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WALTER VELTRONI. IL DISCO DEL MONDO, Vita breve di Luca Flores, musicista.

Rizzoli

Proprietà letteraria riservata

® 2003 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 88-17-87243-1

Prima edizione: maggio 2003

IL DISCO DEL MONDO.

Uno
«Il linguaggio della musica è uno, ed è quello dell'anima, là dove le parole ci ingannano con i loro mille significati. E`
libera di volare in paradiso, di scendere nelle viscere dell'inferno o di starsene a galleggiare nel limbo. Io amo quei
musicisti che cantano, scrivono e suonano ogni nota come se fosse l'ultima.»
Le ho davanti, queste parole. Sono scritte a mano, in una lettera inviata il 16 ottobre del 1990 da Staten Island, New
York. La calligrafia, tonda e chiara, è quella di Luca Flores. Io non sapevo chi fosse, Luca Flores. Non lo sapevo fino a
diciotto mesi fa. Un giorno un'architetta che lavora al Comune di Roma, compagna di un ottimo jazzista come Nicola
Stilo, mi regalò un cd. Conosceva il mio amore per il jazz, per la musica, per la grandezza e la sofferenza della
creazione artistica.
«All'inizio era il nulla» e poi fu un quadro astratto, un film neorealista, una sinfonia. Di quelle creazioni noi siamo i
figli. Non saremmo ciò che siamo senza Caravaggio o Stravinskij, senza Proust o Fellini, senza Gershwin o
Brunelleschi. Senza di loro il paesaggio del mondo, la grammatica delle nostre emozioni, i percorsi della nostra
fantasia sarebbero diversi. La consapevolezza di noi stessi sarebbe diversa. Un quadro, persino una luce sullo sfondo
di un paesaggio; una musica, persino un'accennata melodia; un film, persino una semplice inquadratura possono
entrare dentro di te, scoprirti, cambiarti. La ricchezza e la velocità della vita quotidiana, il repentino sorgere e sparire
delle cose concrete, il consumarsi degli odori, dei sapori, delle luci che il nostro tempo frenetico e bulimico ha
provocato finiscono, in fondo, col restituire ai linguaggi della cultura il valore delle madeleines della Ricerca del
tempo perduto di Proust.
E` bello lo stupore delle emozioni che vive Marcel quando, assaggiando una petite ma-deleine a casa della madre,
viene assalito da una misteriosa sensazione di gioia e di benessere. Poi Marcel comprende che il segreto di quella
gioia è dentro di lui, nella sua memoria. «Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle
creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli,
l'odore e il sapore permangono a lungo, come anime, a riconoscere, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a
sorreggere senza tremare - loro, goccioline quasi impalpabili - l'immenso edificio del ricordo.»
Oggi sono proprio i suoni, le luci, le immagini le nostre madeleines. La nostra vita è immersa in un oceano di segni e
alcuni di loro arrivano, come conoscendo la via di casa, alla nostra memoria, alle nostre emozioni, al nostro cuore.
Forse la musica di Luca Flores è la mia madeleine personale. Quando cominciai ad ascoltare il cd che mi era stato
regalato capii che qualcosa, dentro di me, stava succedendo. Non sapevo, non so cosa. Mi assalì una strana malinconia,
un improvviso, spropositato dolore. Mi sembrò che quella musica mi facesse volare in una notte metropolitana piovosa.
Che potessi volando sfiorare luci accese nelle stanze di famiglia, che potessi guardare le solitudini della città, che
sentissi, da fuori, le voci di un litigio ingiusto. Ma quel paesaggio, quella città notturna e piovosa era dentro di me. E lì,
proprio lì, si stava svolgendo il mio volo silenzioso.
Non sapevo chi fosse, il pilota misterioso di
quella notte inventata. Non lo avevo mai sentito nominare. Eppure la sua musica, quel pianoforte solo, raccontavano
qualcosa di grande, qualcosa che aveva a che fare con la vita.
Lessi poi il commento che accompagnava i titoli dei brani. Lo aveva scritto una persona che stimo, uno dei più esperti e
competenti critici di jazz italiani, Franco Fayenz. Da lì capii la grandezza di quella creazione. Era un'ultima creazione. Il
brano che mi aveva scosso era stato inciso il 19 marzo 1995, esattamente dieci giorni prima che Luca Flores si togliesse
la vita.
Ora capivo. Capivo lo strazio di quella musica, la malinconia di quella melodia, la dilatazione dei suoi tempi. Una foto,
sul retro del disco, mostrava il volto di Luca Flores. Provai a immaginarlo, curvo sui tasti, mentre raccontava a se
stesso il suo dolore, mentre lo descriveva, senza liberarsene. Quel brano aveva un titolo che forse spiegava, almeno al
mio inconscio, il senso di quel volo notturno. How far can you fly? Quanto lontano puoi volare?
Da quella sera ho cercato di sapere e di conoscere il maggior numero di cose possibili su Luca Flores, sulla sua vita,
sulla sua musica.
Ho raccolto carte, testimonianze, ricordi. Ho
ascoltato decine di volte la sua musica. Ho una vita piena alla quale, per una sorta di ipertrofia del senso di
responsabilità, non potrei mai sottrarre tempo che non fosse solo mio: le notti, qualche domenica pomeriggio, i viaggi.
Così Luca, senza saperlo, è diventato un compagno della mia vita. Succede così. Non uno sguardo, non un sorriso, non
una parola, non un bacio. Una musica, un dolore, una malinconia, mi avevano fatto amico di un ragazzo che non ho
mai conosciuto e che ora non c'è più.
Cercare di capirlo mi sembrò un dovere. Quel dolore chiedeva aiuto, anche postumo. E oggi mi sembra che parlare di
lui sia restituirgli un po' di serenità, fargli sapere quanta gente gli volesse bene, quanto importante fosse per i suoi amici,
per suo padre e i suoi fratelli. E quanto la sua musica, tanta parte della sua vita, fosse amata e apprezzata. Anche da chi,
sei anni dopo il suo suicidio, lo scopriva nella cuffia di un lettore di ed, davanti alla finestra aperta di una notte d'estate
romana.
In questi mesi l'ho cercato, Luca. L'ho cercato su internet, nelle parole di chi lo ha conosciuto, nei ritagli di giornale,
dentro le mille musiche che ha suonato. Ora penso di conoscerlo meglio e di volere più bene alla sua musica, al suo
dolore, a lui.

Due
Luca nasce a Palermo, il 20 ottobre del 1956. Suo padre Giovanni, uno stimato geologo e un intellettuale raffinato, era
stato, negli anni precedenti, impegnato nelle ricerche petrolifere a Cuba e in Belize. A Cuba erano nati Heidi e Paolo, i
suoi fratelli maggiori. Poi, nel 1952 il padre fu richiamato in Sicilia per svolgere le stesse mansioni. Heidi e Paolo
avevano vissuto i primi anni della loro vita dove la guerra non c'era stata.
All'Avana c'era la spiaggia, la casa unifamiliare immersa nel verde. La vita doveva scorrere lenta e serena, come è
giusto che sia quando la vita comincia. Poi la famiglia fece i bagagli e cominciò un lungo viaggio. Attraversò il mare,
dal Belize a Londra e da Londra, passando per Forte dei Marmi e Firenze, fino alla Sicilia. Le foto sulla nave
ritraggono la famiglia
allegra e anche prudentemente infagottata in giubbini di salvataggio, non si sa mai. Il viaggio si concluse ad Agrigento,
in una bella casa sul mare nel villaggio di San Leone. Dopo circa un anno andarono a vivere a Palermo. La Palermo del
'53, con i segni e le ferite della guerra. Quella Palermo un po' siciliana e un po' americana accoglie la famiglia Flores.
Durante lo scalo a Londra Heidi e Paolo trovano il modo, bambini biondi, di farsi fotografare davanti a un lampione di
Buckin-gham Palace e poi davanti ai laghetti e sui prati verdi di Hyde Park. Non lo sanno, ma quando saranno arrivati
in Sicilia, avranno fatto lo stesso viaggio di due loro antenate che ai primi dell'Ottocento vennero nell'isola dalla lontana
Inghilterra. Erano le figlie di John Oates, un mercante inglese che giunse in Sicilia dallo Yorkshire per produrre marsala
da esportare, in barba al blocco napoleonico che impediva agli inglesi di bere porto. E` una bella storia, questa. L'ha
raccontata il papà di Luca, Giovanni Flores, in un romanzo «di famiglia» intitolato Il re non risponde.
I Flores vengono da lontano. Il colonnello Francesco discendeva da una famiglia di militari arrivati dalla Catalogna in
Sicilia con Carlo III. Partecipò alla campagna sanfedista del 1799 e poi a quella di Calabria del 1806. Francesco I, a
Napoli, lo nominò custode, a corte, della sua cassa privata.
Fu il re in persona a tenere a battesimo i cinque figli del colonnello, ai quali regalò un «rescritto», il diritto di accesso
al Collegio militare della Nunziatella o alla Scuola Navale. Solo l'ultimo non seguì questa strada. Quando nacque, la
moglie del colonnello - Donna Vita - disse al re: «Maestà, quest'ultimo me lo lascerete, a me?».
Donna Vita era anche lei siciliana, nata in una famiglia di piccoli possidenti con un cognome che oggi ci suona
familiare, Montalbano. E` strana e affascinante la storia dei fratelli Flores che, mentre le sorelle sceglievano la via della
clausura, si immergevano in quel tempo aspro di cambiamenti e di trasformazione che fu la metà dell'Ottocento nel
Sud d'Italia. Il più grande, Filippo, fu, nel 1844, il presidente del Consiglio di guerra che giudicò i fratelli Attilio ed
Emilio Bandiera responsabili di cospirazione per gli scontri armati di San Giovanni in Fiore. Filippo era uno strano
ufficiale. Leale fino all'estremo alla Corona, osservava il decomporsi del suo mondo, lo sfaldarsi del suo esercito
come il tramonto, forse inevitabile, di un sistema di certezze e di regole alle quali aveva ispirato la vita. Suo fratello
Francesco combattè la battaglia del Volturno e lì fu ferito. Il più piccolo, Ferdinando, quello lasciato alla casa, coltivò
lo studio e con lo studio le passioni intellettuali e
le ragioni dei Liberali. Fu allievo di Francesco De Sanctis e partecipò, assai brevemente, all'esperienza del primo
ministero nazionale della Pubblica istruzione. Assai brevemente, perché Ferdinando avvertì con dolore, in un itinerario
diverso e opposto a quello vissuto da suo fratello Filippo, come la nascente rivoluzione, alla quale aveva dedicato la
passione delle sue idee, una volta «fattasi stato» mostrasse un volto assai lontano dalle ragioni ideali che lo avevano
spinto a sostenerla.
Le due ragazze inglesi, le due giovani Oates, divennero le mogli di Filippo e Ferdinando. Così, per uno scherzo della
Storia, il viaggio di Heidi e Paolo con i genitori Giovanni e Iolanda, da Londra ad Agrigento, avviene esattamente
cento anni dopo il matrimonio siciliano di Filippo e Isabella. Così come, invece, Ferdinando e Luisa si sposarono a
Girgenti esattamente cento anni prima che, a Palermo, nascesse Luca. Erano Ferdinando e Luisa i bisnonni di Luca.
Ferdinando era un uomo schivo, solitario, un intellettuale che Giovanni Flores nel suo libro descrive così: «Il suo
temperamento profondamente malinconico lo portò a considerare che nessuna filosofia, nessuna religione poteva dare
una risposta all'eterno interrogativo che portava con sé la morte, il fatto irresistibile del non esistere più».
La Sicilia, il viaggio, la passione intellettuale, il rigore morale. Tutti segni che attraversano un secolo e che
costituiscono, per quello che ho potuto capire, la storia e l'identità di una famiglia.
Le prime fotografìe di Luca che ho potuto vedere mostrano un bambino paffutello e biondo che corre lungo una strada
di Forte dei Marmi. In una di esse è seduto sulla gamba sinistra di sua madre. A fianco c'è Barbara, sua sorella, di poco
più grande di lui. Portano la stessa salopette, come due gemelli di età diversa. Dietro, il mare. Una foto da famiglia
unita e serena. Gli stessi Flores, parlando di quel tempo, lo definiscono «un periodo felice» che si protrasse fino
all'estate del 1959, quando la famiglia dovette trasferirsi in Mozambico, nuova destinazione di lavoro del padre.
Chissà come fu quel viaggio, come i fratelli più grandi vissero l'allontanamento dai luoghi della loro infanzia e
l'impatto con una terra così lontana, così diversa. Il Mozambico è bellissimo e la capitale Lourenço Marques, oggi
Maputo, doveva essere, allora, strana e affascinante.
Lì Luca cominciò a mostrare una passione per la musica. La sorella Barbara lo descrive così: «I primi ricordi che ho di
Luca sono quelli in Mozambico, con lui seduto sullo sgabello del pianoforte, i piedi che non toccavano terra,
concentrato a fare "le scale". Con infinita pazienza e determinazione. Avrà avuto forse cinque o sei anni, vestito in
camiciòla e pantaloni corti color kaki, con quelle sue manine che non avevano ancora perso la forma paffutella tipica
dei bambini piccoli». E` un'immagine tenera, quella che gli occhi grandi e buoni di sua sorella restituiscono,
quarant'anni
dopo. Studiavano insieme pianoforte nella loro scuola, un istituto tenuto da suore domenicane. Barbara ha il ricordo,
inquietante, di una tremenda suora, Sister Coppertina, che, quando sbagliavano una nota, li bacchettava con una lunga
matita gialla proprio sulle nocche delle dita, per far sentire più dolore. Nonostante Sister Coppertina, in fondo un nome
jazz, Luca continuò ad amare la musica.
Ma proprio per questo era molto simpatico ed era estremamente curioso: voleva sapere tutto e il perché di tutto». In
famiglia era stato soprannominato «motorino» perché non stava mai fermo, velocissimo, in bicicletta, a piedi. Era
anche molto loquàce e il padre, nel ricordarlo, si stupisce: «E` strano perché poi, con l'età, è diventato molto meno
loquàce di quello che era da bambino». Barbara rammenta i loro giochi avventurosi, le corse sui pattini, le
arrampicate, le sbucciature, il desiderio di volare più in alto possibile con l'altalena. I racconti di quegli anni evocano
la sensazione di una grande serenità. Le foto scattate a Lourenço Marques sono bellissime. In una di esse, in una
stanza quasi buia, davanti a una finestra, ci sono Luca e sua madre. Il tutto prende luce da due raggi di sole; solo due,
uno per uno. Nel '61, quando Luca aveva cinque anni, fecero una gita a Santa Carolina. E` un'isola minuscola
dell'arcipelago di Bazaruto, l'ultimo approdo della rotta commerciale degli africani arabizzati. Isole che furono
occupate nel Cinquecento perché il mare dava perle preziose. A osservare quel mare, seduti ai bordi di quel mare, ci
sono i quattro piccoli Flores. Guardando queste fotografie viene voglia di
vedere chi le ha scattate, di sentire le voci, di catturare il momento prima e quello dopo di quel frammento di vita che
dalla piccola isola di perle è giunto fin sul mio tavolo, immagine trasmessa da un computer, più di quarant'anni dopo.
L'anno prima erano stati in gita in battello sull'Incomati. L'Incomati, il fiume placido che appare dietro il cappello di
paglia di papa Giovanni e il ciuffo di Luca. E` un fiume cattivo. E` uno di quelli che esondò, nel 2000, travolgendo
parte
di quella povera terra. Quattrocentomila sfollati, seicento morti. Due suore, suor Raffaelita Baravalli e suor Lucia
Garcia, affidano a internet le loro emozioni: «La gente non ha abbandonato le proprie case. Di notte dorme sui tavoli,
respirando l'umidità malsana, col pericolo di cadere, durante il sonno, nell'acqua sottostante... Oggi hanno evacuato
dalla zona due persone con il colera: c'è pericolo che scoppi un'epidemia... Dopo aver osservato per due ore scene
pietose, abbiamo dovuto ritirarci perché ci scoppiava il cuore ed era difficile frenare le lacrime».
Da quel giorno di sole sull'Incomati la vita è cambiata. Non solo per quella famiglia di gitanti felici ma anche per la
gente di quel paese così sfortunato.
Ma Santa Carolina doveva essere proprio incantevole, perché lì i Flores tornano nell'estate del 1963. Luca è ritratto in
una foto emozionante.
Solo, davanti al mare, incorniciato dalle rocce. E` la foto a cui mi sono più affezionato. Mi pare ci sia tutto. La dolcezza
dell'acqua, la durezza della pietra, la serenità dei sette anni di un bambino, l'annuncio di una solitudine che verrà.

