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Semerari, Furio - Il Predone, Il Barbaro, Il Giardiniere. Il Tema Dell'altro in Nietzsche (LDB)
Semerari, Furio - Il Predone, Il Barbaro, Il Giardiniere. Il Tema Dell'altro in Nietzsche (LDB)
Furio Semerari (Bari 1952), ricercatore, insegna Storia della filosofia morale nell'Università di Bari.
Ha pubblicato i volumi: Potenza come diritto. Hobbes Locke Pascal (Bari 1992), La fine della
virtù. Gracian La Rochefoucauld La Bruyère (Bari 1993), Il gioco dei limiti. L’idea di esistenza in
Nietzsche (Bari 1993). Ha curato il volume collettivo Amore. Itinerari di un’idea (Fasano 1996). Ha
redatto numerose voci dedicate a filosofi italiani del Novecento per il Dictionnaire des philosophes
(Paris 1984). Ha tradotto e introdotto Retorica e filosofia di Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca
(Bari 1979).
“Predone”, “barbaro”, “giardiniere”. Con queste immagini Nietzsche rappresenta tre distinte
modalità di relazione con l'alterità: la relazione di appropriazione, per la quale l’uomo si appropria
deH’alterità, nutrendosene, la relazione di crudeltà, per la quale l’uomo persegue, in forma varia
e spesso mimetizzata, il male dell’altro; la relazione di cura, per la quale l’uomo assume come fine
della propria azione e del proprio sentimento il bene dell’altro. La prima relazione non è altro che la
stessa condizione di possibilità dell’esistenza: non si può vivere (ai vari livelli, elementari
o complessi, in cui l’esistenza può svolgersi) se non “prendendo” dal “tutto” di cui si è parte. Come
tale, questa relazione costituisce qualcosa di insuperabile per l’esistenza. La seconda relazione
riguarda, essenzialmente, il passato della storia dell’uomo, segnato, per aspetti fondamentali,
dal dispiegarsi di una volontà di male (legata a una volontà di dominio) dell’uomo nei confronti
dell’altro uomo. La terza relazione riguarda, invece, soprattutto, il futuro della storia dell’uomo: un
futuro da costruire, in alternativa al passato barbarico di questa medesima storia.
FURIO SEMERARI
IL PREDONE, IL BARBARO, IL
GIARDINIERE
IL TEMA DELL’ALTRO IN NIETZSCHE
EDIZIONI DEDALO
In copertina: Jusepe de Ribera, Dioniso-Bacco, 1635, olio su tela. Museo del Prado, Madrid.
Volume pubblicato con il contributo della Fondazione Caripuglia Università degli Studi di Bari.
2000 Edizioni Dedalo srl, Bari
www.edizionidedalo.it
Introduzione
“Predone” e “giardiniere” sono due immagini, alle quali, in un frammento del 1881, Nietzsche
ricorre per rappresentare due diverse modalità del rapporto con gli altri. Con l’immagine
del “barbaro”, cui fa riferimento in un aforisma dell’opera dello stesso anno Aurora, egli individua
un’ulteriore modalità di relazione con l’altro.
Quelle indicate dalle immagini del predone, del giardiniere e del barbaro costituiscono, nell’analisi
nietzscheana, tre modalità fondamentali di relazione con l’altro: o perché costituiscono una
condizione generale dell’esistenza dell’uomo (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del
predone) o perché caratterizzano, in maniera decisiva, la storia passata dell’uomo (è il caso della
relazione con l’altro nella modalità del barbaro) o perché esprimono il progetto di un uomo diverso
da quello del passato (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del giardiniere).
Ma che cosa significano le immagini del predone, del giardiniere e del barbaro ovvero quali sono e
che cosa sono le modalità di relazione con l’altro che esse, rispettivamente, stanno a simboleggiare?
Per rispondere a questa domanda, prendiamo innanzitutto in esame le immagini del predone e del
giardiniere che compaiono nel frammento del 1881.
Il predone è colui il quale, in vista di qualche fine che riguarda lui soltanto, si rapporta agli altri
appropriandosi di quel che gli
altri hanno o sono. Il giardiniere è, invece, colui il quale si rapporta agli altri prendendosi cura di
loro e vivendo nella gioia di questo prendersi cura1.
Così definiti, i due termini sembrerebbero indicare due modalità di rapporto con l’altro,
rispettivamente, per l’altro, negativa e positiva: nel primo caso, l’altro è espropriato di qualcosa,
nel secondo, l’altro è fatto oggetto di cura.
Ma, per quanto riguarda, in particolare, il rapportarsi agli altri nel modo della appropriazione, si può
subito osservare che le cose, per Nietzsche, non stanno proprio o solo nei termini indicali. Si tratta
di capire, qui, che cosa Nietzsche intende, in questo caso, per ‘appropriazione’. Può anche darsi che,
per lui, vi sia la possibilità di una appropriazione, che non significa contemporaneamente
espropriazione e che non si traduce, dunque, in un danno per colui o per ciò da cui qualcosa si
prende.
L’idea, che la immagine del predone esprime, è che l’uomo non costruisce autonomamente e
autarchicamente la propria esistenza e la propria identità, che sono, invece, il risultato di una serie
di appropriazioni o «furti», che egli realizza nei confronti del «tutto», di cui è parte. L’uomo
costruisce la propria esistenza e la propria identità, prendendo dal mondo quel che il mondo offre
in termini non solo di beni materiali, ma anche di possibilità di conoscenza, di esperienza.
Appropriazione del mondo è, infatti, in Nietzsche, anche la conoscenza e, in generale, la esperienza
che del mondo si riesce a realizzare.
Da questo punto di vista, ogni uomo è ‘predone’ in quanto, per esistere (anche ai livelli più
elementari), non può fare a meno di ‘prendere’ da ciò che è ‘fuori’ di lui, da ciò che non è egli
stesso. Il termine non ha una connotazione di valore negativa, ma esprime semplicemente la
condizione di possibilità dell’esistenza e della costruzione di identità di ciascuno. E' in senso
figurato che qui Nietzsche parla dell’uomo come «predone» o come «ladro» e delle sue
appropriazioni come «furti»2.
La definizione dell’uomo come predone esprime, così, il riconoscimento della natura finita
dell’uomo, che non è un essere autosufficiente e che, nella sua possibilità d’essere e per
l’appagamento delle proprie esigenze, dipende dall’altro (dagli altri uomini, dalla natura), da cui
deve prendere ciò che gli serve per esistere e definirsi nella propria identità individuale.
Viene così affermato, con riferimento al mondo dell’uomo, il principio di relazione, per il quale la
relazione dell’io con la alterità rappresenta la condizione della esistenza e della identità di ciascun
io. È la affermazione di una concezione antiatomistica e antiindividualistica dell’individuo umano,
visto come punto di convergenza di una serie di relazioni (di appropriazione) con la totalità (tutto
ciò che è altro da sé), nella quale egli è compreso.
2. Ma vi sono modalità e finalità diverse, con le quali l’io può prendere dal «tutto», prendere da
tutto ciò che è altro da sé.
a) Vi è, innanzitutto, un prendere che mira a soddisfare un bisogno, mai appagato e sempre
risorgente e crescente, di arricchimento della propria conoscenza ed esperienza personali. È, questo,
il prendere proprio di un io essenzialmente interessato ad ampliare e rinnovare il proprio rapporto
con la alterità, di un io che non accetta di rimanere chiuso in se stesso nella forma una volta
raggiunta (e definitasi, in ogni caso, nel rapporto con la alterità, perché, fuori della relazione, non
c’è esistenza: ciascun ente non è che una «somma di relazioni»3 non solo al proprio interno, ma
anche con il proprio esterno), ma mette in discussione la propria già definita identità, è disposto ad
alterare, nel rapporto con la alterità, il proprio essere, vuole, nel e dal rapporto con la alterità, una
crescita, un potenziamento del proprio essere.
b) Vi è, poi, un prendere che è proprio di chi, più che altro, mira a perpetuare se stesso nella
forma già raggiunta del proprio essere, al livello di esistenza già conseguito. E', questo, il bisogno di
un io sostanzialmente chiuso al rapporto con la alterità, indifferente verso di essa o timoroso e in
cerca di protezione nei suoi confronti.
Vi è, quindi, da un lato, a) un prendere che mira ad alterare/ incrementare l’essere di chi prende,
dall’altro, b) un prendere che mira a conservare l’essere di chi prende in quel che esso già è.
Vi è, così, un prendere, che rende ricco colui che prende, e vi è un prendere, che lascia povero
(ossia al livello e alla forma di esistenza già raggiunti) colui che prende.
