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Germania, fine anni Cinquanta.

Mentre il paese cerca di archiviare


definitivamente gli orrori della guerra, il quindicenne Michael Berg cerca di
lasciarsi alle spalle i giorni maledetti della sua adolescenza. Svanita l’itterizia
che lo ha costretto a letto per un intero inverno, ora può avventurarsi di nuovo
per le strade della sua città, e raggiungere la casa di Hanna Schmitz, la
sconosciuta trentenne che lo ha soccorso un giorno d’ottobre in cui, di ritorno
dalla scuola, la malattia si era fatta sentire con violenza.
Occhi azzurri, capelli biondo cenere, il volto spigoloso ma femminile, Hanna
Schmitz esercita un’attrazione fatale sul ragazzo. Nella sua casa, un modesto
appartamento in cui la stanza più grande è la cucina, Michael riceve la sua
iniziazione alla vita sentimentale. Un’iniziazione fatta di travolgente passione
e pudori, interrotti di tanto in tanto da uno strano rituale imposto dalla donna:
la lettura ad alta voce da parte del ragazzo dei classici della letteratura
tedesca.
Un giorno, però, Hanna svanisce nel nulla senza lasciare traccia, gettando
Michael nella più cupa disperazione. Alcuni anni dopo, il ragazzo, divenuto
studente di legge, la rivede in un’aula di tribunale in cui si celebrano i
cosiddetti Auschwitzprozesse… in veste di imputata. Apparso per la prima
volta in Germania nel 1995, Il lettore è uno dei romanzi fondamentali della
narrativa tedesca contemporanea. Tradotto in più di cinquanta lingue,
vincitore di numerosi premi letterari – tra gli altri, il Premio Grinzane-Cavour
in Italia, dove fu pubblicato nel 1996 con il titolo A voce alta –, trasposto con
successo sullo schermo da Stephen Daldry (The Reader, con Kate Winslet e
Ralph Fiennes), il libro viene riproposto oggi in una nuova traduzione che ne
conferma il carattere di vero e proprio «evento letterario» (Der Spiegel),
capace di segnare un passaggio importante nella trattazione della Shoah.
Bernhard Schlink (Bielefeld, 6 luglio 1944) è uno dei maggiori scrittori
tedeschi contemporanei. Ha esercitato la professione di giudice presso la
Corte Costituzionale della Renania Settentrionale-Vestfalia sino al 2006. Nel
2006 è stato ordinato professore di Filosofia del diritto presso la prestigiosa
Humboldt Universität di Berlino. È autore di una raccolta di racconti, Fughe
d’amore (Garzanti 2002), e di numerosi romanzi tra i quali I conti del passato
(Garzanti 2004), L’inganno di Selb (Garzanti 2005), L’omicidio di Selb
(Garzanti 2004), La nostalgia del ritorno (Garzanti 2007), Il fine settimana
(Garzanti 2010) e Olga (Neri Pozza 2018).
BLOOM

