorno. E poi quando
finalmente ne trovavi uno ti accorgevi di essere rimasto senza spiccioli. È
vero che molti accettavano anche carte di credito, ma a pensarci bene
dovevano stare cosí le cose, il cellulare di Marianne doveva avere dei
problemi.
− Non c’è nessuno. Solo un silenzio di tomba.
Il doganiere aveva le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
− Arriveranno altri due o tre voli piú tardi, questa sera. Ma adesso non c’è
nessuno. Anche il nastro con i bagagli provenienti da Copenhagen è vuoto.
Tirò fuori le mani dalle tasche e le aprí in un gesto come di scusa.
− Grazie, − disse lei. – Grazie mille per l’aiuto.
La donna ritrasse la testa e si incamminò verso la scala mobile che saliva
all’atrio delle partenze. Tirò fuori il cellulare. Nessun messaggio. Nessuna
chiamata persa. Cercò per l’ennesima volta di contattare Marianne, ma venne
subito reindirizzata alla segreteria. Le gambe si misero a correre da sole. La
scala mobile era troppo lenta, e lei la risalí di volata. Una volta in cima si
fermò di colpo.
Non aveva mai visto la zona delle partenze cosí vuota e silenziosa.
Le uniche facce che si vedevano erano quelle annoiate dietro qualche
sportello: il personale di terra. Un paio di addetti stavano leggendo il giornale.
In lontananza, verso sud, sentí il ronzio di una macchina per le pulizie che si
avvicinava lentamente con un uomo di colore ai comandi. C’era solo una
postazione aperta per i controlli di sicurezza, ma di esseri umani nemmeno
l’ombra. Sembrava la scena di un film, un film sul giorno del giudizio.
L’aeroporto di Gardermoen avrebbe dovuto pullulare di vita, apparire
operosissimo e poco amichevole, brulicante di passeggeri impazienti e
impiegati che non facevano mai neanche un minimo in piú del loro dovere.
La donna aveva il cuore in gola mentre si dirigeva risoluta allo sportello
della Sas dall’altra parte dell’atrio. Non c’era gente nemmeno lí. Deglutí
parecchie volte e si passò una manica sul sudore appiccicoso che le imperlava
il volto.
Una stangona ben piantata uscí da una stanza sul retro.
− Posso esserti utile?
− Sí, sono venuta a prendere…
La donna si accomodò dal lato opposto del bancone e senza sollevare lo
sguardo digitò un codice per accedere al computer.
− Sono venuta a prendere mia moglie, che sarebbe dovuta arrivare con il
volo da Copenhagen.
− Tua…?
− Moglie. Marianne Kleive.
La donna dietro il bancone alzò gli occhi confusa, poi si ricompose
atteggiando il volto a un’espressione neutra e si concentrò di nuovo sulla
tastiera.
− Certo, sí, − disse.
− Ma non è arrivata. Era in Australia e sarebbe dovuta tornare facendo
scalo a Tōkyō e Copenhagen. Mi domandavo se tu potessi… controllare se sia
mai salita su questo aereo.
− Purtroppo no. Non mi è consentito divulgare informazioni del genere.
Forse fu il vuoto minaccioso di quell’atrio gigantesco. Forse furono
piuttosto le notti insonni o l’inspiegabile inquietudine che l’aveva tormentata
per tutta la settimana. O forse fu la consapevolezza, nel profondo, di avere
ottimi motivi per disperare. Fatto sta che la donna con l’impermeabile rosso
scoppiò a piangere in pubblico per la prima volta nella sua vita adulta.
Silenziosamente, senza un suono, le lacrime cominciarono a scorrerle giú
per le guance, sopra le fossette che aveva ai lati della bocca, cosí scavate da
essere ben visibili anche in quel momento, per poi proseguire sul mento
affilato. Lente, a grosse gocce, cadevano sul bancone in legno chiaro.
− Piangi?
Sulla fronte dell’hostess della Sas si formò una ruga di empatia, proprio
sopra gli occhi.
La donna dall’altra parte del bancone non rispose.
− Ascolta, − le disse l’hostess, poi proseguí a voce piú bassa. – È tardi e
sarai certamente stanca. Qui non c’è nessuno e…
Lanciò una rapida occhiata di lato, verso la porta della stanza sul retro.
− Quale aereo mi hai detto che era?
La donna con l’impermeabile posò un foglio ripiegato sul bancone.
− È una copia del suo itinerario di viaggio, − bisbigliò passandosi il dorso
delle mani sul viso.
Vedere il monitor da dove si trovava lei era impossibile. Allora fissò lo
sguardo sugli occhi di quella donna di mezza età. Si alzavano dalla tastiera
allo schermo e poi scendevano dallo schermo alla tastiera. D’un tratto la ruga
sopra gli occhi sembrò caricarsi di preoccupazione.
− Il biglietto ce l’aveva, − disse alla fine. – Ma non è salita sull’aereo. È…
I tasti ticchettavano sotto le sue dita danzanti.
− Marianne Kleive aveva il biglietto, ma non ha mai fatto il check-in.
− A Copenhagen?
− No. A Sydney.
Era inconcepibile. Impossibile. Marianne non avrebbe mai, mai tralasciato
di farglielo sapere se qualcosa le avesse impedito di tornare a casa. Erano
passate piú di venti ore da quando l’aereo era decollato dal suolo australiano e
in quel lasso di tempo Marianne non avrebbe potuto non trovare un telefono,
un computer con la connessione Internet. Un modo, insomma. No, tutto
questo era davvero inconcepibile.
− Un attimo solo, − disse la donna al di là del bancone, prendendo di
nuovo la copia dell’itinerario.
La donna con l’impermeabile aveva quarantatre anni e si chiamava
Synnøve. Portava i capelli biondi raccolti in una treccia, aveva il viso senza
un filo di trucco e facilmente le si sarebbero potuti dare dieci anni in meno.
Era salita a centoquaranta metri dalla cima dell’Everest prima di essere
costretta a scendere e aveva girato il mondo in barca a vela. Si era imbattuta
nei pirati al largo delle Canarie e aveva evitato la morte per un soffio in un
incidente subacqueo a Stord. Synnøve Hessel era una persona capace di
pensare in modo rapido e costruttivo e che con la sua presenza di spirito piú di
una volta aveva salvato la vita propria e altrui.
Adesso tutto si era fermato. Tutto.
− Mi dispiace, − bisbigliò la donna al di là del bancone. – Marianne Kleive
aveva un biglietto per Sydney domenica scorsa. Ma vedo che…
Quando incrociò lo sguardo dell’altra si spaventò.
− Mi dispiace, − ripeté. – Non è mai partita. Marianne Kleive non ha mai
usato il suo biglietto. Non quello di andata e ritorno Oslo-Sydney, per lo
meno. Magari è andata da qualche altra parte. Con un altro biglietto, voglio
dire.
Senza ringraziarla per la gentilezza e l’aiuto assolutamente contrario al
regolamento che le aveva dato, senza profferir parola, senza nemmeno
riprendersi la copia dell’itinerario di viaggio che non era stato rispettato,
Synnøve Hessel girò le spalle allo sportello informazioni della Sas e si mise a
correre attraverso l’enorme atrio deserto.
Solo che non aveva idea di dove andare.
Figlio della felicità

Quando impugnò la maniglia, Trude Hansen non ricordava piú dove stesse
andando. Vacillò e le venne in mente che, tanto, qualcosa per arrivare fino al
mattino dopo già ce l’aveva. Il sollievo che provò fu cosí intenso che le
cedettero le ginocchia e dovette appoggiarsi alla parete quando lasciò la
maniglia.
L’odore là dentro era sempre peggio.
Doveva fare qualcosa.
Fra poco, pensò mentre entrava barcollando nel piccolo soggiorno. In una
nicchia c’era un letto sfatto con un sacco a pelo posato sopra. Infilato in fondo
al sacco a pelo c’era un nécessaire da toilette di Hello Kitty. Qualcuno aveva
disegnato sull’immagine della gattina un paio di zanne e una benda da pirata.
Finalmente, nonostante le mani non volessero ubbidirle, riuscí a tirar fuori la
busta del nécessaire e ad aprirne la cerniera. Ogni cosa era al suo posto.
L’occorrente. Tre dosi.
Come in innumerevoli occasioni, anche allora valutò se fosse il caso di
usare tutta la roba in una volta sola. Intorpidita e piú che altro per abitudine,
calcolò quante probabilità avesse di farla davvero finita se fosse volutamente
andata in overdose. E come sempre accadeva quando pensava certe cose nelle
rare occasioni in cui aveva abbastanza eroina da poter contemplare un
suicidio, come sempre anche allora allontanò quel pensiero. Presumibilmente
non sarebbe morta. E quando si fosse ripresa non avrebbe piú avuto roba a
disposizione.
L’idea di restare senza droga era piú terribile del pensiero di continuare a
vivere.
Prese la busta del nécessaire e fece arrancando i pochi passi che la
separavano dal divano verde contro la parete opposta. Era ricoperto di
bottiglie vuote di birra dal giorno precedente. Nel corso della notte qualcuno
aveva lasciato cadere una sigaretta accesa su uno dei cuscini e per un attimo
lei rimase incantata a guardare quel grande tondo bruciato con un buco nero al
centro.
Sopra al divano era appesa la fotografia di Runar, scattata il giorno in cui
aveva ricevuto il sacramento della confermazione.
Trude la afferrò e la gettò fra le bottiglie di birra.
Runar la fissava da quella grossa immagine su carta telata con la cornice
d’oro. Aveva i capelli ricci per la permanente, tagliati corti sopra le orecchie e
lasciati lunghi sul collo. L’abito era azzurro pastello, la stretta cravatta rosa.
Era cosí bello, pensò. Era suo fratello, era piú grande di lei e quel giorno in
chiesa era indubbiamente il piú elegante di tutti. Poi, quando finalmente la
cerimonia era finita e mamma non vedeva l’ora di andarsene a casa, prima
che qualcuno degli altri genitori potesse far domande sul ricevimento, lui
l’aveva sollevata ed era corso fino alla fermata dell’autobus tenendola con un
braccio solo. Nonostante lei avesse nove anni e fosse parecchio sovrappeso.
Avevano mangiato ali di pollo.
Mamma, Runar e lei.
Runar non aveva ricevuto neanche un regalo, dal momento che tutti i soldi
erano stati spesi per il vestito nuovo, il parrucchiere e il fotografo. Ma
avevano mangiato ali di pollo e patatine fritte e Runar aveva anche bevuto
una birra. Lui aveva sorriso. Lei aveva riso. Mamma aveva un buon profumo
di pulito.
Apatica, tirò fuori il cucchiaio e il Bunsen che Runar le aveva dato. Fra
poco si sarebbe sentita meglio. Fra pochissimo. Se solo le mani fossero state
un po’ piú accomodanti.
La sua mente intorpidita cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da
quando Runar era morto. 19+19? No. Sbagliato. Dal 19 al 19 c’erano trentun
giorni. O trenta? Non ricordava quanti giorni avesse il mese di novembre. E
neanche quanti giorni fossero passati dopo. Non riusciva nemmeno a
ricordare esattamente che giorno fosse.
L’unica cosa che sapeva con certezza era che Runar era morto il 19
novembre.
Lei era a casa. Lo stava aspettando. Runar aveva promesso di passare.
Doveva solo procurarsi dei soldi. Procurarsi l’eroina. Procurarsi tutto quello
di cui lei aveva bisogno: Runar avrebbe aiutato la sua sorellina, come aveva
sempre fatto.
Solo che era in ritardo. In maledetto ritardo. Poi era arrivata la pula.
Erano arrivati lí. Avevano suonato il campanello, la mattina prestissimo.
Quando Trude aveva aperto le avevano raccontato che quella notte Runar era
stato rapinato nel Sofienbergparken. Lo avevano ritrovato con delle gravi
ferite alla testa, presumibilmente era già morto. Qualcuno aveva chiamato
l’ambulanza e quando l’ambulanza era arrivata lui sicuramente era già morto.
La donna poliziotto aveva un’espressione grave e forse aveva anche
cercato di consolarla.
Lei ricordava solo di essersi ritrovata con un foglietto in mano. Il numero
di telefono e l’indirizzo di una agenzia di pompe funebri. Cinque giorni dopo
si era svegliata cosí tardi da capire subito che non ce l’avrebbe mai fatta ad
arrivare in tempo al funerale.
Dopodiché i poliziotti non avevano fatto piú niente.
Non avevano arrestato nessuno.
Non le avevano fatto sapere piú niente.
Quando svuotò la siringa in una vena del poplite quel bel calore si diffuse
con una tale rapidità da lasciarla senza fiato. Trude ricadde lentamente sul
divano verde. Le sue braccia scheletriche si strinsero intorno alla fotografia di
Runar. Il suo unico pensiero prima che ogni cosa si trasformasse in calde nubi
di nulla, fu che il fratello aveva dato a lei le ultime tre ali di pollo, il giorno in
cui aveva ricevuto il sacramento della confermazione e per la prima volta la
mamma gli aveva fatto bere una birra.
Alla polizia non importava di quelli come Runar.
Di quelli come lei e Runar.

− Non ti importa proprio?


Per la prima volta dopo tre quarti d’ora Synnøve Hessel era davvero sul
punto di perdere il senno. Si chinò verso il poliziotto, con le mani aggrappate
al tavolo come se avesse paura di usarle per colpirlo.
− Certo che mi importa, − rispose l’altro senza guardarla. – Ma
comprenderai bene che noi dobbiamo fare domande. Se avessi idea di quante
persone se la svignano dalla loro solita vita senza…
− Marianne non se l’è svignata! Ma lo vuoi capire o no che non aveva
nessun motivo al mondo per svignarsela?
Il poliziotto sospirò rassegnato. Sfogliò i documenti che aveva davanti, poi
gettò un’occhiata all’orologio. La piccola stanza riservata agli interrogatori
stava diventando insopportabilmente calda. Sopra di loro l’impianto dell’aria
condizionata sibilava, ma il termostato doveva essersi rotto. Synnøve Hessel
si tolse il golf tradizionale norvegese e restò in maglietta per rinfrescarsi un
po’. Fra i seni aveva un’umida chiazza ovale, e si accorse che il sudore le
colava sotto le ascelle. Decise di fregarsene, l’agente che aveva di fronte
puzzava peggio di lei.
Alla polizia dell’aeroporto di Gardermoen per lo meno erano stati cortesi,
disponibili, anche se non avevano potuto fare altro che indirizzarla alla
stazione del suo luogo di residenza. Si erano scusati per l’inconveniente e le
avevano offerto un caffè. Una donna di mezza età in uniforme aveva cercato
di tranquillizzarla dicendole quello che chiunque tranne lei sembrava sapere:
le persone scomparivano in continuazione, ma prima o poi saltavano fuori di
nuovo.
Solo che il «poi» sarebbe stato troppo tardi per Synnøve Hessel.
Era ormai notte e il viaggio di ritorno a Sandefjord l’aveva messa a dura
prova.
− Proviamo a ricapitolare quello che è successo, − suggerí il poliziotto
prima di finire la sua bottiglia di Coca-Cola.
Synnøve Hessel non rispose. Avevano già ricapitolato tutto per ben due
volte, e non era certo servito ad avvicinare di un minimo quell’uomo a una
percezione realistica della situazione.
− In fondo, tu sei… – l’agente si aggiustò gli occhiali sul naso e lesse: −
Tu giri documentari.
− Li produco, − lo corresse Synnøve.
− Esatto. Perciò saprai meglio di molti altri com’è la realtà…
− Non dovevamo ricapitolare?
− Sí, dunque… Marianne Kleive doveva andare a Wologo… Wolongo…
− Wollongong. Una città non molto lontana da Sydney. Doveva andare a
trovare una prozia. Festeggiare il Natale lí.
− Un soggiorno molto breve, considerato il lungo viaggio.
− Eh?
− Intendevo soltanto dire, − continuò l’uomo con qualche esitazione, − che
se fossi io a fare un viaggio cosí lungo, fino in Australia insomma, allora mi
fermerei piú di una settimana scarsa.
− Non è che questo c’entri molto con il caso.
− Non si sa mai, non si sa mai. Quindi, Marianne Kleive è partita da
Sandefjord venerdí 19 dicembre con il treno delle…
− Dodici e trentotto.
− Mhm. A Oslo avrebbe dovuto vedere un’amica…
− E l’ha vista. Ho controllato.
− Dopodiché avrebbe pernottato in albergo e la mattina dopo, sabato,
avrebbe preso il volo delle nove e trenta per Copenhagen.
− Ma non ci è mai arrivata.
− Non è mai arrivata a Copenhagen?
− All’aeroporto di Gardermoen. Voglio dire, può darsi benissimo che ci sia
andata, ma di certo non si è imbarcata sul volo per Copenhagen. Il che
verosimilmente significa che non ha preso neanche il volo per Tōkyō e
Sydney.
Il poliziotto non colse il sarcasmo. Si grattò con disinvoltura fra le gambe,
afferrò la bottiglia di Coca-Cola per poi posarla non appena si rese conto che
era vuota.
− E come mai non ti sei accorta di niente fino a ieri sera? Non ha un
cellulare questa… la tua donna?
− Non è la mia donna. È la mia compagna. Anzi, a dire il vero siamo
sposate. Quindi è mia moglie, se preferisci.
La bocca spalancata dell’uomo mostrava chiaramente che non preferiva
quella definizione.
− E come ti ho già detto piú di una volta, − proseguí Synnøve piegandosi
verso di lui con il cellulare in mano, − ho ricevuto tre Sms nel giro di una
settimana! Tutto faceva pensare che Marianne si trovasse in Australia.
− Ma non vi siete mai parlate.
− Lo ripeto: da domenica scorsa ho cercato di telefonarle due o tre volte,
senza però riuscire a prendere la linea. Ieri sera ho tentato di chiamarla
almeno dieci volte. Scatta subito la segreteria, perciò suppongo che abbia la
batteria scarica.
− Fammi vedere i messaggi che hai ricevuto, − le disse il poliziotto.
Synnøve digitò rapida sulla tastiera e poi gli passò il telefonino.
«Tutto bene. Posto davvero emozzionante. Marianne».
L’uomo incespicò nella lettura, ma sottolineò senza delicatezza alcuna
l’errore di ortografia in «emozzionante».
− Non proprio… − proseguí il poliziotto, cercando la parola giusta prima
di leggere il messaggio successivo, – non proprio romantico, ecco. «Sto bene.
Marianne».
Sbirciò Synnøve da sopra il bordo degli occhiali.
Il tabacco da masticare si era depositato come due polpettine nere agli
angoli della bocca e quando parlava ne sputacchiava dei granellini.
− È vostra abitudine essere sempre cosí… concise?
Per la prima volta Synnøve si azzittí. La domanda era azzeccata, visto che
erano state proprio la scarsezza, l’impersonalità e la stranezza di quei
messaggi a renderla inquieta. Il primo era arrivato il lunedí, ma non ci aveva
pensato su troppo. Forse Marianne aveva fretta. Poteva darsi che la zia
richiedesse tutta la sua attenzione. Che ne sapeva lei, in fondo? Potevano
esserci mille buoni motivi per un messaggio mancato o scarno. A Natale era
arrivato un misero «Buon Natale» che l’aveva ferita profondamente. L’ultimo
Sms, in cui Marianne affermava di star bene, né piú né meno di questo,
l’aveva tenuta sveglia due notti.
− No, − rispose quando il silenzio cominciò a diventare imbarazzante. – È
per questo che credo non sia stata lei a scrivere questi messaggi. Marianne
non avrebbe mai sbagliato a scrivere «emozionante».
Il poliziotto sbarrò gli occhi con tale drammaticità da ricordare un
pagliaccio a una festa per bambini malriuscita. Ciuffi di capelli gli spuntavano
da dietro le orecchie, aveva la bocca di un rosso umido e il naso somigliava a
una patata tondeggiante.
− Oh oh! E cosí adesso abbiamo una teoooria, − disse trascinando
volutamente la o. – Qualcuno ha rubato il cellulare di Marianne Kleive e si è
messo a spedire messaggini al posto suo!
− Non è quello che ho detto, − protestò lei, anche se era esattamente quello
che aveva detto. – Ma non capisci che… se Marianne fosse stata vittima di un
crimine e qualcuno…
Crimine.
Quella parola aprí uno squarcio dentro di lei. Le fece fisicamente male.
Synnøve non aveva ancora nemmeno osato pensare a una simile eventualità.
No. Non proprio, non usando il termine piú adatto.
Crimine.
− … e qualcuno cercasse di rendere difficile scoprirlo, allora…
− Scoprirlo?
− Sí! Il fatto che sia scomparsa, no? Oppure che sia…
Per la seconda volta nel giro di ventiquattr’ore stava per mettersi a
piangere sotto gli occhi di un estraneo.
Bussarono alla porta.
− Kvam! Ti vogliono in guardiola!
Un uomo in uniforme entrò nella stanza con un sorriso. Posò una mano
sulla spalla del maleodorante collega e indicò la porta.
− Pare sia urgente.
− Ma sono nel bel mezzo di…
− Ci penso io.
L’ispettore di polizia Ola Kvam si alzò con un’espressione acida in volto e
cominciò a raccogliere tutti i documenti che aveva davanti.
− Lascia pure, concludo io qui. Si tratta di un caso di scomparsa, giusto?
Kvam si strinse nelle spalle, fece un rapido cenno di saluto con il capo e si
precipitò fuori. La porta sbatté rumorosamente alle sue spalle.
− Synnøve Hessel, − disse il poliziotto appena entrato. – Ne è passato di
tempo…
Lei si alzò per metà e strinse la mano tesa dell’altro.
− Kjetil? Kjetil… Berggren?
− Il solo e unico! Ti ho vista qua fuori e mi sono un po’… – fece
ondeggiare la mano, tenendo il palmo orizzontale, − preoccupato quando ho
capito che sarebbe stato Ola Kvam a prendere la denuncia. Non è
esattamente… in realtà è già in pensione, ma sotto Natale prendiamo dei
sostituti per coprire… Be’, sai com’è… Abbiamo tutti il nostro daffare…
Sono venuto appena sono riuscito a liberarmi.
Kjetil Berggren aveva frequentato la sua stessa scuola superiore, ma aveva
un anno meno di lei. Synnøve non se lo sarebbe mai ricordato se non fosse
stato un campione di atletica: già quand’era in prima aveva battuto il record
dei tremila metri nel Bugårdsparken ed era stato ammesso nella squadra
nazionale juniores. Dopo le superiori era entrato direttamente alla scuola di
polizia.
Dava ancora l’impressione che, correndo, sarebbe potuto sfuggire a
chiunque.
− Ti ho seguito da lontano, sai! – Kjetil fece un ampio sorriso, intrecciò le
mani dietro la nuca e si appoggiò allo schienale della sedia fino a farla
dondolare. − Che bei programmi! Soprattutto quello su…
− Tu mi devi aiutare, Kjetil.
Le pupille di lui si assottigliarono, o almeno cosí le parve. Forse fu solo
perché, quando riappoggiò a terra le gambe anteriori della sedia e si sporse
verso di lei, tutt’a un tratto la luce gli illuminò il viso.
− È per questo che sono qui. È per questo che noi della polizia siamo qui.
«Per proteggere e servire», come sai.
Sorrise di nuovo, ma neanche questa volta il suo sorriso venne ricambiato.
− Io sono sicura, sicurissima che alla mia compagna è successo qualcosa di
terribile.
Kjetil Berggren raccolse lentamente i fogli che aveva davanti e li infilò in
una cartelletta che spinse sulla sinistra del grande tavolo che li separava.
− Forse è meglio se mi racconti tutto di nuovo, − le disse. – Dall’inizio.

All’inizio lo capiva, suo padre.


Quando la polizia aveva suonato il campanello della loro villetta
unifamiliare a Os la notte fra il 24 e il 25 dicembre, poco prima che andassero
a dormire, Lukas Lysgaard aveva pensato subito al padre. Poi gli agenti gli
avevano comunicato che sua madre era morta, con un’aria sinceramente
addolorata nel riferire la funesta notizia. Certo, si erano fatti accompagnare
dal prevosto di Fana, il piú caro fra i colleghi di sua madre, ma quel poveretto
era cosí affranto dal dolore che aveva finito per restare seduto in macchina
mentre i due poliziotti si erano addossati il pesante fardello di informare
Lukas Lysgaard che sua madre era stata uccisa tre ore prima.
E Lukas aveva pensato subito a suo padre.
Anche a sua madre, ovviamente, lui amava sua madre. Un dolore
pietrificante aveva iniziato a succhiargli via le forze non appena aveva
compreso davvero quel che era successo. Ma era comunque il padre a
preoccuparlo.
Erik Lysgaard era un uomo mite.
Qualcuno lo considerava una persona priva di iniziativa, altri invece
sapevano apprezzare la sua affabilità, la sua riservatezza. Non faceva mai
sfoggio di sé al di fuori della famiglia, e ben poco in famiglia. Non era
loquace, ma ascoltava molto. Erik Lysgaard era dunque un uomo abituato a
muoversi in una ristretta cerchia di conoscenti. Aveva i suoi amici, certo,
alcuni che conosceva da quando era piccolo e un paio di colleghi che
lavoravano con lui a scuola, finché la schiena non gli aveva creato cosí tanti
problemi da guadagnargli la pensione di invalidità.
Prima di ogni altra cosa, però, lui era il marito di sua moglie.
«Da solo non è piú un eroe, – fu questo il pensiero che assalí Lukas
quando seppe che sua madre era morta. – Senza di lei, non è piú nessuno».
E all’inizio lo capiva.
Quella notte, quella benedetta, crudele notte che Lukas non avrebbe
dimenticato per tutta la vita, i poliziotti lo avevano portato in autopattuglia a
Nubbebakken. Il piú anziano dei due aveva chiesto se volessero compagnia
fino allo spuntar del giorno.
Né lui né il padre desideravano però degli estranei lí con loro.
Il padre si era rattrappito fino a diventare irriconoscibile. Era cosí stretto e
curvo da non proiettare quasi ombra quando aveva aperto la porta al figlio e
senza una parola si era girato dandogli le spalle per poi tornare in soggiorno.
Piangeva in un modo che incuteva paura. Piangeva per minuti e minuti
quasi in silenzio, ma tutt’a un tratto emetteva un urlo basso e prolungato,
senza singulti: un dolore animalesco che terrorizzava Lukas. Lo faceva sentire
ancor piú impotente di quanto si fosse aspettato, soprattutto visto che suo
padre rifiutava ogni contatto fisico. E non voleva nemmeno parlare. Quando il
giorno era spuntato, quella mattina di Natale buia e piovosa, Erik si era
finalmente lasciato convincere a cercare di dormire un po’. E anche allora
aveva rifiutato l’aiuto del figlio, nonostante Eva Karin ogni sera, da piú di
dieci anni, gli togliesse le calze e gli desse una mano a sdraiarsi a letto per poi
massaggiargli la schiena dolorante con un unguento artigianale che lui si
faceva puntualmente spedire da un membro della comunità fin dagli anni in
cui erano a Stavanger.
E comunque Lukas lo capiva.
Adesso però la faccenda era diventata seria.
Erano passati cinque giorni dall’omicidio e non era cambiato nulla. Il
padre non aveva mangiato niente in quei giorni, niente di niente. Beveva
volentieri acqua, molta acqua, e di pomeriggio anche un paio di caffè con
zucchero e latte. Nemmeno quando Lukas lo aveva portato a casa dalla sua
famiglia, nella speranza che i nipoti risvegliassero una qualche scintilla di vita
nel vecchio, Erik aveva voluto mangiare qualcosa. La visita in sé era stata un
fallimento completo. I bambini si erano spaventati a morte vedendo il nonno
piangere in quello strano modo, senza contare il fatto che il piú grande, otto
anni, aveva già i suoi problemi ad accettare che la nonna non sarebbe mai,
mai, mai piú tornata.
− Cosí non va, papà.
Lukas avvicinò uno sgabello alla poltrona con il poggiatesta su cui sedeva
Erik e ci si accomodò.
− Dobbiamo pensare al funerale. Tu devi mangiare. Sei l’ombra di te
stesso, non si può andare avanti cosí.
− Il funerale non si può fare prima che la polizia abbia dato
l’autorizzazione a procedere, − gli disse il padre.
Perfino la voce si era assottigliata.
− No, certo. Ma dobbiamo cominciare a organizzarlo.
− Lo puoi fare tu.
− Non sarebbe giusto. Lo dobbiamo fare insieme.
Silenzio.
Il vecchio orologio a pendolo si era fermato. Erik Lysgaard aveva smesso
di tirare su i pesi in ottone a forma di pigna, grevi come il piombo, come
aveva sempre fatto la sera prima di andare a letto. Non aveva piú bisogno di
sentire il tempo che passava.
La polvere danzava nella luce che entrava dalla finestra.
− Devi mangiare.
Erik alzò lo sguardo e con delicatezza, per la prima volta dalla morte di
Eva Karin, prese la mano del figlio tra le sue.
− No. Tu devi mangiare. Tu devi continuare a vivere.
− Papà, tu…
− Tu sei figlio della nostra felicità, Lukas. Nessun bambino è mai stato piú
voluto di te.
Lukas deglutí e sorrise.
− Lo dicono tutti i genitori. Anche io lo dico ai miei bambini.
− Ma ci sono molte cose che tu non sai.
Era come se i rumori della città non riuscissero a penetrare nella casa
morta di Nubbebakken. Lukas non riusciva nemmeno a sentir battere il
proprio cuore.
− Che cosa vuoi dire? – gli chiese.
− Con la morte di una persona molte cose vanno perdute. Con la morte di
Eva Karin tutto è andato perduto. Non poteva essere altrimenti.
− Io ho diritto di sapere. Se c’è qualcosa nella vita di mamma, nella vostra
vita, che…
La risata secca del padre lo spaventò.
− Tutto quello che hai bisogno di sapere, è che sei stato un figlio molto
amato. Sei sempre stato il grande amore sia di tua madre che mio.
− Sono stato?
− Tua madre è morta, − disse in tono duro Erik Lysgaard. – E io non vivrò
ancora a lungo.
Di colpo Lukas gli lasciò andare le mani e si raddrizzò.
− Cerca di riprenderti, − gli disse. – Maledizione, cerca di riprenderti un
po’!
Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro a grandi, rapidi passi.
− È ora di finirla. Adesso. Adesso! Hai capito?
Il padre reagí appena a quello sfogo violento. Rimase immobile sulla
poltrona dove era rimasto negli ultimi cinque giorni, con la stessa espressione
vuota.
− Io non lo accetto, − gli gridò Lukas. – Mamma non lo accetta!
Afferrò una statuetta in porcellana da una piccola credenza accanto al
televisore: due cigni in un fragile cuore, regalo di nozze da parte dei genitori
di Eva Karin. Era sopravvissuto a otto traslochi ed era uno degli oggetti piú
cari a sua madre. Lukas afferrò per il collo i due cigni con entrambe le mani e
se li sbatté contro una coscia con tanta forza da farsi male. La statuetta andò
in mille pezzi. I bordi taglienti dei frammenti gli si conficcarono nei palmi.
Quando gettò a terra quel che rimaneva della statuetta il sangue schizzò sul
tappeto.
− Tu non hai il diritto di morire. Tu non hai nessun diritto di morire,
Cristo!
Era quello che ci voleva.
Lukas Lysgaard non aveva mai, nemmeno negli anni della ribellione
giovanile, mai osato pronunciare il nome di Dio invano in presenza dei suoi
genitori. Il padre si alzò piú rapidamente di quanto lo si sarebbe creduto
capace. In tre passi fu davanti al figlio. Sollevò il braccio. Il pugno si fermò a
pochi centimetri dalla mascella di Lukas. E cosí rimase, congelato in un
assurdo quadro vivente. Piú alto, adesso, e anche piú grosso. Lukas aveva
ereditato le spalle da lui, ed era come se a un tratto le spalle del padre fossero
tornate quelle di un tempo. Tutta la sua figura si era ingrandita. Lukas
tratteneva il respiro, rattrappito sotto lo sguardo del padre quasi fosse di
nuovo un ragazzino. Ribelle e giovane e il bambino di papà.
− Perché la mamma era andata a passeggio da sola? – gli chiese in un
bisbiglio.
Erik lasciò cadere la mano.
− È una cosa che riguarda solo Eva Karin e me.
− Io credo di saperlo.
− Guardami.
Lukas si scrutò il palmo delle mani aperte. Alla base di entrambi i pollici
c’era un profondo squarcio. Il sangue gocciolava sul tappeto.
− Guardami, − gli ripeté Erik.
Lukas continuava a non avere il coraggio di sollevare il volto, poi sentí la
mano del padre sulla barba ispida della guancia. Finalmente alzò gli occhi.
− Tu non sai niente, − gli disse Erik.
«E invece sí, – pensò Lukas. – Forse ho sempre saputo. O almeno, lo so da
molto tempo».
− Tu non sai proprio un bel niente, − gli ripeté il padre.
Erano cosí vicini da sentire ognuno il respiro dell’altro sulla pelle, a piccoli
sbuffi. E come i cattivi pensieri si incapsulano in duri segreti quando non si
condividono con nessuno, cosí entrambi avevano la certezza di custodire una
verità di cui credevano l’altro al corrente. E rimasero in quel modo,
imbarazzati, senza niente da dirsi.

− Mi imbarazza dovertelo dire, Synnøve, ma questo in effetti è uno di quei


casi su cui nutriamo un certo scetticismo.
Per lo meno Kjetil Berggren era riuscito ad abbassare un po’ la temperatura
nella piccola stanza degli interrogatori. In quel momento se ne stava seduto
con le maniche della camicia arrotolate, cosa contraria al regolamento, e
sovrappensiero tamburellava con una matita sulla gamba dei pantaloni.
Lei gli aveva raccontato com’erano andate le cose, senza tacere nulla. Che
a ogni parola la sparizione di Marianne divenisse sempre meno sospetta era
una constatazione che stava cominciando a fare solo in quel momento.
− Capisco, − disse docilmente.
− E poi non hai ancora nemmeno parlato con i suoi genitori.
− È da quando siamo andate a convivere che Marianne non ha piú contatti
con loro!
− Va bene, ma…
Kjetil si passò la mano fra i capelli corti e proseguí: − In linea di massima
sono d’accordo con te: ci sono buoni motivi per preoccuparsi. È solo che…
Adesso dimostrava molta disponibilità in meno rispetto a quando l’aveva
salvata dalle grinfie di Ola Kvam un’ora e mezza prima. Era piuttosto
inquieto e non aveva preso neanche un appunto negli ultimi trenta, quaranta
minuti.
− Per prima cosa avresti dovuto sentire i parenti piú stretti. Ma da quanto
ho capito non hai parlato praticamente con nessuno di loro.
Quello snervante tamburellare sulla coscia aumentò di intensità.
− Nemmeno con i genitori, − ribadí.
Come se i genitori di una quarantaduenne potessero avere una risposta a
tutto.
− Quando ci siamo sposate, loro non sono venuti, − spiegò Synnøve
esausta. – E adesso di punto in bianco dovrebbero sapere qualcosa di
Marianne?
− Ma non era la zia materna che Marianne stava andando a trovare? Può
darsi che la madre…
− Questa zia è spuntata fuori dal nulla! Ascolta, Kjetil, Marianne ha rotto
con i suoi dopo una terribile discussione piú di tredici anni fa. Naturalmente
aveva a che fare con me, la discussione. Ha mantenuto i rapporti con il
fratello, ma in modo del tutto saltuario. I nonni sono morti e il padre è figlio
unico. La madre tiene i propri fratelli in una morsa di ferro. In altre parole,
Marianne è praticamente senza famiglia. Ma ecco che in autunno arriva
questa lettera dalla prozia. È emigrata prima che Marianne nascesse ed era
considerata persona non grata a in famiglia. Era una bohémienne. All’inizio
degli anni Sessanta si era sposata con un afroamericano e ai tempi cose del
genere non erano proprio gradite nelle famiglie bene di Sandefjord. Poi ha
divorziato e si è trasferita in Australia. Lei…
Synnøve si interruppe.
− Ma perché me ne sto qui a darti un sacco di dettagli assolutamente
irrilevanti su una vecchia signora stramba che scopre all’improvviso di avere
una pronipote che come lei è stata buttata fuori dalla famiglia? Il punto… il
punto è che tanto Marianne dalla prozia non ci è mai arrivata!
Nel dirlo allargò le braccia, colpendo una tazza piena di caffè. Quando il
liquido bollente le si rovesciò sulle cosce imprecò e schizzò in piedi. Prima
ancora che potesse rendersene conto Kjetil Berggren era accanto a lei con una
bottiglia di acqua minerale vuota.
− Va meglio? Te ne verso dell’altra?
− No, grazie, − borbottò lei. – Va bene cosí, grazie.
Kjetil Berggren prese alcuni asciugamani di carta da un dispenser accanto
a un piccolo lavandino nell’angolo.
− E poi c’è questo fatto, che Marianne già una volta se l’era svignata, − le
disse girato di spalle.
Synnøve si afflosciò di nuovo su quella scomoda sedia.
− Non se l’era svignata. Mi aveva lasciato. È una cosa ben diversa.
− Ecco qui.
Le allungò gli asciugamani di carta.
− Hai detto che quella volta era stata via per quattordici giorni, − proseguí
sedendosi. – Senza dare notizie di sé. Neanche allora. Come adesso, voglio
dire. Immagino tu capisca, Synnøve, che questo ha una certa rilevanza. Il fatto
che lei… che Marianne tre anni fa, dopo un terribile litigio, sia sparita e se ne
sia andata in Francia senza nemmeno farti sapere che si trovava all’estero. È
una di quelle circostanze di cui noi poliziotti dobbiamo tenere conto, per
decidere se è il caso di dar peso o meno a…
− Ma questa volta non avevamo litigato! Non avevamo litigato per niente!
Anziché tornare al suo posto dietro la scrivania, Kjetil scivolò sul piano del
tavolo e posò un piede sulla sedia accanto a quella di lei. Presumibilmente il
suo voleva essere un gesto amichevole.
− Devo avere un aspetto orrendo, − mormorò Synnøve scostandosi. – E
puzzo come un cavallo. Mi dispiace.
− Synnøve, − disse lui con tranquillità, senza farle capire che aveva
proprio ragione.
Le posò una mano sulla spalla: era calda.
− Vedrò che cosa posso fare, è ovvio. Raccolgo la tua denuncia di persona
scomparsa, e questo è già un inizio. Purtroppo però non posso garantirti che
ce la metteremo tutta. Non ancora, per lo meno. Intanto ci sono molte cose
che invece potresti fare tu.
Lei si alzò. Piú che altro per liberarsi di quel contatto fisico che sentiva
inaspettatamente sgradito. Quando si allungò per prendere il golf, Kjetil saltò
giú dal tavolo.
− Fai qualche telefonata in giro, − le disse. – Avete molti amici. Se dovesse
saltar fuori qualche… qualche infedeltà…
Per fortuna in quel momento Synnøve aveva la testa infilata nella lana.
Avvampò all’istante e si ritrovò ad armeggiare con il golf, prima di riprendere
il controllo della situazione.
− Di solito funziona cosí, che c’è qualche amico che sa qualcosa.
− Capisco, − commentò lei, asciutta.
− E se avete un conto in banca comune, potresti anche controllare se ha
prelevato. E nel caso lo abbia fatto, da dove. Ti telefono fra un paio di giorni
per sentire come va. Magari faccio un salto a trovarti. Abiti ancora in quella
vecchia casa in Hystadveien?
− Abitiamo in Hystadveien. Io e Marianne.
E nel momento stesso in cui lo disse ebbe la certezza che fosse una
menzogna.
− A meno che Marianne non sia morta, − disse in tono duro, poi prese
l’impermeabile e andò verso la porta. – Grazie, Kjetil. Grazie di nulla, cazzo!
Si sbatté la porta alle spalle con tanta violenza da farla uscire dai cardini.

a. In italiano nel testo [N. d. T.].


Notte prima di un cupo mattino

Rolf non era in grado di chiudere la portiera dell’auto in modo civile.


La sbatteva sempre con tanta violenza che Marcus Koll jr lo sentiva fin dal
soggiorno, nonostante la macchina fosse parcheggiata al riparo nell’enorme
garage. Rolf dava sempre la colpa ai macinini che lui aveva guidato per tutta
la vita. Ancora non si era abituato alle loro automobili: o tedesche da un
milione e rotti di corone, o italiane, e quelle valevano il doppio.
Marcus stava sferrando colpi furiosi a destra e a manca nel tentativo di
acchiappare una mosca sopravvissuta all’inverno. Era grossa e indolente, ma
ancora viva quando Rolf entrò nella stanza.
− Ma che diavolo stai facendo?
Marcus era in ginocchio sul tavolo da pranzo e menava colpi
all’impazzata.
− Una mosca, − borbottò. – Non potresti essere un po’ piú gentile con le
nostre macchine?
− Una mosca? In questa stagione? Ma come!
Tre passi rapidi e un solo colpo con il palmo della mano sul piano del
tavolo.
− Presa, − disse Rolf serenamente. – Piuttosto, non dovrebbe essere già
apparecchiato?
Marcus fece per scendere dal tavolo, ma si sentiva rigido e impacciato e
dovette appoggiare il ginocchio su una sedia. Come a ogni veglione di
capodanno degli ultimi nove anni, lui aveva inaugurato la giornata
ripromettendosi di iniziare a fare attività fisica. Esattamente dal mattino dopo.
Era quello il suo proposito piú importante e questa volta lo avrebbe
mantenuto. Nel seminterrato c’era un’intera palestra attrezzata di tutto punto e
lui non aveva nemmeno idea di che aspetto avesse.
− Fra poco arriva la mamma.
− Tua madre? Hai chiesto a Elsa di venire ad apparecchiare la tavola per
una festa a cui non è nemmeno invitata?
Marcus sbuffò rassegnato.
− La mamma desiderava che Lillemarcus si fermasse da lei per la notte.
Voleva festeggiare il capodanno con lui, loro da soli. Sarà piú divertente per
tutti e due.
− Va bene. Ma non vedo per quale motivo dovrebbe buttare via tutta la
mattina ad apparecchiare la tavola qui da noi! Telefonale subito e dille che ci
penso io. Fra l’altro, questo cos’è?
Rolf aveva in mano una scatoletta quadrata di metallo.
− Un hard disk, − rispose Marcus tranquillamente.
− E che cosa ci faceva nel bagagliaio della Maserati?
− È la mia macchina. Quante volte ti ho detto che preferirei che ne usassi
un’altra? Sei il peggior guidatore del mondo e…
− Insomma, ma che cos’hai?
Rolf si chinò in avanti per baciarlo. Marcus svicolò. Non riuscí a evitare di
lanciare un’occhiata all’hard disk.
− È rovinato, − disse. – L’ho sostituito. Quello è da buttare.
− Allora vado a buttarlo, − disse Rolf con un’alzata di spalle. – E tu cerca
di farti venire un po’ di buon umore prima che arrivino gli ospiti.
E con l’hard disk in mano uscí dalla stanza. Marcus dovette trattenersi dal
corrergli dietro. Avrebbe voluto essere lui in prima persona a distruggere e
buttar via quell’aggeggio maledetto.
Non è poi cosí grave, pensò cercando di mantenersi calmo. In fondo si
trattava di una semplice misura di sicurezza. Che con ogni probabilità si
sarebbe rivelata eccessiva. Decisamente eccessiva. Con il cuore che
cominciava a battergli piú forte, tentò di concentrarsi su qualcos’altro.
Il menu, per esempio.
Che Rolf avesse trovato l’hard disk non aveva alcuna importanza.
Non ricordava nulla del menu.
Dimentica quell’hard disk. Dimenticalo. Non ha nessuna importanza.
− Hai telefonato a Elsa?
Rolf era tornato, aveva le braccia cariche di tovaglia, tovaglioli e
candeline.
− Marcus… ehi, ma… Marcus!
A Rolf cadde tutto per terra.
− Ti senti male? Marcus?
− È tutto a posto, − rispose lui. – Mi sono sentito mancare un attimo, ma
adesso sto bene. Davvero.
Rolf gli accarezzò la schiena. Lo sovrastava di quasi tutta la testa, quindi
dovette chinarsi in avanti per incrociare il suo sguardo avvilito.
− È di nuovo… hai… Hai avuto un altro attacco di panico?
− No, no.
Marcus sorrise.
− Sono passati molti anni dall’ultimo. Tu mi hai guarito, te l’ho detto.
Era difficile riuscire a controllare la lingua, secca e intorpidita com’era.
Aveva le mani umide di sudore freddo e se le cacciò in tasca.
− Vuoi un po’ d’acqua? Vado a prenderti un po’ d’acqua, Marcus?
− Grazie, sí. Un po’ d’acqua mi farà sentire meglio.
Rolf sparí e Marcus restò solo.
Se non fosse stato cosí solo, se avesse parlato con Rolf fin dall’inizio.
Avrebbero potuto trovare una soluzione. Insieme avrebbero capito quale fosse
la cosa migliore da fare, insieme avrebbero potuto affrontare ogni cosa.
All’improvviso inspirò con forza dal naso. Raddrizzò la schiena, schioccò
la lingua per aumentare la salivazione e si diede dei buffetti sulle guance con
le mani aperte. Non c’era nulla da temere. Ancora una volta: non c’era nulla
di cui doversi preoccupare.
Durante le vacanze di Natale aveva letto sul «Dagens Næringsliv» un
breve articolo su Niclas Winter in cui fra le righe si lasciava intuire che era
morto per overdose. Non era scritto in modo esplicito, per lo meno non a cosí
poco tempo dal decesso, che veniva ricondotto allo stile di vita poco
ortodosso dell’artista, questa l’espressione rispettosa che era stata utilizzata.
Era già in atto una battaglia per i diritti sulle opere invendute, che dalla morte
di Winter ci avevano decisamente guadagnato. Tre galleristi e un curatore,
infatti, le avevano valutate per cifre piú che doppie rispetto alla settimana
prima. L’articolo era piú interessante di quanto la sua posizione defilata
lasciasse presagire. Sicuramente sarebbero tornati sull’argomento con ulteriori
dettagli.
Niclas Winter era morto di overdose e Marcus Koll jr non aveva nulla da
temere. Si aggrappò a quel pensiero e su quello si concentrò vedendo Rolf
tornare di corsa con un grosso bicchiere d’acqua in mano. I cubetti di ghiaccio
tintinnarono quando lo vuotò bevendolo tutto d’un fiato.
− Grazie, adesso mi sento benissimo.
Non ho nulla da temere, pensava mentre apparecchiava la tavola. Tovaglia
rossa, tovaglioli rossi orlati in argento e candele verde scuro in candelieri di
vetro guarniti con borchie d’argento. Niclas Winter se l’è cercata, pensò
ostinatamente, non avrebbe dovuto farsi quell’overdose.
La sua morte non c’entra niente con me.
Ci mancava poco che iniziasse a crederci per davvero.

Trude Hansen credeva che quel giorno fosse il 31 dicembre, ne era quasi
certa.
Nel minuscolo appartamento regnava ancora il caos: avanzi di cibo,
bottiglie vuote, vestiti sporchi, pezzetti di carta stagnola sparsi ovunque e, in
un angolo, un cartone di pizza che il gatto terrorizzato aveva usato per i suoi
bisogni. Adesso il povero animale se ne stava seduto sul davanzale di una
finestra a miagolare lamentoso.
− Vieni qui, Pusi! Dài, Pusi Pusi, vieni qui. Su, vieni dalla mamma!
Il gatto soffiò e inarcò la schiena.
− Non essere arrabbiato con la mamma, dài!
Aveva una voce dolce e acuta. Non ricordava se aveva dato da mangiare a
Pusi. Probabilmente no. Non oggi, almeno. Forse neanche ieri. No, neanche
ieri, perché si era cosí arrabbiata quando quello stupido animale aveva
pisciato sulla pizza.
− Micio micio…
Trude si allungò verso il gatto, che schizzò sul divano come un razzo
peloso e cominciò ad affilarsi gli artigli sui cuscini con movimenti ritmici e
regolari.
«Non può che essere il 31 dicembre», pensò Trude.
Cercò di aprire la finestra. Si era deformata e le si spezzò un’unghia, ma
alla fine ci riuscí, di colpo e con uno schianto secco. Una ventata di aria
gelida attraversò la stanza maleodorante e Trude si piegò sul davanzale,
sporgendo fuori il busto.
Sopra i palazzi verso oriente, quelle vecchie case che nascondevano il
Sofienbergparken, vide i fuochi d’artificio. Sfere di luce rossa e verde
scendevano piano verso terra mentre il cielo era illuminato da fontane
luminose. L’odore di polvere pirica si era già diffuso per le strade. Lei
adorava l’odore lasciato dai fuochi d’artificio. Per fortuna c’era sempre chi
non riusciva a trattenersi fino a mezzanotte.
Le restava soltanto una dose. L’aveva tenuta da parte per la sera: il giorno
era stato sopportabile grazie a una bottiglia di superalcolico che qualcuno
aveva nascosto sotto il letto.
Difficile dire che ora fosse.
Proprio mentre stava per chiudere la finestra ecco che Pusi sgusciò fuori. Il
gatto avanzò rapido lungo lo stretto cornicione, poi, un paio di metri piú in là,
si accoccolò e cominciò a miagolare.
− Pusi, vieni qui! Su, Pusi, vieni dalla mamma!
Pusi iniziò a lavarsi leccandosi il pelo con meticolosità. Ritmicamente,
ogni quattro leccate si passava una zampa dietro l’orecchio.
− Pusi! – farfugliò Trude con tutta la severità di cui era capace,
allungandosi verso il gatto. – Vieni subito qui!
Sentí di aver perso il contatto con il pavimento. Se si fosse tenuta bene al
telaio fra i due rettangoli inferiori di quella vecchia finestra divisa in quattro,
sarebbe forse riuscita a stendere l’altro braccio abbastanza da afferrare il gatto
per la collottola. Si aggrappò con le dita alla struttura in legno. Il vento gelido
le soffiava sulle braccia nude, e Trude cominciò a battere i denti.
− Pusi! – fece in tempo a dire per un’ultima volta, poi perse l’equilibrio e
cadde.
Dato che abitava al terzo piano e che quando era precipitata aveva toccato
l’asfalto con la testa e con la spalla sinistra, era morta sul colpo. La polizia era
stata avvisata immediatamente da un uomo che se ne stava alla finestra a
fumarsi una sigaretta dalla parte opposta della strada. Considerando che quel
tizio era stato in grado di raccontare l’accaduto e che la porta
dell’appartamento vuoto di Trude era chiusa dall’interno con una catenella di
sicurezza, non si trovò alcuna ragione per compiere ulteriori indagini. Si era
trattato di un incidente. Un incidente fortuito.
Il 31 dicembre 2008, mezz’ora prima che i festeggiamenti per il nuovo
anno avessero inizio, non era rimasta una sola persona al mondo che potesse
offrire un pensiero a Runar Hansen. Era stato ucciso in un parco nella zona
orientale della città il 19 novembre, a quarantun anni. Dopo la morte della
sorella, di lui non restava nemmeno un vago ricordo annebbiato dalla droga.
E non c’era piú nessuno che si curasse nemmeno di Pusi, rimasto sul
cornicione.

Synnøve Hessel carezzava la schiena al suo grassissimo gatto. Le si era


accomodato in grembo e il cupo, brontolante mormorio di quando faceva le
fusa si accompagnava in bassa frequenza al suo inspirare ed espirare. C’era
qualcosa di rassicurante in quel suono e nella totale devozione di quel gatto
che spingeva la testa verso le sue mani ogni volta che lei smetteva di
coccolarlo.
− Sono molto contenta che tu mi abbia invitata, − disse.
− Ci mancherebbe, − disse la donna seduta all’altro capo del divano con
una bottiglia di birra in mano. – Non avevo tanta voglia di festeggiare
nemmeno io.
L’appartamento era ancora piú bello di come Marianne glielo aveva
descritto nella loro ultima telefonata. Marianne era stata a casa di Tuva in
Grefsenkollveien venerdí 19 dicembre nel pomeriggio. Erano ormai le otto di
sera, e a Synnøve la compagna era parsa cosí impaziente di affrontare quel
lungo viaggio che aveva cercato di nascondere la delusione perché non
avrebbero festeggiato insieme il Natale. Non ci era riuscita completamente.
Una nota pungente e fredda si era insinuata nei loro ultimi scambi di battute.
Le venne in mente che proprio quell’addio per telefono aveva reso meno
strani i brevi e freddi Sms di Marianne. Per lo meno il primo che aveva
ricevuto.
− Quindi hai controllato che sia arrivata in albergo? – le chiese Tuva per la
terza volta in meno di un’ora.
− Sí. È arrivata, si è registrata alla reception e ha saldato il conto. E di lí si
perdono le sue tracce.
Synnøve rabbrividí e fece scendere il gatto per terra.
− E di lí si perdono le sue tracce, − ripeté con una smorfia. – Sembrano le
parole di un giallo.
Il soggiorno non era grande, ma la vista che le ampie finestre offrivano
conferiva all’appartamento un tocco esclusivo. L’arredamento era tutto rivolto
verso l’ampio balcone e, da dov’era, Synnøve poteva vedere l’intera città di
Oslo. Si alzò.
− Andiamo a farci un giro? – le chiese Tuva.
− Adesso? Un’ora prima della mezzanotte?
Synnøve era in piedi accanto alla finestra. Dall’esterno quella palazzina
verde le era sembrata terribile. Un gigantesco mattoncino Lego messo di
traverso, appiccicato per tutta la sua altezza a una parete rocciosa che avevano
fatto brillare. Solo quando era entrata nel soggiorno al decimo piano aveva
capito l’infantile entusiasmo della compagna per l’appartamento nuovo.
Synnøve non aveva mai visto Oslo cosí bella.
Era tutta uno scintillio di luci. Come una decorazione natalizia creata dagli
dèi, la città le si stendeva davanti circondata dai colli scuri e dal mare nero.
Nel cielo le esplosioni dei fuochi artificiali si facevano sempre piú frequenti.
Synnøve e Tuva avevano un posto in prima fila per lo spettacolo che sarebbe
iniziato di lí a un’ora.
− Per me va bene, − le rispose Synnøve stringendosi nelle spalle.
Cinque minuti dopo stavano risalendo il Grefsenåsen. Il freddo pungeva il
volto. Loro si erano imbacuccate bene, a differenza di tutti gli altri che
andavano e venivano dalle feste in abiti eleganti e con le scarpe belle ai piedi.
Una banda di ragazzini sui dodici, tredici anni si divertiva a lanciare petardi in
mezzo a un gruppetto di donne che strillavano e zompettavano qua e là sui
loro tacchi a spillo. Arrivò un uomo di una certa età con un vecchio labrador
sovrappeso al guinzaglio e gliene disse di tutti i colori. Loro imprecarono e
gridarono e tra le risate corsero giú per la scarpata, per poi scomparire
all’interno di un cantiere chiuso arrampicandosi su una recinzione alta tre
metri.
− È davvero stranissimo che non abbia prelevato soldi, − disse Tuva con il
fiato grosso. – Ne sei sicura?
Synnøve rallentò. Dimenticava spesso di essere piú in forma di gran parte
delle persone.
− Ho potuto controllare solamente il conto che abbiamo in comune. Oltre a
quello, Marianne ha il bancomat di un conto solo suo. Devo riuscire a
convincere quei maledetti della polizia a chiedere informazioni alla banca.
Si fermò.
«Non ha nessun senso», pensò.
Erano a un bivio. Tuva fece un cenno verso una strada deserta che si
inerpicava fino in cima a Grefsenkollen. Synnøve restò immobile.
− È solo che sono sicurissima che sia morta, − bisbigliò.
Lacrime gelate le rigavano il volto.
− Questo non lo puoi sapere, − ribatté Tuva. – In fondo è scomparsa da una
settimana! Ti ricordi com’eri disperata quella volta che se n’è andata in
Francia senza farsi sentire per un sacco di tempo? Marianne è cosí…
− Morta! – gridò Synnøve. – Non mettertici anche tu! Quella volta era
tutto diverso. Quella volta lei non voleva piú avere niente a che fare con me!
Le cose sono diverse, adesso. Non puoi…
Tuva la abbracciò.
− Scusami. Cercavo solo di consolarti. Forse è meglio se non ne parliamo
piú.
− Ma come non ne parliamo piú?!
Synnøve riprese a camminare. In fretta. A ogni passo aumentava
l’andatura. Tuva la seguiva corricchiando.
− E di cosa dovremmo parlare? – urlò Synnøve. – Del tempo? Io voglio
parlare di quella maledetta idiota della prozia che non ha nemmeno avvisato
quando Marianne non è arrivata. Io voglio parlare di…
− Le hai telefonato?
Tuva aveva cominciato a correre sul serio per riuscire a starle dietro.
− Sí. Non avrebbe parlato con la madre di Marianne per nessuna ragione al
mondo, e questo lo posso anche capire. Ma quella donna dev’essere proprio…
Si fermò di colpo. C’era un alce in mezzo alla strada.
− … una ritardata mentale, − sibilò. – Le ho chiesto…
− Sst!
L’alce era a non piú di venti, venticinque metri di distanza. Quando sbuffò,
l’aria intorno al muso diventò grigia. Era una femmina, si accorse Synnøve,
che quindi lanciò un’occhiata prudente al bosco da entrambi i lati per
accertarsi che non ci fossero cuccioli nei dintorni. Non vide nulla, ma questo
non significava necessariamente che l’alce fosse da sola.
− Fra l’altro ha un atteggiamento molto vigile, − bisbigliò. – Stai ferma
immobile!
L’alce rimase a fissarle per quasi mezzo minuto. Teneva la testa alta e le
orecchie puntate in avanti. Tuva non osava quasi respirare.
− Non ho mai visto un alce in carne e ossa prima d’ora, − bisbigliò in
modo quasi impercettibile.
«Questo la dice lunga su quanto stai poco all’aperto», pensò Synnøve, poi
di colpo si mise a gridare agitando le braccia. L’alce sobbalzò, si voltò e con
ampi e aggraziati balzi scomparve nel bosco.
− Wow! – esclamò Tuva.
− Quella zia dev’essere proprio un’idiota, − disse Synnøve ricominciando
a camminare. – Le ho chiesto perché non mi aveva avvisato e lei ha risposto
che non sapeva il mio cognome.
− A dire il vero, mi sembra un buon motivo, − ribatté Tuva ad alta voce e
sentendo che non ce la faceva piú a starle dietro aggiunse: − Aspettami, dài!
Non andare cosí veloce!
Synnøve si fermò e si voltò.
− Per prima cosa, − disse togliendosi una muffola per poter alzare il
pollice, − Marianne le aveva scritto che io faccio documentari. Secondo: le
aveva detto che mi chiamo Synnøve. Terzo…
Sventolò le tre dita tese.
− Terzo: quella donna ce l’avrà la possibilità di usare Internet, da qualche
parte! E allora le sarebbe bastato andare su Google e scrivere «Synnøve» e
«documentari» per scoprire subito chi sono!
Tuva annuí, anche se nemmeno a lei sarebbe venuto in mente di farlo.
Continuarono a passeggiare in silenzio. Alle loro spalle i fuochi d’artificio
si facevano sempre piú frequenti. Quando oltrepassarono il bivio per il
laghetto di Trollvann, Tuva cominciò a domandarsi se avrebbe resistito ancora
per molto. Aveva il fiatone e avrebbe certo preferito tornare indietro, ma
continuò ad arrancare.
Finalmente arrivarono. Le finestre del ristorante su Grefsenkollen erano
piacevolmente illuminate. Il parcheggio traboccava di automobili che
probabilmente sarebbero rimaste lí fino a giorno inoltrato. Mentre Tuva e
Synnøve si avvicinavano ecco uscire in massa dalla porta principale un folto
gruppo di persone vestite a festa. La maggior parte di loro restò sull’ampia
scalinata: brindavano a champagne e decantavano lo splendido panorama. Tre
uomini barcollanti e con le braccia cariche di fuochi d’artificio girarono
l’angolo per andare ad accenderli nel parcheggio.
− Qui, − ansimò Tuva raggiungendo il muretto che circondava il lastricato,
come se ai piedi della scalinata ci fosse una terrazza, − qui è addirittura piú
spettacolare che a casa mia!
Le sirene delle navi nel fiordo cominciarono a suonare. Alle spalle di
Synnøve e di Tuva i clienti del ristorante gridavano il proprio entusiasmo per i
fuochi d’artificio, per la festa, per il nuovo e immacolato anno che li
aspettava. Il cielo era completamente illuminato. Sopra e davanti a loro era
tutto un crepitare e scintillare, un continuo accavallarsi di suoni e fischi, grida
e scoppi.
− Buon anno, − disse Tuva con circospezione, abbracciando Synnøve.
Lei non rispose. Si appoggiò al muretto, lo sguardo fisso sulla città in
basso. Il 2009 era iniziato da appena una manciata di secondi e, se i
sentimenti che la attraversavano in quel momento erano rappresentativi del
nuovo anno, la aspettavano sicuramente dodici terribili mesi.
Quello che non sapeva, era che Marianne Kleive si trovava quasi
esattamente a 8110 metri di distanza da lei. E se lo avesse saputo non sarebbe
stata certo molto piú felice.
Per la prima volta nella sua vita Synnøve Hessel iniziò un nuovo anno
piangendo.

Erik Lysgaard aveva promesso a Lukas che non avrebbe pianto.


− Papà. Papà!
Erik sobbalzò. All’inizio si era rifiutato con forza di andare a casa dal
figlio, ma poi Lukas aveva minacciato di portare tutta la famiglia a
Nubbebakken e organizzare lí una festicciola per i bambini e cosí lui aveva
finito per accettare l’invito. Aveva promesso di non piangere. Non aveva
promesso di aprire bocca.
Finalmente i bambini si erano addormentati. Astrid, la moglie di Lukas, era
sulla porta del corridoio, in vestaglia. Sorrise pallida al suocero e sollevò la
mano in un fiacco augurio di buona notte. La serata l’aveva messa a dura
prova.
Lukas aveva un pigiama a strisce blu e un paio di consunte pantofole di
feltro ai piedi nudi. Si accovacciò accanto alla poltrona del padre, ma non lo
toccò.
− Dormi?
− Dormivo. Mi sono appisolato mentre voi vi preparavate per la notte.
− Adesso è ora di andare a letto anche per te. Ti ho sistemato la stanza
degli ospiti.
− Preferisco restare qui, Lukas.
− No, papà. Cosí non va bene. Devi dormire in un letto.
− Questo a dire il vero lo decido io. Sto benissimo seduto qui.
Lukas si alzò.
− Ti comporti come se fossi tu l’unico a soffrire, − gli disse esausto. – Non
ti riconosco piú. Sei… Sei davvero molto egoista. Non lo vedi che io sto
male, non lo vedi che ai bambini manca la nonna, non lo vedi…
− Sí che lo vedo. Solo che non posso farci niente.
Lukas andava su e giú nel soggiorno semibuio. Soffiò su una candela
rimasta accesa sul davanzale di una finestra. Raccolse un pupazzo dal
pavimento e lo posò sulla libreria. Si mangiucchiò le unghie. Fuori il silenzio
era assoluto. Sentí Astrid tirare l’acqua in bagno e poi il debole scricchiolio
della porta della loro camera da letto che si chiudeva.
− Perché non hai mentito? – chiese all’improvviso.
Il padre alzò gli occhi.
− Mentito?
− Perché non ti sei inventato una storia sulla mamma che era uscita a
passeggio, quella sera? Potevi dire che era uscita a prendere una boccata
d’aria, per esempio. Che avevate litigato, a volte capita. Una cosa qualunque.
Perché invece hai detto alla polizia che non erano affari loro?
− Perché è la verità. Se mi fossi inventato qualcosa avrei mentito. E io non
mento. È importante per me non mentire. E tu dovresti saperlo meglio di
chiunque altro.
− Invece comportarsi da molluschi va bene, no? – Lukas allargò le braccia
con fare rassegnato. − Papi, perché…
Si bloccò quando il padre di colpo si mise a fissarlo con quello che pareva
un sorriso negli occhi.
− Non mi chiami papi da quando avevi dieci anni, − gli disse.
− Devo chiederti una cosa.
− Non avrai nessuna risposta. Dovresti averlo capito. Non ti racconterò che
cosa ci faceva fuori la mamma…
− Non è quello, − disse rapido Lukas. – Si tratta di qualcos’altro.
Il padre non replicò, ma non distolse lo sguardo.
− Ho sempre avuto come la sensazione, − iniziò Lukas tentennante, − di
dividere la mamma con qualcun altro.
− Noi dividevamo la mamma con Dio.
− Non è questo che intendo.
Per un attimo restò lí, in piedi, indeciso. Poi si sedette sul divano. Era
molto soffice, e a chinarsi in avanti si stava scomodi. Allo stesso tempo, però,
lui era cosí teso da non riuscire ad appoggiarsi tranquillamente ai cuscini. Alla
fine si rialzò.
− Non è che ho un fratello o una sorella da qualche parte?
L’espressione del padre lo spaventò. Gli occhi si rabbuiarono, le labbra si
tesero e rughe grosse e profonde circondarono la bocca, le sopracciglia si
contrassero avvicinandosi. Le mani, che fino a quel momento aveva tenuto
rilassate in grembo, si strinsero a pugno con una forza tale che le nocche
sbiancarono.
− Questo da te non me lo aspettavo, − gli disse con una voce a lui
sconosciuta.
− Ma io… Se tu e la mamma aveste… o se solo la mamma… Voglio dire,
voi siete sempre stati insieme, e la cosa del bosco e di Gesú e…
− Chiudi la bocca!
Il padre si alzò. Questa volta non sollevò la mano per colpire. Restò
immobile, con gli occhi che mandavano lampi e un tremolio quasi
impercettibile al labbro inferiore.
− Chiedi a te stesso, − gli disse gelido. – Chiedi a te stesso se Eva Karin,
tua madre, mia moglie, ha un figlio di cui non vuole saperne.
− Io lo chiedo a te, papà! E non ho mai detto che lei non volesse saperne…
Erik si scostò.
− Vado a dormire, − gli disse. Ma arrivato alla porta si girò e aggiunse: − E
sappi che mai, mai risponderò a una domanda del genere. Chiedilo a te stesso,
Lukas. Interroga te stesso!
Lukas rimase da solo in soggiorno.
− L’ho chiesto a te, − bisbigliò. – L’ho chiesto a te, papi.
Se solo lui avesse risposto di sí. Non potevi rispondere di sí e basta, e
rendermi la vita infinitamente piú facile?!
Di andare a letto non se ne parlava proprio. Sapeva che non sarebbe
riuscito a prendere sonno. Aveva fatto una domanda e si aspettava una
risposta. Sperava in una risposta. Ogni pezzetto si sarebbe incastrato al posto
giusto se solo suo padre avesse confermato che da qualche parte un figlio
c’era. Un figlio di una certa età, piú grande di lui. Una spiegazione a tutto.
Suo padre però si era rifiutato.
È perché non vuoi mentire, papi?
Lukas si sdraiò sul divano senza togliersi le pantofole. Si gettò addosso
una coperta di lana e la tirò su fino al mento, come faceva sua madre quando
lui era piccolo. E lí rimase, senza dormire, fino allo spuntar del giorno. Un
capodanno veramente nero.
Parte seconda
Gennaio 2009
Perseguitati

− Non so se sia stato corretto da parte mia informarti. A dire la verità non
ci sono segni di effrazione e il preside non vorrebbe mettere di mezzo la
polizia. È solo che io…
− Potresti raccontarmi, − la interruppe Johanne, poi tossí e disse: − Potresti
raccontarmi di nuovo tutto dall’inizio?
Cercò una posizione comoda sulla sedia per smettere di agitarsi.
− Sí, dunque…
La vicepreside Live Smith si passò una mano tra i folti capelli grigi. Già
quando l’aveva raggiunta nel corridoio della scuola e le aveva chiesto di
seguirla nel suo ufficio non sembrava molto convinta di quel che stava
facendo. Adesso era come se ne fosse pentita e volesse chiudere al piú presto
la faccenda.
− Dal momento che in effetti siamo una scuola speciale, − disse con una
certa esitazione, − per ogni bambino abbiamo una documentazione piuttosto
consistente. Come ben sai, i nostri allievi presentano delle tipologie di
disabilità anche molto diverse fra loro, e quindi per massimizzare l’offerta
formativa del singolo…
− Conosco questa scuola e so che cosa offre, − la interruppe Johanne, −
visto che mia figlia la frequenta.
La sua voce era quella di un’estranea. Dura e piatta. Tossí di nuovo e
dovette prendere il bicchiere d’acqua che aveva davanti nonostante le
tremassero le mani.
− Tutto bene?
Live Smith stava fissando la striscia d’acqua che colava sul maglione di
Johanne.
Johanne posò il bicchiere.
− Ho solo la gola un po’ secca. Starò covando qualche malanno. Dimmi
pure.
Si costrinse a un sorriso e fece un movimento rotatorio e impaziente con la
mano. Live Smith si sistemò la giacca, si ravviò i capelli dietro le orecchie e
disse risentita: − Sei stata tu a chiedermi di raccontarti di nuovo tutto
dall’inizio.
− Sí, scusa, potresti semplicemente…
− Be’… per farla breve, quando sono venuta qui venerdí scorso, per
organizzare la riapertura della scuola, ho avuto la sensazione che ci fosse
entrato qualcuno.
Indicò l’ufficio con un gesto della mano. Era un locale spazioso con un
archivio addossato a una delle pareti lunghe; su quella stessa parete c’era una
porta che conduceva a una stanza piú piccola che si poteva chiudere a chiave.
Per il resto i muri erano tappezzati di variopinti disegni fatti dai bambini e
racchiusi dentro cornici dell’Ikea. Le tende erano di un rosso sgargiante a pois
gialli e ondeggiavano lievi all’aria calda che saliva dal termosifone sotto la
finestra.
− Ho avuto la sensazione di qualcosa di estraneo… C’era un… un odore
diverso, forse… Anzi, no. Piuttosto, era come se ci fosse un’atmosfera
diversa.
Sembrava imbarazzata. Sorrise prima di aggiungere: − Sai…
Johanne sapeva.
− Non che io creda nel soprannaturale, − disse Live Smith e sorrise di
nuovo, sulla difensiva, − ma anche tu avrai provato quella sensazione come
di…
− Non c’è niente di soprannaturale, − la interruppe Johanne. – Al contrario.
È una delle capacità piú raffinate di cui siamo dotati. L’inconscio registra cose
che noi non sempre riusciamo a far emergere. Potrebbe trattarsi di un oggetto
che è stato spostato, per esempio. Oppure, come hai detto tu, è possibile che
sia rimasto nell’aria un odore quasi impercettibile. Quanto piú abbiamo
sperimentato, tanto piú le esperienze che abbiamo accumulato sono in grado
di raccontarci quello che a prima vista non sappiamo definire. Alcune persone
sono piú brave di altre a capire le proprie sensazioni.
Riuscí finalmente a bere un po’ di acqua.
− A volte loro stesse si definiscono chiaroveggenti, − aggiunse.
Il sarcasmo rallentò i battiti troppo rapidi del suo cuore.
− E poi questa cosa del fascicolo, − disse Live Smith.
Di nuovo un fugace sorriso ad accompagnare ogni frase, come se la
vicepreside cercasse di sminuirsi. Di sminuire ciò che la preoccupava. Come
se non bisognasse prenderla troppo sul serio. A Johanne in un’altra situazione
sarebbero venuti i nervi per quella gestualità tipicamente femminile, ma al
momento era tutta concentrata sul mantenere la voce ferma.
− Il fascicolo su Kristiane, − disse annuendo.
− Sí, il fascicolo è…
Live Smith inspirò e si bloccò, come in cerca dell’espressione meno grave
da utilizzare. Sparito. Andato perduto. Rubato.
− … forse è stato solo scambiato di posto, − concluse infine.
Ma i suoi occhi dicevano tutt’altro.
− Come lo hai scoperto?
− Stavo prendendo un fascicolo diverso dallo stesso cassetto e mi sono
accorta che non era chiuso a chiave. Il cassetto, voglio dire. Non che fosse
forzato o cose del genere, semplicemente non era chiuso a chiave. Mi sono
arrabbiata con me stessa, perché a quanto mi ricordavo ero stata io l’ultima a
chiudere tutto a chiave prima delle vacanze di Natale. Ci sono anche dei dati
riservati di carattere medico, e io…
Al sorriso questa volta seguí una leggera alzata di spalle.
Johanne non disse nulla.
− Dal momento che non c’erano segni di effrazione né sulla porta, né su
armadio e cassetti, ho pensato che si trattasse di una mia dimenticanza. Per
sicurezza ho controllato comunque che fosse tutto a posto. E lo era. Tutto
tranne il…
− Tranne il fascicolo su Kristiane.
− Esatto.
Johanne sentí l’impulso quasi irresistibile di cancellare quel sorriso dalla
faccia della vicepreside.
− Perché non volete fare denuncia alla polizia? – chiese invece.
− Il preside sostiene che non può esserci stata alcuna effrazione. Niente è
stato rovinato. Non ci sono segni sulle porte, per lo meno non visibili a occhio
nudo. Non è stato rubato nulla. Non che ci siano cose di grande valore in
questa stanza, solo il computer, forse.
Rise. Una risatina forzata ad alta voce.
«E la mia bambina?» pensò Johanne. La vita di Kristiane, tutti i suoi
esami, le diagnosi e le non-diagnosi, le cure mediche e gli errori, gli sviluppi e
le devianze. L’intera vita di sua figlia era stata fiduciosamente registrata e
raccolta in un fascicolo messo insieme nel corso di anni e che ora non c’era
piú.
− A dire il vero i fascicoli dei bambini sono un tantino piú importanti del
suo computer, − commentò Johanne.
Finalmente quel sorriso si spense.
− Ovvio, − disse Live Smith. – Anche per questo mi è sembrato giusto
avvisarti. Forse però ha ragione il preside e si tratta di un mio errore. Vedrai
che il fascicolo spunterà fuori oggi stesso. Ho solo pensato che… vista la
sensazione che ho avuto, e dato che tu lavori in polizia…
− Io non lavoro in polizia. Sono assunta dall’Università.
− Sí, certo. È tuo marito che lavora in polizia, il padre di Kristiane.
Johanne non aveva voglia di rettificare un’altra volta. Si alzò dalla sedia e
lanciò un’occhiata alla stanza sul retro adibita ad archivio.
− Hai fatto bene ad avvisarmi, − disse. – Potrei vedere l’archivio?
− L’archivio?
− L’archivio, sí.
− A dire il vero solo il preside e io possiamo… Come ti ho detto, abbiamo
regole molto severe in fatto di…
− Voglio guardarlo e basta! Non toccherò nessun fascicolo!
La vicepreside si alzò. Senza una parola andò alla porta, scelse la chiave
giusta dal grosso mazzo che aveva e aprí. Tastò la parete interna accanto allo
stipite di sinistra. Sul soffitto un neon dalla luce intensa crepitò e lampeggiò
per poi finalmente assestarsi su un costante ronzio ad alta frequenza.
− È quello lí, − disse succinta, indicando con un gesto della mano.
Due delle pareti erano completamente occupate da armadi, grigi armadi
metallici smaltati con ante. Johanne osservò quello che la vicepreside le aveva
indicato. La serratura sembrava piuttosto robusta. Lei si avvicinò ancor di piú,
sbirciò da sopra gli occhiali.
− C’è un piccolo graffio, qui, − disse dopo qualche secondo. – È nuovo?
− Un graffio? Fammi vedere.
Insieme si misero a studiare la serratura.
− Io non vedo niente, – disse Live Smith.
− Qui, − insistette Johanne, puntandoci sopra una penna. – Un po’ di
traverso. Vedi?
Live Smith si chinò in avanti. Quando strizzava gli occhi il labbro
superiore si contraeva facendola somigliare a un topolino zelante.
− No…
− Ma sí, qui.
− Io non vedo niente!
Johanne sospirò e si raddrizzò.
− Potresti aprirlo, per favore? – le chiese.
Questa volta Live Smith cedette senza alcuna discussione. Il grosso mazzo
di chiavi tintinnò di nuovo e qualche secondo dopo l’anta si aprí. L’interno era
suddiviso in sei cassetti, ognuno dotato di una propria chiave e serratura.
− Questo è il cassetto in cui era conservato il fascicolo di Kristiane, − disse
la vicepreside indicando quello piú in alto.
Pur con tutta la sua buona volontà, Johanne non riuscí a scovare alcuna
traccia di effrazione. Osservò quella piccola serratura da ogni lato. L’armadio
era vecchio, sí, con qualche graffio sullo smalto qua e là, ma la serratura
sembrava intatta.
− Grazie, − mormorò.
Live Smith richiuse a chiave.
− Ecco, − disse sollevata. – Mi dispiace davvero tanto averti allarmata
senza motivo.
− No, no, − ribatté Johanne con un sorriso forzato. – L’ho detto e lo ripeto,
è sempre meglio essere previdenti. Grazie.
Aveva ormai raggiunto la porta quando si rese conto di avere ancora
addosso il giaccone. Sentiva molto caldo, stava quasi sudando.
− Avvisami se il fascicolo salta fuori, − le disse.
− Quando salterà fuori, − la corresse con una risata la vicepreside. –
Naturalmente. Fra l’altro, volevo anche dirti che è davvero una gioia vedere i
grandi progressi di Kristiane.
Fu come se quella donna di mezza età fosse andata incontro a un
cambiamento di personalità. Niente piú sorrisi sciocchi. E le mani, che fino a
quel momento avevano giocherellato nervosamente con i capelli ravviandoli
dietro le orecchie, rimasero tranquille, posate in grembo quando si sedette.
Johanne restò in piedi.
− È una ragazza affascinante, − proseguí Live Smith. – Come ne abbiamo
tante qui, certo, ma la cosa davvero speciale di Kristiane è l’imprevedibilità
nella sua grande prevedibilità. Abbiamo avuto molti autistici in questa scuola,
ma…
− Kristiane non è autistica, − disse rapida Johanne.
Live Smith si strinse nelle spalle.
Ma non sorrise.
− Autistici, afflitti da sindrome di Asperger o semplicemente… speciali.
Ha ben poca importanza come si decide di chiamarli. Quello che volevo dire è
che siamo molto felici di averla qui. Ha una straordinaria capacità di
apprendimento, non semplicemente di memorizzazione. Riesce a fare delle
domande che lí per lí sembrano le piú impensabili, ma che poi, però, valutate
in base alle premesse che lei stessa ha posto, risultano di una logica
impressionante.
E questa volta il suo fu un sorriso autentico. Rise addirittura, una risata
gioiosa e trillante che Johanne non le aveva mai sentito fare. Per saperne cosí
poco della famiglia, quella donna conosceva Kristiane benissimo.
− Ma tu tutto questo lo sai già. Volevo semplicemente farti capire che non
sono solo gli insegnanti che lavorano piú a stretto contatto con tua figlia a
essersi affezionati a lei. Tutti noi siamo contenti di prenderci cura di Kristiane
e impariamo da lei qualcosa di nuovo ogni giorno.
Johanne si sistemò la sciarpa. Quando si passò la lingua sul labbro
superiore sentí sapore di sale.
− Grazie, − disse in tono pacato.
− Sono io che dovrei ringraziare. Ho il piú bel lavoro possibile e
immaginabile, e sono i ragazzi come tua figlia a farmi sentire grata per ogni
giorno che passo qui a scuola. Sono cosí tanti i nostri bambini che incontrano
ostacoli ovunque. Capita che facciano tre passi avanti e due indietro. Ma non
Kristiane.
− Devo andare, − disse Johanne.
− Ma certo. Conosci la strada, vero?
Johanne annuí e aprí la porta. Quando se la richiuse alle spalle, sentí un
odore di sapone in pasta stuzzicarle le narici. Percorse a passo rapido il lungo
corridoio, con gli stivaletti che ticchettavano sul linoleum appena lucidato.
Quando finalmente raggiunse le grandi porte a vetro dell’ingresso, non le
sembrò vero di poterle spalancare.
Il freddo dell’inverno la investí, adesso riusciva a respirare meglio.
Rallentò e cacciò le mani nelle tasche del giaccone. Come al solito
Kristiane aveva insistito per parcheggiare a qualche centinaio di metri dal
cortile della scuola, in modo da poter fare a piedi esattamente lo stesso
percorso di sempre.
L’atteso cambiamento atmosferico era arrivato.
Il freddo secco e prolungato aveva indurito il suolo preparandolo all’arrivo
dei fiocchi di neve asciutta e leggera che adesso stavano imbiancando l’intera
regione dell’Østlandet. Negli ultimi giorni delle vacanze scolastiche, le piste
da sci nei polmoni verdi che la capitale aveva ancora i mezzi per mantenere
erano tutte un brulicare di ragazzi e genitori coi figli piccoli. Sulle piste da
slittino veniva sparata ogni giorno neve farinosa. I campi da calcio, coperti di
ghiaccio, erano attraversati in lungo e in largo da grandi e piccini muniti di
badili e vanghe. Non era solo la città a essere diventata piú luminosa grazie al
suo manto bianco, era come se tutti i suoi abitanti avessero tirato un collettivo
sospiro di sollievo vedendo che la natura presentava il certificato di avvenuta
guarigione. Almeno per la stagione in corso.
Johanne si avvolse meglio la sciarpa intorno al collo per proteggersi dalla
neve e cercò di pensare in modo razionale.
Con grande probabilità il fascicolo era semplicemente finito nel posto
sbagliato.
Solo che lei non riusciva a crederci.
– Merda, − borbottò. – Merda merda merda.
Non capiva perché si sentisse cosí inquieta. Sí, lei era piú o meno sempre
preoccupata per Kristiane, ma questa volta stava davvero esagerando.
Scambiato di posto, aveva detto Live Smith.
Accelerò.
Una nuova e spaventosa angoscia la attanagliava. L’aveva assalita per la
prima volta quando aveva visto quell’uomo al di là della staccionata del loro
giardino. L’uomo che loro non sapevano chi fosse, ma che chiamava Kristiane
per nome. L’unica certezza riguardo alla costante inquietudine che l’aveva
tormentata da quel momento in poi era non avere nessuno con cui
condividerla. Isak trattava Kristiane come se fosse una bambina forte e
normale e spazzava via con una risata qualunque preoccupazione. Yngvar
aveva sempre consolato Johanne in precedenza, per lo meno nei momenti
peggiori. Adesso però era diventato meno paziente. L’espressione rassegnata
che gli si dipingeva in viso ogni volta che lei accennava al fatto che qualcosa
nella figlia non era come avrebbe dovuto la spingeva sempre piú spesso a
tacere. Aveva letto troppo, questo si diceva per tranquillizzarsi. Tutte le
conoscenze che aveva acquisito nel corso degli anni trascorsi con Kristiane si
erano trasformate in un fardello. Se Ragnhild sapeva già che gli sconosciuti
potevano rappresentare un pericolo, Kristiane da questo punto di vista era
spesso totalmente incapace di discriminare. Sarebbe stata in grado di
andarsene con chiunque.
Maniaci sessuali.
Ladri di organi.
Johanne non doveva pensarci. C’era sempre qualcuno a prendersi cura di
Kristiane, sempre.
Era quasi arrivata alla macchina. Non era trascorsa neanche un’ora da
quando aveva parcheggiato, eppure l’auto era completamente ricoperta di
neve. Oltretutto era anche passato uno spazzaneve che ne aveva lasciato un
cumulo alto un metro fra la vecchia Golf e un’angusta strada a senso unico.
Johanne si fermò. Non aveva la vanga nel bagagliaio. E aveva anche
dimenticato i guanti nell’ufficio della vicepreside.
Per la prima volta osò formulare il pensiero che l’ossessionava: qualcuno li
teneva d’occhio.
Anzi, non li teneva d’occhio, ma la teneva d’occhio.
Kristiane.
La famiglia Vik Stubø non aveva mai avuto tende alle finestre del
soggiorno. Poter essere visti dalla strada non li imbarazzava, e senza tende la
stanza era molto piú luminosa. Negli ultimi giorni, però, lei aveva cominciato
a chiedersi come sarebbe stato avere un tessuto leggero davanti ai vetri. Una
protezione dagli sguardi di chi si muoveva fuori, da coloro che lei non
conosceva ma che c’erano. La sua parte razionale sapeva che un uomo al di là
della staccionata di un giardino, un tizio gentile in un negozio di peluche e un
fascicolo scolastico andato smarrito non costituivano affatto una
persecuzione. Il suo intuito però le diceva tutt’altro.
Furiosa, a mani nude, cominciò a spazzare via la neve dall’automobile. Le
dita si intorpidirono quasi subito, ma non si fermò prima di aver liberato tutta
la macchina. Poi cominciò a demolire a pedate il mucchio compatto lasciato
dallo spazzaneve. Le bruciavano le dita dei piedi e le dolevano le anche
quando decise che sarebbe bastato per uscire dal parcheggio.
Si accomodò sul sedile anteriore, infilò la chiave nel quadro di accensione
e la girò. Andò anche troppo su di giri e si immise nella carreggiata,
schiacciando la neve che non aveva spazzato via. Cambiò marcia e proseguí
al doppio della velocità consentita. Arrivata al primo incrocio si rese conto di
quello che stava facendo e frenò di colpo, appena in tempo per evitare la
collisione con un furgone proveniente dalla sua destra.
Per un poco restò lí, china in avanti, le mani posate sul volante.
L’adrenalina rese limpidi i suoi pensieri e in uno sprazzo vide l’assurdità di
credere che qualcuno potesse avere interesse a tenere d’occhio una strana
quattordicenne del quartiere di Tåsen.
Non appena rimise in moto, si sentí inquieta esattamente come prima.

