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Serie «Nuovi saggi.

Furio Semerari (Bari 1952), ricercatore, insegna Storia della filosofia morale nell'Università di Bari.
Ha pubblicato i volumi: Potenza come diritto. Hobbes Locke Pascal (Bari 1992), La fine della
virtù. Gracian La Rochefoucauld La Bruyère (Bari 1993), Il gioco dei limiti. L’idea di esistenza in
Nietzsche (Bari 1993). Ha curato il volume collettivo Amore. Itinerari di un’idea (Fasano 1996). Ha
redatto numerose voci dedicate a filosofi italiani del Novecento per il Dictionnaire des philosophes
(Paris 1984). Ha tradotto e introdotto Retorica e filosofia di Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca
(Bari 1979).
“Predone”, “barbaro”, “giardiniere”. Con queste immagini Nietzsche rappresenta tre distinte
modalità di relazione con l'alterità: la relazione di appropriazione, per la quale l’uomo si appropria
deH’alterità, nutrendosene, la relazione di crudeltà, per la quale l’uomo persegue, in forma varia
e spesso mimetizzata, il male dell’altro; la relazione di cura, per la quale l’uomo assume come fine
della propria azione e del proprio sentimento il bene dell’altro. La prima relazione non è altro che la
stessa condizione di possibilità dell’esistenza: non si può vivere (ai vari livelli, elementari
o complessi, in cui l’esistenza può svolgersi) se non “prendendo” dal “tutto” di cui si è parte. Come
tale, questa relazione costituisce qualcosa di insuperabile per l’esistenza. La seconda relazione
riguarda, essenzialmente, il passato della storia dell’uomo, segnato, per aspetti fondamentali,
dal dispiegarsi di una volontà di male (legata a una volontà di dominio) dell’uomo nei confronti
dell’altro uomo. La terza relazione riguarda, invece, soprattutto, il futuro della storia dell’uomo: un
futuro da costruire, in alternativa al passato barbarico di questa medesima storia.

Nuova Biblioteca Dedalo / 232 Serie «Nuovi saggi»

FURIO SEMERARI
IL PREDONE, IL BARBARO, IL
GIARDINIERE
IL TEMA DELL’ALTRO IN NIETZSCHE
EDIZIONI DEDALO
In copertina: Jusepe de Ribera, Dioniso-Bacco, 1635, olio su tela. Museo del Prado, Madrid.
Volume pubblicato con il contributo della Fondazione Caripuglia Università degli Studi di Bari.
2000 Edizioni Dedalo srl, Bari
www.edizionidedalo.it

Introduzione
“Predone” e “giardiniere” sono due immagini, alle quali, in un frammento del 1881, Nietzsche
ricorre per rappresentare due diverse modalità del rapporto con gli altri. Con l’immagine
del “barbaro”, cui fa riferimento in un aforisma dell’opera dello stesso anno Aurora, egli individua
un’ulteriore modalità di relazione con l’altro.
Quelle indicate dalle immagini del predone, del giardiniere e del barbaro costituiscono, nell’analisi
nietzscheana, tre modalità fondamentali di relazione con l’altro: o perché costituiscono una
condizione generale dell’esistenza dell’uomo (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del
predone) o perché caratterizzano, in maniera decisiva, la storia passata dell’uomo (è il caso della
relazione con l’altro nella modalità del barbaro) o perché esprimono il progetto di un uomo diverso
da quello del passato (è il caso della relazione con l’altro nella modalità del giardiniere).
Ma che cosa significano le immagini del predone, del giardiniere e del barbaro ovvero quali sono e
che cosa sono le modalità di relazione con l’altro che esse, rispettivamente, stanno a simboleggiare?
Per rispondere a questa domanda, prendiamo innanzitutto in esame le immagini del predone e del
giardiniere che compaiono nel frammento del 1881.
Il predone è colui il quale, in vista di qualche fine che riguarda lui soltanto, si rapporta agli altri
appropriandosi di quel che gli
altri hanno o sono. Il giardiniere è, invece, colui il quale si rapporta agli altri prendendosi cura di
loro e vivendo nella gioia di questo prendersi cura1.
Così definiti, i due termini sembrerebbero indicare due modalità di rapporto con l’altro,
rispettivamente, per l’altro, negativa e positiva: nel primo caso, l’altro è espropriato di qualcosa,
nel secondo, l’altro è fatto oggetto di cura.
Ma, per quanto riguarda, in particolare, il rapportarsi agli altri nel modo della appropriazione, si può
subito osservare che le cose, per Nietzsche, non stanno proprio o solo nei termini indicali. Si tratta
di capire, qui, che cosa Nietzsche intende, in questo caso, per ‘appropriazione’. Può anche darsi che,
per lui, vi sia la possibilità di una appropriazione, che non significa contemporaneamente
espropriazione e che non si traduce, dunque, in un danno per colui o per ciò da cui qualcosa si
prende.
L’idea, che la immagine del predone esprime, è che l’uomo non costruisce autonomamente e
autarchicamente la propria esistenza e la propria identità, che sono, invece, il risultato di una serie
di appropriazioni o «furti», che egli realizza nei confronti del «tutto», di cui è parte. L’uomo
costruisce la propria esistenza e la propria identità, prendendo dal mondo quel che il mondo offre
in termini non solo di beni materiali, ma anche di possibilità di conoscenza, di esperienza.
Appropriazione del mondo è, infatti, in Nietzsche, anche la conoscenza e, in generale, la esperienza
che del mondo si riesce a realizzare.
Da questo punto di vista, ogni uomo è ‘predone’ in quanto, per esistere (anche ai livelli più
elementari), non può fare a meno di ‘prendere’ da ciò che è ‘fuori’ di lui, da ciò che non è egli
stesso. Il termine non ha una connotazione di valore negativa, ma esprime semplicemente la
condizione di possibilità dell’esistenza e della costruzione di identità di ciascuno. E' in senso
figurato che qui Nietzsche parla dell’uomo come «predone» o come «ladro» e delle sue
appropriazioni come «furti»2.
La definizione dell’uomo come predone esprime, così, il riconoscimento della natura finita
dell’uomo, che non è un essere autosufficiente e che, nella sua possibilità d’essere e per
l’appagamento delle proprie esigenze, dipende dall’altro (dagli altri uomini, dalla natura), da cui
deve prendere ciò che gli serve per esistere e definirsi nella propria identità individuale.
Viene così affermato, con riferimento al mondo dell’uomo, il principio di relazione, per il quale la
relazione dell’io con la alterità rappresenta la condizione della esistenza e della identità di ciascun
io. È la affermazione di una concezione antiatomistica e antiindividualistica dell’individuo umano,
visto come punto di convergenza di una serie di relazioni (di appropriazione) con la totalità (tutto
ciò che è altro da sé), nella quale egli è compreso.
2. Ma vi sono modalità e finalità diverse, con le quali l’io può prendere dal «tutto», prendere da
tutto ciò che è altro da sé.
a)    Vi è, innanzitutto, un prendere che mira a soddisfare un bisogno, mai appagato e sempre
risorgente e crescente, di arricchimento della propria conoscenza ed esperienza personali. È, questo,
il prendere proprio di un io essenzialmente interessato ad ampliare e rinnovare il proprio rapporto
con la alterità, di un io che non accetta di rimanere chiuso in se stesso nella forma una volta
raggiunta (e definitasi, in ogni caso, nel rapporto con la alterità, perché, fuori della relazione, non
c’è esistenza: ciascun ente non è che una «somma di relazioni»3 non solo al proprio interno, ma
anche con il proprio esterno), ma mette in discussione la propria già definita identità, è disposto ad
alterare, nel rapporto con la alterità, il proprio essere, vuole, nel e dal rapporto con la alterità, una
crescita, un potenziamento del proprio essere.
b)    Vi è, poi, un prendere che è proprio di chi, più che altro, mira a perpetuare se stesso nella
forma già raggiunta del proprio essere, al livello di esistenza già conseguito. E', questo, il bisogno di
un io sostanzialmente chiuso al rapporto con la alterità, indifferente verso di essa o timoroso e in
cerca di protezione nei suoi confronti.
Vi è, quindi, da un lato, a) un prendere che mira ad alterare/ incrementare l’essere di chi prende,
dall’altro, b) un prendere che mira a conservare l’essere di chi prende in quel che esso già è.
Vi è, così, un prendere, che rende ricco colui che prende, e vi è un prendere, che lascia povero
(ossia al livello e alla forma di esistenza già raggiunti) colui che prende.
Ma, nel prendere, ricco diventa, poi, chi, in un altro senso, ricco già è: ricco di forza capace di
sostenere un rapporto autentico con la alterità, un rapporto che, se è autentico, si presenta come
problematico, difficile, perché implica una messa in discussione delle proprie convinzioni, del
proprio costume di vita, delle proprie abitudini mentali. Ricco perché dotato della capacità
di lasciarsi alterare e di arricchirsi.
Nel prendere, povero (ovvero, come si è detto, al livello e alla forma di esistenza già raggiunti)
rimane, invece, colui che, in un altro senso, povero già è: povero perché privo della volontà e
della forza di rapportarsi in maniera autentica alla alterità, ossia non disposto a lasciarsi
eventualmente alterare dal rapporto con essa, povero perché sprovvisto della capacità di arricchirsi
grazie al rapporto con la alterità.
La relazione di alterità, nella quale l’io è autenticamente aperto nei confronti di quel che l’alterità è
e non tenta di nasconderla, nella sua realtà, a se stesso evitando semplicemente di vederla o ad essa
sovrapponendo propri schemi interpretativi che ne annullano o svalutano la particolarità - la
relazione di alterità, che, come si è detto, mira all’arricchimento dell’io -, implica che l’io sia
disposto a conoscere la alterità in se stessa, in questo senso a ospitarla, come Nietzsche scrive, per
quel che essa è, dentro se stesso, a farle posto nella propria coscienza. Ma, per conoscere l’alterità
in quanto e nella misura in cui l’alterità rappresenta qualcosa di sconosciuto, di mai visto, per
riuscire, come Nietzsche scrive a proposito di una musica che non abbiamo mai ascoltato, a
sopportarla e, infine, anche ad amarla, a ad averne l’abitudine, ad avere «il presentimento che ne
sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più», occorre l’esercizio di una serie di qualità: pazienza,
umiltà, benevolenza, buona volontà, equità, mitezza d’animo. Alla fine, la musica estranea - come
qualsiasi altra cosa estranea - «lentamente [...] depone il suo velo e si manifesta come una nuova
inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità»4. Se non si vuole
essere esclusi dalle «più belle eventualità dell’anima», se queste eventualità si vuole conoscere,
apprezzare, amare, occorre «perderci per qualche tempo», occorre smettere di essere i guardiani
della nostra «rocca»5, occorre mettere da parte i nostri sistemi di difesa, occorre che, per qualche
tempo, il soggetto si perda e lasci avanzare verso di sé l’oggetto, occorre che perda
l’«autocontrollo» come «forma di timore per tutte le intromissioni estranee»6.
Alla relazione di alterità, in quanto e nella misura in cui è relazione con qualcosa di sconosciuto,
ignoto, si addice il termine «esperimento», che è il termine che Nietzsche adopera per rappresentare
la vita nella condizione della «grande salute», alla quale perviene l’uomo nel suo processo di
liberazione: a questo stadio, si vive ormai «per esperimento»7. Esperimento, infatti, è relazione con
l’ignoto. Non si fanno esperimenti su ciò che è noto (o si pensa che sia noto). Lo sperimentare
riguarda ciò che non si conosce, il nuovo (nuovo per colui che sperimenta), l’altro nel senso di
sconosciuto. Ma è da notare che - ciò è stato sottolineato da Nietzsche - un tale altro, cioè l’ignoto,
risiede, per ciascuno, anche in se stesso: vi sono parti dell’essere dell’uomo, e sono probabilmente
le più profonde e decisive, che rimangono a lui, almeno generalmente, sconosciute.
3. È possibile identificare un’altra differenza, in Nietzsche, riguardo alle modalità e alle finalità del
prendere.
a) Vi è un prendere, che prende dominando/distruggendo la varie figure della alterità, dalle quali, di
volta in volta, si prende: è il prendere, di cui sono oggetto, vittime, coloro che sono stati
educad ad «essere quotidianamente usati» e che sono, in effetti, «quotidianamente utilizzati» e
alienati da se stessi, come accade ai «poveri animali da tiro» dei lavoratori di «un secolo
stremato dal troppo lavoro» (il secolo di Nietzsche)8, o coloro che, in generale, sono variamente
asserviti nell’esercizio di funzioni da parte e per conto di altri (comunità, sovrani, capi di partito,
fondatori di religione, ecc.)9.
b) Vi è un prendere, che prende rispettando/conservando l'essere proprio di ciò da cui si prende.
Siamo, in fondo, in questo caso, di nuovo nella situazione precedentemente delineata a proposito
del prendere proprio di colui il quale mira a un personale arricchimento in termini di conoscenza e
di esperienza della alterità: è la situazione di colui il quale si rapporta alla alterità non chiudendosi
nella propria «rocca», ma ‘perdendosi’ a se stesso nell’oggetto (nella alterità), lasciando essere e
ospitando dentro di sé l’oggetto.
In generale, quale che sia la forma che assume, la relazione di alterità orientata verso il prendere è la
relazione nutrizionale di alterità nel senso che, attraverso di essa, l’io nutre se stesso: la alterità è,
qui, fonte e mezzo di nutrimento dell’io. La alterità non è, qui, necessariamente il o un fine dell’io e
Nietzsche può dire che, nella relazione appropriativa, grazie alla quale noi nutriamo noi stessi, noi
«non pensiamo agli altri»10, di cui ci nutriamo: non pensiamo agli altri, ovvero non assumiamo
necessariamente gli altri come il fine o un fine (né in senso positivo né in senso negativo) delle
nostre azioni.
4. È nella relazione di alterità, simboleggiata dalla immagine del giardiniere, che l'altro è assunto,
invece, come fine della azione dell’io. Più precisamente, Taltro diventa, qui, oggetto di una cura da
parte dell’io: l’io si prende cura dell’altro e del suo bene. È il caso di colui che ama ossia
comprende Taltro in quello che
è e gioisce perché l’altro è quello che è; di colui che gioisce per la gioia dell’altro; di colui che, pur
vicinissimo nel cuore all’amico, per il bene dell’amico gli si oppone, nel caso, con tutte le sue forze;
di colui che nasconde la propria sofferenza dinanzi all’amico, per il quale essa potrebbe risultare
dannosa; di colui che, avendo scoperto verità, il cui peso potrebbe non essere sopportato dall’altro,
all’altro le verità scoperte non rivela; di colui che fraternizza e non diventa il rivale dei grandi
spiriti; di colui che, senza nulla chiedere in cambio, dona se stesso al prossimo facendosi ascolto e
rifugio per le sue sofferenze; di colui che, in generale, dona, senza nulla volere in cambio; di colui,
ancora, che dona, nel suo donare rimanendo nascosto.
Giardiniere vuol dire cura dell’altro, assunzione dell’altro come oggetto della propria cura, ma vuol
dire anche, appunto, cura. E cura vuol dire esercizio di determinate qualità in rapporto a un
determinato oggetto (l’oggetto della cura): attenzione, pazienza, costanza, perseveranza, misura,
metodo, in definitiva, disciplina. Si ha a cuore l’altro e l’avere a cuore l’altro prende la forma della
cura. Questo modo di occuparsi dell’altro può essere visto come segno della intensità del
sentimento con cui all’altro si tiene.
Nietzsche parla di cura non solo in rapporto all’altro, ma anche in rapporto a se stessi. Se predoni si
è nei confronti degli altri, giardinieri si può essere nei confronti non solo degli altri, ma anche di se
stessi. Non a caso la immagine del giardiniere ricompare, in Nietzsche, anche con riferimento al
rapporto di cura con se stessi. In un frammento del 1880, parlando proprio di se stesso, Nietzsche
scrive di poter trattare se stesso «come un giardiniere tratta le sue piante», ossia favorendo o
lasciando inaridire, a seconda dei casi, questa o quella tendenza del proprio essere11. L’io ha da
assumere se stesso come oggetto di cura, come oggetto, dunque, non di un interesse
superficiale, occasionale, casuale - che è forse l’atteggiamento di chi, in
accordo inconsapevole e involontario con una certa tradizione morale, pensa di doversi occupare,
rigorosamente, solo dell’altro da sé e non anche di se stesso - ma di un interesse metodico, costante,
che è l’atteggiamento di chi pensa che il proprio io ha diritto a una esistenza il più possibile felice.
Nietzsche indica proprio nella felicità lo scopo e l’effetto della cura di sé. Contro una certa
tradizione, che ha considerato colpevole l’occuparsi di se stessi, egli stabilisce la legittimità del dare
spazio a se stessi, ai propri bisogni, alle proprie inclinazioni e questo dare spazio deve per lui
assumere il carattere della cura. L’uomo deve saper essere giardiniere di se stesso, considerare se
stesso, anche se stesso, come un giardino da curare.
Cura di sé è, d’altra parte, cura delle cose a noi più vicine: una cura, questa, che presuppone la
rivalutazione, contro una determinata tradizione, delle cose a noi più vicine, che costituiscono anche
il campo di «ciò che è più piccolo e ordinario»12. Si tratta di sapere «che cosa ci fa bene e che cosa
ci fa male nell’impianto della condotta di vita, nella ripartizione del giorno e del tempo e nella
scelta dei rapporti sociali, nella professione e nel tempo libero, nel comandare e nell’obbedire, nel
sentire la natura e l’arte, nel mangiare e nel dormire e nel pensare»13. Si tratta di sapere tutto questo
e di agire di conseguenza su se stessi: in questo sapere e nella azione ad esso ispirata è la cura
dell’uomo verso se stesso.
La cura, sia quella rivolta a se stessi sia quella rivolta all’altro, ha a che fare con il tempo, con il
tempo come durata. Per essere efficace, qualsiasi intervento, con cui si provvede a se stessi o
all’altro, deve potersi svolgere nella continuità di un certo tempo, lungo il quale sia possibile
determinare, poco alla volta, quei cambiamenti, quegli aggiustamenti, quel disciplinamento che, alla
fine, producono risultati di qualche significato e rilevanza. Il problema della cura di sé o dell’altro è
il problema delle
«terapie lente»14 o della terapia delle «piccole dosi»15. Nietzsche non crede a risultati improvvisi
significativi: il risultato significativo - può trattarsi, al limite, di un cambiamento radicale
della propria personalità - è il risultato finale di una serie di piccoli interventi che si succedono e
sommano l’un l’altro nel tempo e nel tempo si consolidano.
Per quel che sinora si è visto, la relazione di alterità in Nietzsche si muove tra i poli che il Nietzsche
più legato al linguaggio della fisiologia esprime, rispettivamente, come «istinti di nutrizione
(avidità)» e «istinti di espulsione (amore)»16 o «assimilazione» e «secrezione ed escrezione»17.
5. Ma, oltre la relazione di alterità nel modo del predone, oltre la relazione di alterità nel modo del
giardiniere, il testo nietzscheano identifica e prende in esame un terzo tipo della relazione di alterità:
la relazione di alterità ispirata alla volontà del male. Per rappresentare questo tipo di relazione di
alterità Nietzsche si serve della immagine del “barbaro” come immagine di colui che fa soffrire
l’altro, che vuole il male dell’altro18. Predone, giardiniere e barbaro identificano, così, tre
tipi differenti di relazione dell’io con la alterità: la relazione di nutrimento (o nutrizionale), la
relazione di cura, la relazione di crudeltà.
La relazione di alterità nel modo del barbaro è opposta, per un aspetto, alla relazione di alterità nel
modo del giardiniere: nel primo caso si persegue il fine del male dell’altro, nel secondo si persegue
il fine del bene dell’altro. Ma i due tipi di relazioni sono, per un altro aspetto, vicini in quanto in
entrambi, sia pure in maniera opposta, l’altro diventa un fine della azione dell’io, a differenza di
quel che accade nella relazione nutrizionale di alterità,
nella quale l’io, che dell’altro si nutre, è indifferente all’altro di cui si nutre o all’altro in generale
(nella relazione nutrizionale di alterità, «noi non pensiamo agli altri», né nel bene né nel male, non
perseguiamo né il fine del bene né il fine del male dell’altro). D’altea parte, la relazione di alterità
ispirata alla volontà del male, se lontana dalla relazione nutrizionale di alterità, la prima assumendo,
a differenza della seconda, l’altro come fine della propria azione (sia pure per fargli del male), è ad
essa vicina per il fatto che essa mostra di avere a cuore, come la relazione nutrizionale di alterità,
solo il bene dell’io che all’altro si rapporta.
Secondo Nietzsche, la relazione di alterità è stata spesso il luogo di esercizio di una volontà del
male da parte dell’uomo: di più, la volontà del male ha rappresentato un (se non il) fondamento
della storia dell’uomo dai primordi sino ad oggi. La volontà del male è la chiave di spiegazione di
molti comportamenti prodotti dall’uomo sino ad oggi, anche, molto spesso, di comportamenti
apparentemente opposti o molto distanti dalla volontà del male: la volontà del male si è spesso
mimetizzata dietro forme ad essa opposte. La volontà del male, quale si è storicamente manifestata,
risulta, inoltre, legata, nella analisi nietzscheana, alla volontà di dominio: essa è stata una forma
particolare della volontà di dominio (la volontà del male appare, così, in realtà a sua volta fondata
nella volontà di dominio). La volontà del male risulta, dunque, legata, a quella volontà che, lo si è
detto, ispira anche un certo modo del «prendere», un modo particolare attraverso il quale l’io prende
dalla alterità per le proprie finalità nutritive. Uno dei capitoli del presente volume prende in esame
la analisi nietzscheana della volontà del male in quanto fondamento della storia dell’uomo nella
molteplicità delle forme che tale volontà ha storicamente assunto e nella connessione che essa
presenta con la volontà di dominio.
7. Le pagine di questo libro ricostruiscono e analizzano le tee modalità di rapporto con l’altro
indicate, in Nietzsche, rispettivamente, dalle immagini del predone, del barbaro e del
giardiniere. Qual è l’atteggiamento del filosofo verso ciascuna di queste modalità di rapporto con
l’altro?
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del predone, Nietzsche,
innanzitutto, ne prende atto come di una condizione generale di possibilità di esistenza per l’uomo,
ma, in secondo luogo, propone una certa versione, una certa interpretazione di tale modalità di
rapporto con l’altro: la versione per la quale a) si prende dall’altro al fine di un arricchimento
personale e non della semplice perpetuazione del proprio essere nella forma da esso una volta già
raggiunta, e, inoltre, b) si prende dall’altro senza alienare l’altro rispetto al suo essere e alla sua
libertà.
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del barbaro, l’atteggiamento di
Nietzsche è quello della critica e del progetto di superamento di tale modalità e, da questo punto di
vista, il discorso nietzscheano concerne, qui, il futuro dell’uomo. Tale modalità, infatti, è quella che
risulta dalla ricostruzione genealogica della storia dell’uomo dai primordi sino ai nostri giorni:
lungo questa storia, l’uomo si è rapportato all’altro guidato da una fondamentale volontà di male. Il
persistere, ancor oggi, di tale modalità di rapporto fra gli uomini è il segno di una «arretratezza»
dell’uomo. Non si tratta di eliminare ogni sofferenza dal mondo, perché la sofferenza è condizione,
passaggio necessario di ogni lavoro significativo dell’uomo su se stesso, ma di eliminare dal mondo
- dalla relazione con l’altro - la volontà del male fine a se stessa.
Per quanto riguarda la modalità di rapporto espressa dalla immagine del giardiniere, Nietzsche non
tanto ne prende atto come di un dato (o di un dato comune o frequente) della realtà quanto la
propone in alternativa a quel che (o a quel che comunemente o frequentemente) la realtà presenta.
Ciò che la realtà (passata e presente) dell’uomo mostra è, infatti, semmai, l’opposto di quel che si
avanza attraverso la idea del giardiniere, ossia l’opposto dell’atteggiamento di cura verso l’altro: è il
rapportarsi all’altro ispirato alla volontà del male o, in generale, alla volontà di dominio. La
modalità di rapporto con l’altro, rappresentata dalla immagine del giardiniere, è una modalità che
concerne ciò che non c’è ancora più che ciò che c’è stato e c’è tuttora, concerne il futuro da
costruire dell’uomo più che il suo passato o il suo presente. Il richiamo alla presenza, in Nietzsche,
della modalità di rapporto, indicata dalla immagine del giardiniere, vuole avere anche e soprattutto
il senso di un tentativo di problematizzazione della idea, che a volte se non generalmente si è
sostenuta, della filosofia di Nietzsche come filosofia di un assoluto individualismo. Si è voluto qui
vedere e verificare se il testo nietzscheano non offra anche qualcosa di diverso e di contrastante
rispetto a tale idea.
8. Un cenno, infine, sulla articolazione dei capitoli, di cui si compone il libro.
Il primo capitolo cerca di chiarire, da un lato, il problema della cura di sé in Nietzsche sotto il
riguardo e della sua legittimità e finalità e della sua interna articolazione, e, dall’altro, la
questione della relazione di alterità, che viene considerata, qui, sia nel suo significato di relazione
nutrizionale di alterità sia nel suo significato di relazione di cura nei confronti dell’altro. Cura di sé
e cura dell’altro sono atteggiamenti e pratiche esistenziali distinti, ma non necessariamente l’un
l’altro escludentisi, perché, anzi, una cura efficace dell’altro ha, come sua condizione, una cura
efficace di sé. D’altra parte, la cura di sé ha in ogni caso bisogno del nutrimento che solo l’altro può
dare: anche vedendo la questione da un lato puramente egoistico, la cura di sé implica sempre
qualche forma di cura dell’altro, di quell'altro del quale ci si deve nutrire.
I    capitoli secondo, terzo e quarto riprendono e approfondiscono il problema della relazione di
alterità nei due sensi in cui se ne occupa il capitolo primo: relazione nutrizionale (capitolo secondo)
e relazione di cura (capitoli terzo e quarto).
II    secondo capitolo sviluppa il tema della relazione nutrizionale di alterità attraverso la analisi
della metafora del «viaggio» (come rapporto dell’uomo con la alterità) nella sua
connessione dialettica con la metafora della «dimora» (come rapporto dell’uomo con l’identico).
Il capitolo terzo prende in esame la posizione nietzscheana sull’amore-passione. Anche attraverso la
critica, che Nietzsche rivolge a questa forma di amore (l’amore-passione è legato, per un verso, alla
volontà di dominio, per l’altro, alla negazione e alla perdita della propria identità e libertà), emerge
il concetto nietzscheano di amore come rispetto, comprensione e gioia per la differenza che l’altro
(l’oggetto di amore) è rispetto a se stessi.
Il capitolo quarto illustra la relazione di amicizia, alla quale Nietzsche attribuisce il significato di
una relazione di alterità speciale, in cui l’uomo realizza le proprie migliori possibilità, come la
capacità di donare, il rispetto della propria libertà e identità nel rispetto della libertà e della identità
dell’altro, la volontà di perseguire un progetto riguardante l'altro e il suo bene al di là dei cedimenti
tanto del proprio egoismo quanto della propria compassione.
Il capitolo quinto affronta il problema della volontà del male relativamente al significato e al ruolo,
fondamentali, che, secondo Nietzsche, tale volontà ha avuto all'intemo delle comunità umane e
dell’esistenza individuale, e alla fenomenologia estremamente varia che, per Nietzsche, essa ha
storicamente manifestato.
Il capitolo sesto, nel quadro di un esame relativo ai motivi di attualità della riflessione nietzschena,
sottolinea il concetto nietzscheano della vita come esperienza (la cui possibilità è entrata in crisi
nella età moderna per il velocizzarsi della vita dell’uomo per il quale l’uomo vive in una condizione
di essenziale impressionabilità e superficialità), anzi come esperimento, ossia il concetto della vita
come rapporto particolare (fondato su un disciplinamento dell’azione e delle pulsioni) con l’alterità
(l’esperimento è rapporto con la alterità, con ciò che non si è do non si conosce); la osservazione
nietzschena relativa alla sofferenza come passaggio necessario per la costruzione, per sé e per gli
altri, di qualcosa di significativo; la necessità, che Nietzsche sostiene, che ciascuno possa affermare,
pur nel rapporto dialettico con l’altro, la propria particolare individualità, nel rispetto della quale
soltanto è, in ogni caso, la possibilità della propria felicità.
1    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[2].
2    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[174].
3 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 13[11].
4 Die fröhliche Wissenschaft, 334.
5 Ivi, 305.
6 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [182].
7 Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 4.
8 Morgenröthe, 178.
9 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [303].
10 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[166].
11 Ivi, 7[30],
12 Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 6.
13 Ibidem.
14    Morgenröthe, 462.
15    Ivi, 534.
16    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[179].
17    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [182],
18    Morgenröthe, 113.
Avvertenza. Alcune parti del presente volume sono già apparse in precedenti pubblicazioni.
Il capitolo secondo è stato pubblicato in «Paradigmi», 1995, 38, pp. 211-38.
Il capitolo terzo riproduce parte della Premessa e del paragrafo 2. 1 e i paragrafi 2.2 e 2.3 del saggio
Amore e alienzazione. L'amore-passione in Nietzsche e Proust, in F. Semerari (a cura di), Amore.
Itinerari di un’idea, Fasano 1996, Schena.
Il capitolo sesto è stato pubblicato in «Atti e Relazioni» della Accademia Pugliese delle Scienze
(Anni 1992/1993/1994), voi. XLIX.
A parte rari e limitati interventi a carattere integrativo o di natura formale, l'inserimento di richiami
interni agli altri scritti (editi e inediti) che compongono il volume e il cambiamento del sistema
formale delle citazioni, le parti già pubblicate sono qui riprodotte nella versione in cui
originariamente apparvero.

