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I segreti di

Google AdWords
Andrea Testa
Guido Di Fraia

I segreti di
Google AdWords
Guida avanzata per ottimizzare
le performance e moltiplicare i profitti

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO


Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2013
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e a norma delle convenzioni internazionali

ISBN 978-88-203-6043-6
Realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali (info@iltrio.it)
Impaginazione: Sara Taglialegne

Realizzazione digitale: Promedia, Torino


SOMMARIO

di Guido Di Fraia
INTRODUZIONE

Marketing, web marketing e cultura aziendale

di Andrea Testa
INTRODUZIONE

Comprendere il Genio della Lampada


L’architettura di AdWords
Campagna
Gruppi di annunci
Annunci e parole chiave

CAPITOLO
Piccole accortezze
1.1 Fuggire anche da se stessi
1.2 L’importanza di studiare la storia
1.3 Con il senno di poi
1.4 Cromoterapia
1.5 Parola d’ordine: “segmentare”

CAPITOLO
SEO e SEM
2.1 Esserci o apparire?
2.2 Vegetariani in macelleria o golosi in pasticceria?
2.3 Ma se sono primo, cosa voglio di più?
2.4 Una funzione “olistica”

CAPITOLO
Query e parole chiave
3.1 Le code lunghe portano bene
3.2 Parole “cannibali”
3.3 Credevo di vendere materassi, invece...
3.4 L’uso delle chiavi che non ci servono
3.5 Quando una è meglio di molte
3.6 Stereogrammi
3.7 Parole dal mondo

CAPITOLO
Gli annunci
4.1 Ricette appetitose e vino bianco
4.2 Non riesco a vedermi
4.3 Spendere di più per risparmiare: il paradosso di AdWords
4.4 Vincere le battaglie e perdere le guerre
4.5 Divide et impera (o unisci e ottimizza?)
4.6 Uscire dal branco
4.7 Tutto ruota
4.8 Spalmati o accelerati?
Standard
Accelerata
Esempio 1. Il Wedding Planner
Esempio 2. Il negozio online di generi alimentari
Esempio 3. L’hotel a Milano
4.9 Gli stranieri sono anche tra noi
4.10 Davide contro Golia, usando l’arma del prezzo
4.11 AdWords non è gli scacchi
4.12 Più ci “allarghiamo” meglio è
4.13 Briciole di pane

CAPITOLO
Le display
5.1 Meglio non tampinare
5.2 Non concediamoci a tutti
5.3 CPM o CPC? Questo è il problema!

CAPITOLO
Potenziate
6.1 Cicale e formiche
6.2 Quando ciò che conta è l’intenzione
6.3 Rimbalzi diversi
6.4 Non tutte le azioni sono uguali
6.5 Giorni, mesi, anni
6.6 Ogni cosa è ottimizzabile
Target per posizione nella pagina dei risultati di ricerca
CPC ottimizzato
CPA ottimizzato
Ottimizzazione dei click

CAPITOLO
Estensioni di località
7.1 Le estensioni di località
7.2 Non tutti i terreni producono allo stesso modo
7.3 Lost in the terminal

CAPITOLO
Siti e landing page
8.1 Mobili forme
M.Site
Responsive design
8.2 Dalla diversità si crea valore
8.3 Concludere al primo appuntamento o arrivarci per gradi?
8.4 Meglio aggressiva o moderata? Proviamola!
8.5 Facciamogliela vedere come vogliono

CAPITOLO
Metriche e KPI
9.1 Valutiamo le nostre prestazioni
9.2 Rimbalzi
9.3 Quando i voti contano
9.4 Dare un nome alle conversioni
E-Commerce
Lead generation
Tattiche
9.5 Nella giungla degli acronimi
ROI e ROAS
Costo Consulenza o Forza Lavoro (costo orario ipotetico)
CPL e CAC
LTV
9.6 L’impressione non basta
9.7 Mi produci? Ma quanto mi produci?
Gli Obiettivi – Aumentare le conversioni
Abbassare il costo conversione
Abbassare il costo per click

CAPITOLO
Campagne
10.1 Se non parte non funziona!
10.2 Quando andare controcorrente conviene
10.3 Testiamo il testabile
10.4 Non scoraggiamoci
Acquisto
Acquisto mancato
Iscrizione alla newsletter
Social Network
Customer Satisfaction
10.5 Non sempre ciò che conta è il denaro
10.6 Gli utenti si concedono per gradi
10.7 Oltre il ROPO e ancora più su

CAPITOLO
I Social network
11.1 L’importanza dei “più”
11.2 L’unione fa la forza

CAPITOLO
Approfondimenti
12.1 AdSense: un potente alleato per il web marketing
di Mauro Gadotti
12.2 Che Analytics sia con te
di Filippo Trocca
12.3 La Ratio del Google Merchant Center
di Rossella Cenini

CAPITOLO
Commiato
13.1 Rivolgetevi ai Super Eroi
13.2 Dipingere un’onda
Informazioni sul libro

Circa l’autore
INTRODUZIONE DI GUIDO DI FRAIA
MARKETING, WEB MARKETING E CULTURA
AZIENDALE
Durante il primo giorno d’aula dei corsi di laurea magistrale o master, dedicato alla definizione del
contratto formativo, stabilisco alcune “regole del gioco”. Tra queste, una è quella che vieta agli
studenti di utilizzare le due definizioni dicotomiche: “vecchi-nuovi media”, e “marketing
tradizionale-digital marketing”. Questa indicazione non nasce da un vezzo accademico ma dalla
convinzione che i processi formativi debbano partire dal linguaggio. È il linguaggio, infatti, che
struttura il pensiero e le categorie concettuali attraverso cui diamo forma e comprendiamo la realtà. Il
fatto che si continui a utilizzare tali dicotomie – sia a livello di senso comune sia di cultura aziendale
– significa che si continuano a pensare tali elementi come separati e separabili, il che non è!
Nessun vecchio media è, in realtà, rimasto tale e tutti sono sempre più digitali, sia da un punto di
vista tecnologico sia, soprattutto, di modello comunicazionale e pratiche d’uso: la serie televisiva su
un canale satellitare a pagamento, guardata sul Pc e contemporaneamente commentata online su
Twitter, è tutt’altra cosa rispetto alla Tv generalista. Allo stesso modo, l’integrazione sempre più
stretta tra carta stampata e interfacce digitali rende i quotidiani d’informazione e i processi di
acquisizione della stessa totalmente diversi da quanto avveniva solo alcuni anni fa.
Allo stesso modo, e questo è ciò che in questo contesto maggiormente ci interessa, il marketing
digitale, sia esso Web o Social, non può essere pensato come un’entità separata, ancillare o
sperimentale rispetto al marketing “classico”, di consolidata efficacia.
Il marketing è marketing e basta! E oggi il marketing comprende l’utilizzo di tutti i canali di possibile
contatto e relazione con i consumatori, inclusi quelli digitali, con le relative logiche, modelli
comunicazionali e pratiche d’uso. Continuare a immaginare questi due ambiti come separati,
testimonia di un’arretratezza della cultura aziendale che, molto spesso, trova corrispondenza in
un’altrettanto frazionata strutturazione organizzativa che, nella migliore delle ipotesi, vede tali
funzioni attribuite a un settore ad hoc – magari composto esclusivamente dallo stagista di turno –
nella peggiore è affidata al reparto IT o comunque a chi si è sempre occupato del Web.
L’inconsistenza delle categorizzazioni dicotomiche sopra ricordate tende a riprodursi, purtroppo,
anche all’interno dello stesso marketing digitale, il cui elemento di forza è invece rappresentato
proprio dalle possibilità di integrazione e trasversalità tra le diverse attività in cui può declinarsi.
Per fare solo due esempi, il web marketing non può essere separato dal social media marketing
(come meglio vedremo nel corso del volume) e, allo stesso modo, l’e-mail marketing acquisisce la
sua reale efficacia solo se correttamente integrato con i social media aziendali.
Il tema, come sempre avviene nei processi di innovazione, non è di natura tecnologica ma culturale e
formativa. La cultura interna delle aziende italiane, spesso penalizzate da una gerontocrazia
dirigenziale che ne rallenta il ricambio generazionale e delle idee, come pure da anni di crisi che
hanno fortemente penalizzato gli investimenti in acquisizione di nuove risorse umane e know how, sta
faticando molto a sfruttare appieno tutte le opportunità che i nuovi scenari tecno-comunicativi
possono offrire. Questo soprattutto a livello delle Piccole e Medie Imprese (PMI) che, oltre a
rappresentare la struttura produttiva di base del Paese, sono proprio quelle che maggiormente
potrebbero beneficiare del marketing digitale, in tutte le sue diverse possibili declinazioni.
Un primo dato a supporto di questa situazione di arretratezza può essere letto nei risultati ottenuti
dall’”Osservatorio sull’uso dei social media da parte delle aziende italiane”
(www.osservatoriosocialmedia.com) attivato dal Master in Social Media Marketing dell’Università
IULM, di cui sono state realizzate due edizioni (i risultati della terza, in corso di svolgimento mentre
scriviamo, saranno presentati nell’ottobre del 2013).
Dal 2010, l’Osservatorio monitora un panel di 720 aziende appartenenti a cinque diversi settori di
attività (hospitality, bancario, arredamento, moda e design, alimentare), oltre alla Pubblica
Amministrazione. Per ciascun settore sono state prese in esame 120 aziende, distribuite in maniera
omogenea sul territorio nazionale e articolate in tre diversi gruppi differenziati per dimensioni –
piccole, medie e grandi – sulla base del numero dei dipendenti e del fatturato annuo ponderato.
Tra la prima e la seconda edizione si è registrato un rilevante aumento dell’uso dei media digitali e
dei social media per attività di marketing e comunicazione aziendale (la percentuale delle aziende
che possedeva almeno un social media è passata dal 32% del 2010, al 49% del 2011), soprattutto
grazie a una penetrazione accelerata di tali canali all’interno delle piccole e medie imprese che, nella
prima rilevazione, avevano fatto registrare percentuali di utilizzo estremamente basse. Per fare un
solo esempio, la quota delle piccole aziende con almeno un social media attivo è salita dal 9,8% del
2010, al 43% del 2011!
Il dato interessante su cui vogliamo concentrare la nostra attenzione, tuttavia, non è di tipo
quantitativo ma qualitativo e associato all’indice di valutazione della correttezza delle pratiche d’uso
dei social media per la comunicazione e il marketing aziendale. Tale indice, specificamente messo a
punto per l’Osservatorio e denominato “SocialMediAbility”, è costituito da tre dimensioni principali
(orientamento, attenzione-cura, efficacia), ciascuna delle quali valuta, su una scala di range 0-10,
una delle diverse componenti su cui si basa, secondo il modello da noi sviluppato, la “qualità” con
cui i social media vengono utilizzati dalle aziende. La media dei punteggi ottenuti sulle tre dimensioni
offre un indice sintetico, i cui valori sono ugualmente compresi tra zero e dieci.
Nella prima rilevazione, relativa al 2010, il valore medio dell’indice di Social-MediAbility sul
totale delle 720 aziende monitorate è risultato essere 0,79 (su 10!), talmente basso da farci, in un
primo momento, immaginare di aver commesso qualche errore nella sua composizione. Tuttavia, la
distribuzione dei valori ottenuti e il fatto che alcune aziende dei diversi settori avessero raggiunto
punteggi estremamente elevati (superiori a nove), ci ha confermato che i risultati emersi non erano
riconducibili a un’eccessiva “rigidità” o non perfetta taratura dello strumento di misura, ma
corrispondevano effettivamente alla qualità media delle pratiche d’uso dei media sociali da parte
delle aziende italiane.
Nella seconda rilevazione, condotta sullo stesso campione di aziende1 e utilizzando gli stessi
parametri di misurazione, l’indice di SocialMediAbility è “salito”, sino a raggiungere la quota di
1,16, comunque imbarazzante. Ma, al di là del valore assoluto del punteggio, quello che è più
preoccupante è la differenza registrata in entrambe le rilevazioni tra il SocialMediAbility delle
grandi aziende (1,75 nel 2010; 2,66 nel 2011) da una parte, e delle piccole e medie, dall’altra
(rispettivamente: 0,45-0,60 per le medie; 0,16-0,28 per le piccole), a dimostrazione di quanto
affermato in precedenza rispetto al fatto che siano soprattutto le strutture organizzative delle PMI a
soffrire maggiormente in questo processo di innovazione culturale, ancor prima che tecnologica e
organizzativa.
Un’ulteriore conferma dell’arretratezza del sistema può essere letta nei risultati di un’altra indagine
realizzata dal nostro gruppo di lavoro per Camera di Commercio di Milano. La ricerca, strutturata in
maniera simile all’Osservatorio sopra descritto e condotta alla fine del 2011, ha esaminato un
campione di 720 aziende – rappresentativo della realtà produttiva e imprenditoriale dell’area
milanese – anche in questo caso differenziate per settore e dimensioni. L’indagine comprendeva
anche un approfondimento qualitativo, finalizzato a rilevare il tipo di gestione (struttura
organizzativa, personale dedicato, tempo investito, eventuale esternalizzazione delle funzioni e così
via), delle attività di marketing digitale e social. Da tale approfondimento è emerso che al momento
della rilevazione erano meno del 10% le aziende che, avendo attivato propri canali social, disponeva
di personale specificamente qualificato e formato per gestirli. Il tutto, lo ricordiamo, nell’area più
avanzata del Paese!
Un terzo indicatore sullo stato dell’arte del sistema Italia rispetto al marketing e alla comunicazione
digitale – il cui scenario reale è ben diverso da quello che si potrebbe immaginare riferendosi solo
alle narrazioni prodotte da alcuni ambienti della rete e dalle riviste che, legittimamente e
proficuamente, si preoccupano di dare voce alle moltissime realtà innovative e di avanguardia che
l’imprenditoria italiana, comunque, vanta – è dato dall’uso dell’e-commerce da parte dei
consumatori del nostro paese.
Nonostante un importante aumento del fatturato, destinato a crescere – secondo le stime
dell’Osservatorio eCommerce B2c, Netcomm-School of Management2 del Politecnico di Milano –
del 17% entro la fine del 2013 rispetto al 2012, raggiungendo un valore complessivo di 11,2 miliardi
di euro, l’Italia risulta ancora in grandissimo ritardo rispetto agli altri paesi più avanzati dell’area
Euro. Nello stesso periodo, infatti, il fatturato europeo mostrerà un aumento medio del 22%. Nel
2012 l’ammontare complessivo dell’e-commerce europeo è stato di 311,6 miliardi di euro, cifra che
ha confermato il Vecchio Continente come il principale mercato online, seguito dagli USA, con 280
miliardi di euro e Asia e Pacifico con 216 (dati Europe B2C-Ecommerce Report 2013), ma l’Italia
occupa gli ultimi posti della classifica, seguita solo da Bulgaria e Romania, con una percentuale di
online shopping pari al 17%, contro il 74% della Svezia (dati Eurostat, luglio 2013).
Ciò che è particolarmente significativo è il divario esistente tra i comportamenti online dei
consumatori italiani e quelli degli altri principali paesi dell’Euro Zona. Per quanto anche l’89%
degli Italiani, infatti, si informi in rete sui prodotti che vorrebbe comperare, solo il 34% degli stessi
completa poi l’acquisto online, contro il 90% degli Inglesi e dei Tedeschi, l’80% dei Francesi e il
50% degli Spagnoli.
Alla base di questo significativo e penalizzante gap vi è soprattutto il sospetto, ancora tutto italiano,
verso la sicurezza dei pagamenti online (anche questo, in fondo, sintomo di un’arretratezza culturale
generalizzata rispetto al mondo digital), come pure i diffusi dubbi rispetto alla possibilità di ricevere
realmente a casa, e nei tempi stabiliti, il prodotto acquistato; probabile retaggio di un rapporto con il
servizio postale pubblico che, per molti decenni, è stato considerato, non a torto, il prototipo di tutto
quanto non funzionava nel nostro Paese.
Tuttavia, oltre a queste componenti, è indubbio che vi sia anche una carenza sul lato dell’offerta di
servizi di e-commerce da parte delle aziende italiane, confermato da una recente ricerca secondo cui
solo il 29% delle stesse possiede uno shop online, il 34% afferma di non averne e di non essere
intenzionata ad attivarlo nel prossimo futuro, mentre il rimanente 37% che, al momento della
rilevazione, non svolgeva attività di e-commerce, ha dichiarato che la attiverà entro i prossimi tre
anni3.
Questo grigio scenario è di certo parzialmente riconducibile all’effettiva problematicità della
logistica del nostro Paese e all’attuale carenza di risorse per investimenti. Ma siamo assolutamente
convinti che su di esso pesi soprattutto la scarsa comprensione, di natura culturale, di quanto tale
canale possa rappresentare un servizio per i consumatori e un’opportunità ormai irrinunciabile per le
aziende, soprattutto in certi settori di attività e in relazione a determinati prodotti.
Ed è proprio rispetto a quest’ultimo aspetto che il tema di AdWords diventa particolarmente
significativo e strategico.
Le opportunità che esso offre alla comunicazione e al marketing aziendale – soprattutto per le piccole
e medie imprese – e al rapporto tra consumatori e mondo della produzione, sono straordinarie e,
probabilmente, già del tutto note agli addetti ai lavori.
Può tuttavia essere utile ricapitolare almeno le principali, sistematizzandole in questa introduzione.
Il web marketing effettuato attraverso il keyword advertising costituisce un cambiamento radicale
rispetto ai tradizionali modelli comunicazionali dell’advertising classico. Quest’ultimo, infatti, si
basava su un modello comunicativo tipicamente push e broadcasting: un messaggio, opportunamente
costruito per intercettare l’attenzione dei destinatari e i riferimenti simbolico-culturali di un
determinato target, viene inviato in un certo momento, attraverso un certo canale (Tv, giornale, radio
e via dicendo), a una “massa” di individui per “colpire” il maggior numero possibile di soggetti
appartenenti al target delineato. Scopo del messaggio è, in primo luogo, quello di farsi notare tra
l’infinita serie di sollecitazioni pubblicitarie a cui i soggetti sono costantemente sottoposti, attirando
la loro attenzione mentre stanno facendo tutt’altro rispetto al prodotto/servizio/brand pubblicizzati.
Proprio per il suo modello comunicazionale “in-pertinente” rispetto ai bisogni e al contesto di
fruizione del destinatario del messaggio, questo tipo di marketing viene definito anche “interruption
marketing” o marketing dell’interruzione.
L’inserzionismo attraverso i motori di ricerca, viceversa, incorpora un modello comunicazionale di
tipo prevalentemente “pull”, decisamente meno invadente e disturbante: il messaggio sponsorizzato
compare quando il singolo utente digita una certa query che testimonia il suo specifico interesse, in
quello specifico momento, per ciò che l’annuncio aziendale potrebbe proporgli. In questo senso, il
keyword advertising, nella sua forma più pura e corretta, è un inserzionismo “contestuale” e
“pertinente” che intercetta il cliente solo quando è effettivamente interessato a essere intercettato.
Sarà lui stesso a decidere poi se quel determinato annuncio corrisponde a cosa stava cercando e
merita il click necessario a visualizzare la proposta che contiene (logica pull).
In sintesi, la pubblicità classica parla al gruppo target, quando vuole lei. Il keyword advertising parla
all’individuo, quando vuole lui!
Questo scambio comunicazionale tra utente e azienda inserzionista avviene all’interno della pagina
dei risultati di ricerca dove, oltre ai risultati organici, compaiono gli annunci pubblicitari a
pagamento. In questo modo, la pagina dei risultati di ricerca, o meglio, i miliardi di pagine dei
risultati di ricerca quotidianamente generate dai processi di interazione tra utenti e contenuti del Web,
diventano il luogo dell’incontro tra i bisogni espressi dalle persone e le risposte che le aziende
propongono di dare a questi bisogni.
Nel loro insieme, le pagine dei risultati di ricerca di Google possono quindi essere immaginate come
quell’insieme di mercati ideali, relativamente trasparenti e accessibili su cui, secondo la teoria
economica, s’incontrano la domanda e l’offerta di beni e servizi. Tali entità, da sempre descritte a
livello astratto, acquisiscono forse per la prima volta nella storia una pur parziale concretizzazione
reale all’interno del Web. Proprio per questo, come meglio vedremo nel corso del volume, gli
strumenti di analisi messi a disposizione da AdWords, in grado di mappare l’utilizzo di determinate
query di ricerca da parte degli utenti, consentono di ricostruire gli andamenti nel tempo della
domanda di prodotti e servizi con una semplicità e un livello di approssimazione impensabili o
comunque molto difficili da ottenere sino a pochi anni fa.
Inoltre, in questo loro ruolo di “luoghi” di incontro e di scambio comunicativo e di merci tra
consumatori e aziende, le pagine dei risultati di ricerca di Google e gli annunci sponsorizzati
attraverso AdWords costituiscono uno dei fattori che maggiormente sta contribuendo al processo di
disintermediazione in corso ormai da anni come uno degli effetti più maturi della rivoluzione
digitale. Per “disintermediazione” si intende il fenomeno per cui i consumatori, nei loro processi
informativi e di acquisto, possono relazionarsi direttamente con le aziende fornitrici, bypassando la
tradizionale filiera distributiva. È quello che è successo, prepotentemente, in alcuni mercati come
quello turistico (che, non a caso, rappresenta anche nel 2013 quello in cui si è registrata la maggior
crescita del fatturato generato dall’online a livello nazionale, con un più 55%) o quello dei prodotti
tecnologici (+ 24%), dell’abbigliamento (+ 31%) e del grocery (+18%)4, e che si sta diffondendo
progressivamente a tutti i settori. Attraverso i motori di ricerca e il Search Engine Marketing
(SEM), ogni azienda che sappia ben presidiare il Web e il marketing (digitale) ottimizzando i propri
servizi e le proprie logiche distributive, può avvicinare virtualmente tutti i consumatori del mondo,
sino a giungere alla distanza di un semplice click da ognuno di loro!
Un’ulteriore caratteristica del keyword advertising è rappresentata dal suo spirito democratico.
Questo genere di inserzionismo, infatti, è accessibile a ogni tipologia di azienda: dalla più piccola
microimpresa collocata nel paesino di poche anime di un’area geografica periferica, alla più grande
multinazionale di rilevanza globale. Cambiano, naturalmente, gli investimenti, ma il modello
inserzionistico e, fatte le dovute proporzioni, le possibilità di successo, restano esattamente gli stessi.
La cosa ancora più interessante è che, usando il keyword advertising si possono condurre campagne
e ottenere risultati significativi anche con budget estremamente bassi e davvero alla portata di tutti.
Questo è certamente l’aspetto a cui maggiormente si deve il successo di AdWords ma, per lo meno a
giudicare dal tipo di reazioni di sorpresa che continuo tutt’ora a registrare nei corsi di formazione
aziendale che conduco in giro per l’Italia, esso risulta ancora troppo poco noto rispetto all’effettiva
maturità dello strumento. Ed è proprio questo deficit di consapevolezza da parte di molti
imprenditori appartenenti alle microimprese e alle PMI ciò che risulta più penalizzante sulla capacità
competitiva dell’intero sistema Paese.
A livello più tecnico, possiamo dire che l’inserzionismo attraverso le parole chiave riduce
radicalmente le barriere d’accesso alla comunicazione mediale, rimasta, sino a prima della sua
comparsa (e all’affermarsi dei social media), appannaggio di un ristrettissimo numero di grandi
aziende che potevano finanziarsi “il lusso” di comunicare sui media classici. L’intero budget
pubblicitario italiano, che nel periodo precrisi ammontava a poco meno di 9 miliardi di euro l’anno
(2007), era di fatto generato da non più di 20.000 inserzionisti, perché il budget minimo necessario
per rendere i propri annunci minimamente visibili sui media tradizionali era assolutamente al di fuori
delle possibilità della stragrande maggioranza delle aziende5.
Con Google Adwords, invece, si possono condurre campagne con budget di 2 euro al giorno, con
costi per singolo contatto (click) anche di un solo centesimo, e scoprire che tali valori sono del tutto
adeguati a raggiungere gli obiettivi che una determinata azienda o attività commerciale si era
proposta.
Quanto appena detto sulle opportunità di successo delle campagne AdWords introduce un’ulteriore
caratteristica valorizzante della piattaforma, costituita dalle logiche meritocratiche su cui si basa
l’algoritmo di promozione degli annunci e lo stesso modello di business di Google. La meritocrazia
di Google Adwords si concretizza prevalentemente nel “quality score”, o punteggio di qualità,
attribuito agli annunci. Attraverso il quality score, l’intelligenza artificiale e la memoria storica di
Google cercano di quantificare il valore che ogni determinato annuncio può avere per un utente che
utilizza una certa query di ricerca. Quanto più il punteggio di qualità di un annuncio è elevato, tanto
più elevate saranno le sue performance, sia in termini di posizione tra i risultati sponsorizzati sia di
prezzo medio per click applicato dal sistema.
In questo senso, possiamo dire che il modello di business di Google è impostato su una logica win-
win-win: quanto più l’annuncio è di qualità e potenzialmente in grado di soddisfare le attese
dell’utente, tanto più probabile sarà che l’utente lo clicchi, attivando il processo valorizzante che
consente a Google di incassare il costo del click (modello Pay Per Click, PPC), all’inserzionista di
avere la possibilità di mostrare la propria proposta al consumatore, e a quest’ultimo di trovare ciò
che effettivamente stava cercando. Tuttavia, affinché questo circolo virtuoso si attivi e si completi
con benefici per tutti i soggetti del sistema, è necessario che tutti si comportino correttamente. Ma è
decisivo che lo faccia soprattutto l’azienda a cui, evidentemente, sono attribuite le maggiori
responsabilità. Per l’inserzionista, comportarsi correttamente, come vedremo meglio anche in alcuni
dei capitoli del volume, significa, da una parte, impostare la campagna secondo criteri di efficacia
che consentano di ottenere un ottimo quality score, dall’altra, evitare comportamenti scioccamente
“truffaldini” nei confronti degli utenti, nel tentativo di catturarne l’attenzione attraverso parole chiave
non rispondenti ai reali contenuti della propria offerta. Definiamo non a caso scioccamente
truffaldini tali contenuti perché, per quanto i singoli utenti possano anche essere talvolta ingannati,
certamente non lo è l’algoritmo di AdWords che, in relazione alle analisi storiche che è in grado di
realizzare, è perfettamente in grado di individuare e penalizzare annunci di questo tipo.
Il livello a cui può giungere la targettizzazione dei destinatari degli annunci è un ulteriore elemento di
forza del Google advertising. Le query utilizzate dal singolo individuo (indirizzo IP/browser) in una
data ricerca, integrate con i dati dallo stesso generati nel corso di tutte le sue ricerche precedenti e
dalle informazioni su di lui e sulla cerchia dei suoi contatti che possono eventualmente essere
ricavate dai social media (in particolare da Google Plus), consentono all’inserzionista di poter
contare su un insieme di dati di profilazione del singolo utente (indirizzo IP/browser) impensabili in
altre forme di inserzionismo. Queste possibilità si sono ulteriormente rafforzate proprio in questi
ultimi mesi grazie all’attivazione da parte di Google AdWords delle campagne potenziate, che
consentono di differenziare, come vedremo più avanti, gli annunci mostrati all’utente anche in
relazione al tipo di device da cui quest’ultimo ha effettuato la ricerca o all’ora del giorno in cui essa
avviene. Il tutto nella ragionevole ipotesi che, attraverso queste (e altre) variabili, sia possibile
cogliere l’intenzione e, dunque, il bisogno che ha realmente motivato il soggetto a utilizzare quella
determinata query in quel dato momento e con quel device.
Un ultimo aspetto da non dimenticare è che tutto quanto viene fatto attraverso la piattaforma AdWords
– sia da parte dell’azienda nella pianificazione delle campagne sia da parte di ogni singolo utente nel
suo visualizzare gli annunci, cliccarci sopra, visitare le pagine del sito dell’inserzionista e interagire
con i relativi contenuti – lascia una traccia indelebile che può essere memorizzata e analizzata
direttamente attraverso la piattaforma di gestione AdWords o per mezzo del suo corollario Google
Analytics. Nessun altro tipo di inserzionismo non digitale è mai stato in grado di offrire possibilità di
analisi tanto dettagliate sul comportamento assunto da ogni singolo individuo nei confronti del
messaggio pubblicitario e dei suoi contenuti, fatta eccezione, probabilmente, per i setting
sperimentali specificamente allestiti a tale scopo. Questo consente un monitoraggio e un
aggiustamento progressivo della campagna che, a differenza di quelle pianificate sui media classici,
rimane costantemente in “fase beta” (perpetual beta), e può essere ottimizzata momento per momento
in relazione ai risultati ottenuti. Ma soprattutto permette di verificare l’efficacia di ogni suo elemento
e consente di rilevare gli esiti ottenuti da ciascun centesimo di euro investito in questo genere di
comunicazione. In una campagna AdWords, il ritorno sugli investimenti (ROI) può essere calcolato in
tempo reale e con precisione assoluta.

Per concludere, mi pare che gli elementi sopra brevemente ricordati parlino da soli. L’advertising
AdWords costituisce un’opportunità di grande valore e dalle infinite potenzialità per una vastissima
tipologia di imprese e attività commerciali. La sua duttilità, le possibilità di controllo sui costi e di
valutazione immediata dei risultati raggiunti, il livello di dettaglio raggiungibile sulla profilazione
degli utenti e sugli ambiti territoriali di attivazione delle campagne sono tutti elementi che
dovrebbero indurre, almeno questa è la nostra convinzione, qualsiasi soggetto abbia prodotti o
servizi da proporre sul mercato a sperimentare questo tipo di advertising, integrandolo al meglio
nelle proprie attività di marketing e comunicazione.
“Al meglio” significa in maniera professionale a livello di pianificazione della campagna, e corretta
nei confronti dei consumatori. E questo, si badi bene, indipendentemente dal budget investito. Il fatto
che si possano realizzare campagne anche con investimenti molto contenuti non significa affatto che
questo tipo di attività debba essere sperimentata in maniera semplicistica, tanto per provare a vedere
cosa succede, visto che, se poi non funziona, avremo comunque gettato via pochi euro.
Indipendentemente dal budget investito, la pianificazione delle campagne è un’attività delicata e
complessa, risultato di innumerevoli decisioni da prendere e variabili da considerare. Veder
consumare il proprio budget anche di soli 100 euro in un mese senza alcun risultato può facilmente
portare l’azienda o l’imprenditore a giudicare frettolosamente il search engine marketing come
inefficace o inadatto alle proprie necessità. Il che, naturalmente, potrebbe risultare anche vero, ma a
condizione che tale conclusione sia supportata da un’analisi approfondita sulla ragionevolezza degli
obiettivi iniziali, sulle cause effettive che hanno portato agli scarsi risultati ottenuti e, soprattutto,
dalla certezza che la campagna sia stata effettivamente gestita in modo efficace e abbia avuto
sufficiente tempo per “maturare” i risultati per cui era stata pianificata.
Scopo di questo lavoro è anche quello di fornire ai professionisti del settore, ai responsabili
marketing e agli imprenditori di aziende di qualsiasi dimensione:
1. gli strumenti concettuali per comprendere se le proprie campagne sono state effettivamente
condotte nel migliore dei modi;
2. le indicazioni operative per imparare a farlo.

A livello più generale, il suo scopo è quello di offrire un pur modesto contributo alla crescita della
cultura aziendale rispetto alle opportunità che il web marketing sviluppato con Google Adwords può
dare alle loro attività e, più in generale, alla competitività del sistema Paese.

Intermezzo critico. L’aver sin qui illustrato le potenzialità della piattaforma Google AdWords per il
web marketing, riconoscendole caratteristiche valorizzanti quali le logiche democratiche e la
meritocrazia su cui si basa l’algoritmo di promozione degli annunci non significa naturalmente
dimenticarsi del lato “meno luminoso” di Google. Quello connesso, per esempio, al suo status di
azienda monopolista globale dei sistemi di ricerca sul Web – con tutto ciò che questo implica a
livello di rispetto delle norme sulle posizioni di mercato dominanti – al tipo di accordi stipulati nel
tempo con alcuni governi del pianeta o, ancora, al fatto che le informazioni di profilazione dei
comportamenti degli utenti, a cui la piattaforma AdWords consente di accedere, traggono origine
dall’infinita capacità del sistema di mappare tutto ciò che succede nel Web, con implicazioni enormi
sul tema della privacy e, più in generale, sulle possibilità reali di monitoraggio e controllo della vita
di ogni singolo individuo del pianeta.
Questi, tuttavia, non sono temi di marketing ma di sociologia, che intercettando l’altra dimensione su
cui si articolano e, per certi aspetti, si lacerano i miei interessi e le mie competenze professionali,
conviene qui lasciare in sospeso.

Due parole, infine, sulle caratteristiche specifiche del presente lavoro, che nasce dall’integrazione di
due tipi complementari di esperienza.
Da una parte quella professionale “sul campo” di Andrea Testa che, grazie alla sua attività di
consulente e gestore di alto livello di campagne per aziende di ogni settore e dimensione e di Top
Contributor AdWords, ha fornito al lavoro i contenuti e le casistiche presentate.
Dall’altra, quella formativa e di ricerca di Guido Di Fraia, a cui si devono prevalentemente la
progettazione dell’impianto concettuale nonché la didatticizzazione dei contenuti e la loro stesura
definitiva.
Da questa complementarietà è nato un modello di lavoro decisamente interessante e fecondo a livello
di metodo operativo: ciascun articolo, con l’esclusione dei tre firmati dagli altri Top Contributor
della Community Italiana è, infatti, il risultato di lunghe discussioni – talvolta divertenti, talaltra
estenuanti – svoltesi tra gli autori, sia in presenza sia a distanza, e portate avanti sinché non si è giunti
al totale accordo sulla forma che esso doveva assumere.
Lo stesso vale per il lavoro nel suo complesso che, per lo meno nelle nostre intenzioni, non è un
manuale, quanto meno se per manuale si intende un percorso strutturato e graduale, in grado di
condurre persone non esperte a utilizzare la piattaforma di AdWords per iniziare a pianificare le
proprie campagne. Ci sono già molti volumi di questo tipo, e la stessa guida online della piattaforma
Google contiene tutte le informazioni necessarie a padroneggiarne il pannello di controllo.
I segreti di Google AdWords è, piuttosto, una guida avanzata rivolta a coloro che, essendo già
utilizzatori del sistema di keyword advertising di Google, vogliono approfondire la conoscenza di
questa forma di marketing, per migliorare le performance delle proprie campagne. Gli articoli che la
compongono sono il distillato di competenze strategiche acquisite sul campo e di sistematizzazioni
teorico-formative finalizzate a offrire una vision globale del web marketing, supportata da
indicazioni immediatamente applicabili nella prassi operativa.
Indipendentemente dal suo effettivo valore, che saranno i lettori e il buzz della Rete a giudicare, il
lavoro è comunque unico nel suo genere a livello globale. Esso, infatti, unisce in un unico contenitore
i contributi – se pur in proporzioni diverse – di tutti i Top Contributor della Community AdWords di
una stessa nazione! Proprio per questa sua unicità, sarà presentato al Google Top Contributor Summit
2013 di San Jose (CA).
Da un punto di vista contenutistico, il volume si articola su 12 capitoli, ciascuno dei quali relativo a
uno degli elementi costitutivi di un progetto strategico di inserzionismo AdWords. La collocazione di
ciascun paragrafo all’interno del relativo capitolo potrà apparire, talvolta, arbitraria. Il che,
considerando la stretta interdipendenza esistente tra i vari elementi costitutivi delle campagne di
advertising, ci è parso del tutto inevitabile. Per parlare di “chiavi di ricerca”, bisogna
necessariamente parlare di “annunci” e poco conta, in fondo, se quel determinato contributo sarà più
o meno riconducibile all’uno piuttosto che all’altro tema.
Nonostante questa possibile ambiguità, abbiamo comunque preferito dare al lavoro una struttura “per
capitoli tematici”, in modo da aiutare il lettore a orientarsi tra i diversi articoli che possono essere
letti in qualsiasi ordine e non necessariamente in maniera sequenziale. Questa scelta di “non
sequenzialità” ma di approfondimenti verticali su temi specifici è motivata dal desiderio di rendere,
anche attraverso il modello espositivo utilizzato, il senso di un approccio globale e sistemico al
keyword advertising AdWords, che non può essere ricondotto, almeno in una guida avanzata,
all’interno di percorsi lineari e schematici da “istruzioni per l’uso”.
D’altra parte, la necessità di pensare l’uso delle attività di web marketing in generale, e di AdWords
in particolare, in modo totalmente integrato e sistemico con il marketing aziendale è il concetto di
fondo su cui si basa il nostro lavoro e il messaggio che, attraverso questo lavoro, ci proponiamo di
lanciare.

1. Con l’eccezione del settore “Elettronica” che, incluso nella prima rilevazione, è poi stato sostituito nella seconda dal settore
“Arredamento”.
2. http://www.consorzionetcomm.it/Consorzio_Netcomm/Notizie/ECOMMERCE_ON_VOLANO_PER_LA_
RIPRESA_DEL_MADE_IN_ITALY.kl.
3. Dati presentati da Business International all’evento “E-commerce power 2013”.
4. Fonte: Osservatorio eCommerce B2c Netcomm, School of Management del Politecnico di Milano, edizione 2013.
5. Dati: Nielsen Media Research, 2007.
INTRODUZIONE DI ANDREA TESTA
COMPRENDERE IL GENIO DELLA LAMPADA
L’immagine del genio della lampada che si prodiga per esaudire i desideri di chi lo ha evocato è una
buona metafora per iniziare a parlare di Google AdWords. Come scrive Steven Levy nel suo
Rivoluzione Google1, è come se i fondatori del colosso di Mountain View avessero immaginato il
motore di ricerca proprio come un’intelligenza artificiale in grado di rispondere alle domande dei
suoi utilizzatori quasi fosse una vera e propria lampada magica digitale. Divorando ogni giorno
quantità inimmaginabili di dati relativi ai comportamenti e alle domande degli utenti e apprendendo
da questi ultimi, l’intelligenza artificiale si è enormemente potenziata nel tempo, diventando
progressivamente capace di comprendere e interpretare anche domande incomplete o mal formulate.
In questo modo, il sistema è oggi in grado di dare risposte sempre più personalizzate e declinate sulle
effettive “intenzioni” espresse dagli utenti direttamente nelle query o attraverso una serie di variabili
che Google ha imparato a rilevare, come il luogo, l’ora o il device da cui viene eseguita una certa
ricerca.
Oggi le possibilità che AdWords offre lo rendono molto di più di una semplice piattaforma di
keyword advertising e il suo uso non si esaurisce affatto nello scegliere una chiave di ricerca e
aspettare passivamente che questa venga cercata da un potenziale cliente. AdWords è piuttosto un
sistema complesso di opportunità da utilizzare come elemento integrato e sinergico al marketing
aziendale.
Fornendo indicazioni strategiche e operative, mostrando alcuni trucchi e svelando qualche piccolo
segreto, questo libro vuole aiutare il lettore a sfruttare al meglio tutte le potenzialità del sistema
affinché il Genio in esso contenuto lo aiuti a esaudire tutti i suoi desideri.

L’architettura di AdWords
Dobbiamo immaginare il funzionamento di AdWords come una piramide al cui vertice opera il
gestore. Il gestore è colui che progetta e amministra la campagna, utilizzando il pannello di controllo
AdWords, in genere integrato con Google Analytics. L’unione delle due piattaforme, infatti, consente
di ottenere dati di analisi più esaustivi e produttivi. A livello di interfaccia software, al vertice della
piramide troviamo l’MCC2 (My Client Center), che è il pannello di controllo clienti dal quale il
gestore – sia esso un consulente free lance, un’agenzia, o comunque un esperto AdWords – può
amministrare tutti gli account dei propri clienti.3
L’account è il secondo livello della piramide, quello al quale operano, tipicamente, l’azienda, la
micro-impresa, il libero professionista o la singola persona. L’account corrisponde, in sostanza, al
singolo inserzionista che può gestire in proprio le campagne o avvalersi di un consulente esterno che,
per non utilizzare i dati di accesso dell’account del cliente, in genere ne amministra le campagne
attraverso il centro clienti sopra ricordato.
Continuando nella descrizione della piramide, dal punto di vista della sua struttura concettuale,
possiamo dire che il keyword advertising realizzato attraverso AdWords si articola su tre livelli:
1. Campagne.
2. Gruppi annunci.
3. Annunci e parole chiave.

Campagna
Ogni campagna è costituita da un insieme di gruppi di annunci. Alla campagna è attribuito il budget
inserzionistico quotidiano, che può essere immaginato come il bancomat che fornisce agli annunci le
risorse necessarie a ricevere i click. Attraverso i parametri inseriti all’interno di “impostazione
campagna”, è possibile selezionare il pubblico potenzialmente interessato alle nostre proposte,
specificando, tra l’altro, la località, la lingua e le fasce orarie in cui devono essere visualizzati i
relativi annunci. Sempre a livello di campagna, si possono anche amministrare la modalità di spesa
del budget, il tipo di offerta, la rotazione degli annunci, gli ambienti (di ricerca o display) in cui
questi devono comparire e così via.
Il settaggio della campagna è tutt’altro che un problema di ordine tecnologico: è prettamente
strategico. È attraverso il settaggio, infatti, che si traducono gli obiettivi aziendali in azioni
comunicazionali e di marketing operativo, si definiscono i target, si pianificano gli investimenti
declinandoli in termini di costo massimo per click e limite di budget giornaliero.

Gruppi di annunci
I gruppi di annunci sono il contenitore degli annunci e delle parole chiave su cui si articola la
campagna. Concettualmente, il loro ruolo è quello di aggregatori di concetti. Se, per esempio, nella
nostra campagna stiamo pubblicizzando uno store online di abbigliamento, ogni tipologia di prodotto
che mettiamo in vendita potrebbe dar luogo a uno specifico gruppo di annunci. Potremmo, quindi,
avere il gruppo maglioni, il gruppo camicie, quello cravatte e via dicendo.
Più avanti nel libro scopriremo anche altri modi per interpretare e ottimizzare i gruppi annunci, per
esempio, destinando a uno di essi corrispondenze di parole chiave diverse rispetto a quelle degli
altri; per il momento, ci basti sapere che il concetto di “gruppo” deve essere inteso, letteralmente,
come un insieme all’interno del quale devono essere racchiusi elementi il più possibile omogenei tra
loro.
Non esiste un numero ideale di gruppi di annunci da generare per una campagna. L’importante, però,
è che ciascuno di essi contenga al suo interno un nucleo di parole non troppo esteso, in grado di
garantire i migliori risultati all’insieme stesso. Se il numero di parole chiave aumenta nel tempo
(perché ne aggiungiamo di nuove grazie all’analisi dei “dettagli della parola chiave”), dovremo
sempre verificare se le nuove keyword possono convivere con quelle già presenti nello stesso
gruppo. In caso contrario, dovremo rimuoverle, usandole come corrispondenze inverse (vedi sotto), e
inserirle in un nuovo gruppo. Per esempio: nel mio store online vendo anche scarpe eleganti e le
sneaker, ma ho un gruppo di annunci generico dedicato alle scarpe; se scopro che le mie parole
chiave sono state attivate dalla query “acquisto scarpe eleganti”, potrei tenere in piedi il gruppo di
annunci generico e creare due nuovi gruppi dedicati in modo esclusivo alle scarpe eleganti e alle
sneaker. O ancora, ipotizzando di essere nel periodo dei saldi, potrei voler creare annunci ad hoc che
facciano leva proprio sul concetto di saldi. Per farlo dovrei inserire nel gruppo di annunci generico
la chiave inversa “saldi” e creare un nuovo gruppo annunci (o più gruppi), dedicato specificamente
ai saldi e alle promozioni.
Annunci e parole chiave
Annunci e parole chiave sono elementi che lavorano in sinergia all’interno di uno stesso gruppo di
annunci.4 Senza affrontare le diverse tipologie di corrispondenze delle parole chiave da un punto di
vista tecnico (tutte le indicazioni sono presenti, in modo molto esaustivo, direttamente dentro la guida
AdWords5) o da quello tattico – che approfondiremo nel corso di tutto il libro – possiamo dire che le
parole chiave rappresentano la particella più piccola, ma non per questo meno importante, di una
campagna AdWords. La loro scelta deve essere fatta con molta cura e in base all’effettiva risposta
che si vuol dare al quesito posto da un cliente sul motore di ricerca attraverso la query utilizzata.
Tornando all’esempio sopra descritto, se vendo scarpe eleganti, dovrei prevedere una chiave di
ricerca che attivi tutte le query legate a possibili ricerche di acquisto di scarpe eleganti. A questo
proposito, utilizzando lo “Strumento per le parole chiave”, cercherò di comprendere quali keyword
potrebbero essere più interessanti per la mia campagna. Così facendo, potrei scoprire che, in un certo
periodo, vi sono numerose ricerche orientate all’acquisto di scarpe eleganti con fibbie o di colori un
po’ appariscenti, come il rosso. Scoprendo tali query si aprono tre possibilità di intervento per
l’ottimizzazione della campagna:
aggiungere parole chiave che intercettano tali query;
inserire determinate parole in un altro gruppo di annunci;
rimuovere i termini che non mi servono.

Aggiungerò le nuove parole, naturalmente, se ho effettivamente prodotti che soddisfano le richieste


degli utenti (scarpe eleganti rosse o con fibbie), inserendole nel gruppo di annunci già attivo, se sono
effettivamente compatibili con quelle che vi sono già presenti. Diversamente, genererò un nuovo
gruppo annunci. Nel caso in cui, invece, non disponga di quei prodotti, sarà necessario che inserisca
le relative parole chiave come “inverse”.
Per quanto riguarda gli annunci, questi devono esprimere al meglio il concetto evocato dalla query
del cliente e intercettato dalla parola chiave. In altri termini, devono presentare all’utente la nostra
proposta, facendogli prefigurare che cosa troverà nel nostro sito se vi entrerà cliccando sull’annuncio
stesso. Il tutto in modo tanto sintetico quanto efficace, credibile e, possibilmente, distintivo rispetto
agli annunci degli altri competitor.
Sulla base di queste indicazioni, è quasi certamente possibile comprendere ancora meglio la
necessità di suddividere le parole chiave in vari gruppi. Se, infatti, il mio annuncio parla di un certo
prodotto, elogiandone semplicemente le caratteristiche, e un cliente sta cercando proprio quel
prodotto ma utilizza chiavi molto specifiche, il mio annuncio potrebbe apparirgli troppo generico e
poco interessante. Creando più gruppi di annunci associati a parole chiave differenziate, invece,
posso offrire risposte altrettanto differenziate e adatte a intercettare tutte le diverse tipologie delle
richieste espresse dagli utenti sui prodotti che offro.
Concettualmente: campagna, gruppi di annunci, annunci e parole chiave, sono le tre macro dimensioni
su cui, dunque, si articola l’uso di AdWords. Le partite giocate sulla scacchiera che la piattaforma
offre agli inserzionisti si vincono proprio grazie alla maestria posseduta dal gestore nel muovere al
meglio e sinergicamente questi tre elementi.
In questo gioco, le regole stabilite da AdWords sono fortemente orientate a favorire la soddisfazione
dell’utente, ed è lui, infatti, quello che alla fine determinerà – attraverso i propri comportamenti e le
proprie scelte – il vincitore delle varie sfide. Per comprendere meglio come questo si declini
effettivamente nelle logiche che strutturano la piattaforma, basta ricordare che le aste che
istantaneamente si generano a ogni query attivata da ogni singolo utente non se la aggiudica chi offre
di più in termini di budget (CPC massimo) ma, piuttosto, chi offre maggiori garanzie di qualità. In
pratica, contando su un punteggio di qualità (quality score) superiore rispetto a quello degli altri
inserzionisti. Proprio in relazione al punteggio di qualità, un’inserzionista che investe dieci euro
potrebbe ricevere meno click di uno che ne investe solo uno. E questo perché il suo basso punteggio
di qualità potrebbe costringerlo a pagare i suoi click molto di più dell’altro concorrente che conta su
un punteggio di 10/10. Per questa ragione, possiamo dire che nelle campagne AdWords l’uso del
budget ha soprattutto un valore tattico: il suo scopo, infatti, è prevalentemente quello di produrre
“opportunità di incontro” tra il bisogno espresso dagli utenti e le possibili risposte che l’azienda può
offrirgli.
Ogni campagna AdWords attivata non raggiunge mai una propria configurazione definitiva. Essa deve
infatti essere costantemente aggiustata e ottimizzata. Per farlo ci sono gli strumenti di analisi interni
ad AdWords o offerti da altri sistemi di analisi, come Google Analytics. Analisi, monitoraggio e
ottimizzazione sono le dimensioni chiave per la gestione delle campagne.
Il problema è che per quanto i dati si possano analizzare, il successo o l’insuccesso delle nostre
attività inserzionistiche è poi sancito, come abbiamo detto, dalla scelta democratica degli utenti.
Quanto ho proposto come inserzionista è stato apprezzato da chi ha trovato il mio annuncio? Se oggi
la risposta è sì, domani potrebbe non esserlo più e questo, probabilmente, non tanto per una
deficienza del mio operato ma perché, per esempio, sono cambiati i gusti dei clienti o il modo in cui
questi compongono le query, o ancora, perché i competitor, basandosi sui propri insuccessi, hanno
migliorato la creatività dei loro annunci, ottimizzando a loro volta le proprie campagne. È evidente
che questo processo di continuo miglioramento e ristrutturazione delle campagne da parte dei diversi
inserzionisti che competono per una risorsa scarsa – come è lo spazio disponibile sulla pagina dei
risultati di ricerca o SERP (Search Engine Result Page) – potrebbe, infine, portare a una situazione di
stallo. Per evitare che questo avvenga e assicurare sempre un surplus di competitività ai propri
annunci, l’inserzionista esperto e che ha compreso sino in fondo le logiche di funzionamento di
AdWords potrà intervenire attivamente per manipolare il volume di accessi al proprio sito. In questo
modo, potrebbe scoprire che la posizione più in alto nella pagina costa magari di più ma garantisce
un maggior numero di click, o che modificando i parametri di posizionamento degli annunci, si
possono ridurre le impression e quindi ottenere accessi di maggiore qualità con un aumento del CTR
e un miglioramento nel punteggio di qualità. E così via. Il tutto procedendo sempre con grande
attenzione e, quasi sempre, per prove ed errori.
Ad aumentare la complessità del gioco contribuisce, d’altronde, anche lo stesso AdWords. La
piattaforma, infatti, si evolve costantemente nel tempo, talvolta con innovazioni anche molto
accelerate. Innovazioni che, spesso, nascono dai suggerimenti e dalle suggestioni che gli ingegneri di
Google ricevono dalla community di Top Contributor, alla quale appartengono quattro dei cinque
autori di questo lavoro. Il motivo per cui vengono apportate sempre nuove integrazioni e modifiche è
evidente. Attraverso queste modifiche l’intelligenza artificiale di AdWords diventa sempre più
performante e in grado di accompagnare i cambiamenti a cui vanno incontro, nel corso del tempo, le
pratiche d’uso della Rete e i device dai quali gli utenti svolgono le loro ricerche.
E proprio in relazione ai rapidi cambiamenti della piattaforma abbiamo preferito non fare di questo
volume una guida troppo tecnica dell’uso di AdWords. Gli aspetti tecnici, infatti, invecchiano
rapidamente, mentre le logiche di fondo e le strategie restano valide molto più a lungo. Nei nostri
intenti, questo lavoro dovrebbe configurarsi come un manuale avanzato di (web) marketing, scritto a
partire dalla convinzione che AdWords non sia affatto un mero strumento per la realizzazione di
campagne di keyword advertising ma, piuttosto, un anello – sempre più decisivo – della più generale
catena di generazione del valore da parte dell’azienda.

1. Levy Steven, Rivoluzione Google. I segreti dell’azienda che ha cambiato il mondo, Hoepli, 2012.
2. Il sistema di gestione di un account di grandi dimensioni o di più account: http://bit.ly/16c2zjJ.
3. Ulteriori informazioni sui livelli di accesso in AdWords, sono disponibili sulla guida online: http://bit.ly/18AVMma.
4. Monitoraggio degli annunci e delle parole chiave: http://bit.ly/12NJJgO.
5. Utilizzo delle opzioni di corrispondenza delle parole chiave: http://bit.ly/145mG7p.
CAPITOLO 1
PICCOLE ACCORTEZZE

1.1 Fuggire anche da se stessi


Scopriamo come nascondere il proprio annuncio a indirizzi IP che, per vari motivi, potrebbero
penalizzare la campagna.

L’IP, acronimo di Internet Protocol, è l’indirizzo numerico che identifica in modo univoco un
determinato terminale connesso a Internet. Di fatto, è una sorta di numero di telefono. Ecco allora
che, così come posso scegliere di non ricevere più chiamate da un dato numero di telefono, posso
scegliere – attraverso l’interfaccia di AdWords – di rendere invisibili i miei annunci a un
determinato IP. Ed è proprio quello che conviene fare quando scopriamo che i click, o anche le sole
impression, generati da un certo indirizzo, risultano penalizzanti per la nostre campagne.
Google AdWords ha un sistema di tracciatura dei cosiddetti “click non validi1” assolutamente
performante e in grado di tutelare efficacemente l’inserzionista dall’eventuale attività truffaldina di
certi suoi competitor poco “sportivi”: quelli che continuano a cliccare sui suoi annunci per fargli
esaurire il budget quotidiano ed eliminarlo, per quel giorno, dalle aste.
Ma in alcuni casi l’operazione di esclusione di un indirizzo IP dalla possibilità di visualizzare i
propri annunci può rivelarsi comunque necessaria, soprattutto quando il comportamento disfunzionale
generato da un certo indirizzo IP si realizza in un periodo di tempo lungo (e quindi più difficile da
identificare dal sistema come click truffaldino), e il danno generato, anche se poco profondo, tende
comunque a inquinare progressivamente i parametri della campagna, un po’ come la goccia che, nella
sua insistenza, riesce a scavare la pietra.
Questo tipo di pratica, per esempio, è molto utile quando, come spesso avviene, i dipendenti
dell’azienda o lo stesso titolare tendono, per i più diversi motivi, a cercarsi spesso attraverso
Google (abbattendo il CTR), finendo talvolta anche per cliccarsi (spendendo budget)2!
Per eliminare gli inconvenienti di questo genere e proteggere l’inserzionista dai concorrenti/utenti
molesti ma anche dai propri dipendenti o da se stesso, è necessario risalire – utilizzando i diversi
software di web analytics – all’indirizzo IP “incriminato” per poterlo poi escludere dalle ricerche.
All’interno del pannello AdWords, il percorso attraverso cui impostare la rimozione degli IP
indesiderati è il seguente:

Campagne > Impostazioni > Impostazioni avanzate > Esclusioni IP > Modifica
Figura 1.1 - L’interfaccia di rimozione degli indirizzi IP su AdWords.

Come si può notare nella figura, il settaggio dell’esclusione è decisamente elementare. Già in questo
primo esempio scopriamo come l’ottimizzazione delle campagne passi anche da piccoli
accorgimenti, tanto semplici da mettere in pratica quanto efficaci nei risultati che offrono.

1.2 L’importanza di studiare la storia


Analizzare la campagna sulla base di un periodo storico significativo, senza farsi influenzare
dall’ultimo rendimento.