Ma, nel prendere, ricco diventa, poi, chi, in un altro senso, ricco già è: ricco di forza capace di
sostenere un rapporto autentico con la alterità, un rapporto che, se è autentico, si presenta come
problematico, difficile, perché implica una messa in discussione delle proprie convinzioni, del
proprio costume di vita, delle proprie abitudini mentali. Ricco perché dotato della capacità
di lasciarsi alterare e di arricchirsi.
Nel prendere, povero (ovvero, come si è detto, al livello e alla forma di esistenza già raggiunti)
rimane, invece, colui che, in un altro senso, povero già è: povero perché privo della volontà e
della forza di rapportarsi in maniera autentica alla alterità, ossia non disposto a lasciarsi
eventualmente alterare dal rapporto con essa, povero perché sprovvisto della capacità di arricchirsi
grazie al rapporto con la alterità.
La relazione di alterità, nella quale l’io è autenticamente aperto nei confronti di quel che l’alterità è
e non tenta di nasconderla, nella sua realtà, a se stesso evitando semplicemente di vederla o ad essa
sovrapponendo propri schemi interpretativi che ne annullano o svalutano la particolarità - la
relazione di alterità, che, come si è detto, mira all’arricchimento dell’io -, implica che l’io sia
disposto a conoscere la alterità in se stessa, in questo senso a ospitarla, come Nietzsche scrive, per
quel che essa è, dentro se stesso, a farle posto nella propria coscienza. Ma, per conoscere l’alterità
in quanto e nella misura in cui l’alterità rappresenta qualcosa di sconosciuto, di mai visto, per
riuscire, come Nietzsche scrive a proposito di una musica che non abbiamo mai ascoltato, a
sopportarla e, infine, anche ad amarla, a ad averne l’abitudine, ad avere «il presentimento che ne
sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più», occorre l’esercizio di una serie di qualità: pazienza,
umiltà, benevolenza, buona volontà, equità, mitezza d’animo. Alla fine, la musica estranea - come
qualsiasi altra cosa estranea - «lentamente [...] depone il suo velo e si manifesta come una nuova
inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità»4. Se non si vuole
essere esclusi dalle «più belle eventualità dell’anima», se queste eventualità si vuole conoscere,
apprezzare, amare, occorre «perderci per qualche tempo», occorre smettere di essere i guardiani
della nostra «rocca»5, occorre mettere da parte i nostri sistemi di difesa, occorre che, per qualche
tempo, il soggetto si perda e lasci avanzare verso di sé l’oggetto, occorre che perda
l’«autocontrollo» come «forma di timore per tutte le intromissioni estranee»6.
Alla relazione di alterità, in quanto e nella misura in cui è relazione con qualcosa di sconosciuto,
ignoto, si addice il termine «esperimento», che è il termine che Nietzsche adopera per rappresentare
la vita nella condizione della «grande salute», alla quale perviene l’uomo nel suo processo di
liberazione: a questo stadio, si vive ormai «per esperimento»7. Esperimento, infatti, è relazione con
l’ignoto. Non si fanno esperimenti su ciò che è noto (o si pensa che sia noto). Lo sperimentare
riguarda ciò che non si conosce, il nuovo (nuovo per colui che sperimenta), l’altro nel senso di
sconosciuto. Ma è da notare che - ciò è stato sottolineato da Nietzsche - un tale altro, cioè l’ignoto,
risiede, per ciascuno, anche in se stesso: vi sono parti dell’essere dell’uomo, e sono probabilmente
le più profonde e decisive, che rimangono a lui, almeno generalmente, sconosciute.
3. È possibile identificare un’altra differenza, in Nietzsche, riguardo alle modalità e alle finalità del
prendere.
a) Vi è un prendere, che prende dominando/distruggendo la varie figure della alterità, dalle quali, di
volta in volta, si prende: è il prendere, di cui sono oggetto, vittime, coloro che sono stati
educad ad «essere quotidianamente usati» e che sono, in effetti, «quotidianamente utilizzati» e
alienati da se stessi, come accade ai «poveri animali da tiro» dei lavoratori di «un secolo
stremato dal troppo lavoro» (il secolo di Nietzsche)8, o coloro che, in generale, sono variamente
asserviti nell’esercizio di funzioni da parte e per conto di altri (comunità, sovrani, capi di partito,
fondatori di religione, ecc.)9.
b) Vi è un prendere, che prende rispettando/conservando l'essere proprio di ciò da cui si prende.
Siamo, in fondo, in questo caso, di nuovo nella situazione precedentemente delineata a proposito
del prendere proprio di colui il quale mira a un personale arricchimento in termini di conoscenza e
di esperienza della alterità: è la situazione di colui il quale si rapporta alla alterità non chiudendosi
nella propria «rocca», ma ‘perdendosi’ a se stesso nell’oggetto (nella alterità), lasciando essere e
ospitando dentro di sé l’oggetto.
In generale, quale che sia la forma che assume, la relazione di alterità orientata verso il prendere è la
relazione nutrizionale di alterità nel senso che, attraverso di essa, l’io nutre se stesso: la alterità è,
qui, fonte e mezzo di nutrimento dell’io. La alterità non è, qui, necessariamente il o un fine dell’io e
Nietzsche può dire che, nella relazione appropriativa, grazie alla quale noi nutriamo noi stessi, noi
«non pensiamo agli altri»10, di cui ci nutriamo: non pensiamo agli altri, ovvero non assumiamo
necessariamente gli altri come il fine o un fine (né in senso positivo né in senso negativo) delle
nostre azioni.
4. È nella relazione di alterità, simboleggiata dalla immagine del giardiniere, che l'altro è assunto,
invece, come fine della azione dell’io. Più precisamente, Taltro diventa, qui, oggetto di una cura da
parte dell’io: l’io si prende cura dell’altro e del suo bene. È il caso di colui che ama ossia
comprende Taltro in quello che
è e gioisce perché l’altro è quello che è; di colui che gioisce per la gioia dell’altro; di colui che, pur
vicinissimo nel cuore all’amico, per il bene dell’amico gli si oppone, nel caso, con tutte le sue forze;
di colui che nasconde la propria sofferenza dinanzi all’amico, per il quale essa potrebbe risultare
dannosa; di colui che, avendo scoperto verità, il cui peso potrebbe non essere sopportato dall’altro,
all’altro le verità scoperte non rivela; di colui che fraternizza e non diventa il rivale dei grandi
spiriti; di colui che, senza nulla chiedere in cambio, dona se stesso al prossimo facendosi ascolto e
rifugio per le sue sofferenze; di colui che, in generale, dona, senza nulla volere in cambio; di colui,
ancora, che dona, nel suo donare rimanendo nascosto.
Giardiniere vuol dire cura dell’altro, assunzione dell’altro come oggetto della propria cura, ma vuol
dire anche, appunto, cura. E cura vuol dire esercizio di determinate qualità in rapporto a un
determinato oggetto (l’oggetto della cura): attenzione, pazienza, costanza, perseveranza, misura,
metodo, in definitiva, disciplina. Si ha a cuore l’altro e l’avere a cuore l’altro prende la forma della
cura. Questo modo di occuparsi dell’altro può essere visto come segno della intensità del
sentimento con cui all’altro si tiene.
Nietzsche parla di cura non solo in rapporto all’altro, ma anche in rapporto a se stessi. Se predoni si
è nei confronti degli altri, giardinieri si può essere nei confronti non solo degli altri, ma anche di se
stessi. Non a caso la immagine del giardiniere ricompare, in Nietzsche, anche con riferimento al
rapporto di cura con se stessi. In un frammento del 1880, parlando proprio di se stesso, Nietzsche
scrive di poter trattare se stesso «come un giardiniere tratta le sue piante», ossia favorendo o
lasciando inaridire, a seconda dei casi, questa o quella tendenza del proprio essere11. L’io ha da
assumere se stesso come oggetto di cura, come oggetto, dunque, non di un interesse
superficiale, occasionale, casuale - che è forse l’atteggiamento di chi, in
accordo inconsapevole e involontario con una certa tradizione morale, pensa di doversi occupare,
rigorosamente, solo dell’altro da sé e non anche di se stesso - ma di un interesse metodico, costante,
che è l’atteggiamento di chi pensa che il proprio io ha diritto a una esistenza il più possibile felice.
Nietzsche indica proprio nella felicità lo scopo e l’effetto della cura di sé. Contro una certa
tradizione, che ha considerato colpevole l’occuparsi di se stessi, egli stabilisce la legittimità del dare
spazio a se stessi, ai propri bisogni, alle proprie inclinazioni e questo dare spazio deve per lui
assumere il carattere della cura. L’uomo deve saper essere giardiniere di se stesso, considerare se
stesso, anche se stesso, come un giardino da curare.
