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Copertina

Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton


Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Collana

98
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Colophon
Titolo originale: Escape the Diet Trap
Copyright © John Briffa 2012
Traduzione dall’inglese di Michela Gregoris e Valeria Pazzi
Prima edizione ebook: giugno 2012
© 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4433-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it
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Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Frontespizio
Dr. John Briffa

Dimagrisci subito mangiando


Perdi peso senza contare calorie, senza esercizi faticosi e senza soffrire la fame

Newton Compton editori

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Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Avvertenza

Questo libro propone alcuni metodi per perdere peso che potrebbero non essere adatti a tutti.
Bisognerebbe sempre consultare un medico professionista prima di intraprendere una dieta
finalizzata al dimagrimento o nel caso vi siano dubbi sul proprio stato di salute. I contenuti qui
esposti hanno scopo meramente informativo e non sono mirati a soddisfare necessità e bisogni
individuali. Niente di ciò che è indicato in queste pagine deve essere considerato alla stregua di
un consiglio o di una diagnosi medica. Le attività descritte non devono essere intese in nessun
caso come sostitutive di trattamenti o cure prescritti o raccomandati da medici professionisti.
L’autore e gli editori non sono in alcun modo responsabili di eventuali effetti dannosi risultanti
dall’applicazione di suggerimenti o informazioni qui contenuti. Se, dopo avere avviato un
qualsiasi programma finalizzato alla perdita di peso, incluso uno del tipo descritto in questo
libro, riscontrate qualche effetto dannoso, è indispensabile che vi rivolgiate subito a un medico.
I risultati possono variare da individuo a individuo.

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COME FUNZIONA QUESTO LIBRO: UNA PANORAMICA
Molti di noi sanno bene cosa significhi portare avanti una battaglia persa contro il peso e sono
consapevoli che i tassi di obesità sono in aumento. Eppure ci viene assicurato che la soluzione
per eliminare i chili di troppo è semplice: basta “mangiare meno e fare più attività fisica”.
Sembrerebbe un consiglio ragionevole. Ciò nonostante la nostra esperienza comune, così come
gli studi scientifici, dimostrano che attenersi a questo principio difficilmente porta a una perdita
di peso significativa nel lungo periodo.

A fronte di tale insuccesso, la spiegazione più comune è che i metodi tradizionali falliscono
perché chi li applica manca di forza di volontà e di autocontrollo. La realtà, invece, è che le
strategie per dimagrire basate sulla riduzione delle calorie non soltanto non funzionano ma non
possono funzionare per tutti, e si rivelano efficaci solo per una esigua minoranza.

Dimagrisci subito mangiando analizza le ragioni per cui gli approcci tradizionali alla perdita di
peso portano a un fallimento clamoroso e svela come mangiare meno e praticare una maggiore
attività fisica inducano il corpo a contrastare la perdita di peso e addirittura in che modo, a tutti
gli effetti, possano predisporlo nel tempo a ingrassare. Inoltre, il libro propone un metodo
scientifico, sperimentato e testato, per perdere peso in modo soddisfacente e sostenibile, che
agisce insieme ai processi fisiologici del corpo e non contro di essi.

Mettere in atto i consigli qui esposti vi garantirà un calo di peso permanente e un


miglioramento dello stato generale di salute. E non solo: il libro vi spiegherà esattamente come
tale obiettivo possa essere raggiunto senza dover tenere conto delle calorie, ridurre le porzioni,
praticare un’attività fisica intensa o patire la fame. Dimagrisci subito mangiando offre metodi
scientifici e pratici che renderanno la perdita di peso un’esperienza semplice e gradevole,
restando in salute e ottenendo dei risultati concreti.

1. Le diete non funzionano

Sappiamo che le diete non funzionano, e questo capitolo fornirà un resoconto dei risultati a
lungo termine di alcuni studi condotti su regimi alimentari di tipo tradizionale, accompagnati o
meno da attività fisica. Le ricerche dimostrano che persino i pazienti fortemente in sovrappeso,
mangiando meno e facendo più movimento, ottengono nel lungo periodo una perdita di peso
corrispondente a pochi etti.

2. Il paradosso dell’obesità

L’indice di massa corporea (IMC) è la misura di peso più usata comunemente, perciò siamo
spinti a conformarci ai livelli ritenuti normali e “salutari” in termini di IMC. Questo capitolo
rivela perché l’IMC, pur così celebre, è un mezzo totalmente inadeguato a valutare il peso
corporeo. Inoltre dimostra che “qualche chilo in più” può far bene alla salute generale,
soprattutto quando invecchiamo.

3. Il pericolo del girovita

Studi recenti hanno dimostrato che la zona in cui il grasso si accumula determina il suo
probabile impatto sulla salute: il grasso che si deposita attorno all’addome risulta essere il più
pericoloso per il corpo e per la mente. Questo capitolo analizza i rischi della cosiddetta “obesità
addominale” e offre una guida su come valutarli e monitorarli facilmente.

4. Una questione “scottante”


“Mangiare meno” è il dogma principale dei consigli tradizionali su come perdere peso. Questo
capitolo dimostra invece come, quando riduciamo volontariamente le calorie, il nostro
organismo rallenti il proprio metabolismo. Questo rende via via più difficile perdere peso, e
anzi, rischia di farlo aumentare in modo molto rapido una volta terminato il regime di
restrizione alimentare.

5. Diete e fame

Uno dei motivi principali per cui le diete tradizionali falliscono è la fame che quasi
inevitabilmente le accompagna. In questo capitolo analizziamo l’impatto, a volte devastante,
che tale binomio può produrre sul benessere psicologico e generale dell’individuo.

6. False credenze sulle diete povere di grassi

Il grasso contiene il doppio delle calorie rispetto a carboidrati o proteine, perciò le diete
ipocaloriche tendono a esserne povere. Eppure in questo capitolo sveliamo che in realtà i grassi
contenuti nel cibo non causano l’obesità e che assumerne meno non serve a eliminare l’adipe.
Per giungere a tali conclusioni spieghiamo in che modo il corpo regola i propri depositi di
grasso. Queste osservazioni suggeriscono che le tradizionali diete con pochi grassi costituiscono
probabilmente il tipo di regime alimentare peggiore, se il nostro obiettivo è quello di perdere
peso in modo duraturo.

7. Una caloria è una caloria?

Secondo molti dietologi “una caloria è una caloria”. Per loro, quindi, dal punto di vista del peso
corporeo, ha importanza soltanto il numero delle calorie che assumiamo e non la forma in cui
esse vengono introdotte nel nostro organismo. Altri studiosi sostengono invece che alcune
diete aiutano a perdere peso non soltanto in virtù del loro apporto calorico, ma anche grazie al
cosiddetto “vantaggio metabolico”. Questo capitolo lo prova e spiega quali tipi di diete
sembrano offrirlo.

8. Placare la fame

Mentre per alcuni patire la fame è un requisito fondamentale per perdere peso, è vero
piuttosto che, se non si soffre mentre si è a dieta, si dimagrisce più facilmente: tenere sotto
controllo l’appetito rende più semplice e sostenibile nutrirsi in modo sano. In questo capitolo
analizziamo il tipo di dieta più efficace per evitare la fame.

9. Il ruolo dell’infiammazione

Gli accumuli di grasso nel corpo sono determinati fondamentalmente dall’attività di specifici
ormoni. In questo capitolo vediamo come leggeri stati infiammatori possano interferire con il
funzionamento ormonale, portando perfino all’aumento di peso. Il capitolo si concentrerà
sull’impatto che l’infiammazione può avere su due ormoni chiave, l’insulina e la leptina, e
analizzerà il ruolo della dieta nel migliorare la funzionalità ormonale per perdere peso in modo
duraturo.

10. Diete alla prova

Le diete povere di grassi sono il punto di forza dei tradizionali approcci alla perdita di peso,
anche se da alcuni anni le diete low-carb, cioè povere di carboidrati, sono molto in voga. Esiste
un grande dibattito su quale tra questi due regimi sia il migliore per dimagrire. Il capitolo offre il
resoconto degli ultimi dieci anni di ricerche sull’efficacia delle diete con pochi grassi e di quelle
con pochi carboidrati, e dimostra che le seconde sono senza dubbio preferibili.

11. La dieta primitiva

Gli studi dimostrano che le diete povere di carboidrati sono le migliori per perdere peso, ma lo
sono anche per la salute? Questo capitolo illustra perché il regime più sano per noi, almeno a
livello teorico, è quello che rispecchia le abitudini alimentari dei nostri antenati cacciatori-
raccoglitori. Qui esaminiamo la dieta che ci ha sostentato per la maggior parte della nostra vita
su questo pianeta, con uno sguardo alle deroghe a tale modello subentrate in tempi
relativamente recenti.

12. La verità sui grassi

I nutrizionisti affermano solitamente che i grassi saturi sono sostanze a cui, come specie,
dovremmo essere bene adattati, ma allo stesso tempo ci viene sempre ricordato che il loro
consumo danneggia le arterie portandoci più velocemente alla morte. Questo capitolo parte da
un’attenta analisi di ciò che la scienza afferma sui grassi saturi e la loro relazione con le
patologie cardiache, svelando l’assenza di prove incriminanti a loro carico. Inoltre, si esamina
quali siano gli effetti sulla salute degli altri principali grassi alimentari, tra cui i monoinsaturi e
polinsaturi, oltre a quelli prodotti industrialmente che si trovano nei cibi lavorati, come la
margarina.

13. Il problema del colesterolo

Il colesterolo è noto per i danni che provoca ostruendo i vasi sanguigni, per questo siamo
continuamente invitati a mantenerlo sotto controllo. Questo capitolo fornisce un’analisi del
rapporto fra colesterolo e salute, rivelando che le nostre paure sono per la maggior parte
infondate.

14. Un briciolo di verità

I cibi a base di grano, come pane, riso, pasta e i cereali della colazione, sono raccomandati come
prodotti base della nostra dieta, in particolare nelle loro forme “integrali” e non raffinate.
Eppure il grano è un’aggiunta abbastanza recente all’alimentazione dell’uomo: siamo certi che
possa costituire il sostegno della nostra vita? In questo capitolo analizziamo perché i carboidrati
amidacei possono agire sui processi chimici dell’organismo in modo tale da contribuire ad
aggravare l’obesità e le malattie a essa associate. E rivalutiamo inoltre l’idea secondo cui evitare
i vari tipi di cereali ci priverebbe di nutrienti fondamentali.

15. Agrodolce

Questo capitolo esamina gli effetti dello zucchero raffinato, ivi compresi il fruttosio e lo
sciroppo di glucosio, sul peso e sulla salute. Il capitolo analizza inoltre i presunti vantaggi dei
dolcificanti artificiali come aiuto per controllare il peso, rivelando che, come suggeriscono
alcuni studi, potrebbero in realtà causare un suo ulteriore aumento nel lungo periodo.

16. La vacca sacra

I latticini sono caldamente consigliati perché giudicati essenziali nella formazione di un’ossatura
sana. Come dimostra questo capitolo, però, né il calcio, né i latticini hanno un ruolo
determinante per la salute delle ossa. Si discute anche se i diversi derivati del latte siano
alimenti adatti in un’ottica di controllo del peso e per altre questioni legate alla salute.
17. Fame di cambiamento

Riprendendo i temi del capitolo 8, esaminiamo altre strategie alimentari adatte a placare
l’appetito, che ci permettono di mangiare meno senza tuttavia sentire fame. Il capitolo si
concentra sull’importanza di limitare gli zuccheri presenti nel sangue e su come evitare i cibi
che contengono ingredienti capaci di stimolare l’appetito. C’è anche una sezione dedicata alla
fame nervosa e a come evitarla.

18. Il combustibile primario

In questo capitolo sono classificati tutti i principali cibi in base ai loro effetti sul peso corporeo e
sulla salute. Inoltre, vengono forniti consigli pratici sul loro consumo.

19. Pensiero liquido

Qui esamineremo le bevande più comuni, come l’acqua, il succo di frutta, le bibite, il tè, il caffè
e l’alcol, dal punto di vista del peso e della salute.

20. A tavola!

Sapere cosa mangiare e cosa bere è una cosa; mettere in pratica tale conoscenza è un’altra.
Questo capitolo offre alcuni suggerimenti e consigli pratici sul mangiare sano, come pasti
programmati e idee per gli spuntini.

21. Un’azione decisa

Gli studi dimostrano che gli esercizi “aerobici”, come camminare, correre e andare in bicicletta,
non sono efficaci per perdere peso: questo capitolo spiega perché. In esso esaminiamo, inoltre,
i vantaggi che l’attività fisica può offrire, con informazioni pratiche e consigli utili sul genere di
movimento da fare.

22. Ancora più giù

Per alcuni dimagrire può essere un processo molto lento, altri potrebbero ritrovarsi a stazionare
attorno a un peso maggiore di quello che vorrebbero. Se il vostro problema è la lentezza nel
dimagrire o una fase di stallo, questo capitolo fornisce due efficaci strategie per superarlo: il
“digiuno intermittente” e gli “esercizi esplosivi alternati”.

23. A lungo andare

Restare fedeli alle nuove abitudini a volte è una vera e propria sfida, e gli ostacoli lungo la via
possono essere molti. Questo capitolo esamina le insidie che si presentano più comunemente
nel momento in cui si devono introdurre e mantenere dei cambiamenti salutari, e in che modo
tali problemi possano essere risolti usando semplici tecniche psicologiche e comportamentali.

24. Dimagrisci subito mangiando... in pillole

Le intuizioni e i consigli principali del libro riassunti in un pratico elenco di “cose da fare e da
evitare”.

25. Storie di vita vera

Racconti in prima persona di chi ha migliorato con successo il proprio peso e il proprio stato di
salute, in modo semplice e senza troppi sforzi.
STORIE DI VITA VERA

Sono sempre stato sovrappeso, fin da quando ero bambino. Per la gran parte della mia vita
adulta il mio problema era soltanto un po’ di pancia flaccida, perciò mi ritenevo fortunato. Ma
come capita a molti, quella pancetta ha iniziato ad aumentare una volta raggiunti i trent’anni, e
nonostante i miei tentativi di sbarazzarmene attraverso l’esercizio fisico, il calcolo delle calorie
e diverse diete molto alla moda, il risultato migliore che ho ottenuto è stato quello di non
ingrassare ancora. Così mi sono rassegnato ai chili di troppo.

Quando, all’età di 37 anni, ho raggiunto il quintale, mio padre, affetto da diabete di tipo 2, mi
ha espresso cautamente la sua preoccupazione che stessi seguendo le sue orme. È un uomo di
poche parole, uno che quando parla si fa ascoltare. All’improvviso, avevo trovato la
motivazione per reagire a quel continuo aumento di peso.

Un giorno, era Capodanno, ho iniziato a seguire una dieta ipocalorica. Mi ero posto l’obiettivo
di perdere mezzo chilo alla settimana fino a Pasqua, il che non sembrava uno sforzo esagerato.
Ma nel giro di un paio di giorni ero già affamato e depresso. Non riuscivo proprio a
immaginarmi a fare una vita del genere per diversi mesi. Disperato, ho cercato in internet
consigli dietetici specifici per gli uomini e mi sono imbattuto nel lavoro del dottor Briffa.

Quattro mesi dopo, avevo perso 15 kg, e da allora il mio peso è rimasto stabile. Ho perso la
maggior parte dei chili sul girovita, che è passato da 100 a 86 cm. Il risultato ha avuto il suo
prezzo: ho dovuto rifarmi il guardaroba, perché non avevo più niente che mi andasse bene.

Mi rendo conto dello stupore di amici e colleghi, quando si accorgono di quanto sia più magro e
più giovane.

Penso che il vantaggio maggiore del metodo proposto dal dottor Briffa per perdere peso sia
riuscire a ottenere risultati senza dover affrontare un’attività fisica intensa, e rinunciando al
calcolo delle calorie e alla fame.

Questa per me non è la dieta del momento: ho cambiato il mio stile di vita e le mie certezze. E
inoltre funziona davvero: non solo ho perso peso, ma dormo meglio, ho più forza e mi sento in
forma.

Mauro

Per lungo tempo sono rimasta sullo stesso peso, fino a circa diciotto anni fa, quando ho
inspiegabilmente cominciato a ingrassare, senza più riuscire a dimagrire. Mi è stato
diagnosticato un ipotiroidismo, e ingenuamente ho pensato che, una volta che la cura fosse
entrata nel mio metabolismo, sarei ritornata alla normalità e i chili di troppo sarebbero
scomparsi. Dopo un po’, ho capito che non sarebbe mai successo.

Ho provato tutte le diete che mi capitavano a tiro – zuppa di cavolo, dieta F-plan, dieta South
Beach, dieta povera di grassi – ma erano una più deludente dell’altra. Avevo sempre fame, cosa
che mi rendeva irritabile, e i cibi consigliati erano spesso molto costosi, oltre che poco
gratificanti. La perdita di peso, se c’è stata, è stata irrisoria e di breve durata. A ogni fallimento,
la mia autostima diminuiva sempre più. Alla fine, gettai la spugna.

Poi mi sono imbattuta nel lavoro del dottor Briffa. Si è trattato di una scoperta illuminante.
Finalmente sono riuscita a perdere peso, ed esattamente nel punto in cui volevo: il girovita.
Non uso la bilancia, ma sono consapevole dell’efficacia di questo nuovo regime alimentare
grazie al mio aspetto e al modo in cui mi stanno gli abiti. Un esempio per tutti: circa nove anni
fa mi sono comprata “il vestito perfetto” mentre ero in viaggio per gli Stati Uniti. Mi stava
decisamente troppo stretto e mi sono ripromessa che un giorno sarei riuscita a entrarci. Bene,
quel giorno è finalmente arrivato!

Roz Hubley

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INTRODUZIONE

Vi è mai capitato di mettervi a dieta e perdere peso, per poi riprenderlo tutto subito dopo? I
vostri tentativi di dimagrire includevano restrizioni nel regime alimentare o attività fisica
intensa che si rivelavano insostenibili nel lungo periodo? Non fate altro che eliminare chili per
poi riacquistarli tutti in un ciclo infinito? Se avete risposto “sì” a una o più di queste domande,
non siete soli: secondo alcuni studi, sono pochi i fortunati che riescono a perdere chili senza poi
riprenderli. Dimagrire e ringrassare, a quanto pare, è diventato un passatempo molto popolare.

E se vi dicessi che il metodo tradizionale per perdere peso – e cioè “mangiare meno e fare più
esercizio” – non solo è inefficace, ma può addirittura contribuire ad aggravare il problema?
Come vi sentireste sapendo che i consigli per dimagrire basati sul calcolo delle calorie, così
come da decenni ci vengono forniti dai ministeri della Salute e dai nutrizionisti, causano
cambiamenti nel nostro corpo che con molta probabilità ci condannano a una vita di chili in
eccesso, con tutti i problemi che ne conseguono? Sareste interessati a conoscere un metodo
scientifico, provato e testato, che permette di ottenere una perdita di peso realizzabile e di
migliorare la nostra salute, senza ricorrere a calcolo delle calorie, attività fisica intensa o fame?

Queste affermazioni vi sembreranno sfacciate se confrontate con quanto ci è sempre stato


detto sulle cause dei chili in eccesso e su come porvi rimedio: ingrassiamo perché consumiamo
più calorie di quante ne bruciamo e la soluzione consiste nel ripristinare l’equilibrio, riducendo
la quantità di cibo ingerito e aumentando l’attività fisica. Eppure, nel corso della mia carriera
più che ventennale di medico, ho incontrato un’infinità di persone determinate e disciplinate
che non riuscivano a risolvere il loro problema di peso “facendo la cosa giusta”. Come
apprenderete da questo libro, ad affermarlo non è solo l’esperienza comune: è la stessa ricerca
scientifica a dimostrare quanto inefficaci siano, nel lungo periodo, le strategie basate sul calcolo
delle calorie.

Chi è a dieta e non riesce a perdere peso in modo stabile in genere viene accusato di non avere
forza di volontà e autocontrollo. A volte sono loro stessi a giudicarsi in questo modo,
ovviamente, e sono molti coloro che rimproverano a se stessi di “non possedere quello che ci
vuole” per tenere il proprio peso sotto controllo.

Ma, visto che in pratica tutti coloro che provano le strategie tradizionali falliscono
miseramente, la cosa da fare sembra proprio chiedersi se non ci sia in esse qualcosa di
sbagliato. Non è ora di farsi venire qualche legittimo dubbio sulla “regola delle calorie” e sulla
scienza che la sostiene?

Dimagrisci subito mangiando è in parte un testo polemico perché contesta il dato di fatto
probabilmente più condiviso: il nostro peso è determinato dall’equilibrio fra le calorie che
entrano e quelle che escono dal nostro organismo. Il libro rivela che il peso corporeo è il
risultato di qualcosa di più complesso del mero equilibrio calorico. Inoltre, vedremo come gli
approcci basati sul calcolo delle calorie inducano il corpo a “difendere” il proprio peso e a
conservare il grasso attraverso una varietà di meccanismi. Questo non solo può rendere molto
arduo dimagrire, ma predispone addirittura l’organismo a ingrassare in modo graduale nel
tempo. Vi dice qualcosa? Mentre la regola delle calorie è stata alla base delle diete dimagranti
per decenni, la scienza dimostra invece che è controproducente.

Dimagrisci subito mangiando è anche un libro pratico: una volta chiarito l’inganno, vi
riveleremo con precisione come non caderci. In queste pagine scoprirete quanto la scienza e la
mia concreta esperienza professionale mi hanno insegnato sul modo più efficace di dimagrire
senza bisogno di ridurre la quantità di cibo e svolgere attività faticose. I metodi qui esposti sono
stati pensati per scongiurare i rischi delle diete tradizionali e lavorano di concerto con i
meccanismi autoregolatori del corpo, anziché contro di essi.

La prima parte del libro esamina cosa accade quando l’organismo è sottoposto a una dieta
tradizionale finalizzata a ridurne il peso. Apprenderete, per esempio, che quando si
diminuiscono le quantità di cibo, l’organismo compensa la perdita rallentando il proprio
metabolismo. Questo può rendere il dimagrimento terribilmente lento e condurre a un
frustrante stallo.

In molti credono che il rallentamento del metabolismo possa essere contrastato aumentando lo
sforzo fisico. Dimagrisci subito mangiando rivela invece che gli esercizi “aerobici” come la
corsa, la camminata veloce e la bicicletta risultano inefficaci ai fini della perdita di peso e vi
spiega precisamente il perché.

La delusione derivante dagli scarsi risultati ottenuti mangiando meno e aumentando l’attività
fisica è ancora più difficile da sopportare a causa della inevitabile fame che tali metodi
comportano. Inoltre, vedremo anche come riduzioni caloriche abbastanza moderate possano
portare a un aumento dell’appetito con il rischio di perdere la determinazione necessaria, e di
un effetto nocivo sul nostro benessere psico-fisico (probabilmente è una sensazione che
conoscete già).

E come se tutti questi effetti non fossero già abbastanza devastanti, apprenderete che le diete
tradizionali esaltano il consumo di cibi che in realtà favoriscono l’accumulo di grasso nel corpo
attraverso sequenze biochimiche ben precise.

Il punto non è constatare il fatto che le diete tradizionali non funzionano, ma comprendere che
non possono funzionare.

Ciò che vi apparirà chiaro leggendo questo libro è che la dieta dimagrante più consigliata –
quella povera di calorie e di grassi – non dà i risultati che promette. Non solo, vedrete anche
come questo tipo di regime apparentemente sano possa addirittura aumentare il rischio di
malattie cardiache e di diabete di tipo 2.

Molti studi che sostengono queste verità a volte scioccanti risalgono a diversi decenni fa, perciò
viene da chiedersi perché informazioni errate siano state tramandate così a lungo. Non c’è
dubbio che parte della disinformazione sia involontaria e provenga da persone bene
intenzionate ma all’oscuro delle importanti scoperte scientifiche esistenti sull’argomento. Lo so,
perché un tempo io stesso credevo a tutti i falsi miti che passo in rassegna in questo libro. Il
problema era che le mie convinzioni si basavano su ciò che mi era stato insegnato e che avevo
accettato in buona fede. Un attento riesame della letteratura scientifica degli ultimi vent’anni
mi ha fatto scoprire quanto sia fuorviante e pericolosa gran parte della “saggezza” tradizionale
in campo nutrizionale.

Una certa impreparazione costituisce dunque una delle cause dell’abbondanza di nozioni
imprecise in questo settore, ma di certo non è l’unica. Penso ci sia del vero anche nell’idea che
gran parte della disinformazione sia stata diffusa e resa popolare da persone, imprese e
industrie interessate a trarne un profitto. Per esempio, la convinzione che l’eccesso di grassi
nella nostra dieta porti a ingrassare permette alle industrie alimentari di venderci un vasto
assortimento di cibi “light” o “senza grassi”, che promettono di farci dimagrire o altri vantaggi
per la salute. Questi cibi, a base di zuccheri e cereali, hanno in genere un costo di produzione
basso e offrono un elevato margine di guadagno.
E se tali prodotti non riescono a risolvere il problema (o addirittura contribuiscono a
peggiorarlo), allora tanto meglio, perché saremo costretti a continuare a comprarli. I metodi
che portano a un successo temporaneo fanno sì che continuiamo ad andare periodicamente in
cliniche dimagranti o aderiamo a gruppi per chi vuole perdere peso. Il punto è che vendere
“soluzioni” per dimagrire destinate a fallire fa bene agli affari.

Il fatto che si sia messo il profitto davanti alla salute pubblica spiega anche l’origine e il
perpetuarsi di molte idee sulla nutrizione che non superano i test della scienza. Un esempio fra
tanti è la convinzione che la margarina sia migliore del burro e che i dolcificanti artificiali
abbiano più vantaggi dello zucchero. La diffusione di queste credenze favorisce i profitti ma,
come vedrete, non sussiste la benché minima prova a loro favore. Anzi, è stato dimostrato che i
“nuovi” alimenti sono dannosi per la salute.

A costo di sembrare un suscettibile uomo di mezz’età, mi sono reso conto nel corso degli anni
che, quanto più constatavo la disinformazione in campo nutrizionale, tanto più mi sentivo preso
in giro. Ho visto con i miei occhi quanta sofferenza e tristezza riescono a produrre i consigli
tradizionali in questo campo, causando problemi di salute come stanchezza cronica, sbalzi
d’umore o depressione, disturbi alimentari, malattie dell’apparato digerente, diabete e,
ovviamente, aumento di peso. Sento la responsabilità di fare la mia parte per risolvere simili
questioni, anche se non sono solo in questa mia impresa. All’interno del libro, così come nella
bibliografia, riporto fonti che credo possano fornire informazioni e suggerimenti affidabili su
diete e disturbi vari.

Ma la teoria senza la pratica non porta a niente, perciò uno degli importantissimi passi che
potete compiere nella giusta direzione è sabotare, evitandoli, i cibi lavorati che vi sembrano
sospetti. Non si tratta soltanto di un gesto politico: l’esperienza mi insegna che preferire cibi
naturali e non lavorati è un metodo assolutamente efficace per perdere peso senza sforzo e
migliorare la propria salute.

Tale metodo, inoltre, segue quel che afferma il buonsenso su una sana alimentazione: c’è un
valido motivo per basare la propria dieta sui cibi che la nostra specie mangia da più tempo.
Carne, pesce, uova, noci, frutta e verdura sono gli alimenti grazie a cui ci siamo evoluti.
Dopotutto, sono quelli a cui ci siamo più adattati e che soddisfano al meglio le nostre esigenze.
Non si tratta soltanto di una teoria; come vedrete, esiste una notevole quantità di prove
scientifiche in tal senso.

Per esempio, gli studi dimostrano in modo inequivocabile che la dieta più efficace per il
controllo del peso è quella ricca di proteine e grassi e più povera di carboidrati, rispetto a quelle
consigliate di solito. Probabilmente non è una coincidenza se questa combinazione alimentare è
simile a quella della nostra dieta evolutiva.

Tale tipo di regime, nello specifico abbastanza ricco di grassi e povero di carboidrati, è ritenuto
da alcuni intrinsecamente dannoso, e spesso viene etichettato come “la dieta del momento”.
Ma un regime alimentare che comprende ciò che ci ha sostentato per la maggior parte del
tempo trascorso dalla nostra specie su questo pianeta può davvero essere definito “la dieta del
momento”? Ha senso pensare che i cibi che ci hanno nutrito per oltre due milioni di anni
costituiscano una pericolosa minaccia per la nostra salute?

Fidatevi quando vi dico che questo libro parla tanto di salute quanto di diete dimagranti. Non
ho alcun interesse economico nella vendita di cibi che vi permettano di dimagrire riducendo
allo stesso tempo la vostra aspettativa di vita. Dimagrisci subito mangiando va oltre l’impatto
che la dieta ha sul peso e non trascura la sua influenza sulla salute. Il contenuto del libro si
fonda su centinaia di studi scientifici in cui si dimostra che i consigli qui esposti sono pensati
non solo per perdere peso in modo duraturo, ma anche per migliorare salute e benessere
generale.

Poiché la ricerca scientifica che supporta le strategie qui descritte è molto vasta, non ho potuto
evitare di compiere una selezione del materiale. Qualcuno potrebbe obiettare che tale
riduzione rischia di essere pregiudizievole. E allora sarà meglio che dia conto anche di queste
scelte.

Per la maggior parte della mia carriera in campo medico sono sempre stato interessato
soprattutto alla nutrizione come mezzo per migliorare il proprio stato di salute e curare le
malattie. Il motivo per cui ho molta fiducia nelle strategie e nelle soluzioni qui esposte è che
sono stato testimone della loro efficacia pratica su moltissimi pazienti. Ho visto persone che
avevano lottato invano per anni con il peso riuscire a raggiungere risultati duraturi e
soddisfacenti con facilità, applicando i princìpi delineati in queste pagine. Ho conosciuto gente
che si è liberata da periodi in cui alternava un semidigiuno ad altri in cui riprendeva peso co
effetti distruttivi sulla psiche. Sono rimasto spesso colpito dalla gioia e dal piacere che ho visto
in coloro che sono riusciti a perdere molto peso senza patire la fame e senza svolgere
un’attività fisica eccessiva, cosa che ha permesso loro di rimettersi in salute e ritrovare
l’autostima. Molte di queste persone raccontano che i loro medici sono rimasti sbalorditi di
fronte al miglioramento del peso e dei vari indicatori di buona salute, come la pressione
sanguigna e il tasso lipidico nel sangue.

Devo ammettere che vedere tante persone ormai libere dagli inganni della dieta e con una
salute migliore grazie ai metodi descritti in questo libro ha avuto effetto anche su di me. Non lo
avrei mai scritto se non fossi stato entusiasta dei vantaggi che se ne possono trarre. La mia
esperienza con un gran numero di pazienti nell’arco di molti anni mi dice che, applicando questi
princìpi, vi ritroverete ad assistere a un netto miglioramento del peso, così come del livello di
benessere e di salute. Inoltre, tali metodi non richiedono nulla di simile al fatto di dover
controllare le porzioni, patire la fame e trascorrere lunghe ore a sudare in palestra.

In breve, scoprirete che perdere peso in modo duraturo e salutare può essere facile.
L’importante è sapere come farlo.

Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton


Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
COME USARE QUESTO LIBRO

Se leggerete il libro dall’inizio alla fine vi renderete conto che i primi capitoli costituiscono una
base, prevalentemente scientifica, per i consigli, più specifici e pratici, che giungeranno invece
nelle pagine successive. Dimagrisci subito mangiando è strutturato in questo modo perché
capire per quali ragioni e in che modo determinati metodi portino a dei benefici ci aiuta non
solo a introdurre cambiamenti positivi nella nostra vita, ma anche a tenere fede a essi.

Senza dubbio questo testo contiene molta più “scienza” e richiede maggiore attenzione rispetto
a uno dei tanti libri che offrono metodi per perdere peso. In ogni caso, vi assicuro che i vostri
sforzi saranno ampiamente ricompensati dall’acquisizione di una conoscenza profonda e
completa. Assimilare i princìpi fondamentali qui esposti vi permetterà quasi di sicuro di tenere
sotto controllo il peso per il resto della vita.

Forse siete impazienti di iniziare o forse le ricerche scientifiche non rientrano fra i vostri
principali interessi. In entrambi i casi, potreste desiderare di saltare la teoria e passare
direttamente alle parti dedicate a cosa fare (e non tanto al perché farlo). Vi suggerisco allora
di iniziare a leggere dal capitolo 18 e poi continuare fino alla fine del libro.

In ogni caso, se seguite quest’ultimo metodo, vi consiglio comunque di leggere almeno i


riassunti che trovate alla fine di ogni capitolo precedente, intitolati In sintesi. Conoscere i punti
essenziali vi permetterà, pur senza scendere nel dettaglio, di comprendere meglio le
informazioni e i consigli pratici che troverete nei capitoli successivi.

John Briffa

Londra, luglio 2011


N.B.: In conformità con l’edizione originale, gli esponenti di nota presenti nel testo non seguono un ordine
progressivo, bensì rinviano esclusivamente a quanto riportato come riferimenti bibliografici nella sezione
Note.

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Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 1

LE DIETE NON FUNZIONANO

Le teorie sulle cause dell’obesità sono varie, ma senza dubbio conoscerete quella secondo cui il
problema, in sostanza, non sarebbe altro che il risultato di uno squilibrio calorico: più
precisamente, l’assunzione eccessiva di calorie rispetto a quelle bruciate attraverso il
metabolismo e l’attività fisica. E senza dubbio conoscerete anche la soluzione più
comunemente proposta per i vostri problemi di peso, ovvero ripristinare l’equilibrio mangiando
meno e praticando più movimento.

Questa “regola delle calorie”, che è alla base dei consigli tradizionali su come perdere peso,
sembrerebbe a prima vista convincente. Ma sono molte le testimonianze di persone, e tra
queste forse persino la vostra, che ne mettono in dubbio la validità. Nel presente capitolo,
esamineremo i risultati di alcuni studi condotti per stimare l’efficacia delle diete dimagranti
tradizionali. Quanti chili perdono le persone che seguono regimi alimentari controllati e quanto
incide l’aumento di attività fisica?

Poche briciole

Ci serviremo delle pubblicazioni scientifiche per analizzare l’efficacia dei tradizionali approcci
alla perdita di peso basati sulla riduzione dell’apporto calorico, e in particolare di alcuni studi
che soddisfano i seguenti criteri:

I metodi per dimagrire utilizzati sono basati su approcci convenzionali, ovvero un ridotto
apporto calorico, con particolare attenzione ai cibi poveri di grassi.
Nell’ambito di ogni caso, alcuni individui si sono limitati a modificare la dieta mentre
altri hanno anche incrementato l’attività fisica.
L’“intervento” (cioè la restrizione del regime dietetico, con o senza l’aumento di attività
fisica) è durato almeno un anno.
I partecipanti sono stati riesaminati per almeno due anni dopo l’inizio dell’intervento.

Limitarsi agli studi che hanno monitorato i risultati sui partecipanti per almeno due anni dopo
l’inizio dei loro sforzi ci permette di valutare il successo a lungo termine dei diversi approcci.
Molti di noi sanno cosa significhi ottenere effetti a breve termine mangiando poco e facendo
più movimento, ma qui ci interessa quello che succede dopo.

Esamineremo una ricerca alla volta. Per ciascuna, vi forniremo una breve descrizione della
ricerca e dei risultati ottenuti. L’analisi fa riferimento, fra le altre cose, all’“indice di massa
corporea” (IMC) medio dei partecipanti. Esso si calcola dividendo il peso di un individuo
espresso in chilogrammi per il quadrato della sua altezza espressa in metri (kg/m2).
Tradizionalmente, un IMC pari a o maggiore di 25,0 è considerato indice di “sovrappeso”,
mentre chi ha un IMC pari a o maggiore di 30,0 è definito “obeso”.

Studio n. 11

A un gruppo di persone d’età media di 36 anni e IMC medio pari a 35,0 era stata prescritta una
dieta a basso contenuto calorico (i soggetti assumevano ogni giorno circa 1000 calorie in meno
rispetto all’ammontare necessario a mantenere stabile il proprio peso). Alcuni avevano
aggiunto a questa restrizione dietetica un po’ di attività fisica sotto forma di camminate a passo
sostenuto di 45 minuti, 4-5 volte la settimana. L’intervento era durato un anno e il peso è stato
riesaminato dopo un altro anno dalla sua conclusione.
Risultato (valori medi):

Solo dieta: aumento di 0,9 kg

Dieta e attività fisica: perdita di 2,2 kg

Studio n. 22

A un gruppo di soggetti d’età media di 42 anni e IMC medio pari a 36,5 era stata prescritta una
dieta di 1200-1500 calorie giornaliere. L’attività fisica, per chi l’ha integrata alla dieta,
consisteva in regolari esercizi aerobici, esercizi di resistenza (mirati al rafforzamento dei
muscoli) o una combinazione di entrambi. L’intervento è durato un anno e i partecipanti sono
stati riesaminati 13 mesi dopo la sua conclusione.

Risultato (valori medi):

Solo dieta: perdita di 4,6 kg

Dieta e attività fisica: perdita di 5,2 kg

Studio n. 33

A un gruppo di individui d’età media di 45 anni e IMC medio pari a 36,0 era stata prescritta una
dieta povera di grassi, che prevedeva inizialmente un apporto calorico giornaliero di 800-1000
calorie, fino ad arrivare a 1200-1500 per la maggior parte dei due anni di durata. L’attività fisica,
per chi l’ha integrata, consisteva in camminate a passo sostenuto di circa 5 km, 5 volte la
settimana. L’intervento è durato due anni.

Risultati (valori medi):

Solo dieta: perdita di 2,1 kg

Dieta e attività fisica: perdita di 2,5 kg

Studio n. 44

Un gruppo di persone d’età media di 43 anni e IMC medio pari a 25,5 aveva seguito una dieta
povera di grassi e ricca di carboidrati per 12 mesi. Alcuni vi hanno integrato un po’ di attività
fisica che consisteva in 30 minuti o più di esercizi aerobici, 4-5 volte la settimana. I partecipanti
allo studio sono stati monitorati per i 12 mesi successivi alla fine dell’intervento.

Risultati (valori medi):

Solo dieta: nessun mutamento di peso

Dieta e attività fisica: perdita di 1,9 kg

Due anni dopo avere iniziato a seguire un regime dietetico a restrizione calorica di lungo
periodo (minimo un anno), il dimagrimento medio si attestava attorno ai 2 kg. Persino con
l’aggiunta di un’attività fisica regolare, il calo ponderale era stato in media di 3 kg. Tali risultati
appaiono ancora più irrisori se consideriamo il peso iniziale di molti dei partecipanti ai test. Per
una persona di altezza media, un IMC pari a 35,0 significa un peso di circa un quintale. Direi che
difficilmente individui di tale stazza vedranno nella perdita di così pochi chili un ritorno
soddisfacente dell’investimento che hanno fatto in termini di rinunce e sforzo fisico.
Gli studi qui esaminati erano diversi nella struttura, ma avevano una cosa in comune: i
partecipanti venivano in generale informati e supportati, individualmente o in gruppo. Di
conseguenza questi rappresentano interventi di tipo intensivo. La profonda differenza rispetto
alla maggior parte delle persone che cercano di perdere peso è che queste ultime di solito
devono cavarsela da sole. È quindi verosimile che i risultati ottenuti siano significativamente
migliori di quelli che otterrebbero le persone nella vita reale.

Un’altra evidenza è che la perdita media di peso non raggiungeva affatto lo scopo previsto
dall’applicazione della regola delle calorie. Nei capitoli successivi spiegherò come ciò sia
possibile, in particolare nei capitoli 4 e 6.

Un altro dato sorprendente è l’inefficacia dell’attività fisica aggiunta alla restrizione dietetica
per ottenere un calo di peso. I risultati di questi studi suggeriscono una ulteriore perdita pari a
solo 1 kg per coloro che praticavano regolare esercizio fisico. Altre prove evidenziano risultati
altrettanto deludenti. Per esempio, un’analisi che ha per oggetto tutti i casi sopra descritti,
assieme ad altri di durata minore, ha ottenuto gli stessi risultati5, così come una terza analisi
importante di casi simili6. Nel capitolo 21, vi spiegherò perché il movimento, così spesso
consigliato, serve ben poco a farci dimagrire.

Di chi è la colpa?

Sembra proprio vero: le diete non funzionano. Ma perché?

Molti di noi ripongono una tale fiducia nella regola delle calorie che istintivamente finiamo per
attribuire l’insuccesso a chi lo applica. È opinione diffusa, condivisa anche dai professionisti, che
chi è a dieta non riesca a dimagrire perché si autoillude sulle proprie abitudini alimentari o sullo
sport che fa, oppure non segue le regole. Tali accuse possono essere legittime, in alcuni casi.
Tuttavia, forse gli scarsi risultati non dipendono solo dal fatto di non impegnarsi a “mangiare
meno e fare più attività fisica”: non sarà piuttosto il metodo prescelto a non funzionare?

