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ROSALBA NODARI (Pisa)

Identità ai margini: l’utilizzo del romanesco nella musica di consumo


contemporanea

1. Premessa

La città di Roma, come molti dei suoi rioni storici, vive di una romanità costruita dai discorsi
delle persone, discorsi su Roma che aiutano a costruire quel senso del luogo (Scarpelli /
Cingolani 2013) fatto di stereotipi, immagini impresse nella mente di ogni cittadino, parole la
cui ripetizione contribuisce a costruire una Roma che, lungi per forza dal suo essere vera1, ha
un suo diritto di cittadinanza nell’immaginario collettivo, come luogo pensato che viviamo
ogni qualvolta attraversiamo lo spazio urbano o siamo portati a riflettere sulla capitale e i suoi
abitanti. Roma, in quanto luogo “identitario, relazionale e storico” (Augé 1993: 60) è quindi
definibile come luogo antropologico, non solo spaziale, ma come materializzazione del
rapporto, a volte mitizzato, che i suoi abitanti hanno col territorio.
Di questi discorsi su Roma tutti noi ne abbiamo conoscenza e memoria, che siano stati
scansati come ovvi e banali, o che siano stati da noi evocati per parlare del carattere
tipicamente romano di qualcuno particolarmente pigro e accidioso2; dalle imprese di Meo
Patacca a Rugantino, passando per la Roma delle puncicate dei bulli – così popolari al di
fuori dei confini cittadini da essere rappresentati sullo schermo da un improbabile Celentano
nella pellicola di Corbucci “Er più, storia d’amore e di coltello” – molte immagini mitizzate
si rifanno a un idea di «romanità e trasteverinità canagliesche (Drento a Reggina Coeli c’è no
scalino / e chi nun sale quello nun è romano / e nun se po’ chiamà trasteverino)» (Scarpelli /
Cingolani 2013: 47), o di scanzonato e sguaiato menefreghismo, di disfemica cafoneria.

Del resto la storia del dialetto parlato a Roma – che sia romanesco o romanaccio (D’Achille /
Giovanardi 1995) – è anche la storia altalenante del suo prestigio. La situazione linguistica
della capitale, oramai abbondantemente indagata grazie ai numerosi studi condotti negli

                                                                                                               
1
Non è nostro interesse discutere della realtà degli stereotipi; essi, in quanto detti, assumono comunque un loro
valore e una loro realtà per coloro i quali costruiscono questi discorsi. cfr. Augé 1993.
2
Il riferimento è alla testimonianza di Aldo Fabrizi in merito alla romaneschità della Sora Cecioni, in D’Achille
/ Stefinlongo / Boccafurni 2012: 163.
ultimi anni sul romanesco e sulla varietà di italiano parlata a Roma3, è a tal proposito un caso
esemplificativo di come il concetto di status non sia una nozione lineare: appurata la nuova
vitalità del dialetto4 non solo nel parlato e soprattutto ben al di fuori dei confini del Grande
Raccordo Anulare (Stefinlongo 1999), si è assistito parallelamente a una costante e sempre
più inesorabile perdita di prestigio sul piano nazionale (D’Achille / Stefinlongo / Boccafurni
2012: 10) riguardante sia l’italiano regionale parlato a Roma5 sia lo stesso romanesco, tanto
da rendere oramai improbabile l’apprezzamento per la “bella e calda pronunzia romana» di
Bertoni e Ugolini (1939: 27).
Forse per la vicinanza della varietà romana di italiano col polo alto del continuum linguistico
italiano standard - dialetto, causa di quella “demotivazione normativa” illustrata da P. Trifone
(1992) che permette una risalita costante di tratti dialettali in bocca a parlanti colti anche in
situazioni formali6, forse in virtù dell’associazione fra la capitale e le istituzioni politiche che
ivi hanno sede, sempre più percepite come distanti dal cittadino e avvezze a un generale
malcostume (Serianni 1999), fatto sta che anche nella capitale stessa permane il giudizio di
un romanesco, icasticamente definito romanaccio, considerato lingua abietta e buffona e
visto più come una storpiatura di italiano sciatta e volgare associata ai coatti delle periferie7.
Le motivazioni di questo deprezzamento trovano giustificazione nelle vicende storiche della
capitale: quasi per vocazione città cosmopolita, anche prima della svolta linguistica
cinquecentesca la città vive un processo di smunicipalizzazione grazie alla presenza della
curia pontificia e a una consistente immigrazione della borghesia fiorentina che permettono il
realizzarsi di una koinè sopradialettale a base toscana, realizzando ciò che per altre regioni
italiane avverrà solo ben dopo l’unificazione nazionale. Così a Roma il dialetto non invade la

