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Adrián N. Bravi
1
a Enrico, Costanza, Lorena e Santiago
2
Parlava il russo in quindici lingue
Julia Kristeva
3
Premessa
Quando uno scrittore ricorre a una lingua che non sia quella materna può farlo
per necessità, come Conrad, o per una divorante ambizione, come Nabokov, o per
arrivare a uno estraniamento più profondo, come Beckett. Facendo parte di un girone
diverso, nell’estate del 1977, quando vivevo in America già da cinque anni, entrai in
una piccola bottega di Sixth Avenue a New York, mi comprai una “Lettera 22” portatile
e mi accinsi a scrivere in inglese (saggi, traduzioni, ogni tanto una poesia) per un
motivo che aveva ben poco a che fare con quelli che ho elencato. Il mio unico intento
era, allora come adesso, di ritrovarmi più vicino all’uomo che consideravo la più grande
mente del ventesimo secolo: Wystan Hugh Auden 1.
5
Infanzia
Nella mia vita c’è una specie di spartiacque linguistico che si posiziona
più o meno in mezzo, nel senso che la prima metà l’ho trascorsa parlando e
pensando in una lingua e la seconda metà in un’altra. E non avrei mai
immaginato che la prima, lo spagnolo, o meglio il castellano, che ho usato fino ai
ventiquattro anni circa, sarebbe diventata per me una lingua monca, senza
vecchiaia, come adesso è l’italiano rispetto al passato, una lingua senza infanzia,
perché, appunto, i colori e i sapori della mia infanzia parlano in un’altra lingua.
Per me non è la stessa cosa dire lagartija o dire lucertola. L’animaletto è sempre
quello, ma nel mio immaginario sono due bestiole diverse. La parola lagartija mi
riporta alla prima metà della mia vita, quando inseguivo insieme ai miei cugini e
agli amici queste bestioline velocissime e qualcuno (io non ne ho mai avuto il
coraggio) riusciva a prenderne una e a staccarle la coda con le mani. Ecco, la
parola lagartija è anche quegli occhi stupefatti, che guardavano come si
dimenava la coda strappata, mentre la bestiola sfuggiva dietro un cespuglio, e noi
tutti, cugini e amici dicevamo: “Mirá, mirá cómo se mueve”. Alla parola
lucertola manca quel corredo di ricordi e di sguardi. Più o meno la stessa cosa mi
capita quando penso alla parola inondazione (in famiglia non dicevamo
inundación, ma crecida o riada, più crecida che riada, perché quest’ultima
sembrava arrivare d’altri tempi, come una parola arcaica). La parola inondazione
mi fa pensare alle catastrofi recenti; crecida invece mi riporta alla mia infanzia e
ai miei primi ricordi, di quando stavo a San Fernando. Abitavo in una vecchia
casa accanto al fiume e quando arrivava la crecida mia madre mi metteva sopra il
tavolo della cucina e mi lasciava lì mentre lei, mio padre e il resto della famiglia
si adoperavano per tenere a bada l’acqua che arrivava dal fiume (a ripensarci
forse quel tavolo è stato e rimane il mio vero paese: oggi in particolare, se
dovessi dire qual è la mia vera patria, direi che è quel tavolo lì). I miei primi
disegni e forse le mie prime lettere dell’alfabeto le ho disegnate quando scendeva
l’acqua e andandosene lasciava sul muro una sottile crosta di fango che io andavo
a scalfire con il dito sputacchiato, dopo essere stato messo sopra il tavolo da mia
6
madre o da mio padre. La crecida aveva tutte intorno a sé anche altre parole, che
si riferivano a quel mondo e anche se stavano un po’ discoste facevano parte di
un immaginario comune: barro (fango), camalotes (sorta d’isolotti formati dalle
piante acquatiche), umbral (soglia, da dove entrava l’acqua e con la quale
bisognava fare i conti ogni tanto). Se dovesse scomparire la parola crecida, per
me scomparirebbe tutto un mondo che si porta appresso o addirittura sta dentro
questa stessa parola. Poi, quando avevo quattro o cinque anni, siamo andati via
da quella casa nei bajos de San Fernando e da allora la parola crecida è quasi
scomparsa dal mio vocabolario quotidiano. Ma ne sono apparse altre, come
trenes (treni) o escondida (“¿Vamos a jugar a la escondida?” si diceva). Era il
periodo in cui siamo andati a vivere a un altro quartiere di Buenos Aires, Santos
Lugares, vicino alla ferrovia, a pochi metri dalla casa di Ernesto Sabato, una casa
con un giardino davanti senza inferriata dove si poteva entrare scavalcando un
piccolo muro. Quello era il mio posto preferito per giocare a nascondino. La casa
vera e propria si trovava in fondo al giardino di Ernesto Sabato, e io rare volte
arrivavo fin laggiù. Aveva la facciata ricoperta d’edera (era una cascata verde
molto fitta che sembrava venire giù dal tetto). Il giardino invece era pieno
d’alberi, piante incolte e strati di foglie cadute e accumulate nel tempo. Mi
ricordo una grossa araucaria, un gelso, un gomero (in Italia conosciuto con il
nome di fico del caucciù, un albero bello per arrampicarcisi) e un paio di cipressi.
Non credo che Ernesto Sabato sapesse delle nostre incursioni. Una buona parte
della mia infanzia l’ho trascorsa a giocare e a litigare con gli amici tra quegli
alberi, che io ricordo rigogliosi in maniera inverosimile, quasi fantastici. Il tempo
spesso ci dà una visione distorta delle cose: molte volte ricordiamo gli spazi
dell’infanzia in base a come eravamo da piccoli, quando le dimensioni, i colori, i
profumi, sono tutti diversi rispetto a come li percepiamo da grandi. Io però quel
giardino lo vedo ancora fermo nel tempo, con gli occhi che avevo quarant’anni
fa, e quando lo ricordo mi sembra d’entrare in un posto incantato, o quasi.
8
Spaesamenti
A chi abita lontano dai luoghi della propria infanzia capita spesso di
ricordare il tempo e lo spazio dove è cresciuto. La lontananza è una corda che ci
lega a un tempo che è dentro di noi, un tempo che diventa ricordo, immagine,
nostalgia. Non è una condizione chiusa nella sfera del rimpianto, è un modo
d’intendere la relazione tra sé e il mondo. Si ritorna sempre con delusione ai
luoghi del ricordo; la nuova fisionomia che prendono quei posti ci dà, ogni volta,
la cifra del tempo, quel tempo che non c’è più e che ha trasformato ogni cosa.
Ricordare significa riportare il lontano verso la luce del presente. Per alcuni il
ritorno a quei luoghi è più triste di quanto sia stata la partenza. Ci accorgiamo
della nostra estraneità, del nostro smarrimento. Eppure, i ricordi sono l’unico
appiglio che ci rimane del passato. In una delle Lettere a un giovane poeta, Rilke
immagina di essere in un carcere con dei muri altissimi che non lasciano filtrare
alcun rumore e si chiede se, pur senza nessun tipo di percezione del mondo, non
avremmo ancora la nostra infanzia “questa ricchezza preziosa, regale, questo
tesoro dei ricordi?” I corpi, le parole, la luce, i sapori, le ombre, tutto ciò che
attraversano i ricordi fa parte del nostro linguaggio. La memoria è una forma
della finzione. Esiste perché il passato non continua e quindi ogni volta bisogna
reinventarlo, ricucire gli stralci di un tempo perduto. I ricordi disegnano la mappa
delle nostre fantasie. Gaston Bachelard, in La poetica della rêverie, afferma che
la memoria “è un campo di rovine psicologiche, un rigattiere di ricordi. Tutta la
nostra infanzia deve essere riimmaginata. Quando la riimmaginiamo, abbiamo la
fortuna di ritrovarla nella vita stessa delle nostre rêvieres di bambino solitario”2.
Viviamo riimmaginando la nostra vita, reinventandola a ogni momento, anzi,
siamo questa invenzione che raccontiamo di noi stessi.
2 Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, traduzione di Giovanna Silvestri Stevan, Bari, Dedalo
1993, p. 110.
9
lontananza, dagli addii all’esilio, dall’esilio alla poetica dello sguardo, dalla
cartografia alla prospettiva, dal suono della lontananza all’amore di lonh dei
poeti provenzali. C’è un paragrafo di questo Trattato che parla della nostalgia del
tempo perduto, s’intitola Un’irrimediabile lontananza: il tempo irreversibile, e
comincia così: “Di fatto non si ha nostalgia di un luogo ma del tempo vissuto in
quel luogo. Non dell’infanzia ma del tempo che l’infanzia designa. E quel tempo
è definitivamente perduto. A quel tempo non si potrà più tornare”3.
11
Le lingue di mia zia
Sono partito da una lingua e senza volerlo sono approdato a un’altra. Due
lingue simili e senza confini precisi tra di loro. Non so darmi una ragione della
mia partenza (non sapevo nemmeno quanto tempo sarei rimasto fuori dal mio
paese - ancora ho la valigia sopra l’armadio che aspetta, non so cosa, ma aspetta).
Volevo andarmene, conoscere un posto nuovo e, se possibile, continuare gli studi
che avevo iniziato a Buenos Aires. Insomma non partivo per l’Italia o per
l’Europa, semplicemente partivo per andarmene dal mio paese; era più forte il
desiderio della partenza che quello dell’approdo. Il mio biglietto non era
un’andata e ritorno, ma un’andata e basta. Non ero spinto dalla voglia della
svolta, del cambiare casa o lingua, volevo solo lasciare l’adagio sul quale avevo
costruito la mia vita. Forse c’era un misto d’innocenza e vigliaccheria nel mio
gesto. L’Argentina, in quel periodo, era uscita dalla dittatura da quattro anni; a
me però ancora rimbombavano in testa certe parole con le quali non avevo fatto i
conti, parole che venivano dal periodo buio della nostra storia. Non erano voci
specifiche, era un tono, una cadenza ritmica, quel senso d’appartenenza scomodo
che sanno dare solo le parole e che, con il passare degli anni, comincia a
ingombrarti dentro. Per esempio, c’è un passaggio in Sud 1982 (il terzo libro che
ho scritto in italiano - parla di un soldato che torna dalla guerra delle Malvine -
scritto tra l’altro sulla falsariga di un “passato eventuale”, come definisce
Ginevra Bompiani il passato nell’opera di Antonio Delfini: un tempo che avrebbe
potuto accadere e che magari “avrebbe avuto conseguenze ineluttabili sul nostro
presente, se si fosse verificato”4). Ebbene in Sud 1982 c’è un passaggio che dice
così:
Col passare del tempo avevo cominciato a sentire che prima o poi me ne sarei
andato dal mio paese. Magari in un posto dove avrei potuto pensare e parlare in un’altra
lingua, perché lì mi sentivo come prigioniero delle parole. Tutto mi ricordava le
Malvine, la trincea, i piedi inzuppati, gli elicotteri. Me l’aveva detto mio padre:
4 Ginevra Bompiani, Il passato eventuale, in Antonio Delfini. Note di uno sconosciuto, Ascoli Piceno,
"Marka" 1990, p. 97.
12
“Dovresti imparare daccapo una lingua, così puoi pensare e sognare senza il ricordo di
quelle vecchie parole. Nuova lingua, nuova libertà”. È stata la prima volta che gli ho
dato ragione.
Ora, qui in Italia, sento di aver recuperato la lingua paterna della mia
famiglia, senza però aver perso la maternità dello spagnolo argentino. Dunque,
parlo e scrivo l’italiano, ma sullo sfondo di una lingua nascosta che ancora mi
suggerisce parole e toni che appartengono alla mia infanzia. Eppure, mi sento di
non avere una lingua mia, una lingua senza tormenti, senza insicurezze; ovunque
vado sono uno straniero che deve rovistare tra le parole, e se non trova quella
giusta deve cercare nel bailamme delle perifrasi. Accade così che per gli
argentini ho un accento tipicamente italiano e per gli italiani ho un accento
spiccatamente argentino. Mi capita delle volte di rattristarmi in una lingua per poi
rallegrarmi nell’altra. E così, saltellando da una lingua all’altra, mi succede di
cambiare umore. Non avendo un’infanzia in italiano, raramente provo nostalgia
in questa lingua, mentre se ricordo un fatto dell’infanzia nella mia lingua madre,
sento di avere a che fare con un mondo imprigionato in quelle parole che lo
evocano.
