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Le 6 Lezioni di

Politica Economica

Ludwig von Mises

1
Istituto Liberale

Progettazione Alessio Cotroneo

Traduzione Edson Netto Freitas Amaral

Alessio Cotroneo

Grafica Davide Filippini


Robin Chiodi
Valentino Russo

Titolo originale Economic Policy: Thoughts for


Today and Tomorrow

Pubblicato da Liberty Fund, Inc.

© 1979 Liberty Fund, Inc.

© 2020 Istituto Liberale - APS

Sito www.istitutoliberale.it

E-mail info@istitutoliberale.it

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Ringraziamenti per i
nostri Mecenate
La traduzione e la pubblicazione di quest’opera sono sta-
te possibili unicamente grazie al gentile e fondamentale
contributo di:

Filippo Feliziani

Edoardo Sirotti

Giorgio Antongiovanni

Aldo Colosimo

Daniele Parlato

Antonio Morisi

Fabio Franzolin

Liberty Fund Inc.

Atlas Network

Ciascuna delle donazioni è stata preziosa per noi.

I nostri più sinceri ringraziamenti a tutti voi!

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Indice

Prefazione dell’Istituto Liberale .................................. 7

Prefazione all’edizione americana............................. 20

Il Capitalismo .............................................................. 24
L’Inizio del Capitalismo ......................................................... 25
Il Cliente ha Sempre Ragione ................................................. 28
Il Capitalismo Aumenta il Tenore di Vita ............................. 31
Il Risparmio Capitalistico Aiuta i Lavoratori ........................ 38
Il Socialismo ................................................................ 45
La Libertà nella Società........................................................... 46
Comandano i Consumatori .................................................... 50
La Società Fondata sullo Status.............................................. 53
La Mobilità Sociale.................................................................. 57
La Pianificazione Governativa ............................................... 59
Il Calcolo Economico .............................................................. 66
L’Esperimento Sovietico ......................................................... 69
L’Interventismo ........................................................... 72
Le Aziende di Stato................................................................. 73
Che Cos’è l’Interventismo? .................................................... 75
Perché il Controllo dei Prezzi Fallisce? ................................. 79
Interventismo in Tempo di Guerra ........................................ 85
Il Controllo degli Affitti .......................................................... 90
4
C’è una Via di Mezzo fra Capitalismo e Socialismo? ........... 92
L’Inflazione .................................................................. 98
Stampare il Denaro ................................................................. 99
L’Aumento dei Prezzi Passo Dopo Passo ........................... 103
Al Governo non Piace Tassare ............................................. 108
L’Inflazione non Può Durare ............................................... 109
Il Gold Standard ................................................................... 112
Inflazione e Stipendi............................................................. 115
Stipendi e “Piena Occupazione”.......................................... 120
Gli investimenti esteri ............................................... 125
Strumenti Migliori per Aumentare la Produzione ............. 126
Gli Investimenti Esteri Britannici ........................................ 130
Ostilità agli Investimenti Esteri ........................................... 134
I Governi Ostacolano il Risparmio ...................................... 137
I Paesi in Via di Sviluppo Hanno Bisogno di Capitale....... 141
La Migrazione di Capitali Aumenta gli Stipendi ............... 145
La Politica e le Idee ................................................... 149
Idee Economiche e Politica .................................................. 150
I Gruppi Politici di Pressione ............................................... 153
Interventismo e Interessi Speciali ........................................ 159
L’Inflazione e l’Interventismo Hanno Distrutto l’Impero
Romano ......................................................................... 161
Solo Buone Idee Possono Sconfiggere Cattive Idee............ 165

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6
PREFAZIONE DELL’ISTITUTO
LIBERALE
Non è un caso che Ludwig Heinrich Edler von Mises sia
stato definito «l'Ultimo Cavaliere del Liberalismo» dal
suo biografo, il professor Jörg Guido Hülsmann.

Ludwig von Mises è stato il più feroce e ostinato difenso-


re della libertà di tutto il ventesimo secolo. Dopo aver
vissuto due grandi guerre e aver subito inizialmente gli
orrori del totalitarismo e dell'intolleranza, poi la velata
censura al liberalismo economico che si è verificata in
quasi tutti i paesi occidentali del dopoguerra, Ludwig
von Mises, irriducibile e resiliente, non ha mai fatto con-
cessioni a coloro che considerava nemici della libertà.

L'economista austriaco nacque il 29 settembre 1881 nella


città di Leopoli, l’odierna Lviv, in Ucraina. All'epoca,
l'intera regione faceva parte dell'Impero Austro-
Ungarico, la seconda entità politica più grande d'Europa
- seconda solo alla Russia. La città, situata 500 km a est di
Vienna, apparteneva a una regione chiamata Galizia, abi-
tata principalmente da tedeschi, ebrei, polacchi e russi.

Alcuni familiari di Mises, sia da parte del padre sia della


madre, erano membri di spicco della comunità ebraica
austriaca. Il suo bisnonno Mayer Rachmiel von Mises
(1800-1891) venne onorato dall'imperatore Francesco
Giuseppe I d'Austria (1830-1916) con il titolo nobiliare
7
"Edler" - all'epoca un nobile senza proprietà rurali. Suo
fratello, Richard von Mises (1883-1953) fu un grande ma-
tematico e ingegnere, arrivando a insegnare anche ad
Harvard.

Quando Mises aveva solo cinque anni, i suoi genitori,


Arthur e Adele, decisero di trasferirsi a Vienna, capitale
e centro culturale, economico e scientifico dell'impero
asburgico. Mises si dimostrò sempre uno studente eccel-
lente, sempre tra i primi della sua classe al Akademisches
Gymnasium. Fin da giovane si interessò con passione allo
studio della storia, una materia che «permette l'assimila-
zione delle idee che hanno risvegliato l'umanità dalla
routine inerte della pura esistenza a una vita di ragione e
di interrogatorio». È lo sforzo dell'individuo di umaniz-
zare sé stesso attraverso l'assimilazione delle migliori
tradizioni che ci sono state trasmesse dalle generazioni
passate.

Nel 1900 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza


dell’Università di Vienna e ivi la sua passione per la sto-
ria lo spinse inevitabilmente a innamorarsi dello studio
dell'economia, materia che si occupa di problemi pratici
di immensa rilevanza. Dopo i due anni del corso di base,
si concesse un anno sabbatico per servire nella Divisione
di artiglieria imperiale. Proprio a causa di tale addestra-
mento, fu reclutato nella Prima guerra mondiale come
tenente, e finì per prestare servizio per tre anni, tra il
1914 e il 1917. Nel 1917 fu chiamato a far parte del Mini-
stero della Guerra e, promosso a capitano, vi rimase fino

8
alla fine del conflitto.

Incredibilmente, l'uomo che sarebbe passato alla storia


come «l'Ultimo Cavaliere del Liberalismo» era inizial-
mente un sostenitore dell'interventismo e dell’intervento
statale nell'economia, influenzato dall'ideologia più po-
polare dell'epoca nei paesi tedeschi, la Scuola Storica
d’Economia (Historische Schule der Nationalökonomie).

Dopo aver frequentato le lezioni di Eugen von Philippo-


vich (1858-1917), ma soprattutto grazie all'attenta lettura
dei "Principi di economia politica” (Grundsätze der Volk-
swirthschaftslehre) di Carl Menger (1840-1921), fondatore
della Scuola Austriaca di Economia e professore all'Uni-
versità di Vienna, Ludwig von Mises divenne rapida-
mente un fervente sostenitore del liberalismo.

Infatti, durante il periodo dei suoi studi di dottorato


presso la stessa istituzione, von Mises divenne uno dei
membri più rilevanti dei seminari diretti dal famoso eco-
nomista Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914), discepolo
di Carl Menger e massimo esponente della seconda ge-
nerazione della Scuola Austriaca. Fu grazie alle critiche
devastanti di Böhm-Bawerk che le teorie marxiste del
valore-lavoro e dello sfruttamento (plusvalore) furono
completamente confutate, lasciando ai loro sostenitori
nient'altro che la cieca fiducia nell'intuizione economica
del sociologo tedesco Karl Marx.

Partendo dalle opere di Menger e Böhm-Bawerk, Mises


fece avanzare la frontiera del sapere della Scuola austria-
9
ca, diventando infine l'esponente più famoso di questa
scuola di economia.

La sua prima grande opera fu "Teoria della moneta e dei


mezzi di circolazione" (1912), in cui ebbe la grande intui-
zione di integrare la nuova brillante teoria generale
dell'utilità marginale con la teoria della moneta. Per la
prima volta i rami "studio economico" e "studio moneta-
rio" furono integrati in un unico blocco coerente, omoge-
neo e logico del sapere.

Dal 1913 al 1934 Mises insegnò presso l'Università di


Vienna come Privat-Dozent, ossia come professore priva-
to, senza retribuzione fissa. Durante il tempo libero or-
ganizzò il suo Privatseminar, che divenne famoso nella
capitale imperiale per essere un ambiente di libera, fran-
ca e ardente discussione di idee economiche. Tra gli stu-
denti e gli amici che parteciparono a questo seminario
possiamo citare il sociologo Max Weber, il filosofo e so-
ciologo Alfred Schütz, gli economisti Fritz Machlup,
Gottfried Haberler e Oskar Morgenstern, il filosofo Eric
Voegelin e il premio Nobel per l'economia Friedrich Au-
gust von Hayek (1974).

Durante questo periodo fertile, Mises produsse la mag-


gior parte delle sue eccezionali opere. Tra queste è possi-
bile citare "Stato, nazione ed economia" (1919), il primo
scritto in cui mise in relazione i fenomeni economici con
aspetti legati alle scienze politiche e alla sociologia, in-
cludendo un'ampia analisi storica che dimostrò le gravi
conseguenze della Prima guerra mondiale sul piano
10
ideologico. Mises già nel 1919 prevedeva il rischio che un
governo ultranazionalista arrivasse al potere in Germa-
nia, grazie ai termini vessatori del Trattato di Versailles.

Nel 1920 Mises pubblicò il famoso "Calcolo economico in


una comunità socialista", dove aggiunse una nuova pie-
tra all'edificio costruito da Böhm-Bawerk. Se
quest’ultimo aveva affermato che il plusvalore e la teoria
del valore-lavoro non avessero senso economico, Mises
andò oltre e, in un'analisi pionieristica e basata sul rigore
logico che lo ha sempre caratterizzato, sostenne l'impos-
sibilità del calcolo economico sotto il socialismo. In ter-
mini generali, la pianificazione sarebbe irrealizzabile e la
creazione di "mercati artificiali" risulterebbe impossibile,
poiché un vero sistema di prezzi (e costi) dipende neces-
sariamente da uno scambio di titoli di proprietà, cioè di-
pende dalla proprietà privata dei mezzi di produzione.

La teoria misesiana si dimostrò vera durante l'esperi-


mento sovietico, giacché l'Unione Sovietica, dovendo
stabilire parametri affidabili per la produzione e la piani-
ficazione economica, iniziò ben presto a copiare i prezzi
europei. Vale a dire che, data l'impossibilità di calcolo
economico in un sistema senza proprietà privata, ma da-
ta la necessità di calcolo economico per evitare il crollo
repentino del sistema, l'URSS dovette servirsi dei para-
metri di prezzo applicati nel continente europeo, dove
esisteva la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Mises si dedicò anche alla metodologia nel campo dell'e-


conomia, scrivendo inizialmente l’opera "Problemi epi-
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stemologici dell’economia" (1933). In essa, Mises iniziò a
costruire l'edificio teorico che doveva servire da guida
per l’adeguata e corretta ricerca in economia.

Mises non riuscì mai ad affermarsi come professore or-


dinario all'Università di Vienna. La ragione era molto
semplice: era troppo ebreo per essere difeso dagli altri
professori, e troppo liberale per essere difeso dagli altri
ebrei dell'Università. Ciononostante, l’essere ebreo non
gli impedì di sposare l'ex attrice teatrale Margit Serény,
vedova di un aristocratico ungherese. I due convolarono
a nozze nel 1938 nella città di Ginevra, dove erano fuggi-
ti entrambi a causa delle crescenti tensioni in Austria.

Questo perché, con l’affermazione del nazismo e le con-


tinue minacce e i continui attacchi alla comunità ebraica
di Vienna, Mises, già nel 1934, scelse di trasferirsi in
Svizzera, dove iniziò a insegnare presso il Graduate Insti-
tute of International and Development Studies di Ginevra.

L'Austria fu annessa dalla Germania il 13 marzo 1938, e


quello stesso giorno l'appartamento di Mises fu violato
dai nazisti e tutti i suoi effetti personali confiscati. Mises
non recuperò mai quel che restava dei propri averi e mo-
rì credendo che fosse stato tutto distrutto. Solo nel 1991,
diciotto anni dopo la sua morte, i suoi beni vennero ri-
trovati in un archivio segreto a Mosca, nel quale furono
immagazzinati dal momento in cui i sovietici li reperiro-
no in un vagone ferroviario nella regione dell'attuale Re-
pubblica Ceca alla fine della Seconda guerra mondiale.

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Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e con le
continue richieste e pressioni dei nazisti sulla piccola
Svizzera per la consegna della testa dei coniugi Mises - e
dopo aver subito anche un tentato rapimento - decise di
emigrare negli Stati Uniti.

Ma le cose non furono semplici per Mises e Margit, per-


ché i nazisti avevano già conquistato la Francia e un volo
sopra la Francia sarebbe stato terribilmente rischioso. Di
conseguenza, architettarono una folle fuga in un autobus
che attraversò la Francia, e finalmente, il 25 luglio 1940,
riuscirono a salpare per gli Stati Uniti.

Anche davanti a tutti questi problemi e a tutte queste


afflizioni, nella mente di Mises ronzavano i grandi pro-
blemi dell'economia. E proprio nel maggio del 1940, an-
cora a Ginevra, Mises concluse e pubblicò in tedesco
l’opera “Nationalokonomie: Theorie des Handelns und Wirts-
chaftens” (mai tradotta in italiano). Essa rappresentò la
versione preliminare della sua opera magna “Human Ac-
tion: A Treatise on Economics” (L’Azione umana. Trattato
di economia), pubblicato in inglese nel 1949.

Purtroppo, l’opera fu pubblicata lo stesso mese in cui


Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo furono invasi
dalle truppe naziste, il che non solo ebbe come conse-
guenza la confisca e la distruzione di molteplici sue co-
pie, ma fece anche sì che l'opera stessa non ricevesse
l’attenzione che meritava.

Arrivato negli USA, Mises si trovò faccia a faccia con una


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nazione ben diversa da quella ideata dai Founding Fa-
thers. Le idee economiche di John Maynard Keynes
(1883-1946) risuonavano nel mondo accademico e
all’interno del governo americano, e il Paese stava vi-
vendo gli anni del New Deal di Franklin Delano Roose-
velt (1882-1945).

Pertanto, Mises, un «liberale all'antica, di un'altra epo-


ca», finì col subire un altro tipo di persecuzione, seppur
meno vessatoria rispetto a quella subita in Europa: un
rifiuto generale delle sue idee da parte del mondo acca-
demico e dei media, una sorta di velata censura al libera-
lismo economico, cosa che gli impedì di ottenere
l’incarico di docente in alcune università della California.
Mises, sempre fedele alle sue idee e mai disposto a cede-
re, finì per rifiutare diverse offerte del governo america-
no di lavorare come burocrate nel settore della pianifica-
zione economica e di far parte di un gruppo di ricerca
statistica coordinato da Milton Friedman (1912-2006) alla
Columbia University.

Durante questo periodo, che Mises descrisse come il più


difficile della sua vita, fu costretto a vendere libri e og-
getti di sua proprietà e a dare lezioni sporadiche in alcu-
ne università pur di andare avanti.

Ma la sorte di Mises in America cominciò a cambiare


quando il redattore del New York Times Henry Hazlitt
(1894-1993), che già conosceva le sue opere, lo invitò a
scrivere alcuni articoli e editoriali per il quotidiano new-
yorkese. Ebbe così inizio un'amicizia che durò fino alla
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fine della sua vita.

Nel 1944, mentre lavorava per la National Association of


Manufacturers (NAM), un'istituzione fortemente contra-
ria alle politiche del New Deal, Mises incontrò Leonard
Read (1898-1983). Dall’amicizia tra i due nacque l'idea di
creare la Foundation for Economic Education (FEE), per la
quale Mises lavorò come consulente e docente dalla sua
fondazione nel 1946 fino alla sua morte.

Già nel 1945 Mises iniziò a lavorare come visiting profes-


sor di una cattedra finanziata da amici e sostenitori della
New York University (NYU), incarico che ricoprì fino al
1969. Ivi insegnò a studenti brillanti come Murray N. Ro-
thbard (1926-1995), George Raisman e Israel M. Kirzner,
che contribuirono molto all'ulteriore sviluppo della
Scuola austriaca.

Nel 1949, presa consapevolezza che avrebbe dovuto tra-


durre le sue principali opere in inglese al fine di ottenere
una maggiore visibilità, Mises completò la traduzione e
l'aggiornamento di quello che sarebbe stata la sua opera
magna, "Human Action". In essa, Mises elaborò una strut-
tura completa, integrata e logica della teoria economica,
sempre basata sui principi deduttivi che aveva preceden-
temente difeso come i più appropriati per la ricerca in
economia. Nella stessa opera, portò a termine la sua teo-
ria metodologica e presentò al mondo la "prasseologia",
una scienza più ampia di cui l'economia fa parte e il cui
obiettivo è lo «studio dell'azione umana».

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La pubblicazione di questo trattato diede a Mises una
grande notorietà negli Stati Uniti, rendendolo una figura
di spicco tra i liberali e i conservatori americani, soprat-
tutto nelle scienze sociali. Continuò in seguito a produrre
opere rilevanti, come "The Anti-capitalistic Mentality"
(1956), “Theory and History: An Interpretation of Social and
Economic Evolution” (1957) e "The Historical Setting of the
Austrian School of Economics" (1969).

Negli ultimi anni della sua vita, Mises continuò a dedi-


carsi alle conferenze, a terminare la stesura di alcune
opere e a lezioni eccezionali alla NYU. Nel 1959, in una
serie di conferenze tenute a Buenos Aires, in Argentina,
discusse alcuni dei temi economici più rilevanti di quel
periodo storico, temi ancora controversi e purtroppo an-
cora non adeguatamente compresi nell’ambito del dibat-
tito pubblico: il capitalismo, il socialismo, l'interventi-
smo, l'inflazione, gli investimenti esteri e il rapporto tra
politica e idee.

Questa serie di sei lezioni estremamente didattiche e il-


luminanti fu trasposta in un libro dalla moglie, Margit
von Mises, dopo la sua morte nel 1973. All'epoca, Margit
si era resa conto che anche i non economisti che frequen-
tavano quei corsi a Buenos Aires erano in grado di com-
prendere i concetti espressi dal marito, e aveva avuto
l'idea di trasformare le trascrizioni di tali lezioni in un
libro coerente, che lei stessa aveva denominato "Economic
Policy: Thoughts for Today and Tomorrow” (Politica econo-
mica: riflessioni per oggi e per domani).

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Ci siamo presi la libertà di chiamarlo, in questa tradu-
zione, "Le 6 Lezioni", esattamente come fatto in prece-
denza nell'edizione brasiliana, diventata molto popolare
e indispensabile nel nutrire il movimento liberale in quel
Paese.

È un’opera di facile lettura e comprensione, nonché, ose-


rei dire, la migliore introduzione al pensiero economico e
ad alcune delle intuizioni politiche della Scuola Austria-
ca di Economia. Ed è per questo motivo che, seguendo la
missione istituzionale di rendere accessibile a tutti il
pensiero liberale classico, l'Istituto Liberale ha deciso di
riproporla in un'edizione riformulata per i lettori italiani.

L’opera non ha la stessa profondità e ambizione del ca-


polavoro "L’Azione umana", non presenta le novità della
"Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione", né le
complesse analisi politiche di "Stato, nazione ed econo-
mia", ma è il risultato della conclusione della lunga vita
di resilienza e completa abnegazione di Ludwig von Mi-
ses.

La vera essenza, la vera passione di Ludwig von Mises


erano le conversazioni con i suoi studenti e amici nel Pri-
vatseminar viennese, era il dibattito franco, aperto e ar-
dente che aveva con i giovani di quella città. Ed è attra-
verso discussioni come queste, stavolta davanti a giovani
argentini, dall'altra parte del pianeta e già alla fine della
sua vita, che Mises poté finalmente dedicarsi maggior-
mente a ciò che più lo appassionava: discutere, dialogare
e difendere con vigore le idee di libertà che tanto amava
17
davanti a un pubblico di giovani coraggiosi.

Da giovane, durante le scuole medie e come era abitudi-


ne a Vienna, Mises scelse come motto un verso della let-
teratura classica. Il verso è tratto dall'Eneide di Virgilio:
Tu ne cede malis, sed contra audentior ito. Non cedere al
male, ma affrontalo con ancor più audacia.

Nei momenti più difficili, Mises non ha mai dimenticato


queste parole. Non ha mai perso il coraggio e non si è
mai stancato di sostenere quella che sapeva essere la ve-
rità. Mises, fino alla fine dei suoi giorni, ha creduto nelle
parole contenute in queste Sei Lezioni: le idee e solo le
idee possono illuminare l'oscurità.

È un immenso piacere e un motivo di grande orgoglio


per noi poter presentare quest’opera ai giovani lettori
italiani, soprattutto in questo momento difficile che
stiamo vivendo dall'inizio del 2020 e che già sembra un
incubo senza fine. Per me questo libro è più di una serie
di 6 lezioni introduttive all’economia: vi è anche una set-
tima lezione, una lezione di coraggio senza compromessi
e di difesa appassionata della libertà, a qualsiasi costo.

Non cediamo mai, ma procediamo con ancora più co-


raggio.

Buona lettura!

Edson Netto Freitas Amaral

18
.

19
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE
AMERICANA
Il presente libro rispecchia pienamente la posizione fonda-
mentale dell’autore, posizione per cui egli fu – ed è tuttora –
ammirato dai suoi seguaci e criticato dagli avversari… ben-
ché ognuna delle sei lezioni possa figurare separatamente
come un saggio indipendente, l’armonia della serie propor-
ziona un piacere estetico pari a quello che deriva dalla con-
templazione dell’architettura di un edificio ben costruito.

Princeton, 1979 Fritz Machlup

Verso la fine del 1958, mio marito fu invitato dal Dr. Al-
berto Benegas-Lynch a tenere una serie di lezioni in Ar-
gentina, e io lo seguii. Questo libro contiene la trascrizio-
ne delle parole pronunciate da mio marito a centinaia di
studenti argentini durante quelle lezioni.

Arrivammo in Argentina alcuni anni dopo che Juan Do-


mingo Perón (1895-1974) fu costretto a lasciare il Paese.
Egli aveva governato quella nazione in una maniera del
tutto disastrosa e aveva rovinato le fondamenta econo-
miche dell’Argentina. I suoi successori (in primis Eduar-
do Lonardi, 1896-1956) non fecero molto meglio. Il Paese
era pronto a ricevere nuove idee, e mio marito era altret-
tanto pronto a fornirle.

Le sue lezioni furono tenute in lingua inglese,

20
nell’enorme sala conferenze dell’Universidad de Buenos
Aires. In due stanze vicine le sue parole erano simulta-
neamente tradotte in lingua spagnola per gli studenti che
le ascoltavano con le cuffie. Ludwig von Mises (1881-
1973) parlò liberamente di capitalismo, socialismo, inter-
ventismo, comunismo, fascismo, politica economica e dei
pericoli della dittatura.

Quei giovani che lo ascoltavano non sapevano molto cir-


ca la liberà di mercato o la libertà individuale. Come
scrissi a proposito di questa occasione in My Years with
Ludwig von Mises: «se in quegli anni qualcuno avesse osa-
to attaccare il comunismo e il fascismo come fece mio
marito, la polizia sarebbe immediatamente intervenuta
per arrestarlo, e l’assemblea sarebbe stata subito interrot-
ta».

La platea reagì come se una finestra fosse stata aperta e


l’aria fresca lasciata libera di circolare nelle aule. Egli
parlò senza consultare appunti. Come sempre, i suoi
pensieri furono guidati da poche parole scritte in un
pezzettino di carta. Egli sapeva esattamente ciò che vole-
va dire, e usando termini abbastanza semplici riuscì a
comunicare le sue idee a una platea del tutto estranea al
suo lavoro, in modo tale che chiunque riuscisse a capire
esattamente ciò che stava dicendo.

Le lezioni furono registrate, e le bobine delle registrazio-


ni furono successivamente trascritte da una segretaria
che parlava lo spagnolo. Ho trovato questo manoscritto
dattilografato tra gli scritti postumi di mio marito. Leg-
21
gendo il testo, mi ricordai nitidamente dell’entusiasmo
singolare col quale gli argentini avevano accolto le paro-
le di mio marito. Mi sembrava, da non addetta ai lavori,
che queste lezioni, tenute in un auditorio altrettanto
“inesperto” nel Sud America, fossero molto più facili da
comprendere rispetto ai tantissimi scritti più teorici di
Ludwig von Mises. Ebbi la sensazione che esse contenes-
sero talmente tanto materiale prezioso, così tanti pensieri
importanti per l’oggi e per il domani, che ritenni fonda-
mentale metterle a disposizione del pubblico.

Dal momento che mio marito non ebbe l’occasione di


fare la revisione delle trascrizioni delle sue lezioni per
un’eventuale pubblicazione cartacea, questo compito fu
lasciato a me. Sono stata molto attenta a mantenere intat-
to il significato di ogni frase, a non cambiare nulla dei
contenuti e a preservare tutte le espressioni che mio ma-
rito spesso utilizzava e che sono così familiari ai suoi let-
tori. Il mio unico contributo è stato quello di mettere in-
sieme le frasi e di togliere quelle parole che ogni tanto si
usano nel linguaggio orale informale.

Se il mio tentativo di convertire queste lezioni in un libro


è riuscito, ciò è dovuto solamente al fatto che, in ogni
frase, sentivo la voce di mio marito, lo sentivo parlare.
Egli era vivo per me, vivo nella maniera del tutto chiara
con la quale dimostrò i mali e i pericoli insiti in un go-
verno con eccessivo potere; nella comprensibilità e luci-
dità con cui spiegò le differenze tra dittatura e interven-
tismo; nell’arguzia con cui parlò di importanti personag-

22
gi politici; e nelle poche e brevi osservazioni con le quali
riuscì a far rivivere i tempi passati.

Vorrei cogliere questa occasione per ringraziare il mio


buon amico George Koether per avermi assistita in que-
sto compito. La sua esperienza nel campo editoriale e la
sua ottima conoscenza delle teorie di mio marito hanno
contribuito immensamente alla realizzazione di questa
opera.

Spero che queste lezioni vengano lette non solo dagli


studiosi, ma anche dai tanti ammiratori non economisti
di mio marito. Spero immensamente che questo libro
venga messo a disposizione dei lettori più giovani, so-
prattutto degli studenti delle scuole e delle università di
tutto il mondo.

Margit von Mises

New York
giugno 1979

23
PRIMA LEZIONE

IL CAPITALISMO
Alcune espressioni utilizzate dalle persone sono spesso
fuorvianti. Quando si parla dei grandi uomini d’affari
contemporanei, ad esempio, vengono spesso chiamati “il
re della cioccolata”, “il re del cotone” o “il re delle auto-
mobili”.

Quando le persone usano queste espressioni, dimostrano


di non percepire alcuna differenza tra i moderni capi
d’industria e i re, i duchi e i signori feudali dei tempi an-
tichi. Ma la differenza è, in realtà, enorme, dal momento
che il “re della cioccolata” non regna su tutti, non è asso-
lutamente un sovrano, bensì un servitore.

Egli non regna su un territorio conquistato, indipendente


dal mercato, indipendente dai consumatori. Il re della
cioccolata – o il re dell’acciaio o il re delle automobili e
ogni singolo re dell’industria contemporanea – dipende
dall’industria che gestisce e dai consumatori che serve.
Questo “re” deve mantenersi “nelle buone grazie” dei
suoi sudditi, i consumatori; egli perderà il suo “regno”
nel momento in cui non sarà più in grado di offrire ai
propri clienti un servizio migliore e più economicamente
conveniente dei servizi dei suoi concorrenti.

Duecento anni fa, prima dell’avvento del capitalismo, lo


status sociale di un uomo era immutabile dall’inizio e

24
sino alla fine della sua vita; lo ereditava dai suoi antenati,
ed esso non era soggetto ad alcun mutamento. Se fosse
nato povero, sarebbe rimasto per sempre povero, e se
fosse nato ricco – un signore o un duca – avrebbe con-
servato il suo ducato e la tutta la sua proprietà per il re-
sto della vita.

Per quel che riguarda la manifattura, le prime industrie


in quei tempi erano quasi esclusivamente al servizio dei
ricchi. La maggioranza delle persone (più del 99% della
popolazione europea) lavorava la terra e non veniva a
contatto con le industrie urbane. Questo rigido sistema
della società feudale predominò nelle zone più sviluppa-
te d’Europa per centinaia di anni.

L’INIZIO DEL CAPITALISMO


Ciononostante, man mano che la popolazione rurale
aumentava, ci fu un surplus (o eccesso) di persone nelle
zone rurali. Tali “membri eccedenti”, senza terre o beni
ereditati, non riuscivano a trovare lavoro, nemmeno nel-
le industrie manifatturiere. Il numero di questi “emargi-
nati” continuava a crescere e nessuno sapeva esattamen-
te cosa farne.

Essi erano, effettivamente e nel vero senso della parola,


“proletari”, ovvero dei derelitti disoccupati che il gover-
no poteva solo sistemare nelle case di lavoro o in alloggi
per i poveri. In alcune zone d’Europa, soprattutto nei
25
Paesi Bassi e in Inghilterra, essi divennero così numerosi
che già nel diciottesimo secolo erano divenuti una vera e
propria minaccia per la preservazione del sistema sociale
in vigore.

Oggigiorno, quando si discute delle condizioni di Paesi


come l’India o altri Paesi in via di sviluppo, bisogna ri-
cordarsi che nell’Inghilterra del diciottesimo secolo le
condizioni di vita erano molto peggiori. A quei tempi,
l’Inghilterra contava una popolazione di sei o sette mi-
lioni di persone, ma circa 1 milione – o addirittura 2 mi-
lioni – di queste erano semplicemente poveri emarginati
a cui il sistema sociale non riusciva a provvedere. Cosa
fare di questi poveri era uno dei più grandi problemi
dell’Inghilterra del diciottesimo secolo.

Un altro problema considerevole era quello della man-


canza di materie prime. I britannici si trovarono seria-
mente a dover rispondere alla seguente domanda: cosa
faremo nel futuro, quando le nostre foreste non ci po-
tranno più dare la legna necessaria per le nostre indu-
strie e per il riscaldamento delle nostre case? I dirigenti
dello Stato si trovavano in una situazione disperata. Gli
uomini di governo non sapevano cosa fare, e la nobiltà
era assolutamente priva di idee per migliorare le suddet-
te condizioni.