140
BERNHARD SCHLINK

IL LETTORE

traduzione dal tedesco di


Chiara Ujka
Titolo originale:
Der Vorleser
© 1995 Diogenes Verlag AG Zürich

© 2018 Neri Pozza Editore, Vicenza


ISBN 978-88-545-1690-8

Il nostro indirizzo internet è: www.neripozza.it


Prima parte
1.
All’età di quindici anni mi venne l’itterizia. Mi ammalai durante
l’autunno e potei considerarmi guarito solo quando era già iniziata la
primavera. Piú l’anno vecchio si faceva freddo e scuro, piú io m’indebolivo.
Solo con l’arrivo dell’anno nuovo la situazione cominciò a migliorare. A
gennaio fece caldo e mia madre spostò il mio letto in direzione del balcone.
Vedevo il cielo, il sole, le nuvole e sentivo i bambini che giocavano in cortile.
In un tardo pomeriggio di febbraio udii un merlo cantare.
La mia prima uscita mi portò da Blumenstraße, dove vivevamo al
secondo piano di una massiccia palazzina del primo Novecento, fino in
Bahnhofstraße. Lí, un lunedí di ottobre, di ritorno da scuola, ero stato assalito
dai conati di vomito. Già da alcuni giorni mi sentivo di una debolezza
estrema: ogni passo mi costava un grosso sforzo e, quando salivo le scale a
casa o a scuola, le gambe mi reggevano a malapena. Non avevo appetito e,
persino quando mi sedevo a tavola affamato, il cibo mi dava subito il
disgusto. La mattina mi alzavo con la bocca secca e la sensazione che i miei
organi fossero pesanti e fuori posto.
Essere cosí debole mi imbarazzava; ma soprattutto mi imbarazzò
vomitare. Non mi era mai successo prima. La bocca mi si riempí e vi misi
davanti una mano, cercando di deglutire e premendo forte le labbra, ma il
rigetto fuoriuscí ugualmente e mi colò lungo le dita. Mi sostenni
appoggiandomi al muro, guardai il vomito ai miei piedi e con uno sforzo
repressi il catarro giallastro.
La donna che mi venne in soccorso lo fece in maniera quasi sgarbata. Mi
afferrò per il braccio e mi fece uscire in cortile passando per un androne buio.
Ai piani superiori si vedeva della biancheria stesa ad asciugare su fili di corda
che passavano da una finestra all’altra. Nel cortile era accatastata della legna;
da un’officina aperta proveniva il rumore di una sega, e dappertutto volavano
i trucioli. Accanto alla porta del cortile c’era un rubinetto. La donna lo aprí;
per prima cosa mi lavò la mano e poi con le mani a conca raccolse l’acqua e
me la gettò in faccia. Mi asciugai con un fazzoletto.
«Prendi l’altro!». Accanto al rubinetto c’erano due secchi; la donna ne
afferrò uno e lo riempí. Io presi l’altro e lo riempii, poi la seguii attraverso
l’androne. Lei sollevò il braccio e prese lo slancio, poi l’acqua scrosciò sul
marciapiede e sciacquò via il vomito spingendolo nel canale di scolo.
Dopodiché mi tolse il secchio di mano e lanciò un’altra ondata sul
marciapiede.
Quando si drizzò, vide che stavo piangendo. «Che ragazzino!» disse
stupita. «Che ragazzino!». Mi abbracciò. Ero di poco piú alto di lei e, stretto a
lei, sentii i suoi seni contro il mio petto, l’odore del mio alito cattivo e del suo
sudore fresco, e non sapevo che fare delle braccia. Smisi di piangere.
Mi chiese dove abitavo, posò i secchi nel corridoio e mi accompagnò a
casa. Mi camminava accanto; con una mano mi teneva la cartella e con l’altra
il braccio. Blumenstraße non era lontana da Bahnhofstraße. Camminava
veloce e con un piglio deciso che mi rendeva facile stare al passo. Davanti
alla nostra casa si congedò.
Quello stesso giorno mia madre chiamò il medico, che mi diagnosticò
l’itterizia. Non so bene quando, le raccontai di quella donna. Dubito che
altrimenti sarei andato a farle visita, ma per mia madre era naturale che,
appena ne fossi stato in grado, comprassi dei fiori con i miei soldi e mi
presentassi da lei per ringraziarla. E cosí, alla fine di febbraio tornai in
Bahnhofstraße.
2.
La casa in Bahnhofstraße oggi non esiste piú. Sono stato lontano dalla
mia città natale per molti anni, perciò non so né quando né perché sia stata
demolita. Il nuovo edificio, costruito negli anni Settanta o forse Ottanta, ha
cinque piani piú uno adibito a solaio, è privo di balconi e finestre a bovindo
ed è rivestito di intonaco chiaro e liscio. Numerosi campanelli indicano la
presenza di numerosi piccoli appartamenti. Quel genere di appartamenti nei
quali ci si trasferisce e dai quali si trasloca con la frequenza con cui si prende
e si lascia un’auto a noleggio. Al pianoterra attualmente c’è un negozio di
computer, mentre prima c’erano una drogheria, un negozio di alimentari e un
videonoleggio.
La vecchia casa era alta uguale, ma divisa in quattro piani: un pianoterra
in quadroni di arenaria ben levigati e tre piani superiori in mattoni a vista con
bovindi, balconi e cornici in arenaria. Dal pianoterra si accedeva alle scale
interne tramite una manciata di gradini, larghi alla base e via via piú stretti e
delimitati su entrambi i lati da muretti con ringhiere di ferro, che salivano a
spirale. La porta era fiancheggiata da colonne e, dagli angoli dell’architrave,
due leoni guardavano verso le due direzioni di Bahnhofstraße. L’ingresso
attraverso il quale la donna mi aveva portato nel cortile fino al rubinetto era
l’entrata secondaria.
Già da ragazzo quella casa mi aveva colpito. Dominava la schiera di
case del resto della via. Se fosse diventata ancora piú massiccia e imponente,
pensavo, le case vicine si sarebbero dovute spostare per farle spazio.
All’interno immaginavo la tromba delle scale con stucchi, specchi e una
passatoia a decorazioni orientali, fissata ai gradini con barre d’ottone lisce e
lucide. Mi aspettavo che in una casa signorile vivessero dei signori. Ma,
poiché era diventata scura per il passare degli anni e per il fumo dei treni,
immaginavo che anche i signori condomini fossero diventati cupi,
stravaganti, magari sordi o muti, gobbi o zoppi.
Negli anni successivi sognai di continuo quella casa. I sogni erano tutti
simili, varianti di un’unica trama: cammino per una città straniera e vedo la
casa. In un quartiere che non conosco, si erge in mezzo alla schiera di
abitazioni. Proseguo confuso, perché riconosco la casa ma non il quartiere,
finché mi viene in mente di averla già vista. Ma non penso a Bahnhofstraße
nella mia città natale, bensí a un’altra città o un altro paese. Nel sogno mi
trovo per esempio a Roma, vedo la casa e ricordo di averla già vista a Berna.
Questo ricordo sognato mi tranquillizza; rivedere la casa in un ambiente
diverso non mi sembra piú strano dell’incontro casuale con un vecchio amico
in un contesto sconosciuto. Mi giro, torno indietro e salgo i gradini. Voglio
entrare. Stringo la maniglia.
Quando sogno la casa in un ambiente di campagna, il sogno dura di piú,
o forse ne ricordo meglio i dettagli. Sto guidando la macchina. Vedo la casa
alla mia destra e proseguo, in un primo momento soltanto confuso dal fatto
che un edificio che appartiene chiaramente a una strada di città si trovi in
aperta campagna. Poi mi torna in mente che ho già visto quella casa e sono
doppiamente confuso. Quando mi ricordo dove, faccio inversione e torno
indietro. La strada nel sogno è sempre vuota, posso girare sgommando e
premere sull’acceleratore. Ho paura di arrivare tardi, perciò guido piú veloce.
Dopodiché la vedo, circondata da campi, colza, frumento o vigneti nel
Palatinato, da lavanda in Provenza. Il paesaggio è pianeggiante, tutt’al piú in
leggera collina. Non ci sono alberi. La giornata è limpidissima, il sole
splende, l’aria è frizzante e la strada luccica sotto la calura. I muri tagliafuoco
danno all’edificio un’aria di isolamento e incompletezza; potrebbero
appartenere a una qualsiasi abitazione. La casa del sogno non è piú tetra di
quella in Bahnhofstraße, ma le finestre sono coperte di polvere e non si vede
nulla di ciò che c’è dentro, neppure le tende. È una casa cieca.
Mi fermo sul ciglio e attraverso la strada in direzione dell’ingresso. Non
si vede nessuno, non si sente niente, neppure un motore lontano, il vento, un
uccello. Il mondo è morto. Salgo i gradini e stringo la maniglia.
Ma non apro il portone. Mi sveglio e so solo che ho afferrato e stretto la
maniglia. Poi mi torna in mente l’intero sogno e anche il fatto di averlo già
sognato.
3.
Non conoscevo il nome di quella donna. Con il mio mazzo di fiori in
mano, ero lí fermo, dubbioso, davanti al portone e ai campanelli. Avrei
preferito girarmi e andarmene, ma poi uscí un uomo, mi domandò chi stavo
cercando e mi indirizzò dalla signora Schmitz, al terzo piano.
Nessuno stucco, nessuno specchio, nessuna passatoia. Qualunque
bellezza le scale potessero aver posseduto in origine – sia pure modesta e non
comparabile allo splendore della facciata – era scomparsa da tempo. La
vernice rossa dei gradini era consumata al centro, il linoleum verde stampato,
che rivestiva la parete delle scale fino all’altezza delle spalle, era consunto, e
le barre mancanti della ringhiera erano state sostituite da corde tese. C’era
odore di detersivo. Forse tutto questo mi colpí solo in un secondo momento.
L’ambiente era sempre ugualmente misero e ugualmente pulito e c’era
sempre lo stesso odore di detersivo, a volte misto all’odore di cavolo o di
fagioli, di arrosto o di bucato messo a bollire. Degli altri inquilini non ho mai
conosciuto altro che questi odori, gli zerbini davanti alle porte e le targhette
con il nome sotto i campanelli. Non ricordo di aver mai incontrato nessuno di
loro.
Non ricordo piú nemmeno come salutai la signora Schmitz.
Probabilmente le recitai due o tre frasi che mi ero preparato, a proposito della
mia malattia, del suo aiuto e dei miei ringraziamenti. Mi fece strada fino alla
cucina.
Era la stanza piú grande dell’appartamento. C’erano i fornelli e il
lavello, la vasca da bagno e lo scaldabagno, un tavolo e due sedie, una
credenza, un armadio e un divano. Sopra il divano era steso un copriletto
rosso. Il locale non aveva finestre. La luce filtrava dai vetri della porta che
dava sul balcone. Non c’era molta luce: la cucina era luminosa solo quando la
porta era aperta. Allora dalla falegnameria nel cortile saliva lo stridore della
sega e l’aria odorava di legno.
L’appartamento disponeva anche di un piccolo e stretto soggiorno con
una credenza, un tavolo, quattro sedie, una poltrona e una stufa. Questa
stanza non veniva quasi mai scaldata in inverno e anche d’estate era usata
molto di rado. La finestra si affacciava su Bahnhofstraße e sul terreno della
vecchia stazione, già scavato e rivoltato, e sul quale qui e là erano già state
gettate le fondamenta del nuovo Palazzo di giustizia e degli uffici
amministrativi. Infine, l’appartamento aveva un bagno cieco, il cui cattivo
odore arrivava fino in corridoio.
Non ricordo piú nemmeno di cosa parlammo in cucina. La signora
Schmitz stava stirando; aveva steso sul tavolo una coperta di lana e un
lenzuolo e prendeva un indumento dopo l’altro dalla cesta del bucato, lo
stirava, lo piegava e lo metteva su una delle due sedie. Sull’altra sedevo io.
Stirò anche la sua biancheria intima; avrei voluto non guardare, ma non
riuscivo a distogliere gli occhi. Indossava un grembiule senza maniche, blu
con piccoli e sbiaditi fiori rossi. I capelli biondo cenere, lunghi fino alle
spalle, erano raccolti sulla nuca con un fermaglio. Le braccia nude erano di
un bianco pallido. I movimenti con cui prendeva il ferro da stiro, lo passava e
lo riappoggiava, e poi piegava e riponeva gli indumenti, erano lenti e
concentrati, e altrettanto lento e concentrato era il suo chinarsi e rialzarsi. Sul
suo volto di allora si sono sovrapposti, nei miei ricordi, i suoi volti successivi.
Quando la richiamo davanti ai miei occhi cosí com’era allora, mi si presenta
senza volto. Lo devo ricostruire. Fronte alta, zigomi alti, occhi azzurro chiaro,
labbra piene, con curve simmetriche, senza fossette, mento importante. Un
volto ampio, spigoloso, femminile. So che lo trovavo bello. Ma non vedo piú
la sua bellezza davanti a me.
4.
«Aspetta un attimo» mi disse, quando mi alzai per andarmene. «Anch’io
devo uscire, faccio un pezzo di strada con te».
L’aspettai in corridoio. Si cambiò in cucina, lasciando la porta
socchiusa. Si tolse il grembiule e rimase con una sottoveste verde chiaro.
Dalla spalliera della sedia pendevano due calze. Ne prese una e la arrotolò
con entrambe le mani, poi si mise in equilibrio su una gamba e appoggiò sul
ginocchio il tallone dell’altra; si piegò in avanti, infilò la calza arrotolata sulla
punta del piede e posò la punta del piede sulla sedia; fece scivolare la calza
lungo il polpaccio, il ginocchio e la coscia, si chinò di lato e fissò la calza alla
giarrettiera. Si drizzò, tolse il piede dalla sedia e poi afferrò l’altra calza.
Non riuscivo a smettere di guardarla. Di guardarle la nuca e le spalle, i
seni velati piú che coperti dalla sottoveste, il fondoschiena – su cui si tendeva
la sottoveste ogni volta che lei poggiava il tallone sul ginocchio e poi il piede
sulla sedia – la gamba, prima nuda e pallida e poi setosa e luccicante nella
calza.
Si accorse del mio sguardo. Mentre prendeva l’altra calza si fermò, si
girò verso la porta e mi guardò fisso negli occhi. Non so come mi guardò –
con sorpresa, domanda, intesa, rimprovero. Io arrossii. In un battibaleno mi
ritrovai in piedi con il viso in fiamme. Ma non resistetti a lungo; infilai la
porta e corsi giú per le scale e fuori dalla casa.
Camminai lentamente. Bahnhofstraße, Häusserstraße, Blumenstraße –
da anni era il percorso che facevo per andare a scuola. Conoscevo ogni casa,
ogni giardino e ogni steccato: quello che ogni anno veniva ridipinto, quello il
cui legno era diventato cosí grigio e marcio che potevo spezzarlo con la
mano; le recinzioni di ferro, sulle cui sbarre da bambino facevo risuonare il
bastone passando di corsa, e l’alto muro di mattoni, oltre il quale avevo
immaginato cose meravigliose e terribili, finché non ero riuscito ad
arrampicarmici e scoprire le banali aiuole di fiori disposte in fila, e le bacche
e gli ortaggi in abbandono. Conoscevo l’acciottolato e l’asfalto sulla strada e
il susseguirsi di lastre, quadrati di basalto disposti in linee ondulate, catrame e
ghiaia sul marciapiede.
Tutto mi era familiare. Quando il mio cuore smise di correre al galoppo
e la mia faccia di bruciare, quel contatto, quell’incontro tra la cucina e il
corridoio era ormai svanito. Mi arrabbiai. Ero scappato come un bambino,
invece di reagire con disinvoltura, come mi sarei aspettato da me stesso: non
avevo piú nove anni, ne avevo quindici. Ma, di fatto, rimaneva per me un
mistero quale sarebbe dovuta essere una reazione disinvolta.
L’altro mistero era proprio l’incontro tra la cucina e il corridoio. Perché
non ero riuscito a smettere di guardarla? Aveva un corpo robusto e
femminile, piú formoso di quello delle ragazze che mi piacevano e che
seguivo con gli occhi, ma ero sicuro che, se l’avessi vista in piscina, non
avrebbe attirato la mia attenzione. E non si era nemmeno mostrata piú nuda
delle donne e ragazze che avevo già visto, appunto, in piscina. Inoltre era
molto piú vecchia delle ragazze che sognavo. Oltre i trenta? È difficile dare
un’età quando non la si è ancora passata o non si è in procinto di
raggiungerla.
Anni dopo mi resi conto che non era stato semplicemente il suo corpo a
impedirmi di distogliere lo sguardo, bensí il suo portamento e i suoi
movimenti. Chiesi alle mie fidanzate di indossare le calze davanti a me, ma
senza voler dare spiegazioni né raccontare il mistero di quell’incontro tra la
cucina e il corridoio. Cosí la mia richiesta veniva presa per un desiderio di
calze e merletti e stravaganze erotiche e, quando veniva esaudita, era
accompagnata da atteggiamenti civettuoli. Non erano quelli i gesti da cui non
ero riuscito a distogliere lo sguardo. Lei non si era messa in posa, non aveva
fatto la civetta. Anzi, non ricordo che abbia mai agito cosí, nemmeno in
seguito. Ricordo che il suo corpo, il suo portamento e i suoi movimenti a
volte sembravano goffi. Non che lei fosse goffa; piuttosto sembrava
rannicchiata dentro il suo corpo, ritratta in se stessa, abbandonata al suo ritmo
tranquillo, indisturbata dai comandi del cervello e dimentica del mondo
esterno. La stessa dimenticanza del mondo esterno trapelava dal suo
portamento e dai movimenti con cui si era infilata le calze. Non era goffa,
bensí fluente, aggraziata, seducente – di quella seduzione che non è seno e
sedere e gambe, ma l’invito a dimenticare il mondo rifugiandosi nel corpo.
Allora questo non lo sapevo – ammesso che ora lo sappia davvero e non
mi stia soltanto dando una spiegazione. Ma mentre ripensavo a ciò che mi
aveva eccitato cosí intensamente, l’eccitazione tornava. Per risolvere il
mistero, richiamavo alla memoria il ricordo dell’incontro, cosicché quella
distanza che avevo creato, trasformandola in un mistero, si dissolveva.
Rivedevo di nuovo tutto davanti a me e di nuovo non riuscivo a distogliere lo
sguardo.
5.
Una settimana dopo ero nuovamente davanti alla sua porta.
Per una settimana intera avevo cercato di non pensare a lei, ma non c’era
nulla che mi riempisse la mente e mi distraesse: il medico non mi permetteva
ancora di andare a scuola, dopo mesi di letture ero ormai nauseato dai libri, e
gli amici continuavano a venire a trovarmi, ma ero malato da cosí tanto
tempo che le loro visite non riuscivano piú ad abbattere il ponte tra la loro
quotidianità e la mia e diventavano perciò sempre piú brevi. Dovevo andare a
passeggio, ogni giorno un po’ piú a lungo, senza stancarmi troppo. Ma io
avevo bisogno di stancarmi.
I giorni di malattia nell’infanzia e nell’adolescenza sono proprio giorni
maledetti. Il mondo di fuori, il mondo del tempo libero in cortile o in giardino
o sulla strada, penetra nelle stanze dei malati solo con un brusio attutito.
All’interno di quelle stanze prolifera il mondo dei racconti e dei personaggi
che il malato incontra nelle sue letture. La febbre, che indebolisce la
percezione e affina la fantasia, rende la stanza del malato un luogo nuovo e
allo stesso tempo familiare e sconosciuto; sulla trama della tenda e della
tappezzeria i mostri fanno le boccacce, e sedie, tavoli, scaffali e armadi si
accatastano per diventare montagne, edifici o navi, cosí vicini da poterli
toccare e al tempo stesso lontanissimi. Durante le lunghe ore della notte, agli
ammalati fanno compagnia i rintocchi del campanile della chiesa, il rumore
occasionale delle auto di passaggio e il riflesso dei loro fanali che si spande
su pareti e soffitti. Sono ore senza sonno, ma non ore insonni; ore non di
mancanza, ma di pienezza. Bramosie, ricordi, paure, voglie creano labirinti in
cui gli ammalati si perdono e si ritrovano e si riperdono. Sono ore nelle quali
tutto diventa possibile, il bene quanto il male.
Tutto ciò si attenua quando il malato migliora. Ma se la malattia è durata
abbastanza a lungo, la stanza si è come impregnata di queste fantasie e il
convalescente rimane perso nel labirinto.
Mi svegliavo ogni mattina con la coscienza sporca, a volte con i
pantaloni del pigiama umidi o macchiati. Le immagini e le scene che sognavo
erano riprovevoli. Sapevo che mia madre, il parroco che mi aveva preparato
alla cresima e che io adoravo, e mia sorella maggiore, alla quale avevo
confidato i segreti della mia infanzia, non mi avrebbero rimproverato. Mi
avrebbero però messo in guardia in quel modo affettuoso e preoccupato che è
peggiore del rimprovero. Particolarmente riprovevole era il fatto che, quando
non sognavo passivamente quelle immagini e quelle scene, le immaginavo
attivamente.
Non so dove trovai il coraggio di andare dalla signora Schmitz. La mia
educazione morale si ribellava forse a se stessa? Se lo sguardo smanioso era
tanto immorale quanto l’appagamento della smania, il fantasticare attivo tanto
immorale quanto l’atto fantasticato – perché allora non l’appagamento e
l’atto? Giorno dopo giorno mi rendevo conto che non riuscivo ad
abbandonare le fantasie peccaminose. E cosí volli anche l’atto peccaminoso.
C’era anche un’altra considerazione. Andare lí poteva essere pericoloso.
Ma era impossibile che il pericolo diventasse realtà. La signora Schmitz mi
avrebbe salutato meravigliata, avrebbe ascoltato le mie scuse per quel
comportamento bizzarro e mi avrebbe congedato amichevolmente. Sarebbe
stato piú pericoloso non andarci; correvo il rischio di non riuscire a liberarmi
delle mie fantasie. Dunque andarci era la cosa giusta da fare; lei si sarebbe
comportata normalmente, io mi sarei comportato normalmente e tutto sarebbe
tornato alla normalità.
Cosí ragionai all’epoca, tramutando la mia bramosia nella sentinella di
uno strano calcolo morale e riducendo al silenzio la mia coscienza sporca. Ma
non fu questo a darmi il coraggio di andare dalla signora Schmitz. Un conto
era infatti convincermi che mia madre, l’adorato parroco e mia sorella
maggiore, qualora vi avessero riflettuto a fondo, non mi avrebbero trattenuto,
ma anzi mi avrebbero esortato ad andare da lei, e un conto era andarci
davvero. Non so perché lo feci. Ma oggi riconosco negli avvenimenti di
allora lo schema secondo il quale, negli eventi della mia vita, il mio pensare e
il mio agire sono coincisi oppure hanno preso direzioni diverse. Rifletto,
arrivo a un risultato e lo trasformo nella conseguenza di una ferma decisione;
a quel punto mi rendo conto che l’agire è a sé stante, che può, ma non
necessariamente deve, seguire la decisione. Abbastanza spesso, nel corso
della mia vita, ho compiuto azioni che non avevo deciso, e non ho compiuto
azioni che avevo deciso. Qualcosa, di qualunque natura sia, mi fa agire; mi fa
andare dalla donna che non volevo piú vedere, mi fa credere all’importanza
capitale di ciò che mi sono prefisso, continua a farmi fumare nonostante io
abbia deciso di smettere, e smettere di fumare dopo aver ammesso che sono
un fumatore e che tale sarei rimasto. Non dico che riflettere e decidere non
abbiano alcuna influenza sull’agire. Ma non si tratta semplicemente di
compiere un’azione che prima è stata pensata e decisa. Il mio agire ha una
sua peculiare origine ed è il mio agire in maniera del tutto indipendente, tanto
quanto il mio pensare è il mio pensare e il mio decidere è il mio decidere.
6.
Lei non era in casa. Il portone d’ingresso era socchiuso; salii le scale,
suonai il campanello e aspettai. Suonai di nuovo. Nell’appartamento le porte
erano aperte, lo vedevo attraverso il vetro, e riconobbi nel corridoio lo
specchio e il guardaroba. E l’orologio, che udivo ticchettare.
Mi sedetti sui gradini e aspettai. Non ero sollevato, come accade quando
si prende una decisione senza convinzione, anzi se ne temono le
conseguenze, e si è felici di averla messa in pratica ma di essersi risparmiati
le conseguenze. Non ero nemmeno deluso. Ero deciso a vederla e ad
aspettarla finché non fosse arrivata.
L’orologio nel corridoio rintoccò il quarto, la mezza e l’ora. Cercai di
seguire il fioco ticchettio contando i novecento secondi tra un rintocco e il
successivo, ma continuavo a distrarmi. In cortile strideva la sega del
falegname, da un appartamento provenivano voci e musica, si aprí una porta.
Poi sentii qualcuno che saliva le scale con passi regolari, lenti, pesanti. Sperai
che fosse un inquilino del secondo piano. Se mi avesse visto, come avrei
spiegato la mia presenza lí? Ma i passi non si fermarono al secondo piano.
Continuarono a salire. Mi alzai.
Era la signora Schmitz. In una mano portava un secchio di coke,
nell’altra un recipiente di mattonelle di carbone. Indossava un’uniforme,
giacca e gonna, e capii che lavorava come bigliettaia sul tram. Non mi notò
finché non raggiunse il pianerottolo. Non mi guardò arrabbiata, né
meravigliata, né sprezzante – niente di tutto ciò che avevo temuto. Sembrava
stanca. Quando posò il carbone e cercò la chiave nella tasca della giacca, sul
pavimento tintinnarono delle monetine. Le raccolsi e gliele porsi.
«Di sotto, in cantina, ci sono altri due secchi. Li potresti riempire e
portare su? La porta è aperta».
Mi precipitai giú dalle scale. La porta del seminterrato era aperta, la luce
della cantina era accesa, e ai piedi della lunga scala trovai un ripostiglio di
legno, la cui porta era solo socchiusa e il lucchetto aperto pendeva dal
catenaccio. Era un locale ampio e il coke ammassato arrivava fino alla
finestrella sotto il soffitto, attraverso la quale era stato riversato lí dalla strada.
Vicino alla porta c’erano da una parte le mattonelle di carbone disposte con
ordine a strati, e dall’altra i secchi per il coke.
Non so cosa sbagliai. Anche a casa andavo a prendere il carbone in
cantina e non avevo mai avuto problemi. In realtà, però, a casa non era
ammassato cosí alto. Riempii senza problemi il primo secchio ma, quando
afferrai il manico del secondo e cercai di raccogliere il coke da terra, la
montagna iniziò a muoversi. Dall’alto saltellarono giú piccoli pezzi a grandi
balzi e grossi pezzi a piccoli balzi, e alla base tutto cominciò a scivolare,
rotolare, franare. Si sollevò un polverone nero. Rimasi in piedi sgomento, fui
colpito da un pezzo di coke dopo l’altro e in un attimo mi ritrovai circondato
fino alle caviglie.
Quando la montagna si fermò, uscii dal coke, riempii il secondo
recipiente, cercai e trovai una scopa, con cui spazzai i pezzi rotolati nel
corridoio delle cantine, chiusi la porta e salii con entrambi i secchi.
Lei si era tolta la giacca, aveva allentato la cravatta e slacciato il bottone
piú alto della camicia, e sedeva al tavolo della cucina con un bicchiere di
latte. Appena mi vide, cercò di soffocare una risata, poi scoppiò a ridere
apertamente. Mi puntò il dito contro e batté l’altra mano sul tavolo. «Come
sei conciato, ragazzino, come sei conciato!». Poi anch’io vidi, nello specchio
sopra il lavello, la mia faccia tutta nera e risi con lei.
«Non puoi tornare a casa cosí. Fatti un bagno, io intanto ti spazzolo i
vestiti». Si avvicinò alla vasca, aprí il rubinetto e l’acqua scrosciò fumante.
«Fa’ attenzione quando ti spogli, non ho proprio bisogno di polvere nera in
cucina».
Io esitai, mi tolsi il maglione e la camicia ed esitai ancora. L’acqua
saliva in fretta e la vasca era quasi piena.
«Vuoi fare il bagno con le scarpe e i pantaloni? Mica ti guardo,
ragazzino». Ma quando ebbi chiuso il rubinetto e tolto anche le mutande, mi
squadrò in silenzio. Arrossii, entrai nella vasca e m’immersi. Quando tirai la
testa fuori dall’acqua, la vidi sul balcone con i miei vestiti. La sentii battere le
scarpe una contro l’altra e scuotere i pantaloni e il maglione. Gridò qualcosa
guardando in giú, a proposito di polvere di carbone e segatura; da sotto le
risposero e lei rise. Poi tornò in cucina e mise i miei vestiti sulla sedia. Mi
lanciò solo una rapida occhiata. «Prendi lo shampoo e lavati anche i capelli.
Ti porto subito l’asciugamano». Afferrò qualcosa nell’armadio e uscí dalla
cucina.
Mi lavai. L’acqua nella vasca era diventata sporca e ne feci scorrere
dell’altra per sciacquarmi la faccia e la testa sotto il getto. Poi rimasi lí
disteso, ad ascoltare il ribollire dello scaldabagno e sentire sul viso l’aria
fresca, che entrava dallo spiraglio della porta della cucina, e sul corpo l’acqua
calda. Era piacevole, di un piacere eccitante; e il mio pene s’irrigidí.
Quando entrò in cucina, non sollevai lo sguardo finché non fu davanti
alla vasca. Con le braccia aperte reggeva un grosso asciugamano. «Vieni!».
Mi alzai e uscii dandole le spalle. Da dietro, lei mi avvolse nell’asciugamano
dalla testa ai piedi e mi asciugò. Poi lasciò cadere l’asciugamano sul
pavimento. Non osai muovermi. Si fece cosí vicina che percepii i suoi seni
sulla mia schiena e la sua pancia sul mio sedere. Era nuda anche lei. Mi cinse
con le braccia, una mano sul mio petto e l’altra sul mio sesso eretto.
«Sei qui per questo!».
«Io…». Non sapevo cosa dire. Non un sí, ma nemmeno un no. Mi voltai.
Non vedevo molto di lei – eravamo avvinghiati – ma io ero sopraffatto dalla
presenza del suo corpo nudo. «Come sei bella!».
«Ah, ragazzino, che cosa dici!». Rise e mi mise le braccia intorno al
collo. Anche io la presi tra le braccia.
Avevo paura: del contatto, dei baci, di non piacerle e di non essere
abbastanza. Ma dopo esserci fermati per un po’, dopo aver respirato il suo
odore e sentito il suo calore e la sua forza, tutto divenne naturale.
L’esplorazione del suo corpo con le mani e con la bocca, l’incontro delle
nostre bocche e infine lei sopra di me, occhi negli occhi, finché non venni e li
chiusi con forza, dapprima cercando di contenermi e poi urlando cosí forte
che lei soffocò l’urlo mettendomi la mano sulla bocca.
7.
Nella notte che seguí mi innamorai di lei. Non riuscii a addormentarmi
profondamente, la desideravo, la sognavo, immaginavo di sentirla, fino a
quando mi accorgevo di essere abbracciato al cuscino o alla coperta. Mi
doleva la bocca per il tanto baciare. Il mio sesso continuava a eccitarsi, ma
non volevo soddisfarmi da solo. Non volevo soddisfarmi da solo mai piú.
Volevo essere con lei.
Mi innamorai forse di lei per ricompensarla di essere venuta a letto con
me? Ancora oggi, dopo una notte con una donna, provo la sensazione di
essere stato viziato e di dovermi sdebitare – con lei, cercando di amarla, e col
mondo in cui mi trovo.
Uno dei pochi ricordi vividi della mia prima infanzia risale a una mattina
d’inverno, quando avevo quattro anni. La camera nella quale dormivo
all’epoca non era riscaldata ed era spesso molto fredda sia di notte che di
giorno. Ricordo la cucina calda e il fornello rovente, un pesante
marchingegno in ferro, dentro il quale si poteva vedere il fuoco ogni volta
che, con un gancio, si levavano la piastra e i cerchi in ghisa, e sopra il quale
era sempre pronta una marmitta di acqua calda. Davanti al fornello mia
madre aveva accostato una sedia, sulla quale mi ero messo in piedi mentre mi
lavava e vestiva. Ricordo la gradevole sensazione di tepore e il piacere che mi
dava essere lavato e vestito in quel tepore. Ricordo anche che, quando mi
tornava in mente quell’immagine, mi domandavo perché mia madre mi
avesse viziato in quel modo. Ero forse malato? I miei fratelli avevano forse
avuto qualcosa che a me era stato negato? C’era in previsione per il resto
della giornata qualcosa di spiacevole o di difficile che dovevo affrontare?
L’indomani tornai a scuola, anche perché quella donna, che nei miei
pensieri non aveva nome, nel pomeriggio mi aveva viziato cosí tanto. Inoltre,
volevo mettere in mostra la mia conquistata virilità. Non che me ne volessi
vantare. Ma mi sentivo potente e superiore, e con questa potenza e superiorità
volevo affrontare i miei compagni e i miei insegnanti. E ancora, nonostante
non ne avessi parlato con lei, immaginavo che una bigliettaia lavorasse
spesso fino a sera e anche la notte. Come avrei potuto vederla ogni giorno, se
dovevo rimanere in casa e mi era permessa solo la passeggiata da
convalescente?
Quando ero rincasato dopo essere stato da lei, i miei genitori e i miei
fratelli sedevano già a tavola per la cena. «Perché sei tornato cosí tardi? Tua
madre era preoccupata». Mio padre sembrava piú arrabbiato che preoccupato.
Dissi che mi ero perso, che avevo in mente di fare una passeggiata dal
cimitero militare a Molkenkur, ma avevo camminato a lungo senza arrivare
da nessuna parte e alla fine mi ero ritrovato a Nußloch. «Non avevo soldi e
ho dovuto farmela a piedi da Nußloch fino a casa».
«Potevi fare l’autostop». Mia sorella minore a volte lo faceva, anche se i
miei genitori non approvavano.
Mio fratello maggiore sbuffò sprezzante. «Molkenkur e Nußloch – sono
due direzioni completamente diverse».
Mia sorella maggiore mi lanciò uno sguardo inquisitore.
«Domani torno a scuola».
«Allora stai attento durante l’ora di geografia. Ci sono il nord, il sud, e il
sole va…».
Mia madre interruppe mio fratello. «Ancora tre settimane, ha detto il
medico».
«Se può camminare dal cimitero militare a Nußloch e tornare indietro,
può anche andare a scuola. Non gli mancano le forze, gli manca il cervello».
Da piccoli, mio fratello e io ci picchiavamo continuamente e in seguito
avevamo preso a insultarci. Di tre anni piú grande, lui aveva la meglio in
entrambe le situazioni. Tanto che a un certo punto avevo smesso di ribattere e
lasciavo cadere nel vuoto le sue bellicose provocazioni. Da allora si limitava
a borbottare.
«Cosa ne pensi?» chiese mia madre a mio padre. Lui posò coltello e
forchetta sul piatto, si appoggiò all’indietro e congiunse le mani in grembo.
Tacque, con lo sguardo pensieroso, come ogni volta che mia madre gli
parlava dei figli o delle faccende domestiche. E, come ogni volta, mi chiesi se
stesse riflettendo sulla domanda di mia madre, oppure se pensasse al suo
lavoro. Forse cercava anche di riflettere sulla domanda di mia madre ma,
perso nelle riflessioni, non riusciva a pensare ad altro che al suo lavoro.
Faceva il professore di filosofia e pensare era la sua vita: pensare, leggere,
scrivere e insegnare.
A volte avevo la sensazione che noi, la sua famiglia, fossimo per lui
come degli animali domestici: il cane, con cui si va a passeggio, e il gatto,
con cui si gioca o che ti si acciambella in grembo e si lascia accarezzare
facendo le fusa – puoi volergli bene, puoi persino averne bisogno, in un certo
senso, ma comprargli il cibo, pulire la lettiera e portarlo dal veterinario è già
fin troppo. Perché la vita è altro. Mi sarebbe piaciuto che noi, la sua famiglia,
fossimo la sua vita. A volte anch’io avrei voluto che il mio irritabile fratello e
la mia sorellina impertinente fossero diversi. Ma all’improvviso, quella sera,
sentii di volere a tutti loro un gran bene. La mia sorellina. Probabilmente non
era facile essere la piú piccola di quattro fratelli, e non avrebbe mai potuto
farsi valere senza un po’ d’impertinenza. Mio fratello. Condividevamo la
camera da letto, cosa che sicuramente era piú difficile per lui che per me, e
per giunta, da quando mi ero ammalato, aveva dovuto lasciarmi l’intera
stanza e dormire sul divano in soggiorno. Come poteva non innervosirsi? Mio
padre. Perché noi figli avremmo dovuto essere la sua vita? Crescevamo e
presto saremmo stati grandi e fuori di casa.
Avevo l’impressione che fossimo seduti per l’ultima volta insieme
intorno al tavolo rotondo, sotto il lampadario di ottone con cinque bracci e
cinque candele; che stessimo mangiando per l’ultima volta nei vecchi piatti
con le decorazioni di rampicanti verdi ai bordi; che stessimo parlando per
l’ultima volta cosí intimamente l’uno con l’altro. Mi sentivo come se ci
stessimo dicendo addio. Ero ancora lí ed ero già via. Avevo nostalgia della
mamma e del papà e dei fratelli e avevo il desiderio di stare con la donna.
Mio padre guardò verso di me. «“Domani torno a scuola”. Hai detto
cosí, vero?».
«Sí». Aveva dunque attirato la sua attenzione il fatto che mi fossi rivolto
a lui e non a mia madre, e anche che non avessi detto “Mi chiedo se posso
tornare a scuola”.
Annuí. «Ti lasciamo andare. Se ti diventa troppo faticoso, resterai a casa
di nuovo».
Ero felice. Allo stesso tempo avevo la sensazione che ora l’addio si
fosse compiuto.
8.
Nei giorni seguenti lei faceva il primo turno. Tornava a casa alle dodici,
e io ogni giorno saltavo l’ultima ora per andare ad aspettarla sul pianerottolo
davanti al suo appartamento. Facevamo la doccia e poi l’amore, e poco prima
dell’una e mezzo mi vestivo di fretta e correvo via. All’una e mezzo si
pranzava. La domenica si pranzava già alle dodici, ma anche il primo turno
iniziava e finiva piú tardi.
Avrei volentieri fatto a meno della doccia. Lei era di una pulizia
imbarazzante, si era già fatta la doccia la mattina e a me piaceva il sentore del
profumo, del sudore fresco e del tram che si portava dietro dal lavoro.
Tuttavia, mi piaceva anche il suo corpo bagnato e insaponato; mi lasciavo
insaponare volentieri da lei e volentieri la insaponavo, e lei mi insegnò a farlo
non con vergogna, bensí con una naturale e possessiva scrupolosità. Anche
quando facevamo l’amore, era ovviamente lei a prendere possesso di me. La
sua bocca prendeva la mia, la sua lingua giocava con la mia, mi diceva dove e
come toccarla, e quando mi cavalcava fino a venire, io per lei ero lí solo
perché godeva grazie a me, con me. Non che non fosse affettuosa e non mi
procurasse piacere. Ma lo faceva per il suo giocoso godimento, finché non
imparai anche io a possederla.
Questo accadde piú tardi e non l’ho mai imparato del tutto. Per molto
tempo neppure mi serví. Ero giovane e venivo in fretta e, quando poi
lentamente riprendevo vigore, lasciavo volentieri che lei mi possedesse. La
guardavo quando mi era sopra: la sua pancia, che faceva una profonda piega
sopra l’ombelico, i seni, il destro appena un po’ piú grande del sinistro, il viso
con la bocca aperta. Mi poggiava le mani sul petto e all’ultimo istante si
sollevava di colpo, smetteva di muovere la testa ed emetteva un urlo rauco,
atono, a singhiozzi, che la prima volta mi spaventò e poi aspettavo bramoso.
Dopo il sesso eravamo esausti. Spesso si addormentava su di me. Io
ascoltavo la sega nel cortile e le urla degli operai al lavoro, cosí forti da
coprirne il rumore. Appena la sega ammutoliva, in cucina si faceva strada a
fatica il rumore del traffico su Bahnhofstraße. Quando sentivo i bambini
giocare tra gli schiamazzi, sapevo che la scuola era finita e che era passata
un’ora. Il vicino, che tornava a casa verso mezzogiorno, gettava cibo per
uccelli sul balcone e i piccioni arrivavano tubando.
«Come ti chiami?» le chiesi al sesto o settimo giorno. Aveva dormito su
di me e si era appena svegliata. Fino a quel momento le avevo parlato
evitando frasi che mi costringessero a scegliere fra il “lei” e il “tu”.
Trasalí. «Che cosa?».
«Come ti chiami!».
«Perché vuoi saperlo?». Mi guardò diffidente.
«Io e te… Conosco il tuo cognome ma non il nome. Voglio sapere il tuo
nome. Cosa c’è di…».
Lei rise. «Niente, ragazzino, non c’è niente di sbagliato. Mi chiamo
Hanna». Continuò a ridere, non riusciva a smettere, e presi a ridere anch’io.
«Avevi uno sguardo buffo».
«Ero ancora mezza addormentata. E tu come ti chiami?».
Pensavo che lo sapesse. Andava di moda non portare piú i quaderni di
scuola nella cartella, bensí sotto braccio, e quando li appoggiavo sul tavolo di
cucina a casa sua, poteva vedere il mio nome scritto sopra, sui quaderni e
anche sui libri: avevo imparato a ricoprirli con carta robusta e vi incollavo
un’etichetta con il titolo del libro e il mio nome. Ma non ci aveva fatto caso.
«Mi chiamo Michael Berg».
«Michael, Michael, Michael» ripeté. «Il mio ragazzino si chiama
Michael, è uno studente universitario…».
«Studente delle superiori».
«… è uno studente delle superiori e ha… quanti, diciassette anni?».
Fiero dei due anni in piú che mi dava, annuii.
«… ha diciassette anni e da grande vuole diventare un famoso…»
indugiò.
«Non so cosa voglio diventare».
«Ma nello studio ti impegni».
«Abbastanza». Le dissi che per me era piú importante lei dello studio e
della scuola e che sarei andato volentieri piú spesso a trovarla. «In ogni caso
dovrò ripetere».
«Quale anno dovrai ripetere?». Si drizzò. Era la nostra prima vera
conversazione.
«Quello in corso. Negli ultimi mesi ho fatto troppe assenze per la
malattia. Dovrei sgobbare come un idiota per essere promosso. Anche adesso
dovrei essere a scuola». Le raccontai che bigiavo l’ultima ora.
«Fuori». Tirò via la coperta. «Fuori dal mio letto. E non tornare piú se
non fai il tuo dovere. Studiare è da idiota? Idiota? Cosa pensi che sia vendere
e bucare i biglietti?». Si alzò, rimase in piedi in mezzo alla cucina, nuda, e
mimò il lavoro di bigliettaia: con la sinistra aprí la piccola cartelletta con il
blocco dei biglietti, ne tolse due con il pollice della stessa mano, su cui aveva
infilato un ditale di gomma, mosse la destra in modo da riuscire ad afferrare il
manico della pinza che pendeva dal polso e forò due volte. «Due per
Rohrbach». Lasciò andare la pinza, allungò la mano, prese una banconota,
aprí il borsello davanti alla pancia, infilò la banconota, lo richiuse e premette
per far uscire il resto dai contenitori attaccati all’esterno. «Chi deve ancora
fare il biglietto?». Mi guardò. «Idiota? Tu non sai cosa significhi sgobbare
come un idiota».
Mi sedetti sulla sponda del letto. Ero come intontito. «Mi dispiace.
Studierò. Non so se ce la farò, tra sei settimane l’anno scolastico è finito. Ci
proverò. Ma non ci riuscirò, se non posso piú vederti. Io…». All’inizio
volevo dire: io ti amo. Ma cambiai idea. Forse aveva ragione, sicuramente
aveva ragione. Ma non aveva alcun diritto di esigere da me un maggior
impegno nella scuola e far dipendere da questo i nostri incontri. «Io non
posso non vederti».
L’orologio in corridoio batté l’una e mezzo. «Devi andare». Esitò. «Da
domani ho il turno centrale. Finisco alle cinque e mezzo – poi vengo a casa e
puoi venire anche tu. Se prima studi».
Eravamo in piedi uno di fronte all’altra, nudi, ma se anche avesse avuto
indosso l’uniforme, non avrebbe potuto sembrarmi piú fredda. Non capivo
cosa stava succedendo. Lo faceva per me? O per se stessa? Se studiare era da
idioti, allora il suo lavoro era doppiamente da idioti – questo l’aveva offesa?
Ma io non avevo assolutamente detto che il mio lavoro o il suo fossero da
idioti. O forse non voleva avere come amante un incapace? Ma poi, ero il suo
amante? Cos’ero per lei? Mi vestii, temporeggiando un po’ nella speranza che
dicesse qualcos’altro. Ma non parlò. Alla fine, io ero vestito e lei era ancora lí
nuda e, quando la abbracciai per salutarla, non reagí.
9.
Perché mi rende cosí triste ripensare a quei giorni? È forse la nostalgia
della felicità perduta – felice lo fui davvero nelle settimane successive:
sgobbai proprio come un idiota, fui promosso e facemmo l’amore come se
nient’altro al mondo avesse importanza. Oppure a immalinconirmi è la
consapevolezza di ciò che accadde dopo, e il fatto che venne alla luce solo
ciò che c’era già?
Perché? Perché, guardandosi indietro, quel che era bello si rivela fragile
una volta venute a galla le odiose verità che nascondeva? Perché la scoperta
che l’altro ha avuto per tutto il tempo un amante avvelena il ricordo di anni di
matrimonio felici? Forse perché in una situazione del genere non si può
essere felici? Eppure lo si è stati! A volte, quando la fine è stata dolorosa, il
ricordo non riesce a essere fedele alla felicità passata. Forse perché la felicità
è accettabile solo quando dura in eterno? O forse perché può concludersi nel
dolore solo ciò che era già doloroso all’inizio, sia pure in maniera
inconsapevole e non riconosciuta? Ma che cos’è un dolore inconsapevole e
non riconosciuto?
Ripenso ad allora e mi rivedo qui, come fossi davanti al me stesso di
oggi. Indossavo il completo elegante che un ricco zio mi aveva lasciato in
eredità e che mi era pervenuto assieme a diverse paia di scarpe bicolori, nere
e marroni, nere e bianche, di pelle liscia e scamosciata. Avevo braccia e
gambe che sembravano sempre troppo lunghe, non per l’abito, che mia madre
aveva fatto allungare, ma per il mio modo di muovermi poco coordinato.
Portavo occhiali di un modello economico, passati dalla mutua, e i miei
capelli erano una scopa a frange arruffate, qualunque cosa provassi a farci. A
scuola non andavo né bene né male; credo che molti insegnanti non mi
prendessero granché in considerazione e nemmeno i compagni che in classe
erano considerati dei leader. Non mi piaceva il mio aspetto, il modo in cui mi
vestivo e mi muovevo, quello che combinavo e quello che valevo. Eppure,
quanta energia possedevo, quanta fiducia di diventare un giorno bello e
intelligente, superiore e ammirato; con quanta aspettativa mi accostavo a
nuove persone e situazioni!
È questo che mi rende triste? Lo zelo, e la fede che allora mi riempiva e
a cui la vita faceva una promessa che mai e poi mai avrebbe potuto
mantenere? A volte riconosco nei volti dei bambini e degli adolescenti lo
stesso zelo e la stessa fede, e ai miei occhi hanno la stessa tristezza con la
quale ripenso al mio passato. È questa la tristezza per eccellenza? È la
tristezza che ci assale quando i bei ricordi si sgretolano guardandoci indietro,
perché la felicità ricordata non traeva vita soltanto dalla situazione, ma anche
da una promessa che non venne mantenuta?
Lei – dovrei iniziare a chiamarla Hanna, come all’epoca – lei non viveva
certamente di una promessa, ma della situazione, e nient’altro.
Le chiesi del suo passato, e sembrò tirare fuori le risposte da un baule
impolverato. Era cresciuta in Transilvania e arrivata a Berlino a diciassette
anni, era diventata operaia alla Siemens e a ventuno si era arruolata
nell’esercito. Dalla fine della guerra aveva tirato avanti con lavori di ogni
genere. Del suo impiego di bigliettaia, che svolgeva da qualche anno, le
piacevano l’uniforme e il movimento, la varietà delle scene e il rollio sotto i
piedi. Nient’altro. Aveva trentasei anni. Non aveva famiglia. Raccontò tutto
questo come se non stesse parlando della sua vita, ma della vita di qualcun
altro – qualcuno che lei nemmeno conosceva bene e che non la riguardava
affatto. Alle mie domande piú precise spesso non sapeva rispondere, e
neppure capiva perché fossi interessato a sapere che ne era stato dei suoi
genitori, se aveva avuto dei fratelli, come aveva vissuto a Berlino e che cosa
aveva fatto durante il servizio militare. «Vuoi sapere proprio tutto,
ragazzino!».
Lo stesso valeva per il futuro. Naturalmente non avevo progetti di
matrimonio o di metter su famiglia. Ma, da lettore di Stendhal, prendevo
spunto dalla relazione di Julien Sorel con Madame de Rênal piú che da quella
con Mathilde de la Mole. Alla fine dei conti, vedevo il Felix Krull di Thomas
Mann meglio tra le braccia della madre che della figlia. Mia sorella, che
studiava germanistica, una sera a cena raccontò della presunta relazione
amorosa del signor Goethe con la signora von Stein, e io l’appoggiai con
vigore, davanti allo sbalordimento dei miei famigliari. Cercavo di
immaginare la nostra relazione di lí a cinque o dieci anni. Chiesi a Hanna
come se la immaginasse lei, ma non voleva pensare nemmeno alle prossime
vacanze di Pasqua e alla mia proposta di trascorrerle partendo insieme in
bicicletta. Avremmo potuto affittare una camera facendoci passare per madre
e figlio e trascorrere tutta la notte vicini.
Strano, che l’idea e la proposta non mi imbarazzassero. In un viaggio
con mia madre avrei lottato per avere la camera singola. Farmi accompagnare
da mia madre a una visita dal dottore o a comprare un cappotto nuovo,
oppure chiederle di venirmi a prendere al ritorno da un viaggio, mi sembrava
ormai inappropriato alla mia età. Quando eravamo insieme per strada e
incontravamo qualche mio compagno di scuola, avevo paura di essere
considerato un mammone. Ma farmi vedere con Hanna, che poteva essere
mia madre benché avesse dieci anni in meno della mia, non mi dispiaceva. Al
contrario, mi rendeva orgoglioso.
Oggi, quando vedo una donna di trentasei anni, la considero giovane.
Ma quando vedo un quindicenne, lo considero un bambino. Mi meraviglio di
quanta sicurezza mi desse Hanna. Il mio successo a scuola richiamò
l’attenzione dei miei insegnanti e mi assicurò il loro rispetto. Le ragazze che
incontravo notavano con piacere che non avevo timore di loro. Mi sentivo
bene nel mio corpo.
Il ricordo, che rischiara e trattiene con forza i miei primi incontri con
Hanna, si fa confuso ripercorrendo le settimane che trascorsero tra la nostra
conversazione e la fine dell’anno scolastico. Uno dei motivi è la regolarità
con cui ci incontravamo e che caratterizzava i nostri incontri. Un altro motivo
è che non avevo mai avuto giornate cosí intense prima d’allora, la mia vita
non era mai stata cosí frenetica e piena. Quando ripenso all’impegno di quelle
settimane, mi sembra di essermi seduto alla scrivania e di esserci rimasto
finché non ebbi recuperato tutto ciò che avevo perso durante la malattia: tutti
i vocaboli imparati, tutti i testi letti, tutte le dimostrazioni matematiche svolte
e tutti i legami chimici creati. La storia della Repubblica di Weimar e del
Terzo Reich li avevo già studiati a letto durante la convalescenza. E anche gli
incontri con Hanna si trasformano, nei miei ricordi, in un unico lungo
incontro. Dopo la nostra conversazione, ebbero luogo solo nel pomeriggio:
dalle tre alle quattro e mezzo quando lei aveva l’ultimo turno, altrimenti alle
cinque e mezzo. A casa mia si cenava alle sette e all’inizio Hanna mi
spingeva a essere puntuale. Ma dopo un po’ un’ora e mezza non bastò piú e
cominciai a trovare scuse per saltare la cena.
Il motivo era la lettura. Il giorno dopo la nostra conversazione Hanna
volle sapere che cosa imparavo a scuola. Le raccontai dei poemi di Omero,
dei discorsi di Cicerone, e di Hemingway che racconta la storia del vecchio e
della sua lotta con il pesce e il mare. Lei volle sentire come suonavano il
latino e il greco, e io le lessi alcune parti dell’Odissea e dei discorsi contro
Catilina.
«Studi anche il tedesco?».
«In che senso?».
«Studi solo lingue straniere o c’è qualcosa da imparare anche nella
propria lingua?».
«Leggiamo dei testi». Mentre ero ammalato, i miei compagni avevano
letto l’Emilia Galotti e Intrigo e amore, su cui dovevamo scrivere una
relazione. Perciò anch’io dovevo leggere entrambe le opere, cosa che feci
dopo aver terminato tutto il resto. Poi, però, si era fatto tardi e mi ero
stancato, e tutto ciò che avevo letto, il giorno seguente non lo ricordavo piú e
fui costretto a leggerlo nuovamente.
«Leggimelo a voce alta!».
«Leggilo da sola, te lo porto».
«Tu hai una voce cosí bella, ragazzino, preferisco ascoltare te che
leggere da sola».
«Mmh, non so».
Ma quando il giorno seguente arrivai e cercai di baciarla, lei si scostò.
«Prima devi leggere per me».
Era seria. Dovetti leggerle per un’ora intera l’Emilia Galotti, e solo dopo
mi prese sotto la doccia e a letto. Adesso la doccia piaceva anche a me, ma la
voglia con la quale ero arrivato si spense durante la lettura. Leggere a voce
alta un’opera in modo tale che i diversi personaggi siano in qualche modo
riconoscibili e vivi richiede una certa concentrazione. Tuttavia, sotto la
doccia la voglia tornò. Leggere a voce alta, fare la doccia, fare l’amore e
rimanere ancora un po’ sdraiati uno di fianco all’altro – questo divenne il
rituale dei nostri incontri.
Hanna era un’ascoltatrice attenta. Le sue risate, il suo sbuffare
sprezzante e le sue esclamazioni di sdegno o di assenso non lasciavano dubbi
sul fatto che seguiva intensamente l’azione e che riteneva Emilia e Luise due
stupide mocciose. L’impazienza con cui a volte mi chiedeva di continuare a
leggere era data dalla speranza che alla fine la stupidità venisse meno.
«Questo non può essere vero!». A volte mi sentivo in dovere di continuare a
leggere. Quando i giorni si fecero piú lunghi, presi a leggere per piú tempo,
desideroso di rimanere a letto con lei al crepuscolo. Quando si addormentava
su di me, e la sega in cortile taceva, il merlo cantava e dei colori degli oggetti
in cucina restavano solo i toni di grigio, chiari e scuri, io ero completamente
felice.
10.
Il primo giorno delle vacanze di Pasqua mi alzai alle quattro. Hanna
aveva il primo turno. Alle quattro e un quarto raggiungeva in bicicletta il
deposito dei tram e alle quattro e mezzo partiva per Schwetzingen. Mi aveva
detto che all’andata il tram era spesso vuoto. Solo al ritorno si riempiva.
Salii alla seconda fermata. La seconda carrozza era vuota, nella prima
c’erano Hanna e il conducente. Esitai, valutando se andare a sedermi nella
carrozza anteriore o in quella posteriore; alla fine mi decisi per quella
posteriore, che prometteva segretezza, un abbraccio, un bacio. Ma Hanna non
venne. Mi aveva sicuramente visto aspettare alla fermata e poi salire. Per
questo il tram si era fermato. Ma lei continuava a stare in piedi vicino al
conducente, parlava e scherzava con lui. Riuscivo a vederli.
Alle fermate successive il tram procedette diritto. Ad aspettare non c’era
nessuno. Le strade erano vuote, il sole non era ancora sorto e sotto il cielo
bianco tutto era pallido nella luce pallida: le case, le auto parcheggiate, gli
alberi verdi e freschi e i cespugli fioriti, il gasometro e le montagne in
lontananza. Il tram procedeva lento; probabilmente la tabella di marcia era
stata stabilita in base ai tempi di percorrenza e di fermata, ed era necessario
allungare i tempi di percorrenza per supplire all’assenza di fermate. Ero
chiuso nel lento tram in transito. Dapprima rimasi seduto, poi mi alzai sulla
piattaforma anteriore e cercai di fissare Hanna; prima o poi avrebbe dovuto
percepire il mio sguardo sulla schiena. Dopo un po’ lei si girò e mi fissò con
insistenza. Subito dopo, però, riprese a parlare col conducente. Il viaggio
continuò. Vicino a Eppelheim i binari non erano su strada, ma correvano
paralleli su un terrapieno ghiaioso. Il tram procedette piú veloce, con il
regolare sferragliare della ferrovia. Sapevo che il tragitto terminava a
Schwetzingen passando prima per altri luoghi. Ma io mi sentivo escluso,
emarginato dal mondo normale, nel quale le persone vivono, lavorano e
amano. Come se fossi condannato a un viaggio senza meta e senza fine in una
carrozza vuota.
Vidi una fermata con una tettoia in aperta campagna. Tirai la cordicella
con la quale il bigliettaio segnala al conducente che deve fermarsi o che può
ripartire. Il tram si fermò. Né Hanna né il conducente, al segnale sonoro, si
erano girati verso di me. Quando scesi, ebbi la sensazione che mi guardassero
ridendo. Ma non ne ero sicuro. Il tram si rimise in marcia e io lo seguii con lo
sguardo finché scomparve prima in un avvallamento e poi dietro una collina.
Stavo tra la banchina e la strada, tutt’intorno c’erano campi, piante da frutto e
piú lontano un vivaio con delle serre. L’aria era fresca, e ovunque si sentiva il
cinguettio degli uccelli. Sopra le montagne il cielo bianco splendeva di rosa.
Il viaggio in tram era stato come un brutto sogno. Se non ricordassi con
tanta chiarezza ciò che seguí, avrei sicuramente cercato di considerarlo un
incubo a tutti gli effetti. Stare alla fermata, ascoltare gli uccelli e vedere
sorgere il sole fu come risvegliarsi. Ma il risveglio da un brutto sogno non dà
necessariamente sollievo. Ci si può rendere conto di quanto fosse spaventoso
quel sogno o, magari, persino di quale spaventosa verità vi si sia incontrata.
Mi misi sulla via di casa con le lacrime che sgorgavano e, solo quando
raggiunsi Eppelheim, riuscii a smettere di piangere.
Rincasai a piedi. Un paio di volte cercai inutilmente di fare l’autostop.
Quando ebbi percorso metà della strada, il tram mi passò davanti. Era pieno.
Non vidi Hanna.
La aspettai alle dodici sul pianerottolo del suo appartamento, triste,
ansioso e infuriato.
«Hai marinato ancora la scuola?».
«Sono in vacanza. Cos’è successo stamattina?». Lei girò la chiave e io la
seguii nell’appartamento fino in cucina.
«Cosa dovrebbe essere successo stamattina?».
«Perché hai fatto finta di non conoscermi? Io volevo…».
«Io ho fatto finta di non conoscerti?». Si girò e mi guardò fredda negli
occhi. «Tu hai fatto finta di non conoscermi. Sei salito sulla seconda
carrozza, anche se hai visto che io ero sulla prima».
«E perché mai nel mio primo giorno di vacanza sarei andato fino a
Schwetzingen alle quattro e mezzo del mattino? Solo perché volevo farti una
sorpresa, perché pensavo che ne saresti stata felice. Sono salito sulla
seconda…».
«Oh, povero bambino. Ti sei alzato alle quattro e mezzo e per di piú
durante le vacanze». Non l’avevo mai sentita ironica. Scosse il capo. «Che ne
so io, del perché te ne vai a Schwetzingen. Che ne so io, del perché fai finta
di non conoscermi. È affar tuo, non mio. Potresti andartene adesso?».
Non so descrivere quanto fossi indignato. «Non è giusto, Hanna. Tu
sapevi, dovevi sapere che ero lí solo per te. Come puoi pensare che volessi
far finta di non conoscerti? Se fosse stata quella la mia intenzione, non sarei
certo venuto fin lí».
«Ah, lasciami stare. Ti ho già detto che ciò che fai è affar tuo, non mio».
Si era messa dall’altro lato del tavolo della cucina e il suo sguardo, la sua
voce e i suoi gesti mi facevano sentire come un intruso, spingendomi ad
andarmene.
Mi sedetti sul divano. Mi aveva trattato male e avevo voluto discuterne,
ma senza avvicinarmi a lei. Ciononostante, mi aveva attaccato. E cosí persi
tutta la mia sicurezza. Aveva forse ragione, non oggettivamente, ma dal suo
punto di vista? Poteva, doveva non capire? L’avevo ferita, non
intenzionalmente, tutt’altro, ma pur sempre ferita?
«Mi dispiace, Hanna, è andato tutto storto. Non volevo offenderti, ma
sembra…».
«Sembra? Dici che sembra che tu mi abbia offesa? Tu non mi puoi
offendere, non tu. E adesso te ne vai, finalmente? Ho lavorato, voglio farmi
un bagno e rilassarmi». Il suo sguardo mi intimava chiaramente di
andarmene. Ma, poiché non mi alzavo, scrollò le spalle, si girò, fece scorrere
l’acqua nella vasca e si spogliò.
Allora mi alzai e me ne andai. Pensavo che non sarei piú tornato, invece
mezz’ora dopo ero di nuovo davanti a casa sua. Mi fece entrare e io mi presi
tutta la responsabilità: avevo agito senza pensare, senza riguardo, senza
amore. Capivo che era offesa. Capivo che non era offesa, perché io non
potevo offenderla. Capivo che io non potevo offenderla, ma che
semplicemente non poteva tollerare il mio comportamento. Alla fine mi sentii
felice, quando ammise che l’avevo ferita. Non era quindi cosí insensibile e
indifferente come mi aveva fatto credere.
«Mi perdoni?».
Annuí.
«Mi ami?».
Annuí di nuovo. «La vasca è ancora piena. Vieni, ti faccio il bagno».
Piú tardi mi domandai se avesse lasciato l’acqua nella vasca perché
sapeva che sarei tornato. Se si fosse spogliata perché sapeva che
quell’immagine mi sarebbe rimasta in mente e mi avrebbe spinto a tornare da
lei. Se avesse voluto soltanto vincere un braccio di ferro per dimostrare chi
era piú forte. Dopo aver fatto l’amore, mentre eravamo sdraiati uno di fianco
all’altra e io le raccontai perché ero salito sulla seconda carrozza anziché
sulla prima, mi punzecchiò. «Volevi fartela con me persino sul tram? Ah,
ragazzino!». Ora trattava l’accaduto come una discussione senza importanza.
Ma le conseguenze ebbero importanza. Non avevo perso soltanto quella
discussione. Mi ero arreso quasi senza lottare, appena lei aveva minacciato di
mandarmi via, di rifiutarsi a me. Nelle settimane che seguirono non lottai piú,
neanche minimamente. Appena mi minacciava, mi arrendevo senza
condizioni. Mi assumevo tutta la responsabilità. Ammettevo errori che non
avevo commesso, rispondevo di un’intenzione che non avevo avuto. Appena
diventava fredda e dura, la pregavo di tornare a essere buona con me, di
perdonarmi, di amarmi. A volte mi sembrava che lei stessa soffrisse del suo
distacco e della sua freddezza, come se desiderasse il calore delle mie scuse,
delle mie conferme, dei miei giuramenti. A volte pensavo che le era facile
trionfare su di me. Ma, in un caso o nell’altro, non avevo scelta.
Non potevo parlarne con lei. Parlare dei nostri litigi portava solo ad altri
litigi. In un paio di occasioni le scrissi delle lunghe lettere, ma lei non reagí e,
quando le chiesi il perché, ribatté chiedendomi solo: «Hai intenzione di
ricominciare?».
11.
Non voglio dire che, dopo il primo giorno delle vacanze di Pasqua,
Hanna e io non fossimo piú stati felici. Anzi, non fummo mai cosí felici come
in quelle settimane di aprile. Mentre quel primo litigio e i nostri litigi in
generale rimasero privi di sostanza, al contrario tutto ciò che si schiudeva
grazie al nostro rituale del leggere, fare la doccia, fare l’amore, rimanere stesi
uno accanto all’altra ci faceva stare bene. Inoltre, rimproverandomi di aver
fatto finta di non conoscerla, Hanna si era assunta un impegno: quando
desideravo farmi vedere in giro con lei, non poteva sollevare obiezioni di
principio. «Allora eri tu che non volevi essere vista con me»: questo non
voleva sentirselo dire. Cosí, la settimana dopo Pasqua partimmo con le
biciclette per quattro giorni tra Wimpfen, Amorbach e Miltenberg.
Non ricordo piú cosa dissi ai miei genitori. Che avrei fatto un viaggio
con il mio amico Matthias? Con un gruppo? Che sarei andato a trovare un ex
compagno di classe? Probabilmente mia madre era preoccupata, come
sempre, e mio padre, come sempre, riteneva che non dovesse preoccuparsi.
Non ero forse appena stato promosso, cosa di cui nessuno mi aveva ritenuto
capace?
Durante la malattia non avevo speso la mia paghetta. Ma non sarebbe
stata sufficiente, se avessi voluto pagare anche per Hanna. Allora offrii la mia
collezione di francobolli al negozio di filatelia vicino alla Heiliggeistkirche. Il
cartello sulla porta indicava che il negozio acquistava collezioni. Il commesso
sfogliò il mio album e mi offrí sessanta marchi. Gli feci notare il mio pezzo
forte, un francobollo egiziano con una piramide, senza dentellatura, che sul
catalogo era prezzato quattrocento marchi. Alzò le spalle. Se ero cosí
attaccato alla mia collezione, era meglio che me la tenessi. Anzi, chissà se mi
era permesso venderla. Cosa avrebbero detto i miei genitori? Cercai di
negoziare. Se il francobollo con la piramide non valeva niente, allora me lo
sarei tenuto. Il negoziante mi offrí trenta marchi. Allora, ribattei, il
francobollo con la piramide un valore ce l’aveva! Alla fine accettai settanta
marchi. Mi sentii truffato, ma non me ne importava niente.
Al momento di partire, fui preso dalla frenesia. Ma non solo: notai con
sorpresa che anche Hanna si era fatta inquieta già alcuni giorni prima del
nostro viaggio. Rimuginava su cosa dovesse portare con sé e continuava a
riempire e disfare le sacche da bicicletta e lo zaino che le avevo procurato.
Quando proposi di mostrarle sulla cartina l’itinerario che avevo pensato, si
rifiutò di sentire e vedere alcunché. «Ora sono troppo agitata. Sicuramente
andrà bene, ragazzino».
Ci mettemmo in marcia il lunedí di Pasqua. Il sole splendeva e continuò
a splendere per tutti e quattro i giorni. La mattina era fresca e il pomeriggio
caldo, non troppo per pedalare e abbastanza per mangiare all’aperto. I boschi
erano dei tappeti verdi con batuffoli, chiazze e distese verde chiaro, verde
bottiglia, verde tendente al giallo, al blu e al nero. Sulle pianure del Reno
fiorivano già i primi alberi da frutto. Sull’Odenwald sbocciavano le forsizie.
Spesso potevamo pedalare fianco a fianco. Allora ci indicavamo quello
che vedevamo: la rocca, il pescatore, la barca sul fiume, la tenda, la famiglia
in fila indiana sulla riva, il macchinone americano con la capote abbassata.
Quando cambiavamo strada e direzione, dovevo precederla, perché non
voleva essere lei a occuparsene. Altrimenti, se il traffico era troppo intenso, a
volte stava dietro di me, a volte io dietro di lei. Aveva una bicicletta con i
raggi e i pedali coperti e le ruote dentate e indossava un vestito blu con
un’ampia gonna che svolazzava al vento. Ci misi un po’ a smettere di
preoccuparmi che la gonna la facesse cadere impigliandosi nei raggi o nella
ruota. Ma poi presi gusto a guardarla pedalare davanti a me.
Con quanta gioia avevo pregustato le notti! Immaginavo che avremmo
fatto l’amore, ci saremmo addormentati e risvegliati e avremmo fatto l’amore
di nuovo, e di nuovo ci saremmo addormentati e risvegliati e poi ancora,
notte dopo notte. Riuscii a svegliarmi soltanto la prima notte. Hanna giaceva
con la schiena rivolta verso di me e io mi chinai a baciarla; lei si girò supina e
mi accolse tra le braccia. «Oh, ragazzino, ragazzino». Poi mi addormentai su
di lei. Le notti seguenti dormimmo senza interruzione, sfiniti dal viaggio, dal
sole e dal vento. Facevamo l’amore al mattino.
Hanna mi affidò non solo la scelta della direzione e della strada, ma
anche quella delle locande in cui pernottare. Dichiaravo che eravamo madre e
figlio, e firmava solo lei, e io sceglievo il menu dei pasti per entrambi.
«Vorrei non preoccuparmi di nulla».
Litigammo un’unica volta, ad Amorbach. Mi ero svegliato presto, mi ero
vestito in silenzio ed ero sgattaiolato fuori dalla stanza. Volevo portarle la
colazione in camera e vedere se trovavo un fiorista aperto per aggiungere una
rosa. Le avevo lasciato un biglietto sul comodino: “Buongiorno! Porto la
colazione, torno subito” o qualcosa del genere. Quando rientrai, era in piedi,
mezza vestita, e tremava dalla rabbia, bianca in volto.
«Come puoi andartene cosí?».
Appoggiai il vassoio con la colazione e la rosa e cercai di prenderla tra
le braccia. «Hanna…».
«Non toccarmi». Aveva in mano la sottile cintura di cuoio che indossava
sul vestito, fece un passo indietro e me la batté in faccia. Sentii il mio labbro
esplodere e il sapore del sangue. Non provai dolore, solo un grande spavento.
Lei indietreggiò con la cintura.
Ma non mi colpí piú. Abbassò il braccio, lasciò cadere la cintura e
scoppiò a piangere. Non l’avevo mai vista piangere. Il suo viso perse ogni
forma: occhi spalancati, bocca spalancata, le palpebre gonfie dopo le prime
lacrime, chiazze rosse sulle guance e sul collo. Dalla bocca uscivano suoni
gracchianti, gutturali, simili alle grida atone di quando facevamo l’amore.
Stava lí, in piedi, e mi guardava attraverso le lacrime.
Avrei voluto prenderla tra le braccia. Ma non ci riuscivo. Non sapevo
cosa fare. A casa mia non si piangeva cosí, non si picchiava, non si alzavano
le mani e men che meno si usava una cinghia di cuoio. Si parlava. Ma cosa
avrei dovuto dire?
Fece due passi verso di me e mi si gettò contro il petto, colpendomi con
i pugni serrati, avvinghiandosi a me. Solo allora riuscii a tenerla. Le spalle le
sussultavano e mi colpiva con la fronte. Poi sospirò profondamente e si
strinse tra le mie braccia.
«Facciamo colazione?». Si staccò da me. «Santo cielo, ragazzino, come
sei conciato!». Prese un asciugamano bagnato e mi pulí la bocca e il mento.
«E la camicia è tutta sporca di sangue». Me la tolse, poi mi abbassò i
pantaloni, si spogliò e facemmo l’amore.
«Cos’è successo? Perché ti sei arrabbiata?». Eravamo distesi uno di
fianco all’altra, cosí appagati e soddisfatti da farmi pensare che ora si sarebbe
chiarito tutto.
«Cos’è successo, cos’è successo… Le tue solite domande stupide. Non
puoi andartene cosí».
«Ma ti ho lasciato un biglietto…».
«Un biglietto?».
Mi sedetti. Lí, sul comodino dove lo avevo lasciato, il biglietto non c’era
piú. Mi alzai, cercai vicino e sotto il comodino, sotto il letto, dentro il letto.
Non lo trovai. «Non capisco. Ti ho scritto un biglietto per dirti che andavo a
prendere la colazione e che tornavo subito».
«Davvero? Io non vedo nessun biglietto».
«Non mi credi?».
«Vorrei crederti. Ma non vedo nessun biglietto».
Non litigammo piú. Era arrivata una folata di vento, si era presa il
biglietto e se l’era portato… dove? Era stata solo un’incomprensione, la sua
collera, il mio labbro ferito, il suo viso angosciato, la mia goffaggine?
Avrei dovuto continuare a cercare il biglietto, la causa della sua collera,
la causa della mia goffaggine? «Leggimi qualcosa, ragazzino!». Si strinse a
me e io presi la Vita di un perdigiorno di Eichendorff e proseguii da dove mi
ero interrotto la volta precedente. Era una lettura facile da recitare, piú
dell’Emilia Galotti e di Intrigo e amore. Hanna riprese a seguire con tesa
partecipazione. Le piacevano le poesie sparse nel racconto; le piacevano i
travestimenti, gli equivoci, gli imbrogli e le insidie in cui si invischiava l’eroe
in Italia. Al tempo stesso lo prese in antipatia: era un perdigiorno, uno che
non fa nulla, non sa far nulla e non vuole saper fare nulla. Era combattuta e,
alla fine della mia lettura, andava avanti a far domande per ore. «Fare il
doganiere non era un buon lavoro?».
Di nuovo ho fatto un resoconto cosí dettagliato del nostro litigio che ora
voglio riferire anche della nostra felicità. Il litigio rese il nostro rapporto piú
intimo. L’avevo vista piangere, e la Hanna che piangeva era piú vicina a me
della Hanna dal carattere forte. Iniziava a mostrare un lato dolce che non
avevo ancora conosciuto. Esaminava e toccava delicatamente il mio labbro
ferito, finché non fu guarito.
Anche il nostro modo di fare l’amore cambiò. A lungo mi ero
abbandonato completamente alla sua guida, al suo possesso. Poi avevo
imparato a possederla anch’io. Durante e dopo il nostro viaggio non si trattò
piú solo di prendere possesso l’uno dell’altra.
Conservo una poesia che scrissi all’epoca. Sono versi di nessun valore;
in quel periodo avevo una vera passione per Rilke e Benn e riconosco che
volevo emularli entrambi allo stesso tempo. Ma riconosco anche quanto
allora io e Hanna fossimo vicini l’uno all’altra. Questa è la poesia:

Quando ci apriamo
tu a me te e io a te me,
quando sprofondiamo
in me tu e io in te,
quando ci struggiamo
tu in me e in te io.

Allora
io sono io
e tu sei tu.
12.
Se non ho alcun ricordo delle bugie che raccontai ai miei genitori per
andare in viaggio con Hanna, ricordo il prezzo che dovetti pagare per poter
restare a casa da solo nell’ultima settimana di vacanza. Non so piú per dove
partirono i miei genitori, mia sorella maggiore e mio fratello maggiore. Il
problema era mia sorella minore, che doveva andare a stare da un’amica ma,
se io fossi rimasto a casa, sarebbe voluta rimanere con me. I miei genitori
erano contrari. Quindi dovevo andare anche io da qualche amico.
Se ci ripenso, trovo notevole che i miei genitori fossero disposti a
lasciarmi per una settimana a casa da solo, a quindici anni. Avevano forse
notato l’autonomia che avevo sviluppato grazie all’incontro con Hanna? O
avevano semplicemente preso atto che, nonostante i mesi di malattia, ero
stato promosso e perciò ero piú responsabile e affidabile di quanto avessero
creduto fino a quel momento? Non ricordo neppure che dovessi rendere conto
delle tante ore che trascorrevo a casa di Hanna. I miei genitori, a quanto
pareva, credevano che, essendo tornato in salute, volessi stare piú di prima
con i miei amici, studiare con loro e trascorrere il mio tempo libero in
compagnia. Per di piú quattro figli sono come un branco, all’interno del quale
i genitori non possono dedicare la stessa attenzione a ciascuno, ma devono
concentrarsi su chi di volta in volta crea problemi. Io avevo creato problemi
per molto tempo; ora i miei genitori erano sollevati che avessi recuperato la
salute e fossi stato promosso alla classe successiva.
Quando chiesi a mia sorella minore che cosa volesse per andarsene a
stare dalla sua amica e lasciarmi a casa da solo, lei mi rispose che voleva dei
jeans – all’epoca li chiamavamo “blue-jeans” o “pantaloni chiodati” – e un
pullover di ciniglia. La capivo. All’epoca i jeans erano ancora qualcosa di
speciale e chic, e inoltre garantivano la liberazione dai completi a spina di
pesce e dai vestiti in fantasia con grossi fiori. Cosí come io dovevo indossare
gli abiti smessi di mio zio, mia sorella minore doveva indossare quelli della
sorella piú grande. Ma io non avevo soldi.
«Allora rubali!». Mia sorella mi guardò imperturbabile.
Fu sorprendentemente facile. Mentre provavo diverse paia di jeans, ne
portai in camerino anche un paio della sua taglia e li feci uscire dal negozio
tenendoli sulla pancia, sotto i larghi pantaloni dell’abito. Il pullover di
ciniglia lo rubai al grande magazzino Kaufhof. Un giorno io e lei andammo a
gironzolare per il reparto abbigliamento, da un settore all’altro, finché non
trovammo il settore giusto e il maglione giusto. Il giorno seguente entrai di
fretta e con passi decisi attraversai il reparto, afferrai il maglione, lo misi al
sicuro sotto la giacca dell’abito e in un attimo ero già fuori. Il giorno dopo
rubai una camicia da notte di seta per Hanna, ma la guardia mi vide e corsi
come se ne andasse della mia vita; la scampai per un pelo. Per un anno non
entrai piú da Kaufhof.
Dopo le notti passate insieme nel nostro viaggio, dormivo sempre con il
desiderio di sentirla vicino a me, di stringermi a lei, la mia pancia contro il
suo sedere e il mio petto contro la sua schiena, di appoggiarle la mano sui
seni, cercarla con il braccio nei risvegli notturni, trovarla, mettere una gamba
sopra le sue e premerle il volto contro le spalle. Una settimana da solo a casa
significava sette notti con Hanna.
Una sera la invitai e preparai la cena per lei. Mentre stavo dando gli
ultimi tocchi al piatto, rimanemmo entrambi in cucina e, quando portai in
tavola, mi attese accanto alla porta a battenti tra la sala da pranzo e il
soggiorno. Quindi si sedette al tavolo rotondo nel posto che solitamente
occupava mio padre e si guardò intorno.
Il suo sguardo fotografava tutto: i mobili Biedermeier, il pianoforte a
coda, il vecchio pendolo, i quadri, gli scaffali con i libri, le stoviglie e posate
sul tavolo. Quando la lasciai sola per andare a prendere il dolce, non la
ritrovai a tavola. Si era spostata di stanza in stanza fino a fermarsi nello
studio di mio padre. Mi appoggiai piano allo stipite della porta e la osservai.
Hanna lasciava che il suo sguardo esplorasse la libreria che riempiva le
pareti, come se stesse leggendo un testo. Poi andò a uno scaffale, accarezzò
lentamente con l’indice della mano destra il dorso dei libri all’altezza del
petto, passò allo scaffale successivo, continuò ad avanzare col dito, libro
dopo libro, e passò in rassegna l’intera stanza. Si fermò alla finestra, guardò
verso il buio fuori e sul vetro il riflesso della libreria e di se stessa.
È una delle immagini di Hanna che mi sono rimaste dentro. L’ho
acquisita nella mia memoria e posso proiettarla su una tela interiore e
osservarla, immutata, non consumata. A volte passa molto tempo prima che
ci ripensi. Ma poi il ricordo torna e può capitare che io proietti e osservi
diverse immagini di lei, una dopo l’altra. In una, Hanna indossa le calze in
cucina. In un’altra, Hanna sta in piedi davanti alla vasca da bagno e regge con
le mani allargate l’asciugamano di spugna. Nella seguente, Hanna va in
bicicletta con la gonna che svolazza al vento. Poi c’è l’immagine di Hanna
nello studio di mio padre: ha un vestito a righe bianche e blu, all’epoca si
chiamava chemisier. Appare giovane. Ha accarezzato col dito il dorso dei
libri e ha guardato fuori, e ora si gira verso di me, abbastanza velocemente da
far ondeggiare per un istante la gonna intorno alle gambe, prima che ricada di
nuovo dritta. Ha lo sguardo stanco.
«Questi libri tuo padre li ha solo letti o anche scritti?».
Io sapevo di un libro su Kant e di uno su Hegel scritti da mio padre; li
cercai e li trovai entrambi, e glieli mostrai.
«Leggimene un pezzo. Ti va, ragazzino?».
«Io…». Non volevo, ma non volevo nemmeno deludere il suo desiderio.
Presi il libro su Kant e glielo lessi, un passaggio sull’analitica e la dialettica,
che né io né lei capimmo. «Può bastare?».
Mi guardava come se avesse capito tutto, o come se non avesse
importanza cosa si capisse e cosa no. «Anche tu un giorno scriverai libri del
genere?».
Scossi il capo.
«Scriverai altri libri?».
«Non lo so».
«Scriverai testi per il teatro?».
«Non lo so, Hanna».
Annuí. Infine mangiammo il dolce e andammo a casa sua. Avrei dormito
volentieri con lei nel mio letto, ma lei si rifiutò. In casa mia si sentiva
un’intrusa. Non me lo disse a parole, ma con quel suo modo di stare in piedi
in cucina o sulla porta a battenti aperta, di andare di stanza in stanza, passare
in rassegna i libri di mio padre e sedere a cena con me.
Le regalai la camicia da notte di seta. Era color melanzana, aveva
spalline sottili, lasciava libere spalle e braccia e arrivava fino alle caviglie.
Brillava e luccicava. Hanna ne fu felice, rise e si illuminò. Sí guardò, si girò,
fece un paio di passi di danza, si mise davanti allo specchio, osservò
brevemente la sua immagine riflessa e danzò di nuovo. Anche questa è
un’immagine di lei che mi è rimasta dentro.
13.
Ho sempre avvertito l’inizio di un nuovo anno scolastico come un taglio
netto. Il passaggio dalla seconda alla terza liceo portò con sé un cambiamento
radicale. La mia classe fu soppressa e venimmo smistati nelle altre tre sezioni
dello stesso anno. Parecchi studenti non avevano superato lo scoglio tra la
prima e la seconda liceo e cosí quattro classi piccole furono accorpate in tre
grandi.
Il liceo che frequentavo era stato per molto tempo solo maschile.
Quando furono ammesse anche le ragazze, all’inizio erano troppo poche per
essere divise equamente nelle diverse sezioni; perciò furono assegnate tutte a
una, e solo piú tardi anche alle altre, finché poco alla volta arrivarono a
costituire un terzo dei gruppi classe. Nella mia annata, tuttavia, di ragazze
non se ne erano iscritte cosí tante da essere assegnate anche alla quarta
sezione, di cui io facevo parte. Eravamo una classe di soli ragazzi. Per questo
fu la mia, e non una delle altre, a essere soppressa e suddivisa.
Venimmo a saperlo solo all’inizio del nuovo anno scolastico. Il preside
ci convocò in un’aula e ci spiegò come saremmo stati smistati. Io e sei
compagni percorremmo i corridoi deserti fino alla nuova aula, dove
occupammo i posti rimasti vuoti, io uno in seconda fila. C’erano banchi
singoli, ma accoppiati a due a due su tre colonne. Io mi sedetti nella colonna
centrale. Alla mia sinistra avevo un ragazzo della mia vecchia classe, Rudolf
Bargen, un tipo robusto, tranquillo, fidato, che giocava a scacchi e a hockey,
con il quale avevo a malapena avuto a che fare negli anni precedenti, ma che
presto divenne un buon amico. Alla mia destra sedevano, al di là del
corridoio tra le colonne di banchi, le ragazze.
La piú vicina a me si chiamava Sophie. Capelli castani, occhi marroni, la
pelle abbronzata dal sole dell’estate, con una sottile peluria dorata sulle
braccia nude. Quando mi sedetti e mi guardai intorno, Sophie mi sorrise.
Le sorrisi a mia volta. Mi sentivo bene, mi piaceva quel nuovo inizio in
un nuovo ambiente, non piú solo maschile. Avevo osservato i miei compagni
l’anno precedente: che sedessero nella stessa aula con le ragazze o meno,
avevano paura di loro, le evitavano, oppure facevano gli spacconi o le
guardavano con occhi adoranti. Io conoscevo le donne e sapevo mantenermi
calmo e amichevole. Questo alle mie compagne piaceva. Nella nuova classe
sarei andato d’accordo con loro e grazie a questo avrei avuto successo anche
con i ragazzi.
Funziona sempre cosí? All’epoca mi sentivo troppo sicuro o troppo
insicuro. A volte mi sembrava di essere incapace, insignificante, di non valere
nulla; altre volte pensavo che ero stato bravo in tutto e che sarebbe andata
sempre cosí. Quando mi sentivo sicuro, riuscivo a superare anche le difficoltà
piú grandi, ma bastava un piccolo fallimento a convincermi della mia
inettitudine. E riconquistare la sicurezza non era mai il risultato di un
successo; rispetto a ciò che pretendevo da me stesso e al riconoscimento che
agognavo dagli altri, ogni successo appariva insufficiente. In piú, il fatto che
avvertissi la pochezza dei miei risultati o che al contrario questi mi
rendessero orgoglioso dipendeva strettamente da come mi sentivo in quel
periodo. Con Hanna mi sentivo bene da molte settimane, nonostante le nostre
discussioni, nonostante lei continuasse a respingermi e io continuassi a
umiliarmi. E cosí iniziò bene anche l’estate nella nuova classe.
Rivedo l’immagine dell’aula: di fronte a destra la porta e sulla parete
sempre a destra il listello di legno con i ganci che fungeva da attaccapanni; a
sinistra le finestre, dalle quali si vedeva lo Heiligenberg e – quando ci
avvicinavamo durante l’intervallo – la strada, il fiume e il prato sulla riva
opposta; davanti la lavagna, il supporto per la carta geografica e i grafici, e
infine sedia e cattedra dell’insegnante su una pedana alta fino alle caviglie.
Le pareti erano dipinte con un colore a olio giallo fino all’altezza della testa e
sopra erano bianche; dal soffitto pendevano due lampade opaline di forma
sferica. L’aula conteneva solo l’essenziale: nessuna immagine, nessuna
pianta, nessun posto a sedere in piú, nessun armadio con libri e quaderni
dimenticati o gessetti colorati. Quando lo sguardo vagava distratto, puntava
fuori dalla finestra o sbirciava i vicini di banco. Appena Sophie si accorgeva
che la stavo guardando, si girava verso di me e mi sorrideva.
«Berg, il fatto che Sophia sia un nome greco non giustifica il fatto che
durante l’ora di greco lei studi la sua vicina. Traduca!».
Traducevamo l’Odissea. L’avevo letta in tedesco, l’adoravo e l’adoro
ancora oggi. Quando toccava a me, recuperavo la concentrazione in pochi
secondi e mi mettevo a tradurre. Dopo che l’insegnante mi ebbe preso in giro
con Sophie e la classe la finí di ridere, fu qualcos’altro a farmi balbettare.
Nausicaa, simile alle immortali per statura e aspetto, la vergine dalle braccia
bianche… Dovevo immaginare Hanna o Sophie? Di sicuro era una delle due.
14.
Se i motori di un aereo si spengono, non significa che il volo è finito. Gli
aerei non cadono come pietre dal cielo. Continuano a planare, quegli aerei
giganteschi a piú reattori, per mezz’ora o anche tre quarti d’ora, per poi
schiantarsi mentre cercano di atterrare. I passeggeri non si accorgono di nulla.
In termini di percezione, volare con i motori fuori uso è identico a volare con
i motori che funzionano. Forse c’è solo un po’ piú di silenzio, ma in realtà il
vento che si frange sulla fusoliera e sulle ali è piú forte dei motori. A un certo
punto, chi guarda attraverso l’oblò vede la terra o il mare minacciosamente
vicini. Oppure si continua a trasmettere il film e gli steward e le hostess
hanno abbassato le tendine, e forse i passeggeri percepiscono addirittura
come particolarmente piacevole quel volo un po’ meno rumoroso.
L’estate fu il volo planato del nostro amore. Anzi, del mio amore per
Hanna; del suo amore per me non so dire nulla.
Mantenemmo il nostro rituale della lettura a voce alta, la doccia, l’amore
e i minuti in cui rimanevamo distesi l’uno accanto all’altra. Le lessi Guerra e
pace, con tutte le spiegazioni di Tolstoj sulla Storia, sui grandi uomini, sulla
Russia, sull’amore e sul matrimonio. Ci volle una cinquantina di ore. Anche
questa volta, Hanna seguí ansiosa l’evoluzione del romanzo ma,
diversamente dal passato, si trattenne dall’esprimere giudizi, non rese Nataša,
Andrej e Pierre parte della sua realtà, come aveva fatto con Luise ed Emilia,
ma entrò nella loro con lo stupore con cui si affronta il viaggio in un paese
lontano o si visita un castello, dove ci si avventura, dove è permesso
indugiare, con il quale si familiarizza senza mai perdere completamente la
soggezione. I libri che le avevo letto fino a quel momento li conoscevo già da
prima. Guerra e pace fu nuovo anche per me. Partimmo insieme per quel
viaggio in un mondo lontano.
Inventammo dei vezzeggiativi l’uno per l’altra. Lei iniziò a non
chiamarmi piú soltanto “ragazzino”, ma anche con diversi attributi e
diminutivi: rana o rospo, cucciolo, ciottolo e rosa. Io continuai a chiamarla
Hanna finché non mi chiese: «Quale animale ti viene in mente quando mi
tieni tra le braccia, chiudi gli occhi e pensi agli animali?». Chiusi gli occhi e
pensai agli animali. Eravamo distesi sul fianco, addossati l’uno all’altra, la
mia testa sul suo collo, il mio collo sui suoi seni, il mio braccio destro sotto di
lei e il sinistro sul suo sedere. Accarezzavo con le braccia e le mani la sua
ampia schiena, le cosce muscolose, il sedere sodo e percepivo sul collo e sul
petto la presenza dei seni e del ventre altrettanto sodi. Hanna aveva la pelle
liscia e morbida, e il corpo vigoroso e affidabile. Quando le poggiai la mano
sul polpaccio, sentii un continuo guizzare di muscoli. Mi fece pensare alle
contrazioni dei muscoli dei cavalli quando cercano di scacciare le mosche.
«A un cavallo».
«Un cavallo?». Si staccò da me, si drizzò e mi fissò, atterrita.
«Non ti piace? Mi è venuto in mente perché sei cosi piacevole al tatto,
liscia e morbida e sotto solida e forte. E perché il tuo polpaccio ha dei
guizzi». Le spiegai la mia associazione.
Guardò il guizzare dei muscoli dei suoi polpacci. «Cavallo» scosse la
testa. «Non so…».
Non era da lei. Di solito era sicura di sé in tutto, nel dare il suo consenso
o esprimere un rifiuto. Sotto i suoi sguardi sconcertati ero sempre stato pronto
a rimangiarmi tutto, ad accusarmi e chiederle scusa, ogni volta che sentivo di
doverlo fare. Ora invece cercai di riconciliarla con l’immagine del cavallo.
«Potrei chiamarti cheval o cavallina o equinotto o bucefalino. Pensando al
cavallo, non penso al morso o al muso, né a tutto ciò che può non piacerti, ma
a qualcosa di bello, caldo, morbido, forte. Non sei un leprotto o un gattino, e
nemmeno una tigre, che dentro ha qualcosa di cattivo; non sei cosí».
Si sdraiò sulla schiena, le braccia dietro la testa. A quel punto mi drizzai
e la guardai. Aveva gli occhi persi nel vuoto. Dopo un po’ rivolse il viso
verso di me. Aveva un’espressione stranamente profonda. «Certo, mi piace se
mi chiami cavallo o con gli altri nomi per il cavallo. Me li spieghi?».
Una sera andammo insieme nella città vicina a vedere una
rappresentazione di Intrigo e amore. Era la prima volta che Hanna andava a
teatro e assaporò tutto, dallo spettacolo allo spumante che gustammo
all’intervallo. Io le tenevo il braccio attorno alla vita e non mi interessava
quel che la gente poteva pensare di noi come coppia. Ed ero orgoglioso che
non mi interessasse. Allo stesso tempo, però, sapevo che nel teatro della mia
città natale mi sarebbe interessato. Lo sapeva anche lei?
Hanna sapeva che, arrivata l’estate, la mia vita non gravitava piú solo
intorno a lei, alla scuola e allo studio. Sempre piú spesso, quando andavo a
casa sua nel tardo pomeriggio, arrivavo direttamente dalla piscina, dove
incontravo le mie compagne e compagni di classe, che facevano insieme i
compiti, flirtavano e giocavano a calcio e a pallavolo e a skat. La vita sociale
dei miei coetanei aveva luogo lí, e per me significava molto parteciparvi e
appartenervi. A seconda del turno di lavoro di Hanna, arrivavo piú tardi degli
altri o me ne andavo prima, ma questo non nuoceva alla mia reputazione;
anzi, mi rendeva interessante. E lo sapevo. Sapevo anche che non mi perdevo
nulla; eppure avevo spesso la sensazione che proprio quando non ero lí
accadessero chissà quali prodigi. Per lungo tempo non osai chiedermi se
preferivo la piscina oppure la compagnia di Hanna. Ma il giorno del mio
compleanno, a luglio, gli amici mi festeggiarono in piscina e mi lasciarono
andare via a malincuore; venni poi accolto da una Hanna stanca e di cattivo
umore. Non sapeva che fosse il mio compleanno. Quando le avevo chiesto
quand’era il suo, mi aveva risposto il 21 ottobre, ma non aveva voluto sapere
il mio. Non era neanche di umore peggiore dei pomeriggi in cui si sentiva
esausta. Tuttavia, il suo malumore mi fece arrabbiare e desiderai essere
altrove, in piscina, con le compagne e i compagni di scuola, con la leggerezza
dei nostri discorsi, degli scherzi, dei giochi e dei flirt. Quando anch’io reagii
di cattivo umore e finimmo per litigare e Hanna mi trattò come una nullità,
mi assalí di nuovo la paura di perderla; mi dichiarai mortificato e mi scusai
finché non mi accolse. Ma ero pieno di rancore.
15.
Poi iniziai a tradirla.
Non che avessi rivelato segreti o umiliato Hanna. Non rivelai nulla di
ciò che dovevo tacere. Ma tacqui ciò che avrei dovuto rivelare. Non dichiarai
il mio amore per lei. So che il rinnegare è una variante poco appariscente del
tradire. Dall’esterno non si capisce se qualcuno rinnega o si comporta
soltanto con discrezione, usa riguardo, evita situazioni spiacevoli o moleste.
Ma chi non si dichiara apertamente sa bene di cosa parlo. E il fatto di
rinnegare priva la relazione delle sue fondamenta piú solide tanto quanto le
varianti spettacolari del tradimento.
Non so piú quando rinnegai Hanna per la prima volta. Dalla compagnia
dei pomeriggi estivi in piscina nacquero delle amicizie. A parte il mio vicino
di banco, che conoscevo dall’anno scolastico precedente, della nuova classe
mi piaceva particolarmente Holger Schülter, che come me era appassionato di
storia e letteratura e con il quale sorse in breve un rapporto di confidenza.
Presto nacque della confidenza anche con Sophie, che viveva nel mio stesso
quartiere e con cui pertanto condividevo le passeggiate fino alla piscina.
All’inizio mi dicevo che la confidenza con i miei amici non era ancora
abbastanza profonda per parlare loro di Hanna. Poi non trovavo mai
l’occasione giusta, il momento giusto, le parole giuste. Alla fine fu troppo
tardi per raccontare di lei, per presentarla assieme agli altri segreti giovanili.
Mi dicevo che avrei suscitato l’impressione sbagliata, visto il lungo tempo
trascorso, e che avevo taciuto la sua presenza cosí a lungo perché la nostra
relazione era sconveniente e avevo la coscienza sporca. Ma nonostante quel
che mi davo a intendere, sapevo di tradire Hanna quando parlavo ai miei
amici di ciò che era importante nella mia vita e tacevo di lei.
Il fatto che loro notassero che non ero completamente sincero non
migliorava la situazione. Una sera, sulla via del ritorno, Sophie e io fummo
colti da un temporale e ci riparammo sotto la tettoia di un capanno in
Neuenheimer Feld, dove all’epoca non sorgevano ancora gli edifici
dell’università, ma campi e giardini. C’erano tuoni e fulmini, un vento
fortissimo e pioggia fitta, gocce pesanti. Subito la temperatura scese intorno
ai cinque gradi. Stavamo congelando e cinsi Sophie con un braccio.
«Ehi…» disse, senza guardare me, ma fuori, verso la pioggia.
«Sí?».
«Sei stato a lungo malato, hai avuto l’itterizia. È questo che ti dà tanto
da fare? Hai paura di non guarire completamente? I dottori hanno detto
qualcosa? E devi andare tutti i giorni in clinica per cambiare il sangue o per
fare delle flebo?».
Hanna come una malattia. Mi vergognai. Ma in quel momento parlare di
Hanna era piú che mai escluso. «No, Sophie, non sono piú malato. I miei
valori epatici sono normali e se volessi tra un anno potrei anche bere alcolici,
ma non voglio. Quello che mi…». Trattandosi di Hanna, non volevo dire
“che mi dà tanto da fare”. «Il motivo per cui arrivo piú tardi o vado via prima
è un altro».
«Non ne vuoi parlare o invece vorresti ma non sai come fare?».
Non volevo o non sapevo come fare? Non mi era chiaro. Ma il modo in
cui eravamo lí, sotto i lampi, il chiarore e subito dopo il crepitio dei tuoni e la
pioggia battente, entrambi infreddoliti e desiderosi di tenerci un po’ caldo a
vicenda, mi diede la sensazione che a lei, proprio a lei, avrei dovuto
raccontare di Hanna. «Magari te ne parlo un’altra volta».
Ma quella volta non arrivò mai.
16.
Non ho mai saputo che cosa facesse Hanna quando non lavorava e non
era insieme a me. Se glielo chiedevo, respingeva la mia domanda. Non
avevamo un ambiente sociale in comune; lei mi dava nella sua vita lo spazio
che voleva e io dovevo accontentarmi. Se desideravo avere di piú o anche
solo sapere di piú, mi sarei comportato da insolente. Quando eravamo
particolarmente felici insieme e, con la sensazione che in quel momento tutto
fosse possibile e concesso, le chiedevo qualcosa, poteva capitare che eludesse
la mia domanda anziché respingerla. «Quante cose vuoi sapere, ragazzino!».
Oppure mi prendeva la mano e se la poggiava sulla gola. «Finirai per
soffocarmi!». Oppure contava con le dita: «Devo lavare, devo stirare, devo
spazzare, devo pulire, devo fare la spesa, devo cucinare, devo far cadere le
prugne dall’albero, raccoglierle, portarle a casa e cuocerle in fretta per
conservarle, altrimenti il piccolino» – con il pollice e l’indice della mano
destra si afferrava il mignolo della sinistra – «altrimenti se le mangia tutte da
solo».
Non ci fu mai nemmeno un incontro casuale, in un negozio o per strada
o al cinema, dove diceva di andare spesso e volentieri e dove i primi mesi le
chiedevo continuamente e inutilmente di andare assieme. A volte parlavamo
dei film che avevamo visto entrambi. Hanna andava al cinema senza un
criterio preciso, guardava di tutto, dai film tedeschi di guerra e di patriottismo
ai western, alla Nouvelle vague, mentre a me piacevano i film di Hollywood,
indipendentemente dall’ambientazione, che fosse l’antica Roma o il Far
West. A entrambi era piaciuto in particolare un film sul selvaggio West, in
cui Richard Widmark interpreta uno sceriffo che deve affrontare un duello da
cui non potrà uscire vivo; la sera prima bussa alla porta di Dorothy Malone,
la quale gli ha inutilmente consigliato di fuggire e che gli dice: «Cosa vuoi
adesso? Tutta la tua vita in una notte?». A volte Hanna mi punzecchiava,
quando arrivavo da lei con troppe pretese. «Cosa vuoi adesso? Tutta la tua
vita in un’ora?».
Soltanto una volta la vidi senza che ci fossimo dati appuntamento. Era la
fine di luglio o l’inizio di agosto, gli ultimi giorni prima delle vacanze.
Hanna era stata per diversi giorni di umore strano, lunatica e dispotica e
al tempo stesso visibilmente sotto una pressione che la tormentava e la
rendeva suscettibile e vulnerabile. Cercava di contenersi, come se dovesse
evitare di esplodere. Quando le chiesi che cosa la tormentasse, reagí in modo
brusco. Non riuscivo a capirci nulla: non solo mi sentivo respinto, ma
avvertivo anche il suo stato di confusione e cercavo di essere lí per lei e al
tempo stesso di lasciarla tranquilla. Un giorno la pressione sparí. All’inizio
pensai che sarebbe tornata la Hanna di un tempo. Dopo aver finito Guerra e
pace non avevamo iniziato subito un nuovo libro; le avevo promesso di
occuparmene io e cosí le portai alcuni libri tra cui scegliere.
Ma lei non volle. «Lascia che ti faccia il bagno, ragazzino».
Appena entrai in cucina, non fu l’afa estiva ad avvolgermi come un
tessuto pesante, bensí il calore dello scaldabagno che Hanna aveva acceso.
Fece scorrere l’acqua, aggiunse un paio di gocce di lavanda e mi lavò.
Nell’aria calda e umida, il grembiule blu pallido a fiori, sotto il quale non
indossava biancheria, si appiccicò al suo corpo sudato in maniera provocante.
Quando facemmo l’amore, ebbi la sensazione che volesse farmi esplorare
qualcosa di completamente diverso, portarmi al di là di tutto ciò che avevamo
provato fino a quel momento, dove non sarei piú stato in grado di resistere.
Anche la sua passione fu nuova, unica. Non priva di riserbo; al suo riserbo
non rinunciò mai. Ma sembrò che volesse annegare con me.
«Adesso via, vai dai tuoi amici». Mi salutò e me ne andai. La calura si
era insediata tra le case, copriva campi e giardini e sfavillava sull’asfalto. Ero
frastornato. In piscina le grida dei bambini che giocavano e sguazzavano
giungevano alle mie orecchie come da un luogo lontano. Ma soprattutto,
andavo in giro come se io e il mondo non ci appartenessimo. Mi immersi
nell’acqua clorata e lattiginosa senza sentire il bisogno di riemergere. Ero
assieme agli altri, li ascoltavo e trovavo i loro discorsi ridicoli e insulsi.
A un certo punto quell’atmosfera svaní, si trasformò in un normale
pomeriggio in piscina con i compiti e la pallavolo, i pettegolezzi, i flirt. Non
ricordo cosa stessi facendo quando sollevai lo sguardo e la vidi.
Era in piedi, a venti o trenta metri da me, in pantaloncini e camicia
aperta annodata in vita, e guardava verso di me. Anch’io la guardai. A quella
distanza non riuscivo a leggere l’espressione sul suo viso. Non balzai in piedi
per correre da lei. La mia testa si riempí di domande: perché era in piscina; se
voleva essere vista da me e con me; se io volevo essere visto con lei. Pensai
che non ci eravamo mai incontrati per caso prima e mi chiesi che cosa dovevo
fare. Poi mi alzai. Nel breve momento in cui avevo distolto lo sguardo, se
n’era andata.
Hanna in pantaloncini e camicia annodata, il suo viso che non riesco a
decifrare, rivolto verso di me. Anche questa è un’immagine che conservo di
lei.
17.
Il giorno dopo era sparita. Arrivai a casa sua alla solita ora e suonai.
Attraverso il vetro della porta vidi che tutto, dentro, aveva il solito aspetto e
udii l’orologio ticchettare.
Di nuovo mi sedetti sugli scalini. Nei primi mesi avevo sempre saputo
su quale linea di tram stesse lavorando, anche quando non avevo piú cercato
di accompagnarla o anche solo di andarla a prendere. A un certo punto avevo
smesso di chiederglielo e di interessarmene. Solo ora me ne rendevo conto.
Dalla cabina telefonica in Wilhelmsplatz chiamai l’azienda dei trasporti
pubblici; la mia chiamata fu inoltrata a un ufficio dopo l’altro e scoprii che
quel giorno Hanna Schmitz non era andata al lavoro. Tornai in
Bahnhofstraße, domandai nella falegnameria giú in cortile informazioni sul
proprietario della casa e ottenni un nome e un indirizzo di Kirchheim. Ci
andai.
«La signora Schmitz? Se n’è andata oggi».
«E i suoi mobili?».
«Non sono suoi».
«Da quando tempo abitava nell’appartamento?».
«Questo non la riguarda». La donna chiuse la finestrella della porta
attraverso cui mi aveva risposto.
Nella sede amministrativa dell’azienda riuscii infine a parlare con
l’ufficio del personale. L’impiegato era gentile e preoccupato.
«Ha chiamato stamattina, in tempo perché potessimo organizzare la
sostituzione, e ha detto che non verrà piú. Mai piú». Scosse il capo. «Due
settimane fa era qui, sulla sedia dove adesso è seduto lei. Le ho proposto di
frequentare a nostre spese il corso per diventare conducente, e ora ha buttato
via tutto cosí».
Solo alcuni giorni dopo pensai di andare all’anagrafe. Hanna aveva
spostato la residenza ad Amburgo, senza lasciare un indirizzo.
Per diversi giorni mi sentii molto triste. Stavo attento a che i miei
genitori e i miei fratelli e sorelle non notassero nulla. A tavola cercavo di
parlare un po’, mangiavo qualcosa e riuscivo ad arrivare al gabinetto appena
mi veniva da vomitare. Andavo a scuola e in piscina, dove trascorrevo i
pomeriggi in un angolo defilato, affinché nessuno mi cercasse. Il mio corpo si
struggeva per l’assenza di Hanna. Ma il senso di colpa era peggiore del
desiderio fisico. Perché non ero subito saltato su e corso da lei quando
l’avevo vista lí? In quella piccola circostanza si focalizzava ai miei occhi il
mio scarso interesse degli ultimi mesi, che mi aveva spinto a rinnegarla e
tradirla. Se n’era andata per punirmi.
A volte cercavo di convincermi che non era Hanna la donna che avevo
visto quel giorno. Come potevo essere sicuro che fosse lei, se avevo il dubbio
di non aver riconosciuto il suo viso? Non avrei forse dovuto riconoscerlo, se
fosse stata lei? Potevo quindi essere incerto che fosse lei?
Ma sapevo che era lei. Era lí in piedi e guardava. Ed era troppo tardi.
Seconda parte
1.
Dopo che Hanna ebbe lasciato la città, ci volle del tempo prima che
smettessi di cercarla dappertutto con lo sguardo, prima che accettassi che i
miei pomeriggi avevano perso la loro forma, e prima che vedessi e aprissi un
libro senza chiedermi se fosse adatto a essere letto a voce alta. Ci volle del
tempo prima ce il mio corpo smettesse di desiderarla; talora notavo io stesso
come le mie braccia e le mie gambe la cercassero nel letto, e piú di una volta
a tavola mio fratello se ne uscí a dire che avevo gridato “Hanna” nel sonno.
Ricordo anche le ore di scuola, durante le quali sognavo solo lei, pensavo
solo a lei. Il senso di colpa, che mi aveva tormentato nelle prime settimane,
svaní. Evitavo la sua casa, prendevo altre strade e, sei mesi dopo, la mia
famiglia si trasferí in un altro quartiere. Non che avessi dimenticato Hanna.
Ma a un certo punto il ricordo di lei smise di accompagnarmi. Rimase
indietro, come rimane indietro una città quando il treno prosegue. È lí, da
qualche parte dietro di te; potresti andarci e accertartene. Ma perché dovresti?
Ricordo gli ultimi anni del liceo e i primi all’università come anni felici.
Allo stesso tempo ho poco da dire su quel periodo. Furono anni privi di
sforzi; la maturità e la laurea in Giurisprudenza, scelta senza convinzione,
non mi risultarono difficili; le amicizie, le relazioni amorose e le separazioni
non mi risultarono difficili; niente mi risultò difficile. Tutto mi riusciva
semplice, tutto era semplice. Forse è per questo che il pacchetto dei ricordi è
cosí piccolo. O forse sono io che lo considero piccolo? Mi chiedo anche se i
ricordi felici corrispondano alla verità. Ogni volta che mi soffermo piú a
lungo sul passato, mi vengono in mente molte situazioni umilianti e dolorose,
e so che mi ero congedato dal ricordo di Hanna, ma non l’avevo superato.
Non essere piú mortificato da Hanna né mortificarla, non rendermi piú
colpevole né sentirmi colpevole, non amare piú nessuno cosí tanto da sentire
dolore per la sua perdita. All’epoca il pensiero non mi era del tutto chiaro, ma
la sensazione era netta.
Mi abituai a un’affettazione spocchiosa, superiore; mi presentavo come
uno che nulla può commuovere, scuotere, turbare. Non mi lasciavo
coinvolgere da niente e ricordo un insegnante che se ne avvide e me ne parlò,
e che io liquidai con arroganza. Ricordo anche Sophie. Subito dopo che
Hanna ebbe lasciato la città, a Sophie fu diagnosticata la tubercolosi.
Trascorse tre anni in sanatorio e ritornò in città quando io avevo già iniziato
l’università. Si sentiva sola, cercò di ricontattare i vecchi amici e, senza
alcuna fatica, mi feci strada nel suo cuore. Dopo essere andati a letto assieme,
Sophie si rese conto che non ero seriamente interessato a lei e disse tra le
lacrime: «Cosa ti è successo, cosa ti è successo?». Ricordo mio nonno, che
prima di morire volle benedirmi durante una delle mie ultime visite e al quale
spiegai che non credevo nelle benedizioni e non vi attribuivo alcun valore. Il
fatto che mi sentissi bene dopo essermi comportato in quel modo mi è
difficile da immaginare. Ricordo anche che di fronte a piccoli gesti di
affettuosa attenzione, che fossero rivolti a me o a qualcun altro, mi veniva un
nodo alla gola. A volte bastava la scena di un film. Questo accostamento di
freddezza e sensibilità lasciava perplesso persino me.
2.
Rividi Hanna in un’aula di tribunale.
Non era il primo processo ad avere come oggetto i campi di
concentramento e nemmeno uno dei piú importanti. Il professore, tra i pochi
che all’epoca lavoravano sul passato nazista e sui relativi procedimenti
giudiziari, ne aveva fatto l’argomento di un seminario, sperando che con
l’aiuto degli studenti lo avrebbe potuto seguire e analizzare per tutta la sua
durata. Non ricordo piú che cosa volesse appurare, confermare o confutare.
Ricordo che il seminario riguardava l’irretroattività della condanna. Era
sufficiente che quello specifico paragrafo di legge, sulla base del quale i
sorveglianti e gli sgherri dei lager venivano condannati, fosse inserito nel
codice penale già al tempo dei loro crimini? Oppure era piú importante il
modo in cui quello stesso paragrafo veniva interpretato e applicato all’epoca
in cui i crimini erano stati commessi e che di fatto escludeva l’operato degli
imputati? Cos’è il diritto? Quello che si legge sui libri o quello che viene
imposto e seguito nella pratica dalla società? Oppure il diritto è ciò che –
compaia o meno nei libri – dovrebbe essere imposto e seguito se tutto si
svolgesse nel modo corretto? Il professore, un vecchio signore tornato in
Germania dopo l’emigrazione ma rimasto un emarginato nella giurisprudenza
tedesca, prendeva parte al dibattito con tutta la sua erudizione e allo stesso
tempo con il distacco di chi non crede piú all’erudizione come soluzione ai
problemi. «Guardate gli imputati, non troverete nessuno che creda davvero
che all’epoca gli era permesso uccidere».
Il seminario iniziò d’inverno; il processo, che si protrasse per molte
settimane, in primavera. Le udienze si tenevano dal lunedí al giovedí e, per
ciascuno di questi quattro giorni, il professore aveva incaricato un gruppo di
studenti di redigere un dettagliato verbale. Il venerdí c’era la sessione del
seminario e i risultati della settimana trascorsa venivano sottoposti a
revisione.
Revisione! Revisione del passato! Noi studenti del seminario ci
consideravamo una sorta di avanguardia della revisione. Spalancavamo le
finestre, lasciavamo entrare l’aria, il vento che finalmente faceva vorticare la
polvere che la società aveva lasciato depositare sugli orrori del passato. Ci
preoccupavamo che quella polvere si potesse respirare e vedere. Nemmeno
noi ci affidavamo all’erudizione giuridica. Eravamo certi che fosse doveroso
condannare. Allo stesso modo eravamo certi che il processo riguardasse solo
in superficie la condanna di questo o quel sorvegliante o sgherro del lager.
Alla sbarra c’era la generazione che si era servita dei sorveglianti e degli
sgherri, o che non li aveva fermati o quanto meno emarginati quando, dopo il
1945, avrebbe potuto farlo, e noi la condannavamo alla vergogna in un
processo di revisione in cui veniva fatta luce sulla verità.
I nostri genitori avevano ricoperto i ruoli piú diversi nel Terzo Reich.
Tra i nostri padri, alcuni avevano combattuto la guerra, due o tre erano stati
ufficiali della Wehrmacht e uno era stato ufficiale delle SS; altri avevano fatto
carriera nella magistratura e nell’amministrazione pubblica; c’erano
insegnanti e medici, e uno di noi aveva uno zio che era stato un alto
funzionario del ministero degli Interni del Reich. Sono sicuro che, se glielo
avessimo chiesto e loro ci avessero risposto, ci avrebbero dato una versione
completamente diversa. Mio padre non voleva parlare di sé. Ma io sapevo
che aveva perso la cattedra di filosofia per aver organizzato una conferenza
su Spinoza e che ci aveva mantenuti facendo il consulente editoriale per una
casa editrice di mappe per escursionisti e guide turistiche. Come potevo
condannarlo alla vergogna? Eppure lo feci. Tutti condannammo i nostri
genitori alla vergogna, se solo li potevamo accusare di aver tollerato vicino a
loro, tra loro, dopo il 1945, i perpetratori di quei crimini.
Tra gli studenti del seminario si sviluppò una forte identità di gruppo.
Eravamo gli studenti del “seminario-lager”: all’inizio venivamo chiamati cosí
dagli altri studenti e finimmo noi stessi per definirci in questo modo. Quello
che facevamo, agli altri non interessava; molti erano sconcertati, alcuni
addirittura provavano repulsione. Ora penso che lo zelo con cui rivelavamo
l’orrore e volevamo portarne gli altri a conoscenza fosse in effetti repellente.
Quanto piú terribili erano gli eventi di cui leggevamo e ascoltavamo, tanto
piú ci sentivamo sicuri del nostro compito di “illuministi”. Anche quando gli
eventi ci toglievano il fiato, noi li esponevamo trionfanti. Guardate qui!
Mi ero iscritto al seminario per pura curiosità. Per una volta si parlava di
qualcosa di diverso, non di diritto alla vendita e non di reati e concorso in
reati, non dell’antico codice sassone e non dei vecchiumi di filosofia del
diritto. L’affettazione spocchiosa, altezzosa, alla quale mi ero abituato, me
l’ero portata dietro anche al seminario. Ma, nel corso dell’inverno, riuscii
sempre meno a prendere le distanze dagli eventi dei quali leggevamo e
ascoltavamo, nonché a sottrarmi all’impegno che caratterizzava tutti gli
studenti del seminario. All’inizio mi illudevo di voler condividere solo
l’impegno scientifico o anche politico e morale. In realtà volevo di piú,
volevo un impegno sul piano universale. Forse gli altri mi consideravano
ancora freddo e arrogante. Io invece durante quei mesi invernali provai la
positiva sensazione di appartenere a qualcosa e di essere in armonia con me
stesso, con ciò che facevo e con le persone insieme alle quali lo facevo.