                                                                                                               
3
Per una bibliografia esauriente sull’argomento vedasi D’Achille / Giovanardi 2001; D’Achille / Stefinlongo /
Boccafurni 2012.
4
Tanto da aver permesso la coniazione dell’etichetta “romanesco di terza fase” (Bernhard 1992).
5
Valgano su tutti i risultati dell’indagine di Galli de’ Paratesi (1984) e Volkart Rey (1990), per cui la varietà
romana di italiano viene percepita come “scostante e bullesca”, “burina”.
6
Il cosiddetto “italiano de Roma”, brillantemente definito da Vignuzzi (1994).
7
Per quanto il romanesco sia ancora ben presente nel cinema italiano e trovi spazi anche in pellicole di un certo
valore artistico non sarà certo stato d’aiuto il proliferare sugli schermi di personaggi romani spesso ai limiti
della legalità (vedasi i cosiddetti cinepanettoni) o in ogni caso esponenti di quel modo di vivere del ma che ce
frega, al confine tra truffaldina simpatia, retorica dell’escamotage e allergia per il rigore delle istituzioni (basti
citare i numerosi film aventi per protagonista Nico “er pirata” Giraldi, egregiamente interpretato da Tomas
Milian, atipico commissario dai modi ben poco ortodossi e caratterizzato da un linguaggio ricco di turpiloquio
ed espressioni colorite).
sfera dell’intimo e del familiare di tutte le classi sociali, e mentre a Milano Manzoni utilizza
comunemente il dialetto nella comunicazione familiare a Roma si può parlare a pieno diritto
di una situazione diglottica: come esemplificato in De Mauro / Lorenzetti (1991: 329), il
romanesco rimane «un’idioma per sguaiati nei momenti di sguaiataggine». La divaricazione
tutta sociale tra l’italiano parlato dal cosiddetto “generone” e la lingua del popolino belliano
ha permesso comunque una diffusione sempre più massiccia del dialetto della capitale, grazie
innanzitutto a mezzi di comunicazione di massa come cinema, radio e televisione, e alla
riappropriazione del dialetto da parte dei più giovani, i quali deliberatamente attingono al
dialetto come a un qualsiasi altro oggetto culturale per permettere la costruzione delle proprie
identità linguistiche e sociali.

2.Dialetto e musica

Se, come fa notare De Mauro in Borgna 1985, la canzone italiana ha avuto un ruolo
importante nel far conoscere e diffondere l’italofonia (grazie soprattutto alla massiccia
presenza della musica leggera nella radio prima e nella televisione poi), sarà altresì
significativo considerare la presenza del dialetto nella produzione musicale italiana come
riflesso di meccanismi sociolinguistici quali prestigio linguistico, stile o costruzione di
identità più o meno locali.
Già nella stagione del boom della musica leggera – gli anni ’50 / ’60 dei primi Festival di
Sanremo trasmessi alla televisione –da un lato fa capolino la canzone napoletana, vero
fenomeno carsico che tende ad affiorare sulle superfici mediatiche grazie a figure del calibro
di Roberto Murolo e Renato Carosone, dall’altro cominciano a comparire sul mercato
musicale dischi che attingono al dialetto milanese, come La Milano di Enzo Jannacci nel
1964 o gli esperimenti dialettali-cabarettistici de I Gufi di Svampa. Non sono però certo solo
questi i due canali attraverso i quali il dialetto entra prepotentemente nella storia della
canzone italiana. Esso ha, per accedervi, due vie privilegiate: da un lato il recupero della folk
song, nato in Italia sulla scia delle esperienze americane di Leonard Cohen e Bob Dylan,
considerato come tentativo colto di rinverdire la lingua della canzone italiana con l’utilizzo di
un codice altro8, dall’altro un fenomeno nuovo, ovverosia l’utilizzo del dialetto da parte di
gruppi rap. In quest’ultimo caso il dialetto non è più una scelta colta, bensì diventa l’unico

                                                                                                               
8
Vedi l’uso del genovese di De Andrè in Crêuza de mä e il napoletano piegato alle esigenze blues di Pino
Daniele (Coveri 1987).
codice disponibile in grado di narrare le esperienze quotidiane di gruppi molto spesso ai
margini della società. Dall’arrivo del rap in Italia sul finire degli anni ’80, con i primi
tentativi dei Radical Stuff di stare al passo con la realtà americana di Afrika Bambaataa,
Sugarhill Gang e Treacherous Three9, sarà sufficiente attendere solamente una decina di anni
per veder affiorare nel panorama discografico i primi gruppi rap italiani che scelgono
deliberatamente il dialetto10. Data la natura del rap, tutta sbilanciata verso l’oralità, la scelta
non sorprende: per molti gruppi rap l’utilizzo del dialetto non è infatti solo utilizzo del codice
usato quotidianamente, del we-code della sfera intima e familiare, ma è molto spesso
recupero attivo di termini desueti, sentiti magari di sfuggita in bocca alle generazioni più
anziane11.

Il lavoro quivi presentato ha scelto proprio per le ragioni indicate poc’anzi di concentrarsi su
alcuni gruppi di musica popolare12 della capitale che possano rappresentare al meglio i due
filoni sovra menzionati attraverso i quali il dialetto si è fatto strada nel panorama musicale: a
testimoniare la cultura hip-hop ci sarà in prima linea il collettivo TruceKlan13, seguito da
Colle der Fomento, Gente de Borgata e Broken Speakers, mentre ad Ardecore e Muro del
Canto il ruolo di portavoce della scena folk-rock capitolina.
I numerosi testi sono stati spogliati per verificare quali fossero i temi principali narrati nelle
canzoni, i riferimenti culturali, la lingua utilizzata. Per verificare la presenza di tratti fonetici
e morfosintattici ascrivibili al romanesco si è scelto di avere come riferimento la lista
presente in D’Achille / Giovanardi (1995), con eventuali rimandi a P. Trifone (2008) e a