Una buona percentuale degli insuccessi delle campagne AdWords nasce dalla fretta con la quale gli
inserzionisti pretendono di raggiungere i propri obiettivi. Per quanto la piattaforma consenta di
lavorare in “tempo reale”, i risultati non arrivano mai in tempo reale. Anzi, per gestire al meglio la
campagna, è fondamentale rispettarne i tempi e pensarla sempre nella sua storicità. Ogni azione
effettuata al suo interno, infatti, risente degli effetti di tutte le azioni precedentemente compiute e del
più generale “vissuto” della campagna stessa.
Questo è il motivo per cui, se una campagna produce performance negative in un periodo di cinque
mesi, devastando il CTR e il punteggio di qualità precedentemente acquisiti, una modifica troppo
repentina potrebbe anche non condurre ai risultati attesi, perché “la memoria storica” dell’algoritmo
AdWords si troverebbe a dover affrontare una variazione così violenta da giungere a considerare gli
interventi di ottimizzazione realizzati quasi come una nuova campagna.
Questo tipo di effetto potrebbe anche essere un utile espediente tattico se la strategia fosse quella di
guadagnare qualità assaltando le posizioni più alte nella pagina dei risultati. Tuttavia, se il budget
dell’inserzionista prima produceva centinaia di accessi e adesso ne genera solo poche decine, è
evidente che, per quanto i click siano tendenzialmente produttivi, probabilmente finirà a preoccuparsi
per il minor numero di accessi che la campagna sta portando.

L’analisi temporale, condotta attraverso la consultazione dei dati storici, è quindi fondamentale, in
quanto consente di valutare l’andamento della campagna non solo nel periodo immediatamente
precedente l’analisi ma anche su un orizzonte temporale più vasto, idealmente annuale: gennaio su
gennaio, periodo pasquale su periodo pasquale e via dicendo.
AdWords (nel momento in cui scriviamo) consente anche di incrociare i dati a livello grafico ma, per
ottenere migliori parametri di confronto, è meglio utilizzare i rapporti di Google Analytics che
mostrano, oltre agli andamenti grafici delle variazioni nel tempo, maggiori valori percentuali e
numerici.
Ecco, infine, un piccolo accorgimento. Quando si fanno analisi “mese su mese”, non si tende quasi
mai ad analizzare il giorno della settimana con il quale il mese è iniziato, mentre sarebbe opportuno
fare proprio così: se per il mese in corso il giorno iniziale è un martedì, sarebbe opportuno condurre
il confronto con il mese precedente, partendo dal primo martedì e non dal primo giorno di
calendario. Questo per assicurarci che nei possibili confronti siano compresi esattamente gli stessi
giorni della settimana e weekend che, come sappiamo, possono far registrare andamenti di campagna
anche molto diversi.

1.3 Con il senno di poi


Su AdWords si sbaglia sia da soli sia in team. La cronologia modifiche mette ordine agli interventi.

La funzione di analisi “Cronologia modifiche” di AdWords, probabilmente un po’ snobbata dagli


utilizzatori della piattaforma, è in realtà fondamentale per il controllo della campagna. Questa
funzione consente, infatti, di visualizzare tutti gli interventi di ottimizzazione realizzati nel corso del
tempo e gli effetti realmente generati da ciascuno di essi in termini di miglioramento dei risultati.

Figura 1.2 - Il grafico che si presenta impostando la Cronologia Modifiche.

Nella parte alta della relativa pagina, il grafico che mostra il rendimento della campagna nel periodo
selezionato è molto simile a quelli visualizzabili attraverso gli altri tool di gestione dell’account.
Tuttavia, mentre questi ultimi servono a decidere come modificare i parametri della campagna, quelli
offerti in questa schermata mostrano come è cambiato il suo rendimento in rapporto agli interventi
fatti. In questo modo, potremmo, per esempio, verificare come una modifica nell’impostazione del
CPC massimo di una certa parola chiave abbia prodotto un decremento di click o un aumento di CTR.
I risultati possono essere esaminati non solo per “data” e “ora” ma anche in relazione al “gestore”
che ha effettuato la modifica. Il che evidentemente è molto importante per capire l’approccio dei
diversi operatori che eventualmente gestiscono la campagna.
I dati, peraltro, sono mostrati in modo estremamente chiaro ed esaustivo attraverso le colonne
“campagne” e “gruppi annunci”, e sono corredati dalla colonna “modifiche” che mostra i dettagli
sintetici o approfonditi di tutti gli interventi compiuti nel corso del tempo.
Lo strumento, inoltre, non è solo valido per determinare il motivo per cui un certo parametro è
migliorato o peggiorato ma, grazie alla sua capacità di tradurre ogni azione in un valore numerico,
oggettivo e attendibile, aiuta l’utilizzatore anche a comprendere quali siano stati gli eventuali errori
compiuti, in modo da non ripeterli nel tempo. Ciononostante, nella gestione di AdWords commettere
errori è quasi inevitabile e le oscillazioni, positive o negative, delle performance non sono quasi mai
frutto di un unico fattore. Osservando i grafici e andando a ritroso nel tempo per ricostruire le
modifiche effettuate, è anche possibile, volendo, riportare la campagna alla sua configurazione
iniziale, per testare poi nuove strade se quelle percorse in prima istanza non hanno prodotto i risultati
sperati.
Come abbiamo più volte ripetuto in queste prime pagine, fatte salve le conoscenze strategiche e le
tattiche di fondo, l’ottimizzazione di ogni campagna si fa sempre procedendo per prove ed errori e,
talvolta, anche un piccolo intervento può, col senno di poi, dimostrarsi un errore in grado di
penalizzare seriamente i risultati dell’advertising. La cronologia delle modifiche è lo strumento
attraverso il quale raccogliere tutte le informazioni necessarie ad attivare proficuamente il nostro
“senno di poi”.

1.4 Cromoterapia
Un modo semplice ed efficace per mettere ordine nelle nostre campagne: usare le etichette
colorate consente di analizzare i dati velocemente e “a colpo d’occhio”.
Per quanto possa oggi sembrare strano, quando vennero introdotte per la prima volta, le etichette non
furono ben accolte ma generarono quasi una sollevazione popolare. Basate sull’uso di una serie di
tag, grazie ai quali identificare e definire gli elementi di una campagna, nascevano con lo scopo di
dare ordine e semplificare la sua gestione. Uno strumento concettualmente potentissimo, quindi, ma
che aveva una piccola pecca che ne penalizzava enormemente l’efficacia: era in bianco e nero! Dopo
la mozione di sfiducia ricevuta sul campo, gli ingegneri di Mountain View si prodigarono per
risolvere il problema e introdussero il colore.
Sembra un cambiamento di poco conto, ma provate per un attimo a immaginare di dover gestire un
account con schermate molto ricche di chiavi all’interno di un’interfaccia certamente molto
tecnologica e bella sul piano estetico ma caratterizzata da testi talmente tenui e omogenei da risultare
estremamente difficili da leggere.
L’introduzione dei colori consente oggi di dividere i diversi elementi secondo logiche cromatiche,
che aiutano enormemente l’utilizzatore a tenere sotto controllo tutti i vari parametri della campagna e
a comprendere a colpo d’occhio cosa funziona e cosa no. In sostanza, le etichette possono essere
usate in mille modi diversi per organizzare i contenuti e fare ordine. Ordine è velocità. Velocità
(ordinata) significa miglioramento delle prestazioni.
Ecco, quindi, alcuni possibili usi dei colori per organizzare al meglio la visualizzazione dei vari
elementi che costituiscono una campagna AdWords. Naturalmente si tratta solo di suggestioni che
ciascuno potrà personalizzare a proprio piacimento.

1) Chiavi che convertono


Divisibili cromaticamente in almeno due tipi di verde: scuro e chiaro.
Con il verde scuro si possono identificare le chiavi a corrispondenza esatta. Con quello chiaro le
altre corrispondenze, in modo da riconoscere subito le parole chiave che hanno potenzialità
ancora da sfruttare.

2) Chiavi che performano poco


Tendenzialmente si attribuisce il colore arancione alle chiavi che danno scarsi risultati. Scegliete
voi, in base alle vostre necessità, se ciò debba significare che hanno un CTR basso o non
convertono bene.

3) Novità
Sono le keyword attivate da poco tempo, tendenzialmente non più di una settimana, e può essere
comodo riconoscerle subito a video come chiavi “giovani” e non ancora inquinate o ottimizzate.
Potete farle rosa, come fa Andrea Testa pensando al fiocco appeso alla porta alla nascita delle
sue due figlie o, ovviamente, del colore che preferite.

4) Aree tematiche
Anche se una buona campagna dovrebbe avere poche parole in specifici gruppi annunci, può
essere utile etichettare le chiavi sulla base di un possibile macro-insieme. Per esempio, in
riferimento a strutture turistico-ricettive si possono dividere le keyword in:
“familiari”: quelle chiavi che hanno a che vedere con i termini bambini o famiglia;
“servizi”: parliamo di quali servizi mette a disposizione la struttura;
“tariffarie”: se parlano di poco prezzo, prezzo, economico, tariffe;
“geolocalizzate”: se esprimono un luogo.

E via dicendo, scegliendo per ciascuna di queste un diverso colore.

5) SEO performanti
Un’etichetta molto tattica ci dice se la parola chiave esatta ha un ottimo posizionamento organico.
Traducendo il valore dell’uso dei colori nelle etichette, potremmo dire che queste mettono ordine
e portano serenità al gestore della campagna, proprio come la pratica della “cromoterapia”.

1.5 Parola d’ordine: “segmentare”


La valenza strategica di analizzare il comportamento degli utenti da prospettive diverse.

Segmentare significa dividere, frazionare, scomporre. Questo è proprio ciò che AdWords consente di
fare a qualsiasi livello di articolazione delle nostre attività inserzionistiche: campagne, gruppi di
annunci, annunci e parole chiave. Utilizzando la funzione “Segmenta”, in pratica possiamo analizzare
le performance delle nostre attività a vari livelli di dettaglio, rilevando come gli utenti si comportino
in relazione alle variabili di segmentazione utilizzate. Si può, per esempio, segmentare per tempo,
scoprendo l’andamento della campagna nelle diverse settimane o ore del giorno, come pure mappare
le pratiche di ricerca e le conversioni dei nostri clienti, potenziali o effettivi, in relazione all’uso dei
diversi device.
Entrando più in dettaglio, la segmentazione può avvenire in base alle seguenti voci3:
Tempo.
Giorno
Settimana
Mese
Trimestre
Anno
Giorno della Settimana
Ora del giorno
Conversioni.
Nome azione di conversione
Scopo del monitoraggio delle conversioni
Tipo di corrispondenza dei termini di ricerca
Parola chiave/Posizionamento.
Rete.
Rete (con partner di ricerca).
Tipo di click.
Dispositivo.
Esperimento.
In alto/Altro.
Annotazioni +1.

Perché è utile la segmentazione? La risposta diventa evidente non appena si visualizza un report di
segmentazione nel quale si scopre, magari, che una campagna si comporta diversamente nei diversi
momenti della giornata o in funzione del fatto che gli utenti abbiano fatto le proprie ricerche da un
computer desktop piuttosto che da uno smartphone.
Il riconoscimento di tali cambiamenti nei comportamenti degli utenti e delle oscillazioni delle
performance in corrispondenza di determinate variabili attiva nell’utilizzatore di AdWords – in
quanto “uomo di marketing” e non, come spesso si continua a credere, esperto IT – un’infinità di
interrogativi, stimolati dalla necessità di interpretare tali andamenti per attivare tutti gli interventi
necessari a intercettare l’evoluzione dei comportamenti di consumo (digitale e non) degli utenti e
migliorare i risultati. Questo fatto non si traduce necessariamente in un “semplice” intervento di
ottimizzazione delle campagne in atto e dei relativi parametri di settaggio. I risultati emersi attraverso
le analisi di segmentazione offerte da AdWords possono, infatti, far emergere opportunità o elementi
di disfunzionalità rispetto a tutte le varie dimensioni su cui si articola il marketing aziendale e
richiedere, pertanto, interventi anche a livello di sito, prodotto, logistica, spedizione e così via.
D’altra parte, non ci stancheremo di ripeterlo: il web marketing non è “marketing digitale” ma
marketing!
1. Informazioni sul traffico non valido, dalla guida di AdWords: http://bit.ly/19HkXXf.
2. Il sito web WhatIsMyIp consente di visualizzare il proprio indirizzo IP.
3. Le funzioni di segmentazione non sono disponibili per tutti i livelli, ogni livello della campagna può avere le proprie segmentazioni.
CAPITOLO 2
SEO E SEM

2.1 Esserci o apparire?


L’attività primaria di Google AdWords è il keyword advertising: ma cosa significa esattamente
questo tipo di forma pubblicitaria?

Secondo una statistica di StatCounter Global Stats1, riferita al periodo aprile 2012/aprile 2013,
Google raccoglie il 90,17% delle ricerche effettuate in rete. Quindi fare keyword advertising
significa innanzitutto fare pubblicità sottoponendo il proprio messaggio all’attenzione delle persone
che cercano qualcosa su Google.
D’altra parte, non dobbiamo dimenticare come l’opportunità che i nostri prodotti/servizi hanno di
essere trovati nelle infinite pieghe della rete globale passi attraverso due diverse logiche,
sintetizzabili attraverso i concetti di esserci e apparire.
Il SEO (Search Engine Optimization), baluardo della visibilità gratuita, è totalmente orientato al
principio dell’esserci. Suo obiettivo primario è quello di garantire awareness e reputazione e non di
provocare effetti persuasori immediati come quelli richiesti alla pubblicità classica.
Scopo del SEA (Search Engine Advertising) o SEM (Search Engine Marketing) è invece proprio
quello di far apparire gli annunci dell’inserzionista nelle pagine dei risultati di ricerca degli utenti, in
modo da ottenere click e conversioni. Attraverso questi ultimi, che a tutti gli effetti sono forme di
marketing, l’azienda si pone l’obiettivo di ottenere risultati e di produrre.
La differenza tra le due forme di attività sta tutta nella differenza che intercorre tra ciò che può essere
comprato (SEA) e ciò che, invece, può essere solo progettato al meglio (SEO). La prima consente di
ottenere risultati attraverso campagne ad hoc, a breve termine e immediatamente quantificabili. La
seconda genera invece risultati nel lungo periodo e richiede grande pazienza, configurandosi, di fatto,
come un processo praticamente senza fine. D’altra parte, queste due pratiche devono sposarsi e agire
sinergicamente e non potrà esservi nessuna efficace campagna PPC (Pay Per Click) senza un sito
perfettamente ottimizzato da un’accorta ottimizzazione SEO.
Come vedremo in tutto il libro, AdWords è un mondo vasto, continuamente alimentato da novità che
cercano di migliorare i risultati ottenibili attraverso la piattaforma. Anche per questo, molte volte
l’utilizzatore si trova di fronte a risultati diametralmente opposti anche a distanza di pochi giorni. Per
fare un solo esempio, una parola chiave che sta ottenendo risultati concreti rischia di collassare e
distruggere un lavoro di mesi solo perché il suo schema di funzionamento resta invariato. La
situazione è simile a quella di una partita a scacchi giocata sempre facendo le stesse mosse. Quando
l’avversario le avrà capite, le probabilità che avrà di vincere aumenteranno enormemente.
A rendere le cose ancora più complesse c’è la componente temporale, che rappresenta tuttavia un
altro elemento di forte differenziazione tra SEO e SEM. Mentre il primo è caratterizzato dalle lunghe
attese che separano il momento dell’azione da quello dei relativi effetti sul posizionamento organico
del sito, il gestore di una campagna di keyword advertising non solo può ma deve necessariamente
agire in real time e vedere immediatamente i risultati – positivi o negativi – delle proprie azioni.
L’esserci (SEO) e l’apparire (SEM) rappresentano quindi le due principali dimensioni su cui si
articola, nel tempo, la presenza online di un’azienda. Scopo della stessa dovrebbe essere quello di
far sì che queste due dimensioni si armonizzino al meglio tra loro, in modo da garantirsi una presenza
efficace e apprezzata nel mondo digitale. Proprio come succede alle persone nel mondo reale.

2.2 Vegetariani in macelleria o golosi in pasticceria?


L’importanza dell’esperienza d’uso di un sito nella navigazione dell’utente e i suoi rapporti con le
campagne AdWords.

Come abbiamo già detto, il filo conduttore dell’intero volume risiede nel fatto che AdWords non sia
solo keyword advertising ma uno strumento sinergicamente collegato a tutto ciò che è marketing. È
evidente come il primo – e per certi aspetti più importante – collegamento da considerare sia quello
tra la campagna e il sito web con la sua landing page, le sue pagine e i suoi contenuti a cui gli annunci
conducono. Tutto ciò che sta dentro il sito offre a ciascun utente le tracce da seguire in un percorso
che non è tanto quello costituito fisicamente dai link tra le pagine ma, piuttosto, quello che gli occhi –
e la mano sul mouse – del visitatore ricostruiscono nella sua mente.
Proprio in riferimento alla navigazione degli utenti sul sito, dobbiamo prendere in considerazione
uno degli elementi cardine del punteggio di qualità di una parola chiave in AdWords e cioè la User
Experience. La user experience – o esperienza utente - è il parametro che fa comprendere (meglio se
prima al gestore del sito che non ad AdWords!) se il nostro sito funziona o no.
Un sito “funziona” quando ciascuna delle sue pagine è in grado di trasmettere quelle emozioni che
conducono progressivamente il visitatore a generare una “conversione”, compiendo l’azione-
obiettivo prevista da chi ha progettato il sito e l’eventuale campagna AdWords a quest’ultimo
associata.
L’utente, in effetti, esprime le proprie emozioni e il piacere derivante dalla sua esperienza di
navigazione sul sito attraverso una serie di comportamenti tra cui: una sosta prolungata su di esso, la
generazione di eventi determinati da click, la visualizzazione di immagini, la consultazione di più
pagine, la compilazione di un form o la realizzazione di un acquisto. In altri termini, l’utente
manifesta il suo gradimento nel consumare i contenuti del sito nel momento stesso in cui li osserva.
Obiettivo del responsabile SEO e del gestore della campagna SEM sarà, pertanto, quello di
ottimizzare per quanto possibile la “user experience di consumo” del sito aziendale. E non a caso
parliamo di consumo.
Facciamo un esempio, pensando a quando siamo a un pranzo a buffet e mettiamo nel piatto varie
pietanze. Non è forse vero che, in genere, le consumiamo con ritmi diversi, dedicando meno tempo a
quelle che ci piacciono meno e lasciando per ultime quelle per noi più prelibate? E se, per caso,
proprio l’ultimo pasticcino non ci pare buono come avremmo voluto che facciamo? Ce ne torniamo al
bancone e ne prendiamo altri.
Questo è esattamente quello che succede nella “tavola imbandita” di un sito web. Se il mio sito web
non riesce a fornire una vasta scelta di pietanze su un percorso fatto di portate diverse e succulente e
l’esplorazione si conclude senza soddisfare l’appetito dell’utente, questo ne uscirà e andrà a cercare
altrove cose che lo possano soddisfare. Affinché questo non avvenga, è allora necessario analizzare
in primo luogo i comportamenti di navigazione degli utenti, in modo da ottimizzare la loro user
experience ed evitare che l’uscita insoddisfatta dal sito diventi un comportamento prevalente tra i
nostri visitatori.
Per evitare tutto questo, possiamo utilizzare un comune software di analisi web per monitorare le
varie visite e, rilevando dove si generano le maggiori criticità, intervenire per eliminarle. A questo
proposito, conviene prendere in esame una serie di parametri o metriche che ci consentono di
comprendere cosa può e deve essere ottimizzato, anche se il traffico che entra nel sito è quello
generato da un vegetariano che si ritrova a varcare la porta di una macelleria o da un goloso che
entra in una pasticceria proprio nel giorno del “tutto a un euro”.
In questa prospettiva, i parametri da tenere maggiormente sotto controllo sono:
frequenza di rimbalzo (bounce rate);
principali pagine di uscita;
numero di pagine viste;
tempo medio sul sito.

Ed è importante tenerli sotto controllo esattamente in questo ordine.

La frequenza di rimbalzo è un valore chiave che consente di individuare subito il caso del
“vegetariano” entrato per sbaglio nella nostra “macelleria”. La pagina di uscita, naturalmente, è la
fine del percorso di navigazione dell’utente; ma è importante verificare se è uscito alla fine del pasto
(dopo aver convertito) o a metà.
Gli altri due parametri – numero di pagine viste e tempo sul sito – sono in effetti meno importanti, ma
riteniamo comunque corretto inserirli tra gli elementi di analisi dei processi di consumo dei contenuti
dei siti web.
Ricordate che parliamo di far consumare il pasto, e dunque chi si occupa del sito dovrebbe fare di
tutto per far arrivare i nostri commensali a fine pasto e quindi nella pagina delle conversioni. Poi
starà a loro dirci se il cibo che gli abbiamo proposto è stato o no di loro gradimento, premiandoci –
pagando il conto! – con una conversione oppure no.

2.3 Ma se sono primo, cosa voglio di più?


L’annoso problema delle chiavi condivise tra sponsorizzata e organica. Cerchiamo di capire le
possibili strategie vincenti.

Quando il posizionamento di un’azienda su alcune chiavi di ricerca è già buono nei risultati organici,
diventa legittimo interrogarsi se valga o meno la pena di inserzionare con AdWords utilizzando le
medesime chiavi. Per rispondere, facciamo alcune considerazioni.
Attualmente, una ricerca effettuata con Google offre, in genere, risultati molto densi di contenuti che
possono includere mappe, immagini, video, scelte recuperate dalla cronologia o influenzate dai log
su Google Plus. In questo modo, per poter visualizzare una pur buona presenza tra i risultati organici,
in settima o ottava posizione, l’utente deve scrollare comunque molto spesso. Oggi, il reale problema
con la ricerca organica è dunque che, soprattutto in corrispondenza di chiavi di ricerca con grande
concorrenza in AdWords, un risultato in prima pagina, anche a fronte di un’ottima e costante visibilità
a livello di impression, non può garantire click sicuri.
Questo naturalmente non significa affatto mettere in discussione la rilevanza strategica del SEO.
Tutt’altro! I risultati organici, sopratutto sulla coda lunga, sono sempre indispensabili, ampliano il
nucleo delle chiavi, aiutano AdWords a lavorare meglio2 e garantiscono una quota sicura di accessi,
dai quali un sito non dovrebbe mai prescindere. Inoltre, quando la posizione è particolarmente buona
e la presenza è supportata da una buona reputazione su Google Plus o anche semplicemente da una
descrizione accattivante rispetto alla query che ha determinato la visualizzazione, i click sono
praticamente garantiti.
Bisogna poi anche ricordare che per gli utenti non loggati su Google i risultati organici restano
tendenzialmente invariati3, mentre quelli generati da AdWords cambiano costantemente, anche tra due
ricerche successive perfettamente identiche. Questo significa che quella in organico resterà sempre e
comunque una presenza solida, costante nel tempo e di valore. Si potrebbe magari discutere sul fatto
che tale presenza sia poi effettivamente in grado di portare profitti, ma tra l’esserci e il non esserci,
garantiamoci intanto di esserci, offrendo così agli utenti la possibilità di accedere al nostro sito. Poi
si vedrà.
AdWords, per contro, insegna che non è con la visibilità che si ottiene il successo, tanto è vero che il
valore ideale del CTR è il 100% che si genera – a meno di non disporre di budget illimitati –
attraverso poche impression in rapporto al volume totale giornaliero e un altrettanto ridotto numero
di click. Ma questo è un ragionamento che si applica, appunto, al search engine marketing, in cui i
click si pagano!
Proprio rispetto al CTR assoluto di una campagna, dobbiamo fare una considerazione, spesso
ignorata. Tale indice si calcola, infatti, sulla base dei click totali effettuati dagli utenti sulla pagina
dei risultati attivati da una certa query. In questo modo, esso prende in considerazione anche i click
che, anziché essere generati dall’annuncio sponsorizzato, sono effettuati su quello organico. In
pratica, durante una ricerca tutti gli annunci a pagamento potrebbero accumulare un CTR dello 0%,
grazie a un click su un risultato gratuito. Lo scenario che si apre è suggestivo, sopratutto sulla base
del fatto che di solito si considera un CTR accettabile se questo supera il 3%.
È opportuno aprire una parentesi su questo fatto. Il 3% è considerato sul totale di ricerche maturate
dalla stessa query, quindi sulla carta significa una preferenza su trenta ricerche. Ma la ricerca
dell’utente potrebbe portare a ottenere click su diversi risultati legati all’azienda e presenti nella
pagina del motore. Per esempio tre ricerche identiche con tre click, di cui uno sul risultato AdWords,
uno sull’organico e uno su un video YouTube dell’azienda. In questo contesto il CTR del 3% non
vuol dire che si ritenga accettabile una preferenza su trenta, ma se l’utente avrà effettuato tre ricerche
e tre preferenze (seppur su soluzioni diverse), la preferenza sarà di 1:10 (3 su 30). Un CTR relativo
quindi del 10%.
Ma torniamo al nostro tema iniziale, che era quello di capire se, nel caso in cui una chiave abbia già
una buona presenza tra i risultati organici, convenga comunque supportarla con annunci sponsorizzati.
La nostra risposta è che, comunque, convenga farlo, possibilmente garantendo agli annunci una
posizione strategica che consenta di ottenere risultati non contigui tra loro e con lo sponsorizzato
nelle prime posizioni. In questo modo, un utente che parta dall’alto per consumare le proprie scelte,
se anche non cliccherà il nostro annuncio sponsorizzato potrebbe comunque arrivare al nostro sito
attraverso i risultati organici. O, addirittura, se ha cliccato sull’annuncio a pagamento, potrebbe poi
trovare la nostra offerta, con un titolo diverso in organico, e sceglierla come altra opzione.
Naturalmente, per calibrare al meglio questo tipo di sinergia, è necessario analizzare attentamente i
dati per prevenire risultati perfettamente sovrapponibili e quindi non in grado di rafforzarsi
vicendevolmente. Molto utile è anche lavorare con landing page differenziate e utilizzare per il testo
degli annunci creatività in grado di renderli decisamente diversi dal risultato dell’organica.
In sintesi, riuscire a presidiare il più possibile la search engine result page (SERP) è una scelta
assolutamente saggia e vincente. Immaginiamoci una pagina che mostri l’annuncio AdWords, il
risultato organico, la mappa, un video e le immagini.
Cinque risultati che rimandano alla nostra offerta in un’unica SERP: non male vero?

2.4 Una funzione “olistica”


Il report che ci mette in ascolto dei dati provenienti dai risultati organici e da quelli ottenuti
attraverso gli annunci sponsorizzati AdWords.

Proprio nei giorni in cui stavamo per andare in stampa, gli ingegneri del gigante di Mountain View
hanno reso disponibile uno strumento di analisi talmente interessante che abbiamo deciso di ritardare
la consegna del lavoro proprio per poterlo inserire nel testo. Si tratta di un tool che, per la prima
volta, consente di monitorare contemporaneamente i risultati ottenuti attraverso l’organico con quelli
derivanti dall’attività inserzionistica AdWords.
A conferma dell’importanza dell’integrazione tra le diverse “anime” della comunicazione digitale e
del marketing – che è uno dei messaggi di fondo di questo nostro lavoro – il report regala all’analisi
delle query la necessaria sinergia di intenti tra chi opera in SEM (o SEA) e chi in azienda si occupa
del SEO, mostrando il rendiment delle parole di ricerca utilizzate dagli utenti che hanno prodotto
l’accesso al sito, a prescindere dal canale (organico o pay).
Il report è raggiungibile attraverso la voce “Dimensioni”, dal menù “Visualizza: A pagamento e
organici”. Accedendo ai dati, il sistema offre tre diverse possibilità di analisi:
Statistiche annunci, relativa al pay-per-click AdWords.
Statistiche organici.
Statistiche organici e annunci combinate.

Il dato che salta subito all’occhio è che nelle due tabelle singole (annunci e organici), il sistema
mostra il rendimento di una determinata query a prescindere dalla sua presenza sul mezzo. In poche
parole, è capace di dirci se quella query ha portato un click sul nostro sito tramite il canale a
pagamento e/o organico indipendentemente dal fatto che fosse o meno inserita come chiave di ricerca
nel nostro bouquet di parole chiave AdWords. Il dato è straordinariamente utile poiché consente in
primo luogo di capire se quella query, col suo percorso storico di click, ricerche, impression e
posizione media, stia giocando un ruolo importante nella nostra campagna di keyword advertising.
Secondariamente, apre scenari tattici sul cross marketing dell’indicizzazione.
Da un punto di vista di campagna AdWords, posso infatti inserire tale query nel mio bouquet a
pagamento, per supportare maggiormente il rendimento di una chiave efficace che, in origine, non
avevo previsto.
A livello di risultati ottenuti attraverso l’organico, posso invece analizzare in grande dettaglio il
rendimento di quella stessa query prima e dopo il suo (eventuale) inserimento in AdWords, in modo
da comprendere come i due canali operano, interagendo vicendevolmente.
A questo proposito, è interessante notare come Google definisca le principali possibili funzioni del
rapporto.
Scopri nuove chiavi di ricerca.
Ottimizza la presenza delle chiavi a maggior rendimento.
Misura le variazioni in modo olistico.

Dove il concetto cruciale è proprio quello espresso dall’aggettivo “olistico” dell’ultimo punto. Come
vedremo in altri paragrafi di questo stesso lavoro, ogni campagna nel suo complesso e ciascun suo
elemento devono essere gestiti proprio in modo “olistico” e integrato. Questo vale in particolare per
il CTR sui cui valori agiscono, se pur in maniera diversa, sia i risultati organici sia quelli a
pagamento (vedi paragrafo 2.3), e non può pertanto essere valutato in relazione all’uno o all’altro dei
due canali presi separatamente. La nuova funzione di AdWords permette, adesso, di effettuare al
meglio l’analisi integrata dei risultati derivanti dai due canali.

Per attivare il report, è necessario accedere al menù Account Personale, selezionare “Account
collegati” e poi “Strumenti per Webmaster”.
Se gli account AdWords e Webmaster non sono ancora collegati, sarà sufficiente cliccare su
“Visualizza dettagli >>” e scegliere “+ Collega nuovo sito”, facendo in modo di selezionare il
dominio che stiamo pubblicizzando su AdWords. Per fare tale allacciamento, è necessario che il
gestore della campagna AdWords sia amministratore del sito anche nel pannello “Strumenti per
Webmaster4” di Google, un tool che si occupa soprattutto di monitorare il rendimento del sito nel
SERP organico di Google e del quale, in genere, hanno maggiore dimestichezza i responsabili SEO.

1. http://gs.statcounter.com.
2. Gli accessi organici a coda lunga avvengono grazie al contenuto e forniscono ipotesi di chiavi di ricerca potenzialmente produttive, che
in fase di pre-analisi potrebbero non essere state prese in considerazione. Analizzando i dati di accesso organici, quindi, possiamo ottenere
nuove idee di parole chiave da mettere in produzione anche su AdWords.
3. Ma possono variare da computer a computer o da loggato e non loggato.
4. www.google.com/webmasters/tools/.
CAPITOLO 3
QUERY E PAROLE CHIAVE

3.1 Le code lunghe portano bene


Un metodo utile per migliorare l’indicizzazione organica del proprio sito, sfruttando le query a
basso volume di ricerca.

Una delle domande più frequenti e che, prima o poi, tutti gli utilizzatori di AdWords si pongono, è se
le campagne pay per click possono in qualche modo aiutare l’indicizzazione organica del sito. Per
rispondere correttamente a questo interrogativo, bisogna chiarire il significato che diamo al termine
“aiuto”. Se ci si aspetta che una prima posizione sponsorizzata aiuti magicamente l’organica a salire,
la risposta è “no”! Se, invece, consideriamo i due strumenti come elementi centrali di un più generale
piano di marketing (e non solo di web marketing!), allora la risposta è insindacabilmente: “Si!
AdWords aiuta l’indicizzazione organica”.
Una prima, importante, conferma in tal senso (altre ne vedremo nel corso del volume) è associata
all’uso delle long tail query1, cioè di quelle chiavi di ricerca composte da un numero relativamente
elevato di termini.
Queste “query lunghe”, di solito, sono quelle in assoluto più produttive, in quanto esprimono esigenze
molto specifiche dell’utente, descrivendoci in modo dettagliato che cosa sta cercando e, quindi, che
cosa si aspetta e spera di trovare nei nostri annunci e nelle pagine del nostro sito a essi associate.
Ma proprio su tali chiavi AdWords incontra spesso un problema. Proprio perché composte da molti
termini, è possibile che, esattamente in quel modo, queste chiavi siano state utilizzate da un numero
ristretto di utenti: è evidente come il numero di coloro che ha cercato in un certo periodo di tempo
“agriturismo in Toscana” sia decisamente molto superiore rispetto a quello di chi ha impostato la sua
ricerca sui seguenti termini “agriturismo in Toscana vicinanza mare, uso piscina, maneggio, animali
ammessi”. Ecco allora che, se le chiavi di ricerca sono molto lunghe e hanno un volume di traffico
insoddisfacente, è probabile che il sistema di analisi di Google AdWords non sia in grado di
indicizzarle e che, pertanto, le classifichi “a basso volume di ricerca”. Questo status non determina la
visualizzazione dell’annuncio e, per accedere all’asta su questa importante query, l’inserzionista
potrebbe sentirsi costretto a usare chiavi di ricerca più brevi con corrispondenze che potrebbero
richiamare anche termini non richiesti.
Capiamo meglio questo punto ricordando la logica delle corrispondenze delle parole chiave su
AdWords. Lasciando fuori dall’elenco la forma relativa alla “corrispondenza esatta”, che obbliga il
sistema (salvo per le “opzioni di corrispondenza delle parole chiave” da menù impostazioni, che
contemplano plurali ed errori di scrittura) a mostrare l’annuncio solo agli utenti che hanno usato
come chiave di ricerca esattamente quella impostata dall’inserzionista, tutte le altre tre forme di
corrispondenze – “generica”, “generica modificata” e “frase” – possono essere utilizzate in modo
corretto solo a condizione che l’inserzionista rimuova diligentemente dall’elenco delle parole chiave
tutte quelle inefficaci e che non devono determinare la visualizzazione dell’annuncio, aggiungendole
come “inverse”. Se sono un Agriturismo a Campiglia Marittima e non ho maneggio, devo impedire
che i miei annunci siano visualizzati da query che includono la chiave maneggio, o “con maneggio”.
Usando le corrispondenze generiche (anche nella versione modificata, cioè col + che le blocca),
siamo certi di ottenere una grande quantità di impression ma, altrettanto certamente, i nostri annunci
saranno visualizzati anche da utenti non perfettamente selezionati e che, cliccando sul nostro
annuncio, si aspettano in realtà di trovare altro (con conseguente incidenza sul bounce rate). L’utente
che invece usa una “long tail” query ci offre tantissime informazioni precise e ricche di suggestioni.
Peraltro non bisogna cadere nell’errore di pensare che le query, essendo lunghe, siano anche
sporadicamente cercate. Una volta, per fare un’analisi sulle impression maturate dall’uso di tre
termini fissi, agriturismo, toscana, mare, abbiamo dato “in pasto” ad AdWords le tre chiavi a
corrispondenza estesa modificata, facendole presenziare nella stessa query. Dopo circa un mese, tali
chiavi avevano intercettato centinaia di query diverse, delle quali erano molte quelle lunghe, e
avevano generato 1.840 impression. Se, dunque, una long tail produce poco traffico, centinaia di long
tail possono portare centinaia di buoni clienti.
A fronte di tutte queste potenzialità contenute nelle query a coda lunga, è possibile non riuscire a
soddisfare le esigenze degli utenti che le utilizzano, sfruttando AdWords in qualche modo? Siamo in
pratica di fronte a questo problema: abbiamo scoperto una chiave a coda lunga che potenzialmente
potrebbe produrre ma che, avendo un basso volume di ricerca, il sistema escluderà sistematicamente
dalle aste, almeno finché lo stesso volume non crescerà a sufficienza.
Facciamo un esempio.
La ricerca “agriturismo a Campiglia vicino al mare con piscina e sauna ideale per bambini” è una
query lunga che ha un basso volume di ricerca. Inserita come chiave, tale query sarebbe tuttavia
molto utile al nostro inserzionista, che ha tutti i requisiti per farsi piacere dall’utente che l’ha
utilizzata nelle proprie ricerche.
L’unico modo per farsi trovare è quindi ricorrere alla migliore chiave tra:
“agriturismo a campiglia”
+agriturismo +mare +piscina
+agriturismo con +sauna
+agriturismo per +bambini

Queste sono, sicuramente, tutte chiavi interessanti e utilizzabili, ma da cui emerge, purtroppo, un
nuovo problema: a causa di quella “long tail” che le comprende tutte, le varie opzioni di advertising
finiscono immediatamente in concorrenza tra loro, e solo una di esse verrà effettivamente scelta per
mostrare l’annuncio.

Troviamo allora la soluzione. Utilizzando lo strumento “dettagli parola chiave > tutti” troveremo le
long tail query che hanno prodotto impression ma che, avendo un volume di ricerca troppo basso, non
possono essere gestite con AdWords.
È a questo punto che entrano in ballo le logiche del marketing, e incontriamo un primo forte legame
possibile tra attività SEM, contenuti del sito e il “buon vecchio” SEO. Dimenticandoci di AdWords,
che ci è servito “solo” per scovare le chiavi lunghe più interessanti, realizziamo allora delle landing
page che corrispondano esattamente a ciascuna delle long tail individuate. In ognuna di esse, i codici
TITLE (che verrà visualizzato come titolo della pagina nel risultato di ricerca), le DESCRIPTION
dei TAG in HEAD e il contenuto presentato, immagini comprese, suggeriranno al motore di ricerca la
totale corrispondenza della pagina alla query a coda lunga degli utenti, così da farla loro apparire tra
i risultati organici (e dunque gratis) in ottima posizione di ranking. Ricordiamo che stiamo parlando
di chiavi lunghe che, come è difficile che siano usate per la ricerca da molti utenti, è anche altrettanto
difficile che trovino già una corrispondenza perfetta con altre pagine già presenti in rete. Questo
assicurerà a quelle da noi create posizionamenti organici di sicuro valore. Inoltre, i nuovi contenuti
fortemente pertinenti con le query individuate e il conseguente aumento del traffico porteranno
benefici in termini di user experience, potenziando quindi il Seo più generale del sito.
In questo modo: se riusciamo a inserire nella nostra campagna anche solo 10 chiavi a coda lunga,
ciascuna delle quali produce 10 ricerche all’anno, saranno magari scarse per AdWords, ma a fronte
dei ridotti investimenti necessari a generare le 10 pagine dedicate, ci garantiranno 100 accessi
altamente motivati! Non male, vero?

3.2 Parole “cannibali”


Perché può essere utile allocare un budget unico a una parola chiave con una specifica
corrispondenza.

Quello di allocare un budget specifico per una sola parola chiave non può essere una regola, ma in
molti casi si dimostra l’unica strategia di successo. È quello che avviene quando, in una campagna
AdWords, una sola keyword ha caratteristiche tali da “succhiare” gran parte delle risorse
economiche disponibili per la campagna. Subendo questa costante sottrazione di linfa vitale, tutte le
altre parole chiave risulteranno “cannibalizzate”, e finiranno per rivelarsi poco performanti e
scarsamente in grado di assicurare visibilità agli annunci a esse correlati.
In fondo, questo potrebbe anche non essere un problema se la performance di quell’unica parola
chiave fosse così elevata da far raggiungere alla campagna i propri obiettivi. In genere, tuttavia,
questo non avviene, fosse anche solo per il fatto che ogni giorno nascono nuove chiavi di ricerca.
La soluzione, in questo caso, è allora questa di isolare la parola chiave “cannibale”, confinandola in
un gruppo di annunci (come unico elemento) o in una campagna tutta sua. Questa pratica di isolare le
keyword di questo tipo, è spesso utile quando si pubblicizzano strutture turistico ricettive situate in
piccole località, rispetto a cui si registrano buoni volumi di ricerca associati alla chiave singola
“nome località”.
Uno degli esempi più interessanti in questo senso è legato a un’esperienza effettivamente fatta
rispetto a una struttura ricettiva di Bolgheri, in Toscana. Attraverso l’analisi dei dati condotta su
Google Insights (oggi integralmente sostituito da Google Trend), avevamo notato che la curva di
crescita del termine “Bolgheri” era totalmente fuori controllo, con un numero di ricerche decisamente
elevato, sopratutto quelle provenienti da una specifica nazione. Decidemmo, quindi, di inserire la
chiave a corrispondenza generica modificata2 +bolgheri in un gruppo di annunci dedicato.

La chiave generò, subito, un alto volume di traffico, evidenziando un buon numero di parole idonee,
tra le quali anche alcune relative alla ricerca di strutture turistiche nella zona. Tuttavia, tra tutte,
quella che più generava traffico e mangiava budget era proprio la chiave singola “bolgheri”. Il che
rappresentava naturalmente un problema, dato che, pur ricevendo molti click, produceva comunque
un CTR quasi catastrofico (dovuto all’altissimo numero di impression da soggetti non interessati
all’offerta turistica), che comprometteva pesantemente il rendimento della campagna. D’altro canto,
il risultato in termini di conversioni era piuttosto buono, sia a livello percentuale rispetto al numero
di click sia di costo medio delle stesse. Notammo anche che la percentuale di chiusura sulle
conversioni era un po’ sotto la media rispetto a quelle prodotte da altre parole chiave. La
conversione consisteva nella compilazione di un modulo di richiesta disponibilità. Pur generando un
volume discreto di richieste in quelle attivate dalla parola chiave in oggetto, si trasformavano solo
occasionalmente in prenotazioni.
L’occasione offertaci da tali andamenti era, però, troppo ghiotta e decidemmo quindi di isolare la
keyword dal contesto, cercando di studiarla ancora meglio. Dedicarle una campagna a sé avrebbe
consentito un’analisi maniacale dei risultati specificamente ottenuti da quella chiave. In questo modo,
avremmo potuto, per esempio, esaminare direttamente, in modo più semplice e “pulito” rispetto a
prima, senza alcun rischio di compromettere il rendimento delle altre chiavi:
la fascia oraria;
il tasso di conversione;
le variazioni sui costi e i Paesi più performanti.

Naturalmente venne stanziato un budget di test non troppo elevato poiché comunque il CTR avrebbe
potuto compromettere la ricchezza delle performance delle altre campagne. L’esame condotto ci
convinse del fatto che l’isolamento della chiave “nome località” che avevamo ottenuto dedicandole
una campagna specifica, era effettivamente la soluzione migliore.
Oggi, nei periodi che sappiamo riescono a offrire i migliori riscontri in termini di prenotazioni,
attiviamo ancora quella campagna che è diventata, ormai, una sorta di salvagente, utilizzabile quando
c’è necessità di aiutare l’azienda a riempire la struttura.

3.3 Credevo di vendere materassi, invece...


Impostare il successo nell’analisi delle chiavi che hanno effettivamente determinato la
visualizzazione di un nostro annuncio.

Il vantaggio dato dal keyword advertising rispetto alle performance ottenibili nei risultati organici
attraverso il SEO è dato anche dalla possibilità offerta da AdWords di scegliere le esatte chiavi di
ricerca attraverso cui vogliamo ottenere dei click. Questo, naturalmente, a condizione che tali chiavi
siano interpretate in maniera rigida da parte del sistema e, quindi, in corrispondenza “esatta”.
La corrispondenza esatta – contraddistinta dall’uso di uno o più termini tra parentesi quadre [ ] –
impone all’algoritmo Google AdWords di far comparire l’annuncio solo in corrispondenza di quella
specifica query digitata dall’utente.
Vero è che, nelle impostazioni avanzate, si possono includere plurali e singolari, acronimi o
misspelling ma, in ogni caso, questo tipo di corrispondenza è l’unico che può tranquillizzarci sul fatto
che il nostro annuncio risponderà esattamente a una determinata parola chiave.
Tutte le altre corrispondenze consentono ad AdWords di mostrare l’annuncio secondo criteri generati
dal motore di ricerca, per soddisfare in senso ampio il desiderio d’incontro tra le domande degli
utenti e le offerte aziendali, che viene a risolversi sulla pagina dei risultati.
In “senso ampio” significa che il motore cerca di ampliare per quanto possibile lo spettro delle
richieste che potrebbero far visualizzare gli annunci dell’inserzionista, con il rischio inevitabile di
includere anche query che usano combinazioni di parole chiave non pertinenti con ciò che egli
effettivamente offre.
Se vendo materassi, potrei avere a disposizione queste chiavi a diversa corrispondenza:
vendita materassi (corrispondenza generica);
+vendita + materassi (corrispondenza generica modificata);
“vendita materassi” (corrispondenza a frase);
[vendita materassi] (corrispondenza esatta).

Il problema è che, salvo quella “esatta”, tutte le altre forme di corrispondenza riserveranno
innumerevoli sorprese, dalle più semplici da immaginare, rappresentate dalla presenza di parole
prima o dopo la frase, alle più improbabili, attivate dalla corrispondenza generica. Quest’ultima
potrebbe potenzialmente attivare l’annuncio anche in relazione a ricerche di: “riparazione guanciali”!
Il fatto che AdWords ci offra i diversi tipi di corrispondenza, compresa la generica, non è tuttavia un
errore del sistema. Esso rappresenta, piuttosto, un suo ulteriore elemento di forza, che ci consente di
tenerci aggiornati sulle dinamiche cui le query degli utenti, costantemente, vanno incontro. Basti
pensare che, secondo Think Insights di Google3, il 16% delle query cercate quotidianamente su
Google stesso non è mai stato utilizzato in precedenza.
Il dato è affascinante e inquietante al tempo stesso.
Affascinante perché ci mostra come gli utenti siano soggetti attivi che cambiano e fanno evolvere nel
tempo le proprie ricerche. Inquietante perché, con la generazione costante di nuove query, è evidente
che altre tendano progressivamente a scomparire, sostituite da termini via via sempre più precisi e
performanti.
Monitorare le neo-query alla ricerca delle combinazioni tendenzialmente più produttive per le nostre
campagne rappresenta, dunque, un potenziale elemento di successo. Facciamo un esempio tra i più
classici: quindici anni fa, un utente che desiderasse passare le vacanze in un agriturismo si sarebbe
molto probabilmente limitato a cercare su Google la parola “agriturismi”, aspettandosi di trovare una
manciata di soluzioni. Oggi, quasi certamente, non solo aggiungerebbe alla sua ricerca la località
dove vuole andare, ma anche i servizi che vorrebbe trovare nell’agriturismo.
Questo significa che un inserzionista che lavori con chiavi a corrispondenza esatta ben performanti
registrerà quasi inevitabilmente un fisiologico calo di conversioni man mano che passano i mesi. Per
questo è necessario che egli utilizzi anche chiavi di ricerca a diversa corrispondenza e ne analizzi le
performance quotidianamente o quasi. In questo modo, potrà far evolvere il proprio sistema di
keyword in sintonia con il modificarsi delle ricerche degli utenti, assicurando performance costanti
alla propria campagna.
A questo scopo potrà utilizzare lo strumento: “Dettagli parola chiave”. Tale tool consente di
visualizzare quali query hanno effettivamente attivato la visualizzazione degli annunci e, tra queste,
quelle che hanno prodotto anche dei click.
A questo livello di analisi, l’inserzionista dovrà dedicare particolare attenzione all’analisi delle
performance relative. Ogni chiave a corrispondenza generica, infatti, genera una performance
assoluta, composta dalla media delle diverse performance relative che la compongono. Per esempio:
+vendita +materassi - CTR 2% - costo conversione 2,00 euro

è la performance assoluta. Ma analizzando le query che hanno generato tale risultato, l’inserzionista
potrebbe scoprire la seguente situazione:
vendita materassi in lattice - CTR 25% - costo conversione 0,20 euro
vendita materassi - CTR 8% - costo conversione 0,80 euro
vendita materassi a molle - CTR 1% - nessuna conversion
materassi in vendita a basso costo - CTR 0% - nessuna conversione

Il che, evidentemente, gli suggerirà di inserire nuove chiavi che riportiamo qui sotto, per intercettare
le query più performanti emerse dall’analisi:
“vendita materassi in lattice”
[vendita materassi in lattice]

Sempre facendosi guidare dai risultati emersi dai “Dettagli parole chiave”, l’inserzionista dovrebbe
anche inserire le chiavi inverse:
[vendita materassi]

in modo da tamponare l’emorragia di CTR e conversioni che, a lungo andare, potrebbe penalizzare
tutta la sua campagna.

3.4 L’uso delle chiavi che non ci servono


Il successo di AdWords passa attraverso l’uso corretto delle corrispondenze inverse.

In modo un po’ provocatorio, potremmo dire che AdWords darebbe risultati proficui anche lavorando
con una sola chiave di ricerca a corrispondenza generica, purché sorretta da un numero consistente di
keyword a corrispondenza inversa. Può suonare paradossale affermare che una campagna incentrata
sulla corrispondenza tra le parole chiave previste dall’inserzionista e i termini effettivamente cercati
dagli utenti possa trovare il proprio successo attraverso l’individuazione di chiavi di ricerca non
pertinenti rispetto a quanto promosso con gli annunci. Ma è proprio così! Arriviamoci per gradi.
AdWords è un sistema finalizzato a generare risultati sulle pagine Google dell’utente, in relazione
alla ricerca effettuata. Appena l’utente digita una query, si attiva una gara che determina gli annunci
che compariranno tra i suoi risultati “sponsorizzati”, sulla base del loro punteggio di qualità
ponderato con il costo massimo per click che ciascun inserzionista si è dichiarato disposto a
sostenere. Fin qui tutto chiaro.
Non bisogna tuttavia mai dimenticare che AdWords pone una differenza radicale tra query e parola
chiave. La query è quella che l’utente inserisce nell’apposito campo del motore di ricerca Google,
mentre la parola chiave è quella scelta dall’inserzionista come attivatore per concorrere all’asta e,
auspicabilmente, far visualizzare all’utente il relativo annuncio.
Facciamo un esempio, immaginando di utilizzare come keyword “scarpe eleganti”, in corrispondenza
generica modificata. La chiave apparirebbe scritta in questo modo:
+scarpe +eleganti

Il simbolo “+” davanti alle parole, consente di concorrere all’asta in relazione a query generate dagli
utenti che contengono il termine modificato (o varianti simili ma non sinonimi), in qualsiasi ordine,
anche nel caso siano presenti altre parole davanti, nel mezzo o dietro, o i termini siano invertiti tra
loro. Riportiamo qui di seguito alcuni possibili esempi di query che, sulla base della corrispondenza
generica sopra indicata, attiverebbero l’annuncio:
scarpe eleganti;
vendita scarpe eleganti;
vendita scarpe eleganti online;
scarpe eleganti online;
scarpe poco eleganti;
eleganti scarpe usate.

E via dicendo.
A partire da questi risultati, se il punteggio di qualità e il CPC max investito sono adatti a
determinare la visualizzazione dell’annuncio, il sistema provvederà a mostrarlo all’utente.
Analizzando bene le query, notiamo tuttavia che, pur avendo un denominatore comune rappresentato
dai termini “scarpe” ed “eleganti”, non tutte potrebbero effettivamente trovare risposta all’interno dei
prodotti offerti dall’inserzionista ed essere coerenti con gli obiettivi per cui la campagna è stata
realizzata. E questo, evidentemente, rappresenta un primo problema. La mancanza di relazione tra
query e annuncio – e probabilmente tra query e contenuti della landing page – determina un
abbassamento del punteggio di qualità calcolato sull’esposizione della chiave a quella determinata
query.
Da qui l’attivarsi di altre disfunzionalità nella campagna, a partire dall’abbassamento del CTR, che è
calcolato sulla media dei click e delle impression a prescindere dalle query digitate. Per esempio:
“vendita scarpe eleganti” potrebbe ottenere un click da una sola impression, con un CTR del 100%,
mentre altre attivazioni dello stesso annuncio da chiavi non pertinenti potrebbero produrre un CTR
dello 0% con il risultato che il CTR assoluto crollerebbe. Lo stesso discorso potrebbe essere
ripetuto rispetto alla posizione. Avete presente quegli sgradevoli risultati “numero-virgola-numero”?
Un 2,5 non significa necessariamente una volta secondo e una volta terzo ma, magari, una volta primo
e una volta quarto. Questo perché la generazione della posizione si determina sulla media delle
parole che, essendo anche molto diverse tra loro a causa dell’uso delle corrispondenze generiche,
rischiano oscillazioni spaventose in termini di posizione.
Ulteriori problemi si manifestano, evidentemente, anche rispetto alle conversioni. Se non offro
scarpe usate o poco eleganti o non vendo online, la mia campagna di lead generation, creata per
portare contatti al punto vendita fisico, si trasformerebbe in una sconfitta totale.
Alla luce di questo veloce ripasso, il ruolo delle chiavi a corrispondenza inversa apparirà adesso
più chiaro. Qualsiasi analisi delle chiavi impostate nella campagna non potrà mai produrre una
valutazione oggettiva, realistica e definitiva delle possibili query di ricerca. Ogni giorno, infatti, ne
nascono di nuove, alcune anche molto lunghe realizzate da utenti che compiono le proprie ricerche da
desktop; altre, molto più corte, effettuate da smartphone. In quest’ottica, trovare la chiave perfetta è
davvero difficile.
L’unica soluzione è quella di tenere costantemente sotto controllo le chiavi di ricerca, sia utilizzando
lo strumento “Dettagli parola chiave” in AdWords (che considera anche le impression senza click)
sia attraverso il menù:

Sorgenti di traffico > Pubblicità > AdWords > Query di ricerca con corrispondenza

che conteggia solo i click in Analytics.

Sulla base delle indicazioni ottenute attraverso questi due tool, sarà possibile escludere le query di
ricerca degli utenti che contengono parole non pertinenti ai nostri annunci, inserendole tra le keyword
a corrispondenza inversa.
A questo proposito, è importante ricordare che, come avviene per le chiavi positive, anche per le
inverse è possibile determinare il tipo di corrispondenza, e possono essere inserite singolarmente, a
frase o a corrispondenza esatta. Senza dimenticare, peraltro, che le “inverse” non comprendono
errori ortografici, plurali e, comunque, le varianti associate alle opzioni di corrispondenza avanzate.
Il consiglio, in questo caso, è quello di impiegare magari un po’ più di tempo, ma di inserire le
inverse utilizzando tipi diversi di corrispondenza. In questo modo, se in futuro avremo bisogno di
“riabilitare” qualche chiave considerata inversa in prima istanza, potremo farlo in modo più veloce
e, soprattutto, efficace.
Facciamo un esempio. Se sono un hotel a 4 stelle a Livorno, lavorando con le opzioni di targeting
sulla località, potrei usare una chiave a corrispondenza generica modificata di questo tipo:
+hotel +4 +stelle (il targeting impostato mi rende implicito “Livorno”)

Supponiamo che un utente di Livorno (quindi in target), stia cercando un hotel a Milano con la
seguente query “hotel 4 stelle milano”. Se attraverso i vari rapporti mi accorgo che questo tipo di
query attiva i miei annunci, definirò “Milano” come chiave inversa. Col tempo, potrei però scoprire
che c’è un hotel a Livorno che si chiama Milano e, dato che sto facendo una campagna con chiavi
generiche per provare a prendere anche clienti che stanno cercando altre realtà sul territorio, non
voglio perdermi quelli che cercano l’hotel Milano.
Se ho bloccato il termine Milano, il mio annuncio non verrà visualizzato per la query “hotel 4 stelle
Milano a Livorno”.
Per essere sicuro di eliminare questo problema, dovrò quindi rimuovere le chiavi:
-”a milano”
-[hotel 4 stelle milano]

e non, quindi, soltanto -“Milano”.


Ecco dimostrato, come il successo di AdWords, passi anche da un uso attento e costantemente
monitorato delle corrispondenze inverse.