3.
Il processo si svolgeva in un’altra città, piú o meno a un’ora di macchina
da dove vivevo ed era l’unico impegno che avevo in quel luogo. Ci andavo in
auto, guidata da un altro studente, cresciuto lí e pratico del posto.
Era giovedí. Il processo era iniziato il lunedí precedente. Nei primi tre
giorni c’erano state solo le istanze di legittimo sospetto da parte degli
avvocati difensori. Io facevo parte del quarto gruppo, che avrebbe assistito
all’inizio effettivo del dibattimento con l’interrogatorio degli imputati.
Percorremmo Bergstraße sotto alberi da frutto in piena fioritura.
Eravamo di umore allegro; finalmente avremmo potuto dimostrare ciò per cui
ci eravamo preparati. Non ci sentivamo dei semplici spettatori, ascoltatori e
verbalizzatori. Osservare, ascoltare e verbalizzare erano i nostri contributi
alla revisione.
Il tribunale era una costruzione dei primi anni del secolo, ma senza lo
sfarzo e la tetraggine tipici di molti palazzi di giustizia di quell’epoca. L’aula
nella quale la corte d’assise si riuniva aveva a sinistra una serie di grandi
finestre, il cui vetro smerigliato impediva di vedere all’esterno, ma lasciava
entrare molta luce. Davanti alle finestre sedevano i pubblici ministeri, che nei
giorni luminosi di primavera ed estate erano riconoscibili soltanto dalle
sagome. La corte, tre giudici in toghe nere e sei giudici popolari, sedeva in
testa all’aula, e a destra c’era il banco degli imputati e dei difensori, tanto
numerosi che si erano dovuti aggiungere tavoli e sedie fino al centro della
sala, davanti alle file del pubblico. Alcuni imputati e avvocati sedevano
dandoci le spalle. Hanna sedeva dandoci le spalle. Mi accorsi di lei solo
quando venne chiamata, si alzò e avanzò di qualche passo. Ovviamente
riconobbi subito il nome: Hanna Schmitz, e poi anche la figura: la particolare
forma della testa con i capelli raccolti in uno chignon, la nuca, la schiena
ampia e le braccia forti. Si fermò dritta, con il peso su entrambi i piedi e le
braccia abbandonate lungo il corpo. Indossava un abito grigio a maniche
corte. La riconobbi, ma non provai nulla. Non provai nulla.
Sí, voleva restare in piedi. Sí, era nata il 21 ottobre 1922 vicino a
Hermannstadt e adesso aveva quarantatré anni. Sí, aveva lavorato a Berlino
per la Siemens ed era entrata a far parte delle SS nell’autunno del 1943.
«Entrò nelle SS di sua spontanea volontà?».
«Sí».
«Perché?».
Hanna non rispose.
«È vero che entrò nelle SS nonostante alla Siemens le fosse stato offerto
un posto di caposquadra?».
L’avvocato difensore di Hanna saltò su: «Cosa intende con
“nonostante”? Vuole insinuare che una donna avrebbe fatto meglio a
diventare caposquadra alla Siemens piuttosto che entrare nelle SS? Non è
ammissibile che la decisione della mia cliente sia oggetto di una tale
domanda».
Si risedette. Era l’unico avvocato giovane, gli altri erano anziani e
alcuni, come emerse di lí a poco, erano degli ex nazisti. Il difensore di Hanna
evitava il loro gergo e le loro tesi, ma era di uno zelo frettoloso, che
danneggiava la sua cliente tanto quanto le tirate nazionalsocialiste dei suoi
colleghi danneggiavano i loro. Tuttavia, ottenne di irritare il presidente della
corte, che lasciò cadere la domanda sul motivo per cui Hanna fosse entrata
nelle SS. Ma rimase l’impressione negativa che l’avesse fatto in maniera
ragionata e senza alcuna costrizione. E tale impressione non cambiò
nemmeno quando uno dei giudici a latere le chiese che tipo di lavoro si fosse
aspettata nelle SS, e lei rispose che le SS avevano propagandato presso le
donne della Siemens, ma anche di altre aziende, il reclutamento per il servizio
di sorveglianza, e questo era il motivo che l’aveva spinta a presentarsi.
L’avvocato difensore si fece confermare da Hanna a monosillabi che
fino alla primavera del 1944 era stata di stanza ad Auschwitz e poi fino
all’inverno del 1944-45 in un piccolo campo nei dintorni di Cracovia, che si
era messa in marcia verso ovest con i prigionieri e arrivata a destinazione, che
alla fine della guerra era stata a Kassel e da allora aveva vissuto un po’ qua e
un po’ là. Nella mia città natale aveva abitato per otto anni, il periodo piú
lungo che avesse trascorso in uno stesso luogo.
«I frequenti cambiamenti di residenza dovrebbero rendere conto del
pericolo di fuga?». L’avvocato mostrò apertamente la sua ironia. «La mia
cliente ha notificato alla polizia ogni suo spostamento. Nulla indica che
intendesse fuggire e non sussiste alcuna prova che volesse occultare. È forse
parso al giudice istruttore inaccettabile, in considerazione della gravità del
capo d’accusa e del pericolo di disordini pubblici, rimettere la mia cliente in
libertà? Questo, signori della corte, è un arresto di stampo nazista, introdotto
dai nazisti e abrogato dopo la fine del nazionalsocialismo. Non esiste piú».
L’avvocato parlava con quel gusto malizioso con cui si presenta una verità
scabrosa.
Ero atterrito. Mi resi conto che la detenzione di Hanna mi era sembrata
ovvia e giusta. Non a causa dell’imputazione, della gravità dell’accusa e della
forza del legittimo sospetto, che io ancora non conoscevo nel dettaglio, ma
perché in cella era fuori dal mio mondo, fuori dalla mia vita. Volevo che
fosse lontana, irraggiungibile, tanto da poter rimanere quel ricordo sbiadito
che era stata e diventata per me negli anni trascorsi. Se il suo avvocato avesse
avuto successo, mi sarei dovuto aspettare di incontrarla e sarei stato costretto
a chiedermi se volevo – e come dovevo – incontrarla. Ed era molto probabile
che l’avvocato avrebbe avuto successo. Se Hanna fino a quel momento non
aveva cercato di fuggire, perché avrebbe dovuto farlo ora? E che cosa poteva
occultare? Non sussistevano altri motivi di detenzione.
Il presidente appariva di nuovo irritato, e iniziai a rendermi conto che
era un trucco: ogni volta che considerava ostruttiva e fastidiosa
un’affermazione, si toglieva gli occhiali, scrutava il dichiarante con sguardo
miope e dubbioso, corrugava la fronte e trascurava l’affermazione, oppure
iniziava con: «Lei afferma dunque che…» o «Lei intende dunque affermare
che…» e ripeteva l’affermazione con un tono che non lasciava dubbi sul fatto
che non era disposto a occuparsene e che era inutile insistere.
«Lei afferma dunque che il giudice istruttore ha interpretato
erroneamente la circostanza secondo cui l’imputata non ha reagito ad alcuno
scritto e a nessuna citazione in giudizio, né si è presentata davanti alla polizia,
al pubblico ministero e al giudice? Intende richiedere un’istanza di revoca
dell’ordine di carcerazione?».
L’avvocato presentò l’istanza e i giudici la respinsero.
4.
Non saltai nemmeno un’udienza del processo. Gli altri studenti se ne
meravigliarono. Il professore, invece, accolse con soddisfazione il fatto che
uno di noi si desse da fare affinché il gruppo successivo fosse informato su
quanto ascoltato e visto dal precedente.
Solo una volta Hanna guardò tra il pubblico e verso di me. Altrimenti,
durante tutti i giorni di dibattimento tenne lo sguardo rivolto al banco dei
giudici, sia quando entrava in aula accompagnata da un’agente sia dopo aver
preso posto. Questo la faceva apparire altezzosa, e altezzoso sembrava il fatto
che non parlasse con le altre imputate e a malapena con il suo avvocato. In
realtà le altre imputate parlavano sempre meno tra loro, via via che il
processo si prolungava. Durante le pause stavano con parenti e amici, ai quali
rivolgevano un cenno o un saluto quando al mattino li scorgevano tra il
pubblico. Hanna invece durante le pause restava seduta al suo posto.
Cosí io la guardavo da dietro. Vedevo la sua testa, la sua nuca, le sue
spalle. Leggevo la sua testa, la sua nuca, le sue spalle. Quando si parlava di
lei, teneva la testa ben alta. Quando si sentiva trattata ingiustamente,
diffamata, attaccata e cercava il modo di replicare, ruotava le spalle in avanti
e la nuca si gonfiava, evidenziando la muscolatura in tensione. Ogni volta il
tentativo di contrattacco cadeva nel vuoto, e ogni volta le spalle si
abbassavano. Non scrollava mai le spalle e nemmeno scuoteva il capo. Era
troppo tesa per permettersi gesti sciolti come scrollare le spalle o scuotere il
capo. Non si permetteva neanche di tenere la testa inclinata, lasciarla cadere o
sostenerla. Sedeva come congelata, una postura che doveva essere dolorosa.
A volte delle ciocche di capelli scivolavano fuori dallo stretto chignon,
arricciandosi e ricadendo sulla nuca, dove ondeggiavano nella corrente d’aria.
A volte indossava un vestito la cui scollatura era abbastanza profonda da
scoprire la voglia sopra la spalla sinistra. Allora mi ricordavo di quando
soffiavo via i capelli e baciavo quella voglia e quella nuca. Ma ricordare
equivaleva semplicemente a registrare. Non provavo nulla.
Durante il lungo processo non provai nulla, la mia capacità di provare
emozioni anestetizzata. Ogni tanto la provocavo, immaginando – chiaramente
come solo io potevo fare – Hanna in relazione ai crimini di cui era accusata e
ai ricordi che i capelli sulla nuca e la voglia sulla spalla richiamavano alla
mia memoria. Era come quando la mano pizzica il braccio reso insensibile da
un’iniezione: il braccio non sa di essere pizzicato dalla mano, la mano sa di
aver pizzicato il braccio e il cervello percepisce entrambi gli stimoli nello
stesso momento, non uno dopo l’altro, ma poi li distingue con precisione.
Forse la mano ha agito in maniera cosí decisa da lasciare bianca l’area
pizzicata; poi il sangue torna ad affluire e l’area riprende di nuovo colore, ma
la sensibilità non torna ancora.
Chi mi aveva fatto l’iniezione? Me l’ero fatta da solo, perché senza
anestesia non sarei riuscito ad andare avanti? L’anestesia aveva effetto non
solo nell’aula del tribunale e non solo perché io potessi pensare a Hanna
come se ad amarla e a desiderarla fosse stato un altro, qualcuno che
conoscevo bene ma che non ero io. Anche in tutto il resto mi sentivo come se
fossi estraneo a me stesso e intento a osservarmi dal di fuori: mi guardavo
all’università, in compagnia dei miei genitori e dei miei fratelli, con gli amici,
ma interiormente non ero partecipe.
Dopo un po’ credetti di osservare un simile stordimento anche negli
altri. Non negli avvocati difensori, che durante l’intero processo ebbero un
atteggiamento litigioso, chiassoso, prepotente, con un’asprezza pedante e una
sfrontatezza rumorosa e insensibile, secondo il temperamento personale e
l’inclinazione politica. Sicuramente il dibattimento li sfiniva; la sera erano
piú stanchi e piú striduli. Ma nel giro di una notte tornavano a essere carichi e
tronfi, e l’indomani tuonavano e starnazzavano come la mattina precedente. I
pubblici ministeri cercavano di tenere il passo e dimostrare giorno dopo
giorno lo stesso impegno combattivo. Ma non ci riuscivano, almeno non
all’inizio, perché i temi e gli esiti del processo li inorridivano, e poi perché
l’anestesia prese a fare effetto. Il maggior effetto, tuttavia, l’anestesia lo ebbe
sui giudici togati e sui giudici popolari. Nelle prime settimane essi presero
atto con visibile sgomento o faticoso contegno degli orrori che venivano
riferiti e confermati a volte tra le lacrime, a volte con voce rotta, a volte con
tono agitato e confuso. Dopodiché i loro volti tornarono normali: si
sussurravano a vicenda una considerazione, sorridendo, oppure mostravano
un’ombra di impazienza se un testimone saltava di palo in frasca. Quando si
parlò di andare in Israele per interrogare una testimone, si percepí una sorta di
frenesia alla prospettiva del viaggio. Gli altri studenti erano sconcertati.
Venivano in tribunale solo una volta alla settimana e a ogni appuntamento si
rinnovava l’irruzione dell’orrore nella vita di tutti i giorni. Di udienza in
udienza, osservavo le loro reazioni con distacco.
In maniera non diversa, in fondo, dal prigioniero di un campo di
concentramento che sopravvive da un mese all’altro, abituandosi a tal punto
all’orrore da registrare la paura dei nuovi arrivati con indifferenza, con lo
stesso stordimento con il quale accoglie l’uccisione e la morte. Tutta la
letteratura dei sopravvissuti riferisce di questa condizione di stordimento, in
preda alla quale le funzioni vitali risultavano ridotte, il comportamento
apatico e distaccato, e le camere a gas e i forni crematori venivano accettati
come parte della quotidianità. Anche nelle rare dichiarazioni dei perpetratori
le camere a gas e i forni crematori vengono nominati come una normale
realtà, e i perpetratori stessi sono ridotti alla mera funzione che adempiono
nella loro indifferenza e insensibilità, come tramortiti o ubriachi nel loro
stordimento. Gli imputati del processo mi apparivano, ancora e per sempre,
caduti in tale stato, in un certo senso pietrificati in esso.
Già all’epoca studiavo questo comune stato di torpore, che non
riguardava solo i colpevoli e le vittime, ma anche noi che dovevamo
occuparci di tutto ciò come giudici, accusatori o verbalizzatori. Mettevo a
confronto perpetratori, vittime, morti, vivi, sopravvissuti e nati dopo, e non
ero in pace con me stesso, né lo sono oggi. Si possono fare paragoni del
genere? Quando vi accennavo durante una conversazione, sottolineavo ogni
volta che il confronto non intendeva sminuire la differenza tra l’essere stati
costretti a entrare nel mondo dei lager e l’esserci entrati volontariamente, tra
l’aver sofferto e l’aver fatto soffrire, e rimarcavo anzi che la differenza era
della massima, decisiva importanza. Eppure riscontravo sconcerto o
indignazione, non solo quando approfondivo il discorso per ribattere alle
obiezioni degli altri, ma ancora prima che gli altri potessero obiettare
alcunché.
Allo stesso tempo mi chiedo, e già all’epoca avevo iniziato a chiedermi:
come doveva e deve servirsi la mia generazione, nata dopo il nazismo, delle
informazioni sugli orrori dello sterminio degli ebrei? Non dobbiamo pensare
di poter comprendere l’incomprensibile, non dobbiamo paragonare ciò che
non è paragonabile, né di cercare informazioni, perché la ricerca di
informazioni rende quegli orrori oggetto di comunicazione, anche quando
non vengono messi in dubbio, e ottiene solo un silenzio ammutolito per
l’atrocità, la vergogna e la colpa. Dobbiamo solo ammutolire di fronte
all’orrore, la vergogna e la colpa? A quale scopo? L’impegno a portare alla
luce i fatti e sottoporli a revisione, con il quale avevo partecipato al seminario
non era andato perduto nel corso del processo. Ma non è questo il punto. Lo
era invece il fatto che pochi furono giudicati e puniti e che noi, la generazione
successiva, ci ritrovammo ammutoliti per l’orrore, la vergogna e la colpa.
Doveva per forza andare cosí?
5.
Nella seconda settimana vennero letti i capi d’imputazione. La lettura
durò un giorno e mezzo – un giorno e mezzo al condizionale. L’imputata
numero uno avrebbe…, inoltre avrebbe…, oltre a ciò avrebbe…, ne consegue
che si sarebbe conformata alla fattispecie dell’articolo tal dei tali, altresí si
sarebbe conformata a questa e quella fattispecie…, avrebbe agito
colpevolmente e illecitamente. Hanna era l’imputata numero quattro.
Le cinque imputate avevano lavorato come sorveglianti in un piccolo
lager nei pressi di Cracovia, che faceva parte del campo di concentramento di
Auschwitz. Erano state trasferite lí da Auschwitz nella primavera del 1944,
per sostituire le sorveglianti che erano decedute o che erano rimaste ferite in
un’esplosione della fabbrica in cui lavoravano le donne del lager. Uno dei
capi d’imputazione concerneva le azioni da loro compiute ad Auschwitz, ma
era di secondaria importanza rispetto alle altre accuse. Non lo ricordo piú.
Forse non riguardava Hanna, ma solo le altre donne? Forse era poco
significativo di per sé o in confronto agli altri capi d’imputazione? O forse
era semplicemente inaccettabile non processare qualcuno che era stato ad
Auschwitz e proprio per questo ora era agli arresti?
Ovviamente le cinque imputate non erano le direttrici del lager. C’erano
un comandante, delle guardie e altre sorveglianti. La maggior parte delle
guardie e delle sorveglianti non era sopravvissuta al bombardamento che una
notte aveva annientato il convoglio di prigioniere diretto a ovest. Alcune
erano sparite quella stessa notte ed erano introvabili, proprio come il
comandante, che se l’era svignata appena la colonna si era messa in marcia.
In realtà nessuna delle prigioniere sarebbe dovuta sopravvivere alla notte
del bombardamento. Ci furono invece due sopravvissute, madre e figlia, e la
seconda aveva scritto e pubblicato in America un libro sul lager e sul
convoglio diretto a ovest. La polizia e la procura non avevano rintracciato
soltanto le cinque imputate, ma anche alcuni testimoni che vivevano nel
villaggio presso il quale le bombe avevano ucciso le prigioniere. I testimoni
piú importanti erano la figlia, venuta in Germania per il processo, e la madre,
rimasta in Israele. Per l’interrogatorio della madre i magistrati, i pubblici
ministeri e gli avvocati difensori si sarebbero poi recati in Israele. Fu l’unica
parte del processo alla quale non presenziai.
Uno dei due principali capi d’imputazione riguardava le selezioni
all’interno del lager. Ogni mese da Auschwitz venivano mandate lí circa
sessanta donne e altrettante venivano rispedite indietro ad Auschwitz, meno
quelle che erano morte nel frattempo. A tutti era chiaro che le donne ad
Auschwitz venivano uccise: si rimandavano indietro quelle ormai inservibili
per il lavoro in fabbrica. Si trattava di una fabbrica di munizioni, in cui il
lavoro effettivo non era particolarmente pesante, ma non costituiva il lavoro
principale, perché c’era infatti da ricostruire la fabbrica stessa, dopo
un’esplosione avvenuta in primavera, che aveva provocato gravi danni.
L’altro capo d’imputazione riguardava la notte del bombardamento, che
pose fine a tutto quanto. Le guardie e le sorveglianti avevano rinchiuso le
prigioniere - diverse centinaia di donne - nella chiesa di un villaggio
abbandonato dalla maggior parte degli abitanti. Caddero soltanto un paio di
bombe, forse destinate a una linea ferroviaria lí vicino o a un impianto
industriale, o forse sganciate solo perché erano rimaste inutilizzate
dall’incursione su una città piú grande. Una bomba colpí la canonica, in cui
dormivano le guardie e le sorveglianti. Un’altra si abbatté sul campanile, che
prese fuoco. Poi si incendiò il tetto e, infine, la travatura precipitò in fiamme
all’interno della chiesa, incendiando le panche. Le pesanti porte della chiesa
ressero all’urto. Le imputate avrebbero potuto aprirle, ma non lo fecero, e le
donne chiuse nella chiesa bruciarono vive.
6.
Per Hanna il processo non sarebbe potuto andare peggio. Già durante
l’interrogatorio non aveva fatto una buona impressione alla corte. Dopo la
lettura dell’imputazione chiese la parola per correggere qualcosa che a suo
parere era sbagliato e il presidente l’ammoní infastidito, dicendole che prima
dell’apertura del processo aveva avuto il tempo di studiare per bene le
imputazioni e di sollevare obiezioni, che ora si era nel mezzo del
dibattimento e la correttezza o meno delle imputazioni sarebbe emersa
dall’assunzione delle prove. Quando, all’inizio dell’istruzione probatoria, il
presidente della corte propose di rinunciare alla lettura della versione tedesca
del libro della figlia, dato che a tutti i partecipanti era stata data la possibilità
di prendere visione del manoscritto in corso di pubblicazione presso una casa
editrice in Germania, l’avvocato difensore di Hanna, sotto lo sguardo irritato
del presidente, faticò a persuaderla a dichiararsi d’accordo. Lei non voleva.
Non voleva nemmeno riconoscere che in un precedente interrogatorio aveva
ammesso di essere stata in possesso della chiave della chiesa. A suo dire, non
aveva mai avuto quella chiave, nessuno l’aveva mai avuta; anzi, non esisteva
nemmeno una chiave della chiesa, ma diverse chiavi per diverse porte, e le
avevano provate tutte nella serratura dall’esterno. Ma nel verbale del suo
interrogatorio, da lei letto e firmato, risultava scritto tutt’altro, e il fatto che
domandasse perché le venisse addossata una colpa che non aveva commesso
non migliorò le cose. Non alzò la voce né parlò con prepotenza, ma con
ostinazione, e mi parve confusa e sperduta nell’espressione del volto e nel
tono; e sostenendo che le si voleva addossare una colpa non commessa, non
intendeva accusare nessuno di distorcere la legge. Ma il presidente della corte
intese cosí le sue proteste e reagí con severità. L’avvocato di Hanna si alzò di
scatto e cominciò a parlare infervorato e precipitoso. Quando gli venne
chiesto se confermava l’accusa della sua cliente, si sedette di nuovo.
Hanna pretendeva precisione. Se riteneva di essere vittima di
un’ingiustizia prendeva la parola per replicare, e ammetteva ciò di cui a suo
parere era giusto che fosse accusata. Era accanita nel ribattere e pronta
nell’ammettere, come se ammettendo acquisisse il diritto di ribattere e
ribattendo si assumesse il dovere di ammettere ciò che in buona fede non
poteva contestare. Ma non si rendeva conto che il suo accanimento
innervosiva il presidente. Non aveva alcuna sensibilità per il contesto, per le
regole del gioco, per le formule in base alle quali le dichiarazioni sue e delle
altre imputate venivano messe sulla bilancia della colpa e dell’innocenza,
della condanna e dell’assoluzione. Il suo avvocato, per compensare a questa
mancanza di sensibilità, avrebbe dovuto essere piú esperto e piú sicuro, o
semplicemente, migliore. Hanna, dal canto suo, non avrebbe dovuto rendergli
il compito cosí gravoso: gli negava la sua fiducia in maniera evidente, ma
non aveva nemmeno scelto un avvocato di sua fiducia. Era un difensore
d’ufficio, stabilito dal presidente.
A volte Hanna otteneva qualcosa di simile a un successo. Ricordo
l’interrogatorio sulle selezioni nel lager. Le altre imputate negavano di avervi
mai avuto a che fare, in nessun momento. Hanna invece ammise subito di
averne preso parte, non da sola, ma come e con le altre, tanto che il presidente
ritenne di dover insistere con lei.
«Come avvenivano le selezioni?».
Hanna dichiarò che le sorveglianti si erano accordate per indicare, da
ognuno dei loro sei settori di competenza di dimensioni equivalenti, lo stesso
numero di prigioniere, dieci ciascuno, sessanta in totale; disse che i numeri
potevano variare, quando in un settore c’erano poche ammalate e in un altro
molte, e che tutte le sorveglianti in servizio, alla fine, stabilivano insieme chi
doveva essere rimandata indietro ad Auschwitz.
«Nessuna di voi si è mai rifiutata? Agivate tutte insieme?».
«Sí».
«Lei non sapeva che stava mandando le prigioniere a morire?».
«Certo, lo sapevo, ma arrivavano le nuove prigioniere, e le vecchie
dovevano fargli posto».
«Quindi lei, per far posto, diceva: tu, tu e tu sarete rimandate indietro e
uccise?».
Hanna non capiva cosa il giudice intendesse dire.
«Io ho… cioè… Cosa avrebbe fatto lei?». Era una domanda seria. Non
sapeva cosa avrebbe dovuto fare diversamente, cosa avrebbe potuto fare
diversamente, e perciò voleva sentire dal presidente, che sembrava sapere
tutto, che cosa avrebbe fatto lui.
Per un istante ci fu silenzio. Nei procedimenti penali tedeschi non sta
bene che gli imputati pongano domande ai giudici. Ma ormai la domanda era
stata fatta e tutti aspettavano la risposta del presidente, il quale doveva
rispondere, non poteva sorvolare, né cancellare la domanda con
un’ammonizione o una controdomanda. A tutti era chiaro, a lui stesso era
chiaro, e io capii perché usava il trucco dell’espressione irritata. Aveva fatto
di quell’espressione la sua maschera, dietro la quale poteva prendersi un po’
di tempo per trovare la risposta. Un po’ di tempo – ma non troppo tempo: piú
aspettava, piú crescevano la tensione e l’aspettativa, e migliore doveva essere
la risposta.
«Ci sono cose con le quali semplicemente non è permesso entrare in
contatto e dalle quali ci si deve astenere, se non si rischia la vita».
Forse sarebbe stato sufficiente se avesse parlato di Hanna oppure di se
stesso. Discorrere cosí superficialmente di ciò che è o che non è permesso
fare e di quanto costa, non rese giustizia alla serietà della domanda di Hanna.
Lei voleva sapere come avrebbe dovuto comportarsi nella sua situazione, non
che ci sono azioni che non si devono compiere. A tutti la risposta del giudice
suonò dubbia, misera. Reagirono con sospiri delusi e guardarono meravigliati
Hanna che, in un certo senso, aveva vinto il diverbio. Ma anche lei rimase
pensierosa.
«Quindi io avrei… non avrei… non avrei dovuto mettermi a
disposizione della Siemens?».
Non era una domanda rivolta al giudice. Hanna parlava a se stessa,
chiedeva a se stessa, esitando, perché fino a quel momento non si era ancora
posta la domanda e non sapeva se era corretta, né quale fosse la risposta.
7.
Cosí come l’ostinazione con cui Hanna controbatteva innervosiva il
giudice, la prontezza con cui ammetteva le sue colpe innervosiva le altre
imputate. Per la loro difesa, ma anche per la sua, era un atteggiamento molto
pericoloso.
Di fatto, lo stato delle prove era favorevole alle imputate. Gli elementi
probatori per il primo capo d’imputazione erano la testimonianza della madre
sopravvissuta, di sua figlia e del libro di quest’ultima. Una buona difesa
avrebbe potuto, a ragion veduta, contestare che fossero le imputate a operare
le selezioni, senza attaccare la sostanza delle deposizioni di madre e figlia. A
questo proposito le deposizioni dei testimoni non furono precise, né potevano
esserlo; c’erano pur sempre un comandante, delle guardie, delle altre
sorveglianti e una gerarchia di ordini e di compiti di cui le prigioniere
avevano una conoscenza parziale e che altrettanto parzialmente erano in
grado di capire. Analoga situazione riguardava il secondo capo
d’imputazione. Madre e figlia erano state rinchiuse nella chiesa e non
potevano deporre su ciò che era successo all’esterno. D’altro canto, le
imputate non potevano sostenere di non essersi trovate lí. Gli altri testimoni,
ovvero gli abitanti del villaggio, avevano parlato con loro e si ricordavano di
loro. Ma questi altri testimoni dovevano stare attenti che l’accusa di non aver
soccorso le prigioniere non ricadesse su di loro. Se alla chiesa c’erano solo le
imputate, gli abitanti del villaggio non avrebbero forse potuto immobilizzare
quelle poche donne e aprire le porte alle prigioniere? Non era quindi piú
probabile che si attenessero alla linea di difesa che avrebbe scagionato anche
loro, secondo la quale le imputate avevano agito in stato di coercizione, sotto
la violenza o il comando delle guardie che non erano ancora fuggite o che,
secondo quanto le imputate avevano pur sempre ammesso, si erano assentate
solo brevemente per portare i feriti all’ospedale militare, per poi fare subito
ritorno alla chiesa?
Quando gli avvocati delle altre imputate si resero conto che le
ammissioni di Hanna minavano la loro linea di difesa, cambiarono strategia:
stabilirono di incolpare Hanna, sfruttando le sue ammissioni, e in questo
modo dimostrare la mancanza di responsabilità delle loro assistite. Gli
avvocati imboccarono questa strada con professionale distacco. Le altre
imputate li assecondarono con osservazioni indignate.
«Lei ha detto che sapeva di mandare le prigioniere a morire. Questo vale
solo per lei, non è vero? Lei non può sapere quanto le sue colleghe fossero al
corrente della verità. Lo può supporre, ma non dichiararlo con certezza, non è
vero?».
Hanna venne interrogata dall’avvocato difensore di un’altra imputata.
«Ma tutte noi sapevamo…».
«Dire noi, tutte noi è piú facile che dire io, solo io, non è vero? È giusto
affermare che lei, solo lei, aveva nel lager le sue protette, sempre donne
giovani, per un po’ una e poi un’altra…?».
Hanna indugiò. «Credo di non essere stata l’unica a…».
«Maledetta bugiarda! Le tue protette erano tue, tue e basta!». Un’altra
imputata, una donna rude, non priva di una corpulenza quasi morbida, da
chioccia, e al tempo stesso con una lingua velenosa, era visibilmente agitata.
«Potrebbe darsi che lei dica sapere al posto di credere e credere ciò che
sta semplicemente inventando?». L’avvocato scosse il capo come se,
rammaricato, prendesse atto della risposta affermativa. «È giusto affermare
che le sue protette, quando lei si stancava di loro, finivano ad Auschwitz con
il convoglio successivo?».
Hanna non rispose.
«Era la sua selezione speciale, personale, non è vero? Lei non vuole piú
ammetterlo, cerca di nascondersi dietro qualcosa che hanno fatto tutti.
Ma…».
«Oddio!». La figlia, che dopo il suo interrogatorio era rimasta seduta tra
il pubblico, batté le mani davanti al viso. «Come ho potuto
dimenticarmene?». Il presidente della corte le chiese se volesse aggiungere
qualcosa alla sua dichiarazione e lei non aspettò di essere convocata. Si alzò
in piedi e finí di parlare dal punto in cui si trovava.
«Sí, lei aveva delle preferite, sempre una delle piú giovani, deboli ed
esili. Le prendeva sotto la sua protezione e faceva in modo che non dovessero
lavorare, le alloggiava meglio e le accudiva e le nutriva meglio, e alla sera le
prendeva con sé. E alle ragazze non era permesso dire che cosa facesse con
loro la sera, e noi pensavamo che lei… con loro… anche perché tutte
finivano per essere rimandate indietro, come se lei si fosse divertita con loro e
se ne fosse saziata. Ma non era cosí: un giorno una di loro ha parlato e
abbiamo scoperto che le ragazze leggevano per lei, sera dopo sera dopo sera.
Era meglio cosí piuttosto che… anche meglio che lavorare alla ricostruzione
della fabbrica fino a morire stremate. Sicuramente devo aver pensato che
fosse meglio, altrimenti non me ne sarei dimenticata. Ma era davvero
meglio?». Tornò a sedersi.
Hanna si girò e mi guardò. I suoi occhi mi trovarono subito, e cosí capii
che aveva saputo fin dall’inizio che ero lí. Mi guardò e basta. Il suo volto non
chiedeva nulla, non reclamava nulla, non affermava né prometteva nulla. Si
mostrava, nient’altro. Mi resi conto di quanto fosse tesa ed esausta. Aveva le
occhiaie e una ruga che non avevo mai visto, che correva in verticale lungo
ciascuna guancia, non ancora profonda ma capace di segnarla come una
cicatrice. Quando arrossii sotto il suo sguardo, distolse gli occhi e si volse
nuovamente verso la corte.
Il presidente volle sapere dall’avvocato che stava interrogando Hanna se
aveva altre domande per l’imputata. Lo stesso chiese anche all’avvocato di
Hanna. Chiediglielo, pensai. Chiedile se sceglieva le ragazze deboli ed esili
perché non avrebbero comunque retto alla costruzione della fabbrica, perché
sarebbero comunque finite ad Auschwitz con il trasporto successivo e lei
voleva rendere loro sopportabile l’ultimo mese di vita. Dillo, Hanna. Di’ che
volevi rendere loro sopportabile l’ultimo mese di vita. Che questo era il
motivo per cui sceglievi le piú esili e deboli. Che non c’era nessun altro
motivo, non poteva esserci.
Ma il suo avvocato non glielo chiese e lei non parlò di sua spontanea
volontà.
8.
La versione tedesca del libro che la figlia aveva scritto sul periodo
trascorso nel campo di concentramento uscí in libreria solo alla fine del
processo. Prima di allora era disponibile il manoscritto, ma consultabile solo
dai partecipanti al dibattimento. Io lo dovetti leggere in inglese, all’epoca
un’impresa inconsueta e faticosa. E, come accade ogni volta con una lingua
straniera che non conosci bene e con cui combatti, si creò una peculiare
compresenza di lontananza e vicinanza. Si studia un testo a fondo, ma non si
riesce a farlo proprio. Rimane estraneo tanto quanto la lingua straniera.
Anni dopo l’ho riletto e ho scoperto che è il racconto in sé a creare
lontananza, distacco. Non invita all’immedesimazione e non rende simpatico
nessuno, né la madre, né la figlia, né chi ha condiviso con loro il destino in
diversi lager, da ultimi quelli di Auschwitz e di Cracovia. Innanzitutto le
anziane delle baracche, le sorveglianti e le guardie non acquistano contorni
cosí nitidi da potersi rapportare con loro, da poterle giudicare buone o cattive.
Si respira quello stordimento che ho già cercato di descrivere. Ma la figlia,
nonostante lo stordimento, non ha perso la capacità di registrare e analizzare.
E non si è lasciata fuorviare né dall’autocommiserazione, né dall’arroganza di
essere non solo sopravvissuta agli anni nei lager ma di avervi anche dato
forma letteraria. Scrive di sé e del suo comportamento adolescenziale,
saccente e, perché no, scaltro, con la stessa sobrietà con la quale descrive
tutto il resto.
Nel libro Hanna non viene nominata e non è nemmeno identificabile. A
volte ho creduto, ma senza esserne sicuro, di riconoscerla in una sorvegliante
descritta come giovane, bella e dedita ai suoi compiti con una coscienziosità
priva di qualunque coscienza. Osservando le altre imputate, pensavo che solo
Hanna potesse essere la sorvegliante descritta cosí. In realtà ce n’erano anche
altre. In un lager la figlia aveva incontrato una sorvegliante che veniva
chiamata cavalla – giovane, bella e abile, ma crudele e priva di controllo. Per
questo quella sorvegliante le ricordava una cavalla. Avevano forse anche altri
pensato allo stesso paragone? Lo sapeva, Hanna, se ne ricordava e ne era
rimasta turbata come quando ero stato io a paragonarla a un cavallo?
Il lager di Cracovia fu per madre e figlia l’ultima tappa dopo Auschwitz
e segnò un progresso: il lavoro era pesante ma meno che altrove, il cibo era
migliore e c’era il vantaggio di dormire in una camera con cinque donne
anziché in una baracca con altri cento prigionieri. Inoltre faceva piú caldo; le
donne potevano raccogliere e portare con sé della legna lungo il percorso
dalla fabbrica alle baracche. C’era la paura delle selezioni, ma anche queste
non erano cosí terribili come ad Auschwitz. Sessanta donne venivano
rimandate indietro ogni mese, sessanta su circa milleduecento; si aveva
quindi un’aspettativa di sopravvivenza di venti mesi, se solo si possedevano
forze nella media, e si poteva sempre sperare di essere piú forti della media.
Inoltre era lecito confidare che la guerra finisse in meno di venti mesi.
Gli stenti iniziarono con lo smantellamento del campo e la partenza dei
prigionieri verso ovest. Era inverno, nevicava e gli indumenti con cui le
donne gelavano in fabbrica, sempre che riuscissero a reggere, erano ora del
tutto insufficienti; e ancora peggio erano le scarpe, spesso fatte di stracci e
carta di giornale legati in modo da non disfarsi quando si stava ferme in piedi
e quando si camminava, ma non cosí bene da superare lunghe marce su neve
e ghiaccio. Le prigioniere non camminavano soltanto; venivano incalzate di
continuo, dovevano correre. «Marcia della morte?» chiede la figlia nel libro,
e risponde: «No, trotto, galoppo della morte». Molte stramazzavano lungo la
strada, altre non si rialzavano piú dopo la notte in un fienile o, peggio,
addossate a un muro. Dopo una settimana, quasi la metà delle donne era
morta.
La chiesa fu un alloggio migliore rispetto ai fienili e ai muri che le
donne avevano avuto in precedenza, quando passavano la notte in qualche
fattoria abbandonata, e le guardie e le sorveglianti occupavano le abitazioni
solo per sé. Lí, in quel villaggio in gran parte abbandonato, tennero per sé la
canonica e lasciarono alle prigioniere la chiesa. Questa decisione e la scoperta
che c’era addirittura del brodo caldo da mangiare, sembrò la promessa che gli
stenti fossero sul punto di finire. Cosí le donne si addormentarono. Poco piú
tardi ebbe inizio il bombardamento. Finché a bruciare fu solo il campanile,
nella chiesa il fuoco si udiva solamente, non si vedeva. Quando la punta del
campanile si ruppe e precipitò sull’ossatura del tetto, fu questione di pochi
minuti prima che comparisse il bagliore del fuoco. Poi le fiamme
cominciarono a scendere come pioggia e gli abiti presero fuoco; le travi
incendiate, precipitando, appiccarono il fuoco alle panche e al pulpito, e nel
giro di poco il tetto crollò sulla navata e tutto bruciò.
La figlia ritiene che le prigioniere si sarebbero potute salvare, se
avessero tentato subito tutte insieme di sfondare una delle porte. Ma quando
capirono cos’era successo e cosa stava per succedere, e che non sarebbe
venuto nessuno a liberarle, fu troppo tardi. Quando la bomba le svegliò era
notte fonda. Per un istante si udí solo uno strano e inquietante fruscio sul
campanile e le donne rimasero in completo silenzio per ascoltare meglio il
rumore e poterlo interpretare. Che si trattasse dello scoppiettare e crepitare di
un fuoco, che quei guizzi di luce dietro la finestra fossero il bagliore di un
incendio, che il tuono esploso sulle loro teste significasse che l’incendio si
stava propagando dal campanile al tetto, lo compresero solo quando fu chiaro
che la struttura di sostegno del tetto stava bruciando. Lo compresero e
iniziarono a urlare: per il terrore, per chiedere aiuto, lanciandosi contro le
porte, scuotendole, tempestandole di pugni e continuando a urlare.
Quando il tetto crollò sulla navata, i muri intorno trattennero il fuoco
come un camino. La maggior parte delle donne non morí per asfissia, ma
bruciò viva nel luminoso, abbagliante crepitio delle fiamme. Il fuoco
continuò a bruciare fino a fondere anche le porte della chiesa rivestite in
ferro. Ma questo accadde molte ore dopo.
Madre e figlia sopravvissero perché la madre, senza saperlo, fece la cosa
giusta. Quando tra le prigioniere si diffuse il panico, non riuscí piú a resistere
in mezzo a loro. Fuggí sulla loggia e non le importava se lí le fiamme erano
piú vicine; voleva restare sola, lontano dalle compagne che urlavano, che
sgomitavano, che bruciavano. La loggia era stretta, cosí stretta che venne a
malapena sfiorata dalla travatura in fiamme. Madre e figlia rimasero
schiacciate contro il muro, da dove videro e udirono la furia del fuoco. Il
giorno seguente non osarono scendere e uscire. Nell’oscurità della notte
successiva temettero di cadere dai gradini della scala o sbagliare strada.
Quando all’alba di due giorni dopo uscirono dalla chiesa, incontrarono alcuni
abitanti del villaggio che le fissarono sconcertati e ammutoliti, ma diedero
loro vestiti e cibo e le lasciarono andare.
9.
«Perché non ha aperto?».
Il presidente della corte rivolse a un’imputata dopo l’altra la stessa
domanda. E un’imputata dopo l’altra diede la stessa risposta. Non aveva
potuto aprire. Perché? Era stata ferita dalla bomba caduta sulla canonica. O
era in stato di shock. Oppure dopo il bombardamento si era occupata delle
guardie e delle altre sorveglianti ferite: le aveva estratte dalle macerie,
fasciate, assistite. Non aveva pensato alla chiesa, non era vicino alla chiesa,