                                                                                                               
9
Tanto da portare i Radical Stuff, comunemente considerati uno dei primi gruppi hip-hop italiani, a scegliere
l’inglese per le loro prime composizioni musicali.
10
Solo per citarne alcuni: i napoletani Co’Sang e il rapper Clementino, i salentini Sud Sound System, il
calabrese trapiantato a Roma Turi, i romani Villa Ada Posse e Colle der Fomento.
11
Imprescindibili i riferimenti a Cartago 2003, Scholz 2005.
12
Si è preferito utilizzare il calco dall’inglese “popular music” piuttosto che scegliere un termine molto più
ambiguo e difficilmente utilizzabile per il rap come “musica leggera”. Per una disamina sull’argomento Fabbri
(2008).
13
Il collettivo TruceKlan nasce attorno al 2005 e ha come membri di punta i rapper Noyz Narcos, Metal Carter,
Gel e Cole, affiancati dai membri del collettivo-gemello In the Panchine, Gemello, Chicoria, Benassa e Cole.
Nel corpus analizzato si è scelto di concentrarsi principalmente sui testi dei due album del collettivo In The
Panchine (In the Panchine 1 e 2), affiancandoli ad altri brani dei membri del collettivo TruceKlan. Il posto
d’onore riservato all’esperienza del TruceKlan è stato deciso tenendo in considerazione la fama raggiunta a
livello nazionale, che ha permesso al rap della capitale di uscire dai confini del Grande Raccordo Anulare.
Loporcaro (2009); di contro, gli aspetti lessicali e fraseologici hanno giovato del confronto
con Chiappini (1933); Rolandi (1945); Ravaro (1994).
Si è preferito trattare separatamente i due diversi generi musicali, non fosse altro per le
diverse considerazioni linguistiche necessarie di fronte ai testi rap, i quali risultano
interessanti non solo da un punto di vista prettamente dialettologico ma linguistico tout court,
per la ricchezza lessicale di cui sono pregni. V’è inoltre da tenere in considerazione lo stretto
rapporto che intercorre tra i testi de Il Muro del Canto e Ardecore e la storia musicale romana
e italiana: i dischi degli Ardecore vivono infatti non solo di pezzi propri, ma di riproposizioni
di vecchi stornelli, intessendo così un proficuo rapporto dialogico con la Roma cantata da
Alvaro Amici e Lando Fiorini. Stesso discorso vale per Il Muro del Canto, i quali attingono
non solo da un patrimonio collettivo capitolino, ma decidono di piegare al romanesco brani in
italiano o in altri dialetti.
In seguito si tenterà di fornire un’interpretazione congiunta che provi a spiegare le ragioni
della scelta del codice come costruzione di specifiche social personae. Si proveranno a
considerare le diverse esperienze musicali come discorsi che contribuiscono a costruire una
Roma immaginaria, e le scelte linguistiche saranno viste come contribuenti alla creazione di
nuove identità localmente costruite in un mondo post-industriale, attraverso una
consapevolezza metalinguistica dei tratti linguistici.

3. Folk de Roma

Cantautori di quelle che potremmo definire come “murder ballads de noantri”, Il Muro del
Canto e gli Ardecore 14 sono tra i gruppi musicali più noti nella capitale, animatori di
numerosi eventi musicali in spazi pubblici e privati, dedicatari di una copertina sul noto
mensile musicale Blow Up15 nonché vincitori della targa Tenco (Ardecore) per la migliore
opera prima con il full-lenght Chimera, uscito nel 2007. I testi dei due full-lenght de Il Muro
del Canto16 sono originali e frutto degli sforzi congiunti del cantante Daniele Coccia e del
batterista Alessandro Pieravanti; fanno eccezione solo due cover-traduzione, E intanto er sole
se nasconne di Stefano Rosso e Malarazza di Domenico Modugno, con l’aggiunta di una

                                                                                                               
14
Il cui stesso nome può essere interpretato come un gioco linguistico tra il termine “hardcore” e il romanesco
“arde core” ‘arde il cuore’.
15
Numero dedicato proprio al folk rock capitolino, con un interessante articolo di Federico Guglielmi dedicato a
BandaJorona, Muro del Canto, Mannarino, Ardecore e AveAò.
16
L’Ammazzasette, 2012, Ancora Ridi 2013.
cover eseguita dal vivo de Le Mantellate. Diverso discorso per gli Ardecore, i quali
esordiscono nel panorama musicale italiano con un full-lenght composto esclusivamente da
arrangiamenti di grandi classici della tradizione romana17 (Madonna dell’Urione, Barcarolo
romano, Tango romano). Le due opere successive instaurano diversamente un discorso più
complesso, affiancando brani scritti di proprio pugno in italiano (Miniera, Parole
controvento, Quel ritmo americano) a riproposizioni di vecchi canti popolari di area toscana,
non semplicemente tradotti in dialetto romanesco ma a volte sottoposti a veri e propri innesti,
come in M’affaccio alla finestra:

me so’ state donate tre viole


le s'ho messe sotto ar capezzale
tutta la notte ho sentito l'odore
tutta la notte ho sentito l’odore18
m'hai messo le catene
nun posso più campà19

I temi cantati rientrano a pieno titolo nella tradizione di una romanità sanguigna, fatta di
storie d’amore tormentate, di povertà, fame e anticlericalismo. E’ soprattutto il Muro del
Canto a farsi portavoce di questa romanità ai margini, erede di un’immagine in bianco e nero
che tanto deve all’immaginario pasoliniano di Mamma Roma20 o di Accattone, tanto che il
titolo stesso del loro primo album, L’ammazzasette, rimanda a una figura smargiassa e
spaccona, capace di uccidere addirittura sette uomini. E’ il tema dell’amore infelice e
maledetto a farla da padrona («l’hai crepato sto cor de leone / giusto er sole mo c’ha pe’
padrone», Il Muro del Canto, Serpe ‘n seno; «m’hai fatto ‘n maleficio bello e bono / e mo’