Non so se una nuova lingua possa liberarci da qualcosa, credo però che
possa darci uno sguardo diverso sul passato, rivisitarlo con un’altra lente: “Tu sei
nella tua memoria,” fa dire Edmond Jabès a un nomade in Il libro dell’ospitalità,
“la quale non è affatto legata al passato, come si potrebbe credere, ma è attaccata
al presente. Al presente ch’essa crea”5. Ecco, la mia memoria a un certo punto
stava creando un presente pieno di fantasmi e quei fantasmi, purtroppo,
parlavano la lingua della mia infanzia.
Avevo una zia, una sorella di mio padre, che subito dopo la guerra era
partita da Sambucheto, un paese del maceratese, per andare in Argentina. Era
partita dal porto di Genova insieme a suo marito, un polacco che aveva
conosciuto mentre lui cercava di nascondersi dai bombardamenti tedeschi, e un
figlio di appena quattro mesi. La nave sulla quale viaggiavano aveva attraversato
5 Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, a cura di Antonio Prete, Milano, Raffaello Cortina 1991, p.103.
13
da poco la linea dell’equatore (su questa storia della traversata di mia zia, alcuni
anni fa, ho scritto un racconto che s’intitola Dopo la linea dell’equatore) ed
erano finite le scorte di acqua potabile. Tutti i passeggeri erano in preda al
panico. Suo figlio non mollava mai il capezzolo della madre, forse aveva paura
anche lui, lo teneva sempre stretto tra le gengive, raccontava mia zia. Nel
capezzolo libero si erano attaccati altri bambini. Si bagnavano le labbra con quel
poco di latte che riuscivano a succhiare. Le madri, raccontava mia zia, la
imploravano di aiutare i loro figli. Lei faceva quel che poteva con il suo latte. I
bambini che non sopravvivevano li avvolgevano in un lenzuolo bianco e li
buttavano a mare. Ne aveva contati cinque mia zia e quel numero se l’era portato
dentro come una colpa per il resto della vita: “Cinque bambini che non sono
riuscita a sfamare,” diceva.
Non ho mai visto piangere mia zia quando raccontava questa storia in
spagnolo, la sua lingua adottiva, anche se si vedeva che era molto colpita,
nonostante fossero passati parecchi anni; quando però un giorno gliel’ho sentita
raccontare in italiano, l’ho vista piangere per la prima volta. Allora ho pensato
che esiste una zona intima della memoria dove il passato si fa voce in una
determinata lingua. Per mia zia era straziante richiamare quei ricordi nella
propria lingua, la lingua nella quale quelle madri avevano visto buttare a mare i
propri figli o nella lingua dentro cui aveva vissuto quella storia. Forse i ricordi
parlano solo la lingua in cui sono accaduti. Farli parlare in un’altra lingua è come
mascherarli o sbiadirli.
15
La maternità della lingua I
6 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, traduzione di Anna Bertaccini, Capriasca, Pagina d’arte
2010, p. 59.
16
di una femminilità mascherata da suoni mascolini” 7. Ed è lo smascheramento di
questa femminilità, attraverso i nuovi suoni mascolini, che la maternità della
lingua svela. Ogni volta che parliamo scopre il suo occultarsi nella lingua
acquisita.
Nel primo trattato del Convivio (paragrafo XIII) Dante parla dell’amore
per la lingua materna, che considera elemento di unione tra i genitori: “Questo
mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì
come ‘l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto
è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio
essere”8. Una lingua che non rappresenta solo l’unione tra i suoi genitori, ma
partecipa alla nascita ed è, allo stesso tempo, causa della sua esistenza. Una
maternità, questa della lingua, che determina la vita e il rapporto con il mondo
del figlio. La lingua dentro cui si nasce ci dà gli occhi con i quali continuiamo a
guardare il mondo, anche quando non la parliamo più. Dice a tale proposito Italo
Calvino in una nota biografica che si trova all’inizio di Eremita a Parigi: “Tutto
può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene
dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno”9.
8 Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Angeno, Firenze, Le Lettere 1995, 1,13, p. XXX.
Durante una conferenza del 1987, tenuta a Vienna, Brodskij dichiara che
l’esilio è, prima di tutto, un evento linguistico. Chi si trova nella condizione di
vivere espatriato, si ritira o si rifugia nella sua lingua; a quel punto “quella che
era la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula” 10, il luogo dove trovare un
rifugio. La lingua madre come spada che nella lontananza diventa scudo, riparo,
lo spazio dove potersi nascondere con i propri ricordi o con il proprio passato per
trovare, in quel rifugio, l’intimità nascosta della nostra lingua. Un’intimità però
che non riuscirà mai a rimanere nascosta come uno spazio chiuso, perché alla
fine ci accorgiamo che quella capsula della lingua madre era un abitacolo pieno
di finestre, aperte a tante contaminazioni.
10 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, traduzione di Giovanni Buttafava, Gilberto
Forti e Arturo Buttafava, Milano, Adelphi 2003, p. 53.
18
La lingua dell’amore
Elias Canetti era nato in Bulgaria, a Rustchuk (odierna Ruse), una città
portuale del basso Danubio che già da tempo attirava persone da ogni parte del
mondo. Lì convivevano bulgari, turchi, spagnoli, greci, albanesi, armeni, zingari,
rumeni, russi. Canetti abitava nel quartiere degli spagnoli o spanioli (discendenti
di quegli ebrei sefarditi che nel 1492 erano stati costretti a emigrare dopo la
riconquista cristiana della penisola iberica), in via Ulica Slavianska, al numero
12. Fin da piccolo si muoveva tra diverse lingue: era abituale, racconta lo stesso
Canetti in La lingua salvata, parlare sette o otto lingue diverse: “tutti capivano
qualcosa di ciascuna”, ma c’era una lingua, il tedesco (“una lingua madre
imparata con ritardo e veramente nata con dolore”) che lui non doveva capire,
perché era la lingua intima, quella dell’amore tra suo padre e sua madre (“la
lingua segreta dei miei genitori”). L’avevano parlato difatti a Vienna, quando si
erano conosciuti, durante un periodo di studi: “Quando il babbo tornava a casa
dal lavoro, subito si metteva a parlare con la mamma. A quel tempo si amavano
molto e tra loro usavano una lingua speciale che io non capivo, parlavano
tedesco, la lingua dei loro felici anni di studi a Vienna”11.
11 Elias Canetti, La lingua salvata, traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni, Milano, Adelphi
1997, p. 39.
12 Ibidem, p. 40.
19
del Cinquecento); poi c’era il bulgaro che parlavano le ragazzine che lavoravano
a casa sua, e questa era la loro lingua specie quando raccontavano le fiabe dei
lupi mannari e dei vampiri: “ma poiché non frequentai mai una scuola bulgara e
lasciai Rustschuk quando avevo solo sei anni, il bulgaro l’ho ben presto
completamente dimenticato”. Quando i suoi genitori parlavano, Canetti rimaneva
ad ascoltarli e poi chiedeva il significato di alcune parole, ma loro ridevano e
dicevano che era troppo presto, che quelle cose le avrebbe capito da solo col
tempo. Allora, visto che in quegli anni gli era precluso il tedesco, pensava che i
suoi discorressero di cose meravigliose che si potevano dire solo in quella lingua.
A volte cantavano dei lieder tedeschi, Schubert, Loewe. Poi, nel 1911 tutta la
famiglia era andata a vivere a Manchester, in Inghilterra. Qui, per la prima volta,
i genitori traducono a Canetti il tedesco: “le prime parole tedesche che imparai
furono quelle della canzone Das Grab auf der Heide” (dove si racconta la storia
di un disertore che viene catturato e si trova di fronte ai suoi camerati che lo
devono fucilare).
Con la morte del marito, la mamma di Canetti aveva perso quel “colloquio
d’amore in tedesco” e ora aveva bisogno di ritrovarne l’intimità affettiva di
quella lingua: “Senza il papà si sentiva smarrita, perduta, e allora avevo tentato di
mettermi al suo posto il più in fretta possibile”14.
13 Ibidem, p. 105.
14 Ibidem, p. 100.
20
Il tedesco era la lingua dell’amore anche per i genitori di Anita Desai (nata
in India, figlia da padre bengalese, partito “dai fiumi e dalle risaie del Bengala”
per andare a studiare in Germania, e di madre berlinese). Scrive nell’introduzione
al suo romanzo Notte e nebbia a Bombay: “Noi ragazzi crescemmo parlando il
tedesco, perché era la lingua che i nostri genitori parlavano tra loro; era una
lingua di famiglia, isola privata e segreta nel grande mare delle lingue indiane” 15.
All’età di sei anni Anita Desai parla hindi e tedesco, ma la prima lingua che legge
e scrive, con la quale scriverà le sue opere, è l’inglese. Quando scrive in inglese,
racconta:
Notte e nebbia a Bombay nasce dalla necessità di dover fare i conti con
queste due lingue nascoste e richiuse: il tedesco, la lingua madre privata e
taciuta, e l’hindi, che rappresenta il mondo indiano dell’autrice. Da questa
necessità nasce anche il personaggio di Hugo Baumgartner, un ebreo tedesco che
arriva in India rinunciando alla propria lingua.
Rispetto alla lingua degli affetti e dell’amore c’è un altro esempio che mi
piace ricordare, riguarda l’infanzia di Héctor Bianciotti, autore argentino
naturalizzato francese, nato a Córdoba nel 1930, da genitori piemontesi. Come
tanti emigranti italiani che sbarcavano nel porto di Buenos Aires in quegli anni, i
genitori di Bianciotti avevano imparato a fatica lo spagnolo e tra di loro
continuavano a parlare in dialetto, vietandosi però di trasmetterlo al figlio per
15 Anita Desai, Notte e nebbia a Bombay, traduzione di Cinzia Pieruccini, Torino, Einaudi 1999, p. VI.
16 Ibidem, p. VI-VII.
21
timore che intralciasse l’apprendimento dello spagnolo: “Io parlavo dunque
spagnolo, ma sullo sfondo di una lingua segreta che parlavano fra di loro mio
padre e mia madre, per abitudine, o forse per difendere i loro rari momenti di
intimità”, racconta in un’intervista lasciata a Mai Mouniama, La pietà, la lingua
segreta17. Da una parte, i genitori di Bianciotti sentono l’impossibilità di
appropriarsi dello spagnolo, dall’altra parte, però, il figlio sente l’impossibilità di
entrare in quella lingua affettiva dei genitori, attraversata, dice lo stesso
Bianciotti, da suoni chiusi con molte u: “la ventunesima lettera dell’alfabeto, la
lettera u, quel suono tanto intimo e che non per caso si trova nella parola
solitude”, scrive nel già citato Senza la misericordia di Cristo. È interessante
notare che quando Bianciotti arriva a Parigi sente d’inseguire quel suono chiuso,
quella u che rappresenta lo spazio dell’intimità perduta e ritorna altre volte, nel
corso della sua vita, a parlare di questo suono:
Sì, mi piace pensare che in questa lingua proibita dell’infanzia c’era questo
suono chiuso della quinta vocale, questo suono ü che non esiste né in spagnolo, né in
italiano, ma nel dialetto piemontese, e che è la u del francese. Un suono assai intimo,
una specie di piccolo guscio dove un tempo si è rannicchiata una parte di me, e che mi
avrebbe fatto fare, a mia insaputa, il viaggio da una lingua a un’altra 18.
John Milton raccoglie nel 1645, sotto il titolo di Poems, sei poemi scritti in
italiano (cinque sonetti e una canzone) e quattro in inglese (seguirà una seconda
edizione del 1673, con l’aggiunta d’altri componimenti, ma solo in inglese) 19.
Quelli scritti in italiano, considerata da Milton la lingua dell’amore, sono tutti di
carattere amoroso e hanno, allo stesso tempo, l’intensità di un’esperienza che
riflette lo scrivere in un’altra lingua, considerata dal poeta inglese tra le più belle.
In questo breve canzoniere, inserito in un contesto di sonetti inglesi, è l’amore
17 Mai Mouniama, La pietà, la lingua segreta, in “L’indice dei libri del mese”, agosto 1990, p. 4.
18 Ibidem, p. 5.
19 Furio Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al
Novecento, Roma, Carocci 2009, p. 76.
22
stesso, verrebbe da dire, a scegliere la sua lingua, quella del canto e della poesia
d’amore:
Amor lo volse.
20 Ibidem, p. 78.
23
altri lidi t’aspettan, ed altre onde
24
L’ospitalità della lingua
21 Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua, Torino, Bollati Boringhieri 2011, p. 14.