Capitolo primo. Cura di sé e alterità


1. Il problema
Nei confronti di una certa tradizione morale, che ha considerato come colpevole la cura che l’uomo
rivolge a se stesso, giudicando, invece, degna di lode solo la cura che l’uomo si prende dell’altro
uomo (ovvero giudicando degna di lode la cura rivolta a se stessi solo se intrapresa in vista della
cura degli altri, nella quale risiederebbe, così, il senso della cura di sé), nei confronti, cioè, della
tradizione morale cristiana (anche nelle sue versioni apparentemente non cristiane o anticristiane1),
che dell'altruismo e del sacrifìcio di sé ha fatto un principio fondamentale per il sentimento, il
pensiero e la azione dell’uomo2, Nietzsche afferma la legittimità e il dovere, per ciascun uomo,
di provvedere a se stesso, la legittimità e il dovere, per ciascun uomo, della cura di sé (senza nulla
togliere alla legittimità e allo stesso dovere, per ciascun uomo, della cura dell’altro da sé, sebbene
questo dovere e questa cura siano da Nietzsche intesi in un senso diverso da quello cristiano).
Quella di Nietzsche è una precisa e ferma presa di posizione nei confronti della morale tradizionale
nel suo insieme, giacché che cosa è stata la morale sino ad oggi? La risposta di Nietzsche a questa
domanda è nelle seguenti parole:
@
La moralità è stata finora l’imperativo a non occuparsi di se stessi in quanto si spostava la propria
riflessione e ci si privava del tempo e dell’energia a ciò necessari3.
£
La legittimità e il dovere della cura di sé ha un presupposto. II presupposto è il principio del
rispetto per se stessi : «Vorrei che si cominciasse col rispettare se stessi: ogni altra cosa segue
da questo»4. All’interno della tradizione, cui si è accennato, il rispetto di se stessi è qualcosa di così
inusuale e mal visto che, nel momento in cui si mostra di avere rispetto per se stessi, si è persi per
gli altri: rispettando se stessi, si cessa di esistere per gli altri: giacché proprio ciò essi perdonano
meno di tutto. Come, un uomo che rispetta se stesso?5
È nella prospettiva del rispetto per se stessi che si spiega la osservazione nietzscheana secondo la
quale
non pensare agli altri, e fare tutto con estremo rigore per se stessi, anche questa è un’alta moralità6.
La proposizione non nega che il pensare e l’agire per gli altri sia morale (o altamente morale): solo
sostiene che anche il pensare e l’agire per se stessi lo è.
Il fatto che la cura di sé sia legittima non significa, d’altra parte, in Nietzsche, né che l’uomo possa
realizzare la cura di sé attingendo solo a ‘se stesso’ senza riferirsi, in modi e sensi che possono
essere in ogni caso diversi, a ciò che è altro da sé (lo stesso ‘sé’ è, in realtà, il risultato di una serie
di relazioni con ciò che è fuori di esso), né che l’uomo debba chiudersi egoisticamente in se stesso e
nella cura del proprio sé (cura di sé come cura di un proprio sé egoisticamente concepito) e
non debba disporsi a una relazione con l’altro da sé che persegua, anche qui in modi e sensi diversi,
la cura, questa volta, dell’altro da sé (a questo riguardo si fa osservare che una efficace cura di sé è
anche la condizione per una efficace cura dell’altro da parte dell’io). Si pone, dunque, anche, in
Nietzsche, il problema della relazione con la alterità, da un lato, come problema di una relazione
necessaria e ineludibile per se stessi, per la propria esistenza, per la cura di sé, e, dall’altro, come
problema della assunzione dell’altro e del bene dell’altro come fine della propria stessa azione.
2. Unicità dell’ego. Mancanza di egoismo e individualizzazione dell’ego
Che cosa è cura di sé e perché, alla fine, è legittimo e doveroso, per l’uomo, avere cura di se stesso?
Cura di sé è cura dell’essere particolare che si è, cura dell’elemento personale del proprio essere.
Ciascun uomo, infatti, è o ha un essere particolare, diverso dall’essere di ciascun altro uomo. Cura
di sé, dunque, significa - non può che significare - cura del proprio sé particolare (ogni sé è un sé
particolare: il sé di ciascuno non può essere che particolare, cioè unico, diverso, distinto da quello di
ciascuno altro sé).
Dire ego significa dire ego particolare, ego unico. Secondo Nietzsche, «ciò di cui l'umanità soffre è
la mancanza di egoismo (der Mangel an Selbstsucht)»7. Con il termine ‘egoismo’ Nietzsche vuole
qui intendere non tanto un atteggiamento di chiusura in se stessi, di interesse esclusivo per se stessi,
di privilegiamento assoluto di se stessi, di cecità sostanziale nei confronti degli altri e delle loro
esigenze, quanto un atteggiamento di attenzione e cura per il proprio io effettivo, ossia per il proprio
io particolare e determinato. La mancanza, di cui l’umanità soffre, è la mancanza di una attenzione
e di una cura, da parte di ciascun uomo, nei confronti del proprio io effettivo, cioè particolare e
determinato. Gli uomini non hanno sinora fatto realmente e coerentemente attenzione al proprio ego
(particolare) disponendo il proprio comportamento e le proprie valutazioni sotto il metro di regole
«universali». È un punto centrale della riflessione nietzscheana, sul quale egli insistentemente
ritorna: «L’EGOISMO È ancora infinitamente debole (unendlich schwach)!»8. Nietzsche sottolinea
l’errore, che a suo giudizio comunemente si commette e consistente nel considerare egoismo
qualcosa che egoismo propriamente non è. È il caso dell’«egoismo» di chi è «avido e accumula un
patrimonio (istinto della famiglia, della tribù)», o del «vanitoso», il quale «valuta se stesso secondo
il metro del gregge», o dell’«uomo di Stato»: «costoro pensano soltanto a sé, ma a “sé” nella misura
in cui l’ego è sviluppato dall’affetto che forma il gregge. Egoismo delle madri, dei maestri»9. In
realtà accade molto raramente che ciascuno pensi veramente a sé, faccia veramente attenzione a sé -
al proprio sé reale, cioè particolare:
Ma si domandi una buona volta quanto pochi sono quelli che indagano a fondo: perché tu vivi qui?
Perché hai relazioni con quello? Come sei giunto a questa religione? Quale influenza esercita su di
te questa o quella dieta? Questa casa è stata costruita per te? e così via. Niente è più raro di una
definizione dell’EGO per noi stessi. Domina il pregiudizio che
si conosca l’EGO, che esso non manchi di farsi sentire continuamente; ma a ciò non si applica né
lavoro né intelligenza, - come se, per l’autoconoscenza, un’intuizione ci avesse dispensato dalla
ricerca!10
Che si pensi e faccia attenzione a sé - ciò è, dunque, soltanto, alla fine, un pregiudizio: la verità è
che mancano una attenzione e una cura specifiche del proprio specifico sé. Il proprio sé reale non è
affatto oggetto del lavoro e della intelligenza dell’uomo.
In effetti, «non trattiamo noi stessi come individui»11. Scrive Nietzsche: «Ricchezza di individui è
ricchezza di gente che non si vergogna più delle sue peculiarità (Eigenen) e
anormalità (Abweichenden)»12. In realtà, l’«egoismo» - la affermazione e la difesa delle proprie
particolarità e anormalità - «è stato diffamato come eresia da coloro che lo esercitavano (comunità,
sovrani, capi di partito, fondatori di religioni, filosofi come Platone): essi avevano bisogno del
sentimento contrario negli uomini che dovevano esplicare per loro una funzione»11.
L’egoismo - ripetiamo: la affermazione e la difesa del proprio io particolare - viene visto da
Nietzsche come fattore di progresso, di crescita per l’uomo. Ma, dal punto di vista di Nietzsche,
affinché ciò sia riconosciuto occorre fare i conti con una situazione, storicamente ben consolidata,
nella quale si è affermato un «falso concetto di armonia e di pace, come la condizione più utile» per
l’uomo, concetto al quale è stata legata l’idea di uguaglianza: l’armonia e la pace sono state viste,
cioè, come l’effetto di una situazione di uguaglianza, di una situazione in cui gli uomini non si
affermano e reciprocamente riconoscono nelle loro reciproche e reali differenze, ma in una loro
presunta e astratta identità. In questa prospettiva, nella prospettiva di una malintesa condizione di
armonia e di pace, «L’uguaglianza passa come qual-
cosa di vincolante e di desiderabile!»14. In realtà, «qualcosa di buono» si ottiene solo con
^antagonismo», anzi con un «forte antagonismo»: «L’opposizione è la forma della forza (dìe
Form der Kraft) - in pace come in guerra, conseguentemente debbono esistere forze diverse e non
uguali, altrimenti queste ultime si manterrebbero in equilibrio!»15.
Che l’opposizione sia la forma della forza, ciò significa - può significare - due cose distinte e, in
Nietzsche, in effetti, le significa entrambe. 1) Significa, in primo luogo, che la forza si manifesta
come opposizione, in forma di opposizione. Forza è capacità di opporsi a qualcosa. La capacità di
opporsi a qualcosa, a sua volta, viene intesa in due sensi diversi: a) come capacità di resistenza, di
difesa nei confronti di qualcosa. Nietzsche parla di un particolare «istinto di autoconservazione, che
si esprime nel modo più inequivocabile come istinto di autodifesa»16. L’istinto di autodifesa «non ci
comanda solamente di dire no, quando il sì sarebbe un segno di “altruismo”, ma anche di dire no il
meno possibile», allontanandoci - per evitare uno spreco abituale di forze che si tradurrebbe, alla
fine, in un «depauperamento straordinario e del tutto superfluo» - «da ciò che ci costringerebbe
continuamente al no»17, così come, d’altra parte, prescrive di «reagire il più raramente possibile, di
sottrarsi a situazioni e condizioni in cui si sarebbe in certo modo condannati a mettere in mostra la
nostra “libertà”, la nostra iniziativa, diventando così un semplice reagente»18; b) come capacità di
obiezione, di critica, di attacco, di aggressione, di «guerra» nei confronti di qualcosa: «Poter
essere nemico, essere nemico: già questo, forse, presuppone una natura forte, e in ogni caso è
proprio di ogni natura forte. Questa ha bisogno di resistenza, perciò cerca la resistenza; il pathos
aggressivo fa parte necessariamente della forza, così come il sentimento di vendetta e rancore fa
parte della debolezza»19. 2) Che la opposi-
zione sia la forma della forza può, in secondo luogo, significare che la forza si crea o, almeno, si
consolida attraverso la opposizione, per esempio, nella capacità di fare fronte al dolore:
la «disciplina formativa» del «grande dolore» attraverso cui «si educa» la «forza» dell’«anima»20.
Ma l'antagonismo presuppone l’esistenza di forze tra loro differenti e opposte, di forze che possono
affermarsi nella loro reciproca differenza e opposizione. In Nietzsche, tale antagonismo non è
necessariamente in contraddizione con armonia e pace. Come si è visto, l’opposizione riguarda sia
la condizione di guerra che la condizione di pace. Antagonismo ha da esservi «nel matrimonio,
nell’amicizia, nello Stato, nella confederazione di Stati, nella corporazione, nelle associazioni di
studiosi, nella religione»21, ossia in istituzioni la cui vita interna si basa non sulla semplice e pura
opposizione reciproca di coloro che ne fanno parte, ma su forme di varia colleganza e solidarietà.
Abbiamo visto che, per Nietzsche, «ricchezza di individui è ricchezza di gente che non si vergogna
della propria particolarità e anormalità». Non esiste «l’uomo», nota il filosofo, esistono solo gli
«individui» (al plurale)22. Nella realtà, noi non abbiamo a che fare con l’uomo, ma solo con
individui. L’uomo è solo un «concetto»23, che, come ogni concetto, è qualcosa da cui sono stati
espunti gli elementi individuali (gli elementi personali, irripetibili, legati alla particolarità di ciascun
individuo). E poiché, realmente, non esiste l’uomo, ma esistono solo individui - poiché, realmente,
non esiste qualcosa di generale o
universale, ma solo qualcosa di particolare e determinato -, non esiste, non può esistere uno «scopo
dell’uomo»24 (non può esistere lo scopo di qualcosa che non esiste, qualcosa che non esiste non può
avere uno scopo), esistono, possono esistere solo scopi individuali, tanti scopi quanti sono gli
individui esistenti. Pensare diversamente e operare secondo un diverso pensiero significa negare gli
individui ossia i soli esseri che realmente esistono. Sul punto della unicità o, al contrario, pluralità
degli scopi o degli «ideali» si decide la differenza tra morale del passato e nuova morale:
Tutte le morali passate partono dal presupposto di sapere per qual fine l’uomo esista: dunque dal
pregiudizio che il suo ideale sia noto. Oggi si sa che esistono molti ideali: la conseguenza ne è
l’individualismo dell’ideale, la negazione di una morale universale23.
Scrive, inoltre, Nietzsche:
@
Appena vogliamo determinare lo scopo dell’uomo, mettiamo innanzi un concetto dell’uomo. Ma
non vi sono se non individui; da ciò che si conosce finora, il concetto può essere ottenuto solo
cancellando l’elemento individuale - dunque, erigere lo scopo dell’uomo significherebbe ostacolare
gli individui nel loro divenire individuale, e ordinar loro di diventare generali. E, invece, non
dovrebbe ciascun individuo essere il tentativo di raggiungere una specie superiore all’uomo,
mediante le sue cose più individuali? La mia morale sarebbe: togliere all’uomo sempre più il suo
carattere generale e specializzarlo fino al punto di renderlo incomprensibile per gli altri (e con
ciò oggetto delle loro esperienze, del loro stupore, del loro ammaestramento26.
La moralità è essenzialmente consistita, sinora, nel conformarsi a tipi di valutazione e modelli di
comportamento eguali per tutti. La propria «unicità» (Einzigkeit) - e ciascun uomo è unico rispetto a
ogni altro uomo - è stata vissuta come qualcosa di improprio, di negativo, qualcosa da rimuovere o
tenere nascosto: qualcosa di cui davvero, dice Nietzsche, non andare «fieri»27. L’uomo sinora non
ha preso sul serio se stesso28, cioè, sempre, il proprio se stesso particolare. Scrive Nietzsche:
£
Quanto più il senso dell’unità con il prossimo prende il sopravvento, tanto più gli uomini vengono
uniformati, tanto più rigorosamente essi sentiranno immorale qualsiasi diversità29.
Il tema della individualizzazione degli scopi o ideali è ripreso
e approfondito in un frammento dedicato al problema della costruzione di «modelli» nostri di vita e
del significato e delle condizioni di possibilità di tale costruzione:
@
I nostri modelli sono costruiti secondo ciò che ci procurerebbe il massimo diletto di noi stessi se lo
raggiungessimo, e che, d’altra parte, riteniamo possibile raggiungere (nel dominio delle nostre forze
e della nostra situazione). Ciò presuppone l'essere orientati sui nostri sentimenti di piacere, e sulle
nostre forze e sul processo oltre che sulle condizioni - un’alta prestazione dell’intelletto: per lo più
dovrà essere un inventario!30
£
Costruire modelli nostri di vita significa costruire modelli che ci consentano di realizzare il
«massimo diletto» tenendo conto delle nostre particolari forze e capacità in rapporto alla situazione
effettiva nella quale ci muoviamo. Ciò richiede, come condizione necessaria, la conoscenza, da
parte nostra, di ciò che procura il nostro diletto (la conoscenza dei nostri «sentimenti di piacere») e,
insieme, delle nostre soggettive possibilità e della situazione oggettiva in cui operiamo. Ma a
questa duplice operazione, che presuppone una «prestazione dell’intelletto», non molti sono
disponibili. Per questo «i più si lasciano dare un modello e anche la coercizione a imitarlo
(“dovere”, una specie dì forza creduta invece che conosciuta)»31.
Lo sforzo, al quale Nietzsche invita l’uomo, verso una più accentuata individualizzazione del
proprio essere (dei propri scopi, ideali, modelli) non è altro che sforzo verso una più coerente e
radicale realizzazione del proprio essere, che è sempre, in ogni caso, un essere determinato,
particolare, individuale.  Come si vede dall’aforisma citato, quanto più si procede sulla strada della
individualizzazione del proprio essere tanto meno comprensibili si diventa per gli altri: quanto più si
radicalizza la differenza del proprio essere rispetto agli altri tanto meno
facilmente e immediatamente si è comprensibili da parte loro. Ma la possibilità della comprensione
rimane, Nietzsche la lascia intravvedere nel momento in cui osserva che, approfondendo
la individualità del proprio essere, si diventa oggetto delle esperienze altrui, oggetto di
ammaestramento per gli altri: se si rimanesse totalmente incomprensibili, per gli altri si
sarebbe soltanto motivo e occasione di «stupore»32.
Un frammento dell’autunno 1880 chiarisce ulteriormente il senso dell’«egoismo»
nietzscheanamente interpretato. Si tratta di un frammento, nel quale Nietzsche contrappone
l’egoismo, il suo egoismo, all’altruismo e vede il «progresso della morale» non già nello sviluppo
dell’altruismo, degli «istinti altruistici» (che egli intende in un certo modo), ma nello
sviluppo dell’egoismo (Egoismi), degli istinti «egoistici» (che egualmente egli intende in un certo
modo, specularmente opposto all’altruismo quale è da lui inteso)33. Il fine dell'altruismo -
viene detto - è l’eguaglianza: l’«istinto altruistico», anche nelle forme istituzionalizzate che assume
(per esempio nella forma dello Stato), «è un ostacolo a riconoscere l’individuo, esso vuole avere e
rendere gli altri soltanto eguali». Dice ancora Nietzsche: «Io vedo nella tendenza statale e sociale un
ostacolo per l’individuazione, una elaborazione dell 'homo communis». D’altra parte, - e con ciò
Nietzsche illustra quella che a suo giudizio è la genesi (o uno degli elementi che costituiscono la
genesi) dell’altruismo e della tendenza, ad esso propria, alla eguaglianza -, «l’uomo comune ed
eguale viene desiderato solo perché gli uomini deboli temono il forte individuo e preferiscono, in
luogo dello sviluppo verso l’individuo, l'indebolimento generale. Nella morale odierna vedo la
giustificazione dell’indebolimento generale: allo stesso modo che il cristianesimo voleva indebolire
e rendere eguali gli uomini forti e spirituali». L’altruismo come tendenza verso l’eguaglianza è,
dunque, espressione degli interessi di un tipo particolare di uomo: è espressione degli inte-
ressi degli uomini deboli nel loro rapporto verso gli uomini forti e tende a riequilibrare, a loro
vantaggio, il rapporto con gli uomini forti. L’egoismo, che Nietzsche contrappone all’altruismo, è -
in quanto contrapposizione alla tendenza, propria all’altruismo, alla eguaglianza - affermazione e
difesa delle differenze dei singoli individui, affermazione e difesa dell’essere proprio di ciascun
individuo di fronte all’essere proprio di ciascun altro individuo. Si tratta di far «crescere l’individuo,
che rappresenta i suoi interessi benintesi contro altri individui». E viceversa, si dovrebbe
aggiungere. Perché, nella prospettiva di questo egoismo, che Nietzsche sostiene, l’individuo
«riconosce e promuove l’altro individuo come tale», cioè nella sua individualità, nella sua
particolarità, nella sua differenza rispetto a lui: in questo senso si può anche parlare di una
«giustizia tra eguali». La individualizzazione, che tale egoismo promuove, riguarda sia se stessi che
l’altro da sé: si vuole affermare il proprio sé e, nel contempo, si vuole che l’altro affermi il proprio.
La nuova morale deve muoversi nel senso della crescente individualizzazione degli individui e
contrastare la morale altruistica, la cui tendenza è «la pappa molle, la sabbia malleabile
dell’umanità. La tendenza dei giudizi universali è la comunanza dei sentimenti, cioè la loro povertà
e fiacchezza. È la tendenza verso la fine dell’umanità. Le “verità assolute” sono strumento di
livellamento, esse corrodono e distruggono le forme caratteristiche»34. L’homo communis, l’uomo
uguale all’altro uomo, i giudizi e i sentimenti eguali e comuni: si tratta di pure astrazioni. Essi non
esistono nella realtà o, se esistono, esistono solo come forzatura della realtà, come costrizione degli
individui particolari e tra loro differenti - le uniche realtà esistenti - alla adozione di criteri di
giudizio, di sentimenti, di comportamenti presentati come universali ma, in effetti, essi stessi
prodotto della volontà e degli interessi di uomini o gruppi umani particolari. In quanto eguali,
comuni, e, perciò, astratti, irreali, non
espressivi dell’unica realtà che esiste - gli individui particolari e distinti e non l’uomo eguale,
l’uomo comune -, i sentimenti (e i pensieri, i comportamenti, ecc.) perdono forza e, con essi,
perdono forza e diventano astratti coloro stessi che li fanno propri, ossia coloro che fanno proprio
qualcosa che è loro estraneo: in questo senso l’umanità - non solo l’umanità come insieme di
individui e la cui esistenza dipende dalla possibilità degli individui di essere tali, ma, al limite, la
stessa umanità ridotta a «sabbia malleabile» - finisce: finisce per l’irrealtà e, perciò, per la povertà e
fiacchezza, dei sentimenti, dei pensieri, dei comportamenti degli uomini. Dice ancora Nietzsche a
questo proposito: «Se tutti gli uomini opinassero di essere una cosa sola o anche soltanto di essere
uguali, ne deriverebbe la più fiacca e più snervante sensazione che si potesse immaginare. Il
sentimento che ha più slancio, quello dell’amore ingenuo, consiste proprio nel sentire la
massima diversità»35.
L’ego individuale non è qualcosa di unitario, solido, compatto, pacificato, armonioso. L’ego
individuale è dualità o pluralità: è tensione di forze diverse, delle quali prevale ora l’una ora l’altra:
@
L’io non è la posizione di un essere rispetto a più esseri (istinti, pensieri, e così via); bensì, l’ego è
una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta, come
ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di
determinazioni. Il soggetto è ora in un punto ora nell’altro36.
£
Come esiste una pluralità di individui fra loro irriducibilmente distinti (e non «l’uomo»), così lo
stesso ego individuale è intimamente plurale. L’ego, si è appena detto, è una pluralità di forze, delle
quali prevale ora l’una ora l’altra: «Un istinto è più forte dell’altro e lo sacrifica a sé, per esempio
una madre soffre fame e affanni per il figlio»37. Un aforisma di Aurora dà una rappresentazione
della vita conflittuale degli istinti e del condizionamento,
positivo o negativo, che essi subiscono da parte del mondo esterno. Premesso che, «Per quanto uno
faccia progredire la sua conoscenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro
di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura», sì che «il loro nutrimento e la loro forza, il
loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le leggi del loro nutrimento
[...] resteranno del tutto sconosciuti», Nietzsche osserva che la vita degli istinti e le leggi del loro
nutrimento sono, in ogni caso, tali che si determina «sempre un duplice fenomeno, l’essere affamati
e languire degli uni, il rimpinzarsi, invece, degli altri»38. Infatti,
i nostri intimi eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’istinto, una preda che viene
subito avidamente afferrata, ma l'intero andirivieni di queste vicende sta al di fuori di ogni nesso
razionale con le esigenze nutritive di tutti quanti gli istinti [...] Ogni momento della nostra vita fa
crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece li atrofizza, secondo appunto il nutrimento
che quel determinato momento porta o no in se stesso. Le nostre esperienze, come si è detto,
sono tutte, in questo senso, mezzi d’alimentazione (Nahrungsmittel), ma sparsi con mano cieca,
senza sapere chi è che ha fame e chi è già sazio [...] Per parlare più chiaramente: posto che un
istinto si trovi al punto in cui brama appagarsi - o esercitare la sua forza, o sgravarsi di essa, o
colmare un vuoto (questo è tutto un discorso metaforico) - esso considererà ogni avvenimento della
giornata in vista del modo con cui potrà servirsene ai suoi fini; sia che l’uomo cammini o riposi, sia
che vada in collera, o legga, o parli, o combatta o tripudi, l’istinto, nella sua sete, palpa, per così
dire, ogni condizione in cui l’uomo si venga a trovare, e nella media dei casi non trova nulla per sé,
deve aspettare e aver sete ancora. Ancora un po’ e illanguidisce, ancora un paio di giorni o di mesi
d’inappagamento, ed esso allora inaridisce come una pianta senza pioggia39.
L’ego, però, si è anche visto, non è solo una pluralità di forze, tra loro in tensione, delle quali di
volta in volta prevale questa o quella, ma è una pluralità di forze, tra loro in tensione, delle quali
quella, che di volta in volta prevale, viene «alla ribalta come ego»: una forza particolare, che vive in
tensione con altre forze egualmente particolari, finisce, momentaneamente prevalendo sulle altre,
per considerare se stessa l' «ego totale»40, che rimane, invece, una pluralità di forze
antagonisticamente l’un l’altra disposte (la pluralità composta dalla forza che momentaneamente
prevale e dalle forze momentaneamente soccombenti): la forza momentaneamente prevalente
finisce per risolvere e ridurre l’ego, cioè la complessità di forze che l’ego è, a se stessa, cioè a un
elemento  particolare di tale complessità. In questo modo, l’ego appare quel che non è, cioè
qualcosa di unitario, solido, compatto, non interiormente scisso e scindibile. Scrive Nietzsche:
«quando gli istinti sono in lotta, il sentimento dell’io è sempre più forte lì dove uno di essi
prevale»41: il sentimento del proprio io coincide con l’istinto (in generale: la forza), che, di volta in
volta, prevale nella lotta contro altre forze. Di volta in volta, noi facciamo consistere il nostro io in
qualcosa di univoco (la forza momentaneamente prevalente) senza avere consapevolezza del fatto
che quel che di univoco noi indichiamo come io è solo una delle forze nella cui pluralità
antagonistica l’ego, invece, consiste. Osserva Nietzsche: «Per noi il prossimo si chiama “io” più di
ciò che è più lontano, e, abituati alla inesatta denominazione “io e tutti gli altri” (tu), istintivamente
trasformiamo ciò che momentaneamente predomina nell’ego totale e poniamo lungo una
prospettiva più lontana  tutti gli istinti più deboli, e di ciò facciamo tutto un “tu” o “esso”»42. Ciò
che è «prossimo», in questo caso, è la forza che, in un certo momento, risulta prevalente sulle altre
che, insieme ad essa, costituiscono l’ego. E poiché noi definiamo «io» più le cose prossime che le
cose più lontane, definiamo «io» la forza di volta in volta prevalente sulle altre, che per noi è
appunto quella di volta in volta più vicina: «le altre forze, le forze soccombenti, si sono allontanate
da noi e noi le releghiamo al ruolo di “altro” da noi, di “tu” o di “esso”».
L’ego, dunque, non è uno. Esso è una pluralità di forze in tensione fra loro. Questa, però, è solo una
parte (anche se importante, forse la fondamentale) della verità dell’ego. La verità dell’ego non è
solo nell’«egoismo» delle singole forze interne all’ego: «Ma che cosa vuol dire egoismo!
All’interno di noi stessi, possiamo di nuovo essere egoisti o altmisti, duri di cuore, magnanimi,
giusti, miti, bugiardi, voler far del male e procurare gioia»43. All’interno dell’ego non c’è solo
tensione tra forze diverse e in alterna reciproca prevalenza (con conseguente, come si è visto,
autopromozione della forza di volta in volta prevalente a «ego totale»), c’è anche collaborazione e
armonia: vi sono forze che assecondano altre forze, che fanno il bene di altre forze, sia pure,
probabilmente, con l’unico intento di assicurare a se stesse o alle forze con cui collaborano la
possibilità della prevalenza su altre forze ancora.
Nietzsche mostra la natura relazionale (relazione di opposizione o di armonizzazione) della
struttura interna dell’ego. Ma la relazionalità interna dell’ego, in particolare la relazionalità di
tipo antagonistico, è un riflesso della relazionalità dell’ego con l’esterno:
L’egoismo ingenuo dell’animale è completamente alterato dal nostro esercizio sociale-, non
riusciamo più affatto a sentire una unicità dell’ego, siamo sempre sotto una pluralità. Ci siamo
scissi e continuiamo a scinderci. Gli istinti sociali (come inimicizia, odio, invidia) (che
presuppongono una pluralità) ci hanno trasformato: abbiamo trasferito, rimpicciolendola, «la
società» dentro di noi, e il ritrarsi in se stessi non è una fuga dalla società, bensì, spesso, è un
penoso continuare a sognare e interpretare i nostri eventi secondo lo schema di esperienze
anteriori44.
Anteriorità del sociale sull’individuale e costituzione dell’individuale sul modello del sociale,
dunque. In questo stesso senso Nietzsche, inoltre, scrive:
Ci trattiamo come una pluralità, e in questi «rapporti sociali» portiamo tutte le abitudini sociali che
abbiamo verso uomini, animali, paesi, cose [...] Quali istinti avremmo che non ci porterebbero fin
da principio in una determinata posizione rispetto ad altri esseri, per esempio il nutrimento, l’istinto
sessuale? Ciò che gli altri ci insegnano, vogliono da noi, ci ordinano di temere o di perseguire, è il
materiale originario del nostro spirito: giudizi di altri sulle cose. Quelli ci danno la nostra immagine
di noi stessi, secondo la quale ci misuriamo, siamo o non siamo soddisfatti di noi! Il nostro giudizio
non è altro che la riproduzione di giudizi estranei combinati! I nostri stessi istinti ci appaiono
nell’interpretazione degli altri45.
Alla origine della delegittimazione dell’individuale vi è, per Nietzsche, la paura, variamente
motivata, dell’individuale. In termini molto generali, la paura dell’individuale è - se è vero
che l’individualità è sinonimo di particolarità, dunque di diversità - la paura di ciò che è divèrso da
sé e, almeno inizialmente, non si conosce e non si può, perciò, nemmeno prevedere e
controllare. Nietzsche scrive: «la paura e l’antipatia per ciò che è estraneo, diverso, è la cosa
naturale»46. Ma si potrebbe dire che, se questa paura e questa antipatia sono natura, la storia,
l’umano come lavoro sulla natura andranno, per Nietzsche, nel senso di una valutazione differente
dell’estraneo, del diverso, per la quale l’estraneo, il diverso non siano o non siano solo o
fondamentalmente causa di paura e di antipatia per l’io.
Si è già detto della paura dell’individuale propria dei deboli: è la paura degli individui forti che
porta i deboli a volere l’eguaglianza e l’altruismo come via per realizzarla. Vi è inoltre la
preoccupazione, come si è visto, di soggetti, individuali o collettivi, ‘egoisti’, che hanno interesse a
neutralizzare la individualità di altri soggetti, che per loro devono svolgere solo determinate
funzioni, annullandosi nella loro individualità ovvero piegando la propria individualità allo
svolgimento di tali funzioni47. E vi è poi
«la paura di ciò che è individuale, e il sospetto nei suoi riguardi», propria della società nel suo
insieme, che, di fronte all’individuale (all’individuale che non si conforma alle norme
universali, all’individuale che è, cioè, propriamente individuale), «non è più sicura di se stessa»48.
Nella paura, che la società o la «massa» ha dell’individuo, si riflette la sua preoccupazione per il
«bene comune», che può essere messo a repentaglio dai singoli individui:
Se la morale prescrive coraggio, fedeltà, astinenza al di fuori del matrimonio, essa non pensa, come
scopo, alla felicità dell'individuo, alla sua salute spirituale e fisica: piuttosto la sacrifica al bene
comune. Per la morale l’umanità inferiore di una massa ha un valore che essa non esita a pagare con
l’umanità superiore degli individui: così pure per la salute e la felicità49.
A proposito, in particolare, della paura che la società ha degli individui - degli uomini che sono
semplicemente se stessi, cioè individui - Nietzsche sottolinea la funzione di controllo e repressione
degli individui svolta nella sua epoca dal lavoro, del lavoro come «quella faticosa operosità che
dura dal mattino alla sera», del lavoro come ciò che «logora straordinariamente una gran quantità
d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare,
all’odiare», del lavoro come quella attività che «si pone sott’occhio un piccolo obiettivo e procura
lievi e regolari appagamenti»: oggi un tale lavoro «costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a
freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio
d’indipendenza»50. Sì che nella attuale «esaltazione del lavoro» è da vedere la «stessa riposta
intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di
ogni realtà individuale». Per Nietzsche, dunque, una società in cui dì continuo si lavora duramente,
avrà maggior sicu-
rezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma. E ora! «Orribile!», egli aggiunge con
evidente, anche se implicito, riferimento alle lotte operaie che in quei decenni in Europa già erano
esplose, «Proprio il “lavoratore” s’è fatto pericoloso! Gli “individui pericolosi” brulicano! E dietro
ad essi, il pericolo dei pericoli - l'individuum!»51.
Secondo Nietzsche, l’istinto sessuale rappresenta qualcosa di molto significativo per quanto
riguarda il processo di individualizzazione del proprio essere, perché esprime una scelta individuale
a favore di determinati individui, una preferenza personale per determinati esseri:
L’istinto sessuale compie i grandi passi dell’individuazione: importante per la mia morale, giacché
esso è antisociale e nega l’eguaglianza universale, e lo stesso valore da persona a persona. È il tipo
della passione individuale: la decadenza di un popolo avviene nella stessa misura in cui la passione
individuale si allenta e nel matrimonio prevalgono le ragioni sociali52.
Su un altro piano, espressione e sintomo di un avviato processo di individualizzazione sarebbe la
situazione per cui il «prossimo» è definito da ciascun individuo: la situazione per cui, cioè, ciascun
individuo decide per proprio conto chi sono quelli che saranno oggetto del suo aiuto, quelli cui, con
la propria azione, egli si renderà utile. Se «Il cristianesimo definì il prossimo come la meta delle
nostre azioni, e lasciò a Dio il compito di definire chi dovessero essere i nostri prossimi», al
contrario,
Colui che non ha questa via di uscita religiosa, dovrebbe dire: quanto alle azioni che compio, non
voglio lasciarmi imporre un prossimo qualsiasi come oggetto, bensì cercare coloro ai quali le mie
azioni meglio si adattano, ai quali esse veramente possono essere utili53.
Guardando alla propria epoca, tuttavia, Nietzsche, nonostante, per un verso, rilevi il predominio, in
ambiti differenti (morale, politico, scientifico), di posizioni egualitarie, osserva anche, per l’altro,
come il processo di individualizzazione risulti ben più sviluppato che nelle epoche precedenti, per
quanto, come vedremo poco più avanti, l’individualizzazione venga ancora sentita come «qualcosa
di penoso»:
Vi sono tante morali, oggi: il singolo sceglie spontaneamente quella che gli è più utile [...] Oggi, gli
uomini sono molto diseguali tra loro! Vi sono più individui che mai, non illudiamoci! Solo, non
sono pittoreschi e grossolanamente visibili, come prima54.
Dal punto di vista di Nietzsche, si tratta, da parte di ciascun individuo, di approfondire il processo di
individualizzazione del proprio essere di contro a un «movimento», che è «continuo», di segno
opposto, cioè il movimento a «formare specie, uomini, con tratti comuni: in questo senso lavorano
le città, gli Stati, le civiltà»55. Si tratta di approfondire tale processo di individualizzazione, nella
consapevolezza, tuttavia, che «potrebbe esservi un limite per il grado dell’individuazione», giacché,
oltre un certo limite, «Chi pensa e sente in modo anormale va in rovina, non può riprodursi»56.
Nietzsche così illustra il punto relativo all’«istinto» di individualizzazione:
In epoche in cui si sente l’individuazione come qualcosa di penoso, come nella nostra (e come in
tutta la storia morale passata dell’umanità), un tale istinto è difficilmente ereditabile. In epoche
nelle quali invece essa è sentita con piacere, facilmente eccede e determina l’isolamento estremo (e
così impedisce la fecondità generale dell’umanità). Quanto più vi è somiglianza, tanto più aumenta
la fecondità, ognuno incontra la femmina adatta: dunque sovrappopolazione al seguito della
morale57.
3. Condizioni e articolazione della cura di sé. Cura di sé e felicità
Posto che «anche» la cura di sé può essere moralmente valida, anzi rappresentare una «alta
moralità», posto, inoltre, che cura di sé è cura di sé nella sua propria particolarità, diventa
necessario, per l’uomo che di sé intenda prendersi cura, conoscere il proprio particolare sé. Questa
può essere indicata come una prima condizione della cura di sé. Conoscere il proprio sé
particolare significa, poi, conoscere i bisogni particolari di cui esso è fatto. Occorre che ciascuno
sia «conoscitore» dei propri bisogni, «per esempio riguardo ai cibi, agli abiti, all’abitazione, al
riscaldamento, al clima, ecc.»58. Il principio, che ispira questa conoscenza, è quello secondo cui è
bene
Impostare la propria vita esattamente in base a ciò che possiamo giudicare - in questo si promuove
la moralità di tutti, cioè si costringe ogni artigiano a trattarci onestamente, perché siamo conoscitori.
Un bisogno nel quale non vogliamo diventare conoscitori, dobbiamo proibirlo a noi stessi: questa è
la nuova moralità59.
Occorre, da parte dell’uomo, «comprendere il ritmo abituale del suo pensiero e del suo sentire, i
suoi bisogni di nutrimento intellettuale»60, senza tralasciare - e in ciò si vede in maniera evidente
che il problema della cura di sé non è affatto dissociabile dal problema del rapporto con la alterità
(ma di ciò più avanti) -di «modellarsi sui suoi avversari», di «tentare di mangiare il
loro nutrimento», più in generale, di «viaggiare in ogni senso»61.
Occorre, d’altra parte, che gli uomini imparino «il nuovo desi-
derio - e a questo fine bisogna che vi sia qualcuno che lo stimoli per loro, un maestro: ho fiducia
che poi saranno abbastanza fini e pieni di inventiva per trovare da sé le vie per soddisfare il
desiderio - passo passo e tentoni, come son soliti fare»62. Della cura di sé fa, quindi, anche parte la
elaborazione, da parte del singolo individuo, dei modi in cui soddisfare i propri desideri.
Altra condizione, che all’uomo che vuol prendersi cura di sé si impone, è quella di sviluppare o
aprirsi a bisogni e desideri per il cui soddisfacimento vi siano possibilità soggettive (forza, capacità
di chi ha un certo bisogno o un certo desiderio). Come si è visto, i «nostri modelli», a differenza dei
modelli che ci vengono imposti dall’esterno o che, in ogni caso, noi dall’esterno assumiamo, sono
elaborati a partire da ciò che «riteniamo possibile raggiungere» sulla base della «nostra forza»63.
Ciò non soltanto per evitare di muoversi a vuoto, per evitare la frustrazione di una mancata
realizzazione, ma anche, come risulta dal seguente frammento, per educare se stessi alla
indipendenza della propria persona:
Soddisfare per quanto è possibile da sé, anche se imperfettamente, i propri bisogni necessari, è
questa la direzione che porta alla libertà dello spirito e della persona. Il farsi soddisfare, e il più
perfettamente possibile, molti bisogni, anche superflui, - educa alla dipendenza. Il sofista Ippia, che
aveva acquistato da sé, fatto da sé tutto ciò che portava di dentro e di fuori, corrisponde, appunto in
ciò, alla direzione che porta alla più alta libertà della persona. Non importa che tutto sia lavorato in
modo ugualmente buono e perfetto; già la fierezza rattoppa i punti logori64.
Ai fini della cura del proprio sé necessarie sono, poi, la critica e la lotta contro tutto ciò che (si può
trattare di doveri o auto-
rità o regole sociali o di altro ancora, per esempio, per quel che si è visto Nietzsche osserva su di
esso, il lavoro quale è sviluppato nella società moderna), in ogni caso, rappresenti una negazione
dell’essere proprio di ciascuno. È quanto emerge, fra l’altro, dalla Prefazione del 1886 a Umano,
troppo umano, lì dove si illustra il processo di formazione dello spirito libero, per il quale l’uomo da
una posizione di subalternità nei confronti di determinati doveri e autorità perviene, attraverso il
passaggio di una libertà selvaggia e anche crudele - una libertà ancora immatura -, alla «matura
libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto disciplina del cuore»65: coloro che
in questo processo sono coinvolti si allontanano da «tutto ciò che è degno e venerato dall’antichità»,
da «quella riconoscenza per il suolo sul quale crebbero, per la mano che li guidò, per il santuario
dove impararono a pregare»66. O è quanto emerge da un frammento del 1884 dove una via alla
propria liberazione è indicata nel «rovesciare ciò che è più venerato, affermare ciò che è più
proibito, la gioia maligna in grande stile, invece delle riverenza»67.
Della cura di sé fa parte anche il diventare «padroni di se stessi»: è il problema del governo della
sfera dei propri istinti, dei propri umori dei propri stati d’ànimo:
Per la mancanza di dominio di sé nelle piccole cose si frantuma la capacità per quelle grandi. È
male utilizzato, ed è un pericolo per quello prossimo, ogni giorno in cui non ci si sia ricusata
almeno una volta qualche piccola cosa: questa ginnastica è indispensabile se ci si vuole conservare
la gioia di essere padroni di se stessi68.
È il grande problema nietzscheano (sul quale più avanti ci soffermiamo) della autodisciplina
dell’uomo, della disciplina, da parte dell’uomo, delle proprie forze e delle proprie pulsioni, un
problema che, in un frammento, Nietzsche illustra, con riferimento a se stesso, attraverso la
immagine del giardiniere che cura il proprio giardino:
@
Io posso trattarmi proprio come un giardiniere tratta le sue piante: posso allontanarmi da un luogo e
da una compagnia, posso avvicinarmene altri. Posso anche favorire artificialmente o far inaridire
questa tendenza a procedere con me stesso come un giardiniere69.
£
Nella cura di sé quel che è in gioco è la stessa felicità dell’uomo. A questo proposito ricordiamo,
innanzitutto, la osservazione di Nietzsche secondo la quale occorre avere rispetto per la propria
felicità. Come, si è visto70, occorre avere rispetto per se stessi così occorre avere rispetto per la
propria felicità o, meglio, il rispetto della propria felicità non è che un aspetto del rispetto di se
stessi. Scrive Nietzsche:
@
No, io non son fatto per aggravare ancora la coscienza degli uomini! Voglio che abbiano più
considerazione (mehr Acht) della loro felicità, «di tutte le cento sorgenti» anche nel deserto, come
dice un poeta tedesco, e pensino meglio che in passato della loro infelicità e incapacità, delle loro
non virtù - esse sono altrettanto utili, e probabilmente proprio qui risiedono le loro condizioni
peculiari di piacere, felicità, forza, virtù71.
£
Il riferimento alla interpretazione, che della infelicità in passato gli uomini hanno data, è
probabilmente riferimento alle interpretazione, che a lungo ha avuto corso, della infelicità come
espiazione di una colpa commessa dall’uomo. Il problema della felicità è legato, dunque, al
problema del rispetto per se stessi e, perciò, al problema della cura di sé nella quale il rispetto di sé
prende forma concreta.
È nello sviluppo del proprio essere particolare, infatti, che risiede la felicità dell’individuo. Ciascun
uomo ha tendenze, bisogni, attitudini particolari, la cui attuazione fa la sua felicità. La felicità è un
fatto individuale, qualcosa che varia da individuo a individuo, perché è realizzazione della
particolarità (come tendenze, bisogni, attitudini, ecc.) che ciascun individuo è. In questo senso può
essere letta la affermazione che «La felicità risiede nell’incremento dell’originalità»: perciò, «se la
tradizione e il così fan tutti costituiscono la moralità, questo sarebbe un ostacolo alla felicità»72. Il
principio della originalità come fonte della felicità non riguarda, del resto, solo il rapporto
dell’uomo con se stesso, ma anche il rapporto del’uomo con gli altri uomini.. Prefigurando una
condizione del rapporto interpersonale diversa da quella tradizionale, Nietzsche, infatti, scrive che
«Provare gioia dell’originalità altrui senza diventarne la scimmia, forse sarà un tempo il segno di
una nuova cultura»73. Ma provare gioia per la diversità altrui non è altro, per Nietzsche, che la
esperienza stessa dell’amore74. È perché si è felici solo assecondando e realizzando se stessi nella
particolarità del proprio essere - diversamente, cioè se viene fatta violenza a tale particolarità,
l’uomo trova la propria infelicità -, che Nietzsche può scrivere che «l’eguaglianza fa diminuire
la felicità dell’individuo»75. Per la stessa ragione, ancora, nell’uomo «la capacità di gioire si
atrofizza a causa della volontà di essere uguali»76.
4. La costruzione dell'ego: il problema dell’autodisciplina.
Una filosofia del piccolo, del lento, del vicino
Sviluppo del proprio sé e realizzazione della propria felicità vanno, di conseguenza, di pari passo. In
un frammento del 1880 si trovano illustrati, da un lato, il carattere sia del sé sia della felicità del sé
come risultato di una costruzione dell’uomo (di una cura, da parte dell’uomo, di se stesso, una cura
che è anche costruzione, e non semplice assistenza o custodia di qualcosa da sempre e per sempre
definito nel proprio essere e che sarebbe solo da conservare così com’è), e, dall’altro, la
connessione esistente tra costruzione del sé e costruzione della felicità:
@
Ogni azione, ogni pensiero, ogni stimolo edifica la felicità o l’infelicità dell’avvenire; essi
costruiscono il tuo animo, le tue abitudini; non c’è nulla di indifferente77.
£
Se è vero che Nietzsche ha sottolineato l’importanza del dimenticare78, del «chiudere i conti» con il
passato79, con certe proprie esperienze passate, ¡’importanza, dunque, della rottura con la storia,
della discontinuità storica - nella capacità di dimenticare, vista come un segno di forza dell’uomo80,
un sintomo dell’«essere benriuscito»81, identificando la condizione per non farsi schiacciare da
determinate proprie passate esperienze82 o «affinché vi sia ancora posto per il nuovo»83 -, è anche
vero che egli ha sottolineato l’importanza del passato, della storia, della continuità, della tradizione.
Egli scrive: «Ogni bene è eredità: quel che non è ereditato, è incompiuto, è comin-
ciamento...»84: ogni cosa bella, riuscita, è il risultato di una storia, di una continuità d’azione e
d’intenti, di una costanza nell’impegno personale, nella adozione di un metodo di lavoro, di uno
stile di vita.
È qualcosa che si acquista anche la bellezza di una razza o di una famiglia, la sua grazia e bontà in
ogni atteggiamento: al pari del genio, essa è il risultato conclusivo del lavoro accumulato di
generazioni. Si deve aver fatto grandi sacrifici per il buon gusto, per amor suo si deve aver fatto
molte cose e molte tralasciate - il XVII secolo in Francia è ammirevole sotto entrambi questi aspetti
-, si deve aver avuto nel buon gusto un principio di scelta per la società, l’ambiente,
l’abbigliamento, l’appagamento sessuale, si deve aver preferito la bellezza all’utile, all’abitudine,
all’opinione, all’indolenza. Regola suprema: occorre non «lasciarsi andare» neppure dinanzi a se
stessi. Le cose buone sono costose oltre misura: ed è sempre valida la legge che chi le possiede è
diverso da chi le acquista85.
Anche il «bene» particolare della felicità è «eredità» nel senso da Nietzsche precisato nel brano
appena citato. La felicità e la infelicità - così come l’«animo» - dell’uomo sono il risultato di una
storia fatta delle azioni compiute, dei pensieri sviluppati, delle reazioni (positive o negative)
prodotte nei confronti degli stimoli cui si è stati sottoposti. Occorre, perciò, fare attenzione alle
proprie azioni, ai propri pensieri, alle proprie reazioni sì da orientare azioni, pensieri, reazioni nel
senso della costruzione della propria felicità e della lotta contro la propria infelicità.
Già da quanto si è appena detto si vede che la cura di sé, dalla quale dipende la propria stessa
felicità personale, è disciplina di sé, disciplina delle proprie pulsioni, delle proprie forze, delle
proprie possibilità. È questo un punto sicuramente molto importante della riflessione nietzscheana
più impegnata nella
costruzione del futuro, di un futuro diverso rispetto al passato e al presente della storia dell’uomo.
Cura di sé è attenzione, impegno, applicazione, costanza, metodo nell’esercizio delle proprie
possibilità, in una parola: disciplina, che, a seconda di come viene praticata dai singoli individui, dà
il risultato vario degli «stili» individuali particolari.
«“Dare uno stile” al proprio carattere - è un’arte grande e rara!»86. Dare uno stile è quella arte per la
quale è «la costrizione imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come nel
piccolo: se il gusto era buono o cattivo, ha meno importanza di quel che si pensi - è sufficiente che
esso sia un gusto unitario!»87. Dare uno stile è l’arte con la quale si lavora se stessi - si costruisce se
stessi piegando se stessi, organizzando la propria «natura» in rapporto a un progetto determinato e
alle regole che esso impone:
Qui si è aggiunta una gran quantità di natura secondaria, là si è eliminato un frammento di natura
primaria: in tutti e due i casi, con un lungo esercizio e un quotidiano lavoro.
Ora sottoporre se stessi a disciplina, a una lunga, quotidiana e severa disciplina, da se stessi definita,
è segno di un potere dell’uomo su se stesso: «Saranno le nature forti e dominatrici a godere la loro
gioia più sottile in tale costrizione, in tale vincolata disciplina e compiutezza sotto una propria
legge». Essi non soffrono, ma anzi trovano motivo di gioia di fronte allo «spettacolo di ogni natura
stilizzata, di ogni natura vinta e ridotta in servitù»: «ripugna loro abbandonare la natura alla sua
libertà». Che cosa accade, invece, nel caso degli spiriti deboli?
Inversamente si comportano i caratteri deboli, impotenti su se stessi, i quali odiano la disciplina
vincolante dello stile; sentono che se questa dannata costrizione fosse loro imposta, dovrebbero
sotto di essa diventare gente dappoco: essi diventano degli schiavi non appena ren-
dono un servizio, così odiano il servire. Tali spiriti - possono essere spiriti di prim’ordine - mirano
sempre a plasmare o interpretare - selvaggiamente, arbitrariamente, fantasticamente,
disordinatamente, sorprendentemente - se stessi e quanto li circonda come Ubera natura88.
Solo apparentemente è libero colui che lascia vivere senza restrizione la propria natura e servo colui
il quale la sottopone a disciplina. In realtà, servo è il primo perché non sa che dire di sì ai propri
istinti e impulsi naturali nel momento e nella forma in cui si presentano (e ciò può avere per lui
conseguenze anche disastrose), libero è il secondo perché agli stessi istinti e pulsioni sa, nel caso,
dire di no (con conseguenze positive per il proprio stesso bene).
È in rapporto alla necessità della autodisciplina che va visto il recupero, del quale Nietzsche
sostiene egualmente la necessità, di alcune nozioni e pratiche, che vanno salvate dalla «rovina» cui
le ha condannate «l’abuso fattone dalla Chiesa»: la nozione e la pratica della «ascesi» in quanto
strumento della «educazione della volontà» (Nietzsche critica il «nostro assurdo mondo
di educatori», che «crede di cavarsela con l’“istruzione”, con l’ammaestramento del cervello»); la
nozione e la pratica del «digiuno», «anche come mezzo per mantenere la sottile capacità di godere
di tutte le buone cose (per esempio ogni tanto non leggere, non sentir più musica, non essere più
amabile; bisogna avere anche giorni di digiuno per la propria virtù)»; la nozione e la pratica del
«chiostro»: «un uscire dal girotondo del milieu, un uscire dalla tirannia delle rovinose piccole
abitudini e regole; una lotta contro lo sciupio delle nostre forze in mere reazioni; un tentativo di dar
tempo alle nostre forze di accumularsi, di ridivenire spontanee»89.
Il problema della autodisciplina - la cura di sé è questa auto-disciplina - è del tutto centrale in
Nietzsche: non si potrebbe essere, qui, più lontani da qualsiasi idea di abbandono alla natu-
ra, alla propria natura, alla immediatezza della propria natura, dei propri istinti, impulsi naturali, sia
che si tratti della natura natura, per così dire, ammesso che nell’uomo si presenti mai qualcosa come
una tale natura, sia che si tratti di quella «seconda natura» che la storia, l’educazione cuciono
addosso all’uomo come una seconda pelle:
@
Dato il modo in cui oggi veniamo educati, noi riceviamo in primo luogo ima seconda natura: e
quando il mondo ci dice maturi, maggiori d’età, utilizzabili, noi la possediamo. Pochi sono
abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno questa pelle di dosso, allorquando, sotto il suo guscio,
è maturata la loro prima natura. Nei più, avvizzisce il seme di essa90.
£
Ove l’uomo non abbia avuto la possibilità di praticare una rigorosa autodisciplina, ove l’uomo non
abbia cioè avuto la possibilità di «mettersi a una buona scuola» - il problema della disciplina è il
problema stesso di una tale scuola -, un destino decisamente negativo lo attende: il non aver avuto
una buona scuola produce conseguenze irreparabili:
@
Una persona siffatta non conosce se stessa; essa attraversa la vita senza aver imparato a camminare;
la mollezza dei muscoli si tradisce a ogni passo91.
£
In questo caso l’uomo può essere salvato solo, paradossalmente, da una situazione drammatica che
per lui si verifichi, come «un’infermità di anni forse, che lanci una sfida per una estrema tensione
della forza di volontà e al saper bastare a se stessi», o da una situazione straordinaria, come «una
situazione di emergenza che si produce bruscamente, contemporaneamente anche per moglie e figli,
e che costringe a un’attività che restituisce energia alle fibre fiaccate e ridà tenacia alla volontà di
vivere». Ma «la cosa più desiderabile resta in tutte le le cir-
costanze una dura disciplina al tempo giusto, cioè in quell’età ancora in cui si è fieri di vedersi
chiedere molto». Può essere interessante vedere quali sono, per Nietzsche, i caratteri di una «buona
scuola» ovvero i caratteri di una «dura disciplina»: nella buona scuola «si chiede molto» e «con
severità», «si chiede il buono e anche l’eccellente come cosa normale», «la lode è rara»,
«l’indulgenza manca», «il biasimo viene espresso con forza, oggettivamente, senza riguardi per il
talento e l’origine». Dice Nietzsche:
@
Di una tale scuola si ha bisogno sotto ogni aspetto: ciò vale delle cose più materiali come di quelle
più spirituali. Sarebbe disastroso star qui a distinguere! La stessa disciplina rende valenti il militare
e lo studioso; e visto da vicino, non c’è studioso di valore che non abbia in sé gli istinti di un
militare di valore92.
£
Attenzione, impegno, applicazione, costanza, metodo, esercizio: abbiamo visto Nietzsche
rivendicare la fondamentalità dell’esercizio, da parte dell’uomo, di tali qualità. Tali qualità vanno
coltivate ed esercitate se si vuol ottenere qualcosa di buono e importante non solo per sé ma anche
per gli altri, per sé e, quindi, anche per gli altri: «Far di sé una persona completa e tener presente in
ogni cosa che si faccia il più alto bene di essa», ciò rappresenta la condizione perché gli altri
possano trarre, essi stessi, il massimo vantaggio da colui che in questo modo si prende cura di sé93.
Il problema della cura di sé non è, così, solo il problema della determinazione delle condizioni della
propria felicità personale, ma anche il problema della determinazione delle condizioni di una
propria cura valida, efficace nei confronti degli altri.
Attenzione, impegno, applicazione, ecc.: sono tutte cose che si svolgono nel tempo, o richiedono
tempo, o significano tempo. Nietzsche crede nel tempo e nei benefici che il tempo - il tempo
impiegato a costruire, a curare sé e la propria opera
-    può portare. Riprendendo l’idea nietzscheana che ogni bene è eredità, si può notare che, dal
punto di vista del filosofo, il problema della possibilità del bene è il problema non solo di quel che
si eredita da altri, ma anche di quel che si eredita da  se stessi, ovvero dalla propria attenzione, dal
proprio impegno, dalla propria applicazione, ecc. dispiegati nella continuità del tempo (anche se il
saper essere eredi di se stessi può essere considerato, a sua volta, una eredità acquisita da altri). Si
tratta di raccogliere i frutti che si sono seminati, i frutti che, per quantità e qualità, corrispondono a
quel che si è seminato, a quel che si è saputo seminare: ma i frutti si raccolgono se prima si è,
appunto, seminato. E, per seminare, occorre tempo: occorre tempo per seminare attenzione,
impegno, applicazione, ecc. Si semina nel tempo e poi, nel tempo e con il tempo, quel che si è
seminato si raccoglie.
Questo ‘principio’ ha, per Nietzsche, validità generale, nel senso che riguarda qualsiasi attività
l’uomo intraprenda e svolga. Vale anche, in particolare, per la attività artistica. Il riferimento alla
attività artistica appare, da questo punto di vista, tanto più significativamente rivelativo della
validità del principio quanto più una certa estetica ha considerato, invece, la attività artistica e
l’opera d’arte come il risultato, principalmente, di «improvvise intuizioni, le cosiddette ispirazioni»,
«come se»
-    dice Nietzsche in un luogo che agli artisti accomuna gli stessi filosofi - «l’idea dell’opera d’arte,
del poema, il pensiero base di una filosofia scendessero a illuminarli dal cielo come un raggio di
grazia», cioè come se quella idea e quel pensiero venissero fuori dal nulla, da nessun lavoro
precedente, da nessuna ricerca, da nessuna applicazione: la verità è che, nel campo dell’arte, «Tutti i
grandi furono grandi lavoratori (grosse Arbeiter), instancabili non solo nell’inventare, ma anche
nel respingere, vagliare, trasformare, ordinare»94. Né, d’altra parte, attività artistica e opera d’arte
possono spiegarsi solo in base a (presunti) «talenti innati (angeborenen Talenten)»95: alle teorie,
che spiegano l’arte con il riferimento a «talenti innati», così come alle teorie che spiegano l’arte con
improvvise e, in realtà, misteriose e inspiegabili ispirazioni, si tratta di opporre la «solida serietà di
mestiere (tüchtigen Handwerker-Ernst)». I «grandi uomini di ogni specie», rileva Nietzsche,
@
acquistarono grandezza, divennero «geni» (come si dice), con qualità della cui mancanza non parla
volentieri nessuno che ne sia consapevole: essi avevano tutti quella solida serietà di mestiere, che
impara a formare perfettamente le parti prima di osar comporre un gran tutto; a tal fine essi
prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene il piccolo, il secondario, che
nel mirare all’effetto di un insieme abbagliante96.
£
Così, per esempio, per chi voglia «diventare un buon novelliere», v’è una «ricetta» da seguire, la cui
esecuzione, però, «presuppone qualità su cui si suol passare sopra quando si dice: “Io non ho
abbastanza talento”». Quali sono queste qualità? Sono le qualità che fanno la «serietà del mestiere».
Scrive Nietzsche:
@
Si provi a fare cento e più abbozzi di novelle, ciascuno non più lungo di due pagine, ma di tale
chiarezza, che ogni parola sia in esso necessaria; si scrivano ogni giorno aneddoti, finché non si
impari a trovare la loro forma più pregnante, più efficace; si sia instancabili nel raccogliere e
dipingere tipi e caratteri umani; si racconti soprattutto il più spesso possibile e si ascolti raccontare,
con occhio e orecchio attenti all’effetto prodotto sugli altri presenti, si viaggi come un pittore
paesaggista e disegnatore di costumi, si estragga dalle singole scienze tutto ciò che produce effetti
artistici quando è ben presentato, si rifletta infine sui motivi delle azioni umane, non si disdegni
alcuna indicazione per istruirsi in questo campo e si faccia giorno e notte collezione di cose siffatte.
In questa molteplice esercitazione si lascino passare una decina d’anni: ciò che poi viene creato in
laboratorio, può uscire anche alla luce del sole. Ma come fanno i più? Non cominciano con la parte,
bensì col tutto. Hanno magari una volta la mano
felice, destano attenzione e fanno da allora in poi cose sempre peggiori, per buoni, naturali motivi97.
£
Il talento non è nulla di semplicemente naturale. Anche il talento è frutto della storia, del tempo, è
frutto, in particolare -Nietzsche insiste -, di un processo di apprendimento che, nel tempo, con il
tempo, si realizza:
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Che altro è il talento se non un nome per una parte più antica d’apprendimento, d’esperienza, di
tirocinio, di appropriazione, di assimilazione, sia pure all’epoca dei nostri padri e ancor prima? E
d’altro canto, colui che apprende, dota se stesso salvo il fatto che non è così facile apprendere e non
è soltanto questione di buona volontà; si deve saper  apprendere {man muss lernen können)98.
£
Nietzsche nota che all’apprendimento, in un artista,
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spesso si oppone rinvidia, o quella superbia che, non appena avverte qualche cosa di estraneo, mette
in mostra gli aculei e si pone macchinalmente in un atteggiamento di difesa anziché in quello
dell’apprendimento. Entrambi questi sentimenti erano assenti in Raffaello, come in Goethe, e fu per
questo che essi furono grandi apprendisti (grosse Lerner), e non soltanto gli sfruttatori di quei
filoni .minerari, cavati dai sedimenti terrosi e dalla storia dei loro antenati99.
£
Nietzsche può così criticare l’idea che Michelangelo aveva rispettivamente di se stesso e di
Raffaello: in se stesso vedeva il talento, nell’altro l’apprendimento100. Come si è visto,
per Nietzsche talento e apprendimento non sono realtà diverse che non hanno niente a che fare l’una
con l’altra ed espressive di due tipi differenti di personalità, ma il talento è il portato di un processo,
a volte anche molto lungo, che attraversa più generazioni successive, di apprendimento.
Nietzsche crede nel tempo, nell’effetto cumulativo di quel che nel tempo, in un senso o nell’altro, si
viene producendo.
Disgraziati coloro che vogliono raggiungere d’un balzo solo la virtù con una metamorfosi! E si
disperano per ogni ricaduta! Mentre l'esercizio fa il maestro (Ubung den Màster macht)101.
Poiché crede nel tempo, negli effetti di una azione (positiva o negativa) continuata nel tempo, egli
mette in guardia contro le «innumerevoli piccole inavvertite negligenze», a causa delle
quali insorgono le «malattie croniche dell’anima, come quelle del corpo»: nelle proprie piccole e
quotidiane, ripetute, continue mancanze, più che in «saltuari, grossolani trascorsi contro la
struttura razionale del corpo e dell’anima», è l'origine della cronicità delle malattie sia dell’anima
che del corpo:
Chi, per esempio, ogni giorno di più respira, sia pure in misura insignificante, in maniera troppo
debole, e accoglie nei polmoni una troppo scarsa quantità d’aria, così che questi non vengono
totalmente affaticati ed esercitati a sufficienza, finisce per incorrere in un disturbo polmonare
cronico: in un caso del genere non può ottenersi la guarigione in alcun altro modo se non
intraprendendo, a nostra volta, innumerevoli piccoli esercizi in senso opposto, e
contraendo inavvertitamente altre abitudini, per esempio, col porsi la regola di trarre, ogni quarto
d’ora, un forte e profondo respiro (possibilmente stando sdraiati sul pavimento; un orologio che
suoni i tre quarti, deve essere, inoltre, scelto a compagno della vita). Lente e minute sono tutte
queste terapie: anche chi vuol risanare la sua anima deve riflettere sulla trasformazione delle più
piccole abitudini102.
Come la malattia dell’anima o del corpo è l’effetto cumulativo di una serie di comportamenti,
atteggiamenti o pensieri negativi prodotti nel corso del tempo così la guarigione dell’anima o del
corpo non sarà il risultato di un isolato e particolare comportamento, atteggiamento o pensiero, per
quanto di
segno opposto a quelli che hanno portato alla malattia, ma sarà, anche qui, l’effetto cumulativo di
una serie di comportamenti, atteggiamenti o pensieri positivi prodotti nel tempo dall’uomo. È il
problema delle «Terapie lente», come dice il titolo dell’aforisma di Aurora, dal quale sono tratti i
brani appena citati, o, detto diversamente, della terapia delle «piccole dosi», come dice il titolo di un
altro aforisma della stessa opera:
@
Se una trasformazione deve andare più a fondo possibile, si somministri il farmaco in dosi minime,
ma ininterrottamente, per lunghi periodi di tempo. Che cosa c’è di grande che possa essere creato in
un baleno? Così dobbiamo guardarci dall’alterare precipitosamente e a viva forza, con una nuova
valutazione delle cose, lo stato della morale al quale siamo abituati: no, vogliamo continuare a
viverci ancora tanto a lungo, finché, presumibilmente molto tardi, ci accorgeremo che il nuovo
apprezzamento di valore ha acquistato in noi un potere preponderante e che le piccole dosi di
questo apprezzamento, al quale a partire da oggi ci dobbiamo abituare, hanno posto in noi una
nuova natura. Si comincia anzi a capire che anche l’ultimo tentativo di un grande mutamento di
valutazione, e precisamente riguardo alle questioni politiche, - la «grande Rivoluzione» -, non è
stato nulla di più di una ciarlataneria patetica e sanguinosa, che attraverso improvvise crisi è riuscita
a infondere nell’Europa dei credenti la speranza di un’improvvisa guarigione (plotzliche Genesung)
- e con ciò ha reso fino a questo momento impazienti e pericolosi tutti i malati politici103.
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A proposito della cautela da esercitare nell’allontanarsi da consolidate tradizioni quando non si sia
costruito ancora qualcosa di nuovo su cui edificare la propria esistenza, e a proposito della lentezza
con cui ogni crescita procede (proprio questa lentezza consiglia quella cautela), ecco un’altra
osservazione nietzscheana:
Non lasciar perire qualcosa che sussiste da lungo tempo - una prassi cauta, perché ogni crescita è
talmente lenta e anche il terreno è così
raramente favorevole alla seminagione. Deviare le forze esistenti verso altri effetti!104.
Terapie lente e minute, piccole dosi, passaggi graduali: ciò è necessario perché qualcosa di buono e
di grande, qualcosa di significativo si produca per il singolo e per la società. Sono i piccoli ma
continui interventi dell’uomo in una direzione precisa che determinano, nei differenti ambiti
(artistico, morale, politico), grandi effetti. Le grandi conversioni dell’anima, i grandi cambiamenti
della struttura sociale sono solo l’ultimo atto di una serie di piccole e continue azioni costantemente
prodotte da singoli o da gruppi in un senso determinato. Il grande è preparato dal piccolo e poiché il
piccolo è, in realtà, una serie di piccole, minute azioni coerentemente svolte nella continuità del
tempo, il grande è preparato non solo dal piccolo, ma anche dal «lento».
La filosofia della cura di sé è una filosofia di «tutte le cose prossime (aller nächsten Dinge)»105.
Emerge così una caratterizzazione della filosofia nietzscheana come filosofia del piccolo, del lento e
del vicino. Verso le cose prossime, «a cui, in realtà, gli uomini attribuiscono la massima
importanza», gli uomini sogliono mostrare un «simulato disprezzo», mostrando, invece, di
apprezzare - un apprezzamento che «non è quasi mai del tutto genuino» - le cosiddette «cose più
importanti» indicate dalla religione e dalla metafisica. Poiché le cose prossime, «come per esempio
il mangiare, l’abitare, il vestirsi, l’aver rapporti sociali», sono disprezzate, esse non diventano
«oggetto di riflessione e di riforma costante, serena e generale, e invece, poiché esse sono reputate
degradanti, si distoglie da esse la propria serietà intellettuale e artistica»: il risultato è che
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le nostre continue trasgressioni delle più semplici leggi del corpo e dello spirito creano in noi tutti,
giovani e vecchi, una vergognosa
dipendenza e mancanza di libertà - voglio dire quella dipendenza, in fondo non necessaria, da
medici, insegnanti e curatori d’anime, la cui pressione grava ancor oggi sull’intera società106.
Il fatto è - Nietzsche ribadisce - che
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le cose più vicine di tutte vengono dai più molto malamente viste e molto raramente tenute in conto.
E questo è indifferente? - Ma si consideri che da questa mancanza derivano quasi tutte le infermità
fisiche e spirituali dei singoli: il non sapere che cosa ci fa bene e che cosa ci fa male nell’impianto
della condotta di vita, nella ripartizione del giorno e del tempo e nella scelta dei rapporti sociali,
nella professione e nel tempo libero, nel comandare e nell’obbedire, nel sentire la natura e l’arte,
nel mangiare, nel dormire e nel pensare; l’essere ignoranti e il non aver occhi acuti in ciò che è più
piccolo e ordinario - ecco ciò che fa della terra per tanti una «prateria della sventura»107.
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Nietzsche indica dei responsabili della situazione, che per l’uomo è negativa e per la quale la sua
attenzione è stornata dalle «cose piccole», «vicinissime». Responsabili sono «Preti e maestri, e la
sublime ambizione di dominio degli idealisti di ogni specie, di quella grossolana e di quella fine»:
essi insegnano all’uomo, sin dall’infanzia, che
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ciò che conta è tutt’altro: è la salvezza dell’anima, il servizio dello Stato, il progresso della scienza,
o la considerazione e la ricchezza, come mezzi per rendere servigi all’intera umanità, mentre il
bisogno del singolo, le sue necessità grandi e piccole entro le ventiquattro ore del giorno sarebbero
qualcosa di spregevole o di indifferente108.
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Dalla sua parte Nietzsche convoca, qui, Socrate, il quale «si difendeva con tutte le forze contro
questa altezzosa trascuratezza dell’umano a favore dell’uomo, e con un detto di Omero soleva
richiamare al vero àmbito e all’essenza di tutte le cure e i pensieri: “è ciò e solo ciò” diceva “che mi
accade a casa di bene e di male”»109.
5. La relazione di alterità
5.1 .La relazione nutrizionale
Un primo aspetto del rapporto dell’uomo con la alterità riguarda la possibilità, per lui, di soddisfare,
grazie alla alterità, il proprio bisogno (differente da uomo a uomo) di «nutrimento». Nella varia
moltephcità delle sue espressioni, la alterità rappresenta, per ciascun uomo, una fonte di nutrimento
a diversi livelli. Al riguardo Nietzsche rappresenta il rapporto io-altro come un rapporto di «furto»
continuo del primo nei confronti del secondo, situazione, questa, che rende problematico definire il
concetto stesso di proprietà, il concetto di ciò che è proprio di un qualsiasi individuo, di ciò che, in
un qualsiasi individuo, è, quanto alla origine, dovuto solo a lui. Ad essere messa in discussione e, di
fatto, respinta è, qui, ogni concezione atomistica dell’individuo. Scrive Nietzsche:
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«Non rubare!». Ma dove finisce la proprietà? [...] noi continuiamo a rubare tutto. Rubiamo e
assorbiamo dentro di noi tutte le cose e tutti i soli, per noi stessi portiamo avanti tutto ciò che esiste,
anzi, ciò che un tempo è accaduto. Nel far questo non pensiamo agli altri. Ogni uomo individuale
considera quanto riesce a metter da parte per sé110.
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È un riconoscimento esplicito della importanza, per chiunque, della alterità: occorre sottolineare,
forse, il significato se non altro di fatto antiindividualistico (relazionale) di tale rico-
noscimento. La logica, rappresentata nel brano appena citato, è quella del nutrimento individuale
per mezzo della alterità: logica per la quale ci si rivolge alla alterità senza pensare alla alterità, ci si
nutre della alterità ma non in vista della alterità, bensì in vista solo di se stessi. Il non pensare agli
altri, del quale Nietzsche parla con riferimento a una situazione in cui è proprio degli altri che ci si
nutre, sta forse a dire che, in questo caso, non si pensa agli altri come a fini, ma si pensa agli
altri solo come a strumenti: strumenti, appunto, del proprio individuale nutrimento. Il non pensare
agli altri, di cui Nietzsche parla, non può essere preso alla lettera perché, invece, è proprio agli altri,
in un certo senso, che si sta pensando: si sta pensando agli altri proprio perché ci si sta nutrendo
degli altri (si sta pensando per lo meno a quegli altri di cui ci si sta nutrendo). Il senso del non
pensare agli altri dovrebbe essere, perciò, qui, che non si pensa agli altri come a propri fini (vi si
pensa, invece, nel caso di quei particolari altri di cui ci si sta nutrendo, come a propri mezzi, a
mezzi del proprio nutrimento). Quello rappresentato nel brano è il movimento, con il quale
si ‘cattura’ la alterità per crescere individualmente, per appagare proprie personali esigenze e
bisogni di nutrimento. La identità individuale si viene definendo proprio attraverso la
relazione ‘nutrizionale’, che l’individuo stabilisce con la alterità. Con queste premesse, che cosa è
proprietà individuale? Dove finisce la proprietà - ciò che è proprio - dell’uno e dove inizia
la proprietà - ciò che è proprio - dell’altro? Diventa difficile e, anzi, impossibile rispondere a questa
domanda nel momento in cui si riconosce che ciascun uomo ‘viene’ dall’altro, dagli altri, in
generale dalla realtà ‘fuori’ di lui, nel momento in cui si riconosce che ciascun uomo è quello che è
e diventa quello che diventa in virtù del suo nutrirsi dell’apporto che proviene dagli altri uomini e
dalla realtà in genere (presente e passata).
Nietzsche riafferma, per questa via, il principio di relazione. Per quanto riguarda il principio della
relazione in Nietzsche, ricordiamo quel che una volta, riguardo, in particolare, al problema della
determinazione del valore della moralità - egli ha scritto: «sempre relazioni (immer Relationen): il
valore assoluto è un’assurdità (Unsinn)»111. E ricordiamo anche la seguente annotazione:
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Posto che il mio libro esistesse ancora soltanto nelle teste degli uomini, in un certo senso sarebbe
fatto tutto di LORO pensieri e del LORO essere - sarebbe una «somma di relazioni» (Summe
von Relationen). E perciò non è niente di più? Similitudine per tutte le cose. Parimenti il nostro
«prossimo». Il fatto che un oggetto si dissolva in una somma di relazioni, non dimostra nulla contro
la sua realtà112.
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Ogni oggetto, dunque, è una «somma di relazioni». Filosofia del piccolo, del vicino, del lento, come
si è visto, quella nietzscheana appare anche, ora, come una filosofìa della relazione. Potremmo dire,
in maniera più particolare, che nella idea che la identità di ciascuno si definisce grazie al
nutrimento, da parte di ciascuno, della alterità è racchiuso un principio che, nel nostro secolo, John
Dewey formulerà come principio di transazione, ossia il principio per il quale la relazione, che tra
gli uomini e tra gli enti in genere sussiste, è una relazione costitutiva della identità degli uomini o
degli enti tra i quali la relazione sussiste: ogni uomo e in genere ogni ente non è definito in se stesso
prima e fuori della relazione con altri uomini o altri enti, ma in se stesso si definisce attraverso il
processo relazionale113.
Il riferimento, contenuto nella parte finale del brano poco fa riportato, all’«uomo individuale» che,
degli altri nutrendosi, agli altri non pensa allude a una dimensione dell’essere individuale
caratterizzata dal rapporto dell’uomo con se stesso più che con gli altri o, più esattamente, dal
rapporto con se stesso
come fine e con gli altri come strumenti di tale fine. Se pensiamo alla sottolineatura di questa
dimensione dell’essere umano, ma se, d’altra parte, teniamo conto di affermazioni di segno diverso
presenti in Nietzsche, affermazioni che alludono a una relazione con l’altro nella quale l'altro ‘non
appare come semplice strumento (è il caso, come vedremo, della relazione di amicizia o della
relazione di amore), dovremmo dire che, in Nietzsche, vi è la indicazione di due dimensioni
dell’essere individuale, una, la dimensione «nutrizionale», nella quale «non pensiamo agli altri»,
caratterizzata dal rapporto dell’individuo con se stesso (con la crescita o la semplice difesa di sé)
come unico suo fine, l’altra caratterizzata dal rapporto dell'individuo con gli altri assunti essi stessi
come (un) suo proprio fine.
Ma riprendiamo la questione della identità o «proprietà» individuale come frutto di una «somma» di
relazioni di alterità. Osserva, ancora, Nietzsche:
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L’onestà riguardo alla proprietà ci impone di dire che noi siamo il risultato di furti (wir ganz
zusammengestohlen sind), e che in ciò la nostra sensibilità è troppo ottusa e grossolana. L’individuo
ha un falso orgoglio quanto alla materia e ai colori: ma può dipingere un nuovo quadro, che
entusiasmerà i conoscitori - in tal modo egli compensa le sue usurpazioni dei beni del mondo.
Concepire la nostra esistenza in modo da fare qualcosa in cambio di ciò - non come «colpa»
ma come anticipo e debito! Noi ci nutriamo di tutto, è giusto che restituiamo qualcosa per il
nutrimento di tutti. (Cristo non ebbe finezza in questo sentimento, egli comunicò come cosa sua
propria ciò che altri prima di lui avevano pensato)114.
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Teniamo presente il richiamo alla onestà come invito al riconoscimento del fatto che noi dobbiamo
il nostro essere a ciò che è altro da noi: onestà è, qui, riconoscere la presenza dell’altro in noi.
Altrove, con riferimento sempre itila questione generale della relazione io-altro, Nietzsche ricorrerà
(come più avanti vedremo) alla stessa parola, ‘onestà’, per dire che l’one-
stà vuole che noi riconosciamo gli altri nella loro effettiva realtà, cioè nella loro particolarità (la
realtà degli altri è di essere sempre e solo particolari altri)115. Nel brano riportato, dunque, si
ribadisce l’idea antiatomistica che noi, ciascuno nella sua individualità, siamo il risultato di una
serie continua di relazioni di appropriazione, da parte nostra, di tutto ciò che è ‘fuori’ di noi (ma
diventa qui problematico fare riferimento a concetti come ‘dentro’ e ‘fuori’ ovvero a coppie del tipo
‘dentro-fuori’, perché il ‘dentro’ si costruisce grazie al ‘fuori’, il ‘dentro’ è già ‘fuori’). Nel brano
inoltre - e con ciò si allude a un piano che non è più solo quello dell’essere o del fatto, ma quello del
dover essere o dell’ideale -, si accenna al movimento opposto a quello della appropriazione, del
finto, del nutrimento, cioè al movimento della restituzione, anche anticipata, al «tutto» di quel
che dal «tutto» si è ricevuto: la nostra esistenza andrebbe concepita anche proprio come questo
movimento di restituzione. Questa restituzione è indicata come giustizia.
L’interesse per la alterità, che si realizza «uscendo da noi», ovvero sentendo come l’altro sente,
vedendo la realtà secondo la prospettiva dell’altro (leggendo un libro, ad esempio, «Dobbiamo
sentire come l’autore - è ciò morale? - tutta la costa con i monti, il mare e gli olivi e con incantevoli
pini solitari, tutto dobbiamo scoprire»), tale interesse, ovvero «il piacere per le cose straniere (die
Lust am Fremeteti)», è ciò per cui noi «possiamo crescere e diventare più ricchi!»115.
L’interesse per la alterità, che, come si è detto, si attua nei termini di una uscita dell’uomo da se
stesso e di una assunzione della prospettiva dell’altro, è anche ciò per cui, rispetto agli altri,
noi diventiamo «come i loro viaggiatori e scopritori», il che ci consente di «arrecare loro bene e
male, affinché essi mostrino la bellezza loro propria, sia questa solare o tempestosa»116.
L’arricchimento di sé, ottenuto nutrendosi della alterità, nutrendosi di «tutto» ciò che è fuori di noi,
è una meta che, in
generale, Nietzsche indica come valida per l’uomo, fatti salvi -ciò che è richiesto dalla necessità, da
Nietzsche riconosciuta, della affermazione, da parte di ciascuno, della propria individualità
in rapporto alle individualità altrui - i modi individuali, diversi tra loro, in cui nutrirsi della alterità.
Secondo Nietzsche, occorre, come egli scrive in un frammento del 1881, «allargare il concetto di
nutrimento (Den Begriff der Ernährung erweitern)»117. Il punto da tenere presente è, per Nietzsche,
quello di «non impostare male la propria vita, come fanno coloro che mirano alla
mera conservazione di sé»118. Nutrimento non è, non deve essere solo quello che ci consente di
conservare la nostra vita, ma tutto ciò che ci consente di promuoverla, di arricchirla:
Noi vogliamo tendere verso gli altri, verso tutto ciò che è fuori di noi, come verso il nostro
nutrimento119.
Nietzsche insiste sulla necessità, per l’uomo, di uscire da se stesso, da ciò che già è, sulla necessità
che l’uomo si perda a se stesso: «occorre saper perderci per qualche tempo, se vogliamo imparare
qualche cosa da ciò che non siamo noi»120. Insiste sulla necessità, per l’uomo, di uscire dal contesto
già definito della propria esistenza. Questo contesto può essere qualcosa di molto particolare, molto
‘locale’, come il contesto delle «tradizioni popolari». Egli scrive:
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Non si deve dare più ascolto alle persone che lamentano la fine delle tradizioni popolari (nei
costumi, nella morale, nei concetti giuridici, nei dialetti, nelle forme di poesia, e così via). Proprio a
questo prezzo ci si innalza al sopranazionale, agli scopi generali dell’umanità, al sapere radicale,
alla comprensione e al godimento di ciò che è passato e non è familiare; insomma, proprio così si
smette di essere barbari121.
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La condizione per diventare ricchi nutrendosi di alterità è in ciò che, si è visto, il filosofo definisce
«piacere per le cose straniere». Se cerchiamo di immaginare come il mondo appare a colui, che è
capace di tale piacere, dovremmo dire che il mondo gli appare come una molteplicità di enti
individuali differenti, la conoscenza di ciascuno dei quali gli arreca, in linea di principio, pur nella
eventuale o inevitabile difficoltà, piccola o grande, motivi di gioia. L’altro non è causa di timore o
fastidio, o non è solo o tanto questa causa, quanto occasione per lo stabilirsi di un rapporto
comunque, alla fine, positivo per se stessi. Nel brano precedentemente riportato, si accenna, d’altra
parte, a un altro motivo della relazione di alterità, cioè al motivo per il quale, aprendoci all’altro,
diventando suoi «viaggiatori e scopritori», noi possiamo aiutarlo a mostrare la sua bellezza propria:
aprendoci all’altro, conoscendolo, possiamo rendergli un servizio.
Ma proprio sulla possibilità di una relazione nutrizionale con la alterità si constata una differenza
fra gli uomini. Vi è chi è aperto alla alterità, chi la alterità ricerca e con la alterità riesce a stabilire
rapporti estesi e intensi, e vi è chi - pur essendosi definito, inevitabilmente, sulla base di un
rapporto, forse più subito che voluto, con la alterità, con il ‘fuori’ - si chiude (relativamente) al
rapporto con la alterità, bloccandolo al livello raggiunto o variamente riducendolo sino,
eventualmente, al minimo possibile (fino a quel punto, al di qua del quale egli stesso non potrebbe
più vivere, o vivere nel modo in cui egli in ogni caso vuol vivere o si accontenta di vivere): chiusura
nei confronti degli altri, della conoscenza in generale della realtà, ecc. Se un certo tipo di rapporto
con la alterità porta all’arricchimento individuale, un altro tipo di rapporto con la alterità
porta all’impoverimento individuale. Vi sono, così, esseri ricchi e esseri poveri, a seconda del grado
di alterità che riescono ad assorbire. In un caso avremo un uomo ricco, nell’altro un uomo povero.
Ma ricchezza e povertà non misurano solo la condizione dell’uomo che, rispettivamente, ha accolto
molto e ha accolto poco, in se stesso, della alterità, ma anche la attitudine dell’uomo ad accogliere,
in se stesso, la alterità. Ricco è l’uo-
mo aperto nei confronti della alterità, povero è l’uomo chiuso nei confronti di essa. Chi è, in
particolare, da questo secondo punto di vista, l’«uomo povero»? Scrive Nietzsche:
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un uomo che non prova alcun amore e interesse per gli altri è ai miei occhi uno che non vuole
guadagnare, che si nega un piacere o manca di intelligenza, è privo di distrazioni, è un uomo
povero122.
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L’alterità, con la quale si ha relazione, può essere oggetto di una scelta precisa da parte dell’uomo:
l’uomo, la cui identità è il risultato di una «somma di relazioni», può scegliere colui o coloro o ciò
con cui avere relazione e, quindi, decidere di orientare in un senso preciso, attraverso la relazione o
le relazioni così stabilite, il proprio essere individuale. Nietzsche descrive questa situazione nei
termini del passaggio da un tipo di relazione legato alla casualità a un tipo di relazione legato alla
propria libertà e possibilità di scelta: la relazione, in un caso, è qualcosa in cui ci si trova coinvolti,
nell’altro, qualcosa da consapevolmente costruire. Egli scrive:
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Nello stadio della superiore liberazione dello spirito si deve sostituire tutto quanto nella vita è legato
alla casualità naturale con cose necessarie e scelte da noi stessi. Chi si è trovato ad avere amici non
degni di lui deve distaccarsene; in certi casi bisogna scegliersi anche un nuovo padre, nuovi figli123.
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Ma, nella valutazione nietzscheana, di tale scelta non sempre e non tutti gli uomini sono capaci: si
ripropone, anche su questo piano, la questione di una differenza fra gli uomini. È il problema della
capacità dell’uomo di prendere congedo da ciò che la casualità naturale, o storica, ha per lui
determinato e di riorientare la propria esistenza sulla base di proprie decisioni.
Non tutti gli uomini sono «spiriti liberi», vi sono anche uomini che sono «spiriti vincolati»:
Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento, bensì per abitudine; è per
esempio cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e per aver scelto fra esse; è inglese, non
per essersi deciso per l’Inghilterra; egli semplicemente si è trovato davanti il Cristianesimo e la
qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci sopra, come uno che, nato in un paese
vinicolo, diventa bevitore di vino124.
Lo spirito vincolato è un uomo di fede, perché «L’abitudine a princìpi intellettuali non ragionati si
chiama fede»125. Lo spirito libero è, invece, l’uomo che ragiona e, ragionando, effettua determinate
scelte che possono portarlo ad allontanarsi da condizioni che la natura o la storia ha determinato per
lui.
Nella relazione di alterità, in cui la alterità è nutrimento dell’io, la alterità appare come strumento
dell’io. È l’io che si nutre della alterità e grazie alla alterità - non necessariamente, in ogni caso, a
spese della alterità. Nella relazione nutrizionale di alterità, la alterità non appare come un fine: come
si è visto, in questa relazione, l’io, che degli altri si nutre, non pensa agli altri come a un fine
(possiamo forse dire: non pensa, come a un fine, né a quelli stessi di cui si nutre né ad altri), o,
almeno, questo pensiero non è immanente a una relazione di questo tipo. Si può notare, tuttavia, che
già il guardare alla alterità come fonte del proprio nutrimento è un riconoscimento di fatto della
importanza, varia a seconda della intensità del bisogno di nutrimento, della alterità di cui ci si nutre.
Riprendiamo un frammento al quale ci siamo già riferiti: «Per nutrirci ci è necessario, più di ogni
altro cibo, il piacere per le cose straniere. Il gusto dell’uomo è necessario per il nostro nutrimento
(Nahrung)»126. Ma il piacere per le cose straniere - un piacere, questo, che
dovrebbe essere inconciliabile con qualsiasi volontà di dominio o distruzione nei confronti della
alterità così come con qualsiasi atteggiamento di risentimento e vendetta verso di essa - il piacere
per le cose straniere non dovrebbe portare chi tale piacere prova al rispetto, alla tutela, alla cura
delle cose per cui egli prova piacere? Il piacere per le cose straniere, sia pure per scopi
autonutrizionali, non s’incontra, in qualche modo, in Nietzsche, con la definizione stessa
dell’amore? L’amore, infatti, come si è visto, non è che gioia e comprensione di ciò che è diverso da
noi. Si può, d’altra parte, ricordare che, illustrando gli effetti positivi per l’io (arricchimento
individuale) della relazione nutrizionale, Nietzsche non manca di notare che, nutrendoci degli altri e
diventando, in vista di ciò, loro «viaggiatori e scopritori», creiamo le condizioni perché, da
parte nostra, si determini anche per gli altri qualcosa di positivo: la relazione nutrizionale di alterità
può avere effetti positivi non solo sull’io, ma anche sull’altro di cui ci si nutre.
Si persegua, attraverso la relazione di alterità, l’arricchimento del proprio ego (logica nutrizionale)
o, al contrario, un fine che riguarda la alterità (o anche la alterità, oltre se stessi), occorre che la
alterità sia conosciuta in se stessa, nella sua effettiva realtà, da chi ad essa si rapporta. Occorre,
perciò,
@
considerare prima di tutto l'altro uomo come una cosa, come un oggetto della conoscenza, al quale
si deve rendere giustizia: l'onestà proibisce di misconoscerlo, anzi di trattarlo partendo da un
qualsiasi presupposto inventato o superficiale. Far del bene è la stessa cosa che portare alla luce una
pianta per vederla meglio - anche far del male può essere un mezzo necessario perché la natura si
disveli. Non trattare tutti come persone, ma come persone fatte in questo o quel modo (als so und
so beschaffenen Menschen): primo criterio! Come qualcosa che deve essere conosciuto, prima di
poter essere trattato in questo o quel modo. Una morale con prescrizioni universali fa torto a ogni
individuo127.
£
Se, come qui accade, Nietzsche sostiene la necessità di conoscere gli altri con i quali si ha a che
fare], per sapere come trattarli senza far loro torto, e questa conoscenza egli indica come una
questione di onestà, è anche vero che, altrove, egli indica la conoscenza degli altri come qualcosa di
impossibile da realizzare. In un frammento si legge: «L’altruismo non riguarda altri individui, bensì
essere immaginari eguali. Aiutare l’individuo è impossibile, perché non lo si può
conoscere. L’inconoscibile - questo è il prossimo»128. In maniera analoga Nietzsche si esprime in
quest’altro frammento: «L’amore del prossimo è amore per la nostra rappresentazione del
prossimo. Noi possiamo amare soltanto noi stessi, perché ci conosciamo. La morale dell’altruismo è
impossibile»129. In un altro luogo Nietzsche ribadisce la impossibilità di aiutare l’individuo
in quanto individuo e afferma, invece, la possibilità di aiutarlo solo in quanto appartenente a una
categoria determinata e generale di individui: «Possiamo aiutare il prossimo soltanto classificandolo
in una specie (malati, carcerati, mendicanti, artisti, bambini), e così abbassandolo: l’individuo non
può essere aiutato»130. Ma se l’altro è inconoscibile nella sua individualità, cioè nella sua realtà,
come sono possibili, quale senso possono avere, in particolare, relazioni, pure affermate da
Nietzsche, come quelle di amore o di amicizia, ossia relazioni nelle quali è in gioco il bene
dell’altro, un bene che deve essere pur conosciuto per poter essere perseguito? Ma, d’altra parte, la
stessa relazione strumentale di alterità come può aver luogo? Per rapportarsi all’altro sia pure come
strumento, occorre pure sapere chi l’altro è, quali sono le sue caratteristiche. Nietzsche
qui introduce un assoluto, quell’assoluto cui, pure, altrove, ha negato titoli di legittimità (l’assoluto
come patologia): l’assoluto, in questo caso, non di qualcosa di positivo (la verità assoluta,
per esempio), ma di qualcosa di negativo: la assoluta inconoscibi-
lità, per ciascuno, dell’altro. Perché qui Nietzsche non ammette la possibilità di una conoscenza
relativa, parziale? Quanto alla conoscenza di se stessi, di cui in uno dei brani citati, come in altri
luoghi, si afferma la possibilità, va, viceversa, ricordato che, altrove, Nietzsche ha sottolineato come
l’uomo conosca se stesso solo fino a un certo punto: vi sono elementi, e sono tanti e forse i più
importanti dell’essere dell’uomo, che sfuggono alla sua coscienza: «tutto ciò che entra nella
coscienza costituisce l’ultimo anello di una catena, una chiusura [...]. I veri avvenimenti concatenati
si svolgono al di sotto della nostra coscienza: le serie e successione di sentimenti, pensieri, eccetera,
che si producono, sono solo sintomi del vero accadere!»131. La conoscenza di sé è qualcosa di
relativo e parziale: si è già visto come Nietzsche sottolinei l’assoluta incompletezza, per l’uomo, del
«quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura»132. I motivi, che determinano le
nostre decisioni e le nostre azioni, sono motivi che «in parte non conosciamo affatto, in parte
conosciamo assai male e che non possiamo mai in precedenza calcolare nel loro rapporto»133. E se,
come è «probabile», c’è un «conflitto» reciproco fra tali motivi, si deve dire che si tratta di
«qualcosa d’assolutamente invisibile e incosciente per noi»: «è bensì vero», Nietzsche osserva, «che
io conosco quel che in conclusione faccio, ma quale sia il motivo che con tutto ciò è propriamente
riuscito vincitore, non lo vengo a sapere. Ci siamo però ben abituati a non valutare questi processi
incoscienti e a pensare la preparazione di un atto solo in quanto è cosciente»134.
Per Nietzsche, oltre un certo limite, lo stesso occuparsi degli altri, lo stesso prendersi cura degli altri
rappresenta un vero e proprio atto di prepotenza o di prevaricazione nei loro confronti. Oltre un
certo limite, il prendersi cura degli altri mette in discussione
la loro libertà (a parte il fatto che rimane molto difficile occuparsi dell’altro: si tratta, per Nietzsche,
come vedremo più avanti, di interventi che rimangono alla superficie dei problemi
dell’altro). Nietzsche ha sottolineato esplicitamente la necessità che, nella cura degli altri, si sappia
osservare una misura, non si superi un certo limite, superando il quale si creerebbe, invece, una
situazione difficilmente sopportabile da parte di colui che della cura è l'atto oggetto e che vedrebbe
la propria sfera vitale invasa da chi di lui si prende cura:
@
Se si ammettesse che ristinto dell’affetto e della premura per gli altri (l’«affezione simpatetica»)
diventasse due volte più forte di quel che già è, esso non potrebbe più essere sopportato su questa
terra. Ci si limiti a considerare le pazzie cui ognuno va incontro, ogni giorno e ogni ora, per l’affetto
e la premura che porta a se stesso, e come egli in tutto questo sia insopportabile a vedersi: che
succederebbe se noi diventassimo per altri l’oggetto di queste follie e di questa fastidiosa
invadenza? Non ci si darebbe subito alla fuga, appena si avvicinasse a noi un «prossimo»? E non
copriremmo l’affezione simpatetica degli stessi epiteti ingiuriosi che abbiamo oggi in serbo per
l’egoismo?135
£
Oltretutto, si potrebbe dire che, superato un certo limite, la cura dell’altro finirebbe per rendere
l’uomo, oggetto della cura, dipendente, per quanto riguarda il soddisfacimento dei propri
bisogni, da coloro che di lui si prendono cura, cosa che, come si è visto, è, per Nietzsche,
assolutamente da evitare: è vero, infatti, che, per Nietzsche, ci si nutre e ci si deve nutrire di alterità,
- in questo senso si dipende sempre da altri o da altro che da se stessi -, ma è anche vero che, per
Nietzsche, è lo stesso soggetto, che avverte il bisogno di un certo nutrimento, che, per salvaguardare
la propria indipendenza, deve cercare di soddisfare il più possibile da sé i propri bisogni per i quali
- in ciò non sbagliando - si rivolge alla alterità di essa nutrendosi.
L’altro è necessario perché l’io sia: ciò tanto se l’io mira a conservare semplicemente il proprio
essere quanto se esso mira, inve-
ce, ad arricchirlo. Nietzsche sottolinea la funzione di condizionamento e di stimolo, positivo o al
contrario negativo, che su quel che avviene in noi esercita lo sguardo degli altri:
@
Quel che si può osservare in noi cresce o appassisce sotto l’influenza della luce che si irradia su di
noi dagli altri uomini: è quasi come se gli occhi degli uomini fossero per noi indispensabili sorgenti
di calore e di luce. Come si può osservare, ed è stato osservato, la crescita si regola sugli altri, per
esempio il nostro atteggiamento, il nostro aspetto. E poi ciò che noi notiamo, ma altri non possono
sapere! E infine ciò che anche noi non notiamo!136
£
Quel che in noi avviene, nella direzione della crescita o dell’appassimento, è condizionato dagli
altri, dalle attese loro nei nostri confronti o da quel che per gli altri noi vogliamo realizzare. Quanto
più è solo, isolato rispetto allo «sguardo» degli altri, sottratto a tale sguardo, tanto più l’uomo
appassisce fino al limite della consunzione. Detto questo, tuttavia, si deve anche dire che, per
Nietzsche, come si è avuto modo di vedere con il riferimento al pericolo contenuto nell’essere fatti
oggetto, oltre un certo limite, di cure da parte dell’altro, l’altro rappresenta pure un potenziale
pericolo, un potenziale limite alla propria libertà e alla propria indipendenza. A parte la situazione,
che si è appena richiamata, un rischio di finire «alla mercé degli altri» si determina allorquando si
diventa «famosi»: «diventare famosi ci trasforma e ci mette alla mercé degli altri e delle loro pretese
verso di noi. Bisogna gettare in mare la propria fama»137. Analogamente, rischi per la propria
libertà e indipendenza vi sono nell’«ascoltare ogni giorno quel che si dice di noi, o perfino
scervellarsi su quel che di noi si pensa - son cose che distruggono anche l’uomo più forte. È per
questo, anzi, che gli altri ci lasciano vivere, per affermare ogni giorno la loro ragione su di noi! Non
ci sopporterebbero se avessimo forse, o anche volessimo avere, ragione contro di loro!», di qui la
seguente
esortazione:«non porgiamo l’orecchio quando si parla di noi, quando siamo fatti segno alla lode, al
biasimo, al desiderio, alla speranza; non pensiamoci neppure»138.
5.2. La relazione di cura
Per quanto riguarda la relazione di alterità, dalle pagine nietzscheane emerge, tuttavia, non solo la
indicazione di una relazione «nutrizionale» con la alterità - relazione non necessariamente
distruttiva della alterità, ma nella quale, in ogni caso, la alterità funge, più che altro, come fonte e
mezzo di nutrimento dell’io -, emerge anche la indicazione di un atteggiamento di attenzione,
di ascolto, di cura nei confronti delle ragioni e dell’essere altrui, atteggiamento finalizzato alla
realizzazione dell’essere altrui e del suo bene: emerge la indicazione di un atteggiamento - fatto
di delicatezze, premure e pudori nei confronti dell’essere e del bene dell’altro - per il quale l’altro e
il suo bene appaiono come un fine della attività dell’io. Nello stesso frammento, nel quale Nietzsche
ricorre alla immagine del predone e del furto per caratterizzare la relazione nutrizionale di alterità,
egli presenta anche un’altra immagine per caratterizzare un’altra relazione di alterità, la relazione di
cura: l’immagine del giardiniere e del giardino, una immagine che, se non soppianta, almeno
affianca quella del predone e del furto.
@
Perché avere sempre soltanto l’egoismo del predone o del ladro? Perché non quello del giardiniere?
Gioia di coltivare gli altri come un giardino (Freude an der Pflege der Andern, wie der eines
Gartens)!139
£
Vogliamo ora soffermarci a considerare alcuni degli aspetti con cui questo altro tipo di
atteggiamento si presenta in Nietzsche. Ma, prima di fare ciò, occorre ricordare che Nietzsche ha
individuato e denunciato un modo solo apparente di occuparsi dell’altro, un
altruismo che è, in realtà, solo lo strumento di cui l’uomo, o un certo tipo di uomo, ha bisogno nella
propria esistenza e che, per questo, viene praticato e indicato come valore morale da perseguire e
difendere140. L’altruismo, o questo altruismo, è l’atteggiamento che viene esaltato da parte di coloro
che dell’aiuto degli altri mostrano di avere particolare bisogno: tali sono, poi, soprattutto i deboli di
contro ai forti, che, rispetto a loro, si caratterizzano per una maggiore indipendenza e
autonomia. Occorre, d’altra parte, ricordare anche un’altra critica che Nietzsche rivolge
all’altruismo, che è da respingere nella misura in cui rappresenta una fuga dell’uomo da se stesso. Il
pensare solo agli altri, l’occuparsi solo di loro, il prendersi cura solo degli altri: ciò dipende,
secondo Nietzsche, da una percezione e da un sentimento negativi che si ha verso se stessi. Come
nella relazione nutrizionale di alterità alla alterità ci si rapporta per una finalità che riguarda non
l’alterità ma se stessi, così nell’altruismo (nell’atteggiamento per cui si dà valore e si pratica solo
la cura dell’altro) è, in realtà, una finalità che riguarda non l’altro ma se stessi quella che si
persegue. Non ci si sopporta, non ci si piace - il pensare agli altri, il prendersi cura degli altri è un
modo per non pensare a sé perché pensare a sé è doloroso, non dà soddisfazione ma, al contrario, fa
soffrire. Nell’altruismo, con l’altruismo, ci si distrae dal pensiero doloroso di sé. L’altruismo è una
forma della distrazione, della rimozione, della dimenticanza. L’idea di Nietzsche è che l’uomo, che
vuole e fa il bene dell’altro, può, sì, essere definito «buono», ma alla condizione che il volere e il
fare il bene dell’altro non rappresenti, per l’uomo, il modo per sfuggire a se stesso in quanto egli
«odia» se stesso: in questo caso l’uomo
non trova scampo da se stesso se non negli altri: è affar loro trovare in questo il proprio tornaconto,
a parte ciò che apparentemente egli sente
per essi! Ma appunto questo: fuggire l' ego e odiarlo e vivere nell’altro, per l’altro - lo si è fino ad
oggi, con tanta irriflessione quanta sicurezza, chiamato «altruistico» e conseguentemente
«buono»141.
Osserva, ancora, Nietzsche:
se voi siete per voi stessi un oggetto così brutto o noioso, pensate pure agli altri! L’altruismo in tal
caso è molto piacevole. - Dedizione, liberazione dall’«io». Sembra che gli uomini abbiano poca
gioia di sé, se distolgono in tal modo lo sguardo da se stessi verso l’estemo, e stimano che ciò sia la
cosa migliore142.
Da qui il determinarsi di una alternativa, che Nietzsche dice di non saper risolvere. Ammesso che il
problema sia quello di rendersi utili agli altri, ci si può chiedere «se si è più utili, aiutando gli altri
(d’altra parte sempre molto superficialmente o con prepotenza tirannica) oppure facendo di se stessi
qualcosa che gli altri vedano volentieri, un bel giardino tranquillo e concluso in sé - io non so»143.
Nietzsche ha, del resto, mostrato la intrinseca e duplice contraddittorietà di una posizione
assolutamente altruistica: in primo luogo, se l’uomo volesse «tutto per gli altri, niente per sé, ciò
sarebbe impossibile se non altro perché egli dovrebbe fare moltissimo per sé, per poter fare in
genere qualcosa per amore degli altri»; in secondo luogo, una posizione assolutamente altruistica
«presuppone che l’altro sia tanto egoista da accettare continuamente quei sacrifici e quel vivere per
lui: sicché gli uomini dell’amore e dell’abnegazione hanno interesse al persistere degli egoisti senza
amore e incapaci di sacrificio, e la somma moralità dovrebbe addirittura, per poter sussistere,
conseguire a forza 1’esistenza dell’immoralità (con cui però sopprimerebbe se stessa)»144.
Ma vediamo come si definisce, in Nietzsche, l’atteggiamento
di cura che l’uomo può sviluppare nei confronti dell’altro uomo. A tal fine possiamo partire da una
pagina di Aurora, in cui Nietzsche così esclama:
@
Ah! Quanto mi ripugna imporre ad altri i miei propri pensieri! Come mi rallegro in cuor mio di ogni
stato d’animo e di ogni intima trasformazione con cui i pensieri di altri giungono ad affermarsi
contro i miei propri!145
£
È una dichiarazione di apertura e di accoglimento nei confronti dei pensieri di altri, pensieri dei
quali si è disposti a riconoscere la eventuale superiorità rispetto ai propri. Nietzsche continua:
@
Ma di tanto in tanto c’è una festa ancor più alta, allorquando per una volta è permesso far dono
della propria casa e del proprio patrimonio spirituale, come fa il confessore, che se ne sta in un
angolo, attendendo avidamente che venga un indigente a narrargli le angustie dei suoi pensieri, per
colmargli ancora una volta le mani e il cuore e alleggerirgli l’anima tormentata146.
£
È una dichiarazione di apertura e di accoglimento, questa volta, non semplicemente di pensieri di
altri, ma dell’altrui tormento e inquietudine esistenziale, dell’altrui dolore, dai quali
tormento, inquietudine, dolore ci si assume il compito di sollevare chi ne è afflitto. Se prima si
accoglieva soltanto (i pensieri altrui), ora si è disposti ad aiutare gli altri, a donare loro. Per colui,
che accoglie gli «indigenti dello spirito», vale quel che vale per il «confessore» al quale egli è qui
paragonato, cioè che
Non soltanto è lontano dal desiderare una lode, ma vorrebbe anche sottrarsi alla gratitudine, poiché
essa è molesta e priva di rispetto per la solitudine e il silenzio. Vivere vorrebbe invece nell’oscurità,
e facilmente esposto alle beffe, troppo in basso per destare invidia o inimicizia, senza nessuna
febbre in testa, con un pugno di sapere per provvista e una borsa ricolma di esperienze, essere, per
così dire, uno spi-
rituale medico dei poveri e aiutare questo e quello, tra quanti hanno la testa confusa da opinioni,
senza che costui possa individuare chi lo ha aiutato. Non volere, dinanzi a lui, aver ragione e
celebrare vittoria, ma parlargli in modo che, dopo un piccolo impercettibile avvertimento o
una contraddizione, egli dica a se stesso il giusto, e fiero di ciò se ne vada. Essere come un piccolo
ostello che non respinge nessuno che abbia bisogno, anche se dopo viene dimenticato oppure
schernito. Non proporsi nulla, né un miglior nutrimento, né un’aria più sottile, né lo spirito
più gioioso - ma rinunciare, restituire, partecipare, divenire più povero. Poter stare in basso per
essere alla portata di molti e non umiliante per nessuno (...) Sempre con una sola maniera di amare e
con una sola di egoismo e di autocompiacimento! Essere in possesso di un’autorità e al tempo
stesso tenersi nascosto e nella rinuncia [...] Questo sarebbe vivere! Un motivo per lungamente
vivere!147
Ritorna, nell’aforisma di Aurora, ma per essere ora rifiutato, il motivo del nutrimento (il fine qui
non è procurarsi un «miglior nutrimento»). Ritorna, anche, il motivo della restituzione (abbiamo
visto prima il riferimento di Nietzsche alla necessità della restituzione, da parte di ciascuno, al
«tutto» di quel che dal «tutto» ha avuto e ha, e la indicazione di tale restituzione come giustizia).
Compare, inoltre, qui, il motivo del dono, e un altro motivo ancora: il rimanere nascosto di
colui  che dona. È il dono che realizza la «festa ancora più alta» dello spirito rispetto a quella
rappresentata dalla propria disponibilità ad accogliere i pensieri altrui. Il dono allude a una
relazione con l’altro che non è quella dello scambio o, appunto, della «restituzione»: qui si dona - si
è visto - senza «proporsi nulla, né un miglior nutrimento, né un’aria più sottile, né lo spirito più
gioioso»148. Si dona senza chiedere niente in cambio, anche se, per Nietzsche, ciò non esclude
l’«egoismo» e l’«autocompiacimento» di colui che dona e per il fatto di donare. È il problema, che
altrove Nietzsche ha posto, della impossibilità per l’io di prescindere da se stesso: come a volte ha
osservato a
proposito del sacrificio, anche chi si sacrifica, e apparentemente non pensa al proprio io ma pensa
solo all’altro da sé per il quale si sacrifica, lo fa pur sempre per qualcosa, per qualche ragione in cui
il suo io crede149. Da questo punto di vista, chi si sacrifica riceve, ottiene qualcosa. Ma la figura,
che Nietzsche indica, non è semplicemente quella di colui che dona, ma quella di colui che dona
rimanendo nascosto in quanto colui che dona.
Altrove Nietzsche riprende questa figura e parla di colui che dona «senza rilevare il proprio nome e
il proprio beneficio»150. È in questo il «pudore di colui che dona», perché «è così ingeneroso far
sempre la parte di colui che dà e che dona, e mostrare in tutto questo il proprio viso»151. C’è, in
Aurora, un aforisma intitolato «I nascosti», nel quale Nietzsche parla di coloro che «non vogliono
essere riconosciuti e tornano sempre a cancellare le loro orme nella sabbia, che diventano anzi gli
ingannatori di se stessi e degli altri, per restar nascosti»152.
A proposito di nascondimento, vi sono cose che, per il bene dell’altro, si deve avere, a volte, la
delicatezza di tenere all’altro nascoste. E' il caso di quelle verità che il «pensatore profondo» scopre
e che, per motivi di «cuore» e di «simpatia» nei confronti dell’altro, egli decide di non rivelargli,
perché l’altro non avrebbe la forza di sopportarle153.
Per Nietzsche, ancora, è «spesso un non trascurabile segno di umanità non voler giudicare un altro e
rifiutarsi di pensare qualcosa sul suo conto»154.
Ma si potrebbe ricordare, poi, quel che Nietzsche osserva sulla relazione di amicizia. Amicizia
vuole che, anche nella opposizione al proprio amico, si rimanga a lui vicini: «Col tuo cuore deve
essergli massimamente vicino, proprio quando ti
opponi a lui»155, così come vuole che «La compassione verso l’amico si celi sotto un guscio duro,
che rompa un dente al tuo morso»156: occorre avere la forza di nascondere all’amico la nostra
sofferenza per lui, perché ciò potrebbe per lui risultare dannoso. Amicizia vuole anche che, per il
bene dell’amico, che sentiamo a volte appartenere «più ad un altro che a noi» e vediamo tormentarsi
nella incapacità di una scelta, noi interveniamo in modo da «alleggerirgli tutto questo»: dovremo,
«con un’offesa, allontanarlo da noi»157. Amicizia vuole, ancora, più in generale, che lasciamo
andare l’amico per la sua strada, anche se è una strada diversa dalla nostra, al di là di
qualsiasi nostro egoismo proprietario nei suoi confronti158.
È sempre, del resto, per la preoccupazione per l’altro, per il bene dell’altro, che, «quando non si
sente l’impulso a ricambiare l’amore», occorre «impedire l’amore dell’altro e, se fosse necessario,
prenderlo in giro, anzi abbassarci davanti a lui»159.
È ancora la stessa preoccupazione che spiega il comportamento di Nietzsche quale appare da questo
frammento auto-biografico: «Per mezz’ora ho parlato in modo vanitoso, e alla fine ero un po’
vergognoso e stanco - ma avevo voluto abbassarmi, per dare a qualcuno modo di pensa meno
miserabilmente di sé, esclamando: ah questo mondo miserabile! - infatti egli in quel momento
pensava così di me; non doversene più vergognare davanti a me lo aveva visibilmente sollevato»160.
È nella logica di una relazione di alterità in cui l’altro non è, semplicemente, una fonte e un mezzo,
sia pure molto apprezzati dall’io, del nutrimento dell’io, che ci si spiega l’appello alla fraternità con
gli «spiriti grandi» contenuto nel seguente breve fram-
mento: «NB. Accogliere il sentimento di fraternità con gli spiriti grandi e respingere la rivalità! Non
isolarsi!»161.
I riferimenti al testo nietzscheano si potrebbero, al riguardo, moltiplicare. Quelli già fatti (e quelli
che si potrebbero fare) testimoniano (o testimonierebbero) una cosa fondamentale: che in Nietzsche
vi è la indicazione e la proposizione di una relazione di alterità nella quale la alterità non è o non è
solo strumento di nutrimento dell’io, ma anche fine per l’io: una relazione di alterità che viene
indicata e proposta proprio in quanto, attraverso di essa, l’io persegue un fine che coincide con lo
stesso bene dell’altro.
1    Per la critica di Nietzsche a posizioni (politiche, artistiche, ecc.), sostanzialmente, anche se non
formalmente, inscrivibili nel solco della tradizione cristiana, cfr. K. Lowith, Voti Hegel bis
Nietzsche, p. 397 (tr. it., p. 579). Cfr., inoltre, N.M. DE FEO, Analitica e dialettica in Nietzsche, p.
74: «Nietzsche non considerò mai il socialismo e la democrazia nel loro aspetto rivoluzionario ed
eversivo dei valori della tradizione teologica del cristianesimo, ma anzi la loro massima
incarnazione».
2    Tra gli innumerevoli luoghi che si potrebbero riportare a questo riguardo, ricordiamo solo un
aforisma della Gaia scienza, in cui si parla della «superstiziosa credenza popolare dell’Europa
cristiana, ancor sempre così candidamente riecheggiata, per cui la caratteristica dell’azione morale
sarebbe posta nel disin-
teresse, nell’autoabnegazione, nell'autosacrificio o nel sentimento simpatetico, nella compassione»
(Die fröhliche Wissenschaft, 345).
3    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[104],
4    Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889,14[205].
5    Ibidem.
6     Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[139].
7    Ivi, 2[15],
8    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [226].
9    Ibidem.
10    Ibidem.
11    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 2[61].
12    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[303].
13    Ibidem.
14    Ibidem.
15    Ibidem.
16    Ecce homo, «Warum ich so klug bin», 8, p. 289 (tr. it., p. 300).
17    Ivi, p. 290 (tr. it., pp. 300-1)
18    Ibidem (tr. it., p. 301)
19    Ivi, «Warum ich so weise bin», 7, p. 272 (tr. it., p. 282).
20    Jenseits von Gut und Böse, 225. Sul tema del dolore in Nietzsche, cfr. U. Regina, L’uomo
complementare. Potenza e valore nella filosofia di Nietzsche, pp. 165-71; M. Fortunato, Il soggetto
e la necessità. Akronos, Leopardi, Nietzsche e il problema del dolore, pp. 136-48. Il problema del
dolore in Nietzsche è ben presente nell’analisi di S. Natoli, L’esperienza del dolore.
21    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [303].
22    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[158].
23    Ibidem.
24    Ibidem.
25    Ivi, 4[79]. Ha osservato Olivier Reboul: «Nietzsche non rinuncia a ogni morale: ciò sarebbe
rinunciare a vivere. Se il suo metodo consiste nel risalire “dall’ideale a colui che lo sentì
necessario”, egli non rifiuta l’ideale, ma solo la pretesa di imporlo a tutti: egli chiede che l’ideale
sia quello di ognuno, “per distinguersi, non per divenire simile agli altri”; egli stesso oppone il suo
ideale all’ideale cristiano, egli non l’impone. Se egli constata che l’obbligazione morale è
irrazionale, egli non ne conclude “per la non obbligatorietà di ogni morale”» (O. Reboul, Nietzsche
critique de Kant, p. 71). Sul fatto che la critica alla morale tradizionale non significhi, in Nietzsche,
il rifiuto in generale di ogni morale, la avversione al porsi stesso di qualsiasi problema morale,
alcune indicazioni erano già in K. Jaspers, Nietzsche. Einßhrung in das Verständnis seines
Philosophierens. Osserva Jaspers che, per Nietzsche, se, da un lato, «la stessa moralità scaturisce
dall’immoralità» (il riferimento è alla moralità tradizionale), dall’altro, «la stessa critica alla morale
scaturisce dalla morale più avanzata» (il riferimento è alla stessa critica nietzscheana alla morale,
critica che nasce da una morale superiore rispetto a quella tradizionale), sì che, per quanto riguarda
il secondo aspetto, si può sostenere che «Il radicale rigetto nietzscheano della morale avviene
mantenendo pur sempre un legame con la morale; di ciò Nietzsche è consapevole, e lo esprime nel
seguente circolo: il risultato finale dell’evoluzione morale è che la veridicità, richiesta moralmente,
alla fine mette in discussione la morale, in cui essa si radica; alla morale viene tolta la fiducia
“per moralità”» (tr. it., pp. 141-2. Ma, su questo punto, cfr. il testo jaspersiano a partire dalla p.
136).
26    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6(158). K. Jaspers, Nietzsche: «La
morale combattuta da Nietzsche era fondata su una sostanza comune a tutti gli uomini, su Dio o
sulla ragione» (tr. it., p. 144). Al contrario, Nietzsche «vuole la preminenza dell’individuo rispetto a
ciò che è moralmente e razionalmente generale» {ibidem). Ma, con ciò, aggiunge Jaspers, Nietzsche
«non vuol dar via libera al singolo individuo come tale per qualsivoglia suo capriccio» {ibidem).
27    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[59],
28    Ivi, 3[60].
29    Ivi, 3[98].
30    Ivi, 6[139].
31    Ibidem.
32    Ivi, 6[158].
33    Ivi, 6[163].
34 Le citazioni successive a quella della nota 33 sono tutte relative al frammento di cui alla nota
stessa.
35    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 1 [25].
36    Ivi, 6[70].
37    Ivi, 6[137].
38    Morgenröthe, 119.
39    Ibidem.
40    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[70],
41    Ibidem.
42    Ibidem.
43    Ibidem.
44    Ivi, 6[80].
45    Ivi, 6[70].
46    Ivi, 4[123].
47    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [303].
48    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[131].
49    Ivi, 4[78], Inoltre, ivi, 4[77].
50    Morgenröthe, 173.
51    Ibidem. Sul problema del lavoro in Nietzschè, cfr. K. Löwith, Von Hegel bis Nietzsche, pp. 311-
4 (tr. it., pp. 459-62).
52    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6f 155).
53    Ivi, 3[100],
54    Ivi, 4[100],
55    Ivi, 6[176],
56    Ivi, 6[138],
57    Ibidem.
58 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 40[3],
59 Ibidem.
60    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[258] (tr. it, 11[207]).
61    Ibidem.
62    Ivi, 11 [240].
63    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[139].
64    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 318.
65    Ivi, I, «Vorrede», 4.
66    Ivi, 3.
67    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[484].
68    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 305.
69    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[30].
70    Cfr. il paragrafo 1.
71    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[32].
72    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[151].
73    Ibidem.
74    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 75. Abbiamo già
incontrato la notazione nietzscheana secondo la quale «Il sentimento che ha più slancio, quello
dell’amore ingenuo, consiste proprio nel sentire la massima diversità»: Nachgelassene Fragmente
Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 1[25]).
75    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[144],
76    Ivi, 1[16],
77    Ivi, 2[66].
78    Zur Genealogie der Moral, n, 1, p. 307 (tr. it., p. 255).
79    Ecce homo, «Warum ich so weise bin», 2, p. 265 (tr. it., p. 274).
80    Zur Genealogie der Moral, II, 1,1, p. 307 (tr. it., p. 255).
81    Ecce homo, «Warum ich so weise bin», 2, p. 265 (tr. it., p. 274).
82    Ibidem (tr. it., p. 274).
83    Zur Genealogie der Moral, II, 1, p. 307 (tr. it., p. 255).