Tre
Verrà, nel modo più insolente e cattivo, più casuale e straziante. Erano i primi giorni dell'ottobre del 1964. Barbara
dice di quel tempo che erano stati «gli anni più felici della sua vita». Tutto finì e pochi attimi segnarono il destino di
una persona, di una famiglia e quello di Luca.
Torniamo a Lourenço Marques, in una sera di ottobre appena iniziato. La giornata sarà passata come mille altre. Luca,
otto anni da compiere, e Barbara, quasi dieci, avranno corso, giocato, urlato, riso. Forse Luca aveva fatto qualcosa che
non doveva, cose da bambini, cose di ogni giorno. Ma Barbara ricorda con precisione che la sera la madre entrò nella
stanza dove lei e Luca dormivano per dare loro il bacio della buonanotte. Lo diede a Barbara ma non a Luca. Forse una
punizione per una parola sbagliata,
perché aveva disobbedito, perché chissà perché.
Ciascuno di noi conserva dentro di sé momenti come quelli. Li ricorda come umiliazioni o paure. In casa mia c'era una
porta con dei vetri colorati. Quando si chiudeva seguivo dai movimenti di luci e di sagome irreali ciò che succedeva nel
resto della casa. Ascoltavo le voci, magari accoccolato dietro la porta, con l'orecchio appoggiato al legno. Ricordo i
nervi e i muscoli tesi, pronto a scattare per riguadagnare d'un balzo il letto e fingere un disciplinato sonno.
Ricordo le paure. Le paure nell'ora del buio e della fantasia. Quando pensi al futuro, quando conti gli anni che
mancano a diventare grande, quando immagini il giorno in cui chi ti è più caro morirà. Il buio, il tempo prima del
sonno è un laboratorio di paure infantili. Paure da fiaba, ansie che popolano imniaginari liberi e innocenti. Il buio di
ciò che sarà più che la luce di ciò che è stato, di ciò che si è vissuto. Ricordo che a scuola un mio amico mi raccontò
di avere ascoltato la sera prima, dietro la porta della sua stanza, sua madre e suo padre che parlavano, seriamente
parlavano, della possibilità di mandarlo in collegio. Visse una notte infernale. In quegli anni il collegio era la grande
paura di tutti noi. Un luogo di sequestro, di solitudine, di freddo. Un luogo alla Collodi.
Cosa avrà pensato, occhi aperti, Luca quella sera? Quale senso di colpa avrà sentito? Quale ferita avrà pensato di avere
inferto a sua madre per spingerla a negargli ciò che, immagino sapesse, le stava a cuore più di ogni altra cosa? Provo
una grande tenerezza se penso a quei momenti di Luca bambino. Forse Barbara, che il bacio lo aveva avuto, non gli ha
parlato per non fargli pesare il privilegio. Forse Luca si è sentito solo, in quel letto. Solo, con la sensazione di avere
sbagliato.
La mattina dopo sarebbe arrivata, con la sua luce che ogni cosa cancella. Quella stessa mattina era stato fissato per
Luca l'appuntamento dal dentista, il cui studio era a Nelspruit, subito dopo il confine con il Sud-africa.
La madre Iolanda caricò tutti sulla macchina. C'erano Barbara, Luca e un'amica di Iolanda con la figlia. Salutarono e
partirono. Un chilometro prima della frontiera la ruota posteriore destra perse aria e cominciò a sgonfiarsi. Così
Giovanni Flores racconta l'incidente che seguì: «Quando si forò la gomma, l'auto prese a sbandare, Iolanda
istintivamente frenò e la macchina girò di novanta gradi e uscì fuori strada. Fuori strada c'era un terreno incolto. Non
c'erano campi, non c'era niente. La macchina fece parecchi sbalzi
e tutte le porte si aprirono. Da notare che, avendo sfiorato un incidente in Sudafrica qualche mese prima, ero stato
proprio io a insistere sul fatto che bisognasse assolutamente mettere le cinture di sicurezza. Allora praticamente non
esistevano, ma le trovammo e le comprammo. Le facemmo montare e Iolanda disse: "Non si deve fare mai più un giro,
un viaggio senza mettere le cinture". Ma quella mattina non le misero, perciò schizzarono tutti fuori dalla macchina e
nessuno si fece niente, qualche contusione e basta. Mia moglie, invece, ebbe la gonna presa tra il cerchione e la gomma
e fu trascinata in questo campo incolto. Si ruppe la schiena, picchiò la testa ed ebbe una forte emorragia cerebrale. E`
vissuta ancora tre giorni e poi è morta all'ospedale di Lourenço Marques».
Fermiamoci qui. Proviamo a mettere in sequenza i momenti di quelle ore, per Luca. Il bacio non dato, il senso di
colpa, il viaggio per una visita medica tutta per lui, l'incidente, le porte che si spalancano, i corpi che schizzano fuori,
la mamma con la gonna impigliata, la mamma ferita, la mamma che non risponde.
La vita di Luca, il futuro di Luca Flores sono tutti in quel fazzoletto di ore, in quel muc-chietto di minuti. Provo a
immaginarlo, mentre aspetta i soccorsi. Sarà stato tremante,
tremante di tutte le paure del mondo. Forse Barbara lo abbracciava, ma era una bambina anche lei. I suoi ricordi sono,
come è giusto, pochi e confusi: «Dopo non so quanto tempo arrivarono la macchina della polizia di confine e
un'ambulanza. Ci portarono al piccolo pronto soccorso per medicare le nostre ferite. L'ultima volta che vidi mia madre
era su una barella, con la testa fasciata. Poi salimmo su un'automobile nera che ci riportò tutti a casa. Luca e io
rimanemmo accovacciati sotto il sedile posteriore, tanta era la nostra paura».
In questa sequenza, sequenza di fatti reali, di schiene spezzate e di vite distrutte, di paure agghiaccianti e di momenti
concitàti e decisivi, c'è qualcosa di poetico. C'è un artista, uno scrittore, dietro la sequenza di questi eventi. Così
platealmente reali, così credibilmente irreali.
Iolanda muore come Isadora Duncan morì. Anche la sua vita sembra un film o un romanzo. Due suoi figli muoiono
bambini precipitando con l'automobile nella Senna, lei torna alla danza e balla la Marsigliese al Metropolitan per far
capire agli americani cosa è la guerra in Europa. Nel '21 va a Mosca su invito di Le-nin. Insegna danza ai figli dei
lavoratori, sposa Esenin e poi, delusa, lascia la Russia nel '25. Due anni dopo, a Nizza, mentre viaggia sulla
sua Bugatti, la sciarpa che porta al collo rimane impigliata nelle ruote della macchina e la strangola.
C'è una foto che ritrae Luca davanti a quella macchina maledetta, una Mercedes scura. Luca, il piccolo Luca, è quasi
appoggiato vicino alla targa posteriore. Ha una strana smorfia sul viso. La foto è di qualche giorno prima di quel
maledetto 9 ottobre. Mi ha colpito la targa. E` una pura coincidenza, forse meno. Ci sono tre lettere e quattro numeri.
Le tre lettere sono «MLM» come morte, Luca e mamma. Con Luca in mezzo, come schiacciato. Quelle iniziali
possono essere lette anche come musica, Luca e mamma. O morte, Luca e musica. Pensieri inutili di quarant'anni
dopo. Ma proprio quella macchina sarà per tutta la vita la causa dell'infelicità di quel bambino in pantaloncini corti,
con una camicetta a fiori e una strana espressione sul viso.
Anche Barbara non ha mai smesso di interrogarsi: «Ho cercato per anni di trovare un significato, un qualcosa che mi
aiutasse a capire se vi fosse un legàme fra la vita e la morte di mia madre e di mio fratello. Perché mia madre è nata a
marzo e morta in ottobre e Luca è nato in ottobre e morto a marzo... Come un cerchio che si chiude o, come dice mio
fratello Paolo, un mosaico che viene completato».
Incredibile, tutto assieme. Come la morte di Iolanda e il sistema di ombre cupe che si assesta improvvisamente sulla
vita dei Flores e su quella più piccola e più fragile di Luca.
Per tutti quelli che lo hanno conosciuto, per tutti quelli che gli hanno voluto bene, per tutti quelli che hanno diviso il
tempo con lui la fine della madre è una causa, forse la principale, ma certo non l'unica della morte di Luca Flores.
Iolanda doveva essere una donna importante. Io la osservo in fotografia. Doveva essere una personalità forte, dotata di
autorevolezza e severità. Era bella, austera, con un sorriso raro e intenso, un modo di vestire moderno. Le foto di Forte
dei Marmi la ritraggono con quei meravigliosi vestiti a fiorellini degli anni Cinquanta, annuncio della fine della
cupezza bellica e di un tempo di speranza e di sole. Suonava la fisarmonica con destrezza, amava l'arte e le cose
belle.
Barbara racconta che «a volte ci sembrava che nostra madre fosse tornata a casa. Quando si udivano passi simili ai
suoi, si pensava sempre che fosse lei». Solo chi conosce il vuoto delle assenze, le voragini di solitudine che
spalancano, può capire quanto queste impossibili percezioni assomiglino a possibili sogni. Questa madre, madre di
quattro figli, elemento di
continuità e stabilità in una famiglia inevitabilmente girovaga, con un padre spesso lontano, doveva mancare come l'aria
manca.
Luca si sentì responsabile della morte di sua madre. Lo dicono il padre, la sorella, i suoi amici. Era un bambino di
neanche otto anni e si caricò sulle spalle questo enorme peso. Pensò alla bugia del giorno prima, al bacio mancato,
all'obbligo di un dentista da raggiungere e decise che era lui il responsabile. Confessò a se stesso un delitto che non
aveva commesso. Confessò a se stesso di avere cancellato ciò a cui più teneva al mondo.
Cominciò, forse cominciò accovacciato dietro i sedili di un'automobile nera, un possibile, lento percorso di
autodistruzione. In quell'incidente, insieme alla gonna di Iolanda restò impigliata la vita di Luca. Il dolore cambia la
vita ai bambini. E più sembra normale il modo in cui proseguono la loro esistenza, più qualcosa, ogni giorno, gli si
rompe dentro. Penso a quei giorni di Luca come a un'immagine di Ian McEwan che è rimasta con me. E` la
descrizione della caduta di Logan, un uomo appeso a una mongolfiera fuori controllo: «Lo guardammo cadere.
L'accelerazione era visibi- le. Nessun perdono, nessuna dispensa particolare per il corpo, in virtù del coraggio o della
bontà divina. Semplice, impietosa legge di gravità. E da un punto imprecisato, forse da
lui o forse dalla gola di un corvo indifferente, un verso acuto tagliò l'aria ferma. Cadde come era rimasto appeso, come
un rigido bastoncino nero. Non ho mai visto una cosa più atroce di quell'uomo che precipitava». Poi McEwan descrive
il momento in cui quell'uomo caduto dal cielo viene ritrovato. Non un corpo disteso, non un mucchio di ossa in un
bagno di sangue. No. «Sedeva ritto dandomi la schiena, come se meditasse o scrutasse nella direzione in cui il pallone si
era allontanato. La sua postura era calma e composta... La giacca di tweed non sembrava sporca, anche se gli cadeva
addosso in modo strano, perché aveva le spalle più strette del dovuto. Più strette delle spalle di un qualsiasi uomo. Dalla
base del collo non si apriva alcuna ampiezza laterale. La struttura ossea era collassata dall'interno dando origine a una
specie di fusto con la testa in cima. A quella vista, mi resi conto che quello che avevo interpretato come calma
composta, in realtà era assenza. Non c'era nessuno lì dentro.»
Luca c'era, dentro di sé, ma forse era assente. Racconta il padre: «Il giorno che poi dovetti dire a Luca "guarda che la
mamma non c'è più..." la prima cosa che lui mi disse fu: "E allora la mia festa che doveva essere tra una settimana, che
succede?"».

