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La persistenza della paranoia

di Edoardo Mariani

Lasciando vagare gli occhi liberi, inseguiamo il contorno dei piccoli promontori di un paesaggio
selvaggio. Alle spalle delle cime, un tramonto rosa e arancione, come non ne abbiamo mai visti.
Siamo in un porto su un’isola del Pacifico, una piccola imbarcazione attracca. Scendono una decina
di soldati della marina francese e un ammiraglio, ognuno vestito del proprio grado, ognuno nascosto
nella penombra della luce di un giorno non ancora nato.
Una sorta di paura che possa succedere qualcosa da un momento all’altro comincia ad
impossessarsi del film. Si ha paura, ma paura di cosa? Paura di chi? Una musica di sottofondo ci
allontana da questi oscuri pensieri mentre un uomo con gli occhiali fumé azzurri, completo fresco e
bianco, camicia floreale e mocassino sta compiendo la sua ricognizione giornaliera. “Non ho
bisogno di nessuno, io mi invito da solo”. Quando siamo con Monsieur De Roller non abbiamo
paura di niente, perché conosciamo tutto e tutti sull’isola, e ci muoviamo, penetriamo in ogni
spazio, apriamo tutte le porte, ma vaghiamo senza volerne sapere di più. Occhio non vede…c’è
qualcosa di profondo, c’è dell’altro al di la delle inquadrature, dietro gli sguardi, dietro ai paesaggi.
Serra ci occlude la vista, ci lascia osservare dettagli che ci depistano, ci allontanano dalla ricerca, in
un certo senso, ci lascia in pace. Che ci fa Sancho Panza davanti alla toilette des filles? Non lo so, e
non lo voglio sapere. “Mi guardate in modo strano, forse non state capendo cosa dico”, dice De
Roller (incarnato, imitato, interpretato, imprigionato, impigliato nel corpo lento e disinteressato di
un incredibile Benoit Magimel).
Questa piccola storia di pace fittizia nel Pacifico procede su dei binari inediti, nei quali siamo
condotti verso un buio sempre più profondo tramite il personaggio di De Roller.
De Roller indaga, e se non fosse solo un paranoico chiacchierone, non si sbaglierebbe neanche, ma
è bloccato in una “spirale discendente, sta per sprofondare nell’inferno delle tenebre” (come si
sussurrano all’orecchio l’americano e il portoghese, due misteriosi rappresentanti delle potenze
colonizzatrici occidentali già presenti sull’isola e amici dell’ammiraglio). Sperduti insieme a De
Roller inseguiamo una verità invisibile alla luce perché introvabile nel buio di incognite in cui è
sospesa la narrazione. Le angosce causate dall’opacità del potere sono rappresentate in modo
iperrealistico dai corpi che vagano senza controllo dei personaggi, impenetrabili e distanti, soli ma
rinchiusi negli stessi ambienti ambigui e tetri.

”La politica è come una discoteca…piena di gente al bui che non si guarda nemmeno”.
Pacifiction è un film sul mondo di oggi, sul soggetto dell’inquietudine che sentiamo tutti oggi,
dalla tensione e dalla pressione supplementare sugli attori che non sanno niente del perché sono la e
chi sta per fare cosa. Il metodo cinematografico di Albert Serra lavora infatti sull’hic et nunc del set:
tre macchine da presa sono continuamente in registrazione, e i tre operatori hanno completa libertà
di porre il loro sguardo su di un gesto particolare di un personaggio protagonista piuttosto che sullo
sbadiglio di una comparsa. Durante le riprese di queste scene che vanno dai 40 minuti ad oltre un
ora, Serra osserva e muove tutto ciò che è in campo guardando direttamente, componendo dei
quadretti estemporanei e provocando degli incroci imprevisti. Ogni attore e attrice, non ha diritto
alla lettura della sceneggiatura, e viene convocato e preparato ogni giorno per eventualmente
entrare in scena, ma senza sapere realmente se sarà chiamato e soprattutto cosa fare una volta
raggiunto il confine dell’inquadratura. Tutto ciò rende la formula “paranoica-sintetica” di Albert
Serra una interessante liberazione digitale dai paradigmi della narrazione composta, sempre più
spesso imposti da metodi produttivi alla ricerca dell’efficenza economica (più che estetica) del
pixel, ed anche una autoriale proposta (Serra è anche produttore) di un cinema “povero” (è
comunque costato ————) ma possibile.
Verso la metà del film, De Roller porta una amica venuta da Parigi a vedere una competizione di
surf che si svolgeva a largo della costa. Vuole fare colpo, e si fa invitare a fare un giro con la moto
d’acqua per avvicinarsi agli atleti. Ad un certo punto, mentre tutto sembra noioso e ripetitivo come
un’ape che ronza sui semi di un melograno semiaperto, comincia minacciosa ad avvicinarsi un
onda, che imprevedibilmente sta venendo troppo vicino a dove si trova De Roller e anche la barca
sulla quale è posizionata la camera. In un istante il film viene catapultato in cielo, sembra di aver
raggiunto la porta per le profondità, pensiamo che tutto è appena finito. Poi con la stessa irruenza
con la quale l’onda li aveva fatti salire, ora li fa ridiscendere. De Roller è sempre abbracciato al
conducente della moto d’acqua, e il punto di vista, quello da dove abbiamo visto-vissuto questi
attimi senza fiato, non si è mai interrotto: noi spettatori e il nostro eroe avevamo sfidato la forza
della natura, e avevamo vinto. Dalla fantasia, alla distopia fino al ritorno alla realtà, che tanto più
pacifica non è…
Abbiamo tutti i riflettori puntati addosso, cerchiamo di vedere, di guardare oltre i limiti
dell’immagine, ma che cosa stiamo cercando esattamente? Di che vita stiamo vivendo? Di che film
stiamo morendo?

FARE COLLAGE TRA PERSISTENZA DELLA MEMORIA E SCENA ONDA


E IL DETTAGLIO DEL VOLO DI UN APE E LA SCENA DELLA PIOGGIA
VOLENDO ANCHE NARCISO E IL MOMENTO SPECCHIATO CON L’AMERICANO E IL
PORTOGHESE.

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