84 Götzen-Dämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemässen», 47, pp. 142-3 (tr.

it., p. 148)
85 Ibidem (tr. it., p. 148).

86    Die fröhliche Wissenschaft, 290.


87    Ibidem.
88 Ibidem.
89 Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 10[165].
90    Morgenröthe, 455.
91    Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, 14[161].
92     Ibidem.
93    Menschliches, Allzumenschliches, I, 95.
94    Ivi, 155.
95     Ivi, 163.
96 Ibidem.
97    Ibidem.
98    Morgenröthe, 540.
99    Ibidem.
100    Ibidem.
101    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[31].
102    Morgenröthe, 462.
103 Ivi, 534.
104    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 4(64).
105    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 5.
106    Ibidem.
107    Ivi, 6.
108    Ibidem.
109    Ibidem.
110    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[174].
111   Ivi, 4[27]. Sulla critica nietzscheana al concetto di assoluto, cfc N. M. De FEO, Analitica e
dialettica in Nietzsche, pp. 69-112.
112    Nachgelassene Fragmente Fruhjahr 1881 bis Sommer 1882, 13[11].
113   J. Dewey, Knowing. and the Known. Sulla prospettiva relazionale in filosofia, cfr. G. Semerari,
La filosofia come relazione; ID., Epistemologia delle relazioni.
114 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[166],

115 Ivi, 6[450] Ibidem


117    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[2].
118    Ibidem.
119    Ibidem.
120    Die fröhliche Wissenschaft, 305.
121    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 23[63],
122    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[182],
123    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 23[69] (tr. it., 23[46]).
124    Menschliches, Allzumenschliches, I, 226.
125    Ibidem.
126    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[450].
127 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [63].
128    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 2[52],
129    Ivi, 2[6],
130    Ivi, 3[14],
131    Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, 1[61],
132    Morgenröthe, 119.
133    Ivi, 129.
134    Ibidem.
135 Ivi, 143.
136    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[424],
137    Ivi, 7[2].
138    Morgenröthe, 522.
139    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [2].
140 Cfr., per esempio, Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[99]: Nietzsche
sottolinea il significato della tolleranza, dell’adattamento, della bontà come strumenti ai quali, nel
rapporto con l’altro, si ricorre «attendendo silenziosamente di essere ripagati».
141    Morgenröthe, 516.
142    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[96].
143    Ibidem.
144    Menschliches, Allzumenschliches, I, 133.
145    Morgenröthe, 449.
146    Ibidem.
147    Ibidem.
148   Nietzsche definisce, in particolare, l’amicizia in relazione alla volontà di donare: l’amico è
colui che dona. Cfr., in questo volume, il capitolo quinto sull’amicizia.
149    Jenseits von Gut und Böse, 220.
150    Morgenröthe, 464
151    Ibidem.
152    Ivi, 527.
153    Jenseits von Gut und Böse, 290.
154    Morgenröthe, 528.
155    Also sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», pp. 67-8 (tr. it., p. 64).
156    Ibidem, p. 68 (tr. it., p. 65).
157    Morgenröthe, 489.
158    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 231.
159    Nachgelassene Fragmente Anfang 1879 bis Frühjahr 1881, 6[191],
160    Ivi, 6[351].
161 Ivi, 6[452],
77
Capitolo secondo. Il viaggio e la dimora

Momenti di una dialettica dell'esistenza


1. Fra identità e alterità, assoluto e relativo
Il modo nietzscheano di concepire l'esistenza, ossia il concepirla come una successione di
esperienze, anzi di esperimenti esistenziali diversi1, configura resistenza stessa - per esprimerci
subito con le metafore che danno il titolo alle presenti pagine -come una particolare dialettica di
viaggio e dimora. Sono metafore, queste, alle quali Nietzsche stesso si richiama, sebbene succeda di
vederle riferite, in lui, a volte o addirittura tendenzialmente, non a due momenti distinti di una
stessa dialettica esistenziale, ma a due differenti concezioni della esistenza: egli tende a
rappresentare la propria concezione dell’esistenza attraverso la sola metafora del viaggio, mentre
con la metafora della dimora, almeno qualche volta, rappresenta la concezione dell’esistenza che
egli critica e respinge. In realtà, sulla base, da un lato, di quel che Nietzsche osserva illustrando la
propria idea di esistenza, dall’altro, della individuazione della presenza di fatto o anche
esplicita, nella sua riflessione, del concetto di dimora in un significato anche positivo del termine, si
può sostenere (come cercheremo di mostrare) che l’idea nietzscheana di esistenza propone
1’esistenza
stessa come dialettica di viaggio e dimora. Nelle pagine che seguono, d’altra parte, non faremo
riferimento solo ai luoghi in cui Nietzsche esplicitamente richiama le metafore in questione.
Il problema non è, qui, la ricostruzione filologicamente puntuale dei luoghi in cui Nietzsche parla di
viaggio e dimora in senso metaforico, ma la verifica della possibilità di rappresentare la
dialettica nietzscheana della esistenza come dialettica di viaggio e dimora e il senso di tale
rappresentazione.
Quando qui - con riferimento a Nietzsche - diciamo viaggio, intendiamo il movimento che porta il
soggetto umano dalla identità alla alterità: da ciò, sempre lo stesso, presso cui, per un certo tempo,
egli è stato, verso qualcosa di diverso - da ciò, sempre lo stesso, che per un certo tempo egli ha
conosciuto e vissuto verso ciò che non ha ancora conosciuto e vissuto. Ciò presso cui il stato e ciò
verso cui il soggetto si muove sono rappresentati da determinati, anche se differenti, pensieri,
giudizi, sentimenti, rapporti personali, ecc. Quando - sempre con riferimento a Nietzsche -diciamo
dimora o, più esattamente, dimorare, intendiamo, invece, appunto lo stare, per qualche tempo,
presso qualcosa - presso la stessa o identica cosa: lo stare, per qualche tempo, presso gli stessi
pensieri, giudizi, sentimenti, relazioni personali, ecc. Secondo l’etimologia del termine, dimorare
viene dal latino demorari, che vuol dire indugiare, trattenersi in maniera insistita presso un
determinato luogo. Una volta raggiunta - e quindi vissuta, esperita -, la alterità diventa, a sua volta,
identità: diventa ciò, sempre lo stesso, presso cui, per un certo tempo, il soggetto si trattiene.
In Nietzsche, si è detto, a definire l’esistenza, la sua specifica dialettica, c’è il concetto di viaggio,
ma c’è pure il concetto di dimora. Il concetto di dimora, tuttavia, si spiega, in Nietzsche, esso
stesso, con riferimento al concetto di viaggio. E ciò non solo nel senso che il dimorare si colloca tra
un viaggio e l’altro, non solo dunque nel senso che il dimorare presso un determinato luogo non è
uno star-lì-da sempre o uno star-lì-per sempre, bensì un fermarsi in un luogo determinato
provenendo da un altro luogo e un fermarsi per ripartire verso un altro luogo ancora, ma anche
nel senso che lo stesso dimorare è un viaggio: dimorare è, in Nietzsche, viaggiare all’interno
dell’identico (all'’interno di ciò,
sempre lo stesso, presso cui, per un certo tempo, ci si ferma). Anche l’identico ha, per chi
successivamente lo vive, i suoi elementi di alterità. Chi dimora, cioè si ferma per un certo
tempo presso una stessa realtà, lo fa - apparente paradosso - spostandosi lungo di essa, facendo
esperienza dei diversi aspetti e delle diverse potenzialità che essa offre. Per un certo tempo, la
realtà, con cui si è in rapporto e più o meno ben circoscrivibile rispetto ad altre realtà, è la stessa,
solo che cambia, lungo questo tempo, il rapporto che con essa si intrattiene, perché se ne vivono
successivamente i diversi aspetti e le diverse potenzialità (o anche gli stessi aspetti e le stesse
potenzialità in modi diversi). In questo senso ogni giorno porta all’abitante della dimora qualcosa
di nuovo: ogni giorno egli scopre qualcosa di diverso nello stesso, presso cui, per un certo tempo, si
è fermato. È qui la differenza tra il modo, che possiamo considerare proprio di Nietzsche, e il modo,
che egli invece critica, di concepire il dimorare. Il dimorare, che egli critica, è quello stare, per
qualche tempo o anche per sempre, presso qualcosa che si caratterizza non come movimento lungo
o attraverso ciò presso cui si sta, ma come pura e semplice ripetizione, come puro e semplice
ribadimento di ciò presso cui si sta.
Eppure - riprendendo l’apparente paradosso del dimorare nietzscheano - si viaggia, in questo caso,
lungo ciò presso cui ci si è fermati. Ci si fermati, infatti, presso qualcosa o - possiamo anche dire -
si è fermato qualcosa dentro di sé: un pensiero, un giudizio, un sentimento, una relazione, che ora
però vengono approfonditi, lungo i quali ora si viaggia. Ma l’approfondimento è relativo, appunto, a
qualcosa che rimane fermo, che si è fissato (sia pure solo per qualche tempo): relativo a qualcosa
che, per chi ad esso si rapporta, è diventato abitudine, e sia pure una breve abitudine2. Finché ci si
ferma presso di essi; determinati pensieri, giudizi, sentimenti, relazioni, diventano essenziali punti
di riferimento e di ancoraggio - e, in questo senso, anche di sicurezza -della propria esistenza.
Nietzsche parla della sazietà da lui provata nei confronti delle esperienze, delle «brevi abitudini» da
lui volta per volta vissute. Finché una certa esperienza era in corso, egli ha ogni volta pensato che
non ne sarebbe mai stato sazio, che sarebbe continuata, con sua soddisfazione, per sempre. Ha
osservato anche, però, che, una volta preso dalla sazietà per l’esperienza fatta, egli si è rivolto ad
altre esperienze3. Possiamo dire: è uscito dalla dimora nella quale per un certo tempo si era
rinchiuso e ha ripreso il viaggio o - poiché anche dimorando viaggiava - ha intrapreso un viaggio
diverso da quello appena concluso e svoltosi all’interno di una stessa realtà: ha intrapreso il viaggio
da una realtà a un’altra diversa. Questo dice l’aforisma della Gaia scienza sulle «brevi abitudini»,
pur se in esso non si ricorra, o si ricorra solo indirettamente, alle metafore del viaggio e della
dimora: vi si parla del «nuovo» che «già (...) aspetta alla porta» quando un determinata abitudine è
conclusa4. La porta allude a una dimora nella quale essa consente di entrare o dalla quale essa
consente di uscire: di entrare -si potrebbe anche aggiungere - di ritorno da un viaggio e di uscire per
un nuovo viaggio intraprendere. Il «viandante» nietzscheano, infatti, è qualcuno il cui cammino ha,
sì, una meta, ma non una meta definitiva: il viandante ha delle mete, che via via raggiunge, in
ciascuna delle quali si ferma, ma che poi supera verso altre mete5. Ogni meta raggiunta diventa, a
un certo momento, punto di partenza verso altre mete: diventa ciò da cui ci si allontana verso altre
mete. La meta definitiva significherebbe la fine del viaggio: l’uomo che avesse raggiunto una meta
definitiva (una meta da lui giudicata definitiva) avrebbe concluso il suo viaggio e raggiunto una
dimora particolare, perché definitiva: non una dimora in cui soggiornare per qualche tempo, come
nel caso di una meta provvisoria, ma una dimora in cui chiudersi per sempre e da cui non più uscire.
Un passo del genere significherebbe la fine dell’esistenza come tensione verso l’alterità: l’esistenza
si chiuderebbe su se stessa, si chiuderebbe, da se stessa, a ulteriori
possibilità di autorealizzazione, che verrebbero escluse in quanto giudicate non valide o impossibili.
L’esistenza chiuderebbe il suo movimento di trascendimento dell’identico verso l’alterità e si
irrigidirebbe nell’identico (in un determinato identico). In quanto diventano la propria dimora
definitiva, determinati pensieri, giudizi, sentimenti, relazioni diventano però anche il proprio
limite, il limite che si dà alla propria esistenza, diventano la propria prigione (è da vedere, in
Nietzsche, in questo senso, il motivo dell’uomo incatenato6), per quanto possa trattarsi anche di una
prigione dorata e comunque comoda - una comodità che deriva se non altro dalla circostanza che, in
tale dimora, nulla è più messo in discussione, problematizzato, ma tutto finisce per essere ripetuto in
maniera più o meno meccanica e inconsapevole. Il fatto che la prigione, in cui si trasforma la
propria dimora, sia una prigione dorata o comunque comoda non toglie che di prigione si tratta. E
non toghe, anche, che possa accadere che tale prigione (una prigione di pensieri, giudizi, valori,
emozioni, relazioni) non sia nemmeno percepita come tale da chi dentro di essa vive. Chi,
per scontare la pena inflittagli per un reato commesso, passa del tempo - a volte anche molto tempo
- in quegli edifici che si chiamano prigioni, sa bene dove è stato rinchiuso, sa bene, perciò, che la
sua libertà - la libertà della sua esistenza - è stata con ciò negata in una maniera fondamentale. Chi
pensa di aver raggiunto la dimora definitiva nella propria esistenza, invece, non sa, può non
sapere, di essersi chiuso in una prigione, di avere compromesso la propria libertà.
Il viaggio nietzscheano prevede, dunque, delle soste - soste in luoghi nei quali il viaggiatore elegge,
per qualche tempo, la propria dimora. Ma, in un frammento del 1879, in cui si parla di viaggio in
senso letterale (vi si parla dell’«inquieto viaggiare delle persone colte» come «prova che esse
devono cercarsi e che in un sol luogo vivono poche persone colte», o del fatto che «quando
regolarmente tutte le estati si lascia il posto dove si abita, non si fugge tanto se stessi quanto il
proprio ambien-
te»), si legge la seguente osservazione: «Si diventa viaggiatore, “viandante”, quando non si è di casa
(heimisch) in nessun luogo»7.
Nella misura in cui tale osservazione è riferibile (anche) al viaggio e al viandante intesi in senso
metaforico (nella osservazione citata compare il termine ‘viandante’, che in Nietzsche ha un
significato non semplicemente letterale, ma metaforico: per questo, è proprio al significato
metaforico di viaggio e viandante che, forse, la osservazione citata essenzialmente si riferisce),
diremo che essa può essere assunta come espressiva della specifica dialettica nietzscheana della
esistenza, con la avvertenza, però, che il non essere di casa in nessun luogo del viandante deve
intendersi riferito a una dimora (presunta) definitiva, in cui si pensasse di poter condurre l’intera
propria esistenza: una dimora del genere, per Nietzsche, non esiste: è se ci si riferisce a questa
casa che il viandante non è «di casa» in nessun luogo. Ma nei luoghi nei quali, nel corso del suo
viaggiare, successivamente e per qualche tempo, si ferma, non per riposarsi del cammino, ma per
fame esperienza, il viandante è «di casa»: il rapporto con il luogo, qui, non è di estraneità o di
spaesamento, ma di autoriconoscimento e di familiarità, nel senso, precisamente, che i luoghi presso
cui ci si ferma sono tali da intellettualmente ed emotivamente interessare, coinvolgere - nei modi da
Nietzsche descritti a proposito delle brevi abitudini («Ho sempre la convinzione che una
determinata cosa m’appagherà durevolmente [...] e che io sia da invidiare per averla trovata e
conosciuta: ed ecco che essa mi nutre a mezzogiorno e a sera, e diffonde intorno a sé e dentro di me
un profondo senso di appagamento, cosicché, senza aver bisogno di confrontare o di disprezzare o
di odiare, non desidero altro»8) -l’essere di chi in quei luoghi si ferma. Da questo punto di vista -che
è quello da cui fondamentalmente si pone Il problema del dimorare in Nietzsche - il concetto di
dimora si specifica in relazione non tanto a un senso di sicurezza e protezione quanto a un senso di
coinvolgimento personale di tipo intellettuale ed emoti-
vo in una determinata situazione. È a questo senso del sentirsi a casa propria che, per esempio,
Nietzsche allude allorquando, in un frammento del 1881, così tratteggia il proprio rapporto con
il pensiero, da lui molto apprezzato, di Emerson: «Emerson. Non mi sono mai sentito così a casa e a
casa mia in un libro, come - non devo lodarlo, mi è troppo vicino»9. Il sentirsi a casa propria
corrisponde al sentirsi - come si suole anche dire - nel proprio elemento - un elemento, il proprio,
che, d’altra parte, può non rimanere, nel tempo, sempre lo stesso.
La dimensione del viaggio - dimensione che, come si è già visto, caratterizza lo stesso dimorare - è
la dimensione del relativo. Muoversi da un’esperienza all’altra significa, infatti, non assolutizzare
nessuna esperienza in particolare di quelle che si compiono: nessuna esperienza particolare che si
vive appaga, in maniera definitiva, le esigenze sempre rinnovantisi dell’uomo. A Nietzsche accade,
per la verità, di assolutizzare l’esperienza che vive nel momento in cui la vive: egli parla a questo
proposito di una sua «fede nell'eternità»10, di fede nella eternità delle esperienze che volta per volta
vive. Ma l’esperienza finisce e, allorché finisce, egli non può che rilevarne il carattere relativo.
Non c’è una esperienza che possa essere assolutizzata, come accade, invece, generalmente, a colui
che non viaggia, a colui la cui esistenza si identifica con un dimorare inteso come ripetizione più
o meno eguale dell’identico. Se il viaggiare e il dimorare in quanto anch’esso caratterizzato dal
viaggiare si collocano sotto il segno del relativo, il dimorare come ripetizione più o meno eguale
dell’identico si colloca sotto il segno dell’assoluto. Un particolare modo d’essere al mondo -
relativo a un ben determinato ambiente familiare, sociale, nazionale, religioso, ecc. - viene portato
(da sempre o per sempre) sul piano dell’assoluto. Ma dell’assoluto Nietzsche ha scritto: «tutto ciò
che è assoluto appartiene alla patologia»11. Se così è, le connessioni che si possono a questo
punto individuare sono quelle tra viaggio, relatività e salute, da un lato,
e tra non viaggio, assoluto e malattia, dall’altro. Chi è sano? Sano è colui che viaggia e che viaggia
perché non ha assolutizzato nessun particolare modo d’essere al mondo ed è perciò aperto
alla sperimentazione di ulteriori possibili modi d’essere. Chi è malato? Malato è colui che non
viaggia e che non viaggia perché ha assolutizzato un particolare modo di essere al mondo che
diventa la sua dimora-prigione.
2. Il viaggio modifica il viaggiatore. La solitudine del viaggiatore
Eravamo amici e ci siamo diventati estranei [...] i diversi mari e i soli ci hanno mutati!
Così, degli amici, paragonati a due vascelli che si reincontrano dopo essersi precedentemente
fermati nello stesso porto ed essersi quindi separati riprendendo ognuno o uno dei due il viaggio,
scrive Nietzsche in un aforisma (sul quale torneremo più avanti) della Gaia scienza12. Il rapporto
(particolare per ognuno) con l’alterità modifica, altera in qualche modo o in qualche misura (un
modo e una misura che dipendono dal particolare rapporto che con la alterità, volta per volta, si
stabilisce) il soggetto che il rapporto istituisce. Il viaggio, con il quale resistenza nietzscheanamente
intesa si identifica, modifica colui che il viaggio compie. Si è detto: il viaggio con il quale
l’esistenza nietzscheanamente intesa si identifica. Il viaggio nietzscheanamente inteso è quello che
modifica, altera il viaggiatore. Infatti, si può viaggiare anche solo formalmente, apparentemente, ci
si può aprire solo formalmente, apparentemente, alla alterità, senza stabilire con essa nessun reale
rapporto, un rapporto, cioè, tale da determinare un qualche cambiamento in chi il rapporto stesso
stabilisce: ciò vale sia per il viaggio in senso letterale, cioè come movimento nello spazio da un
luogo a un altro, sia per il viaggio in senso metaforico, come movimento da una determinata
esperienza di
pensiero, giudizio, sentimento, relazione, a un’altra13. Nel proprio apparente viaggiare da un
pensiero, da un sentimento, da un rapporto, ecc., a un altro pensiero, a un altro sentimento, a un
altro rapporto, ecc. - nella apparenza di una tale mobilità - si può, in realtà, rimanere
sostanzialmente fermi a un proprio ben determinato pensiero, sentimento, rapporto, ecc., si può, in
realtà, rimanere sostanzialmente inattaccabili e indifferenti a ciò attraverso cui si passa, così come,
al contrario, si può aggiungere, nel proprio apparente rimanere chiusi nella dimora di uno stesso
pensiero, di uno stesso sentimento, di uno stesso rapporto, ecc. - nella apparenza di una tale
immobilità - ci si può, in realtà, stare muovendo: è il caso appunto del viaggiatore nietzscheano
allorché si ferma in un luogo determinato14.
L’identità diveniente del viaggiatore nietzscheano rappresenta, per lo stesso viaggiatore, un mistero.
Ciò dipende dal carattere misterioso della stessa alterità con la quale il viaggiatore entra in rapporto.
Infatti, la alterità - ciò che non si è ancora vissuto, conosciuto - è mistero per chi con essa intende
entrare in rapporto: mistero che sarà più o meno risolto allorché con essa il rapporto sarà sviluppato.
Ma se viaggio è movimento verso la alterità, e la alterità è mistero, allora è l’uomo stesso, in quanto
viaggiatore, che diventa mistero a se stesso. La misteriosità dell’oggetto si trasferisce ed estende al
soggetto che ad esso si rap-
porta. In un frammento del 1878, Nietzsche spiega lo «stato d’animo» del viandante con le seguenti
parole di Emerson: «il valore della vita risiede nelle sue insondabili capacità: nel fatto che io non so
mai, se sto diventando un individuo nuovo, che cosa mi può capitare»15. Proprio perché si muove
verso la alterità, il viandante non sa cosa potrà capitargli, che cosa sarà di lui nel momento in cui
con l’alterità entrerà in rapporto. Che cosa domani sarà di me? A questa domanda può forse dare
una risposta abbastanza precisa chi ha deciso di dimorare in maniera definitiva presso un
determinato luogo nel quale sempre sostanzialmente ripetere quel che tale luogo caratterizza. Ma,
per chi fa del viaggio - cioè del rapporto con la alterità, dunque con qualcosa che, per se stessi, è
misterioso nella sua natura e nei suoi effetti - la dimensione fondamentale della propria esistenza,
una risposta precisa a quella domanda non è possibile dare.
Viaggiare è, così, affrontare la possibilità - e il rischio - della ridefinizione del proprio essere, la
possibilità della sua scomposizione e riorganizzazione. Viaggiare è rimettersi in gioco. Ci
può essere chi, riguardo a se stesso, dica: perché rimettami in gioco? Sto bene come sto. Sto ben
come sto: quanto dire, è fissato in maniera definitiva il modo in cui la mia esistenza può, con
mia soddisfazione, svolgersi. Ma è difficile pensare che un tal modo di vivere consista senz’altro in
uno star bene: qui, se non c’è da fare i conti con il nuovo, l'incerto, il problematico, il mistero,
c’è da fare i conti con la noia come effetto della ripetizione dell’identico. Forse qualcuno può
comunque preferire la noia alla condizione problematica rappresentata dall’abbandono di certe
abitudini di vita e di pensiero e dalla apertura al nuovo. Rimane allora da comprendere le ragioni di
tale preferenza. Per Nietzsche, che si opti per Furia o l’altra situazione - per la ripetizione
dell’identico o per l’uscita da esso - è una questione - come vedremo -che riguarda la forza
dell’uomo. Si possono qui richiamare alcune osservazioni che, nel capitolo intitolato «Invasioni
nomadi» del
suo libro Che ci faccio qui?, lo scrittore americano Bruce Chatwin fa sulla fondamentalità, per
l’uomo - oltre che per gli animali -del movimento:
Forse dovremmo [...] concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al
movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di
benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata o del lavoro fisso tesse nel
cervello delle trame che generano prostrazione e un senso di inadeguatezza personale. In molti casi
quella che gli etologi hanno designato come “aggressività” è semplicemente una risposta stizzosa
alle frustrazioni derivanti dall’essere confinati in un certo ambiente. Che esista un’esigenza primaria
di movimento è confermato da studi recenti sull’evoluzione umana16.
Le osservazioni qui riportate di Chatwin si riferiscono alla fondamentalità per l’uomo del
movimento nello spazio fisico. Esse sottolineano la condizione insieme di costrizione e di
monotonia che un prolungato stare fermi nello stesso luogo determina. Ma ci si può legittimamente
chiedere se le pertinenti osservazioni dell’autore non siano da estendere ai movimenti che
riguardano lo spazio mentale, emotivo, sociale dell’azione dell’uomo. Anche il rimanere a lungo
fermi presso gli stessi pensieri, sensazioni, rapporti, o determinati modi di viverli, può indurre o
senz’altro induce nell’uomo effetti di costrizione, inadeguatezza, monotonia uguali o simili a quelli
che Chatwin denuncia per quel che riguarda la permanenza prolungata in uno stesso luogo fisico.
È Nietzsche stesso, del resto, a mostrare come la noia sia collegata - essendone l’effetto - alla
condizione della stabilità, della permanenza, dell’essere, e come, a sua volta, la condizione
dell’essere sia collegata - essendo l’effetto di una sua volontà - a una determinata «specie d’uomo»,
ossia alla specie «non creativa, sofferente, [...] stanca di vivere», a quella specie che
altrove Nietzsche definisce debole: in particolare, tale specie di uomo soffre del divenire, vede, per
se stessa, una incompatibilità fra muta-
mento e felicità17. Per questa specie di uomo la salvezza è nell’essere: «L' “essere” come
invenzione di colui che soffre del divenire»18. La tensione verso l’essere diventa il misuratore della
debolezza dell’uomo. Al contrario, Nietzsche osserva, «se pensassimo la specie d’uomo opposta,
essa non avrebbe bisogno di credere nell’essere; anzi, lo disprezzerebbe, come morto, noioso,
indifferente»19. È, quella cui qui Nietzsche allude, la specie «creativa» di uomo: la specie d’uomo
che del mutamento non soffre, dal mutamento non rifugge, ma che al nuovo si apre, il nuovo
vuole, anzi egli stesso determina. La noia, come effetto dell’essere, è il prezzo che l’uomo debole
paga, è disposto a pagare, pur di evitare la problematicità, la rischiosità e l’impegno connessi
alla dimensione, alla quale egli cerca il più possibile di sottrarsi, del divenire. La noia è invece un
prezzo che l’uomo creativo non è disposto, non è interessato a pagare, perché ciò che lo interessa
è proprio l’opposto dell’essere, di ciò che permane, appunto la creazione, la produzione del nuovo,
il mutamento.
Si può aver raggiunto una meta, che si pensa sia quella definitiva: si può cioè stare nella dimora, che
si vuole definitiva, avendo fatto un viaggio per arrivarvi (la dimora come meta). Ma può succedere
anche che questa meta non sia mai stata posta e perciò raggiunta, che non si sia cioè in nessun modo
viaggiato, e che si sia invece da sempre stati in una dimora che da sempre si è considerata come una
dimora che mai si sarebbe abbandonata. L’uomo educato sin dall’infanzia a considerare validi i
valori, le regole, i comportamenti in vigore nell’ambito sociale e familiare di appartenenza, è
l’uomo che da sempre vive in una dimora che considera definitiva. Egli non ha compiuto alcun
tragitto per arrivare alla dimora nella quale vive: la ha già trovata venendo al mondo ed è stato
abituato a considerarla la sua unica dimora possibile. Qui non c’è punto di partenza e punto di
arrivo: c’è lo stare in un luogo che non è né punto di partenza né punto di arrivo di
possibili tragitti. C’è qui un permanere da sempre nell’identico, permanere che ad ogni viaggio si
oppone. Ha osservato Nietzsche che, attraverso l’educazione, l’ambiente sociale tende a fare di ogni
individuo - che rappresenta sempre qualcosa di unico e irripetibile - una «ripetizione», la ripetizione
dei valori, dei sentimenti, dei comportamenti vigenti nell’ambiente sociale stesso20. Ciascuno si
abitua a rimanere per sempre presso gli stessi valori, gli stessi sentimenti, gli stessi comportamenti.
Ciascuno si abitua a ripetere per sempre, a rimanere per sempre fedele all’identico presso il quale da
sempre egli sta. Ciascuno si abitua a non uscire più dalla propria dimora, anzi a pensare che da essa
non si possa in alcun modo uscire.
Più in generale, una lunghissima tradizione, all’interno delle società umane, ha riconosciuto valore,
di essa facendo il criterio della «buona reputazione», solo alla fedeltà a se stessi come permanere
nell’identico, come dimorare presso gli stessi valori, gli stessi pensieri, gli stessi giudizi, gli stessi
sentimenti, le stesse «virtù» o anche presso le stesse «non virtù»21. Importante è stato, per le società
tradizionali, sapere che cosa da ciascuno ci si poteva aspettare o non aspettare per sapere su chi si
poteva fare affidamento (o fino a qual punto) e ciò in funzione delle esigenze di autoconservazione
e di autocontrollo delle società medesime. La cattiva reputazione, il «discredito», invece, sono stati
riservati da questa tradizione alla infedeltà a se stessi, alla «autotrasformazione», al viaggiare
dell’uomo, al suo andare dalla identità alla alterità22. Infatti, che altro è la autotrasformazione
dell’uomo se non l’andare, più o meno accentuato, dell’uomo da un modo di essere a un altro non
ancora sperimentato, dall’identico presso il quale è stato (da sempre o per qualche tempo) verso
l’alterità ossia verso dò presso cui non è mai stato?
Allorché, in un frammento del 1877, tratteggia la figura del saggio, Nietzsche la presenta come
quella di qualcuno che si contrappone, in una maniera particolare, ai costumi vigenti:
Il saggio non conosce una moralità oltre quella che trae le sue leggi da se stesso, bensì già la parola
«moralità» non gli si adatta. Egli infatti è diventato assolutamente scostumato, in quanto non
riconosce costumi, tradizioni, bensì soltanto nuove domande della vita e nuove risposte. Va avanti
per sentieri non mai percorsi, la sua forza aumenta quanto più egli peregrina. È simile a un grande
incendio che porti dentro di sé il proprio vento e ne sia intensificato23.
Chi rifiuta i costumi della propria comunità o del proprio gruppo di appartenenza per adottare quelli
di altre comunità o di altri gruppi, o chi rifiuta i costumi vigenti rimanendo però, fondamentalmente,
in una condizione di confusione, ambiguità, irresolutezza sul da farsi, non è un saggio. Saggio è,
innanzitutto, colui il quale, discostandosi dai costumi vigenti, riconosce, muovendo da se stesso,
«nuove domande della vita e nuove risposte». Saggio è colui il quale si discosta dai costumi vigenti
perché alla vita ha da porre nuove domande - le sue domande - per le quali ha da elaborare nuove
risposte - le sue risposte. Saggio, d’altra parte, non è colui che solo pone tali domande ed elabora
tali risposte, ma colui che sempre più rafforza se stesso attraverso lo sviluppo di questo domandare
e di questo rispondere. La forza, qui, viene non dalla continua ripetizione dell’identico, ma dalla
continua apertura alla alterità. Il saggio, in ogni caso, non si caratterizza per un atto solo negativo,
per un venir meno, un sottrarsi: per il sottrarsi ai costumi vigenti della propria comunità o del
proprio gruppo di appartenenza. Egli vuol dare anche una nuova determinazione - la sua - alla
esistenza. Le nuove domande alla vita e le nuove risposte del saggio sono i sentieri mai da nessuno
percorsi che, per primo, il saggio percorre. Il saggio è (come) il filosofo che Nietzsche distingue
dagli «operai della filosofia», essendo l’uno il creatore di nuovi valori, gli altri coloro che invece
si limitano ad «accertare e ridurre in forinole qualsiasi ampia fattispecie di valutazioni - vale a dire
di antiche determinazioni di valori, creazioni di valori, che sono diventate dominanti e che per un
certo tratto di tempo hanno assunto il nome di “verità”»24.
Può anche succedere, d’altra parte, che la propria dimora non sia né la meta di un viaggio
liberamente e consapevolmente intrapreso né ciò presso cui da sempre si è stati (senza aver mai
intrapreso un viaggio per arrivarvi), bensì il luogo cui elementi da lui non criticamente vagliati,
oppure circostanze del tutto esterne o casuali rispetto al suo essere, possono condurre l’uomo. In un
aforisma di Al di là del bene e del male, Nietzsche scrive:
In molte contrade dello spirito noi siamo stati di casa, o per lo meno degli ospiti; sempre di bel
nuovo siamo sgattaiolati dai gradevoli muffiti cantucci in cui parevano confinarci predilezioni e odii
preconcetti, giovinezza, lignaggio, semplice caso di uomini e libri, o persino la stanchezza del
vagabondaggio25.
Che cosa sono le predilezioni e gli odii preconcetti, la giovinezza, il lignaggio, il caso o la stessa
stanchezza del vagabondare? Sono quelle condizioni, esteriori o accidentali, in generale
involontarie e non fondate sul proprio essere, che però possono indurre l’uomo a fermarsi in
«contrade dello spirito», nelle quali non può veramente riconoscersi, e a scambiare tali contrade
per la propria stessa casa. Nietzsche si è fermato in tali contrade in esse sentendosi «ospite» più che
«di casa»: la distinzione sottolinea non solo e non tanto la transitorietà della sosta (perché
anche dove poi è stato «di casa», Nietzsche vi è stato transitoriamente) quanto la estrinsecità e
accidentalità del rapporto con ciò presso cui si è fermato, il non riconoscimento di sé in tale luogo.
L’uomo-vascello dell’aforisma della Gaia scienza viene segnato, trasformato - si è visto - dai mari e
dai soli che attraversa. Poniamo qui il seguente problema: c’è un nucleo dell’uomo-vascello che
rimane inalterato ad ogni traversata che compie, ad ogni sole che raggiunge, un nucleo che rimane
non toccato da nessuna alterità con la quale, pure, viene in rapporto, una dimora di pensieri,
sentimenti, valori, da lui mai messi in discussione? Poniamo questa domanda perché, in Al di là del
bene e del male, Nietzsche ha scritto:
L'imparare ci trasforma [...] Ma nel fondo di noi stessi, proprio nell’«imo», c’è indubbiamente
qualcosa che non può essere insegnato, un granito di spirituale Fatum, di predeterminata decisione e
risposta a una predeterminata scelta di domande. In ogni questione cardinale parla un immutabile
«questo sono io»26.
Nietzsche, d’altra parte, ha anche affermato il principio del divenire delle cose e osservato che quel
che sembra immobile non è immobile, quel che sembra essere non è essere, ma che quel che sembra
immobilità e quel che sembra essere sono solo una mobilità e un divenire più lenti della mobilità e
del divenire che, con gli organi e gli strumenti di osservazione, dei quali dispone ed essi stessi
storicamente determinati, essi stessi divenuti e divenienti, l’uomo è in grado di percepire. In un
frammento del 1881 Nietzsche scrive:
Se la tua vista fosse più acuta, vedresti tutto in movimento: come la carta che brucia si curva, così
tutto di continuo perisce e intanto si curva27.
E, in un altro frammento dello stesso anno, in cui discute in particolare del fatto che «Anche le
qualità chimiche scorrono e si trasformano», egli parla dell’«eterno flusso di tutte le cose»: in
un composto chimico che vede nove particelle di ossigeno e undici di idrogeno - Nietzsche
esemplifica - «in nessun momento l’ossigeno è esattamente lo stesso che nel momento precedente,
bensì è sempre qualcosa di nuovo»: ma «questa novità è troppo sottile per qualsiasi misura»28. Un
nucleo inalterabile dell’uomo non esiste. Vi può essere solo, di fatto, un nucleo di pensieri,
sentimenti, valori, che si muove, si trasforma più lentamente di quel che non accade per altri
pensieri, sentimenti, valori, tanto lentamente che l’uomo stesso non se ne accorge. Se avesse organi
e strumenti più raffinati di rilevazione, l’uomo arriverebbe ad accorgersi che il suddetto nucleo si
viene nel tempo trasformando e, al limite,
dissolvendo. Su tale questione è però opportuno leggere anche un aforisma di Umano, troppo
umano, nel quale, discutendo in particolare della presunta immutabilità del «carattere»
dell’uomo, Nietzsche, per spiegare la propria posizione, fa l’ipotesi (fantastica) di una esistenza
umana che si prolunga ben oltre i limiti temporali entro i quali essa generalmente si consuma:
Che il carattere sia immutabile non è vero nel senso stretto; piuttosto questo detto popolare sta a
significare solo che, durante il breve tempo della vita di un uomo, i motivi che influiscono su di lui
non riescono a incidere abbastanza profondamente da distruggere i tratti impressi da molti millenni.
Ma se ci si immaginasse un uomo di ottantamila anni, si finirebbe con l’avere in lui un carattere
assolutamente mutevole: sicché si svilupperebbero da lui l’uno dopo l’altro una moltitudine
di individui diversi. La brevità della vita umana induce a molte affermazioni errate circa le qualità
dell’uomo29.
Stando a questo aforisma, si dovrebbe dire che vi sono, nell’uomo, elementi (dall’aforisma
ricondotti al passato filogenetico dell’umanità), non toccati o sostanzialmente non toccati da
cambiamenti: elementi che sarebbero non toccati o sostanzialmente non toccati da cambiamenti non
perché di per sé a ogni cambiamento si sottraggano, ma perché la limitatezza del tempo
della esistenza umana individuale farebbe sì che essi possano subire, nel corso di tale tempo,
trasformazioni solo marginalmente apprezzabili. Il brano, precedentemente citato, di Al di là del
bene e del male, fa riferimento, d’altra parte, come si è visto, a qualcosa di immutabile nell’uomo (e
sia pure, si può ora aggiungere specificando, a qualcosa che non muta, o sostanzialmente non muta,
nel tempo della esistenza individuale) e che nell’uomo si fa valere «in ogni questione cardinale».
Ogni questione fondamentale dell’uomo, per l’uomo, sarebbe così decisa da elementi poco soggetti
ad alterazione. Ci si trova, con queste affermazioni, di fronte a un punto problematico e delicato
della riflessione nietzscheana, un punto che solleva, forse, legittimi interrogativi sulla effettiva
portata del divenire, al quale, pure, Nietzsche auspica
l’uomo sempre più si apra, sulla reale dimensione dei cambiamenti che - torniamo all’aforisma sulla
amicizia della Gaia scienza - i mari e i soli, attraverso i quali gli uomini-vascello passano, su di essi
producono. Che cosa dell’uomo, e fino a qual punto, può cambiare nel corso della sua esistenza? Ad
essere interessati dal cambiamento sono aspetti più superficiali e meno importanti di quelli che
costituiscono l’«immutabile» dell’uomo e che affiorano ogni volta che si pongono, per l’uomo,
questioni cardinali? E quale rapporto c’è - se c’è - tra gli aspetti più profondi e importanti e quelli
più superficiali e meno importanti dell’essere umano?
Interminabilità del viaggio, problematicità e, a volte, anche, dolorosità del viaggio, alterazione di sé
nel rapporto con la alterità verso la quale il viaggio conduce: questi i tratti che sin qui abbiamo visto
del viaggiare nietzscheano.
Ma c’è un altro tratto del viaggiare nietzscheanamente inteso che ora vogliamo ricordare: il
carattere solitario del viaggio, delle strade che nel proprio viaggio si percorrono. Questo tratto si
può ricavare - fra l’altro - dalla stesso aforisma della Gaia scienza dedicato all’amicizia e nel quale
Nietzsche si rifà esplicitamente al viaggio come metafora dell’esistenza. Gli amici, dunque, sono i
vascelli che, nel loro andare per i mari, una volta si incontrano nello stesso porto e, insieme, qui
sostano. È il momento del riconoscimento reciproco e della amicizia come riconoscimento
reciproco: «...allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’àncora in uno stesso
porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era
stata la stessa per tutti e due»30. Ma gli amici diventano l’un l’altro reciprocamente «estranei»
perché ciascun vascello o anche uno solo di essi riprende il cammino, un cammino che è diverso da
quello dell’altro: gli amici si separano. Qui, oltre il motivo già visto della non definitività delle mete
che si raggiungono nella navigazione che la propria esistenza è (i vascelli che si fermano nello
stesso porto, ma che poi riprendono il cammino), c’è la indicazione del viaggio come qualcosa che,
a un certo momento, si svolge, per l’uomo, in una condizione di solitudine. L’esistenza è viaggio,
ma il viaggio, che l’esistenza è (o dovrebbe essere), si svolge su strade che diventano a un certo
punto solitarie o che addirittura sono fondamentalmente tali, perché sono le strade alle quali portano
il compito, la meta di ciascuno: compito, meta, che sono, per ciascuno, assolutamente particolari e
diversi da quelli di ciascun altro. I riconoscimenti reciproci, le reciproche identificazioni (il fermarsi
nello stesso porto e sotto lo stesso sole) sono sempre provvisori: anche sviluppando il motivo del
viaggio come metafora dell’esistenza, si trova, così, un tema ben presente a Nietzsche: il tema della
solitudine dell’uomo31. Per Nietzsche, del resto, anche quando avvengono, le reciproche
identificazioni sono parziali32. A proposito della reciproca irriducibilità delle mete che gli uomini
perseguono si possono ricordare le seguenti parole di Zarathustra:
«Per vie di molte specie e in molti modi, sono giunto alla mia verità

