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L’esperienza fondamentaLe di parmenide1

(Walter fratticci)

può essere un principio ermeneutico generale. ma vale in parti-


colare quando l’interlocutore con cui si è avviato il confronto ci
parla dalla lontananza aurorale in cui sono piantate le radici della
tradizione culturale nella quale ci muoviamo: un siffatto confronto
– fatto di analisi, interpretazione, discussione e dialogo a distanza
– ci impegna e mette in discussione, richiamandoci al mai esaurito
né esauribile compito di pensare, pensare l’umana condizione nel
contesto originario entro cui essa si dispiega. La ricchezza dell’atto
ermeneutico non può essere contenuta dalla sola esplicitazione dei
legami interni dei testi e delle loro relazioni esterne ad altri testi
del medesimo o altro pensatore, operazione questa pur necessa-
ria basilare e previa ad ogni ulteriore discussione. o per meglio
dire, è esattamente questa stessa operazione – che non si svolge
mai in una sorta di asettico vuoto pneumatico dove all’interprete è
dato e richiesto solo di dar voce al testo, riservando per sé il ruolo
notarile, come pretendeva Hegel, del puro e semplice stare solo a
vedere: come se il testo parlasse da solo; come se non fosse sempre
l’interprete a prestar la sua voce al testo –, è proprio questa stessa
operazione di scavo e pulitura del testo a richiedere un atto forte e
consapevole di pensiero.
C’è dunque un’esperienza fondamentale, che prende forma nel-
lo scritto di un pensatore, dalla quale occorre partire e che occorre

1
in questo contributo mi propongo di riprendere e esplicitare le chiavi dell’inter-
pretazione del poema di parmenide che ho sostenuto nel mio Il bivio di Parme-
nide, cui rimando per una più ampia argomentazione della mia tesi interpreta-
tiva. a quanti mi sono stati compagni e preziosi interlocutori nella ricerca con
suggerimenti ed osservazioni critiche - e tra costoro in primis l’amico e maestro
aniceto molinaro recentemente scomparso, cui dedico questo scritto - vada
tutto il mio ringraziamento.

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tenere costantemente presente ogni qualvolta ci si dispone alla let-
tura di un testo. ma, come detto, questo tipo di esperienza non sta
lì davanti già bella e fatta, già conigurata e pronta per essere colta
dal lettore. al contrario, essa si disvela soltanto allorché l’interprete
le muove incontro, la ricerca investendo il testo delle sue proprie
domande; le quali sono le domande perenni e sempre nuove che
originano lo stupore ilosoico. Sta proprio in un siffatto domandare
l’apporto insostituibile dell’interprete, prima e più che nelle risposte
che egli sa scavare nel testo; davanti a queste l’interprete deve senza
incertezze mettersi in silenzioso ascolto, quasi scompa-rire dietro di
esse. ma è nella domanda che le risonanze, anche le più leggere, di
cui il testo vibra, sempre di nuovo giungono pian piano alla luce e
prendono forma. e così il testo mostra aspetti non ancora adeguata-
mente valorizzati e svela prospettive penetranti.
Non si tratta evidentemente di aprire porte e inestre ad ogni
arbitrio o vaneggiamento ermeneutico. il vincolo testuale è e deve
rimanere forte ed obbligante. nel testo risiede il criterio ultimo di
validità ermeneutica di ogni lettura; e il testo, nel suo stesso dipa-
narsi, svolge un pensiero, che va rintracciato e fatto emergere nel
suo proprio prender forma e dispiegarsi. siffatto pensiero non è tut-
tavia qualcosa come una ossiicata, immobile sostanza, su cui eser-
citare una sorta di speculativa anatomia, che lo dissezioni nelle sue
molteplici ma ormai morte parti. al contrario, il testo che lo espri-
me e lo racchiude, al tempo stesso libera quel pensiero per nuove
riprese; in esso pulsa sempre un po’ della vita, non solo dell’autore,
ma anche del lettore. e così quest’ultimo torna incessantemente a
volgersi verso un reperto testuale nel quale ritrova se stesso, pur
non essendo opera sua.
Lo storico delle idee non si stracci le vesti né consideri banaliz-
zata la sua fatica. operazioni del genere avvengono con ogni evi-
denza non fuori, ma dentro la Wirkungsgeschichte di un’opera, nel
solco di una tradizione interpretativa che, anche quando presenti
radicali capovolgimenti, produce in realtà solo più adeguati appro-
fondimenti. La comprensione del testo è infatti in ogni caso il primo
e preliminare lavoro da compiere. solo che questo lavoro non è mai
neutro, ma richiede sempre una decisa presa di posizione, anche nei

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confronti dello stesso testo che ci si dispone ad analizzare. non sono
insomma credibili le professioni di fede del positivista ermeneutico,
che pretende di trovare già delineata la isionomia del pensiero ed
eclissare il ruolo dell’interprete; salvo poi, ad uno sguardo più at-
tento, farlo operare nascostamente dietro le quinte. in verità, l’ope-
razione ermeneutica è un processo complesso, ininito. C’è sempre
qualcosa ancora da capire. C’è un pensare, e non semplicemente
un pensato, che l’interprete deve far rivivere nella sua lettura di un
testo; un pensiero, uno spirito del pensare, che la lettera del testo a
fatica contiene, e che trascende sempre quest’ultima. e, che intenda
portare avanti il ilo della rilessione dell’autore cui dedica attenzio-
ne o ne voglia solo esplicitare il tono e l’oggetto, l’interprete non
può esimersi dal mettere in gioco, con sobria attenzione e prudente
circospezione, se stesso, le sue convinzioni e ipotesi speculative.
accettando il rischio di una smentita della ipotesi ermeneutica che
egli intendeva veriicare; e accettando anche il rischio di trovare
che la domanda, con la quale si è avvicinato al testo venga, dal testo
medesimo respinta come inappropriata.
se tutto questo ragionamento ha un senso, che non sia quello della
semplice offerta di coperture a buon prezzo per discutibili operazioni
ermeneutiche in libera uscita, dove nel nome della libertà di ricerca
del soggetto tutto alla ine è relativisticamente possibile; se dunque
l’interprete si trova coinvolto a fondo nel gioco dell’interpretazione,
senza poter pensare di scomparire totalmente dietro il testo, allora
la questione preliminare ad ogni interpretazione è necessariamente
quella di prestare attenzione e prender consapevolezza degli assunti
teorici che si manifestano negli interessi culturali dell’interprete, nelle
sue ponderate e problematiche rilessioni. Da dove, da quale ambien-
te culturale prende le mosse l’interpretazione di un testo? Quali in-
teressi ilosoici sono presenti attualmente all’interprete? Cosa cerca
egli nel testo di un autore? Quale aiuto può ottenerne? non si sfugge
a queste domande, per quanto tradizionale e condiviso possa essere
il contesto in cui l’interprete agisce. Quando poi, ed è il caso nostro,
il terreno culturale si è messo in movimento e perde di consistenza,
quando i contorni dell’orizzonte, entro cui prende spazio la ricerca,
sono diventati sfumati ed incerti, allora esplicitare quelle domande

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diventa momento essenziale preliminare dell’interpretazione. ripeto:
porsi domande del genere non signiica minimamente sovrapporre
proprie risposte preconfezionate al testo, quasi a coartarlo e strumen-
talizzarlo, ma trovare una modalità di accesso al testo, che lo renda
signiicativo per la comprensione di sé e del tempo che si vive. Del re-
sto, che nella storia delle interpretazioni di un testo siano usualmente
proposti schemi di periodizzazione piuttosto deiniti offre una impli-
cita ma evidente conferma di quanto appena sostenuto. È sempre nel
contesto di un determinato quadro culturale che l’interprete si accinge
a dialogare con un pensatore, per cercare nel dialogo contributi utili
alla comprensione del tempo in cui egli, l’interprete, opera. e anche
quando l’interpretazione sembra dettata da puri motivi di curiosità o
di tecnicalità, agisce sommessa una domanda a rendere interessanti
quelle curiosità e ricerca di dettagli tecnici.
in coerenza con quanto appena detto, avviando la lettura del
poema di parmenide dovremo perciò anzitutto esplicitare le in-
terrogazioni e i nodi teorici a partire dai quali ci avvicineremo al
pensiero del ilosofo. Nel far questo non dovremo andare molto
lontano con la ricerca, dal momento che il dibattito culturale con-
temporaneo offre utili indicazioni per il lavoro dell’interprete che
si pone ilosoicamente in rapporto con pensatori del passato.