Nei capitoli successivi analizzeremo i motivi per cui la regola delle calorie in realtà condanni la
gran parte di noi a non riuscire a dimagrire in modo praticabile nel lungo periodo. Prima, però,
vediamo come viene comunemente stimato il peso corporeo e cerchiamo di capire se adeguarsi
a questi modelli basati sul peso sia la strategia migliore.

In sintesi
La restrizione del regime alimentare conduce nel lungo periodo a una perdita di peso
pari a circa 2 kg.
Integrare l’attività fisica con la dieta, a quanto pare, aiuta a perdere soltanto 1 kg in più.
Il fallimento costante dell’approccio basato sul calcolo delle calorie per dimagrire
suggerisce che il metodo sia intrinsecamente privo di efficacia.
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Capitolo 2

IL PARADOSSO DELL’OBESITÀ

Se state cercando di perdere molti chili, è probabile che il vostro dottore vi abbia già messo in
guardia dai rischi del peso in eccesso, spronandovi a dimagrire. Le istituzioni e la classe medica
molto spesso ci informano che essere sovrappeso o obesi è pericoloso e può condurre alla
morte, e ci incoraggiano a conformarci alle norme sul peso definite dall’indice di massa
corporea (IMC).

In questo capitolo esamineremo le ragioni per cui l’IMC, nonostante la sua fama, è un mezzo
decisamente inadeguato a valutare la salute dell’individuo. Esamineremo anche le prove per cui
un IMC maggiore di quello tradizionalmente consigliato può essere il segnale di uno stato di
salute migliore in senso generale, soprattutto in età avanzata.

Perché il peso?

L’IMC è l’unità di misura usata più frequentemente dai medici per stimare il peso e il suo
impatto sulla salute. Di solito i dottori danno consigli alle persone riguardo al peso in base a
questo indice, ma ci sono ottime ragioni per non fidarsi di tale dato.

Il problema fondamentale è che l’IMC non ci dice niente riguardo alla composizione del corpo.
Una persona con un IMC da “obeso” potrebbe essere troppo grassa e in cattiva salute. Allo
stesso tempo, però, è assolutamente plausibile che un altro sia in ottima forma e abbia una
struttura robusta, ma risulti comunque “obeso” secondo il proprio IMC. La figura 1 illustra
graficamente questa possibilità. Se definite in base all’IMC, le due persone qui rappresentate
dovrebbero essere entrambe sane. È davvero così?

L’IMC è all’altezza?

Appare chiaro che l’IMC presenta limiti significativi come indicatore della salute individuale, ma
che risultati dà se applicato a gruppi di persone? Di norma, i soggetti il cui IMC è alla metà
della fascia “normale” o “in forma” dovrebbero essere i più sani.

Se consideriamo il rapporto tra IMC e salute, è necessario avere una visione più ampia
possibile. Bisogna quindi esaminare il suo rapporto non tanto con i rischi per le condizioni
individuali, bensì con il rischio generale di morte. Alla fine, per tutti il rischio di morte è del 100
percento, ovviamente. Nelle ricerche, tale rischio (a volte chiamato anche “mortalità generale”
o solo “mortalità”) indica la probabilità di decesso nell’arco di uno specifico lasso di tempo (in
genere di diversi anni).

Il rapporto generale che c’è fra IMC e mortalità è rappresentato nella figura 2. Come potete
vedere, il rischio è maggiore in corrispondenza all’IMC più basso e a quello più alto dello
spettro.

La domanda è: il punto inferiore della curva, dove il rischio di decesso è minore, corrisponde a
quello che i medici ci dicono essere il migliore IMC? Ed essere “sovrappeso” comporta dei rischi
per la salute generale, come ci viene costantemente ricordato?

Secondo un importante studio, un IMC compreso fra 25,0 e 27,5 (tecnicamente “sovrappeso”)
non è associato a un maggiore rischio di decesso1 se confrontato con gli IMC della “zona sana”.
Secondo altre ricerche2, una mortalità significativamente più alta si aveva solo per valori di IMC
superiori a 30,0. Ulteriori dubbi riguardo all’attendibilità delle tradizionali zone dell’IMC
emergono dai risultati degli studi che dimostrano un legame tra IMC “sovrappeso” e minore
rischio di morte3,4.
Un altro dato emerso da tali ricerche è che il rapporto fra IMC e mortalità sia in parte
influenzato dall’età. Secondo uno studio5, essere “sovrappeso” sarebbe associato a un più
elevato rischio di decesso negli individui sotto i sessant’anni, ma non in quelli più anziani. Altri
studi hanno comprovato che, quando invecchiamo, essere tecnicamente “sovrappeso” non è
un problema in sé, e potrebbe anzi indicare una probabilità di sopravvivenza più elevata.

Per esempio, secondo una ricerca giapponese, un IMC sovrappeso in uomini e donne dai 65
anni in su non era associato a un maggiore rischio di decesso, e questo era vero persino per
uomini tecnicamente classificati come obesi6. Secondo un altro studio, la mortalità più bassa è
stata rinvenuta in uomini e donne norvegesi di età avanzata, il cui IMC era rispettivamente di
25,0-29,9 (sovrappeso) e 25,0-32,4 (sovrappeso/obeso)7.

Ulteriori ricerche hanno scoperto che il rischio di morte fra gli australiani sovrappeso più anziani
era significativamente minore rispetto a quello di chi presentava un IMC più “sano”8.

Alcuni studiosi hanno suggerito che uno dei motivi per cui chi ha un IMC “normale” o
“sottopeso” risulta essere più a rischio di morte potrebbe essere che quando gli individui si
ammalano (per esempio di cancro), solitamente tendono a perdere peso. In altre parole, il
minore peso non è il problema in sé, è la malattia che causa il dimagrimento e aumenta la
mortalità. Tale prova è stata ritenuta però «debole e inconsistente»9, lasciando ancora aperta la
possibilità che un IMC maggiore di quello consigliato potrebbe a tutti gli effetti essere migliore
dal punto di vista della salute generale e delle probabilità di sopravvivenza.

ADIPE ADDOMINALE

È stata avanzata una teoria per spiegare come mai IMC più elevati siano associati a un
maggiore tasso di sopravvivenza in età avanzata: il grasso in eccesso può essere usato come
riserva di energia a cui si può attingere nel momento del bisogno, come per esempio durante
una malattia grave. In uno studio, alcuni ricercatori hanno esaminato il rapporto fra “massa
grassa” (cioè il livello totale di grasso nel corpo) e il rischio di malattie e mortalità negli individui
dai 65 anni in su10. Nel lungo periodo, a confronto con gli individui dalla massa grassa inferiore,
il rischio di mortalità nelle persone con più adipe era minore del 70 percento. Tali scoperte
vanno a sostegno della teoria secondo cui avere delle discrete riserve di grasso può rivelarsi
utile in tarda età.

In generale, i dati suggeriscono che i rischi del sovrappeso (e persino dell’obesità) sarebbero
stati considerati anche troppo. A quanto pare, alcune persone potrebbero avere meno
necessità di perdere peso per motivi di salute di quanto ritenga la medicina tradizionale.
Questo è vero, in particolare, per i soggetti più anziani, e quelli robusti e piuttosto muscolosi.

Ciò che sappiamo per certo è che, se applicato a singoli individui, l’IMC risulta avere un’utilità
molto limitata perché non ci dice nulla sulla composizione del corpo. Un altro dei suoi limiti è
che non fa distinzione per quanto concerne la distribuzione del grasso in eccesso. Come ben
presto apprenderemo, il punto in cui si concentra l’adipe all’interno del corpo è di cruciale
importanza per il suo possibile impatto sulla salute.

In sintesi
L’IMC non ci dice nulla sulla composizione del corpo, perciò non è un buon parametro
per giudicare lo stato di salute di una persona.
Alcuni dati dimostrano che valori di IMC corrispondenti alla zona del “sovrappeso” sono
associati a uno stato generale di salute migliore, soprattutto nei soggetti anziani.
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Capitolo 3

IL PERICOLO DEL GIROVITA

Gli esseri umani hanno forme e misure diverse. Mentre alcuni fanno scorta di grasso sulla
pancia, altri, soprattutto le donne, hanno come punti critici fianchi, cosce e sedere.

Queste differenze non sono soltanto di tipo estetico: le ricerche dimostrano che sapere dove si
accumula il grasso ci fornisce un valido indizio dei possibili rischi connessi. In questo capitolo
analizzeremo l’importanza della distribuzione dell’adipe nel corpo, e quale sia il modo migliore
per valutare il nostro peso e monitorare i progressi del suo calo nel tempo.

Uguali ma diversi

La maggior parte del grasso si deposita sotto la pelle ed è chiamato “grasso sottocutaneo”. In
ogni caso, quando questa massa si espande, si arriva a un punto in cui il corpo può iniziare a
depositarsi all’interno e attorno agli organi dell’addome.

Non ha l’aria di essere un fatto positivo, e infatti non lo è: questo tipo di adipe, detto “grasso
viscerale”, può avere effetti abbastanza pericolosi per l’organismo. Quello sottocutaneo,
invece, è relativamente innocuo.

Non sappiamo con precisione cosa renda il grasso addominale tanto pericoloso, ma gran parte
delle spiegazioni sembrano fare riferimento a un processo denominato “infiammazione”.

L’infiammazione è generalmente il segnale che qualcosa all’interno del nostro corpo ha bisogno
di essere curato. Per esempio, un’unghia incarnita può portare a un’infiammazione, i cui
sintomi principali sono dolore, rossore e gonfiore. L’infiammazione è il risultato dell’azione dei
globuli bianchi delle cellule (il loro sistema immunitario) e del rilascio di sostanze
infiammatorie. A volte, però, essa non è localizzata, bensì diffusa in tutto il corpo.
L’infiammazione diffusa, a volte definita “sistemica”, in genere è di lungo periodo (cronica), ed
è sempre più dimostrato il suo ruolo cruciale nell’insorgere di patologie cardiache e diabete di
tipo 2.

Gli studi dimostrano che nel grasso addominale di solito si infiltra un genere di globuli bianchi
chiamati “macrofagi”. Queste cellule normalmente combattono gli agenti patogeni all’interno
del corpo, come i batteri. Secondo una teoria, quando sono piene di lipidi le cellule bruciano e
attraggono i macrofagi, che “fanno rientrare” il danno. I macrofagi, e probabilmente anche altre
cellule, possono provocare infiammazione attraverso il rilascio di sostanze come il “fattore
nucleare kappa beta” (NF-kβ), l’“interleuchina 6” (IL-6) e il “fattore di necrosi tumorale alfa”
(TNF-α). Vi assicuro che questi sono i termini più tecnici che incontrerete in tutto il libro.

Conformazione “a mela” e “a pera”

Nelle donne in età fertile il grasso tende ad accumularsi nei depositi sottocutanei al di sotto
della vita, conferendo al corpo la caratteristica forma a pera. Gli uomini, invece, sono più inclini
ad accumularlo attorno alla pancia e ad assumere una forma del corpo più simile a una mela
(vedi figura 3).
In ogni caso, anche se gli uomini sono più predisposti ad avere un girovita maggiore, senza
dubbio anche le donne possono avere una simile conformazione. La figura 4 mostra due donne
di uguale peso (e IMC), una delle quali ha una forma a “mela” mentre l’altra ce l’ha a “pera”.

L’importanza della diversa distribuzione dell’adipe ci è subito chiara quando apprendiamo che
gli individui dal corpo “a mela” sono quelli che tendono ad accumulare grasso addominale
pericoloso: gli studi dimostrano che un girovita molto ampio (spesso definito “obesità
addominale”) è un buon indicatore di grasso viscerale1.

L’obesità addominale è anche al centro di un insieme di disturbi chiamato “sindrome


metabolica”. Anche se non esiste una definizione precisa di tale malattia, si ritiene
comunemente che la sua diagnosi dipenda dalla presenza di obesità addominale,
accompagnata da due o più aspetti ulteriori comunemente associati a tale condizione.

Allo scopo di diagnosticare la sindrome metabolica, in genere si considera obesità addominale


quando il girovita è pari a o maggiore di 94 cm negli uomini, e pari a o maggiore di 80 cm nelle
donne.

Le altre caratteristiche di solito utilizzate per stabilire se si ha la sindrome metabolica sono


elencate qui di seguito.

Livello elevato di grassi nel sangue denominati trigliceridi.

I trigliceridi sono un tipo di lipidi che si trova nel flusso sanguigno; se presenti in quantità
elevata, sono associati a un maggiore rischio di malattie cardiache. Se il livello di trigliceridi
supera 1,7 mmol/l in presenza di sindrome metabolica, si tratta di un valore elevato.

Basso livello di lipoproteine ad alta densità (HDL), cioè colesterolo “buono”.

Il colesterolo HDL è una particolare forma di colesterolo che viene associata a un minore
rischio di patologie cardiache e infarto. Se il suo livello è pari a 0,9 mmol/L o meno, siamo in
presenza di una carenza significativa.

Aumento della pressione sanguigna.

La pressione alta è un fattore di rischio per crisi cadiache e infarti. La pressione del sangue ha
un valore massimo (sistolica) e un valore minimo (diastolica). Valori massimi superiori ai 130
mmHg e/o valori minimi superiori agli 85 mmHg sono in genere ritenuti significativi.

Livello elevato di glucosio nel sangue o diabete di tipo 2 diagnosticato in precedenza.

Un livello di zuccheri nel sangue superiore ai 5,6 mmol/l è generalmente considerato


significativo.

Se in aggiunta all’accumulo adiposo nell’addome i test rivelano che possedete altre


caratteristiche tipiche della sindrome metabolica, allora sarà un validissimo apporto alla vostra
salute procedere all’eliminazione del grasso viscerale e normalizzare i valori fisiologici e
biochimici. Non preoccupatevi: le informazioni e i consigli che vi offriamo in Dimagrisci subito
mangiando sono mirati al raggiungimento di questo obiettivo… e di molti altri.

MALATTIA DEL FEGATO GRASSO

Un’altra caratteristica potenziale della sindrome metabolica è una condizione nota come
“fegato grasso”. Il deposito lipidico nell’organo può essere causato da un eccessivo consumo di
alcol. In ogni caso, sono sempre più i medici che riconoscono che il fegato grasso può avere
anche altre cause, diverse dall’alcol. In questi casi, tale condizione viene definita “malattia del
fegato grasso non alcolica” (NAFLD). Una volta che i lipidi si sono insinuati nell’organo, questo si
può infiammare e come risultato si avrà una “steatosi epatica non alcolica” (NASH).

Sia la NAFLD che la NASH possono provocare danni al fegato, fibrosi (un tipo di cicatrizzazione)
e persino cirrosi (un tipo avanzato di fibrosi e danno al fegato). Nei capitoli successivi
esamineremo i fattori nutrizionali che possono provocare il fegato grasso, oltre alle strategie
alimentari per proteggerci da questa malattia e sconfiggerla.

Perché l’addome?

Una volta osservato che l’obesità addominale è associata al grasso ventrale e alla sindrome
metabolica, non sorprenderà il fatto che sia nociva per la salute. In uno studio si è scoperto che
il girovita è un parametro molto più valido dell’IMC per predire il rischio di insorgenza del
diabete di tipo 22. Altri dati collegano una maggiore circonferenza addominale a un più elevato
rischio di patologie cardiache3 e in generale a un più alto rischio di morte4.

Il fatto che il girovita sia un indicatore migliore dell’IMC è stato evidenziato in un altro studio, in
cui il rapporto fra questa misura e la mortalità è stato tracciato nell’arco di un periodo
superiore ai sette anni5. Ogni 5 cm di aumento della circonferenza, il rischio generale di morte
cresceva in media del 9 percento. Mentre al salire dell’IMC il rischio di morte diminuiva.
Questa ricerca conferma quindi che valori di IMC più elevati possono rappresentare un
vantaggio con il passare degli anni, e che il grasso accumulato attorno e dentro l’addome
rappresenta invece un pericolo per la salute.

L’OBESITÀ ADDOMINALE DANNEGGIA IL CERVELLO?

L’obesità addominale sembra essere nociva per il corpo, e secondo alcune indagini avrebbe un
impatto negativo anche sul cervello. Uno studio ha esaminato il rapporto fra obesità
addominale e rischio di demenza nell’arco di un periodo superiore ai trent’anni6. I risultati
hanno indicato che gli individui affetti da obesità addominale erano a rischio di demenza tre
volte più degli altri.

Ma in che modo i due elementi sono collegati?

Innanzitutto, l’obesità addominale è associata a un più elevato rischio di malattie


cardiovascolari, tra cui l’infarto. Piccoli infarti multipli possono causare, in età avanzata, la
morte di alcune parti del cervello, compromettendo chiaramente la sua funzionalità (il termine
medico per indicare questo tipo di problema è “demenza multinfartuale”).

Un altro potenziale meccanismo che potrebbe entrare in gioco riguarda l’equilibrio degli
zuccheri nel sangue. L’obesità addominale è associata alla sindrome metabolica, la quale a sua
volta è associata a un più alto rischio di diabete di tipo 2. Un elevato livello di zuccheri (la
caratteristica principale del diabete) può danneggiare le proteine presenti nel cervello,
invecchiando a tutti gli effetti l’organo. Probabilmente non sorprenderà che il diabete di tipo 2
sia associato all’indebolimento dell’attività cerebrale in età avanzata7.

L’elevato livello di zuccheri può danneggiare alcune particolari proteine presenti attorno al
cervello, che trasportano il colesterolo all’interno dell’organo8. Si tratta di un dato importante,
perché il colesterolo è un elemento fondamentale per il cervello e svolge una serie di funzioni
chiave che riguardano la sua struttura e attività, ivi compresa una comunicazione efficace fra le
cellule nervose.

Lo studio suggerisce che evitare o eliminare l’obesità addominale e gli squilibri che ne
conseguono potrebbe aiutarci a preservare le nostre facoltà mentali durante l’invecchiamento.

La circonferenza dell’addome è un buon indicatore delle possibili conseguenze sulla salute del
grasso in eccesso. Ha senso, perciò, usare questo parametro come mezzo per valutare la
situazione e monitorarla. Ciò può essere fatto in modo abbastanza informale, per esempio
provando a stringere la cintura di un paio di buchi oppure verificando se riuscite a entrare in un
paio di pantaloni, un vestito o una gonna che non vi andavano bene da un po’. Se invece volete
essere più precisi, potete misurarvi il girovita per un certo periodo di tempo.

È importante che questa misurazione sia presa nello stesso punto e allo stesso modo ogni volta.
Vi suggerisco di prenderla all’altezza dell’ombelico, un ottimo indicatore. Dovete inoltre
assicurarvi che durante la misurazione il metro sia in ogni punto parallelo al terreno.

Consiglio di prendere la misura dopo avere espirato. In ogni caso, se i muscoli addominali sono
rilassati, la misura sarà maggiore rispetto a quella in cui i muscoli sono tonici. Se i vostri
addominali sono rilassati e intendete rimediare alla situazione con un po’ di esercizi, otterrete
probabilmente un girovita inferiore. Oppure potete espirare e insieme contrarre gli addominali
prima di prendere la misura.

L’ampiezza del girovita è un buon metodo di misurazione, ma non è molto preciso poiché tende
a non registrare i piccoli miglioramenti che si possono avere giorno per giorno. Perciò misurare
la circonferenza addominale molto spesso rischia di diventare una pratica abbastanza inutile. Se
volete tenere sotto controllo la vostra taglia, suggerisco di verificarla con frequenza settimanale
per le prime settimane e in seguito ogni mese.

La bilancia giusta

Nonostante la misurazione del peso non apporti informazioni utili e non sia d’aiuto
nell’osservare la riduzione del grasso, alcuni potrebbero trovare difficile resistere alla
tentazione di salire e scendere dalla bilancia. Va detto in loro favore che le bilance sono uno
strumento veloce e facile da usare, e che una buona può rivelare anche i miglioramenti più
esigui, difficili da individuare tramite la semplice misurazione del girovita.

Credo valga la pena tenere a mente, tuttavia, che possono sussistere anche fluttuazioni di peso
significative che poco o nulla hanno a che vedere con quello che avete mangiato. Per esempio,
in una giornata molto calda e secca è facile perdere qualche etto a causa della disidratazione.
Inoltre, è vero che i cambiamenti di peso non significano per forza un mutamento nella massa
grassa. Una cena consumata al ristorante, sana ma ricca di sale, per esempio, potrebbe
provocare un aumento di peso di diversi etti per colpa della ritenzione idrica. Vista la possibilità
di questo genere di oscillazioni, il consiglio è di pesarsi non più spesso di una volta la settimana.

Un’altra raccomandazione riguarda l’influenza spropositata che l’ago della bilancia può
esercitare sullo stato d’animo di alcune persone. Persino dopo un breve periodo di sana
alimentazione, un arresto nel calo del peso o un suo lieve aumento possono gettare nello
sconforto e incoraggiare a mandare tutto al diavolo. Se vi riconoscete in questo atteggiamento,
vi consiglierei di regalare la bilancia a qualcuno.

Se vi siete impegnati a pesarvi regolarmente, vi suggerisco di comprare una buona bilancia.


Quelle economiche a molla, tipiche degli anni Settanta, non sono esattamente le più precise.
Una elettronica, anche non molto costosa, è consigliabile. Ponetela su una superficie dura e
piana per assicurarvi la massima precisione.
Arrivati a questo punto, è probabile che siate impazienti di continuare a leggere per apprendere
come ridurre il grasso corporeo in maniera soddisfacente e duratura e allo stesso tempo
migliorare la vostra salute. Prima di vedere che cosa funziona, esaminiamo quel che non
funziona. Non è soltanto un esercizio astratto: capire i motivi per cui i metodi tradizionali per
dimagrire finiscano regolarmente per fallire ci aiuterà a liberarci dalla trappola nella quale molti
di noi sono finiti loro malgrado.

In sintesi
Il grasso accumulato sotto la pelle si è rivelato piuttosto innocuo in termini di effetti sulla
salute, diversamente da quello accumulato attorno agli organi dell’addome e al loro
interno (grasso viscerale).
Il grasso viscerale è associato a un aumento dell’infiammazione presente nel corpo,
oltre che a un maggior rischio di malattie croniche, tra cui quelle cardiache e il diabete di
tipo 2.
La misura della circonferenza dell’addome è un buon indicatore della presenza di grasso
viscerale.
Misurare il girovita è un buon modo per monitorare la perdita di peso nel tempo e i
possibili vantaggi sulla salute a essa associati.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 4

UNA QUESTIONE “SCOTTANTE”

Nel capitolo 1 abbiamo fornito un resoconto delle prove che dimostrano chiaramente
l’inefficacia delle diete. Forse ne avete avuto voi stessi esperienza, e vi siete chiesti perché il
vostro corpo non rispondesse nella maniera in cui avrebbe dovuto. In questo capitolo
esamineremo i motivi per cui i metodi tradizionali per perdere peso possono non avere effetto
nel lungo periodo. In particolare, prenderemo in considerazione l’impatto che la riduzione
dell’apporto calorico ha sul metabolismo, e come questo possa indurre il peso a diminuire
lentamente per poi aumentare di nuovo in modo rapido.

Calorie: quando i conti non tornano

La regola delle calorie vede il corpo essenzialmente come un motore che immagazzina cibo
(carburante) e lo trasforma in altri tipi di energia, tra cui movimento e calore. Eccola riassunta
in una semplice formula:

mutamento nel peso corporeo = calorie assunte meno calorie bruciate

Supponiamo che nel corso della giornata una persona bruci 2500 calorie attraverso il
metabolismo e un po’ di attività fisica, ma assuma soltanto 2000 calorie sotto forma di cibo. Si
verrebbe in questo caso a creare un “deficit calorico” di 500 calorie che, se ripetuto giorno
dopo giorno per una settimana, arriverebbe a un deficit totale di 3500 calorie, esattamente
quelle presenti in mezzo chilo di grasso. La regola delle calorie ci dice che assumere ogni giorno
500 calorie in meno di quelle che il nostro corpo brucia, in una settimana dovrebbe farci
perdere mezzo chilo di grasso. Proseguendo così, secondo tale teoria, la perdita dovrebbe
continuare all’infinito.

Questa regola delle calorie è semplicissima. Purtroppo, però, è anche semplicistica.

Essa, infatti, suppone che, anche diminuendo le calorie, il metabolismo del corpo continuerà a
funzionare come prima. Ma è davvero così? Immaginate di mettere sul fuoco due tronchi ogni
ora per mantenerlo vivo. Ora, immaginate che cosa succederebbe se cominciaste a metterne
solo uno. Ovviamente, brucerebbe con meno intensità di prima. Non è possibile che anche il
nostro organismo si comporti allo stesso modo? In altre parole, non è possibile che, riducendo
le calorie, il metabolismo rallenti, e renda più difficile al nostro “fuoco” interno bruciare il cibo
in modo efficace?

L’Esperimento Minnesota

L’impatto che una ridotta quantità di cibo ha sul metabolismo umano è stato oggetto di molte
ricerche nel corso degli ultimi decenni, ma nessuna è comparabile, per portata e importanza, a
quella condotta oltre sessant’anni fa e chiamata Esperimento Minnesota. Questo studio
embrionale si proponeva di esaminare gli effetti del digiuno sul corpo umano e di individuare il
modo migliore per riprendere ad alimentarlo. La speranza era di riuscire a individuare dei
sistemi nutrizionali migliori per coloro che in Europa e in Asia erano stati vittime dell’inedia
durante la seconda guerra mondiale.

I ricercatori dell’università del Minnesota avevano reclutato 36 uomini, scelti all’interno di un


gruppo di 200 candidati perché risultati i più adatti dal punto di vista psico-sociale, oltre che i
più motivati e sani. I soggetti, sotto la supervisione dei ricercatori, dovevano nutrirsi soltanto
del cibo che veniva loro fornito dai ricercatori e dai loro assistenti. Lo studio era durato in tutto
56 settimane ed era diviso in fasi distinte.

Un periodo di “controllo” (12 settimane)

Durante tale lasso di tempo, i soggetti si nutrivano seguendo una dieta controllata, mirata al
mantenimento del loro peso. In queste condizioni di alimentazione normale, gli uomini
venivano sottoposti a una serie di test volti ad accertarne la salute fisica e mentale.

Un periodo di “semidigiuno” (24 settimane)

In questa fase, i soggetti dovevano seguire una dieta povera di grassi e ipocalorica (circa 1600
calorie al giorno). Tale fase serviva a determinare l’impatto psico-fisico del “semidigiuno” sui
soggetti.

Un periodo di “riabilitazione con restrizioni” (12 settimane)

Durante questa fase ai partecipanti veniva fornito più nutrimento, ma in quantità strettamente
controllate. I soggetti erano stati suddivisi in quattro gruppi e ognuno consumava una diversa
quantità di cibo. L’apporto calorico variava dalle 1900 alle 3900 calorie al giorno.

Un periodo di “riabilitazione senza restrizioni” (8 settimane)

Nella fase finale di riabilitazione, l’apporto calorico e la dose di cibo erano illimitati e i soggetti
potevano mangiare quanto volevano. In questo arco di tempo l’apporto di cibo veniva
registrato e monitorato attentamente.

Né prima, né dopo di allora, è stato condotto un esame altrettanto esauriente degli effetti
fisiologici e psicologici della perdita di peso tramite riduzione dell’apporto calorico, e il suo
successivo reintegro, sugli esseri umani. I risultati dell’Esperimento Minnesota sono stati
pubblicati nel 1950 in due volumi1. I dati raccolti erano numerosi e precisi, e questo ha
permesso ai ricercatori, in tempi più recenti, di rivederli e raccogliere importanti informazioni
riguardanti la risposta del corpo a una dieta ipocalorica.

Che cosa succede quindi al metabolismo quando si riduce l’assunzione di calorie?


Contemporaneamente alla perdita di peso, ci aspettiamo anche una diminuzione dell’attività
metabolica, perché un corpo più leggero utilizzerà meno energia rispetto a uno più pesante.

In ogni caso, l’Esperimento Minnesota ha dimostrato che, mentre gli uomini avevano perso il
20-26 percento del loro peso, il consumo di energia era sceso almeno del 40 percento. In altre
parole, l’attività metabolica era calata di una quantità quasi maggiore rispetto a quella prevista
dalla perdita di peso. Esistono altri studi che hanno ottenuto gli stessi risultati2,3.

Appare chiaro a questo punto che, quando l’apporto calorico diminuisce, il corpo si sforza di
conservare l’energia inducendo il metabolismo a rallentare. Ciò accade attraverso diversi
meccanismi4.

Per esempio, subito dopo una riduzione di apporto calorico, il metabolismo può venire inibito
attraverso dei segnali inviati dal sistema nervoso. Un altro meccanismo di autoconservazione
impiegato dal corpo è una minore produzione dell’ormone tiroideo chiamato “triiodotironina”
(T3), che serve a mantenere costante il metabolismo5.

Il corpo può anche “difendere” il proprio peso attraverso la regolazione di un altro ormone, la
leptina. Tale ormone, secreto dalle cellule adipose, ha tra le sue funzioni principali quella di
stimolare il metabolismo. In ogni caso, con il dimagrimento anche i livelli di leptina
diminuiscono6, creando conseguenze potenzialmente disastrose per il metabolismo.

Un ulteriore meccanismo di difesa è quello di conservare l’energia riducendo il movimento.


Alcuni studi condotti su animali e umani dimostrano che, quando la quantità di cibo cala in
modo significativo, l’attività fisica naturale diminuisce spontaneamente7,8.

In breve, la riduzione dell’apporto calorico provoca uno stallo del metabolismo e può anche
diminuire l’attività fisica spontanea. Inoltre, il minore dispendio energetico è molto più
significativo di quanto previsto in base al solo calo di peso.

A causa di questo meccanismo di compensazione, è senza dubbio possibile che in passato vi


siate ritrovati a faticare molto per perdere peso, nonostante mangiaste come uccellini.
Probabilmente vi è anche successo di stazionare attorno a un peso molto più alto di quello che
vi eravate prefissati e che sarebbe stato per voi salutare.

E quindi?

Alcuni potrebbero ribattere che il problema non sussiste fintantoché gli individui continuano a
diminuire l’apporto calorico. Ma questo metodo rischia di provocare carenze nutrizionali e
malnutrizione. Inoltre, è ovvio che mangiare sempre meno a un certo punto diventa
impossibile, perché ci ritroveremmo a convivere con un continuo senso di fame. Nel prossimo
capitolo, ci concentreremo sull’importanza di quest’ultimo aspetto per chi sta cercando di
perdere peso in modo stabile.

BRUCIARE LENTAMENTE

Un’altra delle potenziali insidie cui si va incontro seguendo una dieta ipocalorica è che potrebbe
finire per essere povera dei nutrienti fondamentali. Alcuni di essi concorrono alle reazioni che
trasformano il cibo in energia. Una dieta povera di nutrienti può bloccare questi processi e
provocare uno stallo del metabolismo e del dimagrimento?

A sostegno di tale ipotesi, ci sono le prove emerse da una ricerca sull’impatto degli integratori
alimentari sul metabolismo e sul peso9. A circa 100 donne sovrappeso erano stati somministrati
degli integratori multivitaminici e di minerali per 6 mesi. In confronto a un altro gruppo di
donne, che assumeva soltanto un placebo, quelle trattate con l’integratore alimentare avevano
visto un calo significativo del peso e della massa grassa. Il tasso metabolico, inoltre, era più alto,
un risultato che è stato associato a una maggiore capacità di bruciare i grassi.

Una dieta ipocalorica potrebbe, in teoria, condurre a carenze nutrizionali che rallentano il tasso
metabolico, contribuendo così agli esiti deludenti visti in precedenza.

In sintesi
Quando il peso diminuisce, il metabolismo può rallentare vistosamente rispetto a quanto
previsto.
L’organismo può rallentare il metabolismo attraverso meccanismi che coinvolgono il
sistema nervoso e i livelli di ormoni tiroidei e di leptina.
Un ridotto apporto calorico può portare a una diminuzione spontanea dell’attività fisica
naturale.
Anche le carenze nutrizionali possono condurre al rallentamento del metabolismo in
presenza di un regime alimentare ristretto.
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Capitolo 5

DIETE E FAME

Se in passato avete seguito qualche dieta, conoscerete senza dubbio l’impatto che la riduzione
della quantità di cibo ha sull’appetito. Quando l’apporto calorico viene limitato
intenzionalmente, subentra quasi sempre la fame, e ciò può toglierci un po’ di determinazione
e vanificare gli sforzi fatti in nome della salute. Inoltre, come vedremo, una dieta ipocalorica
può avere effetti devastanti sul nostro benessere psico-fisico.

Ritorno in Minnesota

L’Esperimento Minnesota, descritto nel capitolo precedente, ha dato ai ricercatori la possibilità


di studiare da vicino l’effetto della riduzione delle calorie sulla fame, sul benessere generale e
sull’umore. Per ricapitolare, durante la fase di “semidigiuno”, i volontari assumevano circa 1600
calorie al giorno. La dieta era povera di grassi e ricca di carboidrati. Sia in termini di qualità che
di quantità, il regime alimentare adottato nell’Esperimento Minnesota soddisfaceva molti dei
requisiti delle diete attualmente consigliate dai medici.

In questo tipo di regime alimentare, i partecipanti all’esperimento provavano un forte senso di


fame. I volontari erano talmente affamati da essere ossessionati dal cibo. Molti di essi
confessarono di riuscire a pensare a poco altro, come se nutrirsi fosse la cosa più importante
della loro vita.

L’impatto di questo regime alimentare ristretto sulla loro psicologia era pericoloso: depressione
e angoscia erano diffuse tra i partecipanti. L’attrazione sessuale crollava in modo drastico e i
volontari mostravano segni di isolamento sociale. Molti avevano perso ogni ambizione e
provavano un senso di inadeguatezza; i loro interessi culturali e intellettuali erano diminuiti.
Trascuravano il loro aspetto, diventavano solitari e le loro relazioni familiari ne soffrivano. Era
stata segnalata anche una perdita del senso dell’umorismo, dell’amore e della compassione. La
loro ossessione per il cibo li induceva a pensare, parlare e leggere in continuazione su
quell’argomento. Alcuni consumavano grandi quantità di caffè e tè o masticavano chewing-gum
senza sosta.

E soprattutto, gli individui presentavano spesso anche sintomi fisici. Molti accusavano freddo e
stanchezza, oltre ad avere difficoltà di concentrazione e una ridotta capacità di giudizio. Inoltre,
fra i problemi riscontrati, c’erano capogiri, disturbi visivi, ronzii alle orecchie, sintomi
“neurologici” (come sensazione di punture di spillo e formicolii nelle braccia o nelle gambe),
insonnia, perdita e secchezza dei capelli e dermatiti.

Non va dimenticato che tutta questa sofferenza era il risultato dello stesso genere di dieta che
gli esperti hanno sempre consigliato.

Prima il digiuno, poi l’abbuffata

Ricorderete che nella fase finale dell’Esperimento Minnesota, ai partecipanti era permesso
mangiare quanto volevano. Lasciati a se stessi, ingurgitavano enormi quantità di cibo,
consumando in media più di 4000 calorie al giorno per diverse settimane.

Terminata la restrizione alimentare, la loro tendenza era quella di mangiare troppo.

Un’interpretazione di tale aumento incontrollato nel consumo di cibo (tecnicamente definita


“iperfagia”) era che fosse provocato dall’ingordigia, una risposta psicologica alla restrizione
protratta per lungo tempo. Ma può anche essere vista come una reazione naturale indotta
dall’organismo per riguadagnare il peso perduto.

Le analisi dei dati ottenuti attraverso l’Esperimento Minnesota rivelano che l’eccesso
alimentare mostrato dagli individui una volta terminata la restrizione era direttamente
proporzionale al loro dimagrimento: più chili avevano perso, più mangiavano una volta lasciati
liberi di farlo. Mentre il loro peso aumentava di nuovo, l’apporto di cibo diminuiva
gradualmente. La cosa fondamentale, però, è che nel momento in cui la quantità di cibo
assunta tornava normale, il livello dei grassi nel corpo era del 75 percento più alto rispetto
all’inizio della ricerca.

Sulla base di questa scoperta, si può ipotizzare che le diete tradizionali non solo non funzionino,
ma di fatto, nel lungo periodo, conducano a risultati peggiori di quelli che si sarebbero ottenuti
senza alcun intervento.

L’ormone della fame

Cosa provoca la fame dilagante che le diete tradizionali così spesso inducono e la conseguente
iperfagia? L’impulso a mangiare non è determinato unicamente dalla quantità di cibo presente
nel nostro stomaco, ma è anche influenzato dagli ormoni che indicano al corpo quante riserve
di grasso possiede.

Uno degli ormoni fondamentali che intervengono in questo meccanismo è la leptina, già
menzionata nel capitolo precedente a proposito dei suoi effetti sul metabolismo.

Un’altra funzione della leptina è quella di inibire l’appetito. Quando si perde peso e i livelli di
quest’ormone calano, la fame aumenta spingendoci a mangiare di più.

CONTROLLARE LE CALORIE FA INGRASSARE?

Un punto critico delle diete tradizionali è che in genere esse impongono un regolare controllo
delle calorie assunte. Questo non solo richiede tempo ed energia mentale, ma può anche
essere un fattore di stress. È stato dimostrato come la limitazione dell’apporto di cibo e il
continuo calcolo delle calorie aumentino i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress1.

Ciò può essere particolarmente rilevante per coloro che stanno cercando di perdere peso,
perché il cortisolo predispone all’accumulo di grasso, in particolare nell’addome.

Uno degli effetti di questo ormone è quello di indebolire l’attività dell’insulina, fenomeno che
può provocare la cosiddetta “insulino-resistenza”. Tale condizione, di cui parleremo più
diffusamente nel capitolo 9, aumenta la tendenza del corpo a ingrassare, oltre ad accrescere il
rischio di malattie, tra cui il diabete di tipo 2. Alcuni studiosi hanno persino suggerito che elevati
livelli di cortisolo potrebbero essere il fattore decisivo per l’insorgenza della sindrome
metabolica2.

A quanto pare, un’altra causa di fallimento delle diete con un apporto calorico controllato è
proprio la loro capacità di aumentare il livello di cortisolo nell’organismo.

Gli effetti della leptina e del cortisolo dimostrano che il sovrappeso dipende, in una certa
misura, dal controllo ormonale. Nel prossimo capitolo esamineremo come le diete tradizionali,
ricche di carboidrati e povere di grassi, possano provocare una particolare condizione ormonale
controproducente quando si cerca di ottenere un salutare dimagrimento.
In sintesi
La fame derivante da una riduzione del cibo assunto può impedire a lungo andare il
dimagrimento.
Una limitazione intenzionale dell’apporto calorico può avere conseguenze molto
negative sul benessere psicologico e generale.
La fame è regolata da diversi meccanismi, tra cui l’azione della leptina.
Le diete a controllo calorico possono di fatto impedire la perdita di peso e predisporre
l’individuo a contrarre malattie, in seguito all’aumento del livello di cortisolo.
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Capitolo 6

FALSE CREDENZE SULLE DIETE POVERE DI GRASSI

Secondo il senso comune, per dimagrire effettivamente è necessario seguire una dieta a ridotto
apporto calorico, e una delle strategie cruciali per raggiungere tale scopo è quella di eliminare i
grassi. I lipidi hanno il doppio delle calorie che troviamo nei carboidrati o nelle proteine. Non
per niente si chiamano anche grasso, e proprio per questa ragione non potrà che far
ingrassare. Perciò, nei vostri tentativi di perdere peso, in passato avrete senz’altro optato per
alimenti come il latte scremato e il petto di pollo senza la pelle, in quantità tali da bastarvi per il
resto della vita.

Molti altri, invece, si saranno abbuffati di cibi ricchi di grassi, come uova, formaggi e burro, al
fine di seguire una dieta “povera di carboidrati” (come la Atkins), per veder svanire la propria
massa grassa. Queste esperienze dovrebbero se non altro indurci a mettere in dubbio la
credenza, largamente condivisa, secondo cui i grassi che ingeriamo sarebbero destinati a finire
nelle riserve adipose presenti nel nostro corpo.

In questo capitolo indagheremo a fondo le conoscenze scientifiche sull’obesità. Arrivati alla


fine, vi sarete resi conto del motivo per cui le diete povere di grassi non vi sono state d’aiuto in
passato e perché pesate più di quanto vorreste.

L’ABC DELLA RICERCA

In tutto il libro faccio riferimento alla ricerca scientifica, perciò mi pare ragionevole spiegare fin
dal principio e con chiarezza quali conclusioni si possono trarre da essa (e quali no). Le ricerche
importanti per la salute dell’uomo possono essere di due tipi: gli studi “epidemiologici” e quelli
“interventistici”.