[...]
E solo malvolentieri ho sempre chiesto le strade, - ciò è sempre stato contrario al mio gusto!
Preferivo interrogare e tentare le strade da solo

[...]
“Questa, insomma, è la mia strada - dov’è la vostra?”, così rispondo a quelli che da me vogliono
sapere “la strada”. Questa strada, infatti, non esiste!33
Non esiste una verità universale, esistono, invece, tante verità quanti sono i singoli esseri umani.
Non solo: la propria verità ciascuno non può che, alla fine, determinare da se stesso, anche andando,
magari, nel perseguimento di tale determinazione, su strade sbagliate. Come non esiste la verità
(una verità uguale per tutti e verso la quale tutti si muovono o dovrebbero muoversi) così non esiste
la strada (una strada uguale per tutti e che tutti percorrono o dovrebbero percorrere). Che ciascuno
abbia una sua verità e una sua strada per arrivarvi, e che tale strada egli solo possa stabilire - ciò
pone il problema dell’individuo in Nietzsche come problema della rivendicazione a ciascun uomo
della possibilità di essere se stesso cioè di definire, nei modi che sono suoi propri e diversi da quelli
di chiunque altro, la propria esistenza.
3. Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi impossibili (fra Nietzsche e Jankélévitch)
Chi viaggia si dirige verso un luogo, ma ciò fa a partire da un altro luogo, abbandonando un altro
luogo. Per usare i termini nietzscheani, chi viaggia dimentica34 il luogo presso il quale, per un certo
tempo, egli è stato. Ma, a volte, il ricordo del luogo, presso il quale per qualche tempo è stato, è
qualcosa di difficile o doloroso da superare per l’uomo. Infatti l’abbandono di una abitudine (come
lo stare per un certo tempo presso l’identico) significa rinuncia a quel poco o tanto di comodità,
tranquillità, sicurezza, consumo relativo di forza, che il seguire una abitudine finisce, generalmente,
ai vari livelli, per portare con sé. L’abbandono
dell’identico può essere, in particolare, abbandono di situazioni e rapporti affettivi che nel tempo si
sono venuti stabilendo e dai quali può essere comunque particolarmente doloroso distaccarsi. E'
forse pensando a situazioni e rapporti di questo tipo che Nietzsche fa dire a Zarathustra:
Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore35.
Viene qui rappresentato un modo doloroso, traumatico di prendere congedo da qualcosa, ben
diverso da quello indicato nell’aforisma della Gaia scienza sulle brevi abitudini, nel quale del
proprio stesso successivo congedarsi dalle diverse brevi abitudini da lui via via vissute nel corso
della propria esistenza Nietzsche dice essere avvenuto «con dolcezza». Dopo la sofferenza
della separazione - in ogni caso - può accadere si determini una situazione più serena: ci si dedica
alla nuova esperienza, senza più pensare alla esperienza dalla quale ci si è congedati o almeno
senza che il pensiero di essa sia, per se stessi, fonte di sofferenza. Può darsi che ci si lasci
coinvolgere in maniera piena sul piano emotivo e intellettuale dalla nuova realtà. È questo il caso
stesso di Nietzsche che - nella misura in cui le parole di Zarathustra, prima riferite, esprimono lo
stesso pensiero di Nietzsche - può anche aver conosciuto, al momento del congedo, le «mille ferite
che trafiggono il cuore», ma poi, come si è visto, ha saputo vivere la nuova realtà in modo da
rimanerne - finché la viveva - totalmente appagato. Può darsi, dunque, che si determini questa
situazione. Ma può anche darsi che si rimanga legati a ciò da cui pure - per i più diversi motivi - si
prende congedo. Può darsi che la ferita della separazione non si rimargini, e che non si rimargini
perché si continua a rimanere legati a ciò da cui ci si separati. In casi del genere non si prende
veramente congedo. Ci si allontana da qualcosa solo formalmente: spiritualmente si continua a
rimanervi
legati. È questo il caso della nostalgia, della sofferenza per il ritorno, per il mancato ritorno, per il
mancato e desiderato ritorno a ciò da cui un giorno si è partiti. Ha scritto Jankélévitch:
Il nostalgico è contemporaneamente qui e là, né qui né là, presente e assente, due volte presente e
due volte assente; si può quindi dire indifferentemente che è multipresente o che non è da nessuna
parte: proprio qui è fisicamente presente, ma si sente assente in ispirito da questo luogo in cui è
presente nella carne; là, invece, si sente presente moralmente, ma in realtà e attualmente è assente
da quei luoghi cari che ha un tempo lasciato. L’esule ha così una doppia vita, e la sua seconda vita,
che fu un giorno la prima e forse tornerà a esserlo un giorno, è come inscritta in sovrimpressione
sulla vita banale e tumultuosa dell’azione quotidiana; l’esiliato tende l’orecchio per percepire il
pianissimo delle voci interiori attraverso il chiasso tumultuoso della strada, della Borsa e del
mercato36.
E anche Jankélévitch - come il Nietzsche dello Zarathustra -parla della sofferenza della
separazione, del «crudele e tenero dolore con cui si apre il lungo periodo dell’assenza», della
«lacerante tragedia che patetizza l’esistenza e in cui tutto si dice, si fa, avviene per l’ultima volta -
un’ ultima volta, e poi mai più. Amare, dolci lacrime dell’Addio!», del «partente, che a volte è
un po’ masochista» e «fa del male a se stesso lasciando i luoghi e le persone care»37. Jankélévitch
spiega il «carattere lacerante delle separazioni» con «la finitezza e l’insufficienza
dell’essere umano», che, proprio perché essere finito, non ha il «dono dell’ubiquità»38, non può
stare che o qui o lì e non qui e lì contemporaneamente. D’altra parte viene anche osservato che la
nostalgia si definisce in rapporto non tanto alla dimensione spaziale quanto alla dimensione
temporale. Oggetto della nostalgia non è un luogo particolare del nostro passato, ma il nostro
passato in quanto tale, il nostro esser stati: oggetto della nostalgia la è «pas-
satità»39. La nostalgia vuol tornare indietro nel tempo. Ma così essa si scontra con la «irreversibilità
del tempo»: in quanto desiderio impossibile di tornare indietro nel tempo, la nostalgia è destinata a
rimanere inappagata, la malattia, che essa è, è «incurabile», della sua «inquietudine» -
«irrimediabile» - non si guarisce «col ritorno al paese natio»40. Se, per quel che riguarda lo spazio,
«l’onnipresenza è impossibile, ma tutti i movimenti sono reversibili», per quel che riguarda il tempo
le cose stanno diversamente: «come non si può essere insieme qui e altrove, così non si può essere
insieme essere ed esser stato, essere adulto e giovane, accaparrarsi tutto e non mollare niente, come
un avaro; ma oltre a ciò (e non era questo il caso degli spostamenti nello spazio) la reversione
cronologica è inconcepibile»41. D’altra parte, che gli stessi movimenti nello spazio siano reversibili,
ciò, per Jankéléviteh, è da intendersi solo in senso approssimativo perché si dà una «interferenza del
tempo e dello spazio» e «la temporalità inglobante pervade il movimento stesso»:
«l’irreversibilità temporale impedisce al ritorno spaziale di ripiegare esattamente sul suo punto di
partenza»42. A rigore, il punto di partenza, dal quale una volta ci si è allontanati e al quale dopo un
certo tempo si ritorna, in questo stesso tempo è cambiato: non si toma mai nello stesso luogo da cui
si è partiti. Del resto, anche chi toma non è più esattamente lo stesso di chi è partito.
Due vite sono compresenti, dunque, nel nostalgico, e sia pure in un rapporto di reciproca
opposizione ed esclusione, e per quanto l’una sia una vita solo sognata, rappresentata, l’altra la vita
realmente vissuta. A fronte della esistenza doppia del nostalgico, della compresenza, in lui, di due
esistenze diverse c’è - si potrebbe qui osservare - l’esistenza nietzscheanamente intesa che si
presenta, invece, come successione nel tempo (rimandiamo alla immagine di Jankéléviteh della
pluralità delle vite) di esistenze diverse, cia-
scuna delle quali prende successivamente il posto dell’altra, vivendo per se stessa senza nostalgia
per quella che l’ha preceduta. A questo punto, però, si potrebbe porre, per quel che
riguarda Nietzsche, la seguente domanda: il progetto di vivere i diversi momenti della propria
esistenza in modo tale - come si legge nell’aforisma 341 della Gaia scienza - da volerne l’eterna
ripetizione43, l’eterno ritorno, non potrebbe essere un progetto nostalgico? La teoria dell’«eterno
ritorno» (intesa come tale progetto, e non nell’altro significato, che pure ha in Nietzsche, cioè come
teoria che, partendo dalla ipotesi che «la misura della forza del cosmo» sia «determinata» e il tempo
invece infinito, afferma che le stesse configurazioni di tale forza, che una volta sono state, non
possono - in un tempo infinito - che infinitamente ripetersi44), che l’aforisma della Gaia scienza di
fatto preannuncia e tematizza, è una teoria della nostalgia? Si direbbe che, in realtà, le cose stanno,
per Nietzsche, esattamente all’opposto. Quando dice che i diversi momenti della propria esistenza
vanno vissuti in modo tale da volerne l’eterno ritorno, Nietzsche sta indicando soltanto, appunto, il
modo in cui i diversi momenti della propria esistenza andrebbero vissuti. Se si arriva a volere il
ritorno, anzi l’eterno ritorno, di ciò che si vissuto, ciò è il segno che la propria esistenza è stata
vissuta, nella sua attualità, in un modo, per se stessi, del tutto positivo. Con il riferimento al
desiderio dell’eterno ritorno del passato, Nietzsche vuol dire proprio solo questo: che il presente va
vissuto in modo tale da restarne pienamente soddisfatti. Ma ciò significa che il presente - ciascun
momento della propria esistenza - va vissuto non guardando, nostalgicamente, al passato (poiché
nel passato soltanto starebbe la propria verità) né, d’altra parte, utopisticamente proiettandosi nel
futuro (poiché nel futuro soltanto starebbe la propria verità)45.
Può essere doloroso - si è detto - allontanarsi da ciò presso cui, per qualche tempo, si è stati. D’altra
parte, si può rimanere fissati a una sofferenza subita: vi sono ferite - Nietzsche osserva - dalle quali
alcuni non riescono più a riprendersi46. Qui la sofferenza non è più (necessariamente) l’effetto
dell’abbandono (magari obbligato) di una abitudine, ma è abitudine essa stessa: è la sofferenza che
qui diventa quell’identico, presso il quale si sta e che non si riesce a dimenticare. Cercare di
dimenticare la sofferenza aggiungerebbe solo altra sofferenza a quella che già c’è. In questo caso,
così come in quello delle abitudini legate al valore della comodità o della sicurezza, o in quello
delle abitudini affettive, il dimenticare è, per Nietzsche, una questione di forza, riguarda la capacità
di sopportare e superare la problematicità o la sofferenza di determinate situazioni o degli effetti di
determinate situazioni. Ciò vale - si potrebbe osservare - non solo o non tanto allorché si dimentica
per un desiderio di nulla, per il desiderio di non sentire, non sapere più nulla riguardo a una certa
realtà, per il desiderio di sospendersi nel vuoto che dentro di sé così si determina (in questo caso
può essere in gioco la debolezza più che la forza dell’uomo o, in ogni caso, la forza ma anche la
debolezza) quanto allorché si dimentica per - come dice Nietzsche - fare posto al nuovo, cioè per
riorganizzare il proprio essere su nuove basi, quelle che l'incontro con la alterità determina. Ma il
viandante nietzscheano ha un atteggiamento particolare nei confronti del mutamento della propria
esistenza, della propria identità: c’è, nel viandante, «qualcosa di errante», che trova «la sua gioia
nel mutamento e nella transitorietà»47. È la presenza di questo elemento che consente al viandante
di superare gli aspetti di problematicità o di sofferenza che al mutamento sono o possono
essere comunque collegati. Del dimenticare Nietzsche ha scritto che non è una semplice qualità
negativa, un difetto, un limite della coscien-
za che non riesce a un certo momento ad avere più presenti a se stessa certi elementi che, nel
passato, le sono stati presenti: non indica, il dimenticare, solo quel fenomeno che si suole
considerare naturale e involontario e per il quale certi elementi scompaiono (almeno
provvisoriamente) dal campo della coscienza. Il dimenticare viene visto, invece, positivamente,
come capacità di chiudere con il passato per aprirsi al nuovo: di uscire dalla dimora in cui ci si è
chiusi e di muoversi in ciò che sta fuori di essa48. Dimenticare non è ancora necessariamente
viaggiare, cioè muoversi verso un luogo - diverso da quello presso il quale per un certo tempo si è
stati - con il quale stabilire un rapporto positivo di sperimentazione: come si è detto, si può
dimenticare una realtà per una motivazione solo negativa, solo per il desiderio di non avere più con
essa nessun rapporto. Se dimenticare non è ancora viaggiare, chi viaggia, tuttavia, dimentica. La
stessa idea, che esprime con il concetto del dimenticare, Nietzsche illustra con il concetto di
infedeltà o tradimento: «noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà, abbandonare
sempre di nuovo i nostri ideali»49, dobbiamo diventare i «nobili traditori di tutte le cose che in
genere si possono tradire e tuttavia senza un sentimento di colpa»50.
Dimenticare il passato aprendosi al nuovo - dunque al divenire - è, per tutti, una operazione che - si
è visto - implica forza. Forza implica, d’altra parte, anche la operazione con la quale ci si tiene
fermi a una stessa realtà di cui si vuole approfondire l’esperienza: si tratta di saper non reagire a
stimoli che possono prodursi nel corso della esperienza e rispondendo ai quali ci si distoglierebbe
dallo svolgimento della esperienza stessa51. L’esistenza come dialettica di viaggio e dimora - il
dimenticare aprendosi al nuovo e il rimanere presso un oggetto approfondendone la espe-
rienza definiscono nel loro insieme appunto resistenza come dialettica di viaggio e dimora - è così
una manifestazione di forza dell’uomo. Il giudizio morale di condanna, che, secondo Nietzsche,
l’uomo debole generalmente esprime sulle manifestazioni di forza e su coloro che di tali
manifestazioni si rendono protagonisti, non può che intendersi esteso, allora, alla stessa esistenza
come dialettica di viaggio e dimora. Si possono a questo punto ricordare alcune osservazioni che
Hans Blumenbetg svolge nella sua indagine intorno alla navigazione e in particolare al naufragio
come metafore della esistenza. Tali osservazioni si riferiscono al modo in cui, nella storia della
cultura occidentale, a partire dalla Grecia antica, è stato spesso valutato l’andar per mare -possiamo
qui dire: il viaggiare - ossia come è stato valutato uno dei due elementi che costituiscono quella che
qui si è indicata come la dialettica nietzscheana dell’esistenza, appunto il viaggio (ma abbiamo visto
come questo elemento sia fondamentale, in Nietzsche, anche per comprendere l’altro elemento di
tale dialettica, cioè la dimora). Blumenberg nota come, nella storia della cultura occidentale, siano
registrabili prese di posizione critiche nei confronti dell’andar per mare, nel quale si è visto un gesto
di immodestia dell’uomo, il segno di una «avida visione di guadagni ottenuti con colpi di mano, di
un di più di quanto è ragionevolmente necessario (per il quale cervelli filosofici hanno facilmente
una formula in bocca), dell’opulenza e del lusso»52, una presuntuosa volontà di superamento dei
propri limiti (che lo legherebbero e confinerebbero alla terraferma), un atto di «empietà»53. In altri
termini, nella storia della cultura sono stati formulati giudizi morali di condanna nei confronti
dell’andar per mare - nei confronti del viaggiare, del movimento dalla identità alla alterità. Ci si
potrebbe chiedere chi, quale tipo
umano abbia potuto formulare un giudizio del genere. A questa domanda si potrebbe rispondere che
a formulare un tale giudizio è stato l’uomo debole di cui parla Nietzsche, l’uomo - come si è visto -
che soffre del mutamento, che considera reciprocamente incompatibili felicità e mutamento, che
tende all’essere, che non sa controllare le proprie reazioni agli stimoli (che non sa non reagire), che
pone, infine, il proprio livello di potenza come criterio universale di valutazione delle azioni
umane54, ad aver potuto esprimere sull'andar per mare un giudizio del genere indicato da
Blumenberg. Quella domanda è suscettibile, d’altra parte, anche di un’altra risposta, non in
contrasto con quella appena indicata. L’altra risposta fa riferimento alle esigenze di
autoconservazione e autoprotezione - da Nietzsche, come si è visto, richiamate - delle comunità
umane, le quali contano, in funzione di tali esigenze, sulla prevedibilità dei comportamenti
individuali che devono, a tal fine, rimanere nel tempo autoidentici.
4. Quando, stando a casa propria, si è fuori di sé
Rappresentando, nella Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano, il processo che porta alla
formazione dello «spirito libero», Nietzsche ricorre alla metafora del viaggio e della dimora. Il
momento iniziale è l’uscita dell’uomo dalla propria casa, dalla casa costituita dai doveri, dai valori,
dalle autorità, dalle persone nei quali egli da sempre ha creduto in maniera assoluta: a spingere
l’uomo fuori della propria casa è un impulso irrefrenabile per il quale importante non è tanto andare
in un luogo determinato (raggiungere una meta) quanto non rimanere più nel luogo in cui finora è
stato. La casa, in cui aveva sin qui abitato e che aveva sin qui venerato, diventa ciò da cui fuggire.
«Piuttosto morire che vivere qui», così parla la voce imperiosa della seduzione: e questo «qui»,
questo «a casa» è tutto ciò che fino ad allora la giovane anima aveva amato!55
Era stata, quella da cui ora l’uomo fugge, una casa che altri avevano costruito, nella quale egli era
nato ed era sempre vissuto, in se stesso di essa accogliendo, come qualcosa di assoluto, i valori che
altri, magari in un lontano passato tramandato fino all’oggi, avevano determinato. Ma in realtà
l’uomo, in questa condizione, era «fuori di sé (ausser sich)»56: i valori, in cui egli aveva creduto,
erano stati appunto altri, non egli stesso, a determinare. La casa era stato il luogo del suo
autoestraneamento: egli era appartenuto ad altri, non a se stesso. Nietzsche ha sottolineato
la importanza, ai fini del ritrovamento dell’uomo da parte di se stesso, dell’essere uscito di casa,
cioè di essersi sottratto alla sottomissione e alla venerazione nei confronti dei valori già
costituiti, per quanto la libertà così conquistata egli eserciti all’inizio in modo selvaggio e solo
negativo: egli la esercita, selvaggiamente, contro ciò che finora aveva amato e venerato. Si potrebbe
osservare che proprio questo modo di esercitare la libertà attesta che, in questa fase, l’uomo non è
ancora veramente uscito dalla propria casa, dall’identico presso il quale da sempre stato: solo
che, mentre prima aveva un rapporto positivo con l’identico, ora ha un rapporto negativo con esso.
Nella misura in cui, in questa fase, l’uomo determina se stesso solo nella e con la distruzione di
ciò in cui prima aveva creduto, egli mostra che alla vecchia dimora - cioè alla sua vecchia identità -
è ancora, sia pure in forma negativa, rimasto legato. L’uomo che non vuole che allontanarsi
dalla propria casa - dalla casa che sin qui ha amato e venerato -, finché è dominato da questo
proposito, è dunque ancora legato, sia pure negativamente, alla propria casa. Si potrebbe dire che,
per uscire veramente dalla propria dimora, egli dovrebbe compiere uno sforzo analogo a quello nel
quale, secondo Nietzsche, si deve impegnare chi voglia comprendere la «nostra moralità europea»;
chi vuole comprendere tale moralità deve superare non solo il proprio tempo, «ma anche la
ripugnanza e la contraddizione in cui si è sentito fino a oggi contro questo tempo, il suo soffrire di
questo tempo, il suo non conformarsi al tempo, il suo romanticismo...»57.
In questa fase del processo di liberazione, l’uomo viene descritto come «sempre in cammino,
inquieto e senza meta come in un deserto»58. L’uomo non si è ancora precisamente rivolto
a qualcosa di diverso dalla propria precedente dimora e con cui stabilire un rapporto positivo.
L’esistenza dell’uomo non si è ancora definita, positivamente, in rapporto alla alterità (a ciò che
non ha ancora vissuto), ma solo, negativamente, in rapporto all’identico (a ciò che sinora ha
vissuto). Ma il processo di formazione dello spirito libero continua e si conclude con il passaggio
dalla immatura libertà della fase selvaggia e negativa alla «matura libertà dello spirito, che è tanto
padronanza di sé quanto disciplina del cuore» e che consente all’uomo di «vivere [...] per
esperimento»59, consente cioè all’uomo di realizzare la propria esistenza come dialettica di viaggio
e dimora, andando dalla sperimentazione di una certa realtà alla sperimentazione di un’altra
realtà. Può darsi, d’altra parte, il caso (possibilità, questa, che Nietzsche, pure, considera) che
l’uomo costruisca egli stesso la propria dimora e la consideri, però, assoluta, definitiva. In questo
caso si determina comunque una forma di autolimitazione delle possibilità dell’uomo, la cui
esistenza (come si è visto) si chiude alla possibilità di ulteriori sue forme di realizzazione.
5. Modernità: il viaggio senza dimora
Nel giudizio dello stesso Nietzsche, l’epoca moderna si contrappone e rende impossibile il suo
modo di intendere l’esistenza
ossia - come e nel senso che si è visto - resistenza come dialettica di viaggio e dimora. L’epoca
moderna un’epoca è una epoca di almeno apparente grande mobilità, caratterizzata da un
grande viaggiare (in ogni senso)60. Ma qual è, propriamente, il muoversi moderno, il moderno
viaggiare? Quando ci si pone questa domanda e nello stesso tempo si pensa a un confronto con quel
che Nietzsche osserva sul viaggio, si deve ricordare che il viaggiare nietzscheano è un viaggiare che
prevede delle soste - e che, per Nietzsche, anche quando si sosta si continua a viaggiare. Il viaggio
nietzscheano prevede il dimorare. Si dimora (nel senso nietzscheano) nell’età moderna?
Nietzsche paragona il modo moderno di fare esperienza al modo in cui il viaggiatore di un treno
guarda e conosce paesaggi e popoli61: paesaggi e popoli il viaggiatore del treno conosce
guardandoli dal finestrino, cioè in lontananza e velocemente. Il modo moderno di fare esperienza
dell’uomo è caratterizzato dalla velocità: la velocità della esperienza determina, poi, un mezzo o
falso giudicare e sentire62, dunque - poiché giudicare e sentire sono condizioni dell’esperienza - una
mezza o falsa esperienza della realtà. Nella età moderna, dunque, si corre e, se si vuole riprendere il
termine del viaggio, si dirà che, nella modernità, viaggiare è correre63. Il modo moderno,
caratterizzato dalla velocità, di fare esperienza non è solo, d’altra parte, l’effetto della
organizzazione moderna della vita individuale e sociale basata su ritmi più veloci di quelli delle
epoche precedenti, ma anche l’effetto di un fenomeno, pure sottolineato da Nietzsche (e con tale
organizzazione della vita forse in qualche modo sostanziale collegato), della estrema
impressionabilità e reattività dell’uomo moderno, della sua incapacità di non rea-
gire agli stimoli64, che sappiamo già essere caratteristica dell’uomo debole in generale. L’esperienza
dell’uomo ha acquisito sempre più i tratti di un correre involontario e incontrollato da
una esperienza all’altra, di un velocissimo sfiorare o piuttosto lasciarsi sfiorare dalle cose, di un
prodursi e dileguare rapidi e incessanti di eventi, parole, rapporti, ricordi, desideri, immagini. Si
potrebbe allora dire - per esprimere questa situazione nei termini metaforici del viaggio e della
dimora quali momenti della dialettica nietzscheana della esistenza - che è la dimensione del
dimorare che, nella età moderna, entrata in crisi: l’elemento per il quale, in tale dialettica, il viaggio
porta, di volta in volta, a un luogo particolare, presso il quale ci si ferma per scoprirne e viverne
successivamente i diversi aspetti e potenzialità, per realizzarne un approfondimento
multidirezionale, in questo senso per continuare a viaggiare (per continuare a viaggiare nello stesso
luogo in cui ci si fermati), ciò che nella modernità è entrato in crisi. Nella modernità si viaggia, si va
verso e attraverso la alterità: ma il fatto - negativo - è che si viaggia velocemente, si va
velocemente verso e attraverso la alterità. Il limite del viaggiare moderno è il rapporto veloce che
esso determina con la alterità. La velocità del rapporto consente una moltiplicazione inverosimile di
esperienze. Ma proprio qui è la «malattia moderna»; essa consiste in un «eccesso di esperienze»65.
Dice ancora Nietzsche al riguardo: «I giovani si lamentano spesso di non aver fatto esperienze,
mentre soffrono proprio per averne fatte troppe: è questo il culmine della moderna inconsistenza
intellettuale»66. Nella modernità si viaggia troppo, ovvero si fanno troppe esperienze, ovvero ancora
dell’alterità verso la quale di volta in volta si va non si fa mai nessuna vera esperienza: l’«eccesso di
esperienze» significa appunto che si fanno tante esperienze senza approfondirne nessuna.
Nella modernità si viaggia soltanto, si viaggia senza fermarsi, senza veramente fermarsi, cioè senza
fare nessuna esperienza radicale o radicata di nessun luogo che si incontra nel proprio cammino: ma
non è appunto questo il viaggio in senso nietzscheano. Viaggiare senza fermarsi è, propriamente,
correre: è il correre proprio dell’uomo moderno. Questa situazione non toglie, d’altra parte, che, al
di sotto del livello del moderno viaggiare senza soste, operino tuttavia strutture e meccanismi
concettuali, psicologici, affettivi più stabili, sia pure storicamente determinati (strutture e
meccanismi che non rimandano solo o necessariamente ai «tratti impressi da molti millenni»
nell’uomo, dei quali, si è visto, parla Nietzsche, ma che - come, del resto, Nietzsche ha ben
dimostrato, in tutta la sua opera, di sapere - possono essere il frutto di tradizioni culturali più
circoscritte, o di operazioni organizzate di creazione del consenso a fini di conservazione dei sistemi
sociali), che non vengono raggiunti da nessuna forma di consapevolezza e di critica, strutture e
meccanismi che rappresentano un dimorare come semplice immobilità, un dimorare diverso da
quello, collegato al viaggio, di Nietzsche, cioè diverso dal dimorare come viaggio nell’identico. E'
anzi forse proprio questa la condizione dell’uomo moderno (e, potremmo aggiungere, e a
maggior ragione, contemporaneo): la condizione di un essere caratterizzato da un massimo di
rigidità e da un massimo di evanescenza: da un lato, da strutture e meccanismi concettuali,
psicologici, affettivi, mai messi in discussione, dall’altro, da rapporti fuggevoli e impressionistici
con la realtà.
1Menschliches, Allzumenschliches, «Vorrede», 4. Sulla vita come successione di esperimenti in
Nietzsche, cfr. F. Semerari, Il gioco dei limiti. L’idea di esistenza in Nietzsche, pp. 55-79.
2 Die fröhliche Wissenschaft, 295.
3    Ibidem.
4    Ibidem.
5    Menschliches, Allzumenschliches, 1,638.
6    Ivi, «Vorrede», 3.
7    Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 40[20].
8 Die fröhliche Wissenschaft, 295.
9    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[68],
10    Die fröhliche Wissenschaft, 295.
11    Jenseits von Gut und Böse, 154.
12 Die fröhliche Wissenschaft, 279.
13   Sulle trasformazioni che in particolare il viaggio in senso geografico può determinare
nell’uomo, cfr. EJ. LEED, The Mind of the Traveler. Front Gilgamesch to Global Tourism (tr. it., in
particolare pp. 251-75).
14    In generale, sul carattere diveniente dell’uomo nietzscheano, cfr. F. MASINI, Lo scriba del caos.
Interpretazione di Nietzsche, pp. 223-50. La presenza, in Nietzsche, per quel che riguarda il modo
di rapportarsi alla realtà, di una posizione invece anche diversa da quella caratterizzata dal divenire,
di una posizione non necessariamente preoccupata o assillata dal problema del divenire, è studiata,
attraverso la analisi del motivo metaforico della «barca», da Vivetta Vìvarelli: con la metafora della
barca, Nietzsche indicherebbe non solo «il passaggio dell’anima nelle pause del flusso del divenire
e del tendere verso qualcosa», ma anche - in certi testi - «il sein contrapposto al werden, non più
però come riposo dallo streben , ma come suo rifiuto, o incapacità ad adattarvisi» (V. VÌVARELLI, La
barca di Nietzsche, rispettivamente pp. 570 e 574-5).
15 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 32[15] (tr. it„ 32[13]).
16 B. CHATWIN, What Am I Doing Here? (tr. it., p. 271).
17    Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 9[60].
18    Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, 2[110].
19    Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 9[60].
20 Menschliches, Allzumenschliches, 228.
21    Die fröhliche Wissenschaft, 296.
22    Ibidem.
23    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878,23(4) (tr. it., 24[8]).
24    Jenseits von Gut und Böse, 211.
25 Ivi, 44.
26    Ivi, 231.
27    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[48].
28    Ivi, 11[149].
29 Menschliches, Allzumenschliches, 1,41.
30 Die fröhliche Wissenschaft, 279.
31   Cfr., per es., Menschliches, Allzumenschliches, I, 376. Sulla solitudine vissuta in prima persona
dallo stesso Nietzsche, cfr. C.P. Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie. Zweiter Band: Die zehn
Jahre des freien Philosophen (Frühjahr  1879 bis Dezember 1888).
32    È quanto si ricava - come sua implicazione - da quel che Nietzsche osserva sulle condizioni
della reciproca comprensione degli uomini, che è sempre relativa perché le stesse parole, attraverso
le quali la comunicazione ha luogo, hanno, però, per ciascuno, significati particolari, definiti sulla
base della sua esperienza personale che, per quante somiglianze possa presentare con essa, è pur
sempre diversa dall’esperienza altrui, se non altro perché l’identità di ciascuno - di ciascun soggetto
della esperienza - è diversa da quella di chiunque altro. Sul problema della comunicazione e della
comprensione in questo senso, cfr. ancora Menschliches, Allzumenschliches, I, 376 e, inoltre,
Jenseits von Gut  und Böse, 268. Sulla singolarità assoluta e irripetibile che ciascun uomo è,
cfr. Menschliches, Allzumenschliches, I, 286.
33    Also sprach Zarathustra, in, «Vom Geist der Schwere», p. 241 (tr. it., pp. 238-9).
34    Zur Genealogie der Moral, II, 1.
35 Also sprach Zarathustra, II, «Auf den glückseligen Inseln», p. 107 (tr it,
p. 102).
36   V. JANKÉLÉVITCH, L’Irréversible et la Nostalgie, p. 281 (tr. it. parziale in A. Prete [a cura di],
La nostalgia. Storia di un sentimento, p. 126).
37    Ivi, pp. 296-7 (tr. it., p. 150).
38    Ivi, p. 282 (tr. it., p. 128).
39 JW, p. 290 (tr. it., pp. 139-40).
40    JW, p. 290 (tr. it., p. 153).
41    Ivi, p. 300 (tr. it., p. 155).
42    Ibidem (tr. it., pp. 155-6).
43    Die fröhliche Wissenschaft, 341.
44    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [202].
45    Sull’eterno ritorno, cfr. K. LOWITH, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des
Gleichen J. GRANIER, Le problème de la Vérité dans la philosophie de Nietzsche, pp. 557-602; e,
nella prospettiva di un confronto fra Nietzsche e Leopardi, A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno
ritorno. Nietzsche e Leopardi.
46   Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzten und Nachtheil der Histoire fur das
Leben, 1, p. 247 (tr. it., p. 265).
47    Menschliches, Allzumenschliches, I, 638.
48    Zur Genealogie der Moral, II, 1.
49    Menschliches, Allzumenschliches, I, 629.
50    Ivi, 637.
51    Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889,14[102], 15[39],
52    H. BLUMENBERG, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher (tr. it., p. 28).
Sulla analisi, che Blumenberg conduce, della navigazione come metafora dell’esistenza, cfr. R.
BODEI, «Introduzione» all’ed. it. appena citata del libro di Blumenbeig e, inoltre, dello stesso Bodei,
il saggio Navigatio vitae: la metafora della esistenza come viaggio, pp. 37-49.
53    H. BLUMENBERG, Schiffbruch mit Zuschaue (tr. it, pp. 31-2).
54Sulla universalizzazione, da parte dell’uomo debole, del proprio particolare criterio di
valutazione, cfr. Zur Genealogie der Moral, I, 13-14; III, 14.
55    Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3.
56    Ivi, 5.
57    Die fröhliche Wissenschaft, 380.
58    Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3.
59    Ivi, 4.
60    Cfr. R. Bodei, Navigatio vitae: la metafora della esistenza come viaggio, p. 44.
61    Menschliches, Allzumenschliches, I, 282.
62    Ibidem.
63    Sugli aspetti di velocizzazione dell’esistenza nel mondo contemporaneo, cfr. la
rappresentazione che ne dà Heidegger all’inizio del saggio su La cosa (M. HEIDEGGER, Vorträge und
Aufsätze [tr. it, pp. 109-10]). Cfr., inoltre, P. VIRILIO, L’orizon négatif. Essai de dromoscopie.
64    Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 10[18],
65    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[51].
66    Ivi, 18[22],

