Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Nata a Milano 1938, quando è stata espulsa dalla scuola “per la colpa di essere
nata”, come lei stessa racconta, aveva otto anni. A tredici anni ha vissuto l’esperienza
della deportazione nel campo di Auschwitz-Birkenau. è partita il 30 gennaio 1944 dal
binario 21 della stazione Centrale di Milano ed è stata l’unica bambina di quel treno a
tornare indietro.
Nel 1990 è diventata testimone della Shoah. Da allora ha ricordato e rivissuto in
pubblico il proprio dolore migliaia di volte, per seminare la speranza di un mondo
diverso.
Il 19 gennaio 2018 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha nominata
senatrice a vita, e il suo ingresso in Senato è stato accolto da un lunghissimo, unanime,
applauso.
Liliana Segre
Ci sono molti modi differenti di essere testimoni della Shoah. Nel tempo, i
sopravvissuti ai campi di sterminio hanno raccontato e ricordato, ognuno
mettendo l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro. C’è chi ha narrato
l’orrore, chi la speranza, chi la quotidianità, chi invece i carnefici.
Liliana Segre, ora Senatrice a vita, spesso inizia dicendo, proprio come
nel nostro libro: «Questa è una storia che finisce bene». Il suo pubblico
ideale sono i ragazzi, i giovani, quelli che lei chiama con affetto “i miei
nipoti”.
è a loro che si rivolge dicendo, appunto: «Questa è una storia che finisce
bene». Eppure, sa che dovrà parlare loro di affetti spezzati, di dolore, di
orrore, di morti innocenti, di freddi aguzzini.
E allora, come può finire bene?
Finisce bene. Non solo perché lei sopravvive, c’è molto più di questo
nelle sue parole. Dobbiamo guardare anche all’invisibile quando ascoltiamo
Liliana. A un lascito silenzioso che rivolge ai suoi nipoti ideali.
Ciò che fa, testimoniando, è infatti affidare (termine che nel suo
significato contiene la speranza di cura) il ricordo dell’orrore indicibile, il
suo passato, a coloro i quali rappresentano il domani, i ragazzi. Perché è il
futuro che interessa a Liliana.
Il suo grido di dolore («Ma quanto le può fare male» mi chiedevo
scrivendo i suoi ricordi «ogni volta rivedere con gli occhi della memoria la
sofferenza attraverso cui è passata?») è un dono che questa meravigliosa
donna semina affinché i ragazzi e le ragazze in ascolto possano immaginare
un mondo senza le persecuzioni, l’indifferenza, l’ingiustizia, il dolore degli
innocenti. Senza la guerra.
Immaginarlo, per poterlo costruire.
La memoria di Liliana cerca il suo approdo nel presente. Le sue parole lo
svelano: racconta di se stessa in guerra come una profuga, una clandestina,
una rifugiata, una schiava lavoratrice. Usa espressioni della nostra
contemporaneità affinché la testimonianza del passato sia un ponte per
parlare dell’oggi. Qui e ora. E, interrogando il presente, Liliana indica quel
futuro che solo i ragazzi in ascolto potranno, senza indifferenza e senza odio,
disegnare, inventare, affermare.
Ma un futuro va sognato, non va subìto. Per questo una delle cose che mi
ha sempre colpito di Liliana è la sua capacità di guardarli in faccia i ragazzi
e le ragazze - con le paure che abbiamo avuto tutti a tredici come a
diciott’anni - e dire loro, a modo suo, che di ogni azione che lasciamo dentro
il mondo, ci dobbiamo assumere la responsabilità. E questa è un’altra delle
memorie preziose che ci consegna la Senatrice a vita. La coscienza
dell’importanza che hanno le nostre azioni.
Liliana, testimoniando, in fondo, affida ai nostri ragazzi anche il suo
sogno di ragazza - quello che lei avrebbe avuto se non avessero cercato di
cancellarle il futuro, per la colpa di essere nata: il sogno di un mondo in cui
ci sia posto per la compassione. Fra tutti i sentimenti è quello che più ama e
che più le è mancato perché negli anni della guerra, e anche dopo, le
sarebbe stato di conforto se qualcuno le avesse chiesto perché si sentiva
diversa dalle sue coetanee, perché si sentiva vecchia a quindici anni. Quando
sentiva su di sé, Liliana ragazza, la stessa indifferenza che l’aveva
consegnata allo sterminio.
Quando qualcosa resta di quell’ascolto i ragazzi e le ragazze le si
avvicinano e le chiedono: «Liliana, cosa possiamo fare per non disperdere le
tue parole?».