Quattro
Quella morte, nell'ottobre del 1964, cambia pagina nella vita della famiglia Flores. E la frattura rimane scolpita anche
nelle foto. Paolo le ha raccolte in modo molto ordinato, con amore. Sotto ogni immagine, o quasi, ci sono l'anno, la
data, le iniziali dei fotografati. Sono istantanee di una famiglia allegra e fortunata che gira il mondo, vede luoghi allora
quasi impossibili da conoscere tutti insieme in un'intera vita: Cuba, il Belize, l'Egitto, il Mozambico, il Sudafrica,
l'Inghilterra e poi Venezia, la Sicilia, Forte dei Marmi... Tutto fino al 9 ottobre del 1964, fino a quell'appuntamento
mancato dal dentista sudafricano. Paolo, raccogliendo e organizzando le foto in blocchi, in qualche modo lo confessa.
Infatti il blocco più grande è tra il 1948 e il 1964. C'è un viaggio in Italia nel 1963. Luca è
ripreso sulla nave, in pantaloncini corti, tra sua madre con il foulard sui capelli e suo padre con un binocolo al collo. Poi
l'aeroporto di Lourenço Marques, con Iolanda, Paolo, Barbara e Luca che ride. E Bilene con la sua spiaggia bianca, le
dune di sabbia, i flamengo che fanno i nidi. E la famiglia Flores fotografata dal padre attorno a una tovaglia quadrettata,
Coca-Cola e pane apparecchiati. La madre a capotavola, Luca e Paolo, Heidi e Barbara. Il papà dietro all'obiettivo che
chiede a tutti di guardarlo. E tutti lo guardano, per una delle ultime foto insieme.
L'ultima, proprio l'ultima, è scattata a Città del Capo. Ancora sulla spiaggia, ancora davanti al mare. Seduti su un
tronco d'albero, tutti vestiti, i Flores sono fotografati davanti a un mare invernale, malinconico. Le foto si fermano lì,
per un
anno. In quei dodici mesi succede tutto. E quando un flash tornerà a scattare, sarà il giorno del compleanno di Luca.
Non quello della festa degli otto anni, non quello del «che succede?» di Luca. Ma, dodici mesi dopo, una normale festa
di bambini sorridenti e allegri. Luca ha in mano, in tre immagini diverse, un orsacchiotto. In una mangia da solo e nello
specchio si vede il fotografo dell'occasione, il padre Giovanni. Ma in quella foto c'è un vuoto.
Barbara ora è in collegio. Il padre, un uomo
solo con quattro bambini, aveva deciso di mandarla dove era già Heidi, pensando che sarebbe stata meglio con la
sorella che non in quella grande casa. Improvvisamente nella villa di Lourenço Marques e nella vita di Luca
spariscono le donne. Prima tre, ora nessuna. E la partenza di Barbara, la sua compagna di giochi, la sua compagna di
stanza, dovette diventare per lui un vuoto enorme. Un vuoto nel vuoto, un abisso. Anche Paolo era in collegio e
dunque Luca restò solo nella grande casa. C'era con lui, come governante, una amica della madre. Molto affettuosa,
ma non poteva certo rimpiazzare chi gli voleva più bene. Il collegio per Barbara durò solo un anno, poi la famiglia
rifece le valige e tornò a Roma. Barbara racconta che «i ricordi di Luca in quel periodo a Roma sono tutto sommato
abbastanza sereni. Si andava a scuola, si frequentava molto la nonna paterna e la zia, si faceva una vita tranquilla.
Luca sembrava avere superato il trauma della morte di nostra madre e continuava a suonare e studiare il pianoforte.
Eravamo sempre insieme, anche perché i nostri fratelli maggiori erano in collegio all'estero, quindi avevamo solo noi
stessi per farci compagnia». Poi Giovanni Flores fu inviato in Portogallo, a Parede. Heidi e Paolo finirono i loro studi
in Inghilterra. Invece Barbara e Luca, che avevano seguito il
padre, andarono alla stessa scuola anglo-portoghese. Luca continuò a studiare pianoforte.
Il padre ricorda di avergli comprato in quegli anni un piccolo piano Yamaha e che lui suonava per ore cominciando a
fare delle piccole composizioni. In quel periodo ascoltava, come tutti i suoi coetanei, anche la musica pop e in
particolare amava i Genesis ed Emerson Lake & Palmer. Tutto, evidentemente tutto, gli serviva a costruire un universo
di linguaggi musicali che era uno dei modi del suo rapporto con la realtà.
Dopo il Portogallo si stabilirono a Firenze. Mentre frequentava il liceo scientifico dava gli esami da privatista al
conservatorio, dove studiava con il maestro Vavolo. Giovanni Flores racconta che «si preparava a casa, tranquillo,
prendeva lezioni private, poi si presentava in conservatorio, sosteneva l'esame e si preparava all'anno successivo.
Riuscì quindi a prendere la maturità scientifica e anche, nello stesso tempo, il diploma al conservatorio con dieci e
lode».
Ricorda di averlo accompagnato all'esame: «I membri della commissione seduti a un tavolo stavano badando alle loro
carte e gli dissero "Suona questo". Appena cominciò a suonare i professori prestarono attenzione. E così un pezzo dopo
l'altro. C'era un brano di Prokofiev, poi Schumann e una sonata di Beethoven e lui passava da una cosa all'altra.
All'ultimo gli dissero:
"C'è un pezzo che tu devi suonare a vista". E lui, guardando il titolo, disse: "Questo lo conosco già". Si mise al
pianoforte e lo suonò. I professori rimasero veramente entusiasti. Non so perché, ma furono molto colpiti da questo
ragazzo che non era nemmeno un interno, non aveva fatto il conservatorio da loro». Il suo amico Alessandro Di
Puccio, che era presente, ricorda la commissione in piedi che applaudiva.
Luca a Firenze aveva studiato con il maestro Pichini che lo aveva introdotto alla comprensione del trattato di Clementi,
un musicista che aveva ampliato molto le possibilità di espressione del pianoforte. A Luca doveva piacere, lo strano
Muzio Clementi, musicista del Settecento. Clementi aveva quattordici anni quando fu scoperto da un nobile viaggiatore
inglese che lo portò nella sua terra a studiare il pianoforte. Studiò bene, molto bene. Tanto che a ventinove anni si trovò
a ingaggiare una gara di musica con un altro pianista. Qualcosa di simile, per capirsi, alla competizione sulla nave tra
«Novecento» e Jelly Roll Morton immaginata da Alessandro Baricco.
Infatti nel Settecento la nobiltà si divertiva a mettere i talenti uno contro l'altro. Quella volta il giovane Clementi si
trovò davanti Wolfgang Amadeus Mozart, il quale giudicò «meccanico» il modo di suonare del musicista italiano.
Secondo la Storia della musica pubblicata
da Einaudi «in realtà Clementi aveva precocemente sviluppato una tecnica particolarmente virtuosistica di note doppie
che sfruttavano le possibilità del nuovo strumento e che cominciavano a differenziare sostanzialmente la scrittura da
quella tradizionale del clavicembalo».
Per ore e ore Luca si esercitava, con pazienza e determinazione. Lui non sapeva, lo scoprirà poi chi ascolterà la sua
musica, ciò che Omette Coleman aveva detto: «La tecnica è necessaria perché si possa suonare in maniera naturale, nel
senso che ti permette di essere naturale e non di sembrarlo solamente». Passare e ripassare sui tasti indicati dal Gradus
ad Parnassum di Clementi, le «scale» fatte e rifatte mentre i piedi ancora non toccavano terra, come forse persino le
bacchettate di Sister Coppertina, tutto è servito per dare a Luca una delle poche, grandi, libere felicità che la vita gli ha
consentito: quella di creare musica «essendo normale» e non «sembrandolo solamente».
One day's work. «Un giorno di lavoro.» E` il titolo che Luca da allo schema di esercitazioni quotidiane di un bravo
pianista. Lo si può leggere su un foglio di appunti che Francesco Maccianti ha gelosamente custodito. E` un lavoro
durissimo che lo studente Flores così scandisce: «Analisi dello stile dei pianisti -
due ore e mezza; tecnica pianistica - mezz'ora; studio degli accordi e dei pattern - un'ora; analisi degli standard (come
si studia un pezzo) - tre ore». Per un totale di sette ore al giorno. Luca aveva una solida formazione classica. Ha
lasciato i suoi dischi e i suoi volumi al Centro studi sul jazz «Arrigo Polillo» di Siena. Nell'elenco dei 33 giri
compaiono, in maggioranza, dischi di musica classica: tanto Beethoven e poi Chopin, Mozart e Rachmaninov,
Stravinskij e Ciaikovski. E con il Concerto di Colonia di Keith Jarrett c'è il Quadrivium di Maderna, diretto da
Giuseppe Sinopoli.
Tra i libri e le partiture lasciate ci sono Da Clementi a Pollini e Psicologia della musica, lo spartito di Jardins sous la
pluie pour le piano di Debussy e la revisione di Casella del Clavicembalo ben temperato di Bach. E, tra gli altri, La
gioia della musica di Leonard Bernstein. Luca studiava con rigore e passione.
Suo padre intanto si era trasferito in Zaìre per lavoro. I ragazzi erano rimasti a Firenze, che cominciava a diventare la
loro città. Le foto dell'estate del 1972, in Zaìre, raccontano Luca ancora ragazzo. E` seduto su una poltrona,
evidentemente annoiato, mentre Barbara legge un libro in inglese. Devono però essere stati giorni allegri. Luca è
esemplare in un tuffo dal trampolino e anche come cacciatore di insetti, con il suo bravo retino e le scarpe
da tennis. L'anno seguente le fotografie lo descrivono perfetto diciottenne a Firenze, con gli stivaletti che si usavano
allora e poi in sella a una Harley-Davidson 250. Sono foto scattate tutte in uno stesso giorno, Luca ha un maglione a
collo alto e dei blue jeans. Qualche anno dopo, nel 1990, pubblicherà nel libretto del suo disco Sounds and shades
ofsound proprio una foto di quel giorno. Un giorno sereno, con i fratelli che sorridono in varie foto di gruppo.
In quel disco c'è un primo piano, con una didascalia semplice semplice: «Luca, quando decise di diventare un
musicista jazz».
In quegli anni, infatti, Luca iniziò ad appassionarsi al jazz e a frequentare vari circoli musicali di Firenze. Qualche volta,
con degli amici, suonava nei locali della zona.
Nelle foto di allora lo si può vedere, indifferentemente, mentre cerca di montare un aeroplanino con un suo amico
ancora bambino o mentre si esercita compunto al pianoforte. In quel tempo della vita, attorno alla linea d'ombra, si è
bambini e adulti insieme, si ha vergogna di giocare e paura di progettare.
Ma è proprio in quegli anni che Luca, mezzo ragazzo e mezzo uomo, decide di diventare jazzista. Il jazz, nessuno riesce
a definirlo. Uno storico come Marshall Stearns ha scritto che «è una musica americana semi improvvisata caratterizzata
da una immediatezza di
comunicazione, un'espressività tipica del libero uso della voce umana e da un complesso, fluente ritmo, è il risultato di
una commistione attuata negli Stati Uniti nel corso di tre secoli delle tradizioni musicali dell'Europa e dell'Africa
occidentale; e i suoi ingredienti predominanti sono un'armonia di origine europea, una melodia euro-africana e un ritmo
africano».
Il jazz è musica globale, e ora che sotto il suo grande ombrello trovano legittimamente spazio sassofonisti del Nord
Europa, compositori tunisini e pianisti greci e giapponesi, davvero questa musica di neri e di immigrati, di schiavi e di
emarginati è diventata musica del mondo.
Nel jazz, nella cultura del jazz, c'è un grande senso di libertà. Libertà da schemi musicali troppo rigidi, libertà di
improvvisare, di trasfigurare, di reinterpretare. Ma il jazz è anche simbolo di una grande libertà civile. E` stata una
musica temuta. Nel '22, nell'America dove nacque, sui giornali si poteva leggere: «Un disastro morale sta abbattendosi
su centinaia di giovani americane attraverso la patologica, irritante, sessualmente eccitante musica delle orchestre
jazz... Le ragazze sono vittime della bizzarra, insidiosa, nevrotica musica che accompagna i balli moderni». D'altra
parte cosa ci si poteva aspettare da una musica il cui nome, dice una delle leggende, nasce così: un
certo Jasbo Brown, un musicista nero che lavorava allo Schiller's Cafe di Chicago, quando era ubriaco suonava una
musica travolgente con ritmi frenetici. I clienti del bar lo eccitavano offrendogli soldi per bere e gli gridavano «ancora
Jasbo» e poi, più familiarmente «ancora Jas».
Da noi il jazz fu considerato eversivo durante il fascismo. Fu vietato dal regime e quest'aura di musica proibita, proibita
perché libera, accompagna ancora oggi il fascino di un linguaggio artistico molto più conosciuto, diffuso e amato di
quanto si possa vedere.
Il jazz come musica di libertà, ma anche come territorio di dolore, di umana disperazione. Forse, come recita il titolo
del film, gli artisti del circo sono sotto la tenda, perplessi. Ma è certo che sembra molto difficile incontrare suonatori
di jazz, felici. Credo si debba avere del dolore dentro, per fare del buon jazz. Non è uno stereotipo, una comoda
immagine poetica o retorica per accrescere l'alone di mito attorno ai travagliati protagonisti di una musica strana. Si
può scorrere la biografìa dei più grandi jazzisti del mondo. Charlie Parker e Chet Baker, Bix Beider-becke e
Coleman Hawkins, Lester Young e Billie Holiday, Bud Powell e Miles Davis: la storia dei grandi del jazz è storia di
dolori infantili,
di alcol, di solitudine, di droga, di schizofrenìa, di tristezza.
Il paradosso di una musica di libertà è la propensione all'autodistruzione di chi la suona. Come se si riuscisse davvero a
comunicare la gioia della libertà di creare solamente dall'abisso del dolore personale.
Geoff Dyer, nel suo bellissimo Natura morta con custodia di sax scrive: «Se a tutta prima sembra melodrammatico
insinuare che vi sia qualcosa di rischioso nella natura stessa del jazz, riflettendoci meglio finiamo per chiederci come
avrebbe potuto essere altrimenti. La filosofia progressista di Dizzy Gillespie - che presagiva per la loro musica un'unica
direzione di marcia: avanti - è abbastanza tipica di tutto questo nostro secolo, ma resta il fatto che dagli anni Quaranta
in poi il jazz avanzò con la forza e la ferocia di un incendio nella foresta. Sarebbe mai stato possibile per una forma
d'arte svilupparsi tanto in fretta e a un ritmo tanto concitato senza esigere in cambio un ingente sacrificio di vite
umane? Se fra il jazz e la lotta universale dell'uomo moderno corre un legàme di stretta consanguineità, come
farebbero i suoi creatori a non portarne le cicatrici?».
Luca non sapeva nulla di tutto questo mentre sorrideva nell'istantanea di diciassettenne, che un giorno avrebbe messo
in un suo cd come la foto dell'inizio, del tempo in cui «Luca
decise di diventare un musicista jazz». Due anni dopo Luca Flores viene chiamato da un ragazzo di due anni più
giovane di lui, che suonava la batteria e amava il jazz. E` Alessandro Di Puccio, che diventerà uno dei suoi migliori
amici. Ricorda così quei giorni: «Conobbi Luca nella primavera del 1975, io e un mio amico bassista (un certo Raffaele
Palumbo di cui ho perso le tracce) cercavamo qualcuno con cui poter suonare. Raffaele conosceva Luca, che
descriveva come un pianista a cui piaceva il jazz, e così provammo a chiamarlo. Arrivò a casa mia un pomeriggio (mi
sembra fosse il mese di maggio) in sella a una moto, un Morini 3 e mezzo (Luca era un grande appassionato di
motori), accompagnato da una ragazza, piccolina di statura ma molto carina e molto innamorata: Lucia.
«Tanto carina lei, tanto "orso" lui. Ricordo che riuscire a cavargli qualche parola di bocca fu cosa estremamente
difficile, non perché fosse timido, semplicemente perché lui era fatto così, di poche parole; in compenso però gli
piaceva ridere. Era veramente "strano".
«Provammo a suonare qualcosa insieme ma fu altrettanto diffìcile, conosceva solo qualche ragtime di Scott Joplin e
qualche giro di blues arcaico. Il primo incontro non fu dunque entusiasmante. Però, come avviene in tutte le storie
"d'amore", scattò qualcosa che
fece nascere un'amicizia, una cosa vera in cui probabilmente la musica ha avuto soltanto il merito di rappresentare
l'opportunità di poterla vivere.
«Sembrerà strano ma la cosa che più attraeva di Luca erano i suoi silenzi nascosti dietro uno sguardo di un'intensità
abbagliante, interrotti da risate di adolescente che provocavano, in chi lo frequentava, un sentimento a metà fra la
soggezione e un irrefrenabile istinto di protezione. Questa sua innata abilità nello smuovere gli animi gli permetteva di
entrare per sempre nel cuore delle persone. I miei genitori furono il primo esempio eclatante: nel giro di pochi giorni,
oltre ad avere trovato un pianista, divenni anche il secondogenito (io che sono figlio unico) della famiglia Di Puccio».
Delle loro prime esperienze musicali dice: «Cominciammo ascoltando insieme un disco di Oscar Peterson che Luca, nel
giro di un mese, riuscì a riprodurre alla perfezione. In un battibaleno ci stupì tutti per la sua abilità nell'improwisare, per
la sensibilità con cui sapeva affrontare il pentagramma. In pochi mesi Flores aveva già capito tutto della tecnica
dell'improvvisazione. Suonava un grande bebop e aveva la capacità di imparare immediatamente a memoria ogni brano,
che poi suonavamo assieme».
Erano gli inizi, per Luca. Si esibiva con il gruppo dei jazzisti fiorentini. Un gruppo folto, dal quale sarebbero emersi
grandi musicisti. Tanti locali, La Rosa o il circolo Salt Peanuts o altri a fare della Firenze di Michelangelo e
Brunelleschi una capitale del jazz. Tanti locali a passare le notti a suonare e a pensare il mondo come potrebbe essere.
Barbara Casini, una di loro, racconta così quei tempi: «Andavo a tutti i concerti jazz degli amici e gli amici venivano a
sentire me; tra questi c'era Luca che capitava sempre quando suonavo, e io capitavo sempre quando suonava lui.
Abbiamo moltissime serate in comune in questi locali classici dove si fa tardi, si continua a suonare anche dopo che è
finito lo spettacolo, si fan due chiacchiere, si fuma, si beve, si passano notti insonni, si scambiano cose». E conclude:
«Era una situazione molto viva, non voglio essere nostalgica, ma erano anni molto belli in cui la gente si trovava e
c'era uno scambio tra noi tutti, musicisti e non, molto intenso».
Luca, dopo il diploma, aveva acquistato con l'eredità della madre un appartamento tutto suo; in via della Buca di
Certosa, 34, a Firenze. Era un vecchio granaio al centro di un antico borgo contadino. Era stato completamente
ristrutturato e c'erano due abitazioni. In una viveva Luca, nell'altra suo fratello Paolo.
Quella casa alla Certosa diventò un luogo di incontro per tanti jazzisti. Notti a suonare, giorni a parlare. Con i soldi
dell'eredità aveva acquistato anche un pianoforte a mezza coda. E` in quegli anni che Luca e Alessandro Di Puccio
diventano davvero amici. Alessandro trova qualcuno con cui parlare di jazz e con cui poter suonare il suo adorato
bebop. «Per me tutto questo rappresentava il massimo della vita, io che per colpa del jazz non riuscivo a legare troppo
con i miei coetanei, presi ad ascoltare i Pink Floyd, i Genesis, e le ragazze poi che non capivano la dolcezza del suono
del clarinetto o del sax tenore. Che delusione! Poi, a cavallo di un Morini 3 e mezzo, arrivò questo genio, questo
grande artista travestito da orso. La vita cominciava a sorridermi.»
Divideranno molte cose di quel tempo. Una grande amicizia che però Luca arresterà alle soglie del passato: infatti né a
lui, né al contrabbassista Lello Pareti, né al suo collega di studi di piano Francesco Maccianti Luca ha la forza di parlare
della ferita che si porta dentro dall'incidente in Mozambico.
E` timido, schivo, riservato. «In qualsiasi cena o occasione di incontro con amici,» racconta Pareti «Luca si metteva in
un angolo, osservava tutto, seguiva ogni cosa ma taceva, sistematicamente taceva.» E Di Puccio ricorda,
anche in quegli anni Settanta che stanno finendo, «io parlavo a fiume, lo sommergevo di parole per attrarne qualcuna
delle sue. Ma senza successo: il silenzio, la riflessione erano la sua dimensione preferita». Era tenero, dolce, ma una
personalità forte. Mi ha colpito che, parlando di lui, sia Di Puccio sia la sorella Heidi abbiano detto che Luca «ha
sempre messo in soggezione» chi lo frequentava. E Heidi osserva come questo fosse strano per lei, sorella di molto più
grande. Era una persona di cui ci si innamorava facilmente. Era bello, intenso, malinconico, tenebroso. Alle ragazze
piaceva da morire.
Il suo umore aveva alti e bassi, e i momenti di gioia erano, paradossalmente, più pericolosi di quelli di sconforto.
Infatti una volta, racconta Di Puccio, andarono a sentire insieme la prima edizione di Umbria Jazz. Erano giovani, erano
nel luogo dove ragazzi appassionati di jazz potevano sognare di essere. Andarono insieme su un'isola sul Trasimeno.
Stavano giocando a bocce, in una bella giornata di sole, aspettando un concerto jazz. Luca era talmente felice che tirò
con tutta la forza una boccia sul ginocchio di Di Puccio stendendolo a terra. In un'altra esplosione di serenità,
evidentemente tanto rara da apparire insostenibile, gli
lanciò addosso per gioco un portacenere di alabastro.
Fu sentendo il disco di Oscar Peterson, e in particolare la versione di Satisfaction, dei Rolling Stones, che Luca si
innamorò del jazz. Cominciò a trascrivere l'assolo e a riprodurlo con la sua tecnica. Luca era meticoloso, rigoroso,
preciso. Ascoltava i dischi, li trascriveva e li eseguiva. In poco tempo si sparse a Firenze la notizia di questo giovane
pianista che sapeva suonare al modo di Peterson. Luca Flores entrò così a vele spiegate nel suo primo gruppo,
l'Invitation Trio, che si esibirà in molti locali, compreso il Music Inn di Roma. E` il 1979. In quegli stessi anni Luca,
con
Francesco Maccianti, frequenta il seminario di pianoforte jazz di Siena. Il suo maestro di allora, Franco D'Andrea, ne
parla come di un «talento particolare, un ragazzo molto concentrato, riservato, educato».
All'inizio degli anni Ottanta, ricorda Pareti, «Luca Flores era già un mito tra i giovani jazzisti fiorentini». Secondo lui
Luca era un «alchimista, un ingegnere della musica che costruiva le frasi in modo molto ricercato, con un'attenzione e
una precisione quasi maniacali» e aveva «una capacità tutta particolare di stare sul tempo come fluttuando, in una
specie di surf sonoro». Nicola Stilo, flautista di talento, altro suo grande amico, sottolinea
«l'eleganza, la naturalezza che aveva nell'approccio pianistico e in generale nella musica. Gli veniva non solo
dall'educazione al conservatorio ma era un dono di natura, ecco, come esiste solo nell'arte». E il batterista Alessandro
Fabbri dice che la caratteristica principale di Luca era «il rigore. Si stagliò tra gli altri fin da subito. Era severo con se
stesso e, per questo, il suo rigore era una lezione per tutti. Allora non erano molti i jazzisti che avevano una formazione
classica. Su questa base innestava una metodologia di lavoro durissimo. Trascriveva gli assolo dei suoi pianisti preferiti:
da Bill Evans a Bud Powell, da Chick Corea a Herbie Hancock. Era insaziabile. E tutti noi abbiamo imparato molto da
lui».
Luca studia e ama più di ogni altro McCoy Tyner, al quale penserà in modo particolare negli ultimi tempi della sua
vita. E` affascinato dal «touch» di Keith Jarrett. Ma cerca qualcosa di suo. Maurizio Giani-marco racconta un
seminario con Muhal Richard Abrams, un pianista d'avanguardia, estremamente mistico, spirituale, che faceva una
musica difficile, ricca di riferimenti. A Luca «piacevano molto i musicisti afroamericani proprio per la loro visione
spirituale, visione che ci hanno trasmesso e che li differenziava dai jazzisti bianchi non solo americani,
ma anche europei. Tra i progetti che Luca ha lasciato ce n'è anche uno legato alla musica africana che lo interessava
molto». Quell'Africa dove si era consumato un frammento breve e decisivo della sua vita.