Capitolo terzo. Amore-passione e amore


Premessa
Nell’opera di Nietzsche il problema dell’amore ha un posto ben preciso che non può essere ignorato
o sottovalutato. Dicendo questo, non ci riferiamo solo alle analisi che, in termini genealogici e
critici, Nietzsche conduce dell’amore cristianamente inteso (è forse l’aspetto più noto della sua
riflessione sul concetto di amore). Ci riferiamo anche alla sua analisi di ciò che si dice (e Nietzsche
stesso definisce) amore-passione1. Ci riferiamo, ancora, al concetto di amore che, prendendo le
distanze, insieme, dall’amore cristiano e dall’amore-passione, positivamente egli prospetta. Non è
esagerato affermare che, attorno al motivo dell’amore nella molteplicità degli aspetti che in
Nietzsche esso presenta, sarebbe possibile ricostruire alcune delle posizioni più tipiche
e caratterizzanti della riflessione nietzscheana in ordine ai problemi della libertà e della identità
personali e dei rapporti interpersonali di potenza, quanto dire su alcuni dei temi fondamentali del
pen-
siero nietzscheano: nello stesso tempo, l’indagine di Nietzsche sull’amore offre utili e interessanti
chiarimenti e determinazioni su quei temi, che essa mostra all’opera nel contesto particolare o nei
contesti particolari rappresentati dalla situazione del rapporto d’amore. Nelle pagine che seguono
prendiamo in esame, in particolare, la analisi nietzscheana dell’amore-passione nelle due forme
fondamentali che di esso Nietzsche individua: l’amore come volontà di identificazione con l’altro,
l’amore come volontà di possesso nei confronti dell’altro. Entrambe le forme dell’amore-passione
configurano, per Nietzsche, una condizione di alienazione per l’uno o per l’altro o per entrambi i
soggetti coinvolti nella relazione d’amore. In altri termini, Nietzsche mostra il determinarsi della
possibilità della alienazione nella stessa situazione d’amore, ove l’amore sia inteso in un certo
modo, ossia (per esempio) nel modo dell’amore-passione. Nelle pagine che seguono si accenna,
però, anche, all’idea di amore che, in alternativa all’amore cristiano e all’amore-passione, Nietzsche
propone. L’idea nietzscheana di amore si può anche ricavare, del resto, indirettamente, almeno per
qualche suo tratto, dalla stessa critica di Nietzsche all’amore cristiano e all’amore-passione.
Dal punto di vista di Nietzsche, amare l’altro significa comprendere e gioire per la differenza che
l’altro è, ossia per il fatto che l’altro è quello che è nel suo essere particolare, diverso dall’essere di
tutti gli altri:
Che altro è l’amore se non comprendere e gioire che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa
e opposta alla nostra? Per poter superare i contrasti con la gioia, l’amore non li deve sopprimere né
negare2.
Amare è comprendere e gioire per la differenza che l’altro è senza cercare, tuttavia, di essere come
l’altro, ma mantenendo la propria identità e stabilendo semmai una dialettica tra la propria identità e
la identità dell’altro. Amare è gioire per la differenza dell’altro, ma senza ridurre sé alla differenza
che l’altro è. Ridurre sé all’altro sarebbe forse solo il segno di un mancato amore per se stessi. Se
amare è comprendere e gioire per la differenza che l’altro è, si può allora dire che amare è
comprendere e gioire per il bene dell’altro, che si può ammettere consiste nella realizzazione del
suo essere proprio, ossia della sua differenza, alterità particolare rispetto a tutti. Chi ama vuole che
l’altro sia se stesso ossia sia la differenza che, rispetto a tutti gli altri esseri, esso è. Chi ama -
potrebbe essere questa una implicazione dell’amore nel senso di Nietzsche - ha cura di garantire e
preservare l’altro nella differenza che, rispetto a lui e a tutti, esso rappresenta.
Dal punto di vista di Nietzsche, né l’amore come identificazione con l’amato né l’amore come
possesso dell’amato (forme diverse dell’amore-passione) né, per altro verso, l’amore
cristiano corrisponde alla definizione, appena richiamata, dell’amore, per la quale chi ama
comprende,, gioendo, l’altro nella sua differenza, senza rinunciare alla propria differenza nei suoi
confronti. Per quel che riguarda l’amore cristiano, esso viene respinto da Nietzsche nella misura in
cui è legato ed è parte di una strategia che - originata dal risentimento di chi vive una condizione di
inferiorità rispetto alla condizione di superiorità o grandezza di altri, e dalla conseguente volontà di
eguaglianza di chi tale risentimento prova
- mira non ad apprezzare ed esaltare la differenza che ciascuna potenza individuale rappresenta - le
potenze individuali in quel che ciascuna di esse ha di proprio e di specifico - ma ad uniformare tutte
sul metro della potenza dei deboli, assunta come criterio di valore universale e assoluto.
Contrariamente a quel che appare, l’amore cristiano, per Nietzsche, è ben lontano dall’essere
realmente amore di tutti se amore di tutti vuol dire amore di ciascuno nella sua differenza, ma è, per
un essenziale aspetto, negazione delle differenze che gli altri sono: una negazione che, nata
dall’odio del più debole per la superiore potenza altrui e dall’odio di sé in quanto più debole di
fronte a tale superiore potenza - arriva ad esprimersi come condanna definitiva di alcune particolari
espressioni individuali di potenza, ossia di quelle espressioni di potenza che rappresentano
altrettante condizioni di superiorità o di grandezza di altri nei suoi confronti.
1. Identificazione
Nietzsche individua la possibilità della alienazione nella stessa situazione dell’amare. Tale
possibilità dipende dall’idea che dell’amore si ha, dal senso in cui il rapporto d’amore è interpretato
e vissuto:
L’amore vuole risparmiare all’altro, al quale si consacra, ogni senso di estraneità (Fremdsein),
conseguentemente è tutto un fingere ed un assimilarsi, un continuo ingannare e recitare la
commedia di un’eguaglianza che in realtà non esiste [...] Questo processo è semplice, quando uno
dei due si lascia amare e non trova necessario fingere, piuttosto lo lascia fare all’altro, a colui che
ama: ma quando entrambi sono completamente invaghiti l’uno dell’altro, e quindi ognuno rinuncia
a se stesso e vuole farsi eguale all’altro e a lui solo, non c’è commedia più ingarbugliata e
impenetrabile; e alla fine nessuno sa più che cosa deve imitare, a che scopo deve fingere, per chi
deve spacciarsi. La bella assurdità di questo spettacolo è troppo perfetta per questo mondo e
troppo sottile po' occhi umani3.
Riferendosi a una certa idea dell’amore, Nietzsche osserva, dunque, che chi ama cerca di essere
come l’altro - l’amato - non volendo egli per l’altro rappresentare qualcosa di estraneo. L’amante
pensa di andare incontro all’amato, rendendogli la vita semplice, comoda, per lui togliendo le
difficoltà, le asperità, gli ostacoli costituiti o implicati dall’impatto con la diversità, con la differenza
ed estraneità che, per l’amato, egli, l’amante, comunque rappresenta. Ciò è forse già il segno di un
certo modo generale di intendere e impostare il rapporto con l’altro - sviluppato appunto nel segno
della reciproca comodità. L’io dell’amante cerca di farsi eguale all’io dell’amato, di diventare il suo
doppio, il suo specchio, la sua conferma - un doppio, uno specchio, una conferma che valgono a
rassicurare, o a esaltare e lusingare, l’amato. Nietzsche parla di finzione a proposito della
eguaglianza che l’amante cerca di stabilire tra sé e l’amato: si tratta di una finzione di eguaglianza
perché ognuno dei soggetti della relazione amorosa è, alla fine, diverso dall’altro. E, tuttavia, nella
misura in cui si impegna nel cercare di essere come l’altro - e per quanto parziale o artificiosa possa
essere l’eguaglianza che con l’amato realizza - l’amante si allontana o distrae da se stesso, rinuncia
a se stesso, alla coltivazione di quelle che sono le sue più proprie tendenze e aspirazioni. Sarà pure
più o meno artificioso il risultato - l’eguaglianza con l’altro - di tale impegno, reale sarà però la
volontà di rendersi all’altro eguale, ossia di rinunciare al proprio io particolare. Reale sarà la
volontà di dipendenza e la dipendenza stessa dell’amante dall’amato: in tale volontà di
rendersi eguale, di identificarsi con l’altro, è da vedere, infatti, una forma di dipendenza nei suoi
confronti.
Nietzsche osserva anche - si è visto - che, finché a volersi fare eguale all’altro è solo uno dei
soggetti della relazione d’amore, la situazione (per quanto alienante, spersonalizzante) è semplice.
La situazione si complica e diventa paradossale e forse anche comica quando a volersi fare uguale
all’altro è ciascuno dei soggetti della relazione. In questo caso l’uno cerca di essere come l’altro che
cerca di essere come l’uno: l’uno si sposta in un luogo - quello del modo d’essere, delle idee, dei
valori, ecc. dell’altro - che l’altro contemporaneamente abbandona per spostarsi in un altro
luogo - quello del modo d’essere, delle idee, dei valori, ecc. dell’uno. L’uno e l’altro si scambiano
semplicemente le parti (sia pure solo formalmente), ma, proprio per questo, non si incontrano mai.
Forse, allora, essi si incontrano, si riconoscono, si identificano l’un l’altro proprio riconoscendo e
apprezzando, ciascuno di loro, nell’altro, la volontà di essere come lui (ma quando
tale riconoscimento avvenga, come si sviluppa poi il rapporto? ognuno cercherà ancora di essere
come l’altro?)
In un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche dà anche un’altra spiegazione della volontà di
identificazione dell’amante con l’amato:
Si dimenticano molte cose del proprio passato e le si scaccia di proposito dalla mente: cioè si vuole
che la nostra immagine, che irraggia dal passato verso di noi, ci inganni, lusinghi la nostra
presunzione - noi lavoriamo continuamente a questo inganno di noi stessi. E ora credete voi, che
tanto parlate e decantate l’«obliar se stessi nell’amore», lo «sciogliersi dell’io nell’altra persona»,
che ci sarebbe qualcosa di sostanzialmente diverso? Dunque si infrange lo specchio, ci si immagina
in un’altra persona che si ammira, e si gode poi la nuova immagine del proprio io, anche se la si
chiama col nome dell’altra persona - e tutto questo procedimento non sarebbe inganno di sé, non
sarebbe egoismo, gente strana!4
Come rimuoviamo il nostro passato o quella parte di esso il cui ricordo darebbe, a noi o agli altri,
una immagine di noi negativa, così la nostra identificazione nell’essere amato ha lo
stesso significato di rimozione di una immagine di noi negativa e di proposizione di una nostra
immagine diversa e positiva. L’amante identifica sé nell’essere amato, ma l’essere amato è un
essere in realtà da lui diverso, in particolare un essere che, per le sue caratteristiche, diverse da
quelle dell’amante, viene fatto dall’amante oggetto di ammirazione, e nel quale l’amante gode
immaginare di potersi identificare. L’amante gode nell'immagmare (e cercare) di essere come
l’amato appunto perché tale identificazione - l’iden-
tificazione con un essere ammirevole - gli offre una immagine positiva, alla quale aspira, di sé.
L’amore per l'altro nasce qui in fondo da una non sufficiente considerazione di sé o addirittura da un
disprezzo di sé e dalla volontà di una propria nuova apprezzabile identità: identità che si ritrova in
un altro - nell’essere amato -, in un altro nel quale, per questo, ci si identifica, nel quale, per questo,
si annulla la propria identità, un essere che anche per questo, o forse solo per questo, si ama. La
identificazione, che ha qui luogo nella relazione d’amore, non indica un processo di reciproca
convergenza dei soggetti della relazione in qualcosa, ma quello della riduzione di un soggetto
(l’amante) all’altro (l’amato): di un soggetto, che non apprezza, o disprezza, se stesso, la propria
identità, a un altro, la cui identità è da lui ammirata e con la quale egli vuole coincidere. Chi ama
l’altro qui in realtà è ancora di sé che si sta occupando: l’identificazione con l’altro - nella quale fa
consistere il suo amore o almeno una significativa espressione di esso - gli offre la possibilità di una
cura della sua propria immagine, la possibilità del rinvenimento di ragioni per essere soddisfatto di
sé. Nell’amore, la reale immagine, la reale conoscenza (o quel che si pensa sia la reale immagine o
conoscenza) di sé sono rimosse: ci si costruisce e ci si presenta come l’altro che si ammira e rispetto
al quale si è in realtà diversi. Rinuncia reale al proprio io reale (lo specchio infranto)
e identificazione immaginaria con l’essere che si ammira: ciò si verifica in questo modo di
intendere la relazione d’amore. È forse alla luce di quel che emerge dall’aforisma di Umano,
troppo umano che va perciò interpretato il seguente frammento:
Autodistruzione, autodivinizzazione, autodisprezzo - in ciò consiste tutto il nostro giudicare, amare,
disprezzare5.
L’amore è posto in corrispondenza della autodivinizzazione: l’amore per l’altro consiste in una
autodivinizzazione, il fine dell’amore per l’altro è la propria autodivinizzazione.
Il fatto che nell’altro si cerchi l’essere a sé superiore, nel quale identificarsi, può spiegare (o almeno
contribuire a spiegare) anche la idealizzazione dell’altro che si riscontra nella relazione d’amore (in
una certa specie o interpretazione della relazione d’amore),
lo    sforzo con cui la immaginazione dell’amante cerca di rendere l' «altra persona«, la persona
oggetto d’amore, «la più bella possibile»6. Si cerca una nuova e positiva immagine di sé e si
vuole essere sicuri di ciò con cui ci si deve identificare: al suo limite estremo, questa ricerca e
questa esigenza si caratterizzano come ricerca ed esigenza di un sé immaginario assolutamente
superiore al sé reale, di un sé che rasenta la perfezione o è senz’altro perfetto. Questa ricerca e
questa esigenza portano a idealizzare l’altro. L’altro, nel quale ci identifichiamo per avere una
immagine positiva di noi, deve essere tanto più perfetto quanto più, agli altri e a noi stessi, vogliamo
dare una immagine positiva di noi. Si è detto della tendenza idealizzante, su cui Nietzsche si
sofferma, dell’amore (di una certa specie o interpretazione dell’amore). Tendenza idealizzante
dell’amore: quanto dire tendenza dell’amore contraria alla esigenza di una conoscenza vera
dell’amato. Aggiungiamo a questo punto che, per Nietzsche,
Più dell’amore è stato il timore a promuovere l’universale approfondimento conoscitivo dell’essere
umano; il timore, infatti, vuole divinare chi è l’altro, che cosa può, che cosa ha in animo: ingannarsi
su questo punto costituirebbe un pericolo e un danno. L’amore, viceversa, ha un impulso segreto a
vedere nell’altro come possibili le più belle cose del mondo, o ad innalzarlo più in alto possibile:
ingannarsi a questo riguardo sarebbe per esso un piacere e un vantaggio - e così fa7.
Per quel che riguarda l’amore come identificazione quale risulta dalla analisi di Nietzsche, si
possono forse distinguere due casi:
il    caso dell’amante che si identifica in quel che l’altro realmente è (un essere che realmente
possiede le qualità ammirate dall’a-
mante) e il caso dell’amante che si identifica nell’altro idealizzato, idealizzato dall’amante stesso (e
per quanto ammirevole per le sue reali qualità l’altro possa già essere). L’idealizzazione è
una l'orma particolare di immaginazione, che, nella situazione particolare del rapporto d’amore
analizzata da Nietzsche, consiste nella costruzione dell’altro (l’essere amato) come un essere più o
meno perfetto o in ogni caso dotato delle migliori qualità possibili. Nei due casi che si sono appena
indicati, c’è, comunque, qualcuno che rinuncia a se stesso, nell’altro trovando il fondamento del
proprio essere, il modello cui conformarsi, in cui identificarsi: nel primo caso, in quel che l’altro
(l’amato) è, nel secondo, in quel che l’uno (l’amante) immagina che l’altro (l’amato) sia.
A proposito di immaginazione o idealizzazione e di identificazione nella relazione d’amore,
ricordiamo una situazione particolare rilevata da Nietzsche. Egli scrive: «per amore le donne
diventano veramente tali, quali esse vivono nell’immaginazione degli uomini da cui sono amate»8.
Non sappiamo se gli uomini, di cui Nietzsche qui parla, si siano identificati nelle donne che amano
o, meglio, con la immagine che delle donne che amano essi si sono costruita. Sappiamo, invece, che
le donne, di cui Nietzsche qui parla, si identificano, per amore, con la immagine che di loro gli
uomini, che le amano, hanno costruito. La donna che, oltre ad essere amata, a sua volta ama, si
identifica, in quanto amante («per amore»), non con il suo amato, ma con la costruzione che di lei
l’amante si è fatta.
Quella dell’amore come identificazione con l’amato è una idea di amore che Nietzsche mostra di
non condividere perché scrive:
Dobbiamo proibirci di diventare l’ideale di un altro: in tal modo, costui sperpera l’energia per
plasmare a se stesso il suo ideale peculiare (sich selber sein ganz eigenes Ideal zu bilden), lo
induciamo in errore e lo allontaniamo da se stesso - dobbiamo fare di tutto per illuminarlo o
cacciarlo via. Un matrimonio, una amicizia dovrebbe essere il mezzo (raro!!) di fortificare il nostro
proprio ideale con un altro ideale: dovremmo vedere anche l’ideale dell’altro e alla sua luce il
nostro!9
Identificarsi nell’amato significa negare a se stessi la possibilità - che invece va assicurata - di
«plasmare» il proprio «ideale peculiare», definibile sulla base del proprio essere particolare, delle
aspirazioni, dei bisogni, delle tendenze particolari del proprio essere particolare. Dal punto di vista
di Nietzsche, non si tratta di chiudersi all'«ideale peculiare» che altri possono rappresentare, ma non
si tratta nemmeno di ostacolare e censurare in ogni modo il proprio «ideale peculiare»: si tratta
di confrontare il proprio ideale con l’ideale altrui, proprio in questo modo arricchendolo e
consolidandolo nella sua individuale peculiarità. L’amore in senso nietzscheano è proprio
qui. L’amore nel senso di Nietzsche non rappresenta e non implica né una negazione dello specifico
essere altrui (come accade nell’amore come volontà di possesso: cfr. paragrafo successivo) né una
negazione del proprio specifico essere (come accade nella volontà di identificazione di sé con
l’altro). Se Nietzsche definisce l’amore una gioia per la differenza altrui, tale gioia - cioè l’amore
stesso - non è legata alla aspirazione ad essere come gli altri, ma a quella (come si è visto) a
rafforzare la propria identità nel confronto con la diversa identità altrui. Mantenere la differenza
altrui e la propria e accendere una dialettica tra queste due realtà: questo vuole l’amore nel senso
di Nietzsche.
2. Possesso
L’osservazione di Nietzsche sulla identificazione dell’amante con l’amato - identificazione
finalizzata alla autogratificazione e autocelebrazione dell’amante - mostra una delle espressioni o
degli aspetti del rapporto, che Nietzsche ritiene di individuare, fra egoismo e amore, rapporto alla
luce del quale - nel suo giudizio - è interpretabile l’amore o, meglio, una certa idea o certe idee
diverse dell’amore (dall’amore-passione all’amore cristiano). Oltre che nell’amore come volontà di
identificazione con un essere ammirevole, l’egoismo si presenta, e insieme si nasconde, sotto altre
forme, in altre situazioni. C’è l’egoismo
racchiuso nell’amore di chi ama per superare l’invidia10, ama l’altro per non soffrire a motivo della
superiorità dell’altro: la superiorità dell’altro lo offende nella sua aspirazione egoistica ad essere lui
superiore agli altri o, almeno, a non essere loro inferiore. C’è l’egoismo di chi ama per vanità,
perché l’essere amato, per le sue particolari qualità, consente all’amante di soddisfare la sua vanità,
brillando per così dire di luce riflessa, ai propri occhi o agli occhi del mondo. Così in due aforismi
Nietzsche successivamente osserva:
Le donne amano per lo più un uomo importante in modo da volerlo avere tutto per sé. Volentieri lo
metterebbero in clausura se la loro vanità non le dissuadesse: questa vuole che egli appaia
importante anche di fronte agli altri11.
In un uomo le donne notano facilmente se la sua anima è già occupata; esse vogliono essere amate
senza rivali e gli rimproverano gli scopi della sua ambizione, i suoi compiti politici, le sue scienze
ed arti, se egli ha una passione per tali cose. A meno che per esse egli non brilli - allora sperano, nel
caso di un legame amoroso con lui, di brillare, anche loro, di più; quando le cose stanno così,
favoriscono l’amante12.
C’è l’egoismo dei componenti di una coppia, ciascuno dei quali pretende di essere lui quello che
dev’essere amato13. C’è, ancora, l’egoismo di chi predica l’amore - l’amore come dedizione
all’altro - perché dell’aiuto dell’altro ha bisogno14. C’è, infine, l’egoismo di chi vuole possedere
l’essere amato a lui impedendo il godimento di altri esseri che non siano l’amante e ad altri esseri
che non siano l’amante stesso il godimento dell’amato.
Nietzsche si sofferma sull’egoismo dell’amore-possesso, che è un modo d’essere, poi, dell’amore-
passione. Egli scrive:
L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona (Verlangen nach a b s ol
u t e r Macht über eine Person): per esempio voler essere l’oggetto unico dei pensieri e
dei sentimenti. L’amante non vede il resto del mondo e sacrifica tutti gli altri interessi a questa sete
di potenza. Credere di essere amati porta con sé un senso di profondo appagamento: «Veniamo
sentiti come una potenza assoluta!»15.
Chi ama secondo l’amore passione riduce le possibilità di relazione e di significato della esistenza
per l’essere amato: per l’amante, l’amato non può orientarsi, nella propria esistenza, in direzioni che
non siano quelle lungo le quali si trova l’amante stesso. Chi ama secondo l’amore-passione vuole
diventare l’oggetto esclusivo dei pensieri e dei sentimenti dell’amato. Si può parlare di un sacrificio
dell’amato - del sacrificio di sue possibilità di vita - cui l’amante vuol costringere l’esistenza
dell’amato. Si può parlare di sacrificio dell’amato, dunque, sebbene - si può aggiungere - l’amato
stesso possa non esserne consapevole. Del resto, Nietzsche parla, nel brano citato, di sacrificio
anche dell’amante, il quale sacrifica ogni suo altro interesse al desiderio di possesso nei confronti
dell’amato. L’amante, per questo aspetto, riduce le possibilità di relazione e di significato della
propria stessa esistenza (oltre che dell’esistenza dell’amato). Tutti gli altri che non siano l’amato
sono, a loro volta, sacrificati dall’amante che non beneficherà che l’amato soltanto:
L’amore, che riserva a uno solo ciò che spetta a molti, è ciò nonostante esaltato come una potenza
contraria all’egoismo: così come esso appare a prima vista e perché vuole beneficare. Tuttavia: esso
sottrae a tutti gli altri uomini e oggetti quasi tutto l’interesse e lo concentra su di uno solo; la sua
conseguenza dunque, considerata complessivamente, è un non fare il bene16.
Possiamo qui ricordare anche la seguente osservazione di Nietzsche:
l'amore verso un solo essere è una barbarie: esso infatti si esercita a detrimento di tutti gli altri17.
Nietzsche parla della «infinita bramosia di possesso dell’amore» e, sulla base di essa, spiega la
durata dell’amore. La brama di possesso non trova facilmente, nella situazione dell’amore,
piena soddisfazione perché il suo oggetto - l’essere amato - offre sempre aspetti di sé sconosciuti sui
quali, vorace, essa si protende:
Il lungo amore è possibile - anche se è felice - perché non è facile possedere fino in fondo,
conquistare fino in fondo, una persona - si aprono sempre nuovi abissi e spazi nascosti non ancora
scoperti, dell’anima, e anche verso questi si protende l’infinita bramosia di possesso dell’amore. -
Ma l’amore finisce non appena sentiamo un essere come limitato. Il conflitto tra passione lunga e
passione breve nasce quando l’uno crede di possedere fino in fondo l’altro, e l’altro non ancora -
allora quello si allontana, si sottrae e con la lontananza eccita ancor più l’altro a cercare nuovi
valori, da ultimo, spesso, con la decisione di ucciderlo piuttosto che lasciarlo diventare possesso di
un altro18.
La durata di un amore dipende dal darsi di aspetti sconosciuti, per l’amante, dell’essere amato,
aspetti che la brama di possesso dell’amante mira a far propri. Si pensa di possedere completamente
l’essere amato, ma si scopre poi che, per qualche aspetto, a tale possesso l’essere amato sfugge.
Ricomincia il processo della conquista, dell’impossessamento. L’amante tende a chiudere da tutti i
lati l’amato, sì che esso rimanga, di fronte a lui, ben circoscritto nel suo essere completamente e
definitivamente da lui posseduto. Nel momento in cui l’essere amato appare all’amante «limitato»,
cioè raggiungibile e raggiunto, esauribile e esau-
rito, nella varietà dei suoi aspetti, l’amore - in quanto desiderio di possesso - finisce: il desiderio di
possesso è stato soddisfatto. Le parole citate di Nietzsche sottolineano non solo la natura dell’amore
come brama di possesso e il particolare rapporto che, per questa natura dell’amore, si stabilisce fra
amore e tempo, ma anche la forza della brama di possesso che l’amore è. La forza di tale brama è
mostrata, per un verso, dal fatto che, finché non è appagata completamente, essa non si allontana
dal suo oggetto, e, per l’altro, da ciò che, pur di evitare il proprio scacco, essa è disposta a compiere:
la brama di possesso nei confronti dell’essere amato è tale che per essa si arriva ad uccidere l’essere
amato «piuttosto che lasciarlo diventare possesso di un altro».
È il desiderio di possesso che distingue l’amore (o una certa interpretazione dell’amore)
dall’amicizia e pone l’amore in una posizione di inferiorità rispetto all’amicizia:
La pretesa del possesso esclusivo (ausschliesslichen Besitz) pone l’amore molto al di sotto
dell’amicizia, che invece permette di aver più amici e a questi, a loro volta, di diventare amici tra
loro19.
L’amore si richiude su se stesso, l’amante isola l’amato, e l’unità che con esso forma, dal mondo e
tiene lontano il mondo dall’amato e da tale unità. Il mondo è visto dall’amante come carico di
tentazioni per l’amato e, quindi, come fonte di pericoli per la sua unione con l’amato stesso.
L’amante procede ad allontanamenti ed esclusioni, fa dell’allontanamento e dell’esclusione il
suo principio: allontana ed esclude l’amato dal rapporto con il mondo - da un rapporto libero con il
mondo - e il mondo dal rapporto con l’amato - da un rapporto libero con l’amato. L’amicizia
si caratterizza, invece, per un’apertura. Se l’amante non tollera che l’amato abbia altri amanti
(chiude l’esistenza dell’amato nel rapporto con lui), l’amico accetta che l’amico abbia altri amici.
Egli stesso può diventare amico degli amici dell’amico. Se l’amato ha un rapporto esclusivo con
l’amante, che lo considera suo posses-
so esclusivo, gli amici, invece, si condividono. L’amore appartiene all’ordine della esclusione,
l’amicizia all’ordine della condivisione, l’amore appartiene all’ordine della illibertà, l’amicizia
all’ordine della libertà.
In un aforisma della Gaia scienza, rapporti diversi, a proposito dei quali comunemente si parla, in
maniera indifferenziata, di amore, vengono visti, invece, come forme ed espressioni di una brama di
possesso, riferita ad oggetti di volta in volta differenti. Così l’amore per il prossimo, l’amore per il
sapere e per la verità, l’amore per il sofferente sono forme ed espressioni di una volontà di possesso,
attraverso la quale noi trasformiamo «sempre ogni volta in noi stessi qualcosa di nuovo: questo
significa appunto possedere». Del resto,
Poco per volta proviamo fastidio per ciò che è vecchio, posseduto in tutta sicurezza, e ritorniamo a
tendere le mani; perfino il più bel paesaggio, dove abbiamo vissuto per tre mesi, non è più certo del
nostro amore, e un qualche lido lontano attira la nostra cupidigia: il possesso viene per lo più
diminuito dal possedere.
In particolare, per quel che riguarda l’amore per il sofferente, Nietzsche osserva:
Quando vediamo soffrire qualcuno, utilizziamo volentieri l’occasione offerta in quel momento per
impossessarci di lui: così fa, per esempio, il benefattore e il compassionevole; anch’egli chiama
«amore» la bramosia suscitata in lui di un nuovo possesso, e vi attinge il suo piacere, come
dall’arridere di una nuova conquista20.
La questione verrà ripresa e precisata in un aforisma di Al di là del bene e del male.
Tra uomini soccorrevoli e benefìci si incontra quasi di regola quella goffa astuzia, che sa soprattutto
adattare ai loro fini colui che deve essere soccorso: come se costui, per esempio, «meriti» aiuto, o
desideri precisamente il «loro» aiuto, e come se si dimostri per tutti i loro aiuti
profondamente riconoscente, affezionato, sottomesso - immaginandosi queste cose, essi dispongono
di chi ha bisogno come di una loro proprietà, essendo essi soltanto per brama di proprietà gente
generalmente disposta a beneficare e a soccorrere21.
Si offre il proprio aiuto all’altro solo perché si aspira a ottenerne il sottomesso riconoscimento. Ma,
secondo Nietzsche, - torniamo all’aforisma della Gaia scienza - è soprattutto nell’«amore dei sessi»
che si rivela l’«impulso alla proprietà». Egli scrive:
l’amante vuole l’incondizionato, esclusivo possesso (den unbedingten Alleinbesitz) della persona da
lui ardentemente desiderata; vuole un potere assoluto tanto sulla sua anima che sul suo corpo, vuole
essere amato lui solo e insediarsi nell’anima dell’altro e signoreggiarvi come il bene più alto e più
desiderabile. Se si pone mente al fatto che ciò non è altro se non escludere tutto il mondo da un
bene prezioso, da una sorgente di felicità e di piacere; se si considera che l’amante mira ad
impoverire e spogliare ogni altro concorrente e che vorrebbe diventare il drago del suo prezioso
tesoro, essendo il più spietato ed egoista di tutti i «conquistatori» e i predatori: se si tiene finalmente
presente che allo stesso amante tutto il resto del mondo appare indifferente, pallido, senza valore, e
che egli è pronto a fare ogni sacrificio, a sconvolgere ogni ordinamento, a mettere in secondo piano
ogni suo interesse; ci si meraviglierà effettivamente che questa selvaggia avidità di possesso e
questa ingiustizia dell’amore sessuale sia stata a tal punto esaltata e divinizzata, come è accaduto in
tutti i tempi, e che anzi da questo amore si sia ricavato il concetto di amore come contrapposto
all’egoismo, mentre questo è forse proprio l’espressione più spregiudicata dell’egoismo stesso22.
Amore - qui come nelle altre forme ed espressioni dell’amore-possesso - è il nome che si dà alla
bramosia di possesso, un nome che vale a far passare tale bramosia per qualcosa che essa non è,
anzi come il proprio opposto: la bramosia di possesso si nasconde come tale e, nella interpretazione
che se ne dà, appare
come amore. Come è possibile, tuttavia, che qualcosa di fondamentalmente egoistico possa essere
scambiato per amore?
L'equivoco è reso possibile dal fatto che, da parte di colui che 'ama’, qualcosa effettivamente viene
dato, offerto all’altro in termini di cura, affetto, ecc. Solo che qualcosa - e può essere
anche moltissimo - viene dato alla condizione, più o meno tacita, di prendere possesso di colui cui
si dà, di diventare - come Nietzsche osserva in un frammento precedentemente citato23 e come
viene ribadito nell’aforisma della Gaia scienza - l’oggetto esclusivo dei pensieri e sentimenti
dell’altro. La bramosia di possesso nei confronti dell’amato (così come nei confronti di altri oggetti)
presenta, del resto, a seconda degli individui, gradi diversi di intensità. Così della brama di possesso
dell’uomo nei confronti della donna Nietzsche scrive:
Relativamente alla donna, per esempio, per chi è più modesto già il fatto di disporre del suo corpo e
di goderne sessualmente vale come segno sufficiente e soddisfacente dell’avere, del possedere; altri
invece, nella sua sete più diffidente e più esigente di possesso, vedrà il «punto interrogativo»,
l’aspetto solo apparente di un tale possesso, e vorrà prove più sottili, soprattutto, per sapere se la
donna non soltanto si dà a lui, ma anche è disposta a lasciare per lui quel che ha o che vorrebbe
avere; soltanto così essa sarà per lui «posseduta». Un terzo, poi, non sarà neppure in questo modo al
termine della sua diffidenza e della sua volontà di possesso, e domanderà a se stesso se
abbandonando ogni cosa per lui la donna non agisca forse per una rappresentazione fantastica che si
è l'atta di lui: egli vorrà soprattutto essere ben conosciuto nel profondo, anzi nelle sue stesse abissali
profondità, per potere in generale essere amato, e oserà lasciarsi indovinare. Avvertirà di possedere
interamente la donna amata soltanto quando ella non si ingannerà più su di lui, quando lo amerà per
il suo satanismo e la sua occulta insaziabilità tanto quanto per la sua bontà, pazienza e spiritualità24.
Riguardo alla brama di possesso Nietzsche ha sottolineato le difficoltà che si oppongono, in
generale, al raggiungimento di un possesso - completo - degli altri:
noi comprendiamo sempre meglio quanto è difficile aver una cosa e come ciò che apparentemente
possediamo riesca sempre a sfuggirci sicché spingiamo il nostro avere in forme sempre più
raffinate: alla fine la conoscenza piena di una cosa diventa il presupposto per ottenerla; spesso ci
basta già la piena conoscenza come possesso, la cosa non ha più un angolino dove rimpiattarsi, e
non può più sfuggirci25.
Poiché un reale e completo possesso dell’altro è spesso, se non sempre, impossibile, l’uomo fa
intervenire la fantasia, con la quale si costruisce qualcosa in modo tale da avere la sensazione di
possederlo in modo pieno: così fa «l’amante con l’amata, il padre con il figlio»26. La fantasia,
d’altra parte, interviene anche a un altro livello e in un altro senso. La volontà di possesso
inizialmente procede a un calcolo approssimativo di quel che essa può effettivamente ottenere.
Possiamo vedere in ciò il realismo della volontà di possesso. In un secondo momento, a favore di
tale volontà, interviene la fantasia, questa volta
per renderci estremamente preziosi questi futuri possessi (anche impieghi, onori, relazioni, e così
via). Noi cerchiamo la filosofia che si adatta al nostro possesso, che cioè lo indora27.
È tenendo conto di questo quadro di considerazioni che Nietzsche svolge sulla volontà di possesso
dell’amore che ci si può spiegare l’osservazione secondo la quale «una donna è la creatura che deve
amare - e ama - il suo nemico e rapitore»28. D’altra parte quel che dice dell’uomo nei confronti
della donna Nietzsche dice anche, a volte, della donna nei confronti dell’uomo. Anche alla donna, a
volte, Nietzsche finisce cioè per attribuire l’idea dell’amore come volontà di possesso. Si è già
visto, infatti, in un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche rilevare come le donne vogliono
loro costituire l’oggetto esclusivo o
fondamentale della passione amorosa dell’uomo e negli eventuali suoi interessi - scientifici,
artistici, politici - vedano altrettanti loro personali rivali, che possono occupare, prendendo il loro
posto, i pensieri e i sentimenti dell’uomo. Ciò le donne vogliono, a meno che, grazie agli altri
interessi dell’uomo - gli interessi che non hanno loro, le donne, come oggetto - esse non abbiano la
possibilità di farsi notare, di acquisire una centralità per gli altri, per la società di cui sono parte o
l’ambiente che frequentano. C’è qui una considerazione strumentale che la donna attua nei confronti
dell’uomo, del quale si serve per brillare agli occhi del mondo.
Tornano, nell’aforisma della Gaia scienza precedentemente citato, alcuni temi già visti. Nell’amore-
possesso, l’amante isola l'amato dal mondo, privando in tal modo il mondo della possibilità del
libero godimento di «un bene prezioso» e l’amato della possibilità di un libero godimento del
mondo. Ma è poi lo stesso amante che finisce per non avere occhi che per l’essere amato e per non
avere più interesse per «tutto il resto del mondo». Non solo, dunque, l’amante isola l’amato dal
mondo: dal mondo egli finisce per isolare se stesso.
In un altro aforisma sempre della Gaia scienza, la concezione possessiva dell’amore viene però
riferita solo all’uomo, non anche alle donne. Nietzsche parla qui di un «contrasto di natura» tra
il modo dell’uomo e quello della donna di intendere l’amore, contrasto che, a suo avviso, non si
potrà superare con «nessun contratto sociale».
Quel che la donna intende per amore, è abbastanza evidente: un perfetto abbandono (non soltanto
dedizione) di anima e corpo, senza alcun riguardo, senza alcuna riserva, ma piuttosto con vergogna
e timore di fronte al pensiero di un abbandono vincolato a clausole, legalo a condizioni29.
L’amore della donna si caratterizza per la sua «assoluta rinuncia ai propri diritti», per una «volontà -
di rinuncia» al riguardo, rinuncia e volontà di rinuncia che mancano, invece, nell’uomo:
La donna vuole essere presa, intesa come un possesso, vuole risolversi nel concetto di «possesso»,
di «posseduta»; di conseguenza vuole colui che prende, che non si dà e non si dona lui stesso, ma
che viceversa deve farsi precisamente più ricco di «sé» - attraverso un incremento di forza, di
felicità, di fede, quale gli dà la donna donando se stessa. La donna si dà, l’uomo s’accresce30.
Se ricordiamo la distinzione che, ne Gli atti dell’amore, Kierkegaard pone tra l’amore pagano o
l’amore del poeta e l’amore cristiano, possiamo notare che l’amore pagano è amore delle qualità
dell’amato. Chi ama secondo l’amore pagano non ama tutti, il suo è un amore selettivo: egli ama o
amerebbe solo un essere che abbia determinate qualità, delle quali va in cerca31. Kierkegaard
osserva che chi ama secondo questo amore può anche arrivare in realtà a non amare nessuno: egli
può anche non trovare l’essere con le qualità di cui va in cerca32. Possiamo dire che l’amore-
passione, che Nietzsche analizza, corrisponde all’amore pagano di cui parla Kierkegaard e al quale
Kierkegaard contrappone l’amore cristiano come amore indifferenziato per tutti gli uomini, al di là
delle differenze delle loro rispettive qualità. In Nietzsche, che è stato un critico dell’idea cristiana
d’amore, non si trova, tuttavia, nemmeno una difesa dell’amore-passione, almeno per come esso
appare caratterizzato nella illustrazione e nella analisi che egli ne fa. Anzi, per diversi aspetti, esso è
fatto oggetto di una forte critica, in quanto presuppone e rappresenta una forma alienata e
violenta di rapporto personale.
L’amore-passione analizzato da Nietzsche corrisponde, si è detto, all’amore pagano di cui si occupa
Kierkegaard. L’amore-passione ha, cioè, anch’esso a che fare con le qualità dell’amato. In realtà,
esso ha a che fare pure con le qualità dell’amante. L’amante cerca l’essere ammirevole -
ammirevole per le sue qua-
lità - che egli si incaricherà poi, anche, eventualmente, di ulteriormente abbellire, assolutizzandolo o
idealizzandolo, vedendolo dotato di ogni perfezione o di tutte le cose più belle e desiderabili.
D’altra parte, l’amore-passione riguarda anche le qualità dell'amante, sia nel caso che l’amante
voglia identificarsi con l’amato le cui qualità egli ammira e determinare, attraverso tale
identificazione, una immagine positiva di sé che le sue proprie reali qualità non gli consentono di
avere, sia nel caso che, come avviene nella situazione dell’amore-possesso, l’amante voglia
‘signoreggiare’ nell’anima dell’amato come la cosa di tutte più desiderabile.
1 Sull’amore-passione, cfr. G. SIMMEL, Fragmente und Aufsätze. Aus dem Nachlass und
Veröffentlichungen der letzten Jahre (Sull'amore); D. DE ROUGEMONT, L'amour et l'Occident
(L’amore e l’Occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea); R. BARTHES, Fragments
d’un discours amoreux (Frammenti di un discorso amoroso); M. LUHMANN, Liebe als Passion.
Zur Codierung von Infinität (Amore come passione); O. PAZ, Llama doble (La duplice fiamma.
Amore e erotismo).
2Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 75. Ha osservato
Deleuze che quel che Nietzsche afferma è il «divenire» e il «molteplice» come affermazione della
«Terra», della «vita»: il divenire e il molteplice sono proprio ciò che il nichilismo nega: «Ciò che il
nichilismo condanna e si sforza di negare non è tanto l’Essere, poiché l’Essere, come è ormai noto,
assomiglia come un fratello al Nulla. È piuttosto il molteplice, il divenire. Il nichilismo considera il
divenire come qualcosa che deve espiare e che deve essere riassorbito nell’Essere; il molteplice
come qualcosa d’ingiusto, che deve essere giudicato e riassorbito nell’Uno. Il divenire e il
molteplice sono
colpevoli, questa è la prima e l’ultima parola del nichilismo. Così sotto il dominio del nichilismo la
filosofia ha come impulsi dei sentimenti tetri: uno “scontento”, non si sa di quale angoscia, quale
inquietudine del vivere - un oscuro sentimento di colpevolezza. Al contrario, la prima figura della
transvalutazione eleva il molteplice e il divenire alla più alta potenza: essi ne fanno l’oggetto di una
affermazione. E nella affermazione del molteplice c’è la gioia pratica del diverso» (G. DELEUZE,
Nietzsche, pp. 29-30 [tr. it., pp. 36-7]). Se teniamo presente la definizione riportata che Nietzsche dà
dell’amore, possiamo dire, sulla base della osservazione con cui si conclude il brano di Deleuze
appena citato («E nella affermazione del molteplice c’è la gioia pratica del diverso»), che l’amore è
il contrario del nichilismo: è ciò che è negato dal nichilismo così come il nichilismo è ciò che è
negato dall’amore.
3 Morgenröthe, 532.
4 Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 37.
5 Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 27[81]
6    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 4[281],
7   Morgenröthe, 309. Cff. anche Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881,
4[280] e 4[281]. Sulla genesi della conoscenza dalla paura, cfr. Morgenröthe, 142.
8    Menschliches, Allzumenschliches, I, 400.
9    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[191].
10    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 351.
11    Ivi, I, 401.
12    Ivi, 410.
13    Ivi, 418.
14    Cfr., per esempio, Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, 15[110].
15    Nachgelassene Fragmente Artfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[54],
16     Ivi, 6[446],
17    Jenseits von Gut und Böse, 67.
18    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[194].
19 Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 18[44],
20 Die fröhliche Wissenschaft, 14.
21    Jenseits von Gut und Böse, 194.
22    Die fröhliche Wissenschaft, 14.
23    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[54].
24    Jenseits von Gut und Böse, 194.
25Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882,11[19].
26     Ibidem.
27    Ibidem.
28    Ivi, 12155].
29 Die fröhliche Wissenschaft, 363.
30    Ibidem.
31    S. KIERKEGAARD, Kjerlighedens Gjeminger (tr. it., pp. 195 e sgg.).
32    Ivi (tr. it., p. 204).
132

