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La maternità della lingua

(La gelosia delle lingue)

Adrián N. Bravi

(ho lasciato le note solo provvisoriamente. Fai finta che non ci


siano. Possono essere tolte tutte, perché il riferimento bibliografico c’è
già sul testo. Quindi, diciamo che è un libro senza note. Le ho lasciato
solo per sicurezza e per un eventuale controllo se dovesse servire.
L’unica nota che lascerei è quella dove c’è la traduzione di Roberto J.
Payró, capitolo “L’interferenza”, che non è una nota bibliografica ma
di traduzione)

1
a Enrico, Costanza, Lorena e Santiago

2
Parlava il russo in quindici lingue

Julia Kristeva

3
Premessa

Nel 1983, in occasione del decennale della morte di W. H. Auden, Joseph


Brodskij scrive in inglese una orazione funebre, Per compiacere un’ombra
(inclusa in Fuga da Bisanzio) che è anche una sua posizione nei confronti del
passaggio da una lingua all’altra:

Quando uno scrittore ricorre a una lingua che non sia quella materna può farlo
per necessità, come Conrad, o per una divorante ambizione, come Nabokov, o per
arrivare a uno estraniamento più profondo, come Beckett. Facendo parte di un girone
diverso, nell’estate del 1977, quando vivevo in America già da cinque anni, entrai in
una piccola bottega di Sixth Avenue a New York, mi comprai una “Lettera 22” portatile
e mi accinsi a scrivere in inglese (saggi, traduzioni, ogni tanto una poesia) per un
motivo che aveva ben poco a che fare con quelli che ho elencato. Il mio unico intento
era, allora come adesso, di ritrovarmi più vicino all’uomo che consideravo la più grande
mente del ventesimo secolo: Wystan Hugh Auden 1.

Ci sono molti motivi per cui si decide di cambiare lingua e di abbandonare


quella che i latini chiavano materna lingua (il primo riferimento a questo
sintagma risale al 1119 ed è la più antica espressione per indicare la lingua
madre). Per Brodskij la scelta dell’inglese era il modo migliore per avvicinarsi a
W. H. Auden. Altri autori, invece, hanno vissuto l’esilio, e di conseguenza
l’incontro con un altro paese, come una costrizione. È successo ad Ágota Kristóf,
per esempio, che considerava la lingua ospitante, ossia il francese, una lingua
nemica, che aveva cancellato l’ungherese della sua infanzia; è successo in parte a
Emil Cioran che pensava al cambio di lingua come a un evento catastrofico nella
biografia di un autore; ed è successo allo stesso Brodskij che, all’incontrario, si
confrontava con la sua lingua madre, cioè il russo, per segnalare la sua
corruzione e la sua complicità con il totalitarismo. Passare da una lingua a
un’altra significa porsi di fronte a un rischio. Non sempre si riesce nell’intento.
Non si tratta di avere più o meno dimestichezza, o padronanza, quanto essere
nella lingua, viverla e trasformarla dall’interno. Ogni esperienza che facciamo
1
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 2004, p. 105.
4
con la lingua, sia essa straniera o propria, presuppone una rinascita e un punto di
non ritorno. Non parliamo questa o quella lingua ma siamo in questa o quella
lingua. Si vede, si osserva, si ascolta e si ama attraverso una lingua (che è lo
sguardo e l’essere che siamo). La memoria stessa è una forma della lingua. Si
ricorda sempre all’interno di questa, e mai allo stesso modo in due lingue diverse.
Compiere un tale passaggio significa diventare una specie di palinsesto. La nostra
vita viene in qualche modo riscritta, reinterpretata alla luce della nuova lingua. È
un processo graduale. L’atto della riscrittura comporta anche quello della
raschiatura, si scrive e si copre allo stesso tempo. Si tratta di un’esperienza di
morte e di rinascita, che non presuppone nessuno scriba, nessun artefice. Ognuno
di noi si muove tra registri diversi e tra vari modi di reinterpretare la propria vita.
La stessa migrazione andrebbe considerata sotto il profilo linguistico, appunto
perché è lì che s’inscrive la propria identità e la propria memoria. Il migrante o
l’esiliato non ha altra patria se non nelle voci della sua infanzia (quella conchiglia
che era tutto il suo mondo). Potrà farsi una nuova patria, in un altro paese, ma la
sua memoria e il suo passato resteranno chiusi tra quelle voci.

Questo libro nasce dalla necessità di confrontarmi, da una parte, con


l’ospitalità che offre la lingua (ospitalità che ho sempre trovato tra le pagine degli
autori italiani, tra i dialetti e tra le varie parlate), e dall’altra, è un confronto con
alcuni autori che, per qualche ragione, hanno cambiato lingua o hanno riflettuto
su questa trasformazione in atto. Ho cercato di ripercorrere alcune figure della
lingua e di chiedermi, in ogni tassello che compone questo mosaico, che cosa
accade in noi quando ci troviamo a dover fare in conti con una lingua diversa da
quella materna. Questo passaggio presuppone la figura della distanza; una
distanza interiore, che certe volte riesce persino a scindere la propria storia.
Scrive Benjamin: “Il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello
del vasaio”, quel segno è, appunto, mi piace pensare, il rapporto che ognuno di
noi stabilisce con la propria lingua, quella in cui ha scelto di vivere, di respirare e
di farne esperienza.

5
Infanzia

Nella mia vita c’è una specie di spartiacque linguistico che si posiziona
più o meno in mezzo, nel senso che la prima metà l’ho trascorsa parlando e
pensando in una lingua e la seconda metà in un’altra. E non avrei mai
immaginato che la prima, lo spagnolo, o meglio il castellano, che ho usato fino ai
ventiquattro anni circa, sarebbe diventata per me una lingua monca, senza
vecchiaia, come adesso è l’italiano rispetto al passato, una lingua senza infanzia,
perché, appunto, i colori e i sapori della mia infanzia parlano in un’altra lingua.
Per me non è la stessa cosa dire lagartija o dire lucertola. L’animaletto è sempre
quello, ma nel mio immaginario sono due bestiole diverse. La parola lagartija mi
riporta alla prima metà della mia vita, quando inseguivo insieme ai miei cugini e
agli amici queste bestioline velocissime e qualcuno (io non ne ho mai avuto il
coraggio) riusciva a prenderne una e a staccarle la coda con le mani. Ecco, la
parola lagartija è anche quegli occhi stupefatti, che guardavano come si
dimenava la coda strappata, mentre la bestiola sfuggiva dietro un cespuglio, e noi
tutti, cugini e amici dicevamo: “Mirá, mirá cómo se mueve”. Alla parola
lucertola manca quel corredo di ricordi e di sguardi. Più o meno la stessa cosa mi
capita quando penso alla parola inondazione (in famiglia non dicevamo
inundación, ma crecida o riada, più crecida che riada, perché quest’ultima
sembrava arrivare d’altri tempi, come una parola arcaica). La parola inondazione
mi fa pensare alle catastrofi recenti; crecida invece mi riporta alla mia infanzia e
ai miei primi ricordi, di quando stavo a San Fernando. Abitavo in una vecchia
casa accanto al fiume e quando arrivava la crecida mia madre mi metteva sopra il
tavolo della cucina e mi lasciava lì mentre lei, mio padre e il resto della famiglia
si adoperavano per tenere a bada l’acqua che arrivava dal fiume (a ripensarci
forse quel tavolo è stato e rimane il mio vero paese: oggi in particolare, se
dovessi dire qual è la mia vera patria, direi che è quel tavolo lì). I miei primi
disegni e forse le mie prime lettere dell’alfabeto le ho disegnate quando scendeva
l’acqua e andandosene lasciava sul muro una sottile crosta di fango che io andavo
a scalfire con il dito sputacchiato, dopo essere stato messo sopra il tavolo da mia
6
madre o da mio padre. La crecida aveva tutte intorno a sé anche altre parole, che
si riferivano a quel mondo e anche se stavano un po’ discoste facevano parte di
un immaginario comune: barro (fango), camalotes (sorta d’isolotti formati dalle
piante acquatiche), umbral (soglia, da dove entrava l’acqua e con la quale
bisognava fare i conti ogni tanto). Se dovesse scomparire la parola crecida, per
me scomparirebbe tutto un mondo che si porta appresso o addirittura sta dentro
questa stessa parola. Poi, quando avevo quattro o cinque anni, siamo andati via
da quella casa nei bajos de San Fernando e da allora la parola crecida è quasi
scomparsa dal mio vocabolario quotidiano. Ma ne sono apparse altre, come
trenes (treni) o escondida (“¿Vamos a jugar a la escondida?” si diceva). Era il
periodo in cui siamo andati a vivere a un altro quartiere di Buenos Aires, Santos
Lugares, vicino alla ferrovia, a pochi metri dalla casa di Ernesto Sabato, una casa
con un giardino davanti senza inferriata dove si poteva entrare scavalcando un
piccolo muro. Quello era il mio posto preferito per giocare a nascondino. La casa
vera e propria si trovava in fondo al giardino di Ernesto Sabato, e io rare volte
arrivavo fin laggiù. Aveva la facciata ricoperta d’edera (era una cascata verde
molto fitta che sembrava venire giù dal tetto). Il giardino invece era pieno
d’alberi, piante incolte e strati di foglie cadute e accumulate nel tempo. Mi
ricordo una grossa araucaria, un gelso, un gomero (in Italia conosciuto con il
nome di fico del caucciù, un albero bello per arrampicarcisi) e un paio di cipressi.
Non credo che Ernesto Sabato sapesse delle nostre incursioni. Una buona parte
della mia infanzia l’ho trascorsa a giocare e a litigare con gli amici tra quegli
alberi, che io ricordo rigogliosi in maniera inverosimile, quasi fantastici. Il tempo
spesso ci dà una visione distorta delle cose: molte volte ricordiamo gli spazi
dell’infanzia in base a come eravamo da piccoli, quando le dimensioni, i colori, i
profumi, sono tutti diversi rispetto a come li percepiamo da grandi. Io però quel
giardino lo vedo ancora fermo nel tempo, con gli occhi che avevo quarant’anni
fa, e quando lo ricordo mi sembra d’entrare in un posto incantato, o quasi.

Alcuni mesi prima della morte di Ernesto Sabato ho rivisto il giardino di


casa sua. Ero insieme a mio figlio, che aveva la stessa età che avevo io quando
mi nascondevo tra quegli alberi. Come tante altre volte, ero tentato di suonare il
7
campanello, ma non l’ho fatto. Adesso c’era un’inferriata davanti abbastanza alta
che sbarrava il passaggio, a ridosso del marciapiede. Gli alberi c’erano, non molti
come ricordavo, ma c’erano e c’erano anche le foglie sparse per terra. Cercavo di
mettere insieme il ricordo con il giardino che vedevo adesso. Era tutto diverso,
come se il giardino di allora e il giardino di adesso appartenessero a tempi
differenti che nulla avevano a che fare l’uno con l’altro. Dentro la casa, con la
facciata ancora ricoperta d’edera, c’era Ernesto Sabato, uno scrittore
novantanovenne, che lottava contro il tempo e che forse, dalla finestra della sua
stanza, guardava anche lui la scomparsa di quel giardino.

8
Spaesamenti

A chi abita lontano dai luoghi della propria infanzia capita spesso di
ricordare il tempo e lo spazio dove è cresciuto. La lontananza è una corda che ci
lega a un tempo che è dentro di noi, un tempo che diventa ricordo, immagine,
nostalgia. Non è una condizione chiusa nella sfera del rimpianto, è un modo
d’intendere la relazione tra sé e il mondo. Si ritorna sempre con delusione ai
luoghi del ricordo; la nuova fisionomia che prendono quei posti ci dà, ogni volta,
la cifra del tempo, quel tempo che non c’è più e che ha trasformato ogni cosa.
Ricordare significa riportare il lontano verso la luce del presente. Per alcuni il
ritorno a quei luoghi è più triste di quanto sia stata la partenza. Ci accorgiamo
della nostra estraneità, del nostro smarrimento. Eppure, i ricordi sono l’unico
appiglio che ci rimane del passato. In una delle Lettere a un giovane poeta, Rilke
immagina di essere in un carcere con dei muri altissimi che non lasciano filtrare
alcun rumore e si chiede se, pur senza nessun tipo di percezione del mondo, non
avremmo ancora la nostra infanzia “questa ricchezza preziosa, regale, questo
tesoro dei ricordi?” I corpi, le parole, la luce, i sapori, le ombre, tutto ciò che
attraversano i ricordi fa parte del nostro linguaggio. La memoria è una forma
della finzione. Esiste perché il passato non continua e quindi ogni volta bisogna
reinventarlo, ricucire gli stralci di un tempo perduto. I ricordi disegnano la mappa
delle nostre fantasie. Gaston Bachelard, in La poetica della rêverie, afferma che
la memoria “è un campo di rovine psicologiche, un rigattiere di ricordi. Tutta la
nostra infanzia deve essere riimmaginata. Quando la riimmaginiamo, abbiamo la
fortuna di ritrovarla nella vita stessa delle nostre rêvieres di bambino solitario”2.
Viviamo riimmaginando la nostra vita, reinventandola a ogni momento, anzi,
siamo questa invenzione che raccontiamo di noi stessi.

Alcuni anni fa Antonio Prete ha pubblicato un libro intitolato Trattato


della lontananza, dove ripercorre le figure più importanti e significative della

2 Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, traduzione di Giovanna Silvestri Stevan, Bari, Dedalo
1993, p. 110.
9
lontananza, dagli addii all’esilio, dall’esilio alla poetica dello sguardo, dalla
cartografia alla prospettiva, dal suono della lontananza all’amore di lonh dei
poeti provenzali. C’è un paragrafo di questo Trattato che parla della nostalgia del
tempo perduto, s’intitola Un’irrimediabile lontananza: il tempo irreversibile, e
comincia così: “Di fatto non si ha nostalgia di un luogo ma del tempo vissuto in
quel luogo. Non dell’infanzia ma del tempo che l’infanzia designa. E quel tempo
è definitivamente perduto. A quel tempo non si potrà più tornare”3.

Nessun ritorno a “questo albergo ove abitai fanciullo”, come dice


Leopardi (Le ricordanze), può incontrare il tempo vissuto in quel luogo.
Possiamo muoverci da un punto all’altro nello spazio, ma non possiamo fare
altrettanto nell’ordine del tempo. Solo attraverso il ricordo ci è concesso di
rivederci, perché quell’io che eravamo non esiste più: “Un’altra volta ti rivedo /
ma ahimè, non mi rivedo!” dice Pessoa riferendosi a Lisbona in una poesia del
1926, sotto l’eteronimo di Alvaro de Campos. Questo “spaesamento
irrimediabile”, di cui parla Prete, indica da un lato la perdita di una parte di noi e
dall’altra la perdita dei volti, delle voci, dell’atmosfera e del paesaggio che
disegnava il nostro stesso profilo. Non sono due cose diverse, noi eravamo quel
paesaggio e quei volti e quelle voci erano le nostre. Eppure, torniamo sempre,
con le parole, con i ricordi, a “questo albergo ove abitai fanciullo”; quella lingua
che ci contiene e della quale facciamo parte inscindibile. “Pensare la lontananza,”
dice ancora Prete, “è dare una configurazione e un ritmo all’invisibile, una lingua
all’irraggiungibile”.

Non avrei immaginato che trovandomi lontano in un altro paese, con


un’altra lingua e un altro paesaggio, certi ricordi sarebbero venuti a cercarmi con
ostinazione come un corteo enigmatico: il tango che ascoltavo più da bambino
che da giovane, il paesaggio piatto e sconfinato, interrotto qua e là dagli alberi o
da qualche uomo a cavallo, il porteño parlato, i libri di Roberto Arlt o di Ezequiel
Martínez Estrada. Cose che facevano parte di un mondo che esisteva già dentro
3 Antonio Prete, Trattato della lontananza, Milano, Bollati Boringhieri 2008, p. 83.
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di me, forse nascosto dalla vicinanza, ed è stata la distanza a riportarmelo davanti
agli occhi. A quel punto, si è fatto doppiamente reale: nel passato e nel presente
che lo riscopriva, anche se in modo anacronistico. E quando, per esempio,
ascoltavo la voce gracchiata del polaco Goyeneche o l’arpeggio di Atahualpa
Yupanqui, sentivo che solo la lontananza poteva avvicinarmi quel mondo, perché
quel mondo esisteva solo così, a distanza, come una semplice illusione o come
una mappa delle mie illusioni.

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Le lingue di mia zia

Sono partito da una lingua e senza volerlo sono approdato a un’altra. Due
lingue simili e senza confini precisi tra di loro. Non so darmi una ragione della
mia partenza (non sapevo nemmeno quanto tempo sarei rimasto fuori dal mio
paese - ancora ho la valigia sopra l’armadio che aspetta, non so cosa, ma aspetta).
Volevo andarmene, conoscere un posto nuovo e, se possibile, continuare gli studi
che avevo iniziato a Buenos Aires. Insomma non partivo per l’Italia o per
l’Europa, semplicemente partivo per andarmene dal mio paese; era più forte il
desiderio della partenza che quello dell’approdo. Il mio biglietto non era
un’andata e ritorno, ma un’andata e basta. Non ero spinto dalla voglia della
svolta, del cambiare casa o lingua, volevo solo lasciare l’adagio sul quale avevo
costruito la mia vita. Forse c’era un misto d’innocenza e vigliaccheria nel mio
gesto. L’Argentina, in quel periodo, era uscita dalla dittatura da quattro anni; a
me però ancora rimbombavano in testa certe parole con le quali non avevo fatto i
conti, parole che venivano dal periodo buio della nostra storia. Non erano voci
specifiche, era un tono, una cadenza ritmica, quel senso d’appartenenza scomodo
che sanno dare solo le parole e che, con il passare degli anni, comincia a
ingombrarti dentro. Per esempio, c’è un passaggio in Sud 1982 (il terzo libro che
ho scritto in italiano - parla di un soldato che torna dalla guerra delle Malvine -
scritto tra l’altro sulla falsariga di un “passato eventuale”, come definisce
Ginevra Bompiani il passato nell’opera di Antonio Delfini: un tempo che avrebbe
potuto accadere e che magari “avrebbe avuto conseguenze ineluttabili sul nostro
presente, se si fosse verificato”4). Ebbene in Sud 1982 c’è un passaggio che dice
così:

Col passare del tempo avevo cominciato a sentire che prima o poi me ne sarei
andato dal mio paese. Magari in un posto dove avrei potuto pensare e parlare in un’altra
lingua, perché lì mi sentivo come prigioniero delle parole. Tutto mi ricordava le
Malvine, la trincea, i piedi inzuppati, gli elicotteri. Me l’aveva detto mio padre:

4 Ginevra Bompiani, Il passato eventuale, in Antonio Delfini. Note di uno sconosciuto, Ascoli Piceno,
"Marka" 1990, p. 97.
12
“Dovresti imparare daccapo una lingua, così puoi pensare e sognare senza il ricordo di
quelle vecchie parole. Nuova lingua, nuova libertà”. È stata la prima volta che gli ho
dato ragione.

Ora, qui in Italia, sento di aver recuperato la lingua paterna della mia
famiglia, senza però aver perso la maternità dello spagnolo argentino. Dunque,
parlo e scrivo l’italiano, ma sullo sfondo di una lingua nascosta che ancora mi
suggerisce parole e toni che appartengono alla mia infanzia. Eppure, mi sento di
non avere una lingua mia, una lingua senza tormenti, senza insicurezze; ovunque
vado sono uno straniero che deve rovistare tra le parole, e se non trova quella
giusta deve cercare nel bailamme delle perifrasi. Accade così che per gli
argentini ho un accento tipicamente italiano e per gli italiani ho un accento
spiccatamente argentino. Mi capita delle volte di rattristarmi in una lingua per poi
rallegrarmi nell’altra. E così, saltellando da una lingua all’altra, mi succede di
cambiare umore. Non avendo un’infanzia in italiano, raramente provo nostalgia
in questa lingua, mentre se ricordo un fatto dell’infanzia nella mia lingua madre,
sento di avere a che fare con un mondo imprigionato in quelle parole che lo
evocano.

Non so se una nuova lingua possa liberarci da qualcosa, credo però che
possa darci uno sguardo diverso sul passato, rivisitarlo con un’altra lente: “Tu sei
nella tua memoria,” fa dire Edmond Jabès a un nomade in Il libro dell’ospitalità,
“la quale non è affatto legata al passato, come si potrebbe credere, ma è attaccata
al presente. Al presente ch’essa crea”5. Ecco, la mia memoria a un certo punto
stava creando un presente pieno di fantasmi e quei fantasmi, purtroppo,
parlavano la lingua della mia infanzia.

Avevo una zia, una sorella di mio padre, che subito dopo la guerra era
partita da Sambucheto, un paese del maceratese, per andare in Argentina. Era
partita dal porto di Genova insieme a suo marito, un polacco che aveva
conosciuto mentre lui cercava di nascondersi dai bombardamenti tedeschi, e un
figlio di appena quattro mesi. La nave sulla quale viaggiavano aveva attraversato

5 Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, a cura di Antonio Prete, Milano, Raffaello Cortina 1991, p.103.
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da poco la linea dell’equatore (su questa storia della traversata di mia zia, alcuni
anni fa, ho scritto un racconto che s’intitola Dopo la linea dell’equatore) ed
erano finite le scorte di acqua potabile. Tutti i passeggeri erano in preda al
panico. Suo figlio non mollava mai il capezzolo della madre, forse aveva paura
anche lui, lo teneva sempre stretto tra le gengive, raccontava mia zia. Nel
capezzolo libero si erano attaccati altri bambini. Si bagnavano le labbra con quel
poco di latte che riuscivano a succhiare. Le madri, raccontava mia zia, la
imploravano di aiutare i loro figli. Lei faceva quel che poteva con il suo latte. I
bambini che non sopravvivevano li avvolgevano in un lenzuolo bianco e li
buttavano a mare. Ne aveva contati cinque mia zia e quel numero se l’era portato
dentro come una colpa per il resto della vita: “Cinque bambini che non sono
riuscita a sfamare,” diceva.

Non ho mai visto piangere mia zia quando raccontava questa storia in
spagnolo, la sua lingua adottiva, anche se si vedeva che era molto colpita,
nonostante fossero passati parecchi anni; quando però un giorno gliel’ho sentita
raccontare in italiano, l’ho vista piangere per la prima volta. Allora ho pensato
che esiste una zona intima della memoria dove il passato si fa voce in una
determinata lingua. Per mia zia era straziante richiamare quei ricordi nella
propria lingua, la lingua nella quale quelle madri avevano visto buttare a mare i
propri figli o nella lingua dentro cui aveva vissuto quella storia. Forse i ricordi
parlano solo la lingua in cui sono accaduti. Farli parlare in un’altra lingua è come
mascherarli o sbiadirli.

I vari modi di parlare ci frammentano, ci spezzano: “Io, che non ho più


una lingua ma sono tormentato da parecchie, o che, talvolta, mi ritrovo a
beneficiarne di molte, ho sensazioni che mutano secondo le parole che uso”,
scrive Héctor Bianciotti nel suo primo romanzo francese, Senza la misericordia
di Cristo. Dunque, non ci si rattrista allo stesso modo in una lingua o in un’altra,
così come non si può raccontare la stessa storia in lingue diverse. Ci sarà sempre
uno slittamento, un modo diverso di guardare le cose. Per mia zia l’italiano era
14
diventato il teatro di un conflitto interno, di un viaggio senza ritorno, e nel
rievocarlo i suoi ricordi prendevano una vita propria.

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La maternità della lingua I

È possibile, mi chiedo, abbandonare la propria lingua, dal momento che la


lingua madre non è solo un modo di parlare, o meglio, non ha a che fare solo con
un corpo grammaticale, ma anche con un punto di vista? Possiamo, per diverse
vicissitudini, voltare le spalle alla nostra lingua, abbandonarla o sostituirla, però
forse non potremmo mai fare a meno della maternità di quella lingua, intesa
come origine irrevocabile, anche quando vediamo il mondo alla luce di una
nuova lingua. La maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dà
uno sguardo, un sentire, un punto di vista sulle cose. La sua sintassi è una
prospettiva. Possiamo investire le nostre storie con altre lingue, ma la maternità
che la nostra lingua d’origine rivendica su di noi, rimane; perché è un modo di
essere, di vivere e di pensare, a prescindere da come la si esprime. È
un’ermeneutica del mondo. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue.

Silvia Baron Superville, autrice argentina che scriveva anche in francese,


ha sempre riflettuto sul mutare lingua. Nel 1998 pubblica a Buenos Aires un libro
dal titolo El cambio de lengua para un escritor e nel 2007 esce in francese,
tradotto in italiano, L’alfabeto di fuoco: piccoli studi sulla lingua. In quest’ultimo
libro, l’autrice argentina, fa il suo punto della situazione: “Più ci rifletto più ho la
sensazione che la prima lingua non muoia mai: essa permane silenziosa, ma viva,
in fondo all’anima”6. Questo significa che mentre cresciamo e cambiamo lingua
resta in noi un fanciullino pascoliano che confonde la sua voce con la nostra e
che continua a guardare le cose attraverso quella maternità nascosta “in fondo
all’anima”. Ed è quella voce silenziosa, quel timbro velato dalla nuova lingua,
che a volte continua a parlarci dentro. Se metto insieme queste riflessioni,
capisco quel che scrive Bachelard nel già citato, La poetica della rêverie:
“passando da una lingua all’altra si ha l’esperienza di una femminilità perduta o

6 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, traduzione di Anna Bertaccini, Capriasca, Pagina d’arte
2010, p. 59.
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di una femminilità mascherata da suoni mascolini” 7. Ed è lo smascheramento di
questa femminilità, attraverso i nuovi suoni mascolini, che la maternità della
lingua svela. Ogni volta che parliamo scopre il suo occultarsi nella lingua
acquisita.