Cura di sé è, d’altra parte, cura delle cose a noi più vicine: una cura, questa, che presuppone la
rivalutazione, contro una determinata tradizione, delle cose a noi più vicine, che costituiscono anche
il campo di «ciò che è più piccolo e ordinario»12. Si tratta di sapere «che cosa ci fa bene e che cosa
ci fa male nell’impianto della condotta di vita, nella ripartizione del giorno e del tempo e nella
scelta dei rapporti sociali, nella professione e nel tempo libero, nel comandare e nell’obbedire, nel
sentire la natura e l’arte, nel mangiare e nel dormire e nel pensare»13. Si tratta di sapere tutto questo
e di agire di conseguenza su se stessi: in questo sapere e nella azione ad esso ispirata è la cura
dell’uomo verso se stesso.
La cura, sia quella rivolta a se stessi sia quella rivolta all’altro, ha a che fare con il tempo, con il
tempo come durata. Per essere efficace, qualsiasi intervento, con cui si provvede a se stessi o
all’altro, deve potersi svolgere nella continuità di un certo tempo, lungo il quale sia possibile
determinare, poco alla volta, quei cambiamenti, quegli aggiustamenti, quel disciplinamento che, alla
fine, producono risultati di qualche significato e rilevanza. Il problema della cura di sé o dell’altro è
il problema delle
«terapie lente»14 o della terapia delle «piccole dosi»15. Nietzsche non crede a risultati improvvisi
significativi: il risultato significativo - può trattarsi, al limite, di un cambiamento radicale
della propria personalità - è il risultato finale di una serie di piccoli interventi che si succedono e
sommano l’un l’altro nel tempo e nel tempo si consolidano.
Per quel che sinora si è visto, la relazione di alterità in Nietzsche si muove tra i poli che il Nietzsche
più legato al linguaggio della fisiologia esprime, rispettivamente, come «istinti di nutrizione
(avidità)» e «istinti di espulsione (amore)»16 o «assimilazione» e «secrezione ed escrezione»17.
5. Ma, oltre la relazione di alterità nel modo del predone, oltre la relazione di alterità nel modo del
giardiniere, il testo nietzscheano identifica e prende in esame un terzo tipo della relazione di alterità:
la relazione di alterità ispirata alla volontà del male. Per rappresentare questo tipo di relazione di
alterità Nietzsche si serve della immagine del “barbaro” come immagine di colui che fa soffrire
l’altro, che vuole il male dell’altro18. Predone, giardiniere e barbaro identificano, così, tre
tipi differenti di relazione dell’io con la alterità: la relazione di nutrimento (o nutrizionale), la
relazione di cura, la relazione di crudeltà.
La relazione di alterità nel modo del barbaro è opposta, per un aspetto, alla relazione di alterità nel
modo del giardiniere: nel primo caso si persegue il fine del male dell’altro, nel secondo si persegue
il fine del bene dell’altro. Ma i due tipi di relazioni sono, per un altro aspetto, vicini in quanto in
entrambi, sia pure in maniera opposta, l’altro diventa un fine della azione dell’io, a differenza di
quel che accade nella relazione nutrizionale di alterità,
nella quale l’io, che dell’altro si nutre, è indifferente all’altro di cui si nutre o all’altro in generale
(nella relazione nutrizionale di alterità, «noi non pensiamo agli altri», né nel bene né nel male, non
perseguiamo né il fine del bene né il fine del male dell’altro). D’altea parte, la relazione di alterità
ispirata alla volontà del male, se lontana dalla relazione nutrizionale di alterità, la prima assumendo,
a differenza della seconda, l’altro come fine della propria azione (sia pure per fargli del male), è ad
essa vicina per il fatto che essa mostra di avere a cuore, come la relazione nutrizionale di alterità,
solo il bene dell’io che all’altro si rapporta.
Secondo Nietzsche, la relazione di alterità è stata spesso il luogo di esercizio di una volontà del
male da parte dell’uomo: di più, la volontà del male ha rappresentato un (se non il) fondamento
della storia dell’uomo dai primordi sino ad oggi. La volontà del male è la chiave di spiegazione di
molti comportamenti prodotti dall’uomo sino ad oggi, anche, molto spesso, di comportamenti
apparentemente opposti o molto distanti dalla volontà del male: la volontà del male si è spesso
mimetizzata dietro forme ad essa opposte. La volontà del male, quale si è storicamente manifestata,
risulta, inoltre, legata, nella analisi nietzscheana, alla volontà di dominio: essa è stata una forma
particolare della volontà di dominio (la volontà del male appare, così, in realtà a sua volta fondata
nella volontà di dominio). La volontà del male risulta, dunque, legata, a quella volontà che, lo si è
detto, ispira anche un certo modo del «prendere», un modo particolare attraverso il quale l’io prende
dalla alterità per le proprie finalità nutritive. Uno dei capitoli del presente volume prende in esame
la analisi nietzscheana della volontà del male in quanto fondamento della storia dell’uomo nella
molteplicità delle forme che tale volontà ha storicamente assunto e nella connessione che essa
presenta con la volontà di dominio.
7. Le pagine di questo libro ricostruiscono e analizzano le tee modalità di rapporto con l’altro
indicate, in Nietzsche, rispettivamente, dalle immagini del predone, del barbaro e del
giardiniere. Qual è l’atteggiamento del filosofo verso ciascuna di queste modalità di rapporto con
l’altro?
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del predone, Nietzsche,
innanzitutto, ne prende atto come di una condizione generale di possibilità di esistenza per l’uomo,
ma, in secondo luogo, propone una certa versione, una certa interpretazione di tale modalità di
rapporto con l’altro: la versione per la quale a) si prende dall’altro al fine di un arricchimento
personale e non della semplice perpetuazione del proprio essere nella forma da esso una volta già
raggiunta, e, inoltre, b) si prende dall’altro senza alienare l’altro rispetto al suo essere e alla sua
libertà.
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del barbaro, l’atteggiamento di
Nietzsche è quello della critica e del progetto di superamento di tale modalità e, da questo punto di
vista, il discorso nietzscheano concerne, qui, il futuro dell’uomo. Tale modalità, infatti, è quella che
risulta dalla ricostruzione genealogica della storia dell’uomo dai primordi sino ai nostri giorni:
lungo questa storia, l’uomo si è rapportato all’altro guidato da una fondamentale volontà di male. Il
persistere, ancor oggi, di tale modalità di rapporto fra gli uomini è il segno di una «arretratezza»
dell’uomo. Non si tratta di eliminare ogni sofferenza dal mondo, perché la sofferenza è condizione,
passaggio necessario di ogni lavoro significativo dell’uomo su se stesso, ma di eliminare dal mondo
- dalla relazione con l’altro - la volontà del male fine a se stessa.
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del giardiniere, Nietzsche non
tanto ne prende atto come di un dato (o di un dato comune o frequente) della realtà quanto la
propone in alternativa a quel che (o a quel che comunemente o frequentemente) la realtà presenta.
Ciò che la realtà (passata e presente) dell’uomo mostra è, infatti, semmai, l’opposto di quel che si
avanza attraverso la idea del giardiniere, ossia l’opposto dell’atteggiamento di cura verso l’altro: è il
rapportarsi all’altro ispirato alla volontà del male o, in generale, alla volontà di dominio. La
modalità di rapporto con l’altro, rappresentata dalla immagine del giardiniere, è una modalità che
concerne ciò che non c’è ancora più che ciò che c’è stato e c’è tuttora, concerne il futuro da
costruire dell’uomo più che il suo passato o il suo presente. Il richiamo alla presenza, in Nietzsche,
della modalità di rapporto, indicata dalla immagine del giardiniere, vuole avere anche e soprattutto
il senso di un tentativo di problematizzazione della idea, che a volte se non generalmente si è
sostenuta, della filosofia di Nietzsche come filosofia di un assoluto individualismo. Si è voluto qui
vedere e verificare se il testo nietzscheano non offra anche qualcosa di diverso e di contrastante
rispetto a tale idea.
8. Un cenno, infine, sulla articolazione dei capitoli, di cui si compone il libro.
Il primo capitolo cerca di chiarire, da un lato, il problema della cura di sé in Nietzsche sotto il
riguardo e della sua legittimità e finalità e della sua interna articolazione, e, dall’altro, la
questione della relazione di alterità, che viene considerata, qui, sia nel suo significato di relazione
nutrizionale di alterità sia nel suo significato di relazione di cura nei confronti dell’altro. Cura di sé
e cura dell’altro sono atteggiamenti e pratiche esistenziali distinti, ma non necessariamente l’un
l’altro escludentisi, perché, anzi, una cura efficace dell’altro ha, come sua condizione, una cura
efficace di sé. D’altra parte, la cura di sé ha in ogni caso bisogno del nutrimento che solo l’altro può
dare: anche vedendo la questione da un lato puramente egoistico, la cura di sé implica sempre
qualche forma di cura dell’altro, di quell'altro del quale ci si deve nutrire.