Capitolo quarto. La relazione d’amicizia


1. Amicizia e storia
Vi è una relazione di alterità sulla quale, con una certa frequenza, Nietzsche, nella sua opera,
ritorna: la relazione di amicizia. Nella riflessione del filosofo essa ha, tra le relazioni di alterità, un
posto speciale: rappresenta una sorta di relazione ideale di alterità, una relazione in cui l’uomo
manifesta, in rapporto all’altro uomo, le sue possibilità più elevate. Si tratta, però, anche, di una
relazione di alterità, il cui destino storico è stato, sinora, assai negativo. Nella storia dell’uomo,
nella vicenda molteplice e complessa delle relazioni, che fra loro gli uomini hanno instaurato
e tuttora instaurano, è difficile o raro, per Nietzsche, trovare amicizia o, almeno, quello che egli
intende per amicizia. Ciò perché la relazione di amicizia nel senso di Nietzsche richiede ed
esprime certe condizioni e certe qualità che, secondo il filosofo, è difficile o raro trovare nell’uomo
quale sinora è stato nel suo rapporto verso gli altri uomini. Se si pensa al concetto nietzscheano di
amicizia, ci si accorge, in effetti, che esso è fondato su elementi che rappresentano l’esatto opposto
di quello che, per Nietzsche, è stato e continua ad essere il carattere, il segno comune e profondo
o più comune e profondo nelle relazioni interpersonali. Da questo punto di vista, l’amicizia si
presenta come qualcosa di antistorico, qualcosa di contrario a ciò che la storia ha sinora
essenzialmente mostrato essere l’uomo nel suo rapporto con l’altro.
La relazione di amicizia fuoriesce, in primo luogo, dalla logica della volontà di dominio nelle forme
in cui tale volontà può manifestarsi nelle relazioni di alterità e che vengono effettivamente prese in
esame da Nietzsche: come assimilazione dell’altro a sé (attraverso la imposizione all’altro di propri
modi di vedere e di comportarsi, comunque tale imposizione abbia luogo), come asservimento
dell’altro a sé e sua riduzione a strumento di propri fini.
La relazione di amicizia fuoriesce, in secondo luogo, dalla logica della volontà del male (almeno in
parte riconducibile, in Nietzsche, alla volontà di dominio).
La relazione di amicizia fuoriesce, in terzo luogo, dalla logica del «sentimento di scambio,
contratto, debito, diritto, dovere, compensazione», dalla logica della ricerca di equivalenti da
scambiare tra soggetti diversi, una logica, questa, che «ha preoccupato il primissimo pensiero
dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo», una logica alla quale
risale il «più antico e ingenuo canone morale della giustìzia», il «principio di ogni “bontà d’animo”,
di ogni “equità”, di ogni “buona volontà”, di ogni “obiettività” sulla terra»1.
La relazione di amicizia fuoriesce, in quarto luogo, dalla logica della ricerca di una reciproca e
assoluta convergenza di pensieri, sentimenti, comportamenti fra gli uomini, dalla logica della
ricerca di una eguaglianza in questo senso tra gli uomini (la relazione di amicizia fuoriesce anche,
quindi, da qualsiasi logica di tipo fusionale, in cui si perdono le caratteristiche proprie di ciascuno
dei soggetti della relazione).
La relazione di amicizia fuorisce, in quinto luogo, dalla logica della compassione o, almeno, dalla
logica di una compassione subito pronta a togliere la sofferenza dal mondo senza fermarsi a vedere
se la sofferenza, a volte, non sia necessario mantenere o addirittura determinare in vista di qualche
fine, che riguarda il bene di colui stesso che si lascia o si fa soffrire.
Alla logica del dominio amicizia oppone parità e libertà dei soggetti della relazione, alla logica della
volontà del male oppo-
ne impegno e cura del bene dell’altro, alla logica dello scambio, del dare per avere, oppone il dare
senza chiedere nulla in cambio, il dono, alla logica della ricerca di una assoluta reciproca
convergenza e eguaglianza oppone differenza e critica e lotta, alla debolezza compiacentemente
compassionevole per la sofferenza dell’altro oppone fermezza e durezza di fronte all’altro che e in
quanto vuole liberarsi della propria sofferenza (e dunque oppone, ancora, critica e lotta).
Ora, proprio i comportamenti e gli atteggiamenti, rispondenti alla logica del dominio o a quella
della crudeltà o a quella dello scambio o a quella della eguaglianza o a quella della facile
compassione, e opponendosi ai quali l’amicizia nel senso nietzscheano definisce se stessa, sono stati
i comportamenti e gli atteggiamenti di gran lunga prevalenti (nella loro diversità e, anche, nel loro
vario reciproco intrecciarsi), secondo Nietzsche, nella storia dell’uomo sino ad oggi. Parlare in
difesa di altri comportamenti e di altri atteggiamenti, come accade quando si parla in difesa
della amicizia, equivale a parlare contro la storia dell’uomo quale sinora generalmente si è svolta.
La affermazione nietzscheana relativa alla eccezionalità della relazione di amicizia può sembrare in
contrasto con l’uso estremamente frequente, che gli uomini fanno del termine ‘amicizia’ per
qualificare determinate relazioni che essi reciprocamente stabiliscono. Nietzsche forse direbbe che
si tratta di un uso sbagliato del termine, così come egli ha detto circa l’uso del termine ‘amore’, in
genere del tutto impropriamente impiegato a proposito di relazioni che con l’amore non hanno
molto da spartire. Così, l’amicizia nietzscheanamente intesa si definisce non solo in opposizione
alla logica del dominio, della crudeltà, della eguaglianza, della compassione, ma anche in
opposizione a un certo concetto comune o tradizionale di amicizia.
Se così è, se cioè l’amicizia non ha avuto, è il caso di dire, storia perché la storia, sinora, è andata in
un senso diverso e opposto rispetto alla amicizia, non è forse senza significato che la storia della
filosofia abbia, come Nietzsche osserva, generalmente trascurato e in ogni caso non approfondito il
problema dell’amicizia: la dimenticanza del problema dell’amicizia è stata solo il
riflesso della assenza della amicizia dalla realtà delle relazioni umane. Nietzsche individua, nella
storia della filosofia, una importante eccezione alla tendenza fondamentale: i Greci.
I Greci, che sapevano così bene che cosa sia un amico - essi soli, di tutti i popoli, posseggono una
trattazione profonda, molteplice e filosofica dell’amicizia: sicché a essi per primi, e finora per
ultimi, l’amico è apparso un problema degno di essere risolto2.
Gli antichi credevano tanto nella relazione di amicizia che è propria della antichità «l’obiezione alla
vita filosofica, che con essa si diventa inutili ai propri amici». Questa obiezione -Nietzsche osserva
- «non sarebbe mai venuta in mente a un moderno»: segno, questo, che, per l’uomo moderno, la
relazione di amicizia non ha quella rilevanza che aveva per l’uomo dell’antichità:
L’antichità ha vissuto l’amicizia fino in fondo e con energia, l’ha compiutamente pensata e l’ha
portata quasi con sé nella tomba. È questo il suo vantaggio su di noi: al quale abbiamo da
contrapporre l’amore idealizzato dei sessi3.
Per testimoniare l’importanza che l’amicizia ebbe presso gli antichi, per testimoniare, anzi, come,
presso di essi, «l’amicizia fosse ritenuta il sentimento più elevato, superiore perfino
alla celebratissima superbia dei paghi di sé e dei saggi, quasi costituisse addirittura l’unica e ancor
più sacra consorella di essa», Nietzsche, in un aforisma di Aurora intitolato «In onore dell’amcizia»,
riporta la
storia di quel re macedone che fece dono di un talento a un filosofo ateniese spregiator del mondo e
se lo vide restituire. «Come? disse il re «non ha costui un amico?». Con la qual cosa voleva dire:
«Io rendo onore alla superbia di quest’uomo saggio e indipendente, ma onorerei molto di più la sua
umanità se in lui l’amico avesse riportato vittoria sul
superbo. Ai miei occhi il filosofo si è diminuito mostrando che ignora uno dei due più elevati
sentimenti - e in verità quello superiore»4.
2. Amicizia e gioia
Per Nietzsche, il prendere parte alla gioia altrui rappresenta un «raro humanum»5. Ora proprio «D
prender parte alla gioia, non il prender parte al dolore, fa l’amico»6.
Coloro che sanno rallegrarsi con noi sono migliori e ci sono più vicini che non coloro che soffrono
con noi. La comunione nella gioia fa l’amico (che è colui che si rallegra con noi). La compassione
fa il compagno di sventura. - Un’etica della compassione ha bisogno di essere integrata da una
superiore etica dell’amicizia7.
Già qui emerge la rarità o eccezionalità della relazione di amicizia, che è rara o eccezionale perché
rara o eccezionale è, fra gli uomini, la qualità che dalla amicizia è richiesta e in essa si esprime,
ossia la partecipazione alla gioia altrui8. Si può forse notare che della scarsa attitudine dell’uomo a
partecipare alla gioia del prossimo si dovrebbe considerare responsabile, a partire da un certo
momento, anche il cristianesimo, se si tiene conto della osservazione nietzscheana che «L’altra
faccia della pietà cristiana per i dolori del prossimo è il profondo sospetto per ogni gioia del
prossimo, per la sua gioia in tutto ciò che vuole e può»9. Dal punto di vista di Nietzsche, l’«odio»
cristiano10 per la gioia del prossimo è l’odio del sofferente verso chi è contento di sé e che è invitato
a guardare egli stesso con sospetto la propria gioia, giacché la vita deve essere per tutti -
non solo per alcuni - sofferenza in quanto espiazione di una colpa che ognuno ha in qualche modo
commesso. Partecipare alla gioia del prossimo è partecipare a qualcosa di improprio, a qualcosa (la
gioia) che non deve essere giacché è più giusto che vi sia il suo contrario (la sofferenza). Occorre,
d’altra parte, sottolineare il fatto che, per Nietzsche, anche indipendentemente dal cristianesimo, la
gioia è stata, sinora, una dimensione fondamentalmene estranea, in generale, all’uomo: l’uomo non
solo non ha partecipato e non partecipa alle gioie dell’altro - non è amico dell’altro -, ma anche è
vissuto e vive tenendo se stesso fuori della dimensione della gioia: «Da quando vi son uomini,
l’uomo ha gioito troppo poco»11. Il sapere è stato sinora sviluppato per combattere la sofferenza,
non per produrre gioia12. Promuovere lo sviluppo delle relazioni fra gli uomini nel senso della
amicizia significa promuovere lo sviluppo di tali relazioni nel senso della reciproca partecipazione
della gioia, invertendo il senso che le relazioni interpersonali hanno sinora generalmente avuto. Se
si immagina una comunità politica ispirata alla reciproca partecipazione della gioia dei suoi
componenti, essa sarebbe, almeno per questo aspetto, una comunità di amici, ossia il contrario di
quel che è stata la comunità politica tradizionale, fondata o sulla indifferenza ed esteriorità
reciproche dei suoi componenti o sulla volontà di dominio e di male o degli uni sugli altri o di tutti
su tutti.
3. Amicizia e differenze
L’amicizia ha a che fare, in Nietzsche, con il rispetto delle differenze, con il rispetto delle differenti
identità di coloro tra i quali l’amicizia ha luogo.
«Tu va’ verso oriente: io andrò verso occidente», sentire così è segno di alta umanità nei rapporti
più stretti: senza questo sentimento ogni ami-
cizia, ogni rapporto fra maestro e allievo, fra maestro e discepolo, diventa un giorno, quando che
sia, ipocrisia13.
L’andare dell’uno verso oriente, dell’altro verso occidente è metafora del fatto delle rispettive
differenze degli uomini: ma, allorquando non c’è solo l’andare dell’uno in una direzione (quella sua
propria) e dell’altro in una direzione diversa (quella sua propria), ma l’uno invita, sollecita, spinge
l’altro ad andare nella sua propria direzione, e lavora perché l’altro vada nella sua propria direzione,
e viceversa, anche se ciò dovesse significare il loro reciproco congedo, allora c’è amicizia. Se
l’uno cerca, invece, di indurre l’altro a seguirlo sulla sua propria strada, o viceversa, amicizia,
allora, non c’è: c’è solo egoismo, prevaricazione, volontà di ridurre l’identità dell’altro alla
propria identità. Senza la disponibilità, dice Nietzsche, a lasciare che l’altro segua il suo proprio
cammino, ogni rapporto umano diventa ipocrisia: l’uno fingerà, con l’altro, di andare nella stessa
direzione dell’altro, così come gli amanti fingono tra loro di essere l’uno come l’altro14. E' perché
amicizia è disponibilità a che l’altro vada per la sua strada che, per amicizia, possiamo arrivare ad
allontanare con uno stratagemma - per il suo stesso bene - l’altro da noi:
Osserviamo talvolta che qualcuno dei nostri amici appartiene più ad un altro che a noi, che il suo
delicato sentire si tormenta in questa decisione e che il suo egoismo non è all’altezza di questa
scelta: dobbiamo allora alleggerirgli tutto questo e, con un’offesa, allontanarlo da noi. Ciò è
egualmente necessario, allorché trapassiamo ad un modo di pensare che per lui sarebbe rovinoso:
mediante un torto che prendiamo su noi, il nostro amore per lui deve spingerci a procurargli una
buona coscienza riguardo alla sua rottura con noi15.
Emerge, fra l’altro, con chiarezza, dall’aforisma citato l’idea dell’amicizia come amore e come cura
per il bene dell’altro.
4. Amicizia e inimicizia
Amicizia non è assecondamelo, accondiscendenza al punto di vista dell’altro. Amicizia è amore
dell’altro, ma, per amore dell’altro, all’altro ci si può anche opporre, opporre per il suo stesso bene,
si può diventare il nemico dell’altro, il suo «miglior nemico» e, come tale, essere dall’altro onorato:
Se si vuole avere un amico, bisogna anche voler far guerra per lui: e per fare guerra bisogna poter
essere nemico.
Nel proprio amico si deve onorare anche il nemico. Sei capace di avvicinarti massimamente al tuo
amico, senza passare dalla sua parte?
Nel proprio amico bisogna avere anche il proprio miglior nemico. Col tuo cuore devi essergli
massimamente vicino, proprio quando ti opponi a lui16.
Vi è un pericolo nell’essere vicino con il cuore all’amico: che si assecondi sempre il suo punto di
vista, che si sia sempre accondiscendenti verso di lui. Vi è un pericolo, d’altra parte, nell’opporsi -
sia pure per il suo stesso bene - all’amico: che ci si allontani, con il cuore, da lui. La qualità
dell’amico sarà, perciò, duplice: da un lato, saprà essere vicino con il cuore all’amico «senza
passare dalla sua parte», cioè senza necessariamente consentire con lui, assecondarlo, dall’altro,
saprà rimanere vicino nel cuore all’amico, pur a lui, nel caso, opponendosi. La vicinanza nel cuore
non porterà alla rinuncia alla critica, la critica non significherà la rinuncia alla vicinanza nel cuore:
tanto chiede amicizia. Se, pur essendo vicino nel cuore all’amico, non se ne condivide o asseconda
pregiudizialmente il punto di vista e si diventa, eventualmente, il suo nemico, proprio ciò è segno di
amicizia, segno dell’amore che a lui si porta e che, volendo il suo bene, può richiedere che a lui, nel
suo interesse, per il suo bene, ci si opponga: l'esser nemico è il segno e la prova dell’amicizia. Se,
viceversa, opponendosi all’amico, gli si rimane vicini nel cuore, ciò è segno, ancora, del-
l’amore che si ha per lui e per il quale, pur all’amico opponendosi, pur diventandogli nemico, a lui
si rimane legati nel cuore: il rimanere legati all’altro, del quale si diventa nemico, è il segno e la
prova della amicizia. Il senso generale della guerra che, per amicizia, l’uomo può muovere all’altro
uomo è dato dal cammino verso l’oltreuomo. L’amico sarà per l’altro «una treccia che anela verso il
superuomo»17. Scrive Nietzsche:
L’amico come colui che sa meglio disprezzare e essere nemico.
Quanto pochi sono degni! Essere la coscienza dell’amico. Notare ogni umiliazione. [...]
L’amico come demone e angelo. Ciascuno di loro ha per l’altro la serratura della catena. Nella loro
vicinanza una catena si spezza. Si elevano l’un l’altro. E si avvicinano, come un io fatto di due
persone, al superuomo, e gioiscono di avere un amico che dà loro la seconda ala senza di cui l’altra
non giova18.
L’amico è un «presentimento» dell’oltreuomo19. Per questo l’amico viene collegato all’«amore del
remoto e futuro»20, ossia all’amore di ciò che ancora non c’è ed è da costruire, come è il caso
dell’oltreuomo (se si pensa alla caratterizzazione nietzscheana dell’amico, in particolare al rapporto
tra amicizia e differenza che Nietzsche stabilisce, l’amore del remoto può, però, avere anche il
senso dell’amore del diverso da sé, il senso dell’amore della differenza rispetto a sé). Ma, se
l’amico è una «freccia» in direzione dell’oltreuomo, un «presentimento» dell'oltreuomo, alcuni
tratti, almeno, dell’oltreuomo nietzscheano dovrebbero potersi ricavare dai tratti che caratterizzano
l’amico secondo Nietzsche.
È da sottolineare la osservazione nietzscheana che «per far guerra bisogna poter essere nemico».
L’essere nemico, che nella relazione di amicizia è a volte la prova dell’amicizia, richiede
potere: si deve avere la potenza di essere nemici. Diventare nemici non è facile: si può essere
frenati, nel diventarlo, dalla paura di ferire l’amico, di farlo o di lasciarlo soffrire. Per essere
nemico, occorre, qui, potere sulla propria compassione. Se, per esempio, l’altro soffre e chiede di
essere liberato dalla sofferenza, può rivelarsi necessario, invece, per lui, mantenere questa
sofferenza, che può rappresentare la condizione, il mezzo di realizzazione della sua strada.
Comprendendone la necessità, l’amico, che vuole il bene dell’altro, può voler mantenere l’altro in
questa sofferenza e si opporrà a lui che ne vorrà essere liberato. Non si tratta tanto, per l’amico, di
non soffrire per l’altro che soffre quanto, innanzitutto, di non lasciar vincere in se stesso la
compassione, che lo porterebbe a cercare di liberare l’altro dalla sua sofferenza, e, in ogni caso, si
tratta di nascondere all’altro la propria compassione verso di lui: «La compassione verso l’amico si
celi sotto un guscio duro, che rompa un dente al tuo morso»21, «Se però hai un amico che soffre, sii
un asilo di pace al suo affanno, ma simile a un letto duro, un Iettino da campo; così gli gioverai al
massimo»22. Il fatto è che «ogni grande amore è superiore a tutta la propria compassione: infatti
esso vuol ancora - creare ciò che ama!» e, per creare, occorre formare, trasformare, piegare una
materia e questo produce, in ciò che viene formato, trasformato, piegato, sofferenza. L’amico, che
lascia il proprio amico nella sofferenza, e che si oppone alla sua richiesta di aiuto, così agisce
perché vede la sofferenza come condizione o effetto di una formazione o trasformazione che può
portare il proprio amico verso obiettivi che meritano di essere dall’amico stesso perseguiti. Dice
Nietzsche:
Bisogna tener fermo il proprio cuore; infatti, a lasciarlo andare, se ne va via ben presto anche la
ragione!
Ahimè, dove al mondo sono state commesse stoltezze peggiori che presso i compassionevoli? E che
cosa al mondo ha provocato più dolore delle stoltezze dei compassionevoli?
Guai a coloro che amano, se non hanno un’elevatezza che sia superiore alla loro compassione!23.
Se, poi, l’altro non soffre, può essere l’amico ad assumersi la responsabilità di provocarne la
sofferenza con una critica, con un atto di “guerra” nei suoi confronti: anche in questo caso
occorre la potenza di essere nemico, la potenza sulla propria sofferenza come compassione verso la
sofferenza, che, nell’altro, egli stesso sta deliberatamente provocando. Si potrebbe anche osservare
che potenza occorre per diventare nemico, perché si deve credere nel proprio punto di vista, che si
contrappone a quello dell’amico, e perché, ancora, una possibilità della inimicizia è la perdita, che
si deve avere la forza di fronteggiare, dell’amico.
5. Colui che dona
Chi è l’amico? L’amico è colui che dona. Ma, per donare, bisogna avere qualcosa da donare,
oltreché la volontà di donare. Per avere qualcosa da donare, bisogna prima in qualche modo
esserselo procurato, averlo fatto proprio, essersene appropriati. Come si è visto nel capitolo primo,
l’io di ciascuno si costituisce attraverso processi di appropriazione delle cose del mondo. Vi
sono, però, per Nietzsche, due modi, due sensi diversi, in cui ci si appropria delle cose (materiali o
ideali) del mondo, due modi o sensi diversi della appropriazione, nei quali si riflettono due diverse
specie di «egoismo» dell’uomo. In un primo senso ci si appropria delle cose solo per nutrire se
stessi. Può cambiare, a seconda degli uomini e delle situazioni, la qualità e la quantità delle cose di
cui ci si appropria, ma, in questo caso, delle cose ci si appropria per nutrire se stessi senza che si dia
vita al movimento inverso della restituzione varia di quel che dal mondo, per costituire se stessi,
si è preso, senza che si dia vita al movimento del dono. Ciò che qui si realizza è l’accumulo, in virtù
di un gesto appropriativo, dei beni del mondo in determinati soggetti che sono in relazione con altri
soggetti solo per prendere da essi, non anche per donare loro o ad altri qualcosa. In questo modo o
senso della appropriazione delle cose si esprime un determinato tipo di egoismo, un egoismo
troppo povero, affamato, che vuol sempre rubare, l’egoismo dei malati, l’egoismo malato.
Con occhio di ladro esso guarda a tutto quanto luccica, con l’avidità della fame conta i bocconi a
chi ha da mangiare in abbondanza: e sempre si insinua alla tavola di coloro che donano.
Malattia (Krankheit) parla da tale bramosia, e degenerazione (Entartung) invisibile; l’attività
ladresca di questo egoismo parla di un corpo infermo.
Ditemi, fratelli: che cosa è per noi cattivo, anzi più cattivo di tutto il resto? Non è forse la
degenerazione? - E, dove manca l’anima che dona (die schenkende Seele), noi indoviniamo sempre
la degenerazione24.
Degenerazione è: non donare, accumulare soltanto, nutrirsi soltanto, prendere, appropriarsi senza
dare, senza donare. Degenerazione è, dunque, si può dire, l'introversione dell’uomo. A volte
Nietzsche parla dell’uomo come caratterizzato essenzialmente da questo modo di appropriazione:
«Si direbbe che l’uomo agisca per possedere»25 o «Il desiderio di appropriazione del sentimento
dell’io non ha limiti»26. Ma si deve dire che si tratta, in realtà, per Nietzsche, dell’uomo della
tradizione, di un uomo che deve essere superato. In quale direzione? La direzione si ricava, per
contrapposizione, dal concetto stesso di degenerazione.
Se degenerazione è non donare, cioè solo appropriarsi e nutrirsi delle cose senza, a propria volta,
donarle, la salute o il valore consisteranno, al contrario, nel donare al mondo le cose che dal
mondo si sono prese, e, più radicalmente, nel prendere dal mondo per donare al mondo, prendere
dal mondo per restituire al mondo in forma di dono ciò che da esso si è preso. Si allude, con ciò, al
secondo modo o senso della appropriazione delle cose del mondo: è il modo, il senso proprio di
colui che delle cose del mondo si appropria per restituirle al mondo, per donarle al mondo.
Non volgare è la virtù più nobile e non utile, essa luccica di mite splendore: una virtù che dona è la
virtù più nobile.
In verità io indovino voi, miei discepoli: voi anelate, come me, alla virtù che dona. Che potreste
avere voi in comune con i felini e i lupi?
Questa è la vostra sete, diventare voi stessi vittime e doni: e per questo avete la sete di accumulare
tutte le ricchezze nella vostra anima.
Insaziabile, l’anima vostra anela a tesori e gemme, perché la vostra virtù è insaziabile nella volontà
di donare.
Voi costringete tutte le cose a venire a voi e dentro di voi, perché riscaturiscano dalla vostra
sorgente come doni del vostro amore (als die Gaben eurer Liebe)27.
Anche qui è all’opera un egoismo, ma è un egoismo «sacrosanto»: «In verità, un predone di tutti i
valori deve diventare questo amore che dona; ma io dico sacrosanto questo egoismo»28. Di sé
Zarathustra dice: «Io [...] sono un donatore: volentieri io dono, come un amico agli amici»29. Chi è
l'amico? L’amico è colui che dona.
Amico è colui che dona, l’uomo dal «cuore traboccante (überwallendes Herz)»30. Nietzsche qui
aggiunge: «Ma bisogna essere spugna, se si vuol essere amati da cuori riboccanti». Ma, per essere
spugna, bisogna avere la capacità e la volontà di accogliere, in se stessi, ciò che viene donato dal
«cuore traboccante». Donare non serve se colui cui si dona non è capace
di ricevere. Si può non essere capaci di ricevere perché ciò che viene offerto non è giusto, non è
adatto a colui che dovrebbe riceverlo. Infatti, si dona sempre qualcosa di particolare, anche quando
quel che si dona è un «mondo compiuto»31, che è però sempre un mondo particolare, il mondo
proprio di colui che dona. Il cuore dell’amico è un «cuore traboccante» di doni, ma ogni «cuore
traboccante» trabocca di certi doni e non di altri, trabocca di doni che potranno andare bene per
alcuni e non per altri, non per tutti, non per il «prossimo» in genere. In un frammento, Nietzsche
scrive che ognuno deve crearsi il suo prossimo, quello al quale egli può risultare effettivamente di
qualche utilità32. Per essere amico, l’uomo deve individuare quelli per i quali i doni del proprio
«cuore traboccante» potranno essere giusti, adatti, sul presupposto che, per tanti, essi non
significheranno nulla, a tanti essi risulteranno incomprensibili. D’altra parte, in quanto si veda come
oggetto di una possibile amicizia, in quanto voglia essere amato da un cuore traboccante, l’uomo
cercherà egli stesso quelli i cui doni si confanno al suo essere, i cui doni egli voglia e possa
accogliere perché già ne va, in qualche modo, alla ricerca:
Io vorrei che non sopportaste ogni tipo di prossimo e di suoi vicini: così sareste costretti a creare,
traendolo da voi stessi, il vostro amico e il suo cuore traboccante33.
6. Amicizia e libertà
La relazione di amicizia presuppone e vuole la libertà reciproca degli amici. La relazione di
amicizia sfugge, si è detto, alla logica del dominio e della appropriazione che è propria, invece,
della relazione di amore - di una certa relazione di amore, della relazione dell’amore-passione, che a
Nietzsche
appare come una espressione particolarmente acuta di ciò che è e di ciò cui può arrivare la logica
del dominio e della appropriazione in una relazione interpersonale. Si è già vista la osservazione
nietzscheana secondo la quale «L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una
persona: per esempio voler essere l’oggetto unico dei pensieri e dei sentimenti. L’ amante non vede
il resto del mondo e sacrifica tutti gli altri interessi a questa sete di potenza. Credere di essere
amati porta con sé un senso di profondo appagamento. “Veniamo sentiti come una potenza
assoluta!”»34. Amicizia si contrappone, così, ad amore: l’amicizia nel senso nietzscheano si
contrappone all’amore-passione come libertà a dominio-appropriazione. Amicizia si contrappone ad
amore-dominio, ad amore-appropriazione. Amicizia vuole libertà degli amici: libertà dell’uno da
qualsiasi dominio dell’altro nei suoi confronti, e viceversa, libertà, in particolare, di critica, di
opposizione, di inimicizia dell’uno nei confronti dell’altro, e viceversa. Proprio per questo di
nessuno si potrà essere amici se all’altro ci si rapporta da schiavo o, al contrario, da tiranno: «Sei
uno schiavo? Allora sei incapace di essere amico. Sei un tiranno? Allora sei incapace di avere
amici»35. Se si è schiavi non si può essere amici perché l’amico è critico, si oppone, è nemico del
proprio amico, mentre lo schiavo non si oppone al proprio tiranno (se gli si oppone, smette di essere
schiavo). Se si è tiranni, non si possono avere amici perché il tiranno non sopporta che altri
critichino, si oppongano al suo modo di vedere le cose e di agire. Poiché amicizia presuppone e
vuole la libertà reciproca degli amici, Nietzsche giudica che, sinora, la donna sia stata estranea alla
amicizia: infatti, sinora, la donna si è definita o nel senso della schiavitù o nel senso della tirannia:
«Per troppo tempo nella donna si è celato uno schiavo e un tiranno. Perciò la donna non è ancora
capace di amicizia: essa conosce solo l’amore»36. È da sottolineare il fatto che Nietzsche osserva
che la donna «non
è ancora capace di amicizia». Quanto dire che la estraneità della donna all’amicizia non è un fatto
naturale e inevitabile, ma qualcosa di storico e che, per la donna, c’è la possibilità che la sua
situazione, sotto questo aspetto, non continui e si modifichi. Proprio perché si è definita o nel senso
della schiavitù o nel senso della tirannia, la donna ha conosciuto solo l’amore -quella forma
particolare di amore, che per Nietzsche non è propriamente amore, perché ruota attorno al
«desiderio di potenza assoluta» degli amanti o, al contrario, intorno al desiderio della «schiavitù
assoluta»: «Mediante l’amore l’uomo cerca la schiava assoluta, la donna la schiavitù assoluta -
l’amore è desiderio nostalgico di una fase passata della civiltà e della società»37. D’altra parte,
osservato che la donna, sinora, è stata estranea alla dimensione della amicizia, Nietzsche ha un
pensiero analogo per quel che riguarda l’uomo:
La donna non è ancora capace di amicizia. Ma ditemi, voi uomini, chi di voi è capace di amicizia?
Quanta povertà, quanta avarizia è nelle vostre anime, voi uomini! Nella stessa misura con cui voi
date all’amico, voglio dare anche al mio nemico, e non per questo sarò diventato più povero38.
Nel discorso di Zarathustra, dal quale sono tratte queste parole, si sottolinea la tesi, come si è visto,
che l’amico è (deve essere) anche nemico: amico è non chi pregiudizialmente e solo asseconda,
acconsente a colui del quale si considera amico, ma chi eventualmente anche si oppone, muove
guerra a colui del quale amico si considera e per il suo stesso bene. Tenendo presente ciò, si deve
dire che la affermazione che l’uomo, sinora, ha dato solo all’amico e non anche al nemico significa
che l’uomo (l’uomo in quanto si è considerato amico) ha donato solo a colui dal quale sapeva che
avrebbe ricevuto un consenso - al quale egli mirava - a se stesso, al proprio comportamento,
al proprio pensiero, al proprio sentimento, ossia ha donato solo a
colui dal quale sapeva che sarebbe stato perfettamente ribadito, confermato, consolidato, legittimato
nella propria identità - e non ha donato, invece, a colui dal quale sapeva che avrebbe ricevuto
dissenso, critica, ostilità, guerra, ossia non ha donato a colui dal quale sapeva che sarebbe stato
variamente negato e delegittimato nella propria identità. L’uomo ha sinora donato, considerandosi
per questo suo amico, solo a colui dal quale poteva essere confermato e legittimato nella propria
identità e che, proprio per questo, era facile che fosse come lui, suo simile, suo «prossimo» nel
senso in cui, probabilmente, di ‘prossimo’ si parla, in contrapposizione a «remoto», nel discorso
di Zarathustra precedentemente citato. In questo senso, l’uomo ha, sinora, donato all’amico inteso
come simile a sé, come «prossimo». L’uomo, che ha donato solo all’amico e non anche al nemico,
ha concepito la relazione di amicizia secondo una logica di scambio. Egli ha donato all’altro solo
nella prospettiva di ottenere, a propria volta, qualcosa in cambio dall’altro, qualcosa che, però,
doveva in ogni caso andare nel senso della conferma, del consolidamento, della legittimazione del
proprio essere e della propria volontà. L’uomo sinora ha donato, considerandosi per questo suo
amico, solo a colui dal quale avrebbe ricevuto, a propria volta, un dono, il dono che egli stesso
voleva come conferma e consolidamento di sé. L’amicizia ha funzionato, sino ad oggi, secondo una
logica di reciprocità nel dono e, in particolare, di questo tipo di dono. L’amico nel senso di
Nietzsche è, invece, colui che dona anche al nemico, è colui che dona anche a colui che non dona o,
almeno, non dona quello che si vorrebbe avere, è colui che dona a colui dal quale non solo non c’è
aspettarsi un dono o il dono che si vorrebbe avere, ma dal quale arriva, anzi, proprio il contrario di
un dono o del dono che si vorrebbe avere. L’amico nel senso di Nietzsche è colui che dona “a
perdere”. Nietzsche fa valere i concetti di prodigalità e di dissipazione. In due frammenti egli
scrive: «Io amo le anime prodighe: esse non danno qualcosa in cambio e non vogliono essere
ringraziate, perché sempre donano»39, «Io amo
coloro che dissipano la propria anima, che non ringraziano e mai danno qualcosa in cambio, perché
sempre donano»40, e, negli stessi termini, nello Zarathustra: «Io amo colui l’anima del quale si
dissipa e non vuol essere ringraziato, né dà qualcosa in cambio: giacché egli dona sempre e non
vuol conservare se stesso»41 (nella formulazione dello Zarathustra è sottolineata la volontà di colui
che dissipa la propria anima come volontà di un essere che non vuole conservare se stesso, che non
è arroccato nella difesa di se stesso). Si può ricordare, qui, una osservazione di Nietzsche relativa
all’amore (ma in Nietzsche definizione dell’amicizia e definizione dell’amore sono molto vicine e,
al limite, coincidono42): «Non si deve voler restituire e contraccambiare ciò che l’amore dà: nel
mare dell’amore deve essere annegato ogni impulso a ripagare»43. Nella situazione dell’amore, chi
dà non dà per ricevere in cambio qualcosa, chi riceve non riceve a condizione di restituire ciò che
ha ricevuto: nel «mare dell’amore» non opera in alcun modo la logica dello scambio, ma solo la
logica del dono e della accettazione di ciò che l’altrui amore dona. Nella situazione dell’amore, chi
dona lo fa, certo, in generale restituendo quel che dal mondo ha preso o dal mondo (da qualcuno
nel mondo) gli è stato donato (perché quel che si dona comunque dal mondo lo si è prima preso o
dal mondo è stato donato), ma non restituisce perché ha preso o perché gli è stato donato,
non restituisce per contraccambio: egli dona non come restituzione, anche se, da un altro punto di
vista, il dono è sempre, in ogni caso, una forma di restituzione. L’intenzione non è restituire, ma,
semplicemente, dare. Il donare solo a colui dal quale
si riceve è segno di povertà, di avarizia. Il donare anche a colui dal quale non si riceve nulla (il
nemico) è segno di ricchezza e di generosità44.
1 Zur Genealogie der Moral, II, 8, p. 322 (tr. it., p. 269).
2 Menschliches, Allzumenschliches, I, 354. Morgenröthe, 503.
4    Die fröhliche Wissenschaft, 61.
5    Menschliches, Allzumenschliches, I, 62.
6    Ivi, 1,499.
7    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 19[9]. 191
9    Morgenröthe, 80.
10    Der Antichrist, 21, p. 186 (tr. it, p. 189).
11    Also sprach Zarathustra, II, «Von den Mileidigen», p. 110 (tr. it., p. 104).
12    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[82],
13    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 231.
14    Morgenröthe, 532.
15    Ivi, 489.
16 Also sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», pp. 67-8 (tr. it., p. 64).
17    Ivi, p. 68 (tr. it., p. 65).
18    Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1882-1884, 4[211].
19    Ivi, I, «Von der Nächstenliebe» p. 74 (tr. it., p. 71).
20    Ilvi, p. 73 (tr. it., p. 70).
21    Also sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde» (tr. it., p. 65).
22    Ivi, II, «Von den Mileidigen», p. 111 (tr. it., p. 106).
23 Ibidem (tr. it., p. 106).
24    Also sprach Zarathustra, I, «Von der schenkenden Tugend», 1, p. 94 (tr. it, p. 89).
25    Morgenröthe, 281.
26    Ivi, 285.
27    Also sprach Zarathustra, I, «Von der schekenden Tugend», 1, pp. 93-4 (tr. it., pp. 88-9).
28    Ivi, p. 94 (tr. it. , p. 89).
29    Ivi, II, «Von den Mitleidigen», p. 110 (tr. it., p. 105).
30    Ivi, I, «Von der Nächstenliebe», p. 73 (tr. it., p. 70).
31    Ibidem (tr. it., p. 71).
32    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[100].
33    Also sprach Zarathustra, I, «Von der Nächstenliebe», p. 73 (tr. it., p. 70).
34    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[54],
35    Also sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», p. 68 (tr. it., p. 65).
36    Ivi, p. 69 (tr. it., p. 65).
37    Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1883-1884, 2[14],
38    Also sprach Zarathustra, I, «Vom Freunde», p. 69 (tr. it., p. 66).
39 Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1883-1884, 4[210].
40    Ibidem.
41    Also sprach Zarathustra, «Zarathustra’s Vorrede», 4, p. 11 (tr. it., p. 9).
42   La definizione dell’amicizia è molto vicina alla definizione dell’amore nel senso in cui
Nietzsche definisce l’amore, non alla definizione dell’amore come amore-passione criticato da
Nietzsche in quanto legato alla volontà di possesso e alla perdita della propria identità e libertà.
43    Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1883-1884, 3[1(266)].
44 Jacques Derrida contrappone l’idea nietzscheana dell’amico come colui che dona al nemico alla
idea cristiana secondo cui si deve amare il proprio nemico. Secondo Derrida, al fondo della idea
cristiana opera «un’economia sublime, un’economia di là dall’economia, un salario che si scambia
in oro di non-sala-rio»: l’amore per il proprio nemico sarebbe il «salario» in cambio del quale
si ottiene l’«oro» di diventare «degni del padre eterno» (J. DERRIDA, Politique de l’amitié, p. 317 [tr.
it., p. 335]). E cita il Vangelo secondo Matteo, nel quale si dice di amare i propri «nemici» e i propri
«persecutori», «perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e
sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano,
quale merito avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli,
che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste» (ibidem, [tr. it., p. 335]). All’opposto stanno le cose, secondo
Derrida, nella prospettiva nietzscheana, che propone l’amico come colui il cui dono è un
dono «senza ritorno e senza salario»: l’amico nel senso di Nietzsche, in quanto figura di colui che
dà, non si colloca «in una qualsivoglia economia (dove i virtuosi vorrebbero ancora che li si paghi)»
(ivi, pp. 318-9 [tr. it., pp. 336-7]).
Capitolo quinto. La volontà del male
1. La crudeltà come fondamento della storia passata dell’uomo
Uno dei temi più importanti, anzi decisivi, della ricostruzione, che nella sua opera Nietzsche
compie, della realtà dell’uomo e dei rapporti umani quale, sino ad oggi, si è venuta determinando
a partire sin dalle più lontane fasi della storia umana, è sicuramente la crudeltà.
Due elementi fanno emergere, in maniera immediata e inequivocabile, la importanza e la decisività,
che, in Nietzsche, il tema della crudeltà assume.
Il primo elemento è dato dal fatto che, dal punto di vista di Nietzsche, il piacere di far soffrire o
(secondo una distinzione che, come vedremo, egli effettua) di veder soffrire (non solo gli altri ma
anche se stessi) è un piacere che, rivestendo nel tempo forme diverse, ha però rappresentato una
costante della storia dell’uomo sino alla sua epoca, una epoca che, si potrebbe anche dire, per molti
aspetti, è - e non sappiamo per quanto ancora - la nostra stessa epoca.
Il secondo elemento, che spiega la crucialità della questione della volontà del male nella riflessione
nietzscheana, è che la crudeltà, lungi dal rappresentare un aspetto secondario o marginale o anche
un fenomeno esteso e intenso ma tutto sommato ben circoscritto e limitato della storia dell’uomo, si
presenta, nel testo
nietzscheano, con il carattere, addirittura, di fondamento di questa storia. Scrive Nietzsche che la
crudeltà, nella forma sempre più spiritualizzata che a un certo momento della storia dell’uomo essa
ha cominciato ad assumere, allontanandosi dalle sue espressioni più fisiche, che avevano avuto
come proprio bersaglio il corpo (altrui o proprio), «passa attraverso l’intera storia della civiltà
superiore (e, assunta in una accezione significante (in einem bedeutenden Sinn), addirittura la
costituisce (sie sogar ausmacht))»1. In queste parole non viene indicata solo la continuità
del fenomeno - la crudeltà -, che si svolge lungo, appunto, l’intero corso della «civiltà superiore»,
viene indicata anche la qualità del fenomeno: esso è fondamento di costituzione della «intera
storia della civiltà superiore». In un aforisma di Al di là del bene e del male, rilevato che le «epoche
tarde» della storia dell’uomo trovano la «superbia della loro umanità» nell’«aver signoreggiato»
la «selvaggia fiera crudele» che l’uomo stesso è, Nietzsche osserva che noi «dobbiamo modificare
le nostre opinioni sulla crudeltà e aprire gli occhi»: dell’aprire gli occhi sulla crudeltà fa parte il
riconoscimento che
Quasi tutto ciò che noi chiamiamo «civiltà superiore» trova nell’intellettualizzazione
(Vergeistigung) e nell’approfondimento (Vertiefung) della crudeltà le sue basi - è questa la mia tesi:
quella «fiera selvaggia» non è stata affatto uccisa, essa vive e prospera, soltanto che si è -
divinizzata2.
Ai fini della comprensione del molo e del peso, da Nietzsche riconosciuti alla crudeltà nel quadro
della civiltà superiore, è importante l’espressione ‘quasi tutto’, che compare nella proposizione poco
fa citata. L’espressione toglie ogni dubbio riguardo alla fondamentalità della crudeltà (nella forma
spiritualizzata) per quel che riguarda la costituzione stessa della civiltà superiore.
Con le parole precedentemente riportate, Nietzsche si riferisce a una particolare forma di crudeltà,
ossia alla forma spiritualizza-
ta di crudeltà. Tale forma di crudeltà egli indica come fondamento non dell’intera storia dell’uomo,
ma della sola civiltà superiore. Ma se una sempre crescente spiritualizzazione della crudeltà è, in
una «accezione significante», fondamento della «civiltà superiore», ciò significa che la crudeltà,
nella fasi precedenti o nelle prime fasi della civiltà superiore, già, sia pure in altra forma, esisteva.
La crudeltà esisteva in una dimensione esclusivamente o essenzialmente fisica, materiale: essa
aveva come proprio oggetto (lo si è accennato) il corpo dell’uomo. In quella epoca,
non diversamente da quel che accadrà nell’epoca della civiltà superiore, la crudeltà aveva, stando a
quel che Nietzsche scrive, un peso notevole nei rapporti fra gli uomini. Se, nella civiltà superiore, la
crudeltà, nella forma spiritualizzata, ha ruolo di fondamento dei comportamenti e dei pensieri
dell’uomo, nelle fasi che precedono o con cui inizia la civiltà superiore non diverso deve essere
stato il suo molo, se è vero che - come Nietzsche osserva con riferimento a tali prime fasi della
storia dell’uomo nel loro rapporto con la sua stessa propria epoca - «per uno sguardo più profondo
ci sarebbe forse ancor oggi da cogliere abbastanza di questa antichissima e profondissima gioia
festiva dell’uomo»3. Oggi è possibile cogliere nel comportamento dell’uomo soltanto qualcosa di
ciò che (la crudeltà) un tempo aveva una ancora più radicata presenza e libera manifestazione,
rispetto ad oggi, all’interno dei rapporti umani. Complessivamente si deve riconoscere che
... L’uomo [...] è il più crudele degli animali.
Finora egli si è sentito bene sulla terra soprattutto assistendo a tragedie, corride e crocifissioni; e
quando si inventò l'inferno, ecco che ciò divenne il suo paradiso in terra4.
Nietzsche avrebbe così, probabilmente, condiviso il giudizio che, ne I fratelli Karamazov, il
protagonista Ivan esprime sull’uomo. Per Ivan Karamazov, che si autodefinisce «un appassionato
collezionista di certi fatterelli» («dai giornali, dai racconti che sento, da dove capita, prendo nota e
colleziono aneddoti di un
certo tipo, ho già messo insieme una discreta collezione»), cioè dei «fatterelli» che testimoniano la
profonda crudeltà dell’uomo5, per Ivan Karamazov, dunque, «se il diavolo non esiste e se, quindi, è
stato l’uomo a inventarlo, questi l’ha creato a sua immagine e somiglianza»6. Ivan Karamazov si
sofferma a narrare alcuni di questi fatterelli. Risulta così, per esempio, che vi sono persone che,
mentre «Con tutti gli altri membri del genere umano [...] si comportano con benevolenza e mitezza,
da europei illuminati e umani», si comportano, invece, da «aguzzini» con i bambini, mostrando un
«gusto per la tortura dei bambini, solo dei bambini [...] È proprio la mancanza di difesa di quelle
creature che seduce il torturatore»7. E vi sono poi - altro esempio - coloro che esercitano la crudeltà
contro gli animali:
Nekrasov ha scritto dei versi in cui si parla di un contadino che frusta il suo cavallo con lo knut
sugli occhi, «gli occhi suoi miti», e chi non ha mai visto cose del genere? È un russismo vero e
proprio. Il poeta descrive una cavallina stremata sulla quale hanno posto un carico troppo pesante;
essa è crollata sotto il carico e non riesce a tirarlo. Il contadino la batte, la batte selvaggiamente, la
batte senza sapere che cosa sta facendo, annebbiato dalla crudeltà, la frusta senza pietà,
ripetutamente: «Anche se non ne hai la forza, devi tirare il carico, a rischio di crepare, lo devi
tirare!». La cavallina cerca di districarsi e quello comincia a picchiarla, indifesa com’è, sui «niti
occhi» pieni di lacrime. Fuori di sé, la cavalla con uno strattone comincia a trascinare il carico,
procede tremante, senza respirare, come di sbieco, sobbalzando in maniera naturale, vergognosa - la
descrizione di Nekrasov è terribile8.
Per Ivan Karamazov, la crudeltà è qualcosa che riguarda l’uomo, nient’affatto gli animali:
La gente spesso parla di crudeltà «bestiale» dell’uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e
offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in
maniera così artistica e
creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di
prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un’intera nottata, nemmeno se
fosse in grado di fare una cosa simile9.
Per questo Ivan Karamazov conclude alla impossibilità dell’amore dell’uomo per l’altro uomo, per
lo meno se l’uno guarda l’altro in volto: nel volto si legge, infatti, la crudeltà dell’animo umano.
Egli osserva:
non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare
proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano [...] Perché si possa
amare una persona, è necessario che si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso,
l’amore verrà meno10.
E riferisce quel che lo starec Zosima dice, cioè che «spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto
in amore, diventa un ostacolo per l’amore»11. E aggiunge: «Secondo me, l’amore di Cristo per gli
uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo
dèi»12.
Per quel che già si è visto, la crudeltà, per Nietzsche, non è stata, semplicemente, un atteggiamento
con il quale, qualche volta o per caso, come vittime o come protagonisti o, insieme (è il caso della
crudeltà rivolta contro se stessi), come vittime e protagonisti, si sia avuto a che fare. La crudeltà non
è stata, semplicemente, qualcosa con cui solo ogni tanto si sia intrattenuta, come vittime e/o come
protagonisti, una relazione, svolgendosi, invece, la maggior parte o la sostanza della propria
esistenza fuori di quella relazione. Se si considera la storia dell’uomo quale effettivamente si è
svolta, la crudeltà rappresenta, dal punto di vista di Nietzsche, alla fine, l’ambiente (o, almeno, uno
degli ambienti
fondamentali) di coltura, formazione e ispirazione delle azioni, delle intenzioni e delle valutazioni
umane - dell’uomo quale, sinora, noi conosciamo.
Così prospettata, ovvero vista come ispirata, in una misura fondamentale, dalla volontà del male, la
storia dell’uomo appare immersa, in maniera varia ma determinante, in un’atmosfera terribile,
angosciosa, tremenda, impietosa, nonostante il piacere connesso a quella volontà: piacere da parte
di chi, di volta in volta, è l’autore volontario del male, di chi, di volta in volta, vuole il male. Ma,
nell’analisi nietzscheana, l’esercizio della crudeltà non appare legato sempre solo all’elemento del
piacere. Vi sono casi in cui il piacere connesso all’esercizio della crudeltà è vissuto unitamente a
una sensazione e condizione di sofferenza. Un primo caso si determina «allorquando amiamo colui
che torturiamo»: «Se un altro infliggesse sofferenza a colui che amiamo, allora diventeremmo pazzi
di rabbia, la compassione sarebbe tutta dolorosa. Ma noi lo amiamo: e siamo noi che gli facciamo
del male»13. Al piacere di fare del male si accompagna, inestricabilmente, il dolore per la
circostanza che il male viene fatto a colui che si ama. La compassione, che qui abbiamo per colui
che torturiamo, «è la contraddizione di due forti istinti opposti», l’istinto dell’amore e l’istinto della
crudeltà: tale contraddizione «qui agisce come stimolo supremo»14. Un secondo caso si determina
quando «l'amore supremo per l’io [...] si esprime come eroismo»: allora esso «è vicino al desiderio
di perire, dunque alla crudeltà, alla violenza su se stessi»15. La violenza, che l’uomo esercita su se
stesso, è da Nietzsche definita la «suprema violenza»16: ciò probabilmente proprio perché l’amore
per l’io costituisce, si è appena visto, l’«amore supremo». Un terzo caso si determina, infine, per
«colui che è oggetto d’amore e tormenta chi l’ama»: egli «gode del proprio sentimento di potenza, e
tanto più in quanto, così, tiranneg-
già se stesso: è un doppio esercizio di potenza. La volontà di potenza diventa qui sfida a se
stessa»17. Colui che tormenta chi l’ama tiranneggia se stesso perché sarebbe portato a
perlomeno rispettare colui che lo fa oggetto di amore: egli va contro una tendenza che avverte
presente in se stesso.
L’atmosfera, alla quale poco fa si accennava, variamente terribile e angosciosa determinata dalla
presenza della volontà del male nei rapporti reciproci degli uomini e nel rapporto dell’uomo con se
stesso, risulta tanto più significativa e inquietante quanto più si tiene conto della osservazione
nietzscheana che la crudeltà non è solo lì dove essa esplicitamente appare ossia dove appare per
quel che effettivamente è, ma è anche lì dove essa esplicitamente non appare perché variamente
mimetizzata nel suo opposto. A proposito della mimetizzazione della crudeltà ricordiamo, ad
esempio, un aforisma di Aurora, nel quale, parlando del «desiderio istintivo di distinguersi»,
Nietzsche osserva che, con esso, «si vuol fare in modo che la nostra vista faccia male all’altro
e desti la sua invidia, il senso dell’impotenza e del suo decadimento»: ciò si può ottenere anche
proprio con una «buona azione», anche, per esempio, con un comportamento umile, per il
quale l’uomo può anche diventare «umile e perfetto nella sua umiltà», ma, dice Nietzsche, «cercate
quelli ai quali, da lungo tempo, ha voluto infliggere una tortura per mezzo di essa! Li troverete
subito»18. In ogni caso, nella caratterizzazione nietzscheana della storia umana quale storia della
crudeltà (e quella della crudeltà è una «grande storia»19), il piacere dell’uomo appare, dunque,
legato, in una maniera fondamentale, alla sofferenza: nel suo contenuto, il piacere (o almeno una
parte cospicua del piacere) è legato alla produzione di qualche forma di sofferenza.
La crudeltà è la «grande gioia festiva (die grosse Festfreude) della più antica umanità»20. Essa
caratterizza già l' inizio della sto-
ria umana. La crudeltà ha a che fare con la storia più antica dell’uomo, ha a che fare con
l'originario. Ma, per Nietzsche l’originario, la storia più antica dell’uomo è stata anche la storia
successiva dell’uomo, è stata anche la storia recente, è anche la storia attuale dell’uomo: l’originario
si è ripetuto in tutto il corso della storia dell’uomo. La crudeltà, poi, si è visto, caratterizza l’inizio
della storia dell’uomo come ciò che all’uomo della più antica età arreca una «grande gioia». La
crudeltà appaga in maniera significativa l’uomo: in essa l’uomo trova una adeguata soddisfazione.
L’esperienza è quella di un intenso piacere.
Veder soffrire (Leiden-sehn) fa bene, cagionare la sofferenza (Leiden-machen) ancor meglio - è
questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana-troppo umana sentenza fondamentale,
che del resto forse anche le scimmie già sottoscriverebbero: si racconta, infatti, che nell’escogitare
bizzarre crudeltà esse già preannunziano largamente l’uomo e ne sono, per così dire, un «preludio».
Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo - e anche
nella pena v’è tanta aria di festa!21
Le scimmie sarebbero, dunque, un preludio dell’uomo non tanto (come in genere si pensa) dal
punto di vista fisico e intellettuale quanto dal punto di vista «morale», per la «crudeltà», cioè, di
certi loro comportamenti che anticipano, in qualche modo, un tipo di comportamento che sarà
particolarmente sviluppato ed esaltato dall’uomo. Scrive ancora Nietzsche:
non è poi passato molto tempo da quando non si sapeva immaginare nozze principesche e feste
popolari in grandissimo stile senza esecuzioni capitali, supplizi e autodafé e neppure un
aristocratico governo di casa senza individui sui quali si potesse senza alcuno scrupolo scatenare
la propria malvagità e le proprie beffe crudeli22.
Nelle più antiche comunità umane, d’altra parte, il «bisogno di crudeltà» appariva come qualcosa di
«ingenuo» e di «innocente»:
la crudeltà appariva «un qualcosa [...] al quale la coscienza dice sì di tutto cuore!»23.
Proprio perché il procurare sofferenza fa piacere, nelle prime comunità umane accadeva che,
qualora si fosse stati danneggiati da altri in qualcosa, per esempio sul piano economico, dei beni
materiali, si potesse ottenere una forma di risarcimento o compensazione anche non sullo stesso
piano sul quale era stato prodotto il danno, ossia anche proprio attraverso la possibilità di far
soffrire qualcuno - e non necessariamente colui che effettivamente il danno aveva provocato,
giacché in quella lontana età non si era ancora pervenuti all’idea, che si affermerà molto più tardi, di
ima responsabilità personale dell’uomo24. Si chiede Nietzsche: «in che senso può essere la
sofferenza una compensazione di “debiti?”»25 (egli si riferisce, qui, al fondamentale rapporto che
vigeva tra gli uomini all’interno delle più antiche comunità, il «rapporto contrattuale tra creditore e
debitore, che è tanto antico quanto l’esistenza di “soggetti di diritto”, e rimanda [...] alle forme
fondamentali della compera, della vendita, dello scambio, del commercio»26: chi danneggiava
qualcuno si metteva nella posizione del debitore nei confronti dell’altro, del danneggiato, che
diventava, così, suo creditore). La risposta di Nietzsche a quella domanda è che la sofferenza
era compensazione di debiti
In quanto far soffrire arrecava soddisfazione in sommo grado, in quanto il danneggiato barattava il
danno, con l’aggiunta dello scontento per il danno, per uno straordinario contro-godimento: il far
soffrire - una vera e propria festa (ein eigentliches Fest) 27.
La concezione degli dèi e quella degli antenati, proprie delle comunità più antiche, risentono in
maniera significativa del peso
che la crudeltà ha nell’esistenza dell’uomo di quella età (come, del resto, delle età successive).
Nelle prime comunità umane si arrivò a concepire gli dèi come esseri che godono di fronte allo
«spettacolo della crudeltà»: uno spettacolo - ed è qui che Nietzsche vede anche l’origine della
morale dell’autosacrifìcio - che gli uomini si adoperavano ad offrire agli dei perché immaginavano
che essa fosse loro gradita28. La «gioia nel vedere chi soffre» è «presupposta nei culti sanguinosi
degli Dèi (l’automutilazione)»29. La crudeltà - propria o altrui - offerta agli dèi era il modo per
ingraziarsi il loro aiuto. Ma gli dèi erano immaginati come esseri che traggono piacere dalla visione
della sofferenza umana, dunque come esseri crudeli, come esseri dominati da una volontà di male,
proprio perché nell’uomo appartenente alle più antiche comunità la volontà del male già svolgeva
un molo fondamentale: la crudeltà degli dèi era una proiezione della crudeltà degli umani.
La crudeltà appartiene alla più antica gioia festiva (ältesten Festfreude) dell’umanità. Si pensa di
conseguenza che anche gli dèi si sentano rallegrati e in una festosa disposizione d’animo quando si
offre loro lo spettacolo della crudeltà, - e così si insinua nel mondo l’idea che la sofferenza
volontaria, il martirio liberamente scelto abbiano un senso e un valore30.
Scrive ancora Nietzsche:
è certo che ancora i Greci non sapevano offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole companatico
alla loro beatuitudine, se non le gioie della crudeltà (die Freuden der Grausamkeit). Con quali occhi
credete che Omero faccia guardare dall’alto sui destini degli uomini i suoi dèi? Quale ultimo senso
ebbero in fondo la guerra troiana, e simili tragiche atrocità? Non si può, al riguardo, avere il minimo
dubbio: erano concepite come spettacoli di festa (Festspiele) per gli dèi: e in quanto il poeta è,
in questo, più degli altri uomini, di natura «divina», erano altresì spettacoli di festa per i poeti31.
Per Nietzsche, d’altra parte, la concezione degli dèi come esseri, che godono di fronte allo
spettacolo della sofferenza che l’uomo offre loro, non riguarda solo le prime comunità umane. La
«primordiale logica del sentimento», che giustifica la sofferenza come spettacolo gradito agli dèi, è
- Nietzsche si chiede - solo una logica primordiale? La risposta, che egli dà a questa domanda, è
negativa: quella logica emerge «ancora all’interno della nostra umanizzazione europea! Ci si può
eventualmente consigliare, al riguardo, con Calvino e Lutero»32.
È sempre, infine, nella presupposizione, negli uomini, del piacere di fare o vedere soffrire che, per
Nietzsche, gli uomini appartenenti alle prime comunità, convinti che «la specie unicamente sussiste
grazie ai sacrifici e alle opere degli antentati», ma convinti, d’altra parte, che gli antenati, per
questo, «devono essere ripagati», ripagano i propri antenati offrendo loro, fra l’altro, «sacrifici» e,
ogni tanto, nel dubbio che il «contraccambio» non sia adeguato, «un grande riscatto in blocco,
un qualche mostruoso indennizzo al “creditore” (il famigerato sacrificio del primogenito, per
esempio, sangue, sangue umano in ogni caso)»33.
2. Le forme storiche della crudeltà. La morale della colpevolizzazione
Si è accennato alla osservazione nietzscheana che, storicamente, la crudeltà ha assunto forme
diverse. È quel cui il filosofo si riferisce allorché rileva che, a un certo momento, si è determinato
ciò che egli definisce «spiritualizzazione» della crudeltà. Da avere il proprio oggetto nel corpo
(altrui o anche proprio), la crudeltà finisce per identificare il proprio oggetto nell’«anima» - per
dirla con Foucault analista delle trasformazioni del diritto penale tra fine ’700 e inizio ’800, epoca
che vede il passaggio da punizioni, che avevano il proprio oggetto
nel corpo del condannato, a punizioni, che avevano il proprio oggetto nella sua anima34. Si potrebbe
qui anche osservare, analogamente a quel che Foucault osserva in particolare a proposito del diritto
penale, che, come le punizioni, anche quando hanno avuto a proprio oggetto l’anima del
condannato, non hanno mai del tutto negato la presa sul corpo (il «fondo suppliziante» del diritto
penale anche dopo la sua riforma nell’epoca indicata35), allo stesso modo, più in generale, la
crudeltà, per l’uomo nel suo rapporto con gli altri e con se stesso, non ha mai del tutto perso
il riferimento al corpo come proprio possibile oggetto anche quando, come dice Nietzsche, con
l’avvento della civiltà superiore, ha sempre più allentato la propria presa sul corpo. Rimane, in
ogni caso, che, per Nietzsche, si è andati incontro, nel corso dello svolgimento della storia umana, a
un processo di crescente spiritualizzazione della crudeltà. Tutta la morale o, meglio, una
certa morale, la morale fondata sui giudizi di colpevolezza e sull’esercizio della colpevolizzazione,
ha rappresentato un modo - un modo spirituale - in cui la crudeltà si è venuta storicamente
affermando, allentando via via il proprio rapporto con la dimensione della fisicità, della corporeità.
Vedere la morale come crudeltà: questa l’idea che con forza Nietzsche afferma nel suo tentativo
di spiegare la genesi della morale. La morale - una certa morale è stata un modo di esercizio della
crudeltà dell’uomo. La morale appare a Nietsche come
il prodotto di quelle epoche nelle quali far del male all’altro con l'azione e col giudizio procurava
una soddisfazione molto maggiore che fargli del bene con gli stessi mezzi36.
Oggi, anzi, i giudizi hanno preso il sopravvento sulle azioni come strumento attraverso il quale fare
del male all’altro, se è vero che
L’infliggere sofferenza mediante giudizi è la massima ferinità ancor oggi esistente37.
La risoluzione, oggi verificabile, degli strumenti, attraverso i quali fare del male agli altri, in quello
dei giudizi, è un aspetto del processo di spiritualizzazione della crudeltà con il quale si identifica,
per una parte essenziale, lo svolgimento della storia dell’uomo sino ai nostri giorni. Nella
proposizione appena riportata, Nietzsche non parla di giudizi specificamente morali: e il far
male agli altri si può, in effetti, perseguire anche attraverso giudizi diversi da quelli morali. Sulla
base di quanto Nietzsche osserva a proposito della importanza che i giudizi morali hanno nella
organizzazione della vita degli uomini (nella loro autopercezione e nella percezione che essi hanno
del modo in cui gli altri li vedono), si deve dire che una parte consistente dei giudizi, mediante
i quali oggi si infligge sofferenza agli altri, sono giudizi morali (giudizi di colpa).
A proposito del cambiamento, che storicamente si è verificato, dell 'oggetto della crudeltà (dal
corpo all’anima), si può ricordare anche l’osservazione nietzscheana che, oggi, mentre si reagisce
immediatamente e facilmente di fronte alla crudeltà che colpisce il corpo, lo stesso non accade di
fronte alle «torture dell’anima» quali sono state, per esempio, quelle nelle quali, lasciando
intravvedere prospettive terrificanti dopo la morte (l’inferno), il cristianesimo ha lasciato vivere o
lascia tuttora vivere tanti uomini:
Per qualsiasi tortura che qualcuno infligga ad un corpo altrui, ognuno oggi prorompe in alte grida;
l’indignazione contro chi è capace di ciò si scatena subito; sì, noi tremiamo già all’idea di una
tortura che possa essere inflitta a un uomo o a un animale, e soffriamo in modo del
tutto intollerabile a sentir raccontare un fatto sicuramente provato di questo genere. Ma si è ancora
ben lontani dal sentire in maniera egualmente universale e determinata, riguardo alle torture
dell’anima e all’orrore della loro effettuazione. Il cristianesimo le ha portate ad applicazione in una
misura inaudita e predica ancora continuamente questo genere di tormenti, anzi, con aria del tutto
innocente, lamenta decadenza e intiepidimento se si imbatte in una condizione dove tali torture non
esisto-
no; tutto ciò ha come risultato che l’umanità si comporta ancor oggi verso il rogo mortale dello
spirito, verso le spirituali torture e strumenti di tortura, con la stessa pazienza e irresolutezza con cui
si comportava una volta verso la crudeltà usata sul corpo di uomini e di animali. L’inferno non è
stato, in verità, una mera parola38.
Secondo Nietzsche, peraltro, sono stati
i coscienziosi e non i senza coscienza a soffrire così terribilmente sotto l’oppressione delle prediche
di penitenza e delle paure infernali, soprattutto se erano al tempo stesso uomini dotati di fantasia.
Dunque la vita è stata maggiormente offuscata proprio per coloro che avevano bisogno di chiarità e
di immagini leggiadre - non soltanto per riposare e risanare se stessi, ma affinché l’umanità potesse
gioire di loro e accogliesse in sé un raggio della loro bellezza. Oh, quanta superflua crudeltà e
bestiale tormento sono scaturiti da quelle religioni che hanno inventato il peccato! E dagli uomini
che per mezzo di esse volevano avere il massimo godimento della loro potenza!39
Tenendo presenti altri momenti della riflessione nietzscheana, si può, d’altra parte, dire che tortura
dell’anima non è solo il pensiero della eventuale punizione che, per il cristianesimo, attende l’uomo
dopo la morte, ma anche lo stesso pensiero della propria colpevolezza per la quale si attende, dopo
la morte, la punizione divina. È sofferenza, infatti, il sentirsi - come accade proprio nel sentimento
di colpa - «moralmente riprovevole e riprovato»40.
Che la crudeltà rappresenti un fondamentale continuum nella storia dell’uomo, ciò, per Nietzsche,
non è, del resto, contraddetto, per esempio, da quel profondo cambiamento intervenuto nel campo
del diritto per quanto riguarda le forme punitive, al quale si è prima, attraverso il riferimento a
Foucault, fatto cenno e che è stato anche interpretato (o si è anche autointerpretato) come
umanizzazione delle pene e che Nietzsche stesso aveva preso in esame41: tale cambiamento delle
forme punitive è, per Nietzsche, dovuto non a una crescita della sensibilità morale, ma al «raffinarsi
dei nervi», alla più accentuata debolezza dell’uomo di fronte allo «spettacolo della sofferenza»:
Se, col progressivo raffinarsi dei nervi, certe punizioni dure e crudeli non vengono più inflitte o
addirittura sono abolite, ciò accade perché la rappresentazione di questa punizioni fa sempre più
male ai nervi della società: non una maggiore indulgenza per il delinquente, non un più intenso
amore fraterno, bensì una maggiore debolezza allo spettacolo delle sofferenze determina questa
mitigazione del codice penale42.
Sul diverso grado di tolleranza al dolore, che l’uomo della civiltà superiore presenta rispetto
all’uomo della età precedente, Nietzsche ha scritto che
La curva della tolleranza umana al dolore sembra scendere in realtà straordinariamente e quasi
all’improvviso, non appena si abbia dietro di sé i primi diecimila o dieci milioni di individui di una
civiltà superiore; e quanto a me non ho alcun dubbio che, a paragone di una notte di dolore di una
sola isterica donnetta letterata, le sofferenze di tutti gli animali insieme, i quali sono stati fino a oggi
interrogati col coltello ai fini di scientifiche risposte, non vanno semplicemente prese in
considerazione43.
La morale della colpevolizzazione è legata, nell’analisi nietzscheana, al rapporto dell’uomo
«debole» o «malato» verso l’uomo «forte» o «sano»44. Troviamo, a questo proposito, in Nietzsche,
l’immagine degli uomini «morali» che si aggirano
fra i «forti» o i «sani» come «rimproveri viventi»45. Essi vogliono «rappresentare la giustizia,
l’amore, la saggezza, la superiorità», ma la loro è solo volontà di «vendetta (Rache)», volontà di
«far espiare, amaramente espiare»46 ai forti il loro essere forti, il loro essere più forti: in realtà, per
Nietzsche, si tratta semplicemente di uomini
bramosi di vendetta (Rachsüchtigen) travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola
«giustizia» come bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su
tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada47.
L’«esser cattivo» del debole è qualcosa di diverso da quello di colui nel quale vi è un «eccesso di
energia» che «cerca la lotta e in ciò diventa cattivo»: infatti, l'esser cattivo, la volontà del male, in
questo caso, «non è che un mezzo (allo scopo della scarica)», laddove il debole «è cattivo per
infliggere sofferenze (um weh zu thun)»48.
Sulla morale come vendetta Nietzsche ancora scrive:
Il giudizio e la condanna morale è la vendetta preferita degli spiritualmente limitati su coloro che lo
sono meno di loro, nonché una specie di rivalsa per essere stati dimenticati dalla natura49.
L’operazione dei deboli nei confronti dei forti è consistita nel colpevolizzarli per la loro forza sì da
indurli a sentirsi in colpa (dunque a soffrire) per la loro forza superiore e costringerli,
conseguentemente, a rinunciare all’esercizio e alla manifestazione di tale forza, a livellarsi sul piano
dei deboli. Della aspirazione dei deboli alla «uguaglianza» con i forti è espressione, oltre il progetto
e la azioni miranti a piegare la potenza dei forti attraverso la loro colpevolizzazione, il fatto che gli
spiritualmente limitati sentono con piacere, in fondo al cuore, che esiste una misura dinanzi alla
quale anche quelli che sovrabbondano dei beni e dei privilegi dello spirito sono uguali a loro - essi
combattono per l' «uguaglianza di tutti di fronte a Dio» ed è quasi a questo fine che hanno bisogno
di credere in Dio50.
In un aforisma di Umano, troppo umano, Nietzsche distingue due specie di vendetta. La prima
specie è la vendetta «come colpo difensivo di risposta, che si vibra quasi involontariamente
anche contro oggetti inanimati che ci hanno danneggiato (come contro una macchina in
movimento): il senso del nostro movimento di reazione è di por fine al danno facendo fermare la
macchina»: è, questa vendetta, una «risposta» che si dà «nell’immediata sensazione del danno»51.
Se si vuole - dice Nietzsche - definire «vendetta» questa risposta, «lo si faccia pure»: ma, se l’uomo
agisce così,
si consideri che solo la conservazione di sé ha messo qui in moto le mote della sua ragione, e che in
tal caso in fondo non pensa a colui che arreca il danno, ma solo a sé: noi agiamo così senza voler
ricambiare il danno, ma solo per uscirne sani e salvi52.
La seconda specie di vendetta, invece, ha di mira non se stessi, ma l’altro, del quale si persegue
consapevolmente il male:
si ha bisogno di tempo, quando coi propri pensieri si passa da sé all’avversario e ci si chiede in
quale maniera lo si possa colpire nel modo più doloroso: suo presupposto è un riflettere sulla
vulnerabilità e sulla capacità di soffrire dell’altro: si vuole far il male53.
È in questa specie di vendetta che entra propriamente in gioco la volontà del male ed è, in realtà, a
questa specie di vendetta che appartiene la morale della colpevolizzazione analizzata e denunciata
da Nietzsche.
È forse da notare il fatto che tutta la certamente violenta polemica di Nietzsche nei confronti della
figura del debole o del malato nasce non da un disprezzo verso chi si caratterizza, rispetto ad altri,
per una qualche forma di minorità, ma dalla volontà di vendetta, dalla disposizione crudele che il
debole o il malato, a causa della propria debolezza o malattia, ha storicamente manifestato - anche
nella forma della morale della colpevolizzazione - verso chi si trova in una posizione di forza
o salute, cioè in una posizione, rispetto a lui, di superiorità54. Egli critica i deboli non per la loro
debolezza, ma per non aver accettato la propria condizione di debolezza (relativa: debolezza rispetto
ad altri più forti), per aver costruito tutto un sistema di «verità» teoriche (l’uomo come essere
assolutamente libero55)
e morali (l’uomo che, in quanto assolutamente libero, è anche assolutamente responsabile, nel bene
e nel male, delle proprie azioni o delle proprie intenzioni56), il cui scopo fondamentale è stato
quello di neutralizzare il «potere» dei forti, di ridurre i forti alla condizione della debolezza
attraverso l’arma della colpevolizzazione. Nietzsche critica i deboli, in altri termini, per questa
speciale forza, che, non accettando la propria debolezza, essi hanno saputo esprimere: una forza
intrisa di volontà di vendetta, di crudeltà verso coloro che vedevano come esseri, rispetto a loro,
superiori57. Per Nietzsche, l’operazione perseguita dai deboli attraverso la morale della
colpevolizzazione è, sul piano storico, fondamentalmente riuscita, ossia sul piano storico ha avuto
successo la logica del «risentimento», della
vendetta, della crudeltà, della volontà di distruzione di ciò che si pensa sia superiore a se stessi
(caso particolare di una logica della negazione delle differenze individuali)58. In quella operazione
la morale cristiana - ogni morale «cristiana», ogni morale «egualitaria», ogni morale
dell’«altruismo» - trova, secondo Nietzsche, la propria genesi.
Per i deboli, la vera vendetta sarebbe che gli esseri a loro superiori (o tali da loro ritenuti) non ci
fossero mai stati (cosa manifestamente impossibile) o, almeno (cosa del pari impossibile), che non
ci fossero più o smettessero di essere superiori, cioè, appunto, che egli non fosse «il debole» in
rapporto ad esseri a lui superiori. Proprio perché la vera vendetta non gli è possibile, al debole non
rimane che, da un lato, colpevolizzare l’essere forte, dall’altro, presentare, invece, se stesso, almeno
di fatto, come figura morale positiva contrapposta alla figura morale negativa dell’essere forte. Per
quanto riguarda, in particolare, il secondo aspetto dell’operazione (presentazione di sé come figura
moralmente positiva), accade così che l’«impotenza che non si prende la rivalsa» si presenti come
«bontà»: il debole fa credere che è per bontà che ha scelto la debolezza; che la «timorosa abiezione»
si camuffi da «umiltà» e «la sottomissione dinanzi a coloro che odiamo» da «obbedienza»; che il
debole che sta «alla finestra», perché non può che stare alla finestra, dia al suo stare alla finestra «un
buon nome»: il non poter non stare alla finestra diventa «pazienza»; che lo stesso «non-potersi-
vendicare» venga presentato come «non-volersi-vendicare»59. Da un lato, presentazione, da parte
del debole, di se stesso non come debole di fatto, ma come buono, umile, obbediente, paziente, non
vendicativo: come colui che ha scelto di essere debole (di contenere entro certi limiti
l’esercizio della propria potenza) e, per questo, è buono, umile, ecc.: egli avrebbe potuto scegliere
di essere forte ma, per ragioni morali,
ha scelto di non esserlo; dall’altro, presentazione, da parte del debole, del forte non come forte di
fatto, ma, innanzitutto, come colui che ha scelto di essere forte (di estrinsecare la propria potenza
oltre certi limiti, cioè, in realtà, oltre i limiti della potenza dei deboli) e, per questo, non è buono,
non è umile, non è paziente, in breve, è colpevole: egli avrebbe potuto essere debole, ma, per difetto
di moralità, ha scelto di essere forte: in questi due momenti si articola la strategia vendicativa messa
in atto dai deboli per cercare di ridimensionare, nella misura possibile, la superiorità degli esseri
forti, oggetto del loro «odio». La colpevolizzazione, messa in atto dai deboli, di coloro che rispetto
a loro sono diversi, cioè dei forti, si accompagna, d’altra parte, a volte, contraddittoriamente, a una
disponibilità al perdono «giacché costoro non sanno quel che fanno - noi soltanto sappiamo quel
che essi fanno»60. La colpevolizzazione, infine, non esclude l’«amore» verso gli stessi esseri
colpevolizzati: «Si parla anche dell’“amore verso i propri nemici”», ma, Nietzsche aggiunge,
«intanto si suda»61. Egli scrive:
Odo soltanto ora quel che essi già tanto spesso dicevano: «Noi buoni» - «noi siamo i giusti» - a quel
che pretendono non dànno il nome di rivalsa, bensì di «trionfo della giustizia»; quel che essi odiano
non è il loro nemico, no! Essi odiano l’«ingiustizia», l’«empietà»; quel che credono e sperano, non