                                                                                                               
17
I due gruppi parrebbero a tal proposito utilizzare strategie retorico-musicali opposte ma convergenti verso uno
stesso risultato: da un lato riarrangiamenti in chiave post-rock e free-jazz per testi preesistenti e storicamente
legittimati per gli Ardecore, di contro a un armamentario musicale molto più folk, con fisarmonica e violino, per
i testi del Muro del Canto, i quali giustificano così il loro essere ancorati a una visione tradizionale di Roma,
sebbene i loro testi trattino temi quanto mai attuali quali gli allagamenti a cui è soggetta oramai sempre più di
frequente la città (Canzone bagnata) o l’espandersi inarrestabile in quell’hinterland romano che Belli chiamava
“er deserto” (Palazzinari).
18
«M'è stato regalato tre viole / me le son messe sotto il capezzale / Tutta la notte ho sentito l'odore»
(Tommaseo 1841).
19
Verso di una vecchia canzone della campagna romana, resa famosa da Gabriella Ferri.
20
Mamma Roma Addio è anche il nome di una compilation che vede partecipi Ardecore, Il Muro del Canto,
Bandajorona accanto al poeta-simbolo Remo Remotti; significativamente, la copertina del disco riporta un
ritratto di Anna Magnani.
me guardi e ridi e sei contenta / ma quanno che guarisco statte attenta / che ‘r male ch’uno fa
se ripresenta», Il Muro del Canto, Maleficio), accanto a un tema fortemente legato alla Roma
papalina, quello dell’insofferenza per gli esponenti del clero («Zi’ prete sta bene ndo sta /
regge er gioco de sua santità / fanno mostra de bona virtù / fanno a gara a chi magna de più»,
Il Muro del Canto, Chi mistica mastica21).
Linguisticamente i due gruppi si mostrano diversamente fedeli ai tratti dialettali ascrivibili al
romanesco: come già detto, i testi originali degli Ardecore sono in italiano e, nel caso in cui
decidano di utilizzare il dialetto, attingono a elementi definiti, a blocchi dialettali già pronti
da inserire a proprio piacere nel tessuto linguistico della canzone. La scelta originale
predilige anzi un certo tipo di italiano ben lontano dal dialetto, venato di lirismo e di tentativi
di tono aulico («Allor che in ogni bettola messicana / danzano tutti al suono dell'havajana /
vien da lontano un canto così accorato / è un minatore bruno laggiù emigrato», Ardecore,
Miniera). La riproposizione di stornelli dalla storia centennale rende invece possibile agli
Ardecore ottenere una patente indiretta di romanità: il dialetto non è mai presente nei testi
originali, mentre lo è originariamente nei riarrangiamenti. Questi tuttavia non sono sempre
pedissequi, tanto da lasciare intravedere operazioni linguistiche che vanno a sostituire tratti
del romanesco oramai obsoleti, come la metatesi («so stato dentro e tu sai la raggione»,
Madonna dell’Urione, di contro al “drento” cantato ad esempio da Alvaro Amici in Fior de
limone) o il plurale in velare “amichi”, abbandonato per un più standard “amici” («d’amici e
da parenti abbandonato», Come te posso amà, in opposizione alla forma “amichi” cantata da
Lando Fiorini); di contro, altre volte l’operazione predilige scelte più fedeli, mantenendo
tratti come lo scempiamento di –LL- non solo nelle preposizioni («lupo alegro cantava»,
Ardecore, Lupo de fiume).
Per proseguire nell’analisi linguistica, ci si soffermerà ora su alcuni fenomeni considerati
particolarmente rappresentativi della varietà bassa del continuum linguistico dialetto 22 –
italiano, riproponendosi di affrontare il discorso con maggiori dettagli in una sede successiva.
Sul versante del vocalismo risultano così ben attestati il monottongo /ɔ/ per il dittongo /wɔ/23
(«fosse la vorta bona che te liberi de me», «e a mezzanotte er core ce ristora» MDC24), il
                                                                                                               