I capitoli secondo, terzo e quarto riprendono e approfondiscono il problema della relazione di
alterità nei due sensi in cui se ne occupa il capitolo primo: relazione nutrizionale (capitolo secondo)
e relazione di cura (capitoli terzo e quarto).
II secondo capitolo sviluppa il tema della relazione nutrizionale di alterità attraverso la analisi
della metafora del «viaggio» (come rapporto dell’uomo con la alterità) nella sua
connessione dialettica con la metafora della «dimora» (come rapporto dell’uomo con l’identico).
Il capitolo terzo prende in esame la posizione nietzscheana sull’amore-passione. Anche attraverso la
critica, che Nietzsche rivolge a questa forma di amore (l’amore-passione è legato, per un verso, alla
volontà di dominio, per l’altro, alla negazione e alla perdita della propria identità e libertà), emerge
il concetto nietzscheano di amore come rispetto, comprensione e gioia per la differenza che l’altro
(l’oggetto di amore) è rispetto a se stessi.
Il capitolo quarto illustra la relazione di amicizia, alla quale Nietzsche attribuisce il significato di
una relazione di alterità speciale, in cui l’uomo realizza le proprie migliori possibilità, come la
capacità di donare, il rispetto della propria libertà e identità nel rispetto della libertà e della identità
dell’altro, la volontà di perseguire un progetto riguardante l'altro e il suo bene al di là dei cedimenti
tanto del proprio egoismo quanto della propria compassione.
Il capitolo quinto affronta il problema della volontà del male relativamente al significato e al ruolo,
fondamentali, che, secondo Nietzsche, tale volontà ha avuto all'intemo delle comunità umane e
dell’esistenza individuale, e alla fenomenologia estremamente varia che, per Nietzsche, essa ha
storicamente manifestato.
Il capitolo sesto, nel quadro di un esame relativo ai motivi di attualità della riflessione nietzschena,
sottolinea il concetto nietzscheano della vita come esperienza (la cui possibilità è entrata in crisi
nella età moderna per il velocizzarsi della vita dell’uomo per il quale l’uomo vive in una condizione
di essenziale impressionabilità e superficialità), anzi come esperimento, ossia il concetto della vita
come rapporto particolare (fondato su un disciplinamento dell’azione e delle pulsioni) con l’alterità
(l’esperimento è rapporto con la alterità, con ciò che non si è do non si conosce); la osservazione
nietzschena relativa alla sofferenza come passaggio necessario per la costruzione, per sé e per gli
altri, di qualcosa di significativo; la necessità, che Nietzsche sostiene, che ciascuno possa affermare,
pur nel rapporto dialettico con l’altro, la propria particolare individualità, nel rispetto della quale
soltanto è, in ogni caso, la possibilità della propria felicità.
1 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[2].
2 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[174].
3 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 13[11].
4 Die fröhliche Wissenschaft, 334.
5 Ivi, 305.
6 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [182].
7 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 4.
8 Morgenröthe, 178.
9 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [303].
10 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[166].
11 Ivi, 7[30],
12 Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 6.
13 Ibidem.
14 Morgenröthe, 462.
15 Ivi, 534.
16 Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[179].
17 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [182],
18 Morgenröthe, 113.
Avvertenza. Alcune parti del presente volume sono già apparse in precedenti pubblicazioni.
Il capitolo secondo è stato pubblicato in «Paradigmi», 1995, 38, pp. 211-38.
Il capitolo terzo riproduce parte della Premessa e del paragrafo 2. 1 e i paragrafi 2.2 e 2.3 del saggio
Amore e alienzazione. L'amore-passione in Nietzsche e Proust, in F. Semerari (a cura di), Amore.
Itinerari di un’idea, Fasano 1996, Schena.
Il capitolo sesto è stato pubblicato in «Atti e Relazioni» della Accademia Pugliese delle Scienze
(Anni 1992/1993/1994), voi. XLIX.
A parte rari e limitati interventi a carattere integrativo o di natura formale, l'inserimento di richiami
interni agli altri scritti (editi e inediti) che compongono il volume e il cambiamento del sistema
formale delle citazioni, le parti già pubblicate sono qui riprodotte nella versione in cui
originariamente apparvero.
it., p. 148)
85 Ibidem (tr. it., p. 148).
[...]
E solo malvolentieri ho sempre chiesto le strade, - ciò è sempre stato contrario al mio gusto!
Preferivo interrogare e tentare le strade da solo
[...]
“Questa, insomma, è la mia strada - dov’è la vostra?”, così rispondo a quelli che da me vogliono
sapere “la strada”. Questa strada, infatti, non esiste!33
Non esiste una verità universale, esistono, invece, tante verità quanti sono i singoli esseri umani.
Non solo: la propria verità ciascuno non può che, alla fine, determinare da se stesso, anche andando,
magari, nel perseguimento di tale determinazione, su strade sbagliate. Come non esiste la verità
(una verità uguale per tutti e verso la quale tutti si muovono o dovrebbero muoversi) così non esiste
la strada (una strada uguale per tutti e che tutti percorrono o dovrebbero percorrere). Che ciascuno
abbia una sua verità e una sua strada per arrivarvi, e che tale strada egli solo possa stabilire - ciò
pone il problema dell’individuo in Nietzsche come problema della rivendicazione a ciascun uomo
della possibilità di essere se stesso cioè di definire, nei modi che sono suoi propri e diversi da quelli
di chiunque altro, la propria esistenza.
3. Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi impossibili (fra Nietzsche e Jankélévitch)
Chi viaggia si dirige verso un luogo, ma ciò fa a partire da un altro luogo, abbandonando un altro
luogo. Per usare i termini nietzscheani, chi viaggia dimentica34 il luogo presso il quale, per un certo
tempo, egli è stato. Ma, a volte, il ricordo del luogo, presso il quale per qualche tempo è stato, è
qualcosa di difficile o doloroso da superare per l’uomo. Infatti l’abbandono di una abitudine (come
lo stare per un certo tempo presso l’identico) significa rinuncia a quel poco o tanto di comodità,
tranquillità, sicurezza, consumo relativo di forza, che il seguire una abitudine finisce, generalmente,
ai vari livelli, per portare con sé. L’abbandono
dell’identico può essere, in particolare, abbandono di situazioni e rapporti affettivi che nel tempo si
sono venuti stabilendo e dai quali può essere comunque particolarmente doloroso distaccarsi. E'
forse pensando a situazioni e rapporti di questo tipo che Nietzsche fa dire a Zarathustra:
Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore35.
Viene qui rappresentato un modo doloroso, traumatico di prendere congedo da qualcosa, ben
diverso da quello indicato nell’aforisma della Gaia scienza sulle brevi abitudini, nel quale del
proprio stesso successivo congedarsi dalle diverse brevi abitudini da lui via via vissute nel corso
della propria esistenza Nietzsche dice essere avvenuto «con dolcezza». Dopo la sofferenza
della separazione - in ogni caso - può accadere si determini una situazione più serena: ci si dedica
alla nuova esperienza, senza più pensare alla esperienza dalla quale ci si è congedati o almeno
senza che il pensiero di essa sia, per se stessi, fonte di sofferenza. Può darsi che ci si lasci
coinvolgere in maniera piena sul piano emotivo e intellettuale dalla nuova realtà. È questo il caso
stesso di Nietzsche che - nella misura in cui le parole di Zarathustra, prima riferite, esprimono lo
stesso pensiero di Nietzsche - può anche aver conosciuto, al momento del congedo, le «mille ferite
che trafiggono il cuore», ma poi, come si è visto, ha saputo vivere la nuova realtà in modo da
rimanerne - finché la viveva - totalmente appagato. Può darsi, dunque, che si determini questa
situazione. Ma può anche darsi che si rimanga legati a ciò da cui pure - per i più diversi motivi - si
prende congedo. Può darsi che la ferita della separazione non si rimargini, e che non si rimargini
perché si continua a rimanere legati a ciò da cui ci si separati. In casi del genere non si prende
veramente congedo. Ci si allontana da qualcosa solo formalmente: spiritualmente si continua a
rimanervi
legati. È questo il caso della nostalgia, della sofferenza per il ritorno, per il mancato ritorno, per il
mancato e desiderato ritorno a ciò da cui un giorno si è partiti. Ha scritto Jankélévitch:
Il nostalgico è contemporaneamente qui e là, né qui né là, presente e assente, due volte presente e
due volte assente; si può quindi dire indifferentemente che è multipresente o che non è da nessuna
parte: proprio qui è fisicamente presente, ma si sente assente in ispirito da questo luogo in cui è
presente nella carne; là, invece, si sente presente moralmente, ma in realtà e attualmente è assente
da quei luoghi cari che ha un tempo lasciato. L’esule ha così una doppia vita, e la sua seconda vita,
che fu un giorno la prima e forse tornerà a esserlo un giorno, è come inscritta in sovrimpressione
sulla vita banale e tumultuosa dell’azione quotidiana; l’esiliato tende l’orecchio per percepire il
pianissimo delle voci interiori attraverso il chiasso tumultuoso della strada, della Borsa e del
mercato36.