Nel primo trattato del Convivio (paragrafo XIII) Dante parla dell’amore
per la lingua materna, che considera elemento di unione tra i genitori: “Questo
mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì
come ‘l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto
è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio
essere”8. Una lingua che non rappresenta solo l’unione tra i suoi genitori, ma
partecipa alla nascita ed è, allo stesso tempo, causa della sua esistenza. Una
maternità, questa della lingua, che determina la vita e il rapporto con il mondo
del figlio. La lingua dentro cui si nasce ci dà gli occhi con i quali continuiamo a
guardare il mondo, anche quando non la parliamo più. Dice a tale proposito Italo
Calvino in una nota biografica che si trova all’inizio di Eremita a Parigi: “Tutto
può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene
dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno”9.

A me, personalmente, è capitato di dover fare i conti con l’italiano che


parlo da più di venticinque anni, ancora con parecchi errori, e nel quale scrivo
solo da tredici o quattordici anni circa. Durante i miei primi dieci anni di
permanenza in Italia ho continuato a scrivere in spagnolo. Mi sentivo troppo
legato a quel modo di parlare, anche se la mia idea, quando ero salito sull’aereo
che mi avrebbe portato in Europa, era di lasciarmi il passato alle spalle. Per dieci
anni ho vissuto un rapporto ambiguo e doloroso con entrambe le lingue che
avevo a disposizione, quella di partenza e quella d’arrivo, quella materna e quella

7 Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Op. cit., p. 40.

8 Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Angeno, Firenze, Le Lettere 1995, 1,13, p. XXX.

9 Italo Calvino, Eremita a Parigi, Milano, Mondadori 1996, p. VII.


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del paese in cui avevo scelto di stare, almeno per un po’. Da una parte mi
attaccavo ai ricordi, alle parole, alle metafore, al modo di parlare della mia lingua
materna; allo stesso tempo, però, volevo liberarmene, non dimenticare, ma far
parlare i ricordi con una voce diversa. Si vive dentro una lingua più che in uno
spazio geografico. Questo mi sembra di averlo capito quando l’italiano ha
iniziato ad avere il sopravvento sulla mia lingua.

Durante una conferenza del 1987, tenuta a Vienna, Brodskij dichiara che
l’esilio è, prima di tutto, un evento linguistico. Chi si trova nella condizione di
vivere espatriato, si ritira o si rifugia nella sua lingua; a quel punto “quella che
era la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula” 10, il luogo dove trovare un
rifugio. La lingua madre come spada che nella lontananza diventa scudo, riparo,
lo spazio dove potersi nascondere con i propri ricordi o con il proprio passato per
trovare, in quel rifugio, l’intimità nascosta della nostra lingua. Un’intimità però
che non riuscirà mai a rimanere nascosta come uno spazio chiuso, perché alla
fine ci accorgiamo che quella capsula della lingua madre era un abitacolo pieno
di finestre, aperte a tante contaminazioni.

10 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, traduzione di Giovanni Buttafava, Gilberto
Forti e Arturo Buttafava, Milano, Adelphi 2003, p. 53.
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La lingua dell’amore

Elias Canetti era nato in Bulgaria, a Rustchuk (odierna Ruse), una città
portuale del basso Danubio che già da tempo attirava persone da ogni parte del
mondo. Lì convivevano bulgari, turchi, spagnoli, greci, albanesi, armeni, zingari,
rumeni, russi. Canetti abitava nel quartiere degli spagnoli o spanioli (discendenti
di quegli ebrei sefarditi che nel 1492 erano stati costretti a emigrare dopo la
riconquista cristiana della penisola iberica), in via Ulica Slavianska, al numero
12. Fin da piccolo si muoveva tra diverse lingue: era abituale, racconta lo stesso
Canetti in La lingua salvata, parlare sette o otto lingue diverse: “tutti capivano
qualcosa di ciascuna”, ma c’era una lingua, il tedesco (“una lingua madre
imparata con ritardo e veramente nata con dolore”) che lui non doveva capire,
perché era la lingua intima, quella dell’amore tra suo padre e sua madre (“la
lingua segreta dei miei genitori”). L’avevano parlato difatti a Vienna, quando si
erano conosciuti, durante un periodo di studi: “Quando il babbo tornava a casa
dal lavoro, subito si metteva a parlare con la mamma. A quel tempo si amavano
molto e tra loro usavano una lingua speciale che io non capivo, parlavano
tedesco, la lingua dei loro felici anni di studi a Vienna”11.

I genitori si erano innamorati parlando il tedesco e continuavano a essere


innamorati, parlando appunto questa lingua. Rievocavano gli spettacoli al
Burgtheater, il sogno, comune a entrambi in quei tempi, di diventare attori. Il
tedesco era la loro lingua dell’intimità, che, in quanto tale, escludeva il piccolo
Canetti dai loro discorsi: “Quando parlavano così si facevano molto allegri e
vivaci e io collegavo questa trasformazione, che percepivo con grande acutezza,
al suono della lingua tedesca”12. La lingua quotidiana, invece, quella che lo stesso
Canetti parlava con i suoi, era la cosiddetta lingua giudeo-spagnola o giudesmo
(uno spagnolo con alcune parole turche, ma pressoché invariato rispetto a quello

11 Elias Canetti, La lingua salvata, traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni, Milano, Adelphi
1997, p. 39.

12 Ibidem, p. 40.
19
del Cinquecento); poi c’era il bulgaro che parlavano le ragazzine che lavoravano
a casa sua, e questa era la loro lingua specie quando raccontavano le fiabe dei
lupi mannari e dei vampiri: “ma poiché non frequentai mai una scuola bulgara e
lasciai Rustschuk quando avevo solo sei anni, il bulgaro l’ho ben presto
completamente dimenticato”. Quando i suoi genitori parlavano, Canetti rimaneva
ad ascoltarli e poi chiedeva il significato di alcune parole, ma loro ridevano e
dicevano che era troppo presto, che quelle cose le avrebbe capito da solo col
tempo. Allora, visto che in quegli anni gli era precluso il tedesco, pensava che i
suoi discorressero di cose meravigliose che si potevano dire solo in quella lingua.
A volte cantavano dei lieder tedeschi, Schubert, Loewe. Poi, nel 1911 tutta la
famiglia era andata a vivere a Manchester, in Inghilterra. Qui, per la prima volta,
i genitori traducono a Canetti il tedesco: “le prime parole tedesche che imparai
furono quelle della canzone Das Grab auf der Heide” (dove si racconta la storia
di un disertore che viene catturato e si trova di fronte ai suoi camerati che lo
devono fucilare).

Nel 1912, quando Canetti ha 7 anni, il padre, appena trentunenne, muore;


l’anno dopo, la madre e i tre figli si trasferiscono a Losanna per trascorrere i mesi
estivi prima di andare a Vienna. A Losanna, il tedesco, che il piccolo Canetti
studia assiduamente, diviene la lingua dell’amore tra lui e sua madre:

A Losanna comunque – dove sempre intorno a me sentivo parlare il francese,


lingua che appresi quasi inavvertitamente e senza drammatiche complicazioni – vissi
sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel
travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato a
entrambe, a quella lingua e a mia madre 13.

Con la morte del marito, la mamma di Canetti aveva perso quel “colloquio
d’amore in tedesco” e ora aveva bisogno di ritrovarne l’intimità affettiva di
quella lingua: “Senza il papà si sentiva smarrita, perduta, e allora avevo tentato di
mettermi al suo posto il più in fretta possibile”14.

13 Ibidem, p. 105.

14 Ibidem, p. 100.
20
Il tedesco era la lingua dell’amore anche per i genitori di Anita Desai (nata
in India, figlia da padre bengalese, partito “dai fiumi e dalle risaie del Bengala”
per andare a studiare in Germania, e di madre berlinese). Scrive nell’introduzione
al suo romanzo Notte e nebbia a Bombay: “Noi ragazzi crescemmo parlando il
tedesco, perché era la lingua che i nostri genitori parlavano tra loro; era una
lingua di famiglia, isola privata e segreta nel grande mare delle lingue indiane” 15.
All’età di sei anni Anita Desai parla hindi e tedesco, ma la prima lingua che legge
e scrive, con la quale scriverà le sue opere, è l’inglese. Quando scrive in inglese,
racconta:

sento di reprimere le lingue che parlavo: hindi e tedesco. Ce le avevo sempre


sulla punta della lingua, anche quando non le verbalizzavo. Ero costantemente in cerca
di un modo per dare loro voce: sentivo che, finché non ci fosse riuscita, una parte di
essenziale del mio essere sarebbe rimasta nascosta, rinchiusa 16.

Notte e nebbia a Bombay nasce dalla necessità di dover fare i conti con
queste due lingue nascoste e richiuse: il tedesco, la lingua madre privata e
taciuta, e l’hindi, che rappresenta il mondo indiano dell’autrice. Da questa
necessità nasce anche il personaggio di Hugo Baumgartner, un ebreo tedesco che
arriva in India rinunciando alla propria lingua.

Rispetto alla lingua degli affetti e dell’amore c’è un altro esempio che mi
piace ricordare, riguarda l’infanzia di Héctor Bianciotti, autore argentino
naturalizzato francese, nato a Córdoba nel 1930, da genitori piemontesi. Come
tanti emigranti italiani che sbarcavano nel porto di Buenos Aires in quegli anni, i
genitori di Bianciotti avevano imparato a fatica lo spagnolo e tra di loro
continuavano a parlare in dialetto, vietandosi però di trasmetterlo al figlio per

15 Anita Desai, Notte e nebbia a Bombay, traduzione di Cinzia Pieruccini, Torino, Einaudi 1999, p. VI.

16 Ibidem, p. VI-VII.
21
timore che intralciasse l’apprendimento dello spagnolo: “Io parlavo dunque
spagnolo, ma sullo sfondo di una lingua segreta che parlavano fra di loro mio
padre e mia madre, per abitudine, o forse per difendere i loro rari momenti di
intimità”, racconta in un’intervista lasciata a Mai Mouniama, La pietà, la lingua
segreta17. Da una parte, i genitori di Bianciotti sentono l’impossibilità di
appropriarsi dello spagnolo, dall’altra parte, però, il figlio sente l’impossibilità di
entrare in quella lingua affettiva dei genitori, attraversata, dice lo stesso
Bianciotti, da suoni chiusi con molte u: “la ventunesima lettera dell’alfabeto, la
lettera u, quel suono tanto intimo e che non per caso si trova nella parola
solitude”, scrive nel già citato Senza la misericordia di Cristo. È interessante
notare che quando Bianciotti arriva a Parigi sente d’inseguire quel suono chiuso,
quella u che rappresenta lo spazio dell’intimità perduta e ritorna altre volte, nel
corso della sua vita, a parlare di questo suono:

Sì, mi piace pensare che in questa lingua proibita dell’infanzia c’era questo
suono chiuso della quinta vocale, questo suono ü che non esiste né in spagnolo, né in
italiano, ma nel dialetto piemontese, e che è la u del francese. Un suono assai intimo,
una specie di piccolo guscio dove un tempo si è rannicchiata una parte di me, e che mi
avrebbe fatto fare, a mia insaputa, il viaggio da una lingua a un’altra 18.

John Milton raccoglie nel 1645, sotto il titolo di Poems, sei poemi scritti in
italiano (cinque sonetti e una canzone) e quattro in inglese (seguirà una seconda
edizione del 1673, con l’aggiunta d’altri componimenti, ma solo in inglese) 19.
Quelli scritti in italiano, considerata da Milton la lingua dell’amore, sono tutti di
carattere amoroso e hanno, allo stesso tempo, l’intensità di un’esperienza che
riflette lo scrivere in un’altra lingua, considerata dal poeta inglese tra le più belle.
In questo breve canzoniere, inserito in un contesto di sonetti inglesi, è l’amore

17 Mai Mouniama, La pietà, la lingua segreta, in “L’indice dei libri del mese”, agosto 1990, p. 4.

18 Ibidem, p. 5.

19 Furio Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al
Novecento, Roma, Carocci 2009, p. 76.
22
stesso, verrebbe da dire, a scegliere la sua lingua, quella del canto e della poesia
d’amore:

canto, dal mio buon popolo non inteso,

e ʼl bel Tamigi cangio col bel Arno.

Amor lo volse.

Scegliere l’Arno al posto del Tamigi permette a Milton la possibilità di


riflettere sull’amore e sul cambio di lingua. Il tema dell’amore in questi sei poemi
giovanili, scrive Furio Brugnolo, in La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori
stranieri in lingua italiana dal Medioevo al Novecento, un libro dove si passano
in rassegna gli autori stranieri che, per qualche ragione, hanno adottato l’italiano
come lingua di scrittura, “è intrecciato, anzi condizionato dalla riflessione sul
poetare, e sul poetare in un’altra lingua, nella lingua della donna amata che è
insieme la lingua eletta della poesia d’amore” 20. Amore e lingua fanno tutt’uno in
questi componimenti di Milton. Anzi, è l’amore a scegliere la sua lingua, perché
non può che esprimersi nella lingua del Petrarca, dal quale Milton trae molti
spunti, non solo per quanto riguarda questi componimenti. Solo la musicalità
dell’italiano, “la lingua di cui si vanta Amore”, sembra suggerirci Milton con
questa scelta, può cantare l’amore per la poesia:

Ridonsi donne e giovani amorosi

m’accostandosi attorno, e: “Perché scrivi,

perché tu scrivi in lingua ignota e strana

verseggiando d’amor, e come t’osi?

Dinne, se la tua speme sia mai vana,

e de’ pensieri lo miglior t’arrivi”.

Così mi van burlando: “Altri rivi,

20 Ibidem, p. 78.
23
altri lidi t’aspettan, ed altre onde

nelle cui verdi sponde

spùntati ad hor ad hor a la tua chioma

l’immortal guiderdon d’eterne frondi.

Perché alle spalle tue soverchia soma?”

Canzon, dirotti, e tu per me rispondi:

dice mia donna, e ʼl suo dir è il mio cuore:

Questa è lingua di cui si vanta Amore.

24
L’ospitalità della lingua

Da tempo l’italiano è diventato la mia dimora. Mi piace sentirmi ospite in


questa lingua che ancora non riesco a padroneggiare come vorrei, anche se, fin
dall’inizio, mi sono sentito accolto, come un ospite gradito. All’ospitalità della
lingua Antonio Prete dedica un paragrafo di All’ombra dell’altra lingua, un libro
sulla traduzione, che inizia così:

La lingua è ospitale. Appartiene, certo, a tutti quelli che l’hanno abitata e la


abitano con la parola e la scrittura, appartiene a tutti quelli che l’hanno edificata e la
edificano con l’esercizio e l’invenzione. Ma, allo stesso tempo, essa è transitabile,
aperta a ogni approdo, a ogni interrogazione, a ogni appropriazione 21.

La lingua non tollera muri divisori, non è proprietà di questo o quel


gruppo. Appartiene a chi la parla, la legge, la scrive, senza distinzione di
provenienza. Non tiene conto delle nostre origini. È la prima dimora che trova lo
straniero, una specie di arco da attraversare. Un arco senza porte e sbarramenti,
oltre al quale c’è una storia, una cultura, un’identità, che non sottraggono nulla
alla diversità o alterità di chi lo attraversa, anzi le arricchiscono. Ospitare
significa accogliere l’altro nella sua singolarità.

Nell’ultimo libro scritto da Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, lo


scrittore ebreo egiziano, che aveva scelto il francese come lingua, prima ancora
del suo esilio parigino, dedica un breve capitolo al tema dell’ospitalità che
s’intitola, appunto, L’ospitalità della lingua. È un dialogo tra uno straniero e un
ospite (Antonio Prete, che ha tradotto questo libro di Jabés, osserva che nella
nostra lingua la stessa parola ospite designa sia colui che ospita sia colui che è
ospitato; una reciprocità che identifica chi accoglie e chi è accolto, poiché nel
momento dell’ospitalità entrambi diventano un solo soggetto). Nel dialogo si
parla dell’importanza dell’accoglienza, dell’altro come un noi, che è anche un
modo di essere e di stare al mondo. A un certo punto lo straniero dice:

21 Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua, Torino, Bollati Boringhieri 2011, p. 14.
25
- Il tuo paese è il paese della mia lingua.

- Dietro la lingua, c’è un popolo, una nazione. Di che nazionalità sei, tu?

- Oggi, della tua22.

L’ospitalità è una figura fondamentale della cultura mediterranea, può


declinarsi in tante forme: penso al porto, alla piazza, alle biblioteche, alle
traduzioni tra le varie lingue: “Dalla Babele delle lingue,” scrive ancora Prete,
“non sale l’indefinito mormorio della confusione ma la lussureggiante polifonia
del molteplice”. Ma è la lingua stessa, come dicevamo sopra, a ospitare chi la
parla. Entriamo, da bambini o da adulti, in questa casa che esiste non si sa mai da
quanto tempo e durante la nostra ospitalità creiamo al suo interno i nostri percorsi
immaginari, i nostri progetti, i nostri smarrimenti. Impariamo ad amarla o a
odiarla. Seguiamo i suoi spostamenti interni, le sue contaminazioni, le sue
trasformazioni. Alla fine però ci accorgiamo che quella casa siamo noi.

Il filosofo tedesco Franz Rosenzweig, in un testo del 1921, La stella della


redenzione, parla del popolo ebraico come di un popolo in continua migrazione
che non ha una lingua in propria, ma soltanto la lingua dell’ospite: “E così è
avvenuto,” scrive Rosenzweig, “che il popolo eterno abbia perso la sua propria
lingua e parli dovunque la lingua dei suoi destini esteriori, la lingua del popolo
presso il quale risiede come ospite” (oggi, paradossalmente, molti palestinesi
sono diventati esuli dal vecchio popolo dell’esilio; inoltre bisogna aggiungere che
dal 1921, anno della pubblicazione di La stella della redenzione a oggi, la lingua
di cui parla Rosenzweig, cioè l’ebraico, ha avuto una sorte di rinascita importante
con il movimento sionista, legata al nome di Ben Jehudah, che ha trasformato
l’ebraico, da lingua destinata allo studio dei testi sacri a lingua di uso
quotidiano).

Dunque, l’ospitalità passa anche attraverso le parole. M’interessa


segnalare il fatto dell’essere accolto. Sentirsi ospite in una lingua straniera. Uno

22 Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, Op. cit., pp. 55-56.


26
straniero che piega la lingua che lo accoglie per dare un nuovo respiro allo
sradicamento. L’accoglienza produce uno sdoppiamento nell’ospite che parla: da
una parte gli dà la possibilità di trovare una distanza rispetto alla lingua che lo
ospita, riesce a vederla da fuori, capisce quante parole non trovano una diretta
traduzione e quante altre gli aprono altri orizzonti linguistici; dall’altra è questa
stessa distanza a dargli la possibilità di entrare nella lingua, magari con pudore e
in punta di piedi, ma entrarci, capirla, smarrircisi dentro. Crearsi una lingua
straniera dentro la propria lingua: “I bei libri sono scritti in una specie di lingua
straniera” scrive Proust. Deleuze usa questa frase come epigrafe a Critica e
clinica e nelle sue Conversazioni con Claire Parnet precisa:

Dobbiamo essere bilingui anche in una lingua sola, dobbiamo avere una lingua
minore all’interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra propria lingua un uso
minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di più sistemi ciascuno dei
quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di
variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare
come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario
parlare nella propria lingua come uno straniero23.

Sullo stare dentro la propria lingua come uno straniero Deleuze tornerà
altre volte, insistendo sul movimento attraverso il quale ci si può aprire una linea
di fuga nella propria lingua, come fa Bartleby con il suo enigmatico e
agrammaticale “I would prefer not to”, o lo scavo nei balbettii di Billy Budd.

Un mio amico, Alberto Coppari, a proposito di linea di fuga, mi aveva


scritto in una lettera: “credo che uno comincia a fare qualcosa di buono con le
parole non quando diventa abile con esse, quando gli viene naturale scrivere
bene, ma, al contrario, quando comincia ad avvertire come estranea la propria
lingua. Una lingua, insomma, diventa nostra quando la si perde”.

23 Gilles Deleuze – Claire Parnet, Conversazioni, traduzione di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli
1980, p. 9.
27
La lingua nemica

Ágota Kristóf, in un piccolo libro che si chiama L’analfabeta, pubblicato


anni dopo la Triologia della città di K., parla del francese come di una lingua
nemica, imposta dal caso, una lingua che ha ucciso la sua lingua madre,
l’ungherese. La Kristóf si è trovata a vivere in un paese, la Svizzera, senza saper
né leggere né scrivere (un luogo sprovvisto di parole, racconta, quasi desertico, di
qui il titolo del libro): “Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata
imposta dal caso, dalle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come
scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una
sfida. La sfida di un’analfabeta”24.

Nel novembre del 1956 Ágota Kristóf lascia l’Ungheria, mentre l’Armata
Rossa cerca di fermare la rivolta popolare. Attraversa la foresta con il marito e la
figlia di quattro mesi per arrivare in Austria e da lì raggiunge la Svizzera. Giunge
a Neuchâtel, una cittadina sul lago dove la scrittrice vivrà fino alla morte. Sembra
che non abbia mai perdonato al marito di averla costretta a fuggire. “All’inizio,”
dice riferendosi alla sua lingua madre, “non c’era che una sola lingua. Gli oggetti,
le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella
lingua”25.

Dunque, un’unica lingua, l’ungherese, che era il suo universo, al quale


viene sottratta prima dal tedesco dei nazisti e poi dal russo dei liberatori, diventati
subito oppressori. Alla fine c’è il francese, una lingua non scelta, imposta dalle
circostanze, che diventa la lingua dell’esilio (la Kristóf dice che non arriverà mai
a parlarla correttamente, salvo però ascoltarne i suoni in fabbrica, alla catena di
montaggio, e scriverla di notte, quando torna dal lavoro):

24 Agota Kristof, L’analfabeta. Racconto autobiografico, traduzione di Letizia Bolzani, Bellinzona,


Casagrande 2005, p. 52.

25 Ibidem, p. 25
28
Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo
conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un
dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua
francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa
lingua sta uccidendo la mia lingua materna26.

Per me l’italiano, se vale il paragone, non è mai stato una lingua nemica,
eppure mi mancano certe parole spagnole: pájaro per esempio, una parola così
solare e poetica, così sdrucciola che ti viene voglia di ripeterla ogni volta che
vedi un uccello. Una volta poi avevo usato in un racconto l’aggettivo procellose,
avevo scritto strade procellose, traducendo dallo spagnolo un semplice e
consueto calles procelosas. Allora un mio amico che si chiama Giuliano
Salvecchio mi ha detto che forse l’ultimo ad aver usato quell’aggettivo era stato
Leopardi quando aveva tradotto le Odi di Orazio a 11 anni. Lì ho scoperto non
solo l’esistenza dei cosiddetti falsi amici (che abbondano tra due lingue affini
come lo spagnolo e l’italiano), ma l’importanza del significato di certi termini,
che non sono sempre uguali e non vanno usati allo stesso modo. L’italiano mi ha
imposto un registro diverso da quello che usavo prima di cambiare lingua, ha
trasformato non solo il mio modo di scrivere, ma anche la mia percezione del
tempo, del ritmo, dell’organizzazione sintattica del racconto: scrivendole in
italiano, vedo le storie in modo differente. Quando si cambia voce anche le
parole assumono un altro timbro, una nuova tonalità. Insomma, si avverte, come
scrive Deleze e Guattari in Kafka: per una letteratura minore, che ciò che può
essere detto in una lingua non può essere detto in un’altra e che mai la stessa
storia può appartenere a due lingue diverse con la stessa intensità. Le storie più
riuscite, insomma, sono quelle che trovano un ritmo nella lingua che è capace di
raccontarle.

26 Ibidem, p. 28
29
La gelosia delle lingue

Nel 2010 ho ricevuto un invito dall’Istituto Italiano di Cultura in Córdoba


(Argentina) per una serie d’incontri. Ho accettato con piacere senza rendermi
conto di quanto poteva essere paradossale tornare al mio paese, dal quale manco
da più di venticinque anni, per parlare in italiano a un pubblico argentino. Mentre
ero a Córdoba, prima di cominciare ogni incontro, pensavo sempre agli strani giri
del destino e mi chiedevo: com’è possibile che stia parlando in un’altra lingua nel
paese dove sono nato e vissuto fino ai 24 anni circa?

Devo ammettere però che mi sarei trovato in difficoltà se mi avessero


chiesto di parlare in spagnolo. Non perché non sappia la lingua, la so bene, credo,
ancora, ma perché il mio vocabolario, dopo tanti anni di assenza dall’Argentina,
si è molto ridotto e ho perso quell’immediatezza tipica di chi la parla
correntemente. A questo proposito, Silvia Baron Superville, nel già citato
L’alfabeto di fuoco, testimonia la difficoltà di conservare intatta la propria lingua
dopo che la si è lasciata per adottarne un’altra: “Tale constatazione è dolorosa.
Due lingue, allo stesso livello di conoscenza, non possono coesistere nell’uomo.
Quando una di esse progredisce, l’altra indietreggia”27 e man mano si riduce il
nostro vocabolario. È un fatto molto strano, per certi versi drammatico. Insomma,
in quella circostanza non avrei trovato le parole giuste. Molte delle cose di cui
intendevo parlare sono state concepite in un’altra lingua, quindi cambiarla mi
avrebbe messo solo in difficoltà e mi sarei sentito in imbarazzo se avessi dovuto
cercare con perifrasi le parole giuste.