25
- Il tuo paese è il paese della mia lingua.
- Dietro la lingua, c’è un popolo, una nazione. Di che nazionalità sei, tu?
Dobbiamo essere bilingui anche in una lingua sola, dobbiamo avere una lingua
minore all’interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra propria lingua un uso
minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di più sistemi ciascuno dei
quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di
variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare
come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario
parlare nella propria lingua come uno straniero23.
Sullo stare dentro la propria lingua come uno straniero Deleuze tornerà
altre volte, insistendo sul movimento attraverso il quale ci si può aprire una linea
di fuga nella propria lingua, come fa Bartleby con il suo enigmatico e
agrammaticale “I would prefer not to”, o lo scavo nei balbettii di Billy Budd.
23 Gilles Deleuze – Claire Parnet, Conversazioni, traduzione di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli
1980, p. 9.
27
La lingua nemica
Nel novembre del 1956 Ágota Kristóf lascia l’Ungheria, mentre l’Armata
Rossa cerca di fermare la rivolta popolare. Attraversa la foresta con il marito e la
figlia di quattro mesi per arrivare in Austria e da lì raggiunge la Svizzera. Giunge
a Neuchâtel, una cittadina sul lago dove la scrittrice vivrà fino alla morte. Sembra
che non abbia mai perdonato al marito di averla costretta a fuggire. “All’inizio,”
dice riferendosi alla sua lingua madre, “non c’era che una sola lingua. Gli oggetti,
le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella
lingua”25.
25 Ibidem, p. 25
28
Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo
conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un
dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua
francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa
lingua sta uccidendo la mia lingua materna26.
Per me l’italiano, se vale il paragone, non è mai stato una lingua nemica,
eppure mi mancano certe parole spagnole: pájaro per esempio, una parola così
solare e poetica, così sdrucciola che ti viene voglia di ripeterla ogni volta che
vedi un uccello. Una volta poi avevo usato in un racconto l’aggettivo procellose,
avevo scritto strade procellose, traducendo dallo spagnolo un semplice e
consueto calles procelosas. Allora un mio amico che si chiama Giuliano
Salvecchio mi ha detto che forse l’ultimo ad aver usato quell’aggettivo era stato
Leopardi quando aveva tradotto le Odi di Orazio a 11 anni. Lì ho scoperto non
solo l’esistenza dei cosiddetti falsi amici (che abbondano tra due lingue affini
come lo spagnolo e l’italiano), ma l’importanza del significato di certi termini,
che non sono sempre uguali e non vanno usati allo stesso modo. L’italiano mi ha
imposto un registro diverso da quello che usavo prima di cambiare lingua, ha
trasformato non solo il mio modo di scrivere, ma anche la mia percezione del
tempo, del ritmo, dell’organizzazione sintattica del racconto: scrivendole in
italiano, vedo le storie in modo differente. Quando si cambia voce anche le
parole assumono un altro timbro, una nuova tonalità. Insomma, si avverte, come
scrive Deleze e Guattari in Kafka: per una letteratura minore, che ciò che può
essere detto in una lingua non può essere detto in un’altra e che mai la stessa
storia può appartenere a due lingue diverse con la stessa intensità. Le storie più
riuscite, insomma, sono quelle che trovano un ritmo nella lingua che è capace di
raccontarle.
26 Ibidem, p. 28
29
La gelosia delle lingue
31
La mutevolezza della lingua
Forse non sono in molti oggi a leggere Libera nos a malo di Luigi
Meneghello, romanzo uscito nel 1963, tra i più significativi della letteratura
italiana contemporanea. Oltre a essere una confessione autobiografica, vista con
gli occhi di un bambino ma filtrata dallo sguardo ironico dell’adulto, è anche una
rivendicazione dialettale. Meneghello riesce a coniugare in questo libro uno
scavo linguistico nella memoria storica di Malo, paese della bassa terraferma
veneta, nella provincia vicentina. Facendo uso di un plurilinguismo raffinato, tra
dialetto, italiano parlato e lingua letteraria, Meneghello riesce a trasformare e a
cambiare il tempo del racconto: per cui il passato e il presente che lo ricorda
diventano uno “sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose”. Libera
nos a malo ci pone di fronte ai vari strati della lingua con i quali si fanno i conti
quando si torna dopo tanti anni ai luoghi dell’infanzia, un’infanzia fatta di parole
e di suoni perduti e ritrovati:
La lingua aveva strati sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione
della lingua rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature
per contrade e per generazioni. Strambe linee di divisione tagliavano i quartieri, e fino i
cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a mangiare 29.
Avevo tanta paura delle nottole; la paura era anche nel nome, portava buio,
portava notte, portava silenzio mosso dalle ali di velluto, portava se stessa, una cosa
brutta, forse più brutta perché era nottola. Il libro di lettura le chiamava pipistrelli;
30 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, traduzione e cura di Alberto Caracciolo, Milano,
Mursia, p. 129.
33
invece erano nottole, uscivano solo per andare incontro alla notte. Le mie paure notturne
erano tutte nere velluto come loro31.
Nel suo libro Le Ore, anche questo, come il libro di Meneghello, pieno di
storie che partono dall’autobiografia e arrivano a raccontare le parole, scrive
Dolores Prato: “In paese l’universo per me era negli occhi e nelle parole. In
collegio, stando quasi sempre chiusa, l’universo degli occhi si restrinse a quel
panorama, sempre quello, ai corridoi, ai cameroni, si moltiplicò quello delle
parole”32. Nella scrittura di Dolores Prato c’è una sorta di recherche lessicale
corteggiata per tutta la vita, un percorso denso e trasparente, fatto però di
contrasti, di dicotomie linguistiche tra la prima infanzia in casa degli zii, a Treia,
nel dialetto maceratese, e l’idioma interno al collegio salesiano della Visitazione,
dove Dolores Prato ha vissuto dopo la scuola elementare, dai dieci ai diciannove
anni (di questa dicotomia dà conto la seconda parte di Le Ore, uscita nel 1988 per
Scheiwiller: l’isolamento che vive, spoglio di affetti, porta a Dolores Prato a dare
corpo alle parole, a sostituire le cose con le parole stesse, e non sempre queste
diventano “amiche”, spesso piuttosto si avverte uno scontro doloroso tra la lingua
dell’infanzia e quella lingua senza affetti che trova in collegio). In Meneghello,
oltre a questo percorso lessicale nel dialetto, limpido e insieme accidentato, c’è
anche un’attenta riflessione sulla lingua. Scrive all’inizio della nota finale di
Libera nos a malo: “Questo libro è scritto dall’interno di un mondo dove si parla
una lingua che non si scrive; sono ragguagli di uno da Malo a quegli italiani che
volessero sentirli; e sono scritti, per forza in italiano”33.
31 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, a cura di Giorgio Zampa, Macerata, Quodlibet 2009, p.
219.
32 Dolores Prato, Le Ore. II. Parole, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Scheiwiller 1988, p. 88.
La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si
avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la
distanza dal punto dove è uscito a riva. Tornano dopo dieci anni, dopo vent’anni dalle
Australie, dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che
parlavano qui con noi, che parlavamo tutti; tornano e sembrano gente di un altro paese o
di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra. È come se anche
le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno strano sentimento, spesso dopo un
po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si vergogna un poco34.
C’è, a questo proposito, una Lettera del capitano Gulliver a suo cugino
Richard Sympson del 2 aprile 1727 (tradotta da Gianni Celati in I viaggi di
Gulliver), dove si legge:
Sento dire che alcuni naviganti yahoo trovano errori nel mio frasario
marinaresco, come non appropriato in alcune parti, né più in uso oggidì. Non so che
fare. Nei miei primi viaggi, quand’ero giovane, venni istruito dai marinai più anziani e
appresi a parlare come loro. Ma da qual tempo ho anche capito che i naviganti yahoo, al
pari degli Yahoo di terra, sono inclini a correre dietro alla moda nelle loro espressioni:
le quali cambiano d’anno in anno; tanto che, a ogni mio ritorno in patria, ricordo aver
trovato il loro vecchio dialetto talmente alterato, che a fatica riuscivo a intendere la
nuova parlata. Osservo altresì che, ogni qualvolta uno Yahoo curioso viene a Londra a
vedermi, né l’uno né l’altro di noi sa ragionare delle proprie idee in maniera intelligibile
per l’altro35.
34 Ibidem, p. 119.
35 Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, traduzione e cura di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli 2010, p. 299-300.
35
Senza stile
Egli sosteneva peraltro che in questo modo era più facile scrivere senza stile:
non intendeva certo dire che il francese non avesse stile, ma che, utilizzando un’altra
lingua, otteneva una maggior semplicità e oggettività. Il francese gli offriva la libertà di
concentrarsi su una più diretta espressione della ricerca dell’essere […]. Esso gli
permetteva inoltre di tagliar via gli eccessi, togliere il colore e di concentrarsi
maggiormente sulla musica della lingua, i suoni e i suoi ritmi 37.
Per togliere gli eccessi e per poter concentrarsi sui ritmi della lingua,
Beckett, dopo la seconda guerra mondiale, decide di abbandonare l’estetica
joyciana e di cambiare lingua, per concentrarsi su una letteratura afona, della
non-parola (“Joyce, quanto più sapeva più poteva. Egli, come artista, tende verso
l’onniscienza e l’onnipotenza. Io sto lavorando con l’impotenza, l’ignoranza” 38,
scrive a Israel Shenker). Non si tratta di un’esibizione stilistica, ma di una
tensione tra parola e silenzio. Watt, ultimo romanzo scritto in inglese durante la
seconda guerra mondiale e pubblicato nel 1953, rappresenta in parte la svolta;
dopo questo libro abbandonerà la sua lingua materna per il francese. Non
significa soltanto un passaggio di lingua o l’uso di un’altra lingua, ma un nuovo
36 James Knowlson, Samuel Beckett. Una vita, a cura di Gabriele Frasca, traduzione di Giancarlo Alfano,
Torino, Einaudi 2001, p. 189.
37 Ibidem, p. 418.
39 Samuel Beckett, Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, traduzione e cura di Aldo
Tagliaferri, Milano, Egea 1991, pp. 68-69.
40 Nadia Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Torino, Einaudi 1994, p. 89.
37
la lingua cela. Cambiare lingua, allora, rappresenta non solo un nuovo modo di
partecipare alla scrittura, ma anche una scelta stilistica nei confronti della
letteratura. Si ha uno stile quando si riesce a balbettare nella propria lingua
oppure, dice Deleuze, lo stile è qualcosa che appartiene a coloro di cui si pensa
che “non hanno stile”.41
“Lo stile,” scrive Brodskij, “non è tanto l’uomo quanto il sistema nervoso
dell’uomo, e l’esilio, tutto sommato, non fornisce ai nervi tutti gli agenti irritanti
che può fornire la madrepatria”42.
chiamo lingua volgare quella che i bambini apprendono da chi sta loro intorno
dal momento che cominciano ad articolare i suoni; oppure, per essere più brevi, lingua
volgare è quella che, senza bisogno di regole, impariamo imitando la nostra nutrice. C’è
poi un’altra lingua, per noi seconda, che i Romani chiamarono grammatica 45.
Tra queste due lingue, ossia la volgare o materna (senza regola), e quella
acquisita, “per noi seconda” (governata da regole, l’unica lingua che venisse
insegnata a quei tempi, il latino), Dante fa una netta distinzione, come se
appartenessero a due saperi diversi, uno naturale e nobile, l’altro acquisito e
43 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, traduzione e note di Vittorio Coletti, Milano, Garzanti 1991,
I.1, p. 3.
44 Maria Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi 1993, p. 76.
Dopo aver cacciato per boschi e pascoli d’Italia senza aver trovato la pantera
che inseguiamo, per poterla rintracciare sarà bene procedere ora con strumenti più
razionali, così che, con un’attenta ricerca, si possa finalmente catturare questo animale
di cui si sente ovunque il profumo ma che non si vede da nessuna parte [...]. Ora, le
operazioni più nobili fra quelle proprie degli italiani sono quelle che non appartengono
specificamente a nessuna città e però sono comuni a tutte: tra queste, si può adesso
vedere quel volgare di cui prima eravamo a caccia, il quale profuma in qualsiasi città e
non sta in nessuna47.