21
Il titolo rimanda a un sonetto belliano, Chi mmistica mastica.
22
Verranno indicati indistintamente esempi tratti sia dai testi del Muro del Canto, sia degli Ardecore i quali,
sebbene come già detto ripropongano testi preesistenti, non sono mai passivi di fronte al testo stesso.
23
Tanto da essere l’unica forma attestata per il Muro del Canto, nei cui testi non si riscontra mai la presenza
delle forme dittongate.
24
MDC = Muro del Canto; A = Ardecore.
passaggio di /a/ postonica a /e/ nei proparossitoni («li primi mesi passeno e le speranze come
fiori sbocciano», A; «te tocco e me s’addormeno le mano», MDC), la chiusura di /o/
protonica in /u/ («me chiamo nun me fido de nessuno», A; «er vino nostro nun costa ‘n
cazzo»; «nun temo morte né l’ira de dio», MDC). Per il consonantismo molto frequente
l’assimilazione di –ND- in /nn/ («e quanno morta me vedrai passane25», A; «se venne i panni
e magna l'insalata», funzionale anche in sede rimica «scopro la guardia nun m’ho da difenne /
si sto co te me posso arenne», MDC) di contro all’assimilazione di –LD- in /ll/, la cui unica
forma attestata (“«sta voce s'è scallata alla bon'ora», MDC) è pienamente concorde con la
situazione del romanesco odierno, nel quale resiste soltanto l’isolato [kal:o] ‘caldo’ e derivati
(Trifone 2008; Loporcaro 2009); sono inoltre presenti il rotacismo26 di /l/ preconsonantica
anche per l’articolo determinativo («e tu la madonnella sull’artare», «nasceva un pupo bello
come er sole», A; «l’amore passa pure dar cortello», «de nascosto m’hai dato er veleno»,
MDC), lo scempiamento della vibrante /r:/27 («te ne vorebbe dà de pene amare», A; «cori
dritto da mi’ moje», «je conti l'ossa quanno ce sta er sole / la fame co' la fiacca lo rincore»,
MDC, con un’assonanza in sede rimica permessa proprio dalla vibrante scempia) e della /t:/
nell’unica forma “mattina” («io già l’ho risolate stammatina», A; «la matina quann’è lunedì»,
MDC), di contro al rafforzamento di /m/, specie in postonia («io già l’ho risolate
stammatina», A); forme con nasale palatale del tipo “magnà” («nun piagne amore mio nun
piagne amore», A; «è troppo tempo che nun magno gnente / me magnerei 'na cinta de
serpente» MDC). Stupisce invece l’assenza di un fenomeno relativamente recente, la
cosiddetta “lex Porena” (Marotta 2002-2003; Sorianello / Calamai 2005), considerato un
tratto linguistico in espansione anche nell’italiano medio colloquiale di Roma; al suo posto si
possono solo segnalare alcuni casi di scempiamento delle preposizioni articolate («a la
matina presto», «ar museo de le cere», MDC).
Sul versante morfologico, presente in abbondanza la forma “li” per indicare l’articolo plurale,
considerata in recesso [Trifone (2008), «fatte li panni e rivà da mamma», MDC], la
congiunzione “si” per “se” («sinnò me moro», A; «ma si te sei ‘mpiccata», «si sto co te»,
MDC); tra le forme verbali, attestate le forme del presente in –amo, -emo, –imo
                                                                                                               
25
Il verso è da considerare una traduzione ibrida di un canto popolare attestato in area toscana e presente nella
raccolta Tommaseo (1841).
26
Ascrivibile alla varietà media secondo D’Achille / Giovanardi 1995, diversamente in P.Trifone 2008 viene
collocato nell’estremità più bassa del repertorio. In questa sede si è preferito considerare il tratto per verificare le
conclusioni presenti in Marotta 2005, nelle quali si riporta come il tratto sia in recesso.
27
Vale per lo scempiamento la stessa considerazione riguardante il rotacismo presente nella nota precedente.
(“rincontramo”, “dovemo”, A; “sembramo”, “restamo”, “vivemo”, “confonnemo”, MDC),
“famo” per ‘facciamo’ («nun famo tante storie» MDC), “semo”, “sete” per ‘siamo’, ‘siete’
(«semo almeno cinquecento», «ma quanto sete brutti» MDC), la forma in –ebbe per la prima
persona del condizionale presente («te ne vorebbe dà de pene amare», A; «io je direbbe
grazie santo padre», MDC). Interessante è anche il versante della morfologia derivativa, con
numerose attestazioni di forme prefissate in ari- («chi c’ha le scarpe rotte l’arisola», A;
«aridateme li sordi», “e cristo j’arisponne da la croce», MDC), alterati in –one (“palazzone”
MDC), peggiorativi in -accio (“cortellaccio”, “poraccia”, A; “arberacci”, “feraccio”,
“manaccia”, “bojaccia”, MDC) e diversi suffissati in –erello, in controtendenza rispetto al più
romano –arello (“brillerella”, “giocherello”, MDC).
Un discorso a parte, e più approfondito, meriterebbe la sintassi: mi limiterò a riportare
cursoriamente alcuni fenomeni, come la reggenza verbale del tipo avere da + infinito (« te
l’ho da dì prima de sera», «nun m’ho da confessà», MDC), l’uso del che polivalente come
rafforzativo di un’altra congiunzione, tratto tipico dell’italiano popolare sovraregionale («ma
quanno che guarisco statte attenta», «ma quanno che m’hai visto da vicino», MDC),
l’oscillazione dell’ausiliare essere / avere come nei tempi composti [Loporcaro (2009), «me
l’ho legato ar dito ‘sto giorno ‘nfame», MDC).
Per il lessico si notino scelte come la forma oramai entrata nell’italiano abbozzà ‘sopportare
con pazienza’ (MDC), ‘ntendere («t’ho ntesa dì parole che nun sai», MDC), gabbio (MDC),
baccajà ‘gridare, vociare strepitosamente’ (MDC), capoccella (A), o parole oramai uscite
dall’uso che ritornano aa fare capolino grazie agli Ardecore come mannataro ‘ecclesiastico
appartenente alle confraternite di Roma con il compito di raccogliere il denaro necessario per
le processioni’, minente ‘persona di estrazione popolare’, berta ‘tasca, sacchetta’. Altrettanto
ricca la fraseologia, con espressioni tipicamente romanesche come all’arberi pizzuti (MDC),
er più pulito c’ha la rogna (MDC), pijà d’aceto, avecce na mano davanti e l’artra dietro
‘essere completamente rovinato, senza più un soldo’ («’sta Roma derelitta pija d'aceto / 'na
mano c'ha davanti e l'artra dietro», MDC).
In conclusione entrambi i gruppi si mostrano estremamente fedeli a quei tratti tipici del
romanesco più diastraticamente connotato, che ben contribuisce a rappresentare una romanità
popolana e sanguigna; la presenza di questi tratti nei testi del Muro del Canto permette inoltre
di considerare come il romanesco sia quanto mai vivo e possa assolvere sia a quella funzione
lirico-espressiva28 individuata da Coveri (2012), sia a una funzione più decisamente “etnica”
di riscoperta e riappropriazione identitaria (Sottile 2013).