Alla fine di uno degli incontri ai quali ho partecipato mi si è avvicinato a


parlare un signore calabrese che viveva da parecchi anni in Argentina. Parlava un
italiano abbastanza strano, con un accento spiccatamente cordobese. Mi ha
raccontato che stava dimenticando sempre di più l’italiano e che, inoltre, a suo
modo di vedere, lo spagnolo è una lingua bella e musicale ma troppo gelosa: una

27 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, Op. cit., p. 58.


30
lingua che uccide tutto intorno a sé, diceva, perché vuol sempre prevalere sulle
altre (come il francese sull’ungherese di Ágota Kristóf). Mi è sembrata una
metafora ben riuscita. In quel momento ho pensato che sarebbe stato bello
scrivere un libro che parlasse della gelosia delle lingue. Queste piccole riflessioni
sulla lingua nascono in qualche modo dal racconto di questo signore italiano con
accento cordobese.

31
La mutevolezza della lingua

Forse non sono in molti oggi a leggere Libera nos a malo di Luigi
Meneghello, romanzo uscito nel 1963, tra i più significativi della letteratura
italiana contemporanea. Oltre a essere una confessione autobiografica, vista con
gli occhi di un bambino ma filtrata dallo sguardo ironico dell’adulto, è anche una
rivendicazione dialettale. Meneghello riesce a coniugare in questo libro uno
scavo linguistico nella memoria storica di Malo, paese della bassa terraferma
veneta, nella provincia vicentina. Facendo uso di un plurilinguismo raffinato, tra
dialetto, italiano parlato e lingua letteraria, Meneghello riesce a trasformare e a
cambiare il tempo del racconto: per cui il passato e il presente che lo ricorda
diventano uno “sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose”. Libera
nos a malo ci pone di fronte ai vari strati della lingua con i quali si fanno i conti
quando si torna dopo tanti anni ai luoghi dell’infanzia, un’infanzia fatta di parole
e di suoni perduti e ritrovati:

Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in


italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto
queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una
reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto 28.

Le storie che Meneghello racconta in questo libro, felliniane, affabulatorie,


se non altro per la loro connotazione grottesca, sono soprattutto evocazioni
linguistiche fatte da qualcuno che si mette in testa di recuperare l’epopea
dell’infanzia con il dialetto, senza però riprodurlo come una mimesis dell’oralità.
Pur essendo legato alle proprie radici venete, Meneghello ha vissuto, subito dopo
la guerra, lontano dal luogo natio, e precisamente in Inghilterra. Qui, tra l’altro,
ha fondato, e diretto fino al 1980, il Dipartimento di italianistica di Reading
(“Sono tuttavia certamente un italiano, e non ho alcun problema di identità, né mi
sono mai sentito per questo aspetto in esilio”). Questo dispatrio (che è anche il
titolo di un suo libro del 1993, Il dispatrio) non ha mai creato rotture con la

28 Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Milano, Mondadori 1986, p. 37.


32
propria terra d’origine, anzi proprio la lontananza si è rivelata una salvezza
rispetto alla propria idea di lingua e di scrittura.

La lingua aveva strati sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione
della lingua rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature
per contrade e per generazioni. Strambe linee di divisione tagliavano i quartieri, e fino i
cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a mangiare 29.

Dunque, il luogo della memoria va cercato sotto le parole arcane del


dialetto, e Meneghello, recuperando quella lingua, salva le cose e, insieme con
queste, anche un passato. Come dire che le cose esistono, o sopravvivono, anche
nelle parole che le nominano. Il dialetto, in Libera nos a malo, non serve a
descrivere la realtà, ma è la realtà stessa: “Il dialetto”, scrive Meneghello, “è
dunque per certi aspetti la realtà” (questa frase mi fa venire in mente un famoso
saggio di Heidegger, L’essenza del linguaggio, dove il filosofo tedesco fa
l’analisi di una poesia di Stefan George, La parola, che si conclude con questo
verso semplice e dirompente: “Nessuna cosa è <sia> dove la parola manca” 30).
La lingua, in questo caso il dialetto vicentino di Malo, è una chiave d’accesso alla
realtà delle cose.

Un’idea simile mi pare stia sotto la scrittura di Dolores Prato, l’autrice di


Giù la piazza non c’è nessuno (romanzo che ha visto la luce integralmente grazie
alla cura di Giorgio Zampa, nel 1997, quattordici anni dopo la morte
dell’autrice), un mondo fatto di parole recuperate dall’infanzia, “parole in via di
estinzione”, intorno alle quale vengono ricamate delle bellissime storie, come
quella delle nottole, appese nei luoghi scuri, identificate ai dei “piccoli demoni”:

Avevo tanta paura delle nottole; la paura era anche nel nome, portava buio,
portava notte, portava silenzio mosso dalle ali di velluto, portava se stessa, una cosa
brutta, forse più brutta perché era nottola. Il libro di lettura le chiamava pipistrelli;

29 Ibidem, pp. 118-119.

30 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, traduzione e cura di Alberto Caracciolo, Milano,
Mursia, p. 129.
33
invece erano nottole, uscivano solo per andare incontro alla notte. Le mie paure notturne
erano tutte nere velluto come loro31.

Nel suo libro Le Ore, anche questo, come il libro di Meneghello, pieno di
storie che partono dall’autobiografia e arrivano a raccontare le parole, scrive
Dolores Prato: “In paese l’universo per me era negli occhi e nelle parole. In
collegio, stando quasi sempre chiusa, l’universo degli occhi si restrinse a quel
panorama, sempre quello, ai corridoi, ai cameroni, si moltiplicò quello delle
parole”32. Nella scrittura di Dolores Prato c’è una sorta di recherche lessicale
corteggiata per tutta la vita, un percorso denso e trasparente, fatto però di
contrasti, di dicotomie linguistiche tra la prima infanzia in casa degli zii, a Treia,
nel dialetto maceratese, e l’idioma interno al collegio salesiano della Visitazione,
dove Dolores Prato ha vissuto dopo la scuola elementare, dai dieci ai diciannove
anni (di questa dicotomia dà conto la seconda parte di Le Ore, uscita nel 1988 per
Scheiwiller: l’isolamento che vive, spoglio di affetti, porta a Dolores Prato a dare
corpo alle parole, a sostituire le cose con le parole stesse, e non sempre queste
diventano “amiche”, spesso piuttosto si avverte uno scontro doloroso tra la lingua
dell’infanzia e quella lingua senza affetti che trova in collegio). In Meneghello,
oltre a questo percorso lessicale nel dialetto, limpido e insieme accidentato, c’è
anche un’attenta riflessione sulla lingua. Scrive all’inizio della nota finale di
Libera nos a malo: “Questo libro è scritto dall’interno di un mondo dove si parla
una lingua che non si scrive; sono ragguagli di uno da Malo a quegli italiani che
volessero sentirli; e sono scritti, per forza in italiano”33.

C’è anche un frammento in questo romanzo di Meneghello che mi


piacerebbe ricordare, perché riguarda qualcosa con cui mi confronto ogni volta
che torno ai luoghi della mia infanzia (capita spesso a chi fa ritorno alla propria

31 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, a cura di Giorgio Zampa, Macerata, Quodlibet 2009, p.
219.

32 Dolores Prato, Le Ore. II. Parole, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Scheiwiller 1988, p. 88.

33 Luigi Meneghello, Liberanos a malo, Op. cit., p. 283.


34
terra dopo anni di assenza, oppure che sentono parlare la propria lingua dopo
tanto tempo). Si tratta della mutevolezza della lingua:

La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si
avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la
distanza dal punto dove è uscito a riva. Tornano dopo dieci anni, dopo vent’anni dalle
Australie, dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che
parlavano qui con noi, che parlavamo tutti; tornano e sembrano gente di un altro paese o
di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra. È come se anche
le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno strano sentimento, spesso dopo un
po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si vergogna un poco34.

Sapere che c’è nella lingua un mutamento interno, fatto di relazioni,


confronti, contaminazioni, mi fa pensare che tutto muta e che la lingua, che
registra le mutazioni delle cose, muta anche lei. Le lingue sono fluviali, basta
assentarsi e tornare dopo vent’anni, “dalle Australie, dalle Americhe”, per
constatare che “la lingua si muove come una corrente”.

C’è, a questo proposito, una Lettera del capitano Gulliver a suo cugino
Richard Sympson del 2 aprile 1727 (tradotta da Gianni Celati in I viaggi di
Gulliver), dove si legge:

Sento dire che alcuni naviganti yahoo trovano errori nel mio frasario
marinaresco, come non appropriato in alcune parti, né più in uso oggidì. Non so che
fare. Nei miei primi viaggi, quand’ero giovane, venni istruito dai marinai più anziani e
appresi a parlare come loro. Ma da qual tempo ho anche capito che i naviganti yahoo, al
pari degli Yahoo di terra, sono inclini a correre dietro alla moda nelle loro espressioni:
le quali cambiano d’anno in anno; tanto che, a ogni mio ritorno in patria, ricordo aver
trovato il loro vecchio dialetto talmente alterato, che a fatica riuscivo a intendere la
nuova parlata. Osservo altresì che, ogni qualvolta uno Yahoo curioso viene a Londra a
vedermi, né l’uno né l’altro di noi sa ragionare delle proprie idee in maniera intelligibile
per l’altro35.

34 Ibidem, p. 119.

35 Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, traduzione e cura di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli 2010, p. 299-300.
35
Senza stile

Nella biografia di Samuel Beckett scritta da James Knowlson, Samuel


Beckett: una vita, si dice che il passaggio da una lingua all’altra - nel caso di
Beckett è dall’inglese al francese e poi viceversa - sia stata una scelta che aveva a
che fare con una specie di liberazione, perché significava uscire dall’ombra di
Joyce (“mi libererò di J. J. prima che muoio, sissignore” 36, scrive in una lettera
del 1932 a Samuel Putnam), ma anche dall’ombra della madre, amata e odiata, e
infine dalla stessa retorica irlandese. C’è un punto però che m’interessa segnalare
riguardo al passaggio da una lingua all’altra. Scrive Knowlson:

Egli sosteneva peraltro che in questo modo era più facile scrivere senza stile:
non intendeva certo dire che il francese non avesse stile, ma che, utilizzando un’altra
lingua, otteneva una maggior semplicità e oggettività. Il francese gli offriva la libertà di
concentrarsi su una più diretta espressione della ricerca dell’essere […]. Esso gli
permetteva inoltre di tagliar via gli eccessi, togliere il colore e di concentrarsi
maggiormente sulla musica della lingua, i suoni e i suoi ritmi 37.

Per togliere gli eccessi e per poter concentrarsi sui ritmi della lingua,
Beckett, dopo la seconda guerra mondiale, decide di abbandonare l’estetica
joyciana e di cambiare lingua, per concentrarsi su una letteratura afona, della
non-parola (“Joyce, quanto più sapeva più poteva. Egli, come artista, tende verso
l’onniscienza e l’onnipotenza. Io sto lavorando con l’impotenza, l’ignoranza” 38,
scrive a Israel Shenker). Non si tratta di un’esibizione stilistica, ma di una
tensione tra parola e silenzio. Watt, ultimo romanzo scritto in inglese durante la
seconda guerra mondiale e pubblicato nel 1953, rappresenta in parte la svolta;
dopo questo libro abbandonerà la sua lingua materna per il francese. Non
significa soltanto un passaggio di lingua o l’uso di un’altra lingua, ma un nuovo

36 James Knowlson, Samuel Beckett. Una vita, a cura di Gabriele Frasca, traduzione di Giancarlo Alfano,
Torino, Einaudi 2001, p. 189.

37 Ibidem, p. 418.

38 James Knowlson, Samuel Beckett. Una vita, Op. cit., p. 413.


36
modo di concepire la scrittura e i suoi ritmi interni. Dunque, non saranno i suoi
personaggi a balbettare in francese, ma lo scrittore stesso; e i suoi personaggi, per
parte loro, diventeranno solo voci, echi, pause e silenzi. Scrive Beckett in una
lettera del 1937 ad Axel Kaun:

per me sta diventando sempre più difficile, perfino insensato, scrivere in un


inglese ufficiale. E la mia lingua mi sembra sempre più un velo che occorre strappare
per pervenire alle cose (o al Nulla) celate oltre di esso. Grammatica e stile. A me
sembrano diventati inattuali come un costume da bagno vittoriano […]. Speriamo che
venga il tempo, grazie a Dio già giunto in alcune cerchie, in cui il linguaggio sarà usato
al meglio là dove sarà maltrattato con la massima efficienza. Siccome non possiamo
eliminare d’un colpo solo il linguaggio, dovremmo almeno non tralasciare nulla che
possa contribuire a farlo cadere in discredito. Farvi un foro dopo l’altro finché
incominci a filtrare ciò che si cela oltre di esso, si tratti di qualcosa o di nulla; per uno
scrittore non posso immaginare, oggi, una meta più alta 39.

Se l’inglese ufficiale sembrava a Beckett “un costume da bagno


vittoriano”, il francese, appunto, gli darà la possibilità di operare “un foro dopo
l’altro”. La scrittura per Beckett esula dalla storia ed entra nel dominio del ritmo
e del non-detto, è una questione di stile (o non-stile); si trasforma, se vogliamo,
in una faccenda musicale. Il passaggio da una lingua all’altra segna un distacco e
allo stesso tempo l’appropriazione di una lingua balbettata e contratta, una lingua
“senza stile”.

Beckett col francese spurga l’immaginazione degli elementi materici e viscerali


che la compongono, e cerca un’espressione atona, e afona. La nuova lingua, imparata da
grande, gli offre la possibilità di costruirsi un apparato difensivo contro quel volume di
conflitti emotivi, quel fardello di memorie e sentimenti che la lingua madre consegna al
proprio figlio40.

Il riferimento è di Nadia Fusini e si trova nell’introduzione a Mal vu mal


dit. Tolto quel “fardello di memorie e sentimenti”, si scopre l’afasia, il nulla che

39 Samuel Beckett, Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, traduzione e cura di Aldo
Tagliaferri, Milano, Egea 1991, pp. 68-69.

40 Nadia Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Torino, Einaudi 1994, p. 89.
37
la lingua cela. Cambiare lingua, allora, rappresenta non solo un nuovo modo di
partecipare alla scrittura, ma anche una scelta stilistica nei confronti della
letteratura. Si ha uno stile quando si riesce a balbettare nella propria lingua
oppure, dice Deleuze, lo stile è qualcosa che appartiene a coloro di cui si pensa
che “non hanno stile”.41

Oggi molte classifiche sono piene di testi che sembrano succedanei


dell’attualità, scritti in un linguaggio standard che non richiama più nessuna
voce. In questo modo è venuta meno l’intesa uditiva tra chi narra e chi ascolta:
nessuno sembra più riuscire a balbettare nella propria lingua. Dunque, in
un’epoca in cui molti libri di successo sono scritti in una sorta di non-lingua o di
lingua piatta, anestetizzata e apatride, che è l’equivalente dei non-luoghi, fa un
certo effetto sentire parlare di stile o di “scrivere senza stile”. Tra l’altra, trovo
sorprendente il fatto che una nuova lingua possa dare a un autore una maggiore
semplicità e oggettività, dal momento in cui si presuppone che questi aspetti, cioè
la semplicità e l’oggettività, appartengano a una lingua che conosciamo già nella
sua integrità. Scrivere e avere uno stile sono tutt’uno, anche quando si cerca di
non averne nessuno. Parlare di un’opera senza stile è un ossimoro, ed è
inevitabile scrivere senza cercarlo, semmai si può avere un’avversione per un
tipo di stile, ma questo sarebbe già una presa di posizione stilistica. Lo stile è
quel ritmo della voce che segna il tempo del racconto. Quello che colpisce però è
il fatto che un autore possa concentrarsi sulla musicalità e sui ritmi senza avere
una piena padronanza della lingua. Eppure funziona così, quando non si conosce
del tutto, o poco, la nuova lingua che adottiamo, riusciamo ad avere uno sguardo
diverso su di essa, uno sguardo musicale. A quel punto diventa fondamentale la
lettura ad alta voce per trovare il ritmo giusto, attraverso e grazie all’ascolto. I
testi che si amano di più sono sempre quelli dove la storia trova la sua voce o
quelli dove il lettore avverte che si sta narrando dentro un ritmo. Quando si trova
quel ritmo, quel respiro della lingua, la scrittura va da sé.

41 Gilles Deleuze – Claire Parnet, Conversazioni, Op. cit., p. 8.


38
Se paragonassimo lo stile con cui Ágota Kristóf scriveva in ungherese
(poesie rinnegate perché considerate da lei stessa troppo sentimentali) e lo stile
che veniva fuori dall’uso del francese constateremo, come è successo con
Beckett, un modo diverso di concepire la lingua (del resto anche i personaggi
della Kristóf sembrano un insieme di gesti, di voci, di timbri diversi). C’è da
notare però che il francese della Kristóf, a differenza di quello di Beckett o di
Cioran (che addotta il francese nel 1947 mentre traduce Mallarmé in rumeno) o
ancora del francese di Kundera, è figlio del bisogno e della privazione, nasce
dall’impossibilità di esprimersi nella propria lingua. Dunque, uno stile forgiato
dalla necessità: tagliente, asciutto, dal ritmo sincopato, analizzato e vivisezionato
dal di fuori, come si può fare solo con una lingua nemica o estranea.

“Lo stile,” scrive Brodskij, “non è tanto l’uomo quanto il sistema nervoso
dell’uomo, e l’esilio, tutto sommato, non fornisce ai nervi tutti gli agenti irritanti
che può fornire la madrepatria”42.

42 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, Op. cit., p. 51.


39
Il profumo della pantera

All’inizio del De vulgari eloquentia, scritto intorno al 1304, durante


l’esilio (opera di prima stesura e interrotta a metà del secondo libro), Dante
enuncia espressamente la novità del suo trattato e i motivi che l’hanno portato a
voler riflettere sulla lingua volgare: “Poiché non ho trovato nessuno che, prima
di me, si sia mai occupato di teoria dell’eloquenza volgare, e ben vedo che questa
eloquenza è necessaria a tutti […], cercherò di giovare alla lingua delle genti
volgari”43. Il fascino di questo trattato retorico-poetico, scritto in latino e rivolto
ai doctores illustres, cioè ai poeti e prosatori, secondo Maria Corti sta nel fatto
che esso non risale a uno specifico modello precedente, ma apre un campo
d’indagine tutto nuovo, intento a cogliere lo spirito della sua società: “nella Vita
nuova Dante si comporta da creatore di poesie, nel De vulgari eloquentia diventa
teorizzatore del linguaggio poetico. Tutto nel De vulgari è funzionalizzato a
questo: la lingua adamitica, i volgari della penisola, la storia dei loro mutamenti,
la nozione di grammatica”44. Subito dopo il proclama di novità, Dante passa al
subiectum della trattazione, cioè alla lingua volgare, sulla quale si costruiranno le
basi dell’arte dell’eloquenza:

chiamo lingua volgare quella che i bambini apprendono da chi sta loro intorno
dal momento che cominciano ad articolare i suoni; oppure, per essere più brevi, lingua
volgare è quella che, senza bisogno di regole, impariamo imitando la nostra nutrice. C’è
poi un’altra lingua, per noi seconda, che i Romani chiamarono grammatica 45.

Tra queste due lingue, ossia la volgare o materna (senza regola), e quella
acquisita, “per noi seconda” (governata da regole, l’unica lingua che venisse
insegnata a quei tempi, il latino), Dante fa una netta distinzione, come se
appartenessero a due saperi diversi, uno naturale e nobile, l’altro acquisito e

43 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, traduzione e note di Vittorio Coletti, Milano, Garzanti 1991,
I.1, p. 3.

44 Maria Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi 1993, p. 76.

45 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Op. cit., p. 3.


40
artificiale. “Di queste due, la volgare è più nobile, perché fu per prima usata dal
genere umano e perché se ne serve tutto il mondo, ancorché sia diversa in
differenti pronunce e vocaboli; e, infine perché naturale per noi, mentre l’altra ci
è, piuttosto, artificiale”46.

Per Dante il discorso sulla lingua è anche un discorso sull’arte d’impiegare


l’eloquentia da parte dei poeti, i depositari dell’italianità. E la storia del De
vulgari eloquentia diventa la storia di una ricerca, o di una caccia: la caccia di
Dante che vuol trovare il volgare, la lingua più bella e rappresentativa della
penisola, sublimata per magistero d’arte:

Dopo aver cacciato per boschi e pascoli d’Italia senza aver trovato la pantera
che inseguiamo, per poterla rintracciare sarà bene procedere ora con strumenti più
razionali, così che, con un’attenta ricerca, si possa finalmente catturare questo animale
di cui si sente ovunque il profumo ma che non si vede da nessuna parte [...]. Ora, le
operazioni più nobili fra quelle proprie degli italiani sono quelle che non appartengono
specificamente a nessuna città e però sono comuni a tutte: tra queste, si può adesso
vedere quel volgare di cui prima eravamo a caccia, il quale profuma in qualsiasi città e
non sta in nessuna47.

Il profumo è quello della pantera che sfugge, quel volgare illustre quasi
inesistente, che profuma ovunque senza però trovarsi in nessun luogo (nel
Physiologus, testo base dei bestiari medievali, scritto tra il II e il V secolo d. C.
ad Alessandria d’Egitto, si dice che la pantera si serve del proprio profumo per
catturare le prede, e che le fiere seguono il profumo della sua voce). Dante, dopo
aver setacciato ogni regione in cerca di questa lingua illustre, e dopo aver
descritto le caratteristiche proprie di ogni regione, spesso caricaturizzandole,
arriva a questa conclusione: il volgare illustre è come un profumo che sta in tutti i
luoghi dell’Italia, senza però identificarsi in un preciso territorio. Dunque, un
volgare che esiste nelle sue varianti diatopiche, che trova la sua identità nella
diversità (mai identico tra le comunità che lo parlano). La caccia, dunque, non ha

46 Ibidem.

47 Ibidem, I,16, pp. 43-45.


41
dato frutto perché il volgare illustre non è stato trovato tra le parlate e i dialetti
che Dante ha passato in rassegna. La pantera inseguita, sempre sfuggevole, non
può trovarsi in nessun luogo perché è ovunque, nascosta in ogni parlata, in ogni
parola. Lei è il suo odore, così come l’essenza del volgare illustre è la sua
diversità. E allora si potrebbe concludere che l’italiano sta è nelle sue varianti,
nel suo essere altro. È quella selva vernacolare dove si nasconde la preda. Si
possiede l’italiano se si riconoscono le sue differenze interne, come una lingua
che non è proprio una, senza unità. Impararlo è come inseguire il profumo di una
preda quasi irraggiungibile. Ogni straniero che entra in questa lingua non può che
diventare anche lui una sorta di cacciatore.

La ricerca di una lingua poetica ha però mostrato le qualità e i modi di una


pratica venatoria alta, nonostante il cacciatore abbia smarrito la preda o, come
dice Giorgio Agamben in un piccolo saggio intitolato La caccia della lingua (che
si trova all’interno delle Categorie italiane: studi di poetica): “Alle origini della
nostra tradizione letteraria la ricerca di una lingua poetica illustre si pone così
sotto il segno inquietante di Nemrod e della sua caccia titanica, quasi significasse
il rischio mortale implicito in ogni ricerca sul linguaggio che voglia in qualche
modo restaurare lo splendore originario”48. Dante punisce nell’Inferno Nemrod
per aver avuto il “mal coto” d’innalzare la torre di Babele, facendole perdere per
sempre il suo linguaggio significante: dunque Nembrotto, come lo chiama Dante,
in seguito alla confusione delle lingue, potrà solo proferire suoni privi di senso. A
questo tema della caccia Giorgio Caproni dedica una delle raccolte poetiche più
interessanti del Novecento italiano: Il conte di Kevenhüller, uscita nel 1986,
quattro anni prima della morte dell’autore. La feroce bestia inseguita, nascosta
“dietro la Parola”, dice Caproni, ricorda, per certi aspetti, quella che Dante
insegue “per boschi e pascoli”:

La pantera

48 Giorgio Agamben, Categorie italiane: studi di poetica, Venezia, Marsilio 1996, p. 130.
42
nebulosa (felis

nebulosa), che attira

chi la respinge, e azzera

chi la sfida…49

In questa stessa raccolta c’è una poesia dedicata a Giorgio Agamben che si
conclude con un’allusione al De vulgari eloquentia:

Il luogo

è salvo dal fruscìo

della bestia in fuga, che sempre

- è detto - è nella parola50.