EssErE

Questo compito si rivela ai nostri giorni al tempo stesso difici-


le e pieno di suggestioni. La via battuta dalla tradizione ilosoica
occidentale, in cammino proprio nella direzione indicata dall’ele-
ate, infatti si presenta oggi impervia e problematica. Una profonda
frattura si è prodotta e attraversa, rendendola incerta, la piattaforma
culturale su cui si è costruita l’avventura europea ed occidentale,
ovvero quell’insieme di valori, principi e sostegni teorici che hanno
caratterizzato l’ethos dell’occidente. Laddove aveva brillato per
secoli la luce solare dell’essere – l’essere parmenideo appunto, per
quanto interpretato e reinterpretato in molteplici modi – ora sem-
brano calare le ombre di un nichilismo spaesante, che avvolgono

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cose ed esistenze dentro una oscurità densa e disorientante. il folle
uomo della nietzscheana gaia scienza è presenza inquietante, che
minaccia ed attrae al tempo stesso. Uscendo verso i luoghi della
decadenza metaisica della società europea con in bocca l’annun-
cio della morte di dio – nietzsche è un uomo di mondo e, come la
ilosoia idealistica del primo Ottocento ha insegnato, sa bene che
le idee per consolidarsi si travestono prendendo forme simboliche
e immaginiiche; per snidarle dunque occorre contrapporre ad esse
una nuova rappresentazione simbolica. e dio costituisce un simbo-
lo forte e radicato della tradizione europea – egli offre una promessa
di liberazione da tutto quanto determina e vincola il desiderio onni-
potente dell’individuo, aprendo lo spazio ininito del possibile. Ma
al tempo stesso lascia presagire quanto questa promessa di sfonda-
mento di ogni limite ontologico e metaisico lo consegni allo sforzo
insostenibile dell’autofondazione del proprio essere.
rileggiamolo allora quel famoso aforisma 125 della Gaia Scienza,

L’uomo folle. - non avete sentito parlare di quell’uomo folle che


nel chiaro mattino accese una lanterna, corse al mercato e si mise a
gridare senza posa: «Cerco dio! Cerco dio!»? poiché proprio lì si
trovavano radunati molti di quelli che non credevano in dio, la sua
apparizione suscitò grandi risate. «Qualcuno l’ha forse perduto?»,
disse uno. «si è smarrito come un bambino?», disse l’altro. «o
se ne sta nascosto? Ha paura di noi? si è imbarcato sulla nave? È
emigrato?» - cosi gridavano e ridevano fra loro. ma l’uomo folle
piombò in mezzo a loro e li trapassò con lo sguardo. «dov’è anda-
to dio?», esclamò, «voglio dirvelo! noi lo abbiamo ucciso, - voi e
io! noi tutti siamo i suoi assassini! ma come abbiamo fatto? Come
abbiamo potuto bere il mare? Chi ci ha dato la spugna per can-
cellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo
sciolto questa terra dalla catena del suo sole? in che direzione essa
si muove adesso? in che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti
i soli? non precipitiamo continuamente? e all’indietro, ai lati, in
avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? non va-
ghiamo come attraverso un ininito nulla? Non alita su di noi lo
spazio vuoto? non si è fatto più freddo? non viene continuamente
la notte e più notte? non bisogna accendere lanterne di mattina?
non sentiamo ancora niente del chiasso dei becchini che sotterra-
no dio? non ci è giunto ancora il lezzo della putrefazione divina?

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- anche gli dèi si putrefanno! dio è morto! dio rimane morto! e
noi lo abbiamo ucciso! Come possiamo consolarci, noi assassini di
tutti gli assassini? Ciò che il mondo possedeva di più santo e pos-
sente, si è dissanguato sotto i nostri coltelli, chi ci toglierà di dosso
questo sangue? Con quale acqua potremo lavarci? Quali cerimonie
espiatorie, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? non è
la grandezza di questo gesto troppo grande per noi? non dobbiamo
farci dèi noi stessi, anche solo per apparirne degni? non è stata
mai compiuta una gesta più grande, - e tutti coloro che nasceranno
dopo di noi apparterranno, grazie a questa gesta, a una storia supe-
riore a tutta la storia che c’è stata inora! […]»

il tono apocalittico del racconto dell’uomo folle è più che solo


forma letteraria. esso esprime in realtà nel modo più pregnante e
adeguato il passaggio decisivo, lo strappo che segna l’avvento del
nichilismo, il superamento dello stadio della pesantezza dell’essere
verso più snelli orizzonti, dove la libertà creativa del soggetto si
rivelerà inine capace di strutturare l’ordine del mondo al di fuori di
vincoli ontologici di qualsivoglia natura. E così l’ininito nulla, che
atterrisce e rende folle l’uomo facendolo precipitare da ogni lato,
può essere accolto e positivamente trasformato dall’energia dello
Übermensch, di colui che porta l’uomo oltre se stesso, nella potenza
di un equilibrio capace di sospendere ogni residuo di dipendenza
ontologica in nome della creatività di un atto assoluto di autoposi-
zione. nietzsche dunque va oltre l’ironia di Gorgia, che già aveva
provato polemicamente a ribaltare il primato dell’essere speculando
sulle possibilità del linguaggio2. Il «nulla è» gorgiano si afida in
qualche modo ancora all’essere, la cui rappresentabilità esso pur
sempre suppone, nel momento in cui lo mostra nell’oscillazione in-
terna di una contraddizione logica. il discorso di Gorgia si gioca
insomma tutto sul piano logico, mentre lascia intatta, e proprio nella
misura in cui la accoglie come ipotesi da smentire, la valenza on-
tologica dell’essere. Con nietzsche però l’attacco viene portato di-
rettamente sul nucleo ontologico. non dunque più solo la non plau-
sibilità del discorso sull’essere, ma lo sprofondamento dell’essere
2
Cfr. V. Caston, Gorgias on Thought and Its Objects, in V. Caston e d.W. Gra-
ham (edd.), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourela-
tos, aldershot-Burlington, ashgate, 2002, pp. 204-232.

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medesimo, oramai frantumato nei mille rivoli di una soggettività
autoreferenziale che si pone come centro assoluto di ogni orizzonte.
Questa è la grande sida che il pensiero esplosivo3 del ilosofo te-
desco lancia alla cultura ilosoica dell’occidente, una sida con la
quale deve ancor sempre confrontarsi la ricerca ilosoica. Non ci
è dato perciò indietreggiare di fronte ad essa; la dobbiamo invece
assumere in tutta la sua asperità.
La via dell’essere, che appunto il pensiero di parmenide si è cu-
rato di assicurare e cui ha vincolato la sua e la posteriore rilessione
ilosoica, al giorno d’oggi è dunque per noi tornata insicura. O for-
se, incerta è solo la nostra iducia nel percorrerla. Siamo ricondotti
perciò di nuovo anche noi, come il giovane del poema parmeni-
deo, davanti alla biforcazione che segna la decisione fondamentale,
quella che separa l’essere dal non essere.

ora io parlerò, ma tu custodisci la mia parola dopo averla ascoltata,


quali sole vie di ricerca sono da pensare4:
l’una: è e non è possibile che non sia

l’altra: non è ed è necessario che non sia5

3
«io non sono un uomo, sono dinamite» (F. niEtzsChE, Ecce homo (1888), trad.
it. milano, adelphi, 1994, p. 127).
4
CordEro, ritiene che «les chemins de la recherche proposés en 2.2 sont des
chemins “pour penser”, c’est-à-dire des chemins le long desquels la pensée, la
connaissance, peuvent, a priori, cheminer» (n-L. CordEro, Les deux chemins
de Parménide, Vrin-ousia, paris-Bruxelles, 1984, p. 49). ma, come B3 sugge-
risce, le vie di ricerca sono le sole per pensare perché sono le uniche da pensare.
5
B2, 1-3.5. La traduzione che propongo rinuncia volutamente a tradurre le con-
giunzioni dichiarative Ópwj e æj dei versi 3 e 5 del frammento B2 e le sostitui-
sce, seguendo un suggerimento di Guido CaLoGEro (Parmenide e la genesi del-
la logica classica, in “annali della scuola normale superiore di pisa”, 1936, s.
ii, 5, 1936, p. 156), ripreso anche da LEonardo taràn (Parmenides, pinceton,
princeton University press, 1965, p. 32), con i due punti. il fatto è che in italia-
no il lemma che può valere tanto come congiunzione dichiarativa quanto come
pronome relativo. i due punti, che possono sostenere egualmente una funzione
dichiarativa, hanno il vantaggio di evitare l’errore di intendere la via che è/non
è come la via la quale è/non è.
L’interpretazione dei due versi ha suscitato grandi discussioni relativamente alla
individuazione del soggetto di questo “è”. ne fa una compiuta sintesi GioVanni
rEaLE nelle sue note integrative alla traduzione italiana di Eduard zELLEr, La