Studi epidemiologici

Gli studi epidemiologici analizzano le relazioni fra le cose, come per esempio quella tra il fumo
e il cancro ai polmoni o quella tra l’esercizio fisico e le patologie cardiache. Tali ricerche
possono dirci se le due cose sono collegate, ma non che l’una sia necessariamente la causa
dell’altra. Per esempio, gli studi correlati con il possesso di una TV non possono essere usati
per concludere che il televisore sia causa di malattie del cuore. Qui l’associazione va vista non
tanto nel possesso della TV, quanto in altri fattori, come la sedentarietà che implica il fatto di
guardarla.

Gli elementi che possono trarre in inganno in tal senso sono definiti “fattori confondenti” o più
semplicemente “confondenti”. In alcuni casi, i ricercatori si sforzano di tenere conto dei
potenziali fattori confondenti nel momento in cui analizzano i dati. Ma il problema è che si
tratta di una scienza abbastanza inesatta e alla fine ci ritroveremo comunque ad avere di fronte
risultati che non dimostrano la causalità di un fenomeno.

Studi interventistici

La causalità è meglio dimostrata dagli studi interventistici. Essi prevedono che un gruppo di
individui sia sottoposto a uno specifico trattamento per poi confrontarne i dati con un gruppo
“di controllo”, non soggetto al test. Per esempio, se una dieta povera di grassi saturi porta a
diminuire il tasso di insorgenza di patologie cardiache, se ne ricava l’idea che i grassi saturi
provochino tali malattie. D’altro canto, se il tasso di incidenza non subisce cambiamenti, si può
ipotizzare che i grassi saturi non rappresentino un fattore di rischio per quella condizione.
Il grasso fa ingrassare?

Alcuni ricercatori hanno usato prove di tipo epidemiologico al fine di dimostrare che il grasso fa
ingrassare. Per esempio, osservate la figura 5, tratta da una rivista del 19981. Essa mostra la
relazione fra la percentuale di energia fornita dai grassi presenti nella dieta e la percentuale di
persone all’interno di una popolazione classificate come “sovrappeso” o “obese”. In generale,
più alta è la percentuale di diete ricche di lipidi, più la popolazione tende a essere sovrappeso.

Va però ricordato che gli studi epidemiologici di questo tipo non possono essere usati per
concludere che i grassi sono la causa dell’obesità. Forse vale la pena tenere presente che le
ricerche in cui si osservano e confrontano Paesi diversi, come questo, tendono a creare
confusione (vedi sopra).

Va notato che i Paesi in basso a sinistra nel grafico (quelli con apporto di grassi minore, la cui
popolazione ha valori di massa corporea inferiori), quali l’India e le Filippine, sono meno
“sviluppati” dei Paesi in alto a destra (quelli con apporto di grassi più elevato e la cui
popolazione ha valori di massa corporea superiori), quali Stati Uniti e Australia. Le differenze tra
nazioni più o meno sviluppate sono parecchie, tra cui l’ammontare delle calorie consumate ogni
giorno: un aspetto strettamente legato allo status economico di un Paese.

Un modo per cercare di neutralizzare le differenze è mettere a confronto nazioni con simili
livelli di sviluppo economico. Una volta fatto questo, la relazione fra grassi presenti nella dieta e
sovrappeso semplicemente scompare nella popolazione maschile2. Mentre nelle donne
riscontriamo che apporti di grasso più elevati sono collegati a un peso corporeo minore. Altre
prove dimostrano che assumere più lipidi non ha niente a che vedere nel tempo con il fatto di
ingrassare3.

Il corpo del reato

Nessuna prova di tipo epidemiologico, per quanto attendibile, può porre fine al dibattito sulla
questione se il grasso faccia ingrassare. Quel che ci serve qui sono degli studi interventistici. Se i
lipidi fanno davvero ingrassare, allora le diete povere di grassi dovrebbero essere efficaci
nell’aiutarci a dimagrire, giusto?

Un buon modo per farsi un’idea generale circa l’efficacia di un trattamento o di un metodo è
mettere a confronto molti studi simili, in quella che è chiamata “meta-analisi”. Una meta-analisi
è stata compiuta da un importante gruppo internazionale di ricerca denominato Cochrane
Collaboration4. In particolare, gli studiosi erano interessati alla capacità dei partecipanti di
continuare a perdere peso per un lungo periodo di tempo.

In questi studi, le diete povere di grassi venivano confrontate con altre che, seppure limitate
nell’apporto calorico, non erano specificamente ipolipidiche (le cosiddette diete “di
mantenimento”). Le prime avevano condotto a un dimagrimento modesto e passeggero, e
dopo 18 mesi il peso era di nuovo quello iniziale.

La cosa interessante era che le diete di mantenimento, invece, portavano a risultati migliori di
quelle povere di grassi. La conclusione logica è che queste ultime sono in realtà meno efficaci
per controllare il peso rispetto a quelle più ricche di grassi.

Lo studio è stato ritirato nel 2008, con la giustificazione che si trattava di dati superati e che un
suo aggiornamento non era in programma. In ogni caso, rimane il fatto che, al tempo in cui fu
pubblicato, non esisteva alcuna prova attendibile che le diete povere di grassi fossero efficaci
per perdere peso. E non è mai emerso nulla di nuovo che confutasse questa teoria.

Alcuni potrebbero ribattere che, mentre ridurre il consumo di lipidi non aiuta a dimagrire,
potrebbe però essere specificatamente efficace nella perdita di grasso. Questo problema è
stato preso in considerazione da un’importante analisi condotta da alcuni ricercatori della
Harvard School of Public Health, negli Stati Uniti5. Dopo avere esaminato sia gli studi
epidemiologici sia quelli interventistici, i ricercatori hanno concluso che «le diete ricche di grassi
non sembrano essere la causa principale di un corpo grasso, e che diminuire la quantità di
grassi nella dieta non è una soluzione per combattere sovrappeso e obesità».

Forse può apparire un controsenso il fatto che mangiare grassi non faccia ingrassare, e che
mangiarne meno non aiuti a eliminare il grasso corporeo. Ma diventa tutto più chiaro quando
comprendiamo il modo in cui vengono regolati i depositi adiposi all’interno del nostro
organismo.

Il trasferimento dei grassi

Se siete appena sovrappeso, probabilmente penserete che i vostri depositi di grasso siano
statici o fissi. In realtà, non c’è niente di più lontano dal vero, perché il grasso entra ed esce
dalle cellule adipose di continuo. Il tessuto adiposo può sembrare solido, ma a dire il vero è
fluido.

Alcuni scienziati ed esperti hanno suggerito che l’essere grassi non dovrebbe essere considerato
il risultato di un eccesso di calorie, ma semmai l’esito di un disturbo nell’“accumulo di grasso”.
Ci si potrebbe domandare quali siano i fattori che conducono il grasso all’interno delle cellule
adipose e lo fanno restare lì. Potrebbero sussistere particolari circostanze in cui i cibi stimolano
la formazione di lipidi indipendentemente dal numero di calorie che contengono? O potrebbe
darsi che alcuni cibi, a parità di calorie contenute, facciano ingrassare più di altri?

Il grasso viene trasferito nelle cellule adipose attraverso il flusso sanguigno sotto forma di
“trigliceridi”. Una molecola di trigliceride è costituita da tre molecole di grasso (chiamate “acidi
grassi”) unite a una molecola di una sostanza denominata “glicerolo”. Un trigliceride è troppo
grande per penetrare nelle cellule adipose. Prima deve essere rotto, in modo che gli acidi grassi
di cui è formato possano farsi strada all’interno delle cellule. Una volta dentro, gli acidi grassi e
il glicerolo possono ricombinarsi a formare i trigliceridi, “fissando” così il grasso all’interno della
cellula adiposa.

Il grasso può essere nuovamente liberato, ma perché questo accada è necessario che il
trigliceride si rompa di nuovo nei suoi componenti. Questo processo, noto come “lipolisi”, fa sì
che il grasso venga nuovamente rilasciato all’interno del flusso sanguigno.

Qual è dunque il meccanismo che regola il continuo flusso e deflusso del grasso nelle cellule
adipose? E soprattutto, che cosa fa in modo che ne entri più di quanto ne esca?

Il ruolo dell’insulina nel deposito di grassi

La regolazione dei depositi adiposi nel corpo è complessa, ma non c’è dubbio che uno dei
protagonisti indiscussi del processo sia l’insulina.

Dopo che abbiamo mangiato, il nostro pancreas secerne insulina. La sua funzione principale è
quella di far fuoriuscire lo zucchero e altri nutrienti dal flusso del sangue per inviarli alle cellule,
affinché vengano metabolizzati e trasformati in energia, oppure immagazzinati in previsione di
un loro uso successivo.

L’insulina provoca effetti fondamentali nel deposito di grasso. Ecco i principali:

L’insulina attiva l’enzima “lipoproteina lipasi” che catalizza la trasformazione dei


trigliceridi in glicerolo e acidi grassi. Ciò facilita l’accumulo di lipidi all’interno delle
cellule adipose.

Maggiore apporto di glicerolo che “fissa” il grasso.

L’insulina facilita anche l’accumulo di zucchero all’interno delle cellule, dove esso può essere
trasformato in glicerolo (attraverso il cosiddetto glicerolo-3-fosfato).

Combinato con gli acidi grassi, il glicerolo “fissa” il grasso all’interno delle cellule adipose.

Inibizione di rottura e rilascio dei grassi dalle cellule adipose.

I trigliceridi all’interno delle cellule adipose vengono smembrati attraverso l’azione di un


enzima noto come “lipasi ormono-sensibile”. L’insulina lo inibisce, rallentando così il rilascio del
grasso dalle cellule adipose (lipolisi).

Stimolazione della produzione di grasso.

Alcuni tipi di grasso corporeo possono essere formati a partire dallo zucchero, attraverso un
processo chiamato “lipogenesi de novo” che avviene nel fegato. Questo processo è guidato
dall’enzima “acetil-COA carbossilasi”, che viene attivato dall’insulina.

In breve, l’insulina fa ingrassare. E, cosa importante, livelli inferiori di insulina condurranno in


generale a una perdita di massa grassa. Ne parleremo più avanti.

Ora che sappiamo che l’insulina porta a un accumulo di lipidi nell’organismo, è possibile
spiegare perché i grassi contenuti nel cibo non siano la causa dell’obesità?

Dato che il grasso non stimola direttamente la secrezione di insulina, ciò significa che esso ha
una capacità molto limitata di far ingrassare.

UN SACCO DI GRASSI

L’impatto del grasso sui livelli di insulina e sugli accumuli adiposi è stato dimostrato
graficamente in uno studio in cui i partecipanti si erano nutriti, in periodi di tempo diversi, in
modi molto differenti. Prima ai soggetti era stato imposto il digiuno (ed era stata somministrata
loro una flebo di soluzione salina) per un totale di 83 ore6.

Durante questo periodo, i livelli di insulina erano scesi e il tasso di lipolisi (rottura del grasso)
era aumentato, come dimostrato dall’aumento dei livelli di acidi grassi liberati nel sangue. In
pratica, il digiuno abbassava i livelli di insulina, il che permetteva alle cellule adipose di liberarsi
del grasso. Niente di sorprendente.

La parte davvero interessante dello studio è arrivata quando gli stessi individui sono stati
“nutriti” con una flebo per endovena contenente quasi solo grassi, che forniva circa 2000
calorie al giorno, l’ammontare calcolato per mantenere il peso stabile.

Proprio come nel primo caso, i livelli di insulina si abbassavano. Il tasso di lipolisi e i livelli di
acidi grassi nel sangue aumentavano. Inoltre, questi cambiamenti avvenivano allo stesso ritmo
in cui si erano verificati durante il periodo di digiuno completo.

In altre parole, nutrire il corpo con grasso puro induceva uno stato metabolico equivalente, a
tutti gli effetti, a quello dato dal digiuno totale.

Ovviamente, non è raccomandabile nutrirsi di soli grassi. Ciò nonostante, questa ricerca
sostiene l’ipotesi che il grasso non faccia di per sé ingrassare, aprendo la possibilità che una
dieta iperlipidica sia davvero in grado di favorire i nostri tentativi di dimagrimento.

Se il grasso non stimola la secrezione di insulina, allora quali sostanze lo fanno?

Il più importante conduttore dell’insulina è il carboidrato. Lo zucchero è un carboidrato, e lo è


anche l’amido (come vedremo nel capitolo 20, l’amido è uno zucchero). Pensate un momento
alle implicazioni che tutto ciò può avere.

Se seguite una dieta povera di grassi e ricca di carboidrati, anche se l’apporto di calorie è
ridotto, state basando la vostra alimentazione su cibi che allo stesso tempo stimolano il
deposito lipidico nelle cellule adipose e lo aiutano a rimanervi dentro. Questo potrebbe rendere
la perdita di grasso molto lenta o addirittura bloccarla del tutto.

Più avanti vedremo come una dieta che limiti i carboidrati, invece dei grassi, abbia la
potenzialità di sbloccare questo stallo fisiologico e di permettere ai lipidi di fuoriuscire dalle
cellule adipose.

LE NOCI: GRASSI CHE NON INGRASSANO

Le noci sono un cibo grasso e contengono moltissime calorie, a dispetto delle loro dimensioni.
Proprio per questi motivi molti medici raccomandano di non consumarne, se non in piccole
porzioni. Eppure, quando gli studiosi hanno riesaminato l’impatto del consumo di noci sul peso,
non hanno riscontrato alcuna prova del loro potenziale ingrassante. Anzi, è vero proprio il
contrario7. Possiamo spiegare questo fenomeno alla luce di quanto sappiamo ora?

Le noci sono generalmente povere di carboidrati, perciò tenderanno a non provocare la


secrezione di insulina. Tali due caratteristiche fondamentali conferiscono alle noci un potenziale
ingrassante molto limitato.

Questo alimento ha, inoltre, altri aspetti positivi.

Prima di tutto, tende a placare in modo efficace l’appetito, cosa che pone un freno automatico
alla quantità che ne consumiamo e che potrebbe indurci a mangiare meno in generale. Nei
capitoli successivi sottolineerò l’importanza del controllo della fame.

Infine, è stato dimostrato che mangiare noci stimola il metabolismo proprio come accade
quando mettiamo sul fuoco legna secca che brucia facilmente. Tale conseguenza, nota come
“effetto termogenico del cibo”, verrà analizzata nel capitolo 7.

La natura non ingrassante delle noci serve a dimostrare che l’impatto del cibo sul peso
corporeo è determinato da molti fattori diversi dal numero delle calorie in esso contenute.

I GRASSI, PERCHÉ NO?

Negli ultimi tre capitoli abbiamo esaminato a fondo alcuni dei motivi principali per cui i metodi
tradizionali basati sul calcolo delle calorie siano tanto inefficaci.

Riassumiamo qui i potenziali effetti di una dieta ipocalorica e ipolipidica:

Rallentamento del metabolismo maggiore di quanto previsto in base alla perdita di


peso.
Riduzione del dispendio di energia dovuto a un calo spontaneo dei livelli di attività fisica.
Carenze nutrizionali che potrebbero rallentare il tasso metabolico.
Fame, preoccupazione legata al cibo e diminuzione del benessere psico-fisico.
Innalzamento dei livelli di cortisolo che predispongono all’aumento adiposo e
all’insorgenza di malattie.
Uno stato biochimico che, attraverso l’azione dell’insulina, predispone alla formazione e
al deposito di grasso nelle cellule adipose.

A costo di sembrare approssimativo, mi verrebbe da augurare buona fortuna a chi si lancia in


una dieta tradizionale. Le prove dimostrano, come avrete visto, che esse, così come vengono
raccomandate dalle istituzioni sanitarie e dal ministero della Salute, da medici e dietologi, ci
renderanno grassi, affamati e depressi.

Nei capitoli 20 e 21 spiegherò in virtù di quali meccanismi ulteriori le diete tradizionali portano
inevitabilmente al fallimento. Quelli descritti finora, per il momento, possono bastare.

PROTEINE, INSULINA E GLUCAGONE

Se i carboidrati costituiscono lo stimolo principale alla produzione di insulina all’interno


dell’organismo, anche le proteine provocano la secrezione di tale ormone. Ciò significa che le
proteine hanno un potenziale ingrassante?

Più avanti analizzeremo prove che dimostrano come diete ad alto contenuto proteico in realtà
favoriscano la perdita di peso.
Una spiegazione è legata al fatto che esse sono in genere più efficaci nel soddisfare l’appetito di
quanto non lo siano i carboidrati o i grassi (ne parleremo più approfonditamente nel capitolo
20).

Un’altra qualità importante delle proteine è che, oltre a stimolare l’insulina, provocano anche la
secrezione di un ormone chiamato glucagone. Uno dei suoi effetti è stimolare la
trasformazione dei trigliceridi delle cellule adipose in acidi grassi liberi e glicerolo, facilitando in
questo modo la lipolisi.

Inoltre, a differenza dell’insulina, il glucagone non favorisce l’assorbimento dello zucchero


all’interno delle cellule. Questo aiuta a ridurre la quantità di glucosio disponibile per la
produzione del glicerolo necessario a “fissare” il grasso nelle cellule adipose.

In altre parole, mentre le proteine contribuiscono ad accrescere la secrezione di insulina,


l’aumento del glucagone allo stesso tempo riduce la formazione del grasso stimolata
dall’insulina.

Le calorie sono tutte uguali?

Una famosa massima diffusa tra i dietologi afferma che “una caloria è una caloria” e
costituirebbe il prerequisito in base al quale l’impatto che i cibi hanno sul peso corporeo è
determinato soltanto dal numero di calorie in essi contenuto, e non ha niente a che vedere con
la forma in cui esse entrano nel nostro organismo.

In realtà, i diversi effetti che i tre cosiddetti “macronutrienti” – carboidrati, proteine e grassi –
hanno su alcuni ormoni fondamentali potrebbero far supporre anche differenti potenziali
ingrassanti.

Nel prossimo capitolo esamineremo le prove che suggeriscono come una caloria, dopotutto,
non sia sempre e soltanto una caloria.

In sintesi
Si dice spesso che i grassi alimentari fanno ingrassare; questa affermazione si basa
essenzialmente sul fatto che contengono il doppio delle calorie presenti nei carboidrati e
nelle proteine.
L’assunzione di grassi alimentari non è direttamente legata al peso corporeo, e ci sono
prove che mostrano una correlazione fra maggiore apporto lipidico e minore peso.
Le diete a basso contenuto lipidico sono inefficaci ai fini della perdita di peso.
L’insulina è il principale responsabile dell’accumulo di grasso nel corpo.
I grassi alimentari non stimolano direttamente la secrezione di insulina e perciò hanno
un potenziale ingrassante limitato.
I carboidrati hanno la capacità di indurre una significativa secrezione dell’insulina, a
differenza dei grassi.
Le proteine stimolano la secrezione di insulina, ma anche quella del glucagone, che
riduce la formazione di grasso causata dal primo ormone.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 7

UNA CALORIA È UNA CALORIA?

La maggior parte dei medici e dei dietologi vi dirà che il vostro peso è determinato in definitiva
dall’equilibrio fra le calorie che entrano e quelle che escono dal vostro organismo, e che la
forma in cui vengono assunte è irrilevante. D’altro canto, avrete forse sentito parlare del
“vantaggio metabolico” che assicurerebbero certi tipi di diete, ovvero gli effetti positivi di
dimagrimento che non si possono considerare dovuti al mero apporto calorico.

In questo capitolo analizzeremo le prove dell’esistenza di tale vantaggio metabolico. Conoscere


questo principio e il tipo di dieta che, a quanto pare, può garantirlo, vi aiuterà a perdere peso.

Contro la regola

Coloro che affermano che il vantaggio metabolico non può esistere, invocano di solito le “leggi
della termodinamica”. Tali leggi fanno riferimento all’energia nelle sue varie forme e a quel che
succede quando essa si trasforma da una forma di energia in un’altra.

Le leggi della termodinamica sono quattro, ma è la “prima legge” quella di solito utilizzata per
confutare il principio del vantaggio metabolico.

La prima legge della termodinamica afferma che l’energia non può essere né creata, né
distrutta. In altre parole, l’energia può essere trasformata da una forma a un’altra, ma la sua
quantità complessiva nell’universo rimane costante. Come può questo principio essere
applicato alla gestione del peso?

Supponiamo che una persona abbia un peso stabile nel tempo. La prima legge afferma che, in
teoria, il numero delle calorie assunte da questo individuo sotto forma di cibo è uguale a quello
delle calorie che consuma attraverso il metabolismo e l’attività fisica. In altre parole, “calorie in
entrata = calorie in uscita”. Applicando la prima legge della termodinamica, in pratica,
rifiutiamo che le calorie che un individuo consuma nelle loro diverse forme possano avere
effetti diversi sul peso. In breve, affermiamo che “una caloria è una caloria”.

Ma la prima legge della termodinamica fa riferimento a quelli che chiamiamo “sistemi chiusi”,
ossia quei sistemi che possono scambiare calore ed energia con ciò che li circonda, ma non
materia. Vale anche per gli esseri umani? A essere precisi, no: il corpo umano, in effetti,
scambia materia con ciò che lo circonda, principalmente sotto forma di cibo (materia in entrata)
e prodotti di rifiuto, come l’urina e le feci (materia in uscita). Inoltre, tecnicamente parlando, la
prima legge riguarda sistemi in cui non avvengono reazioni chimiche, mentre il corpo umano
non è altro che un insieme di reazioni chimiche. Quindi, ancora una volta, la prima legge della
termodinamica non può essere applicata al peso corporeo.

Se vogliamo avere un approccio rigorosamente scientifico, respingere il concetto di vantaggio


metabolico sulla base della prima legge della termodinamica non rappresenta un buon inizio.

L’entropia

Un’altra legge della termodinamica, la seconda, è invece importante per la regolazione del
peso. Essa fa riferimento a un principio noto come “entropia”, ovvero la tendenza di un sistema
a evolvere, con il passare del tempo, verso uno stato di disordine.

Un esempio di entropia è il fenomeno per il quale, quando una forma di energia viene
trasformata in un’altra, il passaggio non è mai efficace al cento percento. Per esempio, solo una
parte dell’energia contenuta nella benzina bruciata dal motore di una macchina si trasforma
alla fine in movimento (una parte andrà persa, per esempio, sotto forma di calore e di rumore).
Allo stesso modo, una porzione dell’energia che il corpo umano assume sotto forma di cibo
viene dissipata come calore. Di per sé, non è un fatto negativo, visto che ci aiuta a mantenere
stabile la temperatura del corpo e ci mantiene vivi. Inoltre, più energia perdiamo sotto forma di
calore, meno cibo verrà immagazzinato come grasso in eccesso.

Tipi differenti di calorie possono avere una diversa propensione all’entropia? Alcune calorie si
possono convertire più facilmente in calore (invece che grasso) di altre? E mangiare certi cibi
potrebbe aiutare a perdere peso indipendentemente dal numero di calorie in essi contenuti?

Un modo per provare questa teoria è misurare il risultato sul cosiddetto “effetto termogenico
degli alimenti” o, più brevemente, “termogenesi”. In poche parole, la termogenesi è il calore
generato dal corpo durante i processi di digestione e metabolismo. Maggiore è l’effetto
termogenico, maggiore sarà la quantità di energia “persa” dal cibo e minore quella disponibile
per farci ingrassare.

Dei tre macronutrienti, le proteine sono di gran lunga le più termogeniche1,2. Uno dei motivi è
dato dal fatto che le diete iperproteiche portano a un maggiore “ricambio” di tali nutrienti
nell’organismo. Quando le ingeriamo, le proteine vengono scisse in componenti chiamate
“amminoacidi”, che possono in seguito essere nuovamente assemblate per riformare delle
proteine. È stato calcolato che, quando gli amminoacidi vengono convertiti in proteine e poi
nuovamente in amminoacidi, più di un quarto dell’energia contenuta in origine si disperde, in
parte sotto forma di calore3. Anche carboidrati e grassi possono venire “riciclati” in questo
modo, ma l’energia dissipata in tal caso è molto minore.

In breve, le proteine hanno un maggiore effetto termogenico rispetto ai carboidrati e ai grassi,


perciò una minore quantità delle calorie in esse contenute sarà disponibile per formare depositi
di grasso.

ANCHE CON LE DIETE IPERPROTEICHE SI CONSUMA ENERGIA, MA IN MODO DIVERSO

Il corpo ha bisogno di circa 100 grammi di carboidrati al giorno; che cosa succede quindi se il
loro apporto non è sufficiente a soddisfare questa domanda, come accade nelle diete povere di
glucidi? Una strategia che l’organismo può adottare per sopperire a questo calo è convertire
l’alanina, un amminoacido, in glucosio. Questo processo, noto come “gluconeogenesi” brucia
energia. Perciò una dieta iperproteica che prevede un apporto limitato di carboidrati può offrire
un vantaggio metabolico proprio attraverso di esso.

Torniamo per un momento alle leggi della termodinamica. Che cosa abbiamo imparato?

La prima legge della termodinamica non può essere applicata al corpo umano e alla
gestione del peso.
La seconda legge invece si può applicare, e permette di ipotizzare l’esistenza di un
vantaggio metabolico.
Teoricamente, le diete che presentano un vantaggio metabolico dovrebbero essere
quelle iperproteiche (perché permettono una maggiore termogenesi attraverso il
ricambio di tali nutrienti nel corpo) e povere di carboidrati (favorendo il consumo di
energia mediante la formazione di glucosio a partire dalle proteine).

Il vantaggio metabolico alla prova


Uno dei modi per testare il vantaggio metabolico è prescrivere diete di diversa composizione a
un gruppo di persone, mantenendo uguale per tutte il numero complessivo delle calorie. Per
esempio, alcuni potrebbero seguire una dieta povera di grassi e ricca di carboidrati, mentre altri
una dieta ricca di grassi e povera di carboidrati. Se “una caloria è una caloria”, allora gli effetti di
queste diete sul peso dovrebbero essere gli stessi.

A sostegno di tale opinione esistono molti studi che hanno evidenziato una perdita di peso
praticamente identica con diete diverse in termini di composizione, ma dal contenuto calorico
immutato. Tali ricerche, comunque, erano in genere di breve durata (spesso quattro settimane,
o meno), pertanto potrebbero non essersi protratte abbastanza a lungo da far emergere
differenze significative tra le diete.

Anche questa prova negativa va messa a confronto con i dati emersi da alcuni studi che
testimoniano l’esistenza del vantaggio metabolico. Fra poco li esamineremo; prima, però,
ricapitoliamo i diversi effetti che carboidrati, proteine e lipidi hanno sulla regolazione del grasso
corporeo.

Carboidrati

I carboidrati stimolano la secrezione dell’insulina, che:

Aumenta l’assorbimento del grasso nelle cellule adipose.


Fornisce le materie prime (acidi grassi e glicerolo) necessarie alla formazione e al
fissaggio dei lipidi nelle cellule adipose.
Rallenta la rottura e il rilascio del grasso dalle cellule adipose.
Stimola la formazione di lipidi a partire dallo zucchero nel fegato (lipogenesi de novo).

Grassi

I grassi non stimolano la secrezione di insulina; di conseguenza:

Si riduce l’assorbimento dei lipidi nelle cellule adipose.


Si rallenta l’apporto di materie prime necessarie alla formazione e al fissaggio del grasso
nelle cellule adipose.
La rottura e il rilascio dei grassi dalle cellule adipose (lipolisi) aumentano.
La trasformazione dello zucchero in lipidi nel fegato diminuisce.

Proteine

Stimolano la secrezione di insulina, ma anche di glucagone, che mitiga l’effetto di


formazione del grasso dall’insulina.
Hanno un potenziale “vantaggio metabolico”, grazie ai loro effetti sulla termogenesi.
Possono offrire un vantaggio metabolico anche attraverso l’energia persa durante la
trasformazione delle proteine in glucosio, nell’ambito di una dieta povera di carboidrati.

A partire da questi dati, si potrebbe ritenere che, a parità di numero di calorie, la dieta più
efficace per perdere peso sia quella ricca di grassi, dal contenuto proteico medio e povera di
carboidrati.

Questa è la teoria, ma esistono prove a suo sostegno? In effetti, sono stati condotti diversi studi
che potrebbero dimostrare l’esistenza del vantaggio metabolico. Il primo sarà descritto in modo
dettagliato, poiché comprendeva esperimenti di tipo diverso e regimi alimentari differenti. Gli
altri studi avevano una struttura più semplice e saranno riassunti in una tabella.
Lo studio di Kekwick

Il primo test che ha cercato di dimostrare l’esistenza del vantaggio metabolico è stato condotto
da due medici inglesi, Alan Kekwick e Gaston Pawan, dell’Università di Londra4. In esso, 12
individui obesi dovevano seguire, in periodi diversi, una fra tre diete distinte. I regimi alimentari
erano composti nel modo seguente:

Il 90 percento delle calorie proveniva da carboidrati.


Il 90 percento delle calorie proveniva da proteine.
Il 90 percento delle calorie proveniva da grassi.

Ogni dieta forniva soltanto 1000 calorie al giorno e durava 5-9 giorni. Ecco i mutamenti medi
del peso registrati per ciascuna dieta:

Dieta ricca di carboidrati: nessun cambiamento di peso.


Dieta ricca di proteine: perdita di 0,26 kg al giorno.
Dieta ricca di grassi: perdita di 0,46 kg al giorno.

Queste diete avevano la caratteristica di essere estreme, ma altrettanto lo sono stati i loro
effetti, molto differenziati, sul peso. Con una dieta ricca di carboidrati, ma di sole 1000 calorie al
giorno, non c’era stata perdita di peso. Dall’altro lato, una ricca di grassi contenente lo stesso
numero di calorie aveva provocato una perdita di peso importante (quasi mezzo chilo al
giorno). Il risultato di quella iperproteica si collocava più o meno nel mezzo.

All’apparenza, i risultati suggeriscono che, se l’unico obiettivo è quello di perdere peso, la


preferenza dovrebbe essere accordata prima ai grassi, poi alle proteine e infine ai carboidrati.
Per alcuni, questi risultati appariranno sorprendenti, ma sono totalmente in linea con ciò che
sappiamo dell’impatto dei diversi macronutrienti sui depositi adiposi e del loro potenziale
effetto sul vantaggio metabolico, come riassunto in precedenza in questo stesso capitolo.

La ricerca era resa ancora più interessante dalle scoperte di un altro esperimento, condotto su
5 dei 12 soggetti dello studio originale. Questi individui all’inizio dovevano seguire una dieta in
cui la percentuale delle calorie apportate da carboidrati, grassi e proteine era rispettivamente
di 47 a 33 a 20. L’apporto calorico globale era di 2000 calorie al giorno. Per diversi giorni nessun
soggetto è calato di peso.

Le stesse persone si erano poi nutrite seguendo una dieta ricca di grassi e proteine ma povera
di carboidrati. L’ammontare totale delle calorie giornaliere era stato portato a 2600. Seguendo
questo regime, 4 persone su 5 hanno avuto una significativa perdita di peso. È vero: quando la
composizione della dieta è stata cambiata in favore di grassi e proteine, la maggior parte dei
soggetti è dimagrita, malgrado l’apporto calorico giornaliero fosse aumentato.

Il dottor Kekwick e il dottor Pawan conclusero che: «Se queste osservazioni sono corrette,
sembra esserci una sola spiegazione possibile: la composizione della dieta può modificare il
dispendio di energia nelle persone obese, che aumenta se si consumano grassi e proteine, e
diminuisce se si consumano carboidrati».

Gli altri studi che parrebbero dimostrare l’esistenza di un vantaggio metabolico sono
rappresentati nella tabella 2 riportata alla pagina successiva. Per ciascuno, è specificata la
combinazione di macronutrienti, l’apporto calorico registrato e la perdita di peso media che si è
riscontrata.

Nota: uno degli studi nella versione originale utilizzava tre diverse diete con contenuto variabile
di carboidrati, ma nella tabella riportata alla pagina seguente vengono mostrati solo i risultati
dei due regimi che presentavano maggiori differenze.

Come noterete, in ciascuna ricerca diete più povere di carboidrati e più ricche di proteine e/o
grassi portavano a una maggiore perdita di peso rispetto alle altre.

Ora, è possibile che il cibo prescritto e quello registrato quotidianamente in questi studi non
corrispondessero a quanto assunto realmente, e che ciò potrebbe spiegare i risultati.

Alcuni studi, inoltre, non sono riusciti a dimostrare il vantaggio metabolico di cui ho parlato
prima. In ogni caso, va ricordato che essi erano in genere di breve durata.

Al contrario, la maggioranza delle ricerche dall’esito positivo è stata condotta per un periodo di
tempo più lungo (in molti casi dai 3 ai 6 mesi), offrendo così una maggiore possibilità di scoprire
la differenza reale fra le diete.

* Per gli studi si vedano le note 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13

Riassumendo

Mentre le prove che riguardano il vantaggio metabolico portano a risultati eterogenei, è vero
quanto segue:

In linea teorica, il vantaggio metabolico esisterebbe e favorirebbe diete più ricche di


grassi e proteine e più povere di carboidrati.
Quando è stato riscontrato il vantaggio metabolico, è sempre stato in diete più ricche di
grassi e proteine e più povere di carboidrati.
Le ricerche con risultati positivi hanno avuto in genere una durata maggiore rispetto a
quelle con risultati negativi, perciò era più probabile che individuassero un vantaggio
metabolico.

UOMINI E TOPI

Un limite degli studi condotti su esseri umani è che non abbiamo certezze assolute sulle
quantità di cibo ingerite. Persino quando i partecipanti vengono tenuti in un reparto
ospedaliero e nutriti con alimenti specifici in dosi note, dovrebbero restare sotto sorveglianza
per ventiquattr’ore perché i ricercatori possano essere sicuri di quanto hanno mangiato (e in
particolare se nella loro dieta si è inserito dell’altro cibo).

Un modo per arginare il problema è condurre ricerche sugli animali. In uno studio, i topi
venivano nutriti con una delle seguenti quattro diete14:

Normale cibo per topi.


Una dieta ricca di grassi e zuccheri contenente lo stesso numero di calorie della 1.
Normale cibo per topi, ma con apporto calorico ridotto di un terzo rispetto alla 1.
Una dieta ricca di grassi e povera di carboidrati contenente lo stesso numero di calorie
della 1.

Il peso dei topi è stato monitorato per 9 settimane. Quelli che mangiavano il solito cibo e quelli
la cui dieta era ricca di grassi e zuccheri (1 e 2) sono aumentati di peso. I topi nutriti con un
apporto calorico ridotto (3) sono dimagriti.

Ma la cosa interessante dello studio era che anche i topi con una dieta ricca di grassi e povera di
carboidrati (4) hanno perso peso. E questo nonostante introducessero lo stesso ammontare di
calorie degli animali che mangiavano normale cibo per topi o molti grassi e zuccheri, i quali
invece erano aumentati di peso. Il dimagrimento riscontrato in questi ultimi era circa uguale a
quello dei topi che mangiavano meno (3). Tale ricerca sugli animali fornisce ulteriore sostegno
all’idea che non è solo il numero di calorie a determinare il peso corporeo, ma anche la forma in
cui esse vengono introdotte.

Tutto sommato, esiste a quanto pare la possibilità che una dieta più ricca di grassi e proteine e
più povera di carboidrati faccia scattare un vantaggio metabolico e una conseguente perdita di
peso.

In ogni caso, anche se questo tipo di dieta non comportasse un vantaggio metabolico, ci sono
altre ragioni importanti per cui vale la pena di seguirla. Come vi mostrerò nei capitoli successivi,
tale regime alimentare ha la capacità di migliorare i valori indicatori di malattie, come la
pressione sanguigna e i livelli lipidici nel sangue.

Inoltre, per quanto riguarda la perdita di peso, i regimi poveri di carboidrati presentano un
vantaggio rispetto a quelle ricche di zuccheri e ipolipidiche, indipendentemente da quello
metabolico. Si tratta della loro capacità di contrastare uno dei nemici principali delle diete: la
fame. Nel prossimo capitolo analizzeremo a fondo questo fenomeno.

In sintesi
Il “vantaggio metabolico” corrisponde all’idea secondo cui alcune diete possono favorire
la perdita di peso indipendentemente dal numero di calorie che contengono.
La prima legge della termodinamica, spesso citata per negare l’esistenza del vantaggio
metabolico, non può essere applicata alla regolazione del peso corporeo.
La seconda legge della termodinamica, invece, può essere applicata alla regolazione del
peso corporeo e giustifica il principio di “vantaggio metabolico”.
In linea teorica, il “vantaggio metabolico” potrebbe sussistere in diete ricche di proteine e
grassi ma abbastanza povere di carboidrati.
Diversi studi parrebbero dimostrare l’esistenza del “vantaggio metabolico”, in particolare
nelle diete ricche di proteine e grassi e povere di carboidrati.
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Capitolo 8

PLACARE LA FAME

La fame è un grande ostacolo se nel lungo periodo si vuole perdere peso con successo. Forse
anche voi, come la maggior parte delle persone, siete in grado di convivere per qualche
settimana, o addirittura mesi, con una gran fame, ma probabilmente non sopportereste oltre
un tale senso di privazione. La fame non solo può rendere estremamente arduo seguire un
nuovo regime alimentare, ma può anche portare a mangiare troppo, una volta che le restrizioni
vengano meno. Se il vostro scopo è quello di dimagrire in modo facile e praticabile, soddisfare il
vostro appetito è di fondamentale importanza.

Le ricerche dimostrano che carboidrati, proteine e grassi placano la fame in modi differenti.
Preferire cibi davvero soddisfacenti è essenziale per perdere peso efficacemente e in questo
capitolo vi spiegherò come.

Proteine, il gusto della soddisfazione

Diversi studi dimostrano che, a parità di calorie, non tutti i macronutrienti soddisfano l’appetito
allo stesso modo. Il macronutriente che, a parità di peso, batte tutti gli altri in termini di
controllo immediato della fame è la proteina1. In genere, mangiare un pasto ricco di proteine
induce una maggiore soddisfazione nelle ore successive rispetto, per esempio, a un pasto in
prevalenza a base di carboidrati. Ciò significa che una dieta abbastanza ricca di proteine può
aiutare le persone a mangiare spontaneamente meno ma soprattutto – e questo è l’importante
– senza soffrire la fame.

CHI MANGIA PROTEINE MANGIA MENO

Nella maggior parte dei Paesi occidentali i tassi di obesità crescono sempre di più, e gli Stati
Uniti non fanno eccezione. Uno studio pubblicato nel 2011 rivela un aumento significativo
dell’obesità in uomini e donne nell’arco degli ultimi 30-40 anni2. Un’analisi attenta dei dati
mostra che gli americani hanno incrementato nel tempo la quantità di cibo assunta, soprattutto
per via dell’aggiunta di carboidrati (e non di grassi, come spesso si afferma o si presume).

Ma un altro punto interessante che si evince da questi dati è che, se le persone assumono più
proteine, in generale mangiano meno. I ricercatori hanno calcolato che, qualora la quantità
delle calorie provenienti dalle proteine fosse aumentata in media dal 15 al 25 percento,
l’apporto calorico sarebbe sceso a 500 calorie al giorno.

I carboidrati “carburano”?

Molte persone ritengono che i cibi ricchi di carboidrati diano un senso di sazietà e dunque siano
soddisfacenti. La mia esperienza pratica suggerisce invece che chi sente l’esigenza di consumare
questo tipo di cibo, probabilmente aveva troppa fame prima di mangiare.

Inoltre, non è tanto importante quanto ci sentiamo appagati subito dopo il pasto, piuttosto
come ci sentiamo qualche ora dopo: quello che conta è la capacità del cibo di placare la fame
per periodi di tempo prolungati. A questo proposito, le prove mostrano chiaramente che i
carboidrati saziano meno delle proteine. E, in particolare, i carboidrati che rilasciano lo
zucchero nel sangue in tempi rapidi soddisfano l’appetito meno di quelli che lo fanno più
lentamente.

Uno dei motivi per cui i carboidrati che liberano velocemente gli zuccheri non saziano molto è
che, dopo un aumento brusco del livello glicemico nel sangue, si può avere come conseguenza
un afflusso di insulina che riporta tali livelli al di sotto della norma. Questa condizione, nota
come “ipoglicemia”, può far scaturire la fame e il desiderio di mangiare in particolare dolci e/o
cibi ricchi di amido.

Nel capitolo 20 esamineremo la propensione dei carboidrati più comuni a far crollare il livello di
zuccheri nel sangue e l’importanza che ciò ha sul controllo del peso e sulla salute.