La caccia “della bestia in fuga” ha stabilito però un rapporto tra la pluralità


delle parlate descritte nel De vulgari eloquentia e l’idea del volgare illustre, un
linguaggio più dignitoso e più nobile che Dante trova, ancora non ben codificato,
in alcuni poeti che apprezza e che cerca di restaurare. La pantera che insegue
dunque è il sogno di una lingua edenica che restauri la ferita post-babelica inflitta
dal grande cacciatore Nemrod. Ma è la stessa caccia, attraverso la molteplicità
dei dialetti, sempre mutevoli nel tempo, che rende possibile ricreare la
condizione di una lingua illustre. Non si tratta di andare a caccia di modelli
perduti, ma di trovarla e catturarla tra le varie parlate. Sarà poi questa stessa
preda in fuga a rendere possibile l’italiano della poesia dantesca.

49 Giorgio Caproni, Il conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti 1989, p. 577.

50 Ibidem, p. 649.
43
Prigionieri del proprio linguaggio

La lingua ci svela, ci denuda di fronte all’altro; è l’unica appartenenza che


non riusciamo a negare, appunto perché ci contiene nella sua voce e nel suo
sguardo. Non possiamo né fingere né negarla.

In una pagina di Il grado zero della scrittura Roland Barthes afferma che
“ogni individuo è prigioniero del proprio linguaggio: fuori della sua classe, la
prima parola lo rivela, lo situa interamente e lo mette in mostra con tutta la sua
storia. L’uomo è messo a nudo, svelato dal suo linguaggio” 51. Mentre leggo
questo passo mi viene in mente la storia degli Efraimiti raccontata in Giudici
12.5-6.

I Galaaditi avevano intercettato presso i guadi del Giordano gli Efraimiti.


Quando un fuggiasco d’Efraim chiedeva di lasciarlo passare i Galaaditi gli
domandavano: “Sei un Efraimita?” Se l’Efraimita rispondeva di no, i Galaaditi
gli chiedevano di dire la parola shibboleth (scelta come segno di riconoscimento
per la difficoltà di pronuncia). Allora il fuggiasco invece di dire shibboleth
diceva qualcosa tipo sibboleth, senza fare attenzione alla pronuncia e quindi, chi
non era capace di articolare correttamente la parola, veniva identificato come
straniero. A quel punto i Galaaditi lo prendevano e lo scannavano.

Anche durante la ribellione dei Vespri siciliani ci sono stati stranieri


“svelati dal proprio linguaggio”. Il lunedì di Pasqua dell’anno 1282, nell’ora del
Vespro, dopo una serie di scontenti da parte della Sicilia, un soldato francese
aveva perquisito una nobildonna davanti alla chiesa del Santo Spirito, a Palermo.
La nobildonna era insieme al consorte e dopo tale offesa lo sposo era riuscito a
sottrarre la spada al soldato e a ucciderlo. Da questo gesto era partita la rivolta
contro i francesi. Quel giorno i palermitani avevano iniziato una vera e propria
caccia allo straniero. Si racconta che per identificare i francesi che si

51 Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, traduzione di Giuseppe Bartolucci, Renzo Guidieri,
Leonella Prato Caruso e Rosetta Loy Provera, Torino, Einaudi 1982, p. 59.
44
nascondevano tra i popolani, i palermitani mostrassero dei ceci (chiamati cìciri
nella lingua siciliana) e che, a sua volta, chiedessero di pronunziare la parola.
Quelli che erano traditi dalla propria lingua, venivano subito uccisi. Morirono
circa quattromila francese durante quella rivolta.

45
Due racconti: Landolfi e Kosztolányi

C’è un racconto di Tommaso Landolfi che si intitola Dialogo dei massimi


sistemi, pubblicato nel 1937, in cui si narra di un personaggio chiamato Y che,
credendo di imparare il persiano da un conoscitore della lingua, si accorge di aver
appreso, per un dileggio del suo maestro che di volta in volta inventa vocaboli e
sintassi in modo confuso, una lingua inesistente. Spiega Y al narratore della
storia, che è anche un personaggio della stessa:

Devi dunque sapere – cominciò allora Y – che anni fa mi dedicai a una paziente
e minuziosa distillazione degli elementi costitutivi dell’opera d’arte. Venni per tale via
alla conclusione precisa e incontrovertibile che l’avere a propria disposizione mezzi
espressivi ricchi e vari è, per un artista, condizione tutt’altro che favorevole. Per
esempio, secondo me è di gran lunga preferibile scrivere in una lingua imperfettamente
conosciuta, anziché in una che ci sia compiutamente familiare 52.

La motivazione per cui è meglio scrivere in una lingua che non


conosciamo pienamente sarebbe la seguente: “chi non conosce le parole proprie a
indicare oggetti o sentimenti, è costretto a sostituirle con perifrasi, e cioè di’ pure
con immagini; con quanto vantaggio dell’arte lascio a te intendere”53.

Sembra un punto di vista interessante per chi si trova ad adottare una


lingua straniera. La mancanza di conoscenza della lingua costringe lo straniero,
secondo il personaggio landolfiano, a creare delle perifrasi e ad aprire la scrittura
alla ricerca di nuove immagini. E dunque, senza una piena padronanza della
lingua in cui si vuole raccontare una storia, lo scrittore sarebbe costretto a trovare
da solo nuovi modi di esprimere le proprie idee: ordire la propria scrittura intorno
a un concetto che non conosciamo o che ci sfugge, creando circonlocuzioni,
metafore, neologismi, per esempio. In quest’affermazione possiamo già vedere il

52 Tommaso Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Adelphi 1996, p. 74.

53 Ibidem.
46
Landolfi manierista, ossessionato dall’insufficienza e opacità delle parole, alla
ricerca sempre di un linguaggio primigenio.

Il racconto di Landolfi prosegue col capitano (il maestro di Y, colui che gli
aveva insegnato quella lingua sconosciuta) che riparte per uno dei suoi viaggi. In
sua assenza Y decide di procurarsi un’edizione delle opere di un autore iraniano.
Con sorpresa scopre che non riusciva a distinguere nemmeno una singola lettera.
Stupito da questo fatto, comincia a esaminare grammatiche e vocabolari:

Alla fine [dice Y al narratore], la terribile realtà mi si è svelata in tutto il suo


orrore: il capitano non mi aveva insegnato il persiano! Inutile dirti che ho cercato
affannosamente se quella lingua fosse almeno lo jakuto o una lingua haino o
l’ottentotto: mi sono messo in relazione coi più famosi linguisti d’Europa: Niente,
niente: una lingua simile non esiste e non è mai esistita54.

Y non saprà nemmeno il nome della nuova lingua che ha imparato e con la
quale ha scritto tre poesie, lingua che solo lui e nessun altro poteva conoscere, il
suo unico testimone e detentore. Una lingua senza storia e senza passato,
destinata a morire con la morte del suo unico parlante.

Mi sono imbattuto anche in un altro racconto dove è posto il problema


della lingua in maniera simile a come fa Landolfi, o, almeno mi sembra, dove il
problema è posto in termini che possono essere confrontati con la storia di Y. Ero
in Italia da circa un anno, massimo due e non conoscevo bene l’italiano. Un
giorno mi chiama il mio amico Alberto Coppari per dirmi che aveva letto un
racconto e che voleva leggerlo anche a me. Era di Dezső Kosztolányi, scrittore
ungherese, tratto dalla raccolta Le mirabolanti avventure di Kornél, uscito nel
1933 (circa 4 anni prima di quello di Landolfi). Il titolo di questo racconto è
piuttosto lungo e descrittivo, se così si può dire: Nel quale Kornél Esti discorre in
bulgaro con il controllore bulgaro e si gode il dolce sbigottimento della
confusione babelica delle lingue, ed è la storia di Kornél che sta attraversando la

54 Tommaso Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, Op. cit., p. 77.


47
Bulgaria in treno. È notte e non riesce a dormire, allora esce dallo
scompartimento per fare un giro sul corridoio. A quel punto compare il
controllore con una lampada in mano, allora Kornél, il protagonista del racconto,
gli chiede se è un fumatore, e glielo chiede usando l’unica frase che conosce in
bulgaro, e anche l’unica frase che riesce ad articolare molto bene, quasi fosse uno
del posto:

Ciò che caratterizza gli stranieri sono i loro sforzi di parlare sempre la lingua
del paese nel quale viaggiano; in questo campo però mettono troppo zelo, dimostrando
subito di essere stranieri. La gente del posto, gli indigeni, si limita invece a fare cenni
col capo, a intendersi con segni55.

Il controllore dice di sì, accetta la sigaretta che gli offre Kornél e comincia
a raccontargli in bulgaro una storia della quale Kornél non riesce ad afferrare
neanche una parola. Si limita solo a fare dei piccoli accenni d’intesa con la testa:
“Il controllore parlava e parlava. Di che cosa? Sarei stato proprio curioso di
saperlo”. A un certo punto il controllore estrae dalla tasca del cappotto una lettera
sporca e sbiadita, scritta in caratteri cirillici. La mette in mano a Kornél, lui fa
finta di leggerla e poi, atteggiandosi a conoscitore della lingua, se non addirittura
un compaesano del controllore, dice una frase neutra, valida in ogni occasione,
tipo “sì sì”, che vuol dire anche “no no”; oppure “così è la vita”. Dopodiché il
controllore gli fa vedere anche la foto di un cane e un pacchetto con due bottoni.
In quel momento inizia a piangere, prima trattenendo le lacrime e poi lasciandosi
andare. Kornél lo abbraccia e con un gesto amichevole cerca di rassicurarlo:

Afferrai rudemente le spalle del controllore per fargli coraggio e gli gridai
nell’orecchio tre volte in bulgaro: “No, no, no”.

Lui, soffocando tra i singhiozzi, farfugliò un’altra parola, anch’essa un


monosillabo, che poteva significare: “Grazie per la sua cordiale benevolenza”, ma
poteva anche significare: “Schifoso villano, spregevole furfante” 56.

55 Dezső Kosztolányi, Le mirabolanti avventure di Kornél, traduzione di Bruno Ventavoli, Roma, e/o
1990, p. 69.

56 Ibidem, p. 73.
48
Nell’incomprensione, come si vede (e questo racconto di Kostolányi è
paradigmatico), c’è un punto d’incontro e d’accordo reciproco. Viene in mente
Baudelaire quando sostiene che il mondo va avanti solo grazie al malinteso, che è
proprio grazie al malinteso universale che tutti si trovano d’accordo, perché se
per disgrazia ci si comprendesse, non ci si potrebbe più mettere d’accordo.
Quest’idea è ripresa da Jankélévitch in La menzogna e il malinteso: “Il
malinteso,” scrive Jankélévitch, “non è semplicemente la truffa: stabilisce tra gli
uomini un certo ordine provvisorio che, pur non rimpiazzando l’intesa
trasparente e senza secondi fini, vale tuttavia più della discordia aperta” 57.
Entrambi i racconti, sia quello di Landolfi sia questo di Kosztolányi, hanno in
comune non solo il rapporto con le lingue e l’incomprensione, ma si pongono
anche il problema del malinteso e dell’inganno. Infatti, il racconto di Kosztolányi
si conclude con un inganno da parte di Kornél:

All’ultimo momento però provai pietà di lui. Quando ebbe già passate le valigie
al facchino, e mentre stavo scendendo dal vagone, gli lanciai uno sguardo muto che
significava: “Ciò che hai fatto non è stato bello, ma è umano sbagliarsi, e per questa
volta ti perdono”. Poi, in bulgaro, gli gridai soltanto: “Sì”. Questa parola ebbe un effetto
magico. Il controllore si raddolcì, si rasserenò, tornò a essere quello di prima. Sul suo
volto brillò un sorriso di gratitudine. Mi salutò militarmente, impettito sull’attenti.
Rimase così alla finestra, paralizzato dalla felicità, finché il treno non partì e lui sparì
per sempre, per l’eternità, dai miei occhi58.

Due anni dopo la pubblicazione di Le mirabolanti avventure di Kornél, lo


stesso Kostolányi pubblica una raccolta di racconti e di saggi, tradotta in francese
con il titolo L’étranger et la mort, dove l’autore ungherese torna a parlare
dell’incomprensibilità della lingua (questa volta nella veste di uno straniero che
arriva in un paese dove nessuno lo capisce e dove poi troverà la morte); in uno
dei saggi traccia un paragone divertente tra le lingue artificiali, prive di vitalità e
impotenti a rievocare le ninnananne che ci cantava nostra madre. Il testo contiene

57 Vladimir Jankélévitch, La menzogna e il malinteso, traduzione di Marco Motto, Milano, R. Cortina


2000, p. 81.

58 Dezső Kosztolányi, Le mirabolanti avventure di Kornél, Op. cit., p. 74.


49
anche una Lettre ouverte à Antoine Meillet, uno dei maggiori linguisti francesi
dell’inizio del XX secolo.

50
Due vecchi bambini

Un ricordo che ho in mente come un’immagine incorniciata è stato


l’incontro tra due miei prozii che si sono rivisti nel 1984 in Argentina, dopo
settant’anni. Mi è difficile pensare che in tutti questi anni possono rientrare
ampiamente le due grandi guerre, e altre meno grandi, le migrazioni di massa, il
fascismo, le dittature, il boom dell’economia di mercato, persino la Rivoluzione
russa ci potrebbe rientrare; insomma, tutto ciò che è accaduto dal 1914, anno in
cui Alfredo Bravi, fratello maggiore di una prole numerosa, ha lasciato la sua
famiglia per andare a Buenos Aires (ignoro il motivo ma mi piace immaginare
che se ne sia andato in circa di avventure). In quegli stessi anni la città iniziava a
profilarsi come il grande scenario di una nuova cultura. Erano gli anni in cui
Roberto Arlt scriveva i suo grandi romanzi e le famose Aguafuertes porteñas o
gli anni in cui Borges iniziava a pubblicare i primi libri di poesie, Fervor de
Buenos Aires, Luna de enfrente, e Macedonio Fernández scriveva No toda es
vigilia la de los ojos abierto, uno dei testi che pongono le basi di una metafisica
fantastica, e la città cominciava a prendere quel carattere mitico che poi le
attribuirà tutta la letteratura argentina dei primi anni del XX secolo. Sicuramente
questo prozio ha conosciuto la calle Corrientes quando era ancora stretta e chissà
se frequentava las milongas o si era rinchiuso nel suo guscio d’emigrante
italiano.

I due fratelli erano nati in un paese della campagna maceratese, dove


vivevano coltivando la terra. Sto parlando, come ho detto all’inizio, di due miei
prozii, fratelli di mio nonno Nazzareno, scomparso nel 1962 (dieci anni dopo
aver lasciato la sua terra nativa per andare con la famiglia anche lui a Buenos
Aires, in un quartiere vicino al fiume, a lavorare come traghettatore).

La fortuna aveva voluto che nel 1984 Alfredo e Antonio si incontrassero


in una piccola casa a León Suárez (Buenos Aires), dove abitava Alfredo. Erano
trascorsi, come dicevo, settant’anni. Adesso, ciascuno con la propria famiglia e il
proprio mondo stava di fronte all’altro quasi come uno sconosciuto. Ricordo che
51
qualcuno aveva aiutato Alfredo ad alzarsi dalla sedia per salutare il fratello che
era andato a trovarlo in Argentina. Si erano abbracciati lasciando i bastoni da una
parte, e scostando tutto quanto potesse impedire di rivivere i momenti
dell’infanzia, gli anni passati che si erano nascosti nella penombra delle vecchie
fotografie. Prima dell’incontro, ognuno immaginava l’altro a modo suo (non uso
il verbo ricordare perché in settant’anni i ricordi finiscono per diventare una pura
finzione). L’abbraccio, più che un riconoscersi, significava stringere una parte di
sé persa nel tempo. Ora parlavano lingue diverse, l’uno chiedeva in italiano,
l’altro rispondeva in spagnolo; l’uno di mattina prendeva il mate, l’altro il caffè;
l’uno amava la vita di quartiere con tutte le sue storie e pettegolezzi, l’altro
amava alzarsi presto e andare per i campi; eppure, nonostante tutto, si capivano
lo stesso, anche quando rimanevano in silenzio a guardarsi senza dirsi niente.

Nel 1989 Alfredo morì nella sua casa di León Suárez. Tre anni dopo lo
seguì Antonio, a Sambucheto, un paesino tra Macerata e Recanati.

52
Poetiche del caos

L’esilio e la migrazione presuppongono l’incontro delle lingue. Le


biografie e le scritture sono attraversate dal rapporto tra una lingua di
appartenenza e una lingua di adozione. Si scrive in una lingua pensando in
un’altra o si fa parlare il proprio passato in una lingua straniera (per me è stata
una sfida, per esempio, far chiacchierare in italiano due soldati argentini mentre
fanno la guardia, prima dei bombardamenti degli inglesi; mi riferisco a Sud 1982,
dove, appunto, ho cercato di dare nuova voce a una storia che appartiene a un
contesto linguistico preciso). Sono questi i paradossi a cui si va incontro quando
si passa da una lingua all’altra.

Nella Poetica del diverso, Édouard Glissant sottolinea quest’aspetto della


diversità linguistica. Oggi parliamo e scriviamo in presenza di tante lingue
(nessuna infatti esiste senza il concerto delle altre e senza relazione con le altre).
Questo non significa conoscerle tutte, ma significa, scrive lo scrittore caraibico
francofono, “che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso
sintesi, ma attraverso aperture linguistiche che mi permettano di pensare i
rapporti delle lingue fra di loro”59. Scrivere in presenza di tutte le lingue del
mondo: è questa una delle sfide della poetica della relazione. Non si può pensare
una lingua senza tenere conto delle sue relazioni e del rapporto che stabilisce con
tutte le altre, ovvero pensarla in modo monolinguistico. Il multilinguismo, scrive
ancora Glissant, “non presuppone la coesistenza delle lingue, né la conoscenza di
molte lingue, ma la presenza delle lingue del mondo nella pratica della propria” 60.

A questo proposito, mi viene in mente l’introduzione di Anita Desai al suo


romanzo Notte e nebbia a Bombay, quando la scrittrice indiana dichiara che il
suo libro è stato anche un esercizio sulla lingua: “Sebbene scrivessi il romanzo in

59 Édouard Glissant, Poetica del diverso, traduzione di Francesca Neri, Roma, Meltemi 2004, p. 32.

60 Ibidem, p. 33.
53
lingua inglese, ero consapevole di tutte le lingue che vi erano sommerse” 61.
Questo significa portare la scrittura sulle pieghe più nascoste e aprirla a ogni
possibilità.

D’altra parte, però, la lingua non può essere difesa dall’intrusione di altre
che l’attraversano; non è nemmeno una norma applicabile alla comunità dei
parlanti (è impossibile imporre una lingua come regola, o come insieme di
regole). Non si può nemmeno salvaguardarla come una specie protetta senza
tenere conto delle sue relazioni (il monolinguismo parte dal presupposto che la
mia lingua è la mia radice e che io sono legato atavicamente a un posto). Glissant
parla, nella Poetica della Relazione, di un’estetica della creolizzazione (di cui il
barocco è stato un’espressione, per la sua ridondanza spaziale e la sua
proliferazione, contro la pretesa d’unicità) e introduce il concetto di caos-mondo,
che significa, apertura a ogni eventuale contaminazione. Non si tratta di un caos
o di un nulla disordinato. Il caos, sostiene Glissant, non è caotico: “il suo ordine
nascosto non suppone gerarchie, primati – né lingue elette, né popoli-principi” 62.
La realtà arcipelagica, nei Caraibi o nell’Oceano Pacifico, esemplifica secondo
Glissant il pensiero della Poetica della Relazione:

Ciò che è accaduto nei Caraibi, e che potremmo riassumere con la parola
creolizzazione, ce ne fornisce l’idea più approssimativa possibile. Non soltanto un
incontro, uno choc (nel senso segaleniano), un meticciato, bensì una dimensione inedita
che permette ad ognuno di essere qui e altrove, radicato e aperto, perso nella montagna
e libero nel mare, in accordo e in erranza 63.

Il movimento linguistico della creolizzazione non è perciò una fase


intermedia di una serie di relazioni né tantomeno la fase conclusiva di un
processo. La creolizzazione presuppone il multilinguismo, apre le relazioni e
innesca contaminazioni. Oggi il nostro universo linguistico è sovradeterminato

61 Anita Desai, Notte e nebbia a Bombay, Op. cit., p. VIII.

62 Édouard Glissant, Poetica della Relazione. Poetica III, traduzione di Enrica Restori, Macerata,
Quodlibet 2007, p. 96.

63 Ibidem, p. 42.
54
dalla complessità di rapporti. Esistono molte lingue inglesi, spagnole o francesi
ed è venuta meno quell’unicità intangibile della lingua.

Eppure, possiamo chiederci: in quale momento il latino parlato nelle


strade di Roma antica diviene la lingua moderna che chiamiamo italiano?
Oppure, in che momento l’ebraico diviene aramaico? Quando nasce e muore una
lingua? Fino a quando l’italiano, “piuttosto un complesso di lingue che una
lingua sola”, dice Leopardi nello Zibaldone, rimarrà tale? C’è un momento in cui
una lingua entra in un’altra e la trasforma dall’interno? Una cosa è certa, nessuna
lingua, nemmeno quella considerata sacra può sottrarsi alla propria caducità. E su
questo punto vorrei ricordare ancora lo Zibaldone (955, 18 aprile 1821): “le
lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine
muoiono […]. In maniera che si può dire che nessuna lingua è stata, così neanche
nessun’altra sarà perpetua”.

Sono le poetiche del caos e dunque i flussi migratori, le invasioni, le


opposizioni e le connivenze a sovvertire le lingue, a declinarle e ad arricchirle.
Forse sta qui il segreto della lingua, nel piegarsi alle altre fino a tramutarsi e
divenire altro da sé.

55
Esilio

Tutti gli esseri viventi esistono perché emigrano, dalle rondini ai pidocchi,
dai pidocchi all’uomo. Se gli esseri viventi non si spostassero morirebbero. Dal
punto di vista tassonomico l’uomo andrebbe annoverato tra le specie migratorie.
Vivere significa migrare. Il concetto di terra straniera non è una realtà oggettiva,
ma solo una costruzione mentale. Anche il paese d’origine spesso può diventare
una terra straniera, sia per chi è partito sia per chi è rimasto. L’intera società è
un’interazione tra individui, un cambiare posto continuamente. Le logiche della
fluidità sociale e del caos ci aiutano a pensare la complessità del reale. L’essere
di Nietzsche è un essere sradicato, di passaggio, un essere ponte: “nell’uomo si
può amare che egli sia una transizione e non un tramonto,” dice nel prologo di
Così parlò Zarathustra (Nietzsche usa il termino Übergang, tradotto con
transizione, che significa anche andare oltre, oltrepassare, oppure divenire altro
da sé). I testi fondamentali della storia, dall’Antico Testamento all’Odissea, dalle
Chansons de geste al Mio Cid, dalla Divina Commedia a Moby Dick, la
letteratura ha sempre parlato d’esilio, d’erranze e spostamenti. Senza l’esilio da
Troia, Enea non avrebbe potuto fondare Roma, per esempio, e Itaca non sarebbe
diventata l’approdo di Ulisse. E forse neanche Conrad, precursore moderno della
letteratura dell’esilio, avrebbe immaginato un Marlow che risale un fiume in
mezzo a una foresta senza nome e senza storia. Anche i morti emigrano, perché,
si sa, certe volte, la sepoltura non sancisce la fine di un’avventura. Quando è
morta Evita Perón nel 1952 il suo corpo è stato imbalsamato ed esposto fino al
golpe militare del 1955. Suo marito è andato in esilio e il corpo impagliato di
Evita ha cominciato a girovagare per il mondo. Alla fine, nel 1974, è tornato in
patria e oggi riposa sereno nel cimitero della Recoleta. Persino le cose che
apparentemente non si spostano, emigrano. La Santa Casa di Loreto, per
esempio, nel 1291 è stata trasportata dagli angeli dalla Palestina in Dalmazia, tre
anni dopo se la ripresero e la portarono in Ancona e infine, l’anno dopo, a Loreto.
Anche il mito di Caino e Abele può leggersi come la storia di un esilio. L’uno,
come tutti sappiamo, era pastore di greggi, l’altro, invece, coltivava la terra. A un
56
certo punto, il sedentario, dopo aver ucciso il nomade, viene a sua volta cacciato:
“Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra” è stata la condanna di Dio. Tutta la storia
dell’umanità può essere letta attraverso questa cacciata, che aveva senso perché
Caino era un agricoltore sedentario, altrimenti il fuori di qui, a cui rimanda il
significato della parola exilium, non avrebbe senso in una società nomade come
quella di Abele. La cacciata di Caino è ben rappresentata in un dipinto di Fernand
Cormon, del 1880, conservato al Museo d’Orsay; liberato il campo da ogni
sottotesto religioso, il pittore francese si concentra sulla fuga della famiglia di
Caino sul deserto; l’enorme quadro, di circa sette metri, fa riferimento a un
poema di Victor Hugo, La conscience, tratto da La légende des siècles:

Quando con i suoi figli vestiti con pelli di bestie,

Scarmigliato, livido in mezzo alla tempesta,

Caino fuggì alla vista di Geova,

Come scese la sera, l’uomo cupo arrivò

Sotto una montagna in una grande pianura64.

Dio ama l’esodo e l’erranza. Nella Bibbia la salvezza è legata sia all’esilio
che alla condanna: essere banditi dalla comunità, perdere i diritti e la propria
famiglia per essere consegnato all’ignoto. In fondo, si potrebbe dire, l’esilio è
drammatico perché ci allontana dalle nostre tombe.