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parole come queste ci rimandano un suono al tempo stesso an-
tico e nuovo; forse per la prima volta dopo molto tempo siamo
in condizione di percepirne tutta la drammatica dilemmaticità. ma
quella che sotto molti punti di vista può apparire come una condi-
zione di imprevista problematicità, si offre invece per altri aspetti
come occasione straordinaria di possibilità, dal momento che ci
mette nella giusta condizione per riascoltare in tutta la sua autenti-
cità il messaggio originario che ha aperto la scena ilosoica della
tradizione culturale europea. La consuetudine con l’essere, da par-
menide in avanti ritenuto possibilità unica di discorso, ha infatti
spinto sullo sfondo il valore della sua scelta, anzi ne ha occulta-
to proprio il fatto di essere il risultato di una scelta, il non essere
venendo respinto come logicamente contraddittorio rispetto ad un
essere già acquisito come fondato. ma l’avvento del nichilismo e
la sua provocazione destabilizzante, con la quale il Novecento i-
losoico forse con troppa leggerezza si è trastullato, scuote quella
consuetudine e riapre la questione, ritenuta a lungo tempo deiniti-
vamente decisa e dunque lentamente accantonata, dell’afidabilità
della realtà e di ciò che dà senso all’esistere. L’obiezione del nichi-
lismo richiede una risposta. Veramente il nostro è un continuo ed
insensato precipitare, per quanto creativo e gioioso possa venire
a conigurarsi? O non piuttosto va affermato che ogni movimen-
to accade nell’essere, il quale si propone come sostegno ultimo
capace di portar oltre il frammento di un’esistenza scheggiata e
così ricomporre in una unità di senso quanto ad una prima analisi
ne sembra privo6? È possibile dunque mantenere un atteggiamento

ilosoia dei Greci nel suo sviluppo storico (vol. iii: Eleati, firenze, La nuova ita-
lia, 1967, pp. 184-190). per parte mia, concordo con quanto scrive taràn, (ivi, p.
36), che «œstin and oÙk œstin in lines 3 and 5 are used as impersonal and no sub-
ject has to be understood with them». a differenza dello studioso tuttavia ritengo
che il senso del ragionamento parmenideo non sia propriamente esistenziale, tale
cioè da affermare l’esistenza della prima via e negarla alla seconda, ma sia volto,
come si vedrà in seguito, a dar stabilità fondamentale alla realtà ordinaria.
6
in questa rilettura dell’esperienza di parmenide non bisogna ovviamente com-
mettere l’ingenuità di attribuire al ilosofo di Elea una sensibilità tutta postmo-
derna per la questione del senso dell’essere. Certamente per un intellettuale del V
secolo a.C. la questione ontologica non si poneva iltrata dalla mediazione della
soggettività pensante, ma direttamente nella sua valenza concreta e dimensione

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positivo di conidenza verso la verità e la realtà? La domanda, che
ci interpella, risuona ancora nei termini che il ilosofo di Elea ha
lasciato risuonare nel suo poema: essere o non essere?
ma cosa vuol dire essere? Cosa ha inteso comunicare parmeni-
de evidenziando con forza la centralità di questo termine? indica
esso forse l’universale che funge da principio formale di sussisten-
za, il genere sommo che abbraccia e sostanzia tutte le cose singola-
ri? la realtà suprema trascendente il mondo delle cose? la semplice
esistenza delle cose? e cosa vuol dire non essere? Questa coppia di
termini ha un valore sostantivale o solamente verbale? vale come
essere \ non essere o come l’essere \ il non essere? Cominciamo
dall’ultima questione.
i due termini essere e non essere, congiunti spesso in una rela-
zione oppositiva di forte alternatività reciproca7, presentano un net-
to carattere verbale. Anzi, la prima occorrenza speciica del termine
che si incontra nel Poema è nella forma deinita di una terza persona
singolare del presente, senza peraltro un soggetto espresso: œstin –
oÙk œstin, è – non è8. Quale condizione propria della realtà viene
in primo piano quando di qualcosa si dice che è o non è? mi sem-
bra chiaro che qui non possa parlarsi di esistenza o non esistenza
simpliciter. a smentire questa ipotesi c’è l’affermazione della dea
- la quale non mentisce come le muse esiodee ammettono di poter
fare9 - che la via esiste; essa costituisce l’alternativa da rigettare,
ed evidentemente non si dà alternativa quando di possibilità ce n’è
una sola. anche la via-che-non-è10 dunque esiste; eccome se esiste!
al giovane viene anzi espressamente mostrata dalla dea, che lo sta
educando alla verità, come una via abbondantemente frequentata,

reale. Ciò nondimeno non è fuori luogo pensare di incontrare parmenide a partire
da una domanda essenziale di senso, dove in termini diversi riecheggia nondime-
no la medesima questione fondamentale della stabilità del reale.
7
fr. 2, 3.5; 6,1-2; 7,1; 8, 11.15-6.
8
fr. 2, 3.5.
9
«noi possiamo dire molte menzogne simili al vero / ma sappiamo anche, quan-
do vogliamo, il vero cantare» (Esiodo, Teogonia, 27-28).
10
Come già detto nella nota 4, l’uso della formula non consente che il che possa
essere trasformato in un pronome relativo. La via-che-non-è non è dunque la
via inesistente, ma la via lungo la quale a fungere da principio è il non essere.

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un sentiero comune per gli uomini da cui lui, convocato alla verità
da dike e themis, è stato sapientemente allontanato. essa è la via
cui conducono i sensi non educati a riconoscere il vero (fr. 7), dove
vagano errabondi uomini dalla doppia testa, sempre pronti a smen-
tire la forza del reale appena affermata (fr. 6).
La scelta dunque non è tra una via che c’è ed una che non c’è.
e nemmeno, perciò, tra l’ente e il niente. parmenide in questo caso
non avrebbe avuto bisogno di essere istruito da nessuna dea; non
può esserci nessuna incertezza né indecisione, laddove a fronte di
una cosa reale si dia solo il vuoto di una inesistenza. La situazione
dilemmatica medesima, davanti alla quale il giovane viene condotto
per mano dalla dea, obbliga perciò ad applicare la categoria di es-
sere e non essere a due possibilità di esistenza, le due vie, che sono
due possibilità reali, concorrenti, che rivendicano ciascuna per sé un
valore di criterio assoluto di giudizio. potremmo allora intendere la
via-che-è come la via autentica nel percorso verso la verità, la via
vera11, lungo la quale si manifesta il senso autentico della realtà;
mentre la via-che-non-è va tenuta lontana come una strada senza
uscita, che allontana e fuorvia nella ricerca della verità.
si tratta, come hanno messo in evidenza numerosi interpreti, di
due approcci metodologici differenti, reciprocamente esclusivi, tra
i quali la sida non si gioca tuttavia primariamente sul piano logico,
e nemmeno puramente su quello dell’esserci isico, ma su quello
ben più fondamentale dell’apertura di senso della realtà; dove a
confrontarsi sono le due opzioni, positiva e negativa, relative alla
afidabilità del reale. Quello che è in questione dunque è la possibi-
lità, semplice ed originaria al tempo stesso, di poter conidare nella
stabilità di quanto ci circonda, della physis, al di là di ogni espe-
rienza di fragilità ontologica dalla quale pure siamo come pervasi.

11
La via-che-è è vera in senso ontologico, prima e più che logico. non è il pensare
che afferma la verità della via, ma è la via che consente il pensare autentico,
come parmenide afferma in B8, 35-36 («infatti non senza l’essere, in cui è
espresso, troverai il pensare»), vera croce per quanti danno una lettura logica
della via-che-è. per la stessa ragione, inadeguata mi sembra l’interpretazione
logica, veridica (è così) o predicazionale (è ciò che è) che sia, come sostengono
Kahn e, sulla scorta di mourELatos, Curd, i quali leggono parmenide attraver-
so il iltro platonico del taÙtÒn.

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Con questa esperienza il giovane si è già misurato, ne ha intravisto
tutta la forza destabilizzante allorché, giunto presso la porta dove
l’attende la dea, vede oltre i battenti della porta il vuoto di una
voragine in cui ogni cosa precipita, come nel caos originario, priva
di ogni stabile sostegno12. È lo svanire di ogni realtà in un abisso
che lacera e rende incerto lo stesso incedere ed inafidabile ogni
aspettativa di continuità. ma è proprio questa esperienza del caos
abissale e nulliicante quella che viene superata allorché la Dea,
introducendolo nella sua dimora e fornendolo di una nuova pro-
spettiva di lettura della medesima realtà, svela al giovane il valore
autentico della physis e delle cose in essa presenti. Che, pertan-
to, possono essere riguardate come enti, cose che sono, proprio in
quanto fondate sull’essere.
“essere” così non è parola sintetica che riassume e generalizza
ciò che già caratterizza essenzialmente ogni ente particolare indivi-
dualmente esistente, ma esprime la condizione strutturale che qua-
liica la totalità del reale come ente, e ne fa un ™Õn. non dunque
dagli enti all’essere, ma al contrario dalla iducia nell’essere alla
possibilità di chiamare le cose enti. È questa la conquista che, da
Parmenide in avanti, la ilosoia non farà che meditare in tutta la
sua ricchezza ed esplicitare nelle sue coerenti conseguenze, e che
costituisce il tratto speciico della tradizione culturale europea.
per noi occidentali, lontani eredi di una originaria intuizione,
il carattere di stabilità affermato del reale risulta di una eviden-
za palmare e per cosi dire naturale. Oltre la ilosoia, infatti, sarà
proprio quella scienza in cui l’occidente ha riposto la sua forza e
il suo destino, a pretendere che la realtà sia stabile, cioè ordinata
secondo una regola immutabile che l’intelligenza umana può facil-
mente riconoscere. ad affermare con forza l’eguaglianza di reale
e razionale non è più solo Hegel. ma questa stabilità e razionalità
del reale (dell’essere), che a noi appare con patente naturalezza,
non deve far perdere di vista il fatto che essa trova la sua origine
in un atto decisivo, nel duplice senso di evento di svolta e di risul-
tato di una decisione, che parmenide ha compiuto all’alba della

12
«Queste [le porte] rimanendo sospese produssero una profonda voragine
(c£sm’¢canšj) dei portali» (1, 19).