Da questa grave situazione sociale emerse il capitalismo


moderno. Vi erano alcuni tra questi emarginati, tra que-
sti poveri individui, che cercarono di organizzarsi con
altri per allestire piccoli negozi per la produzione di al-
26
cuni beni. Questa fu un’innovazione. Tali innovatori non
produssero articoli costosi adatti alle classi più abbienti;
produssero beni più economicamente convenienti, adatti
a soddisfare i bisogni di tutti. Questa fu l’origine del ca-
pitalismo così come lo conosciamo tutt’oggi. Fu l’inizio
della produzione di massa, il principio fondamentale
dell’industria capitalistica. Mentre le vecchie industrie
manifatturiere che servivano i ricchi erano esistite quasi
che esclusivamente per soddisfare i bisogni delle classi
più abbienti, le nuove industrie capitaliste iniziarono a
produrre beni che potevano essere acquistati da tutti. Si
trattava di una produzione di massa volta a soddisfare i
bisogni delle masse.

Questo è il principio fondamentale del capitalismo così


com’è oggi in tutti i Paesi nei quali vi è un sistema alta-
mente sviluppato di produzione di massa: le grandi in-
dustrie, bersagli dei più fanatici attacchi da parte degli
attivisti di sinistra, producono quasi esclusivamente per
soddisfare i bisogni delle masse. Le imprese che produ-
cono esclusivamente beni di lusso per i ricchi non po-
tranno mai raggiungere le dimensioni delle grandi indu-
strie. E oggi, sono coloro che lavorano nelle grandi fab-
briche i principali consumatori dei beni prodotti da quel-
le stesse fabbriche. È questa la differenza fondamentale
tra i principi capitalistici di produzione e i principi feu-
dali dei periodi precedenti.

27
IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE

Quando le persone presumono, o affermano, che esiste


una differenza tra i produttori e i consumatori dei beni
fabbricati dalle grandi industrie, commettono un gravis-
simo errore. Nei grandi negozi americani – i cosiddetti
department stores americani – si sente spesso lo slogan «il
cliente ha sempre ragione» (o «the customer is always
right», in inglese). E questo cliente è lo stesso individuo
che produce nelle fabbriche i beni che sono successiva-
mente venduti nei negozi.

Anche coloro che pensano che il potere delle grandi in-


dustrie sia enorme si sbagliano, poiché queste dipendono
completamente dal consenso di quelli che comprano i
loro prodotti, ovvero, dei consumatori: anche la più
grande impresa perde tutto il suo potere e tutta la sua
influenza economica quando perde i suoi clienti.

Cinquanta o sessanta anni fa1 si diceva che in quasi tutti i


Paesi capitalisti le compagnie ferroviarie erano troppo
grandi e troppo potenti; esse avevano costituito un mo-
nopolio e sarebbe stato del tutto impossibile affrontarle.
Si argomentava che, nel settore dei trasporti, il capitali-
smo fosse già giunto a una fase nella quale esso aveva
distrutto sé stesso, poiché aveva eliminato la competi-
zione. Ciò che la gente ignorava era il fatto che il potere

1 N.d.T.: l’autore fa riferimento ai primi anni del Novecento.

28
delle ferrovie dipendeva dalla loro capacità di servire le
persone meglio di qualsiasi altro metodo di trasporto.

Certamente sarebbe stato ridicolo provare a competere


con una di queste grandi compagnie ferroviarie co-
struendo una ferrovia parallela ad una già esistente, vi-
sto che la vecchia linea era già sufficiente per soddisfare
la domanda esistente. Ma ben presto arrivarono altri
concorrenti. La libertà di concorrenza non significa che
uno può raggiungere il successo semplicemente imitan-
do o copiando precisamente ciò che qualcun altro aveva
già fatto. La libertà di stampa non significa che uno ha il
diritto di copiare ciò che un altro individuo ha scritto, e
dunque avere per sé il successo che tale individuo si è
giustamente guadagnato per merito personale. La libertà
di stampa significa che si ha il diritto di scrivere qualcosa
di diverso. La libertà di concorrenza nel settore ferrovia-
rio, ad esempio, significa che si è liberi d’inventare qual-
cosa, di fare qualcosa, che sfiderà le ferrovie e che potrà
trascinarle in una situazione di fortissima competizione.

Negli Stati Uniti, la competizione fatta alle ferrovie – nel-


la forma di autobus, automobili, camion e aeroplani – ha
generato grandi difficoltà a quel settore e lo ha quasi an-
nientato del tutto, almeno per ciò che riguarda il traspor-
to viaggiatori.

Lo sviluppo del capitalismo consiste nel diritto ricono-


sciuto a tutti di servire i consumatori nei migliori dei
modi e/o a prezzi economicamente più convenienti. E
questo metodo, questo principio, ha, in un lasso di tem-
29
po comparativamente breve, trasformato l’intero mondo.
Ha reso possibile una crescita senza precedenti della po-
polazione mondiale.

Nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, la terra poteva


garantire la sussistenza di soli sei milioni di persone con
un tenore di vita piuttosto basso. Oggi più di 50 milioni
di persone godono di un tenore di vita molto più alto
addirittura di quello dei ricchi del diciottesimo secolo. E
la qualità di vita dell’Inghilterra odierna sarebbe proba-
bilmente ancora più alta, se non fosse per l’immensa
quantità di energia sprecata dai britannici in quelle che
furono considerate, sotto svariati punti di vista, “avven-
ture” politiche e militari del tutto evitabili.

Questi sono i veri fatti che riguardano il capitalismo. Per-


tanto, se un inglese – o, se vogliamo, un qualsiasi indivi-
duo di un qualsiasi altro Paese del mondo – dice oggi ai
propri amici di essere un oppositore del capitalismo, esi-
ste una maniera meravigliosa per rispondergli: “sei con-
sapevole del fatto che la popolazione di questo pianeta è
ora dieci volte più alta rispetto a quella dei periodi che
hanno preceduto l’avvento del capitalismo; sai anche che
tutti gli individui oggi godono di un tenore di vita più
elevato rispetto a quello dei tuoi antenati. Ma come po-
tresti sapere di essere uno dei dieci che sarebbe vissuto
in assenza del capitalismo? Il semplice fatto che tu sia in
vita oggi è la prova che il capitalismo ha avuto successo,
a prescindere dal valore che attribuisci alla tua vita stes-
sa”.

30
Nonostante tutti i suoi benefici, il capitalismo è stato pe-
rennemente e costantemente attaccato e criticato. È ne-
cessario comprendere l’origine di questa avversione. È
un dato di fatto che l’odio per il capitalismo ebbe origine
non nelle masse, non tra i lavoratori, ma nell’aristocrazia
terriera – la nobiltà, sia piccola sia grande,
dell’Inghilterra e del continente europeo. Colpevolizza-
rono il capitalismo per un fenomeno che non era molto
piacevole per loro: agli inizi del diciannovesimo secolo,
gli stipendi più elevati che le industrie pagavano ai pro-
pri lavoratori costrinsero la nobiltà terriera a pagare sti-
pendi ugualmente alti ai propri lavoratori agricoli.
L’aristocrazia attaccò le industrie criticando il tenore di
vita delle masse di lavoratori.

IL CAPITALISMO AUMENTA IL TENORE


DI VITA

Certamente, dal nostro punto di vista, il tenore di vita


dei lavoratori era estremamente basso; le condizioni che
vi erano durante l’inizio del capitalismo erano assoluta-
mente sconvolgenti, ma non perché le industrie capitali-
stiche appena nate avessero danneggiato i lavoratori. Le
persone che venivano assunte per lavorare nelle fabbri-
che già sopravvivevano a un livello praticamente subu-
mano.

La famosa e vecchia storia, ripetuta centinaia di volte,

31
secondo cui nelle fabbriche lavoravano donne e bambini,
che, prima di andare a lavorare in tali fabbriche, viveva-
no in condizioni del tutto soddisfacenti, è una delle più
grandi bugie della storia.

Le madri che lavoravano nelle fabbriche non avevano


nulla con cui cucinare; non lasciarono le loro case e le
loro cucine per andare a lavorare nelle fabbriche, al con-
trario, andarono nelle fabbriche perché non avevano cu-
cine, e anche se avessero avuto una cucina non avrebbe-
ro comunque avuto del cibo da potervi preparare.

I bambini non erano arrivati in fabbrica da accoglienti


asili. Stavano morendo di fame. E tutte le argomentazio-
ni a proposito del cosiddetto orrore innominabile della
prima fase del capitalismo possono essere confutate con
un singolo dato statistico: precisamente in quegli anni in
cui si sviluppò il capitalismo inglese, precisamente
nell’epoca chiamata Rivoluzione industriale in Inghilter-
ra, dal 1760 al 1830, la popolazione dell’Inghilterra rad-
doppiò, il che significa semplicemente che centinaia o
migliaia di bambini – che sarebbero sicuramente morti in
altri tempi – riuscirono a sopravvivere e a crescere fino a
diventare uomini e donne.

Non v’è dubbio che le condizioni dei periodi precedenti


fossero del tutto insoddisfacenti. Furono le imprese capi-
taliste a migliorarle. Furono precisamente quelle prime
fabbriche e industrie a provvedere ai bisogni dei propri
lavoratori, sia direttamente sia indirettamente, per mez-
zo dell’esportazione dei prodotti e l’importazione di ge-
32
neri alimentari e materie prime da altri Paesi. Ancora
una volta e reiteratamente, i primi storici del capitalismo
hanno – e difficilmente si può usare una parola più leg-
gera – falsificato la storia.

Un aneddoto che a molti piaceva raccontare, molto pro-


babilmente inventato, aveva come protagonista Benja-
min Franklin (1706-1790). Secondo la storia, Ben Franklin
andò a visitare un cotonificio in Inghilterra, e il proprie-
tario del mulino gli disse, tutto orgoglioso: «Guardi, que-
sti sono i prodotti di cotone che invieremo in Ungheria».
Benjamin Franklin, guardandosi intorno e notando che
gli operai indossavano abiti di pessima fattura, disse:
«Perché Lei non produce anche per i suoi lavoratori?»

Ma le esportazioni menzionate dal proprietario del mu-


lino volevano dire che lui effettivamente produceva per i
suoi operai, perché l’Inghilterra doveva importare tutte
le sue materie prime. Non vi era cotone né in Inghilterra
né nell’Europa continentale. In Inghilterra vi era una
persistente scarsità di generi alimentari, e perciò essi do-
vevano essere importati dalla Polonia, dalla Russia e
dall’Ungheria. Tali esportazioni, pertanto, non erano al-
tro che il pagamento per le importazioni di generi ali-
mentari che rendevano possibile la sopravvivenza della
popolazione britannica.

Molteplici esempi tratti dalla storia di quei periodi pos-


sono illustrare l’atteggiamento della piccola nobiltà e
dell’aristocrazia nei confronti dei lavoratori. Vorrei citare
soltanto due esempi. Uno è il famoso sistema “Speenham-
33
land” britannico. Secondo tale sistema, il governo britan-
nico avrebbe dovuto pagare a tutti i lavoratori che non
ricevevano il salario minimo (il cui importo veniva de-
terminato dal governo) una somma equivalente alla dif-
ferenza tra il salario che percepivano e quello minimo.
Questo sistema ha permesso alla piccola nobiltà di evita-
re di pagare stipendi più elevati. Essi potevano pagare i
tradizionalmente bassi stipendi agricoli, e il governo li
integrava, facendo sì che i lavoratori non volessero ab-
bandonare i posti di lavoro rurali per cercare impiego
nelle fabbriche urbane.

Ottant’anni più tardi, dopo che il capitalismo si era già


diffuso anche nell’Europa continentale, l’aristocrazia ter-
riera reagì ancora una volta al nuovo sistema produttivo.
In Germania, gli Junker prussiani, avendo perso molti
lavoratori a causa degli stipendi più elevati nelle fabbri-
che capitaliste, inventarono un termine speciale per de-
scrivere il problema: “fuga – o, letteralmente, volo – dalle
campagne” – Landflucht. E nel Parlamento tedesco si di-
scusse su come combattere questo male – o almeno, era
così che veniva qualificata tale situazione
dall’aristocrazia terriera.

Il principe Bismarck, il famoso cancelliere del Reich tede-


sco, durante una conferenza disse: «A Berlino ho incon-
trato un uomo che una volta lavorava nella mia fattoria e
gli ho chiesto: ‘perché hai lasciato la fattoria, perché sei
andato dalla campagna, perché vivi ora a Berlino?’». E,
secondo Bismarck, questo uomo rispose: «Voi non avete

34
al villaggio un piacevole Biergarten come quello che ab-
biamo qui a Berlino, un posto dove ci si può sedere, bere
della birra e ascoltare musica». Questa è una storia rac-
contata dal punto di vista del principe Bismarck, il dato-
re di lavoro. Non rispecchiava, certamente, il punto di
vista di tutti i suoi dipendenti. Essi andarono a lavorare
nelle fabbriche perché l’industria offriva loro stipendi
più elevati e aumentava il loro tenore di vita a livelli sen-
za precedenti.

Oggi, nei Paesi capitalisti, vi è una differenza relativa-


mente piccola tra la “vita standard” delle cosiddette classi
alte e classi basse; entrambe hanno accesso a generi ali-
mentari, a vestiario e a un posto in cui vivere. Nel diciot-
tesimo secolo e nei secoli precedenti la situazione non
era affatto così, la differenza tra un uomo della classe
media e uno della classe bassa era che il primo aveva
delle scarpe e il secondo non le aveva.

Negli Stati Uniti di oggi la differenza tra un ricco e un


povero spesso è quella che esiste tra una Cadillac e una
Chevrolet. La Chevrolet può anche essere acquistata di
seconda mano, ma fondamentalmente svolge le stesse
funzioni dell’altra automobile: il proprietario della Che-
vrolet può, esattamente come quello della Cadillac, spo-
starsi da un punto a un altro. Più del 50% delle persone
negli Stati Uniti vive in case o in appartamenti di pro-
prietà.

Gli attacchi al capitalismo – soprattutto quelli diretti agli


stipendi elevati – si basano sulla premessa sbagliata se-
35
condo la quale i salari vengono pagati, in linea di mas-
sima, da persone diverse da quelle che lavorano nelle
fabbriche. Ecco, è giusto che gli economisti e gli studiosi
di teorie economiche facciano una distinzione tra il lavo-
ratore e il consumatore, e che essi vengano considerati
due gruppi diversi. Ma il fatto è che ogni consumatore
deve, in un modo o nell’altro, guadagnarsi i soldi che
eventualmente potrà spendere, e che l’immensa maggio-
ranza dei consumatori è composta precisamente dagli
stessi individui che lavorano come operai nelle industrie
che producono i beni che verranno successivamente ac-
quistati da loro.

L’ammontare degli stipendi nel sistema capitalista non


viene stabilito da una classe di persone diversa da quella
alla quale appartengono gli individui che guadagnano
tali stipendi; si tratta delle stesse persone. Non è una cor-
porazione cinematografica di Hollywood che paga il sala-
rio a una star del cinema; sono le persone che pagano il
biglietto d’ingresso al cinema. E non è un imprenditore
che organizza una lotta di boxe a pagare gli enormi premi
per la partecipazione dei famosi e grandi campioni; tale
premio viene pagato dalle persone che acquistano il bi-
glietto per assistere alla lotta. Per mezzo della distinzio-
ne tra datore di lavoro e dipendente, si crea una distin-
zione nella teoria economica, ma non si tratta di una di-
stinzione rilevante nella vita reale; nella realtà, il datore
di lavoro e il dipendente sono, in ultima analisi, la mede-
sima persona.

36
Vi sono persone in diversi Paesi che considerano molto
ingiusto che un uomo che deve mantenere una famiglia
con svariati figli percepisca lo stesso stipendio di un uo-
mo che deve provvedere solo a sé stesso. Ma la questione
non è esattamente se l’imprenditore debba assumersi
delle responsabilità maggiori in base alla dimensione
della famiglia del dipendente.

La domanda che veramente bisogna porsi in questo caso


è: tu, in quanto individuo, saresti disposto a pagare di
più per un determinato bene, come, ad esempio, una pa-
gnotta, se ti venisse detto che l’uomo che ha prodotto
questa pagnotta ha sei figli? Un individuo onesto certa-
mente risponderebbe di no e aggiungerebbe: «In teoria lo
farei, ma se costasse di meno io preferirei comprare il
pane prodotto da un uomo senza figli a suo carico».

Il fatto è che se i consumatori non pagano al datore di


lavoro abbastanza denaro per permettergli di pagare i
suoi dipendenti, diventa impossibile per costui rimanere
aperto.

Il sistema capitalista fu denominato “capitalismo” non


da un “fan” del sistema, ma da un individuo che lo con-
siderava il peggiore di tutti i sistemi in tutta la Storia, il
più grande male che avesse mai colpito l’umanità. Que-
sto uomo era Karl Marx (1818-1883).

Ciononostante, non vi è alcuna ragione per rifiutare il


termine coniato da Marx, perché esso descrive con molta
chiarezza l’origine di tutti gli immensi sviluppi e pro-
37
gressi sociali portati dal sistema capitalista. Questi pro-
gressi furono il risultato dell’accumulazione di capitale;
si basavano sul fatto che le persone, di regola, non con-
sumano esattamente tutto ciò che producono; che le per-
sone, invece, risparmiano – e investono – una parte di ciò
che hanno prodotto.

Vi è un grande insieme di interpretazioni sbagliate sul


problema e – nel corso di queste lezioni – avrò
l’opportunità di affrontare i più fondamentali equivoci
che esistono sull’accumulazione del capitale, sull’utilizzo
del capitale e sui vantaggi universali che derivano da
questo uso. Nelle lezioni sull’investimento estero e
sull’inflazione – uno dei problemi più critici della politi-
ca odierna – affronterò nello specifico la questione capi-
talismo. Voi sapete, certamente, che l’inflazione esiste
non solo in questo Paese. È un problema che attualmente
riguarda il mondo intero.

IL RISPARMIO CAPITALISTICO AIUTA I


LAVORATORI

Un fatto spesso ignorato sul capitalismo è il seguente: i


risparmi rappresentano benefici per tutti coloro che sono
ansiosi di produrre o di guadagnare uno stipendio.
Quando un individuo ha accumulato una determinata
quantità di denaro – mettiamo mille dollari – e, anziché
spenderli, decide di affidare i suoi soldi a una banca o a

38
un’azienda d’assicurazioni, quel denaro va a finire nelle
mani di un imprenditore, un uomo d’affari, e permette a
costui di iniziare e realizzare progetti che fino a un gior-
no prima non avrebbe potuto cominciare, giacché il capi-
tale necessario non era disponibile.

Cosa farà ora l’imprenditore col capitale addizionale? La


prima cosa che dovrà fare sarà assumere dei lavoratori e
acquistare materie prime – così facendo, costui creerà
una domanda aggiunta di lavoratori e materie prime, e
ciò contribuirà a generare una tendenza di aumento de-
gli stipendi e del prezzo delle materie prime. Molto
prima che il risparmiatore o l’imprenditore potranno ot-
tenere profitto da tutte queste operazioni, il disoccupato,
il produttore di materie prime, l’agricoltore e il lavorato-
re dipendente avranno tutti avuto la loro parte di questi
benefici generati dal risparmio iniziale.

Il tempo necessario affinché l’imprenditore percepisca il


guadagno derivante dal progetto precedentemente idea-
to dipenderà sia dalla situazione futura del mercato sia
dalla sua abilità d’intuire e anticipare correttamente qua-
le sarà esattamente tale situazione futura. Ma i dipen-
denti, così come i produttori di materie prime, ricevono i
benefici immediatamente. Molto è stato detto, trenta o
quaranta anni fa, della cosiddetta “politica dei salari” di
Henry Ford (1863-1947).

Una delle realizzazioni più grandi del Sig. Ford fu quella


di pagare ai suoi operai salari più alti rispetto a quelli
che percepivano i lavoratori nelle altre industrie e fabbri-
39
che. La sua “politica dei salari” fu descritta come
un’invenzione, ciononostante non è sufficiente dire che
questa nuova politica “inventata” fu il risultato della ge-
nerosità o liberalità del Sig. Ford. Un nuovo settore di un
business, o una nuova fabbrica che svolge le sue funzioni
in un settore già esistente, deve attrarre i lavoratori da
altri posti di lavoro, da altre regioni del Paese, addirittu-
ra da altri Paesi. E l’unico modo per ottenere ciò è offrire
agli operai salari più elevati. Questo è ciò che accadde
nei primi giorni del capitalismo, ed è ciò che si verifica
ancora oggi.

Quando i manufatturieri della Gran Bretagna iniziarono


a produrre articoli in cotone, essi pagavano ai loro operai
salari più elevati rispetto a quelli che percepivano in pre-
cedenza. Evidentemente, una percentuale considerevole
di questi nuovi operai non aveva mai guadagnato qual-
cosa prima e perciò era disposta ad accettare praticamen-
te qualsiasi cosa le fosse offerta. Ma dopo un po’ di tem-
po – quando il capitale si accumulò in maniera progres-
siva e costante e le imprese diventarono sempre più nu-
merose – l’ammontare degli stipendi si elevò, e il risulta-
to fu l’aumento senza precedenti della popolazione bri-
tannica di cui ho parlato prima.

La descrizione spregevole del capitalismo fatta da alcune


persone, in cui esso veniva inteso come un sistema idea-
to per rendere i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, è
sbagliata dal principio alla fine. Le tesi marxiste riguar-
danti l’avvento del socialismo si basavano sulla premes-

40
sa secondo la quale gli operai diventavano sempre più
poveri, che le masse diventavano sempre più indigenti, e
che eventualmente la ricchezza di un Paese si sarebbe
concentrata nelle mani di pochi o addirittura nelle mani
di un singolo uomo. E, di conseguenza, le masse di ope-
rai impoveriti finalmente si sarebbero ribellate e avreb-
bero espropriato le ricchezze degli abbienti proprietari.
Secondo questa dottrina di Marx, non vi può essere al-
cuna opportunità, alcuna possibilità all’interno del si-
stema capitalista per il miglioramento delle condizioni
dei lavoratori.

Nel 1864, parlando dinanzi all’International Wor-


kingsmen’s Association in Inghilterra, Marx disse che la
convinzione secondo cui i sindacati potrebbero migliora-
re le condizioni dei lavoratori era «assolutamente sba-
gliata». La politica sindacale di chiedere stipendi più ele-
vati e riduzioni nell’orario lavorativo era, per lui, “con-
servatrice” – naturalmente il termine “conservatore” era
il più dispregiativo in assoluto usato da Marx. Egli sug-
gerì ai sindacati di attuare nuovo obiettivo, un obiettivo
rivoluzionario: essi avrebbero dovuto «abolire del tutto il
sistema salariale», sostituendo il sistema di proprietà
privata con il “socialismo” – proprietà statale dei mezzi
di produzione.

Se guardiamo la storia del mondo, in particolare la storia


dell’Inghilterra dal 1865 ad oggi, notiamo che Marx si è
sbagliato su ogni singolo aspetto. Non esiste un singolo
Paese capitalista occidentale nel quale le condizioni delle

41
masse non siano migliorate in una maniera del tutto sen-
za precedenti. Tutti questi progressi degli ultimi ottanta
o novant’anni sono stati raggiunti a dispetto dei pronosti-
ci e delle previsioni di Karl Marx. Ciò si deve al fatto che,
per i socialisti marxisti, le condizioni dei lavoratori non
sarebbero mai potute migliorare. Essi seguivano una fal-
sa teoria, la famosa “Legge di Ferro dei Salari” – una
legge che stabiliva che gli stipendi dei lavoratori, nel si-
stema capitalista, non avrebbero mai superato
l’ammontare di denaro necessario affinché essi potessero
mantenersi in vita per essere poi in grado di lavorare
all’industria.

I marxisti formularono la loro teoria in questa maniera:


se i salari dei lavoratori si alzano, e superano la soglia
della sussistenza, i lavoratori fanno più figli; e questi fi-
gli, quando entrano a far parte della forza di lavoro, fan-
no aumentare il numero di lavoratori fino a un punto
tale che i salari diminuiscono, ritornando ancora una vol-
ta al livello di sussistenza – quel livello così basso che
serve a malapena a garantire che la popolazione lavora-
tiva non si estingua. Ma questa idea di Marx, e di tanti
altri socialisti, si basa su un concetto dell’operaio che è
precisamente uguale a quello che i biologi utilizzano –
ragionevolmente – nello studio della vita degli animali.
La vita dei topi, ad esempio.

Se si aumenta la quantità di cibo disponibile a degli or-


ganismi animali o a dei microbi, conseguentemente un
numero maggiore di essi sopravvivrà. E se si riduce la

42
quantità di cibo, si ridurrà il numero di organismi e mi-
crobi in generale. L’uomo, invece, è diverso. Anche il la-
voratore – a dispetto del fatto che i marxisti non lo rico-
noscano – ha bisogni umani che vanno oltre il cibo e la
riproduzione della propria specie. Un aumento reale dei
salari comporta non solo una crescita demografica, ma
anche, e innanzitutto, un aumento del tenore di vita me-
dio. Ecco il motivo per cui oggi abbiamo un tenore di
vita più elevato nell’Europa occidentale e negli Stati Uni-
ti rispetto a quello delle nazioni in via di sviluppo, come,
ad esempio, quelle del continente africano.

Dobbiamo capire, tuttavia, che questo elevato tenore di


vita dipende dalla disponibilità di capitale. Ciò spiega la
differenza tra le condizioni di vita negli Stati Uniti e
quelle in India; i moderni metodi per combattere le ma-
lattie infettive furono introdotti in India – almeno par-
zialmente – e l’effetto fu un aumento senza precedenti
della popolazione; ciononostante, siccome questo au-
mento demografico non fu accompagnato da un aumen-
to nella disponibilità di capitali investiti, il risultato fu un
aumento della povertà. Un Paese diventa più prospero in
proporzione all’aumento del capitale investito pro capite.

Spero di avere l’opportunità di approfondire queste te-


matiche e questi problemi nelle lezioni successive, e di
poterli chiarire definitivamente, perché alcuni termini e
definizioni – come, ad esempio, il “capitale investito pro
capite” – richiedono una spiegazione considerevolmente
più approfondita.

43
Dovete ricordare che, nell’ambito delle politiche econo-
miche, non esistono miracoli. Avrete letto nei giornali e
avrete sicuramente seguito alcune conferenze sul cosid-
detto “miracolo economico italiano” 2 – ossia della ripresa
economica dell’Italia dopo la sua sconfitta e la sua di-
struzione nella Seconda guerra mondiale. Ma non è stato
affatto un miracolo. È stata la semplice applicazione dei
principi dell’economia di libero mercato, dei metodi del capi-
talismo, anche se essi non sono stati seguiti del tutto e/o
fino in fondo. Ogni singolo Paese può sperimentare il
medesimo “miracolo” della ripresa economica, ma devo
ribadire che la ripresa economica non è assolutamente
derivata dal miracolo; essa nasce dall’adozione – e ne è il
risultato – di politiche economiche salde.

2 N.d.T.: nelle lezioni originali l’autore parla del miracolo economico


tedesco, ma è sostituibile senza problemi con quello italiano, trattan-
dosi dello stesso periodo e delle stesse condizioni.

44
SECONDA LEZIONE

IL SOCIALISMO
Mi trovo qui, nella città di Buenos Aires, in qualità di
invitato del Centro de Difusión Economía Libre3 (in italiano:
Centro di Diffusione Economia Libera). Che cos’è l’economía
libre? Cosa significa questo sistema di libertà economica?
La risposta è semplice: si tratta dell’economia di mercato,
si tratta del sistema nel quale la cooperazione tra indivi-
dui nella divisione sociale del lavoro viene raggiunta
grazie al mercato. Questo mercato non è un posto; è un
processo, è il modo in cui, tramite acquisti e vendite, tra-
mite la produzione e il consumo, gli individui contribui-
scono al funzionamento sistemico della società.

Quando parliamo di questo sistema d’organizzazione


economica – l’economia di mercato – abitualmente usia-
mo il termine “libertà economica”. Molto spesso, le per-
sone fraintendono ciò che tale termine significa, e pensa-
no che la libertà economica sia un qualcosa di sostan-
zialmente separato dalle altre libertà, e che queste altre
libertà – ritenute molto più importanti di quella econo-
mica – possano essere preservate anche in assenza di
quella.

3 Successivamente denominato Centro de Estudios sobre la Libertad


(Centro di Studi sulla Libertà).

45
Questo è il significato di libertà economica: che
l’individuo si trova in una posizione di essere capace di
scegliere in che modo vorrebbe integrarsi nella società.
L’individuo può scegliere la sua carriera, è libero di fare
esattamente ciò che desidera fare.

Certamente questo non dev’essere inteso alla luce del


significato che ormai molti attribuiscono alla parola li-
bertà; tale parola va intesa, invece, nel senso che, attra-
verso la libertà economica, l’individuo viene liberato dal-
le sue condizioni naturali. In natura, non c’è nulla che
possa essere effettivamente nominato “libertà”; esiste
solo la regolarità delle leggi della natura, alle quali
l’uomo deve obbedire se vuole ottenere qualcosa.

LA LIBERTÀ NELLA SOCIETÀ


Quando si usa la parola libertà nell’ambito degli esseri
umani, si parla sostanzialmente della libertà all’interno
della società. Tuttavia, ancora oggi, le libertà sociali ven-
gono considerate da tante persone come indipendenti
l’una dall’altra. Coloro che attualmente si dichiarano “li-
berals” lottano per politiche che sono precisamente
l’opposto di quelle che i liberali del diciannovesimo seco-
lo sostenevano nei propri programmi politici.

I cosiddetti liberals di oggi sostengono un’idea abbastan-


za popolare: secondo loro, le libertà di parola, di pensie-
ro, di stampa, di religione e di diritto a un giusto proces-
46
so prima della detenzione possono essere adeguatamen-
te preservate anche in assenza di ciò che viene chiamata
libertà economica. Non si rendono conto che, in un si-
stema nel quale il mercato è assente e nel quale spetta al
governo la gestione di ogni singola cosa, tutte le altre li-
bertà sono completamente illusorie – anche se vengono
trasformate in leggi e scritte nelle costituzioni.

Prendiamo una di queste libertà, la libertà di stampa. Se


il governo possiede tutte le tipografie, esso potrà deter-
minare cosa verrà stampata o meno. E se il governo pos-
siede tutte le tipografie e determina ciò che deve essere
stampato o meno, allora è evidente che la possibilità di
pubblicare le argomentazioni contrarie alle idee del go-
verno diventa praticamente inesistente. La libertà di
stampa svanisce. Ed è così per tutte le altre libertà.

In un’economia di mercato, l’individuo ha la libertà di


scegliere la carriera che desidera perseguire, di scegliere
il proprio modo di integrarsi nella società. Ma un sistema
socialista non funziona così: la sua carriera verrà stabilita
da un decreto del governo. Il governo può ordinare a
persone che per qualche motivo gli risultino sgradite – o
anche a persone che non vuole che vivano in una deter-
minata regione – che si trasferiscano in altre regioni o
località. E il governo si trova sempre nella posizione di
essere in grado di giustificare e spiegare tali procedimen-
ti semplicemente dichiarando che il piano governativo
prevedeva la presenza di questo eminente cittadino a
cinquemila chilometri dal luogo in cui egli sarebbe potu-

47
to risultare sgradito agli uomini al potere.