I grassi saziano

Alcuni studi hanno scoperto che, dato un certo numero di calorie, i grassi soddisfano l’appetito
in modo più efficace dei carboidrati3. Uno dei motivi è che stimolano la secrezione dell’ormone
colecistochinina, che rallenta il ritmo di svuotamento dello stomaco e aiuta così a prolungare
l’effetto di sazietà.

In ogni caso, è probabile che il vero potere dei grassi come inibitori dell’appetito sia legato al
loro effetto sull’insulina, o meglio al fatto che non ne stimolino la secrezione.

Nel capitolo 6 abbiamo parlato di come una dieta povera di grassi e ricca di carboidrati tenda a
innalzare il livello di insulina, che serve a “bloccare” il grasso nelle cellule adipose. Ovviamente,
l’altra faccia della medaglia è che una dieta povera di carboidrati e ricca di grassi abbasserà i
livelli di insulina, permettendo al corpo di liberarsi più velocemente dei lipidi.

I grassi sprigionati in questo modo prima si fanno strada nella circolazione sanguigna e da qui
possono essere assorbiti dalle cellule (ad esempio quelle muscolari), dove possono essere
metabolizzati per produrre energia. Per il corpo questi grassi sono un nutrimento, proprio come
quelli che usa l’orso per sostentarsi quando è in letargo. Vediamo ora come tutto ciò può
aiutarvi a mangiare meno senza avere fame.

Immaginate di dover perdere circa un chilo di grasso nel corso di una settimana seguendo una
dieta che abbassi i livelli di insulina. Un chilo di grasso contiene circa 7000 calorie, quindi in una
settimana ciò significa 1000 calorie di grasso al giorno che possono essere bruciate come
benzina senza che il corpo abbia bisogno di mangiare. Spesso ho notato che, quando le
persone seguono una dieta davvero efficace per ridurre il grasso nel corpo, mangiano
spontaneamente di meno (spesso molto di meno).

Per convenzione, si ritiene che quando qualcuno segue una dieta dimagrisce perché mangia
meno. Ma è davvero così? Si potrebbe ribattere che chi segue una dieta che abbassa i livelli di
insulina mangia meno perché sta perdendo peso, cioè è il grasso che sta bruciando a nutrirlo e
ad arginare la sensazione di fame.

SODDISFAZIONE ASSICURATA

La capacità delle diete ricche di proteine e grassi e povere di carboidrati di soddisfare l’appetito
è stata dimostrata in modo eccellente da uno studio sugli uomini obesi4. In momenti diversi, i
volontari si nutrivano seguendo due regimi diversi, ciascuno per un mese. Le diete erano
entrambe iperproteiche (per il 30 percento dell’apporto calorico), ma differivano per quanto
concerneva la quantità di carboidrati e grassi.

Ecco il rapporto carboidrati-grassi-proteine contenuto in ciascuna delle due diete:

35-33-30 (quantità moderata di carboidrati e grassi)


4-66-30 (povera di carboidrati e ricca di grassi)
Nelle diete della ricerca i volontari potevano mangiare ad libitum, ovvero quanto volevano.

Nel periodo precedente l’adozione di una delle due diete, i soggetti ne avevano seguita una
mirata al mantenimento del peso (l’apporto era di circa 3000 calorie in media al giorno). Il
rapporto carboidrati-grassi-proteine di questa dieta era di 57-30-13. Tale rapporto fra i
macronutrienti rispecchia i consigli nutrizionali classici: la dieta era infatti abbastanza povera di
grassi e ricca di carboidrati.

Uno degli aspetti più rilevanti dello studio era che, quando i soggetti passavano a una delle due
diete sperimentali, mangiavano meno di quanto calcolato per mantenere il peso stabile.
Precisamente, assumevano circa il 40 percento in meno delle calorie, nonostante non fossero
soggetti ad alcuna restrizione quantitativa. Questa scoperta va a sostegno dell’idea secondo cui
i regimi iperproteici avrebbero generalmente maggiore capacità di saziare.

Inoltre, erano state notate alcune differenze fra le due diete testate. Con quella povera di
carboidrati e ricca di grassi, i livelli di fame erano più bassi e questo si traduceva in una minore
assunzione di cibo rispetto alla dieta dal contenuto medio di carboidrati e minore di grassi. In
media, la differenza di apporto calorico era di 167 calorie al giorno.

Questa ricerca dimostra che privilegiare il consumo di proteine può portare a una riduzione
spontanea del consumo di cibo, e tale effetto è persino più evidente quando la dieta è povera
di carboidrati e ricca di grassi.

Il grasso che viene liberato dalle cellule adipose può aiutare a placare l’appetito, ma come un
carburante può anche innalzare i livelli di energia. Spesso ho osservato che, quando le persone
adottano un regime dietetico più povero di carboidrati, in genere dopo un po’ si sentono più
carichi di energia. Il corpo può avere bisogno di tempo (di solito da pochi giorni a tre settimane)
per adattarsi al cambiamento alimentare, ma una volta che ciò sia avvenuto, il risultato è di
avere molta energia e poca fame.

Nel capitolo 17 esamineremo gli altri metodi nutrizionali e alcuni trucchi comportamentali utili
per tenere l’appetito sotto controllo e fare in modo di non mangiare più di quanto sia
opportuno per la salute.

Ora, invece, passeremo in rassegna altri due fattori che possono provocare un aumento di peso
e che le diete dimagranti tradizionali potrebbero favorire.

Timori infondati

A volte si dice che le diete iperproteiche siano rischiose per la salute, in particolare per il cuore.
Gli studi dimostrano che tali regimi, in realtà, riducono i livelli dei trigliceridi nel sangue5,6, la
prima causa dei maggiori rischi di malattie cardiache7. Altre prove associano una più alta
assunzione di proteine a un rischio ridotto di pressione sanguigna elevata e patologie del
cuore8.

Alcuni medici si preoccupano per il fatto che le diete iperproteiche sarebbero nocive per i reni.
Eppure due studi condotti su individui dal normale funzionamento renale non hanno
riscontrato tale effetto9,10. E un’ulteriore ricerca non ha evidenziato alcun effetto negativo sulla
funzionalità renale in concomitanza con apporti proteici dell’ordine di 2,8 g per ogni
chilogrammo di peso corporeo al giorno (una quantità elevata)11. Chi invece ha già problemi
renali potrebbe aver bisogno di limitare il consumo di proteine, sotto controllo medico.

Un’ultima preoccupazione concernente le proteine è legata alla loro presunta capacità di


indebolire le ossa. In realtà, la proteina è una materia prima importante per la costruzione dello
scheletro e una dieta più ricca in tal senso è associata a un ridotto rischio di fratture12,13.

I dubbi relativi alle proteine sono dunque semplicemente infondati.

In sintesi
Le proteine soddisfano l’appetito in modo più efficace di carboidrati e grassi.
I carboidrati non saziano quanto le proteine, e questo vale in particolare per quelli che
alterano fortemente il livello di zuccheri nel sangue.
I lipidi possono essere molto efficaci per soddisfare l’appetito, in parte perché facilitano il
rilascio di grasso dalle cellule adipose, rendendolo disponibile come supporto nel
periodo di dieta.
I regimi alimentari che placano meglio la fame e inducono una riduzione spontanea del
consumo di cibo sono quelli abbastanza ricchi di proteine e grassi e poveri di carboidrati.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 9

IL RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE

Nel capitolo 3 abbiamo appreso che l’obesità addominale può far insorgere delle
infiammazioni. Tuttavia esistono sempre più prove del fatto che esse potrebbero non essere
soltanto una conseguenza di un eccessivo deposito adiposo, bensì addirittura la causa. Questa
strada a doppio senso permetterebbe quindi all’obesità e ai problemi a essa associati di
persistere e autosostentarsi. Inoltre, seguire una tradizionale dieta dimagrante non farebbe che
alimentare tali meccanismi, perpetuando i problemi di peso nonostante gli sforzi compiuti. La
situazione, però, non è grave come sembra, e in questo capitolo vedremo come combattere tali
difficoltà e sfuggire alla trappola della dieta.

L’insulinoresistenza

L’insulina è la principale responsabile dei depositi adiposi nel corpo: in linea generale, più
secerniamo questo ormone, più ingrassiamo. A complicare ulteriormente le cose è il fatto che,
più insulina produciamo nel tempo, più è facile che il corpo sviluppi una forma di difesa agli
effetti di questo ormone, condizione nota come “resistenza all’insulina” o “insulinoresistenza”.
Tale situazione è aggravata dall’infiammazione, che può impedire all’insulina di svolgere il
proprio lavoro. Una delle funzioni principali dell’insulina è quella di ridurre il livello degli
zuccheri nel sangue, facilitandone il passaggio dalla circolazione alle cellule; la resistenza
all’insulina, dunque, comporterà un più alto livello glicemico nel sangue. Questa condizione
induce l’organismo a secernere più insulina, nel tentativo di eliminare questi zuccheri,
aggravandone la resistenza (e facendo ripartire il circolo vizioso). Alla fine, il corpo può
diventare talmente resistente all’insulina che il livello elevato di zuccheri nel sangue diventa
cronico. Il risultato finale è ciò che viene chiamato diabete di tipo 2.

Anche prima che insorga tale malattia, però, la resistenza all’insulina può avere effetti
devastanti sul peso e sul benessere. È noto che tessuti diversi possono sviluppare diversi gradi
di resistenza all’insulina, e mentre le cellule adipose tendono a conservare la loro sensibilità
verso questo ormone, altri tessuti e organi, tra cui i muscoli, il fegato e il cervello, la perdono. A
cosa porta una simile situazione?

Se le cellule adipose restano abbastanza sensibili all’insulina, allora possono continuare ad


assorbire e immagazzinare grasso. Ma se le fibre muscolari diventano resistenti, non saranno
più in grado di assorbire i nutrienti e possono ritrovarsi a corto di carburante, creando
affaticamento. Lo stesso può succedere al cervello, con conseguenti problemi di letargia
mentale e stimolo della fame. La resistenza all’insulina può anche indurre il fegato a rilasciare
zuccheri nel sangue, che richiederanno ulteriore secrezione di insulina, aggravando ancora di
più la situazione.

In breve, la resistenza all’insulina può condurre a:

Aumento del livello di zuccheri nel sangue, in parte a causa di una sua minore pulizia, in
parte a causa della maggiore glicemia rilasciata dal fegato.
Continuo assorbimento e deposito di grasso nelle cellule adipose.
Affaticamento fisico e mentale e sensazione di fame perché muscoli e cervello non
hanno carburante a sufficienza.

Ritrovo comunemente nella realtà questa immagine di una persona sovrappeso, affaticata e
affamata, che forse è familiare anche a voi. La resistenza all’insulina e i suoi effetti non sono
una condizione salutare, e mantenere e migliorare tale “sensibilità” è un obiettivo decisamente
utile per coloro che cercano di controllare il proprio peso e migliorare la propria condizione.
Come vedremo nei capitoli successivi, l’attività fisica può aumentare la sensibilità all’insulina. E
la dieta, invece?

Compiere alcuni passi verso un regime alimentare capace di favorire una riduzione della
richiesta di secrezione di insulina è auspicabile, così come lo è ridurre l’infiammazione. Alla fine
del capitolo, vedremo quale tipo di dieta soddisfa entrambi gli obiettivi. Ma prima esaminiamo
un altro meccanismo attraverso il quale l’infiammazione può condurre all’obesità.

L’obesità è una “condizione mentale”?

Immaginate una persona che mangia quando ha fame e smette quando è del tutto sazia, senza
mai contare le calorie o ridurre la quantità di cibo, e senza preoccuparsi di quante ne brucia con
l’attività fisica. Eppure il suo peso è stabile come una roccia giorno dopo giorno, anno dopo
anno. Come fa? La risposta è che il suo corpo sta regolando il peso in modo automatico.

Per mantenere stabile il proprio peso, l’organismo deve sforzarsi di conservare l’equilibrio
calorico. Se si concedesse di oltrepassare il segno anche di sole 50 calorie al giorno, in teoria
potrebbe arrivare ad accumulare due chili in più di grasso nel corso di appena un anno.

Un altro punto di vista è considerare il peso in eccesso come il risultato del malfunzionamento
dei sistemi autoregolatori dell’organismo. Un meccanismo che può essere importante qui
riguarda la leptina. Ne abbiamo parlato nei capitoli 4 e 5, dove abbiamo messo in luce la sua
capacità di soddisfare l’appetito e stimolare il metabolismo. La leptina provoca questi effetti
attraverso l’azione su una parte del cervello chiamata “ipotalamo”, il quale svolge un ruolo
chiave nella regolazione del metabolismo e della fame.

Se le cose funzionano normalmente, quando aumentiamo di peso le nostre cellule adipose


producono una maggiore quantità di leptina, con la conseguenza che noi mangiamo meno e il
nostro metabolismo è stimolato a bruciare una parte del grasso in eccesso. Con il diminuire
delle riserve di grasso, i livelli di leptina si abbassano, e di conseguenza mangiamo un po’ di più
e bruciamo un po’ meno grassi.

Alcuni scienziati hanno teorizzato che, finché la leptina svolge il suo lavoro, non c’è bisogno che
gli individui tengano sotto controllo il peso. Le persone che si mantengono stabili e in salute
senza compiere alcuno sforzo consapevole probabilmente hanno, fra le altre cose, un corretto
funzionamento di questo ormone.

Negli ultimi anni è stata sempre più riconosciuta l’importanza di quella che viene definita la
“resistenza alla leptina”. In tale condizione gli effetti dell’ormone mutano, e il risultato può
essere un metabolismo lento e una fame maggiore, due condizioni svantaggiate se state
cercando di raggiungere e mantenere un peso forma. Proprio come succedeva con la resistenza
all’insulina, l’infiammazione non permette alla leptina di funzionare.

Cosa non bisogna mangiare

L’infiammazione svolge un ruolo chiave sia nella resistenza all’insulina sia in quella alla leptina,
e affaticamento, fame e aumento di peso ne sono le conseguenze. Quali caratteristiche della
dieta entrano in gioco in questo caso?

Una delle principali cause dell’infiammazione è l’aumento improvviso dei livelli glicemici nel
sangue. I carboidrati che più velocemente fanno aumentare tale livello sono i più dannosi in
questo senso. Nel capitolo 11 esamineremo il rilascio di zuccheri dei carboidrati più comuni, e il
relativo impatto sul peso e sulla salute. Posso già anticipare, però, che tra i cibi più problematici
in questo senso ci sono prodotti amidacei in teoria salutari come pane, patate, riso, pasta e
cereali.

Questi cibi tendono anche ad aumentare il livello dei trigliceridi nel sangue. È un aspetto
importante, perché essi ostacolano il trasporto della leptina nel cervello e contribuiscono quindi
a rendere complicato il funzionamento di questo ormone.

Diete e danni

Nel capitolo 6 ho elencato le ragioni fondamentali per cui le diete ipocaloriche e ipolipidiche
difficilmente condurranno a risultati duraturi per quanto concerne la perdita di grasso, e
potrebbero persino risultare controproducenti. Regimi alimentari simili tendono naturalmente
a saziare poco, e il loro potenziale impatto sul funzionamento di insulina e leptina ci dà ancora
più motivi per evitarle, se il nostro scopo è perdere peso.

Riassumiamo nel seguente elenco aggiornato gli effetti delle diete tradizionali:

Un maggiore rallentamento del metabolismo rispetto a quanto previsto dalla perdita di


peso.
Consumo ridotto di energia a seguito di una diminuzione spontanea dell’attività fisica.
Carenze nutrizionali che potrebbero rallentare il tasso metabolico.
Fame, preoccupazione legata al cibo e diminuzione del benessere psico-fisico.
Aumento dei livelli di cortisolo, che predispone a un incremento di grassi e di malattie.
Una condizione biochimica che, attraverso l’azione dell’insulina, predispone alla
formazione e ai depositi lipidici nelle cellule adipose.
Capacità limitata di soddisfare l’appetito in modo appropriato, e rischio di una maggiore
fame come effetto del crollo del livello di zuccheri nel sangue.
Più resistenza all’insulina, che può portare fame, affaticamento, aumento dei livelli di
insulina e ulteriore deposito di grassi.
Ostacolo al funzionamento della leptina come effetto dell’infiammazione, con un
conseguente metabolismo rallentato e una fame più intensa.
Riduzione del funzionamento della leptina, il cui trasporto nel cervello viene ostacolato.

Tutti questi meccanismi messi insieme rappresentano uno degli inganni in campo dietetico in
cui potreste essere caduti in passato. Ma arriviamo alla domanda più importante: cosa potete
fare per venirne a capo?

Sfuggire alla trappola delle diete

Se un regime ipocalorico, povero di grassi e ricco di carboidrati, condurrà a disastri nel lungo
periodo, sembra ragionevole credere che una dieta più ricca di grassi e povera di carboidrati sia
l’antidoto perfetto.

Va ricordato che una dieta con pochi glucidi provocherà in generale un abbassamento dei livelli
di insulina e aiuterà a stimolare la “lipolisi”. Il grasso accumulato dalle cellule adipose potrà
essere usato come “nutrimento”, generando energia sufficiente e placando allo stesso tempo la
fame.

Meno carboidrati significa meno picchi glicemici nel sangue, meno infiammazioni e livelli più
bassi di trigliceridi. Questo aiuterà a migliorare la sensibilità sia all’insulina sia alla leptina. Con
ogni probabilità, ciò abbasserà i livelli di insulina e favorirà la perdita di grasso, assieme a un
aumento dell’energia, della stimolazione del metabolismo e a un’ulteriore riduzione della fame.

Se le cellule sono rifornite a sufficienza grazie alla combinazione di cibo e grasso proveniente
dalle cellule adipose, il corpo non proverà la sensazione di “uno scarso nutrimento” e sarà
meno incline a porre un freno al metabolismo.

E tutto questo, va tenuto presente, sarebbe possibile senza alcuna restrizione consapevole
delle calorie e senza controllo delle porzioni.

I capitoli 18-20 vi offriranno le conoscenze e i metodi pratici indispensabili per integrare questo
tipo di dieta nella vostra vita senza troppe difficoltà.

Nel prossimo capitolo, invece, vedremo cosa dice la ricerca riguardo alle diete povere di
carboidrati, e quali risultati diano a confronto con quelle tradizionali ipocaloriche e ipolipidiche.

In sintesi
La resistenza all’insulina è una caratteristica comune dell’obesità e del diabete di tipo 2.
La resistenza all’insulina insorge più facilmente se la dieta è ricca di cibi che provocano
una maggiore secrezione di tale ormone.
La resistenza all’insulina è associata anche all’infiammazione.
L’infiammazione nel cervello può predisporre all’obesità, perché impedisce alla leptina di
funzionare.
La leptina non può agire adeguatamente se non arriva al cervello come dovrebbe a
seguito dell’aumento dei trigliceridi nel sangue.
I carboidrati che innalzano i livelli glicemici nel sangue provocano infiammazione e
aumentano i trigliceridi.
Le diete povere di carboidrati dovrebbero incrementare la sensibilità all’insulina e il
funzionamento della leptina, oltre a favorire la perdita di peso senza che il soggetto
debba soffrire la fame.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 10

DIETE ALLA PROVA

Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato una serie di motivi per cui le diete ipolipidiche, con
la fame e le restrizioni che ne conseguono, difficilmente ci porteranno a una perdita di peso
soddisfacente e duratura. D’altro canto, abbiamo visto come un regime alimentare abbastanza
ricco di grassi e proteine, e privo di riduzioni caloriche, potrebbe contrastare alcuni dei
problemi associati alle diete tradizionali e portare a risultati migliori in termini di dimagrimento.
Ora che abbiamo teorizzato i vantaggi relativi di queste due diete differenti, vediamo come si
presentano se messe a confronto.

Esperimenti

Al momento esiste oltre una dozzina di studi in cui le diete povere di carboidrati e quelle povere
di grassi sono state messe a confronto diretto. In questi studi, a chi seguiva una dieta povera di
grassi è stato chiesto di ridurre l’apporto calorico (in genere 500 calorie in meno al giorno
rispetto all’ammontare necessario a mantenere un peso stabile). D’altro canto, a coloro che
seguivano una dieta povera di carboidrati era solitamente consentito di mangiare liberamente
(le cosiddette diete ad libitum). L’apporto iniziale dei carboidrati in questi studi in genere era
basso (20 o 30 g al giorno), anche se in molti test era permessa una loro graduale
reintroduzione con il passare del tempo.

La tabella 3 sintetizza alcuni studi importanti condotti a partire dal 2000. Tra i dati riportati vi è
la durata della ricerca e la perdita di peso media per ognuna delle due diete. È specificato anche
se il risultato sia considerato significativo dal punto di vista statistico o meno (cioè se è è
possibile che si tratti di una differenza vera e propria o soltanto di una casualità).

Uno dei problemi fondamentali nelle ricerche di questo tipo riguarda la cosiddetta
“conformità”. I ricercatori dicono alle persone che cosa mangiare, ma se poi queste seguano o
meno il consiglio è un’altra questione. La conformità di solito è alta nel breve periodo, ma
tende a diminuire con l’andare del tempo. Di conseguenza, anche se i due approcci hanno in
generale effetti diversi, i risultati a lungo termine tendono a convergere. Questo non è un buon
motivo per rifiutare i dati della ricerca, ma dovremmo tenerlo presente quando giudicheremo i
risultati degli studi, in particolare quelli durati più a lungo nel tempo.
* Per gli studi si vedano le note 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13

Ma ora lasciamo da parte questa avvertenza e riassumiamo i risultati dello studio:

Un dimagrimento significativo dal punto di vista statistico è stato riscontrato nei gruppi
che si sottoponevano a diete povere di carboidrati di breve durata (3-6 mesi) e in due
esperimenti di lunga durata.
Fra i test di un anno o più, due hanno mostrato risultati significativi dal punto di vista
statistico a favore della dieta povera di carboidrati.
Tutti gli esperimenti hanno avuto esiti favorevoli alla dieta povera di carboidrati.

Nel gruppo che seguiva la dieta povera di carboidrati, la perdita media di peso si attestava
attorno ai 7,6 kg, a differenza dei 4,7 kg di coloro che seguivano quella ipocalorica. Va ricordato,
però, che chi seguiva la dieta povera di grassi doveva stare attento a controllare quanto
mangiava, mentre chi faceva l’altra poteva consumare quanto cibo voleva. Questi ultimi,
nonostante i loro pasti fossero totalmente privi di limitazioni, globalmente hanno finito per
perdere il 62 percento di peso in più rispetto a chi doveva tenere sotto controllo le calorie.

Complessivamente, la ricerca mostra che le diete povere di carboidrati sono significativamente


più efficaci per la perdita di peso rispetto a quelle ipocaloriche e ipolipidiche.
Nonostante i vantaggi generali di queste diete dimagranti, alcuni le guardano con scetticismo
per l’impatto che si ritiene abbiano sulla salute. Sarete al corrente, per esempio, dell’opinione
secondo cui limitare i cibi a base di cereali significa perdere dei nutrienti essenziali. E poi, che
dire di tutti quei grassi saturi e del colesterolo contenuti in carne, uova e burro, alimenti che
queste diete includono in gran quantità? Non saranno dannosi per il cuore?

Nei capitoli successivi vedremo le ricerche relative a questi e altri problemi. Ma prima
analizzeremo con attenzione quale dovrebbe essere la dieta migliore per noi, guardando alla
storia nutrizionale della specie umana.

In sintesi
Secondo gli studi, le diete povere di carboidrati che permettono agli individui di mangiare
quanto vogliono danno risultati decisamente migliori in termini di dimagrimento rispetto a
quelle ipolipidiche e ipocaloriche.
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Capitolo 11

LA DIETA PRIMITIVA

Le opinioni riguardo ciò che dovremmo e non dovremmo mangiare di certo non mancano; il
problema è che fin troppe sono contrastanti, confuse o contraddittorie. Questo libro ne ha già
dato un esempio, portando argomenti a favore e contro l’efficacia delle diete ipolipidiche e di
quelle povere di carboidrati. Altri esempi possono essere gli effetti che hanno i dolcificanti
artificiali sul peso e se sia più salutare la margarina o il burro.

Più avanti risolveremo una volta per tutte queste e altre dispute riguardanti le diete, sulla base
di ricerche aggiornate. Ma lasciamo per un momento da parte la scienza; cosa ci suggerisce il
buon senso quando ci chiediamo quali sono i cibi che dovremmo mangiare?

Secondo un’opinione diffusa, la dieta più sana è quella basata sugli alimenti che l’uomo mangia
da quando è apparso sulla faccia della Terra. In fin dei conti, l’uomo si è evoluto per mangiare
determinati cibi, che di conseguenza sono proprio quelli più adatti a noi e che meglio
soddisferanno le nostre esigenze. I nuovi arrivati in campo nutrizionale, invece, probabilmente
sono inadatti alla fisiologia umana e potrebbero più facilmente causare malattie e problemi di
salute.

In questo capitolo esamineremo il nostro percorso evolutivo e quel che abbiamo mangiato nel
tempo.

Nei successivi, vedremo se la “dieta primitiva” dettata dal buon senso corrisponde alle più
significative scoperte scientifiche.

Di cosa ci nutrivamo?

In ambito scientifico è generalmente accettato il fatto che la cosiddetta specie “umana” è una
lontana discendente dei grandi primati. Dal punto di vista genetico, gli esseri umani sono
imparentati molto strettamente con gli scimpanzé. E se è vero che, nel nostro immaginario, lo
scimpanzé si nutre di banane, è anche vero che questo primate integra la sua dieta con cibi di
origine animale quali, cacciagione1,2, insetti e uova. In altre parole, quello che è ritenuto il
nostro antenato evolutivo è un onnivoro.

Si ritiene che il nostro primo vero progenitore sia comparso circa 2,5 milioni di anni fa in Africa.
Circa 1,7 milioni di anni fa i nostri predecessori si erano spinti nelle regioni più fredde che
scarseggiavano di piante commestibili, con la conseguenza che il consumo di carne divenne
necessario per la sopravvivenza. Ulteriori prove del fatto che i nostri antenati mangiassero
carne si possono trovare nell’usura dei loro denti3, così come nel rinvenimento di attrezzi in
pietra e ossa affilati, un segno che la macellazione avveniva già 2 milioni di anni fa4.

Circa 900.000 anni fa, la Terra ha subìto un considerevole raffreddamento, un avvenimento che
deve avere reso i nostri antenati abbastanza dipendenti dalla caccia per sopravvivere5. Anche i
reperti archeologici risalenti a 400.000 anni fa provano che il loro regime alimentare era
chiaramente quello degli onnivori6.

Testimonianze più dirette della nostra dieta evolutiva derivano dalle analisi chimiche dello
smalto dei denti e dell’ossatura: hanno rivelato che nel periodo compreso fra 30.000 e 13.000
anni fa la nostra alimentazione era molto ricca di proteine derivanti dalla carne e dal
pesce7-9.Soltanto 10.000 anni fa, quindi molto di recente in termini evolutivi, i nostri antenati
hanno iniziato a dedicarsi all’agricoltura e al consumo di frumento10,11.
L’allevamento del bestiame, e di conseguenza il consumo di latticini, pare sia comparso solo
5000 anni dopo.

Questo significa che, per la maggior parte del tempo trascorso dall’uomo sulla Terra, la sua
dieta era interamente costituita da alimenti ricavati dalla caccia e dalla raccolta.

Il regime alimentare di un cacciatore-raccoglitore poteva variare in modo considerevole in base


al clima e alla disponibilità di cibo. Alcuni nostri antenati che abitavano nei climi più freddi, per
esempio, avrebbero osservato una dieta ricca di carne e forse di pesce. Coloro che vivevano più
vicino all’equatore probabilmente avevano accesso alle piante, di conseguenza è possibile che
mangiassero meno carne.

Possiamo capire meglio la composizione della nostra dieta evolutiva attraverso l’analisi
dell’alimentazione delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell’era moderna12. La tabella 4
riassume i dati provenienti da un totale di 229 popoli simili.

Come ci aspettavamo, più ci allontaniamo dall’equatore verso le zone più fredde, maggiore è la
dipendenza da cibi di origine animale per la sopravvivenza. Nel suo insieme, la ricerca mostra
che:

La maggior parte delle popolazioni (73 percento) otteneva più della metà dell’apporto
calorico da cibi di origine animale.
Al contrario, soltanto il 13,5 percento delle popolazioni ricavava più della metà delle
calorie dalle piante.
Si è scoperto che il 20 percento delle popolazioni dipendeva per la maggior parte o del
tutto da cibi ricavati da caccia o pesca.
Al contrario, nessuna popolazione di cacciatori-raccoglitori era totalmente o
largamente dipendente dalla raccolta di vegetali.

I dati suggeriscono che, prima dello sviluppo dell’agricoltura, in generale la nostra


sopravvivenza dipendeva dal consumo di carne. La coltivazione dei cereali ci avrebbe aiutati a
disporre di una risorsa alimentare più affidabile. Quest’epoca, talvolta chiamata “rivoluzione
neolitica”, ha portato a una rapida crescita della popolazione e a un modo di vivere che alla fine
è culminato nella cosiddetta “civilizzazione”.

Tale punto di svolta nelle abitudini dell’essere umano è spesso considerato un enorme passo
avanti, ma non è possibile che si sia invece trattato di un grande passo indietro in termini di
salute? Tenendo conto della lentezza con cui procedono l’adattamento e l’evoluzione genetica,
i cambiamenti nel regime alimentare cui ci siamo sottoposti nelle ultime poche migliaia di anni
non potrebbero avere spianato la strada a un’epoca buia in termini di dieta?

Dove abbiamo sbagliato?

Possiamo trarre preziose informazioni sulla salute dei nostri antenati esaminando i resti ossei e
dentali. Ci sono prove, per esempio, che il Neolitico ha portato a un significativo
deterioramento della nostra salute dentale, con un’alta diffusione della carie13. Anche le ossa
risalenti a questo periodo portano i segni del nostro passaggio a una dieta a base di cereali:
questa svolta alimentare ha portato velocemente a una riduzione dell’altezza di circa 12-16
cm14.

Ci sono varie ragioni per cui il passaggio a una dieta cerealicola può averci condotto a una
riduzione di taglia. È noto, per esempio, che i cereali contengono sostanze denominate “fitati”,
che ostacolano l’assorbimento di calcio e di altri nutrienti. Inoltre, è stato dimostrato che i
cereali integrali interferiscono con l’assimilazione della vitamina D, con conseguenze importanti
per la salute delle ossa15.

Altre prove di quello che può accadere se voltiamo le spalle alla nostra dieta evolutiva ce le
fornisce un dentista americano del ventesimo secolo, il dottor Weston A. Price. Price aveva
notato che un numero sempre crescente dei suoi pazienti adulti soffriva di malattie croniche e
degenerative. Aveva inoltre osservato che fra i più giovani erano aumentati i problemi dentali,
come malformazioni e carie. Incuriosito dalla causa di tale peggioramento, Price ha cercato di
trovare una spiegazione.

Il dottore aveva letto che i membri di alcune culture indigene erano in buona salute e
totalmente privi di certe patologie che invece riscontrava con frequenza sempre maggiore nella
sua città natale, Cleveland, in Ohio. Scoprire cosa spiegasse la salute florida di queste
popolazioni divenne la sua missione. Si imbarcò in un viaggio di ricerca durato nove anni,
durante il quale documentò minuziosamente la salute e lo stile di vita di popolazioni
relativamente immuni ai cambiamenti alimentari tipici della civilizzazione. In totale, Price studiò
quattordici culture di tutto il mondo, situate in luoghi diversi come le Alpi svizzere, le isole della
Polinesia, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada settentrionale e il Circolo polare artico.

Il medico documentò le sue ricerche nel celebre libro Nutrition and Physical Degeneration,
pubblicato nel 1939, nel quale presentava informazioni dettagliate sulle diete delle popolazioni
da lui studiate. C’era, ovviamente, un certo grado di difformità che dipendeva da un gran
numero di fattori, tra cui le usanze e la disponibilità di cibo. Ma seppure vi fossero divergenze
nelle abitudini alimentari delle culture studiate da Price, alcuni fattori erano comuni a tutte:
nessuna era vegetariana e includeva cibi lavorati.

Data la specializzazione di Price, certo non sorprende che si concentrasse sulla salute dentale
dei popoli da lui studiati. Invece sorprende il fatto che, dovunque si recasse, non trovava un
peggioramento dei denti, sebbene le popolazioni esaminate non fossero abituate a usare
dentifricio e spazzolino. Price aveva inoltre notato che, oltre a denti e gengive sani, gli individui
studiati godevano di ottima salute, nonostante le condizioni spesso difficili in cui vivevano.

Price ebbe modo di osservare indigeni che da poco avevano adottato abitudini alimentari più
moderne. Notò così che in corrispondenza di deviazioni dalla dieta originaria, i dati mostravano
il diffondersi di problemi dentali e sanitari in genere.

Tutto cambia

Prima del Neolitico, non venivano consumati alimenti oggi tipici della nostra dieta, come cereali
e latticini. E solo in tempi molto recenti abbiamo visto l’introduzione di una considerevole
quantità di zucchero raffinato, oli vegetali e prodotti a base di farina che, come quelli succitati,
non avevano mai sfiorato le nostre labbra per la maggior parte del cammino evolutivo della
nostra specie. Ecco un riassunto dei principali cambiamenti che ha conosciuto la nostra dieta
relativamente da poco:

Cereali

La coltivazione e il consumo dei cereali è iniziato soltanto 10.000 anni fa, ma ora cibi come
pane, riso, pasta e prodotti per la prima colazione rappresentano circa un terzo del numero
totale di calorie che consumiamo16. Non è soltanto la quantità di cereali che mangiamo ad avere
una certa importanza per la nostra salute, ma è la loro qualità. Mentre quelli che mangiavamo
inizialmente venivano di rado lavorati, la Rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo ha
permesso il raffinamento dei cereali su scala mai vista in precedenza. Questi processi non solo li
hanno privati di molti dei loro nutrienti, ma possono anche essere causa di un più rapido
rilascio di zuccheri nel sangue. L’importanza di questo problema verrà esaminato nel capitolo
14.

Latticini

Il consumo di latticini risale a circa 5.000 anni fa, nonostante questi prodotti ora contribuiscano
a fornire circa il 10 percento delle calorie che consumiamo16.

Zucchero raffinato

Mentre lo zucchero contenuto nella frutta e nel miele è sempre stato presente nella nostra
dieta, lo stesso non si può dire di quello “raffinato”, estratto da un alimento (come la
barbabietola da zucchero, la canna da zucchero o il mais) per essere poi aggiunto a un altro
cibo, per esempio una bibita, lo yogurt alla frutta, i biscotti o le barrette di cioccolato. La
differenza fondamentale qui è che lo zucchero che si trova naturalmente negli alimenti
(zucchero “intrinseco”) tende a essere rilasciato nel sangue più lentamente rispetto a quello
aggiunto al cibo (zucchero “estrinseco”). Lo zucchero raffinato si è diffuso nella nostra dieta
dopo la Rivoluzione industriale, e ora rappresenta circa il 13 percento del totale delle calorie
che consumiamo16.

Oli vegetali raffinati e lavorati industrialmente

Gli oli “vegetali” vengono estratti da cereali (per esempio il mais), semi (per esempio semi di
girasole o semi di colza) o legumi (olio di soia). La Rivoluzione industriale ha introdotto tecniche
di lavorazione alimentare che hanno permesso la produzione di massa di questi oli. Quindi solo
di recente abbiamo iniziato a consumare oli vegetali che si trovano in cibi lavorati e in quantità
decisamente superiore rispetto a quanto sarebbe possibile consumando l’alimento da cui sono
estratti. In Gran Bretagna la quantità di olio vegetale raffinato consumata non è stata registrata,
ma è probabile che sia simile a quella degli Stati Uniti, che oggi come oggi si attesta attorno al
18 percento del totale delle calorie assunte.

Alcol

Il consumo di alcol è una caratteristica importante per molte culture del mondo, ma gli studi
suggeriscono che esso risalga a soltanto 7.000 anni fa. Oggi, l’alcol rappresenta circa il 6,5
percento dell’apporto calorico negli uomini e il 4 nelle donne16. Gli effetti del consumo di alcol
sulla salute saranno esaminati nel capitolo 19.

Sale

Si ritiene che il sale sia stato usato per la prima volta come additivo alimentare in Cina circa
8.000 anni fa17. Al giorno d’oggi in Gran Bretagna il consumo di sale si attesta in media attorno
agli 11 g al giorno per gli uomini e a oltre 8 g per le donne. Circa il 10 percento del sale usato si
trova naturalmente nel cibo. Un altro 10 percento viene aggiunto cucinando o a tavola. La gran
parte del sale che assumiamo proviene dal consumo di cibi lavorati come pane, cereali per la
prima colazione, formaggio, snack salati, verdure in scatola e carni trattate come pancetta,
prosciutto, salsicce e hamburger di manzo.

CRONOLOGIA DELL’EVOLUZIONE

Un buon modo per avere una visione generale più chiara dei cambiamenti intervenuti nella
nostra dieta è immaginare l’evoluzione dell’uomo nel corso di un solo anno, collocando l’origine
della vita il 1° gennaio e il presente alla mezzanotte del 31 dicembre.

Visti in questo modo, gli esseri umani sono stati esclusivamente cacciatori-raccoglitori fino alla
mezzanotte del 30 dicembre, momento in cui abbiamo aggiunto i cereali alla nostra dieta.
Verso mezzogiorno del 31 dicembre iniziamo a mangiare i latticini. Cereali lavorati, zucchero
raffinato e oli vegetali entrano nella dieta umana attorno alle 23:15 del 31 dicembre.

Come era, come è

Cosa succede se paragoniamo questi cambiamenti con la nostra dieta più antica? I nuovi
prodotti alimentari, come cereali, latticini, zucchero raffinato e oli vegetali lavorati,
rappresentano più del 75 percento delle calorie che assumiamo.

Non c’è dubbio che, come specie, possediamo una certa capacità di adattarci ai cambiamenti
alimentari relativamente recenti. Ne è un esempio la digestione del lattosio, uno zucchero del
latte. Il lattosio viene scomposto all’interno del nostro intestino da un enzima, la “lattasi”. I
neonati producono lattasi per digerire il lattosio presente nel latte materno. Nella maggior
parte dei casi, però, è un’abilità che si perde nella prima infanzia. Circa il 70 percento degli
adulti nel mondo non riesce a digerire il lattosio, ma il rimanente 30 percento sì, e questi
individui probabilmente rappresentano un adattamento genetico al consumo di questo
zucchero.

In ogni caso, esistono dei limiti: la nostra capacità di adattamento è limitata dal cambiamento
genetico, che è generalmente molto lento. Perciò, mentre possiamo essere in grado di
convivere con alcune delle novità nella nostra dieta, non avremo esiti positivi se più di tre quarti
di ciò che mangiamo è composto da cibi di recente introduzione. Ed è molto improbabile che da
un simile regime alimentare sia davvero possibile trarre beneficio.

ALLORA PERCHÉ SIAMO PIÙ LONGEVI?

Se il passaggio dalla nostra dieta originaria a una più moderna è tanto dannoso per la nostra
salute, perché oggi viviamo di più rispetto a una volta? Prima del Neolitico, l’aspettativa di vita
media si stima fosse di 35 anni per gli uomini e 30 per le donne. Niente al confronto con le
attuali aspettative di circa 75 e 80 anni rispettivamente per uomini e donne, in Inghilterra e in
Scozia.

Una spiegazione di tale longevità è data dal fatto che i nostri antenati erano in balia di
fenomeni come guerre, carestie, climi estremi e attacchi di animali, problemi che ora ci
riguardano molto meno. Inoltre, gli sviluppi della medicina, delle condizioni igieniche e della
sanità sono stati strumenti essenziali per la riduzione del rischio di morte dovuto, per esempio,
a malattie infettive o al parto.

Come vedremo nei capitoli successivi, esistono prove scientifiche a sostegno dell’opinione
secondo cui le novità in campo alimentare possano essere davvero rischiose per la nostra
salute. La conclusione logica, perciò, è che la nostra aspettativa di vita è migliorata non a causa
dei recenti cambiamenti nelle abitudini alimentari, ma nonostante essi.

Ritorno al passato

Abbiamo visto nei capitoli precedenti come le diete ricche di proteine e grassi e povere di
carboidrati siano le più efficaci per mantenere un peso salutare. Se la teoria “originaria” della
sana alimentazione è corretta, allora questo tipo di composizione dovrebbe riflettere la nostra
dieta evolutiva. I dati raccolti fra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori ci permettono di
calcolare quali macronutrienti è verosimile che costituissero l’alimentazione dei nostri antenati.
Li vediamo illustrati nella tabella 5, insieme alla composizione tipica della dieta dei giorni nostri.

Paragonata al regime alimentare odierno, una dieta che riflette le nostre abitudini alimentari
evolutive dovrebbe contenere:

Molti meno carboidrati.