19
cultura dell’occidente. Che da quel momento ha iniziato a vedere
e affrontare la realtà del mondo e della vita con la positiva iducia
che oramai può essere prestata agli enti. Questi sono, sono enti.
il loro passare non annulla la convinzione che esso accada entro
un quadro di duratura stabilità; non trascina con sé, vaniicandolo,
ogni tentativo di dar ordine al mondo. altre civiltà e forme culturali
non sembrano aver condiviso il medesimo approccio fondamentale
nei confronti della realtà, non hanno saputo trovare motivi capaci
di rendere afidabile il mondo in cui vivono. Anzi, come risulta
palese da questo reportage dal Giappone nei giorni successivi al
distruttivo terremoto dell’11 marzo 2011, sembrano piuttosto come
assuefatte alla sregolatezza della forza imprevedibile della natura e
abbandonate fatalisticamente alla vanità di ogni agire.

La natura è mutevole e questo senso del mutamento costante è


stato interiorizzato, come spiega imasao Kunihiro, un antropolo-
go culturale che tenta di capire le motivazioni psicologiche dei
giapponesi, abitanti di una terra che trema ogni giorno, disposti
a seguire le istruzioni per prevenire i danni causati dal terremoto
ma inclini a dimenticare tutto una volta passata la tempesta. “ri-
cominciano da capo ma non progettano mai per un arco di tempo
più lungo di cinque anni”, sostiene Kunihiro, “il che rende molto
precaria la loro esistenza. È come se l’aspettativa di vita fosse di
cinque anni, un tempo breve per vite precarie”. Shoganai, dicono
i giapponesi, che equivale a “tanto non possiamo farci niente” e
in Giappone, dice Kunihiro, questo sentimento non è considerato
vile o disfattista ma è la passiva accettazione dell’inevitabile, la
tendenza a non ribellarsi a cose che fanno parte della natura …
da sempre vivono nella precarietà, nel loro inconscio è radicata la
consapevolezza dell’inevitabilità della ine dell’abbondanza, della
breve età dell’oro13.

precarietà: parola cruciale, in cui la drammaticità del racconto


trova il suo punto di massima tensione. essa esprime una «sensa-
zione sgradevole, di vertigine»14, che rende evanescente ogni pre-

13
r. Pisu, “Vivere in una capitale che non smette di tremare”, Repubblica,
12.3.2011.
14
sono le parole di un messaggio postato su twitter da una persona, presumibil-

20
cedente conidenza verso quel sostegno, la terra, cui inora ci si era
tranquillamente afidati. Ed è proprio una precarietà di tal genere,
di cui l’esperienza del terremoto è solo una, anche se estremamente
drammatica, evenienza, la vertigine dalla quale la rassicurazione
parmenidea ha inteso metterci in qualche misura al riparo. dire di
una singola realtà che è, signiica perciò dire qualcosa di più del
mero darsi o farsi presente di essa; il valore di una tale affermazio-
ne si concentra nel rendere afidabile la realtà stessa, dal momento
che la fonda su una più consistente ed ordinata costituzione, l’esse-
re appunto, il quale si mantiene tale pur nel mutare e passare delle
cose. il tutto dell’ente (tÒ ™Õn) è così detto ingenerato e imperitu-
ro, intero, immobile e senza ine, permanente nel luire del tempo,
uno, identico a se stesso (8, 3-6); caratteri questi che certamente
non possono essere attribuiti a nessuna delle realtà individuali15,
ma che, pensati in riferimento alla totalità del reale, consentono di
valutare diversamente la fragilità ontologica delle singole realtà di
cui facciamo anzitutto esperienza16.
non c’è dubbio che ad un occhio non ancora abituato da un’onto-
logia fondamentale a riconoscere tratti permanenti in cose che, come
la rilessione dei ilosoi ionici non aveva mancato di segnalare17,
luiscono sempre di nuovo lasciando l’uomo privo di riferimenti, il
risultato teorico conquistato da parmenide non poteva non apparire
alquanto problematico da condividere. Il dibattito dei ilosoi suc-
cessivi, a cominciare dagli stessi discepoli di parmenide, zenone e
Melisso, passando per i isici pluralisti per inire con Platone e Ari-
stotele, ne dà ampia testimonianza; tutti costoro sono chiamati a con-
frontarsi con un pensiero dell’essere sentito essenziale e al tempo

mente europea, che ha vissuto la terribile esperienza di quei giorni.


15
a meno di non ritenere che parmenide pensasse questo di sé, che cioè si pensasse
non nato e non destinato a morire. Questo è il non risolto di interpretazioni che
fanno della predicazione il cuore della rilessione parmenidea, come nella lettura
monistico-predicazionale della Curd. su questo importante lavoro cfr. PuLPito.
16
È per questo che il giovane dovrà imparare anche a riconoscere le cose nel loro
manifestarsi mutevole (t¦ dokoànta), «essendo tutte in ogni senso» (B1, 31-32).
17
tanto eraclito, con la legge dell’armonia recondita, quanto anche anassiman-
dro, con la sottolineatura della necessità della dissoluzione delle cose, hanno
colto la condizione di fragilità di quanto esiste.

21
stesso dificile da accettare nella sua immediata formulazione, per-
ché in prima istanza incompatibile con l’esperienza ordinaria delle
cose. se dunque le cose dell’esperienza mondana appaiono ordina-
riamente in una ontologica inconsistenza, come può attribuirsi loro
una fondatezza quale quella ipotizzata e reclamata da parmenide?
Cosa ha indotto il ilosofo di Elea ad avanzare un pensiero così ar-
dito, che non sempre ci riesce di eguagliare? Quali giustiicazioni
si posson dare di esso? dove trovare l’aggancio per una sua piena
formulazione? Ci avviciniamo con queste domande ad un secondo
cespite teorico particolarmente importante per la ricerca ilosoica,
quello che ruota attorno alla questione centrale della verità e della
sua accessibilità da parte dell’uomo. La questione, al tempo stesso
intricata ed intrigante, di come e dove trovare sostanza e validazio-
ne per la conoscenza umana non ha smesso da allora di occupare il
centro dell’interesse teoretico del ilosofo. Al ine di cogliere il nodo
teorico in tutta la sua pienezza, conviene anche in questo caso espli-
citare meglio la domanda con la quale ci avviamo ad interrogare il
pensiero di parmenide.

mythos - LoGos

«Che cosa posso conoscere?»: la domanda che muove la ricer-


ca kantiana ha un che di eccentrico nella sua apparente naturalez-
za. se infatti andiamo appena oltre l’individuazione immediata
dell’oggetto formale del problema – per il quale aspetto ciò che
possiamo conoscere è tutto quanto ci si presenta come oggetto di
una esperienza possibile - e problematizziamo lo stesso domandare
kantiano, se ci chiediamo cioè per quale motivo Kant si sia posto
una simile domanda e dove risiedesse la dificoltà che l’ha origi-
nata, troviamo senza troppa dificoltà che l’incertezza teoretica del
ilosofo tedesco si trova, più e prima che dal lato dell’oggetto di
conoscenza, in quello relativo alla possibilità e natura stessa del co-
noscere umano. L’autore della Critica della ragion pura, che aveva
concluso il saggio sui sogni della metaisica con la confessione di

22
avere il destino di essere innamorato di essa18, è infatti consapevole
che quello stesso fattore critico, che lo aveva condotto ad escludere
ogni possibilità di conoscenza di realtà trascendenti l’orizzonte di
esperienza, rende per altro verso scoperta e priva di adeguata fon-
dazione quella medesima conoscenza che egli voleva consolidare;
dato che la limitazione fenomenica della conoscenza è appunto una
limitazione delle pretese della ragione conoscitiva verso la realtà,
come la posteriore critica idealistica non mancherà di rilevare. Una
volta assicurata la possibilità di una conoscenza che sia valida uni-
versalmente e necessaria - e quindi inconfutabile: episteme è il suo
nome, coniato dalla ilosoia e poi fatto proprio dalla scienza -, non
per questo dunque la questione può dirsi conclusa. resta ancora
da compiere un ulteriore passo, per quanto incerto esso possa mai
rivelarsi, che garantisca anche la sistematicità della conoscenza,
quella per cui una singola affermazione trova supporto dall’insie-
me delle conoscenze. Una conoscenza può infatti dirsi compiuta e
sicura solo quando può essere completamente giustiicata e mostra-
ta nella necessità di tutti i suoi momenti.
Kant ne accenna nelle pagine iniziali della dialettica trascendentale.