Non tutti però riescono a restituire dignità a una condizione che è stata
imposta per toglierla. Quando non si corrisponde alle consegne ideologiche del
potere lo spatrio diventa la prima frattura. Esiste anche un esilio nascosto, fatto di
solitudine ed emarginazione; esuli strappati via dalle proprie radici, che non
hanno nemmeno la possibilità di riparare la rottura che si è venuta a creare tra
loro e il luogo natio, perché hanno perso anche la capacità di raccontare e, ai
nostri occhi, diventano sempre più delle entità astratte che vagano indifferenti
lungo i margini della nostra stessa società. Sono coloro che si perdono nella
64 Victor Hugo, La légende des siècles, texte choisis, annotés par Armando Landini, Roma, Signorelli 1955, p.
23.
57
notte, esiliati, migranti, espatriati, rifugiati che vagano senza accoglienza, che
non riescono a uscire dalla propria lingua per confrontarsi con quella nuova del
posto. Sono uomini, donne, bambini, intere famiglie relegate ai margini, senza
approdo, oppure gente per la quale approdare diventa un’ulteriore sofferenza,
perché hanno perduto la patria senza acquistarne un’altra e vivono sulla propria
pelle una doppia esclusione. Alcuni ritornano indietro, sconfitti, altri s’integrano,
altri ancora proseguono la loro erranza per il mondo, acquisendo lingue, culture e
prospettive nuove. L’esilio ci mette sempre davanti alla perdita e alla ricerca di
nuovi orizzonti. L’esule sa che qualsiasi posto al mondo, qualsiasi approdo, sarà
sempre provvisorio. È la sua condizione, una condizione strana e ambivalente,
come quella dell’apolide per i greci: un essere sciolto da ogni comunità politica,
una condizione neutrale e inquietante allo stesso tempo; appunto perché non è né
un indigeno né uno straniero e tuttavia rivendica un’identità, una cultura. Sarebbe
da chiedersi se è pensabile una comunità costituita da singoli uomini che
declinano ogni identità e ogni condizione di appartenenza (oppure che
rivendicano un’identità plurale – e qui ci scontriamo con un limite semantico,
perché la parola identità non ha plurale nella lingua italiana e quest’impossibilità
ci costringe a pensare a una sola identità, che in genere coincide con una
determinata etnia o nazione; quindi, non avendo plurale, è difficile coniugarla o
declinarla in termini di multidentità).

In un discorso sull’esilio, lo scrittore palestinese Edward Saïd ricorda un


passo del Didascalicon di Ugo di San Vittore, monaco sassone del XII secolo,
dove si fa un ritratto dell’esule: “L’uomo che considera dolce la propria patria è
ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio
suolo natio è già forte; ma perfetto è colui per il quale l’intero mondo è come una
terra straniera”. Tzvetan Todorov riprende il passo nell’epilogo a La conquista
dell’America: “io che sono un bulgaro che abita in Francia, prendo a prestito
questa citazione da Edward Saïd, palestinese che vive negli Stati Uniti, il quale
l’aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, tedesco esule in Turchia”. E io,
che sono un argentino che vive in Italia da tempo, senza ancora aver capito bene

58
il motivo di questa mia spatriata, riprendo a mia volta questa frase, rubandola sia
a Todorov, sia a Saïd.

Negli ultimi anni della sua vita Plutarco scrive una lettera, L’esilio, al suo
giovane amico Menemaco di Sardi, per consolarlo dal fatto di essere stato
mandato in esilio e lo invita a non considerare lo sradicamento come un male in
sé. Riporta un passo curioso che riguarda Diogene Cinico: “a chi gli diceva: ‘Gli
abitanti di Sinope ti hanno condannato all’esilio fuori dal Ponto’, rispose: ‘E io li
ho condannati a rimanere nel Ponto, sulle spiagge del mare inospitale’”. Questo
passaggio di Plutarco mi ricorda un cantautore argentino, Facundo Cabral, che
durante l’esilio, ai tempi della dittatura militare, viaggiava per il mondo come un
girovago senza meta. Lo faceva quasi come una professione. Viveva una
condizione di continuo nomadismo, qualsiasi posto del mondo diventava un
punto di partenza aperto a un ulteriore approdo. Caduto il regime, era ritornato in
patria, e qualcuno gli aveva chiesto, forse inopportunamente, perché era andato
via. Allora Facundo Cabral aveva risposto con un sorriso: “Come disse Diogene,
non sono stato io ad andare via, siete stati voi a essere rimasti”.

59
Letteratura-mondo italiana

In un saggio critico sull’opera di Julio Monteiro Martins che s’intitola Un


mare così ampio, e che, a sua volta, è una riflessione attenta su tutta la letteratura
della migrazione in Italia, Rosanna Morace scrive, a proposito del mutare lingua:

Non esiste quindi una lingua che si sostituisce ad un’altra: esistono correnti
sotterranee e spesso inconsce che si alimentano l’una con l’altra, che si fondono e che
nel loro unirsi creano l’onda che poi si rifrange sulla battigia: l’unica a noi visibile, ma
dietro la quale si nascondono i profondi movimenti dell’abisso 65.

Quando si entra in una lingua non si sostituisce mai la propria; piuttosto è


la lingua madre che si fa voce nell’altra, trasformando la sintassi, sconvolgendo
la fonetica, oppure scompaginando l’immaginario con storie nuove, che arrivano
da lontano, storie che parlano di deserti, di viaggi o d’inaudite odissee per i mari.
Le lingue straniere portano con sé altri sguardi, altre sonorità, altre parole che si
sovrappongono e che s’insinuano dentro ai vecchi immaginari o dentro alla
lingua d’accoglienza, per raccontare altre storie. Sono fatte di sostrati, di
contaminazioni e di nuovi respiri. Quando le ascoltiamo avvertiamo subito un
andamento sintattico diverso. Gli stranieri che la parlano creano un ritmo e
incarnano un immaginario che non apparteneva né alla lingua di provenienza né
alla lingua del posto, eppure fanno parte di entrambe. Su questo muoversi tra una
nuova lingua e un’altra che stenta a lasciarci ricordo un passo di Raffaele
Taddeo, che si trova in La lingua strappata:

Per uno straniero scrivere in italiano, avendo acquisito la lingua da adulto, non
in maniera accademica, ma dapprima come necessità di comunicazione con le persone e
poi come imperativo di relazionarsi alla cultura del paese ospitante, è sempre un’ardua
impresa. Ritornano strutture linguistiche del linguaggio materno che si inseriscono, si
attorcigliano alla nuova lingua66.

65 Rosanna Morace, Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, Roma,
Libertà Edizioni 2011, p. 33.

66 La lingua strappata. Testimonianze e letteratura migranti, a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo,
Milano, Leoncavallo libri 1999, p. 23.
60
La letteratura ci pone davanti al dilemma dello stare tra le lingue. Una
caratteristica del romanzo moderno è quella di vivere in un’altra lingua. Autori
come Conrad e Nabokov, per esempio, sono figure centrali che ci fanno riflettere
sul problema del bilinguismo, o multilinguismo, quel muoversi tra culture e
immaginari diversi o tra le varie contaminazioni. I loro testi ci danno prova che le
lingue si spostano da un capo all’altro, emigrano, esiliano, si autotraducono,
definiscono nuove forme di pensare e di vedere; insomma, ci dicono che le lingue
vivono, e che noi viviamo tra le lingue. Questo fatto ci porta a ridefinire il
concetto di letteratura nazionale, a rivisitarlo alla luce di un’apertura che, in
maniera affatto paradossale, vada oltre, appunto, i confini nazionali. Se
l’Ottocento e buona parte del Novecento sono stati i secoli che hanno in qualche
modo stabilito e definito i confini nazionali, suggerendo l’idea di una storia
letteraria come storia di una nazione, a partire dal dopoguerra si ridefiniscono tali
confini, sia geografici che linguistici. Diventa necessario riformulare un concetto
di letteratura e di lingua più permeabile alla pluralità di voci che entrano in gioco.
La letteratura sempre più si emancipa dal vincolo nazionale. Ed è interessante
vedere come i luoghi che appartenevano a un contesto linguistico determinato
vengano rivisitati e investiti da nuove lingue.

William B. Yeats (prendo questo riferimento da Kellman, Scrivere tra le


lingue) sosteneva che il translinguismo letterario, cioè il fenomeno di autori che
scrivono in più di una lingua o in una lingua diversa rispetto alla propria lingua
madre, sia impraticabile: “Nessuno può scrivere con stile e musicalità in una
lingua non appresa nell’infanzia e che non sia da allora in poi il linguaggio in cui
si pensa”67. Su questa linea di pensiero, sostiene Kellman, s’incontra anche
Thomas S. Eliot che sosteneva di non conoscere nessun caso in cui “un uomo
abbia scritto poesia ugualmente grande o per lo meno bella in due lingue” 68. Sono
opinioni che possono avere un loro fondamento, anche se basterebbero pochi
nomi a smentire queste affermazioni (penso alle poesie di due autori a noi più

67Steven G. Kellman, Scrivere tra le lingue, traduzione di Franca Sinopoli, Troina, Città aperta 2007, p.
10.

68 Ibidem, p. 10-11.
61
vicini come Wilcock e Brodskij, scritte in lingue diverse da quella appresa
nell’infanzia). Rimane il fatto che oggi la letteratura non può più esser studiata
dentro i propri confini nazionali: ci sono autori italiani che scrivono all’estero,
come faceva Luigi Di Ruscio, dalla Norvegia, o come fa Marino Magliani
dall’Olanda, oppure autori italiani emigranti che scrivono in altre lingue, penso
ad Antonio Dal Masetto, nato a Intra e patito dall’Italia a 12 anni, e ci sono anche
tanti autori stranieri che adottano l’italiano come lingua letteraria: esplorano una
lingua sconosciuta cercando di darle altri ritmi. Non si tratta di creare neologismi
o di usare parole straniere nella nuova lingua, ma costringere le parole ad
accettare altri significati.

Sempre Rosanna Morace, in un testo recente e che apre una nuova


riflessione sulla letteratura italiana scritta da stranieri, La letteratura-mondo
italiana, preferisce parlare, non a torto, di letteratura-mondo, facendo esplicito
riferimento sia al romanzo Tout-Monde di Glissant, sia a un testo collettivo uscito
nel 2007, Pour una letterature monde, al quale ha collaborato lo stesso Glissant.
“La letteratura-mondo,” scrive Rosanna Morace, “si muove su un confine che è
tra lingue, culture, Storie, immaginari, tradizioni e religioni; essa è, pertanto,
intimamente segnata dall’ibridazione, che si ripercuote sulle forme, sulle voci
narranti”69. In Italia la letteratura scritta da stranieri è piuttosto recente rispetto ad
altri paesi e ha, inoltre, una provenienza molto eterogenea. Fino a poco tempo fa
lo studio di questa letteratura si limitava all’aspetto biografico, al problema
dell’integrazione, come se la migrazione o l’esilio di per sé assicurassero
un’autonomia estetica, rispetto alla testualità. Dunque, un’attenzione prettamente
sociologica e testimoniale che anteponeva la vita all’opera letteraria; oggi,
invece, la riflessione della critica è rivolta alla sua valenza filologica, stilistica e
letteraria. “Ma quali trasformazioni attua questa migrazione linguistica e
culturale? Attraverso quali modalità essa agisce sulla nostra tradizione letteraria e
sul nostro immaginario, modificandoli dall’interno? Quali sono gli esiti
espressivi e le innovazioni linguistiche che questa ibridazione produce?” si

69 Rosanna Morace, Letteratura-mondo italiana, Pisa, Edizioni ETS 2012, p. 10.


62
chiede Rosanna Morace nel suo libro Letteratura-mondo italiana; quesiti che ci
poniamo sempre quando leggiamo un autore costretto a cambiare lingua.

Dunque, i nuovi Melquíades, con le loro storie e le loro lingue, sovvertono


l’immaginario locale trasformandolo, arricchendolo di nuove parole e di nuovi
racconti; che fanno i conti con una forma, uno stile, e una nuova realtà che
portano con sé. La ricchezza della lingua sta nelle sue possibilità. Molti stranieri,
attraverso la scrittura, interrogano l’italiano, pongono la lingua di fronte a nuovi
ritmi e a nuovi balbettii. Le loro storie sono, in virtù della loro extraterritorialità,
portavoce di altri mondi che a volte, paradossalmente, ci raccontano meglio il
nostro.

63
Falsi amici

I falsi amici sono parole o frasi di una lingua che, pur presentando una
notevole somiglianza con altre espressioni di un’altra lingua, ne differiscono per
significato, traendo in inganno chi la parla o la ascolta. Sono i grandi tormenti dei
traduttori. Le coppie di falsi amici sono più comuni tra lingue imparentate che tra
lingue diverse. E in due lingue imparentate come lo spagnolo e l’italiano, di falsi
amici ce ne sono tantissimi. Per esempio un falso amico molto comune, che tutti
conoscono, ma che trae sempre in inganno, è la parola largo. Largo in spagnolo
significa lungo, invece si usa ancho per l’italiano largo. Se io dico in spagnolo: el
hombre de cabellos largos, non sto indicando l’uomo dai capelli larghi (che
sarebbe un uomo ben strano, da non riuscire a immaginarselo), ma l’uomo dai
capelli lunghi.

Questa storia dei falsi amici mi ricorda tanto mia nonna materna, che era
andata in Argentina alla fine degli anni Quaranta. Parlava una specie di lingua
ibrida tra il dialetto molisano e lo spagnolo, alternando, anche nella stessa frase,
parole di entrambe le lingue. Questa variante gergale veniva chiamata in
Argentina cocoliche, un modo di parlare usato nel teatro popolare argentino,
dove è nato proprio il personaggio comico di Cocoliccio, caricatura di un italiano
del sud che si rende ridicolo con il suo modo di parlare. Il nome viene da un certo
Francesco Cuccoliccio, un manovale calabrese che lavorava nella compagnia
teatrale di José Podestá verso la fine dell’Ottocento e parlava abbastanza male lo
spagnolo, anche se lui ingenuamente pensava di cavarsela. Alcune parole del
cocoliche sono state prese in prestito dal lunfardo, un gergo della malavita
(chiamato da Borges: “lengua especializada en la infamia”), sviluppato negli
ambienti più bassi di Buenos Aires, che possedeva numerosi termini provenienti
dalle varie lingue degli immigrati. Il lessico di questo argot ha contribuito ad
arricchire il vocabolario dell’argentino parlato (il tango, per esempio, è pieno di
termini derivanti dal lunfardo). E mia nonna, come dicevo, parlava questa lingua
piena di falsi amici, il cocoliche. Una volta mi ha dato dei soldi e mi ha detto,

64
dopo una lunga frase molto articolata: mancia. Io avevo capito mangia, anzi sono
quasi sicuro che mi abbia detto così, al che mi sembrava impossibile che mia
nonna mi chiedesse di mangiare i soldi, allora ho pensato che mi stesse dicendo
mancha che in spagnolo significa macchia. Sulla banconota però non c’era
nessuna macchia, allora sono andato da mia madre, poiché lei la capiva sempre al
volo, la quale mi ha detto che quei soldi erano la mia propina, che in spagnolo
significa, appunto, mancia. Delle volte mia nonna metteva in mezzo alle frasi un
loro, e io cadevo sempre in inganno: pensavo che mia nonna, per qualche strana
ragione chiedesse del pappagallo che avevo a casa (perché io a casa mia a
Buenos Aires ho avuto un pappagallo di nome Pedrito per 13 anni), perché
appunto la parola pappagallo in spagnolo si dice loro, e il mio pappagallo era il
loro Pedrito. Invece mia nonna aveva detto loro in italiano, quasi sempre,
pronome personale. Con il tempo ho imparato a capirla anche io. Se, per
esempio, mi diceva di salire io andavo di sopra e non uscivo dalla porta, perché
in spagnolo salir significa appunto uscire. Il vero bello è che nel quartiere dove
abitava mia nonna c’erano tanti italiani che venivano da posti diversi, ciascuno
con il suo dialetto. Ed era tutto un parlare pieno di fraintendimenti. Magari due
vicini non si rivolgevano più la parola perché uno pensava che l’altro aveva detto
una cosa sbagliata e così via. Insomma, mi divertivo abbastanza tra tutti questi
falsi amici che un po’, se devo dire la verità, adesso mi mancano.

65
L’interferenza

Ogni lingua ha un suo statuto che insieme la differenzia da tutte le altre e,


allo stesso tempo, la apre a una pluralità di contaminazioni. Nei confronti della
lingua siamo tutti ospiti e ospitanti, proprio perché viviamo in uno stato di
continua migrazione. Non c’è limite all’influenza che una lingua può subire,
ognuna vive immersa in un coro di pluralità. Uriel Weinreich, in un testo del
1953 divenuto un classico della sociolinguistica, Lingue in contatto, parla
d’interferenza, ossia dell’introduzione di elementi stranieri nei domini della
lingua: “Si ha interferenza,” scrive Weinreich, “quando un bilingue identifica un
fonema del sistema secondario come uno del sistema primario e, nel riprodurlo,
lo assoggetta alle regole fonetiche della lingua primaria” 70. Quindi, non si tratta
di un cambio di lingua, ma dell’interferire con una lingua straniera all’interno di
un’altra, come in Argentina, per esempio, l’italiano ha interferito nella
formazione del cocoliche (alcuni italianismi sono stati accolti prima nel lunfardo
e poi nello spagnolo colloquiale). Quando penso queste forme d’interferenze
linguistiche mi viene subito in mente un libro di Roberto J. Payró del 1906 che si
intitola El casamiento de Laucha e che ha come protagonista una sorta di picaro
argentino dalla vita errante. In questo testo, Payró fa interferire all’interno dei
dialoghi i vari dialetti degli emigranti italiani, creando un ibrido narrativo e
rimodulando la propria lingua, in modo d’aprirla alle contaminazioni suggerite
dalle voci degli immigranti stessi. C’è un dialogo, per esempio, che mi piace
ricordare, in cui Laucha va da un prete napoletano per cercare di combinare un
matrimonio falso con una vedova italiana:

-¿Qué vulite? -me preguntó.

-Yo, señor cura... venía... venía porque me voy a casar...

70 Uriel Weinreich, Lingue in contatto, traduzione di Giorgio Raimondo Cardona, Torino, Boringhieri
1974, p. 21.
66
-Va bene!, va bene! Songo diechi nachonale... E un qui se ne casa?... Bisoña pagá
antichipate pei publicazione... amonestazione... A mushás é de acá?... ¡Eh!... vedite... diechi
nachonale é poca roba!

-¡Espere un poco, señor cura!... Es que yo quisiera la, ¿cómo se dice?, ¡ah!, ¡sí!, la
despensa de las amonestaciones...

-Allora so tranta!

-Y que nos casara en casa de la novia...

-Allora so sesanta... Un pozo fá de meno.

-¡Oh!, por eso no importa, señor cura: se le pagarán los sesenta pesos... Pero ¿cuándo
nos podrá casar?

-Cuanne vulite... ¿E qui é á compromesa?

-¿La qué dice?

-La mushás...

-¡Ah! ¡Sí! Doña Carolina, la viuda, ¿sabe? la de la pulpería de la Polvadera...

-Va bene, va bene71.

Il realismo di Payró, e lo stile umoristico in generale, richiede una presa di


posizione nei confronti della lingua, in modo che tutti gli strati sociali siano
messi a confronto attraverso il loro modo di esprimersi. Payró cerca d’illuminare
la propria lingua con l’aiuto delle altre, anzi è quest’ibridazione ad aprire il testo
a un orizzonte sociale. Su questa linea si colloca anche un altro autore argentino,

71 Roberto J. Payró, El casamiento de Laucha, Buenos Aires, Losada 1994, p. 46. Traduco in italiano: “-
Che vuole? – mi chiese. / -Io, signor prete... venivo… venivo perché vorrei sposarmi… / -Va bene!, va
bene! Sono dieci nazionali... E qui si sposa?... Bisogna pagare in anticipo per la pubblicazione... l’avviso
di matrimonio... La ragazza è di qua?... Eh!... vedete... dieci nazionali sono poca cosa! / -Aspetti un po’,
signore prete!... È che io vorrei la, come si dice?, ah!, sì, la dispensa dell’avviso di matrimonio... / -Allora
sono trenta! / -E che ci sposi in casa della fidanzata... / -Allora sono sessanta... Non posso fare meno. / -
Oh!, per questo non c’è problema, signor prete: le saranno pagati i sessanta pesos... Ma, quando ci potrà
sposare? / -Quando volete... È qui la compromessa? / -La chi? / -La ragazza... / -Ah! Sì! Donna Carolina,
la vedova, sa? quella della bottega della Polvadera... / -Va bene, va bene.”

67
Roberto Raschella (traduttore in spagnolo di vari classici italiani), che scrive in
una lingua quasi ibrida, con interferenze dell’italiano parlato - mi riferisco in
particolar modo a due dei suoi libri: Diálogos en los patios rojos (1994) e Si
hubiéramos vivido aquí (1998). In questi due testi la sfida di Raschella non è
quella di dare voce alle varie forme di oralità presenti in Argentina, ma quella di
crearsi una lingua straniera all’interno di quella propria, come se si trattasse di un
autore italiano che ha perso la sua lingua d’origine e cerca di esprimersi in
spagnolo, ma trascinandosi dietro il proprio corredo semantico e linguistico.
Dunque, non una mimesis del parlato con interferenze straniere, ma una sfida più
ampia che porta come allo stremo la lingua, fino a trasformarla dall’interno. In
altre parole si potrebbe dire che Raschella conferisce allo spagnolo una
musicalità e un timbro tutto italiano.

Paradossalmente, la prima difficoltà che si trova, quando si scrive in una


lingua affine alla lingua madre, è la somiglianza, perché nel passaggio si tende
sempre a trascinare il proprio corredo sintattico per applicarlo alla nuova lingua.
Certe volte, sapendo coniugare questa sorta di estraneità, si creano delle cose
interessanti, come per esempio ha fatto Roberto Raschella in Dialogo en los
patios rojos, altre volte invece i risultati sono disastrosi. Sarebbe più semplice,
suppongo, anche se non ho esperienza diretta, cambiare completamente registro
(penso al passaggio da una lingua a un’altra lingua diversa, come potrebbe essere
il passaggio dall’italiano all’inglese o al tedesco). Comunque, affine o no, lo
straniero è sempre a caccia di una lingua e la preda è quella bestia feroce, spesso
inafferrabile, che si nasconde dietro ogni parlata. Ogni straniero deve
confrontarsi con questo rischio, con questa pratica venatoria. La lingua che
parliamo e scriviamo è una mappa che si costruisce lentamente, e che in fondo
non si finisce mai di disegnare. Una mappa che in fondo traccia l’inseguimento
che facciamo di “quella bestia in fuga” che è la lingua.

68
Ogni straniero a modo suo è un traduttore

Alla vigilia del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America


un docente caraibico era stato invitato da un’associazione di storici maceratesi a
tenere una conferenza sul ruolo di Doña Marina detta La Malinche, interprete e
amante di Hernán Cortés, durante la conquista del Messico. Una delle
organizzatrici della conferenza era un’amica che studiava filosofia insieme a me
e mi aveva invitato a partecipare. A me sembrava interessante e ho detto di sì,
che ci sarei andato volentieri, anche perché, ho spiegato alla mia amica, La
Malinche incarna l’idea della prima traduttrice e, allo stesso tempo, della prima
traditrice della storia latinoamericana. Il giorno dopo ho rincontrato la mia amica
e mi ha chiesto, visto che questo docente caraibico che doveva tenere la
conferenza non parlava italiano, se potevo tradurre “qualche parola”, diceva la
mia amica nonché organizzatrice dell’evento: “Ma solo se noi del pubblico non
riusciamo a capire bene lo spagnolo”. Ho detto di sì, pur sapendo in anticipo che
sarei stato divorato dalla timidezza (aggiungo che io, ahimè, non so mai rifiutare
gli inviti o le proposte neanche quando preferirei dire di no). Insomma, quel
pomeriggio, lo ricordo ancora, penso che lo ricorderò per sempre, c’era tanta
gente ad assistere alla conferenza. Quando sono arrivato, dopo le salutazioni del
caso, in cui sono stato presentato come il traduttore, mi hanno chiesto di sedermi
a canto al conferenziere caraibico. Dopo una serie di ringraziamenti da parte
delle autorità, il docente, un signore alto con due occhi neri molto intensi, ha
preso la parola per dare inizio alla sua conferenza su Doña Marina detta La
Malinche. Ha fatto un cappello introduttivo della principessa messicana e poi, a
un certo punto, quando credeva di aver detto già abbastanza, si è fermato e si è
girato verso di me che ero alla sua sinistra. Io mi sono girato verso di lui che era
alla mia destra, forse ho accennato un sorriso, non mi ricordo, poi ho guardato il
pubblico che avevo di fronte, che a sua volta guardava me e si aspettava la
traduzione completa di quel cappello introduttivo sulla principessa messicana. In
quel momento avrei voluto smaterializzarmi all’istante oppure avrei ringraziato
tutti gli arcangeli del cielo se mi avessero trafitto con un fulmine. Seguirono i
69
consueti colpi di tosse, le risatine sarcastiche, gli sguardi perplessi, le solite cose
che fanno le persone quando vedono qualcuno che si trova difficoltà. Mai mi
sono sentito così straniero e straneo in vita mia. Julia Kristeva, in un capitolo del
suo L’avvenire di una rivolta, sostiene che cambiare lingua corrisponda a perdere
la propria naturalità, a tradirla o a tradurla. “Lo straniero,” scrive, “è
essenzialmente un traduttore”. In quel momento però io mi sentivo solo un
traduttore mancato, senza parole, ammutolito, come se non conoscesse più
nessuna lingua, eppure durante i due anni che ero in Italia consideravo la nuova
lingua un pretesto per rinascere, perché stavo radicando la mia immagine
identitaria nella lingua che ora mi respingeva e che non riuscivo neanche a
balbettare. Non sapevo cosa farmene di quegli sguardi, di quell’attesa nei miei
confronti. Forse era questo il prezzo che dovevo scontare per quel matricidio che
avevo commesso quando ho deciso di lasciare il mio paese d’origine? Forse ero
io stesso La Malinche traduttrice o traditrice che non conosceva abbastanza la
lingua? Come sarei potuto trasformarmi in quel traduttore ideale che non lascia
trapelare la minima traccia della sua lingua d’origine? Alla fine, mi sono svelato
e ho chiesto se c’era bisogno di tradurre quello che aveva appena detto il
conferenziere caraibico, aspettando che tutti mi dicessero di no, che avevano
capito benissimo il discorso; invece mi hanno detto tutti di sì, che c’era bisogno,
perché non era chiaro a nessuno. E così, in questo modo traumatico è iniziato il
mio rapporto conflittuale con l’italiano e forse anche il mio terrore a usare le
lingue straniere in pubblico.