Molte più proteine.
In generale più grassi.

Forse non è una coincidenza se solo questo tipo di alimentazione si è rivelata la più efficace per
controllare il peso in modo naturale. Varrebbe la pena riflettere sul fatto che l’obesità è
essenzialmente sconosciuta nelle culture che seguono una dieta primitiva, senza che ci sia
bisogno di limitare le calorie, privarsi dei grassi o pesare le porzioni.

Dieta primitiva e salute

Ma quali sono gli effetti di una dieta “primitiva” sulla salute? Alcuni aspetti del sapere
nutrizionale classico e la teoria primitiva si sposano alla perfezione. Per esempio, frutta, verdura
e pesce sono cibi originari e generalmente hanno fama di essere salutari. Viceversa, alimenti
antichi come carne e uova, invece, non ce l’hanno.

Ulteriori incongruenze si ritrovano riguardo a cibi relativamente recenti, come oli vegetali,
cereali e latticini, di cui ci viene detto che sono alimenti sani, nutrienti e persino essenziali per
la nostra salute.

Nei prossimi capitoli amplieremo la nostra ricerca sulla nutrizione andando oltre il problema del
peso ed esaminando gli effetti che certi specifici alimenti hanno sulla salute.

E vedremo se il buon senso della dieta primitiva trova conferma nella scienza.

In sintesi
La dieta più sana dovrebbe basarsi sui cibi ai quali siamo meglio adattati dal punto di
vista evolutivo.
Le prove dei reperti archeologici e delle analisi chimiche su ossa e denti rivelano che nel
corso dell’evoluzione la nostra dieta era basata su carne e prodotti animali in genere.
Lo studio delle diete di popolazioni moderne cacciatrici-raccoglitrici mostra in generale
un’elevata dipendenza dai cibi di origine animale, in particolare nelle zone con climi più
freddi.
L’introduzione dei cereali nell’alimentazione umana, avvenuta circa 10.000 anni fa, è
stata accompagnata da un peggioramento della salute dentale e una sostanziale
riduzione dell’altezza.
È provato che le popolazioni che mangiano cibo naturale e non lavorato generalmente
godono di ottima salute.
È provato che allontanarsi da una dieta originaria per una basata su cibi “occidentali”
porta a un peggioramento dello stato di salute.
I cibi relativamente “nuovi”, come cereali, latticini, oli vegetali lavorati e zucchero
raffinato, rappresentano più dei tre quarti dell’alimentazione moderna.
Se paragonate ai regimi alimentari moderni, le diete “primitive” sono in genere più ricche
di proteine e grassi e più povere di carboidrati.
I macronutrienti di cui è costituita la dieta primitiva rispecchiano quella che si è rivelata
più efficace per il controllo del peso.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 12

LA VERITÀ SUI GRASSI

Forse non è un’esagerazione affermare che noi occidentali abbiamo sviluppato una vera e
propria fobia per il grasso. Siamo stati ripetutamente messi all’erta, per esempio, dalla
propensione dei cosiddetti grassi “saturi” a ostruire le arterie e ad aumentare il rischio di
attacchi di cuore e infarti. Il colesterolo contenuto nei cibi è stato altrettanto demonizzato, e
per questo molti di noi lo evitano. Di conseguenza, siamo stati persuasi a modificare le nostre
abitudini alimentari introducendo margarina e oli vegetali che, ci viene assicurato, sono molto
più sani.

Eppure, i grassi saturi e il colesterolo fanno parte di alimenti primitivi come carne e uova e sono
presenti da sempre nella nostra dieta. Perciò, in via di principio, dovrebbero essere sostanze
alle quali ci siamo ormai ben adattati. Dall’altro lato, i grassi raffinati e lavorati, aggiunti solo di
recente alle nostre abitudini alimentari, potrebbero, secondo la teoria primitiva, essere
guardati con sospetto. In questo capitolo cercheremo di capire se le credenze comuni sui grassi
nei cibi resistono a un esame più dettagliato.

Il cuore del problema

L’idea che i grassi saturi provochino malattie cardiache si è affermata con forza a partire dagli
anni Settanta grazie alla pubblicazione dell’influente studio di un ricercatore americano, Ancel
Keys1. La sua analisi intendeva mettere in luce un evidente collegamento fra la quantità di grassi
saturi consumati in sette Paesi e il rischio di patologie cardiache. Dopo la sua pubblicazione, il
testo è stato molto spesso citato come prova convincente del fatto che i grassi saturi provocano
malattie cardiache, e Keys è ritenuto il principale ispiratore della fobia nei confronti di questi
nutrienti che persiste ancora oggi.

Ma se il suo studio rappresenta un punto di svolta nelle nostre credenze in questo campo, una
delle sue mancanze è che si limitava a esaminare solo sette Paesi. Se consideriamo una
prospettiva più ampia e includiamo i dati di molte altre nazioni, il presunto forte legame fra
grassi saturi e patologie cardiache sostenuto da Keys semplicemente viene a cadere.

Un’altra grande debolezza era la natura epidemiologica della ricerca: se anche essa avesse
scoperto un vero collegamento fra grassi saturi e malattie cardiache, tale prova non sarebbe
mai stata sufficiente a verificare che la relazione fosse causale.

Inoltre, quello di Keys era uno studio unico, e risale ormai a più di trent’anni fa. Cos’altro
abbiamo scoperto da allora? Negli ultimi tempi, sono stati analizzati i dati relativi ai grassi
saturi, o ai grassi in generale, in rapporto alle malattie cardiocircolatorie.

Una di queste analisi è stata condotta da alcuni ricercatori della Canada’s McMaster University
di Hamilton, in Ontario, e ha scoperto che i risultati epidemiologici non dimostrano alcun nesso
fra grassi saturi e malattie cardiache2. Un’altra ricerca condotta di recente dall’Oakland
Research Institute in California3 – una meta-analisi di 21 studi epidemiologici – ha scoperto che
il consumo di grassi saturi non presenta alcun legame con l’incidenza delle patologie del cuore.

Un’altra analisi che raccoglieva gli studi più importanti in materia è stata condotta nell’ambito
di una “consultazione degli esperti” tenuta dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)
insieme all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) degli
Stati Uniti4. Ancora una volta, non è stato riscontrato alcun nesso fra grassi saturi e malattie
cardiache.

Questo esame comprendeva anche una meta-analisi di studi interventistici, nei quali venivano
accertati gli effetti delle diete ipolipidiche (che di solito mirano proprio ai grassi saturi). Si è
scoperto così che esse non riducevano né il rischio di infarto, né quello di morte dovuto a
scompensi cardiaci.

L’ultima ricerca sul tema è una meta-analisi del 2011, che ha raggruppato i risultati di 48 studi5.
Ognuno di essi aveva esaminato l’effetto della riduzione di grasso e/o la modifica della sua
natura nella dieta. In generale, i soggetti sottoposti ai test riducevano l’apporto di grassi saturi
e/o li sostituivano, almeno parzialmente, con i cosiddetti grassi “polinsaturi” (come gli oli
vegetali).

I risultati di questa analisi hanno mostrato che tali interventi non servivano a ridurre il rischio di
morte dovuto a patologie cardiovascolari o quello di morte in generale. Negli studi in cui la
diminuzione e/o la sostituzione dei grassi era l’unico tipo di intervento, i rischi di “eventi
cardiovascolari”, come malattie cardiache e infarto, non diminuivano. Tale ricerca, che poteva
segnare la fine dell’idea per cui è necessario limitare i grassi saturi nella nostra dieta, non ha
ricevuto alcuna attenzione da parte dei principali media.

Se mangiare meno grassi saturi non migliora la salute, né allunga le nostre vite, ci si potrebbe
chiedere per quale motivo si debba seguire un regime ipolipidico. La risposta è: nessuno.

Tenendo presente con quanta frequenza e convinzione ci è stato detto che i grassi saturi
ostruiscono le arterie, la notizia ci sembrerà sconvolgente. Eppure si sposa perfettamente con
la teoria primitiva: i grassi saturi sono una componente della carne rossa e sono da sempre
parte della dieta degli esseri umani.

Alla luce del fatto che non esistono prove convincenti della presunta capacità dei grassi saturi di
provocare malattie cardiache, verrebbe da chiedersi come questa credenza sia potuta durare
tanto a lungo. Nell’introduzione ho accennato al perché i falsi miti sulle diete siano divulgati da
persone, industrie o organizzazioni che intendono trarne profitto. Alcuni scienziati cercano di
promuovere le loro teorie preferite per motivi professionali. Le industrie alimentari,
ovviamente, possono sostenere la vendita di margarina e cibi light incoraggiando le fobie
legate ai grassi saturi.

Se pensiamo al colossale spreco di tempo e denaro che ha rappresentato la finta guerra ai


grassi saturi, non sorprenderà che il governo, il ministero della Salute e gli esperti mostrino una
certa intransigenza al riguardo. Mettere la ricerca, anziché la retorica, alla base delle loro linee
guida significherebbe dover ammettere di aver dispensato consigli scorretti sull’alimentazione
per anni. Come vedremo più avanti, è assai probabile che i loro suggerimenti non solo non ci
abbiano portato alcun beneficio, ma addirittura abbiano arrecato un danno alla nostra salute.

Uova e carne

Non ci sono prove certe che associno i grassi saturi alle malattie cardiache, ma non dobbiamo
dimenticare che generalmente non consumiamo generi alimentari come i grassi saturi da soli;
noi ingeriamo del cibo. C’è quindi un nesso tra mangiare alimenti relativamente ricchi di grassi
saturi come carne e uova e le patologie del cuore?

Secondo una ricerca2, il consumo di carne non è associato al rischio di malattie cardiache. In una
recente meta-analisi di studi epidemiologici non è stato riscontrato alcun legame fra il consumo
di carni rosse fresche e l’incidenza delle patologie del cuore6. C’era però un nesso fra il consumo
di carni lavorate, come pancetta e salsicce, e i problemi cardiaci. Questi studi non provano un
legame causale e, anche se esistesse, difficilmente avrebbe a che fare con i grassi saturi, visto
che la carne rossa fresca contiene grassi saturi, eppure mangiarla non dà problemi al cuore.
Altre prove a favore dei cibi ricchi di grassi saturi derivano da alcuni studi che non hanno
evidenziato un forte legame tra consumo di uova e malattie cardiache7-10.

VALUTARE ATTENTAMENTE LE PROVE EPIDEMIOLOGICHE

Sappiamo che le prove epidemiologiche dovrebbero essere interpretate con cautela perché ci
rivelano soltanto dei nessi e non la causalità fra le cose. Una delle ragioni fondamentali per cui
questo tipo di prove può essere molto fuorviante si può ritrovare nel modo in cui le persone
reagiscono alle informazioni e ai consigli riguardanti la salute.

Torniamo indietro di qualche decennio e immaginiamo che medici, governi e ministeri della
Salute inizino a dirci che un certo cibo è nocivo e può ucciderci. Prendiamo, per esempio, le
uova.

Quando vengono diffusi simili avvertimenti, le persone rispondono generalmente in uno dei
seguenti modi:

Limitano il consumo di uova.


Ignorano il consiglio e continuano a mangiare liberamente.

È giusto affermare che chi rientra nella prima categoria è attento alla salute, mentre chi si
comporta come al secondo punto lo è meno. Gli individui che rientrano nella seconda categoria
saranno probabilmente sedentari e magari fumeranno, per esempio.

Quindi abbiamo soggetti più salutisti che riducono per anni il consumo di uova, mentre quelli
dall’atteggiamento un po’ più rilassato non lo fanno. Ora, immaginate di condurre uno studio
epidemiologico e scoprire che chi mangia tante uova è maggiormente a rischio di patologie
cardiache. Ecco la domanda: il problema è dato dalle uova o dal fatto che queste persone non
sono attente alla propria salute?

Tale fenomeno è dimostrato in uno studio di cui abbiamo parlato prima9. Le persone che
mangiavano molte uova non erano, con le dovute proporzioni, a maggior rischio di malattie
cardiache; però la loro mortalità era più alta. Eppure il consumo di uova non è stato associato a
nessun’altra malattia cronica. Com’è dunque possibile che le uova uccidano le persone? La
risposta più plausibile è che non sia così. Il rischio di morte più elevato, associato al consumo di
uova rilevato in questo studio, riflette molto probabilmente il fatto che chi di loro le mangiava
in abbondanza era, in generale, meno attento alla salute di chi le usava con moderazione.

Grassi monoinsaturi e salute

I grassi “monoinsaturi” si trovano in alcuni alimenti come le noci, l’avocado, le olive e l’olio
d’oliva. Questi tipi di grassi godono della reputazione di essere salutari, essendo stato
dimostrato che il loro consumo è collegato a una bassa incidenza di problemi cardiovascolari2.
Va tenuto presente che altre fonti di grassi monoinsaturi sono la carne (circa la metà dei lipidi
che troviamo nella carne di manzo e di agnello), uova (la maggior parte dei grassi in esse
contenuti sono di questo tipo) e il burro (vedi più avanti).

Grassi polinsaturi e salute


I cosiddetti grassi “polinsaturi” sono di due tipi: grassi “omega-6” e grassi “omega-3”. Il
principale acido grasso omega-6 è chiamato “acido linoleico” e lo troviamo in gran quantità
nell’olio di semi di girasole, di cartamo, di sesamo, di mais, di noci e di soia. I grassi omega-6 si
trovano anche sotto forma di “acido arachidonico”, presente in carne, pesce e crostacei.

La maggior parte degli omega-3 che rientrano nella nostra dieta si trovano sotto forma di acido
alfa linoleico (contenuto ad esempio nei semi di lino), acido eicosapentaenoico (EPA) e acido
docosaesaenoico (DHA), e sono presenti in diversi pesci grassi, come sgombro, aringa, sardina,
trota e salmone, oltre che nella carne della selvaggina e di animali allevati all’aria aperta.

Sia i grassi omega-6 che gli omega-3, quando si trovano all’interno del nostro corpo, possono
trasformarsi in sostanze simili agli ormoni chiamate “eicosanoidi”. Gli eicosanoidi derivanti dai
primi tendono a stimolare l’infiammazione, la contrazione e l’occlusione dei vasi sanguigni.
Dall’altro lato, gli eicosanoidi derivanti dai secondi tendono ad avere effetti antinfiammatori,
anticoagulanti e a dilatare i vasi sanguigni. Poiché gli omega-6 e gli omega-3 hanno risultati
totalmente opposti all’interno del corpo, un equilibrio fra i due tipi di acido grasso è
fondamentale per una salute ottimale.

L’eccesso di omega-6 nella dieta moderna può avere implicazioni importanti per la nostra
salute, se non altro perché essi tendono a stimolare l’infiammazione. Quantità maggiori di
omega-6 rispetto agli omega-3 sono associate a un più elevato rischio di scompensi cardiaci e
infarti11 e diabete di tipo 212, oltre a infiammazioni e malattie autoimmuni (condizioni in cui il
sistema immunitario del corpo reagisce a danno dei propri tessuti), come l’artrite reumatoide13.
Si è inoltre scoperto che un apporto elevato di omega-6 (sotto forma di acido linoleico)
rappresenta un fattore di rischio per una malattia infiammatoria delle viscere denominata
“colite ulcerosa”14.

Un consumo maggiore di omega-3, invece, è stato generalmente associato a una bassa


incidenza di malattie croniche, incluse quelle cardiache.

Una grande fonte di omega-6 sono gli oli vegetali raffinati che si trovano, per esempio, nella
margarina, nei cibi dei fast-food e in cibi lavorati come biscotti, torte, pizza e pasticcini,
patatine, bretzel e tortillas di mais.

Gli studi suggeriscono che l’aumento del consumo di omega-6 ha un ruolo determinante
nell’aumento di molte malattie attuali. È stato calcolato che le quantità di omega-6 e omega-3
presenti nella dieta primitiva erano in un rapporto di 1-3 a 115,16. Oggi invece, il rapporto nella
tipica dieta occidentale è di circa 10 a 1 e 30 a 117.

Limitare il consumo degli oli vegetali raffinati e dei cibi ricchi di omega-6 è senz’altro
vantaggioso per la nostra salute, così come mangiare più omega-3 aiuta a riequilibrare i loro
effetti.

L’OLIO DI PESCE AIUTA A ELIMINARE I GRASSI?

Nel capitolo 20 esamineremo in che modo l’infiammazione può far aumentare il nostro peso,
almeno in parte, a causa dei suoi legami con il cattivo funzionamento di insulina e leptina. Dato
che gli omega-3 hanno proprietà antinfiammatorie, potrebbero essere d’aiuto in questo senso.

Si è scoperto che essi hanno anche la capacità di abbassare il livello dei trigliceridi nel sangue, e
ciò potrebbe migliorare l’arrivo della leptina al cervello. Questo, in teoria, dovrebbe velocizzare
il metabolismo e placare l’appetito. Si è, inoltre, scoperto che gli omega-3 facilitano il trasporto
dei grassi all’interno di minuscoli motori che si trovano nelle cellule denominati “mitocondri”,
dove possono essere bruciati per produrre energia.

Ci aspetteremmo che tutti questi effetti messi insieme favorissero la perdita di grasso. In una
ricerca, un gruppo di persone che avevano aggiunto 4 g di olio di pesce alla propria dieta
giornaliera era dimagrita di più in confronto a chi aveva aggiunto un olio ricco di omega-618.

Considerato nel suo insieme, lo studio suggerisce che includere pesce grasso e/o olio di pesce
nella dieta aiuta a velocizzare l’eliminazione dell’adipe, e probabilmente ha effetti positivi sulla
salute in generale.

Gli omega-3 e il cervello

Se togliamo tutta l’acqua presente nel cervello, ciò che rimane è principalmente grasso. Il
grasso, si potrebbe affermare, è “cibo per la mente”, e in particolare un tipo di grasso è stato
oggetto di attenzione a questo riguardo: il DHA (acido docosaesaenoico). In uno studio, un
gruppo di individui dell’età di 55 anni e più, affetti da «declino cognitivo legato all’età»
(funzionalità del cervello compromessa, ma non demenza vera e propria) erano stati trattati
alcuni con 900 mg di DHA e altri con un placebo per sole 24 settimane19. Coloro che
assumevano il DHA avevano visto miglioramenti sia nell’apprendimento che nel funzionamento
della memoria.

Grassi parzialmente idrogenati e acidi grassi insaturi

L’aumento della quantità di omega-6 nella dieta non è l’unico cambiamento che abbiamo
sperimentato, in tempi abbastanza recenti, nel nostro apporto di grassi. Un altro passo è stato il
consumo dei cosiddetti “grassi parzialmente idrogenati” e “grassi idrogenati”. Si tratta di grassi
prodotti industrialmente, per mezzo dell’aggiunta di idrogeno agli oli vegetali in presenza di alte
temperature e pressione elevata.

L’idrogenazione dei grassi può solidificarli e stabilizzarli, allungando in questo modo la durata
dei prodotti lavorati, come la margarina e altri cibi. Va però tenuto presente che questi tipi di
grassi non esistono in natura e si sono fatti strada dentro al nostro stomaco in quantità
significative soltanto da pochi decenni.

La teoria evolutiva suggerirebbe che i cibi che contengono grassi parzialmente idrogenati non
sono una scelta particolarmente positiva dal punto di vista della salute. Negli ultimi dieci anni
circa, gli scienziati hanno concentrato la loro attenzione sugli effetti che ha sulla salute un
particolare tipo di grassi parzialmente idrogenati, i cosiddetti “acidi grassi insaturi” o “grassi
insaturi”. Essi non solo sono stati modificati chimicamente, ma sono anche stati sottoposti a
un’innaturale alterazione della forma. La ricerca ha dimostrato un legame fra i grassi insaturi
prodotti industrialmente e l’aumento di patologie come le malattie cardiache20-23, il cancro al
seno e al colon24 e il diabete di tipo 225,26.

I grassi insaturi presenti in natura

I grassi insaturi si possono trovare in piccole quantità anche negli alimenti prodotti con metodi
naturali, come per esempio il burro. Questi ultimi sono dannosi per la salute quanto quelli che
escono dalle industrie? I grassi insaturi prodotti industrialmente presentano una struttura
chimica diversa rispetto a quelli che troviamo in natura: i primi sono prevalentemente grassi
monoinsaturi, la cui componente principale è l’“acido elaidinico”, mentre i secondi si
presentano sotto forma di grassi diversi, noti come “acido transvaccenico” e “acido linoleico
coniugato”. Queste differenze si riflettono nel loro impatto sulla salute? Mentre i grassi insaturi
prodotti industrialmente sono fortemente connessi con le malattie cardiache, quelli naturali
no27,28.

GRASSI INSATURI E PESO

Ancora non esistono ricerche che abbiano esaminato l’impatto dell’assunzione di grassi insaturi
sul peso negli esseri umani, ma quelli che più vi si avvicinano sono gli studi condotti sui
primati29: un gruppo di scimmie fu nutrito con una dieta in cui l’8 percento delle calorie era dato
da grassi insaturi prodotti industrialmente. A un altro gruppo di scimmie furono somministrate
calorie in forma di grassi monoinsaturi naturali al posto di quelli industriali. Tutti gli animali
dell’esperimento furono nutriti con lo stesso ammontare di calorie ogni giorno, per un totale di
6 anni.

Al termine dello studio, le scimmie che erano state nutrite di grassi insaturi avevano visto
aumentare il proprio peso corporeo di oltre il 7 percento, mentre quelle nutrite con grassi
monoinsaturi solo del 2 percento. Inoltre, gli animali cui erano stati somministrati quelli
industriali tendevano ad accumulare grasso all’interno e attorno all’addome, problema che,
come sappiamo, è più fortemente legato all’insorgere di patologie cardiache e diabete.

Questo studio fornisce ulteriori prove della pericolosità dei grassi insaturi prodotti
industrialmente e dovrebbe ricordarci che la forma in cui le calorie entrano nel nostro corpo
può avere una profonda influenza sui loro effetti su peso e salute.

La margarina è migliore del burro?

Da alcuni decenni la margarina è stata etichettata come un’“alternativa sana” al burro.


Inizialmente ci veniva venduta sulla base del fatto che, rispetto al burro, conteneva meno grassi
saturi. Questa motivazione di vendita si basa ovviamente sul presupposto che i grassi saturi
fossero dannosi. Come sappiamo ora, non vi è alcuna prova che sia così.

In suo favore si dice inoltre che la margarina è ricca di “polinsaturi”. Ma tali grassi sono
generalmente di tipo omega-6, e la loro assunzione dovrebbe essere quanto meno ridotta dalla
maggior parte delle persone.

Più di recente, alcuni tipi di margarina sono stati fortemente pubblicizzati perché sarebbero in
grado di ridurre il tasso di colesterolo nel sangue. Nel prossimo capitolo vi spiegherò perché
questa qualità è come minimo di dubbio vantaggio. Vi informerò, inoltre, dei dati allarmanti
emersi su composti noti come “fitosteroli”, che servono a ridurre il colesterolo e vengono
aggiunti ad alcuni tipi di margarina e ad altri “alimenti funzionali”.

Motivi per guardare con sospetto alla margarina sono quelli legati alla sua natura altamente
elaborata e ricca di sostanze chimiche.

Gli oli vegetali – l’ingrediente base della margarina – sono solitamente estratti attraverso
l’utilizzo di alte temperature, pressione e solventi chimici. Questi ultimi possono danneggiare gli
oli, oltre a conferire loro proprietà nocive per la salute. L’olio che ne risulta viene poi trattato
con idrossido di sodio, al fine di neutralizzare i grassi instabili che possono provocarne il
deperimento. In seguito, l’olio viene decolorato, filtrato e trattato con il vapore per produrre
quello che è essenzialmente un liquido incolore e insapore.

Per trasformarlo poi in margarina, viene sottoposto a idrogenazione o “interesterificazione”


(attraverso alte temperature e forte pressione, insieme a enzimi o acidi usati per farlo
solidificare). Entrambi questi processi portano alla formazione di grassi innaturali. Dopo di che,
il prodotto solidificato viene mescolato con altri grassi, che possono essere di origine vegetale o
animale.

Ma non è finita qui: il prodotto ora ha bisogno di essere colorato e insaporito (tramite l’uso di
ulteriori sostanze chimiche), e arricchito con agenti emulsionanti per evitare che la miscela si
separi. A questo punto, il prodotto finito viene inserito in un contenitore di plastica e venduto
come alimento sano. Ma lo è davvero?

I componenti stessi della margarina sono estranei alla natura. Il burro, in confronto, è un
alimento abbastanza naturale. Potrà non essere un cibo “primario”, ma i suoi componenti
(principalmente grassi saturi e monoinsaturi) fanno da sempre parte della nostra dieta. Quindi,
cosa dice la ricerca sull’impatto della margarina e del burro sulla salute? Sfortunatamente,
sull’argomento esistono soltanto studi epidemiologici, ma ciò che essi hanno scoperto è
nondimeno illuminante.

Un’indagine condotta sugli uomini ha scoperto che, mentre il consumo di burro non era
associato al rischio di malattie cardiache, lo era quello della margarina30. Si è infatti osservato
che nel lungo periodo, per ogni cucchiaino di margarina consumato al giorno, il rischio di
malattie cardiache aumenta del 10 percento. Altre prove collegano il consumo di margarina a
un più elevato rischio di patologie del cuore31.

Ricordiamo che le prove epidemiologiche di questo genere non possono essere usate per
dimostrare che la margarina provoca malattie cardiache. Questa, tuttavia, è comunque una
prova incriminante se consideriamo che, in linea generale, i consumatori di margarina
tenderanno a essere più attenti alla salute di coloro che continuano a mangiare burro. Sarebbe
ragionevole aspettarsi che tali soggetti corressero un rischio inferiore di patologie cardiache in
confronto ai consumatori meno attenti alla salute.

Le prove fornite dagli studi scientifici sottolineano quanto segue:

I grassi che si trovano naturalmente all’interno della dieta (inclusi quelli saturi) non
rappresentano una minaccia per la salute e spesso hanno anche proprietà benefiche.
I grassi lavorati andrebbero evitati (come pure i cereali raffinati e gli oli di semi).

Nonostante la mancanza di prove incriminanti sul ruolo dei grassi saturi nelle malattie, alcuni
continuano a metterci in guardia circa la loro pericolosità. Il punto centrale qui è che i grassi
saturi possono far aumentare i livelli di colesterolo nel sangue, e ciò porterebbe a un maggiore
rischio di patologie cardiache. In ogni caso, se i grassi saturi non hanno alcun legame con esse,
allora il loro impatto sul colesterolo è irrilevante.

Cionondimeno, il fatto che la medicina ci ricordi continuamente quanto livelli elevati di


colesterolo siano disastrosi per la salute difficilmente ci farà abbandonare la convinzione che i
grassi saturi siano la causa delle malattie cardiache. Nel prossimo capitolo vedremo se il
colesterolo è davvero così pericoloso come lo si dipinge.

In sintesi
Il consumo di grassi saturi non è associato a malattie cardiache, e non è mai stato
dimostrato che mangiarne meno sia vantaggioso per la salute.
Il consumo di grassi monoinsaturi – che si trovano in cibi come noci, avocado, olio
d’oliva, carne, uova e burro – non è collegato a un’alta incidenza di malattie cardiache.
Gli omega-6 e gli omega-3 hanno effetti opposti nel corpo, e assumere questi due tipi di
grasso in modo equilibrato è importante ai fini di un’ottima salute.
Un eccesso di omega-6 rispetto agli omega-3 nella dieta stimola l’infiammazione ed è
associato a un maggiore rischio di malattie croniche, tra cui quelle cardiache, il diabete
di tipo 2 e l’artrite.
Gli omega-3 possono favorire la perdita di grasso attraverso molteplici meccanismi.
Ridurre l’assunzione di omega-6 e aumentare quella di omega-3 porta benefici sullo
stato generale di salute.
I “grassi insaturi” prodotti industrialmente e parzialmente idrogenati sono associati a
effetti nocivi sulla salute, tra cui l’aumento di peso e le malattie cardiache, e perciò
andrebbero evitati.
Non esistono prove del fatto che la margarina sia più sana del burro; al contrario, i
risultati degli studi sottolineano che abbia effetti nocivi sulla salute.
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Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 13

IL PROBLEMA DEL COLESTEROLO

Da più parti veniamo messi in guardia sulla componente lipidica del sangue detta “colesterolo”,
incriminata per la sua capacità di ostruire le arterie e provocare attacchi cardiaci e colpi
apoplettici. Ciò ha dato origine ad alcune “soluzioni”, proposte sotto forma di cibi e farmaci
anticolesterolo. Veniamo a più riprese esortati ad assumerli, con la garanzia che ci aiuteranno a
vivere fino a tarda età.

Dimenticando per un momento la sua pessima reputazione, forse è il caso di notare che il
colesterolo è una componente naturale non solo del corpo, ma anche di sostanze e strutture
fondamentali come membrane cellulari, ormoni chiave, vitamina D e cervello. È davvero
ragionevole credere che il colesterolo sia così nocivo per la salute?

Il colesterolo è un killer?

Gran parte delle prove usate per incriminare il colesterolo è di natura epidemiologica. La ricerca
fondamentale in tale campo è probabilmente il cosiddetto Framingham Study1. Framingham è
una città del Massachusetts (USA).

A intervalli regolari, a partire dal 1948, i ricercatori hanno monitorato i suoi abitanti nel
tentativo di individuare i fattori coinvolti nei disturbi cardiaci, e in questo quadro di analizzare
nel corso del tempo il rapporto fra i livelli di colesterolo e tali malattie.

Uno dei problemi legati a questa e altre ricerche, che in apparenza non lasciano dubbi, è il fatto
che siano focalizzate sul nesso fra il colesterolo e un solo tipo di disturbi: quelli cardiaci.
Tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo 2, un metro di giudizio più valido è il rapporto che un
fattore ha con il rischio complessivo di morte.

È interessante notare come il Framingham Study non abbia rilevato una maggiore mortalità
negli ultracinquantenni con alti livelli di colesterolo. In effetti, molti studi hanno scoperto che,
in età avanzata, alti livelli di colesterolo non rappresentano un fattore di rischio né per le
malattie cardiovascolari (attacco cardiaco e colpo apoplettico), né più in generale2-11.

Il Framingham Study ha condotto a un’altra interessante scoperta che è stata pressoché


ignorata dalla comunità medica: nelle persone in cui i livelli di colesterolo si abbassano nel
corso del tempo, il rischio di morte (sia globale, sia per attacco cardiaco) di fatto aumenta.

Fino a che punto bisogna scendere?

Coerente con questa scoperta è il fatto che livelli bassi di colesterolo sono associati a un
maggior rischio di morte, soprattutto per tumore12-15. È stato ipotizzato che livelli bassi di
colesterolo siano un marker di “fragilità” negli anziani. In altre parole, il problema non sarebbe
il colesterolo basso in sé; la tesi è che, quando le persone invecchiano (e hanno maggiori
probabilità di morire), i livelli di colesterolo nel sangue calino. In realtà, l’idea che la vecchiaia e
l’indebolimento fisico provochino l’abbassamento del colesterolo è contraddetta dalle prove
empiriche, in base alle quali si riscontra un nesso analogo anche nelle persone giovani16.

Si è inoltre ipotizzato che il rapporto fra colesterolo basso e maggior rischio di mortalità sia il
risultato della “causalità inversa”. In questo caso, si pensa che una malattia cronica (come il
cancro) possa far calare i livelli di colesterolo, anziché il contrario. Ma le prove a lungo termine
fanno credere che in questo contesto la causalità inversa sia un fattore di scarsa rilevanza17;
rimane dunque il dubbio che bassi livelli di colesterolo possano effettivamente rivelarsi nocivi
per la salute.

LDL: NON È SEMPLICE COME SEMBRA

Il colesterolo è presente nel sangue principalmente in due forme: “lipoproteine a bassa


densità” (LDL) e “lipoproteine ad alta densità” (HDL). Secondo l’opinione comune, il colesterolo
LDL, responsabile dell’accumulo di grasso nelle arterie, è da considerarsi “cattivo”. In maniera
analoga, quello HDL, che elimina il colesterolo dalle arterie ed è associato a un minor rischio di
disturbi cardiaci, è definito “buono”. Negli ultimi anni si è posto l’accento sulla “necessità” di
mantenere il più basso possibile il livello di LDL.

La spinta maggiore in tal senso si è avuta nel 2004, quando il National Cholesterol Education
Program (NCEP) statunitense ha pubblicato le sue linee guida. Mentre la classe medica ha
accolto rapidamente tali consigli, non tutti i membri della comunità scientifica hanno
manifestato lo stesso entusiasmo. Per esempio, alcuni esperti hanno scritto su una rivista
indipendente a proposito delle indicazioni del NCEP: «(...) non c’è nessuna evidenza clinica
rilevante che avvalori gli attuali risultati nella cura per il colesterolo [LDL]»18. Gli autori sono
arrivati a mettere in dubbio la sicurezza di tale prassi.

Nel Regno Unito le fonti ufficiali consigliano di mantenere il colesterolo a un livello inferiore a
5,0 mmol/l. Eppure il livello medio nel Paese è di 5,5 mmol/l. In pratica, ci dicono che una
componente naturale ed essenziale del corpo a livelli normali provoca malattie e morte. Ma su
quali basi?

Secondo un’idea diffusa, le indicazioni sul colesterolo sono state influenzate dall’industria
farmaceutica. A sostegno di questa tesi c’è il fatto che, su nove membri del NCEP, tutti tranne
uno erano in conflitto d’interesse non dichiarato al momento della pubblicazione delle linee
guida.

La riduzione del colesterolo ha davvero effetti benefici?

Gran parte dei motivi addotti riguardo alla necessità di ridurre il colesterolo deriva da studi
relativi alle cosiddette “statine”, farmaci anticolesterolo di cui è stata dimostrata l’efficacia nel
limitare il rischio d’infarto. Tuttavia, oltre a ridurre il colesterolo, le statine hanno anche
numerose altre proprietà, tra cui un’azione antinfiammatoria e anticoagulante. Forse
circoscrivono il rischio d’infarto tramite meccanismi che non hanno nulla a che fare con il
colesterolo?

A sostegno di questa tesi esistono molte prove, fra cui:

Le statine riducono il rischio di problemi cardiovascolari in persone che hanno livelli di


colesterolo “normali” o addirittura “bassi”19.
Le statine diminuiscono in modo sostanziale l’incidenza di colpo apoplettico, malgrado
alti livelli di colesterolo siano un fattore di rischio scarso o inesistente in relazione a
questa malattia20-22.
Una riduzione marcata del colesterolo non comporta necessariamente un
miglioramento in termini di patologie o marker patologici23.

Inoltre, se la riduzione del colesterolo presentasse davvero dei vantaggi per la salute, sarebbe
logico aspettarsi degli effetti positivi legati alle strategie miranti a ridurlo in termini di rischio
globale di morte. In una meta-analisi di una serie di tali metodi, fra cui la dieta e vari tipi di
farmaci e regimi alimentari24, soltanto le statine si sono rivelate efficaci nel ridurre la mortalità.
Nella stessa meta-analisi, è emerso che un tipo di farmaco ipolipidemizzante, i cosiddetti
“fibrati”, di fatto aumenta il rischio di morte nelle persone sane.

Dopo la pubblicazione di questo articolo, un nuovo farmaco anticolesterolo, l’ezetimibe, ha


fatto il suo ingresso sul mercato. Benché approvato sulla base dei suoi effetti sul colesterolo, a
oggi nessuno studio ha dimostrato che l’ezetimibe sia effettivamente in grado di ridurre
l’incidenza di malattie e morte.

FRAZIONARE IL RISCHIO

Negli ultimi anni sono state esaltate le virtù salutari di margarine capaci di ridurre il livello di
colesterolo. Alcune di esse contengono sostanze chiamate “steroli”, derivate da oli vegetali e
polpa di legno, che bloccano l’assorbimento del colesterolo da parte dell’intestino e provocano
una modesta riduzione dei suoi livelli nel sangue.

Come abbiamo visto, la diminuzione del colesterolo è, di per sé, un risultato di dubbio valore.
Ma se anche fosse dimostrato che abbia effetti benefici sulla salute, ciò significa che ogni
sostanza in grado di ridurre il colesterolo sia automaticamente salutare? Se si scoprisse che
l’arsenico e il cianuro sono efficaci agenti anticolesterolo, avrebbe senso consigliare di
assumerne una dose al giorno?

Il punto fondamentale non è l’impatto che un alimento o una medicina hanno sul colesterolo,
bensì l’effetto che hanno sulla salute in generale.

Il rapporto fra steroli e salute è stato trattato in un esaustivo articolo pubblicato nel 200925.
Esso dimostra che non ci sono prove del fatto che assumere steroli abbia un effetto benefico
sulla salute.

Non solo: l’articolo cita numerosi studi in base ai quali alti livelli di steroli sono collegati a una
maggiore incidenza di patologie cardiovascolari. Ciò non prova che gli steroli danneggino i vasi
sanguigni, ma il nesso è comunque sospetto.

Tuttavia l’aspetto forse più preoccupante è la capacità dimostrata degli steroli di arrecare
danno alle cellule viventi. Uno studio ha dimostrato che le cellule cardiache di ratto esposte ad
essi hanno portato a una riduzione della crescita e dell’attività metabolica26.

L’articolo citato in precedenza riferisce di altri casi in cui gli steroli si sono rivelati nocivi e
perfino letali per le cellule che rivestono la parte interna dei vasi sanguigni. Si è scoperto,
inoltre, che accorciano la vita degli animali predisposti a patologie cardiovascolari.

È difficile conciliare l’immagine salutare degli steroli con tali effetti palesemente dannosi.

Concentrarsi unicamente sull’impatto che il cibo o le medicine hanno sul livello di colesterolo
permette all’industria di trarre profitto da prodotti privi di benefici dimostrati sulla salute e che,
anzi, potrebbero rivelarsi addirittura nocivi.

È sicuro?

L’idea di seguire una dieta povera di grassi e ricca di carboidrati era basata principalmente sulla
convinzione che ingerire grassi saturi e colesterolo andasse a scapito della salute del cuore e
della circolazione. Ma questa teoria non solo non ha al giorno d’oggi basi scientifiche, ma di
fatto non le ha mai avute.
Negli ultimi trent’anni circa, le istituzioni e gli esperti ci hanno spinto a prendere parte a quello
che è in pratica un esperimento di massa e che, a quanto pare, non ha fatto nulla per migliorare
la nostra salute o salvare vite umane. Peggio ancora: questo modo di mangiare è stato
entusiasticamente propagandato prima ancora che avessimo la benché minima informazione
certa sulla sua sicurezza.

Come vedremo nel prossimo capitolo, è ormai assodato che la dieta povera di grassi e ricca di
carboidrati costituisce una seria minaccia per la salute.

In sintesi
Livelli alti di colesterolo non sembrano costituire un fattore di rischio rilevante per le
patologie cardiovascolari o di rischio complessivo di morte in età avanzata.
Livelli bassi di colesterolo sono associati a una maggiore mortalità.
Ci sono buoni motivi per credere che gli effetti benefici delle statine sulle patologie
cardiovascolari non siano dovuti alla loro azione anticolesterolo.
Le prove, nel loro complesso, non avvalorano la teoria secondo la quale ridurre il
colesterolo avrebbe effetti particolarmente benefici per la salute.
Le sostanze anticolesterolo note come “steroli” non sembrano avere effetti positivi sulla
salute; anzi, le prove inducono a credere che possano avere un effetto nocivo
sull’organismo.
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Capitolo 14

UN BRICIOLO DI VERITÀ

I cibi a base di cereali quali pane, riso, pasta e prodotti per la colazione sono un caposaldo della
dieta occidentale; il loro consumo è caldeggiato sulla base del fatto che forniscono energia al
corpo e allo stesso tempo sono poveri di grassi. Alimenti quali pane e riso integrali, crusca e
altri cereali presentano l’ulteriore vantaggio, ci viene detto, di essere ricchi di fibre e nutrienti
essenziali.

Non c’è da stupirsi dunque che medici, dietologi e istituzioni sanitarie ci spingano a incentrare
la nostra alimentazione sui carboidrati amidacei.

Ma nei capitoli precedenti abbiamo visto come una dieta ricca di tali nutrienti possa non solo
risultare controproducente nell’ottica di perdere peso, ma addirittura favorire a lungo termine
l’obesità attraverso meccanismi di vario genere. In effetti, il semplice fatto che i cereali siano,
nella cronologia generale della storia, un’aggiunta recentissima all’alimentazione umana
dovrebbe indurci a consumarli con grande cautela.

In questo capitolo cercheremo di comprendere se i cereali siano davvero il pane della vita.
Cominciamo esaminando alcuni elementi di fisiologia, fondamentali per capire l’impatto che i
cibi ricchi di carboidrati hanno sulla salute.