3.5 Quando una è meglio di molte


Corrispondenze esatte con il nome delle località: utile, ma da usare con cautela.
Tra i settori di attività che maggiormente possono trovare giovamento da campagne AdWords, vi è
sicuramente il turismo e, dunque, le diverse strutture ricettive come hotel, agriturismi, campeggi, ma
anche i ristoranti, le enoteche o i noleggi con conducente. Di fatto, tutti quei soggetti la cui
collocazione geografica contribuisce a dare valore ai prodotti o servizi offerti.
Visto attraverso lo sguardo di Google, il mercato turistico rileva una particolarità interessante: il
volume delle persone che cercano solo il nome generico della località (senza alcuna altra
specificazione) non cala nel tempo. Se prendete qualsiasi chiave generica e la mettete su Google
Trend, vedrete che l’interesse nel tempo tende a calare, poiché si formano chiavi di ricerca più
specifiche. I nomi delle località, invece, non mostrano, in genere, tale tendenza e, se anche subiscono
una flessione, questa è meno pronunciata.
Se ci pensate è un dato straordinario che una query generica e formata da una sola parola produca
risultati quasi costanti di ricerca! Quando le persone cercano, per esempio, un hotel da computer,
vogliono entrare nel dettaglio della ricerca e quindi, nel tempo, si registra una flessione nelle
ricerche fatte con la chiave semplice e un parallelo incremento delle query a “coda lunga” (per
esempio: hotel + il nome della località; hotel + nome località + animali ammessi). Sulla query “nome
della località” questo processo non si verifica e le fluttuazioni nel numero delle ricerche effettuate
dagli utenti, in genere, sono solo di tipo stagionale.
Il motivo per cui questo avviene è dato dal fatto che le persone tendono a estromettere la motivazione
nella chiave di ricerca perché troppo lunga da digitare. Chi cerca, per esempio, “roma”, si aspetta di
trovare informazioni su hotel, ristoranti, cosa fare, dove andare e così via, anche senza aggiungere
altro.
Alla luce di questo comportamento diffuso tra gli utenti, può certamente valer la pena inserire nella
propria attività di search engine advertising anche la chiave semplice con il nome della località in
cui la propria azienda offre servizi connessi al mercato turistico.
Il problema è che la chiave semplice risulta enormemente più cercata rispetto a una chiave articolata
e “a coda lunga”, composta da più termini che rimandano a interessi e bisogni specifici. In alcuni
casi, i risultati generati da query a coda lunga sono così bassi da risultare quasi insignificanti. Il
grafico seguente, generato da Google Trend, mette a confronto le ricerche nel tempo attraverso le
query: “venezia”, “ristoranti venezia” e “hotel venezia”, mostrandoci concretamente questo fatto.

Figura 3.1 - Google Trend mette in relazione le oscillazioni delle chiavi “venezia”, “ristoranti
venezia” e “hotel venezia” e i relativi volumi.

Tuttavia, estrapolato dal contesto schiacciante rappresentato dal confronto con la query “venezia”
anche l’andamento nel tempo delle ricerche condotte su “ristorante venezia” assume il proprio reale
volume, mostrando le effettive oscillazioni a cui è andato incontro nel tempo.
Ecco allora un’indicazione di gestione della campagna per aziende turistiche, particolarmente utile
per quelle che operano in località piccole e i cui dati di ricerca non risultino significativamente
influenzati dalla presenza di musei o aziende importanti.

Figura 3.2 - Le oscillazioni di ricerca della query “ristorante venezia”, visualizzate su Google Trend.

Il suggerimento è quello di creare una campagna unica, con un proprio budget, nella quale inserire
come unica parola chiave a corrispondenza esatta quella rappresentata da “nomelocalità”, come, per
esempio, [campiglia marittima]. A essa andranno associati annunci creativi e suggestivi, in grado di
mettere bene in risalto il prodotto/servizio offerto dall’azienda sul territorio.

Figura 3.3 - Le oscillazioni di ricerca della query “campiglia marittima”, visualizzate su Google
Trend.

Sia chiaro... bisognerà aspettarsi CTR bassi e costi non proprio moderati, ma la chiave di volta
potrebbe essere proprio nella gestione maniacale degli annunci. Più ne verranno inseriti e più
riusciremo a capire l’intento di chi cerca. Provate inoltre ad analizzare gli orari e i device. Lavorare
sugli smartphone potrebbe rappresentare un’ulteriore chiave di successo.

3.6 Stereogrammi
Usando Google Correlate, studiamo le ricerche non direttamente collegate alle nostre parole
chiave per cercare messaggi alternativi in grado di portare risultati.

Google Correlate4 viene considerato un generatore di chiavi semantiche quando, in realtà, al sistema
la semantica interessa veramente poco. Il suo funzionamento si basa sul tempo, tanto che potremmo
definire i suoi risultati dei “crono-rebus”. Imposto la mia chiave e il sistema estrapola un pattern
temporale visualizzato sotto forma di grafico che bisogna imparare a interpretare per scoprirne tutte
le potenzialità.
Avete presente quei magnifici disegni che si manifestano quando si guardano gli stereogrammi?
Osserviamo un’intricata serie di disegni geometrici o senza senso e lo sguardo si perde nel vuoto
finché, improvvisamente, al loro posto appare un animale, un paesaggio o una qualsiasi altra
immagine completamente diversa da quella che vedevamo in precedenza.
Allo stesso modo, se vogliamo capire profondamente Google Correlate, dobbiamo dimenticarci che
cosa abbiamo cercato per abbandonarci alle suggestioni che si attivano dall’immagine che compare
al nostro sguardo: un grafico che, con i suoi picchi e i suoi flessi, rappresenta l’andamento nel tempo
di una certa query.
Facciamo un esempio utilizzando il grafico temporale del termine “fondotinta”. Una volta che lo
abbiamo visualizzato, iniziamo il nostro crono-rebus. Il grafico che abbiamo di fronte ci dice le
oscillazioni nel tempo cui è andata incontro tale query di ricerca.
Bene. Al di sotto di esso, nell’elenco delle “correlazioni”, Google Correlate ci mostra altri termini.
Quasi tutti relativi a dolci.

A questo punto, il lettore che presume di saperla lunga, penserà: “Cosa c’entra il fondotinta con i
dolci”?
Calma!
Se tutto fosse chiaro da subito, non avremmo parlato di stereogrammi e crono-rebus. Per quanto
naturale, il più grande errore in cui si può incorrere osservando i dati di Google Correlate è proprio
quello di volervi trovare, da subito, un senso logico e immediatamente operativo, come avviene con
quelli di Google Trend5.
Figura 3.4 - Il grafico di Google Correlate interrogato sul termine fondotinta.

Trend, infatti, ci mostra le variazioni nel tempo delle query utilizzate dagli utenti, mostrandoci anche
tutte le altre parole associate sia alle query storiche sia a quelle emergenti. Cercando “fondotinta”,
Google Trend mostra i seguenti e, per certi aspetti, prevedibili, risultati:
fondotinta minerale;
fondotinta compatto;
fondotinta clinique;
fondotinta kiko;
fondotinta coprente.

E così via.
Quello che correttamente ci si aspetta da Google Trend o da qualsiasi altro strumento di ricerca di
chiavi, è che ci offra su un piatto d’argento tutte le varianti di keyword che potrebbero interessarci
per costruire la nostra campagna. Se io vendo fondotinta e la chiave specifica “fondotinta” non
performa adeguatamente, usando Google Trend scopro che in molte ricerche essa è associata al
termine “coprente”. Se il mio prodotto svolge effettivamente questa funzione, posso inserire anche
questa chiave tra quelle della campagna, migliorando probabilmente i miei risultati in termini di click
e, magari, di conversioni.
Il ragionamento non fa una grinza e questo è il metodo corretto attraverso cui, progressivamente, si
selezionano e si testano nuove parole, avvicinandosi sempre di più all’individuazione di quel nucleo
di termini ad alta performance che, in un dato momento, sono in grado di generare il maggior profitto.
Tutto perfetto, quindi.
Ma questo non è Correlate!
Quelli di Google Trend sono dati utilissimi e immediatamente utilizzabili. Quelli di Correlate sono
invece oscuri e tutti da interpretare.
In questa capacità di “guardare oltre” attraverso i grafici di Correlate si sostanzia, probabilmente, la
differenza tra chi usa AdWords come una semplice piattaforma di keyword advertising e chi, invece,
lo usa come un elemento di marketing strategico. Torniamo dunque a questo strumento e,
dimenticandoci delle parole che li hanno generati, guardiamo solo ai grafici. Così facendo, noteremo
che, effettivamente, i grafici della query “fondotinta” e quelli relativi ai diversi dolci sono simili tra
loro.
Tradotto in parole povere – e generalizzando – questo significa che, nel momento in cui alcuni utenti
cercano la parola A, altri – si badi bene, non necessariamente le stesse persone – stanno cercando la
parola B e che nei momenti in cui non si cerca A non si cerca neanche B.

Per comprendere il potenziale valore di queste associazioni, facciamo un altro esempio. Se voglio
provare a indovinare quando un bambino compie gli anni, potrei chiedere alla sua mamma in quale
periodo dell’anno cercherebbe il termine “carta da regalo” su Internet. La signora mi indicherebbe
molto probabilmente due date, una in prossimità del Natale e l’altra del compleanno del bambino.
Correlate lavora su questo stesso principio. Non mostra la relazione semantica tra le chiavi ma,
piuttosto, comportamenti di ricerca che si realizzano secondo pattern temporali simili. In questo
modo, ci offre suggestioni rispetto ai possibili legami esistenti tra i diversi comportamenti di ricerca
e alle opportunità che potremmo individuare per generare campagne creative e di successo. Talvolta
le relazioni tra i diversi pattern di ricerca sono manifeste. Altre volte risultano più oscure ma,
comunque, interpretabili, altre ancora non sembrano riconducibili ad alcuna spiegazione logica,
derivando probabilmente da fluttuazioni puramente casuali.
In questo risiede la forza di Google Correlate. I suoi risultati, magari inizialmente oscuri, se utilizzati
da uno staff di pubblicitari e comunicatori o semplicemente da una persona dotata di spirito di
osservazione e fantasia, possono rilevare il prezioso disegno che custodivano, consentendo così di
generare messaggi originali e potenzialmente vincenti proprio perché diversi da quelli attraverso cui
continua supinamente ad accapigliarsi la massa degli altri competitor.

Per quanto riguarda il crono-rebus relativo a fondo tinta e dolci, la soluzione era la seguente:

Nei periodi nei quali si cercano più dolci, se ne mangiano anche di più e la pelle finisce per essere
soggetta a piccole impurità che, quando compaiono sul viso, possono essere corrette con un buon
fondotinta coprente.

Non era poi così difficile! Questa interpretazione potrebbe suggerirci di strutturare una campagna
AdWords su rete Display, che vada a presidiare i portali di dolci proponendo il nostro fondotinta. Il
messaggio non dovrà naturalmente essere aggressivo ma, anzi, risultare armonico col contenuto.
Non diremo, pertanto: “mangia schifezze, tanto poi le puoi nascondere con il nostro fondotinta”.
Piuttosto inviteremo all’azione, fornendo un rimedio per un possibile problema cui l’utente potrebbe
andare incontro, attraverso un messaggio che potrebbe esprimere un concetto di questo tipo: “... scusa
ma se in questo periodo desideri un dolce, mangialo pure serenamente e stai in armonia con te stessa.
Se poi qualcosa andrà storto, arriveremo noi col nostro fondotinta”.
Questo esempio, evidentemente, è piuttosto border-line, e il relativo annuncio potrebbe apparire un
messaggio opt-out6. Il motivo per cui lo abbiamo citato è proprio per poter adesso suggerire di non
forzare mai la mano sulle correlazioni individuate. Utilizziamole solo quando si dimostrano in grado
di fornirci, senza ombra di dubbio, opzioni effettivamente percorribili.
Infine, rispetto agli annunci posizionati su rete Display, non giungiamo mai a contraddire il contenuto
del sito entro cui vengono a essere posizionati i nostri annunci. Se il potenziale cliente si trova su
quel sito, infatti, è perché è interessato a quello che ci trova, e fornirgli messaggi contrastanti rispetto
a essi potrebbe essere molto controproducente in termini di rendimento.

3.7 Parole dal mondo


Sondare il pianeta alla ricerca di parole chiave utili, già tradotte e divise per volume.

Il Google Global Market Finder7 è uno strumento magico che consente di valutare il volume di
ricerche sulla base di una parola chiave definita. Non sarebbe niente di nuovo, se non fosse che, a
differenza di tutti gli altri tool per le parole chiave, questo traduce automaticamente il termine
originale e lo estende, mostrando le eventuali correlazioni semantiche che hanno ottenuto più volume
nel corso del tempo.
Per utilizzarlo, si selezionano il Paese e la lingua di origine della keyword che si vuole esaminare; si
inserisce la parola chiave nell’apposito campo (nel caso di più parole chiave, bisogna avere
l’accortezza di inserirne solo una per riga); e, infine, si seleziona il filtro relativo all’area geografica
di interesse, attualmente divisa nei seguenti settori: Africa, Americhe, Asia, Europa, G20, Medio
Oriente, Mercati Emergenti, Oceania, Unione Europea.

Purtroppo, al momento, non è possibile condurre un’unica ricerca a livello globale.

Figura 3.5 - La schermata di opzioni del Google Global Market Finder.

Il testo relativo al pulsante che attiva la funzione è quanto mai allusivo, perché non dice,
semplicemente, “cerca”, ma “trova opportunità”. Questa definizione esprime al meglio la reale
funzionalità del Google Global Market Finder, che è proprio quella di offrire agli inserzionisti
indicazioni rilevanti e strategiche rispetto ai possibili mercati da “aggredire”.
Particolarmente utile è il fatto che il sistema offra i termini nelle lingue più utilizzate di ogni nazione,
suggerendo per ognuna di esse quali query assumono un volume consistente. Questo permette di
creare una vera e propria classifica dei diversi Paesi considerati rispetto alle possibilità di successo
del proprio business.

Figura 3.6 - Distribuzione geografica dopo una query sul GGMF.

La speciale classifica visualizzabile nella colonna “opportunità” non si basa solo sul volume globale
di ricerche mensili ma, come indica la spiegazione associata al tool: “L’immagine classifica
l’opportunità di esportazione rappresentata da ogni Paese rispetto agli altri Paesi dell’area
geografica selezionata. Mette in relazione il numero di query degli utenti locali e il costo per clic
(CPC) degli annunci locali”.
In sintesi, Global Market Finder ci mostra:
il possibile investimento della nostra campagna di PPC;
il volume di ricerche mensili per singola query;
la concorrenza di inserzionisti sulla stessa query.

Nell’usare tale tool, bisogna tuttavia prestare attenzione a un paio di trappole. La prima è data dalle
possibili imprecisioni di traduzione a cui si può andare incontro. È vero che il sistema di Google
Translate è un ottimo tool, ma conviene comunque concepire le chiavi non basandoci sulla semplice
traduzione letterale ma, piuttosto, sulle espressioni effettivamente utilizzate nel Paese di destinazione.
Come sappiamo, un modo di dire, se tradotto alla lettera, genera quasi sempre solo fraintendimenti.
Allo stesso modo – e questo è il secondo rischio da evitare – quando si compongono annunci in
lingue diverse dalla propria, non bisogna mai fare traduzioni letterali dei testi ma, piuttosto,
declinare nella lingua di destinazione la creatività utilizzata nella propria, anche se questo comporta
uno stravolgimento totale del loro significato. Il gioco, infatti, non è fare traduzioni letterarie ma
produrre annunci efficaci e che abbiano appeal nella lingua in cui sono scritti.

1. Per quanto vengano indicate in inglese come “long tail keywords”, ci pare più corretto chiamarle “long tail query” per mantenere la
simmetria con la terminologia adottata nel corso del volume, che definisce “query” le parole utilizzate dagli utenti nelle ricerche da loro
effettuate, e “parole chiave” o “keyword” quelle utilizzate dall’inserzionista nella realizzazione della campagna AdWords.
2. Per realizzare una corrispondenza generica modificata, bisogna aggiungere un segno più (+) a uno dei termini presenti nella frase delle
parole chiave a corrispondenza generica. In questo modo, gli annunci vengono pubblicati solo quando la ricerca eseguita da un utente
contiene questi termini modificati, o varianti simili dei termini modificati, in qualsiasi ordine. A differenza delle chiavi a corrispondenza
generica, le parole chiave a corrispondenza generica modificata non faranno visualizzare l’annuncio in relazione a ricerche correlate e per
questo motivo offrono un maggiore livello di controllo.
3. http://bit.ly/19c40ze.
4. http://www.google.com/trends/correlate/.
5. http://www.google.com/trends/?hl=it.
6. Che non viene scelto dal destinatario ma viene presentato a prescindere dalla sua volontà. Sono esempi di opt-out la pubblicità in Tv,
alla radio, sulla stampa, i banner senza attinenza col contenuto delle pagine e le newsletter inviate senza richiesta a gruppi di persone i cui
indirizzi sono stati ricavati da elenchi.
7. http://bit.ly/182yh8v.
CAPITOLO 4
GLI ANNUNCI

4.1 Ricette appetitose e vino bianco


L’importanza di realizzare annunci distintivi e in grado di farsi notare rispetto a quelli dei
competitor.

Sul CTR, il diabolico acronimo che identifica il click through rate, si potrebbe scrivere un intero
libro, tanto tale indice è complesso e decisivo nella gestione delle campagne. E chissà che, un
giorno, non ci metteremo a farlo.
Ridotto nella sua essenza, il rapporto tra i click ricevuti rispetto alle impression generate rappresenta
la valutazione complessiva che gli utenti danno alla nostra campagna. Tale valore, soggetto
all’infinita variabilità della psiche umana, è l’unico parametro che la sconfinata intelligenza
artificiale di AdWords non riesce a predire ma solo a misurare ex post.
L’algoritmo di AdWords, infatti, può cercare di stimare il suo volume basandosi sulla presenza di
termini di ricerca nel testo dell’annuncio. Può valutare se nel testo dell’annuncio ci sono call to
action o elementi di enfasi, come punti esclamativi/interrogativi o numeri che lo rendono più
interessante. O, ancora, se vi sono elementi che, rimandando correttamente ai contenuti della pagina
di destinazione, possono generare possibili conversioni. Riesce, insomma, a calcolare quasi tutto
grazie alla sua già smisurata potenza di calcolo e alla sua capacità di comprensione semantica, in
costante crescita. Ma, nonostante questo, non è ancora in grado (e probabilmente mai lo sarà) di
prevedere il reale appeal sugli utenti che un certo messaggio sarà in grado di produrre e, quindi, la
frequenza con cui sarà effettivamente cliccato.
Da parte nostra, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di costruire al meglio i nostri annunci, per
aspirare a punteggi di qualità il più elevati possibile.
Per farlo, ricordiamoci sempre i fattori che AdWords tende a premiare con buoni voti:
la presenza delle keyword nel testo dell’annuncio;
la presenza di una “call to action”;
una frase di senso compiuto;
un’offerta, una promozione o un vantaggio esplicito;
una punteggiatura, esclamativa e/o interrogativa;
una concreta risposta a una domanda;
un numero nel testo dell’annuncio, perché – diverso dalle lettere – lo rende più visibile;
un prezzo, espresso con il simbolo di valuta;
lettere maiuscole sulle parole più importanti;
un URL di visualizzazione che scandisca le parole che compongono il dominio, tramite l’uso
di maiuscole o minuscole (per esempio, “ComprateQuestoLibro.it”, e non
“compratequestolibro.it”);
un nome di dominio che riconduca alla query espressa dall’utente, candidando il sito a essere
percepito come una risposta possibile;
la posizione dell’annuncio nella pagina dei risultati.

Direi di fermarci qui e di armarci di carta e penna, o tastiera e text editor, per provare a generare
annunci creativi, rispettando le indicazioni sopra ricordate e i paletti costituiti dalle limitazioni nei
caratteri effettivamente utilizzabili:
25 per titolo;
35 per la riga di descrizione 1;
35 per la riga di descrizione 2;
35 per l’URL di visualizzazione.

Il risultato a cui dovremmo aspirare è quello di un annuncio così perfetto da essere in grado di
suggerire all’utente che, se è del vino bianco che sta cercando, quello che noi gli stiamo proponendo
– e non quello offerto dagli altri annunci visualizzabili accanto al nostro – è la miglior scelta
possibile per lui. Il tutto senza potergli offrire un bicchiere per farglielo annusare e degustare ma solo
contando sulla forza delle parole, opportunamente scelte e strutturate, in un annuncio lungo solo una
manciata di caratteri. È evidente, quindi, come la sfida tra i risultati sponsorizzati della SERP si
giochi tutta sulla creatività e sulla capacità degli inserzionisti di generare annunci distintivi e in
grado di sedurre gli utenti, facendo leva su quello a cui essi possano essere sensibili. Tornando
all’esempio del vino bianco, un annuncio di successo potrebbe, per esempio, non far nemmeno
riferimento al concetto di “vendita di vino”, ma essere qualcosa del tipo: “Se clicchi qui, trovi delle
gustose ricette ideali per gli amanti del vino bianco”. È naturalmente una semplificazione un po’
estrema, ma rende bene l’idea di ciò che vogliamo dire. Di fronte a una proposta del genere, i
percorsi percettivi dell’utente potrebbero rimanere colpiti. In un mare indistinto di annunci quasi tutti
uguali, tutti imploranti “comprami”, è probabile che quell’annuncio catturi la sua attenzione. L’utente
potrebbe essere incuriosito dalla possibilità di trovare nel sito a cui esso conduce suggerimenti di
ricette gustose, da preparare abbinando a queste ultime il vino più adatto.
Questo breve esempio è sufficiente a farci comprendere perché il CTR non sia prevedibile da nessun
algoritmo, dato che tale valore, rilevando il numero dei click rispetto alle impression, intercetta le
vie infinite attraverso cui la curiosità e gli interessi umani possono essere sollecitati.
Tutto questo per dire che cosa? Che a prescindere dai calcoli che il sistema riserverà ai vostri
annunci o alle vostre chiavi, dovete essere coraggiosi e cercare sempre creatività in grado di
risultare uniche e “scintillanti” nel palcoscenico oscuro delle scelte a disposizione degli utenti. Il
tutto, naturalmente, senza esagerare e, possibilmente, generando pagine (landing page) appositamente
strutturate e perfettamente in sintonia con le creatività realizzate.

4.2 Non riesco a vedermi


Ovvero: come la scarsa conoscenza dei meccanismi della piattaforma AdWords, unite alla
legittima “ansia da prestazione” rispetto alla campagna generata, possano costare care
all’inserzionista.

Immaginiamo la seguente situazione: ho generato la campagna, mi pare che tutto funzioni


correttamente e, per esserne certo, vado a cercare il mio annuncio inserendo le relative parole chiave
su Google. Ma l’annuncio non compare! Attimi di preoccupato spaesamento e un’unica domanda:
“Ma se io non vedo l’annuncio, come fanno i clienti a cliccarmi?”
Tale domanda, non solo è una delle principali FAQ1 sul tema presente sulla community di AdWords,
ma è anche una di quelle più angoscianti, visto che l’utente sa che sta spendendo soldi ma non riesce
a vedere la campagna generata.
Naturalmente è consapevole del fatto che ha impostato un budget quotidiano e che, una volta
terminato tale budget, i suoi annunci non possono più essere visualizzati. Magari sa anche che la
visibilità può essere “spalmata” o no nel tempo. Quello che probabilmente dimentica, se è assalito
dai tali dubbi, è che i risultati che si ottengono attraverso Google si basano sulla chiave di ricerca
utilizzata e sulla memoria “storica” che il nostro account Google risolve nella query.
Partiamo da questo secondo aspetto. Quando visualizziamo con una certa frequenza una determinata
pagina, Google decide che se questa pagina appartiene al range dei risultati possibili per la query
utilizzata, ce la mostrerà tra i risultati organici aggiungendo la didascalia: «Hai visitato questa pagina
X volte. Ultima visita gg/mm/aaaa».
Non solo. Se su una determinata pagina abbiamo cliccato sul pulsante “+1” di Google Plus, e lo
stesso hanno fatto altre persone comprese nelle nostre cerchie di “amici” del social network,
apparirà un’altra riga corredata da un nuova spiegazione.

Figura 4.1 - L’immagine evidenzia i risultati ottenuti cercando su Google la query “consulenza google
adwords” con la relativa voce di inserimento nelle cerchie di Google Plus.

Tutto questo per dire che non bisogna mai cercare i propri annunci direttamente attraverso il motore
di ricerca ma è bene utilizzare sempre lo strumento appositamente messo a punto da Google per
questo scopo, “Anteprima e diagnosi annunci”, presente nella piattaforma di gestione2. Tale
strumento Simula una ricerca “neutra”, non influenzata dai comportamenti di ricerca dell’utente.
Cercando “consulenza google adwords” attraverso lo strumento di anteprima, si ottengono, infatti, i
risultati visualizzabili nella seconda immagine, da cui l’occorrenza “visitato” è scomparsa.
È quindi evidente che la pagina dei risultati è un’entità viva, che si plasma attraverso la memoria
storica trasmessa dai cookies del browser che stiamo usando, dal device (mobile o fisso) e dai log
presenti all’interno di un determinato account Google.
Sempre sull’importanza di non cercare i propri annunci direttamente attraverso Google, possiamo ora
parlare di CTR. Come sappiamo, tale indicatore ci dice quanti click hanno ottenuto i nostri annunci in
rapporto al numero delle relative visualizzazioni. Sappiamo anche che più tale rapporto è alto
rispetto alla concorrenza, meglio è per la campagna, che risulterà premiata con un innalzamento del
punteggio di qualità e un abbassamento dei costi per click.

Figura 4.2 - La ricerca della query “consulenza google adwords” effettuata dallo strumento di
anteprima.

Un utente che, per vedere se la propria campagna funziona e i relativi annunci sono visualizzati,
effettua numerose ricerche al giorno (diciamo 20) su diverse chiavi, potrebbe generare questo genere
di risultato:

0 (click) / 20 (impressions) = 0% CTR

Aggiungiamo i dati generati da utenti reali che producono, diciamo, 20 ricerche e 3 click. Abbiamo
quindi un totale di:

3 (click) / 40 (impressions) = 7,50% CTR

Buono! Ma al netto delle ricerche fatte dall’inserzionista avremmo avuto:

3 (click) / 20 (impressions) = 15% CTR


Ottimo! Perseverando nel “giochino” del cercarsi, il nostro cliente terrebbe il punteggio di qualità
paralizzato magari a un 7/10, quando di fatto potrebbe portarlo a 8 o 9/10.
Facciamo un po’ di fanta-AdWords, visto che questo non è un dato che possiamo dimostrare
scientificamente... Ipotizziamo cioè che il suo 7/10 comporti un costo per click di 0,20 euro che, con
un budget di 10 euro al giorno, porta i suoi click annui a 18.250 (3.650 / 0,20). Ora simuliamo che un
punteggio di qualità costante nel tempo di 9/10 porti il CPC medio a 0,15.
Avremmo questo dato: 3.650 / 0,15 = 24.333, dove 24.333 - 18.250 = 6.083 La ricerca ha prodotto
un’emorragia di 6.083 potenziali click, alias potenziali clienti! Per rincarare la dose, ipotizzando
un’attività di e-commerce con un tasso di conversione all’acquisto del 3% e un prezzo medio di
vendita di 50 euro, effettuando le sue auto-ricerche, l’inserzionista sta praticamente buttando dalla
finestra 9.124,50 euro, vale a dire 2.49 volte l’investimento!
Il tutto, naturalmente, assumendo che lo stesso inserzionista sia almeno così saggio da non cliccare
sui propri annunci per non consumare direttamente altro budget! Tuttavia, anche il “non cliccarsi”
genera effetti perversi! Continuando a cercare un certo argomento senza mai cliccare su un
determinato annuncio, induce Google a ridurne la visualizzazione. È come se l’algoritmo pensasse:
“che diamine, lo hai visto 200 volte e non lo hai mai cliccato, perché dovrei visualizzartelo
ancora?”. D’altra parte, lo stesso inserzionista non sarebbe affatto contento se il suo annuncio venisse
mostrato a persone che, in precedenza, non hanno manifestato alcun interesse verso il contenuto che il
suo sito (o altri simili) offre.
Per concludere, usare lo strumento “anteprima e diagnosi annunci” ci mette al riparo da tutte le
problematicità sopra ricordate, consentendoci inoltre non solo di verificare se l’annuncio è visibile
nella pagina dei risultati di ricerca in relazione alle diverse chiavi utilizzabili ma, in caso di risposta
negativa, indicandoci anche i motivi (è un problema di budget? È un problema di ranking?) e
suggerendoci i possibili interventi da effettuare.

Ma torniamo, dopo questa lunga digressione, al motivo per cui può succedere, soprattutto ai
“neofiti”, di non trovare i propri annunci quando li cercano direttamente attraverso Google –
nonostante la campagna generi effettivamente impression e click.
La risposta, molto spesso, è legata al fatto che, soprattutto nelle loro prime campagne, molti utenti
tendono a utilizzare per le parole chiave semplici corrispondenze “generiche”. Questo genera, quasi
inevitabilmente, problemi di efficacia.
Se sono un hotel di Roma e uso come chiave la generica “hotel roma”, espongo il fianco a centinaia
di migliaia di chiavi che, per AdWords, sono comunque valide. In questo modo, il mio annuncio
potrebbe attivarsi anche con la ricerca di un utente che digiti “campeggi nel lazio”. In altri termini, il
rischio è che le chiavi a corrispondenza generica portino così tante impression e click da consumare
il budget quotidiano in poche ore, rendendo così l’annuncio non più visualizzabile per tutto il resto
della giornata.

4.3 Spendere di più per risparmiare: il paradosso di AdWords


Aumentare il punteggio di qualità degli annunci porta, nel tempo, a ottenere risultati migliori,
spendendo meno.
Cerchiamo di capire cosa è il punteggio di qualità, utilizzando un brano tratto direttamente dalla
guida di AdWords:

«Il punteggio di qualità è una stima del livello di pertinenza di annunci, parole chiave e pagina di
destinazione per un utente che visualizza l’annuncio. Un punteggio di qualità alto indica che i
nostri sistemi considerano il tuo annuncio, la tua parola chiave e la tua pagina di destinazione
pertinenti e utili per un utente che visualizza il tuo annuncio. Puoi verificare il punteggio di
qualità di tutte le tue parole chiave e puoi eseguire diversi interventi per ottimizzarlo.»

Per esaminare il punteggio di qualità dei propri annunci, si accede al menù “Parole Chiave” e da qui
si clicca su “Colonne”.

Colonne > Personalizza Colonne > Attributi > Punt. Qual. (aggiungi) > Applica

In questo modo, il parametro entra nella tabella pivot e può essere tenuto sotto controllo.
Nella colonna “Stato” troviamo, invece, un fumetto che, se attivato dal mouse, restituisce la
spiegazione del punteggio di qualità, indicandolo associato a tre elementi:
percentuale di click prevista;
pertinenza degli annunci,
esperienza nella pagina di destinazione (landing page).

Tali fattori rappresentano gli elementi di base del punteggio di qualità. In realtà, le cose sono molto
più articolate e complesse e tale punteggio è influenzato dall’intera “storia” di rendimento delle
diverse parole chiave. Per essere più precisi, dunque, le variabili che effettivamente influenzano il
punteggio di qualità sono:
percentuale di click espressa dal valore CTR;
percentuale di click su un determinato URL di visualizzazione;
cronologia dell’account;
qualità della pagina di destinazione (contenuti, facilità di navigazione e via dicendo);
pertinenza tra parola chiave e annuncio;
pertinenza tra chiave e query dell’utente;
rendimento geografico sul target specifico;
rendimento dell’annuncio su siti correlati (per la rete display);
rendimento sui vari dispositivi di accesso (computer, smartphone, tablet).

È bene inoltre ricordare che a partire dalle variabili sopra ricordate il punteggio di qualità viene
calcolato ogni volta che si genera un’asta. È quindi un parametro vivo, in continua variazione. Mentre
la previsione che determina il rendimento iniziale – cioè prima che si verifichi l’asta – si basa sul
benchmark della concorrenza, cioè sulla base di come stanno reagendo i nostri competitor naturali,
mano a mano che l’annuncio viene cliccato e attivato dalle parole chiave, i valori di previsione si
integrano con quelli storici e, dunque, con la cronologia di rendimento dell’annuncio.
Ottenere un buon punteggio di qualità offre i seguenti benefici:
partecipazione a un maggior numero di aste (maggiore frequenza di visibilità);
abbassamento del CPC;
abbassamento del costo stimato per la prima pagina;
abbassamento dell’offerta stimata per la parte superiore della pagina;
innalzamento della posizione dell’annuncio.

In sintesi, possiamo dire, in modo un po’ riduttivo, che riuscire a ottenere un buon punteggio di
qualità consente di abbassare i costi. Riduttivo forse ma, nell’economia di una campagna,
l’abbassamento dei costi è un aspetto estremamente rilevante. Se, per esempio, un punteggio di
qualità mediocre mi fa pagare i click 1,00 euro ciascuno, un punteggio ottimo potrebbe farmeli
costare 0,10 euro, consentendomi di passare da 1 a 10 click per ogni euro investito!

Fin qui abbiamo illustrato tutte nozioni di base e niente di particolarmente nuovo. Dove sta allora
quello che potremmo definire il paradosso di AdWords? Semplice, nell’unica variabile che, agendo
sul meccanismo di asta, l’utente di AdWords può manipolare direttamente e, dunque, il prezzo
massimo per click (CPC). Infatti, mentre tutti i valori che agiscono sul quality score sono stabiliti in
maniera meritocratica dall’algoritmo, a partire dalle scelte compiute nel tempo dagli utenti, il CPC è
un valore che possiamo decidere di non delegare alle scelte automatiche del sistema, impostandolo
manualmente. Il segreto è allora quello di agire sul CPC per garantirsi – a parità di punteggio di
qualità con i competitor – una posizione migliore. Se due inserzionisti hanno lo stesso punteggio di
qualità e un’identica configurazione delle campagne ma investono importi diversi, l’utente che
investe di più otterrà una posizione migliore e questo attiverà tutta una serie di meccanismi virtuosi.
Infatti, migliore sarà la posizione dell’annuncio, più è probabile che esso venga effettivamente notato
dagli utenti e produca click.
Maggiore il numero dei click prodotti, più alto sarà il CTR che, a sua volta, contribuirà a innalzare il
punteggio di qualità.
Inoltre, se il volume di click si mostrerà costante, garantendo un buon CTR nel tempo, avremo anche
un abbassamento del CPC.
Ecco allora svelato il paradosso di AdWords: in certe circostanze conviene alzare il costo (CPC) per
arrivare poi a spendere meno.
Attenzione però, perché questo meccanismo può rappresentare anche una trappola. Come abbiamo
visto, infatti, AdWords, nelle dinamiche delle aste che generano il posizionamento degli annunci sulla
pagina di ricerca, non si basa solo sul CPC, che rappresenta un elemento secondario rispetto al
quality score. Questo significa che, con un punteggio di qualità mediocre, non serve a niente alzare il
CPC. Con il denaro, in altri termini, non si può comprare la mancanza di qualità degli annunci e/o
della campagna. In questo caso, spendere di più non servirebbe a farci risparmiare ma solo a farci
buttar via altro denaro, in modo sciocco e improduttivo.

4.4 Vincere le battaglie e perdere le guerre


Creatività. Differenza. Diversificazione e originalità. Un annuncio deve riuscire a catturare
l’attenzione del cliente.

Nel momento in cui la mia parola chiave vince l’asta istantanea nei risultati di ricerca Google, ho
ottenuto soltanto un primo risultato, una prima vittoria, certamente utile ma non determinante per il
successo finale.
Tale risultato chiama in causa due elementi. Da una parte, infatti, è il punteggio di qualità che
determina se la query rintraccia la mia parola chiave consentendo la visualizzazione dei miei
annunci. Dall’altra, il sistema li inserisce dentro l’arena della pagina dei risultati di ricerca (SERP) e
sarà poi il pubblico a decidere se sono meritevoli di interesse rispetto agli altri contendenti.
La prima vittoria è importante perché determina la posizione dell’annuncio rispetto a quella dei
competitor. Più i miei parametri sono superiori a quelli dei concorrenti, più in alto nella pagina verrà
visualizzato il mio annuncio e migliore sarà la mia posizione di partenza nella sfida finalizzata a
ottenere l’attenzione dei potenziali clienti.
L’ordine di visualizzazione può, infatti, determinare la scelta del cliente. Ma non è l’unico parametro.
Vale la pena quindi chiederci: su quale base avviene la scelta? Perché il cliente dovrebbe cliccare
sul mio annuncio scartando gli altri?
Per sintetizzare, possiamo dire che l’annuncio che vince è certamente quello che meglio racconta il
contenuto della pagina, in relazione alla query del cliente, ma è anche quello che più si diversifica
dagli altri. L’essere distintivo offre a un annuncio un grande vantaggio competitivo, che può essere
superiore rispetto a quello garantito dalla sua posizione nei risultati della pagina di ricerca.
Se sono un concessionario auto, posso certamente inserire nel titolo del mio annuncio i termini
“Concessionario Auto”; ma se, come è probabile che avvenga, anche gli altri competitor faranno
altrettanto, quale annuncio verrà scelto dal cliente? Probabilmente uno di quelli posizionati più in
alto nella lista dei risultati sponsorizzati.
A questo punto, la soluzione è solo quella di rendere la propria creatività più appetibile, unica e
originale rispetto a quella degli altri. In un altro paragrafo vedremo come usare efficacemente anche
il prezzo per garantirsi un CTR più alto a fronte di una posizione più bassa. Ora ci interessa invece
ottimizzare la nostra creatività, per ottenere un’identità definita e distintiva. Il modo più efficace per
giungere a questo risultato è quello di partire da un’analisi dettagliata degli annunci e della creatività
dei nostri competitor. Per farlo, non bisogna mai effettuare ricerche reali su Google! Questo
influenzerebbe i risultati di ricerca, falsandone i dati. Ci sono diversi modi per ottenere valori di
intelligence. Prima di tutto, come abbiamo già visto, usando lo strumento “Anteprima e diagnosi
annunci”, che si trova sotto al macro menù “Strumenti”. Secondariamente, se conosciamo i
competitor, SemRush.com ci consente di analizzare le creatività con cui presentano le loro proposte.
Un annuncio deve convincere l’utente che, cliccandoci sopra, troverà la risposta alla sua domanda.
La parola chiave deve – o meglio dovrebbe – essere contenuta nell’annuncio, ma in modo discorsivo,
non fine a sé stesso e tanto per dire “ok, la chiave è dentro”. Per fare un esempio, il testo: “Il
Concessionario Auto di Fiducia” contiene la chiave ma la pone all’interno di una frase dal significato
certamente più ricco, distintivo e accattivante. L’annuncio, inoltre, oltre a essere chiaro e immediato,
può proporre vantaggi o opportunità, che si possono esprimere nella seconda riga: “Per te una Prova
su Strada!”, magari dotando la frase di un punto esclamativo per conferirle una certa enfasi. Inoltre, è
sempre bene che l’annuncio contenga un qualche invito all’azione o “Call to Action” quali: “Vieni a
trovarci”, “Entra ora nel sito” o altre cose di questo tipo.
Non dimentichiamoci, infine, che possiamo inserire più parole con la prima lettera in maiuscolo, per
enfatizzare le parole chiave e dare più risalto ad alcuni termini.
4.5 Divide et impera (o unisci e ottimizza?)
Come ottimizzare la spesa, consentendo al budget di spalmarsi in modo omogeneo tra campagne
diverse.

Addentrandosi nella conoscenza delle logiche di AdWords, diventa ben presto evidente come spesso
sia necessario “dividere” per migliorare le performance delle campagne. In questo senso, Divide et
Impera potrebbe essere l’altisonante slogan per il raggiungimento del successo anche sulla
piattaforma di keyword advertising. Si dividono le parole chiave, costringendole a lavorare con
corrispondenze diverse; si dividono i gruppi di annunci per creare micro-insiemi concettuali (colore,
tipo di prodotto, semantica e via dicendo) e, spesso, giunge il momento nel quale si rende necessario
dividere anche le campagne.
La maggior parte degli inserzionisti, tuttavia, percepisce la divisione delle campagne come un
ostacolo. Una trappola ideata da Google per portarlo a spendere di più. In realtà le cose non stanno
così. Quello che dobbiamo capire è che Google non trae giovamento da campagne AdWords che
vengono stoppate dopo poche settimane di vita. Google aspira, piuttosto, a guadagnare in un’ottica di
retention rate3. Uno dei suoi obiettivi è, cioè, quello di far innamorare l’inserzionista, sposandolo per
sempre. Ma affinché questo matrimonio avvenga, è in primo luogo necessario che quest’ultimo giunga
a comprendere correttamente che il budget che investe in AdWords non rappresenta un costo ma il
carburante che può alimentare i suoi ricavi. Come pure che non spendere budget non costituisce un
reale risparmio ma, piuttosto, un mancato guadagno. Il tutto, naturalmente, a patto che il suo denaro
sia investito in campagne perfettamente ottimizzate e performanti.
Tornando al nostro tema, possiamo dire che ci sono situazioni che, contrariamente alla regola
generale, consigliano di riportare a maggior unità campagne originariamente separate.
Facciamo un esempio: un’agenzia di viaggi ha deciso di investire 10,00 euro ciascuna, su due
campagne separate relative a due destinazioni di grande richiamo, che si traducono in conversioni
buone e molto omogenee. L’unico problema è che tali destinazioni generano volumi di ricerca
disomogenei. In certi periodi, una delle due esaurisce rapidamente il budget mentre l’altra non è
arrivata a consumarne neanche il 50%; in altri periodi avviene il contrario. Questo comportamento si
dimostra assolutamente “umorale” e non prevedibile, e l’agenzia di viaggio si consola nel risparmio
che ottiene sul budget inserzionistico quotidiano, senza però pensare al mancato guadagno.
Figura 4.3 - La schermata di impostazione del budget condiviso su AdWords.

In casi come questi, la soluzione ottimale passa da un “accorpamento” delle due campagne, ottenibile
attraverso la condivisione dei rispettivi budget.

In altre parole, si assegna un budget unico di 20,00 euro alle due campagne, delegando il consumo
della spesa agli effettivi – e instabili – flussi di ricerca.
In caso di andamenti omogenei, il budget verrà equamente diviso tra le due campagne, riproducendo
di fatto la situazione iniziale. Quando, invece, in un determinato giorno si registra una diminuzione
sensibile delle impression per una delle due località – indice di un potenziale mancato
raggiungimento del costo massimo giornaliero (10,00 euro) impostato per quella campagna –
AdWords sposterà automaticamente il budget non utilizzato sull’altra, per garantire un maggior
numero di click e conversioni.

Tale risultato sarebbe difficilmente ottenibile attraverso un’ottimizzazione manuale delle due
campagne, sia perché richiederebbe un monitoraggio assolutamente costante degli andamenti delle
ricerche sia perché l’inserzionista, magari non percependo direttamente il legame tra le due
campagne, potrebbe essere restio ad aumentare il budget di una a fronte di una decurtazione, di
uguale importo, di quello dell’altra. In tutte le situazioni simili a quella esemplificata, attivare la
funzione “budget condiviso” può, dunque, dimostrarsi un’ottima soluzione, in grado di ripartire
efficacemente la spesa sulle due campagne, garantendo l’esaurimento del budget giornaliero e un
numero più costante di conversioni.

4.6 Uscire dal branco


Gli annunci distintivi catturano l’attenzione degli utenti e offrono un grande vantaggio
competitivo.

Una visione distorta e riduttiva del keyword advertising, peraltro piuttosto diffusa, attribuisce tutta la
colpa delle scarse performance della campagna alla scelta delle parole chiave. Dietro questo modo
di pensare sta il fraintendimento di fondo rispetto a cosa sia AdWords e quale sia il suo scopo.
Scopo che non è l’annullamento dei competitor consumato giocando su una scacchiera in cui tutti,
usando le stesse parole chiave, finiscono per muovere solo i pedoni. Il gioco diventa davvero
divertente e produttivo quando, mentre gli altri continuano ad avanzare con i pedoni, io metto in
campo alfieri e torri!
Fuori di metafora, ogni chiave di ricerca che si decide di utilizzare va valutata in relazione
all’importanza che essa può assumere in un contesto che consente di vincere più volte. Più click
ricevo, più qualità mi garantisco, più benefici ottengo in termini di posizione media e costo. Quando
tutto funziona al meglio, i miei annunci finiscono più in alto, e a un costo minore.
Per ottenere questi risultati è tuttavia necessario conoscere al meglio le logiche AdWords e giocare
sulla creatività, avendo una visione strategica del processo.
Se un certo inserzionista vende succhi di frutta alla pera, può convincersi che non sia possibile
generare altre chiavi all’infuori di “succhi di frutta alla pera”, senza capire che, mentre lui gioca la
sua battaglia nel campo delle ovvietà, altre aziende più lungimiranti potrebbero decidere di non
utilizzare parole che trasmettono un significato generico.
L’uso di parole generiche sarebbe una strategia di visibilità davvero poco performante anche a
livello di SEO, in quanto finirebbe per dire sostanzialmente solo: “Sono presente in questo settore”.
Se la cosa, come avviene in ambito SEO, non costasse nulla, potremmo anche non preoccuparcene,
ma il signor “Succo alla Pera” sarebbe contento di sapere che ha speso 1.000 euro per diecimila
click che hanno totalizzato una frequenza di rimbalzo del 90%? Calcolatrice alla mano, in questo
modo avrebbe investito 1,00 euro per promuovere un prodotto che costa forse la metà.
La vera domanda che il signor “Succo alla Pera” dovrebbe porsi è: “se con la mia offerta sono
riuscito a convincere il 10% degli utenti, che cosa cercava davvero il rimanente 90%? Perché ha
usato quella particolare chiave di ricerca con cui mi ha trovato solo per farmi spendere soldi e
scoprire che non è dei miei prodotti che aveva bisogno?”.
Utilizzando solo chiavi generiche, l’inserzionista manifesta attese altrettanto generiche rispetto ai
bisogni degli utenti. È come se “sparasse” a caso, seguendo in fondo le stesse logiche della
comunicazione “di massa”, nella speranza che, mirando nel mucchio, almeno a qualcuno la sua
proposta interessi. In questo modo, per contro, è lui stesso che finisce per confondersi con tutti gli
altri inserzionisti i cui messaggi, simili gli uni con gli altri, finiscono solo per generare rumore e
infastidire i potenziali clienti. Come fare diversamente, allora? L’annuncio perfetto è quello che
riesce a centrare esattamente una richiesta dell’utente. Esso deve inoltre offrire una “reason why”
distintiva rispetto a tutti gli altri annunci, che sia in grado di evidenziare i benefici che l’utente
potrebbe avere scegliendolo. Il tutto, come sappiamo, in dinamiche che si giocano nelle frazioni di
secondo in cui si prendono decisioni in rete.

Entra e prenota! Perché?


Compralo ora! Perché mai?
Scarica il coupon! Ma... anche no!

Per quanto l’obiettivo di superare le resistenze dell’utente facendolo cliccare sui nostri annunci
invece che su quelli degli altri possa apparire complicato da raggiungere, in realtà la chiave del
successo è spesso semplice e persino banale. Il segreto sta nel pianificare proattivamente il motivo
per il quale un utente potrebbe trarre beneficio nell’accedere al nostro sito. Si tratta, in altri termini,
di “Usare la Forza”... della “call to action”, per lanciare, forte e chiaro, il messaggio: “questo è
proprio il contenuto che stavi cercando”.
In questo modo, l’obiettivo del signor “Succo alla Pera”, non dovrebbe essere più quello di
annunciare “vendiamo succhi alla pera”, quanto piuttosto quello di comunicare che il suo succo di
frutta è totalmente naturale e contiene una percentuale di frutta superiore a quella dei competitor.
Lavorando sulla naturalità e sulla percentuale di frutta elevata, è possibile fornire al succo di frutta e
agli annunci che lo promuovono una personalità più riconoscibile, distintiva e valorizzante rispetto a
un succo generico. Dato che la sola parola dell’inserzionista non basta a convincere tutti i clienti, il
nostro ravveduto signor “Succo alla Pera” potrebbe anche offrire la possibilità di scaricare un
coupon con il quale comprare il prodotto a un prezzo scontato (ancora AdWords + marketing!). Così
facendo vengono messi in evidenza alcuni denominatori: naturale, gusto, sconto (prezzo) e la call to
action che verrà generata non sarà più: “entra e compra”, ma “entra perché è buono e naturale e, se
non ti fidi e vuoi provarlo, puoi scaricarti il coupon”.

La sintesi di tutto questo discorso è molto semplice. Il processo corretto per generare una campagna
di keyword advertising efficace non è: stesura delle keyword, costruzione degli annunci,
individuazione/costruzione della landing page, offerta dei nostri prodotti/servizi. Quanto piuttosto:
individuazione degli elementi distintivi dei nostri prodotti/servizi, costruzione delle pagine del
sito/landing page che raccontino tali distintività, generazione degli annunci che le contengano sotto
forma di reason why (stimolo alla call to action), individuazione di parole chiave differenziali
(rispetto a quelle generiche che tutti i potenziali competitor potrebbero usare), in grado di andare a
intercettare bisogni specifici degli utenti.
In altri termini, il procedimento corretto è esattamente l’opposto di quello che molti utilizzatori della
piattaforma continuano a fare, almeno a giudicare dagli annunci che si trovano su Google.

4.7 Tutto ruota


Rotazione annunci, tecniche di attivazione degli annunci. È sempre giusto far scegliere al sistema
in che modo mostrare i nostri annunci?

La rotazione degli annunci è pianificabile attraverso le impostazioni avanzate di AdWords, nel


sottomenù “Pubblicazione degli annunci: rotazione annunci, quota limite”.
Partiamo dalla citazione della guida:

«Quando un gruppo di annunci include più annunci, questa impostazione permette di scegliere gli
annunci da pubblicare con maggiore frequenza.
Come funziona: per impostazione predefinita, gli annunci più efficaci in termini di clic
partecipano all’asta con maggiore frequenza. Puoi modificare questa impostazione per eseguire
l’ottimizzazione in base alle conversioni oppure puoi scegliere di pubblicare i tuoi annunci in
modo più uniforme nel corso del tempo. Puoi pubblicarli in modo più uniforme per almeno 90
giorni e poi eseguire l’ottimizzazione per i clic oppure puoi pubblicarli in modo più uniforme per
un periodo di tempo indefinito senza eseguire l’ottimizzazione.»

Tutto ciò, letto superficialmente suona assolutamente magnifico, perché suggerisce l’idea che la
gestione della campagna, o meglio, delle sue performance, possa essere delegata a un meccanismo
automatico, in grado tener di conto delle conversioni. In pratica sarà il sistema a determinare quale
annuncio è maggiormente produttivo in presunti termini di ROI.
Questa suggestione, tuttavia, non tiene conto della possibile evoluzione delle parole chiave nel corso
della campagna e nemmeno del reale rendimento economico delle transazioni.
Banalmente: un annuncio che ha da sempre prodotto risultati in funzione di parole chiave a
corrispondenza generica modificata potrebbe progressivamente peggiorare a livello di performance,
per la diffusione nel corso del tempo di nuove query improduttive ai nostri scopi, che non abbiamo
ancora intercettato inserendole tra le keyword “inverse”.
Inoltre, certe parole chiave e i relativi annunci possono portare conversioni la cui effettiva
produttività e capacità di generare profitto può essere stabilita solo attraverso una gestione analitica
e manuale. Per fare un esempio, determinati annunci si dimostrano in grado di produrre molti lead
che però non si traducono quasi mai in vendite; mentre altri ne portano meno, ma con un più alto tasso
di chiusura e un relativo Customer Acquisition Cost (CAC) più basso.
Alla luce di tutto questo, la rotazione automatica degli annunci può essere certamente utile, almeno in
alcune situazioni “standard”. Ma il suo uso non può sicuramente prescindere da un’iniziale fase di
testing, realizzata attraverso una rotazione omogenea degli annunci su un periodo campione,
quantificabile nei 90 giorni previsti da AdWords.
Infine, non dimentichiamoci che gli annunci, per loro natura, sono comunque soggetti a una rotazione
forzata. Infatti, la vincita di un’asta avviene quando un annuncio corrisponde semanticamente al
significato espresso da una query. Due annunci molto diversi, quindi, tenderanno naturalmente a
ruotare, perché ogni asta premia quello che più si accosta alla chiave evocata.

4.8 Spalmati o accelerati?


La scelta del modello di pubblicazione degli annunci - standard o accelerata - può essere una
chiave di successo di una campagna AdWords. Capiamo meglio come funzionano e a chi giovano le
due soluzioni.

Partiamo, anche in questo caso, direttamente dal pannello di controllo AdWords, andando in:
Impostazioni > Metodo di pubblicazione (avanzato) / Metodo di pubblicazione:
a) Standard: pubblica gli annunci uniformemente nel tempo.
b) Accelerata: pubblica gli annunci più rapidamente fino all’esaurimento del budget.

Capiamo meglio i due modelli attraverso alcuni esempi.

Standard
Ipotizziamo che una query venga ricercata 1.000 volte al giorno, e che un inserzionista abbia un CTR
del 10%, con un budget che gli consente di ottenere 10 click al giorno. Questo significa che i suoi
annunci vengono visualizzati 100 volte su 1.000. Per garantire all’inserzionista impression anche al
termine della giornata, il sistema, impostato nella modalità “standard”, provvederà a far visualizzare
i suoi annunci una volta ogni 10 ricerche.

Accelerata
Utilizzando sempre lo stesso esempio, ricorrendo alla modalità di pubblicazione “accelerata” gli
annunci verranno visualizzati continuamente fino al raggiungimento del massimo budget giornaliero,
nel nostro caso pari a 10 click. Così facendo, l’inserzionista avrà ottenuto circa 100 impression e la
sua campagna sarà rimasta attiva solo per una parte della giornata.

La scelta tra le due modalità non è affatto semplice e da essa, peraltro, dipende una quota rilevante
del successo di una campagna. In effetti, non esiste una soluzione ideale, valida sicuramente per tutte
le situazioni. L’unica sarebbe quella di arrivare a una quota impression del 100% sul volume
complessivo delle ricerche quotidiane, in modo da essere visibile – senza perdere in CTR – ogni
volta che un utente richiama una query che ci porterebbe a vincere l’asta. Tuttavia, un risultato del
genere si potrebbe ottenere solo utilizzando una serie di parole chiave “esatte” che, d’altro canto,
precluderebbero la visualizzazione dell’annuncio in corrispondenza di nuove chiavi di ricerca, o
delle prolifiche chiavi a coda lunga.

Per tornare alle due possibilità di visualizzazione degli annunci e alle diverse conseguenze del loro
impiego sulle pratiche di ricerca degli utenti, facciamo ancora degli esempi.

Esempio 1. Il Wedding Planner


Visualizzazione scelta: accelerata.
Budget: in situazione normale consente all’inserzionista di ottenere impression e click fino alle
ore 14.

Situazione: Camilla vuole sposarsi e, durante una pausa caffè nel suo orario di ufficio, decide di
effettuare una serie di ricerche nel corso delle quali trova 2 o 3 nominativi interessanti di società di
servizi che organizzano matrimoni. Naturalmente non può prendere una decisione da sola, perché
deve consultare anche il suo partner, e rimanda la scelta alla sera.
Una volta tornata a casa, effettua nuovamente la ricerca insieme al fidanzato ma, poiché il nostro
wedding planner ha terminato il budget, Camilla troverà soltanto i suoi competitor e finirà per
scegliere una delle altre aziende.
Approccio alternativo: usare il metodo di pubblicazione standard.

Esempio 2. Il negozio online di generi alimentari


Visualizzazione scelta: standard.
Budget: in situazione normale consente agli annunci dell’inserzionista di essere visualizzati con
una frequenza di circa 1:6.

Situazione: Matteo è goloso di confetture e, dato che nella sua zona non vi sono negozi con un’ampia
varietà di scelta, decide di cercarli online.
Alla prima ricerca trova il nostro store e vi entra scoprendo prezzi e varietà piuttosto soddisfacenti
ma, come spesso capita in questi casi, decide di esplorare anche altri siti per scoprire se trova
condizioni più vantaggiose.
Effettua altre due ricerche e, alla fine, la scelta si concentra sul nostro store e su quello di un
competitor. Purtroppo le ulteriori ricerche con cui giungerebbe all’acquisto capitano fuori dalla quota
impression (i nostri annunci vengono visualizzati solo una volta su 6!) e, non trovandoci, preso dalla
fretta (e dalla gola), decide di acquistare presso l’altro negozio.
Approccio alternativo: usare il metodo di pubblicazione accelerata.