− Non preoccuparti che da fare ce n’è, − disse con un sorrisetto


compiaciuto la segretaria all’avvocato Kristen Faber, porgendogli un
fascicolo. − Se un cliente non si presenta rimane un po’ di tempo libero per
altre cose. Sistemare il mucchio di scartoffie sulla tua scrivania, per esempio.
C’è un caos pazzesco in quella stanza.
L’avvocato afferrò il fascicolo e lo aprí mentre raggiungeva la porta del
suo ufficio. Tutt’intorno alla segretaria rimase sospeso un odore di corpo non
lavato, dopobarba e alcol non smaltito. Lei aprí un cassetto e ne tirò fuori un
deodorante per ambienti: il puzzo di vecchia sbornia si mescolò a un intenso
profumo di mughetto. La segretaria annusò l’aria e fece una smorfia, poi
rimise a posto il deodorante.
− Non ha neanche telefonato? – gridò l’avvocato Faber prima che un
accesso di tosse neutralizzasse un’eventuale risposta.
A quel punto la segretaria si alzò, prese una tazza di caffè fumante dal
basso mobile archivio alle sue spalle e andò dal suo principale.
− No, − rispose quando lui ebbe finalmente smesso di sputare catarro in un
cestino per la carta straboccante. – Avrà avuto qualche impedimento. Ecco
qui. Bevi.
Kristen Faber prese la tazza e ci mancò poco che non rovesciasse il caffè.
− Questa paura di volare è davvero tremenda, − borbottò. – Ho dovuto
ingollare superalcolici da Barbados a qui. Vada a farsi fottere, Barbados!
La segretaria, una cortese e minuta donna sui sessanta, non stentava a
immaginare che ci fosse andato anche lui a fottere, oltre a Barbados. E sapeva
che non era stato solamente in viaggio che l’avvocato aveva bevuto.
Lavorava per lui da quasi nove anni. Nello studio c’erano solo loro due,
oltre a un procuratore legale part time. Sulla carta dividevano gli uffici con
altri tre avvocati, ma i locali erano dislocati in modo tale che potevano
passare anche giorni interi senza che lei vedesse anima viva. L’avvocato
Faber aveva un ingresso proprio, una sala d’attesa sua e un bagno che non
condivideva con nessuno. E dal momento che lo studio era grande le capitava
raramente di dover rifornire d’acqua e caffè la capiente sala riunioni che
avevano in comune.
Due volte all’anno, in luglio e a Natale, l’avvocato Kristen Faber mollava
tutto. Insieme a un gruppo di vecchi compagni di studio, tutti maschi, separati
e danarosi, raggiungeva lussuose mete di viaggio dove si comportava come se
avesse ancora venticinque anni. A parte i soldi, naturalmente. Tornava sempre
esausto e gli ci voleva una settimana per rimettersi in forma, ma non toccava
piú un goccio d’alcol fino al successivo viaggio con gli amici. La segretaria
era convinta che soffrisse di una strana forma di alcolismo, con cui era
comunque possibile convivere, almeno per quanto la riguardava.
− L’aereo è arrivato puntuale? – chiese, tanto per dire qualcosa.
− No. Siamo atterrati a Gardermoen due ore fa, e se non fosse stato per
questo appuntamento sarei riuscito a passare da casa per farmi una doccia e
cambiarmi. Maledizione!
Schioccò le labbra dopo aver bevuto il caffè forte.
− Me ne dài un’altra tazza, per favore? E credo anche che sia meglio
annullare l’appuntamento delle due. Devo proprio…
Sollevò un braccio e cacciò il naso sotto l’ascella. Un alone salato di
sudore formava una sorta di cerchio chiaro sulla stoffa scura del vestito. Faber
allontanò la faccia con un sobbalzo.
− Bleah! Devo proprio andarmene a casa!
− Come vuoi, − rispose la segretaria con un sorriso. – Hai un altro
appuntamento alle tre. Fai in tempo a tornare per quello?
− Sí.
L’avvocato gettò un’occhiata all’orologio che aveva al polso, esitò per un
attimo.
− Anzi, sposta l’appuntamento delle due alle due e mezza, il cliente delle
tre aspetterà un po’.
La segretaria andò a prendere un altro caffè e gli portò anche una ciotolina
di cioccolatini, ma lui stava già scartabellando fra i documenti e non la
ringraziò nemmeno.
− Maledizione, − borbottò scorrendo con gli occhi il contenuto del sottile
fascicolo. – Dopo che aveva tanto insistito per avere un appuntamento appena
fossi rientrato.
La segretaria tornò al proprio lavoro senza commentare.
Un feroce mal di testa tormentava l’avvocato. Si mise pollice e indice sugli
occhi e premette, ma non serví a nulla. Non serví neppure il caffè, anzi: in
combinazione con l’alcol, gli aumentò il battito cardiaco.
Il contenitore delle pratiche in corso tracimava, tanto che, quando ve lo
appoggiò in cima, l’ennesimo fascicolo scivolò e cadde sul pavimento.
Irritato, Faber si alzò e lo raccolse. Ci pensò su un attimo, poi aprí un cassetto
e vi infilò dentro il documento, richiuse il cassetto sbattendolo e uscí.
− Senti, devo telefonare a questo… – la segretaria sbirciò, al di sopra delle
lenti a mezzaluna, l’agenda degli appuntamenti, − Niclas Winter? − completò.
– Per prendere un altro appuntamento, voglio dire. Come ricordavi tu, questo
signore ha insistito parecchio per…
− No. Aspetta che sia lui a chiamarci. Ho molto da fare in settimana. Che
si assuma le sue responsabilità, visto che nemmeno si è preso la briga di
avvisarci che non sarebbe venuto.
Afferrò la pesante valigia con cui era arrivato e se ne andò senza chiudersi
la porta alle spalle. Non aveva speso nemmeno una parola per informarsi su
come fossero andate le vacanze di Natale della segretaria, che aveva
festeggiato in Thailandia con figli e nipoti. Lei rimase ad ascoltare i passi di
Faber per le scale. La valigia sbatteva a ogni gradino. Dal rumore si sarebbe
detto che l’avvocato avesse una gamba di legno e zoppicasse.
Poi finalmente scese il silenzio.

La neve che cadeva fitta attutiva ogni rumore. Era come se la pace dei
giorni di festa aleggiasse ancora sul quartiere. Rolf Slettan aveva deciso di
tornare a casa a piedi dal lavoro, anche se ci voleva un’ora e mezza dalla
clinica veterinaria a Skøyen fino a casa loro a Holmenkollåsen. I marciapiedi
erano coperti da un metro circa di neve fresca e l’ultimo paio di chilometri
aveva dovuto percorrerlo camminando nella stretta striscia di asfalto liberata
dallo spazzaneve al centro della via. Le rare automobili che di tanto in tanto
passavano slittando lo costringevano ogni volta ad arrampicarsi sui cumuli
ancora candidi che fiancheggiavano la strada. Aveva il fiatone ed era sudato
fradicio. Ma dopo l’ultima curva si mise a correre.
Da quella distanza la casa sembrava una scena tratta da un film nazista. La
neve bianca sopra il portale sporgeva da entrambi i lati, coprendo in parte il
motto «Casa dolce casa» inciso a caratteri grossolani. Enormi cumuli di neve
si erano depositati in tutto il cortile, che fra qualche ora avrebbe avuto
bisogno di un’ulteriore ripulita.
Si fermò nella piazzola davanti al portale.
Marcus non poteva essere già tornato. Uno strato di neve intatta, spesso
una decina di centimetri, testimoniava che da un pezzo nessuno passava di lí.
Lillemarcus era da un compagno di scuola e non sarebbe rientrato prima delle
otto. La casa era silenziosa e buia, ma le numerose lampade da esterno in
ferro battuto erano piacevolmente illuminate e facevano risplendere la neve. Il
tetto coperto di torba era scomparso sotto la coltre bianca. Era come se le due
teste di drago che sporgevano pesanti alle estremità potessero librarsi da un
momento all’altro e volare via sulle loro nuove ali candide.
Rolf si stava spazzando via la neve dai pantaloni quando l’impronta di uno
pneumatico attirò la sua attenzione. Un veicolo aveva svoltato e si era fermato
nella piazzola davanti al portale, lasciando un profondo solco a forma di arco.
Non poteva essere successo da molto. Rolf si accovacciò e si accorse che si
intravedeva ancora il disegno del battistrada. Pensò che si trattasse di
qualcuno che aveva accostato per invertire la marcia. Si alzò e seguí con gli
occhi le tracce dei copertoni che si allontanavano per poi reimmettersi nella
via.
Strano.
Fece qualche passo, con prudenza, per non rovinare le impronte che, di
colpo, si fecero meno nitide; dopo un altro mezzo metro diventarono quasi
invisibili, riducendosi a un vago accenno che proseguiva fino in strada.
Rolf si voltò e si mise a seguirle dalla parte opposta. Erano ben visibili,
come quelle nella piazzola. Con una inquietudine che non sapeva spiegarsi
bene nemmeno lui tornò fin dove le tracce avevano inizio e le seguí
cautamente fino alla piccola piazzola e da lí in avanti fino al punto in cui si
mescolavano con i solchi che altri pneumatici avevano scavato sulla via. Non
c’erano cumuli di neve lasciati dagli spazzaneve a separare la strada dalla loro
proprietà. Rolf e Marcus avevano affidato quel compito a una ditta che due
volte al giorno mandava un trattore. E il trattore, verosimilmente, era passato
subito dopo lo spazzaneve.
Non riusciva nemmeno lui a capire esattamente che cosa stesse cercando.
All’improvviso si rese conto che il veicolo in questione doveva essersi
fermato. Doveva essere stato lí per un pezzo, anche se era vero che aveva
nevicato a lungo. La differenza di profondità fra le impronte era notevole.
Dalla larghezza del battistrada ne dedusse che doveva trattarsi di
un’automobile. Di certo non di un furgone, né di un mezzo ancora piú grande.
Mentre risaliva la strada, probabilmente l’automobile aveva accostato e si era
trattenuta nella piazzola per un po’. La neve cadendo si era accumulata dietro
le ruote posteriori, mentre le tracce al riparo della macchina erano rimaste ben
piú visibili rispetto a quelle arretrate.
Tutt’a un tratto Rolf udí il rumore di un motore che si accendeva. Alzò gli
occhi e si girò giusto in tempo per vedere una macchina piú in su, all’altezza
della fermata dell’autobus dove la via curvava verso est, che si scostava dal
ciglio della strada e si immetteva sulla carreggiata. La neve che cadeva e la
luce fioca del crepuscolo gli impedivano di leggere la targa. D’istinto si mise
a correre, ma prima che avesse percorso quei cinquanta metri l’automobile era
già sparita. Scese di nuovo il silenzio. L’unica cosa che si sentiva era il respiro
di Rolf che, piegato sui talloni, scrutava le impronte. Fiocchi leggeri di neve
danzavano nell’aria e scendevano a posarsi sul disegno di quel battistrada che
gli era familiare. Rolf tirò subito fuori il cellulare, attivò la macchina
fotografica e scattò. Era cosí buio che il flash si azionò in automatico.
− Pezzi di merda, − mormorò. Poi tornò indietro di corsa, con il telefono
stretto in mano.
La tranquilla strada secondaria che si inerpicava verso la cintura boschiva
intorno a Oslo non era certo un’arteria di passaggio. I terreni adiacenti alle
abitazioni erano molto ampi, e le ricche case della zona sorgevano sparse qua
e là, ben lontane da sguardi indiscreti. Nell’ultimo periodo l’area era stata
oggetto di un’ondata di furti con scasso. Tre vicini erano stati ripuliti ben bene
nel periodo natalizio, mentre si trovavano in vacanza, nonostante gli allarmi e
i controlli delle società di vigilanza. Secondo la polizia, si trattava di
professionisti. Quattro settimane prima la famiglia che abitava in fondo alla
strada era stata vittima di una rapina. Tre uomini si erano introdotti in casa in
piena notte e avevano preso il padre in ostaggio, costringendo il figlio, un
ragazzo di diciannove anni, a seguirli fino a Majorstua per prelevare tutto il
possibile dai quattro bancomat e dalle tre carte di credito che si erano
procurati minacciando e sparando contro una preziosa opera d’arte.
Le tracce nelle vicinanze del portale erano ancora ben visibili. Rolf Slettan
cercò di tenere il cellulare alla stessa distanza dal suolo e scattò un’altra
fotografia. Le avrebbe scaricate sul computer e ingrandite per confrontarle.
Nel momento in cui si cacciò in tasca il telefonino, si accorse di un mozzicone
di sigaretta. Prima probabilmente era nascosto dalla neve, e adesso era tornato
visibile in una delle orme lasciate dai suoi stivali. Si chinò e cominciò a
raschiare con grande cautela la neve all’interno dell’impronta. Saltò fuori un
secondo mozzicone. Poi un terzo. Quando osservò il primo alla luce di uno
smorto lampione, non notò nulla di particolare. Nemmeno la marca era
leggibile.
Tre sigarette. Rolf aveva smesso da molti anni, ma ricordava ancora che
per fumarne una ci volevano all’incirca sette minuti. Sette per tre ventuno.
Nel caso in cui il guidatore si fosse acceso una sigaretta dopo l’altra sarebbe
rimasto lí per quasi mezz’ora.
Secondo la polizia si trattava di malfattori provenienti dall’Europa dell’Est.
I giornali avevano allertato la popolazione a tenere gli occhi aperti: a quanto
pareva, infatti, la banda o le bande si informavano dettagliatamente prima di
colpire. I mozziconi potevano valere come prova.
Rolf li infilò con cura in uno dei sacchetti neri di plastica che portava
sempre con sé per raccogliere gli escrementi canini. Poi se lo mise in tasca e
si incamminò verso casa.
Avrebbe telefonato subito alla polizia.

Il cellulare si era spento senza alcun motivo. Forse erano state le bambine.
A ogni modo non aveva ricevuto il messaggio di Yngvar. Al rumore dei passi
sulle scale si irrigidí, poi sentí quella voce familiare: − Sono io, sono tornato!
− Lo vedo, − ribatté Johanne con un sorriso e gli accarezzò una guancia
quando lui la baciò. – Ma non dovevi andare a Bergen?
− Sono andato a Bergen, ma visto che c’è tutta una serie di cose su cui
posso lavorare anche da qui, ho preso il volo del pomeriggio e sono tornato.
Mi fermo per tutta la settimana, credo.
− Che bello! Hai fame?
− Ho già mangiato. Non hai ricevuto il mio messaggio?
− No. Il cellulare ha qualcosa che non va.
Yngvar si sfilò la cravatta dopo aver armeggiato con il nodo cosí a lungo
che alla fine Johanne si era offerta di aiutarlo.
− Dovrebbero sparare al tizio che ha inventato questo stupido accessorio, −
borbottò lui. – E questa che roba è?
Corrugò la fronte e con il capo accennò alle pile di documenti e libri,
riviste e fogli sparsi sul divano e che ricoprivano quasi per intero il tavolino
da salotto. Johanne sedeva là in mezzo nella posizione del loto, con gli
occhiali sul naso e un boccale da birra pieno di tè fumante in mano.
− Mi avvicino all’odio, − rispose lei con un sorriso. – Sto studiando l’odio.
− Dio mio, − gemette lui. – Come se non ne avessi abbastanza di cose del
genere, visto il lavoro che faccio. Che cosa stai bevendo?
− Tè. Due parti di Lady Grey, una parte di China Pu-Erh. Ce n’è ancora nel
thermos in cucina, se ne vuoi un po’.
Yngvar si tolse le scarpe senza usare le mani e andò a prendere una tazza.
Johanne chiuse gli occhi. L’inspiegabile inquietudine che l’aveva assalita
era ancora lí, dentro di lei, ma trascorrere un rumoroso pomeriggio con le
bambine le era stato d’aiuto. Ragnhild, che avrebbe compiuto cinque anni il
21 gennaio e quasi non parlava d’altro, aveva organizzato le prove generali
del compleanno per tutti i suoi orsacchiotti e le sue bambole. A cena Johanne
e Kristiane avevano mangiato con in testa un berretto che Ragnhild aveva
preparato appiccicando adesivi di Hannah Montana su due paia delle sue
mutandine. Kristiane aveva tenuto una lunga conferenza sulla rivoluzione dei
pianeti intorno al Sole e concluso il tutto dichiarando che lei da grande
avrebbe fatto l’astronauta. Dal momento che il concetto di tempo di Kristiane
poteva essere un tantino ostico e che raramente le capitava di interessarsi a
qualcosa per piú di due o tre giorni consecutivi, Johanne presa
dall’entusiasmo aveva tirato fuori tutti i libri di quando era piccola e nutriva
lo stesso identico sogno.
Una volta messe a letto le bambine, l’inquietudine era tornata.
Per tenerla in scacco aveva deciso di lavorare.
− Racconta, dài, − le disse Yngvar mentre si accomodava in poltrona.
Teneva la tazza a pochi centimetri dal mento, lasciando che il vapore gli si
posasse sulla pelle come una maschera idratante.
− Che cosa?
− Dell’odio.
− Ne sai sicuramente piú tu di me.
− Su, non scherzare. Mi interessa davvero. Che cosa fai?
Johanne bevve un sorso dal boccale. La miscela di tè era rinfrescante e
leggera, con un odore asprigno.
− Pensavo, − rispose adagio, poi fece una breve pausa. – Pensavo di
avvicinarmi al concetto di odio dall’esterno. Di esaminarlo anche dall’interno,
ovviamente, ma credo che per dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio e su
chi li commette sia necessario approfondire il concetto di odio. Con tutti
questi soldi che improvvisamente si sono riversati su di noi…
Sollevò lo sguardo, come se stesse visualizzando i propri pensieri.
− … forse potrei coinvolgere la ragazza di cui ti ho parlato.
− Quale ragazza?
− Charlotte Holm. Studiosa di Storia delle idee. Te l’ho raccontato che ha
scritto… – si diede una rapida occhiata intorno, poi tirò fuori un libriccino e
lo sollevò.
− Amore e odio: un’analisi dal punto di vista della storia delle idee, −
lesse lentamente Yngvar.
− Interessante, − commentò lei, e posò il libriccino. – Ho parlato con
l’autrice ed è probabile che inizierà a collaborare con noi già da febbraio.
− Per cui in quanti sareste, inclusa lei? – chiese Yngvar con la fronte
aggrottata, come se il pensiero che un gruppo di ricercatori potesse usare i
soldi dei contribuenti per immergersi nell’odio lo rendesse profondamente
scettico.
− Quattro. Forse. Sarà divertente. Ho sempre lavorato piú o meno da sola,
finora. E tutto questo…
Sollevò un foglio con una mano e con l’altra descrisse un arco come ad
abbracciare le scartoffie che la circondavano.
− È tutto odio legale. L’odio verbale protetto dalla libertà di espressione.
Dal momento che le ragioni dell’odio espresso nei confronti delle minoranze
di solito coincidono ad arte con i moventi di quella che senza dubbio si
configura come criminalità d’odio, ritengo interessante esaminare i punti di
contatto. Capire dov’è il confine.
− Il confine?
− Quali affermazioni si possono considerare come libertà di espressione e
fino a che punto.
− Credo quasi tutte.
−Sí. Purtroppo.
− Purtroppo? Dovremmo ringraziare di poter dire quello che ci pare e
piace, in questo Paese!
− Certo. Ma ascolta un attimo…
Johanne raccolse meglio le gambe sotto di sé. Yngvar la guardava.
Quand’era arrivato a casa aveva piú che altro una gran voglia di tuffarsi a
letto, nonostante non fossero nemmeno le dieci. Era estenuato da una giornata
troppo lunga e troppo improduttiva, ma adesso non sentiva alcun bisogno di
dormire. Con il passare degli anni lui e Johanne avevano finito per sviluppare
un modello di convivenza in cui quasi tutto ruotava intorno al lavoro di lui,
alle preoccupazioni di lei e alle bambine. Quando l’aveva vista cosí, immersa
in un mare di carte, e non l’aveva sentita nominare le figlie neanche una volta,
si era ricordato in un lampo di essere innamorato pazzo di lei.
− La libertà di espressione è molto ampia, − disse Johanne cercando un
articolo in quel caos. – E cosí dev’essere. Ma com’è noto ha una serie di
limitazioni. La piú interessante è quella contenuta nel paragrafo 135a del
codice penale. Senza stare ad annoiarti con troppa giurisprudenza, volevo
solo…
− Non mi annoi. Mai.
− Oh, sí.
− Non adesso, per lo meno.
Un fugace sorriso, poi lei proseguí: − Alcuni, pochi, sono stati condannati
per aver violato la legge. Pochissimi. La questione controversa, o forse dovrei
parlare piuttosto di una questione di priorità, va considerata in rapporto alla
libertà di espressione. E a giudicare dalle carte che mi circondano… – allargò
le braccia rassegnata prima di riuscire finalmente a trovare il libro che stava
cercando, − è proprio la libertà di espressione a predominare. Punto.
− È ovvio, − disse Yngvar. – Per fortuna. In fondo siamo una società
moderna.
− Ma che moderna e moderna. Mi sono immersa in tutto quello che questi
omofobi idioti hanno detto negli ultimi…
− Non è che siano proprio scientifiche, le tue osservazioni.
Lei si interruppe, espirò a fondo e incrociò le mani dietro la nuca.
− In questo esatto istante neanch’io mi sento molto scientifica. Sono
stanca. Rassegnata. Perché la definizione di crimine d’odio risulti appropriata
non basta che il colpevole odi la vittima in quanto individuo. L’odio
dev’essere rivolto contro la vittima in quanto rappresentante di un gruppo. E
se c’è qualcosa che mi riesce davvero difficile concepire è l’odio nei confronti
di un gruppo in una società come quella norvegese. A Gaza sí, posso capirlo.
A Kabul. Ma qui? Nella sicura e socialdemocratica Norvegia?
Si riempí la bocca di tè e aspettò qualche secondo prima di inghiottirlo.
− Ho passato due mesi a leggermi e rileggermi le dichiarazioni pubbliche
su musulmani, neri e altre minoranze etnico-culturali. È «pensiero di gruppo»
del peggior tipo. Tutta una contrapposizione continua fra «noi» e «loro».
Le sue dita mimavano le virgolette.
− Alle fine mi è venuta la nausea. La nausea, Yngvar! Non so come faccia
una normalissima madre musulmana norvegese, o perché no un padre, a
dormire sonni tranquilli. E chissà come si sentono la sera, quando preparano i
bambini e li mettono a letto e gli leggono la storia della buona notte,
conoscendo le schifezze che la gente dice e scrive su di loro, le opinioni che
circolano su di loro, i sentimenti…
Socchiuse gli occhi e si tolse gli occhiali.
− È come se fosse diventato tutto legale, − disse. – E quasi tutto dovrebbe
esserlo, chiaro. La libertà politica di espressione in Norvegia rasenta
l’assoluto. La cultura dell’espressione, invece…
Alitò sulle lenti e le pulí con un lembo della camicia.
− Mi dispiace, − disse con un sorriso a labbra strette. – È solo che sarei
preoccupata a morte, io, se sapessi di appartenere a una minoranza malvista e
avessi dei figli.
Yngvar rise sommessamente.
− In questo senso, di sicuro avresti molto da imparare. Sulle
preoccupazioni per i figli, intendo. Ma…
Si alzò e spinse la tazza di tè dal lato opposto del tavolino. Raccolse i libri
e i fogli che si trovavano vicino a Johanne e li spostò all’estremità del divano,
poi si sedette accanto a lei. La cinse con un braccio. La baciò sui capelli, che
odoravano di pancake.
− Ma questo che cosa c’entra con i crimini d’odio? – le chiese a bassa
voce. – Siamo d’accordo tutti e due che non stiamo parlando di reati, ma della
libertà d’espressione e della sua difesa.
− È che…
Lei cercò le parole giuste.
− Siccome la sostanza di quello che viene detto, − riprese, ma si interruppe
di nuovo. – Siccome il contenuto di quello che viene scritto e detto combacia
perfettamente con… con le idee di quegli altri, quelli che picchiano… quelli
che uccidono… ecco, allora secondo me…
Afferrò la tazza, ma non bevve.
− Se vogliamo poter dire qualcosa di sensato sui crimini d’odio, dobbiamo
sapere che cosa li provoca. E non mi riferisco semplicemente ai modelli
interpretativi tradizionali, quelli basati sulle condizioni in cui i soggetti sono
nati e cresciuti e sulle perdite che hanno vissuto, oppure sulla storia dei
conflitti bellici, sulla suddivisione delle risorse, sui contrasti religiosi
eccetera. Dobbiamo sapere cos’è che li scatena. Avrei voglia di indagare sulle
eventuali correlazioni fra quelle che si considerano espressioni d’odio legali
da una parte e i crimini d’odio illegali dall’altra.
− Se le prime possano favorire i secondi, cioè?
− Anche.
− Ma non è evidente? Non per questo possiamo impedire quelle
espressioni, però!
− È una correlazione che non si può dare per scontata. Bisogna indagarla.
− Papà! Papà!
Yngvar balzò in piedi. Johanne chiuse gli occhi e pregò intensamente che
Kristiane non si svegliasse. Non riusciva a sentire che la voce bassa e
rassicurante di suo marito mescolata ai lamenti assonnati di Ragnhild. Scese
di nuovo il silenzio. I vicini del piano di sotto dovevano essere già andati a
dormire. Quella sera avevano guardato un film d’azione decisamente
movimentato e rumoroso, dandole un gran fastidio: era come stare in prima
linea.
− È andata bene, − disse Yngvar riaccomodandosi sul divano accanto a lei.
– Ha fatto solo un brutto sogno, probabilmente. Non era del tutto sveglia.
Dove eravamo rimasti?
− Non saprei, − gli rispose lei con aria esausta. – Davvero.
− Pensavo che fossi contenta all’idea di questo progetto, contenta di
portarlo avanti, voglio dire.
Johanne gli posò una mano sulla pancia e si accoccolò meglio sotto il suo
braccio.
− È cosí. Ma in questo momento mi sento in overdose da odio. Non ti ho
nemmeno chiesto com’è andata la tua giornata.
− Non chiedermelo, ti prego.
Johanne lo sentí rilassarsi a poco a poco sotto il peso del suo braccio. Il
respiro gli si fece piú lento e profondo e anche lei si adeguò a quel ritmo. La
cintura gli andava stretta, Johanne se ne accorse dai salsicciotti di grasso che
traboccavano sopra i pantaloni.
− Che ne dici di mettere delle tende, Yngvar?
− Eh?
− Delle tende, − ripeté lei. – Qui in soggiorno. È come se le finestre
fossero diventate grandissime e scurissime, adesso che è inverno.
− Solo se posso fare a meno di sceglierle, comprarle e appenderle.
− Okay.
Era arrivato il momento di alzarsi. Johanne avrebbe dovuto mettere in
ordine tutti quei documenti sparsi, perché se le bambine si fossero svegliate
prima di lei, cosa che puntualmente accadeva, il caos sarebbe stato ancor
peggio di quanto già non fosse.
− Hai un odore cosí buono… − bisbigliò.
− Tutto di me è buono, − disse lui assonnato. Nella sua voce c’era una
rassicurante tranquillità, una sensazione che lei non provava da tempo. –
Senza contare che sono il piú piú piú bravo bravissimo poliziotto del mondo.

− Polizia! Ehi, ragazzo! Fermati, polizia! Fermati! Fermati, ho detto!


Un ragazzo si era appena catapultato fuori da una Volvo XC90 verde
scuro. Le targhe risultavano illeggibili tanto erano sporche, nonostante la
macchina fosse piuttosto pulita per il resto. Il solito vecchio trucco, pensò
l’agente Knut Bork lanciandosi fuori dall’autocivetta e gettandosi
all’inseguimento del ragazzo.
− Ferma quell’auto! – gridò al collega, che a grandi balzi stava già
attraversando la carreggiata.
Da cinque giorni esatti in Norvegia vigeva il divieto di comprare sesso. La
nuova disposizione di legge aveva ottenuto l’approvazione del parlamento
senza troppo chiasso, anche se non erano in molti a credere che quella norma
avrebbe portato a una riduzione sensibile della compravendita di prestazioni
sessuali. Per il momento la palese prostituzione di strada era scomparsa per
riemergere in luoghi piú appartati, probabilmente in attesa di vedere come
sarebbe andata a finire. Ma di persone che si prostituivano, maschi e
femmine, ce n’erano ancora a bizzeffe a Oslo, e nemmeno i clienti erano
spariti. La prostituzione era diventata una faccenda un po’ piú complicata, per
entrambe le parti. E forse era proprio quello lo scopo.
Il ragazzo sbandava ma era veloce. All’agente Bork ci vollero comunque
non piú di cinquanta metri per acciuffarlo.
Il cliente con l’automobile costosa appariva terrorizzato. Era sui
trentacinque anni e aveva cercato di nascondere sotto una vecchia coperta i
due seggiolini dietro. La patta dei jeans di marca era ancora aperta quando la
portiera anteriore era stata spalancata. Dopo essere sceso dalla Volvo era
rimasto lí, in piedi sul marciapiede, come gli avevano chiesto, ed era
scoppiato a piangere.
− Cazzo, − urlò il ragazzo dall’altra parte della strada. – Cosí mi uccidi!
− Ma no, su, − gli disse l’agente Bork. – E se prometti di fare il bravo non
ti metto le manette. Okay? Non è che siano proprio piacevoli, perciò… se
fossi in te…
Sentí il ragazzo iniziare controvoglia a rassegnarsi: il suo corpo magro a
poco a poco si rilassò. L’agente Bork allentò lentamente la presa con cui lo
aveva immobilizzato da dietro. Quando il ragazzo si girò gli parve ancora piú
giovane di quanto gli fosse sembrato da lontano. Aveva un viso infantile, dai
tratti morbidi, e non doveva pesare piú di sessanta chili. Un’eruzione da
herpes partiva dal labbro superiore e saliva fino alla narice sinistra, dilatata da
croste e pus. Bork rabbrividí e gli venne voglia di lasciarlo andare.
− Non ho fatto niente di male, cazzo! – Si passò la manica della giacca a
vento sotto il naso. − Non è mica vietato vendersi, no? È quello stronzo lí che
dovete mettere dentro!
− Credo proprio che gli daremo una bella multa. Ma visto che sei tu il
nostro testimone dobbiamo farci una chiacchieratina anche con te. Vieni alla
macchina, dài. Come ti chiami?
Il ragazzo non rispose. Rimase ostinatamente fermo quando Knut Bork gli
fece cenno di muoversi.
− Ascoltami bene, − gli disse il poliziotto. – Ci sono due modi per farlo: il
modo facile e quello che non è affatto divertente. Né per te, né per me. A te la
scelta.
Nessuna risposta.
− Come ti chiami?
Ancora nessuna risposta.
− Okay, − disse Knut Bork tirando fuori le manette. – Mani dietro la
schiena, per favore!
− Martin. Martin Setre.
− Martin, − ripeté il poliziotto, e rimise a posto le manette. – Hai un
documento di identità?
Leggero cenno di diniego e alzata di spalle.
− Quanti anni hai?
− Diciotto.
Knut Bork sghignazzò.
− Diciassette, − disse Martin Setre. – Quasi, quasi diciassette.
I lamenti del cliente si facevano sempre piú forti. Mancava poco all’una di
notte, e il traffico scarseggiava. Sentirono un tram che sferragliava in Prinsens
Gate; un taxi diede un colpo irritato di clacson a due auto parcheggiate male
mentre sfrecciava con il segnale sul tetto acceso, a caccia di passeggeri. I
festeggiamenti natalizi e la crisi finanziaria avevano tirato il collo alla vita
serale di gennaio e la città era praticamente deserta.
− Knut! – gridò il collega ad alta voce. – Vieni qui un attimo!
− Andiamo, − disse l’agente Bork al ragazzo, afferrandolo per un braccio.
Era cosí sottile che riuscí a cingerlo tutto con la mano.
Il ragazzo lo seguí malvolentieri.
− Credo proprio che dovremmo arrestare questo tizio, − disse a Knut Bork
il collega quando furono vicini. – Guarda un po’ qui che cosa abbiamo!
Bork diede un’occhiata all’interno dell’automobile.
Il vano portaoggetti fra i due sedili anteriori era aperto. Da quello spazio
vuoto sotto il bracciolo, ideato per riporre qualche piccolo oggetto
potenzialmente utile, debordava un sacchetto di plastica rigonfio. Knut Bork
si infilò un paio di guanti in lattice e ne afferrò un lembo.
− Guarda, guarda… − disse, e schioccò le labbra come se approvasse. –
Hashish, non è vero?
La domanda era del tutto superflua e non seguí alcuna risposta. Il
poliziotto soppesò il sacchetto con una mano, aveva un’espressione pensosa.
− Direi all’incirca mezzo chilo, − commentò. – Niente male!
− Non è mio, − pianse l’uomo. – È suo!
Indicò Martin.
– Ehi! – gridò il ragazzo. – Ma vaff… Ne volevo cinque grammi per fargli
il lavoro, e guarda un po’ che cosa mi ha dato!
Abbassò la cerniera e si mise a frugare nella tasca interna del giubbotto, da
cui infine riuscí a tirare fuori qualcosa che tenne fra indice e medio.
− Questi sono al massimo tre grammi, − disse, con la pallina incartata nella
stagnola che gli dondolava davanti al viso. – Al massimo! Non sarei mica
sceso dalla macchina se quel sacchettone fosse stato mio! Non me ne sarei
mica andato senza portarmelo via, eh! Ma sei idiota o cosa?
− Direi che il ragazzo ha ragione, no?
Il cliente singhiozzò quando il poliziotto gli posò una mano sulla spalla, in
attesa di una risposta.
− Per favore! Non potete mettermi dentro! Farò qualunque cosa… Posso…
potete prendervi tutto quello che…
− Ehi ehi ehi! – lo ammoní Knut Bork con una mano levata. – Non
peggioriamo le cose. Adesso noi, belli tranquilli…
− Posso andare? – chiese Martin con voce sottile. – Non è me che volete. A
me mi mandate da quelli della tutela dei minori e poi dovete compilare un
sacco di moduli e…
− Avevo capito che eri un adulto. Su, vieni.
Passò un autobus notturno che dovette procedere zigzagando fra le auto
che ostacolavano il traffico su entrambe le carreggiate. Solo un passeggero
sbirciò curioso in direzione dei quattro uomini, poi l’autobus proseguí
rumorosamente la sua corsa e si poté riprendere la conversazione.
− La mia macchina! – singhiozzava l’uomo mentre lo portavano verso
l’autocivetta. – A mia moglie serve domani mattina presto! Deve portare i
bambini all’asilo!
− Mettiamola cosí, − disse Knut Bork aiutandolo a infilarsi sul sedile
posteriore. – Domani tua moglie avrà problemi ben piú gravi che essere
rimasta senza macchina.
Ragazzo di strada

Il problema era il gran numero di persone che avevano iniziato a


lamentarsi dell’aria viziata. Del cattivo odore, a essere precisi. Il concierge
aveva avuto il suo bel daffare a cambiare sistemazione ai vari ospiti man
mano che tornavano dalle stanze loro assegnate e dicevano che i locali erano
inabitabili. La cosa ancora piú sorprendente era che il fenomeno non
riguardava una parte dell’hotel: i reclami provenivano da camere sparse qua e
là. Alla fine l’intero sistema era andato in tilt: data la quantità di camere
inutilizzabili, l’albergo si ritrovava con un numero di prenotazioni
decisamente superiore alla disponibilità.
Il Continental di Oslo era un’azienda orgogliosa, e non accettava
assolutamente che ci fosse un cattivo odore nelle stanze dei suoi ospiti.
Il tuttofare Fritjof Hansen stava cercando di venire a capo del problema da
una cinquantina di minuti. Aveva iniziato dalla prima camera, quella che un
iracondo francese aveva rifiutato minacciando di trasferirsi al Grand Hotel.
Un nauseante puzzo dolciastro lo aveva colpito non appena aperta la porta,
ma da quel che Fritjof Hansen vedeva non c’era niente in grado di giustificare
quel fetore. Il bagno era stato lustrato da poco, tutti i cassetti erano stati
svuotati, fatta eccezione per l’obbligatorio volume del Nuovo Testamento e
per le brochure che illustravano i tanti intrattenimenti diurni e serali offerti
dalla città di Oslo. E anche se sotto il letto aveva trovato un batuffolo di
ovatta sporco e, dettaglio imbarazzante, un preservativo nascosto dietro una
gamba del letto, non c’era niente che facesse cattivo odore. Oltretutto secondo
lui non c’era nella stanza un punto in cui la puzza fosse piú forte che in altri.
Appena uscito in corridoio, lo investí un profumo impersonale di lusso e
detersivo per moquette. Nella camera accanto era tutto a posto. Quando aprí
la porta alla fine del lungo corridoio, ecco di nuovo la puzza.
Era davvero incomprensibile.
Al momento Fritjof Hansen si trovava nella hall, e a gambe larghe e con le
mani dietro la schiena annusava l’aria con il naso all’insú. Aveva sessantatre
anni e un olfatto indebolito dall’aver fumato un pacchetto di sigarette al
giorno per quarant’anni. Ma da quando aveva definitivamente smesso, tre
anni prima, il gusto e l’olfatto si erano molto affinati.
− Edvard, − disse, e tese la mano verso un fattorino che avanzava
barcollando con una borsa sotto braccio e una valigia per mano. – Senti un
odore strano in questo punto?
− No, − rispose l’altro col fiatone, senza fermarsi. – Ma nello scantinato
c’è una gran puzza!
− A-ha…
Fritjof Hansen serrò le gambe come un soldato sull’attenti e si spazzò via
dal vestito un immaginario granello di polvere. Indossava un’uniforme verde,
perfettamente stirata e con una marcata piega ai pantaloni, e un paio di scarpe
nere ben lucidate. Il tesserino di riconoscimento dotato di banda magnetica,
che in combinazione con l’insolito codice 1111 gli permetteva di accedere a
ogni locale dell’edificio, era appeso a un cordino estensibile con l’avvolgitore
agganciato alla cintura. Anche quando s’incamminò lo fece in modo piuttosto
rigido e militaresco.
Lo scantinato dell’Hotel Continental era un complicato labirinto per tutti,
ma non per Fritjof Hansen. Da oltre sedici anni si occupava di sistemare cose
grandi e piccole in quell’albergo, e quando l’anno prima gli avevano conferito
la carica di direttore operativo si era reso conto che l’avevano fatto in
omaggio alla lealtà dimostrata verso l’azienda, e infatti non dirigeva proprio
niente e nessuno. Prima di lavorare al Continental aveva infilato graffette
nelle scatole di un laboratorio protetto nel quartiere di Groruddalen. Vista la
sua grande abilità nei lavori manuali era diventato una sorta di tuttofare, fino
a quando il capo non aveva suggerito il suo nome per un lavoro all’Hotel
Continental. Lui si era presentato al colloquio rasato di fresco, in abito
elegante e con una cassetta degli attrezzi in mano. Aveva ottenuto il posto e
da quel momento in poi non era mancato un solo giorno.
Lo scantinato non gli piaceva.
Dei complicati macchinari là sotto si occupavano operai specializzati. Era
capitato che Fritjof Hansen cambiasse una lampadina o riparasse una porta
che non si chiudeva bene, ma l’albergo aveva stipulato dei contratti con
alcune ditte esterne per un costante lavoro di manutenzione e
ammodernamento della caldaia. E anche dell’aerazione: sul soffitto e in una
stanza apposita all’ultimo piano erano situate le prese d’aria esterna, mentre
nello scantinato si trovava la centrale di condizionamento. Con il passare
degli anni c’erano state modifiche e adattamenti tali per cui si poteva ormai
parlare di due impianti separati. Dopo l’ultimo ammodernamento all’albergo
era stato suggerito di sostituire tutto il sistema; i costi però erano troppo
elevati, e cosí la direzione dell’hotel e il fornitore dell’impianto erano giunti a
un compromesso: l’acquisto di una centrale nuova e piú piccola che
alleggerisse il carico di lavoro a quella vecchia. Fritjof Hansen ne colse il
monotono ronzio prima ancora di arrivare al corridoio piú interno, dove si
trovavano le porte chiuse a chiave delle sale macchine.
Scendendo i gradini arricciò il naso. Non era proprio la stessa puzza delle
stanze incriminate, ma anche lí il naso era solleticato da una strana esalazione
dolciastra, che si mescolava all’umidità, alla polvere e all’odore tipico delle
cose vecchie.
Fritjof Hansen non credeva agli spiriti. Credeva in suo fratello, nel Partito
laburista norvegese e nella direzione dell’hotel, la quale gli aveva promesso
che fin quando fosse stato in grado di tenersi in piedi e camminare nessuno
l’avrebbe mandato via. Con il passare degli anni aveva cominciato a credere
anche in sé stesso. Gli spiriti non si vedevano. E quello che non si vedeva non
esisteva. Ciononostante, provava sempre un inspiegabile disagio quando si
infilava in quei corridoi lunghi e stretti su cui si affacciavano tante porte che
nascondevano cose che lui conosceva, ma spesso non capiva.
Dove il corridoio curvava a sinistra l’odore si fece piú forte. Fritjof Hansen
si avvicinò all’impianto dell’aria condizionata, diviso in due locali adiacenti
ma separati. Forse avrebbe dovuto chiamare qualcuno. Edvard era una brava
persona che scambiava sempre due chiacchiere quando poteva.
Ma Edvard era solo un facchino, mentre lui era il direttore operativo, con
tanto di nome appuntato sul petto e un codice che gli permetteva di accedere
ai locali dell’intero edificio. Questo era il suo lavoro e il concierge gli aveva
dato un’ora di tempo per venire a capo della situazione, poi avrebbe chiamato
dei professionisti.
Come se lui non fosse un professionista, nel suo lavoro.
Anche se quasi tutto nello scantinato era vecchio, i locali erano protetti da
porte dotate di moderne serrature elettroniche. Fritjof Hansen inserí la scheda
nel lettore della porta piú vicina e digitò il codice segreto con mano piú ferma
che poté.
Aprí.
La puzza lo investí con un’intensità tale da costringerlo ad arretrare di un
paio di passi. Si coprí il naso con la mano a coppa e avanzò esitante.
Si fermò sulla soglia della stanza buia. Con l’altra mano tastò la parete alla
ricerca dell’interruttore e quando lo schiacciò rimase quasi accecato dai neon
che all’improvviso inondarono il locale di una spiacevole luce bluastra.
A quattro metri da lui, parzialmente nascoste dietro qualcosa che non capí
cosa fosse, vide un paio di gambe dal ginocchio in giú. Difficile dire se
appartenessero a un uomo o a una donna.
Fritjof Hansen aveva un rituale serale: tutti i giorni feriali alle ventuno e
trentacinque guardava Csi su TVNorge. Una birra, un sacchetto di patatine e
Crime Scene Investigation prima di andarsene a letto. Gli piacevano sia la
serie girata a Miami, sia la versione newyorkese. Il preferito di Fritjof Hansen
rimaneva comunque sempre Gil Grissom della prima serie, quella ambientata
a Las Vegas, tanto che non era piú sicuro di voler continuare a seguire il
telefilm una volta che il suo idolo fosse stato sostituito da quel tizio di colore.
Grissom era il migliore di tutti in assoluto.
E a Gil Grissom non sarebbe affatto piaciuto che il direttore operativo di
un rispettabile hotel si aggirasse sulla scena di un crimine distruggendo le
molte, microscopiche tracce che potevano esserci. Sul fatto che quella potesse
ormai definirsi la scena di un crimine Fritjof Hansen non aveva dubbi. E
comunque la persona vicino al muro era sicuramente morta. Gli ricordava un
episodio in cui Grissom era riuscito a stabilire l’ora del decesso studiando le
fasi di vita di alcune larve di mosca sul cadavere di un maiale. Solo vederlo
alla televisione gli era bastato.
− Morto stecchito, − mormorò per convincersi meglio. – Questa è puzza di
cadavere.
Lentamente indietreggiò fino a uscire, poi chiuse la porta a chiave.
Impugnò la maniglia per essere certo che la serratura fosse scattata e si diresse
verso le scale. Prima ancora di girare l’angolo dove il corridoio faceva una
curva a novanta gradi stava già correndo.

− In effetti avevo preso in considerazione l’idea di lasciarlo andare, solo


che poi abbiamo trovato l’hashish. Ho deciso di farmi una bella chiacchierata
con lui e mi è venuto in mente che…
L’agente Knut Bork allungò il suo rapporto a Silje Sørensen mentre
insieme si dirigevano verso la cosiddetta zona blu nell’ala nord della centrale.
Lei lo prese in mano e si fermò per dare una scorsa al foglio.
A un piú attento controllo era saltato fuori che Martin Setre aveva in realtà
quindici anni e undici mesi. La prima parte della sua vita l’aveva passata
insieme ai genitori naturali. Già alla scuola materna si era fatto notare per la
sua predisposizione agli infortuni: continue fratture, lividi. È vero che anche lí
era piuttosto disattento, ma la maggior parte delle ferite se le faceva a casa. In
base a una relazione sul bambino richiesta dal coordinatore pedagogico si era
formulata l’ipotesi che soffrisse di Adhd, la sindrome da deficit di attenzione
e iperattività, ma prima che si potesse fare un’indagine accurata la famiglia si
era trasferita. Martin aveva iniziato ad andare a scuola in un piccolo comune
dell’Østfold, ma dopo soli sei mesi era stato ricoverato in ospedale per dei
dolori all’addome di cui nessuno era riuscito a venire a capo. Nella primavera
in cui frequentava la prima elementare la famiglia si era trasferita di nuovo,
dopo che uno degli insegnanti si era presentato senza preavviso a casa del
ragazzino e lo aveva trovato chiuso in un gabbiotto per le bici con troppi
pochi vestiti addosso. L’insegnante aveva avvisato l’Ufficio per la tutela dei
minori, ma prima che il caso arrivasse in cima alla pila delle pratiche inevase
la famiglia si era trasferita per l’ennesima volta. E cosí era andata avanti la
vita di Martin Setre, fino al giorno in cui, all’età di undici anni, non era finito
all’ospedale di Ullevål a Oslo con il cranio fracassato. Per fortuna erano
riusciti a salvarlo; dargli una vita degna di essere vissuta si era invece rivelata
un’impresa molto piú difficile. Da quel momento in poi, il ragazzo non aveva
fatto altro che entrare e uscire da istituti e passare da un affido familiare
all’altro. La sua ultima fuga risaliva a Natale: era scappato da un istituto per
minori gestito dai servizi sociali dov’era stato portato a viva forza.
La causa penale nei confronti dei genitori era stata archiviata per mancanza
di prove.
− ’Orcaputt… − mormorò Silje rialzando gli occhi.
− Eh?
− Porca puttana! – ribadí in tono molto convincente.
− Puoi ben dirlo, − commentò Knut Bork, poi la invitò a proseguire. – È
qui.
Tirò fuori una chiave e la infilò nella serratura.
− A rigor di termini non siamo autorizzati a tenerlo chiuso qua dentro, −
disse a bassa voce. – Per lo meno non senza sorveglianza. Ma quel ragazzo
sarebbe già chissà dove se avessi lasciato la porta aperta anche per un attimo.
Solo mentre venivamo dal Centro provvisorio di accoglienza della tutela
minori a qui ha cercato di scappare tre volte.
− È stato al centro da lunedí fino a ora?
− Sí. E da quando lo abbiamo portato qui non è mai stato solo per piú di
cinque minuti.
La porta si aprí.
Martin Setre non alzò nemmeno gli occhi. Se ne restò seduto a dondolare
sulla sedia con un piede sul tavolo. Intorno allo stivale sporco si era formata
una pozzetta di neve sciolta. Lo schienale della sedia sbatteva a ritmo
cadenzato contro la parete alle sue spalle e aveva già cominciato a lasciare dei
segni.
− Smettila! – gli disse Knut Bork. – Subito! Lei è l’ispettore capo Silje
Sørensen. Vuole parlare con te.
Il ragazzo continuò a tenere lo sguardo basso. Giocherellava con una
scatolina metallica rotonda di tabacco da masticare, ma non sembrava averne
in bocca. L’infezione da herpes era peggiorata.
− Ciao, − gli disse Silje avvicinandosi all’altro lato del tavolo. – Puoi
anche salutarmi, se vuoi.
Si sedette.
− Capisco, − aggiunse, e scoppiò a ridere.
A quel punto il ragazzo alzò gli occhi, ma senza incrociare il suo sguardo.
− Che cazzo hai da ridere, eh?
− Non rido di te. Rido di lui, Knut.
Fece un cenno del capo verso il collega piú giovane, il quale sollevò
appena le sopracciglia per poi riprendere la sua espressione indifferente.
Aveva girato la sedia prima di sedersi e se ne stava appoggiato alla spalliera
con le braccia conserte, in una mano teneva un sottile fascicolo che oscillava
avanti e indietro.
− Sai, − disse Silje, – quando mi ha mostrato la documentazione su di te
abbiamo deciso di scommettere. Ho puntato cento corone sul fatto che tu ti
saresti dondolato sulla sedia, avresti giocherellato con una scatolina di
tabacco da masticare e ti saresti rifiutato di salutarmi. Poi ne ho puntate altre
cento sul fatto che non mi avresti guardato negli occhi per il primo quarto
d’ora. Mi sa che divento ricca. È per questo che rido.
Rise di nuovo.
Il ragazzo tirò giú il piede che teneva sul tavolo, con un colpo secco
riappoggiò sul pavimento le gambe anteriori della sedia e la fissò dritta negli
occhi.
− Non è ancora passato un quarto d’ora, − disse. – Hai perso.
− Solo a metà, − ribatté con un sorriso Silje Sørensen. – Io e Knut siamo
uno a uno, adesso vediamo come va a finire tra me e te.
Dei leggeri colpetti attirarono lo sguardo del ragazzo verso la porta.
− Avanti! – disse ad alta voce Knut Bork, e la porta si aprí.
Una donna sui trent’anni, decisamente sovrappeso, con i vestiti svolazzanti
e l’affanno fece il suo ingresso.
− Scusate, ho qualche minuto di ritardo, − disse. – Oggi è una giornata
intensa. Sono Andrea Solli, dell’Ufficio per la tutela dei minori.
L’ultima frase la rivolse a Martin Setre, al quale tese la mano. Il ragazzo
sollevò esitando la sua e concesse una molle stretta di mano, ma non si alzò.
− E con questo le formalità dovrebbero essere tutte a posto, − disse Andrea
Solli afferrando l’ultima sedia vuota disponibile.
Martin Setre chiuse gli occhi e sembrò sbadigliare. In realtà stava
aggiornando un suo calcolo: nella lunga sfilza di assistenti sociali, specialisti,
avvocati e membri di commissioni varie che erano entrati e usciti dalla sua
vita, Andrea Solli era il numero sessantadue. Il numero uno era riuscito a farlo
parlare e lui aveva raccontato tutto quello che aveva avuto la forza di
raccontare, per poi concludere con la descrizione di suo padre che gli sbatteva
ripetutamente la testa contro la tazza di un water, ancora e ancora, fino al
punto in cui lui stesso non sapeva piú se era vivo o morto.
Quella volta la signora con cui si era confidato gli aveva detto che lei gli
credeva e che sarebbe andato tutto bene.
Niente, mai, era andato bene. E lui aveva smesso da tempo di credere a
tutto quello che gli dicevano.
− So che ti hanno arrestato tre giorni fa, − riprese Silje Sørensen. – Per
possesso di hashish, tre grammi e mezzo, c’è scritto qui. E di questo, a essere
sincera, io me ne frego. Anche della tua carriera nel campo della
prostituzione. Non me ne frega niente, a parte…
Prese il foglio che Knut Bork aveva tirato fuori dal fascicolo che teneva in
mano.
− Questo. Il rapporto di un tuo arresto il 21 novembre dello scorso anno.
− Eh? Adesso vi mettete anche a tirare fuori le cose stravecchie?
Il ragazzo cominciò ad agitarsi sulla sedia.
− Martin… è passato solo un mese e mezzo. Qui da noi, alla polizia, non
sono cose stravecchie. Ma non sei nemmeno tu quello che mi interessa in
questa faccenda.
Il ragazzo si era sporto in avanti e giocherellava con la scatolina di tabacco
da masticare: se la passava da una mano all’altra facendola scivolare sul piano
del tavolo come un dischetto da hockey.
− Questo è Hawre. Hawre Ghani. Tu lo conosci, non è vero?
Il finto dischetto da hockey cominciò a passare piú in fretta da una mano
all’altra.
− Su, Martin. Vi hanno portato dentro insieme. Dal rapporto emerge
chiaramente che voi due vi conoscevate. Voglio solo sapere…
− Non vedo Hawre da un’eternità, − chiarí subito il ragazzo con tono
risentito.
− Ti credo. Davvero.
− Non so niente di Hawre, − borbottò Martin.
− Eravate amici?
Il ragazzo fece una smorfia.
− Quello sarebbe un sí o un no?
− Non è che sia proprio facile farsi degli amici quando uno vive come me.
Non mi lasciano mai stare nello stesso posto per piú di qualche settimana,
mai!
− Sei tu che scappi, − lo interruppe l’assistente sociale. – Capisco che per
te sia tutto molto difficile, ma è difficile anche creare…
− Queste sono cose di cui potete parlare dopo, − la interruppe Silje
Sørensen. – Devo chiedertelo di nuovo, Martin. Conoscevi bene Hawre?
Lui riprese a passarsi il finto dischetto da hockey da una mano all’altra.
Non rispose.
− Sei arrossito. Stavate insieme?
− Eh?!
La ferita da herpes al naso aveva cominciato a sanguinare. Un sottile rivolo
rosso scendeva a zig-zag lungo la crosta irregolare e giallastra che dalla narice
sinistra arrivava al labbro superiore.
− Io e… Hawre? Hawre non è nemmeno un vero omosessuale! Ha solo
bisogno di soldi, lui!
− Ma tu lo sei?
− Che cosa?
− Omosessuale.
− Non hai nessun diritto di chiedermelo, cazzo!
Nel cortile interno una sirena cominciò a suonare. Due gazze posate sul
davanzale esterno della finestra li fissavano con occhi scuri come il carbone,
imperturbabili a quel suono.
Gli occhi di Martin si assottigliarono e finalmente le sue mani si
fermarono.
− Ma visto che me lo chiedi, la risposta è sí. E non c’è niente di cui
vergognarsi. No.
Tutto il suo corpo teso trasudava ribellione.
− Sono perfettamente d’accordo con te, − gli disse Silje.
Con una decina di chili in piú e senza herpes Martin Setre avrebbe forse
potuto essere bello. Purtroppo invece aveva i denti rovinati, uno spettacolo
insolito in un ragazzo norvegese nel 2009. Quando parlava si vedeva uno
strato grigiastro di tartaro che comunque non riusciva a nascondere un paio di
scadenti otturazioni sugli incisivi. Ma aveva gli occhi grandi e blu e lunghe
ciglia ricurve, come quelle di un bimbo piccolo.
− Non possono andarsene, quelli lí?
− Chi?
Martin indicò l’assistente sociale e l’agente di polizia.
− Io posso anche andarmene, − disse Knut Bork. – Ma Andrea Solli deve
restare. Non abbiamo il diritto di interrogarti se non è presente un tutore.
E senza ulteriori discussioni si alzò, posò il fascicolo accanto al foglio
davanti a Silje Sørensen e accostò la sedia al tavolo.
− Telefonami quando avete finito, − disse. – Mi trovi in ufficio.
La porta si richiuse alle sue spalle e Martin Setre rivolse uno sguardo
inacidito ad Andrea Solli.
− Non ho bisogno di nessun tutore, − disse. – Puoi andartene anche tu.
Silje anticipò la rappresentante dell’Ufficio per la tutela dei minori dicendo
in tono fermo: − Non se ne parla nemmeno. Scordatelo.
E aggiunse: − Perché non mi parli di te e Hawre?
Martin aveva iniziato a leccarsi la ferita. Il sangue che gli usciva dal naso
si mescolò alla saliva diventando di un rosso pallido, e tutt’a un tratto un
grosso pezzo di crosta si staccò.
− Cazzo! – gridò il ragazzo portandosi una mano alla bocca.
Dalla ferita aperta aveva iniziato a sgorgare sangue in abbondanza, e
Andrea Solli tirò fuori una scatola di kleenex dalla sua capiente borsa. Martin
ne prese tre e se li premette sulla ferita.
− Hawre e io non stavamo insieme, − disse irritato, rivelando
all’improvviso di non aver ancora cambiato del tutto la voce. – Eravamo solo
amici!
− Di solito, due amici una vaga idea di dove sia l’altro ce l’hanno, − gli
fece notare Silje Sørensen.
Il ragazzo non rispose. Aveva gli occhi lucidi, ma lei non sapeva se fosse
per la piega che aveva preso la conversazione o per il labbro dolorante.
Questo la rendeva incerta su come procedere. Per guadagnare tempo aprí una
bottiglietta d’acqua e la versò in tre bicchieri, senza chiedere se qualcuno ne
volesse.
− Hawre è morto, − disse in tono pacato.
Le cornacchie sul davanzale spiccarono il volo tutte e due nello stesso
momento, emisero un verso roco e sparirono nel buio sopra la città.
Finalmente aveva smesso di nevicare. Erano le quattro e un quarto del
pomeriggio. In corridoio sentirono i passi frettolosi di qualcuno che non
vedeva l’ora di andarsene a casa.
− Era quello che pensavo, − bisbigliò Martin.
Lasciò cadere a terra i fazzoletti intrisi di sangue, posò le braccia sul tavolo
e vi nascose la faccia.
− Era quello che pensavo, − ripeté singhiozzando.
− Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto, Martin?
Silje Sørensen avrebbe voluto abbracciarlo. Tenerlo stretto. Consolarlo.
Come se esistesse un modo per consolare un ragazzo di neanche sedici anni
che aveva perso ogni possibilità di vivere una vita dignitosa molto, molto
tempo prima.
− Quand’è stata l’ultima volta che lo hai visto? – ripeté.
− Non me lo ricordo, − rispose Martin in lacrime.
− È molto importante, sai. Perché Hawre è stato ucciso.
I singulti cessarono di colpo.
− Ucciso?
La sua voce si sentiva mezza soffocata, vista la posizione in cui era.
− Sí. Per questo è molto importante che tu faccia uno sforzo per ricordare.
− Credi che sia stato io a uccidere Hawre?
− No. Neanche per sogno. Non credo affatto che sia stato tu a uccidere il
tuo amico.
− Bene, − disse Martin. Tirò su col naso, poi lentamente raddrizzò la
schiena e alzò la testa.
Andrea Solli gli indicò la scatola di kleenex, ma lui la lasciò stare.
− Perché non lo avrei mai fatto!
− Puoi cercare di ricordarti quando lo hai visto l’ultima volta? Partiamo dal
21 novembre, quando vi hanno portato dentro insieme. Era un venerdí.
Ricordi qualcosa di quel giorno?
Lui fece un cenno affermativo quasi invisibile con il capo.
− Tu sei stato preso in carico dall’Ufficio per la tutela dei minori e portato
al centro di accoglienza, c’è scritto qui. Hawre invece è riuscito a scappare
durante il trasferimento. Lo hai piú visto, dopo?
− Sí…
Martin Setre sembrava riflettere. Alla radice del naso gli si era formata una
ruga obliqua.
− Me la sono svignata il giorno dopo. Ci siamo incontrati… domenica, sí.
E…
Per la prima volta prese in mano il bicchiere d’acqua.
− Posso avere una Coca-Cola? – borbottò.
− Certo. Ecco qui.
Silje Sørensen gli allungò una bottiglietta. Lui la aprí e bevve direttamente
a canna. Una smorfia di dolore gli attraversò il volto nel momento in cui il
collo della bottiglia gli toccò la ferita, che sanguinava ancora.
− Ci siamo visti quella domenica. Ne sono sicurissimo perché…
Improvvisamente si azzittí.
− Perché, cosa?
− Non lo posso dire.
− Martin, devi capire che…
− Non voglio raccontare niente di quella sera, okay? Tanto non c’è niente
da dire. Perché Hawre e io ci siamo visti anche il giorno dopo.
− Va bene, − disse Silje Sørensen digitando sul cellulare per vedere il
calendario. – Quindi… lunedí 24 novembre, giusto?
− Che cazzo ne so della data! Era il lunedí dopo che ci avevano portato
dentro. Dovevamo…
Finalmente prese un kleenex e se lo premette con delicatezza sulla bocca.
Non piangeva piú, anche se aveva ancora le ciglia bagnate di lacrime, ma
sembrava se possibile ancora piú esausto di prima.
− Dovevamo fare solo un paio di giri. E poi andare al cinema. Avevamo
bisogno di soldi.
Silje Sørensen teneva carta e penna davanti a sé, ma fino ad allora non
aveva preso nessun appunto. In quel momento afferrò cautamente la penna, il
foglio però lo lasciò stare.
− Che film volevate vedere? – gli chiese, e si premurò di aggiungere
subito: − Solo per controllare la data…
− Max Manus.
Lei sorrise.
− Martin, dài. Max Manus è uscito subito prima di Natale.
− Okay, va bene, non me lo ricordo. È vero. Non me lo ricordo proprio che
film volevamo vedere. Tanto poi non ci siamo andati, al cinema.
− E che cosa avete fatto?
− Dovevamo… Ecco… dovevamo procurarci dei soldi. Siamo andati alla
stazione centrale.
Martin Setre cercò di nuovo lo sguardo di Silje Sørensen, come per
accertarsi che avesse capito la sua allusione. Lei annuí appena, e lui interpretò
quel cenno del capo come una risposta affermativa.
− C’era un sacco di gente. Tantissima gente.
− A che ora, piú o meno?
− Non so. Sarà stato di pomeriggio. Comunque non era molto tardi, perché
poi volevamo andare al cinema. Ci siamo piazzati dove ci mettiamo sempre…
− Cioè?
− All’ingresso della stazione.
− E poi?
− E poi non è arrivato nessuno.
− Nessuno? Ma se hai detto che…
− Nessuno di quelli che cercavamo noi. Nessuno che…
Si mise ad armeggiare con la scatolina di tabacco da masticare. Silje
Sørensen si accorse che aveva dita insolitamente lunghe e affusolate, quasi
femminili.
− E cosí abbiamo deciso di spostarci al centro commerciale, l’Oslo City.
Ma proprio mentre stavamo per andarcene è arrivato un tizio che parlava
inglese. O forse era americano. Non so… Americano, credo.
− E quindi? Che cosa voleva?
− Solita roba, − rispose Martin duro. – Solo che non si decideva a dirlo.
Non usava le solite… Un tipo viscido, ecco. C’era qualcosa di strano…
− Che cosa?
− Non saprei. Ma io con lui non ci sarei andato. Era…
La pausa di riflessione diventò cosí lunga che Silje Sørensen decise di
fargli una domanda.
− Ricordi che aspetto aveva?
− Da vecchio porco. Vestiti costosi. Grassoccio.
− Vecchio quanto?
− Almeno quarant’anni li aveva. Uno schifoso! Uno di quelli che ti fanno
un sacco di domande. A me i vecchi non piacciono. Sui venticinque, okay. Ma
non di piú. Solo che Hawre aveva bisogno di soldi, piú di me, e cosí ci è
andato.
Si mise a fissare la bottiglietta di Coca-Cola.
− I vestiti erano di quelli che ti fanno capire che uno è ricco. Sai, no?
Silje Sørensen sapeva benissimo che cosa intendeva. Lei era l’ispettore
capo piú ricco del Paese: a diciotto anni aveva ereditato una fortuna. Ma la
cosa non l’aveva toccata minimamente. Quando aveva fatto domanda alla
scuola di polizia era stato prima di tutto per scendere un po’ piú in basso.
Adesso ci si era cosí abituata che finiva sempre per comprarsi i vestiti da
H&M. Ma sapeva bene che cosa intendeva il ragazzo e annuí.
− E poi?
Quando lui sollevò lo sguardo, i suoi occhi la spaventarono: la
disperazione per la morte del suo amico aveva lasciato il posto all’apatia pura.
Martin si strinse nelle spalle e borbottò qualcosa che lei non capí.
− Come?
− Non ricordo altro di quel giorno.
− Ma dopo non hai piú visto Hawre?
Martin non riusciva a tenere la lingua lontana dalla ferita. Le rispose
scuotendo la testa.
Il referto autoptico sosteneva che la morte di Hawre Ghani era
presumibilmente avvenuta fra il 15 e il 25 novembre. Il 24 Martin Setre aveva
visto Hawre allontanarsi con un cliente sconosciuto.
− Mi devi aiutare, − gli disse Silje Sørensen.
Lui restò in perfetto silenzio.
− Ho bisogno di un identikit dell’uomo con cui se n’è andato Hawre, − gli
disse. – Mi puoi aiutare?
− Okay, − rispose lui alla fine. – Ma solo se prima mi date qualcosa da
mangiare.
− Che cosa vorresti?
E per la prima volta Silje Sørensen vide un accenno di sorriso su quel volto
deturpato.
− Bistecca ai ferri con cipolle e un sacco di patatine fritte, − rispose lui. –
Sto morendo di fame.

Yngvar Stubø cercò di mascherare i brontolii dello stomaco con alcuni


colpetti di tosse. Un’ora prima aveva mangiato una mela e una banana, ma
aveva già fame. La sera di capodanno, per la prima volta da due anni a quella
parte, era salito su una bilancia. Il numero comparso sul display luminoso era
a tre cifre, il che lo aveva spaventato. E dato che gli era impossibile trovare il
tempo di fare sistematicamente attività fisica, visti gli impegni che
affollavano la sua agenda, Yngvar aveva deciso di rinunciare al cibo. In gran
segreto si era iscritto a vektklubb.no, un sito specializzato in diete e ricco di
consigli per tornare in forma: subito e impietosamente lo avevano informato
che ogni giorno assumeva intorno alle quattromila calorie. Scendere a un
apporto di milleottocento sarebbe stato un vero incubo.
Nella scrivania aveva ancora tre pacchetti di Kvikk Lunsj, wafer ricoperti
di cioccolato. Aprí il cassetto e rimase a lungo con lo sguardo fisso su quei
pacchetti a strisce orizzontali, una rossa, una gialla, una verde. Se avesse
mangiato metà di una confezione non sarebbe poi stata la fine del mondo.
D’accordo, tre giorni prima consultando il sito aveva scoperto l’apporto
calorico del cioccolato e deciso che non avrebbe piú toccato un solo grammo
di quella diavoleria, ma era anche vero che in quel momento la fame era tale
da impedirgli di pensare con lucidità.
Squillò il telefono.
− Yngvar Stubø, − rispose lui con un tono piú amichevole del solito,
profondamente grato per l’interruzione.
− Ciao, sono Sigmund.
Sigmund Berli era amico e collega stretto di Yngvar da quasi dieci anni.
Ben lungi dall’essere una delle menti piú acute della polizia criminale, era
però uno che lavorava sodo e che aveva sempre dimostrato una grande lealtà.
Sigmund votava per la Destra, tifava per il Vålerenga e mangiava pasti pronti
monodose marca Fjordland sette giorni su sette da quando, neanche un anno
prima, si era separato dalla moglie. Il poco tempo libero che aveva lo metteva
a disposizione dei due figli, che venerava. Sigmund Berli era una sorta di
ancoraggio alla vita vera della gente qualunque, e di questo Yngvar gli era
grato. Su di lui, gli amici e i colleghi di Johanne avevano spesso l’effetto di
farlo tacere per l’intera serata: di norma era piuttosto inutile cercare di
raccontare a quelle persone come si viveva realmente nel loro Paese. Meglio
Sigmund Berli e le sue grossolane generalizzazioni: per lo meno si fondavano
su una vita vissuta in mezzo alla gente comune.
− Abbiamo trovato una pila gigantesca di lettere piene d’odio, − gli disse
Sigmund.
− Sei ancora a Bergen?
− Sí. In una cassaforte nell’ufficio del vescovo Lysgaard.
− Sei in una cassaforte nell’ufficio del vescovo?
− Smettila. Le lettere, non io. C’è una cassaforte nell’ufficio, ma lo
abbiamo saputo solo qualche giorno fa. La sua segretaria aveva un codice,
però sbagliato. È venuto uno a domicilio e ha risolto la faccenda. E ci
abbiamo trovato dentro tutta questa… merda, ecco.
− Argomento?
− Indovina?
− Non ho proprio voglia di giocare, adesso, Sigmund.
− Omo-qui e omo-là!
Yngvar riusciva quasi a sentirlo sorridere all’altro capo del filo.
− Cos’altro poteva essere… – aggiunse Sigmund.
− Si tratta di e-mail, − gli chiese lui, − o di lettere cartacee? Anonime?
− Un po’ e un po’. La maggior parte sono e-mail stampate. Quasi tutte
anonime, ma c’è anche qualcuno che si firma con tanto di nome e cognome.
Praticamente tutta spazzatura, Yngvar. Un sacco di merda, per dirla in parole
povere. E sai che cosa non ho mai capito?
«Un bel po’ di cose», pensò lui.
− Perché ci sono persone che si ostinano a sentirsi cosí provocate da quello
che un altro fa a letto? L’allenatore di hockey di mio figlio è frocio, sai. Uno
molto in gamba. Virile e duro con i ragazzi, ma sul serio. Si presenta a tutti gli
allenamenti. Non lo faceva mica, quell’idiota che c’era prima, anche se aveva
moglie e quattro figli. Qualcuno degli altri genitori ha cominciato a creare
difficoltà quando quel tizio è comparso sul giornale. E allora avresti dovuto
vederlo il vecchio Sigmund Berli in azione!
La sua risata crepitava nel ricevitore.
− Li ho messi tutti in riga, io! Non sono capace di scrivere il segno di
uguale fra un normalissimo omosessuale e un maledetto molestatore, sai. Mi
sono fatto un amico per la vita, cosí, sai. Ci siamo bevuti una birra insieme un
paio di volte, è davvero una persona piacevole. Ed è bravissimo sul ghiaccio.
Ha allenato la nazionale juniores finché è stato possibile. Una banda di
omofobi, quelli là.
Yngvar ascoltava con stupore crescente. Il suo sguardo era ancora posato
sui pacchetti a strisce dello snack al cioccolato.
− Che cosa ne farete delle lettere? – chiese con aria assente.
Sigmund stava masticando qualcosa.
− Scusa, − gli disse con la bocca piena. – Avevo un buco allo stomaco, non
ce la facevo piú. Qui a Bergen fanno dei dolci alla cannella buonissimi!
Il cassetto con i Kvikk Lunsj si chiuse con un colpo secco prima che
Sigmund proseguisse: − Abbiamo messo il computer di Eva Karin Lysgaard
in mano a un informatico. Per trovare indirizzi Ip e roba del genere.
Indagheranno anche sulle lettere. Mi domando perché tenesse tutto nascosto.
Non è mai stata fatta neanche una denuncia.
− La maggior parte delle persone che hanno un ruolo pubblico riceve cose
del genere di continuo. Almeno quelle che si espongono su qualche questione
controversa. Ma sono in poche a sbandierarle ai quattro venti, perché sarebbe
come gettare benzina sul fuoco. Johanne sta proprio lavorando a un progetto
che…
− Come sta la mia donna preferita? – lo interruppe Sigmund.
Il collega di Yngvar per anni aveva mostrato un innamoramento
apparentemente immutabile per Johanne. Di solito si manifestava soltanto in
forma di un irrefrenabile entusiasmo ogni volta che la vedeva o parlava di lei.
Quando beveva un po’ gli capitava di uscirsene con grossolani complimenti e
sfioramenti poco graditi. In una occasione Johanne gli aveva mollato un
sonoro ceffone: era stato quando lui, dopo essersi annegato nel cognac, le
aveva palpato un seno. Per qualche assurda ragione, però, Sigmund le piaceva
lo stesso.
− Bene, − gli rispose Yngvar. – Perché non vieni a trovarci?
− Sí, sí. Che ne dici di questo fine settimana? A me andrebbe benissimo
perché…
− Telefonami quando ci sono novità, − lo interruppe Yngvar. – Devo
scappare! Ciao!
Stava per interrompere la comunicazione quando sentí la voce di Sigmund
gridare, meccanicamente distorta: − Aspetta! Non mettere giú!
Yngvar riavvicinò il telefono all’orecchio.
− Che cosa c’è?
− Volevo solo dirti che non tutte quelle lettere parlavano di omosessualità.
− Ah no?
− Alcune erano sull’aborto.
− Sull’aborto?
− Già. Hai presente, Eva Karin Lysgaard era piuttosto fanatica in merito.
− Ma che cosa scrivono? E soprattutto: chi le ha scritte?
Sigmund aveva finito di mangiare, alla buon’ora.
− C’è un po’ di tutto. Quelle lettere comunque non hanno toni aggressivi.
Piú che altro addolorati, ecco. Ce n’è una di una donna che rimpiange di
essere nata. La madre era stata violentata, ma siccome era molto giovane non
aveva avuto il coraggio di dirlo a nessuno fino a quando non era stato troppo
tardi. La sua vita era andata a rotoli fin dal primo momento.
− Una persona che si lamenta di esistere con un vescovo?
− Già.
− Ma che cosa voleva, esattamente?
− Cercava di convincere il vescovo che l’aborto può essere giusto.
Qualcosa del genere. Non so bene. Molte di queste lettere sono state scritte da
pazzi furiosi, Yngvar. Credo anch’io che non dobbiamo caricarle di troppa
importanza. Però… visto che praticamente non abbiamo nient’altro, forse
sarebbe meglio dare un’occhiata un po’ piú approfondita. Torni presto?
Yngvar incastrò il telefono fra la spalla e la guancia. Aprí il cassetto della
scrivania, arraffò un Kvikk Lunsj e strappò la confezione.
− La settimana prossima, credo. Ma ci sentiamo di sicuro prima. Ciao!
Posò il telefono e separò le quattro barrette. Cominciò a mangiare
lentamente. Teneva a lungo ogni boccone sulla lingua, piú che masticare
succhiava. Dopo aver finito la prima barretta, prese la seconda. Ci mise
cinque minuti per godersi fino in fondo tutta la confezione, e per concludere
si leccò le dita.
Il suo umore migliorò. Gli zuccheri nel sangue aumentarono e lui ci
guadagnò in lucidità. Quando alcuni secondi dopo realizzò di aver ingurgitato
duecentosedici calorie assolutamente inutili si sentí cosí depresso che prese il
giaccone appeso a un gancio e spense la luce. Era mercoledí 7 gennaio e sette
giorni passati a patire la fame erano stati piú che sufficienti, almeno per il
momento.
Si sarebbe concesso una bella cenetta come si deve.
Collera

Il 9 gennaio intorno all’ora di cena suonarono alla porta di una villa grigia
in Hystadveien, nel comune di Sandefjord.
Synnøve Hessel se ne stava sdraiata sul divano, immersa in uno stato
oscillante fra sonno e realtà, in un dormiveglia di cupi sogni. Di notte non
riusciva a dormire, le ore piú buie parevano tanto lunghe quanto sprecate. Era
impossibile cercare Marianne mentre tutti dormivano e tutto era chiuso, ma
riposare era ugualmente impossibile. I giorni diventavano sempre piú difficili.
Di tanto in tanto si assopiva, come in quel momento.
Non che ci fosse molto altro da fare.
Il conto corrente che avevano in comune non era stato toccato, mentre del
conto di cui Marianne era unica titolare Synnøve non aveva ancora saputo
niente. Aveva contattato tutti gli ospedali della Norvegia, invano. Telefonato a
tutti gli amici. Anche ai conoscenti piú superficiali e ai parenti piú lontani
aveva chiesto se avessero saputo qualcosa di Marianne dopo il 19 dicembre.
Due giorni prima si era fatta coraggio e aveva finalmente chiamato i suoceri.
L’ultima volta che aveva avuto loro notizie era stata quando aveva letto la
terribile lettera che i due le avevano spedito nel momento in cui era diventato
chiaro che Marianne avrebbe lasciato il marito per andare a vivere con
un’altra donna. La telefonata era stata una perdita di tempo. Non appena la
madre di Marianne aveva capito chi c’era all’altro capo del filo si era lanciata
in due minuti di scenata sconnessa per poi riattaccare. Synnøve non era
riuscita nemmeno a dirle per quale ragione l’aveva chiamata.
Di Marianne ancora nessuna traccia.
Synnøve non toccava praticamente cibo da una settimana e mezzo. I giorni
successivi alla scomparsa li aveva passati a cercare, mentre le notti le aveva
trascorse facendo lunghissime camminate in compagnia dei suoi husky.
Adesso non ne aveva piú la forza. Nelle ultime quarantott’ore i cani avevano
dovuto accontentarsi del loro box. Il giorno prima si era dimenticata la pappa.
Quando improvvisamente se n’era accorta erano già le due di notte. Il suo
pianto aveva spaventato il capobranco, che si era messo a guaire e
scodinzolare pretendendo un sacco di attenzioni e rifiutandosi di mangiare
prima di averle avute. Synnøve aveva finito per strisciare dentro una delle
cucce e lí si era addormentata, con Kaja fra le braccia. Dopo mezz’ora si era
svegliata tutta intirizzita.
Suonarono di nuovo alla porta di casa. Synnøve rimase sdraiata. Non
voleva visite. Molti erano passati a trovarla, ma solo pochi avevano avuto il
permesso di entrare.
Din don.
Ancora una volta il campanello.
Indolenzita si alzò dal divano e piegò la coperta. Le era venuto il torcicollo
e cominciò a massaggiarsi mentre si trascinava verso la porta, preparandosi a
convincere l’ennesimo amico che preferiva stare da sola.
Quando aprí e sui gradini vide Kjetil Berggren le girò la testa per il
sollievo. Avevano ritrovato Marianne, pensò, e Kjetil Berggren era venuto di
persona a darle la buona notizia. Era stato solo un terribile malinteso, ma
adesso Marianne sarebbe tornata e tutto sarebbe stato come prima.
Kjetil Berggren aveva un’aria molto seria. Synnøve fece un passo indietro,
nel corridoio. La porta d’ingresso si aprí del tutto. Dietro di lui c’era una
donna. Avrà avuto una cinquantina d’anni, indossava un cappotto pesante e, al
posto della sciarpa per proteggersi dal freddo pungente di gennaio, portava un
collarino ecclesiastico.
Il pastore aveva in volto la stessa espressione grave del poliziotto.
Synnøve arretrò di un altro passo, poi si afflosciò e cadde in ginocchio sul
pavimento portandosi le mani sul viso. Si conficcò le unghie nella pelle e
sulle guance comparvero strisce rosse di sangue. Gridava: un ululato costante
e lamentoso che non somigliava a niente che Kjetil Berggren avesse già
sentito. Solo quando Synnøve cominciò a sbattere la testa sul pavimento lui
tentò di afferrarla da sotto le ascelle e rimetterla in piedi. Lei lo colpí con
forza, violentemente, poi si afflosciò di nuovo.
E per tutto il tempo quell’urlo.
Un suono intenso di dolore a cui i cani nel giardino sul retro risposero: sei
siberian husky ulularono come i lupi che quasi erano. Il coro di lamenti si
levò verso la bassa coltre di nubi. Lo si poteva sentire fino a Framnes,
sull’altra sponda del grigio e desolato fiordo invernale.