Dall’amido allo zucchero

I cereali sono ricchi di amido, il quale a sua volta è composto da catene di molecole di zucchero
(glucosio). Una volta ingerito, un alimento ricco di amido dev’essere scisso in glucosio
attraverso la digestione, prima di poter essere assorbito dalla parete intestinale e finire nel
flusso sanguigno. Ciò significa che se mangiamo zucchero, amido o entrambi, il livello di
glucosio nel sangue dopo un po’ salirà. A questo punto, un pancreas in buona salute secerne
insulina, che ha tra le sue funzioni principali quella di ridurre il livello di zucchero nel sangue
facilitandone il passaggio nelle cellule.

Ma nel capitolo 6 abbiamo visto come l’insulina favorisca anche l’accumulo di grasso nel corpo.
Ecco un breve riepilogo di alcuni dei principali effetti dell’insulina sul metabolismo dei lipidi:

Maggiore assorbimento di grasso nelle cellule adipose.


Maggiore produzione di glicerolo per “fissare” i lipidi nelle cellule adipose.
Inibizione della lipolisi e del rilascio di grasso da parte delle cellule adipose.
Stimolazione della produzione di grasso nel fegato.

L’insulina fa ingrassare e, dato che i carboidrati ne stimolano la secrezione, non si possono


mangiare a volontà quando è in gioco il peso.

Ma non tutti i carboidrati sono uguali: alcuni hanno un impatto più devastante sui livelli di
zucchero e insulina nel sangue rispetto ad altri. La capacità di un alimento d’innalzare il tasso di
glucosio è definita “indice glicemico” o “Ig”. Il glucosio puro, che peraltro agisce molto
rapidamente, ha un Ig pari a cento e funge da valore di riferimento per gli altri cibi. Più alto è
l’indice glicemico, più dirompente sarà l’effetto sullo zucchero nel sangue e maggiore sarà la
produzione dell’ormone che fa ingrassare, ovvero l’insulina.

Il potenziale ingrassante dei cibi ad alto indice glicemico è stato messo in luce da uno studio
sugli animali1. Alcuni topi sono stati nutriti per quaranta settimane con alimenti di pari valore
calorico, ma dal diverso indice glicemico.

Al termine dello studio, quelli che avevano ingerito cibi ad alto Ig presentavano nel complesso il
40 percento in più di grasso corporeo.

Vediamo qui sotto l’Ig di alcuni dei più comuni alimenti a base di carboidrati2.

Indice
glicemi
co
Pane
Baguette 95

Bagel (ciambellina di pane) bianco 72

Pane bianco 70

Pane integrale 71

Pane di segale 58

Pane di farro 63

Pane nero (di segale) 46

Derivati del pane


Crostini di segale 64

Crackers 65

Gallette 71

Gallette di riso 78

Nachos 63

Patatine in busta 54

Popcorn 72

Pasta, riso e alimenti affini


Riso integrale 55

Riso basmati 58

Riso Arborio 69

Riso bianco 64

Riso perlato 25

Pasta di mais 78

Gnocchi 68

Pasto di grano duro 44

Pasta integrale 37

Couscous 65
Dolci
Biscotti “Digestive” 59

Croissant 67

Focaccina salata 69

Ciambella 76

Muffin (di crusca) 60

Focaccina dolce 92

Frollino 64

Gelato 61

Yogurt magro 27

Mars 65

Barretta al muesli 65

Snickers 55

Miele 55

Saccarosio (zucchero da tavola) 68

Bevande
Succo di mela (non zuccherato) 40

Succo di mirtillo 56

Succo d’arancia 50

Gatorade 78

Succo di pomodoro 38

Coca-Cola 53

Fanta 68

Energy drink 95

Cereali per la colazione


All bran 42

Fiocchi di crusca 74

Fiocchi di mais 81

Muesli 40-66

Porridge (fatto in casa) 58

Porridge (confezionato) 66

Special K 54-84

Weetabix 75
Crusca e uvetta 61

Frutta
Mela 38

Mela (disidratata) 29

Banana 52

Mango 51

Uva 46

Kiwi 53

Ciliegie 22

Pesca 42

Pera 38

Ananas 59

Prugna 39

Anguria 72

Fichi (secchi) 61

Albicocche (disidratate) 31

Uva sultanina 60

Uva passa 64

Prugne secche 29

Fragole 40

Legumi (fagioli, lenticchie, piselli)


Fagioli in salsa di pomodoro 48

Fagioli dall’occhio nero 42

Fagioli bianchi di Spagna 31

Ceci 28

Hummus (antipasto a base di ceci) 6

Fagioli rossi 28

Lenticchie verdi 30

Lenticchie rosse 26

Piselli secchi bolliti 22

Piselli bolliti 48

Verdura
Pastinaca 97
Patate al forno 85

Patate bollite 50

Patate novelle 57

Patatine fritte 75

Purè di patate 74

Purè istantaneo 85

Patata dolce 37

Carote crude 16

Carote cotte 58

Zucca 75

Barbabietola 64

Tabella 6: Indice glicemico dei principali alimenti contenenti carboidrati.

I criteri di classificazione dell’Ig sono ancora oggetto di discussione, ma un approccio adeguato


sarebbe quello di considerare un Ig pari o superiore a 70 “alto”, uno compreso fra 50 e 60
“medio”, e uno pari o inferiore a 49 “basso”.

Guardando la lista, una cosa appare chiara: molti dei carboidrati amidacei di cui ci spingono a
fare incetta si rivelano devastanti quanto ad apporto di zucchero nel sangue. Molti di questi
alimenti cardine della nostra dieta, soprattutto i corn-flakes, il pane bianco e le patate al forno,
hanno un Ig perfino più alto di quello del saccarosio (zucchero da tavola). Alcuni incidono
talmente tanto sui livelli di glucosio da poter quasi competere con il glucosio puro.

Se osserviamo attentamente la lista dell’Ig, vediamo come alcuni frutti e alcune verdure, fra cui
le barbabietole, l’ananas e l’anguria, hanno a loro volta un Ig piuttosto alto. Ciò significa che
questi cibi equivalgono ad altri con un Ig analogo, per esempio i nachos e i Mars?

A dir la verità, benché sia molto importante per valutare le caratteristiche nutrizionali di un
alimento, l’Ig non è l’unico parametro da considerare per quanto riguarda gli effetti sulla salute.
Per esempio, è molto importante anche il valore nutrizionale: ne parleremo più avanti in questo
capitolo.

È fondamentale pure la quantità di cibo ingerito. Alimenti dall’Ig relativamente alto risultano
più devastanti se ne mangiamo in dosi abbondanti. Il fatto di mangiare alimenti “dannosi” crea
decisamente meno problemi, se ne consumiamo in quantità moderata.

Prendiamo il caso di una persona che patisce la fame per tutto il giorno ma poi torna a casa e si
spazzola due piatti di pasta: ha ottime probabilità di ritrovarsi con picchi vertiginosi di zucchero
e insulina nel sangue. D’altro canto, è altamente improbabile che una persona, per quanto
affamata, si rimpinzi di ananas o barbabietole.

Dal concetto di “indice glicemico” ne deriva un altro noto come “carico glicemico” (Cg), che si
calcola moltiplicando l’Ig di un alimento per una porzione standard dello stesso. Si è scoperto
che il valore del Cg dà un’idea decisamente migliore dell’impatto che un alimento ha sui livelli
di zucchero e insulina rispetto all’Ig3.
Ma uno degli inconvenienti è che i valori di Cg sono basati su porzioni standard. Nella vita reale
le persone in genere non mangiano secondo queste razioni. Ciò nonostante, vale la pena dare
un’occhiata al Cg di determinati alimenti, per valutarne gli effetti complessivi sui livelli di
zucchero e insulina nel sangue.

Nella tabella 7 (vedi pagine seguenti), offriamo un elenco dei principali alimenti contenenti
carboidrati, con l’indicazione dell’indice glicemico e del carico glicemico.

Proprio come avviene con l’Ig, l’indicazione di Cg alto o basso è arbitraria.


Approssimativamente, tuttavia, si può definire “alto” un Cg pari o superiore a 20 e “basso” un
Cg pari o superiore a 10, mentre un valore fra 10 e 20 è considerato “medio”.

Indice Carico
glice glicemico
mico
Pane
Baguette 95 15

Bagel (ciambellina di pane) bianco 72 25

Pane bianco 70 10

Pane integrale 71 9

Pane di segale 58 8

Pane di farro 63 12

Pane nero (di segale) 46 5

Derivati del pane


Crostini di segale 64 11

Crackers 65 11

Gallette 71 13

Gallette di riso 78 17

Nachos 63 17

Patatine in busta 54 11

Popcorn 72 8

Pasta, riso e alimenti affini


Riso integrale 55 18

Riso basmati 58 22

Riso Arborio 69 36

Riso bianco 64 23

Riso perlato 25 11

Pasta di mais 78 32

Gnocchi 68 33
Pasto di grano duro 44 21

Pasta integrale 37 16

Couscous 65 23

Dolci
Biscotti “Digestive” 59 10

Croissant 67 17

Focaccina salata 69 13

Ciambella 76 17

Muffin (di crusca) 60 15

Focaccina dolce 92 7

Frollino 64 10

Gelato 61 8

Yogurt magro 27 7

Mars 65 26

Barretta al muesli 65 26

Snickers 55 19

Miele 55 10

Saccarosio (zucchero da tavola) 68 7 (10g)

Bevande
Succo di mela (non zuccherato) 40 12

Succo di mirtillo 56 16

Succo d’arancia 50 13

Gatorade 78 12

Succo di pomodoro 38 4

Coca-Cola 53 14

Fanta 68 23

Energy drink 95 40

Cereali per la colazione


All bran 42 8

Fiocchi di crusca 74 13

Fiocchi di mais 81 21

Muesli 40-66 12

Porridge (fatto in casa) 58 13


Porridge (confezionato) 66 17

Special K 54-84 11-20

Weetabix 75 15

Crusca e uvetta 61 12

Frutta
Mela 38 6

Mela (disidratata) 29 10

Banana 52 12

Mango 51 8

Uva 46 8

Kiwi 53 6

Ciliegie 22 3

Pesca 42 5

Pera 38 4

Ananas 59 7

Prugna 39 5

Anguria 72 4

Fichi (secchi) 61 16

Albicocche (disidratate) 31 9

Uva sultanina 60 25

Uva passa 64 28

Prugne secche 29 10

Fragole 40 1

Legumi (fagioli, lenticchie, piselli)


Fagioli in salsa di pomodoro 48 7

Fagioli dall’occhio nero 42 13

Fagioli bianchi di Spagna 31 6

Ceci 28 8

Hummus (antipasto a base di ceci) 6 0

Fagioli rossi 28 7

Lenticchie verdi 30 5

Lenticchie rosse 26 5

Piselli secchi bolliti 22 2


Piselli bolliti 48 3

Verdura
Piselli bolliti 48 3

Pastinaca 97 12

Patate al forno 85 26

Patate bollite 50 14

Patate novelle 57 12

Patatine fritte 75 22

Purè di patate 74 15

Purè istantaneo 85 17

Patata dolce 37 13

Carote crude 16 1

Carote cotte 58 3

Zucca 75 3

Barbabietola 64 5

Tabella 7: Indice e carico glicemico dei principali alimenti contenenti carboidrati.

Osservando i valori di Cg, vediamo un quadro diverso rispetto a quello che emerge se teniamo
conto del solo Ig. Si scopre così che molti alimenti con Ig medio o alto hanno un Cg basso.
Citiamo, per esempio, il kiwi (Ig 53 Cg 6), l’ananas (Ig 59 Cg 7), l’anguria (Ig 72 Cg 4), le carote
cotte (Ig 58 Cg 3) e la barbabietola (Ig 64 Cg 5). D’altro canto, le patate e molti cibi a base di
cereali con Ig medio o alto hanno un Cg altrettanto alto. Citiamo per esempio i bagel (Ig 72 Cg
25), il riso bianco (Ig 64 Cg 23), le gallette di riso (Ig 78 Cg 17), i corn-flakes (Ig 81 Cg 21), le
patate al forno (Ig 85 Cg 26) e la pasta di grano duro (Ig 44 Cg 21).

Gli alimenti a base di cereali e le patate creano problemi all’organismo non solo perché fanno
salire in fretta il tasso di glucosio nel sangue, ma anche per il fatto che si tende a mangiarne in
quantità. Ridurre le dosi di questi cibi aiuta a far scendere i livelli d’insulina, processo che a sua
volta innesca la perdita di grasso, pura e semplice.

UN IG BASSO O UNA DIETA LOW-CARB?

Credo vi siano pochi dubbi sul fatto che una dieta a basso Ig sia più sana, favorisca la perdita di
peso e presenti altri vantaggi per la salute di una ad alto Ig. Ciò nonostante, chi adotta
un’alimentazione di questo tipo può ugualmente continuare a secernere montagne d’insulina
se consuma molti carboidrati. Di conseguenza, una dieta povera di questi nutrienti può
costituire una scelta migliore per chi desidera dimagrire il più possibile.

La definizione precisa di dieta povera di carboidrati è variabile; alcuni esperti hanno definito
low-carb un’alimentazione in cui la dose quotidiana di carboidrati è tra i 50 e i 150 g4. Alcuni
programmi dietetici prevedono restrizioni perfino maggiori, soprattutto nelle prime fasi. La
dieta Atkins, per esempio, ha una fase d’induzione (iniziale) in cui la dose quotidiana di
carboidrati concessa non supera i 20 g. I regimi alimentari che prevedono simili restrizioni sono
in genere considerate diete poverissime di carboidrati.

È ben nota la capacità di questo tipo di alimentazione d’indurre la cosiddetta “chetosi”, stato
che insorge quando si limita l’apporto di carboidrati e l’organismo è costretto ad attingere alle
riserve di grasso. Esso viene scisso in chetoni, che forniscono energia immediata al corpo
(cervello compreso). I chetoni sono espulsi dall’organismo anche attraverso il fiato, che assume
un caratteristico odore dolciastro, come di mele cotte. Molti medici e dietologi contrari alle
diete povere di carboidrati lo definiscono “alitosi”. Ma il fiato di una persona in chetosi non
“puzza”, è solo un po’ diverso dal solito.

Un’altra critica frequente quando si parla di chetosi è che si tratta di una condizione
intrinsecamente nociva per la salute. Chi lo pensa confonde la chetosi con la cosiddetta
“chetoacidosi”, una condizione metabolica potenzialmente fatale che si verifica nel diabete di
tipo 1 non compensato. La chetosi non è uno stato patologico, bensì una normale reazione del
corpo finalizzata a ottenere energia in presenza di uno scarso apporto di carboidrati.

Per questo motivo non ho nulla contro la chetosi, benché sia opportuno specificare che, in linea
generale, una sostanziale perdita di peso non dipende da essa. I consigli dietetici forniti in
questo libro possono provocare la chetosi oppure no, a seconda delle vostre preferenze
alimentari. Non è così importante che ciò accada o meno: in ogni caso, il risultato finale
probabilmente sarà una perdita di peso ottenuta senza dover patire la fame o tenere sotto
controllo le calorie.

Oltre ad avere un potenziale ingrassante, i cibi con Ig e Cg relativamente alti presentano forti
rischi per la salute. Questi alimenti possono avere effetti nocivi sul benessere dell’individuo
perfino a breve termine, a causa del loro impatto sull’equilibrio degli zuccheri nel sangue.

Alti e bassi

Ogni cibo in grado di provocare un picco glicemico nel sangue probabilmente ha lo stesso
effetto sull’insulina. Il rischio è che, dopo un po’ di tempo (due o tre ore), il livello dello
zucchero nel sangue scenda sotto la norma. È la cosiddetta “ipoglicemia”, che si manifesta nei
seguenti modi illustrati qui sotto.

Fame e desiderio smodato di cibo

Quando il tasso glicemico nel sangue precipita, il cervello si trova a corto di carburante e, di
conseguenza, ci sentiamo affamati (anche se c’è del cibo nello stomaco). Non stupisce che, più
forte è l’impatto di un alimento (maggiore è il suo Ig), e meno esso è in grado di saziarci5.
Mangiare alimenti ad alto Ig può determinare bruschi cali del livello di zucchero nel sangue, con
conseguenti attacchi di fame6.

Ciò scatena in genere la voglia (a volte spasmodica) di ingerire dolci, come cioccolato al latte,
biscotti o una fetta di torta. Alcuni pensano che cedere a questo desiderio sia segno di scarsa
volontà, mancanza di controllo o di una personalità debole. In realtà, il problema di fondo è di
tipo più fisiologico che psicologico.

Spossatezza

Lo zucchero tende a fornire energia immediata al corpo, ma nel momento in cui viene a
mancare il primo, cala anche la seconda. Lo squilibrio di glucosio nel sangue può manifestarsi
con oscillazioni di energia durante il giorno: il punto più basso si colloca in genere a metà
pomeriggio.

Affaticamento mentale

Il cervello costituisce solo il 2 percento circa del nostro peso, ma utilizza circa il 25 percento
dello zucchero presente nel corpo. In altre parole, è un organo zucchero-dipendente. Se non è
adeguatamente nutrito, tende a funzionare male. Alcuni fra i sintomi più comuni includono
scarsa concentrazione, perdita di attenzione e sonnolenza. Vi siete mai chiesti perché a metà
pomeriggio vi ritrovate privi di energia e ispirazione? La causa potrebbe essere quel panino o
quella baguette che avete mangiato a pranzo.

Sbalzi di umore

Uno scarso nutrimento può provocare anche cali di umore e depressione. Ma c’è anche da dire
che, quando i livelli di zucchero nel sangue si abbassano, l’organismo attiva alcune parti del
sistema nervoso e secerne ormoni che stimolano la risposta allo stress. Il risultato? Ansia e
nervosismo. Non solo: reagendo all’abbassamento del livello di zuccheri nel sangue, il cervello
aumenta la produzione di una sostanza chimica chiamata “glutammato”, che può indurre un
senso di agitazione e irritabilità.

Risvegli notturni

Il calo dei livelli di zuccheri nel sangue può aver luogo di notte (per esempio, dopo una cena a
base di pasta, pudding e mezza bottiglia di vino). In genere, il livello degli zuccheri cala fra le tre
e mezzo e le quattro del mattino. L’attivazione della risposta allo stress (vedi sopra) non
favorisce un sonno ristoratore. Molte persone non solo sperimentano attacchi d’insonnia, ma
fanno anche molta fatica a riaddormentarsi.

Stabilizzare il livello di zuccheri nel sangue aiuta a rimanere vigili durante il giorno, dormire
bene di notte, migliorare l’umore e ridurre il desiderio di mangiare cibi di cui conosciamo il
potenziale nocivo. L’approccio fondamentale consiste nell’eliminazione di quegli alimenti che
tendono a sovvertire i livelli di zucchero e insulina. Questo tipo di comportamento presenta
vantaggi per la salute anche a lungo termine, poiché i cibi ad alto Ig e Cg non solo favoriscono
l’aumento ponderale, ma sono associati a un maggior rischio di patologie croniche.

CG e insulinoresistenza

Regimi alimentari caratterizzati da un Cg alto provocano livelli elevati d’insulina, che a loro
volta aumentano il rischio di sviluppare l’insulinoresistenza. Uno studio ha mostrato come un
aumento di 15 unità dei valori di Cg nella dieta sia associato a un rischio più che doppio di
insulinoresistenza7.

CG e diabete

L’insulinoresistenza è l’anticamera del diabete di tipo 2. Un altro fattore che può contribuire a
esso è “l’esaurimento della funzione del pancreas”: abbondanti secrezioni d’insulina possono
provocare, alla lunga, l’esaurimento delle cellule pancreatiche deputate a questa funzione. Uno
studio ha dimostrato che le persone che adottano un’alimentazione dal Cg altissimo hanno
probabilità due volte e mezzo maggiori di sviluppare il diabete di tipo 2 rispetto a chi segue una
dieta con un Cg bassissimo8. Altre ricerche hanno evidenziato il legame fra alimentazione ad
alto Ig o Cg e un maggior rischio di diabete9-11.

CARBOIDRATI E FEGATO GRASSO


Nel capitolo 3 abbiamo parlato del “fegato grasso”, che spesso va di pari passo con la
“sindrome metabolica” (il cui tratto distintivo è l’obesità addominale). Con il passare del tempo,
il fegato grasso può condurre alla fibrosi dell’organo e poi alla cirrosi epatica. L’alcol è una delle
cause scatenanti, ma ormai è assodato che anche altri elementi della dieta concorrono a
provocare questa patologia.

Alcune conferme in tal senso sono giunte da uno studio in cui un gruppo di uomini e donne sani
hanno mangiato al fast-food due volte al giorno per quattro settimane12. Durante la ricerca,
queste persone hanno preso in media 6,5 kg, con un aumento in particolare del girovita. I livelli
di grasso nel fegato sono cresciuti del 150 percento (quasi un record in sole quattro settimane)
e c’erano anche prove biochimiche di danni al fegato.

I ricercatori hanno scoperto che uno degli elementi in apparenza più nocivi per la salute del
fegato sono i carboidrati: maggiore è il loro apporto nella dieta, maggiori sono i danni
riscontrati nel fegato. Così non è, invece, per quanto riguarda un regime alimentare a base di
grassi. Una possibile spiegazione di questo fenomeno sta nella già menzionata produzione di
insulina, che a sua volta induce il fegato a produrre grasso (lipogenesi de novo).

Un altro elemento che conferma l’effetto potenzialmente ingrassante dei carboidrati a livello
del fegato riguarda il modo in cui si ottiene il foie gras da oche e anatre. Con cosa sono nutriti
questi animali affinché il loro fegato si trasformi quasi in grasso puro? La risposta è: cereali (in
particolare, grano).

Ma la questione più importante è: seguire una dieta povera di carboidrati aiuta a eliminare il
grasso dal fegato? Potete scommetterci: uno studio ha dimostrato che un regime con pochi
carboidrati comporta una riduzione significativa dei livelli di grasso nel fegato dopo soli tre
giorni13.

Seguire una dieta povera di carboidrati è un rischio?

È sensato affermare che le diete povere di carboidrati non godono di una buona fama. Come
abbiamo visto, l’obiezione più comune è che, essendo in genere ricche di grassi, aumentino il
rischio di patologie cardiache. Uno degli strumenti per valutare l’impatto delle diete è
considerarne gli effetti su alcuni “marker patologici”, come i livelli lipidici nel sangue e la
pressione sanguigna. Cosa succede dunque alle persone che riducono drasticamente i
carboidrati?

Ecco un riassunto dei cambiamenti metabolici che normalmente si riscontrano in chi segue
un’alimentazione povera di carboidrati14. Per ogni cambiamento, ho aggiunto fra parentesi una
valutazione della sua positività o meno dal punto di vista delle patologie cardiache:

Miglior ricettività all’insulina (positivo).


Calo della pressione sanguigna (positivo).
Calo del livello dei trigliceridi (positivo).
Aumento del livello di colesterolo HDL (positivo).
Aumento del livello di colesterolo LDL (negativo).

Se osserviamo l’elenco da un punto di vista tradizionale, le diete povere di carboidrati


sembrano migliori di quelle ricche in base a quasi tutti i marker patologici. L’unica possibile nota
stonata (sempre da un punto di vista tradizionale) è l’aumento del livello di colesterolo LDL che
talvolta è associato a questi regimi alimentari. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, è il
tipo di colesterolo che sembra collegato a un maggior rischio di malattie cardiovascolari. Ma,
nello stesso capitolo, abbiamo sottolineato come il ruolo del colesterolo nell’ambito della salute
sia un argomento molto controverso. Anche se si è convinti che l’LDL sia rischioso per la salute,
c’è qualcos’altro che occorre sapere.

LDL: una questione di dimensioni

Le dimensioni del colesterolo LDL variano molto: si va da piccole particelle dense ad altre più
grandi e meno dense (“fluide”). È noto ormai da tempo che le dimensioni e la densità delle
particelle di LDL hanno una forte influenza sul rischio palese di patologie cardiache. Le prove lo
dimostrano: le particelle piccole e dense di LDL sono associate a un maggior rischio di patologie
cardiache, mentre quelle grandi e “fluide” non lo sono15.

Quali effetti ha l’alimentazione sulle dimensioni delle particelle di LDL? Durante una ricerca
alcune persone sono state sottoposte inizialmente a una dieta povera di grassi e ricca di
carboidrati per quattro settimane; successivamente, i soggetti hanno seguito un regime ricco di
grassi e povero di carboidrati per lo stesso periodo di tempo16. Rispetto alla seconda dieta, la
prima ha portato a una riduzione delle dimensioni delle particelle di LDL (elemento negativo).
Non solo: si è visto che adottare un regime alimentare povero di carboidrati induce un netto
aumento delle dimensioni delle particelle di LDL17.

Riassumendo, ci rendiamo conto che le diete povere di carboidrati sono potenzialmente in


grado di migliorare i marker patologici a 360 gradi.

Carboidrati e patologie cardiovascolari

La conclusione logica è che, ovviamente, una dieta ricca di carboidrati influisce in senso
negativo sui marker patologici. Ma non è l’unico rischio connesso a un’alimentazione del
genere: è stato infatti dimostrato che valori alterati di zucchero nel sangue favoriscono
l’insorgere di malattie, in particolare di tipo cardiovascolare18.

Tra le conseguenze troviamo:

Maggiore infiammazione (un processo chiave nelle patologie cardiovascolari).


Maggior “stress ossidativo” (detto anche “danno da radicali liberi”): un altro fenomeno
potenzialmente sotteso a molte patologie croniche, fra cui quelle cardiovascolari.
Glicazione proteica (reazione mediante la quale gli zuccheri si legano ad alcune proteine
del corpo, danneggiandole).
Maggiore coagulazione (in sostanza, il sangue diventa più “denso” e tendente a formare
grumi).
Aumento dei livelli di trigliceridi nel sangue (fattore di rischio accertato nelle malattie
cardiovascolari).

Nel complesso, le diete ad alto Ig o Cg sono associate a un maggior rischio di patologie


circolatorie e cardiache in un ordine che va dal 20 al 100 percento18. Una delle principali
ricerche in merito è giunta ad avere prove schiaccianti del fatto che una dieta ad alto Ig o Cg sia
in grado di provocare un attacco cardiaco19.

Non dimentichiamo che per decenni ci hanno esortato a sostituire i grassi saturi con i
carboidrati allo scopo di proteggere il cuore. Tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo 12, non
ci sono prove che i primi provochino disturbi cardiaci. Viceversa, è assodato che alcuni
carboidrati che ci hanno spinto a mangiare andrebbero consumati con prudenza.

Ma allora cosa succede a chi segue il consiglio di ridurre i grassi saturi e mangiare più
carboidrati?

Uno studio ha valutato le abitudini alimentari e il rischio di patologie cardiache di oltre 53.000
persone nell’arco di più di un decennio20. I ricercatori hanno scoperto che la sostituzione dei
grassi saturi con carboidrati ad alto Ig è associata a un aumento del 33 percento del rischio di
attacco cardiaco. Un’altra indagine (in questo caso, una meta-analisi di undici studi) ha scoperto
che sostituire i grassi saturi con i carboidrati comporta una maggiore incidenza di “eventi
coronarici”, per esempio l’attacco cardiaco21.

Si tratta di prove solo epidemiologiche, ma non dimentichiamo che la ricerca è giunta alle
stesse conclusioni: i carboidrati, il cui effetto sugli zuccheri nel sangue è dirompente, innescano
processi patologici nel corpo umano.

Nell’insieme, la ricerca rivela che eliminare i grassi saturi dalla dieta a favore dei carboidrati, nel
migliore dei casi, non riduce in alcun modo l’incidenza di malattie cardiache. Nel peggiore,
invece, ci sono buoni motivi per credere che questa base di alimentazione “sana” di fatto ne
aumenti il rischio.

Ma qual è il valore nutritivo dei cereali?

Uno dei motivi per cui si sconsiglia di ridurre drasticamente i carboidrati amidacei (per esempio,
pane e cereali per la colazione) è che, in questo modo, vengono a mancare delle sostanze
nutritive essenziali. Benché sia spesso dato per scontato che i cereali, in particolare quelli a
chicchi interi, siano ricchissimi di nutrienti, le cose stanno davvero in questi termini?

Uno dei modi per determinare il valore nutritivo di un alimento consiste nel mettere a
confronto il livello di sostanze nutritive con quello di calorie: gli alimenti migliori sono quelli con
un altissimo contenuto di nutrienti e un bassissimo apporto calorico. I ricercatori hanno dunque
elaborato un concetto chiamato “densità nutrizionale”22.

La figura 6 riassume i valori relativi a frutta e verdura, considerate in genere cibi nutrienti. I più
sani sono quelli posizionati in basso (scarsa densità energetica) e a destra (alto livello nutritivo)
sul grafico. Osservando la figura, vediamo come la frutta e la verdura fresche (con l’eccezione
delle patate) presentino in genere ottimi valori.

Confrontiamo ora questi risultati con quelli relativi ai cereali, riportati nella figura 7. Come si
può vedere, essi sono generalmente ad alta densità energetica e a basso valore nutritivo. Ciò
vale anche per i cereali a chicchi interi, per esempio il pane integrale.

In questa figura non sono indicati i carboidrati raffinati quali la pasta, il pane bianco e il riso.
Tuttavia, se teniamo conto che neppure i cereali integrali sono poi così nutrienti, tantomeno il
quadro si presenta roseo per quelli raffinati. La natura non nutriente dei cereali è avvalorata
dal fatto che molti alimenti da essi ricavati, tra cui il pane e i cereali per la colazione, sono
“arricchiti” con sostanze nutritive aggiunte. Se questi cibi fossero intrinsecamente nutrienti,
perché arricchirli?
Vale inoltre la pena di ricordare che alcuni cereali, soprattutto quelli integrali, contengono i
cosiddetti “fitati” che bloccano l’assorbimento di sostanze nutritive quali calcio, magnesio, ferro
e zinco. Molti cereali non soltanto sono carenti sul piano nutrizionale, ma di fatto ci
impediscono di sfruttare il valore nutritivo di ciò che mangiamo.

Il punto essenziale è che, pur essendo tecnicamente un alimento, i carboidrati amidacei


corrispondono meglio alla definizione di foraggio. Forse avete sentito parlare di “calorie
vuote” riguardo allo zucchero raffinato, in riferimento al fatto che potenzialmente fa ingrassare
e ha uno scarsissimo valore nutritivo. Vi esorto a giudicare allo stesso modo i cibi a base di
cereali.

Da dove prendere le fibre?

Uno dei motivi per cui sarebbe “necessario” mangiare carboidrati è che sono alimenti ricchi di
fibre, in teoria utili per l’intestino. Quelle a cui si fa riferimento sono in genere le fibre
“insolubili” (la crusca, in parole povere). Si dice che esse diano consistenza alle feci e aiutino a
prevenire la stipsi e il cancro al colon.

A dire la verità, le fibre insolubili possono irritare l’intestino e provocare sintomi quali gonfiore
e fastidio. Viceversa, l’altra tipologia di fibre (le cosiddette “solubili”) tende a migliorare disturbi
intestinali quali la stipsi e il fastidio addominale23. Le fibre solubili si trovano in abbondanza in
cibi naturali come frutta, verdura, frutta secca e semi.

Dobbiamo aggiungere che la teoria secondo cui le fibre insolubili aiuterebbero a prevenire il
cancro al colon non è avvalorata dalla ricerca. Alcuni studi, per esempio, mostrano che
integrare la propria alimentazione con le fibre non riduce il rischio di forme tumorali maligne o
lesioni precancerose24-26.

Gli autori di un recente articolo sono giunti alla conclusione che «le fibre non sembrano essere
di grande utilità nelle patologie del colon-retto», aggiungendo di voler «sottolineare come tutto
ciò che ci hanno portato a credere sulle fibre debba essere rivisto. Spesso scegliamo di credere
a una bugia, poiché una bugia ripetuta un numero sufficiente di volte da un numero sufficiente
di persone diventa una verità condivisa»27. Ritengo che quest’ultima affermazione sia valida per
gran parte del “sapere” in ambito nutrizionale.

Contro i cereali

È ben noto in medicina che talvolta i cibi possono innescare delle reazioni indesiderate
nell’organismo. Nella forma più estrema, si può arrivare allo “shock anafilattico”,
potenzialmente letale. Ma ci sono altri tipi di reazioni provocate dai cibi che, seppure non così
evidenti e meno facilmente riconoscibili, possono nondimeno avere effetti debilitanti sulla
salute.

L’ipersensibilità ad alcuni cibi, ovvero le cosiddette intolleranze alimentari, può essere alla base
di una vasta gamma di problemi. Benché riguardino numerosi alimenti, in pratica i cereali sono
fra i maggiori responsabili delle intolleranze. Essi contengono delle proteine, chiamate lectine,
che il tratto digestivo umano fatica ad assimilare. Il processo è complicato perché i cereali
contengono anche i cosiddetti “inibitori della proteasi”, che pregiudicano la digestione delle
proteine. Il risultato finale è che le lectine spesso giungono quasi intatte nell’intestino.

Il problema è che le lectine, assorbite dalla parete intestinale e poi immesse nel flusso
sanguigno, possono essere considerate un “corpo estraneo”, alla stregua di un virus o di un
batterio. La reazione dell’organismo è diversa da quella che verrebbe adottata per proteggersi
da un invasore. Ciò causa problemi all’intestino (fra cui fastidio e “debolezza” della parete
intestinale, che rilascia quindi potenziali tossine). La reazione immunitaria al cibo può “migrare”
in altre parti del corpo e provocare uno o più sintomi, fra cui mal di testa, congestione sinusale,
asma, eczema, artrite reumatoide e spossatezza.

Come ho detto, i cereali sono spesso coinvolti in questo processo; a tal proposito, uno dei
peggiori è il grano (che si trova, fra l’altro, nella maggior parte delle varietà di pane, nei cereali
per la colazione, in biscotti, torte, pasticcini, pasta e pizza). Il grano è particolarmente ricco di
una specifica proteina nota come “agglutinina del germe di grano”.

Inoltre è una fonte di glutine, un’altra proteina che crea problemi all’organismo. Alcune
persone hanno un’estrema sensibilità al glutine: è il cosiddetto “morbo celiaco”. Esso provoca
un “appiattimento” dei villi dell’intestino tenue, che ostacola l’assorbimento del cibo. La
celiachia dà disturbi digestivi come dolore, gonfiore e diarrea, oltre a malnutrizione.

Si può diagnosticare la celiachia tramite appositi esami del sangue e una biopsia dell’intestino
tenue. Se il test è positivo, è pressoché certo che la persona abbia problemi con il glutine. Ma
un test negativo non esclude in toto un’eventualità del genere. È infatti dimostrato che alcuni
individui reagiscono al glutine anche se non soffrono di celiachia28. Esso non si trova solo nel
grano, ma anche in altri cereali come l’avena, la segale e l’orzo.

I cereali danno alla testa

Un altro problema è che alcuni cereali possono dare dipendenza. Il glutine forma nel corpo i
cosiddetti “peptidi oppioidi” o “gluteomorfina”, che si attaccano agli stessi recettori cerebrali a
cui si lega la morfina. I cereali che contengono glutine, in particolare il grano, hanno così un
effetto leggermente euforizzante e in certe persone possono indurre dipendenza.

In base alla mia esperienza, e anche ai dati scientifici, ritengo che molti cereali (e su tutti il
grano) siano potenzialmente in grado di arrecare numerosi danni all’organismo.

Per riassumere, i cereali:

In genere alterano i livelli di zucchero nel sangue al punto da indurre spossatezza,


problemi di umore, risvegli notturni, fame e desiderio spasmodico di dolci.
Tendono a provocare picchi glicemici e di insulina che a lungo termine predispongono
all’aumento di peso, al diabete di tipo 2 e alle patologie cardiache.
In genere non sono nutrienti.
Contengono fitati che pregiudicano la digestione di sostanze nutritive fondamentali.
Sono ricchi di lectine e talvolta contengono glutine, proteina che predispone a problemi
digestivi e disturbi da intolleranze alimentari, fra cui artrite, asma ed eczema.
Contengono gli inibitori della proteasi, che compromettono la digestione di proteine, fra
cui le lectine e il glutine.
Possono dare dipendenza (ciò vale per i cereali che contengono glutine, come il grano).

Sulla base di tutte queste informazioni, ha davvero senso fare dei cereali la pietra miliare della
nostra dieta, come peraltro ci consigliano istituzioni sanitarie ed esperti?

Queste brutte notizie significano che dobbiamo eliminare completamente i cereali dalla nostra
alimentazione? Non è detto. Alcune persone sembrano tollerare abbastanza bene i prodotti a
base di grano, ma per la mia esperienza si tratta di mosche bianche. Nella stragrande
maggioranza dei casi ho visto che, quando si riduce la quantità di cereali consumati (o si
eliminano del tutto), in genere si trae vantaggio in termini di dimagrimento, benessere generale
e sensazione di vitalità.

DA DOVE TRARRE L’ENERGIA?

Una delle obiezioni rivolte alle diete povere di carboidrati è che essa provoca una carenza dello
zucchero di cui il corpo ha “bisogno” per alimentarsi. Prima di tutto, dieta low-carb non
significa priva di carboidrati. Anche se carboidrati amidacei e zucchero aggiunto fossero
completamente assenti dalla propria alimentazione, alcuni carboidrati arriverebbero comunque
al corpo sotto altre forme, per esempio attraverso la verdura.

Ma supponiamo per un momento che una persona voglia eliminare ogni minima molecola di
carboidrati dalla sua dieta, mangiando solo proteine e grassi. Cosa succederebbe? Come
abbiamo visto nel capitolo 7, il corpo ha la capacità di convertire le proteine in glucosio
attraverso la cosiddetta “gluconeogenesi”. Si è stimato che questo processo possa produrre
circa 200 g di glucosio al giorno, più che sufficienti per soddisfare il fabbisogno corporeo di
carboidrati.

È un puro e semplice dato di fatto che non c’è necessità di inserire i carboidrati nella dieta.

Lo stesso non si può dire di proteine e grassi: infatti queste sostanze, denominate “acidi grassi
essenziali” e “amminoacidi essenziali”, sono fornite solo dall’alimentazione.

In sintesi
L’insulina è il veicolo principale di accumulo di grasso nel corpo.
Maggiore è il livello di zucchero nel sangue, maggiore la quantità di insulina rilasciata dal
corpo.
La capacità di un alimento di destabilizzare i livelli di zucchero nel sangue è espressa
dal suo “indice glicemico” (Ig).
L’impatto complessivo di un alimento sui tassi glicemici e insulinici nel sangue non
dipende solo dal suo Ig, ma anche dalla quantità di cibo ingerita. L’effetto globale è
denominato “carico glicemico” (Cg).
Molti cibi a base di cereali – fra cui il grano, il pane, il riso bianco, le gallette di riso e i
cereali per la colazione – hanno in genere un Ig e un Cg elevati.
I regimi alimentari ad alto Ig e Cg sono associati a un maggior rischio di sviluppare
insulinoresistenza, diabete di tipo 2 e patologie cardiache.
Se si riducono i carboidrati, il corpo può trarre energia dai chetoni derivati dal grasso.
La chetosi è una reazione naturale alla riduzione dei carboidrati e non presenta rischi
per la salute.
A breve termine, l’instabilità dei livelli di zucchero nel sangue (dovuta al consumo di cibi
ad alto Ig o Cg) provoca un brusco calo degli stessi, generando sintomi quali
spossatezza, fame, desiderio spasmodico di cibo, sbalzi d’umore e risvegli notturni.
Le diete povere di carboidrati portano a un miglioramento dei marker patologici, fra cui
sensibilità all’insulina, pressione sanguigna e tasso lipidico nel sangue.
Se paragonati alla frutta e alla verdura, i cereali sono cibi poco nutrienti.
I cereali contengono “fitati”, che ostacolano l’assorbimento delle sostanze nutritive.
I cereali, in particolare il grano, provocano spesso intolleranze alimentari e possono dare
dipendenza.
Non c’è alcuna necessità di inserire i carboidrati nella propria dieta.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 15

AGRODOLCE

Lo zucchero si trova naturalmente nella nostra alimentazione, per esempio nella frutta. La dieta
odierna tuttavia è generalmente ricca di zuccheri aggiunti, derivati dalla barbabietola, dalla
canna da zucchero e, sempre più spesso, dal grano. In questo capitolo esamineremo il loro
ruolo nello sviluppo dell’obesità e di malattie.

Chi teme lo zucchero tende a sostituirlo con dolcificanti artificiali. Pur essendo dolci, tali
sostanze vantano di essere prive di calorie e di rappresentare un valido aiuto nel controllo del
peso. Nel capitolo sottoporremo anche questa idea a un vaglio scrupoloso.