Il profumo è quello della pantera che sfugge, quel volgare illustre quasi
inesistente, che profuma ovunque senza però trovarsi in nessun luogo (nel
Physiologus, testo base dei bestiari medievali, scritto tra il II e il V secolo d. C.
ad Alessandria d’Egitto, si dice che la pantera si serve del proprio profumo per
catturare le prede, e che le fiere seguono il profumo della sua voce). Dante, dopo
aver setacciato ogni regione in cerca di questa lingua illustre, e dopo aver
descritto le caratteristiche proprie di ogni regione, spesso caricaturizzandole,
arriva a questa conclusione: il volgare illustre è come un profumo che sta in tutti i
luoghi dell’Italia, senza però identificarsi in un preciso territorio. Dunque, un
volgare che esiste nelle sue varianti diatopiche, che trova la sua identità nella
diversità (mai identico tra le comunità che lo parlano). La caccia, dunque, non ha
46 Ibidem.
La pantera
48 Giorgio Agamben, Categorie italiane: studi di poetica, Venezia, Marsilio 1996, p. 130.
42
nebulosa (felis
chi la sfida…49
In questa stessa raccolta c’è una poesia dedicata a Giorgio Agamben che si
conclude con un’allusione al De vulgari eloquentia:
Il luogo
50 Ibidem, p. 649.
43
Prigionieri del proprio linguaggio
In una pagina di Il grado zero della scrittura Roland Barthes afferma che
“ogni individuo è prigioniero del proprio linguaggio: fuori della sua classe, la
prima parola lo rivela, lo situa interamente e lo mette in mostra con tutta la sua
storia. L’uomo è messo a nudo, svelato dal suo linguaggio” 51. Mentre leggo
questo passo mi viene in mente la storia degli Efraimiti raccontata in Giudici
12.5-6.
51 Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, traduzione di Giuseppe Bartolucci, Renzo Guidieri,
Leonella Prato Caruso e Rosetta Loy Provera, Torino, Einaudi 1982, p. 59.
44
nascondevano tra i popolani, i palermitani mostrassero dei ceci (chiamati cìciri
nella lingua siciliana) e che, a sua volta, chiedessero di pronunziare la parola.
Quelli che erano traditi dalla propria lingua, venivano subito uccisi. Morirono
circa quattromila francese durante quella rivolta.
45
Due racconti: Landolfi e Kosztolányi
Devi dunque sapere – cominciò allora Y – che anni fa mi dedicai a una paziente
e minuziosa distillazione degli elementi costitutivi dell’opera d’arte. Venni per tale via
alla conclusione precisa e incontrovertibile che l’avere a propria disposizione mezzi
espressivi ricchi e vari è, per un artista, condizione tutt’altro che favorevole. Per
esempio, secondo me è di gran lunga preferibile scrivere in una lingua imperfettamente
conosciuta, anziché in una che ci sia compiutamente familiare 52.
52 Tommaso Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Adelphi 1996, p. 74.
53 Ibidem.
46
Landolfi manierista, ossessionato dall’insufficienza e opacità delle parole, alla
ricerca sempre di un linguaggio primigenio.
Il racconto di Landolfi prosegue col capitano (il maestro di Y, colui che gli
aveva insegnato quella lingua sconosciuta) che riparte per uno dei suoi viaggi. In
sua assenza Y decide di procurarsi un’edizione delle opere di un autore iraniano.
Con sorpresa scopre che non riusciva a distinguere nemmeno una singola lettera.
Stupito da questo fatto, comincia a esaminare grammatiche e vocabolari:
Y non saprà nemmeno il nome della nuova lingua che ha imparato e con la
quale ha scritto tre poesie, lingua che solo lui e nessun altro poteva conoscere, il
suo unico testimone e detentore. Una lingua senza storia e senza passato,
destinata a morire con la morte del suo unico parlante.
Ciò che caratterizza gli stranieri sono i loro sforzi di parlare sempre la lingua
del paese nel quale viaggiano; in questo campo però mettono troppo zelo, dimostrando
subito di essere stranieri. La gente del posto, gli indigeni, si limita invece a fare cenni
col capo, a intendersi con segni55.
Il controllore dice di sì, accetta la sigaretta che gli offre Kornél e comincia
a raccontargli in bulgaro una storia della quale Kornél non riesce ad afferrare
neanche una parola. Si limita solo a fare dei piccoli accenni d’intesa con la testa:
“Il controllore parlava e parlava. Di che cosa? Sarei stato proprio curioso di
saperlo”. A un certo punto il controllore estrae dalla tasca del cappotto una lettera
sporca e sbiadita, scritta in caratteri cirillici. La mette in mano a Kornél, lui fa
finta di leggerla e poi, atteggiandosi a conoscitore della lingua, se non addirittura
un compaesano del controllore, dice una frase neutra, valida in ogni occasione,
tipo “sì sì”, che vuol dire anche “no no”; oppure “così è la vita”. Dopodiché il
controllore gli fa vedere anche la foto di un cane e un pacchetto con due bottoni.
In quel momento inizia a piangere, prima trattenendo le lacrime e poi lasciandosi
andare. Kornél lo abbraccia e con un gesto amichevole cerca di rassicurarlo:
Afferrai rudemente le spalle del controllore per fargli coraggio e gli gridai
nell’orecchio tre volte in bulgaro: “No, no, no”.
55 Dezső Kosztolányi, Le mirabolanti avventure di Kornél, traduzione di Bruno Ventavoli, Roma, e/o
1990, p. 69.
56 Ibidem, p. 73.
48
Nell’incomprensione, come si vede (e questo racconto di Kostolányi è
paradigmatico), c’è un punto d’incontro e d’accordo reciproco. Viene in mente
Baudelaire quando sostiene che il mondo va avanti solo grazie al malinteso, che è
proprio grazie al malinteso universale che tutti si trovano d’accordo, perché se
per disgrazia ci si comprendesse, non ci si potrebbe più mettere d’accordo.
Quest’idea è ripresa da Jankélévitch in La menzogna e il malinteso: “Il
malinteso,” scrive Jankélévitch, “non è semplicemente la truffa: stabilisce tra gli
uomini un certo ordine provvisorio che, pur non rimpiazzando l’intesa
trasparente e senza secondi fini, vale tuttavia più della discordia aperta” 57.
Entrambi i racconti, sia quello di Landolfi sia questo di Kosztolányi, hanno in
comune non solo il rapporto con le lingue e l’incomprensione, ma si pongono
anche il problema del malinteso e dell’inganno. Infatti, il racconto di Kosztolányi
si conclude con un inganno da parte di Kornél:
All’ultimo momento però provai pietà di lui. Quando ebbe già passate le valigie
al facchino, e mentre stavo scendendo dal vagone, gli lanciai uno sguardo muto che
significava: “Ciò che hai fatto non è stato bello, ma è umano sbagliarsi, e per questa
volta ti perdono”. Poi, in bulgaro, gli gridai soltanto: “Sì”. Questa parola ebbe un effetto
magico. Il controllore si raddolcì, si rasserenò, tornò a essere quello di prima. Sul suo
volto brillò un sorriso di gratitudine. Mi salutò militarmente, impettito sull’attenti.
Rimase così alla finestra, paralizzato dalla felicità, finché il treno non partì e lui sparì
per sempre, per l’eternità, dai miei occhi58.
50
Due vecchi bambini
Nel 1989 Alfredo morì nella sua casa di León Suárez. Tre anni dopo lo
seguì Antonio, a Sambucheto, un paesino tra Macerata e Recanati.
52
Poetiche del caos
59 Édouard Glissant, Poetica del diverso, traduzione di Francesca Neri, Roma, Meltemi 2004, p. 32.
60 Ibidem, p. 33.
53
lingua inglese, ero consapevole di tutte le lingue che vi erano sommerse” 61.
Questo significa portare la scrittura sulle pieghe più nascoste e aprirla a ogni
possibilità.
D’altra parte, però, la lingua non può essere difesa dall’intrusione di altre
che l’attraversano; non è nemmeno una norma applicabile alla comunità dei
parlanti (è impossibile imporre una lingua come regola, o come insieme di
regole). Non si può nemmeno salvaguardarla come una specie protetta senza
tenere conto delle sue relazioni (il monolinguismo parte dal presupposto che la
mia lingua è la mia radice e che io sono legato atavicamente a un posto). Glissant
parla, nella Poetica della Relazione, di un’estetica della creolizzazione (di cui il
barocco è stato un’espressione, per la sua ridondanza spaziale e la sua
proliferazione, contro la pretesa d’unicità) e introduce il concetto di caos-mondo,
che significa, apertura a ogni eventuale contaminazione. Non si tratta di un caos
o di un nulla disordinato. Il caos, sostiene Glissant, non è caotico: “il suo ordine
nascosto non suppone gerarchie, primati – né lingue elette, né popoli-principi” 62.
La realtà arcipelagica, nei Caraibi o nell’Oceano Pacifico, esemplifica secondo
Glissant il pensiero della Poetica della Relazione:
Ciò che è accaduto nei Caraibi, e che potremmo riassumere con la parola
creolizzazione, ce ne fornisce l’idea più approssimativa possibile. Non soltanto un
incontro, uno choc (nel senso segaleniano), un meticciato, bensì una dimensione inedita
che permette ad ognuno di essere qui e altrove, radicato e aperto, perso nella montagna
e libero nel mare, in accordo e in erranza 63.
62 Édouard Glissant, Poetica della Relazione. Poetica III, traduzione di Enrica Restori, Macerata,
Quodlibet 2007, p. 96.
63 Ibidem, p. 42.
54
dalla complessità di rapporti. Esistono molte lingue inglesi, spagnole o francesi
ed è venuta meno quell’unicità intangibile della lingua.
55
Esilio
Tutti gli esseri viventi esistono perché emigrano, dalle rondini ai pidocchi,
dai pidocchi all’uomo. Se gli esseri viventi non si spostassero morirebbero. Dal
punto di vista tassonomico l’uomo andrebbe annoverato tra le specie migratorie.
Vivere significa migrare. Il concetto di terra straniera non è una realtà oggettiva,
ma solo una costruzione mentale. Anche il paese d’origine spesso può diventare
una terra straniera, sia per chi è partito sia per chi è rimasto. L’intera società è
un’interazione tra individui, un cambiare posto continuamente. Le logiche della
fluidità sociale e del caos ci aiutano a pensare la complessità del reale. L’essere
di Nietzsche è un essere sradicato, di passaggio, un essere ponte: “nell’uomo si
può amare che egli sia una transizione e non un tramonto,” dice nel prologo di
Così parlò Zarathustra (Nietzsche usa il termino Übergang, tradotto con
transizione, che significa anche andare oltre, oltrepassare, oppure divenire altro
da sé). I testi fondamentali della storia, dall’Antico Testamento all’Odissea, dalle
Chansons de geste al Mio Cid, dalla Divina Commedia a Moby Dick, la
letteratura ha sempre parlato d’esilio, d’erranze e spostamenti. Senza l’esilio da
Troia, Enea non avrebbe potuto fondare Roma, per esempio, e Itaca non sarebbe
diventata l’approdo di Ulisse. E forse neanche Conrad, precursore moderno della
letteratura dell’esilio, avrebbe immaginato un Marlow che risale un fiume in
mezzo a una foresta senza nome e senza storia. Anche i morti emigrano, perché,
si sa, certe volte, la sepoltura non sancisce la fine di un’avventura. Quando è
morta Evita Perón nel 1952 il suo corpo è stato imbalsamato ed esposto fino al
golpe militare del 1955. Suo marito è andato in esilio e il corpo impagliato di
Evita ha cominciato a girovagare per il mondo. Alla fine, nel 1974, è tornato in
patria e oggi riposa sereno nel cimitero della Recoleta. Persino le cose che
apparentemente non si spostano, emigrano. La Santa Casa di Loreto, per
esempio, nel 1291 è stata trasportata dagli angeli dalla Palestina in Dalmazia, tre
anni dopo se la ripresero e la portarono in Ancona e infine, l’anno dopo, a Loreto.
Anche il mito di Caino e Abele può leggersi come la storia di un esilio. L’uno,
come tutti sappiamo, era pastore di greggi, l’altro, invece, coltivava la terra. A un
56
certo punto, il sedentario, dopo aver ucciso il nomade, viene a sua volta cacciato:
“Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra” è stata la condanna di Dio. Tutta la storia
dell’umanità può essere letta attraverso questa cacciata, che aveva senso perché
Caino era un agricoltore sedentario, altrimenti il fuori di qui, a cui rimanda il
significato della parola exilium, non avrebbe senso in una società nomade come
quella di Abele. La cacciata di Caino è ben rappresentata in un dipinto di Fernand
Cormon, del 1880, conservato al Museo d’Orsay; liberato il campo da ogni
sottotesto religioso, il pittore francese si concentra sulla fuga della famiglia di
Caino sul deserto; l’enorme quadro, di circa sette metri, fa riferimento a un
poema di Victor Hugo, La conscience, tratto da La légende des siècles:
Dio ama l’esodo e l’erranza. Nella Bibbia la salvezza è legata sia all’esilio
che alla condanna: essere banditi dalla comunità, perdere i diritti e la propria
famiglia per essere consegnato all’ignoto. In fondo, si potrebbe dire, l’esilio è
drammatico perché ci allontana dalle nostre tombe.