70
Casi di autotraduzione

Nel 1957 Juan Rodolfo Wilcock lascia definitivamente l’Argentina e si


stabilisce a Roma (nello stesso periodo un altro argentino, Héctor Bianciotti,
lascerà il proprio paese per stabilirsi a Parigi e scrivere, successivamente, in
francese – sembra addirittura che entrambi viaggiassero nella stessa nave senza
conoscersi). Tre anni dopo l’arrivo in Italia Wilcock pubblica in italiano Il caos,
una raccolta di racconti scritti in spagnolo tra la metà degli anni Quaranta e la
metà degli anni Cinquanta (sarà il suo primo libro in italiano) che lui stesso
traduce dallo spagnolo. Nel 1963, pubblica invece una raccolta di poesie
intitolata Poesie spagnole. È un’antologia che Wilcock costruisce a partire dai
suoi sei libri di poesie, già pubblicati in Argentina tra il 1940 e il 1951. Non si
tratta di una riscrittura, come sono le autotraduzioni di Beckett nella sua lingua
madre (ovvero dal francese all’inglese), oppure il Ferdydurke che Witold
Gombrowicz traduce dal polacco allo spagnolo. Quella di Wilcock è
un’autotraduzione poeticamente fedele al testo originale (le Poesie spagnole
escono addirittura con il testo a fonte, a indicare una sorta di mimesis nella
trasposizione dallo spagnolo all’italiano). Wilcock sa che scrivere in una lingua
diversa da quella materna presuppone una rivisitazione della sintassi, dei luoghi e
dei ritmi alla luce della nuova lingua, e lo fa con grande maestria, senza cedere a
facili inflessioni. Nell’inizio dell’introduzione alle Poesie spagnole scrive di se
stesso in terza persona: “Di fronte a una lingua corrosa e depravata dal luogo
comune, nonché dall’inestirpabile malcostume ironicamente chiamato ‘bello
scrivere’, lo scrittore giovane sente anzitutto il bisogno di crearsi un nuovo
linguaggio”72. Appunto con questo “nuovo linguaggio” che lo ospita, Wilcock
scriverà tutti i suoi libri a partire dagli anni Sessanta, le sue cronache
immaginarie, le traduzioni del teatro di Marlowe o dell’inizio del Finnegans
Wake, uscito nel 1961, nelle opere complete di Joyce curate da Giacomo
Debenedetti (a differenza di Wilcock, Héctor Bianciotti non tradurrà mai in
francese i propri romanzi scritti in spagnolo, prima di cambiare lingua; c’è nella

72 J. Rodolfo Wilcock, Poesie spagnole, Parma, Guanda 1963, p. IX.


71
sua scelta una sorta d’impossibilità ad autotradursi). Inoltre, le autotraduzioni di
Wilcock possono considerarsi la testimonianza di una mutazione linguistica che
precede il passaggio definitivo all’italiano. Superato questo confine abbandonerà
lo spagnolo e non sentirà più il bisogno, come Beckett, di autotradursi nella sua
lingua madre. Conclude l’introduzione:

Il suo mestiere ormai confermato e la sua reputazione completamente rovinata,


l’autore si rivolge all’ozio, alla lettura, alle distrazioni dell’esilio e del teatro, finché nel
1958, spinto da una serie pittoresca di casi, egli non accetta di cambiare lingua e
pubblico, e avvalendosi di aiuti e di sotterfugi, comincia a scrivere una specie di
italiano73.

Un anno dopo la pubblicazione delle Poesie spagnole, Wilcock conosce


Pier Paolo Pasolini che lo include nel cast, con il ruolo di Caifa, del Vangelo
secondo Matteo. E su Pasolini vorrei fermarmi un attimo per continuare sul tema
dell’autotraduzione, ma in un registro diverso a quello di Wilcock.

Nel 1942, studente di Lettere a Bologna, Pasolini pubblica a proprie spese,


presso la Libreria Antiquaria Mario Landi di Bologna, una raccolta di versi
intitolata Poesia a Casarsa (nel 1954 verrà inclusa in La meglio gioventù), con
una dedica a Gianfranco Contini. Si tratta di un libretto, il primo che pubblicherà,
scritto in dialetto friulano, parlato a Casarsa e trasmesso oralmente, senza
attestazione scritta. Anche se non era la sua lingua madre, il friulano casarsese,
parlato per lo più dai contadini, dà la possibilità a Pasolini di confrontarsi con
una lingua pura, resa scritta per la prima volta. Poesia a Casarsa, come tutta la
raccolta di La meglio gioventù, è un libro importante, perché Pasolini costruisce
intorno a questa lingua adottiva la propria maternità linguistica: “L’idioma
friulano di queste poesie”, scrive nella nota in appendice all’edizione del 1942,
“non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella
sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho

73 Ibidem, p. XII-XIII.
72
usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica” 74. Con questo testo
Pasolini inaugura la poesia neodialettale italiana.

Nel 1975 (pochi mesi prima della morte di Pasolini) esce La nuova
gioventù (il suo ultimo libro pubblicato in vita), che riproduce la vecchia edizione
delle poesie friulane, apportando delle aggiunte e delle revisioni, e
accompagnando il tutto con una sua autotraduzione. Quindi, Pasolini torna due
volte a “visitare” questa raccolta, e in due momenti fondamentali della sua
vicenda di scrittore (uno, che riguarda la sua prima pubblicazione e l’altro,
l’ultima che vedrà uscire). Mi pare interessante che dentro una vita e una vicenda
di scrittura tanto turbolenta, l’inizio e la fine siano in qualche modo riconducibili
alla ricerca poetica di una maternità linguistica, per un verso, e, per l’altro, al
problema dell’autotraduzione in italiano di questo idioma friulano, di questa
lingua materna sempre cercata e ricreata sulla pagina. Pasolini però non traduce
in versi le poesie friulane; la scelta di fornire in calce una versione in prosa, forse
ha a che fare con l’intraducibilità della poesia o con l’impossibilità di
autotradursi, di rifare in italiano un idioma che l’autore stesso ammette di essere
un “linguaggio assoluto, inesistente in natura” (cito dalla nota a La meglio
gioventù). Eppure, queste ultime autotraduzioni prosodiche sono tramate di versi;
inoltre, non riducono la rima, anzi colgono bene quella koinè friulana del testo
originale e quella tensione tra il ritmo del parlato e il dettato dialettale;
completano in qualche modo l’originale e non lo sminuiscono mai.

Un caso ancora diverso (rispetto tanto a Pasolini quanto a Wilckok) è


quello di Manuel Puig. Tra il 1976 (anno del colpo di stato argentino) e 1980
Puig si trasferisce a New York. Aveva già pubblicato cinque romanzi prima di
questo periodo di esilio, tra cui El beso de la mujer araña, che esce lo stesso
anno del colpo di stato argentino. Durante l’esilio Puig scrive un romanzo in
inglese, che uscirà nel 1982 con il titolo Eternal curse on the reader of these

74 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori 2003, v. 1., p. 193 .
73
pages. È l’unico romanzo che scrive in questa lingua e il primo in cui il
protagonista non è un argentino, ma un nordamericano: un suo vicino di casa.
Prima dell’uscita di questo libro in America, Puig l’aveva però già tradotto in
spagnolo e l’aveva pubblicato, nel 1980, a Barcellona, col titolo Maldición eterna
a quien lea estas páginas. È la prima volta che Puig si confronta con
l’autotraduzione di un suo testo, anche se tutta la sua opera si configura come una
sorta di traduzione da altri linguaggi: nel caso di Eternal curse on the reader of
these pages, Puig prende nota delle conversazioni che ha avuto con il suo vicino
newyorkese; riesce ad accumulare una mole di note e di appunti che poi tradurrà
in finzione; e lo stesso succede con il suo romanzo successivo, Sangre de amor
correspondido. In questo caso crea un romanzo con i racconti di un muratore
brasiliano che registra ogni volta (scrittura e traduzione sono sempre vincolate
nella genesi narrativa di Puig: la trasposizione di un dialogo con una determinata
persona che viene reinterpretato in chiave romanzesca, oppure la traduzione dal
reale alla finzione). Come dire che c’è sempre un’istanza di traduzione o di
reinterpretazione nell’opera di Puig.

L’autotraduzione in Puig ha dunque una sua particolarità specifica, che la


differenzia dalla tecnica e dall’orizzonte di pensiero fatti propri da Wilcock, che,
come abbiamo visto, scrive nella sua lingua madre e si autotraduce in italiano
mantenendosi fedele al testo originale. Puig invece scrive la prima versione in
una lingua estranea (l’inglese per Eternal curse on the reader of these pages e il
portoghese per Sangre de amor correspondido) e poi si traduce nella sua lingua
madre, senza però considerare l’originale come un punto d’arrivo (anzi,
l’originale diventa un punto di partenza per la riconquista della propria lingua).

Nel 1939 una compagnia di navigazione propone a Gombrowicz di


partecipare al viaggio inaugurale della rotta Gdynia/Danzica-Buenos Aires.
Durante il breve soggiorno a Buenos Aires scoppia la guerra e il suo soggiorno si
prolungherà fino al 1963:

74
Solo, perduto, tagliato fuori, estraneo, sconosciuto, affogato. Allora avevo
ancora i timpani straziati dal febbrile schiamazzo degli altoparlanti europei, mi
tormentava ancora il ruggito bellico dei giornali, e già mi immergevo in un idioma a me
incomprensibile e in una vita così distante dall’altra. Quel che si dice un momento
incredibile75.

Scrive in uno dei suoi diari, considerati da molti un’opera fondamentale.


Durante questi ventiquattro anni Gombrowicz, nonostante continuasse a scrivere
in polacco, diventa uno dei maggiori scrittori argentini. Ricardo Piglia dirà, per
esempio, che Transatlantico è uno dei migliori romanzi scritti in Argentina; il
primo romanzo che l’autore polacco scrive dall’esilio, nella sua lingua madre,
che oramai usa esclusivamente nella scrittura, come una sorta d’idioletto. Cosa
sarebbe successo, si chiede ancora Piglia, se Gombrowicz avesse scritto
Transatlantico in spagnolo? Sarebbe diventato il Conrad argentino? Del rapporto
che Gombrowicz ha stabilito con entrambe le lingue, il polacco e lo spagnolo,
rimane una traccia importante nella traduzione di Ferdydurke, uscita nel 1947 a
Buenos Aires. La prima edizione era uscita a Varsavia nel 1938 ed era stata ben
accolta nell’ambiente letterario polacco per la sua originalità stilistica. Nella
prima bozza del Ferdydurke argentino invece si sperimenta una nuova lingua,
uno spagnolo slavizzato e portato ai limiti della lingua, con l’intento di forzare le
parole e la sintassi fino a costringerle ad accettare altri significati e slittamenti.
Dunque, per Gombrowicz non si trattava di una ricerca d’ipotetici equivalenti del
testo originale, considerato definitivo, ma piuttosto di un’elaborazione ulteriore,
di una rivisitazione alla luce di una nuova lingua, un Ferdydurke parallelo a
quello polacco: un libro diverso, una nuova versione, scritta sulla base
dell’edizione originale. Gombrowicz voleva dare un altro respiro al suo testo, a
partire dalla nuova esperienza dell’esilio (“Questa traduzione è stata fatta da me e
solo lontanamente assomiglia al testo originale”, scrive nella prefazione del
1947).

75 Witold Gombrowicz, Diario. Volume I (1953-1958), a cura di Francesco M. Cataluccio, traduzione di


Vera Verdiani, Milano, Feltrinelli 2004, p. XXIV.
75
Dentro questa traduzione c’è anche un’altra storia: nella sala degli scacchi
del Café Rex di Buenos Aires, sull’Avenida Corrientes, si riuniva ogni giorno un
“comitato di traduzione”, di cui faceva parte anche il cubano Virgilio Piñera, che
discuteva sulle varie versioni del testo, racconta Gombrowicz nella prefazione.
Nessuno degli amici di Gombrowicz conosceva il polacco, però quando lo
spagnolo non ammetteva più torsioni si passava al francese. L’eco di questa
storia è raccolto e rilanciato da Piglia in Crítica y ficción: “Il romanzo argentino
sarebbe un romanzo polacco: voglio dire un romanzo polacco tradotto a uno
spagnolo futuro, in un caffè di Buenos Aires, da una banda di cospiratori
capeggiata da un conte apocrifo”76.

Non credo che sia inopportuno accostare al Ferdydurke di Gombrowicz i


due passi del Finnegans Wake (che fanno parte del capitolo Anna Livia
Plurabelle) che Joyce traduce in italiano con la collaborazione di Nino Frank (un
giovane antifascista che ebbe un ruolo affine a quello di Virgilio Piñera per
Gombrowicz) tra il 1938 e il 1939, l’anno dell’uscita del Finnegans Wake in
inglese. Secondo Jacqueline Risset in quest’autotraduzione si intersecano due
livelli di scrittura: “la duplice esperienza del dialetto (soprattutto del dialetto
triestino, che parlava nella sua stessa famiglia) e della lingua letteraria italiana
(presa al suo più alto livello di elaborazione e allo stesso tempo di nascita, quella
di Dante) porta Joyce a cogliere con grande sicurezza l’aspetto essenzialmente
plurale di questa lingua”77, scrive nell’introduzione agli Scritti italiani di Joyce.
L’intento è quello di restituire quanto più possibile l’oralità del discorso delle
lavandaie, e dunque un discorso legato al ritmo e all’invenzione, più che alla
fedeltà del testo:

Raccontami di Anna Livia. Tutto sapere vo’ di Anna Livia. Beh, conosci Anna
Livia? Altro che, conosciamo tutte Anna Livia! Dimmi tutto, e presto presto. Roba da

76 Ricardo Piglia, Crítica y ficción, Buenos Aires, Siglo veinte 1993, p. 51.

77 Jacqueline Risset, Joyce traduce Joyce, in James Joyce, Scritti italiani, Milano, Arnoldo Mondadori
1979, p. 198.
76
chiodi! Beh, sai quando il messercalzone andò in rovuma e fe’ ciò che fe’? Si, lo so, e
po’ appresso? Lava pulito e non sbrodolare! Rimboccamaniche e scioglilinguagnolo.
Ma la zucca per te se mai ti pieghi! O cosa mai fece bifronte o triforo in quell’infenice
di porco nastro? Oibo’, quel lughero malandrone! Che sudiciume di camiciaccia!

In questo caso, il testo inglese del Finnengans Wake, scritto in una sorta di
lingua inventata e intraducibile, diventa il punto di partenza per una rivisitazione
che accentui ancora di più il registro parlato.

Beckett riprende l’inglese che aveva abbandonato dopo la morte della


madre; lo riprende solo per tradurre quello che aveva scritto prima in francese.
Tuttavia, “quello che fa,” scrive Nadia Fusini nell’introduzione a Mal vu mal dit,
“non è sicuro che si possa chiamare traduzione: è piuttosto un nuovo testo che
nasce, una seconda incarnazione di qualcosa che, pur avendo avuto la sua carne,
ora ne vuole dell’altra”78. Dunque l’inglese diventa una lingua ritrovata, alla
quale Beckett ritorna per confrontarsi con le sue opere scritte nella lingua
d’adozione. Crea in francese e reinterpreta alla luce della sua lingua d’infanzia.
Quindi perde la lingua madre - che non è una lingua creativa, ma interpretativa -
per ritrovarla anni dopo, e questo ritrovamento sarà frutto di una rivisitazione, di
una riscrittura (spesso non concessa a un traduttore che non si confronta con la
propria opera). Ma Beckett non si autotraduce, ricrea il testo; la sua
autotraduzione non è una ripetizione dell’originale, è una differenza. Il suo
intento, inoltre, è che nessuna delle due lingue getti la sua ombra sull’altra, sia
quando si autotraduce dall’inglese in francese che viceversa. “Ma sono due
opere? O dei doppioni? Una è l’originale? E l’altra una traduzione? O sono due
versioni di cui la prima è una prova, la seconda la versione finale?” 79, si chiede
Nadia Fusini. La sua traduzione non è seconda rispetto all’originale, non si
autotraduce come fa Wilcock; non si tratta di una reincarnazione o di una
prosecuzione rivisitata da un’altra lingua. Usa la sua lingua madre come

78 Nadia Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 88.

79 Ibidem, p. 91.
77
strumento di libera traduzione: “Da quella lingua estranea egli prova a redimere
la lingua che vi sta richiusa, prigioniera e la lingua prigioniera nella traduzione si
libera, e liberandosi scopriamo che parla piuttosto inglese che francese” 80,
conclude Nadia Fusini. Derek Walcott, comentando le autotraduzioni poetiche di
Brodskij all’inglese, scrive qualcosa di simile in La voce del crepuscolo:

abbiamo l’impressione che Brodskij desideri che il suo libro sia letto come
poesia inglese, non come russo tradotto […]. Per un poeta, tradurre se stesso comporta
non solo un cambiamento di lingua ma ciò che la parola “traduzione” significa
letteralmente, cioè trasportare verso un altro luogo, adattando la propria indole,
modificando per gradi la propria sensibilità mentre la poesia originaria si ferma alla
frontiera […]. Ciò che è straordinario, anzi fenomenale, nell’impiego di Brodskij, è la
determinazione a restituire, quasi a consegnare i suoi versi dalla lingua originaria alla
poesia del nuovo paese. A dare alla stessa opera, simultaneamente, due lingue madri 81.

Anche Beckett sembra avere a che fare con due lingue madri. Le sue
autotraduzioni tendono dunque a migliorare l’atto della creazione, come accade
per esempio in Mal vu mal dit trasformato in Ill seen ill said. In questa seconda
nascita del testo, si compie una sorta di trionfo, nel senso che l’inglese di Beckett
è una lingua infinitamente più ricca e duttile e fresca, secondo Nadia Fusini: “la
lingua ritrovata oltre il rifiuto danza con un agio e una vivacità mirabile. Sì,
l’inglese di Beckett è più bello del francese”82.

80 Ibidem, p. 106.

81 Derek Walcott, La voce del crepuscolo, traduzione di Marina Antonielli, Milano, Adelphi 2013, p. 150-151.

82 Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 88.
78
Le parole sulla punta della lingua

“Il francese non è dunque una lingua completamente estranea, l’ha già nel
bec, ovvero nel becco, e ci becca, non c’è dubbio; è veloce di lingua, la parola gli
viene facile, ce l’ha sempre in punta di labbra, imbeccata” 83, scrive Nadia Fusini
di Beckett. A me è sempre incuriosito quell’avere la parola “in punta di labbra”,
soprattutto quando resta appesa in quella soglia dove c’è e non c’è. Insomma,
quell’istante di balbettio, o di sospensione, mentre la parola stenta a uscire dalle
labbra: quella soglia o quell’attesa che precede l’enunciato; che a sua volta
presuppone che la parola sia già “imbeccata”, pronta a scivolare nell’oblio o a
venirne fuori. Avere la parola in punta di labbra significa anche portare la lingua
fino a una soglia dove il dire e il non-dire s’incontrano in un lapsus. Trovarsi tra
le lingue presuppone questa istanza: l’essere in bilico della parola stessa. Non è
né un dubbio né una completa dimenticanza, è l’istante in cui la parola si spoglia
delle sue forme prima di trasformarsi in enunciato.

Nell’intervista che Héctor Banciotti lascia a Mai Mouniama, La pietà, la


lingua segreta, che abbiamo già avuto modo di vedere, dichiara la sua fatica di
scrivere in un’altra lingua: “Sono sempre uno straniero: ignoro la felicità di usare
la lingua come si usano, senza pensarci, la mano e gli occhi. Consulto, a ogni
frase, i dizionari – ci si trovano vere meraviglie. E vado avanti così nella notte,
accendendo fiammiferi nel buio”84.

Avere le parole sulla punta della lingua porta anche a questo: ad accendere
fiammiferi nel buio ogni volta che si scrive.

83 Fusini, Beckett by Beckett, in Samuel Beckett, Mal vu mal dit, Op. cit., p. 87.

84 Mai Mouniama, La pietà, la lingua segreta, in “L’indice dei libri del mese”, Op. cit., p. 5.

79
Sul fatto di avere le parole sulla punta della lingua mi viene in mente un
muratore che anni fa lavorava a casa mia. Era uomo basso e tarchiato, sulla
sessantina, conosciuto per essere un grande bestemmiatore. Non ho mai avuto
una gran passione per la blasfemia, né ne so molto sull’argomento. Però la lingua
italiana, a differenza d’altre, povere su quest’aspetto, m’è sempre sembrata tra le
più colorite e iperboliche quando si tratta di dir peccati (non so se esista in altre
lingue un corrispettivo di smadonnare). Un giorno, questo signore, mentre
cercava di sostituire un battiscopa, si è dato una martellata su un dito.
Immediatamente si è stretto l’indice sinistro con l’altra mano e ha cominciato a
fare dei gesti con le labbra, come se cercasse una parola che aveva lì, sulla punta
della lingua. Conoscendo la fama, ho pensato che stesse cercando una bestemmia
al femminile o al maschile, comunque grossa, da dichiararla all’intero vicinato;
invece gli è scappata una frase bellissima, una specie di preghiera: “Dio cantante
dei venti”. Per lui, forse quell’imprecazione appena trovata, aveva un significato
dissacrante, invece a me ha fatto pensare al Dio danzante di Nietzsche,
annunciato da Zarathustra. Se esiste un Dio, ho pensato, non può che essere un
“Dio cantante dei venti”.

80
Identità e lingua nazionale

Il vecchio problema dell’identità culturale ha sempre ossessionato i paesi


latinoamericani. Fino agli anni Ottanta non c’è stato autore di questo mondo che
non si sia posto il problema della propria identità. In Argentina è stato il
paesaggio a definirla, creando una sorta d’identità tellurica e vitale allo stesso
tempo. Il paesaggio per eccellenza s’identificava con il deserto e il deserto con la
forma dei sogni e delle illusioni: “El desierto, / inconmensurable, abierto / y
misterioso a sus pies / se extiende”, scriveva Esteban Echeverría (autore che
inaugura la poesia romantica nazionale) all’inizio di La cautiva. Questo ha un
significato preciso: si considera deserto un’estensione fisica, naturale; ma si
considera deserto anche lo spazio occupato da uomini la cui cultura non è stata
mai riconosciuta. Quest’operazione prevedeva un’ideologia coronata dalla
famosa conquista del deserto portata a compimento dal generale Roca nel 1879,
che presuppone da un lato l’eliminazione degli indios (mapuches, tehuelches e
ranqueles), e dall’altro la definitiva incorporazione della Pampa e della Patagonia
nella nazione, senza riconoscere però il diritto delle persone che occupavano da
sempre quel territorio, che per loro, ovvio, non era affatto un deserto.

Eppure, l’Argentina si fonda sul concetto dell’altro, però di un altro


programmato, scelto politicamente: l’immigrante lavoratore e non l’autoctono.
L’immigrazione era una condizione per la costruzione del paese e per la sua
identità, dalla sua indipendenza fino alla metà del XIX secolo. In questo rapporto
con l’altro non si vedeva una minaccia, ma una promessa. I due mondi quasi
contrapposti, esistenti fino allora, il mondo ispano-creolo e il mondo indigeno,
non bastavano a creare una nazione, c’era bisogno di rivolgere lo sguardo verso
l’Europa. Inoltre, l’Argentina non aveva una radice unica, atavica, come quella
messicana o peruviana (nate dall’incontro o dall’opposizione di due radici forti
che hanno destabilizzato l’identità autoctona), ma una radice rizomatica, per dirla
con Glissant, che non va in profondità ma si espande in orizzontale incontrandosi
con altre. Dunque, l’identità culturale argentina si crea da un lato come negazione

81
di una cultura preesistente, quella degli indios, dall’altro come rottura nei
confronti dalla Spagna e, infine, come incontro con le varie culture europee. In
questo contesto, dopo la conquista dell’indipendenza politica dalla Spagna, c’è
stata la conquista di un’indipendenza linguistica attraverso il recupero dell’oralità
(sono numerosi i casi di creolizzazione della lingua a partire dall’oralità - si
prenda, tanto per fare un esempio a noi vicino, il caso dell’ivoriano Ahmadou
Kourouma e il suo intento di africanizzare il francese). Lo spagnolo era
diventato, subito dopo l’indipendenza, un limite che doveva essere superato. Nel
discorso d’inaugurazione del Salón Literario di Buenos Aires, nel 1837, Juan
Maria Gutiérrez suggeriva (prendo la notizia dal libro di Rosalba Campra,
America Latina: l’identità e la maschera):

noi dobbiamo divorziare dagli spagnoli; emanciparci dalle tradizioni peninsulari


così come abbiamo fatto in politica quando ci siamo dichiarati liberi. Il vincolo della
lingua è ancora forte e stretto; ma questo vincolo dovrà allentarsi giorno dopo giorno
[...]; e se dobbiamo avere una letteratura, facciamo in modo che essa sia nazionale; che
rappresenti i nostri costumi e la nostra natura, così come i nostri laghi e nostri fiumi
impetuosi riflettono nelle loro acque soltanto le stelle del nostro emisfero 85.