è la speranza della vendetta, l’ebbrezza della dolce vendetta («più dolce del miele» - già la
chiamava Omero), bensì la vittoria di Dio, del Dio giusto sugli empi; quel che resta loro da amare
sulla terra non sono i fratelli nell’odio, ma i loro «fratelli nell’amore», come essi dicono, tutti i
buoni e i giusti della terra62.
Proprio perché, per i deboli, «bestie del sottosuolo sature di vendetta e d’odio», la vera vendetta non
è su questa terra possibile, essi fanno appello e vivono nell’attesa del «giudizio finale» divino che
sancirà eternamente il loro merito e condannerà
alla punizione eterna i forti: «mi dicono che la loro miseria sarebbe un’elezione e un segno di
distinzione da parte di Dio, che si battono i cani che più ci son cari; forse questa miseria sarebbe
altresì una preparazione, una prova, un ammaestramento, e forse ancora di più - qualcosa che un
giorno verrà compensato e pagato con enormi interessi in oro, ma che dico! In felicità. Ed essi
chiamano tutto ciò “beatitudine”»63.
L’idea dei deboli (idea alla quale essi vogliono convincere se stessi e gli altri) è che «non soltanto
sono migliori, ma che “stanno meglio”, o che comunque un giorno “staranno meglio”». Il fatto è
che
questi deboli [...], a un certo momento, anch’essi vogliono essere forti, non v’è dubbio, a un certo
momento deve venire anche il loro «regno» - presso di loro si chiama né più né meno che «regno
d’iddio»64.
Essi hanno bisogno della beatitudine eterna, stabilita dal giudizio divino, per poter «rifarsi
eternamente» della loro «miseria» terrena65. Come Nietzsche scrive con riferimento evidente alla
morale cristiana, «i concetti di “al di là”, di “giudizio finale”, d’“immortalità dell’anima”, quello
stesso di “anima” sono strumenti di tortura, sono sistemi di crudeltà»66. Una morale e una religione,
che si sono presentate come morale e religione dell’amore, sono state, invece, una morale e una
religione della crudeltà? L’amore cristiano nasconde qualche forma di crudeltà? Un frammento
chiarisce quale sia il punto di vista di Nietzsche al riguardo:
Da che dipende che il cristianesimo abbia diffuso in Europa la crudeltà verso gli animali, nonostante
la sua religione della compassione? Forse perché esso è, piuttosto, una religione della crudeltà verso
gli uomini67.
Se così è, se, cioè, è il debole che, insoddisfatto e frustrato per la propria condizione di debolezza in
rapporto alla condizione di forza di altri, «inventa» la morale della colpevolizzazione per cercare di
uscire in qualche modo dalla propria negativa condizione, al debole - a questo tipo di debole - si
addice la seguente osservazione di Nietzsche contenuta in un frammento del 1877:
La crudeltà è spesso il segno di una insoddisfazione interiore che desidera di essere narcotizzata;
così pure una certa crudele brutalità nel pensiero68.
Per Nietzsche, del resto, anche movimenti e soggetti politici che, di fatto o in maniera esplicita, si
sono definiti alternativamente rispetto, tra l’altro, al cristianesimo, al quale soprattutto Nietzsche
vede collegato lo sviluppo della morale del «giudizio», della morale della colpevolizzazione e della
punizione, non sono estranei alla volontà del male nella forma proprio della logica della
colpevolizzazione. Il riferimento è, qui, a quanto Nietzsche scrive, in un pagina del Crepuscolo
degli  idoli, sugli anarchici e sui socialisti. L’anarchico che, «come portavoce di strati sociali in
declino, rivendica, con bella indignazione, “diritto”, “giustizia”, “uguaglianza di diritti”,
agisce sotto il peso della sua «incultura, la quale non sa comprendere, perché mai effettivamente
egli soffra, di che cosa sia povero, cioè di vita». In lui è all’opera un «istinto di causalità» per
il quale «ognuno deve essere responsabile del fatto che lui si trova male». Nell’anarchico che si
lamenta, che brontola, che si abbandona alla «bella indignazione», agisce «una sottile dose di
vendetta» onde «si rimprovera come un torto, come un indebito privilegio, il proprio trovarsi male,
talora persino la propria malvagità, a coloro che sono diversi. “Se io sono una canaglia, dovresti
esserlo anche tu”: su questa logica si fanno le rivoluzioni». L’anarchico, come anche il socialista,
attribuisce la causa del proprio «trovarsi male» ad altri, a differenza del
cristiano che - dice qui Nietzsche - la attribuisce a se stesso. Ma ciò che di «comune» vi è tra
l’anarchico e il socialista, da un lato, e il cristiano, dall’altro - e si tratta di qualcosa di «indecoroso»
- è che, per gli uni e per l’altro, «qualcuno deve essere colpevole della sofferenza - sta insomma nel
fatto che il sofferente prescrive a se stesso, contro il suo dolore, il miele della vendetta»69. Qui,
come in molti altri luoghi, Nietzsche rappresenta il cristiano come un uomo che colpevolizza se
stesso per la propria sofferenza: il cristiano ha interpretato la propria sofferenza come effetto di una
propria colpa, come punizione per una propria colpa - come espiazione. L’autocolpevolizzazione ha
portato il cristiano a conciliarsi con la sofferenza della propria esistenza, ad accettarla, anzi a volte a
cercarla, a cercare di procurarsela, - così come la colpevolizzazione dell’altro (degli esseri «forti» o
«sani»), della quale, pure, il cristianesimo (o anche il cristianesimo) è stato promotore, è servita a
riequilibrare il rapporto di potenza sbilanciato con i «forti» o i «sani», che, per il debole, risulta
fonte di sofferenza e frustrazione. In realtà, colpevolizzazione dell’altro e autocolpe
volizzazione assolvono, nel cristiano, il compito di risolvere, in qualche modo, il problema della sua
sofferenza: o attraverso la sua giustificazione (perché Nietzsche ha anche scritto che l’uomo accetta
pure la sofferenza purché essa sia giustificata, provvista di un «senso»: quel che non accetta è la
sofferenza ingiustificata, sprovvista di senso, assurda70) o attraverso un tentativo di rimozione della
sua causa (rapporto sbilanciato con gli esseri giudicati superiori). La convergenza, in particolare, tra
cristiani e socialisti è espressa anche in un brano come il seguente:
anche quando il cristiano condanna, calunnia, insozza il «mondo», lo fa sulla base dello stesso
istinto da cui prende le mosse l’operaio socialista per condannare, calunniare, insozzare la società:
perfino il
«giudizio finale» è ancora il dolce conforto della vendetta (der süsse Trost der Rache) - è la
rivoluzione, come se l’aspetta anche l’operaio socialista, soltanto pensata un po’ lontana... Lo stesso
«al di là» - a che scopo un al di là, se non fosse un mezzo per insozzare l’al di qua?71
Si è poco fa richiamato il collegamento, sul quale Nietzsche molto insiste nella sua riflessione, tra
cristianesimo e morale della colpevolizzazione. In effetti, Nietzsche fa risalire il cristianesimo in
quanto morale della colpevolizzazione e della punizione non a Gesù, ma ai suoi discepoli e seguaci,
prima di tutto a Paolo72, e alle «prime comunità cristiane»73. Gesù era stato, come
Nietzsche ripetutamente sottolinea nell ’Anticristo, del tutto estraneo alla logica del «giudizio», alla
logica della colpevolizzazione e della punizione. La «fede», che con Gesù si afferma (in ogni caso
«Non è una “fede” a distinguere il cristiano: il cristiano agisce, si distingue mediante un agire
diverso»74), «non si sdegna, non rimprovera, non contrasta: non porta la “spada” - non presagisce
affatto fino a che punto potrebbe un giorno arrivare a dividere»75. Il cristiano (ma per Nietzsche «in
fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce»76).
non oppone alcuna resistenza né a parole e neppure nel suo cuore a colui che è malvagio verso di
lui. Non fa differenza tra gli stranieri e la sua gente, tra Ebrei e non Ebrei [...] Non va in collera
contro nessuno, non tiene in dispregio nessuno. Non si fa vedere nei tribunali, né si lascia chiamare
a giudizio («non giurare»). In nessun modo, neppure nel caso
di una provata infedeltà della sua donna, si separa dalla sua donna77.
\
Gesù «ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione [...] Ciò
che fu liquidato con
l’Evangelo, fu l’ebraismo delle nozioni di “peccato”, “remissione dei peccati”, “fede”, “redenzione
mediante la fede” - l’intera dottrina ebraica era negata nella “buona novella”»78.
Dopo la sua morte, avvenuta sulla croce, «in generale [...] riserbata esclusivamente alla canaglia», i
discepoli si interrogarono sul suo significato: «In lui tutto doveva essere necessario, tutto doveva
avere un senso, una ragione, una suprema ragione: l’amore di un discepolo non conosce il caso»79.
Per comprendere il significato di quella morte, si cercò di capire chi avesse ucciso Gesù. Si arrivò
alla conclusione che ad uccidere Gesù era stato «l’ebraismo dominante, la sua classe più elevata»:
Da questo momento ci si sentì in rivolta contro l’ordine, più tardi si vide in Gesù un ribelle contro
l’ordine. Fino ad allora era mancato alla sua immagine questo tratto bellicoso, questo tratto
negatore nella parola e nell’azione; di più ancora, esso ne era la sua stessa contraddizione. La
piccola comunità non ha evidentemente compreso proprio la cosa principale, quel che v’era di
esemplare in questa maniera di morire, la libertà, la superiorità su ogni sentimento di ressentiment:
un indice, questo, di quanto poco essa comprese di lui! In sé, con la sua morte, Gesù non potè
volere null’altro, se non dare pubblicamente la prova più forte, la dimostrazione della sua
dottrina .. .Ma i suoi discepoli erano lontani dal perdonare questa morte - il che sarebbe stato
evangelico nel senso più alto; o dall’offrirsi a una simile morte addirittura con una mite e soave
placidità nel cuore ...Tornò nuovamente a galla proprio il sentimento meno evangelico, la vendetta.
Impossibile che la faccenda potesse concludersi con questa morte: si aveva bisogno di una
«riparazione», di un «giudizio» (- eppure che altro può essere meno evangelico della «ritorsione»,
del «castigo», del «sottoporre a giudizio?). Ancora una volta venne in primo piano l’attesa popolare
di un messia; si prese di mira un momento storico: il «regno di Dio» viene per giudicare i suoi
nemici80.
Ci si chiese anche, infine, come Dio avesse potuto permettere tutto ciò.
A questo la turbata ragione della piccola comunità trovò una risposta di un’assurdità addirittura
spaventosa: Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto in bianco la
fine del Vangelo! Il sacrificio espiatorio, e proprio nella sua forma più ripugnante e più barbara, il
sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante paganesimo! - Gesù aveva
abolito precisamente la nozione di «colpa» - egli ha negato ogni frattura tra Dio e uomo, ha vissuto
questa unità di Dio e uomo come la sua «lieta novella»... E non come privilegio!81.
6. La morale al di là della colpa
In alcune pagine di Genealogia della morale dedicate al significato, anzi ai significati, che
storicamente sono stati attribuiti alla pena, Nietzsche si sofferma sul «rimorso», sul «sentimento
della  colpa», sulla «cattiva coscienza», che, secondo la «coscienza popolare», sarebbero indotti
dall’azione penale in coloro che di tale azione sono oggetto e nei quali consisterebbe il significato
più rilevante della azione penale82. Ma, nota Nietzsche,
L’autentico rimorso è qualcosa di estremamente raro proprio tra delinquenti e galeotti [...] Secondo
una considerazione di massima, la pena indurisce e raggela; concentra; acuisce il senso di
estraneità; rinsalda la forza di resistenza83.
Il rimorso, d’altra parte, per Nietzsche, è solo un nome che indica qualcosa di diverso da ciò che è
realmente in gioco: colui che «prova rimorso», in realtà, non disapprova affatto in se stessa l’azione
commessa, non la disapprova in quanto in sé ingiusta, ma rimprovera se stesso in quanto non è stato
capace di condurla in porto senza incappare nella rete del sistema punitivo. Egli si rimprovera di
non essere stato in questo senso sufficientemente abile, accorto, attento. Nietzsche spiega il concetto
di rimorso rifacendosi a Spinoza, il filosofo che «aveva confinato bene e male tra le immaginazioni
umane», restituendo il mondo a «quella innocenza, in cui si trovava prima che fosse escogitata la
cattiva coscienza»84. Egli cita la definizione spinoziana del «morsus conscientiae» come «tristezza
accompagnata dalla rappresentazione di un fatto trascorso che ha avuto un esito contrario a ogni
aspettativa»85. Nietzsche commenta:
I rei di malefatte, raggiunti dalla pena, hanno per millenni avvertito il loro «fallo» in maniera
diversa da Spinoza: «Inaspettatamente, a questo punto, qualcosa è andato storto», non già: «Questo
non avrei dovuto farlo» [...] Se mai vi fu allora una critica dell’azione, fu l’accortezza a esercitare
una critica sull’azione; indubbiamente, dobbiamo cercare il caratteristico effetto della pena
soprattutto in un aguzzarsi dell’accortezza, in un prolungarsi della memoria, in una volontà di
mettersi d’ora innanzi all’opera con più cautela, con più diffidenza, con più segretezza, visto che per
molte cose si è decisamente troppo deboli, in una specie di rettifica del proprio giudizio su se
stessi. Ciò che con la pena può complessivamente essere raggiunto nell’uomo e nell’animale è
l’aumento della paura, l’aguzzarsi dell’accortezza, il dominio dei desideri: in tal modo la pena
ammansisce l’uomo, senza farlo tuttavia «migliore» - si potrebbe, a maggior diritto, affermare il
contrario86.
Dunque: 1) la pena non induce il reo al rimorso e 2) il rimorso, il cosiddetto rimorso, è solo
disappunto verso se stessi per non
essere stati sufficientemente validi sul piano tecnico, operativo, nello svolgimento di una
determinata azione. In particolare, l’idea che il rimorso sia solo questo disappunto vale come
constatazione empirica di reazioni comunemente manifestate dagli uomini di fronte al fallimento di
una loro azione, di fronte, per la precisione, al fallimento della loro azione rappresentato da qualche
forma di punizione cui vanno incontro per la azione da essi compiuta (per il «male» che hanno
fatto). Nietzsche, infatti, abbiamo visto, in queste pagine di Genealogia della morale accenna alla
possibilità di un «autentico rimorso»: «tra delinquenti e galeotti», ad essere «estremamente raro» è l'
«autentico rimorso». Quanto dire che c’è un rimorso falso e c’è un rimorso vero: almeno «tra
delinquenti e galeotti», il rimorso vero è molto raro. Quando cita Spinoza a proposito del rimorso,
tuttavia, Nietzsche mostra di credere che il rimorso è sempre qualcos’altro da ciò che
apparentemente è: esso è qualcosa di diverso da un sentimento morale, il rimorso è solo
una maschera morale: il rimorso è sempre falso. La critica al rimorso, cioè al sentimento di colpa,
alla cattiva coscienza, è, qui, critica alla maschera che rimorso, sentimento di colpa,
cattiva coscienza sono. Ma la critica al sentimento di colpa ha, in Nietzsche, anche altre ragioni.
La colpevolizzazione di sé o degli altri è, sappiamo, per Nietzsche, esercizio di crudeltà. È qui
un’altra ragione della critica nietzscheana al concetto di colpa. A parte ciò, la colpevolizzazione è,
per Nietzsche, in ogni caso, frutto di un errore, di una illusione: l’illusione della libertà dell’uomo.
Da questo lato, la critica della colpevolizzazione è la critica della illusione della libertà dell’uomo.
Vedendo la questione sotto questo aspetto, si deve dire che, per Nietzsche, l’esercizio della
colpevolizzazione non ha alcun fondamento teorico di legittimità. Non si può colpevolizzare altri o
se stessi perché si fa quello che non si può non fare: se si è agito in un certo modo, è perché non si
poteva agire che nel modo in cui si è agito. Nietzsche fa qui valere una concezione dell’uomo
fondata sulla categoria della necessità. L’uomo non è quell’agente assolutamente libero (non
necessitato), che ha rappresentato, aU’intemo di una certa tradizione morale, il presuppo-
sto del sentimento di colpa e della pratica della colpevolizzazione. All’interno di tale tradizione, la
coscienza del male commesso ha preso la forma del sentimento di colpa, del sentimento di una
propria colpa individuale: il peso del male commesso ricade interamente sulle spalle di chi lo
commette ovvero si ritiene che a commettere il male sia, ogni volta, un individuo ben determinato
nella sua assoluta libertà.
Ci si può chiedere se la critica e il rifiuto del concetto di colpa significhi, in Nietzsche, rigetto di
ogni criterio morale, rigetto in assoluto di una coscienza morale, liquidazione della idea che
esistono modi d’essere morale e modi d’essere immorali. Per rispondere a questa domanda, ne
poniamo un’altra. Vi può essere coscienza morale senza il sentimento di una propria colpa
individuale per il male eventualmente commesso? Per quel che riguarda il problema della coscienza
morale, la posizione nietzscheana si definisce, forse, nello spazio aperto da questa domanda.
Una concezione come quella nietzscheana respinge l’idea dell’uomo colpevole in quanto respinge,
come si è detto, l’idea dell’uomo come agente libero, che, nella sua libertà, sceglie di fare il male.
Si potrebbe, tuttavia, pensare che una concezione di questo tipo, che nega la fondatezza teorica dei
concetti di colpa e di colpevole, possa coabitare con la affermazione di una coscienza morale come
coscienza del bene e del male, come coscienza che c’è il bene e c’è il male, come coscienza che
riconosce che si è (eventualmente) fatto il male (perché costretti da qualche forma di necessità) e
per la quale ci si impegna, conseguentemente, a intervenire su se stessi per non più ripetere il male.
Si tratterebbe di una concezione per la quale, in breve, vi sarebbe il male senza che vi sia un
colpevole del male. Che cosa farebbe l’uomo consapevole del male da lui commesso e che, tuttavia,
non considera se stesso, per questo, individualmente colpevole? Possiamo anche pensare che
l’uomo, che ha fatto il male ed è consapevole di averlo fatto, soffra per il male commesso Ma, se
soffre, ciò accade per il semplice fatto che del male è stato commesso: egli non soffre anche perché
si senta soggettivamente coinvolto come colpevole per il male prodotto (il male, in questa
prospettiva, è, in realtà, stato prodotto dalla necessità, da una serie di elementi
fra loro legati da rapporti causali necessari). Egli soffrirebbe per il male da ‘lui’ commesso e si
impegnerebbe, per quello che può, su di sé agendo, affinché quel male non si determini più
(affinché si determini una differente serie di rapporti causali necessari che impedisca il prodursi di
quel male). È, quella nietzscheana, una visione di questo tipo? Forse sì. In ogni caso c’è, in
Nietzsche, in effetti, la indicazione di una morale, Nietzsche parla di una sua morale87, diversa da
quella tradizionale, parla di una giustizia diversa da ciò che tradizionalmente si è inteso con questo
termine. Egli critica e respinge una certa morale o certe morali ed elabora e propone un’altra
morale. Egli afferma una morale, ma -punto decisivo - libera la coscienza morale da qualcosa che è
stato fondamentale nella morale tradizionale e senza di cui era difficile che potesse pensarsi
qualcosa come la morale: il sentimento di colpa, il sentimento di una propria colpa individuale. La
differenza tra morale tradizionale e morale nietzschena consiste, a parte i differenti presupposti e
contenuti dell’una e dell’altra, nel fatto che, nella morale tradizionale, tra coscienza morale e
sentimento di colpa c’è un legame che, nella morale nietzscheana, non c’è più perché la coscienza
morale, in Nietzsche, viene liberata dal concetto di colpa.
4. Diffusione e fenomenologìa della crudeltà
Numerosissimi sono i luoghi, in cui Nietzsche si occupa del tema della volontà del male. Al di là dei
singoli luoghi che affrontano, secondo prospettive differenti o in rapporto ad aspetti differenti, il
tema, vi è, in particolare, un’ opera come Genealogia della morale, che può essere considerata una
specie di ‘trattato’ sulla crudeltà - sulla crudeltà in quanto fondamento della storia dell’uomo sino
ad oggi. Al di là dei singoli luoghi tematizzati sulla crudeltà disseminati lungo l’intera opera
nietzscheana - e come
elemento che spiega l’assai frequente richiamarsi di Nietzsche al tema - vi è appunto la valutazione
nietzscheana della crudeltà in quanto è tale fondamento. Molteplici sono, si è appena detto,
gli aspetti secondo i quali Nietzsche analizza il fenomeno della volontà del male, molteplici le
circostanze nella quali il suo esame vede all’opera tale volontà nel comportamento e nel
pensiero del’uomo. Egli scrive:
gli uomini traggono molto godimento dalla crudeltà, che è il più comune di tutti i diletti, per quanto
si dica tutto il male possibile di una persona «crudele»!88
La crudeltà è atteggiamento così radicato nell’uomo che la stessa critica della crudeltà è esercizio di
crudeltà. Dalla analisi nietzscheana della crudeltà emerge, da un lato, la estrema diffusione della
disposizione crudele dell’uomo della civiltà superiore, dall’altro, la assai articolata fenomenologia
che tale disposizione presenta:
Si getti uno sguardo nel retroscena di ogni famiglia, di ogni corporazione, di ogni comunità:
ovunque la battaglia dei malati contro i sani - una battaglia silenziosa, per lo più con piccole polveri
avvelenate, con punture d’aghi, con insidiosa mimica-da-martiri-rassegnati, e talora anche con quel
fariseismo-da-malati dall’accentuato gestire, che ama moltissimo la commedia della «nobile
indignazione»89.
In un frammento del 1881, nel quale parla della «storia della crudeltà» come di una «grande storia»,
Nietzsche annota, a titolo di esemplificazione:
I cristiani nel loro comportamento verso i pagani; i popoli verso i loro vicini e avversari; i filosofi
verso persone di altra opinione; tutti i liberi pensatori; i giornalisti; tutti coloro che vivono in
disparte, come i santi. Quasi tutti gli scrittori. Perfino nelle opere d’arte vi sono certi trat-
ti dovuti al fatto che si prendono di mira i concorrenti [...] Così pure tutte le volte che si ride, così la
commedia ...90.
Ancora un frammento del 1881, in cui c’è il riferimento anche alle forme dissimulate della crudeltà:
Storia della crudeltà; della dissimulazione; del piacere di uccidere (quest’ultimo nella distruzione di
opinioni, nel giudizio su opere, persone, popoli, passato - il giudice è un carnefice sublimato)91.
Una delle forme, in cui la volontà del male può comunemente manifestarsi, è la richiesta di
compassione da parte di coloro che si trovino a vivere qualche condizione di debolezza, sofferenza,
infelicità e che dalla sofferenza, da loro negli altri provocata (in forma di compassione), ricevono il
segno di avere ancora una forza, la forza di far male. Nietzsche critica l’idea di La Rochefoucauld
che «gli infelici sono così sciocchi, che l’attestazione della compassione costituisce per loro il più
gran bene del mondo» e ritiene si debba essere più severi di quanto non lo sia stato il moralista
francese nella critica del «bisogno» di compassione che gli infelici mostrano: quel bisogno va
visto non «come stupidità e carenza intellettuale, come una forma di turbamento», ma «come
qualcosa di totalmente diverso e più sospetto»:
Si osservino piuttosto i bambini, che piangono e strillano allo scopo di essere compassionati, e che
perciò aspettano il momento in cui il loro stato può essere notato; si viva a contatto con malati e
persone spiritualmente oppresse - e ci si domandi se l’eloquente lamentarsi e gemere, il mettere in
mostra l’infelicità non persegua in fondo lo scopo di far male ai presenti: la compassione che poi
questi attestano, in tanto è una consolazione per i deboli e i sofferenti, in quanto questi riconoscono
da essa di avere per lo meno ancora una forza,
nonostante tutta la loro debolezza: la forza di far male (die Macht, wehe zu thun)92.
In generale, la volontà di rendere altri partecipi delle nostre sofferenze non è che crudeltà e, più
precisamente, una forma di vendetta (vendetta di chi soffre nei confronti di chi non soffre e per il
fatto che non soffre):
Far partecipare alle nostre pene e preoccupazioni più gravi altri che non le hanno e che ne traggono
solo sofferenza: non è crudele? Ciò non è forse derivato da quel sentimento che, ogni qual volta
siamo colpiti da una disgrazia, vuol vedere qualcuno soffrire, ed è una sottile emanazione della
vendetta?93
«E dunque», prosegue Nietzsche nel frammento dal quale è tratto il brano appena riportato, «il
matrimonio e l’amicizia non sono pieni di pericoli, perché facilitano questa crudeltà della
traslazione del dolore? È difficile non comunicare un dolore - dunque dovremmo negarcene
l’occasione, e vivere in solitudine»94.
D’altra parte, come si è visto, la crudeltà era atteggiamento diffuso anche nelle prime comunità
umane o, almeno, lo era quasi quanto lo erano le sue gioie, se è vero che, per la «più antica
umanità», la crudeltà era «commista come ingrediente quasi a ognuna delle sue gioie»95. A
proposito delle più antiche comunità umane si è anche visto come esse costruissero gli stessi dei
come esseri crudeli. Ma, al di là delle divinità delle prime comunità umane, crudele è anche un dio
concepito - è il caso, per esempio, secondo Nietzsche, del dio cristiano - come «onnisciente e
onnipotente, e che non provvede neppure a che la sua intenzione venga compresa dalle sue
creature», un dio che «lascia persistere innumerevoli dubbi e scrupoli per interi millenni, come se
essi non fossero pericolosi per la salvezza
dell’umanità, e che tuttavia mette ancora in evidenza le spaventose conseguenze di un cadere in
errore riguardo alla verità», un dio che possiede la verità e osserva «come l’umanità si tormenta
disperatamente per essa»96. Crudele è un tale dio, a meno che non si pensi che egli non possa
esprimersi più chiaramente, più comprensibilmente per l’uomo (ciò che, però, inficierebbe il
principio della sua onnipotenza): se così fosse, se fosse caratterizzato da questo limite, il dio
sarebbe un dio di sofferenza (soffrirebbe per la sofferenza dell’uomo), non un dio di crudeltà97.
Secondo Nietzsche, Pascal “aveva subodorato una immoralità nel «Deus absconditus e nutriva la
più grande vergogna e timore di confessarselo»: per questo egli fu assai «eloquente» «Intorno al
“nascosto Iddio” e alle ragioni di tenersi nascosto e di rivelarsi sempre soltanto a metà con la
parola»: Pascal, «come uno che ha paura, parlava più forte che poteva»98.
Ed è sempre nel segno della crudeltà che, per Nietzsche, si definisce «il carattere degli europei»,
come si può ricavare dal loro «rapporto con l’estero, nell’attività colonizzatrice: estremamente
crudele»99. Infatti «gli europei si tradiscono per il modo come hanno colonizzato»100: «il modo
come l’europeo ha fondato colonie dimostra la sua natura di animale da preda»101.
In un luogo, Nietzsche rappresenta, in rapida successione, una serie di situazioni differenti, per
molti aspetti assai distanti tra loro e che sembra, anzi, non abbiano niente a che fare l’una con
l’altra, tuttavia accomunate appunto dall’elemento della crudeltà come elemento che le caratterizza
in maniera fondamentale. Le situazioni rappresentate, relative a vari momenti della storia della
«civiltà superiore» (segnata, come si è visto,
da una sempre crescente spiritualizzazione della crudeltà, ma che non ha preso assoluto congedo da
forme di crudeltà fisica), sono situazioni di crudeltà fìsica e di crudeltà «spiritualizzata», di crudeltà
(fisica o spirituale) rivolta contro gli altri e di crudeltà (fisica o spirituale) rivolta contro se stessi,
giacché, per Nietzsche, - e anche questo fa parte dell’«aprire gli occhi» sulla crudeltà, al quale,
come si è visto, Nietzsche sollecita -, «occorre sbarazzarsi senz’altro della balorda psicologia di una
volta, che intorno alla crudeltà null’altro sapeva insegnare se non che essa nasce alla vista delle
sofferenze altrui»102. Osserva, dunque, Nietzsche:
Quel che costituisce la tormentosa voluttà della tragedia è la crudeltà; quel che nella cosiddetta
compassione tragica, e persino, in ultima analisi, in ogni moto sublime, sino ai più alti e delicati
brividi della metafisica, determina un’impressione gradevole, riceve la sua dolcezza (Sussigkeit)
soltanto dall’ingrediente della crudeltà che vi è commisto. Quel che il romano assapora nell’arena, il
cristiano nelle estasi della croce, lo spagnuolo alla vista dei roghi e delle corride, il giapponese
di oggi, quando fa ressa per assistere alla tragedia, l’operaio dei sobborghi parigini, con la sua
nostalgia di sanguinose rivoluzioni, la wagneriana, che nella sospensione della sua volontà
«soggiace» al Tristano e Isotta - ciò che tutti costoro assaporano e cercano sono i filtri aromatici
della grande Circe «crudeltà»103.
D’altra parte,
esiste un copioso, esorbitante piacere anche dei propri dolori, del proprio farsi-soffrire - e tutte le
volte che l’uomo si lascia persuadere all’autonegazione in senso religioso o all’automutilazione,
come accade tra i Fenici e gli asceti, o in generale a fuggire i sensi, a disincarnarsi, alla contrizione,
alle convulsioni penitenziali dei puritani, alla vivisezione della coscienza e al pascaliano sacrifizio
dell’intelletto, è la sua crudeltà ad attirarlo e incalzarvelo segretamente, è quel pericoloso brivido di
una crudeltà rivolta contro se stesso. Si consideri,
infine, che anche l’uomo della conoscenza, allorché costringe la sua mente a conoscere in contrasto
con l’inclinazione della mente e abbastanza di frequente anche contro i desideri del suo cuore - cioè
a pronunciare un no, laddove vorrebbe affermare, amare, adorare -, esercita il suo potere come
artista e come trasfiguratole della crudeltà; già ogni prendere le cose in profondità e alle radici è un
atto di violenza, una volontà di far soffrire diretti contro quel fondamentale volere dello spirito che
mira incessantemente all’apparenza e alla superficie - già in ogni volontà di conoscenza c’è una
goccia di crudeltà104.
In un frammento della primavera del 1884, Nietzsche elenca alcuni princìpi (precisamente sette),
che rappresentano i punti o alcuni dei punti fondamentali della sua concezione filosofica. Uno di
questi principi (il terzo) è il seguente:
Il coraggio nella mente e nel cuore è ciò che contraddistingue noi uomini europei: conquistato nella
lotta tra molte opinioni. Massima duttilità, nella lotta contro religioni diventate cavillose, e un duro
rigore, anzi crudeltà. La vivisezione è una prova: chi non la sopporta non è dei nostri105.
Proprio perché esiste un rapporto tra conoscenza e crudeltà, Nietzsche scrive che
uomini malvagi e malfamati possono rendere segnalati servigi alla conoscenza morale, a condizione
che, in generale, abbiano abbastanza spirito e intelletto per trovar piacere nella conoscenza106.
Infatti, per realizzare delle effettive conoscenze in campo morale occorre il possesso di determinate
qualità, che più facilmente posseggono gli uomini malvagi e malfamati che non gli uomini «buoni»:
la «debolezza» e «arrendevolezza» dell’uomo «buono», «la sua mancanza di diffidenza, il suo voler
distogliere lo sguardo, il suo non voler veder chiaro, il suo timore di far soffrire, necessaria
conseguenza di ogni dissezione della
carne e dello spirito, sono altrettanti pericoli per la conoscenza morale»107. In particolare notiamo
del brano l’osservazione che la conoscenza in campo morale determina anche effetti di sofferenza,
che l’uomo «buono» non riesce a sostenere. Proprio per gli effetti di sofferenza prodotti dalla
conoscenza morale, l’uomo malvagio, l’uomo che trova il proprio piacere nel procurare sofferenza
agli altri o anche a se stesso, può trovare, al contrario, nella conoscenza dei fatti morali, o nella
diffusione di tale conoscenza, motivi o occasioni per soddisfare il proprio gusto crudele. Del resto,
«una persona, per il fatto di essere malfamata e messa al bando dal gregge» (come accade
all’uomo malvagio), «è anche esonerata da quell’ipocrisia che fa parte dei doveri primi della
coscienza gregaria»108, ipocrisia che impedisce di vedere le cose della sfera morale secondo
verità. È da notare, d’altra parte, che, per Nietzsche, non solo l’uomo malvagio, purché trovi piacere
nella conoscenza, può arrecare servigi alla conoscenza morale, ma la scienza in generale non può
procedere se in essa non siano «continuamente» operanti, «in dosi delicate», elementi come
«ostilità, diffidenza, vendetta, spirito di contraddizione, astuzia, sospettosità; questo elemento di
cattiveria si riscontra sempre nel coraggio, nell’equità, nella άταραξία della scienza»109. In un
frammento Nietzsche rileva la sublimazione della crudeltà in volontà conoscitiva: «In che senso noi
oggi, come uomini della conoscenza, ci serviamo di tutti i nostri istinti malvagi e siamo ben lungi
dal desiderio di stringere un patto tra virtù e conoscenza. Tutti gli istinti malvagi sono diventati
intelligenti e curiosi, scientifici»110.
Il rapporto tra «intelletto» e crudeltà presenta, in Nietzsche, anche un altro aspetto - oltre quello
degli effetti di conoscenza
che una disposizione crudele può produrre, per esempio nell’ambito della conoscenza morale. È
l’aspetto consistente nella reciproca relazione tra «raffinamento» dell’«intelletto» e «raffinamento»
della «cattiveria»: «Il raffinamento dell’intelligenza affina anche la nostra cattiveria, e il piacere
dell’intelletto finisce per procurarci anche il piacere per la cattiveria raffinata degli altri. Vi è
progresso nel grado in cui l’uomo può sopportare la cattiveria senza soffrire»111. Quanto più il
nostro intelletto si raffina tanto più raffinate sono le nostre cattiverie, tanto più, inoltre, siamo in
grado di provare piacere per la cattiveria raffinata degli altri. Il frammento citato suscita alcune
domande e problemi, che ci limitiamo a formulare. Che cos’è il «piacere dell’intelletto»? Vi entra
come suo elemento costitutivo qualche forma di crudeltà o è qualcosa di distinto da essa?
Nella parte finale del frammento, relativa al «progresso» rappresentato dalla capacità di sopportare
la cattiveria senza soffrire, Nietzsche si riferisce a qualche causa particolare del superamento di tale
sofferenza? Si può pensare, infatti, che si arrivi a soffrire sempre meno della cattiveria per una
accresciuta indifferenza nei suoi confronti o per un raggiunto sentimento di superiorità verso di essa
o perché si perviene alla considerazione che coloro, che mettono in atto qualche cattiveria, non sono
responsabili di quel che fanno o per qualche altra ragione ancora. E il progresso, di cui Nietzsche
qui parla, è semplicemente nella crescente capacità, comunque conseguita, di soffrire sempre meno
della cattiveria o nella crescente capacità di soffrire sempre meno della cattiveria sulla base di
motivi determinati (per esempio qualcuno di quelli appena accennati)?
Un aspetto del fenomeno della crudeltà sottolineato da Nietzsche è il rapporto fra crudeltà e
orgoglio. La crudeltà è un modo in cui a volte l’uomo esprime il proprio orgoglio o in cui riafferma
il proprio orgoglio quando esso sia stato in qualche modo ferito. Infatti, «La crudeltà è la medicina
dell’orgoglio
ferito»112. È il caso di chi, tremando per qualcosa, «si vendica su chi la fa tremare. Avere davanti a
sé l’oggetto del passato timore e ora infliggergli perfino le umiliazioni peggiori e le maggiori
sofferenze è per l’orgoglioso motivo di massimo piacere»; è il caso di «Tutti i forti che spezzano se
stessi e si sottomettono a una legge»; è il caso di «Tutte le persone misconosciute, umiliate,
annoiate», le quali «sono crudeli», perché «il loro orgoglio è continuamente ferito»; è il caso dei
«deboli», i quali “sono crudeli, proprio perché pretendono la compassione altrui. Cioè: esigono che
anche gli altri soffrano quando loro soffrono e sono «deboli»; è il caso degli artisti, che
«vogliono con tutti i mezzi che le loro esperienze vissute abbiano ed esercitino il loro violento
potere, che le loro sofferenze diventino le nostre!»; è il caso dei «predicatori di penitenza, i quali
assaporano tutta la seduzione demoniaca e assillante delle loro prediche proprio quando disprezzano
pubblicamente la grande potenza, quando vogliono costringere i potenti e i nobili alla stessa
costrizione e astinenza degli infimi: questa crudeltà dell’orgoglio è senza confronti!»113.
Ma vi sono altri aspetti ancora del fenomeno della crudeltà messi in luce da Nietzsche.
Egli sottolinea il carattere «propulsivo» nei confronti dell’attività dell’uomo che, in ogni caso, una
«azione cattiva» riveste: «Si sottovaluta il valore di un’azione cattiva, se non si calcola
anche quante lingue essa fa muovere, quanta energia scatena, e quanti uomini induce alla riflessione
o all’esaltazione»114.
Egli nota, inoltre, la consustanzialità, per così dire, del sentimento della vendetta ad ogni atto di
accusa che l’uomo muova sia contro gli altri che contro se stesso:
Nessuno accusa senza avere il pensiero recondito della punizione e della vendetta - anche quando si
accusa la propria sorte, anzi se stessi.
Ogni lamentarsi è accusare, ogni allietarsi è lodare: che facciamo l’una o l’altra cosa, ne rendiamo
sempre responsabile qualcuno115.
Così, ancora, l’indagine anche psicologica, che sul fenomeno conduce, porta Nietzsche alla
osservazione che un riflesso del sentimento della vendetta si può cogliere nello «sguardo» di un
determinato tipo di persone in determinate circostanze:
Le stesse persone che posseggono il giuoco naturale dello sguardo in cerca di favore e di
protezione, di solito hanno anche, in conseguenza delle loro frequenti umiliazioni e dei loro
sentimenti di vendetta, lo sguardo impudente116.
Ancora: Nietzsche rileva come l’esercizio della crudeltà si basi sulla credenza erronea nella
responsabilità dell’uomo (ciò, almeno, a partire da un certo momento della storia umana: come si è
accennato, quella della responsabilità è un’idea che compare tardi nel corso di questa storia): «Le
azioni malvagie si fondano su errori, per esempio la vendetta, sulla credenza nella responsabilità;
così pure la crudeltà, in quanto trionfo della potenza»117.
5. Il fondamento del fondamento: la volontà di dominio
Per quanto Nietzsche - come si è visto - presenti, in maniera esplicita, la crudeltà, nella sua forma
spiritualizzata, come ciò che, in una «accezione significante», «costituisce» la civiltà superiore -
come il fondamento di tale civiltà - e presenti, se non altro di fatto, la crudeltà come fondamento
anche della storia che precede l’avvento della civiltà superiore, è anche vero
che, in diversi luoghi e momenti della sua riflessione, egli mostra come tale fondamento (la
crudeltà) abbia, in realtà, a sua volta, un fondamento, come vi sia un fondamento del fondamento,
un fondamento di ciò che era stato indicato come fondamento: un fondamento della crudeltà.
Qual è il fondamento del fondamento, il fondamento della volontà del male? Il fondamento della
volontà del male è la volontà di dominio, una volontà di dominio variamente intesa e dispiegata118.
Possiamo fissare, a questo proposito, alcuni punti.
1) Sempre con riferimento alle comunità primitive, Nietzsche osserva che il piacere della crudeltà
era tanto più apprezzato quanto più colui che tale piacere perseguiva si trovava, all’interno
della organizzazione gerarchizzata dei rapporti sociali, in una condizio-
ne di inferiorità rispetto alla condizione di colui che egli faceva oggetto di crudeltà: l’esercizio della
crudeltà, in altri termini, è stato, in quella epoca storica, il modo in cui uomini o gruppi umani, che
vivevano una condizione di subalternità nei confronti di altri uomini o gruppi umani, potevano,
magari solo per una volta, solo per un attimo, ribaltare la propria posizione subalterna e realizzare
una posizione di dominio. Il «piacere di fare violenza» è un
piacere che come tale risulta apprezzato in misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la
condizione del creditore nell’ordinamento della società, e che può facilmente apparirgli come un
boccone prelibato, anzi come pregustazione di un rango più alto. Mediante la «pena» del debitore, il
creditore partecipa di un diritto signorile (Herren -Rechte): raggiunge altresì facilmente il
sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come un «suo inferiore» - o
quanto meno, nel caso che la vera e propria potestà punitiva, l’applicazione
di una pena sia già trapassata all’«autorità», di vederlo disprezzato e maltrattato. La compensazione
consiste quindi in un mandato e in un diritto alla crudeltà119.
2)    La morale della colpevolizzazione è spiegata da Nietzsche con la volontà dei deboli di ribaltare
la propria condizione di inferiorità nei confronti dei forti. Nei deboli affetti da risentimento nei
confronti dei forti agisce la volontà di limitare e fondamentalmente reprimere la potenza dei forti: la
crudeltà della colpevolizzazione dei forti gioca in vista di questa limitazione e repressione. A
proposito del rapporto deboli-volontà di dominio, può essere utile tenere presente una osservazione
che Nietzsche svolge in un frammento del 1880. Vi si legge: «l’inclinazione a dominare mi si è
presentata spesso come un intimo contrassegno di debolezza»: se, da un lato, i deboli «vogliono
obbedire e per ogni dove si affrettano verso la schiavitù», dall’altro, però, essi «temono la loro
anima da schiavi e l'avvolgono in un manto da re (alla fine diventano schiavi dei loro seguaci, della
loro fama, e così via)»120. Mentre i deboli perseguono il fine del dominio (e in vista di esso si
adoperano) per superare la loro opposta tendenza alla obbedienza, al contrario, «le nature potenti
dominano, questa è una necessità, e non muoveranno un dito. Anche se durante la vita si
seppelliscono in un giardino!»121.
3)    In un luogo, Nietzsche parla della volontà di sopraffazione, espressa nella «aspirazione ad
eccellere», che può realizzarsi proprio come e attraverso la volontà, perseguita da chi vuol eccellere,
di produrre negli altri, attraverso la propria eccellenza, attraverso la esibizione della propria
eccellenza, una sofferenza: egli vuole che gli altri soffrano a causa sua, soffrano della loro
inferiorità di fronte alla sua eccellenza122 (tale modalità di realizzazione della «aspirazione ad
eccellere» è
quella, come ora vedremo, propria del «barbaro»). A proposito di tale volontà di sopraffazione
Nietzsche osserva:
Esiste una lunga serie di gradi di questa sopraffazione segretamente bramata, ed un completo elenco
di essi sarebbe quasi simile a una storia della cultura, dalla prima barbarie, ancora tutte smorfie, su
su fino alla smorfia dell’estrema raffinatezza e della morbosa idealità123.
La storia dell’uomo in quanto «storia della cultura» è qui risolta quasi completamente nella storia
della volontà di sopraffazione (volontà di dominio). La storia della volontà di sopraffazione è, a sua
volta, risolta in una storia di crudeltà, se è vero che, per simbolizzare la storia della volontà di
sopraffazione, Nietzsche si serve di due figure: la figura del «barbaro» e la figura dell’«asceta», le
quali sono accomunate dalla volontà di sopraffazione, dalla «aspirazione ad eccellere»,
rispettivamente dinanzi agli altri e dinanzi a se stessi, che si realizza, alla fine, cercando di far
soffrire qualcuno: in un caso (nel caso del barbaro), l’altro da sé, nell’altro (nel caso dell’asceta), se
stessi. Scrive Nietzsche:
qui, all’estremità della scala, sta l’asceta e il martire: costui prova il supremo godimento nel
procacciarsi egli stesso, come conseguenza del suo istinto ad eccellere, proprio quel che la sua
immagine contraria, sul primo gradino della scala, il barbaro, fa soffrire ad un altro, sul quale
e dinanzi al quale egli vuole eccellere. Il trionfo dell’asceta su se stesso, il suo occhio che, vólto in
tal modo all’interiorità, vede l’uomo scisso in un essere che soffre e in un essere che fa da
spettatore, e soltanto a partire da quel momento s’affisa nel mondo esteriore per raccogliere da esso
il legno, per così dire, del proprio rogo, quest’ultima tragedia dell’istinto dell’eccellere, in cui
continua ancora ad esistere soltanto una persona che si carbonizza in se stessa, - è questa la degna
conclusione che corrisponde all’inizio: in entrambi i casi, un’indicibile beatitudine alla vista delle
torture!124
Riguardo alla volontà del male esercitata nei confronti di se stessi e al rapporto tra volontà del male
verso se stessi e volontà di dominio, ricordiamo che, in un aforisma di Umano, troppo umano,
Nietzsche analizza l’«atteggiamento di sfida verso se stessi, alle cui più sublimate manifestazioni
appartengono varie forme di ascesi». Egli scrive:
Certi uomini hanno [...] un bisogno così grande di esercitare la loro forza (Gewalt) e la loro sete di
dominio (Herrschsucht), che, in mancanza di altri oggetti o perché in altro modo la cosa non è loro
mai riuscita, essi finiscono col tiranneggiare certe parti del proprio essere, per così dire sezioni o
gradi di se stessi125.
Il violentare se stessi - l’esercizio di una crudeltà verso se stessi - appare, qui, come il mezzo per
attingere il senso di un dominio altrimenti, per se stessi, irraggiungibile.
Per Nietzsche, in ogni caso, l’uomo che violenta se stesso non è stato solo l’asceta o il martire della
tradizione religiosa. In realtà è con la fondazione dello Stato, quando gli uomini, «semianimali
felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura», furono
organizzati nella forma dello Stato, che comincia la violenza dell’uomo contro se stesso: non
potendo esercitare più, nella condizione dello Stato, la crudeltà contro gli altri uomini, l’uomo
comincia a esercitarla contro se stesso nella forma di un’autotortura, di un autorimprovero, di una
autocolpevolizzazione126. La autocolpevolizzazione, qui, altro non è, ancora, che esercizio di
crudeltà nella sola forma in cui ora essa è possibile ossia come crudeltà verso se stessi:
Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno - questo è quello che io
chiamo interiorizzazione dell’uomo: in
tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima» [...]
L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione, del mutamento, della
distruzione - tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della «cattiva
coscienza». L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenza, rinserrato in una opprimente
angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si
rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole «ammansire» e dà di cozzo alle
sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, questo essere che manca di qualcosa, che si strugge
nella nostalgia del deserto e che deve far di stesso un’avventura, una camera di supplizi, una
selva insicura e perigliosa - questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne
l’inventore della «cattiva coscienza»127.
4)    In un frammento del 1881, a proposito della volontà di dominio, della tirannia consistente
nell’«assimilare» l’altro a se stessi, Nietzsche annota la parola «crudeltà». Nel frammento si dice
così: «Già l’assimilare è: rendere uguale a se stesso, tiranneggiare, qualcosa di estraneo -
CRUDELTÀ»128.
5)    In un frammento del 1880 viene stabilita una identità tra «senso di potenza» e crudeltà: «Il
senso di potenza che solleva le persone dalla polvere, fa di trovatelli gli eredi di una famiglia, e così
via, è in tutto e per tutto equivalente alla crudeltà; e io posso fare ciò che voglio, in particolare
riguardo a coloro che se ne adirano»129.
7. La volontà del male e il futuro dell’uomo
Se il passato della storia dell’uomo appare caratterizzato, in una maniera essenziale, dalla crudeltà,
come si pongono le cose per il futuro? Come si pone, per Nietzsche, la questione della cru-
deltà relativamente all’avvenire? Non si può dire che, nel futuro così come viene prospettato da
Nietzsche, nel futuro per il cui avvento Nietzsche con la sua riflessione si muove, alla crudeltà sia
riservato il posto che il passato della storia dell’uomo ha ad essa assegnato. A parte ogni
considerazione di merito, vedendo ora il problema da un punto di vista semplicemente logico,
quale senso avrebbe il contrapporsi radicale di Nietzsche al passato dell’uomo, la sua «guerra»
contro questo passato, se egli si limitasse a prospettare, anche per il futuro, per il suo futuro, una
condizione, per l’uomo, ancora essenzialmente caratterizzata - come lo è stata la condizione passata
dell’uomo fino a oggi - dalla volontà del male quale motore ispiratore delle azioni, delle intenzioni
e delle valutazioni umane? Se il futuro prospettato da Nietzsche fosse così caratterizzato, esso
sarebbe in una continuità fondamentale con il passato, con quel passato che, per altro
verso, Nietzsche dice di voler contrastare ed effettivamente contrasta nelle sue determinazioni
essenziali. Qualcuno potrebbe pensare che Nietzsche propone solo di rendere esplicita, di non più
dissimulare ciò che - la volontà del male - in passato si è molto spesso presentato in forme
mimetizzate. Ma forse le cose non stanno propriamente così.
Al di là della argomentazione logica, c’è il fatto che Nietzsche mostra di far consistere il carattere
superiore dell’uomo o il carattere di una umanità superiore in qualcosa di diverso e, anzi, di opposto
rispetto alla volontà del male. Al riguardo possiamo osservare che il problema nietzscheano non è
quello della eliminazione dalla esistenza individuale e dai rapporti sociali del male in quanto
semplice sofferenza: né il futuro dell’uomo, quale si delinea nella riflessione nietzscheana, né il
passaggio, la transizione verso questo futuro possono essere, per Nietzsche, senza sofferenza
propria o altrui, senza che si produca, da parte di qualcuno, sofferenza in se stesso o in altri. Pensare
diversamente sarebbe far prevalere, in maniera assoluta, - e non è certo questo il caso di Nietzsche -,
il principio o il valore della compassione, che porta a fermarsi di fronte a certi sviluppi della storia
individuale e collettiva, di fronte a quegli sviluppi che appunto implicano sofferenza per se stessi o
per
gli altri130. Ma senza sofferenza, per Nietzsche, è difficile pensare di realizzare qualcosa di
significativo da parte dell'uomo. Si tratta, piuttosto, per Nietzsche, di eliminare non tanto la
sofferenza quanto la volontà di far soffrire o di veder soffrire: si tratta di eliminare la sofferenza
come fine del pensiero e dell’azione dell’uomo nel proprio rapporto con gli altri o con se stesso,
‘salvandola’ come eventuale e, in realtà, necessario mezzo non, ancora, della propria volontà di
dominio, ma della propria esistenza individuale e sociale in quanto ispirata a ‘valori’ alquanto
diversi, anzi opposti, rispetto al valore della volontà di dominio, costante o supercostante della
storia dell’uomo sino ad oggi. Nonostante Nietzsche abbia, per esempio, elogiato l’opera musicale
di Bizet fra l’altro perché in essa «finalmente» viene rappresentato «l’amore, l’amore ritradotto
nella natura!  Non l’amore di una “vergine superiore”! Nessun sentimentalismo tipo Senta! Sibbene
l’amore come fatum, come fatalità,  cinico, innocente, crudele e appunto in ciò natura! L’amore
che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è l' odio mortale dei sessi!»131; nonostante, ancora, su
un piano più generale, in un frammento in cui si parla di «volontà di crudeltà (Willen
zur Grausamkeit)» verso se stessi e verso gli altri, abbia affermato che «l’elemento diabolico
appartiene, allo stesso titolo di quello divino, al vivente e alla sua esistenza», e annotato: «IMPARARE
a godere la sofferenza ...»132; nonostante, infine, rappresenti - con ciò volendo indicare una qualità
positiva -«noi uomini europei» (lo si è visto) come uomini che sanno essere crudeli; nonostante ciò,
per quanto riguarda il problema della volontà del male in rapporto al futuro dell’uomo
nella prospettiva nietzscheana, non si possono dimenticare o sottovalutare alcuni elementi che, pure,
dalle pagine nietzscheane, con forza, emergono.
1) Un frammento dell’inverno 1879-80 dice così: «L’uomo cat-
tivo, malato, non educato è un risultato al quale bisogna precludere sopravvivenza ed azione»133.
2) Nietzsche sostiene che occorre farla finita con la «metafisica del boia», ossia con la morale
cristiana della colpevolizzazione e della punizione dal filosofo interpretata come forma di crudeltà,
alla quale si deve opporre il concetto di «innocenza del divenire»134 e una pratica a tale concetto
ispirata. Questa la esortazione che, al riguardo, Nietzsche esprime: «torniamo a cavar dal mondo il
concetto di colpa e quello di pena, e cerchiamo di purificare da essi psicologia, storia, natura,
istituzioni e sanzioni sociali»135.
Spingendo fino alle estreme conseguenze, anche per quel che riguarda il piano dei comportamenti
pratici (individuali e sociali) da tenere, il rifiuto, in particolare, della morale della
punizione, Nietzsche arriva a rigettare il principio «omeopatico» per il quale al male subito si
risponde con male agito, a un male si risponde con altro male:
Posto che qualcuno abbia avuto a soffrire per una maligna lettera anonima: la cura abituale è quella
di liberarsi della propria sofferenza arrecando dolore a qualcun altro. Noi dobbiamo smettere
questa sciocca specie di antichissima omeopatia: è chiaro che, nel caso supposto, se uno scrive
subito una lettera anonima, con la quale procura un benefìcio o una gentilezza a un altro, potrà
anche guarire della sua sofferenza136.
La risposta al male non è il male (risposta omeopatica), ma il bene.
Un esempio particolarmente significativo del rifiuto del principio omeopatico della risposta al male
con il male viene da alcune considerazioni che Nietzsche svolge intorno al modo in
cui ci si dovrebbe comportare con il «delinquente», in queste considerazioni assimilato al «malato
di mente»: egli va riguardato con «saggezza di medico, con buona volontà di medico», tenendolo
anche in custodia nel suo stesso interesse, per proteggerlo «da se stesso e da un pesante istinto
tirannico», o prospettandogli la «possibilità» e i «mezzi della guarigione (...), anche, nel peggiore
dei casi, l’improbabilità di quest’ultima», o, ancora, cancellandogli «dall’anima i rimorsi di
coscienza come qualcosa d’immondo» e dandogli «indicazioni sul modo di poter compensare e
superare il danno che egli forse ha procurato a qualcuno, mediante un beneficio reso ad un altro,
anzi, forse alla collettività. E tutto questo sia fatto con delicatezza estrema!»137. Nietzsche nota che,
invece,
colui cui è arrecato un danno vuole pur sempre, prescindendo del tutto dal modo con cui può essere,
semmai, reintegrato questo danno, prendersi la sua vendetta, e per essa si rivolge al tribunale - e
intanto tutto questo mantiene ancora in piedi i nostri orribili ordinamenti punitivi, unitamente alla
loro bilancia da bottegai e al voler controbilanciare la colpa con la pena: ma che non sia possibile
tirarsene fuori? Come sarebbe reso leggero l’universale sentimento della vita, se ci si affrancasse,
con la credenza nella colpa, anche dall’antico istinto della vendetta, e si considerasse una sottile
accortezza dei felici anche il fatto di impartire, col cristianesimo, benedizioni ai propri nemici e di
far del bene a quelli che hanno offeso! Eliminiamo dal mondo il concetto del peccato - e
spediamogli subito appresso il concetto della pena! Questi mostri messi al bando possano vivere
d’ora innanzi in un qualsiasi altro luogo invece che in mezzo agli uomini, se vogliono vivere a tutti i
costi e se non vanno in malora per il loro proprio schifo!138
La risposta al male non è il male (risposta omeopatica), ma il bene.
3) Allorquando, nella Prefazione del 1886 a Umano, troppo umano, rappresenta il processo di
liberazione dell’uomo da tutto
ciò che lo opprime e cui è incatenato («per gli uomini di specie più alta saranno i doveri») -
processo che culmina con la trasformazione dell’uomo in «spirito libero» -, Nietzsche indica solo
come una fase transitoria e segno ancora di immaturità dello spirito quella in cui l’uomo, che si
libera e nel tentativo di affermare, qui ancora maldestramente e selvaggiamente, la propria libertà,
«va girovagando con animo crudele» e «con una risata cattiva capovolge le cose che trova velate,
risparmiate da un qualche pudore»139: a questo stadio, «ancora lunga è la via per giungere [...] fino
a quella matura libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto disciplina del cuore, e che
apre la via a molti e opposti modi di pensare .. .»I40. In un frammento del 1884, dedicato alla «vie
della libertà» e dal contenuto analogo a quello della parte della Prefazione del 1886 a
Umano, troppo umano dedicata alla illustrazione del processo di liberazione dello spirito, una via
della libertà è indicata nella seguente: «rovesciare ciò che è più venerato, affermare ciò che è
più probito, la gioia maligna in grande stile, invece della riverenza»141, Ma, analogamente a quel
che Nietzsche osserva nella Prefazione del 1886 circa il carattere preparatorio, di tappa intermedia
verso la compiuta libertà dello spirito degli atti e degli atteggiamenti crudeli dell’uomo che si
rivolta contro ciò che tradizionalmente è venerato, si può dire che anche la via della libertà indicata
nel frammento del 1884, unitamente alle altre vie della libertà qui segnalate (« Tagliarsi fuori dal
proprio passato (patria, fede, genitori, compagni); avere rapporti con i reprobi di tutti i tipi (nella
storia e nella società) [...] commettere tutti i delitti; tentativo di nuove valutazioni»142), sia un modo
necessario ma ancora immaturo di affermare la propria libertà: l’uomo, che con gioia maligna si
rivolta contro tutto ciò che è stato tradizionalmente venerato, in fondo - e a parte la determinazione
solo negativa della sua libertà - assume su di
sé un carattere che proprio nella tradizione, nella storia passata in generale dell’uomo, ha avuto, di
fatto, un ruolo fondamentale: appunto la crudeltà.
4)    In un aforisma di Umano, troppo umano intitolato «Gli uomini crudeli come arretrati», la
crudeltà è presentata come qualcosa che, oggi, costituisce solo un residuo, una sopravvivenza
di epoche passa dalla storia dell’uomo: l’uomo crudele è l’uomo del passato più che l’uomo del
presente e del futuro.
Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà
precedenti: la giogaia dell’umanità mostra qui per una volta apertamente le formazioni più profonde
che rimangono di solito celate. Sono uomini arretrati il cervello, per tutti i possibili casi nel decorso
del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente. Essi
ci mostrano ciò che eravamo tutti, e ci fanno spaventare: ma essi stessi sono così poco responsabili,
quanto un pezzo di granito lo è per il fatto di essere granito. Nel nostro cervello devono trovarsi
anche solchi e piegature che corrispondono a quel modo di sentire, così come si dice che nella
forma di alcuni organi umani si trovino ricordi del nostro stato di pesci. Ma questi solchi e piegature
non sono più il letto in cui scorre attualmente il fiume del nostro sentimento143.
5)    In alcuni luoghi Nietzsche si sofferma sulla gioia per la gioia dell’altro. Di essa (e non della
gioia per la sofferenza dell’altro!) egli scrive che «è il più alto privilegio degli animali superiori e,
anche fra questi, è accessibile solo agli esemplari più eletti - cioè un raro humanum»144. La gioia
per la gioia dell’altro, del resto, fa l’amico e la gioia per la differenza che l’altro é rispetto a noi è la
definizione stessa dell’amicizia e dell’amore per Nietzsche. Ma, con ciò, si accenna a temi che
sono stati oggetto dei capitoli precedenti (terzo e quarto), ai quali, quindi, rinviamo.
7. Crudeltà come storia, crudeltà come natura, crudeltà come maieutica
Per quanto riguarda il tema della crudeltà, in Nietzsche è possibile individuare, come si è cercato di
mostrare, proposizioni che prospettano una situazione del rapporto interpersonale nella quale la
crudeltà non trova posto. Nella prospettiva, che Nietzsche presenta, di un rapporto interpersonale in
cui l’uomo gioisce della gioia dell'altro uomo (il «raro humanum» di cui Nietzsche parla), nella
prospettiva di un rapporto interpersonale inteso a valorizzare le rispettive identità di coloro tra i
quali il rapporto sussiste, non si vede come possa entrarvi qualcosa come la crudeltà. Eppure, in
Nietzsche, si leggono anche proposizioni che alludono o sembra alludano a una funzione positiva
che la crudeltà può esercitare, o anche proposizioni che alla crudeltà si riferiscono o sembra si
riferiscano come a qualcosa di connaturato all’essere umano sì che sarebbe velleitario orientare la
propria azione e il proprio pensiero verso il superamento di quello che è solo un dato naturale che si
tratta di riconoscere nella sua insuperabile fattualità. Riguardo a tale questione - riguardo alla
questione del rapporto che, alla fine, Nietzsche stabilisce con il tema e la realtà della crudeltà - sono
da fare alcune considerazioni e specificazioni, che qui di seguito presentiamo.
Relativamente al tema della crudeltà, possiamo individuare, in Nietzsche, tre tipi di proposizioni:
1) proposizioni che registrano, prendono atto della crudeltà come dato della realtà; 2) proposizioni
che apparentemente affermano la positività della crudeltà, che sarebbe, dunque, non solo un fatto da
registrare, ma anche qualcosa da conservare e proporre per il futuro in virtù di una sua utilità o
efficacia o necessità in rapporto all’esistenza dell’uomo e alle esigenze che essa manifesta (ma ciò
sarebbe in contrasto con l’idea, che in Nietzsche pure è presente, del superamento della crudeltà); 3)
proposizioni che (appunto) alludono a una situazione di superamento, da parte dell’uomo, della
crudeltà.
Delle proposizioni di cui al punto 3) già si è detto. Soffermiamoci, perciò, sulle proposizioni di cui
ai punti 1) e 2).
Per quanto riguarda le proposizioni di cui al punto 1), va fatta una ulteriore distinzione. Vi sono a)
proposizioni che registrano la crudeltà come un dato storico e b) proposizioni che registrano la
crudeltà come un dato naturale .
Nel caso a), la crudeltà appare come un dato della storia dell’uomo, un dato offerto dalla
ricostruzione della storia passata e presente dell’uomo e dei rapporti umani. Si tratta qui di prendere
atto di quel che la storia ci mostra per quanto riguarda l’uomo. Da questo punto di vista, si tratta,
per un verso, di indicare la presenza della crudeltà nella esistenza storica dell’uomo nella
varietà delle forme che la crudeltà assume e ai vari livelli in cui la esistenza umana si articola:
«Indicare dappertutto dove si trova la crudeltà, l’avidità, la prepotenza, ecc.»145, e, per l’altro, di
spiegare che cosa è la crudeltà, che cosa nella crudeltà è effettivamente in gioco (problema del
fondamento della volontà del male). Nella prospettiva storica, la crudeltà appare oggi come il
retaggio  di stadi ormai per altri aspetti superati della storia dell’uomo, nella prospettiva storica si
sottolinea che l’uomo, fino ad oggi, è stato crudele (lasciando intendere o senz’altro dicendo che,
per quanto riguarda la crudeltà, il domani potrà o dovrà riservare una situazione diversa da quella
del passato).
Nel caso b), la crudeltà appare come un dato della natura dell’uomo, come il dato di una natura
umana intesa naturalmente, cioè astoricamente. Pensieri e azioni crudeli sono la manifestazione di
tale natura. Ma qui ci si imbatte in quello che è un problema del pensiero nietzscheano, sospeso tra
riconoscimento pieno della storicità dell’essere umano e riferimento (a volte) a presunte dimensioni
naturali, astoriche dell’uomo (un problema che forse in Nietzsche non appare sempre e con
chiarezza risolto a favore dell’uno o dell’altro elemento, nonostante in lui sia molto forte il senso
della storicità dell’uomo). Da questo punto di vista, sono da ricordare alcune osservazioni
nietzscheane: ad esempio, l’osservazione che «la vita è un 'opposizione a “verità” e “bontà”»146 o
l’osservazione, contenuta in un frammento in cui si
parla della «volontà di crudeltà», «verso di noi o verso altri», che «l’elemento diabolico appartiene,
allo stesso titolo di quello divino, al vivente e alla sua esistenza»147 (stando a questa affermazione,
l’uomo sarebbe un essere per natura intimamente contraddittorio: per metà buono, per metà cattivo)
o la definizione della crudeltà come istinto148 (ma qui occorre ricordare che, per Nietzsche, gli
istinti sono anch’essi, in ogni caso, prodotto di un divenire) o la definizione dell’uomo senz’altro
come «malvagio», come «la belva più terribile per dissimulazione e crudeltà»149 (ma qui Nietzsche
potrebbe anche volersi riferire all’uomo quale finora è stato).
Per quanto riguarda le proposizioni di cui al punto 2), notiamo che c’è un Nietzsche, che si augura il
permanere dell’uomo come essere «malvagio» e per il quale la «speranza», di fronte alla
«ipocrisia» della bontà (la nostra è «l’epoca dell 'ipocrisia»), è «che l’uomo sia ancora malvagio»
150. Ma di quale malvagità, qui, si tratta? Vi è, in effetti, in Nietzsche, il riferimento a una utilità o
efficacia o opportunità o necessità del far male, agli altri o a se stessi, o dell’accettare una
condizione di sofferenza per se stessi o del lasciare altri in una tale condizione, in rapporto
alle esigenze della propria o dell’altrui esistenza: ma quel che a questo proposito è da osservare è
che qui non è in gioco, in realtà, la crudeltà nel senso stretto del termine, cioè la volontà di far
male fine a se stessa. In generale, non si tratta, in questo tipo di situazioni, di godere della
sofferenza altrui o propria e di eventualmente anche provocarla a tal fine, si tratta, invece, di non
lasciarsi frenare dalla sofferenza, altrui o propria, nel perseguimento di obiettivi che si ritiene siano
validi e importanti per se stessi o per gli altri. La propria fermezza, la fermezza, con la quale si
persegue il proprio obiettivo, pur nella condizione di sofferenza indotta negli altri o in se stessi
come conseguenza del perseguimento di tale obiettivo, può apparire a taluno come crudeltà. E
Nietzsche
stesso, con riferimento anche a situazioni di questo tipo, parla a volte di crudeltà. Ma si tratta, qui,
di qualcosa di diverso da quel che la crudeltà propriamente detta rappresenta, si tratta di qualcosa di
diverso dalla crudeltà che Nietzsche identifica come fondamento e come costante della storia
dell’uomo sino ad oggi. È, per esempio, il caso dei «filosofi dell’avvenire», nella cui opera a favore
dell’uomo Nietzsche ripone la sua fiducia e tra le cui «severe e non innocue caratteristiche» vi è un
piacere nel dire di no e nello smembrare, nonché una certa accorta crudeltà che sa usare il coltello
con sicurezza ed eleganza, anche quando il cuore sanguini. Saranno duri (e forse non sempre
unicamente contro se stessi) più di quanto uomini umanitari potrebbero augurarsi,
non praticheranno la «verità» perché essa «piaccia» loro o li «innalzi» e li «entusiasmi» - sarà
invece scarsa la loro persuasione che proprio la verità comporti tali piacevolezze per il
sentimento151.
È il caso - altro esempio - della fermezza dell’uomo di fronte alla sofferenza del proprio amico,
dalla quale non si fa deviare nel proprio compito di aiutare l’amico in qualcosa che per l’amico
stesso è bene anche se si determina, può determinarsi, a volte, solo attraverso il passaggio della
sofferenza152. È il caso -ancora un esempio - della fermezza per la quale, nel perseguire determinati
obiettivi, che potrebbero risultare positivi per l’umanità futura, non ci si ferma dinanzi alle
«prossime e più immediate conseguenze» della propria azione o della propria conoscenza,
conseguenze che possono essere rappresentate dalla sofferenza indotta, negli altri oltre che in se
stessi, dall’azione che si dispiega, dalle conoscenze che si producono153. La «crudeltà», qui, è, per
così dire, maieutica: essa è ciò che consente l’apparizione di un «bene» (del bene di qualcuno o di
tutti, degli uomini di oggi o degli uomini di domani)154.
Ove si potesse accertare che Nietzsche crede effettivamente alla esistenza di una natura umana
malvagia, si dovrebbe dire, tenendo contemporaneamente conto di quel che egli, invece, scrive sulla
gioia dell’uomo per la gioia dell’altro e sul rispetto, da parte di ciascuno, della differente identità
dell’altro, si dovrebbe dire, dunque, che per Nietzsche l’uomo è un essere in se
stesso contraddittorio: un essere insieme buono e cattivo, «divino» e «diabolico», per metà l’una
cosa, per metà l’altra. Se si dovesse,
poi, in qualche modo accertare che, in Nietzsche, è legittimato non semplicemente il fare il male,
agli altri o a se stessi (o il lasciare che il male altrui o proprio sussista) come condizioni o
effetti necessari della attuazione di qualcosa cui si annette valore, ma è legittimata la crudeltà in
quanto tale, la volontà del male propriamente intesa, si dovrebbe allora dire, tenendo
contemporaneamente conto di quel che si è appena ricordato sulla gioia per la gioia dell’altro e il
rispetto delle identità individuali, che è in Nietzsche che c’è contraddizione perché appare difficile
conciliare l’affermazione della legittimità della volontà del male con la indicazione del rapporto
interpersonale improntato alla gioia per la gioia dell’altro e al rispetto per l’altro come condizione
valida e da perseguire. Ma non sembra questa la tendenza profonda del pensiero nietzscheano. È
difficilmente sostenibile l’immagine di un Nietzsche impegnato nell’esaltazione e nella promozione
di comportamenti ispirati alla crudeltà, l’immagine di un Nietzsche impegnato nell’esaltazione e
nella promozione di comportamenti che nella volontà del male hanno il loro proprio fine
essenziale, se non unico. In Nietzsche, si trova, piuttosto, la sottolineatura del valore, come si è
detto, maieutico dell’atteggiamento di chi provoca o accetta, sopporta la sofferenza propria o altrui
come strumento, condizione, effetto dello svolgimento di azioni, della affermazioni di pensieri che
non nella produzione della sofferenza hanno il loro essenziale fine.
1 Zur Genealogie der Moral, II, 6, p, 317 (tr. it., p. 264). Jenseits von Gute und Böse, 229.
3    Zur Genealogie der Moral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264).
4    Also sprach Zarathustra, III, «Der Genesende», 2, p. 269 (tr. it., p. 266).
5    F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Parte seconda, Libro quinto, «Ribellione», p. 331.
6    Ivi, p. 330
7    Ivi, p. 334-5.
8    Ivi, p. 333.
9    Ivi, p. 330.
10    Ivi, p. 327.
11    Ibidem.
12    Ivi, p. 328. H problema della crudeltà dell’uomo, che con tanta forza emerge dalle pagine di
Nietzsche e di Dostoevskj, viene riproposto oggi, tra gli altri, da Paul Ricoeur, allorquando si
interroga sulla «malvagità dell’uomo» (P. RICOEUR, Le mal. Un défi à la philosophie et à la
théologie (tr. it., p. 13). Ricoeur in particolare osserva che la sofferenza, che la malvagità dell’uomo
provoca nell’uomo (quando è contro l’uomo che la malvagità viene diretta), è quella che, nell’uomo
che la subisce, rende massimamente acuto il sentimento di «vittima». La sofferenza, di cui l’uomo
può essere vittima, ha cause differenti: «avversità della natura fisica, malattie ed infermità del corpo
e dello spirito, afflizione prodotta dalla morte di persone care, la prospettiva spaventosa della
propria mortalità, il sentimento di indegnità personale ecc.» (ivi, p. 12). In tutti questi casi l’uomo si
sente vittima. Ma ciò che rende «più acuto» il «grido della lamentazione», che è il grido dell’uomo
che si sente vittima contro ciò che lo rende vittima, è la sofferenza provocata dalla «malvagità
dell’uomo» (ivi, p. 13). La malvagità dell’uomo (e «Fare il male è fare soffrire altri»), la «violenza»
dell’uomo è tra le cause principali della sofferenza dell’uomo: «Si sottragga la sofferenza
inflitta agli uomini dagli uomini e si vedrà ciò che resterà di sofferenza nel mondo: a dire il vero,
noi non lo sappiamo, tanto la violenza impregna la sofferenza» (ivi, p. 49) o «una tra le cause
principali di sofferenza è la violenza esercitata dall’uomo sull’uomo» (ivi, p. 13). (La osservazione
di Ricoeur secondo cui ciò che rende particolarmente insopportabile per l’uomo la propria
condizione di vittima e particolarmente acuto in lui il «grido della lamentazione» è il subire una
sofferenza da parte della malvagità dell’uomo, e non, per esempio, da una «avversità della natura
fisica» presenta qualche analogia con la osservazione di Nietzsche secondo cui «è l’impotenza
verso gli uomini e non l’impotenza verso la natura, che genera l’asprezza più disperata contro
l’esistenza»: ciò che gli uomini soprattutto non sopportano è essere «violentati ed oppressi da
altri uomini»: Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, 5(71], 9).
Nel quadro di un’analisi del tema della crudeltà su Nietzsche e Artaud, Camille Dumoulié svolge
alcune osservazioni sull’attenzione al problema della crudeltà nella filosofia e nella letteratura
moderno-contemporanee: «L’insistenza della tematica della crudeltà attraverso le opere di
Dostoevskij o Kafka, Bataille o Genet, Michaux o Mishima, l’interesse di noi contemporanei per
Sade o Lautréamont dimostrerebbero che essa appartiene certo a questa epoca del pensiero e della
storia che si è aperta con l’evento della morte di Dio, se essa non fosse la rinascita di un tema che
accompagnò un’altra apertura: quella della storia stessa, come le teogonie, le epopee, i pensatori
presocratici ne raccontano gli inizi crudeli» (C. DUMOULIÉ, Nietzsche et Artaud. Pour une éthique de
la cruauté,  P-14).
Sul problema del male, anche al di là del tema particolare, del quale qui in rapporto a Nietzsche ci
stiamo occupando, della volontà del male, cfr. H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem. A Raport on the
Banality of Evil; K. JASPERS, Die Schuldfrage; V. Jankélévitch, L’innocence et la méchancheté;
H. JONAS, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme; Forme e figure del male.
«Dopo» la teodicea; G. ZARONE (a cura di), Labirinti del male.
13    Nachgelassene Fragmente Juli 1882 bis Winter 1883-1884, 1(72] (tr. it., 23(64]).
14    Ibidem.
15    Ivi, 1(73] (tr. it., 23[66]).
16    Ivi, 1(70] (tr. it., 23[62]).
17    Ivi, 1[73] (tr. it„ 23[68]).
18    Morgenröthe, 30.
19    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[89].
20    Zur Genealogie der Moral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264).
21    Ivi, p. 318 (tr. it, p. 265)
22    Ivi, p. 317 (tr. it., pp. 264-5)
23    Ibidem (tr. it, p. 264).
24    Ivi, II, 4, p. 314 (tr. it, p. 261).
25    Ivi, II, 6, p. 316 (tr. it., p. 264).
26    Ivi, II, 4, p. 314 (tr. it., pp. 261-2).
27    Ivi, II, p. 316 (tr. it., p. 264).
28    Morgenröthe, 18.
29    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[410]. 
30 Morgenröthe, 18.
31 Zur Genealogie der Moral, II, 7, pp. 320-1 (tr. it., pp. 267-8).