Cinque
Ma qualcosa, dentro di lui, sta ancora mutando. Sono anni apparentemente sereni, Luca non ha neppure ventidue anni.
Eppure, racconta ancora il suo amico Di Puccio: «Qualche cosa nel già complesso e poco stabile equilibrio di Luca
comincia a rompersi. Da allora i momenti di tristezza, di silenzio, di assenza divennero sempre più frequenti.
Probabilmente Luca cominciava a percepire che l'unico modo di trovare se stesso, di liberare non solo l'emozione ma
anche i sentimenti, di darsi ascolto, fosse quello di suonare. Poteva comunicare, ma la sua voce era il suo pianoforte.
Luca era una persona di grande intelligenza e straordinario talento, e questa autolimitazione che si stava forse
volutamente creando, per paura di crescere e di incontrare la propria vita, anche attraverso momenti di grande
sofferenza provocati dal vuoto della sua infanzia,
lo stava chiudendo in una prigione dalla quale non seppe più uscire».
Agli inizi degli anni Ottanta Di Puccio parte per il servizio militare. Il giorno del congedo, quando si apre il portone
della caserma, trova, inaspettatamente, Luca che lo attende. E` andato a prenderlo con la macchina del padre di
Alessandro. Si abbracciano, si emozionano. Ma qualcosa è cambiato. Di Puccio non suona più la batteria come prima,
vuole strafare, non è più lui. Un giorno Luca, il suo amico Luca, gli telefona duro. E gli dice che non lo capisce, che non
suoneranno più insieme. Ad Alessandro il mondo sembra cadere addosso. Luca lo richiama qualche volta per dirgli che
gli vuole bene, che ha bisogno della sua amicizia ma che il lavoro è un'altra cosa. Di Puccio allora capì che forse Luca
aveva ragione e cominciò a studiare il vibrafono. Due anni dopo, Luca andò a sentirlo suonare il nuovo strumento. Lo
chiamò e gli disse che ora sì, ora potevano tornare a lavorare insieme. Nasceva così il Matt Quintet.
Prima di allora Luca aveva fatto parte, nei primissimi Ottanta, del gruppo di Tiziana Ghiglioni, una grande cantante jazz
che in quegli anni interpretava le melodie di Thelonious Monk. Con la Ghiglioni e Luca c'erano Luca Bonvini, Maurizio
Caldura, Franco Nesti, Alessandro Fabbri.
La Ghiglioni è stata molto importante per Luca. Erano amici, cantavano insieme. Lei aveva una grande ammirazione
per questo ragazzo dal talento smisurato. Di lui dice che «era dieci, forse venti anni avanti a tutti noi». Si erano
incontrati nel 1981. Lui andò a sentire un suo concerto e poi li presentarono. Luca non le diede la mano, si guardava le
scarpe.
Una volta, alla fine di una sessione di prove, la Ghiglioni chiese chi volesse andare al cinema con lei a vedere Lolita di
Kubrick. Tutti si defilarono, solo Luca disse «Posso venire io?». Si ritrovarono davanti al cinema, entrarono. Il film
cominciò e dopo un quarto d'ora la Ghiglioni si girò e si accorse che Luca non c'era più. Tornò alla sala prove e lo trovò
lì, da solo, che improvvisava al pianoforte.
Né la Ghiglioni, né gli altri amici pensavano che Luca stesse male. Pensavano fosse strano. Strano come un artista
introverso può essere. Specie se è «dieci o venti anni avanti agli altri».
Il gruppo si chiamava Streams ed era un sestetto di qualità. Fu con questa formazione che Luca, nel 1984, incise il suo
primo disco. La casa discografica che lo pubblica è la Splasc(h), incredibile e fantastica etichetta jazz gestita da un
simpatico e geniale eroe, Peppo Spagnoli. Di mestiere Spagnoli fa il disegnatore di
tessuti e ha una sua piccola azienda. Fatica, gira la Toscana per piazzare i suoi prodotti. E intanto gli arrivano decine di
audiocassette che popolano la sua automobile, in mezzo ai campionari di stoffe disegnate con fantasia e gusto. Faccia
bella, baffi di sinistra, Spagnoli è un personaggio jazz, un uomo appassionato e sincero, fantasioso e casinista quanto
basta. Se qualcosa del lavoro di Luca Flores e di tanti altri è arrivato sino a noi lo si deve a persone come lui.
Alla metà degli anni Ottanta, Luca e Di Puccio cominciano la loro avventura con il Matt Quintet. Ci sono anche Marco
Vaggi al basso, Gianni Cazzola, un nome storico della batteria jazz e Maurizio Caldura, un sassofonista talentoso che
verrà trovato annegato in un canale. Gianni Cazzola ha vent'anni più degli altri ed esperienze e conoscenze che
consentono al gruppo di avere «buone piazze», fino all'emozione del primo concerto a Umbria Jazz, nel 1985.
Sono gli anni in cui Luca è forse più sereno. Ha una compagna della quale è molto innamorato, Cinzia. Ha un gruppo
che va bene, almeno per un paio di anni, e poi comincia a pubblicare dischi e a collaborare con tanti grandissimi artisti.
Suona con il gruppo di Bruno Marini e con quello di Massimo Urbani con cui incide il bellissimo Easy to love. Il
contrabbassista Furio Di Castri, che partecipò alla session, insieme
a Roberto Gatto alla batteria, ricorda quel tempo. Lo ricorda in un libro di Carola De Scipio dedicato a Urbani. Un altro
genio del jazz italiano morto, tragicamente, prematuramente. Forse si dovrebbe fare una Spoon River; ci sono molte
croci sui pianoforti, nelle campane dei sassofoni, tra le corde di violini e contrabbassi. Urbani, come altri, se ne andò
troppo presto lasciando della grande musica.
Di Easy to love Di Castri ha detto: «I dischi non rendono pienamente l'idea di quello che Massimo riusciva a fare dal
vivo, ma Easy to love rappresenta un discorso a parte. Venne registrato in una seduta di sole quattro ore e pur essendo
un disco realizzato velocemente, secondo me contiene emozioni forti. C'è un leggero tocco di magia nella musica, forse
perché riaffiora un sound di gruppo, e poi perché c'era Luca che in quegli anni era così ispirato. C'è anche da dire che
poco tempo dopo Luca ha cominciato anche lui a star male. A riascoltarlo oggi, alla luce degli eventi che seguirono, il
suo modo di suonare risulta particolarmente intenso. Non riesco a pensare a uno senza pensare all'altro. Mi mancano
così tanto».
Per Luca sono anni molto positivi, professionalmente. Comincia, con Nicola Stilo e altri, la sua avventura musicale con
Chet Baker. Fanno insieme molte tournée e Stilo racconta
che «Chet Baker, quando ha conosciuto Luca, si è innamorato della persona dolce e gentile, ma col tempo si è
appassionato al suo modo di suonare, e posso rischiare di dire che negli ultimi anni, dall'86 all'88, ogni volta che era
possibile Chet pretendeva che fosse Luca a suonare con lui».
Fecero diversi tour in giro per l'Europa. Erano, per Chet Baker, anni durissimi, come documenta la spietata biografia di
Gavin. Forse quelle due fragilità si cercavano, si capivano, si sostenevano. Erano due modi di far musica
particolarmente intensi, particolarmente struggenti. Della musica di Luca in quegli anni Maurizio Giammarco dice:
«Voleva trasmettere dei valori, una visione del mondo attraverso la musica». E Di Castri aggiunge: «Era una persona
molto intensa quando suonava, con-centratissima e sempre alla ricerca di qualche cosa... Quegli anni sono molto
importanti perché, rispetto a come suonava prima e a come avrebbe suonato dopo, ci sono stati grossi cambiamenti dal
punto di vista dello stile. Per esempio, una cosa che cercava di fare all'interno del gruppo di Chet, con il quale si
suonava quasi sempre lo stesso repertorio di suoi standard, era di riuscire a interpretare quei pezzi mantenendo
un'originalità di linguaggio. Luca lo faceva più di me perché era un musicista molto rigoroso, studiava, lavorava
molto».
C'è un pezzo interpretato da Chet Baker con Flores e Stilo nel cd di Nicola Stilo Errata corrige. La registrazione è del 30
aprile 1987. All'inizio del brano Baker e Flores duettano in maniera delicatissima.
Delicata, come l'universo di colori e forme che emerge dai quadri di Luca. In quegli anni Luca dipinge molto. Dipinge
quadri che usa per le copertìne dei suoi dischi. Dipinge prima forme leggère, ombrelli rovesciati, strutture geometriche,
colori tenui. Uno di questi disegni, che firmava Florindo, è sulla copertina di Sounds and shades ofsound, del 1990.
Nel suo disco successivo, Love for sale del '91, c'è un quadro di forme geometriche colorate, con in primo piano
quattro segni non identificabili. Un giorno Luca dirà a sua sorella Barbara, scherzando: «Sai, Babà, queste figure
siamo noi quattro, i fratelli Flores».
Il modo di dipingere di Luca è molto influenzato da Kandinsky. I suoi quadri, quelli che ho potuto vedere, e quello
scelto come copertina del disco d'addio, sono un omaggio a un pittore che evidentemente venerava. Di Castri ha
raccontato che Luca amava molto due libri: Quaderni di un mammifero, l'autobiografia delle idee di Erik Satie e Punto,
linea, superficie, il libro che raccoglie le riflessioni teoriche di Kandinsky sulla pittura. Ciò
che Kandinsky scrive all'inizio del libro probabilmente coincide con il modo di concepire la musica da parte di Luca,
che quel libro amava e conosceva. E` la teoria dell'«esterno-interno»: «Si può osservare la strada stando dietro il vetro
della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, attraverso il
vetro trasparente, ma saldo e duro, come una entità separata, che pulsi in un "al di là". Oppure si apre la porta: si esce
dall'isolamento, ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i
propri sensi. Le altezze e i ritmi dei suoni in continuo mutamento avvolgono gli uomini, salgono turbinosamente e
cadono all'improvviso paralizzati. Allo stesso modo i movimenti avvolgono gli uomini, li circondano - un gioco di
tratti e di linee orizzontali, verticali, che attraverso il movimento si volgono in direzioni diverse, macchie di colore
che si ammucchiano e si disperdono, che danno un suono ora alto, ora profondo».
Kandinsky parla del «suono» delle immagini. E Luca ha pensato di coniugare suoni e colori, la musica e il movimento. I
suoi primi disegni assomigliano alle esercitazioni dimostrative dell'appendice del libro. Uno, in particolare, sembra aver
ispirato i primi disegni
di «Florindo». E` la figura 21 che Kandinsky così definisce: «Doppio suono: tensione fredda delle rette, tensione calda
delle curve, dalla rigidezza alla scioltezza, resa all'ispessimento».

