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δCollana di ricerche filosofiche


DIALEGESTHAI 12 δ δ DIALEGESTHAI 12
12

Calenda
Epistemologia greca del VI e V secolo a.C. Guido Calenda

COPERTINA: PROFESSIONALITÀ PER L’EDITORIA – ROMA


E raclito e Parmenide si sono posti il problema della dimostrabi-
lità del vero, giungendo, con differenti argomentazioni, alle me-
desime conclusioni: tutto è uno, e oggetti ed enti sono soltanto di- EPISTEMOLOGIA GRECA

Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.


stinzioni operate dall’uomo e riflettono punti di vista umani. Solo
Dio conosce veramente, sostiene Eraclito; anche l’uomo più sapiente
nutre soltanto opinioni. Per Parmenide la conoscenza assoluta del-
DEL VI E V SECOLO a.C.
l’essere coincide con l’essere stesso, ma l’essere non tollera alcuna ERACLITO E GLI ELEATI
articolazione: tutte le cose che i mortali pongono non sono che nomi
e non hanno garanzia di verità. Sia Eraclito sia Parmenide non ri-
tengono, però, che le opinioni degli uomini siano prive di valore. En-
trambi dedicano infatti ampio spazio alle proprie ipotesi scientifi-
che sui corpi celesti, sul mondo, sulla vita, sull’anima. Zenone, con
i suoi apparenti paradossi, mostra il tipo di argomenti che doveva-
no essere discussi nella cerchia di Parmenide per esemplificare il pun-
to di vista del maestro. La banalizzazione compiuta da Melisso ha
finito per essere considerata la forma canonica dell’eleatismo: una
riduzione all’assurdo, completamente divorziata dalla realtà.

G uido Calenda è professore ordinario di Costruzioni idrau-


liche dal 1980 e ora insegna presso l’Università degli Stu-
di Roma Tre. Si è occupato di modelli matematici applicati
ai fiumi e alla qualità delle acque. Questo è il suo primo li-
bro di argomento epistemologico.
A11
38
In copertina
Una dea, Museo Archeologico Nazionale di Palermo
ISBN 978-88-548-3893-2
da Lo stile severo in Sicilia,
ARACNE

Novecento Editrice, Palermo 1990.

euro 24,00
dialegesthai
Collana di ricerche filosofiche
diretta da Emilio Baccarini e Giovanni Salmeri

12
dialegesthai

μή νυν ἓν ἦθος μοῦνον ἐν συτῷ φόρει,


ὡς φὴς σύ, κοὐδὲν ἄλλο, τοῦ’ ὀρθῶς ἒχειν.
ὃστις γὰρ αὐτὸς ἤ φρονεῖν μόνος δοκεῖ,
ἢ γλῶσσαν, ἥν οὐκ ἂλλος, ἢ ψυχὴν ἒχειν,
οὗτοι διαπτυχθέντες ὢφθησαν κενοί.
ἀλλ’ ἄνδρα, κεἴ τις ᾖ σοφός, τὸ μανθάνειν
πόλλ’ αἰσχρὸν οὐδὲν καὶ τὸ μὴ τείνειν ἄγαν.

Non portare nell’animo l’idea, solitaria,


che la verità sia tua e che nient’altro sia vero.
Chi è convinto d’aver senno lui solo,
d’avere lui solo la parola o l’anima,
appena lo scopri, vedi che dentro è vuoto.
Ma per un uomo, anche saggio, imparare,
deporre l’ostinazione, non è mai disonorevole.

Sofocle, Antigone, III episodio, vv. 705–711

Im wirklichen Gespräch geschieht eben etwas…


Nell’autentico dialogo qualcosa accade sul serio.

Franz Rosenzweig, Il nuovo pensiero

Riprendendo l’antico termine dialégesthai (“dialogare”) come titolo di que-


sta collana di ricerche filosofiche, in continuità di ispirazione con la rivista di
filosofia on line (http://mondodomani.org/dialegesthai) vogliamo ripetere,
da un lato, l’esigenza del rigore argomentativo del discorso vero proprio della
filosofia, ma dall’altro, anche, ascoltare la vita e quindi ritrovare la dialogica prima
della dialettica, che significa anche offrire una “testimonianza” della verità, non
soltanto argomentativa, bensì anche come “passione personale” di ricerca della
verità. Vogliamo situarci in questo spazio intermedio che oggi si presenta con
un’urgenza nuova, in gran parte ancora da pensare, senza arroganza e senza la
pretesa antidialogica di essere portatori di una verità semplicemente da comuni-
care. Vorremmo proporre una sorta di apologia della verità (dialogo) contro la
certezza (violenza).
Guido Calenda

EPISTEMOLOGIA GRECA
DEL VI E V SECOLO a.C.
ERACLITO E GLI ELEATI
Copyright © MMXI
ARACNE editrice S.r.l.

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

via Raffaele Garofalo, 133/A–B


00173 Roma
(06) 93781065

isbn 978–88–548–3893–2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie


senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: febbraio 2011


All’amica la cui ispirazione,
fiducia e costante sostegno
hanno permesso di portare
a termine questo lavoro
Ringrazio i miei amici Luigi Scalfati e Enzo Italiano per
la pazienza e l’attenzione con cui hanno letto e corretto
questo scritto.
Indice

11 Introduzione

19 1. Il contesto storico

41 2. Le intuizioni di Eraclito

139 3. Le dimostrazioni di parmenide

219 4. Le ragioni di Zenone

265 5. Gli equivoci di Melisso

299 6. Influenza del pensiero eleatico

317 7. Frammenti

369 bibliografia

393 Indice delle citazioni

399 Indice degli autori antichi

407 Indice degli autori moderni

415 Indice degli argomenti

9
Introduzione

… En aquel Imperio, el Arte de la Cartografía logró tal Perfección


que el mapa de una sola Provincia ocupaba toda una Ciudad, y el
mapa del imperio, toda una Provincia. Con el tiempo, esos Mapas
Desmesurados no satisficieron y los Colegios de Cartógrafos levanta-
ron un Mapa del Imperio, que tenía el tamaño del Imperio y coinci-
día puntualmente con él. Menos Adictas al Estudio de la Cartogra-
fía, las Generaciones Siguientes entendieron que ese dilatado Mapa
era Inútil y no sin Impiedad lo entregaron a las Inclemencias del Sol
y de los Inviernos. En los desiertos del Oeste perduran despedazadas
Ruinas del Mapa, habitadas por Animales y por Mendigos; en todo
el País no hay otra reliquia de las Disciplinas Geográficas.

Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes,


libro cuarto, cap. XLV, Lérida, 1658.
Jorge Luis Borges1

1. Del rigor en la ciencia, in J.L. Borges, Obras Completas: «… In


quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la
mappa d’una sola provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’im-
pero tutta una provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non sod-
disfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che
uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso.
Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive com-
presero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abban-
donarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest
rimangono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in
tutto il paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche (Suárez Mi-
randa, Viaggi di uomini prudenti, libro quarto, cap. XLV, Lérida, 1658; trad.
it. di F. Tentori Montalto: Tutte le opere, a cura di D. porzio, Mondadori,
Milano 1984, I, p. 1252).

11
12 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Il mondo è la mappa di se stesso e le rovine dei tempi


passati non sono altro che i resti delle sue antiche mappe.
La nozione della vera natura di queste mappe si è persa
con l’oblio dell’Opera dei Cartografi. Borges ripercorre
in negativo l’antica tragedia del pensiero occidentale: la
conoscenza completa dell’intero non può essere che l’in-
tero stesso; le generazioni successive hanno perso questa
consapevolezza per l’empia pretesa che l’intera mappa
del mondo, l’unica verità, sia condensabile nelle specula-
zioni dei filosofi e nelle elucubrazioni dei teologi. Il pen-
siero contemporaneo, quello scientifico in particolare, ha
ormai interiorizzato l’idea che l’essere non sia concepibi-
le, ma rimanga irrimediabilmente al di fuori della nostra
portata. Raggiungere questa consapevolezza ha richie-
sto quel lungo, faticoso e perfino cruento percorso che
è stata la storia del pensiero moderno. per lungo tempo
questa idea era stata tenuta lontana… Era stata forse di-
menticata? Se era stata dimenticata, qualcuno, una volta,
doveva averla formulata; ma era stata davvero formula-
ta? possiamo rispondere affermativamente. Rintracciare
l’antica origine di questa idea significa risalire a monte di
quella che è stata la più radicale obliterazione di pensiero
avvenuta nella nostra civiltà.
Era mia intenzione capire come si fosse sviluppata, nel
corso dei secoli, la presa di coscienza del carattere intrin-
secamente soggettivo e mirato della conoscenza, e dello
stretto collegamento di questa con forme di corrobora-
zione sociale, indagandone l’emergenza nel contesto del-
la lunga lotta sostenuta contro concezioni assolute della
verità. Iniziando l’indagine da quelle che vengono comu-
nemente considerate le origini del pensiero occidentale,
mi sono reso conto, in modo del tutto inatteso, di non
dover andare troppo lontano: come se miracolosamen-
te questo pensiero fosse nato con la consapevolezza che
ogni sapere è soggettivo, quasi che la conoscenza stessa
Introduzione 13

non potesse essere in altro modo concepita — l’immagi-


ne di Atena che nasce già adulta e completamente arma-
ta dalla testa di Zeus.
per spiegare la nascita, sorprendente in un tempo tanto
breve, di quello straordinario fenomeno che è il pensiero
ellenico è stato sistematicamente invocato il genio greco2.
Un simile concetto, se spogliato di un insostenibile con-
notato razziale, non spiega nulla, riducendosi alla banale
constatazione che alcuni specifici aspetti della cultura oc-
cidentale sono nati in Grecia. È stato dunque necessario
studiare il fenomeno con strumenti più appropriati. In
particolare Lloyd (1979, 1996) ha analizzato l’influenza
che le istituzioni politiche e giuridiche greche, con il ca-
rattere fortemente competitivo insito nel loro funziona-
mento, hanno avuto sullo sviluppo del pensiero. Desidero
mostrare in questo studio come i medesimi fattori abbia-
no favorito la promozione di quello specifico paradigma
epistemologico che enuncia i limiti della conoscenza stes-
sa. Il pensiero greco è giunto alla completa formulazione
di questo paradigma in un tempo brevissimo, tra la fine
del VI secolo e l’inizio del V, quasi contestualmente con
quella che viene convenzionalmente considerata la sua na-
scita. In questo periodo, stando ad alcuni manuali, la filo-
sofia greca sembrerebbe polarizzata in una strana diatriba,
quella tra pluralismo e monismo. Ci si imbatte ad infinitum
nelle tappe di questa disputa — un’eco persistente di qual-
che pagina di platone, peraltro non priva d’ironia — che
rende a mio avviso incomprensibile lo sviluppo iniziale
del pensiero greco: che importanza poteva mai avere se

2. Zeller (1892): «La scienza filosofica dei Greci si spiega perfetta-


mente per via del genio della stirpe greca» (I I p. 100; trad. di R. Mondol-
fo). Tannery (1887): «Il rigore logico della geometria greca deve essere
dunque proprio alla razza ellenica […] Quanto all’uso così faticoso del
metodo della riduzione all’assurdo, bisogna anche vedervi un tratto parti-
colare del genio greco» (p. 256).
14 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

i multiformi aspetti della materia fossero dovuti a trasfor-


mazioni di un unico principio o alla combinazione di una
pluralità di elementi immodificabili? Questa partizione in
pluralisti e monisti condanna il pensiero delle origini ad
un giudizio che proprio non merita: quello di una forma
primitiva e ancora immatura di riflessione, il cui unico me-
rito consisterebbe nell’essere stata propedeutica alla suc-
cessiva, grande stagione della filosofia greca, che avrebbe
avuto inizio con platone. Così questi pensatori originali,
sofisticati e profondamente innovativi hanno trovato un
loro spazio nei manuali di filosofia — e non solo nei ma-
nuali — con un nome che non soltanto aggrega autori
diversissimi per interessi e per dottrina, ma che anche in
qualche modo li cancella, quello di Presocratici: hanno pre-
ceduto un personaggio messo in scena da platone; sono
la premessa ad una creazione letteraria. Né mi pare che il
suggerimento di Havelock (1996) d’indicarli con il nome di
Preplatonici3 raddrizzi in qualche modo il torto: la qualifica
di “pre” sembra ormai talmente aderente alla loro fisiono-
mia da vincolare perfino le proposte di riforma4.
La storia comincia con Eraclito — forse con Senofane
e anche prima, ma le tracce che ne abbiamo sono eva-
nescenti. Di Eraclito mi rimaneva, dagli studi liceali, un
ricordo condensabile in una frase, panta rei, tutto scorre,
frutto di un’interpretazione sostanzialmente inautentica
e fuorviante; e insieme la storia di un fiume che sembra-

3. Heidegger (1950): «Nietzsche pone Anassimandro fra i preplato-


nici, Diels fra i presocratici. Le due formule dicono la stessa cosa. Il ca-
none presupposto dall’uno e dall’altro traduttore per l’interpretazione e
la valutazione dei primi pensatori greci è la filosofia di platone e di Ari-
stotele. Questi due filosofi sono assunti come discrimine tanto rispetto
ai pensatori che precedono come a quelli che seguono. Questo canone è
divenuto opinione comune indiscussa, anche per l’influenza della teologia
del cristianesimo» (p. 300; trad. di p. Chiodi).
4. Tra queste proposte Leszl (1982, p. 20) cita “presofistico” o “pre-
attico” che, come giustamente osserva, non sono certo migliorative.
Introduzione 15

va essere e non essere. Accanto a Eraclito il suo contro–


altare, parmenide, con l’immagine poco attraente di un
essere di forma sferica, indifferenziato e grigio, efficace-
mente dipinta da Gomperz (1896):
Una monotonia desolata emana da questo scolorito edificio
speculativo (p. 274; trad. di L. Bandini)

ma anche il senso d’una proposizione di sicura incontro-


vertibilità, l’essere è, il non essere non è, dalla quale pareva-
no procedere imprevedibili sviluppi.
L’interpretazione che desidero proporre dell’episte-
mologia5 di questi due antichi filosofi mi sembra un’an-
ticipazione, neanche troppo velata, del contesto in cui
opera la scienza moderna. Le condizioni della nascita del
paradigma epistemologico da essi introdotto appaiono
strettamente connesse con le particolarissime condizioni
politiche e culturali della Grecia del VI e del V secolo,
illustrate innanzitutto dagli aspetti che avevano assunto
all’interno della polis la lotta politica e l’amministrazione
della giustizia, ma anche da alcuni caratteri delle creden-
ze e delle aspettative connesse con la religione olimpica,
e dall’incipiente emergere del pensiero scientifico.
Due frammenti mi sembrano particolarmente rappre-
sentativi del paradigma epistemologico che mi accingo
ad analizzare; una è il celebre detto di protagora:
Di tutte le cose è misura l’uomo: di quelle che sono, in quan-
to sono, di quelle che non sono in quanto non sono (plat.
Theaet. 152a 2; Sext. adv. math. VII 60)

l’altra è un frammento dell’Ippolito velato di Euripide


(439 Kn):

5. Intendo quello che Laks (2002) chiama “pensiero di secondo ordi-


ne”: «Un pensiero di secondo ordine verte sul pensiero stesso» (p. 19, n. 7).
16 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Ahimè ahimè, che le cose non abbiano per gli uomini / pa-
rola, affinché nulla fossero gli abili parlatori (plutarch. praec.
gerend. rei publ. 802a 1).

Abbiamo, con protagora, il disincantato riconosci-


mento che ciascuno è giudice della propria verità e, con
Euripide, l’accorato rimpianto che la verità non possa
manifestarsi in modo oggettivo. Come Odisseo, affasci-
nante parlatore, è anche ineguagliato maestro d’inganni,
così l’oratoria, fondamentale risorsa nella vita pubblica
e nei processi, è al medesimo tempo una minaccia per
la verità e per la giustizia. Alla stessa stregua della forza,
che può essere impiegata per il bene come per il male,
l’oratoria può essere usata con conseguenze ancor più
risolutive per chiarire o per nascondere, per l’equità o per
la prevaricazione. proprio come nel dramma di Euripide,
la tragedia trova le sue radici nel predominio della men-
zogna sulla verità. platone troverà questo stato di cose
insopportabile e dedicherà uno dei più grandiosi monu-
menti retorici mai messi per iscritto allo sforzo inane di
fondare le decisioni su una verità più garantita, condan-
nando senza riserve la retorica, quello stesso strumento
che egli adopera con consumata perizia.
La concezione epistemologica impostata da Eraclito
di Efeso e soprattutto da parmenide di Elea ha caratte-
rizzato tutto il V secolo, fino alla formulazione più ope-
rativa della prima sofistica, in particolare da parte di pro-
tagora e di Gorgia; ma presto, venute meno con la crisi
dell’autogoverno della polis le premesse politiche di tale
pensiero e con l’affermarsi di nuove esigenze spirituali,
soprattutto etiche e religiose, questa concezione episte-
mologica è andata smarrendosi. Non è andata comple-
tamente persa, intendiamoci, ma si è smarrita: è uscita
dalla coscienza e dagli interessi prevalenti della comunità
colta. Lo smarrimento ha preso anche la forma di una
Introduzione 17

sostanziale difficoltà a comprendere i temi centrali del


pensiero del V secolo, già avvertibile in platone e chiaris-
sima in Aristotele.
Nelle pagine che seguono saranno esaminati, oltre al
pensiero di Eraclito e parmenide, anche quelli di Zenone
di Elea e di Melisso di Samo: di Zenone, perché, essendo
un fedele seguace di parmenide, come platone aveva per-
fettamente compreso, ci illumina sui ragionamenti che
dovevano svolgersi a Elea nella cerchia del maestro; di
Melisso, perché con lui inizia quello stravolgimento del
pensiero eleatico che diventerà l’interpretazione stan-
dard in tutta l’antichità, con effetti che perdurano fino ai
nostri giorni.
1. Il contesto storico

Gli organi costituzionali dell’oligarchia erano gli stessi di quel-


li della democrazia. A guardare superficialmente le cose, sem-
bra che la sola differenza tra i due regimi stesse nel numero dei
beneficiari. In entrambi, i cittadini di pieno diritto potevano
far parte dell’Assemblea, sedere nel Consiglio, venir eletti ma-
gistrati.
Gustave Glotz1

Morire è un male; così giudicano infatti anche gli dèi: altrimenti


morirebbero.
Saffo2

Ma dorme infatti delle antiche imprese


l’onore, e immemori sono i mortali,
di ciò che il fiore alto del genio
non porta aggiogato al glorioso flusso delle parole.
pindaro3

1.1. La politica

Il soggettivismo protagoreo e l’importanza dell’elo-


quenza ci rinviano alla vita pubblica di Atene, alle as-
semblee politiche, ai processi di fronte a giurie compo-

1. Glotz (1928) p. 71.


2. 201 Loeb (Aristot. Rhet. 1398b 29).
3. Isth. VII 16.

19
20 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ste da centinaia di giurati. Come dice Johnstone (1999),


nell’Atene democratica
la via principale alla preminenza era l’abilità a persuadere un
uditorio di massa, sia nell’assemblea, sia nelle corti (p. 18).

In una città–stato di limitata estensione, in cui era


ancora possibile farsi ascoltare direttamente da una par-
te sostanziale della cittadinanza, il consenso si formava
attraverso i discorsi. L’esperienza quotidiana mostrava
però, senza possibilità di equivoci, che avere ragione non
era sufficiente, essendo praticamente impossibile dimo-
strare la verità delle proprie asserzioni. Unica prospettiva
persuadere; principale risorsa, quindi, l’oratoria. Questo
è evidentissimo nell’Atene del V e del IV secolo, tanto
da costituire praticamente un luogo comune. Ma la co-
scienza del potere della parola risale a molti secoli prima;
risale almeno ai più antichi documenti scritti della civiltà
greca, a quel vivo rispetto per la capacità di parlare, così
bene illustrato nell’Odissea:
È così! non a tutti concedono i loro favori
gli dèi: figura, senno, parola.
Un uomo infatti è di aspetto meschino,
ma un dio ne inghirlanda di beltà le parole, e gli altri
con piacere lo fissano: egli parla in tono sicuro,
con dolce riguardo, si distingue tra i convenuti,
e quando avanza in città guardano a lui come a un dio.
(VIII 167; trad. di G.A. privitera4)

L’eloquenza era già allora uno dei principali obiettivi


dell’educazione dei giovani. Ricorda Fenice ad Achille,
nell’Iliade, d’aver ricevuto da peleo l’incarico di accom-

4. Omero, Odissea. Trad. di G.A. privitera, Fondazione Lorenzo


Valla, Mondadori, 6 v., 1981.
1. Il contesto storico 21

pagnarlo a Troia ancora giovinetto, ignaro della «guerra


crudele» e dei «consigli, dove gli uomini nobilmente si
affermano»:
E mi mandò per questo, perché tu li apprendessi,
e buon parlatore tu fossi e operatore di opere.
(IX 443; trad. di R. Calzecchi Onesti5)

Analogamente, il giovane Toante, «esperto con l’asta,


ottimo nel corpo a corpo» suscita ammirazione perché
… all’assemblea pochi dei Danai
lo vincevano, quando i giovani di parole gareggiano.
(XV 283; trad. di R. Calzecchi Onesti)

Fin dai tempi di Omero l’eloquenza era dunque ap-


prezzata, e lo era perché i Greci erano ben consci di qua-
le fosse il potere che esercitava all’interno della comu-
nità, soprattutto nella lotta politica e nei procedimenti
giudiziari.
Tutta la storia politica della Grecia, dalle più antiche
testimonianze dell’era arcaica alla crisi della polis nel IV
secolo, mostra una società in cui il potere è generalmen-
te condiviso in cerchie più o meno ampie di cittadini, e
i rapporti di potere si esercitano, almeno in parte, attra-
verso la parola. L’affermazione della polis è avvenuta in
un quadro di governo collegiale; e un potere collegiale
implica delle sedi di dibattito.
Le istituzioni arcaiche delle città greche ci sono poco
conosciute: neanche ad Atene possiamo definire con
esattezza quali fossero, all’epoca, le esatte competenze
dei diversi organi e magistrature, di cui pure sappiamo
le attribuzioni nei secoli successivi; ma la collegialità è
inequivocabile. Gli arconti costituivano un collegio di

5. Omero, Iliade. Trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, 1950.


22 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

nove membri, sia pure con diverse attribuzioni. L’Ae-


ropago, formato dagli ex arconti, era un vero e proprio
consiglio degli anziani. Dietro a tutto questo si avverte
però la presenza dell’assemblea dei cittadini6.
In questi organi il potere si esercitava largamente at-
traverso la parola, e l’eloquenza era uno strumento fon-
damentale. In situazioni in cui la competizione politica
non era semplicemente uno scontro sociale, ma spes-
so contrasto tra gruppi all’interno dello stesso ceto, le
condizioni della lotta potevano essere molto articolate,
e la facoltà di convincere era uno strumento prezioso
per mantenere o ribaltare i rapporti di forza. Siamo in
presenza di corpi deliberanti composti anche da cento o
più membri, che non rappresentavano partiti precosti-
tuiti, organizzati in base ad un saldo ordine gerarchico,
ma fluide coalizioni di famiglie gentilizie, ciascuna con
la sua dialettica interna.
Questi organismi dovevano prendere decisioni in
cui le opzioni erano aperte e suscettibili di contrastanti
valutazioni. Allora, la capacità di formulare una pro-
posta politica in termini persuasivi e di sostenerla con
eloquenza poteva favorire efficacemente l’affermazione
di un esponente politico, e risultare allo stesso tempo
decisiva per le scelte dello stato. Analogamente, in un
corpo deliberativo di natura largamente aristocratica
come è stato il parlamento inglese fino alla fine del XIX
secolo, l’abilità oratoria contribuì sostanzialmente alla
carriera di alcuni dei più importanti leader come pal-
merston, Disraeli, Gladstone o Salisbury7.

6. Glotz (1926): «Anche all’epoca di Omero, anche negli stati aristo-


cratici come Sparta, l’intero popolo è consultato, almeno formalmente,
sui grandi problemi della vita pubblica» (I p. 439).
7. I discorsi parlamentari di questi politici dovevano innanzitutto
convincere il parlamento. Quelli dei politici greci si rivolgevano spesso a
un’intera cittadinanza.
1. Il contesto storico 23

per la verità si tramanda che (Chambers, 2004)


i discorsi di palmerston risultavano spesso migliori alla lettu-
ra che all’ascolto (p. 49)

ed è forse per questo che fu proprio palmerston nel


1829, sembra, ad inaugurare l’uso di distribuire alla
stampa copie di un discorso prima di pronunciarlo in
parlamento (p. 127), assicurandone così una diffusione
nazionale. In Grecia, in epoca arcaica, questa possibilità
di diffusione ovviamente non esisteva, dato che i Greci
erano allora nella quasi totalità analfabeti, benché l’in-
venzione della scrittura risalisse almeno alla metà del
secolo VIII e le prime leggi scritte fossero state redat-
te forse un secolo dopo8. Come ha mostrato Havelock
(1963):
In una società pre–letteraria, come si può conservare una
nozione? La risposta inevitabilmente è: nelle memorie
viventi di persone che successivamente sono giovani poi
anziani e poi muoiono. […] la conservazione in prosa era
impossibile. L’unica tecnologia verbale disponibile per ga-
rantire la conservazione e la stabilità della trasmissione era
quella della parola ritmica, organizzata abilmente in sche-
mi verbali e tecnici sufficientemente particolari da preser-
vare la loro forma (p. 42).

8. Strabone (VI, 1, 8) riferisce che i Locresi «siano stati i primi a


far uso di leggi scritte» e che secondo Eforo a sistemarle fosse Zaleu-
co. Dunbabin (1948) lo colloca nella seconda generazione della colonia,
quindi dopo la metà del VII secolo. Quasi contemporaneo sarebbe stato
Caronda di Catania. Ad Atene le più antiche leggi scritte risalgono a
Dracone, intorno al 620. La redazione delle leggi scritte ha verosimil-
mente rivestito un’importanza fondamentale per la rottura del con-
trollo aristocratico del diritto consuetudinario, trasmesso oralmente,
a cui la maggioranza dei cittadini, priva di cultura, non aveva accesso.
pochissimi però dovevano essere in età arcaica i cittadini effettivamente
in grado di leggere i codici in prima persona.
24 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

In sostanza, in una società priva di scrittura l’unico


mezzo di conservazione e trasmissione culturale è la me-
moria, e il ritmo assicura un’efficace memorizzazione.
L’equivalente della pubblicazione erano allora la formu-
lazione poetica e la recitazione cantata. Una proposta le-
gislativa, un programma di governo o un manifesto ide-
ologico dovevano essere facilmente memorizzabili per
consentire la trasmissione da persona a persona. Uno dei
più antichi esempi rimastici dell’uso del metro da parte
di un uomo politico è forse l’elegia composta da Solone
tra la fine del VII secolo e l’inizio del VI per spingere gli
Ateniesi alla riconquista dell’isola di Salamina, occupata
da Megara9. Dei cento versi del carme (plutarch. Sol. 8,
17) ci sono rimasti solo tre frammenti (2 G.–p.2), peraltro
significativi:
Di persona araldo venni dall’amabile Salamina
componendo un canto, ornamento di parole, non un discorso
(plutarch. Sol. 8, 17)

allora fossi io di Folegandro o di Sicino


invece che Ateniese, cambiando la patria;
subito infatti questa voce tra gli uomini potrebbe nascere:
«Questo è un Attico, traditore di Salamina»
(Diog. Laert. I 47 )

andiamo a Salamina a combattere per l’isola


amabile, cancellando la dura vergogna
(Diog. Laert. I 47 )

9. Abbiamo altri esempi d’incitazione al valore guerriero nelle ele-


gie di Callino e di Tirteo che si riferiscono al VII secolo, o nella poesia
di Alceo, contemporaneo di Solone, ma siamo meno informati sul ruolo
politico di questi personaggi. Dato che l’ispirazione poetica e l’attitudine
alla politica non vanno necessariamente insieme, è anche verosimile che
alcuni di loro si limitassero a prestare la propria voce a sostegno di una
politica di cui non erano protagonisti.
1. Il contesto storico 25

Riferendosi a Solone, Havelock (1963) sottolinea che:


La sua eccezionale padronanza della composizione metrica
gli conferiva efficacia come politico. Le sue politiche si stam-
parono nella memoria degli ascoltatori sicché essi sapevano
quali fossero ed erano in grado di svilupparle (p. 121).

E precisa:
I principali poemi di Solone erano, ritengo, non giustifica-
zioni retrospettive di atti politici (questa tradizione ha avuto
origine da una concezione “letteraria” della poesia) ma di-
rettive, prescrizioni e rapporti contemporanei (p. 131 n. 18).

In effetti, anche altre elegie di Solone (3, 4, 5, 8 G.–p.2)


avevano presumibilmente un’analoga funzione politica:
diffondere e rendere popolari le premesse ideologiche
delle riforme che egli intendeva promuovere durante
il suo arcontato. Solone nell’adottare una forma poeti-
ca non era mosso dunque dal desiderio di raggiungere
«la qualità estetica che la ᾠδή “canto” portava con sé, al
contrario della prosa» (Noussia e Fantuzzi, 2001, p. 230)
quanto dall’intento di conseguire un obiettivo pratico, la
ricerca dell’efficacia politica favorendo la diffusione del
messaggio.
Nella lunga tradizione di gestione collegiale della po-
lis, i tiranni s’inserirono come una brusca rottura, con
l’introduzione di un regime personale. È stato messo in
dubbio che le tirannidi di cui ci resta memoria abbiano
sempre costituito una cesura tanto netta10, ma certo nella
successiva tradizione esse sono state sentite e ricordate in

10. Ad esempio, Anderson (2003) ravvisa nella tirannide dei pisistrati-


di forti elementi di continuità con il precedente regime aristocratico: «po-
che cose ascoltiamo che possano suggerire che il governo della famiglia
fosse qualcosa di molto diverso dall’autorità esercitata precedentemente
da Licurgo e Megacle: è stata soltanto più riuscita e duratura» (p. 75).
26 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

radicale antitesi con i principi tradizionali di un buon go-


verno collegiale. La caduta delle tirannidi è rappresentata
dagli scrittori del V secolo come la restaurazione dell’iso-
nomia, il ritorno a una legge uguale per tutti; anche se
più che di restaurazione doveva trattarsi dell’emergenza
di qualcosa di nuovo, come nel caso, a noi meglio noto,
di Atene.
Lloyd (1996), in un confronto tra l’antica scienza greca
e quella cinese, mostra come alcune peculiari differenze
si possono spiegare proprio in termini d’uditorio:
anche prima dell’unificazione della Cina, la lista di filosofi
cinesi che cercarono di agire, e di fatto agirono, come consi-
glieri di sovrani, è notevole […] il punto focale dell’analisi è
la persuasione del sovrano. […] La convenzione di rivolgersi
a un sovrano non escludeva, ovviamente, la critica delle opi-
nioni dei rivali. Ma con questa differenza, che la critica era
diretta ad un terzo, alla cui opinione era necessario confor-
marsi, e ciò imponeva una certa moderazione (p. 41).

In Grecia, aggiunge Lloyd,


il diretto coinvolgimento di un gran numero di cittadini nel
processo politico, dalle decisioni riguardanti questioni costi-
tuzionali e affari di stato all’amministrare la giustizia nelle
corti, era molto considerevole se giudicato in base agli stan-
dard della maggior parte delle altre società, antiche e mo-
derne. Se ciò è vero soprattutto per le costituzioni democra-
tiche della Grecia, il fatto, come già notato, ha una qualche
validità anche per le oligarchie greche, nella misura in cui
anche le loro attività coinvolgevano l’attiva partecipazione
di un consistente numero d’individui (p. 80).

… le persone da persuadere erano i vostri pari, in riunioni


pubbliche di varia specie (p. 81).

La democrazia greca non era dunque qualcosa di ra-


dicalmente estraneo o opposto alla oligarchia, ma co-
1. Il contesto storico 27

stituiva il punto d’arrivo dell’evoluzione delle libertà


greche.
Studiando un evento storico è difficile figurarsi come
abbiano vissuto gli avvenimenti coloro che vi furono
coinvolti e che parteciparono alle decisioni. Quale era
la posta in gioco per questi uomini? Forse, per cercare
di capire bisogna rivolgersi alla poesia: ad esempio, al
coro dei Sette Contro Tebe (150) di Eschilo, il lungo, in-
quieto, angosciato lamento delle vergini tebane all’in-
terno della città assediata da un esercito minaccioso e
apparentemente inarrestabile. La storia greca è piena di
decisioni disastrose che hanno causato la rovina d’inte-
re comunità, il massacro dei cittadini, la plurisecolare
schiavitù di popolazioni. I cittadini delle polis erano ben
consci della criticità delle decisioni che a volte doveva-
no assumere. In comunità relativamente piccole, in cui
il potere era gestito collegialmente, l’influenza di un
singolo cittadino dotato delle necessarie capacità pote-
va essere considerevole. Rifiutare il confronto, delega-
re la decisione ad altri, contro la propria valutazione
della situazione, poteva condurre a scelte rovinose che
avrebbero coinvolto tutta la cittadinanza. Il problema
di provare a sé stessi e agli altri la bontà delle proposte,
di determinare le scelte, di far comprendere la verità,
sarà stato, in molti casi, cruciale. In uno stato di diritto,
in cui il governo è esercitato da un’assemblea di uguali,
che discutono e in base alla discussione decidono, co-
lui che vuol fare passare una mozione deve parlare e
convincere, combattendo opinioni contrarie, sostenute
con argomenti all’apparenza persuasivi.
Quel che più conta ai fini del discorso epistemologico
è l’influenza delle procedure decisionali sulla cultura. È
verosimile che proprio la pubblicità di queste procedu-
re, implicita nel principio dell’uguaglianza almeno teo-
rica dei cittadini, abbia avuto l’effetto di stimolare una
28 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

riflessione aperta e di favorire lo sviluppo di una cate-


goria di persone esperte dei problemi della conoscenza
e della comunicazione, a cui ricorrere per un’istruzione
destinata a facilitare la promozione sociale in un ambien-
te caratterizzato dal pubblico dibattito. È facile rendersi
conto di come, in un simile contesto, il tema della natura
della verità, dello statuto della conoscenza, sia diventato
d’interesse primario.

1.2. La giustizia

Se le decisioni politiche potevano mettere i cittadini


di fronte a scelte difficilmente decidibili in termini pura-
mente razionali, ancora più frequentemente ciò doveva
accadere nei procedimenti giudiziari.
La maggior parte delle informazioni sul processo at-
tico ci derivano proprio dai discorsi dei logografi, gli
oratori attici. I logografi, che erano praticamente i soli
professionisti specializzati coinvolti nel procedimento
giuridico, non potevano, a differenza dei nostri avvoca-
ti, partecipare al procedimento stesso, ma erano coin-
volti all’esterno. Le parti in causa, l’attore e il convenu-
to — perché ad Atene non esisteva la funzione del pub-
blico ministero — potevano rivolgersi a un consulente,
il logografo appunto, per imbastire il processo, ma do-
vevano comunque presentare il caso personalmente di
fronte ai giudici: il logografo non poteva prendere la pa-
rola. Questi professionisti, che fungevano da consulen-
ti, conoscevano le leggi e le procedure, ma soprattutto,
grazie alla loro esperienza, erano specialisti nell’arte di
convincere le giurie.
Il giudizio si risolveva in un tempo brevissimo,
dell’ordine di alcune ore. Nella Costituzione d’Atene (67)
Aristotele sostiene che in ciascuna corte le cause private
1. Il contesto storico 29

erano ascoltate al ritmo di quattro al giorno e quelle


pubbliche di una al giorno. Le parti avevano pochissi-
mo tempo per convincere i giudici, e tutto si giocava,
di solito, nell’ambito di un discorso per parte: prima
parlava l’attore e poi il convenuto. per i loro interven-
ti essi avevano a disposizione un tempo rigorosamente
limitato, che a seconda della natura e dell’importanza
dei casi poteva andare dai trenta minuti a un paio di ore
per discorso (Todd, 1993, p. 131). Come ha sottolineato
Johnstone (1999),
poiché i giurati votavano immediatamente alla conclusione
delle presentazioni delle parti, non vi erano deliberazioni
collettive in cui essi avrebbero potuto riflettere e valutare vi-
cende che non fossero state esposte loro (p. 56).

L’elemento fondamentale del processo era quindi il


discorso pronunciato davanti ai giudici, che l’avrebbero
ascoltato una volta sola e non avrebbero potuto leggerlo.
Anche le prove raccolte nella fase istruttoria, a cui i giudici
non avevano assistito, e le eventuali testimonianze erano
presentate ai giudici nell’ambito del discorso. A questo
proposito plutarco racconta un aneddoto significativo:
Lisia, avendo scritto un discorso lo consegnò al convenuto
a giudizio; costui, avendolo letto molte volte, andò da Lisia
demoralizzato, dicendo che il discorso gli era sembrato me-
raviglioso al primo esame, ma esaminato di nuovo e poi una
terza volta gli era apparso assolutamente privo di vigore e
inefficace; al che Lisia ridendo disse «e che dunque, ai giudici
non devi forse leggerlo una volta sola?» (de garr. 504c 5).

Il discorso doveva essere congegnato in modo da colpire


i giudici con una forte impressione di verità, e comunque
doveva coinvolgerli emotivamente. Ciò che contava era il
rapporto che si sarebbe stabilito tra la parte — l’accusatore
o l’imputato — e i giudici. Dai discorsi che ci sono rimasti
30 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

è evidente che i logografi, soprattutto quando scrivevano


per la difesa, non si preoccupavano tanto di esporre gli
aspetti strettamente giuridici, comunque sempre presen-
ti, quanto di raccontare una storia che i giudici potessero
comprendere e con la quale potessero empatizzare. Così
l’imputato cercava di mettere in luce le sue benemerenze,
e anche ispirare la pietà della corte con lacrime e scene
compassionevoli. Come nota Talamanca (Bretone e Tala-
manca, 1981), tutto ciò faceva sì che il processo ateniese
rappresentava, nella coscienza dei consociati, prevalente-
mente un rischio, ben al di là del luogo comune dell’aleato-
rietà del processo, come può essere sentito da noi moderni o
dagli stessi romani (p. 70).

Non abbiamo descrizioni riguardanti processi della


fine dell’epoca arcaica e dell’inizio di quella classica; non
sappiamo bene neanche come si sia evoluto il processo
ateniese, dalle prime forme di limitata isonomia all’epoca
di Solone a quelle, molto meglio documentate, del IV se-
colo; ma nella Grecia della fine del VI secolo l’aleatorietà
dell’amministrazione della giustizia non doveva essere
certamente inferiore a quella di epoca più tarda. In queste
condizioni, il tentativo di ricercare le basi della verità, pri-
ma, e lo studio delle tecniche di persuasione, poi, doveva
già allora presentarsi come un’esigenza pressante, dato
anche che, come nota Gagarin (1986),
le caratteristiche fondamentali della legge greca classica, in
particolare la promulgazione delle leggi e la forte enfasi sulla
procedura legale, erano essenzialmente la creazione dell’età
arcaica (p. 146).

Non è pensabile che processi importanti, che si svolge-


vano davanti a una giuria di cittadini e in forma pubblica,
non attraessero, ben più di oggi, l’attenzione di vasti udito-
1. Il contesto storico 31

ri. Nell’Atene classica i processi richiamavano un interesse


enorme, tanto che potevano essere considerati una vera e
propria mania, come testimoniato dalle Vespe di Aristofane;
ma la cosa doveva aver avuto inizio molto prima. Già Ome-
ro nella descrizione dello scudo di Achille mette in scena
un’intensa partecipazione popolare a un processo. È anche
immaginabile che, dopo il giudizio, le prove e le argomen-
tazioni fossero oggetto di esami dettagliati e di accanite
discussioni. È verosimile che l’aleatorietà dei risultati, l’im-
possibilità di distinguere con sicurezza il torto dalla ragio-
ne, l’amarezza anche, che poteva essere causata dell’impos-
sibilità di provare ciò che a molti doveva apparire un palese
errore giudiziario, dovevano aver richiamato l’attenzione
su come la verità fosse per lo più elusiva e indimostrabile.

1.3. La religione

La redazione dei poemi omerici, che sono la prima


testimonianza scritta di quella particolare forma di culto
greco che è la religione olimpica, si colloca intorno alla
metà dell’VIII secolo o poco più tardi. Era l’epoca della
massima egemonia della classe nobiliare, che non soltan-
to gestiva a suo piacimento il potere, ma aveva anche il
controllo dei riti ufficiali (Dietrich, 1974). È per questa
classe che gli aedi cantavano ed era ai gusti di questa
classe che essi dovevano conformarsi11. Ciò che Omero
11. Latacz (2004) osserva che in un’epoca di rapido progresso della
Grecia «lo strato superiore della nuova aristocrazia era, da un lato, il mo-
tore del nuova crescita, mentre dall’altro si sentiva minacciato dal rapido
sviluppo che esso stesso stava stimolando» (p. 185). Dal senso d’insicurez-
za derivava un tentativo di compattazione intorno a «norme socialmen-
te vincolanti», nel cui ambito «[l]’epica omerica di Achille, più tardi nota
come l’Iliade, rappresenta un tentativo di fornire una risposta al problema
ancora irrisolto di un’aggiornata autodefinizione della nobiltà» (p. 186).
Vedi anche Vegetti (1997), p. 265.
32 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ci rappresenta non è quindi la religione greca, ma quella


particolare forma religiosa cui aderiva in linea di massima
la classe dirigente greca dell’epoca.
Gli aristocratici dell’età arcaica non pretendevano
molto dai loro dèi. Li credevano immortali ma non
ingenerati, e riconoscevano loro gran parte dei difetti
degli uomini. Nessuno, comunque, in quell’epoca at-
tribuiva agli dei qualcosa di simile a ciò che oggi indi-
chiamo con la parola bontà. L’etica di queste divinità
non differiva sostanzialmente da quella della classe ari-
stocratica che le onorava e le imponeva alla venerazio-
ne dei propri villici. prepotenti, non si facevano alcuno
scrupolo d’arraffare ciò che appetivano, anche con l’in-
ganno se necessario. Spesso si divertivano a deludere le
aspettative degli uomini12, esattamente come un ricco
proprietario terriero si sentiva libero di deludere quelle
dei rustici subumani che coltivavano le sue terre, e le
cui eventuali aspettative, se manifestate, sarebbero sta-
te accolte come una forma d’insubordinazione. Se una
dea s’incapricciava di un mortale, come Atena d’Odis-
seo, e decideva d’aiutarlo, non era perché questi la ve-
nerava — la venerazione era dovuta — ma perché così
garbava a lei. Gli dèi non tolleravano insulti al proprio
onore, ma non erano onnipotenti: se nei loro intenti
incontravano l’opposizione di un altro dio più forte e
rimanevano frustrati, correvano a lamentarsi da Zeus,
loro signore, per esigere giustizia, ossia per ottenere il
raddrizzamento del torto che ritenevano d’aver subito
e la riparazione dell’offesa fatta al loro onore. Questi
dèi greci erano, insomma, gli esseri superiori più verosi-

12. Untersteiner (1956) menziona «l’amara esperienza dell’uomo


che ottiene da dio il contrario di quanto la sua etica o la sua fiducia
prefiguravano» (p. cxxiii) spiegando «la rappresentazione dell’ingan-
no divino come conseguenza della troppa fiducia e, quindi, della ὕβρις
dell’uomo» (p. cxxiii).
1. Il contesto storico 33

mili che si potessero immaginare. Gli aristocratici greci


veneravano dunque gli dèi come loro simili molto più
potenti. Dovevano loro rispetto, attenzioni e sacrifici,
e viceversa speravano da loro favori in vita, ma senza
farci troppo affidamento. Credevano però fermamente,
che se non li avessero onorati a sufficienza, se non aves-
sero rispettato culti ed oracoli, ne avrebbero ricevuto
devastanti punizioni in vita. Il sacrilegio era una delle
colpe più gravi, anche perché avrebbe potuto coinvol-
gere un’intera comunità.
La religione olimpica, nella forma in cui Omero la
rappresentava, non offriva ai suoi fedeli grandi speranze
per l’oltretomba. I morti erano morti, e se la loro ani-
ma sopravviveva nell’Ade era solo in forma larvale, priva
di quelle capacità che la caratterizzavano nel legame col
corpo. Essa viveva un’esistenza quasi priva di coscienza,
senza interesse e senza attrattive. Il premio per un com-
portamento onorevole non si situava nell’aldilà, non era
una vita eterna e felice in un paradiso promesso, ma con-
sisteva nell’essere onorati dagli uomini e lodati dagli dèi.
Così Eraclito (22 B 29):
preferiscono infatti una cosa tra tutte i migliori, gloria eterna
tra i mortali
(Clem. Alex. strom. v. 6)

premio era anche il pio ricordo da parte della propria


discendenza, finché essa fosse durata. A molti potrebbe
sembrare poco, ma di questo poco molti s’accontente-
rebbero volentieri anche oggi.
All’importanza del ricordo era legata la funzione so-
ciale dei poeti che dell’aristocrazia celebravano le gesta,
assicurandone la memoria; meno effimeri, certo, della
nostra televisione.
Canta pindaro:
34 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Vi è un detto degli uomini,


compiuta un’impresa eccellente
non nasconderla nel silenzio:
s’addice la divina melodia
della lode dei versi
(Nem. IX 13)

Si trattava d’una religione, si consenta il paradosso,


realistica e priva di soverchie illusioni. La religione d’una
classe che, tutto sommato, accettava non senza qualche
orgoglio il suo status anche relativamente agli dèi, sui
quali proiettava i propri valori13.
Esiodo rappresenta uno stadio più avanzato della stessa
religiosità. Se la Teogonia cercava di ordinare l’intricatissima
tradizione di miti e personaggi divini di cui era intessuta
la religione greca, è però nelle Opere e giorni che sembra di
poter individuare gli elementi più nuovi e vitali della conce-
zione religiosa del poeta: vi si legge un vivissimo anelito di
giustizia, che domanda più concrete assicurazioni, e Zeus è
invocato per garantire in blocco la giustizia ai mortali.
Con lo sviluppo della polis, sostituendosi le leggi citta-
dine al primitivo diritto gentilizio, anche gli dèi cambia-
no carattere. Il dio, un tempo immagine ipostatizzata del
nobile, si tramuta in quel garante dell’ordine e del potere
della città che troviamo anche in Solone. La motivazione
etica fondamentale del singolo resta però la stessa: l’ono-
re, il rispetto degli altri cittadini, il ricordo dei posteri.
Se la religione olimpica che Omero ci tramanda era la
forma religiosa cui aderiva preferibilmente il ceto aristo-
cratico, essa però non era in grado di soddisfare tutte le
esigenze religiose della popolazione greca. Infatti, secon-
do Dodds (1951), vi sono
fondate ragioni di supporre che i poeti epici fingessero di
non conoscere, o riducessero al minimo, numerose creden-

13. Vedi Finley (1954), p. 168.


1. Il contesto storico 35

ze e pratiche esistenti ai loro tempi, che erano tuttavia sgra-


dite ai loro mecenati.
(p. 62, trad. V. Vacca de Bosis)

Harrison (1903) nota come ben altra fosse


nel sesto e anche nel quinto secolo prima dell’era cristiana la
reale religione della massa del popolo, una religione non di
cura gioiosa ma di paura e deprecazione. La formula di que-
sta religione non era do ut des ‘do perché tu possa dare’, ma
do ut abeas ‘do perché tu possa andartene e restare lontano’.
Il culto non era tributato a dèi razionali, umani, obbedienti
alle leggi, ma soprattutto a vaghi, irrazionali e per lo più ma-
levoli δαίμονες, spiriti, fantasmi, spettri e simili (p. 7).

«La paura crea gli dèi» ricorda Nilsson (1964, p. 106). Il


mondo era allora pieno di minacce, soprattutto per colo-
ro che vivevano al limite della sopravvivenza. Non solo le
malattie, le pestilenze piombavano sulle persone e sulle
comunità all’improvviso e senza cause apparenti, ma una
carestia, un raccolto scarso o mancato, un deposito di gra-
no andato a male potevano significare per una famiglia di
contadini la rovina, la schiavitù per debiti, l’impossibili-
tà di sopravvivere. Ben più di oggi, gli uomini erano alla
mercé di forze che non erano in grado di comprendere e
ancor meno di prevedere o di controllare, forze che pote-
vano da un momento all’altro stravolgere le loro vite. Le
guerre stesse, con i saccheggi, le distruzioni, le violenze
e le uccisioni giungevano, per il contadino che non ave-
va nessuna parte nelle decisioni, senza preavviso e senza
possibilità di comprensione. Il mondo su cui queste paure
si accentravano prevalentemente era quello sotterraneo,
e i culti apotropaici con cui si cercava di tenerle a bada
assumevano dunque un carattere ctonio.
Come Burkert (1977) sottolinea, gli aspetti ctonii e
quelli olimpici fanno entrambi parte, allo stesso titolo,
della religiosità greca dell’epoca arcaica, che integra in
36 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

un unico sistema divinità celesti e sotterranee. Il Greco


politeista poteva senza difficoltà venerare in divinità di
diversa natura differenti aspetti della realtà. A un certo
punto dell’età arcaica ci troviamo dunque in presenza
di una religione articolata in diverse forme, che in larga
misura si integrano tra di loro, convivendo senza esclu-
dersi. Una caratteristica importante di questa religiosi-
tà, che riguarda sia gli aspetti olimpici sia quelli ctonii,
è la scarsa importanza che essa sembra attribuire alla
vita dopo la morte. Certo non proprio tutto finiva con
la morte, e ad alcuni il potere che i defunti potevano
esercitare sui vivi incuteva paura. La sostanza, però,
non cambiava molto: quello che contava era la vita. Era
una religiosità priva di una vera e propria escatologia,
che non nutriva illusioni sull’altro mondo ma concen-
trava le sue attese sulla vita. Assume, allora, un aspetto
emblematico il fatto che i due più antichi testi scritti
in lingua greca post–micenea siano iscrizioni graffite su
recipienti per il vino. La prima, su una brocca probabil-
mente ateniese databile intorno al 740, in cui si legge,
tracciato con mano poco esperta, un esametro dattilico
(Hurwit, 1985)
colui che di tutti i danzatori ora più agilmente danzerà (p. 89).

forse seguito da qualcosa come “riceverà questa coppa”,


che evoca una convivialità festosa. La seconda, su una ko-
tyle della seconda metà del VIII secolo, importata da Rodi
a pithecussai nell’Isola d’Ischia (Ridgway, 1984)14, la cosid-

14. Trovata nella tomba di un fanciullo nobile di circa dieci anni. Nel-
la coppa e nel resto della ricca fornitura funeraria si potrebbe vedere, se-
condo la sensibile interpretazione di Annie Schnapp–Gourbeillon (2002):
«l’espressione di un immenso rimpianto per la precoce morte d’un futuro
governante della città, con il deposito d’arredi che ricorda tutto ciò ch’egli
avrebbe potuto essere, se fosse vissuto» (p. 307).
1. Il contesto storico 37

detta Coppa di Nestore, è in parte costituita anch’essa da


esametri epici (Meiggs e Lewis, 1969):

piacevole bere dalla coppa di Nestore,


ma colui che beve da questa coppa subito
prenderà il desiderio d’Afrodite dalla bella corona.

Non invocazioni ad onnipotenti divinità quindi, né


formule magiche, né glorificazioni di sovrani, né tanto
meno editti o documenti contabili, ma celebrazioni delle
gioie che la vita può offrire nel suo breve percorso.
Come l’uomo omerico che, pur credendo negli dèi,
li considerava alla stregua di un potentissimo fattore
dotato di finalità proprie, distinte da quelle umane, e
non come garanzia di una vita dopo la vita, così i pri-
mi scienziati della Ionia e i pensatori successivi, tratta-
ti nel seguito, guardavano alla natura senza aspettarsi
che essa riconoscesse l’uomo come suo fine, ma ciò
nonostante con vivissimo interesse.
Questo fondamentale realismo può aver facilitato
la formulazione di quel punto di vista oggettivo e non
teleologico che ha improntato di sé la filosofia ionica
e la scienza greca. per tutto il V secolo questo punto di
vista è rimasto sostanzialmente egemone nella ricerca
scientifica e nella relativa speculazione epistemologi-
ca. Egemone, ma non esclusivo: nella galassia della
religiosità ellenica convivevano anche altre istanze,
parzialmente compenetrate con le forme olimpiche
e ctonie. In particolare era presente una diffusa ansia
di garanzie escatologiche che si esprimeva, ad esem-
pio, nei riti eleusini, nel culto di Dioniso, nelle sette
orfiche. A queste istanze, che andranno rafforzandosi
col tempo, attingerà anche il pensiero filosofico, con
Empedocle e il pitagorismo, andando a costituire un
substrato cui nel IV secolo si collegherà platone.
38 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

1.4 Il pensiero scientifico

Il periodo in cui si è sviluppato il pensiero esamina-


to in questo studio, che va dalla fine del VI secolo a. C.
alla metà del V, è molto prossimo all’inizio del pensiero
scientifico greco, ma non proprio all’inizio: è stato infat-
ti durante la prima metà del VI secolo che nella Grecia
asiatica, a Mileto, la più importante città della Ionia, è
nata quella inedita forma di pensiero che è la scienza gre-
ca. Qui Talete si è dedicato ai primi studi di geometria e
astronomia di cui si abbia notizia nel mondo greco, la-
sciando ai posteri un ricordo di grande sapienza, tanto
che il suo nome era diventato proverbiale, proprio come
per noi quello di Einstein. Gli immediati successori di
Talete, i primi due grandi pensatori di cui si possedeva
un’opera scritta, Anassimandro e Anassimene, oltre a
dedicarsi alla geometria e ad osservazioni astronomiche,
hanno formulato i primi modelli fisici dell’universo, e
delineato l’evoluzione della terra e lo sviluppo della vita
su di essa. Essi hanno compiuto un tentativo di tracciare
una rappresentazione coerente di quello che pensavano
potesse essere il mondo, integrando in un vasto quadro
le osservazioni disponibili all’epoca. Secondo un’inter-
pretazione che ritengo verosimile, la terra era vista come
un frammento terroso raggrumatosi al centro di uno
smisurato vortice che, insieme a infiniti altri, si sarebbe
formato in una massa fluida in perpetuo movimento e
di estensione illimitata, massa di cui Anassimandro non
ha ritenuto di poter definire la natura, e che Anassimene
sembra aver immaginato analoga alla nostra atmosfera.
Successivamente Senofane, un più giovane contempora-
neo di Anassimene, ha presentato un modello alterna-
tivo del cosmo, con la terra che occupa metà dell’uni-
verso, il cielo l’altra metà, e il nostro mondo collocato
sulla superficie di contatto. Il percorso dei corpi celesti,
1. Il contesto storico 39

in apparenza circolare, è invece rettilineo, con astri che si


rinnovano giorno dopo giorno.
È verosimile che i sapienti di cui conosciamo i nomi
rappresentassero soltanto la punta dell’iceberg, la crema
della società colta, i personaggi di maggior spicco; ma
intorno ad essi doveva esistere anche un pubblico, pro-
babilmente non molto numeroso ma non insignificante,
formato da persone interessate ad argomenti scientifici
di vario genere. Si può pensare che anche altre teorie,
di cui non ci è giunta notizia, venissero proposte e di-
scusse dopo la recitazione di testi, in conversazioni con-
viviali o in discussioni tra studiosi. Grazie alla mancanza
di un’autorità che per motivi diversi da quelli scientifici
imponesse una propria visione del mondo, era lasciato
libero gioco alla formulazione di differenti teorie; ma in
queste discussioni sarà anche apparsa evidente la natura
congetturale di ciascuna dottrina, e l’impossibilità di pro-
varla in modo incontrovertibile.
Nulla è arrivato fino a noi su eventuali concezioni
epistemologiche dei Milesi, se si eccettua qualche vaga
indicazione che, essendoci giunta attraverso una serie
di autori molto più tardi, è oramai pressoché irricono-
scibile per la stratificazione di interpretazioni successi-
ve, influenzate da visioni del mondo irrevocabilmente
diverse. Di conseguenza, ciò che si può desumere dalle
testimonianze riguardo ai criteri scientifici che hanno
guidato questi primi audaci innovatori nella formula-
zione delle loro teorie dipende in larga misura da come
si interpreta una tradizione poco chiara, se non addirit-
tura contraddittoria.
Ritengo che uno dei criteri guida adottati dai Milesi
per l’analisi di fenomeni non direttamente osservabili nel
loro insieme possa essere stato l’analogia pertinente: l’ana-
logia fisica per i fenomeni cosmici, quella biologica per i
processi vitali. Questo, almeno, è quanto mi pare si possa
40 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ipotizzare riguardo ad Anassimandro, cercando d’inter-


pretare una tradizione indubbiamente ambigua. Nulla
però siamo in grado di dire in merito alla concezione che
questi studiosi avevano della conoscenza stessa.
Con Senofane di Colofone compaiono le prime espli-
cite ma sintetiche riflessioni sul valore della conoscenza.
Senofane attribuisce la perfetta sapienza a un dio dalle
funzioni non ben determinate, ma certamente onniscien-
te, e al tempo stesso nega decisamente la possibilità che
un essere umano raggiunga la verità. Egli conserva però
la fiducia nella capacità dell’uomo di migliorare le pro-
prie conoscenze, grazie all’impegno. Questa concezio-
ne, che in quello che resta di Senofane è appena deline-
ata, andrà precisandosi nel mezzo secolo successivo e si
manterrà largamente egemone, sia pure con significative
eccezioni, fino alla seconda metà del V secolo. Il primo
importante passo avanti nello sviluppo di questa conce-
zione epistemologica è stato compiuto da Eraclito.
2. Le intuizioni di Eraclito

I do not know much about gods; but I think that the river
Is a strong brown god — sullen, untamed and intractable,
Patient to some degree, at first recognised as a frontier;
Useful, untrustworthy, as a conveyor of commerce;
Then only a problem confronting the builder of bridges.
The problem once solved, the brown god is almost forgotten
by the dwellers in cities — ever, however, implacable,
Keeping its seasons and rages, destroyer, reminder
Of what men choose to forget. Unhonoured, unpropitiated
by worshippers of the machine, but waiting, watching and waiting
Thomas Stearns Eliot1

2.1. Eraclito l’oscuro


Sull’epoca in cui visse Eraclito di Efeso esistono due
tradizioni. Secondo Apollodoro (in Diogene Laerzio
e nella Suida) egli fiorì nella 69a olimpiade (504–501):
assumendo che l’akmé corrisponda a circa quaranta
1. The Dry Salvages in T.S. Eliot Four Quartets: «Io non so granché
degli dei; ma penso che il fiume / Sia un forte dio bruno, — scontroso, in-
domito e intrattabile, / paziente fino a un certo punto, dapprima ricono-
sciuto come una frontiera; / Utile, senza fidarsene troppo, come veicolo
di commerci; / E poi solo un problema per il costruttore di ponti. / Una
volta risolto il problema, il dio bruno è quasi dimenticato / Dagli abitanti
delle città, — ma sempre, tuttavia, implacabile, / Fedele alle sue stagioni
e alle sue furie, distruttore, ricorda / Agli uomini ciò ch’essi preferiscono
dimenticare. Non l’onorano, non lo propiziano / Gli adoratori della mac-
china, ma lui li aspetta, veglia e aspetta» (trad. di Filippo Donini: Quattro
quartetti, Garzanti, 1989).

41
42 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

anni d’età, Eraclito sarebbe nato nel 544–541. Secondo


Eusebio (in Cirillo)2, invece, la nascita si colloca nella
70a olimpiade (500–497) e l’akmé sarebbe caduta nel
460–457. La prima datazione è accettata dalla maggior
parte degli studiosi; uno dei sostenitori della seconda
è Colli (1967), ma i suoi argomenti non mi sembrano
risolutivi3.
per Giannantoni (1969):
La seconda tradizione, già meno attendibile in linea gene-
rale rispetto a quella di Apollodoro, sembra costruita con
l’intento di avvicinare l’akmé di Eraclito con il momento in
cui i decemviri romani compirono la loro opera legislativa
(ol. 81, 4 = 452/1 a.C.) con l’aiuto di quel Ermodoro che è
stato identificato — ma la cosa è molto improbabile — con
l’amico di Eraclito (I p. 179, n.1).

Il fatto che Eraclito nomini al passato pitagora, Se-


nofane ed Ecateo stabilisce un termine post quem. Alcu-
ni autori4, pensando che parmenide alluda a Eraclito,
ritengono di possedere anche un termine ante quem, ma
non credo che l’interpretazione del testo di parmenide
in questo senso sia accettabile.

2. c. Jul. I p. 12b = 59 A 4 (anche in Girolamo, Chron. s. Ol. 70): la


nascita di Eraclito è qui associata a quelle di Ellanico, Democrito e Anas-
sagora. Secondo Mouraviev (2003, p. 122) per Eraclito la notizia indiche-
rebbe solo che egli era in vita in quella data. In un tentativo di mettere
insieme le diverse datazioni l’autore ritiene che come akmé Apollodoro
intenda non i quaranta anni ma i venti, ossia la fine della pubertà, mo-
mento in cui Eraclito avrebbe rinunciato al titolo regale. Egli sarebbe
nato allora verso il 520.
3. I principali argomenti di Colli: «Un passo del Sofista (242 c–d)
che tratta da contemporanei Eraclito e Empedocle […] la citazione da
parte dell’Efesio di Senofane e Ecateo […] come uomini già famosi —
l’avversione di Eraclito per il governo democratico della sua città, che
sarebbe stato possibile soltanto dopo il 478» (p. 171).
4. Ad esempio Burnet (1892).
2. Le intuizioni di Eraclito 43

Eraclito ha goduto un’indiscussa reputazione di pen-


satore criptico:
Heraclitus ille tenebrosus (adv. Marcionem II 28,1)

lo definisce Tertulliano circa sette secoli dopo; ma questa


fama risalirebbe fino al V secolo a.C. se fosse veramente
attribuibile a Socrate l’opinione che per giungere in fon-
do al libro di Eraclito ci sarebbe voluto un palombaro di
Delo (Diog. Laert. II 22). L’oscurità è in qualche misura
dipendente dal carattere dello scritto, che sembra conce-
pito non come un testo continuo ma come un insieme
di aforismi. L’oscurità non era però assoluta se in un epi-
gramma si legge:
Non svolgere velocemente fino alla verga il libro di Eraclito
efesio: per te un sentiero assolutamente impraticabile.
È oscurità e tenebre senza luce: ma se un iniziato
ti conduce, più luminoso del sole splendente (Diog. Laert.
IX 16).

La chiave della comprensione sarebbe dunque


l’illuminazione: una volta afferrato il punto di vista, il
significato diventerebbe chiarissimo.
Dato lo stato frammentario in cui ci è giunto lo scrit-
to — una collezione di corti brani, più che un testo
mutilato — il problema dell’interpretazione non può
essere risolto in modo univoco. La natura aforistica del-
lo scritto, quale oggi ci appare, non sembra tanto un
prodotto della mutilazione quanto un effetto cercato
dall’autore5. È come se Eraclito abbia inteso produrre

5. Waugh (1991): «Neanche dovremmo ritenere che i “frammenti”


di Eraclito siano frammenti di frasi più lunghe costituenti paragrafi di una
prosa filosofica continua, ossia un “libro”» (p. 613).
44 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

una serie di affermazioni facilmente memorizzabili6 per


il contenuto, la forma e il ritmo, connesse per mezzo di
associazioni e assonanze, piuttosto che un’argomentazio-
ne consequenziale e logicamente articolata7. Siamo agli
inizi della prosa scientifica, e forse nessuno aveva cercato
in precedenza di sviluppare argomenti del tipo di quelli
che Eraclito ha trattato: non esistevano forme canoniche
per esporre quei temi, né criteri condivisi per la presen-
tazione delle argomentazioni, e l’autore si trovava nella
necessità d’inventare, quasi senza precedenti, una nuova
forma d’espressione.
presi singolarmente i frammenti non sono molto il-
luminanti: poche sono le affermazioni che s’impongono
per evidente genialità; la maggior parte possono appari-
re ovvie e talvolta insensate o assurdamente paradossa-
li. Non credo tuttavia che si debba rinunciare a cercare
un senso coerente e significativo, perché visti nel loro
insieme i detti di Eraclito danno invece un’impressione
di grande profondità. È però necessario sgomberare pre-
ventivamente il campo da interpretazioni apparentemen-
te ovvie ma fuorvianti, che risalgono in ultima analisi a
platone e ad Aristotele.

6. Nota Robb (1983b): «Eraclito componeva e comunicava essen-


zialmente nelle stesse condizioni di proto–letteratura […] in cui la so-
pravvivenza tra il pubblico significava che l’autore dovesse prevedere, e
provvedere linguisticamente per il fatto che la sua composizione sarebbe
stata essenzialmente ascoltata e memorizzata» (p. 178). Stanford (1967)
ha sottolineato la preminenza della parola anche nella lettura, mostrando
l’esistenza di chiare indicazioni del fatto che in antichità questa non fosse
mai silenziosa, ma sempre vocale, attribuendo così grande importanza
al suono: «I nostri testi classici non erano mai composti dai loro autori
per essere letti solo con gli occhi e il cervello, come formule algebriche o
ideogrammi cinesi. Le parole scritte erano più un aiuto mnemonico per
ricordare al lettore certi suoni» (p. 3).
7. per Mouraviev (2002): «Lo stile e l’oscurità che sono stati osserva-
ti in lui sono naturalmente i riflessi (ben pallidi riflessi, ahimè!) della reale
poetica del linguaggio del pensatore di Efeso» (p. 9).
2. Le intuizioni di Eraclito 45

2.2 Flusso universale e identità dei contrari

2.2.1. La testimonianza di Platone

Le più antiche citazioni che ci siano giunte del nome


di Eraclito sono di platone8. Nel Cratilo è menzionata la
teoria del flusso universale:
Socrate: Credo di comprendere che Eraclito enunci cose
antiche e sagge, addirittura su Crono e Rea, quelle che
anche Omero narrava.
Ermogene: Cosa intendi con ciò?
Socrate: Eraclito dice in qualche luogo che «tutto scorre e
nulla rimane» e, paragonando gli esseri alla corrente di
un fiume, dice che «non potresti entrare due volte nello
stesso fiume».
Ermogene: È così.
Socrate: E che, dunque? Credi che pensasse diversamente da
Eraclito colui che poneva come antenati degli altri dèi
Rea e Crono? Credi, forse, che sia un caso che egli abbia
dato ad entrambi nomi di scorrimento? E come Omero
dice «Oceano padre degli dèi» «e madre Teti» così, credo,
anche Esiodo. Orfeo ugualmente dice da qualche parte
che «Oceano dalla bella corrente per primo introdusse le
nozze, egli che prese in moglie la sorella Teti, nata dalla
stessa madre». Osserva dunque che queste cose concor-

8. Altre citazioni o riferimenti a Eraclito senza menzione del nome


sono state segnalate da diversi autori. Burkert (1983) ha dimostrato che
nel papiro di Derveni, il cui testo risale probabilmente al 400/380 a.C.,
può essere individuata una chiara influenza eraclitea, con due citazio-
ni dirette dal testo di Eraclito. Alcuni studiosi (vedi Mondolfo e Tarán,
1972, p. XLI) riconoscono sentenze eraclitee o almeno l’influenza di Era-
clito in autori del V secolo. Mansfeld (1983), riprendendo la tesi di Snell
(Die Nachrichten über die Leben des Thales und die Anfänge der grie-
chischen philosophie – und Literaturgeschichte. Philologus 96 N.S. 50,
1944: 170–182) che aveva identificato nel sofista Ippia la fonte comune di
platone (Crat. 402a) e di Aristotele (Met. I 3, 983b 20), conclude: «Ippia,
non platone, è la nostra fonte più antica per cenni e citazioni di Eraclito»
(p. 94).
46 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

dano l’una con l’altra e tendono tutte a quelle di Eraclito


(402a 4).

La pretesa di far risalire il pensiero di Eraclito a Ome-


ro, a Esiodo e al mitico Orfeo ha il sapore di uno scherzo:
sostenendo che tutto si muove, come in un flusso, Era-
clito non direbbe in effetti nulla di nuovo, e il suo «tutto
scorre e nulla rimane» non costituiva davvero una grande
scoperta. Nel Teeteto, però, alla dottrina del flusso univer-
sale platone premette quella del relativismo, associando
a Eraclito anche protagora, Empedocle e Epicarmo, ol-
tre a Omero:
Io ti dirò, e non un argomento da poco, che allora in sé e
per sé nulla è uno, né alcuna cosa potresti dire né corretta-
mente, né quale sia, ma se la chiami grande, appare anche
piccola, e se pesante, leggera; e tutto così, non essendo nulla
uno, né qualcosa, né in qualche modo. Invero, è dalla cir-
colazione, dal movimento e dal mescolamento di una cosa
con l’altra che nascono tutte le cose che diciamo essere, non
parlando correttamente; infatti, nulla è mai, ma tutto divie-
ne. A proposito di questo, i sapienti uno dopo l’altro, eccetto
parmenide, concordano: protagora, Eraclito e Empedocle;
e anche, tra i poeti, i sommi di entrambi i generi poetici,
della commedia Epicarmo e della tragedia Omero. (Questi)
dicendo: «Oceano padre degli dèi e la madre Teti» ha det-
to che tutte le cose sono nate dal flusso e dal movimento.
(152d 2)

platone accosta protagora a Eraclito anche più avanti


(Theaet. 160d), dove il sofista è ricordato proprio per la
sua concezione della relatività del vero, come mostra la
citazione del famoso passo «di tutte le cose è misura l’uo-
mo…». Quindi platone accomuna questa dottrina con
quella del flusso universale9, secondo cui nessuna cosa è

9. Vedi Stern (1991) p. 583.


2. Le intuizioni di Eraclito 47

sempre la stessa ma tutto muta. In effetti, per platone le


due dottrine discendono entrambe dell’aver identificato
la scienza con la sensazione. La scienza si riduce allora
alla soggettiva registrazione della assoluta variabilità del-
la natura:
Nulla è uno di per se stesso, ma sempre diviene per qualcu-
no, e l’essere è scacciato da ogni luogo (157a 7).

Sia la soggettività della conoscenza, sia il perpetuo


mutamento della natura impediscono di cogliere l’essere
delle cose. per la verità, Eraclito è chiamato in ballo solo
per la sua formulazione della dottrina del flusso, ma è
chiaro che per platone questa dottrina discende dal guar-
dare troppo direttamente la natura, senza porsi sul piano
delle essenze immodificabili. Eraclito sarebbe sostanzial-
mente incappato nel pericolo che il Socrate di platone
aveva paventato e che voleva evitare, come racconta nel
Fedone:
temetti che non mi si accecasse completamente l’anima
guardando alle cose con gli occhi e cercando di coglierle con
ciascuno dei sensi. Ritenni dunque di dovermi rifugiare nei
ragionamenti e con quelli tentare di attingere alla verità de-
gli esseri (99e 1).

Nella caricatura degli Eraclitei che compare nel Tee-


teto10, il flusso continuo di Eraclito diventa una perenne
agitazione dell’anima:
Teodoro: […] E infatti, o Socrate, in merito alle dottrine de-
gli Eraclitei — o, come tu dici, degli Omerici e anche più
antichi — argomentare proprio con coloro che a Efeso

10. È possibile che il sarcasmo di platone contro gli eraclitèi fosse


giustificato: non è escluso, infatti, che all’epoca si fosse sviluppato un era-
clitismo di maniera.
48 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

si pretendono esperti non è possibile più che con chi è


punto dall’assillo. […] Non concluderai mai nulla con al-
cuno di loro; né loro stessi l’uno con l’altro, ma stanno
ben in guardia a non lasciare che nulla rimanga stabile né
a parole, né nelle loro anime, temendo, penso, che sareb-
be immobilizzato: ma combattono decisamente questa
immobilità, e per quanto possono da ogni parte la respin-
gono (179e 1).

L’unico passo di Eraclito menzionato da platone a so-


stegno della teoria del flusso è il “frammento del fiume”
citato nel Cratilo. È dunque verosimile che riguardo alla
teoria del flusso il testo di Eraclito non contenesse niente
di più esplicito11.
platone allude ancora a Eraclito nel Sofista:
Alcune muse ioniche e sicule ritennero più sicuro combi-
nare entrambe le teorie e dire che l’essere è uno e molti,
tenuto insieme dall’odio e dall’amore. Discordando, in-
fatti, sempre concorda, dicono le più severe delle Muse;
le più blande rinunciarono a che le cose stessero contem-
poraneamente così, dicendo che a turno talvolta il tutto
è uno e amico a causa di Afrodite, talvolta è molteplice
e in guerra con se stesso a causa di una qualche contesa
(242d 7).

Con “muse ioniche” e “più severe” platone intende-


va Eraclito, con quelle “sicule” e “più blande” Empedo-
cle. I termini usati da platone, “discordare” (διαφέρω)
e “concordare” (συμφέρω), appaiono indubbiamente
eraclitei, perché si ritrovano in altri passi di Eraclito:
i frammenti 8 e 10 da Aristotele e il 51 dal Simposio di
platone, dove Erissimaco sostiene che anche la musica
è governata dall’amore,

11. Aristotele richiama lo stesso passo per il medesimo motivo, forse


attingendo a una fonte comune (vedi nota 8).
2. Le intuizioni di Eraclito 49

come anche Eraclito vuole dire, benché le parole non l’espri-


mano chiaramente. Infatti, dice dell’uno che «discordando
con sé medesimo concorda; contrastante connessione come
quella dell’arco e della lira». per la verità, è molto illogico
dire che l’armonia è discorde o che derivi da cose discordan-
ti; ma forse voleva dire questo: che le cose che erano prima
discordanti, l’acuto e il grave, sono poi divenute concordanti
grazie all’arte musicale (187a 3).

Secondo Mondolfo (Mondolfo e Tarán, 1972), platone


con questo conferma che per lui l’essenziale della dottrina di
Eraclito sta nella coincidentia oppositorum (p. CXXXI).

platone farebbe dunque menzione di una seconda


dottrina eraclitea, oltre al flusso universale: quella della
coincidenza degli opposti12. L’enunciazione di questa dot-
trina non è però evidente: penso, infatti, che il significato
dei frammenti in cui compaiono διαφέρω e συμφέρω sia
un altro, ed altro sia anche quello dell’«armonia dell’arco
e della lira» menzionata da Erissimaco.
Resta il fatto che platone sembra aver colto bene
un punto essenziale della dottrina di Eraclito quando
lo associa a protagora, connettendo strettamente, nel
Teeteto, l’idea che tutto cambia e che nulla è con una
concezione soggettiva della conoscenza: «sempre divie-
ne per qualcuno».

2.2.2. La testimonianza di Aristotele

Come platone, anche Aristotele fa riferimento alla


dottrina del flusso universale, che nella Metafisica egli at-
tribuisce agli eraclitei, citando poi uno dei “frammenti
del fiume”:
12. Adoménas (2002, p. 441) mostra che in platone le due dottrine
sono strettamente connesse.
50 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Inoltre, vedendo che tutta quanta la natura si muove, e per


il fatto che su ciò che muta non si può dire nulla di vero,
[conclusero] che di ciò che ovunque completamente muta
non si può dire la verità. Da questa opinione nasce la dottri-
na più estrema tra quelle menzionate, quella di coloro che
dichiarano di eraclitizzare e che condivideva anche Cratilo,
il quale alla fine credeva che non si dovesse dire nulla ma
solo muovere il dito, e biasimava Eraclito che sosteneva non
si potesse entrare due volte nello stesso fiume: egli infatti
credeva neanche una volta (IV 5, 1010a 7).

Aristotele ribadisce il concetto nella Fisica, senza rife-


rirlo esplicitamente a Eraclito:
dicono alcuni che gli enti si muovono, non questi sì e quelli
no, ma tutti sempre, benché ciò rimanga nascosto alla nostra
percezione (VIII 3, 253b 9).

Nella Metafisica Aristotele menziona ripetutamente


Eraclito, in forma diretta o indiretta, soprattutto per il
suo rifiuto del principio di non contraddizione13. per la verità,
nella prima citazione Aristotele parla per sentito dire:
È impossibile infatti per chiunque sostenere che la stessa
cosa è e non è, come alcuni ritengono che abbia detto Era-
clito (IV 3, 1005b 23).

più avanti però Aristotele si mostra più sicuro di quel-


lo che dice, e non si fa scrupolo di trattare l’Efesio da
sprovveduto:
probabilmente, se si fosse interrogato Eraclito stesso, lo si sa-
rebbe costretto a convenire che non è mai possibile che siano
vere proposizioni contraddittorie in merito alle stesse cose.
Ma egli sostenne questa opinione, senza sapere egli stesso
cosa stesse dicendo (XI 5, 1062a 30).

13. IV 4, 1005b 35; 7, 1012a 25; XI 5, 1062a 30; 6, 1063b 25.


2. Le intuizioni di Eraclito 51

Questo giudizio di Aristotele è frequentemente citato


in supporto della tesi che Eraclito sia un sostenitore della
coincidentia oppositorum14. Nello stesso senso è inteso un
passo dell’Etica Eudemia, in cui Eraclito è incluso tra colo-
ro che definiscono «amici i contrari», quando
biasima il poeta che dice: «possa la discordia scomparire tra
gli dèi e gli uomini»15 (VII 1, 1235a 25).

Ritengo però che la posizione di Eraclito sulla guerra


non abbia nulla a che vedere con i contrari.
In effetti, Aristotele riferisce un solo esempio di ne-
gazione del principio di non contraddizione da parte di
Eraclito:
Coloro che accolgono le opinioni altrui, come quella che il
bene e il male sono la stessa cosa, secondo quanto dice Era-
clito, non concedono che i contrari non possano appartene-
re insieme alla stessa cosa (top. VIII 159b 30).

Lo stesso motivo è richiamato nella Fisica:


Ma se per definizione tutte le cose sono uno, come sono il
mantello [λώπιον] ed il manto [ἱμάτιον], si cade nel discorso
di Eraclito: infatti, al bene e al male accadrà di essere la stessa
cosa, e al non bene e al bene, sicché lo stesso saranno il bene
e il non bene, l’uomo e il cavallo; per cui il discorso di co-
storo non riguarderà l’uno ma il nulla, e il quale e il quanto
saranno identici (I 2, 185b 19).

Non ci è giunto alcun frammento di Eraclito che


enunci l’identità di bene e male, ma il frammento 102
dice che

14. Ad esempio, Mondolfo (Mondolfo e Tarán, 1972, p. CLXVI).


15. Omero, Iliade XVIII 107.
52 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste, ma gli


uomini alcune le hanno considerate ingiuste e altre giuste.

Ciò che Eraclito intende è chiarissimo: i concetti di


bene e male, bello e brutto, giusto e ingiusto esprimono
punti di vista umani che non hanno senso per la divinità.
Ossia: la distinzione tra bene e male ha senso non “in sé”
ma solo per gli uomini. Affermazione sensata e perfetta-
mente giustificabile, che non infrange il principio di non
contraddizione e non pone alcuna identità degli opposti,
perché il male, che per l’uomo è l’opposto del bene, non
esiste per il dio, ai cui occhi tutto è come deve essere. Se,
come ritengo, è questa l’effettiva opinione di Eraclito in
merito alla distinzione tra bene e male, sembra proprio
che Aristotele non abbia fatto alcuno sforzo per capire
il pensiero del suo predecessore, ma lo abbia travisato
utilizzandolo polemicamente ai propri fini.
Un altro esempio del concetto eracliteo dell’identità
dei contrari è considerato un brano dell’Etica Nicomachea
che include il frammento 8 (tra virgolette):

Intorno all’amicizia si discute non poco. Alcuni, infatti, pon-


gono che essa sia una sorta di somiglianza […] Altri all’op-
posto dicono che tutti gli individui che si assomigliano sono
l’uno contro l’altro come vasai. Intorno a questi problemi ta-
luni cercano una spiegazione più elevata e più fisica: si tratta
di Euripide […] e di Eraclito, il quale afferma che «l’opposto
concordante e dai discordanti la più bella armonia» e tutto
origina dalla discordia (VIII 2, 1155a 32).

In questo testo Eraclito è citato a sostegno della tesi


che si può ottenere armonia anche dalla diversità, ma
nulla suggerisce che egli neghi il principio di non con-
traddizione.
In conclusione, non è possibile trovare in platone o in
Aristotele qualche prova che Eraclito sia stato un soste-
2. Le intuizioni di Eraclito 53

nitore della “identità dei contrari”, ed ancor meno che


abbia negato il “principio di non contraddizione”16. Si ve-
drà anche che nessuno dei frammenti che possediamo ha
questo significato.

2.2.3. La critica moderna

È verosimile che Eraclito ritenesse che nulla rimanga


fisso, ma i frammenti che ci sono giunti sollevano proble-
mi ben più autentici di una semplice teoria del flusso uni-
versale, come risulterà dalla lettura dei testi. Nel passo
della Metafisica di Aristotele in cui è citato Cratilo (IV 5,
1010a 7) alcuni critici moderni distinguono una dottrina
estrema del flusso, attribuita appunto a Cratilo, da una
più limitata che sarebbe propria di Eraclito17. Non vedo
però una grande differenza tra l’impossibilità di entrare
una volta o due nello stesso fiume: Eraclito e Cratilo in-
tendevano dire la stessa cosa, e cioè che il fiume, usato
come simbolo dell’incessante fluire delle cose, cambia in
continuazione e quindi da istante a istante è lo stesso fiu-
me e insieme non è lo stesso. La differenza tra i due au-
tori sta nelle conseguenze che essi ne traggono: Eraclito
si poneva un serio problema di natura epistemologica,
mentre il Cratilo di Aristotele, non riuscendo evidente-
mente a staccarsi da una prospettiva ontologica, pensava
che per evitare l’aporia occorresse rinunciare a parlare
e limitarsi ad indicare con il dito18. Comunque, il dibat-
tito sulla dottrina del flusso rimane generalmente a latere

16. Robinson (1991): «Non è per nulla ovvio che gli attacchi che Ari-
stotele gli rivolge come negatore del principio di non–contraddizione sia-
no di fatto solidamente fondati» (p. 484).
17. Ad esempio Kirk (1954) p. 373.
18. È possibile che questa immagine di Cratilo sia una deformazione
caricaturale, frutto d’incomprensione, in un’epoca in cui si era ormai per-
so di vista il senso delle problematiche di Eraclito e dei suoi seguaci.
54 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

nell’ambito della critica moderna. Centrale per il pensie-


ro di Eraclito è invece considerata quasi universalmente
la dottrina della coincidenza (o unità, o dialettica) degli op-
posti. Il fatto è ovviamente scontato per Hegel (1833):
[Eraclito] per primo enunziò la profonda frase che «l’essere
e il non essere sono la stessa cosa; tutto è, e anche non è».
Il vero è l’unità di nettamente opposti, e precisamente della
pura opposizione di essere e non essere […] La determina-
zione ulteriore di questo principio generale è quella del dive-
nire, la verità dell’essere; dicendo che tutto è e anche non è,
Eraclito ha affermato che il tutto è divenire (I p. 311; trad. di
E. Codignola e G. Sanna).

Il divenire è interpretato come opposizione di essere


e non essere: qualsiasi cambiamento che porti una situa-
zione ad apparire diversa da quella che era implica una
configurazione che non può coesistere con la preceden-
te; il giudizio precedente e quello successivo sono dun-
que contrari. In questo senso il mutamento è considera-
to un passaggio da una configurazione ad una contraria,
e la dottrina dell’identità degli opposti sembra fondersi
convenientemente con quella del flusso universale in
un insieme coerente. La critica posteriore è largamente
concorde con questa interpretazione. Ad esempio, Zeller
(1892):
dal flusso di tutte le cose consegue che tutto, senza eccezio-
ne, riunisce in sé determinazioni opposte. Ogni cangiamen-
to è un trapasso da uno stato ad altro opposto (I IV p. 98;
trad. Mondolfo).

e spiega in nota:

Lo stato posteriore è diverso dal precedente solo in quanto


una parte delle determinazioni precedenti è stata scambia-
ta con altre tali che non potevan coesistere con quelle nello
2. Le intuizioni di Eraclito 55

stesso soggetto simultaneamente e sotto lo stesso rappor-


to, e queste tali si chiamano opposte (I IV p. 98, n. 54; trad.
Mondolfo).

In merito al frammento 125:


anche il ciceone si separa se non agitato

l’opinione di Kirk (1954), condivisa da Guthrie (1962, p.


449), è che il

frammento è di importanza maggiore di quanto a prima


vista appaia: è la sola diretta citazione che indica, sia pure
soltanto in un’immagine, le conseguenze di un’interruzione
della reciprocità degli opposti (p. 256).

Quando noi leggiamo sulle istruzioni di una me-


dicina “agitare prima dell’uso” non ci viene in men-
te che il produttore stia facendo riferimento alla dia-
lettica degli opposti: il messaggio trasmesso è che la
medicina contiene sostanze sedimentabili e che per
assumerle dobbiamo mantenerle in sospensione. Cer-
to, il produttore di farmaci non è un filosofo, ma non
è necessario che un filosofo interpreti il mutamento
in termini di dialettica degli opposti: anche in questo
caso il senso del testo può essere un altro; e altro deve
essere, se non si vuole che il pensiero di Eraclito si
riduca a una banalità.
Alcuni riconoscono l’identità degli opposti anche in
un’altra dottrina eraclitea, il ruolo dominante della guer-
ra (fr. 53):
La guerra è padre di tutto, di tutto re, e alcuni mostrò dèi
altri uomini, alcuni fece schiavi altri liberi.

Ad esempio, Wilcox (1994):


56 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

la “guerra” è universale nel cosmo di Eraclito. poiché la guer-


ra è per i Greci (come indubbiamente per chiunque altro)
uno scontro di poteri opposti, questa affermazione implica
immediatamente che coppie di opposti (“guerreggianti”)
sono universali nel cosmo di Eraclito19 (p. 34).

Non è affatto necessario però che parlando dell’uni-


versalità della guerra un filosofo stia simbolicamente
enunciando l’articolazione del mondo in coppie di op-
posti: egli potrebbe voler soltanto invitare a riconoscere
l’importanza della contesa nel mondo.
Dopo aver attribuito a Eraclito una dottrina, la coinci-
denza degli opposti, che egli non si è sognato di sostenere,
alcuni autori lo accusano di averla esposta in modo vago
e senza alcun rigore. Ad esempio Marcovich (1978):
Il lettore moderno non giudichi troppo severamente il modo
arcaico d’insegnamento dell’unità degli opposti […] Le ra-
gioni della coincidentia oppositorum sono di genere diverso e
non sempre sufficientemente convincenti20 (p. 111).

Commenti di questo genere portano alla luce un pre-


giudizio diffuso: quello che i primi pensatori greci fossero
primitivi. È in base a questo presupposto che diversi criti-
ci non si fanno scrupolo di attribuire al più antico pensiero

19. Analogamente Axelos (1962): «I contrari, nel loro incessante dive-


nire, sono in lotta; risultano da una lotta, provocano la lotta. […] La lotta fa
che i contrari siano i contrari e questa lotta è giusta» (p. 52).
20. Un atteggiamento altrettanto critico manifesta, tra gli altri, Zel-
ler (1892): «È proprio caratteristico del nostro filosofo e della mancanza
di tecnica logica […] il fatto che egli rimanga fermo al pensiero generale
che ogni cosa abbia in sé proprietà opposte» (I IV p. 126; trad. di R. Mon-
dolfo). Analogamente Rossi e Viano (1993): «Eraclito però non distingue
fra trasformazioni, relazioni diverse o valutazioni opposte; egli usa tut-
ti quei casi come esibizioni dell’identità dei contrari, della quale non dà
una spiegazione; semmai la rende più oscura con sentenze quali: “non
comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia
contrastante come quella dell’arco e della lira”» (p. 43).
2. Le intuizioni di Eraclito 57

greco dottrine implausibili. Alcuni attribuiscono a Eraclito


una dottrina degli opposti, faute de mieux, per evitargli di dire
delle banalità. Ad esempio, in merito al frammento 126
le fredde si riscaldano, il caldo si raffredda; l’umido si asciu-
ga, l’asciutto si bagna.

Stokes (1971) commenta:


non dobbiamo pensare che l’unico punto, ad esempio, di B
126 fosse che le cose calde diventano fredde, le fredde cal-
de, le umide secche e le secche umide. È chiaro che Eraclito
dava un senso che non era semplicemente banale, ma sor-
prendente e bizzarro, ed è ragionevole supporre che questa
sorprendente dottrina, l’identità degli opposti, si celasse die-
tro le sue apparenti banalità (p. 99).

Barnes (1979b) colloca Eraclito tra i «grandi filoso-


fi–scienziati» per la sua tesi che «Flusso e Opposizione
sono aspetti della natura di ogni genere di cosa»; egli
ritiene, infatti, che questa «teoria è in linea di principio
falsificabile […] ma non rifiutata dall’osservazione quo-
tidiana» (p. 80). Non riuscendo però a esonerare Eracli-
to dall’imputazione che la tesi dell’Unità violi la Legge
di Contraddizione, lo giustifica notando che una
nozione logica della contrarietà non era certamente disponi-
bile per Eraclito: è improbabile che avesse una parola per la
contrarietà come tale (p. 80).

Se così stanno le cose, è veramente necessario attribu-


ire a Eraclito una tesi dell’Unità degli Opposti? La rispo-
sta di Barnes a questa domanda è rivelatrice:
Se rifiutassimo d’introdurre la nozione di contrarietà nella
nostra interpretazione di Eraclito, lo lasceremmo del tutto
privo di tesi (p. 80).
58 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

È questo il punto: senza la “identità degli opposti”


molti commentatori non riuscirebbero ad attribuire ad
Eraclito alcuna teoria, e il pensiero dell’Efesio rimar-
rebbe un mistero. Condivido l’esigenza di cercare un
pensiero dietro le apparenti banalità di Eraclito, ma non
è necessario che questo pensiero sia incoerente. Gra-
ham (2006), infatti, formula un principio metodologico
sano:
non è impensabile che Eraclito possa commettere errori lo-
gici. D’altra parte, il principio di carità richiede che si attri-
buiscano gravi errori logici ad un filosofo solo come ultima
risorsa (p. 119).