Una sirena squarciò il monotono e costante rumore del traffico proprio


quando si fermarono a un semaforo rosso. Nello specchietto retrovisore Lukas
vide una luce blu lampeggiante e cercò di accostare meglio al marciapiede
senza invadere le strisce pedonali. L’ambulanza arrivò, superò la coda a
velocità fin troppo sostenuta e per poco non investí un uomo di mezza età che
stava passando proprio davanti al cofano della grande Bmw X5 di Lukas e
che evidentemente era sordo.
− Per un pelo, − disse lui al padre mentre fissava il povero pedone
sbigottito, poi le macchine dietro la sua cominciarono a suonare.
Seduto al suo fianco, Erik Lysgaard non rispose, rimase taciturno come
sempre. I vestiti ormai gli stavano palesemente troppo larghi. La cintura di
sicurezza lo faceva sembrare piatto e magro. Aveva i capelli che gli
ricadevano tristemente a ciocche intorno al cranio e dimostrava dieci anni di
piú. Lukas aveva dovuto ricordargli di farsi una doccia quella mattina: si era
accorto che emanava un odore acre la sera prima quando, seppur
controvoglia, suo padre aveva accettato un abbraccio.
Non era cambiato niente.
Per l’ennesima volta Lukas aveva insistito con lui perché andasse a trovarli
a Os. E per l’ennesima volta Erik aveva protestato, ma alla fine il figlio ce
l’aveva fatta a convincerlo. I nipoti si erano di nuovo spaventati nel vedere il
nonno ancora ridotto in quello stato, e in un paio di occasioni Astrid era stata
sul punto di perdere le staffe.
− È arrivato il momento di pianificare un po’, − gli disse Lukas. – Secondo
la polizia potremo fare il funerale un giorno della settimana prossima. Per
forza di cose sarà in grande. Erano in molti a voler bene alla mamma.
Erik sedeva silenzioso e inespressivo.
− Non puoi far finta di niente!
− Organizza tutto tu, − gli rispose il padre. – A me non interessa.
Lukas si allungò verso l’autoradio e la spense. Stringeva il volante cosí
forte che le nocche sbiancarono, e percorse l’ultimo tratto di Årstadveien a
una velocità che gli sarebbe sicuramente costata il ritiro della patente. Quando
arrivò al cancello di Nubbebakken svoltò a sinistra facendo fischiare i
copertoni, attraversò la corsia opposta e frenò di colpo.
− Papà, − gli disse a voce bassa, quasi in un sussurro. – Perché una delle
fotografie è sparita?
Per la prima volta da quando erano saliti in macchina Erik Lysgaard lo
guardò negli occhi.
− Fotografia?
− La fotografia che era in camera della mamma.
Il padre distolse gli occhi.
− Voglio andare a casa.
− Ci sono sempre state quattro fotografie su quella mensola. C’erano anche
quando sono venuto da te il giorno dopo che hanno ucciso la mamma. Me lo
ricordo bene, perché quel poliziotto si è sbagliato ed è entrato lí. Una delle
fotografie adesso non c’è piú. Perché?
− Voglio andare a casa.
− Adesso vai a casa. Ma prima rispondimi!
Lukas sferrò un pugno al volante. Imprecò tra sé per il dolore
agghiacciante che gli risalí lungo il braccio.
− Portami a casa, − gli disse Erik. – Subito.
Il gelo nella voce del padre ridusse Lukas al silenzio. Ingranò la marcia.
Gli tremavano le mani, si sentiva turbato quasi come quando la polizia si era
presentata alla porta con il funesto messaggio. Pochi minuti dopo, entrando
nella piazzola al di là del cancello aperto davanti alla casa del padre, ebbe
davanti agli occhi la bella donna ritratta nella fotografia mancante. Aveva i
capelli scuri e, nonostante fosse un’immagine in bianco e nero, lui era
convinto che avesse gli occhi azzurri. Proprio come i suoi. Il naso era dritto e
stretto, come il suo, e il sorriso scopriva un incisivo superiore leggermente
sovrapposto all’altro.
Proprio come i suoi denti.
La fotografia non rivelava granché dei vestiti e questo rendeva difficile
indovinare in che periodo fosse stata scattata. La prima volta che Lukas
l’aveva notata era un adolescente. Adesso che lui stesso aveva dei figli ed era
diventato consapevole di che grandi osservatori fossero i ragazzini, era giunto
alla conclusione che non poteva esserci stata prima di allora. Un giorno aveva
chiesto chi fosse la donna della foto; sua madre con un sorriso gli aveva
accarezzato una guancia e risposto: «Un’amica che tu non conosci».
Lukas spense il motore, scese dall’auto e andò ad aiutare il padre.
Non scambiarono una sola parola e ognuno evitò di guardare l’altro.
Quando la porta si richiuse alle spalle di Erik, Lukas risalí in macchina e lí
rimase, a lungo, mentre la pioggerellina ghiacciata che cadeva sul parabrezza
rendeva il vetro sempre meno trasparente e l’abitacolo sempre piú freddo.
L’amica di sua madre purtroppo gli assomigliava molto.

− Ma come ti somiglia! Siete uguali identiche!


Karen Winslow rideva con la fotografia di Ragnhild fra le dita. La teneva
obliqua per evitare il riflesso dei lampadari e la guardava con la testa inclinata
da una parte. Ragnhild era ritratta nella vasca da bagno, con lo shampoo sui
capelli e una gigantesca papera giocattolo sulla pancia. Sembrava che un
mostro giallo l’avesse aggredita.
− E cosí questa è la piú piccola, − disse a Johanne porgendole la foto. −
Fammi vedere anche la piú grande!
La foto era stata scattata a Natale. Kristiane se ne stava seduta sui gradini
davanti alla loro casa in Hauges Vei, aveva un’espressione seria e per una
volta fissava l’obiettivo. Si era appena tolta il berretto e i suoi capelli fini
erano tutti scarmigliati per l’elettricità statica: con la luce che proveniva dal
vetro della porta alle sue spalle, pareva che avesse l’aureola.
− Wow! – disse Karen seria. – Che bambina meravigliosa! Quanti anni ha?
Nove? Dieci?
− Quasi quattordici, − le rispose Johanne. – Solo che non è proprio come
tutti gli altri bambini.
Dirlo le era riuscito sorprendentemente facile.
− Davvero? Cos’ha che non va?
− Chissà… − sospirò lei. – Kristiane è nata con un grave difetto cardiaco.
Prima ancora di compiere un anno ha subito tre operazioni al cuore molto
pesanti. Se i suoi problemi siano insorti allora o se siano congeniti, nessuno lo
ha mai scoperto con certezza.
Karen sorrise di nuovo e scrutò la fotografia piú da vicino. La sua vecchia
compagna di studi le riportava alla mente che erano passati tantissimi anni.
Karen era sempre stata snella e in forma, ma adesso aveva un’espressione piú
tesa, un viso piú asciutto e i capelli scuri striati di grigio. Portava gli occhiali,
cosa che un tempo non faceva, ma dovevano essere una novità perché
continuava a metterli e toglierli e non sapeva bene cosa farsene quando non li
aveva sul naso.
Erano trascorsi quasi diciotto anni dall’ultima volta che si erano viste, ma
si erano riconosciute subito. Dopo che Karen era scesa dal taxi davanti al
Restaurant Victor di Sandaker, Johanne aveva ricevuto l’abbraccio piú lungo
che ricordasse; al momento di entrare, lei si sentiva davvero felice.
Eccitata, quasi.
Il cameriere serví loro un bicchiere di champagne.
− Desiderate subito una breve presentazione del menu? – chiese con un
sorriso.
− Fra un attimo, − si affrettò a rispondere Johanne.
− Naturalmente. Torno piú tardi.
Karen levò il bicchiere e brindò.
− A te, – disse ridendo. – Non pensavo ci saremmo riviste. È fantastico!
Sorseggiarono lo champagne.
− Mhm… Delizioso. Parlami ancora di Kristi… Krysti…
− Kristiane. Per molto tempo gli specialisti sono stati convinti che si
potesse trattare di una forma di autismo. Sindrome di Asperger,
probabilmente. Ma non è cosí, non proprio. È vero che Kristiane ha un
estremo bisogno di routine e che è capace di lasciarsi assorbire per lunghi
periodi da un ordine e un’organizzazione ripetitivi… a volte ricorda
addirittura un savant, hai presente, un autistico con abilità estreme. Solo che
poi, di colpo, senza che nessuno sia mai riuscito a spiegare che cosa sia a
scatenare il cambiamento, ecco che si comporta come una qualunque
ragazzina leggermente ritardata. E anche se fatica a fare amicizia, si dimostra
molto flessibile nei rapporti con le altre persone. È…
Johanne sollevò di nuovo il bicchiere, stupita di quanto le facesse bene
parlare della figlia maggiore con qualcuno che non l’aveva mai vista.
− … molto affettuosa con tutti i suoi familiari.
− È davvero adorabile, − le disse Karen, e le restituí la fotografia. – Sei
davvero molto, molto fortunata ad averla.
Quell’affermazione scaldò il cuore di Johanne facendole quasi provare
vergogna. Isak voleva bene a sua figlia sopra ogni altra cosa e Yngvar era il
piú affettuoso dei patrigni. I nonni sia materni sia paterni adoravano Kristiane,
che in effetti era ben integrata nella cerchia sociale della famiglia Vik Stubø,
sempre nei limiti di quanto potesse esserlo una ragazzina come lei. A volte
qualcuno diceva che Kristiane era fortunata ad avere una famiglia cosí. Live
Smith le era sembrata felice di avere sua figlia in quella scuola.
Ma nessuno mai aveva detto a Johanne che era lei la fortunata ad avere una
figlia come Kristiane.
− Hai ragione, − disse. – Sono davvero… siamo davvero fortunati ad
averla.
Batté rapida le palpebre per soffocare le lacrime. Karen allungò un braccio
sopra il tavolo e le posò una mano sulla guancia. Fu un gesto che stranamente
Johanne accolse con piacere, nonostante i molti anni che le avevano separate.
− I bambini sono il dono piú grande del Signore, − disse Karen. – Sono
sempre, sempre una benedizione, indipendentemente da dove vengono, dove
vanno e come sono. Dovrebbero essere curati, amati e rispettati di
conseguenza.
Una lacrima solitaria si staccò dalle ciglia di Johanne e le scivolò giú per la
guancia.
Gli americani e le loro parole altisonanti, pensò. Gli americani e il loro
modo pesante, ampolloso e bello di usare le parole. Fece un sorriso fugace e
si asciugò la lacrima con il dorso della mano.
− Pronte a ordinare?
Il cameriere era spuntato dal nulla e spostava lo sguardo dall’una all’altra.
− Sí, − rispose Johanne. – Ti sarei grata se potessi elencarci il menu in
inglese, cosí posso fare a meno di tradurre per la mia amica.
Non fu certo un problema: il cameriere parlò per quasi dieci minuti
descrivendo i diversi piatti e rispondendo a tutte le domande di chiarimenti
che Karen gli poneva. Quando infine si furono messi d’accordo su cosa
mangiare e cosa bere, Johanne dovette ammettere che Karen era molto piú a
suo agio di lei. Perfino il cameriere sembrava essere rimasto favorevolmente
colpito dai suoi modi.
Iniziarono con le ostriche.
Sul menu non comparivano e il cameriere non le aveva nominate durante
la sua esaustiva presentazione di tutto quello che il ristorante aveva da offrire.
Quando lui aveva concluso il suo panegirico, Karen aveva inclinato la testa da
una parte, sorriso con quei suoi denti bianchissimi e accennato al fatto che
qualunque chef con un minimo di rispetto per sé stesso teneva da parte delle
ostriche.
«Sempre», aveva detto.
E con ragione.
Il problema era che Johanne di ostriche non ne aveva mai mangiate.
Era una laureata con tanto di dottorato, aveva viaggiato e godeva di un
certo tenore di vita. Le piaceva mangiare. Aveva assaggiato la carne di cane in
Cina e i ragni fritti su una bancarella nei pressi dell’Angkor Wat. Ma le
ostriche non aveva mai osato assaggiarle.
Sbirciò il suo piatto. Le conchiglie aperte erano posate su un letto di
ghiaccio ed emanavano un leggero profumo di battigia. Nessuno avrebbe mai
potuto affermare che quella viscida massa grigiobianca avesse un aspetto
appetitoso. Johanne lanciò un’occhiata all’amica che da una ciotolina versava
goccia a goccia il condimento a base di vino del Reno e aceto sopra ogni
ostrica. Poi Karen prese la prima, la avvicinò alle labbra e ne succhiò il
contenuto. A occhi chiusi si gustò il mollusco tenendolo a lungo in bocca, poi
inghiottí ed esclamò: − Perfetta!
Johanne la imitò.
Non aveva mai mangiato niente di cosí delizioso.
− Johanne, − le disse Karen una volta finite le ostriche. – Racconta.
Raccontami tutto! Assolutamente tutto!
Continuarono a chiacchierare ininterrottamente per le due portate
successive. Di quando studiavano insieme e degli amici comuni a quel tempo.
Di famiglie e genitori, gioie e frustrazioni. Dei figli. Con le voci che si
sovrapponevano, ridevano e si interrompevano a vicenda. Il locale era piccolo
e l’acustica pessima: la sonora risata di Karen rimbalzava sulle alte pareti e
disturbava gli altri ospiti. Ma il cameriere continuava a essere gentile e
provvedeva discretamente a riempire i loro bicchieri ogni volta che ce n’era
bisogno.
− Karen, devo chiederti una cosa.
Johanne abbassò gli occhi sulla quarta portata: quaglia su un letto di purea
di topinambur. Intorno al povero uccellino erano disposte delle strisce sottili
di prosciutto di Parma inframmezzate da pomodorini sottaceto.
− Raccontami dell’Aplc, − le disse.
− E tu come fai a sapere che è lí che lavoro?
Karen si pulí la bocca con il grosso tovagliolo di stoffa, poi riafferrò
coltello e forchetta.
− Ti ho cercato su Google, − rispose Johanne. – Sto lavorando a un
progetto che…
Karen rise tanto da far tintinnare i bicchieri.
− Ce ne stiamo sedute qui da piú di due ore e ancora non ci siamo
nemmeno dette dove lavoriamo e che cosa facciamo! Racconta, dài!
E Johanne cominciò a raccontare: del lavoro all’Istituto di criminologia,
della tesi di dottorato discussa nel 2000, di quanto amasse fare ricerca anche
se le ore di insegnamento obbligatorio che la sua posizione comportava erano
insopportabili, delle gioie e frustrazioni di dover conciliare la carriera con due
figlie esigenti. Alla fine le espose il progetto a cui stava lavorando in quel
periodo; quando ebbe finito, le quaglie si erano ridotte a miseri scheletrini e i
piatti erano vuoti.
− Devi venire a trovarci, − le disse Karen in tono deciso. – Quello di cui ci
occupiamo noi sarebbe fondamentale per la tua ricerca.
− E adesso tocca a te, − le disse Johanne. – Su, racconta.
Chiese al cameriere di poter fare una piccola pausa prima della portata
successiva. Sentiva di aver bevuto troppo, ma non aveva importanza. Non
ricordava l’ultima volta che aveva mangiato al ristorante, e di tempo ne era
passato da quando le era capitato di sentirsi cosí bene. Perciò, nel momento in
cui il cameriere si avvicinò per riempirle il bicchiere, lo ringraziò con un
sorriso.
− Il primo studio dell’Aplc è stato aperto nel 1971, − iniziò Karen. Sollevò
il bicchiere di vino rosso verso la luce per poterne valutare il colore. − A
Montgomery, in Alabama. I fondatori, che per altro sono due bianchi, erano
membri del movimento per la difesa dei diritti civili. Aprirono lo studio
innanzitutto per lavorare contro il razzismo: un business sempre in deficit,
naturalmente.
Si interruppe, come se stesse cercando un modo per raccontare una lunga
storia nel piú breve tempo possibile.
− All’inizio si può ben dire che fosse una specie di sportello di consulenza
legale gratuita. Io non ne facevo ancora parte, chiaro!
La sua risata rimbombò nella sala e una coppia di una certa età che sedeva
a due tavoli dal loro si voltò a guardarle con aria inacidita.
− A quell’epoca non avevo neanche finito le elementari. Nel 1981 venne
istituito un servizio informazioni, proprio per raggiungere meglio l’unico vero
scopo che ci si prefiggeva, vale a dire: che gli Stati Uniti d’America si
attenessero a quella che un tempo era stata una costituzione rivoluzionaria.
Nei primi anni la lotta fu sostanzialmente contro i cosiddetti White
Supremacist Groups.
− Il Ku Klux Klan, − disse Johanne a bassa voce.
− Anche. Abbiamo vinto un sacco di cause contro i membri del Ku Klux
Klan. Un paio di volte siamo addirittura arrivati a ottenere la distruzione dei
loro campi di addestramento e a far saltare delle cellule di attività piuttosto
estese. Il problema ovviamente è che…
Sospirò e bevve un sorso di vino.
− … il Ku Klux Klan non è certo l’unico nel suo genere. Basti pensare a
Imperial Klans of America, Aryan Nations, Church of The Creator, e chi piú
ne ha piú ne metta. Il cosiddetto servizio informazioni con gli anni è diventato
sempre piú ampio, e oggi abbiamo una visione d’insieme che include
novecentoventisei diversi gruppi motivati dall’odio sparsi in tutto il territorio
degli Stati Uniti. Alcuni sono molto attivi.
Sottolineò con grande enfasi la parola «molto».
− Suppongo che non tutti questi gruppi ce l’abbiano con gli afroamericani,
giusto?
− Giusto. Per esempio, ci sono movimenti separatisti di neri che
vorrebbero liberarsi di tutti noi! Anche gli ebrei hanno i loro nemici, un po’
ovunque. Compreso da noi.
A un tratto, a Johanne la sua amica parve piú vecchia. Le rughe intorno
agli occhi non erano rughe di espressione come le erano sembrate all’inizio,
no, perché quando Karen era seria si facevano ancor piú profonde.
− Institute for Historical Review, Noontide Press… fin troppi. E da parte
loro gli ebrei hanno la Lega di difesa ebraica, che in ultima istanza è
anch’essa un’organizzazione fondata sull’odio. Alla fin fine c’è abbastanza
odio per tutti, nel mondo. Abbiamo gruppi contro i sudamericani, contro i
nativi, a favore dei nativi, contro tutti gli immigrati su basi piú ampie e libere
da pregiudizi…
Terminò la frase con un sorriso ironico. Aveva cominciato a parlare a voce
piú bassa, ma la coppia seduta vicino alla parete lanciò loro uno sguardo di
riprovazione prima di alzarsi e andarsene. Quando i due passarono dietro
Johanne borbottarono qualcosa a proposito di una cena rovinata e che tutto ha
un limite, anche per gli americani.
− E poi naturalmente ci sono quelli che odiano gli omosessuali, − aggiunse
Karen.
Venne servito il dessert.
− Carpaccio di fragole in crosta di vaniglia, − annunciò il cameriere
posando i piatti davanti a loro, − accompagnato da un piccolo sorbetto allo
champagne. Buon appetito!
− Quanti affiliati hanno sul serio, questi gruppi? – le chiese Johanne
quando furono sole.
Karen infilò il cucchiaino tra le fettine di fragola, puntò il gomito sul
tavolo e osservò a lungo quel che aveva nel piatto prima di dire: − A questa
domanda non è facile dare una risposta. Per quanto riguarda le organizzazioni
puramente razziste, sono piú estese di quanto ci piaccia pensare. Alcune
esistono da molto e hanno un’organizzazione paramilitare. Altre, soprattutto i
gruppi antigay, sono difficili da…
Si mise il cucchiaino in bocca e chiuse gli occhi mentre masticava per
godersi appieno il dessert.
− Come dire… − continuò prendendo tempo, − difficili da definire?
Johanne annuí. Anche lei incontrava la stessa difficoltà. Le chiese: − Per
via dello stretto legame che hanno con comunità religiose di per sé legittime?
− Sí, − rispose Karen. – Fra l’altro anche per questo. In linea di principio si
definisce «gruppo d’odio» una organizzazione piuttosto stabile che
propaganda o comunque esterna odio verso altri gruppi. Non si possono
considerare criminali fino a quando non oltrepassano i confini della libertà di
espressione a cui la maggior parte dei Paesi si attiene, non istigano altri ad
azioni legalmente perseguibili oppure non le compiono loro stessi, laddove
l’obiettivo dell’azione criminale del singolo rientra nei limiti
dell’appartenenza a un gruppo piú ampio di persone con segni di
riconoscimento specifici e ben individuabili.
Tirò il fiato.
− La sapevi proprio a memoria la risposta alla mia domanda, − commentò
Johanne con un sorriso.
− Diciamo che ho già avuto qualche occasione per provarla…
Mangiava piú adagio adesso. Johanne era davvero sazia e allontanò il
piatto con il dessert verso il centro del tavolo.
− Ti faccio un esempio, − proseguí Karen. – È successo nel 2007. Un
ragazzo, un certo Satender Sing, era in ferie nella zona del lago Natoma, in
California. Arrivava dalle Fiji. Un giorno è andato al ristorante insieme a
degli amici indiani. A un gruppo di persone che parlavano in russo è sembrato
di capire che fosse omosessuale e, per fartela breve, lo hanno ucciso.
Johanne restò in silenzio.
− Che degli omosessuali vengano uccisi per il semplice fatto di essere
omosessuali è una cosa che succede, − proseguí Karen. – La circostanza
particolare, in questo caso, è che gli assassini appartenevano a un piú esteso
gruppo di immigrati slavi religiosi che vive dalle parti di Sacramento. E nelle
loro comunità c’è una chiara presa di posizione contro i gay. Stiamo parlando
di quasi centomila persone, suddivise in settanta comunità fondamentaliste
cresciute in una zona che già da prima registrava una forte presenza
omosessuale. Dire che ormai i rapporti tra i due gruppi sono tesi sarebbe un
eufemismo. I cristiani portano avanti un’intensa propaganda antiomosessuale:
hanno televisioni, radio, e un’enorme capacità di mobilitazione. Certe volte,
alle manifestazioni di protesta promosse dalle organizzazioni omosessuali ci
sono piú oppositori che dimostranti.
Fece un bel respiro profondo e si mise a grattare con la forchetta i resti di
salsa che aveva sul piatto mentre proseguiva: − Ma quand’è che queste
comunità finiscono per diventare criminali? Da una parte il loro odio è
evidente. Le parole che usano e soprattutto l’attenzione spropositata per
l’omosessualità sottolineano che si tratta di un odio puro, folle. Senza contare
poi che i loro leader spirituali si rifiutano di prendere direttamente le distanze
da omicidi come quello di Satender, ad esempio. D’altro canto, però: la libertà
di espressione è giustamente molto ampia, e sono parecchi gli appartenenti a
queste comunità, diffuse in tutti gli Stati Uniti tra l’altro, che si guardano bene
dall’esortare alla violenza e all’omicidio.
− Gettano le basi per azioni motivate dall’odio, si rifiutano di prendere le
distanze quando quelle azioni vengono messe in atto e per finire se ne lavano
le mani perché loro non hanno detto a chiare lettere «uccideteli».
− Esatto, − annuí Karen. – E quando un prete grida nell’etere: gli
omosessuali si rotolano nel peccato e moriranno di una morte dolorosa,
bruceranno all’inferno e… Be’, poi potrà sempre sostenere che era alla parola
e alla volontà di Dio che si riferiva. Che alcuni figli di Dio lo abbiano poi
interpretato in senso letterale, non è un suo problema. La libertà di
espressione e la libertà religiosa sono, come tu ben sai…
− … il fondamento stesso dell’esistenza degli Stati Uniti d’America, −
concluse Johanne.
− Ancora un po’ di caffè?
Il cameriere doveva avere un master in pazienza. Erano le uniche clienti
del locale già da mezz’ora e lui stava solo aspettando che se ne andassero,
ciononostante si era preso la briga di riempire di nuovo le loro tazze di caffè e
aveva anche portato altro latte tiepido.
− La situazione è davvero brutta, – proseguí Karen una volta che il
cameriere si fu allontanato. – Senza contare poi che, oltre alle comunità
estremiste diffuse in vari punti degli Stati Uniti, esistono anche organizzazioni
ben radicate. L’American Family Association, per esempio. Nemmeno queste
organizzazioni incitano all’omicidio, ovviamente, solo che ogni occasione è
buona per fare un gran casino, e cosí contribuiscono a peggiorare il clima dei
dibattiti politici. Tempo fa hanno organizzato il boicottaggio di McDonald’s,
per esempio.
− Tutto sommato mi sembra ragionevole, − commentò con un sorriso
Johanne. – E perché?
− Perché McDonald’s aveva comprato degli spazi pubblicitari all’interno
di un gay pride.
− E come è andata a finire?
− Per fortuna si è risolto in una bolla di sapone. Quella volta, però. Alcuni
di questi gruppi sono potentissimi, possono contare su finanziamenti
abbondanti, sono molto influenti e non si fermano davanti a niente o quasi.
Per odiare odiano, ma non possono certo definirsi criminali. La cosa davvero
spaventosa, comunque, è il fatto che…
Levò il bicchiere come in un brindisi silenzioso.
− Cominciamo a trovare tracce di una persecuzione piú sistematica. Nel
corso dell’ultimo anno, sono stati uccisi sei omosessuali maschi. Tre omicidi
a New York, uno a Seattle e due a Dallas, tutti insoluti. Per molto tempo la
polizia delle varie città li ha trattati come casi a sé stanti. Il modus operandi e
le circostanze variavano. Il nostro ufficio, invece, dopo qualche tempo ha
scoperto che due vittime erano cugine, la terza era andata a scuola con la
prima e la quarta aveva fatto un Interrail in Europa con la seconda, e per finire
la quinta e la sesta vittima avevano avuto brevi relazioni con la quarta a un
paio d’anni di distanza. Il caso è passato nelle mani dell’Fbi, diciamo… Non
che loro abbiano fatto molti passi avanti nella ricerca dei colpevoli. Il nostro
ufficio comunque seguirà tutta l’inchiesta finché non si sarà arrivati a una
soluzione.
− Però, − esclamò Johanne. – E quali teorie avete sviluppato in merito?
− Molte.
I rumori provenienti dalla cucina si erano fatti piú forti. Fruste e mestoli
venivano posati sui banconi di metallo e il frastuono importuno di una
lavastoviglie industriale giungeva fino a loro. Johanne guardò l’orologio.
− Mi sa proprio che dobbiamo andarcene, − disse. Esitò un istante poi
aggiunse: − Ti piace ancora camminare, Karen?
− A me? Eccome.
Johanne fece cenno che le portassero il conto. Era già pronto da tempo e
Karen riuscí a prenderlo prima ancora che l’amica si accorgesse che era
arrivato il cameriere.
− Offro io.
Johanne non osò nemmeno protestare.
− Che ne dici di una bella passeggiata notturna fino a casa mia per un
ultimo bicchierino prima di andare a letto? – le chiese mentre Karen tirava
fuori la carta di credito. – Abitiamo a una ventina di minuti da qui, forse ci
metteremo un po’ di piú viste le condizioni delle strade.
− Splendido! – rispose con entusiasmo Karen, poi subissò di complimenti
il cameriere, prese il cappotto e andò verso l’uscita.
− Certo che Oslo è molto tranquilla, − disse stupita quando si ritrovarono
fuori.
Il semaforo all’incrocio fra Hans Nielsen Hauges Vei e Sandakerveien
scattò dal giallo al rosso senza che passassero auto. Lo sporco e i gas di
scarico della giornata erano stati nascosti da un sottile strato di neve appena
caduta. Sui marciapiedi non si vedeva neppure un’impronta. Le nubi erano
ancora basse sulla città e verso sudovest si ammantavano di un colore
giallastro e malaticcio dovuto ai lampioni del centro.
− Questo è piú che altro un quartiere residenziale, − le spiegò Johanne. –
Senza contare poi che la vita mondana la sera è ridotta al lumicino, subito
dopo Natale. Diciamo che i norvegesi furoreggiano in dicembre e che gennaio
è il mese dei loro buoni propositi.
Svoltarono all’angolo del videonoleggio e cominciarono a risalire lungo
Sandakerveien.
− Dov’eravamo rimaste? – chiese Karen.
− Alle teorie su quei sei omicidi, − le ricordò Johanne.
− Ecco, sí…
Karen si strinse meglio la sciarpa mentre camminavano. Johanne aveva
dimenticato che era molto alta e che aveva gambe lunghissime: dovette
accelerare per riuscire a starle dietro.
− Per quanto riguarda il movimento antigay, abbiamo osservato che si sono
formate nuove costellazioni, anche strane. Ebrei e cristiani, musulmani e una
volta tanto gruppi dell’estrema destra, che per secoli non sono riusciti ad
avere rapporti pacifici, hanno trovato un nemico comune: la comunità gay.
Abbiamo appena scoperto l’esistenza di un gruppo che si fa chiamare «The
25’ers». La cosa particolare di questa organizzazione è che opera
fondamentalmente nel silenzio.
− Nel silenzio? Ma lo scopo di questi gruppi non è fare piú cagnara
possibile?
− Di norma sí. Loro invece sono diversi. Crediamo siano nati in ambienti
piú tradizionali e fondamentalisti, sia da parte islamica che cristiana. È come
se dal loro punto di vista le cose stessero andando troppo per le lunghe, come
se fosse ormai giunto il momento di fare qualcosa di drastico. Potremmo dire
che i personaggi sono quelli di prima, cambia la messinscena. Lo scopo è lo
stesso, ma c’è la volontà di servirsi di tutt’altri mezzi pur di raggiungerlo.
Camminarono in silenzio per un po’. La conversazione aveva preso una
piega che Johanne non era sicura di voler continuare a seguire.
− Quali mezzi? – chiese invece, quando furono arrivate dove
Sandakerveien si allargava e svoltava in direzione nordovest.
Karen si fermò cosí di colpo che Johanne proseguí per un paio di metri
prima di rendersene conto.
− Oslo non è affatto una bella città, − disse Karen guardandosi intorno.
Johanne sorrise.
− Io credo, − le disse, − che il punto esatto in cui stiamo adesso sia il piú
brutto, il piú orrendo dell’intera Oslo. Non che secondo me sia una città
particolarmente bella, ma di sicuro non va giudicata in base a quello che si
vede da qui.
Sulla destra c’erano diversi magazzini squadrati che cercavano di
nascondersi sotto la neve per pura vergogna. Davanti ai magazzini, all’innesto
di Nycoveien che procedeva per alcune centinaia di metri prima di sfociare in
una rotonda deserta, metà muro del centro commerciale Storo Storsenter era
stato demolito in vista di un ampliamento, solo che il lavoro malfatto rendeva
l’aerea piú simile a un cumulo di rovine che a un cantiere; sul tetto una
gigantesca o rossa lampeggiava nell’oscurità, come l’occhio infiammato di un
ciclope. Fra Sandakerveien e Nycoveien, le strisce verticali turchesi che
ornavano un palazzo adibito a uffici si riflettevano nitidamente sulla neve.
Sulla sinistra spiccava una manciata di edifici di mattoni gialli; per qualche
motivo l’architetto aveva deciso di posizionare all’esterno ogni tubatura: il
risultato ricordava il fondale di un film di fantascienza a basso costo.
− Sarà molto meglio quando arriveremo a Nydalen, − le disse Johanne. −
Vieni, dài.
Camminando faticosamente proseguirono tenendosi al centro della strada.
− E comunque di «The 25’ers» sappiamo troppo poco, − disse Karen non
appena ebbero aumentato un po’ l’andatura. – Ma abbiamo ragione di credere
che si sia creata un’alleanza come minimo infausta fra musulmani
fondamentalisti e cristiani fondamentalisti. Pare che il nome derivi dalla
somma delle cifre che compongono i numeri 19, 24 e 27. Il primo ha a che
fare con il Corano, mentre gli altri due fanno riferimento a qualche versetto
della lettera di san Paolo ai Romani… una roba piuttosto complicata.
Naturalmente non si tratta di una comunità religiosa, né tantomeno di un
gruppo politico.
− E di cosa si tratta allora?
− Di un gruppo di attivisti. Paramilitare. Conosciamo l’identità di almeno
tre membri: due cristiani ultraconservatori e un musulmano, tutti con un
passato nell’ambiente militare. Uno addirittura faceva parte dei Navy Seal, le
forze speciali della marina statunitense. Il problema è che loro sanno che noi
sappiamo chi sono, quindi si sono dati una calmata: si comportano nel piú
normale dei modi e basta. Purtroppo abbiamo ragione di supporre che sia un
gruppo alquanto esteso: ampio e molto ben organizzato. Per quanto riguarda
questo caso l’Fbi sta solo sbattendo la testa contro il muro, perciò non è che ci
sia molto che noi dell’Aplc possiamo fare. Ma ci proviamo lo stesso,
naturalmente. Ci proviamo con tutte le nostre forze.
− Ma che cosa fa questa gente? – chiese smaniosa Johanne.
− Uccide omosessuali di entrambi i sessi, − rispose Karen. – «The 25’ers»
è il club degli insoddisfatti, quelli che vogliono l’azione, non solo le parole.
Si interruppe quando dovettero spostarsi sopra i cumuli di neve sul ciglio
della strada, visto che stava arrivando un’automobile.
− Per fortuna in Norvegia tutto sommato ci accontentiamo di insultarli, −
disse Johanne.
Karen fece un sorriso obliquo e si fermò prima di una nuova rotonda.
− È cosí che inizia, − disse. – È esattamente cosí che inizia.
Non si vedevano altre macchine, perciò attraversarono.
− I movimenti antigay in Norvegia sono soprattutto di stampo religioso? –
chiese Karen.
− Sí e no. Direi che quello che si può definire come un movimento è
impregnato di valori e ideali del cristianesimo conservatore. Alcuni tentano di
costruire una piattaforma di impianto piú moralistico-filosofico, per le loro
argomentazioni omofobe. A ben vedere, però, se si analizzano a fondo quelle
argomentazioni ci si rende conto che, comunque, il punto di partenza comune
è una radicatissima fede in Dio.
Fece un sospiro profondo.
− E poi abbiamo le continue lamentele di chi sta nelle roulotte.
− Nelle roulotte?
− È solo un modo di dire. Mi riferivo alla voce della gente comune, di chi
non è un cristiano molto convinto né tantomeno un filosofo. A quella gente gli
omosessuali non piacciono, tutto qui.
Erano arrivate al BI-bygget, la sede della scuola di Management, e Karen
si fermò davanti alla vetrina di G-sport: i saldi sull’attrezzatura da sci
alpinismo che le interessava non erano ancora iniziati. Colse il riflesso del
volto di Johanne.
− Ho sempre creduto che voi foste anni-luce avanti, − disse. – Nella parità
fra uomo e donna. Contro il razzismo. Per i diritti degli omosessuali.
Si chinò di colpo verso la vetrina e borbottò qualcosa di incomprensibile,
forse dei calcoli.
− Millecento dollari? Per quegli sci? Io li ho esattamente uguali e me ne
sono costati quattrocentocinquanta. Comincio a capire perché gli stipendi
medi sono cosí alti in questo Paese!
− È cambiato qualcosa quando gli omosessuali hanno cominciato ad avere
figli, − disse Johanne pensierosa, come se a un tratto una nuova
consapevolezza si fosse fatta strada in lei. – Prima filava tutto liscio, o quasi.
Questa cosa dei figli ha dato un notevole contraccolpo.
La coltre di nubi si era sfilacciata: nello squarcio di cielo nero sopra il
Grefsenkollen si vedevano tre stelle. Da quando avevano lasciato il ristorante
si era alzato il vento e la temperatura doveva essere scesa. Johanne teneva le
mani giunte e soffiava sulle muffole in lana, ma il suo alito caldo le lasciava
intrise di fredda umidità, cosí, senza togliersele, si cacciò le mani in tasca.
− Sono sempre di piú le lesbiche che hanno figli, − proseguí. – Verso la
fine dell’anno è stata approvata in via definitiva una legge matrimoniale
indipendente dal sesso che assicura loro gli stessi diritti all’inseminazione
riconosciuti agli eterosessuali. Negli ultimi anni anche gli omosessuali maschi
si sono attivati da questo punto di vista: vanno negli Stati Uniti e si rivolgono
a donatrici di ovuli e a madri surrogate. E tutto questo ha portato a…
Ripresero a camminare.
− Sai come li chiamano, questi bambini? – disse di botto Johanne in tono
accalorato. – «Prefabbricati»! Bambini costruiti!
Karen si strinse nelle spalle.
− La storia si ripete, − osservò fiacca. – Niente di nuovo sotto il sole.
Quando sono stati contratti i primi matrimoni fra neri e bianchi, si diceva che
andavano contro i comandamenti di Dio. Si sosteneva che fossero contro il
volere di Dio, contro natura, contro usi e costumi e tutto ciò a cui si era
abituati. Anche ai bambini nati da questi matrimoni venne dato un
soprannome: half-castes, mezzosangue. Tutto sommato, alla base c’è lo stesso
meccanismo che ha portato al soprannome di «prefabbricati».
Respirò a fondo.
− Passerà, Johanne, – disse. – Fra qualche giorno da noi si insedierà un
presidente mezzosangue! Sei anni fa nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe
creduto che ci sarebbe stato un presidente donna prima e a seguire un
afroamericano. Mi dispiace per Helen Bentley, fra l’altro. Che non abbia
voluto provarci anche solo per un periodo. Di Obama non posso che parlar
bene, ma in fondo in fondo…
Si erano fatte le undici e mezza. Un autobus ondeggiava verso di loro.
L’autista sbadigliò a lungo mentre le superava, ma sobbalzò quando un gatto
si fiondò in mezzo alla strada costringendolo a frenare di colpo.
− In fondo in fondo io penso che sarebbe stata una vittoria ancora piú
grande avere un presidente donna, − disse Karen a bassa voce, come se stesse
confidando a Johanne un terribile segreto. – E quando il massimo leader
mondiale dice di voler gettare la spugna per non rinunciare alla famiglia, dopo
soli quattro anni alla Casa Bianca, ecco… mi riservo il diritto di non crederle.
Johanne cercò di trattenere un sorriso. Non le capitava spesso di sentire
l’esigenza di condividere i drammatici eventi del maggio 2005 con qualcuno.
Le ventiquattr’ore trascorse con Helen Bentley in un appartamento di
Frogner, mentre il mondo intero credeva che il primo presidente americano
donna fosse morto, con il passare degli anni avevano finito per diventare un
ricordo incapsulato a cui lei raramente accedeva. Le era stato imposto di
tenere la bocca chiusa, per ragioni inerenti alla sicurezza sia della Norvegia
che degli Stati Uniti, e lei aveva mantenuto tutte le promesse sottoscritte. In
quel momento, per la prima volta, provava la tentazione di infrangerle.
− Non avevo mai sentito nulla di «The 25’ers», − disse invece. – Parlami
ancora di loro.
Erano arrivate in Gullhaug Torg.
Karen spostò la borsa sull’altra spalla. Aprí la bocca un paio di volte come
per dire qualcosa, ma poi tacque, quasi non sapesse bene che parole scegliere.
− Collera, − disse alla fine. – A differenza degli altri movimenti basati
sull’odio che si rafforzano grazie a rabbia, pregiudizi e aberrazione religiosa,
le organizzazioni come «The 25’ers» si fondano sulla sacra collera. È
un’altra cosa. È molto piú pericoloso.
Si fermarono sul ponte sopra l’Akerselva e si sporsero dal parapetto. C’era
poca acqua e lungo le sponde del fiume si erano formate meravigliose
sculture di ghiaccio.
− Ma come finanziano le loro attività, tutte queste organizzazioni? – chiese
Johanne.
− Dipende, − le rispose Karen. – Le comunità cristiane estremiste si
finanziano come ogni altra comunità religiosa: donazioni e generosità dei
proseliti. Non hanno neanche dei costi di gestione alti. Per quanto riguarda i
gruppi piú militanti, anche loro hanno il sostegno economico degli affiliati. E
comunque ci sono buone ragioni per credere che parte dei mezzi di queste
organizzazioni sia frutto di crimini gravi.
Si azzittí un attimo mentre contemplava un bell’arco scuro di ghiaccio che
si era formato fra tre macigni.
− Il Ku Klux Klan o Aryan Nations, per esempio. Mentre il Ku Klux Klan
concentra il proprio odio soprattutto sugli afroamericani, e Dio solo sa quanti
ne ha uccisi nel corso della storia, gli affiliati di Aryan Nations fondano il loro
credo sull’idea pseudo-teologica che siano gli anglosassoni e non gli ebrei il
popolo prescelto da Dio. Odiano anche i neri, questo sí, ma secondo loro sono
gli ebrei a rappresentare il virus che intacca il corpo dell’umanità pura.
Reclutano la maggior parte dei loro membri nelle prigioni, una politica ben
precisa, consapevolmente portata avanti dai loro leader. I soldi se li procurano
attraverso… – si girò verso Johanne e levò la mano sinistra, alzando un dito
dopo l’altro, − truffe, furti, droga, rapine in banca.
Aveva quattro dita che puntavano verso l’alto, poi stese anche il pollice e
aggiunse: − E omicidi. Omicidi su commissione, per esempio. Esiste tutta una
serie di intermediari, come tu ben sai.
Johanne non ne sapeva un granché di omicidi su commissione, e non
rispose.
− Un intermediario riceve una richiesta di omicidio, − le spiegò Karen. –
Nel caso in cui la vittima predestinata sia omosessuale, si può assoldare
qualcuno convinto che persone di quel tipo debbano comunque essere
eliminate. Nel caso in cui la vittima predestinata sia un nero, si cerca invece
un’organizzazione che…
Si strinse eloquentemente nelle spalle.
− Hai capito il meccanismo, no? – le disse, poi tirò su con il naso.
Un’anatra maschio che si era preparata per la notte sulla sponda sinistra
estrasse il becco da sotto l’ala e le fissò nella speranza che da quelle due
donne sul ponte arrivasse qualche pezzetto di pane secco. Visto che però non
succedeva niente, ricacciò la testa sotto l’ala trasformandosi di nuovo in una
palla scura di penne.
− Per quanto riguarda «The 25’ers», − proseguí Karen, − ne sappiamo
ancora troppo poco, ma abbiamo notato molte somiglianze con «The Order»,
un gruppo sorto negli anni Ottanta dai dissidenti del Ku Klux Klan e Aryan
Nations. Avrebbero dovuto fare una rivoluzione e prendere le redini del
governo degli Stati Uniti. Niente di meno. La piú eclatante differenza fra i
gruppi vecchi e nuovi sta nel fatto che i nuovi sono caratterizzati dalla
collaborazione fra religioni diverse. E in questo non sono i soli. Per esempio,
c’è un altro gruppo di dissidenti…
Johanne posò una mano sulla spalla di Karen.
− Basta cosí, − la pregò con un sorriso. – Non ce la faccio a sentire altro.
Diciamo che per questa sera di chiacchiere sull’odio ne abbiamo fatte
abbastanza? Mi piacerebbe sapere qualcosa sui tuoi figli, su tuo marito e…
tuo fratello! È ancora un grande donnaiolo come ai tempi?
− Puoi scommetterci! Si è sposato già tre volte.
Johanne prese Karen sotto braccio quando si rimisero in cammino.
− Non manca tanta strada, fra poco siamo arrivate, − le disse tagliando
verso destra. – Yngvar sarà contentissimo di vederti.
Ed era vero. Yngvar ne sarebbe stato felice, poco importava se si era fatto
cosí tardi.
Una volta finito di occuparsi delle bambine, del lavoro, della casa e della
famiglia nel suo complesso, di solito Johanne si sentiva esausta. Ogni tanto lei
e Yngvar andavano a cena da amici – di norma, vecchi amici di Johanne –,
ma era una cosa che le metteva sempre una grande ansia addosso. Raramente
capitava che invitassero qualcuno da loro. Alla fine era sempre piacevole, ma
la svuotava di ogni forza per diversi giorni, sia prima che dopo. Yngvar, al
contrario, era bravissimo a portare avanti le sue cose non appena si ritrovava
con un’oretta vuota. Anche se molto del tempo libero lo sfruttava per stare
insieme ad Amund, il nipote che era solo un neonato quando sua figlia e la
sua prima moglie erano morte per una tragica fatalità, aveva parecchi amici e
conoscenti con cui si vedeva regolarmente. Ultimamente, poi, aveva
addirittura cominciato a insistere che voleva di nuovo un cavallo. Come se
avesse a disposizione dieci o dodici ore alla settimana e non sapesse bene che
cosa farsene.
E assillava sempre Johanne dicendole di uscire, di invitare qualcuno, di
andare al cinema con gli amici.
«Kristiane se la cava bene un paio d’ore senza di te», le diceva piú spesso
di quanto lei desiderasse.
Yngvar sarebbe stato ben felice di vederle.
Si avvicinavano a Maridalsveien, le nubi correvano in cielo e il sibilo del
vento fra i rami spogli degli alberi copriva quasi il ronzio sordo del traffico
sul Ringveien poco piú a nord.
Ancora tre minuti e sarebbero arrivate a casa.
Johanne aveva la tentazione di svegliare Kristiane.
Solo per fargliela vedere.
E quando ci arriverai…

− Per cominciare devo farti vedere questi oggetti, − le disse Kjetil


Berggren posando quattro cose davanti a lei su un panno bianco. – Fai con
calma, prenditi tutto il tempo che ti serve.
La sua voce era bassa, traboccante di partecipazione, come se si trovassero
già al funerale di Marianne. E in quel caso sarebbero stati entrambi vestiti in
modo inappropriato. Era sabato 10 gennaio e il piumino ormai logoro di Kjetil
Berggren era appeso a un gancio accanto alla porta di ingresso. Quando fece il
giro intorno al tavolo per tornare a sedersi al suo posto non poté fare a meno
di tirarsi su uno dei calzettoni al ginocchio.
− Mi aspettavo di vederti in tuta aderente e scarponcini da fondo, − gli
disse Synnøve.
Il poliziotto non rispose.
− Mi sento meglio, adesso, − aggiunse lei in tono neutro. – Stai tranquillo.
Per la prima volta dopo due settimane esatte aveva dormito. Dormito
veramente. Non appena Kjetil Berggren e il pastore si erano convinti a
lasciarla in pace, la sera prima, aveva dato da mangiare ai cani e si era tuffata
a letto. Si era svegliata quattordici ore dopo. Per qualche secondo era rimasta
sdraiata lí, senza sapere bene dove si trovasse e che cosa provasse. E quando
la consapevolezza della morte di Marianne l’aveva raggiunta all’improvviso
aveva ricominciato a piangere. Ma adesso era diverso. Non c’era piú niente
per cui doversi angosciare. Marianne era morta e le sue ricerche erano
terminate. Prima o poi con il dolore avrebbe imparato a convivere. Adesso lo
aveva capito, dopo quattordici giorni di inferno. Quella che era stata una
penosa immobilità si era finalmente trasformata in movimento. Verso
qualcosa. E quando ci fosse arrivata si sarebbe sentita meglio.
Solo quella mattina si era resa conto sul serio di quanto fosse dimagrita
nelle ultime due settimane. Aveva mal di schiena e ruotava la testa a fatica. Si
sentiva la mandibola come paralizzata quando aveva cercato di mangiare un
po’ di fiocchi d’avena in una tardiva colazione. Alla fine aveva rinunciato e si
era preparata un bel bagno caldo. Era rimasta nella vasca fino a che l’acqua
non era diventata appena tiepida e la pelle dei polpastrelli sembrava sul punto
di staccarsi.
Synnøve Hessel si era trascinata lentamente in giro per la casa vuota.
Aveva fatto entrare Kaja per avere un po’ di consolazione e di compagnia: era
la prima volta in assoluto che accadeva una cosa del genere, Marianne aveva
posto come condizione per tenere gli husky che restassero sempre fuori. Kaja
aveva esitato, era rimasta lí, accanto allo stipite della porta, poi finalmente si
era lasciata tentare, era entrata e si era accomodata sul divano. E lí si erano
consolate a vicenda, Synnøve e il cane, fino a quando Kjetil Berggren non era
passato a prenderla alle tre come d’accordo.
In quel momento era seduta nella stessa stanza dell’ultima volta. Un
funzionario di Oslo si era fatto trovare lí al suo arrivo, ma lei non desiderava
parlare con nessuno tolto Kjetil. Almeno per ora.
− So che è un momento davvero difficile per te, Synnøve, e io…
− Kjetil, − lo interruppe lei. – Parlo sul serio. Se tu avessi idea di come mi
sentivo dopo la scomparsa di Marianne, capiresti che per me è molto piú
facile…
Si azzittí e abbassò le palpebre.
− Chiudiamo questa faccenda e basta, okay?
− Ti sei curata le ferite alle guance?
− Tanto sono superficiali.
Kjetil Berggren aveva l’aria di uno che avrebbe tanto voluto protestare, ma
si limitò ad accennare col capo al panno bianco posato sul tavolo in mezzo a
loro.
− Posso toccarli? – chiese lei.
− No. Purtroppo non è possibile.
La fede in oro bianco era un po’ piú grande della sua. Il diamante
incastonato era completamente opaco, forse non lo avrebbe neanche notato se
non avesse saputo che c’era. Synnøve avrebbe desiderato una normalissima
fede in oro giallo senza ammennicoli, una fede tradizionale: voleva essere
sposata con Marianne come qualunque altra coppia, e con un anello in oro
giallo e semplice.
− Non abbiamo fatto in tempo a sposarci, − disse.
− Credevo che voi due foste…
− Eravamo registrate come coppia di fatto. Un po’ come soci in affari,
insomma. Con la nuova legge e tutto il resto avevamo deciso di sposarci per
davvero quest’estate.
Le lacrime le rigavano le guance, le sentiva bruciare sui graffi verticali che
le segnavano il volto.
− Quell’anello sembrerebbe proprio il suo.
Allungò la mano destra per mostrargli l’anello gemello. Poi fece un bel
respiro profondo e proseguí, troppo in fretta: − La collana anche. Il mazzo di
chiavi è senza dubbio il suo. Questa chiavetta Usb non l’ho mai vista, ma ne
abbiamo una trentina sparse qua e là. Puoi toglierli, adesso? Puoi toglierli,
adesso?
Si coprí il viso con le mani.
− Suppongo, − proseguí con voce semisoffocata, – di dover identificare
queste cose perché non volete che io veda Marianne.
Kjetil Berggren non rispose. Con gesti rapidi e facendo attenzione a non
toccare i quattro oggetti, li ripose ognuno in un sacchettino di plastica e poi li
avvolse tutti insieme nel panno.
− Ovviamente procederemo anche all’esame del Dna, − disse. − Purtroppo
siamo sicuri quasi al cento per cento che il corpo ritrovato sia quello di
Marianne.
− Hanno detto che aveva pagato, − osservò Synnøve posando le mani in
grembo. – All’albergo hanno detto che Marianne aveva saldato il conto della
stanza!
− Il conto era stato saldato, sí. Ma non da lei.
− E da chi allora? Se è stato qualcun altro a farlo, non può che trattarsi del
suo assassino, per cui non dovrebbe essere poi cosí difficile… Non ci sono i
filmati delle telecamere di sorveglianza? I registri degli ospiti? Dovrebbe
essere la cosa piú facile del mondo…
Quando vide l’espressione sul viso di Kjetil Berggren tacque.
− L’Hotel Continental ha telecamere di sorveglianza sistemate in alcune
zone della struttura, − disse lui adagio. – Fra l’altro, anche alla reception.
Purtroppo però dopo una settimana cancellano le riprese. La settimana
prossima passeranno alle telecamere digitali, cosí potranno conservare i dati
molto piú a lungo. Ma per il momento hanno un’attrezzatura antiquata.
Stiamo parlando di Vhs, né piú né meno. Non si possono accumulare
videocassette e conservarle in eterno, no?
− Videocassette? In un albergo di lusso?
Lui annuí e proseguí: − Il conto è stato saldato già la sera del 19 dicembre,
lo si deduce dalle registrazioni di cassa. A sentire il concierge è stato un uomo
a pagare. In contanti. Ma ha difficoltà a fornirci una descrizione piú
dettagliata. C’erano parecchie persone quella sera, era il periodo delle tavolate
prenatalizie. Il Theatercaféen era pieno zeppo e c’è un accesso diretto da quel
caffè al Dagligstuen, il bar nella hall dell’albergo. Poi si passa dalla reception.
− Questo significa che…
Synnøve non sapeva nemmeno lei che cosa potesse significare.
− Senza contare che quella sera al Continental c’era un banchetto di nozze,
− proseguí il poliziotto. – Un sacco di chiasso e di confusione. C’è stato anche
un momento drammatico: una bambina è scappata in strada e per un pelo non
è stata investita da un autobus. Anzi, no, da un tram. Comunque, c’era un gran
trambusto e il concierge non è riuscito a farsi venire in mente altro, sul
pagamento.
− Ma chi… Chi mai poteva avere interesse a fare una cosa del genere? Io
proprio non lo capisco… Ucciderla, nascondere il corpo, pagare il conto… è
cosí assurdo, cosí… A chi potrebbe mai venire in mente di fare una cosa
simile?!
− È quello che stiamo cercando di scoprire, − disse Kjetil in tono
tranquillo. – La chiave di tutto sembrerebbe stare nel perché hanno ucciso
Marianne. Se tu dovessi avere qualche informazione che potesse esserci utile
per…
− No che non ce l’ho, − lo interruppe Synnøve. – Naturalmente non ho la
minima idea del perché qualcuno avrebbe potuto desiderare Marianne morta!
A parte quegli stronzi dei suoi genitori!
Kjetil Berggren evitò di commentare quell’affermazione irragionevole.
Synnøve si tirò la maglia. Sollevò il bicchiere pieno d’acqua ma lo
riappoggiò senza bere. Cominciò a giocherellare con la fede. Si ravviò i
capelli con le dita.
Cercava di far passare il tempo.
Su quello si sarebbe dovuta concentrare nei giorni seguenti: far passare il
tempo. Il tempo che cura tutte le ferite. Solo che ogni volta che lanciava
un’occhiata all’orologio era trascorso soltanto mezzo minuto dall’ultimo
controllo.
E nessuna ferita si era sanata.
− Posso andare? − bofonchiò.
− Certo. Ti do un passaggio fino a casa. Ti tormenteremo con un bel po’ di
domande, ma…
− Chi?
− In che senso, chi?
− Chi mi tormenterà?
− Be’, dal momento che il cadavere è stato ritrovato a Oslo e che anche il
delitto, a quanto ci è dato di capire, è stato commesso a Oslo, è la polizia di
Oslo ad avere la competenza sul caso. Naturalmente noi contribuiremo per
quanto possibile…
− Voglio andare.
Synnøve si alzò. Kjetil Berggren si rese conto che il maglione le stava
largo e che aveva la schiena ingobbita. Doveva aver perso almeno cinque o
sei chili nelle ultime due settimane. Solo che lei cinque o sei chili da perdere
non li aveva.
− Devi mangiare, − le disse. – Stai mangiando?
Senza rispondergli lei prese la giacca a vento che aveva appoggiato allo
schienale della sedia.
− Non c’è bisogno che mi riaccompagni, − disse. − Torno a piedi.
− Ma ci vogliono solo tre minuti…
− Torno a piedi, − ribadí Synnøve.
Sulla porta si girò di nuovo verso di lui.
− Non mi hai creduto, − gli disse. – Non mi hai creduto quando ti ho detto
che a Marianne doveva essere successo qualcosa di terribile.
Kjetil Berggren cominciò a guardarsi le unghie, senza commentare.
− Spero che sia un tormento, questo, per te.
Lui annuí, senza alzare gli occhi.
«Non è affatto un tormento, – pensò. – Non mi tormenta proprio per
niente, visto che quando sei venuta da noi Marianne era già morta da un
pezzo».
Ma non disse nulla.

Quanto a efficienza, nulla da dire. Il disegnatore di cui la polizia si serviva


abitualmente aveva già terminato non solo lo schizzo del volto, ma anche un
profilo e un identikit a figura intera, corredando il tutto con l’ingrandimento
di un dettaglio, una sorta di emblema o spilla che secondo Martin Setre
l’uomo portava al bavero della giacca. Silje Sørensen sfogliò rapida i disegni,
poi li allineò sulla scrivania, davanti a sé.
Era piuttosto scettica sull’utilità di quegli identikit, nonostante fosse stata
lei a commissionarli.
Quasi tutti i testimoni finivano per rivelarsi scadenti. Capitava di frequente
che la descrizione a posteriori della stessa situazione o persona fosse
lontanissima dal vero. I testimoni erano capaci di riferire cose che non c’erano
o eventi che non avevano mai avuto luogo. Con vivacità e abbondanza di
dettagli. Non mentivano. Solo che ricordavano male e riempivano i vuoti di
memoria con le loro esperienze o con la fantasia.
Al contempo, però, un identikit poteva rivelarsi decisivo. Doveva essere
ben fatto e il testimone un osservatore particolarmente acuto. Esistevano
programmi informatici avanzati che rendevano piú facile, e in alcuni casi piú
preciso, tracciarne uno, ma lei preferiva il disegno a mano libera.
Era quello che aveva appena ricevuto.
Osservò il ritratto.
L’uomo era di razza bianca e di un’età compresa fra i trentacinque e i
cinquant’anni. Dalle annotazioni arrivate insieme al fascicolo venne a sapere
che Martin Setre non era stato in grado di dire con certezza se l’uomo si fosse
rasato il cranio o se avesse effettivamente perso i capelli. Di certo era pelato.
Aveva il viso tondeggiante, gli occhi scuri, non portava occhiali. Il naso era
dritto, il mento piuttosto ampio, quasi squadrato; la parte inferiore della faccia
era segnata da un leggero doppio mento. Era robusto, lo si vedeva
chiaramente anche dal disegno a figura intera, ma non proprio sovrappeso. La
sua altezza si aggirava sul metro e settanta.
Un tizio piuttosto basso e grassottello che sorrideva.
Silje suppose che il ritratto fosse stato fatto cosí perché l’uomo aveva
sorriso tutto il tempo. Leggiucchiò le annotazioni e trovò conferma alla sua
ipotesi.
Bei denti.
Era vestito di scuro. Giacca scura sopra una camicia scura. Anche la
cravatta era scura, il nodo pareva allentato. Il disegno era in bianco e nero e
tutte quelle tonalità di grigio la rendevano pessimista. Quando sollevò lo
schizzo a figura intera per osservarlo piú da vicino, si rese conto stupita che
dovevano esserci migliaia di uomini simili a quello. Sí, Martin aveva detto
che parlava inglese o americano, ma utilizzare una lingua diversa dalla
propria era un trucco tanto vecchio quanto abusato.
Aveva un accenno di fossetta.
Knut Bork entrò senza bussare e Silje Sørensen sobbalzò.
− Scusa, − le disse lui con aria perplessa. – Non sapevo che fossi qui. Non
hai niente di meglio da fare il sabato pomeriggio?
− Se non fossi stata qui la porta non sarebbe certo stata aperta.
− Io…
Knut Bork era alto e chiaro di carnagione, quasi pallido, con capelli
biondo-rossicci e occhi azzurro ghiaccio. Quando arrossiva lo si vedeva
lontano un miglio: pareva un semaforo.
− Non è mica grave, − gli disse Silje con un sorriso e tese una mano verso
di lui. – Che cosa eri venuto a lasciare?
− Questo, − rispose lui mortificato, porgendole un sottile fascicolo. – Va
allegato alla pratica di Marianne Kleive.
Lei prese i documenti e senza esaminarli li posò accanto agli identikit.
– Proprio quel che ci serviva in questo momento, − disse. – Un omicidio
spettacolare in uno dei piú rinomati alberghi della città. Hai letto i giornali?
Knut Bork inarcò le sopracciglia e si lasciò sfuggire un bel sospiro.
− Novità? – chiese lei con un cenno del capo al fascicolo.
− Solo le deposizioni di un paio di testimoni che non erano ancora stati
ascoltati. Pare che mezza Oslo fosse in quel maledetto hotel quella sera. E tu
sai benissimo com’è… tutti sostengono di avere qualcosa di interessante da
riferire. Siamo tempestati di telefonate di gente che ci vuole parlare.
Silje Sørensen afferrò la sua tazza di caffè.
− A volte non c’è miglior testimone di mille testimoni, − ribatté. – Il
problema è che li dobbiamo prendere tutti sul serio. Magari qualcuno ha
davvero visto qualcosa che potrebbe essere rilevante. Cin cin!
Il caffè era tiepido e aveva un retrogusto acidulo.
− Non stai per andare a casa?
− Sí, e anche tu, mi auguro, − rispose lui. – Ti è arrivato l’identikit? Fammi
un po’ vedere…
Girò intorno alla scrivania e si chinò sui disegni.
− Nessun segno particolare, − mormorò.
− No. È piú basso della media, ma come si deduce dal concetto stesso di
media non è l’unico…
− Credi che sia un binario morto? – Knut sollevò uno dei disegni
all’altezza del viso.
− Può darsi, − disse lei con un sospiro. – Ma è l’unica pista che abbiamo.
− E questo cos’è? – le chiese lui indicando il disegno del bavero della
giacca. – Una spilla?
− Qualcosa del genere. Riconosci il simbolo?
− È un trifoglio, no?
− Sí.
− Tutte le immagini sono in bianco e nero, ma il trifoglio è rosso.
− Martin ne era sicuro al cento per cento. Di solito negli identikit
preferiamo evitare i colori perché possono trarre in inganno. Ma questa spilla,
o quel che è, era certamente rossa.
− E questi… ghirigori che cosa dovrebbero simboleggiare?
Si misero tutti e due a scrutare il disegno. In ogni foglia della pianticella
era stata tracciata una vaga figura che faceva pensare a una lettera di un altro
alfabeto.
− Secondo Martin c’era una lettera in ogni foglia, − disse Silje. – Ma non
ricordava quali.
Knut Bork prese una scatolina di pasticche che era posata sul tavolo.
− Posso mangiarne una? – chiese infilando le dita nella scatolina prima
ancora che lei potesse rispondere.
− Certo, − mormorò Silje, − prendine quante vuoi. C’è qualcosa di
familiare in questo simbolo, non trovi?
− Oh sí! – esclamò lui, e scoppiò a ridere. – Familiare, come no! Mia
nonna ne ha uno cosí su ogni giacca!
La sua risata si interruppe all’improvviso. Silje alzò lo sguardo su di lui.
Era di nuovo paonazzo in volto e boccheggiava come un pesce fuor d’acqua.
− Knut? – disse lei. – Tutto bene? Hai…
Silje si alzò cosí di scatto che la sedia su rotelle andò a sbattere contro il
muro. Per un attimo prese in considerazione l’idea di arrampicarsi sulla
scrivania, visto che Knut Bork era considerevolmente piú alto di lei, poi
cambiò idea. Lo abbracciò da dietro e gli intrecciò le mani sul davanti, con i
pollici rivolti verso il torace. Poi strinse di colpo, con tutte le sue forze.
Knut sparò dalla bocca tre proiettili neri.
Poi tossí e annaspò alla ricerca di aria, e solo allora Silje mollò la presa.
− Grazie, − singhiozzò lui. – Non riuscivo a… Guarda lí!
Indicò la parete opposta. Le pasticche per la gola si erano conficcate nel
muro formando un triangolo a meno di mezzo centimetro di distanza l’una
dall’altra.
− Centro del bersaglio! – ansimò Knut.
Lei lo guardò inarcando le sopracciglia e tornò a sedersi.
− Adesso mi puoi dire che cosa rappresenta questo simbolo?
Lui si toccò la gola, tossí di nuovo e, ancora con la voce distorta, disse: −
Norske Kvinners Sanitetsforening.
− Eh?
− Sono le lettere n, k e s. Le iniziali della Norske Kvinners
Sanitetsforening. Quell’associazione tutta al femminile che si occupa della
tutela e dell’assistenza alle donne e agli strati sociali piú deboli.
Lei afferrò il disegno del simbolo, come se lui l’avesse offesa. Un trifoglio
rosso con il gambo e una lettera su ogni foglia.
− Devo controllare, − borbottò, poi posò il disegno e digitò il nome
dell’associazione sul computer.
− Vedi, − ribatté Knut Bork. – Te l’avevo detto.
Sullo schermo era apparsa la home page dell’associazione: il logo era un
trifoglio rosso con le lettere n, k e s in bianco, una su ogni foglia.
− Ma che…
C’era qualcosa che non quadrava.
− Un cliente che frequenta l’ambiente della prostituzione maschile, nonché
un potenziale omicida, − iniziò lei scandendo bene le parole. – Un uomo. Se
ne va in giro ad adescare ragazzini. In centro a Oslo.
Deglutí e si inumidí le labbra con la lingua.
− Con una spilla dell’associazione femminile Nks ben visibile sul bavero
della giacca. Ma che diavolo significa? Ci prende in giro?
Knut Bork afferrò l’identikit, andò alla bacheca di sughero accanto alla
finestra e ce lo appese fissandolo con delle puntine. Arretrò di un paio di passi
e si fermò a osservarlo, con la testa leggermente inclinata da una parte, poi si
girò di scatto verso Silje e annuendo disse: − Forse è proprio cosí, forse ci
prende in giro.

Quando l’uomo al telefono aveva detto di essere della polizia, Marcus Koll
jr in un attimo di sbigottimento aveva creduto che gli stessero facendo uno
scherzo. Quando pochi secondi piú tardi aveva capito di essersi sbagliato si
era alzato e messo a camminare avanti e indietro per il soggiorno. All’inizio si
era cosí concentrato nello sforzo di suonare imperturbabile che non aveva
afferrato un bel niente di quel che gli dicevano.
Non era possibile che sapessero qualcosa.
Non era nemmeno lontanamente pensabile, cercava di convincersi.
Si fermò davanti alla grande finestra rivolta a sud.
Il prato in discesa era illuminato. Sul pendio gli abeti carichi di neve
rilucevano di un azzurro ghiaccio quasi fluorescente in contrasto con
l’oscurità compatta che si estendeva al di là dello steccato. Una bassa coltre di
nubi nascondeva la città e il fiordo. Da dove si trovava lui era come se non
esistesse alcun mondo al di fuori della sua proprietà.
A parte la voce al telefono.
− Chiedo scusa, − disse Marcus cercando di comunicare un sorriso. –
Potresti essere cosí gentile da ripetere tutto da capo? La linea era un po’
disturbata.
− La segnalazione, − disse l’uomo con una certa impazienza. – Ci hai
telefonato per darci informazioni sulla banda dei topi d’appartamento, lunedí
scorso.
Un leggero soffio di vento fece cadere un po’ di neve dall’albero piú
vicino: i cristalli induriti risplendettero alla luce del lampione. In fondo al
giardino due maestosi pini dai tronchi dritti e nudi e con le chiome
tondeggianti si ergevano come rigidi soldati al posto di vedetta.
Marcus si lasciò invadere dal sollievo.
Non si era sbagliato. Non sapevano nulla, ovviamente.
Non c’era ragione di preoccuparsi.
− Ah, − si limitò a dire, e deglutí. – Non sono stato io.
− Ma lei non è Rolf Slettan, − disse la voce all’altro capo del filo, −
numero di telefono 2307****?
− No, non sono io, − rispose Marcus, concentrandosi per riuscire a
respirare tranquillamente. – È il mio compagno. Rolf. È stato lui a chiamarvi.
Io sono Marcus Koll jr. Proprio come ho detto quando ho risposto al telefono.
Seguirono due o tre secondi di silenzio.
Il silenzio dell’essere diversi, pensò Marcus. Il breve frammento di tempo
dello smarrimento muto. O del disprezzo. O di tutti e due. Lui ci era abituato,
cosí come chiunque si abitua al proprio marchio se lo porta abbastanza a
lungo. Subito prima che Lillemarcus iniziasse ad andare a scuola, Marcus
Koll jr aveva rilasciato un’intervista al «Dagens Næringsliv», che gli aveva
dedicato un intero servizio: l’unico omosessuale con compagno e figlio sulla
lista dei cento piú ricchi del Paese. Sperava con questo di proteggere
Lillemarcus: tutti avrebbero saputo e si sarebbero evitati spiacevoli bisbigli e
lunghe pause.
Non tutti leggevano il «Dagens Næringsliv», aveva realizzato alcune
settimane piú tardi.
− Ah, ecco, − sentí finalmente dire al poliziotto che aveva telefonato. – E
lui… è in casa? Rolf Slettan?
− Sí, ma sta mettendo a letto nostro figlio.
Il silenzio all’altro capo del filo durò cosí a lungo che Marcus cominciò a
credere che la conversazione si fosse interrotta.
− Pronto! – disse ad alta voce.
− Sí, pronto… − rispose l’uomo. – Dunque… mi potresti far richiamare?
La pratica con le informazioni che ci ha dato è rimasta in sospeso e io avrei
delle domande da…
− Gli dico di richiamare al numero che compare qui sul display? – lo
interruppe Marcus.
− Eh… sí, va bene. Digli di chiedere dell’agente Pettersen. Riesci a farmi
richiamare stasera?
− Non credo, no, − rispose Marcus. – Abbiamo degli impegni stasera. Se
però si tratta di una cosa importante naturalmente farò in modo che vi
ritelefoni. Fra una mezz’oretta…
− Sí… sarebbe meglio. C’è stato un altro furto ieri e sarebbe…
− Va bene. Riferirò.
Senza nemmeno accomiatarsi Marcus interruppe la conversazione e posò il
telefono sul tavolino del soggiorno. Si accorse che era troppo buio.
Lentamente attraversò la stanza accendendo una luce dopo l’altra, finché il
soggiorno non fu cosí luminoso che la vista panoramica dalla finestra
affacciata sul giardino finí quasi per svanire nel nitido contrasto fra interno ed
esterno.
Rolf gli aveva raccontato delle impronte di pneumatici davanti al portale.
Marcus si era prima stupito, poi quasi irritato perché Rolf si era cosí
intestardito su alcune tracce insignificanti lasciate da qualcuno che si era
fermato nello slargo lungo la via, uno slargo che non era recintato e quindi
costituiva una sorta di piazzola per chi percorreva quella strada. Da quando la
neve aveva cominciato ad accumularsi dopo capodanno, infatti, lui aveva
notato che di impronte ce n’erano praticamente sempre.
Solo dopo che Rolf aveva avuto la possibilità di spiegarsi meglio, Marcus
si era mostrato disponibile a discutere della questione. Aveva finito per
ammettere che in effetti era piuttosto strano che qualcuno si fosse fermato lí a
lungo, come la diversa profondità delle tracce di pneumatici e i mozziconi di
sigaretta gettati per terra sembravano indicare. Quando poi Rolf aveva
testardamente provato a convincerlo che la stessa auto si era fermata un po’
piú in là mentre lui esaminava le tracce davanti al portale e che era poi
scomparsa non appena lui se n’era interessato, Marcus aveva chiuso la bocca.
La sensazione netta di Rolf che qualcuno li stesse controllando trovava una
perfetta corrispondenza nella sua crescente inquietudine. Sempre piú spesso
gli capitava di lanciarsi occhiate alle spalle senza sapere bene perché neanche
lui. Da cosa o da chi si volesse guardare. Fino a quel momento non era
riuscito a mettere le mani su niente di piú concreto, ma già prima di Natale la
sensazione di un’ombra che lo seguiva si era fatta sempre piú intensa. Solo
dopo capodanno aveva capito che il panico che dopo molti anni era tornato ad
assalirlo facendolo quasi crollare quattro giorni prima di Natale non era
semplicemente frutto dei rimorsi di coscienza che lo tormentavano.
Era come se qualcuno lo stesse tenendo d’occhio.
Il problema, per come la vedeva Marcus Koll jr, era che chi lo sorvegliava
probabilmente non aveva nulla a che fare con le effrazioni e la banda dei furti.
Sempre che fosse vero che qualcuno lo spiava.
− No, − disse ad alta voce, e si riaccomodò in poltrona.
Non poteva che essere frutto dell’immaginazione.
Non doveva che essere frutto dell’immaginazione.
Lui stesso in quel periodo si sentiva piuttosto nervoso, fin troppo nervoso
anzi, e le osservazioni di Rolf potevano benissimo riguardare una coppietta di
giovani innamorati che si era appartata. Una pausa baci e sigarette. Oppure,
perché no, poteva trattarsi di un automobilista responsabile che si era fermato
per parlare al cellulare.
Suonarono alla porta.
«Baby-sitter», pensò chiudendo gli occhi.
Erano le dieci e lui si sentiva troppo stanco per uscire.
Fra tre mesi e cinque giorni sarebbero stati dieci anni esatti dalla morte del
padre.
Marcus Koll jr aprí gli occhi, si alzò e si tirò forte i lobi delle orecchie per
riprendersi. Il campanello della porta di casa suonò di nuovo. Mentre
attraversava il soggiorno decise che il 15 aprile sarebbe stato il giorno in cui
tutte le sue preoccupazioni sarebbero finite. Anche se quel giorno aveva
ormai perso il significato originario, lui se ne sarebbe servito lo stesso per fare
di quella data una pietra miliare della sua vita. Il 15 aprile sarebbe stato il
giorno della svolta e tutto sarebbe tornato come prima. L’importante era
arrivarci. La casa sul colle si sarebbe trasformata di nuovo in un fortino: la
cornice di sicurezza che racchiudeva la sua famiglia, ben lontana dal dominio
paterno.
Era una promessa che faceva a sé stesso, e per qualche ragione questo lo
aiutò a sentirsi un pochino meglio.
Prima dell’alba

Johanne provò una strana soddisfazione quando la sveglia suonò già alle
cinque e mezza di lunedí 12 gennaio. Come mai l’avevano puntata cosí
presto? Non se lo ricordava, quindi se ne rimase distesa, immersa in una
piacevole terra di mezzo fra sogno e realtà, mentre Yngvar si gettava su quel
molesto frastuono per farlo tacere. Il caldo secco sotto il piumino la invogliò a
stringerselo addosso ancora di piú. Quando Yngvar si sdraiò di nuovo con un
gemito, lei strisciò fino alla sua schiena.
− Devo andare, − borbottò lui. – Ho il volo per Bergen fra due ore.
− Ragnhild dorme, − bisbigliò Johanne, − Kristiane e Jack sono da Isak. E
se aspettassi un quarto d’ora?
Gli costò la colazione, e quando un’oretta dopo si ritrovò seduto in
macchina alla volta di Gardermoen, in ritardo e con lo stomaco che
brontolava e bruciava, si era quasi pentito.
Johanne, al contrario, non si sentiva cosí bene da tempo. La serata con
Karen Winslow si era conclusa solo alle tre di notte. Sarebbe durata anche di
piú, se Karen il giorno dopo non avesse dovuto guidare fino a Lillesand, a piú
di duecento chilometri da lí. Yngvar aveva portato con sé Ragnhild il sabato
mattina, quand’era andato a trovare il suocero e il nipotino Amund, ed era
stato via tutto il pomeriggio. Johanne aveva dormito fino a tardi, come non le
capitava da tempo. Dopo una lunga colazione e tre ore passate a leggersi i
giornali era andata in piscina a Tøyenbadet e aveva nuotato per
millecinquecento metri. La sera Sigmund Berli aveva fatto un salto a trovarli.
Senza essere stato invitato. Si era presentato con pizza da asporto Dolly
Dimple’s e birra tiepida. L’ospite inatteso aveva fornito a Johanne un buon
pretesto per andarsene a dormire prima delle dieci.
E le aveva fatto bene.
La felicità che le aveva dato rivedere la sua vecchia compagna di studi non
era ancora svanita. Ragnhild era andata a letto troppo tardi la domenica e
ormai era arrivata a un’età in cui il giorno dopo si recupera un po’ del sonno
perso la notte. Johanne si era messa il gigantesco pigiama di Yngvar, si era
preparata un bel po’ di caffè e si era accomodata sul divano con il portatile in
grembo.
Controllò la posta. Aveva nove mail nuove. Quasi tutte di scarsissimo
interesse, una era una richiesta da parte della polizia. Scorse il testo e si rese
conto che era la stessa ricevuta da Yngvar il sabato mattina. Riguardava
l’omicidio di Marianne Kleive. La polizia aveva ricevuto l’elenco completo
degli ospiti al ricevimento di nozze tenutosi all’Hotel Continental e come da
prassi voleva sentire se qualcuno avesse informazioni potenzialmente
rilevanti in merito al caso. Johanne cancellò subito la mail. Voleva pensare il
meno possibile a quella sera fatale in cui Kristiane per poco non era stata
investita da un tram.
Karen Winslow aveva già risposto alla domanda che lei le aveva spedito
solo il giorno prima. Johanne si avvolse meglio nel plaid e aprí la mail mentre
sorseggiava il caffè bollente.

Cara Johanne!
Che bello è stato rivederti! Una serata meravigliosa e una passeggiata
interessante (!) per la città! Conoscere tuo marito è stato fantastico e devo
proprio ammetterlo: il mio avrebbe un paio di cosucce da imparare da lui. Il
calore e la generosità che ha dimostrato quando ci siamo presentate lí in
piena notte sono andati oltre ogni aspettativa.
Ti sto scrivendo dall’aeroporto di Oslo. Il matrimonio è stato una favola,
ma il viaggio in auto andata e ritorno da Lillesand è stato un incubo…
Come d’accordo, ti metterò al corrente delle parti piú rilevanti della
nostra ricerca, informazioni riservate comprese, non appena possibile. E per
rispondere alla domanda della tua mail di questa mattina: il nome «The
25’ers» si basa sulla somma delle cifre che compongono i numeri 19, 24 e
27 (te l’avevo accennato, vero?) La nostra teoria è appunto che i numeri 24
e 27 facciano riferimento alla lettera di san Paolo ai Romani, per la
precisione al capitolo 1, versetti 24 e 27. Dagli un’occhiata. Il numero 19
vanterebbe un significato in qualche modo «magico» nel Corano. È troppo
complicato da spiegare per mail, ma se cerchi «Rashad Khalifa» su Google
capirai che cosa intendo. Se i nostri esperti di numerologia hanno ragione,
il nome «The 25’ers» è piuttosto inquietante…
Stanno annunciando l’imbarco del mio volo, devo scappare.
E non dimenticarti che tu e la tua famiglia avete promesso di venire a
trovarci questa estate!!!
Auguri di cuore per tutto e un grosso abbraccio,
Karen

Johanne rilesse la mail. Sarebbe stato meglio stamparla per non


dimenticare quegli strani riferimenti. La stampante era in camera da letto.
Quando aprí la porta della stanza, l’odore di chiuso, piumini, sonno e sesso la
investí. Yngvar si rifiutava di dormire con la finestra socchiusa se il
termometro rischiava di scendere sotto i meno cinque. Collegò rapida la
stampante al computer. Quando una sorta di raspo le comunicò che il
documento era pronto, strascicando i piedi andò alla finestra e la spalancò.
Chiuse gli occhi al freddo pungente.
«La Bibbia», pensò.
Non era nemmeno certa che ne avessero una copia. C’era un’edizione del
Corano nella libreria di Yngvar, questo lo sapeva. Aveva insistito per avere
uno scaffale tutto suo in camera da letto: cinque metri di mensole coperte da
un’assurda mescolanza di libri. Le sacre scritture nell’edizione di lusso del
Bokklubben fianco a fianco con un’enciclopedia sulle armi, il grande libro
dell’araldica, una ventina o quasi di testi sui cavalli e sull’allevamento equino,
un’antica edizione dell’Encyclopaedia Britannica e tutto quello che un tempo
era stato disegnato e pubblicato dal fumettista Frode Øverli. Senza chiudere la
finestra, Johanne si accovacciò davanti alla libreria dal lato del letto di
Yngvar. Trovare il Corano non fu difficile: l’edizione era ornata di foglie
dorate e decori orientaleggianti. Accanto c’era un libro tanto consunto che il
dorso si era staccato. Quando con ogni attenzione lo prese in mano sentí la
copertina ammorbidita dall’età.
La Bibbia.
Lentamente aprí il volume. Sul risguardo era stato scritto in elegante
calligrafia: «A Yngvar dal nonno e dalla nonna, 16 settembre 1956». Con un
rapido calcolo dedusse che dovesse trattarsi del giorno del battesimo: Yngvar
era nato la notte di san Giovanni di quello stesso anno.
Richiuse metà finestra e si mise tutti e due i volumi sotto braccio. Con la
stampata in una mano e il portatile nell’altra tornò al divano.
La Bibbia di Yngvar era una traduzione degli anni Trenta del Novecento,
lesse nel colophon. La sfogliò fino a trovare la lettera di san Paolo ai Romani
e scorse il testo con il dito indice fino al versetto 24.

Per questo, Iddio li ha abbandonati, nelle concupiscenze de’ loro cuori,


alla impurità, perché vituperassero fra loro i loro corpi.

Johanne esitò.
… vituperassero fra loro i loro corpi…
Significherà giacere l’uno con l’altro, mormorò fra sé e sé prima che i suoi
occhi trovassero il versetto 27.

E similmente anche i maschi, lasciando l’uso naturale della donna, si


sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri, commettendo
uomini con uomini cose turpi, e ricevendo in loro stessi la condegna
mercede del proprio traviamento.

Anche se capiva la sostanza di quel che c’era scritto, Johanne chiuse quel
libro consumato e si appoggiò il portatile in grembo. Avrebbe dovuto pensarci
subito, invece che mettersi a frugare nella libreria di Yngvar. L’aveva già fatto
una volta e lui era rimasto arrabbiato per ore quando lo aveva saputo.
Ci mise due minuti a trovare gli stessi versetti sul web in una edizione piú
recente. Il versetto 24:

Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro


cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi.

«Molto piú chiaro», pensò scuotendo leggermente il capo.


Anche il versetto 27 le risultò piú comprensibile nella nuova traduzione:

Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la


femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti
ignominiosi maschi con maschi, ricevendo cosí in sé stessi la retribuzione
dovuta al loro traviamento.

Johanne si considerava un’agnostica, termine a suo parere piú bello che


«indifferente». Di tanto in tanto, per ragioni di lavoro si era dovuta
confrontare con persone credenti e aveva sempre cercato di farlo con il
dovuto rispetto. Fatta eccezione per un flirt religioso durante l’adolescenza, la
fede in Dio non le era mai interessata granché.
Non prima d’ora.
Negli ultimi mesi, infatti, si era dovuta occupare di religioni con una certa
intensità. I testi come quelli che aveva appena letto la spaventavano. Non
tanto in sé e per sé: come ricercatrice e non credente, li inseriva in un contesto
storico e in quel contesto li trovava interessanti. Ma in quanto brani che
venivano presi alla lettera e rivestivano una certa rilevanza per uomini e
donne del 2009, ecco che trovava terribili le parole di san Paolo.
Se Karen e l’Aplc non si erano sbagliati e se l’interpretazione del nome
«The 25’ers» andava davvero fatta risalire a quei versetti, non poteva che
trattarsi di un’organizzazione che si scagliava soltanto contro omosessuali
maschi e femmine. Senza tanti giri di parole né mezzi termini. Nessuna
congregazione, nessuna comunità religiosa.
Semplicemente, un gruppo d’odio.
Se i cristiani ultraconservatori si erano coalizzati con i musulmani in
un’unica associazione, c’era davvero ragione di credere che l’odio fosse piú
violento di qualunque altra cosa lei avesse potuto osservare da vicino negli
ultimi mesi di ricerca.
Johanne rilesse l’ultima riga.

… ricevendo cosí in sé stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento.

Rabbrividí e prese in mano la stampata della mail.


Il numero 19.
Quel nome dal suono arabeggiante: Rashad Khalifa.
Le dita si misero a battere sulla tastiera.
Quattromilaquattrocento risultati trovati con Google.
− Ciao, mamma! Voglio fare colazione!
Ragnhild sfrecciò a piedi nudi nel soggiorno. Johanne riuscí a mettere il
portatile sul tavolino un attimo prima che la bambina le si tuffasse in braccio.
− Oggi non vado a scuola, − rise. – Oggi io e te facciamo la giornata dei
peluche!
Johanne staccò delicatamente da sé la figlia per riuscire a guardarla negli
occhi e le disse: − No, tesoro. Oggi ci vai, a scuola. È lunedí.
− Giornata dei peluche! – insistette Ragnhild sporgendo il labbro inferiore.
− Un’altra volta, tesoro. Mamma deve lavorare. E tu devi andare a scuola.
Non ti ricordi che oggi vi portano a sciare a Solemskogen? E poi cuocete le
salsicce sul fuoco e…
Il visetto imbronciato si aprí in un grande sorriso.
− Ah già! E quanti giorni mancano al mio compleanno?
− Nove giorni. Ancora nove giorni soltanto e poi avrai cinque anni.
Ragnhild rise felice.
− E il mio sarà il compleanno piú bello del mondo con la panna montata
sopra!
− E per farti diventare grande adesso andiamo subito a preparare una gran
tazza di fiocchi d’avena. Prima però ci facciamo una bella doccia, io e te.
− Va bene, − rispose la bambina e saltando come un coniglietto se ne andò
in bagno.
Johanne la guardò con un sorriso. Era stato un fine settimana delizioso e
desiderava proprio godersela questa oretta da sola con la figlia minore prima
di tuffarsi sul serio in un’altra settimana.
Se solo fosse riuscita ad allontanare da sé il pensiero di «The 25’ers».