È vero che la libertà di cui può godere un uomo in


un’economia di mercato non è una libertà perfetta dal
punto di vista metafisico. Ma non esiste la libertà perfet-
ta. La libertà significa qualcosa solo all’interno del fra-
mework della società. Gli scrittori che parlavano di “dirit-
to naturale” nel diciottesimo secolo – soprattutto Jean
Jacques Rousseau (1712-1778) – credevano che un tempo,
nel remoto passato, gli uomini godevano di ciò che è sta-
ta chiamata libertà “naturale”. Ma in quei remoti tempi,
gli individui non erano assolutamente liberi, erano inve-
ce alla mercé di tutti quelli che erano più forti di loro. Le
famose parole di Rousseau («l’uomo è nato libero e
ovunque si trova in catene») possono anche suonare be-
ne alle orecchie, ma l’uomo veramente non nasce libero.
L’uomo quando nasce è una creatura debolissima. Senza
la protezione dei suoi genitori, senza la protezione pro-
porzionata dalla società ai suoi genitori, egli non riusci-
rebbe a preservare la propria vita.

La libertà nella società significa che un individuo dipen-


de dagli altri esattamente come gli altri dipendono da
lui. La società nella quale vige l’economia di mercato,
nella quale esistono le condizioni de “l’economía libre”, è
un sistema in cui ognuno provvede ai bisogni e alle ne-
cessità dei propri concittadini e, in cambio, viene servito
da tutti. Le persone ritengono che nell’economia di mer-
cato vi siano capi che si mantengono indipendentemente
dalla buona volontà e dal sostegno degli altri individui.

48
Credono che i capitani dell’industria, gli uomini d’affari
e gli imprenditori siano i veri padroni del sistema eco-
nomico. Ma questa non è altro che un’illusione. I veri
padroni del sistema economico sono i consumatori. E se i
consumatori decidono di non dare più il loro sostegno
economico a un settore di un determinato business, questi
imprenditori saranno costretti o ad abbandonare la rile-
vante posizione previamente occupata nel sistema eco-
nomico o a adeguare le proprie azioni ai desideri e alle
richieste dei consumatori.

Una delle più famose sostenitrici del comunismo fu Lady


Passfield, conosciuta sia come Beatrice Potter (il suo no-
me da nubile) sia come moglie di Sidney Webb. Era figlia
di un ricco uomo d’affari e, da giovane, aveva lavorato
come segretaria del padre. Nelle sue memorie scrisse:
«nell’impresa di mio padre tutti dovevano obbedire agli
ordini impartiti da lui, essendo egli il capo. Era l’unico
che dava gli ordini, ma a lui nessuno dava ordini». Que-
sta è una visione considerevolmente limitata. Suo padre
veramente riceveva ordini dai consumatori, dai compratori
dei suoi prodotti. Purtroppo, ella non poté vedere questi
ordini; non poté vedere ciò che effettivamente avveniva
in un’economia di mercato, perché si interessava soltanto
degli ordini che venivano dati all’interno dell’ufficio e
della fabbrica di suo padre.

Ogni volta che guardiamo i problemi economici dob-


biamo tenere in mente le parole del grande economista
francese Frédéric Bastiat (1801-1850), il quale nominò

49
uno dei suoi brillanti saggi “Ce qu’on voit et ce qu’on ne
voit pas” (in italiano, “Ciò che si vede e ciò che non si ve-
de”, pubblicato dall’Istituto Liberale). Per poter com-
prendere il funzionamento di un sistema economico
dobbiamo considerare e analizzare non solo quei feno-
meni che si possono vedere chiaramente, ma anche quei
fenomeni che non possono essere percepiti direttamente.
Per esempio, un ordine impartito da un capo a un fatto-
rino può essere sentito da tutti coloro che sono presenti
in quella stanza. Ciò che non si può sentire, invece, sono
gli ordini impartiti dai consumatori al capo.

COMANDANO I CONSUMATORI
Il fatto è che, nel sistema capitalistico, i veri padroni sono
i consumatori. Il sovrano non è lo Stato, sono le persone.
E la prova di ciò è il fatto che gli individui hanno il diritto
di comportarsi in maniera folle. Questo è il privilegio del
sovrano. Egli ha il diritto di commettere errori e nessuno
può impedirglielo; ma, certamente, egli dovrà successi-
vamente pagare per i suoi errori. Quando diciamo che il
consumatore è supremo o che il consumatore è sovrano
non intendiamo dire che egli è un individuo in grado di
sapere ogni singola volta ciò che è meglio per sé stesso. I
consumatori spesso acquistano o consumano beni che
non dovrebbero comprare o consumare.

Nonostante ciò, è assolutamente falsa la nozione secondo

50
cui un sistema di capitalismo di Stato, per mezzo del
controllo dei consumi, può impedire alle persone di fare
del male a loro stesse. L’idea di un governo come
un’autorità paternalista, come un guardiano universale,
è l’idea di coloro che difendono il socialismo.

Alcuni anni fa, negli Stati Uniti, il governo ha provato ciò


che è stato chiamato “un nobile esperimento”. Questo
nobile esperimento era una legge che proibiva l’acquisto
e la vendita di bevande alcoliche. È sicuramente vero che
molti individui bevono troppo brandy e troppo whiskey,
e che questo comportamento può generare danni alla
loro salute. Alcune autorità negli Stati Uniti sono contra-
rie anche al fumo. E certamente vi sono molte persone
che fumano troppo e che fumano anche quando eviden-
temente sarebbe meglio per loro astenersi dal farlo. Que-
sti dilemmi ci fanno pensare a una questione che va mol-
to oltre la discussione economica: ci dimostrano ciò che
veramente vuol dire libertà.

Si riconosce, come premessa, che è buono evitare che le


persone si facciano del male tramite il consumo eccessivo
di bevande alcoliche o di sigarette. Ma una volta ammes-
sa questa premessa altri potrebbero dire: il corpo è tutto?
Non è forse molto più importante la mente di un indivi-
duo? Non è forse la mente dell’individuo il vero dono
umano, la reale qualità umana? Se diamo al governo il
diritto di determinare le sostanze che il corpo umano
può assumere, di determinare se uno può fumare/bere o
meno, allora non si può proprio contestare coloro che

51
dicono: «Più importanti del corpo sono la mente e
l’anima, e l’uomo fa molto più male a sé stesso quando
legge cattivi libri, quando ascolta pessima musica e
quando guarda scadenti film. Pertanto, è un dovere del
governo impedire alle persone di commettere questi er-
rori».

Come sapete, per centinaia di anni i governi e le autorità


credettero che ciò fosse davvero un loro compito. Ciò non
è accaduto solo in ere lontane; non molto tempo fa vi è
stato un governo in Germania che ha considerato fosse
un dovere governativo quello di distinguere tra dipinti
buoni e cattivi – il che, naturalmente, significava che la
distinzione tra di essi spettava a un uomo che, in gioven-
tù, aveva fallito all’esame d’ammissione all’Accademia
d’Arte di Vienna; un concetto di buono e cattivo, quindi,
che dipendeva dal punto di vista di un noto pittore di
cartoline postali, Adolf Hitler (1889-1945). Ed è diventato
illegale sostenere punti di vista sull’arte e sui dipinti che
non fossero armonici rispetto a quelli del Führer Supre-
mo.

Una volta ammesso che è compito del governo stabilire


dei controlli sul consumo di alcool, cosa si potrebbe ri-
spondere a coloro che dicono che il controllo dei libri e
delle idee è considerevolmente più importante?

Libertà significa, in realtà, libertà di commettere errori.


Questo è ciò che dobbiamo comprendere. Possiamo esse-
re altamente critici quando giudichiamo ciò che i nostri
cari concittadini fanno con i loro soldi o addirittura in
52
che modo vivono la loro vita. Possiamo ritenere che ciò
che fanno sia assolutamente dannoso e sbagliato, ma in
una società libera vi sono molteplici maniere attraverso
cui le persone possono esprimere le loro opinioni su co-
me dovrebbero cambiare stile di vita i loro cari concitta-
dini.

Possono scrivere libri, possono scrivere articoli, possono


tenere delle conferenze e possono addirittura predicare
agli angoli delle strade, se vogliono – ed è ciò che effetti-
vamente succede in svariati Paesi. Ma non devono cerca-
re di comandare su altri individui, impedendo loro di
fare determinate cose o di agire in un certo modo sem-
plicemente perché non vogliono che questi abbiano la
libertà di farlo.

LA SOCIETÀ FONDATA SULLO STATUS

Questa è la differenza tra schiavitù e libertà. Lo schiavo


deve fare ciò che il suo superiore gli ordina di fare, ma il
cittadino libero – e questo è ciò che significa libertà – si
trova nella posizione di poter scegliere il proprio piano
di vita. È possibile che in questo sistema capitalistico
vengano commessi abusi e che il proprio sistema sia vit-
tima di abusi da parte di alcuni individui. È senza dub-
bio possibile fare cose che non dovrebbero assolutamen-
te essere fatte. Ma se queste cose vengono approvate dal-
la maggioranza delle persone, un individuo contrario

53
può sempre trovare un modo per provare a far cambiare
idea ai suoi cari concittadini. Può cercare di persuaderli,
di convincerli, ma non può costringerli usando la forza,
la forza del potere di polizia governativo.

Nell’economia di mercato ognuno provvede ai bisogni


dei propri concittadini provvedendo a sé stesso. Questo
avevano in mente gli autori liberali del diciottesimo seco-
lo quando parlavano dell’armonia tra i giusti interessi di
tutti i gruppi e gli individui della popolazione. E fu pro-
prio questa dottrina dell’armonia tra gli interessi di tutti
a essere attaccata dai socialisti. Essi parlavano di un “in-
conciliabile conflitto d’interessi” tra i molteplici gruppi.

Cosa significa tutto ciò? Quando Karl Marx – nel primo


capitolo del Manifesto comunista, un piccolo pamphlet
che inaugurò il suo movimento socialista – affermò che
esisteva un conflitto inconciliabile tra le classi, egli non
riuscì ad illustrare la sua tesi se non con esempi tratti
dalle condizioni della società precapitalistica. Nelle ere
precapitalistiche, la società era divisa in diversi gruppi
che possedevano uno status che era ereditario ed equiva-
lente a ciò che in India vengono chiamate “caste”. In una
società basata sullo status, un uomo non nasceva, ad
esempio, francese; egli nasceva membro dell’aristocrazia
francese, della borghesia francese o della plebe francese.
Durante la maggior parte del Medioevo l’uomo comune
era un semplice servo della gleba. E la servitù della gle-
ba, in Francia, scomparve completamente solamente do-
po la Rivoluzione americana. In altre parti d’Europa du-

54
rò per molto più tempo.

Ma la forma peggiore di servitù della gleba esisté – e


continuò ad esistere anche dopo l’abolizione della schia-
vitù – nelle colonie britanniche d’oltreoceano.
L’individuo ereditava il suo status dai propri genitori e
questo rimaneva immutabile per tutta la sua vita. Egli lo
trasferiva ai propri figli. Ogni gruppo aveva privilegi e
svantaggi. I ceti più elevati avevano solo privilegi, men-
tre quelli più bassi solo svantaggi. E un individuo non
poteva scappare agli svantaggi imposti per legge al suo
gruppo d’appartenenza se non con la lotta politica contro
le altre classi. In queste condizioni, si potrebbe dire che
vi era un “inconciliabile conflitto d’interessi tra gli schia-
visti e gli schiavi”, perché ciò che gli schiavi volevano era
liberarsi dalla propria schiavitù, dal loro essere schiavi.
Ciò significava, dall’altro lato, una perdita per i loro
proprietari. Pertanto, era abbastanza evidente che vi fos-
se un inconciliabile conflitto d’interessi tra i membri del-
le diverse classi.

Non si può dimenticare che in quei tempi – quando le


società basate sullo status erano predominanti in Europa,
nonché nelle colonie successivamente fondate dagli eu-
ropei in America – le persone non si consideravano lega-
te in una maniera speciale alle altre classi della loro na-
zione; si sentivano invece molto più vicine ai membri
della loro classe in altri Paesi. Un aristocratico francese
non vedeva i francesi dei ceti più bassi come i suoi cari
concittadini; essi erano la “plebaglia” che disprezzava.

55
Egli considerava suoi pari solo gli aristocratici degli altri
Paesi – quelli, ad esempio, d’Italia, d’Inghilterra e della
Germania.

L’effetto più visibile di questa circostanza storica era il


fatto che gli aristocratici di tutta l’Europa utilizzavano e
parlavano la stessa lingua. E questa lingua era il france-
se, una lingua che, fuori dalla Francia, era sconosciuta
agli altri gruppi della popolazione. Le classi medie – la
borghesia – avevano la loro lingua, mentre le classi basse
– la plebe e i contadini in generale – usavano i dialetti
locali che molto spesso non erano capiti dagli altri grup-
pi della popolazione. Lo stesso valeva per la maniera in
cui le persone si vestivano. Quando si viaggiava da un
Paese all’altro nel 1750 si notava che le classi alte, gli ari-
stocratici, si vestivano alla stessa maniera in tutta
l’Europa, e si notava che le classi basse si vestivano di-
versamente. Quando si incontrava qualcuno per strada
era molto facile percepire – da come si vestiva – a che
classe, a quale status appartenesse.

È difficile immaginare quanto erano diverse queste con-


dizioni rispetto a quelle attuali. Quando sono venuto da-
gli Stati Uniti in Argentina e ho visto un uomo per stra-
da, non ho potuto sapere a quale status appartenesse. Ho
potuto solo presumere che si trattasse di un cittadino
dell’Argentina e che non fosse membro di un gruppo
sociale legalmente ristretto. Questa è una cosa che il capi-
talismo ha portato con sé. Vi sono, certamente, delle dif-
ferenze all’interno del capitalismo. Vi sono differenze

56
nella ricchezza, differenze che i marxisti hanno erronea-
mente considerato equivalenti alle vecchie differenze che
vi erano tra gli uomini nelle società basate sullo status.

LA MOBILITÀ SOCIALE
Le differenze all’interno di una società capitalista non
sono uguali a quelle che esistono in una società sociali-
sta. Nel Medioevo – e in molti Paesi anche nei periodi
successivi – una famiglia aristocratica di grande ricchez-
za avrebbe potuto rimanere una famiglia di duchi per
centinaia e centinaia di anni, indipendentemente dalla
qualità, dai talenti, dal carattere e dal valore morale dei
suoi membri. Nelle condizioni della moderna società ca-
pitalista, invece, vi è ciò che è stato descritto dai sociologi
come “mobilità sociale”. Il principio motore di questa
mobilità sociale, secondo il sociologo ed economista ita-
liano Vilfredo Pareto, è “la circulation des élites”. Ciò si-
gnifica che ci saranno sempre delle persone ricche e poli-
ticamente importanti che si troveranno in cime alla scala
sociale, ma che questi individui – queste élites – sono in
continuo cambiamento.

Questa descrizione si applica con perfezione alla società


capitalista. Non era invece vera per la precapitalistica
società basata sullo status. Le famiglie che erano conside-
rate le grandi famiglie aristocratiche d’Europa sono an-
cora oggi le stesse famiglie, o, per la precisione, sono i

57
discendenti di quelle che furono le più eminenti famiglie
d’Europa ottocento o mille e più anni fa. I Capetingi di
Bourbon – che a lungo governarono qui in Argentina –
furono una casa reale già nel distante decimo secolo.
Questi re governarono un territorio oggi conosciuto co-
me Île-de-France, e ampliarono il loro regno una genera-
zione dopo l’altra. Ma in una società capitalista vi è una
mobilità continua – i poveri diventano ricchi e i discen-
denti di quei ricchi successivamente perdono la loro ric-
chezza e diventano poveri.

Oggi ho visto, in una libreria situata in una delle vie cen-


trali di Buenos Aires, la biografia di un imprenditore che
era così eminente, importante e rappresentativo delle
grandi imprese del diciannovesimo secolo in Europa che,
anche qui in Argentina, così lontano dall’Europa, la
menzionata libraria ne aveva delle copie. Io conosco il
nipote di questo uomo. Egli porta lo stesso nome del
nonno e ha ancora il diritto di usare il medesimo titolo
nobiliare di suo nonno – che aveva iniziato la carriera
come fabbro – e che aveva ricevuto ottant’anni fa. Oggi
suo nipote è un povero fotografo a New York.

Altre persone, che erano povere nell’epoca in cui il non-


no di questo fotografo diventò uno degli industriali più
grandi d’Europa, sono oggi capitani dell’industria.
Ognuno è libero di cambiare il proprio status, la propria
posizione socioeconomica. È questa la differenza tra il
sistema basato sullo status e il sistema capitalista di liber-
tà economica, nel quale ogni singolo individuo può col-

58
pevolizzare soltanto sé stesso se non dovesse riuscire a
raggiungere la posizione sognata.

Il più famoso industriale del ventesimo secolo fino ad


oggi è Henry Ford. Egli iniziò la sua attività con alcune
centinaia di dollari che ebbe in prestito da alcuni amici, e
in pochissimo tempo riuscì a sviluppare una delle più
importanti industrie del mondo. Si potrebbero scoprire
centinaia di casi analoghi al suo ogni singolo giorno.

Il New York Times pubblica lunghi necrologi ogni giorno.


Se si leggono queste biografie, è possibile trovare il nome
di un eminente imprenditore che ha iniziato come vendi-
tore di giornali agli angoli delle strade di New York.
Oppure ha iniziato come fattorino ed è morto presidente
della stessa Banca nella quale aveva iniziato la carriera,
partendo dal gradino più basso della scala. È evidente
che non tutti riescono a raggiungere queste posizioni la-
vorative. Non tutti vogliono raggiungerle. Vi sono perso-
ne che sono più interessate ad altri obiettivi e, anche in
questo caso, vi sono oggi molte più possibilità di realiz-
zarsi rispetto ai rigidi percorsi chiusi della società feuda-
le, nei periodi della società basata sullo status.

LA PIANIFICAZIONE GOVERNATIVA

Il sistema socialista, invece, proibisce questa libertà fon-


damentale di scegliersi la propria carriera. In un sistema
socialista esiste soltanto un’unica autorità economica ed
59
essa ha la prerogativa totale di decidere su tutte le que-
stioni riguardanti la produzione.

Una delle caratteristiche distintive dei nostri giorni è il


fatto che molte persone usano molteplici nomi per la
stessa cosa. Uno dei sinonimi per socialismo e comuni-
smo è “pianificazione”. Quando le persone parlano di
“pianificazione” esse intendono, certamente, pianifica-
zione centrale, il che significa un unico piano ideato e at-
tuato dal governo – un unico piano che mette la pianifi-
cazione del governo in una posizione egemonica e inibi-
sce le pianificazioni di tutti gli altri.

Una signora britannica4, che è anche un membro della


Camera dei Lord, ha scritto un libro intitolato Plan or No
Plan, un’opera che è divenuta molto popolare global-
mente. Cosa significava il titolo di suo libro? Quando
scriveva “plan”, alludeva solo al tipo di piano ideato da
Lenin, Stalin e i loro successori, il tipo di piano che, ap-
punto, governa le attività di tutti gli abitanti di una na-
zione. Dunque, questa signora intendeva una pianifica-
zione centrale che escludeva tutti i piani personali che gli
individui avrebbero potuto avere.

Il suo titolo Plan or no Plan, pertanto, è un’illusione, un


inganno: l’alternativa non è tra un piano centrale e nes-
sun piano, bensì il piano totale di un’autorità governativa

4 Barbara Wootton (1897 – 1988) era una Baronessa britannica, so-


ciologa e criminologa.

60
centrale o la libertà degli individui di ideare i propri pia-
ni, di portare avanti i propri progetti e sogni personali.
L’individuo pianifica la propria vita, ogni giorno, cam-
biando i progetti quotidiani a proprio piacere.

Un individuo libero quotidianamente fa dei piani per


soddisfare i propri bisogni personali; egli può dire, ad
esempio: «Ieri ho deciso di lavorare per tutta la vita a
Córdoba». Oggi viene a sapere che vi sono condizioni
migliori a Buenos Aires e cambia i suoi piani, dicendo:
«Invece di lavorare a Córdoba, voglio trasferirmi a Bue-
nos Aires». Questo è ciò che significa libertà. Può darsi
che si sbagli, che andare a Buenos Aires si dimostri un
errore, che le condizioni a Córdoba fossero in realtà le
migliori per lui, ma è stato lui, e solo lui, a fare i piani e a
decidere la strada della propria vita.

Quando vi è la pianificazione centrale, l’individuo è co-


me un soldato nell’esercito. Il soldato nell’esercito non ha
il diritto di scegliersi la guarnigione, di scegliersi il posto
in cui deve servire. Deve obbedire agli ordini. E il siste-
ma socialista – come Karl Marx, Lenin e tutti gli altri lea-
der socialisti sapevano e hanno anche ammesso – è la tra-
sposizione della legge militare a tutto il sistema produt-
tivo. Marx parlò di “eserciti industriali”, e Lenin difese
«l’organizzazione di tutto – degli uffici postali, delle fab-
briche e delle altre industrie secondo il modello
dell’esercito».

Dunque, nel sistema socialista tutto dipende dalla sa-


pienza, dai talenti e dai doni di quelle persone che for-
61
mano l’autorità suprema. Ciò che il dittatore supremo –
o il suo comitato – non conosce non viene affatto preso in
considerazione. Ma la conoscenza e il sapere che
l’umanità ha accumulato in tutta la sua storia non sono
assimilati integralmente da tutti; abbiamo accumulato
una quantità così enorme di conoscenze tecniche e scien-
tifiche nel corso dei secoli che è umanamente impossibile
che un solo individuo, anche uno immensamente dotato,
possa conoscerle tutte.

E le persone sono diverse, non sono uguali. Saranno


sempre diverse. Vi sono alcuni individui che sono più
portati per alcuni argomenti e meno per altri. Vi sono
persone col dono di scoprire nuove strade, di cambiare la
tendenza delle conoscenze. Nelle società capitaliste, il
progresso tecnologico ed economico viene stimolato gra-
zie allo sforzo di questi individui. Se un individuo ha
un’idea, egli cercherà di trovare alcune persone che sono
sufficientemente intelligenti per capire il valore della sua
idea. Alcuni capitalisti, quelli che osano guardare al fu-
turo e che si rendono conto delle potenziali conseguenze
di tale idea, cercheranno di concretizzarla. Altre persone
potrebbero, inizialmente, sentenziare: «Questi sono dei
folli!», ma sicuramente smetteranno di affermarlo quan-
do si renderanno conto che l’impresa da loro considerata
folle starà fiorendo e che altri individui saranno contenti
di poterne acquistare i prodotti.

Nel sistema marxista, d’altra parte, il supremo governo


deve convincersi del valore di tale idea prima che essa

62
possa essere ricercata e sviluppata. Questa è una cosa
veramente molto difficile da fare, perché soltanto il
gruppo all’apice del governo – o il supremo dittatore
stesso – possiede il potere di prendere decisioni. E se
queste persone – per pigrizia o per l’età avanzata, o per-
ché semplicemente non sono particolarmente brillanti e
istruite – sono incapaci di capire l’importanza della nuo-
va idea, allora il nuovo progetto non verrà portato avan-
ti.

Possiamo pensare a degli esempi anche nell’ambito della


storia militare. Napoleone fu certamente un genio milita-
re; ma finì per trovarsi dinanzi a un serio problema, e la
sua incapacità di risolverlo culminò, alla fine, con la sua
sconfitta e l’esilio nella solitudine di Sant’Elena. Il pro-
blema di Napoleone era: “come conquistare
l’Inghilterra?”. Per riuscirci avrebbe avuto bisogno di
una flotta per attraversare la Manica, e alcuni individui
gli dissero di conoscere un modo per farlo, persone che –
nell’era delle navi a vela – ebbero la geniale idea di co-
struire delle navi a vapore. Ma Napoleone non capì la
loro proposta.

Successivamente vi fu il Generalstab tedesco, il famoso


Stato maggiore generale delle forze armate tedesche.
Precedentemente alla Prima guerra mondiale, questo or-
gano era universalmente considerato insuperabile
nell’ambito della conoscenza e del sapere militari. Di una
reputazione similare godeva lo staff del generale Foch in
Francia. Ma né i tedeschi né i francesi – i quali, sotto la

63
guida del generale Foch successivamente sconfissero i
tedeschi – si resero conto dell’importanza dell’aviazione
per gli scopi militari. Lo Stato maggiore generale tedesco
disse: «L’aviazione è semplicemente un’attività piacevo-
le, è adatta agli oziosi. Da un punto di vista militare, solo
gli Zeppelin sono importanti», e lo Stato maggiore fran-
cese condivideva la stessa opinione.

Dopo, durante il periodo tra la Prima e la Seconda guer-


ra mondiale, vi fu un generale degli Stati Uniti che si
convinse che l’aviazione avrebbe svolto un ruolo estre-
mamente importante nella guerra successiva. Cionono-
stante, tutti gli esperti negli Stati Uniti si schierarono
contro di lui. Egli non riuscì a convincerli. È praticamen-
te impossibile convincere un gruppo di persone compo-
sto da individui che non sono direttamente dipendenti
dalla soluzione di un determinato problema. Questo è
valido anche per i problemi non economici.

Vi sono stati pittori, poeti, scrittori e compositori che si


sono lamentati del fatto che il pubblico non riconoscesse
il valore del loro lavoro, il che, di conseguenza, li ha fatti
rimanere poveri. Il pubblico può senza dubbio non pos-
sedere l’adeguata sensibilità artistica, ma quando questi
artisti hanno sostenuto che «il governo dovrebbe finan-
ziare grandi artisti, pittori e scrittori», essi hanno sbaglia-
to enormemente. Il governo a chi dovrebbe affidare il
compito di decidere quando un giovane pittore è effetti-
vamente un grande pittore o meno? Potrebbe basarsi sul
giudizio dei critici e dei professori di storia dell’arte, che

64
guardano sempre al passato e che molto raramente han-
no dimostrato di avere il talento per scoprire nuovi geni.
È questa la grande differenza tra un sistema di “pianifi-
cazione”, e un sistema nel quale ognuno può pianificare
e agire per conto proprio.

È sicuramente vero che i grandi pittori e i grandi scrittori


spesso hanno dovuto sopportare immense difficoltà.
Avranno addirittura avuto successo nell’arte, ma non
sempre nel guadagnare denaro. Van Gogh era certamen-
te un grande pittore. Egli ha dovuto soffrire difficoltà
insopportabili e, alla fine, quando aveva trentasette anni,
si è suicidato. In tutta la vita è riuscito a vendere una sola
pittura e il compratore era suo cugino. Oltre a
quest’unica vendita, egli ha vissuto grazie ai soldi che
riceveva dal fratello, il quale non era né artista né pittore.
Ma il fratello di Van Gogh comprendeva i bisogni di un
pittore. Oggigiorno è impossibile comprare un quadro di
Van Gogh per meno di cento o duecentomila dollari.

In un sistema socialista, il destino di Van Gogh avrebbe


potuto essere diverso. Un qualche ufficiale del governo
avrebbe chiesto a dei pittori famosi (che Van Gogh cer-
tamente non avrebbe ritenuto affatto artisti) se questo
giovane uomo, parzialmente o completamente pazzo,
fosse realmente un pittore degno del supporto finanzia-
rio del governo. Essi, senza dubbio, avrebbero risposto:
«No, quest’uomo non è un pittore, non è un artista, è so-
lo un uomo che spreca i colori». E così, successivamente,
il governo l’avrebbe spedito in una fabbrica di latte o in

65
un manicomio. Dunque, tutto questo entusiasmo da par-
te della generazione emergente di pittori, poeti, musici,
giornalisti e attori in favore del socialismo è basato su
un’illusione. Ci tengo a sottolinearlo perché questi gruppi
sono tra i più fanatici sostenitori dell’ideologia socialista.

IL CALCOLO ECONOMICO

Quando si deve scegliere tra il socialismo e il capitalismo


come sistema economico, il problema è considerevol-
mente differente. Gli autori del socialismo non hanno
mai sospettato che l’industria moderna e tutte le opera-
zioni del moderno mondo degli affari si basino sul calco-
lo. Gli ingegneri non sono affatto gli unici a sviluppare
piani sulla base di calcoli, gli imprenditori devono farlo
ugualmente. E i calcoli fatti dagli imprenditori si basano
sul fatto che, in un’economia di mercato, i prezzi dei
prodotti forniscono informazioni non solo al consumato-
re, ma anche – e in maniera vitale – all’imprenditore
stesso. Le informazioni riguardano i fattori di produzio-
ne, e la funzione principale del mercato non è meramen-
te quella di determinare il costo dell’ultima fase del pro-
cesso di produzione e trasferimento dei prodotti nelle
mani dei consumatori, ma soprattutto il costo delle fasi,
dei singoli passaggi, che portano alla fase finale. L’intero
sistema di mercato è legato al fatto che esiste una divi-
sione del lavoro mentalmente calcolata tra i diversi im-
prenditori, che competono tra di loro nel fare offerte per

66
i fattori di produzione – le materie prime, i macchinari,
gli strumenti – e per il fattore umano della produzione,
ovvero i salari dovuti ai fornitori della manodopera.
Questo tipo di calcolo fatto dall’imprenditore non può
essere concluso in assenza di prezzi forniti dal mercato.

Nel preciso istante in cui si abolisce il mercato – che è ciò


che vorrebbero fare i socialisti – diventano inutili tutti i
calcoli fatti dagli ingegneri e dai tecnici. I tecnici possono
darci un grande numero di progetti che, dal punto di vi-
sta delle scienze naturali, sono ugualmente attuabili, ma
sono fondamentali i calcoli economici fatti dagli impren-
ditori per chiarire al meglio quale di quei progetti è il più
vantaggioso dal punto di vista economico.

Quando questo fatto è stato scoperto, i socialisti non sa-


pevano cosa rispondere. Per centocinquant’anni hanno
ripetuto: «tutti i mali del mondo provengono dal fatto
che esistono il mercato e i prezzi di mercato. Noi vo-
gliamo abolire il mercato e, insieme a esso, ovviamente,
l’economia di mercato, e sostituirli con un sistema senza
prezzi e senza mercati». Volevano abolire ciò che Marx
chiamò “il carattere mercantile” dei beni e della mano-
dopera.

Gli autori del socialismo, quando dovettero affrontare


questo nuovo problema, rimasero inizialmente senza pa-
role, ma alla fine dissero: «noi non aboliremo il mercato
in maniera istantanea; faremo finta che un mercato esi-
sta, faremo una sorta di gioco del mercato, esattamente
come i bambini che fanno finta di andare a scuola». Ma
67
sappiamo tutti che i bambini, quando giocano e fingono
di essere a scuola, non stanno effettivamente imparando
nulla. È soltanto un esercizio, un gioco, e si può “gioca-
re” in molteplici maniere.