Non tutti però riescono a restituire dignità a una condizione che è stata
imposta per toglierla. Quando non si corrisponde alle consegne ideologiche del
potere lo spatrio diventa la prima frattura. Esiste anche un esilio nascosto, fatto di
solitudine ed emarginazione; esuli strappati via dalle proprie radici, che non
hanno nemmeno la possibilità di riparare la rottura che si è venuta a creare tra
loro e il luogo natio, perché hanno perso anche la capacità di raccontare e, ai
nostri occhi, diventano sempre più delle entità astratte che vagano indifferenti
lungo i margini della nostra stessa società. Sono coloro che si perdono nella
64 Victor Hugo, La légende des siècles, texte choisis, annotés par Armando Landini, Roma, Signorelli 1955, p.
23.
57
notte, esiliati, migranti, espatriati, rifugiati che vagano senza accoglienza, che
non riescono a uscire dalla propria lingua per confrontarsi con quella nuova del
posto. Sono uomini, donne, bambini, intere famiglie relegate ai margini, senza
approdo, oppure gente per la quale approdare diventa un’ulteriore sofferenza,
perché hanno perduto la patria senza acquistarne un’altra e vivono sulla propria
pelle una doppia esclusione. Alcuni ritornano indietro, sconfitti, altri s’integrano,
altri ancora proseguono la loro erranza per il mondo, acquisendo lingue, culture e
prospettive nuove. L’esilio ci mette sempre davanti alla perdita e alla ricerca di
nuovi orizzonti. L’esule sa che qualsiasi posto al mondo, qualsiasi approdo, sarà
sempre provvisorio. È la sua condizione, una condizione strana e ambivalente,
come quella dell’apolide per i greci: un essere sciolto da ogni comunità politica,
una condizione neutrale e inquietante allo stesso tempo; appunto perché non è né
un indigeno né uno straniero e tuttavia rivendica un’identità, una cultura. Sarebbe
da chiedersi se è pensabile una comunità costituita da singoli uomini che
declinano ogni identità e ogni condizione di appartenenza (oppure che
rivendicano un’identità plurale – e qui ci scontriamo con un limite semantico,
perché la parola identità non ha plurale nella lingua italiana e quest’impossibilità
ci costringe a pensare a una sola identità, che in genere coincide con una
determinata etnia o nazione; quindi, non avendo plurale, è difficile coniugarla o
declinarla in termini di multidentità).
58
il motivo di questa mia spatriata, riprendo a mia volta questa frase, rubandola sia
a Todorov, sia a Saïd.
Negli ultimi anni della sua vita Plutarco scrive una lettera, L’esilio, al suo
giovane amico Menemaco di Sardi, per consolarlo dal fatto di essere stato
mandato in esilio e lo invita a non considerare lo sradicamento come un male in
sé. Riporta un passo curioso che riguarda Diogene Cinico: “a chi gli diceva: ‘Gli
abitanti di Sinope ti hanno condannato all’esilio fuori dal Ponto’, rispose: ‘E io li
ho condannati a rimanere nel Ponto, sulle spiagge del mare inospitale’”. Questo
passaggio di Plutarco mi ricorda un cantautore argentino, Facundo Cabral, che
durante l’esilio, ai tempi della dittatura militare, viaggiava per il mondo come un
girovago senza meta. Lo faceva quasi come una professione. Viveva una
condizione di continuo nomadismo, qualsiasi posto del mondo diventava un
punto di partenza aperto a un ulteriore approdo. Caduto il regime, era ritornato in
patria, e qualcuno gli aveva chiesto, forse inopportunamente, perché era andato
via. Allora Facundo Cabral aveva risposto con un sorriso: “Come disse Diogene,
non sono stato io ad andare via, siete stati voi a essere rimasti”.
59
Letteratura-mondo italiana
Non esiste quindi una lingua che si sostituisce ad un’altra: esistono correnti
sotterranee e spesso inconsce che si alimentano l’una con l’altra, che si fondono e che
nel loro unirsi creano l’onda che poi si rifrange sulla battigia: l’unica a noi visibile, ma
dietro la quale si nascondono i profondi movimenti dell’abisso 65.
Per uno straniero scrivere in italiano, avendo acquisito la lingua da adulto, non
in maniera accademica, ma dapprima come necessità di comunicazione con le persone e
poi come imperativo di relazionarsi alla cultura del paese ospitante, è sempre un’ardua
impresa. Ritornano strutture linguistiche del linguaggio materno che si inseriscono, si
attorcigliano alla nuova lingua66.
65 Rosanna Morace, Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, Roma,
Libertà Edizioni 2011, p. 33.
66 La lingua strappata. Testimonianze e letteratura migranti, a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo,
Milano, Leoncavallo libri 1999, p. 23.
60
La letteratura ci pone davanti al dilemma dello stare tra le lingue. Una
caratteristica del romanzo moderno è quella di vivere in un’altra lingua. Autori
come Conrad e Nabokov, per esempio, sono figure centrali che ci fanno riflettere
sul problema del bilinguismo, o multilinguismo, quel muoversi tra culture e
immaginari diversi o tra le varie contaminazioni. I loro testi ci danno prova che le
lingue si spostano da un capo all’altro, emigrano, esiliano, si autotraducono,
definiscono nuove forme di pensare e di vedere; insomma, ci dicono che le lingue
vivono, e che noi viviamo tra le lingue. Questo fatto ci porta a ridefinire il
concetto di letteratura nazionale, a rivisitarlo alla luce di un’apertura che, in
maniera affatto paradossale, vada oltre, appunto, i confini nazionali. Se
l’Ottocento e buona parte del Novecento sono stati i secoli che hanno in qualche
modo stabilito e definito i confini nazionali, suggerendo l’idea di una storia
letteraria come storia di una nazione, a partire dal dopoguerra si ridefiniscono tali
confini, sia geografici che linguistici. Diventa necessario riformulare un concetto
di letteratura e di lingua più permeabile alla pluralità di voci che entrano in gioco.
La letteratura sempre più si emancipa dal vincolo nazionale. Ed è interessante
vedere come i luoghi che appartenevano a un contesto linguistico determinato
vengano rivisitati e investiti da nuove lingue.
67Steven G. Kellman, Scrivere tra le lingue, traduzione di Franca Sinopoli, Troina, Città aperta 2007, p.
10.
68 Ibidem, p. 10-11.
61
vicini come Wilcock e Brodskij, scritte in lingue diverse da quella appresa
nell’infanzia). Rimane il fatto che oggi la letteratura non può più esser studiata
dentro i propri confini nazionali: ci sono autori italiani che scrivono all’estero,
come faceva Luigi Di Ruscio, dalla Norvegia, o come fa Marino Magliani
dall’Olanda, oppure autori italiani emigranti che scrivono in altre lingue, penso
ad Antonio Dal Masetto, nato a Intra e patito dall’Italia a 12 anni, e ci sono anche
tanti autori stranieri che adottano l’italiano come lingua letteraria: esplorano una
lingua sconosciuta cercando di darle altri ritmi. Non si tratta di creare neologismi
o di usare parole straniere nella nuova lingua, ma costringere le parole ad
accettare altri significati.
63
Falsi amici
I falsi amici sono parole o frasi di una lingua che, pur presentando una
notevole somiglianza con altre espressioni di un’altra lingua, ne differiscono per
significato, traendo in inganno chi la parla o la ascolta. Sono i grandi tormenti dei
traduttori. Le coppie di falsi amici sono più comuni tra lingue imparentate che tra
lingue diverse. E in due lingue imparentate come lo spagnolo e l’italiano, di falsi
amici ce ne sono tantissimi. Per esempio un falso amico molto comune, che tutti
conoscono, ma che trae sempre in inganno, è la parola largo. Largo in spagnolo
significa lungo, invece si usa ancho per l’italiano largo. Se io dico in spagnolo: el
hombre de cabellos largos, non sto indicando l’uomo dai capelli larghi (che
sarebbe un uomo ben strano, da non riuscire a immaginarselo), ma l’uomo dai
capelli lunghi.
Questa storia dei falsi amici mi ricorda tanto mia nonna materna, che era
andata in Argentina alla fine degli anni Quaranta. Parlava una specie di lingua
ibrida tra il dialetto molisano e lo spagnolo, alternando, anche nella stessa frase,
parole di entrambe le lingue. Questa variante gergale veniva chiamata in
Argentina cocoliche, un modo di parlare usato nel teatro popolare argentino,
dove è nato proprio il personaggio comico di Cocoliccio, caricatura di un italiano
del sud che si rende ridicolo con il suo modo di parlare. Il nome viene da un certo
Francesco Cuccoliccio, un manovale calabrese che lavorava nella compagnia
teatrale di José Podestá verso la fine dell’Ottocento e parlava abbastanza male lo
spagnolo, anche se lui ingenuamente pensava di cavarsela. Alcune parole del
cocoliche sono state prese in prestito dal lunfardo, un gergo della malavita
(chiamato da Borges: “lengua especializada en la infamia”), sviluppato negli
ambienti più bassi di Buenos Aires, che possedeva numerosi termini provenienti
dalle varie lingue degli immigrati. Il lessico di questo argot ha contribuito ad
arricchire il vocabolario dell’argentino parlato (il tango, per esempio, è pieno di
termini derivanti dal lunfardo). E mia nonna, come dicevo, parlava questa lingua
piena di falsi amici, il cocoliche. Una volta mi ha dato dei soldi e mi ha detto,
64
dopo una lunga frase molto articolata: mancia. Io avevo capito mangia, anzi sono
quasi sicuro che mi abbia detto così, al che mi sembrava impossibile che mia
nonna mi chiedesse di mangiare i soldi, allora ho pensato che mi stesse dicendo
mancha che in spagnolo significa macchia. Sulla banconota però non c’era
nessuna macchia, allora sono andato da mia madre, poiché lei la capiva sempre al
volo, la quale mi ha detto che quei soldi erano la mia propina, che in spagnolo
significa, appunto, mancia. Delle volte mia nonna metteva in mezzo alle frasi un
loro, e io cadevo sempre in inganno: pensavo che mia nonna, per qualche strana
ragione chiedesse del pappagallo che avevo a casa (perché io a casa mia a
Buenos Aires ho avuto un pappagallo di nome Pedrito per 13 anni), perché
appunto la parola pappagallo in spagnolo si dice loro, e il mio pappagallo era il
loro Pedrito. Invece mia nonna aveva detto loro in italiano, quasi sempre,
pronome personale. Con il tempo ho imparato a capirla anche io. Se, per
esempio, mi diceva di salire io andavo di sopra e non uscivo dalla porta, perché
in spagnolo salir significa appunto uscire. Il vero bello è che nel quartiere dove
abitava mia nonna c’erano tanti italiani che venivano da posti diversi, ciascuno
con il suo dialetto. Ed era tutto un parlare pieno di fraintendimenti. Magari due
vicini non si rivolgevano più la parola perché uno pensava che l’altro aveva detto
una cosa sbagliata e così via. Insomma, mi divertivo abbastanza tra tutti questi
falsi amici che un po’, se devo dire la verità, adesso mi mancano.
65
L’interferenza
70 Uriel Weinreich, Lingue in contatto, traduzione di Giorgio Raimondo Cardona, Torino, Boringhieri
1974, p. 21.
66
-Va bene!, va bene! Songo diechi nachonale... E un qui se ne casa?... Bisoña pagá
antichipate pei publicazione... amonestazione... A mushás é de acá?... ¡Eh!... vedite... diechi
nachonale é poca roba!
-¡Espere un poco, señor cura!... Es que yo quisiera la, ¿cómo se dice?, ¡ah!, ¡sí!, la
despensa de las amonestaciones...
-Allora so tranta!
-¡Oh!, por eso no importa, señor cura: se le pagarán los sesenta pesos... Pero ¿cuándo
nos podrá casar?
-La mushás...