Esempio 3. L’hotel a Milano


Visualizzazione scelta: standard.
Budget: in situazione normale consente al cliente di essere visualizzato con una frequenza di circa
1:10.
Situazione: Carlotta deve andare a Milano per lavoro e ha bisogno di prenotare un hotel che non
abbia troppe pretese e si trovi in una zona precisa della città. È una persona molto pratica e, una
volta scoperti i prezzi e le disponibilità, la sua scelta si consumerebbe nell’arco di pochi minuti.
Carlotta, però, non è troppo avvezza alla ricerca web e non riesce a strutturare una query
sufficientemente precisa, che le permetta di trovare subito la soluzione che cerca. Utilizza invece i
termini generici “milano” e “hotel”. In questo modo ottiene, nella pagina dei risultati, un enorme
volume di soluzioni. Non avendo specificato nella sua richiesta neanche la tipologia di albergo a cui
è interessata, il nostro annuncio continua a concorrere con inserzionisti e con portali di prenotazione,
che lo declassano in posizioni poco interessanti. Di tutte le soluzioni che Carlotta sta cercando, noi
rappresentiamo probabilmente la migliore ma, purtroppo, a causa della spalmatura standard, i nostri
annunci riescono a ottenere solo 3 impression, senza alcun click. Quando l’attenzione di Carlotta si
sposta nella parte bassa, infatti, il nostro annuncio non è più visibile e noi non siamo stati in grado di
mostrarle la nostra offerta.
Approccio alternativo: usare il metodo di pubblicazione accelerata.

Tutti e tre questi esempi prendono in considerazione casi fallimentari, ma questo libro vuole aiutare
proprio chi ha ottenuto insuccessi con AdWords o, comunque, desidera migliorare le performance
delle proprie campagne. Gli ipercritici potrebbero anche dire che i nostri esempi mettono a nudo
situazioni estreme e che, comunque, nessuna delle soluzioni indicate e/o possibili è del tutto
risolutiva, senza comportare anche elementi di problematicità. È vero e lo abbiamo affermato poco
sopra. Quello che tuttavia non bisogna mai dimenticare, pianificando attività inserzionistiche in
AdWords, è che dietro a ogni campagna c’è un budget e che i budget non sono mai illimitati. Anzi! Il
successo e l’enorme potenzialità dello strumento sono rappresentati proprio dalle logiche
“democratiche” che AdWords incarna, garantendo opportunità di accesso e risultati concreti anche
agli inserzionisti più piccoli (professionisti, microimprese, singole persone e via dicendo), che
possono magari permettersi budget di un solo euro al giorno. È evidente che, a fronte di tali budget,
sia necessario accettare qualche compromesso, ricorrendo, per esempio, non alla soluzione migliore
in assoluto (che spesso potrebbe corrispondere a un aumento di budget), ma “accontentandosi” di
quella effettivamente percorribile dall’inserzionista e in grado comunque di generare risultati.
Un modo per ridurre le disfunzionalità proprie di ciascun modello di pubblicazione e rafforzare
l’efficacia delle campagne senza intervenire direttamente sui budget, tuttavia, esiste e passa, ancora
una volta, da un’attenta pianificazione degli annunci e da un uso corretto delle campagne potenziate.
Utilizzando queste ultime, infatti, è oggi possibile allocare un budget dedicato alle diverse fasce
orarie, in modo da rendere più visibili gli annunci (e quindi potenzialmente più produttivi) in quelle
che si dimostrano più interessanti per noi a livello di conversioni. Per raggiungere tale risultato,
bisogna partire da un’analisi dei comportamenti degli utenti, in modo da scoprire in quale momento
della giornata si concentrano le visite che producono poi conversioni nelle sessioni successive.
A questo proposito, vale la pena di analizzare il comportamento dell’utente, differenziando le sue
visite in esplorative ed esecutive. Le visite esplorative sono quelle in cui il cliente rimane più tempo
sul sito consultando più pagine. Quelle esecutive, successive cronologicamente alle esplorative, sono
solitamente più veloci nelle pagine istituzionali del sito e un po’ più lente nelle pagine dove si
consuma la conversione (contatto, acquisto, prenotazione e così via).
Comprendendo al meglio il ciclo di conversione in relazione allo stile di ricerca, alle diverse fasce
orarie e ai giorni della settimana, il vostro numero di conversioni aumenterà certamente. Ma non
solo. Ottenendo una maggiore visibilità, incrementerete potenzialmente il CTR. Questo produrrà CPC
più bassi che vi garantiranno una dilatazione graduale delle fasce orarie e più click.

4.9 Gli stranieri sono anche tra noi


Capiamo come scegliere la combinazione lingua-dominio sulla base del target che dobbiamo
raggiungere.

Molte delle indicazioni di carattere strategico contenute in questo libro possono suonare banali, dato
che sono generate da considerazioni di semplice buon senso. Ma se ciascuno di noi riuscisse a
utilizzare il buon senso in quello che fa, probabilmente tutto funzionerebbe meglio.
Un piccolissimo esempio declinato sulle campagne AdWords è connesso con l’impostazione dei
parametri relativi alla lingua e al dominio di visualizzazione degli annunci.
Pensiamoci un attimo: un utente tedesco che si trova in Italia per le vacanze e desidera cercare un
ristorante non è affatto detto che usi come motore di ricerca la versione italiana di Google, ma
potrebbe connettersi a Google.de. In questo caso, se noi avessimo creato una campagna localizzata in
Italia e impostata solo su “italiano”, non potremmo raggiungerlo. E questo, paradossalmente, proprio
nel momento in cui, probabilmente, quell’utente non è mai stato così vicino al nostro ristorante!
D’altro canto, se la campagna generata fosse invece localizzata in Germania e solo in “lingua
tedesca”, lo stesso utente potrebbe trovare i nostri annunci, ma solo cercandoli da casa propria!
Ecco allora la considerazione di buon senso: per ottenere visualizzazioni anche dalle ricerche degli
utenti stranieri che in un dato momento si trovano in Italia e potrebbero essere interessati ai nostri
prodotti/servizi è necessario, in primo luogo, impostare la relativa lingua tra quelle previste dalla
campagna. Inoltre, se si ritiene che il rapporto costi-benefici di tale operazione possa essere
vantaggioso, per aumentare ulteriormente le performance della campagna, si potranno anche creare
annunci ad hoc nella stessa lingua.
Utilizzando queste accortezze, andremo a colpire efficacemente tutti coloro che, dall’Italia, effettuano
ricerche utilizzando la versione di Google relativa alla propria nazione/lingua di provenienza. È solo
buon senso, ma l’importante è utilizzarlo!

4.10 Davide contro Golia, usando l’arma del prezzo


Con minor budget a disposizione, poter lottare contro i “colossi” rischia di compromettere i
risultati se ci basiamo sulla posizione media degli annunci. Inserendo il prezzo direttamente nel
testo dell’annuncio, questa situazione può ribaltarsi.

Inserire il prezzo della nostra offerta negli annunci non è una regola aurea. E del resto in AdWords,
che è tutto fuorché una scienza esatta, non ci sono mai regole auree. Nella maggior parte dei casi, a
“domanda precisa” l’unica risposta possibile è quella imprecisa, che inizia con un ambiguo
“dipende”. Questo perché nella gestione delle campagne su AdWords si ha che fare con tanti
parametri, molti dei quali, pur appartenendo a una stessa famiglia, devono essere declinati in
relazione alle diverse tipologie di acquirenti.
Parliamo, in questo caso, di acquirenti (e non semplicemente di utenti), con cognizione di causa,
perché se è di prezzo che dobbiamo trattare, è fondamentale capire da subito a che tipo di acquirenti
ci stiamo rivolgendo. Inserire il prezzo nell’annuncio, infatti, può offrire un grande vantaggio
competitivo ma solo a certe condizioni. Non sempre, in realtà, un prezzo minore è quello più
attrattivo nella percezione di determinate tipologie di consumatori.
Se siete al supermercato e cercate di fare una spesa in economia, ci saranno dei prodotti per i quali
la vostra diffidenza verrà messa a dura prova. Alcuni prodotti finiranno nel carrello perché il basso
prezzo vi soddisfa ma, per altri, sarete più propensi a spendere qualcosa di più. Allo stesso modo, se
vi trovate in un sito di vendita online di apparecchi telefonici, il fatto che il vostro telefono preferito
di ultima generazione venga proposto a un prezzo irragionevolmente basso potrebbe preoccuparvi e
indurvi a girare nel sito per scoprire la possibile fregatura.
In altre parole, per realizzare annunci efficaci incentrati sulla leva del prezzo, la logica non è: “più
basso il prezzo, meglio è”. Si tratta piuttosto di mettere in campo una strategia di posizionamento di
prezzo finalizzata a proporre al cliente un valore invogliante ma anche ragionevole e giustificabile ai
suoi occhi, magari perché associato a una promozione particolare o a un qualche meccanismo
promozionale come, per esempio, un’offerta subordinata a un secondo acquisto o altre promozioni
analoghe. Il tutto, naturalmente, deve essere contenuto efficacemente nelle quattro righe che Google ci
mette a disposizione!
Parliamo, non a caso, di quattro righe perché anche il bistrattato campo dell’URL di visualizzazione
è, comunque, una risorsa. Ricordatevi infatti che, a differenza delle altre righe, il campo URL è
l’unico che può contenere il nome di un marchio registrato altrui. Se, per esempio, il nostro annuncio
vuole attirare l’attenzione su un prezzo promozionale di un orologio di lusso, non possiamo citarne il
nome all’interno del testo degli annunci in quanto protetto da tutela. Possiamo, però, inserire il nome
del prodotto/brand nello spazio “URL di visualizzazione”. Quindi, per esempio, potremo inserire
dopo il dominio reale /BRAND/, senza violare alcun copyright.
Ma torniamo al nostro tema.
Sappiamo che – non è una regola scritta ma così è nella realtà – gli annunci più cliccati sono in
genere quelli più in alto nella pagina, compresi quelli in posizione “4”, che corrisponde al primo
risultato, in alto a destra. Questo tipo di comportamento degli utenti non nasce solo dal fatto che non
leggono gli altri annunci o non scrollano la pagina dei risultati di ricerca ma è in gran parte associato
proprio alla mancanza di appeal che gli annunci più in basso, in genere, mostrano.
Molti inserzionisti tendono, per esempio, a usare troppo spesso la chiave di ricerca nel titolo4,
contribuendo alla generazione di pagine dei risultati che presentano la query nel titolo di otto o nove
annunci su undici. Giustamente AdWords dice che se la chiave è presente nell’annuncio posso
ottenere maggiore qualità; ma se poi tale chiave compare in tutti gli annunci, che succede? Tutto
finisce, di nuovo, nelle mani del pubblico, e se gli annunci appaiono sostanzialmente identici, quelli
più in alto risulteranno decisamente i favoriti. Se non altro perché cliccare più in alto è molto più
veloce e meccanico.
Il punto è quindi trovare un elemento di interesse – o di rottura – rispetto agli altri annunci, anche
senza dover necessariamente stare in una posizione alta. L’inserimento di un prezzo individuato
secondo le logiche sopra riportate e, magari, presentato direttamente nel titolo, può essere l’elemento
di rottura e distintività dalla “massa” che cercavamo.
Se sto vendendo un pacchetto vacanze di assoluto valore a un costo formidabile, potrei scegliere
l’uso di chiavi di ricerca molto generiche. Tali chiavi potrebbero però essere usate sia da competitor
sia da soggetti che si occupano di indotto turistico o, addirittura, per un cattivo uso delle
corrispondenze, da aziende che si occupano di tutt’altro.
In questo contesto, il punteggio di qualità sommato al CPC massimo che abbiamo attribuito
all’attivazione dell’annuncio potrebbe risultare medio o basso e relegare l’annuncio in una posizione
troppo bassa e quindi sfavorevole.
Inseriamo quindi il prezzo mantenendo un CPC adatto alla permanenza dell’annuncio in prima pagina.
Il risultato – se il nostro prezzo sarà accattivante ma, allo stesso tempo, ragionevole e giustificato
agli occhi del cliente – sarà quello di ottenere un numero di click in linea, se non addirittura
superiore, a quello delle aziende presenti nelle prime posizioni.
Cioè determina che, aumentando il punteggio di qualità, l’annuncio, a parità di CPC massimo,
inizierà a salire di posizione.
Tuttavia, l’obiettivo di questo tipo di strategia di gestione della campagna, non è quello di apparire in
alto. Noi, infatti, vogliamo fare economia e arrivare a pagare i click meno dei concorrenti, in modo
da utilizzare meno budget di loro e, magari, generare campagne di maggiore durata. Poiché
l’elemento scatenante l’aumento nel numero di click che siamo riusciti a generare non sono stati il
CPC, il punteggio di qualità o la posizione ma la presenza differenziante rispetto ai competitor,
possiamo tranquillamente procedere ad abbassare il CPC fino a calibrarlo sulla posizione media
nella pagina dalla quale è partita la nostra scalata!
In questo modo arriveremo ad avere un CPC estremamente basso (non è raro riuscire a ottenere click
a 0,01 euro), mantenendo una posizione secondaria, un CTR elevato e un punteggio di qualità ottimo
(10/10).
Il punto è che, col tempo, per quanti siano i nostri sforzi per abbassare la posizione dell’annuncio nei
risultati sponsorizzati Google, di fatto il CTR storico sarà così premiante da farci stare in alto, a
fronte di un costo per click comunque basso. In questi casi, chiaramente, non è giustificato abbassare
forzatamente la posizione: va benissimo così, stiamo semplicemente ricevendo moltissimi click a
fronte di una spesa bassissima!

4.11 AdWords non è gli scacchi


Non sempre le parole chiave reagiscono allo stesso modo se attivate con annunci diversi.
Scopriamo come analizzare e ottimizzare il rendimento delle chiavi per ciascun annuncio.

Ci è capitato spesso di sentir paragonare l’uso di AdWords a una partita a scacchi. E, per certi
aspetti, pensiamo che il confronto sia legittimo. Tuttavia, il fatto che gli scacchi siano piuttosto
complicati è proprio ciò che li rende avvincenti. Nel caso di AdWords, invece, non abbiamo lo
stesso tipo di aspettative. Trattandosi di un sistema ideato per produrre profitto, la nostra necessità è
che sia tutt’altro che complicato: magari articolato e pieno di opportunità ma certamente non
complicato. Quando generiamo una campagna, non stiamo affatto giocando e ci piacerebbe poter
giungere al successo utilizzando solo la logica.
Per contro, è indubbio che l’uso della piattaforma, configurandosi come una sfida condotta per
primeggiare sugli avversari, contenga effettivamente delle dimensioni che rimandano alla logica del
gioco. All’interno di essa, le parole chiave e gli annunci possono essere considerati come pezzi degli
scacchi da mettere in campo per “mangiare” quelli degli avversari e vincere le aste.
Utilizzando questa metafora, possiamo ricordare come tra le logiche del gioco esista anche quella del
“sacrificio”, che consiste nel cedere deliberatamente un pezzo all’avversario per aggiudicarsi un
vantaggio. Questo stesso tipo di ragionamento può essere applicato alle parole chiave e agli annunci
che, reciprocamente connessi da una relazione inestricabile quanto decisiva, costituiscono elementi
centrali delle campagne. Più si comprende come far lavorare sinergicamente questi due elementi, più
saremo in grado di ottenere risultati di valore.
A questo proposito, la piattaforma di controllo di AdWords ci offre uno strumento davvero utile, ma
molto poco usato: “Segmenta”.
Esistono varie tipologie di segmentazione ma, nel nostro caso, prenderemo in considerazione la
funzione di segmentazione per gli annunci reperibile attraverso il seguente percorso di menu:

Menù annunci > segmenta > parola chiave / posizionamento

Questo tool di analisi fornisce dati estremamente interessanti, indicandoci come ogni singola chiave
abbia performato quando attivata dai diversi annunci.
Facciamo un esempio concreto relativo a quelli seguenti.

1) Cerchi aiuto AdWords?


Andrea Testa è Top Contributor.
Community Ufficiale di AdWords.
Blubit.it/Consulente-AdWords.

2) Blubit Esperti AdWords


Se cerchi un consulente Esperto.
Andrea Testa, SEM AdWords dal 1993.
Blubit.it/Consulente-AdWords.

Entrambi gli annunci sono legati a un gruppo di parole chiave che comprende anche le seguenti:
a) “aiuto per adwords”
b) “esperto in adwords”

Attraverso lo strumento “segmenta”, possiamo scoprire che, se attivata con l’annuncio 1, la chiave
“aiuto per adwords” genera i seguenti dati:

> CTR 9% / CPC medio 3,21€ / Posizione Media 1,8 / Conversioni 14 / Tasso di Conversione 10%

Con l’annuncio 2:

> CTR 3,2% / CPC medio 3,71€ / Posizione Media 1,9 / Conversioni 4 / Tasso di Conversione 2%

Vista così verrebbe in mente subito di stoppare l’annuncio 2, ma vediamo il suo comportamento in
relazione alla chiave di ricerca “esperto in adwords”:

> CTR 25% / CPC medio 1,80€ / Posizione Media 1,2 / Conversioni 13 / Tasso di Conversione
12%

Tutto appare, adesso, sotto un’altra luce. Prendendoli singolarmente, saremmo probabilmente giunti a
rimuovere la chiave o l’annuncio. Osservandoli nelle loro interazioni, abbiamo invece capito che
l’annuncio 1 dovrà lavorare con la chiave “aiuto per adwords” mentre l’annuncio 2 dovrà essere
attivato dalla chiave “esperto in adwords”. A questo punto non faremo altro che mettere in pausa le
chiavi e l’annuncio che non ci servono e attivare un nuovo gruppo annunci nel quale inseriremo il
binomio vincente. Avremo quindi due gruppi di annunci separati che, potendo contare su accoppiate
vincenti, sapranno produrre risultati migliori e ci faranno vincere qualche partita in più.

4.12 Più ci “allarghiamo” meglio è


Sitelink: come aumentare le performance di un annuncio.

Quello dei sitelink su AdWords è un argomento così vasto e complesso che richiederebbe moltissime
pagine per essere trattato in modo davvero esaustivo. Basti pensare che, nel momento in cui
scriviamo, esistono i sitelink per campagna, per gruppo annunci e i sitelink potenziati, ciascuno dei
quali ha una modalità di attivazione diversa. Il loro obiettivo, tuttavia, è sempre lo stesso: migliorare
la visibilità degli annunci, renderli più accattivanti e contribuire, in questo modo, ad aumentare il
CTR.
Abbiamo detto infinite volte che il CTR è la chiave di lettura di una buona campagna AdWords.
Questa volta rimarcheremo questo concetto affrontandolo da una nuova prospettiva, più globale e
sistemica.
Riflettendo sulla questione, non è difficile comprendere come il fatto che l’intero meccanismo di
AdWords funzioni – e possa continuare a farlo anche in futuro – è dato dalla sua capacità di produrre
click in grado di soddisfare gli utenti. Ancora oggi, tuttavia, molti utilizzatori di Google (e dei motori
di ricerca in genere) cliccano con una certa diffidenza sui risultati sponsorizzati, attribuendo a questi
ultimi intenti meramente pubblicitari.
Questa diffidenza può essere superata solo se i click su tali annunci effettuati dagli utenti (sospettosi
e non) conducono a landing page in grado di soddisfare effettivamente, e al meglio, i loro bisogni. Il
meccanismo su cui si basa Google AdWords è, in effetti, win-win-win. L’utente, rilevando che i
risultati sono qualitativamente elevati, visiterà ancora gli annunci sponsorizzati; l’inserzionista,
ottenendo benefici, continuerà a inserzionare su AdWords, cercando di ottenere, giorno dopo giorno,
performance sempre più elevate. E Google continuerà a guadagnare nel suo ruolo di intermediazione
tra domanda e offerta di prodotti, servizi, informazioni e via dicendo.
In quest’ottica, ottenere un CTR elevato e connesso al punteggio di qualità degli annunci è importante
non solo perché aumenta le performance dell’inserzionista ma anche perché, a livello più generale e
sistemico, aumenta la fiducia degli utenti verso la qualità dei contenuti degli annunci sponsorizzati.
Ma torniamo adesso ai sitelink che, come sappiamo, possono interessare sia i risultati organici sia
quelli sponsorizzati. La differenza tra i due piani risiede nel fatto che, mentre sull’organica
padroneggiare il sitelink che viene generato direttamente da Google (soprattutto sulle chiavi
brandizzate5) è spesso un percorso complesso e non immediato, su AdWords i sitelink possono
essere produttivamente integrati direttamente dall’inserzionista, anche a livello di gruppo annunci.
Concentriamoci dunque sui sitelink in AdWords.
Come abbiamo detto qualche riga più sopra, questi ultimi rendono l’annuncio più ampio e visibile e
quindi potenzialmente più facile da scegliere.

Figura 4.4 - Un esempio di risultato sponsorizzato su Google, con i sitelink in evidenza.

Questo rappresenta già un vantaggio ma si tratta di un vantaggio relativamente modesto, perché


sottolinea semplicemente che una certa proposta è supportata da argomentazioni convincenti, che
possono fornire risposte a ciò che gli utenti stanno cercando. Ma usare AdWords non deve servire a
ottenere vantaggi “modesti”. Dobbiamo pertanto concederci anche il lusso di rischiare qualcosa per
cercare di ottenere di più. E questo è esattamente quello che avviene con i sitelink che, per lo meno a
un primo sguardo, possono trasformare l’annuncio a cui sono associati in un competitor di noi stessi!
Partiamo ancora una volta dalla considerazione che – oggi più che mai con le campagne potenziate –
l’obiettivo delle attività di advertising attraverso l’associazione “annunci-parole chiave” dovrebbe
essere quello di intercettare le intenzioni dell’utente, comprese quelle non esplicitate nella query, per
offrirgli, attraverso i nostri prodotti o servizi, tutte le soluzioni che potrebbe desiderare.
Supponiamo allora di essere un concessionario di auto multi-marca. L’utente cerca una marca in
particolare di cui vorrebbe acquistare un modello usato. Immaginiamo, quindi, una chiave del tipo:
“NOMEMARCA usata”. Nella migliore delle ipotesi, se avremo creato annunci canalizzati a chiavi
di ricerca specifiche ma non utilizziamo i sitelink, potremo presentare la nostra proposta con un
annuncio di questo tipo:

CONCESSIONARIO NOMEMARCA
Cerchi una NOMEMARCA usata?
Vieni a trovarci e scopri le nostre proposte.

Niente da dire! A domanda specifica offriamo una risposta corretta e pertinente che sarà certamente
produttiva.

Vediamo, però, come cambiano le cose utilizzando i sitelink. Lo stesso annuncio visualizzato poco
sopra verrà supportato da link accessori che potrebbero dire:

CONCESSIONARIO NOMEMARCA
Cerchi una NOMEMARCA usata?
Vieni a trovarci e scopri le nostre proposte.
NOMEMARCA Km 0 - NOMEMARCA aziendale - Assistenza NOMEMARCA - ALTRAMARCA

In questo modo, stiamo dicendo al potenziale cliente che possiamo offrire anche altre opportunità per
quella marca, che siamo un centro di assistenza qualificato e che, se per caso ha ancora qualche
dubbio su cosa comprare, potrebbe venirci a trovare anche per visionare modelli di altre marche!
Questa moltiplicazione degli stimoli che offriamo al cliente non è dispersiva: infatti, non lo stiamo
affatto allontanando dal bersaglio principale, che è comunque l’annuncio, ma lo stiamo ingolosendo
con alternative valide per lui e produttive per noi. Se l’utente sta cercando proprio quella marca, la
troverà, ma il fatto che il “sandwich” che gli offriamo sia molto ricco e farcito anche con altri
condimenti, gli suggerirà quanto siamo bravi e affidabili, invogliandolo a tornare sul nostro sito o a
farci visita in concessionaria.
Ecco allora che, solo in apparenza, i sitelink ci mettono in competizione con noi stessi. In realtà ci
consentono di generare annunci molto accattivanti sul piano percettivo, ricchi a livello contenutistico
e maggiormente in grado di stimolare click. Essi tenderanno, inoltre, a veicolare un’immagine della
nostra offerta particolarmente autorevole e di qualità, aiutandoci a costruire relazioni di fiducia con i
consumatori.

4.13 Briciole di pane


I Breadcrumb o “bricioline di pane” sono un ottimo sistema per dare ordine ai macro indici del
sito web e sono visualizzabili anche su AdWords.

I Breadcrumb6 dovrebbero essere utilizzati per il semplice fatto che organizzano strutturalmente gli
annunci. Queste “bricioline di pane”, in sostanza, avvertono il navigatore che la sezione del sito nella
quale sta entrando è, in realtà, parte di una struttura più grande alla quale, volendo, è possibile
accedere direttamente, senza bisogno di entrare subito nella pagina che gli abbiamo proposto.

Figura 4.5 - Visualizzazione dei breadcrumb in un risultato organico.

A differenza dei sitelink, usati per mostrare alternative al risultato visualizzato (siano esse nella
stessa categoria ma anche in categorie diverse), i breadcrumb mostrano la struttura a cascata.
Se sono un portale turistico e sto proponendo in un gruppo di annunci delle chiavi di ricerca legate
alle vacanze sul mare, magari in agriturismo, potrei avere varie anagrafiche che compongono la
scheda del mio pacchetto vacanze. Supponiamo quindi di voler inserzionare gli agriturismi a
Livorno. Questi appartengono alla categoria “Toscana” e alla macrocategoria “Agriturismi”. Il
relativo breadcrumb dovrebbe quindi presentarsi in questo modo:

Agriturismi > Toscana > Livorno

L’utente visualizza il mio annuncio e sa che io gli mostrerò tutte le scelte relative alla sua iniziale
query che, magari, era “agriturismi a livorno”. L’utente potrebbe tuttavia restare disorientato per il
gran numero di offerte ricevute oltre alla mia. Attraverso i breadcrumb potrei allora cercare di
mostragli le mie proposte in modo alternativo e, auspicabilmente, più accattivante. Immaginiamo,
come esempio, un breadcrumb strutturato per mostrare la posizione degli agriturismi sul territorio,
anziché la categoria di appartenenza. Qualcosa del genere:

Toscana > Sul Mare > Livorno

In questo caso divido la regione in zone e sottopongo al cliente la possibilità di trovare subito
opzioni appetibili a livello di localizzazione, comunque collegate alla scelta di Livorno.
Il metodo di mark-up più semplice – e attualmente il più efficace – è quello di usare i microdati per
strutturare dei normali link in breadcrumb. È infatti importante ricordare che mentre i sitelink si
configurano da un apposito pannello dentro AdWords, i breadcrumb sono una modifica che deve
essere fatta nel codice HTML della pagina.

Vediamo quindi come usarli, nell’esempio sugli agriturismi a Livorno:


<div itemscope itemtype="http://data-vocabulary.org/Breadcrumb">
<a href="/toscana/" itemprop="url">
<span itemprop="title">Toscana</span>

</a> '
</div>
<div itemscope itemtype="http://data-vocabulary.org/Breadcrumb">
<a href="/toscana/mare/" itemprop="url">

<span itemprop="title">Sul Mare</span>

</a> '
</div>
<div itemscope itemtype="http://data-vocabulary.org/Breadcrumb">
<a href="/toscana/mare/livorno/" itemprop="url">

<span itemprop="title">Livorno</span>

</a>
</div>

All’interno di queste stringhe di comando:


“itemscope / itemtype” avverte il motore che stiamo parlando di breadcrumb;
“itemprop URL” identifica il tipo di elemento che poi viene nominalmente definito dal title.

Come si può notare, è una modifica piuttosto delicata ma tatticamente molto importante, anche nella
prospettiva di innalzamento del CTR ottenibile attraverso un maggior numero di conversioni in
relazione alle visualizzazioni generate.

1. Frequently Asked Question le domande poste con più frequenza.


2. Nella sezione “Strumenti e analisi”.
3. La percentuale di clienti che restano attivi anno dopo anno.
4. Sopratutto con la funzione keyword insertion.
5. Quando cerchiamo un’azienda inserendone il nome nella barra di ricerca, è molto probabile che il risultato che indica la home page
venga corredato da vari sitelink. Questo avviene molto più raramente con una chiave di ricerca normale.
6. I Breadcrumb (letteralmente “briciole di pane”) (o anche “filo di Arianna” o “Percorso di Pollicino”) sono una tecnica di navigazione
usata nelle interfacce utente. Il loro scopo è quello di fornire agli utenti un modo di tener traccia della loro posizione in documenti o
programmi. Il termine è tratto dalla popolare fiaba in cui Pollicino lasciava una scia di briciole di pane lungo il suo cammino per poterlo
ripercorrere all’indietro. Wikipedia.
CAPITOLO 5
LE DISPLAY

5.1 Meglio non tampinare


Utilizzare la rete display un po’ come fosse la rete ricerca, per generare visualizzazioni di qualità.

Tra gli errori che si possono commettere nel pianificare una campagna di keyword advertising con
AdWords, almeno due sono legati all’uso della rete display.
In primo luogo perché si tende a confonderla con la “rete ricerca” e, secondariamente, perché spesso
dalla rete display ci si aspettano risultati ambiziosi, che possono anche essere raggiunti, ma solo a
condizione di curare la campagna con molta attenzione e competenza.
Coloro che incontrano difficoltà nell’uso della rete display possono trovare un aiuto facendo
riferimento ad alcuni semplici concetti di marketing. Se non se ne considerano le molteplici
sfaccettature, si finisce per parlare di “pubblicità” in senso generico, quando sappiamo bene che non
tutta la pubblicità è uguale, non solo a livello di costi ma, soprattutto, di obiettivi. Altrettanto
fuorviante è pensare la pubblicità come divisa tra tradizionale (quella dei vecchi media) o nuova
(quella che si consuma nella rete).
Per comprendere e differenziare la comunicazione pubblicitaria, ciò che conta non è tanto se essa sia
vecchia o nuova e neppure attraverso quali canali venga erogata, quanto, piuttosto, il tipo di
marketing che la alimenta. Solo comprendendo a quale famiglia appartiene l’investimento
pubblicitario che sto facendo, potrò capire gli effetti che mi posso aspettare e come i miei utenti
tenderanno a relazionarsi con i miei messaggi.
A questo proposito, una distinzione importante è quella esistente tra Inbound e Outbound Marketing.

Inbound marketing
L’inbound marketing, cioè “in entrata”, è quel tipo di marketing che si basa sulla richiesta di contenuti
da parte del potenziale cliente. Suo scopo è, appunto, quello di offrire risposte significative al
bisogno di contenuti espresso dall’utente attraverso una ricerca che ha attivamente compiuto. In
questo caso, quindi, non è l’azienda che lo va a cercare per proporgli forzatamente un
prodotto/servizio, cercando di attrarre la sua attenzione mentre è impegnato a fare altro. Piuttosto,
l’azienda si fa trovare pronta a mostrare se stessa o i suoi prodotti/servizi solo quando è l’utente che
mostra attivamente un interesse in tal senso.
Primariamente riconducibile al SEO e al SEM (indicizzazione e posizionamento), l’inbound
marketing include anche le newsletter (previa iscrizione del cliente), i blog, i podcast, il social
media marketing o, più tradizionalmente, la pubblicità effettuata attraverso gli elenchi aziendali quali,
per esempio, le Pagine Gialle. Anche nell’inbound marketing devo cercare di attrarre il visitatore,
ma devo farlo cercando di dimostrare di essere più bravo degli altri a rispondere ai suoi bisogni, nel
momento stesso in cui li esprime.
Outbound marketing
L’outbound marketing, o marketing “in uscita” comprende la maggior parte della pubblicità classica,
in cui l’inserzionista pubblicizza se stesso o i propri prodotti/servizi, posizionandoli in spazi
specificamente disegnati per catturare l’attenzione dei consumatori mentre sono impegnati a fare altre
cose – come guardare un film, leggere un giornale, ascoltare la radio, guidare e via dicendo – e non
hanno alcun interesse specifico rispetto a quanto l’azienda vorrebbe comunicare loro (da cui la
possibilità di definire l’outbound marketing anche marketing dell’interruzione o Interruption
Marketing). E-mail marketing (senza previa registrazione da parte dell’utente), pubblicità alla radio o
in Tv, affissioni, volantini e tele marketing sono tutti esempi di outbound marketing.
È tenendo presente questa semplice distinzione che dobbiamo avvicinarci alla rete display. La sua
“natura” originaria è certamente quella dell’outbound marketing. Tuttavia, se opportunamente tarata,
la display può offrire logiche vicine a quelle del marketing “in ingresso”. Questo non significa,
naturalmente, che una campagna display sarà mai un puro inbound marketing ma, un po’, ci si può
avvicinare.
Partiamo allora dalla forma di display più vicina all’inserzionismo tradizionale: la “Display per
Interessi”. La relativa guida di AdWords recita quanto segue:

«Quando un utente visita il sito web di un partner AdSense, Google analizza i contenuti della
pagina e del sito per pubblicare annunci contestualmente pertinenti. Google utilizza anche gli
argomenti di questa pagina e i dati forniti da aziende di terze parti per associare gli interessi
all’identificativo anonimo del cookie di un visitatore, tenendo conto, tra le altre cose, della
frequenza con cui gli utenti consultano i siti appartenenti a queste categorie.

Google può utilizzare le informazioni che gli utenti forniscono ai siti web della Rete Display, come
i siti di social network, relative a sesso, età e altri dati demografici. Per dedurre queste
informazioni, Google può anche utilizzare i siti web visitati dagli utenti e dati di terze parti. Per
esempio, se un utente consulta siti che hanno una maggioranza di visitatori di sesso femminile
(sulla base di dati aggregati di indagini sul traffico dei siti), Google può associare il cookie
dell’utente alla categoria demografica femminile».

Traduciamo tutto questo in un esempio.


Siamo un’azienda che vende olio extravergine di oliva. Camilla è appassionata di cucina e, una certa
mattina, usa un motore di ricerca che la porta all’interno di siti e blog di ricette nei quali è presente
la piattaforma pubblicitaria Google AdSense. Una volta scoperte le ricette che più le interessano,
decide di condividerle nei social network su cui ha un account.
Considerata la nutrita partecipazione al contenuto culinario dei siti che ha consultato durante la
settimana, Google le assegna delle etichette (cookies): per esempio “cucina” e “ricette”.
Camilla prosegue poi la sua giornata sulla rete, visitando un sito di sport, uno di viaggi e uno di
cinema. Ma... c’è un piccolo “problema”: poiché Google le ha incollato addosso le due etichette
sopra ricordate e noi stiamo facendo una campagna “per interessi”, lei troverà su questi siti
(ovviamente, solo in quelli che ospitano inserzioni AdSense) i nostri annunci destinati a persone che
hanno manifestato interesse per la cucina o le ricette.
Come possiamo immaginare, Camilla, in quel particolare momento, non solo non trarrà alcun
beneficio da tali annunci totalmente decontestualizzati ma rischieremo addirittura di innervosirla con
una nostra presenza troppo aggressiva, tipica dell’interruption marketing. Sottoposta a tale pressione,
Camilla potrebbe persino sentirsi “spiata” da un sistema che ricorda e “mette in piazza” i suoi
interessi.
Tutto questo, facciamo attenzione, non significa che la display per interessi non produrrà alcun click.
Quello che vogliamo dire è semplicemente che questi stessi click, non essendosi attivati sulla base di
un bisogno contestuale dell’utente, potrebbero non produrre risultati. Non è facile vendere olio a una
persona che sta cercando un viaggio!

Ecco allora due suggerimenti che possono ottimizzare l’uso della profilatura basata su interessi nelle
iniziative display, facendo in modo che questo tipo di campagne lavorino in modo non troppo
oppressivo, ma simile all’inbound marketing.
Il primo è quello di limitare il numero delle possibili visualizzazioni per utente.

E quindi, da:

Impostazioni > Impostazioni avanzate > Quota limite

andiamo a settare un valore compreso tra 3 e 5 visualizzazioni massime per gruppo annunci o
campagna.
In questo modo, stiamo dicendo al sistema di impedire che Camilla possa vedere troppo spesso i
nostri annunci, e non un annuncio specifico ma tutti quelli che compongono la campagna. Questa è
certamente un’operazione di carattere limitativo ma è finalizzata a non risultare troppo aggressivi e,
di conseguenza, a cercare di migliorare il rapporto tra click e conversioni.
Il secondo suggerimento è invece quello di abbinare alla profilazione per interessi indicazioni
specifiche su determinati posizionamenti, cioè siti web o argomenti.

Rete Display > + Modifica targeting display > Posizionamenti

In sostanza, continuiamo sì a seguire Camilla nelle sue navigazioni per farle visualizzare i nostri
annunci ma ci impegniamo a farlo solo in quei siti i cui contenuti non siano troppo distanti dal
prodotto/servizio che le vogliamo proporre.
Quindi: so che le piace cucinare ma evito di ricordarglielo facendole vedere il mio annuncio su un
sito che parla di gare automobilistiche! Se proprio voglio lavorare sullo sport, farò in modo che tale
annuncio le compaia se visita un sito di pallavolo o di jogging, e andando a creare un messaggio che
si sposi perfettamente col contenuto. In questi casi, potremmo dirle: “Sei qui perché vuoi fare sport?
Benissimo, allora parti da un’alimentazione sana! Usa il nostro olio!”

5.2 Non concediamoci a tutti


Nelle campagne Display ci sono diversi modi di presidiare i siti che parlano dei miei argomenti,
ma alcune campagne sono più produttive di altre.

Restiamo ancora sulle campagne display per argomenti. Nell’articolo precedente, abbiamo visto
come il loro successo sia legato alla sintonia tra i miei annunci e l’universo contenutistico e
semantico dei siti entro cui verranno ospitati. Operando in questo modo, è possibile produrre, anche
utilizzando questo modello inserzionistico, campagne più “pull” che “push”, facendo, di fatto,
inbound marketing.
Per meglio operare in questo senso, AdWords mette a disposizione la possibilità di eliminare
posizionamenti poco redditizi. È vero che stiamo lavorando “per argomenti”, ma gli argomenti sono
fatti di contenuti, e molti siti, pur trattando degli argomenti che abbiamo selezionato, potrebbero farlo
in maniera non idonea alla produttività dei nostri annunci, in quanto:
di scarsa qualità;
noiosi;
non esclusivi.

Oppure, ancora peggio, tendenti a produrre un’elevata percentuale di rimbalzi.

La frequenza di rimbalzo, trattata approfonditamente in un’altra parte del libro, è una chiave di
possibile successo anche per le campagne display. All’interno di questo tipo di inserzionismo, può
essere “trattata” anche nel modo seguente: se abbiamo un sito web che ha una pagina che produce
tantissimi rimbalzi e, quindi, l’uscita dallo stesso, potremmo decidere di inserirvi spazi AdSense per
ottenere denaro proprio grazie a questo alto numero di uscite. Visto che l’utente uscirebbe comunque,
tanto meglio che lo faccia cliccando su un annuncio AdSense. Così facendo, potremmo guadagnare
qualcosa proprio da una pagina improduttiva!
Questo è un metodo interessante di usare AdSense, che non sempre viene preso in considerazione.
Spesso si è così gelosi dei propri contenuti e presuntuosi nei confronti di ciò che si è realizzato, da
non capire che una determinata pagina, in realtà, non produrrà mai risultati positivi e ci si ostina a
modificarla senza accorgersi che, per i più diversi motivi, l’utente continuerà a uscire dal sito.
Ricollocandoci dalla parte degli inserzionisti display, il discorso appena fatto parrebbe suggerire che
i siti con un’elevata frequenza di rimbalzo possano rappresentare il nostro terreno di caccia più
fertile.
Ma naturalmente le cose non stanno così.
In quei casi, infatti, i click ricevuti sarebbero originati prevalentemente da una frustrazione. Non
trovando cosa stava cercando, l’utente clicca sul nostro annuncio sperando di essere più fortunato. Il
suo click nasce dalla speranza e non, come invece dovrebbe essere, dalla certezza di trovare,
attraverso l’annuncio, proprio quello che gli serve.
Diverso è il caso in cui l’utente sia stato “preso” (ingaggiato) dai contenuti che ha trovato nel sito e
ne sia rimasto soddisfatto. Se il sito, per esempio, non consente la vendita di ciò che stava cercando
ma questa è proposta dai banner che vi sono presenti, sarà sicuramente portato a cliccarci sopra per
proseguire il suo percorso di acquisto. Questo è il valore che acquisisce il nostro banner display
quando si dimostra in grado di sposarsi armonicamente ai contenuti dei siti, soprattutto se viene
collocato all’interno di quelli più “autorevoli” e produttivi.
Per poter riconoscere tali siti e operare al meglio, dobbiamo quindi analizzare la quantità di click
che generano, selezionando preventivamente quelli rispetto a cui i nostri annunci si configurano
idealmente come un completamento del percorso di navigazione degli utenti.
In termini pratici:
Rete Display > Posizionamenti > Posizionamenti automatici
(ammesso che non abbiamo già trovato quelli buoni, lavorando quindi sui gestiti).

A questo punto analizziamo il motivo per il quale quell’argomento si lega al nostro annuncio,
ricordando che, talvolta, il legame potrebbe essere troppo generico, poco interessante o non
perfettamente centrato su quanto proponiamo.
Facendo un esempio relativo alla vendita di “olio per motori auto”, immaginiamo un sito che
contiene la classificazione “Auto e veicoli” ma che, in effetti, è prevalentemente centrato sulle moto.
In casi come questo, dovremmo profilare meglio gli argomenti, utilizzando le opzioni di “modifica
targeting Display”, grazie alle quali è possibile escludere un certo tema.
Nel nostro esempio potremmo impostare: tutti gli “auto e veicoli”, ma non le “motociclette”, e gli
“scooter e ciclomotori”.
Per finire, vi offriamo una piccola notazione, puramente nozionistica, sul Content Marketing.
Con tale definizione ci si riferisce all’“arte” di comunicare con i propri clienti, senza avere come
finalità immediata la vendita. Lo scopo del content marketing, piuttosto, è quello di intrattenere,
divertire o informare sul prodotto/servizio, per rendere chi legge più conscio e documentato riguardo
all’oggetto del suo desiderio o necessità. L’obiettivo primario del content marketing è dunque quello
di fidelizzare, cioè di garantirsi il ritorno di un utente soddisfatto dei contenuti che gli abbiamo
offerto e che hanno arricchito le sue conoscenze o che, semplicemente, lo hanno fatto divertire.
Preparando, intrattenendo e fidelizzando, sarà più facile, in futuro, ottenere una vendita.

5.3 CPM o CPC? Questo è il problema!


Scopriamo come allocare al meglio il budget nelle campagne display.

La scelta di come allocare il budget è un elemento di primaria importanza per la riuscita delle
campagne su rete display. L’alternativa, come sappiamo, è spenderlo secondo un modello Costo per
Click (CPC), piuttosto che pagando una certa somma ogni mille visualizzazioni dei nostri annunci
(CPM).
Il modello CPM, pur rappresentando un’eredità delle primissime campagne AdWords, nelle quali si
vendevano, appunto, le impressioni e non i click, è comunque un format inserzionistico ancora molto
usato, soprattutto sui social network e in molte iniziative di outbound marketing.
Col CPM si investe in visibilità e si cerca di garantire ai nostri annunci il maggior numero di
impression possibili. Si può dunque dire che l’inserzionismo su rete Display in CPM è il modello più
indicato a generare brand awareness.
Tuttavia, le soluzioni CPC e CPM si intrecciano a tal punto nei risultati ottenibili da rendere difficile
decidere quale delle due scegliere per l’allocazione del budget.
In teoria, una campagna CPC “mal configurata” potrebbe produrre maggiore visibilità di una in CPM,
e a un costo inferiore. Infatti, a fronte di un enorme numero di visualizzazioni, la campagna CPC
potrebbe ottenere talmente pochi click da renderne il costo complessivo ogni mille visualizzazioni
inferiore rispetto a quello che avremmo pagato per una campagna CPM vera e propria.
La differenza tra le due soluzioni è tuttavia determinata dalla qualità delle visualizzazioni ottenibili.
Non bisogna infatti dimenticare che nel modello CPM tanto più l’inserzionista è disposto a spendere
per le fatidiche 1.000 impression, tanto più potrà garantirsi visibilità in posizioni di pregio su siti e
portali con traffico profilato e di qualità. Per comprendere l’importanza di tutto ciò, basta ricordare
che le impression rappresentano una semplice “apparizione” dell’annuncio nello schermo dell’utente,
ma non garantiscono affatto che egli lo abbia realmente visto, percepito e letto. Il rischio che
l’inserzionista dovrà evitare è quindi quello di far comparire i propri annunci in posizioni poco
strategiche e in siti che fanno poco traffico e generano click col contagocce. Facciamo un esempio.
Supponiamo che due inserzionisti decidano di investire sul CPM in un sito che offre due spazi, uno
nella parte alta della pagina, dove sono concentrati i contenuti più interessanti, e uno in basso, nel
footer, dove le interazioni sono poche perché gli utenti non ci arrivano se non scrollando molto. Se il
primo inserzionista investe 1,00 euro di CPM e l’altro 0,50, è probabile che l’annuncio del primo
appaia in posizione superiore e quello del secondo in quella inferiore. In un dato periodo di tempo,
entrambi otterranno 1.000 impression, ma solo il primo avrà la certezza che i suoi annunci siano stati
anche visti e avrà ottenuto un certo numero di click. È allora evidente come, se non vi si pone
sufficiente attenzione, si possano attivare campagne CPM che alla fine producono un costo per click
persino più alto e meno performante di quello ottenibile con campagne CPC su rete di ricerca.
Ma allora perché un’inserzionista dovrebbe scegliere una campagna display in CPC? Il processo
ideale che ci sentiamo di suggerire è quello di allocare il budget in CPC anche nelle campagne
Display, ma solo dopo aver realizzato una massiccia attività in CPM. In poche parole: prima si
profilano i clienti attraverso il CPM – in modo da scoprire gli argomenti, i posizionamenti e le
parole chiave più redditizie – poi si individua il CPC ottimale, e solo a questo punto si abbandona il
CPM per stabilizzare la campagna sul modello CPC. In questo modo potremo assicurarci ottimi
risultati e un minor costo per click.
CAPITOLO 6
POTENZIATE

6.1 Cicale e formiche


Quali sono le pratiche d’uso dei diversi device e cosa ci si aspetta dal loro utilizzo quando si
fanno ricerche su Google.

Le cicale cantano al sole e si prendono il proprio tempo, le formiche, viceversa, sono molto
pragmatiche e costantemente in frenetica attività. Un po’ allo stesso modo, lo smartphone utilizzato
per fare ricerche su Internet è come una formichina laboriosa, sempre attiva e orientata a darci
risultati immediati.
I tablet, invece, sono come la cicala “…perché ci accompagna nei momenti di relax e svago. Si usa
davanti alla Tv mentre guardiamo un film noioso, lo utilizziamo per leggere ricette mentre cuciniamo,
per leggere il giornale mentre siamo sul divano o a letto. Diviene, di fatto, un’evoluzione compatta di
un sistema desktop, ma più comoda e tattile. Due realtà mobili con comportamenti diametralmente
opposti. Uno è alimentato dalla fretta e dall’operosità mentre l’altro si nutre di dilatazioni temporali
e di svaghi”.

TABLET E DEVICE

Il percorso che porta il vostro autore a paragonare i device ai protagonisti della favola di Esopo
inizia alla fine del 2011 sulle pagine dell’allora blubitsrl.blogspot.it, poi sostituito dall’attuale
blubit.it/blog/.
In quegli articoli si parlava primariamente di come l’uso dei device stesse modificando le abitudini
di ricerca dei fruitori. Nel marzo 2012, grazie al supporto di Viola Gauci, Community Manager
Italiana di AdWords, ho avuto la possibilità di scrivere un articolo per il blog ufficiale di Google,
“Dentro AdWords”, nel quale tale metafora veniva espressa per la prima volta pubblicamente.
L’articolo, che si intitolava “Strutture turistiche: ottimizzazione delle parole chiave in funzione del
device”, è ancora attuale e merita sicuramente di essere letto, anche se, da allora, AdWords si è
evoluto soprattutto grazie alle Campagne Potenziate. Potete trovare l’articolo all’URL:
http://bit.ly/ZUvHap.

Approfondiamo dunque le specificità dei diversi device, per comprenderne le implicazioni sulle
campagne AdWords.

Per quanto riguarda le ricerche su Google, le pratiche d’uso degli smartphone sono quasi sempre
stimolate dalla necessità di ottenere un aiuto immediato e pragmatico nel momento stesso in cui si
palesa il bisogno. Usciamo dalla metropolitana, non sappiamo dove si trovi un negozio e, con
sicurezza, attiviamo il device per generare una ricerca che, quasi sicuramente, sarà in grado di
restituirci l’informazione desiderata. Rispetto a questo tipo di situazione, un significativo passo in
avanti a livello di praticità e immediatezza d’uso è rappresentato dall’integrazione negli smartphone
dei sistemi di riconoscimento vocale text to speech e speech to text, prodromi di una rivoluzione
prossima ventura. Ci riferiamo ai sistemi Android, a Siri o all’innovativo e italianissimo “Dante” di
AnymeVoice per iOs1 che, alla soluzione vocale, abbina anche un’accattivante presenza fisica di tipo
cartoonistico che, “vivendo” nel telefonino, ottimizza notevolmente la user experience. L’idea
sottostante a tali sistemi, particolarmente enfatizzata dalla soluzione Anyme Voice2, è quella di far
comprendere agli utenti che il loro smartphone è sempre disponibile, a portata di voce e, al bisogno,
scatta subito sull’attenti per produrre il risultato cercato nel minor tempo possibile. È questo, in
fondo, ciò che tutti ci aspettiamo di trovare quando utilizziamo il cellulare per navigare in rete,
indipendentemente dal tipo di controllo, touch o vocale, che utilizziamo.
Diverso è il discorso per i tablet e i Pc, che AdWords, non senza una certa forzatura, attualmente
classifica insieme. Le ricerche prodotte attraverso questi ultimi sono generalmente molto meno
frenetiche e meno orientate all’ottenimento di una risposta immediata.
È anche dal riconoscimento di questa differenziazione tra le pratiche d’uso degli utenti sui diversi
device che nascono le campagne potenziate di AdWords, la cui idea di fondo è che, dagli elementi di
contesto di una ricerca (tipo di device, ora del giorno e così via), si possano ricavare informazioni
preziose per restituire le risposte più interessanti alle relative query.
Gli esempi in questo senso possono essere infiniti.
Se ci troviamo a Firenze alle sei del pomeriggio e facciamo una ricerca dallo smartphone usando la
query “hotel”, ci aspettiamo di trovare annunci di hotel a Firenze a cui poter telefonare subito dal
numero di telefono visualizzato direttamente nel testo o di cui poter consultare rapidamente il sito
web. L’intento complessivamente suggerito da questo contesto di ricerca è sostanzialmente:
“desidero prenotare adesso”. E il telefonino, come una delle laboriose formiche della favola, deve
attivarsi per farci raggiungere tale obiettivo nel più breve tempo possibile.
Se invece stiamo cercando un hotel a Firenze attraverso il tablet o il Pc, presumibilmente da casa o
dall’ufficio, le cose si svolgeranno in modo molto diverso. Intanto cambierà la chiave usata, perché
dovremo geolocalizzare la nostra ricerca digitando “hotel firenze”. Inoltre, se stiamo pianificando un
viaggio di lavoro, è probabile che faremo qualche ricerca per trovare il prezzo migliore. Se,
addirittura, stiamo organizzando una vacanza con la famiglia, vorremo anche guardare le immagini
delle stanze, la localizzazione della struttura su Google Maps e così via. In questo modo è molto
probabile che finiremo per effettuare molte ricerche, magari anche in momenti diversi e tornando a
visualizzare più volte uno stesso hotel prima di giungere alla decisione finale.
Queste diverse pratiche di ricerca, dipendenti dalle occasioni e dai device da cui vengono realizzate,
vanno tenute in conto quando, attraverso il pannello impostazioni di AdWords, andiamo a calibrare il
costo per click. Se siamo una struttura turistica, sarà opportuno fare un aggiustamento al rialzo del
CPC massimo per i device mobili, in modo da garantire una posizione più elevata e potenzialmente
redditizia ai nostri annunci. Anche innalzando il CPC massimo del 25%, il relativo maggior esborso
che pagheremo per un click da mobile sarà, quasi certamente, più produttivo rispetto a due click
ottenuti da tablet e stimolati, magari, solo dalla necessità dell’utente di compiere un’analisi
comparativa con un hotel concorrente.

6.2 Quando ciò che conta è l’intenzione


“Geografico” ci mostra quali sono le produttività degli utenti che, pur risiedendo in località
diverse dalla nostra area target, mostrano interesse per i nostri annunci.

Partiamo direttamente dal pannello di controllo in cui selezioneremo la voce:

Dimensioni > Visualizza > Geografico

Attivato il menù si accede alla tendina “Colonne”, ”Personalizza colonne”, dove scegliamo “Tipo di
Località” sotto la metrica “Livello di dettaglio”.
Ricordiamo che, una volta attivate, le colonne dovrebbero mantenere automaticamente il proprio
assetto, ma è sempre consigliabile salvare il tutto, per essere certi di poterle sempre recuperare
agevolmente.

Figura 6.1 – La schermata Personalizza Colonne sotto Dimensioni.

La guida di AdWords spiega:


«Questa colonna indica il tipo di località a cui sono associate le statistiche geografiche. I tipi di
località possibili sono:
Località fisica: località dove si trova fisicamente l’utente.
Località di interesse: località cercata dall’utente o correlata ai contenuti visualizzati
dall’utente.»

Concentriamoci pertanto sull’interesse geografico, ricordando innanzitutto che quest’ultimo viene


rilevato da Google non solo grazie alla presenza del nome della località nella query utilizzata dagli
utenti, ma anche da altre indicazioni, tra cui il dominio nazionale attraverso cui viene effettuata la
ricerca. In questo modo, se un utente che si trova in Germania sta cercando un’azienda utilizzando
Google.it, il sistema registrerà l’Italia come suo intento di ricerca.

Cerchiamo però di comprendere come utilizzare al meglio le opportunità offerte dalla piattaforma,
immaginando di avere un’attività locale ma di voler pubblicizzare i nostri prodotti/servizi anche al di
fuori del nostro territorio fisico di presenza. In questo caso, l’opzione di località avanzata da
utilizzare è quella relativa a:

«Persone che navigano in, cercano o visualizzano pagine inerenti alla mia località target».

In questo modo, i nostri annunci saranno visibili a chi cerca i prodotti/servizi che stiamo proponendo
all’interno della località in cui svolgiamo la nostra attività, ma anche a chi, trovandosi fisicamente al
di fuori di essa, ricerca tali prodotti/servizi nella nostra zona.
Facciamo un esempio concreto che ci aiuterà anche a capire come gestire le chiavi generiche (in
questo caso, prive della destinazione geografica).
Sono un Wedding Planner che ha sede e opera a Napoli e ritengo che i miei annunci debbano essere
destinati primariamente sia a chi risiede in città sia a chi abita in provincia e desidera sposarsi a
Napoli. Considerando tuttavia che esistono persone di ogni parte d’Italia che amano questa splendida
città e potrebbero sceglierla come sede del proprio matrimonio, dovrei garantire la visualizzazione
dei miei annunci anche a chiunque includa il termine “napoli” nella sua query. Così facendo, tuttavia,
è innegabile che rischio di intercettare anche le ricerche, quasi certamente non produttive, di molti
“curiosi”, che esplorano la possibilità di sposarsi a Napoli senza poi farne nulla.
Ma non solo!
Cosa succederebbe, infatti, se limitassi l’area di ricerca solo alle zone limitrofe a Napoli? Di fatto,
qualsiasi persona residente fuori target, che nel momento in cui effettua la ricerca si trova in un’altra
città, non potrebbe trovarmi! In questo contesto, devo necessariamente avere l’accortezza di non
chiudere nessuna porta, anche se questo mi espone al rischio di rendermi visibile anche a molti utenti
che poi alla fine non convertiranno.
Vediamo comunque più nel dettaglio la struttura concettuale della campagna. Se il mio potenziale
cliente si trova a Napoli, dovrebbe potermi trovare cercando:
“wedding planner napoli”;
“wedding planner”.