L’irrilevanza della coincidentia oppositorum, quando


non è una figura retorica, è evidente, ma ciò che inte-
ressa accertare è se Eraclito abbia voluto effettivamente
enunciarla, o se invece abbia inteso dire qualcosa di com-
pletamente diverso.
In effetti alcuni interpreti negano che Eraclito abbia
mai formulato una dottrina della “identità degli oppo-
sti”. Ad esempio, Bollack (1990):
Eraclito non ha una dottrina dei contrari. Non si giunge mai
ad intendere alcun frammento come stadio di una dimostra-
zione21 (p. 184).

Condivido questa opinione: Eraclito non ha una dot-


trina dei contrari; se si cerca nell’opera di Eraclito una
tesi non banale, non è in questa dottrina che è possibile
trovarla.

21. Una posizione analoga esprime Dilcher (1995): «Sembra fuor di


luogo attribuire a Eraclito un concetto di “unità degli opposti”» (p. 106).
Robinson (1989): «Ancora minori sono le attestazioni di una supposta dot-
trina della «identità degli opposti» che molti ancora sostengono di trovare
in Eraclito» (p. 349).
2. Le intuizioni di Eraclito 59

2.3. Conoscenza

Nelle pagine che seguono intendo mostrare che si


possono leggere i frammenti di Eraclito come espressio-
ne di una precisa tesi epistemologica, che enuncia la na-
tura inevitabilmente soggettiva della conoscenza umana.
Eraclito ritiene che la presa di coscienza di questa realtà
possa aiutare gli uomini a superare i loro punti di vista
individuali, creando una prospettiva comune. Come ac-
cennato nelle premesse, Eraclito risulta così l’iniziatore
di un paradigma epistemologico che si svilupperà, pas-
sando per gli Eleati, fino ai Sofisti, caratterizzando una
parte rilevante del pensiero greco del V secolo.

2.3.1. Il logos

Il frammento 1 è considerato l’inizio del libro di Era-


clito:
A questo logos che è sempre gli uomini rimangono estranei22,
sia prima d’aver ascoltato, sia avendo ascoltato in preceden-
za. Benché tutto sia secondo questo logos, essi si rivelano
ignoranti quando esaminano queste parole e fatti che io
espongo, distinguendo ogni cosa secondo natura e dicendo
come è. Agli altri uomini restano però nascoste le cose che
fanno da svegli allo stesso modo in cui dimenticano quelle
da addormentati.

In questo passo Eraclito accusa aspramente gli uo-


mini di non capire il logos. Cosa è questo logos che gli
uomini non capiscono? Non penso che la risposta possa

22. Ho volutamente evitato di tradurre il termine logos perché il si-


gnificato della parola costituisce appunto il problema. per lo stesso motivo
non ho sciolto con una virgola l’ambiguità segnalata da Aristotele (reth. III
5 147b 1) riguardo alla frase cui “sempre” [ἀεί] si riferisce: «A questo logos
che è sempre, …» oppure «…, sempre gli uomini rimangono estranei».
60 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

trovarsi nella dottrina degli opposti23: perché ignorare la


coincidentia oppositorum dovrebbe essere tanto grave da
sollevare le ire di Eraclito? Neanche mi convince un’in-
terpretazione ontologica, che vedrebbe il logos come una
sorta di legge superiore che regola il mondo24. Concordo
con Bollack25: non ascoltare il logos vuol dire non rendersi
conto della natura del linguaggio, ossia di quello che in
effetti il linguaggio è in grado di dire — e dice; ma a que-
sto è necessario arrivare per gradi.
purtroppo non è noto l’ordine con cui Eraclito, dopo
questo primo frammento, ha disposto i suoi detti, ma
dato che questo testo stigmatizza l’incapacità di com-
prendere, è lecito ipotizzare che i frammenti dello stesso
tenore vengano subito dopo.
Eraclito sottolinea a più riprese il fatto che vi è un pro-
fondo equivoco nel modo in cui gli uomini concepiscono
il loro rapporto con il mondo, un equivoco che investe
tutta la loro attività conoscitiva, che dovrebbe consistere
nel capire ciò che si sente e nell’articolare col linguaggio
pensieri sensati, mentre invece gli uomini sono (fr. 19):
23. Ad esempio, Diano (Diano e Serra, 1980): «E dunque è la coinci-
denza degli opposti che gli uomini, pure facendone l’esperienza in quel-
lo che dicono e fanno, non intendono» (p. 108). Analogamente, Fränkel
(1962): «Cosa è questo logos, questa norma per ogni esistenza? Cosa è la
realtà di tutte le realtà e la vera vita della nostra vita? È la coincidentia oppo-
sitorum, l’unirsi degli opposti per costituire un’unità a due facce» (p. 373);
e Kirk e al. (1983): «Dio non può essere qui essenzialmente differente dal
Logos: e il Logos è, tra le altre cose, il costituente delle cose che le rende
opposte» (p. 191).
24. Come Marcovich (1978): «Il Logos ha una esistenza obiettiva, che
non dipende da Eraclito, cioè che è una legge universale che opera in tutte
le cose intorno a noi» (p. 77).
25. Bollack (1990): «Quello che gli uomini, separati dal me di Eracli-
to, potevano aver ascoltato, e non aver mai ascoltato (propriamente), era
il linguaggio che li fa, non Essere, ma uomini» (p. 173). Nota West (1971):
«La parola λόγος si riferiva al discorso di Eraclito e a null’altro […] gli
scrittori ionici tendono a riferirsi ai loro discorsi come ad esseri autonomi
sorti da soli» (p. 172).
2. Le intuizioni di Eraclito 61

incapaci di ascoltare e di parlare.

Nel frammento 1 rimanere estranei al senso di quanto


si compie da svegli è paragonato all’oblio di quel che si
vive nel sonno; invece (fr. 73):

non bisogna agire e parlare come dormendo26.

Dormendo noi crediamo di agire e di parlare, ma in


effetti è solo un sogno. Allo stesso modo da svegli credia-
mo di intendere il senso del discorso, ma in effetti non lo
capiamo. Il concetto è ribadito nel frammento 17:
I molti, infatti, non comprendono ciò in cui s’imbattono, né
apprendendo conoscono, ma a loro sembra

e nel frammento 34:


Ascoltando ottusamente sembrano sordi; di loro testimonia
il detto: presenti sono assenti.

L’incomprensione riguarda anche ciò che è più abitua-


le (fr. 72):
Da quello con cui hanno più costantemente familiarità (dal
logos che tutto governa)27 da questo discordano, e quelle cose
in cui ogni giorno s’imbattono, queste essi trovano estranee.

Il frammento 56 ci permette d’intuire la natura


dell’equivoco:

26. Kirk (1954) considera il frammento una parafrasi di Marco Aurelio.


27. La maggior parte dei commentatori considera la parte tra pa-
rentesi una glossa di Marco Aurelio. Alcuni conservano logos, altri lo in-
cludono nella glossa. Conche (1986): «per Eraclito, il logos non governa il
mondo. Il “logos” è semplicemente il discorso vero secondo il quale tutte
le cose accadono» (p. 65).
62 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

S’ingannano gli uomini in merito alla conoscenza delle cose


che appaiono, analogamente ad Omero, che pure era il più
sapiente di tutti i Greci. Infatti, dei fanciulli che si spidocchia-
vano lo ingannarono dicendo: quello che abbiamo visto e
preso, lo abbiamo lasciato; quello che non abbiamo visto né
preso, lo portiamo.

È evidentemente un problema di visione: ciascuno,


come l’Omero dell’apologo, intende ciò che vede in base
a presupposti personali da cui non riesce a staccarsi, e
ragiona dando per scontata la propria articolazione del
mondo, rimanendo inconsciamente ancorato a un pun-
to di vista privato. A Omero è mancata la scintilla che
avrebbe potuto illuminarlo: non è riuscito a compiere
quel salto dell’immaginazione che gli avrebbe consenti-
to di risolvere l’enigma; ma una volta risolto tutto risulta
evidente. Il logos parla della comprensione, e per com-
prendere occorre un’illuminazione.

2.3.2. La comprensione è “comune”

Alcuni frammenti parlano di ciò che s’intenda per


“comprendere”. Innanzitutto, la comprensione è comu-
ne (fr. 89):
per coloro che sono svegli il cosmo è uno28 e comune men-
tre ciascuno degli addormentati si rivolge al proprio29

e (fr. 2):
28. Sull’unità del cosmo si tornerà più avanti.
29. Diels e Kranz hanno espunto la seconda parte del frammento;
contra Marcovich (1978). Secondo Kirk (1954) si tratta di una parafrasi:
κόσμος non avrebbe potuto essere usato da Eraclito nel senso di “mon-
do”; contra Cerri (1999), con cui concordo: «L’idea largamente diffusa che
quest’uso del termine sia nato solo nella seconda metà del V secolo a.C., e
che non possa perciò essere attribuito né a Eraclito né a parmenide, è un
puro e semplice pregiudizio» (p. 199).
2. Le intuizioni di Eraclito 63

perciò bisogna seguire ciò che è comune: condiviso infatti


il comune30. Ma benché il logos sia condiviso, i più vivono
come se avessero una comprensione privata

e ancora (fr. 113):


Comune a tutti è il comprendere31.

Eraclito si concede sul tema un gioco di parole, tra


“con senno” (ξὺν νόωι) e il dativo di “comune” (ξυνῶι)32
nel frammento 114:
Coloro che parlano con senno bisogna che facciano affida-
mento su ciò che è comune a tutti, come una città sulla leg-
ge, anzi più saldamente. Infatti, tutte le leggi umane sono
nutrite dall’unica divina: questa, infatti, domina ciò che vuo-
le e basta a tutte e le supera.

Si vedrà più avanti come si può intendere la “legge di-


vina”, e si considera per ora il frammento soltanto come
esemplificazione del carattere “comune” della compren-
sione33. L’esempio è organizzato su due livelli successivi:

— ciascun cittadino ha le proprie norme di condotta,


ma la legge della polis è comune per i cittadini, che

30. Traduco solo qui ξυνός con “condiviso” e κοινός con “comune”
unicamente per distinguere in italiano i due vocaboli: i due termini sono
sinonimi. Bury (1935) nel suo commento ad Adversus Mathematicos di Se-
sto osserva: «Eraclito usa ξυνός per κοινός» (p. 72) e traduce ξυνός con
“comprehensive”. Conche (1986) traduce “universel”.
31. Secondo Kirk (1954) è una parafrasi.
32. Giannantoni (1969): «ξυνός è infatti la forma ionica di κοινός, ma
in essa Eraclito sente prevalente ciò che egli crede il suo etimo, vale a dire
ξὺν νόῳ […]. Il mondo dell’intelligenza e della verità è dunque un mondo
pubblico e comune, quello dell’opinione e dell’errore è invece un mondo
privato e particolare» (I p. 195, n. 16).
33. Nota Dilcher (1995): «La sfera politica è introdotta soltanto come
un modello per spiegare una relazione difficile» (p. 51).
64 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ad essa devono adeguare la loro condotta;


— ciascuna polis ha la propria legge, ma la legge di-
vina è comune a tutte le polis, che ad essa devono
adeguare le loro leggi.
Coloro che parlano con senno — che hanno una vi-
sione corretta della realtà — hanno in comune il mondo
— vedono nello stesso modo o almeno sono in grado
di comprendersi — proprio come gli uomini onesti si
adeguano alle leggi comuni della polis e come le polis
ben governate hanno leggi che si adeguano alla comune
legge divina. Invece, benché il logos sia comune, gli uo-
mini seguono criteri propri: vivono come se avessero
un’intelligenza privata e non intendono come stanno le
cose, neanche dopo che viene loro mostrato34.
Si è fatto così un passo avanti: prima Eraclito ha
stigmatizzato gli uomini che non sono capaci di com-
prendere; ora dichiara che la comprensione è “ciò che è
comune” — che accomuna. Che cosa caratterizza questa
comprensione?
2.3.3. L’indagine
Eraclito tiene a puntualizzare ciò che la comprensione
non è. Essa non si riduce alla saggezza tradizionale, tra-
mandataci dai nostri avi (fr. 74):
Non si deve 〈come〉 figli dei genitori.

Tra gli antichi maestri della tradizione, Esiodo non


sfugge allo scherno di Eraclito (fr. 57):
Maestro della moltitudine Esiodo: ritengono che costui sa-
pesse moltissime cose, proprio lui, che il giorno e la notte
non conosceva: sono infatti uno.

34. per una diversa lettura del frammento, vedi Mourelatos (1965).
2. Le intuizioni di Eraclito 65

Notte e giorno, infatti, non possono essere madre e


figlio, come nella Teogonia:
Da Caos nacquero Erebo e nera Notte.
Da Notte provennero Etere e Giorno
che lei concepì a Erebo unita in amore (123).

Esiodo crede di sapere tantissime cose, ma non sa vede-


re l’unità di giorno e notte e li pone addirittura su due livelli
generazionali distinti. È un richiamo all’inutilità della sag-
gezza tradizionale che non riesce ad interpretare la realtà.
Neanche l’erudizione è sufficiente (fr. 40):
L’erudizione non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe, in-
fatti, insegnato ad Esiodo e a pitagora, e ancora a Senofane
e a Ecateo.

L’intelligenza (νόος) è capacità di comprendere; lo stu-


dio pedante non dà questa capacità (fr. 129):
pitagora di Mnesarco si dedicò all’indagine più di tutti gli
uomini e, trascegliendo tra questi scritti, costruì la sua sa-
pienza: erudizione, arte fraudolenta.

Non si sa cosa fossero gli scritti su cui pitagora aveva


condotto la sua indagine: forse opere sapienziali orientali
o egiziane, che potrebbero avergli ispirato la sua conce-
zione della metempsicosi. Kahn (1983) fa riferimento all’an-
tica poesia didattica35, a redazioni di architetti36, ai trattati
dei Milesi stessi; una tradizione di testi abbastanza ricca

35. Cita il Gēs periodos, descrizione del mondo, e l’Astronomia attribu-


iti a Esiodo, l’Astronomia Nautica attribuita a Talete o a Foco di Samo, un
poema astronomico di Cleostrato di Tenedo, un Kataploi, descrizione dei
porti in versi.
36. Cita le descrizioni dei templi arcaici menzionate da Vitruvio (VII,
12): l’Heraion di Samo, opera di Teodoro, e l’Artemision di Efeso, costruito
da Chersifonte e Metagene.
66 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

da permettere a pitagora di “trascegliere” gli scritti da


cui prendere ispirazione. per Eraclito, comunque, una sa-
pienza falsa e fraudolenta, tanto da fargli ritenere (fr. 81):
[pitagora]37 è capostipite degli impostori.

L’erudizione ci mette in contatto soltanto con le mol-


teplici mentalità private. Chi è amante della sapienza
(φιλοσόφoς) — chi ricerca ciò che è comune (fr. 2) —
deve essere in grado di svolgere una indagine personale
(fr. 35):
Bisogna, infatti, che gli uomini amanti della sapienza siano
ben esperti di molte cose.

L’esperto (ἵστωρ) è colui che ha indagato a fondo, fa-


cendosi un’esperienza personale, e l’indagine (ἱστορία) è
ben diversa dall’erudizione (πολυμαθίη): implica un’inda-
gine attiva, che porta a una conoscenza intima e profon-
da38; è essere sapienti (fr. 112):
Essere sapienti massima virtù, e sapienza dire e fare cose ve-
re39 intendendo secondo natura.

L’importanza attribuita alla sapienza (σοφίη) spiega


il perché della violenta condanna della cecità umana,
dell’incapacità di riconoscere la natura della conoscenza,
che sarebbe invece accessibile a tutti (fr. 116):
37. Che il frammento riguardi pitagora è suggerito da uno scholium
ad Euripide (Ecuba 131), che cita in forma indiretta la stessa frase.
38. Verdenius (1947) mostra che non vi è contraddizione con B 40,
sottolineando la differenza tra «ricercare indipendentemente (ἱστορεῖν)
e prendere in prestito la saggezza altrui (μανθάνειν)» (p. 281).
39. Secondo Kirk (1954) il testo è una parafrasi; ma, se autentico, è
l’unico frammento di Eraclito in cui compare una parola connessa con
ἀλήθεια (ἀληθέα = cose vere) che tanta importanza ha invece per par-
menide.
2. Le intuizioni di Eraclito 67

A tutti gli uomini appartiene conoscere se stessi ed essere


sapienti.

Essere sapienti dipende dall’indagare su se stesso e sul


proprio rapporto con il mondo. L’illuminazione va cer-
cata nel proprio essere (fr. 101):
Ho indagato me stesso.

L’indagine, dunque, non riguarda il cosmo — o alme-


no non in primo luogo il cosmo — ma qualcosa di molto
più vicino all’uomo: riguarda l’individuo come sogget-
to conoscente, e riguarda il carattere della conoscenza.
Questa indagine è senza fine, infatti (fr. 115):
L’anima ha un logos che accresce se stesso.

La concezione eraclitea è quanto di più opposto vi sia


ad una saggezza chiusa su verità indubitabili (fr. 45):
procedendo non potresti trovare i confini dell’anima, pur
percorrendo tutta la via: tanto profondo è il suo logos.

Il participio (ἰὼν) tradotto con “procedendo” fa pensa-


re all’indagine come “processo”: il logos è anche il proce-
dere del discorso sull’anima, che non è completamente
fuori portata del singolo, ma non ha limiti, e ogni passo
avanti richiede uno sforzo enorme (fr. 22):

Coloro che cercano oro scavano molta terra e trovano poco

perché (fr. 123):


La natura ama nascondersi.

La conoscenza procede per audaci anticipazioni (fr. 18):


68 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Se non si spera, non si troverà l’inatteso, che è irrintracciabi-


le e indeducibile.

È necessario essere aperti al nuovo, predisposti ad


accogliere l’inatteso, per il quale non vi è deduzione
diretta (ἄπορον). Si rimane altrimenti ad un livello ani-
male (fr. 97):
I cani, infatti, abbaiano a coloro che non riconoscono.

Contrariamente ai cani, che sono solo bestie, dobbia-


mo conservare un’apertura verso ciò che ci appare estra-
neo.
Acquistare l’intelligenza che consente la comprensio-
ne del logos richiede l’introspezione e lo sforzo immagi-
nativo necessari per compiere il salto concettuale — ri-
cevere l’illuminazione — che permette il passaggio dal
mondo privato a quello comune e condivisibile.

2.3.4. Perfetta sapienza

Eraclito pone una forma di sapienza particolare, di-


stinta da tutto (fr. 108):
Tra coloro dei quali udii i discorsi, nessuno è giunto a ciò:
riconoscere che la sapienza è separata da tutto.

Su cosa intendere per “sapienza” (σοφόν) i pareri sono


discordanti. Non si tratta di una astratta razonalità che
governa il mondo, come proposto da alcuni40. Non si
tratta neanche di un essere sapiente: Kirk (1954) rileva,
infatti, che σοφόν è neutro, un aggettivo sostantivato

40. Reinhardt (1916): «Vi è una ragione che va oltre le altre cose» (p.
205).
2. Le intuizioni di Eraclito 69

che non indica dunque un “essere” sapiente (che avreb-


be richiesto un accusativo maschile). L’argomentazio-
ne di Kirk mi pare convincente41: in questo frammento
Eraclito parla di una saggezza superiore a tutto, non di
un essere sapiente. Un collegamento tra la sapienza (τὸ
σοφόν) e dio è però mostrato nel frammento 32:

Una cosa, l’unica che si chiama sapienza, non vuole e vuole


il nome di Zeus42.

Nessun nome basta a caratterizzare la sapienza: Zeus


è un’espressione, come ce ne sono altre. Il dio tradizio-
nale, Zeus, possiede alcune delle caratteristiche della
sapienza ma non le compendia tutte43. Come si vedrà,
Eraclito ha una posizione critica nei confronti delle va-
rie forme di religiosità praticate dai greci, sia ufficiali
sia esoteriche. Quale è dunque la funzione di questo
richiamo alla divinità? Ritengo innanzitutto che nel
frammento 108 il participio “separata” (κεχωρισμένον)
stia ad indicare l’incolmabile superiorità della sapienza
espressa da τὸ σοφόν rispetto alla conoscenza accessibi-
le agli uomini (fr. 41):

41. Kirk (1954): «Sembra improbabile che il maschile τόν sarebbe


stato omesso, mentre Eraclito era pronto, nel caso, ad usare participi o
aggettivi neutri privi di articolo come nomi […] σοφόν quindi indica pro-
babilmente o “sapienza” oppure “la/una cosa saggia”» (p. 398).
42. Calogero (1967) legge la coincidenza degli opposti anche in questo
frammento in base all’identità Ζῆν (Zeus) — ζῆν (vivere, vita): «La ragione
si chiama e non si chiama Zeus perché si chiama e non si chiama Vita. Essa
infatti è e non è Vita, perché è Vita–Morte, secondo il binomio degli opposti
che sommamente esprime l’eterna “guerra” e “contesa” del mondo» (p. 88).
43. West (1971): «Alla saggezza il nome di «Zeus» è appropriato solo
in parte; ha alcune delle caratteristiche tradizionali di Zeus ma non altre»
(p. 193). Analoga è la posizione di O’Connell (2006): «Il nome “Zeus” è in
definitiva esposto come uno strumento euristico per promuovere la com-
prensione. La posizione di Eraclito è chiara: la natura della cosa è indicata
da un’immagine che somiglia ad essa, ma che non lo è» (p. 100).
70 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Una la sapienza: possedere la conoscenza che44 governa tut-


te le cose per ogni dove.

La perfetta sapienza (τὸ σοφόν) è dunque possedere


la conoscenza (γνώμην) che controlla tutto. Non ci sono
dubbi che per Eraclito solo dio ha questa conoscenza
(fr. 78):
La natura umana, infatti, non ha conoscenze, la divina le
ha.

Con “conoscenze” (γνώμας) Eraclito qui intende la


stessa γνώμη definita nel frammento 41, che riguarda la
vera sapienza. Dilcher (1995) osserva:
Il limite della conoscenza umana è un tipico luogo comune
del pensiero greco in generale: la conoscenza vera e accurata
appartiene soltanto agli dèi (p. 149).

Dilcher ha ragione, “solo dio sa” è per la cultura greca


un luogo comune; ma non lo è per Eraclito, che assegna
alla “saggezza divina” una funzione epistemologica. per
Eraclito la perfetta sapienza svolge la funzione che in al-
tre forme di pensiero è svolta dalla “realtà oggettiva”: è
la conoscenza completa e senza residui, quel sapere che
non riusciamo neanche a immaginare, perché supera in-
finitamente le nostre possibilità. Eraclito, però, non scin-
de il discorso dal suo oggetto; non concepisce la verità
come adesione a una “realtà in sé”. parlare di perfetta
sapienza implica per lui porre qualcuno che la possieda:
questo qualcuno è “dio”. Sembra quasi che per Eraclito
le funzioni di dio si riducano a questo. La concezione che
Eraclito ha di dio ricorda quella di Senofane: entrambi

44. ὁτέη ἐκυβέρνησε. Kirk (1954) legge ὅκη κυβερνᾶται: «Come tut-
te le cose sono governate» (p. 386).
2. Le intuizioni di Eraclito 71

pongono non una “realtà in sé”, ma un essere che pensa


tutto; la verità è la “conoscenza divina”45.
La parola di dio suona all’uomo come estranea (fr. 92):
La Sibilla urlando con bocca delirante cose senza sorriso,
senza bellezza e senza profumo raggiunge mille anni con la
voce grazie al dio46.

La bocca delirante della Sibilla, tanto aliena da esse-


re priva di qualsiasi attrattiva, esprime ciò che le paro-
le umane — proprio in quanto umane — non possono
esprimere: la parola divina. Dio non parla il linguaggio
dell’uomo (fr. 93):
Il signore il cui oracolo è in Delfi né dice né nasconde ma dà
segno.

L’uomo è costretto a interpretare il segno — e inter-


pretando travisa, inevitabilmente. per questa sua intrin-
seca inferiorità (fr. 79)
L’uomo è tenuto per puerile a cospetto del dèmone proprio
come il fanciullo dell’uomo.

Si è visto che il frammento 78 afferma inequivoca-


bilmente che la natura umana non ha “conoscenze”,
e questo è anche il senso che Celso, citato da Origene,
attribuiva ai frammenti 78 e 79. Mi sembra chiaro dun-
que che nel frammento 79 con “dèmone” (δαίμονος)
si debba intendere il “dio”, che è enormemente supe-
riore all’uomo, come l’uomo è superiore al fanciullo:

45. Rossetti (1983): «Agli occhi di Dio — dunque dal punto di vista
della Verità, in termini reali e oggettivi» (p. 347).
46. Diels e Kranz espungono χιλίων ἐτῶν ἐξικνεῖται τῆι φωνῆι. per
Marcovich (1978) «non è facile determinare esattamente l’estensione te-
stuale di questo frammento» (p. 281).
72 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

come il fanciullo è ignaro dei fatti della vita reale, così


l’uomo non può accedere alla conoscenza vera, che
solo dio ha47.
Eraclito ribadisce il concetto confrontando prima la
scimmia con l’uomo nel frammento 82:
La più bella delle scimmie è obbrobriosa confrontata al ge-
nere degli uomini

e poi paragonando l’uomo ad una scimmia nei confronti


di dio nel frammento 83:
Il più sapiente degli uomini apparirà una scimmia a cospetto
del dio per sapienza, per bellezza e per tutto il resto48.

proprio come la scimmia non può neanche imma-


ginare il pensiero umano, così l’uomo non ha la più
pallida idea di cosa sia realmente la conoscenza divi-
na. Intendere τὸ σοφόν (“il sapiente”, ossia “ciò che è
sapiente”) come il limite irraggiungibile dell’indagi-
ne umana è fuorviante: il modo di conoscere del dio
è assolutamente estraneo a quello dell’uomo, proprio
per la sua universalità.

2.3.5. Il senso del mondo

Ammesso che la conoscenza divina è talmente alie-


na che Eraclito stesso non ha modo di descriverla — «è
separata da tutto», secondo il frammento 108 — perché
egli ne parla? penso che puntualizzare la totale estraneità
47. pradeau (2002) ritiene invece che τὸ σοφόν è una sapienza che
l’uomo può raggiungere, perché «il dèmone non è […] il dio, ma designa
piuttosto quella categoria intermedia che è “il genio”, ossia l’uomo che ha
accesso al divino» (p. 200).
48. Questo passo e il precedente sono generalmente considerate del-
le parafrasi di platone (o comunque dell’autore dell’Hippia Maior).
2. Le intuizioni di Eraclito 73

dell’uomo alla perfetta conoscenza propria del dio ser-


va a Eraclito per caratterizzare la conoscenza umana. La
nostra conoscenza non è solo una neutra questione di
razionalità, ma è strettamente legata agli interessi e ai
valori umani; interessi e valori che, in quanto propri de-
gli uomini, non hanno alcuna importanza per la divinità
(fr. 102):
per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste, ma
gli uomini alcune le hanno considerate ingiuste e altre giu-
ste49.

Si è visto che alcuni leggono in questo frammento


l’identità degli opposti50, ma Eraclito non dice che giusto e
ingiusto sono legati da un rapporto dialettico che permet-
ta di considerarli in qualche modo coincidenti. Non siamo
dunque in presenza di cose, in sé opposte, che per un’ar-
cana logica s’identificano, ma di giudizi contrari emessi da
soggetti diversi riguardo allo stesso oggetto. Eraclito non è
affatto interessato ad una teoria degli opposti, ma intende
chiarire il carattere dei giudizi umani, e a questo scopo li
mette a confronto con il giudizio divino.
Come può Eraclito sapere in che modo dio giudi-
ca? Ritengo che egli abbia compiuto un enorme sforzo
d’astrazione, cercando di abbandonare tutti i difformi
punti di vista degli uomini, per immaginare come potreb-
bero apparire le vicende mondane ad un essere che non
vi fosse assolutamente coinvolto. La battaglia di Lade era
stata un disastro per gli Ioni, ma un gran successo per i
persiani. Il furto — perfino un omicidio — sono certa-

49. per pradeau (2002) «questa citazione è data nella lingua di porfi-
rio» (p. 204).
50. Ad esempio, per Conche (1986): «Questo pensiero […] non signi-
fica che il male, il brutto, l’ingiusto non siano reali, […] ma, al contrario,
che sono una realtà uguale a quella dei loro opposti» (p. 389).
74 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

mente un danno per la vittima e per la società, ma non


necessariamente per colui che ha perpetrato il crimine.
Gli uomini si possono mettere d’accordo per promulga-
re leggi che vietano determinate azioni, considerandole
ingiuste ma, come insegna Erodoto, le leggi greche non
erano quelle persiane e molte cose ammesse dagli uni
erano vietate dagli altri e viceversa. per Eraclito un dio
onnipotente non può essere toccato da tutte queste dif-
ferenze — di più: non può essere toccato dalle vicende
umane. Non abbiamo, infatti, alcun motivo di ritenere
che l’onnisciente dio di Eraclito sia provvidenziale e sol-
lecito nei confronti degli uomini — e di quali uomini poi?
per dio, dunque, — “in sé” diremmo noi — gli eventi del
mondo non si distinguono in buoni e cattivi, giusti e in-
giusti. Soltanto gli uomini operano queste distinzioni, e
spesso non sono in accordo tra di loro.
per alcuni interpreti il giudizio divino non esprime un
punto di vista radicalmente diverso da quello umano, ma
è piuttosto l’obiettivo a cui l’uomo dovrebbe tendere: ad
esempio, per McKirahan (1994), il frammento 102

implica chiaramente che è errato considerare qualcosa brut-


to, cattivo o ingiusto, almeno quando abbiamo raggiunto il
corretto punto di vista (p. 142).

Secondo un corretto punto di vista noi avremmo dun-


que torto a distinguere la giustizia dall’ingiustizia? Mi
sembra assurdo: Eraclito non era un amorale. Distinguere
il giusto dall’ingiusto non è un errore, ma una necessità
umana. La giustizia è importante, anche se esprime sol-
tanto un’esigenza della società degli uomini. Solo al di fuo-
ri di qualsiasi ottica umana la giustizia è priva di senso.
La distinzione tra l’eternità del tempo (αἰών) — la na-
tura in sé — ed il punto di vista umano è ulteriormente
articolata dal frammento 52:
2. Le intuizioni di Eraclito 75

Il tempo è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi: il regno


di un fanciullo.

Ritengo che questo frammento si riallacci al 102 e in-


tenda mostrare come ciò che accade nel tempo non ab-
bia “in sé” alcun senso, esattamente come un gioco di
fanciulli. Allo stesso modo in cui i giocatori attribuiscono
un senso al gioco, così noi uomini attribuiamo un senso
al mondo con le nostre opinioni (fr. 70):
Giochi di fanciulli riteneva che fossero le opinioni umane51.

Lo stesso concetto compare nel frammento 124:


Come rifiuti sparsi a caso l’ordinamento più bello.

Si può leggere in due modi: l’ordinamento (κόσμος)


più bello non vale più di un mucchio di rifiuti, oppure
un mucchio di rifiuti è comunque un ordinamento bel-
lo. Il senso è il medesimo: per il dio — ossia in sé — tut-
to ha lo stesso valore, un mucchio di rifiuti come il più
bell’ordinamento.
In questo genere di considerazioni potrebbero for-
se inquadrarsi altri due testi: l’apparentemente banale
frammento 99:
Se non ci fosse il sole, per gli altri astri sarebbe notte

e l’ermetico frammento 3 riferito alle dimensioni del sole:


la larghezza d’un piede d’uomo.

Il sole è la fonte della luce, infinitamente più luminoso


delle altre stelle, ma lo si può coprire con un piede uma-

51. per pradeau (2002, p. 305) è una glossa di B 52.


76 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

no52. Questo frammento è collegato al frammento 94


Helios non travalicherà le misure: altrimenti le Erinni, guar-
die della giustizia, lo scoprirebbero,

in un testo lacunoso del papiro di Derveni, che è stato


ricostruito da Burkert (1983) come segue:
… Eraclito l’ha mostrato chiaramente, prendendo il piccolo
secondo l’esperienza comune: ha fatto la più lucida dimostra-
zione di quanto è grande (il cosmo), attraverso un linguag-
gio oscuro, ma non secondo la natura. Il sole, largo quanto
un piede umano e che non sorpassa i limiti delle sue misure
per paura delle Erinni — altrimenti le Erinni lo troveranno
—, tutto questo ha detto in modo allegorico, affinché ci con-
duca da una cosa all’altra…53 (p. 42; trad. di M. Danieli).

In questo passo il testo eracliteo è probabilmente pa-


rafrasato e l’autore del papiro vi legge un ridimensiona-
mento del sole — la cui importanza è per noi suprema,
come mostra il frammento 99 — nei confronti dell’intero
cosmo. Non possiamo sapere se il cosmo fosse effettiva-
mente menzionato da Eraclito, ma l’intenzione di con-
trapporre la nostra valutazione del sole alla sua obiettiva
importanza nell’ambito del tutto mi sembra verosimile.
per la mente di dio tutto ha lo stesso valore, che tra-
scende la nostra comprensione, ma le esigenze della vita
impongono agli uomini giudizi differenziati. La giustizia
è un concetto umano, e Eraclito accenna a come il senso
della giustizia si sia sviluppato negli uomini (fr. 23):
Non saprebbero il nome di Dike, se queste cose non fossero.

52. Fränkel (1938): «Il corpo celeste più grande e potente non conta
nulla più di questo» (p. 223).
53. In base a questo testo Mouraviev (2006, I, p. 9) unifica i due fram-
menti.
2. Le intuizioni di Eraclito 77

“Queste cose” potrebbero essere gli atti ingiusti che


gli uomini compiono (come le «sentenze distorte» degli
esiodei «re mangiatori di doni»). Sono proprio questi
atti che hanno indotto gli uomini a distinguere il giusto
dall’ingiusto, allo stesso modo in cui, secondo il fram-
mento 111:
La malattia fece dolce e buona la salute, la fame la sazietà, la
fatica il riposo.

La conoscenza umana, a differenza di quella divina,


è dunque sovra–determinata dai punti di vista specifi-
ci degli esseri umani. Gli uomini giudicano in base a
esigenze soggettive o sociali, ma i loro giudizi sono as-
solutamente irrilevanti se osservati in un’ottica estra-
nea a tali esigenze. Ciò implica che la divinità non è in
alcun modo garante di quanto gli uomini considerano
buono e giusto: il dio, si è visto, non è provvidenziale.
D’altra parte, l’assoluta inaccessibilità della conoscenza
divina impedisce a Eraclito di pronunciarsi sulle finalità
del dio. A questo livello, dunque, Eraclito si è libera-
to dell’ambiguo rapporto dei Greci con gli dèi omerici,
che interferivano con l’uomo per finalità loro proprie,
ma affini a quelle umane.

2.4. Relatività dei giudizi umani

Se il giudizio divino è per gli uomini totalmente alie-


no, i giudizi umani appaiono fra loro difformi, a secon-
da delle esigenze di ciascuno. per puntualizzare meglio
la dipendenza del giudizio dalle esigenze soggettive,
Eraclito ricorre a formulazioni estreme, come nel fram-
mento 9:
Gli asini sceglierebbero lo strame più che l’oro
78 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

nel 4:
diremmo felici i buoi quando trovino rubiglio da mangiare54

nel 61:
Il mare è l’acqua più pura e più impura; per i pesci è bevibile
e salutare, per gli uomini è imbevibile e esiziale

nel 13:
I porci godono più nella fanghiglia che nell’acqua pulita

e nel 37:
I porci si lavano nel fango, gli uccelli da cortile nella polvere
o nella cenere.

Eraclito cita esempi d’opposizione radicale per far risalta-


re l’inevitabile soggettività dei valori e quindi dei giudizi. Al-
cuni interpreti hanno difficoltà a contentarsi di un semplice
relativismo che, fine a se stesso, apparirebbe alquanto bana-
le; ma per Eraclito sottolineare la relatività dei giudizi non è
affatto fine a se stesso, perché serve a chiarire la natura della
conoscenza umana: infatti, non soltanto i valori ma anche le
parole stesse — il linguaggio quindi — riflettono punti di vista.

2.5. Permanenza nel cambiamento


Diversi frammenti di Eraclito parlano di mutamenti,
come i già citati frammenti 126:
54. Kirk (1954, p. 84) e Marcovich (1978, p. 135), seguiti da altri come
Bollack e Wismann (1972) e Conche (1986, p. 346), concordano con Bywa-
ter (Heracliti Ephesii reliquiae, Oxonii, 1877) nell’espungere la premessa di
Alberto Magno: «Si felicitas esset in delectationibus corporis».
2. Le intuizioni di Eraclito 79

le fredde si riscaldano, il caldo si raffredda; l’umida si asciuga,


l’asciutta si bagna

e 125:
Anche il ciceone si separa se non agitato.

Il ciceone — una sospensione acquosa di ceci maci-


nati — esiste finché muta: se il movimento s’arrestasse,
cesserebbe di esistere, perché la farina di ceci sedimen-
terebbe. Si può dire quindi che (fr. 84a)
mutando riposa.

Ci sono poi i famosi “frammenti del fiume”. Il fram-


mento 12:
[a] per coloro che entrano negli stessi fiumi altre e altre ac-
que defluiscono: [b] e le anime esalano dall’umido55

il 49a:
Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non
siamo56

e il 91:

55. Tra coloro che respingono l’autenticità di [b] sono Zeller (1892),
Kirk (1954), Marcovich (1978), Kahn (1979); tra coloro che l’accetta-
no Diels e Kranz (1951), Reinhardt (1916), Mazzantini (1945), Dilcher
(1995).
56. per Kirk (1954) si tratta di una parafrasi, e anche Markovich
(1966) considera il frammento non autentico. per Calogero (1967), il
frammento è un altro esempio di dialettica degli opposti: «Quel che im-
porta a Eraclito, che non è un eracliteo, non è questo infinito flusso, ma
il fatto che esso determini un’antitesi rispetto all’identità, una discordia
contro la concordia immediata della cosa» (p. 86).
80 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Non si può entrare due volte nello stesso fiume57.

Il problema filologico relativo all’autenticità di questi


frammenti è oggetto di un dibattito che non è ancora
concluso e che non è possibile affrontare in questa sede58.
Ritengo, comunque, che il senso dei testi sia eracliteo,
anche se in qualche caso la formulazione può non essere
letterale. Rimane però il problema dell’interpretazione.
platone nel Cratilo (402a) considera il frammento 91
espressione del concetto «tutto passa e nulla rimane»,
dunque una formulazione della “teoria del flusso univer-
sale”. Questa interpretazione non soddisfa: che ogni cosa
muti è, si è visto, una constatazione tutto sommato scon-
tata. Non sono disposto a credere che Eraclito si limitas-
se a una considerazione tanto banale; ritengo quindi che
l’interpretazione sia un’altra. per Reinhardt (1916):
L’idea fondamentale di Eraclito costituisce invece la più de-
cisa opposizione pensabile alla dottrina del flusso, ossia la
permanenza nel cambiamento (p. 206).

Il problema riguarda la natura degli enti, la natura dei


nomi e, in ultima analisi, la natura della conoscenza. Il
tema era già diventato popolare all’epoca di Eraclito,
dato che compare in una commedia di Epicarmo (23 B
2), un suo quasi contemporaneo, che
lo mette in scena con quel tale che, richiesto di pagare un
debito, negava di essere lo stesso [che l’aveva contratto] per-
ché si era aggiunta a lui qualcosa e qualche altra era venu-
ta meno. Avendolo il creditore bastonato, citato in giudizio
anche costui dichiarò che l’aggressore era persona diversa

57. Lo stesso frammento è citato con poche variazioni anche da


platone (Cratilo 402a), da Aristotele (metaph. IV 5, 1010a 7) e da Seneca
(ad Lucil. VI 58, 22).
58. Sull’argomento vedi Vlastos (1955) e Tarán (1999).
2. Le intuizioni di Eraclito 81

dall’accusato59 (Anon. in Plat. Theaet. 71, 26).

Il punto centrale è dunque: fino a che punto l’ente mu-


tando permane lo stesso e quando invece cambia? Cosa è
che conserva l’ente e cosa è che lo muta in un altro?
per Kirk (1954) la conservazione dell’ente dipende dal-
le caratteristiche del mutamento:
La conservazione dell’identità e del nome del fiume, nono-
stante il costante mutamento delle parti, è dovuta alla rego-
larità ed all’equilibrio del mutamento, esattamente come la
conservazione di un κόσμος è dovuta alle μέτρα che gover-
nano ogni mutamento meteorologico e cosmologico60 (p.
366).

Kirk sembra attribuire a Eraclito, a livello ontologico,


un criterio di permanenza dell’oggetto che muta, ma fini-
sce inevitabilmente per ricadere nell’arbitrarietà: l’oggetto
permane finché il suo mutamento si mantiene entro certi
limiti; ma quali sono questi limiti? In effetti, noi usiamo
conservare il nome di un ente, e continuiamo a conside-
rarlo lo stesso ente, finché mantiene certe caratteristiche
che riteniamo essenziali. Questo riguarda il nostro uso del
linguaggio e il nostro modo di vedere le cose, ma non ha
alcun rilievo ontologico. Eraclito non enuncia mai dei cri-
teri di regolarità e di misura nel senso indicato da Kirk. È
vero che nei frammenti 30 e 31 egli parla di misure (μέτρα),
ma il significato è tutt’altro: “misura” vi indica una “parte
misurabile”, un “rapporto tra quantità”, non il limite en-
tro cui i mutamenti “conservano” il cosmo.
Cercare criteri univoci per stabilire una “misura” en-
tro la quale l’oggetto permane lo stesso e oltre la quale
59. Epicarmo formula lo stesso paradosso anche nel frammento 2.
60. pradeau (2002) concorda sostanzialmente con la soluzione di
Kirk: «Una realtà perdura, non restando immobile, ma finché i cambia-
menti che subisce conservano tra loro una certa misura (métron)» (p. 52).
82 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

l’oggetto diventa un altro è una via senza uscita; ma


non è la soluzione di Eraclito. Nei frammenti rimasti
egli non si pronuncia esplicitamente, ma la lettura di al-
cuni frammenti suggerisce una soluzione coerente. Ad
esempio, il frammento 103:
Comune è, infatti, l’inizio e il termine sulla circonferenza del
cerchio.

per pradeau (2002), il frammento:


mostra esplicitamente che due cose considerate dei contrari
formano in realtà un’unità (p. 223).

Appunto, «considerate»: se sono considerate dei con-


trari, le due cose non sono, ovviamente, la stessa cosa, ma
chi le “considera” le può vedere come dei contrari (le due
estremità) oppure come la stessa cosa (un medesimo punto
della circonferenza). La differenza sta in come “si conside-
ra”: inizio e fine del cerchio non esistono in sé, ma ciascuno
può chiamare in un modo e nell’altro un punto qualsiasi, se
lo desidera. Lo stesso vale per il frammento 60:
La via in su e in giù una e la medesima.

per Stokes (1971)


la distinzione, ovvia per noi, tra il soggetto e i predicati ad
esso inerenti non era disponibile a Eraclito; se la via in su e
la via in giù erano la stessa cosa, ne seguiva, in mancanza di
una simile distinzione, che in questo caso almeno, su e giù
erano essi stessi la medesima cosa (p. 91).

Il senso è: in quanto primitivo, Eraclito non sapeva


ragionare. Eraclito però non dice che “in su” e “in giù”
sono la stessa cosa — non dice, cioè, che gli opposti coin-
cidono — ma intende soltanto mostrare che la stessa
2. Le intuizioni di Eraclito 83

strada appare “in su” o “in giù” a seconda di chi la guarda


e da dove la si guarda o da come la si percorre. Se non si
obbliga Eraclito a dire che gli opposti coincidono, la sua
considerazione, benché apparentemente banale, è senza
faglie.
Lo stesso senso ha il frammento 59:
Nel rullo del cardatore la via dritta e curva è una e la mede-
sima.

Il movimento a spirale di ogni punto del rullo può es-


sere anche “considerato” composto da due moti distinti,
circolare e traslatorio61.
In tutti questi esempi, nomi distinti sono applicati alle
stesse cose:

— un punto del cerchio può essere chiamato inizio o


fine;
— la strada inclinata può essere chiamata in su o in
giù;
— il moto di un punto del rullo può essere chiamato
un unico moto a spirale oppure una combinazione
di due moti, uno rettilineo e uno circolare.

Il nome dipende dunque dal punto di vista del sogget-


to. perché Eraclito insiste sul soggettivismo? Egli vi insiste
perché questa è la sua soluzione del problema della iden-
tità nel mutamento: tutto cambia, siamo noi che, nella nostra
mente, distinguiamo gli oggetti o ne conserviamo l’identità. Vi-

61. È difficile comprendere in che senso i due movimenti che si com-


binano siano un esempio della tensione dei contrari, come sostiene pra-
deau (2002): «La macchina per cardare […] sembra non essere altro che
un nuovo esempio di contrarietà, ossia del modo in cui un oggetto, una
qualità o anche un’attività è sempre costituita e definita dalla tensione dei
contrari» (p. 221).
84 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

cino a Efeso c’è una corrente d’acqua: la chiamano Fiume


Caistro. Nel Caistro l’acqua cambia in continuazione, e
non solo: la corrente occupa tutta la pianura durante le
piene, mentre in secca si riduce a un modesto rivolo e tal-
volta scompare del tutto; il fiume è considerato sia una
risorsa per abbeverare le mandrie, sia una minaccia da cui
difendersi; sia un ostacolo per l’attraversamento, sia una
via d’accesso per la navigazione… Come il fiume di Eliot,
il Caistro appare ed è concepito in vari modi, a seconda
delle esigenze e dei punti di vista: cosa ne mantiene l’iden-
tità? La mantiene soltanto il fatto che gli uomini continua-
no a considerarlo lo stesso fiume. La soluzione del proble-
ma dell’identità nel mutamento è dunque per Eraclito un
fatto gnoseologico (mentale), non ontologico.

2.6. Tutto è uno

Sono gli uomini che danno i nomi e con i nomi le iden-


tità; ed essi mantengono queste identità finché è utile per
loro. Allora, cosa sono “in sé” i diversi enti, gli innume-
revoli oggetti? La risposta è che “in sé” non sono; infatti
tutto è uno (fr. 50):
Udito non me ma il logos, è saggio convenire che tutto è
uno.

Data l’importanza del frammento, peraltro corro-


borato dagli altri, bisogna ammettere l’esistenza di
un problema testuale non trascurabile. Il manoscritto
di Ippolito porta εἰδέναι (intendere) al posto dell’εἶναι
(è) finale. La correzione εἶναι (Miller), derivata dai te-
sti di Filone62, è accettata da molti, ma non da tutti.

62. Legum allegoriae III 7; De specialibus legibus I 208.


2. Le intuizioni di Eraclito 85

Bollack (1990), ad esempio, mantiene εἰδέναι e legan-


dolo a ὁμολογεῖν (concordare = dire in accordo) in-
terpreta:
ascoltare la struttura del linguaggio per saper dire insieme o
in accordo (ὁμο–λογεῖν) ogni cosa una (che non è l’unità del
tutto)63 (p. 178, n. 39).

Lo stesso concetto è sostanzialmente ribadito dal


frammento 67, dove “dio” è al posto di “tutto”:
Il dio giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame,
muta64 come il 〈fuoco〉65, quando misto a spezie, prende
il nome dal profumo di ciascuna.

Gran parte della critica interpreta il frammento in


termini di “contrari”. Ad esempio, per Conche (1986):
Le coppie dei contrari citati stanno a indicare tutti i contrari
(p. 379).

Non basta: stanno ad indicare non solo tutti i contra-


ri ma tutto, indistintamente. Dio è tutto, senza distin-
zioni, contrari e no: è conoscenza di tutto e tutto ha per
lui lo stesso valore. Le spezie e il loro profumo stanno
per il nome — ossia il carattere — che ciascuno attribu-
isce a una parte di realtà; ma la sostanza del fuoco va
ben oltre il profumo.
Analogo è, ritengo, il senso del frammento 10:

63. Colli (1967), che considera ὁμολογεῖν una glossa, accetta εἰδέναι
e traduce: «per chi ascolta non me, bensì l’espressione, sapienza è ricono-
scere che tutte le cose sono una sola» (p. 21).
64. Alcuni critici considerano che qui per mutamento s’intenda un
cambiamento di nome (vedi Kirk, 1954, p. 198).
65. Fränkel (1962), seguito da Dilcher (1995), ha proposto di sostitui-
re “fuoco” con “olio” (ἔλαιον).
86 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Congiunzioni66 interi e non interi, concordante discordante,


consonante dissonante, da tutto uno da uno tutto.

Il fatto che tre coppie d’attributi contrari (intero–


non intero, convergente–divergente, concordante–di-
scordante) si riferiscano ad un’unità, non implica ne-
cessariamente che si consideri questa unità costituita
da contrari, ma significa soltanto che perfino quando
si conferiscono attributi contrari, la realtà è in effetti
unica67.
Il punto di vista umano è illustrato da Socrate nel Par-
menide di platone:
Ma che ci sarebbe da stupirsi se qualcuno mostrasse che io
sono uno e molti? Quando mi si vuol considerare molti, che
una cosa è la mia parte destra, altra quella sinistra, altra quel-
la davanti e quella di dietro, e parimenti per l’alta e la bassa
— ritengo infatti di partecipare della molteplicità. Quando,
d’altro canto, mi si vuol considerare uno, si dice che, essendo
uomo, io sono uno di noi sette, partecipando anche dell’uno:
così entrambe le posizioni appaiono vere (129a 4).

Gli uomini operano distinzioni attribuendo nomi di-


versi a parti di realtà, ma perdono di vista il fatto che tutto
è uno e i nomi indicano solo gli aspetti che a loro interes-
sano. Se tutto è uno, le distinzioni che stanno alla base dei
nomi non sono oggettive, ma sono soltanto opera dell’uo-
mo. È allora poco verosimile che riguardo alla correttez-
za (ὀρθότης) dei nomi Eraclito potesse avere l’opinione
che platone attribuisce a Cratilo nel dialogo omonimo:
conoscere la cosa è conoscere il nome giusto. Non si può

66. συνάψιες; oppure “presi insieme” (συλλάψιες).


67. O’Connell (2006): «poiché le linee di divisione possono essere va-
riamente determinate, con conclusioni molto diverse, la relazione tra in-
teri e non interi, il convergente e il divergente, ecc., merita una ponderata
considerazione» (p. 28).
2. Le intuizioni di Eraclito 87

parlare di un’esatta corrispondenza del nome alla cosa: la


cosa stessa, in sé, svanisce. Questa interpretazione sugge-
risce una diversa lettura del frammento 48:
Dell’arco dunque vita il nome, morte l’opera

in cui è generalmente letta la coincidenza degli opposti,


svelata dalla somiglianza dei nomi68. Al contrario, il fram-
mento potrebbe mostrare che, essendo la lingua un ar-
tefatto umano, accade anche che due nomi molto simili,
arco (βιός) e vita (βίος), siano usati per indicare cose diver-
sissime o addirittura opposte: il fatto che l’ arco si chiami
come la vita non toglie che la sua funzione abbia a che fare
proprio con il contrario, ossia la morte69. Avremmo, così,
un ulteriore esempio di come Eraclito usi termini oppo-
sti quando intende sottolineare le differenze; in questo caso,
per mostrare la differenza degli enti indicati con lo stesso
nome; in altre occasioni, per mettere in evidenza l’unità in
cui si annullano tutte le distinzioni, perfino quelle tra op-
posti, che sono quanto di più differente si possa immagina-
re. In questo senso si può interpretare il frammento 88:
La stessa cosa vi è vivo e morto, desto e dormiente, giovane
e vecchio: questi infatti mutando sono quelli e quelli all’in-
verso mutando questi70.

Le cose più diverse, il vivo e il morto, lo sveglio e il


dormiente, il giovane e il vecchio sono solo distinzio-

68. per Calogero (1967) «è l’esemplificazione principe dell’universale


relazione reciproca degli opposti» (p. 74).
69. Dato che le parole erano scritte senza accenti, il vocabolo si scri-
veva allo stesso modo con entrambi i significati. Mouraviev (2002) adduce
questa considerazione, tra le altre, a sostegno della tesi che Eraclito abbia
composto il libro per iscritto (p. 392).
70. La seconda parte del frammento è respinta come non eraclitea da al-
cuni critici e accettata da altri (per un’analisi dettagliata, vedi Kirk, 1954, p. 139).
88 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ni compiute da un punto di vista strettamente uma-


no nell’ambito del continuo processo che costituisce
l’ordine del mondo: quest’ordine mutando permane.
Un significato analogo può essere attribuito al fram-
mento 75:
Coloro che dormono sono artefici e collaboratori di ciò che
accade nel cosmo71.

I valori che noi siamo usi attribuire — l’uomo desto


più utile e attivo di colui che dorme — sono valori nostri,
ma per l’accadere del cosmo hanno esattamente lo stesso
peso.
Si può ora provare a rispondere alla domanda che era
rimasta in sospeso quando si è esaminato il frammento
114, là dove dice che
tutte le leggi umane sono nutrite dall’unica divina: questa,
infatti, domina ciò che vuole e basta a tutte e le supera.

Cosa è questa legge divina di cui tutte le leggi umane


si nutrono?
Ritengo che la risposta possa essere trovata nell’am-
bito del quadro fin qui delineato: proprio come la co-
noscenza umana non è altro che un tentativo d’estrarre
indicazioni utili da una realtà oggettivamente estranea,
allo stesso modo le leggi umane sono un tentativo di
adeguare la società alle condizioni poste dalla mede-
sima realtà, indipendente e indifferente, che Eraclito
chiama qui legge divina. In sostanza, sia la conoscenza

71. Gigon (1945) collega questo frammento al frammento 21 B 34 di


Senofane, dove dice «se gli capitasse per caso d’esprimere nel modo più
compiuto la realtà, egli stesso non se ne renderebbe conto»: «La verità esi-
ste, domina tutto e nulla può sfuggirle. Il saggio la segue coscientemente;
gli altri, gli ignari, la seguono senza saperlo» (p. 202).
2. Le intuizioni di Eraclito 89

sia il comportamento (etica, leggi…) reagiscono come


possono a condizioni che l’uomo non controlla e che
trascendono le leggi umane: un mondo che non ha
l’uomo come fine e con cui l’uomo interagisce soltanto
tramite il filtro delle proprie esigenze. Così, le norme
comportamentali adottate dalle diverse polis sono in
qualche misura differenti, ma tutte si propongono fini
analoghi nell’ambito della medesima realtà, e questo è
comune.

2.7. Armonia e contesa

Dato che la realtà del cosmo trascende tutto ciò che gli
uomini pongono, non deve stupire se, oltre a ciò che siamo
abituati a vedere, vi sia ben altro da scoprire (fr. 54):
La connessione nascosta è migliore di quella che appare.

Molti ritengono che la connessione (ἁρμονίη) nascosta sia


quella dei contrari72; penso invece che l’intima connessione
sia l’unità che sussiste anche quando non la vediamo: tutto
è connesso in modo molto più intimo di quanto osserviamo
a prima vista. Ciò che a noi appare come opposizione o con-
trasto è parte di questa interconnessione (fr. 51):
Non comprendono come divergendo con se stesso concorda73:

72. Ad esempio, Conche (1986): «La connessione apparente è quella delle


differenze […] La connessione non apparente è quella dei contrari» (p. 431).
73. ὁμολογέει: Zeller (1892, I IV p. 111, n. 60) ne ha proposto la sosti-
tuzione con συμφέρεται, sulla base dell’αὑτῷ ξυμφέρεσθαι nel Simposio
di platone (187 a 4). Questa sostituzione, accettata ad esempio da Kirk
(1954) e da Diano e Serra (1980), è rifiutata da molti altri interpreti e dura-
mente criticata da Kahn (1979, p. 195).
90 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

contrastante74 connessione come quella dell’arco e della lira.

Le strutture soggette a tensioni contrastanti, come


l’arco e la lira, esemplificano bene il fatto che elementi in
tensione possono costituire un’armonica connessione: la
tensione è parte integrante della struttura stessa. L’appa-
rente opposizione è un nostro giudizio, legato a un punto
di vista (in questo caso l’attenzione posta sulla tendenza
delle due punte ad andare in direzioni opposte), ma non
è un carattere intrinseco della realtà.
Significato analogo ha il frammento 8:
L’opposto concordante e dai discordanti la più bella armonia
[e tutto origina dalla discordia]75.

Ciò che per noi è discordante costituisce elemento


costitutivo dell’insieme; ciò che noi disgiungiamo è uni-
to con l’intero in stretta connessione. La guerra, per noi
forma estrema di discordanza, è anch’essa un aspetto
dell’unità del tutto (fr. 80):
Bisogna capire che la guerra è comune e giustizia discordia e
che tutte le cose diventano per discordia e necessità.

Tutto è unito e armonico, anche negli aspetti più con-


trastanti come la guerra, perché tutto è come è, ed è in-
differente ai valori e ai giudizi umani. Inoltre, “ciò che è”
è necessario: avviene per necessità — l’esito della lotta è

74. παλίντροπος in Ippolito, in altri manoscritti παλίντονος (ritorto,


vibrante). Kahn (1979, p. 195) difende παλίντροπος in quanto lectio diffi-
cilior; anche Vlastos (1955) lo difende perché «Ippolito dà l’intero fram-
mento, e legge palintropos». Robinson (1987): «La lettura παλίντροπος, più
sottile e filosoficamente interessante, dovrebbe essere ritenuta» (p. 116). Il
senso generale del frammento è largamente indipendente dalla scelta.
75. L’autenticità del frammento è contestata da alcuni come parafra-
si aristotelica.
2. Le intuizioni di Eraclito 91

obbligato.
A quest’ordine d’idee si può collegare il frammento
42:
Omero degno d’essere scacciato dagli agoni e di essere fru-
stato ed ugualmente Archiloco.

in cui presumibilmente Omero è biasimato per il passo


dell’Iliade (XVIII 107), precedentemente citato, in cui
condanna la discordia, e Archiloco per qualche verso
analogo76.
Lungi dall’essere in sé un male, come gli uomini ri-
tengono, la guerra s’inquadra nell’indifferente funziona-
mento del tutto, ma gli esiti non sono indifferenti per gli
uomini (fr. 53):
La guerra è padre di tutto, di tutto re, e alcuni mostrò dèi,
altri uomini, alcuni fece schiavi, altri liberi.

A norma del frammento 102 (tutte le cose sono belle,


buone e giuste per la divinità) la guerra, che può avere
per il cittadino esiti tragici — la morte, la sconfitta del-
la sua polis, la schiavitù — è il normale ed indifferente
procedere del mondo77. Il tono del frammento fa traspa-
rire però anche qualcosa che va oltre la teoria: traspare
il cittadino Eraclito, appassionatamente coinvolto nelle
vicende politiche della sua città. Egli guarda la guerra
anche dal punto di vista umano: la lotta è un’inevitabile
necessità della vita, ed è ciò che determina lo status de-

76. Marcovich (1978): «Quanto a Archiloco, può darsi che in qualche


frammento oggi perduto abbia scagliato invettive contro la guerra, imi-
tando Iliade XVIII 107» (p. 106).
77. O’Connell (2006): «Lo status definitivo o il fato particolare di cia-
scuno — e.g., diventare uomo o dio, schiavo o libero — è, a veder lungo,
un’assegnazione arbitraria, dipendente dai capricci di una forza cosmica
indifferente e pervasiva» (p. 71).
92 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

gli uomini. Il richiamo agli dèi è stato variamente inter-


pretato78. potrebbe essere un modo di dire, ma anche un
riferimento mitologico: gli dèi sono tali, perché hanno
vinto la guerra contro i titani, da cui secondo alcuni di-
scendono gli uomini79. Gli schiavi sono gli sconfitti, tratti
in servitù, come i titani incatenati nel fondo del Tartaro.
Ma la schiavitù è anche un’esperienza comune nel mon-
do greco: i liberi sono coloro che hanno saputo difendere
la loro libertà, gli schiavi sono i vinti che si sono lasciati
soggiogare. Non è escluso che Eraclito alluda a fatti re-
centi e a lui vicini, come l’assoggettamento degli Ioni da
parte dei persiani, diventato ancora più pesante dopo la
repressione della rivolta ionica.
Analogamente nel frammento 11,
infatti tutte le bestie vanno al pascolo con la sferza.

la violenza della sferza, con cui si spingono le bestie al


pascolo per nutrirle, può voler simboleggiare sia il ruolo
cosmico della guerra, che in sé non è né buono né catti-
vo, sia il giudizio etico di Eraclito sul “popolo bue”, che
si è fatto ridurre in schiavitù ed è guidato con la sferza. Va
notato che entrambi i significati si riferiscono alla mede-
sima realtà, che può essere considerata “in sé”, secondo il
punto di vista divino, oppure come giudicata dall’uomo
che vi è coinvolto.

78. Ad esempio, secondo Bollack e Wismann (1972) «[p]er Eraclito


l’uomo è anche dio» (p. 187); per Marcovich (1978): «I viventi riman-
gono uomini; i caduti vengono tutti innalzati a dèi» (p. 104); per Kahn
(1979): «Umanità e divinità sono alternative, perfino stati alternantisi
che — come giorno e notte, guerra e pace, vita e morte — definiscono
con la loro opposizione e successione la piena dimensione dell’esistenza
umana» (p. 209).
79. Il richiamo non implicherebbe affatto la fede nelle vicende narra-
te dal mito.
2. Le intuizioni di Eraclito 93

2.8. Opinioni

I valori sono punti di vista dell’uomo, mentre “in sé”


(per il dio) tutto ha lo stesso valore, tutto è uno; le distin-
zioni tra oggetti ed enti sono dunque opera dell’uomo.
Questa verità è comune; il resto è opinione (fr. 28):
Opinioni, infatti, il più stimato conosce e ritiene: e certo80 la
giustizia afferrerà i fabbricatori e testimoni di menzogne.

La prima frase del frammento dice che tutti indistin-


tamente, anche i più sapienti e stimati, non possono nu-
trire altro che opinioni. La seconda frase aggiunge un in-
dizio importante: le opinioni (δοκέοντα) possono essere
menzognere (se lo sono, saranno scoperte e punite). Ciò
implica che possono anche “non essere menzognere”. Le
opinioni umane possono essere dette vere, anche se vere
in un senso diverso da quello dell’assoluta conoscenza
che compete al τὸ σοφόν.
Che un’opinione umana sia da ritenere veritiera oppu-
re menzognera deve dipendere dal modo in cui si è for-
mata. È bene, per Eraclito, che le opinioni umane siano
basate sull’osservazione (fr. 55):
Di quanto vista, udito, apprendimento questo io preferi-
sco81.

Non tutti i sensi posseggono la stessa capacità di infor-


mare (fr. 101a):

80. Le parole “e certo” (καὶ μέντοι καὶ) sono generalmente attribuite


a Clemente.
81. Mentre vista e udito sono sensi, apprendimento (μάθησις) si pone
su un altro piano; perciò Mansfeld (1999) traduce: «Tutto ciò di cui la vista
e l’ascolto è un apprendimento [o: un’istruzione], ecco ciò che preferisco»
(p. 338).
94 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Gli occhi, infatti, più accurati testimoni82 delle orecchie.

Quello che si vede è più affidabile dei discorsi che si


sentono83, ma tutti i sensi, anche l’olfatto, fanno la loro
parte (fr. 7):
Se tutte le cose diventassero fumo, le narici le distinguereb-
bero.

In assenza degli altri sensi, anche il solo fiuto ci direb-


be pur sempre qualcosa. Soprattutto, però, quello che
più conta sono le capacità intellettive (fr. 107):
Cattivi testimoni gli occhi e le orecchie per gli uomini che
hanno anime barbare.

Barbari erano coloro che non capivano la lingua greca:


costoro non erano in grado di dare un senso ai suoni emessi
dai greci84. Barbare sono dunque le anime incapaci di dare
un senso a ciò che appare, quelle che non sanno far uso di
quella capacità di ragionare che permette il giudizio.

82. Robb (1991) analizzando il Codice di Gortina mostra che all’epo-


ca di Eraclito, fortemente influenzata da un «oralismo residuale» (p. 642),
con la parola “testimone” (μάρτυς) non s’intendeva colui che aveva ca-
sualmente assistito a un fatto, ma colui che era chiamato come testimone
ufficiale di un atto legale (matrimonio, adozione, affrancamento di uno
schiavo…). In una cultura orale questa pratica costituiva l’unico modo per
assicurare la validità e l’efficacia dell’atto, cui il testimone doveva assistere
personalmente, e non riferire per sentito dire. L’autore ritiene dunque che
la polemica di Eraclito non è un «attacco all’esperienza dei sensi, cosa di
cui la filosofia era ancora incolpevole» (p. 662).
83. Kahn (1979, p. 106) ricorda l’episodio erodoteo di Gige e della
moglie di Caudale, in cui quest’ultimo cita quello che può essere consi-
derato un detto popolare: «per gli uomini le orecchie sono infatti meno
affidabili degli occhi» (I 8).
84. Secondo Robb (1991) non erano dunque in grado di testimonia-
re, perché incapaci di comprendere il senso dell’atto cui erano stati chia-
mati ad assistere (vedi nota 82).
2. Le intuizioni di Eraclito 95

Eraclito distingue il vero dal falso, ma non fornisce ulte-


riori indicazioni circa un criterio di verità nell’ambito del-
le opinioni umane85, pur sottolineando l’importanza delle
indicazioni dei sensi. Unica certezza comune è il fatto che
tutto è uno e che le conoscenze umane sono determina-
te da punti di vista soggettivi e sociali. Abbandonando la
cieca adesione al proprio punto di vista privato, grazie alla
presa di coscienza dell’intrinseca soggettività delle idee, è
possibile portarsi su un piano comune, riconoscendo ai
punti di vista altrui lo stesso statuto del nostro. Questo
non significa che tutti abbiano sempre ragione: ci sono
indubbiamente opinioni più o meno valide, ma cosa ne
determini la validità Eraclito non lo dice. per quel che ne
sappiamo, la sua epistemologia non va oltre.

2.9 La natura

Dai frammenti e dalle testimonianze, sembra che lo


scritto di Eraclito affrontasse, oltre al tema della cono-
scenza, anche temi cosmologici, religiosi e politici, non
conosciamo in che ordine. Sappiamo però che il fram-
mento 1 era l’inizio e che il 2 seguiva di poco. Ciò fa pen-
sare che le considerazioni sulla natura della conoscenza
costituissero una premessa al discorso generale86. Diversi
frammenti hanno un significato cosmologico.

2.9.1. Fuoco

Il frammento 30 mostra che per Eraclito il cosmo —


l’ordine del mondo — è eterno ed increato:

85. Mi sembra questa una caratteristica di tutta l’epistemologia gre-


ca del V secolo.
86. In questo modo è organizzato il poema di parmenide.
96 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Questo cosmo, il medesimo per tutti87, nessuno degli dèi o


degli uomini lo ha fatto88, ma era sempre ed è e sarà un fuoco
sempre–vivo, che in misura divampa e in misura si attenua.

Nella fisica di Eraclito il fuoco occupa un posto privile-


giato. Esso non ha sempre la stessa intensità, essendo con-
tinuamente soggetto a mutamenti, anche importanti ma
dotati di qualche forma di regolarità, di misura (μέτρα). Il
divampare e l’attenuarsi del fuoco è evidentemente con-
nesso con le trasformazioni indicate nel frammento 31:
Le trasformazioni del fuoco: prima mare, e del mare metà
terra e metà esalazione infuocata. […] 〈La terra〉89 si li-
quefa come mare e si misura nella medesima quantità che
era prima di diventare terra90.

Nelle trasformazioni Eraclito coinvolge una grande


massa naturale, il mare (θαλάσσα), un’altra massa, la ter-
ra (γῆ), e un fenomeno meteorologico, la “esalazione in-
focata” (πρηστήρ)91.

87. Kirk (1954): «“Il medesimo per tutti” (τὸν αὐτὸν ἁπάντων) è una
sintesi molto concentrata ma inconfondibile di una più lunga interpreta-
zione stoica» (p. 309).
88. Kirk (1954): «“Nessuno degli dèi o degli uomini lo ha fatto” (οὔτε τις
θεῶν oὔτε ἀνθρώπων) è un’espressione polare con un senso onnicomprensi-
vo. […] “Nessun dio o uomo” significa “assolutamente nessuno”» (p. 311).
89. Kirk (1954): «ciò che s’intende è ancora, essenzialmente, 〈γῆ〉
θάλασσα διαχέεται, e a beneficio della chiarezza accetto provvisoriamente
questa piccola aggiunta; che questa interpretazione sia fondamentalmen-
te corretta è confermato da Diog. L. IX, 9, πάλιν τε αὖ τὴν γῆν χεῖσθαι»
(p. 332).
90. I due brani del frammento sono separati da un testo di Clemente.
Non siamo sicuri quindi della continuità. Lo dividono in due, ad esempio,
Marcovich (1978), Kahn (1979) e Robinson (1989).
91. Il termine πρηστήρ, nota Kahn (1979), «appare per la prima volta
nella Teogonia di Esiodo [846] come attributo dei venti (prestērēs anemoi)
tra la menzione del lampo e del fulmine, un esempio di fiamma celeste.
[…] Aristotele […] dice che prestēr è il nome dato a un vento caldo e rado
che scende dalle nuvole e prende fuoco» (p. 142).
2. Le intuizioni di Eraclito 97

Secondo Kirk (1954), il frammento si riferisce al ciclo


degli scambi tra le grandi masse: il fuoco etereo alimenta
il mare e il mare la terra; a sua volta la terra alimenta il
mare e questo il fuoco celeste. Delle quattro trasforma-
zioni, il frammento nomina il dissolvimento della terra in
mare, che presumibilmente si manifesta con le sorgenti e
con l’arretramento delle coste dovuta all’erosione mari-
na; e indica con πρηστήρ una delle trasformazioni che ha
origine dal mare. Questa trasformazione non può essere
altro che l’evaporazione che, come si vedrà, s’incendia
sulla superficie dei corpi celesti (soprattutto il sole). Del-
le altre due trasformazioni devono far parte la pioggia,
pensata evidentemente come condensazione del fuoco
celeste, e la deposizione marina, che interra i porti e le
foci dei fiumi.
La precisazione che la terra si liquefa (διαχέεται), pro-
ducendo un quantitativo di mare che si misura (μετρέεται)
nella stessa proporzione (λόγος) di quello che si era prima
trasformato in terra, indica che Eraclito aveva in mente
un processo mediamente stazionario, con scambi a som-
ma nulla — una specie di conservazione della massa, in
sostanza (cfr. Figura 1a).
Il fuoco si trasforma in tutte le cose e tutto si trasfor-
ma in ultima analisi in fuoco (fr. 90):

Tutte le cose scambio per il fuoco e il fuoco per tutte le cose,


come i beni lo sono per l’oro e l’oro per i beni.

Il fuoco è come l’oro, come la moneta: una merce


di scambio (ἀνταμοιβή) che misura tutte le altre merci,
presumibilmente in base a rapporti fissi; ma in ultima
analisi una merce alla stessa stregua delle altre. Il fuoco
è però anche qualcosa di più: a differenza delle altre so-
stanze esso ha un’intrinseca dinamicità; è un concentra-
to d’energia; caratterizza gli eventi più estremi in cui la
98 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Figura 1. Trasformazioni del fuoco.

natura manifesta la sua violenza: la folgore (κεραυνός), le


eruzioni, gli incendi. Il frammento 64 lo sottolinea:
Tutto governa la Folgore.

Ciò pone il fuoco in una posizione diversa rispetto alle


altre sostanze: esso è la sostanza attiva per eccellenza, è la
forza, è il principio del movimento. Giustamente Hussey
(1972), accennando ad un indiretto richiamo eracliteo di
Aristotele (de cael. 304a), segnala l’importanza del fuoco
nelle trasformazioni chimiche dell’antichità:
La similitudine della fornace ricorda che la metallurgia e la cu-
cina92 erano le principali fonti di dati empirici per ogni Greco
interessato alla trasformazione delle sostanze materiali (p. 51).

Le trasformazioni del fuoco sono citate anche in un


passaggio di Teofrasto:
92. Si potrebbe aggiungere la ceramica.
2. Le intuizioni di Eraclito 99

(8) E in particolare tra le sue dottrine vi sono queste: il fuo-


co è l’elemento, e tutto è cambiamento del fuoco, produ-
cendosi per rarefazione e condensazione: ma non espone
nulla chiaramente. […] (9) Condensandosi, infatti, il fuoco
diventa umido e raccogliendosi diventa acqua, consolidan-
dosi l’acqua si trasforma in terra: e questa è la via in giù.
Di nuovo poi la terra si scioglie, e da essa nasce l’acqua, e
da questa le restanti cose, attribuendo egli quasi tutte le
evaporazioni al mare: e questa è la via in su. Le evapora-
zioni sono prodotte dalla terra e dal mare, luminose e pure
quelle, e queste oscure: il fuoco si accresce dalle luminose,
l’acqua dalle altre (Diog. Laert. IX 8).

Dal cielo non giunge soltanto la vampa degli astri,


ma anche la pioggia, che dovrebbe essere il risultato del-
la condensazione del fuoco che «diventa umido e racco-
gliendosi diventa acqua». Stando a Teofrasto, per spiegare
questa doppia discesa dal cielo Eraclito distinguerebbe due
esalazioni (ἀναθυμίασις): una pura e luminosa, prodotta
dalla terra, che alimenta il fuoco (l’irraggiamento dei cor-
pi astrali), l’altra oscura, prodotta dal mare, che alimen-
ta l’acqua (la pioggia). La teoria della doppia esalazione
è centrale per la meteorologia di Aristotele. Kirk (1954)
avanza argomentazioni abbastanza persuasive contro l’at-
tribuzione di questa teoria a Eraclito, ma, sostiene Kahn
(1979, p. 292), non è verosimile che Teofrasto, il quale do-
veva avere davanti a sé il libro di Eraclito, l’abbia inventa-
ta di sana pianta. Lo schema con un’esalazione luminosa
e asciutta e una oscura e umida però non concorda con
quanto ci dice il frammento 31, ossia che l’esalazione info-
cata, il πρηστήρ, proviene dal mare. Se si segue lo schema
di Teofrasto i conti non tornano: il fuoco che si inumidisce
non può essere che il fuoco celeste ma, d’altra parte, se
le piogge fossero prodotte dalle esalazioni umide il ciclo
dell’acqua si chiuderebbe su se stesso, e non vi sarebbe ac-
qua prodotta dal fuoco. Analogamente, se il fuoco celeste
è alimentato solo dalle esalazioni asciutte, manca anche la
100 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

trasformazione dell’acqua in fuoco, desumibile dal fram-


mento 31 (cfr. Figura 1b). Si potrebbe dunque ipotizzare
che secondo Eraclito l’esalazione ritorni in parte come
trasformazione della vampa celeste in pioggia e in parte
ancora come vampa, che forse diventa acqua direttamente
sul mare. A sua volta l’acqua alimenterebbe nuovamente
l’esalazione. Questo salverebbe il bilancio. Teofrasto —
che già prima aveva espressamente detto che «le restanti
cose» nascono dall’acqua «riconducendo egli quasi tutte
le evaporazioni dal mare», e che ammette di non aver ca-
pito bene, perché Eraclito «non espone nulla chiaramen-
te» — può aver tentato di dare un senso a questo doppio
percorso utilizzando la teoria aristotelica, a lui certamente
familiare, della doppia esalazione. Questa interpretazione,
a mio avviso verosimile, resta comunque allo stato di con-
gettura. Il frammento 76 aggiunge al ciclo l’aria:
Vive il fuoco la morte della terra e l’aria vive la morte del fuo-
co, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra quella dell’acqua93.

Diversi interpreti ritengono che il frammento sia un rima-


neggiamento stoico del frammento 36, riguardante l’anima,
e che l’introduzione dell’aria come elemento del ciclo sia
inaccettabile, perché in contrasto con gli altri passi94.

93. Lo stesso passo è citato anche con qualche variazione da Marco


Aurelio e plutarco.
94. Ad esempio, Diels e Kranz (1951): «presumibilmente ἀήρ è un’in-
trusione stoica e Eraclito aveva detto ζῆι πῦρ τὸν ὕδατος θάνατον, ὕδωρ
ζῆι τὸν πυρὸς ἢ γῆς θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος. La somiglianza con B 36 è
certo sospetta» (I p. 168). Anche Kirk (1954) considera il frammento «solo
una versione stoicizzante del fr. 36, in cui πῦρ è sostituito per ψυχή in base
all’analogia del fr. 31 e la metafora della ‘morte’ è formalmente estesa al resto
del processo. […] i fr. 31 e 36 mostrano chiaramente che egli credeva che i
principali componenti del mondo fossero fuoco, mare, terra — non aria» (p.
343). per Kahn (1979) invece: «Il concetto di un elemento aēr non era stato
scoperto dagli Stoici; è un concetto essenziale della meteorologia milesia, e
non ci sarebbe nulla di anacronistico riguardo all’aria in Eraclito» (p. 154).
2. Le intuizioni di Eraclito 101

Il contrasto tra i frammenti 31 e 36, da un lato, e 76


dall’altro è evidente, e non mi pare che l’aria possa esse-
re inserita senza forzature nel sistema eracliteo. Secondo
quanto appare dai frammenti, Eraclito non si pone il pro-
blema dell’infinita varietà delle sostanze e dei fenomeni:
l’attenzione sembra accentrata piuttosto su quello che
noi chiamiamo lo stato della materia nelle grandi masse
(aeriforme, liquido, solido). Se così è, l’aria è superflua: il
fuoco rappresenta l’aeriforme che s’innalza ed è dinami-
co, l’acqua e la terra rappresentano il liquido e il solido,
che sono via via più passivi. Eraclito, però, non poteva
pensare di obliterare tutte le altre distinzioni: la terra non
è legno o osso, e l’acqua non è vino o olio; così il fuoco
non è vapore o aria. Egli non pretende dunque di spiega-
re il mondo nella sua interezza: non è in primo luogo un
fisico; prende in considerazione solo il generale scambio
tra le grandi masse, mentre il resto rimane in ombra. Egli
si pone domande fondamentali sugli aspetti più impor-
tanti e vistosi: cosa produce il movimento? cosa alimenta
il sole? cosa il mare? cosa la terra? E poi, come si vedrà:
come immaginare le fasi della luna e le eclissi? che cosa è
l’anima? Nel rispondere a queste domande Eraclito ten-
ta di ricondurre tutto, anche per mezzo di analogie, ad
aspetti evidenti, a osservazioni di base, usando ragiona-
menti elementari e introducendo drastiche semplifica-
zioni, di cui egli stesso aveva probabilmente coscienza. È
perciò improduttivo considerare la sua fisica uno schema
rigido, che riduce tutta l’enorme varietà del mondo ai
pochi schematici elementi menzionati, come se avesse
avuto l’intenzione di produrre un sistema completo, in
grado di rispondere a tutte le domande.
Rimane il problema della natura delle trasformazioni:
Aristotele parla in generale, per tutti i “monisti”, di con-
densazione e rarefazione (de cael. III 5, 303b 13), processi
che Teofrasto attribuisce esplicitamente anche a Eraclito
102 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

(phys. op. 23, 33). Nessun frammento menziona un simi-


le meccanismo, e il tenore dei frammenti restanti non
rende molto verosimile che Eraclito sia sceso in simili
dettagli95.
Al fuoco potrebbe far riferimento il frammento 65:
lo chiama poi indigenza e sazietà.

Ippolito interpreta:
indigenza è per lui l’ordinamento, sazietà la conflagrazione

seguendo in questo la nota dottrina stoica (Kirk, 1954, p.


357) secondo cui vi è un momento in cui tutto il mon-
do scompare nel fuoco; ma sull’argomento si tornerà
più avanti. Concordo con l’opinione di coloro che vedo-
no nell’indigenza la situazione in cui vi è da bruciare, e
nella sazietà la consunzione della fiamma (il fuoco si è
saziato)96.

2.9.2. Corpi celesti

Abbiamo poche notizie sulla concezione eraclitea del


cielo, e praticamente niente in citazioni dirette. La de-
scrizione più completa è quella di Teofrasto, trasmessa
da Diogene Laerzio:
Come sia ciò che sta intorno [alla terra] non è chiaro: vi sono
tuttavia catini che rivolgono in basso verso di noi la conca-

95. per McDiarmid (1953) l’interpretazione del fuoco eracliteo come


materia prima, alla stregua di un elemento aristotelico, è un fraintendi-
mento di Aristotele, ripreso e esplicitato da Teofrasto (p. 186).
96. Dilcher (1995): «proprio consumando provoca la propria fine» (p.
56). Conche (1986) cita Erodoto: «Gli Egiziani ritengono che il fuoco sia
un animale vivo, che ingoia tutto ciò che afferra, e riempitosi di cibo,
muore insieme col divorato» (iii 16).
2. Le intuizioni di Eraclito 103

vità, in cui le evaporazioni luminose raccogliendosi produ-


cono fiamme, che sono gli astri. La fiamma del sole è più
luminosa e calda. Infatti, gli altri astri sono più lontani dalla
terra e per questo illuminano e riscaldano di meno, e la luna
benché più vicina alla terra non si muove attraverso un luo-
go puro; mentre il sole si trova in uno splendente e puro e ha
una distanza moderata da noi: per questo riscalda e illumina
di più. Il sole e la luna si eclissano a causa del rivolgersi in
alto dei catini: le fasi mensili della luna sono generate dalla
graduale rotazione del catino su se stesso. Il giorno e la notte
e i mesi e le stagioni dell’anno e gli anni e le piogge e i venti
e altre cose simili a queste si producono a seconda delle diffe-
renti evaporazioni. Infatti, l’evaporazione luminosa infiam-
mandosi nel cerchio del sole produce il giorno, quella con-
traria prevalendo produce la notte: e il caldo accrescendosi
per quella luminosa produce l’estate. L’umidità prevalendo
a causa di quella oscura porta l’inverno. Conformemente a
queste egli indaga riguardo alle altre cose. Nulla fa conosce-
re su come sia la terra, e neanche riguardo ai catini. E queste
erano le sue opinioni (Diog. Laert. IX 9).

Ezio, che deriva da Teofrasto, conferma che


parmenide e Eraclito sostengono che gli astri sono ispessi-
menti di fuoco (II 4, 3)

e che
Eraclito … sostiene che gli astri si nutrono delle evaporazio-
ni della terra (II 11, 4).

Gli astri, e soprattutto il sole, riversano continuamen-


te verso la terra il fuoco dei loro raggi. Eraclito presu-
mibilmente si domanda cosa impedisca che questi astri,
perdendo continuamente fuoco, si esauriscano: che il
fuoco non bruci in eterno ma consumi combustibile è
infatti comune osservazione. Dato che l’unico fenomeno
osservabile che proceda in senso inverso (verso l’alto) è
l’evaporazione, egli attribuisce all’evaporazione il com-
104 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

pito di restituire agli astri ciò che perdono per combu-


stione. Abbiamo quindi un ciclo chiuso in cui qualcosa
— l’evaporazione — è scambio per il fuoco, e si trasfor-
ma in fuoco a contatto con gli astri. Eraclito si è dato
così la pena di cercare un modello razionale in grado di
spiegare la capacità degli astri di fornire continuamente
la loro luce97. Le stelle, che sono molto più lontane del
sole, splendono meno. Essendo conscio del fatto che la
luna è più vicina del sole, Eraclito per spiegarne la scarsa
luminosità ipotizzerebbe, secondo Teofrasto, che il sole
si muova in luogo più puro.
Non sappiamo come Eraclito visualizzasse la super-
ficie della Terra. Un barlume d’indicazione può essere
ricavato da una frase di Aezio (A 12):
Eraclito sostiene che il sole è una massa infuocata intelligen-
te98 che sorge dal mare (II 20, 16).

Il sole nasce dal mare, un mare che presumibilmente


circonda la terra come nei modelli di Omero e Esiodo,
ma anche di Anassimandro e di Ecateo. Si osservi, d’altra
parte, che l’idea dell’Oceano intorno alla terra aveva una
sua base empirica nelle sterminate masse d’acqua che
si estendono ai margini di gran parte delle terre allora
note. presumibilmente per Eraclito la terra ha una su-
perficie piana, molto estesa. Il sole sorgendo dal mare,
si accende e coricandovisi si spegne. Dice Teofrasto che
secondo Eraclito il sole si accende al mattino per il pre-
valere delle esalazioni luminose, infiammate sul cerchio
97. Va notato che un processo analogo sembra descritto da Anassi-
mene: gli astri sono oggetti terrosi piatti arroventati dal moto (13 A 6), ma
il fuoco è alimentato dall’evaporazione (13 A 7).
98. L’epiteto intelligente (νοωρός) attribuito al sole ricorda il
φρόνιμον attribuito da Eraclito al fuoco secondo Ippolito (ref. IX 10), ma
non ha alcun riscontro nei frammenti né in altri testi. Secondo Kirk (1954)
si tratta di una versione stoica (p. 352).
2. Le intuizioni di Eraclito 105

del sole; ma dice anche che il sole si spegne alla sera per il
prevalere delle esalazioni oscure. Queste però non sono
affatto necessarie, bastando evidentemente il mare a spe-
gnere il sole.
Del fatto che secondo Eraclito il sole si spenga al tra-
monto e di nuovo si riaccenda all’alba abbiamo conferma
diretta sia da parte di Aristotele (tra virgolette il fram-
mento 6):
il sole non soltanto, appunto come dice Eraclito, «è nuovo
ogni giorno», ma sempre continuamente nuovo (meteor. II 2,
355a 13)

sia da parte di platone:


Vicini alla vecchiaia invero, tranne alcuni pochi, si spengono
molto più del sole di Eraclito, in quanto non si riaccendono
di nuovo (resp. VI, 498a).

Il fatto che il sole si spenga la sera spiega perché Era-


clito non potesse pensare che la luna risplenda di luce
riflessa. Occorreva, di conseguenza, elaborare un model-
lo concettuale in grado di spiegare le fasi della luna e le
eclissi. Tale modello è incentrato sulla forma degli astri.
Gli astri, e in particolare il sole e la luna, hanno la forma
di catini (σκάφαι), presumibilmente semisferici. Lo testi-
monia Teofrasto, sia nel testo di Diogene Laerzio sia in
quello di Aezio, secondo il quale il sole è per
Eraclito a forma di catino, curvo (II 22, 2)

e così la luna:
Eraclito dice che la luna è a forma di catino (II 28, 6).

Secondo Teofrasto, nel cavo del catino, volto verso la


terra, si raccoglierebbero e si infiammerebbero le esala-
106 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

zioni. Le eclissi e le fasi della luna sarebbero dovute al


graduale (κατὰ μικρόν) rivolgersi del cavo verso l’alto. La
stessa cosa è ripetuta da Aezio:
[L’eclissi si produce] per la rotazione della forma a catino, in
modo che la parte concava è verso l’alto e la parte convessa
verso il basso rispetto ai nostri occhi (II 24, 3).

Eraclito … sostiene che [la luna si eclissa] per la rotazione e


le inclinazioni del catino (II 29, 3).

Come riferito da Teofrasto il modello ovviamente non


regge: quando la cavità illuminata del bacino, inizialmen-
te rivolta verso l’osservatore, tende a ruotare verso l’al-
to, la parte luminosa diventa un’ellissi sempre più stretta
(cfr. Figura 2a), fino a scomparire, ma non appare mai
la falce tipica delle fasi lunari e delle eclissi. Kirk (1954)
commenta un po’ disinvoltamente:
un’esatta corrispondenza tra teoria e fenomeni non è una
caratteristica della prima scienza greca (p. 276).

a) b)
Figura 2. Le fasi lunari di Eraclito: a) secondo Teofrasto; b) concezione alternativa.
2. Le intuizioni di Eraclito 107

Con i primitivi, si sa, bisogna portare pazienza. I pre-


supposti di questa interpretazione sono chiari in Mon-
dolfo (Mondolfo e Tarán, 1972). Innanzitutto, i limiti del-
la presunta metodologia scientifica di Eraclito:
la mentalità di Eraclito rifuggiva dalle osservazioni speri-
mentali che per lui appartenevano alla πολυμαθίη; mentre
non era alieno dal trarre suggerimenti da tradizioni preesi-
stenti e dall’utilizzare anche elementi mitici (p. 46).

Giudizio lapidario quanto sconcertante, essendo rife-


rito a colui che ha dichiarato (fr. 55):
Di quanto vista udito apprendimento questo io preferisco.

In secondo luogo, il preconcetto di una filiazione di-


retta del pensiero ionico dalle antiche concezioni mitiche
e religiose:
Meglio invece potevano le σκάφαι eraclitee riallacciarsi alle
rappresentazioni tradizionali offerte dall’immaginazione
mitica (p. 46)

si ricordi che la rappresentazione di barche astrali aveva pre-


cedenti nella mitologia greca, col ritorno notturno del sole da
occidente ad oriente, del quale parlava Omero (Iliad. VII 421 s.
e 485) senza spiegare per qual mezzo si effettuasse (p. 47).

Una filiazione non solo dalle concezioni mitiche gre-


che, ma anche, secondo Mondolfo che in ciò segue Tan-
nery (1887), da quelle egiziane, in cui
gli dei celesti (sole, luna, stelle) navigano in barche circolari
rovesciate nelle acque d’in alto (p. 46).