non aveva visto l’incendio in chiesa e non aveva sentito le grida dalla chiesa.
Il presidente fece a un’imputata dopo l’altra la stessa obiezione. Il
rapporto, formulato con prudente considerazione, si poteva interpretare anche
diversamente: sarebbe stata una menzogna dichiarare che nel testo rinvenuto
tra gli atti delle SS il resoconto dei fatti differiva, ma era giusto affermare che
se ne poteva dare anche una lettura differente. Il presidente citò tutti i nomi di
chi era morto in canonica e di chi era stato ferito, di chi aveva trasportato con
il camion i feriti all’ospedale militare e di chi aveva scortato quel trasporto
sulla camionetta. Citò che le sorveglianti erano rimaste indietro per aspettare
la fine dell’incendio, per evitarne la propagazione e impedire tentativi di fuga
sotto la copertura del fuoco. Citò la morte delle prigioniere.
Il fatto che i nomi delle imputate non fossero tra quelli elencati
significava che le imputate appartenevano al gruppo di sorveglianti rimaste
indietro. Il fatto che le sorveglianti fossero rimaste indietro per sventare
tentativi di fuga significava che, con il recupero delle ferite dalla canonica e
la partenza del convoglio per l’ospedale militare, non tutto era ancora finito.
Le sorveglianti rimaste indietro, cosí si leggeva, avevano lasciato che in
chiesa l’incendio divampasse e non avevano aperto le porte. Tra le
sorveglianti rimaste indietro, cosí si leggeva, c’erano le imputate.
No, disse un’imputata dopo l’altra, non è stato cosí. Il rapporto è falso.
Attribuisce alle sorveglianti rimaste indietro il compito di evitare che
l’incendio si propagasse. Ma come avrebbero dovuto svolgere quel compito?
Era insensato, e insensato era anche l’altro compito, quello di sventare
tentativi di fuga. Davvero assurdo. Tentativi di fuga? Quando le sorveglianti
non avessero piú dovuto occuparsi delle loro compagne ma delle altre donne,
delle prigioniere, non ci sarebbe stato piú nessuno che potesse fuggire. No, il
rapporto travisava completamente ciò che avevano fatto, eseguito e sofferto
durante quella notte. Come si era potuto redigere un rapporto cosí
evidentemente falso? Anche di questo non avevano idea.
Finché fu il momento dell’imputata corpulenta e astiosa. Lei lo sapeva.
«Lo chieda a quella lí!». Puntò il dito contro Hanna. «Lei ha scritto il
rapporto. È tutta colpa sua, solo sua, e con quel rapporto ha cercato di
insabbiare la faccenda e di addossare la responsabilità a noi».
Il presidente interrogò Hanna. Ma era la sua ultima domanda. La prima
era stata: «Perché non ha aperto?».
«Noi eravamo… avevamo…». Hanna cercava la risposta. «Non
sapevamo come fare».
«Non sapevate come fare?».
«Alcuni di noi erano morti e altri erano scappati. Avevano detto che
portavano i compagni feriti all’ospedale militare e poi tornavano, ma
sapevano che non sarebbero tornati, e anche noi lo sapevamo. Magari non ci
sono nemmeno andati, all’ospedale militare, i feriti non erano cosí gravi.
Volevamo andare con loro, ma ci dissero che avevano bisogno di posto per i
feriti e cosí non… Non erano affatto contenti di avere cosí tante donne con
loro. Non so dove siano andati».
«E lei che cosa ha fatto?».
«Non sapevamo cosa fare. Era successo tutto cosí in fretta: la canonica
bruciava e il campanile, e gli uomini e le camionette erano ancora lí e poi non
c’erano piú, e all’improvviso eravamo rimaste sole con le donne dentro la
chiesa. Un po’ di armi ce le avevano lasciate, ma non sapevamo usarle e,
comunque, a cosa ci sarebbero servite, a noi, un pugno di donne? Come
avremmo potuto sorvegliare tutte quelle prigioniere? Il convoglio era
lunghissimo, anche quando si riusciva a compattarlo, e per sorvegliare una
marcia simile, ci voleva ben piú di un pugno di donne». Hanna fece una
pausa. «Poi cominciarono le urla e andò sempre peggio. Se avessimo aperto
in quel momento e tutte fossero corse fuori…».
Il presidente aspettò un momento. «Aveva paura? Aveva paura che le
prigioniere l’avrebbero sopraffatta?».
«Che le prigioniere ci… No, ma cosa avremmo dovuto fare per riportare
l’ordine? Sarebbe scoppiato un caos che non saremmo riuscite a controllare.
E se avessero cercato di fuggire…».
Di nuovo il presidente aspettò, ma Hanna non concluse la frase. «Lei
aveva paura che, in caso di fuga delle prigioniere, sarebbe stata arrestata,
condannata, fucilata?».
«Non avremmo potuto lasciarle fuggire cosí, semplicemente! Eravamo
responsabili… Cioè, le avevamo sorvegliate per tutto il tempo, nel lager e
durante la marcia; il nostro compito era proprio sorvegliarle perché non
fuggissero. Per questo non sapevamo cosa fare. Non sapevamo neanche
quante ne sarebbero sopravvissute nei giorni seguenti. Ne erano già morte
cosí tante, e quelle che erano ancora vive erano cosí deboli…».
Hanna capiva che quelle parole erano tutt’altro che utili alla sua causa.
Ma non poteva dire altro. Poteva solo cercare di dirlo meglio, di descrivere e
spiegare meglio. Ma piú diceva, piú peggiorava la situazione. E non sapendo
che pesci pigliare, si rivolse nuovamente al presidente della corte.
«Lei cosa avrebbe fatto?».
Questa volta sapeva già che non avrebbe avuto risposta. Nessuno si
aspettava una risposta. Nessuno aspettava una risposta. Il presidente scosse la
testa, muto.
Non che fosse impossibile immaginare la perplessità e lo stato di
impotenza che Hanna descriveva. La notte, il freddo, la neve, il fuoco, le
grida delle donne in chiesa, la scomparsa di coloro che davano gli ordini e
scortavano le sorveglianti… la situazione in generale. Ma la consapevolezza
che la situazione era stata difficile poteva ridimensionare l’orrore di ciò che le
imputate avevano o non avevano fatto? Come se si fosse trattato di un
incidente d’auto su una strada sperduta in una fredda notte d’inverno, con
feriti e danni gravi: chi saprebbe cosa fare? O di un conflitto tra due obblighi
che meritano entrambi il nostro impegno? Si poteva, ma non si voleva,
immaginare ciò che Hanna descriveva.
«Ha scritto lei il rapporto?».
«Abbiamo deciso insieme cosa scrivere. Non volevamo accusare quelli
che erano scappati, ma nemmeno addossarci la colpa di aver agito in maniera
sbagliata».
«Lei dunque dice che avete deciso insieme. E chi l’ha messo per
iscritto?».
«Tu!». L’altra imputata puntò di nuovo il dito contro Hanna.
«No, non l’ho scritto io. È importante chi l’ha scritto?».
Uno dei pubblici ministeri propose di far comparare a un esperto la
calligrafia del rapporto con quella dell’imputata Schmitz.
«La mia calligrafia? Volete comparare la mia…».
Il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato di Hanna discussero se una
calligrafia conservi o meno la sua identità, e sia quindi riconoscibile, per piú
di quindici anni. Hanna ascoltava e un paio di volte sembrò sul punto di dire
o chiedere qualcosa; era sempre piú allarmata. Poi disse: «Non ha bisogno di
chiedere a nessun esperto. Confesso di aver scritto io il rapporto».
10.
Degli incontri del venerdí con i partecipanti al seminario non ho alcun
ricordo. Anche quando ripenso al processo, non mi viene in mente che cosa
poi rielaboravamo scientificamente. Di cosa parlavamo? Cosa volevamo
sapere? Che cosa ci insegnava il professore?
Ricordo invece le domeniche. Dalle giornate in tribunale uscivo con una
fame, per me nuova, di colori e odori della natura. Al venerdí e al sabato
recuperavo lo studio che avevo tralasciato negli altri giorni, in modo da
rimanere al passo con gli esercizi e concludere il programma del semestre. La
domenica scappavo via.
Heiligenberg, Michaelsbasilika, Bismarckturm, Philosophenweg, la riva
del fiume. Da una domenica all’altra variavo solo leggermente il percorso,
che mi risultava sempre sufficientemente diverso: di settimana in settimana
vedevo il verde farsi sempre piú intenso e la piana del Reno ora nella foschia
della calura ora dietro un velo di pioggia ora sotto nubi di tempesta; sentivo il
sole che scottava, il profumo dei frutti e dei fiori del bosco e, quando
pioveva, della terra e delle foglie marcite dell’anno precedente. Generalmente
non ho bisogno né vado in cerca di grande varietà: il prossimo viaggio un po’
piú lungo del precedente, le prossime vacanze nel luogo che avevo scoperto
vicino all’ultimo e che mi era piaciuto. Per un po’ di tempo ho creduto di
dover essere piú audace e mi sono costretto a visitare Ceylon, l’Egitto e il
Brasile, prima di tornare a rendere le regioni familiari ancora piú familiari. Lí
riesco a vedere di piú.
Nel bosco mi si svelò il segreto di Hanna. Ho poi ritrovato il posto
preciso in cui questo avvenne, un posto che non ha niente di particolare e non
aveva niente di particolare nemmeno all’epoca: nessun albero cresciuto con
una forma strana, né rocce dall’aspetto bizzarro; nessuna vista insolita sulla
città e sulla pianura; niente che invitasse ad associazioni sorprendenti.
Settimana dopo settimana, riflettevo su Hanna, girando in tondo lungo una
stessa orbita, e a un certo punto un pensiero si era come staccato dagli altri,
aveva seguito il suo personale percorso e alla fine aveva prodotto il suo
personale risultato. Quando giunse alla fine, la fine fu raggiunta: può capitare
ovunque – o in ogni caso ovunque la familiarità dell’ambiente e delle
circostanze lo permettano – di percepire e cogliere quel dato sorprendente che
non proviene dall’esterno, ma cresce dentro di te. Cosí avvenne lungo un
sentiero che s’inerpica sulla montagna, attraversa la carreggiabile, supera una
sorgente e conduce prima tra alberi antichi, alti e scuri e poi attraverso un
boschetto inondato di luce.
Hanna non sapeva né leggere né scrivere.
Per questo motivo aveva voluto che le si leggesse ad alta voce. Per
questo motivo aveva lasciato a me il compito di scrivere e leggere durante il
nostro viaggio in bicicletta, e per questo era fuori di sé quella mattina in
albergo, quando aveva trovato il mio biglietto: aveva immaginato che io mi
aspettassi che lei ne conoscesse il contenuto e aveva temuto di essere
scoperta. Per questo motivo si era sottratta alla promozione presso l’azienda
dei trasporti pubblici; la sua mancanza, che come bigliettaia poteva occultare,
sarebbe diventata palese al corso di formazione per conducenti. E sempre per
questo motivo si era sottratta alla promozione presso la Siemens e aveva
accettato di diventare sorvegliante. Per questo motivo aveva confessato di
essere stata lei a scrivere il rapporto, pur di evitare il confronto con l’esperto.
Ma era stato sempre questo il motivo per cui al processo aveva parlato contro
il proprio interesse? Non avendo potuto leggere il libro della figlia, né
l’elenco dei capi d’imputazione, non aveva colto la sua possibile linea di
difesa e non si era potuta preparare di conseguenza? Per questo motivo aveva
spedito le sue protette ad Auschwitz? Per metterle a tacere, nel caso in cui
avessero notato qualcosa? E per questo motivo aveva scelto le sue protette tra
le piú deboli?
Per questo motivo? Che si fosse vergognata di non saper leggere e
scrivere e avesse preferito lasciarmi sconcertato piuttosto che rendersi
ridicola ai miei occhi, questo lo capivo. Conoscevo in prima persona la
vergogna che spinge a un comportamento elusivo, repulsivo, falso,
fuorviante, e anche offensivo. Ma la vergogna di non saper leggere e scrivere
aveva davvero potuto spingerla a un comportamento come quello tenuto al
processo e nel lager? Per paura di dichiararsi analfabeta, aveva preferito
dichiararsi criminale? Per paura di dichiararsi analfabeta, aveva preferito
commettere un crimine?
Quanto spesso mi sono posto la stessa domanda, all’epoca e da allora.
Se il problema di Hanna era la paura di compromettersi, come mai invece
dell’innocua compromissione come analfabeta aveva scelto quella, tremenda,
come criminale? O forse pensava di cavarsela senza doversi compromettere?
Era semplicemente stupida? E cosí vanitosa e malvagia da diventare una
criminale per evitare di scoprirsi?
Allora, e da allora, l’ho sempre escluso. No, mi sono detto, Hanna non
aveva scelto il crimine. Aveva scelto di rifiutare la promozione alla Siemens
ed era finita a fare la sorvegliante. E no, non aveva spedito le ragazze esili e
deboli con il convoglio diretto ad Auschwitz perché avevano letto per lei, ma
lei stessa aveva offerto la lettura a voce alta per rendere loro sopportabile
l’ultimo mese di vita, prima di finire comunque ad Auschwitz. E no, nel
processo Hanna non aveva ponderato tra l’esporsi come analfabeta e l’esporsi
come criminale. Non fu un calcolo, non fu una tattica. Accettò di spingersi
fino alla resa dei conti; solo su questa sua vergogna non accettò di doversi
esporre. Non seguí i suoi interessi, ma lottò per la sua verità, per la sua
giustizia. Dovendo fingere di continuo, non potendo mai essere
completamente sincera, mai completamente se stessa, la sua verità e la sua
giustizia erano ben misere, erano una misera verità e una misera giustizia, ma
erano pur sempre sue, e la lotta per difenderle fu la sua lotta.
Doveva essere esausta. Non lottava solo al processo. Lottava sempre e
sempre aveva lottato, non per dimostrare ciò che sapeva, ma per occultare ciò
che non sapeva. Una vita le cui avanzate finivano per essere drastiche ritirate
e le vittorie sconfitte celate.
Stranamente, mi colpí la discrepanza tra ciò che Hanna aveva dovuto
affrontare una volta partita dalla mia città natale e ciò che io mi ero
immaginato all’epoca. Ero sicuro di essere stato io a cacciarla, tradendola e
rinnegandola, mentre in realtà si era semplicemente sottratta alla necessità di
scoprirsi con l’azienda dei trasporti. Non ero stato io a cacciarla, ma questo
non cambiava il fatto che il mio tradimento restava. Quindi restavo colpevole.
E se non ero colpevole perché il tradimento di una criminale non può rendere
colpevoli, ero colpevole perché avevo amato una criminale.
11.
Quando Hanna confessò di aver scritto lei il rapporto, per le altre
imputate il gioco si fece facile. Laddove non aveva agito da sola, Hanna
aveva incalzato, minacciato, costretto le altre. Si era impadronita del
comando. Aveva guidato lei la penna e la parola. Aveva deciso lei.
Gli abitanti del villaggio che deposero come testimoni non poterono né
confermare, né confutare alcunché. Avevano visto che la chiesa in fiamme
era sorvegliata da diverse donne in uniforme e che non veniva aperta; perciò
non avevano osato aprirla loro stessi. Avevano incontrato le donne il mattino
seguente, quando si erano messe in marcia, e le riconobbero nelle imputate.
Ma non seppero dire quale fosse stata – e soprattutto se ci fosse stata –
un’imputata a capo del convoglio.
«Ma non potete escludere che fosse questa imputata» l’avvocato di una
delle altre sorveglianti indicò Hanna, «a prendere le decisioni?».
Non potevano escluderlo, come avrebbero potuto? E davanti alle altre
imputate, visibilmente piú vecchie, piú stanche, piú vili e piú amareggiate,
nemmeno lo volevano. In confronto alle altre, Hanna era sicuramente il capo.
Inoltre l’esistenza di un capo alleggeriva la responsabilità degli abitanti del
villaggio: non aver prestato aiuto in presenza di un’unità comandata era piú
accettabile che non averlo fatto con attorno un gruppo di donne disorientate.
Hanna continuava a lottare. Confessava ciò che era giusto e contestava
ciò che non lo era. Contestava con una veemenza sempre piú disperata. Non
alzava la voce. Ma già l’intensità con la quale parlava sconcertava la corte.
Alla fine si arrese. Parlava solo se veniva interrogata, rispondeva in
modo conciso, povero, a volte distratto. Quasi a rendere visibile la sua resa,
ora parlava da seduta. Il presidente della corte, che all’inizio del dibattimento
le aveva detto piú volte che non era necessario alzarsi, che poteva
tranquillamente rimanere seduta, prese atto anche di ciò con espressione
stupita. A volte, verso la fine del dibattimento, ebbi l’impressione che la corte
ne avesse abbastanza, che non vedesse l’ora di togliersi di torno quella brutta
storia, di non doversi piú trovare lí in mezzo ma andare da qualche altra parte,
tornare nel presente, dopo tante lunghe settimane nel passato.
Anche io ne avevo abbastanza. Ma non potevo lasciarmi quella storia
alle spalle. Per me il dibattimento non stava finendo, era appena cominciato.
Ero stato spettatore e tutt’a un tratto avevo preso parte al dramma, alle
decisioni. Non avevo cercato né scelto questo nuovo ruolo ma, mi piacesse o
meno, facessi qualcosa o restassi del tutto passivo, lo avevo.
Fare qualcosa… C’era una cosa sola da fare. Andare dai giudici e
rivelare che Hanna era analfabeta. Che non era stata la principale attrice e
colpevole come le altre volevano far credere. Che il suo comportamento
durante il processo non indicava una particolare ostinazione, caparbietà o
impertinenza, ma era il risultato dell’insufficiente conoscenza delle
imputazioni e del manoscritto e dalla mancanza di qualsiasi senso strategico o
tattico. Che la sua difesa l’aveva molto danneggiata. Che lei era colpevole,
ma non quanto sembrava.
Magari non avrei convinto il presidente della corte, ma lo avrei indotto a
riflettere e indagare. Alla fine sarebbe emerso che avevo ragione, e Hanna
sarebbe stata comunque punita, ma in maniera meno severa. Sarebbe
comunque finita in prigione, ma sarebbe uscita prima, sarebbe tornata prima
in libertà. Non era per questo che lottava?
Sí, lottava per questo, ma per ottenerlo non era disposta a pagare quel
prezzo – far sapere che era analfabeta. E neppure avrebbe voluto che io
barattassi l’immagine che lei aveva di sé con un paio d’anni di carcere in
meno. Avrebbe potuto farlo lei stessa, ma non lo aveva fatto; quindi non
voleva. L’immagine che aveva di sé era piú importante degli anni di carcere.
Ma ne valeva davvero la pena? Cosa ricavava da quella menzognera
immagine di sé, che la inchiodava, la paralizzava, le impediva di crescere?
Con quella stessa energia, con cui teneva fede alla grande bugia della sua
vita, avrebbe potuto imparare a leggere e a scrivere da un pezzo.
All’epoca cercai di parlare del problema con alcuni amici. Immagina
qualcuno che stia intenzionalmente andando incontro alla propria rovina e
che tu sia nelle condizioni di salvarlo: lo salveresti? Immagina un intervento
chirurgico e un paziente che fa uso di droghe che contrasterebbero l’effetto
dell’anestesia, ma che si vergogna di essere un drogato e non vuole rivelarlo:
parleresti con l’anestesista? Immagina un processo e un imputato che verrà
condannato se non dichiara di essere mancino e quindi di non poter essere
colpevole di un reato compiuto con la mano destra, ma si vergogna di essere
mancino: diresti al giudice cosa è successo? Immagina che sia un
omosessuale e quindi non possa aver commesso un reato compiuto da un
eterosessuale, ma si vergogna di essere omosessuale. Non conta che sia
giusto o meno vergognarsi di essere mancino o omosessuale. Immagina
semplicemente che l’imputato si vergogni.
12.
Decisi di parlare con mio padre. Non perché fossimo particolarmente
uniti. Mio padre era un uomo chiuso, non sapeva condividere le proprie
emozioni con noi figli, né sapeva come gestire le emozioni che noi gli
manifestavamo. A lungo avevo immaginato che dietro quel comportamento
riservato si nascondessero preziosi tesori. In seguito mi chiesi se ci fosse
davvero qualcosa. Magari da ragazzo e da giovane era stato ricco di
sentimenti, e solo con gli anni, non avendoli mai espressi, aveva lasciato che
si inaridissero fino a estinguersi.
Ma cercai il dialogo con lui proprio per via della distanza che c’era tra
noi. Cercai il dialogo con il filosofo che aveva scritto di Kant e Hegel, che
sapevo essersi occupato di questioni morali. Doveva essere in grado di
valutare il mio problema in astratto e, diversamente dai miei amici, non
indugiare sulle lacune dei miei esempi.
Quando da bambini volevamo parlargli, nostro padre ci fissava un
appuntamento, come faceva con i suoi studenti. Lavorava da casa, e andava
all’università solo per tenere i suoi corsi e seminari. I colleghi e gli studenti
che gli chiedevano un colloquio venivano a casa nostra. Ricordo file di
studenti addossati alla parete del corridoio in attesa del loro turno: alcuni
leggevano, altri osservavano le vedute cittadine appese al muro, altri
fissavano il vuoto, tutti restavano in silenzio, a eccezione di qualche
mormorio quando noi bambini passavamo per il corridoio salutandoli.
Quando nostro padre ci dava un appuntamento, noi figli non aspettavamo in
corridoio, ma bussavamo comunque alla porta del suo studio all’orario
stabilito e venivamo invitati a entrare.
Ho conosciuto due studi di mio padre. Le finestre del primo, nel quale
Hanna aveva passato in rassegna i libri con il dito, davano su strade e case.
Quelle del secondo davano sul bassopiano renano. La casa dove ci
trasferimmo all’inizio degli anni Sessanta e dove i miei genitori rimasero a
vivere quando noi figli diventammo grandi, si trovava sopra la città, sul
pendio. Qui, come là, le finestre non aprivano lo spazio al mondo esterno, ma
sembravano appese nella stanza come quadri. Lo studio di mio padre era un
involucro nel quale i libri, le carte, i pensieri e il fumo di pipa e di sigaretta
avevano creato condizioni ambientali proprie, diverse da quelle del mondo
esterno. Mi erano al contempo familiari ed estranee.
Mio padre mi fece esporre il problema sia nella sua versione astratta sia
con degli esempi. «Ha a che fare con il processo, vero?». Ma scosse il capo,
per segnalarmi che non si aspettava nessuna risposta, non intendeva penetrare
i miei pensieri, non voleva sapere nulla oltre a ciò che avrei raccontato
spontaneamente. Alla fine si sedette, con la testa inclinata di lato e le mani
strette sui braccioli, e rifletté. Non mi guardava. Io invece lo osservavo, i
capelli grigi, le guance come sempre mal rasate, le rughe profonde tra gli
occhi e quelle che dalle narici arrivavano fino agli angoli della bocca.
Aspettavo.
Quando parlò, la prese alla lontana. Mi istruí sui concetti di persona,
libertà e dignità, sull’uomo in quanto soggetto e, da lí, sul divieto di renderlo
oggetto. «Non ti ricordi piú come da bambino ti indignavi quando la mamma
sapeva meglio di te cosa fosse giusto per te? Già è un problema stabilire fino
a che punto sia corretto comportarsi cosí con i bambini. È un problema
filosofico, ma la filosofia non si occupa di bambini. Li ha ceduti alla
pedagogia, che li accudisce piuttosto male. La filosofia ha dimenticato i
bambini» mi sorrise, «li ha dimenticati per sempre, non qualche volta, come
accade a me con voi».
«Ma…».
«Ma, tra adulti, non trovo nulla che giustifichi la decisione di anteporre
ciò che noi riteniamo giusto per qualcuno a ciò che quel qualcuno ritiene
giusto per se stesso».
«Neanche se, in futuro, quel qualcuno sarà felice grazie a questo?».
Mio padre scosse il capo. «Non stiamo parlando di felicità, ma di dignità
e di libertà. Già da bambino ne conoscevi la differenza. Non ti consolava il
fatto che la mamma avesse sempre ragione».
Oggi ripenso volentieri a quella conversazione con mio padre. La
dimenticai finché, dopo la sua morte, iniziai a cercare tra i sedimenti dei
ricordi gli incontri, le avventure e le belle esperienze con lui. Quando la
ritrovai, la osservai pieno di gioia e meraviglia. All’epoca, almeno all’inizio,
fui confuso da quel misto di astrazione ed evidenza presentatami. Ma alla fine
misi insieme i pezzi di ciò che mi aveva detto: non dovevo parlare con i
giudici, non ne avevo assolutamente il diritto, e mi rasserenai.
Mio padre me lo lesse in volto. «Quindi la filosofia ti piace?».
«Be’, non sapevo se nella situazione che ho descritto si dovesse agire, e
in realtà non ero contento all’idea di doverlo fare e, se non è lecito, ritengo
che ciò sia…». Non sapevo che cosa dire. Rasserenante? Tranquillizzante?
Piacevole? Non suonava morale e responsabile. “Ritengo che sia giusto”
suonava morale e responsabile, ma non potevo dire che lo ritenevo giusto,
che lo ritenevo piú che semplicemente rasserenante.
«Piacevole?» propose mio padre.
Annuii e alzai le spalle.
«No, il tuo problema non ha una soluzione piacevole. Ovviamente
bisogna agire, se la situazione da te descritta è una situazione di piú grande o
piú profonda responsabilità. Se si sa che cos’è bene per l’altro, il quale
tuttavia chiude gli occhi davanti al proprio bene, si deve cercare di aprirglieli.
Si deve lasciare a lui l’ultima parola, ma bisogna parlargli, con lui, non con
qualcun altro dietro le sue spalle».
Parlare con Hanna? Cosa avrei dovuto dirle? Che avevo smascherato la
menzogna della sua vita? Che era sul punto di sacrificare la sua intera
esistenza in nome di quella stupida bugia? Che la bugia non valeva il
sacrificio? Che doveva lottare per non restare in carcere piú a lungo del
necessario, che avrebbe potuto ancora fare molto della sua vita? Cioè, cosa?
Che fosse molto, qualcosa o poco, che cosa doveva fare Hanna della sua vita?
Potevo portarle via quella menzogna senza accendere in lei una prospettiva?
Non conoscevo alcuna prospettiva a lungo termine e non sapevo nemmeno
come avrei dovuto affrontarla e parlarle, né se fosse giusto che, considerato
ciò che aveva commesso, la sua prospettiva significasse il carcere a breve o
medio termine. Non sapevo come affrontarla né che cosa avrei dovuto dirle.
Soprattutto non sapevo come affrontarla.
Chiesi a mio padre: «E se non si può parlare con lui?».
Mi guardò dubbioso, e io capii che la mia domanda stava girando
intorno al punto centrale. Non aveva piú senso moraleggiare. Dovevo solo
decidermi.
«Non sono riuscito ad aiutarti». Mio padre si alzò e io pure. «No, non
devi andare via, mi fa solo male la schiena». Stava curvo, le mani appoggiate
sulle reni. «Non posso dire che mi dispiaccia non poterti aiutare. Come
filosofo, intendo, come tu mi hai chiesto. Come padre, trovo l’esperienza di
non poter aiutare i miei figli pressoché insopportabile».
Aspettai, ma lui non continuò. Mi parve che si stesse assolvendo con
troppa facilità; conoscevo le occasioni in cui avrebbe potuto occuparsi di piú
di noi e come avrebbe potuto esserci di maggior aiuto. Poi pensai che forse lo
sapeva anche da sé e che gli pesava davvero. Ma in ogni caso non potevo
dirgli nulla. Mi sarei sentito in imbarazzo e probabilmente si sarebbe sentito
in imbarazzo anche lui.
«Va bene, allora…».
«Puoi venire ogni volta che vuoi». Mio padre mi guardò.
Non gli credetti e annuii.
13.
A giugno la corte si recò in Israele per due settimane. L’interrogatorio
previsto fu questione di pochi giorni. Ma giudici e pubblici ministeri unirono
l’aspetto giudiziario a quello turistico, Gerusalemme e Tel Aviv, il Negev e il
Mar Rosso. Era sicuramente tutto in regola, dal punto di vista di lavoro, ferie
e spese legali. Tuttavia lo trovai strano.
Avevo pianificato di dedicare quelle due settimane interamente allo
studio. Ma non andò come avevo pensato e come mi ero ripromesso. Non
riuscivo a concentrarmi sullo studio, sui professori, sui libri. I miei pensieri
divagavano ancora e ancora e si perdevano in immagini.
Vedevo Hanna vicino alla chiesa in fiamme, un’espressione dura in
volto, con l’uniforme nera e il frustino. Con il frustino traccia cerchi nella
neve e si dà dei colpi sullo stivale. La vedevo mentre si faceva leggere a voce
alta. Ascolta attenta, non fa domande né osservazioni. Quando il tempo a
disposizione finisce, dice alla lettrice che il giorno dopo dovrà partire per
Auschwitz con il convoglio. La lettrice, una creatura esile con i capelli ispidi
e neri e gli occhi miopi, scoppia a piangere. Hanna batte la mano contro la
parete: entrano due donne, anche loro deportate vestite a righe, e trascinano
fuori la lettrice. Vedevo Hanna camminare lungo le strade del lager ed entrare
nelle baracche delle prigioniere e sorvegliare i lavori di costruzione. Fa tutto
con la stessa espressione dura, gli occhi freddi e le labbra serrate, e le
detenute si rannicchiano, si chinano sul loro lavoro, si addossano alla parete,
contro la parete, vogliono scomparire nella parete. A volte molte delle donne
prigioniere stanno radunate o camminano qua e là o si mettono in fila o
marciano, e Hanna sta lí in mezzo e grida ordini, con il volto deformato in
una smorfia odiosa, e si aiuta con il frustino. Vedevo il campanile crollare sul
tetto della chiesa e le scintille sprizzare e sentivo la disperazione delle donne.
Vedevo la chiesa il mattino seguente, distrutta dal fuoco.
Accanto a queste immagini vedevo le altre. Hanna che indossa le calze
in cucina, che regge l’asciugamano davanti alla vasca da bagno, che va in
bicicletta con la gonna che svolazza all’aria, che sta in piedi nello studio di
mio padre, che danza davanti allo specchio, che guarda verso di me in
piscina, Hanna che mi ascolta, che mi parla, che mi guarda ridendo, che mi
ama. Era brutto quando le immagini si accavallavano. Hanna che mi ama con
occhi freddi e labbra serrate, che mi ascolta in silenzio durante la lettura e che
alla fine batte con la mano contro la parete, che parla con me e il cui volto si
contorce in una smorfia. Ma la cosa peggiore erano i sogni, nei quali la
Hanna dura, dispotica, crudele mi eccitava e dai quali mi svegliavo con
nostalgia, vergogna e indignazione. E con la paura di chi fossi veramente io.
Sapevo che le immagini fantasticate erano meschini stereotipi. Non
rendevano giustizia alla Hanna che avevo conosciuto e che conoscevo.
Tuttavia erano di grande intensità. Disintegravano le immagini di Hanna
ricordate e si fondevano con le immagini del lager che avevo in testa.
Quando oggi ripenso a quegli anni, mi accorgo con stupore di quanto
poco ci fosse da vedere, quante poche immagini richiamassero alla memoria
la vita e le uccisioni nei campi di concentramento. Di Auschwitz
conoscevamo il cancello con la sua scritta, le cuccette di legno a piú piani, il
mucchio di capelli e occhiali e valigie; di Birkenau l’edificio con la torre
all’ingresso, le ali laterali e il passaggio per i treni; e di Bergen-Belsen la
montagna di cadaveri che gli Alleati avevano scoperto e fotografato al
momento della liberazione. Conoscevamo alcuni resoconti di deportati, ma
molti erano stati pubblicati subito dopo la guerra per poi ricomparire negli
anni Ottanta, perché nel frattempo le case editrici li avevano messi fuori
catalogo. Oggi esistono cosí tanti libri e film che il mondo dei campi di
concentramento è parte dell’immaginario collettivo sul mondo, che completa
il mondo collettivo reale. La fantasia lo conosce ormai bene e, a partire dalla
serie televisiva Olocausto e da film come La scelta di Sophie e soprattutto
Schindler’s List, si muove anche in quel mondo, senza limitarsi a prenderne
atto, ma completandolo e arricchendolo. All’epoca la fantasia si muoveva a
stento; si riteneva che il suo muoversi e vagare fosse inappropriato rispetto
allo sgomento dovuto al mondo dei lager. Le poche immagini di cui
disponeva, e per le quali doveva ringraziare le foto degli Alleati e i resoconti
dei deportati, le osservava di continuo, fino a trasformarle in meri stereotipi.
14.
Decisi di partire. Se fossi potuto andare ad Auschwitz dall’oggi al
domani, l’avrei fatto, ma per ottenere il visto ci volevano settimane. Quindi
mi recai a Struthof, in Alsazia, il campo di concentramento piú vicino. Non
ne avevo mai visto uno. Volevo sostituire lo stereotipo con la realtà.
Feci l’autostop e ricordo il viaggio su un camion, il cui autista vuotava
una bottiglia di birra dopo l’altra, e un autista di Mercedes che guidava con i
guanti bianchi. Dopo Strasburgo ebbi fortuna; l’auto che mi fece salire si
dirigeva a Schirmeck, una piccola città non lontana da Struthof.
Quando dissi al conducente dove ero diretto, si zittí. Lo guardai, ma non
riuscii a decifrare la sua espressione, perché era ammutolito all’improvviso
nel bel mezzo di una vivace conversazione. Era un uomo di mezza età, con il
volto scarno, una voglia o bruciatura rosso scuro sulla tempia destra e capelli
neri pettinati a ciocche e con una scriminatura ben definita. Guardava la
strada concentrato.
Davanti a noi le montagne dei Vosgi digradavano in colline.
Attraversammo distese di vigneti fino a giungere in una valle ampia e aperta,
che saliva dolcemente. A sinistra e a destra, lungo i pendii, cresceva un bosco
misto; ogni tanto si vedevano una cava di pietra, un capannone industriale
con i muri di laterizio e il tetto a onde, un ex sanatorio, una grande villa con
molte torrette tra alti alberi. Ora a sinistra, ora a destra, ci accompagnava una
linea ferroviaria.
Poi l’uomo riprese a parlare. Mi chiese perché cercassi Struthof e io gli
raccontai del processo e della mia difficoltà a capire senza vedere.
«Ah, lei vuole capire perché gli esseri umani siano capaci di fare cose
cosí terribili». Sembrava un po’ ironico. Ma forse era solo colpa della
coloritura dialettale. Prima che potessi rispondere, riprese a parlare. «Cosa
vuole capire veramente? Che si uccide per passione, per amore o per odio, o
per onore o per vendetta; questo lo capisce?».
Annuii.
«Capisce anche che si uccide per diventare ricchi o potenti? Che si
uccide in guerra o durante una rivoluzione?».
Annuii di nuovo. «Ma…».
«Ma quelli che sono stati uccisi nei lager non avevano fatto niente a
quelli che li hanno uccisi? Vuole dire questo? Vuole dire che non c’è nessun
motivo per odiare e nessuna guerra?».
Non volevo annuire di nuovo. Quello che l’uomo diceva era corretto, ma
non lo era il modo in cui lo diceva.
«Lei ha ragione, non c’è nessuna guerra e nessun motivo per odiare. Ma
neanche il boia odia colui che sta per giustiziare, eppure lo fa comunque.
Perché gli è stato ordinato? Crede che lo faccia perché gli è stato ordinato? E
crede che io adesso parli di ordini e obbedienza, e intenda dire che le truppe
nei lager avevano ricevuto ordini e che dovevano ubbidire?». Rise
sprezzante. «No, non parlo di ordini e di obbedienza. Il boia non esegue
nessun ordine. Fa il suo lavoro, non odia coloro che giustizia, non si vendica
di loro, non toglie loro la vita perché gli stanno antipatici o lo minacciano o
lo aggrediscono. Gli sono del tutto indifferenti. Gli sono cosí indifferenti che
potrebbe ucciderli tanto quanto non ucciderli».
Mi guardò. «Nessun ma? Avanti, dica che un essere umano non può
essere cosí indifferente a un altro. Non lo ha imparato? Solidarietà con tutto
ciò che ha sembianze umane? Dignità degli esseri umani? Rispetto per la
vita?».
Ero indignato e inerme. Cercavo una parola, una frase che annientasse
ciò che quell’uomo aveva detto e lo lasciasse senza parole.
«Una volta» continuò, «ho visto la fotografia di una fucilazione di ebrei
in Russia. Gli ebrei aspettano nudi in una lunga fila, alcuni stanno sul bordo
di una fossa, e dietro di loro ci sono dei soldati con i fucili e gli sparano alla
nuca. Questo avviene in una cava di pietra e sopra agli ebrei e ai soldati, su
un cornicione nel muro, è seduto un ufficiale, con le gambe penzoloni e una
sigaretta in bocca. Ha l’espressione un po’ seccata. Forse, per lui, non si sta
procedendo abbastanza in fretta. Ma sul suo viso c’è anche qualcosa di
compiaciuto, addirittura divertito, forse perché la giornata di lavoro sta pur
sempre per finire e presto ci sarà la serata libera. Non odia gli ebrei. Non
è…».
«Era lei? Era seduto sul cornicione e…».
Si fermò. Era pallido come un cencio, e il marchio sulla sua tempia
luccicava. «Fuori!».
Scesi dall’auto e l’uomo sterzò tanto velocemente che dovetti fare un
salto di lato. Lo sentivo ancora alla curva successiva. Poi ci fu silenzio.
Risalii la strada. Nessuna auto mi sorpassava, nessuna mi veniva
incontro. Sentivo gli uccelli, il vento tra gli alberi, ogni tanto lo scrosciare di
un ruscello. Respiravo con un senso di liberazione. Dopo un quarto d’ora
raggiunsi il campo di concentramento.
15.
Recentemente sono tornato là. Era inverno, una giornata limpida e
fredda. Dietro Schirmeck, il bosco era innevato, gli alberi incipriati e il suolo
coperto di bianco. La zona dei campi di concentramento, un’area allungata e
terrazzata sul pendio di una montagna con un’ampia vista sui Vosgi, si
stendeva bianca nel sole chiaro. Il legno dipinto in grigiazzurro della torre di
guardia, alta due o tre piani, e delle baracche a un piano, creava un piacevole
contrasto con la neve. Certo, c’era il cancello di rete metallica con il cartello
Campo di concentramento Natzweiler-Struthof e la doppia recinzione di filo
spinato che girava tutto intorno all’area. Ma dal terreno tra le baracche
rimaste, sul quale si trovavano un tempo altre baracche strette l’una all’altra e
coperto quel giorno da uno scintillante manto di neve, non si riusciva a
riconoscere nulla del vecchio lager. Poteva essere una pista da slitte per
bambini che trascorrevano le vacanze invernali in quelle graziose costruzioni
in legno con simpatiche finestre con traversini, dalle quali venivano invitati a
entrare per una fetta di torta e una cioccolata calda.
Il lager era chiuso. Avanzai a fatica in mezzo alla neve e mi ritrovai con
i piedi fradici. Riuscivo a vedere bene l’intera area e mi ricordai come,
all’epoca della mia prima visita, me n’ero andato via scendendo dei gradini
tra i muri di sostegno delle baracche demolite. Ricordo anche i forni
crematori, che all’epoca erano esposti in una baracca, e ricordo un’altra
baracca adibita a celle. Il mio tentativo di immaginare concretamente un lager
e i deportati e le guardie e la sofferenza fu vano. Ci provai sul serio, guardai
una baracca, chiusi gli occhi e ne misi in fila tante, una dopo l’altra. Misurai
le dimensioni e ne immaginai la struttura, rendendomi conto di quanto
dovesse essere angusta. Sapevo che gli scalini tra le baracche erano anche il
luogo in cui si faceva l’appello e cosí, percorrendo tutto il lager con lo
sguardo, lo riempii con file e file di schiene. Ma fu tutto inutile ed ebbi la
sensazione di un penoso, umiliante fallimento. Durante il viaggio di ritorno
trovai, ai piedi del pendio, una piccola casa di fronte a un ristorante, indicata
come una camera a gas. Era dipinta di bianco e aveva porte e finestre con
cornici di arenaria: avrebbe potuto essere un fienile o un deposito o un
alloggio per i domestici. Anche questa era chiusa e non ricordo di esserci
entrato all’epoca. Non scesi nemmeno dall’auto. Rimasi seduto per un po’ col
motore acceso e guardai. Poi ripartii.
All’inizio, sulla via di ritorno, avevo il timore di dover girare a vuoto per
i paesini dell’Alsazia alla ricerca di un ristorante dove pranzare. Ma il timore
non era dovuto a una sensazione reale, bensí a considerazioni su come ci si
dovrebbe sentire dopo la visita a un campo di concentramento. Quando me ne
resi conto, alzai le spalle e trovai, in un villaggio sul pendio dei Vosgi, il
ristorante Au Petit Garçon. Dal mio tavolo la vista si apriva sulla pianura.
“Ragazzino” – petit garçon – era il modo in cui mi chiamava Hanna.