E anche Jankélévitch - come il Nietzsche dello Zarathustra -parla della sofferenza della
separazione, del «crudele e tenero dolore con cui si apre il lungo periodo dell’assenza», della
«lacerante tragedia che patetizza l’esistenza e in cui tutto si dice, si fa, avviene per l’ultima volta -
un’ ultima volta, e poi mai più. Amare, dolci lacrime dell’Addio!», del «partente, che a volte è
un po’ masochista» e «fa del male a se stesso lasciando i luoghi e le persone care»37. Jankélévitch
spiega il «carattere lacerante delle separazioni» con «la finitezza e l’insufficienza
dell’essere umano», che, proprio perché essere finito, non ha il «dono dell’ubiquità»38, non può
stare che o qui o lì e non qui e lì contemporaneamente. D’altra parte viene anche osservato che la
nostalgia si definisce in rapporto non tanto alla dimensione spaziale quanto alla dimensione
temporale. Oggetto della nostalgia non è un luogo particolare del nostro passato, ma il nostro
passato in quanto tale, il nostro esser stati: oggetto della nostalgia la è «pas-
satità»39. La nostalgia vuol tornare indietro nel tempo. Ma così essa si scontra con la «irreversibilità
del tempo»: in quanto desiderio impossibile di tornare indietro nel tempo, la nostalgia è destinata a
rimanere inappagata, la malattia, che essa è, è «incurabile», della sua «inquietudine» -
«irrimediabile» - non si guarisce «col ritorno al paese natio»40. Se, per quel che riguarda lo spazio,
«l’onnipresenza è impossibile, ma tutti i movimenti sono reversibili», per quel che riguarda il tempo
le cose stanno diversamente: «come non si può essere insieme qui e altrove, così non si può essere
insieme essere ed esser stato, essere adulto e giovane, accaparrarsi tutto e non mollare niente, come
un avaro; ma oltre a ciò (e non era questo il caso degli spostamenti nello spazio) la reversione
cronologica è inconcepibile»41. D’altra parte, che gli stessi movimenti nello spazio siano reversibili,
ciò, per Jankéléviteh, è da intendersi solo in senso approssimativo perché si dà una «interferenza del
tempo e dello spazio» e «la temporalità inglobante pervade il movimento stesso»:
«l’irreversibilità temporale impedisce al ritorno spaziale di ripiegare esattamente sul suo punto di
partenza»42. A rigore, il punto di partenza, dal quale una volta ci si è allontanati e al quale dopo un
certo tempo si ritorna, in questo stesso tempo è cambiato: non si toma mai nello stesso luogo da cui
si è partiti. Del resto, anche chi toma non è più esattamente lo stesso di chi è partito.
Due vite sono compresenti, dunque, nel nostalgico, e sia pure in un rapporto di reciproca
opposizione ed esclusione, e per quanto l’una sia una vita solo sognata, rappresentata, l’altra la vita
realmente vissuta. A fronte della esistenza doppia del nostalgico, della compresenza, in lui, di due
esistenze diverse c’è - si potrebbe qui osservare - l’esistenza nietzscheanamente intesa che si
presenta, invece, come successione nel tempo (rimandiamo alla immagine di Jankéléviteh della
pluralità delle vite) di esistenze diverse, cia-
scuna delle quali prende successivamente il posto dell’altra, vivendo per se stessa senza nostalgia
per quella che l’ha preceduta. A questo punto, però, si potrebbe porre, per quel che
riguarda Nietzsche, la seguente domanda: il progetto di vivere i diversi momenti della propria
esistenza in modo tale - come si legge nell’aforisma 341 della Gaia scienza - da volerne l’eterna
ripetizione43, l’eterno ritorno, non potrebbe essere un progetto nostalgico? La teoria dell’«eterno
ritorno» (intesa come tale progetto, e non nell’altro significato, che pure ha in Nietzsche, cioè come
teoria che, partendo dalla ipotesi che «la misura della forza del cosmo» sia «determinata» e il tempo
invece infinito, afferma che le stesse configurazioni di tale forza, che una volta sono state, non
possono - in un tempo infinito - che infinitamente ripetersi44), che l’aforisma della Gaia scienza di
fatto preannuncia e tematizza, è una teoria della nostalgia? Si direbbe che, in realtà, le cose stanno,
per Nietzsche, esattamente all’opposto. Quando dice che i diversi momenti della propria esistenza
vanno vissuti in modo tale da volerne l’eterno ritorno, Nietzsche sta indicando soltanto, appunto, il
modo in cui i diversi momenti della propria esistenza andrebbero vissuti. Se si arriva a volere il
ritorno, anzi l’eterno ritorno, di ciò che si vissuto, ciò è il segno che la propria esistenza è stata
vissuta, nella sua attualità, in un modo, per se stessi, del tutto positivo. Con il riferimento al
desiderio dell’eterno ritorno del passato, Nietzsche vuol dire proprio solo questo: che il presente va
vissuto in modo tale da restarne pienamente soddisfatti. Ma ciò significa che il presente - ciascun
momento della propria esistenza - va vissuto non guardando, nostalgicamente, al passato (poiché
nel passato soltanto starebbe la propria verità) né, d’altra parte, utopisticamente proiettandosi nel
futuro (poiché nel futuro soltanto starebbe la propria verità)45.
Può essere doloroso - si è detto - allontanarsi da ciò presso cui, per qualche tempo, si è stati. D’altra
parte, si può rimanere fissati a una sofferenza subita: vi sono ferite - Nietzsche osserva - dalle quali
alcuni non riescono più a riprendersi46. Qui la sofferenza non è più (necessariamente) l’effetto
dell’abbandono (magari obbligato) di una abitudine, ma è abitudine essa stessa: è la sofferenza che
qui diventa quell’identico, presso il quale si sta e che non si riesce a dimenticare. Cercare di
dimenticare la sofferenza aggiungerebbe solo altra sofferenza a quella che già c’è. In questo caso,
così come in quello delle abitudini legate al valore della comodità o della sicurezza, o in quello
delle abitudini affettive, il dimenticare è, per Nietzsche, una questione di forza, riguarda la capacità
di sopportare e superare la problematicità o la sofferenza di determinate situazioni o degli effetti di
determinate situazioni. Ciò vale - si potrebbe osservare - non solo o non tanto allorché si dimentica
per un desiderio di nulla, per il desiderio di non sentire, non sapere più nulla riguardo a una certa
realtà, per il desiderio di sospendersi nel vuoto che dentro di sé così si determina (in questo caso
può essere in gioco la debolezza più che la forza dell’uomo o, in ogni caso, la forza ma anche la
debolezza) quanto allorché si dimentica per - come dice Nietzsche - fare posto al nuovo, cioè per
riorganizzare il proprio essere su nuove basi, quelle che l'incontro con la alterità determina. Ma il
viandante nietzscheano ha un atteggiamento particolare nei confronti del mutamento della propria
esistenza, della propria identità: c’è, nel viandante, «qualcosa di errante», che trova «la sua gioia
nel mutamento e nella transitorietà»47. È la presenza di questo elemento che consente al viandante
di superare gli aspetti di problematicità o di sofferenza che al mutamento sono o possono
essere comunque collegati. Del dimenticare Nietzsche ha scritto che non è una semplice qualità
negativa, un difetto, un limite della coscien-
za che non riesce a un certo momento ad avere più presenti a se stessa certi elementi che, nel
passato, le sono stati presenti: non indica, il dimenticare, solo quel fenomeno che si suole
considerare naturale e involontario e per il quale certi elementi scompaiono (almeno
provvisoriamente) dal campo della coscienza. Il dimenticare viene visto, invece, positivamente,
come capacità di chiudere con il passato per aprirsi al nuovo: di uscire dalla dimora in cui ci si è
chiusi e di muoversi in ciò che sta fuori di essa48. Dimenticare non è ancora necessariamente
viaggiare, cioè muoversi verso un luogo - diverso da quello presso il quale per un certo tempo si è
stati - con il quale stabilire un rapporto positivo di sperimentazione: come si è detto, si può
dimenticare una realtà per una motivazione solo negativa, solo per il desiderio di non avere più con
essa nessun rapporto. Se dimenticare non è ancora viaggiare, chi viaggia, tuttavia, dimentica. La
stessa idea, che esprime con il concetto del dimenticare, Nietzsche illustra con il concetto di
infedeltà o tradimento: «noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà, abbandonare
sempre di nuovo i nostri ideali»49, dobbiamo diventare i «nobili traditori di tutte le cose che in
genere si possono tradire e tuttavia senza un sentimento di colpa»50.