E lei risponde sempre: «Sconfessate la menzogna. Diventate candele
della Memoria».
Perché la Senatrice Liliana Segre sa che la menzogna è l’arma più
potente dei carnefici, di ieri e di oggi.
La sua storia, insomma, non ha fine. Continua dentro la Storia, qui e ora,
attraverso i ragazzi che incontra. Che incontrerà.
Tornando a lavorare con Liliana a questo libro, ho potuto riascoltare le
sue parole: quelle che lei ha seminato nelle scuole, come un dono, ai ragazzi,
e che sono le più potenti. E lo sono perché Liliana le pronuncia, ogni volta,
con la consapevolezza del motivo per il quale quel giorno di quasi trent’anni
fa decise di iniziare a essere una testimone della Shoah. Sono sue, solo sue le
parole di questo libro. Non potrebbe essere altrimenti.
Avere avuto cura delle parole di Liliana per me è stato più di un onore. È
stata una carezza, un gesto di tenerezza che ho sentito ancora una volta nel
cuore. Come accade ai ragazzi che l’ascoltano. Ogni lettore, ragazzo o
adulto, conserverà un passo delle parole di Liliana, quello che avrà un
riverbero di luce più forte dentro di lui o lei. Personalmente, ne conservo uno
che sarà per sempre. Non finirò mai di ringraziare Liliana per la scelta di
non uccidere il suo carnefice. Di non vendicarsi. Perché mi ha insegnato che
il valore di una persona passa per la capacità di assumersi la responsabilità,
prima ancora che per la libertà.
E questa coscienza nessun carnefice potrà mai sopprimerla.
Vi racconto una storia
Se sono qui, a raccontare questa lunga storia, è per i ragazzi. Solo per
loro. E vorrei vedervi uno a uno, voi, lettori giovani, vorrei guardare i vostri
occhi, che sono così importanti. Perché prima di ogni altra cosa, io sono una
nonna. Una nonna tremenda, sapete? Una che non educa. Una che vizia. Vi
racconto questo perché proprio quando nacque il mio primo nipote, Edoardo,
si mosse dentro di me qualche cosa di così potente, di così istintivo, di così
umano, così decisivo, che aveva a che fare anche con la maternità. Era
qualcosa di così grande che dal silenzio della mia casa, dal silenzio di
quarantacinque anni di silenzio su questo argomento, ho sentito, in quel
momento, che ero in grado di diventare una testimone. Per parlare ai ragazzi,
a tutti i ragazzi e le ragazze, miei nipoti ideali, oggi. Sì, sento, oggi più che
mai, che può essere utile testimoniare, e voglio raccontare anche perché lo
devo a tutti quelli che non sono diventati grandi, che non sono diventati
adulti, che non sono diventati vecchi e che non sono diventate quelle persone
che sarebbero state, se non fossero state sterminate per la colpa di essere nate.
Racconterò una storia tragica, ma che finisce bene. E questo è importante,
perché anche le storie tragiche possono finire bene.
Mi chiamo Liliana Segre e sono nata a Milano, una città che amo
profondamente. La mia casa era in corso Magenta, al 55. Sono nata nel 1930.
E nel 1938 ero una bambina qualunque, di otto anni. Una bambina come
mille altre, come milioni di altre bambine sotto tutte le latitudini e sotto tutti i
cieli. Andavo nella scuola pubblica di via Ruffini, qui avevo fatto la prima e
la seconda elementare. Ero molto amata in casa, ero una bambina serena,
allegra, viziata anche.
La mia era una famiglia di religione ebraica, ma i miei erano
assolutamente agnostici. Non frequentavano la sinagoga, non frequentavano
gli ambienti ebraici, erano cittadini italiani, fortemente patrioti. Io non avevo
mai sentito parlare in casa di ebraismo, non sapevo molto sulla storia della
mia famiglia, mi ero sentita sempre uguale alle mie compagne di scuola.
C’era una sola differenza tra me e loro (ero in una classe femminile): io ero
esonerata dall’ora di religione, perché ebrea. In classe ero l’unica.
Così, andava a finire che nell’ora di religione cattolica mi ritrovavo
insieme alle bambine ebree delle altre aule a correre come matte nei corridoi.
Le nostre compagne che restavano in classe ci invidiavano molto. Mi ricordo
che ci dicevano: «Beate voi!». Eh sì, ci dicevano proprio così.
Nell’estate del 1938, una sera come tante, eravamo a tavola per la cena,
io, mio papà e i miei nonni Olga e Giuseppe - mia madre era morta quando io
avevo pochi mesi. Ero allegra e gioiosa, ero quasi sempre così in quegli anni.