Durante la prima visita, vagai per l’area del campo di concentramento
fino all’ora di chiusura. Poi sedetti sotto il monumento che sorge al di sopra
del campo e guardai giú. Sentivo un grande vuoto dentro, come se, ora che
avevo guardato, dovessi cercare non là fuori, bensí dentro di me, e constatare
che in me non c’era niente da trovare.
Poi si fece buio. Dovetti aspettare un’ora prima che mi venisse offerto
un passaggio sul cassone di un furgoncino aperto, che mi portò fino al paese
vicino, e lí mi rassegnai a rimandare l’autostop all’indomani. Trovai una
stanza economica in una locanda del paese e cenai con una bistecca sottile,
patatine fritte e piselli.
A un tavolo vicino, quattro uomini giocavano rumorosamente a carte. La
porta si aprí ed entrò un vecchio, senza salutare. Indossava pantaloni corti e
aveva una gamba di legno. Ordinò una birra al bancone. Volgeva le spalle, e
il suo grosso cranio pelato, al tavolo vicino. I giocatori, nel frattempo,
posavano le carte, allungavano la mano verso il posacenere, afferravano le
cicche fumanti, scartavano e prendevano. L’uomo al bancone agitava le mani
dietro la testa, come se volesse scacciare delle mosche. L’oste gli serví la
birra. Nessuno disse nulla.
A un certo punto non ce la feci piú, saltai su e tirai un calcio al tavolo
vicino. «Smettetela!». Tremavo per l’indignazione. In quel momento l’uomo
si avvicinò zoppicando e saltellando, armeggiò con la sua gamba e
all’improvviso aveva la gamba di legno tra le mani, la sbatté fragorosamente
sul tavolo, tanto che bicchieri e posacenere ballarono, e si lasciò cadere sulla
sedia libera. Quindi scoppiò in una squillante risata con la sua bocca sdentata
e gli altri risero con lui, una tonante risata da birra. «Smettetela» ridevano e
mi indicavano, «smettetela».
Nella notte il vento infuriò intorno alla locanda. Non sentivo freddo, e
l’ululare del vento, lo scricchiolio dell’albero davanti alla finestra e
l’occasionale sbattere di un’imposta, non erano cosí forti da impedirmi di
dormire. Ma dentro di me ero talmente agitato che finii per tremare anche
fuori, in tutto il corpo. Avevo paura, non per l’attesa di un brutto evento, ma
come emozione che si esprimeva anche sul piano fisico. Stavo lí disteso,
ascoltavo il vento, provavo sollievo quando si faceva piú debole e silenzioso,
temevo il suo rinnovato impeto, e non sapevo come mi sarei alzato il giorno
seguente, come avrei fatto l’autostop, come avrei continuato a studiare e
come un giorno avrei avuto un lavoro, una moglie e dei figli.
Volevo al tempo stesso capire e condannare il crimine di Hanna. Ma era
troppo spaventoso per riuscirci. Quando mi sforzavo di capirlo, avevo la
sensazione di non condannarlo piú come era giusto che fosse. Quando lo
condannavo, com’era giusto che fosse, non rimaneva posto per la
comprensione. Ma al tempo stesso volevo capire Hanna; non capirla
significava tradirla di nuovo. Non riuscivo a giungere a una conclusione.
Volevo provare entrambe le sensazioni: la comprensione e la condanna. Ma
tutt’e due insieme non era possibile.
Il giorno seguente fu di nuovo una meravigliosa giornata d’estate.
L’autostop fu piú facile del previsto e in poche ore fui a casa. Andai in giro
per la città come se fossi stato via a lungo; le strade e le case e le persone mi
erano estranee. Ma non per questo il mondo estraneo dei campi di
concentramento mi risultava piú vicino. Le mie impressioni sul campo di
concentramento di Struthof si unirono alle poche immagini di Auschwitz e
Birkenau e Bergen-Belsen che già avevo, e si pietrificarono assieme.
16.
Alla fine, dal presidente della corte ci andai davvero. Da Hanna, invece,
non riuscii. Ma non sopportavo neppure l’idea di non fare nulla.
Perché non riuscii a parlare con Hanna? Mi aveva abbandonato, mi
aveva illuso, non si era rivelata la persona che avevo visto in lei o che avevo
fantasticato. E cosa ero stato io per lei? Il piccolo lettore di cui si serviva, il
piccolo compagno di letto con il quale si era divertita? Avrebbe spedito anche
me nella camera a gas, per liberarsi della mia presenza, se non fosse stato
possibile abbandonarmi in un altro modo?
E perché non sopportavo l’idea di non fare nulla? Mi dicevo che dovevo
impedire un errore giudiziario. Dovevo fare in modo che, malgrado la grande
bugia di Hanna, trionfasse la giustizia; una giustizia, per cosí dire, a favore e
contro di lei. Ma il mio vero problema non era la giustizia. Non potevo
lasciare Hanna com’era o come voleva essere. Dovevo darmi da fare con lei,
avere su di lei qualche tipo di influenza e di effetto, se non direttamente,
almeno indirettamente.
Il presidente della corte conosceva il nostro gruppo del cosiddetto
“seminario-lager” e fu ben disposto a ricevermi per un colloquio al termine di
un’udienza. Bussai; il giudice mi invitò a entrare, mi salutò e mi fece
accomodare sulla sedia davanti alla scrivania, dove sedeva in maniche di
camicia. La toga pendeva dallo schienale e oltre i braccioli; si era seduto con
indosso la toga e poi l’aveva lasciata scivolare giú. Sembrava rilassato, un
uomo che ha compiuto il suo lavoro quotidiano e ne è soddisfatto. Senza
l’espressione irritata, dietro la quale si riparava durante il processo, aveva un
volto da funzionario gentile, intelligente, pacifico. Iniziò conversando del piú
e del meno, chiedendomi di questo e di quello. Che cosa pensava del
dibattimento il nostro gruppo, cosa aveva in mente di fare il nostro professore
con i verbali, in quale semestre eravamo, in quale semestre ero io, perché
studiavo giurisprudenza e quando intendevo scrivere la tesi di laurea. Mi
raccomandò di non chiedere la tesi troppo tardi.
Risposi a tutte le sue domande. Poi lo ascoltai, mentre mi raccontava dei
suoi studi e della sua laurea. Aveva fatto tutto nel modo giusto. Aveva dato
gli esami e seguito i corsi necessari, nel tempo giusto e i giusti risultati, e
infine aveva scritto la tesi e si era laureato. Gli piaceva essere un giurista e
fare il magistrato e, se avesse dovuto ricominciare tutto da capo, lo avrebbe
rifatto allo stesso modo.
La finestra era aperta. Dal parcheggio si udivano sbattere portiere e
avviare motori. Ascoltai un’auto fino a quando il rumore venne inghiottito
dal brusio del traffico. Poi un gruppo di bambini iniziò a giocare e a
schiamazzare sullo spiazzo rimasto vuoto. A volte si percepiva chiaramente
una parola: un nome, una parolaccia, un grido di richiamo.
Il giudice si alzò e mi congedò. Se avessi avuto altre domande, mi
avrebbe ricevuto sempre volentieri. Anche se avessi avuto bisogno di un
consiglio per gli studi. E attendeva l’analisi e la valutazione del dibattimento
da parte del nostro gruppo.
Attraversai il parcheggio vuoto. Mi feci indicare da un ragazzo piú
grande la strada per la stazione. I miei compagni erano ripartiti in auto subito
dopo l’udienza e cosí presi il treno. Era un treno di pendolari, un locale che
fermava in ogni stazione; la gente saliva e scendeva, io ero seduto accanto al
finestrino, circondato da compagni di viaggio, discorsi, odori sempre diversi.
Fuori scorrevano case, strade, auto, alberi e in lontananza montagne, fortezze
e cave di pietra. Percepivo tutto ma non provavo nulla. Non ero piú risentito
perché Hanna mi aveva abbandonato, illuso e usato. Non dovevo neanche piú
darmi da fare per lei. Lo stordimento, sotto il quale avevo seguito l’orrore del
processo, si depositò come una coltre sui sentimenti e sui pensieri dell’ultima
settimana. Dire che ne fossi felice sarebbe troppo. Ma capivo che era giusto.
Che mi permetteva di tornare alla mia quotidianità e continuare a viverla.
17.
Alla fine di giugno venne pronunciata la sentenza. Hanna fu condannata
all’ergastolo. Le altre a una detenzione temporanea.
L’aula del tribunale era piena come all’inizio del dibattimento. C’erano
il personale giudiziario, studenti della mia università e di quella del posto,
una classe delle superiori, giornalisti tedeschi e stranieri, e i soliti curiosi che
sempre seguono i processi. C’era chiasso. Quando vennero fatte entrare le
imputate, all’inizio nessuno fece caso a loro. Poi i visitatori ammutolirono.
Per primi fecero silenzio quelli che avevano i posti davanti, piú vicino alle
imputate. Davano di gomito a chi era seduto accanto e si giravano verso chi
sedeva dietro. «Guardate!» bisbigliavano, e allora anche gli altri guardavano
e si zittivano; poi davano di gomito ai loro vicini e si giravano verso quelli
che erano seduti dietro di loro e bisbigliavano: «Guardate». Alla fine
nell’aula regnò un silenzio totale.
Non so se Hanna fosse consapevole del suo aspetto o se volesse apparire
proprio cosí. Indossava un tailleur nero e una camicia bianca, e il taglio della
giacca e la cravatta sulla camicia facevano pensare a un’uniforme. Io non
avevo mai visto le uniformi delle donne che lavoravano per le SS. Ma pensai,
e tutti i presenti pensarono, di avere davanti l’uniforme e la donna che con
quella addosso aveva prestato servizio nelle SS commettendo tutti i crimini di
cui era accusata.
Il pubblico ricominciò a bisbigliare. Da parte di molti si udivano
commenti indignati. Ritenevano che Hanna stesse deridendo il processo, la
sentenza e anche coloro che erano venuti fin lí per sentirla pronunciare.
Alzavano la voce e alcuni gridavano a Hanna ciò che pensavano di lei.
Continuò cosí finché la corte entrò in aula e il giudice, dopo un’occhiata
irritata verso Hanna, pronunciò la sentenza. Hanna ascoltò in piedi, in
posizione eretta e senza il minimo movimento. Durante la lettura della
motivazione, si sedette. Io non distolsi lo sguardo per un istante dalla sua
testa e dalla sua nuca.
La lettura durò diverse ore. Quando il processo ebbe termine e le
imputate furono portate fuori, aspettai per vedere se Hanna si sarebbe voltata
verso di me. Ero seduto nel posto che avevo sempre occupato durante tutte le
udienze. Ma lei teneva gli occhi fissi davanti a sé e sembrava attraversare
qualunque cosa con lo sguardo. Uno sguardo altezzoso, ferito, perso nel
vuoto e infinitamente stanco. Uno sguardo che non vuole vedere niente e
nessuno.
Terza parte
1.
Passai l’estate dopo il processo nella sala di lettura della biblioteca
universitaria. Arrivavo quando la biblioteca apriva e me ne andavo quando
chiudeva. Nei weekend studiavo a casa. Mi dedicavo allo studio in maniera
cosí esclusiva, cosí ossessiva, che i sentimenti e i pensieri che il processo
aveva anestetizzato rimasero sotto quell’anestesia. Evitavo qualunque
contatto. Me ne andai dalla mia casa e affittai una camera. I pochi conoscenti
che mi rivolgevano la parola in biblioteca o nelle occasionali serate al
cinema, li respingevo.
Durante il semestre invernale non mi comportai molto diversamente.
Eppure un gruppo di studenti mi chiese se per Natale volevo andare con loro
in una baita. Meravigliato, accettai.
Non ero un bravo sciatore. Ma sciavo volentieri, ero veloce e tenevo il
passo degli atleti migliori. A volte rischiavo cadute e fratture su piste che non
erano alla mia portata. Lo facevo in maniera consapevole. Dell’altro rischio
che correvo e che alla fine si realizzò, non avevo alcun sentore.
Non sentivo mai il freddo. Mentre gli altri sciavano con giacca e
maglione, a me bastava la camicia. Gli altri scuotevano il capo e mi
prendevano in giro, ma io non prendevo sul serio neanche i loro avvertimenti
preoccupati. Non avevo per niente freddo. Quando iniziai a tossire, diedi la
colpa alle sigarette austriache. Quando mi salí la febbre, godetti di quello
stato: ero debole e allo stesso tempo leggero, e i sensi erano attutiti, ovattati,
pieni, con un effetto benefico. Fluttuavo.
Poi la febbre salí e mi portarono in ospedale. Quando ne uscii, il mio
stato di stordimento era sparito. Tutte le domande, le paure, le accuse e i
rimproveri a me stesso, tutto l’orrore e tutto il dolore che erano esplosi
durante il processo e subito anestetizzati erano ritornati e lí rimasero. Non so
che tipo di diagnosi formulino i medici quando qualcuno non sente freddo,
anche se dovrebbe. La mia diagnosi personale è che lo stordimento si fosse
impadronito del mio corpo prima di potermi abbandonare, prima che io
potessi liberarmene.
Quando mi laureai e iniziai il praticantato, arrivò l’estate del movimento
studentesco. Storia e sociologia mi interessavano e, come praticante,
frequentavo ancora l’università abbastanza spesso da restare coinvolto da
quell’ondata. Essere coinvolto non significa collaborare: l’ateneo e le riforme
d’ateneo mi erano tanto indifferenti quanto i vietcong e gli americani. Quanto
al terzo punto del movimento studentesco, nonché quello piú autentico – il
confronto con il passato nazionalsocialista – avvertivo una tale distanza dagli
altri studenti che rifiutai di fare propaganda e di manifestare con loro,.
A volte penso che il confronto con il passato nazionalsocialista non
fosse la causa, ma solo l’espressione del conflitto generazionale, la vera forza
propulsiva del movimento studentesco. Le aspettative dei genitori, dai quali
ogni generazione deve liberarsi, venivano facilmente liquidate con la
considerazione che quei genitori avevano fallito durante il Terzo Reich o, al
piú tardi, dopo la sua fine. Come potevano dire qualcosa ai loro figli le stesse
persone che avevano commesso i crimini nazisti, o erano rimaste a guardare o
avevano distolto lo sguardo, o avevano tollerato o addirittura accettato i
criminali in mezzo a loro dopo il 1945? Ma, d’altro canto, il passato
nazionalsocialista era un tema cruciale anche per quei figli che non potevano
o non volevano rimproverare nulla ai propri genitori. Per loro il confronto
con l’epoca del Terzo Reich non incarnava un conflitto generazionale, ma era
l’unico e vero problema.
Qualunque cosa tutto questo avesse o non avesse a che fare, moralmente
e giuridicamente, con il senso di colpa collettivo, per la generazione
studentesca cui appartenevo era e restava una realtà vissuta sulla propria
pelle. E non valeva soltanto per ciò che era accaduto durante il Terzo Reich.
Il fatto che le tombe degli ebrei venissero imbrattate con le svastiche; che
cosí tanti ex nazisti avessero fatto carriera nella magistratura, nella pubblica
amministrazione e nell’università; che la Repubblica federale non
riconoscesse lo Stato d’Israele; che l’emigrazione e la resistenza fossero un
retaggio di minor valore rispetto a una vita di adeguamento ai valori
dominanti: tutto ciò ci riempiva di vergogna, anche se potevamo puntare il
dito contro i colpevoli. Puntare il dito contro i colpevoli non liberava dalla
vergogna. Ma aiutava a superare la sofferenza. Convertiva la sofferenza
passiva della vergogna in energia, attività, aggressione. E il confronto con i
genitori colpevoli era particolarmente carico di vitalità.
Io non potevo puntare il dito contro nessuno. Non contro i miei genitori,
perché non avevo nulla di cui rimproverarli. L’impegno a far luce, in nome
del quale a suo tempo, come partecipante al seminario-lager, avevo
condannato mio padre alla vergogna, mi era passato, diventando persino
imbarazzante. Ma ciò che avevano fatto altri appartenenti al mio ambiente
sociale, diventando cosí colpevoli, era in ogni caso meno grave di ciò che
aveva fatto Hanna. Era proprio contro Hanna che dovevo puntare il dito. Ma
quel dito puntato mi si rivolgeva contro. Io l’avevo amata. Non solo l’avevo
amata, l’avevo scelta. Cercai di dirmi che, quando era accaduto, non sapevo
nulla di ciò che aveva fatto. Cercai di convincermi dello stato di innocenza
nel quale i figli amano i propri genitori. Ma l’amore verso i genitori è l’unico
amore del quale non si è responsabili.
O magari si è responsabili persino dell’amore verso i genitori. All’epoca
invidiavo gli altri studenti, che prendevano le distanze dai propri genitori e
quindi dall’intera generazione dei colpevoli, degli spettatori e di tutti coloro
che avevano distolto lo sguardo, che avevano tollerato, che avevano accettato
e che, se non erano riusciti a superare la loro vergogna, avevano almeno
superato la sofferenza per la vergogna. Ma da dove arrivava quella ostentata
superbia che riscontravo cosí spesso in loro? Come si poteva provare colpa e
vergogna e allo stesso tempo ostentare presunzione? La destituzione dei
genitori era solo retorica, rumore, chiasso, necessari per coprire il fatto che
l’amore verso di loro ci coinvolgeva irrimediabilmente nella loro colpa?
Questi furono pensieri che giunsero successivamente. E anche
successivamente non furono di conforto. Come poteva essermi di conforto il
fatto che la mia sofferenza per l’amore di Hanna era in un certo senso il
destino della mia generazione, il destino tedesco, al quale potevo sottrarmi
solamente in malo modo, che potevo solo dissimulare peggio degli altri?
Tuttavia all’epoca sentirmi parte della mia generazione mi avrebbe giovato.
2.
Durante gli anni del praticantato mi sposai. Gertrud e io ci eravamo
conosciuti alla baita, e quando gli altri ritornarono a casa alla fine delle
vacanze, lei si fermò, finché non fui dimesso dall’ospedale e mi poté
riaccompagnare in città. Anche lei studiava giurisprudenza; studiammo
insieme, superammo insieme l’esame di laurea e iniziammo insieme il
praticantato. Ci sposammo quando Gertrud rimase incinta.
Non le raccontai nulla di Hanna. Chi, pensavo, vuole sapere che l’altro
ha alle spalle relazioni con cui non ha ancora chiuso definitivamente i conti?
Gertrud era intelligente, in gamba e leale, e se la nostra vita fosse consistita
nel gestire una fattoria con molti braccianti, molti bambini, molto lavoro e
senza tempo l’uno per l’altra, sarebbe stata una vita piena e felice. Era,
invece, il trilocale di un condominio nuovo di periferia, nostra figlia Julia e il
praticantato legale. Non riuscii mai a smettere di paragonare la mia relazione
con Gertrud e quella con Hanna, e ogni volta che mia moglie e io ci
abbracciavamo, avevo la sensazione che non fosse giusto, che lei non fosse
giusta, che avesse la consistenza fisica sbagliata, un odore e un sapore
sbagliati. Pensavo che mi sarebbe passata. Speravo che mi sarebbe passata.
Volevo liberarmi di Hanna. Ma la sensazione che il mio rapporto con Gertrud
non andasse bene non passò.
Quando Julia aveva cinque anni, divorziammo. Non ne potevamo piú
l’uno dell’altra, ci separammo senza rancore e restammo in buon rapporti. Mi
tormentava l’ansia di negare a Julia quella sicurezza di cui aveva ovviamente
bisogno. Quando Gertrud e io stavamo insieme e ci volevamo bene, Julia ci
sguazzava come un pesciolino nell’acqua. Era nel suo elemento. Quando
notava tensione tra noi, correva dall’uno all’altra alla ricerca di rassicurazione
che ci volevamo bene e per rassicurarci che lei ne voleva a noi. Desiderava
un fratellino e sarebbe stata felice di averne anche piú di uno. A lungo non
capí cosa significasse il divorzio e, quando andavo a trovarla, mi chiedeva di
restare, e quando veniva a trovarmi lei, voleva che venisse anche la mamma.
Quando me ne andavo e la vedevo affacciata alla finestra, mentre salivo in
macchina sotto il suo sguardo triste, mi si spezzava il cuore. Sentivo che le
stavamo negando non solo ciò che desiderava, ma ciò a cui aveva diritto.
Divorziando, la privavamo di un diritto, e il fatto che lo avessimo deciso
insieme non dimezzava la colpa.
Nelle mie relazioni successive ho cercato di essere piú cauto e
consapevole. Perché tra di noi funzionasse, mi assicuravo che la mia
compagna mi ricordasse fisicamente Hanna, che avesse un odore e un sapore
simile al suo. E le raccontavo di Hanna. Alle altre donne ho anche raccontato
piú cose su me stesso di quante ne avessi raccontate a Gertrud: dovevano
poter dare un senso ad aspetti del mio comportamento e del mio umore che
probabilmente apparivano loro sconcertanti. Ma non sempre trovavo
disponibilità ad ascoltarmi. Ricordo Helen, una studiosa americana di
letteratura, che in silenzio mi accarezzava premurosa la schiena mentre io le
parlavo e che, altrettanto silenziosa e premurosa, continuava ad accarezzarmi
quando smettevo di raccontare. Gesina, una psicoanalista, sosteneva che
dovessi elaborare a fondo il rapporto con mia madre. Non mi ero accorto che
mia madre, nella mia storia, compariva a malapena? Hilke, una dentista,
continuava a chiedermi della mia vita prima che ci incontrassimo, ma
dimenticava in fretta ciò che le raccontavo. Cosí smisi nuovamente di
raccontare. Poiché la verità di ciò che si dice è ciò che si fa, a quel punto si
può anche fare a meno di parlare.
3.
Mentre preparavo il mio secondo esame di stato, morí il professore che
aveva curato il seminario sui campi di concentramento. Gertrud s’imbatté nel
necrologio. Il funerale sarebbe stato al Bergfriedhof. Volevo andarci?
Non volevo. La cerimonia era fissata per il giovedí pomeriggio, e quel
giorno e l’indomani mattina avevo le prove scritte dell’esame. Il professore e
io non eravamo stati in grande confidenza. E i funerali non mi piacevano.
Inoltre, non volevo dovermi ricordare il processo.
Ma ormai era troppo tardi. Il ricordo si era risvegliato, e quando il
giovedí arrivai all’esame, mi sentivo come se avessi un appuntamento con il
passato a cui non potevo mancare.
Ci andai in tram, scelta per me inconsueta. Già quello fu un incontro con
il passato, una sorta di ritorno in un luogo familiare che ha cambiato
sembianze. Quando Hanna lavorava come bigliettaia, i tram avevano due o
tre carrozze, e ciascuna aveva in testa e in coda una piattaforma e un
predellino, su cui i ritardatari potevano saltare quando il treno era già in
movimento; una corda che correva lungo le carrozze serviva al bigliettaio per
dare il segnale di partenza. D’estate i tram giravano con le piattaforme di
accesso aperte. Il bigliettaio vendeva, forava e controllava i biglietti,
annunciava la fermata successiva, segnalava la partenza, aveva un occhio per
i bambini che si spingevano sulla piattaforma, inveiva contro i passeggeri che
saltavano su e giú, e impediva la salita quando la carrozza era piena. C’erano
bigliettai allegri, buffi, seri, burberi e rudi, che col loro temperamento o il
loro umore davano spesso un’atmosfera precisa a tutta la carrozza. Che
stupido ero stato, dopo la sorpresa fallita sul tragitto per Schwetzingen, ad
aver paura di andare a trovare o aspettare Hanna mentre faceva la bigliettaia.
Salii sul tram, che non aveva bigliettaio, e andai al Bergfriedhof. Era una
fredda giornata d’autunno, con un cielo fosco e senza nuvole e un sole giallo
che non scaldava piú e si poteva guardare senza che facesse male agli occhi.
Dovetti cercare un po’ prima di trovare la tomba intorno alla quale avrebbe
avuto luogo la cerimonia funebre. Camminai sotto alberi alti e spogli, tra
vecchie lapidi. Ogni tanto incontravo un giardiniere del cimitero, o una
vecchia signora con innaffiatoio e forbici da giardinaggio. Il silenzio era
totale e già da lontano sentivo gli inni sacri che venivano cantati sulla tomba
del professore.
Rimasi in piedi in disparte e scrutai il piccolo gruppo di condolenti.
Alcuni erano palesemente misantropi e originali. Nel discorso di
commemorazione sulla vita e le opere del professore, emerse che egli si era
sottratto alle regole imposte dalla società e aveva perso per questo ogni
contatto, conducendo un’esistenza sempre piú autonoma fino a diventare,
successivamente, un asociale.
Riconobbi un ex partecipante del seminario-lager; si era laureato prima
di me, era diventato avvocato e poi oste, e si era presentato lí con un lungo
cappotto rosso. Quando la cerimonia finí e stavo tornando all’ingresso del
cimitero, mi rivolse la parola. «Frequentavamo insieme il seminario. Non ti
ricordi?».
«Certo». Ci stringemmo la mano.
«Io ero al processo tutti i mercoledí, e a volte ti ho dato un passaggio in
auto» rise. «Tu stavi lí ogni giorno, ogni giorno e ogni settimana. Mi spieghi
perché?». Mi guardava bonario e indagatore, e ricordavo che quello sguardo
aveva attirato la mia attenzione già al seminario.
«Il processo mi interessava molto».
«Il processo ti interessava molto?» rise di nuovo. «Il processo o
l’imputata che stavi sempre a fissare? L’unica passabile. Tutti ci siamo chiesti
cosa ci fosse tra voi, ma nessuno ha osato chiedertelo. All’epoca eravamo
empatici e pieni di riguardo, in maniera quasi ossessiva. Ti ricordi poi…».
Ricordava un altro studente di allora, che era balbuziente o bleso e che
parlava molto e diceva un sacco di sciocchezze, e che noi ascoltavamo come
se le sue parole fossero oro colato. Nominò poi altri studenti, raccontando
com’erano all’epoca e che cosa facevano oggi. Raccontava e raccontava. Ma
io ero sicuro che alla fine mi avrebbe chiesto di nuovo: «Quindi, cosa c’era
tra te e l’imputata?» e non sapevo cosa avrei risposto, se avrei negato,
ammesso, eluso.
Ci ritrovammo all’ingresso del cimitero e mi fece la domanda. Alla
fermata il tram stava partendo, gli gridai: «Ciao» e corsi via, come se potessi
saltare sulla piattaforma; corsi vicino al tram e picchiai con la mano aperta
sulla porta, e successe quello che non avrei mai pensato, quello che non avrei
mai sperato. Il tram si fermò, aprí le porte e io salii.
4.
Dopo il praticantato dovetti scegliere una professione. Mi concessi un
po’ di tempo; Gertrud aveva iniziato subito la carriera di magistrato, era
molto impegnata e ci era utile che io potessi rimanere a casa per occuparmi di
Julia. Quando Gertrud ebbe superato le difficoltà iniziali e Julia iniziò ad
andare all’asilo, l’urgenza di decidere si fece incalzante.
Ero in difficoltà. Non mi riconoscevo in nessuno dei ruoli nei quali
avevo visto i giuristi al processo contro Hanna. Accusare mi sembrava una
semplificazione grottesca tanto quanto difendere; e giudicare era, tra le
semplificazioni, in assoluto la piú grottesca. Non riuscivo neanche a
immaginarmi impiegato della pubblica amministrazione: durante il
praticantato avevo lavorato all’ufficio distrettuale, le cui stanze, il cui
corridoio, il cui odore e i cui impiegati mi parevano grigi, asettici e squallidi.
Non mi rimanevano molte professioni giuridiche, e non so cosa avrei
scelto se un professore di Storia del diritto non mi avesse chiesto di lavorare
per lui. Gertrud disse che era una fuga; stavo scappando dalle sfide e dalle
responsabilità della vita. Aveva ragione. Scappavo e poterlo fare mi dava
sollievo. Non sarebbe stato per sempre, dicevo a lei e a me stesso; ero
abbastanza giovane da poter intraprendere un lavoro giuridico di maggior
rilievo anche dopo un paio d’anni di Storia del diritto. Invece, fu per sempre;
a quella prima fuga ne seguí un’altra, quando passai dall’università a un ente
di ricerca e lí cercai e trovai una nicchia nella quale potermi occupare dei
miei interessi storico-giuridici senza aver bisogno di nessuno né disturbare
nessuno.
Fuggire, però, non significa soltanto andare via, ma anche arrivare. E il
passato al quale approdai come storico del diritto non era meno pieno di vita
del presente. E non è neppure vero – come potrebbe immaginare il profano –
che la pienezza di vita del passato si può solo osservare, mentre a quella del
presente si può prendere parte. Fare ricerca in ambito storico significa
costruire ponti tra passato e presente, osservare entrambe le rive e su
entrambe entrare in azione. Uno dei miei campi di ricerca divenne il diritto
nel Terzo Reich, e in questo caso è piuttosto evidente in che misura passato e
presente abbiano come obiettivo la vita reale. Fuggire, in questo caso, non
significa occuparsi del passato, ma concentrarsi sul presente e sul futuro, che
è cieco all’eredità di un passato dal quale siamo plasmati e con cui dobbiamo
convivere.
Con questo non voglio negare di provare soddisfazione anche quando mi
immergo in un passato di minore importanza per il presente. La prima volta
che provai questa soddisfazione fu mentre lavoravo su opere legislative e
progetti giudiziari dell’Illuminismo. Erano lavori retti dalla fede che un
ordine positivo agisse sul mondo e che per questo il mondo potesse essere
portato a un ordine positivo. Mi riempí di gioia vedere che, grazie a questa
fede, erano stati concepiti testi a tutela di quest’ordine, poi accorpati in vere e
proprie leggi che miravano a portare bellezza e, con la loro bellezza, dare
prova della loro verità. A lungo ho creduto nell’esistenza di un progresso
nella Storia del diritto, a dispetto degli spaventosi tracolli e dei passi indietro,
uno sviluppo in direzione di una maggiore bellezza e verità, razionalità e
umanità. Da quando, però, mi è risultato chiaro che questa fede è una
chimera, utilizzo un’altra immagine per descrivere il percorso della Storia del
diritto: c’è comunque una meta, ma l’obiettivo, al quale il diritto arriva dopo
svariate scosse, subbugli e abbagli, non è altro che il presupposto da cui è
partito e da cui, non appena arriva, deve nuovamente ripartire.
All’epoca rilessi l’Odissea, che avevo studiato a scuola e mi era rimasta
in mente come la storia di un ritorno. In realtà non lo è. Come potevano i
greci, i quali sapevano che non ci si bagna due volte nello stesso fiume,
credere in un ritorno? Ulisse non torna a casa per restarvi, ma per mettersi
nuovamente in viaggio. L’Odissea è la storia di un movimento, al tempo
stesso con una meta e senza una meta, efficace e vano. La Storia del diritto è
forse qualcosa di diverso?
5.
Iniziai con l’Odissea dopo che Gertrud e io ci separammo. Per molte
notti riuscii a dormire solo poche ore; giacevo sveglio e, quando accendevo la
luce e prendevo in mano un libro, mi si chiudevano gli occhi, ma quando
mettevo via il libro e spegnevo la luce, ero di nuovo sveglio. Perciò leggevo a
voce alta. In questo modo gli occhi non mi si chiudevano. E poiché nelle
caotiche riflessioni del dormiveglia, tormentate da ricordi e sogni e che
giravano in tondo, sempre attorno al mio matrimonio e a mia figlia e alla mia
vita, era sempre Hanna a dominare, leggevo per Hanna. Leggevo per Hanna
registrando su audiocassette.
Prima che giungessi a spedire le cassette passarono molti mesi. Decisi
che non volevo inviarne delle parti, ma era meglio aspettare di aver registrato
l’intera Odissea. Poi mi venne il dubbio che Hanna non trovasse l’Odissea
sufficientemente interessante, e registrai le mie letture successive, ovvero i
racconti di Schnitzler e Čechov. Poi rimandai a lungo una telefonata al
tribunale che aveva condannato Hanna, per sapere dove stesse scontando la
sua pena. Alla fine, tuttavia, avevo tutto ciò che mi occorreva: l’indirizzo di
Hanna, in una prigione nelle vicinanze della città dove aveva avuto luogo il
processo e lei era stata condannata, un mangiacassette e le cassette numerate
da Čechov a Schnitzler a Omero. Inviai il pacco con il mangiacassette e i
nastri.
Recentemente ho ritrovato il quaderno sul quale, nel corso degli anni, ho
annotato ciò che registravo per Hanna. I primi dodici titoli sono
evidentemente annotati nello stesso periodo; all’inizio procedevo alla cieca;
poi probabilmente mi resi conto che senza annotazioni non ricordavo cosa
avevo già letto. Con i titoli seguenti, a volte si trova una data, a volte no, ma
anche senza data so di aver inviato a Hanna il primo pacchetto durante il suo
ottavo anno di detenzione e l’ultimo nel diciottesimo. Durante il diciottesimo
anno, venne accolta la sua domanda di grazia.
Successivamente lessi per Hanna ciò che piaceva a me. Con l’Odissea,
almeno in principio non mi risultò facile registrare leggendo a voce alta con
la stessa concentrazione di quando leggevo con gli occhi. Poi mi abituai. Lo
svantaggio della lettura a voce alta è che ci si mette molto di piú. Tuttavia,
ciò che si legge si imprime meglio nella memoria e ancora oggi ho di alcuni
libri un ricordo particolarmente nitido.
Leggevo a voce alta anche opere di autori che già conoscevo e amavo.
Cosí Hanna ricevette parecchie opere di Keller e Fontane, di Heine e Mörike.
Per lungo tempo non osai cimentarmi nella lettura di versi, ma alla fine
scoprii che mi divertivo e imparai a memoria una nutrita serie di poesie, che
potrei recitare ancora oggi.
Complessivamente i titoli riportati nel quaderno documentano una
grande e atavica fiducia nella cultura borghese. Non ricordo neanche di
essermi mai chiesto se dovessi spingermi oltre Kafka, Frisch, Johnson, la
Bachmann e Lenz, e leggere letteratura sperimentale, una produzione di cui
non riconosco la storia e di cui non mi piace nessuno dei personaggi. Ai miei
occhi, la letteratura sperimentale sperimenta con il lettore, e di questo non
avevamo bisogno né Hanna, né io.
Quando io stesso iniziai a scrivere, le lessi anche i miei testi. Aspettavo
di aver dettato il manoscritto e rielaborato il dattiloscritto, e di provare la
sensazione di avere terminato. Leggendo a voce alta capivo se la sensazione
era giusta. Se non lo era, potevo rielaborare di nuovo tutto e registrare una
nuova versione sopra quella vecchia. Ma non lo facevo volentieri. Anzi,
volevo smetterla con la lettura a voce alta. Hanna era tornata a essere
l’autorità per la quale chiamavo ancora una volta a raccolta tutte le mie forze,
tutta la mia creatività, tutta la mia fantasia critica. Dopodiché, e solo allora,
potevo spedire il manoscritto alla casa editrice.
Sulle cassette non ho mai registrato osservazioni personali, non ho mai
rivolto a Hanna delle domande, né le ho raccontato di me. Leggevo il titolo, il
nome dell’autore e il testo. Quando il testo finiva, aspettavo un momento,
chiudevo il libro e premevo il tasto stop.
6.
Nel quarto anno del nostro contatto, cosí ricco e avaro di parole, mi
arrivò un biglietto. “Ragazzino, l’ultima storia era particolarmente bella.
Grazie. Hanna”.
Aveva usato un foglio a righe, strappato da un quaderno e rifilato con un
paio di forbici. Il testo era in alto e occupava tre righe. Era stato scritto con
una penna blu che sbavava. Hanna aveva guidato la biro con molta forza,
tanto che le parole erano visibili in rilievo sul retro del biglietto. Anche
l’indirizzo l’aveva scritto con forza; c’era l’impronta leggibile sulla metà
inferiore e superiore del foglio piegato in due.
A una prima occhiata si sarebbe potuto pensare che fosse la grafia di un
bambino. Ma ciò che nella calligrafia di un bambino è goffo e impacciato, qui
era violento. Si percepiva la resistenza che Hanna aveva dovuto vincere per
unire le linee in lettere e le lettere in parole. La mano infantile divaga qua e là
e dev’essere mantenuta nella direzione della scrittura. La mano di Hanna non
voleva divagare e doveva essere costretta prima ancora di cominciare. Le
linee che formavano le lettere ripartivano di volta in volta, ascendenti o
discendenti, con archi e fiocchi. E ogni lettera era una nuova conquista e
aveva una nuova inclinazione o un tratto diritto diverso dai precedenti, spesso
anche un’altezza e una larghezza sproporzionate.
Lessi il messaggio e mi sentii esultante, pieno di gioia. «Scrive, scrive!».
In quegli anni avevo letto tutto ciò che ero riuscito a trovare
sull’analfabetismo. Sapevo dello stato di impotenza nelle attività quotidiane,
dal trovare una strada e un indirizzo fino alla scelta di un piatto al ristorante;
dell’ansia con la quale l’analfabeta segue modelli prestabiliti e una routine
comprovata, dell’energia che l’occultamento dell’incapacità di leggere e
scrivere richiede e sottrae a una vita completa. L’analfabetismo è una
condizione di minorità. Avendo avuto il coraggio di imparare a leggere e
scrivere, Hanna aveva fatto il passo dalla minore alla maggiore età, un passo
illuministico.
Analizzai lo scritto di Hanna e vidi quanta fatica le fosse costato
scrivere, quale lotta avesse significato. Ero orgoglioso di lei. Eppure, allo
stesso tempo ero triste per lei, triste per la sua vita in ritardo e sbagliata, triste
per i ritardi e gli sbagli della vita in generale. Pensavo che, una volta che è
passato il momento giusto, una volta che hai negato qualcosa troppo a lungo,
che qualcosa ti è stato negato troppo a lungo, è davvero troppo tardi, anche se
alla fine lo affronti con forza e lo accogli con entusiasmo. Oppure forse il
troppo tardi non esiste, esiste solo il tardi, e il tardi è senz’altro meglio del
mai? Non lo so.
Dopo il primo biglietto di saluto, i successivi arrivarono con frequenza
costante. Erano sempre poche righe: un ringraziamento, un desiderio di
ascoltare di piú o non ascoltare piú nulla di quell’autore, un commento su un
autore o una poesia o una storia o il personaggio di un romanzo,
un’osservazione sul mondo fuori dalla prigione. “In cortile fiorisce già la
forsizia” oppure “Mi piace che quest’estate ci siano cosí tanti temporali”
oppure ancora “Fuori dalla finestra vedo gli uccelli che si riuniscono per
migrare al sud”. Spesso mi accorgevo della forsizia, dei temporali estivi o
degli stormi di uccelli solo dopo i messaggi di Hanna. I suoi commenti sulla
letteratura spesso colpivano sorprendentemente nel segno: “Schnitzler abbaia,
Stefan Zweig è un cane morto” oppure “Keller ha bisogno di una donna”
oppure “Le poesie di Goethe sono come quadretti in belle cornici” o ancora
“Lenz usa sicuramente la macchina da scrivere”. Poiché non sapeva nulla
degli autori, fino a prova contraria ipotizzava che fossero contemporanei. Ero
allibito da quanta letteratura classica si possa leggere come se fosse attuale, e
chi non sa nulla di storia può vedere nelle condizioni di vita di epoche
precedenti le condizioni di vita di luoghi lontani.
Non ho mai scritto a Hanna. Ma ho continuato a leggere per lei. Quando
trascorsi un anno in America, le inviai le audiocassette da lí. Quando andavo
in vacanza o avevo molto lavoro, poteva passare parecchio tempo prima che
la cassetta successiva fosse pronta; non avevo stabilito un ritmo fisso, ma
spedivo a volte ogni settimana, a volte ogni due e a volte anche dopo tre o
quattro settimane. Il fatto che, dopo aver imparato a leggere da sola, Hanna
non avesse piú bisogno delle mie cassette, non mi preoccupava. Se voleva,
poteva leggere. Leggere a voce alta era il mio modo di parlare a lei, con lei.
Ho conservato tutti i suoi biglietti. La sua calligrafia con il tempo si è
trasformata. All’inizio costringeva le lettere nella stessa inclinazione e
nell’altezza e larghezza giuste. Dopo esserci riuscita, la grafia è diventata piú
leggera e sicura. Fluida non lo è diventata mai. Ma acquisí qualcosa della
rigida bellezza tipica della calligrafia delle persone anziane che nella loro vita
hanno scritto poco.
7.
All’epoca non pensavo mai all’eventualità che Hanna un giorno potesse
essere rilasciata. Lo scambio di messaggi e cassette era cosí normale e
familiare, e io sentivo Hanna vicina e al tempo stesso lontana con cosí tanta
libertà che avrei potuto lasciar perdurare quella situazione ancora e ancora e
ancora. Era comodo ed egoista, lo so.
Poi arrivò la lettera della direttrice del carcere.