4. E’ rap romano

Presente nel panorama musicale da oramai quarant’anni, nata nei ghetti degli Stati Uniti e
diffusasi poi rapidamente in tutte il mondo, da diversi anni la cultura hip-hop è stata fatta
oggetto di studi da parte dei sociolinguisti (Cutler 2007, Pennycook 2007; per il panorama
europeo e italiano in generale Androutsopoulos / Scholz 2002, 2003; Scholz 2005).
Espressione più genuina di una forma di cultura orale, il rap è un fenomeno espressivo che
nasce nel ghetto per dare voce ai più marginali, un tentativo di utilizzo della voce come
“presa di parola” (Depaoli 1996), grazie alla sua prosa ritmata che permette uno
sbilanciamento tutto verso il messaggio, posto sempre in primo piano.

L’appropriazione dell’hip-hop al di fuori dei confini americani è stata interpretata da


Androutsopoulos / Scholz (2003) come un processo di “reterritorialization”, ovvero
l’integrazione di un modello culturale specifico in un nuovo contesto sociale e geografico:

“an indigenized cultural pattern is integrated into the artistic repertoire of the host society, and,
as a consequence, it is not felt to be “alien” anymore. Although there is an awareness of its
foreign origin, and some of its structural elements may not change substantially, the pattern is
now appropriated as a native form of expression” (Androutsopoulos / Scholz 2003: 7)

Questa migrazione culturale comporta la necessità di giustificare la propria appartenenza a un


mondo specifico. Il concetto di autenticità, fortemente radicato nella cultura hip-hop, è una
costruzione complessa che riguarda soprattutto una prossimità socio-economica e culturale al
mondo della strada e del ghetto, territorio d’elezione nel quale nasce l’hip-hop stesso (Cutler
2007: 529): ne consegue che i rapper di altre nazioni dovranno fare leva su strategie
prettamente locali per risultare credibili. E poiché il rap americano parla AAE29, la lingua del
rap d’oltreoceano dovrà attingere necessariamente alle proprie varietà regionali, sociali,
etniche presenti nel repertorio sociolinguistico della comunità d’appartenenza.

                                                                                                               
28
Così si esprime in un’intervista rilasciata su Blow Up di novembre 2013 il cantante del Muro del Canto
Daniele Coccia: “Il romano è diretto e semplice, e in più dà l’opportunità di scrivere senza porsi chissà quanti
problemi sulla terminologia e sulle sfumature come invece accade con l’italiano. Con il romano l’anima mi esce
fuori meglio”.
29
‘African American English’.
Da qui deriva il tentativo di analizzare, così come si è fatto per la scena folk-rock, la scena
hip-hop romana, per verificare quali siano le strategie linguistiche messe in gioco dai rappers
della capitale per costruire una specifica identità linguistica e farsi portavoce di «una musica
che si pone in alternativa a quella istituzionale» (Scrausi 1996: 298).

Una strategia retorica molto diffusa di localizzazione nello spazio urbano è la consuetudine
diffusa di utilizzare l’odonomastica, la quale molto spesso diventa costitutiva di intere
canzoni. Si tratta principalmente di elencazioni di quartieri romani, o di zone ancora più
specifiche come nomi di bar o di locali della capitale («al Brancaleone all'ombrellopoli e in
saletta», «Carmelo Anthony da Remix che compra dischi usati»; ITP30) che permettono di
ricostruire una geografia virtuale e di enfatizzare la realtà cantata ancorandola a uno spazio
reale. Discorso analogo può essere fatto per una scelta simile e presente in percentuale
elevata, ovvero l’insistito richiamo, sia nel titolo sia nel testo, al nome della città, Roma («I
live in Roma where Venditti say grazie, where roman say lazie and police make disgrazie»,
ITP; « live da zoo de Roma, te spiego n'attimo come funziona», NN, «Roma dentro ogni
borgata devastata dal cemento», CDF). Così ad esempio in Chicoria (dirty) dove la geografia
dello spaccio è costituita da una lunghissima elencazione di quartieri e luoghi simbolo della
capitale:

l'inferno al tempo odierno lo trovi là fuori lì dietro da s. Pietro a Bastoggi da Parioli a Walter
Tobagi dimmi dove cazzo abiti valle Aurelia Bravetta Casilino Prenestino la città intera
Magliana Portuense Pisana Monteverde Trastevere non c'è più tempo da perdere Campo di
Fiori er Pantheon rione Monti Salario Monte Mario Tiburtino terzo tutti fuori per il giusto
prezzo Torbella Tore angela via d’a Majanella aspetta non è completa Eur Tor Carbone Morena
il Serpentone via Veneto Ostia Roma centro.