Questo perché dobbiamo dare per scontato che, se un utente di Napoli svolge una query senza
inserire alcuna località, sia interessato a trovarla nel suo territorio. Se siamo molto accorti,
potremmo voler prevenire eventuali ricerche dei napoletani verso l’esterno, operando attraverso le
funzioni di esclusione di località o sulle chiavi inverse. In questo modo, inserendo negli annunci, per
esempio, “roma” come chiave a corrispondenza inversa, impediremo che possano visualizzarli
coloro che, da Napoli, cercano “wedding planner roma”.
Un utente che, invece, si trova a Milano e che, manifestando come “intento” la volontà di sposarsi a
Napoli, cerca “wedding planner napoli”, dovrà poter visualizzare le mie proposte. Per ottenere
questo risultato si può agire in due modi.
La prima soluzione è quella di attivare due campagne, una dedicata soltanto a chi si trova fisicamente
a Napoli e l’altra destinata a chi, facendo ricerche da zone diverse, esprima l’intenzione di volersi
sposare a Napoli.
La seconda soluzione consiste nell’uso di campagne potenziate.
Il suggerimento, in questo caso, è quello di integrarle generando comunque due campagne ma
lavorando in ogni caso sul potenziamento.
Vediamo come, a partire dal perché di tale soluzione.
Il problema risiede negli annunci che dovranno necessariamente essere differenziati tra i due target.
Quelli rivolti alle persone esterne al territorio napoletano dovrebbero, per esempio, rassicurare sul
fatto che ci occupiamo di organizzare matrimoni proprio a Napoli, contenendo un testo del tipo:
“Vuoi sposarti a Napoli?” Tale domanda risulterebbe evidentemente meno importante, se non
addirittura fuori luogo, per gli utenti che si trovano in città. Realizzando due campagne diverse, che
pur usano le stesse chiavi di ricerca, avremo la possibilità di operare con annunci diversi e
perfettamente declinati sui due target elettivi.
Rispetto alla campagna, potenziata, abbiamo due necessità:
scoprire quali località producono meglio;
scoprire quali località produrrebbero meglio se avessero posizioni migliori.

Rispetto al primo punto c’è poco da fare: è del tutto lecito aspettarsi che dalle varie parti d’Italia
giungano molte ricerche inconcludenti. Un utente vive a Torino e, in un primo momento, accarezza
l’idea di sposarsi a Napoli, magari perché è la sua città di origine, e fa un po’ di ricerche in tal senso.
Poi si accorge che tale soluzione è troppo complessa e onerosa e cambia idea. Da parte nostra, ciò
che possiamo e dobbiamo fare è escludere dalla campagna le località che portano meno conversioni.
Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, l’uso della “potenziata” potrà aiutarci nella gestione
delle località che scopriamo essere meno performanti perché, magari, risultano troppo “soffocate”.
Quelle località cioè che, pur sopportando posizioni medie relativamente basse, portano comunque
conversioni. L’intervento dovrà essere finalizzato a un aumento dell’offerta in termini di budget
allocato e di CPC massimo. È importante ricordare che, se nella campagna ho previsto una
macroarea che comprende al suo interno le località da potenziare, per aggiustarne il budget dovrò
fisicamente aggiungere tali località usando l’opzione “Modifica Località”. In pratica, se ho
selezionato il target Italia (che include quindi Caserta) e noto che Caserta produce conversioni, pur
facendo registrare un basso posizionamento medio degli annunci, la aggiungerò all’elenco per poter
destinare a quel territorio un budget maggiorato rispetto alle altre zone della macroarea Italia.

6.3 Rimbalzi diversi


Scopriamo come analizzare il rendimento di pagine e landing page nella quali non si compiono
altre azioni oltre una loro rapida lettura.

Come abbiamo visto in precedenza, pagine e landing page possono essere più o meno chiuse e
aggressive in relazione agli obiettivi di marketing e al tipo di prodotto/servizio proposto.
Quando si lavora con pagine chiuse che, oltre all’acquisto immediato o alla compilazione di form per
generare lead, non consentono all’utente altre azioni, si registra inevitabilmente un’alta frequenza di
rimbalzo, il cui valore viene di solito espresso come:

Accessi - Conversioni = Bounce

In realtà, le cose sono più complesse.


Anche se ne è uscito senza aver compiuto alcuna azione, la pagina visionata potrebbe avere
comunque catturato l’attenzione del visitatore, che però non si è sentito pronto a convertire. È
necessario, pertanto, trovare il modo di distinguere tra i diversi tipi di rimbalzi, per poter
opportunamente ricalibrare la campagna AdWords.
Per farlo, dobbiamo approfondire l’analisi del comportamento effettivo degli utenti sulla nostra
pagina di destinazione.
Sappiamo che tale pagina contiene dei contenuti che necessitano di un certo tempo per essere letti o
fruiti. Immaginiamo, per esempio, che la landing page aggressiva che abbiamo realizzato contenga un
filmato di 90 secondi. Se un utente lo visualizza, rimanendo su di essa per 100 secondi, ma poi esce
senza convertire, dai sistemi standard di web analytics viene considerato “un rimbalzo”, e quindi un
cliente di nessun valore. In realtà, l’utente ha mostrato un elevato interesse verso la nostra proposta e
noi dobbiamo mostrarne altrettanto nei suoi confronti.
A questo scopo, è necessario innanzitutto intervenire su Google Analytics, modificandone il codice,
per inserire nelle analisi un “evento temporale” o “adjusted bounce rate”. In sostanza si inserisce una
stringa che avverte Analytics di creare un nuovo elemento di analisi (evento), se la visita dell’utente
dura almeno il tempo che riteniamo necessario per la fruizione dei contenuti della pagina. Nel nostro
caso, diciamo, almeno 100 secondi.

Questa la stringa esemplificativa con la durata dell’evento espressa in millisecondi:


<script type="text/javascript">

var _gaq = _gaq || [];


_gaq.push(['_setAccount', 'UA-XXXXXXX-XX']);
_gaq.push(['_trackPageview']);
setTimeout("_gaq.push(['_trackEvent', '100_secondi', 'interes-se])",100000);

[ … ]

La generazione di questo evento, ci consente adesso di lavorare sul pannello di controllo AdWords,
in modo mirato sugli utenti che hanno sostato nella pagina per il tempo da noi stabilito.
Vediamo come fare.
Dando per scontato che abbiamo già collegato Analytics con AdWords, entriamo nel menù:

Parole chiave > Colonne > Personalizza colonne

Se tutto è stato fatto correttamente, troveremo la voce “Google Analytics”, dalla quale dovremo
aggiungere “Frequenza di Rimbalzo”. Salviamo il tutto e nella tabella pivot apparirà la voce che
esprime la frequenza di rimbalzo da noi indicata per le singole parole chiave. Infatti ricordiamo che
il rimbalzo viene espresso, purtroppo, a livello di chiave e non di query e che, se abbiamo chiavi a
corrispondenza generica, non sapremo con esattezza che rimbalzo producono se non guardandolo
direttamente da Analytics. Il problema è che la nostra operazione avviene in AdWords. Dobbiamo
quindi ipotizzare di aver già lavorato con le parole chiave, escludendo (inverse) quelle che non
rendono.
Ma torniamo a noi, selezionando la voce “Automatizza”.
Abbiamo qui a disposizione un vasto bouquet di opzioni per mettere in produzione le nostre chiavi,
quando queste corrisponderanno a una determinata azione.
L’utente che non converte subito ma esprime interesse restando sulla pagina per il tempo stabilito,
genera un evento che non viene più interpretato come un rimbalzo ma, piuttosto, come una
dimostrazione di interesse verso la nostra proposta. Possiamo infatti ipotizzare che l’utente sia uscito
dalla nostra pagina per fare altre ricerche su siti concorrenti e che, quindi, possa ritornare se si
convincerà della qualità della nostra offerta. Per aiutarlo a tenerci presente nei suoi processi
decisionali, dovremo allora continuare a presidiare i risultati di ricerca, garantendo ai nostri annunci
la posizione più alta possibile. A questo scopo, potremo mettere in atto un’azione aggressivamente
mirata verso tali utenti, attivando l’opzione:

“Aumenta offerte CPC parte superiore della pagina quando...”

e inserendo come parametro di attivazione un rimbalzo inferiore al 50%.

Figura 6.2 – Automatizza: come configurare l’aumento dell’offerta.

Nell’esempio, stiamo sostanzialmente dicendo al sistema che siamo disposti a offrire fino a un
massimo di 1,50 euro per quelle parole che hanno un rimbalzo inferiore al 50%.

Ancora una volta, il concetto è molto semplice: dopo aver stabilito che non tutti i rimbalzi sono
uguali, bisogna studiare il comportamento degli utenti per imparare a distinguerli e, dato che sul Web
tutto si gioca sull’attenzione, è sul tempo di attenzione che dovremo lavorare. Stabilita la soglia
temporale di permanenza sulla nostra pagina che riteniamo possa indicare un reale interesse da parte
dell’utente, agiamo sul pannello di controllo e sulla campagna per intercettarlo efficacemente.

6.4 Non tutte le azioni sono uguali


Come prendere il controllo della pagina attraverso la generazione di eventi su Google Analytics.

Nel paragrafo precedente, abbiamo visto come distinguere tra le diverse forme di rimbalzo con la
generazione di eventi temporali. L’evento temporale ci consente di capire quanto un utente è
interessato ai nostri contenuti, sulla base della generica associazione: tempo di permanenza sulla
pagina = tempo di fruizione dei contenuti. Per comprendere l’effettiva produttività di una pagina, tale
indicatore è, tuttavia, troppo debole e generico. Molto più efficace è invece rilevare analiticamente
ciò che influenza positivamente o negativamente la user experience e quali elementi vengano
effettivamente “consumati” dai diversi utenti.
Rilevando quante e quali azioni sono compiute nella pagina – definibili “eventi” – potremo meglio
capire quanto questa sia realmente piaciuta e avere tutte le indicazioni necessarie a ottimizzarla
progressivamente.
Facciamo l’esempio di un’agenzia immobiliare, che per ogni appartamento messo in vendita abbia
predisposto una pagina online contenente immagini zoomabili degli interni e la planimetria in formato
PDF. Generando “eventi” associati ai click sulle diverse foto, capiremo il grado di interesse
complessivamente generato da ciascun appartamento, ma anche quali immagini vengono preferite:
interni o arredi, finiture, bagno, terrazzo. Questo ci consentirà di migliorare in corso d’opera
l’appetibilità delle schede. Potremo inoltre definire come evento anche il click sul PDF della
planimetria. Se oltre ad aver visualizzato gli ingrandimenti delle foto, un utente scaricherà anche il
PDF, vorrà dire che potrebbe essere davvero molto interessato all’acquisto. L’insieme dei
comportamenti generati da tutti gli utenti ci fornirà, infine, informazioni preziose sull’effettivo grado
di appeal delle varie proposte che stiamo promuovendo in rete.
Facciamo quindi un po’ di ripasso sulla generazione di eventi su Google Analytics, diversi da quelli
temporali esaminati nel precedente articolo. Volendo attivare un evento in grado di monitorare
l’attivazione del link relativo all’apertura del PDF, questa sarà la stringa di comando:
<a href="/pdf/nomefile.pdf" title="Piantina Immobili ABC" target="_blank"
onClick="_gaq.push(['_trackEvent', 'PDF', 'Download', 'ABC']);">Scarica la
planimetria</a>

Analizzando la sintassi, abbiamo i valori: “PDF”, “Download” e “ABC”. Il primo è la categoria


dell’evento, il secondo l’azione monitorata e il terzo l’etichetta che, nel nostro caso, identificherà il
nome dell’immobile.
Per completezza, dobbiamo dire che potremmo inserire anche altri parametri come, per esempio, il
“Valore” dell’evento, se questo si traduce in un effettivo riscontro economico, o il “Non-interaction”
che, se configurato su “True”, non influenza il calcolo della frequenza di rimbalzo. Ciò significa che
se dentro la nostra landing page aggressiva c’è un filmato da visualizzare, nel caso l’utente lo
visualizzi non sarà considerato un rimbalzo anche se non giungerà alla conversione. Una volta
configurati correttamente, tutti gli eventi attivati potranno essere analizzati dal pannello Contenuti,
Eventi in Google Analytics.
6.5 Giorni, mesi, anni
Utilizzare al meglio le dimensioni temporali.

Quando affermo che AdWords non è (solo) uno strumento di keyword advertising, penso ai report che
vengono messi a disposizione per l’analisi di rendimento nel tempo. Il motivo è abbastanza semplice
ed è legato al fatto che tali report spostano l’attenzione dalla query usata dall’utente al significato
della stessa espresso nell’intento. Anche le campagne potenziate, estremamente utili ed efficaci,
nascono proprio da qui, cioè dalla possibilità che offrono non tanto di rilevare cosa le persone hanno
cercato ma, piuttosto, di comprendere perché lo hanno cercato e, di conseguenza, cosa si aspettano di
trovare negli annunci.
Facciamo un esempio semplice che ci possa aiutare a capire il concetto di “intento”. Se scrivo
“pesca”, a cosa pensate? Quelli di voi che, magari, stanno leggendo il libro seduti sul divano
degustando uno yogurt, penseranno immediatamente al frutto, mentre altri che leggono – buon per
loro! – sdraiati su una spiaggia, penseranno altrettanto immediatamente allo sport (Guido Di Fraia
penserebbe alla pesca anche seduto comodamente sul divano mentre mangia una pesca, ma lui è un
caso a parte e non fa statistica!).
Se, però, davanti alla parola “pesca”, scrivo “succo”, tutti visualizzeranno l’immagine mentale del
frutto e del relativo succo. E ancora, se qualcuno sta pensando “succo alla pesca” quando è dentro a
un supermercato, è sicuramente perché lo vuole comprare, mentre se lo pensa da casa è perché lo
vuole bere.
In altri termini, le “occasioni” – costituite dai tempi, i luoghi e i mezzi – attraverso cui gli utenti
svolgono le proprie ricerche, condizionano profondamente le reali “intenzioni” degli stessi.
Proprio per consentire agli investitori di intercettare al meglio tali intenzioni, le campagne potenziate
ci mettono a disposizione (per adesso) un ventaglio di tre dimensioni relative al “come”, al “dove” e
al “quando” una certa ricerca viene eseguita:
il “come” è lo strumento da cui è effettuata: tablet e desktop o smartphone;
il “dove” è la città o nazione o comunque la posizione geografica nella quale si trova l’utente
che sta compiendo la ricerca;
il “quando” è il giorno e l’ora nella quale avviene la ricerca.

In questa sezione parleremo del “quando”. Come indicato nel titolo, uno dei report che viene spesso
dimenticato, è proprio l’analisi delle dimensioni temporali all’interno delle quali gli utenti svolgono
le proprie ricerche.
Per accedere al relativo report si deve far riferimento alla voce Dimensioni, che si trova nella tab
principale di AdWords e si attiva attraverso il pulsante Visualizza. Dal menù a tendina è possibile
selezionare la dimensione che si desidera analizzare. Quella relativa al tempo contiene al suo interno
sette ulteriori voci:
Giorno della Settimana.
Giorno.
Settimana.
Mese.
Trimestre.
Anno.
Ora del Giorno.

Nella logica delle “potenziate”, l’intento si recupera dalle variabili “giorno” e “ora”, e quindi, per
analizzare il motivo della richiesta, dovremo fare riferimento alla prima voce dell’elenco (Giorno
della Settimana) e all’ultima (Ora del Giorno). Le altre voci servono per fare analisi di tipo
“storico”. Attingendo ai report che consentono di generare, possiamo studiare il rendimento delle
nostre campagne, segmentandole sulla base dell’orizzonte temporale considerato.
Vediamo brevemente queste 5 voci.

Giorno
Indica un giorno del calendario, espresso con numero, mese e anno, come: ”12 aprile 2013”.
Può risultare utile per prendere in esame determinati periodi ciclici nel corso di diversi anni. Potrei
voler vedere l’andamento delle mie campagne nei periodi prefestivi precedenti alla Pasqua. O tutti i
25 dicembre degli ultimi quattro anni.
Per creare un report di questo tipo, pur avendo a disposizione la tabella pivot di AdWords, converrà
scaricare i dati e rielaborarli con un programma di gestione tabellare, come per esempio Excel o
Numbers, in modo da poter contare su una maggiore facilità di lettura e manipolazione dei dati.

Settimana
Fornisce il rendimento di una settimana completa (lunedì / domenica).
Indica come riferimenti visivi il giorno di inizio espresso nella forma “numero, mese, anno”, come
nel caso: “settimana del lunedì 8 aprile 2013”.

Mese
Consente di visualizzare velocemente il rendimento positivo o negativo della campagna su base
mensile.
Secondo molti sistemi economici che basano il ciclo di fatturazione sulla mensilità, è utile analizzare
il rendimento del mese espresso in fatturato, paragonandolo con i dati di click, impression e CTR
ricavabili da questa analisi. Senza dimenticare, naturalmente, il numero di conversioni e il relativo
costo.

Trimestre
È espresso con la sigla “TN+ANNO”.
Secondo tale grammatica, il primo trimestre del 2013 (gennaio - marzo) è esprimibile con la sigla
“T1 2013”. Osservare gli andamenti su base trimestrale può essere sicuramente utile per tenere sotto
controllo il rendimento della campagna, sia effettuando analisi dei singoli trimestri sia confrontando
gli stessi tra loro.
Anno
Uno dei valori più importanti da analizzare sul rendimento annuo è certamente il CTR.
Non che gli altri valori siano da sottovalutare, ma se lo scopo di una campagna è raggiungere col
tempo un nucleo di chiavi precise e produttive, è importante verificare che il CTR sia sempre in
crescita. Se il CTR su base annua cala, è probabile che siano arrivati nuovi competitor o che stiano
cambiando le abitudini di ricerca dei clienti.

Veniamo ora alle due voci di intento: Giorno della Settimana e Ora del Giorno.

Giorno della Settimana e ora del Giorno


Con giorno si intende dal lunedì alla domenica, a prescindere dalla data.
Cioè i “lunedì”, i “martedì” e così via. Le ore sono indicate con la notazione europea 0-24. L’analisi
oraria si dimostra fondamentale per comprendere come si articola quotidianamente il consumo del
nostro budget e, soprattutto, quando questo si esaurisce.
Rispetto alla variabile Giorno della settimana, bisogna ricordare che le conversioni in AdWords non
avvengono per forza direttamente alla prima visita ma, come approfondiamo in altri paragrafi di
questo stesso volume, possono richiedere diversi giorni prima di realizzarsi. Per questo, sarà
particolarmente importante studiare in modo approfondito il processo temporale che porta o non
porta gli utenti a convertire, per cercare di comprendere se all’interno di questo processo ci sono
degli aspetti che possono essere migliorati.
Il valore da analizzare con maggiore attenzione per comprendere quanto stia realmente funzionando il
nostro annuncio è, anche in questo caso, il CTR. Non, quindi, il numero di conversioni ma il
gradimento concesso attraverso i click al nostro annuncio rispetto a quello dei competitor. In questo
contesto è quindi assolutamente opportuno analizzare tutti i valori numerici, ponendo maggior
attenzione sempre e comunque al CTR. Il CTR, in questo contesto, ci dice se effettivamente quella
parolina magica per la quale stiamo concorrendo è stata evocata esattamente con l’intento per il
quale l’abbiamo inserita.

6.6 Ogni cosa è ottimizzabile


Le campagne potenziate ci offrono la possibilità di fare offerte automatizzate integrate alla
gestione manuale.

Le campagne potenziate sono state accolte con qualche perplessità soprattutto per il problema
dell’abbinamento dei tablet ai desktop, differenziati dagli smartphone. Tale segmentazione appare,
infatti, piuttosto arbitraria, soprattutto in relazione al fatto che ciò che realmente conta è l’intenzione
dell’utente e non tanto, o non solo, il device da cui compie la ricerca. Da questo punto di vista, il
fatto che una certa query sia stata effettuata da desktop o tablet, suggerisce “intenzioni” piuttosto
diverse.
Detto questo, le “Strategie di offerta” rese possibili dalle campagne potenziate consentono di agire
flessibilmente sulla scelta del bidding, permettendo di automatizzare determinate parole chiave per
ottenere uno scopo preciso, anche in associazione a un controllo manuale. L’opportunità è quanto mai
interessante perché permette di fissare l’offerta del CPC massimo come avviene per le variabili
“device”, “località” e “orario”, ma con lo scopo di ottenere uno specifico risultato tattico ben
definito.

Nel momento in cui scriviamo, le dimensioni su cui è possibile intervenire, sono quattro.
Target per posizione tra i risultati di ricerca sponsorizzati.
CPC ottimizzato.
CPA ottimizzato.
Ottimizzazione dei clic.

Vediamole una a una.

Target per posizione nella pagina dei risultati di ricerca


Sulla base delle impostazioni specificate, il sistema mostra l’annuncio in uno dei posizionamenti
premium (1-3) o in un altro dei risultati possibili in prima pagina. Questo tipo di impostazione è
applicabile anche alle chiavi singole.
È importante sapere che, come impostazione avanzata, il sistema può precludere l’asta al rialzo per
quelle parole chiave che hanno punteggi di qualità bassi o se siamo in presenza di una carenza di
budget.
Impostando la strategia e selezionando il valore da menù “parole chiave”, sarà possibile poi
rintracciarla – e questo vale, naturalmente, anche per tutte le altre strategie – attivando la colonna
attributi.

CPC ottimizzato
In questo modo è possibile attribuire un’offerta di CPC massimo, non a tutte ma solo a specifiche
parole. Questo è molto utile perché possiamo usare l’ottimizzazione solamente per quelle che
producono o non producono. In questo modo, possiamo, per esempio, pianificare di spendere di più
per le keyword che convertono e destinare invece un minor budget, in termini di CPC, alle parole che
ci servono solo come presidio e che non producono risultati apprezzabili in termini di conversioni.

CPA ottimizzato
Vale quanto appena detto in relazione al CPC ottimizzato, declinato, in questo caso, sul CPA (Costo
Per Acquisizione).

Ottimizzazione dei click


Scopo dell’ottimizzazione dei click è quello di generare, appunto, un maggior numero di click a
partire dallo stesso CPC massimo impostato dall’inserzionista. Per ottenere questo risultato, il
sistema può abbassare il posizionamento medio degli annunci oppure mantenerlo stabile, mostrandoli
solo nei momenti in cui le aste risultano scarsamente presidiate.
Una raccomandazione in calce a quanto detto. Nel gioco offertoci dalle potenziate per strategie di
offerta – e quindi di aumento/riduzione del CPC – bisogna avere l’accortezza, prima di prendere le
nostre decisioni, di ponderare attentamente tutte le variabili che interagiscono sul sistema e i settaggi
che abbiamo già impostato.
Una parola il cui CPC sia stato ottimizzato per ottenere la parte alta della pagina potrebbe risultare
anche tra quelle che subiscono aumenti per località, orario e/o device.
In pratica, tutte le ottimizzazioni si sommano, e il rischio in cui si incorre è quello di far crescere
troppo il CPC. È vero che dobbiamo aumentare le conversioni ma cerchiamo anche di capire a che
prezzo!

1. Disponibile su AppStore: http://bit.ly/ZNKxnf.


2. www.anymevoice.com.
CAPITOLO 7
ESTENSIONI DI LOCALITÀ

7.1 Le estensioni di località


Adatte per aziende che offrono i propri prodotti o servizi attraverso una presenza fisica sul
territorio, le “estensioni di località” gestibili dalla piattaforma AdWords garantiscono che sotto
all’annuncio compaia l’indirizzo dell’attività sponsorizzata, e consentono all’utente che ha
effettuato la ricerca da smartphone di visualizzare il percorso per raggiungere la destinazione.

Un primo side benefit per l’inserzionista, valido per qualsiasi tipo di estensione, è che aggiungendovi
una riga, essa conferisce agli annunci una maggiore densità percettiva, rendendoli più aggressivi e
aumentando, in questo modo, la probabilità che vengano cliccati, con tutto ciò che di positivo questo
significa per una campagna. Ma torniamo alla nostra estensione di località. Declinando ancora una
volta l’approccio strategico più volte ricordato nel corso del volume, anche l’uso di questo genere di
estensioni deve essere effettuato in relazione alle altre eventuali variabili che possono influenzare le
performance della campagna, come la fascia oraria e il tipo di device da cui viene fatta la ricerca.
Per fare un esempio, all’interno della zona selezionata per la visualizzazione dell’annuncio (da
pianificare in base al tipo di prodotto/servizio offerto), sarà meglio avere un’offerta inserzionistica
alta e mirata agli utenti che utilizzano il mobile durante gli orari di apertura dell’attività promossa,
piuttosto che in tarda serata, a negozio chiuso e da una connessione con computer.
Possiamo gestire le estensioni di località direttamente da menù “Impostazioni”, intervenendo su due
possibili opzioni a seconda che si possegga o no un account Google Places.
Utilizza indirizzi da un account Google Places.
Utilizza indirizzi inseriti manualmente.

Per le aziende che hanno diversi punti di presenza sul territorio, è molto utile l’opportunità offerta
dal sistema di attivare l’estensione per più località. In questo modo, infatti, è possibile offrire agli
utenti informazioni specifiche sugli indirizzi delle varie sedi, differenziando i dati in base al luogo
fisico da cui si svolge la ricerca.
Un ulteriore elemento interessante è che l’estensione di località generata può essere abbinata a uno
specifico annuncio. Richiamando il relativo menù, il sistema mostra anche una tendina che consente
di determinare la visibilità dell’annuncio entro 150 chilometri dall’indirizzo promosso. Il settaggio
della distanza va naturalmente effettuato in relazione al tipo di servizio offerto. Se, come nel caso che
stiamo trattando, parliamo di un hotel, forse sarà meglio utilizzare un raggio piuttosto contenuto, al
massimo di 40 chilometri.
Figura 7.1 – Selezione di una sede aziendale come estensione di località in AdWords.

Possiamo anche rafforzare le logiche di presidio, selezionando come dispositivo di destinazione


“cellulare”. In questo modo, l’annuncio verrà mostrato preferibilmente agli utenti che hanno effettuato
la ricerca attraverso uno smartphone. Dopo averlo scritto, l’annuncio verrà visualizzato
nell’interfaccia di simulazione. A causa delle ridotte dimensioni del display, converrà comporre una
prima riga di descrizione molto breve. Se abbiamo l’accortezza di farla terminare con il punto “.”,
quest’ultima verrà visualizzata di seguito al titolo, in modo da generare un’unica riga iniziale molto
visibile.

Figura 7.2 – Il simulatore della visualizzazione dell’annuncio AdWords sul display di uno
smartphone.

Attraverso il riepilogo sarà poi possibile controllare che ciascun annuncio sia stato correttamente
assegnato al device stabilito (mobile o desktop), e che gli sia stata abbinata la relativa estensione di
località.
Ricordatevi infine che, come viene illustrato ampiamente nel corso del libro, per controllare il
funzionamento dell’annuncio, dovrete usare esclusivamente lo strumento Anteprima annunci e
diagnosi. In questo modo non influenzerete il CTR e avrete inoltre la possibilità di simulare la
ricerca da diverse località e differenti device.

7.2 Non tutti i terreni producono allo stesso modo


Scopriamo come funziona la campagna nelle diverse località target.

Quando si scelgono le località di attivazione delle campagne, si dà spesso poca importanza alle
opzioni di località avanzate ma, in realtà, gran parte del successo delle iniziative inserzionistiche
geolocalizzate o geotargetizzate, passa proprio da una corretta analisi della posizione geografica e
del flusso che questa porta al nostro sito.
A questo proposito, è innanzitutto necessario distinguere tra “località dell’utente” e “intento
geografico”.
Il primo elemento si riferisce al luogo geografico da cui viene fisicamente effettuata una ricerca. Con
il termine intento si definisce, invece, l’interesse esplicitato dagli utenti – soprattutto attraverso la
query utilizzata – rispetto a una determinata area geografica, indipendentemente dal luogo in cui essi
si trovano e da cui stanno effettuando la ricerca. Se mi trovo a Milano e sto cercando un agriturismo
in Puglia, manifesterò il mio intento inserendo “puglia” nella mia stringa di ricerca.
Nella prospettiva degli inserzionisti, definire nei parametri AdWords una certa località target,
significa presidiarla fisicamente. Definire l’intento significa, invece, calamitare interesse rispetto ai
nostri annunci relativi all’area in oggetto.
Sono un hotel di Milano? Se limito la mia visibilità a persone che si trovano fisicamente nella mia
località target, sto dicendo ad AdWords che il mio annuncio dovrà comparire a chi cerca “hotel
milano” e si trova nella stessa città. Il che, evidentemente, avrebbe poco senso. Cerchiamo allora di
capire meglio come orientarci tra le varie opzioni offerte dalla piattaforma AdWords.
Sempre citando la guida di AdWords, possiamo distinguere tra:

«Persone che navigano in, cercano o visualizzano pagine inerenti alla mia località target
Il tuo annuncio potrebbe essere mostrato a chiunque potrebbe trovarsi fisicamente nella tua
località target, in aggiunta a chiunque cerca o visualizza pagine web sulla rete display di Google
relative alla tua località target, a prescindere dalla sua posizione. Le persone possono manifestare
interesse per le località tramite i termini utilizzati nelle ricerche, i contenuti che visualizzano
online o altri metodi.

Persone nella mia località target


Il tuo annuncio potrebbe essere mostrato a chiunque potrebbe trovarsi fisicamente nella tua
località target, anche se manifesta interesse per altre località.

Persone che cercano o visualizzano pagine inerenti alla mia località target
Il tuo annuncio potrebbe essere mostrato a chiunque manifesti interesse per la località target,
indipendentemente da dove si trova fisicamente. Le persone possono manifestare interesse per le
località tramite i termini utilizzati nelle ricerche, i contenuti che visualizzano online o altri
metodi».

La questione è meno semplice di quanto non appaia e, perciò, la approfondiremo in due diversi
paragrafi. In questo ci occuperemo delle logiche connesse alla gestione della “località target” e
quindi delle localizzazioni fisiche delle campagne sul territorio. La scelta di un’area geografica
specifica è in effetti una “limitazione” da impostare in relazione al modello di business in cui siamo
impegnati. Scegliendo un target di riferimento geografico, di fatto, limito l’area di azione della
campagna e, stabilendo a chi è rivolto il mio annuncio, ne impedisco la visualizzazione a tutti coloro
che sono esterni al perimetro territoriale definito.
Facciamo un esempio: un panificio di quartiere che desidera promuovere il suo pane fresco di
giornata e circoscrive la campagna alla propria città. Vantaggi? Il nostro panificio potrà usare anche
chiavi generiche senza rischiare di essere visualizzato ovunque nel mondo e di perdere aste a cui, in
realtà, non è interessato. Avendo infatti definito la località target, le query “panificio” che attiveranno
i suoi annunci saranno inequivocabilmente riferite alla sua città ed egli potrà quindi utilizzare
proficuamente tanto la chiave “panificio nomeluogo”, quanto semplicemente la chiave “panificio”. In
questo caso, le uniche difficoltà a cui la sua campagna può andare incontro, sono quelle generate da
utenti che dall’interno della città cercano un panificio in una località esterna. In questo caso basta
comunque intervenire sulla località da escludere con l’opzione “Persone che navigano in, cercano o
visualizzano pagine inerenti alla mia località esclusa”, oppure inserendo le località verso cui può
essere indirizzato il traffico non pertinente alla campagna come chiavi inverse. Lavorando in modo
un po’ certosino, si riesce comunque a concentrare il fuoco della campagna sulla posizione di reale
interesse.
Come si vede, tutto appare piuttosto semplice da comprendere e attuare quando si opera su un raggio
ridotto. Ma cosa succede se, come target territoriale, ho un’area di diversi milioni di abitanti? Se,
per esempio, invece di essere un panificio di quartiere, sono un artigiano del pane che decide di
vendere attraverso attività di e-commerce? In questo caso, la mia destinazione sarebbe teoricamente
tutta la penisola ma, per garantire la freschezza del prodotto, potrei decidere di non spedire nelle
isole. Per farlo, definirò “Italia” come target fisico della campagna, escludendo da essa le province
della Sardegna e della Sicilia.
Dopo qualche tempo di funzionamento della campagna, mi accorgo di vendere troppo poco rispetto ai
click ottenuti.
Per comprenderne il motivo, bisogna analizzare la scheda:

Dimensioni > visualizza > località dell’utente

Attingendo al pulsante “colonne”, potremo richiamare molti dati, tra cui quelli relativi alla
localizzazione, espandibili sino a un livello di dettaglio piuttosto elevato, che comprende anche le
voci “area metropolitana” (dove disponibile) e “località più specifica” (la massima “risoluzione”
raggiungibile). Google Analytics potrebbe essere ancora più preciso, ma dobbiamo ricordare che
Analytics controlla solo gli accessi mentre AdWords ci parla anche di impression, posizioni e click,
e sono proprio questi dati quelli che qui maggiormente ci interessano. Grazie a questo report,
scopriamo che in ogni località i nostri annunci ottengono una posizione media diversa, un CTR
diverso e un diverso tasso di conversione.
In questo caso, i parametri più significativi per noi sono la posizione media e il CTR, che meglio
possono aiutarci a individuare le aree di localizzazione in cui si registra una maggiore congestione
inserzionistica. Una posizione medio scarsa, sopratutto se accompagnata da un elevato numero di
impression, potrebbe indicare la presenza di un mercato saturo. L’analisi da compiere, più che al
numero di conversioni (ipotizziamo che in questo caso siano vendite), dovrà essere finalizzata a
mappare in quali aree geografiche la campagna ottiene performance di visibilità e costo migliori.
Questo è importante poiché le conversioni, lo ricordiamo, non incidono direttamente sul punteggio di
qualità. La conversione non è altro che una “suggestione produttiva” che definiamo
convenzionalmente e con tutta l’arbitrarietà del caso. Se definissimo “conversione” l’accesso a una
pagina del sito particolarmente trafficata, otterremmo subito un tasso di conversione molto elevato.
Definiti dunque i parametri di analisi (impression, posizione media e CTR che sarà importante
analizzare anche a livello di gruppo annunci), possiamo infine intervenire a livello di ottimizzazione
per rimuovere dalla campagna le località che non producono a sufficienza. Oppure, se questo ci viene
suggerito dalla nostra più generale strategia di marketing e/o di posizionamento sul territorio,
possiamo potenziare lo sforzo sulle aree in cui siamo più deboli e, agendo sul menù “impostazione di
località” delle campagne potenziate, aumentarne il budget per garantire ai nostri annunci una
posizione più alta.

7.3 Lost in the terminal


Rendere disponibili determinate soluzioni a potenziali clienti che transitano in un aeroporto,
consente di creare suggestive opportunità al servizio di chi viaggia. Ma non solo.

L’oggetto di questo articolo richiama alla mente due film: The Terminal e Tra le Nuvole. In entrambi
i film, infatti, la vita dei protagonisti si consuma all’interno di un aeroporto. Viktor Navorski (Tom
Hanks) è costretto a viverci a causa dagli eventi tumultuosi e drammatici che ne violentano la vita;
mentre Ryan Bingham (George Clooney), cinico tagliatore di teste, vi passa la vita spedito dalla
propria agenzia a licenziare dipendenti in giro per tutta l’America. Ciò che accomuna i due
protagonisti è il loro trascorrere una parte significativa della propria vita all’interno del “non luogo”
aeroporto. Un micromondo artificiale all’interno del quale, quotidianamente, transitano e stazionano
milioni di persone di tutto il mondo.
Google AdWords ha inserito gli aeroporti tra i possibili criteri di localizzazione delle campagne,
definendo tali spazi a “Copertura limitata”.

Menù Impostazioni > Località > Quali località desideri includere o escludere dal target della tua
campagna? > Fammi scegliere...
Figura 7.3 – Scegliamo una località di AdWords che comprende un aeroporto.

Leggendo direttamente dalla guida di AdWords:

«Una località con copertura limitata potrebbe avere un numero limitato di persone che possono
visualizzare i tuoi annunci».
È vero. Tuttavia, se il ragionamento sul loro numero limitato si applica perfettamente a un centro
abitato in cui risiedono alcune migliaia di persone, sempre le stesse, nel caso di un aeroporto, gli
individui che vi “abitano” sono costantemente diversi. Per questo, il traffico di persone che
transitano in un aeroporto, anche in un solo giorno, è complessivamente paragonabile a quello di una
città più o meno grande. Immaginiamoci dunque l’esposizione che potremmo generare sottoponendovi
i nostri annunci per una settimana, un mese o un anno!
Figura 7.4 – L’aeroporto internazionale di San Francisco, visualizzato sulla mappa di AdWords.

Soprattutto considerando – ed è l’elemento più importante di una possibile campagna – il motivo per
il quale quelle persone si trovano lì. Se stanno partendo è probabile che siano poco interessate a
un’offerta commerciale, ma se sono arrivate o stanno facendo uno scalo di qualche ora, possono
rappresentare un ottimo terreno di caccia per l’inserzionista AdWords. Inserzionista che, per
generare le proprie proposte, potrà contare anche sull’aggiustamento dell’offerta per device mobile e
orario.
Immaginiamo, dunque, un utente potenziale idealtipico: è arrivato da lontano, ha un’attesa di tre ore,
ha uno smartphone e desidera (o non desidera) mangiare in aeroporto:
Target naturale > l’aeroporto.
Adeguamento dell’offerta orario.
Adeguamento dell’offerta smartphone.

Selezionando poi le opzioni:

Opzioni di località avanzate > Target > Persone nella mia località target

Cioè: «Il tuo annuncio potrebbe essere mostrato a chiunque potrebbe trovarsi fisicamente nella
tua località target, anche se manifesta interesse per altre località».

Gli scenari aperti da questa nuova opportunità offerta da Google sono decisamente interessanti ed è
probabile che, in futuro, verranno ulteriormente estesi, per includere stazioni marittime o ferroviarie.
Il concetto di fondo che deve orientare il comportamento dell’inserzionista è quello di offrire, con le
proprie proposte, un servizio reale tanto al viaggiatore di passaggio quanto a chi, conducendo un
particolare tipo di vita, si trova spesso a trascorrere anche molto tempo in questi grandi snodi del
trasporto.
Per contro, chi non ha attività nei pressi o dentro un aeroporto può comunque ricreare lo stesso tipo
di meccanismo localizzando le proprie campagne a livello di raggio intorno a un punto determinato di
coordinate.

Località > Targeting per raggio

Nell’esempio che presentiamo qui sotto, è stata selezionata la banchina di un terminal crociere,
fissando il potenziale di ricerca nel raggio di due chilometri dal centro della stessa.

Figura 7.5 – Targeting per raggio.

È importante ricordare che attraverso questa operazione non stiamo limitando la visualizzazione di
realtà al di fuori del raggio definito – come abbiamo descritto anche nella precedente citazione della
funzione “mia località target” – ma stiamo limitando la potenziale evocazione dei nostri annunci solo
a coloro che si trovano nel raggio d’azione che abbiamo impostato. Manna per chi arriva, panacea
per chi offre.
CAPITOLO 8
SITI E LANDING PAGE

8.1 Mobili forme


Adeguare un sito web alla navigazione con device mobile è una scelta indispensabile.

Esistono decine di statistiche che mostrano, senza ombra di dubbio, il valore strategico e competitivo
rappresentato dai siti mobile friendly. Quello che dovrebbe convincere le aziende a investire su un
sito facilmente esplorabile “al touch” non è tanto l’uso sempre crescente – e ormai prevalente – di
smartphone e tablet per navigare in rete quanto, piuttosto, l’importanza sui processi decisionali e di
consumo che i device mobili ormai svolgono nella vita di tutti noi.
Google Databoard1 offre, a questo proposito, una pletora di dati quanto mai convincenti. Attingendo
dal suo “Mobile In-Store Research” possiamo vedere che:

Figura 8.1 – Un estratto della statistica di Google Databoard, relativa al comportamento dei clienti
che usano smartphone durante l’acquisto in negozio. Fonte Google Databoard, Think with Google.

il 90% di coloro che hanno uno smartphone lo usa nella fase di pre-shopping. Per cercare un
prodotto o informarsi sulle sue caratteristiche;
l’84% lo usa per comprare anche mentre è in un negozio fisico;
i clienti che usano uno smartphone sono quelli che tendono a spendere di più.

Oggi la scelta per realizzare un sito ottimizzato per mobile deve confrontarsi con due correnti di
pensiero: c’è chi preferisce gli “m.site” e chi predilige il “responsive design”.
M.Site
Sono siti web che usano una grafica completamente diversa dal sito desktop e per questo sono molto
più simili a una App che non a un sito web vero e proprio. Il loro sviluppo – e la loro scelta – è
motivato generalmente proprio da questa caratteristica, che li rende particolarmente semplici e
immediati da navigare.
Il lato negativo di questa soluzione è che, proprio in quanto molto simili a una App, rischiano di
essere molto diversi dal sito di origine, rendendo difficile agli utenti orientarsi nella navigazione
quando la effettuano attraverso device diversi.

Responsive design
È la soluzione più recente delle due e consiste nel dotare il sito web di una grafica “liquida”, in
grado di adattarsi automaticamente alla larghezza del display dei dispositivi su cui viene
visualizzata. Se, per esempio, su desktop i contenuti di un sito web vengono visualizzati su tre
colonne, in un tablet lo saranno su due mentre, in uno smartphone, su una sola colonna. Il vantaggio di
questa soluzione è che, pur risultando flessibile, il sito web non cambia in maniera significativa nelle
visualizzazioni reali effettuate attraverso device diversi, risultando per questo più semplice da
navigare e in grado di assicurare una migliore user experience.
Proprio rispetto alla user experience, Google come al solito ci offre un aiuto, consentendoci di
valutare la qualità dei siti web proprio in relazione alla loro navigabilità da mobile. Utilizzando
“How to Go Mo - Move Mobile”2 è infatti possibile testare il nostro sito per verificare se – e quanto
– è “flessibile” e navigabile da smartphone. Da provare!

Figura 8.2 – La finestra di test del Google Move Mobile.

8.2 Dalla diversità si crea valore


Anche nell’era delle potenziate, avere landing page diverse per i diversi device può risultare una
scelta strategica vincente.

Nell’era del responsive design, nella quale le pagine si possono adattare elasticamente alla
grandezza dei diversi monitor, può sembrare inutile differenziare le landing page in relazione al
device attraverso cui l’utente ha effettuato la ricerca. Tuttavia, considerando la cosa attraverso un
approccio più strategico potremo accorgerci come la decisione non possa mai essere univoca e
automatica, e imparare a usare a nostro vantaggio landing page differenziate.
Vediamo come.
Utilizzando un’unica pagina “responsive”, l’utente sarà in grado di visualizzarla indipendentemente
dal display con cui sta navigando. Le campagne potenziate, tuttavia, ci hanno insegnato che quello che
determina il successo è la sintonia che viene a determinarsi tra ciò che l’inserzionista offre e l’intento
dell’utente, e cioè la motivazione che spinge un certo individuo a effettuare una certa ricerca da un
certo luogo, in un certo istante, attraverso un certo tipo di device. In questa prospettiva, può
dimostrarsi straordinariamente efficace far visualizzare agli utenti landing page diverse, declinate
sull’intento espresso da ciascun utente.
Spieghiamoci meglio.
Un utente che attraverso lo smartphone acceda al sito web di un ristorante che ha già visitato in
precedenza da computer e vi trovi la stessa grafica visualizzata dal desktop, si troverà probabilmente
a proprio agio, sia in caso di pagina responsive sia di pagina tradizionale. Nel caso, quindi, che
l’utente digiti l’indirizzo esatto del sito, può non essere importante differenziare la landing page in
relazione al device da cui naviga. Ma l’utilità di tale accortezza diventa rilevante quando, come
avviene nella maggior parte dei casi, l’atterraggio sulla pagina è generato da una specifica parola
chiave.
In questo caso, il ristorante potrebbe, per esempio, far atterrare chi si collega da smartphone in una
landing page incentrata su poche informazioni essenziali – telefono e menù del giorno – in modo che,
anche grazie alla sua velocità di caricamento, gli utenti possano apprezzarla al meglio, stimolando
così telefonate e prenotazioni. Di contro, ai navigatori che cercano da computer verrà mostrata una
pagina molto più ricca di contenuti, tra cui foto, recensioni e, più in generale, tutti quegli elementi che
potrebbero stimolare chi è seduto di fronte a un monitor e deve essere invogliato a prenotare una
cena in un futuro prossimo. Elementi che, viceversa, potrebbero apparire superflui se non addirittura
fastidiosi a chi si trovi in auto, affamato, alla ricerca di un punto ristoro.

Per ottenere questo risultato differenziale, bisogna assegnare alla specifica chiave un “value track”,
che dirotti l’utente sulla base della chiave di ricerca e del device che sta utilizzando, mettendo nella
colonna “URL dest.” la seguente variabile:
{ifmobile:m.nomeristorante.it/smartphone/}
{ifnotmobile:www.nomeristorante.it/desktop/}

Il comando “ifmobile” sancisce che, se il click viene fatto da un device mobile, l’URL di
destinazione sarà m.nomeristorante.it/smartphone; sarà invece diverso se l’utente accede da tablet o
desktop: “ifnotmobile”.
Per concludere, possiamo dire che la decisione se usare o no pagine differenziate in relazione ai
diversi tipi di device non è di tipo tecnico ma tattico e strategico, e va ponderata in relazione ai più
generali obiettivi di comunicazione e marketing per cui è stata realizzata la campagna.

8.3 Concludere al primo appuntamento o arrivarci per gradi?


Riflessioni sui diversi tipi di landing page.

Non esiste naturalmente una differenziazione rigida ma, a partire dal tipo di user experience offerta
all’utente, possiamo ricondurre tutte le diverse possibili landing page all’interno di due diverse
macro categorie: “aggressive” e “ponderate”.
Possono essere definite “aggressive” le landing page totalmente “chiuse” che presentano forti call to
action e lasciano all’utente sostanzialmente due scelte: “o aderisci alla mia proposta e converti,
oppure esci.
Le landing page di questo tipo possono essere definite “chiuse” sia perché non consentono al
visitatore di spaziare altrove sia perché racchiudono al proprio interno una serie di informazioni
ritenute dall’inserzionista sufficienti a motivare il comportamento dell’utente. Il ragionamento
sottostante a questo tipo di soluzione è sostanzialmente il seguente: “se è questo che cerchi, questo ti
mostro e non c’è motivo per il quale, grazie alle informazioni che ti sto fornendo, tu possa avere
dubbi o bisogno di ulteriori approfondimenti. La tua scelta è convertire (qualsiasi cosa questo possa
voler dire) o uscire, perché se non ti ho convinto adesso, vuol dire che non ti piaccio abbastanza.”
Per certi aspetti, questo tipo di ragionamento contrasta con quanto potrebbero suggerire i risultati
ottenibili attraverso la web analitycs, da cui emerge come il potenziale di conversione di un certo
sito è dato anche dal numero di pagine viste e dalla frequenza con cui gli utenti che lo hanno già
visitato vi ritornano (magari dopo aver esplorato tutta una serie di alternative), perché realmente
interessati dalla proposta. Da un punto di vista SEO, le landing page aggressive appaiono quasi un
“nonsense”, dato che la loro chiusura danneggia inevitabilmente la user experience. Da qui un
legittimo interrogativo: ma se nell’assegnazione del punteggio di qualità all’annuncio AdWords
calcola l’esperienza utente, in che modo una landing strutturalmente concepita per raggiungere
l’obiettivo in una sola sessione può essere considerata convincente? In realtà questo tipo di dubbio è
legittimo e i punteggi di qualità di una landing page particolarmente aggressiva tenderanno a risultare
più bassi di quelli di una pagina più aperta. Questo non significa che non si debbano mai utilizzare
landing page di questo tipo, ma sarà sempre necessario valutare il bilanciamento tra il quality score e
gli effettivi risultati (conversioni) che tali pagine saranno in grado di generare. Peraltro, AdWords
non legge le conversioni nei punteggi di performance e quindi l’utilizzatore della piattaforma potrà
solo analizzare il tempo di giacenza su pagina, demandando poi all’importazione di obiettivi
Analytics la generazione di conversioni. Per esempio, assegnando una conversione, se un utente sta
per un periodo di tempo nella pagina o se, in mancanza di una “thank you page”, l’utente ha premuto
un pulsante generando una conversione via JavaScript.

Immaginiamo un utente che acceda a una pagina molto aggressiva e venga incollato alla sedia da una
serie di informazioni “prepotenti” in termini di spazio occupato il cui messaggio complessivo sia:
“dai, premi qui!”. In alcuni Paesi, questo tipo di gestione della relazione con il cliente funzionerebbe
poco. E anche in Italia non tutti sono disposti a concedersi così al primo appuntamento, o almeno non
con tanta leggerezza! Molto spesso, soprattutto in relazione al tipo di prodotto o servizio proposto
dall’azienda, il navigatore vuol conoscerla meglio, sapere da quanto tempo esiste, se è presente su
qualche social network, cosa dice il buzz della Rete sull’azienda e sui suoi prodotti e via dicendo.

Una landing page può definirsi invece “ponderata” quando presenta caratteristiche sostanzialmente
opposte a quelle sopra ricordate. Ha pertanto una struttura “aperta”, con percorsi di navigazione che
suggeriscono all’utente di non limitarsi all’informazione che contiene ma di uscire da essa per
sbirciare a piacimento nelle altre sezioni del sito. Nel suo complesso, una pagina ponderata non dà
l’impressione di voler maturare subito una vendita ma piuttosto allude “maliziosamente” a un
appuntamento futuro che cerca di sollecitare e favorire. Ha un menù di navigazione ben evidente, dei
link che rimandano a prodotti/servizi correlati e presenta una call to action che può essere anche un
semplice pulsante di richiesta informazioni. Il suo obiettivo è, comunque, quello di concludere la
vendita, ma senza mettere fretta.
Potremmo quindi dire che una landing page “aggressiva” è passionale ed emotiva e punta a generare
comportamenti d’impulso negli utenti. Quella “ponderata” ha invece una natura pubblicitaria più
argomentativa e adopera il marketing per convincere il cliente.
Quale è, dunque, la più performante?
Sulla carta nessuna delle due versioni è, oggettivamente e in astratto, migliore dell’altra, e la
domanda, così formulata, è mal posta. Nel prossimo paragrafo proveremo a riformularla e a fornire
una risposta adeguata.

8.4 Meglio aggressiva o moderata? Proviamola!


Come verificare le diverse landing page per comprenderne l’effettiva produttività.

Nel punto precedente, abbiamo visto come le diverse landing page possono essere classificate
all’interno di un continuum che ha ai suoi estremi le forme aggressive/chiuse e moderate/aperte.
Come abbiamo accennato, non si può dire in astratto quale delle due soluzioni risulti la migliore. Di
fatto non è neppure corretto formulare la domanda pretendendo di ricevere una risposta univoca.
Come spesso accade nel mondo, fatto più di tonalità diverse di grigio che di bianchi e neri, la
risposta migliore sarebbe: “dipende”. Dipende dal tipo di prodotto, dal suo prezzo, dal tipo di
distribuzione/fruizione a esso connesso e così via. È evidente che i bisogni informativi e le logiche
decisionali attraverso cui un giovane utente può giungere a iscriversi a un master specialistico
pubblicizzato attraverso una campagna AdWords sono diverse da quelle messe in atto, per esempio,
da suo padre per acquistare una confezione di olio da un e-commerce online.
A livello generale si può dire che: tanto più il prodotto/servizio offerto comporta un processo
decisionale complesso (come avviene, per esempio, nel caso degli shopping e degli speciality
goods), tanto maggiore sarà il desiderio di informazione da parte dell’utente e, quindi, anche il senso
di costrizione che tenderà a provare di fronte a landing page troppo aggressive e chiuse.
Ma una volta che abbiamo fatto questa premessa, la risposta ancora più corretta all’interrogativo
iniziale è: testiamo le diverse soluzioni per scegliere la migliore!
Tale indicazione, per quanto banale, è da mettere assolutamente in pratica se si pensa che, molto
spesso, il motivo per cui una campagna non converte è causato proprio dal fatto che la relativa
landing page non si vende bene, non è accattivante e non riesce a trasmettere un messaggio efficace.
Lo strumento di analisi più conosciuto è l’Esperimento di Analytics, ma funzioni simili esistono
anche su una buona mezza dozzina di altri software di analisi, che consentono di creare landing page
alternative per monitorare il rendimento delle diverse soluzioni.
L’esperimento, noto anche come “Test A+B”, permette di generare diverse matrici grafiche che
vengono alternativamente mostrate agli utenti.
Immaginiamo di avere realizzato una landing page nella quale viene riportato un messaggio
contornato da un determinato schema cromatico e/o da un’immagine. Il messaggio ci pare ben
composto secondo un classico schema pubblicitario basato su headline, body copy e pay-off ma,
ciononostante, la pagina non genera i risultati che ci aspettavamo. Riceve cioè utenti ma questi poi
non convertono. Se siamo convinti che i profili dei visitatori che la pagina riceve attraverso la
campagna siano buoni e che il prodotto sia ben collocato e valido, possiamo dunque verificare
sperimentalmente se ciò che è carente non sia proprio il modo col quale esso è presentato.
Partendo dunque dalla nostra landing page, che consideriamo la matrice iniziale, possiamo generare
diverse pagine alternative, variando colori, immagini, font e ogni altro elemento grafico e
contenutistico, per vedere quale delle diverse soluzioni produca il risultato migliore.
Naturalmente le diverse pagine non saranno sottoposte agli stessi utenti, ma utenti diversi vedranno
pagine diverse. Dato che, come sappiamo, attraverso Google possiamo intercettare quantità anche
molto rilevanti di persone, alla fine sarà come se avessimo realizzato una ricerca di mercato
comparativa su un campione rappresentativo di coloro che hanno mostrato interesse per i nostri
annunci.
Dopo un periodo di test sufficientemente lungo (orientativamente trenta giorni) e un numero adeguato
di dati ricevuti, il nostro software di analisi sarà in grado di mostrare quale versione offre
concretamente i migliori risultati.
Spesso si ottengono dati rilevanti anche su piccoli volumi, col vantaggio che, se il trend di successo è
particolarmente pronunciato rispetto alla pagina originale, il sistema provvederà a far girare
maggiormente la pagina o le pagine alternative che producono meglio.

Figura 8.3 – Il risultato di un esperimento su Google Analytics.

A livello di maggiore dettaglio, la voce Esperimenti si trova nel menù Contenuti su Google Analytics.
Entrando nella relativa funzione, viene offerta la possibilità di creare un nuovo esperimento. Volendo,
si potranno consultare un video tutorial e una guida esaustiva, e tutto risulterà molto semplice da
realizzare.

Figura 8.4 – La schermata iniziale dell’esperimento su Google Analytics.

Esperimento è dunque un tool molto semplice da usare e che può rivelarsi la vera chiave di successo
per una campagna AdWords che non sta decollando.
Inutile dire, infine, che utilizzando esattamente la stessa procedura è possibile testare anche elementi
diversi rispetto alle landing page come, per esempio, pagine del sito o specifici contenuti delle
stesse, come immagini, testi, infografiche, e così via.

8.5 Facciamogliela vedere come vogliono


Vediamo un uso creativo del Value Track sulla parola chiave per influenzare il contenuto di una
landing page.

I parametri conosciuti come Value Track3 sono delle funzioni di tagging che lavorano in sinergia con
i software di web analytics per fornire dati relativi ai click che si realizzano da qualsiasi campagna o
referral. In pratica, compito di un value track è quello di aggiungere all’URL di destinazione un tag
speciale che non impedisce, naturalmente, l’apertura della pagina. Cliccando sopra il relativo link, la
pagina si apre trasmettendo contemporaneamente al sistema di analisi le coordinate riportate nel
tracking.
Cosa ancora più interessante dei value track è che, inserendo il parametro di tracciatura, è possibile
anche manipolare il contenuto della landing page! Usando infatti la sintassi variabile=valore, una
volta determinato il valore della variabile sarà possibile usare un qualsiasi linguaggio di
programmazione per generare una modifica della pagina dipendente dal valore stesso.
Soffermiamoci innanzitutto sul value track per keyword, finalizzato a identificare l’atterraggio su una
landing page in seguito a una query attivata da una chiave di ricerca di una campagna in pay-per-click
(non necessariamente AdWords).
La sintassi è la seguente: keyword={keyword}.