Però avvertivo qualcosa di diverso quella sera, a tavola. A un tratto papà
cominciò a parlarmi, era emozionato, sapeva che mi avrebbe fatto soffrire e
non avrebbe mai voluto dirmi una cosa così brutta. Cercò di spiegarmi con
delicatezza che la terza elementare non l’avrei più potuta fare in via Ruffini.
Ero stata espulsa dalla scuola.
ESPULSA! Era una cosa grave, lo è ancora oggi. Per essere espulsi si
deve aver fatto qualcosa di tremendo.
Infatti, mi ricordo che chiesi subito: «Perché? Cosa ho fatto di male?».
C’era questo senso di colpa che cominciai improvvisamente a provare
dentro di me, senza capire per cosa. Solo poi, negli anni, compresi che la mia
colpa era stata quella di essere nata.
Ma quella sera c’era questa domanda che mi martellava in testa: «Perché?
Perché? Perché?». Una domanda che mi agita ancora. Non riesco neppure
oggi a rispondere a quel perché. Non ci potrà mai essere una risposta sensata,
perché quello che accadde da quel momento in poi è assurdo.
Mi sono ritrovata più di una volta nella mia vita a chiedermi con
angoscia, con stupore: «Perché?». Senza mai aver avuto risposta.
Quel giorno papà cercò di dare una spiegazione al mio perché. Ma era
molto difficile per lui, poveretto, dirmi che avevamo perso - a causa di leggi
razziali fasciste vergognose - i diritti civili. E, tra queste leggi, c’era il divieto
assoluto per gli ebrei di frequentare le scuole pubbliche, sia come alunni di
tutti gli ordini di scuola, sia come maestri, professori e docenti. Papà mi disse
che le leggi valevano per tutti gli ebrei: anche gli ufficiali venivano cacciati
dall’esercito, così come gli impiegati e i dirigenti dai ministeri. Avevano
mandato via tutti gli ebrei da qualunque luogo pubblico.
Non eravamo più cittadini.
Ma io allora ero solo una bambina. A me tutto il resto non importava, non
potevo sapere cosa significasse per tutti. Restai sbalordita e confusa, quella
sera di settembre, a sentire che non avrei più potuto fare la terza elementare
nella mia scuola.
Cambiai scuola e cominciai a frequentarne una privata, che mi accettò.
Ma era vicina a via Ruffini, per andarci passavo tutti i giorni nella strada
della mia vecchia scuola. Vedevo le mie compagne e loro iniziarono a
segnarmi col dito. Questa è una cosa che io racconto sempre ai ragazzi perché
loro possono capire. È importante a quell’età sentirsi uguali, quando stai
insieme ai tuoi compagni.
Io, invece, a otto anni cominciai a capire che le altre bambine mi
consideravano diversa. Quando passavo con papà, mi segnavano col dito, le
sentivo dire: «Quella lì è la Segre. Non può più venire a scuola perché è
ebrea!». E io sono sicura che quelle bambine - come del resto io - non
sapessero assolutamente che cosa volesse dire essere ebrea. Io, poi, ho avuto
tanto tempo per capirlo.
Perfino i testi, adottati nelle scuole da professori ebrei, vennero cancellati
dai piani di studio. Furono tolti i libri scritti da ebrei dalle biblioteche
comunali, accadevano cose assurde. Per le famiglie di religione ebraica iniziò
quel periodo in cui in ogni luogo ci si sentiva diversi: nei negozi, in strada,
dal medico, negli uffici. Non eravamo più italiani? Patrioti? Cittadini? Per
esempio, mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella Prima Guerra
Mondiale e si sentivano profondamente italiani, amavano la loro patria.
Eppure, venne restituita loro la tessera di ufficiali in congedo. Mi ricordo che
la trovai anni fa, tra le vecchie carte di papà. Alberto Segre, di razza ebraica,
viene cancellato. Anche dalle fila degli ufficiali in congedo! Dopo che erano
stati in trincea, dopo che avevano combattuto per la loro Italia.
E cominciai, così, a vivere una vita strana, una vita su due piani: casa e
scuola. Ero come dissociata.
Nella nuova scuola iniziai a essere invisibile, quasi in modo inconscio.
Non parlavo mai con nessuno di quello che succedeva a casa mia, perché la
mia casa - che era stata una casa serena, di persone modeste, perbene - in quel
periodo fu spesso perquisita. Arrivavano i poliziotti che entravano con aria
truce, cattiva. Ci dovevano trattare da nemici della patria, come
improvvisamente eravamo diventati. E allora, entravano e perquisivano
l’appartamento, venivano a fare degli interrogatori assurdi. Ricordo mia
nonna che riceveva questi poliziotti, voleva essere gentile, gli offriva la torta.