L’intertestualità tipica dei testi rap permette inoltre di osservare interessanti crossover
culturali attraverso riferimenti31 sia alla cultura d’oltreoceano, rappresentata principalmente

                                                                                                               
30
ITP= In the Panchine; CDF = Colle der Fomento; GDB = Gente de Borgata, NN = Noyz Narcos.
31
“[…] cultural references are particularly appropriate in order to show the rappers' affiliation with specific
socio-cultural contexts. In their totality they create a complex reference system or "cultural horizon" which
includes the discourse traditions of both the broader community and the hip-hop scene. The main feature of this
cultural horizon is its hybrid character, composed of both US and European orientations” (Androutsopoulos /
Scholz 2002: 21).
dal cinema, dalla musica (hip-hop e non solo) e dal mondo del basket, sia a concetti quanto
mai quotidiani ed estremamente locali come riferimenti a figure locali quali cantanti, politici,
personaggi popolari, o a marche di prodotti commerciali, veri e propri collage massmediali
ritratto istantaneo del mondo contemporaneo (Scrausi 1996: 349); il discorso può essere
esteso anche ai campionamenti sia musicali sia di altro materiale audio, i quali possono
pagare tributo alla scena rap americana o risultare quanto mai creativi nel riutilizzo di
materiale sia italiano sia tipicamente legato a Roma.
Un posto di riguardo va assegnato alle citazioni provenienti dai droga-movie rappresentati al
cinema da pellicole come “L’Imperatore di Roma” e “Amore Tossico”: verso questo ultimo
film il TruceKlan paga più volte il suo debito nei confronti della Roma della marginalità,
disseminando riferimenti più o meno velati nei suoi testi («er pusher più trucido Mariuccio de
Amore Tossico / l’anni 70 co ‘na spada tra ‘e braccia conficcata […] Cesare e compare usciti
dal Sert vonno i sordi pe ‘l dessert» Deadly Combination).

Globale Locale
«How to kill a cop, Kill Bill e un cristo in «er pusher più trucido Mariuccio de Amore
croce» (Deadly Combination) Tossico» (Deadly Combination)
«fottiti stronzo, fire walk with me» (In the «Umberto Lenzi kill your divi esclusivi» (In
panchina) the panchina)
«Hemingway suicide with a cannonata» (Non «a palazzo Marrazzo ha il vizio del cazzo»
ti conviene) (Non ti conviene)
«tu te pensi tarantino io so Sergio Leone» «porto Pasquino, Rugantino e pure er Meo

(Sergio Leone) Patacca» (Vox Populi pt. 2)

ITP dream team e questa è la conferma «we do cocaine song like Califano» (Mr. G)
(Double dragon)
Sample del film "Clockers" di Spike Lee Sample di Accattone (Ghetto Chic)
(Intro In the Panchine 2)
Sample di “The Insurance Company” di Isaac Sample di Voci dal Nulla di Fabio Frizzi
Hayes (Accannace) (Vorebbero)

L’attenzione alla lingua utilizzata è fatta spesso oggetto di riflessione espressa ad alta voce: la
scelta di cantare nel codice della quotidianità viene ribadita più volte nei testi nel corpus e
presentata a pieno titolo come scelta dal valore oppositivo, tanto da accennare in un testo all’
«l'italiano che vi rende schiavi» (ITP) e al fatto che «my people speak dialetto nel localetto»,
perché «noi non ci capiamo se parliamo in italiano» (ITP). La facies romana dei testi qui
presentati riserva però delle sorprese: all’interno del corpus i brani rap sono infatti quelli che
risultano più variabili, alternando esiti romaneschi con esiti prettamente italiani. Valgano su
tutti i casi di assimilazione, i quali alternano parimenti con esiti non assimilati («scenno da
casa mia» vs. «tu seguici fino a quando c'hai le gambe stanche», ITP, «tutto può esse a 'sto
mondo», GDB), il monottongo /ɔ/ per il dittongo /wɔ/ («ghetto chic, nuova hit, cuore più
cervello» vs. «pe’ tutte le spine che m'hai messo in petto e nel core» CDF), o la
rotacizzazione di /l/ preconsonantica («c'ho il coltello in tasca e lo tengo stretto» vs. «e un
cortello a farfalla nella tua pancia» NN); più costanti invece i tratti ascrivibili al cosiddetto
“italiano de Roma”, come la lenizione delle occlusive sorde intervocaliche /p, t, k/, funzionali
spesso anche alla rima32 («'sta merda è misti[g̊ ]a e ti istiga», «amiga […] / […] mi[g̊ ]a», ITP),
lo scadimento della laterale palatale a jod, solitamente scempia (“ta[j]one”, “mi[j]oni”, “f[i]a”
‘figlia’, “ta[j]erino”), casi di lex Porena («fori daa classe», ITP «A voce der popolo» ‘la voce
del popolo’ GDB).
Discorso a parte merita il lessico, buona parte del quale deriva dal linguaggio giovanile, sia di
area romana (accannà, a palla, scrauso, steccare, fissa, scoattare) sia di area panitaliana
(benza, tipe, fighe) e dal gergo della droga (borbuka ‘tipo di hashish’, spada ‘siringa’, pusher
‘spacciatore’, brown ‘tipo di eroina granulosa dal colore scuro’, dose ‘sballo’, pippare
‘sniffare’).
Il debito linguistico nei confronti dell’inglese è invece pagato attraverso operazioni ben più
complesse: oltre alla presenza dei termini citati nella tabella e di termini tipicamente
ascrivibili alla sfera hip-hop quali flow, biz, homiez, crew, gang, nigga i testi del collettivo
ITP compiono un’operazione ben più complessa, ribadita più volte nei testi (try to copy my
mezzo inglese; we mix imprese with inglese), la quale consiste nel creare dei veri e propri
enunciati mistilingui nei quali italiano e inglese tendono ad incastrarsi in veri e propri
ircocervi, spesso con esiti comici causati dalla pronuncia quanto mai italiana33 («god bless till
my [mi] cuore si ferma, do shopping by the zingari roulotte [ru’lɔt:e]»). Diversamente dai
casi in cui prestiti dall’inglese vengono inseriti in una struttura sintattica italiana, nei testi di
ITP avviene quasi sempre il procedimento inverso, facendo sì che siano parole italiane a
inserirsi in cornici di una lingua altra («in the Audi too fast for polizia show me paletta I
disappear», «I stolen the piante down in the sgabuzzino»; «better than carabiniere, fuck the
                                                                                                               