Sei
E` il 1987. Luca è al culmine della sua stagione migliore. Ha una ragazza di cui è innamorato, i maggiori musicisti
italiani e internazionali si contendono il suo lavoro. Insegna pianoforte ai seminari estivi di Siena, e sarà un ottimo
maestro. Stefano Bollarli ricorda la bellezza delle sue lezioni e Sergio Corbini dice: «Ero all'inizio degli studi, ed era
per me un po' come se per imparare l'inglese... fossi andato a lezione da Joyce».
Luca incide dischi a ripetizione. Esce in quell'anno Where extremes meet. E` reduce da una bellissima session con Chet
Baker che diventa anche un disco, A night at thè Shalimar. Ma Luca non cambia. Rimane la persona tenera e difficile,
inquieta e generosa che è sempre stata. Non coltiva certo la sua «immagine», non sa cosa sia. Non si cura dei soldi. E`
una persona fragile, capace di soffrire, fisicamente soffrire,
per una catastrofe avvenuta lontano, per un'ingiustizia avvertita.
E` il 1987. La vita di Luca conosce un'altra rottura. Alla «tensione calda di una curva» la sua vita si spezza di nuovo.
Luca ha sempre camminato in bilico. Da una parte la sua musica, il suo mondo di linguaggi e sensazioni, l'universo
che racchiudeva le relazioni umane, le amicizie, le passioni della sua vita. Dall'altra il suo dolore, il suo senso di
colpa, la sua difficoltà di comunicare. E` difficile stare troppo tempo sul filo, in equilibrio. La musica è il suo lato
luminoso, il dolore è il suo lato notturno. Questo sistema di linee, alla Kandinsky, si incontra, si fonde, si scontra, si
separa. E` la specialità, la dolorosa specialità, della vita di un grande talento. Di una persona complessa e bella. Un
ragazzo dotato di una luce particolare, di una particolare intensità.
Ma nella sua vita, ora, una ruota si sgonfia. Piano piano perde pressione. E Luca si sente, piano piano, sbalzato giù.
Quella gomma, però, aveva cominciato a perdere aria venti anni prima. Luca ha convissuto con il sibilo. Ora sente che
la macchina prende a sbandare. In quei giorni, ma non è davvero questa la causa degli eventi successivi, finisce il suo
amore. La sua ragazza era diventata per lui un punto di riferimento e, come ricorda Barbara Casini, «Luca non riusciva
ad ammettere di averla persa, non riusciva a convincersi che il loro rapporto era finito. E` stato un momento molto
drammatico, molto duro. Penso che lei sia stata una delle prime persone a rendersi conto di quello che stava
succedendo dentro di lui. E ha vissuto dei momenti davvero terribili».
Sarebbe sbagliato legare alla rottura di quel rapporto l'accelerazione del disagio di Luca. Alessandro Di Puccio mi ha
confessato la sua impressione che anche negli anni più sereni Luca portasse con sé una grande infelicità, un grande
smarrimento.
Luca avvertiva una grande solitudine. Voleva bene alla famiglia, aveva amici fidati e presenti. Ma, se ho capito bene,
aveva un gran freddo dentro.
La morte della madre, di cui si sentiva responsabile. Il grande vuoto di quella casa in cui, subito dopo l'incidente, non
c'era nessun altro, se non il padre, che sentisse «suo». I viaggi, le amicizie coltivate e interrotte. E poi, nel '73, sua
sorella Barbara, sua compagna nei giochi e nel momento di massimo dolore, che se ne va lontano, in Grecia. Luca ha
spesso passato il Natale da solo, in quegli anni. La famiglia era sparsa per il mondo. Come dice il padre Giovanni,
«abitavamo in posti diversi, facevamo vite diverse». E Luca alimentava di solitudine il suo radicato disagio.
Eccola, la curva, una sera dell'ottobre del 1987, i mobili della casa distrutti. E poi, una corsa da Barbara, che nel
frattempo era rientrata dall'estero. Così la sorella racconta quella notte di paura e di dolore: «Abitavo all'ultimo piano.
Ho sentito suonare il citofono: drin, drin, drin... Mi affaccio alla finestra e vedo Luca - apri, apri, apri, apri. Ho aperto
la porta pensando avesse avuto un incidente. Ha fatto tutte le scale di corsa, è venuto su e ha detto "Io so chi è il
mostro di Firenze". Avrà visto qualcosa, avrà sentito qualcuno... "Sono io, io l'ho capito. Sono io. Sono io." A quel
punto ho chiamato Heidi perché non sapevo cosa fare. Stava malissimo. Gli abbiamo dato dei calmanti, e lui si è
addormentato». Lui, il mite e poetico Luca, si incolpava del più orrendo dei delitti. Il suo senso di colpa usciva dalla
sua vita per incontrarne altre. Non soltanto sua madre, la sua famiglia, lui. No, si sentiva responsabile di altre
disgrazie, di altre morti. Furio Di Castri racconta quando nel 1988 Luca gli disse che «aveva la sensazione di aver
mandato con la sua musica dei messaggi subliminali che avessero potuto portare Chet Baker a suicidarsi».
Luca passò per diversi ospedali. Fu ricoverato, curato. Si utilizzarono tutti i metodi, compresi quelli più duri. Anche il
suo fisico cambiò: ingrassò, dimagrì, ingrassò. La famiglia
non riusciva a capire cosa stesse succedendo, cosa dovesse fare. Del resto più di quindici anni fa il disagio mentale era
affrontato ancora in modo assolutamente inadeguato. Luca andò anche in Francia, in una comunità che si occupava del
recupero dei tossicodipendenti. Lui non faceva alcun uso di droghe, dicono i suoi amici. Ma, ancora allora, si pensava
che il disagio della tossicodipendenza e quello psicologico fossero la stessa cosa.
Qualcosa, in Luca, si era definitivamente rotto, in quell'estate del 1987. Il padre racconta che in quel periodo lo portò
con sé sulle Dolomiti. Andarono sulla Marmolada, dove papa Giovanni era stato tanti anni prima salendo a piedi.
Andarono in teleferica. Quando arrivarono in cima il padre rimase deluso «del fatto che le montagne erano state
talmente addomesticate da perdere il fascino che avevano quando ero ragazzo io. Lo dissi a Luca che se ne rese conto
perfettamente. Poi andammo a vedere i camminamenti della prima guerra mondiale. Lui fu scosso dal fatto che c'era
stata una guerra così atroce, filo spinato e baionette, come quella del '15-'18. E poi è rimasto molto colpito dall'ultima
guerra, perché vi avevo partecipato anch'io. Ricordo che al ritorno da quella piccola parentesi nelle Alpi, Luca era
molto pensoso. Era rimasto toccato sia dalle montagne, che
non erano più come io le ricordavo, sia dalle memorie del sangue di queste guerre».
E` commovente e molto triste l'immagine di questo dialogo. Un uomo adulto e un figlio giovane, soli su una montagna.
Parlano di memoria, di guerra, di quello che non c'è più. Luca, nella descrizione del padre, sembra un bambino curioso
e sensibile. Era invece un trentenne triste e stanco, curioso e sensibile. Si parlano, soli, come forse non avevano fatto da
anni, per anni.
La rottura di quei giorni drammatici non si ricucirà più. Luca racconta di voci che sente, di un tormento che lo
perseguita. Ancora Di Castri: «Questa sua estrema lucidità nel parlare dei suoi disagi, dei suoi pensieri come fossero
parte di un altro, della vita di un'altra persona. Era sorprendente. Era difficile pensare che una persona potesse essere
profondamente malata nel momento in cui era in grado di parlare lucidamente di queste cose. Poi il disagio è cresciuto
e lui ha cominciato anche a essere più visibilmente alterato; aveva lo sguardo che faceva davvero pena in quei
momenti, molto triste, molto distaccato».
Ma Luca non è «matto». La sua vita continua regolarmente. Continua a fare musica, a fare concerti. Durante una
tournée con Chet Baker, in Olanda, dopo tre giorni di concerti, un pomeriggio Luca, senza motivo apparente, decide
di chiudersi al mondo, si mette dentro a un letto e tira su le coperte fin sopra la testa. Quella sera Nicola Stilo ricorda
che andarono a suonare senza pianista. Ma il giorno dopo Luca si presentò sorridendo e disse: «Tutto a posto,
ragazzi. Da oggi si ricomincia». E così fu. I concerti successivi si svolsero normalmente. Uno di essi, a Rosenheim,
diventa un disco. E sarà l'ultimo, in quartetto, di Chet Baker.
«Tutto a posto» sembra anche la sua carriera musicale. Incide più dischi. Nel già citato Sounds and shades of sound
Luca ringrazia tanta gente, nel libretto del cd. Comincia da sua madre, «in memoria». Poi suo padre. I suoi fratelli, uno
per uno. E tanti suoi colleghi. Luca ha già trentatré anni. Non ha pudore nel confessare il suo amore per una famiglia di
persone belle, che ama.
Nell'elenco, accanto ai fratelli, compare anche il nome di Gabriel. Credo di aver capito che Gabriel, collocato al rango
di fratello, fosse I'houseboy della grande casa di Lourenço Marques. Stava molto tempo con Luca bambino. Nella
grande casa vuota Gabriel e Luca suonavano insieme. Il padre racconta che il ragazzo mozambicano «aveva una
piacevole capacità espressiva, musicale. Luca lo percepiva e stava insieme a lui: si divertiva tanto, si divertiva un
mondo a parlare di queste cose con lui e cercava poi di esprimere questi ritmi
sui suoi strumenti». Gabriel era appassionato di musica, si era costruito una chitarra con una latta rettangolare dell'olio
come cassa di risonanza e poi aveva comprato una piccola chitarra elettrica; Luca e Paolo andavano a trovarlo a casa
sua, dove aveva un giradischi a molla a 78 giri, e ascoltavano i suoi dischi. Suonava e cantava in un conjunto
(complesso) ed era molto fiero di questo.
I primi due brani di quel disco del '90, che ne contiene tre scritti da lui, sono rielaborazioni di pezzi di Luigi Tenco:
Averti tra le mie braccia e Angela. Nel booklet uno dei suoi maestri, Enrico Pieranunzi, scrive: «Amo molto il modo di
suonare di Luca. Per tante ragioni, alcune delle quali diffìcili da spiegare a parole. E` una questione di feeling. Mi piace
il suo swing fluente, il suo tocco raffinato, il modo in cui articola le frasi. Ho trovato la sua musica attuale più aperta,
più comunicativa. Ho sentito in questo disco un grande movimento "interno"». E` vero. In questo disco Luca mostra,
insieme, un'incredibile capacità di suonare e una solarità che talvolta confina con l'allegria, come testimonia il ritmo
dell'ultimo brano Dice dance.
Il critico musicale Thom Jurek definisce Luca Flores, parlando di questo album, «il meglio del jazz creativo nella
musica italiana. La sua conoscenza e il suo rispetto per la tradizione
del jazz per pianoforte sono davvero completi, per destrezza alla tastiera non è secondo a nessuno, ed è magnifica la
sua istintiva abilità di compositore di saper mescolare differenti parti della tradizione jazz e della canzone popolare
italiana».
E ancora oggi, nel sito di Artist Direct, i tre album di Luca hanno quattro stellette o, addirittura, quattro e mezzo. Come
quelli di Keith Jarrett, e più del disco di Oscar Peterson con il quale Luca aveva cominciato il suo cammino.
Sergio Corbini oggi dice: «Mi dispiace per chi non lo ha mai sentito suonare perché ha perduto l'occasione di ascoltare
uno dei più grandi musicisti del jazz contemporaneo».
Di quegli anni il chitarrista e compositore Francesco Barberini ricorda un concerto che tennero insieme a Marina di
Ravenna e poi un lungo viaggio in treno per andare a sentire un concerto a Roccella Ionica. Dice Barberini: «Dopo il
memorabile concerto di Hermeto Pascoal girovagammo fino al mattino nei pressi del castello diroccato per strade e
spiagge deserte insieme a un cane randagio che aveva cominciato a seguirci dappertutto e che ci accompagnò fino al
binario del treno al momento della partenza».
Luca era spiritoso, aveva un gran senso dell'umorismo. C'è un altro episodio che mi piace molto. Lo racconta il pianista
Giovanni Ceccarelli
nel citato libro su Massimo Urbani: «La prima volta che suonai con lui, nell'82, andai a prenderlo a casa e partimmo per
Firenze. Andammo al Cafe Voltaire perché c'era Luca Flores, che Massimo voleva salutare; oltre ad averci suonato
tante volte, fece con lui un disco stupendo, Easy to loue. Conobbi Luca che era un pianista geniale. Fu contentissimo di
vedere Massimo, il quale parlava senza sosta e lo abbracciava. Luca non disse una parola, sorrideva soltanto. Mi ricordo
che Massimo ordinò una Carbonara e se la finì in dieci secondi. Il cameriere portò via il piatto e dopo un quarto d'ora
Massimo girandosi verso lo stesso cameriere gli disse: "Man, quando arriva la mia Carbonara?". Forse l'unica cosa che
disse Luca quella sera fu: "Massimo, l'hai già mangiata". Comunque gliene portarono un'altra e si fece altri due etti di
Carbonara. Luca fu gentilissimo con me perché Massimo disse: "Parla con Luca, lui conosce i pezzi che faccio io". E
infatti Luca arrivò con una cartella contenente tutto il repertorio di Massimo: "Tienila i due giorni che suoni a Firenze,
quando hai finito me la riporti". Fu molto carino».
Francesco Maccianti racconta che Luca si divertì molto quando lui gli disse che voleva intitolare un brano di un suo
disco Cristalli mulatti, E Fabbri ricorda una passeggiata in gruppo nel silenzio dell'estate senese, interrotta
solo dal fastidioso rumore degli zoccoli di uno di loro. Luca allora si fermò, si voltò e disse: «Lo uccidi tu o io?».
Eccolo, Luca. La sua timidezza, la sua correttezza, il suo rigore, la sua educazione, la sua generosità.
Eccolo, Luca. E` lo stesso che in quegli anni si guadagna la stima e la collaborazione di Lee Konitz, Dave Holland,
Kenny Wheeler, Al Grey, Steve Grossman, David Murray, Tony Scott. E poi Rava, Fresu, Tommaso, Basso, De
Piscopo.
Eccolo, Luca. E` lo stesso di cui Paolo Fresu dice che «metteva ogni nota in sequenza come qualcosa di estremamente
prezioso. Ogni nota al momento giusto, con una sensibilità abbastanza unica».
Ma eccolo, Luca. E` lo stesso che, in quel periodo, si presenta all'Osservatorio di Arcetri e pretende a tutti i costi di
entrare. Ha saputo che passerà nel cielo della Toscana il satellite europeo da poco lanciato. Vuole assolutamente
guardarlo con il telescopio perché ha saputo che al suo interno c'è il mostro di Firenze e, quando lo avrà visto, sarà
finalmente sicuro di non essere lui, e la sua pena potrà finire. E` un episodio angoscioso, raggelante.
Ecco, Luca era tutto questo, tutto insieme. Tutto in una persona, tutto in una volta.