71 Roberto J. Payró, El casamiento de Laucha, Buenos Aires, Losada 1994, p. 46. Traduco in italiano: “-
Che vuole? – mi chiese. / -Io, signor prete... venivo… venivo perché vorrei sposarmi… / -Va bene!, va
bene! Sono dieci nazionali... E qui si sposa?... Bisogna pagare in anticipo per la pubblicazione... l’avviso
di matrimonio... La ragazza è di qua?... Eh!... vedete... dieci nazionali sono poca cosa! / -Aspetti un po’,
signore prete!... È che io vorrei la, come si dice?, ah!, sì, la dispensa dell’avviso di matrimonio... / -Allora
sono trenta! / -E che ci sposi in casa della fidanzata... / -Allora sono sessanta... Non posso fare meno. / -
Oh!, per questo non c’è problema, signor prete: le saranno pagati i sessanta pesos... Ma, quando ci potrà
sposare? / -Quando volete... È qui la compromessa? / -La chi? / -La ragazza... / -Ah! Sì! Donna Carolina,
la vedova, sa? quella della bottega della Polvadera... / -Va bene, va bene.”
67
Roberto Raschella (traduttore in spagnolo di vari classici italiani), che scrive in
una lingua quasi ibrida, con interferenze dell’italiano parlato - mi riferisco in
particolar modo a due dei suoi libri: Diálogos en los patios rojos (1994) e Si
hubiéramos vivido aquí (1998). In questi due testi la sfida di Raschella non è
quella di dare voce alle varie forme di oralità presenti in Argentina, ma quella di
crearsi una lingua straniera all’interno di quella propria, come se si trattasse di un
autore italiano che ha perso la sua lingua d’origine e cerca di esprimersi in
spagnolo, ma trascinandosi dietro il proprio corredo semantico e linguistico.
Dunque, non una mimesis del parlato con interferenze straniere, ma una sfida più
ampia che porta come allo stremo la lingua, fino a trasformarla dall’interno. In
altre parole si potrebbe dire che Raschella conferisce allo spagnolo una
musicalità e un timbro tutto italiano.
68
Ogni straniero a modo suo è un traduttore
70
Casi di autotraduzione
73 Ibidem, p. XII-XIII.
72
usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica” 74. Con questo testo
Pasolini inaugura la poesia neodialettale italiana.
Nel 1975 (pochi mesi prima della morte di Pasolini) esce La nuova
gioventù (il suo ultimo libro pubblicato in vita), che riproduce la vecchia edizione
delle poesie friulane, apportando delle aggiunte e delle revisioni, e
accompagnando il tutto con una sua autotraduzione. Quindi, Pasolini torna due
volte a “visitare” questa raccolta, e in due momenti fondamentali della sua
vicenda di scrittore (uno, che riguarda la sua prima pubblicazione e l’altro,
l’ultima che vedrà uscire). Mi pare interessante che dentro una vita e una vicenda
di scrittura tanto turbolenta, l’inizio e la fine siano in qualche modo riconducibili
alla ricerca poetica di una maternità linguistica, per un verso, e, per l’altro, al
problema dell’autotraduzione in italiano di questo idioma friulano, di questa
lingua materna sempre cercata e ricreata sulla pagina. Pasolini però non traduce
in versi le poesie friulane; la scelta di fornire in calce una versione in prosa, forse
ha a che fare con l’intraducibilità della poesia o con l’impossibilità di
autotradursi, di rifare in italiano un idioma che l’autore stesso ammette di essere
un “linguaggio assoluto, inesistente in natura” (cito dalla nota a La meglio
gioventù). Eppure, queste ultime autotraduzioni prosodiche sono tramate di versi;
inoltre, non riducono la rima, anzi colgono bene quella koinè friulana del testo
originale e quella tensione tra il ritmo del parlato e il dettato dialettale;
completano in qualche modo l’originale e non lo sminuiscono mai.
74 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori 2003, v. 1., p. 193 .
73
pages. È l’unico romanzo che scrive in questa lingua e il primo in cui il
protagonista non è un argentino, ma un nordamericano: un suo vicino di casa.
Prima dell’uscita di questo libro in America, Puig l’aveva però già tradotto in
spagnolo e l’aveva pubblicato, nel 1980, a Barcellona, col titolo Maldición eterna
a quien lea estas páginas. È la prima volta che Puig si confronta con
l’autotraduzione di un suo testo, anche se tutta la sua opera si configura come una
sorta di traduzione da altri linguaggi: nel caso di Eternal curse on the reader of
these pages, Puig prende nota delle conversazioni che ha avuto con il suo vicino
newyorkese; riesce ad accumulare una mole di note e di appunti che poi tradurrà
in finzione; e lo stesso succede con il suo romanzo successivo, Sangre de amor
correspondido. In questo caso crea un romanzo con i racconti di un muratore
brasiliano che registra ogni volta (scrittura e traduzione sono sempre vincolate
nella genesi narrativa di Puig: la trasposizione di un dialogo con una determinata
persona che viene reinterpretato in chiave romanzesca, oppure la traduzione dal
reale alla finzione). Come dire che c’è sempre un’istanza di traduzione o di
reinterpretazione nell’opera di Puig.
74
Solo, perduto, tagliato fuori, estraneo, sconosciuto, affogato. Allora avevo
ancora i timpani straziati dal febbrile schiamazzo degli altoparlanti europei, mi
tormentava ancora il ruggito bellico dei giornali, e già mi immergevo in un idioma a me
incomprensibile e in una vita così distante dall’altra. Quel che si dice un momento
incredibile75.
Raccontami di Anna Livia. Tutto sapere vo’ di Anna Livia. Beh, conosci Anna
Livia? Altro che, conosciamo tutte Anna Livia! Dimmi tutto, e presto presto. Roba da
76 Ricardo Piglia, Crítica y ficción, Buenos Aires, Siglo veinte 1993, p. 51.
77 Jacqueline Risset, Joyce traduce Joyce, in James Joyce, Scritti italiani, Milano, Arnoldo Mondadori
1979, p. 198.
76
chiodi! Beh, sai quando il messercalzone andò in rovuma e fe’ ciò che fe’? Si, lo so, e
po’ appresso? Lava pulito e non sbrodolare! Rimboccamaniche e scioglilinguagnolo.
Ma la zucca per te se mai ti pieghi! O cosa mai fece bifronte o triforo in quell’infenice
di porco nastro? Oibo’, quel lughero malandrone! Che sudiciume di camiciaccia!
In questo caso, il testo inglese del Finnengans Wake, scritto in una sorta di
lingua inventata e intraducibile, diventa il punto di partenza per una rivisitazione
che accentui ancora di più il registro parlato.
78 Nadia Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 88.
79 Ibidem, p. 91.
77
strumento di libera traduzione: “Da quella lingua estranea egli prova a redimere
la lingua che vi sta richiusa, prigioniera e la lingua prigioniera nella traduzione si
libera, e liberandosi scopriamo che parla piuttosto inglese che francese” 80,
conclude Nadia Fusini. Derek Walcott, comentando le autotraduzioni poetiche di
Brodskij all’inglese, scrive qualcosa di simile in La voce del crepuscolo:
abbiamo l’impressione che Brodskij desideri che il suo libro sia letto come
poesia inglese, non come russo tradotto […]. Per un poeta, tradurre se stesso comporta
non solo un cambiamento di lingua ma ciò che la parola “traduzione” significa
letteralmente, cioè trasportare verso un altro luogo, adattando la propria indole,
modificando per gradi la propria sensibilità mentre la poesia originaria si ferma alla
frontiera […]. Ciò che è straordinario, anzi fenomenale, nell’impiego di Brodskij, è la
determinazione a restituire, quasi a consegnare i suoi versi dalla lingua originaria alla
poesia del nuovo paese. A dare alla stessa opera, simultaneamente, due lingue madri 81.
Anche Beckett sembra avere a che fare con due lingue madri. Le sue
autotraduzioni tendono dunque a migliorare l’atto della creazione, come accade
per esempio in Mal vu mal dit trasformato in Ill seen ill said. In questa seconda
nascita del testo, si compie una sorta di trionfo, nel senso che l’inglese di Beckett
è una lingua infinitamente più ricca e duttile e fresca, secondo Nadia Fusini: “la
lingua ritrovata oltre il rifiuto danza con un agio e una vivacità mirabile. Sì,
l’inglese di Beckett è più bello del francese”82.
80 Ibidem, p. 106.
81 Derek Walcott, La voce del crepuscolo, traduzione di Marina Antonielli, Milano, Adelphi 2013, p. 150-151.
82 Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 88.
78
Le parole sulla punta della lingua
“Il francese non è dunque una lingua completamente estranea, l’ha già nel
bec, ovvero nel becco, e ci becca, non c’è dubbio; è veloce di lingua, la parola gli
viene facile, ce l’ha sempre in punta di labbra, imbeccata” 83, scrive Nadia Fusini
di Beckett. A me è sempre incuriosito quell’avere la parola “in punta di labbra”,
soprattutto quando resta appesa in quella soglia dove c’è e non c’è. Insomma,
quell’istante di balbettio, o di sospensione, mentre la parola stenta a uscire dalle
labbra: quella soglia o quell’attesa che precede l’enunciato; che a sua volta
presuppone che la parola sia già “imbeccata”, pronta a scivolare nell’oblio o a
venirne fuori. Avere la parola in punta di labbra significa anche portare la lingua
fino a una soglia dove il dire e il non-dire s’incontrano in un lapsus. Trovarsi tra
le lingue presuppone questa istanza: l’essere in bilico della parola stessa. Non è
né un dubbio né una completa dimenticanza, è l’istante in cui la parola si spoglia
delle sue forme prima di trasformarsi in enunciato.
Avere le parole sulla punta della lingua porta anche a questo: ad accendere
fiammiferi nel buio ogni volta che si scrive.
83 Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 87.
84 Mai Mouniama, La pietà, la lingua segreta, in “L’indice dei libri del mese”, Op. cit., p. 5.
79
Sul fatto di avere le parole sulla punta della lingua mi viene in mente un
muratore che anni fa lavorava a casa mia. Era uomo basso e tarchiato, sulla
sessantina, conosciuto per essere un grande bestemmiatore. Non ho mai avuto
una gran passione per la blasfemia, né ne so molto sull’argomento. Però la lingua
italiana, a differenza d’altre, povere su quest’aspetto, m’è sempre sembrata tra le
più colorite e iperboliche quando si tratta di dir peccati (non so se esista in altre
lingue un corrispettivo di smadonnare). Un giorno, questo signore, mentre
cercava di sostituire un battiscopa, si è dato una martellata su un dito.
Immediatamente si è stretto l’indice sinistro con l’altra mano e ha cominciato a
fare dei gesti con le labbra, come se cercasse una parola che aveva lì, sulla punta
della lingua. Conoscendo la fama, ho pensato che stesse cercando una bestemmia
al femminile o al maschile, comunque grossa, da dichiararla all’intero vicinato;
invece gli è scappata una frase bellissima, una specie di preghiera: “Dio cantante
dei venti”. Per lui, forse quell’imprecazione appena trovata, aveva un significato
dissacrante, invece a me ha fatto pensare al Dio danzante di Nietzsche,
annunciato da Zarathustra. Se esiste un Dio, ho pensato, non può che essere un
“Dio cantante dei venti”.
80
Identità e lingua nazionale
81
di una cultura preesistente, quella degli indios, dall’altro come rottura nei
confronti dalla Spagna e, infine, come incontro con le varie culture europee. In
questo contesto, dopo la conquista dell’indipendenza politica dalla Spagna, c’è
stata la conquista di un’indipendenza linguistica attraverso il recupero dell’oralità
(sono numerosi i casi di creolizzazione della lingua a partire dall’oralità - si
prenda, tanto per fare un esempio a noi vicino, il caso dell’ivoriano Ahmadou
Kourouma e il suo intento di africanizzare il francese). Lo spagnolo era
diventato, subito dopo l’indipendenza, un limite che doveva essere superato. Nel
discorso d’inaugurazione del Salón Literario di Buenos Aires, nel 1837, Juan
Maria Gutiérrez suggeriva (prendo la notizia dal libro di Rosalba Campra,
America Latina: l’identità e la maschera):
Queste stelle erano anche le varie lingue degli immigranti. Non solo, erano
anche il loro punto di vista. Nasce allora una coscienza linguistica che tiene conto
della diversità. Anche Juan Bautista Alberdi, ispiratore della costituzione
argentina, aveva scritto: “la nostra lingua aspira a un’emancipazione perché non è
che una delle facce dell’emancipazione nazionale” 86. Tutte le comunità, in un
modo o nell’altro, si sono costituite nella propria lingua. In questa situazione, il
poeta per eccellenza sarebbe quello che afferma l’unicità della comunità,
un’unicità sempre sfuggevole e inafferrabile che sa cogliere le contaminazioni e
le sfumature. Quindi, l’identità di un paese prima che politica è un’identità
linguistica. Insomma, c’era da inventare l’Argentina, nulla del suo passato
preispanico o coloniale poteva essere riciclato in questo processo di
85 Rosalba Campra, America Latina: l’identità e la maschera, Roma, Meltemi 2006, p. 23.
87 Beatriz Sarlo, Escritos sobre literatura argentina, Buenos Aires, Siglo XXI 2007, p. 28.
88 Gian Luigi Beccaria, Mia lingua italiana, Torino, Einaudi 2011, p. 25.
83
materna, materna era quella grammatica dei sentimenti che sono i dialetti.