Queste stelle erano anche le varie lingue degli immigranti. Non solo, erano
anche il loro punto di vista. Nasce allora una coscienza linguistica che tiene conto
della diversità. Anche Juan Bautista Alberdi, ispiratore della costituzione
argentina, aveva scritto: “la nostra lingua aspira a un’emancipazione perché non è
che una delle facce dell’emancipazione nazionale” 86. Tutte le comunità, in un
modo o nell’altro, si sono costituite nella propria lingua. In questa situazione, il
poeta per eccellenza sarebbe quello che afferma l’unicità della comunità,
un’unicità sempre sfuggevole e inafferrabile che sa cogliere le contaminazioni e
le sfumature. Quindi, l’identità di un paese prima che politica è un’identità
linguistica. Insomma, c’era da inventare l’Argentina, nulla del suo passato
preispanico o coloniale poteva essere riciclato in questo processo di

85 Rosalba Campra, America Latina: l’identità e la maschera, Roma, Meltemi 2006, p. 23.

86 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, Op. cit., p. 54.


82
modernizzazione. C’era un deserto tutto da riempire: “Nell’origine della cultura
argentina c’è allora il deserto”, scrive Beatriz Sarlo. “Questa non è una
proposizione descrittiva ma ideologica: è il modo in cui gli intellettuali hanno
vissuto la loro relazione con la società, con gli altri e i differenti”87. Dunque, la
costruzione di un passato, persino linguistico, diventa una necessità. Non
sappiamo però se è stato il deserto a fondare la letteratura argentina o viceversa.
Ad ogni modo, l’immigrazione apre questo ciclo di ricostruzione storica. C’è un
vecchio detto che si ricorda ogni volta che si parla d’identità culturale argentina:
“i messicani discendono dagli aztechi, i peruviani discendono dagli incas e gli
argentini discendono dalle navi” (quelle navi che per un secolo sono arrivate al
porto di Buenos Aires cariche di immigranti e sventurati sognatori).

In Italia, invece, non è una nazione a produrre una letteratura, ma


viceversa, una letteratura e una lingua che prefigurano il progetto di una nazione
(l’Italia, si potrebbe dire, è tra i primi paesi ad avere una lingua e tra gli ultimi ad
avere una nazione).

Mi ha sempre incuriosito il fatto che l’italiano sia rimasto nei secoli


vicinissimo alla lingua delle origini. Meglio, m’è sempre sembrato meraviglioso
che un italiano (e ora anche io) potesse leggere il Cantico delle creature senza
ricorrere all’aiuto di una traduzione, come invece succede, per esempio, a uno
spagnolo che volesse leggere El Cid campeador (un poema quasi coevo rispetto
al Cantico delle creature, che testimonia tra l’altro la nascita di una nuova lingua
romanza) o a un francese che avesse voglia di scorrere la Chanson de Roland,
perché la lingua italiana è rimasta pressoché uguale nella struttura interna. La
storia dell’Italia, si potrebbe dire, è la storia di una lingua e di una letteratura che
si affermano, non attraverso un potere politico, ma attraverso la cultura, con i
suoi manoscritti e i suoi libri: “È stata la corona dei testi del Trecento a costituire
il canone da imitare, la base di un’unità linguistica d’élite”, sostiene Gian Luigi
Beccaria nella Mia lingua italiana88. Tuttavia, l’italiano non era una lingua

87 Beatriz Sarlo, Escritos sobre literatura argentina, Buenos Aires, Siglo XXI 2007, p. 28.

88 Gian Luigi Beccaria, Mia lingua italiana, Torino, Einaudi 2011, p. 25.
83
materna, materna era quella grammatica dei sentimenti che sono i dialetti.
L’italiano era una sorta di lingua seconda, acquisita, anche se non possiamo
parlare di bilinguismo, semmai di diglossia. Il fatto che dal Trecento si sia
stabilita una lingua letteraria relativamente comune a tutta l’Italia, senza però
poter contare su una lingua parlata, unificatrice, dovrebbe far sentire a ognuno di
noi orgoglioso, tanto di scrivere quanto di parlare in italiano. Forse, nel mio caso,
era necessario fare così, che abbandonassi la mia lingua materna per trovare
questo groviglio di dialetti, di lingue scritte, di lingue parlate, tutte chiamate
italiano, e provare a districarmi in questo labirinto di pantere nascoste e odori
sperduti.

84
La lingua della morte

In una conversazione televisiva con Günther Gaus, tenuta il 28 ottobre


1964 nella serie Zur person della Seconda rete tedesca, Hannah Arendt risponde
a una serie di domande che riguardano, per la maggior parte, il suo abbandono
della Germania nel 1933. Quando a un certo punto Günther Gaus chiede alla sua
interlocutrice che cosa le è rimasto della Germania pre-hitleriana, Hannah Arendt
non esita a sottolineare il suo attaccamento, forte e indefettibile, alla lingua
tedesca:

Gaus - E ciò significa molto per lei?

Arendt - Moltissimo. Ho sempre rifiutato, consapevolmente, di perdere la lingua


materna. Ho sempre mantenuto un certo distacco sia dal francese, che un tempo parlavo
molto bene, sia dall’inglese, lingua in cui oggi scrivo.

Gaus - Stavo appunto per chiederglielo. Oggi scrive in inglese?

Arendt - Sì, ma ho mantenuto un certo distacco. Esiste una differenza


incredibile tra la lingua materna e un’altra lingua. Posso esprimerla semplicemente,
dicendo che conosco a memoria un gran numero di poesie in tedesco 89.

L’intervista è stata pubblicata in italiano nel mese di settembre del 1990


sulla rivista Aut-Aut con un titolo emblematico: Che cosa resta? Resta la lingua
materna. Per molti esuli, però, dopo Auschwitz, il tedesco era diventata una
lingua ostile, da dimenticare. Succede a Hans Schwarz, per esempio, il
personaggio di Fred Uhlman, che in L’amico ritrovato emigra da Stoccarda negli
Stati Uniti, dove si crea una nuova vita cercando di dimenticare il suo passato,
compresa la sua lingua madre (“non amo servirmi della mia lingua d’origine. Le
mie ferite non si sono ancora rimarginate e, ogni volta che ripenso alla Germania,
è come se venissero sfregate con il sale” 90). La tragedia del suo personaggio si
intreccia indissolubilmente con la vita dell’autore, che nel 1933 abbandona la

89 Hanna Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con
Günther Gaus, traduzione di Alessandro Dal Lago, In “Aut-Aut”, nn. 239-240, settembre 1990, p. 21.
85
Svevia per trasferirsi a Parigi e tre anni dopo in Inghilterra: The making of an
englishman è il titolo della sua autobiografia (nella traduzione italiana del titolo,
Storia di un uomo, si perde il senso originario che denota un cambiamento, di
lingua e di nazionalità). Questa stessa ostilità nei confronti del tedesco la
troviamo anche nel Diario di Anna Frank (giorno martedì 17 novembre 1942),
quando si racconta dell’arrivo del dentista Albert Dussel al nascondiglio olandese
dove si rifugiavano gli esuli tedeschi, presso i Van Daan. Il giorno stesso del suo
arrivo gli danno da leggere un regolamento dattilografico intitolato: Prospetto e
guida dell’alloggio segreto. Tra le voci trova scritto: “Lingue d’uso: Si prega di
parlar sempre piano; sono ammesse tutte le lingue civili, e quindi non la tedesca”.

Hannah Arendt, diversamente, non riesce a staccarsi dal tedesco, anzi si


rifiuta di perderlo. Considera il tedesco il suo luogo d’appartenenza, la Heimat di
cui parla Heidegger in Sprache und Heimat, il proprio della casa; lingua che non
perderà mai perché, dice nell’intervista sopra citata: “Non è la lingua tedesca ad
essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna”. Dopo aver
parlato dell’insostituibilità della lingua materna Annah Arendt aggiunge ancora:

Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere. C’è gente che parla le
lingue straniere meglio di me. Io parlo ancora con un forte accento, e non riesco a
parlare in modo idiomatico. Tutti lo sanno fare. Ma in questo modo si parla una lingua,
in cui un cliché non fa che sostituirne altri, perché la creatività linguistica viene
amputata quando si dimentica la propria lingua.

Quando però l’interlocutore le chiede se tale dimenticanza non sia la


“consapevolezza di una rimozione”, Annah Arendt afferma che la sostituzione
della propria lingua sarebbe l’effetto di una rimozione dovuta, forse, a una sorta
di difesa nei confronti della propria lingua: “Ne ho fatto esperienza con certe
persone in modo traumatico. Vede, ciò che è stato decisivo non è il 1933, in ogni
caso non per me, ma il giorno in cui sapemmo di Auschwitz”. Auschwitz, o
meglio il momento in cui si viene a sapere dell’esistenza di questo posto, diventa

90 Fred Uhlman, L’amico ritrovato, traduzione di Mariagiulia Castagnone, Milano, Feltrinelli 1988, p.
89.
86
il luogo della frattura, di una perdita assoluta, ciò che “non sarebbe mai dovuto
succedere”. Eppure, continua ancora Anna Arendt: “la lingua tedesca è ciò che
mi è rimasto essenzialmente, e sono sempre stata consapevole di averla
conservata”. Il tedesco è la lingua che le dà una filiazione con il luogo natio, anzi,
è la lingua stessa il suolo che regge la lontananza, ciò che rimane di essenziale.

In un discorso a Brema del 1958 (pubblicato in un piccolo libro dal titolo


La verità della poesia), Paul Celan scrive: “Raggiungibile, vicina e non perduta
in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua” 91. Quella lingua, il tedesco,
nella quale Celan sceglie di scrivere, è stata la lingua della madre, morta nella
deportazione nazista insieme al marito, in una delle retate notturne effettuate
durante il šabbath, a Cernăǔti, oggi Czernowitz, e, allo stesso tempo, lingua degli
aguzzini che la deportarono. Avrebbe potuto scrivere in rumeno o in francese (si
era esiliato a Parigi nel 1948), invece ha preferito scrivere in tedesco, una lingua
vicina e straniera allo stesso tempo, frantumata; una lingua di sterminio e di
salvezza, che si alza sopra l’orizzonte della sua quotidianità vissuta in francese.
Dunque, lingua della madre che si trasforma in lingua della morte.

Giorgio Agamben, a proposito di Celan, in un capitolo di Idea della prosa,


dal titolo Idea dell’unica, dove tocca il tema dell’unicità della lingua per un
poeta, scrive:

Quando, subito dopo la guerra, a Bucarest, gli amici, per convincerlo a


diventare un poeta rumeno (di quel periodo si conservano sue poesie scritte in rumeno),
gli ricordavano che non avrebbe dovuto scrivere nella lingua degli assassini dei suoi
genitori, morti in un campo nazista, Celan rispondeva semplicemente: “Solo nella
madrelingua si può dire la verità. In una lingua straniera il poeta mente” 92.

La verità abita nella lingua della madre, sembra rispondere Celan ai suoi
amici rumeni. Ed è quella stessa lingua, materna, che non ha mai perso e nella
quale scrive, in La verità della poesia: “ho tentato di scrivere poesie: per parlare,
per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi

91 Paul Celan, La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi 1993, p. 35.
92 Giorgio Agamben, Idea della prosa, Macerata, Quodlibet 2002, p. 29.
87
una prospettiva di realtà. E fu, chiaramente, vicissitudine, movimento, un porsi in
cammino; fu il tentativo di trovare una direzione” 93. Celan crea la propria lingua
all’interno della lingua tedesca per trascenderla e per interrogarsi sul senso della
storia che gli è toccata in sorte o, come dice Celan stesso, per portare alla luce “le
mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte”. Anche Adorno vorrebbe
continuare ad amare la lingua tedesca, “a coltivare l’intimità originaria con il suo
idioma, ma senza nazionalismo, senza il narcisismo collettivo (kollektiven
Narzismus) di una metafisica della lingua”94 (il riferimento si trova in Il sogno di
Benjamin di Derrida). Dall’altro lato, Jean Améry (pseudonimo di Hans Chaim
Mayer), che sopravvive ad Auschwitz e che dalla sua esperienza trae un’analisi
sulla sconfitta e dello spirito del proprio tempo, sente addirittura di non
appartenere più alla sua Heimat: “Noi eravamo esclusi dalla realtà tedesca e
quindi anche dalla lingua” (cito da quello che mi pare uno dei testi più lucidi
sull’argomento, Intellettuale a Auschwitz). Nel 1945 Améry si trasferisce a
Bruxelles, e per tutti gli anni a seguire, continua ad avere uno stretto rapporto con
la sua lingua madre: “Nonostante una profonda ripugnanza, leggevo
quotidianamente la Brüsseler Zeitung, l’organo delle forze d’occupazione sul
fronte occidentale”95. Ma si rende subito conto d’aver perso la sua appartenenza o
di non averla mai posseduta, e che tutto ciò che riguarda la Germania è stato un
grande equivoco: “Le parole erano gravide di una realtà concreta che si chiamava
minaccia di morte”96. La lingua madre a un certo punto diventa ostile, delatoria,
adombrata da una perdita irrecuperabile, e la lingua straniera non fornisce
l’accoglienza adeguata a supplire quella mancanza. Nel libro, Améry, cerca di
ricostruire e di capire cosa significa, per un esule del Terzo Reich, la perdita della
Heimat, del luogo natio, inteso come luogo d’infanzia, lingua madre e spazio da
narrare. Solo nel 1935 si rende conto di essere un ebreo, nel momento in cui
vengono annunciate le leggi di Norimberga, che postulano la superiorità della
93 Paul Celan, La verità della poesia, Op. cit., p. 35.

94 Jacques Derrida, Il sogno di Benjamin, traduzione di Graziella Berto, Milano, Bompiani 2003, p. 28.

95 Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, presentazione di Claudio Magris, traduzione di Enrico Gianni,
Torino, Bollati Boringhieri 1987, p. 98.

96 Ibidem, p. 99.
88
razza ariana e la discriminazione degli ebrei. Da quel momento in poi si accorge
di essere un uomo che non poteva più dire noi: un uomo senza terra, privo di
diritto e colpito da un anatema: “La Heimat”, dice ancora Améry, “è il paese
dell’infanzia e della giovinezza. Chi l’ha smarrita, resta spaesato, per quanto
all’estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare
il piede in terra senza troppi timori” 97. Lo straniero vive nella condizione del non
essere del tutto. Non si trova mai pienamente in un posto e convoca ogni volta
dentro di sé uno spaesamento. Jean Améry avverte questa condizione di
smarrimento: “se non si ha una Heimat si è vittima della mancanza di ordine, di
turbamenti, della dispersione”. Nel saggio di Heidegger sopracitato, il filosofo
tedesco ricorda una poesia di Nietzsche del 1884 intitolata Ohne Heimat (Senza
terra natia) che evoca questa perdita:

Le cornacchie gracchiano

E compiono sibilanti voli verso la città:

- presto nevicherà,

Guai [weh dem] a colui che non ha terra natia.

Améry ci mostra che non gli oppressori ma le vittime di Auschwitz sono


rimaste chiusi in quella sfera della terra natia che non c’è più. Hannah Arendt è
riuscita a riappropriarsi della sua lingua madre, perché per lei “non è la lingua
tedesca ad essere impazzita”. Jean Améry non riesce a decontestualizzarla dalla
sua storia più recente, quella che gli è toccata in sorte. In Intellettuale a
Auschwitz ricorda un aneddoto del 1943, poco prima del suo arresto in Belgio. Si
trova insieme ad altri esuli in un appartamento dove stampano volantini. Un
giorno un tedesco della SS che abita nell’appartamento sotto si sente disturbato
per il rumore che viene da sopra la sua abitazione. Allora sale le scale, bussa alla
porta e urlando pretende un po’ di silenzio. Usa il dialetto parlato nella regione di
Améry, riascoltato dallo stesso Améry in quell’occasione per la prima volta,
dopo tanto tempo. Vorrebbe rispondere con la stessa cadenza, ma alla fine sceglie

97 Ibidem, p. 93.
89
il francese, per non svelare la propria identità: “In quell’istante compresi sino in
fondo e definitivamente che la Heimat era terra nemica e che il buon compagno
era stato inviato dalla patria-nemica per eliminarmi”98.

98 Ibidem, p. 94.
90
La lingua come proprietà

L’aneddoto raccontato da Jean Améry forse spiega bene come la propria


lingua, durante l’esilio, possa diventare una minaccia. La Heimat si tramuta
all’improvviso nel luogo della non-appartenenza. Dunque, bisogna negare la
propria lingua, nasconderla (senza cadere nel tranello in cui sono caduti i
quarantaduemila Efraimiti, traditi dall’impossibilità di riuscire a pronunciare
correttamente quella parola difficile, piena di consonanti, che era shibboleth),
perché la propria lingua si è trasformata nella lingua dell’altro e da lingua madre
è diventata lingua di morte, o meglio della morte. Possiamo però considerare la
lingua un bene naturale di questo o quel gruppo? A chi appartiene? La si può
barricare all’interno di una comunità di parlanti? Verrebbe subito da dire che la
lingua non è di nessuno, è di chi la parla, e chi la parla non la possiede; piuttosto
si appartiene alla lingua, la si condivide, senza però arrogarsi alcun diritto di
dominio. È lei a possedere noi. Si sta nella lingua come la rondine nell’aria,
perché, come l’aria, la lingua è il luogo di un’apertura; apertura che da un lato
non ammette nessun possesso, e, dall’altro, nessuna autonomia. “La mia lingua,
la sola che io mi intenda parlare e mi intenda nel parlare, è la lingua dell’altro” 99,
scrive Jacques Derrida nel suo libro autobiografico, Il monolinguismo dell’altro o
la protesi d’origine. Questo libro è tutto imbastito intorno al problema di poter
essere monolingue e parlare una lingua che non è la propria. Nella sua condizione
di ebreo francese, nato in Algeria, Derrida conosce da bambino soltanto la lingua
ufficiale, perché la sua comunità aveva perso ogni legame con la tradizione
ebraica e con le lingue locali; eppure, tra il 1940 e il 1943, la comunità ebraica
algerina perde la cittadinanza francese, che a sua volta era stata imposta, senza
poterne recuperare un’altra:

parlo di un insieme “comunitario” (una “massa” che raggruppa decine o


centinaia di migliaia di persone), di un gruppo ritenuto “etnico” o “religioso” che, in
quanto tale, un giorno si vede privato della propria cittadinanza da uno Stato che, nella

99 Jacques Derrida, Il monolinguismo dell’altro, a cura di Graziella Berto, Milano, Raffaello Cortina
2004, p. 31.
91
brutalità di una decisione unilaterale, gliela ritira senza chiedergli il suo parere e senza
che il suddetto gruppo rivesta alcun’altra cittadinanza. Alcun’altra 100.

A partire da questa condizione di expatrié (nella propria terra di nascita)


Derrida si interroga sul concetto di cittadinanza e sulla natura del potere, non
attraverso la politica ma attraverso la questione della lingua materna. Una lingua
che non è mai sua né lo sarà mai: “Non ho che una lingua, e non è la mia”, scrive
all’inizio del testo. Non solo perché è la lingua dell’altro (una lingua che
appartiene esclusivamente ai francesi), ma soprattutto perché è la lingua ad avere
noi:

Sono monolingue. Il mio monolinguismo è permanente, e lo chiamo la mia


dimora, e lo avverto come tale, ci sto e lo abito. Esso mi abita. Il monolinguismo in cui
addirittura respiro è per me l’elemento. Non un elemento naturale, non la trasparenza
dell’etere, ma un ambiente assoluto. Inoltrepassabile, incontestabile: non posso
rifiutarlo che attestando la sua onnipresenza in me. Mi precede in qualsiasi tempo. È
me. Questo monolinguismo, per me, è me101.

Non abbiamo alcun possesso sulla lingua. Dichiararla nostra significa solo
appartenerle, perché non sono io a parlarla, ma è lei, quella particolare lingua, a
nominarmi come io. In questo modo la lingua madre diventa la più intima, ma
allo stesso tempo la più estranea a noi, appunto perché altra.

100 Ibidem, p. 20-21.

101 Ibidem, p. 5-6.


92
L’abbandono della lingua

Ci sono diverse ragioni che portano le persone a cambiare lingua e alle


volte anche ad abbandonarla. Claude Hagège, in un libro dal titolo Morte e
rinascita delle lingue, analizza qualche caso, tra cui quello della comunità tlingit,
nell’Alaska sudorientale, dove i padri non insegnano più la propria lingua ai figli
perché pensano, scrive Hagège, “che parlare ancora il tlingit significhi rischiare
di apparire dei ritardati mentali o degli ignoranti e temono che insegnare quella
lingua ai figli non solo rallenti l’apprendimento dell’inglese, ma anche lo
sviluppo mentale”102. Inoltre, credono che insegnare il tlingit ai figli contribuisca
a tenere in vita alcune credenze tradizionali, da cui vorrebbero allontanarsi. La
stessa cosa succede con i rama di Nicaragua, che addirittura considerano la
propria lingua una non-lingua, o una lingua dalla quale vergognarsi.

Sono molti, dice Hagège, i popoli che si persuadono che la propria lingua
non sia più in grado di esprimere la modernità e dunque preferiscono
abbandonarla, lasciando morire le proprie credenze e tradizioni, per assoggettarsi
a un’altra lingua che non riuscirà mai esprime quella determinata cultura. Non
esistono solo esempi di abbandono volontario, ma anche autentici linguicidi,
dove il potere, senza necessariamente sterminare i parlanti, impedisce la
diffusione di una lingua. Linguicidio di stato, per esempio, è quello compiuto
dagli Stati Uniti, continua Hagège, “nei primi decenni del ventesimo secolo,
contro le lingue parlate nelle varie isole della Micronesia, quali il chamorro (o
guameño) a Guam, nonché a Saipan, Rota, Tinian, Pagan, Anatahan e
Alamagan”103. Gli esempi si moltiplicano nel XIX secolo, durante l’epoca
coloniale, dove molte lingue vengono marchiate e combattute in quanto
diaboliche. In Alaska, per esempio, di cui si è parlato sopra, all’inizio del
Novecento è stato rifiutato l’uso delle lingue indiane nell’ambito dell’istruzione.

102 Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità,
traduzione di Luisa Cortese, Milano, Feltrinelli 2002, p. 110.

103 Ibidem, p. 98.


93
Fatti di linguicidio si sono verificati durante il corso di tutta la storia,
costringendo gli autoctoni a cambiare lingua. Nel 1616, riferisce Hagège, il
parlamento scozzese adottò una legge per diffondere l’inglese con il fine di
sostituire il gaelico scozzese, considerato come “fonte di ogni barbarie”; quindi,
di conseguenza, bisognava abolire e sopprimere la lingua gaelico scozzese da
ogni tipo di insegnamento. Certe volte si abbandona una lingua anche solo per
una semplice strategia di sopravvivenza, com’è successo ai parlanti di lingua
pipil, nel 1932 nel Salvador, al tempo della gran matanza, quando morirono
venticinquemila indiani (e con loro scomparirono la lingua cacaopera e la lingua
lenca). I parlanti di lingua pipil, considerando che stavano subendo la stessa sorte
dei cacaopera e dei lenca, hanno rinunciato alla propria lingua e oggi il pipil è
forse una lingua estinta.

Al mondo muoiono venticinque lingue ogni anno. La globalizzazione


porta come conseguenza non solo la trasformazione del mercato, ma anche la vita
dei popoli. L’estinzione di una lingua, qualsiasi essa sia, anche la più sperduta o
sconosciuta, perfino quella parlata dal personaggio landolfiano Y, un unico
detentore, costituisce un impoverimento e una perdita fondamentale per tutti. La
morte di una lingua uccide anche le cose, che nulla sono senza quella lingua che
le nomina. E dunque, una scomparsa simile, presuppone anche l’estinzione di un
mondo, di un punto di vista e di una prospettiva, anche quando si tratta di una
lingua metticcia o creola, perché, in questo caso, oltre alla sparizione in sé,
spariscono anche i processi di contaminazione e di relazione che hanno avuto i
popoli. Le lingue sono nate (non si riesce mai a capire quando, ma a un certo
punto nascono) e forse un giorno, seguendo il destino dei popoli, periranno e al
posto loro ne subentreranno altre, con altri sguardi e altre limiti. Le lingue, come
dice Leopardi nello Zibaldone, “vanno sempre variando” e “alla fine muoiono”
perché nessuna può considerarsi perpetua. E su questa linea si inserisce anche
Franz Rosenzweig che scrive in La stella della redenzione: “La lingua dei popoli
segue fin nel più piccolo particolare l’alterna vicenda dei destini del popolo, ma

94
questo suo seguire passo passo il vivente la coinvolge anche nel destino ultimo
del vivente, che è la morte”104.