Sette
Nel 1990 Luca parte per l'America. Porta lontano il suo viaggio dentro se stesso. L'America l'aveva sognata, come tanti.
Aveva immaginato quei grandi spazi, quel modo di vivere, quell'idea della conquista, della frontiera che identifica l'idea
dell'America con l'idea della strada, del viaggio, della ricerca. Così lo racconta il padre: «Un giorno decise che voleva
andare in America e partì per New York. Sperava di trovare non so cosa. Invece rimase molto deluso perché vide che
quel mondo era molto commerciale, molto finto, molto arido». Arrivò in aereo a San Francisco. Stette lì qualche giorno
e poi comprò una moto. Con la moto attraversò il Messico e gli Stati Uniti, all'inizio con una ragazza, poi da solo. Il 24
settembre di quell'anno Luca spedisce una lunga e bellissima lettera al suo amico Alessandro
Di Puccio. Nella prima parte descrive il suo viaggio «on thè road».
«Senza scendere troppo nei particolari è stato un viaggio (in moto) di 15.000 chilometri che, a volte, nel Messico si
trasformava in autentico safari con tanto di guadi, città allagate, ragni grandi quanto pacchetti di sigarette che ti
attraversano la strada, crateri nell'asfalto, camionisti pazzi, diluvi, uragani e un sole che ti spaccava in due. Il tutto
condito da paesini sperduti fatti di capanne e abitati da poverissimi rancheros, vaqueros e contadini. Anche città (paesi)
bellissime, rovine maya nello Yucatàn e la barriera corallina del suddetto dove ci siamo finalmente fermati, e dove ho
avuto il piacere di trovarmi di fronte un barracuda mentre nuotavo tranquillamente con la maschera al largo di una
baia.
«Il viaggio di ritorno, dallo Yucatàn a New York, l'ho fatto da solo perché Cristina voleva tornare in Italia con l'aereo
partendo dal Messico. Viaggio un po' palloso (come tutti i viaggi di ritorno) a parte New Orleans, dove mi sono fermato
due giorni, che è incredibile - non tanto la città, che è molto turisticizzata, e che non ho neanche visto tanto, quanto la
foce del Mississippi che è lunga qualcosa come 500 chilometri tutti di paludi, acquitrini e stagni, con una vegetazione
mai vista e tanto di coccodrilli e alligatori. E poi questa tensione
strana nell'aria, queste case misteriose, ogni tanto queste bianche scritte K.K.K. che ti fanno venire la pelle d'oca, neri
che si salutano solo tra loro e bianchi idem, ecc. ecc. - un posto molto strano; e la Florida deve essere più o meno così,
con in più la pena di morte. Per non parlare del deserto tra la California e il Nevada, o il Grand Canyon, o il deserto
pietrificato nel New Mexico - insomma abbiamo fatto un gran bel viaggio.»
Forse era questo che cercava, sperando potesse aiutarlo. Una grande, maestosa solitudine avrebbe potuto scacciare la
sua solitudine interiore. Me lo immagino sulla Route 66, a dormire sotto le stelle della California, a conquistare la
skyline di Manhattan. A New York stette male. Esistono testimonianze varie sul suo disagio nella Grande Mela. La più
significativa è contenuta nella seconda parte della lettera a Di Puccio.
«A New York invece... se vieni in America e passi prima da New York è come andare per la prima volta in Italia
entrando da Napoli -New York è unica, il resto dell'America non ha niente a che vedere con NY City -, è una città
caotica, sporca, piena di facce da tagliagòle, con gente strafottente, volgare e maleducata come non mai, piena di
sconvolti e qualunquisti (questi ultimi sono una costante dell'America - mai trovato tanta gente ignorante e
menefreghista) e tutti con il mito della ricchezza e del denaro. Qui se non hai denaro, carta di credito e simili, sei un
pezzo di merda. Del resto, quale può essere il mito di un paese costruito da poveracci emigrati, senza una lira?
Diventare ricchi. Appunto. A dir la verità nel resto dell'America hanno tutti un'altra costante - sono molto gentili e ti
aiutano volentieri (di cuore) se hai bisogno di qualcosa - sono anche espansivi e simpatici - ma ignoranti! Se non fosse
che qui ci sono tanti musicisti da capogiro me ne tornerei subito a casa. E mi sa che questo mi terrà inchiodato qui per
un bel po'! Sai, ripenso spesso a quando suonavamo insieme, sin dai tempi dei tempi, e mi ricordo nettamente
l'entusiasmo. Mi ricordo quando ti mettevi le mani nei capelli al suono dei miei ragtime, e di quando mi facevi vedere
come si suonava come Erroll Garner o simili -e dei dischi che ascoltavamo insieme. Sì, comunque ricordati che io,
quando tu ancora ti mettevi le dita nel naso, avevo già imparato il giro di do in tutte le tonalità e sapevo fare le
modulazioni ai toni lontani sull'organo, ecco. Avevamo i progetti, i sogni. Poi è venuto qualcosa che ci ha diviso le
strade - poi ancora qualcos'altro che ha portato una spaventosa crisi esistenziale, morale, affettiva, musicale, religiosa e
di identità da parte mia (dalla quale sono miracolosamente uscito fuori) e un
matrimonio e una figlia da parte tua, tutto nel breve periodo di tre anni. Forse per dare un addio definitivo alla nostra
seconda adolescenza abbiamo avuto bisogno di cose così forti da farci dimenticare di fronte a noi stessi. In realtà credo
che sia un modo per avvicinarci sempre di più a ciò che siamo veramente, a rischio di rinunciare a parte di noi
(materialmente) nei confronti di un figlio, o a due anni e mezzo di sanità mentale e psichica (perché così è stato).
«Il futuro è incerto per entrambi, sia per te che hai una famiglia sulle spalle e devi tirare avanti come musicista (anche
se tra i migliori del mondo, per il tuo strumento) sia per me, da solo in una stanza ammobiliata di NY con l'inferno
fuori.»
New York è un inferno, vista dalla sua stanza ammobiliata. Inferno fuori, inferno dentro; «forse peggiore». Si
mischiano, si esaltano, si moltiplicano. E la sensazione, o la speranza di esserne fuori, si consumano rapidamente.
Ebbe eccessi d'ira, scatti di aggressività. Fu picchiato, così come era successo durante un concerto a Genova qualche
tempo prima. Gli capitò di vedere un incidente in cui era stata coinvolta una donna. Nella sua mente quei due elementi,
uniti, scossero qualcosa di profondo. Quell'incidente lo stravolse. Cominciò
a seguire la donna, che lo denunciò. Furono giorni terribili. Il padre racconta di essere andato a prenderlo a New York
perché si era reso conto che lì i problemi di Luca erano aumentati. Racconta Giovanni Flores: «Ci fu un fatto che mi
colpì molto. Lui non stava bene, io volevo riportarlo a casa. Ora, io sono cresciuto a Napoli e ho a casa diversi quadri
del Vesuvio. Quando lo andai a trovare, un giorno mi disse: "Senti papà, vieni con me. Ti voglio far vedere una cosa".
Poi facemmo una lunga camminata nel quartiere dove abitava: era un quartiere poverissimo, in cui si trovava un solo
negozio di antiquariato davanti al quale Luca volle che ci fermassimo. Mi mostrò in vetrina un quadro del Vesuvio e
mi disse: "Ecco, io te lo devo comprare". "Luca, lascia stare, questo negozio è chiuso." Ma lui ci teneva molto. Era,
nel suo modo misterioso e schivo, una dichiarazione di affetto».
Ci rimangono due testimonianze di quel travaglio. Una è una poesia che verrà pubblicata da Luca all'interno del suo
penultimo cd, Love for sale:
Dondolava nell'aria sotto ali di feltro e clorofilla urlando in silenzio
per l'orrore della sua fine tristezza.
Esili steli d'argento
nati da un eterno cammino
nelle tenebre senza peso,
sfiorando una crudele morte
ammutolivano come un lampo.
Avidi di stelle
furono sorpresi dal rombo
di un aereo da guerra
pallido nel cielo opaco
con una gelida fiamma
oppure dall'arco di un pallone
lanciato bene
che cadde tra le braccia di Monica.
La luna apparve molto maestosa, quella sera.
Il testo era firmato «Poesia di insensato favello, N.Y.C., January 1991».
La seconda è una lettera a Peppo Spagnoli, il suo discografico. «Caro Peppo, ricevo oggi la tua lettera e ti ringrazio
per l'incoraggiamento e per la proposta di incidere a New York. Penso di fermarmi qui ancora diverso tempo, anche
se ammetto di non sapere bene a cosa andrò incontro, e sento spesso nostalgia dell'Italia e dei musicisti italiani.
Riguardo al disco,
capisco le tue ragioni, e se per vari motivi non coincidono con le mie faccio uno sforzo a una condizione: e cioè che tu
possa inserire le seguenti righe che ho scritto alle quali tengo molto: "Il linguaggio della musica è uno, ed è quello
dell'anima, là dove le parole ci ingannano con i loro mille significati. E` libera di volare in paradiso, di scendere nelle
viscere dell'inferno o di starsene a galleggiare nel limbo. Io amo quei musicisti che cantano, scrivono e suonano ogni
nota come se fosse l'ultima. Il loro pensiero e il loro cuore potranno avere mille volti, ma la loro anima li tradirà
sempre. Posso solo tentare di seguire la loro strada, con i mezzi che ho".»
Suonare ogni nota come fosse l'ultima. E` il compito che Luca si assegna. E diventa la sua ossessione. Alessandro Di
Puccio ricorda che, per incidere Love for sale, nel 1991, Luca volle accanto a sé tutti i suoi amici. C'è un pezzo, scritto
da lui, che si intitolava It a uno e aveva, come sottotitolo (inferno) tra parentesi. Per suonarlo Luca chiamò a raccolta
quindici persone. Qualcuno si spazientì per questa convocazione, che appariva ingiustificata e presuntuosa. Ma il pezzo
è bellissimo. E, nella sequenza del disco, segue un'altra rivisitazione di Tenco, Angela, che ha anch'essa un sottotitolo
tra parentesi, (paradiso-limbo).
Parlando di Love for sale il critico americano
Glenn Astarita ha scritto che «come solista Flores potrebbe collocarsi tra Thelonious Monk e Bill Evans, per l'intensa
utilizzazione degli spazi, per le sonorizzazioni dolci degli accordi e per la ricerca di tempi "dispari"».
A questo disco, e Luca ne era molto fiero, collabora Bave Murray, con pezzi per sax tenore di grande forza e qualità.
Peppo Spagnoli racconta che una mattina sentì suonare alla porta di casa. Andò ad aprire e trovò Luca con una grande
borsa. Tornava da Lugano, dove era stato a mixarlo. Estrasse il master e poi dei disegni, quelli alla Kandinsky. Li mise
sul tavolo. Poi tirò fuori dei gessetti e cominciò a rafforzare le linee interne. Finito questo lavoro disse a Peppo: «Scegli
tu».
Luca vuole dedicare anche questo disco al padre, che sente di amare e al quale deve molte premure in quegli anni
difficili. «Questo disco è dedicato a mio padre Giovanni. Più che altro è una promessa che faccio a me stesso, è una
preghiera a Dio, di essere capace di condividere un futuro migliore con chiunque altro.» Quel padre che oggi dice:
«Avrei voluto fare molto di più. Forse non ero capace di capire a fondo qual era il problema. Ci siamo sforzati, io ho
fatto quello che potevo, sicuramente si poteva fare molto di più. Ma poi, quello che resta in questi casi, in questi eventi
così tragici con un figliolo, sono le cose che non si sono dette,
che non si sono spiegate, che sono rimaste ancora da spiegare, da dire. E` un discorso interrotto e un discorso interrotto
lascia molto amaro in bocca».
Forse Luca con la sua musica, con i suoi linguaggi stava dicendo qualcosa. Cercava di dire qualcosa.
Entrava e usciva dagli ospedali. Barbara si dice: «Non sarò mai in grado di immaginare la sofferenza che deve avere
provato in quei terribili anni fatti di ricoveri, ospedali, terapie che non funzionano. E di tanta, troppa solitudine».
In quel periodo si alternavano in Luca momenti terribili e una sorta di, per lui, insopportabile normalità. C'erano
momenti in cui aveva terribili scatti d'ira, inusuali per la sua riservatezza.
Il padre racconta uno di questi episodi: «Ero arrivato in treno dall'aeroporto di Pisa. Mi dissero "Vieni perché Luca sta
molto male e l'abbiamo portato in ospedale". Io andai all'ospedale, Luca stava lì sul letto, era ancora vestito e mi disse:
"Io a te ti devo ammazzare". Mi ricordo che piangeva come un bambino. Gli dissi: "Che discorsi fai?". E lui mi
rispose: "Allora sei tu che devi ammazzare me"».
Luca stava conoscendo l'ultima spirale del gorgo. Quando stava male gli venivano somministrate abbondanti dosi di
tranquillanti. Prendeva il litio,
altro. Diventava più tranquillo, i suoi fantasmi si dissipavano. Ma non riusciva più a suonare. In questa agghiacciante
contraddizione si sono agitàti gli ultimi tempi della vita di Luca Flores, musicista italiano. O vivere, o suonare.
Barbara: «Quando lui prendeva le medicine, mi diceva sempre che non riusciva più a comporre musica, non riusciva più
a suonare. Era come se le sue mani si fossero atrofizzate. Era un Luca sotto controllo, un Luca molto tranquillo che
diceva "sì", "no", mangiava, dormiva, si alzava. Però non era il Luca musicista, il Luca che conosciamo tutti. Per questo
capisco il dramma della sua vita. Lui forse si era reso conto che era destinato a diventare una persona "normale"». Ma
quella normalità era estranea, persino nemica del suo bisogno di comunicare attraverso la musica, del suo mondo di
immagini e di suoni, delle certezze che in quel mondo aveva a fatica costruito. «A lui probabilmente bruciava l'idea di
essere una persona sana che non poteva più suonare.»
Racconta commosso Lello Pareti: «Una volta sono andato a prenderlo a Careggi. C'era una pausa nella terapia. Gli dico:
"Andiamo a casa e suoniamo". Era un bel po' di tempo che non tornava a casa. Lui si è seduto alla tastiera. Ha fatto due
note, ha tentato di eseguire
un tema e si è reso conto che non ce la faceva. Non riusciva a suonare, perché era sotto l'effetto degli psicofarmaci. Si è
messo a piangere come un bambino. Ho questa immagine di lui che dice: "Non riesco a suonare, non riesco a
suonare"». Pur nella durezza di questo disagio, Luca riesce a fare della grande musica. Il sole e la luna si avvicinano,
come in un tramonto. Qualcuno ha detto: «Più ti avvicini alla luce, più la tua ombra si fa grande». Così stava
accadendo a Luca. Più si avvicinava al nucleo luminoso della sua musica, più le zone scure della sua vita sembravano
riemergere e torturarlo. O vivere o suonare. Luca a un certo punto decide di distruggere definitivamente la sua
capacità di fare musica. Lo fa nel modo più violento. Varca un altro girone, un altro anello del gorgo: l'autodistruzione
fisica. Un giorno, nell'ottobre '91, si taglia i polpastrelli e si recide il tendine di una mano. Viene trovato così e il
padre lo fa operare da uno specialista che gli restituisce la funzionalità e, con essa, la possibilità di tornare a suonare.
Un'altra volta, due anni dopo, prende un cacciavite, lo scalda sulla fiamma e poi lo infila nell'orecchio. Dopo aver
tentato di annientare la sua capacità di fare musica, ora vuole distruggere la possibilità di sentire le note. Il medico in
ospedale gli
disse spietato: «Lei resterà sordo da un orecchio». Luca pianse a dirotto perché non sapeva, non poteva sapere, povero
ragazzo, cosa davvero volesse. Se voleva vivere, o se voleva suonare. La vita lo aveva messo di fronte all'unica scelta
che non poteva fare, all'unico bivio che non poteva accettare. Rifiutava l'ostacolo, ma non riusciva a proseguire la
corsa. Si faceva male. Forse perché in chi soffre un disagio interiore spesso il dolore fisico è un male minore. Una
ferita è visibile, si tocca, si controlla, guarisce. Il male dentro sembra invisibile, intoccabile, incontrollabile,
inguaribile.
Ora davvero Luca non ce la faceva più. Alessandro Di Puccio lo invitò a tenere dei corsi alla sua scuola di musica.
Luca arrivava due ore prima della lezione, aspettava tutto il tempo davanti a una finestra guardando il vuoto e
fumando. Poi, cinque minuti prima dell'inizio delle lezioni, andava via. Da una cabina telefonica chiamava per dire
che non ce la faceva, che mandassero via gli studenti.
Era diventato difficile stargli vicino. Aveva cambiato casa. Era andato a Montevarchi dove viveva con Michelle, la sua
nuova ragazza. Michelle è una cantante molto brava, è stata molto vicina a Luca, immagino con quanto amore e con
quanta sofferenza.
Nell'ottobre del '94 Luca vuole tornare a suonare con Tiziana Ghiglioni, con la quale i rapporti si erano rarefatti da
anni. L'occasione è un concerto alla Sala Vanni di Firenze organizzato dal «Musicus Concentus». Ancora oggi
navigando fino al sito di questa benemerita associazione si può trovare l'annuncio, che ora pare grottesco, di quel
concerto. Alle prove Luca si presenta con una borsa. Da essa estrae un grande quaderno. In copertina c'è scritto
«Tizzy» e c'è un puffo in decalcomanìa. Era quello di molti anni prima e Luca lo aveva custodito gelosamente persino
con un tocco di spirito infantile che non gli era estraneo. Poi estrae un altro quaderno con gli spartiti di centinaia di
standard da lui ricopiati e adattati meticolosamente.
Eccolo, Luca. Il suo rigore severo, la tenerezza di un gesto di memoria, la dolcezza di un puffo venuto dal passato.
Eccolo, Luca, Ventiquattr'ore dopo. Inizia il concerto. Al terzo brano, forse My funny Valentine, Luca comincia a
suonare per conto suo. Poi prende una bottiglia d'acqua e se la rovescia sulla testa. Intanto si spoglia. Poi si alza dal
piano e prende a ballare, a ballare, a ballare. Prima affianca Franco Nesti, il contrabbassista. Poi Tiziana Ghiglioni
annuncia una pausa. Posso immaginare il gelo nel sangue di chi era su quel palco. Il dolore, lo smarrimento,
la paura. Luca suonava con loro, Luca era loro amico, quasi fratello. Ancora una volta tutto insieme. Quando tutto
finisce Luca si siede di nuovo al pianoforte e nella sala semivuota comincia a improvvisare, suonando Debussy.
Eccolo, Luca. Quindici giorni dopo, il 30 ottobre, scrive a Peppo Spagnoli una lunga, perfetta lettera. In essa è descritta
la scaletta del suo nuovo disco. E allega al testo, come dice, «quattro dei dodici brani che ho intenzione di registrare e
pubblicare. Per essere più precisi sono tre: Kaleidoscopic stars, infatti, la voglio rifare dal vivo perché non sono
soddisfatto delle parole, che dovrebbero essere più precise.
I used to fly through endless dreams 'till thè clouds covered up my path kaleidoscopic beams a guide that you have sent
me
(Volavo attraverso sogni infiniti
finché le nuvole non hanno coperto il mio
cammino
raggi caleidoscopici una guida che mi mandasti)».
Poi aggiunge: «Come ti ho detto per telefono il disco sarà dedicato alla mia infanzia trascorsa in Mozambico».
Seguono i titoli dei brani e la composizione dell'organico, che prevedeva una quantità infinita di strumenti. Dal
vibrafono all'armonica a bocca. Peppo Spagnoli racconta che Luca voleva che ci fossero Miriam Makeba e un gruppo di
percussionisti senegalesi. Come se volesse inverare, anche musicalmente, quella dedica all'Africa dei suoi anni di
bambino. Peppo Spagnoli gli disse, onestamente: «Luca, lo sai, non ho la forza e i mezzi per fare questo».
Voleva forse, di nuovo, avere tutti vicini, perché ogni nota può essere l'ultima. Il nome del gruppo voleva fosse «Alex»
e il titolo del disco Innocence.
Eccolo, Luca. Quindici giorni dopo si getta con la macchina in una scarpata. Qualcosa, forse un albero, ferma
l'automobile che precipita. Luca non si fa nulla, ma la macchina è distrutta. A tutti dirà che è stato un incidente.
A sua sorella Heidi, in uno dei momenti di sconforto, confidò che voleva volare verso Est e che durante questo viaggio
voleva aprire il portellone dell'aereo e gettarsi giù. Un'altra volta parlò, o tentò, di aprire lo sportello di un'automobile
in corsa per gettarsi giù. Quello che era successo a sua madre, esattamente trent'anni prima.