Questo è un problema piuttosto difficile e complicato, e


per affrontarlo integralmente è necessario disporre di un
po’ più di tempo di quanto io abbia a disposizione in
queste lezioni. Ho spiegato la questione in maniera det-
tagliata nei miei scritti. In sei lezioni non riuscirò ad ana-
lizzare tutti i suoi aspetti. Dunque, se siete curiosi e se vi
interessa il problema fondamentale dell’impossibilità del
calcolo e della pianificazione all’interno del sistema so-
cialista, leggete il mio libro Human Action, che è disponi-
bile in un’eccellente traduzione in spagnolo5.

Ma leggete anche altri libri, come, ad esempio, l’opera


dell’economista norvegese Trygve Hoff, che ha trattato la
tematica del calcolo economico. E se non volete essere
parziali, vi consiglio, sempre in riguardo a questa mate-
ria, l’apprezzatissimo libro socialista dell’eminente eco-
nomista polacco Oskar Lange. Egli ha lavorato come pro-
fessore presso un’università americana, successivamente
è diventato un ambasciatore polacco e poi è ritornato in
Polonia.

5 N.d.T.: il libro L’Azione Umana è disponibile anche in un’eccellente


traduzione in italiano!

68
L’ESPERIMENTO SOVIETICO

Probabilmente mi chiederete: «E la Russia? Come affron-


tano i russi la questione del sistema dei prezzi?». Questa
domanda cambia la prospettiva del problema. Il sistema
socialista sovietico opera all’interno di un mondo nel
quale ci sono prezzi per tutti i fattori di produzione, per
le materie prime, per tutto. I russi, dunque, possono usa-
re i prezzi esteri del mercato internazionale per promuo-
vere la loro pianificazione. E siccome esistono delle diffe-
renze tra le condizioni della Russia e quelle negli Stati
Uniti, il risultato è che spesso i russi considerano giustifi-
cato e opportuno – dal loro punto di vista economico –
ciò che gli americani non considererebbero affatto.

Tale “esperimento sovietico”, come veniva chiamato,


non è in grado di dimostrare niente. Non ci dice nulla
circa il problema fondamentale del socialismo, il pro-
blema del calcolo economico. Ma possiamo almeno ana-
lizzarlo come se fosse un esperimento? Non ritengo che
sia possibile un esperimento nell’ambito dell’azione
umana e dell’economia. Non si possono eseguire espe-
rimenti di laboratorio nell’ambito dell’azione umana
perché un esperimento scientifico richiede che la stessa
cosa venga ripetuta sotto molteplici condizioni, o che le
condizioni vengano mantenute stabili – col cambiamen-
to, forse, di un singolo fattore.

Per esempio, se viene iniettato nel corpo di un animale


con il cancro una medicazione sperimentale, il risultato

69
potrebbe essere la scomparsa del cancro. Questo esperi-
mento può essere ripetuto con molteplici animali della
stessa specie e che soffrono della stessa patologia. Se il
farmaco viene usato per alcuni degli animali ma non per
altri, è possibile successivamente confrontare i risultati.
Non è possibile farlo nell’ambito dell’azione umana. Non
vi sono esperimenti di laboratorio per quanto riguarda
l’azione umana.

È evidente che se si dice una cosa del genere a un sociali-


sta egli dirà: «Le cose sono meravigliose in Russia». E se
gli si dice: «Le cose potrebbero senza dubbio essere me-
ravigliose, ma lo standard medio di vita è molto più basso
del nostro», egli risponderà: «Sì, ma ricordati com’era
terribile per i russi quando governavano gli zar, e com’è
stata terribile la guerra che abbiamo dovuto combattere».

Non voglio entrare nel merito della fondatezza o meno


di tale spiegazione, ma se si nega l’uguaglianza tra le
condizioni, si nega contemporaneamente che si possa
parlare di un esperimento. Si potrebbe dire (e ciò sarebbe
molto più corretto): «Il socialismo in Russia non ha por-
tato con sé un miglioramento delle condizioni del citta-
dino medio paragonabile a quello che si è verificato, du-
rante lo stesso periodo, negli Stati Uniti».

Negli Stati Uniti si sente parlare di una novità, di un mi-


glioramento, quasi ogni settimana. Questi sono i pro-
gressi generati dalle imprese, perché migliaia e migliaia
di imprenditori si sforzano giorno e notte per trovare un
qualche nuovo prodotto che sia in grado di soddisfare
70
maggiormente i bisogni del consumatore o che sia più
economico – o che sia migliore e addirittura più econo-
mico. Non fanno tutto ciò per altruismo, bensì perché
vogliono aumentare i propri guadagni. E l’effetto di ciò è
un aumento dello standard di vita degli Stati Uniti che è
quasi miracoloso, soprattutto quando confrontato con lo
standard di vita di cinquanta o cent’anni fa. Dall’altro
lato, nella Russia sovietica, Paese nel quale non esiste il
sistema capitalista, non si è verificato un progresso para-
gonabile a quello americano. Detto ciò, coloro che ci di-
cono che dovremmo adottare il sistema sovietico si sba-
gliano enormemente.

È importante menzionare ancora un’altra cosa. Il consu-


matore americano, l’individuo, è sia compratore sia pa-
drone. Quando si esce da un negozio negli Stati Uniti,
spesso si può trovare un cartello che dice: «Grazie per il
tuo sostegno. Alla prossima!». Ma se si entra in un nego-
zio in un Paese totalitario – che si tratti della Russia con-
temporanea, o della Germania sotto Hitler – il venditore
ti dirà: «Devi essere grato al grande leader perché ti ha
dato ciò che hai chiesto».

Nei Paesi socialisti, non è il venditore a dover essere gra-


to dell’acquisto, bensì il consumatore per ciò che ha avu-
to. Il cittadino non è il capo, il vero padrone è il Comitato
Centrale, è l’Ufficio Centrale. Questi comitati socialisti,
capi e dittatori sono supremi, e alle persone spetta sol-
tanto la rigida obbedienza nei loro confronti.

71
TERZA LEZIONE

L’INTERVENTISMO
Una frase famosa e spesso citata recita: «Il governo mi-
gliore è quello che governa il minimo possibile». Io non
credo che questa sia una giusta descrizione delle funzio-
ni di un buon governo. Il governo dovrebbe occuparsi di
tutte le materie per le quali è necessario e dovrebbe, inol-
tre, svolgere i compiti per i quali è stato istituito.

Il governo deve proteggere gli individui che vivono


all’interno del Paese dagli attacchi violenti e fraudolenti
dei criminali, e dovrebbe difendere il Paese dai nemici
stranieri. Queste sono le funzioni del governo in un si-
stema libero, all’interno del sistema dell’economia di
mercato.

Nel sistema socialista, ovviamente, il governo è totalita-


rio, e nulla sfugge alla sua sfera e alla sua giurisdizione.
In un’economia di mercato, invece, il compito principale
del governo è quello di proteggere la fluidità del funzio-
namento dell’economia di mercato, ovvero, di protegger-
la contro le frodi e le violenze sia dall’interno sia
dall’esterno del Paese.

Le persone che non sono d’accordo con questa definizio-


ne delle funzioni del governo potrebbero dire:
«Quest’uomo odia il governo». Nulla potrebbe essere più
lontano dalla realtà.

72
Se io dicessi che la benzina è un liquido utilissimo, utile
per svariati fini, ma che ciononostante non la berrei mai
perché non lo riterrei sensato, ciò non vorrebbe dire che
sono un nemico della benzina. Io non odio la benzina.
Dico soltanto che la benzina è molto utile per svariati
propositi, ma non per altri.

Se dico che è un compito del governo imprigionare omi-


cidi e altri criminali, ma che invece non lo sarebbe la ge-
stione delle ferrovie o l’utilizzo di soldi per cose inutili,
allora io non odio il governo semplicemente per aver di-
chiarato che è giusto che svolga determinati compiti,
mentre invece non è giusto che ne svolga altri.

È stato detto che attualmente non abbiamo più


un’economia di libero mercato. Abbiamo al giorno
d’oggi ciò che viene chiamato “economia mista”. E per
dimostrare che viviamo in un sistema di “economia mi-
sta” le persone nominano le diverse aziende che sono
gestite dallo Stato o che appartengono direttamente ad
esso. L’economia è mista, dicono le persone, perché vi
sono, in molteplici Paesi, determinate istituzioni – come
il telefono, il telegrafo e le ferrovie – che appartengono e
sono gestite dal governo.

LE AZIENDE DI STATO

Il fatto che alcune di queste istituzioni e aziende siano


gestite dal governo è senza dubbio veritiero. Eppure,
73
questo fatto da solo non cambia la natura del nostro si-
stema economico. Non significa nemmeno che ci sia una
sorta di “piccolo socialismo” all’interno di quella che è
comunque un’assolutamente non socialista economia di
mercato.

Questo perché il governo, quando gestisce queste impre-


se, è sottoposto alla supremazia del mercato, il che vuol
dire che è soggetto alla supremazia dei consumatori. Il
governo – se gestisce, diciamo, gli uffici postali o le fer-
rovie – deve contrattare persone per lavorare in queste
imprese. Deve anche acquistare le materie prime e altri
beni che sono necessari per condurre al meglio la loro
attività economica.

Dall’altro lato, esso “vende” questi servizi o prodotti al


pubblico. Tuttavia, anche se gestisce queste istituzioni
usando i metodi del sistema di libertà economica, il risul-
tato, di regola, è deficitario. Il governo, però, si trova nel-
le condizioni di poter finanziare tale deficit – o almeno
così credono i membri del governo e del partito al pote-
re.

La situazione è certamente diversa per un normale citta-


dino. Il potere (o la capacità) dell’individuo di gestire
un’azienda in perdita è molto limitato. Se il deficit non
viene combattuto subito, e se l’impresa non inizia a pro-
durre profitti (o almeno a dimostrare che non sta andan-
do incontro a ulteriori deficit), l’individuo va in banca-
rotta e l’impresa deve chiudere.

74
Per il governo le condizioni sono altre. Il governo può
andare avanti in deficit, perché dispone del potere di tas-
sare le persone. E se i contribuenti sono favorevoli a pa-
gare tasse più elevate affinché il governo possa gestire
un’impresa che subisce continue perdite – cioè, a gestire
un’azienda in una maniera meno efficiente rispetto a ciò
che farebbe un’istituzione privata – e se le persone accet-
tano queste perdite, allora l’impresa andrà avanti con la
sua attività.

Negli ultimi anni, i governi hanno aumentato così enor-


memente il numero di istituzioni e imprese nazionalizza-
te che i deficit sono cresciuti in misura molto superiore
rispetto all’incremento della capacità tributaria dei citta-
dini. Ciò che succede successivamente non è l’argomento
della lezione di oggi. Si tratta dell’inflazione, e io affron-
terò questo tema domani. Ho menzionato tale fenomeno
solo perché l’economia mista non può essere confusa con
il problema dell’interventismo, tema che intendo affron-
tare ora.

CHE COS’È L’INTERVENTISMO?

Cos’è l’interventismo? Interventismo significa che il go-


verno non limita la propria attività alla preservazione
dell’ordine pubblico, o – come si diceva un secolo fa –
alla “produzione di sicurezza”. Significa che il governo
vuole fare di più, che vuole interferire con i fenomeni del

75
mercato.

Se qualcuno si oppone a ciò e afferma che il mercato non


dovrebbe interferire nelle aziende e nel mercato in gene-
rale, le persone spesso rispondono: «Ma il governo ne-
cessariamente interferisce sempre. Se vi sono poliziotti
per strada, il governo interferisce. Lo fa anche quando
impedisce il saccheggio di un negozio e il furto di una
macchina». Ma quando si affronta la tematica
dell’interventismo, ovvero quando si vuole definire il
suo significato preciso, si parla dell’intervento del go-
verno nel mercato.

(Presumere che il governo e la polizia debbano protegge-


re i cittadini, il che include gli imprenditori e ovviamente
i loro dipendenti, dagli attacchi di criminali locali e/o
stranieri è un’aspettativa assolutamente normale, perché
si tratta della necessaria azione governativa. Tale prote-
zione non è considerata sotto l’ottica dell’interventismo,
perché l’unica funzione legittima del governo è, appun-
to, quella di fornire, sicurezza).

Ciò che abbiamo in mente quando parliamo di interven-


tismo è il desiderio del governo di fare molto di più che
prevenire la violenza e la frode. Interventismo significa
che il governo non solo fallisce nel garantire il corretto
funzionamento dell’economia di mercato, ma interferisce
con molteplici fenomeni di mercato; interferisce con i
prezzi, i salari, i tassi d’interesse e i profitti.

Il governo vuole intervenire per costringere


76
l’imprenditore a gestire i propri affari in una maniera
diversa da quella che normalmente avrebbe adottato per
soddisfare solamente i consumatori. Dunque, tutte le mi-
sure interventiste del governo sono finalizzate a restrin-
gere e limitare la supremazia dei consumatori. Il governo
vuole impossessarsi del potere – o almeno di una parte
di esso – che, nell’economia di libero mercato, si trova
nelle mani dei consumatori.

Prendiamo un esempio di interventismo che è molto co-


mune in diversi Paesi e che viene sperimentato molte
volte da svariati governi, soprattutto in tempi
d’inflazione. Mi riferisco al controllo dei prezzi.

I governi normalmente ricorrono al controllo dei prezzi


quando hanno inflazionato l’offerta di moneta e le per-
sone hanno cominciato a lamentarsi del risultante au-
mento dei prezzi. Vi sono molteplici esempi storici cele-
bri di politiche di controllo dei prezzi che hanno fallito,
ma ne menzionerò solo due perché, in entrambi i casi, i
governi sono stati molto rigidi e ostinati
nell’applicazione di questa politica economica.

Il primo famoso esempio è quello dell’imperatore roma-


no Diocleziano, molto famoso in quanto fu l’ultimo degli
imperatori a perseguitare i cristiani. L’imperatore roma-
no della seconda metà del terzo secolo aveva a disposi-
zione un singolo strumento finanziario: la svalutazione
della moneta. In quei tempi primitivi, antecedenti
all’invenzione della stampa, anche l’inflazione era, di-
ciamo, primitiva.
77
Riguardava la svalutazione della moneta tramite il pro-
cedimento di coniazione, soprattutto la moneta
d’argento. Il governo mescolò progressivamente sempre
più rame all’argento finché il colore delle monete
d’argento cambiò e il loro peso si ridusse considerevol-
mente. Il risultato di questa svalutazione nella coniazio-
ne della moneta e del conseguente incremento della
quantità di moneta in circolazione fu un aumento dei
prezzi, seguito da un editto con il quale si introdusse il
controllo dei prezzi.

Gli imperatori romani non erano per niente pacati quan-


do si trattava di applicare e far rispettare la legge; non
ritenevano esagerato condannare un uomo a morte per
aver chiesto prezzi più alti rispetto a quelli stabiliti tra-
mite decreto. Fecero rispettare la legge che stabiliva il
controllo dei prezzi, ma fallirono nel mantenere sana e
integra la società romana. Il risultato fu la disintegrazio-
ne dell’Impero Romano e del sistema della divisione del
lavoro.

Millecinquecento anni dopo, durante la Rivoluzione


francese, si provò la medesima politica di svalutazione
monetaria. Ma questa volta venne usato un metodo di-
verso. La tecnologia per la produzione di moneta era mi-
gliorata considerevolmente e, perciò, ai francesi non era
più necessario promuovere la svalutazione tramite il
processo di coniazione della moneta: avevano a disposi-
zione le macchine tipografiche.

Queste macchine erano estremamente efficienti. Nuova-


78
mente, il risultato fu un incremento senza precedenti dei
prezzi. Tuttavia, durante la Rivoluzione francese, il tetto
massimo dei prezzi non si faceva rispettare in ragione
dello stesso metodo di applicazione della pena capitale
usato nel periodo dell’imperatore Diocleziano.

Vi furono diversi miglioramenti anche nell’ambito delle


tecniche con cui uccidere i cittadini. Tutti voi ricorderete
il celebre Dr. J. I. Guillotin (1738-1814), il quale difendeva
l’uso della ghigliottina. Nonostante l’utilizzo della ghi-
gliottina, i francesi ugualmente non ebbero successo con
le loro leggi sui prezzi massimi. Quando lo stesso Robe-
spierre (1758-1794) fu mandato alla ghigliottina, il popo-
lo urlò: «Se ne va l’immondo Maximum».

Ho voluto menzionare tali esempi perché le persone


spesso dicono: «Ciò che è necessario affinché il controllo
dei prezzi sia effettivo ed efficiente è semplicemente un
grado maggiore di brutalità ed energia». Ecco, Diocle-
ziano fu sicuramente molto brutale, e fu così anche la
Rivoluzione francese. Nonostante tutti gli sforzi, il con-
trollo dei prezzi in entrambi i periodi storici è fallito mi-
seramente.

PERCHÉ IL CONTROLLO DEI PREZZI


FALLISCE?

Ora analizziamo le regioni di tale fallimento. Il governo

79
viene a conoscenza del fatto che la popolazione si lamen-
ta dell’aumento del prezzo del latte. Il latte è senza dub-
bio un alimento molto importante, soprattutto per i
bambini. Di conseguenza, il governo fissa un prezzo
massimo per il latte, un prezzo che è inferiore a quello
che sarebbe il potenziale prezzo di mercato. Dopodiché il
governo dice: «ora abbiamo sicuramente fatto tutto ciò
che era necessario affinché i genitori poveri possano ac-
quistare tutto il latte necessario per alimentare i loro
bambini».

Cosa succede, invece? Da un lato, il prezzo ridotto del


latte ne aumenterà la domanda; persone che prima non
potevano permettersi di comprarlo ora lo possono acqui-
stare grazie all’abbassamento del prezzo decretato dal
governo. Dall’altro lato, alcuni dei produttori, quelli che
prima producevano del latte a un costo più elevato – os-
sia, i cosiddetti produttori marginali –, ora subiscono
delle perdite, perché il prezzo fissato dal governo è più
basso dei costi che devono sostenere. Questo è un aspet-
to fondamentale nell’economia di mercato.

L’imprenditore privato, il produttore privato, non riesce


a sopportare a lungo le perdite economiche. E siccome
non può subire perdite con la vendita del suo prodotto,
inizierà a limitare la produzione di latte per il mercato.
Potrà vendere parte del bestiame ai mattatoi, o vendere
solo prodotti derivati del latte, come, ad esempio, la
panna, il burro e il formaggio.

Ebbene, l’interferenza del governo nel prezzo del latte


80
genererà una produzione minore di quel prodotto rispet-
to a prima, e, simultaneamente, ne aumenterà la doman-
da.

Alcune persone che sono disposte ad acquistare del latte


al prezzo ridotto stabilito dal governo non riusciranno
ad acquistarlo. Un altro risultato è che gli individui an-
siosi, pur di essere i primi e per riuscire ad acquistare il
prodotto, si affretteranno a mettersi in fila fuori dai ne-
gozi. Le lunghe code di persone che aspettano al di fuori
dei negozi sono sempre un fenomeno abituale nelle città
in cui il governo fissa prezzi massimi per i beni che con-
sidera importanti.

Questo fenomeno è accaduto ovunque il prezzo del latte


sia stato sottoposto al controllo statale; gli economisti
hanno sempre previsto tali conseguenze. Ovviamente
parliamo solo di economisti effettivamente preparati, e
oramai ce ne sono davvero pochi.

Dunque, quale sarebbe il risultato del controllo governa-


tivo dei prezzi? Il governo resta deluso. Voleva aumenta-
re la soddisfazione dei consumatori di latte, ma non ha
fatto altro che incrementare la loro insoddisfazione. Pri-
ma dell’interferenza del governo, il latte era costoso, ma
le persone potevano acquistarlo. Ora la quantità di latte
disponibile è certamente insufficiente e, pertanto, dimi-
nuisce il consumo totale di latte.

I bambini bevono meno latte, anche se l'obiettivo iniziale


era quello di incrementare il loro consumo. La misura
81
successiva del governo è il razionamento. Ma il raziona-
mento significa soltanto che alcuni individui vengono
privilegiati e ricevono il latte, mentre altri non lo ricevo-
no affatto. La scelta relativa a chi deve ricevere il latte o
meno, certamente, è basata su parametri del tutto arbi-
trari. Un decreto potrebbe determinare, per esempio, che
i bambini al di sotto dei quattro anni devono avere del
latte, e che ai bambini più grandi, con età compresa tra i
quattro e i sei anni, venga concessa solo metà razione.

Qualunque cosa il governo decida di fare, il risultato ri-


mane comunque lo stesso: vi è una quantità minore di
latte disponibile. Di conseguenza, le persone sono più
insoddisfatte di prima. Ora il governo decide di doman-
dare ai produttori di latte (visto che non ha nemmeno
quel minimo di immaginazione per arrivare da solo alla
risposta): «Perché non producete la stessa quantità di
latte di prima?» E il governo riceve la risposta: «Non
possiamo farlo, dato che i costi di produzione ora sono
maggiori dei prezzi massimi stabiliti dal governo». Allo-
ra il governo si mette a studiare i costi degli svariati fat-
tori del processo produttivo e scopre che uno di questo è
il foraggio.

«Oh», dice il governo, «applicheremo al foraggio lo stes-


so controllo che abbiamo precedentemente applicato al
latte. Fisseremo un prezzo massimo per il foraggio, e
quindi sarete in grado di nutrire le vostre mucche a costi
minori, ossia, sostenendo una spesa inferiore. Così andrà
tutto bene, sarete in grado di produrre più latte e pertan-

82
to potrete venderne di più».

Cosa succede a questo punto? La stessa storia si ripete


col foraggio, e, come potete immaginare, per gli stessi
motivi. La produzione di foraggio crolla e il governo
nuovamente deve affrontare un dilemma. Allora decide
di organizzare nuove udienze per scoprire cos’è che non
va con la produzione di foraggio. E la spiegazione dei
produttori di foraggio è precisamente uguale a quella
che prima avevano dato i produttori di latte.

Pertanto, il governo deve fare un passo in avanti, dal


momento che non vuole nemmeno pensare all’idea di
abbandonare il principio del controllo dei prezzi. Fisserà
un prezzo massimo per l’acquisto di tutti i beni necessari
alla produzione del foraggio. E la storia si ripeterà anco-
ra una volta.

Il governo, contemporaneamente, inizia a controllare il


prezzo non solo del latte, ma anche delle uova, della car-
ne e di altri beni di prima necessità. E ogni singola volta
il governo raggiunge lo stesso risultato, la conseguenza è
la stessa ovunque. Una volta che il governo decide di
fissare il prezzo massimo per un bene di consumo, fini-
sce per andare oltre e limita anche i prezzi dei beni ne-
cessari alla produzione di quei beni i cui prezzi sono stati
inizialmente sottoposti al controllo governativo.

Quindi, il governo, che era partito con l’intenzione di


controllare soltanto alcuni prezzi, si trova a dover indie-
treggiare progressivamente nel processo produttivo, a
83
dover estendere sempre di più l’ambito degli interventi
sui prezzi, fissando prezzi massimi per tutti i tipi di beni
utilizzati dai produttori, compresi, ovviamente, i costi
della manodopera – perché, senza il controllo degli sti-
pendi, il “controllo dei costi” governativo sarebbe com-
pletamente inutile.

Inoltre, il governo non può limitare le sue interferenze


nel mercato a quei pochi settori che ritiene vitali, come i
mercati del latte, del burro, delle uova e della carne. De-
ve per forza includere i beni di lusso, perché se non limi-
tasse anche questi prezzi, il capitale e la manodopera non
rimarrebbero più nel processo produttivo dei beni di
prima necessità, ma verrebbero impiegati nella produ-
zione di quei beni che il governo considera superflui be-
ni di lusso. Dunque, l’isolata ingerenza su uno o alcuni
prezzi dei beni di consumo porta sempre a delle conse-
guenze – ed è importante rendersene conto – che sono
ancor meno soddisfacenti delle condizioni precedenti.

Prima dell’intervento del governo, il latte e le uova erano


costosi, ma dopo l’ingerenza del governo tali prodotti
sono spariti dal mercato. Il governo li considerava così
importanti che ha deciso di intervenire sui loro prezzi;
voleva incrementarne il consumo e aumentarne la quan-
tità. Il risultato è stato l’esatto opposto: l’interferenza iso-
lata ha portato a una condizione che – dal punto di vista
del governo – risulta addirittura peggiore del precedente
status quo che il governo ha voluto alterare.

Man mano che il governo andrà avanti, si arriverà a un


84
punto in cui tutti i prezzi, tutti gli stipendi, tutti i tassi
d’interesse, insomma, l’intero sistema economico sarà
sottomesso al controllo governativo. E questo, indub-
biamente, è socialismo.

Ciò che vi ho raccontato qui, questa spiegazione schema-


tica e teorica, illustra precisamente ciò che è successo in
quei Paesi che hanno provato ad applicare una politica
di controllo dei prezzi – Paesi nei quali i governi sono
stati sufficientemente testardi da continuare ad andare
avanti, passo dopo passo, fino al crollo totale. Questo è
successo durante la Prima guerra mondiale sia in Ger-
mania sia in Inghilterra.

INTERVENTISMO IN TEMPO DI GUERRA

Analizziamo la situazione di entrambi i Paesi. Tutti e due


hanno vissuto l’esperienza inflazionaria. I prezzi sono
saliti e i due governi hanno stabilito politiche di controllo
dei prezzi. Hanno iniziato con il controllo di alcuni prez-
zi, come il latte e le uova, ma successivamente sono an-
dati oltre.

Più persisteva la guerra, più l’inflazione cresceva. E dopo


tre anni di guerra, i tedeschi – come sempre in maniera
del tutto sistematica – hanno elaborato un grande piano.
L’hanno chiamato Hindenburg Plan: in quel periodo, tutto
ciò che in Germania era considerato buono dal governo
veniva chiamato con il nome Hindenburg (1847-1934).
85
Tale Hindenburg Plan stabiliva che l’intero sistema eco-
nomico tedesco dovesse sottoporsi al controllo governa-
tivo: i prezzi, gli stipendi, i profitti… tutto. E l’apparato
burocratico del Paese ha iniziato immediatamente a met-
tere in pratica tale piano. Ma prima che l’intero piano
venisse portato a termine, è arrivata la débâcle: l’impero
tedesco è crollato, l’intero apparato burocratico è sparito,
la rivoluzione ha prodotto i suoi sanguinosi risultati – le
cose sono giunte al termine.

In Inghilterra tutto è iniziato nella stessa maniera, ma


dopo un po’ di tempo, nella primavera del 1917, gli Stati
Uniti sono entrati in guerra e hanno iniziato a fornire ai
britannici tutto ciò di cui avevano bisogno. Dunque, il
cammino verso il socialismo – la via della schiavitù – è
stato interrotto.

Prima dell’ascesa di Hitler al potere, il cancelliere


Brüning (1885-1970) ha introdotto ancora una volta in
Germania il sistema di controllo dei prezzi – e per gli
stessi motivi di sempre. Hitler ha sostenuto e applicato
tale misura, ancor prima dell’inizio della guerra. Infatti,
nella Germania di Hitler non esistevano né l’impresa
privata né l’iniziativa privata.

Nella Germania di Hitler vi era una modalità di sociali-


smo che si distingueva dal sistema russo soltanto perché
le terminologie ed etichette proprie di un sistema economi-
co libero erano ancora utilizzate. Vi erano ancora “im-
prese private”, almeno così erano chiamate. Ma il pro-
prietario non era più un imprenditore, bensì un “gestore
86
di negozio” (Betriebsführer).

L’intera Germania era organizzata secondo una gerar-


chia di führers: vi era l’Altissimo Führer, ovviamente Hit-
ler, e vi erano altri führers minori, che occupavano le di-
verse funzioni gerarchiche dall’alto verso il basso. In
questo sistema, il capo di un’impresa era il Betriebsführer,
e i dipendenti dell’azienda venivano nominati con una
parola che, nel Medioevo, indicava gli uomini della scor-
ta dei signori feudali: la Gefolgschaft. Tutte queste perso-
ne dovevano obbedire agli ordini dati loro da
un’istituzione dal nome incredibilmente lungo: Rei-
chsführerwirtschaftsministerium6, alla guida della quale vi
era un noto signore molto grasso di nome Göring, rico-
perto di gioielli e medaglie.

Questa istituzione dal lungo nome impartiva ordini a


tutte le imprese: cosa dovevano produrre, in quale quan-
tità, dove dovevano prendere le materie prime e a quale
prezzo acquistarle, a chi vendere i beni e a quale prezzo.
Gli operai ricevevano l’ordine di lavorare in una deter-
minata fabbrica, e ricevevano i salari previamente stabili-
ti dal governo. L’intero sistema economico era regolato
in tutti i minimi dettagli dal governo.

Il Betriebsführer non aveva il diritto di appropriarsi del


profitto; egli riceveva una sorta di salario, e se, ad esem-

6Führer del Reich (i.e., “dell’Impero”) Ministero dell’Economia, ovvero


Ministero dell’Economia dell’Impero.

87
pio, avesse avuto bisogno di più soldi avrebbe dovuto
dire: «Sono molto malato, ho bisogno di un urgentissimo
intervento chirurgico e l’operazione costa cinquecento
marchi». Dopodiché avrebbe dovuto chiedere al führer
del distretto (il Gauführer o Gauleiter) se fosse autorizzato
a prelevare una somma più elevata rispetto al suo sti-
pendio standard. I prezzi non erano più prezzi, i salari
non erano più salari: essi erano termini quantitativi in un
sistema socialista.

Ora vi dirò com’è crollato il sistema. Un giorno, dopo


anni di combattimenti, gli eserciti stranieri sono arrivati
in Germania. Essi hanno provato a mantenere questo si-
stema economico sotto il controllo del governo, ma per
riuscirci sarebbe stata necessaria una brutalità equivalen-
te a quella di Hitler e, in assenza di questa, il tentativo è
fallito.

Mentre tutto ciò accadeva in Germania, la Gran Bretagna


– durante la Seconda guerra mondiale – ha fatto preci-
samente ciò che ha fatto la Germania. I britannici hanno
iniziato a controllare i prezzi di pochi beni, ma progres-
sivamente, un passo dopo l’altro, i controlli sono diven-
tati più estesi e pesanti (esattamente come aveva fatto
Hitler in tempo di pace, ancor prima dell’inizio della
guerra) finché, finita la guerra, sono arrivati a un sistema
che era praticamente il socialismo puro.

La Gran Bretagna non è stata portata al socialismo dal


partito laburista, che è salito al potere nel 1945. Il Paese è
diventato socialista durante la guerra, sotto la guida del
88
primo ministro sir Winston Churchill. Il governo laburi-
sta ha semplicemente mantenuto il sistema socialista che
aveva ereditato dal governo Churchill. E tutto ciò a di-
spetto delle immense resistenze da parte del popolo bri-
tannico.

Le nazionalizzazioni in Gran Bretagna non sono state


veramente significative: la nazionalizzazione della Banca
d’Inghilterra è stata puramente nominale, perché tale
istituzione era già sotto il controllo completo del gover-
no. Lo stesso è successo con le nazionalizzazioni delle
ferrovie e dell’industria dell’acciaio. Il cosiddetto “socia-
lismo di guerra” – ossia, il sistema d’interventismo che
procedeva con un passo dopo l’altro – aveva già prati-
camente nazionalizzato l’intero sistema.