Le testimonianze del fatto che il catino mostri la con-


cavità verso di noi (quelle di Diogene Laerzio e Aezio)
108 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

rinviano tutte unicamente a Teofrasto. Data la ben nota


sufficienza e la leggerezza con cui i pensatori precedenti
— e in particolare Eraclito — sono trattati da Aristote-
le e dalla sua scuola (si pensi ai giudizi sulla negazione
del principio di non contraddizione), è ben possibile
che Teofrasto, di fronte alla semplice rappresentazione
eraclitea dei corpi astrali come catini, abbia pensato di
potere intendere che questi catini «rivolgono sotto verso
di noi la concavità, in cui raccogliendosi le evaporazioni
luminose producono fiamme». Una sorta di bracieri alla
rovescia, dunque, o degli specchi ustori ante litteram, che
rinviano infuocati i raggi delle esalazioni.
Non sappiamo se Teofrasto fosse conscio dei difetti
del modello che egli attribuiva a Eraclito, ma è singola-
re che autori moderni come Mondolfo e lo stesso Kirk,
che è spesso molto critico nei riguardi della testimo-
nianza teofrastea, non abbiano pensato di poter dubi-
tare del fatto che Eraclito avesse realmente formulato
un modello tanto scalcinato, testimoniato, per giunta,
soltanto da fonti indirette e sbrigative. Eppure l’ipo-
tesi del catino costituisce un’idea semplice e brillante
per rappresentare le fasi della luna nell’ipotesi che la
luce lunare non sia riflessa, ma prodotta in loco. Una
superficie semisferica, simile a un catino, che si arro-
venti (forse per effetto dell’attrito) dalla parte convessa
invece che da quella concava, incendiando le esalazio-
ni che giungono dal basso, e che ruoti gradualmente e
uniformemente su sé stessa, è in grado di rappresentare
perfettamente le fasi lunari (figura 2b), fenomeno di co-
mune osservazione, e con un poco di tolleranza anche
le eclissi, fenomeno molto più raramente osservabile.
È indubbio, d’altra parte, che una superficie arroven-
tata convessa non è più inverosimile di una superficie
arroventata concava o di un vapore che s’infiammi in
una coppa orientata verso il basso. È presumibile che
2. Le intuizioni di Eraclito 109

Eraclito si sia accontentato di formulare un modello


in grado di rappresentare la geometria del fenomeno,
senza pretendere di spiegare compiutamente la fisica di
un processo (l’arroventamento della superficie) la cui
natura non era in grado di osservare.

2.9.3. Conflagrazione e Grande Anno

Uno degli aspetti più dibattuti della cosmologia di


Eraclito è se essa includa anche una cosmogonia. In par-
ticolare, alcune fonti gli attribuiscono una dottrina della
conflagrazione (ἐκπύρωσις), secondo cui l’ordine del mon-
do si dissolve nel fuoco, per poi rinascere e di nuovo dis-
solversi ciclicamente. La conflagrazione fa sicuramente
parte della dottrina stoica, anche se non è unanimemen-
te condivisa da tutti i componenti della scuola. Secondo
Zeller (1892) la
scuola stoica […] fin dal principio non avrebbe inteso diffe-
rentemente Eraclito (I IV p. 234; trad. di R. Mondolfo)

Eraclito è detto da Aezio (I 3, 11) un sostenitore della


conflagrazione ed è in questo accomunato agli Stoici, sia
da Simplicio (phys. 480, 27 = [B.f]603 v.A.99; de cael. 294,
4 = 22 A 10 e 307, 15 = [B.f]617 v.A.), sia da Clemente
(strom. v 1 = [B.f]630 v.A.), sia da Alessandro (in Aristot.
meteor. f. 90a ed. Ven. = [B.f]594 v.A.). Una di queste te-
stimonianze (22 A 10) è di particolare interesse, perché
in essa è fatto esplicito riferimento a una frase del fram-
mento 30:
Anche Eraclito dice che a un certo momento il cosmo con-
flagra, e che poi esso risorge di nuovo dal fuoco secondo
degli intervalli di tempo, là dove dice: «in misura divampa e

99. v.A. = von Arnim (1905).


110 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

in misura si attenua». Di questa dottrina furono poi anche gli


Stoici (Simplic. de Cael. 294, 4).

In effetti, nessuno dei frammenti di Eraclito parla


esplicitamente di conflagrazione, ma alcuni autori in-
terpretano in questo senso diversi frammenti, tra cui
proprio il frammento 30. Si è visto però che questo
frammento si interpreta agevolmente, insieme al 31,
nell’ambito della visione eraclitea della continua tra-
sformazione delle grandi masse — terra, mare, fuoco
celeste — mentre la stessa menzione della “misura”
non evoca proprio un incendio totale. Se Simplicio non
ha trovato traccia di un testo di Eraclito che nominas-
se la conflagrazione più esplicitamente, la sua testimo-
nianza in questo senso non mi sembra molto probante.
Alcuni ritengono che siano riferiti alla conflagrazione
anche altri passi di Eraclito, come il frammento 65:
Chiama poi lo stesso indigenza e sazietà

e il frammento 66:
Tutto […] il fuoco erompendo separerà100 e afferrerà

100. Ippolito interpreta sicuramente il termine qui tradotto


con separerà, κρινεῖ, nel senso di giudicare, ma ciò è richiesto
dall’uso che egli fa del pensiero di Eraclito; il primo significato del
termine è “distinguo”. Osborne (1987b) vi legge un riferimento
alla conoscenza: «è del tutto possibile che le parole fossero usa-
te in un contesto molto differente, con riferimento al ruolo del
fuoco nella percezione: “Il fuoco si occuperà di tutte le cose a
turno, distinguendo queste e comprendendo”» (p. 171). Del tutto
incompatibile con l’interpretazione da me proposta è la lettura
di Markovich (1978): «Tutto il ‘complesso escatologico’ va inteso
anzitutto nel senso naïf–pratico. Gli avversari di Eraclito sono per
lui semplicemente ‘i malvagi’, la cui punizione egli dipinge, in
modo non diverso dal comune sentire popolare» (p. 304).
2. Le intuizioni di Eraclito 111

questi ultimi due citati da Ippolito proprio come un’anti-


cipazione della dottrina del Giudizio Universale.
Del frammento 65 si è già parlato. Quanto al fram-
mento 66, esso è stato variamente interpretato. Sostiene
Conce (1986, p. 286) che “tutte le cose” non rappresen-
tano il mondo al momento dell’ipotetica conflagrazione,
ma tutto ciò che nel passar del tempo è venuto al mondo
e poi è scomparso. Si può dunque leggere nel “separare”
e “afferrare” l’azione del principio attivo — il fuoco ap-
punto — che continuamente produce e distrugge.
Alcuni passi di Aristotele attribuiscono effettivamente
a Eraclito l’idea che ad un certo momento tutto diventi
fuoco (22 A 10):
impossibile che il tutto, anche se fosse limitato, sia o divenga
qualcuno di questi [elementi], come dice Eraclito che tutto
ad un certo momento diventa fuoco (metaph. XI 10, 1067a 2;
phys. III 5, 205a 3)

Tutti dicono in effetti che [il cielo] è generato, ma gli uni


generato eterno, altri corruttibile come qualsiasi altra cosa
che sussista per natura, altri, come Empedocle di Agrigen-
to e Eraclito di Efeso, dicono che alternativamente ora è in
questo modo, ora nell’altro [corrompendosi], e che continua
sempre così (de cael. I 10, 279b 12).

Questa testimonianza appare in contrasto con quella,


già citata, di platone nel Sofista, che distingue nettamente
la posizione di Eraclito da quella di Empedocle. Sostiene,
infatti, platone che, mentre per Empedocle i due poli del-
la discordia e dell’amore prevarrebbero a turno, come è
evidente nei frammenti empedoclei, per Eraclito questa
dinamica, che può essere assunta a rappresentare le tra-
sformazioni del fuoco, è continua ed ininterrotta. Tale
interpretazione del testo platonico è stata impugnata dai
sostenitori della conflagrazione eraclitea, e in particolare
da Mondolfo (Mondolfo e Tarán, 1972; Zeller e Mondol-
112 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

fo, 1961; Mondolfo, 1958), ma con argomentazioni che


non mi paiono risolutive101.
La lettura dei due passi di Aristotele come accenni alla
conflagrazione sembra trovare una conferma in Teofra-
sto, secondo quanto riporta Diogene Laerzio:
Tutto si genera dagli opposti e la totalità scorre come un
fiume, e il tutto è limitato e il cosmo è uno. Esso nasce dal
fuoco e di nuovo conflagrerà alternativamente secondo un
ciclo per tutta l’eternità. Tutto avviene secondo il destino.
Dei contrari, quello che spinge alla nascita è chiamato guer-
ra e discordia, quello verso la conflagrazione accordo e pace,
e il mutamento via in su e in giù, e il cosmo si produce se-
condo questo (IX 8).

Lo stesso Kirk (1954), il quale nega che la conflagra-


zione sia una dottrina di Eraclito, considera un’accurata
parafrasi di Teofrasto tutta l’esposizione di Diogene La-
erzio IX da 8 a 11, e in particolare i paragrafi 8 e 9, in cui
si parla anche della conflagrazione. L’argomento di Kirk
non è però decisivo: come ha osservato Dilcher (1995),
seguendo Janda102, il brano di Diogene Laerzio che parla
della conflagrazione è un’evidente interpolazione, che
interrompe la continuità dell’esposizione autenticamen-
te teofrastea.
È stato attribuito a Teofrasto anche un altro testo che
riguarda il fuoco eracliteo, il passo di Simplicio, conside-
rato da Diels il frammento 1 delle Opinioni dei fisici103, che
per la parte riferita a Eraclito recita:
101. Soprattutto non persuade la tesi che platone nel Sofista stesse
puntualizzando il fatto che «secondo Eraclito stesso, il fuoco eracliteo ave-
va l’opposizione inclusa in esso» (Mondolfo, 1958, p. 81). Vedi Kirk (1959)
p. 74.
102. Janda, J.: Die Berichte über Heraklitis bei Diogenes Laertius, Li-
sty filologicke 1969, 2: 97–114.
103. Da cui Diels e Kranz hanno estratto il testo di Simplicio inserito
sotto la voce 22 A 5.
2. Le intuizioni di Eraclito 113

Ippaso di Metaponto e Eraclito di Efeso anch’essi lo fecero


uno e in moto e limitato, ma principio il fuoco, e dal fuo-
co producono gli enti per addensamento e diradamento, e
nel fuoco li risolvono di nuovo, essendo questa sola la na-
tura sottostante. Infatti Eraclito dice che tutte le cose sono
trasformazione del fuoco. pone poi un certo ordinamento
e tempo definito per il mutamento del cosmo per qualche
fatale necessità (phys. op. 23, 33).

Questo testo però non sembra accennare inequivo-


cabilmente a una conflagrazione. Ci si può fare un’idea
delle deformazioni che i testi antichi hanno subito nel
corso della trasmissione fino a noi, facendo il confronto
con il corrispondente passo di Aezio (I 3, 11) su Ippaso e
Eraclito — trasmesso, secondo la ricostruzione di Diels,
tramite un ambiente prossimo ad un pensatore medio–
stoico come posidonio — in cui la conflagrazione è inve-
ce nominata esplicitamente.
Il senso della testimonianza aristotelica resterebbe quin-
di privo del supporto diretto di fonti a lui vicine. Ciò non
significa che si debba necessariamente escludere la possibi-
lità di interpretare Aristotele come sostenitore di una con-
flagrazione eraclitea104. Aristotele tuttavia non è sempre
un fedele espositore delle dottrine dei suoi predecessori.
Il contesto della Metafisica e della Fisica da cui è estratto il
passo citato in 22 A 10 mira a dimostrare che l’infinito non
può esistere in atto, e in particolare che nessun elemento
può essere o diventare infinito, altrimenti distruggerebbe
completamente gli altri (phys. III 5, 204b 13). È ben possibi-
le che anche in questo caso, come in quello del “principio
di non contraddizione”, per giustificare la necessità di af-

104. Mondolfo nega che Aristotele possa aver equivocato: «La sua
indubbia conoscenza diretta del testo eracliteo conferisce a questa testi-
monianza un peso innegabile (p. CLXXXIX). Kirk (1959) non concorda:
«Vi sono in realtà dubbi su questa questione, più dubbi di quanto non sia
generalmente ammesso» (p. 74).
114 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

fermare la propria tesi Aristotele abbia cercato un prede-


cessore che l’avesse negata, e non abbia trovato di meglio
che interpretare in questo senso il frammento 30 di Era-
clito; ma la sua interpretazione di questo passo si accorda
male con il testo trasmessoci da Clemente, che descrive
una diversa dinamica dei fenomeni.
Kahn (1979, p. 135), nonostante la sua posizione a fa-
vore della conflagrazione, non attribuisce alla dottrina
un’importanza rilevante per la comprensione di Eraclito.
Non condivido questa opinione: mi sembra che la dot-
trina della conflagrazione implichi una concezione della
conoscenza umana estranea al pensiero di Eraclito, in
quanto priva di qualsiasi forma d’evidenza ed inquadra-
bile preferibilmente nell’ambito di dottrine escatologi-
che di cui in Eraclito non si trova riscontro105.
A Eraclito è stata attribuita anche la menzione di un
Grande Anno. Diels e Kranz riportano le testimonianze (A
13) di Aezio:
Secondo Eraclito di 10.800106 anni solari (II 32, 3)

105. In realtà, tentativi di giustificare la dottrina della conflagrazione


in base ad osservazioni non mancavano. Alessandro di Afrodisia espone,
per confutarla, la seguente argomentazione: «Quelli che fanno attenzione
ai fenomeni particolari e a partire da essi cercano di trarre conclusioni di
ordine generale, estendendo anche alla terra un tale cambiamento — per
esso i luoghi paludosi ed umidi diventano abitabili e adatti all’insediamen-
to per via di una certa siccità, mentre quelli che erano adatti all’insedia-
mento diventano inospitali, per l’acuirsi di questa siccità — ascrivono a
questo fenomeno i cambiamenti e la corruzione dell’universo. È proprio
basandosi su questi segni che essi sostengono l’esistenza di una conflagra-
zione cosmica, come prima di Aristotele affermavano Eraclito e i suoi, e
dopo Aristotele gli Stoici» (in. meteor., f. 90 a ed. Ven.; trad. di R. Radice).
Alessandro attribuisce ad Anassimandro una dottrina simile (12 A 27), ma
senza collegarla ad una conflagrazione. Non risultano però giustificazioni
di questo genere nei testi riferiti a Eraclito.
106. Aezio: 18.000, emendato da Diels, in base a Censorino, a 10.800,
pari al prodotto di 360 (giorni dell’anno?) per 30 (giorni del mese, o anni
del ciclo di Saturno?).
2. Le intuizioni di Eraclito 115

e di Censorino:
Questo anno è detto “eliaco” da qualcuno e “anno di dio”
da altri… Aristarco lo valutò nel compiersi di 2484 anni…
Eraclito e Lino di 10.800 (de d. nat. 10, 10).

Nella raccolta di Diels e Kranz non si trova altro. Man-


ca in particolare un accenno a cosa si debba intendere per
Grande Anno.
I testi dello pseudo–plutarco e di Stobeo da cui Diels
(1879, p. 363) ha ricavato la testimonianza di Aezio met-
tono in relazione il Grande Anno con la durata delle
orbite planetarie. Inoltre Stobeo specifica che il Grande
Anno coincide con il tempo che tutti i pianeti impiegano
per tornare contemporaneamente nelle posizioni inizia-
li. Se poi il Grande Anno avesse anche un altro signifi-
cato, nessuna delle due fonti lo dice: in particolare, esse
non lo pongono in relazione con la conflagrazione, ben-
ché i due autori ammettano anche questa. Data l’impor-
tanza di una simile concezione, sembra improbabile che
la rimozione sia stata apportata durante la trasmissione,
avvenuta tramite ambienti stoici. È più verosimile quindi
che già in Teofrasto mancasse l’associazione del Grande
Anno con la conflagrazione. Invece, la conflagrazione
è associata al Grande Anno sia nel passo di Censorino
da cui è estratta la citazione di A 13, sia in fonti stoiche
(Arius Didymus, epit. phys.) da cui Censorino è verosimil-
mente dipendente.
Non si conosce che significato avesse il Grande Anno
per Eraclito, ammesso che egli l’abbia effettivamente
menzionato. In base a quali calcoli poi egli sarebbe arri-
vato a stabilire una cifra e di quale cifra si trattasse non è
possibile sapere.
In conclusione, le testimonianze non consentono una si-
cura decisione in merito ad una dottrina eraclitea della con-
flagrazione e al significato del cosiddetto Grande Anno.
116 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Ulteriori indicazioni si possono trarre dal senso com-


plessivo della dottrina eraclitea, ma queste dipendono ov-
viamente dall’interpretazione. In base a quanto delineato
in questo studio, Eraclito appare un pensatore razionale
e realista, che tiene conto delle osservazioni107, dell’ana-
lisi interiore e del ragionamento. Ovviamente, l’osserva-
zione stessa è di natura teorica ed era, allora come oggi,
strettamente condizionata dalle conoscenze di fondo. Ad
esempio, uno dei nodi mai risolti dal pensiero greco è
la difficoltà d’immaginare forze diverse da quelle di con-
tatto108. Molto grezzi sono anche i modelli interpretati-
vi delle reazioni chimiche: le trasformazioni percepibili
tra stati della materia erano in qualche caso ricondotte a
condensazioni e a rarefazioni, o a mescolamenti, talvolta
con il fuoco. Le osservazioni erano dunque mediate da
concetti molto elementari, e su tali osservazioni si basa-
vano i modelli interpretativi. Le trasformazioni menzio-
nate da Eraclito rientrano in questa categoria: se c’è fuo-
co in cielo e se soltanto il vapore sale, il vapore s’incendia
e alimenta le luci siderali; l’acqua quando evapora lascia
un residuo minerale, e questo contribuisce a formare la
terra. La dottrina della conflagrazione si inquadra male
in questa logica: è una forma di profezia che coinvolge
un lontano futuro ed è priva di collegamenti con qualsia-
si forma d’osservazione109; appartiene ad un altro tipo di
vicende — a quelle descritte da Empedocle, ad esempio

107. Rossetti (1989): «Quando […] Eraclito cerca di stabilire questioni


di fatto, egli sembra non sentire alcun bisogno di complicazioni semeio-
tiche e specialmente in questioni astronomiche, egli sicuramente cerca di
spiegare vari dati meramente osservativi» (p. 354).
108. La dottrina del “luogo naturale” di Aristotele è un ingegnoso ten-
tativo di rendere conto degli effetti della gravità.
109. Analoga è la conclusione di Zeppi (1978): «L’impostazione anti-
speculativa ed empiristica (B 3, B 6) data da Eraclito […] è scarsamente
compatibile con la teoria dei periodi cosmici, presumente di illuminare gli
inesperibili abissi del passato e del futuro» (p. 10).
2. Le intuizioni di Eraclito 117

— e dipende da esigenze diverse da quelle scientifiche,


per lo più di natura escatologica. In questo senso essa
appare estranea alla dottrina eraclitea, e in mancanza di
argomenti che ci convincano ad ammetterla, sembra più
ragionevole escluderla.

2.10. L’anima

Sono stati già esaminati due frammenti che parlano


dell’anima (ψυχή) e ne esaltano la profondità (fr. 45):
Andando non potresti trovare i confini dell’anima, pur per-
correndo ogni sentiero: tanto profondo ha il logos

e la dinamicità (fr. 115):


L’anima ha un logos che accresce se stesso.

Il logos dunque appartiene all’anima, è ovviamente in


rapporto con la conoscenza e non ha limiti. Ciò non to-
glie che Eraclito abbia una concezione materiale dell’ani-
ma, come è evidente nel frammento 36:
Morte per le anime diventare acqua, morte per l’acqua diven-
tare terra; ma dalla terra viene l’acqua, dall’acqua l’anima.

L’anima esala dall’acqua110 e diventa nuovamente acqua


con la morte. Dilcher (1995, p. 69), al seguito di Marcovich
(1978), interpreta persuasivamente il fenomeno come un
processo continuo che si svolge nell’organismo vivente,
dove l’acqua e la terra rappresentano le componenti liqui-

110. Lo confermerebbe anche la seconda parte del frammento 12,


ammesso che possa essere considerata autentica: «E le anime esalano
dall’umido».
118 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

de e solide del corpo111. L’anima appare una parte materia-


le dell’uomo ed è in continuo scambio con gli altri elemen-
ti del corpo, da cui si produce112. Essa è l’azione vitale che
presiede al mantenimento del corpo (fr. 67a):
Come il ragno, stando nel mezzo della tela, avverte appena
una mosca spezza qualche suo filo e accorre colà celermen-
te, quasi provasse dolore per la rottura del filo, così l’anima
dell’uomo, se qualche parte del corpo è ferita, vi si reca in
fretta, quasi non riesca a sopportare la ferita del corpo, al
quale è congiunta saldamente e secondo proporzione.

Il ciclo dell’anima, illustrato nel frammento 36, può


essere visto come un microcosmo in trasformazione, a
fronte del macrocosmo costituito dalle trasformazioni che
riguardano le grandi masse.
L’anima eraclitea è stata spesso identificata col fuoco,
e questa radicale semplificazione ha generato alcune per-
plessità113. Come ho già rilevato, mi pare poco credibi-
le che Eraclito abbia inteso ridurre tutta la multiforme
varietà del mondo a tre “principi” materiali di stampo
aristotelico, e la concezione dell’anima ne è un esempio.
Eraclito non identifica l’anima con il fuoco: anche se
l’anima esala dall’acqua, quel che esala non è necessaria-
mente fuoco; è una cosa diversa, che partecipa del fuoco
111. Marcovich (1978): «L’anima, come il fuoco, per vivere deve essere
nutrita continuamente» (p. 254).
112. Moravçsik (1991): «permanere la stessa cosa vivente richiede il
cambiamento costante e la sistematica sostituzione delle parti, per potere
rimanere la stessa entità» (p. 559). Dilcher (1995) sottolinea: «La parola
non aveva misteriose connotazioni e nessun particolare significato religio-
so o escatologico. È importante notare che generalmente non implicava
alcuna opposizione o antagonismo con il corpo» (p. 70).
113. per Nussbaum (1972), in Eraclito questa interpretazione dell’ani-
ma «si riconcilia difficilmente con le sue vedute etiche. perché le vedute
esposte nel fr. 36 sembrano non fare alcuna concessione all’identità indi-
viduale, e non offrire alcun modo di distinguere una porzione di fuoco
dall’altra» (p. 155).
2. Le intuizioni di Eraclito 119

ma anche dell’acqua, dato può essere più o meno umida,


come indicano i frammenti 118:
L’anima asciutta più saggia e migliore

e 117:
L’uomo, quando è ebbro, è condotto barcollante da un fan-
ciullo impubere, senza capire dove va, avendo l’anima umi-
da.

Sesto Empirico interpreta i frammenti 1 e 2 nel sen-


so che l’intelligenza umana dipende dalla connessione
materiale del nostro interno con la ragione divina che è
intorno a noi:
è convinto il naturalista [Eraclito] che ciò che ci circonda è
razionale e intelligente (adv. math. VII 127 4)

secondo Eraclito diventiamo coscienti assorbendo con la re-


spirazione questa ragione divina (adv. math. VII 129 1).

Il contatto tra la nostra intelligenza e il principio razio-


nale che pervade l’universo avverrebbe, secondo Sesto,
tramite la respirazione e si interromperebbe con il sonno:
Nel sonno, infatti, chiudendosi i pori della sensazione, la
ragione in noi si separa dal contatto con ciò che circonda,
rimanendo solo per la respirazione un germoglio, come una
radice, e separata abbandona la capacità mnemonica che
aveva prima (adv. math. VII 129 2).

per Mondolfo (Mondolfo e Tarán, 1972), la citazione


da parte di Sesto dei fr. 1 e 2
è prova del fatto che Sesto medesimo o la sua fonte aveva di-
nanzi a sé lo scritto stesso di Eraclito nel suo testo originale;
120 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

e dà quindi valore particolare alla sua testimonianza (p. 154,


n. 182).

Non concordo: i frammenti 1 e 2 non dicono affatto


che gli uomini sono razionali per partecipazione alla
comune ragione divina, con la quale entrano in con-
tatto da svegli per mezzo della respirazione. Il fatto
che Sesto (o la sua fonte), pur avendo a disposizione il
testo di Eraclito, abbia citato a questo proposito solo i
frammenti 1 e 2 fa pensare, a mio modo di vedere, che
il testo che aveva a disposizione non conteneva nulla
in grado di giustificare meglio quella lettura. Il com-
mento di Sesto, dunque, non aggiunge niente di utile
ai frammenti eraclitei che egli, per fortuna, ci ha tra-
smesso. In particolare, i dettagli della ispirazione della
ragione divina con il respiro, e più ancora quello dei
pori, appaiono non eraclitei114. Non ci consta, infatti,
che Eraclito si sia mai interessato a siffatti particolari
anatomici, né è necessario addossarglielo per esigenze
di completezza: non si può cercare in Eraclito una dot-
trina completa del mondo e una spiegazione organica
di tutti i fenomeni.
L’anima è qualcosa che si può deteriorare per motivi
anche soltanto fisici, come il bere vino smodatamente,
cosa che, per quanto piacevole, inumidisce l’anima e può
portarla in condizioni analoghe alla morte (fr. 77):
per le anime godimento o morte diventare umide.

114. Jones (1996): «La discussione su pori, aperture e respirazione


sembra anche estranea a Eraclito» (p. 11). Ciò nonostante l’autore accetta
l’interpretazione di Sesto, ipotizzando che questi, pur non avendo a di-
sposizione il testo di Eraclito, riportasse idee che avevano avuto origine
quando il testo era meglio conosciuto: un’ipotesi che sembra ad hoc per
sostenere l’idea che il “comune” sia «una regione transpersonale d’intelli-
genza» (p. 12), nonostante che i frammenti citati da Sesto non giustifichi-
no affatto questa interpretazione.
2. Le intuizioni di Eraclito 121

Il ritorno all’acqua — l’inumidimento estremo — è


comunque morte, a norma del frammento 36. La para-
frasi nel frammento 136 indica che anche la malattia ha
l’effetto d’inumidire l’anima:
più pure le anime morte in guerra che per malattia115.

Quando Eraclito parla della qualità dell’anima al mo-


mento della morte, egli si mantiene su un piano di stretta
oggettività, senza connotati etici. L’anima di chi muore
nel fiore della salute per un evento violento (guerra) è
per Eraclito oggettivamente più asciutta dell’anima in-
debolita da lunga malattia. Mi pare dunque che questo
testo non possa essere interpretato come una teoria del-
la permanenza dell’anima dopo la morte, ma sia solo
un’indicazione dello stato fisico dell’anima al momento
del decesso.
Alla concezione fisica dell’anima si accompagna anche
un embrione di teoria psicologica (fr. 85):
Duro combattere con la passione: ciò che vuole infatti, lo
compra con l’anima.

Eraclito si rende conto dell’enorme potere delle pas-


sioni, disposte a consumare l’anima per ottenere ciò
che vogliono. Si potrebbe anche vedere nel passo un’in-
tuizione del costo psicologico della repressione delle
passioni116.
Il senso è rafforzato dal frammento 119:

115. Hussey (1991): «L’esametro citato come B 136 in Diels–Kranz,


per quanto difficilmente autentico, potrebbe conservare un pensiero au-
tentico di Eraclito» (p. 528).
116. L’interpretazione di Verdenius (1943) sembra troppo generica:
«La collera deve comprare qualsiasi cosa voglia col fuoco, perché “ogni
cosa è scambiata col fuoco” […] Così la collera sacrifica sempre la vita (i.e.
anima o fuoco)» (p. 121).
122 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Carattere, dèmone dell’uomo.

Il dèmone rappresenta una potenza enormemente su-


periore alla volontà dell’uomo. per Eraclito, questa po-
tenza è il carattere dell’uomo stesso117.
Se le pulsioni umane sono potenzialmente così eversi-
ve e pericolose per l’anima, non stupisce il testo del fram-
mento 110:
per gli uomini non è meglio che avvenga ciò che desidera-
no.

Le passioni possono portarci a desiderare ciò che per


noi è un male.
Sulla sorte dell’anima dopo la morte, Eraclito non si
pronuncia. Alcuni frammenti (98, 25, 63, 62) sono consi-
derati indizi di una teoria eraclitea della sopravvivenza
dell’anima, ma costituiscono un materiale troppo vago
per costruirvi un’escatologia. Il frammento 98
le anime nell’Ade fiutano

può essere persuasivamente interpretato in altri modi,


come ad esempio da Nussbaum (1972):
per come l’Ade è descritto, il solo modo in cui le ombre pos-
sono compiervi qualcosa è fiutando118 (p. 157).

Invece, il frammento 27 è chiarissimo:


Gli uomini aspetta da morti ciò che non sperano né opinano.

117. Marcovich (1978) vi vede una critica «alla vecchia credenza,


comune sia ad Omero che all’antica poesia lirica» (p. 348) che fa gli dèi
responsabili delle mancanze dell’uomo. Vedi l’analisi dell’Ate in Dodds
(1951, p. 3).
118. Vedi Dilcher (1995) p. 84 e pradeau (2002) p. 287.
2. Le intuizioni di Eraclito 123

In quanto uomo, Eraclito non ha nulla da dire su ciò


che accade all’anima dopo la morte, e difatti non lo dice.
Ci sono però degli indizi sulla natura della morte (fr. 26):
L’uomo nella notte, spenti gli occhi, accende a se stesso una
luce: vivente, tocca il morto dormendo; sveglio, tocca il dor-
miente.

Il sonno è uno stato molto simile alla morte: è la con-


dizione in cui il vivo si approssima di più al morto. Sve-
gliandosi l’uomo è in contatto con il sonno e può avere
un’idea della morte. Infatti (fr. 21):
Morte è quanto destandoci vediamo, quanto dormienti son-
no.

Il fatto che Eraclito non proponga un’escatologia non


significa che egli consideri la vita priva di senso. Eraclito
possiede un’etica, che è quella della polis, per la quale il
coraggio fisico dei cittadini è fondamentale per la difesa
della città (fr. 24):
Gli dei e gli uomini onorano i morti in guerra.

La gloria — e non solo guerriera — la rinomanza, la


stima dei concittadini, la memoria dei posteri sono una
potente motivazione e un compenso sufficiente per gli
uomini di valore (fr. 29):
preferiscono, infatti, una cosa tra tutte i migliori, la gloria
eterna tra i mortali119: i più si saziano come bestiame.

119. Robinson (1987): «Alcuni leggono un ἀντί prima di θνητῶν (“in-


vece delle cose mortali”), come nella frase precedente, ma un genitivo
soggettivo (“dai mortali” nel senso di “agli occhi dei mortali”) sembra più
naturale come passo di Greco» (p. 96).
124 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Il compenso nell’oltretomba non fa parte di questa


etica120: come nota Dilcher (1995),
la chiara e dichiarata preferenza per fama e onore, in un
senso interamente mondano, esclude virtualmente qualsiasi
aspirazione per ricompense di altra natura (p. 86).

Quindi, nel frammento 25,


Infatti, sorti più grandi ricevono più grandi ricompense

le più grandi ricompense sono quelle che assicurano la me-


moria tra gli uomini, ed in questo svolge una funzione fon-
damentale l’arte dei poeti, che cantano le glorie dei grandi,
tramandandone la memoria, come canta pindaro (Istmiche
VII 16 e Nemee IX 13). Al medesimo ordine di idee si riferi-
sce probabilmente anche l’ermetico frammento 63:
Si ergono davanti a chi è lì121, vigili custodi dei vivi e dei
morti122.

Kahn (1979) ricorda i versi di Esiodo che si riferiscono


alla razza d’oro (Erga 121) per l’uso del termine φύλαξ
(guardiano) (p. 255). Ammesso che Eraclito intendesse far
riferimento a Esiodo, la scarsa considerazione che sistema-

120. Dilcher (1995): «La chiara e dichiarata preferenza per fama e ono-
re, in un senso interamente mondano, esclude virtualmente qualsiasi aspi-
razione per ricompense di altra natura» (p. 86).
121. ἔνθα δ’ ἐόντι: δ’ ἐόντι è considerato corrotto da diversi autori
(vedi Marcovich, 1978, p. 275, n. 4).
122. Ippolito attribuisce al testo un significato escatologico: Zeller
(1892, I IV p. 309) interpreta nel senso che ai dèmoni è affidata la custodia
non solo dei viventi, ma anche dei morti (καὶ νεκρῶν), seguito in questo,
tra gli altri, da Robinson (1989). per Wheelwright (1959) le anime di cui
si parla sono forse quelle asciutte. Buona parte della critica più recente
rifiuta però l’interpretazione escatologica (vedi anche: Bollack e Wisman,
1972, Conche, 1986; Osborne, 1987b; Dilcher, 1995; pradeau, 2002).
2. Le intuizioni di Eraclito 125

ticamente accorda al poeta (fr. 40, 57 e 106) fa piuttosto


pensare che egli, se mai, si contrapporrebbe al suo punto di
vista. Nussbaum (1972) ritiene che “dei morti” (νεκρῶν) è
un’aggiunta di Ippolito123. La studiosa propone dunque di
considerare il passaggio come inteso a descrivere, meta-
foricamente, gli effetti del κλέος e dell’esempio dei morti
sull’uomo che è ancora in vita, e che è sufficientemente vigi-
le da riconoscere la loro fama (p. 168).

Il frammento fa pensare alla funzione di una certa


statuaria arcaica, ai κούροι e alle κόραι disposte lungo le
vie di accesso ai santuari, immobili eppure a loro modo
vigili, che si ergono davanti a chi è presente a tutela del-
la memoria di un personaggio e della sua famiglia, con
una funzione del tutto analoga a quella dei poeti, evocata
da pindaro124. Le aspirazioni della maggioranza degli uo-
mini, del tutto opposte alle ambizioni dei migliori, sono
invece di una sconfortante animalità, e come tali sono
stigmatizzate nel frammento 20:
Nati, vogliono vivere e compiere il destino, o meglio riposar-
si, e lasciano figli perché destini si compiano125.

2.11. Religione

Nei frammenti già esaminati la divinità svolge essen-


zialmente una funzione epistemologica, proprio come in
Senofane, e personifica la totalità in sé — l’oggettività

123. Vedi anche pradeau (2002) p. 303.


124. Vedi Duplouy (2006) cap. 5.
125. Hussey (1991) coglie probabilmente nel segno quando nota che il
termine per vivere, ζώειν, è usato a preferenza di βιοῦν «in senso peggio-
rativo, ad indicare il mero “esser vivo” fisicamente di cui godono anche gli
animali» (p. 522).
126 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

del tutto: dio è, infatti, tutto (fr. 67). Dio soltanto ha la


conoscenza assoluta, a cui l’uomo non può neanche lon-
tanamente accostarsi (fr. 78, 83 e 79); e se l’uomo entra in
contatto con la parola divina per mezzo degli oracoli, è
costretto a un penoso e non di rado vano sforzo d’inter-
pretazione (fr. 92 e 93). In quanto suprema oggettività,
questo Dio è assolutamente estraneo ai valori umani: per
lui tutto è buono e giusto (fr. 102). Dio, dunque, non è
“buono” nel senso umano, non è provvidenziale e per
l’uomo rappresenta un mistero senza soluzione.
In alcuni testi, tuttavia, Eraclito sembra enunciare un
concetto diverso della divinità. Se nel frammento 32 il nome
di Zeus è richiamato come un inadeguato simbolo della sa-
pienza divina, nel frammento 30 gli dèi nominati sono pre-
sumibilmente quelli tradizionali, che certo non erano intesi
come creatori del mondo. potrebbero essere gli stessi dèi
menzionati nell’aneddoto citato da Aristotele (22 A 9):

come si narra che Eraclito abbia detto agli ospiti che voleva-
no fargli visita, e che arrivando si erano fermati, vedendo lui
intento a scaldarsi presso il focolare (egli li invitò a entrare
senza temere: anche lì dentro, infatti, erano gli dèi), così si
deve procedere nella ricerca intorno a ciascuno dei viventi
senza ripugnanza, perché in tutti vi è qualcosa di naturale e
bello (de part. anim. I 5, 645a 17).

Ritengo che in entrambi i casi si tratti di un uso col-


loquiale della parola “dèi”, uso che non implica necessa-
riamente una specifica fede. Negli altri casi il riferimento
sprezzante alle pratiche religiose tradizionali mi sembra
innegabile. Così, nel frammento 106 egli critica Esiodo
per aver distinto giorni fausti da giorni infausti:

riguardo ai giorni nefasti… Eraclito rimproverò Esiodo di


ignorare la natura di ogni giorno che è una, facendone alcu-
ni buoni, altri cattivi.
2. Le intuizioni di Eraclito 127

L’adorazione delle immagini è messa in ridicolo nel


frammento 128:

Adorano le immagini degli dei che non ascoltano, come se


ascoltassero, e che non danno indietro niente, come se loro
non domandassero.

Nel frammento 5, non solo è stigmatizzata la pratica


dei sacrifici cruenti, ma è ribadita l’inanità delle preghie-
re rivolte a meri oggetti, come le immagini sacre:

Si purificano contaminandosi con altro sangue, come se


uno, caduto nel fango, con il fango si detergesse. Se un
uomo l’osservasse comportarsi in tal modo lo riterrebbe
uscito di senno. E adorano queste immagini come se qual-
cuno conversasse con le case, né sanno chi siano gli dei e
gli eroi.

Dio, per come è concepito da Eraclito, non presta


certo orecchio alle implorazioni degli uomini: ma questi
non hanno alcuna idea di cosa sia la divinità e, conse-
guentemente, di cosa si debba intendere per eroi.
Eraclito considera addirittura empie le pratiche miste-
riche nel frammento 14:

per chi vaticina Eraclito di Efeso? per i nottivaghi, per i ma-


ghi, per i bacchi, per le menadi, per gli iniziati […] vaticina
il fuoco: infatti ai misteri in uso tra gli uomini si è iniziati
empiamente.

Ritiene infine vergognose le cerimonie dionisiache nel


frammento 15:
Infatti, se la processione non fosse fatta per Dioniso, into-
nando anche un canto alle vergogne, sarebbe tra le cose più
spudorate: ma la stessa cosa sono Ade e Dioniso, per cui im-
pazzano e celebrano le Lenee.
128 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Se la cerimonia, che comporta elevare inni alle par-


ti genitali (αἰδοίσιν), non fosse compiuta per celebrare
Dioniso, sarebbe considerata quanto di più spudorato
(ἀναιδής); ma, dice con scherno Eraclito, dato che si ce-
lebra Dioniso e dato che Dioniso e Ade (Ἀΐδης) sono la
stessa cosa, ciò che si compie non può essere vergogno-
so (non può essere ἀναιδής, cioè “senza Ade”). Si trat-
ta, ovviamente, di una battuta imperniata su un gioco
di parole; ma perché si identificano Dioniso e Ade? Al-
cuni ritengono ci sia un riferimento all’effetto del vino
che «genera godimento o morte» (fr. 77)126. Non si può
escludere che Eraclito faccia riferimento al carattere cto-
nio che Dioniso assume nell’ambito di alcuni culti greci.
Un’interpretazione alternativa è che Dioniso e Ade sono
rispettivamente simboli della vita e della morte, e queste,
a norma del frammento 88, fanno parte del ciclo indisso-
lubile del tutto, che è unico.
Il carattere nettamente spregiativo di questi riferimen-
ti alla religione è riconosciuto da quasi tutti gli interpreti,
ma il consenso non è unanime. Adoménas (1999) vi leg-
ge un’analisi positiva delle pratiche religiose in termini
di “unità degli opposti”; ma questa interpretazione non
mi sembra condivisibile, anche per il tono apertamente
sprezzante dei testi127.
Si noti che Eraclito considera ciarlatani non solo i bi-
gotti, ma anche i medici (fr. 58):
I medici dunque […] tagliando, bruciando […], richiedono,
pur non meritando di ricevere un compenso, […] avendo fat-
to le medesime cose.

126. Vedi Hussey (1991) p. 524 e Nussbaum (1972) p. 159.


127. per Montanari (1983): «La polemica, o meglio il disprezzo, nei
riguardi della religiosità tradizionale non è fine a se stesso […] bensì è solo
un aspetto, marginale e strumentale, di una tematica centrale e basilare
come la dottrina della coincidentia oppositorum» (p. 395).
2. Le intuizioni di Eraclito 129

Un ulteriore riferimento agli dèi, chiamati “immorta-


li” (ἀθάνατοι), apparirebbe secondo alcuni nel frammen-
to 62:
Immortali mortali, mortali immortali, viventi la morte di
quelli, morenti la vita di quelli.

Le interpretazioni di questo testo, considerato da


Kahn (1979, p. 216) «il più simmetrico di tutti i fram-
menti», ma certo alquanto ermetico, sono le più varie.
per Nussbaum (1972, p. 163) gli immortali sono gli dèi,
che vivono una loro vita, che dal punto di vista umano è
morte. per Robinson (1989, p. 351) invece gli immortali
sono gli eroi. Ritengo che gli dèi o gli eroi non ci en-
trino per nulla: esiste un modo di considerare il vivente
come immortale, in cui l’immortalità è una successione
continua di nascite e morti. I mortali di questa succes-
sione sono immortali in quanto parte della successione:
vivono la morte di coloro da cui provengono, morendo
la vita di quelli che succedono loro. La distinzione tra i
successivi individui, come quella tra l’organismo morta-
le e l’immortale flusso vitale, ha un senso soggettivo per
l’uomo, ma non ha rilevanza per il dio128.

2.12. Politica

La lettura di alcuni frammenti ha portato la maggior


parte dei critici a considerare Eraclito animato da sen-
timenti nettamente anti–democratici. Ad esempio, il
frammento 104:

128. In questo senso forse Schofield (1991): «La nostra vita come mor-
tali dipende dalla temporanea estinzione di elementi fisici da cui si forma
e in cui si decompone» (p. 32).
130 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Quale, infatti, la loro mente o animo? Sono persuasi dagli


aedi del popolo e si servono come maestra dalla moltitudine,
non vedendo che «i molti cattivi, pochi buoni».

Nello stesso senso è letto il frammento 49:


Uno per me diecimila, se fosse il migliore

e anche il 33:
Legge anche ubbidire alla decisione di uno.

Il giudizio è basato unicamente sul tono di questi te-


sti e sulla testimonianza tarda di Diogene Laerzio, com-
pletamente avulsa dal contesto storico. poco sappiamo
delle vicende politiche interne di Efeso allo scadere del
VI secolo, ma certo, se si accetta la datazione più alta,
la maturità di Eraclito coincise con uno dei periodi più
drammatici della storia della Ionia. Mazzarino (1947) e
Capizzi (1979) hanno tentato una contestualizzazione
storica, basata su alcune testimonianze:
Eraclito, figlio di Blisone, persuase il tiranno Melancoma a
cedere il potere. Egli stesso rifiutò l’invito del re Dario129 di
recarsi presso i persiani (Clem. Alex. strom. i 65),

e:
Gli Efesi avevano l’abitudine ad una vita lussuosa e di piaceri;
ma contro di essi si scatenò una guerra ed i persiani circon-
darono ed assediarono la città. Essi però continuarono nella
vita di piaceri secondo la loro abitudine. Tuttavia nella città
cominciarono a scarseggiare i mezzi di sostentamento, ma
nessuno aveva il coraggio di proporre che limitassero i loro
lussi. Mentre essi erano radunati, un uomo di nome Eraclito

129. Lo scambio epistolare con Dario è sicuramente spurio.


2. Le intuizioni di Eraclito 131

prese dell’orzo tritato, lo mescolò con dell’acqua e lo man-


giò stando seduto in mezzo a loro, e questa fu una lezione
silenziosa per tutto il popolo130 (Themist. π. ἀρετῆς, p. 40).

Secondo Mazzarino (1947), che accetta appunto la da-


tazione più alta, la maturità di Eraclito si colloca all’epo-
ca della rivolta della Ionia. Melancoma, colui che Eracli-
to avrebbe persuaso a cedere il potere, potrebbe essere
stato allora uno dei tiranni sostenuti dai persiani, deposti
all’inizio della rivolta. La cacciata di questi tiranni dalle
città della Grecia d’Asia fu generale e, stando ad Erodo-
to (V 38), relativamente incruenta: ciò quadrerebbe con
il carattere dell’intervento attribuito a Eraclito (22 A 3).
Che anche il tiranno di Efeso sia stato effettivamente al-
lontanato risulta dal ruolo non trascurabile che la città
svolse almeno nella prima fase della rivolta. Fu da Efeso,
infatti, che partì la spedizione greca contro Sardi (Hero-
dot. V 100) e fu presso Efeso che il corpo di spedizione,
dopo la ritirata, subì una devastante sconfitta da parte
delle forze persiane (Herodot. V 102).
Eraclito pronuncia parole di fuoco contro gli Efesi per
la cacciata di Ermodoro (fr. 121):
Sarebbe giusto che gli Efesi si impiccassero tutti in età gio-
vanile e consegnassero la città agli infanti, essi, che hanno
espulso Ermodoro, l’uomo più capace tra loro, dicendo: mai
vi sia uno più capace di noi; se c’è, se ne stia altrove e tra
altra gente.

Non è detto che questa cacciata sia avvenuta per effet-


to di una rivolta democratica, come la visione di un Era-
clito anti–democratico indurrebbe a pensare131. Capizzi
130. Lo stesso apologo è raccontato senza riferimenti storici da plu-
tarco.
131. Zeller (1892, I IV p. 6, n. 2) ritiene che l’episodio della cacciata
d’Ermodoro sia stato successivo al 478, perché sarebbe potuto avvenire
132 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

(1979) ipotizza che, abbattuta la tirannide, Ermodoro sia


stato incaricato di redigere le nuove leggi. Alla sconfitta
degli Ioni sotto le mura di Efeso sarebbe seguito l’assedio
durante il quale, secondo Temistio, Eraclito avrebbe dato
agli Efesi una lezione di frugalità. L’espulsione d’Ermo-
doro (fr. 121) da parte dei cittadini di Efeso potrebbe esse-
re avvenuta in seguito agli insuccessi militari, nell’ambito
di un accomodamento con i persiani. In effetti, Erodoto
(VI 8) non fa menzione di navi di Efeso nell’elenco delle
forze navali che combatterono presso il promontorio di
Lade nello scontro che segnò la sconfitta definitiva degli
Ioni. L’amarezza di Eraclito sarebbe allora ben compren-
sibile. Il regime persiano aveva rovinato la Ionia, come
sottolinea Green (1996), e gli Ioni, assoggettati a un pe-
sante regime di tributi, erano in gravi difficoltà per la po-
litica economica del re, che
stava progressivamente drenando l’Impero di oro e argento,
con ovvi e inevitabili risultati: inflazione cronica, prezzi cre-
scenti, e, dopo un certo tempo, il quasi collasso dell’agricol-
tura persiana in un vortice di debiti non pagati e di ipoteche
non riscattate (p. 14).

Indubbiamente alcuni frammenti di Eraclito fanno


pensare che egli attribuisse grande importanza alla polis
e alla sua indipendenza. Ad esempio, dal frammento 53
La guerra è padre di tutto, di tutto re, e alcuni fece nascere
dèi, altri uomini, alcuni fece schiavi altri liberi

trapela, come già accennato, un contenuto attuale: la


guerra non è soltanto il simbolo astratto dell’unità dina-
soltanto dopo la liberazione dal giogo persiano. L’argomento vale solo
nell’ipotesi che la cacciata fosse opera di democratici in un contesto di
stasis cittadina. Mouraviev (2003) sostiene la medesima tesi con dovizia
d’argomentazioni, che rimangono però anch’esse soltanto congetturali.
2. Le intuizioni di Eraclito 133

mica di un universo il cui senso ci travalica, ma è anche


la concreta guerra tra stati o tra fazioni. Non è necessario
un grande sforzo di fantasia per immaginare che Eracli-
to, parlando di schiavi, avesse bene in mente la sorte dei
Greci della Ionia, sconfitti e ridotti in servitù dai persia-
ni dopo il misero fallimento della rivolta, fallimento che
Erodoto attribuisce a discordie e inettitudini in campo
greco e che forse è all’origine dell’amarezza di Eraclito.
Il frammento 44
Il popolo deve combattere per la legge come per le mura

mostra che per Eraclito la salvezza della città dipende


dalla coesione della popolazione, indotta dal rispetto del-
la legge132. Non è un motivo specificamente aristocratico,
come non lo è il pensiero espresso dal frammento 43, che
stigmatizza la hybris tipica del ceto aristocratico:
L’arroganza bisogna spegnere più che l’incendio.

132. Rossetti (1983b) rileva una contraddizione tra questo elogio


della legalità e affermazioni del tipo «la giustizia è discordia» (fr. 81),
e concorda con Marcovich nel ritenere che «uno dei principali difetti
dell’interpretazione moderna di Eraclito consiste nell’aver troppo cre-
duto alla coerenza logica» del suo pensiero. Egli sembra ritenere che le
interpretazioni che cercano di sanare tali incongruenze siano del tutto
congetturali, e sia perciò «più prudente prendere atto della situazione di
impasse» e «prendere in considerazione l’ipotesi che Eraclito non si sia
neppure accorto della potenziale incompatibilità» fra i due discorsi (p.
357). Non concordo: penso che risolvere l’apparente contraddizione ac-
cettando l’ipotesi che Eraclito si contraddica non sia affatto prudenziale,
ma costituisca un’inferenza congetturale alla stessa stregua delle altre.
Un’ipotesi, peraltro, poco attraente, in quanto imputa all’Efesio una gra-
ve deficienza, e per giunta scarsamente produttiva, perché se ogni volta
che ci sembra d’incontrare una contraddizione ci accontentassimo di
prenderne atto, rinunceremmo a capire. A mio avviso, le due afferma-
zioni di Eraclito illustrano punti di vista distinti: da un lato l’indifferente
giudizio divino, per cui tutto è buono e giusto, compresa la guerra e la
discordia, dall’altro l’opinione soggettiva degli uomini che hanno inte-
resse nella giustizia, tra i quali Eraclito stesso si colloca.
134 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Eraclito appare fortemente coinvolto nelle vicende


della sua città e, secondo la ricostruzione proposta da
Capizzi, sarebbe stato un sostenitore di una politica anti-
persiana, alla fine rivelatasi perdente per il trionfo di una
fazione decisa a venire a patti con i persiani, che provocò
la defezione di Efeso dalla causa greca. Questa defezione,
come quella successiva di Samo (Herodot. VI 14), avvenu-
ta mentre era in corso la battaglia di Lade, poteva essere
considerata all’epoca uno dei motivi della sconfitta greca.
Se Eraclito è stato effettivamente impegnato in questa lot-
ta, l’esperienza del proprio insuccesso nel tentativo di con-
vincere i concittadini dell’importanza del coraggio e della
solidarietà contro il comune nemico può ben essere stata
la causa del suo disgusto come uomo politico e della sua
successiva rinuncia a partecipare alla gestione della cosa
pubblica, nonché della cessione del titolo regale al fratello.
Questa stessa esperienza può avere anche contribuito a sti-
molare quella riflessione sul valore della conoscenza che i
suoi scritti sembrano rappresentare133.

2.13. Conclusioni

Si può tentare ora di sciogliere i dubbi relativi al fram-


mento 1. Il logos di Eraclito è il suo discorso: il discorso
sulla conoscenza che si manifesta mediante il linguaggio.
Questo discorso è “sempre” (ἀεί) ignorato dagli uomini:
era ignorato prima che fosse loro spiegato e non è stato

133. Ricostruzioni completamente diverse sono ugualmente possibili:


per Moureviev (2003) Eraclito potrebbe aver avuto un ruolo nel negoziato
con i persiani per la salvezza della città dopo la sconfitta degli Ioni (p. 134).
La destituzione del tiranno Melancoma sarebbe allora avvenuta parecchi
anni più tardi, quando Mardonio, stando ad Erodoto (VI 43), «deposti tutti
i tiranni degli Ioni, istituì nelle città la democrazia» prima di procedere con
la spedizione contro Eretria ed Atene (p. 137).
2. Le intuizioni di Eraclito 135

capito neanche dopo le spiegazioni fornite da Eraclito,


come egli ha avuto sicuramente occasione di constatare.
Accadeva forse la stessa cosa che accade oggi: il discorso
di Eraclito sembra di difficile comprensione. Questo di-
scorso è vero “sempre”, almeno per quanto può essere
ritenuto vero un discorso umano. Non è quindi possibile
eliminare l’ambiguità relativa al riferimento di ἀεί, ed era
forse intenzione di Eraclito mantenerla134.
Il pensiero di Eraclito riguarda innanzitutto la cono-
scenza, ed in ciò egli è estremamente realistico: l’attività
conoscitiva è logos, ossia “discorso”. È un discorso che ha
origine nell’anima, si accresce con l’anima, ed è all’inter-
no della propria anima che va innanzitutto cercato.
Il linguaggio usato dagli uomini non si accosta nean-
che parzialmente alla perfetta conoscenza, che è solo del
dio, ma esprime unicamente punti di vista umani, spes-
so differenti da una persona all’altra. Agli uomini sfugge
questa verità, e perciò essi rimangono chiusi nel loro pic-
colo mondo privato, che considerano la misura di tutte
le cose. Se essi si rendessero conto di quanto la conoscen-
za di ciascuno è condizionata da punti di vista personali,
sarebbero in grado di ampliare la loro apertura mentale
e di parlare un linguaggio comune. La diversità dei punti
di vista e delle mentalità costituiva indubbiamente una
fonte d’arricchimento culturale, soprattutto nelle città
della Ionia, poste lungo la linea di contatto tra la civil-
tà greca e il mondo orientale rappresentato dall’impero
persiano, con le molteplici tradizioni che vi confluivano.
Questa stessa diversità si presentava però anche sotto for-
ma di aspra contrapposizione delle parti, sia nelle dure
lotte politiche, in cui posizioni precostituite si scontrava-
no senza molta speranza di compromesso o di reciproca
comprensione, con risultati spesso disastrosi; sia nei pro-

134. Vedi Robinson (1983) p. 68 e Robinson (1987) p. 74.


136 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

cessi giudiziari, i cui esiti erano penosamente aleatori; sia


infine nelle dispute scientifiche, impossibili da dirimere.
Eraclito evita le dimostrazioni: il suo intento è mostra-
re. Egli effettua la sua analisi per mezzo di esempi sem-
plici o di affermazioni apparentemente paradossali, con
l’intento di provocare, stimolando la riflessione. Così,
l’impiego di termini contrari ha la funzione retorica di
far capire che perfino le cose più differenti sono, come
tutto, strettamente collegate nell’ambito di un’unica re-
altà. Utilizzando un’acuta osservazione di Marino (1984),
si potrebbe quindi dire che

è vero che Eraclito “generalmente intende quello che


dice” benché egli non intenda usualmente ciò che sembra
dire (p. 79).

purtroppo il paradosso produce più facilmente l’in-


comprensione che il dubbio, e ciò era soprattutto vero in
una Grecia in cui la tradizione eristica, che vedrà in plato-
ne uno dei suoi più significativi cultori, aveva improntato
di sé tutta la cultura (Lloyd, 1996). Noi non sappiamo in
che misura fosse accolto e compreso Eraclito nella sua
epoca, ma è certo che le sue intuizioni epistemologiche
hanno trovato importanti sviluppi in parmenide e Zeno-
ne prima, e in protagora e Gorgia poi.
L’indagine di Eraclito non si limita al discorso e all’epi-
stemologia, ma si estende ai problemi più attuali della
scienza dell’epoca. Nelle concezioni cosmologiche entra
un elemento dinamico con la preminenza assegnata al
fuoco; e il tentativo di costruire un modello delle fasi lu-
nari nell’ipotesi che l’astro fosse dotato di luce propria ap-
pare ingegnoso. L’anima è chiaramente concepita come
un’entità fisica in evoluzione, come il corpo da cui deriva
e che allo stesso tempo controlla, in un ciclo biologico
che presenta chiare analogie con quello cosmico.
2. Le intuizioni di Eraclito 137

Certo, le spiegazioni, per quanto audaci, riguarda-


no soltanto gli elementi più appariscenti del mondo
e difettano d’estensione e di profondità, ma questa è
soltanto la manifestazione iniziale di una caratteristica
dell’attività conoscitiva, che procede investendo cam-
pi sempre più ampi, spiegando fenomeni via via più
reconditi. Del resto Eraclito ne era conscio: la connes-
sione nascosta è la più importante (fr. 54). È interes-
sante perciò osservare l’embrionale formazione delle
procedure tipiche del pensiero scientifico nel più anti-
co pensatore di cui sia rimasta una parte significativa
degli scritti.
L’atteggiamento nei confronti della religione tradi-
zionale è di sarcastico distacco, ma Eraclito, al pari di
Senofane, non era un riformatore religioso. Il suo dio,
che tutto conosce e perciò tutto approva, appare piut-
tosto un’esigenza intellettuale: non condivide i valori
dell’uomo e non ne ascolta le preghiere.
Alcuni frammenti di Eraclito tradiscono una forte
passione politica. Appare inverosimile che in un perio-
do caratterizzato da eventi tanto drammatici, un perso-
naggio della sua classe e della sua levatura sia rimasto
estraneo alle vicende della propria città. Il suo rifiuto
di dare leggi ai concittadini, il suo ritiro nel tempio di
Artemide a giocare a dadi con i fanciulli, l’abbandono
della vita pubblica, l’insofferenza verso gli uomini, lun-
gi dall’essere una testimonianza di alterigia e superbia,
come sosteneva Diogene Laerzio, possono essere inte-
si come manifestazioni di un carattere appassionato,
profondamente amareggiato dalla rovina della patria,
giudicata irrimediabile. Il carattere provocatorio dello
scritto sarebbe allora anche un riflesso della rabbia di
chi non è riuscito a farsi ascoltare. A meno che, come
suggerisce Giannantoni (1969), il rapporto con la tradi-
zione non sia capovolto e che, data
138 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

la tendenza della biografia antica a costruire aneddoti sulla


base di punti dottrinali (p. 180, n. 2)

le notizie sulla vita non siano altro che invenzioni gene-


rate dal tono spesso sprezzante del testo di Eraclito. An-
cora una volta, per mezzo delle sue parole possiamo solo
tentare di mostrare sotto forma di ipotesi ciò che non
siamo in grado di dimostrare; e questa sembra essere la
sorte cui Eraclito è destinato.
3. Le dimostrazioni di parmenide

La verità dei pensieri qui comunica-


ti mi sembra intangibile e definitiva.
Sono dunque dell’avviso d’aver de-
finitivamente risolto l’essenziale dei
problemi. E, se qui non erro, l’essen-
ziale di questo lavoro consiste allora,
in secondo luogo, nel mostrare quanto
poco sia fatto dell’essere questi proble-
mi risolti.
Ludwig Wittgenstein1

È un errore credere che il compito della


fisica consista nel sapere come è la na-
tura. La fisica si occupa di quello che
possiamo dire sulla natura.
Niels Bohr2

3.1. Venerando e terribile

Diogene Laerzio, che si richiama ad Apollodoro, pone


l’akmé di parmenide, come quella di Eraclito, durante la
69a olimpiade (504–501), per cui la nascita si collochereb-
be nel 544–541, più o meno all’epoca della fondazione di
Elea. D’altra parte, platone mette in scena nel Parmenide
un incontro tra Socrate giovinetto e parmenide:
una volta giunsero alle grandi panatenee Zenone e parme-
nide. parmenide dunque era già anziano, completamente

1. Wittgenstein L. (1921) (trad. it. di A.G. Conte, p. 4).


2. petreson (1963), p. 12.

139
140 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

canuto, nobile e dignitoso d’aspetto, intorno ai sessantacin-


que anni al massimo (127b 1).

Se l’episodio raccontato da platone fosse autentico,


non potrebbe essere accaduto molto prima del 450, data
in cui Socrate aveva quasi 20 anni. La nascita di parme-
nide si collocherebbe allora intorno al 515. Commenta
Diès (1923):
I critici sono unanimi nel considerare questo incontro come
una finzione letteraria […] Nulla prova, d’altronde, che pla-
tone dovesse conoscere esattamente la data di nascita di par-
menide e la sua differenza d’età con Zenone (p. 10).

Dipendenti probabilmente dalla tradizione platonica


potrebbero essere le notizie di Eusebio secondo cui par-
menide era in fama nel 456 e lo sarebbe stato ancora,
insieme a Zenone, nel 436.
Reale (Zeller e Mondolfo, 1967) fa un punto sulla que-
stione, e conclude:
i dati da noi posseduti sono insufficienti per una determi-
nazione esatta della cronologia parmenidea, pur potendosi
stabilire, in base ad essi, che egli dovette vivere a cavaliere tra
il VI e il V secolo (p.165, n. 2).

Non si sa quasi nulla della storia di Elea tra la fine del VI


secolo e l’inizio del V; di conseguenza le pochissime infor-
mazioni che abbiamo sulla vita di parmenide non sono in-
seribili in un contesto storico. praticamente tutto si riduce
a una notizia di Strabone (28 A 12) che riguarda Elea:

da essa nacquero parmenide e Zenone, filosofi pitagorici. Sia


per opera di costoro, sia anche prima, mi pare che la città
fosse governata con buone leggi, per la qual cosa gli abitanti
resistettero ai Lucani e ai posidoniati e li vinsero, pur essen-
do inferiori per territorio e per numero (VI p. 252)
3. Le dimostrazioni di Parmenide 141

e a un accenno di plutarco:
parmenide ordinò la sua patria con ottime leggi tanto che
nei primi tempi ogni anno i cittadini prestavano giuramen-
to di rimanere fedeli alle leggi di parmenide (adv. Col. 32 p.
1126a).

Qualcosa di più si potrebbe dire se si accettasse il rac-


conto di platone e la relativa cronologia. Sarebbe allora
verosimile l’ipotesi di Capizzi (1975) che parmenide e Ze-
none fossero venuti ad Atene non tanto per presenziare
alla celebrazione delle panatenee, quanto per motivi po-
litici «nel periodo dell’intervento ateniese in Italia» (p. 62).
Le testimonianze ricordano un solo scritto di parme-
nide:
Altri [lasciarono] una sola opera: Melisso, parmenide, Anas-
sagora (Diog. Laert. I 16).

Lo scritto di parmenide è un poema in esametri redatti


nella lingua epica di Omero e Esiodo. L’uso della poesia
per un’opera filosofica3, quando già da tempo nella Ionia
questo tipo di letteratura era in prosa, potrebbe costituire
un arcaismo dipendente dal relativo isolamento culturale
dell’occidente greco rispetto alla Grecia asiatica.
Barnes (1979b) imputa l’oscurità di parmenide allo sti-
le poetico:
È difficile scusare parmenide per la sua scelta dei versi per
esprimere la sua filosofia. L’esigenza di metro e di stile po-
3. per Burnet (1892) «la cosa era una novità, e una che non si conser-
vò» (p. 171) dato che soltanto Empedocle dopo di lui ne seguì l’esempio. La
poesia era però il mezzo tradizionale di memorizzazione ed è difficile ve-
derne l’uso come una innovazione. Reale (Zeller–Mondolfo, 1967, p. 335, n.
82) legge nella scelta della poesia da parte di parmenide un’espressione della
volontà di «presentarsi come successore e superatore di Esiodo». Sull’argo-
mento vedi anche Cerri (1999, p. 85) e soprattutto Martinelli (1987).
142 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

etico produce regolarmente un’oscurità quasi impenetra-


bile (p. 155).

Si vedrà invece che il testo è molto meno criptico di


quello che Barnes pensa, e che la forma poetica non ha in
alcun modo nociuto al rigore dell’esposizione.
Sappiamo che Simplicio possedeva ancora una copia
del libro. Egli afferma infatti:
se non mi sembrasse inopportuno, volentieri aggiungerei a
queste note i versi di parmenide sull’unico essere, che non
sono molti, sia a sostegno di ciò che dico, sia per la rarità
dello scritto di parmenide (Simplic. phys. 144, 25).

A noi sono giunti soltanto 19 frammenti, per un totale


di 160 versi o parti di verso.
L’opera è tradizionalmente divisa in tre sezioni: il pro-
emio (32 versi), il discorso vero (79 versi) e le opinioni dei
mortali (49 versi). Il proemio ci è stato trasmesso per in-
tero da Sesto Empirico; possiamo inoltre ritenere di pos-
sedere la quasi totalità della parte riguardante il discorso
vero; invece quanto ci è rimasto delle opinioni dei mortali
è estremamente frammentario. Secondo Diels (1897, p.
25) sono rimasti nove decimi della parte riguardante il di-
scorso vero e un decimo di quella riguardante le opinioni,
per cui la lunghezza complessiva dell’opera risulterebbe
di circa 600 versi, mentre secondo West (1971, p. 290, n.
61) sarebbe di 300 versi4.
In pratica, possiamo ritenere di conoscere bene gli
argomenti di parmenide che riguardano il discorso vero,
sicché per questa parte le testimonianze sono di scar-

4. Una storia dettagliata delle vicende del testo di parmenide, che


include la descrizione del lavoro filologico compiuto fino ai nostri giorni,
si può trovare in Cordero (1987).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 143

sa utilità5, se non addirittura fuorvianti6. In merito alle


opinioni dei mortali, invece, che riguardano la visione
del mondo di parmenide — ossia le sue opinioni scien-
tifiche — i frammenti ci danno soltanto una vaga idea,
ed è indispensabile fare ricorso alle testimonianze.
parmenide godette di un certo prestigio nell’anti-
chità, o almeno presso platone: il Socrate del Teeteto,
parafrasando Omero (Od. VIII 22; XIV 234), lo definisce
infatti
Venerando e terribile (183e 6)

e commenta:
mi sembrò di una profondità assolutamente sublime.

Timone di Fliunte gli tributò la sua stima (fr. 44 D.


in 28 A.1):
La forza unificatrice di parmenide dal grande animo, che
distolse la mente dall’inganno delle rappresentazioni (Diog.
Laert. IX 23).

più moderata è la considerazione di Aristotele, che lo


distingue da Senofane e da Melisso
alquanto più rozzi […] mentre parmenide sembra invece
che parli in qualche modo con maggior discernimento (me-
taph. I 5, 986b 27).

5. Barnes (1979a): «I resoconti dossografici hanno valore solo se la


loro fonte originale è andata perduta» (p. 5).
6. Il confronto tra lo scritto di parmenide e le interpretazioni che
troviamo nelle testimonianze ci può dare un’idea del valore di queste
fonti. Nessun altro testo originale del pensiero del VI e V secolo è altret-
tanto utile a questo scopo.
144 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Sia platone sia Aristotele, tuttavia, sono decisamente


critici riguardo a ciò che hanno inteso del discorso di par-
menide. per comprendere la posizione di entrambi è ne-
cessario esaminare preliminarmente la tesi centrale del
pensiero parmenideo.

3.2. Obiettivo del poema

3.2.1. Il problema della conoscenza

Già prima di Eraclito e di parmenide, Senofane aveva


sollevato un tema di grande interesse almeno per alcuni
dei cittadini più consapevoli delle polis greche dell’epo-
ca: lo statuto della conoscenza. Il ruolo sempre più im-
portante assunto dal cittadino grazie all’allargamento
delle oligarchie e all’importanza dei consigli e delle as-
semblee; la scrittura delle leggi, che rendeva la giustizia
più diffusamente accessibile; l’inizio del dibattito scien-
tifico; il progresso nelle tecnologie, anche grazie alla
diffusione di manuali; tutte queste innovazioni avevano
esteso la pratica del dibattito a campi sempre più ampi,
rendendo evidente l’importanza della discussione, ma
anche la disparità delle opinioni e gli esiti spesso fuor-
vianti dell’oratoria. Comincia ad imporsi la domanda
che tanto ha travagliato il pensiero greco del V seco-
lo: come liberare la verità dai suoi veli? Domanda che
assumerà un’evidenza drammatica nella tragedia, ed è
efficacemente sintetizzata nel frammento dell’Ippolito
velato di Euripide (439 Kn) citato nell’introduzione. Ri-
tengo che parmenide, in un certo momento della sua
vita, si sia domandato se fosse possibile fondare la veri-
tà, rendendola dimostrabile. Come si vedrà, le sue con-
clusioni sono negative, ma non sono per questo meno
importanti.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 145

penso che parmenide si sia domandato: è possibile


partendo da elementi certi ottenere, tramite deduzioni
incontrovertibili, una conoscenza indubitabile7? O, vice-
versa, l’uomo deve contentarsi dell’incerto opinare cui
Senofane sembra condannarlo? Quando, a conclusione
della sua ricerca, parmenide si è accinto a redigere il suo
scritto, conosceva già la risposta: il poema non narra lo
sviluppo di un’indagine, ma espone l’articolazione logica
delle conclusioni. Egli aveva ormai fissato definitivamen-
te il punto di partenza e individuato il punto d’arrivo del
ragionamento, e sapeva già che quei barlumi di verità
che è possibile raggiungere con certezza non possono
bastare all’uomo. Stabilito questo punto e limitate così le
pretese della conoscenza umana, egli si è dedicato poi ad
esporre il proprio punto di vista sulla natura, campo che
in età giovanile8 gli era forse il più congeniale.

3.2.2. Organizzazione dell’esposizione

Delle tre parti in cui è articolato il poema, il proemio


esprime in forma allegorica l’origine delle intuizioni di
parmenide; segue poi la deduzione del discorso vero, che
stabilisce il valore epistemologico della conoscenza; in-
fine sono esposte le opinioni di parmenide sulla natura.
L’ordine con cui tratterò la dottrina di parmenide sarà

7. per Lafranche (1999): «parmenide non respinge la problematica


filosofica dei suoi predecessori, ma piuttosto il loro metodo induttivo e
empirico che vuole sostituire con un metodo deduttivo e completamente
indipendente dall’esperienza» (p. 300). Il poema è allora il rendiconto del
fallimento del programma.
8. Nel poema la dea lo chiama ragazzo (κοῦρος), e non mi sem-
bra che ci sia necessità di mettere in dubbio, come hanno fatto alcuni,
la gioventù di parmenide all’epoca della redazione dello scritto; invece,
per Albertelli (1939): «Il termine non deve spingere a considerazioni di
carattere cronologico, perché sta a indicare semplicemente un rapporto
di discepolato» (p. 125, n. 20).
146 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

il seguente: innanzitutto, le premesse epistemologiche,


che sono la parte di gran lunga più importante del pen-
siero parmenideo; poi il senso del proemio; infine le con-
cezioni scientifiche sulla natura.
Al termine del proemio parmenide introduce gli ar-
gomenti che intende sviluppare, come se presentasse
l’indice dell’opera. Durante la trattazione egli fa precedere
ogni argomento da un’indicazione di ciò che si accinge
a trattare, come se assegnasse il titolo a un capitolo o ne
redigesse un breve sommario.
Il piano dell’opera è esposto negli ultimi sei versi del
proemio. parmenide è condotto su un carro trainato da
giumente al cospetto di una dea, che nei versi 24–32 del
frammento 1 si rivolge a lui e gli dice:
[…] È necessario che tu indaghi ogni cosa,
e il cuore che non trema della verità perfettamente circolare9
e le opinioni dei mortali, nelle quali non è vera fiducia (30)
Ma nondimeno anche queste imparerai, come dovevano10
essere correttamente11 le opinioni, avendo percorso12
assolutamente tutto.

Gli argomenti dell’insegnamento saranno dunque:

— il cuore che “non trema” (ἀτρεμὲς ἦτoρ) della veri-


tà “perfettamente circolare” (Ἀληθείης εὐκυκλέος);

9. La verità logica è circolare (εὐκυκλέος in Simplicio), ma è anche per-


suasiva (εὐπειθέος in Sesto, plutarco, Diogene e Clemente). Trovo che la pri-
ma lettura, sostenuta da Diels, illustri meglio il ragionamento rigorosamente
logico che parmenide si accinge a sviluppare. Jameson (1958) argomenta con-
tro, anche per motivi interpretativi. Il senso generale però non cambia.
10. Tarán (1965): «È messo al passato, prima, perché le credenze dei
mortali erano stabilite prima che la dea esponesse il suo discorso a parme-
nide» (p. 214).
11. Il termine si riferisce alla corretta interpretazione delle opinioni.
12. περῶντα da Simpl. A.; περ ὄντα: Simpl. D, E, F. Brague (1987, p.
56) propone πάνθ’ ἄπερ ὄντα.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 147

— quali debbano (χρῆν) essere le opinioni (τὰ


δοκοῦντα), correttamente (δοκίμως) intese, esami-
nando tutto.

In questa specie di indice, la dea ha elencato i due


distinti capitoli dell’opera. L’istruzione del discepolo ri-
guarderà dunque: a) conoscenze vere, b) apprendimenti
privi di certezza che devono essere considerati nella giu-
sta luce, ma che non sono privi di valore.
Nel verso 1.29 la dea parla di ἦτoρ, “cuore” della ve-
rità.
Avanzo l’ipotesi che la parola intenda limitare la
conoscenza che si otterrà, sottolineandone allo stesso
tempo l’importanza13: sebbene il giovane (κοῦρος) sia
invitato a indagare su tutto, egli non apprenderà l’inte-
ra verità — sarebbe, come si vedrà, impossibile — ma
soltanto il nucleo14 o il senso generale di essa.

3.3. Insegnamento della verità

3.3.1. Le due vie della ricerca


Al frammento 1 segue il frammento 2. È possibile, ma
non necessario, che tra la fine del frammento 1 e l’inizio
del 2 vi fossero dei versi ora mancanti, che comunque

13. Ruggiu (Reale e Ruggiu, 1991) riguardo al cuore: «Esso indica


una parte, sia pure la più importante, ma non il tutto dell’uomo» (p.
199).
14. “Nucleo centrale” anche per Germani (1986), che però attribui-
sce al testo un’ulteriore connotato: «Non è estraneo il senso combattivo
associato a ἦτoρ nel linguaggio epico in contesti di battaglia. Questo
aspetto di potere, forza, di fronte all’attacco è convalidato da ἀτρεμές;
questo cuore è immobile perché inconfutabile» (p. 8). Di parere diverso
è Coxon (1986): «La frase di p. non distingue la realtà dal suo cuore ma
la caratterizza come vivente» (p. 168).
148 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

non dovevano essere molti15. Si può ipotizzare che l’e-


ventuale testo mancante annunciasse l’inizio dell’esposi-
zione del discorso vero, quello che si articolerà nelle due
vie; ma a parte questo, al discorso non manca apparen-
temente nulla.
Inizia dunque nel frammento 2 l’esposizione del di-
scorso vero:
Ebbene io dirò, e tu ascoltando accogli la mia parola,
quali sole vie di ricerca vi siano per pensare16,
l’una che è e che non è possibile non essere,
è il sentiero della persuasione (infatti segue la Verità),
l’altra che non è e che è necessario non essere (5)
questo io ti dichiaro un sentiero del tutto inscrutabile.
Infatti, non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti
possibile),
né potresti esporlo.

La dea mostra che per condurre la ricerca (δίζησις)


della conoscenza certa, ricerca che rappresenta il primo
argomento annunciato dalla dea alla fine del proemio,
occorre scegliere tra le sole (μοῦναι) vie (ὁδoί) possibili.
Che tali vie siano solo due risulta dalle alternative presen-
tate: la scelta è tra affermare l’esistenza17 — è (ἔστιν) — o
negarla — non è (οὐκ ἔστιν). La mancanza di un soggetto
per il primo è del terzo verso non è casuale, ma voluta e

15. Cordero (2004), a proposito del frammento 2: «Sembra essere la


logica continuazione del “frammento 1”» (p. 16).
16. Questo obiettivo è espresso dall’infinito futuro del verbo νοέω,
νοῆσαι, con significato finale, come sostiene Mourelatos (1970): «Costru-
isco l’infinito νοῆσαι come finale» (p. 55 n. 26). Analogamente, Germani
(1986, p. 11).
17. La scelta di intendere l’essere parmenideo in senso esistenziale ca-
ratterizza la lettura presentata in questo studio. Non è un’interpretazione
condivisa da tutti. per una descrizione delle principali linee interpretative
del pensiero di parmenide rinvio alla recentissima monografia di palmer
(2009).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 149

significativa: è è autoreferente in senso esistenziale18. par-


menide rafforza l’affermazione dell’essere con una doppia
negazione, «non è non essere» (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), e la nega-
zione dell’essere col dichiararne la necessità, «è necessa-
rio non essere» (χρεών ἐστι μὴ εἶναι). La formulazione del
dilemma è accompagnata da un’anticipazione della so-
luzione: la prima via, quella che parte dall’affermazione
dell’esistenza, è la persuasiva via della verità (ἀλήθεια);
invece la seconda via, quella che parte dalla negazione
dell’esistenza, non è indagabile (παναπευθής): non è pos-
sibile conoscere o descrivere ciò che non esiste.
Il primo dilemma che si pone a chi vuole indagare la
verità è dunque, secondo parmenide, affermare l’esisten-
za o negarla: le sue due vie sono appunto i corni del di-
lemma. La soluzione che egli offre è puramente logica:
si tratta di scegliere tra una tautologia e una contraddi-
zione (Cordero,1984, p. 93). Esistere esiste per definizio-
ne, che esista non esistere è contraddizione in termini. La
tautologia non è però vuota: esistere ha un significato
riconoscibile anche se, forse, non definitivamente espli-
citabile.
Nel secondo verso compare per la prima volta il ver-
bo conoscere (νοέω), che si riferisce alle due vie. Si noti
che entrambe le vie enunciano certezze logiche: la prima
una verità certa (è la via della vera conoscenza), la secon-
da un’indubbia contraddizione (è la via impercorribile);
il fatto che sia impercorribile è però certo. In questa sua
prima apparizione, νοέω indica un modo di conoscere
18. per Kahn (1969b): «L’“è” che parmenide proclama non è prima-
riamente esistenziale ma veridico: asserisce non solo la realtà ma il de-
terminato esser–così dell’oggetto conoscibile» (p. 712). Nonostante l’ac-
cento posto sugli aspetti filologici, peraltro non risolutivi, i motivi esposti
dall’autore sono largamente interpretativi. Kahn (1988) sostiene, infatti,
che il senso esistenziale «di ἐστί è linguisticamente implausibile per l’epo-
ca di parmenide sia per l’interpretazione del poema, sia per la compren-
sione dell’impatto di parmenide su platone» (p. 240).
150 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

privo di incertezze, che procede in base alla necessità


logica. Questo impiego del verbo è mantenuto con co-
erenza in tutto il poema: νοέω è sempre usato solo in
riferimento alla prima via (anche in 6.2, 3.1, 8.34, 8.36), e
la sua negazione è riferita solo alla seconda via. Le due vie
della ricerca menzionate nel frammento 2 indicano dun-
que le due alternative logiche del discorso vero, il discorso
che riguarda «il cuore che non trema della verità perfetta-
mente circolare»: nella ricerca della verità è a prima vista
immaginabile seguire due strade, quella dell’affermazione
dell’essere e quella della negazione dell’essere. Si è accertato
però che solo la prima è percorribile.
Le due vie che costituiscono l’alternativa del discorso
vero non devono essere confuse con i due insegnamen-
ti che la dea ha promesso di comunicare al giovane alla
fine del proemio: esse riguardano soltanto il discorso vero,
ossia il primo insegnamento. parmenide è molto attento
nell’uso dei termini e, come si vedrà, non impiega mai il
termine “via” per indicare l’insegnamento delle opinioni
dei mortali19.
Le vie della ricerca non sono intese come percorsi che
tendono progressivamente alla verità20, come sembra in-
tendere Mourelatos (1970)21:
“cammino della persuasione” e “via verace” rinforzano il
suggerimento che la via è verso la verità (p. 66).

19. Il termine “via” è stato utilizzato da diversi commentatori in


modo indiscriminato, generando notevole confusione. Cornford (1933)
ad esempio: «Il poema, allora, nell’insieme segue in successione entrambe
le vie in cui la dea promette di istruire parmenide» (p. 98). Couloubaritsis
(1987) identifica addirittura molteplici cammini: «Si è costretti a constata-
re che in parmenide esistono almeno sei o otto cammini» (p. 41).
20. Giustamente Germani (1986): «Si tratta di due tesi definitivamente
già stabilite e non proposizioni su cui va articolata una dimostrazione» (p. 12).
21. Anche recentemente, l’idea di un sentiero da percorrere è al cen-
tro dell’interpretazione di Robbiano (2006).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 151

Entrambe le vie sono caratterizzate dal punto di par-


tenza, dalla scelta operata al bivio: una parte da una ve-
rità indubitabile, l’altra da un errore logico. Il percorso
chiarirà il senso e indicherà le conseguenze, ma il conte-
nuto di verità è dichiarato all’inizio.
Alla fine del frammento si presenta per la prima volta
quel parallelismo tra conoscere (γιγνώσκω), inteso in sen-
so generale, e il dire (φράζω) che ritornerà più volte nel
poema. La conoscenza e la relativa esposizione verbale
vanno di pari passo22. Si vedrà ancora, più avanti, lo stret-
tissimo legame tra conoscenza e linguaggio.
Il frammento 2 termina a metà del verso. Credo che
la lacuna non sia estesa, perché il discorso riprende senza
un salto logico23 nel frammento 6, ma ritengo che in que-
sta lacuna s’inserisca il frammento 5:
[…] indifferente è per me,
da dove comincerò: là infatti ritornerò di nuovo.

prima d’iniziare la descrizione delle due vie introdotte


nel frammento 2, parmenide sottolinea l’irrilevanza del
punto d’inizio dell’esposizione, perché l’argomentazione
logica, si è visto, è perfettamente circolare (εὐκυκλέος).
Nell’ambito del discorso vero, è del tutto indifferente se si
comincia dall’esame della via che afferma l’essere o da quel-
la che afferma il non essere. Egli inizierà dalla via dell’essere,
per poi proseguire con quella del non essere, che si confer-
merà subito impercorribile, riaffermando così l’essere. Se
avesse cominciato con l’esposizione della seconda via, il
rifiuto di questa avrebbe portato alla prima via, che a sua
volta nega la seconda. Le due vie sono infatti logicamen-

22. Su questa questione vedi Leszl (1988) p. 288.


23. Cordero (2004): «Il testo considerato come il frammento 6 sem-
bra riprendere dalle linee finali del frammento 2» (p. 17). Vedi anche Mans-
feld (1964) p. 82 e Verdenius (1942) p. 35.
152 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

te connesse dalla reciproca esclusione. Nel frammento 6,


che a mio avviso segue immediatamente il 5, la dea sce-
glie, dunque, d’iniziare dalla via della verità:
Bisogna dire e pensare24 che l’essere è: è infatti essere,
nulla non è: questo appunto io esorto a dichiarare.
Infatti da questa prima via di ricerca 〈 †〉
ma dopo anche da quella, su cui i mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa: l’incertezza infatti guida
nei loro petti l’errante mente; ed essi sono trascinati (5)
sordi e ciechi ad un tempo, istupiditi, stirpe senza giudizio,
dai quali essere e non essere sono ritenuti lo stesso
e non lo stesso, e il loro cammino è un circolo vizioso.

Il frammento inizia con la dichiarazione che è neces-


sario ammettere l’esistenza dell’essere e l’inesistenza del
nulla: ciò che chiaramente si afferma è la prima via della
ricerca. Nel successivo verso 3, da questa prima via del-
la ricerca il giovane è invitato dalla dea a… Qui i codici
presentano una lacuna che Diels (1897), confermando
in sostanza l’integrazione dell’edizione Aldina25, ha col-
mato con εἴργω (allontano)26. Questa integrazione, che
è stata per lungo tempo pressoché universalmente accet-
tata senza discussione, è causa di innumerevoli equivoci.
Infatti i versi 3–5 si leggerebbero:
[…] è infatti essere,
il nulla non è: questo appunto io esorto a dichiarare.
Infatti da questa prima via di ricerca 〈ti tengo lontano〉,
ma dopo anche da quella su cui i mortali che nulla sanno
vanno errando.

24. Ancora una volta: dire (λέγειν) e pensare (νοεῖν) in parallelo.


25. I Commentari di Simplicio alla Fisica di Aristotele edito dalla stam-
peria di Aldo Manuzio a Venezia nel 1526.
26. L’integrazione è fondata sul parallelo con il verso 7.2, dove però
la dea invita, coerentemente, a tenersi lontano dalla via che accetta il non
essere.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 153

La dea invita dunque a tenersi lontani dalla via della ve-


rità? È assurdo, non può trattarsi di questa via; di quale
allora? La dea però invita anche a tenersi lontano da un’ul-
teriore via («ma dopo anche da quella…»). Quindi le vie
da cui bisogna tenersi lontano sarebbero due, che aggiun-
te alla via della verità farebbero tre vie. Di conseguenza le
“tre vie” — di cui due vie dell’errore — sono state accettate
per lungo tempo dalla quasi totalità dei commentatori27,
nonostante che il frammento 2 dica chiaramente che le
vie della ricerca sono solo (μοῦναι) quelle che di seguito
elenca, ossia due. La tesi, sostenuta da molti, secondo cui
una delle vie dell’errore s’identifica con il pensiero degli
eraclitei è per lo più abbandonata28. Reinhardt (1916) ha
cercato di dare un senso logico alle tre vie:

Dunque risultano in totale tre “vie della ricerca”: 1) τὸ ὂν


ἔστιν; 2) τὸ ὂν οὐκ ἔστιν; 3) τὸ ὂν καὶ ἔστιν καὶ οὐκ ἔστιν29 (p.
36).

Mi sembra però che affermare l’esistenza del non esse-


re, con o senza la contemporanea affermazione dell’esse-
re, rappresenti comunque l’errato tentativo di percorrere
la seconda impraticabile via, ed è questo che è inammis-
sibile. In effetti, più che l’astratta formulazione dei due
enunciati, importa capire quale sia l’effettivo compor-
tamento dei mortali quando commettono il fondamen-
tale errore di porre il non essere, e questo parmenide lo
mostrerà chiaramente più avanti. A mio avviso, la descri-
27. Vedi Reale (Zeller e Mondolfo,1967) p. 190.
28. Non da tutti però. Sostengono ancora la polemica anti–eraclitea,
ad esempio, Graham (2002a) e Robbiano (2006), la quale commenta: «Non
considero il numero delle vie erronee o l’esatta identità degli avversari di
parmenide cruciali per la mia interpretazione» (p. 103). Ritengo, invece, la
questione molto importante per la logica del pensiero parmenideo.
29. Le tre vie coinciderebbero così con le tre alternative del περὶ τοῦ
μὴ ὄντος di Gorgia.
154 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

zione di questo comportamento non lascerà spazio alla


definizione di due distinte vie dell’errore.
Le conseguenze dell’identificazione di tre vie sono
evidenti in Cornford (1933):
Ci sono, dunque, tre Vie in tutto. Una è la Via della Verità,
seguita, fin dove arriva, nella prima parte. La seconda, la Via
del Non–essere, non può essere seguita affatto. Quindi la Via
dell’Apparenza, lungo cui il poema continua nella seconda par-
te, può essere solo la rimanente falsa Via del Framm. 6 (p. 100).

Quella che Cornford chiama «Via dell’Apparenza» sa-


rebbe allora l’insegnamento della “opinione dei mortali”,
promesso dalla dea alla fine del proemio, che in tal modo
coinciderebbe con la via errata descritta con disprezzo
da parmenide nella seconda parte del frammento 630.
Secondo questa interpretazione, l’opinione risulterebbe
completamente svalutata, conferendo così al pensiero di
parmenide quella fama d’assurda inverosimiglianza che
gli attribuiscono molti commentatori31.
Queste interpretazioni non hanno ragion d’essere,
perché l’integrazione di Diels è da respingere per inco-
erenza interna, a meno di non attribuire l’incoerenza
allo stesso parmenide32. È forse immaginabile, come

30. Fondamentalmente della stessa opinione è Reale (Zeller e Mon-


dolfo, 1967), secondo cui le due vie dell’errore sarebbero: «a) la via del
puro non–essere, assolutamente impercorribile (primi 3 versi), b) la via
dei mortali, la via del divenire» (p. 193).
31. Ad esempio, il passo di Gomperz (1986) già citato nella Introdu-
zione. Secondo Theunissen (1992), parmenide «nega la vita in nome della
morte. […] presumibilmente, è una vita di sofferenze che indusse l’Eleate
a formulare il suo concetto di Essere» (p. 25).
32. Alcuni interpreti ritengono, in effetti, che μηδὲν δ’ οὐκ ἔστιν in-
dichi la seconda via, quella impercorribile. Altri, come Tarán (1965), pur
riconoscendovi la prima via, accettano ugualmente l’εἴργω di Diels, rite-
nendo che l’apparente incongruenza possa essere spiegata da una lacuna
molto più lunga di quella necessaria a completare il verso. Giustamente
3. Le dimostrazioni di Parmenide 155

sembra sostenere Collobert (1993)33, che parmenide


abbia fatto confusione tra le due vie, pensando al “non
è” (οὐκ ἔστιν) del verso 2 e non al “nulla” (μηδέν) che
immediatamente lo precede? Non si può ammettere
che parmenide fosse tanto sciatto: egli ha avuto si-
curamente tempo a sufficienza per meditare sul suo
scritto34.
I problemi si risolvono accettando il senso della inte-
grazione proposta da Cordero (1979) che colma la lacu-
na con “comincerai” (ἄρξει), in modo da dare al fram-
mento un significato coerente35:

Cordero (1979) critica questa soluzione per motivi metodologici: «Si tratta
di tentativi disperati e pericolosi, perché riguardo a qualsiasi passaggio che
non comprendiamo, possiamo postulare una lacuna salvatrice» (p. 9).
33. Collobert conclude la sua analisi, dichiarando: «Siamo dunque
d’accordo con la congettura di H. Diels, per cui la semplice menzione della
non–esistenza […] «ha dovuto evocare, da sola, la seconda via, sicché μηδὲν,
malgrado la sua funzione contestuale, ha potuto costituire, da solo, l’ante-
cedente del ‘primo’ dei due cammini che bisognava evitare» (p. 86).
34. Concordo con Bowra (1937): «parmenide era uno scrittore accu-
rato e singolarmente esatto» (p. 97).
35. Cordero (1984) ha discusso esaurientemente l’argomento. In-
dipendentemente, Nehamas (1981) ha proposto: «πρώτης γὰρ σ(οι) ἀφ’
ὁδοῦ ταύτης διζήσιος ἄρξω [comincerò]» (p. 131). Contro entrambe le
interpretazioni si pronuncia, sia pure in forma dubitativa, O’Brien (1987,
p. 225 n. 12). L’integrazione di Diels continua ad essere considerata am-
missibile anche da Conche (1996) «come da […] la quasi–unanimità degli
interpreti» (p. 103), e da Furley (1973), mentre Mourelatos (1999) propo-
ne εἶργον; ma tutti e tre cercano di salvare il senso della frase riferendo
ταύτης alla seconda via nel frammento 2, a dispetto della sintassi. Anche
Meijer (1997) argomenta a favore di Diels per questioni interpretative,
e così, in ultima analisi, Couloubaritsis (1987) e (1986) e Bollack (2006).
Mantengono senza commenti l’integrazione di Diels Gallop (1984), Rea-
le e Ruggiu (1991), Cassin (1998), Cerri (1999), Robbiano (2006) e, senza
citare l’alternativa, Lami (1991) e Scuto (2005). Accettano invece il sen-
so delle integrazioni di Cordero e Nehamas, Germani (1986) e (1988),
Giannantoni (1988), Fronterotta (1994), Berti (1996), Curd (1998), Her-
mann (2004), palmer (2009). Thanassas (2007) pur accettandone il senso
non è soddisfatto dall’uso del verbo ἄρχω, per cui rinuncia ad integrare
il greco, ma traduce con «io condurrò»; ritiene, comunque, al seguito
156 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Infatti da questa prima via di ricerca 〈comincerai〉,


ma dopo anche da quella, che i mortali che nulla sanno
s’inventano.