Otto
O vivere o suonare. Luca decide. Suona l'ultima volta prima di smettere di vivere.
Ci sono molti brani che raccontano la fine di grandi jazzisti. Qualche volta sono le loro ultime registrazioni, qualche
volta no. Lo è lo straziante My funny Valentine eseguito da Chet Baker a Hannover il 28 aprile del 1988, due settimane
prima di quel venerdì 13 maggio nel quale volò dalla finestra di un albergo di Amsterdam. Non lo è l'incredibile
esecuzione di Lover man che Charlie Parker, ormai devastato dall'alcol e dalla droga, registrò in quella che Arrigo
Polillo ha definito «la più drammatica seduta di incisione della storia del jazz». Ross Russel, il discografico della mitica
Dial, ha assistito alla session e ha raccontato: «Charlie aveva mancato l'entrata. Con alcune battute di ritardo,
finalmente entrò. La sonorità di Charlie si era rinfrancata. Era stridente, piena di angoscia. In essa c'era qualcosa che
spezzava il cuore. Le frasi erano stroncate dall'amarezza e dalla frustrazione dei mesi passati in California. Le note che
si susseguivano avevano una loro triste, solenne maestosità. Sembrava che Charlie suonasse con automatismo, non era
più un musicista pensante. Quelle erano le dolorose note di un incubo, che venivano da un profondo livello
sotterraneo. Ci fu un'ultima strana frase, sospesa, incompiuta e poi silenzio. Quelli nella cabina di controllo erano un
poco imbarazzati, disturbati, e profondamente commossi».
Julio Cortàzar ha dedicato a questa session e a Charlie Parker, che tutti chiamavano Bird, un racconto bellissimo, Il
persecutore. E mani anonime, dopo la morte di Parker, scrissero sui muri delle stazioni della metropolitana e su quelli
delle case del Greenwich Village «Bird lives!».
Il 19 marzo del 1995, ai Planet Sound Stu-dios di Firenze non c'era Cortàzar.
C'era un ragazzo solo, curvo sul pianoforte. Nessun gruppo «Alex», nessun vibrafono, nessuna armonica a bocca.
Neanche chitarre o percussioni. Né musicisti africani. Ora Luca non voleva nessuno, solo se stesso. Nel passato aveva
chiamato tutti perché una nota «può essere l'ultima».
E non lo era stata. Stavolta non doveva essere! nessuno, perché era davvero l'ultima nota.
Barbara lo accompagnò. «Fu l'ultima volta che lo vidi, mentre si allontanava a piedi verso
lo studio di registrazione.»
Registrò cinque brani, quel giorno. Poi telefonò, di notte, a Peppo Spagnoli. Era stanco, laconico. «Peppo, ho finito di
registrare.» «Come è andata?» «Bene, sì, bene.» «Dimmi qual-cos'altro.» «Ho rifatto i miei vecchi pezzi ma li ho
cambiati tutti. Domani ti mando il master.»
Il giorno dopo Luca invia, come promesso, la registrazione. Ma l'accompagna con una lettera, asciutta, nella quale
indica l'ordine dei pezzi e corregge alcuni titoli dei brani. Nel testo dell'ottobre '94 il primo pezzo era intitolato How far
can you fly, firefly? Ora il titolo cambia. Per Luca, dopo averlo registrato, si deve chiamare Ladder e aggiunge una
parentesi: «(ex How far can you fly}». In realtà Luca aveva già inciso una versione di quel brano in un disco del 1987
intitolato Where extremes meet. Il pezzo ebbe anche successo. Ma è del tutto diverso da quello che Luca ricrea alla
fine della sua vita.
E` il brano che ha dato inizio a questa storia. E` il primo che ho ascoltato, quello che mi ha fatto commuovere. Quando
l'ho sentito non sapevo nulla di Luca. Né della sua vita, né della
sua morte. Eppure in quelle note, in quei tempi, in quei silenzi, nella misura del tocco ci sono una malinconia, un
dolore, un'angoscia che arrivano dritti al cuore. E` uno dei brani musicali più intensi che abbia mai sentito in vita mia.
E`
un'esperienza, più che un pezzo di jazz. E` il racconto di un addio. Qualcosa che finisce, non qualcosa che si spezza. E`
bello sentirlo di notte, quando i rumori della vita si dissolvono e si può restare soli con il dolore di una musica come
questa. Allora si possono chiudere gli occhi e volare in quello studio, quel giorno di marzo del
millenovecentonovantacinque.
Ora, ora che l'ho conosciuto meglio, posso metterlo più a fuoco, Luca. Lo vedo, da fuori lo vedo, mentre accarezza con i
suoi polpastrelli feriti la tastiera del pianoforte. Forse in quei quattro minuti e ventotto secondi la sua vita gli è passata
davanti agli occhi: Sister Coppertina, i giochi sfrenati di Barbara, il bacio non dato, la gonna di mamma impigliata nel
cerchione, i sedili della macchina nera, la grande casa vuota, i viaggi, il pianoforte a mezza coda, le serate alla Certosa, i
professori in piedi che lo applaudono, Oscar Peterson, i concerti fiorentini nei circoli fumosi, le bocce sull'isola umbra, i
primi dischi, Cinzia, Chet Baker e la coperta sulla testa, la corsa sulle scale di Barbara, la paura degli ospedali, la
scoperta della Marmolada, le stelle della California,
i quadri di Kandinsky, il satellite da guardare per sentirsi liberi, gli studi di registrazione, Michelle, gli amici, il sangue
dalle dita, la voglia e la paura di non sentire più, Debussy nel teatro semivuoto. Tutto insieme, tutto in una volta. Una
vita in quattro minuti e ventotto secondi.
Eccolo, Luca. Le sue mani seguono il percorso della sua tristezza. Della sua dolce, intelligente, rigorosa tristezza.
Questa volta davvero è «l'ultima nota». E forse Luca, per la prima volta, si ama. Lo aveva scritto: «Io amo quei
musicisti che cantano, scrivono e suonano ogni nota come se fosse l'ultima. Il loro pensiero e il loro cuore potranno
avere mille volti ma la loro anima li tradirà sempre. Posso solo tentare di seguire la loro strada, con i mezzi che ho».
L'ha imboccata quella strada, il 19 marzo. L'aveva vista da Staten Island, forse da allora l'ha cercata e ora l'ha trovata.
Quelle note raccontano questo lungo e doloroso viaggio. Ma tutto il disco è di una bellezza rara. Non è solo la mia
opinione. Recensendolo il critico di «All music guide» ha scritto: «Tutto questo conduce a definire Flores un genio del
piano che a oggi non viene ancora riconosciuto, un genio che gli ascoltatori non potranno mai più ascoltare. E`
terribile che Luca Flores non sia stato apprezzato neppure con la sua
morte; ed è ancora più terribile che non gli sia offerto il giusto riconoscimento per il reale contributo dato al linguaggio
del piano mentre ancora stava camminando e suonando fra noi. Si tratta di una tra le più intime, innovative e
commoventi incisioni per solo piano».
Le incisioni di quel giorno sono molto struggenti. Ma anche i pezzi del disco registrati qualche mese prima, nel luglio
del '94, hanno quell'intensità che farà dire a un'altra rivista specializzata che «queste registrazioni sono da considerare
tra i punti più alti raggiunti dal jazz nell'ultimo quarto di secolo». E Barbara annota la differenza tra Love for sale, in cui
Luca intendeva dimostrare che ce la metteva tutta e non voleva darsi per vinto, e quest'ultimo album, For those I never
knew, «dove sento una rassegnazione maestosa e nostalgica allo stesso tempo. Come tirare i remi in barca e lasciarsi
andare alla deriva. Un addio al mondo».
Un altro brano, My ideal, scritto da Leo Robin, è interpretato in modo straziante, così come altre ballad di Jerome Kern
o George Gershwin. Sono sei i pezzi composti da Luca. Uno di essi è Kaleidoscopic stars. Quello che Luca, nell'ottobre
del '94, aveva deciso di incidere di nuovo. E` l'unico brano cantato dalla bella voce di Michelle Bobko. Ma Luca aveva
scritto a Peppo che voleva cambiare il testo. Voleva che si dicesse «Volavo attraverso sogni infiniti, finché le nuvole
non hanno coperto il mio cammino, raggi caleidoscopici, una guida che mi mandasti».
In verità Luca registrò quella versione. Con la sua voce. Ne fece una cassetta e la diede al padre. Era incisa insieme ai
brani di quel giorno di marzo. Sul retro, musica di Miriam Makeba.
Dice Paolo: «Questa cassetta, che mio padre mi diede subito dopo la morte di Luca, mi ha accompagnato per i giorni e
le settimane seguenti, e io l'ho sempre interpretata come una specie di saluto/testamento musicale, e anche come una
colonna sonora degli ultimi atti prima e dopo la morte ormai decisa. C'erano nell'ordine i brani My ideal, Por those I
never knew, Coincidenze, e la versione inedita di Kaleidoscopic stars (Tyner's mirrar), in cui Luca canta, con una voce
tremolante, due volte.
«Canta quella frase "Volavo attraverso sogni...", ma la prima volta la conclude con "una guida che mi mandasti" e la
seconda con parole solo poco diverse: "una guida che voi tutti mi mandaste".
«Seguono dei pezzi belli e intensi da Ragas and Sagas di Jan Garbarek e Ustad Fateh Ali Khan. Il primo sembra un
lamento funebre, e fa pensare all'anima di Luca che viene accolta in un ambiente mistico orientale e si libera sopra le
montagne del Pakistan, poi lo spirito
della musica si alleggerisce progressivamente, fino ad alcuni brani di Sangoma di Miriam Makeba, in cui si sentono il
calore e la felicità dell'Africa della sua infanzia».
Forse è quello il saluto di Luca alla vita, alla sua famiglia, agli amici. Non un biglietto, ma un disco. Por those I never
knew. Per quelli che non ho mai conosciuto. Per i sogni infiniti attraverso i quali volava, finché le nuvole non hanno
coperto il suo cammino.
Ora Luca ha messo le cose a posto. Con rigore, con dolcezza.
Ora non si chiede più quanto lontano possa volare, «How far can you fly». Ora le nuvole hanno davvero coperto tutto.
E`
per questo che sostituisce il titolo del brano. Diventa Ladder, la scala, quella sulla quale sarebbe salito per l'ultimo atto
della sua vita.
E` la fine di quel mese. Il racconto è della sua Barbara: «La sera del 31 marzo, mio padre mi disse che aveva cercato di
chiamare Luca e aveva trovato il telefono sempre occupato. Ho provato anch'io e fino alle nove e mezza, dieci era
sempre occupato. Mio padre allora mi chiese di andare a vedere. Io e il mio compagno ci siamo messi in macchina,
come purtroppo avevamo fatto altre volte, per andare a casa di Luca, a Montevarchi. Siamo arrivati lì e io avevo le
chiavi di casa e non so perché, ma quando ho aperto la porta avevo
già capìto che Luca si era ucciso. C'era la luce accesa in casa e i suoi gattini, che adorava, sembravano impazziti. Si
trattava di cercare Luca, perché in soggiorno non c'era, in cucina non c'era. Io però sentivo che si trovava in camera
sua, e infatti sono scesa giù e l'ho visto lì... Quando lo vidi, non credetti che fosse morto. La stanza era buia, non
trovavo l'interruttore - e forse è meglio così -, l'unica luce che c'era era quella che filtrava dalle finestre. Dopo qualche
secondo al buio intravidi la sagoma di Luca, che stava in piedi, e sembrava che stesse contemplando qualcosa che era
ai suoi piedi. Nel grande silenzio, questa figura mi appariva stranamente naturale, composta, tranquilla. Probabilmente
non riuscivo a pensare al peggio, perché quel pensiero sarebbe stato troppo pesante da sopportare. Lo chiamai "Luca,
Luca, sono io, sono qua, rispondimi". Poi vidi il bianco della corda che pendeva dal soffitto e improvvisamente capii
tutta l'orrenda verità. Fortunatamente non ero da sola: Andrea, il mio compagno, fece tutte le cose che doveva fare,
chiamare
la polizia e i carabinieri, il medico, non so, l'ambulanza, chiamare la mia famiglia e non mi ricordo. Credo di essere
andata dai carabinieri, dove mi ha raggiunto mio padre, poi mia sorella. Però ricordo una cosa che è successa il giorno
dopo, che era sabato, e mio padre mi telefonò
per dirmi che i funerali sarebbero stati lunedì 3 aprile, e io dissi: "Ma come, quali funerali, ma allora Luca è morto
davvero?". Io non riuscivo ancora a capire che Luca non c'era più, ci ho messo un po' di tempo. Cioè, tìsicamente
avevo visto che lui non c'era più, che era morto, ma il mio cervello ci ha messo giorni per realizzare che davvero non
avrei più parlato con lui. Lui non lasciò niente di scritto, non abbiamo mai trovato niente, però so che a modo suo ha
detto addio a tutti noi, solo che l'abbiamo capito troppo tardi. Sono sicura che lui ci aveva salutati con delle frasi
magari dette solo a metà, con dei discorsi che noi non abbiamo valutato bene, con dei gesti che magari non abbiamo
saputo interpretare.
Sicuramente lui ci ha salutati, prima di fare questa cosa. Io dopo la sua morte frequentavo molto Michelle, perché
Michelle era stata la sua ultima compagna, e poi eravamo veramente amiche. Quindi andavo a trovarla spesso a
Montevarchi perché lei era rimasta a casa di Luca e una volta mi disse che l'aveva sognato. In questo sogno lei gli
chiese il perché di questo gesto e Luca le disse che era stato molto difficile per lui morire ma che però era stato ancora
più difficile vivere».
Non ha lasciato una riga, Luca. Ma ha lasciato la sua musica, che era la sua vita. I suoi fratelli hanno ritrovato una
foto, tra le sue carte.
E` quella scattata a Forte dei Marmi, con mamma Iolanda e lui e Barbara vestiti allo stesso modo, con la stessa
salopette.
Però da quella foto Luca ha ritagliato, con rigorosa precisione, se stesso. E` stato difficile vivere, per Luca Flores.
Però ora eccolo, Luca. Con la sua musica meravigliosa e la sua storia tenera e malinconica, dura e poetica. E` stato sole
e
luna, giorno e notte. Come la vita. Come il mondo che sognava, sentendo Vivaldi, quel bambino geniale. Il mio amico
Luca.