La differenza tra i sistemi tedesco e britannico non era


minimamente importante, dato che le persone che li ge-
stivano erano state nominate dal governo, e in entrambi i
casi questi erano costretti alla completa obbedienza, nei
minimi dettagli, agli ordini del governo.

Come ho detto prima, il sistema dei nazisti tedeschi ha


mantenuto le etichette e le terminologie proprie
dell’economia di libero mercato capitalista. Ciononostan-
te, significavano un qualcosa di completamente diverso:
vi erano ora soltanto svariati decreti governativi.

Ciò era vero anche per il sistema britannico. Quando il


Partito conservatore è tornato al potere in Gran Bretagna,
alcuni di quei controlli sono stati rimossi. In quel Paese,
89
oggi vediamo che una parte prova a mantenerli, mentre
un’altra cerca di abolirli (non possiamo dimenticare, pe-
rò, che le condizioni in Inghilterra sono molto diverse da
quelle in Russia). Lo stesso è vero anche per altri Paesi
che dipendono dall’importazione di generi alimentari e
di materie prime e che, pertanto, devono esportare beni
manifatturati. Per i Paesi che dipendono enormemente
dall’esportazione, un sistema basato sul controllo gover-
nativo semplicemente non funziona.

Dunque, si può dire che esiste ancora la libertà economi-


ca (e vi è ancora una sostanziale libertà in alcuni Paesi,
come la Norvegia, l’Inghilterra e la Svezia) perché in al-
cuni Paesi vi è la necessità di proteggere il commercio basato
sull’esportazione. Prima, ho scelto l’esempio del latte non
perché ho un debole per quel bene, ma perché pratica-
mente tutti i governi – o comunque la maggioranza di
essi – negli ultimi decenni hanno regolato i prezzi del
latte, delle uova e del burro.

IL CONTROLLO DEGLI AFFITTI

Vorrei fare un breve cenno a un altro esempio, cioè, al


controllo dei prezzi nel mercato degli affitti. Se il gover-
no controlla gli affitti, il primo risultato è che coloro che
avrebbero traslocato da un appartamento più grande a
uno più piccolo, in seguito a un cambiamento delle con-
dizioni familiari, non lo faranno più.

90
Consideriamo il caso di due genitori i cui figli sono anda-
ti via di casa dopo aver superato i vent’anni d’età, o do-
po essersi sposati o trasferiti per motivi di lavoro. Nor-
malmente questi genitori andrebbero a vivere in appar-
tamenti più piccoli ed economici. Questa necessità smet-
te di esistere quando vengono imposti controlli sugli af-
fitti.

A Vienna, in Austria, agli inizi degli anni Venti, quando


furono stabiliti i controlli sugli affitti, la somma di dena-
ro che i proprietari ricevevano per un appartamento me-
diano sottoposto al controllo dei prezzi non era superio-
re al doppio del prezzo di un biglietto per una corsa sui
mezzi di trasporto gestiti dall’amministrazione comuna-
le.

Potrete immaginare che le persone non avessero il mini-


mo incentivo nel cambiare appartamento. E, oltre a ciò,
non si costruivano nuove case. Vi erano condizioni ana-
loghe negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale;
e vi sono ancora oggi in molte città.

Uno dei motivi per cui tante città americane si trovano in


difficoltà finanziaria è esattamente il controllo sugli affit-
ti, che genera scarsità nel mercato immobiliare. In ragio-
ne di ciò, il governo spende miliardi di dollari per co-
struire nuove case. Ma perché vi è stata una scarsità così
elevata nel mercato immobiliare? Questa mancanza di
case è dovuta agli stessi motivi che hanno causato una
scarsità di latte in seguito al controllo dei prezzi di que-
sto bene. Dunque, quando il governo interferisce con il mer-
91
cato, esso si avvicina progressivamente al socialismo.

E questa è la risposta a coloro che dicono: «Noi non sia-


mo socialisti, non vogliamo che il governo controlli tutto.
Ci rendiamo conto che il socialismo è sbagliato. Ma per-
ché il governo non può interferire solo un pochettino nel
mercato? Perché il governo non può abolire alcune delle
cose che non ci piacciono?»

C’È UNA VIA DI MEZZO FRA CAPITALI-


SMO E SOCIALISMO?

Queste persone parlano di una politica “intermedia”,


una via di mezzo fra socialismo e capitalismo. Ciò che
non riescono a capire è che un’interferenza isolata, ossia
l’interferenza con una sola e piccola parte del sistema
economico, porta a una situazione che il governo stesso –
e coloro che hanno richiesto l’intervento del governo –
reputa peggiore di quella che intendeva risolvere. Le
persone che chiedono il controllo sugli affitti si arrabbia-
no immensamente quando scoprono che mancano ap-
partamenti e case.

Il fatto è che questa scarsità nel mercato immobiliare è


causata precisamente dall’interferenza governativa, dallo
stabilimento di prezzi per gli affitti che sono inferiori a
quelli che le persone avrebbero dovuto pagare in un si-
stema di libero mercato.

92
È completamente assurda l’idea secondo cui ci sarebbe
un terzo sistema – che si troverebbe a metà strada tra il
socialismo e il capitalismo, come dicono i suoi sostenitori
–, un sistema che si discosterebbe sia dal socialismo sia
dal capitalismo, ma che nonostante ciò avrebbe tutti i
vantaggi ed eviterebbe tutti gli svantaggi di entrambi i
sistemi.

Coloro che credono all’esistenza di questo mitico sistema


diventano addirittura molto poetici quando celebrano le
glorie dell’interventismo. La realtà è che si sbagliano.
L’interferenza governativa che tanto lodano produce
proprio quelle condizioni che a loro non piacciono e che
vogliono evitare.

Uno dei problemi che affronterò più avanti è il protezioni-


smo. Tale politica si basa sull’introduzione di imposte e
dazi che aumentano il prezzo interno di un bene fino a
che esso non superi il prezzo nel mercato internazionale,
il che permette ai produttori nazionali di formare dei car-
telli. Questi vengono poi attaccati dal governo, che di-
chiara: «In queste condizioni, è necessaria una legisla-
zione anti-cartello».

Questa è precisamente ciò che accade nella maggioranza


dei governi europei. Negli Stati Uniti, esistono anche al-
tre ragioni alla base della legislazione antitrust e della
campagna del governo contro lo spettro del monopolio.

È assurdo vedere il governo – il quale crea, con il proprio


intervento, le condizioni che rendono possibile la nascita
93
di cartelli nel mercato interno – puntare il dito contro le
imprese dicendo: «Esistono cartelli, quindi l’interferenza
del governo negli affari economici è fondamentale».

Sarebbe molto più semplice evitare i cartelli mettendo un


punto finale all’interferenza del governo nel mercato –
un’interferenza che rende possibili tali cartelli.

L’idea secondo cui l’interferenza del governo sarebbe la


“soluzione” ai problemi economici porta, in tutti i Paesi,
a condizioni che, come minimo, sono molto insoddisfa-
centi e molto spesso parecchio caotiche.

Ciononostante, l’interferenza del governo negli affari


economici è ancora molto popolare. Non appena qualcu-
no scopre un fatto spiacevole che sta accadendo da qual-
che parte nel mondo, dice: «Il governo dovrebbe fare
qualcosa. Altrimenti, a che serve il governo? Il governo
deve risolvere questo problema».

Questo è un residuo caratteristico del pensiero che ab-


biamo ereditato dalle epoche passate, epoche che prece-
dettero il periodo della libertà moderna, del moderno go-
verno costituzionale, del governo rappresentativo e del
moderno repubblicanesimo.

Per secoli vi fu la dottrina – mantenuta ed accettata da


tutti – secondo cui il re, un re benedetto, era un messag-
gero di Dio: egli aveva più saggezza dei suoi sudditi, ed
era addirittura dotato di poteri soprannaturali. Ancora
agli inizi del diciannovesimo secolo, le persone che sof-

94
frivano di determinate patologie erano del tutto convinte
che sarebbero guarite attraverso il contatto fisico del re,
per mano del re. I medici erano normalmente più bravi,
ma nonostante ciò mandavano i loro pazienti dal re.

Questa dottrina della superiorità di un governo paterna-


listico, della superiorità dei poteri soprannaturali e so-
vrumani dei re ereditari è gradualmente scomparsa con
il tempo – o almeno così abbiamo creduto. Ma è tornata
alla ribalta.

Vi è stato un professore tedesco chiamato Werner Som-


bart (lo conoscevo benissimo), famoso in tutto il mondo,
che era un professore onorario in molte università, era
anche membro onorario dell’American Economic Associa-
tion. Questo professore ha scritto un libro, che è disponi-
bile in inglese e pubblicato dalla Princeton University
Press. È disponibile anche in francese, e probabilmente
anche in spagnolo – almeno lo spero, perché così potrete
controllare se ciò che vi sto dicendo è vero. In questo li-
bro, pubblicato nel nostro secolo, non nei Secoli Bui,
Werner Sombart, un professore di economia, dice lette-
ralmente: “Il Führer, il nostro Führer – si riferiva, ovvia-
mente, a Hitler – riceve gli ordini direttamente da Dio, il
Führer dell’Universo».

Ho parlato prima di questa gerarchia tra i führer, e in


questa gerarchia ho menzionato Hitler come il “Führer
Supremo” … Tuttavia, esiste, secondo Werner Sombart,
un Führer ancora più importante: Dio, il Führer
dell’Universo. E Dio, secondo lui, impartiva i Suoi ordini
95
direttamente a Hitler. Certo che il professor Sombart ha
modestamente aggiunto: «Noi non sappiamo come Dio
comunichi con il Führer. Ma questo fatto non può essere
negato».

Ora, se sentite che un libro simile può essere pubblicato


in lingua tedesca, la lingua della nazione che una volta è
stata glorificata come “la nazione dei filosofi e dei profe-
ti”, e se venite a sapere che tal testo è stato tradotto in
inglese e in francese, allora sicuramente non vi meravi-
glierà il fatto che anche un minuscolo burocrate possa
ritenersi più saggio e addirittura migliore degli altri cit-
tadini, e che voglia interferire con tutto, pur essendo un
povero piccolo burocrate, e non il famoso professor
Sombart, membro onorario di tutto.

Esiste un rimedio per eventi del genere? Direi di sì, direi


che un rimedio c’è. Questo rimedio è il potere dei citta-
dini: essi devono evitare la formazione e lo stabilimento
di un simile regime autocratico, di un regime che si attri-
buisce una saggezza superiore a quella del cittadino me-
dio. Questa è la differenza fondamentale tra libertà e
schiavitù.

Le nazioni socialiste si sono appropriate del termine de-


mocrazia. I russi hanno chiamato il loro sistema Demo-
crazia Popolare; probabilmente sostengono che il popolo
è rappresentato nella persona del dittatore. Penso che un
dittatore, Juan Perón, qui in Argentina, abbia ricevuto
una buona risposta quando è stato costretto all’esilio nel
1955. Speriamo che a tutti gli altri dittatori, in altre na-
96
zioni, sia data una risposta simile.

97
QUARTA LEZIONE

L’INFLAZIONE
Se l’offerta di caviale fosse abbondante quanto quella di
patate, il prezzo del caviale – cioè, il rapporto di scambio
tra il caviale e il denaro, o tra il caviale e altri beni – cam-
bierebbe considerevolmente. In tal caso, uno potrebbe
ottenere il caviale con un livello molto minore di sacrifi-
cio rispetto a quello che è necessario attualmente per far-
lo.

Ugualmente, se la quantità di moneta viene aumentata, il


potere d’acquisto dell’unità monetaria diminuisce, e per-
ciò si riduce anche la quantità di beni che si possono ot-
tenere con ogni unità di questo denaro.

Quando, nel sedicesimo secolo, furono scoperte e sfrutta-


te le riserve americane di oro e argento, quantità enormi
di metalli preziosi furono trasportate in Europa. Il risul-
tato di questo aumento della quantità di moneta fu una
tendenza generale verso l’aumento dei prezzi nel conti-
nente. Allo stesso modo, oggi, quando un governo au-
menta la quantità di cartamoneta, il risultato sarà sempre
una diminuzione del potere d’acquisto dell’unità mone-
taria, e un aumento nei prezzi. Questo fenomeno viene
chiamato inflazione.

Purtroppo, negli Stati Uniti, così come in altri Paesi, al-


cune persone preferiscono sostenere che la causa origi-

98
naria dell’inflazione non sarebbe l’incremento nella
quantità di moneta, bensì l’aumento dei prezzi.

Ciononostante, non vi è mai stata una solida teoria capa-


ce di confutare l’interpretazione economica del rapporto
tra prezzi e quantità di moneta, o del rapporto tra mone-
ta e altri beni, merci e servizi. In ragione delle moderne
condizioni tecnologiche, nulla è più facile della fabbrica-
zione di pezzetti di carta sui quali vengono stampate ci-
fre monetarie.

Negli Stati Uniti, dove tutte le banconote sono della stes-


sa dimensione, il governo non deve sostenere un costo di
produzione superiore per stampare una banconota da
mille dollari rispetto a una da un dollaro. Si tratta di una
semplicissima procedura tipografica che richiede la stes-
sa quantità di carta e d’inchiostro.

STAMPARE IL DENARO

Nel diciottesimo secolo, quando furono fatti i primi ten-


tativi di emettere banconote e di attribuire a queste il co-
siddetto valore legale – ossia, il diritto di essere accettate
nelle transazioni esattamente come lo erano l’oro e
l’argento – i governi e le nazioni credettero che i banchie-
ri avessero qualche conoscenza segreta che permetteva
loro di creare ricchezza dal nulla.

Quando i governi del diciottesimo secolo si trovavano in


99
difficoltà finanziarie, pensavano che bastasse semplice-
mente trovare un banchiere intelligente da mettere alla
guida della loro amministrazione finanziaria per risolve-
re tutte le loro difficoltà.

Alcuni anni prima della Rivoluzione francese, quando la


regalità di Francia si trovava in difficoltà finanziarie, il re
di Francia si mise alla ricerca di un banchiere astuto e
non appena lo trovò, gli conferì un alto incarico. Questo
uomo era, in tutti i sensi, l’opposto di tutti quelli che, fi-
no a quel periodo, avevano governato la Francia.

Innanzitutto, non era francese, bensì uno straniero – uno


svizzero di Ginevra, Jacques Necker (1732-1804). In se-
condo luogo, non era un membro dell’aristocrazia, ma
un cittadino ordinario. E, cosa che contava ancora di più
nella Francia del diciottesimo secolo, egli non era cattoli-
co, ma protestante. Così il signor Necker, padre della
famosa Madame de Staël (1766-1817), divenne ministro
delle finanze, e tutti si aspettavano che risolvesse i pro-
blemi finanziari della Francia.

Ma malgrado l’alta fiducia di cui godeva il signor Nec-


ker, le casse reali rimanevano vuote – l’errore più grande
di Necker fu quello di aiutare economicamente i coloni
americani nella loro guerra d’indipendenza contro
l’Inghilterra senza promuovere un corrispettivo incremento
della tassazione in Francia. Fu, certamente, il modo sbaglia-
to per tentare di risolvere i problemi finanziari della
Francia.

100
Non esistono scorciatoie per risolvere i problemi finan-
ziari di un governo; se ha bisogno di denaro, deve otte-
nerlo attraverso la tassazione dei suoi cittadini (o, sotto
determinate condizioni, prendendolo in prestito da per-
sone che dispongono di denaro). Ma molti governi, pos-
siamo dire anche la maggioranza dei governi, pensano che
vi sia un metodo alternativo per ottenere il denaro neces-
sario: semplicemente stampandolo.

Se il governo intende realizzare un’opera benefica – se,


ad esempio, vuole costruire un ospedale – l’unica manie-
ra per ottenere i soldi necessari all’esecuzione del proget-
to è tassare i cittadini e costruire l’ospedale con i fondi
appena ottenuti. Dunque, non vi sarà una “rivoluzione
dei prezzi”, perché quando il governo raccoglie il denaro
per la costruzione dell’ospedale, i cittadini – che hanno
appena pagato le corrispettive tasse – sono costretti a ri-
durre le proprie spese.

Il contribuente si trova costretto a restringere i propri


consumi, i propri investimenti o i propri risparmi. Il go-
verno, che si presenta nel mercato come consumatore, si
sostituisce al cittadino individuale: il cittadino compra di
meno, il governo compra di più. Il governo, ovviamente,
non compra sempre gli stessi beni che avrebbe acquistato
il cittadino: ma, normalmente, non vi è un aumento dei
prezzi quando il governo costruisce un ospedale.

Ho scelto l’esempio dell’ospedale precisamente perché le


persone a volte dicono: «fa differenza se il governo uti-
lizza il suo denaro per buoni anziché cattivi propositi».
101
Voglio presumere che il governo utilizzi sempre il denaro
che ha stampato per i migliori propositi e progetti possi-
bili – per opere sulle quali siamo tutti d’accordo. Perché
le conseguenze che chiamiamo inflazione e che la mag-
gioranza delle persone non considera benefiche sono
create non in ragione del modo con cui il governo spende
i soldi, bensì in ragione del modo con cui li ottiene.

Per esempio, senza promuovere l’inflazione, il governo


potrebbe utilizzare i soldi provenienti dalle tasse e impo-
ste varie per contrattare nuovi dipendenti o per aumen-
tare gli stipendi di coloro che già lavorano al servizio
dello Stato. Dunque, queste persone, che hanno ricevuto
un aumento delle proprie remunerazioni, possono per-
mettersi di comprare di più.

Quando il governo tassa i cittadini e usa questo denaro


per aumentare gli stipendi dei dipendenti statali, i con-
tribuenti dispongono di meno denaro da spendere, men-
tre i dipendenti statali ne hanno di più. I prezzi in gene-
rale non saliranno.

Ma se il governo decide di non usare il denaro prove-


niente dalle imposte per implementare questo progetto,
bensì di usare il denaro appena stampato, ciò significa
che vi saranno alcune persone che avranno più soldi,
mentre tutti gli altri individui ne avranno la stessa quan-
tità che avevano in precedenza. In questo modo, coloro
che avranno ricevuto il denaro appena stampato inizie-
ranno a competere sul mercato con quegli individui che
erano già prima compratori.
102
Siccome non esistono più beni rispetto a prima, ovvero,
siccome la quantità di beni è rimasta pressoché invariata,
ma vi è più denaro in circolazione sul mercato – e dato
che vi sono persone che possono comprare oggi più di
quanto potessero ieri – vi sarà un incremento della do-
manda per quella stessa quantità di merci. Pertanto, i
prezzi tendenzialmente aumenteranno. Questo non può
essere assolutamente evitato, a prescindere da quale sarà
l’utilizzo del nuovo denaro appena stampato.

L’AUMENTO DEI PREZZI PASSO DOPO


PASSO

E, cosa ancora più importante, questa tendenza verso


l’aumento dei prezzi si svilupperà gradualmente, un
passo dopo l’altro; non si tratta di un aumento generale
di ciò che è stato nominato “livello dei prezzi”. Non si
dovrebbe mai usare l’espressione metaforica “livello dei
prezzi”.

Quando le persone parlano di un “livello dei prezzi”,


hanno in mente l’immagine del livello di un liquido che
sale e scende in un recipiente a seconda dell’aumento o
della diminuzione della sua quantità; e che, comunque,
proprio come il liquido in un recipiente, si alza sempre in
maniera uniforme e omogenea. Ma quando si tratta dei
prezzi non esiste un “livello” di questo genere. I prezzi
non variano nella stessa misura e allo stesso tempo. Vi

103
saranno sempre alcuni prezzi che variano più veloce-
mente, che aumentano o scendono molto di più rispetto
ad altri. Vi è anche una ragione per questo.

Prendiamo l’esempio del dipendente pubblico che ha


ricevuto del denaro appena stampato e aggiunto
all’offerta di moneta. Gli individui non comprano oggi
esattamente le stesse merci (e la stessa quantità di tali
merci) che compravano ieri. Il denaro aggiuntivo stam-
pato dal governo e introdotto sul mercato non viene uti-
lizzato per l’acquisto di tutti i beni e servizi. Verrà usato
per l’acquisto di determinati beni, i cui prezzi subiranno
un aumento, mentre altri beni rimarranno con gli stessi
prezzi che avevano prima dell’ingresso della nuova mo-
neta nel mercato. Dunque, quando l’inflazione inizia, i
differenti gruppi sociali verranno colpiti in maniera asso-
lutamente diversa. Coloro che ricevono il nuovo denaro
per primi verranno temporaneamente favoriti.

Quando il governo inizia il processo inflazionistico per


poter combattere una guerra, esso deve acquistare muni-
zioni, e, pertanto, i primi a ricevere il nuovo denaro sono
le industrie belliche e i loro operai. Questi gruppi si tro-
vano ora in una posizione parecchio vantaggiosa. Hanno
profitti e salari più elevati e il loro business va avanti in
maniera virtuosa. Perché? Perché sono stati i primi a ri-
cevere il denaro aggiuntivo e, avendone di più a loro di-
sposizione, iniziano a comprare di più. E comprano
presso coloro che producono e vendono i beni di cui le
industrie belliche hanno bisogno.

104
Essi formano il secondo gruppo. E il secondo gruppo
considera l’inflazione un fenomeno molto positivo per i
propri affari. Perché non sarebbe così? Non è meraviglio-
so poter vendere di più? Per esempio, il proprietario di
un ristorante vicino alla fabbrica di munizioni dirà: «È
veramente meraviglioso! Gli operai della fabbrica hanno
più soldi, sono più numerosi e ‘finanziano’ il mio risto-
rante. Sono veramente molto contento di tutto ciò». Egli
non avrebbe alcun motivo per pensarla diversamente.

La situazione è la seguente: coloro che ricevono il denaro


per primi avranno un reddito più elevato, e potranno
ancora acquistare diversi beni e servizi a prezzi che cor-
rispondono allo status precedente del mercato, alla vigi-
lia del processo inflazionistico. Di conseguenza, si trova-
no in una posizione del tutto vantaggiosa. Così
l’inflazione prosegue, passo dopo passo, da un gruppo
della popolazione all’altro, gradualmente.

Tutti coloro che ricevono il denaro aggiuntivo durante le


prime fasi del processo inflazionistico vengono favoriti,
perché possono acquistare alcuni beni a prezzi che anco-
ra corrispondono alla situazione precedente, quando il
rapporto di cambio tra denaro e merci era diverso.

Ma vi sono alcuni gruppi della popolazione che ricevono


questo denaro aggiuntivo molto, molto più tardi. Essi si
trovano in una posizione svantaggiata. Durante il periodo
di tempo che precede l’arrivo del denaro aggiuntivo alle
loro tasche, essi sono costretti a pagare di più per alcuni
– o praticamente per tutti i – beni che vogliono acquista-
105
re, mentre le loro remunerazioni rimangono pressoché
inalterate, o comunque sproporzionatamente aggiornate
rispetto all’incremento dei prezzi.

Prendiamo in analisi la situazione degli Stati Uniti du-


rante la Seconda guerra mondiale; da un lato, l’inflazione
all’epoca favoriva gli operai delle fabbriche di munizioni,
le fabbriche di munizioni e le industrie di armi, mentre
dall’altro lato l’inflazione produceva effetti del tutto per-
niciosi per gli altri gruppi della popolazione. E coloro
che hanno sofferto i più grandi svantaggi all’epoca sono
stati gli insegnanti e i sacerdoti.

Come sapete, un sacerdote è una persona assai modesta


che serve Dio e che non parla molto di denaro. Gli inse-
gnanti, ugualmente, sono persone dedicate che, in linea
di principio, si preoccupano di più dell’educazione dei
giovani che dei propri salari. Di conseguenza, gli inse-
gnanti e i sacerdoti sono stati alcuni dei gruppi più pena-
lizzati dall’inflazione, dato che le diverse scuole e chiese
sono state tra le ultime istituzioni ad accorgersi che era
necessario aumentare gli stipendi dei collaboratori.

Quando i capi delle chiese e le associazioni scolastiche


hanno finalmente capito che dovevano aumentare i sala-
ri di quelle persone tanto dedicate, le perdite economiche
che tali categorie avevano sofferto all’inizio sono rimaste
comunque non del tutto compensate.

Per un lungo periodo di tempo, questi hanno dovuto


comprare di meno rispetto a prima, ridurre i consumi di
106
generi alimentari migliori e più costosi, e restringere le
spese per l’abbigliamento – visto che i prezzi di tali beni
erano già aumentati, mentre le loro remunerazioni erano
comunque rimaste congelate (questa situazione è parec-
chio cambiata oggi, almeno per quanto riguarda gli inse-
gnanti).

Dunque, i differenti gruppi della popolazione subiscono


gli effetti dell’inflazione in maniera assai diversa. Per al-
cuni di loro, l’inflazione non è poi così negativa; anzi,
desiderano che tale fenomeno diventi definitivo, perché
sono i primi a trarne vantaggio. Nella prossima lezione
vedremo come questa disuguaglianza delle conseguenze
generate dall’inflazione influisca in maniera fondamen-
tale sulle politiche che portano alla promozione e alla
continuità del fenomeno stesso.

Come conseguenza dei cambiamenti causati


dall’inflazione, vi sono gruppi che beneficiano della si-
tuazione e gruppi che ne traggono profitto direttamente.
Non utilizzo il termine “profitto” per offendere queste
persone, perché se qualcuno dev’essere colpevolizzato di
tale situazione, questo sarebbe il governo, che per primo
ha avviato il processo inflazionistico.

Vi sono sempre persone che appoggiano l’inflazione, per-


ché si rendono conto di ciò che sta succedendo molto
prima degli altri. I loro abbondanti profitti esistono in
ragione dell’intrinseca disuguaglianza portata in atto dal
processo inflazionistico.

107
AL GOVERNO NON PIACE TASSARE

Il governo può ritenere che l’inflazione – in quanto me-


todo di raccolta fondi – sia migliore della tassazione, la
quale è sempre molto impopolare, oltre ad essere di
complicata attuazione. In molti Paesi ricchi e grandi, i
legislatori hanno spesso discusso, per mesi e mesi, le di-
verse modalità per introdurre nuove tasse che sarebbero
state necessarie per coprire l’aumento delle spese già de-
liberato dal Parlamento. Dopo tali discussioni e analisi,
hanno infine deciso che sarebbe stato meglio fare la rac-
colta fondi tramite l’inflazione.

È ovvio che la parola “inflazione” non venisse mai utiliz-


zata. Il politico al potere che decide di avviare un proces-
so inflazionistico non annuncerà: «Sto avviando un pro-
cesso inflazionistico». I metodi tecnici impiegati per in-
nescare tale processo sono così complicati che il cittadino
medio non si rende conto del fatto che l’inflazione è già
iniziata.

Uno dei processi inflazionistici più grandi della storia fu


quello avvenuto nel Reich tedesco dopo la Prima guerra
mondiale. L’inflazione non era particolarmente apparen-
te durante la guerra; fu invece l’inflazione del dopoguerra
a condurre alla catastrofe. Il governo non disse: «Stiamo
avviando un processo inflazionistico».

Semplicemente prese in prestito del denaro dalla Banca


centrale in un modo assai indiretto. Il governo non do-

108
vette chiedere alla Banca centrale come essa avrebbe tro-
vato e consegnato quel denaro: semplicemente lo stam-
pò.

Oggi le tecniche per innescare l’inflazione sono più com-


plicate, dal momento che esistono i depositi bancari a
vista. Vi sono, dunque, altre tecniche, ma il risultato è
comunque lo stesso. Col semplice movimento di una
penna, il governo crea la cosiddetta fiat money (o moneta
fiduciaria), e in questo modo aumenta la quantità di mo-
neta e di credito. Il governo semplicemente emana
l’ordine e la fiat money viene creata.

L’INFLAZIONE NON PUÒ DURARE

Al governo non importa, almeno all’inizio, che alcuni


individui verranno svantaggiati e che i prezzi saliranno
continuamente. I legislatori diranno: «Questo è un siste-
ma stupendo!». Ma questo meraviglioso sistema ha un
fondamentale vulnus: esso non può perdurare a lungo.

Se l’inflazione potesse proseguire all’infinito, non avreb-


be senso argomentare e chiedere ai governi che smettano
di promuovere tale fenomeno. Ma un fatto del tutto og-
gettivo e sicuro sul fenomeno inflazionistico è che, prima
o poi, deve terminare. È una politica che non è capace di
durare più di tanto.

Nel lungo termine, l’inflazione finisce in ragione del col-


109
lasso della moneta; finisce in catastrofe, in una situazione
molto simile a quella della Germania del 1923. Il 1º ago-
sto 1914, il dollaro valeva quattro marchi e venti pfennig.
Nove anni e tre mesi dopo, nel novembre 1923, il dollaro
era equivalente a 4.2 trilioni di marchi. In altre parole, il
marco non valeva nulla, non aveva più alcun valore.

Alcuni anni fa, il rinomato economista John Maynard


Keynes ha scritto: «Nel lungo termine saremo tutti mor-
ti». Questo è sicuramente vero, mi dispiace ammetterlo.
Ma la questione è: quanto durerà il breve termine?

Nel diciottesimo secolo visse la famosa Madame de


Pompadour (1721-1764), nota per il suo detto: «Après
nous le déluge» (Dopo di noi, il diluvio). Ella fu abbastan-
za fortunata da morire nel breve termine, ma colei che le
succedette, Madame du Barry (1743-1793), visse sicura-
mente oltre il breve termine, solo per essere poi decapita-
ta nel lungo termine. Per molti, il “lungo termine” velo-
cemente diventa “breve termine” – e più va avanti
l’inflazione, più breve sarà il “breve termine”.

Quanto può durare il breve termine? Per quanto tempo


una Banca centrale può continuare a promuovere il pro-
cesso inflazionistico? Probabilmente tanto a lungo quan-
to durerà la convinzione, da parte degli individui, che il
governo, prima o poi, ma sicuramente non eccessiva-
mente tardi, smetterà di stampare denaro, interrompen-
do il processo di svalutazione dell’unità di moneta.

Quando le persone smettono di credere a ciò, quando si


110
rendono conto che il governo continuerà a seguire questa
strada indefinitamente, senza la minima intenzione di
fermarsi, allora iniziano a capire che i prezzi domani sa-
ranno più alti di quelli di oggi. A questo punto, iniziano
a comprare beni a qualsiasi prezzo, il che fa sì che i prez-
zi salgano così velocemente e raggiungano valori così
elevati che il sistema monetario non resista e crolli.

Mi riferisco al caso della Germania, a cui tutto il mondo


ha assistito. Molteplici libri hanno descritto gli eventi di
quel periodo. (Benché io non sia tedesco, ma austriaco,
ho visto, dall’interno, tutto ciò che è accaduto lì: in Au-
stria le condizioni non erano molto diverse da quelle in
Germania; non erano nemmeno molto diverse da quelle
di molti altri Paesi europei.)