Per la sintassi dell’URL, dobbiamo ricordare che, se il parametro è unico, dovremo iniziare con “?”,
mentre se segue altri valori, sarà necessario l’uso del “&”.

Per esempio:
http://www.blubit.it/?keyword={keyword}

o, se successivo
http://www.blubit.it/?matchtype={matchtype}&keyword={keyword}

Ricordando sempre che keyword e query sono due cose diverse, vediamo meglio il meccanismo con
un esempio: se l’inserzionista sceglie come chiave +vendita +orologi, nel campo “keyword”
dell’indirizzo verranno richiamati anche i “+” della corrispondenza generica modificata
indipendentemente dalla chiave effettivamente usata dall’utente. In altri termini, se una certa persona
ha cercato “vendita orologi milano”, nell’URL della pagina che andrà a visualizzare comparirà
comunque la keyword +vendita +orologi.

Come abbiamo detto, il valore “keyword”, non solo fornisce un’informazione al sistema di web
analytics, ma può essere utilizzato come variabile di (richiesta) programmazione della pagina. Per
citare un comando ASP:
<%= Request("keyword") %>.

Con questa stringa, stiamo dicendo al sistema di “scrivere” il valore riportato nella chiave
all’interno della pagina che sarà visualizzata dall’utente. Diciamolo meglio per comprendere sino in
fondo la portata di questo tipo di meccanismo: intervenendo sul parametro inserito nel value track, è
possibile differenziare le pagine di destinazione degli utenti in relazione alla chiave di ricerca per
cui hanno intercettato i nostri annunci. In questo modo potremo mostrare pagine diverse a target che
abbiano espresso intenzioni diverse, personalizzando quanto mai la loro esperienza e moltiplicando
le possibilità di successo delle nostre proposte.
Vediamo quindi come usare questo meccanismo in modo semplice ma efficace, tornando alla vendita
di orologi e immaginando che l’inserzionista abbia utilizzato le marche AAA e BBB come keyword a
corrispondenza generica della sua campagna. Se nel codice di programmazione della pagina ha
inserito la seguente istruzione:
Negozio specializzato nella vendita di orologi di marca <%= Request(“keyword”)
%>

e l’utente utilizza come query “AAA”, nella landing page di destinazione comparirà il testo:

Negozio specializzato nella vendita di orologi di marca AAA.

Non male vero a livello di coinvolgimento e di user experience?!


E questo è solo un esempio. Così come possiamo influenzare i contenuti delle pagine arricchendoli di
stringhe testuali, altrettanto possiamo fare per gestire interi paragrafi o, addirittura, un’immagine. Il
tutto, sempre intervenendo sul parametro “keyword”. Il processo, in questo caso, è leggermente più
complesso, ma se vi rivolgerete a un programmatore non avrà alcuna difficoltà a realizzarlo per voi.
Per eseguire la procedura è necessario richiamare il controllo IF / ELSE nel codice di
programmazione. In questo modo si dice alla pagina che: se (if) una variabile arriva con un
determinato valore, allora quel paragrafo o quell’immagine – o qualsiasi cosa sia contenuta nel
codice successivo al comando – dovrà apparire in un certo modo. Diversamente (else) non dovrà
succedere niente.
Sempre in riferimento all’esempio del venditore di orologi, utilizzando questo tipo di funzione,
l’inserzionista può gestire titolo, immagini e colori della landing page visualizzata dall’utente in
relazione al fatto che egli abbia cercato la marca AAA piuttosto che la marca BBB.
È un ottimo sistema per risparmiare in landing page! Ma, soprattutto, un modo efficace di potenziare
notevolmente l’esperienza utente sulla pagina di destinazione.

1. http://think.withgoogle.com/databoard/.
2. http://www.howtogomo.com.
3. Guida all’uso del Value Track: http://bit.ly/13ayjX3.
CAPITOLO 9
METRICHE E KPI

9.1 Valutiamo le nostre prestazioni


Gli Indicatori chiave di prestazione sono i migliori alleati per comprendere il funzionamento di
una campagna.

KPI è l’acronimo di key performance indicator, indicatore chiave di prestazione. Per dirlo
sinteticamente nel linguaggio di AdWords, attraverso questo valore è possibile capire quanto bene o
male stia comportandosi un certo evento in un flusso di canalizzazione. Descritto in questo modo, il
termine suona ancora più complesso di quanto l’acronimo non suggerisca, ma una volta spiegato il
concetto di flusso di canalizzazione, sarà più facile capire cosa sia realmente un KPI.
La canalizzazione è il percorso di pagine del sito che vengono consultate e delle azioni compiute dai
visitatori prima di arrivare a un determinato obiettivo. Per esempio, in un sito e-commerce nel quale
l’obiettivo è la vendita, la canalizzazione di un utente potrebbe essere:
1. l’inserimento del prodotto nel carrello;
2. la compilazione dei suoi dati anagrafici;
3. la scelta della modalità di spedizione;
4. la conferma dell’ordine;
5. il pagamento del prodotto.

Ipotizziamo di essere un venditore di scarpe e di avere un flusso di clienti che, una volta entrati nel
nostro negozio, consideriamo “produttivi” solo se comprano effettivamente un paio di scarpe.
Concettualmente, il loro ipotetico percorso di acquisto è il seguente:
entrano nel negozio;
si guardano intorno;
chiedono informazioni al commesso;
si provano le scarpe;
comprano.

Tale percorso rappresenta una canalizzazione, cioè un processo che conduce un flusso di utenti
dall’ingresso all’acquisto. Acquisto che, idealmente, corrisponde a una conversione.
Questo stesso percorso, detto anche “canalizzazione” per la sua forma a “imbuto” (funnel), può
essere espresso in modo ancora più preciso attraverso una serie di valori percentuali:
entrano in negozio (100% dei clienti);
si guardano intorno (60%);
chiedono informazioni al commesso (40%);
si provano le scarpe (20%);
comprano (10%).
In questo semplice esempio il 100% rappresenta il lato largo dell’imbuto mentre il 10% corrisponde
al foro di uscita, che è pari alla percentuale di vendite di scarpe effettuate/conversioni ottenute. Certo
è che nel corso del flusso abbiamo perso il 90% dei nostri potenziali acquirenti. O, almeno, così
appare la situazione a prima vista.
Osservando il processo con un po’ più di attenzione, ci accorgiamo che in realtà le cose non stanno
esattamente così. Il primo fattore da considerare, infatti, è se tutti i clienti che hanno cliccato sui
nostri annunci, erano davvero potenziali acquirenti. Per capirlo bisogna far riferimento alla frequenza
di rimbalzo che corrisponde, nell’esempio sopra delineato, a chi è entrato nel negozio e ne è uscito
senza neanche essersi guardato intorno, magari perché ha capito che era nel tipo di negozio sbagliato.
Togliendo, allora, dal totale degli accessi, la percentuale relativa alla frequenza di rimbalzo,
scopriamo che sin dall’inizio la percentuale dei clienti potenzialmente produttivi non era pari al
100% degli ingressi ma solo al 60% degli stessi.
Questo tipo di ragionamento ci aiuta a individuare un primo KPI decisivo per ogni campagna
AdWords, rappresentato proprio dalla frequenza di rimbalzo. Primo scopo delle attività di
ottimizzazione dell’inserzionista è esattamente quello di ridurre il valore di questo KPI, dato che:
maggiore sarà il numero di utenti che non fuggono subito dal suo sito, più clienti potenziali egli avrà
a disposizione.
È chiaro che tutti i parametri di flusso sono importanti per produrre vendite, ma alcuni, tra cui questo,
lo sono più degli altri, in quanto se meglio gestiti producono profitti maggiori, portando benefici a
tutta la filiera.
Il secondo KPI di questo tipo è quello che presenta la più alta motivazione all’acquisto e cioè le
persone che si provano le scarpe. Rapportando l’esempio a un sito e-commerce, provarsi la scarpa
può equivalere a inserire il prodotto nel carrello oppure, se facciamo lead generation, è l’accesso
alla pagina di richiesta informazioni. In poche parole possiamo dire che è buona norma ritenere un
KPI il passaggio che precede la conversione. Il cliente esprime una forte motivazione e, se questa
non si concretizza nella conversione, dobbiamo lavorare per capire perché.

Tornando all’esempio del negozio di scarpe, è chiaro che ogni singolo passaggio è un obiettivo da
raggiungere e che più alta è la percentuale di potenziali clienti che ci portiamo dietro in ogni parte
del flusso, più alto sarà il numero di vendite che faremo; ma compito dei KPI è soffermare la nostra
attenzione su quelli che più di altri rappresentano i passaggi chiave per aumentare la produttività.
Nel flusso logico qui considerato, il fatto che il cliente resti in negozio – non esca dal sito e si provi
le scarpe/metta in carrello il prodotto – rappresenta il principale indicatore oggettivo di motivazione
al raggiungimento della conversione da parte dell’utente. Facendo riferimento ai propri obiettivi di
marketing e a quelli più specifici della campagna, ogni azienda inserzionista deve individuare i
propri KPI per monitorare le performance delle proprie attività AdWords e intervenire di
conseguenza.

9.2 Rimbalzi
Analizzare il rendimento di un sito dal volume di traffico è un errore comune. Non conta il volume
effettivo ma solo quello produttivo.
Nel mondo degli old media e, in certe aree, anche del marketing digitale come il display advertising,
si spende per apparire. L’inserzionismo pubblicitario tradizionale si basa infatti su un modello
comunicazionale tipico dei media di massa, centrato sul principio per cui l’azienda, avendo le
risorse economiche necessarie ad acquistarsi “spazi” di visibilità, genera un messaggio che viene
indirizzato a una massa se pur targettizzata, di individui. Questi ultimi saranno raggiunti dal
messaggio (logica “push”) mentre non sono affatto interessati ai suoi contenuti e stanno facendo altro.
All’interno di questo modello, definibile anche dell’interruption marketing, è certamente possibile
quantificare il “costo contatto” relativo a ogni campagna realizzata. Ma non sapremo mai la reale
“qualità” dei “contatti” – che poi sono persone – raggiunti. Per esempio, non avremo modo rilevare il
loro effettivo grado di interesse alla nostra proposta o che cosa abbiano effettivamente fatto quando il
nostro messaggio è giunto loro. So quanto mi è costato il contatto con ciascuno degli spettatori di
quello spot, ma mentre esso andava in onda, cosa facevano realmente? Lo hanno guardato
attentamente, stavano twittando o erano andati in bagno?
Il tipo di ragionamento che la pubblicità classica suggerisce, per lo meno a uno sguardo non troppo
specialistico, è che, in fondo, quello che conta sia “essere presenti”. Più si riesce a farci vedere e si
aumenta la pressione sui destinatari dei messaggi (entro certi limiti che, peraltro, troppo spesso gli
inserzionisti paiono dimenticare inondando ogni break pubblicitario con i propri, identici, spot!), più
è probabile che qualcuno percepisca il nostro messaggio, lo decodifichi e ne tragga un qualche tipo
di influenza a livello di atteggiamento (branding) e, magari, persino di comportamento (acquisti).
Questo tipo di pensiero è ancora talmente radicato nella cultura delle aziende che si stenta a far
capire come le cose, in rete, possano essere diverse. In questo senso, potremmo dire che uno dei
compiti primari del consulente AdWords sia proprio quello di spostare l’attenzione dei clienti dalla
“quantità” alla “qualità” del traffico generato dalle campagne di keyword advertising attraverso
Google.
Il difficile, tuttavia, arriva con il passaggio successivo. Quando, cioè, si cerca di convincere le
aziende inserzioniste che ciò che le invitiamo a fare è di ottimizzare la campagna AdWords fino a
giungere al punto di “spendere per sparire”.
Esatto! Se scompaiono dai risultati di ricerca significa che i loro annunci piacevano, sono stati
cliccati e il budget, infine, si è esaurito! È evidente che, per giungere a questo livello di
consapevolezza, l’inserzionista deve aver già “digerito” che, a differenza delle campagne sui media
di massa, l’obiettivo in AdWords non è la visibilità. Che, tradotta nel linguaggio della piattaforma,
tale visibilità corrisponde alle impression, il cui numero deve essere contenuto per non penalizzare
irrimediabilmente il CTR. E che, infine, ciò che conta sono soprattutto i click che generano accessi di
qualità dentro il sito.
Giunti a questo punto del percorso di progressiva alfabetizzazione dell’inserzionista, dobbiamo
nuovamente attirare la sua attenzione per rivelargli che, purtroppo, una certa quota del traffico entrato
nel suo sito e costatogli economicamente sotto forma di click, è traffico inutile, perché generato da
utenti finiti lì chissà per quale ragione, certo non per convertire. Questo traffico “brutto”, inutile e
distratto è mappato dalla “Frequenza di Rimbalzo” (Bounce Rate).
Esistono vari sistemi per analizzare con attenzione la frequenza di rimbalzo e torneremo presto su
questo argomento. Per il momento, cerchiamo di capire meglio che cos’è e come relazionarci con tale
fenomeno.
L’utente entra nel sito, visita una sola pagina e poi esce. Questo è un rimbalzo.
Come è noto, quando si definisce un obiettivo da raggiungere, si dovrebbero sempre individuare
anche uno o più indicatori (KPI) attraverso cui analizzare, in itinere ed ex post, le performance
realizzate in relazione all’obiettivo stesso. Con KPI (key performance indicator) ci riferiamo pertanto
agli indicatori chiave di prestazione: fenomeni quantificati sotto forma numerica, che ci consentono
di capire come ha fatto (o farà) a verificarsi un determinato evento.

Figura 9.1 – Un grafico di Google Analytics che mostra la frequenza di rimbalzo differenziando il
traffico a pagamento.

Facciamo un semplice esempio: l’acqua bolle a 100°. I fornelli sprigionano un calore sulla pentola di
100° in 5 minuti; la pasta cuoce in 10 e, una volta cotta, impiego 10 minuti per mangiarla. Questo
ciclo dura complessivamente 25 minuti ma io ne ho solo 20 perché poi devo uscire di casa. In pratica
so già che non riuscirò mai a finire di mangiare la pasta perché, pur iniziando il ciclo, dovrò
abbandonare il pasto prima di averlo terminato. Se tutta la pasta contenuta nel piatto è quella
necessaria a soddisfare il mio fabbisogno calorico giornaliero, è evidente che se non la finisco mi
troverò in debito di calorie. Il mio obiettivo, allora, è quello di riuscire a finire la pasta e,
analizzando attentamente tutti i dati in mio possesso, cerco di capire come intervenire. Sicuramente
non posso farlo sul tempo col quale la mangio. Mangiare troppo velocemente nuoce alla salute. Il
tempo impiegato per finire il piatto, quindi, non rappresenta un KPI. Non posso intervenire neppure
sulle calorie sprigionate dai fornelli perché questo comporterebbe un investimento troppo costoso.
Anche le calorie allora non sono un KPI utile. Non mi resta, dunque, che analizzare la pasta. Se
prendo una pasta che cuoce in meno tempo, avrò sostanzialmente gli stessi costi ma guadagnerò
qualche minuto. Il tempo di cottura, allora, costituisce un KPI utile. Più riesco a intervenire su questo
parametro, più sarà facile che io possa raggiungere il mio obiettivo. Abbiamo riportato questo lungo
esempio per dire che possono essere considerati KPI validi solo quei parametri su cui posso
ragionevolmente esercitare un controllo senza che questo mi generi problemi insostenibili, come, per
esempio, un aumento spropositato dei costi.
Fissato questo punto, torniamo ai KPI reali. A prescindere da quale sia il nostro scopo (vendere,
ottenere lead o altro), ciò che dobbiamo tenere sotto controllo più di ogni altra cosa non è tanto il
numero di visitatori che entra nel sito, il numero di pagine viste o il tempo medio trascorso su di
esse, quanto piuttosto l’incidenza sul totale del traffico inutile e distratto sopra ricordato. Detto in
altri termini, uno dei principali KPI di qualsiasi campagna AdWords è rappresentato dalla frequenza
di rimbalzo.
Osservando il traffico e scoprendo che facciamo una vendita ogni 100 utenti che entrano nel nostro
sito, potremmo ingenuamente pensare che raddoppiando gli ingressi anche le vendite potrebbero
raddoppiare. La matematica, che non è un’opinione, pare supportarci in questa convinzione.
Se, tuttavia, pensiamo ai costi reali dell’operazione, ci ricordiamo immediatamente che stiamo
pagando tutti e 200 i visitatori perché ciascuno di essi è entrato nel nostro sito attraverso un click. Se
ogni click mi costa 1,00 euro, è evidente che il raddoppio degli ingressi mi costerà esattamente il
doppio di prima (200 euro). Ecco allora che scopriamo che l’aumento del traffico, che si
accompagna inevitabilmente a un aumento proporzionale dei costi, quasi mai è la soluzione più
intelligente per aumentare il rendimento. Ciò che conviene fare è invece controllare immediatamente
il KPI “frequenza di rimbalzo” e intervenire in base ai risultati ottenuti.
Per continuare sull’esempio precedente, analizziamo il traffico sul sito, scoprendo che il 90%
rappresenta un rimbalzo. La situazione, alla luce di questo KPI, muta radicalmente. Quello che tale
indicatore ci dice, infatti, è che solo 10 utenti su 100 manifestano interesse per i nostri contenuti. Se
riuscissimo a far cliccare ed entrare nel sito solo quei 10, otterremmo una vendita ogni 10 euro,
anziché una ogni 100 euro investiti! La nostra chiave di successo, cioè il KPI, non è quindi il traffico
sul sito ma la frequenza di rimbalzo; più riusciamo a tenerla bassa, più produciamo.
L’insegnamento che dobbiamo trarre da tutto ciò – che ha valore di regola generale – è dunque che
attraverso AdWords non dovremo quasi mai portare più traffico sul nostro sito, quanto piuttosto
portarne meno ma meglio profilato.

9.3 Quando i voti contano


Quanto dobbiamo guardare al punteggio di qualità per comprendere se la nostra campagna sta
performando correttamente?

Il punteggio di qualità (Quality Score, QS) – il cui algoritmo di calcolo si è evoluto nel corso del
tempo – è uno dei fattori decisivi per il successo di una campagna. È naturale, quindi, che gli
utilizzatori di AdWords siano preoccupati quando il suo valore risulta troppo basso, magari anche a
fronte di un ottimo rendimento. In apparenza, questo potrebbe sembrare un problema poco
importante: la campagna ottiene buoni risultati ed è questo, in fondo, quello che conta!
Come sappiamo, tuttavia, un punteggio di qualità alto non solo alza la posizione del nostro annuncio,
garantendoci un CTR elevato, ma ne contiene anche i costi. Questo è proprio il principale vantaggio
che un quality score elevato ci offre. Per contro, pur avendo un buon CTR e una straordinaria
posizione media, un punteggio di qualità basso ci costringerà ad alimentare costantemente la relativa
chiave con significative quote di budget.
Ma come dobbiamo comportarci in caso di CTR alto associato a un punteggio di qualità basso? Per
rispondere a questa domanda, analizziamo meglio tale punteggio, ricordando che, se desideriamo
avere il quadro completo dei punteggi di qualità di tutte le nostre keyword, possiamo aggiungere la
relativa colonna tra gli attributi visualizzabili da:

Colonne > attributi > punt. qual. (punteggio di qualità)

Per visualizzare, invece, il valore relativo a ogni parola chiave, bisogna posizionare il cursore del
mouse sopra al “fumetto” accanto a essa. Attivando il “fumetto”, abbiamo anche la possibilità di
vedere quali sono i parametri che determinano il valore del quality score:
percentuale di clic prevista;
pertinenza degli annunci;
esperienza nella pagina di destinazione.

In realtà, questi tre variabili non esauriscono tutti i fattori che influenzano il punteggio di qualità, che
è invece determinato da un elenco molto più vasto di parametri, per i quali rimandiamo direttamente
alla guida di AdWords1. Ciò che è importante sapere è che, mentre quelli indicati guardano al futuro
(previsione) e al presente (pertinenza ed esperienza), molti degli altri parametri che influenzano il
punteggio di qualità fanno invece riferimento alle performance pregresse, includendo tra l’altro il
CTR e la cronologia totale delle performance dell’account. Per questo motivo, il punteggio di qualità
rappresenta una sorta di anamnesi medica che si basa sulla condotta di tutta la vita della campagna.
Qualsiasi intervento mirato a innalzare il punteggio di qualità si troverà, pertanto, a fare i conti con le
eventuali disfunzionalità che dall’inizio della stessa e sino a quel momento ne hanno penalizzato il
valore.
Quando l’anamnesi restituisce un punteggio di qualità troppo basso, l’inserzionista inesperto, colto
da “ansia da prestazione”, reagisce molto spesso con interventi repentini e selvaggi, non
considerando che tali modifiche non danno neppure il tempo alla campagna di metabolizzare i
cambiamenti. Se ho passato la mia vita da sedentario e adesso decido di fare sport per disintossicare
il mio fisico, non posso aspettarmi di diventare un atleta da un giorno all’altro; e in ogni caso le mie
performance non miglioreranno dal giorno alla notte.
Di fronte a un punteggio di qualità non soddisfacente, il suggerimento è quello di non entrare in
fibrillazione ma di continuare a coltivare la chiave senza un’apprensione maniacale per quel valore
scarsamente performante. Se essa ha un costo elevato ma dimostra, comunque, un rendimento
interessante, sopportiamolo pure. Qualsiasi intervento va strutturato e pianificato rispettando i tempi
di AdWords, in modo da garantire al correttivo messo in atto un buon volume di dati campionabili su
cui valutare i risultati ottenuti. Se agiamo in questo modo, senza farci prendere dal panico, i risultati
arriveranno.
Concludiamo con un’osservazione su un aspetto che spesso passa inosservato. Come abbiamo visto,
il punteggio di qualità è anche frutto dell’esperienza dell’utente nella pagina di destinazione. Se
questa non prevede una conversione reale ma solo la possibilità di generare una chiamata attraverso
il numero di telefono visualizzato, la stessa pagina offrirà un’elevatissima esperienza utente che però
AdWords non sarà in grado di rilevare. Modificare la pagina per fare felice AdWords, potrebbe
probabilmente alzare il punteggio di qualità... ma, altrettanto probabilmente, rischierebbe di
comprometterne le performance!

9.4 Dare un nome alle conversioni


Le conversioni identificano il rendimento di una parola chiave e di un annuncio sulla base di un
obiettivo prefissato.
Nell’immaginario collettivo degli utilizzatori di AdWords, le conversioni sono troppo spesso
associate alla generazione di un “profitto” e, quando questo non appare immediatamente
individuabile, le conversioni non vengono fissate. In realtà, nessuna campagna dovrebbe essere
gestita senza aver stabilito quale tipo di azione dell’utente rappresenta per l’inserzionista una
conversione. Del resto, sono gli stessi strumenti di gestione e monitoraggio delle campagne a
suggerirci le molteplici forme che le conversioni possono assumere. Il pannello di controllo
AdWords individua quattro categorie primarie, oltre alla voce “altro”:
acquisto/vendita;
registrazione;
contatto;
visualizzazione di una pagina chiave.

Altre possibili conversioni sono inoltre suggerite da Analytics. Queste ultime mappano tutte le azioni
che possono essere effettuate dall’utente all’interno di una pagina, con l’esclusione dei click che
rimandano ad altre pagine del sito.
Tra queste azioni abbiamo:
download di file;
uscite dal sito su URL amici;
zoom su immagini;
click su menù di tipo accordion;
interazioni con video;
ecc.

Prese nell’insieme, le diverse tipologie di conversioni possono essere ricondotte a tre macro-
categorie:
e-commerce;
lead generation;
tattiche.

E-Commerce
Individua le visite che si tramutano in acquisto, sia esso di prodotti da uno shop online sia di servizi,
contenuti informativi premium o sottoscrizioni di abbonamenti. L’azione mappata è dunque il
comportamento di acquisto tenuto dall’utente direttamente nel corso della visita.

Lead generation
Corrisponde alla generazione di un nominativo. Rientrano in questa categoria le sottoscrizioni alle
newsletter, la richiesta di informazioni da form, l’invio di e-mail e le chiamate telefoniche. Queste
ultime, in effetti, potrebbero essere fatte rientrare anche nell’e-commerce, dato che offrono la
possibilità di ottenere una chiusura immediata della trattativa. Il motivo per cui propendiamo a
classificarle, comunque, come generazione di lead è dato dal fatto che l’esito del contatto telefonico
non è affatto certo, risultando condizionato da una serie di fattori tra cui l’effettiva risposta alla
chiamata, le reali motivazioni dell’utente, l’abilità del rispondente di produrre un esito positivo e
così via.

Tattiche
Questa categoria raccoglie tutte le conversioni non riconducibili alle due precedenti e che sono, in
genere, integrate all’interno di una strategia più complessa.

Sono esempi di conversioni tattiche:


la visualizzazione di almeno una certa percentuale della durata complessiva di un filmato;
il tempo di permanenza su una data pagina, sufficientemente lungo da indicarne la lettura dei
contenuti da parte dell’utente;
il download di un coupon o di un PDF informativo.

Ma lo è anche la permanenza su una pagina che si ritiene possa offrire un contenuto rilevante per
l’utente, magari visualizzata a conclusione di un percorso di navigazione sul sito.
Per una struttura turistico-ricettiva, per esempio, la visualizzazione finale da parte dell’utente della
pagina dei prezzi, testimoniando la capacità della proposta di aver attivato un potenziale interesse a
lungo termine, potrebbe rappresentare la conclusione desiderata del suo percorso informativo.
Utilizzando in maniera corretta tutte le possibilità offerteci da Google AdWords e da Analytics, è
quindi possibile – e anzi necessario – giungere alla definizione di una conversione. In questo modo
avremo la possibilità di valutare correttamente l’efficacia strategica della nostra campagna,
generando report di analisi completi ed efficaci, in grado di identificare non solo quali parole chiave
hanno prodotto una determinata conversione ma anche a quale creatività di annuncio tale conversione
era abbinata.

9.5 Nella giungla degli acronimi


Impariamo a comprendere AdWords analizzando quanto produce ogni singolo centesimo speso.

L’idea diffusa che il web advertising costi poco – sicuramente meno rispetto all’advertising classico
sugli old media – è in parte vera. Tale convinzione, se assunta in maniera acritica, tende tuttavia a
generare effetti disfunzionali associati al ragionamento per cui: “siccome costa poco, anche se
produce poco, posso accontentarmi”. Questo genere di ragionamento può effettivamente reggere
sinché si parla di budget contenuti ma, quando questi diventano significativi, le cose cambiano
radicalmente. Ecco allora che gli stessi utilizzatori che prima si accontentavano dei risultati modesti
ottenuti perché costavano poco, finiscono poi per convincersi che la pubblicità su AdWords sia molto
costosa.
Entrambe le convinzioni sono evidentemente sbagliate e nascono da una scarsa attenzione a quelli che
sono gli effettivi rendimenti delle campagne. Rendimenti che, a differenza di quanto non avvenisse e
avvenga rispetto alla pubblicità tradizionale, possono essere calcolati al centesimo attraverso
opportune metriche.
Vediamo allora di capire queste metriche, alcune delle quali sono in grado di intercettare non solo il
rendimento direttamente collegato alla vendita (conversione), ma anche la storia – o ciclo di vita –
che una certa iniziativa pubblicitaria produce nel tempo.

ROI e ROAS
Partiamo dal ROI, Return on Investment (ritorno sull’investimento), che è il parametro più citato sia
su AdWords sia nei programmi di web analytics.
Il ROI si misura in questo modo:

ROI = ([Entrate - Costi] / Costi)

Ove le entrate sono lorde e i costi sono quelli sostenuti a livello pubblicitario.
È quindi più utile parlare di “Marketing ROI” o di ROAS, Return on Advertising Spending (ritorno
sulla spesa pubblicitaria). Tuttavia, analizzando i dati in questo modo, il calcolo risulta piuttosto
debole perché non ci mostra né l’effettivo volume dei costi né il reale guadagno.
Per meglio comprendere il ROI (o ROAS) è più utile effettuare un calcolo di questo tipo:

ROAS = ([Profitto - Costo Pubblicitario] / Costo Pubblicitario)

Per definire il profitto, basta sapere quanto ci è costato un prodotto al netto del costo sostenuto per
pubblicizzarlo.
Quindi: vendo una scatola con 5 cioccolatini a 10,00 euro. Ogni cioccolatino mi costa 0,50 euro e
1,50 euro è il costo pubblicitario che si scarica sulla singola confezione. So quindi che il mio reale
profitto sulla vendita è di 6 euro.

Entrate - Costo del bene = Profitto >> 10 - [(0,50 * 5) + 1,50] = 6

Perché è utile operare questo distinguo? Vediamo un esempio concreto nel quale, grazie ad AdWords,
abbiamo un costo conversione di 2,00 euro, mentre la conversione è proprio l’acquisto di una scatola
di cioccolatini. Vogliamo capire quanto possiamo spingere la nostra campagna per ottenere una
posizione migliore e stiamo quindi decidendo di quanto alzare il CPC (costo per click) della chiave
che ha convertito.
Vediamo il calcolo base, cioè quello computato sulle entrate:

10 (Entrate) - 2 (Costo conversione) / 2 (Costo conversione) = 4 (400%)

Il che significa che per ogni euro che spendo ne incasso 4,00 con un ROAS del 400% (ROAS e ROI
si calcolano solitamente su base percentuale).
Tutto cambia, però, se mi concentro sul profitto. Il calcolo, in questo caso, diventa il seguente:

6 (Profitto) - 2 (Costo conversione) / 2 (Costo conversione) = 2 (200%)

Computando in questo modo, nonostante il mio profitto sia del 60% sul costo del prodotto (ho un
profitto di 6,00 euro ogni 10,00 di venduto), i costi pubblicitari riducono l’indice del 50% e il ROAS
passa dal 400% al 200%.

Costo Consulenza o Forza Lavoro (costo orario ipotetico)


Per complicare ulteriormente il calcolo, non certo per cinismo ma per fornire tutte le istruzioni
necessarie a realizzare un’analisi accurata dei ricavi effettivi, non dobbiamo dimenticarci che
AdWords non lavora da solo e che, a meno che non gestiamo il tutto personalmente, dobbiamo
considerare anche i costi relativi al “tempo uomo”, se la gestione è interna all’azienda, o quelli spesi
per la consulenza e la gestione, se ci serviamo di agenzie o freelance.
Nella prima ipotesi (gestione interna), dobbiamo valutare se il tempo dedicato dai nostri dipendenti
all’attività di gestione di AdWords sia un costo aggiuntivo o se, invece, possiamo farlo rientrare
nella normale routine lavorativa, escludendolo dai costi. Nel caso di un’agenzia o di un consulente,
dobbiamo invece necessariamente calcolare la relativa parcella come un costo effettivo. A differenza
del costo di conversione, che si misura sul singolo pezzo venduto, il costo consulenza e il suo valore
si misurano solitamente “in assoluto”.
Il calcolo da effettuare è quindi il seguente:

Costi Totali di Marketing (nei quali è utile inserire anche i costi fisici di AdWords) / Entrate.
Cioè:

[(Consulenza + Costi AdWords) / Entrate]

Quindi: se in un anno ho investito un budget di 70.000 euro su AdWords, utilizzando i servizi di


un’agenzia che mi è costata10.000 euro, e l’intera operazione ha prodotto entrate per 600.000 euro,
avremo questo tipo di computo:

[(10.000 + 70.000) / 600.000] >> (80.000 / 600.000) = 0.13

Più questo valore è minore di 1.0 (caso in cui il ricavo corrisponde esattamente alla spesa), migliore
sarà stato il risultato del nostro investimento pubblicitario.

CPL e CAC
Il CPL (Cost per Lead) e il CAC (Customer Acquisition Cost) sono due metriche importanti perché
indicano quanto costa un contatto (o cliente potenziale) e quanto costa un cliente reale. Mettendo in
relazione le due metriche, possiamo anche calcolare la differenza di rendimento tra potenziale ed
effettivo. Se tale differenza di costi è elevata, ciò può significare due cose. O stiamo acquisendo
troppi potenziali clienti a basso costo, magari per colpa di un messaggio che è meno chiaro di quanto
non pensassimo, oppure, in presenza di un messaggio chiaro e performante, il reparto vendite non è in
grado di acquisire il cliente.
Entrambi gli indici si misurano partendo dai “costi totali”, dove per costi totali (CT) intendiamo
effettivamente tutti i costi sostenuti: spese pubblicitarie, tempo impiegati, affitti, cancelleria e via
dicendo.
Quindi abbiamo:

CPL = (CT / numero di contatti)


CAC = (CT / numero di clienti)

Ipotizziamo che la nostra azienda abbia un CT di 200.000 euro annui e che abbia acquisito 50 nuovi
clienti a fronte di 200 contatti.

CPL = (200.000 / 200) = 1.000 euro


CAC = (200.000 / 50) = 4.000 euro

L’azienda, in pratica, ha acquisito un cliente ogni quattro contatti, con un costo per cliente quattro
volte superiore rispetto al costo per lead. Iniziare a valutare il rendimento di AdWords, dando il
giusto peso alla forza del reparto vendite interno, consente quindi di rivalutare anche l’effettiva
efficacia dell’investimento pubblicitario. È davvero AdWords che non sta funzionando o sono io che
devo cercare un metodo migliore e rendere più incisivo il mio approccio col potenziale cliente?

LTV
LTV o Life Time Value è il valore effettivo generato da un cliente nel corso del tempo. Il suo valore
ci indica il volume di venduto prodotto dal parco clienti fidelizzati. Per farlo, si prendono come
valori le entrate annue complessive, le entrate generate da nuovi clienti e quelle ottenute dai clienti
acquisiti, secondo la seguente formula:

LTV = [(Entrate Totali - Entrate nuovi clienti)] / Clienti di Ritorno]

Attraverso l’LTV possiamo comprendere se il nostro investimento pubblicitario è fine a sé stesso o


produce fidelizzazione. Se ogni conversione che ottengo da AdWords genera un guadagno ricorrente,
questo mi garantisce la possibilità di migliorare l’effettivo CAC. In pratica senza aggiungere costi
pubblicitari, il mio cliente continuerà a comprare.

9.6 L’impressione non basta


La visibilità è utile ma non può essere assunta a metrica determinante del funzionamento di una
campagna.

Il concetto espresso in questo paragrafo è facilmente dimostrabile attraverso una funzione di


AdWords. Entrando nel menù parole chiave, selezioniamo una chiave e clicchiamo su:

Dettagli parola chiave > Rapporto informativo sulle aste

Vediamo come Google descrive questo strumento: «Scopri qual è il tuo rendimento rispetto ad altri
inserzionisti. Con il rapporto Informazioni aste puoi conoscere il rendimento delle tue parole
chiave in termini di quota impressioni, posizione media e altre statistiche rispetto a quelle di altri
inserzionisti che partecipano alle stesse aste. Nota. Le informazioni contenute in questo rapporto
rappresentano un riepilogo di ciò che potresti visualizzare eseguendo una query su Ricerca
Google per questa parola chiave.»

Le indicazioni di Google mettono prevalentemente l’accento sulle impression. Noi riteniamo più
proficuo porlo sui click. Questo, badiamo bene, non certo per assumere una posizione rigida nei
confronti di quanto sostenuto dalle indicazioni della piattaforma ma solo per aiutare i lettori a capire
come funziona lo strumento e quali sono le logiche che portano alla scelta del canale di rendimento,
per valutare se una campagna stia o meno producendo.
Partiamo da una verità di AdWords: una chiave che ottenga un più alto CTR, a parità di budget, di un
altro concorrente, avrà meno impression. È innegabile. Se hanno una situazione di partenza identica e
un account ha un CTR del 100% con 10 click, vorrà dire che aveva ottenuto 10 impression; ma se un
concorrente ha un CTR del 10% con 10 click, significa che aveva ottenuto 100 impression. Facendo
riferimento alle impression, l’utente col 100% di CTR potrebbe pensare di avere un rendimento
inferiore all’altro utente. Eppure, in termini di qualità, il suo costo per click si abbasserà. Ma
probabilmente la sua visibilità resterà comunque sempre inferiore a un utente che ottenga meno click
sulla base delle visualizzazioni.
A questo punto la domanda sorge spontanea. Usando come criterio di valutazione le visualizzazioni,
penalizzeremo sempre l’utente che, pur avendo magari un CTR del 100%, ottiene meno impression.
Ma riferiamoci agli strumenti di analisi di AdWords. Per meglio comprendere la tabella che qui ci
interessa, dobbiamo osservare le prime due colonne: “Quota impressioni” e “Posizione Media”.
L’interpretazione più efficace delle performance della nostra campagna nasce proprio dal confronto
tra questi due valori. Se abbiamo una quota impression prossima al 100% e una posizione media
vicina alla prima, conoscendo il CTR potremo stabilire non solo che siamo quasi sempre visibili sul
totale di ricerche nelle quali appaiono anche nostri diretti concorrenti, ma anche che nelle relative
pagine dei risultati assumiamo una posizione di prestigio e avremo probabilmente un rendimento
superiore a quello degli altri.
Viceversa, se un utente ha una quota alta di impression ma una posizione molto lontana dal vertice,
vuol dire che i suoi annunci appaiono spesso, ma difficilmente otterranno molti click. Attenzione
all’uso del termine “apparire”, che non significa naturalmente essere visti e tanto meno guardati.
L’analisi dati si deve quindi spostare su un’altra tabella, dal menù campagne:

Colonne > personalizza colonne > metriche concorrenza > “quote”

All’interno di essa, particolare importanza deve essere riservata alla voce “quota impressioni esatte
nella rete ricerca”. A questo riguardo, la guida, recita:

«Quota impressioni corrispondenza esatta su rete di ricerca indica le impressioni generate divise
per il numero stimato di impression che avresti potuto generare sulla rete di ricerca per i termini
di ricerca esattamente corrispondenti alle tue parole chiave.»

In pratica, lo strumento genera un rapporto ipotetico tra le volte che l’annuncio è comparso dopo una
query e l’effettiva presenza della chiave a corrispondenza esatta nel gruppo annunci.
Sempre la guida, dice ancora:
«Quota impressioni su rete di ricerca indica le impressioni generate sulla rete di ricerca diviso
per il numero stimato di impressioni che avresti potuto generare.»

Il che significa, in questo caso, che il tool mette in rapporto impression e ricerche totali. In questo
modo potremmo scoprire di aver ottenuto 100 impression, ma a fronte di 1.000 ricerche totali.
Anche in questo caso, si continua a far riferimento alle impression anziché mettere l’accento sul
centro della catena alimentare di AdWords che, in realtà, è il click. È infatti il click che, indirizzando
l’utente sulla landing page/sito, mette la campagna in produzione; è vero che per ottenere un click
dobbiamo essere visualizzati, ma se alla fine l’obiettivo della campagna è condurre potenziali clienti
su landing page, il numero che dovremo guardare è il numero di click su base ricerche, cioè il CTR.
In sostanza, al di là di come si possa intendere il rapporto simbiotico tra impression e click,
l’indicatore davvero utile è il CTR, che li comprende entrambi. Più il CTR è alto, più possiamo
ritenerci soddisfatti. I clienti stanno venendo da noi perché non solo visualizzano i nostri annunci ma
li notano e li trovano convincenti.

9.7 Mi produci? Ma quanto mi produci?


I criteri con cui valutare un consulente AdWords devono essere gli stessi che si prendono in
considerazione quando decidiamo di condurre una campagna da soli?

Capita spesso di sentir giudicare una campagna come “improduttiva” quando, in realtà, si vanno a
misurare metriche di rendimento che non sono adeguate per valutare in modo corretto le sue
performance. Purtroppo, tali analisi sbagliate vengono fatte sia quando gli inserzionisti provano a
gestirsi la campagna da soli sia quando si rivolgono a un consulente esterno. Passiamo pertanto in
veloce rassegna gli errori più comuni a cui si va incontro quando si valutano le performance di una
campagna e, sulla base di queste performance si giudica il prezzo richiestoci da un consulente
AdWords.
A questo proposito, una prima riflessione va fatta rispetto ai servizi di consulenza di gestione delle
campagne quantificati in percentuale. Tale format è probabilmente quello che genera i maggiori
malcontenti. Di solito, la percentuale richiesta come servizio di consulenza oscilla intorno al 20%
dell’importo investito in keyword. Tale modello, pur rappresentando un sistema semplice e
immediato per giungere a una contrattualizzazione della consulenza AdWords, si traduce quasi
sempre in un perfetto cul-de-sac.
Se il cliente investe poco, infatti, il costo consulenza sarà così basso da non accontentare il
consulente, che si troverà a dover comunque investire molte ore di lavoro con un guadagno orario
estremamente basso. Se, invece, il budget investito in keyword è alto, è allora il cliente che troverà
non conveniente spendere migliaia di euro per affidare al consulente la gestione della campagna.
Il tutto è aggravato dal fatto che l’importo speso in costi vivi AdWords non è affatto un buon
indicatore dell’effettiva complessità della campagna. Infatti, è molto più difficile portare profitto a un
cliente che spende un euro al giorno che non a uno che ne spende cento. Applicando il modello
contrattuale del 20%, il primo consulente incasserebbe 73 euro all’anno, mentre il secondo 7.300
euro. Ipotizzando, tanto per avere una cifra di riferimento, che entrambi abbiano lavorato sulla
campagna circa 60 ore nel corso dell’anno, il primo gestore otterrebbe un guadagno orario di soli
1,21 euro. Quale azienda si sentirebbe al sicuro sapendo che il suo “super consulente” lavora per
meno di 2 euro all’ora?
Vediamo allora altri metodi di quantificazione delle attività svolte dal consulente AdWords, che si
basano sulle performance effettivamente raggiunte in base a una serie di possibili parametri di
valutazione. Parametri che, per altro, possono essere utilizzati anche dall’investitore che gestisce
direttamente le proprie campagne per valutare l’efficacia del proprio lavoro.

Gli Obiettivi – Aumentare le conversioni


Tra i diversi obiettivi possibili nella gestione ottimizzata di una campagna, l’aumento delle
conversioni è uno dei più ambigui. Per comprendere tale affermazione, distinguiamo tra lead
generation e vendita.
Lead Generation: se sto chiedendo al consulente di aumentare i contatti, devo essere
consapevole che questo è un dato di una semplicità disarmante. Per ottenere tale risultato,
infatti, basta seminare chiavi generiche e creare annunci “ambigui”. Così facendo, le
conversioni aumenteranno in modo costante. Ma, in questo modo, andremo incontro a due
criticità.
La prima, di natura economica, è data dal fatto che con l’aumento numerico delle conversioni
possono aumentare anche i relativi costi.
La seconda è che, al di là del numero di conversioni ottenuto, ciò che conta è soprattutto il
costo di chiusura.
Se facciamo lead generation finalizzata alla vendita al secondo contatto (come può essere il
caso di lead associato alla richiesta di disponibilità in una struttura turistica), l’aumento dei
contatti potrebbe essere generato da un aumento dei lead meno buoni, relativi a utenti non
realmente interessati alla nostra proposta. In casi come questo, è il reparto vendite che deve
decidere se può sobbarcarsi l’aumento di lavoro necessario a gestire i nuovi contatti, nella
speranza che alcuni di essi possano, comunque, tradursi in vendite.
Vendita: naturalmente è sempre bene che aumentino le vendite, ma bisogna comunque
verificare quanto costa una conversione e qual è il ritorno sull’investimento che essa si
dimostra in grado di generare. Magari una certa conversione mi costa meno di prima, ma mi
fa guadagnare anche meno.

Abbassare il costo conversione


L’abbassamento del costo di conversione è una metrica soddisfacente, a patto che resti inalterata – se
non addirittura migliori – la percentuale di chiusura. Se il costo conversione si abbassa e le
conversioni che vanno a buon fine sono percentualmente uguali a prima, il risultato è sicuramente
apprezzabile. Guai, invece, ad abbassare il costo conversione producendo contatti che poi non si
tramutano in chiusure effettive.

Abbassare il costo per click


L’abbassamento del costo per click può assumere due diverse forme. La prima è rappresentata dal
“fare più click con lo stesso budget”, la seconda dal “fare gli stessi click spendendo meno”. In
entrambi i casi ci troveremmo davanti a due situazioni soddisfacenti, a patto che siano
qualitativamente misurabili attraverso la generazione di un sistema di conversioni che certifichi se gli
accessi a costo inferiore sono davvero produttivi.
Infine, ricordiamo sempre che l’abbassamento dei costi per click, di per sé, non è complicato; ma se
si ottiene agendo sulla posizione degli annunci all’interno della pagina dei risultati di ricerca,
potrebbe essere solo un palliativo, perché tale operazione, riducendo il CTR, costringerebbe ad
aumentare nuovamente i costi in futuro.

Quale deve essere quindi il modello ottimale sulla cui base stabilire un rapporto di consulenza con
un esperto AdWords? In effetti, nessuno di quelli descritti può essere considerato sicuramente
migliore degli altri perché nessuno è del tutto privo di criticità. Come sempre avviene nelle relazioni
umane, tutto passa, alla fine, attraverso un rapporto di fiducia interpersonale che, in questo caso,
deve basarsi sul riconoscimento dell’onestà e della competenza del consulente oltre che sulla sua
capacità di portare risultati. Rispetto a quest’ultimo decisivo aspetto, è necessario essere pazienti e
concedere a lui e alla campagna che sta gestendo (o a noi stessi, nel caso lo facciamo direttamente)
un tempo sufficientemente lungo da garantire la possibilità di trarre conclusioni attendibili. Se una
campagna è pianificata per durare dodici mesi, la mancanza di risultati nei primi quindici giorni può
essere considerata assolutamente fisiologica.

1. http://bit.ly/1150OAt.
CAPITOLO 10
CAMPAGNE

10.1 Se non parte non funziona!


Pianificare è una delle chiavi di successo di AdWords ma capita spesso che una campagna non
riesca a decollare a causa della sua mancata partenza nei tempi stabiliti.

Per quanto possa sembrare banale, una delle cause più frequenti di insuccesso di una campagna
AdWords è da ricercarsi nella sua mancata partenza. In tali casi, più che lamentarsi perché
“AdWords non ha funzionato” l’inserzionista dovrebbe rimproverare se stesso perché “non è partito”.
Se uno dei punti di forza del sistema di keyword advertising di Google è dato dalla possibilità di
generare attività e interventi di ottimizzazione che possono essere messi in pratica quasi in tempo
reale, suona decisamente paradossale il fatto che, in determinati casi, una modifica o
un’implementazione diventi attiva dopo tre giorni anziché dopo poche ore da quando è stata
impostata sulla piattaforma. Eppure questo avviene e, nella maggior parte dei casi, la responsabilità
di questa situazione penalizzante sta tutta dalla parte dell’inserzionista.
Per evitare di incorrere in questo problema, è necessario pianificare con attenzione il timing della
campagna. In quest’ottica, gli elementi a cui prestare attenzione sono sostanzialmente tre:
modalità di pagamento;
attivazione;
normative.

Iniziando dal primo fattore, sappiamo che esistono due modalità di pagamento: anticipato (manuale) e
posticipato (automatico). Nel pagamento anticipato è sempre preferibile usare la formula con carta di
credito poiché, scegliendo il bonifico bancario, il pagamento implica un’attesa variabile tra 5 e 10
giorni. Se desideriamo che la campagna parta subito, evitiamo quindi di pagare con bonifico
bancario.
Nel nostro percorso minato, il secondo possibile ostacolo è rappresentato dall’attivazione. Per
quanto possa apparire strano, la voce “attivazione”, presente nel pannello di controllo, non viene
quasi mai presa in considerazione da coloro che avviano le loro prime campagne AdWords.
Eppure, chi si occupa del lancio di un evento o progetta una qualche operazione di un certo rilievo,
tende ad aver ben chiara la data “alfa”. Lo stesso deve avvenire anche nella progettazione di una
campagna di web marketing. Sempre partendo dagli obiettivi per cui è stata ideata, è necessario
pianificare in quale arco di tempo essi dovranno essere raggiunti e, sulla base dell’orizzonte
temporale così delineato, quando esattamente la campagna dovrà iniziare. In questo modo potremo
farla partire esattamente il giorno stabilito, agendo nel menù di impostazioni avanzate (tutte le
funzioni attive) sulla voce:

Pianificazione: data di inizio, data di fine, pianificazione annunci


Figura 10.1 – Esempio di schermata di pianificazione.

Attraverso questa funzione è possibile fissare giorno e ora di inizio e di fine della campagna. Per
evitare spiacevoli inconvenienti, conviene sempre impostare l’inizio con qualche giorno di anticipo
(almeno tre) rispetto a quando essa deve essere tassativamente “online”, in modo da far fronte a due
possibili elementi di blocco: gli annunci contenenti immagini o video e le normative.
A differenza della maggior parte di quelli puramente testuali, infatti, gli annunci con immagini e video
sono soggetti a controllo manuale e, a seconda del periodo più o meno affollato di richieste, tale
processo può prolungarsi per qualche giorno, sino a generare ritardi di attivazione.
La terza voce o, se vogliamo, il terzo ostacolo sul nostro percorso è rappresentato dalle normative, la
cui conoscenza può evitarci di incorrere in spiacevoli e penalizzanti violazioni.1
Per riferirci solo ai casi più frequenti, ricordiamo come alcune parole chiave o annunci, se
contengono termini “ambigui”, siano soggetti in prima istanza a un controllo automatico da parte del
sistema, che cerca di comprenderne il significato e di rilevare se il loro uso sia lecito oppure no. Se
ritenuti “sospetti”, gli annunci vengono bloccati e devono poi passare al controllo manuale per essere
ulteriormente giudicati ed eventualmente riabilitati. Ma affinché tutto questo avvenga possono
trascorrere anche alcuni giorni.
Ecco dunque che, se per esempio desideriamo promuovere un aperitivo moderatamente alcolico in un
paese nel quale il consumo di determinate bevande è soggetto a restrizioni, sarà opportuno
assicurarsi di creare parole e annunci con largo anticipo rispetto all’inizio pianificato della
campagna, per evitare che questa non possa partire al momento giusto.
In conclusione, anche in un sistema che basa gran parte del suo successo proprio sull’immediatezza
delle azioni di controllo, può risultare quanto mai opportuno pianificare con anticipo la struttura
temporale della campagna.

10.2 Quando andare controcorrente conviene


Troppo spesso si confonde un calo di domanda con l’assenza della stessa. Far lavorare le
campagne anche nei periodi di stanca è, invece, un utile investimento.

Partiamo dai termini “conversione corta” e “conversione lunga” chiarendo da subito che non
possono essere definiti in assoluto ma devono essere commisurati a una serie di elementi tra cui la
categoria merceologica, il prodotto pubblicizzato e il periodo dell’anno in cui la conversione
avviene. Per chiarire il tutto, prendiamo come esempio il comportamento di acquisto associato alla
vendita al dettaglio di un gioco da tavolo attraverso un sito di e-commerce specializzato. La
conversione corrisponderà, naturalmente, alla vendita del gioco. Per analizzare nel dettaglio il
percorso che conduce gli acquirenti a convertire, possiamo utilizzare AdWords accedendo al menù:

Strumenti e analisi > conversioni > tempo alla conversione

Attraverso questo menù possiamo ricostruire il comportamento delle persone che da utenti interessati
si sono trasformate in acquirenti del prodotto, analizzando tutto ciò che hanno fatto e il momento in
cui lo hanno fatto, dalla loro prima azione orientata al prodotto fino alla conversione finale.
Immaginiamo allora un utente che compie una prima ricerca il giorno 1, visualizza il nostro annuncio
ma non lo clicca. Ripete la stessa ricerca il giorno 2 e, stavolta, clicca il nostro annuncio. Si
comporta ancora nello stesso modo il giorno 3 e salva il nostro sito tra i preferiti. Il giorno 4, infine,
acquista il prodotto senza cliccare sull’annuncio ma accedendo direttamente al nostro sito, grazie al
salvataggio del relativo URL che aveva fatto in precedenza.
L’utente avrà quindi generato una conversione:
4 giorni dopo la prima impressione;
3 giorni dopo il primo click;
2 giorni dopo l’ultimo click.

Questo tipo di comportamento di acquisto, fatto di approcci progressivi e distanziati nel tempo, si
verifica naturalmente durante tutto l’anno ma, in particolari momenti, può svolgersi su orizzonti
temporali più o meno dilatati.
Trattando, come nel nostro esempio, di vendita di giochi da tavolo, è probabile che nel periodo
natalizio il tempo complessivo di acquisto sia più breve, accelerato dalla paura degli utenti di non
ricevere il prodotto in tempo per la festa. Gli andamenti storici dimostrano come il tempo medio di
acquisto risulti più corto anche nei periodi in cui vi sono cali della domanda, come avviene in genere
per i prodotti la cui disponibilità è influenzata dalla chiusura per ferie degli esercizi fisici. Pensiamo
al periodo estivo quando per un motivo qualsiasi potremmo aver voglia di comprare un gioco da
tavolo e, non riuscendo a trovare un negozio aperto, potremmo decidere di acquistarlo online. In tali
periodi, peraltro, è possibile incorrere in brutte sorprese anche in rete. Le logiche dell’online, infatti,
sono purtroppo ancora eccessivamente legate a quelle dell’offline e non è affatto certo che a luglio
riusciremmo a trovare un negozio “aperto”. Anche gli e-commerce, paradossalmente, vanno in ferie
d’estate, magari senza neppure rendersi conto delle opportunità che in questo modo perdono.
Proprio in occasione dell’andamento presunto della domanda nel periodo estivo, il venditore di
giochi inserzionista AdWords potrebbe decidere di ridurre il proprio investimento in adv, pensando:
“dato che in questi mesi ci sono meno clienti, posso risparmiare sugli investimenti”. Ma questo
sarebbe davvero un grave errore, originato dall’idea che un calo nel volume dei potenziali clienti
corrisponda a una loro totale assenza. Per dimostrare la fallacia di questo ragionamento, ricorriamo
ancora a uno strumento di Google e utilizzando Google Trend vediamo il flusso di ricerca dei termini
“giochi da tavolo” e “giochi in scatola” su base annua. Nell’immagine presentata, il territorio è
quello italiano e il mese quello di agosto, che coincide con la chiusura di molti negozi fisici e online.
Figura 10.2 – Trend di ricerca dei termini “giochi da tavolo” e “giochi in scatola”.