Appendice.
A pag. 105 e 107, due appunti autografi che Luca ha lasciato a Francesco Maccianti.
1. Lo schema di esercitazioni quotidiane di un bravo pianista.

Discografia
A proprio nome:
1986 Sharp blues - Splasc(h) Records
1987 Where extremes meet - Splasc(h) Records
1990 Sounds and shades ofsound - Splasc(h) Records
1991 Love for sale - Splasc(h) Records
1995 Por those I never knew (piano solo) -
Splasc(h) Records (postumo) 2003 Mattjazz quintet live - Splasc(h) Records
Collaborazioni discografìche:
1984 Streams, Tiziana Ghiglioni sextet - Splasc(h) Records
1986 Riddles, Bruno Marini - LMJ
1987 Barga jazz 1987, live, Concorso per arrangiatori - Splasc(h) Records
1987 Easy to love, Massimo Urbani quartet -Red Records
1987 Dreams, Giko Pavan Quartet - Splasc(h) Records
1987 Coriandoli, Tiziana Simona e Riccardo Bianchi - Splasc(h) Records
1987 A night at thè Shalimar, Chet Baker quartet - Philology
1988 Chet Baker's last recording as quartet, Chet Baker quartet - Timeless
1995 Errata Corrige, Nicola Stilo - Splasc(h)
Records

Ringraziamenti
Grazie a Giovanni, Paolo, Heidi, Barbara Flores. Grazie per avere accompagnato la mia scoperta di Luca con l'amore e
il dolore. Grazie per avermi incoraggiato a non avere paura di una storia così bella e dura. Grazie per i loro ricordi e, a
Paolo in particolare, grazie per la cura e l'affetto con i quali ha tenuto e organizzato l'immenso archivio fotografico
della sua famiglia.
Grazie a Gabriella Raggi per avere capìto, intuito, che How far can you fly sarebbe stato, per me, importante.
Grazie alle decine di persone che hanno parlato di Luca e hanno rievocato frammenti della loro vita. Grazie a Francesco
Barberini, Federico Bertelli, Stefano Bollani, Piero Borri, Barbara Casini, Sergio Corbini, Franco D'Andrea, Furio Di
Castri, Alessandro Di Puccio, Alessandro Fabbri, Paolo Fresu, Tiziana Ghiglioni, Maurizio Giammarco, Francesco
Maccianti, Rita Marcotulli, Franco Nesti, Lello Pareti, Enrico Pieranunzi, Peppo Spagnoli,
Nicola Stilo, Marco Vavolo. Molte delle loro testimonianze sono citate nel testo. Grazie a Francesco Martinelli del
Centro studi sul jazz «Arrigo Polillo» di Siena, prezioso centro di documentazione della musica jazz. Grazie a Roberto
Malfatto che si è appassionato a questa storia e ha speso intelligenza e fantasia per capire Luca e la sua musica. Grazie
ad Alessandro e Nicola per avere letto il testo e averlo trovato giusto. Grazie a Francesco e Giorgio e Ugo e Alessandro
per il conforto del loro giudizio.
Grazie a Paola e Simonetta per la consueta, affettuosa fatica di traduzione di una grafia indecifrabile. Grazie a Rosaria,
molto più di un editore.

Le citazioni nel testo sono tratte dalle seguenti opere:


Marcel Proust, Dalla parte di Swann, Einaudi, Torino 1991.
lan McEwan, L'amore fatale, Einaudi, Torino 1997.
Omette Coleman in Storia della musica, Einaudi, Torino 1995.
Marshall Stearns in Storia del jazz, Edizioni Librarie Italiane, Firenze 1957.
Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax, Instar Libri, Torino 2002.
Wassily Kandinsky, Punto, linea, superfìcie, Adelphi, Milano 1968.
Carola De Scipio, L'avanguardia è nei sentimenti. Vita, morte, musica di Massimo Urbani, Stampa Alternativa, Viterbo
1999.
Ross Russel in Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori, Milano 1997.

IL DISCO DEL MONDO


Vita breve di Luca Flores, musicista
di Roberto Malfatto e Walter Veltroni

Roberto Malfatto è nato a Roma nel 1960. Architetto, scenografo e regista ha ideato e realizzato numerosi eventi e
filmati di carattere sociale e culturale.

Il filmato Il disco del mondo, diretto e prodotto da Roberto Malfatto, accoglie i ricordi di:
Giovanni Flores, Barbara Flores
e di
Barbara Casini, Furio Di Castri, Paolo Fresu, Tiziana Ghiglioni, Maurizio Giammarco, Lello Pareti,
Peppo Spagnoli, Nicola Stilo
Operatore di ripresa
Marco Capriotti
Fonico in presa diretta
Giorgio Paccariè - Cinzia lacoangeli
Coordinamento
Enrico Sitta
Post Produzione filmati
Gruppo Edo
Operatore al montaggio
Simone De Rossi
Mixaggio audio
Stefano Maccarelli
Montaggio sequenza fotografica
Dream like vision
Alberto Gelpi - Marco Genovesi
Musica
- How Far Can You Fly? (Ladder) di Luca Flores
- Doctor Gradua ad Parnassum di Claude Debussy tratto dalla raccolta Children's corner eseguito da Luca Flores
Grazie a:
Alessandro Fabbri e Franco Nesti per la disponibilità
Club La Palma per l'ospitalità

WALTER VELTRONI è attualmente sindaco di Roma, dopo essere stato direttore dell'"Unità", vicepresidente del
Consiglio e ministro dei Beni culturali con Romano Prodi, segretario nazionale dei Democratici di sinistra. Oltre ad
alcuni libri sulla televisione e sul cinema, ha pubblicato presso Baldini & Castoldi Il sogno spezzato. La vita e le idee di
Robert Kennedy (1993 e 1999), Governare da sinistra (1997), La sfida interrotta (1999), / care (2000) e presso Rizzoli
La bella politica (intervista di Stefano Del Re, 1995 e 1996) e Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano (2000).
In copertina e sul retro: Luca Flores in due fotografie concesse gentilmente dalla sua famiglia.
Progetto grafico di Mucca Design
www.rizzoli.rcslibri.it
infopoint@rcs.it
ISBN 88-17-87243-1

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