Cos’è lo zucchero?

Lo zucchero da tavola, il tipo che generalmente si mette nel tè o nel caffè, o con cui si
preparano torte e budini, è costituito da saccarosio. Tecnicamente il saccarosio è un
“disaccaride”, termine usato per descrivere zuccheri composti dalla condensazione di due
molecole di monosaccaridi. Nel caso dello zucchero, si tratta del glucosio e del fruttosio. Il
saccarosio, una volta ingerito, viene scisso nei suoi zuccheri base prima di entrare nel sangue.

Il glucosio presente nel saccarosio contribuisce indubbiamente al carico glicemico della dieta:
più glucosio si ingerisce, più si alzano i livelli di zucchero nel sangue. Come abbiamo visto nel
capitolo precedente, i picchi glicemici nel sangue possono indurre processi quali flogosi e
coagulazione che, con tutta evidenza, aumentano il rischio di problemi cardiaci. Alti livelli di
zucchero nel sangue, inoltre, innalzano quelli dell’insulina, che predispongono a
insulinoresistenza, diabete di tipo 2 e, naturalmente, all’aumento di peso.

E il fruttosio?

A differenza del glucosio, il fruttosio gode in genere di una fama migliore, principalmente
perché non contribuisce in maniera diretta all’innalzamento del livello di zucchero nel sangue. Il
fruttosio, inoltre, è lo zucchero predominante in alcuni frutti, motivo per cui si tende ad
associarlo a un’immagine salutare.

Negli ultimi anni, tuttavia, un numero sempre maggiore di ricerche ha dimostrato che il
fruttosio, pur non alzando direttamente il livello di zucchero nel sangue, può comunque avere
effetti nocivi sull’organismo. L’interesse è dovuto, perlomeno in parte, al fatto che quantità
sempre più ingenti del dolcificante “sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (HFCS)” si
stanno diffondendo nella nostra alimentazione. L’HFCS, ottenuto a basso costo dal trattamento
chimico del mais, contiene una percentuale più o meno pari di glucosio e fruttosio.

È stato negli anni Settanta del secolo scorso che si è iniziato a usare quantità significative di
HFCS nell’industria alimentare; ai giorni nostri, questa sostanza è diventata una componente
fondamentale della dieta, sotto forma di ingrediente di cibi quali cereali per la colazione,
barrette, biscotti, torte, dessert pronti, yogurt dolcificati e bibite, nonché di alcuni alimenti
salati fra cui salse (per esempio, il ketchup) e cracker.

Qualunque sia la fonte, una volta assorbito dal corpo, il fruttosio finisce direttamente nel
fegato. È qui che dev’essere metabolizzato, poiché il resto del corpo non ha gli strumenti
metabolici necessari per farlo. Una parte del fruttosio viene convertita in glucosio, perciò il
fruttosio può, seppure indirettamente, alzare il livello di zucchero nel sangue. L’altro principale
esito del fruttosio è... il grasso. Alcuni prodotti del metabolismo del fruttosio possono essere
trasformati in grasso tramite il processo della lipogenesi de novo nel fegato (analizzato nel
capitolo 6). Sembra che una parte di esso rimanga “bloccata” nell’organo, dando vita al
cosiddetto “fegato grasso”1. Il fruttosio è coinvolto anche nella sindrome metabolica,
caratterizzata da obesità addominale, di cui abbiamo parlato nel capitolo 32.

Il grasso che si forma attraverso il metabolismo del fruttosio può entrare nel sangue sotto
forma di trigliceridi. In uno studio, alcuni uomini sottoposti a una dieta ricca di fruttosio per
quattro settimane hanno visto un significativo aumento dei livelli di trigliceridi2. Fra le altre
cose, un alto tasso di trigliceridi può ostacolare l’azione della leptina, con un metabolismo
rallentato e un aumento della fame. Il fruttosio è stato effettivamente collegato alla resistenza
alla leptina3,4. Si è inoltre scoperto che il fruttosio è potenzialmente in grado di favorire
l’insulinoresistenza5,6. Da alcuni articoli emerge, in maniera forse non sorprendente, un
collegamento tra consumo di fruttosio, obesità e diabete di tipo 2, nonché aumento della
pressione sanguigna7,8.

È dunque ampiamente assodato che il fruttosio ha un potenziale nocivo per la salute. Tuttavia
un’affermazione del genere vale per qualsiasi elemento della dieta (tutto può nuocere alla
salute se consumato in quantità eccessiva). Negli studi in cui il fruttosio è stato somministrato
ad animali o esseri umani sono state impiegate dosi relativamente alte, che potrebbero non
riflettere i normali livelli di consumo.

Ma abbiamo una vaga idea di quanto sia il troppo quando si parla di fruttosio?

Quanto è troppo?

Un articolo ha stabilito che 25-40 g al giorno di fruttosio sono una dose non pericolosa9. Un
altro ha affermato che il limite massimo si colloca probabilmente al di sotto dei 90 g al dì10. Per
quanto mi riguarda, tendo a consigliare per prudenza dosi minori, basandomi su uno studio in
cui già 40 g di fruttosio al giorno, sotto forma di bevande dolcificate, per tre settimane
inducono spiacevoli cambiamenti, fra cui più marker di flogosi, un aumento del rapporto vita-
fianchi (segno di un peggioramento dell’obesità addominale) e alterazioni negative nelle
dimensioni delle particelle di colesterolo LDL11.

La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, come nella maggior parte dei fenomeni,
ci sono variazioni individuali nella tolleranza al fruttosio. È possibile che una persona possa
consumarne 100 g o anche più al dì senza effetti nocivi, mentre un’altra possa avere problemi
assumendo quantità decisamente inferiori.

In quest’ottica, ecco alcune affermazioni generali che secondo me corrispondono al vero:

Anche se non alza in maniera diretta i tassi di zucchero nel sangue, il fruttosio non ha
quasi certamente effetti benefici sulla salute.
Da ricerche condotte sugli animali e sull’uomo, è emerso che il fruttosio può indurre
problemi quali resistenza all’insulina e alla leptina, aumento del peso e della pressione
sanguigna.
Dosi relativamente basse di fruttosio nella dieta non dovrebbero creare danni alla
maggior parte delle persone, in particolare se viene assunto attraverso cibi
relativamente sani come la frutta. Una mela, per esempio, contiene circa 6 g di
fruttosio, contro i circa 20 g presenti in una lattina di cola.

I dolcificanti artificiali sono la scelta migliore?


I dolcificanti artificiali (aspartame, sucralosio, saccarina ecc.), che danno un sapore dolce con
poche o zero calorie, sembrerebbero la scelta ovvia per sostituire lo zucchero da parte di chi
vuole dimagrire. Tuttavia, per essere sicuri che i dolcificanti artificiali favoriscano davvero la
perdita di peso, bisognerebbe sottoporli ai cosiddetti “studi clinici controllati randomizzati”.
Queste analisi, spesso usate per testare i prodotti farmaceutici, sono in genere considerate lo
standard di riferimento necessario per determinare l’efficacia di una data sostanza. Vista la
fiducia cieca che dovremmo riporre nei dolcificanti artificiali, si potrebbe credere che vi siano
moltissime prove a sostegno della loro utilità.

Tuttavia, caso strano, nella letteratura scientifica non c’è neppure uno studio controllato
randomizzato che valuti gli effetti dei dolcificanti artificiali sul peso.

Una possibile spiegazione è che tali test non siano stati condotti. Un’altra è che siano stati
fatti, ma non pubblicati. La pratica di pubblicare i risultati graditi, e viceversa cestinare quelli
sgraditi, è nota come “distorsione da pubblicazione”. Una pratica che può dare una versione
molto distorta della realtà.

È difficile determinare se ci sia stata una distorsione da pubblicazione in questo campo, ma è


certo che sia stato investito molto denaro nei dolcificanti artificiali e sembra improbabile che
chi li produce non cerchi prove a sostegno dei loro presunti benefici nella lotta contro il
sovrappeso.

Eppure è stato dimostrato che, perlomeno negli animali, i dolcificanti artificiali possono in
realtà favorire l’obesità. In uno studio, la dieta di alcuni ratti è stata integrata con yogurt
dolcificato con zucchero o saccarina12. Rispetto agli animali nutriti con yogurt zuccherato, i ratti
nutriti con quello dolcificato con saccarina hanno ingerito più calorie e sono ingrassati. Gli
autori dello studio sono giunti alla conclusione che «[...] l’uso di dolcificanti artificiali nei ratti ha
condotto a maggior apporto calorico, maggior peso corporeo e maggiore adiposità [grasso]»,
aggiungendo che «questi risultati portano a ipotizzare che il consumo di prodotti contenenti
dolcificanti artificiali possa determinare aumento del peso corporeo e obesità, andando a
interferire con fondamentali processi fisiologici omeostatici».

Una possibile spiegazione del fenomeno è collegata alla capacità dei dolcificanti artificiali di
stimolare l’appetito, come vedremo meglio nel capitolo 17.

Gli scarsi (o nulli) vantaggi dei dolcificanti artificiali non dovrebbero sorprendere molto, se
consideriamo che si tratta di un’aggiunta estremamente recente all’alimentazione umana. Le
chance di avere gli strumenti biochimici e metabolici necessari per farne un uso efficace sono
dunque pochissime. Le probabilità che tali sostanze siano benefiche per la nostra salute lo sono
altrettanto. Viceversa, è più verosimile che il loro potenziale nocivo sia elevato. È comunque un
argomento che approfondiremo nel capitolo 18.

Un’altra aggiunta relativamente recente alla dieta umana è il latte. Nel prossimo capitolo
vedremo quale posto abbiano nella nostra dieta questo alimento e gli altri latticini.

In sintesi
Il glucosio contribuisce al carico glicemico della dieta, a innalzare il livello di zucchero
nel sangue e ad aumentare il rischio di obesità e malattie croniche.
Benché non innalzi direttamente il tasso glicemico nel sangue, il fruttosio può
predisporre all’aumento di peso e a problemi di salute attraverso meccanismi di vario
genere.
Quantità limitate di fruttosio, soprattutto se proveniente dal cibo (per esempio, la frutta),
non sono nocive per l’organismo, ma è meglio evitare di consumarlo in gran quantità, in
particolare sotto forma di additivi alimentari.
Non ci sono elementi validi a sostegno della tesi che i dolcificanti artificiali siano migliori
dello zucchero ai fini del controllo del peso.
Test condotti su animali dimostrano che i dolcificanti artificiali possono provocare un
aumento di peso.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 16

LA VACCA SACRA

Il latte e gli altri latticini sono alimenti base nella “dieta occidentale standard”, e non si manca
di sottolineare la loro importanza per la crescita e per la salute delle ossa. Eppure, per gran
parte della nostra storia, l’unico latte che abbiamo bevuto è stato quello materno: ciò
nonostante, è ampiamente assodato che i nostri antenati avevano ossa sane e robuste. Perché
mai dovremmo avere bisogno del latte adesso?

In questo capitolo esamineremo i presunti benefici di questo alimento e degli altri latticini,
valutandone gli effetti sulle ossa, sul peso corporeo e sulla salute in generale.

Farsi le ossa

Quando si raccomanda il consumo di latticini, si pone particolare enfasi sul loro ruolo
“essenziale” per la crescita e per lo sviluppo delle ossa durante l’infanzia e l’adolescenza. Il
calcio si trova nei latticini ed è anche un elemento costitutivo delle ossa. La conclusione ovvia
che se ne trae è che essi facciano bene allo scheletro. Peccato che ci siano pochissime prove a
sostegno di questa tesi, o forse nessuna.

La maggior parte degli studi, secondo quanto riportato da un articolo, non ha trovato riscontro
del fatto che consumare quotidianamente latte e latticini durante l’infanzia abbia un’influenza
significativa sulla salute delle ossa1. Il resto degli studi rivela scarsi vantaggi evidenti. Un altro
articolo ha evidenziato come fornire un supplemento di calcio ai bambini e agli adolescenti non
abbia effetti sulla densità delle ossa dell’anca e della spina dorsale, e comporti solo benefici
marginali per quanto riguarda la densità ossea delle braccia2. In un editoriale a commento dello
studio è stato sottolineato che non ci sono prove dei “vantaggi” non solo del calcio, ma anche
dei latticini in genere per quanto riguarda la salute delle ossa3.

Abbiamo visto come tali prodotti non hanno grossi effetti sulle ossa dei più giovani, ma
perlomeno arrecano qualche beneficio agli anziani? Si è fortemente incoraggiato il consumo di
latticini, considerati elementi nutrizionali chiave, per contrastare l’indebolimento delle ossa
chiamato “osteoporosi”. Anche in questo caso, i dati raccolti non suffragano l’ipotesi di base.

In un studio condotto su 72.000 donne, in un arco di tempo di 18 anni, il consumo di latte e


calcio sembra non avere avuto alcuna influenza sul rischio di frattura all’anca4. Un altro articolo
ha rilevato che in 12 ricerche su 14 non è emerso alcun rapporto fra il consumo di latte e la
salute delle ossa nelle ultracinquantenni5. Una recente meta-analisi ha dimostrato come non ci
sia prova di un legame fra minore rischio di frattura all’anca e maggior consumo di latte, tanto
nell’uomo quanto nella donna6.

In un’altra meta-analisi i ricercatori hanno esaminato nello specifico il rapporto fra assunzione
di calcio e frattura all’anca7. Anche in questo caso, un maggior consumo di calcio non è
collegato a un rischio ridotto di fratture, anzi: lo studio ha dimostrato che un supplemento di
calcio (rispetto al placebo) di fatto aumenta il rischio di frattura all’anca del 64 percento.

La ricerca dimostra quindi che i latticini, e il calcio in essi contenuto, non solo presentano scarsi
vantaggi per la salute, ma potrebbero perfino rivelarsi dannosi.

Ipersensibilità

Nel capitolo 14 abbiamo visto come i cereali, soprattutto il grano, rappresentino un rischio a
causa della loro tendenza a scatenare intolleranze alimentari. In base alla mia esperienza, posso
affermare che anche i prodotti caseari determinano spesso problemi d’ipersensibilità.

Nei bambini, per esempio, ho notato come i latticini siano spesso alla base di disturbi quali
asma, eczema, infezioni all’orecchio, otite media sierosa, raffreddori frequenti e tonsilliti
ricorrenti. Per quanto concerne gli adulti, alcuni dei problemi più comuni associati
all’intolleranza ai latticini sono eccesso di catarro, congestione sinusale e/o nasale, asma,
eczema, sindrome del colon irritabile.

Un potenziale fattore scatenante sono le proteine presenti nel latte e negli altri suoi derivati,
per esempio, la caseina. Si ritiene che la pastorizzazione renda le proteine del latte
particolarmente difficili da digerire, e di conseguenza più problematiche. Questa tesi trova
conferma nella mia esperienza: molte persone tollerano i latticini non trattati, ma reagiscono a
quelli pastorizzati.

Ho notato che lo yogurt è tollerato meglio del latte. Uno dei motivi potrebbe essere che i
batteri coinvolti nel processo di fermentazione da cui deriva lo yogurt “digeriscono” in parte le
proteine del latte8,9, rendendole più facili da assimilare. Un ulteriore beneficio dello yogurt è il
fatto che contiene meno lattosio del latte e dunque è sopportato meglio da chi è intollerante a
questo zucchero.

Oltre a favorire la digeribilità dei latticini, gli studi portano a credere che i batteri presenti negli
yogurt “con fermenti lattici vivi” e “bio” siano potenzialmente in grado di alleviare disturbi
intestinali quali stipsi, diarrea e sindrome del colon irritabile.

E gli altri latticini?

A livello pratico, il formaggio e la panna pastorizzati sembrano potenzialmente in grado di


scatenare intolleranze proprio come lo yogurt. Il burro in genere è ben tollerato, forse in virtù
del fatto che ha una percentuale bassissima di proteine e lattosio.

Un altro fatto ormai appurato è che le persone intolleranti ai prodotti caseari vaccini non
manifestano lo stesso grado di intolleranza (o non ne manifestano affatto) nei confronti di latte
e derivati di pecora e capra. Si è ipotizzato che il latte di questi animali sia, rispetto a quello
vaccino, più simile a quello umano: ciò lo renderebbe più facile da digerire e più adatto alle
nostre esigenze.

Latticini e controllo del peso

I derivati del latte stimolano la produzione d’insulina e, a quanto pare, in misura maggiore
rispetto a quanto si potrebbe immaginare in base al loro impatto sul tasso glicemico nel
sangue10. In teoria, il fatto che i latticini stimolino la produzione d’insulina potrebbe essere di
ostacolo al controllo del peso, dal momento che questo ormone ha un ruolo chiave
nell’accumulo di grasso nel corpo.

Bisogna tuttavia ricordare che latticini come lo yogurt e il formaggio sono ricchi di proteine,
stimolando a loro volta la secrezione di glucagone, il quale controbilancia alcuni degli effetti
ingrassanti dell’insulina (vedi il capitolo 20).

Un altro fattore che mitiga il potenziale ingrassante dei latticini è legato al loro contenuto di
calcio. È stato dimostrato che, paradossalmente, il consumo di calcio abbassa i livelli di questo
elemento nelle cellule adipose, accelerando così il processo di lipolisi (rottura del grasso)11. Non
mancano le prove a sostegno di un legame fra una maggiore assunzione di calcio e latticini e
una diminuzione della massa grassa12.

Si è sostenuto che non sia soltanto il calcio a favorire la sua riduzione, ma anche altre sostanze
chimiche presenti nei latticini. È stato dimostrato che integrare la dieta con prodotti caseari
(yogurt) stimola la diminuzione della massa grassa, compreso il grasso addominale13. In uno di
questi studi14, il gruppo che ha integrato la propria alimentazione con lo yogurt ha visto calare il
girovita in media di circa 4 cm, contro una riduzione di soli 0,5 cm circa nelle persone che hanno
assunto un semplice integratore di calcio.

Benché, in teoria, i latticini abbiano un potenziale ingrassante a causa della loro influenza
sull’insulina, i fatti dimostrano che inserirli nella dieta non è un ostacolo alla perdita di peso,
anzi: può perfino diventare un aiuto.

I latticini e la dieta “primitiva”

I latticini sono un’aggiunta relativamente recente alla dieta e, di conseguenza, non possono
essere definiti alimenti “primitivi”. Tuttavia, per chi li tollera, essi hanno una certa importanza
dal punto di vista nutrizionale, poiché sono relativamente ricchi di proteine e grassi e poveri di
carboidrati. In questo senso, il loro “aspetto da macronutrienti” rispecchia quella che sappiamo
essere la combinazione migliore per quanto riguarda il dimagrimento e gli indicatori di malattie.

Un’altra caratteristica importante dei latticini è la loro tendenza generale a placare l’appetito in
maniera abbastanza efficace. È probabile che ciò sia dovuto alla presenza di proteine e grassi in
prodotti caseari quali lo yogurt intero, la panna e il formaggio. Nel prossimo capitolo
esamineremo altri fattori importanti per il controllo dell’appetito che rendono quasi una
passeggiata mangiare sano, con tutti i benefici collegati.

In sintesi
Il consumo di latte e dei suoi derivati sembra avere benefici scarsi o nulli sulla salute
delle ossa nei bambini e negli adulti.
I latticini possono provocare intolleranze che si manifestano con disturbi vari, fra cui
asma, eczema e sindrome del colon irritabile.
Fra tutti i prodotti caseari, il latte è quello tollerato peggio e il burro quello che crea
minori problemi. Lo yogurt, il formaggio e la panna si collocano a metà strada fra questi
due estremi.
I derivati del latte di capra e di pecora in genere sono tollerati meglio rispetto agli
equivalenti prodotti con quello vaccino.
È appurato che il consumo di yogurt favorisce la perdita di peso.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
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Capitolo 17

FAME DI CAMBIAMENTO

Tenere adeguatamente sotto controllo la fame è il presupposto indispensabile di ogni regime


dietetico. In precedenza abbiamo visto come le proteine e i grassi abbiano un potere saziante
decisamente maggiore rispetto ai carboidrati. In questo capitolo introdurremo altre importanti
strategie nutrizionali per tenere sotto controllo la fame e continuare a seguire la retta via
alimentare.

Il nemico è la fame

Molte persone che cercano di dimagrire sono convinte che avere fame sia il segnale
inequivocabile che stanno assumendo meno calorie. E, di conseguenza, stanno
necessariamente perdendo peso. Tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo 4, con l’andare del
tempo la fame rallenta il metabolismo. Brevi periodi di riduzione volontaria delle calorie non
rappresentano un problema, ma periodi prolungati di restrizioni alimentari e fame, sì.

Ciò nonostante, l’appetito incontrollato causa grossi problemi anche a breve termine, poiché
può spingere non solo a privilegiare cibi ingrassanti, ma anche a mangiare troppo.

Immaginate di tornare a casa con una fame da lupi dopo un’intera giornata trascorsa fuori casa.
Avete bisogno di qualcosa che sia veloce da preparare e che vi sazi. Cosa sarà? Un’insalata di
pollo o costolette d’agnello alla griglia con broccoli al burro? Probabilmente no. È più facile che
il menù del giorno preveda un piattone di pasta o una ciotola di cereali. Lo stesso vale a pranzo,
poiché sentirsi affamati in genere comporta un desiderio intenso di cibi “che saziano”, di solito
il pane. Ovviamente, l’altra faccia della medaglia è che arrivare al pasto non troppo affamati
aiuta a vincere la sfida di mangiare in modo sano.

Per quanto illogico possa sembrare, meno ci si mette nelle condizioni di avere fame, maggiori
probabilità si hanno di perdere peso.

Ho visto un’infinità di persone che dimagrivano in modo rapido, sopportabile e praticabile


seguendo i consigli forniti in questo libro, senza patire a lungo la fame. È proprio il fatto di non
soffrire la fame che permette di compiere scelte salutari in maniera facile e piacevole.

Ma allora fino a che punto dobbiamo patire la fame prima di concederci di mangiare?
Immaginate una scala in cui 0 rappresenta la completa sazietà e 10 indica una fame da lupi. Il
mio consiglio è di mangiare quando si è a livello 6 o 7.

Ecco due regole fondamentali per gestire l’appetito:

Mangiare i cibi giusti.


Mangiare in modo regolare.

Esaminiamole una alla volta.

Mangiare i cibi giusti

Ne abbiamo già parlato in precedenza, ma ricapitoliamo velocemente i punti salienti.

In linea generale, la dieta più efficace per sentirsi sazi è quella ricca di proteine e grassi, e
relativamente povera di carboidrati. Uno dei maggiori vantaggi di questa dieta è che facilita la
perdita di grasso, che può quindi essere metabolizzato dall’organismo (proprio come avviene
agli orsi in letargo). Dato che rappresenta un nutrimento per il corpo, il grasso aiuta a placare
l’appetito. Anche le proteine hanno le stesse proprietà intrinseche. Il diverso potere saziante
dei cibi contribuisce a spiegare perché molti di noi riescono a placare efficacemente l’appetito
con una manciata di frutta secca (ricca di proteine e grassi), mentre un secchiello grande come
un pallone di popcorn, che sono ricchi di carboidrati, non ha lo stesso effetto.

LA DIETA PRIMITIVA SODDISFA LE NOSTRE ESIGENZE?

Nel capitolo 11 abbiamo avanzato la teoria secondo cui la dieta migliore sarebbe quella basata
sugli alimenti “primitivi”, teoria avvalorata dalle ricerche relative all’influenza del cibo su peso e
salute. Può darsi che questo tipo di alimentazione si riveli vincente anche per quanto riguarda il
controllo dell’appetito.

In uno studio, alcuni uomini hanno seguito due tipi di dieta, primitiva o mediterranea, per un
arco di tempo di 12 settimane1. La dieta primitiva era incentrata su carne magra, pesce,
verdura, uova e frutta secca. La seconda era basata su cereali integrali, latticini a basso
contenuto di grassi, frutta, verdura, pesce, oli vegetali e margarina. Entrambi i regimi alimentari
erano ad libitum.

Chi ha seguito la dieta mediterranea ha assunto in media oltre 1800 calorie al giorno: era
questa la quota necessaria per soddisfare appieno il fabbisogno individuale. Anche chi ha
seguito quella primitiva ha soddisfatto le proprie esigenze, ma con meno cibo (meno di 1400
calorie).

Sembra proprio che un’alimentazione di tipo primitivo sia in grado di soddisfare il fabbisogno
individuale e, al contempo, impedisca di mangiare troppo senza patire la fame.

Mangiare in modo regolare

Una delle possibili cause della fame sfrenata, che ci porta a compiere scelte alimentari
sbagliate, è un’attesa troppo lunga fra un pasto e l’altro. Dal mio punto di vista, per quasi tutti il
“periodo a rischio” è il tempo che intercorre fra il pranzo e la cena. Capita spesso che
trascorrano otto ore e più tra questi due pasti, un lasso decisamente troppo lungo per la
maggior parte delle persone. Se fra uno e l’altro non abbiamo mangiato abbastanza, nel
momento in cui ci sediamo a tavola per cena rischiamo di essere decisamente troppo affamati
per accontentarci di cibi sani.

Alcune persone non hanno problemi a saltare i pasti di tanto in tanto, e possono posticipare o
addirittura eliminarne completamente uno senza perdere il controllo sul proprio appetito. In
effetti, più avanti (al capitolo 22) vedremo come saltare i pasti possa facilitare il dimagrimento e
aiutare alcuni di noi a raggiungere il peso forma in maniera sicura ed efficace.

Ma alle persone, nella maggioranza dei casi, consiglio di non rimanere a stomaco vuoto fra
pranzo e cena. Come ho già detto, la frutta secca rappresenta un ottimo spuntino. In genere
placa efficacemente la fame già in quantità abbastanza ridotte. Ma soprattutto, come abbiamo
visto nel capitolo 6, la frutta secca non è un cibo che fa ingrassare. Ulteriori indicazioni sul
consumo di tale alimento si trovano nel capitolo 18.

La sua capacità di sedare l’appetito si scontra con quello che è lo spuntino per eccellenza: la
frutta. Ma nella maggior parte dei casi, chi mangia una mela, un’arancia o mezzo grappolo
d’uva si ritroverà con la stessa fame, se non addirittura più affamato di prima.

Mangiare per forza?


Mangiare quando si ha molta fame non è una buona idea, ma non lo è neppure farlo senza
troppo appetito: nutrirsi inutilmente in genere non contribuisce in alcun modo ad accelerare la
perdita di grasso. Come abbiamo visto in precedenza in questo stesso capitolo, l’obiettivo è
mangiare quando la fame si trova a un livello 6 o 7 su una scala da 1 a 10.

Di tanto in tanto, una situazione particolare rende difficile stare lontani dal cibo anche se non si
ha fame. Per esempio, può sembrare maleducato non mangiare quando il coniuge o un parente
ha cucinato un piatto speciale solo per noi, oppure quando si è al ristorante con colleghi o
clienti. Di fatto, saltuarie eccezioni di questo tipo non devono preoccuparci. Ma se vi capita
spesso di mangiare senza avere fame o di continuare a farlo anche se siete sazi, vi suggerisco di
correre subito ai ripari.

Per alcuni di noi, mangiare senza avere appetito è una conseguenza della cosiddetta “fame
nervosa”. In questo caso, la molla che spinge a nutrirsi pare costituita da emozioni negative,
quali per esempio, ansia e tristezza. Una spiegazione dei meccanismi della fame nervosa, e del
modo in cui gestirla, si trova nei punti elencati qui sotto.

Tuttavia, per certe persone, non sembra trattarsi di fame nervosa nel senso tradizionale del
termine. In base alla mia esperienza, il problema è spesso legato alle abitudini e al
condizionamento. Una ripetuta assunzione di cibo in assenza di vera fame (come si verifica
spesso durante l’infanzia) può provocare una certa sordità ai segnali che il corpo ci invia. Ecco
alcune strategie che possono risultare di aiuto.

1. Imparate a riconoscere i segni della fame

Dedicate alcuni secondi, più volte al giorno, a chiedervi fino a che punto avete fame. Date un
voto da 1 a 10 al vostro impulso di mangiare. Così facendo, riuscirete a riprendere contatto con
i segni che il corpo usa per indicare fino a che punto avete davvero bisogno di cibo.

2. Non mangiate a orari fissi

Alcune persone hanno l’abitudine di mangiare a orari fissi, per esempio, pranzano perché “è ora
di pranzo”, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno fame. Se ne siete consapevoli,
cercate (per quanto possibile) di rimandare il pasto a quando sarete davvero affamati.

3. Evitate di “vuotare il piatto”

Una delle possibili cause del mangiare senza necessità è la convinzione di dover finire tutto
quello che c’è nel piatto. Se pensate che sia questo il vostro caso, provate a sforzarvi di lasciare
un po’ di cibo (anche una quantità minima) al termine del pasto.

4. Usate stoviglie più piccole

Anche un lauto pasto rischia di apparire insignificante, se non addirittura di perdersi, in un


vassoio enorme o in un’ampia terrina. Usare stoviglie adatte a pasti più contenuti, ma che
soddisfano appieno il nostro fabbisogno, riduce la tendenza ad accumulare inutili montagne di
cibo.

5. Evitate di “mangiare per dopo”

Alcune persone mangiano allo scopo di evitare la fame prima del pasto successivo. Ma questo
può favorire la sovralimentazione se trascorre troppo tempo fra l’uno e l’altro (per esempio, fra
pranzo e cena). L’obiettivo è mangiare in modo tale da sentirsi piacevolmente sazi a ogni pasto.
Nel caso in cui avvertiste un certo languorino, nulla di meglio che concedersi un bello snack
(come la frutta secca) per tirare avanti sino al pasto successivo.

Raggiungere il giusto equilibrio

Nel capitolo 8 abbiamo visto come i cali del livello di zucchero nel sangue (ipoglicemia) possano
scatenare la fame, in particolare il desiderio intenso di ingurgitare carboidrati. In questo caso, si
tende a privilegiare i cibi dolci: barrette di cioccolato, biscotti, pasticcini, torte e bibite
zuccherate. Un’alimentazione povera di carboidrati, ma ricca di proteine e grassi, può davvero
aiutare a stabilizzare i tassi glicemici nel sangue: si tratta dunque di una strategia essenziale per
mettere stabilmente a tacere il desiderio di carboidrati.

Tuttavia, se il corpo è abituato a ottenere carburante sotto forma di carboidrati a rapida azione,
ci vorrà un po’ di tempo prima che si adatti all’improvviso calo di zuccheri e amidi. La brama
spasmodica di tali nutrienti che può derivarne minaccia di mandare fuori strada perfino il
seguace più convinto di un’alimentazione sana. Se dovesse capitare a voi, l’aiuto è a portata di
mano...

Vantaggi supplementari

L’equilibrio dello zucchero nel sangue è regolato da meccanismi che dipendono dall’assunzione
di nutrienti specifici, il più importante dei quali è probabilmente il minerale cromo. A quanto
pare, gli integratori a base di questo minerale aiutano a stabilizzare i tassi glicemici nel sangue
e, fattore ancora più importante, a tenere a bada il desiderio intenso di carboidrati.

In uno studio, alcune donne sovrappeso trattate con mille microgrammi (mcg) di cromo al
giorno hanno rilevato una riduzione significativa della fame (e dell’apporto di cibo) rispetto a
quelle a cui era stato somministrato un placebo2. In un’altra ricerca si è scoperto che gli
integratori di cromo riducono in maniera specifica il desiderio spasmodico di carboidrati3.

Alcuni integratori offrono una gamma di nutrienti concepita appositamente per stabilizzare i
livelli di zucchero nel sangue. Oltre al cromo, spesso comprendono il magnesio e le vitamine del
gruppo B. Questi integratori, e anche solo quelli a base del primo elemento, si rivelano molto
utili nelle fasi iniziali di transizione verso una dieta povera di carboidrati. In combinazione con
altre sostanze o da solo, consiglio 400-800 mcg di cromo al giorno, suddiviso in due o tre dosi
nell’arco della giornata.

Anche la glutammina può aiutare a ridurre gli attacchi di fame

Il desiderio intenso di zucchero si scatena in genere quando il cervello è a corto di carburante.


L’amminoacido glutammina (da non confondere con il glutammato, un componente dell’MSg,
come vedremo più avanti) fornisce carburante immediato al cervello e, in pratica, elimina il
desiderio intenso di carboidrati.

Suggerisco di acquistare la glutammina in polvere e di scioglierne un cucchiaino da tè (circa 4 g)


in 500 ml di acqua. La bevanda va assunta nel corso della giornata, in particolare fra un pasto e
l’altro, quando è più facile incorrere in un attacco di fame, ma anche perché la glutammina si
assorbe meglio a stomaco vuoto.

Integrare la dieta con il cromo e la glutammina è un sistema molto efficace per stroncare gli
attacchi di fame. Tali misure servono in genere solo per 2-6 settimane; in seguito, è possibile
ridurli gradualmente e poi eliminarli del tutto senza che si ripresentino tali episodi.
Fame nervosa

Alcuni individui sostengono di soffrire di “fame nervosa”. Si ritiene che siano spinti a mangiare
da stati psicologici negativi quali stress, ansia o tristezza. A breve suggerirò due approcci che in
genere trovo molto efficaci per eliminarla in maniera rapida e risolutiva. Ma prima vediamo se
la fame nervosa è davvero tale.

Prendiamo una persona tendente all’instabilità dei livelli di zucchero nel sangue. Se tali livelli
crollano, il corpo reagisce in genere con la secrezione di ormoni dello stress come l’adrenalina,
uno dei cui effetti è aumentare l’ansia. Oltre ai cambiamenti d’umore, bassi tassi glicemici nel
sangue scatenano il desiderio di cibi in grado di riportare lo zucchero velocemente nel flusso
sanguigno: cioccolato, biscotti, pane. Di conseguenza, si fa incetta di tali cibi. A questo punto,
sorge una domanda: cosa ha provocato l’attacco di fame e la successiva abbuffata? Le emozioni
di quella persona o il calo di zucchero nel sangue all’origine dell’insorgenza di tali emozioni?

In base alla mia esperienza, e a costo di sembrare riduttivo, sostengo che molte persone
convinte di avere un problema di “fame nervosa” in realtà non ce l’hanno affatto. Come faccio a
saperlo? Perché ho visto più volte che, quando una persona affetta da “fame nervosa” mangia
in maniera adeguata, e in particolare stabilizza i livelli di zucchero nel sangue, il problema
semplicemente scompare. In molte persone, ciò che sembra avere una radice psicologica ha in
realtà una natura fisiologica.

Ciò non vuol dire che la fame nervosa non esista, anzi. Per esempio, se nell’infanzia i dolci sono
stati usati come premio o consolazione, è molto probabile che questi alimenti vengano associati
a determinate emozioni. Se è capitato anche a voi, leggete con attenzione quanto segue.

Per capire come affrontare al meglio tale problema, bisogna tenere conto del fatto che la
mente ha due componenti, una conscia e l’altra inconscia. La mente conscia è quella che, fra le
altre cose, permette di pensare ai problemi, razionalizzarli e affrontarli. Mentre leggete questo
libro, per esempio, è probabile che la vostra parte razionale sia in piena attività.

Tuttavia molte reazioni emotive hanno sede nella mente inconscia che, come suggerisce il
termine, controlla i pensieri e comportamenti involontari. Numerose reazioni emotive
affondano le proprie radici nella mente inconscia. Un esempio è la mia fobia dei ragni. Ne ho
molta paura, benché sappia che qui in Inghilterra non sono pericolosi. Ciò nonostante, la mia
mente inconscia associa i ragni a una qualche forma di pericolo: da qui la mia reazione. Il punto
è che posso parlarne quanto voglio con un terapeuta, o cercare di razionalizzare la paura nella
mia stessa mente: l’esito non cambia. Adottare un approccio razionale a un problema inconscio
è come tentare di disinnescare una bomba senza prima togliere la spoletta.

Anche per risolvere un autentico problema di fame nervosa è utile “togliere la spoletta”. Ecco
un paio di metodi che in genere funzionano molto bene:

Ipnoterapia

Il termine potrebbe far pensare a un orologio che ci viene fatto dondolare davanti al naso, ma
in un contesto terapeutico l’ipnosi è una cosa completamente diversa. Il lavoro di un
ipnoterapeuta consiste nell’indurre uno stato in cui la mente conscia è parzialmente “spenta”.
La definizione tecnica è “trance”, ma per molte persone si tratta di uno stato non molto diverso
da quello che si sperimenta quando si guida in autostrada per molti chilometri, per poi rendersi
conto di non avere nessun ricordo del tragitto fatto; è la stessa sensazione che si prova
perdendosi in un buon libro o in un brano musicale. Una volta indotto uno stato di suggestione
profonda, il terapeuta “spinge” la mente inconscia a reagire in maniera più adeguata ai normali
stimoli emotivi.

Emotional Freedom Technique (EFT)

L’espressione Emotional Freedom Technique, ovvero “tecnica di libertà emozionale”, può


creare un attimo di disagio, ma cerchiamo di capire bene di cosa si tratta. Questo tipo di terapia
consiste nella stimolazione di alcuni punti specifici del corpo, focalizzando al tempo stesso la
mente sul problema emotivo (o anche fisico) che si vuole risolvere. A volte bisogna anche
contare, mormorare o muovere gli occhi in una particolare sequenza. Non ci sono dubbi sul
fatto che l’EFT possa sembrare una pratica un po’ bizzarra. Ma posso testimoniare che aiuta
davvero le persone a compiere grandi progressi verso la soluzione di problemi gravi come la
fame nervosa.

Uno degli aspetti più validi dell’EFT è che si apprende e si mette in pratica in maniera del tutto
autonoma. Gli esperti ci sono, volendo, ma io sono assolutamente convinto che le persone
debbano gestire la propria salute nella maniera più indipendente possibile. Nel caso della fame
nervosa, l’EFT può rivelarsi uno strumento molto efficace; inoltre, può essere adottato per ogni
tipo di problema, tanto fisico quanto mentale.

IL CIOCCOLATO: VIAGGIO NEL LATO OSCURO

A chi desidera di tanto in tanto concedersi qualcosa di dolce e gratificante consiglio di scegliere
il cioccolato fondente (70 percento di cacao o più). Uno dei motivi è che il cacao è una sostanza
nutriente già di per sé, oltre a essere particolarmente ricco di sostanze chimiche di origine
vegetale, i “polifenoli”, che proteggono dalle patologie cardiache. Più amaro è il cioccolato, più
cacao e, soprattutto, meno zucchero contiene. Ciò equivale a minori possibilità di alterazione
dei tassi glicemici nel sangue e, di conseguenza, minor rischio di bramare dannosi carboidrati.

Un altro motivo per cui il cioccolato fondente è da preferire a quello al latte è che, a parità di
dosi, il primo sazia più del secondo4, forse per il suo elevato contenuto di proteine e il basso Ig.
La conseguenza è che si tende a mangiarne meno.

Un’ulteriore ragione per scegliere quello fondente rispetto alle altre varietà è che, siamo
sinceri, non è poi così buono. Una volta messo in bocca, il cioccolato fondente non ha né la
consistenza pastosa, né la dolcezza di quello al latte, e quindi risulta meno appetitoso. Si può
tranquillamente terminare la cena con un paio di quadratini di cioccolato fondente senza
provare rimorso, né sentirsi in colpa.

I rovina-appetito

Mangiare i cibi giusti con una regolarità tale da mantenere l’appetito sotto controllo fa sì che
l’alimentazione sana diventi una piacevole abitudine. Ciò nonostante, bisogna essere
consapevoli del fatto che alcune sostanze possono sviarci. Alcuni additivi alimentari sono in
grado di stimolare l’appetito e spingerci a consumare più calorie del necessario. Sul banco degli
imputati troviamo il glutammato monosodico (MSg) e i dolcificanti artificiali.

Glutammato monosodico (MSG)

Il glutammato monosodico è un ingrediente usato per esaltare il gusto e la “sapidità”. Benché si


trovi in una vasta gamma di cibi lavorati, non mancano le perplessità circa i suoi effetti sul peso
e sulla salute.
È ben nota la capacità del glutammato di stimolare l’appetito: è almeno uno dei motivi per cui è
usato per “correggere” molti prodotti alimentari di tipo industriale. Nei test di laboratorio, non
solo il glutammato spinge gli animali a mangiare di più5, ma stimola anche la secrezione
d’insulina6. Può dunque capitare che, poco tempo dopo, tale ormone comporti un calo del
livello di zucchero nel sangue (ipoglicemia), che dà tra gli effetti collaterali una fame da lupi. Ciò
spiega come sia possibile consumare un lauto pasto a base di cibo cinese (il glutammato è
comunemente usato nella cucina orientale) solo per ritrovarsi con lo stomaco che brontola un
paio d’ore dopo.