si vede agevolmente, che la ragione giunge a una conoscenza at-


traverso atti dell’intelletto, che costituiscono una serie di condi-
zioni. […] Se pertanto una conoscenza si considera come condi-
zionata, la ragione è costretta a riguardare la serie delle condizioni
in linea ascendente come completa e data nella sua totalità. […] in
ogni caso essa [la serie delle condizioni] deve sempre contenere
la totalità delle condizioni, anche ammesso che noi non si possa
giunger mai ad abbracciarla, e la serie intera deve essere vera in-
condizionatamente, se il condizionato, che si considera come una
conseguenza da essa derivante, deve valere per vero. È questa una
esigenza della ragione, che presenta la sua conoscenza come deter-
minata a priori e necessaria.

e poco sopra:

18
Cfr. i. Kant, Träume eines Geistersehers erläutert durch Träume der Metaphysik
(1766), trad. it. Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metaisica, in i. Kant,
Scritti presocratici, roma-Bari, Laterza, 1982.

23
si vede bene che il principio proprio della ragione in generale (nel suo
uso logico) è: trovare per la conoscenza condizionata dell’intelletto
quell’incondizionato, con cui è compiuta l’unità di esso intelletto19.

Il ragionamento kantiano si fa a questo punto rafinato. Ciò che


qui Kant intravede con grande acume è la questione della totalità
sistematica della conoscenza, dalla quale dipende essenzialmente
la possibilità di un conoscere che possa presentarsi come piena-
mente e legittimamente vero ed entrare a far parte così del sistema
della scienza. È solo infatti nella catena intera di passaggi, attra-
verso cui si snoda un ragionamento, che il risultato inale di questo
può trovare la sua particolare giustiicazione. La ragione teoretica
non può infatti accontentarsi della pur convincente dimostrazione
di singoli risultati della sua ricerca, di cui pure trae giustamente
vanto, dal momento che essi tutti vengono a dipendere da una con-
dizione prima, che gli esiti di un ragionamento non sono in grado a
loro volta di consolidare; irrinunciabile diventa pertanto l’accertata
verità del principio a partire dal quale il ragionamento si svolge.
È soltanto un tale principio, da Kant chiamato l’incondizionato,
che potrà consentire la chiusura del cerchio per una conoscenza
assicurata nel fondamento del suo percorso e ben compaginata nel-
le sue articolazioni dimostrate. Come già la rilessione aristotelica
sulle regole della razionalità pensante aveva segnalato, oltre l’im-
prescindibile validità del ragionamento, che lo rifornisce di for-
za dimostrativa, ciò che richiede di essere provata è anche la sua
effettiva verità. La qual cosa però postula l’accertata verità delle
premesse del ragionamento medesimo.
ma a questo punto la ragione cade in un grande imbarazzo, dato
che «i princìpi derivanti da questo principio supremo della ragion
pura saranno però, rispetto a tutti i fenomeni, trascendenti; cioè
di questo principio non potrà mai farsi un uso empirico ad esso
adeguato»20. esso non potrà mai costruire l’oggetto formale di un
giudizio sintetico a priori. Quello che Kant osserva è che, perché

19
i. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1787), trad. it. Critica della ragion pura, roma-Bari,
Laterza, 1977, pp. 310-11 e pp. 294-5.
20
ivi, p. 295.

24
si dia una conoscenza che possa convenientemente dirsi fornita di
valore scientiico, tale insomma da poter ed anche dover venire
riconosciuta ed accettata universalmente, è necessario che la logica
che la governa possa essere applicata senza nessuna eccezione in
tutti i suoi passaggi. né può sfuggire ad essa l’inizio del discorso
di conoscenza, il principio a partire dal quale il discorso si svolge,
con la sua antinomica condizione di parte del discorso e elemento
eccedente il discorso stesso; se infatti in quanto parte integrante del
ragionamento esso ne condivide l’impianto logico che struttura il
discorso stesso, vale a dire la costituzione apodittica di necessità
che garantisce la forza dell’argomentazione, in quanto punto di av-
vio, in senso logico più che cronologico, del ragionamento medesi-
mo esso si sottrae alla possibilità di una sua derivazione logica. ma
allora, cosa ne giustiica l’affermazione? Cosa ne costituisce la ne-
cessità razionale? ma si dà per esso una necessità razionale, cioè è
possibile assicurarne la verità oltre ogni incertezza? può la ragione
garantire con i suoi logici mezzi la posizione assoluta dell’inizio,
in maniera tale che questo si mostri in tutta la sua inconfutabilità e
possa a sua volta garantire, nel rispetto dei principi logici, l’intera
costruzione teorica?
È nota la prudente soluzione kantiana, che recupera quei princì-
pi in modalità però non costitutiva ma solo regolativa; in tal modo,
mantenendo integra la possibilità di una sistematica della ragione,
ma al tempo stesso compromettendo irrimediabilmente la pretesa
di un sapere assoluto. La reazione dell’episteme così non si farà
attendere e troverà nella speculazione hegeliana il suo momento
più elevato. piegando il tempo in forma circolare e lasciando iden-
tiicare la ine con l’inizio, Hegel potrà avanzare la pretesa di un
sapere assoluto, assoluto perché interamente fondato dalla ragio-
ne; nel quale quindi ogni elemento ha il suo posto prestabilito in
un progetto razionale, progetto di una ragione assoluta. «il vero è
l’intero», e l’intero «è il circolo che presuppone e ha all’inizio la
propria ine come proprio ine»21. Tout se tient, dunque.
ma è così veramente? La razionalità del reale conquista veramente

21
G.W.F. hEGEL, Phänomenologie des Geistes (1806), trad. it. Fenomenologia dello
spirito, firenze, La nuova italia, 1933, pp. 14-15.

25
la sua necessità se dimostrata dal circolo, o si rivela un atto di posizione
da parte della ragione, in cui permane un residuo di arbitrarietà insupe-
rato e insuperabile, per quanto la dimostrazione ne possa produrre una
posteriore validazione logica? il fallimento del programma idealistico,
costretto a subire impotente gli attacchi del materialismo dei giovani he-
geliani, mostra a suficienza la provvisorietà della soluzione hegeliana e
del suo pensare assoluto. nemmeno il più grandioso progetto di autoso-
stentamento di una ragione, senza più indugi equiparata al divino, riesce
a risolvere deinitivamente la questione dell’inizio. Che pertanto si ripre-
senta ancora immutata ai nostri occhi. Cosa dunque dà avvio ed insieme
legittimazione alla ricerca della ragione di render conto del mondo e di
sé? Come soprattutto assicurare oltre ogni dubbio la premessa da cui un
discorso si avvia, ovvero il suo principio? Cosa può rendere afidabile il
ragionamento nel suo stesso proporsi?
ma così la domanda che non può essere evitata è esattamente
quella che concerne la preferenza per l’essere, che in precedenza
abbiamo sostenuto come principale. perché dunque l’essere? per-
ché non scegliere, piuttosto, la via-che-non-è? si potrebbe sostene-
re che tutto il percorso del giovane, e dunque il resto del poema - e
particolarmente la lunga disamina che la dea conduce in B8 per
mostrare la necessità che sulla via dell’essere non possono trovar
luogo che segnali con esso coerenti -, ha senso solo assumendo
come necessaria la possibilità dell’essere. il che è senz’altro vero.
ma appunto, questa necessità è solo la conseguenza di una opzione
fondamentale previa per l’essere. si tratta dunque di una prova a
posteriori, che non ha grande eficacia ai ini della questione che
stiamo ponendo. La possiamo far valere noi, lettori di un poema
già noto nella sua interezza; nemmeno per noi tuttavia varrebbe
con la stessa forza, se ci pensiamo anche noi in cammino, allo
stesso modo del giovane giunto al cospetto della dea, senza poter
far afidamento su risposte già certe e deinite. Del resto, lo svi-
luppo del ragionamento di B8 ha senso solamente sul presupposto
che l’essere sia. ma un identico e parallelo ragionamento potreb-
be esser fatto assumendo come presupposto il non essere; e allora
condurrebbe a ben altre conclusioni, come provocatoriamente farà
Gorgia. ma appunto allora: perché l’essere? Questa è la domanda.
ecco dunque un secondo interessante nodo teorico, a partire dal