L’ultimo a entrare nella piccola cappella dell’Østre Krematorium si


chiamava Petter Just. Se ne rimase lí in piedi, fermo, e per un attimo si
domandò se non avesse sbagliato. Mancavano tre minuti a mezzogiorno, ma
era impossibile che ci fossero non piú di venti persone. Petter Just era stato
compagno di classe di Niclas Winter, erano diversi anni che non frequentava
il suo vecchio amico, ma era convinto che avrebbe trovato una gran folla.
Niclas aveva avuto un discreto successo, a detta dei giornali. Le sue opere
erano state comprate da musei e collezionisti privati. L’anno prima il
bollettino di quartiere aveva pubblicato un imponente servizio sull’atelier di
Niclas, e leggendolo lui aveva avuto l’impressione che l’amico fosse ormai
lanciato verso la grande svolta internazionale.
Un uomo magro di una certa età, con un paio di occhiali da cui appariva
evidente che era quasi cieco, gli cacciò in mano dei fogli ripiegati. Stampata
sulla parte anteriore c’era una fotografia di Niclas Winter accompagnata dal
suo nome e dalle date di nascita e di morte in caratteri antiquati.
Petter Just prese quella specie di libriccino e andò a sedersi
silenziosamente nell’ultima fila.
Le campane batterono altri quattro colpi, poi tacquero e l’organo iniziò a
suonare.
La cappella era semplice, quasi spoglia: il pavimento era in ardesia, e nelle
pareti beige, a un paio di metri dal soffitto, si aprivano rigide finestre
rettangolari. Anziché ospitare la pala d’altare, il muro di fondo era stato
abbellito con un affresco che Petter Just trovava incomprensibile. Gli faceva
venire in mente solo un vecchio cartellone pubblicitario del partito di centro
norvegese: alberi e grano, contadini e campi e un cavallo che somigliava fin
troppo a un fjord. Di certo un purosangue originario dei fiordi occidentali
della Norvegia non l’avevano mai visto, in Medio Oriente, pensò lui cercando
di trovare una posizione accettabile su quella panca dura e scomoda, rivestita
di una stoffa rossa tutta macchiata.
Credeva sul serio che Niclas sarebbe diventato famoso. Non una di quelle
celebrità che si vedono su tabloid tipo «Se og Hør» o «VG», no: pensava che
sarebbe diventato famoso nel suo campo. Come dire, un vero artista. E se
Petter aveva deciso di andare al suo funerale era stato soprattutto perché un
tempo insieme si erano divertiti molto. Un po’ troppo in un certo periodo, per
cosí dire. Niclas aveva sempre avuto un debole per droghe e simili, e non era
mai stato neanche molto attento a chi si portava a letto.
A quel pensiero Petter Just arrossí leggermente.
Comunque erano cose che ormai non c’entravano piú niente con lui. Aveva
una donna, una bella donna, da cui aspettava il primo figlio, che sarebbe nato
in luglio. In effetti lui non era mai stato come Niclas, ma, quando sua madre
casualmente gli aveva raccontato che il suo vecchio compagno era morto e
che quel giorno stesso ci sarebbe stato il funerale, Petter aveva comunque
voluto rendergli onore per l’ultima volta.
Non cantava quasi nessuno.
In quanto a lui, non aveva nemmeno voglia di muovere le labbra come gli
sembrava che stessero facendo i due tizi seduti un po’ piú in là, tre file davanti
a lui. Almeno per il momento.
Nella cappella c’era una sola donna e non pareva annichilita dal dolore.
Non si era nemmeno presa la briga di vestirsi di nero. Il suo abito era
piuttosto sobrio, questo sí, ma il rosso non era certo un colore adatto a un
funerale. La donna, seduta piú avanti, se ne stava lí con l’aria di annoiarsi.
La musica finí. Il pastore si avvicinò al pulpito, collocato di fronte al
corridoio centrale e che sembrava uno sgabello da bar di dimensioni
esagerate, oltretutto sul punto di rovesciarsi.
I due uomini seduti davanti a Petter iniziarono a conversare sottovoce.
Quel comportamento lo irritò: non era decoroso mettersi a chiacchierare
durante la predica. Forse non si chiamava nemmeno predica, quella, fra
l’altro, ma era comunque da maleducati non tenere la bocca chiusa quando il
pastore parlava.
− … trovate diverse opere d’arte… niente figli, niente fratelli o sorelle…
A Petter Just arrivavano alcuni frammenti di conversazione e, senza
volerlo, focalizzò la sua attenzione su quei due.
− … nell’atelier… nessun erede…
Il pastore fece segno di alzarsi. I due davanti a Petter erano tanto presi dal
loro discorso che rimasero seduti fino a quando non si furono alzati tutti. Per
un breve momento stettero in silenzio, poi ricominciarono a bisbigliare.
− … molte installazioni piú piccole… disegni… un ultimo capolavoro…
nessuno sapeva che…
Quei maledetti stavano davvero rovinando la cerimonia funebre. Petter Just
si alzò di scatto e si chinò sulla panca davanti a sé.
− Chiudete il becco, cazzo, − sibilò. – Insomma, mostrate un po’ di
rispetto!
I due uomini si girarono stupiti verso di lui. Uno era sui cinquant’anni e
aveva pochi capelli, portava un paio di occhiali dalla montatura sottile e il
pizzetto. L’altro era leggermente piú giovane.
− Scusaci, − disse il piú vecchio, e sorrisero entrambi al momento di
rigirarsi.
Li doveva aver spaventati a dovere, perché non aprirono piú bocca per il
resto della cerimonia, che per altro non durò ancora molto. Nessuno prese la
parola oltre al pastore. Niente a che vedere con Lasse, il terzo del trio che
spadroneggiava a Godlia negli anni Ottanta, quando era morto in un incidente
automobilistico due anni prima. Quella volta il funerale si era tenuto
nell’ampia cappella proprio lí accanto e non erano riusciti a parteciparvi
nemmeno tutti quelli che avrebbero voluto. Si erano presentati in otto per il
discorso funebre e c’era addirittura una vera e propria banda musicale che
aveva suonato Imagine, per non parlare poi dell’eccessiva quantità di fiori e
lacrime.
Qui non c’era proprio nessuno che piangesse, e gli addobbi floreali si
limitavano a una corona deposta sopra la bara.
Pensarci gli fece venire le lacrime agli occhi.
Avrebbe dovuto rimettersi in contatto con Niclas da un pezzo. Non fosse
stato per le cose che avrebbe preferito dimenticare e che in effetti non erano
da lui, avrebbe certamente mantenuto quell’amicizia.
A un tratto non se la sentí piú di restare dov’era e subito prima che la
musica cessasse si alzò, spinse via il vecchio mezzo cieco e spalancò la
pesante porta in legno.
Aveva ricominciato a nevicare.
Si mise a correre, senza sapere bene dove stesse scappando in tutta fretta.
O da cosa.

− Da una all’altra, − disse Sigmund Berli prima di sfilarsi le scarpe e


posare i piedi sul tavolino fra le due poltrone nella stanza d’albergo di
Yngvar. – E cosí alla fine me la sono trovata, la donna.
Yngvar si toccò il naso, fece una smorfia e puntò ripetutamente l’indice
verso i piedi del collega.
− Congratulazioni, − disse rapido, soffocando una risata dietro alla mano
chiusa a pugno, − ma i tuoi calzini puzzano come una discarica. Togli quei
piedi di lí, dài. Rimettiti le scarpe!
Sigmund si allungò il piú possibile verso i propri piedi. Inspirò a fondo e
arricciò un po’ il naso.
− Non puzzano neanche tanto, − disse, e li piantò bene sul tavolino. – La
mia donna non se n’è lamentata, per lo meno. Ridi?
− E chi sarebbe? – gli chiese Yngvar, andandosi a sdraiare sul letto il piú
lontano possibile dal collega. – E da quanto dura questa storia?
− Si chiama Herdis, − rispose con entusiasmo Sigmund. – E fa… Herdis
è… Indovina! Indovina un po’ che lavoro fa?
− Non ne ho la minima idea, − gli rispose lui spazientito. – Allora, hai
intenzione di offrirmi da bere o no?
Sigmund tirò fuori dalla tasca interna una bottiglietta di plastica, presse
uno dei bicchieri che Yngvar aveva trovato in bagno, ci versò dentro una
generosa dose di whisky e lo porse all’amico.
− Grazie.
Sigmund ne versò anche per sé.
− Herdis, − ripeté soddisfatto, come se pronunciare quel nome fosse già di
per sé un godimento. – Herdis Vatne è una docente universitaria di
Astrofisica.
− Prmfrr…
Yngvar sputacchiò whisky sui suoi vestiti e sul letto.
− Che cosa? Che diavolo hai detto?
− Non pensavi che avessi abbastanza fascino per un’accademica, eh? Il tuo
problema, Yngvar, è che sei pieno di pregiudizi. Come con tutti quei negri che
devi sempre difendere a ogni costo… anche se ce ne sono a frotte in qualsiasi
statistica sui crimini, stai sempre a dire quant’è difficile per loro…
− Falla finita, − gli disse Yngvar. – E non usare quella parola.
− Anche questo è un pregiudizio, sai! Pensi sempre bene delle persone che
appartengono a una minoranza! Non pensi mai bene di nessuno, se non di
loro. Sei scettico su qualunque fannullone bianco che arrestiamo, ma se solo
hanno la pelle un po’ piú scura della nostra, ecco che subito ti metti a stressare
che probabilmente sono brave persone e…
− Piantala! Lo penso sul serio!
Di colpo Yngvar si tirò su a sedere sul letto. Sigmund ebbe un attimo di
esitazione, poi aggiunse immusonito: − E comunque non ci credi che mi sono
fidanzato con una che lavora all’università. Anzi, lo trovi comico. Sei davvero
una persona prevenuta. E lo trovo anche piuttosto offensivo, a essere sincero.
− Scusa, − gli disse Yngvar. – Mi spiace, Sigmund. È ovvio che sono
contentissimo per te. Hai…
Indicò il telefonino dell’amico.
− Hai delle foto?
− Ma certo!
Sigmund cominciò a smanettare sul cellulare e finalmente trovò quello che
stava cercando. Con un ampio sorriso sollevò il telefonino e glielo mise
davanti.
− Una gran donna! Intelligente e anche bella. Quasi come Johanne.
Yngvar agguantò il telefono e osservò la fotografia. Una donna bionda sui
quarant’anni lo fissava con un gran sorriso. Aveva denti bianchi e regolari, il
naso provocantemente all’insú. Doveva essere molto magra, perché anche su
quel piccolo display si vedeva che le rughe di espressione erano profonde e
che da ciascun angolo della bocca partiva una ruga altrettanto profonda che
scendeva fino al mento. Gli occhi erano blu e forse un po’ troppo truccati.
Sembrava una normale quarantenne norvegese di una certa vitalità.
− Puoi ben dirlo, − commentò Yngvar ridandogli il cellulare.
− Volevo raccontarvelo quando sono venuto a trovarvi sabato, solo che poi
Johanne di punto in bianco se n’è andata a dormire. E cosí ho deciso di
aspettare, perché ieri c’era il primo incontro di Herdis coi miei ragazzi. Be’,
non proprio il primo, a dire il vero, perché suo figlio e Snorre giocano a
hockey insieme e sono già buoni amici. Ma volevo vedere com’era…
incontrarsi in privato, ecco… Tutti quanti. Non posso stare con una a cui non
piacciono i miei figli. E neanche viceversa.
− Ed è andata bene, no?
− Oh sí, non sarebbe potuta andare meglio. Siamo stati al cinema e poi a
cena da Herdis. E che appartamento ha! Grande e… magnifico. A Frogner. Io
mi sento quasi un estraneo in quel quartiere lí. Ma per essere bello è bello,
questo lo devo ammettere.
Sorseggiò soddisfatto il suo whisky e si appoggiò allo schienale della
poltrona.
− L’amore è una gran bella cosa, − proclamò.
− Proprio vero.
Rimasero seduti in silenzio, continuando a sorseggiare i loro abbondanti
drink. Yngvar sentiva la stanchezza arrivare, sdraiato sul letto con tre cuscini
come morbido sostegno per collo e schiena. Chiuse gli occhi e sobbalzò
quando si rese conto che il bicchiere stava per cadergli di mano.
− Che ne dici della nostra donna? – gli chiese Sigmund.
− Ma chi? Herdis?
− Stupido! Eva Karin Lysgaard.
Yngvar non rispose. Lui e Sigmund avevano trascorso l’intera giornata a
riorganizzare l’enorme mole di documenti sul caso. Erano passati diciannove
giorni da quando il vescovo Lysgaard era stato accoltellato, e la polizia di
Bergen non si era avvicinata nemmeno di un passo alla soluzione. Non che
siano da biasimare per questo, pensò Yngvar, che si sentiva altrettanto
smarrito al riguardo. Fino a quel momento la collaborazione era proseguita
senza la minima frizione. All’inizio era stato Yngvar a sobbarcarsi gli
interrogatori dei testimoni piú importanti, mentre Sigmund fungeva da tramite
fra la Kripos e il distretto di Hordaland, un ruolo che aveva svolto
brillantemente: difficile trovare una persona piú versatile e gioviale di
Sigmund Berli, capace di risolvere qualunque accenno di conflitto prima
ancora che potesse trasformarsi in qualcosa di serio. Nell’ultima settimana
avevano fatto una sorta di prova generale di responsabilità: la polizia di
Bergen si era occupata delle indagini nel loro complesso e del loro
coordinamento, operando cosí in modo del tutto autonomo, mentre Sigmund e
Yngvar avevano tentato di costruire una piú ampia visione d’insieme,
comprensiva di tutte le informazioni che continuavano a sopraggiungere.
All’improvviso Yngvar disse: − Credo che abbiamo commesso un errore.
L’errore opposto a quello che commettiamo un po’ troppo spesso.
− Cosa vuoi dire?
− Ci siamo allargati troppo.
− Regola numero uno, Yngvar! Tenere aperta ogni possibilità!
− Lo so, − rispose lui con una smorfia. – Ma ascolta un attimo…
Prese un blocchetto per gli appunti e una penna dal comodino.
− Per quanto riguarda la teoria che sia stata opera di un folle, una di queste
bombe a orologeria di cui tutti parlano tanto…
− Un immigrato in cerca di asilo politico, − intervenne Sigmund e stava
per riaprire l’argomento quando l’altro lo incenerí con lo sguardo,
costringendolo a sollevare le mani in un gesto di resa.
− Se cosí fosse, lo avremmo già trovato da un pezzo, − disse Yngvar. – Un
omicidio del genere viene perpetrato da una persona in piena crisi psicotica.
Una persona che spesso, dopo il crimine, vaga confusa per le strade, coperta
di sangue e sconvolta dai suoi demoni interiori, fino a quando nel giro di
qualche ora non la troviamo noi. Adesso sono passate quasi tre settimane e di
maniaci non s’è vista nemmeno l’ombra. Nessun istituto psichiatrico ha fatto
una denuncia di scomparsa, non abbiamo individuato niente di sospetto nei
centri di accoglienza. Tutto sommato…
Sbatté la penna sul blocchetto per gli appunti.
− Potremmo escludere che il nostro assassino abbia questo tipo di profilo.
− È proprio quello che sostiene la polizia di Bergen.
− Sí, ma loro tengono ancora la porta aperta all’eventualità.
Sigmund annuí.
− È una porta da chiudere e basta, − disse Yngvar. – Come anche un
mucchio di altre porte che con tutte le loro possibilità fanno solo corrente e
creano caos. Le lettere minatorie, per esempio… hai mai sentito che ci fosse
un vero assassino, fra quelli che le scrivono e spediscono?
– Be’… – esitò Sigmund Berli. – Nel caso Anna Lindh c’era un assassino
insoddisfatto…
– Anna Lindh è stata uccisa da un pazzo furioso, – lo interruppe Yngvar. –
Se non in senso giuridico, sicuramente in tutti gli altri sensi. Da un disadattato
con precedenti psichiatrici che di colpo ha trovato qualcuno su cui far
confluire il suo odio, e cioè il ministro degli Affari esteri svedese. Lo hanno
preso quattordici giorni dopo e si è lasciato dietro talmente tante tracce che…
– … che io e te lo avremmo beccato in meno di ventiquattr’ore, – concluse
Sigmund con un sorriso.
Yngvar sghignazzò.
– Sono stati davvero sfortunati, questi svedesi, in alcune cose di grande,
grande importanza…
Di nuovo scese il silenzio. Sentirono il rumore di una doccia aperta al
massimo nella stanza accanto e di uno sciacquone che veniva tirato.
– Credo che anche quella pila di lettere sia un binario morto, – borbottò
Yngvar. – Esattamente come la pista dell’aborto che i giornali stanno
pompando. Sono gli antiabortisti che potrebbero uccidere per la loro causa.
Per lo meno negli Stati Uniti. Non certo i sostenitori del libero aborto. È una
forzatura e basta.
– E allora che idea ti sei fatto? Hai passato in rassegna praticamente tutte le
possibilità che abbiamo! Che diavolo stai rimuginando?
– Dove stava andando Eva Karin Lysgaard? – rispose lui con lo sguardo
perso nel vuoto. – Dobbiamo riuscire a scoprire dov’era diretta quando è stata
uccisa.
Sigmund bevve il whisky rimasto e fissò per un breve istante il bicchiere
vuoto, poi senza esitazione alcuna aprí la bottiglietta in plastica di Famous
Grouse e se ne versò un altro consistente cicchetto.
– Mi raccomando, – gli disse Yngvar. – Domani dobbiamo alzarci presto.
Sigmund fece finta di non aver sentito.
– Il problema è che non possiamo certo chiederlo al vescovo, – disse. – E
suo marito si rifiuta ancora ostinatamente di spiegare come mai era uscita. I
nostri colleghi qui in città gli hanno fatto presente che ha l’obbligo di
rispondere, lo hanno perfino minacciato di portarlo davanti a un giudice. Ma
le conseguenze che potrebbe avere…
– Non trascineranno mai Erik Lysgaard in un’aula di tribunale. Non
avrebbe senso. Quell’uomo ha sofferto e continua a soffrire già abbastanza.
Dobbiamo farci venire in mente qualcos’altro.
– Qualcos’altro tipo…?
Yngvar svuotò il bicchiere e scosse la testa quando Sigmund sollevò la
bottiglietta per offrirgli un secondo giro di whisky.
– Tipo un’azione porta-a-porta, – rispose deciso.
– E dove? In tutta Bergen?
– No. Dobbiamo… – aprí il cassetto del comodino e ne tirò fuori una carta
della città, – dobbiamo circoscrivere un’area di azione… all’incirca cosí, –
disse disegnando un cerchio con il dito indice mentre con l’altra mano teneva
sollevata la mappa davanti al collega.
– Per la miseria, è metà Bergen! – commentò rassegnato Sigmund.
– No, è la parte orientale del centro. La parte nordorientale.
Sigmund afferrò la carta.
– Lo sai, Yngvar, questa è la proposta piú stupida che ti abbia mai sentito
fare. Stampa e Tv hanno detto chiaro e tondo che non si sa perché il vescovo
fosse in giro, la sera della vigilia di Natale. Se qualcuno sapesse che la
Lysgaard stava andando a trovarlo, ci avrebbe chiamato già da un pezzo.
Sempre che non avesse nulla da nascondere, ovviamente, quindi una cretinata
come un’azione porta-a-porta non servirebbe a nulla.
Buttò la mappa sul letto e bevve un lungo sorso di whisky.
– Oltretutto, – aggiunse, – può anche darsi che fosse semplicemente uscita
a fare due passi. E anche in questo caso non faremmo nessun progresso.
A Yngvar venne di nuovo quello sguardo vitreo che Sigmund ben
conosceva.
– Hai qualche altra bella trovata? – gli chiese sorseggiando il whisky. –
Altre idee da farmi silurare subito?
– La fotografia, – disse risoluto Yngvar prima di dare un’occhiata
all’orologio.
– La fotografia. A-ha. Quale fotografia?
– Sono le undici e mezza. Io ho bisogno di dormire.
– Ma di quale fotografia stai parlando?
Sigmund non accennava minimamente a volersene tornare nella sua
camera, anzi, si accomodò meglio sulla poltrona e spostò i piedi sul bordo del
letto.
– Quella che è scomparsa, – gli rispose Yngvar. – Ti ho raccontato, no, di
quella fotografia che c’era nella «camera della domestica»…
Disegnò delle virgolette nell’aria.
– La camera dove, a quanto pare, Eva Karin passava le notti insonni.
Quando ho visto quella stanza per la prima volta di fotografie ce n’erano
quattro, e quando l’ho rivista due giorni dopo ce n’erano solo tre. L’unica
cosa che riesco a ricordarmi è che si trattava di un ritratto.
– Ma Erik Lysgaard non…
– Dobbiamo lasciarlo perdere, Erik Lysgaard. È una partita persa. Ho
creduto a lungo che la chiave per saperne di piú sulla misteriosa passeggiata
notturna ce l’avesse lui. Ma quell’uomo è andato completamente in tilt. Lukas
Lysgaard invece…
– Non sembra molto collaborativo nemmeno lui, se vuoi la mia opinione.
– No, hai ragione. E allora forse è il caso che ci domandiamo come mai un
uomo che sta evidentemente soffrendo e che vuole davvero una spiegazione
per l’omicidio di sua madre sia cosí reticente con la polizia.
Inarcò le sopracciglia e lanciò un’occhiata al collega, come per sfidarlo a
completare il ragionamento.
– Segreti di famiglia, – disse Sigmund in tono drammatico.
– Bingo! Spesso non c’entrano nulla con la soluzione di un caso, ma
stavolta non ci possiamo permettere di tralasciare un bel niente. L’idea che mi
sono fatto io di Lukas è che lui non…
La pausa andò un po’ troppo per le lunghe. Sigmund aspettava
pazientemente, nel bicchiere c’era ancora del whisky.
– … non sia cosí convinto di suo padre, – concluse Yngvar.
– In che senso?
– È evidente che si vogliono molto bene. Si assomigliano tantissimo,
fisicamente e caratterialmente, e non c’è motivo di credere che abbiano un
rapporto difficile. Eppure c’è qualcosa di non detto fra di loro. Qualcosa di
nuovo. Basta restare da soli in una stanza con tutti e due per percepirlo. Non è
ostilità, affatto, è piú una forma di…
Ancora una volta Yngvar dovette prendersi del tempo per trovare la parola
giusta.
– … perdita di fiducia.
– Sospettano l’uno dell’altro?
– Non credo. Ma c’è qualcosa che non va fra di loro, come un profondo
scetticismo che…
Di nuovo, e piú che altro per un riflesso condizionato, diede un’occhiata
all’orologio.
– Dico sul serio, Sigmund. Ho proprio bisogno di dormire. È ora che te ne
vada, forza.
– Guastafeste, – borbottò il collega tirando giú i piedi.
La sua camera era due stanze piú in là e non aveva nessuna voglia di
rimettersi le scarpe. Le afferrò per i calcagni con due dita della mano destra e
prese la bottiglia di whisky con la sinistra.
– A che ora ci troviamo per la colazione?
– Io mangio alle sette, perché poi voglio andare a Os. Spero di beccare
Lukas prima che vada al lavoro. È lui la nostra speranza: magari alla fin fine
vorrà aiutarci.
Yngvar sbadigliò a lungo e si portò pigramente due dita alla fronte.
Arrivato sulla porta, Sigmund si voltò.
– Io dormo un po’ di piú, – gli disse. – Poi vado direttamente alla stazione
di polizia, entro le nove. Glielo dico io che vuoi cercare di parlare ancora con
Lukas. A quelli di Bergen non dispiace che tu te ne stia per i fatti tuoi.
– Bene. Buonanotte.
Il collega borbottò qualcosa di incomprensibile prima che la porta si
richiudesse alle sue spalle con un tonfo leggero.
Mentre si spogliava e si preparava per la notte, a Yngvar venne in mente
che si era dimenticato di telefonare a Johanne. Imprecò a bassa voce e
controllò l’orologio da polso, anche se erano passati solo due minuti da
quando aveva letto sul quadrante che erano le undici e trentasei.
Era troppo tardi per chiamarla. Andò a letto.
Ma non riuscí a dormire.

Era colpa del numero 19 se Johanne non riusciva a dormire. Aveva


trascorso l’intera serata a leggere di Rashad Khalifa e delle sue teorie
sull’origine divina del Corano. A qualunque cosa tentasse di pensare per
addormentarsi, ecco che quel maledetto numero 19 saltava fuori togliendole
completamente il sonno.
Dopo un’ora ci rinunciò. Forse avrebbe trovato qualcosa di poco
impegnativo da guardare alla televisione. Una serie gialla o una sit-com che la
facesse appisolare. Era l’una passata, ma di solito Tv3 qualche scemenza a
quell’ora la trasmetteva.
Sul divano regnava il caos piú assoluto.
C’erano scartoffie ovunque e tutte erano stampate di pagine web.
Johanne minacciava sempre di decapitazione o di qualche altra morte
repentina e terribile i suoi studenti le rare volte in cui utilizzavano Wikipedia
come fonte per una esercitazione scientifica. Anche lei si serviva sempre piú
spesso di Internet, ma a differenza dei ragazzi era capace di valutazione
critica, o almeno cosí pensava. Quella sera, però, non era stato facile: la storia
di Rashad Khalifa era una lettura affascinante e di link in link si era
addentrata sempre piú in uno strano racconto.
Era molto, molto affascinante.
A piccoli passi silenziosi andò in cucina e decise di seguire il rimedio
popolare di sua madre. Versare del latte in un pentolino, poi aggiungere due
cucchiai da tavola di miele e, subito prima che arrivasse a ebollizione, anche
un goccetto di cognac. Da bambina dell’ultimo ingrediente non sapeva nulla,
da grande aveva fatto presente alla madre che somministrare alcolici ai
bambini per farli dormire era da pazzi irresponsabili. Sua madre, però, aveva
minimizzato facendole notare che l’alcol evaporava, e che oltretutto andava
considerato una medicina. Per lo meno in un contesto come quello. Senza
contare poi che a loro il «latte corretto» era stato dato molto raramente, aveva
aggiunto vedendo che la figlia non sembrava molto convinta.
Johanne sorrise e scosse la testa al ricordo.
Se ne preparò una grossa tazza.
Non riusciva quasi a tenerla in mano tanto scottava.
La posò sul tavolino del soggiorno e riordinò un poco il caos che c’era sul
divano. Accese il televisore e fece zapping fin quando non arrivò a Tv3.
Difficile capire di che cosa parlava il film che stavano trasmettendo. Le
immagini erano piuttosto scure e mostravano alberi sradicati da una violenta
tempesta. Quando un vampiro sbucò all’improvviso fra i tronchi, lei spense la
Tv.
Senza volerlo afferrò una pila di fogli posata accanto alla tazza di latte.
Anche se si rendeva conto che non era l’ideale in vista del giorno dopo, si
accomodò meglio per proseguire la lettura delle notizie su Rashad Khalifa e le
sue strane teorie sul numero 19.
Da giovane questo egiziano si era trasferito negli Stati Uniti, dove aveva
studiato Biochimica. Trovando che la versione inglese del Corano fosse
troppo scadente, aveva ritradotto l’intera opera di proprio pugno, ed era stato
mentre ci lavorava che, verso la fine degli anni Sessanta, gli era venuta l’idea
di analizzare il testo. Da un punto di vista strettamente matematico. Lo scopo
era dimostrare che il Corano era un testo divino. Dopo qualche anno e molto
lavoro aveva elaborato la teoria per cui il numero 19 era una sorta di chiave
divina per interpretare la parola di Allah.
Johanne non aveva certo le competenze necessarie per seguire gli elaborati
ragionamenti di un musulmano cosí strambo. Da quella che pareva
matematica relativamente avanzata si passava in altri punti a questioni
banalissime. Come, ad esempio, il fatto che la formula con cui si apre ogni
sura del Corano, la basmala, viene ripetuta centoquattordici volte, numero che
risulta divisibile per 19. In altri punti si atteneva piú strettamente al testo,
come quando riferiva che la sura 74 al versetto 30 dice: «Gli stanno a guardia
diciannove» a.
Con prudenza bevve qualche sorso di «latte corretto» bollente; la teoria di
sua madre non reggeva: l’alcol le bruciava la lingua e le pizzicava le narici.
Notò di nuovo che Rashad Khalifa faceva un’inimmaginabile quantità di
calcoli. Il piú assurdo consisteva nel sommare tutti i numeri presenti nel
Corano per dimostrare che anche la cifra cosí ottenuta era divisibile per 19.
All’inizio Johanne non capiva che cosa ci fosse di tanto sorprendente, poi si
rese conto che il 19 era un numero primo, vale a dire divisibile solo per sé
stesso e per uno, e questo le chiarí parecchio le idee.
− Di numeri primi ce ne sono tantissimi, però… − mormorò fra sé e sé.
In soggiorno faceva freddo.
Avevano installato dei timer su tutti i termosifoni nel tentativo di
salvaguardare sia il portafoglio che l’ambiente. Yngvar alzava sempre la
temperatura per mantenere il calore durante la notte, lei la abbassava sempre
perché il sistema funzionasse secondo le intenzioni. In quel momento però se
ne stava pentendo. Per un attimo considerò l’idea di riaccendere il
termosifone, poi invece andò in camera da letto e prese il piumino.
Il latte si era raffreddato un pochino. Johanne ne bevve un sorso
abbondante, poi posò la tazza e ricominciò a leggere.
All’inizio il mondo islamico era sembrato entusiasta della scoperta fatta da
quell’eccentrico personaggio. Il suo lavoro era stato preso molto sul serio: i
musulmani abbracciarono l’idea della prova matematica dell’esistenza di Dio.
Perfino il noto scettico Martin Gardner, in uno dei suoi articoli pubblicati su
«Scientific American», aveva definito la scoperta matematica di Khalifa
sensazionale e interessante.
Poi le cose cominciarono ad andare peggio per l’egizio-americano Rashad
Khalifa.
Aveva inscritto sé stesso nel Corano.
Non solo si considerava un profeta in linea con il Profeta, ma aveva anche
fondato una sua religione. Secondo «The Submitters» tutte le altre religioni,
incluso l’Islam corrotto, si sarebbero estinte adesso che sia il Corano sia la
Bibbia annunciavano che il Profeta era arrivato e l’Islam poteva risorgere in
forma pura e autentica.
Le si incrociavano gli occhi. Johanne posò i fogli.
Poteva dormire sul divano.
Non voleva piú pensare a Rashad Khalifa.
Non era poi cosí strano che anche lui avesse trovato dei sostenitori, pensò
mentre si stendeva. Molti musulmani moderni avevano accolto
favorevolmente il suo attacco al clero islamico. D’altra parte la mistica dei
numeri aveva di sicuro allettato i credenti tendenti al fanatismo: estremisti di
ogni genere e foggia. Le teorie di Khalifa venivano tenute ancora in grande
considerazione, nonostante lui fosse stato assassinato nel 1990.
Da un fanatico musulmano. A causa di una fatwa proclamata nella stessa
occasione in cui era stata proclamata quella contro Salman Rushdie.
− Dio mio, − mormorò Johanne, e provò a chiudere gli occhi. – Religioni!
Dietro le sue palpebre il numero 19 ballava una danza irlandese.
L’orologio segnava le due e dieci.
L’indomani sarebbe stato terribile se non fosse riuscita ad addormentarsi in
fretta. Di colpo si alzò e con il piumino sotto braccio si trascinò in bagno alla
ricerca di un sonnifero. Di solito le bastava il pensiero di averli. Questa volta,
invece, ne prese una compressa e mezza che inghiottí con l’acqua del
rubinetto.
Un quarto d’ora dopo, nel suo letto, era sprofondata in un sonno pesante e
senza sogni.

Lukas Lysgaard aveva aspettato che gli altri dormissero. Aveva scritto un
messaggio a Astrid in cui le spiegava di essere preoccupato per il padre e che
quindi sarebbe andato a controllare che fosse tutto a posto, ma che sarebbe
tornato in nottata. L’auto era parcheggiata in strada, per non rischiare di
svegliare qualcuno con il motore della saracinesca del garage.
Il viaggio in auto gli fece bene. Mentre la madre aveva sempre adorato la
luce, Lukas era un uomo a cui piaceva la notte. Da bambino si sentiva al
sicuro nell’oscurità. La notte era sua amica, fin da quando lui era piccolo e
abitava nella grande casa di Nubbebakken. Già a sei, sette anni gli capitava
spesso di svegliarsi e restare affascinato dalle ombre che danzavano sulle
pareti della sua camera. La grossa quercia, quella con i rami che arrivavano a
toccare la finestra, era illuminata da dietro grazie a un solitario lampione
giallo e dava vita a ghirigori bellissimi sopra il suo letto. Spesso, quando non
riusciva a dormire, sgusciava fuori dalla sua stanza e saliva alla chetichella la
ripida scala che portava in soffitta. In quella semioscurità, fra bauli e mobili
vecchi, fra abiti mangiucchiati dalle tarme e giocattoli cosí antiquati che
nessuno sapeva a chi fossero appartenuti in origine, poteva stare seduto per
ore e ore a fantasticare.
Lukas Lysgaard lasciò Os e si immerse nelle umide tenebre invernali di
una sonnolenta Bergen. Aveva finalmente preso una decisione.
Quando ripensava alla sua fanciullezza aveva ben poco di cui lamentarsi.
Era un bambino amato e ne era consapevole. Quando era piccolo la fede
religiosa dei genitori gli aveva fatto bene. Aveva adottato il loro Dio con la
stessa naturalezza con cui qualunque bambino fa propri gli ideali dei genitori
finché non diventa grande abbastanza da ribellarsi. La sua era stata una
ribellione all’insegna del silenzio. Se prima considerava il Signore come una
rassicurante figura paterna – pronta al perdono, attenta e onnipresente – a
dodici anni aveva cominciato a dubitare.
Nella casa di Nubbebakken non c’era spazio per il dubbio.
La fede in Dio della madre era assoluta. La sua indulgenza nei confronti
degli altri, indipendentemente dal loro credo e dalle loro convinzioni, la sua
generosità e clemenza anche verso i piú deboli dei caduti, erano cementate
nella certezza del Salvatore figlio di Dio. Da adolescente Lukas si era reso
conto che sua madre non era una che credeva. Lei sapeva. Eva Karin
Lysgaard era sicura del fatto suo e lui non aveva mai trovato il coraggio di
metterla di fronte alle sue incertezze. Dio aveva smesso di rispondere alle sue
preghiere, e lui si era sempre piú allontanato dal cristianesimo, fino a cercare
altrove le risposte alle domande esistenziali che si poneva.
Dopo il servizio militare si era iscritto a Fisica e aveva rigettato la
religione. Ancora in totale silenzio. Lui e Astrid si erano sposati in chiesa,
ovviamente. Tutti i loro figli erano stati battezzati. Adesso ne era contento:
sua madre era stata al settimo cielo ogni volta che aveva presentato alla
comunità un nipotino dopo avergli amministrato personalmente il sacramento
del battesimo.
Da sempre c’era qualcosa di diverso a casa dei suoi, pensò mentre si
avvicinava a Nubbebakken.
Quand’era piccolo non se n’era mai accorto. Dopo la morte della madre
aveva cercato di ricordare quando avesse cominciato a provare la sensazione
latente che Eva Karin nascondesse un segreto. Forse era stato un processo
graduale, che si era sviluppato parallelamente all’indebolimento della sua
fede. Nonostante la sua fosse sempre stata una madre molto presente, tanto
sul piano psicologico quanto su quello fisico, man mano che Lukas cresceva
si era fatta strada in lui l’impressione di dividerla con qualcun altro. Era come
un’ombra che aleggiava sulla casa. Una mancanza.
Lui aveva una sorella. Non poteva essere altrimenti.
Era difficile capire il come e il perché, ma doveva essere collegato alla
conversione della madre a sedici anni. Forse lei era incinta. Forse desiderava
abortire e allora Gesú le aveva parlato. Questo avrebbe potuto spiegare
l’unico argomento su cui la madre si era sempre mostrata intransigente, a
tratti quasi fanatica: non era dato agli uomini togliere una vita creata da Dio.
Calcolò rapidamente che la madre aveva sedici anni nel 1962.
Non doveva essere facile trovarsi incinte senza essere sposate nel 1962,
tanto meno per una ragazza cosí pura.
La donna nella foto gli assomigliava come una goccia d’acqua, questo se
lo ricordava bene, anche se le poche volte che aveva degnato di una certa
attenzione quel ritratto aveva provato riluttanza, anzi, quasi avversione per
quella giovane senza nome dai denti belli e un po’ storti.
Lukas avrebbe trovato quella fotografia. E poi avrebbe trovato sua sorella.
A Nubbebakken parcheggiò un po’ distante dalla casa del padre.
Arrivato sulla soglia, cercò di non far tintinnare troppo il mazzo di chiavi.
Quando fu dentro, si fermò e tese l’orecchio.
La casa dei suoi non era mai stata completamente silenziosa. Le assi di
legno scricchiolavano, i cardini cigolavano, i rami grattavano le finestre ogni
volta che si alzava il vento, l’orologio a pendolo ticchettava cosí forte che di
solito lo si sentiva in gran parte del piano terra, le tubature sospiravano a
intervalli regolari: la casa d’infanzia di Lukas era sempre stata una casa viva.
I pavimenti erano vecchi e lui ricordava ancora dove mettere i piedi per non
svegliare nessuno.
In quel momento era tutto morto.
Fuori non c’era un alito di vento, e quando calpestò una tavola del
pavimento che gemeva sempre sotto il suo peso, l’unica cosa che sentí fu il
battito del proprio cuore nelle tempie.
Raggiunse la stretta scala e trattenne il respiro fino a quando non arrivò al
primo piano. La porta della camera di suo padre era socchiusa. Il suo respiro
regolare e lento gli fece supporre che stesse dormendo profondamente. In
punta di piedi, Lukas raggiunse la porta della scala che portava in soffitta.
Come al solito la vecchia chiave in ferro battuto era nella toppa e lui sollevò il
saliscendi e lo tirò a sé mentre girava la chiave, come sapeva di dover fare. Il
colpo secco della serratura che scattava gli fece di nuovo trattenere il respiro.
Il padre continuava a dormire.
Con infinita lentezza aprí la porta.
Alla fine sgattaiolò dentro.
A ogni gradino metteva i piedi il piú possibile a ridosso della parete, come
aveva imparato a fare a sei anni. Riuscí ad arrivare abbastanza
silenziosamente nel grande stanzone polveroso. Impugnando la torcia
tascabile che teneva attaccata alla cintura, cominciò la sua ricerca.
E si ritrovò faccia a faccia con la propria infanzia.
Negli scatoloni impilati accanto alla finestrina rotonda in uno dei frontoni
c’erano vestiti e scarpe che aveva usato da bambino. Accanto a quelli altri
scatoloni di vestiti: sua madre non aveva buttato niente. Cercò di ricordare
quando fosse salito in soffitta l’ultima volta e si rese conto di non esserci piú
stato dal loro primo trasferimento, quando lui aveva dodici anni e aveva
pianto nel sonno per due mesi all’idea di dover lasciare Bergen.
Ciononostante, tutto gli sembrava stranamente familiare.
L’odore della soffitta era ancora lo stesso. Odore di polvere e palline di
naftalina, odore dolciastro di metallo misto a lucido da scarpe, altri odori
indefinibili e rassicuranti.
Di colpo girò le spalle agli scatoloni accanto alla finestra e tornò
silenziosamente verso la scala. Con la torcia illuminò il pavimento nel punto
in cui finivano i gradini. Vide chiaramente le proprie impronte nella polvere
spessa e altre senza un disegno preciso, come di una pantofola. Ce n’erano
parecchie, a guardare con attenzione, e andavano in entrambe le direzioni:
qualcuno era stato lí di recente.
Si scoprí a sorridere. Suo padre aveva sempre creduto che la soffitta fosse
un posto sicuro. Quando Lukas era piccolo aveva dovuto fingersi sorpreso a
ogni vigilia di Natale per i doni che riceveva: il padre li teneva nascosti lassú
in attesa di quella sera e non poteva certo immaginare che suo figlio era
diventato bravissimo ad aprirli e richiuderli in modo che nessuno se ne
accorgesse.
Lukas raddrizzò la schiena e si guardò intorno.
La soffitta era bella grande, quanto un intero piano della casa: cento metri
quadrati, se non ricordava male. Fu preso dallo sconforto al pensiero di
quanto tempo avrebbe dovuto passare a frugare in mezzo a tutto quel
ciarpame, tra cianfrusaglie e ricordi sentimentali, per trovare qualcosa di cosí
piccolo come una foto.
Il fascio di luce danzò di nuovo sulle impronte vicino alle scale.
Le orme delle pantofole, quasi invisibili, andavano nella direzione opposta
a quella in cui Lukas si era mosso: si addentravano nel lato occidentale della
soffitta, il lato con la finestrella chiusa. Le seguí cautamente.
Un rumore da sotto lo fece irrigidire.
Dei passi, senza dubbio. Poi il silenzio.
Lukas trattenne il respiro.
Suo padre si era svegliato. Era come se riuscisse a sentirlo respirare, anche
se dovevano esserci piú di quindici metri fra loro. Gli sembrò che suo padre
fosse davanti alla porta della scala che saliva in soffitta.
Merda, dissero le labbra di Lukas senza emettere suono. Non l’aveva
chiusa del tutto, per paura di far rumore una volta ridisceso. Probabilmente
suo padre stava andando in bagno e si era accorto che era aperta.
A volte, quando ci si dimenticava di chiuderla a chiave, capitava che si
riaprisse da sola. Lukas chiuse gli occhi e pregò Dio per la prima volta da
tempo immemore.
«Ti prego, fa’ che mio padre creda che si sia aperta da sola».
E la sua preghiera fu ascoltata.
Sentí il padre borbottare a bassa voce, poi la porta che veniva sbattuta.
E chiusa a chiave.
Dio non aveva esaudito del tutto la sua preghiera: Lukas era rimasto chiuso
dentro e non aveva proprio idea di come avrebbe potuto spiegarlo. Dalla sua
bocca sgorgò un fiume di imprecazioni silenziose, fino a quando non gli
venne in mente che avrebbe potuto servirsi dell’abbaino. Aveva solo sei anni
quando per la prima volta era strisciato fuori dalla finestrella sul tetto,
vicinissimo al comignolo, era sceso aggrappandosi alla scaletta, si era
spostato lungo la grondaia e poi si era arrampicato sulla grande quercia
accanto alla sua camera.
Da lí arrivare a terra era facile.
Per prima cosa doveva trovare la fotografia della sorella.
Aspettò dieci minuti per essere certo che il padre si fosse riaddormentato.
Poi cominciò ad avanzare silenziosamente.
Fu cosí facile che quasi non ci credeva. Sotto una cassa da frutta piena di
giornali vecchi, su un poggiapiedi che gli pareva risalisse al periodo in cui
erano vissuti a Stavanger, c’era la fotografia. Quando il fascio di luce la colpí,
la cornice cesellata brillò. Solo in quel momento Lukas si rese conto che era
d’argento: con il passare degli anni il metallo si era ossidato, ma la pesantezza
e il colore non lasciavano dubbi.
Sentí una fitta quando la luce si fermò su quel volto sorridente.
La donna doveva avere sui vent’anni, anche se stabilire un’età era piuttosto
difficile. Non si vedeva molto dei vestiti che indossava: una camicetta con un
colletto ricamato su tutte e due le punte forse con dei fiori, bianco su bianco, e
un cardigan piú scuro, leggero, cosí pareva, tinta unita.
«Non molto moderno», pensò lui.
Tolse rapido l’immagine dalla cornice. Sperava di trovare il nome del
fotografo o qualche altra annotazione che avrebbe potuto fargli fare un passo
avanti nella caccia alla sorella che per molto tempo aveva pensato di avere e
che ora aveva deciso di trovare a ogni costo.
Niente.
L’anonimato assoluto. Lukas posò la cornice e raggiunse una vecchia
poltrona accostata alla parete bassa verso sud. Si sedette mettendosi la torcia
in bilico su una spalla, in modo da illuminare la foto.
Se sua madre fosse stata incinta nel 1962, la donna del ritratto adesso
avrebbe avuto quarantasei o quarantasette anni, considerato che lui non aveva
mai saputo con esattezza in che periodo dell’anno fosse avvenuta la supposta
conversione.
La fotografia quindi doveva essere stata scattata per lo meno venticinque
anni prima.
Nel 1984.
A quell’epoca lui di anni ne aveva cinque. E della moda imperante quando
aveva cinque anni ne sapeva poco, a parte il fatto che il fratello maggiore del
suo migliore amico indossava maglioni di lana mohair in colori pastello
infilati dentro i pantaloni e che sfoggiava una favolosa permanente.
Sfiorò il volto della fotografia con la punta delle dita.
La donna non aveva la permanente e, anche se indovinare i colori di
un’immagine in bianco e nero era difficile, lui avrebbe scommesso che la sua
giacca era rossa.
Lukas non aveva mai sentito la mancanza di una sorella. Era cresciuto con
la sensazione di essere unico: il solo e unico figlio con cui i genitori erano
stati benedetti. Non aveva mai avuto difficoltà a farsi degli amici e casa sua
era sempre stata aperta a tutti. I compagni lo invidiavano: Lukas aveva tutte le
attenzioni dei suoi e spesso riceveva in regalo le ultime novità prima ancora
che i genitori degli amici avessero fatto in tempo a valutare se potevano
permettersele.
La donna del ritratto gli parlava, questa era la sua impressione.
Fra di loro c’era qualcosa, un amore comune.
Poi tutt’a un tratto si infilò la fotografia sotto la camicia, incastrandola
sotto la cintura. Aveva rimesso la cornice dove l’aveva trovata. Andò verso
l’abbaino sperando di riuscire ancora ad aprirlo, dopo tanti anni.
Non ci fu nessun problema.
Fu investito dall’aria fredda e umida e per un attimo chiuse gli occhi.
Quando li riaprí si chiese se ce l’avrebbe ancora fatta a infilarsi in
quell’apertura stretta. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa su cui salire e
lo sguardo gli cadde subito su un piccolo sgabello-scaletta appoggiato alla
parete. A Stavanger lo tenevano in cucina. Lo sollevò con grande cautela, lo
aprí e lo posizionò esattamente sotto l’abbaino. Le spalle passavano a
malapena dall’apertura, ma se fosse riuscito a farci passare anche il torace il
resto non sarebbe certo stato un problema.
C’erano però altre sfide da risolvere.
Capí immediatamente che sarebbe stata una follia pensare di percorrere il
tetto e calarsi sulla quercia al buio: la fioca luce del lampione solitario non
sarebbe stata sufficiente, e dal momento che gli serviva avere le mani libere
per raggiungere l’albero da lassú, la torcia gli sarebbe stata di ben poco aiuto.
Avrebbe potuto fissarla alla cintura, questo sí, ma non sarebbe bastato.
Lukas Lysgaard era un ventinovenne padre di tre figli, non piú un
ragazzino impavido e incosciente. Con grande prudenza e senza far troppo
rumore riuscí a tornare con i piedi per terra.
Si sedette di nuovo in poltrona. Tirò fuori il cellulare e digitò un Sms che
spedí a Astrid.
«Mi fermo a dormire da mio padre. Ti telefono domani. Lukas».
Poi tolse la suoneria.
Avrebbe aspettato la luce dell’alba, anche se in quel periodo dell’anno
arrivava tardi. Tirò di nuovo fuori la fotografia di quella che ormai era sicuro
fosse sua sorella e la fissò a lungo alla luce azzurrata della Maglite.
Magari aveva anche dei nipoti.
In ogni caso una sorella ce l’aveva.

Il solo pensiero gli diede il capogiro e di colpo una grande spossatezza


s’impossessò di lui. Si sentiva le membra pesanti come piombo e non riusciva
a tenere saldamente in mano la fotografia. La nascose di nuovo sotto la
camicia, spense la torcia e si appoggiò allo schienale di quella comoda
poltrona.
E quando la notte stava per finire, si addormentò.

a. La citazione è tratta dal Corano, nella versione a cura di Hamza Roberto Piccardo,
Newton Compton, Roma 2006 [N. d. T.].
La figlia scomparsa

Yngvar Stubø si sentiva cosí stanco quando si era svegliato che per un
attimo si era domandato se fosse il caso di mettersi alla guida dell’auto a
noleggio che aveva a disposizione. Sicuramente non aveva un tasso
alcolemico superiore ai valori consentiti: si era limitato a un solo drink, per
quanto forte. Ciononostante si sentiva addosso una pesantezza, una
sonnolenza che non riusciva a scrollarsi via e che gli rendeva difficile alzarsi.
Era come se stesse covando qualche malanno.
Dopo tre tazze di caffè, due porzioni di uova strapazzate con il bacon e un
croissant fresco, però, gli era sembrato tutto molto piú facile.
Era quasi a Os.
Non aveva voluto preavvisare del suo arrivo, e questo naturalmente era
stato un azzardo – non poteva essere certo di trovare Lukas Lysgaard –, ma
preferiva sfruttare il vantaggio psicologico garantito da una visita non
annunciata della polizia. Non era mai stato a casa di Lukas, e quando la voce
metallica del Gps cominciò a insistere perché svoltasse a destra proprio
mentre oltrepassava un terreno che non mostrava la minima traccia
dell’esistenza nemmeno di una carrareccia nella direzione indicata, Yngvar
decise di chiedere a qualcuno. Vide una donna sulla sessantina che percorreva
in tutta fretta una pista ciclabile e che dava l’impressione di sapere bene dove
stesse andando.
− Scusa, − l’apostrofò schiacciando il comando per abbassare il finestrino,
− conosci bene la zona?
La donna annuí con aria scettica.
Lui le disse quale indirizzo stava cercando, ma questo non la rese piú
loquace.
− Lukas Lysgaard, − aggiunse rapido Yngvar Stubø quando si accorse che
la donna stava per andarsene. – Sto cercando Lukas Lysgaard!
− Oh, − disse lei con un sorriso malinconico. – Povero ragazzo. Terza
traversa sulla destra. Segui la strada per trecento metri circa, svolta a sinistra
quando vedi una casetta rossa fatiscente e vai sempre dritto. Vedrai una villa
bianca dove la strada fa una curva, prosegui fino in cima alla collina e ci sei.
È una casa gialla, con il garage doppio.
Yngvar ripeté le indicazioni, ricevette un cenno di assenso in risposta,
ringraziò cortesemente e ripartí.
Arrivato nelle vicinanze della casa diede un’occhiata all’orologio sul
cruscotto.
Otto e dieci.
Forse era troppo tardi.
Dal momento che Lukas lavorava a Bergen, molto probabilmente la
mattina usciva presto. Yngvar ne sapeva poco delle infrastrutture del
Vestlandet, ma nei giorni successivi alle vacanze natalizie si era reso conto
che nelle ore di punta il traffico proveniente da sud e diretto verso Bergen era
in grado di bloccare completamente la circolazione da Flesland fino in città e,
anche se Flesland si trovava a nordovest rispetto a Os, a quanto aveva capito
avvicinandosi a Bergen si rimaneva imbottigliati nelle stesse code a
fisarmonica.
Svoltò e si fermò davanti a una grande casa gialla degli anni Ottanta, con
le finestre a bovindo, gli infissi in legno e tutti i contrassegni tipici di
un’abitazione funzionale e decisamente poco curata dal punto di vista
estetico.
Parcheggiò e andò alla porta.
Dall’interno gli arrivarono grida di bambini seguite dai rassegnati gemiti di
quella che suppose essere la moglie di Lukas. Un flebile miagolio lo fece
arretrare, scendere di qualche gradino la scalinata in pietra e alzare lo
sguardo. Sul tetto del portico c’era un gatto tigrato. Quando Yngvar incrociò i
suoi occhi verdi il gatto scivolò silenzioso lungo la grondaia, scese seguendo
il muro e riuscí a intrufolarsi in casa nello stesso istante in cui la porta si
apriva.
− Buongiorno, − disse Yngvar salendo i tre gradini che lo separavano dalla
donna e tendendole la mano.
Astrid Tomte Lysgaard lo fissò stupefatta.
− Buongiorno, − rispose cortesemente, e gli strinse la mano.
− Yngvar Stubø. Della Kripos. Sto lavorando al caso di omicidio di tua
suocera e…
− Lo so chi sei, − lo interruppe Astrid senza invitarlo a entrare. – Ma
Lukas non c’è.
− Ah. È già andato al lavoro?
− Probabile. Si è fermato a dormire da suo padre.
− Capisco.
Yngvar sorrise. Astrid Tomte Lysgaard non si era ancora preparata per
uscire: indossava un accappatoio troppo grande da cui spuntavano due gambe
bianco latte che non lasciavano dubbi sulla sua eccessiva magrezza, e aveva
zampe di gallina e borse sotto gli occhi fin troppo visibili per la sua età.
− Mi dispiace, − disse allargando le braccia con fare rassegnato. – Siamo
un po’ in ritardo oggi, perciò se non vuoi nient’altro…
La testa di un bambino sui tre anni sbucò da dietro la madre.
− Ciao! – disse con un sorriso. – Io mi chiamo William e la nonna è morta
proprio morta.
− Ciao, io mi chiamo Yngvar e sono un poliziotto. È tuo quel gatto che ho
appena visto?
− Sí, si chiama Borghild.
− Proprio il nome giusto per una bella gattona cosí a, − gli disse Yngvar. –
E adesso corri a vestirti! Non vai a scuola fra poco?
− Hai sentito? – gli disse Astrid con un pallido sorriso, arruffandogli i
capelli con una mano. – La polizia ha detto che devi andare a vestirti. E
bisogna sempre fare quello che dice la polizia.
Il bambino si voltò di scatto e corse via.
− Va tutto bene? – le chiese Yngvar a bassa voce.
− Sai com’è…
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
− Per Lukas è molto difficile, − aggiunse, e si asciugò l’occhio sinistro con
un movimento fulmineo. – Una cosa è che Eva Karin ci abbia lasciato, ma
vedere Erik cosí…
Aveva mani piccole e dita lunghe e affusolate. Teneva le braccia conserte e
con ritmici gesti nervosi si lisciava i capelli dietro le orecchie.
− E come se non bastasse Lukas si è messo in testa che…
Il clacson di un’automobile risuonò in strada. Yngvar si voltò e vide una
macchina con il sedile posteriore carico di bambini uscire dal passo carraio
della casa accanto. L’uomo alla guida fece un cenno di saluto ad Astrid, e lei
sollevò appena la mano per ricambiare.
− Che cosa si è messo in testa Lukas? – le chiese Yngvar visto che lei non
concludeva la frase.
− No, non saprei esattamente…
La gatta Borghild si avvicinò alle gambe nude di Astrid e cominciò a
strusciarsi.
− Adesso devo proprio andare, − disse lei facendo un passo indietro. –
Devo preparare i bambini per la scuola. Mi dispiace che ti sia fatto tutto il
viaggio fin qui per niente.
− Non è certo colpa tua!
Ancora una volta Yngvar indietreggiò e scese qualche gradino.
− Chiedo scusa per il disturbo, − le disse. – So benissimo come vanno,
certe mattine.
Senza aggiungere altro, la donna si chiuse la porta alle spalle. Yngvar andò
alla macchina, che si aprí in automatico. Si sedette al posto di guida e
cominciò ad armeggiare con quella stupida chiave a scheda che secondo la
Renault era meglio di una normalissima chiave di avviamento. La infilò nella
fessura e schiacciò il pulsante Start, ma non accadde nulla.
− Che tu lo voglia o no, devi funzionare!
Con un gesto violento tolse la chiave a scheda dalla fessura e la sbatté
contro il cruscotto, poi ricominciò da capo la procedura e tenendo premuto il
pedale del freno inserí la chiave a scheda nella fessura e schiacciò il pulsante
Start. Il motore si avviò.
Dopo aver guidato per cinque minuti con l’idea di tornare a Bergen,
Yngvar cambiò programma e decise che sarebbe andato a Nubbebakken.
Andare a parlare con Lukas all’università sarebbe potuta sembrare
un’iniziativa piú grave di quel che era, e siccome Astrid aveva detto che le
condizioni di Erik continuavano a peggiorare poteva darsi che Lukas avesse
pensato di fermarsi da lui, anche se si trattava di un giorno feriale.
Accelerò.
Aveva cominciato a piovere e dietro la fitta coltre di nubi il sole iniziava a
colorare il mondo di grigio.

Lukas si svegliò che l’abbaino non era piú nero ma di un color grigio
fuliggine. Non sentiva il braccio destro. Lo mosse con grande prudenza:
girandosi nel sonno aveva finito per schiacciarlo fra la poltrona e il peso del
proprio corpo. Riattivare la circolazione del sangue fu come infilare la mano
in un vespaio. Formicolio, dolore, e fece una smorfia quando, una volta in
piedi, cominciò a scuotere il braccio con tale energia da aver male alla spalla.
Erano già le nove e dieci di martedí 13 gennaio.
Avrebbe dovuto partecipare a un consiglio di istituto alle nove. Diede
un’occhiata al display del cellulare e si accorse che c’erano cinque chiamate
perse. Tre erano di un collega che sarebbe dovuto andare alla sua stessa
riunione, due di Astrid.
Sperò intensamente che lei non avesse poi cercato di rintracciarlo
chiamando suo padre. Forse no, visto che negli ultimi tempi sua moglie non
sopportava di parlare con il suocero.
Si stiracchiò tutto, rapidamente, per eliminare gli acciacchi della notte.
Da sotto non sentiva alcun rumore: forse il padre dormiva ancora.
La fotografia della sorella era sotto la camicia, dove l’aveva infilata prima
di dormire. Si era tutta incurvata nel corso della notte, ma senza piegarsi.
Lukas allacciò la cintura piú stretta di un buco per essere certo di non
perderla. Poi si arrampicò sullo sgabello e aprí l’abbaino.
Le mattine di gennaio erano sconfortanti.
Tutto era grigio. I colori in letargo. La quercia sembrava una sagoma nera
contro tutto quel grigio. Lukas si issò attraverso la stretta apertura e facendo
forza sulle braccia sollevò il resto del corpo. Una volta seduto sul tetto si
fermò a riprendere fiato, poi piantò i talloni sulla scaletta che scendeva dal
comignolo, ma avvertí una paura che da ragazzo non aveva mai provato.
Quando era piú o meno a metà strada dalla grondaia, sentí un’auto
avvicinarsi. Si irrigidí.
Sentí il motore spegnersi e il rumore di una portiera che veniva richiusa.
Il cancello cigolò e Lukas udí dei passi che senz’ombra di dubbio si
dirigevano verso la porta di casa di suo padre.
Qualcuno suonò il campanello. Da sotto riuscí a sentirne chiaramente lo
squillo, per quanto attutito e distorto da due piani di edificio. Fino a quel
momento non aveva nemmeno osato spostare gli occhi, ma si decise
finalmente a guardare giú. Da dov’era seduto vedeva benissimo la minuscola
veranda con la scala in pietra e lo zerbino a griglia per pulirsi le scarpe.
Capí subito di chi si trattava.
La porta si aprí.
Lukas trattenne il respiro, teneva gli occhi fissi sull’uomo là sotto. Se a
Yngvar Stubø fosse venuto in mente di alzare lo sguardo lo avrebbe visto
all’istante.
Si sentivano nitidamente le voci là sotto.
– Buongiorno, − disse il poliziotto. – Scusa il disturbo. Sto cercando
Lukas. Vorrei solo farmi due chiacchiere con lui su un paio di dettagli. È qui?
Come sempre la voce del padre suonò piatta e disinteressata:
− No.
− No? Ho parlato con sua moglie e…
Yngvar Stubø fece un passo indietro. Lukas chiuse gli occhi.
− Mi scusi, − disse l’uomo robusto laggiú. – Certo, avrei dovuto telefonare
prima di venire. Tutto bene? C’è qualcosa che possiamo…
− Tutto bene, − lo interruppe la voce del padre di Lukas, poi la porta di
casa si richiuse con un colpo sordo.
Lukas era già zuppo. Aveva lasciato la giacca nell’auto e la pioggia gelata
gli scendeva dal collo giú per la schiena. D’istinto si sporse in avanti per
cercare di proteggere la fotografia. Riaprí gli occhi.
Yngvar Stubø era fermo a cinque metri dal muro della casa e teneva la
testa leggermente obliqua. Quando i loro sguardi si incrociarono il poliziotto
piegò piú volte il dito indice verso il basso. Accennò un sorriso e scosse
appena la testa prima di indicare il cancello.
Lukas deglutí, aveva caldo e freddo insieme.
Ci avrebbe messo tre minuti a scendere dal tetto e in quel lasso di tempo
avrebbe dovuto inventare una spiegazione incredibilmente convincente. Senza
contare poi che non doveva farsi vedere dal padre: dare una spiegazione a
Yngvar Stubø bastava e avanzava.
Quando raggiunse il suolo dopo essere saltato da uno spesso ramo a quasi
due metri da terra, non gli era ancora venuto in mente niente da dire.
La verità, forse, pensò per una frazione di secondo, poi scacciò l’idea e alla
chetichella fece il giro della casa, fino al cancello dove Stubø lo stava
aspettando.

Johanne aveva compreso ormai da tempo che la verità era la prima vittima
di qualunque guerra. Le riusciva comunque difficile accettare che la realtà
potesse essere distorta cosí tanto come nell’articolo che cercava di leggere
mentre Ragnhild faceva fare colazione al suo orsetto.
− Guarda! – esclamò estasiata la figlia indicando il muso del pupazzo tutto
impiastricciato. – All’orsetto piacciono un sacco i fiocchi d’avena.
− Non fare cosí, − borbottò Johanne. – La tua colazione devi mangiarla tu.
Bevve un sorso di caffè. Si sentiva ancora il corpo appesantito e
indolenzito per i sonniferi che aveva preso ed era in ritardo, ma non riusciva
proprio a staccarsi dal giornale.
− Che cosa stai leggendo, mamma?
Ragnhild aveva ficcato il muso dell’orsetto nella ciotola di fiocchi d’avena,
latte e marmellata di fragole. Johanne non alzò nemmeno gli occhi. Non
sapeva come avrebbe potuto spiegare a una bambina di cinque anni la guerra
in corso nella striscia di Gaza.
− Sto leggendo di alcune persone cattive, − rispose con aria assente.
− Le persone cattive vanno in prigione, − le disse Ragnhild allegra. – Papà
le cattura e le sbatte in gattabuia!
− Gattabuia? – Johanne sbirciò la figlia da sopra il giornale. − E questa
parola dove l’hai sentita?
− Gattabuia, cella, segrete, carcere. Sono la stessa cosa. C’è anche una
cosa che si chiama dentizione preventiva.
− Detenzione preventiva, − la corresse lei. – È Kristiane che ti insegna
queste parole?
− Mhm… − le rispose Ragnhild mettendosi a leccare il muso dell’orsetto.
– Perché sul giornale parlano delle persone cattive?
− È un’intervista, − le rispose Johanne. – A un uomo che si chiama…
Guardò la fotografia di Ehud Olmert. Di scatto voltò pagina.
− Adesso non c’è proprio tempo per questo, − disse alla figlia con un
sorriso. – Perché non cominci a lavarti i denti? Poi vengo io ad aiutarti.
La bambina si cacciò il pupazzo sotto braccio e scomparve in bagno.
Johanne stava ripiegando l’«Aftenposten» per riporlo quando lo sguardo le
cadde su un trafiletto in prima pagina che la costrinse, con una certa
riluttanza, a cercare l’articolo a pagina cinque a cui si riferiva.
Il caso Marianne è ancora un mistero: oltre trecento testimoni interrogati
finora.
Se c’era qualcosa di cui non aveva proprio bisogno la mattina presto era
doversi rapportare all’ennesimo omicidio. Ciononostante non riuscí a
trattenersi dal dare un’occhiata all’articolo. La polizia non seguiva ancora
piste certe, o per lo meno non ne seguiva nessuna che desiderasse rendere
pubblica, ma la conclusione al momento era che l’omicidio fosse avvenuto
all’interno dell’albergo. Niente infatti stava a indicare che il cadavere fosse
stato spostato. L’ispettore capo Silje Sørensen assicurava che l’assassinio di
Marianne Kleive, quarantadue anni, maestra di scuola materna, aveva la
massima priorità e che le indagini si sarebbero intensificate. Lei contava che il
caso venisse risolto, ma, come ammoniva fin da questo momento, forse ci
sarebbe voluto del tempo. Molto tempo.
Johanne aveva consapevolmente evitato di interessarsene. Da quando era
stato ritrovato il cadavere aveva tralasciato la lettura dei vistosi trafiletti dei
tabloid come anche degli articoli piú seri dell’«Aftenposten». Le era bastato il
matrimonio di sua sorella, non aveva certo bisogno di approfondire un
omicidio che era stato compiuto dove si trovava Kristiane.
Non capiva esattamente che cosa l’avesse spinta a occuparsene proprio
quel giorno. Irritata, gettò via il giornale.
Un pensiero. Un minuscolo pensiero affiorò nella sua mente. Un pensiero
che non voleva avere.
Di colpo balzò in piedi.
– No, − disse stringendo i pugni. – No.
Senza nemmeno sparecchiare la tavola andò in bagno pestando i piedi,
come se il suono dei suoi passi sul parquet potesse scacciare l’inquietante
germoglio di consapevolezza che si stava radicando in lei.
− Adesso ti aiuta mamma a lavare i denti, − disse a voce
ingiustificatamente alta e tolse di mano lo spazzolino a Ragnhild, con un
gesto cosí brusco da farla scoppiare a piangere. – Non c’è nessun motivo per
mettersi a piangere, Ragnhild. Su, apri la bocca.
«La signora era morta».
Johanne risentí la voce di Kristiane con la stessa nitidezza che avrebbe
avuto se la figlia fosse stata accanto a lei in quel momento.
− Albertine, − disse a voce alta. – Era di Albertine che stava parlando.
− Io non voglio la baby-sitter, − gridò Ragnhild, e addentò lo spazzolino.
«La signora era morta».
Kristiane lo aveva detto e ripetuto diverse volte quando, confusa e
infreddolita, era stata riportata in albergo dopo essere uscita in Stortingsgaten
durante i festeggiamenti per le nozze della zia.
− Mamma, − strillò Ragnhild cercando di tenere i denti serrati. – Mi fai
male cosí!
− Scusami, − le disse Johanne, e lasciò cadere lo spazzolino come fosse
incandescente. – Scusa, tesoro mio! Mamma è proprio una sciocca.
Si mise in ginocchio e la abbracciò, affondò il viso nel suo collo e la
strinse forte a sé.
− Cosí mi soffochi, − ansimò Ragnhild. – Mamma! Non riesco a respirare!
Johanne si staccò da lei e la afferrò per le spalle con tutte e due le mani, la
guardò dritta negli occhi e tirò fuori un sorriso forzato.
− Adesso mi devi aiutare, − le disse, prima di deglutire a fatica. – Puoi
aiutare mamma, eh?
− Sííí...
Ragnhild aggrottò la fronte. Aveva l’aria di chi si aspetta con l’inganno
qualcosa che non sopporta.
− Chi è che Kristiane chiama «signora»? – le chiese Johanne cercando di
sorridere ancor di piú.
− Tutte le donne che non conosce, − rispose Ragnhild.
− E magari anche quelle che non conosce molto bene, non è vero?
− No…
− Ma sí! Come Albertine, per esempio. Vi ha fatto da baby-sitter solo
cinque o sei volte. Può capitare che Kristiane la chiami ancora «signora» ogni
tanto, non è vero?
Ragnhild scoppiò a ridere. Le lacrime impigliate nelle ciglia rilucevano
nell’intensa luce del bagno.
− Ma no, mamma! Kristiane Albertine la chiama Albertine. Ma noi non
stiamo con la baby-sitter questa sera, vero? Tu stai a casa con me e…
«La signora era morta».
− Ma certo, − rispose lei, e si alzò. – Io sto qui con te, certo.
Poi Johanne smise di essere presente.
Non fu lei a tirar fuori una pastiglia di fluoro e infilarla in bocca a
Ragnhild. Non era Johanne Vik quella che con grande tranquillità se ne andò
in cucina a preparare il pranzo da portare via senza nemmeno gettare
un’occhiata al giornale. E quando arrivò alle scale che scendevano fino alla
porta d’ingresso riconobbe a stento la morbida manina di sua figlia.
«L’anima. Non si vede che se ne va via».
Il cenone della vigilia di Natale.
Le parole di Kristiane quando parlavano della morte.
− Mamma, − le disse Ragnhild in tono pacato con gli stivali ai piedi. –
Adesso mi sembri tanto strana stranissima.
Johanne non ebbe la forza di ribattere.
E nemmeno di sorridere.

Lukas Lysgaard a Yngvar Stubø aveva sempre dato l’impressione di essere


un giovane uomo decisamente serio. Non che fosse cosí strano, in fondo, visto
e considerato che si erano conosciuti in circostanze tragiche, ma era convinto
di intuire qualcosa di profondamente riflessivo, malinconico quasi, nel suo
modo di essere, qualcosa che non era collegato per forza alla morte della
madre.
Non aveva mai visto Lukas sorridere.
In quel momento, invece, pareva in tutto e per tutto un gatto bagnato con
un sorrisetto idiota sulle labbra.
− Buongiorno, − disse a Yngvar porgendogli la mano, salvo poi cambiare
idea e ritirarla subito. – Fradicio e infreddolito. Mi dispiace.
− Possiamo sederci nella mia auto. Fa piú caldo, là dentro.
Lukas si accomodò in macchina senza protestare.
− A-ha… − gli disse Yngvar dopo essersi pesantemente seduto al posto di
guida e aver posato le mani sul volante, senza però mettere in moto. – Che
cosa sarebbero, gli esercizi che hai fatto?
Lukas aveva ancora quel ghigno stampato in faccia, un sorrisetto
minimizzante da ragazzino: evidentemente, non aveva la piú pallida idea di
cosa dire.
− No… è che… − tergiversò, − stavo solo… Da piccolo, prima che ci
trasferissimo a Stavanger, ogni tanto lo facevo. Mi arrampicavo sul tetto. Per
fare il duro, forse. Mamma si spaventò a morte una volta che mi sorprese
lassú. Era… divertente.
− Mhm, − commentò Yngvar annuendo, − immagino…
Tamburellava con le dita sul volante.
− E questo spiegherebbe perché poco prima del giro di boa dei trent’anni
hai cercato di rifarlo, in un piovoso giorno di gennaio, un paio di settimane
dopo la morte di tua madre e con tuo padre che rischia il tracollo da un
momento all’altro?
Iniziò una violenta grandinata, il rumore sul tetto della macchina era
assordante. Yngvar ne approfittò per mettere in moto e portare il
riscaldamento al massimo. Non aveva capito bene come funzionava il freno a
mano quando il tizio dell’Avis aveva provato a spiegarglielo, cosí se ne stava
con l’auto in folle e il piede premuto sul pedale del freno.
− Senti, Lukas, io non ho nessuna voglia di… – tirò su col naso e si girò
per metà sullo stretto sedile. − Non ho piú voglia di trattarti come fossi di
porcellana. Okay?
I suoi occhi si inchiodarono in quelli dell’altro.
− Sei un uomo adulto, padre di tre figli e con un alto grado di istruzione.
Adesso è passato un po’ di tempo dalla morte di tua madre. A dire il vero sono
stufo marcio di non ottenere risposte alle domande che ti faccio.
− Ma io ho risposto a tutto quello che…
− Sta’ zitto! – sibilò Yngvar, e si chinò verso di lui. – Sono famoso per la
mia pazienza, Lukas. Secondo qualcuno sono perfino troppo buono e gentile.
Stupidamente buono, mi dicono ogni tanto. Ma se credi anche solo per un
istante di potertene andare da qui prima di avermi spiegato che cosa
significava la tua prodezza sul tetto, allora ti sbagli di grosso.
I vetri si stavano appannando. Lukas non diceva una parola.
− Che cosa ci facevi sul tetto? – gli chiese di nuovo Yngvar.
− Stavo uscendo dalla soffitta.
Yngvar diede un pugno al volante con tanta forza da farlo tremare.
− Che diavolo ci facevi in soffitta e perché non hai usato le scale come
fanno tutti?
− Non c’entra niente con la morte di mia madre, − borbottò Lukas
distogliendo lo sguardo. – Si tratta di un’altra cosa. Una cosa… personale.
Aveva cominciato a battere i denti e cercava di scaldarsi dandosi delle
pacche su tutto il corpo.
− Lo decido io se è personale o no, − ringhiò Yngvar Stubø. – E ti concedo
esattamente venti secondi a partire da ora per darmi una risposta accettabile. E
se non lo fai giuro che ti sbatto dentro e ti ci tengo fino a quando non cominci
a collaborare, cazzo!
Lukas lo fissava con un misto di incredulità e qualcosa che iniziava a
somigliare alla paura.
− Stavo cercando una cosa, − bisbigliò cosí piano che quasi non si sentí.
− Che cosa?
− Una cosa proprio… una cosa che…
Si coprí il volto con le mani.
− Una fotografia, − affermò piú che chiedere Yngvar. – Una fotografia.
Lukas smise di respirare.
− La fotografia che è sempre stata nella camera da letto di tua madre, −
proseguí Yngvar. – Quella che era ancora lí quando sono venuto da voi dopo
l’omicidio, ma che poi è sparita nel nulla.
La grandinata si era trasformata in un violento temporale. Pesanti gocce
esplodevano sul parabrezza. Il mondo al di là dei vetri dell’auto era sfumato e
indefinito. Loro due rimanevano lí, come dentro a un bozzolo, e Yngvar si
accorse che quella strana, anomala rabbia lo stava abbandonando con la stessa
rapidità con cui lo aveva assalito.
− E tu come fai a saperlo? – gli chiese Lukas lasciando cadere le mani in
grembo.
− Non lo sapevo. Era solo una supposizione. Hai trovato la fotografia?
− No.
Yngvar sospirò e cercò per l’ennesima volta di assumere una posizione in
cui riuscisse a rilassarsi un minimo.
− Chi c’è in quella fotografia?
− Non lo so. Davvero. Non lo so proprio.
− Però ti sei fatto un’idea, − gli disse Yngvar.
E di nuovo scese il silenzio. Un’automobile passò nella direzione opposta a
quella verso cui erano rivolti e la luce dei fari trasformò il parabrezza in un
caleidoscopio di giallo e grigio chiaro prima che nell’abitacolo scendesse di
nuovo la penombra.
Lukas non aprí bocca.
− Dico sul serio, − ribadí Yngvar in tono pacato. – Farò tutto ciò che è in
mio potere per renderti la vita difficile, se non ti decidi immediatamente a
comunicare con me.
− Credo di avere una sorella, forse, da qualche parte. Quella è la fotografia
di mia sorella, forse. Una sorella piú grande.
Una figlia, pensò Yngvar, come gli era già capitato di pensare molti giorni
prima.
Una figlia scomparsa. Una figlia che forse però non era scomparsa.
− Grazie, − gli disse con voce quasi impercettibile. – Peccato non averla
trovata, quella fotografia.
− Peccato, sí. Probabilmente mio padre se n’è liberato. Tu cosa te ne
saresti fatto? Se l’avessi trovata, intendo…
Per la prima volta da quando Lukas era sceso dal tetto Yngvar sorrise. Si
passò una mano fra i capelli e scosse piano la testa.
− Se avessimo una sua fotografia, Lukas, la rintracceremmo in fretta tua
sorella. Sempre che fosse ancora viva e non abitasse troppo lontana dalla
Norvegia. Sempre che si tratti di tua sorella. Questo ancora non lo sappiamo.
Non sappiamo nemmeno se quella fotografia possa avere qualcosa a che fare
con l’omicidio di tua madre. Ma ti assicuro che avrei usato tutto il mio tempo
per scoprirlo!
− Ma che cosa avreste… Ma come potreste usare una fotografia
assolutamente anonima per…
− Abbiamo degli enormi database. Estesi programmi informatici. E se tutta
la tecnologia del mondo non bastasse…
Il piede pigiato sul pedale del freno stava per perdere la sensibilità, perciò
Yngvar mise la prima e spense il motore.
− Anche a costo di andare io personalmente a bussare di porta in porta in
tutta Bergen e di incollare manifesti in tutto il Paese con le mie mani e
telefonare a ogni singola stazione televisiva e a ogni singolo giornale… ti
posso garantire che la troverei. Stanne certo.
Lukas annuí.
− Era quello che pensavo, − disse. – Era esattamente quello che pensavo
mi avresti detto. Posso andare adesso? La mia auto è in fondo alla strada.
Gli occhi di Yngvar si assottigliarono quando incrociò di nuovo lo sguardo
di Lukas.
− Va bene. Ma non dimenticare quel che ti ho detto oggi. D’ora in poi non
tollererò piú nessun segreto. Ci siamo capiti?
− Sí, − rispose Lukas annuendo e aprí la portiera. – Arrivederci.
Dopo essere sceso dall’auto si girò e si chinò di nuovo verso l’abitacolo.
− Grazie per non avermi tradito con mio padre, − gli disse.
− Prego, − gli rispose Yngvar, poi gli fece un cenno di saluto, avviò di
nuovo il motore, mise la freccia e se ne andò lentamente.
Lukas corricchiando raggiunse la sua auto. Per tutto il tempo si tenne una
mano sulla pancia, nel punto in cui sentiva i bordi di una fotografia che al
momento non aveva intenzione di condividere con nessun altro.
Per lo meno, non ancora.

− La scuola non è ancora finita, − disse Kristiane per la cinquantesima


volta almeno quando arrivarono a casa. – La scuola non è ancora finita.
− No, − ripeté tranquillamente Johanne. – Ma io vorrei parlarti di una cosa
molto importante, tesoro mio. Per questo sono venuta a prenderti prima oggi.
− La scuola non è ancora finita, − ripeté Kristiane mentre saliva le scale
come una bambola meccanica. – La scuola finisce alle quattro e dopo io vado
a casa di papà. Oggi io abito a casa di papà. La scuola finisce alle quattro.
Johanne la seguí senza dire piú niente. Solo dopo che furono entrate nel
soggiorno spalancò le braccia con allegria e spiegò: − Kristiane e la mamma
oggi faranno la giornata dei peluche! Solo tu e io! La vuoi una bella tazza di
cioccolata calda con la panna montata?
− Dam-di-rum-ram, − disse Kristiane seduta sul divano, iniziando a
dondolarsi lentamente da una parte all’altra.
Johanne le si avvicinò e si sedette accanto a lei. Le sollevò maglione e
canottiera sopra la cintura e fece danzare le dita sull’esile e stretta schiena
della figlia. Kristiane sorrise, le si sdraiò in grembo. Rimasero cosí per diversi
minuti, poi Kristiane cominciò a cantare.
− Intreccia una ghirlanda di fiori, unisciti alla danza e ai cori, le note del
violino nel bosco risuonan dolci…
− Ma che bella canzone, − le sussurrò Johanne.
− Non restare qui, triste e negletto, fa’ vedere che sei giovinetto… b
Scese il silenzio.
− Una bella canzone primaverile, − disse Johanne. – Una canzone
primaverile in gennaio… ma che brava la mia bambina…
− Canta anche tu la primavera, cosí arriva.
La risata di Kristiane era cristallina. Johanne le carezzò con l’indice la
colonna vertebrale, dal collo in giú.
− Che solletico, − disse Kristiane con un sorriso. – Ancora!
− Ti ricordi il giorno del matrimonio di zia Marie?
− Certo. Sulamitt dov’è finito?
− Sulamitt si è rotto, tesoro. Lo sai bene.
Quando aveva compiuto un anno a Kristiane avevano regalato una piccolo
camion rosso dei pompieri e lei aveva deciso che era un gatto e si chiamava
Sulamitt. Era stato il suo fedele compagno per piú di otto anni. Con il passare
del tempo le ruote si erano staccate, il colore era sbiadito, la scaletta sul tetto
si era persa ancor prima. Gli occhi dei fari erano diventati ciechi e il piccolo
Sulamitt non somigliava piú né a un camion dei pompieri né a un gatto
quando Yngvar per errore lo aveva investito facendo retromarcia nel vialetto
di casa.
Kristiane era stata inconsolabile.
− Sulamitt era un bel gatto, − disse alla madre. – Me lo compri un gatto
nuovo? – le chiese.
− Ma abbiamo Jack, − le disse lei. – A lui i gatti non piacciono molto, lo
sai.
− Io sono la bambina invisibile, − disse Kristiane.
Johanne carezzò con dita leggere come farfalle la pelle sottile della schiena
di Kristiane.
− A volte nessuno mi vede.
− E quando? – bisbigliò Johanne.
− Sulamitt, sulamat, sulatullamit.
− È stato al matrimonio della zia Marie che nessuno ti ha visto?
− Ancora. Ancora solletico, mamma.
− E tu hai visto qualcuno? Anche se nessuno ti ha visto?
Johanne stava disperatamente cercando di venire a capo di ciò che la figlia
aveva voluto dire davvero quella notte all’hotel, quando lei stessa era
terrorizzata, furibonda e incapace di capire alcunché.
− È stata uccisa una donna, lí, − disse Kristiane mettendosi di colpo a
sedere accanto alla madre. – Marianne Kleive. Maestra di scuola materna.
Sposata con la nota, pluripremiata documentarista Synnøve Hessel! Le donne
si possono sposare fra loro, in Norvegia. Gli uomini anche.
Di colpo la sua voce era tornata alla salmodiante monotonia di prima.
− Tu leggi troppi giornali, − le disse con un sorriso Johanne, e la
abbracciò.
− Profondamente amata, è mancata all’affetto dei suoi cari.
− Hai cominciato a leggere gli annunci funebri?
− Una croce significa che il defunto era cristiano. Una stella di David vuol
dire che il morto era ebreo. E l’uccello che cosa significa, mamma?
Finalmente Kristiane sollevò lo sguardo, che sfiorò la madre.
− Significa che si desidera la pace per il defunto, − sussurrò Johanne.
− Io voglio un uccello sul mio annuncio funebre.
− Ma tu non stai morendo.
− Un giorno morirò.
− Prima o poi tutti muoiono.
− Anche tu, mamma.
− Sí, anche io. Ma fra tanto tempo.
− Questo non lo puoi sapere.
Scese il silenzio. Sussurravano: strette una all’altra sul divano, la madre
che con un braccio cingeva come una cintura di sicurezza la gracile
quattordicenne, mentre la luce del giorno inondava il pavimento del soggiorno
abbagliandole quasi. Johanne sentiva i seni acerbi di quella piccola figura, gli
inevitabili segni che anche Kristiane sarebbe diventata adulta, nonostante la
pubertà per lei fosse arrivata tardi.
− No, − disse alla fine. – Non lo posso sapere. Ma credo che manchi
ancora tanto tempo. Sono sana, Kristiane, e non sono neanche tanto vecchia.
Tu lo hai mai visto un morto?
− Tu morirai prima di me, mamma.
− Sí, lo spero. Nessun genitore desidera morire dopo i suoi figli.
− E chi si prenderà cura di me?
Fin da quando Kristiane aveva solo poche ore e lei era stata l’unica a
capire che qualcosa non andava in quella neonata, Johanne si era posta la
stessa domanda. Ancora e ancora.
− Allora sarai diventata una donna adulta, tesoro mio. Sarai in grado di
occuparti di te stessa.
− Io non sarò mai in grado di occuparmi di me stessa. Io non sono come gli
altri bambini. Io vado a una scuola speciale. Sono autistica.
− Tu non sei autistica, sei…
Johanne si raddrizzò di colpo e le mise una mano sotto il mento.
− Tu non sei come gli altri bambini, questo è vero. Tu sei semplicemente te
stessa. E io ti voglio un bene dell’anima proprio per come sei. E sai una cosa,
tesoro?
Il suo sorriso venne ricambiato. Lo sguardo di Kristiane smise di vagare.
− Neanche io sono come gli altri, sai. E a dire il vero credo che tutti si
sentano cosí. Nessuno si sente esattamente come gli altri. E ci sarà sempre
qualcuno che si prenderà cura di te. Ragnhild, per esempio. E Amund. In
fondo è tuo cugino!
Kristiane rise con quella sua sottile risata cristallina.
− Loro sono piú piccoli di me!
− Sí, ma quando io morirò saranno adulti e potranno prendersi cura di te.
− Io l’ho vista una persona morta. L’anima pesa ventun grammi. L’anima.
Non si vede che va via.
Johanne non disse nulla. Le teneva ancora una mano sotto il mento, ma lo
sguardo della figlia era di nuovo rivolto all’interno, verso un luogo che a
nessun altro era dato raggiungere, e la sua voce era tornata piatta e meccanica
quando aggiunse: − Marianne Kleive, quarantadue anni, morta il 19 dicembre
2008. Eva Karin Lysgaard, profondamente amata, è mancata all’affetto dei
suoi cari, se n’è andata all’improvviso la notte di Natale del 2008. I funerali
avranno luogo in data da destinarsi. La croce significa che era cristiana.
− Basta, − le sussurrò Johanne tirandola di colpo a sé. – Adesso basta.
Erano le dodici in punto e una nuvola coprí la luce intensa del sole di
gennaio. Una piacevole oscurità invase il soggiorno. Johanne chiuse gli occhi
mentre stringeva forte la figlia e la cullava dondolandola da una parte
all’altra.
− Io sono la bambina invisibile, − bisbigliò Kristiane.

a. Si fa riferimento alla prosperosa moglie di Sigmund, leggendario re dei Volsunghi


[N. d. T.].
b. La citazione è tratta da Bind deg ein blomekrans, filastrocca anonima per bambini
molto popolare in Norvegia. Si è scelto di fornire una traduzione per agevolare la
lettura [N. d. T.].
Paura

Forse non avrebbe mai dovuto procurarsi un figlio.