Per parecchi anni, il popolo tedesco ha ritenuto che


l’inflazione fosse solo un fenomeno temporaneo, che pre-
sto sarebbe finito. L’hanno creduto per quasi nove anni,
fino all’estate del 1923. Poi hanno iniziato ad avere dei
dubbi a riguardo. Siccome l’inflazione continuava a cre-
scere, le persone hanno pensato che sarebbe stato intelli-
gente comprare qualsiasi cosa fosse disponibile –
un’alternativa migliore che tenersi i soldi in tasca. Inol-
tre, tutti hanno ritenuto abbastanza ragionevole non dare
soldi in prestito, e che, anzi, sarebbe stato meglio essere
un debitore. L’inflazione, quindi, continuava a nutrirsi di
sé stessa.

Questo processo è andato avanti in Germania fino al 20


novembre 1923. Le masse hanno creduto che il denaro
111
inflazionato fosse denaro vero, ma poi hanno scoperto
che le condizioni erano cambiate. Nell’autunno 1923, al
termine dell’inflazione tedesca, le fabbriche tedesche pa-
gavano i loro operai ogni mattina in anticipo per la gior-
nata di lavoro.

L’operaio, che andava a lavorare in fabbrica accompa-


gnato dalla moglie, immediatamente le consegnava il
proprio stipendio – tutti i milioni che aveva ricevuto. La
signora andava direttamente in un negozio per comprare
qualcosa, qualsiasi cosa. Ella capiva ciò che molti già sa-
pevano all’epoca – che da un giorno all’altro il marco
perdeva il cinquanta per cento del suo potere d’acquisto.

Il denaro, esattamente come la cioccolata nel forno, si


scioglieva nelle tasche delle persone. Quest’ultima fase
dell’inflazione tedesca non è durata a lungo: dopo alcuni
giorni l’incubo è finito, il marco ha perso tutto il suo va-
lore ed è stata creata una nuova moneta.

IL GOLD STANDARD

Lord Keynes, lo stesso uomo che disse che nel lungo


termine saremo tutti morti, fu uno dei tantissimi sosteni-
tori dell’inflazione del ventesimo secolo. Tutti questi au-
tori hanno scritto intere opere contro il gold standard.
Quando Keynes attaccava tale sistema, lo definiva “bar-
baro relitto”.

112
Oggi la maggioranza delle persone ritiene sia ridicolo
parlare di un ritorno al gold standard. Negli Stati Uniti,
per esempio, verrebbe considerato praticamente un so-
gnatore chi dicesse che “prima o poi gli Stati Uniti do-
vranno ritornare al gold standard”.

Il sistema aureo si fonda su una grandissima virtù: la


quantità di moneta in circolazione non dipende da giu-
dizi politici da parte dei governi e dei partiti politici. È
questo il suo pregio. È una forma di tutela contro le ten-
denze dei governi a spendere in maniera smisurata e in-
controllabile.

Se al governo venisse chiesto, in un sistema basato sul


gold standard, di spendere soldi per una nuova opera
pubblica, il Ministro delle finanze potrebbe replicare: «E
dove posso trovare questi soldi? Dimmi, innanzitutto,
come farò per trovare i soldi necessari per sostenere que-
sta spesa aggiuntiva».

In un sistema basato sull’inflazione, dal punto di vista


dei politici non vi è niente di più semplice che ordinare
alla tipografia statale di stampare la quantità necessaria
di denaro per i loro progetti. Dall’altro lato, col gold stan-
dard, ci sarà con molta più probabilità un governo che
attui politiche solide e sostenibili, dato che i suoi leaders
potranno sempre dire al popolo e agli altri politici: «Non
possiamo farlo, a meno che non aumentiamo le tasse».

Ma quando vi sono le condizioni inflazionistiche, le per-


sone si abituano a vedere il governo come un’istituzione
113
che dispone di mezzi illimitati: lo Stato, il governo, può
fare tutto. Se, per esempio, la nazione vuole un nuovo
sistema di autostrade, si aspetta che il governo lo co-
struisca. Ma il governo da dove prenderà tutti questi
soldi?

Negli Stati Uniti odierni – ma anche in passato, sotto


McKinley (1843-1901) – si potrebbe dire che il Partito re-
pubblicano sia più o meno favorevole a una moneta forte
e al gold standard, e che il Partito democratico sia favore-
vole all’inflazione – ovviamente non l’inflazione della
cartamoneta, bensì quella dell’argento.

Tuttavia, fu un presidente democratico, il presidente


Cleveland (1837-1908), che, sul finire degli anni Ottanta
dell’Ottocento, mise il veto alla decisione del Congresso
di destinare una piccola somma – circa diecimila dollari
– a una comunità appena colpita da un disastro.

Il presidente Cleveland giustificò il suo veto dicendo:


«Nonostante sia un dovere dei cittadini quello di soste-
nere il governo, non è un dovere del governo quello di
sostenere i cittadini». Ciò dovrebbe essere scritto da ogni
uomo di Stato sulle pareti del proprio ufficio affinché sia
visibile a tutti coloro che vanno da lui a chiedere soldi.

Mi imbarazza assai il dover semplificare in tal modo


questi problemi. Il sistema monetario è saturo di pro-
blemi complessi, e io non avrei scritto interi volumi a ri-
guardo se il tema fosse così semplice come lo sto descri-
vendo ora. Ma le premesse fondamentali sono precisa-
114
mente queste: se aumenti la quantità di denaro, riduci il
potere d’acquisto dell’unità monetaria.

È questo il motivo per cui alcune persone, quelle che


vengono svantaggiate durante questo processo, non ap-
prezzano l’inflazione. Coloro che non vengono favoriti
dall’inflazioni sono precisamente quelli che si lamenta-
no.

Se l’inflazione è così negativa e se le persone se ne ren-


dono conto, perché è diventata ormai quasi uno stile di
vita in tutti i Paesi? Addirittura, alcuni dei Paesi più ric-
chi soffrono di questa patologia. Gli Stati Uniti di oggi
sono sicuramente il Paese più ricco del mondo, col più
alto tenore di vita. E quando viaggi all’interno del Paese,
noti che vi sono costanti discussioni sull’inflazione e sul-
la necessità di fermarla. Ma se ne parla soltanto, non si fa
nulla per affrontare il problema.

INFLAZIONE E STIPENDI

Menzionerò alcuni fatti storici: dopo la Prima guerra


mondiale, la Gran Bretagna è tornata alla parità tra oro e
sterlina del pre-guerra. Vi è stata una rivalutazione verso
l’alto della sterlina. Ciò ha fatto sì che aumentasse il po-
tere d’acquisto dei salari di tutti gli operai. In un mercato
veramente libero e senza ostacoli, la remunerazione mo-
netaria nominale si ridurrebbe per compensare tutto ciò,
e la remunerazione reale degli operai non ne soffrirebbe.
115
Non abbiamo ora il tempo necessario per discutere le
ragioni di ciò. Ma i sindacati in Gran Bretagna non erano
disposti ad accettare un adeguamento verso il basso del-
la remunerazione monetaria mentre aumentava il potere
d’acquisto dell’unità monetaria. Pertanto, grazie a tale
politica monetaria, la remunerazione reale è stata consi-
derevolmente incrementata.

Di conseguenza, una seria catastrofe ha colpito


l’Inghilterra, perché la Gran Bretagna è un Paese di eco-
nomia predominantemente industriale, che, perciò, deve
importare le materie prime, i beni semilavorati e i generi
alimentari per poter sopravvivere, e deve esportare i be-
ni industrializzati per pagare tali importazioni. Con
l’aumento della quotazione internazionale della sterlina
inglese, i prezzi dei beni britannici sui mercati esteri sono
aumentati e le vendite e le esportazioni sono diminuite.
La Gran Bretagna si era, in effetti, autoesclusa dal merca-
to mondiale.

Non si è riusciti a sconfiggere i sindacati britannici. Sape-


te bene quanto potere abbia effettivamente un sindacato
al giorno d’oggi. Praticamente ha il diritto, il privilegio,
di ricorrere alla violenza. E una direttiva sindacale è, per-
tanto, non meno importante di un decreto governativo.

Il decreto del governo è un ordine la cui esecuzione vie-


ne garantita da un raffinato apparato governativo – la
polizia – che è pronto ad agire. Devi per forza obbedire
al decreto governativo, altrimenti potresti avere proble-
mi con la polizia.
116
Sfortunatamente, abbiamo oggi, in quasi tutti i Paesi del
mondo, un secondo potere che è capace di esercitare la
forza: i sindacati degli operai. Tali organizzazioni deter-
minano gli stipendi e poi organizzano scioperi per fare in
modo che essi vengano rispettati. Seguono lo stesso mo-
dus operandi del governo quando esso, ad esempio, stabi-
lisce l’importo del salario minimo.

Non discuterò la questione dei sindacati; discuteremo


dell’argomento più tardi. Vorrei soltanto ribadire che è
una politica dei sindacati quella di aumentare gli stipen-
di oltre il livello che avrebbero raggiunto in un mercato
libero e senza ostacoli. Dunque, una parte considerevole
della potenziale forza-lavoro può essere assunta solo da
fabbriche e imprenditori che sono capaci e disposti a so-
stenere perdite economiche.

E, siccome le aziende non sono in grado di sostenere con-


tinuamente perdite economiche, esse eventualmente
chiudono i battenti e le persone si ritrovano disoccupate.
L’aumento degli stipendi oltre l’importo naturale in un
regime di libero mercato porta sempre alla disoccupa-
zione di una parte considerevole della forza di lavoro
potenziale.

In Gran Bretagna, il risultato degli stipendi elevati im-


posti dai sindacati è stato un duraturo periodo di disoc-
cupazione, che si è prolungato anno dopo anno. Milioni
di operai si sono trovati senza un posto di lavoro e la
produzione si è ridotta. Addirittura, gli esperti sono ri-
masti perplessi. E dinanzi a tale situazione, il governo
117
britannico ha adottato una misura che molti considera-
vano indispensabile ed emergenziale: ha svalutato la
propria moneta.

Come risultato, il potere d’acquisto della remunerazione


monetaria, sul quale insistevano così tanto i sindacati,
non è rimasto più lo stesso. La remunerazione reale è sta-
ta ridotta. L’operaio non poteva più comprare gli stessi
beni che riusciva a comprare prima, anche se la remune-
razione nominale era rimasta invariata. In questo modo,
si è pensato, i salari reali sarebbero tornati ai livelli di li-
bero mercato, e la disoccupazione sarebbe scomparsa.

Questa misura – la svalutazione – è stata adottata da sva-


riati Paesi, dalla Francia, dai Paesi Bassi e dal Belgio. Un
Paese ha addirittura fatto ricorso a questa politica due
volte nel periodo di un anno e mezzo: la Cecoslovacchia.
È stato un metodo obliquo e subdolo, diciamo, per con-
trastare il potere dei sindacati. Non si può affermare, tut-
tavia, che tale misura abbia avuto un reale successo.

Dopo alcuni anni, le persone, gli operai, anche i sindaca-


ti, hanno cominciato a comprendere ciò che stava succe-
dendo. Si sono resi conto che la svalutazione monetaria
aveva condotto alla riduzione dei loro salari reali. I sin-
dacati, però, avevano il potere per opporsi a ciò. In sva-
riati Paesi, essi hanno inserito, nei contratti di lavoro,
una clausola che prevedeva un aumento automatico dei
salari quando vi fosse stato un incremento dei prezzi.
Ciò si chiama indicizzazione.

118
I sindacati sono diventati abbastanza coscienti
dell’importanza dell’indicizzazione. Di conseguenza, que-
sto metodo di riduzione della disoccupazione che il go-
verno della Gran Bretagna ha inaugurato nel 1931 – e che
è stato poi adottato da quasi tutti i governi importanti –,
questo metodo per “risolvere la disoccupazione”, oggi
non funziona più.

Nel 1936, nella sua “Teoria Generale dell'Occupazione,


dell'Interesse e della Moneta”, Lord Keynes ha purtrop-
po trasformato questo incipiente metodo – le misure
emergenziali che sono state attuate nel periodo tra il 1929
e il 1933 – in un principio, in un sistema fondamentale di
politica pubblica. In effetti, ha giustificato questa evolu-
zione dicendo: «La disoccupazione è un male. Se vo-
gliamo eliminarla, bisogna inflazionare la moneta».

Egli ha capito benissimo che i salari possono essere trop-


po elevati per il mercato, ossia, troppo alti perché un im-
prenditore possa trovare profittevole aumentare il nu-
mero di posti di lavoro nella sua azienda. Dunque, i sala-
ri sarebbero troppo alti anche dal punto di vista della
popolazione totale di lavoratori, dato che, con gli stipen-
di imposti dai sindacati al di sopra del livello di mercato,
solo una piccola parte di coloro che cercano lavoro rie-
scono a trovarlo.

In questo senso, Keynes ha affermato: «Ovviamente la


disoccupazione di massa, prolungata per anni e anni, è
una situazione immensamente insoddisfacente». Tutta-
via, anziché suggerire che i salari dovrebbero essere ag-
119
giustati secondo le normali condizioni di mercato, ha
proseguito: «Se si svaluta la moneta e gli operai non sono
sufficientemente intelligenti da accorgersene, non si op-
porranno a una riduzione dei salari reali, purché quelli
nominali rimangano inalterati». In altre parole, Lord
Keynes stava dicendo che se un uomo riceve oggi la stes-
sa somma di sterline che guadagnava prima della svalu-
tazione monetaria, non si accorgerà del fatto che, in real-
tà, ora guadagna di meno.

In un linguaggio più diretto, Keynes ha proposto di truf-


fare i lavoratori. Anziché dichiarare apertamente che i
salari dovrebbero essere adeguati alle condizioni del
mercato – perché, appunto, se ciò non si verifica una par-
te della forza di lavoro rimarrà inevitabilmente disoccu-
pata – egli disse: «La piena occupazione si raggiunge so-
lo tramite l’inflazione. Truffando i lavoratori».

Il fatto più interessante, comunque, è che quando è stata


pubblicata la General Theory, non era più possibile in-
gannare nessuno, perché tutti erano già consapevoli del-
la necessità dell’indicizzazione. La piena occupazione
rimaneva, tuttavia, un obiettivo da raggiungere.

STIPENDI E “PIENA OCCUPAZIONE”

Cosa vuol dire “piena occupazione”? Questa situazione


ha a che vedere con un mercato di lavoro libero, che non
abbia ostacoli creati né dai sindacati né dal governo. In
120
questo mercato, i salari corrisposti per ogni tipo di lavo-
ro tendono a raggiungere un livello tale che ogni indivi-
duo che cerca un lavoro potrà trovarlo, e ogni imprendi-
tore potrà assumere tutti gli operai di cui avrà bisogno.
Se vi sarà un aumento della domanda di manodopera, i
salari tenderanno a salire, e se saranno necessari meno
lavoratori, i salari tenderanno a ridursi.

L’unico metodo attraverso cui la “piena occupazione”


potrà essere raggiunta è quello in cui viene garantito un
mercato libero e senza alcun ostacolo. Ciò è valido per
ogni tipo di lavoro e per ogni genere di merce.

Cosa fa un imprenditore che vuole vendere un prodotto


a cinque dollari al pezzo? Quando non riesce a venderlo
a quel prezzo, l’espressione tecnica che si usa negli Stati
Uniti è “the inventory does not move” (“l’inventario non si
muove”). Ma deve muoversi. L’imprenditore non può
tenere i prodotti fermi, perché deve acquistarne nuovi; le
mode cambiano continuamente.

Perciò egli lo vende a un prezzo più basso: se non riesce


a vendere il prodotto a cinque dollari, deve venderlo a
quattro. E se non riesce a venderlo a quattro, deve ven-
derlo a tre. Non esiste un’altra scelta se vuole rimanere
aperto. Egli può subire delle perdite, ma queste sono do-
vute al fatto che le sue previsioni riguardo all’esistenza
futura di un vero mercato per il suo prodotto si sono ri-
velate errate.

Lo stesso succede nel caso delle migliaia e migliaia di


121
giovani che si trasferiscono dalle campagne in città in
cerca di soldi. Così succede in ogni singola nazione indu-
strializzata. Negli Stati Uniti i giovani arrivano in città
col piano di poter guadagnare, diciamo, cento dollari a
settimana. Ciò può rivelarsi una cosa impossibile.

Dunque, se un individuo non riesce a trovare un lavoro


che gli permetta di guadagnare cento dollari a settimana,
deve provare a trovare un lavoro che renda novanta o
ottanta dollari, forse anche meno. Ma se egli dovesse dire
– come fanno i sindacati – «cento dollari a settimana o
niente», allora potrebbe essere costretto a rimanere senza
lavoro. (A molti non preoccupa la disoccupazione, per-
ché il governo offre dei sussidi di disoccupazione – fi-
nanziati con alcune imposte speciali pagate dai datori di
lavoro – che spesso sono quasi equivalenti alla remune-
razione che un individuo riceverebbe se avesse effetti-
vamente un lavoro).

Dato che un certo gruppo di persone ritiene che la piena


occupazione possa essere raggiunta solo attraverso
l’inflazione, questo fenomeno viene accettato negli Stati
Uniti. Intanto le persone discutono la seguente questio-
ne: è meglio avere una moneta forte accompagnata dalla
disoccupazione, o l’inflazione accompagnata dalla piena
occupazione? Questa è un’analisi assolutamente perni-
ciosa e sbagliata.

Per affrontare questo problema dobbiamo porci la se-


guente domanda: come si possono migliorare le condi-
zioni dei lavoratori e degli altri gruppi della popolazio-
122
ne? La risposta è: attraverso il mantenimento di un mer-
cato libero e senza alcun ostacolo, e, di conseguenza, at-
traverso la piena occupazione. Il nostro dilemma è sape-
re se spetta al mercato la determinazione dei diversi sala-
ri, o se questi devono essere determinati attraverso la
pressione e la coercizione sindacali. Il dilemma non è
“meglio avere l’inflazione o la disoccupazione?”.

Questa sbagliata impostazione del problema viene fatta


in Inghilterra, nei Paesi industrializzati europei e addirit-
tura negli Stati Uniti. E alcune persone dicono: «Guarda,
anche gli Stati Uniti stanno inflazionando la propria mo-
neta. Perché non dobbiamo farlo anche noi?»

A queste persone bisogna rispondere, innanzitutto, di-


cendo: «Uno dei privilegi dell’uomo ricco è quello di po-
tersi permettere di essere folle molto più a lungo rispetto
all’uomo povero». E questa è la situazione degli Stati
Uniti. La politica finanziaria americana è veramente mol-
to sbagliata e sta peggiorando. Forse gli Stati Uniti rie-
scono a comportarsi in maniera insensata più a lungo
degli altri Paesi.

La cosa più importante da ricordare è che l’inflazione


non è un atto di Dio; l’inflazione non è una catastrofe
degli elementi o una malattia che si comporta come la
peste. L’inflazione è una politica – una politica attuata
appositamente da persone che la considerano
un’alternativa meno dannosa della disoccupazione. Ma il
fatto è che, nel non così tanto lontano lungo termine,
l’inflazione non cura la disoccupazione.
123
L’inflazione è una politica. E una politica può essere
cambiata. Dunque, non vi è un motivo per cui dobbiamo
necessariamente cedere all’inflazione. Se si riconosce che
l’inflazione è un male, allora bisogna smettere di infla-
zionare. È necessario promuovere il pareggio di bilan-
cio.

Certo, l’opinione pubblica deve sostenere questa iniziati-


va; gli intellettuali devono aiutare le persone a capire il
problema. Con l’appoggio dell’opinione pubblica, è sen-
za dubbio possibile che i rappresentanti eletti del popolo
abbandonino la politica inflazionistica.

Dobbiamo ricordare che, nel lungo termine, potremmo


essere tutti morti, e sicuramente lo saremo. Tuttavia,
dobbiamo comunque prenderci cura dei nostri affari ter-
reni, perché nel breve termine dobbiamo vivere, e dob-
biamo farlo nel miglior modo possibile. E una delle mi-
sure necessarie al raggiungimento di questo proposito è
abbandonare le politiche inflazionistiche.

124
QUINTA LEZIONE

GLI INVESTIMENTI ESTERI


Alcuni pensano che i programmi di libertà economica
siano programmi negativi. Dicono: «Cosa volete davvero
voi liberali? Siete contro il socialismo, l’interventismo del
governo, l’inflazione, la violenza dei sindacati, le tariffe e
i dazi in generale… Dite ‘no’ a tutto».

Secondo me, un’affermazione del genere è piuttosto par-


ziale e, anzi, è un’impostazione assai superficiale del
problema in questione. In realtà è sicuramente possibile
formulare un programma liberale di impostazione posi-
tiva.

Se uno dice: «Sono contrario alla censura», la sua non è


per forza un’idea negativa; egli è, infatti, favorevole al di-
ritto degli autori di pubblicare ciò che vogliono senza
che vi sia l’interferenza da parte del governo. Ciò non è
negativismo, ma precisamente libertà. (Certo, quando
uso il termine “liberale” a proposito delle caratteristiche
del sistema economico intendo dire “liberale” nel vec-
chio e classico senso della parola.)

Attualmente, molti ritengono insoddisfacenti le conside-


revoli differenze nel tenore di vita tra i diversi Paesi del
mondo. Duecento anni fa, le condizioni in Gran Bretagna
erano molto peggiori di quelle dell’India di oggi. Ma i
britannici del 1750 non si ritenevano “sottosviluppati” o

125
“arretrati”, perché non potevano confrontare le condi-
zioni del proprio Paese con quelle dei Paesi nei quali le
condizioni erano più soddisfacenti.

Oggi tutti coloro che non hanno raggiunto il tenore me-


dio di vita del Regno Unito credono che vi sia qualcosa
di sbagliato con la loro situazione economica. Molti di
questi Paesi si dichiarano “Paesi in via di sviluppo” e,
come tali, chiedono aiuto ai cosiddetti “Paesi sviluppati”
o addirittura “Sovrasviluppati”.

STRUMENTI MIGLIORI PER AUMENTARE


LA PRODUZIONE

Lasciatemi spiegare come stanno realmente le cose. Il


tenore di vita è più basso nei cosiddetti “Paesi in via di
sviluppo” perché la remunerazione media per lo stesso
tipo di lavoro è più bassa in questi Paesi rispetto a quella
che percepiscono i lavoratori dell’Europa occidentale, del
Canada, del Giappone e soprattutto degli Stati Uniti.

Se proviamo a individuare le ragioni di ciò, dobbiamo


capire che tale distinzione non è dovuta a una potenziale
inferiorità degli operai o degli altri dipendenti. Vi è
all’interno di alcuni gruppi di lavoratori dell’America del
Nord una tendenza a credere che siano migliori degli
altri – cioè, che ricevono stipendi più elevati in ragione
della propria superiorità, del proprio merito.

126
Basterebbe che un operaio americano visitasse un altro
Paese – ad esempio, l’Italia, Paese d’origine di tanti lavo-
ratori americani – per scoprire che non sono le sue quali-
tà personali, bensì le condizioni esistenti all’interno di un
Paese, a fare sì che la sua remunerazione sia più elevata.

Se un siciliano emigra negli Stati Uniti, potrà riuscire


molto presto a guadagnare uno stipendio equivalente
alla media americana. E se questo stesso uomo dovesse
ritornare in Sicilia, scoprirebbe subito che la sua visita
negli Stati Uniti non gli ha fornito le qualità che gli
avrebbero permesso di guadagnare di più dei suoi con-
nazionali.

Nemmeno si può spiegare questa situazione economica


presumendo una sorta di inferiorità degli imprenditori
non-americani. È un dato di fatto che, ad eccezione degli
Stati Uniti, del Canada, dell’Europa occidentale e di al-
cune parti dell’Asia, gli strumenti e i metodi tecnologici
impiegati nelle fabbriche sono di gran lunga inferiori a
quelli che vi sono negli Stati Uniti. Ma ciò non si deve a
una presunta ignoranza degli imprenditori di quei Paesi
“sottosviluppati”.

Sanno benissimo che le fabbriche negli Stati Uniti e in


Canada impiegano strumenti molto superiori. Essi stessi
sanno tutto ciò che c’è da sapere sulla tecnologia – e, se
così non fosse, avrebbero comunque l’opportunità di
imparare assolutamente tutto ciò che serve a loro dai li-
bri e dalle riviste specializzate che divulgano queste co-
noscenze.
127
Ripeto: la differenza non è dovuta all’inferiorità persona-
le o all’ignoranza. La differenza si deve all’offerta di ca-
pitale, alla quantità di beni capitali disponibili. In altre
parole, il capitale investito pro capite è più elevato nelle
cosiddette nazioni avanzate rispetto a quelle in via di
sviluppo.

Un imprenditore non può pagare a un dipendente uno


stipendio più alto dell'importo aggiunto dal lavoro di
questo dipendente al valore del prodotto. Non può pa-
garlo di più di quanto i consumatori sono disposti a pa-
gare per il lavoro aggiuntivo di questo singolo dipenden-
te.

Se lo paga di più, non riuscirà, con i soldi ricevuti dai


clienti, a coprire le spese sostenute. Egli inizierà ad avere
perdite economiche e, come ho sottolineato svariate volte
e come sanno tutti, un imprenditore che inizia a subire
perdite deve cambiare i suoi metodi aziendali, oppure
andrà in bancarotta.

Gli economisti descrivono questa situazione ribadendo


che «i salari vengono determinati dalla produttività
marginale del lavoro». Questa è semplicemente una ma-
niera diversa per spiegare ciò che ho appena detto. È un
dato di fatto che la scala salariale venga determinata in
base alla misura in cui il lavoro di un individuo incre-
menta il valore di un prodotto.

Se un uomo lavora con attrezzature migliori e più effi-


cienti, allora riuscirà a fare in un’ora molto più di quanto
128
potrebbe fare un altro uomo con strumenti meno effi-
cienti nello stesso arco di tempo. È ovvio che cento uo-
mini lavorando in una fabbrica di calzature americana e
utilizzando i più moderni macchinari e strumenti riusci-
ranno a produrre, nello stesso arco di tempo, molto di
più di cento calzolai in India, i quali utilizzeranno stru-
menti antiquati in una maniera molto meno sofisticata.

Gli imprenditori in tutte le nazioni in via di sviluppo


sanno benissimo che strumenti migliori renderebbero le
loro imprese maggiormente profittevoli. Vorrebbero co-
struire più fabbriche, e vorrebbero anche migliorarle e
aggiornarle tecnologicamente. L’unica cosa che impedi-
sce loro di farlo è la mancanza di capitale.

La differenza tra le nazioni meno sviluppate e quelle più


sviluppate è una funzione del tempo: i britannici hanno
iniziato a risparmiare prima di tutte le altre nazioni,
hanno anche iniziato prima ad accumulare capitale e a
investirlo negli affari. Dato che hanno iniziato prima a
fare tutto ciò, vi era un tenore di vita più elevato in Gran
Bretagna rispetto a quello di tutti gli altri Paesi europei.

Gradualmente, tutte le altre nazioni hanno iniziato a


studiare le condizioni britanniche e non è stato difficile
per loro scoprire le ragioni della ricchezza della Gran
Bretagna. E, in questo modo, hanno iniziato a imitare i
metodi e le tecniche delle imprese britanniche.

Siccome le altre nazioni hanno iniziato più tardi, e sic-


come i britannici non hanno smesso di investire il pro-
129
prio capitale, è rimasta comunque un’enorme differenza
tra le condizioni in Inghilterra e quelle negli altri Paesi.
Ma poi è successa una cosa che ha fatto sì che il vantag-
gio britannico sparisse.

GLI INVESTIMENTI ESTERI BRITANNICI

Accadde il più grande evento di tutto il diciannovesimo


secolo, e non solo della storia di un unico Paese. Il gran-
de evento fu lo sviluppo, nel diciannovesimo secolo, de-
gli investimenti esteri. Nel 1817, il grande economista bri-
tannico David Ricardo (1772-1823) dava ancora per scon-
tato che il capitale potesse essere investito solamente en-
tro i confini di un Paese.

Diede per scontato, ecco, che i capitalisti non avrebbero


tentato di investire all’estero. Ma alcuni decenni più tar-
di, gli investimenti di capitali all’estero iniziarono a
svolgere un ruolo fondamentale negli affari mondiali.

Senza gli investimenti di capitali, le nazioni meno svi-


luppate della Gran Bretagna avrebbero dovuto iniziare
con metodi e tecnologie analoghe a quelle di cui dispo-
neva la Gran Bretagna dall’inizio alla metà del diciotte-
simo secolo e, lentamente, un passo alla volta – e restan-
do sempre molto al di sotto del livello dell’economia bri-
tannica –, avrebbero dovuto cercare di imitare ciò che i
britannici avevano fatto.

130
Ci sarebbero voluti tanti, tantissimi decenni prima che
questi Paesi potessero arrivare allo stesso livello di svi-
luppo tecnologico raggiunto dalla Gran Bretagna
cent’anni prima di loro. Ma il grande evento che aiutò
tutti questi Paesi fu l’investimento estero.

L’investimento estero significava che i capitalisti britan-


nici investivano il capitale inglese in altre parti del mon-
do. Investirono inizialmente in quei Paesi europei che,
dal punto di vista della Gran Bretagna, soffrivano di una
scarsa quantità di capitale ed erano arretrati.

È un fatto assai noto che le ferrovie della maggioranza


dei Paesi europei, e anche degli Stati Uniti, furono co-
struite con l’aiuto del capitale inglese. Come sapete, la
stessa cosa accadde qui, in Argentina.

Le compagnie del gas in tutte le città d’Europa erano


anch’esse inglesi. Verso la metà del 1870, un autore e
poeta britannico criticò i suoi connazionali dicendo: «I
britannici hanno perso il loro antico vigore e non hanno
più nuove idee. Non sono più una nazione importante,
non sono più una nazione che conduce il mondo».

Replicò a questo scrittore il grande sociologo Herbert


Spencer: «Guardi il continente europeo. Tutte le capitali
europee sono illuminate perché una compagnia britanni-
ca fornisce loro del gas». Questo accadde, ovviamente, in
quell’epoca che oggi, a noi, sembra la “remota” era
dell’illuminazione a gas.

131
Proseguendo nella risposta a questo autore britannico,
Herbert Spencer aggiunse: «Lei dice che i tedeschi sono
molto più avanzati rispetto alla Gran Bretagna. Ma
guardi la Germania. Addirittura, Berlino, la capitale del
Reich tedesco, la capitale del Geist, sarebbe completamen-
te al buio, se una compagnia britannica non avesse inva-
so il Paese e illuminato le strade».

Allo stesso modo, il capitale britannico contribuì allo svi-


luppo delle ferrovie e di molteplici settori dell’industria
negli Stati Uniti. E, certamente, quando una nazione con-
tinua a importare capitale dall’estero, la sua bilancia
commerciale si trova, come direbbe un non economista,
in situazione “sfavorevole”.

Ciò significa, in pratica, che le importazioni superano le


esportazioni. In questo senso, la Gran Bretagna aveva
una “bilancia commerciale favorevole” perché le fabbri-
che britanniche inviavano svariati strumenti e attrezza-
ture agli Stati Uniti, e questi venivano pagati integral-
mente con azioni delle imprese americane. Questo pe-
riodo della storia degli Stati Uniti durò praticamente fino
agli anni Novanta del diciannovesimo secolo.