26
quale provare ad interrogare parmenide. il cui pensiero, avvicinato
secondo questa nuova intenzione, offre allo sguardo indagatore im-
portanti suggestioni. ad esso perciò è tempo di volgere nuovamente
lo sguardo.
il testo con cui confrontarci è ancora il frammento 2:

ora io parlerò, ma tu custodisci la mia parola dopo averla ascoltata,


quali sole vie di ricerca sono da pensare:
l’una: è e non è possibile che non sia,
di persuasione è il sentiero (infatti segue a Verità),
l’altra: non è ed è necessario che non sia,
e questa ti dico è un cammino del tutto non persuasivo22:
né infatti potresti conoscere ciò che non è (non è infatti possibile)
né potresti dirlo

L’attacco del discorso della dea si presenta indubbiamente ri-


vestito di una certa grave solennità. esso richiama nel tono elevato
del discorso, con la sua dinamica discendente dalla dea verso il
giovane avviato ad essere suo discepolo, la conclusione del fram-
mento B1, dove la dea ha già esposto il suo programma, ed al
quale verosimilmente B2 segue da presso23; prende così forma un
ambiente comunicativo come sospeso nell’attesa di una parola il-
luminante, che ora in B2 si concretizza nel corso di un passaggio
decisivo. La forza dell’annuncio, dapprima indeterminato nell’in-
terlocuzione e conforme ai modi del dire rivelatorio (io parlerò),
e che subito però si focalizza in un comando personalizzato dal
tono dolcemente imperativo (e tu custodisci), genera uno spazio di
condivisione, dove alla manifestazione sapienziale dell’una corri-
sponde l’ascolto obbediente dell’altro24. il giovane in questo modo

22
seguo la lezione panapeiqša riportata da proclo, che richiama alla lettera per
contrapposizione il peiqoàj di v. 4. La via del non essere è un cammino lontano
da persuasione, che è compagna di verità. È dunque un percorso fuorviante.
23
Come ritengono la gran parte dei commentatori. ma raVEn, seguito da altri, frap-
pone tra i due B5 DK. Ai ini del nostro discorso però la cosa è ininluente.
24
obbedienza è dare ascolto (ob-audio). interessante è la sottolineatura che fa mourE-
Latos: «the imperative kÒmisai corresponds to the traditional “put the story in your
heart» (a.P.d. mourELatos, The Route of Parmenides, Las Vegas-zürich-athens,
parmenides publishing, 20082, p. 55 n. 26).

27
è pian piano guidato a cogliere il valore autentico, non manifesto
eppure non nascosto, del reale, ovvero l’essere che è verità25; per
parte sua, ciò che gli viene richiesto è di modiicare lo sguardo
afidandosi alla parola di rivelazione della Dea. La dinamica del-
l’ascolto ottiene il primato, occupa il centro della scena, mentre al
tempo stesso fornisce allo sguardo la giusta prospettiva lungo la
quale le cose dell’esperienza quotidiana possono rivelare il loro
vero, cioè autentico, formato.
tutto in verità dipende dalla differente relazione che i due prin-
cipali attori presenti sulla scena del poema hanno verso la verità; a
fronte di un sapere divino, che attinge il nucleo profondo di realtà
apparentemente inconsistenti, sta un mortale destinatario di quel
sapere, a lui altrimenti inaccessibile26. il poema parmenideo si pro-
pone in effetti come un poema didascalico, volto a rendere edotto il
giovane, e attraverso di lui il lettore27, di una più profonda sapien-
za, cui l’uomo mortale opportunamente guidato può essere avvici-
nato. non meraviglia perciò che al giovane non venga data alcuna
opportunità di prendere la parola, né che tra i due non si sviluppi
alcuna forma di dialogo: il dialogo accade fra eguali, a differenza
della relazione educativa, necessariamente asimmetrica. La parola
della dea pertanto si impone, chiede di essere accolta e meditata,
non semplicemente udita. La dea nel poema parmenideo – in tutto
il poema, non solamente nella sua sezione introduttiva – espone

25
occorre ricordare che in B1, 29, il giovane è invitato ad apprendere «di ben
rotonda verità il cuore che non trema (¢lhqe…hj eÙkuklšoj ¢tremj Ãtor)». ma
¢l»qeia per parmenide non è già una proprietà del conoscere; o meglio, è una
proprietà del conoscere solo in quanto è prima ancora una proprietà dell’essere.
il corrispondere del dire alla realtà, che rende verace una conoscenza, è detto
nel poema ™t»tumon (B8, 18).
26
il giovane è chiamato in B1,3 e„dÒta fîta, un sapiente illuminato (fèj provie-
ne da f£oj, luce), ma pur sempre un mortale; come tale, dunque, lontano di per
sé dalla verità. alla quale giunge, come dice la dea all’inizio del suo discorso di
accoglienza, in quanto spinto innanzi e sostenuto da temis e dike (B1, 26-28).
27
il discorso di parmenide senz’altro è pensato per formare un più vasto uditorio
alla verità (Cfr. C. robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transforma-
tive Philosophy, sankt augustin, academia, 2006). ma è fuori discussione che
questa formazione avviene come per interposta persona, essendo il giovane
l’immediato destinatario della comunicazione di verità da parte della dea.

28
un contenuto veridico mediante una parola autorevole, che trova
la sua prima e non discutibile autenticazione nell’autorevolezza di
chi la pronuncia28. il discorso della dea è così anzitutto e per lo
più un màqoj, un racconto ovvero una parola narrativa che svela
progressivamente piani nascosti di realtà, rendendo quest’ultima
accessibile alle analisi e deduzioni conoscitive di competenza della
ragione dimostrativa.
La cosa merita di essere valutata in tutta la sua valenza. anzi-
tutto per la scelta del termine con cui parmenide indica il dire della
dea: questo è un màqoj29. La generica traduzione come “parola”30
non è in grado di rilasciare le risonanze in esso racchiuse. in esso
infatti si condensa un’intuizione radicale che richiede di essere pre-
servata nel suo primario signiicato. Màqoj è racconto delle origi-
ni, di ciò che sta all’inizio. La sua posteriore identiicazione con
l’oggetto della mitologia ne svilisce il senso autentico, la mitologia
essendo di esso già l’interpretazione condotta ad opera del lÒgoj,
vale a dire la sua riconduzione entro i conini della comprensi-
bilità dell’umana ragione; laddove invece il màqoj è espressione
28
più avanti, in B7, 5, la dea farà appello ad una ragione condivisa (kr‹nai d
logJ), per invitare il giovane suo interlocutore a sviluppare tutte le conseguen-
ze logicamente deducibili dalla premessa che l’essere è. da questo momen-
to entra in campo il lÒgoj per portare a pienezza ed articolare la conoscenza
dell’™Òn. La «prova molto discussa da me annunciata» (polÚdhrin ›legcon ™x
™meqšn ·hqšnta) è perciò tanto la confutazione di B 6-7, quanto anche tutta
l’argomentazione di B 8,6-49, dove i caratteri dell’™Òn sono apoditticamente
dimostrati mediante la negazione del non essere. al participio aoristo ·hqšnta
va pertanto sottratto il valore temporale di passato a favore di quello esprimente
il senso di compimento e deinitività dell’azione. Il giovane è così invitato a
ricostruire tanto le ragioni che smentiscono la possibilità del non-essere, quanto
quelle che confortano la scelta, già compiuta, dell’essere.
29
sorprende perciò che gli interpreti si siano lasciati per lo più sfuggire il fatto
che il discorso della Dea sia presentato e qualiicato dalla Dea stessa come
màqoj. Che è il termine che ricorre ogni qualvolta sia in gioco la decisione per
la via-che-è: sia in B 2,1, quando viene presentata per la prima volta il corretto
orientamento nel contesto dell’opzione decisiva tra le due vie; sia in B 8,1,
quando la dea conferma nuovamente la validità della via e, sfruttando tutte le
capacità del lÒgoj cui la dea ha invitato a far ricorso in B 7,5-6, si avvia a trarre
le debite conclusioni del principio posto, che cioè sulla via-che-è si danno solo
tratti coerenti con l’essere.
30
se non addirittura «parole», come fanno aLbErtELLi, bEauFrEt, PasquinELLi.