Ma quelli rifiutavano in malo modo. Io all’inizio stavo fuori dalla porta a
sentire, ma poi a un certo punto ho cominciato ad avere paura di quello che
avrei potuto sentire e vedere. Mi arrivava il disprezzo delle risposte date ai
miei nonni, mi sentivo male a sentire certe cose, e me ne andavo in camera.
Diventavo grande, mi chiudevo in me stessa, e mi sentivo sola: avevo nove,
poi dieci anni. Mi ricorderò sempre la sensazione di smarrimento dei miei
parenti e di papà. Mio zio era addirittura fascista, e non riusciva proprio a
rassegnarsi al fatto di essere dichiarato nemico della patria.
Io non raccontavo niente alle mie nuove compagne di tutto questo
terremoto che c’era nella mia vita. Cercavo di essere una bambina qualunque
in classe, ma più silenziosa e schiva di prima. Scrutavo gli occhi di papà
quando mi veniva a prendere, per capire se avesse subìto nuove umiliazioni,
nuove delusioni, perché quello che capitò in quei primi anni della
persecuzione fascista, e che mi fece davvero male, fu l’isolamento. Fu la
solitudine. La solitudine del perdente. Dovuta all’indifferenza.
L’indifferenza, sì. A volte, quasi sempre, è più grave della violenza.
Perché dalla violenza uno sa che si deve difendere e si prepara, magari poi
non ci riesce, però è preparato. Invece l’indifferenza di chi volta la faccia
dall’altra parte, di chi non ti saluta più, di chi non si ricorda più di telefonarti,
di chiederti come stai e dirti: «Sono vicino a te in questo momento che sei in
disgrazia!», è pesantissima, gravissima. Fa male.
L’indifferenza è complice. È quella che ha fatto dire a milioni di persone
in tutt’Europa: «Ma io non lo sapevo! Io non avevo capito!».
La solitudine del perdente, la solitudine del malato, del povero,
dell’emarginato, è lì che scatta l’indifferenza. E come siamo pronti a salire,
invece, sul carro del vincitore, del ricco, del fortunato, del divo, di quello che
è popolare e ha un sacco di amici… Eh sì, è facile stare col vincitore. Ma
quanto è difficile stare con gli ultimi!
Però, gli amici del perdente, quelli che non ti abbandonano quando stai
male, quando sei povero, quando sei emarginato, quando hai bisogno… be’,
quelli sono amici con la A maiuscola. E non bisogna mai dimenticare che la
parola amicizia ha la stessa radice della parola amore. Infatti, certe volte nella
vita diventa più importante l’amicizia dell’amore.
Noi li contavamo gli Amici veri, quegli amici che ci furono vicini fino in
fondo, gli amici che arrivarono a rischiare la loro vita per noi. Quanto sono
stati importanti. Tanto.
Però, sta di fatto che la maggior parte delle persone che consideravamo
amici, persone care, ebbene, non furono amici. Ci abbandonarono. Furono
indifferenti. Voltarono la faccia dall’altra parte. Non capitava solo a noi,
naturalmente. A tutti gli ebrei. La maggior parte degli indifferenti non si
accorse che 35.000 cittadini italiani, colpevoli solo di essere nati ebrei,
venivano messi al bando. Eravamo diventati cittadini di serie B, fino a
diventare cittadini di serie Z, e poi non bastò l’alfabeto.
Ricordo una Liliana bambina che sentiva una grande solitudine. Si
assottigliava ogni giorno il numero delle persone che ci salutavano ancora per
strada, si contavano sulle dita di una mano quelli che telefonavano per dirci
che ci erano vicini e che ci volevano bene. Eravamo molto soli. E allora, gli
affetti familiari diventavano molto più importanti. Il piccolo gruppo familiare
si stringeva in un amore, in un affetto che era molto più forte di prima. Era
così importante quel nucleo familiare, quella tavola semplice.
Liliana in spiaggia a Celle Ligure, 1933
LA GUERRA E LA FUGA
Frontespizio ____________________________________________5
Il libro__________________________________________________3
L’autrice _______________________________________________4
Introduzione. di Daniela Palumbo __________________________7
Vi racconto una storia___________________________________10
Le leggi razziali ________________________________________12
La guerra e la fuga _____________________________________17
La prigione ____________________________________________22
Il viaggio verso Auschwitz _______________________________26
Nel campo di sterminio __________________________________31
La fine della grande Germania ___________________________38
Il ritorno ______________________________________________42
Io, senatrice a vita ______________________________________45