La dea, che nel frammento 2 ha sostenuto l’irrilevanza


del punto d’inizio dell’esposizione, invita il giovane ad ini-
ziare dalla prima via, per poi passare ad un’altra via. Quale
è quest’ulteriore via, che parmenide descrive con toni di
vivace deprecazione? Essa è chiaramente la seconda via,
quella che afferma il non essere. Infatti, se è evidente che i
mortali pensano l’essere differente dal non essere, essi però
pongono inconsapevolmente anche l’esistenza del non es-
sere — perché nulla sanno, perché guidati da una mente
errante, sordi, ciechi, attoniti, privi di giudizio — imboc-
cando con ciò la seconda via. A causa di questa contrad-
dizione iniziale, rimangono irrimediabilmente nell’errore.
Si vedrà più avanti il motivo per cui parmenide sostiene
che questo sia l’usuale modo di porsi dei mortali36.
In conclusione, nel frammento 6 parmenide non an-
nuncia l’introduzione di alcuna terza via. Egli si riferisce
soltanto alle due vie introdotte nel frammento 2: quella
che afferma l’essere e quella che afferma il non essere. Lo-
gicamente non possono esservi altre vie nella ricerca che
riguarda la conoscenza certa.
Se la mia ipotesi sull’organizzazione del poema è cor-
retta, parmenide dopo il frammento 6 dovrebbe carat-
terizzare innanzitutto la prima via; ma di questa non vi
è traccia nel frammento 7, che parla solo della seconda
via37. Ritengo perciò che il frammento 7 non segua diret-

di Reinhardt, che nel fr. 6 sia introdotta una terza via, che però «non è
affatto una via genuina, ma piuttosto la presentazione di cosa significa
ignorare le “sole” vie del pensiero» (p. 78).
36. Nel frammento 7 e poi nei versi 36–41 del frammento 8.
37. Il frammento 8, a sua volta, è certamente la prosecuzione imme-
diata del 7.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 157

tamente il 6. D’altra parte, si pone il problema di colloca-


re i frammenti 3 e 4. per ragioni che esporrò più avanti,
penso che venga prima il frammento 4:
Le cose, sebbene38 distanti, ti siano chiare39 nel pensiero
saldamente presenti:
infatti non separerai l’essere dal tenersi stretto all’essere
né disperso ovunque completamente nel cosmo
né raggruppato.

Questo frammento si riferisce all’essere e ne esprime la


compattezza. Riguarda quindi la prima parte del poema,
quella del discorso vero, che parla dell’essere. I tentativi di
attribuirlo alla parte relativa all’opinione umana — alla
δόξα40 — devono essere respinti, come ha messo bene in
evidenza Meijer (1997). Questi ritiene però che il fram-
mento 4, a causa del suo argomento, possa trovar spazio
soltanto nell’ambito del frammento 8, e lo colloca dopo
8.49, facendolo seguire da 8.34. Questa ipotesi è condivi-
sa da diversi studiosi41.

38. ὅμως (sebbene). per Bollack (1957) e Untersteiner (1958) ὁμῶς


(egualmente).
39. “ti siano chiare” (λεῦσσε): sul rapporto tra λεύσσω e la luminosità,
la trasparenza, espressa dall’aggettivo λευκός, vedi Viola (1987): «Il verbo
λεύσσειν deve dunque includere nella sua etimologia l’idea di chiarezza, di
luminosità, di trasparenza espressa dall’aggettivo λευκός» (p. 80). per Snell
(1948): «Questa parola [λεύσσειν] riceve dunque il suo senso specifico dal
modo di vedere, da qualcosa che è di là dalla funzione del vedere e che
dà piuttosto valore all’oggetto veduto e ai sentimenti che accompagnano
il vedere» (p. 22; trad. di V. degli Alberti e A. Solmi Marietti). Untersteiner
(1958) commenta: «Si deve, pertanto, pensare a un vedere razionale, come
si deduce dal tono di tutto il frammento e dall’unione con νόωι» (p. XCII).
40. Tra i sostenitori di questa collocazione Bicknell (1979), Bollack
(1957), Couloubaritsis (1986), Kirk e al. (1983), Mansfeld (1964).
41. Zeller (1892) segnala come il frammento 4 concordi con 8.22–25.
Collobert (1993) lo colloca esplicitamente subito dopo 8.41, ma le sue
giustificazioni sono poco convincenti. Diès (1923) opera lo spostamento
senza commenti. per West (1971) «il 4 logicamente deve venire dopo 8.25»
(p. 290 n.61).
158 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

per spostare il frammento 4 nell’ambito del fram-


mento 8 è necessario spezzare un testo trasmesso unito
da Simplicio42. Mi sembra che solo un motivo estrema-
mente cogente possa autorizzare uno smembramento43
di questo genere; ma tale motivo a mio avviso non sussi-
ste, perché la struttura del poema può essere ricostruita
logicamente senza simili violenze. Ritengo dunque che
il frammento 4 faccia parte di quella illustrazione della
prima via che, secondo il frammento 6, doveva seguire
la dichiarazione dell’ordine con cui le vie della ricerca
sarebbero state esaminate.
Il frammento 6 ha già annunciato il punto di partenza
dell’indagine sulla prima via: l’essere è, esiste. Questo fatto
è certamente vero in quanto tautologico; ma cosa com-
porta? Riguardo alla verità, l’alternativa posta da parmeni-
de è drastica: è o non è, senza alcuna possibilità intermedia,
perché essere non ha gradazioni. Vale, in questo caso, il
principio del terzo escluso; ma è esclusa anche l’esisten-
za del non essere, in quanto contraddittoria. Quindi, l’essere
esiste, ed esiste in un solo modo: non sussistono diversi gradi
o modalità d’esistenza. Il frammento 4 esprime quella che, a
mio avviso, è la prima logica deduzione tratta dall’esisten-
za: se l’unica alternativa all’essere è il non essere, che non
esiste, l’essere è compatto e non ammette distinzioni; non esi-
ste nulla che possa produrvi delle disomogeneità o delle
cesure. Con l’imperativo “ti siano chiare” la dea ordina al
giovane di prendere atto di questo aspetto fondamentale

42. Meijer giustifica l’operazione con l’ipotesi che la «fonte di Sim-


plicio deve aver già avuto l’ordine scorretto e la mancanza del fr. 4 che
noi abbiamo ora in Simplicio» (p. 82). Lo stesso sembra essere il parere di
Cornford (1930): «presumibilmente il frammento è caduto via da dopo
8.25» (p. 41, n. 1).
43. Cassin (1980) sottolinea l’importanza di «questo principio della
filologia elementare: meno spesa per più significato» (p. 27).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 159

dell’essere: per la mente che ragiona rigorosamente (νόωι)44


anche le cose lontane (ἀπεόντα) sono saldamente vicine
(παρεόντα): non si può sezionare (ἀποτμήγω) l’essere, im-
pedendogli di aderire all’essere, e ciò riguarda non soltanto
ciò che ci appare raggruppato, vicino, ma anche ciò che
sembra completamente disperso in tutto il cosmo45; anche
oggetti che noi consideriamo distantissimi fanno sempre
parte di uno stesso inarticolato continuum.
È stato proprio il riferimento ad una pluralità di enti
nel cosmo ad indurre alcuni a pensare che questo fram-
mento debba essere incluso nella seconda parte del po-
ema46, quella che tratta delle opinioni dei mortali. Nel
frammento 4 però la distinzione delle “cose distanti” è
richiamato solo per essere respinta e per confermare con
ciò l’intima connessione dell’essere.
parmenide introduce così una fondamentale proprie-
tà dell’essere: l’uniforme compattezza che nega alla co-
noscenza la possibilità di riconoscervi divisioni tracciate
in base a criteri necessari, in quanto logicamente dedotti
dall’aver posto l’essere. Questa conclusione, che sarà ri-
badita in 8.22–25, è fondamentale per spiegare non solo
l’epistemologia parmenidea, ma anche il senso dei cosid-
detti paradossi di Zenone.
Sulla via della verità, una fondamentale deduzione è
tratta nel frammento 3, considerato uno dei più criptici47:
infatti lo stesso è conoscere ed essere.

44. Si osservi che νόος indica qui la vera conoscenza, come νοέω in-
dica il vero conoscere. A differenza di νοέω, però, il termine non è sempre
usato in questo senso nel poema: il νόος può indicare anche la mente che
erra, il πλανκτὸν νοόν in 6.6, o la mente in senso fisico in 16.2. Vedi anche
von Fritz (1945) p. 45.
45. per “cosmo” vedi nota 29 del cap. 2.
46. Vedi Bollack (1957) p. 57 e Mansfeld (1964) p. 208.
47. Vedi anche Woodbury (1968) p. 156. Untersteiner (1958) «è forse
il più discusso tra quelli di parmenide» (p. 130).
160 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Conoscere è ancora indicato con νοεῖν, e si è visto


che in 2.2 e in 6.1 νοέω indica la conoscenza certa e
garantita. Conoscere, nel senso di νοεῖν, è il posses-
so della verità e solo di questa; non indica un’attività
della mente umana ma la conoscenza vera48. A causa
della sua compattezza, espressa dal frammento 4, l’es-
sere non è suddiviso in esseri; quindi la conoscenza vera
è la conoscenza dell’essere nella sua totalità. Se la cono-
scenza vera esiste, essa è essere; ma se l’essere è tutto,
esso è unico; di conseguenza la conoscenza vera non
può che identificarsi con l’essere stesso, ossia con tut-
to l’esistente. Il fatto che il passaggio da “conoscenza
certa” a “conoscenza certa di tutto” presupponga il
frammento 4 è proprio ciò che mi induce a collocare
questo frammento prima del 3.
Si noti, innanzitutto, che l’identificazione della co-
noscenza perfetta con la totalità dell’essere ha un senso
anche per noi, dopo due millenni e mezzo. Chiunque
utilizzi con un minimo di consapevolezza un qualsiasi
modello conoscitivo dà per scontato che il modello non
riproduca la realtà: infatti, per rappresentare qualcosa
perfettamente, in tutti i più minuti dettagli, in ogni più
insignificante aspetto, il modello dovrebbe essere un du-
plicato del prototipo; ma un modello di tutta la realtà,
dovendo riprodurre anche se stesso, in quanto parte della
realtà, non potrebbe che coincidere con la realtà stessa,
proprio come la mappa smisurata dei cartografi di Bor-
ges. La conoscenza completa dunque è proprio l’essere. Al-
lora la parola “conoscenza”, intesa in questo senso to-
talizzante, degenera fondendosi con l’essere, e il termine
diventa superfluo. La conoscenza umana è, invece, neces-
sariamente limitata, parziale, mirata, finalizzata agli inte-

48. Vedi anche Leszl (1988) p. 297.


3. Le dimostrazioni di Parmenide 161

ressi umani49. parmenide non aveva forse una concezione


così “strutturale” della conoscenza — benché qualcosa di
simile sia suggerito dal frammento 16, che parla della na-
tura del pensiero umano50 — ma la logica della situazio-
ne deve averlo ugualmente condotto verso la concezione
di cui ci è rimasta solo questa sintetica formulazione, che
sarà ribadita nei versi 32–36 del frammento 8.
Senofane aveva posto un dio unico, dotato di una
conoscenza perfetta, mentre all’uomo non resta che
l’opinare; anche il dio di Eraclito personificava la cono-
scenza vera, a cui l’uomo non poteva neanche immagi-
nare di accostarsi. parmenide ha compiuto un ulteriore
passo avanti: sulla base di deduzioni rigorosamente lo-
giche ha identificato la conoscenza perfetta con tutto il
conoscibile. Non è pensabile che parmenide conside-
rasse accessibile all’uomo la vera conoscenza dell’essere:
la conoscenza umana — il messaggio stesso della dea
— deve articolarsi in parole, e non esistono parole ade-
guate ad esprimere compiutamente un essere che non
è in sé articolato. L’insegnamento della dea riguarda la
verità, ma non può descriverla in modo esaustivo: pen-
so che questo sia ciò che intendeva parmenide quan-
do in 1.29 parla del «cuore che non trema della verità
perfettamente circolare». Ricordando la traduzione di
Mourelatos (ἦτoρ = temper), è forse proprio il carattere
generale della verità che viene illustrato al discepolo51,
non la verità stessa. Alla fine della prima parte del po-
ema questa assoluta ineffabilità dell’essere risulterà evi-

49. Intendo “interessi” nel senso più ampio, come tutto ciò che l’uo-
mo pensa lo riguardi, sotto ogni aspetto.
50. Hussey (2006) interpreta il frammento 16 attribuendo a parmeni-
de (e ad Empedocle) una concezione del pensiero che chiama “teoria del
modello interiore”.
51. Casertano (1978) traduce con «fondo immutabile della verità»
(p. 15).
162 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

dente. Infatti, le caratterizzazioni dell’essere esposte nel


frammento 8, sono prevalentemente negative e mirano
soprattutto ad indicare quello che non deve essere con-
fuso con la vera conoscenza.
Il frammento 3 potrebbe costituire proprio la propo-
sizione conclusiva della enunciazione della prima via. Se-
condo l’ordine dell’esposizione indicato nel frammento
6, l’esame della seconda via deve venire subito dopo quel-
lo della prima. Essendo questa via impercorribile, riten-
go che l’argomento non dovesse essere molto più svilup-
pato di quanto esposto nel frammento 7. Dato però che
questo inizia con “infatti” (γάρ), tra il frammento 3 e il 7
manca qualcosa, di cui una parte almeno doveva essere
dedicata al discorso sulla seconda via. Quello che rimane
è di estremo interesse, perché ci dà ulteriori indicazioni
sulle cause dell’errore dei mortali (fr. 7):
Infatti mai questo prevalga, che sia ciò che non è:
ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né la consuetudine52 molto sperimentata ti costringa
su questa via,
usando l’occhio che non vede, l’udito rintronante
e la lingua, ma giudica con la mente l’argomento
sovvertitore (5)
da me enunciato.

Il brano mostra chiaramente cosa spinge gli uomini


ad ingannarsi e a imboccare la seconda impercorribi-
le via: è la consuetudine (ἔθος) dovuta alle innumere-
voli esperienze (πολύπειρον), all’abitudine prolungata,
all’universale accordo, alla forza delle convenzioni, alla
pressione sociale, a tutto ciò insomma che induce gli uo-
mini a considerare esistenza reale gli oggetti della loro

52. La parola chiave mi sembra qui ἔθος: ἔθος πολύπειρον, l’invete-


rata abitudine (Tarán, 1965: «inured habit») alle molteplici esperienze.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 163

esperienza, senza riflettere seriamente. Insieme a queste


cause, anche un uso superficiale della vista che non vede
la compatta realtà ma distingue oggetti, e dell’udito che
si riempie dei suoni pronunciati dalla lingua53, suoni che
formano parole e esprimono concetti, adottati come fos-
sero realtà, senza comprenderne la vera natura.
Vi è in questo frammento un esplicito riferimento alla
seconda via, ed i caratteri sono i medesimi che troviamo
nella seconda parte del frammento 6. Appare chiaro quin-
di che la seconda via non è soltanto un’astratta polarità
della prima, ma indica proprio il modo di giudicare degli
uomini che non sanno riflettere. L’errore è causato da un
uso distorto dei sensi, dell’esperienza e dei concetti. Ma in
cosa consiste questo uso distorto? Quali sono le manifesta-
zioni concrete, la disposizione mentale con cui gli uomini
pongono l’esistenza del non essere? Questo non è ancora
definitivamente chiarito: bisognerà attendere i versi 8.38–
41 per arrivare ad un’esauriente formulazione. Intanto il
giovane è messo sull’avviso: se vuole evitare l’errore, deve
giudicare con il ragionamento54 la prova enunciata dalla
dea. Deve però fare attenzione: l’argomento è sovvertitore
(πολύδερις), è fonte di grave disaccordo, perché conducen-
do fuori dalle vie battute dagli uomini (verso 1.27) sovver-
te idee preconcette55 e può provocare indignate reazioni.
53. La lingua non indica qui il senso del gusto, come ipotizzato da
Mourelatos (1970, p. 77, n. 6), ma proprio il parlare. Untersteiner (1958):
«L’espressione νωμᾶν γλῶσσαν significa lo stesso che ὀνομάζειν» (p. 143).
Così anche Mansfeld (1964) p. 43. per Mansfeld (1999) occhio, udito, lin-
gua non indicano qui i sensi, contrapposti alla ragione, come sostenuto da
molti ancora oggi, bensì «il comportamento cognitivo, e l’esperienza degli
uomini in generale» (p. 331).
54. Cordero (1990): «parmenide proclama, per la prima volta, il diritto
del logos a divenire l’organo o la facoltà che riflette sulla realtà» (p. 210).
55. Untersteiner (1958): «richiese molte discussioni contro i sosteni-
tori della seconda e terza “via”» (p. CXXXII). Calogero (1932): «Esso sarà
πολύδηρις per le vive opposizioni che solleverà la sua tesi paradossale
dell’esclusione assoluta del non essere» (p. 38, n. 35).
164 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

3.2.3. Segni sulla via dell’essere

A questo punto del poema sono state definite le due


vie ed è stata esclusa la possibilità di percorrere la secon-
da via, quella dell’errore. Non rimane quindi che la pri-
ma via, quella che predica l’esistenza dell’essere, su cui
parmenide ritorna nel frammento 8:
[…] rimane solo il discorso
della via che dice che è: su questa vi sono segni
numerosi, che l’essere è ingenerato e immortale,
intero56 e unico e immobile e completo57
né mai era né sarà, perché è ora tutto insieme, (5)
uno, continuo.

Dopo aver eliminato la seconda via e mostrato cosa


svii gli uomini su di essa, nel frammento 8 la dea si accin-
ge a portare a termine la prima promessa fatta al giovane
al termine del proemio: fare in modo che indaghi «il cuo-
re che non trema della verità perfettamente circolare». È
necessario a questo scopo che ella gli faccia intendere il
“senso generale” dell’essere. Già nel frammento 4 è stato
decisamente negato che l’esistente sia composto da una
pluralità di esseri, come invece farebbero superficialmen-
te pensare le rappresentazioni umane: l’essere è privo di
articolazioni, è compatto. In che modo se ne potrà par-
lare allora? All’inizio di questo frammento parmenide ri-
conosce implicitamente questa difficoltà: lungo la prima
56. D.–K.: ἐστι γὰρ οὐλομελές (è infatti intero).
57. ἠδ’ ἀτέλεστον in Simplicio nella citazione più lunga, che alcuni
interpretano nel senso di “senza fine” (es. Untersteiner, 1958: «privo di fine
temporale»). L’uso omerico di questo termine nel senso di “senza effetto”
(IV 26) ha portato a emendamenti con l’intento di indicare un senso di
“completezza”. Ad esempio, Owen (1960) propone ἠδὲ τέλειον, accetta-
to da Mourelatos (1970); Covotti (I Presocratici, Napoli, 1934), seguito da
Cordero (2004), ἠδὲ τελεστόν, che Owen ritiene «paleograficamente più
semplice ma non attestato con sicurezza in Greco» (p. 77).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 165

via, egli dice, si trovano molte indicazioni, ma si tratta


di segni (σήματα), non di descrizioni della vera compo-
sizione dell’essere58. L’essere non viene descritto — non è,
infatti, descrivibile — ma è possibile farsene un’idea, so-
prattutto deducendo ciò che esso certamente non può
essere.
Incontriamo qui il paradosso in cui si imbatte par-
menide: dover parlare di ciò che a rigore è ineffabile.
Egli deve usare parole che non possono esprimere con
proprietà quello di cui parla. Come il Wittgenstein del
Tractatus, parmenide al termine del suo discorso avrebbe
potuto dire:
[l]e mie proposizioni illustrano così: colui che mi compren-
de, infine le riconosce insensate, se è salito per esse — su esse
— oltre esse (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo
che v’è salito)59 (p. 82; trad. di A.G. Conte).

Nel frammento 8 parmenide non descrive l’essere, ma


mostra soltanto che esso non è dotato delle proprietà
che l’uomo è abituato a riconoscere nel mondo della sua
esperienza. Se l’essere è l’unica descrizione di se stesso, i
segni che troviamo lungo la prima via mostrano essen-
zialmente come i concetti che ci sono usuali non si appli-
cano ad esso.
Va notata innanzitutto la cautela, la titubanza quasi,
con cui parmenide si risolve a dare all’essere qualifiche
positive — tutto insieme, uno, continuo (ὁμοῦ πᾶν, ἕν,

58. Vedi Owen (1966) p. 276.


59. La metafora della scala, citata da Owen (1960, p.67), risale a Sesto
Empirico: «E ancora, come non è impossibile per colui che montato su un
luogo alto per mezzo di una scala, dopo essere salito rovesciare la scala col
piede, così non è strano per uno scettico, arrivato, come per mezzo di una
scala portatile, all’argomento che dimostra l’inesistenza della dimostra-
zione della prova del precedente, far sparire allora anche quell’argomento
stesso» (adv. math VIII 480).
166 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

συνεχές) — pronunciate di sfuggita. Questa cautela è


giustificata: le parole e i concetti umani sono distinzioni
che l’essere non tollera; possono essere usate al più come
segni, indicazioni, per comunicare l’essenziale di ciò che
è propriamente inesprimibile. Quanto alle demarcazioni
in negativo, queste si prestano meno ad equivoci: servo-
no solo a mettere in luce come le proprietà che caratte-
rizzano la visione umana del mondo non possono costi-
tuire “predicati” dell’essere.
parmenide pone l’essere, ma non pone né il tempo né
lo spazio: non li pone né come qualcosa in cui l’essere è
situato, né come elementi dell’essere. Infatti, non sono
pensabili in termini rigorosi delle distinzioni (cesure)
tra ciò che era prima, ciò che è ora e ciò che sarà in fu-
turo, come non sono pensabili tra ciò che è qui e ciò che
è lì. L’essere allora non ha una genesi, perché non esiste
un “prima dell’essere”, né una fine, perché non esiste un
“dopo l’essere”; né è soggetto a mutamento, perché non
esistono “enti” che possano mutare; ma l’essere è tutto
insieme ad un tempo, in un’ora atemporale, come è co-
stretto ad esprimersi parmenide facendo violenza alla
lingua.
per illustrare questo concetto, si immagini una men-
te suprema, un dio onnipotente che sia in grado di ap-
prendere tutta la realtà in tutti i tempi con un unico
atto: l’essere da lui appreso sarebbe immodificabile perché
visto nella sua totalità spazio–temporale60.
Non si tratta, però, di un essere immobile “nel tempo”,
né dell’impossibilità d’identificare il fluire del tempo a
causa della immutabilità dell’essere, come invece ritiene
Owen (1966):
60. L’analogia con l’universo quadridimensionale di Einstein sem-
brerebbe dunque anche più calzante di quanto notato da popper (1952, p.
80), ma l’essere parmenideo è in effetti privo di coordinate, essendo carat-
terizzato ovunque dal solo fatto di esistere.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 167

se X deve avere un passato distinto dal presente, qualcosa


deve essere vero del passato che non è vero del presente, e
similmente per il futuro (p. 273).

Né si tratta dell’atemporalità attribuita agli enti astrat-


ti61, come i numeri, o le forme di platone, il quale, a detta
di Owen, si sarebbe ispirato proprio all’essere di parmeni-
de. L’essere non ha confini spaziali né temporali, perché
ingloba tutto — il prima e il poi — non lasciando fuori
nulla. Ovviamente, tempo e spazio, per quanto essen-
ziali ai fini della nostra interpretazione del mondo, non
sono deducibili dall’esistenza dell’essere, ma sono soltan-
to aspetti dell’esperienza umana. Altrettanto indeducibili
sarebbero l’eternità e l’infinità dell’essere, che parmenide
non afferma mai: aver introdotto questi attributi costitu-
irà una delle gravi incoerenze di Melisso.
Non c’è modo di definire un’origine dell’essere (fr.
8.6–9):
[…] infatti quale origine gli cercherai?
Come e da dove sviluppato? Dal non essere non ti concedo
di dirlo né pensarlo: infatti non è dicibile né pensabile
che non sia.

parmenide nega che l’essere possa nascere, non perché


nulla può nascere dal non essere, ma perché l’essere è tutto e
non vi è quindi un “prima”. Non fa ricorso dunque al prin-
cipio, ormai ben consolidato nel pensiero scientifico greco,
che dice ex nihilo nihil62, come invece sostiene Cerri (1999):
61. È la tesi di Casertano (1988): «parmenide vuole distinguere me-
todologicamente il mondo astratto della matematica e della logica […] da
quello concreto della fisica e del sensibile» (p. 67). Analogamente Germani
(1986): «L’ἔθος πολύπειρον cioè la via dei mortali che, privi della rivelazio-
ne della dea, seguono l’abitudine dei sensi e non possono immaginarsi che
accanto ai fenomeni esistano degli enti logici» (p. 24).
62. principio che sembra presupposto dall’indagine dei Milesi, alme-
no secondo le notizie che ne abbiamo.
168 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

si muove nel solco del principio nihil ex nihilo, nihil in nihi-


lum, già fissato dalla precedente scienza ionica (p. 224).

Si noti che questo principio, secondo cui ciò che na-


sce è soltanto una trasformazione di ciò che esiste già
sotto altra forma, è di natura empirica, come sembra
osservare lo stesso Cerri che lo definisce «un postulato
scientifico di evidenza immediata» (p. 37). Tale principio,
infatti, non sarebbe stato formulato se l’apparizione o la
scomparsa totale di oggetti fosse un fenomeno constata-
bile, come certamente molti greci ancora pensavano63.
Non è questa la posizione di parmenide, che si muove su
un piano di estremo rigore logico, in cui le constatazioni
empiriche non hanno alcun peso. Origine e fine sono ne-
gate in quanto riferite all’essere nella sua totalità: se fuori
dell’essere non esiste nulla, come può l’essere avere limiti?
La mancanza di limiti temporali — di origine e fine — è
quindi deducibile logicamente dall’essere, a differenza del
principio empirico ex nihilo nihil64.
Nei versi successivi è proposto un ulteriore argomen-
to contro la nascita dell’essere. Questo argomento sem-
bra presupporre il tempo (fr. 8.9–11):
[…] E quale necessità lo avrebbe spinto
dopo o prima, derivando dal nulla, a nascere? 10
Così è necessario che esista assolutamente o per nulla.

63. Infatti, come si vedrà nel capitolo 5, questo principio è rifiutato


dallo pseudo–aristotelico de Melisso, Xenophane et Gorgia.
64. Tarán (1965) è decisamente contrario all’atemporalità dell’es-
sere parmenideo, perché ritiene che il νῦν (ora) del verso 8.5, indicando
il presente, non è atemporale. Egli sostiene inoltre che manchi «una di-
chiarazione inequivocabile mostrante che parmenide era conscio della
connessione logica tra tempo e processo che ci permetterebbe di asserire
che eliminando il processo egli stava eliminando anche il tempo» (p. 180).
La linea di pensiero di parmenide è però diversa da quella ipotizzata da
Tarán: non invoca alcun nesso logico tra assenza di processo e atempora-
lità. Il tempo, si è visto, non può essere dedotto dall’esistenza dell’essere.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 169

È un argomento che parmenide aggiunge, ad abunda-


tiam, a quello formulato in precedenza, che è già di per
sé valido. L’argomento ha un valore concessivo: anche
ammessa l’esistenza del tempo (ὔστερον ἢ πρόσθεν: dopo
o prima), cosa avrebbe potuto spingere l’essere a nascere
in un momento piuttosto che in un altro, provenendo dal
nulla, quindi senza antecedenti che potrebbero causarne
la nascita? Il tentativo di negare la nascita anche ammet-
tendo il tempo, in base a un principio di ragion sufficiente65,
non toglie però che essa sia negata ben più rigorosamen-
te in base al fatto che l’essere è già di per sé tutto. Questa
impossibilità è ribadita con forza, ma senza aggiungere
sostanzialmente nulla di nuovo, nei versi successivi (fr.
8.12–21):
Né la forza della certezza lascerà che dall’essere
nasca qualcosa presso di sé: perché né di nascere
né di perire gli concesse Giustizia, sciogliendolo dai suoi vincoli,
ma lo tiene stretto. La scelta riguardo a ciò è in questo: 15
è o non è. Si è stabilito dunque, secondo necessità,
che una resti impensabile e inesprimibile (non è infatti la via
della verità), e che l’altra esista e sia vera.
E come potrebbe venire dopo l’essere? e come sarebbe nato?
Infatti se fosse nato, non sarebbe, e neanche se dovesse
essere in futuro. 20
Così la nascita è estinta e la morte inaudita.

La Giustizia (Δίκη) che si rifiuta di sciogliere i vincoli


rappresenta la necessità logica. Il verso 20 costituisce un
ragionamento per assurdo: dato che non può nascere, se

65. Ruggiu (Reale e Ruggiu, 1991): «Né può sussistere alcuna ragio-
ne sufficiente affinché una cosa nasca in alcun tempo, prima o dopo, dal
momento che il suo inizio è dal nulla» (p. 291). Il “principio di ragione suf-
ficiente” è anch’esso di natura empirica, come ha ben mostrato Hume; de
Finetti (2006) parla del «fantasma dell’apriorismo che tenterà qui ancora
una volta di adescarci offrendoci l’orpello di qualche magico dono, come
il principio di “ragion sufficiente”» (p. 128).
170 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

avesse dovuto nascere non sarebbe esistito, e ugualmen-


te se dovesse nascere in futuro.
I versi successivi ribadiscono la prescrizione, introdot-
ta nel frammento 4, che «non separerai l’essere dal tener-
si stretto all’essere» (fr. 8.22–25):
Né è divisibile, perché è tutto quanto uniforme:
né lì qualcosa in più, che gli impedisca d’essere unito,
né qualcosa in meno, ma tutto è pieno di essere.
È perciò tutto connesso: infatti l’essere è aderente all’essere. 25

L’essere è ovunque lo stesso perché l’esistenza non ha


gradazioni («tutto è pieno di essere»). Si conferma dun-
que che l’essere non è composto da “esistenti” distinti,
perché in base all’esistenza nessuna distinzione è possi-
bile. Così l’ontologia si vanifica nel momento stesso in
cui si pone, riducendosi ad un unico essere inarticolato
e indiviso. Immobilità e completezza dell’essere sono ri-
badite nei versi successivi (fr. 8.26–33):
Così, immobile nei limiti di forti vincoli
sta senza principio né fine, poiché nascita e morte
furono respinte molto lontano, le allontanò una vera certezza.
Ed esso in se stesso rimanendo, su se stesso giace
e così quivi immoto permane: infatti la tenace Necessità 30
lo tiene nei vincoli del limite, che intorno lo serra,
perché è legge che l’essere non sia incompiuto.
Non è infatti incompleto: essendolo mancherebbe del tutto.

Anche in questi versi è importante la terminologia:


i limiti (πεῖρας) imposti da grandi vincoli (δεσμός) ob-
bligano l’essere all’immobilità, perché la vera certezza
(πίστις ἀληθής) allontanò principio e fine, nascita e mor-
te. Non si tratta dunque di confini spaziali: i “limiti”
sono quelli imposti dalla verità assoluta della logica,
chiamata prima Giustizia (Δίκη), qui tenace Necessità
(κρατερὴ Ἀνάγκη) che «lo imprigiona nei vincoli del li-
3. Le dimostrazioni di Parmenide 171

mite» costringendolo ad essere intero, e più avanti Fato


(Μοῖρα). Il verso 33 rappresenta un altro ragionamento
per assurdo, come il 20: essendo intero e indivisibile, se
dovesse mancare di qualcosa, mancherebbe tutto.
Seguono i versi che elaborano il concetto espresso dal
frammento 3 (fr. 8.34–38):
La stessa cosa è conoscere e ciò per cui è conoscenza.
Infatti senza l’essere, nel66 quale è espressa, 35
non troverai la conoscenza: null’altro infatti è o sarà
ad eccezione dell’essere, perché la Moira lo incatenò
ad essere intero e immobile.

La conoscenza vera e completa, espressa da νοεῖν,


si identifica con ciò di cui è conoscenza. L’essere nel-
la sua totalità è infatti l’oggetto della vera conoscen-
za; ma se l’essere non fosse, la conoscenza vera, che è
anch’essa essere, non potrebbe sussistere; ed essendoci
solo l’essere e null’altro — dato che l’essere è vincolato
ad essere uno e immutabile — la conoscenza dell’esse-
re è l’essere stesso. parmenide esprime qui le conside-
razioni in margine al frammento 3 cui si è fatto cenno
precedentemente.
Nel verso 35, per indicare che la conoscenza è enun-
ciata dall’essere, parmenide usa il participio perfetto
πεφατισμένον, che fa espresso riferimento al parlare. Si
è già in precedenza osservato (28 B 2.6,7 e 28 B 6.1) il
parallelismo tra dire (φράζω, λέγω e qui φατίζω) e cono-
scere (γιγνόσκω, νοέω). Al passaggio dal VI a V secolo,
in una Grecia ancora largamente illetterata, o comun-
que fortemente influenzata dalla tradizione orale, l’in-
telligenza continua a manifestarsi nella sua espressio-

66. Diels ἐν da Simplicio; Cordero (2004) ἐφ’ da proclo (p. 84). prefe-
risco ἐν per ovvi motivi di interpretazione.
172 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ne verbale, nel discorso: il concetto è enunciazione67.


parmenide però non vuole effettivamente indicare l’at-
to umano di articolare un argomento: l’enunciazione
espressa qui dal verbo φατίζω è per lui la conoscenza
che coincide con l’essere. parmenide era costretto a
usare le parole di cui disponeva per esprimere concet-
ti completamente inediti: per la conoscenza dell’essere,
che logicamente s’identifica con il suo oggetto, non po-
teva esistere un vocabolo specifico in grado di fornire
una compiuta espressione.
Se l’essere è compatto e indiviso, cosa sono gli enti
identificati dai mortali? La risposta viene nei versi succes-
sivi (fr. 8. 38–41):
[…] così tutte saranno nome68,
le cose che i mortali posero, convinti che siano vere:
nascere e perire, essere e no, 40
e cambiare luogo e mutare nel brillante colore.

Questo è un punto fondamentale del pensiero di par-


menide, l’ultima conseguenza del suo ragionamento. Se
l’unico pensiero vero è quello dell’essere, che coincide
coll’essere stesso, allora i concetti umani sono solo nomi
che gli uomini hanno posto (κατέθεντo)69. L’errore degli

67. per Havelock (1966): «La dea […] parla con le formule tradiziona-
li dell’indirizzo orale omerico […] I verbi non tracciano alcuna distinzione
netta tra l’indagine verbale e l’indagine mentale, tra la dichiarazione ver-
bale e la cognizione mentale» (p. 248). Leszl (1988): «Il discorso è conside-
rato come un’immagine del pensiero perché questo stesso è stato consi-
derato alla stregua del discorso, cioè del linguaggio nella sua dimensione
semantica, e non come attività dotata di proprie caratteristiche» (p. 292).
68. τῶι πάντ’ ὄνομ(α) ἔσται secondo Diels e Kranz. per altri
ὀνόμασται o ὠνόμασται (vedi Meijer, 1997, p. 245 e Casertano, 1978, p.
177). Woodbury (1968, p. 147) opta per ὀνόμασται per motivi prevalente-
mente interpretativi.
69. palmer (2009) enfatizza l’importanza dell’espressione οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι in 28 B 2.3 e di quella corrispondente χρεών ἐστι μὴ εἶναι in 28 B 2.5,
3. Le dimostrazioni di Parmenide 173

uomini è credere che gli oggetti che essi nominano siano veri,
che i concetti umani costituiscano la reale articolazione
del mondo. Ciò li porta sulla via impercorribile, perché
essi pretendono che l’essere sia articolato in una plurali-
tà di “esseri”, esistenti “in sé”, senza rendersi conto che
questa articolazione è soltanto una posizione umana,
che perciò può cambiare da uomo a uomo.
Si è visto che a partire dal verso 4 del frammento 6
parmenide ha stigmatizzato i mortali dalla doppia testa e
dalla mente errante, sordi, ciechi, istupiditi, privi di giu-
dizio che si perdono nel circolo vizioso della via imper-
corribile. Successivamente, nei versi 3–5 del frammento
7 ha spiegato che la causa di questo smarrimento è l’abi-
tudine irriflessiva, l’uso distratto dei sensi.
Ora parmenide mostra sinteticamente che cosa sono
i giudizi umani: tutto ciò che l’uomo nel suo pensiero
pone è “nome”; è parola, è operazione mentale, ma non
è verità. È forse errore? Non lo è necessariamente: l’er-
rore degli uomini consiste nella convinzione che questi
nomi indichino cose “vere” (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ),
nell’ostinarsi a credere che gli oggetti del loro mondo
mentale siano la reale composizione dell’essere. Che tipo
di operazione l’uomo compia nel dare nomi, sarà mo-
strato alla fine del frammento 8.
L’unica altra designazione apparentemente positiva è
quella che paragona l’essere ad una sfera (fr. 8.42–49):
Ma per l’estremo vincolo70, è completo

che chiama “clausole modali” (modal clauses) (p. 83) in quanto a suo dire
specificherebbero il modo di esistere o non esistere. Ciò gli permetterebbe
di attribuire una consistenza ontologica anche ai contenuti dell’opinione
umana, che sarebbero cose che “esistono ma possono anche non esistere”,
a differenza dell’essere che “esiste e deve esistere”. In questo modo anche la
δόξα conserverebbe per parmenide un suo statuto ontologico.
70. Intendo questo “estremo vincolo” come il vincolo inderogabile
che costringe l’essere ad essere ciò che è.
174 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

in ogni parte, simile alla mole71 di una sfera perfettamente


rotonda,
ovunque equilibrata dal centro: è infatti necessario che
né un poco
più grande né un poco più piccolo esso sia lì o lì72. 45
Né infatti esiste il non essere, che gli impedisca di congiungersi
al simile, né l’essere è tale da poter risultare
qui maggiore e lì minore dell’essere, perché è tutto inviolabile:
infatti a sé ovunque uguale, uniformemente sta nei suoi
legami.

Non ho dubbi che il richiamo alla sfera sia una simili-


tudine, come indica l’uso dell’aggettivo ἐναλίγκιον73, ma

71. preferisco tradurre ὄγκος con “mole”, perché “massa” richia-


ma un preciso concetto fisico legato al volume: la mole della sfera
è la sua presenza corporale, mostrata dalla superficie. La superficie
sferica è il solo ente spaziale limitato i cui punti godano della perfetta
uguaglianza delle proprietà (i punti interni si differenziano, ad esem-
pio, per la distanza dalla superficie esterna). Non concordo perciò
con Cordero (1984) quando afferma: «Dato che il paragone concerne
la massa della sfera, esso lascia da parte la sua configurazione esterna
e si limita ad analizzare l’omogeneità dal contenuto» (p. 191). Se così
fosse non ci sarebbe stato bisogno di parlare di sfera: qualsiasi corpo
omogeneo si sarebbe prestato allo scopo.
72. Ancora recentemente Thanassas (2007) intende l’omogeneità
dell’essere non come omogeneità della proprietà d’esistere ma come
uniformità sostanziale: «Quando parmenide descrive eon come “non
un po’ più qui […] e un po’ meno lì,” egli verosimilmente sta mirando
a Anassimene, che vuole derivare tutto dalla “rarefazione” (araiósis)
e dalla “condensazione” (pyknósis) dell’aria» (p. 56). In questo modo
la rigorosa catena deduttiva di parmenide si trasforma nel ragionare
incoerente di Melisso.
73. In questo senso anche Coxon (1934, p. 140). Cordero (1984):
«Simplicio era già partigiano di una interpretazione metaforica del pas-
saggio: μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος [fa anche uso di qualche
espressione mitica] (Phys. 146,31), come aveva già suggerito lo stesso par-
menide tramite l’uso dell’aggettivo ἐναλίγκιον» (p. 191). Untersteiner
(1958): «Conviene dar ragione a coloro che sostengono come la ‘sfera’ sia
introdotta quale similitudine non tanto per designare la forma dell’Essere,
ma la sua uniformità» (p. CLXIII). Gallop (1984): «L’argomento esibisce
una perfetta simmetria, e non ha deficienze da alcuna prospettiva. […]
3. Le dimostrazioni di Parmenide 175

anche come specificano le parole immediatamente suc-


cessive: è impossibile che l’essere sia un poco più piccolo
o più grande in qualche luogo; la proprietà di esistere
è ovunque uguale. La superficie sferica è l’unica figura
spaziale di estensione finita le cui proprietà in un punto
siano identiche a quelle in qualsiasi altro74; essa è dun-
que «uguale in tutte le direzioni [πάντοθεν]» intorno al
centro; costituisce il più perfetto esempio di un’uniforme
distribuzione di caratteristiche.
Le interpretazioni che attribuiscono alla sfera un
significato cosmologico, come se fosse l’effettiva forma
dell’essere, con un limite in tutte le direzioni, sono
contraddette dall’inesistenza del non essere. Se la sfera
non fosse l’immagine della consistenza dell’essere uguale
ovunque, imposta dal “vincolo” (πεῖρας) rigoroso della
logica75, ma indicasse invece l’effettiva forma dell’essere,
definita da un “limite” — e non ha importanza se
fisso o dinamico76 — questo limite potrebbe essere
solo il confine con il non essere. Ciò introdurrebbe una
contraddizione inammissibile nel pensiero dell’Eleate:
è mai possibile pensare che parmenide, tanto cauto
nella sua caratterizzazione dell’essere, sia incorso, senza
accorgersene, in una contraddizione così palese? perché
l’errore sarebbe plateale. Qualora tale interpretazione
La sfera […] è cosi idonea in modo unico per esprimere la nozione di una
realtà assolutamente invariante che è ‘completa’, ‘finita’, ‘priva di nulla’»
(p. 20). Thanassas (2007): «eon rimane “completo da ogni lato” e questa
condizione è prontamente paragonata a un “ben rotonda sfera”» (p. 53).
per una discussione dell’argomento, vedi anche Tarán (1965, p. 150).
74. Owen (1960): «Non vi è nulla di vero in un punto o in una dire-
zione che non sia vero altrove» (p. 66).
75. Così Cordero (1984): «I “limiti” di cui parla parmenide sono quelli
del ragionamento. Si tratta dei limiti che la logica impone al suo discorso»
(p. 190). Come nei precedenti versi 14, 26 e 31 del frammento 8, il limite
qui è quello logico, che impone all’essere di essere ciò che è.
76. Calogero (1932, p. 32); ma la dinamicità del confine sarebbe in
contraddizione anche con l’immobilità dell’essere parmenideo.
176 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

s’imponesse, saremmo costretti ad accettarla; ma non


s’impone, come hanno riconosciuto i numerosi studiosi
che hanno inteso il riferimento alla sfera soltanto come
una similitudine.
L’intera ontologia di parmenide in extenso è questa:
l’esistente esiste senza alcun dubbio, ma nel suo ambito
non è possibile dedurre altri esseri che lo compongano.
L’ontologia inizia e finisce dunque con l’essere nella sua
totalità.

3.4. Il valore dell’opinione

La parte dedicata all’indagine sulla verità (ἀλήθεια)


termina al verso 8.49, come parmenide stesso dichiara
(fr. 8.50–51):
Con ciò pongo termine per te al discorso persuasivo
e al pensiero 50
della verità.

Credo che parmenide avrebbe sicuramente prosegui-


to lungo il sentiero della verità certa se avesse ritenuto
di poterlo fare; ma cosa altro è mai possibile dedurre
logicamente dal concetto di essere, come formulato da
parmenide? Non rimangono dunque a noi mortali che le
opinioni (δόξαι), che nella successiva parte del frammen-
to 8 la dea invita ad apprendere (fr. 8.51–52):

Dopo ciò apprendi le opinioni dei mortali,


ascoltando l’ordine ingannevole delle mie parole.

L’espressione “ordine ingannevole” (κόσμον ἀπατηλόν)


si presta ad equivoci. Tutto lascia pensare che parmenide
non considerasse affatto prive di valore le opinioni che
3. Le dimostrazioni di Parmenide 177

sta per esporre; infatti la dea alla fine del frammento spie-
ga (fr. 8.60–61):
Io ti descrivo quest’ordinamento in tutti i suoi aspetti, 60
in modo che mai qualche nozione dei mortali possa
superarti.

Ascoltando la generale descrizione dell’ordinamento


(διάκοσμος) del mondo che la dea si accinge a esporre, il
giovane non potrà essere superato da nessun altro mor-
tale. In che senso l’ordine delle parole della dea è ingan-
nevole allora? L’ordine è ingannevole77 perché il discorso
della dea da questo punto in poi non ha più le garanzie
della verità, non segue più rigorose deduzioni logiche,
e tuttavia può essere erroneamente interpretato in sen-
so ontologico, come se gli enti che ella descriverà (astri,
terra, esseri viventi…) esistessero in sé e non fossero sol-
tanto articolazioni dell’essere formulate dall’uomo (28 B
8.38: «così tutte saranno nome…»). L’ordinamento dun-
que non è errato, ma può ingannare: può essere conside-
rato una descrizione vera dell’essere invece che un’inter-
pretazione umana.
Qualcosa del genere forse pensava Simplicio (28 A
34):
chiama, dunque, questo discorso congetturale e inganne-
vole, non in quanto assolutamente errato, ma in quanto
deviato dalla verità conoscibile verso l’apparente e l’opina-
bile (phys. 39, 10).

È importante, a questo punto, comprendere cosa


intenda parmenide parlando di δόξα, tradotto qui con
77. L’ «ordine ingannevole» del verso 8.52 — come il «convinti che
siano vere» (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ) del precedente 8.39 — è stato con-
siderato una delle prove principali a favore della tesi che le opinioni dei
mortali sono erronee e debbano essere rifiutate.
178 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

“opinione”. L’origine della δόξα è esposta a partire dal


verso 8.53:
posero infatti forme per denominare due nozioni,
una delle quali non è necessario78 — e in questo si sono
sviati79 —
le giudicarono antitetiche in struttura e vi posero caratteri 55
distinti l’una dall’altra.

L’esposizione delle opinioni comincia con “posero”


(κατέθεντο), chiaramente riferito ai “mortali” del verso 51.
Chi sono questi mortali? E perché questa esposizione? Al-
cuni critici ritengono che nell’ultima parte del poema la
dea voglia fornire un esempio di una descrizione errata
del mondo, in modo che il giovane non sia più sviato da
questo genere di discorsi. Ad esempio, Tarán (1965):
lo scopo di parmenide nell’esporre la Doxa, dare un modello
del modo in cui le apparenze sono derivate dall’errore mi-
nimale di considerare che due cose sono reali, lo costrinse a
scegliere due forme, quali che fossero80. Alla domanda, per-
ché egli scelse proprio Luce e Notte, non può esservi rispo-
sta; e la risposta stessa a questa domanda sarebbe irrilevante
per la comprensione della filosofia di parmenide (p. 267).

Non condivido interpretazioni di questo genere. Gli


uomini quando formulano opinioni non commettono
alcun errore iniziale: l’errore non è nell’avere opinioni,
ma nel credere che tali opinioni rappresentino la reale
78. Due forme distinte non costituiscono la necessaria struttura
dell’essere, ma è una scelta, nel senso che dipende dalla valutazione di chi
la propone. Quindi le due forme non sono esistenti in sé ma, appunto, po-
ste dagli uomini. per Furley (1973) «nessuna delle due è giusta» (p. 5): nel
momento in cui si è introdotta la distinzione, non si parla più di verità.
79. Hanno abbandonato la via della verità.
80. Sull’arbitrarietà della scelta delle due forme anche Furley (1973):
«Aveva bisogno di forme contrarie per far funzionare la sua logica, ma era
libero si scegliere tra le coppie di contrari» (p. 8).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 179

articolazione dell’essere. La dea sottolinea ben due volte


l’importanza di quello che si accinge a descrivere nella
parte dedicata alla δόξα: non si tratta di opinioni qualsia-
si, ma di opinioni di grande valore, tanto da pretendere
una superiorità su ogni altra opinione.
Di chi sono le opinioni che parmenide mette in boc-
ca alla dea? Credo che non possano esservi dubbi: dato
che le opinioni umane non sono in linea di principio
squalificate, quelle esposte sono le opinioni scientifi-
che di parmenide stesso81, che egli sviluppa in quella
che è la parte più lunga del poema. perché allora il ri-
ferimento al passato espresso dall’aoristo (κατέθεντο)?
Non certo perché parmenide espone le teorie di suoi
predecessori. È vero che nella δόξα parmenidea alcuni
hanno identificato tracce di Anassimandro, o di Anas-
simene, o influenze orfiche, o elementi pitagorici, ma
non credo che parmenide avrebbe dedicato tanto spa-
zio a opinioni altrui, che del resto non sono attestate
da nessun’altra fonte. È possibile però che parmeni-
de avesse già formulato le sue opinioni scientifiche, o
parte di esse, quando sentì la necessità di sviluppare le
sue teorie epistemologiche, forse proprio a seguito dei
dubbi che dovevano essersi manifestati durante il suo
studio della natura.
Illustrando le proprie opinioni scientifiche, e preci-
sando con ciò quanto aveva già anticipato nel verso 38
(«tutto sarà nome, ciò che i mortali posero»), parmeni-
de mostra come procede la conoscenza umana, anche
81. L’opinione contraria è diffusissima. Ad esempio, Zeller (1892):
«Toppo precisamente dice parmenide stesso che […] non attribuisce
la minima verità alla rappresentazione che ci mostra la molteplicità e
variabilità, e che quindi nella seconda parte del suo poema non vuol
presentare la sua propria convinzione, ma opinioni estranee» (I, v. III,
p. 290; trad. di G. Reale). Un’ampia esposizione delle interpretazioni
della δόξα parmenidea è redatta da Reale in Zeller e Mondolfo (1967,
p. 292).
180 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

nel migliore dei casi: gli uomini danno nomi per con-
traddistinguere forme (μορφαί) — oggetti, enti, concet-
ti — e così facendo operano distinzioni. La conoscenza
umana, completamente diversa dalla vera conoscenza
dell’essere, che non appartiene all’uomo, è caratteriz-
zata dunque dalla distinzione. I nomi, infatti, sono usati
per identificare e per distinguere.
Nel discorso di parmenide la distinzione viene per
la prima volta introdotta nella sua forma più elemen-
tare, quella binaria: le forme sono due; per identificare
queste forme si pongono due nomi; si nominano due
entità. porre una di queste entità non è necessario (τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν), in quanto la distinzione è una scel-
ta umana e non ha necessità logica; se invece si fosse
posta una forma soltanto, questa si sarebbe identificata
con l’essere. La distinzione priva il discorso del rigore
logico e ne produce la convenzionalità: l’essere è uno,
la distinzione è arbitraria; porla significa allontanarsi
dalla conoscenza certa, lasciare la ricerca che riguarda
la verità.
Tramite una rigorosa catena logica, parmenide è
giunto a dimostrare quanto Eraclito aveva soltanto
mostrato con i notissimi frammenti sul fiume, in cui
è manifesta l’intrinseca aporia della definizione di un
oggetto, in questo caso il fiume: se entriamo nel fiume
una seconda volta, esso non è lo stesso fiume, perché
nuova acqua lo compone, ma è anche lo stesso fiume,
perché come tale noi l’identifichiamo. Il fiume quindi
“è” e “non è” il medesimo. Questa aporia è stata molto
efficacemente sintetizzata da popper (1965):

Ogni cambiamento è cambiamento di qualcosa. Ci deve es-


sere una cosa che cambia; e questa cosa deve rimanere, men-
tre cambia, identica con se stessa. Ma se […] rimane identica
con se stessa, come può mai cambiare? (p. 155).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 181

per parmenide il problema fondamentale è lo statuto


della conoscenza umana: l’impossibilità di trovare una
definizione logica — necessaria e quindi vera — di un
ente rappresenta un ostacolo non aggirabile. Esistono i
confini necessari di un oggetto? È il mondo costituito da
elementi logicamente definibili e quindi conoscibili con
certezza? La risposta di parmenide è negativa. Negli og-
getti, nelle azioni, negli eventi, nelle proprietà che fan-
no parte dell’esperienza umana, parmenide non vede i
componenti necessari dell’essere82, deducibili dall’esisten-
za di questo, ma solo enti posti dagli uomini per specifi-
che loro esigenze. Ne consegue che i concetti formulati
dagli uomini non si riferiscono ad entità vere, esistenti,
ma sono soltanto posizioni umane: quindi opinioni. per
riprendere la famosa immagine di Eraclito, il fiume in cui
per la seconda volta m’immergo non è lo stesso o altro
da prima, ma è semplicemente una convenzione uma-
na, che si può definire anche in modi diversi, se si vuole.
Ciò non significa che quella regione dell’esistente che gli
uomini chiamano fiume non sia inclusa nell’esistenza
dell’essere, che tutto ingloba senza distinzioni, ma vuol
dire che l’identificazione del fiume come un oggetto è soltanto
convenzionale. L’aporia non dipende però dal mutamen-
to: essendo l’essere compatto, nessuna distinzione è vera;
ma se non esistono enti cosa potrebbe mai cambiare?
In nessun luogo parmenide sostiene che la rinuncia
alla verità garantita sia in qualche modo evitabile: il di-
scorso vero è terminato al verso 8.49 e non ha detto gran
che sul mondo, come anche Wittgenstein aveva dovuto
riconoscere nella prefazione al suo Tractatus. Tutto quel-
lo che interessa agli uomini non riguarda il discorso vero,

82. Aubenque (1987b), richiamando Bollack (1957): «parmenide,


quando imbocca la via dell’opinione “sembra evitare la parola essere” e
sembra perfino bandire il non–essere dall’universo della Doxa» (p. 105).
182 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ma solo l’opinione. I mortali sprovveduti compiono però


l’imperdonabile errore, descritto con parole forti nel fram-
mento 6, di credere che i loro concetti siano enti esistenti
in sé, quindi verità. Ciò porta i mortali sulla seconda via,
che è impercorribile perché errata. Considerando come
una vera distinzione tra enti quella indicata, ad esempio,
dalle due denominazioni (luce e notte), essi creerebbero
un’opposizione all’interno dell’essere, affermando così in-
direttamente l’esistenza del non essere, mettendosi sulla via
dell’errore. L’errore consiste, appunto, nel ritenere che il
fiume esista, che l’albero esista, che il bello e il bene — per
dirla con platone — esistano; che in sostanza tutte queste
cose abbiano statuto ontologico e non costituiscano, inve-
ce, le maglie di una rete concettuale usata da noi, uomini
mortali, per cercare d’interpretare brandelli di realtà in un
continuum altrimenti incomprensibile.
Dal valore assegnato alla δόξα, la prima parte del po-
ema, quella che riguarda la via della verità, acquista una
profonda incisività: assume, infatti, la funzione di pre-
messa epistemologica ad un testo scientifico; definisce il
valore degli insegnamenti che parmenide intende impar-
tire, tracciandone i confini e stabilendone la validità per
invitare il lettore alla cautela. Se quest’interpretazione è
corretta, quello di parmenide costituisce un messaggio
forte che fin dall’inizio della filosofia occidentale annulla
le pretese ontologiche della conoscenza umana tramite un ra-
gionamento stringente.
Il messaggio di parmenide non è però scettico: esatta-
mente come per Eraclito, esiste per lui un senso secondo
cui alcune opinioni possono essere espresse correttamente,
come anticipato negli ultimi due versi del prologo: «impare-
rai, come dovevano essere correttamente le opinioni»; o pos-
sono essere considerate migliori di altre83, come asserito alla

83. de Finetti (2006): «”soggettivo” non significa “arbitrario”» (p. 117).


3. Le dimostrazioni di Parmenide 183

fine del frammento 8: «in modo che mai qualche opinione


dei mortali potrà superarti». La descrizione del mondo che
parmenide si accinge a fare non è “vera” nel senso di espri-
mere la reale costituzione dell’essere, ma è migliore di quelle
tracciate fino allora e anche, con un pizzico di presunzione,
di quelle che potrebbero essere elaborate in futuro.

3.5. La critica di Platone e di Aristotele

Nei pochi frammenti che sono rimasti di Zenone il


nome di parmenide non compare, e neanche compare in
quelli, molto più lunghi, di Melisso, che sembra essersi ispi-
rato al grande Eleate, pur essendone un interprete molto
meno perspicace di Zenone. Vi è una diffusa tendenza a ri-
conoscere l’influenza di parmenide su altri pensatori del V
secolo: soprattutto Empedocle, ma anche Democrito e per
qualcuno Anassagora. Non ritengo che gli indizi addotti in
questo senso siano significativi, anche se è verosimile che
lo scritto di parmenide fosse ben noto, e qualche traccia se
ne può trovare nel carme di Empedocle. Una certa fami-
liarità con temi eleatici si ritrova poi in Gorgia, ma senza
espliciti riferimenti. Questi ipotetici collegamenti non ri-
guardano tuttavia giudizi sul pensiero di parmenide, ma
se mai l’influenza di costui sui suoi immediati successori, e
saranno perciò esaminati in luogo opportuno.
I più antichi riferimenti espliciti a parmenide sono di
platone. Questi ha dedicato a parmenide un intero dialo-
go, il Parmenide appunto, che però ai fini della compren-
sione del pensiero parmenideo ha scarsa rilevanza, svi-
luppando una disamina sul tema dell’Uno che nulla ha in
comune con temi eleatici84.

84. Il Parmenide di platone ha, come si è visto, una certa importanza


ai fini della datazione di parmenide — sempre che in questo platone sia
184 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

È nel Sofista che platone si cimenta effettivamente con


parmenide, o almeno con quello che egli ritiene il pen-
siero centrale dell’Eleate. In questo dialogo, con la scusa
di stanare la figura del sofista, platone si domanda come
sia possibile dire il falso, ossia ciò che “non è”, contro la
decisa affermazione di parmenide che il non essere non
esiste e non se ne può parlare. platone mette il discorso
in bocca allo “straniero di Elea”, forse per una certa ritro-
sia a coinvolgere direttamente Socrate in una polemica
contro il grande parmenide, o per una forma di rispetto
nei confronti di quest’ultimo, che verrebbe così corretto
da un suo discepolo, quasi da un’emanazione di lui stes-
so. Lo straniero prega il suo interlocutore Teeteto di non
accusarlo di parricidio, dato che:
per difenderci è necessario mettere alla prova il discorso del
padre parmenide, e costringere ciò che non è ad essere per
qualcosa, e viceversa l’essere in qualche modo a non essere
(241d 3).

Inizia così una faticosa analisi, al termine della quale


platone giunge alla straordinaria conclusione che il non es-
sere esiste, proprio come l’essere, e coincide con l’altro:
l’opposizione non ha in nulla meno essenza, se è lecito dirlo,
dell’essere stesso; né significa il contrario di questo ma sol-
tanto altro da questo (258b 1).

platone non riesce a nascondere la propria soddisfa-


zione per questa brillante conclusione:
Straniero: Noi non soltanto abbiamo mostrato che i non–
esseri sono, ma abbiamo messo in luce anche la forma
che compete al non essere […]

attendibile — e soprattutto per la collocazione del pensiero di Zenone


nell’ambito della tradizione eleatica.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 185

Teeteto: E, o straniero, mi sembra che abbiamo detto asso-


lutamente quanto di più vero (258d 5)

platone vuole stabilire la possibilità di differenziare i


giudizi veri da quelli falsi; giudizi che riguardano concet-
ti, come la quiete e il moto, il bello e il brutto, il bene e il
suo contrario. È chiaro che questo problema non riguar-
da l’essere eleatico: parmenide considerava i giudizi uma-
ni semplici opinioni e non ha mai specificato cosa rende
un’opinione superiore ad un’altra. Il parricidio è dunque
mancato85 per totale incomprensione: lo “straniero di
Elea” non aveva alcun bisogno d’uccidere il padre parme-
nide per risolvere il suo problema; e infatti non ha ucciso
proprio nessuno, tranne forse l’immagine fantastica del
sofista che egli stesso ha confezionato, crimine che non
può certo passare per un parricidio. Ritengo però persua-
siva la tesi, sviluppata esaustivamente da palmer (1999),
secondo cui platone mirava ad un obiettivo differente,
molto più attuale dell’antenato parmenide, e che la sua
polemica fosse quindi diretta piuttosto contro un’inter-
pretazione di parmenide elaborata dai Sofisti, successiva-
mente recepita da Antistene86 con la sua negazione della
realtà delle idee, o dai Megarici, i quali avevano trasferito
sul piano della logica l’unità dell’essere eleatico87. Nel So-
fista è infatti forte l’eco del passo 155 di Antistene (Gian-
nantoni, 1990, II, p. 198):
Ogni discorso dice il vero: infatti colui che dice dice qualco-
sa; e chi dice qualcosa dice l’essere; e chi dice l’essere dice il
vero (procl. in Plat. Cratyl. 37).

85. prendo in prestito l’aggettivo da Severino (1985).


86. Contro cui verosimilmente polemizza anche nel Parmenide (132b)
(Brancacci, 1990b, p. 190).
87. Muller (1975) cita «il rifiuto megarico di questo non–essere relati-
vo che è l’alterità» (p. 275).
186 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Contro l’unità dell’essere sostenuta dagli Eleati si è


pronunciato con decisione anche Aristotele:
appare impossibile che gli esseri siano uno, e ciò con cui lo
dimostrano non è difficile da confutare. Entrambi infatti ra-
gionano in modo eristico, sia Melisso sia parmenide: infatti
fanno assunzioni errate e i loro discorsi sono illogici (phys. I
3, 186a 6).

Dopo aver criticato l’argomentazione di Melisso, Ari-


stotele prosegue:
Anche contro parmenide vale lo stesso tipo di argomenta-
zioni, benché altre riguardino specificamente lui: e la con-
futazione consiste sia nel fatto che è falso l’assunto, sia nella
mancanza di consequenzialità; falso perché assume l’esse-
re in senso assoluto [ἁπλῶς], mentre si dice in molti modi
[πολλαχῶς]; inconseguente in quanto, date soltanto cose
bianche — avendo rappresentato l’essere col bianco — non-
dimeno molte sarebbero le cose bianche e non una: infatti
non sarà uno il bianco né per continuità, né per definizione.
Una cosa, infatti, sarà l’essere del bianco, altra cosa il suo
soggetto, anche se non separato dal bianco: infatti, non in
quanto separato, ma per il fatto di essere una cosa il bianco
e altro ciò a cui esso si riferisce. Ma questo parmenide non
l’aveva ancora compreso88 (phys. I 3, 186a 22).

Stando a Simplicio, Teofrasto riporta fedelmente il ra-


gionamento di parmenide:
Il discorso di parmenide, come Alessandro racconta, Teofra-
sto lo espone così nel primo libro della fisica: «ciò che è fuori
dell’essere è il non–essere; il non–essere è nulla; uno dunque
l’essere» (Simplic. phys. 115, 11).

88. Il concetto è ribadito in phys. A 3 187 a 3, e ripreso da Eudemo


(Simplic. phys. 115, 11), che anch’egli conclude: «Ma gli antichi ragionava-
no in modo illogico».
3. Le dimostrazioni di Parmenide 187

È verosimile che anche Aristotele conoscesse bene


questo ragionamento, ma quello che non ha inteso è il
senso: parmenide, riferendosi alla totalità dell’essere, cer-
ca quello che si può rigorosamente dedurre dalla posizio-
ne dell’esistenza, ed è costretto a concludere che nulla si
può dedurre e di conseguenza ogni conoscenza umana è
opinione. Mostrare, come fa Aristotele, che ci sono molti
modi per dire l’essere non è una risposta, perché ciò che
conta è il modo in cui lo ha detto parmenide. Aristotele,
come platone, attribuisce il predicato di “essere” agli enti
che egli stesso va definendo, il bianco ad esempio, o l’og-
getto bianco; ma parmenide non ha negato all’uomo il
diritto di identificare degli enti: ha negato che questi enti
costituiscano la reale articolazione dell’essere. La critica
di Aristotele non è perciò pertinente.
Quanto poco Aristotele abbia compreso l’argomenta-
zione di parmenide è manifestato anche dal suo inten-
derne l’essere come limitato e sferico:
è da ritenere che parmenide abbia detto meglio di Melisso:
questi dice infatti illimitato l’intero, quello che l’intero è limi-
tato ‘ovunque equidistante dal centro’ (phys. III, 6, 207a 14).

Dato che le argomentazioni della parte dedicata


all’ἀλήθεια ci sono giunte pressoché complete, avrebbe
poco senso adeguarsi all’interpretazione di Aristotele,
per il fatto che egli “doveva avere una migliore cono-
scenza del testo”: Aristotele aveva proprio frainteso cosa
intendeva dire parmenide, attribuendogli con troppa di-
sinvoltura ragionamenti errati. Avendo egli frainteso il
senso dell’ἀλήθεια, gli sfugge anche la relazione tra que-
sta e la δόξα:
costretto a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo la ragione e i molti secondo le sensazioni, pone due
cause e due principi, il caldo e il freddo, come dicendo fuoco
188 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

e terra. Di questi il caldo colloca dalla parte dell’essere, l’al-


tro dalla parte del non essere (Aristot. metaph. I 5, 986b 19).

Sembra che Aristotele semplicemente giustapponga


le due dottrine: parmenide pur avendo ragionato male
riguardo alla verità, sarebbe fermamente convinto del-
le sue conclusioni riguardo all’essere, ma ciò nonostan-
te è costretto (ἀναγκάζω) a inventarsi un’altra teoria
per «seguire i fenomeni». Aristotele equivoca anche in
merito a questa teoria. Infatti, la δόξα non è mai ridot-
ta alla sensazione (αἴσθησις) da parte di parmenide: i
sensi sono invocati solo in quanto contribuiscono alla
genesi dell’errore commesso dai mortali quando im-
maginano che gli oggetti identificati siano l’oggettiva
composizione dell’essere. Inoltre non è vero che par-
menide ponga il caldo dalla parte dell’essere e il fred-
do da quella del non essere89: nessuno dei due principi
è dalla parte del non essere, come inequivocabilmente
affermato nel verso 9.4:
entrambe uguali, perché con nessuna delle due è il nulla.

Qui Aristotele non solo fraintende, ma afferma qual-


cosa che è contrario al testo. Si potrebbe ipotizzare che
nei numerosi frammenti della δόξα che sono andati per-
duti vi fosse qualcosa in grado di giustificare questa in-
terpretazione, ma in tal caso parmenide sarebbe in con-
traddizione con se stesso. Non ritengo giusto imputare a
parmenide un’incoerenza tanto grave, solo per non voler
accettare che Aristotele interpreti erroneamente il pen-
siero altrui.
È possibile immaginare il motivo per cui Aristote-
le abbia completamente frainteso l’argomento di par-

89. L’argomento è ribadito nel De generatione et corruptione I 3, 3.


3. Le dimostrazioni di Parmenide 189

menide: egli teneva a salvare la pluralità degli esseri, e


con essi i fenomeni, e attribuiva un grande valore alle
proprie classificazioni. D’altra parte il discorso episte-
mologico di parmenide gli era estraneo: egli non aveva
dubbi sul fatto che la verità fosse conoscibile. più dif-
ficile è comprendere come mai Aristotele abbia potu-
to pronunciarsi in modo così evidentemente contrario
alla lettera del testo del verso 9.4. A questo proposito
è possibile fare soltanto delle ipotesi. Alla base di tutto
vi è, ritengo, un certo disprezzo per le capacità logiche
dei suoi predecessori: egli è prontissimo a coglierli in
fallo, ed il fatto che sembrino sragionare non genera
in lui alcuna inquietudine. Egli considera dunque un
merito di parmenide aver elaborato una δόξα, anche
se ciò sembra contraddire il discorso sulla verità. Non
avendo chiarito il rapporto tra le due parti del discorso
di parmenide, e riconoscendo in entrambe una specie
di dualismo — essere–non essere, nel discorso della veri-
tà, luce–notte in quello dell’opinione — avrà sbrigativa-
mente attribuito alla seconda coppia il valore di versio-
ne fenomenica della prima90.
Non sembra dunque che platone e Aristotele abbia-
no compreso il senso dell’argomento di parmenide91;
ma quanto questo sia rimasto incompreso è mostrato
dall’importanza che la critica moderna ha attribuito alle
presunte soluzioni che i due grandi pensatori del IV secolo
hanno creduto di dare al problema posto dall’Eleate. Ad
esempio, Calogero (1932):

90. Non condivido l’interpretazione di Vlastos (1946) dell’allegoria


del proemio che lo porta a concludere: «La ripetuta affermazione di Ari-
stotele che parmenide associa il caldo con l’Essere, il freddo con non–
essere, può essere ora accettata» (p. 160).
91. Cordero (2004): «Se vi è un autore presocratico in merito a cui
l’interprete non deve assolutamente tener conto dell’opinione degli antichi
commentatori, questo autore è parmenide» (p. 160).
190 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ci vorrà tutta la penosa esperienza della Sofistica e della So-


cratica e poi, soprattutto, i grandi esami critici di un plato-
ne e le implacabili distinzioni di un Aristotele per separare
nel parmenideo ὂν μοναχῶς λεγόμενον l’essere della identità
e l’essere dell’esistenza, l’essere della verità e l’essere della
predicazione, l’essere della necessità logica e l’essere della
necessità reale92 (p. 66).

Analogamente Kahn (1969b)93:


Forse la più puntuale obiezione a parmenide è che non
riesce a distinguere tra essere–differente–da ciò che è (essere
differente da qualcosa che esiste, o da qualcosa di cui è il
caso) ed essere–ciò–che–non–è, nel senso di assolutamente
nulla. […] Ora, trarre la necessaria distinzione tra “non es-
sere X”, nel senso di essere differente da X, e “non essere”
tout court — distinguere la negazione come differenza dalla
negazione come non–entità — è precisamente il compito
di platone nel Sofista (p. 719).

Ci sarebbe stata confusione, dunque; ma è forse ne-


cessario concludere che la confusione sia da parte di par-
menide? Se egli con ἐόν intende tutto — assolutamente
tutto — allora ciò che differisce da questo tutto è effettiva-
mente nulla. Se altri hanno tratto conclusioni erronee da
questa posizione la confusione è loro, non di parmenide.
Questo è, in sostanza, quanto suggerisce Stein (1969) nel
suo commento all’articolo di Kahn. Lo stesso Kahn ave-
va trovato l’osservazione sufficientemente interessante
da felicitarsi con Stein (Kahn, 1969a); ma ha poi liquidato
la tesi asserendo prima, frettolosamente, che essa

92. Lezl (1982): «Calogero, insomma, si accosta al pensiero dell’Ele-


ate fin dall’inizio con l’atteggiamento del medico che non ha altra preoc-
cupazione che diagnosticare al più presto quella malattia mentale che è
l’eleatismo» (p. 116).
93. Vedi anche Albertelli (1939) p. 104, n. 2, Guthrie (1965) p. 75, Au-
benque (1987b) p. 120, Adorno (1988) p. 17, Reale (1998) p. 33 e 36.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 191

non torna con ogni aspetto del testo arcaico in discussione


(p. 333)

e aggiungendo poi un commento rivelatore:


parmenide stesso non è così coerente (p. 334).

Si manifesta così in azione, ancora una volta, quel pre-


concetto contro i pensatori del VI e V secolo94 che Beau-
fret (1955) stigmatizza:
Se in effetti parmenide si situa all’origine del pensiero occi-
dentale, egli non è tuttavia un debuttante in filosofia o, se si
vuole, un primitivo del pensiero. Tanto vale sostenere che il
tempio dorico è una forma «primitiva» di architettura! (p. 16).

3.6. Il proemio

Chiarita la posizione epistemologica di parmenide,


si può passare all’esame del proemio, che costituisce il
frammento 1:
Le giumente che mi portano fin dove l’animo può arrivare,
mi traevano, poiché andavano conducendomi verso la via
che molto dice
della dea, quella che attraverso tutto porta fino a lì95 l’uomo
che sa:
là sono condotto; là infatti mi portavano le giumente molto
sapienti

94. Se ne sono visti altri esempi riguardo a Eraclito e altri se ne in-


contreranno riferiti a Zenone. In merito a parmenide si può aggiungere
l’osservazione di Calogero (1932): «Chi voglia intendere la posizione di
parmenide […] deve rifarsi a parmenide, tornare al suo primitivo e inge-
nuo orizzonte mentale» (p. 109).
95. πάν τα〈ύ〉τῃ, seguendo Cordero (2004, p. 185); πάντ’ ἄστη (über
alle Wohnstätten = per tutti gli abitati) secondo Diels–Kranz. Coxon (1968)
sottolinea che ἄστη «non ha l’autorità di alcun manoscritto» (p. 69).
192 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

traendo il carro, mentre le fanciulle mostravano la strada. 5


L’asse nei mozzi mandava lo stridore di un sibilo
bruciando (infatti era stretto da due cerchi torniti
da entrambe le parti), mentre si affrettavano a guidarmi
le fanciulle Eliadi, abbandonate le case della Notte,
verso la luce, scostando con le mani i veli dal capo. 10
Là sono le porte dei sentieri della Notte e del Giorno
queste hanno intorno un architrave e una soglia di pietra;
esse stesse, elevate, sono chiuse da grandi battenti,
di cui la Giustizia che molto punisce ha le chiavi retributive96.
Le fanciulle allora persuadendola con dolci parole 15
la convinsero accortamente, che per loro il chiavistello
sbarrato
togliesse subito dalle porte: queste, spalancandosi,
dei battenti lasciarono un’ampia apertura, i bronzei
perni girando a loro volta nei cardini,
fissati con chiodi e con borchie: da lì, dunque, attraverso
queste, 20
le fanciulle dritto guidarono per la strada maestra il carro
e le giumente.
E la dea benevola mi accolse, con la mano la mano
destra prese, e così prendendo la parola si rivolse a me:
o giovane, accompagnato da guide immortali,
dalle giumente che ti portano fino alle nostre case, 25
benvenuto! Una sorte non cattiva ti conduce ad andare
per questa via (che certo è fuori dalla via battuta
dagli uomini),
ma la legge divina e la giustizia.

Seguono poi i versi citati nel punto 2.


Il proemio non è una tradizionale invocazione
dell’aiuto divino, ma descrive la prima parte dell’ana-
lisi: illustra le premesse dell’analisi razionale. La base
di partenza delle deduzioni logiche non può essere
una deduzione logica, ma deve risultare evidente di
per sé. per parmenide l’evidenza è il frutto di un’illu-
96. Bowra (1937) traduce «of requital» in relazione a «che molto pu-
nisce» (πολύποινος) (p. 108). Il senso è “che aprono o chiudono a seconda
del merito”.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 193

minazione, e l’illuminazione è descritta con l’allegoria


del viaggio97.
parmenide ottiene l’illuminazione attraverso un pro-
cesso di graduale svelamento, simbolizzato dalla sug-
gestiva immagine delle fanciulle Eliadi che scostano i
veli dal capo, uscendo dal cammino della notte lungo la
strada che porta alla dea.
Egli riceve dunque un’illuminazione, che lo allon-
tana dai sentieri battuti dagli uomini e gli consente di
dare inizio al ragionamento, rappresentato dall’inse-
gnamento della dea.
parmenide esprime in forma allegorica un’espe-
rienza psicologica particolare, la graduale presa di co-
scienza di un punto di vista, che egli forse non aveva
gli strumenti per descrivere meglio in altro modo.
Appena iniziato il ragionamento, parmenide è in
grado di abbandonare completamente l’allegoria: la
dea continua a parlare, ma il suo racconto segue una
logica ferrea. I personaggi principali dell’allegoria, il
κοῦρος e la δαίμων, non sono personaggi del mito, e il
messaggio trasmesso allegoricamente è la descrizione
di un’esperienza reale, mentre i legami con altre rap-
presentazioni mitiche, che pure possono essere indivi-
duati98, sono esili.
Le fanciulle Eliadi sono legate al mito della morte di
Fetonte99, ma sono soprattutto figlie del Sole, simbolo
di luce100.
97. Non è da escludere, peraltro, che parmenide abbia effettivamen-
te interpretato questa illuminazione come un intervento divino.
98. Vedi, ad esempio, Havelock (1968) e Cassin (1998). Fränkel (1930)
richiamando il parallelo con pindaro VI Olimpica (2a strofa), ipotizza un
modello comune, seguito in questo da Bowra (1937).
99. Figlie del dio Sole, trasformate in pioppi alla morte del fratello
Fetonte.
100. Mourelatos (1970) mostra che in base al testo del proemio il
“viaggio” di parmenide può essere inteso sia verso il “dominio della
194 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Come fece a suo tempo Sesto Empirico, si può prova-


re ad interpretare i simboli:

— le giumente potrebbero rappresentare la forza atti-


va, la spinta dell’animo ad indagare;
— il sentiero dalle case della notte a quelle del giorno,
il percorso verso l’inizio della conoscenza;
— le fanciulle Eliadi, le idee, le intuizioni, che pro-
gressivamente svelandosi pongono le premesse
del ragionamento;
— la porta controllata dalla Giustizia, l’accesso alla
conoscenza razionale, che è inflessibile e necessa-
ria come i dettami della legge101;
— la dea, la detentrice e il simbolo di questa conoscenza.

luce” — il cielo —, sia verso il mondo sotterraneo, e di conseguenza


conclude che «la topografia del viaggio è confusa oltre ogni possibilità
di riconoscimento» (p. 15). Furley (1973) rifiuta la virgola che si legge
dopo “Notte” nel verso 10 in Diels e Kranz e nella maggior parte delle
edizioni (ma non in Aubenque, 1987, p. 4). Questo potrebbe consentire
di interpretare il viaggio del giovane anche come diretto verso la casa
della Notte, che le fanciulle avrebbero lasciato, andando verso la luce,
per venirgli incontro e accompagnarlo nel mondo sotterraneo. Si tratte-
rebbe quindi di una «katabasis di un tipo familiare» (p. 2). Questa lettura
sarebbe coerente con un’interpretazione del racconto di parmenide in
termini di sciamanesimo, come in Kingsley (1999): «un esempio di poe-
sia sciamanica in Occidente è parmenide» (p. 115). A sostegno di questa
tesi palmer (2009) crede di poter rilevare che il «linguaggio del proemio
lo associa, invece, con gli iniziati nei misteri e con le anime dei morti che
viaggiano nell’oltretomba» (p. 57).
101. La dea accoglie il giovane come condotto da Θέμις e da Δίκε,
entrambe personificazioni di aspetti della giustizia, che rappresenta la ne-
cessità; infatti il testo continua con «è necessario» (χρεώ). Martinelli (1987),
ricordando che Θέμις è «la consuetudine, la norma […] che si riferisce alla
legge non scritta, vigente nell’epoca precedente alla diffusione della scrit-
tura», mentre Δίκε «diverrà la parola d’ordine delle rivendicazioni di una
legge scritta» conclude che: «L’uso congiunto dei due termini indica […]
che parmenide si sentiva conforme sia al vecchio, sia al nuovo ordine di
cose, sia alla legge divina che a quella umana, sia alla codificazione orale
che alla costituzione scritta» (p. 177).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 195

Nel proemio parmenide parla in prima persona fino al


verso 23, ossia fino a quando la dea prende la parola. Da
questo punto in poi il poema è il discorso della dea, che
svolge una funzione ben diversa dal dio di Senofane e da
quello di Eraclito. Non abbiamo motivo di credere che
essa sia detentrice della vera conoscenza che è espressa
dal verbo νοέω e s’identifica con l’essere, a cui neanche un
«uomo che sa» (εἰδότα φῶτα) potrà mai accostarsi. Come
le altre divinità che essa stessa menziona («la dea che tutto
governa» di 28 B 12.3 e gli dèi e Eros di 28 B 13), colei che
parla è un’entità intermedia, che possiede e comunica in
termini razionali una conoscenza compatibile con quella
umana, seppure presumibilmente più vasta. Si tratta solo
di un simbolo oppure parmenide attribuiva realmente l’il-
luminazione ricevuta ad un intervento divino?
Capire perché le figure allegoriche di parmenide siano
tutte femminili102 (le giumente, le fanciulle Eliadi, la dea)
appartiene, credo, al campo della psicologia, e noi non
possiamo permetterci di psicanalizzare parmenide. Mi
sembra, comunque, che l’allegoria indichi l’origine non
cognitiva della conoscenza umana: il movente è nell’inte-
resse, nel desiderio, nella pulsione. È forse possibile che
la natura femminile delle guide di parmenide sia un’altra
metafora annidata nella metafora?

3.7. La natura

3.7.1. Le due forme

Si è visto alla fine del punto 4 che parmenide inizia


la sua descrizione dell’ordinamento del mondo con una

102. Calogero (1932, p. 58) parla del «femminilismo» di parmenide.


Vedi anche Casertano (1978) p. 84.
196 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

prima distinzione, in cui pone due entità fondamentali.


Queste entità sono denominate forme (μορφή), forse in
quanto desunte dall’osservazione del mondo. Egli distin-
gue così nettamente le due forme da chiamarle antiteti-
che (fr. 8.55–59):
le giudicarono antitetiche in struttura e vi posero caratteri 55
distinti l’una dall’altra: qui il fuoco etereo della fiamma,
che è benigno, molto [sottile] leggero, ovunque identico
a se stesso,
ma non identico all’altro; ma anche l’altro a sé stante,
all’opposto, notte oscura, corpo compatto e pesante.

Le due forme, che con termine aristotelico potremmo


chiamare principi, sono dunque il fuoco, considerato da
tutto il pensiero greco l’elemento sottile e leggero per
eccellenza, dotato anche di un carattere attivo e dinami-
co, e la notte, un principio privo di luminosità, denso e
inerte. La descrizione continua nel frammento 9:

Ma dato che tutte le cose sono state nominate luce e notte


e, in base alla potenza di ciascuna delle due in questo
e in quello,
tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura,
entrambe equivalenti, perché con nessuna delle due è il nulla.

parmenide, come tutti gli uomini, per descrivere il mondo


è obbligato a fare distinzioni. Le due forme che egli identifica
come fuoco o luce e notte hanno il medesimo status: sono
entrambe poste da un uomo, quindi opinione, ma nessuna
delle due è il non–essere. parmenide, da “uomo che sa”, non
attribuisce agli enti nominati il valore di vera articolazione
dell’essere, e non pone quindi il non essere, evitando l’errore
usualmente commesso dai mortali che “non sanno”.
La distinzione operata da parmenide ha una sua giu-
stificazione: egli vede nel fuoco il principio attivo, e nel-
3. Le dimostrazioni di Parmenide 197

la notte il principio passivo, che resiste all’attività ma


ne viene trasformato. Secondo parmenide tutte le cose
partecipano di entrambi i principi, e risultano tanto più
energetiche e vive quanto maggiore vi è la partecipa-
zione del fuoco. Secondo l’interpretazione elaborata
da parmenide, tutto è costituito da questi due princi-
pi: il cosmo, gli uomini, la vita in generale, e anche gli
dèi. Non c’è spazio per altri principi ma, come si vedrà,
sembra che questi principi basilari agiscano anche sotto
forma di altri agenti da essi composti, come in una suc-
cessione gerarchica di potenze.
purtroppo, mentre fino a qui è stato possibile segui-
re con continuità il pensiero di parmenide, dato che le
lacune del testo sono limitate e non interrompono se-
riamente il filo del discorso, da questo punto in poi ri-
mangono soltanto pochi frammenti slegati, ed è quindi
necessario utilizzare anche le testimonianze, che peral-
tro non sono molto illuminanti.

3.7.2. Il cosmo

Quanto resta della consueta esposizione del program-


ma che parmenide premette allo svolgimento del tema,
come il titolo di un capitolo o come un breve sommario,
è contenuto nel frammento 10:
[…] conoscerai la natura eterea e tutti nell’etere
i segni103, e della pura e lucente lampada
del sole l’opera distruttrice, e da dove derivarono;
e indagherai l’agire del tondo occhio della luna che vaga
d’intorno
e la natura, e saprai il cielo che intorno circonda

103. Kahn (1970): «È quasi certo che essi [i greci] appresero dello Zo-
diaco empirico […] nel sesto secolo. Ritengo che questa è una delle cose
cui parmenide sta alludendo quando fa promettere alla sua dea di rivelare
‘tutti nell’etere i segni […]’» (p. 105).
198 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

da dove si generò e come la Necessità governando lo costrinse


a rispettare i limiti degli astri.

e nel frammento 11:


[…] come la terra e il sole e la luna
e l’etere comune e la celeste via lattea e l’olimpo
estremo e la calda forza degli astri furono spinti
a nascere.

Qui sono brevemente elencati i principali elementi del


cosmo parmenideo: l’etere, il sole e la luna, e il cielo. Que-
sti stessi elementi si ritrovano nella descrizione alquanto
confusa, presentata sotto il nome di Aezio (28 A 37):
parmenide [dice] che ci sono corone disposte intorno, una
sopra l’altra, costituite una dal rado, l’altra dal denso; e, tra
queste, altre miste di luce e tenebre. E ciò che circonda tutte
come un muro è solido, al disotto una corona di fuoco, e
quella più centrale di tutte è solida, intorno a cui di nuovo
una [corona] ignea. E la più centrale tra tutte quelle miste è
〈principio〉e anche〈causa〉del movimento e della genesi,
che chiama dèmone dirigente e custode e Giustizia e Neces-
sità. E che l’aria è un’emanazione della terra, esalante per
una compressione più forte di lei. Esalazioni del fuoco il sole
e la via lattea. Un miscuglio di entrambi, dell’aria e del fuoco,
è la luna. Stando intorno più in alto di tutti l’etere, sotto di
esso è disposto quel corpo infuocato che abbiamo chiamato
cielo, sotto al quale ciò che subito circonda la terra (II 1, 2).

Un tentativo di ricostruzione vedrebbe una successio-


ne di cerchi, che parmenide avrebbe chiamati “corone”
(στεφάνη), di cui il più interno, la terra, è solido (si può pre-
sumere formato soprattutto di «notte, corpo compatto e
pesante»), e il più esterno è prevalentemente igneo, l’etere
(αἰθήρ). Fra questi due vi sono altri cerchi composti da en-
trambe le forme. Subito sotto l’etere è il cerchio infocato
chiamato cielo (οὐρανός). L’aria (ἀήρ) è un’emanazione
3. Le dimostrazioni di Parmenide 199

della terra, esalata per effetto di una pressione (πίλησις). Il


sole e la via lattea sono esalazioni del fuoco che circonda
tutto, mentre la luna è più mista. Dal testo di Aezio sem-
brerebbe che tra i cerchi misti il più interno (μεσαιτάτη), che
genererebbe il movimento, sarebbe il «dèmone dirigente e
custode e Giustizia e Necessità». Di questo Simplicio ci ha
trasmesso una testimonianza diretta con il frammento 12:
Infatti, le più strette sono riempite di fuoco non mescolato,
quelle al disopra di notte, oltre si spande una porzione di luce;
e in mezzo a queste la dea che tutto governa;
〈che〉infatti guida ogni aspetto del duro parto
e dell’accoppiamento
spingendo la femmina a unirsi al maschio e così all’inverso 5
il maschio alla femmina.

Simplicio ha citato questo frammento in tutto (an-


che phys. 34, 14) o in parte (phys. 39, 12) ben tre volte. È
importante rilevare che Simplicio riferisce questo fram-
mento a dimostrazione del fatto che parmenide introdu-
ce una “causa efficiente”:
E chiaramente parmenide assegnò una causa efficiente non
solo ai corpi nella generazione ma anche agli incorporei che
producono la genesi, dicendo: [segue il fr. 12] (phys. 31, 10).

Nel frammento 12 però gli incorporei non compaio-


no. più avanti commenta:
E egli unica causa efficiente e comune pone la dea che ha sede
in mezzo a tutto ed è causa di ogni nascita (phys. 34, 14).

Simplicio evidentemente interpreta anacronistica-


mente, in termini aristotelici, “la dea che tutto governa”
come una causa efficiente, accanto alle cause materiali
“luce” e “notte”. In questo Simplicio segue da vicino Ari-
stotele, che introduce il frammento 13,
200 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

primo di tutti gli dèi creò Eros

con le parole:
Qualcuno potrebbe sospettare che fu Esiodo per primo a
cercare qualcosa di simile [alla causa efficiente], o chiunque
altro pose l’amore o il desiderio principio degli esseri, come
anche parmenide. Questi, infatti, ponendo l’origine di tutto
dice [segue il fr. 13] (metaph. I 4, 984b 23).

È vero che la frase di Aristotele ha valore concessivo,


e che quindi egli non attribuisce a parmenide la scoperta
della causa efficiente, ma certamente qui lo status di Eros
è sopravvalutato. Egli stesso è nato, presumibilmente
dalla dea che ha generato anche gli altri dèi:

E costei [la dea] dice anche causa degli dèi dicendo [segue il
fr. 13] (Simplic. phys. 35, 18).

Ma la dea stessa è fatta di “luce” e “notte”, dato che


le due forme sono principio di tutto, ed è quindi a un li-
vello gerarchico inferiore ad esse. Si ha l’impressione che
un pregiudizio peripatetico sia in atto anche nella citata
testimonianza di Aezio (28 A 37). Nel frammento 12 la
dea che tutto governa, la forza vitale che unisce “sta in
mezzo” a queste corone (ἐν […] μέσωι τούτων) in senso
figurativo, ma difficilmente può essere identificata con la
corona «più centrale a tutte le miste», come Aezio deci-
samente fa, pensando forse a qualcosa che unisce in sé le
funzioni del primo mobile e del motore immobile aristotelici.
Che forma immaginava parmenide che avessero que-
sti cerchi? Aezio usa il termine “corona”, che fa pensare
ad anelli e non a sfere. Che però si possa trattare di sfere
potrebbe essere suggerito dalla spiegazione dell’immobi-
lità della terra in base alla simmetria, sempre che parme-
nide l’abbia effettivamente pensata (28 A 44):
3. Le dimostrazioni di Parmenide 201

parmenide e Democrito sostengono che [la terra] per il fatto


che dista ugualmente da tutti i punti rimane in equilibrio, non
essendoci una causa che la faccia inclinare più di qui che di là.
perciò essa si agita soltanto ma non si muove (Aët. III 15, 7).