Al solo pensiero sentí i succhi gastrici corrodergli il duodeno. Sollevò le
ginocchia e si posò le mani nel punto in cui in gioventú riusciva ancora a
distinguere le costole che finivano e l’addome che iniziava: adesso era tutto
morbido uguale, nonostante fosse sdraiato sulla schiena, una pancia inerte e
fin troppo grossa con fitte di dolore sotto uno strato di grasso.
L’intera vita di Marcus Koll jr girava intorno al figlio.
Il lavoro, l’azienda, la famiglia allargata: senza Lillemarcus tutto avrebbe
perso di senso. Quando Rolf era apparso, era stata una vita a due quella in cui
si era inserito. Presto però erano diventati una famiglia, loro tre, una famiglia
che Marcus avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere. Ma il bambino era e
restava il perno intorno a cui ruotava la famiglia di Marcus Koll jr.
Lillemarcus non ci aveva messo molto ad affezionarsi a Rolf. Il suo amore
era ricambiato. Dopo un po’ Rolf aveva lasciato intendere che lui avrebbe
volentieri adottato il figliastro.
Col passare del tempo, però, aveva lasciato cadere l’argomento.
Marcus non aveva mai raccontato a nessuno del suo sogno di gioventú.
Desiderava un figlio.
Era un ragazzo forte: rompere con il proprio padre non era una
passeggiata. Strano ma vero, a lui era costato pochissimo mostrarsi per quello
che era. Da adolescente poteva sembrare caparbio e ostinato; da adulto era
diventato piú furbo e piú flessibile. La caparbietà si era trasformata in
determinazione, la superbia in orgoglio. Aveva smussato la propria diversità
con l’autoironia e non aveva mai provato il bisogno di frequentare gli
ambienti omosessuali che sapeva esistere sia a Bergen, dove studiava, sia a
Oslo, dov’era tornato dopo la laurea alla Norges handelshøyskole in
Economia aziendale. Anzi, gli piaceva la sfida di sedurre la persona da cui si
sentiva attratto. Fino a quando non aveva conosciuto Rolf si era divertito a
conquistare solo degli etero: che prima di lui fossero stati esclusivamente con
le donne era una cosa di cui si sentiva fiero nel suo intimo; che poi tornassero
alla loro esistenza eterosessuale non lo rendeva altrettanto fiero.
Marcus Koll jr era stato un gay atipico per la sua epoca.
Oltretutto, quello che desiderava di piú in assoluto era un figlio.
L’unica sofferenza che gli aveva procurato la decisione, presa a sedici,
diciassette anni, di non nascondersi piú era che il futuro gli avrebbe negato
una discendenza. Non aveva mai condiviso questo dolore con nessuno. Sua
madre lo aveva capito, sí, come solo una madre sa capire i propri figli, piú di
quanto non ci riescano loro. Però non avevano mai parlato insieme di quel
piccolo vuoto nel cuore di Marcus: il desiderio di un figlio suo da amare.
Per molti anni, comunque, Marcus Koll jr era stato un giovane uomo
soddisfatto.
Le cose gli andavano bene e non aveva mai l’impressione che le sue
inclinazioni sessuali venissero usate contro di lui. Né sul lavoro, né da amici e
colleghi. In fondo, lui era il loro alibi politically correct. Nella seconda metà
degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta l’omosessualità dichiarata non era
affatto consueta e la sua presenza nella vita delle altre persone dava loro
qualcosa da mettere in mostra.
Marcus Koll jr aveva un’esistenza talmente soddisfacente da non
accorgersi nemmeno che cominciava a stancarsi. Era cosí benvoluto da non
rendersi conto di quante energie gli costasse gestire la propria diversità. In
una esistenza impregnata di eterosessualità, con quel pizzico di stravaganza
dato dall’andare a letto con altri uomini senza fingere il contrario, la sua
anima si era lentamente incrinata, portandolo a un esaurimento psicofisico che
lui non aveva visto arrivare.
Poi i suoi amici avevano cominciato ad avere figli.
Anche Marcus Koll jr voleva dei figli.
Li aveva sempre voluti.
Aveva preso una decisione.
Quando era partito alla volta della California per stringere un accordo con
una madre surrogata e una donatrice di ovuli, aveva da poco assunto il
controllo delle aziende paterne. Il futuro si apriva davanti a lui: aveva avuto la
benedizione di un bel po’ di soldi, e avrebbe anche potuto spacciare i tanti
viaggi negli Stati Uniti che lo aspettavano per viaggi di lavoro.
Una tarda sera di gennaio 2001, molto semplicemente, si era presentato a
casa di sua madre con il bambino fra le braccia. Lei aveva capito tutto nel
momento stesso in cui aveva aperto la porta, e si era messa a piangere. Con
grande delicatezza aveva preso il suo nuovo nipotino e, stringendoselo al
petto, si era addentrata nell’ampio appartamento che i figli e la figlia le
avevano regalato non appena erano improvvisamente diventati ricchi. A quel
posto non si era mai abituata del tutto, ma quando Marcus era apparso sulla
soglia con quel piccolino, lei era andata a sedersi al centro del sontuoso
divano su cui mai nessuno prima si era accomodato. Con il naso contro la
guancia del neonato aveva sussurrato pianissimo: «Adesso la nonna si sente a
casa, piccolino mio. Finalmente la nonna è a casa sua. E tu qui sei a casa della
nonna».
«Si chiama Marcus, − aveva detto Marcus a sua madre che non riusciva a
smettere di piangere. – Non come me, ma come il nonno».
Il pensiero di perdere Lillemarcus non era nemmeno pensabile.
Forse non avrebbe mai dovuto averlo.
− Sei sveglio? – mormorò Rolf rigirandosi nel letto. – Ma che ore sono?
− Dormi, − gli bisbigliò Marcus.
− E tu, perché non dormi? – Si mise su un fianco, con la testa appoggiata a
una mano. − Te ne stai lí sveglio quasi tutte le notti, − gli disse con un
profondo sbadiglio.
− Ma no, dormi.
La luce dei numeri sulla sveglia digitale era l’unica fonte di illuminazione
nella stanza buia. Marcus si fissò le mani. Nell’oscurità la pelle aveva un
riflesso verdognolo. Si sforzò di sorridere.
L’angoscia era venuta insieme al figlio. La sua diversità, l’incontestabile
fatto di non essere come gli altri e che mai lo sarebbe stato avevano
cominciato a delinearsi con maggior chiarezza. Proteggere sé stesso era facile,
o almeno cosí aveva sempre creduto. Quando però Lillemarcus era entrato a
far parte della sua vita, si era accorto che a volte si sentiva sfinito a furia di
scontrarsi con pregiudizi cui prima voltava le spalle, consapevole che si
trattava solo delle vestigia di un mondo ormai perduto. Il mondo andava
avanti, questa era la sua convinzione. Dopo l’arrivo del bambino, invece, ogni
tanto aveva la sensazione che lo sviluppo della società seguisse un andamento
imprevedibile e asimmetrico con cui era difficile stare al passo. La gioia che
l’amore per il figlio gli dava era assoluta, l’angoscia al pensiero di non essere
in grado di proteggerlo dalla cattiveria e dai pregiudizi del mondo lo
dilaniava. Poi era arrivato Rolf e molte cose erano migliorate. Ma non si
erano risolte: Marcus si sentiva ancora un uomo segnato, in tutti i sensi. Rolf
restava comunque la sua forza e la sua felicità, e Lillemarcus viveva una vita
fantastica. Quella era l’unica cosa che contava davvero, e Marcus alla fine
aveva deciso di tenere per sé certi periodi di sfinimento e depressione, che per
altro si erano fatti sempre meno frequenti.
Fino al momento in cui Georg Koll, quel maledetto del suo defunto padre,
non gli aveva giocato un ultimo tiro mancino.
− Che cosa c’è che non va? – gli chiese Rolf, un po’ piú sveglio.
Il piumino gli era in parte scivolato di dosso: se ne stava lí seminudo,
ancora sdraiato su un fianco, con un ginocchio piegato e l’altra gamba tesa, e
anche in quella fioca luce i contorni dei suoi addominali erano ben delineati.
− Niente.
− Non è vero!
Il piumino frusciò quando Rolf con un gesto impaziente coprí di nuovo
quel suo corpo atletico.
− Perché non me ne parli, eh? È un po’ che non sei piú tu. Se è qualcosa
che ha a che fare con il lavoro, qualcosa di cui non puoi parlare, basta dirlo!
Non possiamo continuare a…
− Non è niente, davvero, − gli disse Marcus, e si girò dall’altra parte. –
Rimettiamoci a dormire, dài.
Si sentiva lo sguardo pungente di Rolf sulla schiena.
Avrebbe dovuto parlarne con il compagno non appena il problema si era
presentato, ma adesso, dopo cosí tanti mesi e preoccupazioni, si rendeva
conto con stupore di non aver mai contemplato la possibilità di condividere
tutto quanto con il suo compagno. Il che era scioccante. Rolf era una delle
persone piú intelligenti che lui avesse mai conosciuto. Rolf avrebbe
sicuramente trovato una via d’uscita. Rolf avrebbe analizzato la situazione
con grande pacatezza e ne avrebbe discusso fino a trovare una soluzione. Rolf
era un uomo allegro, ottimista e con una incrollabile fiducia nel fatto che ogni
cosa, anche la tragedia piú cupa, avesse un altro lato. Era solo questione di
trovarlo.
Ovviamente avrebbe dovuto parlarne con Rolf.
Avrebbe dovuto parlargliene subito.
Insieme avrebbero potuto farcela.
Rolf non si era ancora mosso. Marcus teneva lo sguardo incollato alla
sveglia. Batté le palpebre quando le cifre cambiarono da 03.07 a 03.08. Tutt’a
un tratto inspirò rapido, un gemito quasi, cercando le parole adatte a
sopportare il peso di una storia dolorosa che avrebbero dovuto condividere
molto tempo prima.
Ma non le aveva ancora trovate che Rolf si girò dall’altra parte.
Ora si davano la schiena.
Dopo pochi minuti il respiro di Rolf si fece regolare e pesante.
E all’improvviso Marcus capí perché era ormai troppo tardi per dirlo al suo
compagno: non lo avrebbe mai perdonato.
Mai.
Nel caso in cui si fosse confidato con lui, la vita che Marcus conosceva e
amava sarebbe finita. Non solo avrebbe perduto Rolf, avrebbe perduto anche
Lillemarcus. La paura lo invase e lui restò lí, sdraiato, sveglio, fino a quando i
numeri non cambiarono da 06.59 a 07.00.

Quando Johanne si svegliò di soprassalto, era madida di sudore e con le


lenzuola incollate addosso. Cercò di liberarsi da quell’abbraccio appiccicoso,
ma riuscí solo a impigliarsi con i piedi nell’apertura del copripiumino.
Sentendosi prigioniera, cominciò a scalciare disperatamente nel tentativo di
liberarsi. La federa si squarciò. Finalmente libera. Cercò di ricordare il suo
incubo.
Il cervello lo aveva già cancellato.
Le tremavano le mani quando si allungò a prendere il bicchiere d’acqua sul
comodino. Lo bevve tutto d’un fiato. Fece per rimetterlo a posto, ma le cadde
a terra. Chiuse di nuovo gli occhi, con una smorfia di rifiuto, poi le venne in
mente che Kristiane era da Isak. Ragnhild a quell’ora non si svegliava mai.
Aveva ancora l’affanno quando si afflosciò sul cuscino cercando di
rilassarsi.
Nonostante avesse parlato con Yngvar al telefono per piú di venti minuti la
sera prima, non aveva nemmeno accennato alla conversazione con Kristiane.
Non ne aveva parlato neppure con Isak quando l’ex marito, seccato, si era
presentato lí dopo la scuola: Johanne si era dimenticata di informarlo che era
passata lei a prendere Kristiane, senza che fosse in programma e senza essersi
messa prima d’accordo con lui. Al vederlo salire le scale con quell’insolito
sguardo cupo gli aveva raccontato che una volta tanto era riuscita a prendersi
un giorno di vacanza e ne aveva approfittato per passare un po’ di tempo da
sola con Kristiane.
Ovviamente si era scusata per essersi dimenticata di avvisarlo.
Come sempre Isak l’aveva presa bene, e quando se n’era andato con la
figlia era di nuovo sereno.
Kristiane aveva assistito a qualcosa che aveva a che fare con l’omicidio di
Marianne Kleive. Johanne ne era certa, ma non sapeva bene che cosa avrebbe
potuto raccontare a Isak e a Yngvar: Kristiane doveva aver visto il cadavere
della donna la sera stessa in cui era stata uccisa. Non che le avesse mai detto
in modo esplicito cos’era successo. Erano stati il linguaggio del corpo,
l’espressione del viso, la scelta delle parole e il tono di voce a
comunicarglielo inequivocabilmente.
Proprio le cose che spingevano Isak a ridere di lei e Yngvar a cercare di
nascondere la propria rassegnazione.
E se anche uno dei due o entrambi, contro ogni previsione, avessero
pensato che lei aveva ragione, Yngvar avrebbe senz’altro insistito per mettersi
subito in contatto con la polizia. E con ogni probabilità anche Isak: era un
buon padre sotto molti punti di vista, ma non aveva mai capito che Kristiane
era infinitamente vulnerabile.
La ragazzina non avrebbe certo sopportato che degli estranei pretendessero
di entrare nella sua sfera facendole domande su qualcosa che lei in qualche
modo era riuscita a incapsulare. Risolvere un caso di omicidio era importante,
senza dubbio, ma Kristiane lo era ancora di piú.
Questa era una faccenda che Johanne doveva affrontare da sola.
Aveva un respiro piú regolare, adesso. Però iniziava a sentire freddo,
sudata com’era, e decise di cambiare le lenzuola. Tirò fuori quelle pulite e con
mani esperte in soli quattro minuti si preparò un bel letto fresco e asciutto. Il
copripiumino di Yngvar non aveva voglia di cambiarlo: il letto matrimoniale
aveva uno strano aspetto con due federe diverse, ma ci avrebbe pensato il
mattino dopo a sistemarlo.
Si stese di nuovo e chiuse gli occhi.
Era perfettamente sveglia. Si girò su un fianco. Cercò di pensare a
tutt’altro.
Kristiane aveva visto qualcosa di terribile: un crimine o il risultato di un
crimine.
Qualcuno stava tenendo d’occhio Kristiane.
Si girò di nuovo. Il battito del cuore accelerò.
Di colpo si mise a sedere. Non poteva continuare cosí. Lí, in quel
momento, non c’era proprio nulla che potesse fare. Non poteva nemmeno
telefonare a quell’ora, oltretutto Kristiane era al sicuro da suo padre. In
qualche modo doveva cercare di arrivare a fine nottata.
Il giorno dopo avrebbe parlato con Yngvar.
Quella decisione la tranquillizzò.
Gli avrebbe chiesto di tornare a casa. Non sarebbe stato necessario
spiegargli il perché, lui l’avrebbe capito dalla sua voce che doveva tornare.
Yngvar sarebbe rientrato da Bergen e lei gli avrebbe raccontato tutto.
Non poteva raccontargli niente.
Se Yngvar le avesse dato ragione, per Kristiane sarebbe stata una rovina.
Non sapeva cosa fare. Afferrò il cuscino del marito e se lo strinse forte al
petto, come fosse una delle sue figlie.
Avrebbe potuto alzarsi. E mettersi a lavorare.
No.
Sul comodino c’erano tre libri. Ne prese uno. Lo aprí dove aveva fatto
l’orecchio e iniziò a leggere. La strada di Cormac McCarthy non la rasserenò
nemmeno un pochino. Dopo tre pagine chiuse il libro e gli occhi.
Aveva il cervello che lavorava all’impazzata e si sentiva fisicamente male.
Da tanto Yngvar esprimeva il desiderio di avere un televisore in camera da
letto. In quel momento Johanne si pentí di non averlo accontentato. Non che
sarebbe riuscita a seguire qualche programma, ma aveva un intenso bisogno
di sentire delle voci. In un attimo di follia ebbe la tentazione di svegliare
Ragnhild, poi però accese la radiosveglia. Era già sintonizzata su Nrk P2 e un
brano di musica classica invase la stanza, un brano infinitamente triste,
proprio come il romanzo postapocalittico di McCarthy. Smanettò con il
sintonizzatore finché non trovò una stazione locale che trasmetteva tutta la
notte canzoni della hit-parade e alzò il volume il piú possibile, considerato
che la camera da letto dei vicini era esattamente sotto la loro.
Il «Dagens Næringsliv» era scivolato sul pavimento.
Si chinò a raccogliere il giornale. Era l’ultima edizione, non l’aveva ancora
letta. Non che ci fosse molto da leggere: sia l’articolo di fondo sia i trafiletti
che rimandavano alle pagine interne avevano per tema la crisi economica.
Fino a quel momento non aveva prestato molta attenzione al collasso dei
mercati finanziari mondiali, anche se lo avrebbe ammesso solo a malincuore.
Sia lei che Yngvar lavoravano nel settore pubblico, nessuno dei due avrebbe
perso il lavoro e il tasso di interesse era in caduta libera. Sapevano già di
essere economicamente ben messi.
Iniziò dalla fine, com’era sua abitudine.
La notizia principale della rubrica Etterbørs era la morte dell’artista Niclas
Winter. Johanne aveva visto diverse delle sue opere ed era rimasta colpita in
modo particolare da Vanity Fair, reconstruction una domenica in cui tutta la
famiglia era andata a farsi un giro in centro, finendo per trascorrere un’ora fra
le tre installazioni di Niclas Winter collocate sul molo di Rådhuskaia.
Kristiane ne era rimasta profondamente affascinata, Ragnhild invece era piú
presa dai piccioni e dagli zampilli della fontana, mentre Yngvar aveva
sbuffato e scosso la testa: quella roba la definivano arte?
Winter non aveva eredi, a quanto pareva.
La madre e i nonni erano morti. Non aveva sorelle né fratelli, sua madre
nemmeno. In pratica non c’era nessuno che potesse ereditare la piccola
fortuna che, totalmente ignaro, Niclas Winter aveva lasciato ai posteri. Oltre a
I was thinking of something blue and maybe grey, darling erano state infatti
ritrovate nell’atelier dell’artista altre quattro grandi installazioni.
Gli intenditori avevano tessuto il panegirico di CockPitt, un inno
omoerotico al marito di Angelina Jolie. A quanto si diceva era già stata fatta
un’offerta anonima di quattro milioni di corone per quell’opera. Secondo le
fonti del «Dagens Næringsliv», a volerla acquistare era l’attore stesso.
Crisi economica a parte, evidentemente di soldi per le opere d’arte di
Niclas Winter ne giravano, ora che lui era morto. La StatoilHydro aveva già
avanzato pretese sull’installazione che aveva ordinato e poi disdetto, e non si
era arresa fino a quando il curatore della successione non aveva preso in
considerazione il contratto rescisso. La sua valutazione del valore delle
sculture – generosa e altamente provvisoria – si aggirava intorno ai quindici,
venti milioni di corone. Forse anche di piú. Nell’articolo si sottolineava
l’ironia della sorte toccata al povero Niclas Winter: da vivo era dipeso da
introiti scarni e dalla benevolenza dei mecenati, mentre solo da morto era
diventato benestante. Un destino non insolito per un artista, sottolineava
Christen Sveaas, uomo d’affari e collezionista d’arte, il quale nella sua ricca
raccolta di Kistefos vantava anche due installazioni minori di Niclas Winter e
poteva constatare con soddisfazione che il valore di entrambe era
radicalmente aumentato.
Un articolo di spalla metteva in evidenza che anche Niclas Winter aveva
avuto i suoi problemi: era malato di Aids e ne teneva sotto controllo i disturbi
con i medicinali, e per ben tre volte dai diciotto anni in poi era stato
ricoverato in qualche clinica per disintossicarsi. Quattro anni prima, sembrava
essere definitivamente guarito. Le sue opere d’arte migliori risalivano proprio
all’ultimo periodo e due dei suoi collaboratori si mostravano infatti molto
stupiti che Niclas Winter avesse ricominciato a fare uso di eroina. Finalmente
lo attendeva il grande debutto internazionale e, soprattutto, nelle ultime due
settimane prima di morire era sembrato soddisfatto, quasi felice. Dal
momento che le ricadute precedenti avevano sempre seguito un fallimento
artistico, era difficile credere che avesse ricominciato a drogarsi.
Johanne notò che il ritmo del suo respiro era tornato normale e che in
effetti cominciava a sentirsi stanca. Leggere delle disgrazie altrui a volte
aiutava a mettere le cose nella giusta prospettiva. Lasciò cadere il giornale sul
piumino e le si chiusero gli occhi.
«Kristiane è al sicuro», pensò accorgendosi che il sonno stava finalmente
arrivando.
Non osò sdraiarsi né spegnere la luce, desiderava solo scivolare
nell’oscurità dietro le palpebre abbassate. Dormire. Voleva solo dormire.
«Kristiane è al sicuro a casa di Isak e io domani parlerò con Yngvar. Andrà
tutto bene».
Quando si svegliò quattro ore piú tardi il giornale era ancora posato sul
piumino davanti a lei, aperto sulla storia della morte di Niclas Winter, artista
creatore di installazioni.

− Hai visto questo articolo?


L’avvocato Kristen Faber alzò controvoglia gli occhi dai documenti che
stava esaminando e prese il giornale che la segretaria gli porgeva.
− Di che si tratta? – borbottò mentre cercava di infilarsi in bocca quel che
restava di un wienerbrød senza sbriciolare troppo.
Una sottile pioggia di frammenti unti e pasta di mandorle gli cadde sul
colletto della camicia. Faber si chinò in avanti per spazzolarli via senza
macchiarsi.
− Ma non è il giornale di ieri?
− Sí, − gli rispose la segretaria. – Come al solito me l’ero portato a casa
dopo il lavoro, ed è stato allora che ho letto questo. Non è poi cosí strano che
il tuo cliente non si sia presentato all’appuntamento! È morto!
− Chi?
L’avvocato masticava come poteva, tenendo con una mano il giornale in
verticale davanti a sé.
− Ah! – disse con la bocca piena. – Lui. Be’… certo… Però! Era piuttosto
giovane, no?
− Se leggi l’articolo, − gli disse la segretaria con un sorriso indulgente, −
allora…
− Non leggo mai Etterbørs. Vediamo un po’… Niclas Winter, già.
Overdose. Povero diavolo. Sembrerebbe che…
Smise di masticare.
− Per la miseria, era famoso. E io che non ne avevo mai sentito parlare…
A parte come nuovo cliente in arrivo, voglio dire.
Quando Faber posò il giornale sulla scrivania la segretaria andò a prendere
scopa e paletta. Indisturbato, lui continuò a leggere l’articolo e non finí prima
che lei, una volta spazzato bene per terra, uscisse con scopa e paletta e
tornasse con un thermos di caffè appena fatto.
− Hai un modo di fare colazione non propriamente salutare, − gli disse
sorridente versandogli il caffè. – Dovresti mangiare prima di uscire di casa.
Pane integrale o muesli. Non wienerbrød, santo cielo. Quand’è stata l’ultima
volta che hai bevuto un bel bicchiere di latte, per esempio?
− Se mi fosse servita una mamma, qui, avrei assunto la mia. Dov’è finito
quel maledetto caso?
Si era messo a scartabellare la pila dei fascicoli dei casi aperti. Era sicuro
di aver posato la busta marrone sigillata sopra il mucchio di scartoffie sulla
sinistra della scrivania, prima di tornare a casa per farsi una doccia dopo il
faticoso viaggio di ritorno da Barbados. Adesso era sparita.
− Merda. Devo essere in tribunale fra un quarto d’ora. Non è che puoi
cercarmelo tu, il materiale di quel caso? È una busta sigillata con sopra
scritto: «Appartiene a Niclas Winter» e un codice fiscale.
Si alzò, si buttò sulle spalle la giacca e afferrò la valigetta mentre
raggiungeva la porta.
− Ah! E, Vera… non aprirla! È una soddisfazione che voglio togliermi di
persona!
La porta sbatté alle sue spalle, poi scese di nuovo il silenzio nell’ufficio
dell’avvocato Kristen Faber.

Astrid Tomte Lysgaard non era piú sicura che le piacesse davvero tanto
silenzio quando Lukas era al lavoro e i bambini a scuola. Nessuna delle sue
amiche era rimasta a casa se non nel periodo obbligatorio del primo anno di
vita del bambino, ma lei aveva l’impressione che quasi tutte le invidiassero la
pace che secondo loro regnava a casa sua fra le otto e mezza e le quattro e un
quarto.
Anche a lei per molto tempo era piaciuta quella tranquillità.
I lavori domestici quotidiani raramente le portavano via piú di tre ore,
spesso ancor meno. Anche se era lei ad accompagnare e andare a riprendere i
bambini e a occuparsi della spesa, il tempo libero che le restava non era poco.
Leggeva, faceva lunghe passeggiate, due volte alla settimana andava in
palestra al Nautilus in Idrettsveien. Qualche rara volta le capitava di sentirsi
sfiorare dalla noia, ma era una sensazione che non durava mai a lungo. Che
tutto fosse già stato fatto e che la cena fosse in tavola quando Lukas tornava
dal lavoro dava serenità ai loro pomeriggi e alle loro serate, rendeva piú
piacevole la convivenza, migliorava la vita familiare. Potevano usare il
proprio tempo per stare con i bambini anziché per le faccende di casa e Lukas
le dimostrava quotidianamente la sua gratitudine per la scelta che aveva fatto.
Dopo la morte della suocera, però, tutto era cambiato.
Lukas soffriva in un modo che la spaventava.
Sembrava cosí assente.
Meccanico.
Parlava poco e capitava che fosse brusco, anche con i figli. Di solito era
sempre lui a fare i compiti con il piú grande, negli ultimi tempi però aveva
perso la capacità di concentrarsi perfino sugli esercizi della seconda
elementare. In cambio si era messo a sistemare il garage, con l’intenzione di
appendere delle mensole nuove lungo tutta la parete corta interna. Doveva
fare molto freddo a starsene là fuori tutte le sere e, quando finalmente tornava
dentro, cenava in silenzio e se ne andava a dormire senza nemmeno sfiorarla.
La casa era cosí silenziosa… E a lei questo non piaceva.
Posò il ferro da stiro in verticale e si avvicinò alla finestra per accendere la
radio. Era proprio ora che la smettesse di piovere. Gennaio era sempre stato
un mese molto triste, ma questo era peggio del solito. La bassa pressione
aveva su di lei un brutto effetto, fisicamente parlando: erano giorni che
soffriva di un leggero mal di testa.
Quel mattino stava peggio che mai, sentiva delle vere e proprie fitte alle
tempie. Provò a massaggiarsele con tocchi leggeri, ma non ottenne alcun
beneficio. Meglio andare in bagno a prendere un analgesico; poi avrebbe
finito di stirare.
Nell’armadietto dei medicinali che tenevano chiuso a chiave non ne era
rimasto neanche uno, di analgesico. Astrid cercò disperatamente fra cerotti di
Asterix e pastiglie di fluoro, flaconi di disinfettante e collutorio. Ma contro il
dolore non c’era niente, a parte delle supposte per bambini.
Le parve che il mal di testa fosse peggiorato soltanto perché non aveva
trovato il farmaco giusto.
«Le pillole per l’emicrania di Lukas», pensò.
Solo che non erano nell’armadietto dei medicinali. Lukas era dell’idea che
la serratura non fosse molto robusta e che una medicina cosí forte potesse
essere pericolosa per un bambino di otto anni curioso e con una spiccata
abilità manuale. Teneva quelle pillole chiuse a chiave in un cassetto
dell’imponente scrivania nella stanza che aveva adibito a studio. Astrid
sapeva dov’era la chiave: dietro una prima edizione de Il giro del mondo in
ottanta giorni che Lukas aveva ricevuto in dono dai genitori per i suoi
vent’anni.
Astrid non aveva mai aperto quel cassetto ed esitò prima di infilare la
chiave nella toppa.
Fra di loro, fra lei e Lukas, di segreti non ce n’erano.
Forse avrebbe dovuto telefonargli e chiedergli il permesso.
Era suo marito, pensò rassegnata, e lei voleva solo una pillola per lenire il
mal di testa. Lukas non le aveva mai proibito di guardare in quel cassetto.
Non sarebbe stato da loro imporsi reciprocamente un divieto, di qualunque
genere.
Con uno scricchiolio quasi impercettibile la serratura scattò. Astrid aprí il
cassetto e si trovò sotto gli occhi una fotografia. Una donna. E la fotografia
doveva essere vecchia. Prima rimase a fissarla lí dov’era, poi la sollevò
delicatamente e la guardò alla luce intensa della lampada da scrivania.
C’era qualcosa di noto in quel volto. Solo che lei non riusciva a dargli una
collocazione precisa. In un certo senso la forma del viso e il naso dritto le
ricordavano Lukas, ma doveva trattarsi di un caso. La donna del ritratto aveva
anche quella particolarità, un incisivo superiore parzialmente sovrapposto
all’altro, ma probabilmente erano in molti ad avere i denti cosí. Lill Lindfors,
per esempio, la famosa cantante e attrice finnico-svedese. Glielo diceva
sempre quando erano molto giovani e lei amava ogni cosa di Lukas: sei come
Lill Lindfors.
Anche se non aveva idea di chi fosse la donna del ritratto, la colpí la
singolare sensazione di aver già visto quell’immagine. Solo che non riusciva
proprio a farsi venire in mente dove. E mentre fissava la donna si accorse che
il mal di testa le era passato. In tutta fretta ripose la fotografia dove l’aveva
trovata, chiuse a chiave il cassetto e rimise la chiave nel solito nascondiglio.
Uscendo dallo studio di Lukas si chiuse cautamente la porta alle spalle,
come se avesse fatto qualcosa di scorretto.
La sconsolante mole di carte riguardanti i crimini irrisolti impilate sulla
scrivania del suo ufficio demoralizzavano Silje Sørensen. Nonostante tutte le
scartoffie fossero state accuratamente ordinate in fascicoli, c’era posto a
malapena per una tazza. Silje si sedette, scostò un mucchietto di ritagli di
giornale e posò il caffè prima di iniziare a rivedere tutto da capo.
C’era bisogno di stabilire delle priorità.
I casi si stavano accumulando.
Le azioni piú o meno legali organizzate dal sindacato della polizia per
protestare contro le pessime condizioni di lavoro, gli stipendi inadeguati, la
carenza di personale e la minaccia di cambiamenti nel sistema pensionistico,
nel corso dell’ultimo anno avevano portato all’inasprimento delle trattative fra
Stato e polizia. Gli agenti non erano piú disponibili a fare gli straordinari. I
casi, come tutto il resto, richiedevano tempi piú lunghi. Gli oltre undicimila
membri dell’organizzazione avevano cominciato a cambiare l’ordine delle
priorità. Anche se le cifre non erano ancora state elaborate, sembrava che già
a gennaio del 2008 la percentuale di casi risolti fosse radicalmente diminuita
rispetto al 2007. I poliziotti facevano valere il proprio diritto ad avere del
tempo libero e si ammalavano con maggior frequenza: stranamente, ogni
tanto in contemporanea e spesso e volentieri prima dei fine settimana, quando
le sfide che i tutori della legge si trovavano a dover affrontare aumentavano.
E i malfattori in genere se la cavavano meglio.
I cittadini si sentivano meno protetti. La polizia, che aveva sempre goduto
di grande rispetto, stava perdendo la simpatia della popolazione. I giornali
riportavano con frequenza crescente storie di vittime di violenze che non
riuscivano a sporgere denuncia perché le stazioni locali di polizia erano
sguarnite, storie di uffici dislocati in zone rurali che restavano chiusi per tutto
il fine settimana, storie di persone derubate costrette ad aspettare per giorni i
rilievi della scientifica, sempre che la scientifica prima o poi arrivasse.
Silje Sørensen era membro del sindacato ma aveva da tempo rinunciato a
tenere il conto delle sue ore di straordinario. L’unico metro di misura che
utilizzava erano le reazioni della sua famiglia: quando i figli diventavano un
po’ troppo indisciplinati e il marito si faceva taciturno, allora lei cercava di
passare piú tempo a casa. Altrimenti svicolava in ufficio ogni volta che
poteva, indipendentemente dall’orario di lavoro canonico.
In quanto figlia unica di un armatore, nessuno si era mai neanche
lontanamente aspettato che entrasse alla scuola di polizia. Quando aveva
saputo della sua scelta professionale, la madre era entrata in uno stato di choc
e di isteria che era durato per tutto il primo anno di corso. Avevano speso una
fortuna in collegi in Svizzera e Inghilterra ed ecco che la figlia buttava via il
suo futuro per lavorare nel pubblico! E se proprio voleva insudiciarsi
frequentando autori di crimini violenti, per non dire di peggio, perché mai non
poteva fare l’avvocato? Magari proprio per la polizia?
Era esattamente una reazione del genere che Silje si era aspettata.
Il padre, invece, aveva fatto un gran sorriso e l’aveva baciata sulla fronte
quando lei gli aveva raccontato di essere stata ammessa alla scuola di polizia.
Silje Sørensen non si era mai ribellata, né da bambina né da adolescente.
Non aveva mai protestato: né quando a dieci anni le avevano imposto di
trasferirsi all’estero e accontentarsi di vedere i genitori solo in vacanza, né
quando nell’estate dei suoi quindici anni aveva dovuto trascorrere due mesi in
una scuola francese in Svizzera in cui le giornate iniziavano alle sei e mezza e
le suore cattoliche non lesinavano metodi punitivi che probabilmente la
Convenzione di Ginevra aveva proibito. Silje non si era opposta nemmeno
quando il padre aveva deciso di farle fare cinque anni di scuola in due e
mezzo: era riuscita a prendere il bachelor in inglese a nemmeno diciannove
anni. Quando era diventata maggiorenne, anche per premiarla della sua
taciturna pazienza e del suo encomiabile impegno, il padre aveva donato a lei,
la sua unica figlia, metà del proprio patrimonio.
La scuola di polizia era stata la prima, risoluta azione di protesta di Silje
Sørensen.
Quando, nel suo primo anno di attività, era stata messa a lavorare agli
ordini della leggendaria Hanne Wilhelmsen, si era resa subito conto che la sua
scelta ribelle e sovversiva avrebbe fatto la sua felicità. Quasi tutto ciò che
sapeva del mestiere di poliziotto lo aveva imparato da quella mentore
ricalcitrante e taciturna. Nonostante Hanne Wilhelmsen fosse sempre piú
impopolare a causa del suo stile autoritario, Silje non aveva mai smesso di
ammirarla. Quando avevano sparato all’ispettore capo Wilhelmsen durante
una drammatica azione di polizia nel Nordmarka, lasciandola paralizzata dalla
vita in giú, Silje aveva sofferto come se fosse stata sua sorella. Che Hanne
avesse poi voltato le spalle ai pochi amici che le erano rimasti nella grande e
sporca centrale di Grønlandsleiret era una cosa che lei non era mai riuscita a
superare.
Silje Sørensen era orgogliosa della sua professione, ma gli angusti limiti
entro i quali era costretta a operare la scoraggiavano.
Decise che innanzitutto avrebbe suddiviso i casi in base alla gravità.
Accoltellamenti insignificanti e futili risse da bar che non avevano provocato
ferite mortali finirono in un mucchio a parte.
«Probabilmente ve la caverete», pensò rassegnata, cercando di ignorare
che diversi di quei crimini avevano per protagonisti noti malfattori.
Archiviare quei casi sarebbe stata una forte provocazione nei confronti delle
vittime. Ormai però era cosí che funzionavano le cose, e in osservanza alle
direttive impartite dal procuratore generale e dalla Direzione nazionale della
polizia lei non aveva nulla di cui preoccuparsi se privilegiava i casi piú gravi
rispetto ai meno gravi. I cittadini forse faticavano a capire la definizione di
«grave» secondo il metro della polizia, ma lei non poteva farci nulla.
Dopo un’oretta i fascicoli erano stati suddivisi in cinque gruppi.
Silje bevve gli ultimi sorsi di caffè tiepido, poi prese tre di quei mucchi e li
infilò nell’armadio alle sue spalle.
Ne restavano due.
Il piú piccolo era quello dei casi di omicidio. Tre fascicoli: il primo era
piuttosto sottile e il secondo quasi altrettanto esile, il terzo invece era talmente
rigonfio che per tenerlo insieme aveva dovuto legarlo con due elastici doppi
incrociati.
All’improvviso si alzò e si avvicinò alla bacheca di sughero sulla parete
opposta a quella dove si trovava la sua postazione di lavoro. Diede una rapida
occhiata a ognuno dei foglietti appesi, poi ne staccò uno e lo mise sulla
scrivania, mentre gli altri finirono tutti nel grosso cestino per la carta straccia.
Dall’armadio tirò fuori tre fogli di formato A4. Ci stavano giusti giusti uno
accanto all’altro nella parte superiore della bacheca.
«Runar Hansen», scrisse in pennarello rosso sul primo foglio.
«19/11/08».
Sul foglio successivo scrisse il nome di Hawre Ghani.
«24/11/08».
Mordicchiando il tappo del pennarello si fermò a riflettere un attimo, poi
aggiunse un punto di domanda.
«24/11/08?»
Non era ancora possibile stabilire con esattezza quando Hawre Ghani fosse
stato assassinato, ma che fosse stato assassinato era ormai certo. Il medico
legale aveva trovato prove inconfutabili di garrottamento, nonostante le
deplorevoli condizioni del cadavere. Che il ragazzo si fosse impiccato
avvolgendosi un filo di acciaio intorno al collo fino a quando la testa non si
era quasi staccata dal corpo e che poi si fosse gettato in mare era poco
probabile. L’istituto di Medicina legale sull’ora del decesso aveva fatto solo
supposizioni, ma la polizia non aveva trovato alcuna prova che il ragazzo
fosse ancora vivo dopo essere scomparso con quel cliente lunedí 24 novembre
davanti alla stazione centrale di Oslo. Erano stati visionati i filmati di ognuna
delle telecamere di sicurezza, naturalmente, ma non si era scoperto niente di
nuovo. Tutto sembrava concordare con la versione fornita dal ragazzo di
strada Martin Setre: quel tizio li aveva adescati subito fuori dalla stazione.
«Maledetto furbastro», pensò rassegnata Silje Sørensen.
«Marianne Kleive», scrisse sull’ultimo foglio.
19/12/08.
Rimise il tappo sul pennarello e arretrò di due passi.
Sentí il bordo della scrivania dietro di lei e ci si sedette sopra.
Tre omicidi. Tutti e tre irrisolti. Per Runar Hansen aveva la coscienza
sporca. Non osava nemmeno guardarlo il suo sottile fascicolo, preferiva
fissare il suo nome, l’anonimo nome di un tossico picchiato e rapinato nel
Sofienbergparken senza che nessuno si fosse preoccupato di quanto stava
accadendo. Che cosa era stato fatto, per Runar Hansen? Un rapido
sopralluogo nelle ore successive al ritrovamento del cadavere, un rapporto
steso dal medico legale e un piccolo trafiletto sull’«Aftenposten», oltre agli
interrogatori di due testimoni che non erano stati in grado di dire niente altro
se non che Runar Hansen era senza fissa dimora, senza un lavoro stabile e che
aveva una sorella di nome Trude.
Per lo meno durante le indagini sul caso Hawre Ghani era successo
qualcosa. L’identikit era stato diffuso ma non reso pubblico, perché si pensava
che i tempi non fossero ancora maturi per una cosa del genere. L’esperienza
insegnava che sarebbero stati inondati di segnalazioni: la faccia di quell’uomo
era talmente comune che li avrebbero sommersi di riconoscimenti. Knut Bork
continuava il suo lavoro nell’ambiente della prostituzione. Lei stessa aveva
richiesto una ricostruzione della vita del ragazzo a partire dal suo arrivo in
Norvegia, in modo da avere un quadro il piú completo possibile dell’infelice
destino di Hawre Ghani.
Il caso Marianne Kleive procedeva a ritmo serrato.
L’omicidio di una maestra quarantaduenne di scuola materna aveva gli
ingredienti giusti per suscitare un bel circo mediatico. Le fotografie private su
cui «VG» era riuscito a mettere le grinfie solo due ore dopo che il caso era
stato reso pubblico mostravano una donna di rara bellezza. Una folta
capigliatura bionda ondulata, le gambe lunghe e un corpo slanciato e atletico.
Proprio il tipo di lesbica adorata dalla stampa. C’era qualcosa in lei che le
ricordava la pallamanista Gro Hammerseng, omosessuale anche lei. Sotto il
suo nome sul pannello di sughero Silje Sørensen appese la prima pagina
strappata da un «VG» di alcuni giorni prima. E se la moglie di Marianne
Kleive, Synnøve Hessel, non era esattamente una celebrità, aveva comunque
un posto di tutto rilievo nell’ambiente cinematografico norvegese, tanto che i
giornali potevano usare epiteti ideali per incrementare le vendite come «la
famosa e pluripremiata» per riferirsi alla sofferente vedova della vittima. Una
donna molto fotogenica anche lei, tra l’altro, perfino in giacca a vento e
capelli scompigliati a un’altitudine di 5208 metri al campo base Everest Nord
in Tibet.
Anche il fatto che l’omicidio avesse avuto luogo nel rispettabile Hotel
Continental giocava un ruolo non da poco. Due giorni dopo il ritrovamento
del cadavere «VG» aveva pubblicato un’intera pagina su un certo Fritjof
Hansen, un’anima semplice di cui l’albergo si serviva per i lavoretti piú
disparati. Era stato lui a trovare il cadavere della donna e, grazie alla sua
entusiastica passione per Csi, si era premurato di impedire a chiunque
l’accesso alla scena del crimine fino all’arrivo della polizia, che aveva cosí
potuto raccogliere le tracce. La fotografia sul giornale lo mostrava seduto in
poltrona, con una lattina da mezzo litro di birra e una confezione di patatine:
sul volto aveva l’espressione di chi porta sulle spalle il carico delle sofferenze
del mondo intero.
A volte Silje Sørensen avrebbe desiderato che i mezzi di comunicazione di
massa non esistessero; di tanto in tanto avrebbe voluto che la libertà di stampa
se ne andasse a quel paese.
Prese la tazza di caffè.
Era vuota.
Corrugò la fronte e cominciò a spostare lo sguardo da una foto all’altra.
Senza distogliere gli occhi dal pannello di sughero tastò con la mano alla
ricerca del pennarello e dopo averlo trovato gli tolse il tappo con i denti e
andò a scrivere «Sofienbergparken» sotto il nome di Runar Hansen e la data
della sua morte. Sotto il nome di Hawre Ghani scrisse «prostituzione
minorile» e per finire, sotto l’immagine di Marianne Kleive in cima al
Gaustatoppen in una giornata di sole con indosso il reggiseno di un bichini,
jeans tagliati e scarponi da trekking, scrisse «convivenza omosessuale».
Nello stesso istante in cui si riappoggiò alla scrivania bussarono alla porta.
Si tolse il tappo del pennarello di bocca e gridò: − Avanti!
Knut Bork obbedí.
− Buongiorno! – disse con il fiatone. – Ho pensato che era meglio…
− Vieni qui, − gli disse Silje Sørensen. – Mettiti accanto a me.
L’agente Knut Bork si strinse nelle spalle ed eseguí la sua richiesta.
− Che stai facendo? Questo cosa sarebbe? – le chiese, indicando il
pannello di sughero con un cenno del capo.
− Sono tre casi di omicidio che mi sono stati assegnati, − gli rispose Silje.
− Tre sono troppi.
− Ne avevo quattro. Ho rinunciato a uno. Non noti qualcosa di strano?
− Qualcosa di strano? Dovrei prima leggere la documentazione e…
− No. Tu i casi li conosci, Knut. Limitati a guardare il pannello, solo
questo.
Lui corrugò la fronte senza dire una parola.
− Sofienbergparken, − lesse. – Prostituzione minorile, convivenza
omosessuale.
Non trovava alcun nesso fra quelle parole.
− Per quale ragione lo conoscono tutti, il Sofienbergparken? – gli chiese
lei.
− Ah… be’… Con tutte le ambulanze che…
− No. Cioè, sí, anche quello, ma… cos’altro? Non mi riferisco alla parte a
ovest della chiesa di Sofienberg, ma a quella dietro, la parte est.
− Omosessuali, − rispose lui senza esitazione. – Compravendita e scambio
di prestazioni omosessuali. Non è certo un posto dove andrei quand’è buio.
− Appunto, − disse Silje con un mite sorriso. – È lí che Runar Hansen è
stato ritrovato. Lo hanno ucciso una fredda e piovosa notte di novembre, fra
mezzanotte e mezzanotte e mezza. È praticamente l’unica cosa che abbiamo
scoperto: quando è stato ammazzato, cioè.
− Era omosessuale?
− Non ne ho idea. Ma basiamoci su ciò che sappiamo finora: attieniti alla
reputazione di quel posto. Capisci a che cosa sto alludendo?
Silje lo guardava: un’ombra di stupore gli attraversò gli occhi quando
comprese il punto.
− Maledizione! – esclamò passandosi una mano sull’incolta barba bionda.
– Strano che la Llh non si sia ancora fatta sentire!
La Llh, l’associazione nazionale di lesbiche e omosessuali, cercava da
tempo di spingere il ministero della Giustizia a prendere in considerazione
con la dovuta serietà i casi di violenza omofoba. Silje Sørensen aveva sempre
ritenuto che il vero problema fosse che le aggressioni contro gli omosessuali
raramente si distinguevano in modo palese da una qualunque aggressione
compiuta in stato di ebbrezza. Contro donne. Contro uomini. Contro
eterosessuali e omosessuali. Le persone bevevano. Diventavano aggressive.
Picchiavano, accoltellavano, violentavano e uccidevano. Per ogni vittima
omosessuale Silje avrebbe potuto sciorinare un centinaio di vittime
eterosessuali. Non riusciva proprio a capire perché la Llh la assillasse tanto.
Questo però sí che era strano.
− Runar Hansen è in un parco noto per la compravendita e lo scambio di
prestazioni omosessuali, − disse lentamente. – Hawre Ghani sparisce con un
cliente omosessuale. Marianne Kleive è sposata con una donna. Tutti e tre
vengono uccisi, ma con modalità diverse e in luoghi diversi e da vivo nessuno
dei tre ha mai avuto a che fare con gli altri due. Per quanto ne sappiamo noi,
ovviamente. Solo che…
Socchiuse gli occhi.
− Sono stata incaricata di coordinare le indagini su tre omicidi indipendenti
e in tutti e tre spunta la questione omosessualità. Quante probabilità ci sono
che capiti una cosa simile?
− Molto poche, − rispose Knut Bork mentre si mordicchiava l’unghia del
pollice. – Ma che cazzo succede? E poi… Silje… parlando seriamente, com’è
che nessuno si è reso conto di un collegamento del genere, finora?
Lei non rispose. Rimasero in silenzio a fissare il pannello di sughero. A
lungo.
− Del primo caso, non gliene frega niente a nessuno, − disse a un tratto. –
Del secondo nessuno sa niente. O meglio: la gente ha letto sui giornali che è
stato ritrovato un cadavere nella darsena di Oslo, e di sicuro saranno uscite un
paio di righe sul fatto che si trattava di un giovane profugo. Ma niente di piú.
Quanto a Marianne Kleive… il caso è…
Esitò cosí a lungo che Knut Bork finí per completare la frase rimasta in
sospeso: − Il caso è cosí particolare e assurdo che l’omosessualità della
vittima sembrerebbe una cosa del tutto secondaria.
Silje si avvicinò al pannello di sughero e tolse i fogli bianchi e i ritagli di
giornale che ci aveva attaccato, poi li accartocciò tutti insieme e li gettò nel
cestino. Knut Bork restò immobile a braccia conserte mentre lei girava
intorno alla scrivania e si sedeva.
− Tutto questo, − gli disse in tono fermo, − tutto questo io e te ce lo
terremo per noi. Almeno per il momento. Potrebbe trattarsi di un semplice
caso, ogni collegamento potrebbe essere un caso. Ma può anche darsi che si
tratti di…
− Qualcosa di atroce, − completò Knut Bork. Gli sanguinava il pollice.

Per la seconda volta nel giro di tre settimane Johanne era rimasta a casa da
sola, e questo le faceva quasi paura. L’appartamento le sembrava sempre cosí
strano quando mancavano i rumori che facevano le bambine. Si sorprese a
camminare in punta di piedi per non far baccano.
− Su, ripigliati, − mormorò tra sé e sé mettendo su un cd di canzoni che
Line Skytter aveva scelto e registrato e poi le aveva donato a Natale.
Kristiane sarebbe rimasta da Isak fino a venerdí, mentre Ragnhild un
mercoledí sí e uno no si fermava a dormire dai nonni materni.
Aveva cercato piú volte di mettersi in contatto con Yngvar, ma rispondeva
sempre la segreteria del suo cellulare. Probabile che fosse in riunione. Quando
finalmente era spuntato il giorno dopo quell’inquieta e angosciosa notte,
aveva dovuto ammettere a sé stessa che doveva parlarne con Yngvar: dubbi
non ne aveva piú, a differenza della notte prima, quando aveva continuato a
cambiare idea. Ormai aveva preso una decisione, e aver preso una decisione
bastava a farle apparire tutta quella storia meno nera.
Se solo avesse saputo che cosa aveva davvero visto Kristiane.
Anche se aveva capito che qualcosa doveva aver visto, non sapeva ancora
esattamente che cosa. Non le era sembrato il caso di esercitare ulteriori
pressioni sulla figlia. Forse avrebbe potuto insistere piú avanti, pensò,
vagando silenziosa e senza scopo a piedi nudi.
Le canzoni che Line le aveva registrato non erano esattamente il suo
genere: andò allo stereo e smorzò la voce di Kurt Nilsen nel bel mezzo di un
ritornello.
Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non aveva fame.
A quanto pareva, la riunione di Yngvar non finiva piú: erano passate tre
ore da quando gli aveva lasciato il primo messaggio chiedendogli di
richiamarla.
Avrebbe potuto lavorare.
O leggere.
Guardare un film, magari.
Senza rifletterci, afferrò il telefono e digitò il numero di Isak. Lui rispose
subito.
− Ciao, sono Johanne.
− Ciao −. Gli sentí un sorriso nella voce.
− Telefonavo solo per…
− Per sapere come sta Kristiane, − completò lui. – Sta benissimo. Siamo
stati alla Bislet bad. In realtà i bambini possono entrare in piscina solo nel fine
settimana, ma Kristiane è cosí tranquilla e silenziosa che la tizia
all’accettazione la lascia entrare.
− Non la farai andare da sola nello spogliatoio femminile?
− Ma certo. È troppo grande per venire con me in quello maschile! Le sta
spuntando il seno, te ne sei accorta? E qualche pelo in mezzo alle gambe! La
ragazzina cresce, Johanne, e ovviamente io la lascio andare nello spogliatoio
femminile da sola.
Lei non ribatté.
− Johanne, − aggiunse lui in tono rassegnato, − Kristiane se la cava
benissimo! Adesso ci stiamo preparando dei tacos e lei ha cotto tutta la carne
trita da sola. Si è messa ad affettare le verdure e lo sa fare bene. Quando è da
me, prepariamo sempre la cena insieme. Ha quasi quattordici anni, Johanne.
Non potrai continuare a trattarla come una bambina per tutta la vita.
Lei è una bambina.
La bambina piú vulnerabile del mondo.
− Pronto?
− Sí… − mormorò Johanne. – Ci sono. Sono contenta che ve la passiate
bene, volevo solo sentire se…
− Vuoi parlare con lei? È qui vicino a me.
In sottofondo si sentí un gran baccano.
− Oh oh, − disse Isak. – È caduto qualcosa. Ti dispiace richiamarmi fra un
attimo?
− Ma no, non ti preoccupare, non è necessario. Ci vediamo venerdí. Ciao!
− Ciao!
La voce di lui svaní e lei posò il telefono sbattendolo con un po’ troppa
noncuranza sul tavolino. Andò alla grossa finestra senza piú premurarsi di
camminare piano, lo fece, anzi, pestando irritata i piedi sul pavimento, incerta
se ce l’avesse con sé stessa o con Isak.
Non si era ancora procurata le tende.
Era caduta cosí tanta neve che la recinzione che dava su Hauges Vei non si
vedeva piú. I cumuli erano enormi: la gente ormai non sapeva piú dove
ammassare la neve che spazzava dai vialetti di accesso e dai passi carrabili. In
mancanza di altri posti la spargeva in mezzo alla strada, con la conseguenza
che in gran parte quei cumuli tornavano da dove erano venuti ogni volta che
passava lo spazzaneve.
Non c’era anima viva in giro. Il vetro gelido della finestra la fece
rabbrividire. Il grosso pupazzo di neve che i ragazzini della casa di fronte
avevano costruito nel fine settimana la fissava con i suoi occhi nero carbone.
Aveva perso il naso. Le braccia fatte con ramoscelli di betulla sporgevano
rigide ai due lati come artigli di strega. Aveva un berretto vecchio in testa e
una sciarpa di un rosso sgargiante che gli copriva metà faccia.
Le ricordava l’uomo accanto alla recinzione.
Johanne si scostò.
L’indomani avrebbe messo le tende alle finestre.
All’improvviso si rese conto di essersi sbagliata.
L’angoscia che la tormentava da Natale non era iniziata con l’uomo
accanto alla recinzione. La sensazione che qualcuno tenesse d’occhio
Kristiane non era dovuta all’estraneo che le aveva chiesto cosa avesse
ricevuto per Natale. Il motivo per cui quella volta la sua reazione era stata
tanto violenta era che la paura si era già insinuata in lei. La ricerca di quelle
maledette costolette di maiale e tutto quel trambusto per preparare un cenone
che piacesse a sua madre aveva temporaneamente rimpiazzato l’angoscia.
Non era stato l’uomo accanto alla recinzione a fargliela venire: era già
dentro di lei, fin dalle nozze della sorella. Quando Kristiane si era
immobilizzata sulle rotaie del tram e Johanne si era convinta che sarebbe
morta, fin da quel momento aveva compreso che la sua disperazione non
dipendeva soltanto dall’aver visto la figlia in pericolo. In fondo era andato
tutto bene e, malgrado lei di natura fosse un po’ troppo ansiosa, non le era mai
capitato di sentirsi cosí, a parte la volta in cui Wencke Bencke l’aveva
subdolamente minacciata cinque anni prima.
Johanne si precipitò al portatile e si collegò in rete.
Google ci mise quella che le parve un’eternità ad aprirsi, e quando lei
digitò il nome di quella giallista famosa in tutto il mondo lo sbagliò per ben
quattro volte prima di far partire la ricerca, che le forní ventiseimilanovecento
risultati. Tentò una scrematura: l’unica cosa che le interessava sapere era se la
scrittrice vivesse ancora in Nuova Zelanda.
Wencke Bencke era riuscita a farla franca con gli omicidi. Con grande
sangue freddo e senza che Johanne fosse mai riuscita a capirne bene i
moventi, quella donna aveva ucciso alcune celebrità tra l’inverno e la
primavera del 2004. Johanne aveva aiutato Yngvar e Sigmund in un’indagine
molto complessa, ma non erano mai arrivati a nulla, a parte convincersi che
Wencke Bencke era colpevole. Non erano stati in grado di provare niente. Un
bel giorno di primavera, quand’era ormai chiaro che l’assassino non sarebbe
mai stato preso, la celebre autrice aveva fatto in modo di incontrare Johanne.
Mentre lei spingeva la carrozzina della piccola Ragnhild appena nata, Wencke
Bencke, tranquilla e sorridente, l’aveva raggiunta e aveva ammesso tutto. Non
era stata una confessione utilizzabile in tribunale, ma il messaggio era arrivato
forte e chiaro a Johanne. La latente minaccia che la scrittrice aveva lasciato
cadere subito prima di riprendere la sua passeggiata nel sole primaverile era
stata altrettanto astuta, ma non cosí ambigua, e aveva terrorizzato Johanne. La
paura non se n’era andata del tutto fino a quando, l’anno dopo, Wencke
Bencke non si era sposata con un maori di quindici anni piú giovane e si era
trasferita in Nuova Zelanda. Era tornata in Norvegia solo per il lancio del suo
ultimo libro, cosa che aveva spinto Johanne a ignorare sistematicamente le
pagine culturali dei quotidiani per gran parte dell’autunno.
Ecco.
Un trafiletto di «VG» pubblicato in settembre.
Wencke Bencke sotto il sole circondata da pecore. Lei e il marito avevano
acquistato una fattoria nei pressi di Te Anau. In autunno l’autrice non era
tornata in patria nemmeno in occasione della pubblicazione di un nuovo libro,
e allora quelli di «VG» erano andati da lei.
«Per me, adesso, questa è casa mia, − dice orgogliosa la scrittrice di fama
mondiale, mostrando un gregge di pecore di notevoli dimensioni. – Scrivo
meglio, qui. Vivo meglio, qui. E qui voglio restare».
Johanne respirò un po’ piú sollevata.
Wencke Bencke non c’entrava nulla.
L’angoscia che la tormentava si era manifestata per la prima volta il 19
dicembre, la sera in cui Marianne Kleive era stata uccisa. Johanne sbatté le
ciglia e il numero 19 le apparve come una luminosa incisione verde sul retro
delle palpebre.
Quel maledetto numero 19.
Riaprí gli occhi, ma il suo sguardo era perso nel vuoto.
Squillò il telefono.
Eva Karin Lysgaard era stata assassinata il 24 dicembre.
Niclas Winter, di cui aveva letto sul giornale la notte prima, era morto il 27
dicembre.
Era morto. Non era stato ucciso. Era morto di overdose.
Il telefono non smetteva di squillare. Lo prese. Era Yngvar.
19, 24 e 27.
La somma delle cifre che compongono questi tre numeri è 25.
Mandare in overdose un drogato è un modo piuttosto noto per camuffare
un omicidio.
Il telefono smise di squillare. Dopo pochi secondi ricominciò.
− Pronto, − disse lei con voce piatta mentre accostava il telefono
all’orecchio.
− Ciao, tesoro. Ho visto che mi hai cercato un sacco di volte. Scusa se non
ti ho chiamato prima. Sono stato in riunione tutto il pomeriggio. Non
riusciamo ad arrivare da nessuna parte e…
− Non fa niente, − mormorò Johanne. − Non era nulla di importante.
− Va tutto bene? Hai una voce un po’… strana…
− No, no. Va tutto bene, davvero. Stavo… dormendo. Mi ha svegliato il
telefono. Credo che me ne andrò a letto.
− A quest’ora?
− Sonno arretrato. Ti dispiace se ci risentiamo in un altro momento? Non
vorrei che mi passasse il sonno…
− Ma certo…
La delusione di Yngvar era cosí palese che lei per poco non cambiò idea.
− Dormi bene, – aggiunse poi lui.
− Ciao, tesoro. Ci sentiamo domani mattina, okay? Buonanotte.
Restò seduta a lungo con il telefono muto in mano. Dallo stereo proveniva
la voce lamentosa di Toni Braxton che cantava Un-Break My Heart. Sentí il
motore di un’auto in folle in Hauges Vei. Il vento doveva aver cambiato
direzione, perché il costante e lontano ronzio del traffico in Maridalsveien e
sul frequentatissimo Ring si udiva con una nitidezza tale che era come avere
una tubatura che perdeva in bagno.
Anche se nell’articolo su Niclas Winter pubblicato dal «Dagens
Næringsliv» non si parlava esplicitamente delle sue tendenze sessuali,
leggendo fra le righe era possibile intuire molte cose. L’uomo era malato di
Aids: la causa poteva essere attribuita al suo abuso di eroina, ma non era da
escludere il sesso non protetto con altri uomini. L’installazione CockPitt, per
lo meno, dava da pensare in quella direzione.
Eva Karin Lysgaard era in effetti una donna eterosessuale, sposata e con un
figlio, ma si era anche distinta come una fervida sostenitrice dei diritti degli
omosessuali.
Marianne Kleive era sposata con un’altra donna.
Johanne si alzò dal divano e si rese conto di essere molto affamata.
Ma non piú impaurita.
Tracce

− Temo proprio che abbiamo perso la busta di Niclas Winter, − disse la


segretaria all’avvocato Kristen Faber entrando nel suo ufficio la mattina di
giovedí 15 gennaio. – Ho guardato dappertutto, ma non sono riuscita a
trovarla.
− Persa? Hai perso il fascicolo di un cliente?
L’avvocato Faber parlava a bocca piena; la farcitura al cioccolato della
brioche gli aveva impiastricciato il labbro superiore.
− Non ho piú preso in mano quella busta, dopo lunedí, − gli rispose la
segretaria senza scomporsi. – Quando l’ho data a te. In questa stanza.
− Porca miseria, − esclamò Kristen Faber. – Non dovrebbe essere difficile
trovare una busta cosí grossa, no?
− Naturalmente io nei tuoi cassetti non ho guardato, − continuò lei, sempre
impassibile. – Prova a controllare.
Infastidito, l’avvocato cominciò ad aprire i cassetti, uno dopo l’altro.
− L’avevo lasciata qui, sul mucchio di documenti nell’angolo, − brontolò.
– Devi averla spostata tu.
Invece di rispondere, la segretaria prese il piatto e se ne andò.
− Ehi! – gridò lui prima ancora che fosse arrivata alla porta. – La serratura
di questo si è inceppata! Mi hai rovinato la scrivania?
− No, − rispose lei. – Te lo ripeto, i tuoi cassetti non li ho toccati. Ma posso
provare ad aiutarti.
Posò il piatto e cercò di dargli una mano ad aprire il cassetto: anziché
strattonarlo come faceva Faber, lei tentò di disincastrarlo con delicatezza. Non
ottenendo risultati migliori, propose di scassinare la serratura.
− Con un tagliacarte, − disse con aria riflessiva. – O con un cacciavite.
Abbiamo una cassetta per gli attrezzi nell’archivio.
− Sei impazzita?
La scostò e tentò ancora una volta di aprire quel cassetto ostinato.
− Hai idea di quanto costa questa scrivania? Chiama un falegname. O un
fabbro. Non so chi si debba chiamare per riuscire ad aprire questo cassetto,
ma vedi di risolvere la faccenda prima che torni io, questo pomeriggio.
D’accordo?
Senza nemmeno guardarla in faccia, afferrò dei documenti e li infilò nella
sua valigetta, prese il cappotto dall’appendiabiti e una toga.
− Probabilmente non finiremo oggi, ma forse il giudice cercherà di
ottimizzare i tempi e allora farò un po’ tardi. Tu mi aspetti, vero? Ne avrò di
cose da farti verificare dopo l’udienza, e di lavoro da sbrigare fino a quel
momento ce n’è di sicuro.
La segretaria gli sorrise annuendo appena.
La porta sbatté alle spalle dell’avvocato. Lei si accomodò, prese la sua
tazza mattutina di caffè e i quotidiani del giorno e si mise a sfogliarli senza
fretta. Chiusa l’ultima pagina, si collegò a Internet e aprí l’edizione online di
«Veien til førerkortet», la strada per la patente di guida, il manuale di teoria.
Suo marito ormai ci vedeva poco e male, ed era arrivato il momento di
prendere la patente, prima che il suo fedele autista perdesse completamente la
vista.
Non si è mai troppo vecchi per nessuna cosa, pensò, e lei di tempo a
disposizione ne aveva molto.

Johanne aspettava impaziente che le lancette dell’orologio segnassero le


otto. L’ultima mezz’ora l’aveva trascorsa ad aggirarsi per casa a passo di
lumaca; non aveva la tranquillità necessaria nemmeno per leggere il giornale.
Era sveglia già dalle cinque, dopo sette ore di sonno profondo e ininterrotto.
Seguendo un impulso improvviso aveva tirato fuori l’attrezzatura da sci,
l’aveva caricata in auto ed era andata a Grinda per un giretto mattutino. Dopo
cinquecento metri, però, era tornata indietro: sulle piste illuminate era caduta
neve fresca e quindi i sottilissimi supersci che le aveva regalato Yngvar erano
inutilizzabili. Lei avrebbe preferito un paio di sci da fondo, ma il negoziante
era riuscito a convincere suo marito che oggigiorno nei boschi del Nordmarka
era il freestyle ad andare per la maggiore. Quando alla fine era tornata alla
macchina si era domandata se sarebbe stato possibile cambiare quei maledetti
stecchini. Per non parlare poi degli scarponi, cosí stretti intorno alle caviglie
da essere adatti allo slalom. A sciare lei non era mai stata brava, ma non aveva
alcuna ambizione di diventarlo.
Tanta fatica le aveva comunque fatto bene.
Si era preparata delle uova all’occhio di bue con il bacon per colazione e se
le era davvero gustate. Portandosi dietro una tazza di caffè andò a sedersi sul
divano. Posato per terra c’era il telefonino che aveva messo in carica: si
allungò, scollegò il caricabatteria, trovò il numero che cercava nella rubrica e
lo compose.
Risposero dopo il primo squillo: − Wilhelmsen, − disse una voce dal tono
impersonale.
− Ciao, Hanne. Sono Johanne. Come va?
Nella classifica dei modi piú sbagliati per iniziare una conversazione con
Hanne Wilhelmsen la domanda su come andavano le cose doveva essere al
primo posto.
− Bene, − si sentí rispondere Johanne. Il caffè le andò di traverso.
− Cosa? – chiese tossendo.
− Non c’è male. Grazie per il regalo di Natale per Ida, a proposito. E tu?
Come stai tu?
Johanne non poté fare a meno di pensare che Hanne Wilhelmsen doveva
aver fatto un corso accelerato in ordinaria buona educazione durante le feste.
− Bene, direi, ma sai… C’è sempre molto da fare. Yngvar lavora a Bergen
e sta via quasi tutta la settimana in questo periodo, faccio una gran fatica a
occuparmi delle bambine da sola.
E comunque Hanne non doveva aver fatto molti passi avanti con quel
corso, perché scese un silenzio di tomba all’altro capo del filo.
− Sarò breve, − aggiunse rapida Johanne. – Volevo solo chiederti se mi
potresti aiutare in una cosuccia, ecco…
− Cioè?
− Avrei bisogno… avrei bisogno di parlare con una persona affidabile che
lavori alla centrale di Oslo. Uno della sezione Crimini violenti e a sfondo
sessuale, possibilmente. Ancora meglio se in alto nella scala gerarchica.
− Me stessa sei anni fa, in altre parole.
− Esatto. Ma io…
− Perché ti sei rivolta a me? Yngvar è sicuramente in grado di indicarti la
persona giusta, no?
Johanne cercò di guadagnare tempo bevendo un sorso di caffè.
− Te l’ho detto, è a Bergen, − rispose alla fine.
− Esistono i telefoni.
− Sí, ma…
− È qualcosa che riguarda Kristiane?
Hanne rideva. «Sta proprio ridendo», pensò Johanne con crescente
stupore.
− Non esattamente, ma…
«Sí, – pensò. – Non voglio parlarne con Yngvar, non ancora. Non voglio
sentirmi fare domande critiche. Mi rifiuto di scontrarmi con obiezioni e
ipotesi contrarie di ogni tipo. Kristiane dev’essere protetta, risparmiata se
possibile. Prima voglio fare chiarezza da sola su tutta questa storia».
− È che lui tende sempre a credere che io sia…
− Un po’ isterica?
Ancora una volta quella lieve, insolita risata.
− Un po’ troppo pronta a credere che qualcosa non vada come dovrebbe? –
specificò Hanne. – È questo il vero problema?
− Forse.
− Silje Sørensen.
− Cosa? Chi?
− Parla con Silje Sørensen. Se c’è qualcuno in grado di aiutarti è lei.
Adesso devo andare. Sono molto impegnata.
− Impegnata?
Il pensiero che Hanne Wilhelmsen potesse essere molto impegnata nel suo
autoimposto esilio interiore in un appartamento di lusso nella zona bene di
Oslo era assurdo.
− Ho ricominciato a lavorare un po’, − spiegò lei.
− Lavorare?
− Che strano modo hai di parlare al telefono, Johanne. Un solo vocabolo
seguito dal punto di domanda. Sí, ho ricominciato a lavorare. Per me stessa.
Molto in piccolo.
− A… a cosa stai lavorando?
− Passa di qua un giorno che ne parliamo. Ma adesso ho davvero molto da
fare. Telefona a Silje Sørensen. Ciao!
La comunicazione si interruppe. Johanne non riusciva a credere a quel che
aveva appena sentito.
La sua amicizia con Hanne Wilhelmsen era iniziata per caso. Lei aveva
bisogno di aiuto per uno dei suoi progetti ed era andata a trovare il
riservatissimo ispettore capo. Per qualche strano motivo si era sentita la
benvenuta. Non si vedevano spesso, ma con il passare degli anni avevano
sviluppato un’amicizia silenziosa e attenta, senza fronzoli né doveri.
Non era mai capitato a Johanne di sentire Hanne come l’aveva appena
sentita.
Era rimasta cosí sorpresa da non averle nemmeno chiesto chi fosse questa
Silje Sørensen. E la cosa la irritava, poi però si ricordò di aver letto il suo
nome sul giornale. Era la responsabile delle indagini sull’omicidio di
Marianne Kleive.
Non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Probabilmente era ancora troppo presto per rintracciarla. Yngvar arrivava
di rado in ufficio prima delle otto e mezza, e lei suppose che valesse per tutte
le alte sfere al distretto di Oslo.
Quindi, con la sua tazza di caffè in mano, rimase sul divano ad aspettare il
sorgere del sole e a pensare che cosa mai potesse essere successo a Hanne
Wilhelmsen.

− Ma che cosa è successo? – bisbigliò Astrid Tomte Lysgaard quando aprí


la porta e si vide davanti Lukas.
Erano solo le undici del mattino e lui avrebbe dovuto essere al lavoro. A
guardarlo si sarebbe detto che aveva appena ricevuto la notizia di un’altra
morte.
− È che mi sento malissimo, − le rispose lui mentre entrava sulle gambe
malferme nell’ingresso. – Mal di gola. Febbre. Devo mettermi a letto.
− Mi hai spaventato, − gli disse Astrid portandosi l’esile mano al cuore
prima di allungarla verso di lui e carezzargli la guancia. – Sembri uno che ha
appena visto un fantasma.
− Sto male, − ribatté scontrosamente il marito, scostandola. – Da cani,
proprio.
− Per forza, te ne stai fuori tutta la sera. Con questo tempaccio. Difficile
non prendersi qualcosa.
Lui non la guardò nemmeno in faccia e andò nel soggiorno. Era una
fortuna che sua moglie avesse dato la colpa di quel malessere ai suoi lavoretti
serali nel garage freddo. Non aveva granché voglia di raccontarle della misera
spedizione sul tetto della casa di suo padre sotto la gelida pioggia di gennaio.
E ancor meno di raccontarle che era rimasto per piú di un quarto d’ora
nell’abitacolo a dir tanto tiepido di un’auto, bagnato fradicio e tutto intirizzito,
a farsi ingiuriare da Yngvar Stubø.
− Voglio un analgesico, − si lamentò. – E una Coca-Cola. Ce l’abbiamo
una Coca?
− Abbiamo tutti e due. Ho comprato del paracetamolo ieri, dopo che…
Si interruppe.
− La Coca è in frigo, − disse invece. – L’analgesico lo trovi nell’armadietto
delle medicine in bagno. Vuoi che ti prepari la borsa dell’acqua calda?
− Se potessi essere cosí gentile… Mi sento tutto…
Non era necessario che descrivesse piú approfonditamente il suo stato.
Aveva gli occhi rossi, il colorito ancor piú smorto del pallore ascrivibile alla
stagione, la pelle intorno alle narici paonazza e umida, le labbra screpolate;
agli angoli della bocca si era depositata una spessa secrezione biancastra e
quando lei gli si avvicinò cercando un bicchiere sentí che aveva un alito acido
e insano.
− Non sei poi tanto malato, Lukas – gli disse Astrid con un rapido sorriso.
La schiena di lui si ribellò quando, trascinando i piedi, se ne andò verso la
scala che portava al primo piano.
Astrid lo seguí in bagno. Mentre lui armeggiava con la serratura
dell’armadietto delle medicine, lei fece scorrere l’acqua aspettando che
diventasse davvero bollente prima di riempire la boule.
− Onestamente, − gli disse. – Non sei mica moribondo, Lukas. Smettila,
dài.
Senza risponderle, lui premette il blister facendone uscire tre pillole, se le
cacciò in bocca e le buttò giú bevendosi mezza lattina di Coca-Cola. Il volto
gli si contrasse in una smorfia per il dolore che gli diede deglutire. Si spogliò
strada facendo: i vestiti rimasero per terra come tracce di un percorso che
attraverso il corridoio portava fin dentro il fresco della sua camera. Arrivato lí
si lasciò cadere sul letto come se con quel gesto avesse esaurito le ultime
forze, si tirò il piumino fin sotto il mento e rotolò su un fianco.
− Qui c’è la tua borsa dell’acqua calda, − gli disse lei. – Dove te la poso?
Lui non rispose.
− Lukas, − esitò lei. – C’è una cosa di cui vorrei parlarti.
Il giorno prima, non sapere chi fosse la donna della foto che aveva trovato
nel cassetto chiuso a chiave l’aveva tormentata. Diverse volte era stata sul
punto di chiederlo al marito, ma qualcosa glielo aveva sempre impedito: i
bambini, la cena, i compiti, il solito garage. E quando finalmente erano
rimasti solo loro due erano già le dieci e mezza passate e Lukas aveva deciso
che doveva assolutamente vedere un programma televisivo su un negozio di
Los Angeles in cui facevano tatuaggi. Astrid era andata a letto e si era
addormentata prima che lui la raggiungesse.
Il giorno seguente, però, si era detta che avrebbe dovuto chiederglielo lo
stesso: se aveva permesso a qualunque altra cosa di ostacolarla era solo
perché si vergognava di aver aperto il cassetto del marito senza avergli prima
chiesto il permesso. Quella mattina era arrabbiata con sé stessa: non aveva
alcun motivo di vergognarsi, cercare medicine che erano state messe
sottochiave per ragioni di sicurezza era ben entro i limiti del lecito.
− Sto malissimo, − sentí gemere in risposta dal piumino.
− Volevo solo farti una domanda, − ribadí lei in tono un po’ piú deciso.
− Ah… mi sta andando via la voce, Astrid! Me la fai una tazza di latte e
miele? Per favore?
Per un attimo, lei si soffermò a chiedersi che cosa provasse esattamente.
Rassegnazione, pensò. Irritazione, forse.
Inquietudine.
− Sí, − gli rispose fiacca. – Certo che ti preparo una tazza di latte e miele.
Si chiuse silenziosamente la porta alle spalle e ridiscese in cucina. Quando
tornò con la tazza in mano lui dormiva già.

− Ecco qui, − disse Silje Sørensen a Johanne porgendole una tazza di


cioccolata calda. – Se bevo troppo caffè la mattina impazzisco, quindi per
cambiare tengo sempre un po’ di cioccolata calda.
− Grazie, − le rispose Johanne. – Che profumino. E grazie mille per avermi
ricevuto con un preavviso cosí breve.
− Pura curiosità! – La risata di Silje Sørensen non era proprio in stile con il
suo esile corpo. − Per prima cosa, ho sentito e letto tante cose su di te. E poi
avrei riservato un po’ del mio tempo a chiunque mi avesse mandato Hanne
Wilhelmsen. A proposito, come se la passa?
Johanne aprí la bocca per rispondere, ma se ne pentí subito.
A Hanne non sarebbe piaciuto che si parlasse di lei.
− Sai com’è… − disse invece stringendosi nelle spalle, nella speranza che
la vaghezza della risposta facesse cambiare argomento a Silje Sørensen.
A dire il vero avrebbe dovuto essere lei stessa a farlo.
− Dunque… − iniziò Johanne e si schiarí la gola. – Ecco… non saprei
proprio da dove cominciare.
− No?
− Sono una criminologa e lavoro come…
− So chi sei, − la interruppe Silje. – Te l’ho detto, no?
− Hai ragione. Sto lavorando a un progetto di ricerca sull’odio.
− Interessante.
Sembrava quasi sincera: la guardava dritta negli occhi e teneva la testa
leggermente inclinata, come se avesse tutti i sensi all’erta.
− Sui crimini generati dall’odio, − si corresse Johanne. – La Direzione
nazionale della polizia mi ha incaricato di scrivere una relazione esaustiva sui
cosiddetti crimini d’odio.
Silje Sørensen batté le palpebre. Posò la tazza sulla scrivania davanti a sé e
la scostò con prudenza. Socchiuse gli occhi e la punta rosa della sua lingua
guizzò fulminea tra le labbra.
− A-ha.
− Ovvero sulle aggressioni contro singoli individui nel caso in cui il
crimine sia motivato da…
− So benissimo che cosa sono i crimini d’odio.
Silje Sørensen deve avere il brutto vizio d’interrompere di continuo, pensò
Johanne.
− Ovvio, − annuí, − ovvio che lo sai.
E rimasero in silenzio per un tempo impressionantemente lungo, ognuna in
attesa che parlasse l’altra. Johanne si interrogava sull’età dell’ispettore capo.
Doveva essere piú giovane di lei, ma forse non cosí tanto. Sui trentacinque.
Magari anche meno. Era una donna curata e ben vestita, senza per questo
essere fuori posto in quell’ambiente.
«Delicata», pensò Johanne.
A lei mai in tutta la sua vita era capitato di sentirsi delicata.
Silje Sørensen aveva mani piccole con unghie cosí perfette che Johanne
non poté fare a meno di posare la tazza e nascondere le proprie infilandosele
sotto le cosce.
− Questi crimini d’odio che devi esaminare piú approfonditamente sono
indirizzati contro un gruppo ben definito o si tratta di una ricerca piú in
generale?
Silje si era chinata in avanti, teneva i gomiti posati sul piano della
scrivania.
− Sai cosa? − disse Johanne con un bel respiro. – Credo che comincerò
proprio dall’inizio. Ce l’hai una mezz’oretta per ascoltare una storia molto
particolare?
Un grosso diamante all’anulare sinistro brillò nella luce intensa dell’ufficio
nel momento in cui Silje Sørensen con un ampio e imperioso gesto della
mano le disse: − Prego! Sono tutta orecchi.
Johanne trangugiò quel che restava della cioccolata calda e iniziò il suo
racconto, senza sapere di avere dei grossi baffi marroni che non le donavano
affatto.