32    Ivi, p. 320 (tr. it. p. 267).


33    Ivi, n, 19.
34    M. FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison (tr. it, pp. 5-34, in particolare p. 22).
35    Ivi (tr. it., p. 19).
36    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[132],
37    Ivi, 4[101],
38    Morgenröthe, 77.
39    Ivi, 53.
40    Ivi, 78.
41    Cfr. ancora M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Per quanto riguarda Nietzsche relativamente alla
questione della umanizzazione o, come egli dice, mitigazione delle pene, cfr. Zur Genealogie der
Moral, II, 10.
42    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 26[189J.
43    Zur Genealogie der Moral, II, 7, p. 319 (tr. it., p. 266).
44    Una rapida sintesi dei caratteri del debole e del forte in Nietzsche è in K. Jaspers, Nietzsche (tr.
it., pp. 281-2).
45    Zur Genealogie der Moral, III, 14, p. 387 (tr. it., p. 327).
46     Ibidem (tr. it., p. 327).
47    Ibidem (tr. it., p. 327).
48    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[114].
49    Jenseits von Gut und Böse, 219.
50    Ibidem.
51    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Der Wanderer und sein Schatten», 33.
52    Ibidem.
53   Ibidem. Nell’ambito di una indagine sull’«uso politico della crudeltà», di recente è stato
osservato: «La scelta della crudeltà si iscrive sempre nella logica di un insieme di credenze
condivise dal carnefice e dalla vittima. Voler far del male presuppone una certa perspicacia da parte
del carnefice verso il suo oggetto ed il suo programma riflette, come in uno specchio, la definizione
che
egli ha della propria vittima. Il gesto violento è meno preciso, rompe e distrugge la cosa o l’essere
nemico come ostacoli. La spirale della crudeltà vuole ottenere qualcosa in più della semplice
sconfitta dell’altro: la crudeltà vuole rovinare la vittima dinanzi ai suoi stessi occhi, vuole farle
rimpiangere di essere nata, la vuole distruggere fin nel ventre materno: la vittima deve vivere
abbastanza per seguire con tutta coscienza il cammino della propria deturpazione. Un insulto in
Francia dice: “Porta tua madre che ti cambio i connotati” (amène ta mère que je te refasse),
ponendo così in prospettiva il luogo ove questo percorso si conclude, il ventre della madre, che il
carnefice raggiunge attraverso la sofferenza del suo frutto: il carnefice “rifà” (refait) la sua vittima,
è il creatore in essa nel dolore, cosa che viene ben espressa nell’insulto di prima» (V. NAHOUM-
GRAPPE, L’USO politico della crudeltà: l’epurazione etnica in ex-Jugoslavia [1991-1995], p. 197).
54    A proposito della morale dei deboli come espressione di crudeltà è stato osservato:
«l’impotente ha bisogno di veder soffrire l’altro; egli vuole far male; umiliare i forti è ciò che
giustifica la sua esistenza; la morale egualitaria è il suo veleno per eccellenza; e se essa condanna la
crudeltà, è perché non ha coscienza della sua propria» (O. REBOUL, Nietzsche critique de Kant, p.
91).
55   Per la critica della teoria dell’uomo come essere assolutamente libero, cfr., fra gli altri,
Menschliches, Allzumenschliches, I, 102, 106, 107; Morgenröthe, 120, 124, 128; Götzen-
Dämmerung oder wie man mit dem Hammer philosophiert, «Die vier grossen Irrthummer», 8.
56   Per la critica della teoria dell’uomo come essere assolutamente responsabile, cfr., fra gli altri,
Menschliches, Allzumenschlisches, I, 105 e ancora il 107; Morgenröthe, 128; Götzen-Dämmerung,
ancora «Die vier grossen Irrthummer», 8.
57   Sottolineando il fatto che, per Nietzsche, i deboli esprimono un tipo “reattivo” di forza (in
generale bisogna distinguere tra «forze attive primarie, di conquista, di soggiogamento», e «forze
reattive secondarie, d’adattamento e di regolazione»), Deleuze osserva che, se «la volontà di
potenza fa in modo che le forze attive affermino, e affermino la propria differenza: in esse
l’affermazione è primaria e la negazione non è mai altro che una conseguenza, come un
sovrappiù di godimento», «la proprietà delle forze reattive, al contrario, è quella di opporsi in prima
istanza a ciò che esse non sono, di limitare l’altro: in esse la negazione è primaria, è attraverso la
negazione che esse giungono ad una parvenza di affermazione» (G. DELEUZE, Nietzsche, pp. 20-1 [tr.
it., pp. 28-9]). Anziché affermare se stesso nella propria particolarità, nel proprio particolare grado
di forza, e a ciò limitarsi, il debole essenzialmente nega l’altro da sé (il forte) nella sua particolarità,
nel suo particolare grado di forza. Il senso di questa negazione è così chiarito da Deleuze: «i deboli,
gli schiavi non trionfano sommando le proprie forze, ma sottraendo quelle dell’altro: separano il
forte da ciò che può. Trionfano non per la composizione della loro potenza, ma per la potenza del
loro contagio. Esse provocano un divenire-reattivo di tutte le forze. È questa la “degenerazione”»
(ivi, p. 22 [tr. it., p. 30]). Il forte viene separato da ciò che può e finisce per considerare colpevole
fare ciò che può fare in quanto forte: è questo l’effetto del «contagio» di cui egli è vittima da parte
del deboli. Il contagio può essere identificato nel far proprio, da parte del forte, il sistema di
valutazione (colpevolizzazione) costruito dal debole per neutralizzare il forte.
58   Sulla morale del risentimento, cfr. G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, pp. 127-68 (tr. it,
pp. 139-74).
59    Zur Genealogie der Moral, 1,14 (tr. it., p. 246).
60     Ibidem (tr. it., p. 246). È una citazione dal Vangelo secondo Luca.
61    Ibidem, p. 296 (tr. it., p. 246)
62     Ibidem, pp. 296-7 (tr. it., p. 247).
63    Ivi, p. 296 (tr. it, pp. 246-7).
64    Ivi, 1,15, p. 297 (tr. it., p. 248).
65    Ibidem (tr. it., p. 248)
66    Der Antichrist, 38, p. 208 (tr. it., p. 213).
67    Nachegelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7 [26].
68 Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1888,18[6].
69   Per i brani appena riportati relativi all’anarchico, al socialista e al cristiano, cfr. Götzen-
Dämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemässen», 34.
70    Zur Genealogie der Moral, II, 7, p. 320 (tr. it., p. 267).
71    Götzen-Dämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemässen», 34, p. 127 (tr. it., p. 131).
72    Der Antichrist, 41,42, 44, 46, 58.
73    Ivi, 31, 44.
74    Ivi, 33, p. 203 (tr. it., p. 207).
75    Ivi, 32, p. 201 (tr. it., p. 205).
76    Ivi, 39, p. 209 (tr. it., p. 214).
77    Ivi, 33, p. 203 (tr. it., p. 208).
78 Ibidem. Ma in Nietzsche è dato leggere, relativamente alla figura di Gesù, anche giudizi di ben
altro tenore, come, per esempio, il seguente: «Gesù: vuole che si creda a lui, e spedisce all’inferno
tutti coloro che si oppongono [...] La bontà con il suo massimo contrasto nella stessa anima: egli fu
il più malvagio di tutti gli uomini. Senza l’ombra di una giustizia psicologica. Il folle orgoglio che
trova il piacere più sottile nell'umiltà» (Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884,
25[156]). Sul rapporto Nietzsche-cristianesimo, cfr. K. JASPERS, Nietzsche und das Christentum; K.
LOWITH, Von Hegel bis Nietzsche, pp. 396-401 (tr. it., pp. 577-84); E. FINK, Nietzsches Philosophie,
pp. 134-8 (tr. it., pp. 169-73).
79 Der Antichrist, 40, p. 211 (tr. it., p. 216).
80    Ivi, pp. 211-2 (tr. it„ pp. 216-7).
81    Ivi, 41, pp. 212-3 (tr. it„ p. 218).
82    Zur Genealogie der Moral, II, 14, p. 234 (tr. it, p. 280).
83    Ivi, p. 335 (tr. it., pp. 280-81).
84    Ivi, 15, p. 336 (tr. it., p. 282).
85    Ibidem (tr. it., p. 282).
86    Ivi, p. 337 (tr. it., pp. 282-3)
87 Cfr., per esempio, Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[155].
88    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 14[20].
89    Zur Genealogie der Moral, III, 14, p. 388 (tr. it., p. 328).
90    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11 [89].
91    Ivi, 11[100],
92    Menschliches, Allzumenschliches, I, 50.
93    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[380] (tr. it., 6[379]).
94    Ibidem.
95    Zur Genealogie der Moral, II, 6, p. 317 (tr. it., p. 264).
96    Morgenröthe, 91.
97    Ibidem.
98    Ibidem.
99    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[177].
100    Ivi, 25[152],
101    Ivi, 25[163].
102    Jenseits von Gut und Böse, 229.
103    Ibidem.
104    Ibidem.
105    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[307],
106    Ivi, 26[190].
107    Ibidem.
108    Ivi, 26[185],
109    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 15[1].
110    Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 10[97].
Sul problema della conoscenza in Nietzsche, cfr. B. E. Babich, Nietzsche’s Philosophy of Science',
A. NEGRI, Nietzsche. La scienza sul Vesuvio.
111 Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[142].
112 Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 12[217].
113    Ivi, 14[20],
114    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 19[34],
115    Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 78.
116    Ivi, 243.
117    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 21 [72] (tr. it., 21 [71]).
118 Per Nietzsche la storia dei rapporti umani è stata sinora una storia fondamentalmente
caratterizzata dal dispiegarsi di una volontà e di una logica di dominio. Per aspetti essenziali, quella
nietzscheana rappresenta una riflessione, tanto estesa quanto radicale, sul carattere di dominio dei
rapporti umani quali si sono generalmente manifestati nel corso della storia fino ad oggi. Insieme, è
innegabile che tale riflessione esprime un impegno fondamentale in direzione della liberazione
dell’uomo dalla logica del dominio.
Tra gli interpreti si è posta la questione in quale senso vada interpretata la nietzscheana nozione di
volontà di potenza, se nel senso, ancora (in linea con la storia passata dell’uomo) della volontà di
dominio o in un senso radicalmente diverso e, anzi, opposto. Per Deleuze, dalle pagine di
Nietzsche risulta che è nei deboli, in quanto forze solo «reattive», in quanto forze nichilisticamente
atteggiate, che mirano a negare i forti separandoli dalla loro potenza, che la volontà di potenza
diventa volontà di dominio: la loro rivolta contro i forti in quanto forti è il segno o si traduce in una
volontà di dominio su di essi. Se Nietzsche stabilisce una connessione tra volontà di potenza e
volontà di dominio, lo fa con riferimento al caso particolare dei deboli e senza l’intenzione di dare
alla connessione un carattere necessario e universale. Secondo Deleuze, la volontà di potenza trova,
invece, il suo fondamentale collegamento, in Nietzsche, con il concetto di creazione. Ma, «Quando
il nichilismo trionfa, allora, e soltanto allora, la volontà di potenza cessa di voler dire “creare”, ma
significa: volere la potenza, desiderio di dominio (dunque attribuirsi, o farsi attribuire, i valori
stabiliti: soldi, onore, potere ...). Ora proprio questa volontà di potenza, è precisamente quella
dello schiavo, è il modo in cui lo schiavo o l’impotente concepisce la potenza, l’idea che egli se ne
fa, e che egli applica quando trionfa» (Nietzsche, tr. it., p. 31).
Sulla interpretazione della volontà di potenza in un senso diverso e opposto rispetto alla volontà di
dominio, cfr. anche G. VATTIMO, Il soggetto e la
maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, che, tuttavia, pur sottolineando come la
nozione di volontà di potenza venga elaborata nella prospettiva della liberazione dell’uomo e della
critica del dominio sull’uomo, scorge, soprattutto a partire da una certa fase della produzione
nietzscheana, contraddizioni nello svolgimento della nozione: la volontà di potenza finisce per
perdere il suo significato di liberazione dell’uomo dal dominio e per caratterizzarsi proprio, invece,
come volontà di dominio (ivi, pp. 350-75).
Una lettura dell’opera nietzscheana decisamente orientata nel senso della liberazione viene da N.M.
DE FEO, Nietzsche il comuniSmo, che sottolinea lo sviluppo, in Germania, «dall’età bismarkiana al
nazismo», del «“socialismo nietzscheano” di Kurt Eisner, Gustav Landauer, Bruno Wille, Ernst
Bloch, Erich Mühsam, Otto Gross e Wilhelm Reich, alcuni principali e diversi esponenti del
comuniSmo anarchico tedesco»: un socialismo, quello nietzscheano, che «orienta decisamente
l’opposizione proletaria antisocialdemocratica e antistalinista» ed «è una componente essenziale -,
anche se a lungo deformata e misconosciuta non solo della propaganda nazista e stalinista, ma
anche delle stesse ideologie anarchiche che pure l’hanno assunta in termini di utopismo umanistico
e di individualismo aristocratico - di quel complesso e multiforme processo di “destatualizzazione”,
per usare un termine di Gustav Landauer, del moderno proletariato sociale, contro la nascita e
l’integrazione socialriformista della progressiva statualizzazione dei rapporti di
produzione capitalistici [...] Nell’epoca in cui le leggi antisocialiste di Bismark riducono il
materialismo storico da teoria della rivoluzione proletaria a marxismo legale ed il Capitale di Marx
diventa, secondo l’espressione di Gramsci, “il libro dei borghesi”, per questo movimento, Nietzsche
e Bakunin, più di Marx ed Engels, aprono la strada alla propria liberazione» (ivi, pp. 29 e 31).
Nietzsche diviene il punto di riferimento di quella parte di classe operaia che rifiuta la «riduzione
economicista della coscienza di classe» e che in Nietzsche trova «un forte stimolo soggettivista ed
umanista» (ivi, p. 32). Secondo De Feo, «“arte di rovesciare le prospettive” e “inversione di tutti i
valori” definiscono, per Nietzsche, la spirale antinomica della liberazione antagonista, che emerge
come soggettivazione dell’oggettività reificata (il “dionisiaco”), un movimento pratico-teorico di
negazione delle negazioni istituzionalizzate, che distrugge ogni pianificata o tendenziale
organizzazione di fini, scopi o valori “in sé” (l’"apollineo”), di cui mostra l’intrinseca distruttività
repressiva e annientatrice (il “nichilismo”) - non per inventare “nuovi valori”, più “giusti”,
più “umani”, più “veri”, ecc., ma per distruggere l’intrinseca validità dei valori e della
valorizzazione, cioè di quel movimento del dover-essere, della pianificazione, della strategia - dalla
“pietà cristiana” al “lavoro socialista” - che è la controtendenza fondamentale di repressione-
oppressione-falsificazione all’emergenza della “tendenza” e della “liberazione dei bisogni”» (ivi,
pp. 32-3). Venendo ai nostri anni si può dire che «Autonomia dei bisogni e riappropriazione della
corporeità», che esprimono il senso stesso delle lotte sociali anticapitalistiche, sono posizioni già
affermate dallo stesso pensiero di Nietzsche. Il problema della liberazione dell’uomo si pone oggi
nei termini di un recupero, insieme, di Marx e Nietzsche: «la misura in cui qui Nietzsche può
contribuire oggi, dopo cent’anni di radicalizzazione dell’operaio sociale dentro e contro lo sviluppo-
crisi del capitale sociale, all’insorgenza dell'individuo sociale, sul piano della “destatualizzazione” e
della “riappropriazione” - il terreno proprio della nuova teoria dei bisogni -, condiziona ed è a sua
volta condizionata da un recupero del problema di Marx e Nietzsche dentro il “movimento reale”»
(ivi, p. 33).
Una lettura radicalmente diversa di Nietzsche è in D. LOSURDO, Nietzsche e la crìtica della
modernità, che sottolinea gli aspetti «reazionari» (il riferimento è, in particolare, alle osservazioni
sulla gerarchia) della riflessione di Nietzsche, che viene, anzi, vista come riflessione essenzialmente
reazionaria (Nietzsche viene accomunato a pensatori reazionari del suo tempo: Francis Galton,
Ludwig Gumplowicz, ecc. (ivi, pp. 67).
119    Tur Genealogie der Moral, II, 5, p. 316 (tr. it., p. 263).
120    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 6[206].
121    Ibidem.
122    Morgenröthe, 113.
123    Ibidem.
124    Ibidem.
125    Menschliches, Allzumenschliches, I, 137. Ha scritto Jean Granier: «Prima di Freud, Nietzsche
ha visto che il masochismo è un sadismo rivolto contro se stessi» (J. GRAMER, Le problème de la
Vérité dans la philosophie de Nietzsche, p. 176).
126    Zur Genealogie der Moral, II, 16.
127 Ivi, pp. 338-9 (tr. it., p. 284). Cfr. C. DUMOULIÉ, Nietzsche et Artaud, pp. 20-4.
128    Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, 11[134].
129    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 7[300],
130    Cfr., per esempio, Morgenröthe, 134 e 146.
131    Nietzsche contra Wagner, 2, p. 9 (tr. it., p. 9).
132 Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 26[290].
133    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 1[7],
134    Götzen-Dämmerung, «Die vier grossen Irrthümer», 7, p. 90 (tr. it., p. 92). Sull’«innocenza del
divenire», cfr. A. NEGRI, Nietzsche e/o l’innocenza del divenire; U. REGINA, L’uomo complementare,
pp. 108-14.
135    Götzen-Dämmerung, 1, p. 90 (tr. it., p. 92).
136    Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, 44[41.
137    Morgenröthe, 202.
138    Ibidem.
139    Menschliches, Allzumenschliches, I, «Vorrede», 3.
140    Ivi, 4.
141    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[484],
142    Ibidem.
143    Menschliches, Allzumenschliches, I, 43.
144    Ivi, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 62.
145    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[111].
146    Ivi, 25[101].
147    Ivi, 26[290J.
148    Cfr., per esempio, Zur Genealogie der Moral, II, 16.
149    Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, 25[84],
150    Ibidem.
151    Jenseits von Gut und Böse, 210.
152    Cfr. in questo volume il capitolo quarto.
153    Morgenröthe, 146.
154    Sul senso positivo, in cui Nietzsche si riferisce alla «crudeltà», sono da vedere le osservazioni
di Jean Granier in Le problème de la Vérité dans la phi-
losophie de Nietzsche. Granier sottolinea il rapporto, in Nietzsche, tra sofferenza, «crudeltà», da un
lato, e «creazione», dall’altro, nel senso che, affinché vi sia creazione è necessario che vi sia
sofferenza, che vi sia «crudeltà»: «ciò che l’uomo morale si rifiuta di comprendere è che il negativo
è l’aiuto insostituibile di ogni volontà di creazione [...]. Senza la negatività del male, la
trascendenza sarebbe abolita. Impossibile, infatti, concepire un superamento dell’uomo se si rifiuta
di collocare la contraddizione al centro stesso dell’individuo, nella forma di una lotta tra l’essere-là
dato e l’io superiore che lavora per elevare questa natura all’altezza delle sue proprie esigenze [...]
l’uomo buono vuole essere ciò che è, egli vuole sopprimere la tensione che lo costringe a “superare
il ponte”, egli vuole installarsi nell’esistenza. L’uomo della Morale è l’uomo dell’avere, non l’uomo
del divenire» (ivi, p. 180). Per Nietzsche, «non si tratta affatto [...] di fare l’avvocato della violenza
anarchica e della brutalità senza fieni; l’apologià della “bestia bionda” non ha che un valore
strettamente polemico [...] Non è dunque questione, per Nietzsche, di glorificare il negativo in
quanto negativo e di sostituire una “morale nera”, divinizzando il male, alla “morale bianca” del
bene - la crudeltà furiosa di un Sade gli sembrerebbe, a questo riguardo, il colmo della dismisura
sterile - si tratta di pensare il negativo come funzione mediatrice nella produzione dell’uomo da
parte di se stesso. Il male è il dolore del parto, la crudeltà delle metamorfosi, l’angoscia delle
trasfigurazioni. Alla compassione, che è sempre, in definitiva, un travestimento della vana
compiacenza di sé, Nietzsche oppone dunque il “grande disprezzo” attraverso il quale l’uomo si
supera senza fine e rifiuta così il narcisismo della cattiva finitudine. Il disprezzo è la coscienza
dell’uomo che si vuole sempre avanti a sé e che consuma la passione della vittoria su se stesso, il
cui prezzo è giustamente la crudeltà verso se stesso» (ivi, pp. 181-2). Analogamente Olivier
Reboul: «La crudeltà del creatore è la aggressività inerente a ogni opera; occorre distruggere
per innovare; la sua durezza è quella del diamante, scintillante e tagliente; crudeltà sana, senza odio
né risentimento, ma cosciente, e perciò dolorosa, perché il creatore deve vincere la sua propria
compassione; crudeltà innocente, non per la sua gioiosa spensieratezza, ma perché al servizio di una
fecondità» (O. REBOUL, Nietzsche critique de Kant, p. 91).

Capitolo sesto. Nietzsche e la nostra epoca*


In genere, allorquando si affronta il problema della attualità o non attualità di un pensatore del
passato, accade che della sua riflessione si salvino, eventualmente, alcuni aspetti, magari importanti
o fondamentali, in rapporto ai quali viene affermata l’attualità del pensatore in esame. Nel caso di
Nietzsche, le cose stanno in termini rovesciati: sembra diffìcile trovare aspetti della sua riflessione
che non siano attuali. E che non siano attuali non nel senso che i diversi aspetti della sua riflessione
abbiano trovato nella nostra epoca attuazione e nemmeno nel senso, più limitato, che la nostra
epoca presti ad essi un particolare ascolto. Perché, anzi, da questo duplice punto di vista si dovrebbe
registrare una distanza fra Nietzsche e la nostra epoca, distanza che continua, e forse accentua,
quella che già c’era tra Nietzsche e la sua epoca. L’attualità della riflessione nietzscheana è
invece nel fatto che essa ha posto dei problemi con i quali non ci si può oggi non confrontare
sebbene la nostra epoca faccia, in genere, esattamente il contrario. Esiste, in altri termini, una
attualità di principio e una inattualità di fatto del pensiero di Nietzsche. Prenderò qui di seguito in
esame alcune questioni della riflessione nietzscheana tentando, su di esse, un confronto tra
Nietzsche e la nostra epoca.
La prima questione riguarda il concetto nietzscheano di esperienza. In un frammento del 1876,
Nietzsche parla della «malattia moderna» consistente - egli osserva - in un «eccesso di
esperienze»1. Tale eccesso di esperienze è da mettere in rapporto, come a sua causa, con ciò che in
un aforisma di Umano, troppo umano Nietzsche definisce il «mostruoso acceleramento della vita
moderna», per il quale, per l’uomo, le esperienze si succedono l’un l’altra così velocemente, così
vorticosamente, che nessuna di esse costituisce, per lui, in realtà, una vera esperienza: Nietzsche
osserva, infatti, che, per via di tale acceleramento della vita, «spirito e occhio vengono avvezzati
a un mezzo o a un falso vedere e giudicare»2. Per via dell’acceleramento della vita, il giudicare e il
vedere, dunque le condizioni stesse della esperienza, e, in particolare, di un’esperienza autentica, si
sono ridotti, così, nell’età moderna, a un mezzo o a un falso giudicare e vedere.
L’epoca moderna appare, per questo aspetto, come l’epoca della fine o della crisi dell’esperienza in
quanto epoca della fine o della crisi delle condizioni di possibilità dell’esperienza. Ma qual è, in
particolare, l’esperienza in senso nietzscheano? L’esperienza in senso nietzscheano è l’esperienza in
quanto esperimento. Che cos’è l’esperienza in quanto esperimento? Nietzsche parla di esperimento
e non di semplice esperienza, di Versuch e non di semplice Erfahrung o Erlebnis. Si possono vivere
esperienze anche passivamente, anche non volendole vivere: si possono vivere esperienze che mai
si sarebbe voluto vivere. L’esperimento, invece, fa riferimento a un soggetto che ha deciso, ha
voluto fare una determinata esperienza. L’esperimento ha altre caratteristiche differenziali rispetto
all’esperienza, ma una
caratteristica che lo differenzia dall’esperienza è quella della decisione e volontà di fare
un’esperienza.
Nietzsche parla di vita «per esperimento» come segno della condizione della «grande salute»3.
Vivere per esperimento significa, per Nietzsche, sperimentare, nel tempo, forme diverse di
esistenza, di relazione, di pensiero, di sensibilità. Ciascun esperimento è, poi, approfondimento dei
diversi aspetti di una stessa realtà.
Si può osservare che esperimento è rapporto con l' altro, con ciò che non si è ancora vissuto, ancora
conosciuto. Per definizione, esperimento è rapporto con l’altro ossia con il nuovo: si sperimenta ciò
che non si è ancora vissuto e conosciuto. Porre il problema dell’esistenza, come Nietzsche fa, in
termini di esperimento o serie di esperimenti significa, dunque, porre il problema dell’esistenza in
termini di rapporto con l’altro, con il nuovo. In questo senso, porre il problema dell’esistenza in
termini di esperimento o serie di esperimenti significa porre il problema dell’esistenza in termini di
rapporto con il mistero - mistero che sarà risolto nel momento e nella misura in cui dell’altro, del
nuovo, del mistero appunto, si sarà fatta esperienza. Esperimento è, infatti, rapporto con il mistero.
Ma non è su questo aspetto dell’esperimento in generale, e nietzscheano in particolare, che intendo
soffermarmi. Intendo soffermarmi, invece, su un altro elemento che caratterizza l’esperimento, non
solo l’esperimento scientifico, ma anche quello, esistenziale, di cui parla Nietzsche. Questo
elemento è il disciplinamento dell’azione. Esperimento non è un’azione o un complesso di azioni
comunque condotte, ma un’azione o un complesso di azioni condotte nel rispetto di determinate
regole - un’azione o un complesso di azioni per le quali si prevedono certe possibilità e non altre.
Del disciplinamento dell’azione fa parte la capacità selettiva nei confronti degli stimoli cui si è
soggetti, capacità per la quale gli stimoli vengono selezionati in rapporto e in vista dell’obietti-
vo della sperimentazione stessa: capacità per la quale si è in grado di non rispondere, non reagire o
di rinviare la risposta, la reazione agli stimoli ove ciò serva alla realizzazione dell’esperimento di
vita che si sta compiendo4. È la capacità selettiva, esercitata in vista dell’obiettivo rappresentato
dalla sperimentazione di un certo oggetto, che consente all’uomo di fermarsi, di dimorare, sia
pure provvisoriamente (per il tempo di quelle che Nietzsche chiama «brevi abitudini»5), presso di
esso, al fine di realizzarne una approfondita esperienza6. Ma del disciplinamento dell’azione fanno
poi parte altri elementi (almeno in parte collegabili all’esercizio della capacità selettiva): la calma7,
la contemplazione (l' «elemento contemplativo»)8, la meditazione9, il raccoglimento, la
concentrazione10. Ora sono proprio questi elementi, che rendono possibile la vita per esperimento,
ad essere venuti meno nella modernità, e sono questi elementi che Nietzsche
puntualmente contrappone a quegli altri elementi che caratterizzano invece il modo moderno di fare
esperienza. E così gli elementi, che rendono possibile la vita per esperimento, vengono contrapposti
alla straordinaria impressionabilità dell’uomo moderno11, alla «fretta moderna»12, alla
«irrequietezza moderna»13, al moderno vagare impressionistico da una esperienza all’altra, alla
discontinuità e disorganicità dell’esperienza moderna, elementi, questi, che fanno della «nostra
civiltà» una «nuova barbarie»14, sì che la lotta con-
tro la modernità appare, per questo aspetto, come lotta per la civiltà e contro la barbarie.
Se ci riferiamo alla nostra contemporaneità, dovremo dire che gli aspetti, che abbiamo visto
denunciati da Nietzsche analista della modernità, si sono ulteriormente accentuati e aggravati.
Da questo lato, l’età contemporanea non presenta una situazione diversa da quella esaminata da
Nietzsche se non per la radicalizzazione ulteriore che, nella nostra epoca, hanno subito
quegli aspetti sui quali, nel secolo scorso, Nietzsche già aveva criticamente attirato l’attenzione. Da
questo lato si può, perciò, ben estendere alla nostra epoca (in rapporto alla quale va, anzi,
accentuato) il giudizio, da Nietzsche di fatto espresso riguardo, più in generale, alla modernità, e
relativo alla fine o alla crisi delle condizioni dell’esperienza. C’è oggi, tuttavia, anche qualcosa
di diverso rispetto alla situazione, quale è rappresentata da Nietzsche, della modernità in generale.
Oggi - questa la novità - il mondo viene servito «a domicilio» all’uomo: non è più l’uomo ad andare
verso il mondo, ma è il mondo ad andare verso l’uomo. Questa osservazione è di Günther Anders15.
Essa spiega la nuova situazione come l’effetto dello sviluppo straordinario che i mezzi
di comunicazione di massa hanno avuto nel nostro secolo: Anders si riferisce, segnatamente, alla
radio e alla televisione. Ora, però, il mondo che va verso l’uomo, il mondo servito «a domicilio», è
un mondo «in effigie»16 (se ci si riferisce in particolare al caso della televisione): l’uomo non ha più
rapporto con il mondo nella sua realtà, ma con il mondo in immagini.
La seconda questione che voglio qui affrontare riguarda la posizione nietzscheana sulla gioia e la
sofferenza nell’esistenza dell’uomo. Per illustrare questo punto possiamo prendere le mosse da una
proposizione che si legge nello Zarathustra. La proposizione è la seguente: «Da quando vi son
uomini, l’uomo ha gioì-
to troppo poco»17. Come spesso succede in Nietzsche, qui si procede per grandi sintesi: passato e
futuro dell’uomo in questa proposizione vengono messi a confronto. Il passato è caratterizzato dal
fatto che l’uomo ha troppo poco gioito, per il futuro si lascia intravvedere la possibilità e il valore
della gioia. È da notare, a proposito della gioia (Freude), la frequenza con cui questa nozione ricorre
in Nietzsche, particolarmente negli scritti e frammenti della seconda metà degli anni ’70 e dei primi
anni ’80. Si potrebbe, anzi, a questo proposito anche osservare come una direzione di ricerca su
Nietzsche potrebbe essere rappresentata proprio dalla individuazione e dall’approfondimento di
temi diversi da quelli sui quali, tradizionalmente, classicamente, la critica si è esercitata (volontà di
potenza, nichilismo, genealogia, ecc.). Uno dei termini o temi, sui quali la ricerca si potrebbe
indirizzare, è proprio quello della gioia. Può darsi che ricerche orientate in questo
senso contribuiscano a dare l’immagine di un altro Nietzsche, di un Nietzsche un po’ diverso da
quello - prettamente critico, polemico, dissacratore - che una certa tradizione interpretativa ha
presentato.
Il contesto immediato, in cui è inserita la proposizione citata dello Zarathustra, fa riferimento
all’opposizione gioia/sofferenza. Che l’uomo abbia sinora troppo poco gioito, ciò va inteso
nel senso che l’uomo ha sinora troppo sofferto o - come si può dire sulla base di certi elementi della
riflessione nietzscheana - che ha fondamentalmente legato la propria esistenza alla dimensione della
sofferenza. Che l’esistenza dell’uomo sia sinora stata fondamentalmente legata alla dimensione
della sofferenza, ciò non va inteso, d’altra parte, nel senso che l’uomo abbia necessariamente e
sempre sofferto, sebbene, spesso, proprio questo sia accaduto, ma nel senso che l’uomo si è
impegnato, sinora, fondamentalmente nella lotta contro la sofferenza e non anche nella produzione
della gioia. Anche quando e nella misura in cui non ha interpretato la sofferenza (solo) come effetto
ed espiazione di una colpa originaria di cui si sarebbe macchiato (così la sofferenza è
stata intesa all’interno di certe religioni), e si è dunque impegnato nella rimozione delle cause
riconoscibili della propria sofferenza, l’uomo ha profuso appunto un impegno di segno negativo:
lotta contro la sofferenza, non anche lotta per la gioia. La scienza, il sapere sono stati messi al
servizio di questa lotta solo negativa18 e la prospettiva, sotto la quale resistenza dell’uomo si
è sinora svolta, è stata così una prospettiva essenzialmente negativa, di negazione di qualcosa
(negazione della sofferenza), e non anche positiva, di produzione di qualcosa (produzione della
gioia). Secondo Nietzsche, sinora la paura della sofferenza ha prevalso sul desiderio della gioia: in
tale condizione dell’uomo Nietzsche ha visto un segno della sua arretratezza19. Chi è l’uomo
arretrato, l’uomo che, anche nell’età moderna, è rimasto, nel suo comportamento, a stadi precedenti
della sua storia? È, nel caso che stiamo esaminando, l’uomo che combatte contro la sofferenza e
non si impegna nella invenzione della gioia.
L’età moderna ha continuato e anzi approfondito la tendenza fondamentale, che ha caratterizzato in
generale le epoche che l’hanno preceduta, ad eliminare la sofferenza dall’esistenza dell’uomo. Con
un impegno sempre più profondo e sistematico, la modernità ha cercato di neutralizzare,
esorcizzare, allontanare da sé ogni forma di dolore. Nietzsche ha criticato la modernità anche per
questo aspetto. Il fatto è che, per Nietzsche, la possibilità/ necessità, cui l’uomo sin qui si è sottratto,
di inventare per sé la gioia, di costruire la propria esistenza in una prospettiva di gioia, non ha, come
sua implicazione, la eliminazione di ogni sofferenza dall’esistenza umana. Se la tradizione anche
moderna ha lottato in ogni modo contro la sofferenza mostrando con ciò di considerarla qualcosa di
solo negativo, Nietzsche ha affermato la necessità del passaggio attraverso la sofferenza al fine di
raggiungere condizioni di esistenza più elevate e degne dell’uomo. In Nietzsche, la sofferenza non è
solo un negativo, la sofferenza è anche un positivo. Nietzsche critica le moderne morali edonisti-
che, utilitaristiche, eudemonistiche nella misura in cui esse pongono come obiettivo da realizzare
una condizione individuale o collettiva da cui sia eliminata (o eliminata il più possibile) la
sofferenza. Nel quadro di questa critica, egli prende posizione particolarmente contro le morali
inglese del comfort e della fashion, le morali della «felicità inglese»20. Del «benessere», inteso
come negazione di ogni sofferenza e indicato da alcune morali come l’obiettivo da realizzare per
l’uomo, Nietzsche scrive: «non costituisce una meta, a noi sembra piuttosto una fine»21. Si
potrebbe ricordare Hobbes che, agli inizi dell’età moderna, osservava che tra i desideri
fondamentali dell’uomo vi è quello di ottenere (grazie al lavoro) le comodità che la vita può
offrire22.
Se ci riferiamo alla nostra epoca, ai nostri anni, dovremo dire che la tendenza denunciata da
Nietzsche come propria della storia dell’uomo fino al suo tempo in generale e della modernità
in particolare, ossia la tendenza a esorcizzare la sofferenza, si è mantenuta e ulteriormente
accentuata. Vi sono, e si sono moltiplicati, e sempre più specializzati, i luoghi deputati ad accogliere
la sofferenza, i luoghi istituzionali della sofferenza, gli ospedali di ogni tipo destinati ad accogliere
ogni tipo di sofferenza (fisica e mentale): luoghi lontani - fisicamente e moralmente - dai luoghi
in cui si svolge la vita «normale», quella che corre lungo i binari del benessere come esclusione
della sofferenza, la vita come comfort. Vi sono anche luoghi non istituzionali in cui la sofferenza si
raccoglie: le varie situazioni, all’interno dei paesi del benessere, di emarginazione e ghettizzazione
sociale. Vi sono, infine, intere parti del mondo, lontane da quelle dove si svolge la vita del
benessere, dove la sofferenza è di casa. La sofferenza è comunque lontana, in senso fisico e
mentale, dai luoghi dove si svolge la vita contemporanea improntata al benessere. Se poi proprio si
vuol avere rapporto con la sofferenza, essa si ridurrà a spettacolo, a
fenomeno estetico: siamo all’estetica del dolore, della quale esempi vengono quotidianamente e
abbondantemente propinati dai mezzi di comunicazione di massa. Ma, appunto, lo
spettacolo mantiene pur sempre la distanza fra spettatore e spettacolo stesso (nonostante tutte le
identificazioni che possono determinarsi), ossia, qui, fra l’uomo come spettatore del dolore e il
dolore in quanto spettacolo: proprio quella distanza che, secondo Nietzsche, l’uomo da sempre, e
l’uomo moderno in particolare, ha cercato in ogni modo di determinare e assicurare23.
La terza questione riguarda il concetto di quel che all’uomo è ancora possibile. Sicuramente per
Nietzsche le epoche passate dell’umanità sono state - in generale - epoche che hanno variamente
limitato e anche impedito la affermazione e lo sviluppo delle possibilità dell’uomo. Tale limitazione
e tale impedimento sono stati perseguiti in forme e con mezzi diversi: nelle forme e con i mezzi
della religione, della morale, della politica. La svalutazione, operata dalla religione, della Terra e del
corpo; la condanna, da parte della morale cristiana in tutte le sue forme, di livelli di potenza
superiori a quella fissata come valore dai deboli con la loro debolezza; l’affermazione di modelli
gregari di comportamento all’interno delle comunità umane e nel quadro di un’attitudine,
storicamente perseguita, dell’uomo all’obbedienza nei confronti di autorità varie (Stato, Chiesa,
Partito, Famiglia, Scuola, ecc.): tutto ciò ha sinora fatto sì che le possibilità dell’uomo non si siano
sviluppate e potenziate come avrebbero potuto. Il punto di vista di Nietzsche riguardo al futuro è
espresso, per esempio, in queste parole: «Quante cose sono ancora possibili!»24. Si tratta, per
Nietzsche, di possibilità che l’uomo può effettivamente per-
seguire e che vengono preparate e dischiuse dall’evento della «morte di Dio»25, ma la cui
realizzazione - poiché la morte di Dio è un evento ancora lontano dalla consapevolezza della
maggior parte degli uomini - si colloca, per l’uomo, in un tempo che non è quello dell’immediato
presente. La storia dell’uomo non è finita, l’uomo non ha ancora esaurito le proprie possibilità
d’essere: questo dice l’‘ancora’ del brano citato. D’altra parte, l’aggettivo che accompagna le cose
ancora possibili («Quante cose...») dice la ricchezza delle possibilità che ancora attendono l’uomo.
Non è qui in questione un dato solo quantitativo, numerico. Il dato è qui, invece, innanzitutto
qualitativo. In gioco sono le possibilità migliori dell’uomo. È in questo senso che Nietzsche scrive:
Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole della vita. Inesaurito e non
scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo [...]
Dal futuro giungono eventi segretamente alitanti: la buona novella si rivela alle orecchie fini [...]
In verità, la terra deve ancora diventare un luogo di salute! E già intorno a essa alita un profumo
nuovo, che reca salute, - e una nuova speranza!26.
Nietzsche pone così l’uomo di fronte a due ritratti: uno è il ritratto già disegnato dell’uomo del
passato e delle possibilità già realizzate dell’uomo (e, per Nietzsche, non si trattato affatto sempre,
anzi quasi mai, di un bel ritratto), l’altro è il ritratto da disegnare delle possibilità ulteriori - e sono
tante - che l’uomo di sé ha ancora da realizzare. L’invito, potente, che viene qui da Nietzsche è a
distogliere lo sguardo dal primo ritratto, nel quale ancora l’uomo del suo tempo si riconosce, e a
volgerlo al secondo, ossia a disegnare il nuovo ritratto possibile del proprio essere. Il nuovo ritratto
possibile dell’uomo sono poi, in realtà, i nuovi ritratti possibili dell’uomo - tanti quanti sono i
singoli uomini:
ognuno deve disegnare il proprio ritratto. Ognuno deve disegnare il proprio ritratto con la propria
matita e colorarlo con i propri colori.
In una situazione storica - come l’attuale - che per molti e sostanziali aspetti si pone in continuità
con la situazione storica in cui Nietzsche è vissuto, l’osservazione nietzscheana sulle possibilità
ancora aperte all’uomo conserva tutto il suo valore. Essa vale, in particolare, nei confronti di un
atteggiamento, sempre più diffuso, per il quale - in modi, a seconda dei casi, trionfalistici
o rassegnati - si decreta che l’umanità avrebbe sostanzialmente già conseguito (a livello politico,
sociale, economico, morale) quelle che, piacciano o no, sono le sue migliori possibilità, sì che
ogni allontanamento dai livelli raggiunti equivarrebbe solo a far fare all’uomo un passo indietro
nella storia del suo ‘progresso’: ulteriori progressi sarebbero da attendersi, ormai, solo dal
perfezionamento di ciò che si è acquisito (a livello politico, sociale, economico, morale) - o anche,
eventualmente, dall’uomo manipolato dalla scienza, dalla scienza dei laboratori scientifici
(ingegneria genetica, ecc.).
Il tema del ritratto da disegnare delle possibilità ancora inedite dell’uomo introduce alla ulteriore
questione, che voglio conclusivamente affrontare, dell’individuo in Nietzsche. Infatti, come si è
detto, il nuovo ritratto che di sé l’uomo può disegnare sono, in realtà, i diversi ritratti che i diversi
individui di sé possono disegnare ciascuno secondo le sue specifiche possibilità, diverse
dalle possibilità degli altri - possibilità che in ogni caso vanno qualitativamente oltre quelle
dall’uomo sin qui già attuate. Guardando alla storia dell’uomo quale sin qui si è svolta, una delle
situazioni più importanti che Nietzsche ritiene di scorgere è la dimenticanza dell’individuo, la
dimenticanza dell’ io. Salvo rare eccezioni, l’io - l’io di ciascun singolo individuo, con la sua
specifica differenza rispetto all’io di ciascun altro individuo — non ha avuto la possibilità di
autenticamente affermarsi. E' stata l’indifferenza il carattere delle epoche passate, nel senso che il
singolo individuo ha dovuto mettere da parte la sua differenza per essere secondo modelli di
comportamento e di giudizio impersonali, uniformi, diretti a tutti indistintamente (sebbene tali
modelli, originaria-
mente, siano stati elaborati in funzione delle esigenze di individui o di gruppi particolari). Nel
determinarsi di tale conformismo ha giocato la paura della diversità: il diverso rappresenta
l’ignoto, qualcosa che, come tale ‘dà pensiero’, qualcosa di non rassicurante, che richiede, da parte
di chi ad esso si rapporta, un’attenzione, una vigilanza, un continuo riassestamento della
propria identità, una forza che non tutti o non sempre si è in grado di esibire. In Nietzsche, l’uomo -
ciascun singolo uomo - è chiamato a invertire la direzione che, sin qui, la storia ha generalmente
preso e mantenuto, dando finalmente spazio alla propria singolarità rispetto a quella di ciascun
altro:
È necessaria una grande meditazione: forse l’umanità deve tirare un frego sul suo passato, forse
deve rivolgere a tutti gli individui il nuovo canone: sii diverso da tutti gli altri, e rallégrati se ognuno
è diverso dall’altro [...] Per tanto tempo, per troppo tempo, è stato detto: uno come tutti, uno per
tutti27.
Esiste, per Nietzsche, come si è visto nel capitolo primo, una moralità (e si tratta di un’«alta
moralità») anche del prendersi cura di sé28. Perché prendersi cura di sé? Il problema è quello
della possibilità della felicità, della gioia dell’esistenza umana nel senso che non nell’adeguazione a
un modello esterno e impersonale di comportamento e di giudizio, ma nell’affermazione delle
proprie più personali, singolari qualità è la possibilità della felicità di ciascuno29. Ciascuno deve
poter affermare e sviluppare la propria diversità rispetto agli altri: ciascuno deve poter essere se
stesso ossia - poiché ciascuno è diverso dagli altri30 - ciascuno deve poter essere nella propria
differenza rispetto agli altri. D’altra parte, si tratta anche, per ciascuno, di assumere un
atteggiamento di fondamentale e costante apertura - in ciò trovando motivo di gioia e di nutrimento
e ammaestramento per se stesso - alle dif-
ferenze che gli altri - l’essere, le azioni, le opere altrui - rappresentano. In questo senso Nietzsche
scrive: «provare gioia dell’originalità altrui senza diventarne la scimmia, forse sarà un tempo il
segno di una nuova cultura»31 o «Attenzione: piacere per le differenze individuali. Il piacere per ciò
che è diverso nelle nazioni e nelle civiltà è un passo in questo senso»32. Quanto dire che l’identità di
ciascuno, differente dalla identità altrui, non deve (è un rischio che l’identità di ciascuno corre)
arrivare a irrigidirsi e bloccarsi in una sua particolare configurazione, pur determinatasi nel rapporto
con le differenti identità altrui, e a chiudersi a ulteriori reali rapporti con gli altri. L’identità
differente di ciascuno deve essere disposta a mai smettere il rapporto con le identità
altrui, riarticolandolo su oggetti sempre diversi - quelli che le situazioni di volta in volta gli offrono
- in tale rapporto trovando, come si diceva, motivi e occasioni di gioia e di crescita per se stessa. La
felicità dell’uomo nietzscheano appare così dipendere non dalla semplice affermazione della propria
differenza rispetto alle differenze altrui, ma dallo sviluppo della propria identità
differente attraverso il rapporto - da mantenere sempre aperto e vivo - con le differenti identità
altrui.
L’apertura nei confronti dell’alterità ha pure le sue condizioni e le sue regole: per attuarla, occorre
che, da parte nostra, vi sia la capacità di «perderci per qualche tempo»33, «buona
volontà», «pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea»34. Ma il nostro
impegno e il nostro sforzo vengono ripagati e, alla fine, dell’alterità - come Nietzsche scrive a
proposito di una melodia che ci sia stata sinora estranea - diventiamo gli «umili ed estasiati amanti,
per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la
melodia»35. L’apertura nei confronti della alterità è, qui, qualcosa di ben diverso rispetto alla
semplice tolleranza, se con ‘tolleranza’ si indica
un rapporto per il quale si lascia, sì, all’altro libertà di essere come vuole essere, ma verso di lui si
mantiene un atteggiamento di estraneità e indifferenza, quando non - come pure accade -
di sopportazione, di accettazione infastidita. L’apertura, nel senso nietzscheano, nei confronti della
alterità indica un rapporto che, per Nietzsche - come si vede già dal brano riportato sull’ascolto di
una melodia a noi estranea - vale come definizione stessa dell’amore. Infatti, scrive ancora
Nietzsche, come già si è visto (capitolo terzo), «che altro è l’amore se non comprendere e gioire
che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa e opposta alla nostra?»36.
Nella prospettiva nietzscheana, così come appare dalle considerazioni appena riferite che Nietzsche
svolge, il mondo umano si presenta come un mondo plurale, popolato di tante differenze, ciascuna
delle quali non ripiegata (egoisticamente o narcisisticamente, si potrebbe dire) su se stessa, ma
aperta alle differenze altrui. In un’epoca - la nostra - in cui si sono da tempo avviati e largamente
attuati sistematici e capillari processi di omologazione dei comportamenti e delle coscienze
individuali, processi di massificazione perseguiti attraverso l’impiego scientifico dei mezzi di
comunicazione sociale, in un’epoca di forti conformismi sociali di ogni tipo - pur nella apparenza di
una liberazione individuale -, in un’epoca del genere ha ancora e sempre più senso l’appello di
Nietzsche all’individuo, la necessità, da Nietzsche avvertita e rivendicata, che le qualità proprie,
specifiche di ciascun individuo vengano affermate e sviluppate. Epoca di forti conformismi, la
nostra, si è detto, ma anche, proprio per questo, di forti - anche se spesso mimetizzate - intolleranze:
intolleranza per chi non si adegua ai modelli imperanti di comportamento e di giudizio. Anche nei
confronti di tale intolleranza mantiene, intatta, la sua validità l’indicazione nietzscheana circa la
necessità dell’apertura nei confronti delle differenze che, rispetto a se stessi, gli altri - ciascuno con
la sua particolarità - rappresentano.
* Questo capitolo riproduce il testo dal mio intervento alla Tavola Rotonda sul tema «Nietzsche e la
nostra epoca», organizzata, in occasione del 150° anniversario della nascita del filosofo,
dall’Accademia Pugliese delle Scienze e svoltasi a Bari il 1° dicembre 1994. Alla Tavola Rotonda,
introdotta da Giuseppe Semerari, che ne era stato l’ispiratore, parteciparono Franco Bianco
(moderatore), Leonardo Casini, Sergio Moravia, Giampiero Moretti e Antimo Negri.
1    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[51],
2    Menschliches, Allzumenschliches, I, 282.
3 Ivi, «Vorrede», 4.
4    Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, 15[39].
5    Die fröhliche Wissenschaft, 295.
6    Su ciò, cfr., in questo volume, il capitolo secondo.
7    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[22] (tr. it.,17[23]).
8   Menschliches, Allzumenschliches, I, 285; Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-78,
17[53].
9   Menschliches, Allzumenschliches, I, 282; Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-
1878, 17[55],
10    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[46],
11    Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, 10[18].
12    Nachgelassene Fragmente 1876 bis Winter 1877-1878, 17[46].
13    Menschliches, Allzumenschliches, I, 285.
14    Ibidem.
15    G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen (tr. it., pp. 105-30).
16    Ivi (tr. it., p. 118).
17 Also sprach Zarathustra, II, «Von der Mitleidegen», p. 110 (tr. it., p. 104).
18    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[82],
19    Ivi, 1[50],
20    Jenseits von Gut und Böse, 228.
21    Ivi, 225.
22   TH. HOBBES, Leviathan, or the Matter, Forme, and Power of a Commonwealth, Ecclesiastical
and Civili, p. 116 (tr. it., p. 123).
23    Sia pure in maniera contraddittoria: se c’è stata lotta alla sofferenza, c’è stata anche, da un lato,
la sofferenza che l’uomo ha inflitto a se stesso come forma di una volontà di male impossibilita a
rivolgersi all’esterno, e, dall’altro, come in questo capitolo si è precedentemente ricordato,
l’accettazione degli aspetti di sofferenza della propria esistenza come espiazione di una colpa.
24    Also sprach Zarathustra, IV, «Vom höheren Menschen», 20, p. 363 (tr. it., p. 358).
25    Die fröhliche Wissenschaft, 343.
26    Also sprach Zarathustra, I, «Von der schenkend Tungend», 2, pp. 96-7 (tr. it., pp. 91-2).
27    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[98].
28    Ivi, 3[139].
29    Ivi, 3[151],
30    Menschliches, Allzumenschliches, I, 286.
31    Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, 3[151].
32    Ivi, 2[17],
33 Die fröhliche Wissenschaft, 305.
34    Ivi, 334.
35    Ibidem.

36 Menschliches, Allzumenschliches, II, «Vermischte Meinungen und Sprüche», 75.

Bibliografìa
Opere di Nietzsche
Le opere di Nietzsche sono citate secondo l’edizione dei Nietzsche Werke, Kritische
Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, Berlin - New York 1967 e sgg., Walter de
Gruyter (Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano
1964 e sgg.).
Per i riferimenti agli aforismi e ai frammenti, si è indicato, dopo il titolo dello scritto, il numero
dell'aforisma o del frammento. Per le opere divise in capitoli o parti, indicati da titoli o/o numerati,
e a loro volta eventualmente divisi in paragrafi numerati, si è riportato, dopo il titolo dell’opera, il
titolo o il numero (in caratteri romani) del capitolo o parte relativa, seguito dal numero (in caratteri
arabi) del paragrafo.
Unzeitgemäße Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Histoire für das
Leben, Abt. III, Bd. I, 1972 (Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali
II, tr. it. di S. Giametta, vol. II, t.1, 1972).
Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, Erster Band, Abt. IV, Bd. II, 1967
(Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, volume primo, tr. it. di S. Giametta, vol. IV, t. II,
1965).
Menschliches, Allzumenschliches, Zweiter Band, Abt. IV, Bd. III, 1967 (Umano, troppo umano,
volume secondo, tr. it. di S. Giametta, vol. IV, t. III, 1967).
Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile, Abt. V, Bd. I, 1971 (Aurora. Pensieri sui
pregiudizi morali, tr. it. di F. Masini, vol. V, t.1, 1964).
Die fröhliche Wissenschaft, Abt. V, Bd. II, 1973 (La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, vol. V, t. II,
1965; nuova edizione riveduta a cura di M. Carpitella, 1991).
Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Abt. VI, Bd. I, 1968 (Così parlò
Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di M. Montinari, vol. VI, t. I, 1973).
Jenseits von Gut und Böse, Abt. VI, Bd. II, 1968 (Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini,
vol. II, t. II, 1968).
Zur Genealogie der Moral, Abt. VI, Bd. II, 1968 (Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, vol.
II, t. II, 1968).
Der Fall Wagner, Abt. VI, Bd. III, 1969 (Il caso Wagner, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. III, 1975).
Götzen-Dämmerung oder wie man mit dem Hammer philosophirt, Abt. VI, Bd. IIII, 1969
(Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. III, 1975).
Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, Abt. VI, Bd. III, 1969 (L’anticristo. Maledizione del
cristianesimo, tr. it. di F. Masini, voi. VI, t. III, 1975).
Ecce homo. Wie man wird, was man ist, Abt. VI, Bd. III, 1969 (Ecce homo. Come si diventa ciò che
si è, tr. it. di R. Calasso, vol. VI, t. III, 1975).
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1876-1878, tr. it. di M. Montinari, vol. IV, t. II, 1965).
Nachgelassene Fragmente Frühling 1878 bis November 1879, Abt. IV, Bd. II, 1967 (Frammenti
postumi 1878-1879, tr. it. di M. Montinari, vol. IV, t. III, 1967).
Nachgelassene Fragmente Anfang 1880 bis Frühjahr 1881, Abt. V, Bd., 1971 (Frammenti postumi
1879-1881, tr. it. di M. Montinari, vol. V, 1.1, 1964).
Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, Abt. V, Bd. II, 1973 (Frammenti
postumi 1881-1882, tr. it. di M. Montinari, vol. V, t. II, 1965; nuova edizione riveduta a cura di M.
Carpitella, 1991 [l’edizione, condotta sul testo pubblicato nella Gesamtausgabe, 1973, e nei
Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1980, presenta
una integrazione e una diversa numerazione dei frammenti]).
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postumi 1882-1884, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, voi. VII, t. I, Parte I, 1982).
Nachgelassene Fragmente Frühjahr bis Herbst 1884, Abt. VII, Bd. III, 1974 (Frammenti postumi
1884, tr. it. di M. Montinari, vol. VII, t. II, 1976).
Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 bis Herbst 1887, Abt. VIII, Bd. I, 1974 (Frammenti
postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. I, 1975).
Nachgelassene Fragmente Herbst 1887 bis März 1888, Abt. VIII, Bd. II, 1970 (Frammenti postumi
1887-1888, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. II, 1971).
Nachgelassene Fragmente Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, Abt. VIII, Bd. III, 1972
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ZARONE GIUSEPPE (a cura di), Labirinti del male, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.

Indice
Introduzione
Capitolo primo
Cura di sé e alterità
1.    Il problema
2.    Unicità dell’ego. Mancanza di egoismo e individualizzazione dell’ego
3.    Condizioni e articolazione della cura di sé.
Cura di sé e felicità
4.    La costruzione dell’ego: il problema dell’autodisciplina. Una filosofia del piccolo, del lento, del
vicino
5.    La relazione di alterità
5.1    La relazione nutrizionale
5.2    La relazione di cura
Capitolo secondo
Il viaggio e la dimora
Momenti di una dialettica dell’esistenza
1.    Fra identità e alterità, assoluto e relativo
2.    Il viaggio modifica il viaggiatore.
La solitudine del viaggiatore
3.    Congedi dolci, congedi dolorosi, congedi impossibili (fra Nietzsche e Jankélévitch)
4.    Quando, stando a casa propria, si è fuori di sé
5.    Modernità: il viaggio senza dimora
Capitolo terzo
Amore-passione e amore
Premessa
1.    Identificazione
2.    Possesso
Capitolo quarto
La relazione d’amicizia
1.    Amicizia e storia
2.    Amicizia e gioia
3.    Amicizia e differenze
4.    Amicizia e inimicizia
5.    Colui che dona
6.    Amicizia e libertà
Capitolo quinto
La volontà del male
1.    La crudeltà come fondamento della storia passata dell’uomo
2.    Le forme storiche della crudeltà.
La morale della colpevolizzazione
3.    La morale al di là della colpa
4.    Diffusione e fenomenologia della crudeltà
5.    Il fondamento del fondamento: la volontà di dominio
6.    La volontà del male e il futuro dell’uomo
7.    Crudeltà come storia, crudeltà come natura, crudeltà come maieutica
Capitolo sesto
Nietzsche e la nostra epoca
Bibliografia

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