La sfericità delle “corone” avrebbe un riscontro anche


nella sfericità della terra stessa:
[Pitagora] fu anche il primo a chiamare cosmo l’universo e a
dire che la terra è di forma tonda [στρογγύλη]; secondo Teo-
frasto invece fu parmenide e secondo Zenone Esiodo (Diog.
Laert. VIII 48).

per quel poco che sappiamo di pitagora non pare ve-


rosimile che la fonte di Diogene Laerzio fosse attendibi-
le104. Concordo con Cerri (1999):
l’attribuzione a pitagora potrebbe essere stata determinata
dalla presenza del discorso della sfericità della terra in qual-
cuno dei vari scritti apocrifi, e di epoca posteriore, che circo-
lavano sotto il suo nome (p. 54).

poco credibile è anche l’opinione di Zenone di Cizico


riguardo a Esiodo, che non quadra con la descrizione del-
la Teogonia (720).
Quanto al termine στρογγύλη, attribuito da Diogene
Laerzio a Teofrasto, Heidel (1937) nota che
è certo che nel quinto secolo il termine in questione non era
usato esclusivamente o anche solo generalmente con riferi-
mento a una sfera (p. 74).

Certamente, nel IV secolo platone (Fedone, 97e 1)


usa στρογγύλη nel senso di “sferico” proprio a proposito

104. Heidel (1937): «La tradizione riguardante pitagora è assolutamente


non degna di fede, perché egli divenne presto una figura leggendaria, a cui nel
corso del tempo si poteva attribuire la conoscenza di quasi tutto» (p. 73).
202 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

della terra, dato che più avanti la paragona a un pallone


variopinto; né vi è motivo di ritenere che sia stato il
primo a impiegare il termine in questo senso. Non si
può escludere dunque che il merito della scoperta possa
essere stato effettivamente di parmenide105.
Connessa alla sfericità della terra è la suddivisione in
zone (28 A 44a):
Dice posidonio che il primo ad adottare la divisione in cinque
zone è stato parmenide, il quale però fa la zona torrida [quella
tra i tropici] doppia di larghezza, sopravanzando entrambi i
tropici all’esterno, verso quelle temperate (Strab. I 94).

parmenide per primo determinò i luoghi abitati dalla terra al


disotto delle due zone tropicali (Aët. III 11, 4).

La restante parte della descrizione del cosmo di par-


menide è perduta quasi completamente. Restano ac-
cenni al fatto che la luna brilla di luce riflessa, diver-
samente da come pensava Eraclito, come mostrano il
frammento 14:
errante intorno alla terra brillando la notte di luce altrui

e il frammento 15:
sempre guardando intorno verso i raggi del sole.

Che i due frammenti debbano essere intesi in questo


senso mi pare persuasivo, anche se il consenso su questo

105. Heidel (1937) lo attribuisce invece a Enopide di Chio in base alle


testimonianze di Eudemo, riportata da Teone di Smirne (p. 198, 14), e di
Aezio (II 12, 2), che connettono questa scoperta a quella dell’obliquità
dello zodiaco. Il suo principale argomento contro parmenide è che: «non
vi è motivo di credere che Empedocle, che deve molto a parmenide, con-
siderasse la Terra altrimenti che piatta» (p. 71).
3. Le dimostrazioni di Parmenide 203

punto non è unanime106. I frammenti 14 e 15 di parmenide


costituirebbero allora il più antico testo greco che riferi-
sce direttamente un’importante scoperta astronomica. La
scoperta era di parmenide o precedente? Secondo Aezio:
Talete per primo disse [la luna] illuminata dal sole. pitagora,
parmenide, Empedocle, Anassagora, Metrodoro ugualmen-
te (II 28, 5).

Ogni notizia sulle dottrine di Talete è molto incerta, ma


questa in particolare mi sembra poco verosimile. Che la luna
non brilli di luce propria è una di quelle scoperte che, una
volta fatte, sono difficili da ignorare, soprattutto se avesse ri-
scosso tanta notorietà da giungere fino a Teofrasto e da lui a
Aezio. Mi sembra difficile che Anassimandro, certo molto vi-
cino a Talete, avrebbe potuto costruire il suo modello astro-
nomico se fosse stato a conoscenza di questa idea; e lo stesso
vale per Eraclito, che non doveva ignorare Talete (22 B 38):
[Talete] secondo alcuni sembra essere stato il primo ad inda-
gare sugli astri… lo testimoniano anche Eraclito e Democrito
(Diog. Laert. I, 23).

Altrettanto dubbio è il ruolo di pitagora, cui notoria-


mente è stato attribuito di tutto con scarsa attendibilità.
Il primato di parmenide è perciò abbastanza verosimile.
A parmenide è attribuita anche l’identificazione del-
la stella della sera (Ἕσπερος) con quella del mattino
(Φωσφόρος) (Aët. II 15, 7 e Diog. Laert. VIII 14).

106. Guthrie (1965), ad esempio, lo mette in dubbio in base alla «più


imponente autorità di platone, che nel Cratilo [409a–b] dà chiaramente
il merito ad Anassagora» (p. 66). In margine a questo passo del Cratilo
Graham (2002b) commenta però: «Se questo indica che platone vedeva
in Anassagora l’inventore di questa tesi, ciò non implica che egli lo fosse
effettivamente. E dobbiamo anche ricordarci che Anassagora insegnava ad
Atene al tempo di Cratilo e Socrate, piuttosto che oltremare» (p. 364).
204 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Queste tre scoperte astronomiche, se dovute effettiva-


mente a parmenide, basterebbero da sole a giustificare la
fierezza con cui egli presenta la sua δόξα.
Nel frammento 11 la dea promette a parmenide di
mostrargli non solo come il cosmo è organizzato, ma
anche come è venuto a generarsi. potrebbe sembrare
una contraddizione: l’essere, si sa, non ha origine. In re-
altà la contraddizione non sussiste: l’essere non ha ori-
gine perché è tutto e fuori di esso non c’è nulla; ma
ciò non impedisce che gli oggetti identificati dall’uomo
come corpi celesti, e il cosmo stesso, possano aver avu-
to origine ad un certo momento, come qualsiasi altro
oggetto che l’uomo distingue.

3.7.3. La biologia

più vago ancora della cosmologia è quanto ci resta


della concezione parmenidea della vita. La forza vitale e
riproduttiva è rappresentata, forse in forma metaforica,
come una «dea che tutto governa» e che, avendo creato
Eros, spinge «la femmina a unirsi al maschio». Il breve
frammento 17:
a destra i maschi a sinistra le femmine

sembra far parte dell’argomento citato da Aezio (28 A


54):
Quando il seme si separa dalla parte destra dell’utero, i figli [so-
migliano] al padre, quando dalla sinistra, alla madre (V 11, 2).

Infine, nel frammento 18 ci è rimasta una spiegazione


della formazione dei caratteri:
Quando la femmina e il maschio mescolano insieme i semi di
Venere,
3. Le dimostrazioni di Parmenide 205

se la forza che si forma nelle vene dal sangue diverso


conserva l’armonia, plasma corpi ben formati.
Ma se le forze si scontrano nel seme mescolato
e non formano unità nella mescolanza corporea, crudeli 5
tormenteranno con il doppio seme il sesso nascente.

La dottrina delle due forme è utilizzata per spiegare


anche gli stati vitali, come la vecchiaia (28 A 46 a):

parmenide [dice che] la vecchiaia è prodotta dalla diminu-


zione del caldo (Aët. V 30, 4)

e il sonno (28 A 46 b):

Empedocle e parmenide dicono che il sonno è raffredda-


mento (Tertull. de an. 45)

3.7.4. L’anima

Secondo Macrobio parmenide considera l’anima


composta di terra e fuoco. Guthrie (1965) mette in
guardia contro «le casuali parole di uno scrittore come
Macrobio», ma la testimonianza è persuasiva, perché
lo stesso parmenide nel frammento 9 dice che «tutto
è pieno ugualmente di luce e di notte oscura», e non si
vede perché l’anima dovrebbe fare eccezione.
È verosimile comunque che il fuoco predomini: in-
fatti Aezio riferisce che per parmenide (e Ippaso) l’ani-
ma è ignea (IV 3, 4) e, chiamandola “egemonico”, dice
che occupa tutto il petto (IV 5, 5).
Aezio aggiunge anche che

parmenide, Empedocle e Democrito identificano intellet-


to e anima; per loro quindi non c’è nessun animale pro-
priamente irrazionale (IV 5, 12).
206 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

3.7.5. La mente e il pensiero

Molto importante ai fini della comprensione della


dottrina parmenidea della conoscenza è il frammento
16, riportato sia da Aristotele, sia da Teofrasto. Aristotele
lo introduce in un passo della Metafisica in cui tratta di
coloro i quali «ritengono che il pensiero sia la sensazione,
e questa una alterazione» (1009b 12), e aggiunge:
Empedocle dice che mutando lo stato fisico muta il pen-
siero. […] Anche parmenide mostra la stessa cosa (IV 5,
1009b 17).

Segue il passo noto come frammento 16:


come infatti ciascuno107 ha la mescolanza delle membra
molto articolate108,
così la mente si dispone negli uomini: infatti lo stesso
è proprio ciò che pensa la natura delle membra negli uomini
in tutti e in tutto: infatti il pieno109 è il pensiero.

107. ἕκαστος ; alcuni accettano ἑκάσοτ’ (ogni volta) ritenendolo


meglio attestato, come Conche (1996) che peraltro nota: «Se, ciò no-
nostante, un certo numero d’interpreti scelgono ἕκαστος , è perché
con ἑκάστοτε , avv., ἔχει si trova senza soggetto» (p. 244).
108. πολυκάμπτων. In Teofrasto: πολυπλάγκτων, molto erranti.
Questa seconda lezione è preferita da molti per il motivo dell’“errare”.
Ad esempio Calogero (1932): «Il concetto dell’error è troppo tipico della
concezione parmenidea della conoscenza sensibile e in genere della δόξα.
[…] e πολυκάμπτων è probabilmente stato sostituito, nella citazione a
memoria, da Aristotele» (p. 54 n.). Anche Cerri (1999): «Data la centralità
della metafora della “via” nel suo pensiero e nella sua poesia, parmenide
ama insistere anche sulla metafora del ‘vagare fuori di strada’ = ‘errare’,
‘sbagliare’» (p. 280). Ritenendo che per parmenide la conoscenza umana
sia opinione, ma non necessariamente errore, non penso che in questo
caso egli avrebbe parlato di un “errare”; tuttavia πολυπλάγτων può essere
anche inteso mettendo l’accento sulla mobilità, nel qual caso potrebbe
non avere un senso negativo, e sottolineerebbe il fatto che lo stato fisico
dell’uomo, che determina quello psichico, è molto mutevole.
109. τὸ πλέον, qui tradotto “il pieno”, è però generalmente inteso
come πλεῖον, comparativo di πολύ, quindi “il più”. Bollack (1957) e
3. Le dimostrazioni di Parmenide 207

Teofrasto inserisce il frammento nella parte


iniziale del De sensibus, dove parla della conce-
zione parmenidea della percezione:
(1) Riguardo alla sensazione, le varie opinioni sono in
effetti due: alcuni infatti la pongono nel simile, altri nel
contrario. parmenide, Empedocle e platone nel simile,
i seguaci di Anassagora e Eraclito nel contrario. […] (2)
[…] Nell’insieme, dunque, queste opinioni si danno sulle
sensazioni. Intorno a ciascuna di esse singolarmente gli
altri sostanzialmente tacciono, mentre Empedocle tenta
di far risalire anche queste alla somiglianza. (3) parme-
nide infatti non ha specificato nulla in generale, ma solo
che, essendo due gli elementi, la conoscenza avviene se-
condo quello che prevale. Infatti, se aumenta il caldo o il
freddo, la cognizione diventa altra, migliore e più pura
quella secondo il caldo; tuttavia ciò richiede una certa cor-
rispondenza: [segue il fr. 16]. (4) Infatti considera il sentire e
il pensare la stessa cosa, per cui anche la memoria e l’oblio
dipendono da questi [caldo e freddo] e dalla mescolanza;
però non ha determinato se vi sia pensare o no, e quale sia
la disposizione, qualora siano uguali nella mescolanza. Che
ponga la sensazione anche dal solo contrario è chiaro là dove
dice che il cadavere non percepisce la luce e il caldo e il suono
a causa della scomparsa del fuoco, ma percepisce il freddo e
il silenzio e gli altri contrari. E tutto l’essere ha assolutamen-
te qualche conoscenza. Così dunque costui sembra troncare
con la parola le difficoltà che nascono dalla sua opinione (de
sens. 1).

L’esame di questi testi mostra, innanzitutto, che Ari-


stotele ritiene che la conoscenza umana sia un fatto fisico
sia per parmenide sia per Empedocle, e adduce a prova di
ciò proprio il frammento 16. Teofrasto dice di più, affer-
mando che per parmenide:

Untersteiner (1958) ritengono invece che sia il neutro di πλέος, quindi


“il pieno”, seguiti in questo da altri e in particolare da Laks (1988 e
1990).
208 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

a) il sentire (τὸ αἰσθάνεσθαι) e il pensare (τὸ φρονεῖν)


sono la stessa cosa;
b) il simile si conosce con il simile;
c) le due forme (“luce” e “notte”, che egli chiama
“caldo” e “freddo”) sono gli elementi che deter-
minano il pensiero;
d) è migliore e più puro il pensiero determinato dal
caldo, tuttavia anche con il freddo si percepisce,
e) il pensiero avviene in base alla forma prevalente
(ὑπερβάλλον);
f) conta anche la mescolanza delle due forme;
g) dunque tutto l’essere ha conoscenza;
h) la conoscenza richiede una certa corrispondenza
(συμμετρία).

Quello che non torna nell’argomento di Teofrasto è


il punto e): se tutto pensa, anche il freddo (punto d), e se
ciò che si pensa dipende anche dalla mescolanza delle
forme (punto f), come può il pensiero avvenire solo in
base alla forma prevalente110? Teofrasto cita a sostegno
il frammento 16, in cui alla fine del secondo verso τὸ
πλεόν, inteso come “il più”, giustificherebbe la locuzio-
ne “quello che prevale” (τὸ ὑπερβάλλον).
Se questo fosse il senso, anche il frammento sem-
brerebbe contraddittorio: se il pensiero è determinato
dalla frazione prevalente, la mescolanza non avrebbe
nessuna importanza ma conterebbe solo ciò che preva-
le. Intendendo invece con τὸ πλεόν “il pieno” il pensie-
ro sarebbe determinato da tutto l’insieme111. In questo

110. Laks (1988): «Teofrasto spiega la conoscenza presso parmenide


con la preponderanza di uno dei due elementi […] la fine del passo indica
chiaramente che ciascuno dei due elementi preso in sé stesso ‘conosce’» (p.
265).
111. Laks (1988): «La proposizione ‘il pieno (ossia la luce e la notte
che lo compongono) pensa’ si connette agevolmente al verso che precede.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 209

caso la contraddizione nel De sensibus sarebbe dovuta a


un’errata lettura del passo parmenideo da parte di Te-
ofrasto112.
Nel frammento 16 non si trova una formulazione
della dottrina della percezione “del simile con il simile”,
né altre fonti vi fanno cenno: l’unico che ne parli è Te-
ofrasto. Certo, è strano che, qualora parmenide si fosse
pronunciato più chiaramente altrove, Teofrasto non ab-
bia citato nulla di più esplicito di questo frammento a
sostegno della sua tesi113. D’altra parte, è proprio grazie
a quanto dice Teofrasto che nel verso 16.1 molti inter-
pretano la ”mescolanza delle membra” nel senso della
“mescolanza (delle due forme) nelle membra”, e poi
la “natura delle membra” come le “due forme” (luce
e notte). Teofrasto dice anche che, secondo parmeni-
de, il cadavere sente il freddo e il silenzio «a causa della
scomparsa del fuoco». Ci si può domandare se parme-
nide intendeva proprio dire che il freddo e il silenzio
erano sentiti dalla forma “compatta e pesante”, la notte
oscura, o se si tratta di un’interpretazione di Teofrasto.
In base ai frammenti disponibili, il primo ad esprimere
esplicitamente la dottrina della conoscenza del simile
col simile è Empedocle (31 B 109):
con la terra infatti vediamo la terra, e con l’acqua l’acqua,
con l’etere l’etere divino, e poi col fuoco il fuoco distruttore,
l’amore con l’amore, e la contesa con la penosa contesa
(Aristot. de an. A 2. 404 b).

τὸ πλέον designa allora l’insieme che formano le due φύσεις μελέων» (p.
272).
112. Il tentativo di Laks (1990) di esonerare Teofrasto da questa impu-
tazione non mi sembra persuasivo.
113. Verdenius (1942), argomentando nello stesso modo, sostiene
«l’improbabilità che parmenide abbia trattato i principi di questa dottrina
più a lungo di quanto non abbia fatto nel fr. 16» (p. 5).
210 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Nulla di questo genere appare nel frammento 16,


dove non si trova alcuna spiegazione del modo in cui
l’oggetto esterno agisce sui sensi114, ma si mostra sol-
tanto che lo stato cognitivo dell’uomo dipende dalla
disposizione del corpo: il corpo determina il pensiero.
Questa attenzione preferenziale accordata al soggetto
può spiegarsi alla luce della teoria epistemologica di
parmenide: non “esistono” oggetti che possano essere
percepiti, gli oggetti sono posizioni dell’uomo; è l’uo-
mo che li delimita. parmenide, non essendo un soste-
nitore della teoria della verità come “corrispondenza”
tra pensiero e realtà, è più interessato alla struttura
dell’atto stesso di pensare che non al rapporto tra il
pensiero e la sua causa esterna. Resta però il fatto che
parmenide espone qui le sue opinioni sulla natura della
conoscenza umana, e potrebbe anche legittimamente
domandarsi quale sia la causa della disposizione del-
le membra che determina il pensiero dell’uomo. C’è
quindi spazio per una teoria della percezione — perfi-
no per una dottrina della conoscenza del simile con il
simile115.
Nell’esame della testimonianza di Teofrasto ho la-
sciato per ultimo, al punto h), il principio della corri-

114. Dilcher (2006) ha giustamente notato che «nel fr. 16 di parmeni-


de è considerato soltanto il lato dell’uomo — la relazione tra il νοῦς e la
costituzione delle membra» (p. 35).
115. Nei versi 54–59 del frammento 8 Hussey (2006) legge un’attri-
buzione di proprietà psichiche alle due forme: «Il punto essenziale è che i
suoi costituenti fondamentali, Fuoco e Notte, erano dotati fin dall’inizio
di proprietà psicologiche. Il Fuoco è ”gentile” o “di animo gentile” […]
Notte è “senza conoscenza”» (p. 17). È certo possibile interpretare in que-
sto senso gli aggettivi “benigno” (ἤπιον) e “oscura” (ἀδαῆ), ma va oltre la
lettera: che la luce sia detta dolce o benigna e che la tenebra non insegni
nulla non significa necessariamente che siano intrinsecamente dotate di
specifiche proprietà psichiche, ma può anche soltanto voler dire che la
luce è favorevole, illuminante e che la notte nasconde, non permettendo
di vedere.
3. Le dimostrazioni di Parmenide 211

spondenza, perché sembra introdurre un nuovo fattore:


l’azione dell’oggetto percepito. Infatti Fränkel (1930)
ha sottolineato come il termine συμμετρία ricorra di-
verse volte nel De sensibus per esprimere l’idea che

un organo di ricezione (e.g. occhio, orecchio) è “commen-


surabile” a ciò che è da apprendere e perciò adeguatamen-
te ricettivo (p. 175).

Il termine non indicherebbe dunque la proporzione


delle due forme, ma un adattamento dell’organo della
percezione a ciò che è percepito.
Dal De sensibus di Teofrasto è evidentemente deriva-
to il passo in cui Aezio (IV 9, 6 = 28 A 47) attribuisce
anche a parmenide la dottrina della corrispondenza
(συμμετρία) dei meati del senso alla specificità di cia-
scuna sensazione. Resta invece isolata l’attribuzione da
parte di Stobeo (Eclogae I 52) a parmenide (oltre che
a pitagora) dell’opinione che la vista è dovuta a raggi
che partono dagli occhi (28 A 48).
Ritengo che dal frammento 16 si possa senz’altro
dedurre un legame tra lo stato cognitivo dell’uomo e il
suo stato fisico, rappresentato dalla disposizione delle
membra: il pensiero è determinato dallo stato fisico “nel
suo complesso” (τὸ πλέον). Mi sembra verosimile che,
parlando di κράσις (“mescolanza” ma anche “composi-
zione”), parmenide non intedesse trascurare l’influen-
za della proporzione delle due forme nelle membra: in
ultima analisi per lui tutto è costituito da queste forme
(«tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura»).
Tuttavia, il riferimento alla “mescolanza” o disposizio-
ne delle “membra” (μέλος), e non semplicemente alle
forme (μορφή), come “luce” e “notte” erano state chia-
mate, dà l’idea che non tutto si esaurisca nelle propor-
zioni del miscuglio, o addirittura nella forma prevalen-
te, come invece sembra intendere Teofrasto. Le cose,
212 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

infatti, hanno proprietà diversissime, e il semplice rap-


porto quantitativo dei componenti non può esaurire
l’enorme ricchezza delle percezioni e dei concetti che
la mente formula in relazione al mondo; né abbiamo
motivo di pensare che parmenide avesse un’idea così
riduttiva. È però ovvio che una maggior ricchezza di
luce comporti maggiore luminosità, dinamicità, vitali-
tà, coscienza.
Viceversa, nella materia bruta, inerte, fredda, deve
prevalere la notte, il corpo materiale e pesante. Qualora
al cadavere ancora non decomposto si attribuisse qual-
che residua forma di percezione, questa non potrebbe
manifestarsi che come una sensazione di freddo, silen-
zio, oscurità, isolamento… Il passo del De sensibus ha
dunque l’aria di essere un’interpretazione, resa in qual-
che modo troppo semplicistica proprio dalle eccessive
precisazioni — che finiscono anche per contraddirsi —
in margine a un testo che si mantiene sulle generali.
parmenide, come Eraclito prima di lui, non ha la pre-
tesa di spiegare ogni cosa nel dettaglio. In particolare
l’attribuzione a parmenide della dottrina della cono-
scenza del simile col simile, che non ha alcun riscontro
testuale, potrebbe ben essere una proiezione all’indie-
tro delle opinioni espresse dal frammento 109 di Em-
pedocle, utilizzate da Teofrasto proprio per soddisfare
un’esigenza di completezza e di precisione tipicamente
peripatetica.
Il frammento 16 è stato interpretato da Hussey
(2006) come una particolare teoria della mente, che
egli definisce la “teoria del modello interiore”, secon-
do cui

tutti gli stati mentali con qualche contenuto, sia stati di


percezione o, per esempio, di accertamento, progetto, im-
maginazione ecc. […] consistono nell’avere, dentro la men-
3. Le dimostrazioni di Parmenide 213

te, un modello in scala delle situazioni che sono percepite


o immaginate o progettate (p. 26).

Questo legame quasi “strutturale” stabilito tra la co-


noscenza umana e lo stato fisico dell’uomo può, a mio
avviso, aiutare a capire come parmenide sia potuto
arrivare a concepire quell’identità tra pensiero e essere
espressa dal frammento 3 e ribadita nei versi 34–36 del
frammento 8: se il pensiero è esso stesso una struttura
che simula alcuni aspetti di un’altra struttura, il pen-
siero dell’essere, dovendo riprodurre tutto l’essere, non
può essere altro che l’essere stesso, e rimane quindi al
di fuori delle possibilità della mente umana, che è solo
un’infinitesima parcella di questo essere.

3.7.6. Chiusura del poema

Il frammento 19 contiene quelli che probabilmente


sono gli ultimi versi del poema116:
Così appunto secondo opinione queste cose nacquero e ora
sono
e in seguito a ciò cresciute termineranno:
e gli uomini imposero ad esse un nome, contrassegno
a ciascuna.

Le cose descritte da parmenide nell’esposizione del-


le sue opinioni scientifiche si svolgono come lui ha mo-
strato, ed esse sono state indicate dagli uomini per mez-
zo dei nomi con cui sono identificate. Ovviamente, gli
oggetti definiti dagli uomini sono collocati nello spazio
e nel tempo, ed hanno una identità che è quella che gli
uomini ritengono di dar loro.

116. Il frammento è introdotto da Simplicio (de cael. 558, 8) con le pa-


role: «Esposta la trasformazione delle cose sensibili aggiunge poi [segue
28 B 19].
214 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Gli uomini mantengono l’identità agli oggetti anche


quando questi si modificano: il gatto che circolava per
la mia casa è rimasto il medesimo animale da quando è
nato fino a quando è morto, il Fiume Tevere è lo stesso
fiume quando è in magra e quando è in piena, la se-
dia che ho di fronte è rimasta lo stesso oggetto anche
quando ne ho fatto cambiare l’impagliatura, e tutto ciò
è così perché è così che noi uomini consideriamo gli
esseri viventi e gli oggetti. Quindi le cose che popo-
lano il nostro mondo, e che continuiamo a chiamare
con lo stesso nome, possono mutare; e di fatto muta-
no, nascono o vengono prodotte, muoiono o vengono
distrutte, e nessuno si deve preoccupare che ciò non
possa accadere.
Tutto va dunque bene, a patto di ammettere che il
nostro non è l’unico modo di articolare il mondo e di
definire gli oggetti e gli altri enti, e che non vi è un’arti-
colazione del mondo che sia valida in sé, indipendente-
mente dalle nostre scelte.
Infatti, nessuna articolazione è oggettiva, ma tut-
te sono un legittimo prodotto umano, e certo nessun
uomo può pensare di accostarsi alla verità assoluta
dell’essere.

3.8. Conclusioni

Nel fondare la verità, una verità logicamente garanti-


ta, parmenide parte dalla proposizione che il pensiero,
inteso come espressione di necessità logica, dice che “è”:
e con ciò predica l’esistenza dell’essere. Questa afferma-
zione è auto–fondante: l’essere è tutto ciò che è, quindi
esiste. L’essere esiste per sua stessa definizione, e questo è
verità. pensare è pensare l’esistenza, e pensare l’esistenza
dell’essere è asserire una verità logica. Il pensiero dell’es-
3. Le dimostrazioni di Parmenide 215

sere non è inteso dunque come l’atto fisico di riflettere,


ma come fatto logico che pone la verità. La conoscenza
dell’essere nella sua totalità è l’essere stesso: verità ed essere
coincidono.
L’essere di parmenide è il tutto: include tutto senza
distinzioni. Cosa altro si può legittimamente predicare
dell’essere, oltre all’esistenza? Nulla. In particolare, non si
può logicamente dedurre alcuna articolazione dell’essere,
perché qualcosa che divida l’essere da se stesso, il non esse-
re, non esiste e non è neanche pensabile. Dell’essere quindi
si può dire soltanto che esiste di un’esistenza atemporale
e uniforme, che non ammette differenze o articolazioni
e che si predica sempre e ovunque allo stesso modo.
Che nessuna suddivisione dell’essere sia logicamente
deducibile è quindi confermato logicamente; e logica-
mente ne consegue che la conoscenza umana articola il
mondo in enti definiti convenzionalmente in base agli in-
teressi umani e che, essendo priva di fondamento certo,
non è più verità (ἀλήθεια) ma soltanto opinione (δόξα).
Sul fatto che per parmenide l’opinione sia convenzio-
nale non possono sussistere dubbi: tutte le espressioni,
senza eccezioni, che indicano l’attribuzione di nomi, con
il connotato di convenzionalità che ciò comporta, si rife-
riscono alle opinioni dei mortali. In merito a tali opinioni
non si parla mai di verità, se non per stigmatizzare l’erro-
re che i mortali compiono nel crederle vere.
Se le opinioni dei mortali non corrispondono a veri-
tà, è forse necessario considerarle false, come moltissimi
commentatori hanno argomentato? Si è visto che proprio
il fatto che parmenide consideri verità solo quella dimo-
strabile in base all’esistenza dell’essere, lascia spazio per ciò
che dimostrabile non è: lascia spazio per ciò che è, e deve
necessariamente rimanere, convenzione e opinione.
Dalle sue considerazioni sulla verità parmenide non
trae la conclusione che l’opinione umana sia vana. Lo
216 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

dimostra il fatto che l’unico scritto che gli sia stato at-
tribuito, il Poema sulla Natura, è dedicato in larga misura
proprio alle opinioni umane più avanzate, alle opinioni
scientifiche formulate da parmenide stesso. Di queste
opinioni, si è visto, parmenide era estremamente fiero,
tanto da non esitare a metterle in bocca alla dea. Dobbia-
mo quindi rimpiangere lo stato estremamente mutilato
con cui esse ci sono giunte. possiamo però intuire dei
motivi per questa fierezza: la comprensione della natura
della luce lunare, che implica la sfericità del corpo cele-
ste, la percezione dell’identità di Venere, e ancora di più
la scoperta della sfericità della terra, sempre che gli possa
essere effettivamente attribuita, sono pietre miliari nel-
la storia dell’astronomia. Si possono allora riconoscere
in parmenide anche le capacità del grande scienziato, in
grado di utilizzare le osservazioni di cui dispone per for-
mulare ipotesi rivoluzionarie, del tutto degne delle sue
straordinarie concezioni epistemologiche.
Si può concludere quindi che, nonostante l’apparenza,
la posizione di parmenide è radicalmente anti–dogmati-
ca, come aveva giustamente notato popper (1965):

parmenide, che sarebbe facile prendere erroneamente per il


più dogmatico di tutti i grandi filosofi (p. 148).

La coscienza della fallibilità delle opinioni umane, con-


sapevolezza dolorosa, tramandata dai più antichi poeti,
era cosa scontata nella cultura dell’epoca e si è trasmessa
con nuovi connotati alle generazioni successive. L’im-
possibilità per l’uomo di accedere alla verità, che nella
poesia antica si contrapponeva penosamente alla scien-
za divina, era stata pacatamente accettata da Senofane e
articolata nei suoi molteplici aspetti da Eraclito. Questa
radicale limitatezza del pensiero umano parmenide l’ha
dimostrata. parmenide ha dimostrato l’unica verità che
3. Le dimostrazioni di Parmenide 217

sia possibile dimostrare, ossia, paradossalmente, che la


verità non è dimostrabile e che l’essere, certamente esi-
stente, non può essere conosciuto dall’uomo. Non stupi-
sce quindi che il pensiero di parmenide abbia costituito
una sfida per i pensatori che hanno tentato fondare la
conoscenza umana su basi sicure.
Benché il pensatore d’Elea ritenesse d’aver posto la
sua verità su basi incontrovertibili, mantenendola netta-
mente distinta dall’opinione, neanche il suo essere sfugge
all’inevitabile sorte che spetta a tutti gli enti definiti dai
mortali: quello di essere, in ultima analisi, soltanto un
altro nome dato dall’uomo. L’essere è forse l’ente più ge-
nerale e comprensivo che sia possibile immaginare, ma
resta comunque una definizione umana: l’ἀλήθεια è pre-
sa allo stesso laccio della δόξα! Questo potrà apparire for-
se un fallimento definitivo per i cultori del pensiero forte:
le concezioni di parmenide, come quelle di protagora,
si vanificherebbero da sé perché incapaci di assicurare la
propria Verità. Non è così per chi è convinto della natura
ipotetica della conoscenza: dopo due millenni e mezzo
la dimostrazione di parmenide continua a rappresenta-
re un modello epistemologico sostenibile, espresso con
grande rigore, anche se formulato in termini desueti.
Indubbiamente parmenide non ha fornito un criterio
che consenta di decidere nell’ambito delle opinioni, ma
chi può condannarlo per questo? Si può tranquillamente
affermare, però, che le procedure decisionali e di control-
lo messe a punto dalla scienza implicano proprio quella
concezione del carattere congetturale e mirato della co-
noscenza che costituisce, a mio avviso, il risultato fonda-
mentale dell’indagine di parmenide.
4. Le ragioni di Zenone

Zénon ! Cruel Zénon ! Zénon d’Élée!


M’as–tu percé de cette flèche ailée
Qui vibre, vole, et qui ne vole pas!
Le son m’enfante et la flèche me tue!
Ah! le soleil… Quelle ombre de tortue
Pour l’âme, Achille immobile à grand pas!
paul Valéry1

4.1. Paradossi

Alcuni argomenti di Zenone, indubbiamente sugge-


stivi, hanno goduto di una certa popolarità anche al di
fuori degli ambienti strettamente filosofici, e Achille,
che invano s’affanna nel tentativo di vincere l’estenuan-
te lentezza della tartaruga, come la freccia, immobile in
un volo congelato per l’eternità, simboleggiano per noi
l’elusività di un tempo che viviamo senza comprendere.
Del resto questa suggestività era stata già messa in evi-
denza da Aristotele:
ma a ciò s’aggiunge che neanche il più veloce teatralmente
rappresentato nell’inseguire il più lento [lo raggiunge] (phys.
VI 9, 239b 25).

1. Le cimetière marin, in p. Valéry Charmes, 1922 (Valéry, Poésies,


Gallimard, 4a ed., 1944, 321 p.): «Zenone! Crudele Zenone! Zenone
di Elea! / Tu mi hai trafitto con quella freccia alata / che vibra, vola,
e che non vola! / Il suono mi dà la vita e la freccia mi uccide! Ah! il
sole… Che ombra di tartaruga / sull’anima, Achille immobile a gran
passi!» (p. 185).

219
220 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Zenone ha goduto di una fama di sottile ma parados-


sale ragionatore, capace di mostrare la fallacia dell’evi-
denza; ma la considerazione che lo ha sempre circondato
non è mai stata esente dal sospetto d’essere anch’essa il
frutto di abile illusionismo. Questo atteggiamento, che
ha perseguitato la memoria di Zenone fino ai nostri gior-
ni, traspare già in platone che ne è il più antico testimo-
ne. Questi, infatti, immagina nel Parmenide una discus-
sione tra Zenone e Socrate, allora molto giovane, in cui
l’Eleate, dopo aver confermato d’avere composto il suo
scritto in difesa del maestro parmenide2, dichiara
È proprio per questo gusto dello scontro, dunque, che da
giovane scrissi, ma qualcuno mi trafugò quello scritto, sic-
ché non fu possibile decidere se esso avrebbe dovuto essere
messo in circolazione oppure no (128d 5).

Questa testimonianza è indubbiamente ben strana:


cosa poteva saperne platone delle motivazioni di Zeno-
ne3? In realtà si tratta di una messa in scena4. Ci si può
domandare perché platone rappresenti Zenone nel ten-
tativo di giustificarsi di ciò che ha scritto, attribuendolo
a bellicosità giovanile e accreditandone la natura eristica,
come se ormai non ne fosse più convinto5. Sembra quasi
che platone metta le mani avanti. A mio avviso giocano
qui, contrapponendosi, due fattori: da un lato, il ruolo
che platone attribuisce a parmenide e al pensiero eleatico
2. platone (Parm., 127 b 5) attribuisce a Zenone circa venticinque
anni meno di parmenide.
3. Raven (1948) nota come fosse improbabile «che platone dovesse
aver conosciuto i reali motivi di Zenone» (p. 73).
4. per Fränkel (1942) «Sembra che platone abbia inventato la storia
per indicare che secondo lui il trattato di Zenone dovesse essere preso cum
granu salis» (p. 125).
5. Giustamente Fränkel (1942) ha rilevato l’incongruenza: Zeno-
ne rinnega in qualche misura lo scritto, ma continua a leggerlo pubbli-
camente.
4. Le ragioni di Zenone 221

nell’esposizione delle proprie dottrine filosofiche, ruolo


che comporta una valutazione positiva di quei pensato-
ri (soprattutto del «nostro padre parmenide»); dall’altro,
una forte perplessità nei riguardi dei “paradossi” di Ze-
none, che dovevano apparirgli deboli o, in qualche caso,
poco comprensibili. L’impressione è che platone non vo-
glia compromettere completamente il prestigio dell’Ele-
ate, pur non essendo affatto convinto della validità dei
suoi argomenti. Che platone consideri fondamentalmen-
te eristica la dialettica zenoniana è confermato dal noto
passo del Fedro contro la retorica:
Socrate: Non sappiamo forse che il palamede eleatico par-
lava con arte, in modo da far apparire agli ascoltatori le
stesse cose simili e dissimili, una e molte, e anche ferme
e poi in movimento? (261c 10).

Essendo il palamede eleatico proprio Zenone, questo


testo non dissipa certo l’impressione che platone nutrisse
dell’Eleate un’opinione quanto meno ambigua6; né, se il
dialogo è di platone come sostiene Croiset (1946)7, la dis-
sipa il passo dell’Alcibiade Primo (119a) in cui Socrate can-
zona pitodoro e Callia per la sapienza acquistata pagando
a caro prezzo Zenone. L’enormità della cifra menzionata
rivela l’intento sarcastico dell’autore8, soprattutto se si

6. Vlastos (1975, p. 285) considera la testimonianza del Fedro so-


stanzialmente in accordo, anche dal punto di vista dottrinale, con le altre
informazioni che abbiamo su Zenone e in particolare con quella del Par-
menide.
7. Vedi anche Guthrie (1975) p. 169, n. 2 e Caveing (1996) p. 154.
Caveing aggiunge come argomento contro l’autenticità dell’Alcibiade pri-
mo il fatto di «invalidare tutto ciò che sappiamo di Zenone da altre fonti»
(p. 157). pur non volendo assolutamente entrare in merito alla questione
dell’autenticità del dialogo, mi pare tuttavia che nei confronti di Zenone
esso sia assolutamente coerente con il Fedro e con il Parmenide.
8. Vlastos (1975, p. 290) considera l’enormità della cifra e il giudizio
stesso espresso su Zenone nell’Alcibiade I importanti motivi per negare
222 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

tiene conto dell’ironia con cui questi ha sempre trat-


tato il ricchissimo Callia, e la sua prodigalità nei con-
fronti dei Sofisti di cui si circondava (Protagora¸ 315d;
l’Apologia di Socrate, 20a). D’altra parte, che platone ri-
tenesse di non poter scindere completamente Zenone
da parmenide è mostrato anche nel Sofista (216a 2).
Aristotele, i cui legami con l’eleatismo sono molto
più tenui di quelli di platone, non si fa scrupolo di cri-
ticare le argomentazioni di Zenone ogni volta che gli
è utile, e giudizi duri non mancano9. Lo Stagirita però
non è mai direttamente dispregiativo nei confronti
dell’Eleate, come è invece nei riguardi di Senofane e
di Melisso; al contrario lo utilizza per esemplificare un
metodo corretto di dialogare (soph. el. 10. 170b 19 = 29
A 14).

4.2. La critica

Gli atteggiamenti di platone e di Aristotele hanno


trovato un seguito nella critica moderna, che è prati-
camente unanime nel riconoscere la fallacia delle argo-
mentazioni zenoniane. Fra i più duri è certamente Ca-
logero (1932), che vede in Zenone uno zelante scolaro
che rinuncia ad elaborare e ad approfondire le posizioni
del maestro, limitandosi «a costruire intorno ad esse
una barriera di argomenti di sostegno» (p. 107). Altret-
tanto critico è Albertelli (1939), secondo cui Zenone
non aveva ben chiaro «né il principio della continuità né
quello della discrezione» (p. 166). per Zafiropulo (1950)
gli argomenti di Zenone si riducono ad equivoci lingui-
la paternità del dialogo a platone. Egli infatti ritiene complessivamente
positiva l’opinione di platone su Zenone.
9. metaph. B 4. 1001 b 14: θεωρεῖ φορτικῶς (ragiona grossolana-
mente); phys. Z 9. 239b 5: παραλογίζεται (ragiona male).
4. Le ragioni di Zenone 223

stici e «non sollevano alcuna difficoltà dal punto di vista


logico» (p. 109). Secondo Barnes (1979b) Zenone, man-
cando di visioni profonde ed essendo personalmente
«negativo, distruttivo, polemico […] era il primo dei
‘Sofisti’» (p. 294).
La sottigliezza e la suggestione di alcune argomen-
tazioni zenoniane hanno reso altri autori decisamente
restii ad attribuire a Zenone il giudizio negativo che
meriterebbe per l’inconsistenza dei suoi argomenti:
come è possibile che un uomo così sottile e di statura
intellettuale tanto elevata non si fosse accorto che i suoi
ragionamenti facevano acqua? per risolvere questa ap-
parente contraddizione sono state elaborate sostanzial-
mente tre distinte strategie:

a) invocare la relativa arcaicità del pensatore: nella


sua epoca certi concetti logici non erano stati an-
cora scoperti; era vissuto prima che Aristotele for-
mulasse le regole della logica — addirittura prima
di platone! —;
b) limitare gli obiettivi di Zenone: egli sarebbe stato
ben conscio della debolezza dei suoi argomenti
ma, dilettandosi delle polemiche, sfidava i suoi av-
versari a confutarli;
c) trovare un avversario nei cui confronti le argomen-
tazioni di Zenone risultassero valide, affermando,
quindi, che egli non intendeva in realtà negare la
pluralità o il moto, ma soltanto dimostrare che
erano incompatibili con le tesi di questo presunto
avversario.

La prima strategia ha trovato un coerente sostenitore


in Vlastos (1967), il quale si chiede come sia possibile che
verità tanto evidenti possano essere sfuggite «a un pensa-
tore dell’indubbia potenza di Zenone», e se lo spiega solo
224 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

invocando la relativa arretratezza del pensiero della sua


epoca10: se, come platone suggerisce nel Sofista11, anche
al tempo di Socrate esistevano seguaci dell’eleatismo che
si lasciavano ingannare da simili argomentazioni, perché
non avrebbe dovuto ingannarsi Zenone? Chi, però, è ri-
uscito a esprimere nel modo più chiaro e inequivocabi-
le questa strategia è Stokes (1971) che, non riuscendo a
trovare alcun senso nei ragionamenti di Zenone, li con-
sidera facilmente spiegabili «nel contesto dell’ignoranza
logica del suo tempo» (p. 217).
La seconda strategia ha trovato un valente sostenitore
soprattutto in Solmsen (1971): secondo cui Zenone
si diletta nella sperimentazione intellettuale, nella scoperta
e nello sfruttamento di nuovi modi di argomentazione (p.
393)

ed è più interessato alla formulazione di ingegnosi dilem-


mi e paradossi che alla ricerca di risultati positivi.
La terza strategia ha raggruppato intorno a sé una
fitta schiera di studiosi, apportando come beneficio
marginale anche la scoperta di una teoria filosofica altri-
menti ignota, il number–atomism di Cornford (1922), la
cui esistenza sarebbe provata proprio «dagli argomenti
critici di Zenone» (p. 155). Il fondatore riconosciuto di
questa strategia è stato Tannery (1887), il quale ritene-
va che la polemica di Zenone non potesse essere rivol-

10. Caveing (1982) ha notato che «Vlastos non capisce affatto la natu-
ra della discussione ontologica condotta dall’Eleate» (p. 40).
11. Chi nega la possibilità che si possa essere “uno” e “molti” è stig-
matizzato con durezza dallo straniero di Elea nel Sofista di platone: «Ti sei
spesso imbattuto, infatti, come credo, o Teeteto, in chi si dedica a simili
argomenti, uomini talvolta più che maturi, i quali per le scarse capacità
intellettive si lasciano entusiasmare, certo credendo di aver scoperto qual-
cosa di molto intelligente» (251c 3). Lo straniero di Elea non era certo un
Eleate!
4. Le ragioni di Zenone 225

ta, come invece aveva sostenuto Zeller, contro coloro


che si richiamavano al pensiero comune e accettavano
banalmente l’esistenza dei molti e del movimento.
per Tannery «era un pubblico ristretto e sapiente
quello a cui si indirizzava, era una teoria particolare
che combatteva» (p. 257), e questo pubblico non pote-
va essere costituito che dai pitagorici, i soli pensatori
che, a suo dire, erano in auge nell’ambiente di parme-
nide e sostenevano che il punto è unità dotata di posi-
zione ed il corpo geometrico è una pluralità, somma
di punti12.
La tesi della polemica anti–pitagorica, condivisa da
Gomperz (1896), è stata ripresa in seguito da Mondolfo
(1927), e poi da Lee (1936), che la ritiene necessaria per
dare un senso agli argomenti di Zenone. Uno dei recenti
sostenitori della tesi di Tannery è Caveing (1982)13 il qua-
le in merito ai ragionamenti dell’Eleate nota che «contro
la pluralità assunta nel senso comune sono tecnicamente
senza effetto» (p. 160). La posizione di Tannery è stata
poi rivendicata con decisione anche da Matson (1988 e
2001), per il quale gli argomenti della freccia e della corsa
possono essere ritenuti validi solo contro una dottrina
che considera lo spazio composto di luoghi, come quella
dei pitagorici, aggiungendo che questa interpretazione
è l’unica che possa giustificare la stima che l’antichità ha
tributato a Zenone.
Non è rimasta altra traccia del pensiero pitagorico che
Zenone avrebbe combattuto, ma per questo Tannery ha
la risposta pronta: Zenone è stato efficacissimo, tanto è

12. A sostegno della tesi di Tannery, Burnet (1892) ha richiamato


l’elenco delle opere di Zenone contenuto nella Suda, in cui compare il ti-
tolo “contro i filosofi” (πρὸς τοὺς φιλοσόφους), titolo che all’epoca sareb-
be stato attribuito essenzialmente ai pitagorici. L’argomento è condiviso
anche da Zafiropulo (1950).
13. Vedi anche Caveing (1996).
226 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

vero che «dopo Zenone le teorie che aveva criticato non


sono più ricomparse» (p. 269).
La tesi di una polemica anti–pitagorica ha sollevato
critiche giustificate. Già Zeller la respinge, sia perché «è
assolutamente indimostrabile che i pitagorici abbiano
mai sostenuto le opinioni attribuite loro da Tannery» (I
III p. 359, trad. di G. Reale), sia perché essa non giustifica
le effettive argomentazioni di Zenone. Opinione, questa,
condivisa anche da Calogero (1932), secondo cui la tesi
non sarebbe in grado di spiegare tutte le argomentazioni
contro il moto14.
La difficoltà di trovare una coerenza negli argomenti
di Zenone ha portato alcuni critici su posizioni molto ra-
dicali. In particolare, Solmsen (1971) ritiene che Zenone
non neghi soltanto il molteplice, ma anche l’uno, senza
che si possa affermare che negando l’uno, parte dei molti,
egli aderisca invece alla tesi parmenidea dell’unità dell’es-
sere, ammesso e non concesso che parmenide tale tesi
l’abbia sostenuta. Sviluppando il punto di vista di Solm-
sen, Cordero (1988) ha trovato finalmente un nome per il
punto di vista di Zenone, i cui argomenti «sono basati su
di una solida posizione filosofica che, se bisognasse dar-
le un nome, non esiteremmo a chiamare ‘nihilista’»15 (p.
120). Egli segue, in questo, una linea interpretativa nota
fin dalla antichità:

14. Con l’interpretazione di Calogero polemizza Mondolfo nel ca-


pitolo Note sull’eleatismo (Mondolfo, 1935, p. 165). La tesi di Tannery è
rifiutata da Albertelli (1939), da Owen (1960), da Heidel (1940), da Stokes
(1971), da pasquinelli (1958), da Vlastos (1953), per il quale «non può es-
servi assolutamente motivo di trattare i frammenti di parmenide come
prova, diretta o indiretta, di vedute pitagoriche. […] La stessa cosa si può
dire di Zenone» (p. 182).
15. Conclusione cui era giunto precedentemente Gomperz (1986):
«Era, quando entrò nella lotta, un fedele seguace della dottrina dell’unità,
un ontologo convinto; ma quando ne uscì era uno scettico, o meglio un
nihilista» (p. 319; trad. di L. Bandini).
4. Le ragioni di Zenone 227

se [credo] a parmenide, nulla è tranne l’uno; se a Zenone,


neanche l’uno…16 (Senec. ep. 88, 44).

Cordero (2004) nega qualsiasi legame del pensiero di


Zenone con quello di parmenide, perché
l’éstin di parmenide non è un “oggetto”; è una forza inesau-
ribile, completa, perfetta, che non può essere considerata
come una o multipla, “divisibile all’infinito o indivisibile in
un’unica parte” (p. 183).

Questa posizione estrema, che scinde nettamente il


pensiero dei due Eleati, facendo ricadere sulla lettura di
Zenone esigenze esegetiche del pensiero di parmenide,
mi sembra confermare, in negativo, lo stretto legame che
sussiste tra i due pensatori. La chiave della comprensione
dei paradossi di Zenone risiede, a mio parere, proprio
nell’interpretazione del pensiero del suo maestro.

4.3. Zenone seguace di Parmenide

per trovare un senso alle argomentazioni di Zenone


è necessario riconoscere che egli era effettivamente uno
stretto seguace di parmenide17 e che l’unità, parte dei
molti, che egli critica, è cosa ben diversa dall’unico essere
eleatico. Ritengo che Zenone ci illumini sugli argomen-
ti che dovevano essere materia di discussione ad Elea
nell’ambito della cerchia di parmenide, o almeno tra lui
stesso e il suo maestro. penso perciò che Zenone meri-

16. Qualche anno dopo, Cordero (1991) si pronuncerà in modo an-


cor più radicale: «Una conclusione s’impone: Zenone non era il rappre-
sentante di alcuna teoria filosofica» (p. 114).
17. Untersteiner (1963): «Non esiste passo teoretico di parmenide
[…] senza che vi sia il corrispondente pensiero esegetico del giovane di-
scepolo» (p. XXI).
228 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ti un’attenta rivalutazione, e che le sue argomentazioni


debbano essere analizzate, non come ingegnosi parados-
si, ma per il loro intrinseco valore epistemologico.
Se Zenone era effettivamente un fedele seguace di
parmenide, quale concezione doveva avere dell’essere?
La medesima di parmenide, ovviamente: l’essere è tutto
l’esistente, nulla escluso. È impossibile che esistano più
esseri, perché ciò implicherebbe il non essere, che ovvia-
mente non esiste.
per Zenone come per parmenide tutte le distinzioni
all’interno dell’essere sono posizioni umane. In altre pa-
role, per fermarci soltanto agli aspetti materiali, noi pos-
siamo suddividere il continuum come ci pare, ma qualsia-
si suddivisione non è proprietà intrinseca dell’essere, ma
atto umano.
Non è facile spiegare questo punto di vista, perché ogni
uomo è talmente abituato a pensare il mondo suddiviso
in oggetti ed enti, da trovare difficoltà ad immaginare che
un altro senziente, di natura aliena o semplicemente con
esigenze differenti, possa suddividere lo stesso continuum
in modo del tutto diverso. Tutto ciò avrebbe ben poca
rilevanza se non riguardasse strettamente il rapporto
interumano: benché esista un generale accordo su gran
parte dell’articolazione del mondo, permangono tutta-
via visioni distinte e idee differenti, spesso incompatibili
e oggetto di contesa. Il punto di vista eleatico, in seguito
ripreso da alcuni Sofisti, nega l’oggettività di qualsiasi im-
magine del mondo.
Ovviamente, se gli enti non hanno alcuna oggettivi-
tà, anche la “pluralità” ne è priva, e così il “mutamen-
to”, che richiede la preventiva esistenza dell’oggetto che
muta. Infatti, l’attributo di “essere”, applicandosi indif-
ferentemente e nello stesso modo a tutto, non ammette
l’oggettività di alcuna specificazione o articolazione spa-
ziale e temporale.
4. Le ragioni di Zenone 229

È evidente come una simile posizione non sia d’im-


mediata comprensione. La logica stringente che nega
l’esistenza oggettiva dei molti e del mutamento è, in
apparenza, talmente opposta alla nostra esperienza, da
generare una sensazione di rivolta, talvolta impotente
ma difficile da reprimere.
Non stupisce quindi che contro una simile episte-
mologia siano state messe in atto strategie di risposta
alternative, quali lo scherno o l’azione, di cui è rimasta
traccia nella testimonianza di Elia (29 A 15)18:
E una volta difendendo di nuovo il suo maestro che diceva
l’essere immobile, mostra con cinque argomentazioni che
l’essere è immobile. Non potendo controbattere a costui,
Antistene il cinico alzatosi si mise a camminare, ritenendo
che mostrare con l’atto fosse più efficace di qualsiasi confu-
tazione verbale (Elias in categ. p. 100, 6).

Questo testo mostra il tipo di reazioni che poteva su-


scitare il pensiero apparentemente paradossale di par-
menide. platone immagina che Zenone volesse contro-
battere a questo genere di reazioni con argomenti pu-
ramente eristici; ma non è detto che l’interpretazione
platonica, sostanzialmente svalutativa, sia calzante. È
mia intenzione esplorare l’ipotesi che le argomentazio-
ni di Zenone siano valide.
Quello che Zenone si propone di mostrare è che le nostre
distinzioni non rappresentano l’effettiva composizione del
reale, ma sono solo operazioni dalla mente umana. Egli
procede, quindi, facendo vedere che se considerassimo tali
distinzioni la “vera struttura del reale” cadremmo in as-
surdità.

18. Lo stesso episodio è citato da Sesto (Pirr. II 244; III 66; pros phys, 2,
68) che l’attribuisce genericamente a un cinico, che Diogene Laerzio (VI
39) identifica con Diogene il Cinico.
230 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Zenone procede formulando l’ipotesi controfattuale


“se i molti sono” (εἰ πολλά ἐστι τὰ ὄντα)19. Cosa compor-
ta dal punto di vista operativo, nell’ambito del discorso,
considerare l’esistenza oggettiva dei molti?
parmenide è giunto a formulare la compatta unicità
dell’essere tramite una rigorosa deduzione logica a par-
tire dal concetto stesso di essere. Non si tratta di una
conclusione arcana: sussiste la possibilità di un riscon-
tro nell’ambito della esperienza umana. In che modo è
possibile individuare i diversi esseri in modo univoco,
come competerebbe a ciò che esiste “in sé”, indipen-
dentemente dal nostro arbitrio e dalle nostre esigenze?
Non solo qualsiasi oggetto che l’uomo pone — il mon-
te, la casa, l’albero — può essere ulteriormente suddivi-
so a volontà in parti distinte, ma più oggetti potrebbero
essere arbitrariamente raggruppati in altri oggetti, e
parti di oggetti diversi potrebbero essere assemblate in
modo differente dal nostro uso comune. Se soltanto ci
interessasse, potremmo anche definire tali nuovi rag-
gruppamenti con nomi appropriati, non meno conven-
zionali di quelli cui siamo abituati. Ovviamente, ciò che
vale per gli oggetti materiali vale anche — e a maggior
ragione — per gli enti concettuali che fanno parte del
nostro vocabolario.
L’infinita divisibilità del continuo non permette d’in-
dividuare dei confini necessari tra gli enti; d’altra parte,
considerare vere “in sé” le differenti possibili articola-
zioni porta a contraddizioni. Zenone, come parmenide,
ritiene che, qualora una nostra suddivisione della realtà
fosse un’oggettiva partizione dell’essere, i suoi elemen-
ti — gli oggetti — godrebbero di un’esistenza indipen-
dente dalle nostre scelte. Se un determinato ente “è”

19. Rapp (2006): «Le cosiddette antinomie di Zenone […] sono tutte
basate su premesse che Zenone stesso non condivide» (p. 173).
4. Le ragioni di Zenone 231

oggettivamente, esso si pone come una presenza asso-


luta, che l’uomo potrebbe riconoscere come esistente
ma non potrebbe modificare, se non arbitrariamente,
con un atto mentale: l’ente in sé “è” in quel modo e non
in un altro.
parmenide nel suo poema non aveva neanche tentato
di definire quali sarebbero state le caratteristiche degli es-
seri nel caso fossero stati molti: si era limitato a mostrare
che non esistono molteplici esseri. Zenone invece si è sot-
toposto al tour de force di definire le proprietà che dovreb-
be avere i molti, se esistessero. Questa difficoltà, pressoché
insormontabile, va tenuta presente nell’analisi dei suoi
argomenti. Non sappiamo se egli nel suo scritto abbia
mai definito le proprietà che avrebbe un essere oggettivo,
dato che nulla ci è giunto d’esplicito su questo argomen-
to, ma mi sembra inevitabile che almeno un’idea dovesse
averla elaborata. Di questa idea possiamo cercare le trac-
ce nelle testimonianze che ci sono giunte: innanzitutto
nei frammenti, e poi nei riferimenti indiretti.
Una delle contraddizioni poste dall’esistenza del mol-
teplice è che il medesimo spazio, anche concettuale,
può essere suddiviso secondo criteri diversi, con linee di
demarcazione che non si sovrappongono, come ben sa
chiunque si sia accinto a fare una classificazione. Allora,
se si potesse ipotizzare l’esistenza oggettiva di due riparti-
zioni differenti, l’essere risulterebbe diverso da se stesso.
Questa prima basilare conseguenza dell’aver posto i mol-
ti ha effettivamente lasciato una chiara traccia, come ha
mostrato Calogero (1932), nel passo del Parmenide di pla-
tone in cui il Socrate chiede a Zenone se è vero che nella
prima ipotesi del primo argomento egli sostenga che

se gli esseri sono molti, allora debbono essere simili e dissimili,


il che è impossibile: dato, infatti, che né i dissimili sono simi-
li, né i simili dissimili (127e 1).
232 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

al che Zenone risponde affermativamente20. più avan-


ti (129a 4), nel passo già citato a pagina 86, Socrate si
chiede cosa ci sia da meravigliarsi nel fatto che una cosa
possa partecipare del molteplice o dell’uno, a seconda di
come “la si considera”.
La differenza tra le obiezioni di Socrate e la dottrina
implicita negli argomenti presentati da Zenone è, credo,
chiarissima se si parte dall’ipotesi che Zenone fosse un
fedele seguace di parmenide. Socrate parla di come gli
uomini “considerano”, mentre Zenone parla dell’essere
come “è” in sé.
per esemplificare il punto di vista di Zenone, si pen-
si a qualcosa di omogeneo21, come un tratto di spazio o
un percorso: lo si può dividere, ad esempio, in intervalli
uguali, ma anche in intervalli che vanno via via riducen-
dosi a partire da un’estremità. Il tratto nel suo insieme è
lo stesso in entrambi i casi, ma lo pensiamo decomposto
in modi diversi. Finché si tratta di una nostra suddivi-
sione, nessun problema sussiste. Ma cosa accadrebbe se
entrambi quegli aggregati fossero invece composti dagli
effettivi elementi che formano il tratto? Accadrebbe che
quel tratto di spazio sarebbe costituito da elementi esi-
stenti in sé, uguali tra loro, e anche da elementi, sempre
esistenti in sé, che vanno via via riducendosi a partire da
un’estremità: esso risulterebbe quindi uguale e diverso
da se stesso.
Si può esaminare l’argomento anche da un altro pun-
to di vista: attribuire statuto ontologico a una particolare
suddivisione dello spazio vorrebbe dire pretendere che
questa sia vera e legittima perché coglie la realtà, men-

20. Non molto diverso è l’argomento del Fedro (261c 10).


21. Addurre come esempi oggetti cui siamo assuefatti renderebbe
più difficile la comprensione dell’argomento: come scriveva parmenide, è
proprio l’abitudine delle molteplici esperienze (ἔθος πολύπειρον) a spin-
gerci sulla via dell’errore.
4. Le ragioni di Zenone 233

tre altre non la colgono. Una simile posizione sarebbe


evidentemente arbitraria: Zenone mostrerà che non vi
è modo di stabilire confini reali sulla base della proprie-
tà di esistere, che è l’unico fatto certo per gli Eleati. Il
problema posto da Zenone riguarda dunque la struttu-
ra dell’essere, non il giudizio umano, che non è intaccato
dalle argomentazioni zenoniane finché non avanza pre-
tese ontologiche22.
Quello che sappiamo degli argomenti di Zenone mi
sembra indirizzato a sostenere la posizione di parmenide
nel suo complesso; tuttavia, per comodità d’esposizione,
nelle pagine che seguono farò riferimento alla classifica-
zione tradizionale degli argomenti, suddividendoli in argo-
menti contro la pluralità, contro il luogo e contro il moto.

4.4. Argomenti contro la pluralità

Zenone, da buon Eleate, sostiene che l’essere è un


tutto unico: non esiste una pluralità di esseri. Egli mo-
stra che porre l’esistenza della pluralità genera contrad-
dizioni in merito sia alle dimensioni, sia al numero degli
esseri — ossia alle unità da cui tale pluralità è formata.
Eudemo (phys. fr. 7) sintetizza efficacemente la natura
del problema:
Si racconta che Zenone dicesse che, se qualcuno gli avesse
mostrato cosa è mai l’uno, avrebbe ammesso che gli enti esi-
stono (Simplic. phys. 97, 12).

Si noti che tutti gli argomenti di Zenone che cono-


sciamo riguardano enti dotati di dimensioni spaziali, cioè
che vediamo o possiamo immaginare di vedere.

22. Vedi anche Caveing (1996) p. 133.


234 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

4.4.1. Argomento basato sulle dimensioni degli esseri

Zenone mostra come il tentativo di determinare i


componenti ontologici della pluralità porti inevitabil-
mente alla sparizione dell’essere oppure ad un essere illi-
mitato che ha tutte le caratteristiche dell’essere eleatico.
La tesi è enunciata in un passo dell’introduzione di Sim-
plicio al frammento 2, che può essere considerato una
parafrasi della fine del frammento 1:

se i molti sono, sono anche grandi e piccoli: grandi sì da es-


sere illimitati per grandezza, piccoli sì da non avere alcuna
grandezza (Simplic. phys. 139, 5).

L’argomento esposto nei frammenti che ci ha trasmes-


so Simplicio può essere articolato come segue:

— esistono molti esseri;


— si può provare ad individuare ciascun essere cercan-
do un elemento indivisibile: l’essere risulta allora
infinitamente piccolo;
— se è infinitamente piccolo non esiste: l’essere deve
avere estensione;
— si può provare ad individuare ciascun essere cercan-
done i limiti: l’essere risulta allora illimitato;
— se è illimitato è unico;
— quindi non esiste una pluralità di esseri.

Si esaminino in ordine i diversi passi.


Esistono molti esseri. «Se i molti sono» (εἰ πολλά ἐστιν) è
l’ipotesi che Zenone pone per assurdo. La troviamo espli-
citamente citata all’inizio dei frammenti 1 e 2 e, ben due
volte, nel frammento 3. Simplicio, che aveva capito bene
la natura dell’argomentazione, introduce il frammento 2
con le seguenti parole:
4. Le ragioni di Zenone 235

nel suo scritto, che contiene molti argomenti, mostra in cia-


scuno che a chi sostiene l’esistenza dei molti accade di dire
cose contraddittorie (phys. 139, 5).

porre la pluralità degli esseri implica il problema di


tracciare i reali confini tra i diversi esseri, messo bene in
luce da Owen (1958):
se dite che vi sono molte cose nell’esistenza come distingue-
te i vostri individui? […] non si può descrivere senza assur-
dità alcun metodo per dividere qualcosa in parti spaziali o
temporali (p. 141).

Zenone considera questo problema insolubile.


Se gli esseri fossero indivisibili dovrebbero essere infinita-
mente piccoli. Ammesso che il reale sia costituito da più
“esseri” distinti, come identificare questi “esseri” nella
maniera univoca che compete a ciò che esiste “in sé”?
Una prima possibilità consisterebbe nel trovare qualcosa
d’indivisibile: la pluralità sarebbe allora costituita da unità
irriducibili, perfettamente determinate. Ma come trovare
un’unità irriducibile? Non vi è un criterio oggettivo, non
arbitrario, per fissare dei limiti: ogni parte del continuo
può essere sempre ulteriormente suddivisa, dando luogo
a un processo di divisione all’infinito, con cui si arriva
ad esseri infinitamente piccoli. In questo modo, secondo
Simplicio, argomentava Temistio:
se infatti si dividesse, dice, neanche sarebbe propriamente uno
per l’infinita divisibilità dei corpi (Simplic. phys. 139, 20).

Il ragionamento è riportato anche da Simplicio (phys.


139, 27) e da Filopono (Lee fr. 2 e 3)23, che presentano
l’argomento in termini di dicotomia.

23. Filopono presenta l’argomento anche in phys. 42.


236 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Ciò che è infinitamente piccolo non esiste. Questo argo-


mento è citato da Aristotele:
Inoltre, se l’uno in sé è indivisibile, in base all’assioma di Ze-
none non sarebbe per nulla; dice, infatti, che ciò che aggiun-
to o sottratto non rende più grande o più piccolo, questo
non fa parte degli esseri, come se convinto che la grandezza
competa all’essere24 (metaph. I 4, 1001b 7).

Il frammento 2 ne dà una testimonianza diretta:


Se infatti […] fosse aggiunto ad un altro essere, in nulla lo fa-
rebbe più grande: non avendo infatti alcuna grandezza, una
volta aggiunto non sarebbe tale da aggiungere alla grandezza.
E così l’aggiunta sarebbe già nulla. Se, d’altra parte, una volta
sottratto, l’altro non sarà in nulla minore, né aggiunto aumen-
terà, è chiaro che nulla erano l’aggiunta e la sottrazione.

La conclusione è tratta nella prima frase del frammen-


to 1:
Se l’essere non avesse grandezza, neanche sarebbe.

Gli esseri devono avere necessariamente grandezza. posto


che un essere non può essere privo di grandezza, altri-
menti non esisterebbe, Zenone ne trae la conclusione
che l’essere è necessariamente dotato di grandezza, for-
mulata in termini d’estensione. Così, infatti, continua il
frammento:
Se è, è necessario che ciascuno abbia una qualche grandezza
e spessore e che di esso una parte disti dall’altra.

Se gli esseri hanno grandezza devono essere illimitati. Si


è visto che il limite oggettivo dell’essere non può essere

24. Anche Simplicio (phys. 97, 13).


4. Le ragioni di Zenone 237

trovato per sezionamento, ma neanche può essere trova-


to per ampliamento. Infatti, come trovare un limite non
arbitrario, che per questo motivo non possa essere ulte-
riormente spostato? Al di là di qualsiasi superficie assunta
come limite dell’essere vi è sempre altro essere, e più oltre
altro ancora, come mostra il seguito del frammento 1:

Riguardo a ciò che è davanti vale lo stesso discorso. Infatti,


anche quello avrà grandezza e qualcosa sarà avanti ad esso.
Lo stesso è poi affermarlo una volta o dirlo sempre: nulla
infatti sarà allora l’estremo di tale cosa, né mancherà qual-
cos’altro davanti ad altro.

Come sosteneva parmenide non vi è alcuna cesura


nell’essere, non vi sono linee di demarcazione, perché
queste potrebbero soltanto distinguere l’essere da ciò che
esso non è, l’inesistente non essere.
Quindi non esiste una pluralità di esseri. In conclusione,
se esistono molti esseri, dove è situato il confine che li
divide? Non è possibile trovare un confine che renda il
singolo essere indivisibile, se non con il completo annul-
lamento dell’essere stesso nell’infinitamente piccolo, né
è possibile trovare un confine a di là del quale non vi sia
altro essere, se non espandendo l’essere oltre ogni limite.
Il frammento 1 conclude, dunque, mettendo in evidenza
la contraddizione:
Così, se i molti sono, è necessario che essi siano piccoli e gran-
di: piccoli sì da non avere grandezza, grandi sì da essere illi-
mitati.

L’argomento porta a una conclusione più significativa


dell’enunciazione di una mera aporia: l’essere, dovendo
esistere per definizione, è necessariamente tanto grande
da risultare privo di limiti, e il molteplice non esiste. La
conclusione è rigorosamente eleatica, in quanto illustra
238 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

le conclusioni della epistemologia di parmenide: l’essere


è un tutto unico, il non essere non esiste, e le suddivisioni
introdotte nell’essere sono soltanto punti di vista umani.
Del resto, che Zenone sostenesse l’unicità dell’essere è
proprio quanto platone fa dedurre al Socrate del Parmeni-
de, e non mi pare che gli si possa dare torto. La medesima
conclusione è tramandata da altre fonti, come Simplicio
(phys. 139, 27) e Filopono:
Zenone, il discepolo di costui, in appoggio al maestro stabi-
lisce che uno è l’essere (phys. 80, 23).

4.4.2. Argomento basato sul numero degli esseri

Nell’argomento precedente Zenone ha mostrato che


l’impossibilità di trovare un’unica, oggettiva suddivisio-
ne del continuo in una pluralità di esseri comporta che
l’essere debba essere illimitato, il che contraddice la plu-
ralità. Nel frammento 3 egli mostra che ipotizzare una
pluralità di “esseri” distanti tra loro porta all’identifica-
zione di un numero infinito di “esseri”, cosa impossibile,
dato che gli “esseri”, se esistessero, dovrebbero necessa-
riamente essere in numero finito:
Se sono molti, è necessario che siano tanti quanti sono e né
più di quelli né meno; ma se sono tanti quanti sono, sareb-
bero limitati. Se molti sono, gli enti sono infiniti: sempre,
infatti, in mezzo degli enti ve ne sono altri, e di nuovo altri in
mezzo a quelli. E così gli enti sono illimitati.

Il frammento è molto sintetico e, soprattutto nella se-


conda parte, non è d’immediata comprensione. La prima
parte del passo esclude semplicemente che il numero degli
“esseri” possa essere infinito. È abbastanza persuasivo: gli
“esseri”, se fossero molti, non potrebbero essere che quanti
sono, come potrebbero essere altrimenti? Diverso è il caso
4. Le ragioni di Zenone 239

delle arbitrarie suddivisioni che l’uomo può concettualmen-


te operare nel continuo: la dicotomia mostra che si può pro-
cedere all’infinito. La seconda parte rappresenta un nuovo
tentativo di suddividere il continuo in enti: invece di pro-
cedere per sezionamento alla ricerca dell’indivisibile, o per
ampliamento alla ricerca di un valido confine — entrambi
obiettivi irrealizzabili — in questo caso si parte da un nu-
mero, presumibilmente finito, di esseri distanti l’uno dall’al-
tro. A causa della continuità dell’essere si è però costretti ad
ammettere che tra esseri così disposti è sempre possibile
riconoscerne altri sufficientemente piccoli da poter essere
distanziati tra loro, e tra questi altri ancora più piccoli e così
all’infinito. L’aporia consisterebbe allora nel fatto che, se at-
tribuiamo lo statuto di esseri agli elementi di questa nostra
costruzione genereremmo infiniti esseri, il che è in contra-
sto con le conclusioni della prima parte dell’argomento.

4.5. Argomento contro il luogo

L’argomento contro il luogo è citato da Aristotele:


Inoltre se questo〈il luogo〉è uno degli esseri, dove sarà? L’a-
poria di Zenone richiede un discorso; se infatti tutto l’essere
è in un luogo, è chiaro che vi sarà un luogo del luogo, e que-
sto procede all’infinito (phys. 209a 23).

Calogero (1932, p. 113 n. 10) ritiene un’autentica cita-


zione di Zenone25 quella riportata nel commento di Sim-
plicio (fr. 5):

25. Giudizio ribadito dallo stesso autore trenta anni dopo (Calogero,
1962, p. 86). Il passo è citato da Kranz (Diels e Kranz, 1951, p. 498) come fram-
mento 5. Di parere contrario alla genuinità del frammento è Lee (1936, p. 39),
che argomenta però in base a un’interpretazione sia dell’argomento in que-
stione, sia del pensiero complessivo di Zenone, che non ritengo condivisibile.
240 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Se il luogo esiste, in qualcosa sarà: tutto ciò che è, infatti, è in


qualcosa; e ciò che è in qualcosa è anche in un luogo. Anche
il luogo sarà dunque in un luogo. E questo all’infinito: dun-
que il luogo non è26.

L’argomento è il seguente: si consideri un essere che


occupa una porzione di spazio; noi chiamiamo luogo
questo spazio. Se il luogo, invece di essere semplice-
mente un concetto umano fosse un essere, vale a dire
qualcosa esistente in sé, anche esso dovrebbe essere
in un luogo, che sarebbe il luogo del luogo. Si genere-
rebbe così un’infinita sequenza di “esseri”, i luoghi dei
luoghi, sequenza impossibile a norma del precedente
argomento, perché infinita. Il senso dell’argomento è
dunque che se i concetti umani — in questo caso il luo-
go — invece di essere arbitrariamente posti costituis-
sero l’oggettiva suddivisione dell’essere si arriverebbe a
conclusioni assurde.

4.6. Argomenti contro il moto

Sono soprattutto gli argomenti di Zenone contro il


moto quelli che più hanno stimolato la fantasia e richia-
mato l’attenzione degli studiosi. Aristotele ne riporta
quattro; Elia (in categ. p. 100, 6) sostiene invece che sono
cinque. In effetti, mi pare che il frammento 4 possa essere
considerato un quinto argomento contro il moto, anche
se parente molto prossimo di quello della freccia.
Nel Parmenide platone sostiene che tutti gli argomenti
di Zenone, inclusi quindi quelli contro il moto, erano in-
dirizzati a refutare la tesi della pluralità. Socrate chiede,
infatti:
26. Lo stesso argomento è ripetuto da Filopono (phys. 510, 2 e 599, 1 e altri
luoghi) e parafrasato da Temistio (Lee, 1936, p. 36).
4. Le ragioni di Zenone 241

«Dunque, se è impossibile che le cose dissimili siano simili


e le simili dissimili, è impossibile allora anche che esistano i
molti? Se i molti fossero, bisognerebbe accettare cose impos-
sibili. È questo ciò cui tendono i tuoi argomenti, non altro
che sforzarti di sostenere, contro tutto ciò che si dice, che
i molti non sono? E proprio di questo ritieni che sia prova
ciascuno degli argomenti, sicché ritieni anche che sono pre-
sentate tante prove del fatto che i molti non sono, quanti
argomenti hai scritto? Dici così, o io non ho capito bene?»
«No, hai ben compreso ciò che intende lo scritto nel suo
complesso» disse Zenone (128a 2).

In effetti, gli argomenti definiti contro il moto mo-


strano che, accettata l’esistenza oggettiva della pluralità, il
moto non potrebbe aver luogo. Questi argomenti, pertanto,
non hanno una logica molto diversa da quelli definiti con-
tro i molti, e si pongono lo stesso obiettivo: difendere la
posizione eleatica, che non ammette l’esistenza “in sé”
della pluralità. platone, che doveva avere a disposizione
il libro di Zenone e conoscerlo bene, ha buon gioco nel
richiamare l’attenzione sulla negazione della pluralità, e
questo gli consente di sviluppare le proprie tematiche in
relazione all’uno.
per ciascuno degli argomenti zenoniani sul moto si
pone lo stesso problema che si è posto per gli argomenti
contro la pluralità: per quanto ingegnosi, essi sono consi-
derati generalmente fallaci. Era conscio Zenone della in-
consistenza dei suoi argomenti? Se sì, egli ci appare come
un polemista interessato solo a giochi verbali destinati a
confondere l’oppositore. Non ne era conscio? Riesce al-
lora difficile far quadrare la sua ingenuità con la fama di
cui godeva. Ritengo che anche in questo caso la soluzio-
ne del dilemma possa essere trovata nella rigorosa ade-
sione di Zenone al punto di vista eleatico: Zenone non
si pone affatto l’obiettivo di negare il moto e la pluralità
“come esperienze umane”, anzi è proprio la conclusione
242 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

assurda di negare l’esperienza del moto a dimostrare che


gli oggetti sono definiti dall’uomo e non sono esistenti
in sé27.

4.6.1. La dicotomia (o la corsa o lo stadio) e l’Achille

Aristotele ammette che gli argomenti paradossali di


Zenone presentino aspetti di non facile soluzione:
Molti argomenti, infatti, incontreremo contro le opinioni,
che è difficile sciogliere, come quelli di Zenone, che non am-
mette il muoversi né l’attraversare lo stadio (top. VIII 8, 160b
7).

Il primo argomento contro il moto, denominato della


dicotomia (Aristot. phys. I 3, 187a 3), è introdotto da Ari-
stotele in modo molto sintetico:
Quattro sono i ragionamenti di Zenone sul moto che pre-
sentano difficoltà di soluzione. primo, quello sull’impossibi-
lità di muoversi per il fatto che il mosso deve raggiungere la
metà prima della fine, che abbiamo valutato nei precedenti
ragionamenti (phys. VI 9, 239b 9).

L’argomento è in sostanza il seguente: chi vuol com-


piere un percorso, deve arrivare prima a metà percorso,
e poi alla metà di quello che resta e così via l’infinito. I
«precedenti ragionamenti» cui si riferisce Aristotele sono
i seguenti:
perciò anche l’argomento di Zenone assume erroneamen-
te che non sia lecito attraversare infiniti elementi o toccare
ciascuno degli infiniti elementi in un tempo finito. In due

27. Tannery (1887): «Zenone non ha affatto negato il movimento


(non è uno scettico), ha solamente affermato la sua incompatibilità con la
credenza nella pluralità» (p. 257).
4. Le ragioni di Zenone 243

modi, infatti, sono detti infiniti, la lunghezza e il tempo e in


generale tutto il continuo: o per divisione o per le estremità.
Dunque, gli infiniti per grandezza non è possibile che siano
toccati in un tempo limitato, quelli per divisione è possibile:
il tempo stesso, infatti, è infinito nel medesimo modo. Sicché
accade di percorrere l’infinito nel [tempo] infinito e non in
quello limitato, e di toccare gli infiniti elementi negli infiniti
intervalli di tempo, non nei limitati (phys. VI 2, 233a 21)

In questo brano della Fisica, Aristotele giustamen-


te osserva che, se si divide il moto lungo un segmento
di lunghezza finita con un’infinita dicotomia, anche il
tempo necessario a percorrerlo risulta diviso allo stesso
modo, e sono quindi disponibili infiniti intervalli di tem-
po per percorrere infiniti intervalli di spazio. La critica di
Aristotele sembra calzante: anche un tempo finito si può
dividere in infiniti intervalli, ciascuno corrispondente ad
un segmento spaziale, per cui — si potrebbe inferire —
terminato il tempo, anche lo spazio risulta percorso. Il
paradosso di Zenone sarebbe stato così liquidato a poco
più di un secolo dalla sua formulazione! Ma è stato effet-
tivamente liquidato?
Aristotele stesso non è completamente soddisfatto
della sua soluzione e riprende l’argomento in un libro
successivo della Fisica, dove formula il ragionamento in
modo diverso:
Allo stesso modo si deve rispondere anche a coloro che in-
terrogano con l’argomento di Zenone sostenendo che, se si
deve sempre passare attraverso la metà e queste sono infinite,
che è impossibile attraversarne infinite; o come alcuni pon-
gono la domanda in forma diversa riguardo a questo stesso
argomento, sostenendo di contare contemporaneamente al
movimento la metà di ogni metà raggiunta prima, sicché
avviene che attraversandola tutta si conterebbe un numero
infinito: questo, bisogna convenire, è impossibile. Dunque,
nei precedenti discorsi sul movimento, avevamo trovato la
soluzione perché il tempo è esso stesso infinitamente divisi-
244 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

bile; non è assurdo se uno in infiniti [tempi] attraversa infiniti


[intervalli], ugualmente infiniti nella lunghezza e nel tempo;
e questa soluzione è sufficiente per colui che aveva posto la
domanda (avendo infatti richiesto se in un [tempo] finito è
possibile attraversare o contare infiniti [intervalli]). Ma ri-
guardo al fatto e alla verità non basta. Se infatti uno, lasciata
cadere la lunghezza e la domanda se in un tempo limitato è
possibile attraversare infiniti [intervalli], chiede queste cose
riguardo al tempo stesso (il tempo ha infatti infinite divisio-
ni), questa soluzione non sarà più sufficiente (phys. VIII 8,
263a 4)

La precedente formulazione dell’argomento della


dicotomia vedeva l’aporia nel fatto che non si possano
attraversare in un tempo finito gli infiniti intervalli in
cui si è suddiviso il tratto da percorrere (chiamo questa
formulazione, per brevità, l’aporia “del tempo finito”);
ora invece Aristotele illustra una nuova formulazione
(che chiamo l’aporia “del conteggio”): immaginando di
contare un’unità in corrispondenza di ogni passo della
dicotomia, ovviamente questo conteggio non può essere
completato.
Aristotele dice che la risposta all’aporia “del tempo
finito” «è sufficiente per colui che aveva posto la doman-
da». Chi è questo “colui”? McKirahan (2002) sostiene che
si tratta di Zenone: con l’argomento della divisibilità del
tempo Aristotele riterrebbe di aver fatto giustizia dell’ar-
gomento come proposto da Zenone. L’autore considera
invece l’argomento “del conteggio” una versione “più
forte” o “più sofisticata” del paradosso, che non sareb-
be di Zenone28. per la verità Aristotele formula gli argo-
menti di Zenone in modo molto sommario, che poco

28. Nelle conclusioni McKirahan ammette tuttavia di aver «discusso


il trattamento di un argomento da parte di Aristotele e non del modo in
cui l’argomento, come si presenta, sia legato agli scritti (perduti) di qual-
cun altro (Zenone)» (p. 496).
4. Le ragioni di Zenone 245

deve aver a che fare con il testo originario. Ritengo che la


doppia formulazione sia tutta farina del sacco di Aristo-
tele il quale, per svolgere esaurientemente la sua analisi
dell’infinito, ha risposto prima all’argomento “del tempo
finito” e poi a quello “del conteggio” che sono entrambe
sue letture dell’argomento zenoniano della dicotomia.
Quando egli parla di «colui che aveva posto la domanda»
egli fa riferimento al suo testo precedente e alla domanda
posta come lui stesso l’aveva in un primo tempo (phys.
VI) formulata. Non se ne può dedurre però che il testo di
Zenone ponesse l’argomento solo in termini di “tempo
finito” (πεπερασμένος χρόνος).
La risposta di Aristotele all’aporia “del conteggio”,
benché ritenuta “non valida” da McKirahan, è ugual-
mente interessante:
Infatti, se qualcuno divide il [moto] continuo in due metà,
egli fa uso di un punto come di due: infatti lo considera ini-
zio e fine; così fa colui che conta e colui che divide a metà.
Così, dividendo, non sarà continua la linea né il moto: infatti
il moto continuo è nel continuo; e nel continuo vi sono illi-
mitate metà, ma non in atto bensì in potenza: se si fa in atto,
non è continuo, ma si fermerà. Come è evidente che accade
per colui che conta le metà: infatti un punto necessariamen-
te per lui conta due; di una metà infatti sarà la fine, dell’altra
l’inizio, se non conta un solo continuo, ma due metà.
Bisogna rispondere così a chi pone la questione se è possibile
attraversare infiniti [intervalli] di tempo o di lunghezza, che
è così e non è così. Se esistenti in atto, infatti, non è possibile,
in potenza è possibile: infatti colui che si muove con conti-
nuità ha attraversato illimitati [intervalli] per accidente, ma
non in modo assoluto. per accidente appartiene alla linea di
essere infinite metà, ma l’essenza e l’essere sono altri (phys.
VIII 8, 263a 23).

Il senso, a mio avviso, è il seguente: qualsiasi segmento,


o intervallo di tempo, o atto di moto è in potenza divisi-
bile in infiniti intervalli, ma non è necessariamente diviso
246 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

così. Finché non è diviso in atto, ma solo in potenza (os-


sia concettualmente), essa è effettivamente percorribile;
invece operare un’effettiva divisione (ossia in atto) in in-
finiti intervalli non è possibile. Aristotele esprime nel suo
schema concettuale di potenza–atto il punto che ritengo
Zenone, da buon Eleate, volesse dimostrare, e cioè che se
la suddivisione non fosse soltanto un fatto mentale, ossia
per dirla in termini parmenidei un “dare nomi”, ma fosse
la reale divisione dell’essere, la lunghezza sarebbe imper-
corribile e il moto risulterebbe impossibile.
L’argomento zenoniano della dicotomia è riportato an-
che dai commentatori di Aristotele, Temistio (phys. 186.
30), Filopono (phys. 81.7 e 802.31) e Simplicio (phys. 947,
5; 1013, 4; 1289, 5) che lo descrivono in modo più arti-
colato. Simplicio, nel commento a phys. 239b, si esprime
come segue:
essendo tutta la distanza divisibile all’infinito, è necessario
che l’oggetto in moto attraversi prima la metà della distanza
che attraversa, e poi il totale; ma anche, prima di tutta la
metà, la metà di questa; e di questa di nuovo la metà. Se dun-
que sono infinite le metà, perché è sempre possibile prendere
la metà di tutto ciò che è lasciato, è impossibile attraversare
le infinite metà in un tempo limitato (phys. 1013, 4).

Da questo testo sembrerebbe che Simplicio conside-


ri impossibile che il movimento abbia addirittura inizio:
anche il più piccolo spostamento iniziale richiede il pre-
ventivo attraversamento d’infiniti segmentini.
Equivalente in sostanza all’argomento della dicotomia
è quello dell’Achille, riferito da Aristotele:
Secondo, l’Achille: è così, che il più lento mai sarà raggiunto
in corsa dal più veloce; infatti è necessario che prima l’in-
seguitore sia giunto fin dove è arrivato il fuggitivo, sicché
necessariamente il più lento è avanzato sempre un poco. An-
che questo è lo stesso argomento della dicotomia, ma ne dif-
4. Le ragioni di Zenone 247

ferisce per il fatto di non dividere in due la grandezza che ri-


mane. Dunque, che il più lento non sia raggiunto risulta dal
ragionamento, che è lo stesso della dicotomia (in entrambi i
casi infatti risulta che non si arriva all’estremità, avendo divi-
sa in qualche modo la lunghezza; ma in questo si aggiunge
che neanche il più veloce teatralmente rappresentato nell’in-
seguire il più lento [lo raggiunge]), e necessariamente anche
la soluzione è la stessa. Credere che quello davanti non sia
raggiunto è falso: finché è avanti, non è raggiunto: ma co-
munque è raggiunto, se si assumerà limitato il tratto attra-
versato (phys. VI 9, 239b 14).
per questo argomento la testimonianza di Simplicio
(phys. 1013, 31), per quanto più articolata, non aggiunge
nulla di sostanziale.
La critica moderna è praticamente unanime nel rile-
vare che i paradossi della dicotomia e dell’Achille o non
reggono, o reggono soltanto se rivolti contro i sostenito-
ri di una particolare concezione del reale, quella appunto
del number–atomism di Cornford, attribuita ai pitagorici.
Si è visto che tre dei quattro passi generalmente ac-
cettati come frammenti dello stesso Zenone cominciano
con le parole “se esistono i molti” o equivalenti. Analiz-
zando quei frammenti, si è visto anche che queste paro-
le possono essere interpretate in senso eleatico, dando
all’argomento un significato tutt’altro che banale. Lo
stesso accade per il quinto frammento, proposto da Ca-
logero (1932), che inizia con le parole “se esiste il luogo”
(εἰ ἔστιν ὁ τόπος). È possibile che si possa ipotizzare una
simile premessa anche per la dicotomia o per l’Achille?
purtroppo la forma con cui questi argomenti ci sono
giunti lascia molto a desiderare. Aristotele fa soltanto de-
gli accenni sintetici, come se si trattasse d’argomenti ben
noti, e non menziona mai le premesse di Zenone. I dossografi
articolano maggiormente il discorso, ma sembrano rifar-
si tutti ad un modello comune, che omette le premesse.
Simplicio, che pure ha citato tanta parte del poema di
248 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

parmenide, non ha citato tutti gli argomenti di Zenone29


di cui parla. Non siamo quindi in grado di conoscere la
forma originaria dell’argomento, e la forma con Zenone
è importante.
Nei frammenti di cui disponiamo, Zenone indica le
conseguenze delle ipotesi che esistano i molti o il luogo.
Cosa sono questi molti e questo luogo nell’ambito dell’ar-
gomento? Sono, come si è visto, degli esistenti, vale a dire
esseri dotati d’esistenza assoluta, in sé, indipendente dal
giudizio umano. Non sono, però, esistenti qualsiasi, per-
ché sono appunto concezioni umane che hanno subito un’ipo-
statizzazione. Zenone dice in sostanza: se queste nostre
idee fossero esistenti “in sé” così come le poniamo, sa-
remmo costretti a trarne delle conseguenze assurde.
Mi sembra ragionevole ipotizzare che anche negli
argomenti “contro il moto” il ragionamento di Zenone
sia stato dello stesso genere: Zenone non pone sempli-
cemente l’esistenza del moto, ma formula una specifica
visione del moto. Egli considera quel particolare movi-
mento composto da tanti tratti di moto costruiti con il
meccanismo della dicotomia, ponendo così anche l’esi-
stenza del molteplice. Qualsiasi moto può essere conce-
pito, idealmente, in questo modo, come sosteneva Ari-
stotele e come ha ben notato Vlastos (1966b); ma se le
suddivisioni che noi operiamo corrispondono alla reale
suddivisione dell’essere, allora anche questa suddivisio-
ne, idealmente possibile, è esistente in sé: quindi anche il
moto, così suddiviso, non è soltanto un’operazione della
mente umana, ma è così in sé. Io posso pensare il moto
suddiviso come mi pare: è un’operazione mentale che

29. Simplicio doveva aver a disposizione un scritto con testi originali


di Zenone: «Ma perché dilungarsi, dato che è contenuto nello stesso scrit-
to di Zenone?» (phys. 140, 27). Nota però Lee (1936): «La sua informazione
di prima mano copre soltanto gli argomenti sulla pluralità, non quelli sul
moto» (p. 4).
4. Le ragioni di Zenone 249

non cambia le cose; ma se questa mia idea è la vera artico-


lazione del mondo, il moto non è semplicemente suddiviso
così: esso è così. Allora il moto è composto da infiniti atti
di moto, ed è proprio questo fatto che genera l’assurdo:
portare a termine infiniti atti è impossibile.
L’impossibilità di compiere un numero infinito di atti
di moto, indipendentemente dal tempo complessivo che
s’impiega, non può essere mostrato empiricamente, ma
è una conseguenza logica che può essere illustrata con
un esperimento mentale. Si supponga d’associare a cia-
scun atto di movimento della dicotomia uno stato di una
“macchina dell’infinito”, come quella proposta da Black
(1951, p. 75). Una macchina A prende una biglia da un
vassoio a sinistra e la depone in un altro vassoio a destra;
immediatamente dopo una seconda macchina B la pren-
de dal vassoio di destra e la ricolloca in quello di sinistra,
e così di seguito. Si supponga che il primo movimento
della macchina A avvenga in 1/2 minuto, quello della
macchina B in 1/4 di minuto, il successivo della macchi-
na A in 1/8 di minuto, poi quello della macchina B in
1/16 di minuto e così via; si supponga cioè che le mac-
chine lavorino dimezzando sempre i tempi dei successivi
movimenti. La serie converge ad un minuto con infiniti
movimenti. Si immagini, ora, d’osservare visivamente il
fenomeno: dopo mezzo minuto vediamo il primo mo-
vimento, poi il secondo, seguito dopo poco da un terzo,
poi rapidamente dal quarto; ma presto i movimenti si
succedono così velocemente che non siamo più in grado
di distinguerli, e tutto quello che vediamo è uno sfarfallio
sempre più rapido, finché, allo scadere del minuto… ve-
dremmo le macchine ferme. In quale vassoio è la biglia?
Benché il processo si sia ormai arrestato, i movimenti si
sono succeduti in numero infinito, e non vi è stato un
ultimo movimento, ma solo un ultimo tempo. Di conse-
guenza la biglia non ha una posizione: non si può nean-
250 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

che dire che la biglia abbia uguali probabilità di trovarsi


da una parte o dall’altra, o che non si possa sapere dove
essa sia. Semplicemente la biglia non ha un posto finale.
Un argomento analogo è presentato da Thomson (1955,
p. 94) utilizzando una lampadina che si accende e spegne
infinite volte in un tempo finito, ad esempio in sincronia
con la macchina di Black: passato il minuto la lampadi-
na non può essere accesa, perché dopo ogni accensione
viene subito spenta e non può essere spenta perché dopo
ogni spegnimento viene subito riaccesa; eppure deve es-
sere o accesa o spenta. Thomson ravvisa in ciò una con-
traddizione. Benacerraf (1962) ha criticato questa conclu-
sione, sostenendo che l’apparente contraddizione nasce
dal fatto che non è stata fornita alcuna informazione sulla
questione se la lampadina è accesa o spenta al tempo fi-
nale t1: i criteri d’accensione e spegnimento sono fissati
per un intervallo di tempo che non include t1, anche se
a t1 converge con infiniti intervallini. Il problema però si
riproporrebbe se si imponesse che in t1 la lampadina si
mantenesse nello stato in cui il precedente processo l’ave-
va lasciata. Tale criterio pretenderebbe che la lampadina
rimanesse come sta alla fine del processo: ma il processo
non ha fine, perché infinito, quindi il criterio non dà alcu-
na informazione pertinente. Questo è il punto: un proces-
so infinito non si completa, anche se è terminato dopo un
tempo finito. Zenone aveva le sue ragioni.
per ricapitolare, potremmo dire che:

a) noi mortali possiamo sempre, per i nostri scopi,


dividere mentalmente un percorso finito in quanti
intervalli vogliamo, anche infiniti, e disposti come
vogliamo, senza che ciò interferisca con l’andamen-
to del moto;
b) se però gli atti di moto di tale suddivisione fossero
realmente esistenti, se essi rappresentassero, cioè,
4. Le ragioni di Zenone 251

la “vera” partizione del moto, questo risulterebbe


formato da un’infinità di atti di moto, tutti autono-
mamente esistenti. Se così fosse, il moto non po-
trebbe essere compiuto, perché è impossibile por-
tare a termine infiniti atti.