Dimenticare il passato aprendosi al nuovo - dunque al divenire - è, per tutti, una operazione che - si
è visto - implica forza. Forza implica, d’altra parte, anche la operazione con la quale ci si tiene
fermi a una stessa realtà di cui si vuole approfondire l’esperienza: si tratta di saper non reagire a
stimoli che possono prodursi nel corso della esperienza e rispondendo ai quali ci si distoglierebbe
dallo svolgimento della esperienza stessa51. L’esistenza come dialettica di viaggio e dimora - il
dimenticare aprendosi al nuovo e il rimanere presso un oggetto approfondendone la espe-
rienza definiscono nel loro insieme appunto resistenza come dialettica di viaggio e dimora - è così
una manifestazione di forza dell’uomo. Il giudizio morale di condanna, che, secondo Nietzsche,
l’uomo debole generalmente esprime sulle manifestazioni di forza e su coloro che di tali
manifestazioni si rendono protagonisti, non può che intendersi esteso, allora, alla stessa esistenza
come dialettica di viaggio e dimora. Si possono a questo punto ricordare alcune osservazioni che
Hans Blumenbetg svolge nella sua indagine intorno alla navigazione e in particolare al naufragio
come metafore della esistenza. Tali osservazioni si riferiscono al modo in cui, nella storia della
cultura occidentale, a partire dalla Grecia antica, è stato spesso valutato l’andar per mare -possiamo
qui dire: il viaggiare - ossia come è stato valutato uno dei due elementi che costituiscono quella che
qui si è indicata come la dialettica nietzscheana dell’esistenza, appunto il viaggio (ma abbiamo visto
come questo elemento sia fondamentale, in Nietzsche, anche per comprendere l’altro elemento di
tale dialettica, cioè la dimora). Blumenberg nota come, nella storia della cultura occidentale, siano
registrabili prese di posizione critiche nei confronti dell’andar per mare, nel quale si è visto un gesto
di immodestia dell’uomo, il segno di una «avida visione di guadagni ottenuti con colpi di mano, di
un di più di quanto è ragionevolmente necessario (per il quale cervelli filosofici hanno facilmente
una formula in bocca), dell’opulenza e del lusso»52, una presuntuosa volontà di superamento dei
propri limiti (che lo legherebbero e confinerebbero alla terraferma), un atto di «empietà»53. In altri
termini, nella storia della cultura sono stati formulati giudizi morali di condanna nei confronti
dell’andar per mare - nei confronti del viaggiare, del movimento dalla identità alla alterità. Ci si
potrebbe chiedere chi, quale tipo
umano abbia potuto formulare un giudizio del genere. A questa domanda si potrebbe rispondere che
a formulare un tale giudizio è stato l’uomo debole di cui parla Nietzsche, l’uomo - come si è visto -
che soffre del mutamento, che considera reciprocamente incompatibili felicità e mutamento, che
tende all’essere, che non sa controllare le proprie reazioni agli stimoli (che non sa non reagire), che
pone, infine, il proprio livello di potenza come criterio universale di valutazione delle azioni
umane54, ad aver potuto esprimere sull'andar per mare un giudizio del genere indicato da
Blumenberg. Quella domanda è suscettibile, d’altra parte, anche di un’altra risposta, non in
contrasto con quella appena indicata. L’altra risposta fa riferimento alle esigenze di
autoconservazione e autoprotezione - da Nietzsche, come si è visto, richiamate - delle comunità
umane, le quali contano, in funzione di tali esigenze, sulla prevedibilità dei comportamenti
individuali che devono, a tal fine, rimanere nel tempo autoidentici.
4. Quando, stando a casa propria, si è fuori di sé
Rappresentando, nella Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano, il processo che porta alla
formazione dello «spirito libero», Nietzsche ricorre alla metafora del viaggio e della dimora. Il
momento iniziale è l’uscita dell’uomo dalla propria casa, dalla casa costituita dai doveri, dai valori,
dalle autorità, dalle persone nei quali egli da sempre ha creduto in maniera assoluta: a spingere
l’uomo fuori della propria casa è un impulso irrefrenabile per il quale importante non è tanto andare
in un luogo determinato (raggiungere una meta) quanto non rimanere più nel luogo in cui finora è
stato. La casa, in cui aveva sin qui abitato e che aveva sin qui venerato, diventa ciò da cui fuggire.
«Piuttosto morire che vivere qui», così parla la voce imperiosa della seduzione: e questo «qui»,
questo «a casa» è tutto ciò che fino ad allora la giovane anima aveva amato!55
Era stata, quella da cui ora l’uomo fugge, una casa che altri avevano costruito, nella quale egli era
nato ed era sempre vissuto, in se stesso di essa accogliendo, come qualcosa di assoluto, i valori che
altri, magari in un lontano passato tramandato fino all’oggi, avevano determinato. Ma in realtà
l’uomo, in questa condizione, era «fuori di sé (ausser sich)»56: i valori, in cui egli aveva creduto,
erano stati appunto altri, non egli stesso, a determinare. La casa era stato il luogo del suo
autoestraneamento: egli era appartenuto ad altri, non a se stesso. Nietzsche ha sottolineato
la importanza, ai fini del ritrovamento dell’uomo da parte di se stesso, dell’essere uscito di casa,
cioè di essersi sottratto alla sottomissione e alla venerazione nei confronti dei valori già
costituiti, per quanto la libertà così conquistata egli eserciti all’inizio in modo selvaggio e solo
negativo: egli la esercita, selvaggiamente, contro ciò che finora aveva amato e venerato. Si potrebbe
osservare che proprio questo modo di esercitare la libertà attesta che, in questa fase, l’uomo non è
ancora veramente uscito dalla propria casa, dall’identico presso il quale da sempre stato: solo
che, mentre prima aveva un rapporto positivo con l’identico, ora ha un rapporto negativo con esso.
Nella misura in cui, in questa fase, l’uomo determina se stesso solo nella e con la distruzione di
ciò in cui prima aveva creduto, egli mostra che alla vecchia dimora - cioè alla sua vecchia identità -
è ancora, sia pure in forma negativa, rimasto legato. L’uomo che non vuole che allontanarsi
dalla propria casa - dalla casa che sin qui ha amato e venerato -, finché è dominato da questo
proposito, è dunque ancora legato, sia pure negativamente, alla propria casa. Si potrebbe dire che,
per uscire veramente dalla propria dimora, egli dovrebbe compiere uno sforzo analogo a quello nel
quale, secondo Nietzsche, si deve impegnare chi voglia comprendere la «nostra moralità europea»;
chi vuole comprendere tale moralità deve superare non solo il proprio tempo, «ma anche la
ripugnanza e la contraddizione in cui si è sentito fino a oggi contro questo tempo, il suo soffrire di
questo tempo, il suo non conformarsi al tempo, il suo romanticismo...»57.
In questa fase del processo di liberazione, l’uomo viene descritto come «sempre in cammino,
inquieto e senza meta come in un deserto»58. L’uomo non si è ancora precisamente rivolto
a qualcosa di diverso dalla propria precedente dimora e con cui stabilire un rapporto positivo.
L’esistenza dell’uomo non si è ancora definita, positivamente, in rapporto alla alterità (a ciò che
non ha ancora vissuto), ma solo, negativamente, in rapporto all’identico (a ciò che sinora ha
vissuto). Ma il processo di formazione dello spirito libero continua e si conclude con il passaggio
dalla immatura libertà della fase selvaggia e negativa alla «matura libertà dello spirito, che è tanto
padronanza di sé quanto disciplina del cuore» e che consente all’uomo di «vivere [...] per
esperimento»59, consente cioè all’uomo di realizzare la propria esistenza come dialettica di viaggio
e dimora, andando dalla sperimentazione di una certa realtà alla sperimentazione di un’altra
realtà. Può darsi, d’altra parte, il caso (possibilità, questa, che Nietzsche, pure, considera) che
l’uomo costruisca egli stesso la propria dimora e la consideri, però, assoluta, definitiva. In questo
caso si determina comunque una forma di autolimitazione delle possibilità dell’uomo, la cui
esistenza (come si è visto) si chiude alla possibilità di ulteriori sue forme di realizzazione.
5. Modernità: il viaggio senza dimora
Nel giudizio dello stesso Nietzsche, l’epoca moderna si contrappone e rende impossibile il suo
modo di intendere l’esistenza
ossia - come e nel senso che si è visto - resistenza come dialettica di viaggio e dimora. L’epoca
moderna un’epoca è una epoca di almeno apparente grande mobilità, caratterizzata da un
grande viaggiare (in ogni senso)60. Ma qual è, propriamente, il muoversi moderno, il moderno
viaggiare? Quando ci si pone questa domanda e nello stesso tempo si pensa a un confronto con quel
che Nietzsche osserva sul viaggio, si deve ricordare che il viaggiare nietzscheano è un viaggiare che
prevede delle soste - e che, per Nietzsche, anche quando si sosta si continua a viaggiare. Il viaggio
nietzscheano prevede il dimorare. Si dimora (nel senso nietzscheano) nell’età moderna?