29
dell’eccedente, di ciò che oltrepassa i limiti della ragione e appare
a questa indecifrabile, pur rivelandosi tuttavia essenziale alla ra-
gione stessa. il riferimento della parola mitica perciò può essere
solo raccontato, mostrato, non certo dimostrato nella sua necessità
con operazioni che il lÒgoj sa opportunamente condurre a termine.
allo stesso modo del lÒgoj, anche il màqoj è parola; parola tuttavia
che non articola la necessità dell’incontrovertibile, nell’incastro logico
governato dalla ragione, ma parola che apre lo scenario entro cui si
colloca il discorso e al cui interno quella stessa necessità può dispiega-
re la sua rigorosa azione di esplicitazione e svolgimento dei nessi argo-
mentativi. Benché dunque diverso ed anzi proprio in quanto diverso, il
màqoj non si oppone affatto al lÒgoj né lo esclude, ma al contrario lo
esige ed in qualche modo inanco lo sollecita; esso non è il-logico, ma
semmai pre-logico, come si vede bene nel poema parmenideo. accade
nella ragione, benché la ragione non possa fondarlo31. La parola del
màqoj non disdegna pertanto l’argomentazione, non è illuminazione
cieca che rifugge da ogni chiariicazione, ma è parola che fonda il sen-
so e la possibilità stessa dell’argomentare32; è parola rivolta al futuro,
che prospetta direzioni di cammino. anche quando si volge indietro a
31
scrive L. WittGEnstEin, nel Tractatus logico-philosophicus, (trad. it. torino, einaudi, 1968,
§§ 6.44 e 6.522): «non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è». «V’è davvero dell’i-
neffabile. esso mostra sé, è il mistico». L’affermazione tuttavia diventa evidentemente in-
comprensibile se la ragione pensa se stessa esclusivamente come esercizio di un pensiero
calcolante. a quanti si riconoscono in tale immagine, spetta però almeno l’onere della prova
della autosuficienza della loro posizione.
32
in ben altro contesto culturale e con una intenzionalità senz’altro differente,
troviamo un approccio simile anche nel testo biblico. i comandi della Legge
traggono infatti la loro forza ed il loro carattere imperativo dal fatto di essere
parola del signore dio; ma, come si può vedere bene nei due esempi qui di se-
guito riportati, la fondazione autorevole del comando non esclude, anzi implica
l’argomentazione dello stesso.

Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il signore, vostro dio, ha


ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per
entrare per prenderne possesso; perché tu tema il signore, tuo dio, osservando
per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo iglio e il iglio del tuo iglio, tutte le
sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
ascolta, o israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate
molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il signore, dio
dei tuoi padri, ti ha detto.

30
cercare le origini, ciò non è per un interesse meramente speculativo,
ma per dare il senso del percorso e suscitare nuovi avanzamenti33: è
insomma parola di sapienza, non di scienza34.
La scelta linguistica di parmenide dunque non è senza motivo.
Qui, nel momento in cui è necessario scegliere tra le due uniche
opzioni che si danno da pensare, quella della via-che-è e l’altra
della via-che-non-è, non è la logica che può decidere. abbiamo
visto: tutte e due le vie si fronteggiano; per il giovane entrambe si
contendono egualmente il suo consenso. anzi, a ben vedere, mag-
giormente affascinante – anche se fortemente fuorviante e dunque
erronea, come noi (ma non ancora il giovane davanti al bivio, al di
qua dunque della scelta) ben sappiamo – è la via-che-non-è, verso
la quale fa violenza35 l’abitudine delle molteplici esperienze. La
dea dunque non può far appello a fattori inconfutabili, obbligan-
ti ad una soluzione, cui il giovane con il suo ragionamento po-
trebbe autonomamente giungere, magari ricavandola dalla attenta
osservazione del reale. Quando si tratta infatti di dar avvio ad un
processo di pensiero, non si danno ancora quegli appigli, che suc-
cessivamente, una volta attestati, consentono di agganciare l’argo-
mentazione alle catene di necessità (B 8,14.29-30) e renderla così
incontrovertibile. Ciò che garantisce e dà forza alla predilezione
dell’essere e al riiuto del non essere non è quindi una supposta

amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra
d’egitto.
(dt. 6,1-3; 10,19. Corsivo mio. il testo è quello della Bibbia Cei
2008, www.bibbiaedu.it)

C’è dunque un perché, che giustiica il comando; il quale così non è inaccessi-
bile alla ragione, che ne può osservare le motivazioni. solo, la ragione non ne
può giustiicare la validità. Perché non c’è nessuna necessità logica che, a partire
dall’essere stati già forestieri in terra straniera, possa dedurre l’obbligo di amare
a sua propria volta il forestiero. a chi ha affermato una tale necessità, la storia ha
dato – e continua purtroppo a dare – risposte inequivocabili. L’unica necessità è
qui l’amore; ovvero ciò che è non necessità assoluta.
33
La ilosoia, come in più occasioni ha sostenuto hadot, nasce anzitutto da una
esperienza pratica.
34
per il senso di questa distinzione, sono costretto a rimandare al mio Il bivio di
Parmenide.
35
Bi£sqw (B7, 3), azione prodotta da b…a, la violenza.

31
evidenza dell’uno e una correlativa impossibilità del secondo. an-
che la via-che-non-è esiste, e il non essere non è assolutamente in-
dicibile – la dea lo pronuncia! – ma lo diventa solo a seguito di un
autorevole suggerimento: solo così diventa per il giovane qualcosa
che non va detto.
È perciò solo con i versi inali del frammento 2 che il senso
del discorso della dea si svela in tutta la sua chiarezza e forza di
verità. La contrapposizione delle vie nei versi 3 e 5 mette infatti in
evidenza solo la compatta identità di ciascuna nella loro reciproca
alternatività; ma non offre ancora indicazioni per una scelta36. in
relazione alla quale occorre prestare grande attenzione a non so-
vrapporre le nostre pronte considerazioni, di interpreti che, avendo
percorso tutto il testo, ne ricostruiscono le tappe in cui esso pro-
gressivamente si articola secondo una interna coerenza, a quelle
del giovane, che quello stesso percorso lo sta sperimentando nel
mentre che lo va costruendo37. Questo va tenuto ben presente: il
giovane non sa quale sia la via che lo porterà verso quella meta cui
è condotto ed alla quale anche il suo desiderio anela. La biforcazio-
ne, insomma, non è una pantomima, costruita ad arte per un effetto
scenico, senza dubbio di grande eficacia narrativa, ma di inevi-
tabile declassamento speculativo, dal momento che farebbe della
dea parmenidea una sodale delle muse esiodee, per le quali il rac-
conto della verità si conigura niente più che possibilità arbitraria;
con ciò, però, delegittimando irreparabilmente la comunicazione
della Dea e rendendone del tutto superluo il dire38.

36
tutti i numerosi tentativi – e tra questi a mio modo di vedere il più rigoroso e
consequenziale è quello di EmanuELE sEVErino - di ricavare motivi di scelta
dalla semplice analisi delle affermazioni oppositive dei vv. 3 e 5 di B2 iniscono
inevitabilmente per supporre già la scelta per l’essere. Che è invece propria-
mente il tema della decisione da prendere.
37
spesso, nelle letture che gli studiosi hanno dato del poema di parmenide, questo piccolo
dettaglio è trascurato. Col risultato di proiettare sul giovane le conclusioni di stadi più avan-
zati del percorso. ma, come ha opportunamente notato CordEro, (op. cit., p. 50): «nous
devons tenir compte du fait que le raisonnement parménidien avance par étapes et qu’il
n’est pas possible d’inverser l’ordre des afirmations». Insomma, occorre seguire passo
passo l’avanzamento del giovane verso la verità, senza prestargli l’anticipo delle soluzioni
che noi conosciamo dalla lettura del poema.
38
A meno di non pensare alla Dea come una igura della Ragione, come fa untErstEinEr.
ma un simile modo di pensare è diventato possibile solo dopo il 1789.

32
per la kr…sij tra le due possibilità che si presentano al giovane è
dunque indispensabile una ulteriore annotazione, che la dea offre
al giovane al verso 6:

e questa [la via-che-non-è] ti dico è un cammino del tutto non


persuasivo.

Questo passaggio nell’economia del poema gioca un ruolo di


primaria importanza. Lo denota il fatto che la dea torna di nuovo a
parlare in prima persona, come in tutte le altre occasioni nelle quali
l’opposizione originaria di essere e non essere deve essere sciol-
ta39, poggiando la verità del suo dire sulla autorevolezza propria
della sua condizione40. L’esclusione del cammino del non essere
in tal modo è attuata con grande forza e in tutta semplicità; non
necessita di ulteriori spiegazioni. a ben vedere, l’impossibilità di
esso è affermata con un atto illocutorio, più che dedotta in virtù di
un articolato ragionamento41; è un atto di posizione, affermazione
che non ammette repliche, e chiede solo di essere accolta e seguita.
se ora proviamo a caratterizzare ulteriormente il discorso del-
la dea, ponendo in particolare la domanda relativa al terreno sul
quale esso si dispiega, vediamo emergere distintamente un campo
semantico perimetrato dal tema della iducia. La p…stij lo qualiica
in tutti i suoi snodi cruciali. essa ovviamente non può essere intesa
nel signiicato che ha poi assunto nelle grandi religioni monoteiste
e nemmeno in quello moderno di esperienza dello spirito che si
apre alla trascendenza. ne va data una lettura conforme alla sensi-
bilità greca, nella quale p…stij è iducia, atteggiamento conidente
verso qualcuno ritenuto depositario di un sapere autentico e assolu-
tamente credibile; in quanto tale, da seguire ed a cui afidarsi senza

39
Gli altri luoghi in cui la dea usa la prima persona sono B6, 2; B8, 7. 50. 60.
40
«Fr£zw does not in Homer or in Hesiod have the trivial sense “to tell”, which
becomes current in later colloquial Greek. the man who fr£zei commands the
respect and attention of his audience. […] In the active form there is also a con-
notation of authority» (a.P.d. mourELatos, op. cit. p. 20 n. 28).
41
semmai è l’affermata impossibilità del non essere a spiegare l’impossibilità di
una sua conoscenza e quindi a rendere possibile ogni discorso su di esso. B8 si
incaricherà di svolgere le conseguenze di tutto questo.