Bisogna dire, inoltre, che ad impossibilità si somma


impossibilità, perché in base all’argomento del frammen-
to 3, gli enti, se esistono, non possono essere altro che
quanti sono, ossia limitati — in numero sia pure elevatis-
simo, ma finito.
Qualsiasi discretizzazione del moto in infiniti elementi,
assunta come vera, sarebbe servita a mettere in eviden-
za l’aporia — e difatti Filopono ci riferisce di un’altra in-
finita suddivisione di un intervallo finito30 — ma il genio
di Zenone sta anche nell’averne immaginata una che dà
l’impressione di funzionare anche al di fuori del contesto
eleatico, il che forse ne ha assicurato la conservazione.
Conferire ai concetti umani il valore di una reale ar-
ticolazione del mondo porta a queste assurdità: Achille
non raggiungerebbe la tartaruga, l’atleta non arriverebbe
alla fine della corsa — anzi, non potrebbe neanche parti-
re — e il tempo stesso non giungerebbe al suo termine.
Tutto ciò è chiaramente assurdo, perché nega l’evidenza,
che valeva per Zenone come per noi. Di conseguenza,
i “molti” non possono avere esistenza “in sé” e l’essere,
come affermava parmenide, è uno ed indiviso.
Ci si potrebbe domandare perché lo spazio debba esse-
re segmentato proprio in un modo tanto perverso da im-
pedire ad Achille di raggiungere la tartaruga e all’atleta

30. Filopono: «Se qualcosa si muovesse per la lunghezza di un cubito


in un certo tempo, poiché in ogni lunghezza vi sono infiniti punti, è dun-
que necessario che ciò che si muove tocchi tutti i punti della lunghezza:
attraverserebbe allora gli infiniti in un tempo limitato, il che è impossibile»
(phys. 802, 31).
252 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

di partire, ma il punto è proprio in questo: le articolazioni


che noi riconosciamo nel mondo sono reali in sé o no? La
tesi eleatica è che siano operazioni umane: opinione. Ma
gli uomini s’illudono, abituati come sono a vedere e ad
interpretare il mondo a loro modo, che quella che loro
pongono sia la vera articolazione del mondo; e in questo
sbagliano, come sostiene parmenide (28 B 7.3):
né la consuetudine molto sperimentata ti costringa su que-
sta via.

In quest’ottica l’argomento contro il moto è anche un


argomento contro i molti — contro l’idea che le articola-
zioni concettuali formulate dagli uomini corrispondano
alla reale articolazione dell’essere.

4.6.2. La freccia

L’argomento della freccia è a mio parere logicamente


preceduto dal frammento 4:
Ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è, né in
quello in cui non è

citato anche da Epifanio (adv. haer. III, 11) (Lee 18). È ov-
vio che il mobile non può muoversi nel luogo in cui non
è, dato che in ogni istante è nel luogo in cui è e mai in
quello in cui non è. Allora, se si dimostra che il mobile
non può muoversi nel luogo in cui è, esso è sempre in
quiete. Si esaminerà più avanti perché il mobile non può
muoversi nel luogo in cui è, e si passi all’argomento della
freccia, riportato da Aristotele come il terzo degli argo-
menti contro il moto:
Zenone poi ragiona male: dice, infatti, che se tutto sta sem-
pre in quiete o in moto, quando sia nell’uguale a sé, e ciò che
4. Le ragioni di Zenone 253

vola è sempre nell’ora [νῦν], la freccia volando è immobile.


Ciò è falso: infatti il tempo non è composto da ora indivisibi-
li, come neanche alcuna altra grandezza (phys. VI 9, 239b 5).

Il testo di Aristotele è abbastanza ermetico, ma lo stes-


so argomento è riportato anche da Simplicio (phys. 1015.
19; 1011, 19; 51034, 4), Filopono (816, 30) e Temistio (199,
4)31. particolarmente chiaro è il testo di Filopono:
Tutto, dice, stando nel luogo uguale a se stesso o resta fer-
mo o si muove, ma è impossibile muoversi nell’uguale a se
stesso, dunque resta fermo. pertanto il missile, volando in
ciascuno degli ora [νῦν]32 del tempo in cui si muove, stan-
do nel luogo uguale a se stesso resta fermo, e se in tutti gli
ora del tempo, che sono infiniti, resta fermo, anche in tutto
rimarrà fermo. Ma è supposto muoversi: dunque il missile
muovendosi resterà fermo (816, 30).

L’interpretazione che se ne ricava può essere sintetiz-


zata come segue:

a) ciò che occupa uno spazio uguale a sé è in quiete;


b) nel presente il mobile occupa uno spazio uguale a
sé, quindi è in quiete;
c) il mobile è sempre nel presente, quindi è sempre in
quiete.

L’argomento basilare sarebbe dunque: ciò che occupa


uno spazio uguale a sé è in quiete. È proprio ciò che il fram-
mento 4 afferma, se si fa corrispondere lo spazio uguale
a sé al luogo in cui è la freccia. È comprensibile che il mo-
bile nel presente occupi uno spazio uguale a sé e che sia
sempre nel presente. Secondo questa interpretazione il
tempo viene invocato soltanto per indicare che la freccia
31. Testimonianze riportate da Lee (1936) con i numeri da 30 a 34.
32. Istanti diremmo noi — punti lungo l’asse dei tempi.
254 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

è sempre nel presente, mentre la suddivisione del tem-


po non svolge alcun ruolo. La critica di Aristotele non è
chiara:
il terzo [argomento], poi, quello ora detto, che la freccia vo-
lando sta ferma. Risulta dall’assumere che il tempo sia com-
posto di ora: infatti, non ammesso ciò, viene meno la conclu-
sione (phys. vi 9, 239b 30).

Si consideri ora la critica moderna. Questa si è per lo


più preoccupata di confutare l’argomento senza compro-
mettere troppo la figura di Zenone. Ad esempio, Vlastos
(1966a) ritiene che per rendersi conto dell’errore nel suo
ragionamento Zenone avrebbe dovuto possedere «una
comprensione ben chiara della distinzione istante/inter-
vallo» (p. 213); ma «egli non aveva neanche un termine
per “istante”». In sostanza, secondo Vlastos la freccia oc-
cupa uno spazio uguale a sé stessa solo nell’istante, con-
cetto che Zenone non possedeva e per il quale non ave-
va neanche un vocabolo, tanto è vero che usa νῦν (ora).
L’errore sarebbe, quindi, nell’aver confuso l’istante con
un intervallino di tempo: il fatto che la freccia in un istan-
te occupi uno spazio uguale a sé stessa porterebbe Zeno-
ne a considerare che la freccia occupi tale spazio per un
intervallino temporale, in cui sta ferma. Ma Zenone era
veramente così primitivo?
Non credo che con νῦν si debba intendere un intervallo
di tempo discreto: significa proprio ora, l’istante presente.
Mi sembra che l’argomento della freccia faccia ancora ri-
ferimento all’esistenza oggettiva della suddivisione dello
spazio, questa volta all’esistenza di un luogo in cui la frec-
cia nel presente è e di uno — tutto il restante spazio — in
cui essa non è. Se il luogo occupato dalla freccia esiste in
senso oggettivo, muovendosi la freccia occuperebbe subi-
to dopo un altro luogo, che comporterebbe una diversa di-
visione dello spazio in un luogo in cui la freccia è e uno in
4. Le ragioni di Zenone 255

cui essa non è. Avremmo allora due diverse composizioni


dello spazio. Ma ciò è impossibile perché se lo spazio è “in
sé” suddiviso come era prima, non può essere suddiviso
come sarebbe ora se la freccia si fosse spostata. Dunque la
freccia non può muoversi nel luogo in cui è; ma la freccia
non può neanche muoversi, come è evidente, nel luogo in
cui non è: come può muoversi, dunque?
L’argomento della freccia, come l’Achille, è probabil-
mente sopravvissuto per la potenza dell’immagine: in
questo caso la saetta immobile, evocata dai versi di Valé-
ry. Dato però che noi vediamo la freccia in movimento,
così come vediamo l’atleta partire per la corsa e come
indubbiamente vedremmo Achille raggiungere in un
attimo la tartaruga, non è possibile che gli enti che noi
identifichiamo — lo spazio occupato dalla freccia o gli
infiniti intervalli spaziali che Achille deve percorrere —
esistano oggettivamente in sé stessi.

4.6.3. Lo stadio

L’argomento dello stadio ha sollevato perplessità an-


cora maggiori dei precedenti. Secondo la descrizione di
Aristotele l’argomento è il seguente:
Quarto, quello relativo a quelli che si muovono nello stadio
l’uno verso l’altro, di moli uguali lungo uguali, di cui le une
dal fondo dello stadio le altre dal mezzo, con uguale velocità;
dal quale crede che risulti che la metà del tempo sia uguale al
doppio. La fallacia è nell’ipotizzare che nello stesso tempo si
percorra la stessa grandezza alla stessa velocità lungo ciò che
si muove e lungo ciò che è immobile; ma questo è falso. per
esempio, tra le moli uguali siano ΑΑ quelle ferme, ΒΒ quel-
le che iniziano dal mezzo delle Α, uguali a quelle in numero
e in grandezza, e ΓΓ quelle dall’estremo, uguali a quelle in
numero e in grandezza, e con la stessa velocità delle Β. Ac-
cade allora che arrivano all’estremità contemporaneamente
il primo Β e il primo Γ, muovendo l’uno in verso opposto
256 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

all’altro. Accade che Γ si muove lungo tutti i Β e Β lungo la


metà 〈degli Α〉; sicché il tempo è la metà: per lo stesso
tempo infatti sta ciascuno dei due lungo ciascuno. Ma acca-
de anche che i Β passano accanto a tutti i Γ: infatti il primo Γ
e il primo Β giungeranno insieme agli estremi opposti, rima-
nendo un tempo uguale lungo ciascuno dei Β quanto degli
Α, come dice, perché entrambi rimangono un tempo uguale
lungo gli Α (phys. VI 9, 239b 33).

Aristotele, come si vede, considera l’argomento falla-


ce, ritenendo che il trucco stia nel non aver tenuto conto
della relatività delle velocità: la velocità relativa dei Β ri-
spetto agli Α, che stanno fermi, non è la stessa di quella
rispetto ai Γ, che si muovono con la medesima velocità
assoluta ma in senso opposto.
La descrizione di Aristotele è piuttosto sommaria, e
richiede un’interpretazione. Mi sembra che la più per-
suasiva sia la seguente. Come è suo solito, Zenone tenta
di visualizzare l’argomento e parla dello stadio. La corsa
in questione segue un percorso a U, come mostrato dalla
figura 3: i corridori partono da un’estremità e, dopo aver
girato intorno ad un asta all’altra estremità, tornano in-
dietro, passando davanti a degli spettatori. Vi sono due
gruppi di corridori: il primo ha già girato il pilastro, il
secondo è partito da poco33.

33. Lee (1936) attribuisce quest’interpretazione a uno studio non


pubblicato di Ross, con cui ha avuto uno scambio epistolare (p. 83), ma
dalla cui opinione dissente in base a un motivo strettamente filologico:
«a mia conoscenza non vi è alcuna autorità che autorizzi a dare a μέσον
questo senso» (p. 86), intendendo evidentemente con μέσον l’asta intor-
no a cui i corridori dovrebbero girare. Mansfeld (1982) concorda con
Lee, ricordando che anche Ross si è ricreduto, e propone a sua volta una
complicata ricostruzione del contesto, del tutto congetturale. Il termine
μέσον potrebbe però semplicemente riferirsi alla metà del percorso e
non all’asta in sé. Resta comunque il fatto che i due gruppi corrono uno
verso l’altro, e evidentemente non potevano essere immaginati nella
stessa corsia.
4. Le ragioni di Zenone 257

Figura 3. Situazione nello stadio sulla base di Aristotele (phys. VI 9, 239b 33

Aristotele considera due situazioni successive, che po-


trebbero essere disposte come indicato nella Figura 4a,
tratta dal disegno d’Alessandro d’Afrodisia, trasmessoci
da Simplicio (phys. 1016, 9).
Nella prima posizione, il gruppo di corridori partito
per primo (masse Β) ha compiuto il giro intorno al pila-
stro, e il corridore di testa è già passato davanti alla metà
degli spettatori (masse Α), mentre il gruppo di corridori
appena partito dall’estremità dello stadio (masse Γ) è in
posizione simmetrica dall’altro lato. Nella seconda posi-
zione ambedue i gruppi di corridori si sovrappongono
completamente agli spettatori.

Figura 4. Posizione delle moli: a) disegno di Alessandro (da Simplicio) rielaborato


sulla base del testo di Aristotele, b) disegno ricavato da Mansfeld (1982)
258 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

È possibile che l’argomento sia stato tramandato grazie


alla sottigliezza delle velocità relative, tanto apprezzata da
Barnes (1979b, p. 291). Come ha mostrato Russell (1929),
esso è valido soltanto contro una teoria che consideri lo
spazio e il tempo composti da intervalli indivisibili. L’argo-
mentazione potrebbe essere riformulata come segue: se lo
spazio è composto da intervalli di lunghezza ΔL, pari alla
lunghezza delle masse, e il tempo da intervalli di durata
ΔT, entrambi indivisibili, la sola velocità possibile è

Infatti, per una velocità V2 che fosse maggiore, ad esem-


pio doppia, si avrebbe

il che è lo stesso che scrivere

ma, appunto, l’intervallo ΔT /2 non è ammesso. Se ne


conclude che la velocità relativa tra gli Α e i Β è V, ma
V, essendo l’unica velocità possibile, è anche la velocità
relativa che esiste tra i Β e i Γ. D’altra parte è un fatto
che nell’intervallo ΔT il primo dei Β percorre due Γ, ossia
2×ΔL, per ogni Α, ossia per un ΔL: si ha allora

ma è anche

per cui risulta l’assurda conclusione che ΔT = 2 × ΔT .


4. Le ragioni di Zenone 259

Un’interpretazione alternativa, che mi sembra si possa


desumere da Mansfeld (1982), è rappresentata nella figu-
ra 4b, dove per semplicità le moli in ciascun gruppo sono
state ridotte a due. Se lo spazio è in sé diviso in inter-
valli pari alla lunghezza di una mole, i due gruppi in un
unico passo si portano dalla prima posizione iniziale alla
seconda. La posizione intermedia, in cui il primo dei Γ si
affianca al primo dei Β sarebbe impossibile, e ciò darebbe
luogo al paradosso. Si noti che in questa ricostruzione
l’intervallo di tempo non ha alcun ruolo e l’argomento
ne guadagna in eleganza. Mansfeld ritiene che le masse Α
sono state introdotte nel testo da Aristotele, e in effetti in
questa ricostruzione non entrano in gioco, e nella Figura
4b sono state inserite solo per fare da riferimento fisso.
Comunque sia, l’argomento è valido soltanto nel caso
che gli intervalli (spaziali o temporali) siano indivisibi-
li, come hanno ammesso diversi commentatori, anche
se talvolta con qualche perplessità. Ad esempio, Furley
(1967):
si concorda generalmente sul fatto che questo argomento
di Zenone non abbia alcun valore, a meno che non sia diretto
contro una teoria di grandezze indivisibili (p. 73)

ma aggiunge:
Non vi è alcun segno nel nostro testo che queste unità siano
considerate indivisibili; il solo uso della parola onkos, “cor-
po”, certamente non lo prova, come alcuni hanno argomen-
tato (p. 73).

È per motivi di questo genere che, da Tannery in


poi, molti hanno ipotizzato che Zenone polemizzasse
con dei pitagorici che avrebbero sostenuto l’esistenza
d’indivisibili. Come si è già accennato, le testimonian-
ze in proposito sono però inconsistenti. In merito a
260 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

questa interpretazione il giudizio di Barnes (1979b) è


lapidario:
Io non nego questa versione sofisticata del paradosso dello
Stadio; ma non era di Zenone. Non vi è alcuna prova che
qualcuno prima di Zenone abbia sostenuto la teoria ato-
mistica con cui s’immagina che egli polemizzi, e non vi è
motivo per cui abbia dovuto egli stesso inventare una simile
teoria, semplicemente per buttarla giù (p. 291).

È vero: per quanto ne sappiamo, nessuno aveva so-


stenuto prima di Zenone una teoria atomistica; ma ciò
non ha alcuna importanza. Il punto è proprio questo:
Zenone aveva precisamente il motivo d’ipotizzare intervalli
indivisibili; ma la teoria che egli attacca non aveva alcun
bisogno d’inventarla, essa era implicita nell’assunzione
del pensiero comune che gli oggetti e gli enti cui si fa
riferimento siano esistenti in sé, e non fatti mentali del
soggetto. In altri termini, se la composizione dello spa-
zio e del tempo (o del solo spazio nella seconda rico-
struzione) “è” quella che di volta in volta l’uomo pone
— in questo caso l’articolazione in intervalli di tempo
e di spazio (le moli = ὄγκοι) posta da Zenone stesso
— essa non può essere diversa, per cui non sono am-
missibili intervalli più piccoli. Se si ammettessero anche
intervalli minori, lo spazio e il tempo risulterebbero
composti in un modo differente da quello precedente-
mente considerato, e la struttura di cui si è postulata
l’esistenza sarebbe diversa; e questo è assurdo, non po-
tendosi dare esseri allo stesso tempo uguali e diversi. Ma
noi possiamo costatare che le cose vanno diversamente,
e che di fatto i due gruppi possono passare davanti agli
spettatori, e che i due corridori di testa ad un certo mo-
mento si affiancano, per cui le unità spaziali che abbia-
mo posto non “esistono”, ma sono soltanto posizioni
umane — fatti mentali.
4. Le ragioni di Zenone 261

4.7. Il grano di miglio

Aristotele ha tramandato anche l’argomento del grano


di miglio:
L’argomento di Zenone, che faccia rumore qualunque parte
del grano di miglio non è vero per questo: nulla infatti impe-
disce che non muova mai l’aria, quella che l’intero medimno
muove cadendo (phys. VII 5, 250a 19).

L’argomento è raccontato in forma dialogica da Sim-


plicio:
Con ciò si risolve anche l’argomento di Zenone, che interro-
gava protagora, il sofista: “dimmi allora, o protagora, disse,
se un grano di miglio cadendo fa rumore o un decimillesi-
mo del grano?” Rispondendo quegli che non lo faceva, disse
“il medimno di miglio cadendo fa rumore o no?” Dicendo
quegli che il medimno faceva rumore, “e che dunque, disse
Zenone, non vi è un rapporto tra un medimno di miglio e
un grano e un decimillesimo di uno?” Dicendo quegli che
c’era, “e che dunque, disse Zenone, non saranno gli stessi
i rapporti dei rumori tra loro? Come ciò che produce i ru-
mori, anche i rumori: stando così le cose, se il medimno di
miglio fa rumore, farà rumore anche un grano di miglio e
un decimillesimo di grano”. Zenone dunque così esponeva
il ragionamento (phys. 1008, 18).

Qual è il senso dell’argomento? Secondo molti critici


il problema è, per descriverlo con le parole di Unterstei-
ner (1963),
come sia possibile che molte cose insieme producano un ef-
fetto che ogni singola di esse, presa a sé, non produce (p.
175).

Sulla scia di Zeller molti ritengono che l’argomento


si proponga di mostrare che l’esperienza sensibile non
262 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

corrisponde al pensiero. L’argomento è stato anche av-


vicinato a quelli megarici del cumulo (σωρός) o del calvo
(φαλακρός), ma Untersteiner (1963, p. 175) sottolinea le
differenze. Barnes (1979b, p. 259) ritiene che l’argomento
ponga
alcune questioni abbastanza importanti sulla connessione
tra logica formale e linguaggio ordinario (p. 260).

Il testo di Aristotele è alquanto scarno, mentre quello


di Simplicio34 sembra proprio mettere in scena una dif-
ferenza di opinioni tra un protagora sensista e uno Ze-
none razionalista, rappresentandoli quindi nelle le loro
posizioni emblematiche tradizionali. In effetti, l’apologo
non sembra derivare dal libro di Zenone, quindi non è
detto che rifletta il pensiero dell’Eleate, quanto piuttosto
la percezione che si aveva di lui in un’epoca più tarda. Secon-
do protagora ciò che l’uomo non sa, per lui non esiste: se
l’uomo non ritiene che ci sia rumore perché non lo sen-
te, il rumore non c’è. Secondo Zenone, invece, il grano
di miglio, per quanto piccolo, è ancora una grandezza e
partecipa alla produzione del rumore prodotto dal me-
dimmo quando cade.

4.8. Conclusioni

Mi sembra che tutti gli argomenti di Zenone giunti


fino a noi abbiano una logica spiegazione alla luce del-
la convinzione eleatica del loro autore. Non ci troviamo
dunque nella difficoltà di dover tutelare la reputazione di
Zenone nonostante la fallacia dei suoi argomenti. Viene
meno anche ogni motivo di cercare per Zenone un ber-
34. per la discussione sull’attribuzione del testo vedi Untersteiner
(1963, p. 170).
4. Le ragioni di Zenone 263

saglio costituito dai presunti sostenitori di una non ben


precisata dottrina atomistica. Se si accetta l’interpreta-
zione del pensiero di parmenide proposta in questo stu-
dio, è sufficiente far riferimento al punto di vista eleatico,
espresso da quel che ci resta del poema di parmenide.
Tutti gli argomenti di Zenone di cui è rimasta traccia
mostrano che, se ammettiamo l’esistenza in sé degli oggetti
o degli enti che gli uomini pongono, nascono inevitabili con-
traddizioni. Non esiste quindi una pluralità di “esseri”,
ma l’essere è un tutto unico, ed all’interno di esso non
esiste alcuna partizione logica o comunque necessaria.
Gli oggetti, gli enti non esistono in sé ma sono costruzio-
ni mentali — concezioni umane. Concezione umana è,
quindi, anche il moto, la cui esistenza oggettiva presup-
porrebbe quella degli oggetti.
per difendere il punto di vista eleatico, argomenti del
tipo di quelli che ci sono stati tramandati come zenonia-
ni se ne potrebbero inventare infiniti. In effetti, pare che
Zenone ne abbia scritti almeno quaranta (procl., in Parm.
I p. 694, 23; Elias, in categ. p. 109). Di questi soltanto un
numero limitatissimo è arrivato fino a noi; e questi sono
per lo più dotati di un aspetto che colpisce l’immagina-
zione, il che ne ha probabilmente favorito la memoria
anche quando non erano più capiti. È verosimile che gli
argomenti perduti risultassero ormai insignificanti fuori
da un contesto eleatico, e non venissero quasi mai citati.
Zenone è il secondo e ultimo pensatore di Elea di cui
si abbia notizia ed è anche l’ultimo pensatore genuina-
mente eleatico. Calogero (1932), che lo colloca dopo Me-
lisso, gli attribuisce un ruolo nella dissoluzione di quella
corrente di pensiero

La crisi dell’eleatismo fu iniziata specificamente proprio da


chi pensava di esserne il più valido soccorritore e difensore:
Zenone di Elea (p. 105).
264 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

in quanto:
per confermare la verità dell’uno, va a caccia degli assurdi del
molteplice; e non s’accorge che questi assurdi del molteplice
sono nient’altro che gli stessi assurdi dell’uno. La scolastica
tragedia di Zenone è quella di brandire, in difesa dell’eleati-
smo, un’arma che colpirà invece al cuore l’eleatismo mede-
simo (p. 112).

Se il quadro che ho tracciato in queste pagine è nelle


grandi linee corretto, il giudizio di Calogero non è con-
divisibile. Come accennato nelle premesse, sarà ben altro
ciò che colpirà al cuore quella corrente di pensiero: la
tematica di cui Eraclito è stato forse il geniale iniziatore,
che da parmenide è stata basata sull’esistenza dell’essere
tramite incontrovertibili argomenti logici, e che troverà
il logico completamento in protagora e Gorgia, cesserà
di essere compresa quando verranno meno i suoi pre-
supposti storici. Allo smarrimento del senso dell’eleati-
smo contribuirà però un altro pensatore generalmente
associato a questa corrente di pensiero: i ragionamenti
di Melisso, orecchiabili ma privi di rigore logico, snatu-
reranno le conclusioni eleatiche mutandole in paradossi
insensati. È infatti con Melisso che la dottrina eleatica di-
vorzia dalla realtà e si riduce a un rozza negazione della
pluralità e del movimento, diventando così oggetto di ri-
dicolo35 e facile bersaglio per le critiche successive.

35. Come il citato apologo su Antistene (29 A 15).


5. Gli equivoci di Melisso

La ceramica samia arcaica […]


non vi è nulla che dia l’impressio-
ne di una produzione molto attiva,
di una produzione autonoma, i cui
prodotti abbiano una spiccata ori-
ginalità. Non vi si incontrano che
prove secondarie di tipi che già co-
nosciamo a Dafne e a Naucrati, tipi
che ritroviamo a Rodi, dove sono
però rappresentati da esemplari me-
glio conservati e di fattura molto
superiore.
Georges perrot e Charles Chipiez1

5.1. Un imitatore poco sottile

Samo era famosa nell’antichità per la sua abbondante


produzione di vasi ma, stando a perrot e Chipiez, si trat-
tava di una produzione dozzinale e imitativa. Melisso è
nato a Samo: non contento di imitare le cadenze di par-
menide, credendo di puntualizzare ha confezionato un
prodotto scadente, totalmente privo della rigorosa con-
sequenzialità del suo modello. Non a caso il duro giudi-
zio di Aristotele:
Questi, dunque, come abbiamo già detto, possono essere la-
sciati da parte per la presente ricerca, due di essi perché un
po’ rozzi, Senofane e Melisso (metaph. I 5, 986b 25).

1. perrot, Chipiez (1911) IX p. 415.

265
266 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Se la svalutazione aristotelica, decisamente immerita-


ta per Senofane, è condivisa da diversi critici moderni2 ri-
guardo a Melisso, sono tuttavia riscontrabili da più parti
decisi tentativi di riabilitazione del pensatore samio3.
Sul fatto che Melisso possa essere inserito nel filone ele-
atico sembra vi sia un sostanziale accordo, anche se si è
manifestata qualche voce discordante4. Alcuni comunque
considerano addirittura Melisso il pensatore eleatico per
eccellenza, ritenendolo un ragionatore più rigoroso di par-
menide: Melisso non avrebbe ripetuto pedissequamente le
argomentazioni del suo predecessore, ma avrebbe sviluppa-
to concezioni originali. Queste concezioni sarebbero state
considerate dai pensatori successivi la formulazione canoni-
ca del pensiero eleatico, come notano Kirk e al. (1983):
Dove le posizioni eleatiche […] possono essere identificate
con precisione esse sono invariabilmente melissiane […]
Così non v’è dubbio che agli occhi di Aristotele è soprattutto
la versione di Melisso della dottrina eleatica ad influenzare
Leucippo (p. 409, n. 4).

Giudizio ribadito anche da Reale (1970), il quale sot-


tolinea come Melisso sia il più comune riferimento ele-

2. Il giudizio di Zeller (1892) è articolato: «Accanto a parmenide e


Zenone egli appare solo come un filosofo di second’ordine, ma tuttavia
sempre come un pensatore degno d’attenzione per il suo tempo» (I III
p. 440; trad. di G. Reale). Molto più drastico è, invece, Gomperz (1986):
«L’ingenua goffagine delle sue argomentazioni sbagliate tradisce parecchi
segreti che l’arte dei suoi più raffinati prosecutori ha saputo accuratamen-
te nascondere» (I p. 281; trad. di L. Bandini). Albertelli (1939): «Tenue e
smilza ci appare la figura di Melisso» (p. 211); «il pensiero occidentale può
fare tranquillamente a meno di Melisso di Samo» (p. 213).
3. Ad esempio Calogero (1932), Barnes (1979b) e (1979a), e soprat-
tutto Zafiropulo (1950) e Reale (1970).
4. Tannery (1887) sostiene «che il suo modo d’argomentare è pre-
so in prestito dagli Eleati e che la sua originalità è mascherata da questa
forma estranea, benché egli l’adatti a dei problemi nuovi» (p. 273). per
Matson (1988), Melisso è: «Un Eleate soltanto per cortesia» (p. 104).
5. Gli equivoci di Melisso 267

atico soprattutto nel periodo che precede Aristotele, in


particolare per Gorgia, per polibo (in quanto autore del
De natura hominis), per Isocrate e, in qualche misura, an-
che per platone. Zafiropulo (1950) ritiene addirittura che
per i suoi contributi alla teoria della conoscenza Melisso
avesse ben meritato
il posto di capofila degli Eleati che gli assegnava l’antichità
(p. 231)

attribuendo — poco persuasivamente per la verità — la


denigrazione di cui sarebbe stato vittima alla perdurante
ostilità degli ateniesi per la sconfitta che aveva inflitto alla
loro flotta5.
Si può senza dubbio riconoscere a Melisso una cer-
ta autonomia dal pensiero di parmenide, ma trovo poco
illuminanti i confronti basati su mere elencazioni degli
“attributi” assegnati all’essere da ciascuno dei due autori.
Ritengo in effetti che la differenza sia molto più radicale
ed investa anche il valore rispettivo delle due dottrine.
per parmenide gli attributi dell’essere sono soltanto
termini usati per comunicare un concetto ineffabile per
la sua estraneità alla mente umana. L’Eleate si è tro-
vato nella situazione paradossale di dover necessaria-
mente parlare dell’essere per mezzo di parole, che se-
condo lui non possono esprimere compiutamente ciò
che è. Come potrebbero? Le parole operano distinzioni
— identificano oggetti, enti, concetti, qualità — distin-
zioni che non riflettono una suddivisione logica e uni-
voca dell’essere, ma sono soltanto operazioni mentali

5. plutarco (Per. 26), che attribuisce la notizia ad Aristotele. La bat-


taglia, menzionata anche da Tucidide (I 117), sarebbe avvenuta nel 441.
Questo permette di collocare la maturità di Melisso intorno a quella data.
Secondo Guthrie (1965, p. 101) egli sarebbe stato dunque un contempora-
neo di Anassagora, Empedocle ed Erodoto.
268 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

dell’uomo. Di conseguenza, dire che l’essere è un’unità


compatta e indifferenziata (ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές)
è già un’attribuzione di qualifiche a rigore inapplicabili,
anche se atte a esprimere l’idea che parmenide vuole
comunicare. In questo compito, virtualmente impossi-
bile, parmenide si è espresso in modo magistrale, anche
se inevitabilmente inadeguato, facendo assegnamento
più sulla negazione che sul conferimento di attributi6.
Mi trovo perciò in radicale opposizione con il giudizio
di Reale (1975):
parmenide lasciò poeticamente indeterminati alcuni attri-
buti dell’essere e, soprattutto, ne lasciò altri semplicemente
affermati e non dedotti, oppure solo imperfettamente dedot-
ti; […] Melisso cercò invece, in una limpida prosa, […] di
dedurre con rigore tutti gli attributi e di correggere quanto
non quadrava, o mal quadrava, con i fondamenti del siste-
ma7 (I p. 142).

Il pregio letterario di parmenide è, a mio avviso,


anche espressione del massimo rigore conseguibile: la
parsimonia degli attributi è strettamente connessa con
l’inadeguatezza di qualsiasi specificazione. Melisso non
ha manifestato il medesimo ritegno. Indubbiamente, il
suo tono è eleatico, ma lo sono i contenuti? Ciò che in-
teressa però è verificare se questi contenuti posseggono
una loro coerenza interna.
Il rapporto con la posizione di parmenide risulterà
da questa indagine.

6. per Thanassas (2007), i segni «operano non tanto come attributi


positivi ma piuttosto come contrassegni negativi che impediscono ogni tentati-
vo di intrusione del Non essere» (p. 55).
7. Nella vicenda Capizzi (1988) attribuisce un ruolo anche a Zeno-
ne: «Zenone […] indirizzò Melisso a dimostrare logicamente la maggior
parte delle asserzioni che parmenide aveva fondate sul volere della Giusti-
zia, della Moira e dell’Ananke intese come divinità» (p. 58).
5. Gli equivoci di Melisso 269

5.2. L’essere

Il punto di partenza di Melisso è lo stesso di parmeni-


de: l’essere. Un brano di Simplicio (phys. 103, 13) proposto
da Burnet (1892, p. 321, n. 5) come un autentico fram-
mento, e che Reale accetta come frammento 0 collocan-
dolo all’inizio del libro di Melisso, può essere considerato
una giustificazione di questa scelta:
Se nulla è, cosa si potrebbe dire su di esso come fosse qual-
cosa?

Di ciò che non esiste, in effetti, non si può parlare.


Da questa base Melisso parte per dedurre gli attributi
dell’essere.

5.2.1. Eternità

Il primo attributo è l’eternità dell’essere, affermata nel


frammento 1:
Sempre era ciò che era e sempre sarà; infatti, se fosse ge-
nerato, è necessario che prima di essere generato non fosse
nulla: se dunque era nulla, per nessuna ragione nulla sarebbe
generato dal nulla

concetto ribadito anche all’inizio del frammento 2.


Che nulla si generi senza derivare da qualcos’altro era
un concetto ormai familiare all’epoca di Melisso; impli-
cito, per quel che ne sappiamo, nel pensiero dei Milesi, e
ampiamente riscontrabile in altri pensatori a lui contem-
poranei. Questo concetto, si è visto, esprime un principio
di conservazione di natura empirica, che mai sarebbe stato
formulato se la creazione fosse stata un’esperienza osser-
vabile. Ciò era già chiarissimo per l’autore dello pseu-
270 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

do–aristotelico de Melisso, Xenophane et Gorgia8, che però


rifiuta il principio:
nulla potrebbe nascere dal nulla. Questa infatti è un’opinio-
ne, anzi, una delle non vere, che tutti abbiamo accolto in
qualche modo dall’esperienza di molti casi (1, 974b 13).

Infatti, egli [Melisso] parte da questa opinione senza mo-


strare che è vera, e argomenta senza assumere nulla di più
saldo di quella intorno a cui discute (1, 975a 4).

Non avendo alcuna necessità logica, il principio di


conservazione può essere negato da chi crede nella pos-
sibilità di materializzazioni o annichilimenti. Di fatto,
sempre secondo il de M. X. G.,
c’è chi dice con certezza queste cose, che nasce ciò che non
è, e che da ciò che non è sono nate molte cose: e non gente
qualsiasi, ma anche alcuni reputati sapienti (1, 975a 7).

Tra questi, secondo l’Anonimo, Esiodo9 e coloro che


sostengono che nulla è ma tutto diviene.
Sembra che Melisso ritenga di poter dimostrare che
l’essere è eterno (ἀίδιον) perché «prima [πρίν] di essere
generato avrebbe dovuto essere nulla [μηδέν]», e il nulla
è il non essere, che per definizione non esiste; ma come
può esserci un “prima”?
La dimostrazione presuppone comunque l’eternità
del tempo: senza questa infatti, l’essere, benché non ge-
nerato, non sarebbe eterno. L’eternità del tempo, in cui
Melisso evidentemente credeva, è però un’ipotesi non
8. In seguito indicato con de M. X. G. Secondo Reale (1970), «il pri-
mo capitolo dedicato a Melisso rivela una conoscenza diretta, o almeno
una conoscenza desunta da buona fonte» (p. 28).
9. Esiodo (Teogonia): «E ditemi quale per primo nacque di loro. /
Dunque per primo fu Caos, e poi / Gaia dall’ampio petto» (p. 101; trad. di
G. Arrighetti, 1984).
5. Gli equivoci di Melisso 271

necessaria, e presuppone un concetto, quello di tempo,


che non è deducibile dall’esistenza dell’essere.
parmenide, al contrario di Melisso, si guarda bene
dal dire che l’essere è esistito “sempre” (ἀεί), anzi, non
usa mai questo termine in relazione all’essere. La sua
“via della verità” mostra
che l’essere è ingenerato e indistruttibile,
è infatti intero, immobile e senza fine:
né mai era, né sarà, perché è ora insieme tutto,
uno, continuo. Infatti quale origine gli cercherai?
Come e da dove sviluppato? Dal non essere non permetto
di dirlo né pensarlo: infatti non è dicibile né pensabile
che non è (28 B 8.4).

L’essere di parmenide non può avere origine perché


è tutto, dato che il non essere non esiste, non, come per
Melisso, perché “prima d’essere generato sarebbe stato
nulla”.
La differenza sta nel fatto che, mentre parmenide
non pone il tempo, per cui l’essere esiste in un “ora”
(νῦν) atemporale, Melisso situa l’essere nel tempo10. Egli,
infatti, non si fa scrupolo di far riferimento ad attributi
temporali: è esistito sempre e sempre esisterà11; se non fos-
se esistito sempre, prima della sua esistenza avrebbe do-
vuto esserci il non essere, il che è inconcepibile, perché
dal nulla non può esserci generazione.

10. La critica ha ben presente quest’aspetto: ad esempio, per pasqui-


nelli (1958): «In parmenide l’assolutezza dell’essere era vista nell’atem-
poralità dell’“ora”: Melisso, tornando alla formula tradizionale dell’eter-
nità, la traduce invece nell’eterna durata del tempo (e nell’infinitezza
spaziale). I motivi della totalità e dell’immobilità sono rimasti, ma è fa-
cile vedere che in diversa funzione» (p. 430, n. 16).
11. Barnes (1979b) interpreta l’argomento di parmenide in senso
melissiano: «Qualcosa che era non–esistente è ora esistente. Nulla si op-
pone a questa interpretazione» (p. 185).
272 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Questa posizione stravolge l’originaria concezione


eleatica12.
Non si tratta soltanto di discorsi diversi: quello che
è in gioco è il valore logico degli argomenti. L’essere è
tutto e non lascia residui soltanto se ingloba tutto l’esi-
stente. L’atemporalità, intesa in questo senso, è crucia-
le per la consistenza logica del discorso di parmenide.
Una volta posto l’essere, che è tutto l’esistente, nessuna
articolazione può esserne dedotta. Il tempo stesso è un
concetto umano, un ente posto dall’uomo per inter-
pretare il mondo in cui vive: è opinione umana. Nel-
la misura in cui è lecito qualificare l’essere per mezzo
di parole umane, potremmo dire dunque che l’essere è
atemporale, perché include tutto il tempo.
A questo punto, è chiaro che la differenza tra Melisso e
parmenide non è negli attributi dell’essere — che solo Me-
lisso avrebbe dedotto con rigore — ma è nel senso dell’ar-
gomentazione. Mentre parmenide si riferisce ad una vi-
sione complessiva dell’essere, Melisso estrae dall’essere un
aspetto, il tempo, e lo porta al di fuori, per collocarvi tut-
to ciò che esiste. Melisso ha dunque introdotto una prima
suddivisione concettuale, ponendosi così, involontaria-
mente, sul piano dell’indimostrabile e dell’opinione.

5.2.2. Infinità

L’essere di Melisso è dunque situato nel tempo. Melis-


so però non si ferma qui, e nel frammento 2 introduce
un nuovo attributo, l’infinità:

12. Mondolfo (1934): «Con Melisso, tuttavia, si perdeva nello stesso


eleatismo quel concetto parmenideo dell’eternità come presenzialità as-
soluta, che era per sé stesso la più radicale negazione di ogni distinzione o
limite temporale» (p. 67). Calogero (1932): «Melisso concepisce invece la
sua eternità nel senso dell’estensione temporale, che non può avere un limite
né verso il passato né verso il futuro» (p. 73).
5. Gli equivoci di Melisso 273

poiché dunque non è generato, ed è e sempre era e sem-


pre sarà e non ha inizio né fine, ma è infinito. Infatti, se
fosse stato generato, avrebbe avuto inizio (infatti avrebbe
cominciato a generarsi in un certo momento)13 e fine (in-
fatti avrebbe terminato di generarsi in un certo momento);
poiché né è iniziato né è terminato, e sempre era e sempre
sarà, non ha inizio né fine: infatti non è possibile che sia sem-
pre ciò che non è tutto.

L’esposizione è indubbiamente contorta14, e anche per


questo il frammento 2 è forse il più discusso tra quelli di
Melisso. Ribadita la premessa, precedentemente accerta-
ta, che l’essere è eterno (sempre era e sempre sarà), segue
quella che sembrerebbe l’enunciazione della tesi che le
proposizioni successive dovrebbero dimostrare, e cioè
che l’essere è infinito (ἄπειρον).
Zeller (1892, I III p. 410, n. 5) ha considerato l’argo-
mentazione fallace15. Vi si può individuare infatti una
quaternio terminorum per il doppio significato attribui-
to ad ἄρχή, termine medio del sillogismo, che avrebbe
valenza prima temporale e poi spaziale16. per esonerare

13. Sia in questo caso, sia nel secondo caso, tra le parentesi succes-
sive, Albertelli (1939) e Reale (1970) accettano γινόμενον, rifiutando il
γενόμενον di Diels–Kranz, che porterebbe a leggere: «infatti essendo ge-
nerato avrebbe avuto inizio in un certo momento». Ciò, come nota Calo-
gero (1932), sarebbe soltanto «una mera ripetizione nel primo caso […] e
non ha addirittura ragion d’essere nel secondo» (p. 78, n. 6).
14. La prosa di Melisso non ha certo nulla di “limpido”. Condivido
il sentimento di Guthrie (1965) quando nota «la forma irritante dell’argo-
mentazione di Melisso» (p. 104).
15. Un’ulteriore fallacia, una conversio simplex, era stata già messa in
evidenza da Aristotele (30 A 10): «Se dunque non è stato generato, non ha
inizio il tutto, dunque è infinito. Ciò non risulta necessariamente: infatti,
se tutto il generato ha inizio, non segue che se qualcosa ha inizio è gene-
rato» (soph. el. V 167b 16).
16. Molti non considerano risolutive queste critiche alla logica di Me-
lisso. per Albertelli (1939), ad esempio, «non è credibile che Melisso cada
(per quanto sia un pensatore elementare) in un errore così grossolano e
palmare come l’arbitrario passaggio dal temporale allo spaziale» (p. 231).
274 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Melisso da questo evidente errore, Burnet (1892, p. 325)


nega il valore spaziale di ἄπειρον nel frammento 2, e so-
stiene che l’infinità spaziale è introdotta solo nei fram-
menti successivi, dove è dimostrata dall’inesistenza di
limiti. Zeller osserva però che nei frammenti di Melisso
è designato con ἄπειρος o ἄπειρος τὸ μέγετος l’infinito spa-
ziale e questo è distinto decisamente dall’infinito temporale,
dall’ἀίδιον (I III p. 412, n. 7; trad. di G. Reale)

e Reale (1970) concorda:


è impossibile sostenere che solamente nel frammento 2 il
termine ἄπειρον significa illimitato temporale (p. 86).

Sono stati fatti diversi tentativi per dare comunque un


senso al frammento. Si è rilevato, ad esempio, che i brani
tra parentesi sembrano indicare che Melisso considera il
processo generativo necessariamente dotato di inizio e
fine, per cui in un tempo finito non si può generare un
essere infinito17. Quindi ciò che è generato non è infinito.
Ciò però non vuol dire che necessariamente ciò che non
è generato sia infinito.
Un’alternativa è accentrare l’attenzione sull’ultima
frase18 e interpretare il ragionamento come due sillogi-
smi in serie:

a) l’essere è eterno (già dimostrato);


17. Albertelli (1939) rende conto del passaggio dall’essere ingenera-
to, quindi senza inizio e fine, all’infinità spaziale, sostenendo che «secondo
Aristotele, Melisso vedeva in ogni nascere e perire un processo di forma-
zione per cui prima si viene a costituire una parte iniziale e poi mano a
mano il resto fino alla parte terminale» (p. 232). Analogamente, per Sed-
ley (1999): «L’unica cosa che avrebbe potuto renderlo finito è un processo
di generazione che, essendo limitato temporalmente, potrebbe solo aver
prodotto un essere spazialmente finito» (p. 127).
18. Vedi Mondolfo (1934) p. 288 e Reale (1970) p. 98.
5. Gli equivoci di Melisso 275

b) solo ciò che è tutto può essere eterno («non è pos-


sibile che sia sempre ciò che non è tutto»);
c) quindi l’essere è tutto;
d) ciò che è tutto è infinito;
e) quindi l’essere è infinito.

Anche ammesso però che l’essere sia eterno, il che si


è visto non è dimostrato, non è detto che il punto b) sia
vero: perché solo il tutto potrebbe essere eterno? Ma an-
che ammesso che b) sia vero19, e quindi l’essere sia il tutto,
non è detto che il punto d) sia vero, come invece Melisso
doveva credere.
In effetti, la fallacia della dimostrazione non implica
necessariamente che la tesi di Melisso sia insostenibile.
Esiste un parallelismo tra eternità e infinità20, che è evi-
dente anche nel frammento 4:
Ciò che ha inizio e fine non è né eterno né infinito

dove inizio e fine si riferiscono evidentemente sia al tem-


po sia allo spazio, e soprattutto dal frammento 3:
Ma come è sempre, così anche la grandezza bisogna che sia
sempre infinita.

Come l’essere, secondo Melisso, non può avere limiti


(inizio e fine) in specifici istanti del tempo, allo stesso
modo non può averli in specifiche località dello spazio.
Questa interpretazione della posizione di Melisso, per
quanto non facilmente enucleabile dai frammenti, è a
19. per Zafiropulo (1950): «L’errore del Samio non è che di pura for-
ma e il rimprovero dello Stagirita ingiustificato per la sostanza, perché la
conclusione del frammento: «Solo la totalità può concepirsi come eterna»
[…] costituisce una proposizione altrettanto esatta ai nostri giorni che nel
quinto secolo quando fu formulata la prima volta» (p. 244).
20. Vedi Calogero (1932) p. 78.
276 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

mio avviso verosimile. Ciò non vuol dire, tuttavia, che


l’argomentazione abbia un grande rigore logico: come
non può esistere, in senso eleatico, un tempo in cui l’es-
sere esiste, così non può esistere spazio in cui l’essere è
collocato, ma da ciò non è lecito dedurre infinità spazia-
le dell’essere, più di quanto non sia deducibile, come si è
visto, l’eternità temporale.
La stessa cosa può dirsi di quello che Reale (1970)
considera il frammento 4a:
infatti il limite confinerebbe col nulla.

Il “confine” dell’essere non esiste (l’essere è tutto) in-


dipendentemente dall’attributo dell’infinità spaziale: l’es-
sere non è nello spazio come non è nel tempo. Anche
lo spazio, come il tempo, è soltanto una distinzione che
l’uomo opera nell’essere.
Resta il fatto che l’infinità dell’universo non ha ap-
parentemente nulla d’assurdo, e tanto meno l’aveva in
un’epoca in cui era difficile concepire uno spazio illimi-
tato ma finito21.
L’argomento di Archita sembra infatti calzante:
Archita, come racconta Eudemo, così formulava l’argomento:
arrivato all’estremità del cielo […] potrei estendere la mano o
il bastone verso l’esterno, o no? (Simplic. phys. 467, 26).

L’essere di Melisso ha acquistato così un ulteriore at-


tributo, l’infinità. Melisso ha estratto dall’essere un altro
ente, lo spazio, e in questo ha collocato tutto ciò che esi-
ste: l’essere è situato nello spazio e l’occupa tutto.

21. Guthrie (1965): «Abbiamo visto, tuttavia, che i pensatori più anti-
chi provavano difficoltà a separare i vari sensi in cui qualcosa poteva essere
detto infinito o illimitato (apeiron), e Melisso non era un’eccezione» (p.
108).
5. Gli equivoci di Melisso 277

Il confronto con parmenide presenta un aspetto deli-


cato. L’Eleate, si è visto, non si è pronunciato sui caratteri
spaziali dell’essere: per quel che vale, l’attributo dell’infini-
tà è un contributo originale di Melisso. L’argomento dei
sostenitori dell’originalità melissiana è però generalmen-
te diverso. Costoro aderiscono in prevalenza ad un’inter-
pretazione letterale della sfera di parmenide: l’essere elea-
tico diventa allora una specie di pallone22, evidentemente
di sterminate dimensioni — per qualcuno addirittura in
espansione dinamica23 — ma comunque limitato. Il se-
vero giudizio che meriterebbe una simile “incoerenza”
giustificherebbe l’alto pregio attribuito alla “coerenza”
melissiana: il passo avanti compiuto da Melisso sarebbe
stato, appunto, quello di liberare l’essere parmenideo da
assurdi confini spaziali. Si è mostrato però, nel capitolo 3,
che non vi è alcun motivo per intendere la sfera parme-
nidea come una rappresentazione della forma dell’essere,
né per attribuire ai “limiti dei forti vincoli” del verso 28 B
8.26 il significato di confini spaziali dell’essere, imputando
così a parmenide quello che Reale (1970) definisce
lo stridente contrasto fra l’affermazione del verso 26 (e in
particolare l’espressione μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν) e gli
attributi che immediatamente compaiono nel verso succes-
sivo ἄναρχον e ἄπαυστον (p. 72).

per parmenide l’essere è semplicemente tutto, né egli


si pronuncia su caratteristiche temporali e spaziali, che sa
non deducibili. Melisso, invece, ha attribuito al suo essere
durata eterna ed estensione infinita: durata ed estensione
22. Meijer (1997): «Non ho problemi a vedere l’Essere come spaziale
e simile a una palla» (p. 40).
23. Calogero (1932): «L’ente non è tanto un essere sfera, quanto un
infinito ampliarsi nella forma omogeneamente finita della sfera» (p. 33).
Ruggiu (Reale e Ruggiu, 1991): «Tutta l’immagine esprime, piuttosto che
un’uguaglianza statica, un’uguaglianza dinamica» (p. 309).
278 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

che non sono deduzioni logicamente necessarie, come


egli invece sicuramente riteneva.

5.2.3. Unicità

per parmenide l’esistente non è articolato, non è


composto da enti distinti, ma è qualcosa di compatto
e continuo; la moltitudine degli oggetti e degli enti
sono distinzioni eseguite dall’uomo. Nel tentativo di
comunicare la sua visione, egli qualifica l’essere con
una serie di attributi che a stretto rigore sa di non
poter enunciare, perché le parole umane non s’addi-
cono all’essere. Egli perciò si limita a mostrare, al solo
scopo di delineare un’immagine dell’essere24. Tra que-
sti attributi compare l’uno (ἕν) come negazione della
differenziazione intrinseca dell’essere. Tra tutti i voca-
boli con cui parmenide ha cercato di trasmettere la
sua idea di essere, lo ἕν è quello che ha creato maggior
perplessità ai commentatori, al punto che Unterstei-
ner (1958) è arrivato a proporre una variante testuale
che fa scomparire l’imbarazzante attributo25. Non è
difficile capire perché: l’idea che esista un solo essere è
interpretata come la negazione del mondo dell’espe-
rienza, e impedisce l’attribuzione di un carattere di
realtà assoluta perfino agli oggetti che ci sembrano
del tutto evidenti.

24. Di questo si tratta, e non di un presunto “fondamento mitico”


del pensiero di parmenide, come sostenuto da Capizzi (1988): «Apparenti
procedimenti apodittici riscontrabili nel poema parmenideo, che però, se
analizzati spassionatamente, rivelano il fondamento mitico e non logico
delle asserzioni sulla ‘cosa esistente’» (p. 58) . È la logica stessa che in que-
sto caso richiede l’apoditticità: dice infatti che dell’essere non si può parlare
con rigore.
25. Contrario all’unicità dell’essere di parmenide è anche Cordero
(2004): «parmenide dice che il fatto di essere è unico, non che tutto è uno,
e certamente non che l’essere è L’Uno» (p. 177).
5. Gli equivoci di Melisso 279

Ancora una volta, Melisso non adopera lo stesso rite-


gno di parmenide: dopo aver disarticolato il compatto
concetto dell’essere, identificando altri due enti, lo spazio,
il tempo, egli prosegue imperturbato nella catena delle
dimostrazioni, introducendo ulteriori attributi, a comin-
ciare da quello dell’unicità, nel frammento 5:
Se non fosse uno, confinerebbe con altro

e nel frammento 6:
Infatti, posto che sia〈infinito〉
, sarebbe uno: se, infatti, fos-
sero due, non potrebbero essere infiniti, ma avrebbero con-
fini l’uno con l’altro.

praticamente identica è l’argomentazione riportata


nel de M. X. G.:
Ed essendo infinito è uno: se, infatti, fossero due o più, que-
sti costituirebbero dei limiti l’uno per l’altro (1, 974a 12).

L’essere dunque deve essere uno, altrimenti non po-


trebbe essere infinito, in quanto l’altro lo limiterebbe.
per Melisso, quindi, l’unicità dell’essere non è, come per
parmenide, un modo di esprimere l’inesprimibile na-
tura di ciò che è tutto ed indiviso, ma è un attributo
derivabile logicamente dall’infinità dell’essere. Si tratta,
ovviamente, di un’infinità estesa in tutte le direzioni,
altrimenti infiniti corpi d’estensione infinita potrebbero
tranquillamente convivere in uno spazio infinito — ma
questo, ritengo, è sottinteso. L’infinità non basta: anche
l’eternità è necessaria, altrimenti due esseri potrebbero
succedersi nel tempo; ma l’eternità è stata già afferma-
ta, per cui è verosimile che anche questa premessa sia
sottintesa, e forse vi si faceva cenno in una parte ormai
perduta del testo.
280 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Resta il fatto che infinità e eternità non sono deducibili


dall’esistenza dell’essere. Cosa possiamo mai dire di certo
su questi concetti umani? La deduzione non può essere
più robusta delle premesse, e i primi anelli della catena
deduttiva melissiana sono fragili. Con la sua posizione
del tempo e dello spazio Melisso è già passato dal piano
della verità, l’ineffabile ἀλήθεια di parmenide, a quello
più familiare dell’opinione dei mortali, la δόξα βροτῶν.
Egli però non sembra essersene reso conto.
Questa fragile deduzione è considerata da alcuni criti-
ci il secondo importante contributo originale di Melisso;
ma se per Calogero (1932) l’originalità del Samio consi-
sterebbe proprio nell’aver dato una dimostrazione origi-
nale dell’unità26, per Untersteiner (1958) il suo primato
riguarderebbe invece l’affermazione stessa dell’unità27.

5.2.4. Omogeneità e vuoto

All’inizio del frammento 7 Melisso aggiunge alla serie


delle sue deduzioni quella dell’uguaglianza:
(1) Così dunque è eterno e infinito e uno e tutto uguale.

Eterno, infinito e uno si è visto, ma uguale (ὅμοιον)


in che senso? Intanto, dato che Melisso negherà espli-
26. Calogero (1932): «Questa è propriamente una novità di Melisso,
il quale […] dimostra l’unità in un modo che non poteva naturalmente
essere quello di parmenide, il quale, d’altra parte, non sentiva quasi il biso-
gno di argomentarla, trovandola in certo modo immediatamente implici-
ta nella stessa singolarità dell’è generante il suo ente» (p. 84). Reale (1970)
loda il rigore della deduzione: «Dall’attributo dell’infinitudine Melisso de-
dusse l’attributo dell’unità (o unicità) dell’essere, con una precisione e con
una coerenza che, come vedremo, invano si cercano negli altri due Eleati»
(p. 105).
27. Untersteiner (1958): «Il ἕν, logicamente e ontologicamente di-
mostrato, indipendentemente da qualsiasi esperienza religiosa, è una con-
quista di Melisso» (p. XLII).
5. Gli equivoci di Melisso 281

citamente più avanti le trasformazioni temporali (οὐδὲ


μετακοσμηθῆναι ἀνυστόν), si ammette generalmente che
egli parli qui di uguaglianza nello spazio, ossia di omoge-
neità. I frammenti non contengono alcuna dimostrazio-
ne dell’omogeneità, nonostante l’importanza che questa
proprietà ha nelle dimostrazioni successive. Nel de M. X.
G. si legge tuttavia:
Essendo uno, è ovunque uguale: se, infatti, non fosse uguale,
essendo una pluralità, non sarebbe dunque uno, ma molti28
(1, 974a 13).

Melisso nomina qui gli stessi attributi di parmenide,


che ritiene l’essere “tutto uguale” (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον), ma
non sembra parlare della stessa cosa. parmenide si limita
a considerare l’essere per l’unico aspetto che lo caratteriz-
za sicuramente, ossia per il “fatto di esistere”. Questo at-
tributo, che s’identifica con il soggetto (l’essere, appunto),
non ha gradazioni (οὐδέ τι τῆι μᾶλλον): l’essere «è tutto
pieno di essere» (πᾶν δ’ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). Questo è il
punto di partenza di parmenide ed anche quello d’arrivo.
L’uguaglianza è quindi implicita in un concetto, quello di
essere, che non ammette gradi: non si può “esistere” più
o meno. È lecito chiedersi se anche per Melisso l’ugua-
glianza si riferisca alla semplice proprietà di esistere.
Il de M. X. G. fa dire a Melisso che l’essere è uguale per-
ché è uno: se fosse disuguale sarebbe una pluralità. Ma
disuguale in cosa? Melisso dà l’impressione di non riferir-
si alla proprietà dell’esistenza, ma ad una sostanza: come
se una disomogenea distribuzione di questa sostanza
dovesse introdurre nell’insieme una distinzione che ne
comprometterebbe l’unità, il che sarebbe assurdo perché
l’unità è già stata dedotta.
28. Reale (1970): «Senza dubbio […] l’ὅμοιον dovette essere dedotto
dal Samio nell’ordine e nel modo indicato dall’Anonimo» (p. 303).
282 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

È chiaro che rispetto alla posizione parmenidea c’è


un’assoluta caduta di rigore: qualsiasi altra proprietà
che non sia la pura posizione d’esistenza non è rigorosa-
mente deducibile dall’essere, ma è soltanto un concetto
umano. può anche darsi che Melisso, come parmenide,
pensasse all’omogeneità in termini d’esistenza, ma il de
M. X. G. dà proprio l’impressione che egli pensasse ad
un’uniformità della sostanza. Il testo favorisce proprio
il genere d’equivoci che hanno fatto apparire assurda la
posizione eleatica, che finirebbe così col negare ciò che
tutti vedono: l’indiscutibile disomogeneità materiale del
mondo. Se invece Melisso non intendeva discostarsi dalla
posizione di parmenide, bisogna ammettere che il de M.
X. G. travisa o si esprime molto male.
La convinzione che Melisso pensasse ad un’omoge-
neità in termini di sostanza si rafforza con la lettura di
altri passi del frammento 7:

(8) Non potrebbe essere il denso e il rado: infatti non è pos-


sibile che il rado sia pieno allo stesso modo del denso, ma
invero il rado è più vuoto del denso.
(9) Questa distinzione bisogna fare tra pieno e non pieno:
ossia se qualcosa cede luogo o accoglie, non è piena; se né
cede luogo né accoglie, è piena.
(10) È necessario dunque che sia pieno, se il vuoto non esi-
ste. Se dunque è pieno, non si muove.

Qui si parla chiaramente di qualcosa di pieno (πλέων),


come una sostanza che non accoglie altra sostanza: sol-
tanto il vuoto (κενεόν), ossia la mancanza di sostanza, po-
trebbe far luogo ad altra sostanza e accoglierla. L’ugua-
glianza sembra, allora, una sorta di uniforme densità.
L’essere parmenideo si è trasformato in un pieno materia-
le, e la mancanza di questo pieno, il vuoto, è identificato
con il nulla (μηδέν), il non essere. Dato che il non essere non
esiste, il vuoto non può esistere:
5. Gli equivoci di Melisso 283

(7) Né vuoto alcuno esiste: infatti il vuoto è nulla; e ciò che è


nulla non può essere29.

È evidente che anche in questo caso parmenide e


Melisso parlano di cose assolutamente differenti. per il
primo, vuoto e pieno — che egli non nomina mai —
non sarebbero altro che concetti umani. Il vuoto — uno
spazio privo di materia — è una concezione su cui par-
menide non si è pronunciato. D’altra parte, l’identifica-
zione melissiana del vuoto con il non essere è un’assur-
dità giustamente ridicolizzata dagli Atomisti30, i quali,
stando alla testimonianza di Aristotele (67 A 6), l’avreb-
bero ribaltata affermando l’esistenza del non essere:
Leucippo e il suo compagno Democrito pongono come ele-
menti il pieno e il vuoto, chiamando l’uno ‘essere’ e l’altro
‘non essere’, di questi, il pieno e solido l’essere, e il vuoto e
rado il non essere (perciò dicono anche che l’essere non è
nulla più del non essere, perché in nulla è il corpo più del
vuoto) (metaph. I 4, 985b 4).

29. per spiegare l’uso del termine “vuoto”, Reale (1970) lo ricon-
duce alla polemica contro i pitagorici. Secondo la testimonianza di Ari-
stotele «[a]nche i pitagorici sostenevano che esistesse il vuoto, e che
penetrasse dall’infinito soffio nel cielo stesso, come se questo ispirasse
anche il vuoto, il quale distingue le nature, come se il vuoto fosse ciò che
separa e delimita le cose adiacenti» (phys., IV 6, 213 b 22). In questo caso,
come già con Zenone, i pitagorici sembrano svolgere il ruolo del deus
ex machina per risolvere problemi scomodi posti dal pensiero eleatico.
Non ritengo però che l’ipotesi risolva alcunché. Se Melisso ha pensato
di contrastare una tesi scientifica dei pitagorici, si è molto allontanato
dalla posizione parmenidea. Egli allora non starebbe parlando dell’essere
allo stesso livello epistemologico di parmenide, bensì di un’immagine
del mondo che appartiene, a tutti gli effetti, alla sfera della δόξα, e che
i pitagorici cercavano di concepire con i loro mezzi. Comunque, la sup-
posta polemica anti–pitagorica non renderebbe più sensata l’identifica-
zione ontologica del vuoto con il non essere.
30. Concordo con Curd (1998): per Leucippo e Democrito«[c]hiama-
re il vuoto “non–essere” è chiaramente provocatorio» (p. 182).
284 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Il ragionamento, rigorosamente tautologico di par-


menide, per cui il non essere non è, si trasforma per Melis-
so nella negazione del vuoto!
La materia, più o meno densa o assolutamente densa
o semplicemente piena, non è deducibile dal concetto di
essere. Il fatto che l’essere sia “uno” nulla ci dice della sua
struttura. Sappiamo solo che non esistono distinzioni
nell’essere perché la proprietà dell’esistenza non ha gra-
di. Di conseguenza, se l’omogeneità posta da Melisso ri-
guarda qualcosa di differente dalla proprietà di “esistere”,
tale omogeneità non solo non è dimostrata, ma è anche
assurda. Se invece Melisso intendeva riferirsi alla sola
uniformità dell’attributo di “esistere”, come parmenide,
allora bisogna di nuovo constatare che ha usato una ter-
minologia assolutamente inappropriata.

5.2.5. Immutabilità

Nel frammento 7 è affermata anche l’immutabilità


dell’essere:
(2) Né potrebbe perire, né diventare più grande, né potrebbe
trasformarsi, né soffre, né prova afflizione: se, infatti, subisse
qualcuna di queste cose, non sarebbe più uno. Infatti, se si alte-
rasse, necessariamente l’essere non sarebbe più uguale, ma mo-
rirebbe ciò che era precedentemente e si genererebbe ciò che
non è. Se, dunque, diventasse diverso anche di un solo capello in
diecimila anni, si annienterebbe tutto per tutto il tempo.
(3) Ma neanche è possibile che si trasformi: infatti la dispo-
sizione che prima esisteva non si distrugge, né nasce quella
che non è. Dato che né si aggiunge alcunché, né si distrugge,
né si altera, come potrebbe modificarsi uno degli esseri31?

31. La lezione adottata è quella di Heidel, «il quale considera τι ἦ


correzioni marginali, fraintese e trascritte fuori posto» (Reale, 1970,
p. 389); la stessa lezione è adottata da Albertelli (1939). Codici: πῶς ἂν
μετακοσμηθέντων ἐόντων τι ἦ; Diels e Kranz: πῶς ἂν μετακοσμηθέν τῶν
ἐόντων εἴη.
5. Gli equivoci di Melisso 285

Infatti, se qualcosa diventasse diverso, senz’altro anche si tra-


sformerebbe.

Lasciando da parte, per ora, la sofferenza e l’afflizio-


ne, si fermi l’attenzione sull’immutabilità, espressa come
impossibilità che alcunché muoia (e, presumibilmente,
nasca), s’ingrandisca (e, presumibilmente, diminuisca) e
infine che si trasformi.
L’immutabilità non è altro che il trasferimento
dell’omogeneità spaziale nella dimensione tempora-
le e non richiede, a rigore, un’ulteriore dimostrazio-
ne. In una prospettiva parmenidea, si è visto, l’essere
è uguale senza qualifiche, perché si può esistere in un
solo modo e l’unica alternativa sarebbe non esistere.
Non è questo il modo in cui sembra vederla Melisso.
per lui ciò che impedisce il mutamento è il fatto che
morirebbe ciò che vi era prima e si genererebbe ciò
che non è, e ciò implica il non essere (prima) di quel
che sarà (dopo).
Ma questo è un non senso: se l’essere non può muta-
re nel tempo, non può neanche rimanervi uguale a se
stesso indefinitamente. Il fatto è che l’idea dell’essere
nel tempo o nello spazio, cambiamento o no, è incon-
grua da un punto di vista eleatico. L’essere non è nello
spazio e nel tempo, ma se mai spazio e tempo sono
distinti dall’uomo dell’ambito dell’essere. perciò, nega-
re l’alterazione «anche di un solo capello in diecimila
anni» è indubbiamente suggestivo, come ha sentito
Mondolfo (1934):

in Melisso c’è una consapevolezza dell’estensione inconcepi-


bile dell’infinità temporale (p. 66)

ma è insensato e porta a conclusioni assurde. Tra i mu-


tamenti nel tempo Melisso dedica una particolare at-
286 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

tenzione al movimento, e ritiene di poterlo negare a


causa dell’inesistenza del vuoto (fr. 7):
(7) […] Né si muove: infatti non ha alcun luogo in cui
spostarsi ma è pieno. Se infatti esistesse il vuoto, potreb-
be spostarsi nel vuoto; non esistendo il vuoto non ha
dove spostarsi.
(10) […] Se dunque è pieno, non si muove.

Il movimento è una forma di mutamento: se il muta-


mento è impossibile, anche il movimento lo è. Che ne-
cessità vi è di un’ulteriore deduzione? perché mai Melis-
so ha sentito il bisogno d’inventarsi questa strana teoria
del movimento?
Simplicio nella sua parafrasi del frammento 7 propo-
ne un’interpretazione:
non si muove, non in quanto sia impossibile muoversi attra-
verso il pieno, come diciamo dei corpi, ma in quanto tutto
l’essere non può muoversi né verso l’essere (infatti non vi
è qualcosa oltre ad esso), né verso il non essere: non esiste
infatti il non essere32 (phys. 103, 30).

L’argomento di Melisso però non è questo: il non


essere si è trasformato in vuoto, e lui nega il movi-
mento in base al fatto che non vi sia un vuoto in cui
spostarsi. Invoca, in sostanza, una teoria fisica del
moto. Del resto la teoria del movimento che è alla
base dell’argomentazione è certamente singolare e
propria di Melisso33, e Aristotele la ricorda solo allo
scopo di confutarla:

32. Interpretazione esclusa da Reale (1970), che la considera «un


argomento formulato in termini di essere e di non–essere, che non è di
Melisso» (p. 396).
33. L’ipotesi atomistica di un universo composto di atomi in conti-
nuo movimento nel vuoto non è, a mio avviso, dettata dall’inammissibili-
tà del moto di un continuo pieno, ma da altre esigenze.
5. Gli equivoci di Melisso 287

Non è necessario che vi sia il vuoto se c’è movimento.


Innanzitutto, non riguarda ogni forma di moto, fatto che
anche Melisso non ha visto, perché è possibile al pieno
di modificarsi; ma poi neanche per il moto nello spazio:
infatti è possibile che una parte faccia posto simultanea-
mente all’altra, anche senza uno spazio che separi i corpi
in movimento; e questo è evidente anche per i vortici
nei mezzi continui, come in quelli nei liquidi (phys. IV 7,
214a 26).

Nel frammento 10 l’assenza di movimento è utilizza-


ta per dimostrare l’indivisibilità:

se infatti si dividesse […] l’essere, si muoverebbe: muoven-


dosi non sarebbe

dove è implicita una distinzione tra il dividersi e l’esser


diviso, che sarebbe negato soltanto dall’unicità dell’essere.

5.2.6. Insensibilità

Si può tornare ora alla questione del non soffrire


(ἀλγέω) o provare afflizione (ἀνιάω), che era stata la-
sciata da parte. Dopo comma 2 del frammento 7, l’ar-
gomento è ripreso dai commi 4, 5 e 6:

(4) Né soffre: infatti, non sarebbe tutto se soffrisse: se sof-


frisse non potrebbe essere sempre un’unica cosa; né avreb-
be forza uguale al sano; se soffrisse non sarebbe neanche
omogeneo: infatti, soffrirebbe se si aggiungesse o togliesse
qualcosa, e dunque non sarebbe uguale.
(5) Né il sano potrebbe soffrire: il sano e l’essere si distrug-
gerebbero e si genererebbe il non essere.
(6) E anche per il provare afflizione lo stesso discorso che
per il soffrire.

Queste frasi sono interpretate da molti come indice del


288 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

misticismo melissiano34, che alcuni estendono anche agli


Eleati35. Non si può escludere che parmenide avesse una
sua religiosità — è verosimile, anzi, che l’avesse. Benché ri-
tenga che il proemio simbolizzi un’esperienza intellettua-
le, non credo tuttavia che l’attribuzione dell’illuminazione
a una divinità sia di pura forma. Il concetto parmenideo
di essere, però, non ha nulla a che vedere con la divinità.
Quanto a Melisso, l’argomento sul dolore e la pena esplo-
de come il classico fulmine in ciel sereno in mezzo ad ar-
gomentazioni di natura del tutto diversa, con grande scon-
certo per la critica. È ovvio, comunque, che in mancanza
d’indicazioni direttamente riferite a parmenide, non è leci-
to attribuire all’Eleate le elucubrazioni del Samio.
Il fatto che Melisso abbia ritenuto di dover affermare
che per l’essere è impossibile provare dolore e afflizione
comporta, forse, che egli debba considerare l’essere ani-
mato? Lo avrebbe comportato dire, al contrario, che l’es-
sere prova dolore e afflizione. penso però che si possa af-

34. Tra questi: Tannery (1887): «tendono a far pensare che Melisso
considerava effettivamente il suo Essere come il Dio» (p. 276); Gomperz
(1986): «Melisso si colloca nella sfera dei mistici» (I p. 283; trad. di L. Ban-
dini); Calogero (1932) parla di «implicita intuizione animistico–teologica»
(p. 88); Guthrie (1965): «nelle credenze normali del primo pensiero greco
la realtà ultima è viva e divina» (p. 114); pasquinelli (1958): «non crediamo
si possa seriamente negarne il carattere mistico» (p. 433, n. 28).
35. Zafiropulo (1950) vede nel testo melissiano una delle due fonti
«irrefutabili e indipendenti» attestanti che «la costruzione eleatica abbia
ben fatto parte di un sistema animista» (p. 55). L’altra fonte citata da Zafi-
ropulo sarebbe la testimonianza del Sofista di platone (249a), in cui «pla-
tone fa partire lo straniero dal fatto che gli Eleati ortodossi ammettevano
l’anima (ψυχή), lo spirito (νοῦς), la vita (ζωή) e il pensiero (φρόνησις)
nell’Essere universale (τὸ παντελῶς ὄν) per mostrare che essi avevano
torto a considerare quest’Essere come immobile» (p. 55). Questa testimo-
nianza è evidentemente irrilevante, in quanto ciò che platone fa dire allo
straniero d’Elea — il quale esprime comunque il pensiero di platone e non
quello di parmenide — è di ritenere, lui, inverosimile privare l’essere uni-
versale di questi caratteri, e non che questa fosse la “ortodossia eleatica”,
qualsiasi cosa si voglia intendere con tale espressione.
5. Gli equivoci di Melisso 289

fermare qualcosa di più: se all’essere melissiano è negata


ogni possibilità di trasformazione, in che modo potrebbe
manifestarsi la sua vitalità? Il richiamo al dio di Senofane,
che (fr. 26):
Sempre in se stesso permane, senza muoversi in alcun modo
né gli si addice recarsi qui o lì (Symplic. phys. 23, 10)

non è pertinente, perché questo dio non ha certo le ca-


ratteristiche totalizzanti dell’essere eleatico, ma vede, sen-
te, scuote, esprimendo in vari modi la propria attività.
più calzante mi sembra l’interpretazione proposta da
Kirk e al. (1983):
Forse è piuttosto che Melisso voleva enfatizzare la perfezio-
ne di ciò che è, in termini che ne mettessero in evidenza
più efficacemente e puntualmente la differenza dagli esseri
animati in cui gli ordinari mortali credono e che credono essi
stessi di essere (p. 397).

Ritengo che parlare di sofferenza e afflizione costitu-


isca una delle tipiche incongruenze di Melisso: si ha la
sensazione che egli tendesse a rispondere alle varie sol-
lecitazioni dell’ambiente, motivato forse dal desiderio di
sistemare tutte le pendenze che, a suo modo di vedere,
parmenide aveva lasciato aperte. Non si può escludere,
quindi, che vi si possano trovare tracce di una polemica
anti–empedoclea, come sostengono Covotti (1934, p. 8)
e Guthrie (1965, p. 118). Analogamente Burnet (1892) vi
legge un riferimento alla teoria delle percezioni di Anas-
sagora trasmessaci da Teofrasto (59 A 92). Resta il fatto
che le dichiarazioni di Melisso in merito all’impassibilità
dell’essere appaiono alquanto disomogenee rispetto agli al-
tri attributi: sono comprensibili, quindi, le perplessità della
critica, anche se l’argomento non sembra avere importanti
ricadute sul senso generale del discorso.
290 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

5.2.7. Incorporeità

Una pedissequa esigenza di completezza spinge Melis-


so ad escludere un’ulteriore qualificazione del suo essere
nel frammento 9:
Se dunque è, esso deve essere uno: essendo uno esso non
deve avere corpo. Se avesse spessore, avrebbe forma, e non
sarebbe più uno.

La questione dell’incorporeità dell’essere melissiano è


stata definita da Reale (Zeller e Mondolfo, 1967):
uno degli scogli più notevoli da superare per chi voglia inten-
dere il pensiero melissiano (p. 419, n. 936; trad. di G. Reale).

La critica, infatti, ha spesso ritenuto di poter leggere


in questi brani una posizione in merito alla materialità
dell’essere.
Il problema è stato sollevato più volte nei confronti
degli Eleati. Secondo Raven (1948)
è permesso concludere che, se soltanto gli Eleati fossero
vissuti in una data in cui la categoria di ἀσώματα era già
riconosciuta, si sarebbero volentieri impadroniti della parola
come comunicante precisamente il senso verso cui stavano
progressivamente orientandosi (p. 92).

Egli si chiede quindi come avrebbe risposto parmeni-


de alle domande “È solido?” ed “È corpo?”, e conclude:
parmenide, io credo, avrebbe esitato a lungo prima di ri-
spondere a queste domande (p. 91).

36. A questa nota si rinvia per un’ampia discussione sulle diverse in-
terpretazioni della critica.
5. Gli equivoci di Melisso 291

Quale uso avrebbero potuto fare del concetto d’imma-


terialità parmenide o Zenone o le stesso Melisso non riesco
a immaginare37. penso che se Raven avesse potuto rivolge-
re le sue domande nel V secolo a.C. a un parmenide im-
mortale, starebbe ancora attendendo la risposta. Il quesito
nell’ambito della ἀλήθεια non può porsi: solidità, corporei-
tà e l’opposto attributo d’incorporeità sono concetti umani
che non è possibile dedurre dall’esistenza dell’essere.
Quanto a Melisso, mi pare che il testo sia, una volta tan-
to, chiaro: corpo (σῶμα) per lui non è sinonimo di materia,
ma indica un oggetto definito, dotato di forma, spessore,
limiti. L’essere di Melisso non ha spessore (πάχος) in nes-
suna direzione: esso è, infatti, infinito. Se avesse spessore
avrebbe forma, sarebbe delimitato, non infinito, e quindi
non potrebbe essere uno: confinerebbe o con altro essere,
il che è escluso, oppure con il vuoto, che per Melisso non
esiste in quanto non essere38. Il frammento 9 non nega quin-
di la materialità dell’essere: il modo d’esprimersi di Melis-
so fa pensare invece che egli abbia in mente una sostanza
eterna, omogenea, infinitamente estesa nello spazio, priva
di limiti e quindi non definibile come un corpo.

5.3. L’opinione

Il frammento 8, inizia con un breve preambolo:


(1) Questo argomento è dunque una grande prova, che solo
l’uno esiste; e poi anche le prove seguenti

37. Zeller (1892), riferendosi a parmenide: «La distinzione fra il cor-


poreo e l’incorporeo non solo gli è estranea, ma è inconciliabile con tutto
il suo punto di vista» (I III p. 237; trad. di G. Reale).
38. In questo senso si pronuncia anche pasquinelli (1958): «Un σῶμα,
checché si dica, ha sempre delle determinazioni, estranee all’uno infinito
e eterno di Melisso» (p. 434, n. 35).
292 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

seguito da una sorprendente dichiarazione:


(2) Infatti, se esistessero i molti, sarebbe necessario che fosse-
ro proprio quali io dico che è l’uno.

È inutile cercare un rigore logico in questo brano: ciò


che Melisso sembra voler comunicare è il vago concetto
che le caratteristiche dell’uno sono talmente basilari che
qualsiasi soggetto, se esistente in sé, vi si dovrebbe confor-
mare. purtroppo Melisso non si ferma qui: la coazione ad
un’esposizione pedissequa, tipica del suo argomentare, lo
spinge a mostrare con maggior dettaglio ciò che cercava di
dire. Il passo successivo ne è un’illustrazione:
Se, infatti, esiste la terra e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e
l’oro e da un lato i vivi e dall’altro i morti, e il nero e il bianco e
le altre cose che gli uomini dicono essere vere, se allora queste
cose sono, e noi vedessimo e sentissimo correttamente, sareb-
be necessario che ciascuna di queste cose fosse quale ci parve
la prima volta, senza trasformarsi né divenire un’altra, ma che
ogni cosa rimanesse sempre proprio quale è. Ora noi diciamo
di vedere e sentire e di comprendere correttamente;
(3) ma a noi sembra che il caldo diventi freddo e il freddo
caldo e il duro morbido e il morbido duro e che il vivo muoia
e nasca dal non vivente, e che tutte queste cose si alterino, e
che quel che era prima ora non è più uguale, ma che il ferro,
pur essendo duro, si consumi a contatto col dito, e anche l’o-
ro e la pietra e tutto quanto sembra essere resistente, e che
dall’acqua abbiano origine terra e pietra; ne segue, quindi,
che non vediamo né conosciamo le cose che sono.

L’argomentazione è decisamente poco coerente: i sen-


si ci ingannano perché gli oggetti ci appaiono mutevoli e
transeunti invece che immutabili ed eterni. Ma come! pri-
ma ha sostenuto che l’essere è omogeneo e ora ammette
che oggetti distinti potrebbero esistere se soltanto fossero
immutabili? Se l’essere è omogeneo, come Melisso sostie-
ne, dovremmo ingannarci anche nel distinguere la terra
5. Gli equivoci di Melisso 293

dall’acqua, l’aria dal fuoco, il ferro dall’oro, i vivi dai morti,


il nero dal bianco indipendentemente dalle trasformazioni
temporali. Il fatto è che il ragionamento che Melisso ap-
plica al “tutto” non è estendibile ai singoli oggetti: la sua
validità — se di validità si può parlare nel caso di Melisso
— è strettamente legata al fatto che si riferisce alla totalità
nel suo complesso.
È sempre possibile sostenere che Melisso intenda soltanto
formulare un paradosso, ma se così fosse dovrebbe poi chia-
rire, cosa che si guarda bene dal fare, e invece ribadisce im-
mutato l’argomento nel successivo punto (4). Del resto egli
qualifica questi argomenti come σημεῖα, che la critica tradu-
ce generalmente con prove39. Subito prima, infatti, Melisso
aveva qualificato anche come μέγιστον σημεῖον le deduzioni
precedenti, certamente intese come una rigorosa catena di-
mostrativa. Il termine σημεῖον è dunque usato da Melisso
in senso diverso dal parmenideo σῆμα, che è inteso in senso
molto più debole, come “segno”, “indicazione”. Fatta salva
l’assurdità dell’argomentazione, resta che gli oggetti che
si presentano alla vista e all’esperienza non sono autentici
“esistenti”. Non lo sarebbero stati neanche per parmeni-
de. Cosa sono, allora, per Melisso? Null’altro che qualcosa
che vediamo e sentiamo non rettamente (οὐκ ὀρθῶς)40: noi

39. Così, ad esempio, Albertelli (1939) p. 239, Kirk e al. (1983) p. 399,
pasquinelli (1958) p. 293, Reale (1970) p.397. palmer (2009) traduce «gre-
atest proof» (p. 214). Traducono invece con “segno” Lami (1991) p. 323 e
Barnes (1979b) p. 298.
40. Un’analisi della nozione di ὀρθόν in Melisso è stata svolta da
Brancacci (1990a), che interpreta: «L’introduzione del concetto di rettitu-
dine permette di precisare lo statuto della nozione di δοκεῖν, che, sprovvi-
sta di senso dal punto di vista strettamente ontologico — avendo Melisso
dimostrato che la pluralità non è —, rivendica ciò nonostante la sua legitti-
mità al livello gnoseologico» (p. 203). Non concordo: Melisso non rivendi-
ca mai la legittimità del δοκεῖν al livello gnoseologico, ma si accontenta di
rilevarne la non–rettitudine. Nulla nel suo testo lascia pensare che quando
dice «che non vedevamo correttamente» (ὅτι οὐκ ὀρθῶς ἑωρῶμεν) egli
intenda salvare questa legittimità.
294 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

non vediamo rettamente (οὐκ ὀρθῶς ἑωρῶμεν) e non sti-


miamo rettamente (οὐδὲ ὀρθῶς δοκεῖ) che esistano “molte
cose” (πολλὰ εἶναι). Il frammento 8 prosegue:
(4) Dunque queste cose non s’accordano tra loro. Infatti, pur
dicendo che sono molte ed eterne e aventi forme e robustez-
za, ci sembra che tutte si alterino e cambino da come viste
ogni volta.
(5) È evidente, dunque, che non vedevamo correttamente,
né correttamente quelle ci sembrano essere molte: infatti
non sarebbero cambiate se fossero state vere, ma sarebbero
state proprio tali quale ciascuna sembrava allora. Nulla è in-
fatti più solido dell’essere genuino.
(6) Qualora fosse cambiato, allora l’essere sarebbe perito,
diventato il non essere. Così dunque, se fossero molti, tali
dovrebbero essere, proprio quale l’uno.

È possibile che Melisso, come parmenide, identifichi l’er-


rore nell’attribuzione di un’assoluta realtà agli oggetti della
nostra esperienza. Il problema è che, a differenza di parme-
nide, egli non spiega cosa questi oggetti siano. Non lo spiega
nei frammenti né se ne trova taccia nelle testimonianze.
per parmenide l’errore è nel credere che le cose che
poniamo esistano in sé. Sussiste, dunque, per l’uomo la
possibilità di non errare: è sufficiente riconoscere che gli
enti posti sono il frutto di distinzioni soggettive, opera-
te dall’uomo nella continuità dell’essere; distinzioni che
avrebbero potuto essere concepite anche in modo diver-
so. Nei frammenti che ci rimangono, Melisso si limita in-
vece ad affermare categoricamente che non giudichiamo
rettamente nel considerare vere le nostre opinioni, e lì si
ferma. Non spiega la natura dell’inganno: non ignora l’o-
pinare, ma si limita a denunciare che non è retto. Con tali
premesse, è evidente che Melisso non poteva sentire la
necessità di formulare una sua visione del mondo, come
invece ha fatto parmenide. Cosa dovrebbe concludere
allora chi legge il suo testo? Forse che sogniamo, creden-
5. Gli equivoci di Melisso 295

doci desti? Se è vero che ad un certo punto il pensiero


eleatico è stato identificato nella sua formulazione più
pura con lo scritto di Melisso41, non stupisce che esso sia
stato considerato alla stregua di una dottrina paradossa-
le, che nega l’evidenza al limite del ridicolo. Reale (1970)
considera la totale svalutazione della δόξα l’estremo vertice
raggiunto dal razionalismo dello stratega samio:
è la follia della ragione che si rifiuta di accettare tutto ciò che
non rientra nella sua legge. […] Ma è anche giusto riconosce-
re che, pur in uno stato di «ebrezza» e di «follia», la ragione
celebra in Melisso una delle sue più notevoli affermazioni.
Quel primato assoluto della ragione che Parmenide aveva affer-
mato, è portato dal filosofo di Samo alle estreme conseguenze sen-
za alcun pentimento, senza titubanze, senza concessioni di sorta.
E se parmenide aveva tentato un recupero del mondo delle
apparenze, che in qualche modo si accordasse o che comun-
que non violasse la legge dell’essere, Melisso comprende che
questo recupero è impossibile42 (p. 241).

La posizione di parmenide è indubbiamente meno


radicale di quella di Melisso riguardo al mondo dell’opi-

41. Barnes (1979b): «Vi è qualche indicazione che egli fosse consi-
derato come l’autorevole portavoce del pensiero eleatico» (p. 180). Reale
(1970): «I posteri lessero il poema di parmenide alla luce delle deduzioni
di Melisso; e, come Melisso eliminò dal suo trattato la sezione della doxa,
così essi, per l’influsso di Melisso, furono portati, naturalmente, a sotto-
valutare e a trascurare anche la sezione parmenidea della doxa, e, per con-
seguenza, ce la tramandarono solo attraverso frammenti estremamente
esigui» (p. 242).
42. Un’analoga riabilitazione di Melisso nei confronti di parmenide
ha tentato qualche anno dopo Barnes (1979b) tramite formalizzazioni lo-
giche che non sembrano sempre pertinenti. Analogamente, secondo pal-
mer (2004): «Dovremmo vedere la posizione di Melisso come uno svilup-
po di parmenide in una direzione particolare. parmenide aveva distinto la
natura della realtà dalla natura dei fenomeni in un modo così netto che
mancava solo un piccolo passo per rendere questa distinzione assoluta e
negare l’esistenza stessa dei fenomeni. Voglio suggerire che questo passo
fu compiuto da Melisso» (p. 40).
296 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

nione, ma è più completa, e la completezza le conferi-


sce coerenza nell’ambito di un sistema che rende conto
dell’esperienza. Questo inquadramento manca totalmen-
te in Melisso, le cui argomentazioni perdono ogni ragion
d’essere. Reale parla giustamente di follia, ma non si trat-
ta della follia della ragione, bensì di quella indotta dal
ragionare scorrettamente e a vuoto.