Da anni lei e la signora Schmitz avete un rapporto di scambio epistolare.


È l’unico contatto della signora Schmitz con l’esterno, perciò mi rivolgo
a lei nonostante non sappia quanto intimamente siate legati e se lei sia
un parente oppure un amico.
Il prossimo anno la signora Schmitz presenterà nuovamente la domanda
di grazia, ed è mia opinione che sarà accolta. La signora Schmitz verrà
quindi rilasciata presto, dopo diciotto anni di reclusione. Naturalmente
possiamo procurarle un appartamento e un lavoro, o meglio, cercare di
procurarglieli; trovare un lavoro sarà difficile alla sua età, anche se è
ancora in piena salute e dimostra una grande abilità nel cucito. Ma,
piuttosto che occuparcene noi, sarebbe meglio che lo facessero parenti e
amici, che possono restare vicino alla persona rilasciata, accompagnarla
e sostenerla. Non può immaginare quanto ci si possa sentire soli e
indifesi nel mondo esterno dopo diciotto anni di reclusione.
La signora Schmitz sa cavarsela abbastanza bene anche da sola. Sarebbe
sufficiente che lei le trovasse un piccolo appartamento e un lavoro, che
ogni tanto durante le prime settimane e i primi mesi andasse a trovarla e
la invitasse, e che si occupasse di tenerla aggiornata sulle possibilità
offerte dalla parrocchia, dall’università popolare, dalle case famiglia ecc.
Inoltre non è semplice, all’inizio, dopo diciotto anni, muoversi per la
città, fare la spesa, consultare uffici, entrare in un ristorante. In
compagnia diventa certamente piú facile.
Ho notato che lei non è mai venuto a trovare la signora Schmitz. Se lo
facesse, anziché scriverle le chiederei un incontro in occasione di una
sua visita. Si tratta solamente di venire a trovarla prima del rilascio. In
tale eventualità, la prego di passare da me.