32
Contrariamente a quanto riportato in Marotta (2005), nei nostri testi il tratto riguarda quasi esclusivamente
l’occlusiva sorda velare /k/.
33
Difetto non riconosciuto dallo stesso rapper G-mellow, il quale in un verso ricorda «quei poracci che c'hanno
da ridire sul mio inglese».
piedipiatti, never do the spia, 'cause I kill you mentecatti»); a volte l’effetto è potenziato
grazie all’inserimento di parole provenienti dal romanesco («so never say goodbye say addio
a 'sti pischelli») o creando effetti ludici che ricordano gli esperimenti di Turbozaura («today
the blondie Tevere scent like the best Tamigi, c'ho le doglie and Nomentana valley seems
Parigi», «I live in the maroccan block Hundred gates spot»).
Per concludere l’analisi sul rap, si può notare come sebbene il mondo raccontato nei nostri
testi sia quello delle borgate, il lessico, la lingua non sono quelli dei giovani delle borgate
raccontati in Giovanardi (1993), il cui linguaggio si configurava come “una varietà urbana,
fortemente demotica, immune dall’influenza dei forestierismi, dei linguaggi settoriali (a parte
la terminologia motoristica) e del linguaggio radio-televisivo. La povertà del vocabolario
limita le capacità espressive e creative dei giovani e, al tempo stesso, li induce a servirsi […]
di materiali linguistici in qualche modo familiari” (Giovanardi 1993: 71). E contrario, i nostri
testi mostrano di attingere a diversi serbatoi linguistici, che siano inglese, dialetto o italiano e,
attraverso sapienti manipolazioni dei diversi codici, riescono ad attribuirsi una patente da
abitanti del ghetto che nulla a che spartire con il linguaggio impoverito di chi non può salire a
proprio piacimento la scala sociolinguistica del repertorio italiano – dialetto.

5. Conclusioni

Come strumento per la comunicazione quotidiana, parlare può essere visto come una pratica
sociale che permette di analizzare, interpretare categorie, gruppi e persone; le variabili
occorrono infatti come componenti dello stile, e interpretare queste variabili ci permette di
comprendere il significato sociale delle forme linguistiche (Eckert 2008). La scelta di un
determinato stile, così come la scelta materiale di ciò che indossiamo ci permette quindi di
posizionarci all’interno dello spazio sociale, performando delle identità che sono
continuamente contrattate e co-costruite nell’interazione quotidiana.

Attraverso l’uso ripetuto, forme linguistiche e particolari stili vengono con il tempo associati
a determinate categorie di persone, luoghi, scopi, in un processo definito da Silverstein
(2003) “indexicality”. Un determinato modo di parlare diventa così indicatore non più solo di
una determinata provenienza geografica, ma di un vero e proprio modello culturale dell’agire,
contribuendo così a diffondere quello che viene comunemente definito uno stereotipo:
l’indessicalità cioè si riferisce all’associazione tra forme e utilizzo tipico, contesto d’uso e
parlanti modello. Ciò normalmente avviene quando un determinato numero di fenomeni
linguistici diatopicamente differenziati non si limita più a indicare la provenienza geografica
del parlante, bensì in un primo momento passa ad indicare determinati gruppi sociali con le
loro caratteristiche, per poi compiere un ulteriore passo in avanti e arrivare a identificare
l’autentico parlante regionale, o locale (Johnstone 2005). Questo processo può compiersi
ovviamente a diversi livelli, riguardando sia stereotipi ampiamente noti e diffusi, sia pratiche
estremamente locali, e contribuisce al processo definito da Agha (2003) “enregisterment”,
ovvero «a process whereby distinct forms of speech come to be socially recognized (or
enregistered) as indexical of speaker attributes by a population of language users».

Questi concetti ci permettono quindi di interpretare le diverse scelte stilistiche degli artisti del
nostro corpus come degli specifici atti identitari: attraverso la sua storia turbinosa di
acquisizione e perdita di prestigio, il romanesco è diventato un codice disponibile per narrare
identità borderline – da un lato l’identità ai margini del ghetto, della criminalità e dell’utilizzo
di sostanze stupefacenti veicolata dal rap, dall’altro un’identità ai margini della subalternità e
della romanità pasoliniana. Il tutto da intendersi ovviamente come un atto performativo, di
chi sceglie deliberatamente di narrare la vita delle borgate e della Roma più oscura,
effettuando così delle strategie retoriche, delle vere e proprie mosse di posizionamento
attraverso le quali aderire cioè al dialetto significa cioè aderire all’immagine del luogo,
contribuendo così ad alimentare un determinato tipo di stereotipo già ampiamente circolante.
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