L’italiano era una sorta di lingua seconda, acquisita, anche se non possiamo
parlare di bilinguismo, semmai di diglossia. Il fatto che dal Trecento si sia
stabilita una lingua letteraria relativamente comune a tutta l’Italia, senza però
poter contare su una lingua parlata, unificatrice, dovrebbe far sentire a ognuno di
noi orgoglioso, tanto di scrivere quanto di parlare in italiano. Forse, nel mio caso,
era necessario fare così, che abbandonassi la mia lingua materna per trovare
questo groviglio di dialetti, di lingue scritte, di lingue parlate, tutte chiamate
italiano, e provare a districarmi in questo labirinto di pantere nascoste e odori
sperduti.
84
La lingua della morte
89 Hanna Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con
Günther Gaus, traduzione di Alessandro Dal Lago, In “Aut-Aut”, nn. 239-240, settembre 1990, p. 21.
85
Svevia per trasferirsi a Parigi e tre anni dopo in Inghilterra: The making of an
englishman è il titolo della sua autobiografia (nella traduzione italiana del titolo,
Storia di un uomo, si perde il senso originario che denota un cambiamento, di
lingua e di nazionalità). Questa stessa ostilità nei confronti del tedesco la
troviamo anche nel Diario di Anna Frank (giorno martedì 17 novembre 1942),
quando si racconta dell’arrivo del dentista Albert Dussel al nascondiglio olandese
dove si rifugiavano gli esuli tedeschi, presso i Van Daan. Il giorno stesso del suo
arrivo gli danno da leggere un regolamento dattilografico intitolato: Prospetto e
guida dell’alloggio segreto. Tra le voci trova scritto: “Lingue d’uso: Si prega di
parlar sempre piano; sono ammesse tutte le lingue civili, e quindi non la tedesca”.
Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere. C’è gente che parla le
lingue straniere meglio di me. Io parlo ancora con un forte accento, e non riesco a
parlare in modo idiomatico. Tutti lo sanno fare. Ma in questo modo si parla una lingua,
in cui un cliché non fa che sostituirne altri, perché la creatività linguistica viene
amputata quando si dimentica la propria lingua.
90 Fred Uhlman, L’amico ritrovato, traduzione di Mariagiulia Castagnone, Milano, Feltrinelli 1988, p.
89.
86
il luogo della frattura, di una perdita assoluta, ciò che “non sarebbe mai dovuto
succedere”. Eppure, continua ancora Anna Arendt: “la lingua tedesca è ciò che
mi è rimasto essenzialmente, e sono sempre stata consapevole di averla
conservata”. Il tedesco è la lingua che le dà una filiazione con il luogo natio, anzi,
è la lingua stessa il suolo che regge la lontananza, ciò che rimane di essenziale.
La verità abita nella lingua della madre, sembra rispondere Celan ai suoi
amici rumeni. Ed è quella stessa lingua, materna, che non ha mai perso e nella
quale scrive, in La verità della poesia: “ho tentato di scrivere poesie: per parlare,
per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi
91 Paul Celan, La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi 1993, p. 35.
92 Giorgio Agamben, Idea della prosa, Macerata, Quodlibet 2002, p. 29.
87
una prospettiva di realtà. E fu, chiaramente, vicissitudine, movimento, un porsi in
cammino; fu il tentativo di trovare una direzione” 93. Celan crea la propria lingua
all’interno della lingua tedesca per trascenderla e per interrogarsi sul senso della
storia che gli è toccata in sorte o, come dice Celan stesso, per portare alla luce “le
mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte”. Anche Adorno vorrebbe
continuare ad amare la lingua tedesca, “a coltivare l’intimità originaria con il suo
idioma, ma senza nazionalismo, senza il narcisismo collettivo (kollektiven
Narzismus) di una metafisica della lingua”94 (il riferimento si trova in Il sogno di
Benjamin di Derrida). Dall’altro lato, Jean Améry (pseudonimo di Hans Chaim
Mayer), che sopravvive ad Auschwitz e che dalla sua esperienza trae un’analisi
sulla sconfitta e dello spirito del proprio tempo, sente addirittura di non
appartenere più alla sua Heimat: “Noi eravamo esclusi dalla realtà tedesca e
quindi anche dalla lingua” (cito da quello che mi pare uno dei testi più lucidi
sull’argomento, Intellettuale a Auschwitz). Nel 1945 Améry si trasferisce a
Bruxelles, e per tutti gli anni a seguire, continua ad avere uno stretto rapporto con
la sua lingua madre: “Nonostante una profonda ripugnanza, leggevo
quotidianamente la Brüsseler Zeitung, l’organo delle forze d’occupazione sul
fronte occidentale”95. Ma si rende subito conto d’aver perso la sua appartenenza o
di non averla mai posseduta, e che tutto ciò che riguarda la Germania è stato un
grande equivoco: “Le parole erano gravide di una realtà concreta che si chiamava
minaccia di morte”96. La lingua madre a un certo punto diventa ostile, delatoria,
adombrata da una perdita irrecuperabile, e la lingua straniera non fornisce
l’accoglienza adeguata a supplire quella mancanza. Nel libro, Améry, cerca di
ricostruire e di capire cosa significa, per un esule del Terzo Reich, la perdita della
Heimat, del luogo natio, inteso come luogo d’infanzia, lingua madre e spazio da
narrare. Solo nel 1935 si rende conto di essere un ebreo, nel momento in cui
vengono annunciate le leggi di Norimberga, che postulano la superiorità della
93 Paul Celan, La verità della poesia, Op. cit., p. 35.
94 Jacques Derrida, Il sogno di Benjamin, traduzione di Graziella Berto, Milano, Bompiani 2003, p. 28.
95 Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, presentazione di Claudio Magris, traduzione di Enrico Gianni,
Torino, Bollati Boringhieri 1987, p. 98.
96 Ibidem, p. 99.
88
razza ariana e la discriminazione degli ebrei. Da quel momento in poi si accorge
di essere un uomo che non poteva più dire noi: un uomo senza terra, privo di
diritto e colpito da un anatema: “La Heimat”, dice ancora Améry, “è il paese
dell’infanzia e della giovinezza. Chi l’ha smarrita, resta spaesato, per quanto
all’estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare
il piede in terra senza troppi timori” 97. Lo straniero vive nella condizione del non
essere del tutto. Non si trova mai pienamente in un posto e convoca ogni volta
dentro di sé uno spaesamento. Jean Améry avverte questa condizione di
smarrimento: “se non si ha una Heimat si è vittima della mancanza di ordine, di
turbamenti, della dispersione”. Nel saggio di Heidegger sopracitato, il filosofo
tedesco ricorda una poesia di Nietzsche del 1884 intitolata Ohne Heimat (Senza
terra natia) che evoca questa perdita:
Le cornacchie gracchiano
- presto nevicherà,
97 Ibidem, p. 93.
89
il francese, per non svelare la propria identità: “In quell’istante compresi sino in
fondo e definitivamente che la Heimat era terra nemica e che il buon compagno
era stato inviato dalla patria-nemica per eliminarmi”98.
98 Ibidem, p. 94.
90
La lingua come proprietà
99 Jacques Derrida, Il monolinguismo dell’altro, a cura di Graziella Berto, Milano, Raffaello Cortina
2004, p. 31.
91
brutalità di una decisione unilaterale, gliela ritira senza chiedergli il suo parere e senza
che il suddetto gruppo rivesta alcun’altra cittadinanza. Alcun’altra 100.
Non abbiamo alcun possesso sulla lingua. Dichiararla nostra significa solo
appartenerle, perché non sono io a parlarla, ma è lei, quella particolare lingua, a
nominarmi come io. In questo modo la lingua madre diventa la più intima, ma
allo stesso tempo la più estranea a noi, appunto perché altra.
Sono molti, dice Hagège, i popoli che si persuadono che la propria lingua
non sia più in grado di esprimere la modernità e dunque preferiscono
abbandonarla, lasciando morire le proprie credenze e tradizioni, per assoggettarsi
a un’altra lingua che non riuscirà mai esprime quella determinata cultura. Non
esistono solo esempi di abbandono volontario, ma anche autentici linguicidi,
dove il potere, senza necessariamente sterminare i parlanti, impedisce la
diffusione di una lingua. Linguicidio di stato, per esempio, è quello compiuto
dagli Stati Uniti, continua Hagège, “nei primi decenni del ventesimo secolo,
contro le lingue parlate nelle varie isole della Micronesia, quali il chamorro (o
guameño) a Guam, nonché a Saipan, Rota, Tinian, Pagan, Anatahan e
Alamagan”103. Gli esempi si moltiplicano nel XIX secolo, durante l’epoca
coloniale, dove molte lingue vengono marchiate e combattute in quanto
diaboliche. In Alaska, per esempio, di cui si è parlato sopra, all’inizio del
Novecento è stato rifiutato l’uso delle lingue indiane nell’ambito dell’istruzione.
102 Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità,
traduzione di Luisa Cortese, Milano, Feltrinelli 2002, p. 110.
94
questo suo seguire passo passo il vivente la coinvolge anche nel destino ultimo
del vivente, che è la morte”104.
104 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, traduzione di Gianfranco Bonola, Milano, Vita &
Pensiero 2005, p. 310.
95
La difficoltà di abbandonare la propria lingua
Il timore di perdere o di inquinare con influssi stranieri l’unica cosa che ero
riuscito a mettere in salvo dalla Russia – la lingua – divenne decisamente morboso e
assai più assillante del timore, sperimentato due decenni dopo, di non essere affatto in
grado di portare la mia prosa in inglese a un livello paragonabile a quello del mio
russo105.
105 Vladimir Nabokov, Parla, ricordo. Un’autobiografia rivisitata, a cura di Anna Raffetto, traduzione
di Guido Ragni, Milano, Adelphi 2010, p. 287.
96
La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che
ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così
libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di
tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite
associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti,
può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri 106.
Nei primi anni che sono stato in Italia, mi ricordo, l’attaccamento alla mia
lingua materna s’è rafforzato come non mai. Non volevo perderla e facevo di
tutto per salvaguardarla da qualsiasi contaminazione o da qualsiasi forma
d’indebolimento, perché, lo si voglia o no, la distanza ci fa perdere i legami, a
volte anche quelli affettivi, e insieme a questi sbiadisce anche il legame con la
nostra lingua. Quando andavo in Argentina, sempre per brevi periodi, tornavo
indietro con scatole piene di libri in spagnolo, o me li facevo spedire da parenti o
amici. Per molti anni ho letto e scritto solo nella mia lingua madre. Quei suoni,
quelle parole, scavavano dentro l’unico rifugio che avevo, lo rendevano più
ampio e abitabile, da piccolissimo e scabroso che mi pareva. Leggevo Julio
Cortázar, per esempio, che aveva lasciato l’Argentina nel 1951 per andare a
vivere a Parigi e per tutta la sua vita aveva continuato a scrivere in spagnolo
(traduceva Poe, Defoe, Chesterton, Yourcenar in spagnolo e se ne infischiava del
suo isolamento parigino). Fino a quando, dopo la nascita di mio figlio nell’anno
2000, ho iniziato a scrivere una storia in italiano, che poi si è trasformata nel mio
primo libro che ho pubblicato in questa lingua (Restituiscimi il cappotto).