104 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, traduzione di Gianfranco Bonola, Milano, Vita &
Pensiero 2005, p. 310.
95
La difficoltà di abbandonare la propria lingua

In un libro autobiografico, Parla, ricordo, Nabokov racconta che durante


il suo esilio a Cambridge (dopo aver lasciato prima San Pietroburgo nel 1917 e
poi la Crimea in 1919) si era dedicato solo alla letteratura, disinteressandosi delle
altre cose, compresa la politica. Leggeva, nelle sue “stanze di Cambridge”, il
Cantare della schiera di Igor’, i versi di Puškin e di Tjutčev, la prosa di Gogol’ e
di Tolstoj, i naturalisti russi che descrivevano le regioni selvagge dell’Asia
Centrale. Un giorno aveva trovato in una bancarella in Market Place una copia di
seconda mano del Dizionario interpretativo della lingua russa contemporanea
del Dal’, in quattro volumi. Lo aveva acquistato con la speranza di leggerne
almeno dieci pagine al giorno:

Il timore di perdere o di inquinare con influssi stranieri l’unica cosa che ero
riuscito a mettere in salvo dalla Russia – la lingua – divenne decisamente morboso e
assai più assillante del timore, sperimentato due decenni dopo, di non essere affatto in
grado di portare la mia prosa in inglese a un livello paragonabile a quello del mio
russo105.

Questo passo di Nabokov descrive bene la difficoltà di abbandonare la


propria lingua e anche il fatto che la lingua, nella lontananza, si trasforma
nell’unico luogo d’appartenenza. Per questo la si vuole proteggere da eventuali
“influssi stranieri”, perché è l’unica cosa che si ha con sé. Allo stesso tempo,
questa capsula, come la chiama Brodskij, questo rifugio difficile da accudire in
terra straniera, si porta dentro un mondo che spesso scopriamo mentre siamo
lontani, o meglio al quale scopriamo di appartenere solo nella lontananza. Un
anno dopo la pubblicazione di Lolita, Nabokov ne scrive una postfazione,
intitolata Note su un libro chiamato Lolita. In questo testo, oramai incluso in ogni
edizione del romanzo, racconta le sue vicissitudini per pubblicarlo; e conclude
con un bellissimo riferimento al suo “idioma naturale” abbandonato nel 1940:

105 Vladimir Nabokov, Parla, ricordo. Un’autobiografia rivisitata, a cura di Anna Raffetto, traduzione
di Guido Ragni, Milano, Adelphi 2010, p. 287.
96
La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che
ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così
libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di
tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite
associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti,
può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri 106.

Nei primi anni che sono stato in Italia, mi ricordo, l’attaccamento alla mia
lingua materna s’è rafforzato come non mai. Non volevo perderla e facevo di
tutto per salvaguardarla da qualsiasi contaminazione o da qualsiasi forma
d’indebolimento, perché, lo si voglia o no, la distanza ci fa perdere i legami, a
volte anche quelli affettivi, e insieme a questi sbiadisce anche il legame con la
nostra lingua. Quando andavo in Argentina, sempre per brevi periodi, tornavo
indietro con scatole piene di libri in spagnolo, o me li facevo spedire da parenti o
amici. Per molti anni ho letto e scritto solo nella mia lingua madre. Quei suoni,
quelle parole, scavavano dentro l’unico rifugio che avevo, lo rendevano più
ampio e abitabile, da piccolissimo e scabroso che mi pareva. Leggevo Julio
Cortázar, per esempio, che aveva lasciato l’Argentina nel 1951 per andare a
vivere a Parigi e per tutta la sua vita aveva continuato a scrivere in spagnolo
(traduceva Poe, Defoe, Chesterton, Yourcenar in spagnolo e se ne infischiava del
suo isolamento parigino). Fino a quando, dopo la nascita di mio figlio nell’anno
2000, ho iniziato a scrivere una storia in italiano, che poi si è trasformata nel mio
primo libro che ho pubblicato in questa lingua (Restituiscimi il cappotto).
Sentivo, mentre scrivevo nella nuova lingua, di aver perso tutte le sicurezze che
avevo prima. Avevo lasciato da parte il corpo che mi conteneva per indossare un
fantasma che mi sfuggiva da tutte le parti. Ogni frase e ogni singola parola
rappresentavano un dubbio. Forse si prova una specie di pudore iniziale, inibente,
quando si comincia a scrivere in una lingua che non è la nostra. Prendiamo una
distanza che prima non c’era, perché quella era la nostra lingua e noi eravamo
dentro. Invece, adesso, adoperando un’altra lingua, tocca entrare in punta di piedi

106 Vladimir Nabokov, Lolita, traduzione di Giulia Arborio Mella, Milano, Mondadori 2007, p. 418.
97
come se non volessimo fare troppo rumore. Frughiamo nel vocabolario,
traduciamo, confrontiamo ogni cosa, finché troviamo una parola che ci apre un
varco, una possibilità. Si perdono tante cose quando si cambia lingua, ma se ne
scoprono altre. Insomma, si va avanti a tentoni, perdendo pezzi e trovandone altri
per strada, che non sempre si riesce a tenere in mano, o nelle tasche, si perdono
anche quelli. Si avanza e si indietreggia di continuo. Il rapporto con la nuova
lingua è, se vogliamo, un rapporto quasi erotico, che si misura e si rivede
costantemente, secondo il grado di avvicinamento. In Stranieri a se stessi, Julia
Kristeva racconta qualcosa di simile:

Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logiche separate dalla
memoria notturna del corpo, dal sonno agrodolce dell’infanzia. Portare dentro di sé
come una cripta segreta o come un bambino handicappato – amato e inutile – quel
linguaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi perfezionate in
un altro strumento, come ci si esprime con l’algebra o il violino. Potete divenire virtuosi
in quel nuovo artificio che vi procura del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale,
sublimato – alcuni dicono sublime. Avete l’impressione che la nuova lingua sia la
vostra resurrezione: nuova pelle, nuovo sesso. Ma l’illusione si squarcia quando vi
riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della vostra voce vi ritorna
bizzarra, da nessuna parte, più vicina al borbottio di un tempo che al codice di oggi 107.

La propria lingua ritorna sempre nelle sue varie forme di maternità. A


volte ci allontaniamo per difenderci o ci avviciniamo per non perderla. Il cambio
di lingua presuppone una sorta di “tragedia privata”. Si ha l’esperienza di una
sorta di trasmigrazione dell’anima, ma senza la perdita del passato, perché, in
questo caso, il passato viene rivisitato alla luce di una nuova lingua. A quel
punto, ci sembra d’avere una vita spezzata, divisa da due o più lingue; ogni
ricordo parla la sua.

107 Julia Kristeva, Stranieri a se stessi, traduzione di Alessandro Serra, Milano, Feltrinelli 1990, p. 20.
98
La lingua come difesa

In un articolo del 1950, La madre lingua e la madre (raccolto più tardi in


Esplorazioni psicoanalitiche), Ralph Greenson, lo psichiatra americano nato
Brooklyn famoso per essere stato l’analista di Marilyn Monroe negli ultimi mesi
di vita dell’attrice (e di altri personaggi famosi come Frank Sinatra, Tony Curtis,
ecc., analista anche di molti soldati tornati dalla guerra del Vietnam), racconta
l’esperienza clinica con una donna austriaca, trasferitasi in America nella prima
giovinezza. Dopo le prime sedute in lingua inglese, il medico invita la donna a
parlare in tedesco, ma lei ha paura di usarlo: “Ho l’impressione che se parlo
tedesco dovrò ricordare qualcosa che voglio dimenticare” 108, risponde lei. In
tedesco lei si vede “una bambina sporca e spaventata”, mentre in inglese, dice la
donna, si vede “una bambina nervosa e raffinata”. Ogni cosa, persino gli affetti,
assume un connotato diverso secondo la lingua che si usa. Analizzando questo
caso clinico, Greenson sostiene che “la nuova lingua, in questo caso l’inglese,
offriva alla paziente l’opportunità di erigere un nuovo sistema difensivo contro la
vita infantile”109 (l’aiutava a isolare e a rimuovere il mondo edipico che si era
formata in tedesco). E dunque, la nuova lingua le dava la possibilità di rimuovere
i ricordi o di nasconderli. L’inglese era dunque una sorta di difesa contro la stessa
lingua madre e contro l’apparire di conflitti rimossi. Dice ancora Greenson: “Una
nuova lingua offre l’opportunità di stabilire un nuovo autoritratto che può
soppiantare le antiche immagini”110. Le lingue allora ci aiutano o ci costringono a
crearci una sorta di personalità multipla, per cui ci si può sentire “una bambina
sporca e spaventata” in tedesco o “una bambina nervosa e raffinata” in inglese.
Questo riparo contro i conflitti interni, questa nuova lingua che subentra per

108 Ralph Greenson, Esplorazioni psicoanalitiche, traduzione di Simonetta Adamo Tatafiore, Torino,
Bollati Boringhieri 1984, p. 43.

109 Ibidem, p. 47.

110 Ibidem, p. 47.


99
mascherare o per svelare è, dice Greenson, “un modo per mantenere il legame
con la madre quanto un mezzo per separarsene”111.

Gli autori di La Babele dell’inconscio, libro interessante sotto il profilo


psicoanalitico che ha anche il pregio di essere una sorta di viaggio nella mente di
chi si trova a sognare, a pensare e a parlare in più lingue, scrivono, riguardo alla
difficoltà di vedere i propri traumi alla luce di una nuova lingua:

È stato possibile capire come parlare dei conflitti e delle angosce della propria
infanzia in una seconda lingua, appresa in età adulta, potesse consentire a un analizzato
di stabilire una sorta di distanza di sicurezza da tutto quel tumulto di emozioni primitive
che sarebbero invece immediatamente state evocate dalle parole della sua lingua
madre112.

Fino a che punto però, possiamo chiederci, questa distanza di sicurezza ci


rivela l’essere che siamo? Quanto ci mostra e quanto ci nasconde? È possibile, mi
chiedo ancora, crearsi un altro ritratto di se stessi attraverso una nuova lingua?

Avevo una cara amica, un’artista straordinaria di nome Adelaide Gigli,


nata in Italia nel 1927 e partita per l’Argentina nel 1930 insieme al padre, il
pittore Lorenzo Gigli, e la madre. Nel 1977 si era esiliata, paradossalmente, nella
città che l’aveva vista nascere, Recanati. Madre di due figli desaparecidos
durante la dittatura militare, Maria Adelaida detta Mini e Lorenzo Ismael, figli
anche dello scrittore David Viñas, con il quale aveva fondato la rivista Contorno
nel 1953 (“Sono arrivata a Recanati lo stesso giorno della mia nascita, ma
cinquant’anni dopo”, aveva affermato in un’intervista). Io l’ho conosciuta circa
dieci anni dopo il suo arrivo in Italia. Viveva in un monolocale tutto colorato,
dove custodiva le sue assenze, pieno di sculture e di quadri appesi alle pareti. Lì
leggevamo e discutevamo fino a tarda notte (sempre davanti a una bottiglia di

111 Ibidem, p. 49.

112 Jacqueline Amati Mehler, Simona Argentieri, Jorge Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua
madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Milano, Raffaello Cortina 1990, p. 2.
100
whisky). Adelaide era una ceramista e un punto di riferimento per la cultura
argentina degli anni Cinquanta e Sessanta. Confesso che è stata lei, in quel
monolocale di Recanati, con una finestra affacciata sul Chiostro di
Sant’Agostino, a farmi capire tanti retroscena della letteratura argentina e a farmi
scoprire la mia vera condizione di latinoamericano. Parlava un italiano stentato e
tra di noi, il più delle volte, usavamo l’argentino. C’erano giorni però, o dei
momenti, in cui lei voleva parlare solo in italiano. Io capivo, o mi sembrava di
capire, che in quei momenti vedeva profilarsi davanti a sé il fantasma atroce della
dittatura che le aveva portato via i suoi figli e che ora aveva bisogno di rimuovere
quelle voci interne con la nuova lingua acquisita. Viveva tra due lingue,
Adelaide, e le usava all’occorrenza per far tacere quei fantasmi interni che la
tormentavano. Negli ultimi anni della sua vita non parlava più nessuna lingua. La
malattia l’aveva costretta a un lungo silenzio e non so, credo che nessuno possa
saperlo, se quei fantasmi continuassero a tormentarla ancora. È difficile dibattersi
tra due lingue quando una rappresenta un mondo che ti ha fatto soffrire tanto, ma
altrettanto difficile dovrebbe essere trovarsi costretti a non poter esprimere in
nessuna lingua il dolore per la scomparsa di due figli. Alla fine, nell’autunno del
2010, Adelaide se ne è andata così, sul letto di un ricovero, in silenzio e senza più
una lingua che l’accompagnasse.

Una lingua, dunque, può diventare una difesa nei confronti del passato,
può dimenticarlo o manipolarlo, ma può anche essere uno stratagemma (più o
meno consapevole) per mantenere un legame stretto con la propria infanzia. La
lingua è lo scudo o la capsula dentro la quale lo straniero si rifugia, dice
Brodskij, che conosceva il dilemma di restare nella propria lingua madre e di
doverla poi sostituire, perché quella capsula a un certo punto della sua vita era
diventata, dopo l’esilio, una prigione, lo spazio di una frattura irreparabile.

Nella prima udienza del processo che si era tenuto a Leningrado l’8
febbraio 1964 Brodskij, mentre il regime lo accusava di parassitismo
(tunejadstvo), dichiarava apertamente di essere un poeta di lingua russa e di voler
101
rimanere tale. Otto anni dopo, il 4 giugno 1972, dopo l’espulsione dall’Unione
Sovietica, inviò una lettera a Leonid Brežnev dove ribadiva il suo attaccamento
alla lingua russa. L’unica forma di appartenenza al proprio paese che Brodskij
concepiva era quella linguistica, per questo non aveva paura a denunciarne la
corruzione. Fino al 1976, anno in cui aveva scritto il suo primo saggio in inglese,
aveva vissuto una sorta di collisione linguistica. Il cambio di lingua però porta
Brodskij a concepire la sua lingua adottiva, l’inglese, anche come una difesa nei
confronti del totalitarismo sovietico. Lo si vede bene in un passo di Fuga da
Bisanzio, dedicato al momento dell’esilio americano:

Scrivo tutto questo in una lingua diversa dal russo perché vorrei assicurare loro
[la sua famiglia] un margine di libertà [...]. Vorrei che Maria Volpert e Aleksandr
Brodskij acquistassero una loro realtà secondo «un codice di coscienza straniero».
Vorrei che verbi di moto non russi descrivessero i loro movimenti. Questo non li farà
risuscitare, ma qualsiasi grammatica è meglio di quella russa almeno nel senso che può
offrire una via più sicura per evadere dai camini del crematorio di Stato [...]. So che non
si dovrebbe stabilire un’equazione tra Stato e lingua, ma il russo è la lingua in cui due
vecchi, costretti a trascinarsi da una cancelleria all’altra e da un ministero all’altro nella
speranza di ottenere un permesso per un viaggio all’estero, per andare a trovare il loro
unico figlio prima di morire, si sentirono rispondere tante volte, per dodici anni di
seguito, che lo Stato considera «non pertinente» un viaggio del genere [...]. Che un’altra
lingua accolga dunque i miei morti […]. Per Maria Volpert e Aleksandr Brodskij
occorre un’altra lingua, una lingua che almeno prometta una parvenza di vita dopo la
vita, forse l’unica possibile, se si esclude la mia, quella che sto scrivendo. E per quanto
riguarda quest’ultima, scrivere in un’altra lingua è come fare i piatti: fa bene alla salute,
è terapeutico113.

Quell’“altra lingua”, non-russa, che Brodskij si augura accolga i suoi


genitori “dopo la vita”, sradica il padre e la madre dalla lingua materna e li fa
ospiti di una lingua straniera, affinché, la nuova lingua possa offrire loro una
sepoltura adeguata, più meritevole. Brodskij seppellisce linguisticamente i suoi
genitori, dunque, li affida a una lingua, l’inglese, che peraltro era quella materna
di W. H. Auden, considerato da Brodskij la più grande mente del XX secolo. “Se

113 Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 2004, pp. 200-2001.
102
mi chiedessero di scrivere prosa in russo, non ne sarei così entusiasta. Ma in
inglese è una soddisfazione enorme. Mentre scrivo penso a Auden, a quello che
direbbe – la troverebbe robaccia, o la apprezzerebbe?”, disse durante
un’intervista. Ma Brodskij scrive in inglese anche per dare ai suoi una dignità
maggiore, per toglierli dalla prigione della loro lingua. Scrivere il nome dei
genitori in lingua inglese significa difatti rivisitare la loro storia, rimuoverla dalla
corruzione per farla rivivere in un’altra grammatica, in un altro suono o in un
altrove linguistico. Dunque, una voce nuova che trasformi quel viaggio mai
compiuto di Maria Volpert e Aleksandr Brodskij in un’accoglienza felice, più
dignitosa di quella che potevano offrir loro le cancellerie russe. Cambiare lingua
serve anche a questo, a trovare la propria libertà.

103
La maternità della lingua II

Ogni lingua si porta dentro uno sguardo, una struttura del tempo; declina a
modo suo il passato, il presente e il futuro, per cui in alcune lingue posso creare
periodi e costruzioni che in altre lingue suonerebbero del tutto stonati, se non
incomprensibili. La lingua è un modo di vedere e interpretare le cose. Dunque,
più che in un mondo si nasce in una lingua. Ed è per questo che il cambio di
lingua presuppone una rappresentazione diversa della realtà. Eppure, quando si
passa da una lingua a un’altra, una parte di quello sguardo che era dentro la
prima, rimane come una maternità nascosta (dietro questo italiano che scrivo
echeggia una voce che è un insieme di memorie e di dimenticanze che
appartengono al mio castellano d’infanzia). La nuova lingua cresce sopra i semi
della nostra lingua madre. Esiste un dialogo interno, ruoli diversi che hanno le
lingue dentro di noi, frammenti che sopravvivono ancorati a una determinata
lingua, difficile da sradicare: si ama in una lingua, si piange in un’altra, si fanno i
conti in quella in cui abbiamo imparato a numerare le cose e, soprattutto, si
insulta nella prima imparata, pur se le altre presentano coloriture migliori. Allo
stesso modo, la nostra lingua madre (“cagione del mio essere” dice Dante nel
Convivio) si struttura sopra i semi di una lingua originaria e pre-materna,
balbettata ed ecolalica, che ci portiamo dentro e che abbiamo irrimediabilmente
perduto alla fine di quello che Roman Jakobson chiama “l’apice del balbettio”
infantile, ovvero nel passaggio dallo stadio prelinguistico all’acquisizione delle
prime parole. In quel punto preciso della nostra esistenza, tra il balbettio (che non
ha nessun limite fonetico e che contiene in potenza tutte le lingue) e le prime
parole articolate, non c’è un passaggio graduale, ma una vera e propria rottura,
una perdita irrecuperabile dalla quale non possiamo più tornare indietro. È lì, in
quell’abisso che separa il balbettamento e la prima parola pronunciata, che si
compie il nostro primo oblio e il nostro primo passaggio radicale.

104
Daniel Heller-Roazen, in un libro pieno di spunti, dal titolo Ecolalie.
Saggio sull’oblio delle lingue, si chiede se nel linguaggio dell’adulto resta
qualcosa del balbettio neonatale:

Può il bambino essere così affascinato dalla realtà di un’unica lingua da


abbandonare l’illimitato, ma in definitiva sterile, regno che contiene la possibilità di
tutte le altre? […] È la lingua madre che, facendo presa sul nuovo parlante, rifiuta di
tollerare in lui persino l’ombra di un’altra?114.

La lingua madre nasce nel momento in cui cessa il balbettio. “È come se


l’acquisizione del linguaggio,” scrive ancora Heller-Roazen, “fosse possibile solo
attraverso un atto d’oblio, una sorte d’amnesia linguistica infantile”. Da questo
stadio prelinguistico scegliamo la nostra lingua madre e dimentichiamo per
sempre quella originaria che conteneva in potenza tutte le lingue del mondo.
Possiamo dire che è quella dimenticanza la chiave d’accesso all’acquisizione
linguistica. Dunque, la caduta babelica si ripete ogni volta che un bambino
acquisisce una lingua madre e dimentica quella che ha cominciato ad articolare
dopo la nascita. Senza l’oblio di quei suoni, di quelle articolazioni, non ci sarebbe
l’apprendimento di nessuna lingua: “Forse,” scrive Heller-Roazen, “la perdita di
un arsenale fonetico illimitato è il prezzo che il bambino deve pagare per ottenere
i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola
lingua”115. Chissà, è probabile che comunque rimanga qualcosa in noi di quella
maternità babelica e balbettata (“Non è impossibile,” scrive Borges, “che il
verbo inglese to babble e il verbo tedesco babbeln che significano balbettare,
derivino da Babele e non dai primi suoni che articolano i neonati”). Quel
balbettio indistinto e immemorabile ha permesso a tutte le lingue di esistere.
L’atto dell’apprendimento linguistico presuppone questa forma d’oblio. È la
nostra prima esperienza e forse il nostro primo trauma. Passare da una lingua a
un’altra, o dal balbettio originario alla lingua madre, significa sacrificare una
parte di sé: dimenticare qualcosa per qualcos’altro. Dante la chiamerebbe

114 Daniel Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, traduzione di Andrea Cavazzini,
Macerata, Quodlibet 2007, p. 13.

115 Ibidem, p. 13.


105
confusione biblica (“che altro non fu che dimenticanza della lingua precedente”:
confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio).

Forse viviamo destinati a recuperare una lingua perduta e dimenticata.


Imparare a camminare e a parlare significa, quindi, lasciare il mondo magico che
contiene la nostra nascita per cominciare a smarrirci sulla terra. Nessuno di noi,
però, lingua madre o no, poco importa, è troppo differente dall’Albatros di
Baudelaire, “esule sulla terra, in mezzo a ostili grida, / con le ali da gigante nel
cammino s’impiglia” (la traduzione è di Antonio Prete): questo gigantesco
uccello, padrone dei cieli e delle parole, rappresenta la miseria della caduta, di un
poeta senza più la sua lingua, condannato al silenzio in un mondo che non gli
appartiene. Siamo parte inscindibile di una lingua che ci contiene e imprigiona
nelle sue regole. Esuli, come l’albatros di Baudelaire, da quella lingua originaria
e priva di regole che ci conteneva nella sua indeterminatezza. E ora vaghiamo tra
le lingue, abbandonati all’eterna confusione, senza più riconoscere, se non a
stento, quella maternità che ci contiene nel proprio silenzio.

Nel 1902 Hugo von Hofmannsthal scrisse un testo assai famoso, la Lettera
di Lord Chandos. Qui Lord Chandos, appunto, comunica al destinatario della
lettera la sua rinuncia a scrivere, la sua scelta del silenzio, perché ritiene che
nessuna parola, nessuna lingua, possa essere adatta a esprimere la realtà delle
cose. E dunque abbandona la scrittura e ogni possibilità di dialogo. Lord Chandos
si rende conto che qualsiasi lingua, per quanto esatta, è inadeguata a esprimere le
cose in sé e la propria vita. Capisce che c’è un’impossibilità da parte delle parole
a confrontarsi con le cose stesse e quindi rivendica il suo essere di fronte alla
lingua senza parole. Forse questo protagonista immaginario di Hofmannsthal
avverte più di chiunque la sua condizione di esule da una lingua dimenticata:

in tutti gli anni di questa mia vita non scriverò più nessun libro, né in inglese né
in latino: e ciò per questo solo motivo, la cui per me penosa singolarità io lascio alla
vostra infinita superiorità spirituale di collocare con limpido sguardo al suo giusto posto
nel regno dei fenomeni spirituali e materiali che a voi si dispiega armonicamente:
106
perché la lingua, in cui mi sarebbe dato non solo scrivere, ma forse anche di pensare,
non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola
parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno
nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto 116.

116 Hugo Von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, traduzione di Marga Vidusso Feriani, Milano,
Biblioteca Universale Rizzoli 1991, p. 61.
107
Indice

Premessa 4

Infanzia 6

Spaesamenti 9

Le lingue di mia zia 12

La maternità della lingua I 16

La lingua dell’amore 19

L’ospitalità della lingua 25

La lingua nemica 28

La gelosia delle lingue 30

La mutevolezza della lingua 32

Senza stile 36

Il profumo della pantera 40

Prigionieri del proprio linguaggio 44

Due racconti: Landolfi e Kosztolányi 46

Due vecchi bambini 51

Poetiche del caos 53

Esilio 56

108
Letteratura-mondo italiana 60

Falsi amici 64

L’interferenza 66

Ogni straniero a modo suo è un traduttore 69

Casi di autotraduzione 71

Le parole sulla punta della lingua 79

Identità e lingua nazionale 81

La lingua della morte 85

La lingua come proprietà 91

L’abbandono della lingua 93

La difficoltà di abbandonare la propria lingua 96

La lingua come difesa 99

La maternità della lingua II 104

109

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