5.4. Conclusioni

Ritengo che Melisso si proponesse di precisare il di-


scorso ontologico di parmenide, dimostrando con mag-
gior dettaglio gli attributi dell’essere, cui parmenide
aveva fatto cenno quasi en passant, aggiungendo a com-
pletamento, ma a suo modo di vedere non in contrasto,
considerazioni personali in merito ad aspetti particolari
che parmenide non aveva considerato. Il problema è che
l’intima coerenza delle argomentazioni di parmenide è
completamente sfuggita a Melisso, il quale non ha com-
preso che quanto l’Eleate non ha detto, non lo ha detto
perché non poteva dirlo. L’esigenza di completezza è pro-
prio il tallone d’Achille delle dimostrazioni melissiane.
Sussiste sempre una remota possibilità che Melisso ab-
bia soltanto inteso ribadire il discorso di parmenide: che
con ἀίδιον e con ἄπειρον egli volesse soltanto significare
la totalità che include tutto e non un’infinità spaziale e
temporale; che con ὅμοιον intendesse solo l’uniformi-
tà dell’esistere; che egli non abbia pensato al non essere
come vuoto, ma che con il termine κενεόν abbia soltanto
voluto dare un altro nome al nulla; che per lui l’errore
dei mortali consistesse soltanto nel considerare gli enti
da loro posti esistenti in sé, e non nell’avere opinioni. È
forse possibile intendere in questo modo, forzando il te-
sto oltre il ragionevole; ma allora, se così fosse, sarebbe
5. Gli equivoci di Melisso 297

necessario ammettere che la chiarezza non è la dote più


sviluppata di Melisso. Ritengo, però, che non sia questo il
caso: le indicazioni del fatto che Melisso consideri l’essere
una sostanza collocata nello spazio e nel tempo, eterna,
infinita, omogenea e immobile sono troppo ridondanti
per non essere significative, e la condanna dell’opinione
è troppo radicale per conservare un qualche valore al
giudizio umano. Chi legge il testo di Melisso è quindi
costretto a concludere che egli nega agli uomini il diritto
di riconoscere la pluralità degli oggetti, la disomogeneità
delle sostanze, il movimento e le trasformazioni. Contro
di lui sarebbe dunque calzante l’argomento di platone:
dato che l’omogeneità dell’essere non è riferita al fatto di
“esistere” (non ci sono più modi di esistere, come sostie-
ne parmenide) ma alle caratteristiche della sostanza, la
sua argomentazione si pone inavvertitamente sul piano
dell’opinione umana, e le distinzioni non sono più ne-
gabili; allora la terra e l’acqua, l’aria e il fuoco, il ferro
e l’oro, i vivi e i morti, il nero e il bianco sono diversi,
perché il non essere è l’altro. Analogamente, sarebbe cal-
zante anche la critica di Aristotele: se l’essere non è “tutto
indifferentemente”, ma è situato nello spazio e nel tem-
po; se si pongono enti distinti — lo spazio, il tempo, la
sostanza — allora “essere” è detto in più di un modo, una
cosa “non è” l’altra, e gli enti si distinguono nello spazio
e variano nel tempo.
Le dimostrazioni di Melisso non richiedono il difficile
sforzo d’astrazione necessario per comprendere la pro-
fondità dei versi parmenidei; sono perciò più accessibili,
e il fatto che manchino di rigore e portino a conclusio-
ni assurde ne rende più agevole la critica, permettendo
di liquidare facilmente le imbarazzanti conclusioni del
pensiero parmenideo sulla natura della conoscenza. In
un’epoca più tarda, ormai lontana dalle problematiche
epistemologiche del periodo di massimo fulgore della
298 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

polis, l’accessibilità e la vulnerabilità delle argomentazio-


ni melissiane hanno probabilmente favorito l’affermar-
si delle formulazioni dello stratega samio come forma
canonica del pensiero eleatico; in realtà un eleatismo
sommario che, privato dalla sua valenza epistemologica,
risulta totalmente privo di senso.
6. Influenza del pensiero eleatico

Quando passiamo dal quinto secolo al


quarto entriamo in un’atmosfera per-
cettibilmente differente. Non vi è una
caduta di energia creativa: il quarto
secolo produsse i più grandi filosofi e
i più grandi oratori dell’Antichità; in-
ventò nuove forme di arte, il dialogo in
prosa e la commedia domestica; assi-
stette a grandi progressi in matematica
e astronomia. Eppure è difficile negare
[…] che qualcosa almeno dell’antica
fiducia era andato perduto.
Eric Robertson Dodds1

6.1. Monisti e pluralisti

La critica moderna fatica a comprendere il senso del


pensiero di parmenide2, come appare anche dall’estre-
ma varietà delle interpretazioni; ciò nonostante, uno dei
paradigmi più persistenti, anche se non unanimemente
condivisi, è quello che riguarda l’influenza di questo pen-
siero sulle dottrine fisiche del V secolo. Secondo tale pa-

1. Dodds (1973) p. 13.


2. Loenen (1989) all’inizio dell’introduzione al suo libro sul pen-
siero eleatico scrive: «La filosofia degli Eleati costituisce ancora un ca-
pitolo oscuro nella storia della filosofia. In tutte le interpretazioni, per
quanto variate esse siano, rimangono ancora difficoltà e contraddizioni
su punti essenziali» (p. 3). Vedi anche de Santillana (1964). più recente-
mente Cerri (1999): «Si può tranquillamente affermare che nessun cri-
tico moderno sia finora riuscito a comprendere appieno il pensiero di
parmenide» (p. 16).

299
300 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

radigma, i cosiddetti “presocratici” si dividono in monisti


e pluralisti a seconda del numero dei principi che pongo-
no come costituenti elementari della materia, se uno o
più; il passaggio dai monisti ai pluralisti sarebbe dovuto
alle “prescrizioni” di parmenide. Il paradigma, nella sua
essenzialità, è esposto da Zeller in vari luoghi della sua
Philosophie der Griechen:
[g]li Ionici ci raccontano che la sostanza primordiale si muta,
che dall’unica materia originaria si son separati gli elementi
opposti e si son poi uniti in differenti relazioni a formare un
mondo (I II p. 20; trad. di R. Mondolfo3).

Invece Empedocle, Anassagora e gli Atomisti


riconoscon tutti l’importante principio del sistema parmeni-
deo, che non si dà nessun nascere o perire in senso assoluto,
e spiegan quindi i fenomeni per via della congiunzione e se-
parazione degli elementi (I II p. 23; trad. di R. Mondolfo).

Il paradigma si articola sostanzialmente nei seguenti


punti:

a) il pensiero dei Milesi sarebbe caratterizzato dall’as-


sunzione di un unico principio (ἀρχή), da cui si
produrrebbero tutte le altre sostanze per modifi-
cazione qualitativa: essi sarebbero dunque monisti.
È quanto sostiene Aristotele, cui questi pensatori
interessavano essenzialmente per le soluzioni —
sempre parziali e insoddisfacenti — che avrebbero
tentato di dare a un problema che lui stesso si po-
neva: quello della causa materiale;
b) parmenide avrebbe sostenuto che il principio deve
essere ingenerato e indistruttibile, immobile e im-

3. Vedi anche I III p. 452; I V p. 2, p. 361 e p. 361 n. 15.


6. Influenza del pensiero eleatico 301

modificabile, puntualizzando l’errore dei Milesi


che consentivano ad esso di mutare;
c) dopo le dimostrazioni di parmenide nessuno avreb-
be più osato ipotizzare delle trasformazioni della
materia. Così Empedocle, Anassagora e gli Atomi-
sti avrebbero assunto più principi (da quattro a infi-
niti) innati, indistruttibili e immodificabili, secondo
quanto imposto da parmenide; principi che, mesco-
landosi in diverse proporzioni, avrebbero prodotto
l’infinita pluralità che osserviamo nel mondo: essi
sarebbero dunque pluralisti.

Questa interpretazione è suggestiva perché sembra


connettere logicamente tutto il filone centrale della fisi-
ca del VI e V secolo, ma polarizza il più antico pensiero
greco intorno a un criterio sostanzialmente marginale:
“trasformazione” contro “mescolamento”.
Anassimene è considerato il monista per eccellenza:
infatti l’aria sarebbe la sua unica ἀρχή, l’unico principio
da cui tutto si produce; ma non lui soltanto: anche Talete
con l’acqua ed Anassimandro con l’ἄπειρον sarebbero dei
monisti, e perfino Eraclito con il fuoco. per Anassiman-
dro la cosa però sembra presentare problemi difficilmen-
te eludibili. Aristotele, infatti, sembra intendere diversa-
mente (12 A 9):
Alcuni [dicono] che i contrari si separano dall’uno in cui
sono dentro, come dice Anassimandro, altri dicono che sia
uno e molti, come Empedocle e Anassagora: anche questi,
infatti, fanno separare tutte le cose dal miscuglio (phys. I 4,
187a 20).

Simplicio conferma questa interpretazione (12 A 9):

costui [Anassimandro] non pone la genesi nel trasmutarsi


degli elementi, ma nella separazione dei contrari a causa del
302 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

movimento eterno. perciò Aristotele lo collocò accanto ai


seguaci di Anassagora (phys. 24, 13).

Il paradigma è stato decisamente criticato da Gom-


perz (1886):

Ora egli [Zeller] del sistema di Anassagora, di Empedocle


e di Leucippo dice sempre: «Il loro comune punto di par-
tenza è costituito dalla proposizione di parmenide sulla im-
possibilità del generare e del dissolversi». […] ne deriva, io
ritengo, un’importante considerazione: come accade allora
che ciascuno di questi uomini sia stato così fortemente in-
fluenzato da una dottrina fondamentale degli Eleati, mentre
da un’altra, strettamente connessa con questa nel pensiero,
non siano stati assolutamente toccati? Mi riferisco alla nega-
zione della possibilità del moto spaziale, che (per quanto ne
sappiamo) i tre sunnominati non hanno ritenuta degna di
una parola di confutazione neanche una volta, mentre costi-
tuisce proprio ciò che è diametralmente l’opposto della loro
spiegazione meccanica della natura (p. 1037).

Il paradigma, in sostanza, attribuisce alle prescrizio-


ni di parmenide il fatto che Empedocle, Anassagora e
Leucippo abbiano adottato principi materiali ingenera-
ti, indistruttibili e immodificabili. Ovviamente, in base
all’interpretazione data in questo studio, parmenide non
ha imposto alcuna prescrizione alla conoscenza umana e
in particolare alla fisica, contentandosi di rilevarne l’opi-
nabilità. Non si può escludere però che già nel V secolo il
suo pensiero fosse inteso secondo le linee interpretative
di platone, di Aristotele e di gran parte della critica suc-
cessiva, cioè nel senso di negare, per dirla con le parole
di Zeller, «il nascere e il perire, il movimento e la trasfor-
mazione». Anche se ciò fosse, le obiezioni di Gomperz
rimarrebbero calzanti: ammesso che Empedocle e gli al-
tri abbiano ritenuto le prescrizioni di parmenide tanto
cogenti da negare l’alterazione qualitativa delle sostanze,
6. Influenza del pensiero eleatico 303

come mai non si sono assolutamente posti il problema


del moto, la cui negazione è in parmenide strettamente
connessa con quella della generazione e distruzione? La
risposta sbrigativa di Zeller non soddisfa:
Se poi il Gomperz si domanda perché mai quei filosofi si la-
scino così fortemente influenzare dalla negazione eleatica
del divenire, ma per nulla dalla negazione del moto spaziale,
potrebbe forse già bastare questa risposta: essi ritenevano
vera l’una e falsa l’altra (I V p. 361, n. 15; trad. di A. Capiz-
zi).

Altri studiosi hanno cercato irrobustire il paradigma


formulando opportunamente le prescrizioni parmeni-
dee. Ad esempio, Raven (Kirk e Raven, 1957) le rielabora
come segue:

[1] All’Essere […] non deve essere consentito di sorgere dal


Non–essere: qualsiasi cosa sia considerata reale deve anche
essere originaria. [2] […] il vuoto, essendo pura non–esisten-
za, non può trovare posto in qualsiasi descrizione della real-
tà. [3] […] la pluralità non può derivare da un’unità origina-
ria: se deve esserci una pluralità, essa stessa, come la realtà,
deve essere originaria. [4] […] il moto non può più essere
preso semplicemente per scontato, ma deve essere fornita
una spiegazione della sua esistenza (p. 319).

Questa riformulazione ha tutta l’aria di essere ad hoc;


ma se il pensiero di parmenide deve avere un barlume di
rigore, essa non regge: [1] l’essere non è diviso in “cose”
che possano essere definite “originarie”, ma è un tutto
unico; [2] il non essere non è il vuoto, che parmenide non
menziona mai, con buona pace di Melisso; [3] parmeni-
de non ammette alcuna pluralità; [4] nessuna spiegazio-
ne può giustificare il movimento dell’essere. Nella nuova
edizione dell’opera (Kirk e al., 1983), infatti, l’argomento
è quasi completamente ribaltato da Schofield.
304 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Critico nei confronti della tesi è anche Barnes (1979b),


che individua
cinque linee principali di contatto tra gli Eleati e i neo–Ionici
[…]. primo, essi concordano con il primo teorema della me-
tafisica eleatica: la generazione, l’assoluto venire in essere di
entità reali, è un’impossibilità. Ma, secondo, essi ritengono
che l’alterazione (in qualche senso) delle entità esistenti è
una possibilità; e, terzo, essi credono che la locomozione è
anche possibile. poi, quarto, essi forniscono una ‘causa mo-
trice’ […]; e, infine, essi reintroducono il metodo dell’osser-
vazione empirica (p. 316).

Di queste cinque linee di contatto, solo la prima mo-


strerebbe una condizionale convergenza dei “neo–Ionici”
con parmenide, mentre le altre sono di netta opposizio-
ne. La convergenza, però, dipende da come s’interpreta
ciò che per parmenide non è soggetto a generazione: l’es-
sere «ingenerato e immortale, intero e unico e immobile
e completo», secondo le parole dell’Eleate, o qualcosa di
simile alle “radici” di Empedocle.
Decisamente contrario al paradigma è West (1971)4:
Che ragione abbiamo di supporre che coloro che veramen-
te conoscevano il poema di parmenide necessariamente
pensassero che egli avesse messo in luce un problema fon-
damentale di cui essi dovevano tentare di occuparsi? Empe-
docle, forse anche Anassagora, conoscevano il poema, ma
perseguivano un tipo di filosofia molto diverso da quello di
Zenone e Melisso: perché, allora, dobbiamo supporre che
essi cercassero una risposta alternativa al «problema posto
da parmenide» e che i loro elementi materiali fondamentali
debbano essere considerati modificazioni dell’ἓν ἐόν [unico
essere] eleatico? (p. 288; trad. di G. Giorgini).

4. Recentemente il paradigma è stato respinto anche da palmer


(2009). L’autore ha mostrato che nel caso di Anassagora esso debba essere
rifiutato anche per incoerenza interna, e nel caso di Empedocle perché le
sue radici non avrebbero i caratteri che la tesi ipotizza.
6. Influenza del pensiero eleatico 305

Successivamente il paradigma è stato riaffermato con


forza da Curd (1998):

Le chrēmata anassagoree, le radici empedoclee e gli


atomi, tutti soddisfacevano i requisiti per ciò–che–
è formulati prima da parmenide e poi da Zenone.
Queste teorie condividono non solo un impegno
nel monismo predicativo di parmenide, ma anche
un riconoscimento della forza degli argomenti ele-
atici contro la realtà nel venire–ad–essere e del ve-
nir–meno (p. 214).

prima di cercare di valutare l’effettiva sostenibilità di


questo paradigma, è necessario controllare se ne rimane
qualche traccia diretta nei frammenti o nelle testimonian-
ze. Va innanzitutto osservato che in nessuno dei fram-
menti dei cosiddetti neo–Ionici è mai nominato uno degli
Eleati, né alcuna testimonianza sostiene che essi siano stati
nominati; inoltre nessun frammento contiene un esplicito
riferimento ad una dottrina eleatica. Al più si può affer-
mare di percepire un’eco verbale di parmenide (Curd) in
qualche frammento di Empedocle, come nel verso 17.26:

ma tu ascolta l’ordine che non inganna [οὐκ ἀπατηλόν] del


discorso (Simplic. phys. 157, 25).

e nel verso 3.12:


quante vie siano per conoscere [νοῆσαι].

Empedocle, nel frammento 12.1–2, nega la possibilità


di un aumento o una distruzione della materia nel tutto:
infatti è impossibile nascere da ciò che non è
e che ciò che è si distrugga, impossibile e inaudito (philo de
aet. mund. 2 p. 3, 5)
306 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

e nei versi 17.30–33:


E oltre a queste poi nulla si aggiunge né cessa:
se infatti si distruggessero completamente, già non sarebbero:
cosa potrebbe aumentare questo tutto? e venendo da dove?
e dove si distruggerebbero, poiché di esse nessuna solitudi-
ne? (Simplic. phys. 157, 25)

Empedocle nega anche la possibilità che esista il vuoto o


un sovrappiù di essere nel frammento 13:
né qualcosa del tutto è vuoto né sovrabbondante (Aët. I 18,
2; [Aristot.] de M. X. G. 976b 27)

e nel frammento 14:


del tutto nulla è vuoto: da dove dunque qualcosa potrebbe
provenire? ([Aristot.] de M. X. G. 976b 25).

È verosimile che Empedocle avesse letto il poema di


parmenide, e certamente il verso 17.26 può ricordare il
verso 8.52 dell’Eleate:
ascoltando l’ordine ingannevole delle mie parole.

Tutta l’analogia si riduce però alla parola ἀπατηλόν


riferita a un discorso, il che è un po’ poco per provare
un condizionamento parmenideo dell’Agrigentino. E lo
stesso vale per l’uso finale di νοῆσαι nel verso 3.12, che
ricorda il verso 2.2 di parmenide:
quali sole vie di ricerca vi siano per conoscere.

Quanto al significato, il frammento 12 semplicemente


asserisce, senza alcuna argomentazione, l’impossibilità
dell’apparire e dello scomparire delle radici. Invece, i ver-
si 31 e 32 del frammento 17 abbozzano una spiegazione:
6. Influenza del pensiero eleatico 307

a) se le radici potessero scomparire sarebbero già


scomparse (verso 31). perché? Comparsa e scom-
parsa non potrebbero essere legate a eventi che si
verificano in certi momenti nel tempo?
b) se qualcosa apparisse, da dove potrebbe venire
(verso 32)? È una petizione di principio: si è già
dato per scontato che nulla può apparire se non
provenendo da altro, per cui se qualcosa apparisse
dovrebbe venire da un altro luogo, che però non
esiste.

Ciò che conta non è, ovviamente, la mancanza di rigo-


re logico in Empedocle: è lecito aderire a un principio di
conservazione di natura empirica, a cui noi stessi preva-
lentemente aderiamo nelle nostre attività5. Il punto è che
siamo lontani dall’argomentazione di parmenide, che è
invece improntata ad un assoluto rigore logico: nulla può
aggiungersi a tutto l’essere, che è già tutto. I frammenti
13 e 14 si limitano a negare l’esistenza del vuoto, fatto su
cui parmenide non si è mai pronunciato: l’identificazio-
ne del non essere con il vuoto, si è visto, è melissiana.
Quanto ad Anassagora, Curd (1998, p. 129) menziona
un inciso nell’ambito del frammento 3:

infatti non è possibile che ciò che è non sia (Simplic. phys.
164, 16)

che è un bel truismo di sapore eleatico, ma usato a soste-


gno dell’illimitata piccolezza delle parti, che non è certo
un tema parmenideo.
Si considerino infine Leucippo e Democrito, le cui
opinioni Aristotele mette indirettamente in relazione

5. Anche se secondo le moderne teorie fisiche la massa non si con-


serva.
308 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

con le posizioni eleatiche nel passo della Metafisica (67


A 6) citato a pagina 283. Si è visto che, se essi hanno
effettivamente affermato che il vuoto è non essere e che,
dato che il vuoto esiste, esiste anche il non essere, si trat-
ta di un evidente gioco di parole, che Aristotele riferisce
molto seriamente, ma che è verosimilmente una presa
in giro di Melisso. Entrambi, infatti, pongono la ma-
teria e il vuoto, e su questo basano la loro fisica. Non
vi è alcun indizio che la loro concezione della materia
sia stata influenzata da un presunto divieto parmeni-
deo della nascita dal non essere: se mai, essi ridicolizzano
ogni argomento basato sul non essere.
Accertato che in Empedocle e ancor più in Anas-
sagora gli echi di parmenide sono impalpabili, resta
l’impressione che costoro e gli Atomisti non abbia-
no neanche pensato a presunte prescrizioni eleatiche
o che abbiano tranquillamente deciso che potevano
ignorarle. Cosa sensata, se avevano capito il senso
del poema di parmenide e, alla stregua di qualsiasi
scienziato moderno, non si sono lasciati turbare da
un’epistemologia che nega la verità assoluta di qual-
siasi conoscenza umana.
L’alternativa sarebbe ammettere che Empedocle,
Anassagora, Leucippo e Democrito, tutti e quattro,
non abbiano capito parmenide, interpretando nel sen-
so che egli abbia vietato generazione e distruzione,
pluralità, moto e mutamento. In questo caso, delle
due l’una: o essi hanno ritenuto logicamente ingiu-
stificate e assurde quelle prescrizioni, ignorandole,
oppure — e ciò è quanto implicherebbe il paradigma
in esame — hanno ritenuto giustificato il divieto di
generazione e distruzione e ingiustificati gli altri. La
seconda ipotesi è quella da considerare.
Va osservato che platone e Aristotele, ciascuno a
suo modo, hanno a mio avviso frainteso il pensiero di
6. Influenza del pensiero eleatico 309

parmenide6, ma proprio per questo motivo entrambi


lo hanno criticato, ritenendolo assurdo. Al contrario,
il paradigma dell’influenza parmenidea sulla fisica
dei cosiddetti pluralisti imputa a costoro un’assoluta
mancanza di spirito critico: avendo frainteso, invece
di criticare la tesi parmenidea, ne avrebbero accettato
una parte, rifiutandone per giunta altre parti indisso-
lubilmente collegate alla prima, mostrando con ciò
assai poco discernimento. Eppure nelle loro dottrine
essi hanno manifestato una notevole perspicacia. per
quale ragione avrebbero accettato una parte delle tesi
e rifiutate le altre? Forse perché, come ha detto Zeller,
«essi ritenevano vera l’una e falsa l’altra»? Non se ne
vede un ragionevole motivo. La spiegazione più ve-
rosimile è che essi fossero già convinti, per altre vie,
di un principio di conservazione dei componenti base
della materia, mentre non trovavano nessuna ragione
per cui sarebbe dovuta esistere un’unica sostanza ori-
ginaria, non condividendo forse la singolare idea che
un’unica ἄρχή rappresenterebbe un’ipotesi preferen-
ziale, perché più semplice7.
Non vedo alcun merito in un’interpretazione che ac-
colla grossolani errori logici a pensatori di notevole spes-
sore, quando non esista la necessità di farlo. Non consi-
dero perciò proficuo insistere su una tesi non necessaria,
che porta a simili conseguenze. L’alternativa è, a mio av-
viso, molto più attraente.
Ritengo che dal momento in cui ci si pone la domanda
“da dove vengono le infinite sostanze che compaiono e
scompaiono durante i vari processi cui assistiamo?” sono
possibili innumerevoli risposte: una è quella di Empedo-

6. Anche se platone, con la sua consueta acutezza, aveva ben capito


che esso inficiava qualsiasi tentativo di basare la verità.
7. Barnes (1979b): «una schietta brama di semplicità» (p. 41).
310 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

cle, un’altra quella di Anassagora, un’altra ancora quella


degli Atomisti, altre sono quelle che la scienza moder-
na va formulando. Una risposta è anche ammettere il
mutamento qualitativo (ἀλλοίωσις) di un’unica sostan-
za originaria; ma questa è la concezione più grezza di
tutte, perché dice soltanto che le sostanze cambiano, e
non per quale ragione cambiano. Non vi è alcun biso-
gno d’invocare una presunta dottrina parmenidea per
spiegare come mai una simile spiegazione — sempre che
sia stata formulata — fosse considerata insoddisfacente.
Un poco più avanzata sembra la dottrina della variazione
di densità, attribuita ad Anassimene; ma, per quanto ne
sappiamo, l’autore non ha mai chiarito le cause del pro-
cesso, per cui anche questa teoria si riduce alla constata-
zione che esistono stati della materia con diverse densità
e ad ammettere il passaggio della materia da uno stato
all’altro. D’altra parte, non credo che l’interesse principa-
le dei pensatori ionici del VI secolo fosse, come sostiene
Zeller8, «più rivolto […] alla sostanza di cui tutto consta,
che alla multiformità dei fenomeni». penso che le cose
stiano proprio all’opposto, e che il loro interesse non fos-
se affatto quello di attribuire l’origine della materia ad
un unico principio, ma di elaborare un’idea generale del
nostro cosmo, dell’evoluzione della terra e dello svilup-
po della vita su di essa. Ritengo dunque che il merito di
aver compiuto un passo determinante verso la formula-
zione di un’ipotesi sulla natura ultima della materia, che
pone sostanze originarie distinte, ingenerate e indistrut-
tibili, possa essere attribuito per intero ad Empedocle9 e
ad Anassagora. parmenide, forse, aveva aperto la strada,
ma non con le sue considerazioni sull’essere, bensì con la
8. Zeller (1892) I II p. 20 (trad. di R. Mondolfo).
9. Osborne (1987a) ha sollevato ragionevoli dubbi, ripresi successi-
vamente da palmer (2009), sull’assoluta permanenza delle radici empedo-
clee.
6. Influenza del pensiero eleatico 311

δόξα, in cui le due forme contrapposte, luce e notte, sono


considerate i principi di tutto.

6.2. Protagora e Gorgia

Se Empedocle, Anassagora e gli Atomisti non avevano


motivo di preoccuparsi di presunte prescrizioni parmeni-
dee, si deve allora concludere che il poema di parmenide
sia rimasto senza effetto sul pensiero successivo?
Tanto poco si è conservato del pensiero greco fino alla
fine del V secolo che è pressoché impossibile rintracciare le
reciproche influenze delle diverse personalità. Quello che
si può mettere in luce è però il carattere generale di una
corrente di pensiero in cui Eraclito, parmenide e Zenone
s’inseriscono perfettamente: la riflessione sul valore della
conoscenza, che ha avuto così gran parte nel cosiddetto
“illuminismo greco”. Su due aspetti di questa riflessione
vale la pena di richiamare l’attenzione. Il primo è quella
sorta di disperato utopismo che si può leggere nell’appas-
sionato e al tempo stesso disilluso richiamo di Eraclito a
ciò che è comune (κοινός) nel pensiero: una concezione
della conoscenza in grado di aprire un’effettiva comunica-
zione tra gli uomini, rimuovendo una visione ontologica
che irrigidisce i diversi punti di vista. Il secondo, è la luci-
da constatazione di una situazione di fatto, constatazione
che ha tutto l’aspetto di una scoperta scientifica definitiva
sulla natura della conoscenza, come la formulazione di
un teorema geometrico o di una regola di logica: è il ca-
rattere prevalente nel deliberato argomentare di parme-
nide, che non lascia altro spazio all’emozione se non una
vigorosa stigmatizzazione dell’errore logico.
platone aveva perfettamente capito che la posta in
gioco era la natura della verità, e ciò lo ha costretto a
fare i conti con il pensiero del secolo precedente, come
312 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

mostra molto chiaramente il passo del Teeteto citato nel


capitolo 2:
allora in sé e per sé nulla è uno, né alcuna cosa potresti chiama-
re correttamente, né quale sia; ma se la chiami grande, appare
anche piccola, e se pesante, leggera, e tutto così, non essendo
nulla uno, né qualcosa, né in qualche modo […] A proposito
di questo, i sapienti uno dopo l’altro, eccetto parmenide, con-
cordano: protagora, Eraclito e Empedocle (152d 3).

L’equivoco di platone è nell’aver escluso parmeni-


de, forse per via dell’unicità del suo essere: non “eccetto
parmenide”, dunque, ma soprattutto parmenide. La per-
spicacia di platone in realtà non viene del tutto meno,
ed egli recupera nel Sofista, dove si rende conto che per
mantenere le sue posizioni deve compiere il famoso
parricidio; e si è visto quanto poco questo parricidio sia
riuscito.
paradossalmente, nel secolo successivo le personalità
più spiccatamente scientifiche sembrano le meno influen-
zate da questo genere di riflessioni, forse perché la per-
cezione dell’opinabilità delle teorie è già di per sé conna-
turata col carattere di quel tipo di ricerca; ma più proba-
bilmente perché le teorie cosmologiche e fisiche avevano
all’epoca una rilevanza pratica talmente trascurabile da
rendere di fatto l’errore privo di esiti drammatici. Ben di-
verso è il caso di coloro che operavano in campo politico
e giudiziario. Qui, come sottolineato nella introduzione
e nel capitolo 1, le conseguenze dell’indimostrabilità del
vero si manifestavano in tutta la loro drammaticità, e le
menti più pensose non potevano mancare di rilevarlo. In
questo contesto s’inquadra la constatazione di protagora
che (80 B 6a)

riguardo a ogni cosa vi sono due ragionamenti contrapposti


(Diog. Laert. IX 51)
6. Influenza del pensiero eleatico 313

e la conseguente conclusione che «l’uomo è misura di


tutte le cose»: non è possibile imporre la verità con il ra-
gionamento, perché ogni ragionamento è opinabile.
Le tragiche conseguenze che possono derivare dalla
impossibilità di dimostrare la verità sono manifestate
dall’efficacia della calunnia, come nel caso emblematico
di palamede, ingiustamente accusato di tradimento da
Odisseo e giustiziato dai Greci. Gorgia ne mette in sce-
na la difesa, mostrando implicitamente l’indimostrabilità
dell’accusa e l’opinabilità della difesa stessa. Se nulla si
può dimostrare, solo fine del discorso è persuadere; se
l’unica verità è ciò che ciascun uomo crede, gli argomen-
ti che contano sono quelli capaci di orientare le opinioni,
quale ne sia la natura. persuadere è un’arte e una tecnica:
non vi è un solo modo di attuarlo, ma si può imparare a
farlo efficacemente. In Gorgia troviamo la più completa
presa d’atto del potere che l’eloquenza ha sempre avuto
in Grecia, e al tempo stesso la fiducia che questa tecnica
possa essere adeguatamente padroneggiata.
Gorgia non si è limitato all’esaltazione della parola: la sua
argomentazione nel discorso Intorno al non–ente o intorno alla
natura, sebbene non sempre rigorosa, si spinge oltre la posi-
zione di parmenide. Egli non solo mostra che gli enti non
esistono10, e che se anche esistessero non potrebbero essere
conosciuti — il che implica che ogni conoscenza è opinione
— ma aggiunge altresì che la conoscenza degli enti, anche se
fosse conseguibile, non potrebbe essere comunicata ad altri:
infatti quello che comunichiamo è la parola, e la parola non
coincide con le cose (quelle che giacciono fuori = ἅπερ ἐκτὸς
ὑποκείται). Sebbene la parola si formi per effetto delle espe-

10. Secondo Mansfeld (1985) gli ὄντα che Gorgia nega «non sono in
primo luogo le cose fenomeniche, ma le costruzioni speculative teoriche
dei filosofi presocratici, o gli attributi essenziali delle cose che sono» (p.
102); analogamente, per palmer (1999) sono «le entità fondamentali del
tipo posto dai suoi predecessori» (p. 70).
314 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

rienze esterne, essa non s’identifica con le cose che intende


comunicare. In questo modo Gorgia, nel momento stesso
in cui esalta il potere dell’eloquenza, mostra anche la fonda-
mentale ambiguità del rapporto comunicativo: per influire
sul pensiero altrui è necessario rendersi conto del fatto inevi-
tabile che quel che si pensa di dire non è necessariamente ciò
che viene inteso. Di conseguenza, l’arte di comunicare impli-
ca anche l’intuizione di quello che l’altro finirà per compren-
dere. Non si può parlare, comunque, di esiti scettici: l’uomo
di protagora è “misura”, crede anche fermamente e a volte
ostinatamente, e Gorgia mira a convincere. Siamo dunque
ben lontani dalla sospensione del giudizio. La posizione scet-
tica riguarda un’altra epoca, in cui la saggezza assume un
atteggiamento più difensivo, in un mondo su cui ormai il
singolo sente di avere ben poca influenza.

6.3. Epilogo

Nei pensatori successivi parmenide è stato recepito


solo per la sua ontologia. Dato che questa non aveva
altro scopo che definire lo statuto della conoscenza
umana, perdere di vista il senso della δόξα ha portato
a un completo stravolgimento del pensiero dell’Eleate,
che si è andato identificando con le posizioni di Melis-
so. Capire in che modo ciò sia accaduto non è fra gli
obiettivi di questo studio. Un simbolo di quanto tale
stravolgimento sia perdurato è quella stretta associazio-
ne di parmenide con platone che ha permesso a Elisa-
beth Anscombe (1981) di parafrasare il celebre adagio
di Whitehead (1979):
La più sicura caratterizzazione generale della tradizione fi-
losofica europea è che essa consiste in una serie di note in
margine a platone (p. 39)
6. Influenza del pensiero eleatico 315

affermando:
La successiva filosofia consiste in note in margine a parmeni-
de (p. XI).

penso che Anscombe abbia torto e Whitehead ragio-


ne: fino a tempi relativamente recenti la filosofia è stata
in larga misura condizionata dall’ontologia teorizzata da
platone e non dall’epistemologia parmenidea.
Alla fine del V secolo un irreversibile calo d’ottimismo,
anticipando il tragico fallimento della polis greca, ha pro-
dotto un clima sempre più favorevole ai cultori di illusio-
ni; o al ripiegarsi del singolo nel proprio mondo interiore,
con esiti consolatori o scettici; oppure all’affermazione di
una nuova figura d’intellettuale, quella specialistica dello
scienziato avulso dalla vita pratica. Allora, anche i criteri
di verità si sono modificati, finendo con l’imprimere un
carattere del tutto nuovo a quella che, in una prospettiva
distorta, si è poi imposta come la tradizione filosofica del
pensiero greco classico, obliterando quasi completamen-
te, per il tragico gioco della selezione in un ambiente via
via più ostile, la memoria di una cultura vigorosa e reali-
sta, strettamente connessa con la gestione partecipativa
di una polis istintivamente fiduciosa di sé.
7. Frammenti

7.1. Eraclito

22 B 1 (Sext. Emp. adv. math. VII 132):


τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται
ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε
ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων
τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων
ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους
ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν,
ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται.

A questo logos che è sempre gli uomini rimangono


estranei, sia prima d’aver ascoltato, sia avendo ascol-
tato in precedenza. Benché tutto avvenga secondo
questo logos, essi appaiono privi di esperienza pur fa-
cendo esperienza di questi discorsi e fatti che espon-
go, distinguendo ogni cosa secondo natura e dicen-
do come è. Agli altri uomini restano però nascoste
le cose che fanno da svegli allo stesso modo in cui
dimenticano quelle da addormentati.

22 B 2 (Sext. Emp. adv. math. VII 133):


διὸ δεῖ ἕπεσθαι τῶι κοινῶι· ξυνὸς γὰρ ὁ κοινὸς. τοῦ
λόγου δ’ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἰδίαν
ἔχοντες φρόνεσιν.

317
318 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

perciò bisogna seguire ciò che è comune: condiviso


infatti il comune. Ma benché il logos sia condiviso, i più
vivono come se avessero una comprensione privata.

22 B 3 (Aët. II 21, 4):


εὖρος ποδὸς ἀνθρωπείου.

larghezza d’un piede d’uomo.

22 B 4 (Albert. Magn. de veget. VI 401):


boves felices diceremus, cum inveniant orobum ad co-
medendum.

diremmo felici i buoi quando trovino rubiglio da


mangiare.

22 B 5 (Aristocritus Theos. 68):


καθαίρονται δ’ ἄλλωι αἵματι μιαινόμενοι οἷον εἴ τις εἰς
πηλὸν ἐμβὰς πηλῶι ἀπονίζοιτο. μαίνεσθαι δ’ ἂν δοκοίη,
εἴ τις αὐτὸν ἀνθρώπων ἐπιφράσαιτο οὕτω ποιέοντα.
καὶ τοῖς ἀγάλμασι δὲ τουτέοισιν εὔχονται, ὁκοῖον εἴ
τις δόμοισι λεσχηνεύοιτο, οὔ τι γινώσκων θεοὺς οὐδ’
ἥρωας οἵτινές εἰσι.

Si purificano contaminandosi con altro sangue, come


se uno, caduto nel fango, con il fango si detergesse.
Se qualcuno osservasse quest’uomo comportarsi in
tal modo lo riterrebbe uscito di senno. E adorano
queste immagini come se qualcuno conversasse con
le case, né sanno chi siano gli dei e gli eroi.

22 B 6 (Aristot. meteor. II 2, 355a 13):


νέος ἐφ’ ἡμέρηι ἐστίν

è nuovo ogni giorno


7. Frammenti 319

22 B 7 (Aristot. de sens. 5. 443a 23):


εἰ πάντα τὰ ὄντα καπνὸς γένοιτο, ῥῖνες ἂν
διαγνοῖεν.

Se tutte le cose diventassero fumo, le narici le di-


stinguerebbero.

22 B 8 (Aristot. eth. Nic. VIII 2. 1155b 4):


τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων
καλλίστην ἁρμονίαν

L’opposto concordante e dai discordanti la più bella


armonia.

22 B 9 (Aristot. eth. Nic. k 5. 1176a 7):


ὄνους σύρατ’ ἂν ἑλέσθαι μᾶλλον ἢ χρυσόν.

Gli asini sceglierebbero lo strame più che l’oro.

22 B 10 ([Aristot.] de mundo 5, 396b 7):


συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον
διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν
καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα.

Congiunzioni interi e non interi, concordante di-


scordante, consonante dissonante, da tutto uno
da uno tutto.

22 B 11 ([Aristot.] de mundo 6, 401a 8):


πᾶν γὰρ ἑρπετὸν πληγῆι νέμεται.

infatti tutte le bestie vanno al pascolo con la sferza.

22 B 12 (Ar. Didym. ap. Euseb. praep. evang. XV 20):


ποταμοῖσι τοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶ
320 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ἕτερα ὕδατα ἐπιρρεῖ καὶ ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν


ἀναθυμιῶνται.

per coloro che entrano negli stessi fiumi altre e altre


acque defluiscono; e le anime esalano dall’umido.

22 B 13 (Clem. Alex. strom. I 2):


ὕες βορβόρωι ἥδονται μάλλον ἢ καθαρῶι ὕδατι.

I porci godono più nella fanghiglia che nell’acqua


pulita.

22 B 14 (Clem. Alex. protr. II 22):


τίσι δὴ μαντεύεται Ἑ, ὁ Ἐφέσιος; νυκτιπόλοις,
μάγοις, βάκχοις, λήναις, μύσταις […] μαντεύεται τὸ
πῦρ· τὰ γὰρ νομιζόμενα κατ’ ἀνθρώπους μυστήρια
ἀνιερωστὶ μυεῦνται.

per chi vaticina Eraclito di Efeso? per i nottivaghi,


per i maghi, per i bacchi, per le menadi, per gli ini-
ziati […] vaticina il fuoco: infatti ai misteri in uso
tra gli uomini si è iniziati empiamente.

22 B 15 (Clem. Alex. protr. II 34):


εἰ μὴ γὰρ Διονύσωι πομπὴν ἐποιοῦντο καὶ ὕμνεον ἆισμα
αἰδοίσιν, ἀναιδέστατα εἴργαστ’ ἄν· ὡυτὸς δὲ Ἀίδης
καὶ Διόνυσος, ὅτεωι μαίνονται καὶ ληναΐζουσιν.

Infatti, se la processione non fosse fatta per Dioniso,


intonando anche un canto alle vergogne, sarebbe tra
le cose più spudorate: ma la stessa cosa sono Ade e
Dioniso, per cui impazzano e celebrano le Lenee.

22 B 16 (Clem. Alex. pedag. II 99):


τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι;
7. Frammenti 321

da ciò che non tramonta mai come ci si potrebbe


nascondere?

22 B 17 (Clem. Alex. strom. II 17):


οὐ γὰρ φρονέουσι τοιαῦτα πολλοί, ὁκόσοι
ἐγκυρεῦσιν, οὐδὲ μαθόντες γινώσκουσιν, ἑωυτοῖσι
δὲ δοκέουσι.

I molti, infatti, non comprendono ciò in cui s’im-


battono, né apprendendo conoscono, ma a loro
sembra.

22 B 18 (Clem. Alex. strom. II 17):


ἐὰν μὴ ἔλπηται, ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει,
ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον.

Se non si spera, non si troverà l’inatteso, che è irrin-


tracciabile e indeducibile.

22 B 19 (Clem. Alex. strom. II 24):


ἀκοῦσαι οὐκ ἐπιστάμενοι οὐδ’ εἰπεῖν.

Incapaci di ascoltare e di parlare.

22 B 20 (Clem. Alex. strom. III 14):


γενόμενοι ζώειν ἐθέλουσι μόρους τ’ ἔχειν, μᾶλλον
δὲ ἀναπαύεσθαι, καὶ παῖδας καταλείπουσι μόρους
γενέσθαι.

Nati, vogliono vivere e compiere il destino, o meglio


riposarsi, e lasciano figli perché destini si compiano.

22 B 21 (Clem. Alex. strom. III 21):


θάνατός ἐστιν ὁκόσα ἐγερθέντες ὁρέομεν, ὁκόσα δὲ
εὕδοντες ὕπνος.
322 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Morte è quanto destandoci vediamo, quanto dor-


mienti sonno.

22 B 22 (Clem. Alex. strom. IV 4):


χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ
εὑρίσκουσιν ὀλίγον.

Coloro che cercano oro scavano molta terra e tro-


vano poco.

22 B 23 (Clem. Alex. strom. IV, 10):


Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ἤιδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν.

Non saprebbero il nome di Dike, se queste cose


non fossero.

22 B 24 (Clem. Alex. strom. IV 16):


ἀρηιφάτους θεοὶ τιμῶσι καὶ ἄνθρωποι.

Gli dei e gli uomini onorano i morti in guerra.

22 B 25 (Clem. Alex. strom. III 50):


μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι.

Infatti, sorti più grandi ricevono più grandi ricom-


pense.

22 B 26 (Clem. Alex. strom. III 143):


ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνηι φάος ἅπτεται ἑαυτῶι
ἀποσβεσθεὶς ὄψεις, ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων,
ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος.

L’uomo nella notte, spenti gli occhi, accende a se


stesso una luce: vivente, tocca il morto dormendo;
sveglio, tocca il dormiente.
7. Frammenti 323

22 B 27 (Clem. Alex. strom. III 146):


ἀνθρώπους μένει ἀποθανόντας ἅσσα οὐκ ἔλπονται
οὐδὲ δοκέουσιν.

Gli uomini aspetta da morti ciò che non sperano


né opinano.

22 B 28 (Clem. Alex. strom. V 9):


δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει·
καὶ μέντοι καὶ Δίκη καταλήψεται ψευδῶν τέκτονας
καὶ μάρτυρας.

Opinioni, infatti, il più stimato conosce e ritiene: e


certo la giustizia afferrerà i fabbricatori e testimoni
di menzogne.

22 B 29 (Clem. Alex. strom. V 6):


αἱρεῦνται γὰρ ἓν ἀντὶ ἁπάντων οἱ ἄριστοι, κλέος
ἀέναον θνητῶν· οἱ δὲ πολλοὶ κεκόρηνται ὅκωσπερ
κτήνεα.

preferiscono, infatti, una cosa tra tutte i migliori, la


gloria eterna tra i mortali: ma i più si saziano come
bestiame.

22 B 30 (Clem. Alex. strom. V 105):


κόσμον τόνδε, τὸν ἀυτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε
ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται
πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον
μέτρα.

Questo cosmo, il medesimo per tutti, nessuno degli


dèi o degli uomini lo ha fatto, ma era sempre ed è e
sarà un fuoco sempre–vivo, che in misura divampa
e in misura si attenua.
324 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

22 B 31 (Clem. Alex. strom. V 105):


πυρὸς τροπαὶ πρῶτον θάλασσα, θαλάσσης δὲ τὸ μὲν
ἥμισυ γῆ, τὸ δὲ ἥμισυ πρηστήρ. […]〈γῆ〉θάλασσα
διαχέεται, καὶ μετρέεται εἰς τὸν αὐτὸν λόγον, ὁκοῖος
πρόσθεν ἦν ἢ γενέσθαι γῆ.

Le trasformazioni del fuoco: prima mare, e del


mare metà terra e metà esalazione infuocata. […]
〈La terra〉si liquefa come mare e si misura nel-
la medesima quantità che era prima di diventare
terra.

22 B 32 (Clem. Alex. strom. V 116):


ἓν τὸ σοφὸν μοῦνον λέγεσθαι οὐκ ἐθέλει καὶ ἐθέλει
Ζηνὸς ὄνομα.

Una cosa, l’unica che si chiama sapienza, non vuole


e vuole il nome di Zeus.

22 B 33 (Clem. Alex. strom. V 116):


νόμος καὶ βουλῆι πείθεσθαι ἑνός.

Legge anche ubbidire alla decisione di uno.

22 B 34 (Clem. Alex. strom. V 116):


ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι· φάτις
αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι.

Ascoltando ottusamente sembrano sordi; di loro


testimonia il detto: presenti sono assenti.

22 B 35 (Clem. Alex. strom. V 141):


χρὴ γὰρ εὖ μάλα πολλῶν ἵστορας φιλοσόφους
ἄνδρας εἶναι.
7. Frammenti 325

Bisogna, infatti, che gli uomini amanti della sapien-


za siano esperti di moltissime cose.

22 B 36 (Clem. Alex. strom. VI 16):


ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος
γῆν γενέσθαι· ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ
ψυχή.

Morte per le anime diventare acqua, morte per l’ac-


qua diventare terra; ma dalla terra viene l’acqua,
dall’acqua l’anima.

22 B 37 (Columell. de re rustica VIII 4):


sues caeno, cohortales aves pulvere vel cinere lavari.

I porci si lavano nel fango, gli uccelli da cortile nella


polvere o nella cenere.

22 B 38 (Diog. Laert. I, 23):


[Θαλῆς] δοκεῖ δὲ κατά τινας πρῶτος ἀστρολογῆσαι…
μαρτυρεῖ δ’ αὐτῶι καὶ Ἡ. καὶ Δημόκριτος.

[Talete] secondo alcuni sembra essere stato il pri-


mo ad indagare sugli astri… lo testimoniano anche
Eraclito e Democrito.

22 B 39 (Diog. Laert. I, 88):


ἐν Πριήνηι Βίας ἐγένετο ὁ Τευτάμεω, οὗ πλείων λόγος
ἢ τῶν ἄλλων.

A priene nacque Biante, di Teutamo, il cui senno è


maggiore di quello degli altri.

22 B 40 (Diog. Laert. IX 1):


πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ
326 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε


καὶ Ἑκαταῖον.

L’erudizione non insegna ad avere intelligenza:


l’avrebbe, infatti, insegnato ad Esiodo e a pita-
gora, e ancora a Senofane e a Ecateo.

22 B 41 (Diog. Laert. IX 1):


ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε
πάντα διὰ πάντων.

Una la sapienza: possedere la conoscenza che


governa tutte le cose per ogni dove.

22 B 42 (Diog. Laert. IX, 1):


τόν τε Ὅμηρον […] ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι
καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως.

Omero degno d’essere scacciato dagli agoni e di


essere frustato ed ugualmente Archiloco.

22 B 43 (Diog. Laert. IX 2):


ὕβριν χρὴ σβεννύναι μᾶλλον ἢ πυρκαϊήν.

L’arroganza bisogna spegnere più che l’incendio.

22 B 44 (Diog. Laert. IX 2):


μάχεσθαι χρὴ τὸν δῆμον ὑπὲρ τοῦ νόμου ὅκωσπερ
τείχεος.

Il popolo deve combattere per la legge come per


le mura.

22 B 45 (Diog. Laert. IX 7):


ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν
7. Frammenti 327

ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει.

procedendo non potresti trovare i confini dell’ani-


ma, pur percorrendo ogni sentiero: tanto profondo
ha il logos.

22 B 46 (Diog. Laert. IX, 7):


τήν τε οἴησιν ἱερὰν νόσον

Il pensiero è una malattia sacra.

22 B 47 (Diog. Laert. IX 73):


μὴ εἰκῆ περὶ τῶν μεγίστων συμβαλλώμεθα.

Non spieghiamo a casaccio le cose più importanti.

22 B 48 (Etym. Gen. s. v. βίος):


τῶι οὖν τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος.

Dell’arco, dunque, il nome vita, l’opera morte.

22 B 49 (Galen. De dign. puls. VIII 773 Kühn, 1):


εἷς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ἦι.

Uno per me diecimila, se fosse il migliore.

22 B 49a (Heraclit. alleg. 24):


ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ
ἐμβαίνομεν εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν.

Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo


e non siamo.

22 B 50 (Hippol. ref. IX 9):


οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
328 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι.

Udito non me ma il logos, è saggio convenire che


tutto è uno.

22 B 51 (Hippol. ref. IX 9 p. 241):


οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης.

Non comprendono come divergendo con se stesso


concorda, contrastante connessione come quella
dell’arco e della lira.

22 B 52 (Hippol. ref. IX 9 p. 124):


αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη.

Il tempo è un fanciullo che gioca, muovendo i pez-


zi: il regno di un fanciullo.

22 B 53 (Hippol. ref. IX 9 p. 241):


Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς,
καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς
μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους.

La guerra è padre di tutto, di tutto re, e alcuni mo-


strò dèi altri uomini, alcuni fece schiavi altri liberi.

22 B 54 (Hippol. ref. IX 9, p. 241):


ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείττων.

La connessione nascosta è migliore di quella che


appare.

22 B 55 (Hippol. ref. IX 9 p. 241):


ὅσων ὄψις ἀκοὴ μάθησις, ταῦτα ἐγὼ προτιμέω.
7. Frammenti 329

Di quanto vista, udito, apprendimento questo io


preferisco.

22 B 56 (Hippol. ref. IX 9 p. 241):


ἐξηπάτηνται […] οἱ ἄνθρωποι πρὸς τὴν γνῶσιν τῶν
φανερῶν παραπλησίως Ὁμήρωι, ὃς ἐγένετο τῶν
Ἑλλήνων σοφώτερος πάντων. ἐκεῖνόν τε γὰρ παῖδες
φθεῖρας κατακτείνοντες ἐξηπάτησαν εἰπόντες· ὅσα
εἴδομεν καὶ ἐλάβομεν, ταῦτα ἀπολείπομεν, ὅσα δὲ
οὔτε εἴδομεν οὔτ’ ἐλάβομεν, ταῦτα φέρομεν.

S’ingannano gli uomini in merito alla conoscenza delle


cose che appaiono, analogamente ad Omero, che pure
era il più sapiente di tutti i Greci. Infatti, dei fanciulli
che si spidocchiavano lo ingannarono dicendo: quello
che abbiamo visto e preso, lo abbiamo lasciato; quello
che non abbiamo visto né preso, lo portiamo.

22 B 57 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται
πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ
ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν.

Maestro della moltitudine Esiodo: ritengono che


costui sapesse moltissime cose, proprio lui, che il
giorno e la notte non conosceva: sono infatti uno.

22 B 58 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


οἱ γοῦν ἰατροί […] τέμνοντες, καίοντες, […]
ἐπαιτέονται μηδὲν ἄξιοι μισθὸν λαμβάνειν […] ταὐτὰ
ἐργαζόμενοι.

I medici dunque […] tagliando, bruciando, […] ri-


chiedono, pur non meritando di ricevere un com-
penso, avendo fatto le medesime cose.
330 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

22 B 59 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


γναφείωι ὁδὸς εὐθεῖα καὶ σκολιὴ […] μία ἐστί […]
καὶ ἡ αὐτή.

Nel rullo del cardatore la via diritta e curva è una


e la stessa.

22 B 60 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


ὁδὸς ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή.

La via in su e in giù una e la stessa.

22 B 61 (Hippol. ref. IX 10):


θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι
μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ
ὀλέθριον.

Il mare è l’acqua più pura e più impura; per i pesci


è bevibile e salutare, per gli uomini è imbevibile
ed esiziale.

22 B 62 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν
ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες.

Immortali mortali, mortali immortali, viventi la


morte di quelli, morenti la vita di quelli.

22 B 63 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


ἔνθα δ’ ἐόντι ἐπανίστασθαι καὶ φύλακας γίνεσθαι
ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν.

Si ergono davanti a chi è lì, vigili custodi dei vivi e


dei morti.
7. Frammenti 331

22 B 64 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός.

Tutto governa la Folgore.

22 B 65 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


καλεῖ δὲ αὐτὸ χρησμοσύνην καὶ κόρον.

lo chiama poi indigenza e sazietà.

22 B 66 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


πάντα γὰρ […] τὸ πῦρ ἐπελθὸν κρινεῖ καὶ
καταλήψεται.

Infatti, tutto […] il fuoco erompendo separerà e af-


ferrerà.

22 B 67 (Hippol. ref. IX 10 p. 243):


ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη,
κόρος λιμός […], ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ 〈πῦρ〉 ,
ὁπόταν συμμιγῆι θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ’ ἡδονὴν
ἑκάστου.

Il dio giorno notte, inverno estate, guerra pace, sa-


zietà fame, muta come il〈fuoco〉 , quando misto a
spezie, prende il nome dal profumo di ciascuna.

22 B 67a (Hisdosus Scholast. ad Chalcid. Plat.


Tim.):
sic〈ut〉aranea […] stans in medio telae sentit, quam
cito musca aliquem filum suum corrumpit itaque il-
luc celeriter currit quasi de fili persectione dolens, sic
hominis anima aliqua parte corporis laesa illuc festi-
ne meat quasi impatiens laesionis corporis, cui firme et
proportionaliter iuncta est.
332 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Come il ragno, stando nel mezzo della tela, av-


verte appena una mosca spezza qualche suo filo
e accorre colà celermente, quasi provasse dolore
per la rottura del filo, così l’anima dell’uomo, fe-
rita qualche parte del corpo, vi accorre in fretta,
quasi insofferente alla ferita del corpo, al quale è
congiunta saldamente e secondo proporzione.

22 B 68 (Iambl. de myst. I 11):


εἰκότως αὐτὰ ἄκεα Ἡ. προσεῖπεν

giustamente Eraclito li chiamò [i misteri] rimedi

22 B 69 (Iambl. de myst. V 15):


θυσιῶν τοίνυν τίθημι διττὰ εἴδη· τὰ μὲν τῶν
ἀποκεκαθαρμένων παντάπασιν ἀνθρώπων, οἷα ἐφ’
ἑνὸς ἄν ποτε γένοιτο σπανίως, ὥς φησιν Ἡ., ἤ τινων
ὀλίγων εὐαριθμήτων ἀνδρῶν

Dei sacrifici dunque pongo duplice specie: quelli


degli uomini completamente purificati, come tal-
volta a uno raramente accade, come dice Eraclito,
o da pochi uomini facilmente contabili.

22 B 70 (Iambl. de an. [Stob. flor. III 1, 16]):


παίδων ἀθύρματα νενόμικεν εἶναι τὰ ἀνθρώπινα
δοξάσματα.

Giochi di fanciulli riteneva che fossero le opinioni


umane.

22 B 71 (Marc. Anton. IV 46):


μενῆσθαι δὲ καὶ τοῦ ἐπιλανθαμένου ἧι ἡ ὁδὸς ἄγει.
7. Frammenti 333

Ricordarsi anche di colui che ha dimenticato dove


porta la strada.

22 B 72 (Marc. Anton. IV 46):


ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι (λόγωι τῶι τὰ ὅλα
διοικοῦντι), τούτωι διαφέρονται καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν
ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται.

Da quello con cui hanno più costantemente fami-


liarità (dal logos che tutto governa) da questo discor-
dano, e quelle cose in cui ogni giorno s’imbattono,
queste essi trovano estranee.

22 B 73 (Marc. Anton. IV 46):


οὐ δεῖ ὥσπερ καθεύδοντας ποιεῖν καὶ λέγειν.

Non bisogna agire e parlare come dormendo.

22 B 74 (Marc. Anton. IV 46):


οὐ δεῖ 〈ὡς〉παῖδας τοκεώνων

Non si deve〈come〉figli dei genitori.

22 B 75 (Marc. Anton. VI 42):


τοὺς καθεύδοντας […] ἐργάτας εἶναι καὶ συνεργοὺς
τῶν ἐν τῶι κόσμωι γινομένων.

Coloro che dormono sono artefici e collaboratori


di ciò che accade nel cosmo.

22 B 76 (Maxim. Tyr. XLI 4 p. 489):


ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς
θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν
ὕδατος.
334 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Vive il fuoco la morte della terra e l’aria vive la


morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la
terra quella dell’acqua.

22 B 77 (Numen. fr. 35 Thedinga, ap. porphyr. de


antr. nymph. 10):
ψυχῆσι […] τέρψιν ἢ θάνατον ὑγρῆισι γενέσθαι.

per le anime godimento o morte diventare umide.

22 B 78 (Orig. c. Cels. VI 12):


ἦθος γὰρ ἀνθρώπειον μὲν οὐκ ἔχει γνώμας, θεῖον δὲ
ἔχει.

La natura umana, infatti, non ha conoscenze, la


divina le ha.

22 B 79 (Orig. c. Cels. VI 12):


ἀνὴρ νήπιος ἤκουσε πρὸς δαίμονος ὅκωσπερ παῖς
πρὸς ἀνδρός.

L’uomo è tenuto per puerile a cospetto del dèmo-


ne proprio come il fanciullo dell’uomo.

22 B 80 (Orig. c. Cels. VI 42):


εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνόν, καὶ δίκην
ἔριν, καὶ γινόμενα πάντα κατ’ ἔριν καὶ χρεών.

Bisogna capire che la guerra è comune e giustizia


discordia e che tutte le cose diventano per discor-
dia e necessità.

22 B 81 (philod. rhet. ic 57):


[Πυθαγόραν] κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός.
[pitagora] è capostipite degli impostori.
7. Frammenti 335

22 B 82 (plat. Hipp. mai. 289a 3):


πιθήκων ὁ κάλλιστος αἰσχρὸς ἀνθρώπων γένει
συμβάλλειν.

La più bella delle scimmie è obbrobriosa confronta-


ta al genere degli uomini.

22 B 83 (plat. Hipp. mai. 289b 4):


ἀνθρώπων ὁ σοφώτατος πρὸς θεὸν πίθηκος φανεῖται
καὶ σοφίαι καὶ κάλλει καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσιν.

Il più sapiente degli uomini apparirà una scimmia


al cospetto del dio per sapienza, per bellezza e per
tutto il resto.

22 B 84a (plotin. Enn. IV 8, 1):


μεταβάλλον ἀναπαύεται.

Mutando riposa.

22 B 84b (plotin. Enn. IV 8, 1):


κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι.

penoso è dagli stessi patire e essere comandati.

22 B 85 (plutarch. Coriol. 22):


θυμῶι μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέληι, ψυχῆς
ὠνεῖται.

Duro combattere con la passione: ciò che vuole in-


fatti, lo compra con l’anima.

22 B 86 (plutarch. Coriol. 38):


ἀπιστίηι διαφυγγάνει μὴ γιγνώσκεσθαι.
336 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

per l’incredibilità sfugge all’essere conosciuto

22 B 87 (plutarch. de aud. 7 p. 41 a):


βλὰξ ἄνθρωπος ἐπὶ παντὶ λόγωι ἐπτοῆσθαι φιλεῖ.

L’uomo stupido ama eccitarsi per ogni discorso.

22 B 88 ([plutarch.] cons. ad Apoll. 10 p. 106e):


ταὐτό τ’ ἔνι ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ [τὸ] ἐγρηγορὸς καὶ
καθεῦδον καὶ νέον καὶ γηραιόν· τάδε γὰρ μεταπεσόντα
ἐκεῖνά ἐστι κἀκεῖνα πάλιν μεταπεσόντα ταῦτα.

La stessa cosa vi è vivo e morto, desto e dormien-


te, giovane e vecchio: questi infatti mutando sono
quelli e quelli all’inverso mutando questi.

22 B 89 (plutarch. de superst. 3 p. 166c):


τοῖς ἐγρεγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ
κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι.

per coloro che sono svegli il cosmo è uno e comu-


ne, mentre ciascuno degli addormentati si rivolge
al proprio.

22 B 90 (plutarch. de E 8 p. 388e):
πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων
ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός.

Tutte le cose scambio per il fuoco e il fuoco per tut-


te le cose, come i beni per l’oro e l’oro per i beni.

22 B 91 (plutarch. de E 18 p. 392b):
ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆαι δὶς τῶι αὐτῶι.

Nello stesso fiume non si può entrare due volte.


7. Frammenti 337

22 B 92 (plutarch. de Pyth. or. 6 p. 397a):


Σίβυλλα δὲ μαινομέμωι στόματι […] ἀγέλαστα καὶ
ἀκαλλώπιστα καὶ ἀμύριστα φθεγγομένη χιλίων ἐτῶν
ἐξικνεῖται τῆι φωνῆι διὰ τὸν θεόν.

La Sibilla urlando con bocca delirante cose senza


sorriso, senza bellezza e senza profumo raggiunge
mille anni con la voce grazie al dio.

22 B 93 (plutarch. de Pyth. or. 21 p. 404d):


ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεϊόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς οὔτε λέγει
οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει.

Il signore, il cui oracolo è a Delfi, né dice né na-


sconde ma dà segno.

22 B 94 (plutarch. de exil. 11 p. 604a):


Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἑρινύες
μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν.

Helios non travalicherà le misure: altrimenti le


Erinni, guardie della giustizia, lo scoprirebbero.

22 B 95 (plutarch. quaest. conviv. III pr. 1 p. 644f ):


ἀμαθίην γὰρ ἄμεινον κρύπτειν

Meglio nascondere l’ignoranza.

22 B 96 (plutarch. quaest. conv. IV 4, 3 p. 669a):


νέκυες γὰρ κοπρίων ἐκβλητότεροι.
I cadaveri infatti da rigettare più degli escrementi.

22 B 97 (plutarch. an seni resp. 7 p. 787c):


κύνες γὰρ καταβαΰζουσιν ὧν ἂν μὴ γινώσκωσι.
338 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

I cani, infatti, abbaiano a coloro che non riconoscono.

22 B 98 (plut. fac. lun. 28 p. 943e):


αἱ ψυχαὶ ὀσμῶνται καθ’ Ἅιδην.

Le anime nell’Ade fiutano.

22 B 99 (plutarch. acq. et ign. comp. 7 p. 957a):


εἰ μὴ ἥλιος ἦν, ἕνεκα τῶν ἄλλων ἄστρων εὐφρόνη ἂν
ἦν.

Se non ci fosse il sole, per gli altri astri sarebbe notte.

22 B 100 (plutarch. quaest. Plat. 8, 4 p. 107 d):


ὥρας αἳ πάντα φέρουσι

le stagioni che tutto portano.

22 B 101 (plutarch. Adv. Col. 20 p. 1118c):


ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν.

Ho indagato me stesso.

22 B 101a (polyb. XII 27):


ὀφθαλμοὶ γὰρ τῶν ὤτων ἀκριβέστεροι μάρτυρες.

Gli occhi, infatti, più accurati testimoni delle orecchie.

22 B 102 (porphyr. quaest. Hom. ad Il. IV 4):


τῶι μὲν θεῶι καλὰ πάντα καὶ ἀγαθὰ καὶ δίκαια,
ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια.

per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giu-


ste, ma gli uomini alcune le hanno considerate in-
giuste e altre giuste.
7. Frammenti 339

22 B 103 (porphyr. quaest. Hom. ad Il. XIV 200):


ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου
περιφερείας.

Comune è, infatti, l’inizio e il termine sulla cir-


conferenza del cerchio.

22 B 104 (procl. in Alcib. I p. 525, 21):


τίς γὰρ αὐτῶν νόος ἢ φρήν; δήμων ἀοιδοῖσι
πείθονται καὶ διδασκάλωι χρείωνται ὁμίλωι οῦκ
εἰδότες ὅτι ‘οἱ πολλοὶ κακοί, ὀλίγοι δὲ ἀγαθοί’.

Quale, infatti, la loro mente o animo? Sono per-


suasi dagli aedi del popolo e si servono come ma-
estra dalla moltitudine, non vedendo che «i molti
cattivi, pochi buoni».

22 B 105 (Schol. Hom. AT ad Il. XVIII 251):


Ἡ. ἐντεῦθεν ἀστρολόγον φησὶ τὸν Ὅμερον καὶ
ἐν οἷς φησι ‘μοῖραν δ’ οὔ τινά φημι πεφυγμένον
ἔμμεναι ἀνδρῶν’.

Eraclito per questo chiama Omero astrologo e


per quei versi in cui dice: «nessuno degli uomini
dico è sfuggito al destino».

22 B 106 (plutarch. Camill. 19):


Ἡράκλειτος ἐπέπληξεν Ἡσιόδωι τὰς μὲν ἀγαθὰς
ποιουμένωι,τὰς δὲ φαύλας ὡς ἀγνοοῦντι φύσιν
ἡμέρας ἁπάσης μίαν οὖσαν.

Eraclito rimproverò Esiodo di ignorare la natura


di ogni giorno che è una, facendone alcuni buo-
ni, altri cattivi.
340 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

22 B 107 (Sext. Emp. adv. math. VII 126):


κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα
βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων.

Cattivi testimoni gli occhi e le orecchie per gli uo-


mini che hanno anime barbare.
22 B 108 (Stob. flor. I 174):
ὁκόσων λόγους ἤκουσα, οὐδεὶς ἀφικνεῖται ἐς
τοῦτο, ὥστε γινώσκειν ὅτι σοφόν ἐστι πάντων
κεχωρισμένον.

Tra coloro dei quali udii i discorsi, nessuno è giunto a


ciò: riconoscere che la sapienza è separata da tutto.

22 B 109 = 22 B 95
22 B 110 (Stob. flor. III 1, 176):
ἀνθρώποις γίνεσθαι ὁκόσα θέλουσιν οὐκ ἄμεινον.

per gli uomini non è meglio che avvenga ciò che


desiderano.
22 B 111 (Stob. flor. III 1, 177):
νοῦσος ὑγιείην ἐποίησεν ἡδὺ καὶ ἀγαθόν, λιμὸς
κόρον, κάματος ἀνάπαυσιν.

La malattia fece dolce e buona la salute, la fame la


sazietà, la fatica il riposo.
22 B 112 (Stob. flor. III 1, 178):
σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν
καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαΐοντας.

Essere sapienti massima virtù, e sapienza dire e fare


cose vere intendendo secondo natura.
7. Frammenti 341

22 B 113 (Stob. flor. III 1, 179):


ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονέειν.

Comune a tutti è il comprendere.

22 B 114 (Stob. flor. III 1, 179):


ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι
πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως.
τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς
τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ
ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται.

Coloro che parlano con senno bisogna che facciano


affidamento su ciò che è comune a tutti, come una
città sulla legge, anzi più saldamente. Infatti, tutte le
leggi umane sono nutrite dall’unica divina: questa, in-
fatti, domina ciò che vuole e basta a tutte e le supera.

22 B 115 (Stob. flor. III 1, 180a):


ψυχῆς ἐστι λόγος ἑαυτὸν αὔξων.

L’anima ha un logos che accresce se stesso.

22 B 116 (Stob. flor. III 5, 6):


ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ
σωφρονεῖν.

A tutti gli uomini appartiene conoscere sé stessi e


essere sapienti.

22 B 117 (Stob. flor. III 5, 7):


ἀνὴρ ὁκόταν μεθυσθῆι, ἄγεται ὑπὸ παιδὸς ἀνήβου
σφαλλόμενος, οὐκ ἐπαΐων ὅκη βαίνει, ὑγρὴν τὴν
ψυχὴν ἔχων.
342 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

L’uomo, quando è ebbro, è condotto barcollante da


un fanciullo impubere, senza capire dove va, aven-
do l’anima umida.

22 B 118 (Stob. flor. III 5, 8):


αὔη ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη.

L’anima asciutta più saggia e migliore.

22 B 119 (Stob. flor. IV 40, 23):


ἦθος ἀνθρώπωι δαίμων.

Carattere, dèmone dell’uomo.

22 B 120 (Strab. I p. 3):


ἠοῦς καὶ ἑσπέρας τέρματα ἡ ἄρκτος καὶ ἀντίον τῆς
ἄρκτου οὖρος αἰθρίου Διός.

I confini dell’aurora e del vespero, l’orsa e, di con-


tro all’orsa, il baluardo di Zeus celeste.

22 B 121 (Strab. XIV p. 642):


ἄξιον Ἐφεσίoις ἡβεδὸν ἀπάγξασθαι πᾶσι καὶ τοῖς
ἀνήβοις τὴν πόλιν καταλιπεῖν, οἵτινες Ἑρμόδωρον
ἄνδρα ἑωυτῶν ὀνήιστον ἐξέβαλον φάντες· ἡμέων μηδὲ
εἷς ὀνήιστος ἔστω, εἰ δὲ μή, ἄλλη τε καὶ μετ’ ἄλλων.

Giusto che gli Efesi si impiccassero tutti in età gio-


vanile e consegnassero la città agli infanti, essi, che
hanno espulso Ermodoro, l’uomo più capace tra
loro, dicendo: mai vi sia uno più capace di noi; se
c’è, se ne stia altrove e tra altra gente.

22 B 122 (Suid. s. v. ἀγχιβατεῖν e ἀμφιβατεῖν):


ἀγχιβασίην
7. Frammenti 343

accostamento

22 B 123 (Themist. or. 5 p. 69):


φύσις […] κρύπτεσθαι φιλεῖ.

La natura ama nascondersi.

22 B 124 (Theophr. metaph. 15 p. 7a 10):


ὥσπερ σάρμα εἰκῆ κεχυμένων ὁ κάλλιστος [ὁ]
κόσμος.

Come rifiuti sparsi a caso l’ordinamento più bello.

22 B 125 (Theophr. de vertig. 9):


καὶ ὁ κυκεὼν διίσταται〈μὴ〉κινούμενος.

Anche il ciceone si separa se non agitato.

22 B 125a (Tzetz. ad Aristoph. Plut. 88):


μὴ ἐπιλίποι ὑμᾶς πλοῦτος […] Ἐφέσιοι, ἵν’ἐξελέγχοισθε
πονερευόμενοι.

Che mai vi abbandoni la ricchezza […] o Efesi, per-


ché vi dimostriate malvagi.

22 B 126 (Tzetz. schol. ad exeg. Il. I 1 p. 126):


τὰ ψυχρὰ θέρεται, θερμὸν ψύχεται, ὑγρὸν αὐαίνεται,
καρφαλέον νοτίζεται.

Le fredde si riscaldano, il caldo si raffredda; l’umido


si asciuga, l’asciutto si bagna.

22 B 128 (Aristocritus Theos. 69):


δαιμόνων ἀγάλμασιν εὔχονται οὐκ ἀκούουσιν, ὥσπερ
ἀκούοιεν, οὐκ ἀποδιδοῦσιν, ὥσπερ οὐκ ἀπαιτοῖεν.
344 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Adorano le immagini degli dei che non ascoltano,


come se ascoltassero, e che non danno indietro
niente, come se loro non domandassero.

22 B 129 (Diog. Laert. VIII 6):


Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς
συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑaυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην,
κακοτεχνίην.

pitagora di Mnesarco si dedicò all’indagine più di


tutti gli uomini e, trascegliendo tra questi scritti, co-
struì la sua sapienza: erudizione, arte fraudolenta.

22 B 136 (Schol. Epictet. Epicteti diss. Bodl. p. LXXI


Schenkl):
ψυχαὶ ἀρηίφατοι καθερώτεραι ἢ ἐνὶ νούσοις.

più pure le anime morte in guerra che per malattia.


7. Frammenti 345

7.2. Parmenide

28 B 1 (1–30 Sext. Emp. adv. math. 111; 28–32 Simplic.


de cael. 557, 20):
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ’ ἐπὶ θυμὸς ἱκάνοι,
πέμπον, ἐπεί μ’ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος, ἣ κατὰ πάν τα 〈ύ〉τῃ φέρει εἰδότα φῶτα·
τῆι φερόμην· τῆι γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ’ ὁδὸν ἡγεμόνευον. 5

ἄξων δ’ ἐν χνοίηισιν ἵει σύριγγος ἀυτήν


αἰθόμενος (δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν), ὅτε σπερχοίατο πέμπειν
Ηλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Νυκτός,
εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων ἄπο χερσὶ καλύπτρας. 10

ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ ῎Ηματός εἰσι κελεύθων,


καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ’ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·
τῶν δὲ Δίκη πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιβούς.
τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλaκοῖσι λόγοισιν 15

πεῖσαν ἐπιφραδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα


ἀπτερέως ὤσειε πυλέων ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ’ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους
ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιβαδὸν εἰλίξασαι
γόμφοις καὶ περόνηισιν ἀρηρότε· τῆι ῥα δι’ αὐτέων 20

ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ’ ἀμαξιτὸν ἅρμα καὶ ἵππους.


καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ’ ἔπος φάτο καί με προσηύδα·
ὦ κοῦρ’ ἀθανάτοισι συνάορος ἡνιόχοισιν,
ἵπποις ταί σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 25

χαῖρ’, ἐπεὶ οὔτι σε μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι


346 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

τὴνδ’ ὁδόν (ἦ γὰρ ἀπ’ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν),


ἀλλὰ Θέμις τε Δίκη τε. χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι
ἠμὲν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτoρ
ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. 30

ἀλλ’ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα


χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περῶντα.

Le giumente che mi portano fin dove l’animo può


arrivare, / mi traevano, poiché andavano condu-
cendomi verso la via che molto dice / della dea,
quella che attraverso tutto porta fino a lì l’uomo
che sa: / là sono condotto; là infatti mi portavano
le giumente molto sapienti / traendo il carro, e le
fanciulle mostravano la strada. 5
L’asse nei mozzi mandava lo stridore di un sibilo /
bruciando (infatti era stretto da due cerchi torni-
ti / da entrambe le parti), mentre si affrettavano a
guidarmi / le fanciulle Eliadi, abbandonate le case
della Notte, / verso la luce, scostando con le mani i
veli dal capo. 10
Là sono le porte dei sentieri della Notte e del Gior-
no / queste hanno intorno un architrave e una so-
glia di pietra; / esse stesse, alte nell’aria, sono chiu-
se da grandi battenti, / di cui la Giustizia che molto
punisce ha le chiavi retributive. / Le fanciulle allora
persuadendola con dolci parole 15
la convinsero accortamente, che per loro il chiavi-
stello sbarrato / togliesse subito dalle porte: que-
ste, spalancandosi, / dei battenti lasciarono un’am-
pia apertura, i bronzei / perni nei cardini girando
a loro volta, / fissati con chiodi e con borchie: da lì,
dunque, attraverso queste, 20
le fanciulle dritto guidarono per la strada maestra il
carro e le giumente. / E la dea benevola mi accolse,
7. Frammenti 347

con la mano la mano / destra prese, e così prendendo


la parola si rivolse a me: / o giovane, accompagnato
da guide immortali, / dalle giumente che ti portano
fino alle nostre case, 25
benvenuto! perché non sorte cattiva ti conduce ad
andare / per questa via (che certo è fuori dalla via
battuta dagli uomini), / ma legge e giustizia. È ne-
cessario che tu apprenda ogni cosa, / e il cuore che
non trema della verità perfettamente circolare / e
le opinioni dei mortali, nelle quali non è vera fidu-
cia. 30
Ma nondimeno anche queste imparerai, come do-
vevano / essere correttamente le opinioni, avendo
percorso assolutamente tutto.

28 B 2 (procl. in Tim. I 345, 18):


εἰ δ’ ἄγ’ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,
αἵπερ ὁδoὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
Πειθοῦς ἐστι κέλευθος (Ἀληθείηι γὰρ ὀπηδεῖ),
ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, 5

τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·


οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν (οὐ γὰρ ἀνυστόν)
οὔτε φράσαις.

Ebbene io dirò, e tu ascoltando accogli la mia paro-


la, / quali sole vie di ricerca vi siano per pensare, /
l’una che è e che non è possibile non essere, / è il
sentiero della persuasione (infatti segue la Verità), /
l’altra che non è e che è necessario non essere 5
questo io ti dichiaro un sentiero del tutto in-
scrutabile. / Infatti, non potresti conoscere ciò
che non è (non è infatti possibile), / né potresti
esporlo.
348 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

28 B 3 (Clem. Alex. strom. VI 23; plotin. enn. V 1, 8):


τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι.

Infatti lo stesso è conoscere ed essere.

28 B 4 (Clem. Alex. strom. V 15):


λεῦσσε δ’ ὅμως ἀπεόντα νόωι παρεόντα βεβαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
οὔτε σκιδνάμενον πάντηι πάντως κατὰ κόσμον
οὔτε συνιστάμενον.

Le cose, sebbene distanti, ti siano chiare nel pensiero


saldamente presenti: / infatti non separerai l’essere
dal tenersi stretto all’essere / né disperso ovunque
completamente nel cosmo / né raggruppato.

28 B 5 (procl. in Parm. I p. 708, 16):


ξυνὸν δέ μοί ἐστιν,
ὁππόθεν ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις.

Indifferente è per me,


da dove comincerò: là infatti ritornerò di nuovo.

28 B 6 (Simplic. phys. 117, 2):


χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ’ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ’ οὐκ ἔστιν· τὰ γ’ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα.
πρώτης γάρ τ’ ἀφ’ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος〈†〉
αὐτὰρ ἔπειτ’ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδὲν
πλὰττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν 5
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται
κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα,
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος.

Bisogna dire e pensare che l’essere è: è infatti esse-


7. Frammenti 349

re, / nulla non è: questo appunto io esorto a dichia-


rare. / Infatti da questa prima via di ricerca〈†〉
ma dopo anche da quella, su cui i mortali che nulla
sanno / vanno errando, gente dalla doppia testa:
l’incertezza infatti guida / nei loro petti l’errante
mente; ed essi sono trascinati 5
sordi e ciechi ad un tempo, istupiditi, stirpe senza
giudizio, / dai quali essere e non essere sono rite-
nuti lo stesso / e non lo stesso, e il loro cammino è
un circolo vizioso.

28 B 71:
οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῆι εἶναι μὴ ἐόντα·
ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα
μηδέ σ’ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγωι πολύδηριν ἔλεγχον 5
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.

Infatti mai questo prevalga, che sia ciò che non è: /


ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
/ né la consuetudine molto sperimentata ti costrin-
ga su questa via, / usando l’occhio che non vede,
l’udito rintronante / e la lingua, ma giudica con la
mente l’argomento sovvertitore 5
da me enunciato.

28 B 82:
μόνος δ’ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτηι δ’ ἐπὶ σήματ’ ἔασι

1. Il frammento 7, che prosegue direttamente nel frammento 8, è


citato parzialmente da diversi autori (vedi O’Brien, 1987, p. 28).
2. Il frammento 8, che segue direttamente il 7, è citato parzialmente
da diversi autori, tra cui Simplicio (phys. 145, 1) che ha citato di seguito i
versi 1–52 (vedi O’Brien 1987, p. 28).
350 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

πολλὰ μάλ’, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,


οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ’ ἀτέλεστον·
οὐδέ ποτ’ ἦν οὐδ’ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, 5

ἕν, συνεχές· τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;


πῆι πόθεν αὐξηθέν; οὐδ’ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσσω
φάσθαι σ’ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν
ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ’ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν
ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; 10

οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί.


οὐδέ ποτ’ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς
γίγνεσθαί τι παρ’ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν oὔτε γενέσθαι
oὔτ’ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδηισιν,
αλλ’ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις περὶ τούτων ἐν τῶιδ’ ἔστιν· 15

ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ’ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,


τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον (οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός), τὴν δ’ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.
πῶς δ’ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ’ ἄν κε γένοιτο;
εἰ γὰρ ἔγεντ’, οὐκ ἔστ〈ι〉, οὐδ’ εἴ ποτε μέλλει
ἔσεσθαι. 20

τὼς γένεσις μὲν ἀπέσβεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος.


οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῆι μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι,
οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ’ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
τῶι ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 25

αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν


ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος
τῆλε μάλ’ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ’ ἐν ταὐτῶι τε μένον καθ’ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη 30
7. Frammenti 351

πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει,


οὕνεκεν oὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδευές· [μὴ] ἐὸν δ’ ἂν παντὸς ἐδεῖτο.
ταὐτὸν δ’ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.
oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ὧι πεφατισμένον ἐστιν, 35

εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ〈ἢ〉ἔστιν ἢ ἔσται


ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ’ ἐπέδησεν
οὖλον ἀκίνητόν τ’ ἔμεναι· τῶι πάντ’ ὄνομ(α) ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντo πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ.
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, 40

καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείβειν.


αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί,
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκωι,
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντηι· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον
οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῆι ἢ τῆι. 45

οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι


εἰς ὁμόν, oὔτ’ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος
τῆι μᾶλλον τῆι δ’ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον·
οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει.
ἐν τῶι σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα 50

ἀμφὶς ἀληθείης· δόξας δ’ ἀπὸ τοῦδε βροτείας


μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων.
μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·
τῶν μίαν oὐ χρεών ἐστιν — ἐν ὧι πεπλανημένοι εἰσίν —

τἀντία δ’ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ’ ἔθεντο 55


χωρὶς ἀπ’ ἀλλήλων, τῆι μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ,
ἤπιον ὄν, μέγ’ [ἀραιὸν] ἐλαφρόν, ἑωυτῶι πάντοσε
τωὐτόν,
τῶι δ’ ἑτέρωι μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ’ αὐτό
352 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

τἀντία νύκτ’ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμβριθές τε.


τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, 60

ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσηι.

rimane solo il discorso / della


via che dice che è: su questa vi sono segni / nume-
rosi, che l’essere è ingenerato e immortale, / intero
e unico e immobile e completo / né mai era né
sarà, perché è ora tutto insieme, 5
uno, continuo; infatti quale origine gli cercherai? /
Come e da dove sviluppato? Dal non essere non ti
concedo / di dirlo né pensarlo: infatti non è dicibi-
le né pensabile / che non sia. E quale necessità lo
avrebbe spinto / dopo o prima, derivando dal nul-
la, a nascere? 10
Così è necessario che esista assolutamente o per
nulla. / Né la forza della certezza lascerà che
dall’essere / nasca qualcosa presso di sé: perché né
di nascere / né di perire gli concesse Giustizia, scio-
gliendolo dai suoi vincoli, / ma lo tiene stretto. La
scelta riguardo a ciò è in questo: 15
è o non è. Si è stabilito dunque, secondo necessità, /
che una resti impensabile e inesprimibile (non è in-
fatti la via / della verità), e che l’altra esista e sia vera.
/ E come potrebbe venire dopo l’essere? e come sa-
rebbe nato? / Infatti se fosse nato, non sarebbe, e ne-
anche se dovesse essere in futuro. 20
Così la nascita è estinta e la morte inaudita. / Né è divi-
sibile, perché è tutto quanto uniforme: / né lì qualcosa
in più, che gli impedisca d’essere unito, / né qualcosa
in meno, ma tutto è pieno di essere. / È perciò tutto
connesso: infatti l’essere è aderente all’essere. 25
Ma immobile nei limiti di forti vincoli / sta senza
principio né fine, poiché nascita e morte / furono
7. Frammenti 353

respinte molto lontano, le allontanò una vera cer-


tezza. / Ed esso in se stesso rimanendo, su se stesso
giace / e così quivi immoto permane: infatti la tena-
ce Necessità 30
lo tiene nei vincoli del limite, che intorno lo serra,
/ perché è legge che l’essere non sia incompiuto. /
Non è infatti incompleto: essendolo mancherebbe
del tutto. / La stessa cosa è conoscere e ciò per cui
è conoscenza. / Infatti senza l’essere, nel quale è
espressa, 35
non troverai la conoscenza: nulla altro infatti è o
sarà / ad eccezione dell’essere, perché la Moira lo
incatenò / ad essere intero e immobile: così tutte
saranno nome, / le cose che i mortali posero, con-
vinti che siano vere: nascere e perire, essere e no,40
e cambiare luogo e mutare nel brillante colore. /
Ma per l’estremo vincolo, è completo / in ogni
parte, simile alla mole di una sfera perfettamente
rotonda, / ovunque equilibrata dal centro: è infatti
necessario che né un poco / più grande né un poco
più piccolo esso sia lì o lì. 45
Né infatti esiste il non essere, che gli impedisca di
congiungersi / al simile, né l’essere è tale da poter
risultare / qui maggiore e lì minore dell’essere, per-
ché è tutto inviolabile: / infatti a sé ovunque ugua-
le, e uniformemente sta nei suoi legami. / Con ciò
pongo termine per te al discorso persuasivo e al
pensiero 50
della verità. Dopo ciò apprendi le opinioni dei mor-
tali, / ascoltando l’ordine ingannevole delle mie
parole. / posero infatti forme per denominare due
nozioni, / una delle quali non è necessario — e in
questo si sono sviati — / le giudicarono antitetiche
in struttura e vi posero caratteri 55
distinti l’una dall’altra: qui il fuoco etereo della
354 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

fiamma, / che è benigno, molto [sottile] leggero,


ovunque identico a se stesso, / ma non identico
all’altro; ma anche l’altro a sé stante, / all’opposto,
notte oscura, corpo compatto e pesante. / Io ti de-
scrivo quest’ordinamento in tutti i suoi aspetti, 60
in modo che mai qualche nozione dei mortali pos-
sa superarti.

28 B 9 (Simplic. phys. 180, 8):


αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρωι μέτα μηδέν.

Ma dato che tutte le cose sono state nominate luce


e notte / e, in base alla potenza di ciascuna delle
due in questo e in quello, / tutto è pieno ugual-
mente di luce e di notte oscura, / entrambe equiva-
lenti, perché con nessuna delle due è il nulla.

28 B 10 (Clem. Alex., strom. v 138):


εἴσηι δ’ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ’ ἐν αἰθέρι πάντα
σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ’ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσηι περίφοιτα σελήνης
καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ oὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα 5
ἔνθεν [μὲν γὰρ] ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ(α) ἐπέδησεν
Ἀνάγκη
πείρατ’ ἔχειν ἄστρων.

Conoscerai la natura eterea e tutti nell’etere / i


segni, e della pura e lucente lampada / del sole
l’opera distruttrice, e da dove derivarono; / e ap-
prenderai l’agire del tondo occhio della luna at-
torno vagante / e la natura, e saprai il cielo che
7. Frammenti 355

intorno circonda / da dove si generò e come la


Necessità governando lo costrinse / a rispettare
i limiti degli astri.

28 B 11 (Simplic. de cael. 559, 20):


πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη
αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ’ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος
ἔσχατος ἠδ’ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι.

come la terra e il sole e la luna / e l’etere comune e


la celeste via lattea e l’olimpo / estremo e la calda
forza degli astri furono spinti / a nascere.

28 B 12 (Simplic. phys. 31, 10):


αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο,
αἱ δ’ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα·
ἐν δὲ μέσωι τούτων δαίμων ἣ πάντα κυβερνᾶι·
πάντα γὰρ〈ἣ〉στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
πέμπουσ’ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ’ ἐναντίoν αὖτις 5
ἄρσεν θηλυτέρωι.

Infatti, le più strette sono riempite di fuoco non


mescolato, / quelle al disopra di notte, oltre si
spande una porzione di luce; / e in mezzo a queste
la dea che tutto governa; /〈che〉infatti ogni cosa
guida del duro parto e dell’accoppiamento / spin-
gendo la femmina a unirsi al maschio e così all’in-
verso 5
il maschio alla femmina.

28 B 13 (plat. Symp. 178 b 11):


πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων

primo di tutti gli dèi creò Eros


356 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

28 B 14 (plutarch. adv. Col. 15 p. 1116a):


νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς

errante intorno alla terra brillando la notte di luce


altrui

28 B 15 (plutarch. de fac. in orb. lun. 16, 6 p. 926a):


αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο.

sempre guardando intorno verso i raggi del sole.

28 B 16 (Aristot. metaph. IV 5, 1009b 21):


ὡς γὰρ ἕκαστος ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυκάμπτων,
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται· τὸ γὰρ αὐτό
ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν
καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα.

Come infatti ciascuno ha la mescolanza delle mem-


bra molto articolate, / così la mente si dispone ne-
gli uomini: infatti lo stesso / è proprio ciò che pen-
sa la natura delle membra negli uomini / in tutti e
in tutto: infatti il pieno è il pensiero.

28 B 17 (Galen. in Hipp. epid. XVII a 1002):


δεξιτεροῖσιν μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ κούρας

a destra i maschi a sinistra le femmine

28 B 18 (Cael. Aurelian. morb. chron. IV 9 p. 116):


femina virque simul Veneris cum germina miscent,
venis informans diverso ex sanguine virtus
temperiem servans bene condida corpora fingit.
nam si virtutes permixto semine pungent
nec faciant unam permixto in corpore, dirae 5
nascentem gemino vexabunt semine sexum.
7. Frammenti 357

Quando la femmina e il maschio mescolano insie-


me i semi di Venere, / se la forza che si forma nelle
vene dal sangue diverso / conserva l’armonia, pla-
sma corpi ben formati. / Ma se le forze si scontra-
no nel seme mescolato / e non formano unità nella
mescolanza corporea, crudeli 5
tormenteranno con il doppio seme il sesso nascen-
te.

28 B 19 (Simplic. de cael. 558, 8):


οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι
καὶ μετέπειτ’ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα·
τοῖς δ’ ὄνομ’ ἄνθρωποι κατέθεντ’ ἐπίσημον ἑκάστωι.

Così appunto secondo opinione queste cose nac-


quero e ora sono / e in seguito a ciò cresciute ter-
mineranno: / e gli uomini imposero ad esse un
nome, contrassegno a ciascuna.
358 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

7.3. Zenone

29 B 1 (Simplic. phys. 140, 34):


εἰ μὴ ἔχοι μέγεθος τὸ ὄν, οὐδ’ ἂν εἴη […] εἰ δὲ ἔστιν,
ἀνάγκη ἕκαστον μέγεθός τι ἔχειν καὶ πάχος καὶ
ἀπέχειν αὐτοῦ τὸ ἕτερον ἀπὸ τοῦ ἑτέρου. καὶ περὶ
τοῦ προύχοντος ὁ αὐτὸς λόγος. καὶ γὰρ ἐκεῖνο ἕξει
μέγεθος καὶ προέξει αὐτοῦ τι. ὅμοιον δὴ τοῦτο ἅπαξ
τε εἰπεῖν καὶ ἀεὶ λέγειν· οὐδὲν γὰρ αὐτοῦ τοιοῦτον
ἔσχατον ἔσται οὔτε ἕτερον πρὸς ἕτερον οὐκ ἔσται.
οὕτως εἰ πολλά ἐστιν, ἀνάγκη αὐτὰ μικρά τε εἶναι καὶ
μεγάλα· μικρὰ μὲν ὥστε μὴ ἔχειν μέγεθος, μεγάλα δὲ
ὥστε ἄπειρα εἶναι.