Osserviamo in particolare due elementi del grafico. Il primo è il periodo di calo della domanda in
corrispondenza con il mese di giugno. Il secondo è invece rappresentato dalla curva di crescita che si
registra proprio in agosto, quando gran parte degli esercizi resta chiusa. Questo tipo di andamento,
oltre a ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno, che il mondo va avanti anche nei periodi di ferie, ci
suggerisce che proprio in un periodo ritenuto “morto” non solo la domanda di giochi da tavolo non
cala ma possono presentarsi ottime opportunità di business.
Nel grafico di Google Trends vengono rappresentati valori che oscillano tra 0 e 100, dove 100
corrisponde all’apice della domanda registrata nel momento considerato. Nell’esempio riportato,
anche nei periodi di flesso i valori non arrivano mai a zero, arrestandosi, nel caso dei giochi da
tavolo, a 30. Ciò significa che a fine giugno la domanda di questo genere di prodotti è quantificabile
nel 30% del volume massimo.
Inoltre, se il tempo all’acquisto è medio lungo, il cliente potrebbe concludere il suo processo
decisionale in luglio, quando sulla chiave indicativa della domanda (vedi il grafico) si percepisce
una cuspide di crescita. L’acquisto del cliente potrebbe quindi essere nato proprio nel periodo di
calo della domanda.
In questo modo crediamo di aver dimostrato dati alla mano che un flesso nella domanda non
corrisponde all’azzeramento della stessa e che proprio questi momenti possono offrire
all’inserzionista che ha il coraggio di andare contro-corrente opportunità quanto mai interessanti.
In tali periodi, è importante, dunque, continuare a presidiare con costanza le pagine di ricerca, magari
anche aumentando leggermente i budget. Peraltro se, come in genere avviene, al calo della domanda
si associa anche un calo nelle proposte sponsorizzate dagli altri competitor, anche solo mantenendo
costanti i nostri investimenti guadagneremo posizioni, e i nostri annunci risulteranno più visibili.
Questo produrrà l’innalzamento del CTR, con un conseguente miglioramento del punteggio di qualità
che si tradurrà a sua volta in un abbassamento dei costi.
Il tutto senza dimenticare che se riusciamo a intercettare e soddisfare i bisogni di acquisto di un
cliente che pensava di non riuscire a trovare ciò che cercava a causa del periodo festivo, egli
potrebbe ricavare un surplus di gratificazione dalla nostra offerta e diventare un cliente fedele.
In sintesi: nei periodi di riduzione della domanda non spaventiamoci ma andiamo contro corrente,
focalizzando i nostri sforzi e, se proprio non vogliamo aumentarli, manteniamo almeno costanti i
nostri investimenti.
10.3 Testiamo il testabile
In che modo la posizione dell’annuncio o il CPC massimo agiscono sulle performance?
L’uso dell’esperimento AdWords per determinare come le diverse variabili influenzino il
rendimento della campagna.

Come abbiamo visto in un altro contributo, gli esperimenti permettono di generare variazioni per
ciascuno degli elementi che, nell’insieme, contribuiscono a dare vita a una campagna (pagine del
sito, parole chiave, annunci, gruppi annunci e così via) con lo scopo di valutare se tali variazioni
producano risultati migliori rispetto a quelle utilizzate. In questo paragrafo ci concentriamo sulla
variazione dell’offerta CPC per le parole chiave che compongono un gruppo annunci.

Come sappiamo, il valore del CTR è un fattore cruciale nella determinazione del punteggio di qualità
di un annuncio o di un gruppo di annunci e questo, a sua volta, influisce sul posizionamento nei
risultati di ricerca in relazione al costo massimo per click impostato. La posizione ottenibile nei
risultati sponsorizzati è assolutamente elastica e viene costantemente determinata dall’algoritmo
Google in relazione alle oscillazioni del punteggio di qualità.
A parità di punteggio di qualità, i nostri annunci potrebbero essere superati, in ordine di
presentazione, da inserzionisti che hanno fissato un CPC massimo maggiore del nostro.
Tale risultato potrebbe essere conseguito anche a fronte di un solo centesimo speso in più rispetto a
noi. Detto in altri termini, per quanto l’algoritmo di generazione di visualizzazione degli annunci
AdWords sia prevalentemente meritocratico, questo non significa che l’offerta economica proposta
dai vari inserzionisti sia del tutto ininfluente. Anzi!

Cerchiamo di capire meglio questo passaggio.


Immaginiamo due inserzionisti che, avendo punteggi di qualità e CTR perfettamente identici,
investono entrambi un budget di 10,00 euro al giorno. L’unica cosa che li differenzia è che uno dei
due ha fatto un’offerta di CPC superiore di un centesimo a quella dell’altro. Alla fine della giornata è
probabile che l’inserzionista che ha risparmiato un centesimo per ogni click finirà il proprio budget
più tardi dell’altro e potrà così ottenere qualche click in più.
Se il centesimo di differenza sul CPC assicura comunque ai suoi annunci una posizione
immediatamente successiva a quella dell’altro inserzionista, collocandoli per esempio al secondo
posto, tale “perdita di posizione” può risultare per lui comunque vantaggiosa, in quanto bilanciata dai
click in più guadagnati. In questo modo l’utente in seconda posizione potrà proseguire nella sua
strategia, facendo accollare a quello che lo precede un costo superiore.
A un certo punto, entrambi gli inserzionisti potrebbero tuttavia legittimamente interrogarsi su quanto
sia effettivamente vantaggiosa la propria posizione rispetto a quella dell’altro.
Per rispondere a questa domanda e, più in generale, per comprendere le variazioni delle performance
di una campagna in relazione al CPC fissato e alla posizione media ottenuta dagli annunci, la
soluzione più efficace è quella di realizzare degli esperimenti utilizzando la relativa funzione di
Google AdWords.2
Attraverso l’esperimento, l’inserzionista può modificare il CPC di determinate parole chiave per
esplorare posizioni diverse (più avanti o più indietro nel ranking) e valutare se queste siano più
premianti rispetto a quella originale. Infatti, come abbiamo visto per le landing page, anche in questo
caso non esistono soluzioni valide per ogni situazione e solo un esperimento condotto per un periodo
di circa 30 giorni può darci risposte precise e attendibili. Attraverso il test possiamo modificare il
CPC e agire in questo modo sulla posizione media degli annunci. Il sistema applica la variazione
introdotta a una percentuale di pubblico che può essere stabilita in partenza. Alla fine del periodo di
test avremo ottenuto tutti gli indicatori necessari a comprendere quale sia la coppia di valori “CPC e
Posizione Media” e la posizione media migliore e più performante per la nostra campagna.
Ricordiamo a questo proposito che “più performante” non vuoldire esclusivamente che sia in grado
di generare più conversioni. Per fare un esempio diverso, possiamo pensare che una variazione di
posizione, agendo sul CTR in modo diretto, potrebbe tradursi in un abbassamento sensibile del CPC
medio e, quindi, in un aumento dei click ottenibili sull’unità di tempo anche molto rilevante.

10.4 Non scoraggiamoci


Come utilizzare il remarketing affinché possa produrre risultati in una campagna AdWords.

Tra gli strumenti di AdWords, il Remarketing è sicuramente uno dei più suggestivi. Alcuni lo
definiscono “retargeting” ma il concetto è comunque lo stesso: rimodellare il focus della campagna
sulla base del compimento o meno di un’azione da parte degli utenti. Probabilmente, sarebbe più
corretto definire tale attività “ri-profilatura”, dato che serve soprattutto per intervenire su clienti da
cui ci aspettavamo un certo comportamento che non si è verificato e che, per non perderli, cerchiamo
di “ri-profilare” affrontandoli in modo diverso e con nuove suggestioni.
Abbiamo detto “soprattutto” perché, in realtà, il remarketing consente di riprofilare anche in
occasione del compimento da parte del cliente dell’azione attesa sotto forma di conversione. Così
facendo è possibile generare liste di remarketing basate sia su utenti che hanno convertito sia su
utenti che invece non lo hanno fatto.
Con la nuova interfaccia AdWords, che consente di importare le liste anche da Analytics, la funzione
Remarketing offre l’opportunità di acquisire profili praticamente illimitati, articolati sulle diverse
variabili di segmentazione. In questo modo, possiamo costruire database utenti basati, per esempio,
sul loro profilo di ingaggio, andando ad analizzare il percorso di pagine viste sul sito, il tempo di
permanenza sullo stesso o un insieme di altre azioni combinate. Le profilazioni che si possono
generare offrono virtualmente la possibilità di trasformare i nostri annunci in una caleidoscopica
molteplicità di messaggi tutti diversi tra loro. Il rischio, in questo caso, è quello di creare confusione
anche in chi deve gestirli. Questo non significa che si debba necessariamente lavorare con pochi
elementi. Anzi, la gestione a grappolo degli elenchi, se limitata a un numero basso di visualizzazioni
per utente3, diventa un plus-valore perché cerca di concretizzarne le azioni in un numero limitato di
visualizzazioni (in pratica è inutile mostrare lo stesso annuncio troppe volte alla stessa persona: se
suscita interesse, riceverà quasi subito un click).
Il problema principale connesso con l’uso del remarketing è generato dal fastidio, sempre più
pressante, che gli utenti avvertono accorgendosi di essere spiati nelle proprie ricerche. La reazione
che si riceve, quando si racconta in aula questo tipo di meccanismo, è inevitabilmente
un’esclamazione del tipo: “Ah ecco perché ogni volta che guardo un video, quel sito web mi tartassa
con altre proposte.” Dove ciò che conta è proprio la scelta del verbo “tartassare”, che esprime al
meglio la sensazione che gli utenti provano quando sono sottoposti a questo tipo di remarketing
selvaggio. Peraltro, oltre a “tartassare”, determinati siti web lo fanno anche male, come nel caso di
alcuni fra quelli turistici, che a fronte di una mancata prenotazione di un volo low cost iniziano a
proporci mete tra le più esotiche, a prezzi per noi inabbordabili. Questo evidentemente è un esempio
di cattivo uso del remarketing basato appunto sullo “spionaggio” dell’utente e su un gioco al rialzo
finalizzato non tanto a cercare di intercettare i suoi reali bisogni, ma ad aumentare i margini
dell’azienda proponente. Una corretta “customer intelligence” dovrebbe invece garantire all’utente di
sentirsi compreso, coccolato e magari allettato con proposte realmente interessanti e in linea con i
bisogni espressi dalla sua ricerca. Siamo infatti convinti che il vero fine ultimo del remarketing
dovrebbe essere la fidelizzazione dell’utente, ottenibile quando attraverso l’insieme delle attività di
marketing e comunicazione messe in atto l’azienda riesce a trasmettere in modo discreto e credibile
una affermazione del tipo: “ho la risposta per te”. È vero che oggi AdWords strizza l’occhio
all’intento4 degli utenti. Ma se il remarketing strizza l’occhio solo al portafoglio dell’azienda, si
genererà una frattura che renderà insoddisfatto il cliente il quale, non solo non arriverà a convertire
alla proposta che gli stiamo facendo ma, da quel momento, inizierà probabilmente a ignorare in modo
sistematico i nostri annunci e il nostro sito.
Vediamo allora alcuni semplici esempi di remarketing corretto, ricordando che non bisogna mai
eccedere nella pressione esercitata sul cliente e che ogni annuncio dovrebbe essere proposto non
troppe volte al giorno (diciamo dalle 3 alle 5).

Acquisto
Se l’utente ha comprato presso il nostro e-commerce, possiamo fare in modo di incentivarne il
ritorno proponendogli uno sconto sul prossimo acquisto, meglio se non utilizzabile prima del mese
successivo ma entro due mesi dal primo acquisto. In questo modo potremmo indurre il cliente a
comprare nei mesi successivi, magari facendo piccoli acquisti ma con cadenze regolari.

Acquisto mancato
In questi casi bisogna capire, esaminando le canalizzazioni su Analytics, perché e dove il cliente esce
dal percorso d’acquisto. Se, per esempio, esce dall’area “carrello” o ancor prima di aver selezionato
qualche prodotto. Il comportamento di un utente che mette in carrello e poi esce è sicuramente
diverso da quello di colui che guarda vari articoli ma non inizia neppure l’acquisto. Nei due casi,
evidentemente, gli interventi da mettere in atto dovrebbero essere diversi e sarebbe quindi opportuno
creare liste diverse.
Alcune delle possibili soluzioni potrebbero essere:
Acquisto con un click – garantire cioè di pagare senza troppi passaggi. È una procedura
semplice se l’utente è registrato;
Acquisto con spese omaggio – se il cliente si è spaventato per le spese;
Acquisto con buono sconto – se non mette in carrello, potrebbe essere stato spaventato dal
prezzo.

Iscrizione alla newsletter


Se l’utente naviga molto nel sito ma non compie conversioni, potrebbe essere interessante generare
un messaggio che lo inviti a restare in contatto con noi. Magari è rimasto colpito dai nostri contenuti
ma poi non è scattata la scintilla. Una buona campagna DEM (Digital E-mail Marketing), rivolta agli
utenti che hanno totalizzato un buon numero di pagine viste sul nostro sito, potrebbe essere molto
produttiva.

Social Network
Anche se richiede più passaggi – perché dobbiamo far atterrare il cliente su una landing page dalla
quale poi potrà andare su un social network specifico – è un sistema molto utile per coinvolgere gli
utenti, generare engagement e mettere in atto iniziative di fan growing profilato, dove gli utenti
cliccano su “mi piace” solo dopo aver visitato il sito. In questo caso, in sostanza, lo scopo è quello
di convogliare l’utente verso i point of presence aziendali sui diversi social network, per restare in
contatto con loro e poterli eventualmente coinvolgere in futuro con iniziative mirate.

Customer Satisfaction
Se la visita dell’utente ha generato una richiesta (lead generation), sarebbe utile creare un messaggio
ad hoc per riportarlo poi sul sito e fargli esprimere una sua valutazione. In questo modo, dopo
l’iniziale esperienza con la nostra azienda, avremo modo di restare in contatto con lui e di
raccogliere le sue valutazioni sulla nostra offerta.
Questa può essere una procedura un po’ rischiosa, in quanto relativamente invasiva ma, se il cliente è
stato servito bene ed è rimasto soddisfatto, il fatto che chiediamo una sua valutazione gli farà capire
che ci occupiamo davvero di lui e vogliamo costantemente migliorare la nostra offerta e il nostro
sito. L’importante sarà poi mettere in pratica quello che, nell’insieme, ci verrà suggerito.

10.5 Non sempre ciò che conta è il denaro


AdWords è uno strumento che consente di ottenere risultati anche a fronte di budget esigui.

Per le campagne AdWords, non è possibile stabilire, in modo aprioristico e astratto, se un certo
budget sia alto o basso. Ogni campagna, infatti, non esiste in astratto ma ha propri obiettivi e
possibili conversioni oltre che una propria storia che ne influenza i costi. Un utente, per esempio,
potrebbe utilizzare un budget irrisorio anche a fronte di una possibile conversione da milioni di euro.
Immaginiamo il proprietario di un immobile di prestigio che, scavalcando l’agenzia, provi a venderlo
online attraverso il proprio sito. Stanzia un budget importante ma, subito al primo click, pagato
magari qualche decina di centesimi di euro, ottiene una telefonata che si trasforma poi in vendita.
Evidentemente è una situazione limite, ma rende bene l’idea di come non ci sia una relazione diretta
tra le dimensioni del budget investito e i risultati effettivamente ottenibili.
Quello che sappiamo per certo è che ogni conversione è – o può essere – il frutto di un lungo
percorso decisionale e di ricerca, realizzato magari attraverso device diversi, in giorni e da luoghi
diversi. Non dobbiamo pertanto attribuire l’avvenuta conversione solo all’efficacia dell’ultimo
accesso fatto dall’utente. Vendere online una macchina fotografica da molte centinaia di euro dopo
una singola visita è probabilmente più difficile di quanto non sia vendere un ottimo liquore a un
prezzo vantaggioso. E questo è vero anche quando l’offerta è quanto mai allettante e vantaggiosa per
l’acquirente. Anzi! Un sito che offre un prodotto a un ottimo prezzo o comunque condizioni
particolarmente vantaggiose di vendita, rischia infatti di non essere preso sul serio alla prima visita.
È probabile, piuttosto, che tale offerta “troppo bella per essere vera” stimoli negli utenti una grande
attività di ricerca della possibile fregatura.
Quindi, una volta stabilito che è improbabile riuscire a ottenere “vendite” direttamente al primo
contatto, dobbiamo sempre ricordare che il budget complessivamente allocato per una campagna
AdWords non va valutato in modo semplicemente quantitativo (come alto o basso) ma piuttosto
attraverso una prospettiva qualitativa e, dunque, come “utile” o “inutile” al raggiungimento dello
scopo per cui la campagna è stata realizzata.
Ecco allora che, se tale scopo non viene definito correttamente e secondo un’adeguata prospettiva di
marketing, diventa impossibile pianificare la campagna e stimarne correttamente i costi. Qualunque
sia l’attività dell’azienda, sia essa una pasticceria o una multinazionale dei dolci, ciò che conta è
aver stabilito con chiarezza gli obiettivi. Che uno dica “O&KR” (objective and key result) o “scopo
della pubblicità e modalità per raggiungerlo”, poco cambia, perché il comune denominatore è sempre
quello di orientare gli sforzi verso uno scopo profittevole per l’azienda.
Fatte queste necessarie precisazioni, torniamo al tema delle dimensioni del budget, osservando come
gli strumenti che AdWords mette a disposizione nella sua interfaccia siano volti soprattutto a favorire
un abbassamento della spesa inserzionistica degli utenti e non il suo aumento. O meglio, siano volti a
far sì che tale spesa sia quanto più efficace possibile. Questa affermazione può apparire contro-
intuitiva ma è proprio così. E questo nonostante AdWords, in relazione alle parole chiave, faccia
spesso presente agli inserzionisti: “budget limitato”; un’espressione che parrebbe proprio un invito
esplicito a spendere di più. Il punto, lo ripetiamo, non è “quanto costa un click” ma quanto tale click
può produrre in relazione al suo costo. Se ho delle chiavi potenzialmente performanti che sono tenute
in pausa dal sistema per budget insufficiente, aumentare tale budget come suggerito da AdWords non
rappresenterebbe un costo ma un saggio investimento in grado di aumentare i profitti
dell’inserzionista.
Tutto questo per dire che non è dal budget che passa il successo di una campagna di marketing – in
certe circostanze si possono ottenere risultati anche impostando un tetto massimo giornaliero di 0,33
euro! – ma piuttosto dalla reale comprensione di quali sono gli obiettivi da raggiungere e quanto
siamo disposti a investire per raggiungerli in relazione al ritorno che ne potremo avere. Stabilito
questo, qualsiasi costo sostenuto potrà essere considerato un investimento in grado di trasformarsi in
opportunità di successo.

10.6 Gli utenti si concedono per gradi


Il raggiungimento di una conversione raramente si consuma dopo una sola visita. Capiamo come
mappare i percorsi che possono portare gli utenti a convertire.

Ho creato una formidabile squadra di basket, pensa il bravo allenatore! Ho un giocatore strepitoso,
afferma quello superficiale. Immedesimiamoci per un attimo nel secondo.
Analizzando il rendimento delle partite, scopriamo che uno dei nostri giocatori – che chiameremo A
– ha tenuto nello scorso campionato una media di 30 punti a partita. Ogni giocatore in squadra ci
costa 20 euro ma, in effetti, solo il giocatore A produce risultati di rilievo. Decidiamo quindi di
vendere i giocatori B, C, D ed E, per comprarne altri 4 che mi costeranno 2 euro ciascuno anziché
20. Nella prima partita la nostra nuova squadra perde e A segna solo 2 punti. Indubbiamente c’è
qualcosa che non va. Decidiamo tuttavia di aspettare per vedere cosa succede nelle successive
partite ma il risultato non cambia: continuiamo a perdere e A non segna più come prima.
A questo punto analizziamo più a fondo le vecchie partite che ci vedevano vincenti, e scopriamo che
A segnava perché B gli serviva splendidi assist. Forse abbiamo fatto male a vendere B e decidiamo
di riprenderlo in squadra. Con lui in campo, perdiamo ancora ma con meno scarto e A è finalmente
tornato a segnare. Convinti allora che la strategia sia quella di guardare ogni singolo passaggio che
porta A a canestro, scopriamo che, nella precedente squadra vincente, tutti contribuivano in qualche
modo a permettergli di segnare. La nostra valutazione ci è costata qualche partita ma ora, finalmente,
abbiamo compreso che il valore si genera attraverso la chimica che lega l’intera squadra e siamo
tornati a essere un team vincente.
Questo stesso insegnamento si applica perfettamente all’inserzionismo attraverso AdWords, in cui
tutti gli elementi – dalla campagna nel suo complesso agli annunci, a ogni singola parola chiave o
parametro settato – costituiscono i giocatori di una squadra che può risultare vincente solo giocando
in perfetta sintonia.
Per assicurasi che questo avvenga, il gestore della campagna AdWords deve costantemente visionare
i “filmati” delle sue “partite” per controllare il comportamento effettivo di ciascun elemento e il
ruolo da esso svolto nel raggiungimento del successo finale/conversione.
Esistono due metodi per visualizzare questo percorso di “score”: direttamente dal menù in colonne
“canalizzazioni di ricerca” o da menù “strumenti e analisi” > conversioni.
Soffermiamoci sul secondo metodo. Una volta attivato il menù, nella colonna a sinistra compare la
voce canalizzazioni di ricerca (alias: come gli utenti generano conversioni); cliccandoci si entra in
un’area che illustra graficamente il percorso prevalentemente effettuato dai clienti. È comodo
accedere a questi dati dalle tabelle pivot dei menù, ma anche comprenderne il funzionamento a
livello grafico-visivo è sicuramente utile.

Figura 10.3 – Il grafico di canalizzazioni di ricerca dentro AdWords, nel menù conversioni di
Strumenti e analisi.

Il primo grafico che ci viene proposto mostra le conversioni supportate da alcuni dati interessanti, tra
cui i giorni prima di una conversione e quanti click e impression servono per ottenere un risultato.
Tali dati ci dimostrano statisticamente quanto, in genere, ogni partita ingaggiata con gli utenti non duri
solo lo spazio di una visita. Prima di giungere a convertire, l’utente ha infatti quasi sempre bisogno di
guardarsi intorno e di confrontare le nostre offerte con quelle dei nostri competitor. In questo suo
percorso decisionale, gli capiterà magari di visitare le nostre pagine più volte anche in giorni
diversi, come pure di visualizzare diverse volte i nostri annunci, generando impression senza click.
Per rilevare questo tipo di andamento, tra le varie voci di menù che compongono la sezione, andiamo
a visualizzare “percorsi più frequenti”. A dimostrazione dell’interconnessione tra i vari elementi
della campagna sopra ricordata, i menù ai quali possiamo accedere da qui sono:

Percorso campagna (click) / Percorso gruppo di annunci (click) / Percorso delle parole chiave
(click) / Percorso query (click)

Analizziamo ora una conversione, partendo dalla parola chiave che l’ha determinata. Nell’esempio
utilizzato siamo un ristorante di specialità di pesce e sappiamo che la parola chiave che ha
determinato la conversione è stata: +ristorante +livorno +pesce (impostata con corrispondenza
estesa, modificata). Questa chiave è nel gruppo di annunci “Ristorante Livorno Pesce”, facente parte
della campagna “Livorno”.
Tutto facile no? Abbiamo capito cosa produce risultato e come l’allenatore ingenuo sopra ricordato,
puntiamo tutto su questa combinazione.
Ma, come nell’esempio della squadra di basket che non riesce più a vincere, i risultati non arrivano e
le prenotazioni al nostro ristorante generate dalla campagna sono davvero poche. A questo punto
decidiamo di scoprire che cosa effettivamente succede nei percorsi degli utenti e osservando le
canalizzazioni di ricerca ci accorgiamo che le poche conversioni ottenute sono avvenute attraverso un
percorso assolutamente diverso da quello che immaginavamo, e che i clienti hanno impiegato 4 click
prima di determinarle.
Vediamo più nel dettaglio questo percorso, osservandolo attraverso tutte le possibili prospettive
offerteci da AdWords.

Percorso campagna
Campagna Toscana > Campagna Mare > Campagna Livorno > Campagna Livorno

I clienti hanno intercettato 3 campagne diverse: partendo da Toscana è passato alla campagna Mare,
per poi cliccare due volte di fila sulla campagna Livorno.

Percorso gruppo di annunci


Gruppo annunci Ristorante {in campagna Toscana} > G.a. Locali sul Mare {Mare} > G.a.
Ristorante Livorno {Livorno} > G.a. Ristorante Livorno Pesce {Livorno}

I clienti sono passati da 4 gruppi di annunci, appartenenti a 3 campagne diverse.

Percorso delle parole chiave


Parola chiave +ristorante +toscana (in gruppo annunci Ristorante) {in campagna Toscana} >
chiave “locali sul mare in toscana” (Locali sul Mare) {Mare} > chiave [ristorante a livorno]
(Ristorante Livorno) {Livorno} > chiave +ristorante +livorno +pesce (Ristorante Livorno Pesce)
{Livorno}

I clienti hanno quindi usato 4 chiavi, su 4 gruppi di annunci appartenenti a 3 campagne.

Percorso query
Query ristorante di pesce in toscana / corrispondente alla parola chiave +ristorante +toscana (nel
gruppo annunci Ristorante) {nella campagna Toscana} > query migliori locali sul mare in toscana /
“locali sul mare in toscana” (Locali sul Mare) {Mare} > query ristorante a livorno / [ristorante a
livorno] (Ristorante Livorno) {Livorno} > query ristorante di pesce a livorno / +ristorante +livorno
+pesce (Ristorante Livorno Pesce) {Livorno}.
In questo menù finale, scopriamo quindi le reali ricerche effettuate dal cliente prima di decidere che
il nostro era proprio il ristorante che stava cercando. Poiché ogni campagna può essere composta da
più gruppi annunci e ogni account può avere più campagne, solo utilizzando questo report possiamo
scoprire quale è la miglior formazione possibile per affrontare il “campionato” e ottenere così un
buon numero di vittorie.

10.7 Oltre il ROPO e ancora più su


Valutiamo il comportamento degli utenti sulla base delle diverse abitudini fuori e dentro la Rete.

ROPO è l’acronimo di “Research Online, Purchase Offline” e indica il comportamento di quegli


utenti che effettuano una ricerca in rete ma consumano l’acquisto al di fuori di essa. Questa è solo una
delle grandi varietà di soluzioni che gli utenti possono mettere in atto nei loro comportamenti di
consumo online. Per questo motivo – e in una prospettiva di marketing globale – si dimostra sempre
più necessario analizzare e comprendere perché e come il comportamento dei potenziali clienti si
modifichi in relazione ai diversi ambiti geografici e merceologici.
Nel 2010 durante il primo summit tra Googler, Top Contributor e Power User della Community di
AdWords, tenutosi a Milano, alcuni dipendenti del programma Engage illustrarono ai partecipanti le
potenzialità di uno strumento chiamato Consumer Barometer, in grado di spulciare enormi quantità di
dati proprio per rispondere alle domande sulle abitudini di ricerca e acquisto degli utilizzatori della
rete. Questo strumento, potenziato sia “ergonomicamente” sia concettualmente, si trova oggi online
all’indirizzo: http://www.consumerbarometer.com/.
Il tool più semplice da usare di tale strumento è il Graph, che consente di produrre grafici diversi in
base alle interrogazioni che gli vengono poste. È possibile definire la categoria di prodotto, il paese
o altre variabili di segmentazione degli utenti, tra cui il livello d’istruzione, l’età, il sesso e l’uso di
Internet.
Vario e articolato è il settore “Topics”, che definisce appunto l’argomento di interesse dell’utente,
inteso come motivo della sua richiesta. Qui si spazia dall’uso dei diversi device alle abitudini di
acquisto, sempre rapportando il comportamento tra il dentro e il fuori la Rete.
Ipotizziamo di voler analizzare la percentuale di coloro che cercano online solo prima di comprare
offline attraverso un’interrogazione, in cui selezioniamo:

Topics > Research & Purchase behavior

Dato l’invio, il sistema inizia a generare il grafico in real time.

Figura 10.4 – Percentuale di compratori che hanno effettuato una ricerca online solo prima di aver
comprato offline.

È importante notare come il grafico possa essere arricchito attraverso la scelta di argomenti multipli.
Possiamo, per esempio, integrare al precedente la percentuale di coloro che cercano online solo
prima di comprare online.
Figura 10.5 – Percentuale di compratori che hanno effettuato una ricerca online solo prima di aver
comprato offline, comparata a coloro che hanno comprato online.

Nelle immagini precedenti abbiamo generato un valore globale ma se stiamo facendo un’indagine per
un’azienda del settore viaggi, con particolare interesse alla prenotazione di Hotel, potremmo
selezionare da Product > Travel > Hotel stays.

Figura 10.6 – Lo stesso grafico relativo alla prenotazione di una struttura turistica.

Ora, senza entrare troppo nel dettaglio delle percentuali, è importante capire perché il ROPO e tutte
le sue estensioni siano di vitale importanza in una campagna di web marketing e soprattutto in una
campagna PCC, in cui ogni singolo ingresso rappresenta un costo.
La generazione dei click in AdWords risente di molteplici valori, come le query utilizzate dagli utenti
che possono contenere intenti più o meno manifesti, o il desiderio degli stessi di mettere a confronto
il nostro prodotto con quello di altri competitor, magari in momenti diversi, generando in questo
modo diversi click su i nostri annunci.
Quello che conta, tuttavia, è l’accesso finale, quello da cui si origina la conversione. In molti casi,
essa può essere mappata automaticamente dal sistema di web analytics. Ma non sempre questo è
possibile, come avviene, per esempio, nel caso di prenotazioni effettuate telefonicamente o di vendite
realizzate direttamente sul punto vendita. In questi casi, l’unico modo di tracciare il comportamento
dell’utente sarebbe quello di interrogarlo direttamente. Se la prenotazione in un hotel avviene tramite
telefono, il personale dovrebbe essere istruito a fare la fatidica domanda “come ci ha trovato?”... ma
la risposta, anche fosse “su Internet”, non darebbe alcuna certezza rispetto all’effettiva origine del
contatto: annuncio sponsorizzato o risultato organico?
Ancora più complicato potrebbe essere il caso di una vendita presso il punto vendita di un
franchising. L’accesso del cliente è avvenuto sul sito “Corporate”, dove ha visualizzato l’indirizzo
della sede più vicina e quindi ha concretizzato l’acquisto sul punto vendita, nel quale un commesso –
seppur bravo e convincente – ha sì realizzato la vendita ma non ha certo avuto il tempo per fare un
sondaggio di qualità.
Perché è quindi utile usare il ROPO? Semplicemente perché l’analisi dei numeri derivanti dagli
accessi dovrà necessariamente subire una scrematura sulla base del comportamento reale di
attitudine all’acquisto. Se il mio grafico dice che per la mia attività e su quel target soltanto il 40% di
chi cerca un prodotto online poi lo compra in rete, dovrò basare i miei benchmark su quel 40%,
perché il restante 60% potrebbe non rientrare nel potenziale di acquisto, anche profilando bene gli
utenti e selezionando con cura chirurgica le chiavi.
Questo senza pensare al bounce rate, poiché di fatto quel 40% ipotetico di acquirenti è comunque
legato a coloro che navigano attivamente nel sito. Questo ci deve abituare a spremere la creatività,
focalizzandola sul pubblico potenzialmente produttivo e non sulla quantità assoluta di accessi.
Abbattendo il bounce, il 40% di compratori resta invariato ma il numero rispetto a cui tale
percentuale viene calcolata sale.
Non impressionatevi, quindi, se i numeri indicano piogge di accessi. Quello che conta è capire in
modo analitico con quale intento effettivamente entrano, e questo è possibile anche sulla base di
un’accurata indagine ROPO.

1. Centro norme AdWords: http://bit.ly/12UeYfy.


2. http://bit.ly/12UaIK2.
3. Impostazioni avanzate > pubblicazione degli annunci > quota limite.
4. Sopratutto con l’avvento delle campagne potenziate.
CAPITOLO 11
I SOCIAL NETWORK

11.1 L’importanza dei “più”


Estendere la percezione della propria azienda con le estensioni Social di AdWords.

Tra tutte le “estensioni annuncio”, quelle Social sono forse le più sottovalutate, probabilmente a
causa di una comprensione ancora scarsa delle pagine aziendali di Google Plus, ritenute a torto del
tutto sovrapponibili a quelle di Facebook. Molte aziende, preferendo quasi sempre il più conosciuto
e diffuso “pollicione” di Palo Alto, considerano i due network come due cloni e ne gestiscono le
pagine allo stesso modo. In realtà, ogni social network ha una propria natura intrinseca e specifiche
pratiche d’uso, determinate tra l’altro dalle logiche di implementazione della piattaforma. Ciascuno
di essi, per esempio, diversifica in qualche modo i propri utenti, ma Google Plus, grazie alle sue
“cerchie”, è certamente quello che realizza al meglio questo processo.
A ciascuna cerchia di persone è garantito un flusso di comunicazione dedicata e specifica: si può,
infatti, scegliere di leggere selettivamente i contenuti di una certa cerchia e scrivere post indirizzati
solo a quest’ultima.
Questo modello relazionale è molto interessante da un punto di vista aziendale, perché consente di
declinare la comunicazione in relazione ai profili dei propri “seguaci”. Come azienda posso infatti
generare cerchie diverse per i miei diversi stakeholder: una per i clienti, una per i fornitori, una per
gli agenti e via dicendo. Posso anche differenziare le diverse tipologie di clienti sulla base del loro
comportamento d’acquisto, degli interessi manifestati o di qualsiasi altra caratteristica che mi
consenta, in futuro, di interagire con loro attraverso una comunicazione specifica mirata. In questo
modo avrò la possibilità di postare nella loro bacheca solo contenuti sicuramente di loro interesse.
Utilizzando Google Plus, pertanto, l’azienda che sa correttamente segmentare può davvero
raccogliere ottimi risultati. Questo non significa, naturalmente, che Facebook o gli altri social
network non lo consentano. Tutt’altro. Siamo anzi convinti che la sinergia Social + Search sarà la
base del web marketing del prossimo futuro e che, per certi aspetti, lo sia già.
Tuttavia, dato che l’obiettivo di questo paragrafo è quello di parlare di come il social network di
Google possa aiutare a ottenere più click su AdWords, è su Google Plus che concentreremo la nostra
attenzione.
Così come accade su Facebook, il numero dei “mi piace” sulle pagine Google+ tende a veicolare
un’impressione di fiducia e autorevolezza. Attraverso di essi, quella pagina ci sta dicendo che molti
utenti ne hanno apprezzato i contenuti. Questo è importante non solo perché ciò la rende credibile ma,
soprattutto, perché testimonia che al suo interno l’azienda offre contributi considerati da molte
persone interessanti e di elevata qualità.
Su Google Plus l’apprezzamento degli utenti offre un duplice vantaggio perché non rimane confinato
all’interno della pagina aziendale – dove è possibile vedere il numero degli utenti che hanno inserito
l’azienda nelle proprie cerchie – ma estende i propri effetti anche nei risultati di ricerca. Una pagina
aziendale che abbia ricevuto dei “+1” mostrerà questo bagaglio di valorizzanti valutazioni anche nei
risultati delle ricerche Google. Siano essi organici o sponsorizzati, su rete ricerca o display.
In pratica, sotto la riga di descrizione del risultato di ricerca ottenuto da un certo utente, comparirà il
numero di persone che hanno cliccato “+1” nella corrispondente pagina. In questo modo l’utente
potrà rilevare se tra gli apprezzamenti a essa attribuiti ce ne sono alcuni generati da persone presenti
nelle cerchie a cui appartiene. È evidente che quando questo avviene l’utente riserverà un’attenzione
particolare a quella pagina che ha ricevuto l’endorsement di persone che conosce – più o meno
direttamente – e di cui si fida. E questo aumenterà notevolmente le probabilità che ci entri e si renda
disponibile ad accogliere le proposte in essa presenti. Concludiamo sfatando il dubbio che
l’eventuale clic sul pulsante +1 possa generare una diminuzione di interesse alla visita del sito web
aziendale. Ciò che di solito avviene è esattamente l’opposto. Dopo una visita positiva sulla pagina
aziendale di Google Plus, infatti, gli utenti che ne hanno gradito i contenuti e hanno manifestato il loro
apprezzamento con un +1 solitamente approfondiscono la conoscenza dell’azienda, andando a
visitarne anche il sito web.
Google Plus è quindi un potente alleato, in primo luogo di AdWords ma, più in generale, di tutta la
catena del marketing aziendale, digitale e non.

11.2 L’unione fa la forza


Social Media e motori di ricerca. Un binomio efficace quando i due si parlano.

Per quanto esistano ancora degli scettici in merito all’efficacia del marketing digitale e del social
media marketing, è innegabile che Google e Facebook rappresentino i due grandi colossi di
generazione del traffico in rete, quantificabile in centinaia di milioni di utenti al giorno. Chiunque
voglia vendere qualcosa facendosi aiutare dalla rete deve pertanto intercettare un po’ di quel traffico.
Per quanto la nostra merce sia bella, economica o esclusiva, se il negozio che abbiamo è piccolo,
poco visibile e situato in una strada non trafficata, le possibilità che avremo di venderla saranno
decisamente scarse. Allo stesso modo, tutti i social network – e Facebook in particolare –
rappresentano enormi snodi di traffico che è indispensabile presidiare con una presenza aziendale
per potenziare le proprie campagne AdWords.
Al di là dei “fake users”, rappresentati dalla minoranza di coloro che si registrano su Facebook con
dati fittizi, la stragrande maggioranza degli utenti è reale e passa del tempo reale sul social network.
Qualcuno potrebbe dire “in modo poco produttivo”, ma questo è un altro discorso. Ciascuno di questi
utenti vive in un luogo definito, parla una certa lingua e ha, oltre a un nome, un’età, un sesso, uno
status sociale, un’istruzione, un orientamento sessuale e dei gusti in fatto di cinema, giochi, auto,
moda e via dicendo. Possiede delle convinzioni politiche e religiose e delle passioni. Molti di loro
si iscrivono a gruppi specifici e partecipano a sondaggi.
Quasi tutti gli abitanti del social network, inoltre, generano contenuti. La maggior parte descrivendo
sensazioni e raccontando situazioni, spesso anche molto banali, della propria vita quotidiana. Altri,
magari un po’ più arrabbiati o motivati, prendendo posizione ed esprimendo le proprie opinioni su
temi rilevanti. Praticamente tutti, infine, esprimono consensi, dato che è particolarmente facile farlo,
cliccando su “mi piace”. Decisamente più rara, invece, è la manifestazione del dissenso. Molti si
chiedono che cosa succederebbe se venisse implementato anche il “pollice verso”. Assisteremmo
forse a un flusso interminabile di disapprovazioni reciproche e a una quotidiana caduta di teste?
Ciò che è certo è il perché questa opzione non esiste. Attualmente, chi crea contenuti scarsamente o
per niente interessanti, non solo sul social network, se la cava ricevendo pochi “like” e può auto-
assolversi pensando: “probabilmente nessuno mi ha visto”. Immaginiamoci che cosa succederebbe
se, invece, ogni contenuto o comportamento non apprezzato potesse essere “sepolto” dai gesti di
disapprovazione di folle di utenti. Per Facebook vorrebbe dire rischiare di perdere volumi di utenza.
Allo stato attuale, qualunque contenuto e tempo dedicato all’interno del social network genera dati di
traffico che, valutati da un punto di vista puramente quantitativo, lo arricchiscono costantemente. È
chiaro che se gli utenti iniziassero a valutarsi negativamente gli uni con gli altri, ognuno sarebbe
probabilmente più attento e parsimonioso nell’affidare i propri contenuti al giudizio del network e il
traffico, inesorabilmente, diminuirebbe.

Tornando alla realtà delle cose, Facebook costituisce un territorio immenso e densamente popolato di
persone costantemente attive e profilate. Intercettarle in relazione alle loro caratteristiche, desideri e
bisogni può dunque avere una valenza strategica anche ai fini delle nostre campagne AdWords.
Ma come farlo in concreto? Come far lavorare insieme Facebok e Adwords?
Scopriamolo, iniziando a conoscere Sprout Social1, un software decisamente utile non tanto per i dati
che consente di ottenere, per lo più presenti anche negli insights di Facebook, ma per la resa grafica
che offre. Attraverso questo software è possibile vedere il pubblico che la nostra pagina aziendale
Facebook raggiunge.

Figura 11.1 – Visualizzazione delle impression demografiche su Sprout Social.

Nell’analizzare i suoi dati, tuttavia, bisogna fare molta attenzione a quelli che si utilizzano per
progettare la nostra campagna. Diversamente, le probabilità di sbagliarne l’impianto aumentano
terribilmente. Scoprendo di avere nel proprio bouquet il 60% di uomini tra i 25 e i 34 anni, verrebbe
immediatamente da pensare che tale tipologia di soggetti rappresenti il nostro target ideale per
ottenere profitto. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Siamo certi che il dato che conta siano le
caratteristiche di tutti i “fan” dell’azienda?
In realtà, le cose non stanno affatto così e, non a caso, Sprout Social converte in grafico anche i dati
di sharing. Partendo dal nostro bacino di utenti, possiamo quindi capire chi sono gli utenti della
nostra fanpage che effettivamente condividono i suoi contenuti mostrando un atteggiamento
particolarmente benevolo e interessato nei nostri confronti. In questo modo, scopriemo
immediatamente che il volume di impression ottenuto non corrisponde affatto al volume dei contatti
potenzialmente produttivi (sharing).

Figura 11.2 – Analisi dello sharing su Sprout Social.

Ed è questo secondo dato quello davvero da prendere in considerazione. Rilevando coloro che fanno
sharing (cioè condividono, cliccano su “mi piace” o commentano), scopriamo chi interagisce di più.
In questo modo – non preoccupandoci più delle impression che, così facendo, tenderanno a diminuire
– potremo generare dei post maggiormente centrati sulle caratteristiche e gli interessi di questo
sottogruppo di fan, per accattivarci ancora di più il loro gradimento. Contemporaneamente,
analizzeremo il rendimento di tali post per capire i contenuti che i nostri fan apprezzano e
condividono di più, e i relativi format (immagini, testi, video e così via).
Figura 11.3 – Insight dei dati sui post di Sprout Social.

In questo modo potremo giungere a formulare una prima ipotesi di profilazione dei nostri fan-target
elettivi. Per verificare se tali ipotesi sono corrette, possiamo poi creare contenuti sponsorizzati, sia
sotto forma di post sia di Facebook ads, per rilevare come performano sui target individuati. A
questo proposito, non possiamo basarci sul valore del CTR, che su Facebook risulta sempre molto
basso, ma dovremo piuttosto considerare i click di gradimento e controllare se i dati di sharing
rimangono costanti o migliorano. Se questo avviene e i risultati sono soddisfacenti, avremo
finalmente scoperto chi sono e cosa vogliono realmente i nostri utenti più produttivi. A questo punto,
possiamo spostarci su AdWords, e dovendo generare volumi importanti di traffico in poco tempo,
imposteremo una campagna in CPM (costo per mille) su rete display per ottenere molte impression in
pochi giorni. Selezioniamo il nostro target a livello di sesso ed età, avendo l’accortezza di lasciare
attiva la voce “sconosciuto”, in modo da intercettare anche i casi per cui questi dati non sono
recuperabili. Selezioniamo anche gli argomenti, focalizzandoci su quelli dei post con più interazione.
In questo modo otterremo ulteriori dati che ci diranno anche quali sono i siti web – o posizionamenti
– che rispetto al nostro argomento hanno prodotto un maggior numero click.
Attraverso Google Analytics, possiamo anche vedere la pagina esatta e quindi il suo contenuto
espresso in testo:

Sorgenti di traffico > Posizionamenti > URL del posizionamento

Questa lunga catena di operazioni non ci sarà costata poi molto perché, in realtà, fino a questo punto
abbiamo generato attività finalizzate a produrre quantità più che qualità. Ma ora è il momento di
raccogliere i frutti del nostro lavoro, trasformando la quantità in qualità. Partendo da Facebook e
attraverso una serie di passaggi, siamo giunti infatti a profilare i nostri target più produttivi –
abbiamo capito a quali argomenti e format di contenuti sono più interessati – e a identificare le chiavi
di ricerca presumibilmente più performanti. A questo punto non ci resta che costruire la nostra
campagna AdWords e metterla subito in produzione, fiduciosi della sua ottima riuscita.

1. www.sproutsocial.com.
CAPITOLO 12
APPROFONDIMENTI

12.1 AdSense: un potente alleato per il web marketing


di Mauro Gadotti

Google AdSense è sicuramente uno degli strumenti più utilizzati e redditizi per poter guadagnare con
siti internet di svariate tipologie. Molti webmaster di tutto il mondo competono tra loro per creare
siti di ogni genere, sperando di poter guadagnare facilmente attraverso le opportunità offerte dalla
piattaforma. AdSense non veicola solo gli annunci pubblicitari generati attraverso Google AdWords
ma anche quelli creati con una serie di reti pubblicitarie certificate da Google e sottostanti ai
regolamenti di AdWords. Tutto viene gestito da Google DoubleClick Ad Exchange. Negli
innumerevoli siti della rete display, Google AdWords rappresenta comunque la quota dominante
dell’inserzionismo effettivo, con percentuali generalmente superiori al 95% di tutti gli annunci
pubblicati.
Ma cosa ha a che fare AdSense con il web marketing? AdSense è il programma che veicola gli
annunci pubblicitari su milioni di siti internet in tutto il mondo. Conoscerlo bene può pertanto fornire
un grosso vantaggio alla gestione delle nostre campagne di web marketing.
Per sintetizzare all’estremo il contributo offertoci da AdSense, potremmo utilizzare la più classica
delle frasi: “il tempo è denaro”. In effetti, conoscere AdSense ci consentirà di saltare, almeno
parzialmente, alcuni passaggi nella creazione delle nostre campagne sulla rete display, ottenendo così
migliori risultati in minor tempo. Per entrare maggiormente nello specifico, avendo chiari i
meccanismi e le logiche di AdSense, avremo la possibilità di capire, a colpo d’occhio, se un sito
deve essere incluso o no nei nostri posizionamenti o se può convertire meglio di un altro, come
impostare un buon remarketing senza rischiare di perdere un posizionamento, come e perché creare
campagne con immagini e in che modo possiamo farle performare al meglio; e ancora molti altri
suggerimenti che possono fare la differenza tra una campagna mediocre e una ottima.
Vi starete chiedendo se è necessario avere un minimo di esperienza con AdSense per poter
comprendere questi suggerimenti. La risposta è: no. Non è necessaria nessuna esperienza, e i
suggerimenti sono davvero alla portata di tutti. Ma vediamo nel dettaglio come trarre vantaggio da
queste conoscenze.
Quando guardiamo i siti che ospitano AdSense, dobbiamo pensare che abbiamo davanti dei
webmaster che incassano il 68% di quello che noi inserzionisti paghiamo, e che “solo” il 32% va a
Google. Più click ricevono, più guadagnano, ed è ovvio che la tentazione di fare i “furbacchioni”
possa essere piuttosto diffusa. Di fatto, coloro che poi realmente cedono a tale tentazione sono, di
solito, solo i piccoli siti. Dobbiamo anche ricordarci che Google vigila sull’intero sistema, e sa bene
che se gli inserzionisti non sono soddisfatti, tutto il sistema andrà a rotoli. Pertanto, quando viene
intercettato un publisher che cerca di violare le regole, verrà allontanato per sempre dal sistema. Ciò
tutela gli inserzionisti e instaura una sorta di “attenzione” nei publisher che, nella maggior parte dei
casi, cerca in tutti i modi di seguire alla lettera il regolamento.
Come capire quando evitare di includere un sito nelle tue campagne
di marketing e come individuare i siti che possono mandare più visite
interessanti e quindi convertire maggiormente
Creando una campagna pubblicitaria sulla rete display, molti inserzionisti sono soliti iniziare senza
posizionamenti gestiti, lasciando lavorare la campagna per un po’ di tempo, in modo che sia il
sistema a scegliere i siti per loro in base ai contenuti, alle parole chiave, alle categorie o in svariati
altri modi. Solo in un secondo momento vengono analizzati i risultati che le visite provenienti dai
singoli siti generano. Ma quanto tempo dobbiamo attendere e, soprattutto, quanto denaro dobbiamo
spendere per avere una casistica statisticamente valida da analizzare? Non è possibile appena viene
aggiunto un sito valutarne l’efficacia senza dover attendere? Si, qualcosa si può fare. Vediamo cosa.
L’occhio dell’internauta è ormai abituato alla pubblicità e, spesso, la evita senza nemmeno leggerla.
È quindi importante fare in modo che la pubblicità sia guardata e non evitata; sarà poi la nostra
abilità nello scrivere l’annuncio a fare in modo che l’utente ci clicchi.
Per fare questo, alcuni publisher utilizzano sistemi non consentiti o, comunque, al limite del
regolamento. Per esempio: scrivendo sopra gli ads delle frasi ingannevoli tipo “Aiutaci cliccando i
nostri sponsor”; inserendo gli annunci sotto il titolo di un articolo in modo da confondere gli utenti e
strappare click a chi sta cercando di leggere l’articolo; ponendo, in vicinanza degli ads, delle
immagini incolonnate esattamente nello stesso modo, per far pensare che il testo sia la descrizione
dell’immagine e non, come invece è, della pubblicità; utilizzando altri espedienti grafici che attirino
l’attenzione sulle pubblicità, per esempio, delle frecce o, ancor peggio, elementi lampeggianti e via
dicendo.

Figura 12.1 – “... ponendo, in vicinanza degli ads, delle immagini incolonnate esattamente nello
stesso modo...”

Per il publisher, ricevere più click significa guadagnare di più, e per l’inserzionista ricevere un
numero maggiore di visite, ma non dobbiamo farci trarre in inganno. Nel momento in cui un sito
presenta questo tipo di caratteristiche, non dobbiamo esitare a metterlo nei posizionamenti negativi.
Questo genere di siti avrà probabilmente CTR alti, ma la maggior parte delle visite che ricevono i
siti di questi tipo sono portate con l’inganno e quindi difficilmente genereranno delle conversioni.
Questo ci costerà molto denaro, ci abbasserà il punteggio di qualità e, quindi, aumenterà i costi anche
dei click di quei siti che invece potrebbero performare bene. Dobbiamo quindi premiare quei
publisher che non camuffano gli ads.
Com’è quindi possibile per un publisher evidenziare le pubblicità senza però essere ingannevole?
Quando possiamo fidarci? La cosa molto importante è che la pubblicità sia posizionata “Above the
Fold”, cioè nella parte della pagina visibile dal browser senza doverla scrollare. Gli annunci devono
essere possibilmente di grande formato (336x280 pixel, o 728x90 pixel), perché sono quelli che
maggiormente attraggono l’attenzione. Se un publisher scrive sopra gli ads la frase “Link
sponsorizzati” o “Pubblicità”, significa che sta seguendo i regolamenti e, quindi, è un partner
affidabile. Questo non vuol dire che se non c’è scritto nulla si debba assolutamente dubitare (tali testi
di avvertimento, infatti, non sono obbligatori), ma sicuramente è un punto in più. La combinazione di
queste cose, oltre al fatto di base che il sito analizzato deve essere coerente con il nostro business, ci
permette con buona approssimazione di sapere, ancor prima di fare i test, che esso ci porterà un buon
CTR, che le visite saranno di persone realmente interessate e quindi propense a convertire. Una
buona esperienza utente all’interno del sito con la pubblicità genererà certamente fiducia anche verso
il sito pubblicizzato.
Utilizzando questo genere di inserzionismo, peraltro, si ha il grande vantaggio di poter forzare la
posizione dei nostri annunci nelle pagine di ogni sito della rete display. Non tutti sanno, infatti, che,
attraverso un menù un po’ dimenticato, è possibile far sì che i nostri annunci siano visibili solo
“Above the Fold”, o meglio... che non siano visibili “Below the fold”. Ricordiamoci però che se un
sito non ha annunci in quella posizione sarà come escluderlo completamente dalla nostra campagna.
Per impostare questo settaggio è sufficiente andare nella scheda “Rete display”, sezione “esclusioni”,
tab “Categorie”, tasto “Aggiungi esclusioni”, categoria “Below the fold”.1

Un’altra cosa a cui dobbiamo porre attenzione, come inserzionisti nei siti dei publisher, sono i
contenuti. Vediamo un esempio limite per capire il senso di questa affermazione: vi piacerebbe che la
vostra pubblicità di “organizzazione feste” fosse inserita in un sito di pompe funebri? Sicuramente
tale accostamento sarebbe quanto meno disdicevole, e l’esperienza utente finirebbe per generare una
brutta immagine del brand. Prima di scegliere un sito, è quindi importante visitarne tutte le sezioni, in
modo di assicurarsi che non vi siano contenuti non adatti al nostro business. Proprio per evitare una
brutta esperienza ai possibili clienti, nelle norme AdSense relative ai contenuti vengono già
specificate alcune categorie in cui gli annunci non devono comparire. Queste categorie variano dai
contenuti dei giochi d’azzardo ai siti pornografici, passando per la vendita di alcolici o farmaci. Dato
che, nonostante tali regole, i publisher potrebbero comunque avere contenuti discutibili nei propri
siti, magari al limite del regolamento, un’occhiatina non fa mai male.

Come impostare il remarketing in modo che i publisher non ne


vengano infastiditi e non ci chiudano la porta in faccia
Il remarketing è un ottimo strumento pubblicitario e può portare ad avere delle ottime soddisfazioni
ma, come tutti gli strumenti, dobbiamo saperlo utilizzare al meglio. Quando nacque il remarketing, il
numero dei click fatti sugli annunci dei publisher diminuì in percentuale abbastanza vistosa.
Il publisher, a parità di visualizzazioni, si vedeva sfuggire di mano un bel po’ di denaro. Dopo un
primo momento di disorientamento, si compresero le motivazioni di tale andamento. Queste
dipendevano dal fatto che alcuni inserzionisti erano sempre presenti sulle pagine del sito e gli
internauti si stancavano di vedere sempre le stesse pubblicità, magari due o anche tre uguali nella
stessa pagina. Ci fu quindi una corsa per capire in che modo identificare gli inserzionisti che
facevano questo tipo di remarketing selvaggio, per disattivarli.
Dobbiamo sapere che i publisher hanno tutti gli strumenti per poter chiudere la porta in faccia agli
inserzionisti. Se, per qualunque motivo, a un publisher non andiamo a genio, lui può escluderci dal
suo sito. Può disattivare un singolo annuncio perché non gli piace, oppure l’intero nostro account
perché gli “stiamo antipatici”. Questa seconda ipotesi è proprio quello che succedeva – e succede
ancora – nei confronti di certi inserzionisti troppo aggressivi con le campagne di remarketing. Se è
vero che rincorrendo un potenziale cliente c’è la possibilità di “convincerlo”, è altrettanto vero che
se insistiamo troppo si può avere l’effetto contrario. Se importuniamo un singolo internauta beh... è
certamente un danno, ma non un “superdanno”. Se invece infastidiamo un publisher che vede calare i
propri guadagni... quello allora è un grosso guaio, perché tutti gli internauti di un sito web non
vedranno più le nostre pubblicità. Inutile dire che questo potrebbe costarci molto caro, anche perché
non abbiamo nessuno strumento in grado di farci riammettere nel sito, se non quello di contattare
direttamente il gestore e pregarlo di toglierci i blocchi.
La domanda che ci dobbiamo quindi porre è: “Come posso sfruttare il remarketing senza infastidire
un publisher?” La risposta è semplice: è sufficiente non esagerare, quindi impostare una quota di
visualizzazioni giornaliere bassa, limitare al tempo strettamente necessario la presenza nelle liste e,
soprattutto, fare in modo che gli utenti che hanno convertito non vengano più “importunati” dalle
campagne di remarketing. Se gli utenti saranno soddisfatti, anche i publisher lo saranno; noi non
verremo rimossi, riceveremo più conversioni e, di conseguenza, saremo anche più soddisfatti.