Yngvar non aveva ancora avuto notizie di Johanne e questo lo rendeva


piuttosto inquieto. Era tornato nella sua stanza d’albergo per prendere alcuni
appunti che aveva dimenticato quando la tentazione di sdraiarsi un attimo lo
aveva sopraffatto. In fondo in fondo sospettava di averli lasciati lí di
proposito, quegli appunti: il pranzo che servivano in albergo era molto piú
raffinato di quello che gli offrivano alla stazione di polizia di Bergen, e dal
momento che era incluso nella pensione completa non si sentiva nemmeno la
coscienza sporca.
Fatta eccezione per il budino al cioccolato.
Ne aveva prese due porzioni e una lieve nausea lo aveva convinto a cedere
al bisogno di una brevissima pennichella. Si sfilò le scarpe e si lasciò cadere
sul letto. Il materasso era un po’ troppo morbido per i suoi gusti, a maggior
ragione visto che si era sdraiato sopra il piumino e il copriletto, ma
sistemandosi meglio si sarebbe sicuramente addormentato.
E lui non voleva dormire.
Voleva parlare con Lukas.
Da quando lo aveva visto sul tetto, la sua impressione era che quell’uomo
giocasse con lui come il gatto col topo. Yngvar aveva deciso di non disturbare
ulteriormente Astrid dopo il loro triste incontro a Os, quindi aveva chiamato
piú volte Lukas al cellulare, ma partiva sempre la segreteria e l’altro non lo
richiamava mai. Alla fine Yngvar aveva telefonato all’università, ma lí
sapevano ben poco di dove fosse Lukas Lysgaard. Era evidente che lo
trattavano con grande indulgenza dopo la tragica perdita che aveva subito.
A Yngvar si chiusero gli occhi.
Lo preoccupava che Johanne non si fosse fatta viva.
Gli era sembrata cosí strana al telefono la sera prima.
Sobbalzò.
Non aveva tempo da perdere.
L’irritazione che lo scontroso figlio del vescovo suscitava in lui lo risvegliò
di colpo.
− Che tu lo voglia o no, se devi, devi, − borbottò stizzito tirando fuori il
numero di telefono della casa di Os. Lo digitò sul cellulare e poi accostò il
microfono all’orecchio. Squillò cosí a lungo che Yngvar fu sul punto di
interrompere la comunicazione.
− Casa Lysgaard, – rispose finalmente una gentile voce femminile.
− Buongiorno. Sono Yngvar Stubø. Mi dispiace averti disturbata martedí,
spero di non…
− Nessun problema, non preoccuparti. Immagino che alla fine tu sia
riuscito a trovare Lukas…
− Sí. Ma avrei davvero bisogno di parlare di nuovo con lui. Al cellulare
non risponde e cosí mi domandavo se tu sapessi dove posso trovarlo.
− È qui.
− A casa? A quest’ora?
− Sí. È malato. Solo un po’ di mal di gola, a dire il vero, ma ha anche la
febbre e… si sente proprio male, ecco.
− Ah.
In un lampo Yngvar si vide davanti il Lukas Lysgaard di due giorni prima,
bagnato fradicio e che batteva i denti.
− Posso aiutarti io?
− No, non credo proprio.
Sentí rumore d’acqua che scorreva e il colpo di un’anta che veniva
richiusa.
− Anzi sí, − si corresse all’improvviso. – Si tratta solo di un piccolo
dettaglio. Niente di importante, in effetti, ma non vorrei disturbare un uomo
malato e quindi forse puoi aiutarmi tu. Riguarda tua suocera, il suo… rifugio
privato.
Rise di cuore. All’altro capo del filo un gran silenzio.
− Parlo di quella stanza al piano terra che usava quando non riusciva a
dormire. Dove…
− Ce l’ho presente, quella stanza. Non ci sono praticamente mai entrata.
Qualche volta, forse. Di cosa si tratta?
− Ci sono quattro fotografie là dentro, − spiegò Yngvar in tono lieve. –
Due, tre foto di famiglia e un ritratto, se ricordo bene. Mi domandavo solo di
chi fosse quel ritratto.
− La donna che…
Di colpo la voce femminile ammutolí, come se fosse stata tagliata con le
forbici.
− Pronto? – disse Yngvar. – Pronto?!
− Sí. Sí, ci sono. No, non so chi sia. Posso chiederlo a Lukas quando si
sveglia.
− No, no, non tormentarlo con queste inezie. Lo richiamo io fra un paio di
giorni.
− Qualcos’altro?
− No. Auguragli una rapida guarigione.
− Grazie, lo farò. Buona giornata.
La comunicazione si interruppe prima ancora che lui avesse il tempo di
ricambiare il saluto. Posò il telefono e si sdraiò di nuovo sul letto, con le mani
dietro la nuca.
Per lo meno adesso sapeva che la fotografia ritraeva una donna.
Provò una punta di rimorso al pensiero che in effetti aveva ingannato
Astrid, ma la cattiva coscienza smise di rimordergli non appena si rese conto
che probabilmente anche lei aveva mentito a lui. Quella frase interrotta a metà
era un indizio chiaro: le era venuto in mente qualcosa.
Qualcosa che non desiderava condividere con lui.
Se non altro, questo poteva significare che Yngvar era sulla strada giusta.
La detective riluttante

I suoi boxer erano sul pavimento. Tracce di diarrea erano disgustosamente


evidenti anche su quel cotone verde scuro. Lei li afferrò per l’elastico,
pinzandoli tra pollice e indice, e andò in bagno per metterli nel cesto della
biancheria sporca. Visto che, a quanto pareva, Lukas aveva avuto problemi di
stomaco i suoi pantaloni avrebbero fatto la stessa fine. Erano buttati per terra
proprio davanti alla porta chiusa della camera da letto. Le calze le aveva
raccolte strada facendo. Con quel fagotto di vestiti sotto braccio aprí
silenziosamente la porta ed entrò.
C’era odore di malattia.
Alito cattivo, sonno e flatulenze mescolati avevano creato un’esalazione
che la costrinse a spalancare la portafinestra del balcone. Si riempí i polmoni
di aria fresca, inspirando profondamente un paio di volte, poi si girò verso il
marito.
Dormiva un sonno cosí profondo che non si era nemmeno accorto del
fracasso quando lei aveva faticato ad aprire la portafinestra, né dell’aria gelida
che era entrata nella stanza. Il piumino si sollevava con lenta regolarità e
Astrid gli scorgeva a malapena la sommità del capo. L’attaccatura dei capelli
di Lukas era arretrata sempre piú nell’ultimo paio d’anni, ma era la prima
volta che le capitava di notare che stava diventando calvo. E questo fece
scattare qualcosa dentro di lei. Aveva un’aria cosí fragile, lí sdraiato.
− Lukas… − lo chiamò a bassa voce avvicinandosi al letto.
Lui continuava a dormire.
Astrid si sedette sul bordo del letto e lo accarezzò delicatamente sulla testa.
− Voglio dormire, − mormorò lui e schioccò le labbra. – Va’ via.
− No, Lukas. Fra poco vado a prendere i bambini, e c’è una cosa di cui
vorrei parlare con te, a quattr’occhi. Una cosa importante.
− Aspetterà. Ho cosí male a… – deglutí sonoramente e gemette, − alla
gola!
− Ha telefonato Yngvar Stubø.
Il piumino smise di sollevarsi e abbassarsi. Astrid si accorse che lui si era
irrigidito e lo accarezzò di nuovo sulla testa.
− Mi ha fatto una domanda molto strana, − gli disse a bassa voce. – E io ho
una domanda da fare a te.
− La gola… Mi brucia…
− Ieri, − iniziò lei, poi si schiarí la voce. – Ieri mattina ero tormentata dal
mal di testa, e visto che non avevamo piú analgesici ho pensato di prendermi
una delle tue pillole per l’emicrania.
Di colpo lui si mise a sedere.
− Ma sei matta! – sibilò. – Quelle pillole non si possono acquistare senza
ricetta e sono solo per me! Non so nemmeno se funzionino contro i mal di
testa diversi dall’emicrania!
− Stai tranquillo, − le disse lei in tono rassicurante. – Non le ho prese. Ma
devo ammettere che ho aperto il tuo cassetto e…
− Che cosa hai fatto?
La voce gli si incrinò.
− Volevo solo…
− Facciamo di tutto e di piú per insegnare ai bambini che non si toccano le
cose degli altri, − disse roco, effettivamente sul punto di restare senza voce, −
che non si aprono le lettere degli altri, che non si guarda nei comodini degli
altri, e poi… poi tu…
I pugni colpirono sordi il piumino.
− Lukas, − disse lei con grande tranquillità. – Lukas, guardami.
E quando finalmente lui si decise ad alzare lo sguardo, Astrid trasalí.
− Dobbiamo parlare, − gli sussurrò. – Tu hai cominciato a nascondermi
delle cose, ad avere dei segreti, Lukas.
− Non ho avuto scelta.
− Una scelta ce l’abbiamo sempre. Chi è la donna del ritratto in camera di
tua madre? E perché hai tolto quella fotografia dalla cornice e l’hai chiusa a
chiave nel tuo cassetto?
Posò la mano sulla sua. Era fredda e sudaticcia, anche sul dorso. Lui non la
ritrasse, ma neanche la aprí per stringere quella della moglie.
− Credo di avere una sorella, − le bisbigliò.
Astrid non aveva capito le sue parole.
− Credo di avere una sorella, − ripeté lui con voce stridula. – Una sorella
maggiore che è sicuramente figlia di mia madre. E forse anche di mio padre.
Nata quando erano molto giovani.
− Io credo che tu sia impazzito, − ribatté mite Astrid.
− No. Dico sul serio. Quella fotografia c’è da molto tempo e io non ho mai
saputo di chi fosse. Una volta ho chiesto a mia madre…
Un violento colpo di tosse lo costrinse a chinarsi in avanti. Astrid gli lasciò
la mano, ma non si alzò.
− Ho chiesto a mia madre chi fosse. Non mi ha risposto. Ha detto solo che
era un’amica che non conoscevo.
− Sarà stato vero.
− Perché mai mia madre avrebbe dovuto tenere sul comodino la fotografia
di una ragazza che io non ho mai visto se non perché è mia sorella? Nelle
altre foto ci siamo io e mio padre.
− Ho conosciuto tua madre dodici anni fa, Lukas. Eva Karin era la persona
piú onesta, piú bella e assolutamente piú perbene che io abbia mai incontrato.
Non avrebbe mai, mai tenuto segreto un figlio. Mai.
− Potrebbe averla data in adozione! Non ci sarebbe stato nulla di
biasimevole! Al contrario: questo spiegherebbe perché fosse cosí categorica a
proposito dell’aborto e…
La voce lo abbandonò e lui si portò una mano alla gola.
− Che cosa ti ha chiesto Stubø? – sussurrò con un filo di voce.
− Chi c’era in quella fotografia.
− E tu cos’hai risposto?
− Niente.
− Niente?
− Ho risposto che non lo sapevo. Ed è vero. Io non so chi sia. Ma se questo
può essere importante per le indagini, allora tu devi parlarne con Stubø.
− È impossibile che c’entri con le indagini! Non voglio pubblicità su
questa faccenda. È l’ultima cosa che la mamma avrebbe voluto!
− Ma Lukas, − gli disse lei tranquilla, stringendogli di nuovo la mano. –
Perché credi che a Stubø interessi tanto quella foto, allora? È evidente che
secondo lui può essere importante per le indagini. E noi vogliamo che
risolvano il caso il prima possibile, no Lukas? Eh?
Lui non rispose. La sua espressione imbronciata con lo sguardo rivolto
verso il basso le ricordava cosí tanto quella del figlio maggiore che Astrid non
poté fare a meno di sorridere.
− Mio padre l’aveva tolta, − mormorò Lukas.
− E quando?
− Il giorno dopo l’omicidio. È stato quando Stubø è venuto per la prima
volta, ha fatto confusione e si è infilato nella camera della mamma. A quanto
pare si è accorto che qualche giorno dopo quella fotografia non era piú al suo
posto.
Afferrò una manciata di kleenex da una scatola che lei gli aveva
appoggiato sul comodino e si soffiò ben bene e a lungo il naso.
− E tu dove l’hai trovata? − gli chiese. − Visto che è stato Erik a toglierla?
− È una lunga storia, − rispose lui sventolando i fazzoletti di carta sporchi.
– E adesso ho proprio bisogno di dormire, Astrid. Davvero. Mi sento uno
straccio.
Lei rimase seduta sul letto. Le folate d’aria che entravano dalla
portafinestra erano cosí violente da far sventolare il giornale appoggiato sul
comodino. Aveva ricominciato a piovere e il rumore delle gocce pesanti sulla
pavimentazione del balcone la costrinse ad alzare la voce quando, dopo aver
battuto un paio di colpetti sul piumino, disse: − Va bene. Ma riprenderemo il
discorso.
Lui si rituffò sotto il piumino e si girò di spalle.
− Ti dispiace chiudere la portafinestra?
− Certo che te la chiudo, − gli rispose lei.
Ma il legno della cornice si era deformato durante quel lunghissimo
periodo di piogge ininterrotte e chiudere del tutto la portafinestra era
diventato impossibile. Astrid la lasciò socchiusa e uscí dalla camera da letto
con i pantaloni e i calzini sporchi di Lukas sotto braccio.
Il telefono squillava al piano di sotto.
Sperò quasi che fosse Yngvar Stubø.

− Hai parlato con tuo marito di… Yngvar Stubø lo sa?


Silje Sørensen aveva ascoltato Johanne per quasi tre quarti d’ora. Di tanto
in tanto aveva preso qualche appunto o fatto qualche domanda. Per il resto si
era limitata ad ascoltare, sempre piú interessata.
Man mano che Johanne proseguiva nel suo coerente eppure incredibile
racconto, aveva notato un lieve rossore diffondersi sulla gola dell’ispettore
capo, e ora vedeva chiaramente il battito del cuore nell’incavo della gola.
− No, − rispose a Silje dopo una pausa quasi impercettibile. – Al momento
si trova a Bergen.
− Lo so, ma tutto questo è… – Silje si lisciò i capelli con una mano. Il
diamante brillò. − Vediamo se riesco a riassumere correttamente la questione.
Teneva una penna blu fra l’indice e il medio.
− I cosiddetti «The 25’ers», − iniziò, − sarebbero un’organizzazione di cui
si sa molto poco. Secondo la tua teoria sarebbero venuti qui in Norvegia per
ragioni a te ignote e avrebbero cominciato a uccidere omosessuali o
simpatizzanti omosessuali secondo un calendario prestabilito basato sui
numeri 19, 24 e 27, numeri mistici che a loro volta avrebbero a che fare
rispettivamente con il Corano e con due versetti della lettera di san Paolo ai
Romani.
Alzò appena lo sguardo dai suoi appunti.
− Sí, − confermò in tono mite Johanne.
− Lo sai che sembra una follia, sí?
− Sí.
− E non ti chiedi come mai io sia stata qui ad ascoltare tutto questo per
quasi… – lanciò una rapida occhiata al suo Omega in oro e acciaio, − un’ora?
− Sí.
Johanne si infilò di nuovo le mani sotto le cosce. Era pentita. Ovviamente
era con Yngvar che avrebbe dovuto parlare: Yngvar che la conosceva, che
sapeva cos’era in grado di fare e in che modo ragionava. Aveva cominciato a
sudare e si sentiva trasandata come non le capitava da molto tempo, in
compagnia di quell’ispettore capo con le unghie lunghe e i capelli che
dovevano essere stati acconciati da un parrucchiere non piú di qualche ora
prima.
Silje Sørensen si alzò.
Aprí un cassetto della scrivania. Era talmente bassa che non aveva quasi
bisogno di chinarsi. A Johanne passò per la testa che doveva essere stato
difficile per lei superare le prove fisiche necessarie per entrare alla scuola di
polizia. Silje Sørensen restò in silenzio per un attimo a esaminare non si sa
cosa – da dov’era, Johanne non riusciva a vedere – poi richiuse il cassetto e si
avvicinò alla finestra.
− E per quanto riguarda il 27 dicembre non hai nessun omicidio, − le disse
dandole le spalle. – È solo un’ipotesi, quella su…
La pausa durò cosí a lungo che fu Johanne a completare la frase: − Niclas
Winter.
− Questo Niclas Winter sarebbe stato ucciso, anziché morire per
un’overdose.
Johanne si domandò se non fosse il caso di ringraziare e andarsene. Aveva
la borsa a tracolla posata accanto ai piedi, semiaperta, all’interno si vedeva il
cellulare con tre chiamate perse.
− E per di piú, − proseguí Silje Sørensen all’improvviso e a voce cosí alta
da farla sobbalzare, − le esperienze degli americani starebbero a indicare che
questi tizi ucciderebbero solo omosessuali e non simpatizzanti omosessuali.
Giusto?
− Ma ne sanno cosí poco di loro e…
− Sai se si sentono vincolati dalle date?
− Sí!
Johanne aveva quasi gridato.
− Ho telefonato a una mia… – si interruppe: aveva già abbastanza
problemi di credibilità senza tirare in ballo anche un’amica.
− Ho telefonato all’avvocato Karen Winslow dell’Aplc, − si corresse. –
Questo studio di cui ti parlavo.
Ed era vero. Mentre andava in centrale Johanne aveva sentito il bisogno di
rimpolpare un po’ la sua storia striminzita e aveva chiamato Karen negli Stati
Uniti. Solo quando l’amica aveva risposto le era venuto in mente che in
Alabama era ancora notte, ma Karen l’aveva rassicurata dicendole che non
importava: tanto, aveva ancora il jet lag.
− Come ho già detto, sono degli studiosi di numerologia ad avere scoperto
a cosa rimanda il nome «The 25’ers». Ovviamente avranno delle basi su cui
fondare le loro ipotesi, qualcosa su cui sviluppare le loro teorie. Tutti e sei gli
omicidi che al momento mettono in rapporto con questa organizzazione sono
stati compiuti il 19, il 24 o il 27. Questo mi ha detto l’avvocato Winslow.
Si passò la mano sotto il naso e aggiunse imbarazzata: − Adesso.
Stamattina.
Silje Sørensen tornò alla sua scrivania. Aprí un cassetto, ci guardò dentro.
All’improvviso si sedette, lasciando il cassetto aperto.
− Se fossi venuta una settimana fa, − le disse, − ti avrei gentilmente
mandato via dopo i primi cinque minuti. Se oggi non l’ho fatto è perché…
Si guardarono. Johanne si mordicchiò un labbro.
− Non so bene quanto sia corretto o giusto parlartene, − le disse Silje
Sørensen senza staccare gli occhi dai suoi. – Tu non hai niente a che fare con
la polizia. Da un punto di vista formale, intendo.
Johanne restò in silenzio.
− Però… parto dal presupposto che qualcuno di molto importante ti abbia
dato carta bianca per questo tuo progetto di ricerca. Do per scontato che tu sia
stata ampiamente autorizzata a esaminare la documentazione delle nostre
cause penali, per lo meno nei casi di sospetti crimini d’odio.
Johanne aprí la bocca per protestare. Silje sollevò una mano per fermarla.
− «Suppongo», ho detto! Non ti ho chiesto conferma. Ti sto solo facendo
presente una mia supposizione. Cosí posso farti vedere questo.
Dal cassetto rimasto aperto tirò fuori un foglio. Restò seduta a guardarlo
per un attimo, poi si allungò sopra la scrivania, straboccante ma ordinata, e lo
porse a Johanne.
Lei prese il foglio e si sistemò meglio gli occhiali sul naso.
Sul foglio erano scritti tre nomi e tre date.
− Di Marianne Kleive ho sentito parlare, − disse. – Ma gli altri due non so
proprio…
− Runar Hansen, − la interruppe Silje Sørensen. – Picchiato e ucciso nel
Sofienbergparken il 19 novembre. Hawre Ghani. Un rifugiato minorenne
che…
− Nel Sofienbergparken? – la interruppe Johanne. – Nella zona orientale o
occidentale del parco?
− Orientale, − rispose Silje con un sorriso quasi impercettibile. – E di
Hawre Ghani forse hai sentito parlare: il cadavere ripescato nella darsena
l’ultima domenica di avvento.
Johanne si sentiva la bocca secca. Si guardò intorno alla ricerca di
qualcosa da bere, ma vide solo uno strato marrone e coagulato sul fondo della
tazza di cioccolata.
− Lui era… − disse Silje e tirò il fiato in una pausa ad effetto, − fra l’altro,
a parte essere minorenne si prostituiva.
− Ho bisogno di bere, − disse Johanne.
− Non sappiamo con esattezza quando sia stato ucciso, ma sono molti gli
indizi che farebbero pensare al 24 novembre. Quel giorno abbiamo un
testimone che lo ha visto allontanarsi con un cliente, dopodiché è sparito. La
data coinciderebbe con quanto presunto dal medico legale.
− Vado un attimo in bagno, − disse Johanne. – Ho davvero bisogno di bere.
− Ecco qui, − le disse Silje Sørensen prendendo una bottiglietta d’acqua
minerale Farris dall’armadio alle sue spalle. – Immagino ti faccia una certa
impressione. Ci hai messo meno tempo tu di noi a fare due piú due. Tutto
questo ha…
− Vi manca un omicidio il 27 novembre, − disse Johanne.
Aveva sempre piú caldo. Il tappo della bottiglietta non voleva svitarsi. −
Potrebbe essere tutta una coincidenza, − aggiunse e sentí la propria voce
incrinarsi quasi.
− A questo non credi neanche tu. E poi ti sbagli. Non ci manca un omicidio
il 27 novembre. Quando io e il mio collega martedí scorso abbiamo notato
questo strano collegamento fra tre dei casi che mi sono stati affidati…
Di colpo si sporse sulla scrivania e con la mano fece cenno alla bottiglietta.
Johanne gliela diede e con un deciso movimento rotatorio Silje svitò il tappo.
Le porse la bottiglietta e proseguí: − La situazione è critica, se a un solo
ispettore capo vengono affidati tre casi. In effetti ne avevo addirittura quattro,
ma l’ultimo l’ho passato a un collega. Un caso di cui non mi sono occupata
sul serio fino a quando non l’ho dato a un altro. Si tratta del sospetto
sabotaggio di una macchina finita fuori strada nella Maridalen: nessuno
rispetta i limiti di velocità sulla strada del lago, anche se è mortalmente
pericolosa, e infatti la conducente è rimasta uccisa nell’impatto. All’inizio il
caso è stato considerato un banale incidente d’auto, poi però si è scoperto che
i freni potevano essere stati… manomessi. In un certo senso io questo lo
sapevo già; quello che invece non sapevo era che la vittima, Sophie Eklund,
una svedese, fosse la compagna di Katie Rasmussen.
A Johanne ci volle qualche secondo. Si era già bevuta metà bottiglietta
d’acqua.
− La parlamentare, − disse alla fine. – La portavoce omosessuale del
partito laburista.
− Esatto.
− Credi che… il sabotaggio mirasse a lei? A Katie Rasmussen? E che… la
sua compagna sia morta per errore?
− Io non so niente e non credo niente. Ti sto solo dicendo che la tua
assurda teoria mi sembra calzare un po’ troppo per poterla negare.
− Naturalmente potrebbe trattarsi di qualcun altro, − disse Johanne. – Di
un’altra organizzazione. O di imitatori. O di…
− Ascolta, − le disse l’ispettore capo. – Ascoltami bene.
Posò i gomiti sulla scrivania e giunse le mani palmo contro palmo.
− Tu hai una buona reputazione, Johanne. Molti qui sono al corrente del
lavoro che hai fatto per la Kripos senza nemmeno riceverne in cambio onore e
gloria. Mi sei rimasta impressa soprattutto quando la polizia criminale ha
risolto il caso di quei bambini uccisi, anni fa. Che sia stato il tuo contributo a
salvare la vita di una delle bimbe rapite non è certo un segreto nel nostro
ambiente.
Johanne la fissava inespressiva. Non capiva dove Silje Sørensen volesse
andare a parare.
− Ma si dice anche che tu sia piuttosto…
Raddrizzò la schiena e socchiuse gli occhi per trovare la parola piú adatta.
− … riluttante, − completò. – Lo sai come ti chiamano, alla Kripos?
Johanne si portò la bottiglietta alle labbra e bevve. A lungo.
− La detective riluttante.
La risata di Silje era fragorosa, calda e contagiosa.
Johanne sorrise e si decise finalmente a riavvitare il tappo della bottiglietta.
− Non lo sapevo, − commentò in tutta onestà. – Yngvar non mi ha mai
detto niente.
− Forse non lo sa nemmeno lui. Il punto è… che sei venuta qui e mi hai
dimostrato che la tua reputazione è ben meritata. Prima ti lanci in una teoria
che sembra presa da un film americano di serie B, poi quando ti dico che
potrebbe esserci qualcosa di vero ecco che cerchi di abbandonare l’idea.
Dev’essere possibile…
Si udirono forti grida in corridoio. Una voce d’uomo che ruggiva qualcosa,
poi un urlo di donna seguito da passi di corsa. Johanne guardò terrorizzata
verso la porta chiusa.
− Qualcuno che cerca di svignarsela, − le spiegò Silje tranquilla. – Non ci
riuscirà.
− Forse dovremmo dare una mano? O…
− Tu e io? Non credo proprio!
Dovevano aver acciuffato e reso inoffensivo il fuggiasco, perché di colpo
ridiscese il silenzio. Johanne giocherellava con il bordo lavorato a maglia
elastica del golf quando le cadde lo sguardo su un calendario alle spalle di
Silje Sørensen. Un anello rosso magnetico intorno a giovedí 15 gennaio.
− Indipendentemente dalla mia teoria, − disse adagio, − è comunque un
dato di fatto che sono stati commessi in totale sei omicidi che hanno… un
qualche collegamento con… l’omosessualità, nei giorni 19, 24 e 27 sia di
novembre sia di dicembre. Oggi è il 15 gennaio.
Aveva lo sguardo ancora incollato all’anello rosso. Quando batté le
palpebre quel cerchio le rimase impresso sulla retina come una o verde.
− Esatto, − commentò Silje Sørensen. − Fra quattro giorni è il 19 gennaio.
Può darsi che i tempi stringano.
Quel pensiero non aveva nemmeno sfiorato Johanne prima di allora. Le si
accapponò la pelle delle braccia e non poté fare a meno di abbassarsi le
maniche del maglione.
− Avete qualche traccia? Qualcosa? A sentire Yngvar, non stanno facendo
nessun progresso a Bergen…
Silje Sørensen sporse il labbro inferiore e inclinò appena la testa prima da
una parte poi dall’altra, come non fosse sicura se quella a cui stava pensando
si potesse definire una traccia. Aprí tre cassetti prima di trovare quello giusto
e tirarne fuori un plico di disegni. Quindi richiuse il cassetto con un colpo
secco, si alzò e andò al pannello di sughero.
− Abbiamo questo, − disse. – L’identikit dell’uomo che stava cercando di
comprare sesso da Hawre Ghani l’ultima volta che è stato visto in vita.
Fissò i disegni al pannello con delle puntine di un rosso acceso. Johanne si
alzò e aspettò che tutti e quattro i fogli fossero stati attaccati. Un ritratto a
figura intera, un volto visto di fronte, un volto di profilo e uno strano
dettaglio, qualcosa che ricordava un bavero con un marchio sopra.
− Tutto bene?
La voce di Silje sembrava arrivare da molto, molto lontano.
− Johanne!
Qualcuno l’afferrò per un braccio. Si sentiva la testa cosí leggera da avere
la sensazione che si sarebbe staccata e sarebbe volata contro il soffitto come
un palloncino, se non si fosse ripresa in fretta.
− Siediti! Per carità, siediti!
− No, voglio stare qui, in piedi.
Perfino la sua stessa voce le sembrava lontana.
− Hai… Sai chi è, Johanne?
− Chi ha fatto questo identikit?
− Il nostro disegnatore di fiducia, si chiama…
− No, non intendevo quello. Sulla testimonianza di chi si basa questo
identikit?
− Di un ragazzo. Un ragazzo di strada. Che si prostituisce. Conosci
quest’uomo?
Silje teneva ancora Johanne per il braccio. Glielo strinse piú forte.
− Gli ho dato uno schiaffo, − disse Johanne.
− Che cosa?
− O il tuo testimone mi sta giocando un brutto scherzo, oppure è un
osservatore molto acuto. Quest’uomo non lo dimenticherò mai. Lui…
Il sangue aveva ricominciato a irrorarle la testa. Si sentiva lucida come non
le capitava da tempo. Una strana serenità scese su di lei, come se avesse
deciso che cosa voleva e in che cosa credeva.
− Ha salvato la vita di mia figlia, − disse. – Ha salvato Kristiane che stava
per essere travolta e uccisa da un tram, e io come ringraziamento gli ho dato
uno schiaffo.

La segretaria dell’avvocato Kristen Faber aveva infine trovato il tempo di


scassinare il cassetto della scrivania del suo datore di lavoro. Naturalmente
non c’era stato bisogno di nessun fabbro né falegname: era bastata una mossa
decisa dopo aver infilato nella serratura un coltellino tascabile che teneva per
decorazione sulla scrivania. Si era sentito uno scatto metallico e il cassetto si
era aperto.
Ecco lí la busta: grande e marrone, con scritto sopra a mano il nome di
Niclas Winter e il suo codice fiscale. Era stata sigillata come si faceva un
tempo, con timbro e ceralacca; a ulteriore garanzia contro eventuali
manomissioni indesiderate avevano apposto un’illeggibile firma di traverso
sulla linguetta incollata della busta.
Quando Kristen Faber aveva rilevato l’attività dell’avvocato Skrøder, si era
ritrovato in possesso di parecchie cose. Ulrik Skrøder aveva lavorato in
avanzato stato di demenza senile per sei mesi, prima che il figlio riuscisse
finalmente a farlo dichiarare incapace di intendere e di volere e a vendere lo
studio. O almeno, questa era la versione ufficiale. A lei, cui era stato affidato
l’incarico di sistemare e mettere da parte tutte le cause già prescritte o ai limiti
della prescrizione, pareva che il vecchio Skrøder fosse in stato confusionale
da diversi anni: il disordine regnava sovrano ovunque e ci erano voluti mesi
per fare una prima, grossolana cernita.
Una volta portato a termine quel lavoro, l’avvocato Faber si era reso conto
di aver pagato un prezzo eccessivo per rilevare l’attività. I casi aperti erano
molti meno di quanti si fosse immaginato e i clienti si erano rivelati in gran
parte coetanei di Ulrik Skrøder. Erano morti uno dopo l’altro, anziani e molto
anziani, con ogni cosa fastidiosamente a posto e nessun bisogno di un legale.
Sei mesi dopo Kristen Faber aveva vinto la causa per il rimborso di metà della
somma corrisposta.
La segretaria comprendeva bene la frustrazione del suo datore di lavoro
per quell’acquisto a scatola chiusa, ma non poteva trattenersi, di tanto in
tanto, dal rammentargli la presenza di tante buste sigillate rinchiuse dentro un
armadio dell’archivio. Alcune sembravano vetuste; il figlio dell’avvocato
Skrøder sosteneva che potessero custodire i documenti di svariate grandi
fortune, documenti che erano stati dati in custodia al padre da alcuni membri
delle famiglie piú ricche e nobili della città. Il vecchio aveva sempre
affermato che quel massiccio armadio in legno di quercia pieno di documenti
confidenziali era la prova della sua buona reputazione. Dal momento che si
trattava di buste sigillate, tutte quante, con scritto sopra a mano il nome del
proprietario delle carte che contenevano, Kristen Faber si era limitato ad
aprirne dieci o dodici nel periodo di massima disperazione per aver acquistato
un’attività che non rendeva nemmeno un po’.
Oltre a certificati azionari di società che non esistevano piú, contratti
matrimoniali fra coniugi morti da tempo e un plico di banconote che avevano
ormai perso ogni valore, aveva trovato il manoscritto di un romanzo vergato
da uno sconosciuto, ma dopo sole dieci pagine lui stesso si era reso conto che
non valeva assolutamente nulla. A quel punto aveva richiuso l’armadio di
botto e deciso di dimenticare quella bruciante sconfitta, rimboccarsi le
maniche e procurarsi il lavoro da sé.
L’armadio era semplicemente rimasto lí, chiuso.
Era stata la segretaria a riaprirlo per la prima volta dopo quasi nove anni
quando il giovane Niclas Winter aveva telefonato. Sembrava frustrato, ed era
stato piuttosto sgarbato quando aveva chiesto se era possibile che nel loro
archivio fosse custodita una busta a suo nome. Visto che le sue giornate non
avevano un ritmo frenetico e che era curiosa per natura, lei aveva dato
un’occhiata. E l’aveva trovata. Guardandola piú attentamente ci si rendeva
conto che in effetti sembrava piú recente delle altre buste conservate
nell’armadio.
La segretaria la sollevò in controluce.
Vedere quel che c’era dentro era impossibile. Niclas Winter non aveva
minimamente accennato al suo contenuto, quando lei gli aveva telefonato
prima di Natale per avvisarlo del ritrovamento e lui l’aveva inondata di
schioccanti baci a distanza.
La tentazione di violare il sigillo era quasi irresistibile. Posò il palmo sulla
carta spessa: buste del genere erano facili da aprire con il vapore, ma il sigillo
rappresentava un problema.
Con un leggero sospiro portò la busta sulla scrivania di Kristen Faber e
tornò alla sua postazione.
Comunque, non si sarebbe certo persa il momento in cui lui l’avrebbe
aperta.
− Non possiamo servircene apertamente, non ancora, − disse Silje
Sørensen, e posò il palmo sopra l’identikit dell’uomo misterioso coprendolo
del tutto. – Nel caso in cui decidessimo di rendere pubblica questa immagine,
perderebbe ogni valore. Tutti si farebbero le loro idee e opinioni in proposito
e ci subisserebbero di segnalazioni. E noi, lo dico per esperienza, finiremmo
per impantanarci prima ancora di aver ottenuto qualcosa di fondamentale con
questo sistema. Al contrario…
Osservò il ritratto per qualche secondo ancora, poi tornò a sedersi.
− Adesso abbiamo un asso nella manica. Abbiamo qualcosa di cui non sa
niente nessuno.
Johanne annuí. Una volta che si era ripresa dall’aver riconosciuto l’uomo
dell’identikit, avevano ripercorso tutta la storia passo per passo. In quel
momento lei era a metà della seconda bottiglietta d’acqua minerale Farris e
stava cercando di soffocare un ruttino.
− Tu non hai alcun dubbio, sei sicura?
Sarà stata la terza volta che Silje Sørensen glielo chiedeva.
− Sono sicurissima che quell’identikit ritrae un uomo che somiglia come
una goccia d’acqua a quello che ha salvato Kristiane, questo sí. È come se
fosse stato lui a fare da modello. Ma che si tratti effettivamente della stessa
persona, non potrei garantirlo, te l’ho detto. Il punto è che…
L’aria che le si era accumulata nell’esofago salí e si trasformò in un rutto.
− Scusa, − disse Johanne con la mano a pugno davanti alla bocca. – Il
punto è che cominciano a esserci cosí tanti collegamenti che ormai non si può
piú parlare di semplici coincidenze. Aver stabilito che l’uomo con cui è stato
visto Hawre Ghani per l’ultima volta si trovava anche sulla scena del crimine
di Marianne Kleive non può che essere considerato una svolta importante
nelle indagini. In tutte e due le inchieste, a mio parere.
− Potresti venire a lavorare qui da noi.
Silje le sorrise rapida. Una ruga le attraversava di nuovo la fronte tra le
sottili sopracciglia quando aggiunse: − Già che sei in vena di brillanti
rivelazioni, non è che mi sapresti dare anche una spiegazione su questo
simbolo?
Con un dito le indicò il disegno.
− Ci ha confuso parecchio.
− Era proprio quello lo scopo, − disse Johanne. – Non siamo piú nell’epoca
dei baffi posticci e dei capelli tinti. Hai visto Delitto per delitto di Hitchcock?
La ruga di Silje si fece piú marcata.
− Due sconosciuti si incontrano su un treno, − raccontò Johanne. –
Entrambi hanno qualcuno che vorrebbero uccidere, cosí uno dei due
suggerisce all’altro di scambiarsi la vittima, in modo da procurarsi alibi a
prova di bomba. In quel caso, infatti, gli omicidi non avrebbero nessun
movente, e come noi sappiamo bene è il movente la cosa che voi della polizia
cercate per prima.
Per la seconda volta nel giro di poco tempo la sfiorò il pensiero di Wencke
Bencke, ma lo scacciò e cercò di sorridere.
− Io… io non vedo che cosa c’entri con tutto questo, − disse Silje.
− E invece dovresti. Comunque: quel simbolo è lí perché non c’entra
assolutamente niente con il caso. Fra l’altro: guarda l’abbigliamento. Abiti
scuri e neutri, senza segni di riconoscimento evidenti. Un simbolo rosso
sgargiante come questo sarebbe rimasto impresso a chiunque, al di là della
propria specifica capacità di osservazione. E cosí voi sprecate un sacco di
energie a…
− Ma dove lo ha preso?
− Non ha importanza dove lo ha preso, come non ha importanza che cosa
rappresenta. È un oggetto che quel tizio ha trovato da qualche parte. Se le
nostre supposizioni sono corrette, allora abbiamo a che fare con un killer
professionista di alto livello. Guarda i capelli, per esempio. È calvo o si è
rasato? Io propenderei per la seconda ipotesi.
− È come se avessi letto questa, − le disse Silje sventolando la relazione
del disegnatore. – Se lo chiedeva anche Martin Setre.
− Ma ci ha pensato sul serio? Io l’ho dedotto, per cosí dire. Se lavorassi in
polizia lo considererei un testimone professionista! Suppongo che questo
tizio…
Fece un cenno del capo verso il pannello di sughero.
− … abbia una capigliatura normalissima. Anziché usare una parrucca o
tingersi i capelli, trucchi che hanno ben poco di naturale, si è semplicemente
rasato la testa.
Silje scosse leggermente il capo.
− Ce lo siamo domandati, − disse, − se quest’uomo si stesse prendendo
gioco di noi.
Scese il silenzio. Johanne si sentiva le dita ormai intorpidite e le tirò fuori
da sotto le cosce. Le bastò una fuggevole occhiata verso il basso per rendersi
conto che non solo non erano curate, ma a quel punto erano anche diventate di
un bianco cadaverico a chiazze rosse.
− Non è possibile che lavori da solo, − disse Silje in un tono piú
interrogativo che riflessivo.
− No, non credo. Si tratta di un gruppo e operano come membri di un
gruppo. Ma sono solo supposizioni, questo è ovvio.
Si strinse leggermente nelle spalle.
− Devo entrare in azione, − disse Silje ad alta voce, e batté i palmi sulla
scrivania. – Dobbiamo proporre una collaborazione formale con la Kripos non
appena possibile. E con la polizia di Bergen. E con…
Fece un bel respiro profondo ed espirò dalle labbra socchiuse.
− Cazzo, è cosí complicato che non so bene da che parte iniziare.
Johanne si stupí al sentir inveire quella graziosa figura femminile.
− Magari mi sbaglio, − disse in tono pacato.
− Sí. Ma non possiamo correre rischi.
Si alzarono contemporaneamente, come a comando. Johanne afferrò la sua
capiente borsa a tracolla, se la buttò sulla spalla, prese il montgomery e
raggiunse la porta.
Non aveva detto nulla della sensazione che ci fosse qualcuno che teneva
d’occhio Kristiane. Ma lí sulla soglia, mentre stringeva la mano dell’ispettore
capo in segno di saluto, pensò che avrebbe dovuto farlo. Silje Sørensen era
un’estranea, a differenza di Isak e Yngvar non avrebbe reagito di riflesso alla
sua presunta tendenza a preoccuparsi troppo facilmente. Anche lei era madre,
a quanto si intuiva dalle simpatiche fotografie sul davanzale della finestra.
Forse le avrebbe creduto.
Poteva anche avere rilevanza per le indagini nel loro complesso.
− Grazie di avermi ascoltata, − disse Johanne lasciandole la mano.
− A dire il vero siamo noi che dobbiamo ringraziare te, − disse Silje con un
sorriso senza gioia. – Ci risentiamo prestissimo, di sicuro.
Quando Johanne due minuti dopo si ritrovò seduta in macchina capí perché
non aveva detto nulla di quel maledetto fascicolo, dell’uomo oltre la
recinzione del giardino e della indefinibile angoscia che le dava sentire che
qualcuno da qualche parte probabilmente non voleva il bene di sua figlia.
Sarebbe stato un tradimento nei confronti di Yngvar non parlarne prima
con lui.
Adesso che la polizia di Oslo l’aveva presa sul serio, lui sarebbe stato piú
disponibile ad ascoltarla.
O almeno era quello che Johanne sperava.

Astrid Tomte Lysgaard avrebbe tanto desiderato un’altra risposta da Lukas.


Non che nutrisse dei dubbi sul fatto che le avesse detto la verità, questo no, si
conoscevano fin troppo bene. Solo che ultimamente c’era qualcosa in lui che
non le riusciva proprio di comprendere. Da quando si erano ritrovati nella
stessa classe alle superiori e si erano fidanzati lei non aveva mai smesso di
ammirarlo. All’inizio perché era un gran bel ragazzo, bravo a scuola e
beneducato; con gli anni erano poi arrivate le responsabilità economiche, la
quotidianità, tre figli. Lukas aveva preso tutto molto sul serio. Rispettavano
sempre le scadenze dei pagamenti. Lui non si era perso un solo incontro per i
genitori da quando il figlio piú grande aveva cominciato la scuola materna e si
era iscritto volontario nella lista dei rappresentanti del consiglio dei genitori
non appena il bambino aveva iniziato le elementari. Lukas aveva una grande
abilità manuale ed era molto attivo: aveva costruito la veranda e il garage con
le sue mani. Non gli sarebbe mai passato per la testa di pagare qualcuno in
nero. Era contrario a ogni forma di razzismo o calunnia.
A volte agli amici di Astrid scappava una battuta su quanto era noioso.
Ma loro non lo conoscevano come lo conosceva lei.
Lukas era tutt’altro che noioso, solo che adesso lei non lo capiva piú.
Lo choc per l’omicidio di Eva Karin doveva avere avuto conseguenze ben
peggiori del profondo dolore che gli aveva causato. Era inconcepibile che un
uomo come suo marito non ce la mettesse tutta per aiutare la polizia nelle
indagini.
Lukas non faceva mai niente di sbagliato.
Non aiutare la polizia era sbagliato.
Astrid si versò altro caffè e andò a sedersi sul divano. Sollevò la tazza
all’altezza del viso e sentí il vapore inumidirle la pelle, poi raffreddarsi.
Lukas non aveva fratelli né sorelle. Certo che non ne aveva. Se Eva Karin
avesse avuto una figlia in una vita precedente, che Erik fosse o non fosse il
padre, se ne sarebbe assunta la responsabilità. Se la figlia fosse stata data in
adozione lo avrebbe raccontato ai suoi cari. Sí, Eva Karin in certi casi poteva
sembrare distante, quasi chiusa, ma Astrid aveva sempre attribuito la sua
occasionale distrazione ai molti segreti altrui che doveva custodire. Eva Karin
ispirava fiducia. Parlava a bassa voce, anche quand’era sul pulpito, e aveva un
modo di esprimersi sobrio e melodioso che invitava di per sé alle confidenze.
E mai, non una sola volta nel corso di tutti quegli anni, Astrid l’aveva sentita
parlare male di niente e di nessuno.
Su di sé, invece, Eva Karin era molto aperta.
Parlava con sincerità degli errori che aveva fatto e delle follie che aveva
messo alla porta. Nutriva un enorme rispetto per la vita, anche se la vita
poteva costringere a salti mortali ed essere difficile. La sua intima fede in
Gesú era al limite del fanatismo, ma non si era mai spinta al di là di quel
confine. Quando anni prima aveva speso una piccola fortuna per comprarsi lo
strano ritratto del Messia che avevano appeso nel soggiorno della casa di
Nubbebakken, aveva pianto di felicità. Si trattava soltanto del bozzetto per
una tavola da abside di una chiesa nell’Østlandet, ma Eva Karin sosteneva che
proprio su quello schizzo preparatorio l’artista avesse dipinto un Salvatore
dagli occhi azzurro ghiaccio. In un paio di occasioni Astrid aveva colto la
suocera in quella che sembrava una conversazione con il suo Gesú dai capelli
biondi, corti e arruffati. Eva Karin aveva sorriso con tenerezza e ridacchiato
prima di cambiare discorso con una futile osservazione sul tempo.
Per quanto ne sapeva Astrid, in realtà Gesú doveva essere stato scuro, con
gli occhi castani e i capelli lunghi.
«Gesú è perdono», diceva sempre sua suocera.
«Per Gesú ogni vita è sacra».
Tenere nascosta una figlia sarebbe stato come profanare la vita.
Di colpo Astrid posò la tazza.
Se si fosse trattato di una figlia data in adozione, avrebbe avuto una foto
della neonata.
Lukas non era piú lui. Di solito era il marito a prendere le redini della
situazione quando le cose diventavano difficili e le sembravano
insormontabili. Adesso toccava a lei: doveva fare la cosa giusta per lui.
Portò la tazza in cucina e la mise in lavastoviglie.
Se avesse aspettato magari avrebbe cambiato idea. Quando afferrò il
telefono fisso si accorse che le tremavano le mani. Il numero di Stubø era
ancora al primo posto nella lista delle chiamate ricevute.
− Buongiorno, − disse a bassa voce quando lui rispose dopo un solo
squillo. – Sono Astrid, la moglie di Lukas. Credo proprio che dovresti venire
subito qui.

− Avresti dovuto dirmelo subito!


Se non lo si poteva definire furioso, di certo Rolf era insolitamente
arrabbiato. In sottofondo Marcus sentí un cane guaire e una voce di donna che
tentava di tranquillizzarlo.
− Me ne sono dimenticato, − si giustificò Marcus in tono fiacco. –
Stavamo uscendo a cena e me ne sono dimenticato, tutto qui.
− Se uno della polizia chiede che gli telefoni perché deve parlarmi di un
grave caso penale, mi mette davvero in cattiva luce se poi passa quasi una
settimana. Dà l’impressione che io me ne freghi di richiamare.
− Lo capisco, Rolf. Ti ho già detto che mi dispiace.
− Solo che non basta. Ma che cosa ti sta succedendo, si può sapere?
La voce di Rolf si era velata di una punta di aggressività che Marcus non
aveva mai sperimentato prima di allora. Fece un bel respiro, e stava per
profondersi in una lunga tiritera di scuse quando Rolf lo anticipò: − Sei
assente, brontolone, irritabile. Ti dimentichi le cose pratiche quotidiane. Ieri
non hai nemmeno preparato il pranzo da portare a scuola per Lillemarcus,
anche se toccava a te. Me ne sono accorto per puro caso e gli ho preparato io
qualcosa in fretta e furia.
− Non so che dire, se non scusarmi. C’è… molto da fare. Sai, la crisi
finanziaria e…
Marcus sentí un rumore di passi rapidi.
− Aspetta, − ringhiò Rolf. – Dammi il tempo di allontanarmi dagli altri.
Qualcosa che raschiava, una porta che sbatteva. Marcus chiuse gli occhi e
cercò di respirare lentamente.
− Non sono passate piú di tre settimane da quando ti congratulavi con te
stesso, tutto felice per come avevi affrontato la crisi finanziaria, − gli disse
alla fine Rolf in tono collerico. – Dicevi che eri stato l’unico fra tutti quelli
che conosci a prenderla di poppa, la crisi finanziaria. Dicevi che l’azienda
poteva issare lo spinnaker, cazzo!
− Ma tu sai che…
− Io non so un bel niente, Marcus! Non ho idea del perché non dormi la
notte. Non ho idea del perché ti vengono i nervi per niente. E non solo con
me, ma con Lillemarcus e tua madre e…
− Ti ho chiesto scusa!
Anche Marcus si era messo a gridare. Si alzò e andò alla finestra. Il sole
era rosso arancio e basso sull’orizzonte. Il traffico navale aveva scavato canali
in tutte le direzioni nel ghiaccio del fiordo. L’acqua nera della darsena sotto i
suoi occhi era ricoperta di una fanghiglia di neve sciolta. Il battello per
Nesodden attraccò al molo e una manciata di persone si riversò fuori,
rabbrividendo in quel gelido e bel pomeriggio.
− Cosí non va bene, non piú, − disse Rolf in tono rassegnato. – Sei
praticamente sempre al lavoro. Non credo sia indispensabile che…
Aveva ragione.
Marcus era sempre stato fiero di riuscire a lavorare entro i canonici orari
da ufficio, tutto sommato. La sua filosofia era che se uno non sapeva fare il
suo lavoro fra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio, allora non
doveva essere abbastanza efficiente. Ovviamente gli capitava, come a tutti, di
darci dentro piú del solito in qualche periodo. Dal momento però che niente
era piú importante della famiglia, cercava comunque di tornare sempre a casa
in un orario normale durante la settimana e di tenersi libero il week-end.
Negli ultimi tempi invece si fermava sempre piú spesso al lavoro fino a
tardi, il pomeriggio e magari anche la sera. Senza fare nulla di particolare. Il
suo ufficio di Aker Brygge era diventato una sorta di rifugio, un posto che lo
proteggeva dalle occhiate indagatrici e accusatorie di Rolf. Quando tutti se ne
andavano e lui restava solo, si sedeva nella soffice poltrona accanto alla
finestra e guardava il buio scendere sulla città. Ascoltava musica. Leggeva un
po’, o per lo meno ci provava, anche se faticava a concentrarsi.
− Cazzo! – esclamò Rolf rassegnato. – Non sei un avido affarista, Marcus!
Hai sempre detto che i soldi servono a noi e non viceversa! Se l’azienda corre
il rischio di inghiottirti, possiamo benissimo vendere tutto e vivere in modo
piú semplice.
− Oggi è il 15 gennaio, − protestò debolmente lui. – Due settimane di
lavoro stressante sono pochine, per arrivare a conclusioni cosí drastiche. E a
essere sincero, secondo me sei anche un po’ ingiusto. Ho perso il conto delle
serate e dei fine settimana in cui sei dovuto uscire all’improvviso per steccare
zampe o per aiutare a partorire qualche cagna troppo debilitata per fare i
cuccioli da sola.
Dall’altra parte scese il silenzio.
− È una cosa completamente diversa, − disse Rolf dopo un po’. – Si tratta
di vita vivente, Marcus, e io ho passione per il mio lavoro. Non ho mai detto
che gli animali non contano nulla per me. Tu invece hai sempre sostenuto che
non te ne importa niente dei soldi. E poi siamo sempre stati d’accordo, no?
Visto che a volte io sono costretto a precipitarmi fuori, tu stai a casa con
Lillemarcus. Abbiamo… Ci siamo messi d’accordo su questo, Marcus. E
comunque… in tutta sincerità, non credo che arriveremo da nessuna parte
cosí. Non al telefono, almeno.
Il tono gelido della sua voce spaventò Marcus.
− Oggi torno presto, − si affrettò a dire. – L’hai poi sistemata quella
faccenda con la polizia?
− Piú o meno. Manderanno una pattuglia a esaminare i mozziconi di
sigaretta, stasera. Le foto con le impronte degli pneumatici gliele ho già
spedite via mail. Non credo che possano essere granché utili, ma comunque…
A dopo.
Non disse nemmeno «ciao».
Marcus fissò il cellulare muto, poi andò lentamente a sedersi in poltrona. E
lí rimase fino a quando il cielo non diventò nero e le luci della città si
accesero, una dopo l’altra, trasformando la vista dalla grande finestra in una
splendida immagine da cartolina illustrata della città in una notte d’inverno.
La cosa peggiore era che Rolf lo aveva chiamato avido affarista.
«Se solo sapesse», pensò Marcus cercando disperatamente di raccogliere le
forze per alzarsi.

− Tu sai di cosa si tratta? – chiese l’avvocato Faber alla sua segretaria.


Domanda superflua: il sigillo era intatto.
− Certo che no, − rispose lei pacatamente. – Mi hai detto di non aprirla
cosí potevi rompere tu il sigillo di persona. Ma… non è una violazione di
corrispondenza? Il destinatario è scritto a chiare lettere sulla busta, e anche se
è morto…
− Violazione di corrispondenza, − borbottò Kristen Faber con disprezzo,
rovistando nel caos della scrivania alla ricerca di un tagliacarte. – Non si può
certo considerare una violazione di corrispondenza se apro una busta che ho
trovato nel mio studio, dopo quello che mi è costato poi! Tra l’altro… come
hai fatto ad aprire il cassetto?
− Con questo, − rispose lei, e gli allungò un affilato coltellino. − Astuzie
femminili.
La busta venne aperta. Faber infilò due dita fra i lembi divaricati e ne tirò
fuori un documento. Era composto di due sole pagine e in cima alla prima
campeggiava a grandi lettere la dicitura «Testamento».
− È un testamento, − commentò deluso, dicendo un’altra ovvietà.
La segretaria, in piedi alle sue spalle, vide esattamente la stessa cosa.
Seccato, lui si scostò e le chiese un tè, subitissimo. Lei annuí rigidamente e
andò nella sala d’attesa.
Il nome del testatore suonava noto a Kristen Faber, anche se non riusciva a
collocarlo con precisione. Niclas Winter era nominato suo erede universale. A
una prima, rapida occhiata pareva una successione di notevole entità, anche se
formule quali «l’intero portafoglio» e «l’edificio in toto» dicevano tutto e
niente.
Il documento soddisfaceva ogni requisito formale richiesto. Le pagine
erano numerate e firmate sia dal testatore sia da due testimoni che non ne
traevano alcun vantaggio. Quando l’avvocato lesse la data in cui il testamento
era stato sottoscritto corrugò la fronte per un attimo, poi prese un breve
appunto su un post-it.
La segretaria tornò con una tazza di tè. Irritante, pensò l’avvocato Faber,
doveva averlo preparato ancor prima che lui glielo chiedesse. Rinfilò
rapidamente il testamento nella busta e sigillò l’apertura con una larga striscia
di scotch. Sul lato anteriore appiccicò il fogliettino giallo.
− Mettila in cassaforte, − le disse. – Devo valutare come muovermi. Niclas
Winter è morto, ma potrebbe avere degli eredi.
− Non ne ha, − ribatté la segretaria. – C’era scritto sul giornale che non ha
nessun erede. Da quel che ho capito sarà lo Stato a ereditare i suoi averi.
− Ottimo, − disse Kristen Faber stringendosi nelle spalle. – In tal caso non
c’è nessuna fretta. Lo Stato di beni ne incassa già abbastanza da tutti, a mio
modesto parere. In ogni caso credo che questo documento vada depositato
all’ufficio giudiziario per le successioni. Domani mi informo.
− Domani sei in tribunale per una causa nuova, − gli ricordò la segretaria.
– Forse potrei…
− Sí, sí, − tagliò corto lui. – Pensaci tu. Telefona all’ufficio successioni e
chiedi che cosa dobbiamo fare.
− Va bene, − gli rispose lei con un sorriso. – Me ne occupo domattina. Il tè
era buono?
Faber non si prese nemmeno il disturbo di risponderle.

− Ti ringrazio moltissimo per esserti preso il disturbo di venire un’altra


volta fin qui, − sussurrò la donna, sorridendo mite all’imponente
commissario. – Ho mandato i due figli piú grandi dai vicini e William si sta
per addormentare. Lukas, poverino, è rimasto tutto il giorno a letto a dormire.
Yngvar Stubø si tolse le scarpe e le porse il cappotto prima di entrare nel
luminoso e accogliente soggiorno. Qua e là erano sparsi giocattoli e libri per
bambini, e su una sedia del tavolo da pranzo c’era un maglione di lana steso
ad asciugare. Ciononostante quella stanza dava un’impressione di ordine.
Piacevole, pensò Yngvar guardando un gigantesco disegno infantile
incorniciato e appeso sopra il divano beige ricoperto di cuscini colorati.
− L’artista chi è? – chiese, con un sorriso e un cenno del capo al quadro.
− La secondogenita, − rispose lei. – Andrea.
− E quanti anni ha?
− Sei.
− Sei? Però… Ne ha di talento, la piccola!
Astrid gli indicò il divano.
− Prego, accomodati. Caffè?
− No, grazie. Non ne bevo mai a quest’ora, è troppo tardi per me.
Lei lanciò una rapida occhiata a un orologio appeso sopra il bancone della
cucina a vista. Erano passate da poco le sette.
− Acqua? Qualcos’altro?
− No, grazie.
Yngvar spostò un paio di cuscini e si sedette. C’era profumo di panini
dolci e un lieve aroma di limone nell’aria, nel caminetto la legna molto secca
bruciava vivace. Quel posto aveva qualcosa di particolare, come un’atmosfera
piú serena rispetto a quella che di solito si respirava nelle case dove abitano
dei bambini, e nonostante quel po’ di disordine si aveva l’impressione che
tutto fosse proprio come doveva. Yngvar alzò gli occhi quando lei, incurante
del suo rifiuto, gli posò davanti una tazza di caffè, un bricco di latte e un
piatto di panini dolci.
− Questi non li dovrei mangiare, − disse lui afferrandone uno.
Lei sorrise e si piazzò vicino a uno scaffale di fianco alla finestra che dava
sul giardino. Poi tornò indietro, esitò e infine sprofondò accanto a lui nel
grande divano. Yngvar aveva già divorato metà dolce.
− Squisito, − mugugnò a bocca piena. – Che cosa ci hai messo dentro?
− Normalissima marmellata, − rispose lei. – Marmellata di fragole. Ecco
qui.
Gli mostrò una fotografia. Confuso, lui posò il resto del panino dolce sul
piatto e si pulí meticolosamente le dita sui pantaloni prima di prendere la foto
e posarsela sul ginocchio destro.
L’immagine, quasi un primo piano, era stampata su un cartoncino spesso e
seppiata.
− Spero di star facendo la cosa giusta, − mormorò lei quasi
impercettibilmente.
− La stai facendo.
Yngvar osservò con attenzione il ritratto. Se quella donna non si poteva
definire bella, c’era comunque qualcosa di attraente nel suo giovane volto. Gli
occhi erano grandi e lui era pronto a scommettere che fossero azzurri. Aveva
un bel sorriso con un accenno di fossetta su una guancia. Gli incisivi anteriori
erano un po’ sovrapposti e per un attimo Stubø corrugò la fronte,
profondamente concentrato.
− È come se l’avessi già vista da qualche parte, − mormorò.
Lei non commentò, si limitava a guardare il commissario con la bocca
socchiusa e trattenendo il respiro, come se stesse prendendo la rincorsa per
dire qualcosa che non riusciva a tirare fuori.
Lui la anticipò.
− Somiglia un po’ a Lukas, non trovi?
Astrid annuí.
− Lukas crede che sia sua sorella, − disse. – È per questo che non ha voluto
fartela vedere, questa foto. Vorrebbe trovarla da solo ed evitare che la cosa
diventi di pubblico dominio. È convinto che la sua famiglia abbia già sofferto
abbastanza senza che anche questa storia debba essere sbattuta sotto i
riflettori. Prima di tutto per riguardo verso il padre. Ma anche per la memoria
di sua madre. E per sé stesso, credo.
− Una sorella, − commentò pensieroso Yngvar. – Una sorella sconosciuta
potrebbe anche starci in tutta questa storia, ma questa donna è…
− Non è possibile, − lo interruppe Astrid raddrizzandosi.
Sedeva come una regina accanto a lui, di traverso sul divano, tesa e senza
appoggiare la schiena, con le ginocchia strette.
− Eva Karin non avrebbe mai tenuto nascosta una sorella a Lukas, se fosse
esistita.
− Hai ragione, − disse Yngvar senza distogliere lo sguardo dal ritratto. –
Perché questa donna sarebbe troppo vecchia oggi, sempre che sia ancora viva,
per essere la sorella di Lukas.
− Troppo vecchia? E tu come lo sai? Non c’è nessuna data sulla fotografia
e…
Adesso fu Yngvar a interrompere lei.
− Anche noi abbiamo valutato l’ipotesi di un figlio. Questa storia che ha
incontrato Gesú a sedici anni è stata evidentemente una svolta nella vita di
Eva Karin. Si può ipotizzare che fosse incinta all’epoca e che la sua
conversione abbia avuto a che fare con quello. La soluzione tipica al tempo
era di dare in adozione i figli delle giovani madri nubili. Ma…
Fece una smorfia e scosse leggermente la testa.
− Mi sono fatto un’idea approfondita del vescovo in queste settimane e
sono d’accordo con te. Se davvero ci fosse stato un figlio o una figlia, molto
probabilmente Eva Karin lo avrebbe detto a Lukas. Per lo meno una volta che
lui fosse diventato adulto. Oggi nessuno la condannerebbe. Al contrario, una
storia del genere avrebbe rafforzato la sua posizione sull’aborto.
Astrid prese la foto e la sollevò con cautela.
− La somiglianza potrebbe essere assolutamente casuale, − disse. – Ho
sempre sostenuto che Lukas assomiglia a Lill Lindfors e di sicuro loro due
non sono imparentati.
− Lill Lindfors?
Yngvar aprí il volto in un ampio sorriso e inclinò la testa per osservare di
nuovo il ritratto.
− Anche questa donna assomiglia a Lill Lindfors, − le disse sorpreso. – E
ora che mi ci fai pensare, anche Lukas le assomiglia, eh già! Una versione
maschile e bruna di Lill Lindfors.
− E tu assomigli a Brian Dennehy, − gli disse Astrid sorridendo. – Hai
presente quell’attore americano? Anche se di certo non è tuo fratello.
− Non sei la prima a notare questa somiglianza, − ridacchiò Yngvar
raddrizzandosi. – Anche se lui è un pochino piú grasso di me, non trovi?
Astrid non rispose. Lui prese un altro panino dolce.
− Come fai a dire che sarebbe troppo vecchia per essere sua sorella?
− Una donna nata nel 1962 o nel 1963 oggi avrebbe… – fece un rapido
calcolo a mente, − piú o meno quarantasei anni. Quarantasei. Secondo te
quanti anni aveva la donna del ritratto quando è stata scattata la foto?
Un cenno al ritratto la spinse a sollevare la foto e portarsela davanti al viso.
− Non saprei, − disse esitante. – Ventitre anni? Venticinque?
− Forse anche meno. Forse soltanto diciotto. In queste vecchie foto scattate
nello studio di un fotografo, le persone sembrano sempre un po’ piú vecchie
di quanto effettivamente non fossero. Immagino dipenda dai vestiti, le
acconciature e via dicendo. Io sono nato nel 1956 e sarei pronto a
scommettere che la donna in questa foto sia nata prima di me.
− Ma come… tu non puoi…
− Per prima cosa la qualità della carta, − disse lui prendendo con
delicatezza la fotografia per un angolo. – Se davvero questa donna fosse nata
all’inizio degli anni Sessanta, allora la foto sarebbe stata scattata… – un
nuovo rapido calcolo a mente, − intorno al 1980. Secondo te questa immagine
potrebbe mai essere stata scattata in quel periodo?
Astrid scosse piano la testa.
− Neanche secondo me, − aggiunse Yngvar. – Io credo che risalga ai primi
anni Sessanta. Massimo al 1965, ma ho seri dubbi che possa essere stata fatta
piú tardi. Guarda i vestiti! Guarda i capelli come sono pettinati!
− Io sono nata nel 1980, − disse Astrid in tono mite. – Ne so ben poco
della moda degli anni Sessanta. Però vorrebbe dire che questa donna…
avrebbe la stessa età di Eva Karin!
− Esatto, − confermò Yngvar, e fece per prendere un altro panino dolce. –
Quindi…
Si riappoggiò la fotografia sul ginocchio. Chino sul ritratto, ne osservò
ogni singolo dettaglio: il naso dritto, la fronte ampia e senza una sola ruga, le
guance lisce e i capelli che parevano dipinti sulla testa, con delle belle onde e
un ricciolo sopra una tempia.
− Che fosse la sorella? – borbottò Yngvar raddrizzando finalmente la
schiena. – Non assomiglia a Eva Karin, ma si spiegherebbe la somiglianza
con Lukas. A volte è davvero curioso vedere che strade prendono i nostri
geni, e…
Astrid lo guardò terrorizzata.
− La sorella? Eva Karin ha un fratello e una sorella, tutti e due piú giovani
di lei: Einar Olav, che sarà sui cinquantacinque anni, e Anne Turid, che ha
festeggiato qui i suoi cinquant’anni l’anno scorso. Anzi, no: due anni fa. E
questa non è lei!
Si sentí un gran baccano nell’ingresso. Chiassose voci di bambini.
Qualcuno rideva, la porta di ingresso sbatté.
Astrid infilò svelta la fotografia nella busta da cui l’aveva tirata fuori. Esitò
solo un attimo prima di darla a Yngvar.
− Non gridate, bambini –. Il suo sguardo era ancora puntato sul
commissario. − Papà e William dormono. Non gridate, okay?
Yngvar si alzò. Stava andando in corridoio quando fu quasi travolto dai
due bambini che arrivavano di corsa. Lo guardarono incuriositi.
− E tu chi sei? – gli chiese la femminuccia, che era la piú piccola dei due.
− Io sono Yngvar. E tu sei Andrea, il nuovo Picasso, non è vero?
La bambina rise.
− No. Io le orecchie e i piedi li metto al posto giusto.
− Brava! – le disse lui arruffandole i capelli. – È sempre meglio che stiano
dove devono stare.
− Grazie di essere venuto, − gli disse Astrid.
Si appoggiò allo stipite della porta, a braccia conserte. In un certo senso
pareva sollevata. Il sorriso non era piú cosí misurato come all’arrivo di
Yngvar e fece una risatina quando il figlio di otto anni le mostrò un finto
tatuaggio con il logo della squadra di calcio del Brann che gli copriva tutto
l’avambraccio.
− Sono io a doverti ringraziare, − ribatté Yngvar sollevando la busta come
in un gesto di commiato, poi uscí sui gradini in pietra.
La porta si richiuse alle sue spalle e lui si affrettò a raggiungere la
macchina. Ma prima ancora che si fosse sistemato al volante e avesse acceso
il motore Astrid lo raggiunse di corsa. Yngvar abbassò il finestrino e alzò gli
occhi su di lei.
− Ho pensato li gradissi, − gli disse la donna mentre gli porgeva un
sacchetto di plastica con i panini dolci rimasti. – Sono ottimi appena sfornati,
e mi è sembrato che ti piacessero.
Prima ancora che potesse ringraziarla lei si era già precipitata a rotta di
collo su per il vialetto di ingresso. Yngvar restò immobile per un attimo, poi
aprí il sacchetto e prese uno di quei meravigliosi panini dolci. Proprio mentre
stava per addentarlo, sentí una fitta di rimorso.
Ma i dolci appena sfornati erano davvero una cosa a parte.
E la marmellata di fragole era sempre stata la sua preferita.
Vergogna

Marcus cercava di pensare ai lati positivi della vita. A tutto ciò che era
bello e buono e che fino a quel momento aveva reso la sua esistenza degna
degli sforzi fatti. A quello che c’era un tempo, prima che lui si rendesse
brutalmente conto che la vita si basava su un errore. Un fraintendimento.
Una rapina.
Era una rapina, tutto quanto, e metteva in ombra qualunque cosa a cui
avrebbe potuto pensare per riuscire finalmente a dormire.
Rolf russava piano.
Lentamente Marcus si tirò su a sedere. Fra un cambio di posizione e l’altro
inseriva delle brevi pause. Alla fine mise i piedi giú dal letto, si alzò e a
piccoli passi andò in bagno. La porta che dava sul corridoio cigolava e cosí
aveva deciso di passare dalla pseudostazione termale in miniatura che
confinava con la camera da letto. Una volta dentro, chiuse la porta attento a
non svegliare Rolf.
Una luce fioca era rimasta accesa. Lillemarcus aveva il suo bagno
personale, ma preferiva andare in quello dei genitori quando si alzava la notte.
Persino in quella tenue illuminazione Marcus aveva una cera orribile e
sussultò guardandosi allo specchio. Le borse sotto gli occhi erano cosí gonfie
che i due cerchi scuri sembravano in procinto di trasformarsi in salsicciotti e
la pelle era talmente pallida da apparire azzurrognola. Era sempre piú grasso,
non aveva mantenuto il buon proposito per l’anno nuovo neanche una volta in
quei primi quindici giorni del 2009. L’odore del suo corpo gli solleticava le
narici: sudore notturno, pigiama non lavato e paura. Distolse lo sguardo dal
proprio riflesso spettrale e uscí nell’ingresso.
La porta di Lillemarcus era socchiusa. Lí Marcus poteva muoversi piú
disinvoltamente. A quell’ora della notte sarebbe anche potuta crollare la casa
e il bambino non se ne sarebbe accorto. Marcus si fermò sulla soglia, a
guardare il figlio addormentato.
La camera era immersa in una luce bluastra e fredda proveniente dalla
lampada da notte sopra il letto, una navicella spaziale in viaggio nella
galassia. Giochi e libri erano fittamente allineati sulle mensole lungo una
parete e sullo schermo del Pc brillavano le stelle di uno screen saver che
Lillemarcus si era scaricato da Internet da solo. Il vecchio orsacchiotto
consumato che doveva per forza stare nel letto con lui al momento di
addormentarsi giaceva abbandonato sul pavimento. Aveva perso un occhio
molto tempo prima, l’altro fissava cieco il soffitto. A passo felpato, senza
urtare nessuno dei tanti oggetti sparsi qua e là, Marcus entrò e andò a
raccogliere il peluche. Se lo accostò al viso per un istante e inspirò l’odore di
tutto ciò che aveva significato.
Silenziosamente si chinò sul figlio, gli sistemò Freddy tra le braccia e lo
coprí meglio con il piumino. Lillemarcus grugní, schioccò le labbra e si girò
di colpo, stringendosi all’orsacchiotto.
Un bisogno quasi irrefrenabile di sdraiarsi lí, accanto a lui, colse Marcus
all’improvviso, tanto da farlo singhiozzare. Sarebbe tornato forte. Voleva
essere il padre capace di consolare il figlio quando si svegliava per un incubo
e aveva bisogno di lui. Nel caso, si sarebbe sdraiato accanto a Lillemarcus, lo
avrebbe cinto con un braccio e gli avrebbe sussurrato storie dei vecchi tempi e
dello spazio cosmico. Il bimbo si sarebbe stretto a lui con un sorriso, i suoi
capelli gli avrebbero solleticato il naso. Sarebbero stati loro due nel mondo
intero, come prima che arrivasse Rolf, come prima che diventassero tre.
Come prima che quella cosa tremenda si insinuasse in lui.
Indietreggiò lentamente, fino a uscire dalla stanza.
Non sapeva che fare.
Non sapeva che farsene della vita, delle notti, di quella notte. L’oscurità
rideva sprezzante di lui da ogni angolo e Marcus sentiva il cuore battergli
sempre piú forte. Corse alle scale: voleva scendere nel suo studio, chiudere la
porta, guardare la televisione, accendere tutte le luci e far finta che fosse
giorno.
Per poco non sbatté la porta richiudendosela alle spalle quando finalmente
arrivò nello studio. Con l’affanno sferrò un pugno al pannello di comando
dell’impianto elettrico, ma non accadde nulla. Si ricompose e con un solo dito
premette correttamente tutti i sensori. Ed ecco lo studio inondato di luce e il
televisore che si accendeva. Era già sintonizzato sulla Nrk, che trasmetteva
Dansefot Jukeboks. Prese il telecomando posato sulla scrivania e abbassò il
volume della musica prima di cambiare canale e mettere la Cnn. Si accasciò
sull’ampia e morbida poltrona da ufficio e reclinò la testa all’indietro.
L’ulcera lo tormentava e si sentiva in gola un sapore amarognolo e acre. Da
sotto lo sterno una fitta di dolore gli si diffondeva per tutto il corpo. Aveva
l’impressione che la sua mente girasse a vuoto e si sentiva scoppiare la
vescica, nonostante non fosse passata neanche mezz’ora dall’ultima volta che
era andato in bagno.
Questo non era piú vivere.
D’un tratto si raddrizzò e prese la chiave dell’antica credenza angolare che
era rimasta nella casa quando l’aveva acquistata. All’inizio la trovava bizzarra
e piuttosto volgare, con quelle decorazioni tradizionali, ma col passare del
tempo aveva imparato ad apprezzarla. Soprattutto perché quel mobile risaliva
al XVIII secolo ed era in ottime condizioni, quindi valeva una fortuna. Quando
infilò la vecchia chiave nella serratura dell’anta e la girò, ebbe la sensazione
che i gambi di quei fiori grassi e grotteschi cercassero di afferrarlo.
L’anta nascondeva cinque piccoli cassetti. Aprí quello piú in alto. Era lí
che teneva le pillole di cui non aveva mai fatto parola a Rolf. Non era
neanche mai stato necessario: sia queste che quelle nella scatola che custodiva
in ufficio erano rimaste intatte per molti anni. Se le rovesciò sul palmo della
mano e tornò alla poltrona. Le fece rotolare sul sottomano in pelle di vitello.
Marcus non sapeva se medicine del genere smettessero di fare effetto una
volta superata la data di scadenza. Ma ne dubitava. Difficile che perdessero
ogni efficacia. Se le avesse buttate giú tutte insieme probabilmente sarebbe
bastato. Ne prese una e se la mise sulla lingua per prova.
Il sapore era sempre lo stesso. Stucchevole e leggermente salato.
Sarebbe stato meglio per Lillemarcus se lui non ci fosse stato piú.
Rolf si sarebbe preso cura del bimbo.
Rolf era un padre migliore di lui. Agendo come aveva agito, Marcus si era
reso colpevole di un reato, ma non solo: non era neanche piú degno di essere
padre. La sua vita intera era essere padre, e ora la sua vita da padre era finita.
Lacrime silenziose gli rigavano le guance mentre si infilava in bocca
un’altra pillola.
E un’altra ancora.
Un lieve stordimento lo spinse ad appoggiare la schiena alla poltrona e a
chiudere gli occhi. Si inumidí l’indice con un po’ di saliva e lo premette alla
cieca sulla scrivania. L’ennesima pillola gli si attaccò al dito e finí sulla punta
della sua lingua.
L’ultima cosa che fece prima di addormentarsi fu aprire il cassetto della
scrivania e spazzarci dentro le pillole rimaste con il fianco della mano.
Non era nemmeno abbastanza uomo da togliersi la vita, pensò intorpidito
prima che un sonno benedetto finalmente piombasse su di lui.

Yngvar Stubø si svegliò la mattina di venerdí 16 gennaio alle sei e


quaranta con la sensazione di non aver chiuso occhio per tutta la notte. Ogni
volta che era stato sul punto di assopirsi, ecco che l’immagine della camera da
letto di Eva Karin gli tornava alla mente. Il pensiero che la loro teoria su un
figlio scomparso o rinnegato fosse esatta, ma che le indagini dovessero
focalizzarsi sulla generazione precedente era un’eventualità che lo aveva
tenuto sveglio. Man mano che le ore passavano quella teoria era divenuta
sempre piú credibile: che il vescovo Eva Karin Lysgaard volesse difendere la
memoria dei genitori era molto piú probabile dell’ipotesi che volesse
proteggere sé stessa dalla vergogna di aver avuto un figlio a sedici anni senza
essere sposata.
E tutto questo, ovviamente, a prescindere dal fatto che ormai una cosa del
genere non sarebbe piú stata motivo di vergogna e che la fotografia non
poteva ritrarre una donna nata all’inizio degli anni Sessanta.
«Deve trattarsi di una sorella», pensò Yngvar buttando le gambe giú dal
letto. L’ultima volta che aveva guardato l’orologio erano passate da poco le
cinque, quindi almeno una mezz’oretta aveva dormito.
Un’altra ragione della sua notte insonne era che Johanne non lo aveva
richiamato. Non parlava con lei da un giorno e mezzo; la sera prima l’aveva
cercata tre volte, ma tutto quel che aveva sentito all’altro capo del filo era
stata la sua voce meccanica che pregava di lasciare un messaggio dopo il
segnale acustico. La prima volta che le aveva telefonato lo aveva anche
lasciato, un messaggio, ma lei non si era fatta viva. Una forte irritazione si
mescolò a una punta di paura mentre si trascinava in bagno.
Era stufo di stare in albergo.
Il letto era troppo morbido.
Il sapone gli seccava le mani e l’appetito latitava.
Voleva tornare a casa.
Qualcuno bussò insistentemente alla porta. Infastidito tirò l’acqua, si
avvolse un asciugamano intorno alla vita e andò ad aprire. L’odore acre della
prima urina del mattino aleggiava intorno a lui. Socchiuse appena la porta e
infilò il viso nella fessura.
− Che cazzo è successo al tuo cellulare? – gli chiese Sigmund Berli
spalancando la porta con una mano e sollevando l’altra, che impugnava una
copia di «VG». – E questo lo hai visto? Dobbiamo tornarcene a casa, fra
l’altro, e col primo volo. Mettiti qualcosa addosso e prepara la tua roba.
− Buongiorno anche a te, − gli rispose Yngvar in tono acido facendolo
entrare. – Devo chiederti di ricominciare da capo… Una cosa alla volta, per
favore. Inizia dal mio cellulare.
− Ti ho chiamato cinque volte da ieri sera. Mica puoi essere
irraggiungibile, lo sai, no?
− Infatti non ho spento il telefonino, − ribatté Yngvar. – Riprova.
Prese il cellulare che teneva sul comodino mentre Sigmund digitava il suo
numero.
− Sta squillando, − gli disse il collega con il cellulare all’orecchio. – Lo hai
messo silenzioso?
− No.
Yngvar fissava il display. Niente.
«Quindi Johanne potrebbe aver cercato di telefonarmi».
− Ma perché non mi hai chiamato su questo, allora? – gli chiese indicando
il telefono fisso posato sulla piccola scrivania accanto alla finestra.
− Non mi è venuto in mente, − gli rispose Sigmund con un sorriso. – Va
be’, dài, lasciamo perdere. Dobbiamo tornarcene subito a casa, subitissimo!
Guarda un po’ qui…
Yngvar prese la copia di «VG» come se temesse di venire morso.
Gruppo spinto dall’odio responsabile di sei omicidi, era scritto a lettere
cubitali in prima pagina. Il sottotitolo recitava: La polizia sostiene questa
allarmistica teoria. Il vescovo Lysgaard una delle vittime.
− Ma che cazzo… − Yngvar alzò la voce ancora di piú: − Ma che cazzo
significa questo?
− Leggi, − gli rispose Sigmund. – E scoprirai che la polizia di Oslo ha
individuato un possibile collegamento fra l’omicidio di Marianne Kleive e
quello di un giovane profugo curdo di cui hanno ritrovato il cadavere nella
darsena poco prima di Natale, già in stato di decomposizione.
− Eh? Ma che cosa c’entra Eva Karin Lysgaard, in tutto questo?
Yngvar si sedette pesantemente sul letto e aprí il giornale alle pagine
cinque e sei. Faceva fatica a fissare lo sguardo su un punto, gli occhi
scorrevano rapidi il testo. Dopo mezzo minuto smise di leggere, sbatté il
giornale contro il muro e tuonò: − Come cazzo è possibile che «VG» venga a
sapere certe cose prima di me? Che sappiano sempre troppo e sempre troppo
presto è un fatto con cui ho imparato a convivere, ma che io…
Si alzò cosí di scatto che l’asciugamano gli scivolò giú dai fianchi. Non si
rese nemmeno conto di essere rimasto nudo, e con i pugni stretti sibilò
all’amico:
− Forse dovremmo decidere come organizzare il lavoro leggendo il
giornale ogni mattina, eh?! Questo è… è davvero… Ma che cazzo, Sigmund,
è scandaloso!
L’altro sghignazzò.
− Yngvar, sei nudo come un verme. Cominci a essere grasso, sai…
− Me ne fotto!
A passi pesanti andò in bagno. Sigmund si sedette sulla sedia accanto alla
scrivania e accese il televisore. Si sintonizzò su Tv2, mentre Yngvar
trafficava al di là della porta chiusa. Dopo neanche trenta secondi uscí, prese
dei vestiti puliti e li indossò con una rapidità di cui Sigmund non avrebbe mai
creduto capace un uomo tanto robusto.
− Fra cinque minuti c’è il notiziario, – gli disse. – Ce lo guardiamo prima
di andarcene.
− Una banda di criminali americani, − sibilò Yngvar digrignando i denti
mentre cercava di farsi il nodo alla cravatta. – È la cosa piú stupida che io
abbia mai sentito.
− Non una banda, − lo corresse Sigmund. − Un gruppo. Un gruppo
motivato dall’odio.
− Ancora piú folle. Ma chi diavolo è stato a tirar fuori una cosa cosí… cosí
stupida! Si può sapere, eh?!
Prese il sacchetto con i vestiti sporchi rimasto sul pavimento e lo cacciò in
valigia dopo aver rinunciato a farsi il nodo alla cravatta.
− Johanne, − gli rispose Sigmund Berli con una risata. – È la teoria di
Johanne!
− Che cosa? Che cazzo stai dicendo?
Yngvar si precipitò verso il giornale, che aveva le pagine tutte
scompigliate, e scorse di nuovo l’articolo.
− Qui non si parla di lei, − disse senza alzare lo sguardo dalle colonne
corredate dalle foto di Marianne Kleive e del vescovo Lysgaard. – Il nome di
Johanne non compare mai.
Tirò un sospiro di sollievo e lasciò cadere per terra il quotidiano.
− Ho parlato con… con una certa Silje Sørensen, − gli spiegò Sigmund. –
Del distretto di Oslo. Mi ha telefonato questa mattina alle sei. Aveva cercato
invano di mettersi prima in contatto con te.
− Ma la gente è idiota o cosa? Sono in un albergo, cazzo! Questo…
In tre rapidi passi Yngvar aveva raggiunto il vecchio telefono bianco;
tenendo la cornetta in una mano e l’apparecchio nell’altra lo portò a cinque
centimetri dal volto di Sigmund ed esclamò: − Questo è un telefono!
− Rilassati, Yngvar. Rilassati!
− Rilassati? Rilassati, un cazzo! Voglio sapere che cosa sono tutte queste
fesserie e perché…
− E allora ascoltami! Ascolta quello che ho da dirti, invece di agitarti come
un pazzo furioso! Fra poco arriveranno quelli della direzione e ci sbatteranno
fuori se non ti dài una calmata!
Yngvar fece un bel respiro profondo, annuí e si lasciò tonfare sul letto.
− Parla! – grugní.
Sigmund batté quasi impercettibilmente le mani.
− Cosí, bravo. Non è che io ne sappia molto. Silje Sørensen era infuriata
quanto te perché «VG» ha messo le grinfie su questa storia e tutta
Grønlandsleiret si sta facendo in quattro per scoprire da chi è partita la fuga di
notizie. Quello che mi ha potuto raccontare è che si tratta davvero di sei
omicidi collegati. Un qualche artista è morto intorno a Natale,
apparentemente per una overdose di eroina, hanno invece scoperto che aveva
tracce minime di Curacit nel sangue. Hai presente, quella roba tipo curaro che
fa da bloccante neuromuscolare. Abbiamo avuto fortuna. Il Curacit si degrada
molto in fretta e il tizio è stato cremato in settimana. Siccome di routine è
stato considerato come un caso di morte sospetta, gli avevano prelevato un
campione di sangue in laboratorio e lo avevano congelato, per cui il Curacit…
− Eh?
− Il Curacit. Quel veleno che ti paralizza i polmoni e…
− Lo so cos’è il Curacit! Mi stavo domandando se…
− Aspetta, Yngvar! Ascoltami un attimo, prima. Allora… questo artista è
stato ucciso. E anche lui è… era omosessuale. E poi c’è un tizio, uno dei soliti
spiantati, che hanno fatto fuori non so quando in novembre al
Sofienbergparken, e lo sappiamo tutti che cosa fanno col buio al
Sofienbergparken, no?
Senza dare il tempo a Yngvar di rispondere, Sigmund proseguí: − E poi
questa donna che tutti credevano fosse morta in un incidente stradale, solo che
facendo delle indagini piú approfondite si sono accorti che aveva i freni
manomessi. E indovina un po’ che tipo di preferenze sessuali aveva?!
Yngvar lo fissava con un’espressione rassegnata in volto.
− Silje Sørensen mi è sembrata davvero paranoica, − proseguí imperterrito
Sigmund. – Mi ha telefonato a casa. Ha chiamato sul cellulare di mio figlio.
Ma al di là del fatto che questi giornalisti hanno delle buone fonti, o delle
microspie in centrale o non so cos’altro, «VG» ha i nomi di solamente tre
delle vittime. Il vescovo, Marianne Kleive e il ragazzo trovato in mare, hanno
sempre dei nomi bingo-bongo questi qua che non mi stanno proprio in testa.
Yngvar si sentiva cosí sfinito che non protestò nemmeno per quella
definizione.
− Quindi… Silje Sørensen mi ha raccontato che Johanne è andata a
trovarla per farle delle domande e metterla al corrente di una teoria legata
delle ricerche che sta portando avanti. Roba che c’entra con l’odio. Un
qualche… non ho capito bene, a dire il vero. E comunque la teoria di Johanne
ha trovato una corrispondenza cosí esatta con il materiale in mano alla polizia
di Oslo che hanno messo su una squadra per approfondire le indagini, si tratta
di una collaborazione fra il distretto di Oslo e la Kripos. Stiamo andando da
loro. È piú o meno tutto quello che so. Sst! Ecco il notiziario!
− Sst! – gli fece eco Yngvar in tono acido. – Ma se non ho aperto bocca!
Sigmund alzò il volume.
Il notiziario di Tv2 si aprí con il caso portato alla luce da «VG».
Avevano chiaramente avuto dei problemi di tempo, visto che il servizio era
stato montato con del materiale d’archivio. Non erano nemmeno riusciti a
tirar fuori qualche immagine invernale: la spaziosa sede della polizia era
immersa nella luce del sole e persone in abiti leggeri entravano e uscivano
dall’ingresso principale. La voce fuori campo non disse niente piú di quanto
era scritto sul giornale.
− Sst! – ripeté Sigmund quando la telecamera inquadrò un’esile donna in
uniforme dal profilo dorato con due stelle sulle spalle.
«Al momento non possiamo rilasciare alcun commento in merito», disse in
tono risoluto, poi diede le spalle al microfono e si allontanò.
Il microfono la seguí.
«Puoi confermarci le informazioni diffuse da “VG”?» le chiese il
giornalista.
«Come ho appena dichiarato, non rilascerò commenti in proposito».
«E quando avete intenzione di informare la gente su un problema che
sembra cosí serio e di ampie dimensioni?»
«L’ho già detto: non posso rilasciare…»
Sigmund spense il televisore.
− Andiamo, − disse e si alzò. – Comincio a essere parecchio curioso di
sapere di cosa si tratta. Vado a prendere la valigia, ci vediamo giú fra due
minuti. Quello cos’è?
Fece un cenno del capo verso il comodino, su cui Yngvar aveva posato il
ritratto della giovane sconosciuta.
− È la fotografia di cui ti ho parlato, − gli rispose.
− Quale fotografia?
− Quella che era nella stanza di Eva Karin Lysgaard. Dobbiamo portarla
alla polizia. Voglio sapere chi è quella donna, e suppongo che loro siano i
migliori in questo genere di ricerche.
− E come l’hai trovata?
− È una lunga storia.
− Okay, risparmiamela. Ci vediamo giú, va bene?
Yngvar annuí. Era ancora seduto sul letto. Gli risultava piuttosto difficile
digerire tutto quello che era venuto a sapere nell’ultima mezz’ora scarsa e gli
girava la testa. Non riusciva a ricordare di essersi mai sentito cosí preso in
contropiede. Era talmente spossato che quando finalmente si decise ad alzarsi
dovette fare un passo di lato per mantenere l’equilibrio.
Che «VG» ne sapesse molto piú di lui riguardo a un caso su cui stava
indagando era una sconfitta. Ancor peggio era sapere che Johanne era andata
alla polizia di Oslo per parlare di cose di cui lui non era assolutamente al
corrente.
Yngvar prese valigetta e giaccone e andò alla porta. Quando se la fu
richiusa alle spalle comprese che il malessere all’altezza del diaframma non
era dovuto alla fame.
Si sentiva umiliato da sua moglie e non era nemmeno piú furioso. Solo,
aveva un gran mal di pancia.
Un po’ come quando era piccolo e si vergognava.