33
incertezze. e in questa veste si presenta nel poema parmenideo la
dea, che sottolinea a più riprese la propria lontananza dalle brwtîn
dÒxai, irrimediabilmente perse dietro le fallaci convinzioni. Ciò
che contrassegna queste infatti è proprio la mancanza di conidenza
verso la verità (p…stij ¢leq»j)42, essendo esse stabilite con un atto
di posizione che pretende di attribuire al sapere umano una forza
di cui invece esso è sprovvisto43, dal momento che non può avere
diretto accesso alla verità; mentre è esattamente la iducia prestata
a ciò che è in sé vero44 ad allontanare dall’™Òn la minaccia di insta-
bilità, che nascita e morte porterebbero con loro. La dea chiama
dunque il giovane suo interlocutore a seguire il percorso lungo il
quale ella ha in mente di avanzare, non offrendo altra garanzia che
la sua divina condizione. E da parte sua, solo la iducia conidente
nella dea fornisce al giovane orientamento nel suo cammino verso
la verità, lungo il quale la realtà gli verrà aperta nella sua più con-
forme manifestazione. ovviamente, qui il problema non è quello di
sapere se parmenide abbia avuto veramente un’esperienza mistica
o se, come l’Øpokrit»j, l’attore drammatico, si sia ammantato di

42
B1, 30. P…stij è molto più che “certezza”, “convinzione”, come traducono la
maggior parte degli interpreti. tali traduzioni sbilanciano il rapporto dal lato
soggettivo, facendo del soggetto il fondamento di verità; laddove la iducia è
una forma di es-posizione, un atto cioè che porta fuori da sé il soggetto ver-
so ciò che solo è in grado di riconsegnare al soggetto stesso la certezza. Che
dunque della iducia è solo l’effetto eficace. “Fiducia” traducono bEauFrEt
(se ier) e raVEn (reliance). “fede/fedeltà” traducono mourELatos (idelity),
robbiano (trust), taràn (belief).
43
C’è un forte richiamo critico ad una siffatta pretesa fondativa di sapere da parte
di coloro che sono solo mortali, una critica che parmenide esprime utilizzando
il verbo katšqento, che ha sempre uomini come soggetto e nomi come oggetto
(B8, 38: tîi p£nt’Ônom’œstai, Óssa broto… katšqento pepoiqÒtej enai ¢lhqÁ;
B8, 53: morf¦j g¦r katšqento dÚo gnèmaj Ñnom£zein. Cfr. anche B19, 3). si
veda il commento che ruGGiu fa del passo (LuiGi ruGGiu, Commentario ilosoi-
co al Poema di Parmenide “Sulla Natura”, in ParmEnidE, Poema sulla Natura.
I frammenti e le testimonianze indirette, milano, rusconi, 1991, pp. 305-8).
44
p…stij ¢leq»j (B8, 28). Similmente in B8, 12, dove la forza della iducia (p…
stioj „scÚj) nell’essere impedisce che dall’essere derivi qualcosa d’altro
dall’essere. ancora più interessante è che, concludendo il suo ragionamento di
analisi dei s»mata dell’™Òn, la Dea lo dichiari afidabile, degno di fede (pistÕn
lÒgon - B8, 60).

34
questo annuncio per dare più forza alla sua rilessione45; ciò che
conta è cogliere il signiicato teoretico dell’adozione di un registro
linguistico coerente con lo schema mitico, nel quale la disponibi-
lità all’accoglienza di una parola orientante, che la ragione non è
in grado di produrre (semmai solo di riprodurre), si rivela decisiva.
perché qui qualcosa di importante ci si offre da pensare.
Quale può esser dunque questo signiicato? Pensare di risolvere
la questione iscrivendo d’uficio Parmenide in una sorta di giardino
d’infanzia della ragione, interpretare cioè il suo pensiero come mo-
dalità espressiva di un genere proprio di una mentalità arcaica, vale
a dire non evoluta, è una forzatura non accettabile. oltre a tradire
un po’ della ingenua superbia dei sopravvenuti, che vedono lontano
perché poggiano sulle spalle di giganti senza tuttavia averne co-
scienza, una risposta così fatta non rende minimamente conto della
complessità della questione. perché forse, al contrario, l’esperienza
che parmenide porta a maturità si rivela come dimensione costitu-
tiva della ragione. Quello che il confronto con il ilosofo di Elea ci
costringe a fare è in effetti una rilessione in profondità sullo statuto
della ragione umana, nella totalità e pienezza delle sue dimensioni.
Che la ragione sappia produrre potenti costrutti logici, attraverso
i quali dar spiegazioni del mondo, vale a dire ottenerne una cono-
scenza consolidata da una struttura argomentativa rigorosa nella
necessità del suo procedere, è un fatto; ma è un fatto anche che tali
costrutti pongono il problema del loro ancoraggio, suppongono una
apertura di senso ed una prospettiva di cammino che la ragione trova
già data avanti a sé nel momento di iniziare il suo percorso. Come
parmenide ci insegna, l’accesso all’esperienza fondante dell’essere
si offre non già attraverso un elaborato processo di conquista ad
opera della ragione umana, ma nel corso di una manifestazione del

45
forse per parmenide era l’una e l’altra cosa assieme. simili distinzioni hanno
valore solo per menti, quali le nostre, animate da una forte volontà analitica, che
spesso fa smarrire l’unità consistente del reale; abituati insomma, per ripren-
dere una famosa immagine hegeliana, a vedere gli alberi, perdiamo di vista il
bosco. del resto, lo stesso Hegel aveva caratterizzato l’età moderna come l’età
della scissione; e, nonostante tutti gli sforzo speculativi del ilosofo tedesco e
della posteriore postmodernità, non abbiamo ancora saputo trovare la riconci-
liazione della differenza in una superiore sintesi.

35
principio, di cui l’uomo può essere solo spettatore e non creatore.
È un màqoj insomma e non un lÒgoj quello che consente l’apertura
originaria sul reale. La ragione interviene certamente, ma solo in
seconda battuta, come accade, secondo il midrash, per il testo bibli-
co, che inizia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, la beth,
essendo l’alef riservata alla parola divina.
facciamo così memoria di quella che potremmo chiamare come
una sorta di secondarietà, di non originarietà della ragione; che in
questo fa l’esperienza di trovarsi, come è inevitabile che sia, in una
condizione non diversa da quella che esperimenta l’uomo nella con-
cretezza del suo esistere. ancora una volta, dunque, la precarietà
dell’esistenza dell’uomo trova riscatto in un supporto, cui l’uomo
sente di essere già sempre donato e che scopre di non possedere
integralmente nella sua origine: supporto ontologico dell’essere,
che offre stabilità e consistenza nel luire permanente delle cose,
e supporto sapienziale di verità, che rivela se stessa all’uomo che
si mette in cammino nella direzione che essa indica. si tratta della
condizione ontologica precipua del mortale, che nei confronti della
verità si trova sempre in debito.
Questa conclusione è in qualche misura spiazzante, almeno per
il nostro comune modo moderno di pensare, che invece ha fondato
sulla centralità assoluta del soggetto la conoscenza dapprima e poi
la costruzione del mondo. né deve essere frainteso il riferimento
fatto prima al midrash, che non propone affatto una dissoluzione
della ilosoia nella religione. Il testo sacro è certamente uno dei
grandi depositi dove si apre la scena all’interpretazione mondana;
ma il compito e la fatica del pensare spettano decisamente all’uo-
mo, nella libertà della sua condizione e nella responsabilità delle
sue conclusioni. Qui sta il sempre attuale bisogno di ilosoia.
Ma qui cominciano per noi anche le dificoltà. Sentiamo l’urgen-
za di una scena compiuta, che ci consenta di nuovo l’orientamento
nel mondo. È alla ricerca di un rinnovato fondamento, cui afidare il
senso del nostro andare, che dobbiamo disporci. ma dove trovarlo?
Non è facile, e forse nemmeno possibile, dare una risposta dei-
nitiva. Quello che possiamo notare è che parmenide ha aperto un
percorso, dietro al quale la ilosoia si è incamminata, ino ai nostri

36
giorni. ritornati nuovamente al bivio originario, siamo chiamati a
rifare come lui l’esperienza fondamentale che dà senso alla nostra
storia e percorrere di nuovo la strada dell’essere-verità. e questo è
il da-pensare che il testo del ilosofo di Elea consegna alla nostra
responsabilità.

37
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