Perché si devono utilizzare annunci grafici e a quali formati non


dobbiamo rinunciare per nessun motivo
I publisher sono sempre alla ricerca di incrementare i propri guadagni e questo li porta a testare
continuamente nuove soluzioni. Uno dei rapporti presenti in AdSense è il rapporto sui tipi di
annuncio. Con questo tipo di rapporto, è possibile analizzare i dati sugli annunci di testo – illustrati,
con immagini animate, flash e rich media. Ordinando il rapporto per RPM, cioè per guadagno ogni
1000 visualizzazioni dei nostri annunci, si nota spesso come gli annunci illustrati portino dei
guadagni maggiori, in quanto sono più facilmente cliccati e hanno anche un CPC maggiore.
Nella creazione del codice degli annunci da inserire nelle pagine, i publisher possono scegliere se
visualizzare annunci di solo testo, annunci di testo e illustrati/rich media o solo annunci illustrati/rich
media. In alcune tipologie di sito, nelle quali performano particolarmente bene gli annunci illustrati,
il publisher può essere portato a creare codici di annunci che visualizzano solamente annunci
illustrati/rich media. Questo, chiaramente, per avere un maggior guadagno. Anche se questa pratica è
sconsigliata, molti la utilizzano, e quindi, se vogliamo avere più possibilità di conversioni, è
indispensabile creare anche annunci illustrati.
Quando realizziamo i nostri annunci illustrati, è importante creare le immagini per ogni dimensione di
annuncio possibile. Qualora per qualunque motivo ne fossimo impossibilitati, esistono delle
dimensioni che dobbiamo prediligere che, per i siti desktop, sono il 336x280 pixel e il 300x250;
mentre per i mobile sono 320x50 e 300x250.
Vediamo di capire il perché.
Per quanto riguarda i siti desktop, la dimensione per i publisher che porta ad avere il CTR più alto è
molto spesso la 336x280 pixel; inoltre, questo formato, assieme al formato 300x250, rappresenta il
binomio che nei siti della rete display può contenere filmati. I filmati, spesso, consentono di avere
degli RPM particolarmente buoni, quindi la combinazione di queste caratteristiche porta la
maggioranza dei publisher a inserirlo. Generando annunci immagine in questi due formati, potremo
avere un più ampio numero di siti su cui poter inserire i nostri annunci e avere un maggior CTR. Per
quanto riguarda i siti mobile, la dimensione degli annunci più utilizzata è la 320x50 pixel, dato che
per la maggior parte degli smartphone la risoluzione orizzontale di 320 pixel è la massima standard
utilizzata; la 300x250 è invece la dimensione massima che può essere inserita, e quindi quella che
porta potenzialmente ad avere un CTR maggiore.
Ora vediamo il tutto sotto un altro punto di vista. Sebbene i formati grandi siano quelli che
performano meglio, alcuni siti non li inseriscono affatto, in quanto alcuni publisher ritengono che quel
tipo di formato sia troppo invadente. Se riusciamo a identificare uno o più siti senza i grandi formati,
ci accorgeremo che la posizione dei piccoli formati (generalmente 120x240 pixel, 125x125 o
234x60) offre la possibilità di riempire degli spazi altrimenti non sfruttati.
Realizzando degli annunci anche in questi piccoli formati, avremo quindi la possibilità di “infilarci”
in siti altrimenti inaccessibili. Difficilmente riusciremo a realizzare CTR alti con annunci simili, ma
è probabile, però, che la minore concorrenza che vi troveremo possa riservarci delle buone sorprese
a livello di CPC medio. Una campagna di test con un paio di questi piccoli formati potrebbe essere
una buona idea.

Come l’ordine degli ads nelle pagine della rete display differenzia il
CPC
Un’altra delle cose ignote alla maggior parte degli inserzionisti ma che sicuramente può essere
d’aiuto nella scelta dei posizionamenti o, comunque, per capire il range di spesa dei futuri click, è un
tipo di ottimizzazione “da codice” che i publisher possono fare.
Come abbiamo già detto, i publisher sono sempre alla ricerca di un’ottimizzazione del proprio sito
per poter guadagnare di più. Per capire come ci può essere utile, vediamo come funziona per il
publisher questa ottimizzazione.
Qualora su una pagina ci siano più ads, è necessario valutare quale degli annunci sia il più cliccato.
Una volta verificato questo con un numero significativo di click, è necessario verificare in che
posizione è il codice dell’ads nel sorgente HTML rispetto agli altri. Ricordo che la maggior parte dei
publisher non può inserire più di tre gruppi di annunci per pagina, mentre alcuni partner speciali
possono inserirne anche di più. Un volta identificato l’annuncio con il CTR più alto, è necessario
metterlo per primo in ordine HTML (se non lo è già): questo consente un maggiore guadagno (e
quindi una maggiore spesa per l’inserzionista). Ma perché questo accade? Così come avviene sulla
rete ricerca, anche per ogni visualizzazione di pagina dei siti della rete display viene fatta un’asta tra
i possibili pretendenti. Nel momento in cui è stato determinato l’ordine di apparizione, gli annunci
verranno visualizzati in ordine di richiesta HTML, quindi il primo sarà quello che fa guadagnare di
più e via via fino all’ultimo che fa guadagnare meno. Bisogna però sempre tener conto del significato
di quel “guadagnare di più”, in quanto gli annunci con un ottimo punteggio di qualità possono essere
davanti a tutti anche se in realtà costano di meno. Infatti, il guadagno a click è inferiore, ma se hanno
un ottimo punteggio di qualità significa sicuramente che hanno un CTR superiore e quindi, pur
generando meno soldi, lo faranno più volte, producendo un guadagno comunque superiore.
Ora che abbiamo visto il tipo di ottimizzazione, vediamo come sia possibile, da inserzionisti,
sfruttare questa caratteristica. Come abbiamo detto poco sopra, abbiamo la possibilità, tramite le
esclusioni, di inserire i nostri ads solo “Above the Fold”; analizzando l’HTML dei siti, possiamo
inoltre capire quale degli annunci ci può costare di più. In siti da cui arrivano molte visite, possiamo
combinare le due cose per capire se ci conviene escludere, o no, gli ads “Above the Fold”, in modo
da poter risparmiare soldi e, al tempo stesso, aumentare il CTR.

Possiamo far comparire i nostri annunci tramite i posizionamenti


gestiti in tutti i siti in cui vediamo AdSense?
Una domanda che alcune volte mi sono sentito fare è stata: “Come mai vedo AdSense su un sito ma,
se cerco di metterlo come posizionamento gestito, non riesco a trovarlo nemmeno se ne ricerco
direttamente l’URL?”.
Alcuni inserzionisti danno la colpa di questo a qualche bug nascosto in AdWords, ma chiaramente
non è così. Quando un publisher crea il codice per inserire AdSense nel suo sito, ha la possibilità –
ma non l’obbligo – di associare al codice uno o più canali personalizzati che gli consentano di
monitorare l’andamento della singola unità pubblicitaria. Nel momento in cui si creano i canali, il
publisher ha l’opportunità – non l’obbligo – di abilitare per il canale il targeting per posizionamento,
che è la funzione necessaria affinché gli inserzionisti possano vedere il sito tra le possibili scelte dei
posizionamenti gestiti. Quindi, se in un’unità pubblicitaria non vengono fatte queste due operazioni,
per noi sarà impossibile individuarne subito il sito, ma dovremo aspettare che sia inserito nei
posizionamenti automatici per poi, eventualmente, aumentarne l’offerta. Il publisher ha tutto
l’interesse a fare queste due operazioni – e solo publisher inesperti non le fanno – quindi non trovare
un sito è cosa abbastanza rara. Purtroppo, dal codice HTML del sito è impossibile capire a priori se
il targeting è stato implementato.
Ma davvero soltanto questo è l’unico motivo per cui può capitare di non trovare il sito nei
posizionamenti gestiti? No, esistono altre possibili cause. Anche se il publisher ha implementato il
targeting, infatti, è necessario che il canale sia visualizzato almeno 500 volte al giorno, altrimenti il
sito non comparirà ugualmente nella lista. Questo potrebbe essere visto come lato negativo, se
vogliamo inserire a tutti i costi i nostri annunci in quel sito, ma possiamo vederlo anche come lato
positivo, in quanto ci consente una scrematura a priori dei piccoli siti che potrebbero creare
confusione oltre a un possibile spreco di risorse.
Un altro possibile blocco da parte dei publisher per il nostro posizionamento gestito potrebbe essere
dovuto alle categorie sensibili. All’interno dei settaggi AdSense esiste la possibilità di monitorare le
categorie di appartenenza degli annunci che vengono visualizzati. Per ogni categoria è possibile
vedere la percentuale di impression e la percentuale di guadagni, riferibili al totale del traffico
presente sul sito. Pertanto, se una categoria occupa il 30% delle impression degli annunci, ma ha un
guadagno del solo 3% sul totale, significa che il publisher sta perdendo visualizzazioni (e quindi
denaro) rispetto, per esempio, a una categoria che con il solo 15% delle impression genera un 10%
di guadagni. Il publisher disattiverà quindi quella categoria, in modo che le impression vengano
redirezionate su annunci di altre categorie economicamente più convenienti. Se il nostro annuncio fa
parte di una delle categorie disattivate, i nostri annunci non potranno far parte di quel particolare
posizionamento gestito, almeno fino a quando non verrà riabilitata quella particolare categoria.

12.2 Che Analytics sia con te


di Filippo Trocca

Ho investito una discreta somma per realizzare il sito internet e, finalmente, è online. Gli
imprenditori più virtuosi a questo punto si domandano: e ora? Altri invece, una volta arrivati alla
messa online della propria interfaccia web sulla Rete, non si pongono alcuna domanda, pensano che
il sito viva da sé, e non hanno idea di cosa gli utenti ne pensino.
Costruire il sito e metterlo online è la parte più facile del lavoro. La vera sfida, il “viaggio verso la
perfezione” inizia solo adesso, e la web analysis rappresenta il compagno di viaggio indispensabile
per affrontarlo nel migliore dei modi. Al di là delle informazioni specifiche che è in grado di fornire
– che vedremo tra un attimo – il contributo primario dell’analisi è nel fatto di poter spostare
l’attenzione dagli aspetti tecnici di implementazione, al visitatore, ai suoi comportamenti e alle
valutazioni che egli ci offre rispetto al sito e alla campagna su quest’ultimo eventualmente
implementata. All’interno dei dati rilevabili, per esempio, attraverso Google Analytics è possibile
percepire la voce chiara e forte dei nostri utenti. Ascoltare tale voce e agire di conseguenza è il
modo migliore, non tanto per migliorare semplicemente il sito, quanto piuttosto per ottimizzare le
nostre strategie di presenza sul mercato, affinare la nostra offerta e far crescere il business. Proprio
per questo la web analysis deve essere considerata una funzione del marketing e non uno strumento a
uso esclusivo del dipartimento IT.
Per comprendere quanto questo sia vero, basta osservare il tipo di informazioni che gli strumenti di
web analysis consentono di rilevare.

Questi sono, per esempio, alcuni dei dati ottenibili attraverso Google Analytics.
Quanti visitatori giornalieri riceviamo (il pubblico del sito).
Il tasso di conversione medio (vendita, registrazione, download di file e via dicendo).
Il tempo medio speso sul sito e la percentuale degli utenti che vi ritornano.
Da dove (fisicamente) i visitatori provengono (continente, stato, città e così via).
Quanto le pagine trattengono i visitatori.
Quale azione di marketing ha portato visitatori su sito.

Se il sito è un e-commerce, avremo anche:


le entrate generate;
i prodotti più venduti;
il carrello medio per utente.
Tutte le metriche sopra descritte permettono di creare “la base” della nostra analisi. Partendo da
questa analisi, è possibile dare risposta a domande più complicate e strategiche.
Quali sono gli utenti più remunerativi?
Da dove vengono? (in termini di posizione geografica o azioni di marketing che li hanno
portati sul sito).
Quali sono le pagine che hanno contribuito maggiormente a generare valore al sito? (Non le
più visitate ma le pagine che hanno contribuito maggiormente a generare conversioni).
Quali sono le differenze tra nuovi visitatori e visitatori di ritorno?
Quali sono le campagne marketing che stanno consumando il budget senza portare visitatori
che convertono?
Stiamo riuscendo a creare una relazione con i nostri utenti o semplicemente arrivano sul sito e
non tornano?
Il motore di ricerca del sito aiuta i navigatori a trovare quello che cercavano?

Naturalmente, gli strumenti di web analysis sono, appunto, solo strumenti, e non potranno mai dirci
esplicitamente cosa fare. Il loro scopo è quello di offrirci tutte le informazioni necessarie a
comprendere cosa sta succedendo alle nostre attività di marketing in rete. Come sempre, il fattore
umano è poi ciò che davvero conta per trasformare tali informazioni in azioni effettive di gestione
della campagna e, più in generale, dei processi di comunicazione e marketing messi in atto
dall’azienda. Nella tabella, alcuni semplici esempi ci possono aiutare a capire la relazione tra dati
ottenibili attraverso l’analisi e i possibili interventi di ottimizzazione.

Tabella 12.1 – Esempi di decisioni partendo dai dati.


Dati Azioni possibili
Il 70% delle visite al nostro sito sono nuovi visitatori, che Dopo che gli utenti si sono registrati al sito, se non acquistano, inviare loro
si registrano ma non ritornano sul sito un’email di offerte dopo una settimana.
Chiamare il team di sviluppo per sapere se sono state fatte modifiche alla
Il numero di visite dai motori di ricerca dai risultati struttura del sito o sono stati introdotti redirect.
organici è diminuito del 30% rispetto alla scorsa
settimana Chiamare il team SEO per individuare eventuali cambiamenti e/o sviluppi
introdotti questa settimana.
Controllare le pagine di destinazione della campagna AdWords.

Gli utenti provenienti dalla campagna AdWords relativa ai


Verificare se i nostri prezzi sono competitivi rispetto a quelli dei nostri
nuovi prodotti hanno un tasso di conversione del 2% più
concorrenti.
basso rispetto alla media del sito

Chiamare il team web per pianificare eventuali Test A+B.


Verificare se tali vendite sono incrementali o se altre azioni marketing sono
state influenzate negativamente.
La campagna di remarketing ha generato il 25% delle
vendite di questa settimana
Chiamare i team web e marketing per complimentarsi e spingerli a
sperimentare ulteriormente questo nuovo canale.

I passaggi più importanti per ottenere il meglio da Google Analytics sono sostanzialmente i
seguenti:
1. Controlliamo che il codice di Google Analytics sia installato su ogni pagina del sito. Può
sembrare un consiglio banale ma è la base del successo della nostra analisi. Se questo non
avviene, i dati che otterremo saranno sporchi, non precisi e potranno portare a decisioni
sbagliate.
2. Come individuare eventuali problemi? Analizziamo i dati che si trovano nel report:

Sorgenti di traffico > Sorgenti > Referral

3. Se nell’elenco dei domini troviamo anche quello del nostro sito, è probabile che alcune sue
pagine siano prive del codice Google Analytics.
4. Per individuare quali siano, aggiungiamo come dimensione secondaria al report sopra
indicato “Pagina di destinazione”. In questo modo, saremo in grado di rilevare quale sia la
prima pagina che l’utente ha visitato dopo la pagina senza Google Analytics, e potremo
iniziare a fare delle ipotesi per individuarla.
5. Mappiamo quali sono le azioni più importanti per il nostro business (per esempio,
registrazione al sito, iscrizione alla newsletter, download di un documento ecc.) e impostiamo
Google Analytics affinché le riconosca come conversioni.
6. Se il sito ha un motore di ricerca interno, impostiamo Google Analytics affinché possa
tracciare le ricerche fatte dagli utenti attraverso di esso.
7. Utilizziamo i parametri Utm per permettere a Google Analytics di riconoscere tutte le nostre
azioni di marketing. I parametri Utm sono 5 variabili da inserire all’interno dell’URL che
porta gli utenti al sito, permettendo a Google Anaytics di riconoscere correttamente le azioni
di marketing intraprese. Nei prossimi punti riportiamo il dettaglio delle 5 variabili.
8. Campaign Source (utm_source) – Obbligatorio: identifica la sorgente della campagna
esempio: Google, Zanox per le affiliazioni e così via.
9. Campaign Medium (utm_medium) – Obbligatorio: identifica il mezzo da cui è partita la
nostra campagna. Con mezzo intendiamo keywords advertising, email e via dicendo.
10. Campaign Content (utm_content) – Opzionale: può essere usato in modi diversi, per
esempio per identificare le diverse versioni di un banner nel Test A+B, oppure per rilevare in
quale parte dell’email gli utenti hanno cliccato.
11. Campaign Term (utm_term) – Opzionale: solitamente viene usato nelle campagne PPC per
identificare la parola chiave, ma può essere utilizzato per ricostruire quale prodotto gli utenti
hanno cliccato su email di offerte.
12. Campaign Name (utm_campaign) – Obbligatorio: identifica ogni singola campagna attivata.
13. Se il sito è un e-commerce, implementiamo correttamente il tracciamento e-commerce, in
modo da individuare le transazioni e poter fare analisi dettagliate.
14. Il tutto senza dimenticare di Collegare Google Analytics e Google Adwords!2
15. Rispetto a quest’ultimo punto, è bene ricordare come Google Analytics e Google Adwords
siano due strumenti fortemente integrati e che, collegandoli tra loro, avremo la possibilità di
far condividere dati alle due piattaforme. Grazie al collegamento, Google Analytics
riconoscerà automaticamente le visite provenienti dalla nostre campagne PPC, senza la
necessità di valorizzare i parametri Utm3, e importerà i dati di costo, impressioni, click, come
pure le informazioni relative ai posizionamenti sulla rete display per ciascuna parola chiave.
La piattaforma di web analysis potrà anche rendere disponibili CTR, ROI, costo per
conversione, margine, reportistica specifica per posizionamenti e dettagli sulle performance
delle parole chiave, a seconda della posizione all’interno dei risultati di Google.

Google Adwords, d’altro canto, potrà importare da Analytics la frequenza di rimbalzo, la durata
media della visita, il numero medio di pagine viste per visita e la percentuale di nuove visite. Grazie
a questi dati, leggibili direttamente dall’interfaccia di Google Adwords, potremo applicare le
necessarie tattiche di ottimizzazione.

Come abbiamo appena detto, Google Analytics e Google Adwords sono due strumenti complementari
che misurano dati diversi a partire dai due parametri fondamentali di tutta l’analisi: le visite e i click.

Visite (sessioni) vs click


Google AdWords registra i click degli utenti sugli annunci visualizzati tra i risultati di ricerca
“sponsorizzati” di Google: il click è una singola interazione con l’annuncio, e per ogni interazione
avvenuta, i server di Google registreranno un click.

Google Analytics registra invece le visite. Una visita è caratterizzata dall’interazione generata sul
sito da parte di un indirizzo IP, ed è calcolata considerando una durata di 30 minuti da quando
l’utente smette di interagire con il sito. Questo significa che se lo stesso utente rientra nel sito dopo
31 minuti, viene contato come una nuova visita. Per comprendere meglio la differenza tra i due
parametri, immaginiamo un utente di Google che, dopo aver fatto una ricerca, clicca sul nostro
annuncio, visita il sito, poi ritorna su Google ed esegue una ricerca più dettagliata; nei risultati
ottenuti, ritrova un nostro annuncio, lo clicca e si ritrova di nuovo nel nostro sito. In relazione a
questi comportamenti dell’utente:
Google AdWords registra 2 click;
Google Analytics registra 1 visita.

I due strumenti hanno, inoltre, metodi completamente diversi per analizzare le conversioni o le
transazioni generate dal sito.

Tabella 12.2 – Analytics e AdWords: caratteristiche a confronto.


Caratteristica Analytics AdWords
Durata del cookie di
6 mesi. 30 giorni.
tracciamento
Giorno di attribuzione della
Quando l’utente ha fatto l’acquisto. Quando l’utente ha fatto click sull’annuncio.
transazione
Vengono prese in considerazione tutte le Una visita viene conteggiata esclusivamente se l’utente proviene
Sorgente di attribuzione
visite al sito. da AdWords.

Tali caratteristiche rendono le analisi realizzate attraverso i due tool molto diverse fra loro. Tuttavia,
unendo i due strumenti, le rispettive potenzialità si sommano ed è possibile ottenere il meglio da
entrambi.
Liste di remarketing
Tra gli elementi portati in dote da tale integrazione vi è anche la possibilità di creare liste di
remarketing direttamente in Google Analytics, importabili in Google Adwords. Questa soluzione
comporta 2 vantaggi.
Non è necessario chiedere il supporto del webmaster per installare nuovi tag sul sito.
Si possono utilizzare tutti i dati di Google Analytics per creare le liste di remarketing.

Il secondo punto è quello più importante. Ecco alcuni esempi di liste di remarketing realizzabili con
Google Analytics:
Utenti che non hanno convertito dopo aver effettuato un certo numero di visite.
Utenti con un carrello medio superiore alla media del sito.
Utenti con un carrello inferiore alla media del sito.
Utenti provenienti da una determinata località.
Utenti che hanno compiuto uno specifico evento.
Utenti che hanno iniziato il processo di pagamento ma non l’hanno terminato.
Utenti che hanno visionato una pagina di offerta ma non hanno acquistato il prodotto.
Utenti che hanno visitato una specifica sequenza di pagine (per esempio, home page, pagina
offerta, pagina prodotto in offerta).

Precisiamo che questi sono solo alcuni degli infiniti possibili esempi e che, grazie ai filtri di Google
Analytics, l’unico limite per la generazione delle liste è dato dai limiti della nostra fantasia.

Come scoprire dove migliorare


Anche per gli utenti più esperti il problema è spesso quello di individuare il giusto indizio da cui
iniziare l’analisi per scoprire quali azioni di ottimizzazione sia più opportuno mettere in atto. Di
fronte a questo interrogativo, molti si domandano quali siano le performance dei competitor,
immaginando che potendo avere un elemento di raffronto tutto sarebbe più semplice. A parte il fatto
che questi sono dati quasi impossibili da reperire, se anche li avessimo e scoprissimo che le nostre
performance sono decisamente migliori di quelle dei principali competitor, che cosa potremmo fare?
Smettere di analizzare i dati, pensando di non poter più migliorare? Sicuramente no! Peraltro, senza
bisogno di ricorrere ai dati dei competitor, all’interno di Google Analytics troviamo un dato che ci
permette sempre di individuare perfettamente quali siano i nostri punti deboli: la media sito.
La media sito, presente nel sommario di ogni report, è espressa in percentuale e indica quale sia la
differenza tra le performance medie del sito e il dato che stiamo visualizzando in quel momento.

Figura 12.2 – La tabella media sito.


Ma è possibile reperire questo indice anche nelle tabelle di dettaglio presenti in ogni report, con una
visualizzazione che evidenzia immediatamente come ogni riga si stia comportando rispetto alla
media. In alto, sulla destra di ogni tabella, troviamo i bottoni che permettono di selezionare il tipo di
grafico che vogliamo utilizzare per visualizzare i dati.
Nell’ordine, da sinistra abbiamo i seguenti bottoni.
Tabella (selezionato di default).
Percentuale (detto anche grafico a torta).
Rendimento.
Confronto.
Nuvola di termini.
Pivot.

Il grafico che permette di confrontare qualunque metrica presente nel report con la media del sito è:
“Confronto”.

Figura 12.3 – Esempio di confronto tra campagne.

Nell’immagine sto confrontando la frequenza di rimbalzo di alcune campagne Google AdWords. Tra
queste, la quarta ha sicuramente qualche problema, ma ho ancora troppo pochi dati per capire quale
azione correttiva intraprendere. Una volta individuata la campagna, dobbiamo rilevare quale o quali
gruppi di annunci stanno generando il problema. Cliccando sul nome della campagna, visualizziamo
lo stesso report a livello di gruppo di annunci e, cliccando sul gruppo, possiamo vedere i dati parola
chiave per parola chiave. Arrivati a questo livello è consigliabile un ulteriore passaggio. Potremmo
infatti trovarci nella situazione in cui una specifica parola chiave abbia un’alta frequenza di rimbalzo
a fronte di due annunci in test con una differente pagina di destinazione. Per scoprire quale delle due
pagine sta generando il problema, aggiungiamo come dimensione secondaria l’URL di destinazione.
Figura 12.4 – “Per scoprire quale delle due pagine sta generando il problema, aggiungiamo come
dimensione secondaria l’URL di destinazione...”.

Ora possiamo capire se una delle due pagine di destinazione ha una frequenza di rimbalzo più alta
della media e possiamo decidere quali azione intraprendere. Se, per esempio, modificare la pagina
di destinazione o disattivare l’annuncio collegato alla landing page con la più alta frequenza di
rimbalzo e così via.
Un’altra situazione abbastanza comune è quella di avere un’alta frequenza di rimbalzo quando si
utilizzano parole chiave in corrispondenza “estesa”, “estesa modificata” o “a frase”. In questo caso,
non essendo disponibile come dimensione secondaria la query di ricerca, è necessario procedere in
un altro modo. Prima di tutto prendiamo nota della parola chiave, o delle parole chiave, che ci
interessano, poi spostiamoci nel report:

Sorgenti di Traffico > Pubblicità > AdWords > Query di ricerca con corrispondenza

All’interno del report troveremo le query degli utenti che hanno attivato i nostri annunci. Per cercare
le parole chiave che ci interessano, dobbiamo aggiungere la dimensione secondaria.
Figura 12.5 – Inserimento della parola chiave.

Ora il report a tabella si presenterà con le colonne visibili nella figura 12.6.

Figura 12.6 – La tabella pivot modificata.

Potremo quindi effettuare una ricerca su questa nuova colonna, utilizzando i filtri avanzati:
clicchiamo su “avanzata” (a fianco del box di ricerca) e, sull’interfaccia che si presenterà, inseriamo
le parole chiave che siamo interessati ad analizzare. In questo modo visualizzeremo tutte le query di
ricerca che hanno condotto gli utenti sul nostro sito e avremo a nostra disposizione i dati di Google
Analytics (frequenza di rimbalzo, tasso di conversione, ROI ecc.), per fare un’analisi dettagliata e
decidere quali operazioni di ottimizzazione mettere in atto.

Figura 12.7 – Sull’interfaccia che si presenterà inseriamo le parole chiave che siamo interessati ad
analizzare.
Il motore di ricerca interno e Google AdWords
Dopo aver attivato il tracciamento delle ricerche fatte dagli utenti sul sito, avremo a nostra
disposizione un’incredibile quantità di dati che potranno ispirarci per le nostre campagne PPC.
Troviamo i dati del motore di ricerca in:

Contenuti > Ricerca sul sito > Termini di ricerca

Questi dati possono essere fonte di ispirazione in due modi:


idee per cercare nuove parole chiave da aggiungere;
comprendere cosa gli utenti si aspettano di trovare sul sito.

Nell’analisi dei dati delle ricerche su sito, spesso non si trovano direttamente le parole chiave che
potremmo aggiungere alla nostra campagna ma, piuttosto, gli spunti che ci aiuteranno a farlo.
Potremmo, per esempio, scoprire che uno specifico prodotto viene chiamato in modo diverso nelle
diverse regioni, o trovare il misspelling di un certo vocabolo che si ripete con costanza. Inutile dire
che tali nuovi termini potrebbero essere aggiunti alle campagne!
Con lo stesso strumento, potremmo anche scoprire che gli utenti cercano con costanza un temine
scarsamente connesso ai contenuti del nostro sito. Tale scoperta potrebbe evidenziare un problema a
livello del piano di comunicazione realizzato, che tende a suggerire agli utenti che possono trovare
attraverso l’annuncio e il sito qualcosa che in realtà non offriamo.
Per concludere. I segreti di una buona web analysis? La risposta è molto semplice: non esistono
segreti. L’elemento chiave è individuare una perturbazione nei dati, uno scarto, una differenza rispetto
a ciò che avevamo pianificato o a quanto altri dati ci suggeriscono. Quello sarà il punto di partenza.
Il viaggio dell’analisi sarà condotto a piccoli passi, aggiungendo via via sempre più dati e dettagli ed
eliminandone altri, per definire progressivamente il problema.
Il vero segreto è non fermarsi mai in questo percorso di progressiva ottimizzazione e facendo in
modo che gli strumenti di web analitycs… siano sempre con noi!

12.3 La Ratio del Google Merchant Center


di Rossella Cenini

I Product Listing Ads o annunci con scheda di prodotto sono un particolare formato di annunci a
pagamento pubblicati su rete di ricerca. La caratteristica che li distingue dagli annunci di testo è la
possibilità di includere delle informazioni specifiche sul prodotto: immagine, titolo, prezzo,
messaggio promozionale e nome del negozio. Ciò significa che nel caso in cui sia stata attivata una
campagna con Scheda di Prodotto e un utente effettui una ricerca correlata ad almeno uno dei prodotti
presenti nel feed4, verrà pubblicata – di norma sulla destra, talvolta sotto i risultati sponsorizzati
della fascia premium – una “scheda prodotto”. Cliccandoci sopra, l’utente verrà indirizzato alla
pagina del sito dell’inserzionista, in cui sarà possibile trovare (e acquistare) il prodotto cercato.
Figura 12.8 – Gli annunci con scheda di prodotto.

A differenza degli annunci testuali su rete di ricerca, l’inserzionista non dovrà arrovellarsi nella
ricerca di parole chiave o creare testi e varianti degli annunci: la scheda prodotto verrà generata
automaticamente sulla base dei dati presenti nel feed dei prodotti. Quello che invece hanno in comune
gli annunci testuali e i Product Ads è il fatto di partire da una ricerca fatta da un essere umano
portatore di bisogni e desideri.
Obiettivo degli annunci è rispondere al bisogno/desiderio espresso con la ricerca. Solo in questo
modo l’annuncio riuscirà a colpire l’interesse dell’utente, persuadendolo a cliccare sull’annuncio
nella convinzione di trovare risposta a ciò che ha attivato la sua ricerca.
Il segreto, pertanto, non è “esserci per esserci”, ma “esserci quando un potenziale acquirente, pronto
a digitare i numeri della carta di credito, ti sta cercando”.

Perché attivare anche i product Ads se sei già presente sulla rete di
ricerca?
Uno dei vantaggi delle schede di prodotto è quello di consentire la doppia pubblicazione di annunci
dello stesso inserzionista nelle pagine dei risultati di Google.
Figura 12.9 – Quanti annunci per inserzionista?

Alla query di ricerca “caschi moto”, Google restituisce una serie di risultati. Un inserzionista però
risalta più degli altri: oltre a essere in prima posizione (dove inevitabilmente cade lo sguardo), è
presente con ben cinque articoli nella sezione Shopping. A ogni casco è associata una breve
descrizione (il parametro “title” del feed) accompagnata dal prezzo dell’articolo e dal nome del
venditore.
Già a livello di sole impression, l’inserzionista pubblicato sia con annunci di testo sia con i Product
Ads sta raggiungendo un primo obiettivo: l’associazione del prodotto al nome del proprio negozio.
Studi sulla memoria dimostrano come il ricordo sia facilitato quando alle parole (nome del
venditore) sono associate immagini (scheda prodotto), formando dei modelli mentali ricchi di indizi
utili al recupero delle informazioni anche in momenti successivi. D’altra parte è semplice capire
come questa sorta di sovraesposizione generi un’associazione tra i caschi per moto e il nome del
venditore.
Oltre a questo importante risultato, le schede di prodotto giocano un ruolo essenziale anche nel
generare risposte dirette (acquisto).
Nella figura 12.10 il rendimento dei Product Ads di un e-commerce di attrezzature fotografiche
professionali viene messo a confronto con il rendimento delle campagne di ricerca nel primo
trimestre 2013.

Figura 12.10 – Rendimento degli annunci di prodotto del primo trimestre 2013.

Quello che subito balza agli occhi è la performance degli annunci con scheda di prodotto che
marcano un ROI (Return on Investment ) del 391% e un costo per transazione dell’80% inferiore
rispetto agli annunci su rete di ricerca. Un altro dato non trascurabile è la differenza nel costo per
clic medio: a parità di query di ricerca, i Product Ads hanno garantito quasi il doppio del traffico
altamente profilato, a un costo pari a un quinto rispetto al traffico di ricerca.
In un mondo online, sempre più caratterizzato dal window shopping, cioè dal guardarsi intorno e
confrontare più offerte prima di procedere all’acquisto, i dati sopra riportati si fermano a un’analisi
superficiale. Quella che dovrebbe essere fatta è l’analisi della multicanalità, cioè dei percorsi seguiti
dagli utenti prima di arrivare alla transazione5.
Nel caso dell’inserzionista citato, scopriremmo che i Product Ads, oltre a generare transazioni dirette
(entro dalle schede prodotto e compro), hanno tirato la volata finale ai “comparatori”, nel caso di
acquisti con un valore medio inferiore ai 500 euro, e al traffico diretto o organico, nel caso di
acquisti di valore superiore.
È facile immaginare come al crescere dell’importo dell’acquisto, l’acquirente, cercando di evitare il
rischio di una perdita, cercherà delle sicurezze e delle conferme. Ciò spiega il motivo per cui, nel
caso in questione, circa il 50% delle transazioni avviene per via telefonica o attraverso la chat, ma in
questi casi diventa difficile stabilire l’esatta sorgente (o l’esatto percorso) che ha portato alla
vendita.

Come si crea una campagna con scheda di prodotto?


Il requisito indispensabile per creare una campagna con scheda di prodotto è l’iscrizione del proprio
sito e-commerce al Google Merchant Center, nel quale andrà caricato il proprio feed di dati, cioè un
file che contiene tutte le informazioni, raggruppate per attributi, che descrivono in modo univoco i
prodotti in vendita6.
Non appena avremo creato e caricato il feed sull’account Merchant Center, saremo pronti a partire.
Il primo passo è quello di collegare i due account Merchant e AdWords.
Figura 12.11 – Impostazioni Merchant Center.

Il procedimento è semplice: è sufficiente accedere alle impostazioni dell’account Merchant,


selezionare la scheda AdWords, inserire il proprio ID Cliente AdWords e cliccare su “collega
account”. Ecco fatto: da questo momento i due account sono collegati, e sarà possibile gestire le
campagne con scheda di prodotto direttamente dal pannello AdWords.
Dal pannello di gestione di AdWords, scheda Campagne, non dovremo far altro che creare una nuova
campagna – solo su rete di ricerca – e procedere come di consueto.

Figura 12.12 – Creazione di una campagna con schede di prodotto.

A differenza delle campagne tradizionali, una volta arrivati alle impostazioni annunci dovremo solo
avere cura di selezionare per le estensioni di prodotto l’account “merchant center” dal quale
vogliamo attingere le informazioni. A questo punto, ci basterà seguire la procedura guidata per
l’impostazione del primo annuncio, e la campagna potrà cominciare a essere pubblicata.
La creazione del primo annuncio è un processo piuttosto semplice: a differenza delle campagne
tradizionali non dobbiamo pensare a copy persuasivi e parole chiave che costano poco e convertono
tanto. L’unico slancio di creatività sarà dedicato al testo della “promozione”.
Nonostante l’utilizzo della promozione sia facoltativo, è bene sfruttare la possibilità evidenziando la
propria USP (Unique Selling Proposition), cioè il motivo per cui un utente che sta cercando un
determinato prodotto dovrebbe scegliere di acquistare da noi piuttosto che dai concorrenti.
L’utilizzo delle “promozioni” può essere considerato come le varianti di annunci delle campagne
tradizionali: se avessimo attive più offerte contemporaneamente (per esempio, sconto vs. spedizioni
e resi gratuiti) potremmo creare due promozioni e confrontarne il rendimento in termini di CTR,
inteso come espressione dell’appeal dell’annuncio sull’utente.
Per il primo annuncio, possiamo mantenere le impostazioni di default che prevedono come target di
prodotto (cioè i prodotti da pubblicare) tutti gli articoli presenti nel feed di dati.
Figura 12.13 – Creazione di un annuncio con schede di prodotto.

Man mano che aggiungeremo nuovi gruppi di annunci, dovremo ricordare di selezionare un target di
prodotto specifico, deselezionando l’impostazione predefinita “tutti i prodotti”. Al fine di avere un
maggior controllo sul budget e di ottimizzare il ROI, un accorgimento utile è quello di mantenere
l’offerta CPC del gruppo “tutti gli articoli” più bassa rispetto all’offerta per i gruppi con un target
definito: in questo modo avremo buone probabilità che i target specifici non vengano “cannibalizzati”
dal gruppo generico.

Strategie di Targeting
Vi starete chiedendo perché creare più gruppi di annunci se già con l’annuncio generico è
potenzialmente possibile pubblicare tutti gli articoli dello store online. Con tutta probabilità avrete
nel vostro e-commerce un brand o una particolare categoria di prodotti su cui ottenete un maggior
margine di guadagno o per i quali potreste avere la necessità di “svuotare il magazzino” rapidamente,
anche scegliendo di fare offerte a cui proprio non si può dire di no. E allora, perché non dedicare a
questi specifici segmenti la maggior parte della nostra attenzione (anche economica)?
Creando diversi gruppi di annunci, potremo seguire strategie di offerta diverse in base agli obiettivi
raggiunti da ciascun gruppo, siano essi il numero di transazioni, il valore dell’ordine, la revenue
generata e così via. Poter “offrire di più” per i gruppi a miglior performance, ci garantirà una miglior
frequenza di pubblicazione, permettendoci di raggiungere con più facilità gli obiettivi prefissati.
Il segreto per creare una strategia di targeting efficace nelle campagne Product Ads, è quello di
individuare la caratteristica che accomuna i prodotti a migliore performance.
Fra le strategie più diffuse è bene ricordare:
Brand/product type: questo tipo di segmentazioni sono molto utili nei casi in cui esistano, nel
negozio online, Brand o categorie di prodotto che abbiano registrato un tasso di conversione
e-commerce simile, o che abbiano simili marginalità.
SKU/product id: il target di prodotto SKU è proficuo nei casi in cui sia facile individuare i
“Top Sku”, cioè i prodotti a miglior resa, soprattutto nel caso in cui siano loro riservate
offerte diverse. Va da sé che, al crescere del numero dei “Top Sku”, la gestione di gruppi di
annunci che rappresentano singoli prodotti diventa impegnativa. Questo tipo di strategia è
pertanto particolarmente indicata agli e-commerce di piccole dimensioni, o in alternativa per
la promozione di pochi e selezionati articoli del negozio online.
AdWords Labels/Grouping: questa strategia di targeting può essere considerata come
l’evoluzione delle precedenti. È particolarmente utile nei casi in cui ci sia la necessità di
creare dei “gruppi personalizzati”. La funzione è indispensabile, per esempio, per distinguere
fasce di prodotti con diverse stagionalità (abbigliamento estivo vs. abbigliamento invernale)
o nel caso in cui si vogliano differenziare gli articoli sulla base della fascia prezzo di
appartenenza.

In linea di principio, il ragionamento che sottende la scelta del tipo di targettizzazione dovrebbe
partire dalle domande fatidiche: quanto mi può costare una transazione? Quanto vale per me? Su
questa base sarà possibile decidere la strategia più opportuna di bidding e targeting.
Per creare nuovi gruppi di annunci, sarà sufficiente creare dei nuovi target di prodotto, ovvero
sottogruppi di articoli con caratteristiche comuni definite.

Figura 12.14 – Target di prodotto.

Dopo che abbiamo attivato la campagna ce la dimentichiamo?


L’ottimizzazione
Una volta attivata, la campagna Product Ads comincia a essere pubblicata. Probabilmente
arriveranno le prime transazioni e potremmo pensare che ormai il lavoro sia finito: la campagna
continuerà a produrre entrate solo per il fatto di esistere. In realtà ciò è vero solo in parte. Dobbiamo
considerare il feed alla stessa stregua di come consideriamo il sito web: così come impieghiamo
enormi risorse per ottimizzare il sito, i contenuti, il carrello e via dicendo, allo stesso modo
dovremmo ottimizzare il feed, con l’obiettivo di continuare a garantire ai nostri utenti un’esperienza
positiva di shopping online. Traducendo il tutto in termini operativi, ciò significa che tutti gli articoli
del nostro shop dovranno essere descritti accuratamente nel feed e quest’ultimo dovrà essere
aggiornato con la stessa frequenza con cui vengono aggiornati i prodotti nel sito, in modo da riflettere
l’effettiva disponibilità e il prezzo degli articoli. Così come con AdWords testiamo parole chiave e
varianti di annunci, lo stesso dovremo fare con il feed: testare diverse immagini, titoli e descrizioni.
Qui di seguito descriviao i principali attributi su cui ci dobbiamo focalizzare.
Product type: l’attributo categorizza il prodotto. È importante creare delle descrizioni
pertinenti che raggiungano il target di utenti. Se, per esempio, vendessimo abiti da donna neri,
la descrizione del product type potrebbe essere:

Abbigliamento > Abbigliamento Donna > Abiti > Abiti Neri Tubino

Quello che possiamo fare fin da principio è un’analisi delle parole chiave per valutare quale
termine, verosimilmente, garantirà un più alto volume di traffico pur mantenendo una bassa
competitività: Abbigliamento donna? Vestiti donna? Moda donna?
Il titolo e la descrizione: il testo del titolo verrà visualizzato nei risultati di ricerca. Se la
query digitata dall’utente corrisponde al titolo, questo verrà evidenziato in grassetto. Titolo e
descrizione, ovviamente, dovranno essere pertinenti con l’immagine del prodotto pubblicato.
Keyword7: quali sono le query che hanno portato alla conversione? Con i Product Ads non
scegliamo le parole chiave da associare agli annunci né possiamo fare offerte specifiche per
queste ultime, quindi analizzare le query che hanno portato alla conversione è utile solo nella
misura in cui inseriamo nella descrizione del prodotto (nel feed) le parole chiave ad alto
tasso di conversione. Dall’altro lato, analizzare le query è utile per individuare le “parole
chiave negative” che andranno inserite, a livello di gruppo di annunci o di campagna, perché
non pertinenti, o perché generano traffico (costi) ma non conversioni.

Conclusioni
Google premia la qualità. Non temo smentite dicendo che “la qualità” è il cardine dei programmi a
pagamento (e non) di Google. Del resto se un utente, dopo aver effettuato una ricerca, trova un
risultato che soddisfa le sue esigenze, continuerà a servirsi del motore più famoso del mondo per le
sue ricerche. Gli inserzionisti continueranno a ricevere traffico di qualità e continueranno a investire.
Ecco spiegato il motivo di tanta attenzione al punteggio di qualità! Ed è per questo che Google
premia gli inserzionisti migliori. La cerimonia del “and the winner is…” prevede che gli inserzionisti
con miglior punteggio di qualità abbiano posizioni migliori a costi inferiori.
Nel caso della ricerca, il quality score si riassume in “pertinenza” e “sito”. Con gli annunci con
scheda di prodotto il principio non è tanto diverso, solo che, in questo caso, una delle variabili
determinanti diventa il feed che deve fornire dati aggiornati, precisi ed esaustivi, ovvero: le stesse
informazioni che vengono visualizzate nell’annuncio devono essere riportate nel sito, pena la
sospensione dell’annuncio/account8.
Navigando ho trovato un’offerta imperdibile: una reflex a 0 euro! Ovviamente entrando nel sito il
prezzo c’era (ed era più alto di quello dei concorrenti). Il risultato è che io non ho comprato,
probabilmente anche altri utenti hanno cliccato, incuriositi dal prezzo, ma senza acquistare e dopo
poche ore l’annuncio era scomparso da Google.
Il modo migliore per premiare l’inserzionista più bravo è offrirgli costi per clic effettivi più bassi e
posizioni migliori. In pratica: più bravo sono, più vengo pubblicato e meno spendo.
Ma avere “dati precisi ed esaustivi” cosa significa? Quando un utente effettua una ricerca, Google
scandaglia le informazioni a sua disposizione e pubblica l’articolo più pertinente alla query di
ricerca. Poiché le informazioni a disposizione di Google si trovano nel feed, più questo è preciso e
articolato, maggior facilità avrà Google a reperire il prodotto da mostrare. Quindi un consiglio
sempre valido è quello di utilizzare tutti gli attributi a disposizione, e non solo quelli obbligatori9.
Ultimo anello della catena della qualità è proprio il sito di destinazione: utilizzare il markup
semantico facilita ai motori di ricerca il reperimento e la restituzione agli utenti di informazioni
rilevanti, a tutto vantaggio del punteggio di qualità delle campagne.

1. È sempre meglio, comunque, valutare l’impatto che questa posizione ha avuto fino a questo momento nelle campagne.
2. Per sapere come collegare Google Analytics e Google Adwords, fate riferimento a: goo.gl/4gNTC.
3. Utilizzate i parametri Utm nelle vostre campagne marketing: goo.gl/inOo1.
4. Il feed di prodotti deve essere caricato su Google Merchant Center: http://goo.gl/a6qBm.
5. Breve guida alle conversioni multicanale in Google Analytics: http://goo.gl/XgM8g.
6. Per tutti i requisiti del feed di dati, potete consultare la guida del Merchant Center: http://goo.gl/pj1qW.
7. Report personalizzato http://goo.gl/KSYGg per avere una panoramica delle query.
8. Per il dettaglio delle norme sulla pubblicazione: http://goo.gl/NQfFv.
9. Per le specifiche del feed: http://goo.gl/3rlzT.
CAPITOLO 13
COMMIATO

13.1 Rivolgetevi ai Super Eroi


La forza dell’esperienza e della community Google AdWords

In tutti questi anni la Community di AdWords ha rappresentato per me uno stimolo e un continuo
motivo di crescita. Il lavoro di un consulente – o operatore – AdWords è generare campagne,
accudirle e monitorare costantemente i dati di performance per ottimizzarle e portare, così, risultati e
profitti alle aziende. Per questo si dice che “AdWords è soprattutto esperienza”. Vero e
insindacabile! L’esperienza, tuttavia, non nasce solo dalla narcisistica necessità di sentirsi capaci e
infallibili ma anche, se non soprattutto, dal fecondo confronto con gli altri, con le loro esperienze,
punti di vista, valori, talvolta convergenti, altre volte totalmente distanti da quelli che possediamo.
Un primo terreno di confronto da cui ho tratto la mia esperienza è naturalmente quello che ho
incontrato direttamente sul campo. Ho sempre detto che una delle mie forze è quella di avere la
fortuna di lavorare con più clienti per ogni tipologia merceologica, cosa del resto possibile e
legittima perché AdWords non mette in competizione le aziende ma consente di agevolarle tutte allo
stesso modo (fatte salve, naturalmente, le eventuali differenze di budget). Avere la possibilità di
confrontarsi con più clienti in uno stesso ambito consente di approfondire gli aspetti più specifici del
settore, come pure di mettere a punto soluzioni particolarmente disegnate sulle caratteristiche
distintive dello stesso. Il tutto per poi scoprire, magari, che la strategia definita per un’azienda di
noleggio prefabbricati può essere efficacemente utilizzata anche per la multinazionale di cosmesi, in
un continuo processo di sistematizzazione e contaminazione tra settori e soluzioni.
Una seconda importante occasione di confronto deriva dal rapporto con il mondo della formazione.
Nel mio percorso professionale, grazie soprattutto a Guido Di Fraia, insieme al quale ho condiviso la
fatica e il piacere di scrivere questo libro, ho potuto iniziare a insegnare presso l’Università IULM di
Milano, come docente sia nel Master in Social Media Marketing & Web Communication (giunto alla
sua 5° edizione, il MSMM IULM è stato il primo attivato su questi temi a livello nazionale e
rappresenta uno dei progetti formativi “executive” più autorevoli ed efficaci tra quelli esistenti) sia
nel nuovo indirizzo di Laurea Magistrale in Digital Marketing Management, avviatosi nel 2012.
Le relazioni che ho avuto modo di allacciare trovandomi “in cattedra” e gli stimoli generati dalle
domande e dalle curiosità di aule sempre molto attive (composte sia da professionisti che cercano di
approfondire conoscenze che già possiedono sia da studenti che si accostano per la prima volta al
marketing digitale) hanno rappresentato e rappresentano continue sfide che mi hanno “costretto” a
rafforzare il mio sforzo di riflessione e di sistematizzazione delle competenze acquisite sul campo.
Il terzo e decisivo livello di stimolo e confronto è infine quello rappresentato dalla Community di
AdWords. All’interno di questa comunità, nel più puro spirito socratico declinato al tempo dei social
media, il dibattito è sempre estremamente ricco e mai eccessivo. L’obiettivo di tutti i partecipanti è
quello di generare conoscenza e giungere a soluzioni condivise.
Nel mio percorso in community ho conosciuto molti Googler (dipendenti Google), che hanno reso
questo obiettivo possibile. Se “Don’t be evil” è il motto Google, i dipendenti e i manager che ho
avuto modo di incontrare lo incarnavano al meglio. Partendo dalla sapiente passione di Gianluca
Binelli, che ha praticamente fatto da chioccia al mio percorso formativo, e passando dalle prime
guide che ho avuto nelle persone di Monia Spartà e Michele Mazzoni.
Nel tempo, la community ha avuto un’evoluzione vertiginosa grazie alla sapiente guida di Eric Feron
e Sophie Bromberg, ulteriormente concretizzata dalla metodica, precisa e appassionata conduzione
della nostra Community Manager, Viola Gauci. Tutto quanto Google AdWords è oggi in Italia, e credo
di poterlo dire senza tema di smentite, è passato, passa e, credo - e mi auguro - passerà ancora
dall’operato di queste persone. Nell’aiutare migliaia di utenti a utilizzare al meglio AdWords, la
community italiana ha mostrato una curva di crescita decisamente significativa, grazie al lavoro
messo in atto dai suoi Top Contributor: Rossella Cenini, Mauro Gadotti, Andrea Testa e Filippo
Trocca. Sono felice e fiero che ciascuno di noi, insieme a Guido Di Fraia, abbia contribuito alla
realizzazione di questo lavoro.

AdWords è un mondo vasto e complesso ma potenzialmente anche molto produttivo. Nel muoversi al
suo interno può capitare, talvolta, di ritrovarsi spaesati o di commettere errori. Per fortuna ci offre,
sempre e comunque, la possibilità di correggere i nostri sbagli e di migliorare, progressivamente, le
nostre competenze, così come le performance delle nostre campagne. In questo processo di continuo
miglioramento, la Community AdWords deve rappresentare un riferimento irrinunciabile. Al suo
interno, menti ed esperienze si uniscono a generare una conoscenza costantemente in crescita e
sempre disponibile.
Le community di AdWords sono disponibili in molte lingue.
Quella italiana è raggiungibile all’indirizzo: https://www.it.adwords-community.com Quella inglese
all’indirizzo: https://www.en.adwords-community.com/

Rivolgetevi con fiducia alla Community AdWords e i suoi Super Eroi accorreranno sempre in vostro
aiuto!

13.2 Dipingere un’onda


Commiato

Scrivere un libro che parla di AdWords è un po’ come provare a dipingere un’onda. Dato che è in
costante movimento, non si riuscirà mai a immortalare l’attimo nel quale siamo stati colpiti dalla sua
forma. Tutto ciò che si può fare è fotografarla, fermandola in quel preciso istante per poi provare a
tradurla su tela. Facendo così, però, se ne perde l’essenza, la “vita” e cioè proprio quello che
l’aveva resa particolare e unica al nostro sguardo.
Google AdWords è proprio come un’onda: si muove e cambia continuamente in ogni suo aspetto e a
ogni livello, dalle componenti più elementari e meccaniche a quelle più complesse e strategiche. Lo
abbiamo ripetuto più volte nel corso del testo, riferendoci sopratutto alle campagne potenziate.
Quando è nata l’idea di questo lavoro, tali campagne erano appena state introdotte nella loro forma
embrionale ma già questo spostava tutta l’attenzione del processo di generazione e pianificazione
degli annunci sull’intento dell’utente. Vale a dire sulla necessità da cui si origina il suo svolgere una
certa ricerca, in un certo momento, attraverso un certo device. Il tutto per cercare di cogliere in
maniera ancora più precisa e corretta il suo reale bisogno.
Proprio questo costante cambiamento della piattaforma ha imposto numerose riscritture di molte parti
del libro, che anche quando sembravano finalmente completate, finivano per essere “superate” da
nuovi interventi di ottimizzazione e nuove possibilità introdotte da AdWords.
Nonostante questo sforzo, è evidente che anche le osservazioni che alla fine abbiamo proposto
potranno prima o poi essere superate – per lo meno a livello prettamente tecnico – dai cambiamenti a
cui il sistema andrà incontro nel prossimo futuro. Non ci riferiamo solo alla piattaforma di gestione
ma anche ai vari strumenti collaterali, tra cui Consumer Barometer, Trend, Market Finder e via
dicendo. In altri termini, è possibile che un determinato percorso di menù suggerito nel testo, o una
specifica schermata, cambino nei prossimi mesi e anche più volte in un anno. È parte del gioco e
dell’impossibilità sopra citata di catturare in un quadro il movimento di un’onda. L’obiettivo di
Google, in fondo, è quello di migliorarsi costantemente, diventando sempre più una perfetta
intelligenza artificiale al servizio delle aziende, dei consumatori e del proprio business.
Siamo tuttavia convinti che questo non metta in discussione il “senso”, le logiche di fondo e le
opportunità sottostanti a ogni suggerimento fornito in questo lavoro. Per fare un solo esempio,
qualche mese fa “Google Insight for Search” era uno strumento praticamente gemello di Google
Trend. Poi sono stati fusi insieme ma le caratteristiche di fondo di Insight non sono cambiate, si sono
semplicemente evolute e le logiche d’uso sottostanti sono rimaste del tutto invariate.

In conclusione, nonostante tutte le difficoltà connesse con il nostro tentativo di “dipingere un’onda”,
l’intento – in questo caso dichiarato dai due autori e non desunto da AdWords – di realizzare una
guida avanzata di marketing che, se pur destinata a coloro che desiderano “spremere” AdWords al
limite delle sue funzioni più complesse, risultasse comunque comprensibile anche a chi ha una
competenza minima della piattaforma, ci pare raggiunto. Sia perché, rileggendo il libro, ci sembra
che il linguaggio utilizzato lo renda effettivamente fruibile a chiunque sia interessato ad AdWords:
professionisti, responsabili di aziende, consulenti e così via. Sia, soprattutto, perché ci pare di
ritrovare nel testo l’idea dalla quale è nato il progetto stesso di questa guida.
Il nostro intento non era quello di creare un libro che parlasse solo di keyword advertising, ma di
contribuire a dimostrare come il pay-per-click, se perfettamente integrato all’interno delle più
generali attività di marketing e comunicazione della struttura organizzativa, possa rappresentare un
fattore di successo per qualsiasi azienda operante sul mercato. Ai lettori il giudizio finale rispetto a
quanto questo nostro obiettivo sia stato effettivamente raggiunto.

Infine, una nota personale di Andrea Testa.


Uno dei miei libri preferiti, che tanti anni fa, ha indirizzato il mio percorso culturale, è stato scritto
da un grande artista, Vasilij Kandinskij1. Nel testo l’autore afferma che per creare la giusta armonia
in un dipinto è necessario che ogni elemento in esso presente sia perfettamente integrato con il tutto,
al punto che: se tale elemento viene a mancare se ne nota l’assenza mentre se c’è non si vede.
Questo, secondo me, dovrebbe essere il ruolo di AdWords in un piano di marketing ideale.

1. Kandinskij Vasilij, Punto, linea, superficie, Milano, Adelphi 1968.


Nella stessa collana

In tutte le librerie e su www.hoepli.it


Nelle edizioni Hoepli

In tutte le librerie e su www.hoepli.it


Informazioni sul libro
Che si abbiano a disposizione piccoli budget o risorse illimitate; che si voglia pubblicizzare una
piccola pasticceria o il lancio di un prodotto su scala mondiale, Google AdWords può certamente
consentire alle aziende di raggiungere i propri obiettivi strategici di visibilità, CTR e ROI. Ma solo
se utilizzato nel migliore dei modi!
Questa guida avanzata, frutto dell’esperienza di uno dei Top Contributor della community mondiale di
AdWords, e delle competenze didattiche di uno dei principali formatori italiani, permette ai lettori di
sfruttare al meglio le potenzialità della piattaforma, fornendo il know-how necessario ad un suo uso
strategico. Completato dagli interventi di tre Top Contributor della community AdWords italiana, il
volume costituisce un caso di eccellenza a livello globale, in quanto l’unico a veder impegnati tutti i
componenti della community di una stessa nazione.
Il libro permette di comprendere i possibili usi dello strumento e a sfruttare al meglio tutte le
innumerevoli opportunità che esso offre per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Perché AdWords non è solo keyword advertising ma è una leva per il successo di tutte le attività del
marketing aziendale!
Circa l’autore
Andrea Testa opera nel Web dal 1993 ed è amministratore di Blubit, azienda di consulenza
specializzata nel Web Marketing. Top Contributor della community italiana di AdWords e docente in
Web Marketing all’Università IULM di Milano, ha vinto due premi tra i Top Contributor mondiali di
Google AdWords.

Guido Di Fraia, professore associato di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso la
IULM di Milano, dove presiede il Master in Social Media Marketing & Web Communication ed è
Coordinatore dell’indirizzo in Digital Marketing Management della laurea magistrale in Marketing
Consumi e Comunicazione e del Collegio Docenti del Dottorato in Comunicazione e Nuove
Tecnologie.

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