Se l’essere non avesse grandezza, neanche sareb-


be. Se è, è necessario che ciascuno abbia una qual-
che grandezza e spessore e che di esso una parte
disti dall’altra. Riguardo a ciò che è davanti vale
lo stesso discorso. Infatti, anche quello avrà gran-
dezza e qualcosa sarà avanti ad esso. Lo stesso è
poi affermarlo una volta o dirlo sempre: nulla in-
fatti sarà allora l’estremo di tale cosa, né manche-
rà qualcos’altro davanti ad altro. Così, se i molti
sono, è necessario che essi siano piccoli e grandi:
piccoli sì da non avere grandezza, grandi sì da es-
sere illimitati.

29 B 2 (Simplic. phys. 139, 5):


εἰ γὰρ ἄλλωι ὄντι […] προσγένοιτο, οὐδὲν ἂν
μεῖζον ποιήσειεν· μεγέθους γὰρ μηδενὸς ὄντος,
προσγενομένου δέ, οὐδὲν οἷόν τε εἰς μέγεθος
ἐπιδοῦναι. καὶ οὕτως ἂν ἤδη τὸ προσγινόμενον οὐδὲν
εἴη. εἰ δὲ ἀπογινομένου τὸ ἕτερον μηδὲν ἔλαττον
ἔσται μηδὲ αὖ προσγινομένου αὐξήσεται, δῆλον ὅτι
τὸ προσγενόμενον οὐδὲν ἦν οὐδὲ τὸ ἀπογενόμενον.
7. Frammenti 359

Se infatti […] fosse aggiunto ad un altro essere,


in nulla lo farebbe più grande: non avendo infat-
ti alcuna grandezza, una volta aggiunto non sa-
rebbe tale da aggiungere alla grandezza. E così
l’aggiunta sarebbe già nulla. Se, d’altra parte, una
volta sottratto, l’altro non sarà in nulla minore,
né aggiunto aumenterà, è chiaro che nulla erano
l’aggiunta e la sottrazione.

29 B 3 (Simplic. phys. 140, 27):


εἰ πολλά ἐστιν, ἀνάγκη τοσαῦτα εἶναι ὅσα ἐστὶ καὶ
οὔτε πλείονα αὐτῶν οὔτε ἐλάττονα. εἰ δὲ τοσαῦτά
ἐστιν ὅσα ἐστί, πεπερασμένα ἂν εἴη. εἰ πολλά ἐστιν,
ἄπειρα τὰ ὄντα ἐστίν· ἀεὶ γὰρ ἕτερα μεταξὺ τῶν
ὄντων ἐστί, καὶ πάλιν ἐκείνων ἕτερα μεταξύ. καὶ
οὕτως ἄπειρα τὰ ὄντα ἐστί.

Se sono molti, è necessario che siano tanti quanti


sono e né più di quelli né meno; ma se sono tanti
quanti sono, sarebbero limitati. Se molti sono, gli
enti sono infiniti: sempre, infatti, in mezzo agli enti
ve ne sono altri, e di nuovo altri in mezzo a quelli.
E così gli enti sono illimitati.

29 B 4 (Diog. Laert. IX 72):


τὸ κινούμενον ουτ’ ἐν ὧι ἔστι τόπωι κινεῖται οὔτ’ ἐν
ὧι μὴ ἔστι.

Ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui


è, né in quello in cui non è.

29 B 5 (Simplic. phys. 562, 1):


εἰ ἔστιν ὁ τόπος, ἔν τινι ἔσται· πᾶν γὰρ ὂν ἔν τινι· τὸ δὲ
ἔν τινι καὶ ἐν τόπωι. ἔσται ἄρα καὶ ὁ τόπος ἐν τόπωι.
καὶ τοῦτο ἐπ’ ἄπειρον· οὐκ ἄρα ἔστιν ὁ τόπος.
360 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Se il luogo esiste, in qualcosa sarà: tutto ciò che è,


infatti, è in qualcosa; e ciò che è in qualcosa è anche
in un luogo. Anche il luogo sarà dunque in un luo-
go. E questo all’infinito: dunque il luogo non è.
7. Frammenti 361

7.4. Melisso

Reale 0 (Simplic. phys. 103, 13):


εἰ μὲν μηδὲν ἔστι, περὶ τούτου τί ἂν λέγοιτο ὡς ὄντος
τινός;

Se nulla è, cosa si potrebbe dire su di esso come


fosse qualcosa?

30 B 1 (Simplic. phys. 162, 24):


ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσθαι. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν
ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν,
οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός.

Sempre era ciò che era e sempre sarà. Infatti, se fos-


se generato, è necessario che prima di essere gene-
rato non fosse nulla: se dunque era nulla, in nessun
modo nulla sarebbe generato dal nulla.

30 B 2 (Simplic. phys. 29 22; 109, 20):


ὅτε τοίνυν οὐκ ἐγένετο, ἔστι τε καὶ ἀεὶ ἦν καὶ ἀεὶ ἔσθαι
καὶ ἀρχὴν οὐκ ἔχει οὐδὲ τελευτήν, ἀλλ’ ἄπειρόν ἐστιν.
εἰ μὲν γὰρ ἐγένετο, ἀρχὴν ἂν εἶχεν (ἤρξατο γὰρ ἄν
ποτε γινόμενον) καὶ τελευτήν (ἐτελεύτησε γὰρ ἄν ποτε
γινόμενον); ὅτε δὲ μήτε ἤρξατο μήτε ἐτελεύτησεν,
ἀεί τε ἦν καὶ ἀεὶ ἔσθαι,〈καὶ〉οὐκ ἔχει ἀρχὴν οὐδὲ
τελευτήν· οὐ γὰρ ἀεὶ εἶναι ἀνυστόν, ὅ τι μὴ πᾶν ἔστι.

poiché dunque non è generato, ed è e sempre era


e sempre sarà e non ha inizio né fine, ma è infinito.
Infatti, se fosse stato generato, avrebbe avuto inizio
(avrebbe infatti cominciato a generarsi in un certo
momento) e fine (avrebbe infatti smesso di gene-
rarsi in un certo momento); poiché né è iniziato
né è terminato, e sempre era e sempre sarà, non ha
362 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

inizio né fine: infatti non è possibile che sia sempre


ciò che non è tutto.

30 B 3 (Simplic. phys. 109, 29):


ἀλλ’ ὥσπερ ἔστιν ἀεί, οὕτω καὶ τὸ μέγεθος ἄπειρον
ἀεὶ χρὴ εἶναι.

Ma come è sempre, così anche la grandezza biso-


gna che sia sempre infinita.

30 B 4 (Simplic. phys. 110, 2):


ἀρχήν τε καὶ τέλος ἔχον οὐδὲν οὔτε ἀίδιον οὔτε
ἄπειρόν ἐστιν.

Ciò che ha inizio e fine non è né eterno né infini-


to.

Reale 4a (Aristot. de gener. at corr. i 8, 325a 14):


τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν.

Infatti il limite confinerebbe col nulla.

30 B 5 (Simplic. phys. 110, 5):


εἰ μὴ ἓν εἴη, περανεῖ πρὸς ἄλλο.

Se non fosse uno, confinerebbe con altro.

30 B 6 (Simplic. de cael. 557, 14):


εἰ γὰρ〈ἄπειρον〉εἴη, ἓν εἴη ἄν· εἰ γὰρ δύο εἴη, οὐκ
ἂν δύναιτο ἄπειρα εἶναι, ἀλλ’ ἔχοι ἂν πείρατα πρὸς
ἄλληλα.

Infatti, posto che sia〈infinito〉, sarebbe uno: se,


infatti, fossero due, non potrebbero essere infiniti,
ma avrebbero confini l’uno con l’altro.
7. Frammenti 363

30 B 7 (Simplic. phys. 111, 18):


(1) οὕτως οὖν ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ
ὅμοιον πᾶν.
(2) καὶ οὔτ’ ἂν ἀπόλοιτο οὔτε μεῖζον γίνοιτο οὔτε
μετακοσμέοιτο οὔτε ἀλγεῖ οὔτε ἀνιᾶται· εἰ γάρ τι
τούτων πάσχοι, οὐκ ἂν ἔτι ἓν εἴη. εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται,
ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ
πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ
μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν
τῶι παντὶ χρόνωι.
(3) ἀλλ’ οὐδὲ μετακοσμηθῆναι ἀνυστόν· ὁ γὰρ κόσμος
ὁ πρόσθεν ἐὼν οὐκ ἀπόλλυται οὔτε ὁ μὴ ἐὼν γίνεται.
ὅτε δὲ μήτε προσγίνεται μηδὲν μήτε ἀπόλλυται μήτε
ἑτεροιοῦται, πῶς ἂν μετακοσμηθείη τι τῶν ἐόντων
[τι ἦ]; εἰ μὲν γάρ τι ἐγίνετο ἑτεροῖον, ἤδη ἂν καὶ
μετακοσμεθεῖη.
(4) οὐδὲ ἀλγεῖ· οὐ γὰρ ἂν πᾶν εἴη ἀλγέον· οὐ γὰρ
ἂν δύναιτο ἀεὶ εἶναι χρῆμα ἀλγέον· οὐδὲ ἔχει ἴσην
δύναμιν τῶι ὑγιεῖ· οὐδ’ ἂν ὁμοῖον εἴη, εἰ ἀλγέοι·
ἀπογινομένου γάρ τευ ἂν ἀλγέοι ἢ προσγινομένου,
κοὐκ ἂν ἔτι ὁμοῖον εἴη.
(5) οὐδ’ ἂν τὸ ὑγιὲς ἀλγῆσαι δύναιτο· ἀπὸ γὰρ ἂν
ὄλοιτο τὸ ὑγιὲς καὶ τὸ ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γένοιτο.
(6) καὶ περὶ τοῦ ἀνιᾶσθαι ὡυτὸς λόγος τῶι ἀλγέοντι.
(7) οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν
ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν. οὐδὲ κινεῖται·
ὑποχωρῆσαι γὰρ οὐκ ἔχει οὐδαμῆι, ἀλλὰ πλέων ἐστίν.
εἰ μὲν γὰρ κενεὸν ἦν, ὑπεχώρει ἂν εἰς τὸ κενόν κενοῦ
δὲ μὴ ἐόντος οὐκ ἔχει ὅκηι ὑποχωρήσει.
(8) πυκνὸν δὲ καὶ ἀραιὸν οὐκ ἂν εἴη. τὸ γὰρ ἀραιὸν
οὐκ ἀνυστὸν πλέων εἶναι ὁμοίως τῶι πυκνῶι, ἀλλ’
ἤδη τὸ ἀραιόν γε κενεώτερον γίνεται τοῦ πυκνοῦ.
(9) κρίσιν δὲ ταύτην χρὴ ποιήσασθαι τοῦ πλέω καὶ τοῦ
μὴ πλέω· εἰ μὲν οὖν χωρεῖ τι ἢ εἰσδέχεται, οὐ πλέων· εἰ
δὲ μήτε χωρεῖ μήτε εἰσδέχεται, πλέων.
364 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

(10) ἀνάγκη τοίνυν πλέων εἶναι, εἰ κενὸν μὴ ἔστιν. εἰ


τοίνυν πλέων ἐστίν, οὐ κινεῖται.

(1) Così dunque è eterno e infinito e uno e tutto


uguale.
(2) Né potrebbe perire, né diventare più grande, né
potrebbe trasformarsi, né soffre, né prova pena: se,
infatti, subisse qualcuna di queste cose, non sareb-
be più uno. Infatti, se si alterasse, necessariamente
l’essere non sarebbe più uguale, ma morirebbe ciò
che era precedentemente e si genererebbe ciò che
non è. Se, dunque, diventasse diverso anche di un
solo capello in diecimila anni, si annienterebbe tut-
to per tutto il tempo.
(3) Ma neanche che si trasformi è possibile: infatti
la disposizione che prima esisteva non si distrugge,
né nasce quella che non è. Dato che né si aggiunge
alcunché, né si distrugge, né si altera, come potreb-
be modificarsi uno degli esseri? Infatti, se qualcosa
diventasse diverso, senz’altro anche si trasforme-
rebbe.
(4) Né soffre: infatti, non sarebbe tutto se soffrisse:
se soffrisse non potrebbe essere sempre un’unica
cosa; né avrebbe forza uguale al sano; se soffrisse
non sarebbe neanche omogeneo: infatti, soffrireb-
be se si aggiungesse o togliesse qualcosa, e dunque
non sarebbe uguale.
(5) Né il sano potrebbe soffrire: il sano e l’essere si
distruggerebbero e si genererebbe il non essere.
(6) E anche per il provare pena lo stesso discorso
che per il soffrire.
(7) Né vuoto alcuno esiste: infatti il vuoto è nulla; e
ciò che è nulla non può essere. Né si muove: infatti
non ha alcun luogo in cui spostarsi ma è pieno. Se
infatti esistesse il vuoto, potrebbe spostarsi nel vuo-
7. Frammenti 365

to; non esistendo il vuoto non ha dove spostarsi.


(8) Non potrebbe essere il denso e il rado: infat-
ti non è possibile che il rado sia pieno allo stesso
modo del denso, ma invero il rado è più vuoto del
denso.
(9) Questa distinzione bisogna fare tra pieno e non
pieno: dunque se qualcosa cede luogo o accoglie,
non è piena; se né cede luogo né accoglie, è piena.
(10) È necessario dunque che sia pieno, se il vuoto
non esiste. Se dunque è pieno, non si muove.

30 B 8 (Simplic. phys. 109, 34):


(1) μέγιστον μὲν οὖν σημεῖον οὗτος ὁ λόγος, ὅτι ἓν
μόνον ἔστιν· ἀτὰρ καὶ τάδε σημεῖα.
(2) εἰ γὰρ ἦν πολλά, τοιαῦτα χρὴ αὐτὰ εἶναι, οἷόν περ
ἐγώ φημι τὸ ἓν εἶναι. εἰ γὰρ ἔστι γῆ καὶ ὕδωρ καὶ ἀὴρ
καὶ πῦρ καὶ σίδηρος καὶ χρυσός, καὶ τὸ μὲν ζῶον τὸ
δὲ τεθνηκός, καὶ μέλαν καὶ λευκὸν καὶ τὰ ἄλλα, ὅσα
φασὶν οἱ ἄνθρωποι εἶναι ἀληθῆ, εἰ δὴ ταῦτα ἔστι,
καὶ ἡμεῖς ὀρθῶς ὁρῶμεν καὶ ἀκούομεν, εἶναι χρὴ
ἕκαστον τοιοῦτον, οἷόν περ τὸ πρῶτον ἔδοξεν ἡμῖν,
καὶ μὴ μεταπίπτειν μηδὲ γίνεσθαι ἑτεροῖον, ἀλλὰ ἀεὶ
εἶναι ἕκαστον, οἷόν πέρ ἐστιν. νῦν δέ φαμεν ὀρθῶς
ὁρᾶν καὶ ἀκούειν καὶ συνιέναι·
(3) δοκεῖ δὲ ἡμῖν τό τε θερμὸν ψυχρὸν γίνεσθαι καὶ
τὸ ψυχρὸν θερμὸν καὶ τὸ σκληρὸν μαλθακὸν καὶ τὸ
μαλθακὸν σκληρὸν καὶ τὸ ζῶον ἀποθνήισκειν καὶ ἐκ
μὴ ζῶντος γίνεσθαι, καὶ ταῦτα πάντα ἑτερoιῦσθαι,
καὶ ὅ τι ἦν τε καὶ ὃ νῦν οὐδὲν ὁμοῖον εἶναι, ἀλλ’ ὅ τε
σίδηρος σκληρὸς ἐὼν τῶι δακτύλωι κατατρίβεσθαι
ὁμουρέων, καὶ χρυσὸς καὶ λίθος καὶ ἄλλο ὅ τι ἰσχυρὸν
δοκεῖ εἶναι πᾶν, ἐξ ὕδατός τε γῆ καὶ λίθος γίνεσθαι·
ὥστε συμβαίνει μήτε ὁρᾶν μήτε τὰ ὄντα γινώσκειν.
(4) οὐ τοίνυν ταῦτα ἀλλήλοις ὁμολογεῖ. φαμένοις γὰρ
εἶναι πολλὰ καὶ ἀίδια καὶ εἴδη τε καὶ ἰσχὺν ἔχοντα,
366 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

πάντα ἐτεροιοῦσθαι ἡμῖν δοκεῖ καὶ μεταπίπτειν ἐκ


τοῦ ἑκάστοτε ὁρωμένου.
(5) δῆλον τοίνυν, ὅτι οὐκ ὀρθῶς ἑωρῶμεν οὐδὲ ἐκεῖνα
πολλὰ ὀρθῶς δοκεῖ εἶναι· οὐ γὰρ ἂν μετέπιπτεν, εἰ
ἀληθῆ ἦν· ἀλλ’ ἦν οἷόν περ ἐδόκει ἕκαστον τοιοῦτον.
τοῦ γὰρ εόντος ἀληθινοῦ κρεῖσσον οὐδέν.
(6) ἢν δὲ μεταπέσηι, τὸ μὲν ἐὸν ἀπώλετο, τὸ δὲ οὐκ
ἐὸν γέγονεν. οὕτως οὖν, εἰ πολλὰ εἴη, τοιαῦτα χρὴ
εἶναι, οἷόν περ τὸ ἔν.

(1) Questo argomento è dunque una grande prova,


che solo l’uno esiste; e poi anche le prove seguenti.
(2) Infatti, se esistessero molte cose, sarebbe neces-
sario che fossero proprio quali io dico che è l’uno.
Se, infatti, esiste la terra e l’acqua e l’aria e il fuoco
e il ferro e l’oro e da un lato i vivi e dall’altro i mor-
ti, e il nero e il bianco e le altre cose che gli uomini
dicono essere vere, se allora queste cose sono, e noi
vedessimo e sentissimo correttamente, sarebbe ne-
cessario che ciascuna di queste cose fosse quale ci
parve la prima volta, senza trasformarsi né divenire
un’altra, ma che ogni cosa rimanesse sempre pro-
prio quale è. Ora noi diciamo di vedere e sentire e
di comprendere correttamente.
(3) Ma a noi sembra che il caldo diventi freddo e il
freddo caldo e il duro morbido e il morbido duro
e che il vivo muoia e nasca dal non vivente, e che
tutte queste cose si alterino, e che quel che prima
era ora non è più uguale, ma il ferro, pur essendo
duro, si consumi a contatto col dito, e anche l’oro
e la pietra e tutto quanto sembra essere resistente,
e che dall’acqua abbiano origine terra e pietra; ne
segue, quindi, che non vediamo né conosciamo le
cose che sono.
(4) Dunque queste cose non s’accordano tra loro.
7. Frammenti 367

Infatti, pur dicendo che sono molte e eterne e aven-


ti forme e robustezza, ci sembra che tutte si alteri-
no e cambino da come viste ogni volta.
(5) È evidente, dunque, che non vedevamo corret-
tamente, né correttamente quelle ci sembrano es-
sere molte: infatti non sarebbero cambiate se fosse-
ro state vere, ma sarebbero state proprio tali quale
ciascuna sembrava allora. Nulla è infatti più solido
dell’essere genuino.
(6) Qualora fosse cambiato, allora l’essere sarebbe
perito, diventato il non essere. Così dunque, se fos-
sero molti, tali dovrebbero essere, proprio quale
l’uno.

30 B 9 (Simplic. phys. 109, 34; 87, 6):


εἰ μὲν οὖν εἴη, δεῖ αὐτὸ ἓν εἶναι· ἓν δ’ ἐὸν δεῖ αὐτὸ
σῶμα μὴ ἔχειν. εἰ δὲ ἔχοι πάχος, ἔχοι ἂν μόρια, καὶ
οὐκέτι ἓν εἴη.

Se dunque è, esso deve essere uno: essendo uno esso


non deve avere corpo. Se avesse spessore, avrebbe
forma, e non sarebbe più uno.

30 B 10 (Simplic., phys., 109, 32):


εἰ γὰρ διήιρηται […] τὸ ἐόν, κινεῖται· κινούμενον δὲ
οὐκ ἂν εἴη.

Se infatti si dividesse […] l’essere, si muoverebbe:


muovendosi non sarebbe.
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Aëtius de partibus animalium


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II 1. 2, 198 ethica Eudemia
II 4. 3, 103 1235a 25, 51
II 11. 4, 103 ethica Nicomachea
II 20. 16, 104 1155a 32, 23
II 22. 2, 105 metaphysica
II 24. 3, 106 984b 23, 200
II 28. 5, 203 985b 4, 283
II 28. 6, 105 986b 19, 187
II 29. 3, 106 986b 25, 265
II 32. 3, 114 986b 27, 143
III 11. 4, 202 1001b 7, 236
III 15. 7, 201 1005b 23, 50
IV 5. 12, 205 1009b 17, 206
V 11. 2, 204 1010a 7, 50
V 30. 4, 209 1062a 30, 50
1067a 2, 111
Alexander Aphrodisiensis meteorologica
commentaria in Aristotelem graeca 355a 13, 105
meteorologica physica
f. 90 a ed. Ven., 114 n., 105 185b 19, 51
186a 6, 186
Anaxagoras (DK 59) 186a 22, 186
B 3, 307 207a 14, 187
209a 23, 239
Aristoteles 213b 22, 283 n. 29
de caelo 214a 26, 287
279b 12, 111 233a 21, 242

393
394 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

239b 5, 252 IX 8, 98
239b 9, 242 IX 8, 112
239b 14, 246 IX 9, 102
239b 25, 219 IX 16, 43
239b 30, 254
239b 33, 255 Elias
250a 19, 261 in Aristotelis categorias
253b 9, 50 p. 100. 6, 229
263a 4, 243
263a 23, 245 Empedocles (DK 31)
sophistici elenchi B 3.12, 305
167b 16, 273 n. 15 B 12.1–2, 305
topica B 13, 306
159b 30, 51 B 14, 306
160b 7, 242 B 17.26, 305
B 17.30–33, 306
[Aristoteles] B 109, 209
de Melisso Xenophane Gorgia
974a 12, 279 Epicharmos (DK 23)
974a 13, 281 B 2, 80
974b 13, 270
975a 4, 270 Euripides
975a 7, 270 fragmenta
439 Kn, 16
Censorinus
de die natali Heraclitus (DK 22)
10. 10, 115 B 1, 59
B 2, 63
Clemens Alexandrinus B 3, 75
stromata B 4, 78
I 65, 130 B 5, 127
B 6, 105
Cyrillus B 7, 94
contra Iulianum B 8, 90
I P. 12b, 42 n. 2 B 9, 77
B 10, 86
Diogenes Laertius B 11, 92
vitae philosophorum B 12, 79, 117 n. 110
I 16, 141 B 13, 78
I 23, 203 B 14, 127
VIII 48, 201 B 15, 127
Indice delle citazioni 395

B 17, 61 B 61, 78
B 18, 68 B 62, 129
B 19, 61 B 63, 124
B 20, 125 B 64, 98
B 21, 123 B 65, 102, 110
B 22, 67 B 66, 110
B 23, 76 B 67, 85
b 24, 123 B 67a, 118
B 25, 124 B 70, 75
B 26, 123 B 72, 61
B 27, 122 B 73, 61
B 28, 93 B 74, 64
B 29, 33, 123 B 75, 88
B 30, 96 B 76, 100
B 31, 96 B 77, 120
B 32, 69 B 78, 70
B 33, 130 B 79, 71
B 34, 61 B 80, 90
B 35, 66 B 81, 66
B 36, 117 B 82, 72
B 37, 78 B 83, 72
B 40, 65 B 84a, 79
B 41, 70 B 85, 121
B 42, 91 B 88, 87
B 43, 133 B 89, 62
B 44, 133 B 90, 97
B 45, 67, 117 B 91, 80
B 48, 87 B 92, 71
B 49, 130 B 93, 71
B 49a, 79 B 94, 76
B 50, 84 B 97, 68
B 51, 89 B 98, 122
B 52, 75 B 99, 75
B 53, 55, 91, 132 B 101, 67
B 54, 89 B 101a, 94
B 55, 93, 107 B 102, 52, 73
B 56, 62 B 103, 82
B 57, 64 B 104, 130
B 58, 128 B 106, 126
B 59, 83 B 107, 94
B 60, 82 B 108, 68
396 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

B 110, 122 B 7(2–3), 284


B 111, 77 B 7(4–6), 287
B 112, 66 B 7(7), 283, 286
B 113, 63 B 7(8–10), 282
B 114, 63, 88 B 7(10), 286
B 115, 67, 117 B 8(1), 291
B 116, 67 B 8(2–3), 292
B 117, 119 B 8(4–6), 294
B 118, 119 B 9, 290
B 119, 122 B 10, 287
B 121, 131
B 123, 67 Papyrus Derveni
B 124, 75 p. 42, 76
B 125, 55, 79
B 126, 57, 79 Parmenides (DK 28)
B 128, 127 B1.1–28, 191
B 129, 65 B 1. 28–33, 146
B 136, 121 B 2, 148
B 2.2, 306
Hesiodus B 3, 159
theogonia B 4, 157
115, 207 n. 9 B 5, 151
123, 65 B 6, 152–156
B 7, 162
Homerus B 7.3, 252
Ilias B 8.1–6, 164
IX 443, 21 B 8.4–10, 271
XV 283, 21 B 8.6–9, 167
Odyssea B 8.9–11, 168
VIII 167, 20 B 8.12–21, 169
B 8.22–25, 170
Melissus (DK 30) B 8.26–33, 170
B 0, 269 B 8.34–38, 171
B 1, 269 B 8.38–41, 172
B 2, 273 B 8.42–49, 174
B 3, 275 B 8.50–51, 176
B 4, 275 B 8.51–52, 176
B 4a, 276 B 8.52, 306
B 5, 279 B 8.53–56, 178
B 6, 279 B 8.55–59, 196
B 7(1), 280 B 8.60–61, 177
Indice delle citazioni 397

B 9, 196 sophista
B 9.4, 188 241d 3, 184
B.10, 197 242d 7, 48
B 11, 198 251c 3, 224 n. 11
B 12, 199 258b 1, 184
B 13, 200 258d 5, 184
B 14, 202 Theaetetus
B 15, 202 152d 2, 46, 170
B 16, 206 157a 7, 47
B 17, 204 179e 1, 47
B 18, 204 183e 6, 143
B 19, 213
Plutarchus
Philoponus adversus Coloten
commentaria in Aristotelem graeca 32 p. 1126a, 141
physica de Garrulitate
80. 23, 238 504c 5, 29
802. 31, 281 n. 30
816. 30, 253 Proclus
in Cratylum
Pindarus 37, 185
Isthmica
VII 16, 19 Protagoras (DK 80)
Nemea B1, 15
IX 13, 34 B6a, 313

Plato Sappho
Cratylus 201 Loeb, 19
402a, 45
Parmenides Seneca
127b 1, 139 epistulae
127e 1, 231 88. 44, 227
128a 2, 241
128d 5, 220 Sextus Empiricus
129a 4, 86 adversus mathematicos
Phaedo VII 127. 4, 119
99e 1, 47 VII 129. 1, 119
Phaedrus VII 129. 2, 119
261c 10, 221
symposium Simplicius
187a 3, 49 commentaria in Aristotelem graeca
398 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

de caelo Timon
294. 4, 109 sillorum fragmenta
physica fr. 44, 143
31. 10, 200
34. 14, 200 Xenophanes (DK 21)
35. 18, 200 B 26, 289
97. 12, 233
103. 30, 286 Zeno (DK 29)
115. 11, 186 B 1, 236–237
115. 11, 186 n. 88 B 2, 236
139. 5, 234 B 3, 238
139. 20, 235 B 4, 252
140. 27, 248 n. 29 B 5, 240
144. 25, 142
467. 26, 276
1008. 18, 261
1013. 4, 246

Solon
8. 17, 24

Strabo
I 94, 202
VI 252, 140

Tertullianus
adversus Marcionem
II 28.1, 43
de anima
45, 205

Themistius
περὶ ἀρετῆς
p. 40, 130

Theophrastus
de sensu
1, 207
physicorum opiniones
23. 33, 113
Indice degli autori antichi

Aezio: 104; anima in parmenide, 205; cielo di parmenide, 198–


200; conflagrazione in Eraclito, 109, 113; eclissi, 106, 107;
embriologia di parmenide, 204; grande anno, 114 e n. 106;
luna di parmenide, 203; meati del senso in parmenide, 211;
sfericità della terra, 202 n. 105; sole di Eraclito, 105.
Alberto Magno: premessa a 22 B 9, 78 n. 54.
Alceo: 24 n 9.
Alessandro di Afrodisia: 186; sulla conflagrazione, 109, 114 n.
105; su Zenone, 257.
Anassagora: contemporaneo di Melisso, 267 n. 5; influenza di
parmenide sul suo pensiero, 183, 300–302, 304 e n. 4, 307–
308, 310–311; lascia una sola opera, 141; luna illuminata
dal sole, 303 e n. 106; nascita associata a quella di Eraclito,
42 n. 2; percezione, 207, 289.
Anassimandro: collocazione 14 n. 3; essiccamento della terra, 114
n. 105; mare intorno alla terra, 104; modello astronomico,
38, 40, 203; monista, 301; tracce in parmenide, 179.
Anassimene: condensazione e rarefazione, 174 n. 72, 310;
modello astronomico, 38, 40; monista, 301; natura degli
astri, 104 n. 97; tracce in parmenide, 179.
Antistene: confuta Zenone, 229, 264 n. 35; discorso vero, 185.
Apollodoro: datazione di Eraclito, 41, 42 e n. 21; datazione di
parmenide, 139.
Archiloco: in 22 B 42, 91 e n. 76.
Archita: limiti del cielo, 276.
Aristarco: Grande Anno, 115.
Aristofane: mania dei processi ad Atene, 31.
Aristotele: 44, 45 n. 8, 48 n. 11, 44, 80 n. 57, 102 n. 95, 152 n.
25, 206 n. 108, 223, 244 n. 28, 267 e n. 5, 274 n. 17; 28

399
400 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

B 16 e la conoscenza umana, 206, 207; ἀλήθεια e δόξα,


187–189; πρηστήρ, 96 n. 91; ambiguità in 22 B 1, 59 n. 22;
apologo su Eraclito, 126; argomenti contro il moto, 240,
247, 248; argomento contro il luogo, 239; argomento del
grano di miglio, 261, 262; argomento dell’Achille, 219,
246; argomento della dicotomia, 242–246; argomento
della freccia, 252–254; argomento dello stadio, 255–257,
259; canone interpretativo del pensiero greco, 14 n. 3;
causa efficiente in parmenide, 199, 200; condensazione
e rarefazione, 101; conflagrazione in Eraclito, 111–
113 e n. 104, 114 n. 105; contro l’unità dell’essere, 186,
187, 297; Cratilo, 50, 53; dottrina eraclitea del flusso
universale, 49, 50; fallacia di Melisso, 273 n. 15; forme di
parmenide, 189 e n. 90; frammenti di Eraclito, 48; giudizi
sui pensatori precedenti, 108; giudizio su Melisso, 265;
giudizio su parmenide, 143, 144, 183; giudizio su Zenone,
222; importanza del fuoco, 98; influenza eleatica sugli
Atomisti, 266, 283, 307, 308; interpretazione di Eraclito,
49; interpretazione di parmenide, 187–190; luogo naturale,
116 n. 108; monisti, 300; negazione eraclitea del principio
di non contraddizione, 50–53 e n. 16; pensiero del V secolo,
17; processo ateniese, 28; sole di Eraclito, 105; teoria della
doppia esalazione, 99; trasformazioni in Anassimandro,
301; vuoto in Melisso, 286; vuoto nei pitagorici, 283 n. 29;
Zenone e l’infinitamente piccolo, 236.
Atomisti: 283, 300, 301, 308, 310, 311.

Callino: 24 n 9.
Caronda: 23 n. 8.
Celso: 71.
Censorino: grande anno, 114 e n. 106, 115.
Chersifonte: 65 n. 36.
Cirillo: 42.
Clemente: 93 n. 99, 96 n. 90, 109, 114, 146 n. 9.
Cleostrato di Tenedo: 65 n. 35.
Cratilo: 50, 53 e n. 18, 86, 203 n. 106.

Democrito: 42 n. 2, 183, 201, 203, 205; vuoto e non–essere, 283 e n.


30; influenza di parmenide, 307, 308.
Diogene Laerzio: 41, 102, 105, 107, 112 e n. 102, 130, 137, 140, 146
n. 9, 229 n. 18.
Indice degli autori antichi 401

Diogene il Cinico: 229 n. 18.


Dracone: 23 n. 8.

Ecateo: 42 e n. 3; il mare circonda la terra, 104; in 22 B 40, 65.


Eforo: 23 n. 2.
Eleati: 53, 186, 227, 233, 266 n. 4, 267, 151 n. 330, 280 n. 26, 288 e n.
35, 290, 299 n. 2, 302, 304, 305.
Elia: 229, 240, 263.
Ellanico: 42 n. 2.
Empedocle: 37, 42 n. 3, 46, 48, 111, 116, 141 n. 3, 183, 202 n. 105,
267 n. 5; influenza di parmenide, 300–302, 304 e n. 4, 305–
308, 310–312; luna illuminata dal sole, 203; mente e pensiero,
161 n. 50, 205–212.
Epicarmo: 46; permanenza nel mutamento, 80, 81 n. 59.
Eraclitei: perenne agitazione, 47, 48.
Eraclito: 14–17, 33, 40, 41–138 passim, 139,144, 180, 182, 191 e
n. 94, 195, 202, 203, 216, 264, 312; λόγος, 59, 60 e n. 24, n.
25, 61 n. 27, 134, 135; ὀρθότης dei nomi, 86; anima, 117,
118 e n. 113, 119, 120 e n. 114, 121; aria, 100 n. 94; astri,
103, 104; ciò che è comune, 311; comprensione, 63, 64, 66;
conflagrazione, 109, 110 e n. 100, 111–114 e n. 105; confronto
tra dio e l’uomo, 70, 72; cosmo, 62 e n. 29, 94; datazione, 41,
42 e n. 2, n. 3; dio, 69 n. 43, 161, 195; epistemologia, 59, 116,
136, 137, 212, 216 e n.107, n. 109; esalazioni, 99; etica, 33,
123, 124; fasi lunari, 105–109; fiume, 181; flusso universale,
45–50, 53; giudizio divino e umano, 73, 74, 76–78; grande
anno, 114–115; guerra, 91, 92; interpretazione di, 133 n. 132;
legge divina, 88; medici, 128; monista, 101, 301; opinioni,
93, 94 n. 82, 182; opposti, 48–52, 54–56 e n. 20, 57, 58 e
n. 21, 59; oscurità, 41, 43; permanenza e mutamento, 78,
80–84, 86, 87; politica,129–134 e n. 133, 137; relativismo,
77; religione, 126–128, 137; riferimenti, 45 e n. 8; sapienza
divina, 68, 69; scritto, 43 e n. 5, 44 e n. 6, 87 n. 69; sole,
104 e n. 98, 105; sorte dell’anima, 122, 123; teoria della
conoscenza, 95, 207; tono sprezzante, 137; trasformazioni
del fuoco, 95–97, 99–102; unità degli opposti, 48–52.
Erodoto: 75, 100 n. 96, 131–134 e n. 133, 267 n. 5.
Eschilo: 27.
Esiodo: 45, 46, 104, 124, 126, 141 e n. 3; πρηστήρ, 96 n. 91; causa
efficiente, 200, 201; cosmogonia, 270 e n. 9; opere, 65 n. 35;
religione, 34; schernito da Eraclito, 64, 65; sfericità della
402 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

terra, 201.
Eudemo: 186 n. 88; 202 n. 115, 233, 276.
Euripide: 15, 16, 52, 66 n. 37, 144.
Eusebio: datazione di Eraclito, 42; datazione di parmenide, 140.

Filone: 84.
Filopono: argomento contro il luogo, 240 n. 26; argomento contro
la pluralità, 235 e n. 23; argomento della dicotomia, 246,
251 e n. 30; argomento della freccia, 253; unicità dell’essere
eleatico, 238.
Foco di Samo: 65 n. 35.

Gorgia: 16, 136, 153 n. 29, 183, 264, 267, 311, 313 e n. 10, 314;
comunicazione 313, 314.

Ionici: 300.
Ippaso: 113, 205.
Ippia: fonte di Eraclito, 45 n. 8.
Ippolito: 84, 90 n. 74, 104 n. 98, 125; conflagrazione 102, 110 n. 100,
111, 124 n. 122.
Isocrate: 267.

Leucippo: influenza di Melisso, 266, 283 n. 30; influenza di


parmenide, 302, 307, 308.
Lisia: 29.

Macrobio: 205.
Marco Aurelio: 61 n. 26, n. 27, 100 n. 93.
Megarici: 185.
Melisso: 17, 141, 143, 167, 174 n. 72, 183, 186, 187, 222, 265–298
passim, 304; appartenenza all’eleatismo, 266 e n. 4; critica
moderna, 266 e n. 2, n. 3, 267; confronto con parmenide, 267,
268, 277–279; datazione, 267 n. 5; dolore e pena, 288, 289;
essere, 269 e n. 311; eternità dell’essere, 269–271 e n. 10, 272 e
n. 12; fallacia di 31 B 2, 273 e n. 16, 274; giudizio di Aristotele,
265; immutabilità, 285–287; incorporeità dell’essere, 290, 291
e n. 37, n. 38; infinità dell’essere, 273, 274 e n. 17, 275 e n.
19, 276; influenza su Leucippo, 266, 283 n. 30; misticismo,
288 e n. 34, n. 35; movimento, 286; omogeneità dell’essere,
280–282; opinione, 292, 293 e n. 40, 294; prosa, 268, 273 n.
Indice degli autori antichi 403

14; snaturamento dell’eleatismo, 263, 295 e n. 41, n. 42, 297,


314; unicità dell’essere, 279, 280 e n. 26, n. 27; vuoto, 283 e n.
29, n. 30, 284, 303, 308.

Metagene: 65 n. 36.
Milesi: 39, 65; monisti, 300, 301; principio di conservazione, 167 n.
62, 260.

Omero: 24 n. 4, 21 n. 5, 22 n. 6, 31, 45, 46, 51 n. 15, 104, 107, 122 n.


17, 141, 143; apologo in 22 B 56, 62; eloquenza, 21; religione,
33, 34; schernito da Eraclito, 91.
Orfeo: 45, 46.
Origene: 71.

Parmenide: 15–17, 46, 62 n. 29, 66 n. 39, 95 n. 86, 103, 136, 139–217


passim, 220 e n. 2, 221, 222, 225, 226, 232 n. 21, 248, 252,
263, 266 n. 2, 268 n. 7, 271 n. 10, n. 11, 277, 278 n. 24, n.
25, 279, 280 e n. 26, 288 e n. 35, 289, 295 n. 42, 297, 311,
315; allusioni a Eraclito, 42; anima, 205; causa efficiente, 199;
compattezza dell’essere, 158, 159; confronto con Melisso,
266–269, 271, 272, 281–284, 293–295 e n. 42, 296; conoscenza
vera, 144, 145, 181; conoscere e dire, 171, 172; corone, 198,
200; criticato da Aristotele, 186–189; criticato da platone,
184, 185, 190; datazione, 139, 140; difficoltà interpretative,
299 n. 2; distinzioni, 180, 181; dipendenza di Zenone da
parmenide, 227 e n. 17, 228–233, 237, 238; equivoco di
platone, 312; errore dei mortali, 156, 162, 173; esistenza,
149 e n. 18, 77; forma poetica, 141 e n. 3, generazione del
cosmo, 204; giudizio di Beaufret, 191; identità di conoscenza
e essere, 161, 171; illuminazione, 193; imitato da Melisso,
265; incorporeità, 290, 291 e n. 37; ineffabilità dell’essere,
161, 165; influenza sui neo–Ionici, 183, 299–310; influenza
sui sofisti, 313; ingenuità e primitività, 190 e n. 92; inizio
dell’argomentazione, 151; integrazione di 28 B 6.3, 153–155;
luce e notte, 178, 195; luna, 202; natura della conoscenza
umana, 206–210 e n. 114, 211–213; nihil ex nihilo, 167, 168;
ontologia, 172 n. 69, 176, 181; opinioni, 176–183; nome, 172;
pitagorismo, 226 n. 14, 283 n. 29; politica, 141; prestigio, 143;
proemio, 191; religione, 193 n. 97, 288; scritto, 141, 142 e
n. 4; segni, 164–166; sfera, 174 n. 73, 175–177; sfericità della
terra, 202 e n. 105; spazio e tempo, 86, 87; stella della sera e
404 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

del mattino, 107; stravolgimento del pensiero eleatico, 294,


295 n. 41, 314; unicità dell’essere, 230, 237, 251, 278; viaggio,
93 e n. 100; vie della ricerca, 149, 150 e n. 19, 155, 156; zone,
202.
Papiro di Derveni: 45 n. 8, 76.
Pindaro: 19, 33, 124, 125, 193 n. 98.
Pitagora: 42; schernito da Eraclito, 65, 66 e n. 37; sfericità della
terra, 201 e n. 104, 203.
Pitagorici: 225 e n. 12, 226, 247, 259, 283 n. 29.
Platone: 13, 14, 16, 17, 37, 44, 45 n. 8, 72 n. 48, 80 n. 57, 86, 89 n. 73,
112 n.101, 136, 149 n. 18, 167, 182, 187, 189, 190, 207, 221 n.
8, 223, 224, 267, 288 n. 35, 297, 302, 308, 314, 315; ὀρθότης
dei nomi, 86; canone interpretativo del pensiero greco, 14
n. 3; coincidenza degli opposti, 48, 49, 52; conflagrazione in
Eraclito, 111; contro l’unità dell’essere, 224 n. 11; datazione
di parmenide, 139–141, 183 n. 84; datazione di Zenone,
220 n. 2; Eraclitei, 47 n. 10; il non–essere è l’altro, 184; flusso
universale, 45, 48, 49 n. 12, 80; giudizio su parmenide, 143,
144, 183; giudizio su Zenone, 220 e n. 3, n. 4, 221, 222; natura
della verità, 309 n. 6, 311, 312; polemica contro Antistene,
185; polemica contro i Megarici, 185; parricidio, 184, 312;
relativismo, 45–47; sfericità della terra, 201, 203 n. 106; sole
di Eraclito, 105; testimonianza su Zenone, 229, 231, 238, 240,
241.
Plutarco: 29, 100 n. 93, 131 n. 130, 146 n. 9, 267 n. 5; politica di
parmenide, 141.
Porfirio: 73 n. 49.
Posidonio: 113; zone di parmenide, 202.
Presocratici: 14 e n. 3, 300, 313 n. 10.
Proclo: 171 n. 66.
Protagora: 136, 217, 264; argomento del grano di miglio, 261, 262;
Eraclito associato a, 46, 49, 312; uomo misura, 15, 16, 312,
314.

Saffo: 19.
Seneca: 80 n. 57.
Senofane: 14, 42 e n. 3, 143, 216, 222, 265, 266; conoscenza, 40, 144,
146; dio, 40, 70, 125, 137, 161, 195, 289; modello astronomico,
38; schernito da Eraclito, 65.
Sesto Empirico: 29 n. 49, 72, 75 n. 162, 102, 122 n. 287; metafora
della scala, 86 n. 212; ragione divina in Eraclito, 60 e n. 133.
Indice degli autori antichi 405

Simplicio: 112 n. 103; 146 n. 9; 152 n. 25, 158 e n. 42, 164 n. 57,
171 n. 66, 174 n. 73, 213 n. 116, 236 n. 24, 247, 248 n. 29;
argomento contro il luogo, 239; argomenti contro la
pluralità, 234, 235, 238; argomento del grano di miglio,
261, 262; argomento della dicotomia, 246; argomento della
freccia, 253; argomento dello stadio, 257; conflagrazione,
109, 110, 112; causa efficiente in parmenide, 199; interpreta
parmenide, 177, 186; scritto di parmenide, 142; separazione
in Anassimandro, 301; su Melisso, 269, 286.
Socrate: 43, 45, 47, 86, 139, 140, 143, 184, 220–222, 224, 231, 232,
238, 240.
Sofisti: 59, 185, 222, 223, 228.
Solone: 30, 34; uso politico della poesia, 24 e n. 9, 25.
Stobeo: 211; grande anno, 115.
Stoici: 100 n. 94; conflagrazione, 109, 110, 114 n. 105.
Strabone: 23 n. 8; politica di parmenide, 140.
Suida: datazione di Eraclito, 41.

Talete: 38, 65 n. 35; luna, 203; monista, 301.


Temistio: 235, 240 n. 26, 246, 253; politica di Eraclito, 132.
Teodoro: 65 n. 36.
Teone di Smirne: 202 n. 105.
Teofrasto: 206 n. 108, 289; conflagrazione, 112; conoscenza umana
in parmenide, 206–208 e n. 110, 209 e n. 112, 211, 212; essere
di parmenide, 186; gli astri secondo Eraclito, 102–106, 108,
115; grande anno, 57; luce della luna, 203; sfericità della terra,
201; trasformazioni del fuoco in Eraclito, 98–101, 102 n. 95.
Tertulliano: oscurità di Eraclito, 43.
Tirteo: 24 n 9.

Vitruvio: 65 n. 36.

Zaleuco: 23 n. 8.
Zenone di Cizico: 201.
Zenone di Elea: 17, 136, 139, 159, 183 e n. 84, 191 e n. 94, 219–264
passim, 266 n. 2, 268 n. 7, 291, 304, 305, 311; argomenti contro
la pluralità, 233–236, 238, 239; argomento contro il luogo,
239; argomento del grano di miglio, 261, 262; argomento
della dicotomia, 242 e n.27, 246, 247, 250; argomento della
freccia, 252, 254; argomento dello stadio, 256, 259, 260; critica
moderna, 222–224, 226 n. 15, 227 e n.16; critica di Aristotele
406 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

alla dicotomia, 242–244 e n. 28, 245, 246; datazione, 140, 141,


220 n. 2; fama, 220; giudizio di platone, 220 e n. 3, n. 4, n. 5,
221, 222; polemica anti–pitagorica, 224, 225 e n. 12, 226 e n.
14, 259, 283 e n. 29; premesse agli argomenti contro il moto,
247, 248; scritti, 225 n. 12, 248 n. 29; seguace di parmenide,
227, 228; tesi,–229, 230 e n.19, 231–233, 240, 241, 263.
Indice degli autori moderni

Adoménas M.: flusso universale e relativismo in platone, 49 n. 12;


religione di Eraclito, 128.
Adorno F.: 190 n. 93.
Albertelli P.: 145 n. 8, 190 n. 93, 226 n. 14, 273 n. 13, 284 n. 31, 293
n. 39; essere di Melisso, 274 n. 17; figura di Melisso, 266 n. 2,
273 n. 18; logica di Zenone, 222.
Anderson G.: 25 n. 10.
Anscombe G. E. M.: 314, 315.
Aubenque P.: 181 n. 82, 190 n. 93, 193 n. 100.
Axelos K.: contrari in Eraclito, 56 n. 19.

Barnes J.: 143 n. 5, 262, 266 n. 3, 271 n. 11, 293 n. 39, 295 n. 41,
n. 42, 309 n. 7; argomento dello stadio, 258, 260; influenza di
parmenide, 304; tesi di Eraclito, 57; logica di Zenone, 223;
poesia di parmenide, 141, 142.
Beaufret J.: 191.
Benacerraf P.: 250.
Berti E.: 155 n. 35.
Bicknell P.J.: 157 n. 40.
Black M.: macchina dell’infinito, 249, 250.
Bollack J.: 78 n. 54, 85, 92 n. 78, 124 n. 122, 155 n. 35, 157 n. 38,
n. 40, 159 n. 46, 82 n. 181, 207 n. 109; contrari in Eraclito, 58;
logos di Eraclito, 60 e n. 25.
Bowra C.M.: 192 n. 96, 193 n. 98; parmenide scrittore, 155 n. 34.
Brague R.: 146 n. 12.
Brancacci A.: 185 n. 86; nozione di ὀρθόν in Melisso, 293 n. 40.
Burkert W.: 45 n. 8, 76; religione greca, 35.
Burnet J.: 42 n. 4, 141 n. 2, 225 n. 12, 269, 289; infinità spaziale in
Melisso, 274.

407
408 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Bury R.G.: 63 n. 30.


Calogero G.: 163 n. 55, 175 n. 76, 195 n. 102, 206, n. 108, 226 n. 14,
231, 239 e n. 25, 247, 266 n. 3, 272 n. 12, 273 n. 13, 275 n. 20,
277 n. 23, 280 e n. 26, 288 n. 34; critiche antiche a parmenide,
189, 190 n. 92; opposti in Eraclito, 69 n. 42, 79 n. 56, 87 n. 68;
primitività di parmenide, 191 n. 94; ruolo di Zenone, 222,
263, 264.
Capizzi A.: 268 n. 7, 278 n. 24, 303; parmenide e Zenone ad
Atene, 141; politica di Eraclito, 130, 131, 134.
Casertano G.: 161 n. 51, 167 n. 61, 172 n. 68, 195 n. 102.
Cassin B.: 155 n. 35, 158 n. 43, 193 n. 98.
Caveing M.: 221 n. 7, 224 n. 10, 233 n. 22; tesi di Tannery, 225 e
n. 13.
Cerri G.: 141 n. 3, 155 n. 35, 206 n. 108, 299 n. 2; “cosmo” in
Eraclito e parmenide, 62 n. 29; nihil ex nihilo, 167, 168;
sfericità della terra, 201.
Chambers J.: 23.
Colli G.: 85 n. 63; datazione di Eraclito, 42 e n. 3.
Collobert C.: collocamento di 28 B 4, 157 n. 41; integrazione di
28 B 6.3, 155 e n. 33.
Conche M.: 63 n. 30, 78 n. 54, 102 n. 96, 122, 155 n. 35, 206 n. 107;
contrari in Eraclito, 73 n. 50, 85, 89 n. 72; logos di Eraclito,
61 n. 27.
Cordero N.L.: 148 n. 15, 149, 151 n. 23, 154 n. 32, 163 n. 54, 164
n. 57, 171 n. 66, 175 n. 75, 189 n. 91, 191 n. 95, 278 n. 25;
integrazione di 28 B 6.3, 155 e n. 35, posizione filosofica di
Zenone, 121 e n. 285; sfera di parmenide, 174 n. 71, n. 73;
testo di parmenide, 142 n. 4.
Cornford F.M.: 150 n. 19, 158 n. 42; number atomism, 224, 247; tre
vie di parmenide, 154.
Couloubaritsis L.: 155 n. 35; 157 n. 40; cammini di parmenide,
150 n. 19.
Covotti A.: 164 n. 57, 289.
Coxon A.H.: 147 n. 14, 174 n. 73, 191 n. 95.
Croiset A.: 221.
Curd P.: 155 n. 35, 283 n. 30; influenza di parmenide, 305, 307.

de Finetti B.: 182 n. 83; principio di ragion sufficiente, 169 n. 65.


de Santillana G.: 299 n. 2.
Diano C.: 60 n. 23, 89 n. 73.
Diels H.: 14 n. 3, 62 n. 29, 41 n. 46, 79 n. 55, 100 n. 94, 112 e n.
Indice degli autori moderni 409

103, 114 n. 106, 115, 121 n. 115, 146 n. 9, 154 n. 32, 171 n. 66,
172 n. 69, 191 n. 95, 193 n. 100, 239 n. 25, 273 n. 13, 284 n. 31;
Ezio, 112, 113; integrazione di 28 B 6.3, 152, 154, 155 n. 33,
n. 35; libro di parmenide, 142.
Diès A.: 140, 147 n. 41.
Dietrich B.C.: religione olimpica, 31.
Dilcher R.: 58 n. 21, 63 n. 33, 70, 79 n. 56, 85 n. 65, 102 n. 96,
122 n. 18, 210 n. 114; anima in Eraclito, 117, 118 n. 112;
conflagrazione in Eraclito, 112; etica di Eraclito, 124 n. 120,
n. 122.
Dodds E.R.: 122 n. 117, 299 n. 1; religione greca, 34.
Dunbabin T.J.: 23 n. 8.
Duplouy A.: 125 n. 124.

Finley M.I.: 34 n. 13.


Fränkel H.: 85 n. 65, 193 n. 98, 211; su 22 B 3, 76 n. 52; coincidentia
oppositorum, 60 n. 23; giudizio platonico su Zenone, 220 n.
4, n. 5.
Fronterotta F.: 155 n. 35.
Furley D. J.: 155 n. 35; argomento dello stadio, 259; due forme di
parmenide, 178 n. 78, n. 80; viaggio di parmenide, 193 n.
100.

Gagarin M.: 30.


Gallop D.: 155 n. 35; sfera di parmenide, 174 n. 73.
Germani G.: 148 n. 16, 150 n. 20, 156 n. 35; ἀτρεμὲς ἦτoρ in 28 B
1, 147 n. 14; atemporalità dell’essere, 167 n. 61.
Gigon O.: 88 n. 71.
Giannantoni G.: 137, 152 n. 35, 185; su 22 B 114, 63 n. 32:
datazione di Eraclito, 42.
Glotz G.: 19 e n. 1, 22 n. 6.
Gomperz T.: 225; argomentare di Melisso, 226 n. 2; essere di
parmenide, 15, 154 n. 31; influenza di parmenide, 302, 303;
pensiero di Zenone, 226 n. 15; religiosità di Melisso, 288 n. 34.
Graham D.W.: 155 n. 28; presunti errori di Eraclito, 58; sfericità
della terra, 203 n. 106.
Green P.: 132.
Guthrie W. K.C.: 55, 190 n. 93, 221 n. 7, 267 n. 5, 276 n. 21, 288 n.
34, 289; anima in parmenide, 205; prosa di Melisso, 273 n. 14;
sfericità della terra, 203 n. 100.
410 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Harrison J.E.: religione ctonia, 35.


Havelock E.A.: 193 n. 98; parola della dea di parmenide, 172 n.
77; poesia di Solone, 25; termine presocratici, 14; uso della
poesia, 23, 25.
Heidegger M.: termine presocratici, 14 n. 3.
Heidel W.A.: 226 n. 14, 284 n. 31; sfericità della terra, 201 n. 105;
termine στρογγύλη, 201; tradizione riguardante pitagora,
201 n. 104.
Hegel G.G.F.: opposti in Eraclito, 54.
Hermann A.: 155 n. 35.
Hurwit J.M.: più antica iscrizione in greco, 36.
Hussey E.: 125 n. 125, 128 n. 126; su 22 B 136, 121 n. 115; due
forme di parmenide, 210 n. 115; importanza del fuoco, 98;
“teoria del modello interiore”, 161 n. 50, 212.

Jameson G.: 146 n. 9.


Johnstone S.: processo ateniese, 20, 29.
Jones R.: ruolo dei “pori” in Eraclito, 120 n. 114.

Kahn C.H.: 79 n. 55, 89 n. 73, 90 n. 74, 96 n. 90, n. 91, 197 n. 103;


su 22 B 53, 92 n. 78; su 22 B 101a, 94 n. 83; aria in Eraclito,
100 n. 94; conflagrazione in Eraclito, 114; discussione con
Stein su parmenide, 190; doppia esalazione in Eraclito, 99;
metempsicosi in pitagora, 65; non–essere in parmenide, 190;
senso veridico dell’è di parmenide, 149 n. 18.
Kingsley P.: parmenide sciamano, 193 n. 100.
Kirk G.S.: 53 n. 17, 61 n. 26, 63 n. 31, 66 n. 39, 70 n. 44, 78 n. 54,
79 n. 55, n. 56, 85 n. 64, 87 n. 70, 89 n. 73, 96 n. 87, n. 89, 104
n. 98, 112 n. 101, 157 n. 40, 293 n. 39, 303; su 22 B 30, 87 n.
88; su 22 B 108, 68, 69 e n. 41; aria in Eraclito, 100 n. 94; catini
di Eraclito, 106, 108; conflagrazione in Eraclito, 102, 112,
113 n. 104; “cosmo” in Eraclito, 67 n. 28; doppia esalazione
in Eraclito, 99; identità e mutamento, 81 e n. 60; opposti in
Eraclito, 55, 60 n. 23; religiosità di Melisso, 289; ruolo storico
di Melisso, 266; trasformazioni in Eraclito, 97.
Kranz W.: 62 n. 29, 71 n. 46, 79 n. 55, 100 n. 94, 112 n. 103, 114,
115, 121 n. 115, 122 n. 60, 191 n. 95, 193 n. 100, 239 n. 25, 273
n. 13, 284 n. 31.

Lafranche Y.: 145 n. 7.


Laks A.: 15 n. 5; conoscenza in parmenide, 207 n. 109, 208 n. 110,
Indice degli autori moderni 411

209 n. 111, n. 112.


Lami A.: 155 n. 35, 293 n. 39.
Latacz J.: 31 n. 11.
Lee H.D.P.: 235, 239 n. 25, 240 n. 26, 248 n. 29, 252 n. 31;
argomento delle stadio, 256 n. 33; polemica anti–pitagorica
in Zenone, 225.
Leszl W.: 151 n. 22, 160 n. 48, 172 n. 67; temine presocratici, 14
n. 4.
Lloyd G.E.R.: confronto tra pensiero greco e cinese, 26; sviluppo
del pensiero greco, 13, 136.
Loenen J.H.M.M.: interpretazione degli Eleati, 299 n. 2.

Mansfeld J.: 151 n. 23, 157 n. 40, 159 n. 46, 313 n. 10; su 22 B 28, 93
n. 81; argomento dello stadio, 256 n. 33, 257, 259; Ippia fonte
di Eraclito, 45 n. 8; sensi in parmenide, 163 n. 53.
Marcovich M.: 60 n. 24, 62 n. 29, 71 n. 46, 78 n. 54, 79 n. 55, 91 n.
76, 92 n. 78, 96 n 90, 122 n. 117, 124 n. 121, 133 n. 132; anima
in Eraclito, 117, 118 n. 111; ingenuità di Eraclito, 56.
Marino G.D.: 69.
Martinelli F.: 141 n. 3; Θέμις e Δίκε in parmenide, 194 n. 101.
Matson W.I.: 266 n. 4; polemica anti–pitagorica in Zenone, 225.
Mazzantini C.: 79 n. 55.
Mazzarino S.: politica di Eraclito, 130, 131.
McDiarmid J.B.: fuoco eracliteo, 102 n. 95.
McKirahan R.D. Jr.: argomento della dicotomia, 244 e n. 28, 245;
giudizio di dio in Eraclito, 74.
Meijer P.A.: 155 n. 35, 172 n. 68; collocazione di 28 B 4, 157, 158
n. 42; sfera di parmenide, 277 n. 22.
Mondolfo R.: 13 n. 2, 45 n. 8, 51 n. 14, 54, 55, 56 n. 20, 140,
141 n. 3, 155 n. 27, 154 n. 36, 179 n. 81, 274 n. 18; catini
di Eraclito, 107, 108; coincidentia oppositorum in Eraclito, 49;
conflagrazione eraclitea 111, 112 n. 101, 113 n. 104; eternità
in Melisso, 272 n. 12, 285; incorporeità in Melisso, 290;
polemica anti–pitagorica in Zenone, 225, 226 n. 14; pori in
Eraclito, 119.
Moravçsik J.: identità e cambiamento in Eraclito, 118 n. 112.
Mouraviev S.: 76 n. 53; su 22 B 48, 87 n. 69; datazione di Eraclito, 42
n. 2; politica di Eraclito, 131 n. 131; stile di Eraclito, 44 n. 7.
Mourelatos A.P.D.: 64 n. 34, 148 n. 16, 150, 155 n. 35, 163 n. 53,
164 n. 57; ἀτρεμὲς ἦτoρ in 28 B 1, 161; viaggio di parmenide,
193 n. 100.
412 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

Muller R.: 185 n. 87.


Nehamas A.: integrazione di 28 B 6.3, 155 n. 35.
Nussbaum M.C.: 128 n. 126; su 22 B 62, 129; κλέος in Eraclito, 125;
Ade in Eraclito, 122; vedute etiche di Eraclito, 118 n. 113.

O’Brien D.: 155 n. 35, 118 n. 1, n. 2.


O’Connell E.: su 22 B 53,99 n. 77; convergente e divergente in
Eraclito, 86 n. 67; divinità in Eraclito, 69 n. 43.
Osborne C.: 124 n. 122, 310 n. 9; fuoco in Eraclito (22 B 66), 110
n. 100.
Owen G.E.L.: 164 n. 57, 165 n. 58, 167, 226 n. 14; atemporalità
dell’essere in parmenide, 166; metafora della scala, 165 n. 59;
negazione dei molti in Zenone, 235; sfera di parmenide, 175
n. 74.

Palmer J.: 148 n.17, 155 n. 35, 293 n. 39, 310 n. 9, 313 n. 10; clausole
modali in 28 B 2, 172 n. 69; influenza di parmenide, 304 n. 4;
parricidio nel Sofista di platone, 189; posizione di Melisso, 295
n. 42; sciamanesimo di parmenide, 193 n. 100.
Pasquinelli A.: 226 n. 14, 293 n. 39; atemporalità in Melisso, 271
n. 10; corpo dell’essere in Melisso, 291 n. 38; misticismo di
Melisso, 288 n. 34.
Popper K.R.: frammenti del fiume, 188; presunto dogmatismo di
parmenide, 216; universo di Einstein, 166 n. 60.
Pradeau J.–F.: 72 n. 49, 75 n. 51, 122 n. 118, 124 n. 122, 125 n. 123;
τὸ σοφόν in Eraclito, 72 n. 47; contrari in Eraclito, 82, 83 n. 61;
identità e cambiamento in Eraclito, 81 n. 60.

Rapp C.: antinomie di Zenone, 230 n. 19.


Raven J.E.: 220 n. 3; immaterialità e gli Eleati, 290, 291; influenza
di parmenide, 303.
Reale G.: 147 n. 13, 153 n. 27, 154 n. 30, 155 n. 35, 169 n. 65, 179 n.
81, 190 n. 93, 226, 266 n. 2, n. 3, 269, 270 n. 8, 273 n. 13, 274
e n. 18, 276, 277 n. 23, 281 n. 28, 284 n. 31, 286 n. 32, 290, 291
n. 37, 293 n. 39; cronologia di parmenide, 140; deduzioni di
Melisso, 268, 280 n. 26; incorporeità dell’essere di Melisso, 390;
infinità dell’essere in Melisso, 274; polemica antipitagorica in
Melisso, 283 n. 29; razionalismo di Melisso, 295, 296; ruolo
di Melisso, 266, 295 n. 41; sfera di parmenide, 277; uso della
poesia in parmenide, 141 n. 3.
Reinhardt K.: 68 n. 40, 79 n. 55, 155 n. 35; dottrina del flusso in
Indice degli autori moderni 413

Eraclito, 80; tre vie dalla ricerca, 153.


Ridgway D.: coppa di Nestore, 36.
Robb K.: forma del testo di Eraclito, 44 n. 6; il testimone in Eraclito,
94 n. 82, n. 84.
Robbiano C.: 150 n. 21, 155 n. 35; polemica anti–eraclitea in
parmenide, 155 n. 28.
Robinson T.M.: 90 n. 74, 96 n. 90, 123 n. 119, 124 n. 122, 129,
135 n. 134; dottrina degli opposti in Eraclito, 58 n. 21; non–
contraddizione in Eraclito, 53 n. 16.
Rossetti L.: 116 n. 107; coerenza logica di Eraclito, 133 n. 132;
punto di vista del dio di Eraclito, 71 n. 45.
Russell B.: argomento dello stadio, 258.

Schnapp–Gourbeillon A.: coppa di Nestore, 36 n. 14.


Schofield M.: su 22 B 62, 129 n. 128; influenza di parmenide, 303.
Scuto G.: 155 n. 35.
Sedley D.: infinito di Melisso, 274 n. 17.
Serra G.: 60 n. 23, 89 n. 73.
Severino E.: 185 n. 85.
Snell B.: Ippia fonte di Eraclito, 45 n. 8; λεύσσειν, 157 n. 39.
Solmsen F.: posizione di Zenone, 224, 226.
Stanford W.B.: voce e lettura, 44 n. 6.
Stein H.: discussione con Kahn su parmenide, 190.
Stern D.J.: 46 n. 9.
Stokes M.C.: 226 n. 14; identità degli opposti in Eraclito, 57; logica
di Eraclito, 82; logica di Zenone, 224.

Talamanca M.: processo ateniese, 30.


Tannery P.: 13 n. 2; catini di Eraclito, 107; divinità dell’essere di
Melisso, 288 n. 34; negazione del moto in Zenone, 242 n. 27;
polemica anti–pitagorica di Zenone, 224, 225 e n. 12, 226 e n.
14, 259; posizione di Melisso, 266 n. 4.
Tarán L.: 45 n. 8, 51 n. 14, 80 n. 58, 107, 111, 119, 146 n. 10, 162 n.
52, 174 n. 73; atemporalità dell’essere di parmenide, 168 n. 64;
forme di parmenide, 178; identià degli opposti in Eraclito, 49;
integrazione di 28 B 6.3, 154 n. 32.
Thanassas P.: 155 n. 35; omogeneità dell’essere di parmenide, 174 n.
72; segni dell’essere parmenideo, 268 n. 6; sfera di parmenide,
174 n. 73.
Theunissen M.: 154 n. 31.
Thomson J.: macchina dell’infinito, 250.
Todd S.C.: processo ateniese, 29.
Untersteiner M.: 157 n. 38, n. 39, 159 n. 47, 163 n. 53, n. 55, 164 n.
57, 207 n. 109; argomento del grano di miglio, 261, 262 e n. 34;
contro l’unità dell’essere di parmenide, 278, 280 n. 27; inganno
divino, 12 n. 17; rapporto tra parmenide e Zenone, 32 n. 12;
sfera di parmenide, 174 n. 73.

Vegetti M.: 31 n. 11.


Verdenius W. J.: 66 n. 38, 121 n. 116, 151 n. 23, 209 n. 113.
Viola C.É.: λεύσσειν, 157 n. 39.
Vlastos G.: 80 n. 58, 90 n. 74, 189 n. 90, 221 n. 6, n. 8, 224 n. 10,
248; argomento della freccia, 254; arretratezza dell’epoca di
Zenone, 223, 254.
von Fritz K.: 158 n. 44.

Waugh J.B.: prosa di Eraclito, 43 n. 5.


West M.L.: λόγος di Eraclito, 60 n. 25; collocamento di 28 B 4, 157
n. 41; divinità in Eraclito, 69 n. 43; influenza di parmenide,
304; lunghezza del poema di parmenide, 142.
Whitehead A. N.: 314, 315.
Wilcox J.: guerra in Eraclito, 55.
Wittgenstein L.: 140 e n. 1, 165, 181.
Woodbury L.: 159 n. 47, 172 n. 68.

Zafiropulo J.: animismo degli Eleati, 288 n. 35; infinito di Melisso,


275 n. 19; logica di Zenone, 222; ruolo di Melisso, 266 n. 3,
267.
Zeller E.: 13 n. 2, 79 n. 55, 89 n. 73, 111, 124 n. 32, 140, 141 n. 3,
153 n. 27, 154 n. 30, 157 n. 41, 290; argomento del grano di
miglio, 261; collocazione di 28 B 4, 157 n. 41; conflagrazione
in Eraclito, 109; datazione di Eraclito, 131 e n. 131; giudizio su
Melisso, 286 n. 2; incorporeo in parmenide, 291 n. 37; infinito
di Melisso, 273, 274; influenza di parmenide, 300, 302, 303,
309, 310 e n. 8; logica di Eraclito, 56 n. 20; opposti in Eraclito,
54; polemica anti–pitagorica in Zenone, 225, 226; valore della
δόξα in parmenide, 179 n. 81.
Zeppi S.: empirismo di Eraclito, 116 n. 109.
Indice degli argomenti

addensamento: v. condensazione.
Achille: 20, 31 e n. 11, 219 e n. 1, 296; argomento dell’, 242, 247,
251, 255.
Ade: 33, 122, 127, 128.
alterazione: 206, 285, 302, 304.
ambiguità: in 22 B 1, 59 n. 22, 135; nella comunicazione, 314.
amore: in Empedocle, 48, 111, 210; in Eraclito, 48, 111; in Esiodo
65, 200; in parmenide, 200.
anima: 47, 218 n. 1; sopravvivenza, 33; in Eraclito, 67, 68, 100,
101, 117, 118 e n. 111, n. 113, 119, 120, 121 e n. 116, 122,
123, 135, 136; in parmenide, 205; negli Eleati, 288 n. 35.
apprendimento: 21, 313; in Eraclito, 61, 93 n. 81, 107; in
parmenide, 146, 147, 166, 176, 182, 211.
arco: esempio di tensione interna, 49, 86 n. 20; nome (βιόν), 87.
aria: in Eraclito, 100 e n. 94, 101, 103; in parmenide, 198; in
Melisso, 292, 293, 297; in Anassimene, 38 (atmosfera), 194
n. 72, 301.
armonia: in Eraclito (ἁρμονία), 49, 52, 56 n. 20, 90; in parmenide
(temperies), 205.
arroganza: in Eraclito, 133.
astri: in Anassimene, 104 n. 97; in Eraclito, 100 e n. 94, 101, 103;
in parmenide, 177, 198; in Senofane, 39; priorità di Talete,
203.
atomi, atomismo, dottrina atomistica: 286 n. 33, 305; in Zenone,
260, 263; number–atomism di Cornford, 224, 247.

bello, bellezza: 182, 185; in Eraclito, 52, 72, 73, 90, 91; privo di
(ἀκαλλώπιστος) 71; ordinamento, 75; in parmenide, 95,

415
416 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

97.
bene, buono: 182, 185; in Eraclito, 51, 52, 77, 92, 126, 133 n. 32.
bontà: degli dèi, 32.

cadavere: in parmenide, 207, 209, 212.


caldo: v. fuoco.
cammino: v. via.
cambiamento, mutamento: 308, ἀλλοίωσις, 310; flusso universale
in Eraclito, 45–50, 53–55; permanenza nel cambiamento in
Eraclito, 78, 79 e n. 56, 80, 81 e n. 60, 83–85, 87, 112, 113, 118
n. 112; in Epicarmo, 80; in parmenide, 166, 171, 172, 180,
181, 214; in Zenone, 228, 229, 249; in Melisso, 284, 285, 292,
294; negli Ioni, 300–303.
catini (σκάφη): gli astri di Eraclito, 102, 103, 105–108.
ciceone: 25, 38.
Codice di Gortina: 94 n. 82.
comprensione: v. sapienza; φρονέω in Eraclito, 62, 63.
comune: in Eraclito (κοινός, ξυνός), 62, 63.
comunicazione: in Gorgia, 313, 314.
concordante – discordante: διαφέρω – συμφέρω in Eraclito,
48, 49, 52, 86, 90.
condensazione – rarefazione: in Eraclito, 97, 99, 101, 116;
variazione di densità in Anassimene, 174 n. 72.
condiviso: v. comune.
confini: dell’anima in Eraclito, 62, 117; dell’essere di parmenide,
160, 170, 175 e n. 76; delimitazione dell’oggetto in
parmenide, 181; e in Zenone, 230, 233, 235, 237, 239;
dell’essere in Melisso, 276, 277, 279, 291.
conflagrazione: in Eraclito, 102, 109–114 e n. 105, 115, 116.
conflitto: v. guerra.
conoscere, conoscenza: 12, 13, 116, 311, 314; νοέω conoscere la
verità in parmenide, 149, 158 n. 44, 159–161, 195, 215, 217;
concezione nei Milesi, 40; divina in Eraclito (v. sapienza);
esperti della, 28; in Eraclito, 59, 62, 64, 66, 67, 73, 80, 311;
in Gorgia, 313; in parmenide, 144, 145, 147–149, 156, 159,
171; in Melisso, 267; in Senofane, 40, 71, 195; umana in
parmenide, 160, 179–182, 187, 195, 197, 206 e n. 108, 207,
208 e n. 110, 210 e n. 115, 212, 213, 217, 297, 302, 308, 311.
conservazione: della memoria, 23, 24; della identità v.
cambiamento; principio di, 97, 269, 270, 307 e n. 5; degli
“argomenti” di Zenone, 135.
Indice degli argomenti 417

contesa: v. discordia.
contraddizione: principio di non, 50–53 e n. 16, 57, 108, 113.
contraddittorietà: della seconda via di parmenide, 149, 156,
158; dell’esistenza dei molti per Zenone, 230, 231, 233,
235, 237, 238, 263.
contrari, opposti: contrario dell’essere in platone, 184; in
Anassimandro, 301; in Eraclito, 45, 49, 51–56 e n. 19, n. 20,
57, 58 e n. 21, 60 e n. 23, 67, 69 n. 42, 73 e n. 50, 79 n. 56, 82,
83 e n. 61, 85–87 e n. 68, 89 e n. 72, 90, 112, 125, 128, 136; in
parmenide, 178 n. 80; negli Ionici, 300.
cosmo, cosmologia: in Eraclito, 56, 60 n. 28, 62, 67, 76, 81, 88,
89, 94–96, 109, 112, 113, 136; in parmenide, 157, 159 e n.
45, 175, 197, 198, 202, 204; in pitagora, 201; in Senofane,
38; nei Milesi, 310.
culto: 31, 33, 35; di Dioniso, 37, 128.
custode, guardiano: (φύλαξ) in Eraclito, 124, 198, 199.

dea: 32; in parmenide, 145 n. 8, 146 n. 10, 147, 148, 150 e n. 190,
152 e n. 26, 153, 154, 156, 158, 161, 163, 164, 167 n. 61, 172
n. 67, 177–179, 191–194 e n. 110, 195, 197 n. 102, 199, 200,
204, 216.
dèmone: in Eraclito, 71, 72 n. 47, 122; in parmenide, 198.
destino: in Eraclito, 112, 125.
dicotomia: 235; in Zenone argomento della, 239, 242–249.
dio: 20, 32 e n. 12, 34, 41 e n. 1, 166, 289; anno di dio, v. grande
anno; di Eraclito, 52, 69, 70 n. 45, 72 n. 47, 73–77, 85, 91 n.
77, 92 n. 78, 93, 98 n. 88, 126, 127, 129, 135, 137, 198 n. 100,
195; di Melisso, 288 n. 34; di Senofane, 40, 161, 195.
Dioniso: 37, 127, 128.
dire: articolazione verbale in parmenide (φράζω, λέγω, φατίζω),
151, 152 e n. 24, 172 e n. 67.
discordante: v. concordante.
discordia, contesa: in Empedocle (νεῖκος), 48, 111, 209; in
Eraclito (ἔρις), 51, 52, 79 n. 56, 90, 91, 111, 112, 133 n. 132.
discorso: 23; in tribunale, 29; in Eraclito (λόγος): 59, 61, 70, 134,
135, 136; in parmenide, 142, 144–146 n. 10, 148, 150, 151,
157, 162, 164, 165, 175 n. 75, 176, 177, 180, 181, 184–186,
189, 195, 272, 296; articolazione verbale in parmenide, v.
dire.
distinzione, suddivisione dell’essere: in Eraclito, 52, 129; in
Melisso, 272 e n. 12, 281; in parmenide, 159, 160, 170, 178
418 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

n. 78, 180–182, 196, 215, 267, 276, 281; in Zenone, 228, 231,
232, 238–240, 244, 246, 248–251, 254, 255, 267.
divenire: come opposizione di essere e non essere, 54.
divisione: della Terra in zone in parmenide, 202; suddivisione
dell’essere, v. distinzione.

ebbrezza, ebbro: effetto sull’anima in Eraclito, 119.


elementi, costituenti elementari della materia: nella filosofia
presocratica, 14, 300, 304, 310; in Eraclito (στοιχεῖον in
Teofrasto), 99, 100 e n. 94, 101, 102 n. 95, 111, 113, 118,
136; in parmenide, v. forme; nei “neo–Ionici”, 301; in
Anassimandro, 301.
Erinni: 76.
Eros: in parmenide, 195, 200, 204.
erudizione: πολυμαθίη in Eraclito, 65, 66.
esalazione, evaporazione: dell’anima, 79, 117 e n. 110, 118;
evaporazione (ἀναθυμίασις) in Eraclito, 97, 99, 100, 103,
104 e n. 97, 105, 108; in parmenide, 198, 199.
esalazione infocata: (πρηστήρ) in Eraclito, 96.
escatologia: 36, 37; in Eraclito, 110 n. 100, 114, 117, 118 n. 112,
122–124 n. 122.
esperto: ἵστωρ in Eraclito, 66.
essere–non essere: 12; in Empedocle, 306; in Melisso, 267–292
passim, 294, 296, 297; in parmenide, 13, 148 n. 17, 149–152
e n. 26, 153, 154 e n. 30, n. 31, 156–161, 156–190 passim,
195, 196, 204, 207, 213–215, 217, 303, 304, 307, 310, 312;
in Zenone, 226–228, 230–234, 236–240, 243, 246, 248, 251,
252, 263, 264; negli Atomisti, 308.
etica: delle divinità olimpiche arcaiche, 32 n. 12; etica arcaica,
34; in Eraclito, 124.

fanciullo: in Eraclito, 71, 72, 75, 119.


fiamma: v. fuoco.
fiume: 41 e n. 1; in Eraclito, 14, 45, 48–50, 79–81, 84, 112, 180–
182, 214; in Cratilo, 50, 53.
flusso: flusso universale in Eraclito, 45–49, 53, 54, 79 n. 56, 80;
negli Eraclitei, 47.
folgore, fulmine: in Eraclito, 96 n. 91, 98.
forme: di platone, 167; μορφή (elementi – principi) in parmenide,
168, 178 e n. 78, n. 80, 180, 187, 188, 195–200, 205, 207,
208 n. 110, 209, 210 n. 115, 211, 230, 311.
Indice degli argomenti 419

freccia: argomento della freccia in Zenone, 219 e n. 1, 225, 240,


252–255.
fuoco, fiamma: in Eraclito, 85 e n. 65, 96 e n. 91, 97–100 e n. 94,
101, 102 e n. 95, 103, 104 e n. 97, 109, 110 e n. 100, 111,
112 e n. 101, 113, 116, 118 e n. 111, n. 113, 121 n. 116, 127,
131, 136, 301; in parmenide (anche luce), 182, 187, 189,
196–200, 205, 207–209 e n. 111, 210 n. 115, 211, 212, 311.

generazione, genesi, nascita, origine: degli dèi in parmenide,


200; dei viventi in parmenide, 199; del cosmo in parmenide,
204; dell’essere in parmenide, 166, 168–170, 188, 198, 303,
304, 308; in Anassimandro, 301; in Melisso, 269–271, 273 e
n. 13, n. 15, 274 e n. 17, 280 n. 6; negli Atomisti, 308.
giorno: in Esiodo, 64, 65, 126.
giovane, ragazzo: parmenide (κοῦρος), 145 n. 8, 147, 150, 152,
156, 158, 163, 164, 177, 178, 192, 193 n. 100, 195 n. 101.
giustizia: amminstrazione della, 15, 16, 26, 28, 30, 144; divina,
32, 34; in Eraclito (δίκη), 74, 76, 90, 93, 133 n. 132; in
parmenide, v. necessità.
giusto – ingiusto: in Eraclito, 51, 73, 74, 77, 126, 133 n. 132.
grande anno: in Eraclito, 109, 114, 115.
guerra, lotta: in Eraclito, 40, 51, 55, 56, 69 n. 42, 85, 90, 91 e n. 76,
92 e n. 78, 112, 121, 123, 130, 132, 133 e n. 132, 134.

ignoranza: logica in epoca arcaica, 224.


illimitato: in Zenone, 234, 238; in Melisso, 187, 274, 276 e n.
21.
illuminazione: 43; di parmenide: 193 e n. 97, 195, 288; per
Eraclito, 62, 67, 68.
indagare, indagine: in Eraclito, 65–67, 72; in parmenide, 146,
147, 149, 158, 164, 172 n. 67, 176, 192, 197, 203, 217.
infinito, infinità: in Melisso, 271 n. 10, 272, 273 e n. 15, 274 e n.
17, 275, 276 e n. 21, 277 e n. 23, 279, 280 e n. 26, 285, 291 e
n. 38, 296, 297; in parmenide, 167; in Zenone, 227, 230, 235,
238–240, 242–246, 249–251 e n. 30, 253, 255; per Aristotele,
113, 243; principi in Anassagora e negli Atomisti, 301.
ingenerato: l’essere in parmenide, 164, 271, 300, 304; in Melisso,
274 n. 17.

legge: 26, 30; in Eraclito, 60 e n. 24, 63, 64, 130, 133; legge divina
in Eraclito, 63, 64, 88; in parmenide (δίκη, θέμις), v.
420 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

necessità.
lingua, linguaggio: in Eraclito natura del, 60 e n. 25, 71, 78, 81,
85, 87, 134, 135; in parmenide (γλῶσσα), 162, 163 e n. 53;
legame tra conoscenza e linguaggio in parmenide, 151,
166, 172 n. 67.
lira: esempio di tensione interna, 49, 56 n. 20, 71, 90.
lotta: politica, 15, 21, 22; in Eraclito, v. guerra.
luce: forma di parmenide, v. fuoco; luce lunare in Eraclito, 105,
108, 136; luce lunare in parmenide, 202, 203, 216; viaggio
di parmenide verso la, 192, 193 e n. 100.
luna: in Eraclito, 101, 103–108, 136; in parmenide, 197–199, 202,
203.
luogo: argomento contro il, 233, 239, 240, 253; in Melisso, 282, 286;
in Zenone, 247, 248, 252, 254, 255; naturale in Aristotele,
116 n. 108.

mappa: 11 n. 1, 12, 160.


mente: in Eraclito, 83, 130; di dio in Eraclito, 76; umana in
parmenide, 158, 160, 162, 206, 212, 213, 229, 267; errante,
152, 156, 158 n. 44, 173.
mescolamento: 46, 116, 301; in parmenide 205–209, 211.
microcosmo – macrocosmo: 118.
misteri: 127, 193 n. 100.
misura, misurare: in Eraclito (μετρέω) 96, 97; in Eraclito (μέτρον),
81 e n. 60, 96, 109, 110; uomo misura in protagora, 15, 46,
313, 314.
modificazioni: v. cambiamento.
morte: 36 e n. 14; azione dell’arco, 87; in Eraclito, 69 n. 42, 91,
92 n. 78, 100 e n. 94, 120, 121, 128, 129; in guerra secondo
Eraclito, 117; in Eraclito sorte dell’anima, 122, 123; in
parmenide (ὄλεθρος) dell’essere, 169, 170.
moto, movimento: in Eraclito, 56; permanenza nel cambiamento,
40; dell’essere in parmenide, 97; in Zenone, 119, 141;
argomenti contro il, 121, 125, 129–133 e n. 298, 134, 135;
teoria del in Melisso, 155; nei neo–Ionici, 165, 168; negli
Atomisti, 155 n. 337.
mutamento: v. cambiamento.

necessità: cosmica in parmenide, 198, 199; in Eraclito (χρεών), 74,


90–92, 113; in Melisso, 270; logica in parmenide (Ἀνάγκη,
Δίκη, Μοῖρα, Θέμις, χρέος, χρεών), 149, 150, 168–170,
Indice degli argomenti 421

180, 190, 194 n. 101, 214.


nome: di Zeus in Eraclito, 69 e n. 43; di Dike in Eraclito, 76; natura
dei nomi in Eraclito, 81, 83, 85–87, 126; in parmenide, 172,
177, 179, 213, 214, 217.
notte: forma di parmenide, 178, 182, 189, 196–200, 205, 208, 209
e n. 111, 210 e n. 115, 211, 212, 311; in Eraclito, 75, 85, 92 n.
78, 103, 123; in Esiodo, 64, 65; nel proemio di parmenide,
192, 193 e n. 100, 194.

occhio: v. vista.
opinione: in Eraclito, 63 n. 32, 75, 93, 95, 133 n. 132; in Gorgia,
313; in Melisso, 291, 294, 296, 297; in parmenide, 142–146 e
n. 11, 147, 150, 154, 157, 159, 172 n. 69, 176, 177 n. 77, 178,
179 e n. 81, 181 e n. 82, 182, 183, 185, 187, 189, 196, 206 n.
108, 210, 213, 215–217, 272, 280; in Zenone, 135.
opposti: v. contrari.
orecchio: v. udito.
orfico: sette, 37, influenze, 179.
osservazione, osservare: dei Milesi, 38; in Eraclito, 57, 93, 101,
103, 107–109, 116 e n. 105, n. 107; in parmenide, 196, 216;
nei neo–Ionici, 304.

pensare: atto della mente umana in parmenide, 159, 207, 208,


210, 212; la verità in parmenide, 148, 152 e n. 24, 147, 166,
167, 214, 215.
pensiero: filosofico e scientifico, 12–17, 37, 38, 137; in parmenide,
155 n. 35, 161 e n. 50, 162, 172 e n. 67, 173, 176, 206–214,
216.
percezione, sensazione: 47; in Eraclito, 110 n. 100, 119; in
parmenide 188, 206, 207, 209–212.
poesia, verso: 24 e n. 9, 25, 27, 65, 124, 141, 142, 146; funzione in
pindaro, 34; sciamanica, 193 n. 100.
primitivo: il pensiero greco delle origini, 14; Eraclito, 56, 82, 107;
parmenide, 191 e n. 94; Zenone, 254.
principi: costituenti elementari della materia, v. elemento;
principio di conservazione, v. conservazione; principio di
ragion sufficiente, 169 e n. 65.
provvidenziale: dio di Eraclito, 35, 37, 64.
punizione: v. giustizia.

radici: in Empedocle, 304 n. 4, 305, 306, 307, 310 n. 9.


422 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

rarefazione: v. condensazione.
religione, culto: 36; olimpica, 15, 31–34; ctonia, 35; escatologica,
37; in Eraclito, 69, 126, 128 e n. 127, 132; in parmenide, 288;
in Melisso, 288 n. 34.
ricerca: in parmenide (δίζησις), v. via.

sapiente, saggio: in Eraclito (σοφός), 68, 69, 72, 88 n. 71.


sapienza, saggezza: in Senofane, 40; in Eraclito (σοφίη), 65, 66,
85; amante della (φιλοσόφoς), 66; sapienza perfetta o divina
in Eraclito (τὸ σοφόν), 68–70, 72 e n. 47, 85 n. 63, 126.
scorrimento: v. flusso.
sensazione: v. percezione.
senso: del mondo in Eraclito, 73–77, 93.
Sibilla: 371.
sole: in Eraclito, 75, 76, 97, 101, 103, 104 e n. 98, 105, 107; in
parmenide, 193 e n. 100, 197–199, 202, 203.
sonno: in Eraclito, 61, 119, 123; in parmenide, 205.
spazio: in parmenide,166, 167, 213; nei pitagorici, 225; in Zenone,
231, 232, 240, 243, 251, 253–255, 258–260; in Melisso, 275,
276, 279–281, 283, 285, 287, 291, 297.
stadio: in Zenone argomento dello, 255–257, 260; nell’argomento
della dicotomia in Zenone, 242.
suddivisione: v. divisione.

tempo: in Eraclito (αἰών), 74, 75; in Melisso, 270, 271 e n. 10,


272, 274–276, 279, 280, 285, 297; in parmenide, 166–168 e
n. 64, 169 e n. 65, 213; in Zenone, 242–246, 249–251 e n. 30,
253–256, 258–260.
terra: in Empedocle, 209; in Eraclito, 96, 97, 99, 100 e n. 94, 101–
105, 110, 114 n. 105, 117; in parmenide, 177, 188, 198–202
n. 106, 205, 209, 216; in platone, 201; in Senofane, 38; nei
Milesi, 38 e n. 10.

udito: in Eraclito, 93 e n. 81; in parmenide, 162, 163 n. 53.


uno: il tutto in Eraclito, 51, 62, 84, 86, 93, 95, 112, 113; l’essere in
parmenide, 165, 171, 186, 187, 278 e n. 25; l’essere in Zenone,
226, 227, 232, 233, 235, 236, 238, 241, 264; l’essere in Melisso,
278–281, 284, 290–292, 294; i costituenti elementari della
materia, 300, 301.

verità: e i neo–Ionici, 308; in Eraclito, 63 n. 32, 67, 70, 71 e n. 45,


Indice degli argomenti 423

88 n. 72, 93, 95, 135; in parmenide (ἀλήθεια), 144–146 e n.


9, 147–154, 158–161 e n. 51, 164, 169, 170, 173, 176, 177, 178
n. 78, n. 79, 179 n. 81, 180–182, 188–190, 210, 214–217, 271,
280; in Zenone, 264; parere di platone, 47, 309 n. 6, 311;
secondo Gorgia, 313; secondo protagora, 313.
verso: v. poesia.
via: in su e in giù in Eraclito, 82, 99, 112; della ricerca (δίζησις) in
parmenide, 147–150 e n. 19, 151, 152 e n. 26, 153 e n. 28,
n. 29, 154 e n. 30, n. 32, 155 e n. 33, n. 35, 156, 158, 159,
162–165, 167 n. 61, 169, 173, 178 n. 79, 181 n. 82, 182, 191,
192, 308.
vincoli: della necessità logica in parmenide, 169, 170, 173 e n. 70,
175, 277.
vista, occhio: in Eraclito, 93 e n. 81, 94, 107; in parmenide, 162,
211.
vita: in Eraclito, 69 n. 42, 92 n. 78, 121 n. 116, 128, 129 e n. 128;
nome dell’arco, 87.
vuoto: in Melisso (κενεόν), 280, 282, 283 e n. 29, n. 30, 284, 286,
287, 291, 296, 303; in parmenide, 303; in Empedocle, 303;
negli Atomisti, 286 n. 33, 308.

Zeus: garante di giustizia, 32, 34; espressione di sapienza in


Eraclito, 69 e n. 42, n. 43.
dialegesthai
Collana di ricerche filosofiche

1.
Emilio Baccarini
La soggettività dialogica

2.
Carla Roverselli (a cura di)
La persona plurale. Filosofia, pedagogia e teologia in dialogo

3.
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Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Ja-
spers

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La soggettività trascendentale concreta. Linee per una rilettura della feno-
menologia di Edmund Husserl

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Quid animo satis? Studi di filosofia e scienze umane in onore
del Professor Luigi Gentile

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425
426 Epistemologia greca del VI e V secolo a.C.

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La soglia e l’esilio

11.
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