La lettera si chiudeva con saluti cordiali, che non intesi come rivolti a
me, ma indicativi del fatto che alla direttrice la questione stava
particolarmente a cuore. Avevo già sentito parlare di lei; la sua istituzione
aveva un’ottima fama e la sua voce aveva peso nel dibattito sulla riforma
carceraria. La sua lettera mi piacque.
Non mi piacque, invece, ciò che mi stava per piombare addosso.
Naturalmente dovevo occuparmi del lavoro e dell’appartamento, e lo feci.
Degli amici, che all’interno della loro casa disponevano di un
appartamentino, non usato e lasciato sfitto, erano disposti ad affittarlo a
Hanna per una cifra esigua. Il sarto greco al quale occasionalmente facevo
modificare i miei vestiti, accettò di darle lavoro, dal momento che sua sorella,
che gestiva con lui la sartoria, era tornata nel paese d’origine. Mi ero anche
già da tempo, e prima che a Hanna potesse tornare utile, informato sulle
iniziative sociali e formative di istituzioni ecclesiastiche e laiche. Ma la visita
a Hanna continuavo a rinviarla.
Proprio perché la sentivo vicina e al tempo stesso lontana, con cosí tanta
libertà, non volevo andare a farle visita. Avevo la sensazione che Hanna
potesse essere per me ciò che era solo se rimaneva fisicamente distante.
Avevo paura che il mondo piccolo, leggero, protetto, dei biglietti e delle
audiocassette fosse troppo artificiale e troppo vulnerabile per sopportare la
vicinanza nella realtà. Come potevamo incontrarci faccia a faccia ed evitare
che venisse a galla tutto ciò che era successo tra di noi?
Cosí quell’anno passò senza che io andassi in carcere. Dalla direttrice
non ricevetti nulla per lungo tempo; anzi, una mia lettera, nella quale riferivo
del lavoro e dell’appartamento che attendevano Hanna, rimase senza risposta.
La direttrice contava di parlarmi in occasione della mia visita, ma non poteva
sapere che quella visita non solo continuavo a rinviarla, ma la volevo proprio
evitare. Alla fine, tuttavia, giunse la decisione: Hanna aveva ottenuto la
grazia e sarebbe stata rilasciata; la direttrice dunque mi telefonò. Potevo
andare subito da lei? Hanna sarebbe uscita dal carcere di lí a una settimana.
8.
La domenica seguente andai da lei. Era la prima volta che entravo in un
carcere. All’ingresso fui sottoposto a controllo e durante il percorso vennero
aperte e chiuse diverse porte. Ma l’edificio era nuovo e luminoso, e nel
settore interno le porte rimanevano aperte e le detenute si muovevano
liberamente. In fondo al corridoio, una porta si apriva sull’esterno, un
praticello con alberi e panchine. Mi guardai intorno, alla ricerca. La custode
che mi aveva accompagnato indicò una panchina lí accanto, all’ombra di un
castagno.
Hanna? La signora sulla panchina era Hanna? Capelli grigi, un volto
segnato da profonde rughe verticali sulla fronte, sulle guance e intorno alla
bocca, e un corpo pesante. Indossava un abito azzurro un po’ troppo stretto
sul seno, la pancia e le cosce. Le mani erano in grembo e reggevano un libro.
Non stava leggendo. Guardava, da sopra il bordo degli occhiali da lettura, una
signora che gettava un pezzetto di mollica dopo l’altro a un paio di passerotti.
Poi si accorse di essere osservata e si girò verso di me.
Vidi l’aspettativa sul suo volto, lo vidi illuminarsi di gioia quando mi
riconobbe, vidi i suoi occhi studiarmi quando mi feci piú vicino, vidi i suoi
occhi cercare, domandare, insicuri e feriti, e vidi la sua espressione rilassarsi.
Appena la raggiunsi, mi fece un sorriso amichevole e stanco. «Sei diventato
grande, ragazzino». Mi sedetti accanto a lei, e lei mi prese la mano.
Un tempo avevo amato in modo particolare il suo odore. Sapeva sempre
di fresco, di appena lavato o di capi freschi di bucato o di sudore fresco o di
amore appena fatto. A volte si metteva del profumo, non so quale, e anche
quella fragranza era fresca, piú di tutto il resto. Sotto questi odori freschi ce
n’era un altro, piú pesante, piú cupo, piú acre. Spesso l’avevo annusata come
un animale curioso: iniziavo dal collo e dalle spalle, che sapevano di appena
lavato; aspiravo tra i seni il fresco odore di sudore che sulle ascelle si
mischiava all’altro odore, che poi trovavo allo stato puro, pesante, cupo, sui
fianchi e sulla pancia e tra le gambe, in una colorazione fruttata che mi
eccitava; le annusavo anche le gambe e i piedi, le cosce, sulle quali l’odore
pesante si perdeva, il retro delle ginocchia, ancora con il leggero e fresco
odore di sudore, i piedi, che sapevano di sapone o di cuoio o di stanchezza.
Schiena e braccia non avevano un odore particolare, non sapevano di niente,
eppure sapevano di lei, e sui palmi delle mani trovavo la fragranza dei giorni
e del lavoro: l’inchiostro da stampa del biglietto, il metallo della pinza,
cipolla o pesce o lardo arrosto, lisciva o calore di ferro da stiro. Se le mani
venivano lavate, all’inizio non svelavano alcunché, ma il sapone copriva
soltanto gli odori, che dopo un po’ erano di nuovo lí, deboli, amalgamati in
un unico sentore di giorno e di lavoro, di sera, di ritorno a casa e dell’essere
di nuovo a casa.
Ora, sedevo vicino a Hanna e respiravo l’odore di una vecchia signora.
Non so a cosa fosse dovuto questo odore, che conoscevo da nonne e vecchie
zie e che aleggia nelle camere e nei corridoi delle case di riposo, come una
maledizione. Hanna era troppo giovane per questo.
Mi avvicinai. Avevo notato che prima era rimasta delusa e volevo
rimediare.
«Sono felice che tu esca».
«Davvero?».
«Sí davvero, e sono felice che verrai a stare vicino a me». Le raccontai
dell’appartamento e del lavoro che avevo trovato per lei, delle offerte
culturali e sociali nel quartiere, della biblioteca comunale. «Leggi molto?».
«Insomma. Ascoltare qualcuno che legge per te è piú bello». Mi guardò.
«Quindi adesso è finita, vero?».
«Perché dovrebbe essere finita?». Ma in realtà non mi vedevo né a
registrare cassette per lei, né a incontrarla e leggere ancora per lei a voce alta.
«Sono davvero felice che tu abbia imparato a leggere e ti ammiro. E che belle
lettere mi hai scritto!». Questo era vero, l’avevo ammirata ed ero felice che
lei leggesse e che mi scrivesse. Ma avvertivo quanto quei sentimenti,
ammirazione e felicità, fossero inadeguati alla fatica che imparare a leggere e
a scrivere doveva aver richiesto a Hanna. E quanto fossero miseri, quei
sentimenti, se non erano riusciti a indurmi a risponderle, cercarla, parlare con
lei. Avevo concesso a Hanna una piccola nicchia, un’intera nicchia, che per
me era importante, che mi dava qualcosa e per la quale facevo qualcosa, ma
non un posto nella mia vita.
Ma perché avrei dovuto concederle un posto nella mia vita? Mi ribellavo
alla mia coscienza sporca, che mi rimproverava di aver relegato Hanna in una
nicchia. «Prima del processo pensavi mai a ciò di cui si è parlato in tribunale?
Cioè, ci pensavi mai quando eravamo insieme, quando leggevo per te?».
«Ti preoccupa molto questo?». Ma Hanna non aspettò una risposta.
«Avevo sempre la sensazione che nessuno mi capisse, che nessuno sapesse
chi ero e che cosa mi aveva condotta qui. E, sai, se nessuno ti capisce, allora
nessuno può chiederti conto di nulla. Nemmeno la corte ha potuto farlo. Solo
i morti possono. Loro capiscono. Per questo non c’era bisogno che fossero lí,
al processo, ma, se vi fossero stati, lo avrebbero capito molto bene. Qui in
prigione hanno passato molto tempo con me. Venivano ogni notte, che lo
volessi o no. Prima del processo, quando volevano venire, riuscivo a
scacciarli».
Aspettò per vedere se avevo qualcosa da dire a riguardo, ma non mi
venne nulla. Per cominciare avrei potuto dirle che io non riesco a scacciare
via nulla. Ma non era vero; si scaccia qualcuno anche mettendolo in una
nicchia.
«Sei sposato?».
«Lo sono stato. Gertrud e io siamo divorziati da molti anni e nostra
figlia vive in un convitto; spero che per gli ultimi anni di scuola decida di non
restare lí, ma di trasferirsi da me». Ora ero io che aspettavo che lei dicesse o
chiedesse qualcosa al riguardo. Ma tacque. «Ti vengo a prendere la prossima
settimana, d’accordo?».
«Sí».
«In gran silenzio o possiamo essere un po’ rumorosi e allegri?».
«In silenzio».
«Va bene, ti vengo a prendere in silenzio, senza musica né champagne».
Mi alzai, e anche lei si alzò. Ci guardammo. Una sirena suonò per la seconda
volta, e le altre donne erano già tornate dentro. Di nuovo i suoi occhi
studiarono il mio viso. La presi tra le braccia, ma non la sentivo piú.
«Stammi bene, ragazzino».
«Anche tu».
Cosí ci salutammo in giardino, prima ancora di doverci congedare
all’interno.
9.
La settimana successiva fui molto indaffarato. Non saprei piú dire se la
conferenza alla quale stavo lavorando mi mettesse addosso ansia per la buona
riuscita del lavoro o se semplicemente avessi poco tempo a disposizione.
L’idea che mi aveva spinto a preparare quella conferenza non stava
portando a nulla. Quando iniziai a verificare la validità della mia ipotesi, mi
ritrovai sotto gli occhi una sequenza di elementi casuali, laddove mi aspettavo
senso e regolarità. Anziché rassegnarmi, continuavo a cercare, eccitato,
ostinato, arrabbiato, come se con quel mio ipotizzare la realtà continuassi a
sbagliare strada, ed ero pronto a falsare, gonfiare o minimizzare i miei
risultati. Caddi in uno stato di strana agitazione; se andavo a letto tardi, mi
addormentavo, ma poche ore dopo mi ritrovavo di nuovo completamente
sveglio, finché mi decidevo ad alzarmi e continuare a leggere o a scrivere.
Mi occupavo anche di tutto ciò che serviva in previsione del rilascio.
Arredai l’appartamento di Hanna con mobili Ikea e un paio di pezzi antichi,
raccomandai Hanna al sarto greco e mi tenni aggiornato sulle offerte
formative e sociali. Comprai provviste, misi dei libri sugli scaffali e appesi
qualche quadro. Chiamai un giardiniere per curare la piccola porzione di
verde che circondava la terrazza davanti al soggiorno. Feci anche questo con
eccitazione e accanimento; era tutto troppo per me.
Ma, al tempo stesso, mi era sufficiente per non dover pensare alla visita
che avevo fatto a Hanna. Solo a volte, mentre guidavo l’auto o sedevo stanco
alla scrivania o giacevo sveglio nel letto, oppure ero nell’appartamento che
lei avrebbe occupato, il pensiero mi sopraffaceva e scatenava i ricordi. La
vedevo sulla panchina, con lo sguardo fisso su di me, la vedevo in piscina,
con il viso rivolto nella mia direzione, e mi tornava la sensazione di averla
tradita e di essere colpevole nei suoi confronti. E poi di nuovo mi ribellavo a
quella sensazione, accusavo Hanna e trovavo conveniente e comodo il modo
in cui si era sottratta alla sua colpa. Consentire solo ai morti di chiederci
conto del nostro operato; ridurre colpa ed espiazione a cattive dormite e brutti
sogni – e che ne era dei vivi? Ma in realtà con “i vivi” intendevo me stesso.
Non avevo anche io qualcosa di cui chiederle conto? Che cos’ero io?
Il giorno prima di andare a prenderla, nel pomeriggio telefonai al
carcere. Per prima cosa, parlai con la direttrice.
«Sono un po’ nervosa. Sa, normalmente nessuno viene rilasciato dopo
cosí tanto tempo, senza essere stato fuori qualche ora o qualche giorno, per
cominciare. La signora Schmitz si è rifiutata. Per lei domani non sarà una
giornata facile».
Mi passò Hanna.
«Pensa a quello che vuoi fare domani. Se vuoi andare subito a casa tua o
se vogliamo andare nel bosco o al fiume».
«Ci penserò. Sei ancora un gran pianificatore, vero?».
Queste parole mi fecero arrabbiare. Mi arrabbiavo quando qualche
amica ogni tanto mi diceva che non ero abbastanza spontaneo, che
funzionavo troppo di testa e poco di pancia.
Dal mio silenzio, Hanna si accorse che mi ero risentito e scoppiò a
ridere. «Non ti arrabbiare, ragazzino, intendevo in senso buono».
La Hanna che avevo rincontrato sulla panchina del carcere era una
vecchia signora. Aveva le sembianze di una vecchia signora e aveva l’odore
di una vecchia signora. Ma non avevo fatto caso alla sua voce. La sua voce
era rimasta decisamente giovane.
10.
Il mattino dopo Hanna era morta. Si era impiccata allo spuntare del
giorno.
Quando arrivai, la direttrice mi venne incontro. La vidi per la prima
volta: una donna piccola e magra con capelli biondo scuro e occhiali. Era
poco appariscente, ma solo fino a quando iniziò a parlare, con forza e calore e
uno sguardo severo e movimenti energici delle mani e delle braccia. Mi
chiese della telefonata della sera prima e dell’incontro della settimana
precedente. Mi chiese se avevo sospettato, temuto qualcosa. Dissi di no. Non
c’era stato neppure un sospetto o un timore che avessi rimosso.
«Come vi siete conosciuti?».
«Vivevamo vicini». Mi guardò interrogativa e capii di dover dire di piú.
«Vivevamo vicini, facemmo conoscenza e diventammo amici. Da giovane
universitario, inoltre, presenziai al processo in cui venne condannata».
«Come mai inviava delle cassette alla signora Schmitz?».
Tacqui.
«Sapeva che era analfabeta, vero? Come l’aveva saputo?».
Alzai le spalle. Non capivo che cosa le importasse della storia mia e di
Hanna. Sentivo le lacrime nel petto e in gola e temevo di non riuscire a
parlare. Non volevo piangere davanti a lei.
Ma la direttrice si accorse del mio stato. «Venga con me, le mostro la
cella della signora Schmitz». Mi fece strada, ma si girava sempre per riferirmi
o spiegarmi qualcosa. Lí c’era stato un attentato terroristico, lí c’era la
sartoria dove Hanna aveva lavorato, lí Hanna una volta aveva fatto un sit-in
finché non era stato revocato il taglio ai fondi destinati alla biblioteca, per di
lí si arrivava alla biblioteca. Rimase in piedi davanti alla cella. «La signora
Schmitz non ha fatto le valigie. Vedrà la cella cosí com’era quando ci
viveva».
Letto, armadio, tavolo e sedia, uno scaffale sulla parete sopra il tavolo e,
nell’angolo dietro la porta, lavandino e gabinetto. Al posto della finestra, del
vetrocemento. Il tavolo era vuoto. Sullo scaffale c’erano libri, una sveglia, un
orso di pezza, due bicchieri, caffè in polvere, barattoli di tè, il mangiacassette
e, in due scompartimenti in basso, le cassette registrate da me.
«Non sono tutte». La direttrice seguiva il mio sguardo. «La signora
Schmitz prestava sempre qualche cassetta al servizio di assistenza ai detenuti
ciechi».
Mi avvicinai allo scaffale. Primo Levi, Elie Wiesel, Tadeusz Borowski,
Jean Améry, la letteratura delle vittime accanto agli appunti autobiografici di
Rudolf Höss, l’analisi di Hanna Arendt sul processo Eichmann a
Gerusalemme, e testi specialistici sui campi di concentramento.
«Hanna ha letto questi libri?».
«In ogni caso li ha ordinati con consapevolezza. Già diversi anni fa le
procurai una bibliografia completa sui campi di concentramento, e poi, un
paio d’anni fa, mi chiese di elencarle dei libri sulle donne nei lager, deportate
e sorveglianti. Scrissi all’istituto di storia contemporanea e mi inviarono una
bibliografia sull’argomento. Appena la signora Schmitz ebbe imparato a
leggere, iniziò subito a occuparsi dei campi di concentramento».
Sopra il letto erano appese molte piccole immagini e foglietti. Mi
inginocchiai sul letto e lessi. Erano citazioni, poesie, brevi annotazioni, anche
ricette di cucina su cui Hanna aveva scritto appunti o di cui aveva ritagliato
l’immagine da giornali o riviste. “La primavera torna a far sventolare
nell’aria il suo nastro azzurro”, “Ombre di nuvole scorrono sopra campi”. Le
poesie erano piene di gioia e nostalgia per la natura, e i quadretti mostravano
dei boschi inondati dalla luce primaverile, prati colorati dai fiori, foglie
autunnali e alberi solitari, un salice sulla riva di un ruscello, un ciliegio con
frutti rossi e maturi, un castagno autunnale fiammeggiante di giallo e
arancione. Una foto di giornale mostrava un uomo anziano e uno giovane in
abito scuro che si davano la mano, e nel piú giovane, che si inchinava davanti
all’anziano, riconobbi me stesso. Avevo appena conseguito la maturità e nella
foto, scattata alla cerimonia di proclamazione, il preside mi stava
consegnando un premio. Tutto ciò era avvenuto molto dopo che Hanna aveva
lasciato la città. Si era forse abbonata, lei che non leggeva, al giornale locale,
nel quale la foto era comparsa? Ad ogni modo doveva aver faticato molto per
scoprire quella foto e ottenerla. E durante il processo, l’aveva avuta, l’aveva
con sé? Sentii di nuovo le lacrime nel petto e in gola.
«Ha imparato a leggere con lei. Prendeva in prestito dalla biblioteca i
libri che lei le inviava registrati sulle cassette, e parola dopo parola, frase
dopo frase, seguiva ciò che ascoltava. Il mangiacassette non reggeva al
continuo azionare e spegnere, mandare avanti e indietro il nastro, si rompeva
di continuo, doveva essere riparato e, poiché ci voleva l’autorizzazione, alla
fine mi sono accorta di ciò che stava facendo la signora Schmitz. All’inizio
non volle ammetterlo, ma quando cominciò anche a scrivere e mi chiese un
libro di calligrafia, non cercò piú di tenerlo nascosto. Era anzi orgogliosa di
avercela fatta e voleva condividere la sua gioia».
Mentre parlava, io, inginocchiato, continuavo a guardare le immagini e i
foglietti e lottavo contro le lacrime. Quando mi girai e mi sedetti sul letto, la
direttrice disse: «Sperava tanto che lei le scrivesse. Riceveva posta solo da lei
e, quando la posta veniva distribuita e lei chiedeva: “Nessuna lettera per
me?”, con “lettera” non intendeva i pacchetti nei quali arrivavano le cassette.
Come mai non le ha mai scritto?».
Tacqui di nuovo. Non potevo parlare, sarei solo riuscito a balbettare e
piangere.
Si avvicinò allo scaffale, prese un barattolo di tè, mi si sedette vicino ed
estrasse un foglio piegato dalla tasca del vestito. «Mi ha lasciato una lettera,
una sorta di testamento. Le leggo la parte che la riguarda». Aprí il foglio.
«“Nel barattolo del tè lilla c’è ancora del denaro. Lo dia a Michael Berg, il
quale dovrà consegnarlo, assieme ai settemila marchi depositati alla cassa di
risparmio, alla figlia sopravvissuta con la madre all’incendio della chiesa. Lei
deciderà che cosa farne. E a lui dica che lo saluto”».
Quindi non mi aveva lasciato nessun messaggio. Voleva farmi soffrire?
Voleva punirmi? O la sua anima era cosí stanca che riusciva solo a fare e a
scrivere lo stretto indispensabile? «Com’era durante tutti questi anni?».
Aspettai, prima di riprendere a parlare. «E com’era negli ultimi giorni?».
«Per molti anni ha vissuto qui come se fosse in un convento. Come se vi
si fosse trasferita di sua spontanea volontà e si fosse sottomessa per scelta
all’ordine di qui; come se il lavoro in qualche misura monotono fosse una
specie di meditazione. Presso le altre donne, con le quali era gentile ma
distaccata, godeva di particolare prestigio. Anzi, era considerata autorevole:
quando c’erano problemi veniva interpellata per dare consigli e, quando si
trovava in mezzo a una discussione, le altre detenute accettavano la sua
decisione. Fino a che, qualche anno fa, gettò la spugna, per cosí dire. Si era
sempre curata, la sua figura robusta era ancora magra e di una pulizia attenta
e scrupolosa. Ultimamente, invece, aveva iniziato a mangiare molto e a
lavarsi raramente, era ingrassata ed emanava cattivo odore. Ma non sembrava
per questo infelice o scontenta. In realtà era come se il ritiro in convento non
le fosse piú sufficiente, come se per i suoi gusti l’ambiente fosse troppo
socievole e ciarliero e dovesse ritirarsi ancora di piú, in una clausura solitaria
in cui non potesse piú vedere nessuno e in cui l’aspetto esteriore, i vestiti e
l’odore non avessero piú alcuna importanza. No, dire che avesse gettato la
spugna è sbagliato. Aveva piuttosto ridefinito il suo mondo in una maniera
che era giusta per lei, ma che non colpiva piú l’immaginazione delle altre
donne».
«E negli ultimi giorni?».
«Era come al solito».
«Posso vederla?».
Annuí, ma rimase seduta. «Negli anni della solitudine, il mondo può
davvero diventare tanto insopportabile? È meglio suicidarsi piuttosto che fare
di nuovo ritorno nel mondo, fuori dal convento, fuori dall’eremitaggio?». Si
girò verso di me. «La signora Schmitz non ha lasciato scritto il motivo per cui
si è uccisa. E lei non vuole dire che cosa c’è stato tra di voi, un passato che
forse ha portato la signora Schmitz a suicidarsi la notte prima di uscire dal
carcere assieme a lei». Ripiegò il foglio, se lo mise in tasca, si alzò e si lisciò
la gonna. «La sua morte mi ha colpita, sa, e al momento sono arrabbiata con
la signora Schmitz e con lei. Ma andiamo».
Mi fece di nuovo strada, stavolta in silenzio. Hanna giaceva in una
stanzetta nell’infermeria, dove c’era a malapena spazio tra la parete e la
barella. La direttrice sollevò il lenzuolo.
A Hanna era stato avvolto un panno intorno al capo, per sostenere il
mento fino al sopraggiungere del rigor mortis. Il volto non era né
particolarmente sereno, né particolarmente straziato. Appariva rigido e morto.
La guardai a lungo, e sul volto morto vidi apparire quello vivo, nell’età della
giovinezza. Cosí dev’essere per le coppie di vecchi coniugi, pensai: per lei,
nell’uomo anziano, rimane conservato il giovane, e lui, nella donna anziana,
vede la bellezza e la grazia della giovane che è stata un tempo. Perché
quest’immagine non mi era apparsa una settimana prima?
Non dovevo piangere. Quando, dopo un po’, la direttrice mi guardò
interrogativa, feci un cenno di assenso e lei coprí di nuovo, con il lenzuolo, il
volto di Hanna.
11.
Dovette arrivare l’autunno prima che riuscissi ad assolvere all’incarico
di Hanna. La figlia viveva a New York e approfittai di un congresso a Boston
per portarle il denaro: un assegno corrispondente all’importo del libretto di
risparmio e il barattolo del tè con i contanti. Le avevo scritto, mi ero
presentato come storico del diritto e avevo menzionato il processo. Le sarei
stato grato se mi avesse concesso un incontro. Mi invitò per un tè.
Partii in treno da Boston a New York. I boschi esibivano un rigoglio di
marrone, giallo, arancione, rosso scuro, rosso mattone e del rosso fiammante
e brillante dell’acero. Mi tornarono in mente i quadretti autunnali nella cella
di Hanna. Quando mi stancai dello sferragliare delle ruote e del dondolio
della carrozza, sognai Hanna e me in una casa su una delle colline colorate
d’autunno che il treno stava attraversando. Hanna aveva qualche anno in piú
di quando l’avevo conosciuta e in meno di quando l’avevo rincontrata; piú
grande di me, piú bella di prima, nonostante l’età ancora disinvolta nei
movimenti e ancora piú a suo agio nel proprio corpo. La vedevo scendere
dall’auto e portare sulle braccia sacchetti della spesa, la vedevo entrare in
casa passando per il giardino, la vedevo poggiare i sacchetti e salire le scale
per venirmi incontro. Il desiderio di Hanna divenne cosí forte da far male. Mi
ci opposi, gli tenni testa, superava troppo quella che era stata la nostra realtà,
la realtà delle nostre età, dei nostri ambienti di vita. Come poteva Hanna, che
non parlava inglese, vivere in America? E non aveva nemmeno la patente.
Mi svegliai e ricordai che Hanna era morta. Sapevo anche che il mio
desiderio era focalizzato su di lei, ma non riguardava lei. Era il desiderio di
tornare a casa.
La figlia abitava vicino a Central Park, in una stradina fiancheggiata su
entrambi i lati da vecchie case a schiera in arenaria scura, le cui scale, della
stessa arenaria scura, conducevano al primo piano. Se ne ricavava
un’immagine seriosa, casa dopo casa; le facciate quasi uguali, scala dopo
scala; alberi ai lati della strada, piantati di recente, alla stessa distanza l’uno
dall’altro, con poche foglie gialle sui rami sottili.
La figlia serví il tè davanti a grandi finestre che affacciavano sui piccoli
giardini delle case dell’isolato, in parte verdi e fioriti e in parte solo un
accumulo di cianfrusaglie. Subito dopo esserci seduti, aver versato il tè e
mescolato lo zucchero, la donna passò dall’inglese, lingua nella quale mi
aveva salutato, al tedesco: «Cosa la porta qui da me?». Non lo chiese in modo
amichevole, ma neppure sgarbato; il tono era estremamente sobrio. Tutto in
lei era sobrio: l’atteggiamento, i gesti, i vestiti. Il volto era stranamente senza
età, come chi si è sottoposto a un lifting. O forse si era irrigidito a causa di un
dolore precoce. Cercai inutilmente di ricordarmi il suo volto durante il
processo.
Raccontai della morte di Hanna e dell’incarico che mi aveva affidato.
«Perché a me?».
«Suppongo perché lei è l’unica sopravvissuta».
«E cosa devo farci?».
«Quello che ritiene giusto».
«E dare cosí l’assoluzione alla signora Schmitz?».
Avrei voluto ribattere, ma in effetti Hanna pretendeva molto. Gli anni di
carcere non dovevano essere solo un’espiazione imposta; Hanna aveva voluto
anche dar loro un senso e che questo le fosse riconosciuto. Lo dissi alla
donna.
Lei scosse il capo. Non sapevo se con ciò volesse contestare la mia
spiegazione o se volesse rifiutare quel riconoscimento a Hanna.
«Non potrebbe darle il riconoscimento senza l’assoluzione?».
Rise. «Le piacerebbe, vero? Che rapporto avevate voi due?».
Esitai un istante. «Ero il suo lettore, leggevo per lei a voce alta. È
iniziato quando avevo quindici anni, ed è continuato mentre lei era in
carcere».
«Ma come…».
«Le inviavo delle audiocassette. La signora Schmitz è stata per quasi
tutta la vita analfabeta; ha imparato a leggere e a scrivere solo in prigione»
«E perché lei ha fatto tutto questo?».
«Quando avevo quindici anni, abbiamo avuto una relazione».
«Intende dire che andavate a letto insieme?».
«Sí».
«Com’è stata brutale questa donna. Lei ha sopportato che a quindici
anni… No, dice che ha ricominciato lei stesso a leggere per lei quando era in
prigione. Si è mai sposato?».
Annuii.
«E il matrimonio è stato breve e infelice e lei non si è piú risposato, e
vostro figlio, se ce n’è uno, vive in un collegio».
«Questo vale per migliaia di persone, non è necessaria una signora
Schmitz».
«Negli ultimi anni, quando ha avuto contatti con lei, la signora Schmitz
le ha mai dato l’impressione di essere consapevole di ciò che le ha fatto?».
Scrollai le spalle. «Però sapeva cosa aveva fatto alle altre donne nel
lager e durante la marcia. Non me l’ha solo detto; negli ultimi anni di
detenzione si è anche occupata intensamente di questo argomento». Riferii
ciò che mi aveva raccontato la direttrice.
La figlia si alzò in piedi e si mise a camminare avanti e indietro per la
stanza a grandi passi. «Di quanto denaro si tratta?».
Andai nell’ingresso, dove avevo lasciato la borsa, e tornai con l’assegno
e il barattolo del tè. «Ecco».
Guardò l’assegno e lo appoggiò sul tavolo. Aprí il barattolo, lo vuotò, lo
chiuse di nuovo e lo tenne in mano, continuando a fissarlo. «Da ragazza
avevo un barattolo del tè per i miei tesori. Non come questo, nonostante
all’epoca ci fossero già anche barattoli cosí; il mio aveva la scritta in caratteri
cirillici e il coperchio non andava inserito dentro, ma infilato sopra. Lo portai
con me persino nel lager e lí un giorno mi venne rubato».
«Cosa c’era dentro?».
«Niente di che. Un ricciolo del nostro barboncino, dei biglietti
d’ingresso per opere liriche che mio padre mi aveva portato a vedere, un
anello vinto da qualche parte o trovato in qualche pacco sorpresa. Il barattolo
mi fu rubato non per il contenuto. Nel lager, ad avere valore era il barattolo in
sé e ciò a cui poteva servire». Lo mise sopra l’assegno. «Ha un suggerimento
per l’uso di questo denaro? Utilizzarlo per qualcosa che abbia a che fare con
l’Olocausto mi sembra una sorta di assoluzione, che io non posso né voglio
concedere».
«Per gli analfabeti che vogliono imparare a leggere e a scrivere. Ci sono
sicuramente istituzioni, associazioni, fondazioni di pubblica utilità alle quali
si può devolvere questo denaro».
«Sicuramente ci sono» rifletté.
«Ci sono anche analoghe associazioni ebraiche?».
«Può essere sicuro che, se ci sono associazioni per qualcosa, ce ne sono
anche di ebraiche. L’analfabetismo, comunque, non è un problema ebraico».
Spinse verso di me l’assegno e il denaro.
«Facciamo cosí. Lei si informa su quali istituzioni ebraiche pertinenti ci
siano, qui o in Germania, e versa il denaro sul conto di quella che la convince
maggiormente. Può» rise, «se il riconoscimento è cosí importante, può
versare il denaro a nome di Hanna Schmitz».
Sollevò di nuovo il barattolo. «Io tengo questo».
12.
Nel frattempo sono passati dieci anni. Durante i primi anni che
seguirono la morte di Hanna, le vecchie domande continuarono a
tormentarmi: l’avevo rinnegata e tradita, ero stato colpevole nei suoi
confronti, ero stato colpevole di averla amata, avrei dovuto staccarmi,
liberarmi di lei, e come avrei dovuto fare? A volte mi sono chiesto se ero
responsabile della sua morte. E a volte ero furioso con lei per quello che mi
aveva fatto. Finché l’ira si smorzò e le domande persero il loro valore. Quello
che io ho fatto o non ho fatto e che lei mi ha fatto, è diventato la mia vita.
La decisione di scrivere la storia di Hanna e me, la presi subito dopo la
sua morte. Da allora la nostra storia si è scritta molte volte nella mia testa,
sempre un po’ diversa, sempre con immagini nuove, con brandelli di azioni e
pensieri. Cosí, oltre alla versione che ho scritto qui, ce ne sono molte altre. La
garanzia che quella presentata in queste pagine sia la versione corretta sta nel
fatto che io ho scritto questa e non le altre. La versione scritta voleva essere
scritta, le molte altre no.
All’inizio avevo deciso di scrivere la nostra storia per liberarmene. Ma
con questo proposito i ricordi non volevano riaffiorare in superficie. Poi mi
sono reso conto di quanto la nostra storia mi stesse sfuggendo, e scrivendola
ho cercato di riportarla indietro, ma anche questo non ha fatto emergere i
ricordi. Per alcuni anni l’ho lasciata stare, la nostra storia. Mi sono messo
l’anima in pace. E il ricordo è tornato, dettaglio dopo dettaglio, in un modo
circolare, chiuso e diretto, che fa sí che io non sia piú triste. Che storia triste,
ho pensato a lungo. Non che ora la ritenga felice. Ma penso che sia stata
raccontata in modo corretto e che domandarmi se sia triste o felice non abbia
alcun senso.
O perlomeno sono di questa opinione quando ci penso con animo
leggero. Ma se qualcosa mi ferisce, riemergono le ferite subite all’epoca, e se
mi sento colpevole, riemerge il senso di colpa di allora, e nel desiderio di
oggi, nella nostalgia di oggi, provo nuovamente il desiderio e la nostalgia di
allora. Gli strati della nostra vita poggiano l’uno sull’altro cosí vicini e
compatti che in quelli piú recenti, sopraggiunti dopo, incontriamo sempre
anche i primi, i piú lontani, non come qualcosa di concluso di cui ci siamo
liberati, ma ancora presenti e vivi. Lo capisco. Tuttavia a volte lo trovo quasi
insopportabile. Magari ho scritto la nostra storia perché volevo liberarmene,
anche se so di non poterlo fare.
Subito dopo il ritorno da New York versai il denaro di Hanna, a suo
nome, alla Jewish League Against Illiteracy. Ricevetti una risposta
automatica nella quale la Jewish League ringraziava Hanna Schmitz per la
sua donazione. Con la lettera in tasca, andai al cimitero. Fu la prima e ultima
volta che visitai la sua tomba.
Table of Contents
Trama
Autore
Collana
Frontespizio
Colophon
Prima parte
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
Seconda parte
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
Terza parte
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.

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