La segretaria di Kristen Faber non si vergognava per niente di fotocopiare


dei documenti e portarseli a casa, di tanto in tanto. Al marito piacevano molto
i suoi racconti sui casi in cui si imbatteva, e a volte si divertivano a leggere i
verbali di certi interrogatori della polizia in cui il criminale tentava di
spacciarsi per innocente nonostante l’evidente colpevolezza, o a seguire la
disperata azione legale di qualche poveraccio che non aveva nemmeno i soldi
per l’avvocato. Quei documenti la segretaria non li teneva mai molto a lungo:
finivano nel fuoco del caminetto non appena perdevano quel non so che di
interessante.
Quanto al testamento conservato all’interno del grande armadio in legno di
quercia, non era stato esattamente per divertimento che lo aveva fotocopiato e
cacciato nella borsetta. Al contrario: suo marito si era rabbuiato quando lei gli
aveva raccontato quella storia la sera prima a cena. Del povero Niclas Winter
lui non sapeva nulla, però il nome del testatore lo conosceva e aveva espresso
il desiderio di dare un’occhiata al documento: cosí, quella mattina la
segretaria di fotocopie ne aveva fatte due, ma solamente una era finita
nell’archivio dell’avvocato Faber.
Non poteva certo essere tanto grave, se il marito dava un’occhiatina a quel
pezzo di carta.
Pinzò la lettera di accompagnamento al testamento originale e infilò
entrambi in una busta. C’erano voluti solo due minuti per scoprire che
l’ufficio successioni era il posto giusto a cui inviare un documento simile, e
per essere certa di non fare qualcosa di sbagliato si sarebbe recata all’ufficio
postale e lo avrebbe personalmente spedito a mezzo raccomandata. Meglio
andare sul sicuro in casi del genere. Una volta l’ufficio successioni aveva
sostenuto che l’avvocato Faber non aveva rispettato i termini per ricorrere in
appello, nonostante lei fosse sicura al cento per cento di aver imbucato il
ricorso in tempo utile.
Non che un testamento avesse la stessa importanza di un ricorso in appello,
ma la sfuriata che le aveva fatto l’avvocato quella volta le era rimasta
impressa. Per lo meno, in questo modo di dubbi che la lettera fosse stata
spedita non ce ne sarebbero stati. Indossò il cappotto, mise la busta in borsa e
cominciò a canticchiare un motivetto mentre chiudeva a chiave la porta e
usciva in quel pomeriggio luminoso e soleggiato.
Ragione e sentimento

Fascicolo ritrovato questa mattina. Era stato consultato dall’insegnante


di sostegno e rimesso al posto sbagliato. Chiedo scusa per il disturbo ☺
Live Smith.

Johanne lesse il messaggino sul display del cellulare due volte, senza
sapere se provare sollievo o rabbia. Da una parte era un bene che il fascicolo
di Kristiane custodito nell’archivio scolastico fosse stato ritrovato,
ovviamente, dall’altra però la impensieriva che l’istituto avesse una politica
cosí indulgente per quanto riguardava l’accesso ai dati sensibili. Nel momento
in cui si chiuse la porta dello studio alle spalle si rese conto che avrebbe
dovuto essere contentissima. Se il fascicolo di Kristiane era stato davvero
semplicemente messo nel posto sbagliato, l’inquietante sensazione che
qualcuno tenesse d’occhio sua figlia avrebbe dovuto abbandonarla.
Infilò il telefonino in borsa e uscí alla chetichella dall’edificio, senza farsi
vedere da nessuno. Erano soltanto le due del pomeriggio, ma non riusciva a
concentrarsi su niente, a parte cercare di mettersi in contatto con Yngvar. Non
si era ancora fatto sentire e al cellulare non rispondeva.
Aveva perso il conto delle volte che aveva provato a chiamarlo.

La segretaria dell’avvocato Faber aveva deciso di chiamare e prenotare,


per sicurezza. Alla gastronomia Laksen di Bjølsen vendevano il miglior
fegato di vitello della città e suo marito ci teneva ad averlo come piatto forte
del pranzo domenicale. Doveva essere di vitello, altrimenti aveva un gusto
troppo deciso. Forse in quel negozio avrebbe trovato anche dello stoccafisso
ammollato nella soda, malgrado non fosse piú il periodo giusto: in quel caso
avrebbero mangiato pesce il sabato e vitello la domenica, pensò soddisfatta.
Nell’istante in cui stava per sollevare il ricevitore e chiamare, ecco che il
telefono si mise a squillare. Rispose subito con la solita tiritera: − Studio
dell’avvocato Kristen Faber. In che cosa possiamo esservi utili?
L’avvocato Faber aveva cercato di farle cambiare quella formula di
cortesia che a suo parere dava un’impressione di arcaico, ma lei si era
impuntata: le veniva naturale rispondere cosí, non sapendo con chi aveva a
che fare.
− Ciao, tesoro!
− Ciao, − rispose lei con un sorriso. – Stavo proprio per telefonare a
Laksen e ordinare stoccafisso ammollato nella soda e fegato di vitello. Vedrai
che bei pranzetti questo fine settimana.
− Bene! – le rispose il marito. – Non vedo l’ora… c’è Faber, lí?
− Kristen? Vuoi parlare con Kristen?
Non sarebbe stata piú allibita se se lo fosse trovato davanti in carne e ossa.
Suo marito in quell’ufficio non ci aveva mai messo piede e tantomeno aveva
mai incontrato Kristen Faber. Lo studio legale in cui lei lavorava era qualcosa
di solamente suo. Dopo che la vista aveva iniziato a indebolirsi e dopo il
prepensionamento, il marito le aveva proposto in un paio di occasioni di fare
un salto in centro per vedere dove trascorreva le sue giornate, ma lei non
aveva neanche voluto sentirne parlare. Una cosa era la famiglia, altra il
lavoro: la casa e l’ufficio erano ben distinti. È vero che lei parlava volentieri
di quel che faceva e che si divertivano parecchio a leggere i documenti che di
tanto in tanto si permetteva di mostrargli, ma la possibilità di un contatto fra
suo marito e il suo scortese e sbraitante capo era fuori questione.
− Perché vuoi parlargli?
− Eh, sai… c’è qualcosa di sospetto in questo testamento che hai portato a
casa ieri.
− Di sospetto? Che cosa vuoi dire?
La sera prima glielo aveva letto lei ad alta voce. Il marito era ancora in
grado di farlo da solo, ma la visione a tunnel di cui soffriva lo portava sempre
piú spesso a chiederle di leggere per lui. Era piacevole, in effetti. Dopo il
notiziario aveva preso l’abitudine di recitargli qualche articolo di giornale
inframmezzato da piccole e grandi discussioni sugli avvenimenti della
giornata.
− Voglio dire che…
L’avvocato Faber entrò come un ciclone dalla porta d’ingresso.
− Voglio qualcosa da mettere sotto i denti, − disse tutto trafelato. –
Neanche mezz’ora e la mia pausa pranzo sarà finita e io ho fatto una figura di
merda con dei documenti. Un panino imbottito o roba del genere, okay?
La segretaria, con una mano sul ricevitore, annuí.
− Vado subito, − disse.
Non appena la porta dell’ufficio di Faber si fu chiusa con un colpo secco,
lei disse a suo marito: − Non è affatto necessario parlarne con Kristen, tesoro.
− Ma io devo…
− Senti, ne discutiamo quando torno a casa, va bene? Devo scappare
adesso. C’è un sacco da fare qui, oggi. Ci risentiamo nel pomeriggio, okay?
E senza nemmeno aspettare che lui le rispondesse riagganciò.
Mentre si infilava il cappotto il piú in fretta possibile, un insolito, lieve
scrupolo di coscienza si fece strada in lei: forse non era proprio da manuale
portarsi a casa documenti protetti dal segreto professionale. Non ci aveva mai
pensato in quei termini: in effetti lei aveva libero accesso a quelle carte e suo
marito era praticamente una parte di lei, dopo tanti anni.
«A ben vedere non è che sia del tutto corretto,» pensò prendendo la
borsetta e avviandosi a piccoli passi rapidi verso il panificio Baker Hansen. E
comunque di contatti fra Kristen Faber e suo marito non ne voleva.
A Bjarne la lingua si scioglieva con troppa facilità.

− Hai fatto una corsa, bambina mia? Sei tutta sudata!


Johanne stringeva forte la figlia, che le aveva gettato le braccia al collo, e
non la lasciava andare.
− Sí, dal centro commerciale di Tåsen fino a qui, − rispose Kristiane. – E
ho passato una bella settimana con papà. E tu te la sei cavata abbastanza bene
senza di me?
− Io me la sono cavata abbastanza bene, − annuí lei, e la baciò sui capelli.
– E tu?
L’ultima domanda era rivolta a Isak. Aveva posato il borsone con le cose di
Kristiane sul pavimento dell’ingresso e se ne stava lí, con il giaccone addosso
e le mani in tasca. Aveva un’aria stanca e un sorriso sulle labbra che non
arrivava fino agli occhi. Dava l’impressione di non saper bene se restare o
andarsene subito.
− Sí, sí… − rispose con una certa esitazione.
− Non vuoi entrare un attimo?
− Ti ringrazio, ma…
Tirò fuori le mani dalle tasche e abbracciò Kristiane.
− Non è che ti va di fare una corsa su da Ragnhild, tesoro, che papà parla
un momento con la mamma? Eh? Ti voglio bene. Ci vediamo presto…
Kristiane sorrise, prese il suo borsone e se lo trascinò su per le ripide scale.
− Vado in montagna nel fine settimana. Che ne dici se mi tengo Jack e lo
porto con me?
− Perfetto.
Il bastardino dal pelo chiaro era seduto sui gradini con la testa reclinata da
una parte.
− Che cosa succede? – chiese Johanne. – C’è qualcosa che non va?
− No, no. È solo che… – Isak prese un bel respiro e ricominciò: −
Davvero… non è che voglio farti preoccupare, ma…
Johanne gli afferrò una mano. Era gelida.
− C’entra Kristiane? – gli chiese in un soffio.
− No, − rispose lui. – Non proprio. Lei è stata benissimo. È che…
Spostò il peso dalla gamba destra alla sinistra e si appoggiò all’altro stipite.
− Sta entrando tutto il freddo, − gli disse Johanne. – Vieni dentro un
attimo. E tu sta’ qui, Jack. Qui!
Sia il cane che Isak ubbidirono. Lui si appoggiò alla parete e Johanne si
sedette sui gradini.
− Che succede? – gli chiese in tono mite. – Dimmelo, dài…
− Io credo…
Isak si interruppe di nuovo.
− Dimmelo… − gli bisbigliò lei.
− Ho la strana sensazione che qualcuno mi tenga d’occhio. Voglio dire…
che qualcuno tenga d’occhio…
Sembrava un ragazzino, con il giaccone a penzoloni e incapace di star
fermo. Il suo sguardo saettò qua e là prima di fermarsi su Johanne. Lei si
aspettava che da un momento all’altro si mettesse a tracciare cerchi sul
pavimento con una scarpa.
− Direi che non è il caso che tu te ne vada, − osservò in tutta tranquillità e
si alzò.
Lui tirò di nuovo le mani fuori dalle tasche e allargò le braccia, sconsolato.
− Non so spiegartelo meglio, − le disse con un filo di voce. – È come se…
− Tu resti qui, − ribadí lei, poi fece entrare Jack e richiuse la porta a
chiave.
Scosse il saliscendi per assicurarsi con un ulteriore controllo che la
serratura fosse scattata.
− Devi parlare con Yngvar.
− Johanne, − disse lui afferrandola per un braccio. – Significa che ho
ragione? Sai qualcosa che…
− Non significa niente piú di quello che ho detto, − ribadí lei senza
divincolarsi dalla presa. – Devi raccontarlo a Yngvar, perché a me lui non
crederebbe.
Isak la lasciò andare, Johanne si voltò e prese le scale.
«Non che io gli abbia mai dato la possibilità di farlo», pensò, e decise di
provare per la sesta volta nel giro di tre ore a mettersi in contatto con lui.
Probabilmente era furioso.
Lei invece aveva cosí tanta paura da non riuscire a camminare in linea
retta.

L’uomo al volante della scura auto a noleggio aveva avuto qualche


problema con la cartina. In realtà si trattava solamente di seguire quell’unica
strada da Oslo fino a Malmö e poi tenere la destra sullo stretto che separava
Svezia e Danimarca.
Nonostante diventasse buio troppo presto in quel Paese e nonostante di
neve ne fosse caduta in abbondanza già da Natale, riusciva a mantenere una
certa velocità. Non eccessiva, certo: due o tre chilometri sopra il limite
consentito non avrebbero destato sospetti. Aveva incontrato traffico intenso in
uscita da Oslo, anche se erano solo le tre del pomeriggio, ma dopo una
ventina di chilometri sulla E6 la quantità di mezzi in circolazione era
diminuita. Secondo la cartina la strada che stava percorrendo seguiva la costa,
perciò suppose che d’estate il venerdí a quell’ora ci fosse un gran caos.
Evidentemente, il mare a meno otto gradi in un giorno di vento non era molto
allettante.
Si avvicinava a Svinesund e l’orologio segnava le cinque e dieci.
Sarebbe arrivato a Copenhagen dove avrebbe riconsegnato la macchina
all’Avis in Kampmannsgade. Poi avrebbe attraversato a piedi alcuni quartieri
della capitale danese prima di fermare un tassista e farsi portare in un posto
dove poter trascorrere la notte a un prezzo ragionevole a ridosso del centro.
Di sicuro era troppo tardi per prendere l’ultimo volo per Londra. Dei vestiti
scuri si era liberato già da tempo. Ci aveva messo piú di due ore per tagliarli a
striscioline che poi aveva suddiviso in mucchietti da infilare nelle tasche
dell’ampia giacca impermeabile rossa. Sembrava ancora piú robusto, meglio
cosí. Nel giro di un’ora scarsa si era sbarazzato di un brandello di stoffa qua e
uno là, buttandoli nei cestini dell’immondizia che aveva trovato passeggiando
per le vie di Oslo.
Il momento di partire era giunto all’improvviso.
Non conosceva molto bene il norvegese, l’indispensabile per mandare dei
semplici Sms, ma una rapida occhiata al portagiornali sul piccolo bancone
della reception quella mattina era bastata a fargli capire che era meglio
muoversi il prima possibile. Non che gli toccasse fare le cose in modo
precipitoso, ma le istruzioni ricevute erano chiare.
Anche gli altri dovevano essere in procinto di lasciare il Paese. Non sapeva
bene perché, forse per passare il tempo, ma la sera si era messo a cercare
tragitti alternativi. Solo nella sua testa, ovviamente, non c’era infatti
nell’intera Norvegia un unico pezzo di carta con la sua calligrafia sopra. Fatta
eccezione per le firme contorte scarabocchiate sulle ricevute delle carte di
credito, tessere Visa autentiche di per sé, ma rilasciate a persone fittizie. La
grande ondata di freddo che aveva colpito la Norvegia era stata una vera e
propria benedizione: tutti erano vestiti pesanti, e lui non destava alcun
sospetto se non si toglieva gli aderenti guanti in pelle di cinghiale al momento
di firmare.
Quello o quelli che attualmente si trovavano a Bergen, per esempio, a suo
parere sarebbero dovuti andare in auto fino a Stavanger e da lí prendere un
volo per Amsterdam. Ma non spettava certo a lui fare congetture sui percorsi
di viaggio degli altri senza nemmeno sapere chi fossero.
Lui aveva agito da solo, ma sapeva di non essere solo.
Era stato addestrato a seminare tracce fasulle e a nascondere le proprie. Per
quanto possibile, si teneva alla larga dalle telecamere di sorveglianza, e
quando era costretto a muoversi in una zona inclusa nel loro raggio d’azione
si premurava sempre di modificare l’andatura, sporgere un po’ le labbra,
dilatare le narici e procedere a occhi bassi.
Oltretutto aveva un aspetto piuttosto anonimo, per fortuna.
Era come se in Norvegia non ci avesse mai messo piede.
Il ponte sullo Svinesund si allungava davanti a lui. Lí di sbarramenti e
controlli non ce n’erano: c’era una postazione doganale dall’altra parte della
strada, questo sí, proprio in quel momento stavano esaminando il carico di un
rimorchio, nessuno però gli chiese i documenti. Quando nel bel mezzo
dell’alto ponte si trovò a oltrepassare la linea immaginaria che separava la
Norvegia dalla Svezia, non poté fare a meno di sorridere.
Ingenui scandinavi. Stupidi, ingenui europei. Uno dei motivi per cui gli
avevano assegnato questo incarico era che aveva seguito delle lezioni sulle
lingue e le culture nordiche quando frequentava l’accademia militare, anche
se in Scandinavia non ci era mai stato.
Proseguí per un altro quarto d’ora abbondante, poi, arrivato a una traversa
che non dava nell’occhio, svoltò. Imboccò una provinciale angusta e
scarsamente trafficata e poco dopo incrociò sulla destra una stradina che si
inoltrava nel bosco. Guidò a passo d’uomo per un centinaio di metri fra i
tronchi di abete, poi si fermò e spense il motore. Nonostante gli alberi fitti la
neve ricopriva abbondante il terreno: era riuscito a percorrere quel tratto di
stradicciola solo grazie alle impronte lasciate da un trattore il giorno prima.
Scese dalla macchina.
Faceva freddo, ma non c’era quasi vento.
Inspirò a pieni polmoni l’aria pura e sorrise. Quando alzò lo sguardo vide il
cielo stellato e una falce di luna calante fra le cime leggermente ondeggianti
di due abeti.
Chiuse gli occhi e appoggiò le braccia sul tetto dell’auto, poi chinò il capo
sulle mani giunte.
– Mio Dio, − bisbigliò in inglese, − ti ringrazio per tutte le tue benedizioni.
Come sempre un calore particolare cominciò a diffondersi in tutto il suo
corpo, come una droga, e lui sussurrò la sua preghiera.
– Mio Dio, ti ringrazio perché mi dài la forza di seguire il tuo
comandamento. Ti ringrazio perché mi dài il vigore e il coraggio per
adempiere ai tuoi ordini. Ti ringrazio perché mi fai tuo strumento nella lotta
contro le tenebre di Satana. Ti ringrazio perché mi dài la capacità di
discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è bene da ciò che è
male, ciò che è vero da ciò che è falso. Ti ringrazio perché mi punisci quando
lo merito e mi ricompensi quando lo merito. Ti ringrazio perché…
Esitò per un attimo. Giunse con ancora piú forza le mani e strinse gli occhi,
invaso dal fervore.
– Ti ringrazio perché mi hai concesso di risparmiare quella bella ragazzina,
quell’angelo innocente. Ti ringrazio, mio Dio, perché mi fai sentire ancora
una volta la vicinanza di Gesú Cristo. Perché tua è ogni cosa e la purezza è lo
scopo. Amen.
Lentamente sollevò il viso verso il cielo. La forza che sentiva scorrere
dentro di sé gli diede i brividi, era quasi come essere senza peso. Un uccello si
alzò in volo da un ramo carico di neve che sporgeva al di sopra della stradina
ed emise uno spiacevole grido scomparendo nel cielo nero. L’uomo raddrizzò
la schiena, inspirò il profumo frizzante del freddo e degli abeti e tirò fuori di
tasca un piccolo trifoglio rosso in metallo smaltato. Infilò le mani in un paio
di muffole trovate alla stazione Nationaltheatret della metro e ne grattò via
meticolosamente la marca prima di prendere lo slancio e buttarlo in mezzo
agli alberi. Quando tornò a sedersi in macchina si sentiva felice.
Purificato.
Dovette ripercorrere in retromarcia il centinaio di metri che lo separavano
dalla provinciale, ma tutto filò liscio. Un quarto d’ora piú tardi era di nuovo
sulla E6 in direzione di Göteborg. Di lí a due giorni sarebbe stato negli Stati
Uniti, e di lui in Norvegia non sarebbe rimasta alcuna traccia.
Di questo era sicuro.

− La traccia piú sicura che abbiamo è questa.


Yngvar si riappoggiò con calma allo schienale del divano, tenendo davanti
a sé l’identikit dell’uomo che aveva salvato la vita a Kristiane.
− E non è poco.
Johanne gli si strinse addosso. Yngvar odorava di una lunga giornata di
lavoro e lei avvicinò il naso alla sua manica e inspirò a fondo.
− Grazie di non essere piú arrabbiato con me, − mormorò.
Lui non rispose.
− O sei ancora arrabbiato?
Con un timido sorriso alzò gli occhi e lo guardò.
− Ma no, no… È solo che sono un po’… deluso, ecco. Piú che altro deluso.
− Hai il tono di uno che rimprovera un bambino.
− In un certo senso è proprio cosí.
Lei si alzò di scatto.
− Sul serio, Yngvar! Ti ho già detto che mi dispiace. Che avrei dovuto
parlarne prima con te… È solo che tu sei… sei sempre cosí… cosí scettico,
sempre! Sapevo che avresti sollevato un sacco di dubbi sulla mia teoria, e
io…
− Lasciamo perdere, − la interruppe lui con un gesto stizzito della mano. –
Ormai è fatta. Non parliamone piú.
− A quanto pare è stata una bella fortuna discuterne con Silje Sørensen –.
Johanne fece un sorriso incoraggiante nella speranza di ricevere in risposta un
altro sorriso.
Ma non arrivò. Yngvar si grattò la testa con tutte e due le mani e sbuffò
rassegnato. Poi sollevò di nuovo l’immagine di quell’uomo senza capelli
vestito di scuro. La osservò a lungo, e infine tutt’a un tratto disse: − Tu lo sai
che ho un buon rapporto con Isak. Naturalmente può fermarsi qui quando gli
pare e piace. Ma non tollero proprio che tu lo usi come scudo con me, che lui
sia qui ad aspettarmi quando rientro dopo diversi giorni di lavoro fuori città, e
dopo che io e te non ci parliamo da piú di trenta ore e abbiamo parecchie
questioni… in sospeso, per non dire di peggio. Mi auguro che non accada piú.
− Ma tu non mi avresti creduto! È dal 19 dicembre che mi trascino dietro
questo brutto presentimento e non ho avuto il coraggio di parlarne né con te
né con Isak. La conversazione che ho avuto con Kristiane martedí, quando ho
capito che lei era un testimone chiave, è stata cosí vaga, cosí poco… esplicita
sul piano verbale, che io… Quando Isak mi ha raccontato di aver avuto anche
lui… Tu non mi avresti creduto, Yngvar!
− Non è questione di credere o non credere, Johanne. Ovviamente io non
ho nessun problema a credere che tu e poi anche Isak abbiate avuto questa
sensazione che qualcuno stesse tenendo d’occhio Kristiane. O a credere che
secondo te Kristiane potrebbe aver visto qualcosa di rilevante a proposito di
chi ha ucciso Marianne Kleive. Ma non è che siccome voi due avete quella
sensazione allora le cose stanno effettivamente cosí! Soprattutto visto che né
tu né lui siete in grado di offrire qualcosa di piú concreto di una mera
«sensazione».
Yngvar, che si era raddrizzato, disegnò delle virgolette nell’aria, vicino alle
guance di Johanne.
− Il fascicolo era sparito e l’uomo al di là della…
− Il fascicolo è tornato al suo posto, me lo hai detto tu. Si è trattato di pura
e semplice incuria.
− Ma…
− Senti… chiudiamo l’argomento, va bene? Per sicurezza ho chiesto a una
pattuglia di passare qui davanti ogni tanto. Piú di questo non c’è molto da
fare. A meno che tu non voglia esporre Kristiane a un vero e proprio
interrogatorio in presenza di un giudice, con tutto quello che comporterebbe
per la bambina. Dimentichiamocene, okay? Almeno per ora. Ti prego!
Yngvar strinse le dita intorno al bicchiere di vino.
− No, − ribatté Johanne. – Non posso. Capisco che ti senti ferito. Capisco
che avrei dovuto raccontarlo a te prima che a chiunque altro e che avrei
dovuto farlo subito. Ma al di là di questo, Yngvar, io ci ho pensato e…
− No, − la interruppe lui, con tono duro. – Adesso mi devi ascoltare! Se
Kristiane ha effettivamente visto qualcosa che c’entra con l’omicidio di
Marianne Kleive, perché diavolo non l’hanno uccisa e basta?
L’ultima frase la disse a voce cosí alta che sia lui sia Johanne sussultarono.
E come di riflesso rimasero tutti e due immobili, le orecchie tese per capire se
Kristiane si fosse svegliata. Non sentirono altro se non quello del piano di
sotto che guardava il Dvd di Mamma Mia! Sarà la decima volta da Natale,
pensò Johanne.
− Perché credono, − gli disse. – Perché credono in Dio.
− Che cosa?
− O in Allah.
− Perché credono… e allora?
Yngvar sembrava piú interessato, o forse era solo piú confuso.
− È perché credono, − spiegò Johanne, − che non uccidono alla cieca.
Credono con un fervore che la maggior parte delle persone non ha mai
conosciuto. Sono fanatici, ma profondamente credenti. Togliere la vita a degli
adulti che ai loro occhi sono dei peccatori meritevoli di essere puniti con la
morte in conformità a un imperativo divino è una cosa. Uccidere una bambina
innocente è un’altra.
Parlava molto lentamente, come se stesse dando voce a pensieri che non
aveva mai formulato e per cui occorreva un’oculata scelta dei vocaboli. Lo
sguardo di Yngvar non era piú di rimprovero quando le chiese: − Ma queste
persone, questi gruppi, sono davvero… davvero religiosi? Non sono soltanto
dei deviati che usano Dio e Allah come pretesto?
− No, − gli rispose Johanne scuotendo il capo. – Non sottovalutare mai il
potere della fede. E in un certo senso la mia teoria si rafforza proprio se
partiamo dal presupposto che…
Raccolse le gambe sul divano e si prese un piede fra le mani, come se
sentisse freddo.
− … che Kristiane abbia effettivamente visto qualcosa. Chi ha ucciso
Marianne Kleive dev’essersi accorto in quel frangente che lei non è come tutti
gli altri ragazzini. Se fosse vero che l’uomo che le ha salvato la vita quando
stava per essere investita dal tram è l’assassino, di sicuro in quell’occasione
ha avuto la dimostrazione della… diversità di Kristiane. E se c’è una cosa che
davvero colpisce nella mia bambina piú di ogni altra, di sicuro è…
Aveva gli occhi che quasi traboccavano di lacrime quando li alzò su di lui.
− … la purezza dell’innocenza, − completò Yngvar. – Lei è l’incarnazione
stessa della purezza. Un vero e proprio angioletto di Dio.
− La signora mi ha aiutata, − disse a voce bassa Kristiane, in piedi sulla
soglia.
Yngvar si irrigidí. Johanne girò lentamente la testa verso di lei.
− Ah sí? − le disse.
− Albertine dormiva, − disse Kristiane. – E io volevo venire da te, mamma.
Yngvar non osava quasi respirare.
− Mi sono dovuta nascondere da tutti, perché non volevo andare a letto
senza di te. Poi all’improvviso sono arrivata a una porta aperta. C’era una
scala. Io sono scesa, forse tu eri lí, mamma, e comunque non c’era nessun
altro. A parte il silenzio. Sono finita nello scantinato, sai, e non c’era niente di
bello là sotto. E poi ho visto la signora in cima alle scale. «Ciao!» mi ha detto.
Kristiane aveva un pigiama nuovo. Le stava un po’ troppo grande, aveva le
mani che neanche spuntavano dalle maniche. Cominciò a rimboccarsele.
− Adesso devo tornare a dormire, − disse.
− E tu che cosa hai fatto quando la signora ti ha detto ciao? – le chiese con
un sorriso Johanne.
− Devo tornare a dormire. Dam-di-rum-ram.
− Vieni qui, bambina mia.
Yngvar si girò finalmente verso di lei e le fece un piccolo cenno con la
mano.
− Io sono la bambina di papà, − disse lei. – Oltretutto non sono piú una
bambina. Sono una giovane donna. Lo dice papà.
− Tu puoi essere la mia bambina e anche la bambina di papà, − le disse
Yngvar ridendo piano. – E lo sarai sempre! Perfino da grande. Non hai sentito
il nonno? Chiama la mamma «bambina mia»!
− Il nonno chiama «bambina mia» tutte le donne. A dire il vero è una
cattiva abitudine che si porta dietro. Lo dice la nonna.
− Vieni qui, − la chiamò Johanne. – Vieni dalla mamma.
Kristiane le andò incontro con una certa esitazione.
− Mi ha chiamato, − le disse arrampicandosi sul divano e sedendosi in
mezzo a loro due. – Non sapeva come mi chiamo, perché io non la conoscevo.
Mi ha detto «vieni qui» e mi ha sorriso.
− E poi? – le chiese Johanne, sempre con un sorriso.
− Yngvar, − disse Kristiane con espressione seria. – Tu peserai almeno…
Ci pensò un attimo e aggiunse: − … il duecentotrenta per cento circa piú di
me.
− Credo proprio che tu ci abbia azzeccato, − commentò lui lanciando
un’occhiata vergognosa a Johanne. – Solo che io volevo, ecco… che fosse il
mio piccolo segreto.
− Io peso trentun chili, mamma. Basta che fai il calcolo.
− Mi piacerebbe sapere che cosa è successo dopo, tesoro.
− La signora mi ha chiamato e io sono tornata su per le scale. Aveva delle
mani molto calde. Ma io avevo perso una pantofola.
− Pantofole? – disse stupito Yngvar. – Ma tu non avevi…
− La signora è andata a prendertela? – lo interruppe rapida Johanne.
− Sí.
− E tu dov’eri mentre lei andava a prenderti la pantofola?
− Dam-di-rum-ram. Dov’è Sulamitt?
− Sulamitt è morto, tesoro. Lo sai.
− Anche la signora era morta. Dam-di-rum-ram.
Yngvar abbracciò Kristiane e le appoggiò il mento sulla testa.
− Mi dispiace molto di aver investito Sulamitt, − le bisbigliò. – Ma è
passato tanto tempo, ormai.
− Dam-di-rum-ram.
Kristiane aveva tirato su le ginocchia e cingendosi le gambe con le braccia
dondolava appena da una parte all’altra. Sbatteva contro la madre, aspettava
un attimo, poi si appoggiava a Yngvar. Ancora e ancora.
− Ti accompagno a letto, − disse alla fine Johanne.
− Dam-di-rum-ram.
− Vieni.
Si alzò dal divano e prese per mano la figlia. Kristiane la seguí senza
opporre resistenza. Yngvar tese le braccia verso di lei, che però non se ne
accorse. E cosí rimase seduto ad ascoltare il paziente chiacchiericcio di
Johanne e lo strano blaterare di Kristiane.
Sapere che Johanne aveva ragione, si rese conto, era quasi peggio di sapere
che Kristiane era stata testimone di un evento cosí traumatico. Avvilito, si
afflosciò sui cuscini.
Aveva creduto a quel che Johanne gli aveva raccontato, ma non alle
implicazioni che secondo lei ne sarebbero derivate. Un tempo l’aveva
cinicamente coinvolta proprio per la sua capacità di valutazione. Perché gli
serviva. Aveva subdolamente coinvolto Johanne in una indagine a cui lei non
desiderava partecipare, costringendola ad affrontare l’incubo di ogni genitore.
Dei bambini erano stati rapiti e uccisi e lui non riusciva a fare progressi nelle
indagini. Era stata l’esperienza unica che Johanne si era fatta all’Fbi e il suo
sguardo capace di penetrare i comportamenti umani a risolvere il caso e
salvare la vita di una bimba. Si era innamorato di Johanne per diverse ragioni,
ma se ripensava al periodo successivo alle ricerche drammatiche della
ragazzina scomparsa, era stata soprattutto la capacità di Johanne di combinare
intelletto e intuito, razionalità ed emotività ad attirarlo con una forza che non
aveva mai sperimentato prima.
Johanne era una perfetta combinazione di ragione e sentimento.
Ma questa volta, dopo tanti anni faticosi, lui molto semplicemente non le
aveva creduto.
Chiuse gli occhi per l’intensa vergogna che provava.
− Ora mi credi?
Il tono di lei non era aggressivo. Non era nemmeno di rimprovero. Al
contrario: sembrava sollevata. E questo lo fece sentire ancora piú piccolo.
− Ti credo fin dall’inizio, − mormorò. – Solo che…
− Lascia perdere, − gli disse Johanne sedendosi accanto a lui. – Che cosa
facciamo?
− Non lo so. Non ne ho la piú pallida idea. Forse la cosa migliore è
aspettare. Ne ha parlato con te martedí e ne ha parlato con tutti e due adesso.
Forse dovremmo aspettare che sia lei a decidere quando parlarne ancora.
– Non abbiamo la certezza che lo farà.
− No. Ma preferiresti sottoporla a un interrogatorio ufficiale?
Johanne gli posò una mano sulla coscia e sollevò il bicchiere di vino con
l’altra.
− Non ora. No. A meno che non sia assolutamente, assolutamente
necessario.
− Allora siamo d’accordo.
Lei sentí un’insolita ondata di tenerezza nei suoi confronti: una profonda
gratitudine per la sua convinta volontà di difendere la figliastra in un caso in
cui Kristiane aveva informazioni essenziali per risolvere un omicidio ancora
senza colpevole.
− Grazie, − gli disse, molto semplicemente.
− Perché sono qui? – le chiese lui a voce cosí bassa che Johanne capí a
stento.
− Come?
− Perché sono qui? – ripeté lui. – «The 25’ers». Qui, in Norvegia.
Lei guardò il vino roteare nel bicchiere. Il ritmo di Money, money, money
saliva deciso dal piano di sotto. Per un istante valutò la possibilità di battere
qualche colpo sul pavimento: se Kristiane non si addormentava bene, li
aspettava una lunga notte di veglia.
− Non lo so, − rispose. – Ma può darsi che siano anche in altri posti.
− No.
Lui le prese di mano il bicchiere e bevve qualche sorso di vino.
− L’Interpol non ha alcuna informazione su eventuali casi simili nel resto
d’Europa. Negli Stati Uniti, invece, l’Fbi sta lavorando sugli omicidi di…
− … sei omosessuali fra cui si è scoperta una sorta di collegamento, −
completò Johanne. – Ed è un bel rompicapo.
Lui rise piano.
− Ma tu sai proprio sempre che cosa succede in quel dannato Paese, eh?
− Gli Stati Uniti non sono un «dannato Paese». Sono un Paese bello,
bellissimo.
La risata di lui crebbe, gli saliva dritta dal cuore. La strinse piú forte a sé e
lei sorrise. Era tanto che non lo sentiva ridere cosí.
− Potrebbe anche essere solo una coincidenza, − disse Johanne. E visto che
lui non commentava, aggiunse: − Anche se secondo me non è cosí.
− Perché no? – le chiese Yngvar. – Nel caso in cui avessero deciso di…
esportare il loro odio, noi siamo un Paese come tanti altri da cui iniziare.
Anche se a ben guardare…
Cercò una posizione piú comoda.
− … forse siamo meglio degli altri. Abbiamo la costituzione piú liberale
che esista in fatto di tutela dei diritti omosessuali, abbiamo…
− Come un bel po’ di Paesi, − lo interruppe lei. – Per non parlare poi di un
certo numero di Stati degli Usa. Non sarebbe un valido motivo per venire fin
qui. Io credo invece che…
Yngvar si agitava al punto che Johanne si raddrizzò per slacciargli la
cintura.
− Ti amo indipendentemente dal tuo peso, − gli disse. – Ma mi sembra un
po’ ridicolo stringere cosí la cinghia, in senso letterale. E comprarti dei vestiti
piú grandi, caro?
Ci avrebbe giurato: lui era arrossito. Ma si lasciò la cintura a penzoloni.
− Io credo invece che siano venuti qui con uno scopo ben preciso, − riprese
lei.
− E quale?
− Ah, saperlo… Ma di sicuro esiste.
− Merda, − disse lui alzandosi a fatica.
− Dove stai andando?
Yngvar borbottò qualcosa che lei non capí e uscí in corridoio. Dal primo
piano si sentiva arrivare Super Trouper e Johanne cominciò suo malgrado a
canticchiarla. Per togliersi quella snervante melodia dalla testa prese una
penna sul tavolino e un giornale dal portariviste. Scarabocchiò qualche
appunto sul margine di una copia dell’«Aftenposten». Quand’ebbe finito
continuò a rimuginare cosí intensamente da non accorgersi che Yngvar era
tornato se non nel momento in cui le si risedette pesantemente accanto.
Indossava gli ampi pantaloni del pigiama e un’enorme felpa di una squadra di
football americano.
− Guarda qui, − gli disse lei, picchiettando con la penna sul quotidiano.
− Non ci capisco nulla, − ribatté lui, il naso arricciato nel tentativo di
decifrare quegli appunti incomprensibili.
− Il modus operandi, – rispose lei senza giri di parole.
− Cioè?
− Hanno ucciso Sophie Eklund sabotando la sua auto. Quindi: tentativo di
camuffare l’omicidio.
− Sí…
− Niclas Winter è stato liquidato come vittima di una overdose. Cosa che
in un certo senso è anche vera, ma tutto sembra indicare che sia stato il
Curacit a provocarne la morte. In altre parole: anche qui un tentativo di
camuffare l’omicidio.
− Ma com’è possibile fare un’iniezione di Curacit a un uomo adulto e
relativamente in buona salute? − brontolò Yngvar mentre ancora provava a
decifrare gli scarabocchi di Johanne. – Io mi sarei opposto con tutte le mie
forze.
− La prima cosa che mi viene in mente è che possa essere stato ingannato,
che possano avergli fatto credere che si trattasse di qualcos’altro. Eroina, per
esempio.
− Sí…
− Oppure lo hanno aggredito. Il Curacit agisce molto rapidamente. Se lo si
inietta in bocca, ad esempio, dove ci sono molte vene, è solo una questione di
secondi prima che cominci a fare effetto.
− In bocca? Ma non si può mica costringere qualcuno a spalancare la
bocca per farsi iniettare un po’ di Curacit, no?
− Credo che su questo punto non avremo mai una risposta. Lo hanno
cremato. Ma stammi a sentire, tesoro. Ascolta bene. Il punto è che hanno
tentato di camuffare l’omicidio di Niclas Winter proprio come nel caso
Eklund.
Johanne incrociò le gambe nella posizione del loto e si mise a
mordicchiare la penna.
− Runar Hansen, poveraccio, non c’è proprio nessuno che si sia occupato
seriamente del suo caso. Un tossico che viene picchiato a sangue e muore per
le ferite riportate non suscita piú nessun clamore. E per quanto riguarda
Hawre Ghani, lo hanno gettato in mare e reso irriconoscibile. E a essere
sincera, credo proprio che il suo caso sarebbe rimasto in fondo al mucchio, se
non fosse che Silje Sørensen ha sentito qualcosa di… qualcosa di speciale per
quel ragazzo.
− Dove vuoi arrivare con tutto questo, Johanne?
− Vorrei un po’ di vino. Ti va di andare a prendermi un bicchiere?
Yngvar si alzò senza aprire bocca.
Lei fissava i propri appunti. Sei omicidi. In due il tentativo di
camuffamento era evidente; altri due erano passati sotto silenzio
semplicemente perché le vittime erano in fondo alla scala gerarchica della
società umana. Di colpo Johanne cerchiò con forza gli ultimi due nomi.
− Ecco qui, − le disse Yngvar porgendole un bicchiere riempito di vino per
metà. – Non è esattamente uno dei nostri soliti venerdí sera, questo. A parte il
vino.
− Quello che possiamo affermare quasi con certezza, − proseguí Johanne
mentre prendeva il bicchiere senza nemmeno alzare gli occhi, − è che c’è
stato un imprevisto quando Marianne Kleive è stata uccisa. L’assassino è stato
sorpreso da Kristiane, in qualche modo. In pratica, non possiamo sapere se,
nelle intenzioni, anche questo omicidio avrebbe dovuto essere camuffato.
Camuffato da incidente. Da malattia. O da qualcos’altro. Perché non venisse
dato subito l’allarme, l’assassino ha mandato degli Sms dal cellulare della
vittima. Per un’intera settimana.
− Questo significa solo che non vogliono essere presi, che vogliono
guadagnare tempo, o che…
− Guarda invece che cosa è successo al vescovo, − lo interruppe Johanne.
Scoprí in quel momento che nella colonna destra della pagina su cui aveva
scarabocchiato i suoi appunti c’era una fotografia di Eva Karin Lysgaard.
Ruotò il vecchio quotidiano di novanta gradi e disegnò un rettangolo
intorno al piccolo ritratto nel trafiletto che rimandava all’articolo vero e
proprio.
− Non hanno fatto nessun tentativo di camuffare questo omicidio, − disse,
come a sé stessa.
Yngvar ebbe il buon senso di non aprire bocca.
− Anzi, − proseguí lei. – Un accoltellamento per strada. È vero che è
successo l’unico giorno dell’anno in cui si può essere relativamente sicuri di
non incontrare nessuno, ma comunque… L’intenzione era che il cadavere
venisse ritrovato al piú presto. L’intenzione era che l’omicidio…
Trattenne il respiro cosí a lungo che Yngvar fece in tempo a chiedersi se ci
fosse qualcosa che non andava.
− Ma certo! – esclamò Johanne all’improvviso, a voce alta, alzando lo
sguardo su di lui. – Partiamo dal presupposto che la mia teoria sia corretta.
Gli altri omicidi avrebbero dovuto, diciamo, essere presi per qualcos’altro. Lo
scopo era semplicemente…
Lo guardò come se solo in quel momento si fosse accorta della sua
presenza.
− … uccidere quelle persone, − concluse, come stupita. – L’unico scopo
era farle morire! La morte era lo scopo in sé!
Yngvar riteneva ragionevolmente ovvio che si uccidesse qualcuno allo
scopo di farlo morire, ma continuò a tenere la bocca chiusa.
− Sono peccatori, − aggiunse Johanne in tono quasi entusiastico. – E per
questo vanno puniti! Non ha nessuna importanza per «The 25’ers» se noi
troviamo un collegamento, o se arriviamo alla conclusione che sono state
vittime di un crimine. L’importante è che muoiano e che poi gli assassini, gli
esecutori della volontà divina, ecco, non vengano toccati dalle leggi del
mondo.
− Sí… − commentò Yngvar, prudente. Non aggiunse altro.
− Di queste vittime solo una è famosa, − continuò Johanne. – Eva Karin
Lysgaard. E lei è l’unica a essere stata uccisa in modo da attirare volutamente
l’attenzione. E perché, Yngvar?
Si mise in ginocchio e si girò verso di lui. Aveva il viso in fiamme, gli
occhi lucidi e la bocca socchiusa. Gli afferrò una mano e la strinse tanto da
fargli quasi male.
− Perché, Yngvar?
− Perché… − rispose lui. – Perché…
− Perché vogliono che scaviamo nella sua vita! Le indagini sull’omicidio
di Eva Karin Lysgaard sono indagini desiderate, Yngvar! Loro vogliono farci
mettere sottosopra la sua vita. È quello che succede a qualsiasi persona
ammazzata, no? Si rivolta la sua esistenza come un calzino e la si fa a
brandelli nella speranza che salti fuori qualcosa!
− Nella speranza che salti fuori qualcosa, − ripeté Yngvar a bassa voce. –
Aspetta un attimo…
Johanne lo seguí con gli occhi mentre strascicava i piedi fino in corridoio.
Le sembrava di non avere piú fiato e le formicolavano i palmi delle mani
quando lui tornò e, prima ancora di risedersi, le diede una fotografia.
− Chi è? – gli domandò lei.
− Non lo so, − rispose Yngvar. – Questa è la copia di una fotografia che si
era persa.
Le raccontò del rifugio notturno di Eva Karin e di quel ritratto, che si
trovava lí all’indomani dell’omicidio ma un paio di giorni dopo era sparito.
Quando arrivò a Lukas sul tetto sotto la fredda pioggia di gennaio, non poté
trattenersi dal ridere. Alla fine riprese la foto e se la appoggiò su un
ginocchio.
− Lukas è convinto che si tratti di una sorella scomparsa, − spiegò. – Ma
mi sembra evidente che questa foto non può essere stata scattata intorno al
1980. Guarda la qualità dell’immagine, i vestiti. Nemmeno la pettinatura è in
stile anni Ottanta.
− Tu che idea ti sei fatto? – gli chiese Johanne senza distogliere lo sguardo
dal ritratto.
− Ho ipotizzato che potrebbe trattarsi non di una sorella ma di una zia di
Lukas, una zia che nessuno sa che esiste. Una sorella illegittima di Eva Karin.
Questo spiegherebbe perché in effetti assomigli a Lukas.
− Trovi? A me invece sembra che assomigli a Lill Lindfors.
Il volto di Yngvar si aprí in un ampio sorriso.
− Non solo a te. E comunque non ci metteremo molto a scoprire di chi si
tratta. Sia la polizia di Bergen che la Kripos stanno lavorando al caso. Se
questa donna è ancora viva fra qualche giorno sapremo chi è. Anche prima.
− E questo a cosa porterebbe?
− Che cosa? Conoscere l’identità di questa donna?
− Sí. Come puoi sapere che c’entra con l’omicidio di Eva Karin Lysgaard?
− Non lo so, − rispose Yngvar perplesso. – Ma devi ammettere che è
piuttosto strano che Erik Lysgaard si prenda la briga di far sparire una foto
non appena gliene capita l’occasione.
− Gli hai chiesto una spiegazione?
− No… Volevo mantenere il vantaggio. Lui nemmeno lo sa che ho messo
le mani sul ritratto.
Al piano di sotto il film era arrivato a Knowing Me, Knowing You.
Finalmente qualcuno aveva smorzato il volume, ma i bassi continuavano a far
vibrare il pavimento. Johanne riprese la foto.
− Ha un viso molto interessante, − mormorò. – Come dire… forte…
Lui si chinò in avanti e afferrò una manciata di patatine. Fino ad allora era
riuscito a resistere alla tentazione.
− Non è che allontani da me questa ciotola? – mugugnò sgranocchiando
quelle fettine croccanti. – Le patatine sono opera del demonio.
Invece di fare come lui le aveva chiesto, Johanne si alzò e iniziò a
camminare su e giú per la stanza con la fotografia nella mano sinistra.
− Yngvar, − disse con voce piatta, quasi assente. – L’omicidio di Eva Karin
è diverso dagli altri per il modus operandi. Altre differenze?
− Eh?
− Il vescovo era l’unica delle vittime ad avere un ruolo pubblico. Eva
Karin Lysgaard è stata uccisa in modo piú spettacolare degli altri. Poi che
differenze ci sono?
− Io… non saprei…
− C’è ragione di credere che tutte le altre vittime fossero omosessuali, o
che comunque avessero un contatto diretto con il mondo omosessuale.
Yngvar smise di masticare. Di colpo le patatine che aveva in bocca gli
parvero una schifosa bomba calorica. Afferrò precipitosamente un tovagliolo
usato che trovò sul tavolino, ci sputò dentro quella repellente poltiglia
giallognolo-marroncina e cercò di richiuderlo. Qualche pezzetto cadde sul
tappeto e lui si chinò a raccoglierlo imbarazzato.
Johanne non se ne accorse nemmeno. Si era fermata accanto alla finestra.
Rimase a lungo di spalle, poi si voltò e lasciò cadere la mano con la
fotografia.
− Eva Karin è l’unica vittima eterosessuale, − disse. – O almeno, l’unica
vittima apparentemente eterosessuale.
− Che cosa vorresti dire con… Che cosa vorresti dire con apparentemente?
− Questo, − gli rispose Johanne sollevandogli la foto davanti agli occhi. –
Questa donna non è la sorella di Lukas e nemmeno di Eva Karin. Questa
donna è l’amante del vescovo.
Nella casa scese il silenzio. Il film al piano di sotto era finito. Il vento si
era placato. Nemmeno le tavole in legno del pavimento si misero a
scricchiolare quando Johanne tornò al divano e con circospezione, come se
non volesse interrompere un complesso ragionamento, si sedette di nuovo
accanto al marito.
− È impossibile, − disse alla fine Yngvar. – Non abbiamo sentito nessuna
voce… Queste cose si vengono a sapere, Johanne. La gente ne parla. È
impossibile che…
Agguantò la fotografia con modi un po’ piú bruschi di quanto avrebbe
voluto.
− E poi, allora… perché assomiglia a Lukas?
− È solo un caso, niente di piú. Tu, e molto probabilmente anche Lukas,
avete osservato questa fotografia cosí tanto alla ricerca di una chiave per
interpretarla che perfino una somiglianza minima avrebbe finito per colpirvi.
Sono cose che capitano. Le persone si assomigliano, a volte. Tu, per esempio,
tu assomigli molto a…
− Ma se noi non siamo neanche stati sfiorati dal pensiero che Eva Karin
Lysgaard potesse avere una doppia vita, come facevano «The 25’ers» a
saperlo? Sempre che tu abbia ragione su questa assurda… Se tu avessi
davvero ragione… – Yngvar deglutí e si passò le dita fra i capelli, incerto e
demoralizzato. − Nessuno ne sa niente! Come fanno «The 25’ers» a sapere
di… di un’amante lesbica? – Aveva quasi sputato le ultime parole, come se
avessero un sapore amaro. − Nessun altro lo sa!
− Qualcuno lo sa. C’è una persona che lo sa.
− E chi sarebbe?
− Erik Lysgaard. Il marito. Non può non saperlo. Non si vive insieme per
quarant’anni senza venire a sapere una cosa del genere. Dovevano avere…
una sorta di accordo.
− E poi lui deve averlo… raccontato… deve averlo… se aveva intuito
qualcosa su…
Quell’uomo grande e grosso pareva sul punto di mettersi a piangere.
Johanne sembrava non essersi accorta nemmeno di questo.
− Deve averlo raccontato a qualcuno, − disse. – Non a «The 25’ers»,
naturalmente, ma a qualcuno vicino al gruppo. È per questo che desideravano
un’indagine capillare sull’omicidio, Yngvar. Desideravano che scoprissimo
il… peccato di Eva Karin. E lo abbiamo appena fatto.
Yngvar si coprí il volto con le mani; respirava a brevi boccate. Johanne
non si era mai resa conto che la fede gli andava cosí stretta che probabilmente
non sarebbe riuscito a sfilarsela neanche volendo.
− Devi trovare questa donna, − gli bisbigliò, sedendosi cosí vicino a lui da
sfiorargli l’orecchio con le labbra. − E poi devi convincere Erik a raccontarti
chi è la persona a cui ha rivelato il gran segreto.
− La prima cosa non sarà difficile, − disse Yngvar con la voce mezza
soffocata dalle mani che teneva davanti alla bocca. – La seconda… credo
proprio che sarà impossibile.
− Ma devi provarci, − gli disse Johanne. – Almeno un tentativo di parlarne
con Erik Lysgaard lo devi fare.

Il vedovo del vescovo Lysgaard era seduto sulla solita poltrona con lo
sguardo fisso nel vuoto del soggiorno quasi buio. Solo una piccola lampada
accanto al televisore e una candela accesa sul tavolino da caffè diffondevano
un caldo bagliore giallognolo nella stanza. Lukas si era accomodato sulla
poltrona della madre. Gli sembrava di percepirne il calore sulla schiena: i
contorni della madre di cui sentiva la mancanza con una intensità che non
avrebbe mai immaginato prima che morisse.
− Per lo meno adesso sappiamo il motivo, − disse pacatamente. – La
mamma è morta per una sua convinzione. È morta per la sua generosità, papà.
Per la sua fede in Dio.
Erik continuava a tacere. Aveva detto a malapena qualche parola da
quando il figlio era arrivato tre ore prima, si era perfino rifiutato di assaggiare
quel che Lukas gli aveva portato da mangiare. Una tazza di tè era l’unica cosa
che aveva accettato di buttare giú.
Per lo meno si era dimostrato disponibile a leggere il giornale.
In un certo senso lo si poteva considerare un segno di vita, pensò Lukas.
− Perché non mi ha cercato nessuno? – chiese il padre cosí
inaspettatamente che Lukas rovesciò qualche goccia di tè. – Certe cose io non
dovrei venire a saperle dai giornali.
− Hanno telefonato a me. L’ispettore capo Sørensen mi ha chiamato questa
mattina da Flesland. Yngvar Stubø è dovuto tornare a Oslo in tutta fretta e
secondo me non sarebbe stata una buona idea mandare qualcun altro a parlare
con te. A lui ti sei… abituato. Io lo so che non ascolti la radio e non guardi la
televisione. Non rispondi nemmeno al telefono. E allora ho pensato che la
cosa migliore fosse che tu venissi a saperlo da me. Sono arrivato il prima
possibile, papà.
Erik gli lanciò una lunga occhiata esitante. Aveva gli occhi cerchiati di
rosso e dagli angoli della bocca partivano due profonde rughe scure, una per
lato, che scendevano verso il mento. Il naso era piú affilato e come piú grosso.
Alla luce tremolante della candela pareva un uomo mezzo morto.
− Che voce da malato, − gli disse il padre. – Hai il raffreddore?
− Sí –. Lukas accennò un sorriso. − Non sono molto in forma. Ma è bello
saperlo, papà. Che c’era un motivo particolare per cui la mamma è stata
uccisa. Dobbiamo essere fieri che…
Il padre singhiozzò. Un rantolo, un potente sbuffo, poi si passò il dorso
della mano sugli occhi.
− Non ne voglio parlare, − disse ad alta voce.
− Ma papà, è tutto piú facile adesso. Secondo Stubø è una svolta
fondamentale, lui è quasi certo che si risolverà il caso. Adesso per noi sarà piú
facile continuare a vivere, sapendo che…
− Hai sentito?! Hai sentito che cosa ti ho detto?!
Il padre aveva cercato di gridare, ma la voce non gli reggeva.
− Non voglio parlarne! Né ora né mai!
Lukas prese fiato per dire qualcosa, ma cambiò idea.
Non c’era piú niente da dire.
Prima o poi il dolore del padre sarebbe arrivato a una svolta, di questo lui
era certo. Com’era successo a lui quando si era sentito stranamente sollevato
dopo la telefonata di Stubø mentre stava aiutando William a vestirsi, cosí
anche il padre con il tempo avrebbe trovato consolazione nel fatto che Eva
Karin fosse morta per qualcosa in cui credeva.
Non aveva piú senso insistere per sapere chi fosse la donna della
fotografia.
Quando Astrid la sera prima sul tardi gli aveva raccontato di averla data a
Yngvar Stubø lui si era messo a urlare, si era arrabbiato e aveva imprecato.
Nel bel mezzo della sfuriata aveva perfino rotto un vaso di cristallo,
buttandolo per terra in cucina: era esploso in mille pezzi, e solo quando lui
aveva visto lo sguardo terrorizzato della moglie e intuito in lei il timore di
diventare il bersaglio della sua rabbia era riuscito a darsi una calmata.
Adesso non era piú cosí importante quella fotografia.
L’omicidio di sua madre stava per trovare una spiegazione, e a quanto
pareva la soluzione del caso non aveva nulla a che fare con una presunta
sorella. Al telefono Yngvar Stubø gli aveva promesso di rendergli la foto non
appena ne avesse fatta una copia, sottolineando che non la riteneva essenziale
per le indagini come invece aveva creduto all’inizio. Il corpo sarebbe stato
riconsegnato ai familiari e il funerale si sarebbe potuto tenere già nel giro di
cinque giorni.
Questo sarebbe stato un bene per tutti loro.
Anche per suo padre, pensò. Per suo padre sarebbe stato ancor piú
importante che per chiunque altro mettere finalmente un punto fermo.
Quando tutto fosse finito Lukas avrebbe anche potuto, in assoluta
tranquillità, cercare la sorella. Al di là di quello che ne pensava Astrid.
Almeno adesso non aveva piú bisogno di insistere con il padre per sapere
come mai aveva tolto dalla stanza di sua madre quella fotografia per poi
nasconderla in soffitta.
La gola gli faceva ancora male. Il tè aveva un sapore amaro e lui posò la
tazza.
Suo padre si era addormentato. Per lo meno questa era l’impressione che
dava: aveva gli occhi chiusi e la magra cassa toracica si alzava e si abbassava
a un ritmo lento e costante.
Lukas decise di fermarsi lí. Chiuse gli occhi, si coprí con la vecchia
coperta patchwork della madre e si addormentò.
Viaggio di una lunga giornata verso la notte

Quando il telefono squillò gli sembrò che qualcuno lo stesse tirando.


Yngvar grugní, si girò dall’altra parte e cercò di fare in modo che smettessero
di strattonarlo per una gamba. Cominciò a scalciare, si coprí meglio con il
piumino e gemette. La suoneria aumentò di volume e Johanne nascose la testa
sotto il cuscino.
− È il tuo, − disse con la voce impastata di sonno. – Rispondi, dài. Oppure
spegnilo.
Yngvar si mise a sedere di colpo e cercò di capire dove fosse il cellulare.
Annebbiato, lo cercò a tastoni sul comodino: quello vecchio si era rotto e
lo aveva cambiato, ma la suoneria del nuovo non gli era ancora familiare.
− Pronto, − bofonchiò mentre guardava la sveglia che segnava le cinque e
ventiquattro.
− Buongiorno! Sono Sigmund! Stavi dormendo? Hai letto «VG»?
− E secondo te esco a comprare un giornale per leggerlo nel cuore della
notte?
− Lo sai che c’è scritto?
− Improbabile, direi, − borbottò Yngvar. – Ma suppongo che tu abbia in
mente di raccontarmelo, o sbaglio?
− Vai di là, − gemette Johanne.
Yngvar buttò le gambe giú dal letto e si stropicciò il viso con una mano per
cercare di svegliarsi.
− Aspetta un attimo, − disse a bassa voce mentre si infilava ai piedi un
paio di Crocs blu.
Lui e Johanne erano rimasti sul divano a parlare fino alle tre di notte.
Quando infine avevano deciso di interrompere la discussione sugli omicidi,
avevano tentato di rilassarsi guardando un vecchio episodio di NYPD – New
York Police Department, una serie davanti a cui lui si appisolava sempre.
In quel momento si sentiva praticamente incosciente.
Inciampando riuscí ad arrivare in bagno. Si premette di nuovo il cellulare
contro l’orecchio, mentre il getto della sua urina finiva nel water con un
suono gorgogliante.
− Ti ascolto.
− Stai pisciando? Ti metti a pisciare mentre sei al telefono con me?
− Allora, che cosa c’è su «VG»?
− Hanno tutti i nomi, cazzo. I nomi delle vittime.
Yngvar chiuse gli occhi e imprecò tra sé e sé.
− Non riesco proprio a capire da dove prendano certe informazioni, −
proseguí Sigmund. – Ma quando i lupi sono a caccia, be’, ecco… Lo sai, no?
Ci sono giornalisti ovunque, Yngvar! Telefonano a me e a tutti gli altri e…
− A me non ha telefonato nessuno.
− Lo faranno!
Yngvar si trascinò in cucina. Cercò di riempire il bollitore il piú
silenziosamente possibile e con una mano sola.
− Capisco benissimo che siamo nella merda, con tutte queste fughe di
notizie, − disse, e sbadigliò. – Ma era davvero necessario tirarmi giú dal letto
a neanche le cinque e mezza del sabato mattina?
− Non è per questo che ti ho chiamato, in effetti volevo dirti che…
La caffettiera a filtro non era stata pulita dall’ultima volta, e quando
Yngvar la mise sotto il rubinetto l’acqua colpí il vetro con tale fragore che lui
non comprese le parole di Sigmund.
− Non ho capito cos’hai detto, − borbottò con il telefono stretto fra
l’orecchio e la spalla.
Con un misurino prese del caffè macinato dal barattolo.
− Abbiamo trovato la donna della fotografia, − ripeté Sigmund.
Fu come se il solo aroma del caffè fosse bastato a svegliarlo di colpo.
− Che cosa hai detto? – chiese.
− La polizia di Bergen ha trovato la donna ritratta in quella foto. Magari
non sarà rilevante come speravi, ma ci tenevi tanto e allora…
− Come l’hanno trovata? – lo interruppe Yngvar. – E in cosí poco tempo…
come hanno fatto?
− Uno degli impiegati l’ha riconosciuta, ecco come hanno fatto! Altro che
database e collaborazione internazionale e cazzate del genere… Il buon
vecchio metodo del…
− Chi lo sa? − lo interruppe lui.
− Chi lo sa cosa?
− Chi lo sa che l’abbiamo trovata, cazzo!
− Un paio di persone che lavorano nella polizia di Bergen, suppongo. E io,
ovviamente. E adesso anche tu.
− Mi sembrano già abbastanza, − disse Yngvar. – Ascoltami bene: fa’ in
modo che nessuno in centrale a Oslo lo venga a sapere! Nemmeno quelli della
Kripos devono saperlo! Telefona al tuo uomo a Bergen e digli di tenere la
bocca chiusa!
− A dire il vero è una donna. È che tu sei cosí pieno di pregiudizi che io…
− Me ne fotto! Non voglio che finisca sul giornale, ci siamo capiti?
L’acqua bolliva. Yngvar versò quattro misurini di caffè nel filtro, esitò un
istante, poi ne aggiunse un altro. Versò l’acqua calda nella parte superiore
della caffettiera e tornò in bagno.
− E allora questa donna chi sarebbe? – chiese sottovoce.
− Si chiama…
Yngvar sentí il rumore di un foglietto di carta.
− Martine Braekke, − rispose Sigmund. – Si chiama Martine Braekke ed è
viva. E abita a Bergen.
Yngvar si fermò nel bel mezzo del soggiorno. La bottiglia di vino quasi
vuota era rimasta sul tavolo dalla sera prima. Il giornale con gli scarabocchi di
Johanne era buttato sul pavimento, accanto alla ciotola di patatine fritte, che si
era rovesciata.
− Quanti anni ha? – chiese Yngvar sentendo il cuore battergli piú forte.
− Non lo so, − gli rispose Sigmund. – Anzi, no! Ecco qui la data di nascita:
1947. Abita a…
− Sessantadue anni quest’anno. Johanne aveva ragione. Johanne potrebbe
proprio avere ragione!
− A che proposito?
− Devo andare a Bergen, − disse Yngvar. – Vieni con me?
− Adesso? Oggi?
− Appena possibile. Passa a prendermi piú presto che puoi, Sigmund.
Subito! Dobbiamo partire per Bergen.
E prima ancora che il collega avesse il tempo di rispondergli Yngvar
interruppe la telefonata. Riuscí a farsi una doccia, a vestirsi e a bere un tazza
di caffè molto forte senza svegliare né Johanne né le bambine. Quando una
mezz’ora piú tardi l’auto di Sigmund arrivò in Hauges Vei e si fermò davanti
a casa sua, Yngvar era già sceso e lo stava aspettando sul marciapiede.
Era sabato 17 gennaio e lui non aveva neanche un bagaglio.

L’uomo che ventinove giorni prima aveva salvato la vita a una ragazzina
che rischiava di essere travolta da un tram in Stortingsgaten a Oslo stava
bevendo dell’acqua minerale di marca da un bicchiere a gambo lungo. Chissà
se la sua valigia era stata imbarcata. Era arrivato in ritardo. In quel momento
si trovava a bordo del volo British Airways BA0117 da Heathrow
all’aeroporto Jfk di New York, ed era uno dei tre passeggeri in prima classe.
Mentre gli altri due erano già alla quarta flûte di champagne, lui aveva
cortesemente rifiutato un secondo bicchiere di acqua offertogli dallo steward.
Si godeva il posto spazioso e la tranquillità nella parte anteriore della
cabina. La tenda che li separava dai passeggeri in Economy trasformava il
rumore alle loro spalle in un brusio a bassa frequenza che, mescolato al ronzio
sordo e regolare dei motori, gli procurava una certa sonnolenza.
Quell’ultimo tratto del viaggio di ritorno lo stava facendo senza
nascondere chi era. Le misure di sicurezza estreme adottate dopo l’11
settembre per il traffico aereo e i controlli alle frontiere rendevano rischioso
cercare di tornare in patria sotto mentite spoglie. Dal momento che non aveva
prenotato il volo in anticipo e che tutti i posti erano ormai esauriti a parte
quelli in prima classe, aveva dovuto sborsare piú di settemila dollari per un
biglietto di sola andata per gli Stati Uniti. Non aveva potuto fare altrimenti.
Era arrivato il momento di tornare a casa. Doveva tornare a casa, e stava
viaggiando sotto la sua vera identità: Richard Anthony Forrester.
Nei due mesi che aveva trascorso in Norvegia non aveva mai telefonato
negli Stati Uniti. La Nsa, la National Security Agency, controllava tutto il
traffico elettronico in entrata e in uscita dal Paese, e correre certi rischi non
era affatto necessario. Le istruzioni erano state chiare: nel caso in cui lui per
un imprevisto avesse avuto bisogno di mettersi in contatto con
l’organizzazione, avrebbe dovuto chiamare un numero di emergenza in
Svezia. Ma non si era reso necessario.
Durante il soggiorno di Richard A. Forrester in Norvegia il suo portatile
aveva registrato una vivace attività: si trovava in Gran Bretagna, e se ne
prendeva cura un tizio basso e tarchiato con bei denti e folti capelli scuri
tagliati a spazzola. L’uomo aveva viaggiato in lungo e in largo per la
campagna grazie a una offerta speciale della Forrester Travelling. L’agenzia
era di Richard: l’aveva fondata due anni dopo che la moglie e il figlioletto
erano stati uccisi da un pirata della strada ubriaco che era scappato non
appena li aveva travolti, per andare poi a schiantarsi quattro chilometri piú in
là e morire.
In teoria Richard A. Forrester risultava in Inghilterra dal 15 novembre. Si
trattava di una semplice misura di sicurezza, ovviamente, tanto nessuno
avrebbe mai fatto domande in proposito.
Reclinò del tutto il sedile e si coprí con la morbida coperta. Erano solo le
nove del mattino, ma aveva dormito poco la notte prima. Chiudere gli occhi
per un po’ gli avrebbe fatto bene.
Quando Susan e il piccolo Anthony erano morti, la sua vita era finita.
Aveva cercato di seguirli in cielo tentando il suicidio. L’unica cosa che
aveva ottenuto era stata quella di non potersi piú considerare un membro del
corpo dei marine. Di soldati con tendenze suicide non avevano alcun bisogno.
A Richard si prospettava un futuro senza lavoro, senza moglie e senza figlio;
non gli restava che una misera pensione, una valigia di vestiti e un premio
assicurativo legato all’incidente che lui non voleva riscuotere.
− Posso offrirle qualcos’altro? – gli chiese sottovoce la bella assistente di
volo, chinandosi sul sedile vuoto accanto al suo. Con un sorriso aggiunse: −
Caffè? Tè? Uno spuntino?
Lui ricambiò il sorriso e scosse la testa.
I primi tre mesi dopo la catastrofe Richard li aveva passati piú che altro a
vagabondare, di norma ubriaco marcio e accecato da una rabbia incandescente
che investiva tutto e tutti. Una volta era stato giustamente buttato fuori da un
locale notturno a Dallas: semisvenuto, era rimasto a terra in un vicolo finché
un uomo sbucato dal nulla non gli era comparso davanti proponendogli un
incontro con il Signore. E siccome lui non aveva altri incontri in programma,
aveva lasciato che l’uomo lo aiutasse a rimettersi in piedi e lo accompagnasse
a una piccola cappella due quartieri piú in là.
Aveva incontrato il Signore quella stessa notte, come l’estraneo aveva
predetto.
Richard Forrester si passò una mano tra i capelli. Gli piaceva l’idea di
farseli ricrescere, anche se per ora erano solamente dei mozziconi di pochi
millimetri. La sua era una capigliatura folta senza alcun accenno di
stempiatura e lui aveva sempre portato i capelli corti, ma quando se li era
rasati a zero il suo aspetto era stranamente cambiato, e non di poco.
Si accomodò meglio sul sedile, spense la luce sopra la sua testa e abbassò
la tendina.
Il Dio che aveva incontrato a Dallas una notte di novembre del 2002 era
molto diverso da quello che conosceva a casa. I suoi genitori erano metodisti,
come quasi tutti nel quartiere della cittadina di cui era originario. Da bambino
Richard aveva vissuto la religione piú come una presenza sociale in una
comunità pronta ad accoglierti che come un rapporto personale con Dio. Ogni
domenica si andava alla funzione e a volte c’era qualche mercatino legato alla
chiesa; poi c’erano la squadra di calcio e l’associazione delle madri, c’erano
le grigliate e gli intrattenimenti natalizi. Richard era cresciuto all’ombra di un
Dio accomodante che non lo aveva mai colpito piú di tanto.
Quando l’estraneo lo aveva portato in quella piccola cappella Richard
aveva incontrato l’Onnipotente. Era stata la notte della sua rivelazione. Dio
era arrivato con una tale violenza che all’inizio lui aveva creduto di morire,
ma alla fine si era ritrovato in uno stato di pace e di totale abbandono. La
notte trascorsa nella cappella aveva significato la catarsi per Richard
Forrester. Quando finalmente il giorno era sorto lui si era sentito rinato.
La sua vita di marine pronto a sacrificarsi per la patria, la sua vita di marito
e di padre appartenevano al passato.
Era appena iniziata la sua vita di soldato al servizio del Signore.
Non aveva piú toccato un goccio d’alcol.
Mentre Richard Forrester ascoltava il ronzio basso dei motori dell’aereo,
gli apparve davanti agli occhi l’immagine di quella bella bambina.
Lei lo aveva visto. Quando la donna che sarebbe dovuta morire era scesa
da sola nello scantinato si era venuta a creare un’opportunità che lui non
poteva lasciarsi sfuggire. La bambina era comparsa all’improvviso, e per un
attimo Richard si era sentito disperato all’idea di ciò che sarebbe stato
costretto a fare.
Poi aveva capito che si trattava di un’innocente.
Proprio come Anthony, che era nato prematuro e con danni cerebrali che
gli avrebbero impedito per sempre di diventare spiritualmente adulto. La
ragazzina era cosí. Richard lo aveva capito dopo pochi secondi.
Per essere davvero certo della propria intuizione l’aveva tenuta d’occhio.
Dopo averla salvata dal tram era stato facile farsi dire il suo nome da uno di
quei turbati spettatori vestiti a festa. Richard era rimasto dall’altra parte della
strada, a guardare la madre che riportava dentro la figlia. Un tizio, uno che se
ne stava là fuori a intrattenere i sempre piú numerosi ospiti che uscivano a
fumare con la sua drammatica testimonianza oculare dell’accaduto, gli aveva
gioiosamente fornito nome e cognome della madre quando lui aveva
accennato all’intenzione di mandarle dei fiori. L’indirizzo lo aveva trovato su
Internet.
Purtroppo la ragazzina gli aveva impedito di uccidere la donna come
pianificato, camuffando l’omicidio da disgrazia, ma non era stata colpa sua.
Per fortuna lui aveva avuto abbastanza prontezza di spirito da ripulire sia il
corpo sia la borsetta della donna, trovare i biglietti per l’Australia e portar via
il cellulare. Poi si era chiuso nella camera d’albergo di lei, aveva preso i
bagagli e pagato il conto. Il caos alla reception era stato provvidenziale,
trasformandolo in un signor nessuno in mezzo a tutta quella folla di festaioli
ubriachi. La valigia della donna l’aveva nascosta in fondo a uno sgabuzzino
per le scope non chiuso a chiave, sotto un pesante cartone cosí impolverato
che probabilmente nessuno lo toccava da anni. Non si dovevano accorgere
subito che la donna era scomparsa, quindi aveva fatto in modo di guadagnare
tempo inviando degli Sms brevi e insignificanti nei giorni immediatamente
successivi. Ogni minuto in piú fra l’omicidio e l’inizio delle indagini riduceva
le possibilità di trovare il colpevole.
− Posso portarle un cuscino? – sentí improvvisamente sussurrare
l’assistente di volo.
Senza nemmeno aprire gli occhi scosse il capo in segno di diniego.
La madre della bambina era isterica. Comprensibile che gli avesse dato un
ceffone quando aveva salvato la vita alla ragazzina. Ma durante le feste di
Natale lui si era avvicinato alla casa bianca in cui vivevano tenendosi a circa
duecento metri di distanza: un uomo era uscito da una casa vicina e aveva
costeggiato la recinzione scambiando due chiacchiere con le bambine che
giocavano in giardino; la madre aveva visto tutto dalla finestra e si era
spaventata a morte, sembrava fuori di sé quando le aveva fatte rientrare.
Un po’ come Susan, aveva pensato, sebbene non si concedesse di pensare
molto spesso a Susan. Anche lei era sempre in ansia per Anthony.
Non era la prima volta che lo sperimentava: le persone che lui sorvegliava
finivano per avere l’angosciante sensazione di essere osservate. Naturalmente
però non lo vedevano mai, cosí come la madre della bella bambina non lo
aveva visto quando lui l’aveva seguita fino a scuola nella sua anonima auto a
noleggio, ricevendo un’ulteriore conferma del fatto che si trattava di una
bambina speciale. E comunque lei aveva percepito la sua presenza. Il padre
della ragazzina, che Richard ci aveva messo un po’ di tempo a capire chi
fosse, si era lasciato prendere dall’ansia già la prima volta. Richard doveva
scoprire se la bambina si comportava in modo diverso quando non era con la
madre, e aveva seguito e osservato padre e figlia in tre diverse occasioni.
L’uomo aveva iniziato quasi subito a gettarsi occhiate alle spalle.
Anche il tizio che viveva sui colli sopra la città in una distorta imitazione
di famiglia aveva avuto la stessa reazione, si era sentito osservato. Il suo
amante gli era sembrato un pazzo isterico quando si era messo a zompettare a
destra e a manca scattando fotografie a tracce di pneumatici un lunedí di due
settimane prima. Richard si era tenuto a debita distanza, in osservazione. Due
ragazzi di colore erano arrivati a bordo di una grossa Bmw. Secondo lui erano
pachistani, Oslo ne era piena. Avevano evidentemente una qualche faccenda
in sospeso, perché si erano fermati nel piccolo spiazzo davanti all’abitazione
della famiglia fasulla ed erano rimasti lí a lungo, gesticolando energicamente
e fumandosi una montagna di sigarette prima di ripartire.
Il sodomita aveva sentito la sua presenza, ma non l’aveva visto. Come tutti
gli altri.
Non lo vedevano e, riflettendoci bene, nemmeno sentivano la sua presenza.
Ciò che sentivano era la vicinanza del Signore, pensava Richard Forrester.
E se quella copia pervertita di un padre di famiglia stavolta l’aveva scampata,
presto sarebbe arrivato il suo momento.
Richard Forrester sorrise e si addormentò.

La casa inerpicata sul ripido pendio pareva addormentata. Le finestre erano


piccole, divise in quattro da listelli in legno messi a croce. L’edificio in legno
era stretto fra altre due abitazioni dello stesso genere, ma piú grandi, e dava
un’impressione come di timidezza, di vergogna quasi. Un angusto passaggio
conduceva a un minuscolo cortile sul retro. C’era una bicicletta da donna
posata contro un alto muro e un gruppo di variopinte brocche in ceramica
impilate in un angolo in attesa che l’inverno finisse. Una modesta scalinata in
pietra saliva fino a una porticina verde su cui era appesa una targhetta in
porcellana con un nome. Il nome e i fiori di campo tutt’intorno erano scoloriti
dalla pioggia e dal vento.
«M. Braekke», era scritto in corsivo.
Yngvar Stubø esitò. Fermo sui gradini di pietra, con la schiena appoggiata
alla semplice ringhiera in ferro battuto, tentò di ricapitolare tutto dalla a alla z
per l’ennesima volta.
Stava per privare una donna di un segreto che doveva aver mantenuto per
quasi mezzo secolo. Premendo il dito sul campanello in ottone sotto la
targhetta con il nome si sarebbe intromesso in una esistenza che era già stata
sufficientemente difficile. La persona che abitava in quella casetta bianca
aveva fatto le sue scelte e vissuto la sua intera vita all’ombra di un altro
matrimonio.
La donna di servizio che lavorava alla stazione della polizia locale e che
aveva riconosciuto la giovane ritratta nella fotografia lo aveva ragguagliato
durante il viaggio in auto da Flesland. Martine Braekke insegnava alla
Katedralskole di Bergen, era nubile e senza figli. Viveva una vita tranquilla,
piuttosto riservata, era un’insegnante rispettata e dava lezioni private di
pianoforte. Un tempo lei stessa era stata una promettente pianista, ma a
diciannove anni era stata colpita da una rara forma reumatica che aveva
interrotto per sempre la brillante carriera che le avevano pronosticato.
Fragili, prudenti note si levarono all’improvviso dall’interno.
Yngvar inclinò la testa e ascoltò il pezzo al pianoforte. Era una melodia
che non conosceva, lieve e giocosa, e gli fece venire in mente la primavera.
Sollevò una mano e suonò il campanello.
La musica si interruppe.
Quando la porta si aprí la riconobbe subito. Era ancora bella, nonostante
gli occhi cerchiati di rosso e la bocca gonfia e segnata dal pianto.
− Mi chiamo Yngvar Stubø, − le disse lui tendendole la mano in segno di
saluto. – Sono della polizia. Dovrei parlarti di Eva Karin Lysgaard, mi
dispiace.
L’angoscia che lesse nel suo sguardo lo spinse a gettare un’occhiata di lato,
come se fosse ancora in suo potere cambiare idea e sparire.
− Sono venuto solo, − proseguí a bassa voce. – Vedi? Sono solo.
Lei lo fece entrare.

− Mi piacerebbe se la smettessi di insistere su questo testamento, − disse la


segretaria dell’avvocato Faber a suo marito mentre imburrava il pane per il
pranzo. – Tu con questa faccenda non c’entri niente di niente.
Bjarne era seduto al tavolo della cucina con una copia del documento fra le
mani e tenendolo a distanza ravvicinata strizzava gli occhi per leggere quelle
piccole lettere.
− Cerca di capire, − le disse con un tono insolitamente stizzito. – Può darsi
che l’abbiano ingannato, quell’uomo! Per fregargli l’eredità, per altro
considerevole!
− Niclas Winter è morto. Non ha eredi. C’era scritto sul giornale. A un
morto non si può sottrarre un bel niente. Gli è già stata sottratta la vita.
Sbuffò decisa e versò una generosa porzione di salmone sopra le uova
strapazzate.
− Ecco qui. E adesso mangiamo.
− Parlo sul serio, Vera! – Lui batté il pugno sul tavolo. − Potrebbe trattarsi
di un reato! Qui c’è scritto che…
Con l’altra mano colpí «VG», aperto sulle due pagine di un articolo
dedicato a una terribile banda di criminali americani che avevano ucciso sei
persone motivati da un folle odio contro gli omosessuali. Bjarne Isaksen era
scioccato. Non che a lui piacessero le porcherie con cui si intratteneva quella
gente, ma c’erano pur sempre dei limiti. Non si poteva andare in giro ad
ammazzare le persone in nome di Dio solo perché non si era entusiasti della
loro condotta amorosa.
− Niclas Winter è stato ucciso, è scritto qui!
Vera si voltò verso di lui, si mise le mani sui fianchi tenendo i gomiti in
fuori e si schiarí la voce, come se stesse prendendo la rincorsa per quel che
aveva da dire.
− Il testamento non c’entra un tubo con la morte di Niclas Winter. Ti ho
letto a voce alta quell’articolo per ben tre volte e non si fa mai parola né di
soldi, né di eredità, né di testamenti. Questi pazzi assassini che arrivano dagli
Stati Uniti hanno ucciso senza fare distinzioni, Bjarne! Mica lo sapevano che
esisteva un pezzo di carta rinchiuso in un vecchio armadio polveroso nello
studio dell’avvocato Faber! – Man mano che parlava andava infervorandosi. –
Sono tutte cretinate, – concluse stizzita, voltandosi di nuovo verso il bancone
della cucina.
− Io telefono alla polizia, − insistette Bjarne, testardo. – Posso sempre
chiamare senza dire chi sono e chiedergli di parlare con l’avvocato Faber del
testamento a favore di Niclas Winter. Una soffiata come tante altre, sai, ci
sono dei numeri di telefono apposta per chi vuole restare anonimo. Lo faccio,
Vera. Lo faccio adesso.
Lei fece un gran sospiro eloquente e si passò una mano delicata fra i
capelli.
− Tu non chiamerai la polizia. Se c’è qualcuno in questa casa che deve
parlare con i tutori dell’ordine, quel qualcuno sono io. Per lo meno potrei
spiegare come…
Si passò di nuovo la mano fra i capelli ben acconciati, nervosamente.
− … come mai ho accesso legale al testamento, − concluse.
− E allora fallo! – la incalzò Bjarne. – Telefona!
Vera posò il coltellino del burro con un gesto impetuoso. Lo guardò con
l’espressione piú severa che riuscí ad assumere, ma lui non cedette.
Imbronciato come un ragazzino la fissava senza alcun segno di cedimento.
− E va bene, − ringhiò lei, e andò a prendere il telefono.