Nietzsche paragona il modo moderno di fare esperienza al modo in cui il viaggiatore di un treno
guarda e conosce paesaggi e popoli61: paesaggi e popoli il viaggiatore del treno conosce
guardandoli dal finestrino, cioè in lontananza e velocemente. Il modo moderno di fare esperienza
dell’uomo è caratterizzato dalla velocità: la velocità della esperienza determina, poi, un mezzo o
falso giudicare e sentire62, dunque - poiché giudicare e sentire sono condizioni dell’esperienza - una
mezza o falsa esperienza della realtà. Nella età moderna, dunque, si corre e, se si vuole riprendere il
termine del viaggio, si dirà che, nella modernità, viaggiare è correre63. Il modo moderno,
caratterizzato dalla velocità, di fare esperienza non è solo, d’altra parte, l’effetto della
organizzazione moderna della vita individuale e sociale basata su ritmi più veloci di quelli delle
epoche precedenti, ma anche l’effetto di un fenomeno, pure sottolineato da Nietzsche (e con tale
organizzazione della vita forse in qualche modo sostanziale collegato), della estrema
impressionabilità e reattività dell’uomo moderno, della sua incapacità di non rea-
gire agli stimoli64, che sappiamo già essere caratteristica dell’uomo debole in generale. L’esperienza
dell’uomo ha acquisito sempre più i tratti di un correre involontario e incontrollato da
una esperienza all’altra, di un velocissimo sfiorare o piuttosto lasciarsi sfiorare dalle cose, di un
prodursi e dileguare rapidi e incessanti di eventi, parole, rapporti, ricordi, desideri, immagini. Si
potrebbe allora dire - per esprimere questa situazione nei termini metaforici del viaggio e della
dimora quali momenti della dialettica nietzscheana della esistenza - che è la dimensione del
dimorare che, nella età moderna, entrata in crisi: l’elemento per il quale, in tale dialettica, il viaggio
porta, di volta in volta, a un luogo particolare, presso il quale ci si ferma per scoprirne e viverne
successivamente i diversi aspetti e potenzialità, per realizzarne un approfondimento
multidirezionale, in questo senso per continuare a viaggiare (per continuare a viaggiare nello stesso
luogo in cui ci si fermati), ciò che nella modernità è entrato in crisi. Nella modernità si viaggia, si va
verso e attraverso la alterità: ma il fatto - negativo - è che si viaggia velocemente, si va
velocemente verso e attraverso la alterità. Il limite del viaggiare moderno è il rapporto veloce che
esso determina con la alterità. La velocità del rapporto consente una moltiplicazione inverosimile di
esperienze. Ma proprio qui è la «malattia moderna»; essa consiste in un «eccesso di esperienze»65.
Dice ancora Nietzsche al riguardo: «I giovani si lamentano spesso di non aver fatto esperienze,
mentre soffrono proprio per averne fatte troppe: è questo il culmine della moderna inconsistenza
intellettuale»66. Nella modernità si viaggia troppo, ovvero si fanno troppe esperienze, ovvero ancora
dell’alterità verso la quale di volta in volta si va non si fa mai nessuna vera esperienza: l’«eccesso di
esperienze» significa appunto che si fanno tante esperienze senza approfondirne nessuna.
Nella modernità si viaggia soltanto, si viaggia senza fermarsi, senza veramente fermarsi, cioè senza
fare nessuna esperienza radicale o radicata di nessun luogo che si incontra nel proprio cammino: ma
non è appunto questo il viaggio in senso nietzscheano. Viaggiare senza fermarsi è, propriamente,
correre: è il correre proprio dell’uomo moderno. Questa situazione non toglie, d’altra parte, che, al
di sotto del livello del moderno viaggiare senza soste, operino tuttavia strutture e meccanismi
concettuali, psicologici, affettivi più stabili, sia pure storicamente determinati (strutture e
meccanismi che non rimandano solo o necessariamente ai «tratti impressi da molti millenni»
nell’uomo, dei quali, si è visto, parla Nietzsche, ma che - come, del resto, Nietzsche ha ben
dimostrato, in tutta la sua opera, di sapere - possono essere il frutto di tradizioni culturali più
circoscritte, o di operazioni organizzate di creazione del consenso a fini di conservazione dei sistemi
sociali), che non vengono raggiunti da nessuna forma di consapevolezza e di critica, strutture e
meccanismi che rappresentano un dimorare come semplice immobilità, un dimorare diverso da
quello, collegato al viaggio, di Nietzsche, cioè diverso dal dimorare come viaggio nell’identico. E'
anzi forse proprio questa la condizione dell’uomo moderno (e, potremmo aggiungere, e a
maggior ragione, contemporaneo): la condizione di un essere caratterizzato da un massimo di
rigidità e da un massimo di evanescenza: da un lato, da strutture e meccanismi concettuali,
psicologici, affettivi, mai messi in discussione, dall’altro, da rapporti fuggevoli e impressionistici
con la realtà.
1Menschliches, Allzumenschliches, «Vorrede», 4. Sulla vita come successione di esperimenti in
Nietzsche, cfr. F. Semerari, Il gioco dei limiti. L’idea di esistenza in Nietzsche, pp. 55-79.
2 Die fröhliche Wissenschaft, 295.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Menschliches, Allzumenschliches, 1,638.
6 Ivi, «Vorrede», 3.
7 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 40[20].
8 Die fröhliche Wissenschaft, 295.
9 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[68],
10 Die fröhliche Wissenschaft, 295.
11 Jenseits von Gut und Böse, 154.
12 Die fröhliche Wissenschaft, 279.
13 Sulle trasformazioni che in particolare il viaggio in senso geografico può determinare
nell’uomo, cfr. EJ. LEED, The Mind of the Traveler. Front Gilgamesch to Global Tourism (tr. it., in
particolare pp. 251-75).
14 In generale, sul carattere diveniente dell’uomo nietzscheano, cfr. F. MASINI, Lo scriba del caos.
Interpretazione di Nietzsche, pp. 223-50. La presenza, in Nietzsche, per quel che riguarda il modo
di rapportarsi alla realtà, di una posizione invece anche diversa da quella caratterizzata dal divenire,
di una posizione non necessariamente preoccupata o assillata dal problema del divenire, è studiata,
attraverso la analisi del motivo metaforico della «barca», da Vivetta Vìvarelli: con la metafora della
barca, Nietzsche indicherebbe non solo «il passaggio dell’anima nelle pause del flusso del divenire
e del tendere verso qualcosa», ma anche - in certi testi - «il sein contrapposto al werden, non più
però come riposo dallo streben , ma come suo rifiuto, o incapacità ad adattarvisi» (V. VÌVARELLI, La
barca di Nietzsche, rispettivamente pp. 570 e 574-5).
15 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 32[15] (tr. it„ 32[13]).
16 B. CHATWIN, What Am I Doing Here? (tr. it., p. 271).
17 Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 9[60].
18 Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, 2[110].
19 Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 9[60].
20 Menschliches, Allzumenschliches, 228.
21 Die fröhliche Wissenschaft, 296.
22 Ibidem.
23 Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878,23(4) (tr. it., 24[8]).
24 Jenseits von Gut und Böse, 211.
25 Ivi, 44.
26 Ivi, 231.
27 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[48].
28 Ivi, 11[149].
29 Menschliches, Allzumenschliches, 1,41.
30 Die fröhliche Wissenschaft, 279.
31 Cfr., per es., Menschliches, Allzumenschliches, I, 376. Sulla solitudine vissuta in prima persona
dallo stesso Nietzsche, cfr. C.P. Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie. Zweiter Band: Die zehn
Jahre des freien Philosophen (Frühjahr 1879 bis Dezember 1888).
32 È quanto si ricava - come sua implicazione - da quel che Nietzsche osserva sulle condizioni
della reciproca comprensione degli uomini, che è sempre relativa perché le stesse parole, attraverso
le quali la comunicazione ha luogo, hanno, però, per ciascuno, significati particolari, definiti sulla
base della sua esperienza personale che, per quante somiglianze possa presentare con essa, è pur
sempre diversa dall’esperienza altrui, se non altro perché l’identità di ciascuno - di ciascun soggetto
della esperienza - è diversa da quella di chiunque altro. Sul problema della comunicazione e della
comprensione in questo senso, cfr. ancora Menschliches, Allzumenschliches, I, 376 e, inoltre,
Jenseits von Gut und Böse, 268. Sulla singolarità assoluta e irripetibile che ciascun uomo è,
cfr. Menschliches, Allzumenschliches, I, 286.