Ma quando gli Stati Uniti, con l’aiuto del capitale britan-


nico – e, più tardi, con l’aiuto delle proprie politiche
“pro-capitalistiche” – svilupparono il proprio sistema
economico in una maniera senza precedenti, gli ameri-
cani iniziarono a riacquistare le azioni che avevano pre-
cedentemente venduto agli stranieri. In quel periodo, le
esportazioni americane superarono le importazioni. La
132
differenza fu pagata dall’importazione – o dal rimpatrio,
come lo ha chiamato qualcuno – di azioni ordinarie ame-
ricane.

Questo periodo durò fino alla Prima guerra mondiale.


Ciò che è successo dopo è un’altra storia. Si tratta della
storia dei sussidi americani agli Stati belligeranti tra e
anche dopo le due guerre mondiali: i prestiti, gli inve-
stimenti che gli Stati Uniti hanno fatto in Europa, oltre ai
leasing, l’aiuto agli Stati esteri, il Piano Marshall, l’invio
di generi alimentari oltreoceano, e tanti altri sussidi e
sovvenzioni.

Ci tengo a sottolinearlo perché molti credono che sia


vergognoso o addirittura degradante avere del capitale
estero investito nel proprio Paese. Dovete capire che, in
tutti i Paesi tranne l’Inghilterra, l’investimento di capitale
estero ha svolto un ruolo considerevole nello sviluppo
delle industrie moderne.

Quando dico che l’investimento estero è stato il più


grande evento storico del diciannovesimo secolo, dovete
pensare a tutte quelle cose che non sarebbero state rea-
lizzate se non fossero esistiti gli investimenti esteri. Tutte
le ferrovie, i porti, le fabbriche e le miniere in Asia, il ca-
nale di Suez e tante altre opere nell’emisfero occidentale
non sarebbero state costruite in assenza
dell’investimento estero.

133
OSTILITÀ AGLI INVESTIMENTI ESTERI

L’investimento estero viene fatto nell’aspettativa che non


verrà poi espropriato. Nessuno investirebbe qualcosa se
sapesse già in anticipo che qualcuno esproprierà i suoi
investimenti. Nel periodo tra il diciannovesimo e l’inizio
del ventesimo secolo non veniva nemmeno posto il pro-
blema dell’espropriazione. Dall’inizio, alcuni Paesi furo-
no molto ostili al capitale estero, ma normalmente si
rendevano conto degli espliciti vantaggi che ne deriva-
vano.

In alcuni casi, questi capitali esteri non erano investiti


direttamente sui progetti condotti dai capitalisti stranieri,
bensì indirettamente attraverso prestiti al governo del
Paese. Successivamente il governo investiva questi soldi
in progetti nazionali. Questo era, ad esempio, il caso del-
la Russia. Per ragioni puramente politiche, i francesi in-
vestirono in Russia, nei due decenni che precedettero la
Prima guerra mondiale, circa venti miliardi di franchi
d’oro; e questo investimento fu inviato direttamente al
governo russo.

Tutte le grandi opere realizzate dal governo russo – ad


esempio, la ferrovia che collega la Russia dai Monti Ura-
li, attraverso il giacchio e la neve della Siberia, fino al Pa-
cifico – furono costruite principalmente con l’aiuto degli
investimenti esteri forniti al governo russo. Ovviamente,
i francesi non avevano immaginato che un giorno vi sa-
rebbe stato un governo comunista in Russia, il quale

134
avrebbe semplicemente dichiarato di non voler più pa-
gare i debiti contratti dal governo precedente, il governo
zarista.

A partire dalla Prima guerra mondiale ebbe inizio un


periodo di guerra dichiarata agli investimenti esteri. Dal
momento che non esiste un metodo efficiente con cui
impedire a un governo di espropriare il capitale investi-
to, oggi è inesistente la protezione legale per gli investi-
menti esteri nel mondo. I capitalisti non l’avevano previ-
sto. Se i capitalisti dei Paesi esportatori di capitale se ne
fossero resi conto, tutti gli investimenti esteri sarebbero
stati interrotti quaranta o cinquant’anni fa.

Ma i capitalisti non immaginavano che un Paese si sa-


rebbe potuto comportare in una maniera così disonesta e
immorale non solo da rinnegare i propri debiti, ma anche
espropriare e confiscare il capitale estero. Dopo questi
avvenimenti, è iniziato un nuovo capitolo della storia
economica mondiale.

Con la fine del grande periodo del ventesimo secolo,


quando il capitale straniero ha contribuito allo sviluppo,
in tutte le parti del mondo, di moderni metodi di tra-
sporto, delle industrie, delle miniere, dell’agricoltura, ha
avuto inizio un’era in cui i governi e i partiti politici
hanno considerato gli investitori degli sfruttatori che an-
davano espulsi dal Paese.

In questa ondata di atteggiamento anticapitalista, i russi


non erano gli unici peccatori. Ricordate, per esempio,
135
l’espropriazione dei pozzi petroliferi americani in Messi-
co, e di tutte le cose che sono accadute in questo Paese, in
Argentina, fatti che non ho certo bisogno di approfondi-
re.

La situazione nel mondo attuale, creata dal sistema di


espropriazione del capitale straniero, consiste
nell’espropriazione diretta o indiretta attraverso il con-
trollo del cambio estero o la tassazione discriminatoria.
Questo è un problema che esiste soprattutto nelle nazio-
ni in via di sviluppo.

Prendiamo, ad esempio, la più grande di queste nazioni:


l’India. Sotto il governo britannico, il capitale britannico
– predominantemente britannico, ma anche quello delle
altre nazioni europee – fu investito in India. E i britannici
esportarono in India altre cose che vanno menzionate:
esportarono in India moderni metodi con cui combattere
le malattie infettive.

Come risultato, si verificò un colossale aumento della


popolazione indiana e un altrettanto enorme incremento
dei problemi del Paese. Dinanzi a una situazione che si
aggravava, l’India decise di scegliere l’espropriazione
come il metodo più adeguato a risolvere i problemi. Tut-
tavia, non si trattava sempre di espropriazione diretta: il
governo dava fastidio ai capitalisti stranieri, creando così
tanti ostacoli ai loro investimenti che questi investitori
furono praticamente costretti a vendere le loro quote.

L’India avrebbe potuto, ovviamente, accumulare capitale


136
in un altro modo: l’accumulazione domestica (o interna)
di capitale. Ciononostante, l’India è ugualmente contra-
ria all’accumulazione domestica di capitale. Il governo
indiano dice di voler industrializzare il Paese, ma ciò che
vuole veramente è creare delle imprese socialiste.

Pochi anni fa, il famoso uomo di Stato Jawaharlal Nehru


(1889-1964) ha pubblicato una raccolta dei suoi discorsi.
Il libro è stato pubblicato con l’intenzione di stimolare gli
investimenti stranieri in India. Il governo indiano non è
contrario agli investimenti esteri prima che questi entrino
nel Paese.

L’ostilità inizia solo quando il capitale è già stato investi-


to. In questo libro – cito testualmente – il signor Nehru
afferma: «Certo, vogliamo socializzare il Paese. Ma non
siamo contrari alle imprese private. Vogliamo incorag-
giarle in tutti i modi. Vogliamo promettere agli impren-
ditori che desiderano investire nel nostro Paese che non
abbiamo l’intenzione di espropriare o di nazionalizzare
le loro aziende prima di dieci anni, o forse addirittura di
più».

E Nehru pensava che questo fosse un invito ad investire


in India!

I GOVERNI OSTACOLANO IL RISPARMIO


Il problema – come sapete – è l’accumulazione domestica
137
di capitale. Oggi vi sono pesantissime imposte incidenti
sulle imprese in tutti i Paesi. Infatti, le aziende subiscono
addirittura la doppia imposizione fiscale: innanzitutto il
profitto delle imprese viene tassato pesantemente; e suc-
cessivamente vengono tassati anche i dividendi che esse
pagano agli azionisti. E questo viene fatto in maniera
progressiva.

L’attuale imposta progressiva sui redditi e sui profitti


funziona nel seguente modo: vengono tassate precisa-
mente quelle porzioni del reddito che le persone avreb-
bero risparmiato o investito. Prendiamo l’esempio degli
Stati Uniti. Qualche anno fa vi è stata questa imposta sul
“profitto in eccesso”, il che significava che su ogni dolla-
ro guadagnato un’impresa poteva tenere per sé soltanto
diciotto centesimi.

Quando questi diciotto centesimi venivano distribuiti tra


gli azionisti, quelli che possedevano un grande numero
di azioni dovevano pagare un altro sessanta o ottanta per
cento (o addirittura di più) di imposte. Su un dollaro
guadagnato potevano effettivamente mettersi in tasca
circa sette centesimi, e novantatré centesimi andavano
direttamente al governo.

La maggior parte di questo novantatré per cento verreb-


be sicuramente risparmiata o investita se fosse lasciata
agli azionisti, ma in mano al governo veniva usata sem-
plicemente per sostenere le spese correnti. Questa è la
politica concreta degli Stati Uniti.

138
Penso di essere riuscito a spiegare con chiarezza che le
politiche americane non sono esempi degni di essere imi-
tati dagli altri Paesi. La politica che ho menzionato pre-
cedentemente è peggio che sbagliata – è folle. L’unica co-
sa che mi piacerebbe aggiungere è che un Paese ricco
può permettersi un maggior numero di politiche sbaglia-
te rispetto a un Paese povero.

Negli Stati Uniti, malgrado l’esistenza di tutti questi me-


todi di tassazione, vi sono ancora delle porzioni di capi-
tale e d’investimenti che vengono accumulate ogni anno,
e, pertanto, vi è ancora una tendenza verso l’incremento
del tenore di vita.

Ma in molti Paesi il problema è assai grave. Non vi è (o


non è sufficiente) il risparmio domestico, e gli investi-
menti di capitale dall’estero vengono seriamente ridotti a
causa della manifesta ostilità da parte loro.

Come possono parlare di industrializzazione, della ne-


cessità di sviluppare nuovi impianti industriali, di mi-
gliorare le condizioni nazionali, di incrementare il tenore
di vita, di avere salari più elevati, migliori mezzi di tra-
sporto, se attuano politiche che generano proprio
l’effetto opposto? Ciò che le loro politiche effettivamente
fanno è prevenire o ridurre l’accumulo domestico di ca-
pitale e ostacolare l’arrivo e la permanenza del capitale
estero nei loro Paesi.

Il risultato finale è senza dubbio terribile. Una situazione


del genere porta alla sfiducia, e al giorno d’oggi sono
139
sempre di più i Paesi i cui capitalisti non si fidano di in-
vestire all’estero. Anche se i Paesi interessati dovessero
cambiare immediatamente le loro politiche e fare tutte le
immaginabili promesse, è molto difficile immaginare che
riuscirebbero a convincere ancora una volta i capitalisti
stranieri a investire in quei posti.

Esistono, senza dubbio, dei metodi con i quali evitare


tale conseguenza. Si potrebbero stabilire dei trattati o
statuti internazionali, che non siano semplici accordi, che
sottraggono gli investimenti esteri alla giurisdizione na-
zionale. Le Nazioni Unite potrebbero fare qualcosa in
questa direzione. Ma questa istituzione non è altro che
un posto di ritrovo per discussioni inutili.

Una volta che ci si rende conto dell’enorme importanza


degli investimenti esteri, del fatto che essi, da soli, po-
trebbero portare a un incremento delle condizioni politi-
che ed economiche in tutto il mondo, si potrebbe tentare
di fare qualcosa dal punto di vista della legislazione in-
ternazionale.

Questo è un problema tecnico legale, e ho deciso di men-


zionarlo qui solo perché la situazione non è ancora irri-
mediabile. Se il mondo effettivamente volesse offrire ai
Paesi in via di sviluppo la possibilità di innalzare il loro
tenore di vita al livello dell’American way of life, lo po-
trebbe fare. È necessario soltanto capire come si potrebbe
farlo.

140
I PAESI IN VIA DI SVILUPPO HANNO BI-
SOGNO DI CAPITALE

L’unica cosa che manca ai Paesi in via di sviluppo affin-


ché diventino prosperi come gli Stati Uniti è la seguente:
il capitale – e, ovviamente, la libertà di poterlo gestire in
un sistema basato su regole di mercato, non su regole
imposte dal governo. Queste nazioni devono accumulare
capitale domestico, e devono anche fare il possibile affin-
ché il capitale estero venga investito nei loro Paesi.

Per quanto riguarda lo sviluppo del risparmio domestico


è necessario menzionare ancora una volta che il consi-
stente risparmio domestico da parte della popolazione
presuppone una moneta stabile. Ciò implica l’assenza di
ogni tipo di inflazione.

Una parte considerevole del capitale impiegato nelle im-


prese americane è di proprietà dei lavoratori stessi e di
altri individui che dispongono di modesti mezzi econo-
mici. Miliardi e miliardi di depositi bancari (risparmi), di
azioni e di polizze assicurative vengono “usati” da que-
ste imprese.

Nel mercato finanziario americano attuale non sono più


le banche, bensì le compagnie assicurative, i grandi pre-
statori di soldi, i grandi finanziatori. E i soldi della com-
pagnia assicurativa sono – non legalmente, ma economi-
camente – di proprietà degli assicurati. Praticamente tut-
ti negli Stati Uniti, in un modo o nell’altro, hanno una
141
copertura assicurativa.

Il requisito fondamentale per il raggiungimento di una


maggiore uguaglianza economica nel mondo è
l’industrializzazione. E questa è possibile solo attraverso
un aumento del capitale investito e dell’accumulo di ca-
pitale. Sarete sicuramente sconvolti dal fatto che io non
abbia menzionato una misura che è considerata impre-
scindibile come primo passo per l’industrializzazione di
un Paese.

Mi riferisco al protezionismo. Ma i dazi e i controlli dei


cambi sono esattamente i mezzi che impediscono
l’importazione di capitale e l’industrializzazione del Pae-
se. L’unica maniera di incrementare l’industrializzazione
è aumentare il capitale a disposizione. Il protezionismo
non fa altro che dirottare gli investimenti da un settore
degli affari ad altro.

Il protezionismo, di per sé, non aggiunge assolutamente


nulla al capitale di un Paese. Per aprire una nuova fab-
brica, è necessario che l'imprenditore disponga di capita-
le. E per migliorare una fabbrica già esistente
l’imprenditore avrà comunque bisogno di capitale, non
di un dazio.

Non voglio discutere l’intero problema del libero com-


mercio e del protezionismo. Mi auguro che l’argomento
venga illustrato adeguatamente nei vostri testi di eco-
nomia. Il protezionismo non migliora la situazione eco-
nomica di un Paese.
142
E ciò che sicuramente non la rende migliore è il sindacali-
smo. Se le condizioni lavorative sono insoddisfacenti, e i
salari sono bassi, se un lavoratore di un determinato
Paese esamina ciò che succede negli Stati Uniti e si in-
forma sulle cose che accadono lì, se vede nei film tutte le
moderne comodità di cui dispone una normale casa
americana, egli potrebbe diventare invidioso. E avreb-
be pienamente ragione se dicesse: «Dobbiamo avere le
stesse cose». Ma l’unico modo per ottenerle è attraverso
l’aumento del capitale.

I sindacati impiegano la violenza contro gli imprenditori


e contro coloro che vengono chiamati crumiri. Tuttavia,
nonostante tutto il loro potere e la loro violenza, i sinda-
cati non sono in grado di aumentare continuamente i sa-
lari di tutti i lavoratori.

Altrettanto inefficienti sono i decreti governativi che sta-


biliscono gli importi del salario minimo. Ciò che i sinda-
cati effettivamente ottengono (se, alla fine, riescono a far
aumentare l’importo dei salari) è una permanente e du-
ratura disoccupazione.

Ma i sindacati non possono industrializzare un Paese, e


non possono aumentare il tenore di vita dei lavoratori.
Questo è il punto decisivo: bisogna capire che tutte le
politiche di un Paese che vuole migliorare il tenore di
vita dei suoi abitanti devono puntare all’aumento del
capitale investito pro capite.

Questo investimento di capitale pro capite continua a


143
crescere negli Stati Uniti, malgrado tutte le pessime poli-
tiche attuate in quel Paese. Lo stesso succede in Canada e
in alcuni Paesi dell’Europa occidentale. Tuttavia, questi
investimenti stanno purtroppo diminuendo in Paesi co-
me l’India.

Leggiamo tutti i giorni nei giornali che la popolazione


del pianeta aumenta di circa 45 milioni di persone – o
addirittura di più – l’anno. E come andranno a finire le
cose? Quali saranno le conseguenze di tutto ciò? Ricorda-
tevi cosa ho detto della Gran Bretagna. Nel 1750 i britan-
nici pensavano che sei milioni di persone costituissero
un’enorme sovrappopolazione delle isole britanniche e
che perciò erano tutti destinati a morire di fame e di pe-
ste.

Ma alla vigilia dell’ultima guerra mondiale, nel 1939,


cinquanta milioni di persone vivevano nelle isole britan-
niche, e il tenore di vita era incomparabilmente più ele-
vato rispetto al 1750. Questo è l’effetto di ciò che viene
chiamato industrializzazione – un termine assai inade-
guato.

Il progresso britannico fu possibile grazie all’incremento


degli investimenti pro capite di capitale. Come ho detto
in precedenza, esiste una sola strada per una nazione che
vuole raggiungere la prosperità: se incrementi il capitale,
incrementi anche la produttività marginale del lavoro, e
l’effetto sarà un aumento reale dei salari.

In un mondo senza barriere migratorie, vi sarebbe una


144
tendenza mondiale all’equalizzazione dei salari. Se non
vi fossero le barriere migratorie oggi, probabilmente ven-
ti milioni di persone proverebbero a emigrare negli Stati
Uniti ogni anno per ottenere un livello remunerativo più
elevato. Questo afflusso ridurrebbe i salari negli Stati
Uniti e li aumenterebbe in altri Paesi.

LA MIGRAZIONE DI CAPITALI AUMEN-


TA GLI STIPENDI

Non dispongo del tempo per affrontare il problema delle


barriere all’immigrazione. Ma, in ogni caso, voglio dire
che esiste un altro metodo che porta al livellamento dei
salari in tutto il mondo. Quest’altro metodo, che funzio-
na anche in assenza della libertà migratoria, è la migra-
zione di capitali.

I capitalisti tendono a spostarsi verso quei Paesi nei quali


la manodopera è maggiormente disponibile ed economi-
camente ragionevole. E siccome portano del capitale in
questi Paesi, portano anche una tendenza verso
l’incremento dei salari. Ha funzionato nel passato e con-
tinuerà a funzionare ugualmente in futuro.

Quando il capitale britannico fu investito per la prima


volta, diciamo, in Austria o in Bolivia, i salari medi in
quei posti erano molto, ma veramente molto più bassi di
quelli in Gran Bretagna. Ma questo investimento aggiun-

145
tivo ha portato e rafforzato una tendenza a salari più
elevati in quei Paesi.

Ciò si è verificato ovunque. È un fatto abbastanza noto


che appena la United Fruit Company si è stabilita in Gua-
temala, il risultato è stato una tendenza generale a salari
più elevati, iniziando dai salari che la stessa compagnia
corrispondeva ai suoi lavoratori, il che, di conseguenza,
ha portato gli altri imprenditori ad aumentare i salari dei
loro operai. Dunque, non esiste un motivo ragionevole
per essere pessimisti riguardo al futuro dei Paesi “sotto-
sviluppati”.

Sono completamente d’accordo con i comunisti e i sinda-


cati quando dicono: «Ciò che è necessario è l’aumento
del tenore di vita». Poco tempo fa, in un libro pubblicato
negli Stati Uniti, un professore ha detto: «Ora abbiamo
quantità sufficienti di tutto, perché le persone nel mondo
continuano a lavorare così tanto? Abbiamo già tutto».

Non dubito che questo professore abbia già tutto. Ma


esistono altre persone in altri Paesi, anzi, molte persone
anche negli Stati Uniti, che vorrebbero e dovrebbero po-
ter godere di un maggiore tenore di vita.

Fuori dagli Stati Uniti – nell’America Latina e, soprattut-


to, in Asia e Africa – tutti desiderano che le condizioni
migliorino nel proprio Paese. Un tenore di vita più eleva-
to porta con sé anche un più elevato livello di cultura e
civiltà.

146
Detto ciò, sono totalmente d’accordo sul fatto che
l’obiettivo finale debba essere quello di incrementare il
tenore di vita in tutti i Paesi. Ma non sono d’accordo sul-
le misure da adottare per raggiungerlo. Quali misure ef-
fettivamente contribuiranno a raggiungere questo obiet-
tivo?

Sicuramente non il protezionismo, l’interferenza gover-


nativa, il socialismo e, certamente, non la violenza dei
sindacati (eufemisticamente chiamata contrattazione col-
lettiva, ma che, in realtà, è una contrattazione condotta con
una pistola alla tempia).

Secondo me, per raggiungere questo obiettivo esiste una


singola e unica via! Trattasi di un percorso lento. Alcuni
potrebbero dire: è fin troppo lento! Ma non esistono
scorciatoie per raggiungere un paradiso terreno. Ci vuole
del tempo, e ci vuole anche l’impegno. Ma ci vuole meno
tempo di quanto abitualmente credono le persone, e il
livellamento si verificherà prima che se ne rendano con-
to.

Attorno al 1840, nella parte occidentale della Germania –


in Svevia e Württemberg, che erano alcune delle aree più
industrializzate del mondo – si diceva: «Non riusciremo
mai a raggiungere il livello dei britannici. I britannici so-
no partiti in vantaggio, e perciò saranno sempre più
avanti di noi».

Trent’anni più tardi, i britannici hanno detto: «Questa


competizione tedesca, non riusciamo ad affrontarla;
147
dobbiamo fare qualcosa per contrastarla adeguatamen-
te». In quel periodo, ovviamente, il tenore di vita tedesco
cresceva rapidamente e, già all’epoca, si avvicinava velo-
cemente a quello britannico. Oggi il reddito pro capite in
Germania non è affatto inferiore a quello della Gran Bre-
tagna.

Nell’Europa centrale vi è un piccolo Paese, la Svizzera, al


quale la natura non ha dato praticamente nulla. Non ha
miniere di carbone né minerali e non possiede alcuna
risorsa naturale. Ma il suo popolo, nel corso dei secoli, ha
continuamente perseguito delle politiche capitalistiche.

Gli svizzeri hanno raggiunto il più elevato tenore di vita


dell’Europa continentale, e il loro Paese è uno dei mag-
giori centri mondiali di civiltà. Non vedo perché un Pae-
se come l’Italia7 – che è molto più grande della Svizzera
sia per popolazione sia per dimensione territoriale – non
possa raggiungere lo stesso elevato tenore di vita dopo
alcuni anni di politiche sane ed economicamente soste-
nibili.

Ma – come ho già sottolineato – queste politiche devono


essere effettivamente sane.

7 NdT: nel testo originale si citava l’Argentina, ma riteniamo che


l’esempio sia altrettanto calzante con l’Italia.

148
SESTA LEZIONE

LA POLITICA E LE IDEE
Nel periodo conosciuto come Illuminismo, negli anni in
cui i nordamericani ottennero la loro indipendenza, e,
alcuni anni dopo, quando le colonie spagnole e porto-
ghesi divennero nazioni indipendenti, il sentimento pre-
valente nella società occidentale era quello ottimista.

In quel periodo, tutti i filosofi e uomini di Stato erano del


tutto convinti che si stesse vivendo l’inizio di una nuova
era di prosperità, progresso e libertà. In quei giorni le
persone immaginavano che le nuove istituzioni politiche
– i governi rappresentativi costituzionali stabiliti nelle
nazioni libere d’Europa e d’America – avrebbero lavora-
to in una maniera enormemente benefica, e che la libertà
economica avrebbe migliorato senza sosta le condizioni
materiali dell’umanità.

Sappiamo benissimo che alcune di queste aspettative


erano troppo ottimistiche. È senza dubbio vero che espe-
rimentammo, nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo,
un miglioramento senza precedenti delle condizioni eco-
nomiche, e che tale miglioramento rese possibile, a un
numero considerevolmente maggiore della popolazione,
il godimento di un tenore di vita molto più elevato. Ma
sappiamo anche che molte delle speranze dei filosofi del
diciottesimo secolo furono distrutte pesantemente – si
sperava, ad esempio, che non vi sarebbero state più le

149
guerre e che le rivoluzioni non sarebbero state più neces-
sarie. Queste aspettative non furono realizzate.

Durante il diciannovesimo secolo, vi fu un periodo nel


quale la severità e il numero di guerre diminuì. Ma il
ventesimo secolo portò con sé il risorgimento dello spiri-
to guerrafondaio, e possiamo dire molto giustamente che
non siamo ancora arrivati alla fine delle dure prove alle
quali dovrà sottoporsi l’umanità.

IDEE ECONOMICHE E POLITICA

Il sistema costituzionale che nacque tra la fine del diciot-


tesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo deluse
l’umanità. Molte delle persone – e anche molti degli au-
tori – che hanno affrontato questo problema tendono a
pensare che non vi fosse un collegamento tra l’aspetto
economico e l’aspetto politico del problema in discussio-
ne.

Dunque, tendono a dedicarsi approfonditamente


all’analisi delle degenerazioni del parlamentarismo – il
governo i cui membri sono i rappresentanti del popolo –
come se questo fenomeno fosse completamente indipen-
dente dalla situazione economica e dalle idee economi-
che che determinano le attività delle persone.

Il fatto è che questa indipendenza non esiste. L’uomo


non è un essere che, da un lato, possiede un aspetto eco-
150
nomico e, dall’altro, un aspetto politico, senza collega-
menti tra entrambi gli aspetti. In realtà, ciò che viene
chiamato il decadimento della libertà, del governo costi-
tuzionale e delle istituzioni rappresentative, è la conse-
guenza di un cambiamento radicale delle idee economi-
che e politiche. Gli eventi politici sono l’inevitabile con-
seguenza del cambiamento delle politiche economiche.

Le idee che ispirarono gli statisti, i filosofi e gli avvocati


che, nel diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo seco-
lo, svilupparono i principi fondamentali di un nuovo si-
stema politico, si basavano sulla premessa secondo la
quale, all’interno di una nazione, tutti i cittadini onesti
condividono la stessa meta finale.

Questa meta finale, alla quale tutti gli uomini onesti de-
vono dedicarsi, è il benessere dell’intera nazione, e anche
quello delle altre nazioni – questi leader politici e morali
erano completamente convinti che una nazione libera
non potesse interessarsi della conquista di altri Paesi.
Ritenevano che le lotte tra i partiti fossero circostanze
normali, che fosse perfettamente normale l’esistenza di
divergenze d’opinione riguardo ai metodi migliori con
cui condurre gli affari di Stato.

Coloro che condividevano idee similari circa un proble-


ma cooperavano tra di loro, e a questa cooperazione fu
dato il nome di partito. Ma la struttura del partito non
era permanente, non dipendeva dalla posizione che gli
individui ricoprivano all’interno dell’intero ordine socia-
le e cambiava quando le persone si rendevano conto che
151
la propria posizione originaria si basava su premesse e
idee sbagliate.

Da questo punto di vista, molti ritenevano le discussioni


durante le campagne elettorali e successivamente duran-
te le assemblee legislative un importante fattore politico.
I discorsi dei membri di una legislatura non venivano
considerati semplici dichiarazioni, non avevano come
scopo quello di comunicare al mondo il volere di un de-
terminato partito politico.

Erano invece ritenuti validi tentativi di convincere i


gruppi all’opposizione del fatto che le idee sostenute
dall’oratore fossero le più giuste, le più benefiche al bene
comune rispetto a quelle che erano state esposte prima.

I discorsi politici, gli editoriali nei quotidiani, i volantini


e i libri erano scritti per persuadere le persone della cor-
rettezza di un’idea. Nessuno dubitava del fatto che si
potesse dimostrare l’assoluta correttezza delle proprie
idee a una maggioranza, qualora queste idee fossero sta-
te solide. Fu partendo da questo punto di vista che le re-
gole costituzionali furono scritte dai corpi legislativi agli
inizi del diciannovesimo secolo.

Tutto ciò implicava, tuttavia, che il governo non dovesse


interferire con le condizioni economiche del mercato.
Implicava che tutti i cittadini condividessero un singolo
obiettivo politico: il benessere dell’intero Paese e
dell’intera nazione. E l’interventismo è andato a sostitui-
re precisamente questa filosofia sociale ed economica.
152
L’interventismo ha dato origine a una filosofia assai di-
versa.

I GRUPPI POLITICI DI PRESSIONE

Dal punto di vista della mentalità interventista, il gover-


no ha il compito di sostenere, sovvenzionare e offrire
privilegi ad alcuni gruppi speciali. Nel diciottesimo seco-
lo si credeva che i legislatori avessero idee speciali ri-
guardo al bene comune.

Tuttavia, ciò che realmente vediamo nella vita politica


odierna, praticamente senza alcuna eccezione, in tutti i
Paesi del mondo in cui non esiste semplicemente una
dittatura comunista, non vi sono più dei veri partiti poli-
tici nell’accezione classica della parola, bensì soltanto
gruppi di pressione.

Un gruppo di pressione è un gruppo formato da indivi-


dui che vogliono ottenere per sé privilegi speciali a spese
del resto della nazione. Questo privilegio può essere un
dazio sull’importazione, un sussidio, o addirittura leggi
che impediscono ad altre persone di competere con i
membri del gruppo di pressione. Comunque sia, questo
privilegio offre al gruppo di pressione una posizione
speciale. Offre loro facilitazioni indisponibili o che devo-
no diventare indisponibili agli altri gruppi.

Negli Stati Uniti, il sistema bipartitico dei vecchi giorni


153
resta apparentemente preservato. Ma questo non è altro
che un camuffamento della situazione reale. Difatti, la
vita politica degli Stati Uniti – così come la vita politica
di tutti gli altri Paesi – è determinata dalle lotte e dalle
aspirazioni dei gruppi di pressione.

Negli Stati Uniti vi sono ancora un Partito repubblicano


e un Partito democratico, ma in ognuno di questi partiti
vi sono rappresentanti dei gruppi di pressione. Questi
sono più interessati alla cooperazione con i rappresen-
tanti degli stessi gruppi di pressione che si trovano nelle
fila del partito d’opposizione che con i cari membri del
proprio partito.

Per darvi un esempio, se parlate con le persone negli Sta-


ti Uniti che effettivamente sanno come funziona il Con-
gresso, vi diranno: «Quest’uomo, questo membro del
Congresso rappresenta gli interessi dei commercianti
d’argento». Oppure vi diranno che un altro uomo rap-
presenta i coltivatori di grano.

Ovviamente, ognuno di questi gruppi di pressione costi-


tuisce necessariamente una minoranza. In un sistema
basato sulla divisione del lavoro, ogni gruppo speciale
che punta a ottenere dei privilegi dev’essere un gruppo
minoritario. E le minoranze non hanno la possibilità di
avere successo se non cooperano con altre minoranze
similari, con gruppi di pressione armonici tra di loro.