− Era Yngvar Stubø, − disse Lukas un po’ stupito mentre posava il telefono
sul tavolino da caffè. – Sta venendo qui.
− E perché? Non avevi detto che era tornato a Oslo?
Per lo meno suo padre aveva ricominciato a parlare.
− A quanto pare è di nuovo qui.
− E perché ha telefonato?
− Vuole parlare con te. Di persona.
− Con me? E perché?
− Non… non lo so. Ma ha detto che si tratta di una cosa importante. Ha
anche detto che ha cercato di telefonarti. Hai staccato la spina del telefono
fisso?
Lukas si chinò a sbirciare dietro la poltrona del padre.
− Ma non si fa. È importante che tu sia reperibile.
− Ho il diritto di essere lasciato in pace.
Lukas non ribatté. Inquieto, cominciò a passeggiare avanti e indietro per il
soggiorno. Solo allora si rese conto che in quella casa era da prima di Natale
che non si facevano le pulizie. A eccezione della gigantesca pila di riviste in
abbonamento che troneggiava accanto al televisore, era tutto a posto. Il padre
teneva in ordine, questo sí, ma niente di piú. Quando Lukas passò il dito sulla
liscia superficie della credenza, rimase una traccia lucida. Il presepe era
ancora nella sua teca; la lampadina interna si era fulminata e quello che prima
appariva come un quadro vivente fortemente evocativo si era ridotto a un
lugubre ricordo di un Natale che lui avrebbe preferito dimenticare. Quando
svoltò l’angolo del soggiorno a L e si avvicinò al divano, dei batuffoli di
polvere si sollevarono spostandosi silenziosamente sul parquet. Si fermò,
appena fuori dal campo visivo del padre, e annusò l’aria.
C’era odore di vecchio. Di persona vecchia. Di casa vecchia. Non c’era
puzza, ma odore di chiuso con una nota dolciastra.
Lukas decise di pulire un po’ e andò verso il corridoio per prendere secchio
e detersivi nello sgabuzzino. Se non ricordava male, lí dentro avrebbe trovato
anche l’aspirapolvere. Quando però gli venne in mente che Yngvar Stubø
stava per arrivare, tornò sui suoi passi.
− Cambiamo un po’ l’aria, − disse a voce alta, e raggiunse la finestra del
soggiorno.
Faticò a tirare su il chiavistello, che gli ferí un pollice quando finalmente
cedette.
− Merda, − disse sottovoce succhiandosi il dito.
Che Yngvar Stubø fosse tornato a Bergen poteva essere un buon segno. A
quanto pareva le indagini stavano procedendo con una certa rapidità. Lukas
non aveva ancora sentito la radio o letto un quotidiano quel giorno, ma Stubø
gli era sembrato ottimista quando aveva telefonato.
Sentí il sapore dolciastro del ferro sulla lingua e si guardò il pollice
dolorante. Quando andò all’armadietto dei medicinali di sua madre per
cercare un cerotto suonarono il campanello.
Con il dito in bocca andò ad aprire.

− Avanti! – disse Silje Sørensen ad alta voce alzando gli occhi verso la
porta.
Johanne la socchiuse con cautela e infilò la testa nell’apertura.
– Avanti, − le ripeté l’ispettore capo con un cenno della mano. – Sono
contenta che tu sia riuscita a venire. Questa faccenda di «VG» mi ha fatto
diventare paranoica. Secondo Yngvar ho bisogno di un aggiornamento
immediato da parte tua. Non mi fido neanche piú del mio cellulare.
− Credo sia davvero l’ultima cosa di cui devi fidarti, − commentò Johanne
e si accomodò sulla sedia degli ospiti. – Avete idea da chi possa essere partita
la fuga di notizie?
− No. Abbiamo sempre avuto il problema della stampa che sa troppo, ma
questo è davvero il peggior esempio che io ricordi. Ogni tanto mi chiedo se i
giornalisti non ottengano le informazioni con il ricatto. Magari sanno
qualcosa su qualcuno di noi e fanno pressioni.
Di colpo sorrise e posò una bottiglietta di acqua minerale Farris e un
bicchiere davanti a Johanne.
− Hai sempre tanta sete, − le spiegò. – E io sono curiosissima. Yngvar mi
ha detto che il caso di Bergen molto probabilmente ha preso tutt’altra
direzione.
− Ecco… io non sono…
Squillò il telefono.
Silje esitò un istante, poi le fece un gesto di scusa, sollevò il ricevitore e se
lo portò all’orecchio.
− Sørensen, − rispose concisa.
Era qualcuno che aveva molto da raccontare. Dopo un po’ Johanne
cominciò a sentirsi imbarazzata. L’ispettore capo praticamente non apriva
bocca e la fissava con un’espressione neutrale, quasi assente. Alla fine
Johanne decise di aspettare in corridoio: assistere a una conversazione da cui
lei era esclusa la faceva sudare, e stava proprio per alzarsi quando Silje
Sørensen scosse energicamente il capo e sollevò una mano.
− E stai venendo qui a portarcelo? – chiese al telefono. – In questo
momento?
Di nuovo scese il silenzio.
− Bene, − disse Silje. – Immediatamente, per favore. Resto qui in ufficio
finché non arrivi.
Riattaccò. Sopra il dritto naso affilato si era formata una ruga di stupore
che correva obliqua fino al sopracciglio sinistro.
− Un testamento, − disse con aria pensierosa.
− Che cosa?
− Una donna che a quanto pare lavora come segretaria in uno studio legale
qui in città ha chiamato il numero per le segnalazioni. Ha raccontato di avere
per le mani un testamento a favore di Niclas Winter che secondo lei potrebbe
essere rilevante per le indagini sul suo omicidio.
− E…?
− Per fortuna la segnalazione è stata raccolta in tempi piuttosto rapidi e
uno dei miei ragazzi è riuscito a contattare questa donna. Sta venendo qui
proprio adesso, con il testamento.
− Ma… ma se la teoria su «The 25’ers» è corretta, che ruolo potrebbe
giocare un testamento?
Silje si strinse nelle spalle.
− Non ne ho idea. Ma il testamento sta arrivando e fra poco lo vedremo. E
tu cos’hai da raccontarmi? Yngvar mi ha proprio incuriosita, devo
ammetterlo.
Johanne aprí la bottiglietta e si versò dell’acqua nel bicchiere. L’anidride
carbonica sibilava un po’ e le solleticò le labbra quando bevve.
− Eva Karin Lysgaard non era semplicemente ben disposta nei confronti
degli omosessuali, − disse alla fine posando il bicchiere. – A quanto pare, era
lesbica lei stessa. In questo senso la teoria su «The 25’ers» ne uscirebbe
ulteriormente rafforzata.
L’espressione che si dipinse sul volto di Silje Sørensen non sarebbe stata
diversa se le avesse raccontato che Gesú Cristo in persona era tornato sulla
Terra e aveva occupato un letto in camera di Kristiane.
Marcus Koll jr si tirò sbigottito a sedere sul letto e mormorò qualcosa che
né Rolf né Lillemarcus furono in grado di decifrare.
− Hai dormito come un ghiro, − gli disse Rolf ridacchiando, mentre posava
un vassoio con caffè, succo di frutta e un toast al formaggio e prosciutto sul
suo comodino. – È l’una passata!
− Perché mi avete lasciato dormire cosí tanto?
Marcus si sottrasse all’abbraccio, era sudato e cercò di inumidirsi la bocca
per scacciare quel cattivo sapore di sonno.
− Ho come l’impressione che tu non abbia chiuso occhio questa notte, −
gli ripose Rolf. – E quando ho visto che finalmente eri tornato a letto non ho
avuto il coraggio di svegliarti.
− Abbiamo fatto volare l’elicottero, − gli disse entusiasta Lillemarcus. –
Che figata!
− Con questo freddo! – gemette Marcus. – Sulle istruzioni c’è scritto che la
temperatura deve essere sopra lo zero per usarlo. Altrimenti il carburante si
congela.
− Non potevamo mica aspettare la primavera! – ribatté Rolf con un sorriso.
– Ed è andata bene. Avevo tutto sotto controllo, Marcus.
− E io, − aggiunse il ragazzino, − lo sai che io lo so guidare da solo?!
− Per lo meno una volta che è in volo, − precisò Rolf. – Ecco qui i giornali
di oggi. Che orrore, questa storia della banda assassina! Siamo anche andati a
fare la spesa. Abbiamo comprato un sacco di cose buone per la cena. Ti
ricordi che abbiamo ospiti, vero?
Marcus non ricordava minimamente che avessero ospiti.
Afferrò «VG». La prima pagina gli strappò un singhiozzo.
− Ti senti male, papà? È per questo che hai dormito cosí tanto?
− No, no. Sono solo un po’ raffreddato. Grazie mille per la colazione.
Magari adesso me la godo mentre leggo il giornale e poi vi raggiungo di sotto,
eh?
Non alzò nemmeno lo sguardo su Rolf.
− Va bene, − disse il ragazzino e se ne andò.
− Tutto bene? – gli domandò Rolf. – Vuoi qualcos’altro?
− Tutto bene, grazie. Molto gentile. Scendo tra una mezz’oretta, okay?
Rolf esitava. Lo scrutò. Marcus esibí un’espressione indifferente e si leccò
significativamente il dito per sfogliare il giornale.
− Goditela, − gli disse Rolf e scese da Lillemarcus.
Non sembrava molto sincero, in effetti.

− A dire il vero io intendevo parlare a quattr’occhi con te, − disse Yngvar


Stubø spostando lo sguardo da Erik a Lukas Lysgaard e viceversa. – A essere
sincero mi sentirei piú a mio agio, se fosse possibile.
− A essere sincero, − ribatté Erik, − non è esattamente quello che ti fa
sentire piú a tuo agio la cosa importante, in questo momento.
− Accidenti! – mugugnò Yngvar.
Erik aveva decisamente riacquistato vivacità. Negli altri incontri aveva
mostrato un’indifferenza ai limiti dell’apatia, ora invece usava un tono
aggressivo, quasi ostile. Yngvar esitava: non aveva previsto di parlare con un
uomo nello stato d’animo in cui Erik a quanto pareva si trovava.
− Mi sono stufato, − disse Erik. – Mi sono stufato di vederti arrivare
sempre senza niente in mano. A quanto ho capito da quel che mi ha raccontato
Lukas c’è stata una svolta nelle indagini. Quindi mi viene da pensare che
dovresti avere di meglio da fare che venire qui. Se hai intenzione di stressarmi
ancora con la passeggiata serale di mia moglie, allora sappi che…
D’un tratto fu come se tutte le sue energie si fossero esaurite: si afflosciò
letteralmente su sé stesso, le spalle si ingobbirono e la testa crollò sulla piatta
e magra cassa toracica.
− Non ne parlo, di quella passeggiata, te l’ho già detto. Non voglio.
− Non è necessario, − gli rispose tranquillo Yngvar. – Io so dove stava
andando Eva Karin.
Erik sollevò lentamente il capo. I suoi occhi erano incolori. Il bianco era
diventato azzurrognolo ed era come se tutte le lacrime avessero scolorito il
blu delle iridi. Yngvar non aveva mai visto uno sguardo cosí vacuo. Non
sapeva bene che cosa dire.
– Lukas, − disse Erik in tono fermo e sereno, − vorrei che te ne andassi.

Ora il tempo poteva ricominciare a scorrere, pensò Martine Braekke


accendendo un fiammifero.
Il ritratto di Eva Karin era sempre stato nella camera da letto, dove nessuno
entrava mai, ma adesso lo aveva spostato nel soggiorno. Era stata un’idea di
quel poliziotto: alla fine le aveva chiesto se non avesse una fotografia di Eva
Karin e lei era andata a prenderla senza profferir parola. Quell’uomo
corpulento aveva tenuto il ritratto fra le mani, a lungo. Pareva quasi che stesse
per piangere.
Martine avvicinò il fiammifero allo stoppino della grande candela bianca.
La fiamma era pallida, quasi invisibile, e lei spense il lampadario. Per un
attimo restò ferma lí, in piedi, poi prese una piccola stella di Natale rossa e la
sistemò accanto al ritratto sul davanzale della finestra. La polvere luccicante
sulle foglie risplendeva alla luce tenue della candela.
Eva Karin le sorrideva.
Martine spostò una sedia accanto alla finestra e si sedette.
Un intenso sollievo l’aveva invasa. Era come se finalmente, dopo tutti
quegli anni, avesse avuto una sorta di riconoscimento. Fino a quel momento
aveva vissuto in solitudine il dolore per la morte di Eva Karin, cosí come per
quasi cinquant’anni aveva vissuto in solitudine la sua vita con Eva Karin.
Quando Erik si era presentato lí il giorno dopo l’omicidio, lei lo aveva fatto
accomodare, ma se n’era pentita subito. Era venuto a cercare conforto, a
condividere il suo dolore con lei, con l’unica persona che conoscesse Eva
Karin per quella che realmente era. Martine però aveva subito capito che loro
due non avevano nulla da condividere. Avevano condiviso Eva Karin, ma
adesso lui non c’entrava piú niente con lei e lei lo aveva respinto senza
piangere una lacrima.
Con il poliziotto corpulento era stato diverso.
Lui l’aveva trattata con rispetto. Con ammirazione, quasi, mentre
camminava avanti e indietro per il piccolo soggiorno parlando a bassa voce e
fermandosi davanti a oggetti che trovava affascinanti. L’unica cosa che le
aveva chiesto, cosa che a suo dire costituiva lo scopo della visita, era se le
fosse mai capitato di parlare con qualcuno della sua relazione con Eva Karin
Lysgaard.
Certo che no. Era la promessa che aveva fatto in quel soleggiato giorno di
maggio del 1962, quando Eva Karin aveva a sua volta promesso a lei di non
lasciarla mai piú. L’unica condizione era che il loro amore fosse solo ed
esclusivamente loro.
Martine non avrebbe mai infranto una promessa.
E il commissario aveva creduto alle sue parole.
Quando le aveva detto che il funerale sarebbe stato mercoledí e lei aveva
replicato che preferiva non andarci, lui si era offerto di fare un salto lí dopo la
cerimonia. Per raccontare, per starle vicino.
Lei aveva cortesemente rifiutato, ma era stato un pensiero gentile.
Martine spostò la sedia piú vicina alla finestra e passò l’indice sulle labbra
di Eva Karin. Il vetro era freddo sotto il polpastrello. La pelle del suo viso era
sempre stata cosí morbida, cosí incredibilmente morbida e sensibile.
Il poliziotto aveva detto che avrebbero fatto tutto il possibile per mantenere
il riserbo sulla loro storia: rendere pubblici certi dettagli di sicuro non sarebbe
servito a risolvere il caso, le aveva detto, anche se naturalmente lui non
poteva garantire niente.
In quel momento, mentre sedeva alla finestra e guardava la città dietro il
ritratto dell’unico amore della sua vita, capí che non gliene importava poi
molto. Certo sarebbe stato meglio per Erik se il loro segreto fosse rimasto
tale. Anche per Lukas. Ma per lei non aveva alcuna importanza, si rese conto.
Stupita raddrizzò la schiena e inspirò a fondo.
Non provava nessuna vergogna.
Aveva amato Eva Karin nel modo piú puro.
Lei, soltanto lei.
Si alzò lentamente e spense con un soffio la candela.
Prese la fotografia tra le mani.
Martine aveva quasi sessantadue anni.
La sua vita era finita, ormai. Ma forse c’era un’altra strada da prendere:
un’esistenza nuova, da persona vecchia e saggia.
Sorrise a quel pensiero.
Vecchia, saggia e libera.
Martine era finalmente libera. Riportò la fotografia sul comodino. Yngvar
Stubø le aveva raccontato del suo lutto quando moglie e figlia erano rimaste
uccise in un grottesco incidente che lo faceva sentire in colpa. La voce gli
tremava mentre le diceva in tono pacato che la vita aveva iniziato a girare in
tondo, un’eterna danza di dolore da cui lui non vedeva via d’uscita.
Chiuse la porta della camera da letto.
Il tempo poteva ricominciare a scorrere e lei disse una breve preghiera per
quel poliziotto buono che le aveva fatto capire che non era mai, mai troppo
tardi per ricominciare.

L’agente Knut Bork salutò con un cenno della mano Johanne prima di
porgere a Silje Sørensen un documento.
− Ecco qui, − le disse. – Non ho neanche avuto il tempo di dargli
un’occhiata.
Silje Sørensen aprí un cassetto e ne tirò fuori un paio di occhiali da lettura.
− A sentire la donna che l’ha portato, si tratterebbe di un patrimonio
piuttosto consistente, − proseguí Knut Bork. – E il testatore sarebbe morto
parecchi anni fa senza che Niclas Winter ricevesse nemmeno un briciolo
dell’eredità che gli spettava, secondo queste carte.
− Posso vedere? – chiese cautamente Johanne.
− Qui c’è bisogno di qualcuno che se ne intenda di giurisprudenza, −
commentò Silje senza nemmeno alzare gli occhi. – Questo è un documento a
dir poco sensazionale.
− Io me ne intendo di giurisprudenza.
Sia Knut Bork che il suo superiore la guardarono stupiti.
− Sono un giurista, − ripeté Johanne. – Anche se ho fatto il dottorato in
Criminologia, prima mi sono laureata in Legge. Non mi ricordo granché di
diritto successorio, ma se avete un codice civile a portata di mano il succo lo
capiamo di sicuro.
− Non finisci mai di stupirmi, − le disse con un sorriso Silje Sørensen
porgendole il testamento prima di avvicinarsi alla libreria accanto alla finestra
e tirarne fuori il grosso volume rosso del codice civile. – Ma se anche tu ne
sai quanto me del testatore, sarai d’accordo che ci servirà un intero esercito di
avvocati.
Johanne scorse la prima pagina, poi sfogliò il documento e diede
un’occhiata all’ultima.
− No, − disse. – Il nome non mi è nuovo, ma non so chi sia. Quello che
invece so è che questo testamento sarà valido solo…
Alzò gli occhi.
− … solo per i prossimi tre mesi, − concluse. – Fra tre mesi non varrà la
carta su cui è scritto. Almeno credo.
− Maledizione! – esclamò Silje mettendosi le mani sui fianchi. – Adesso sí
che non ci capisco piú niente. Ma proprio niente.

Richard Forrester capí che stava arrivando un altro pasto. Il profumo del
cibo caldo lo aveva svegliato. Meglio cosí. Anche se era ancora leggermente
annebbiato dal sonno profondo in cui era caduto, sentiva una certa fame. Il
menu che l’assistente di volo, anziché svegliarlo, aveva premurosamente
posato sul sedile vuoto accanto al suo aveva un aspetto invitante. Lo esaminò
con cura, poi scelse coscia d’anatra in salsa d’arancia, riso selvatico e insalata.
Come antipasto chiese degli asparagi freschi alla donna bionda che si chinò a
ritirare il menu.
− Acqua, per favore.
Sollevò una mano per rifiutare il vino bianco che lei gli stava offrendo.
Quando alzò la tendina che copriva l’oblò una luce intensa lo investí. Era
mezzogiorno e mezza, ora norvegese. Si tirò un po’ su per guardare
l’Atlantico sotto di lui, ma una coltre di nubi bianco-grigiastre si stendeva
sotto l’aereo come un enorme piumino, rendendo uniforme e poco
interessante il panorama. Solo un aereo che volava nella direzione opposta e
si trovava molto piú a sud interruppe la monotonia di tanto bianco. Quella
luce era fastidiosa e lui riabbassò la tendina a metà.
Sentiva una pace benedetta.
Gli capitava sempre dopo che aveva portato a termine un incarico.
Odiava i pervertiti con una intensità che gli aveva ridato la vita quando
ormai l’alcol stava prendendo il sopravvento su tutto il resto. Ne aveva
conosciuti un paio durante il servizio militare, cani codardi che tentavano di
nascondere le innominabili porcate che facevano insieme e che
immaginavano di essere abbastanza in gamba da poter difendere la patria. A
quel tempo, prima della redenzione, si era limitato a denunciarli. Tre casi
erano andati smarriti nei meandri della burocrazia militare senza che per
questo lui ci perdesse il sonno. Per lo meno, ponendoli al centro
dell’attenzione li aveva messi a disagio. Il quarto sodomita non era riuscito a
farla franca. Lo avevano radiato con disonore. A dire il vero, era stato a causa
delle avances a un giovane soldato semplice che aveva minacciato di
denunciare l’intero corpo dei marine, ma di sicuro non aveva guastato che lui
aveva fatto rapporto sull’esistenza di una sconveniente pornografia.
Il profumo di cibo si fece piú intenso.
Tirò fuori la Bibbia dalla borsa a tracolla.
Era morbida e consumata, con innumerevoli minuscole annotazioni ai
margini dei fogli sottili. Qua e là il testo era stato evidenziato in giallo. In
alcuni punti era cosí sbiadito che si faceva fatica a leggerlo, ma non
importava. Richard Forrester conosceva la sua Bibbia e i passi salienti li
sapeva a memoria.
Quando aveva dodici anni uno di loro ci aveva provato con lui.
Chiuse gli occhi e posò la mano sulla Bibbia.
La sua vita dopo la redenzione era stata la dimostrazione che la morte di
Susan e Anthony aveva uno scopo: dovevano tornare a Dio perché il Signore
potesse raggiungere lui. Con moglie e figlio vivi lui era rimasto sordo alla
chiamata del Signore, e doveva purificarsi prima di poter diventare un valido
servitore nella lotta per il trionfo del bene.
Quando l’uomo che lo aveva raccolto in quel vicolo a Dallas qualche mese
piú tardi lo aveva presentato a Jacob, lui era pronto. Jacob si chiamava
semplicemente Jacob ed era l’unico di «The 25’ers» che Richard avesse mai
conosciuto. Per quel che gli era dato sapere avrebbero potuto esserci anche
altri come lui a bordo di quello stesso aereo, e si sorprese a osservare di
nascosto la donna dalla parte opposta del corridoio.
In effetti aveva dovuto aspettare un altro paio di anni per conoscere il
nome dell’organizzazione e il suo significato. Quando aveva capito che
faceva causa comune con i musulmani, all’inizio si era infuriato. Jacob aveva
cercato di convincerlo che si trattava di una collaborazione giusta e
necessaria: condividevano i medesimi obiettivi e in piú i musulmani avevano
maggior esperienza di loro. Quelle argomentazioni però non avevano
convinto Richard, come non era servito fargli sapere che il sostegno
economico fornito dagli estremisti islamici era sostanzioso. A Richard
Forrester era chiaro che il gruppo si autofinanziava quasi totalmente e gli era
inconcepibile che dovesse prendere soldi da terroristi. A quell’epoca aveva
già ucciso due volte nel nome di Dio, ma non gli sarebbe mai passato per la
testa di ammazzare degli innocenti. Era rimasto scioccato esattamente come
tutti gli altri quando due aerei si erano schiantati sul World Trade Center e
odiava i musulmani quasi con la stessa intensità con cui odiava i sodomiti.
Solo quando una notte era stato svegliato dall’intensa presenza del Signore e
aveva ricevuto un ordine divino, solo allora aveva ceduto.
Dopo ogni incarico una cospicua somma di denaro veniva depositata sul
suo conto corrente personale. I soldi venivano dichiarati come compensi per
viaggi e attività organizzative e successivamente denunciati come tali al fisco.
All’inizio gliene derivava uno spiacevole imbarazzo.
Quei compensi cosí lauti lo facevano sentire un sicario.
Di colpo mise via la Bibbia.
L’assistente di volo tirò fuori il suo tavolino e gli serví l’antipasto.
Veniva ricompensato per quanto faceva, pensò mentre seguiva con gli
occhi le mani della donna che si muovevano con esperienza e rapidità. Ma
non era certo quello il motivo per cui uccideva.
Richard Forrester uccideva per ordine del Signore. I soldi erano solo lo
strumento indispensabile per portare a termine gli incarichi che riceveva e
accettava. Come adesso: non sarebbe riuscito a tornare a casa in fretta come
doveva se non avesse potuto pagarsi un biglietto in prima classe.
Ogni tanto, raramente, si era domandato da dove provenissero tutti i mezzi
che avevano a disposizione. Qualche notte gli era capitato di rimanere sveglio
a pensarci, ma la sua fede nel Signore era illimitata. Passava sopra piuttosto in
fretta al malessere che gli attanagliava lo stomaco quando a volte si stupiva
dell’ammontare del suo conto.
− Grazie, − disse all’assistente di volo, che gli aveva riempito di nuovo il
bicchiere d’acqua.
Cominciò a mangiare e decise di pensare ad altro.

− Ti pregherei di pensarci su molto bene. È determinante, Erik.


Questa volta Yngvar aveva deciso di sedersi sulla poltrona di Eva Karin.
La stoffa giallo ambrato aveva un profumo particolare: il ricordo
semicancellato di una donna di una certa età che non c’era piú. Era una stoffa
morbida, e sul poggiatesta c’erano ancora alcuni sottili capelli grigio scuro.
Yngvar non aveva mai chiamato il vedovo per nome prima di allora, ma
considerate le circostanze attuali un eccesso di formalità gli era parso fuori
luogo. Quasi irrispettoso, pensò mentre cercava di far alzare gli occhi
all’uomo.
− Eva Karin era convinta di avere la benedizione di Dio, − disse fra le
lacrime Erik. – Io non sono mai riuscito ad abituarmi all’idea che fosse giusto,
ma…
− Adesso ascoltami bene, Erik, – gli disse Yngvar sporgendosi verso di lui.
– Io non ho nessun desiderio, né bisogno, né diritto di giudicare la vita tua e
di Eva Karin. Non devi nemmeno parlarmene. Il mio lavoro è trovare
l’assassino di tua moglie. Quindi mi sono costretto a chiedertelo di nuovo: chi
altro, a parte te, Martine e Eva Karin era al corrente di questo… rapporto?
Erik si alzò di scatto. Si prese la testa fra le mani, barcollò.
Yngvar si era già sollevato per metà, pronto a sostenerlo, quando il vedovo
scalciò nella sua direzione, spingendolo a risedersi.
− Non toccarmi! Non poteva essere giusto! Lei non voleva darmi retta. Io
mi sono lasciato convincere, quella volta, era cosí…
Erano passati trentadue anni da quando Yngvar Stubø aveva iniziato la
scuola di polizia. Ne aveva viste e sentite di ogni genere, in tutti quegli anni.
Aveva fatto esperienze da cui pensava che non si sarebbe mai ripreso. La sua
tragedia personale era stata a dir poco devastante. Raccontare a genitori come
lui che i loro figli erano stati uccisi, che i loro coniugi erano stati massacrati o
che la madre e il padre erano stati falciati da un’autopattuglia durante un
inseguimento era stato per molti versi ancora peggio. La sua sofferenza
personale era controllabile, nonostante tutto. Messo dinnanzi al dolore altrui
spesso Yngvar si sentiva del tutto inerme. Con il passare del tempo aveva
comunque sviluppato una sorta di strategia per i casi in cui si trovava di fronte
a una disperazione senza fondo, un metodo che gli permetteva di portare a
termine il lavoro che era costretto a fare.
Ma stavolta non bastava.
Era passata già piú di mezz’ora da quando aveva raccontato quel che
sapeva a Erik Lysgaard. Aveva cercato di spiegargli perché era andato da lui.
Piú e piú volte aveva interrotto il lungo e sconnesso racconto di quell’uomo
su una vita dominata da un segreto cosí ingombrante da rendergli
praticamente impossibile conviverci. Era il segreto di Eva Karin, e di Eva
Karin era stata la decisione che avevano preso.
Erik Lysgaard gridava. In piedi al centro della stanza, con addosso vestiti
troppo larghi e neanche tanto puliti, vomitava accuse. Contro Dio. Contro Eva
Karin. Contro Martine.
E soprattutto contro sé stesso. – Ma come ho fatto a crederci, − si
lamentava boccheggiando. – Come ho fatto a… Io non volevo essere come
loro… non volevo essere come il maestro Berstad, come… Devi capire che
io…
Tutt’a un tratto si azzittí. Fece due passi verso la poltrona su cui sedeva
Yngvar. Aveva ciuffi grigi di capelli unti ritti sulla testa e le labbra rosso
sangue. Umide. Gli occhi infossati e il mento che tremava.
− Il maestro Berstad si è ucciso, − bisbigliò roco. – All’inizio dell’estate
del 1962. Andavamo in seconda liceo, Eva Karin e io. Non volevo diventare
come lui. Non potevo vivere come lui!
Pesanti gocce viscose di saliva malata gli schizzarono dalla bocca.
Qualcuna gli rotolò giú per il collo, ma lui non ci fece caso.
− Avevo visto quegli sguardi. Avevo sentito quelle brutte parole, mi
avevano colpito come… frustate!
Aveva la bava alla bocca. Yngvar tratteneva il respiro. Erik sembrava una
larva d’uomo, curvo e magro com’era, mentre ansimava senza fiato.
− Ci siamo messi d’accordo, − ansimò. – Ci siamo messi d’accordo: ci
saremmo sposati. Nessuno dei due voleva vivere nella vergogna, gettare i
propri genitori nella vergogna, ma… A me Eva Karin piaceva. A poco a poco
è diventata la mia vita. Mia… sorella. Anche lei mi voleva bene. Mi amava,
me lo disse, quella sera che… Ma mentre io ho deciso di vivere… da solo, per
sempre, lei ha voluto tenersi Martine. Questo era l’accordo. Martine e Eva
Karin.
Tornò lentamente alla sua poltrona e si sedette. Piangeva in silenzio, senza
coprirsi il volto con le mani.
− Prima o poi la punizione sarebbe arrivata, − disse. – Non poteva che
andare cosí.
− Con chi ne hai parlato?
− Sono io a venire punito, − bisbigliò Erik. – Sono io a vivere una vita
d’inferno. Ogni momento di ogni giorno. Ogni notte, ogni secondo.
− Devo sapere chi ne era a conoscenza, Erik.
− Ecco qui.
La mano tesa di Erik stringeva un volume dalla consunta rilegatura in
pelle. Si trovava già sul tavolino da caffè quando Yngvar era arrivato,
consunto e macchiato e senza titolo. Yngvar esitò, ma Erik insistette: −
Prendilo. Prendilo! È il mio diario. Leggi le ultime venti pagine e capirai.
Troverai quello che stai cercando. Anzi, leggilo tutto. Cerca di capire.
− Ma io non posso, no… io non…
− Adesso vattene. Prendi il diario e vattene.
Yngvar rimase immobile con quel volume in mano, il libriccino che
racchiudeva tutti i pensieri di Erik Lysgaard. Non sapeva che cosa fare, non
era ancora neanche riuscito a far ordine nel caos di impressioni che lo
avevano investito dopo lo sfogo di quel vedovo sofferente. E stava per
chiedergli se potesse fare qualcosa per lui, quando finalmente capí: nessuno
avrebbe mai potuto fare nulla per Erik Lysgaard.
Yngvar prese la vita di Erik sotto braccio e silenziosamente uscí dalla casa
di Nubbebakken per l’ultima volta.

Rolf aveva percorso il corridoio piú silenziosamente che poteva. Forse


Marcus si era riaddormentato, c’era una tale quiete. Con tutte le notti insonni
che aveva alle spalle sarebbe stato l’ideale se avesse dormito ancora un po’.
Rolf impugnò la maniglia e la abbassò adagio. Troppo tardi gli venne in
mente che i cardini cigolavano e fece una smorfia quando la porta si aprí con
uno stridio.
Marcus era sveglio. Se ne stava seduto a letto con i giornali accuratamente
ripiegati e impilati sul piumino. Non aveva toccato cibo, il bicchiere di succo
d’arancia era ancora pieno.
− Ma non avevi fame? – gli chiese stupito Rolf.
− No. Dobbiamo parlare.
− Sputa il rospo!
Rolf gli sorrise e si sedette sul bordo del letto.
− Che cosa c’è, amore mio?
− Vorrei che mandassi via Lillemarcus. Da mia madre o da un suo amico.
Non importa dove, basta che sia un posto sicuro. E che poi tornassi qui. Devo
parlarti. Da solo. Senza nessun altro in casa.
− Accidenti! – esclamò Rolf e scoppiò in una risata forzata. – Che cosa sta
succedendo, Marcus? Sei malato? È una cosa seria?
− Fa’ come ti ho chiesto. Per favore. Te ne sarei grato se lo facessi subito.
Per favore.
La sua voce era cosí diversa. Non esattamente dura, pensò Rolf, ma
meccanica, quasi come se non fosse lui a parlare.
− Per favore, − ripeté Marcus, a voce piú alta. – Porta via mio figlio da
questa casa e torna qui.
Rolf si alzò, esitante. Per un attimo fu tentato di protestare, ma poi vide
quell’espressione estranea negli occhi di Marcus e si diresse verso la porta.
− Chiamo Mathias o Johan, − disse nel tono piú lieve che trovò. – È piú
facile mandarlo da un compagno di classe che mettersi in macchina fin da tua
madre.
− Bene, − disse Marcus Koll jr. – E torna il prima possibile.

− Mio padre conosceva Georg Koll, − disse Silje Sørensen. – Per affari,
piú che altro. L’ho visto solo un paio di volte da bambina, ma mi è bastato per
capire che era un gran pezzo di merda. Ai miei genitori non piaceva, neanche
a loro. Ma sapete come vanno le cose in certe cerchie…
Guardò gli altri facendo spallucce, come per scusarsi.
Né Johanne, né Knut Bork avevano la benché minima idea di come
andassero le cose nelle cerchie dei ricchi. Si scambiarono una rapida occhiata,
poi Johanne si rituffò nella lettura del documento che la segretaria
dell’avvocato aveva portato alla polizia.
− Per quel che ci capisco io, questo testamento è valido in tutto e per tutto,
− disse. – A meno che non ne sia stato redatto uno piú tardi, questo in effetti
è… – scosse piano la testa e alzò i fogli che teneva in mano, − un testamento
valido.
− Ma Georg Koll è morto molti anni fa, − disse Silje perplessa. – I figli
hanno ereditato il suo patrimonio! I figli nati dal suo matrimonio, intendo.
Non avevo idea che ne avesse anche un altro, di figlio. Viene detto in modo
esplicito, no?
Johanne annuí.
− «Mio figlio Niclas Winter», − citò.
− Forse nessuno sapeva della sua esistenza, − disse Silje. – Ricordo che
mio padre si era fatto una bella risata quando aveva saputo a chi sarebbe
andata l’eredità, perché Georg ormai erano anni che non aveva contatti con i
figli, da quando aveva lasciato la moglie. Loro erano ancora molto piccoli al
tempo. Quel tizio aveva davvero una pessima reputazione. La ex moglie e i
figli vivevano quasi in miseria a Vålerenga, mentre lui sguazzava nel lusso. È
Marcus Koll jr, il maggiore, a dirigere l’azienda di famiglia adesso. Credo che
abbiano cambiato qualcosa, ma…
Si girò verso il computer.
− Cerco Georg su Google, − mormorò, fissando incuriosita lo schermo. –
Bingo! È morto… il 15 aprile 1999.
− Praticamente quattro mesi dopo aver vergato questo testamento, − disse
Johanne con aria sempre piú pensierosa. – Quindi è poco probabile che ne
abbia scritto uno successivo. Credo proprio che il nostro amico Niclas Winter
sia stato privato con l’inganno della sua eredità!
− Ma nel nostro Paese non si possono estromettere totalmente da
un’eredità i figli legittimi! − esclamò Knut Bork. – Almeno, se la successione
è di una certa consistenza…
Johanne si mise a sfogliare il grande volume rosso.
− La legittima per i figli è di un milione di corone, − disse cercando la
sezione sul diritto successorio. – Questo Marcus quanti fratelli ha?
− Due, − le rispose Silje. – Una sorella e un fratello, se non ricordo male.
− Secondo questo testamento, − disse Johanne, − loro tre avrebbero
ricevuto un milione di corone ciascuno e il resto dell’eredità sarebbe andato a
Niclas Winter.
Silje fece un bel fischio acuto e lungo.
− Si parla di un sacco di quattrini, − disse. – Ma…
Knut Bork si alzò di scatto e prese il documento.
− Ci deve pur essere una data oltre la quale considerarlo prescritto, − disse
infervorato, come se in gioco ci fosse il suo patrimonio. – Non è che Niclas
Winter poteva arrivarsene bello beato dopo tutti questi anni e pretendere
che…
Ammutolí, irrigidendosi in una posizione che lo faceva somigliare a un
oratore appassionato.
− Merda, non dovevo lasciar andare cosí quella donna, − imprecò. – Ha
detto qualcosa tipo che Niclas Winter si era messo a telefonare praticamente a
casaccio a vari studi legali. Sua madre era mancata da poco, spiegava, e sul
letto di morte gli aveva confidato che da un avvocato di Oslo c’era un
documento importante che lo riguardava. Un documento che gli avrebbe
garantito il futuro. Forse lui non…
Si guardarono tutti e tre. Johanne aveva trovato la sezione sul diritto
successorio e teneva una mano infilata tra le pagine del codice civile.
− Ovviamente, ci sarebbe molto da controllare, − disse titubante. – Ma al
momento mi pare di capire che Winter non fosse al corrente di questo
testamento.
− E perché mai la madre avrebbe dovuto tenergli nascosto che sarebbe
potuto diventare ricco sfondato? Una madre si preoccuperebbe di…
− Forse la madre non voleva fargli scoprire l’identità del padre prima di
morire, − disse Silje. – Ci sono troppi elementi che non conosciamo. Non ha
molto senso continuare a fare ipotesi su ipotesi.
− In realtà qualcosa sappiamo, − osservò Johanne. – Sul «Dagens
Næringsliv» sono usciti un paio di articoli su Niclas Winter, dopo la sua
morte. Le sue installazioni sono molto piú quotate, e questo in un periodo in
cui di opere d’arte contemporanea quasi non se ne vendono. In un articolo si
diceva che non aveva eredi. C’era scritto che era… senza padre. La madre era
figlia unica e i suoi nonni entrambi morti.
− Quindi ne possiamo dedurre che Niclas Winter non aveva idea di chi
fosse suo padre, né di aver ereditato qualcosa, − disse Knut Bork,
appollaiandosi sul davanzale della finestra e posando un piede sulla sedia di
Johanne.
− Non in quel momento, − disse lei. – E in tal caso la prescrizione non
scatta prima di…
La carta sottile frusciava e scricchiolava mentre lei sfogliava il volume.
− Paragrafo 70, − citò in tono freddo. – Sei mesi. Ci sono sei mesi di
tempo. A partire dal momento in cui si viene a sapere del testamento, cioè.
Ma sono d’accordo con te, Knut. Per quanto ne so esiste anche un termine
ultimo di prescrizione per… Voglio dire, c’è…
Il resto della frase si perse in un borbottio mentre leggeva. Knut dondolava
impaziente il piede avanti e indietro; si avvicinò al volume per leggere anche
lui.
− Paragrafo 75, − disse Johanne ad alta voce, scorrendo la riga con il dito.
– «Il diritto di pretendere un’eredità decade nel caso in cui l’erede non se ne
avvalga entro dieci anni dalla morte del testatore». Come pensavo.
− Il 15 aprile di quest’anno, − precisò Silje. – A questa data cadrebbe in
prescrizione.
Lo screensaver del computer si avviò di colpo, dando vita a un silenzioso
spettacolo pirotecnico. Johanne fissò il cerchio rosso magnetico intorno a
sabato 17 gennaio. Di lí a due giorni sarebbe stato il 19 e sentí la pelle delle
braccia accapponarsi. Knut posò i piedi per terra e si alzò.
− Ma quindi Niclas Winter avrebbe potuto reclamare tutto ciò che i suoi
fratellastri avevano considerato loro per quasi dieci anni? – disse. – Non è
terribilmente ingiusto, eh?
Johanne era sovrappensiero.
− Ma perché ha interrotto ogni rapporto con i figli? – domandò a bassa
voce con lo sguardo perso nel vuoto.
− Georg Koll?
− Sí.
− Ve l’ho detto, era un gran pezzo di merda, cosí in generale. E poi ci sarà
stato qualcosa che c’entrava col fatto che Marcus è gay. I fratelli si sono
schierati dalla sua parte. Marcus Koll jr è stato uno dei primi che davvero…
Be’, è stato il primo di mia conoscenza a dichiarare apertamente la propria
omosessualità. Se ne è parlato molto. In quelle cerchie. Sapete com’è…
Knut di quelle cerchie continuava a saperne ben poco e Johanne pareva
non avere neanche sentito le ultime parole dell’ispettore capo.
− Anche Niclas Winter era gay, − disse con voce piatta.
− Questo Georg non credo potesse saperlo.
− Nei casi presi in considerazione negli Stati Uniti c’era un collegamento
fra…
Tutt’a un tratto il suo sguardo tornò a fuoco.
− Questi due uomini sono fratelli, quindi, − disse, a voce talmente bassa
che Knut fece fatica a capire. – Fratellastri. Negli Stati Uniti in un caso simile
è saltato fuori uno strano legame fra le vittime. E se…
Vagò con lo sguardo da uno all’altro.
− E se Marcus Koll jr fosse la prossima vittima?
I suoi occhi si spostarono da Knut al calendario.
– Il 19 è dopodomani, − disse. – Forse…
− Ma tu ci credi alla tua teoria? – la interruppe Knut, irritato. – O l’hai già
abbandonata? Se davvero dietro a questi omicidi ci sono «The 25’ers»,
avranno già fatto espatriare i loro uomini da un pezzo! «VG» ha rivelato tutto
quello che sappiamo. I colpevoli sarebbero proprio degli idioti se fossero… E
poi la Kripos negli ultimi due giorni è stata in contatto continuo con l’Fbi!
Okay, gli americani ci sono profondamente grati perché ci dedichiamo a
questa indagine ventiquattr’ore su ventiquattro e domani ci manderanno degli
uomini di supporto. Ma non hanno certo nascosto di essere convinti che i
colpevoli stiano già tornando a casa!
Johanne chiuse il codice civile con un colpo sordo.
− Se davvero crediamo che abbiano intenzione di uccidere ancora, −
proseguí Knut in tono scontroso, − allora sí che dovremmo seguire questo
bell’invito stampato nero su bianco.
Sventolò «VG».
− Dovremmo allertare tutti gli omosessuali su lunedí prossimo. E sul 24. E
sul 27. Sarebbe…
− Mandare una pattuglia male non fa, − disse Silje con una sfumatura di
rimprovero nella voce. – Un’autocivetta. Con agenti in borghese. In grande
tranquillità. Per informare Marcus Koll jr che…
− Dovrebbe saperne il meno possibile, − la interruppe Johanne. – Per lo
meno non deve scoprire niente di questo testamento. Meglio parlargliene in
altre circostanze, secondo me, e non certo tramite un paio di agenti in
borghese che vanno a trovarlo a casa. Non abbiamo neanche idea se sappia di
avere un fratellastro.
− Una pattuglia la mandiamo comunque, − replicò determinata Silje. – Del
testamento non diranno niente, tanto al momento siamo solo noi tre a sapere
che esiste. Invece potrebbero… esprimere una generica preoccupazione per
gli omosessuali con un certo ruolo pubblico. La storia degli omicidi la
conoscono tutti ormai. Dovrebbe funzionare.
L’ispettore capo si alzò con un rapido sorriso, come per comunicare che
l’incontro era terminato.
Johanne restò seduta, immersa nei propri pensieri, fino a quando Knut
Bork non fu uscito dalla stanza e la stessa Silje non fu sulla soglia, con la
mano sull’interruttore della luce.
− Tu resti qui? – le chiese. – Finiresti per sentirti molto sola, sai…

Marcus Koll jr era completamente solo nella grande casa di Holmenkollen.


Oltre a lui c’erano soltanto i cani, che sonnecchiavano nella cesta accanto al
caminetto. Si era fatto una doccia e aveva indossato abiti puliti. Dal momento
che non sapeva quando Rolf sarebbe tornato, aveva usato il rasoio elettrico
anziché radersi bene con schiuma e lametta. Una volta pronto era andato un
attimo nello studio di casa e poi si era seduto in una delle soffici poltrone con
poggiatesta davanti alle finestre panoramiche che davano sulla città e sul
fiordo.
Aspettava.
Si sentiva tranquillo. Sollevato, in un certo senso. Un lieve formicolio in
tutto il corpo gli ricordava non tanto il dolore che provava, quanto la
sensazione di essere innamorato, e inspirò a fondo dal naso.
Era stato il panorama a fargli adorare quella casa.
Il prato scendeva in leggera pendenza verso i due grossi pini accanto allo
steccato che segnava il confine della proprietà. Gli alberi che la costeggiavano
la proteggevano dagli sguardi delle case piú in basso, ma non rubavano nulla
alla splendida vista. Abitare lassú era come vivere molto lontani dalla città, ed
era stata proprio quella sensazione di isolamento, unita al panorama, a
convincerlo ad acquistare la casa.
− Stai al buio? – sentí dire alle sue spalle.
Una dopo l’altra le luci del soggiorno si accesero.
− Marcus?
Rolf gli si avvicinò e si fermò davanti a lui, con un’espressione smarrita
negli occhi.
− Ti sei già preparato? Sono solo le due e mezza e…
− Siediti, per favore.
− Non ti capisco proprio, Marcus. Spero non ci voglia troppo, perché
abbiamo un sacco di cose da fare. Lillemarcus ha deciso di rimanere a
dormire da Johan, quindi…
− Bene. Siediti, per favore.
Rolf si accomodò in una poltrona identica a un metro di distanza. Erano
seduti per metà verso il panorama e per metà l’uno verso l’altro.
− Che succede?
− Te lo ricordi quell’hard disk che hai trovato? – gli chiese Marcus con un
lieve colpo di tosse.
− Eh?
− Ti ricordi che hai trovato un hard disk nella Maserati?
− Sí. Hai detto che… Non ricordo cos’hai detto, ma… Che c’entra
quell’hard disk, adesso?
− Non era rovinato. Lo avevo tolto dal mio Pc perché non volevo che
qualcuno potesse risalire alle pagine che avevo guardato su Internet quella
sera. Nel caso in cui qualcuno avesse deciso di controllare, voglio dire.
Rolf sedeva in punta alla poltrona, con la bocca socchiusa. Marcus era
appoggiato allo schienale, teneva i piedi su un pouf in tinta e aveva le braccia
comodamente stese sui soffici braccioli.
− Roba porno, − azzardò Rolf con un sorriso incerto. – Avevi… avevi
scaricato qualcosa di illegale che…
− No. Avevo letto un articolo del «Dagbladet». Assolutamente innocente,
ma volevo sentirmi al sicuro. Piú che al sicuro.
Tirò su col naso, come ridendo e piangendo insieme, poi guardò Rolf e gli
disse: − Potresti essere cosí gentile da sederti meglio?
− Io mi siedo come mi pare e piace! Ma che cosa sta succedendo, Marcus,
si può sapere? Hai una voce strana e… sei strano anche tu! Te ne stai qui
seduto in giacca e cravatta nel primo pomeriggio del sabato a parlare di
navigare illegalmente in rete sul sito del… «Dagbladet»! Che cosa diavolo ci
può essere di illegale sul…
Marcus si alzò di scatto. Rolf chiuse la bocca e si udí il rumore sommesso
delle arcate dentarie che si toccavano.
− Ti prego, − gli disse Marcus passandosi le mani sulla testa in un gesto di
impotenza. – Ti prego dal profondo del cuore di ascoltare quello che ho da
raccontarti. Senza interrompermi. È già abbastanza difficile di per sé e adesso
almeno sono riuscito a cominciare. Fammi arrivare fino in fondo, okay?
− Ma certo, − gli disse Rolf. – Che cosa… certo. Parla. Racconta.
Marcus fissò la poltrona per qualche secondo, poi si risedette.
− Stavo leggendo la storia di un artista, Niclas Winter, che era morto. Di
overdose, supponevano.
− Niclas Winter, − disse Rolf, chiaramente smarrito. – Era una delle
vittime di…
− Sí. Uno di quelli che sono stati uccisi da questo gruppo d’odio
proveniente dall’America, «VG» ha pubblicato molti articoli sull’argomento
negli ultimi giorni. Ma Niclas Winter era mio fratello. Fratellastro. Il figlio di
mio padre.
Rolf si alzò lentamente dalla poltrona.
− Siediti, − gli disse Marcus. – Siediti, per favore!
Rolf ubbidí, ma si sedette di nuovo in punta, tenendosi con una mano come
per essere pronto a scattare.
− Non sapevo niente di lui, − disse Marcus. – L’ho saputo solo in ottobre.
È venuto a trovarmi. È stato scioccante, naturalmente, ma anche piacevole.
Cosí di colpo. Un fratello. Dal nulla.
Fuori cominciava a imbrunire. A occidente il sole si era lasciato dietro una
sottile striscia arancione. Nel giro di mezz’ora anche quella sarebbe svanita.
− Ma poi ha smesso di essere piacevole. Mi ha raccontato di essere l’unico
erede di tutto. Tutto quanto.
Prese fiato. Scese il silenzio.
− Tutto cosa? – osò bisbigliare Rolf.
− Questo, − gli rispose Marcus con un ampio gesto del braccio. – Tutto ciò
che è mio. Nostro. L’intera eredità lasciata dal nostro comune padre.
Rolf scoppiò a ridere. Una risata asciutta, strana.
− Non può mica sbucare dal nulla e sostenere di essere il figlio perduto
che…
− Un testamento, − lo interruppe Marcus. – Aveva un testamento. A dire il
vero non lo aveva ancora tra le mani, ma sua madre gli aveva fatto sapere che
era custodito da qualche parte. Doveva solo trovarlo. A me quel tizio non
piaceva granché e non potevo certo credergli ciecamente, cosí su due piedi,
quindi l’ho messo alla porta. Lui è andato su tutte le furie e mi ha giurato
vendetta non appena avesse messo le mani sul testamento. Sembrava quasi…
Si coprí gli occhi con la mano destra.
− Folle, − mormorò. – Quell’uomo sembrava un folle. Ho deciso di
dimenticarmi di lui, ma qualche ora dopo ho cominciato a sentirmi inquieto.
Si tolse la mano dagli occhi e guardò Rolf.
− Niclas Winter assomigliava a mio padre, − disse roco. – C’era qualcosa
in lui che mi ha spinto a controllare la storia che mi aveva raccontato. Per
sicurezza.
− E come?
Rolf era ancora seduto nella stessa identica posizione.
− Chiedendo a mia madre.
− Elsa? Ma lei come avrebbe potuto…
Marcus sollevò il palmo della mano e scosse il capo.
− Nel momento in cui le ho detto che si era presentato da me un tale
convinto di essere mio fratello e sicuro di aver diritto a tutta l’eredità di
Georg, lei è crollata. Quando finalmente sono riuscito a farla parlare, mi ha
raccontato che aveva visto mio padre cinque giorni prima che lui morisse. Era
andata a trovarlo per chiedergli dei… dei soldi per Anine. Mia sorella aveva
rotto con il suo compagno e sarebbe stata costretta a rinunciare al suo
appartamentino a Grünerløkka. Lavorava in una libreria e non guadagnava
abbastanza per poterselo permettere soltanto con il suo stipendio.
− Credo che adesso dovresti smetterla, − gli disse Rolf deglutendo
sonoramente. – Sembri uno zombi, Marcus. Dovresti andare a sdraiarti un
po’, dovresti…
− Dovrei finire di raccontare!
Batté il pugno sul bracciolo. Il colpo sordo fece di nuovo afflosciare Rolf
in poltrona.
− E tu devi ascoltarmi, − sibilò Marcus.
Rolf annuí rapido.
− Mio padre l’aveva messa alla porta, − proseguí Marcus con un bel
respiro.
«Stai calmo, – pensò, – racconta la tua storia e fa’ quello che devi».
− Ma non prima di dirle che aveva fatto testamento a favore di…
dell’«illegittimo», come lo ha chiamato la mamma. Lei aveva sempre saputo
della sua esistenza. Mio padre non era in nessun rapporto nemmeno con lui,
voleva solo punire noi. Punire la mamma, suppongo.
Uno dei setter si alzò e uscí dalla cesta. I vimini intrecciati scricchiolarono
e il cane sbadigliò a lungo prima di zampettare fino a Marcus e posargli la
testa su un ginocchio.
− Quando ho capito che quel tizio diceva la verità, non sapevo piú che
fare.
Accarezzò la morbida testa del cane.
Rolf respirava a bocca aperta. Sentiva un raschio in gola, come se stesse
per venirgli un attacco di asma.
− Per farla breve… − disse Marcus allontanando il cane.
Si alzò adagio, come un vecchio. Fece un passo avanti e si fermò, girato
solo in parte verso Rolf. Il cane si accucciò accanto a lui, quasi che tutti e due
stessero guardando la stessa cosa là fuori, nell’oscurità.
− Tre giorni dopo mi trovavo negli Stati Uniti, − disse Marcus con voce
metallica. – Per le solite cose. Solo che stavolta non ero in gran forma e una
sera mi sono ubriacato. Ero andato a bere qualcosa con un dirigente della
Lehman Brothers che aveva appena perso il lavoro. Non è che…
Fece una lunga pausa.
− Non importa. Il punto è che gli ho raccontato tutto. E lui mi ha detto di
avere la soluzione.
Seguí un’altra pausa, ancora piú lunga.
Il cane scodinzolava e con la punta della coda spazzava il pavimento.
Verso sud la luce intermittente di un aereo attraversava lentamente il cielo.
− Quale… – Rolf dovette schiarirsi la gola. − Quale soluzione? – chiese.
− Un sicario, − rispose Marcus.
− Un sicario.
− Sí. Un sicario. Come ti ho già detto ero sbronzo.
− E il giorno dopo hai chiarito che stavi scherzando, vero?
Il cane scodinzolò un’ultima volta, poi si alzò e tornò nella cesta.
− Marcus. Rispondimi. Il giorno dopo avete chiarito che era solo una cosa
detta tanto per dire e avete sospeso tutto, no? Non è vero? Non è vero,
Marcus?
Lui non rispose. Si limitò a restare immobile, lí in piedi con le braccia
lungo i fianchi e le spalle curve, in giacca e cravatta, immerso nella piú totale
apatia.
− Ho scatenato un mostro, − bisbigliò inespressivo. – Non sapevo di aver
scatenato un mostro.
Finalmente Rolf scattò, con un balzo fu accanto a Marcus e lo afferrò per
un braccio.
− Ma che cosa mi stai dicendo? – ruggí stringendolo forte.
Marcus rimase impassibile sia al dolore al braccio sia al violento scoppio
di Rolf.
− Non puoi aver commissionato un omicidio, Marcus!
− Mi avrebbe tolto tutto. Niclas Winter mi avrebbe rubato tutto quello che
mi sono guadagnato. Tutto. Il patrimonio di Anine. Quello di Mathias. Il
nostro. Tutto quello che un giorno dovrebbe andare a Lillemarcus.
La sua voce adesso era completamente atona, come se le sue fossero parole
registrate su nastro una a una per poi essere composte in frasi complete. Rolf
sollevò l’altra mano e la strinse a pugno con tale forza che le nocche
sbiancarono. Lui era piú alto di Marcus. Piú forte. Molto piú in forma.
− Se mi hai appena raccontato di aver assoldato un sicario, ti uccido
Marcus! Io ti uccido, lo giuro! Dimmi che stai mentendo!
− Due milioni. Di dollari. Due milioni di dollari e il mio problema sarebbe
svanito. Ho pagato. L’uomo della Lehman Brothers ha pensato al resto. È
stato tutto cosí… impersonale. Un trasferimento di denaro alle isole Cayman
e… né i soldi né… la richiesta risultavano piú ricollegabili a me.
Di colpo Rolf gli lasciò andare il braccio.
− Questa notte, − proseguí Marcus senza nemmeno accorgersi che i cani
avevano cominciato a gironzolare intorno a loro guaendo e gemendo, − ho
avuto la conferma che stavo aspettando. Ne hanno scritte a bizzeffe di cose su
«The 25’ers» ultimamente, parecchie senza fondamento. Ma su alcuni siti seri
ho trovato la conferma.
− Di cosa? – singhiozzò Rolf. Indietreggiò lentamente, come se non
volesse piú, o non osasse, rimanere accanto a Marcus. – Che cosa ti hanno
confermato?
− «The 25’ers» eseguono omicidi a pagamento. Esattamente come il Ku
Klux Klan o The Order o… – Annaspò alla ricerca d’aria. − Guadagnano bei
soldi uccidendo persone che eliminerebbero comunque, − bisbigliò. – Sono
stato io a portarli qui. Il mio contatto, o il contatto del mio contatto, deve aver
scoperto che il tipo che io volevo morto era gay, poi ha informato «The
25’ers». Un’operazione facilissima. Chirurgica. Non sapevo nemmeno che
Niclas Winter… mio fratello… fosse omosessuale. Ho scatenato un mostro.
Io…
Barcollò e indietreggiò quando l’enorme finestra panoramica esplose. Un
vento gelido invase il soggiorno. Frammenti di vetro erano sparsi ovunque,
come grossi fiocchi di neve. I cani uggiolavano. Rolf aveva ancora in mano la
pesante lampada a stelo in acciaio, ed era pronto a sollevarla di nuovo e
colpire.
− Hai ucciso una persona per questo? – gridò. – Hai deciso di
commissionare un omicidio? Per un nido nazista di merda a Holmenkollen?
Per le auto di lusso e una cantina di vini di cui vantarsi? È questo che sei
diventato, Marcus? Un cazzo di avido affarista, ecco che cosa sei diventato!
Ruggendo prese lo slancio, sollevò di nuovo la lampada a stelo e con tutte
le sue forze scagliò quei due metri di acciaio con sei chili di piombo nella
base contro la finestra accanto.
− Ce la saremmo cavata anche senza tutto questo! Io faccio il veterinario,
cazzo! Tu hai una laurea! Saremmo stati bene anche senza…
Stava per lanciarsi su un’altra finestra quando suonarono alla porta.
Si fermò, paralizzato.
Suonarono di nuovo.
Marcus non sentiva niente. Si era accasciato nella poltrona, in mezzo alle
schegge di vetro e ai pezzi di un paralume rotto. I cani correvano abbaiando
per la stanza. Uno si era fatto un brutto taglio alla zampa e il sangue disegnò
una sorta di striscia tratteggiata sul pavimento quando l’animale terrorizzato
scappò nell’ingresso.
− Ho scatenato un mostro, − bisbigliò Marcus chiudendo gli occhi.
Registrò delle voci nell’ingresso, ma non sentí che cosa dicevano.
− Un mostro, − bisbigliò ancora, poi si alzò e attraversò il soggiorno.
− È la polizia, − disse Rolf in lacrime dalla porta di casa. – Marcus! È la
polizia.
Marcus non c’era piú. Era andato nel suo studio e si era messo nella sua
poltrona da ufficio rivestita in pelle di vitello, dietro la lucida scrivania di
betulla fiammata. La porta era chiusa, ma non a chiave. Quando sentí Rolf
chiamarlo di nuovo a gran voce, aprí il cassetto piú in alto, dove nella notte
aveva riposto la pistola che aveva preso dalla vetrina blindata e poi caricato.
Tolse la sicura e si puntò la canna alla tempia.
− Raccontagli tutta la storia, − disse senza che nessuno lo sentisse, − e abbi
molta cura di nostro figlio.
L’ultima cosa in assoluto che Marcus Koll jr sentí furono il grido di Rolf e
il breve inizio di un colpo rapido e secco.

Un bassetto accompagnato da un colosso afroamericano si avvicinò a


Richard Forrester in attesa al controllo passaporti del John F. Kennedy
International Airport. La coda sembrava infinita e per un attimo gli sfiorò la
mente che forse gli avrebbero offerto un servizio extra in quanto passeggero
di prima classe. Magari gli avrebbero fatto saltare la fila. Per cui sorrise
incoraggiante quando il piú piccolo dei due lo guardò e gli chiese: − Richard
Forrester?
− Sí?
L’uomo tirò fuori un tesserino di identificazione molto riconoscibile e
iniziò a parlare. Richard Forrester udí la sua voce svanire: si sentiva un ronzio
nella testa e aveva troppo caldo. Si allentò il nodo della cravatta, faceva fatica
a respirare.
− … il diritto di rimanere in silenzio. Qualunque cosa dirà potrà essere
usata contro di lei in…
Richard Forrester chiuse gli occhi e ascoltò il cantilenante Miranda
Warning declamato da chissà chi molto lontano. Qualcosa era andato storto e
lui non riusciva assolutamente a capire che cosa. Non aveva lasciato tracce in
nessun luogo. Nessuna impronta. Nessuna fotografia. Lui era stato solo in
Inghilterra, in viaggio per conto della sua piccola ma ben avviata agenzia di
viaggio.
− Ha capito?
Riaprí gli occhi. Era il colosso ad averglielo chiesto. Aveva una voce
ruvida e profonda e si accigliò quando ripeté: − Ha capito?
− No, − disse Richard Forrester, e tese le braccia verso di lui come il
bassetto gli aveva chiesto di fare. – Non capisco proprio.

− Yngvar, − sussurrò Johanne. Si strinse al suo corpo addormentato. –


Avremmo potuto fare qualcosa per impedire quel suicidio?
− No, − mormorò lui girandosi. – Che cosa avremmo potuto fare, secondo
te?
− Non saprei.
Erano le due e trentacinque della notte fra sabato 17 e domenica 18
gennaio 2009. Yngvar schioccò le labbra e si tirò un po’ su per bere un sorso
d’acqua.
− Non riesco a dormire, − bisbigliò Johanne.
− Me ne sono accorto, − le rispose lui con un sorriso. – Ma è stata una
giornata molto piena.
− Sono cosí contenta che tu sia riuscito a prendere l’ultimo volo per
tornare a casa.
− Anch’io.
Johanne lo baciò sulla guancia e si raggomitolò sotto il suo braccio. Il
consunto, vecchio volume rilegato in pelle era ancora sul comodino di
Yngvar. Lui glielo aveva mostrato, anche se lei non lo aveva letto. Nessun
altro sapeva della sua esistenza. Il suo contenuto cosí profondamente
personale aveva commosso Yngvar. Ragionamenti religiosi, osservazioni
filosofiche, storie di quotidianità. Il racconto di un uomo omosessuale che
aveva fatto un figlio con una donna lesbica, della felicità e del dolore che ne
aveva tratto. Della vergogna. Ogni cosa vergata in una calligrafia ordinata e
minuta, quasi femminile. Non appena atterrato a Gardermoen, Yngvar aveva
deciso di scrivere un rapporto con le informazioni piú importanti
sull’omicidio di Eva Karin facendole passare per qualcosa che Erik Lysgaard
gli aveva detto. Il diario non doveva finire nelle mani di nessun altro.
− Si convertirà di sicuro dopo tutto questo, − disse pacato Yngvar.
Già la prima volta in cui si erano visti Lukas gli aveva raccontato del
fascino che il cattolicesimo esercitava su suo padre. Con un sorriso, gli aveva
parlato del viaggio a Boston che i genitori avevano fatto in autunno: mentre
Eva Karin svolgeva le sue funzioni di delegato a un congresso ecumenico
mondiale, Erik aveva visitato le chiese cattoliche della città. Quello che né
Eva Karin né Lukas sapevano era che Erik era andato a confessarsi. Aveva
studiato Teologia e sapeva farsi passare per cattolico, se voleva. Il colloquio
con il reverendo padre nel confessionale era dettagliatamente riportato nel
libriccino in pelle marrone. Era stata la prima conversazione confidenziale in
cui Erik avesse messo a nudo la grande, difficile menzogna su cui si reggeva
la sua vita.
− È stato il prete, secondo te? Magari era legato in qualche modo a «The
25’ers»?
Johanne bisbigliava, anche se le bambine erano rimaste a dormire dai
nonni. Le aveva lasciate da loro per andare a parlare con Silje Sørensen, e
quando col fiatone era corsa a prenderle tutte e due si erano rifiutate di tornare
a casa.
− Il prete o qualcuno della sua cerchia. I cattolici hanno una specie di…
tradizione dell’illegalità, diciamo. In ogni caso è evidente che Erik non ha mai
parlato con nessuno di questa faccenda. Ed escluderei che Eva Karin si
confidasse con qualcuno, a parte Martine. L’ho conosciuta e… credimi, Eva
Karin non aveva bisogno di nessun altro. Una donna stupenda. Molto
intelligente. Affettuosa.
Yngvar sorrise nell’oscurità.
− E comunque tocca agli americani adesso scoprirlo. A quanto pare l’Fbi
di cose ne sapeva già un bel po’… Gli serviva soltanto questa… chiave, ecco.
Gli abbiamo dato cosí tanto materiale che probabilmente riusciranno a far
saltare l’intera organizzazione. Qui da noi le indagini procedono a ritmo
serrato. Fra poco avremo una mappa completa di tutti i movimenti di
qualunque cittadino americano negli ultimi mesi. E adesso che sappiamo che
sono tutti collegati, possiamo incrociare le informazioni sui sei omicidi. Ci
riusciremo anche noi, a…
− L’identikit, − lo interruppe Johanne. – L’identikit che ha dato il via a
tutto quanto. Sia qui da noi che negli Stati Uniti. Silje mi ha raccontato che
all’Fbi sono bastate nove ore per risalire all’identità di uno dei criminali.
Hanno incrociato i dati del pubblico registro automobilistico con le
informazioni sui viaggi fra Europa e America degli ultimi mesi, è cosí che
sono riusciti a identificarlo. È stato l’identikit a scatenare tutto.
− Già. In effetti il sistema di sorveglianza funziona alla grande, ed è
piuttosto inquietante, no? Questo caso porterà acqua al mulino di chi vuole
che si intensifichi.
Yngvar la baciò sui capelli.
− L’identikit è stato importante, − proseguí lui. – Questo è vero. Ma
soprattutto è stato merito tuo, tesoro.
Scese il silenzio.
− Yngvar…
− Sí?
− Anche se faranno saltare «The 25’ers», prima o poi ci sarà un’altra
organizzazione che si fonda sugli stessi valori, ha le stesse idee, agisce nello
stesso modo.
− Sí, è probabile.
− Anche qui in Norvegia?
− In un certo senso questo saremo noi a deciderlo.
Il silenzio durò cosí a lungo che il respiro di lui prese un ritmo piú lento e
profondo.
− Yngvar…
− Adesso sarebbe meglio dormire un po’, amore…
− Hai mai creduto in Dio?
Lo sentí sorridere.
− No.
− Perché no? Nemmeno quando Elisabeth e Trine sono morte e…
Yngvar sollevò delicatamente il braccio e la scostò con dolcezza.
− Vorrei tanto, tanto dormire adesso. E dovresti dormire anche tu.
Il materasso ondeggiò quando lui si girò su un fianco dandole le spalle.
Johanne gli si raggomitolò addosso, lui era come un grande muro caldo contro
il suo corpo nudo. Non gli ci volle nemmeno un minuto per riaddormentarsi.
− Yngvar, − bisbigliò lei a voce piú bassa possibile. – A volte io ci credo,
in Dio. Un pochino.
Lui rise, ma rise nel sonno.
Epilogo / Prologo
Maggio 1962
L’incontro

Eva Karin ha appena compiuto sedici anni e indossa un vestito azzurro in


poliestere.
Glielo ha cucito sua madre, cosí come tutti i suoi vestiti, da sempre. Questo
è il piú bello e ha un taglio da grandi: un abitino alla Jackie Kennedy che lei
non ha fatto in tempo a desiderare. Non ha fatto in tempo a desiderare niente.
Non ci ha proprio pensato, al suo compleanno.
Non c’è stato spazio per nient’altro che per quella cosa gigantesca: una
cosa terribile da eliminare.
Quando ha aperto il regalo ha dovuto fingere di essere felice. Come se
l’avesse ancora, la capacità di essere felice. Sua madre era talmente contenta
della bella stoffa e di come era venuto il vestito che non si è accorta di quel
che provava la figlia.
Nessuno si accorge di quel che prova Eva Karin. Solo Dio potrebbe
saperlo, sempre che esista.
Si è messa l’abitino nuovo stamattina quando si è svegliata. La mamma si
è arrabbiata, non lo avrebbe dovuto indossare prima della festa nazionale del
17 maggio. Eva Karin le ha detto che non voleva fare tardi a scuola e che non
aveva tempo di cambiarsi. La mamma si è arresa. Era anche un po’
orgogliosa, lei se n’è accorta: Eva Karin, bruna di capelli e di occhi, con
quell’abitino azzurro ghiaccio che la fa sembrare americana.
Ha nascosto le ballerine nella borsa, non appena uscita dal campo visivo
della madre le ha infilate al posto delle piú pratiche scarpe da passeggio.
Eva Karin si è fatta bella per morire.
Non vuole che qualcuno che la conosce ritrovi le sue spoglie: salirà in
cima al Løvstakken, lassú dove i fratelli minori sono troppo piccoli per andare
e dove mamma e papà non mettono mai piede.
L’aria è nitida e limpida. Fa piuttosto fresco e si stringe nel cardigan. Deve
fare attenzione: ci sono sassi e radici sul sentiero e non vuole che le ballerine
si sporchino.
Suo padre non crede in Dio.
Eva Karin vuole credere in Dio.
Ha pregato intensamente.
Ha letto il Suo libro, che deve tenere nascosto nel cassetto della biancheria
perché il padre non lo trovi. La religione è l’oppio dei popoli, sbraita sempre,
e lei e i suoi fratelli sono gli unici di sua conoscenza a non aver ricevuto né il
battesimo né la confermazione. Ha letto e riletto la Bibbia proibita, ma non ha
trovato altro che condanne.
Dio e suo padre sono d’accordo su una cosa sola: quelli come lei non
hanno diritto di vivere.
Quelli come lei devono essere menzionati con un linguaggio a parte. Una
lingua a sé composta di sguardi, fatti e parole che in realtà significano
qualcos’altro, ma che quando vengono utilizzati per quelli come lei
acquisiscono una connotazione oscura con cui Eva Karin non può convivere.
Aveva sempre creduto che solo i maschi potessero essere cosí.
Che esistono lo sa, perché sono loro l’oggetto dei doppi sensi, degli
sguardi, dei gesti osceni che i ragazzi fanno alle spalle del maestro Berstad e
per cui le ragazze sghignazzano. Tutte eccetto Eva Karin, che invece
arrossisce.
Si ferma sul sentiero. I raggi del sole filtrano attraverso il delicato
fogliame. Il terreno sembra ricoperto di oro tremolante, fluido. Gli anemoni
dei boschi crescono fitti intorno ai tronchi, come una coperta per tenere al
riparo le radici. Gli uccelli cinguettano e alte sopra le cime degli alberi si
spostano nuvole bianco gesso foriere di bel tempo.
Eva Karin frequenta Erik da sei mesi ormai.
Erik è gentile. Non la tocca mai. Non vuole baciarla, non l’afferra come
fanno gli altri ragazzi nei racconti delle sue amiche. Erik legge molto ed è
bravo a scuola. Bevono insieme il tè e lui le mostra le poesie che scrive: non
sono particolarmente belle. Eva Karin sta bene in sua compagnia. Con lui si
sente protetta. Tranquilla. Non come quando vede Martine.
Tutt’a un tratto riprende a camminare.
Non deve pensare a Martine. Non deve immaginarla la notte, quando si
fermano a dormire a casa di una delle due e le loro madri neanche bussano
prima di entrare ad augurare la buona notte.
Eva Karin ha pregato e pregato. Per lasciar andare Martine. Per avere la
forza di non volerla piú. Ha trascorso intere notti in ginocchio davanti al suo
letto, a mani giunte e occhi chiusi. Nessuno le ha risposto, nemmeno quando
si inginocchiata su frammenti di vetro. Martine è con lei sia quando c’è sia
quando non c’è, e non se ne va mai. Eva Karin prega fino a svenire dalla
stanchezza, ma nessuno le risponde, da nessuna parte. Forse davvero ha
ragione suo padre, come quando dice che quelli come lei sono abominevoli.
I suoi non devono scoprirlo, pensa Eva Karin, e accelera su per il sentiero.
Suo padre che ha cantato per lei, giocato con lei, costruito una carrozzina per
le bambole in officina quando lei aveva cinque anni, suo padre che con grida
di gioia se la issava in spalla al corteo del primo maggio e che, quando lei è
diventata troppo pesante, le ha dato il permesso di tenere la nappa, la nappa
sinistra della bandiera del sindacato, suo padre non dovrà mai sapere che la
sua bambina è cosí.
Cosí.
Eva Karin è cosí.
Eva Karin morirà e ha una lametta da barba del padre nella borsa.
Tra gli alberi vede arrivare un ragazzo. Non sul sentiero, come lei. Sbuca
da un lato, lei si gira, nessuno deve vedere lacrime, soprattutto non ora che sta
per morire. Eva Karin affretta il passo.
D’un tratto eccolo lí davanti a lei.
Le sorride.
È piú un uomo che un ragazzo, si accorge, e ha i capelli arruffati. Saranno
secoli che non se li taglia. Eva Karin indietreggia.
− Non avere paura, − le dice l’uomo allargando le braccia, con i palmi
rivolti verso di lei. – Voglio solo parlare con te.
Quando le tende la mano Eva Karin la afferra.
Non sa perché, ma afferra la mano dello sconosciuto e lo segue tra gli
alberi. Camminano lenti, sguazzano nell’oro e negli anemoni dei boschi fino a
una piccola radura scaldata dai raggi del sole. Lui si siede contro un tronco e
con la mano dà qualche colpetto per terra, accanto a sé.
L’uomo indossa un paio di blue jeans americani e una camicia bianca
senza cravatta, ai piedi porta un paio di sandali chiusi davanti, identici a quelli
che ha il padre di Eva Karin e che vengono tirati fuori dal ripostiglio solo
quando iniziano le ferie estive. L’estraneo parla con l’accento di Bergen, ma
non assomiglia a nessuna delle persone che conosce lei.

Eva Karin si siede. Il sole la inonda di calore e la luce è intensa. Strizza gli
occhi verso il cielo.
− Non farlo, − le dice l’uomo dagli occhi azzurro ghiaccio.
− Devo, − dice Eva Karin.
− Non farlo, − ripete l’uomo aprendo la borsa di lei.
E Eva Karin lascia che un adulto sconosciuto apra la sua borsa e ne tiri
fuori la lametta da barba che lei ha infilato in un lembo strappato della fodera.
L’uomo se la posa su una cicatrice che ha sul palmo e poi chiude la mano.
− Guarda, − le dice con un sorriso mentre apre lentamente il pugno col
palmo verso l’alto.
La lametta da barba non c’è piú.
La sua risata arriva da ogni dove, è il sussurrare del vento e il cinguettare
degli uccelli. Lui ride e lei non riesce a trattenere un sorriso e quando lui se ne
accorge batte le mani dolcemente.
− Adoro i miei giochi di prestigio, − le dice.
Eva Karin riposa. Dorme, quasi.
− La vita è inviolabile, − dice l’uomo. – Non dimenticarlo mai.
− Non la mia, − ribatte lei a occhi chiusi. – Io sono… una peccatrice.
Esita un po’ a usare quel termine. È troppo antiquato. Non sta bene in
bocca a lei: è una parola troppo grossa e da adulti e lei ha solo sedici anni.
− Peccatori lo siamo tutti, − dice lui in tono lieve. – Ma non per questo
vorrei che gli abitanti dell’intera città si mettessero a vagare sui sette colli per
togliersi la vita.
− Io… amo una ragazza.
Di nuovo una parola troppo grossa per lei. «Amo» va bene nell’oscurità, va
bisbigliata in modo quasi impercettibile.

− E sopra ogni cosa c’è l’amore, − dice lui con un sorriso, ed ecco di
nuovo il bosco ridere tutt’intorno a loro. – A pensarci bene, non credo di aver
detto mai niente di piú vero.
La mano di lui le sfiora un ginocchio. È pesante e leggera al tempo stesso.
Calda e fredda e qualcosa che lei non ha parole per descrivere.
− Ascolta me, − le dice lui improvvisamente serio. – Non ascoltare quelli
che credono di conoscermi.
− Io ho letto e riletto, − dice Eva Karin. – Ma non ho trovato consolazione.
− Ascolta quello che ti dico. Non ascoltare quello che dicono che io avrei
detto.
Si mette in ginocchio e si gira verso di lei. La sua testa si frappone tra Eva
Karin e il sole, trasformandosi in una sagoma scura circondata da una luce
talmente intensa da costringerla a chiudere gli occhi. E di nuovo Eva Karin
sente nelle mani di lui una pesante leggerezza quando le stringe intorno alle
sue.
− Io non sono rigido, Eva Karin. Può darsi che mio padre appaia un po’
strano e tonante a volte, questo sí, ma io ho vissuto troppo per mettermi a
giudicare l’amore.
Lei non lo vede, ma percepisce il suo sorriso.
− È la malvagità che io condanno. Le tenebre. Non la luce e l’amore, mai.
− Ma io…
− Sii sincera con te stessa e con me.
− Come posso…
− Io non do ricette di vita, Eva Karin. Ma troverai una soluzione. E se
inciamperai e cadrai, se dubiterai e avrai paura, non dovrai fare altro che
cercarmi. È un po’ che ti ascolto, sai, ho solo dovuto aspettare il momento
giusto.

Si alza del tutto e fa un passo di lato. Il calore del sole inonda Eva Karin,
che si porta la mano alla fronte per ripararsi dalla luce e alza gli occhi.
− Non tradire la tua capacità di amare, − le dice lui cominciando ad
allontanarsi. – E soprattutto: non usare il metro delle altre persone per la tua
vita.
A metà della piccola radura si gira ancora una volta verso di lei.
− Solo una cosa deve esserti sacra e inviolabile, − dice. – La vita.
− La vita, − sussurra lei. E lui se ne va.
Non se ne sarebbe andato mai piú.
Postfazione dell’autrice.

Questo libro è un romanzo e pertanto non è realtà. Essere uno scrittore significa
mentire, raccontar frottole, inventare. È bello creare il proprio universo. Allora si può,
per esempio, descrivere gli scantinati dell’Hotel Continental senza nemmeno sapere se
esistano. Io di impianti di condizionamento non so niente e nemmeno so se l’albergo
abbia un sistema di videocamere di sorveglianza piuttosto datato. Spero di essere
perdonata se ho usato quell’edificio come scenario per il mio racconto: gli si addiceva
proprio.
Verissimo è invece che in molti Paesi esistono gruppi uniti in modo particolare
dall’odio e dal disprezzo per altri gruppi. Vero è anche il fatto che alcuni di questi
gruppi esercitano una violenza sistematica sulle persone contro cui rivolgono il loro
odio. In certi casi si sono resi colpevoli di reati gravi, comprovabili, per finanziare i
loro oscuri progetti. Inoltre, è purtroppo vero che in tutto il mondo, da tempi
immemorabili, si commettono omicidi e violenze nel nome di diversi dèi. Tutti i
gruppi d’odio nominati in questo romanzo esistono, fatta eccezione per «The 25’ers».
L’Aplc non esiste. Questa organizzazione, però, ha un modello realmente esistente:
il Southern Poverty Law Center di Montgomery, in Alabama. Il suo sito
(www.splcenter.org), con i link indicati e i riferimenti alla letteratura in merito, mi è
stato molto utile nella stesura del romanzo.
Non avrei potuto scrivere La paura senza la pazienza, gli incitamenti affettuosi e la
tenace resistenza di quella che è mia moglie da ormai dieci anni, Tine Kjær. Ringrazio
lei e ringrazio nostra figlia Iohanne, che non riesce a capire perché, quattro mesi
all’anno, durante la fase finale della lavorazione di ogni romanzo, io debba passare
cosí tante ore nel mio studio. Si prospettano tempi migliori, tesoro mio.
Ringrazio anche Mariann Aalmo Fredin per il prezioso aiuto durante la stesura,
Berit Reiss-Andersen per la sua enorme conoscenza del diritto, materia che io ho da
tempo dimenticato, e mio fratello Evin Holt che ha sempre piccanti dettagli medici da
offrirmi. Ringrazio molto anche Kari Michelsen, che in un bar su una spiaggia
francese nel maggio del 2008 mi ha convinto a lasciar perdere un progetto già avviato
e a scrivere invece questo romanzo.
Per finire, un affettuoso ringraziamento a Picasso, che mi scalda i piedi mentre
scrivo, mi fa uscire con la pioggia e con il sole e mi dimostra un’immeritata,
incondizionata devozione.
Nydalen, Oslo, 15 giugno 2009
Il libro

M
ENTRE LA NEVE SCENDE SU OSLO L’ULTIMA DOMENICA
d’Avvento, una serie di omicidi spezza l’incanto del Natale. E
catapulta in prima linea due veterani del corpo di polizia, la
profiler Johanne Vik e suo marito, il commissario Yngvar Stubø.

Il primo a essere ritrovato è il cadavere di un giovane rifugiato, ormai


irriconoscibile, che galleggia nelle acque gelide della baia. Nessuno si
era preso la briga di denunciarne la scomparsa, nessuno si presenta a
reclamarne il corpo. Una settimana piú tardi, Eva Karin Lysgaard,
vescovo di Bergen, viene accoltellata a morte per strada. Eva era una
figura pubblica, molto stimata, strano che fosse in giro da sola la vigilia
di Natale. Infine un tossicodipendente, trovato morto di overdose in uno
scantinato. Una serie di avvenimenti in apparenza scollegati tra loro, ma
che pazientemente Johanne e Vik cominciano a mettere in relazione.

Da questo romanzo, la fortunata serie tv Modus.

«Holt scrive con la padronanza che abbiamo imparato ad aspettarci


dai migliori scrittori scandinavi».
The Times
L’autrice

AN NE HO LT (1958) avvocato, giornalista e dal 1996 al 1997 ministro


della Giustizia norvegese, è tra le autrici scandinave piú famose. Le sue
due serie, quella incentrata sui detective Johanne Vik e Yngvar Stubø, e
quella con protagonista l’ispettore di polizia Hanne Wilhelmsen, hanno
venduto milioni di copie in tutto il mondo. Della prima serie Stile Libero
ha già pubblicato Quello che ti meriti, Non deve accadere e La porta
chiusa; della seconda, La dea cieca, La vendetta, L’unico figlio, Nella
tana dei lupi, Il ricatto, La ricetta dell’assassino, Quale verità, Quota 12
22 e La minaccia.
Della stessa autrice

Quello che ti meriti


Non de ve accadere
La po rta chiusa
La d ea cieca
La ven detta
L’un ico figlio
Nella tana dei lupi
Il ric atto
La ricetta dell’assas sino
Quale verità
Quota 1222
La mina cia
Titolo originale Pengemannen
© 2009 Anne Holt. All rights reserved. Published by arrangement with Salomonsson Literary
Agency
© 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Progetto grafico di Riccardo Falcinelli.
In copertina: foto © Yolande de Kort / Trevillion Images.

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stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858425077


Indice
Copertina 1
Frontespizio 2
La paura 3
Parte prima. Natale 2008 5
La bambina invisibile 6
Camera con vista 12
Andando da un amico 23
Un uomo 36
Lo sconosciuto 51
Piccole chiavi, grandi stanze 67
Il mercato delle vanità 78
Figlio della felicità 105
Notte prima di un cupo mattino 118
Parte seconda. Gennaio 2009 129
Perseguitati 130
Ragazzo di strada 151
Collera 167
E quando ci arriverai… 186
Prima dell’alba 198
La figlia scomparsa 221
Paura 236
Tracce 259
La detective riluttante 269
Vergogna 293
Ragione e sentimento 302
Viaggio di una lunga giornata verso la notte 323
Epilogo / Prologo. Maggio 1962 358
L’incontro 359
Postfazione dell’autrice 364
Il libro 366
L’autrice 367
Della stessa autrice 368
Copyright 369

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