33 Also sprach Zarathustra, in, «Vom Geist der Schwere», p. 241 (tr. it., pp. 238-9).
34 Zur Genealogie der Moral, II, 1.
35 Also sprach Zarathustra, II, «Auf den glückseligen Inseln», p. 107 (tr it,
p. 102).
36 V. JANKÉLÉVITCH, L’Irréversible et la Nostalgie, p. 281 (tr. it. parziale in A. Prete [a cura di],
La nostalgia. Storia di un sentimento, p. 126).
37 Ivi, pp. 296-7 (tr. it., p. 150).
38 Ivi, p. 282 (tr. it., p. 128).
39 JW, p. 290 (tr. it., pp. 139-40).
40 JW, p. 290 (tr. it., p. 153).
41 Ivi, p. 300 (tr. it., p. 155).
42 Ibidem (tr. it., pp. 155-6).
43 Die fröhliche Wissenschaft, 341.
44 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [202].
45 Sull’eterno ritorno, cfr. K. LOWITH, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des
Gleichen J. GRANIER, Le problème de la Vérité dans la philosophie de Nietzsche, pp. 557-602; e,
nella prospettiva di un confronto fra Nietzsche e Leopardi, A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno
ritorno. Nietzsche e Leopardi.
46 Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzten und Nachtheil der Histoire fur das
Leben, 1, p. 247 (tr. it., p. 265).
47 Menschliches, Allzumenschliches, I, 638.
48 Zur Genealogie der Moral, II, 1.
49 Menschliches, Allzumenschliches, I, 629.
50 Ivi, 637.
51 Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889,14[102], 15[39],
52 H. BLUMENBERG, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher (tr. it., p. 28).
Sulla analisi, che Blumenberg conduce, della navigazione come metafora dell’esistenza, cfr. R.
BODEI, «Introduzione» all’ed. it. appena citata del libro di Blumenbeig e, inoltre, dello stesso Bodei,
il saggio Navigatio vitae: la metafora della esistenza come viaggio, pp. 37-49.
53 H. BLUMENBERG, Schiffbruch mit Zuschaue (tr. it, pp. 31-2).
54Sulla universalizzazione, da parte dell’uomo debole, del proprio particolare criterio di
valutazione, cfr. Zur Genealogie der Moral, I, 13-14; III, 14.
55 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3.
56 Ivi, 5.
57 Die fröhliche Wissenschaft, 380.
58 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3.
59 Ivi, 4.
60 Cfr. R. Bodei, Navigatio vitae: la metafora della esistenza come viaggio, p. 44.
61 Menschliches, Allzumenschliches, I, 282.
62 Ibidem.
63 Sugli aspetti di velocizzazione dell’esistenza nel mondo contemporaneo, cfr. la
rappresentazione che ne dà Heidegger all’inizio del saggio su La cosa (M. HEIDEGGER, Vorträge und
Aufsätze [tr. it, pp. 109-10]). Cfr., inoltre, P. VIRILIO, L’orizon négatif. Essai de dromoscopie.
64 Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 10[18],
65 Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[51].
66 Ivi, 18[22],
Bibliografìa
Opere di Nietzsche
Le opere di Nietzsche sono citate secondo l’edizione dei Nietzsche Werke, Kritische
Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Berlin - New York 1967 e sgg., Walter de
Gruyter (Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano
1964 e sgg.).
Per i riferimenti agli aforismi e ai frammenti, si è indicato, dopo il titolo dello scritto, il numero
dell'aforisma o del frammento. Per le opere divise in capitoli o parti, indicati da titoli o/o numerati,
e a loro volta eventualmente divisi in paragrafi numerati, si è riportato, dopo il titolo dell’opera, il
titolo o il numero (in caratteri romani) del capitolo o parte relativa, seguito dal numero (in caratteri
arabi) del paragrafo.
Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Histoire für das
Leben, Abt. III, Bd. I, 1972 (Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali
II, tr. it. di S. Giametta, vol. II, t.1, 1972).
Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, Erster Band, Abt. IV, Bd. II, 1967
(Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, volume primo, tr. it. di S. Giametta, vol. IV, t. II,
1965).
Menschliches, Allzumenschliches, Zweiter Band, Abt. IV, Bd. III, 1967 (Umano, troppo umano,
volume secondo, tr. it. di S. Giametta, vol. IV, t. III, 1967).
Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile, Abt. V, Bd. I, 1971 (Aurora. Pensieri sui
pregiudizi morali, tr. it. di F. Masini, vol. V, t.1, 1964).
Die fröhliche Wissenschaft, Abt. V, Bd. II, 1973 (La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, vol. V, t. II,
1965; nuova edizione riveduta a cura di M. Carpitella, 1991).
Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Abt. VI, Bd. I, 1968 (Così parlò
Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di M. Montinari, vol. VI, t. I, 1973).
Jenseits von Gut und Böse, Abt. VI, Bd. II, 1968 (Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini,
vol. II, t. II, 1968).
Zur Genealogie der Moral, Abt. VI, Bd. II, 1968 (Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, vol.
II, t. II, 1968).
Der Fall Wagner, Abt. VI, Bd. III, 1969 (Il caso Wagner, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. III, 1975).
Götzen-Dämmerung oder wie man mit dem Hammer philosophirt, Abt. VI, Bd. IIII, 1969
(Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. III, 1975).
Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, Abt. VI, Bd. III, 1969 (L’anticristo. Maledizione del
cristianesimo, tr. it. di F. Masini, voi. VI, t. III, 1975).
Ecce homo. Wie man wird, was man ist, Abt. VI, Bd. III, 1969 (Ecce homo. Come si diventa ciò che
si è, tr. it. di R. Calasso, vol. VI, t. III, 1975).
Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, Abt. IV, Bd., 1967 (Frammenti postumi
1876-1878, tr. it. di M. Montinari, vol. IV, t. II, 1965).
Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, Abt. IV, Bd. II, 1967 (Frammenti
postumi 1878-1879, tr. it. di M. Montinari, vol. IV, t. III, 1967).
Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, Abt. V, Bd., 1971 (Frammenti postumi
1879-1881, tr. it. di M. Montinari, vol. V, 1.1, 1964).
Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, Abt. V, Bd. II, 1973 (Frammenti
postumi 1881-1882, tr. it. di M. Montinari, vol. V, t. II, 1965; nuova edizione riveduta a cura di M.
Carpitella, 1991 [l’edizione, condotta sul testo pubblicato nella Gesamtausgabe, 1973, e nei
Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1980, presenta
una integrazione e una diversa numerazione dei frammenti]).
Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1883-1884, Abt. VII, Bd. I, 1977 (Frammenti
postumi 1882-1884, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, voi. VII, t. I, Parte I, 1982).
Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, Abt. VII, Bd. III, 1974 (Frammenti postumi
1884, tr. it. di M. Montinari, vol. VII, t. II, 1976).
Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, Abt. VIII, Bd. I, 1974 (Frammenti
postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. I, 1975).
Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, Abt. VIII, Bd. II, 1970 (Frammenti postumi
1887-1888, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. II, 1971).
Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, Abt. VIII, Bd. III, 1972
(Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. III, 1974).
Altre opere citate
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ZARONE GIUSEPPE (a cura di), Labirinti del male, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.
Indice
Introduzione
Capitolo primo
Cura di sé e alterità
1. Il problema
2. Unicità dell’ego. Mancanza di egoismo e individualizzazione dell’ego
3. Condizioni e articolazione della cura di sé.
Cura di sé e felicità
4. La costruzione dell’ego: il problema dell’autodisciplina. Una filosofia del piccolo, del lento, del
vicino
5. La relazione di alterità
5.1 La relazione nutrizionale
5.2 La relazione di cura
Capitolo secondo
Il viaggio e la dimora
Momenti di una dialettica dell’esistenza
1. Fra identità e alterità, assoluto e relativo
2. Il viaggio modifica il viaggiatore.
La solitudine del viaggiatore
3. Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi impossibili (fra Nietzsche e Jankélévitch)
4. Quando, stando a casa propria, si è fuori di sé
5. Modernità: il viaggio senza dimora
Capitolo terzo
Amore-passione e amore
Premessa
1. Identificazione
2. Possesso
Capitolo quarto
La relazione d’amicizia
1. Amicizia e storia
2. Amicizia e gioia
3. Amicizia e differenze
4. Amicizia e inimicizia
5. Colui che dona
6. Amicizia e libertà
Capitolo quinto
La volontà del male
1. La crudeltà come fondamento della storia passata dell’uomo
2. Le forme storiche della crudeltà.
La morale della colpevolizzazione
3. La morale al di là della colpa
4. Diffusione e fenomenologia della crudeltà
5. Il fondamento del fondamento: la volontà di dominio
6. La volontà del male e il futuro dell’uomo
7. Crudeltà come storia, crudeltà come natura, crudeltà come maieutica
Capitolo sesto
Nietzsche e la nostra epoca
Bibliografia