Nelle assemblee legislative, essi cercano di coalizzarsi


per provare a diventare una maggioranza. Tuttavia, do-
154
po un po’ di tempo, questa coalizione può disintegrarsi a
causa dell’impossibilità di trovare un duraturo consenso
tra i diversi gruppi di pressione, e si formano nuove coa-
lizioni di gruppi di pressione.

Questo è ciò che accadde in Francia nel 1871, una situa-


zione che gli storici chiamarono “la degenerazione della
Terza Repubblica”. Non si trattò, in realtà, della rovina
della Terza Repubblica; questa fu semplicemente
un’esemplificazione del fatto che il sistema dei gruppi di
pressione non è un sistema che può essere adeguatamen-
te ed efficacemente applicato al governo di una grande
nazione.

Abbiamo, nelle legislature, rappresentanti dei settori


economici del grano, della carne, dell’argento e del pe-
trolio, nonché i rappresentanti dei molteplici sindacati.
Un’unica entità non viene rappresentata nella legislatura:
la nazione nel suo insieme. Pochi effettivamente prendo-
no le parti della nazione nel suo complesso. E tutti i pro-
blemi, anche quelli legati alla politica estera, vengono
valutati dalla prospettiva degli interessi speciali dei
gruppi di pressione.

Negli Stati Uniti, alcuni degli Stati meno popolosi sono


interessati al prezzo dell’argento. Ma non tutti gli abitan-
ti di questi Stati si interessano di ciò. Tuttavia, gli Stati
Uniti, per molto decenni, hanno speso una somma con-
siderevole di denaro, a spese dei contribuenti, per acqui-
stare dell’argento a un prezzo superiore a quello di mer-
cato.
155
Un altro esempio: negli Stati Uniti, solo una piccola parte
della popolazione lavora nel settore agricolo; il resto del-
la popolazione è costituito da consumatori – ma non
produttori – di prodotti agricoli. Ciononostante, gli Stati
Uniti spendono miliardi e miliardi di dollari per mante-
nere i prezzi dei beni agricoli al di sopra dei loro poten-
ziali prezzi di mercato.

Non si può affermare che si tratti di una politica favore-


vole a una piccola minoranza, perché gli interessi dei
produttori agricoli non sono uniformi. Al produttore di
latte non sono convenienti gli alti prezzi dei cereali; al
contrario, preferirebbe che i prezzi fossero più bassi. Un
allevatore di pollame vuole pagare di meno per il man-
gime.

Vi sono molti interessi speciali completamente incompa-


tibili tra di loro all’interno del gruppo degli agricoltori.
Intanto, trattative diplomatiche condotte con intelligenza
e astuzia nella politica parlamentare fanno sì che piccoli
gruppi minoritari possano ottenere privilegi a spese del-
la maggioranza.

Una situazione particolarmente interessante negli Stati


Uniti riguarda lo zucchero. Con molta probabilità, solo
un americano su cinquecento è interessato a un prezzo
più alto per lo zucchero. Probabilmente quattrocentono-
vantanove americani su cinquecento vorrebbero che lo
zucchero fosse più economico.

Tuttavia, la politica condotta dagli Stati Uniti ha come


156
unico scopo quello di aumentare il prezzo dello zucche-
ro, sia attraverso l’applicazione di dazi sia attraverso
l’attuazione di altre misure speciali. Questa politica non
solo danneggia gli interessi di quei quattrocentonovan-
tanove consumatori di zucchero americani, ma crea ad-
dirittura un gravissimo problema per gli Stati Uniti
nell’ambito della politica estera.

L’obiettivo della loro politica estera è la cooperazione


con le altre repubbliche americane, alcune delle quali
sono interessate a vendere zucchero agli Stati Uniti. Vor-
rebbero vendere quantità maggiori di tale prodotto.
Questo illustra in quale misura gli interessi dei gruppi di
pressione possono determinare anche la politica estera di
una nazione.

Per anni, studiosi in tutto il mondo hanno scritto sulla


democrazia – sul governo popolare e rappresentativo. Si
sono spesso lamentati delle inadeguatezze di tale forma
di governo, ma la democrazia che criticano è solo quella
in cui l’interventismo è diventato la politica egemonica del
Paese.

Oggi molte persone dicono: «All’inizio del diciannove-


simo secolo, nelle legislature di Francia, Inghilterra, Stati
Uniti, e altre nazioni, vi erano discorsi sui grandi pro-
blemi dell’umanità. Lottavano contro la tirannia e si bat-
tevano per la libertà, per la cooperazione con tutte le al-
tre nazioni libere. Ma ora siamo più pratici nei Parlamen-
ti!».

157
È ovvio che siamo più pratici; le persone oggi non parla-
no di libertà, bensì di un aumento dei prezzi delle arachidi.
Se questo è pratico, allora è evidente che i Parlamenti
sono cambiati considerevolmente, ma certo non in me-
glio.

Questi cambiamenti politici, portati dall’interventismo,


hanno indebolito di molto il potere delle nazioni e dei
rappresentanti di resistere alle aspirazioni dei dittatori e
alle operazioni dei tiranni. I rappresentanti legislativi che
hanno come unica preoccupazione quella di soddisfare
gli elettori che vogliono, ad esempio, un aumento del
prezzo dello zucchero, del latte e del burro, e una dimi-
nuzione del prezzo del grano (sovvenzionato dal gover-
no) possono rappresentare il popolo solo in una maniera
del tutto debole e superficiale. Non potranno mai rap-
presentare tutto il loro elettorato.

Gli elettori che sono favorevoli a tali privilegi non capi-


scono che esistono anche cittadini che vogliono l’opposto
e che pertanto impediscono ai loro rappresentanti di rag-
giungere l’integrale successo.

Questo sistema porta a un costante aumento della spesa


pubblica, da un lato, e fa sì che diventi progressivamente
più difficile l’imposizione di tributi, dall’altro lato. Que-
sti rappresentanti dei gruppi di pressione vogliono che i
loro gruppi di pressione abbiano molteplici privilegi
speciali, ma non vogliono far pesare sulle spalle dei pro-
pri sostenitori un’imposizione fiscale eccessivamente pe-
sante.
158
INTERVENTISMO E INTERESSI SPECIALI

I fondatori del moderno governo costituzionale nel di-


ciottesimo secolo non avevano in mente che un legislato-
re dovesse rappresentare, non l’intera nazione, ma solo
gli interessi speciali del distretto in cui era stato eletto.
Questa è stata una delle conseguenze dell’interventismo.

L’idea originale era che ogni singolo membro del Parla-


mento dovesse rappresentare l’intera nazione. Costui ve-
niva eletto in un distretto particolare soltanto perché lì
era conosciuto e pertanto veniva eletto da coloro che si
fidavano delle sue competenze.

Non era previsto che egli dovesse entrare nel governo


per poter ottenere qualche privilegio o qualcosa di spe-
ciale per il suo distretto elettorale, per chiedere magari la
costruzione di una nuova scuola, di un nuovo ospedale o
di un nuovo istituto psichiatrico – generando, di conse-
guenza, un considerevole aumento della spesa pubblica
nel rispettivo distretto.

La politica basata sui gruppi di pressione spiega il moti-


vo per cui è praticamente impossibile per tutti i governi
fermare l’inflazione. Non appena i politici eletti cercano
di limitare la spesa pubblica, intervengono coloro che
sostengono gli interessi speciali, coloro che traggono
vantaggi dall’inclusione di progetti speciali nel bilancio,
e dichiarano che questo particolare progetto non può es-
sere intrapreso, o che quell’altro lo dev’essere per forza.

159
La dittatura, ovviamente, non è la soluzione ai problemi
economici; e non è nemmeno la risposta ai problemi del-
la libertà. Un dittatore può iniziare la sua carriera politi-
ca facendo ogni genere di promessa, ma, essendo un dit-
tatore, necessariamente non le manterrà.

Al contrario, egli sopprimerà immediatamente la libertà


di parola, in modo tale che i quotidiani e i redattori dei
discorsi in Parlamento non riusciranno – a distanza di
giorni, mesi e anni – a dimostrare che egli aveva fatto
delle promesse diverse nel suo primo giorno di governo
e che aveva, col tempo, cambiato idea.

La terribile dittatura vissuta nel passato recente in un


Paese grande come la Germania viene in mente quando
assistiamo al giorno d’oggi al declino della libertà in tan-
ti Paesi del mondo. Come risultato, le persone parlano
oggi della degenerazione della libertà e del declino della
nostra civiltà.

Si dice che ogni civiltà deve eventualmente cadere in ro-


vina e disintegrarsi. Vi sono eminenti studiosi che so-
stengono questa idea. Tra questi vi sono il professore te-
desco Spengler e lo storico britannico Toynbee. Ci dicono
che la nostra civiltà è ormai vecchia.

Spengler ha paragonato le civiltà alle piante, che cresco-


no e crescono, ma che prima o poi devono morire. Lo
stesso è vero quando parliamo delle civiltà, dice il pro-
fessore tedesco. Tuttavia, questo paragone metaforico tra
una civiltà e una pianta è completamente aleatorio.
160
Innanzitutto, all’interno della storia dell’umanità è
enormemente difficile distinguere tra civiltà differenti e
indipendenti. Le civiltà non sono indipendenti; sono in-
vece interdipendenti, dato che si influenzano continua-
mente a vicenda. Non si può parlare del declino di una
particolare civiltà, dunque, allo stesso modo in cui si par-
la della morte di una pianta in particolare.

L’INFLAZIONE E L’INTERVENTISMO
HANNO DISTRUTTO L’IMPERO ROMA-
NO

Anche se si respingono le dottrine di Spengler e Toyn-


bee, un paragone assai popolare rimane: quello tra le
molteplici civiltà che sono degenerate. È senza dubbio
vero che nel secondo secolo avanti Cristo, l’Impero Ro-
mano costituiva una civiltà piuttosto fiorente; che in
quelle parti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa sotto il
controllo dell’Impero Romano vi fu una civiltà altamente
evoluta e avanzata.

Roma fu anche una civiltà economica molto progredita,


fondata su un certo grado di divisione del lavoro. Benché
questa organizzazione appaia considerevolmente primi-
tiva se paragonata alle condizioni di vita attuali, essa era
certamente notevole. Roma, inoltre, raggiunse il più alto
grado di divisione del lavoro mai esistito prima

161
dell’avvento del capitalismo moderno.

Ed è altrettanto vero che questa civiltà si disintegrò, so-


prattutto durante il terzo secolo. In ragione di questa di-
sintegrazione, che colpì dall’interno l’Impero, i romani
non furono in grado di resistere alle aggressioni esterne.
Benché queste aggressioni non fossero di certo più vio-
lente di quelle a cui i romani avevano resistito ripetuta-
mente nei secoli precedenti, essi non riuscirono più a re-
spingerle – non dopo ciò che era successo all’interno di
Roma.

Cosa era successo? Qual era il problema? Quale fu la


causa che portò alla disintegrazione di un impero che,
sotto ogni punto di vista, aveva raggiunto il più alto li-
vello di civiltà mai raggiunto prima del diciottesimo se-
colo?

La verità è che ciò che ha distrutto questa antica civiltà fu


un fenomeno molto simile, praticamente identico ai peri-
coli che minacciano la nostra civiltà attualmente: da una
parte, l’interventismo, e, dall’altra, l’inflazione.
L’interventismo di Roma consisteva nel fatto che
l’Impero Romano, seguendo le precedenti politiche dei
greci, non si astenne dalla pratica del controllo dei prezzi
dell’economia. Questo controllo dei prezzi fu leggero,
praticamente senza alcuna conseguenza, perché per se-
coli non si provò ad abbassare i prezzi al di sotto dei li-
velli di mercato.

Durante il terzo secolo, quando iniziò l’inflazione, i po-


162
veri romani non disponevano ancora dei mezzi tecnici
moderni per poter gestire questo fenomeno. Non pote-
vano stampare il denaro; dovevano svalutare la moneta
durante la coniazione, e questo era un metodo inflazioni-
stico molto inferiore rispetto al metodo moderno, il quale
– utilizzando le macchine tipografiche – può distruggere
facilmente il valore del denaro.

Si trattava comunque di un metodo sufficientemente ef-


ficiente, e produsse gli stessi risultati che si ottengono
con il controllo dei prezzi. Infatti, i prezzi che le autorità
tolleravano erano inferiori ai prezzi potenziali al quale
l’inflazione aveva portato i prezzi dei diversi beni.

Il risultato fu, ovviamente, una diminuzione della dispo-


nibilità dei generi alimentari nelle città romane. Gli abi-
tanti delle città furono costretti a tornare nelle campagne
e alla vita agricola. I romani non si resero mai conto di
cosa stava succedendo. Non capirono nulla.

Non avevano ancora sviluppato gli strumenti mentali


con i quali riuscire a interpretare i problemi della divi-
sione del lavoro e le conseguenze dell’inflazione sui
prezzi di mercato. Capivano benissimo, tuttavia, che
l’inflazione della moneta – ovvero, la svalutazione della
moneta attraverso la coniazione fraudolenta – era un fe-
nomeno molto negativo.

Di conseguenza, gli imperatori approvarono leggi contro


la migrazione della popolazione romana. Furono appro-
vate leggi che impedivano al cittadino che abitava in cit-
163
tà di trasferirsi in campagna, ma si rivelarono inefficaci.

Dal momento che le persone non avevano nulla da man-


giare in città, nessuna legge riuscì a impedire loro di la-
sciare la città e tornare alla vita rurale. Il cittadino urbano
non riusciva più a trovare lavoro nelle industrie delle
città come artigiano. E, siccome i mercati scomparvero
nelle città, nessuno riusciva a farvi degli acquisti.

Dunque, dal terzo secolo in poi, le città dell’Impero Ro-


mano entrarono in declino e la divisione del lavoro di-
ventò meno intensa rispetto a prima. Alla fine, nacque il
sistema medioevale dell’unità domestica autosufficiente,
della ‘villa’, come venne chiamata giuridicamente nei
secoli successivi.

Pertanto, se le persone paragonano le nostre condizioni


socioeconomiche a quelle dell’Impero Romano e dicono:
«A noi succederà la stessa fine», hanno delle ragioni per
credere a ciò. Possono riscontrare alcuni fatti che, effetti-
vamente, sono simili in entrambi i periodi storici. Tutta-
via, vi sono anche enormi differenze che non riguardano
l’architettura politica che prevalse durante la seconda
metà del terzo secolo.

All’epoca, in media ogni tre anni un imperatore veniva


assassinato, e l’uomo che l’aveva ucciso o ne aveva cau-
sato la morte diventava il suo successore. Quando, nel
284, Diocleziano divenne imperatore, egli tentò per un
po’ di tempo di opporsi alla degenerazione di Roma, ma
lo fece inutilmente.
164
SOLO BUONE IDEE POSSONO SCON-
FIGGERE CATTIVE IDEE

Vi sono differenze enormi tra le condizioni attuali e quel-


le che esistevano durante il periodo della Roma imperia-
le; in quel periodo le misure che causarono la disintegra-
zione dell’Impero Romano non furono premeditate. Non
furono, devo dire, il risultato di dottrine riprovevoli
formalizzate.

Al contrario, le idee interventiste, socialiste e inflazioni-


stiche dei nostri tempi sono state costruite e formalizzate
da scrittori e professori. Sono insegnate nelle università.
Voi sicuramente direte: «La situazione attuale è molto
peggiore». E io vi rispondo: «No, non è peggiore».

È migliore, secondo me, perché le idee possono essere


sconfitte da altre idee. Nessuno dubitava, nell’era degli
imperatori romani, che il governo avesse il diritto di fis-
sare i prezzi massimi dei beni, e che questa fosse una po-
litica giusta e auspicabile. Nessuno mise mai in discus-
sione tutto ciò.

Ora che abbiamo scuole, professori e libri che indicano e


consigliano questo genere di politiche, sappiamo benis-
simo che questo è un problema che va discusso. Tutte
queste idee cattive che hanno reso le nostre politiche
pubbliche così perniciose e che causano così tanti pro-
blemi a tutti noi sono state sviluppate da teorici accade-
mici.
165
Un famoso scrittore spagnolo, José Ortega y Gasset, ha
parlato della “ribellione delle masse”. Dobbiamo essere
molto cauti quando usiamo quest’espressione, perché
tale rivolta non è iniziata dalle masse: è partita grazie
agli intellettuali. Gli intellettuali che hanno sviluppato
queste dottrine non erano uomini che appartenevano alle
masse.

La dottrina marxista parte dal presupposto che solo i


proletari hanno buone idee e che è stata la mentalità pro-
letaria a creare il socialismo, ma tutti gli autori socialisti,
senza alcuna eccezione, sono stati dei borghesi esattamen-
te nel senso che ogni singolo marxista attribuisce a que-
sto termine.

Karl Marx non era un uomo del proletariato. Era figlio di


un avvocato. Non dovette lavorare per pagarsi gli studi e
andare all’università. Studiò all’università esattamente
come fanno oggi i figli delle famiglie benestanti. Più tar-
di, e per il resto della sua vita, fu mantenuto dall’amico
Friedrich Engels, che, essendo un industriale, era il peg-
gior tipo di “borghese” che potesse esistere, secondo le
idee socialiste. Nel linguaggio marxista, era uno sfrutta-
tore.

Tutto ciò che accade nel mondo sociale dei nostri tempi è
il frutto di idee: le cose buone e le cose brutte. Bisogna
combattere le cattive idee. Dobbiamo lottare contro tutti
gli aspetti che non ci piacciono nella vita pubblica. Dob-
biamo sostituire le idee sbagliate con idee migliori. Dob-
biamo respingere tutte quelle dottrine che promuovono
166
la violenza sindacale. Dobbiamo opporci alla confisca
della proprietà privata, al controllo dei prezzi,
all’inflazione e a tutti quei mali che ci affliggono.

Le idee e solo le idee possono illuminare l’oscurità. Que-


ste idee devono essere presentate a ogni singolo indivi-
duo in modo che possano persuaderlo. Dobbiamo con-
vincerli che queste idee sono quelle giuste, non quelle
sbagliate. La brillante epoca del diciannovesimo secolo,
le grandi conquiste del capitalismo, furono il risultato
delle idee degli economisti classici, di Adam Smith e Da-
vid Ricardo, di Frédéric Bastiat e tanti altri.

Non dobbiamo far altro che sostituire le idee cattive con


quelle migliori. Io spero e sono veramente convinto che
questo verrà fatto dalle nuove generazioni. La nostra ci-
viltà non è condannata, come ci hanno detto Spengler e
Toynbee. La nostra civiltà non verrà conquistata dallo
spirito di Mosca. La nostra civiltà può e deve sopravvi-
vere. E sopravviverà grazie a idee migliori rispetto a
quelle che oggi guidano una buona parte del mondo, e
queste idee migliori verranno sviluppate dalle nuove
generazioni.

Considero un ottimo segno il fatto che, mentre cin-


quant’anni fa praticamente nessuno al mondo avrebbe
avuto il coraggio di pronunciarsi a favore di
un’economia libera, abbiamo oggi, almeno in alcuni dei
Paesi più avanzati del mondo, delle istituzioni che sono
centri per la diffusione e la propagazione dell’economia
libera. Un esempio di esse è il “Centro”, del vostro Paese,
167
che mi ha invitato a Buenos Aires per scambiare alcune
parole in questa grande città.

Non ho potuto discorrere in maniera approfondita su


alcuni importanti problemi. Sei lezioni possono essere
tantissime per una platea che ascolta, ma non bastano
per sviluppare l’intera filosofia di un sistema fondato
sull’economia libera, e certamente non sono sufficienti
per confutare tutte le assurdità che sono state scritte ne-
gli ultimi cinquant’anni riguardo ai problemi economici
che stiamo affrontando.

Sono veramente molto grato a questo centro per avermi


offerto l’opportunità di rivolgermi a una platea così di-
stinta, e mi auguro che nel giro di pochi anni il numero
di sostenitori delle idee di libertà in questo Paese, e an-
che in altri Paesi, possa aumentare considerevolmente.
Per quanto mi riguarda, io credo completamente nel fu-
turo della libertà, sia quella politica sia quella economica.

168
169
Scoprire il liberalismo

Di recente ho fatto un giro fra i miei vecchi file per fare


un po' di spazio sul cloud e ho ritrovato i miei temi del
liceo. Nel 2011, a 15 anni, supportavo Keynes, ma senza
cognizione di causa.

Nel 2013 parlavo già di Hayek e della Thatcher. Ciò che


mi spingeva verso lo studio della politica era il mio pro-
fondo disprezzo per il comunismo e per i professori
buonisti.

Non sopportavo la retorica sui migranti: ritenevo assur-


do che fosse considerato normale spendere soldi di chi si
dava da fare per accoglierli, per mantenerli e per il wel-
fare. Mi dicevano che ero razzista. Quasi mi convinsi di
esserlo. Eppure, lo ribadivo: ero contrario alla spesa
pubblica improduttiva e fondata sulla finta solidarietà,
non avevo nulla contro i migranti.

Non sopportavo l'idea comunista dell'uguaglianza. Ero


daltonico, mancino e mi piaceva la matematica. Per que-
sti e milioni di altri motivi, mi sentivo diverso da chiun-
que altro, mentre mi dicevano che l'uguaglianza era un
bene. Per me, l’individualità di ciascuno di noi era un
bene. C'era così tanto collettivismo nell'aria che le puni-
zioni erano di classe. Responsabilità collettiva.

Non sopportavo per niente l'idea dello stato moralizza-


tore, tuttavia è piuttosto comune che i professori si sen-
tano maestri di vita e che impartiscano anche lezioni di

170
morale. "Da quando sono i professori a dovermi dire cosa è
giusto e cosa è sbagliato?", mi chiedevo.

Riuscirono a farmi odiare tutto il discorso dell'Olocausto


e del Giorno della Memoria, per l'esaltazione del vittimi-
smo. Solamente alcuni anni dopo, da solo, mi resi conto
di quanto fossi stato ingenuo e di quanto importante sia
ricordare, studiare e sensibilizzare riguardo ciò che av-
venne nei campi di concentramento.

Non volevo che qualcuno mi dicesse ciò che dovevo


pensare.

Fra l'ambiente e i professori, si doveva vivere necessa-


riamente nella dicotomia destra-sinistra. Non ero mai
entrato davvero in contatto con una idea liberale in
quanto tale in tutto il liceo. Locke e Smith vengono trat-
tati alla leggera, Popper - se proprio va bene - viene ac-
cennato. E sempre senza approfondire il lato politico.

Si esaltavano i mali del fascismo e del nazismo, ma mai


una parola contro il comunismo.

Considerando che mi ritenevo anticomunista e, non co-


noscendo alternative al comunismo, pensavo di essere
persino vicino al fascismo.

Capii che non era così quando, durante una festa noiosa,
un compagno mi chiese: "Ale, sai dirmi cosa fece di buono il
fascismo?"

171
Sapeva che ero "di destra". Non seppi davvero rispon-
dergli. La sera stessa cercai su internet in ogni sito cosa
avesse fatto il fascismo. Non riuscii a trovare una sola
cosa positiva.

Cercando a fondo, scoprii la pagina "Minarchism" di Wi-


kipedia. Mi aprì un mondo. Da lì, in qualche modo, tro-
vai un documento chiamato "The use of knowledge in Socie-
ty" di un certo Hayek. Compresi meno di un quinto di
quello che c'era scritto, ma oramai mi aveva conquistato
e convinto.

Questa storia, che si conclude col mio incontro con il li-


beralismo, mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile
scoprire il liberalismo quando si è giovani.

Se non per ricerca personale, o per puro caso, o grazie ai


genitori, è impossibile scoprirlo.

Avrei desiderato più di ogni altra cosa trovare un tizio


che fuori da scuola mi si avvicinasse per rifilarmi una
copia di Lotta Capitalista di nascosto e approfondire la
causa che sentivo di supportare veramente.

Una delle frasi che ho sentito più spesso negli ultimi anni
è stata: "Grazie a te/voi, ho finalmente capito essere liberale.
Lo sono sempre stato, ma non sapevo di esserlo."

L'Istituto Liberale è qui anche per tutti quei giovani in


attesa di trovare un'alternativa al comunismo e al fasci-
smo, per tutti coloro che non hanno mai avuto l'occasio-

172
ne di uscire dallo schema destra-sinistra.

Nel futuro che sogno nessun giovane rimarrà senza aver


avuto la seria opportunità di scegliere con un'alternativa
in più: la libertà.

Cos’è il liberalismo?

Il liberalismo è, prima di ogni altra cosa, un metodo d'indagi-


ne. Poi, diventa una filosofia di vita, successivamente diventa
un insieme di valori e infine una dottrina politica. Quest'ulti-
ma è solamente il tassello finale, non quello iniziale.

Il liberalismo sorge dalla genialità e da un’attenta analisi


della realtà: osservando la società umana, le relazioni fra
individui, le relazioni fra gruppi di individui, la storia, le
istituzioni ci si è resi conto che esistono alcune fonda-
menta per avere una società prospera, libera e pacifica e
al contempo assicurare la libertà a tutti i cittadini.

Sembra incredibile, ma – parafrasando Milton Friedman


- siamo piuttosto fortunati perché il liberalismo coincide
con la strada più efficiente.

Sarebbe un po' strano sostenere alcuni valori e certi si-


stemi organizzativi se questi non assicurassero la miglior
condizione possibile per te e per la società, non credi?

Dunque, geniali pensatori come Locke, Smith, Burke,


Ferguson, Mandeville, Cantillon e numerosissimi altri
173
grandi classici intuirono quale fosse il modo migliore per
far combaciare gli interessi personali con quelli della so-
cietà.

Una società è libera e prospera se e solo se anche i suoi


cittadini sono liberi e industriosi.

Il metodo è lo studio della realtà, della società e delle re-


lazioni umane a partire dagli elementi primi: gli indivi-
dui. Il liberalismo nient'altro è che una conseguenza
dell'individualismo metodologico.

Questo non significa che siamo vincolati a studiare gli


individui, come se fossimo psicologi, e ciò ci debba ba-
stare perché qualsiasi altra cosa non andrebbe bene.

A partire dall'individualismo metodologico ricaviamo


che la società è complessa (e non difficile), che l'ordine
che emerge è spontaneo e che nessuno ha progettato la
società così come la vediamo oggi.

Sappiamo che se qualcuno provasse a progettare la socie-


tà fallirebbe, perché non è possibile collezionare tutte le
informazioni necessarie, prevederne l'evoluzione e calco-
lare una qualsiasi ottimizzazione. Ecco perché il sociali-
smo non funziona.

Il liberalismo è il risultato di un profondo studio di ciò


che siamo e non di ciò che vorremmo essere: consiste
nell’accettare i pregi e i difetti dell’umanità e capire come
farli convivere.

174
Non si può rinunciare al liberalismo nel nome del prag-
matismo momentaneo, perché le scelte prese con la cecità
del breve termine impediscono che nel lungo termine ci
siano pace, prosperità e libertà.

Si tratta della storia della cicala e della formica: chi guar-


da lontano, investe e fa scelte di lungo periodo, vince e
sopravvive.

Cos’è l’Istituto Liberale?

Eravamo tre ragazzi attorno al tavolo di un pub.

Non c’erano né partiti, né politici, né associazioni liberali


che potessero farci sentire a nostro agio nel clima delle
idee italiano.

A poco a poco, da tre siamo diventati centinaia e poi mi-


gliaia e l’entusiasmo di tutti i partecipanti ci ha fatto ca-
pire di aver intrapreso la giusta strada.

Oggi l'Istituto Liberale è il più grande think tank liberale


in Italia e unisce tutti coloro che sono favorevoli alle li-
bertà individuali e al libero mercato.

Il nostro obiettivo finale è aprire le finestre di un paese


rimasto chiuso per troppo tempo e lasciare che l'aria fre-
sca della libertà dia inizio a una vera rivoluzione cultura-
le liberale. Per riuscirci, formiamo e informiamo.

Siamo presenti sui maggiori social network e pubbli-


chiamo ogni giorno aforismi commentati, infografiche,
175
storie di personaggi e avvenimenti liberali, articoli di
approfondimento, video.

Siamo presenti in quasi tutte le regioni italiane e i nostri


gruppi regionali organizzano regolarmente eventi sul
territorio (come cene, aperitivi, conferenze, dibattiti o
ritrovi dei club di studio) in cui ci si può conoscere e con-
frontare.

Non siamo un partito. Abbiamo deciso di investire sul


lungo termine, sulla cultura, disseminando le idee di li-
bertà che un giorno ci daranno il miglior raccolto: un'Ita-
lia più libera, aperta, tollerante, pacifica, prospera.

Nel momento in cui scrivo queste righe, siamo seguiti da


oltre quarantamila persone sui social network e i nostri
contenuti raggiungono centinaia di migliaia di persone
ogni mese.

La gran parte dei nostri sostenitori ha meno di


trent’anni, il che ci dimostra ben due cose: stiamo comu-
nicando coi giovani, a differenza dei partiti, e questi gio-
vani sognano un mondo più libero.

Unisciti a questa rivoluzione culturale!

Stai per entrare a contatto con idee di pace, intrapren-


denza, coraggio, resilienza e imprenditorialità che ven-
gono tutt’oggi demonizzate da chiunque in questa socie-
tà.

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Abbiamo raccolto con cura gli aforismi celebri, i dati sul-
la nostra situazione, le storie delle vittorie del liberalismo
nel passato o negli altri paesi e i migliori testi per accen-
dere la luce della rivoluzione liberale che illuminerà
l’Italia. Così come per molti altri nostri contenuti, in que-
sto libro leggerai idee che parlano anche di te e dei tuoi
valori.

L’Istituto Liberale è un’organizzazione privata che ha


come obiettivo far cambiare rotta alla cultura del nostro
paese, condotta sulla strada del collettivismo da decine
di anni di egemonia socialista.

La nostra indipendenza da partiti, politici e istituzioni è


assicurata dalle migliaia di persone a contatto con il no-
stro lavoro che hanno deciso di supportare le nostre atti-
vità e finanziare questa rivoluzione culturale.

Diventando un membro dell’Istituto Liberale avrai ac-


cesso a contenuti esclusivi che potranno aiutarti ad am-
pliare la tua visione del mondo con la prospettiva della
libertà. Potrai dibattere con gli altri partecipanti, avere
accesso alle attività e alle decisioni dell’Istituto. Ciò che è
più importante è che il tuo finanziamento renderà possi-
bile la creazione di nuovi contenuti gratuiti affinché
sempre più italiani abbiano la possibilità di abbracciare
le idee di libertà e di fare qualcosa di effettivo per il no-
stro Paese.

Non aspettare altro tempo: entra a far parte della rivolu-


zione culturale che cambierà le sorti di un’Italia che può
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tornare a splendere!

Visita il nostro sito: www.istitutoliberale.it

Detto ciò, spero che questa lettura sia stata di tuo gradi-
mento e ti invito a visionare i nostri altri libri e i moltis-
simi contenuti gratuiti sul nostro sito.

Alla prossima,

Alessio Cotroneo

Presidente dell’Istituto Liberale

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