Sentivo, mentre scrivevo nella nuova lingua, di aver perso tutte le sicurezze che
avevo prima. Avevo lasciato da parte il corpo che mi conteneva per indossare un
fantasma che mi sfuggiva da tutte le parti. Ogni frase e ogni singola parola
rappresentavano un dubbio. Forse si prova una specie di pudore iniziale, inibente,
quando si comincia a scrivere in una lingua che non è la nostra. Prendiamo una
distanza che prima non c’era, perché quella era la nostra lingua e noi eravamo
dentro. Invece, adesso, adoperando un’altra lingua, tocca entrare in punta di piedi
106 Vladimir Nabokov, Lolita, traduzione di Giulia Arborio Mella, Milano, Mondadori 2007, p. 418.
97
come se non volessimo fare troppo rumore. Frughiamo nel vocabolario,
traduciamo, confrontiamo ogni cosa, finché troviamo una parola che ci apre un
varco, una possibilità. Si perdono tante cose quando si cambia lingua, ma se ne
scoprono altre. Insomma, si va avanti a tentoni, perdendo pezzi e trovandone altri
per strada, che non sempre si riesce a tenere in mano, o nelle tasche, si perdono
anche quelli. Si avanza e si indietreggia di continuo. Il rapporto con la nuova
lingua è, se vogliamo, un rapporto quasi erotico, che si misura e si rivede
costantemente, secondo il grado di avvicinamento. In Stranieri a se stessi, Julia
Kristeva racconta qualcosa di simile:
Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dalla
memoria notturna del corpo, dal sonno agrodolce dell’infanzia. Portare dentro di sé
come una cripta segreta o come un bambino handicappato – amato e inutile – quel
linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi perfezionate in
un altro strumento, come ci si esprime con l’algebra o il violino. Potete divenire virtuosi
in quel nuovo artificio che vi procura del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale,
sublimato – alcuni dicono sublime. Avete l’impressione che la nuova lingua sia la
vostra resurrezione: nuova pelle, nuovo sesso. Ma l’illusione si squarcia quando vi
riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della vostra voce vi ritorna
bizzarra, da nessuna parte, più vicina al borbottio di un tempo che al codice di oggi 107.
107 Julia Kristeva, Stranieri a se stessi, traduzione di Alessandro Serra, Milano, Feltrinelli 1990, p. 20.
98
La lingua come difesa
108 Ralph Greenson, Esplorazioni psicoanalitiche, traduzione di Simonetta Adamo Tatafiore, Torino,
Bollati Boringhieri 1984, p. 43.
È stato possibile capire come parlare dei conflitti e delle angosce della propria
infanzia in una seconda lingua, appresa in età adulta, potesse consentire a un analizzato
di stabilire una sorta di distanza di sicurezza da tutto quel tumulto di emozioni primitive
che sarebbero invece immediatamente state evocate dalle parole della sua lingua
madre112.
112 Jacqueline Amati Mehler, Simona Argentieri, Jorge Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua
madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Milano, Raffaello Cortina 1990, p. 2.
100
whisky). Adelaide era una ceramista e un punto di riferimento per la cultura
argentina degli anni Cinquanta e Sessanta. Confesso che è stata lei, in quel
monolocale di Recanati, con una finestra affacciata sul Chiostro di
Sant’Agostino, a farmi capire tanti retroscena della letteratura argentina e a farmi
scoprire la mia vera condizione di latinoamericano. Parlava un italiano stentato e
tra di noi, il più delle volte, usavamo l’argentino. C’erano giorni però, o dei
momenti, in cui lei voleva parlare solo in italiano. Io capivo, o mi sembrava di
capire, che in quei momenti vedeva profilarsi davanti a sé il fantasma atroce della
dittatura che le aveva portato via i suoi figli e che ora aveva bisogno di rimuovere
quelle voci interne con la nuova lingua acquisita. Viveva tra due lingue,
Adelaide, e le usava all’occorrenza per far tacere quei fantasmi interni che la
tormentavano. Negli ultimi anni della sua vita non parlava più nessuna lingua. La
malattia l’aveva costretta a un lungo silenzio e non so, credo che nessuno possa
saperlo, se quei fantasmi continuassero a tormentarla ancora. È difficile dibattersi
tra due lingue quando una rappresenta un mondo che ti ha fatto soffrire tanto, ma
altrettanto difficile dovrebbe essere trovarsi costretti a non poter esprimere in
nessuna lingua il dolore per la scomparsa di due figli. Alla fine, nell’autunno del
2010, Adelaide se ne è andata così, sul letto di un ricovero, in silenzio e senza più
una lingua che l’accompagnasse.
Una lingua, dunque, può diventare una difesa nei confronti del passato,
può dimenticarlo o manipolarlo, ma può anche essere uno stratagemma (più o
meno consapevole) per mantenere un legame stretto con la propria infanzia. La
lingua è lo scudo o la capsula dentro la quale lo straniero si rifugia, dice
Brodskij, che conosceva il dilemma di restare nella propria lingua madre e di
doverla poi sostituire, perché quella capsula a un certo punto della sua vita era
diventata, dopo l’esilio, una prigione, lo spazio di una frattura irreparabile.
Nella prima udienza del processo che si era tenuto a Leningrado l’8
febbraio 1964 Brodskij, mentre il regime lo accusava di parassitismo
(tunejadstvo), dichiarava apertamente di essere un poeta di lingua russa e di voler
101
rimanere tale. Otto anni dopo, il 4 giugno 1972, dopo l’espulsione dall’Unione
Sovietica, inviò una lettera a Leonid Brežnev dove ribadiva il suo attaccamento
alla lingua russa. L’unica forma di appartenenza al proprio paese che Brodskij
concepiva era quella linguistica, per questo non aveva paura a denunciarne la
corruzione. Fino al 1976, anno in cui aveva scritto il suo primo saggio in inglese,
aveva vissuto una sorta di collisione linguistica. Il cambio di lingua però porta
Brodskij a concepire la sua lingua adottiva, l’inglese, anche come una difesa nei
confronti del totalitarismo sovietico. Lo si vede bene in un passo di Fuga da
Bisanzio, dedicato al momento dell’esilio americano:
Scrivo tutto questo in una lingua diversa dal russo perché vorrei assicurare loro
[la sua famiglia] un margine di libertà [...]. Vorrei che Maria Volpert e Aleksandr
Brodskij acquistassero una loro realtà secondo «un codice di coscienza straniero».
Vorrei che verbi di moto non russi descrivessero i loro movimenti. Questo non li farà
risuscitare, ma qualsiasi grammatica è meglio di quella russa almeno nel senso che può
offrire una via più sicura per evadere dai camini del crematorio di Stato [...]. So che non
si dovrebbe stabilire un’equazione tra Stato e lingua, ma il russo è la lingua in cui due
vecchi, costretti a trascinarsi da una cancelleria all’altra e da un ministero all’altro nella
speranza di ottenere un permesso per un viaggio all’estero, per andare a trovare il loro
unico figlio prima di morire, si sentirono rispondere tante volte, per dodici anni di
seguito, che lo Stato considera «non pertinente» un viaggio del genere [...]. Che un’altra
lingua accolga dunque i miei morti […]. Per Maria Volpert e Aleksandr Brodskij
occorre un’altra lingua, una lingua che almeno prometta una parvenza di vita dopo la
vita, forse l’unica possibile, se si esclude la mia, quella che sto scrivendo. E per quanto
riguarda quest’ultima, scrivere in un’altra lingua è come fare i piatti: fa bene alla salute,
è terapeutico113.
113 Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 2004, pp. 200-2001.
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mi chiedessero di scrivere prosa in russo, non ne sarei così entusiasta. Ma in
inglese è una soddisfazione enorme. Mentre scrivo penso a Auden, a quello che
direbbe – la troverebbe robaccia, o la apprezzerebbe?”, disse durante
un’intervista. Ma Brodskij scrive in inglese anche per dare ai suoi una dignità
maggiore, per toglierli dalla prigione della loro lingua. Scrivere il nome dei
genitori in lingua inglese significa difatti rivisitare la loro storia, rimuoverla dalla
corruzione per farla rivivere in un’altra grammatica, in un altro suono o in un
altrove linguistico. Dunque, una voce nuova che trasformi quel viaggio mai
compiuto di Maria Volpert e Aleksandr Brodskij in un’accoglienza felice, più
dignitosa di quella che potevano offrir loro le cancellerie russe. Cambiare lingua
serve anche a questo, a trovare la propria libertà.
103
La maternità della lingua II
Ogni lingua si porta dentro uno sguardo, una struttura del tempo; declina a
modo suo il passato, il presente e il futuro, per cui in alcune lingue posso creare
periodi e costruzioni che in altre lingue suonerebbero del tutto stonati, se non
incomprensibili. La lingua è un modo di vedere e interpretare le cose. Dunque,
più che in un mondo si nasce in una lingua. Ed è per questo che il cambio di
lingua presuppone una rappresentazione diversa della realtà. Eppure, quando si
passa da una lingua a un’altra, una parte di quello sguardo che era dentro la
prima, rimane come una maternità nascosta (dietro questo italiano che scrivo
echeggia una voce che è un insieme di memorie e di dimenticanze che
appartengono al mio castellano d’infanzia). La nuova lingua cresce sopra i semi
della nostra lingua madre. Esiste un dialogo interno, ruoli diversi che hanno le
lingue dentro di noi, frammenti che sopravvivono ancorati a una determinata
lingua, difficile da sradicare: si ama in una lingua, si piange in un’altra, si fanno i
conti in quella in cui abbiamo imparato a numerare le cose e, soprattutto, si
insulta nella prima imparata, pur se le altre presentano coloriture migliori. Allo
stesso modo, la nostra lingua madre (“cagione del mio essere” dice Dante nel
Convivio) si struttura sopra i semi di una lingua originaria e pre-materna,
balbettata ed ecolalica, che ci portiamo dentro e che abbiamo irrimediabilmente
perduto alla fine di quello che Roman Jakobson chiama “l’apice del balbettio”
infantile, ovvero nel passaggio dallo stadio prelinguistico all’acquisizione delle
prime parole. In quel punto preciso della nostra esistenza, tra il balbettio (che non
ha nessun limite fonetico e che contiene in potenza tutte le lingue) e le prime
parole articolate, non c’è un passaggio graduale, ma una vera e propria rottura,
una perdita irrecuperabile dalla quale non possiamo più tornare indietro. È lì, in
quell’abisso che separa il balbettamento e la prima parola pronunciata, che si
compie il nostro primo oblio e il nostro primo passaggio radicale.
104
Daniel Heller-Roazen, in un libro pieno di spunti, dal titolo Ecolalie.
Saggio sull’oblio delle lingue, si chiede se nel linguaggio dell’adulto resta
qualcosa del balbettio neonatale:
114 Daniel Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, traduzione di Andrea Cavazzini,
Macerata, Quodlibet 2007, p. 13.
Nel 1902 Hugo von Hofmannsthal scrisse un testo assai famoso, la Lettera
di Lord Chandos. Qui Lord Chandos, appunto, comunica al destinatario della
lettera la sua rinuncia a scrivere, la sua scelta del silenzio, perché ritiene che
nessuna parola, nessuna lingua, possa essere adatta a esprimere la realtà delle
cose. E dunque abbandona la scrittura e ogni possibilità di dialogo. Lord Chandos
si rende conto che qualsiasi lingua, per quanto esatta, è inadeguata a esprimere le
cose in sé e la propria vita. Capisce che c’è un’impossibilità da parte delle parole
a confrontarsi con le cose stesse e quindi rivendica il suo essere di fronte alla
lingua senza parole. Forse questo protagonista immaginario di Hofmannsthal
avverte più di chiunque la sua condizione di esule da una lingua dimenticata:
in tutti gli anni di questa mia vita non scriverò più nessun libro, né in inglese né
in latino: e ciò per questo solo motivo, la cui per me penosa singolarità io lascio alla
vostra infinita superiorità spirituale di collocare con limpido sguardo al suo giusto posto
nel regno dei fenomeni spirituali e materiali che a voi si dispiega armonicamente:
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perché la lingua, in cui mi sarebbe dato non solo scrivere, ma forse anche di pensare,
non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola
parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno
nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto 116.
116 Hugo Von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, traduzione di Marga Vidusso Feriani, Milano,
Biblioteca Universale Rizzoli 1991, p. 61.
107
Indice
Premessa 4
Infanzia 6
Spaesamenti 9
La lingua dell’amore 19
La lingua nemica 28
Senza stile 36
Esilio 56
108
Letteratura-mondo italiana 60
Falsi amici 64
L’interferenza 66
Casi di autotraduzione 71
109