I test hanno evidenziato un collegamento fra l’assunzione di alte dosi di glutammato e un


maggior rischio di sovrappeso e obesità7,8. In entrambi gli studi citati, l’associazione permane
anche tenendo conto di fattori quali l’apporto complessivo di cibo e il livello di attività fisica. In
altre parole, sembra che il glutammato possa provocare l’aumento di peso con modalità diverse
dai suoi effetti stimolanti sull’appetito.

Una delle possibili spiegazioni è la capacità del glutammato di alterare il funzionamento


dell’ipotalamo nel cervello, che potrebbe indurre resistenza alla leptina. Inoltre i test sugli
animali dimostrano che è in grado di inibire la lipolisi (rottura del grasso)9.

Uno dei modi per ridurre al minimo il consumo di glutammato è leggere con cura le etichette
degli alimenti. Le diciture da tenere d’occhio sono: MSg (ovviamente), proteine vegetali
idrolizzate (HVP), fitoproteine idrolizzate, proteine testurizzate, proteine vegetali autolizzate,
estratto di lievito, lievito autolizzato ed estratto di proteine vegetali.

Ovviamente, se sentite l’esigenza di studiare l’etichetta di un determinato cibo, è probabile che


non abbiate fra le mani un prodotto di qualità. Se la vostra dieta è costituita principalmente da
cibi naturali non lavorati come carne, pesce, uova, frutta, verdura e frutta secca, è difficile che il
glutammato sia presente. Nel cammino verso l’eliminazione dei cibi lavorati non dimenticate di
evitare i fast-food, i cui cibi contengono dosi massicce di MSg.

Dolcificanti artificiali

I dolcificanti artificiali promettono di far perdere peso, benché nel capitolo 15 abbiamo visto
come in realtà non ci sia nessuna prova valida in tal senso. Nello stesso capitolo ho anche citato
alcune ricerche in base alle quali gli animali alimentati con cibi dolcificati artificialmente
ingrassano più di quelli che ne assumono di zuccherati.

Una delle possibili spiegazioni è che i dolcificanti artificiali stimolano l’appetito con vari effetti
sul cervello. In uno studio, alcune donne hanno ingerito una soluzione contenente il dolcificante
artificiale sucralosio o il saccarosio (zucchero da tavola)10. I soggetti non erano in grado di
distinguere di quale dei due si trattasse sulla base del sapore ma, a quanto pare, il cervello
riconosce la differenza: lo zucchero, infatti, attiva i “centri del piacere” cerebrali più del
sucralosio. Pare proprio che un dolcificante artificiale non sia in grado di offrire il livello di
piacere dato dallo zucchero. Questo, in teoria, potrebbe condurre a cercare soddisfazione in
altri cibi (ovvero a mangiare di più).

Alcuni test dimostrano che i dolcificanti artificiali sono in grado di stimolare l’appetito. Uno
studio, per esempio, ha rivelato che le donne a cui viene data una limonata dolcificata con
saccarina assumono una maggiore quantità complessiva di calorie rispetto a quelle a cui è
offerta una limonata normale (dolcificata con lo zucchero)11. In un altro studio, i ricercatori
hanno scoperto che chi mangia yogurt dolcificato con saccarina tende a mangiarne più di chi ne
consuma uno zuccherato12. È un’ulteriore dimostrazione della teoria secondo cui anche
l’aspartame contenuto nei chewing-gum è in grado di stimolare l’appetito13. I cibi zuccherati
sono tutt’altro che ideali, ma pare che quelli dolcificati artificialmente siano una pessima
alternativa.

Cosa dire dei dolcificanti naturali? Alcuni, come stevia e xilitolo, sono indicati come alternative
più salutari a quelli artificiali come l’aspartame e il sucralosio. Saranno anche più sani, ma
rimane il problema di fondo: sono dolci. Lo so che è proprio di questo che stiamo parlando, ma
il fatto è che il loro consumo abitua il palato a sapori potenzialmente in grado d’indurre
dipendenza. Credo che la scelta ideale, a lungo termine, consista nel rinunciare del tutto ai
dolci. La maggior parte delle persone scopre che basta seguire per un paio di settimane i
consigli offerti in questo libro per perdere ogni sensibilità a tali sapori.

Mangiare in fretta può portare a ingurgitare troppo cibo

Probabilmente non vi stupirà scoprire che più fame abbiamo, più velocemente tendiamo a
mangiare. Ma la cosa importante è che più lo facciamo in fretta, più finiamo per mangiare
prima che il cervello dia il segnale di stop. Uno studio ha scoperto che gli uomini che si
alimentano rapidamente hanno il doppio di probabilità di essere sovrappeso rispetto a coloro
che lo fanno con più calma14.

Il punto è: mangiare lentamente e masticare il cibo con cura aiuta forse a prevenire la
sovralimentazione? In uno studio è stato chiesto a 30 donne di mangiare un piatto di pasta in
due condizioni ben distinte15. Nel primo caso, dovevano prendere bocconi piccoli e masticarne
ognuno per 15-20 volte. Nel secondo, dovevano mangiare il più velocemente possibile. In
quest’ultimo caso, le donne hanno assunto circa 70 calorie in più, e si sono sentite meno sazie
subito dopo il pasto e perfino un’ora dopo.

Un’altra prova dell’importanza di nutrirsi con calma giunge da uno studio in cui alcuni volontari
avevano mangiato del budino al cioccolato in varie modalità16. In un caso è stato chiesto ai
volontari di inghiottire bocconi relativamente piccoli. In un altro, ne hanno presi alcuni tre volte
più grandi. In entrambi i casi, ma in occasioni diverse, i volontari hanno dovuto masticare il cibo
velocemente (3 secondi prima d’inghiottire) e lentamente (9 secondi per boccone). Ogni volta, i
volontari potevano mangiare quanto volevano e smettere quando si sentivano sazi.

Una delle scoperte più importanti di questo studio è stata che i volontari mangiavano meno
quando i bocconi erano piccoli rispetto a quando erano grandi. L’apporto medio è stato di circa
100 calorie in meno (una riduzione del 23 percento circa). Di fatto, più a lungo il cibo rimane in
bocca, meno se ne mangia.

Fare bocconi piccoli e masticare con cura comporta una riduzione spontanea e inconsapevole
della quantità di cibo assunta durante un pasto.

Mastica oggi, mastica domani: consigli per mangiare più lentamente

1. Fate in modo di non arrivare troppo affamati all’ora dei pasti

Questa è la cosa più importante di tutte: è difficile mangiare in modo controllato e assaporare i
cibi se avete una fame da lupi. Consumate i cibi giusti con una certa regolarità, in modo che il
vostro appetito non subisca impennate.

2. Diminuite le dosi nel cucchiaio o sulla forchetta

Siate consapevoli della quantità di cibo che mettete in bocca. Se la forchetta è piena o il
cucchiaio tende a tracimare, forse è il caso di riconsiderare la questione. Fate in modo che ogni
boccone sia piccolo e gestibile.

3. Masticate con cura

Masticare con cura non solo aiuta la digestione, ma rallenta anche il nutrimento. Sforzatevi di
masticare ogni boccone circa venti volte prima d’inghiottirlo. Mentre lo fate, mettete giù le
posate e non riprendetele finché non avete masticato e inghiottito l’ultimo boccone. Quando
arrivate all’ultimo, anche se non intendete lasciare sul tavolo le posate, non mettete il cibo sulla
forchetta o sul cucchiaio finché il boccone precedente non è stato accuratamente masticato e
mandato giù.

4. Assaporate i cibi

Avete mai consumato un pranzo, una cena o uno spuntino di cui avete a malapena avvertito il
sapore? In caso affermativo, è probabile che si sia trattato, fra le altre cose, di un pasto rapido e
distratto. Non sempre è possibile mangiare con calma ma, quando le circostanze lo
permettono, assaporate ciò che state mangiando e godetevelo.

SPESA FACILE

In questo capitolo abbiamo sottolineato l’importanza di non arrivare troppo affamati all’ora di
pasto. Lo stesso principio vale per quando si va a fare la spesa. Recarsi al supermercato con una
fame da lupi è un’istigazione a delinquere. Se lo stomaco non borbotta, diventa molto più facile
mettere nel cestino o nel carrello soltanto cibi sani. Alcune persone si trovano molto bene con
lo shopping online, poiché evita le tentazioni visive e olfattive che rendono difficile resistere a
cibi appetitosi ma poco salutari come pane, ciambelle e pasticcini.

In sintesi
Tenere sempre l’appetito sotto controllo è il segreto per mangiare sano e perdere peso
nel modo giusto.
Una dieta adeguata è generalmente ricca di proteine e grassi, ma povera di carboidrati.
Per moderare l’appetito e il consumo di cibo è importante fare pasti regolari e qualche
spuntino.
Eventuali cali di zucchero nel sangue (ipoglicemia) stimolano la fame e, in particolare, il
desiderio di carboidrati.
Il cromo e altre sostanze nutritive, fra cui il magnesio e alcune vitamine del gruppo B,
aiutano a stabilizzare i livelli di zucchero nel sangue e a contrastare gli attacchi di fame.
La glutammina fornisce carburante immediato al cervello ed è anch’essa un’arma
efficace contro gli attacchi di fame.
Il glutammato monosodico può stimolare l’appetito e va quindi evitato.
In maniera analoga, i dolcificanti artificiali alterano l’appetito e predispongono
all’aumento di peso.
Mangiare lentamente, masticare con cura e assaporare il cibo sono tutte azioni che
aiutano a prevenire le abbuffate.
Non andate a fare la spesa a stomaco vuoto!
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 18

IL COMBUSTIBILE PRIMARIO

Nei primi capitoli di questo libro abbiamo esposto una miriade di ragioni per cui le diete
tradizionali, soprattutto quelle basate sulla riduzione dei grassi e sulla limitazione delle calorie,
portano a risultati così scarsi nell’ottica di una perdita duratura di peso. In seguito abbiamo
visto come le diete povere di carboidrati, ma più ricche di proteine e grassi rispetto a quanto
tradizionalmente consigliato, siano le più efficaci in assoluto per il controllo del peso. Un valore
aggiunto è dato dal fatto che questo tipo di dieta non si basa né su una restrizione volontaria
delle calorie, né sul peso delle porzioni (quindi, niente fame).

La parte centrale del libro ha ampliato la nostra conoscenza della nutrizione al di là del suo
impatto sul peso e sulla salute. Abbiamo esplorato il rapporto fra le principali tipologie di cibo
(grassi, zuccheri, cereali, latticini), benessere e rischio di malattie (fra cui diabete di tipo 2 e
patologie cardiache). Abbiamo inquadrato la ricerca nel contesto della teoria secondo cui
l’alimentazione migliore è quella basata sulla dieta con la quale ci siamo evoluti. È emerso che
l’alimentazione “primitiva”, dettata dal buon senso, è corroborata dalle prove scientifiche.

Il presente capitolo è un compendio di tutte queste informazioni e valuta i singoli cibi sulla base
di ciò che sappiamo del loro effetto sul peso e sulla salute. Inoltre, riporta altre informazioni
importanti non fornite in precedenza, in modo da offrire una guida pratica ai cibi a cui va dato
maggior spazio nella dieta e a quelli che invece è meglio mettere da parte. Prima di affrontare
in dettaglio questo tema, ricapitoliamo ciò che abbiamo appreso fino a qui.

Un riepilogo veloce

La dieta migliore è quella costituita da cibi naturali, non lavorati, in particolare quelli che
rispecchiano il nostro passato “primitivo”. Occorre mangiare più grassi di quanto sia in genere
consigliato. I grassi che si trovano naturalmente nel cibo non fanno prendere peso e non sono
nocivi per la salute. Alcuni, soprattutto gli omega-3, hanno effetti molto positivi e possono
addirittura agevolare il dimagrimento. Bisogna invece evitare i grassi di origine industriale.

Anche le proteine vanno riportate in primo piano perché sono il macronutriente che sazia di
più, oltre ad avere effetti ormonali che contrastano l’azione ingrassante dell’insulina.
Un’alimentazione ricca di proteine può anche favorire la perdita di peso attraverso alcuni
“vantaggi metabolici”. Le perplessità circa l’effetto sul cuore, sui reni e sulla salute delle ossa
sono prive di fondamento.

I carboidrati sono in genere sopravvalutati e consumati in dosi eccessive. Quelli fondamentali


da limitare sono gli amidacei (non dimenticate che l’amido è uno zucchero) e/o quelli che
contengono zuccheri aggiunti. In genere, essi hanno un effetto dirompente sui tassi glicemici e
di insulina nel sangue, tanto da predisporre all’aumento di peso, al diabete di tipo 2 e alle
patologie cardiache.

Bisognerebbe evitare gli additivi artificiali, soprattutto il glutammato monosodico e i


dolcificanti, poiché i test dimostrano che sono in grado di farci ingrassare.

Un’alimentazione a base di cibi non lavorati contribuisce inoltre a soddisfare il nostro


fabbisogno di “micronutrienti” (vitamine e sali minerali), “fitochimici” (sostanze derivate dalle
piante che proteggono la salute e prevengono le malattie) e fibre solubili.

Vediamo adesso come i singoli alimenti corrispondano a tali criteri. Verranno evidenziate le
caratteristiche positive o negative di ognuno di essi. Specificheremo, inoltre, se quel cibo può
essere mangiato liberamente, con moderazione o se va evitato del tutto (tranne, forse, in
piccolissime dosi). Le valutazioni sono riassunte nella tabella 8 alla fine del capitolo.

COSA SIGNIFICA “MODERAZIONE”?

Alcuni cibi sono consigliati solo “con moderazione”. Ma cosa significa esattamente? Vuol dire in
sostanza che, ogni volta che ne abbiamo la possibilità, dovremmo optare per alimenti che si
possono consumare in quantità illimitata. Tuttavia, quando diventa difficile scegliere
esclusivamente cibi appartenenti a questa categoria, o se avete voglia di qualcosa di diverso,
potete attingere alla lista di quelli da mangiare “con moderazione”. Può trattarsi, per esempio,
di un po’ di bacon a colazione, oppure di un pezzettino di formaggio nello spuntino del tardo
pomeriggio o all’interno di un minipasto.

Nelle prime fasi di modifica della dieta, consiglio di concedersi una piccola porzione di un cibo
da consumare “con moderazione” non più di una volta al giorno. Se invece siete al termine, o
quasi, del vostro regime alimentare, potete concedervi qualche sfizio in più. Ma anche in
questo caso è importante ricordarsi che la maggior parte (circa l’80 percento) della vostra dieta
dev’essere costituita da cibi che si possono “mangiare liberamente”.

Carne

La carne sazia, è ricca di proteine e povera di carboidrati, l’ideale per chi desidera perdere peso.
I grassi saturi presenti nella carne non si sono dimostrati pericolosi per la salute e potrebbero
anzi avere alcuni benefici. Abbiamo anche visto come il consumo di carne fresca non sia
collegato a patologie croniche quali disturbi cardiaci e diabete di tipo 2 (vedi capitolo 12).
Occorre inoltre tenere a mente che circa la metà dei grassi presenti in carni come quella di
agnello e manzo è di tipo monoinsaturo (benefico per la salute).

La carne è anche ricca di minerali, fra cui il ferro (importante per la produzione di energia e
componente essenziale dell’emoglobina nei globuli rossi, che porta ossigeno in tutto il corpo) e
lo zinco (che ha un ruolo importante, fra le altre cose, nel sistema immunitario, nella
cicatrizzazione, nelle funzioni cerebrali e nella fertilità). Per quanto riguarda le vitamine, la
carne offre un ricco campionario di quelle del gruppo B, fra cui B1 (tiamina), B2 (riboflavina)
B3 (niacina), B6 e B12. Esse svolgono una vasta gamma di funzioni e contribuiscono sia alla
produzione di energia, sia al corretto funzionamento del cervello.

Un altro dei vantaggi nutrizionali della carne è legato alla carnitina, una sostanza che favorisce
la conversione del grasso in energia nelle cellule del corpo. Essa è anche ricca di leucina, un
amminoacido importante per il benessere dei muscoli e per la crescita; inoltre, in base agli
studi, la leucina aiuta a prevenire la perdita di massa muscolare durante il dimagrimento1.

Qualità della carne

Molti animali destinati alla macellazione sono allevati in modo intensivo e spesso vengono loro
somministrati farmaci e agenti chimici che ne contaminano la carne. Uno dei casi peggiori, da
questo punto di vista, è rappresentata da quella di pollo. Benché sia in genere considerata più
sana rispetto alle carni “rosse”, come quelle di manzo e agnello, io ho seri dubbi in proposito.
La maggior parte dei polli allevati per l’alimentazione sono tenuti in condizioni terribili e
riempiti di antibiotici anabolizzanti (che favoriscono la crescita) nel corso della loro breve vita.

La carne di un pollo allevato all’aperto e alimentato in modo naturale è sicuramente ottima. Lo


stesso discorso vale per il maiale, un altro animale sottoposto ad allevamento intensivo.
Un’alternativa alla ricerca della carne biologica è costituita dalla selvaggina: cervo, piccione,
pernice, fagiano, cinghiale, coniglio e anatra.

È stato dimostrato che il tipo di mangime assunto dagli animali influisce sul profilo nutrizionale
della loro carne. Animali come le mucche e le pecore sono erbivori che si sono adattati a
mangiare erba. Nell’allevamento intensivo, invece, essa è spesso sostituita da cereali (per
esempio, mais trattato) e soia. Rispetto agli animali nutriti con cibi artificiali, la carne di quelli
nutriti con l’erba contiene maggiori livelli di omega-32. Laddove possibile, e se le nostre tasche
ce lo permettono, è sicuramente meglio scegliere carne di animali nutriti con erba anziché con
cereali.

La macellazione della carne è un’altra potenziale fonte di preoccupazione. C’è un abisso fra un
pollo bio – non modificato e cresciuto all’aperto – e un bocconcino di pollo impanato e fritto.
Quest’ultimo probabilmente contiene carne di scarsa qualità e numerosi additivi. Anche le carni
lavorate come bacon, salsicce e salumi in genere contengono sostanze conservanti come il
nitrito di sodio, correlato al cancro allo stomaco3 e ai tumori cerebrali4.

LA CARNE ROSSA PROVOCA IL CANCRO AL COLON?

Una forma tumorale che si dice sia collegata al consumo di carne, in particolare quella rossa, è il
cancro al colon. Ma occorre tener conto che le presunte prove “incriminanti” sono di natura
epidemiologica (ovvero, non è dimostrato che la carne rossa provochi tale malattia). Di fatto,
non tutti i dati corrispondono a ciò che ci si potrebbe aspettare.

Un articolo, per esempio, ha rilevato come 31 dei 44 studi epidemiologici non mostrassero
nessun legame palese fra il consumo di carne rossa e il rischio di cancro al colon5. Questo
articolo evidenziava il fatto che il nesso fra consumo di carne e cancro al colon è molto più
evidente nel caso della carne lavorata rispetto a quella fresca, un’osservazione corroborata da
altri risultati6.

È difficile trarre conclusioni certe da questi dati epidemiologici, ma si ritiene che le sostanze
usate per conservare la carne (per esempio, il nitrito di sodio) abbiano un potenziale
cancerogeno. Se intendiamo mangiare carne, penso sia meglio optare per quella fresca di
animali allevati nel modo più naturale possibile, anziché quella lavorata come salsicce,
prosciutto, bacon e salame.

Per riassumere
La carne si può mangiare liberamente (è preferibile quella biologica e/o di animali
allevati in modo naturale).
La carne lavorata dev’essere consumata con moderazione.
ETICA E AMBIENTE

Molte persone si pongono problemi etici riguardo al consumo di carne e talvolta perfino di cibi
di origine animale, come le uova e i latticini. Capisco tali preoccupazioni, pur non
condividendole. Ciò nonostante, rispetto il diritto di ogni persona di scegliere di mangiare (o
meno) quello che preferisce. Penso, tuttavia, che sia importante distinguere tra scrupoli morali
e preoccupazioni per la salute. Innanzitutto, vi sono prove evidenti a sostegno della teoria
secondo cui la dieta onnivora non solo non sarebbe dannosa per la salute, ma anzi la
salvaguarderebbe. Per quanto mi riguarda, ho a cuore il benessere degli animali e sono a favore
di un trattamento umano durante l’allevamento e la macellazione.
Penso che siano fondate anche le preoccupazioni per l’ambiente. Eppure, benché l’allevamento
degli animali a scopo alimentare sia spesso dipinto come catastrofico dal punto di vista
ecologico, non mancano gli argomenti a favore dell’allevamento in fattoria, poiché gli animali
sono una parte importante del nostro ecosistema. Approfondire quest’argomento va oltre gli
scopi di un libro sull’alimentazione ma chi fosse interessato può vedere il volume di Simon
Fairlie intitolato Meat: a benign extravagance (2010).

A questo punto non si può non tirare in ballo la coltivazione dei cereali, perché in genere è
molto dannosa per l’ambiente e il terreno, oltre a sconvolgere l’ecosistema. A chi desidera
saperne di più su alcuni di tali argomenti consiglio The Vegetarian Myth di Lierre Keith,
pubblicato nel 2009.

Pesce e frutti di mare

Il pesce e i frutti di mare (gamberetti, granchio e mitili) sono ricchi di proteine e poveri di
carboidrati. Come la carne, sono un ottimo cibo per chi desidera mantenere il peso forma.
Inoltre, sono in genere una buona fonte di zinco e iodio (importante per l’adeguato
funzionamento della tiroide). Un altro elemento presente nel pesce e nei frutti di mare è la
vitamina D, che tra le altre cose svolge un ruolo importante per la salute delle ossa e dei
muscoli. Ci sono poi sempre più riscontri del legame fra alti livelli di questa vitamina e un rischio
ridotto di malattie croniche, fra cui il cancro e le patologie cardiovascolari.

Alcuni tipi di pesce, in particolare salmone, sgombro, trota, sardine e aringhe, sono ricchi di
grassi omega-3. Ma non mancano i dubbi a causa della possibile presenza nel pesce di sostanze
inquinanti, come il mercurio (presente, per esempio, in tonno, marlin e pesce spada), dannoso
per il sistema nervoso. Il pesce, soprattutto se di allevamento, può essere contaminato da
sostanze come la diossina e i policlorobifenili (PCB), che si ritiene abbiano un effetto
cancerogeno. Ma se si valuta l’impatto complessivo del pesce sulla salute7, la conclusione è che
fa più bene che male.

A preoccupare, potrebbe essere semmai l’impoverimento delle risorse ittiche nei mari. Di
conseguenza, l’allevamento del pesce è in costante crescita per soddisfare la domanda. In
cattività ai pesci vengono somministrate sostanze chimiche, come antibiotici e coloranti, del
tutto assenti in natura: una pessima notizia dal punto di vista ecologico.

In un mondo ideale, sarebbe meglio consumare il pesce nato allo stato libero anziché in
allevamento. Tuttavia il pesce fresco in genere è costoso (per una guida al miglior pesce da
mangiare in termini di sostenibilità e dal punto di vista ecologico, vedi www.fishonline.org).

Il pesce confezionato, per quanto forse inferiore a quello fresco sul piano nutrizionale,
rappresenta un modo più economico di mangiarlo. Il tonno in scatola è molto diffuso, benché
gran parte degli omega-3 presenti in questo pesce siano eliminati prima del confezionamento.
Inoltre, il tonno è uno dei pesci che tende a essere contaminato dal mercurio (vedi sopra). Fra
le migliori qualità di pesce in scatola troviamo salmone, sgombro e sardine.

Per riassumere
Il pesce fresco e i frutti di mare si possono mangiare liberamente.
Tonno, marlin e pesce spada devono essere consumati con moderazione.
Il pesce in scatola che non sia tonno si può mangiare senza particolari limiti.
CRISI CINESE

Nel 2005 è stato pubblicato un libro intitolato The China Study [pubblicato in Italia nel
settembre 2011 con lo stesso titolo] e scritto dal ricercatore T. Colin Campbell. Il testo è basato
su una ricerca epidemiologica condotta in Cina (il “China study” di cui si parla nel volume) che,
secondo l’autore, è un forte atto d’accusa contro il colesterolo e le proteine animali. L’opera
cita inoltre alcune ricerche di laboratorio riguardanti la caseina, una proteina del latte che,
somministrata gli animali, aumenta il rischio di cancro al fegato. The China Study e le ricerche
su cui è basato sono citati spesso dai sostenitori della dieta vegetariana e vegana. A dir la verità,
il libro è costellato di mezze verità e di una certa disinformazione.

Per esempio, benché si sia scoperto che la caseina provoca il cancro al fegato negli animali, le
dosi usate negli esperimenti erano altissime rispetto a quelle che può assumere un essere
umano. Un’importante omissione è la scoperta che un’altra proteina del latte, il latticello, di
fatto riduce il rischio di cancro al fegato negli animali. Di conseguenza, non è ben chiaro
quanta rilevanza possa avere questa ricerca nell’ambito della salute dell’uomo.

Molte delle conclusioni del libro sono tratte dallo stesso “China Study”, il cui carattere è
epidemiologico. Sotto questo aspetto, per quanto numerose siano, i dati si rivelano del tutto
inutili per discernere causa ed effetto. Ma se per un momento li prendiamo per buoni, The
China Study non rivela alcun legame significativo fra proteine animali e cancro, patologie
cardiache o rischio complessivo di morte. Ovviamente non c’è nessun elemento a sostegno
dell’affermazione di Campbell secondo cui bisognerebbe eliminare le proteine animali dalla
dieta.

Una delle sue obiezioni alle proteine animali è che sono associate a maggiori livelli di
colesterolo nel sangue, a loro volta collegati, secondo lui, al cancro. Questa osservazione
potrebbe essere corroborata da eventuali prove, ma The China Study non ne fornisce alcuna.
Non ho trovato nessi neppure fra cibi ricchi di colesterolo (come carne e uova) e cancro.

Se vi ho incuriositi e desiderate leggere critiche lunghe e circostanziate a The China Study, vi


consiglio l’opera dei blogger Denise Minger e Chris Masterjohn (vedi la sezione Fonti in fondo
al volume).

Uova

Come la carne, il pesce e i frutti di mare, anche le uova sono ricche di proteine e povere di
carboidrati. Si tratta quindi di un ottimo alimento per chi desidera perdere peso e/o aumentare
la massa muscolare. Insieme alla carne rossa, le uova sono finite nel calderone dell’isteria
antigrasso degli ultimi decenni. Ma ora sappiamo che tali preoccupazioni sono infondate. Nelle
uova, oltretutto, si trova la più vasta gamma di grassi monoinsaturi (benefici per il cuore). Ecco
perché, come abbiamo visto nel capitolo 12, il consumo di uova non presenta alcun nesso
significativo con le patologie cardiache.

Oltre ai grassi monoinsaturi, altre sostanze nutritive fornite dalle uova comprendono le
vitamine del gruppo B (soprattutto vitamina B2 e B12), le vitamine A e D.

Per riassumere
Le uova si possono mangiare liberamente.
Frutta

La frutta è in genere un cibo nutriente, che offre livelli relativamente alti di micronutrienti (fra
cui la vitamina C) e fibre solubili. È anche ricca di fitochimici, fra cui l’esperidina (negli agrumi) e
flavonoidi (mele). Entrambe queste sostanze sono collegate a un minor rischio di patologie
cardiache. Le fragole e gli altri frutti di bosco sono ricchi di acido ellagico, che sembra avere
proprietà anticancerogene.

Ma uno dei problemi della frutta è il fatto che di solito è molto ricca di zucchero, a volte sotto
forma di fruttosio (vedi capitolo 15). Dal mio punto di vista, non c’è paragone fra mangiare una
mela e una ciambella. Ciò nonostante, l’alto tasso di zucchero di alcuni frutti comporta l’obbligo
di non abusarne in una dieta, se l’obiettivo è quello di perdere peso e mantenersi in buona
salute. Ciò vale soprattutto per chi tollera male i carboidrati, come i diabetici, e chi soffre
d’insulinoresistenza, sindrome metabolica o diabete di tipo 2.

Probabilmente i frutti migliori sono quelli di bosco, poiché sono relativamente poveri di
zucchero e ricchi sul piano nutritivo. L’avocado è un’altra ottima scelta, principalmente per via
del basso tasso di zucchero e dell’alto contenuto di proteine e grassi rispetto ad altri tipi di
frutta. Ecco quali tipi si possono mangiare con moderazione: mela, pera, pesca, pescanoce,
prugna e agrumi. Alcuni frutti tropicali, fra cui banana, mango e ananas, sono ricchissimi di
zucchero ed è meglio mangiarne in quantità molto ridotte finché non si è raggiunto il proprio
obiettivo in termini di peso e salute. La frutta disidratata è molto zuccherina e bisogna
assumerne in dosi minime.

Per riassumere
I frutti di bosco e l’avocado si possono mangiare liberamente.
La frutta tropicale tipo banana, mango e ananas si può prendere solo a piccole dosi.
Tutto il resto della frutta fresca si può consumare con moderazione.
La frutta disidratata dev’essere consumata solo in piccole dosi.
FRUTTA, VERDURA E PRODOTTI AGROCHIMICI

Pur avendo in genere un ruolo importantissimo nella nostra dieta, ci sono grosse probabilità
che frutta e verdura arrivino sulle nostre tavole in compagnia di sostanze chimiche
indesiderate. Moltissimi prodotti freschi sono tranquillamente trattati con prodotti agrochimici
come pesticidi e fungicidi, studiati per proteggerli dall’attacco d’insetti e muffe.

Nel 2011 l’Environmental Working Group (EWg) ha pubblicato un elenco di frutta e verdura
strutturato in base al grado di contaminazione da pesticidi. I prodotti peggiori (in ordine
decrescente di inquinamento) includevano mele, sedano, fragole, pesche, spinaci, pescanoce,
uva, peperoni rossi, patate, mirtilli, lattuga e navone. Le sostanze chimiche presenti in questi
cibi sono state create per uccidere: dunque basta il buonsenso per dirci che meno ne
mangiamo, meglio è. Per questo motivo frutta e verdura biologiche rappresentano una scelta
migliore. Altrimenti, un accuratissimo lavaggio dei prodotti freschi contribuirà quantomeno a
ridurre i possibili effetti dei pesticidi sulla nostra salute. L’EWg ha scoperto che tra la frutta e la
verdura meno contaminate ci sono cipolle, avocado, asparagi, kiwi, cavoli, patate dolci e funghi.

Verdura

Le verdure che crescono sopra il terreno, come broccoli, cavoli, cavolfiori e navoni, sono povere
di carboidrati e in genere molto nutrienti (per esempio, sono ricche di folati, vitamina C,
fitochimici e fibre solubili): si tratta quindi di cibi decisamente consigliati.

Le verdure che crescono sottoterra, invece, come carote, pastinache, cavoli e patate dolci, sono
più ricche di carboidrati e andrebbero mangiate con moderazione. Anche le zucche sono
relativamente ricche di carboidrati e non devono avere grosso spazio nella dieta di chi desidera
perdere peso.

Le patate vanno evitate o consumate in piccolissime dosi (come un paio arrosto o poche novelle
all’interno di un pasto). Leggete il paragrafo sottostante per trovare un’alternativa.

Le cipolle danno un ridotto apporto di carboidrati, e si tende a non mangiarne in quantità tali
da rappresentare un problema. I funghi sono poverissimi di carboidrati e relativamente ricchi di
vitamina D: è possibile, dunque, mangiarne senza porsi particolari limiti.

PURÈ SÌ, PURÈ NO

Alcuni piatti, come lo spezzatino o le salsicce, sembrano incompleti senza il purè di patate. Ma
esso, soprattutto se in dosi abbondanti, tende ad alzare parecchio i livelli di zucchero e insulina
nel sangue: quindi non è il massimo per chi desidera liberarsi del grasso.

Tuttavia un’alternativa valida è rappresentata dal purè di cavolfiore. Cuocetelo a vapore o


bollitelo e, quando è pronto, riducetelo a purea insieme a burro, sale e pepe (e magari anche
un po’ di panna). Si possono sostituire le patate normali con quelle dolci, che sono più nutrienti
e in genere hanno un impatto meno dirompente sui tassi glicemici nel sangue.

Per riassumere
La verdura verde e a foglie si può mangiare liberamente; lo stesso vale per le cipolle.
Zucche, patate dolci, barbabietole, carote, rape e pastinache vanno usate con
moderazione.
Le patate bianche sono da evitare o da consumare in piccole dosi.
IL COSTO DELLA VITA

Non c’è dubbio che il tipo di alimentazione consigliato in questo libro tenda a incidere sul
portafoglio più della dieta a base di carboidrati e cibi pronti, la norma per molti di noi. Spendere
circa 3 euro per un chilo di pane sembra un investimento decisamente migliore che non
sborsare una cifra molto superiore per un chilo di carne di bovino allevato all’aperto.

Alcuni di questi costi, in apparenza superflui, si possono compensare scegliendo tagli di carne
più economici, resi teneri con la cottura adatta. Inoltre, bisogna ricordare che quando una
persona passa a una dieta “primitiva”, più povera di carboidrati, in genere mangia
automaticamente meno (a volte molto meno) perché si riduce la fame. Ciò comporta un
ovvio risparmio di denaro.

Un altro modo per risparmiare è cominciare a mangiare con minor frequenza fuori casa. Molti
fra coloro che migliorano la propria alimentazione hanno più voglia di cucinarsi da soli il cibo e
andare più di rado al ristorante. È piacevole mangiare fuori casa, ma può esserlo anche di più
(per non parlare del risparmio) preparare un pasto e condividerlo con altre persone fra le
accoglienti mura domestiche.

Un ulteriore elemento da tenere in conto è che seguendo alla lettera le indicazioni alimentari
contenute nel libro, avrete più energia, vitalità e benessere in generale. Diminuirà anche il
rischio di malattie serie e patologie croniche, con un risparmio di tempo e una riduzione dei
costi sanitari. In sostanza, mangiare in maniera adeguata permette alla gente di vivere in modo
più sano, florido e felice. Per molte persone, vale la pena spendere un po’ di più per
raggiungere questo obiettivo.

Fagioli e lenticchie

Fagioli e lenticchie fanno parte dei cosiddetti “legumi” (una categoria di alimenti che
comprende anche piselli e arachidi). I legumi sono entrati nell’alimentazione umana in tempi
relativamente recenti (circa 10.000 anni fa) e spesso provocano reazioni indesiderate
d’ipersensibilità. Come i cereali, sono piuttosto ricchi di proteine dette “lectine”, che possono
risultare tossiche per l’organismo.

I legumi contengono, inoltre, degli “inibitori enzimatici” che ostacolano la digestione8 e


aumentano il rischio d’intolleranza, oltre a ridurre il valore nutrizionale dei cibi. L’aspetto
positivo è che le lectine e gli inibitori enzimatici, presenti nei legumi, si possono almeno
parzialmente neutralizzare con un accurato ammollo e la giusta cottura (vedi sotto).

I problemi intrinseci posti dai legumi sono controbilanciati dal fatto che in genere fagioli e
lenticchie si mangiano “interi”, non lavorati, in netto contrasto con i cereali raffinati e privi di
nutrienti così comuni nell’alimentazione odierna. I legumi, in aggiunta, hanno bassi livelli di Ig e
Cg rispetto ai cereali, un dato perlopiù positivo.

Non ne sono un particolare fan, ma credo sia possibile inserirli a piccole dosi nella dieta. In ogni
caso, se non ne mangiate, non perdete niente.

COME PREPARARE I LEGUMI

Le lectine e gli inibitori enzimatici presenti nei legumi si possono in gran parte neutralizzare con
un’adeguata preparazione e cottura. Per quanto riguarda la prima, il segreto è l’ammollo. Se si
vuol cuocere dei legumi essiccati, bisogna prima lasciarli in acqua per diverse ore (in genere da
4 a 12). Essa va quindi buttata via, mentre i legumi devono essere sciacquati prima di essere
cotti in acqua non salata (il sale tende a indurire la buccia).

Se la preparazione vi sembra troppo lunga, potete ripiegare sui legumi in scatola, che però
vanno sciacquati con cura per eliminare il più possibile zucchero e sale aggiunti.

Cuocerli bene non solo contribuisce a neutralizzare le lectine e gli inibitori enzimatici, ma riduce
anche i livelli di alcuni amidi che fermentano nell’intestino e provocano aria9. Un sistema per
ridurre i livelli di lectine e la digeribilità complessiva dei legumi consiste nel farli germogliare
prima del consumo.

Per riassumere
I legumi vanno consumati solo con moderazione.
Soia

I fagioli di soia sono molto diffusi nel mondo. A dir la verità, i fagioli in sé si mangiano
raramente, sono i prodotti a base di soia ad andare per la maggiore. Per esempio, l’olio,
ricavato da essi si trova in molti cibi lavorati. Inoltre, la parte ricca di proteine del fagiolo si può
utilizzare come base per una vasta gamma di alimenti, fra cui tofu, latte di soia, tempeh e miso.

Malgrado la sua presenza massiccia nell’alimentazione, la soia è un “acquisto” relativamente


recente: è probabile che le prime coltivazioni risalgano a non prima di tremila anni fa. Come gli
altri legumi, contiene delle sostanze che ostacolano la digestione. Benché tali composti dannosi
si possano neutralizzare o eliminare durante la preparazione, una parte permane comunque nel
prodotto finito, con ripercussioni sulla salute.

I fagioli di soia contengono anche grandi quantità di fitati, che ostacolano l’assorbimento di sali
minerali quali calcio, magnesio, ferro e zinco. Purtroppo la cottura non distrugge i fitati, ma ne
riduce solo le dosi (senza eliminarli) attraverso la fermentazione necessaria per ottenere cibi
come tempeh e miso.
La preparazione della soia comporta in genere la trasformazione dei fagioli nel concentrato
proteico di soia (SPC). La produzione dello SPC avviene in fabbriche dove l’impasto di fagioli
viene trattato con acidi e alcali per estrarne la proteina. Durante questo processo il prodotto
può essere contaminato dall’alluminio (ritenuto nocivo per il cervello).

Il composto che ne risulta, ricco di proteine, viene essiccato ad alta temperatura per ottenere
una polvere. Lo SPC è quindi riscaldato ed espulso ad alta pressione per ricavarne una sostanza
chiamata “proteina vegetale testurizzata” (TVP). Spesso si aggiunge del glutammato
monosodico allo SPC e alla TVP per dare loro un sapore “di carne”. Una volta insaporito, lo SPC
va a formare una vasta gamma di cibi, fra cui alcuni sostituti della carne come hamburger,
salsicce e carne macinata vegetariani.

È stato appurato che alcune tossine presenti nella soia, fra cui gli inibitori enzimatici, restano
nello SPC10. Ricerche condotte sugli animali hanno dimostrato che mangiarlo può comportare
una carenza di nutrienti quali calcio, magnesio, manganese, rame, ferro e zinco11. Sembra
inoltre che la soia riduca la funzionalità tiroidea12, con sintomi quali aumento di peso,
spossatezza e stipsi.

Si è dato grande spazio alla funzione anticolesterolo della soia ma, come abbiamo visto nel
capitolo 13, i suoi benefici per la salute sono tutti da dimostrare. Si è incoraggiato il consumo di
soia anche per il suo effetto di prevenzione del cancro al seno. Questo presunto beneficio
sarebbe dovuto alle molecole simili agli ormoni presenti nella soia, i cosiddetti “fitoestrogeni”.
Ma in tale ambito le prove sono contrastanti e non c’è nessuna reale conferma del loro ruolo
nella prevenzione del cancro al seno13.

Alcuni pensano che i fitoestrogeni possano pregiudicare la funzionalità del cervello. Uno studio
ha scoperto un rapporto statistico rilevante fra il suo invecchiamento precoce e il consumo di
tofu14. L’assunzione di soia, inoltre, è stata associata a una ridotta qualità del seme e
all’infertilità15.

Le prove, nel complesso, fanno credere che sia meglio non dare troppo spazio nella dieta ai cibi
a base di soia, soprattutto SPC e TVP. Le specialità migliori sono quelle più naturali, meno
lavorate e fermentate: tempeh, natto e miso.

Per riassumere
Tranne tempeh, natto e miso, che si possono mangiare con moderazione, gli alimenti a
base di soia vanno evitati.
Quorn

L’ingrediente principale del quorn è una “micoproteina” derivata da una specie di muffa
(Fusarium venenatum), scoperta da alcuni scienziati inglesi in un campo negli anni Sessanta del
secolo scorso. L’organismo viene moltiplicato in massa in contenitori di acciaio e poi
trasformato in vari tipi di alimenti, fra cui “hamburger”, “salsicce” e altri surrogati della carne.

I produttori amano conferire al quorn una “parvenza” di naturalità accostandolo a funghi e


tartufi. Tuttavia, secondo il professor David Geiser del Fusarium Research Center della
Pennsylvania State University, negli Stati Uniti, mettere a confronto l’organismo che produce il
quorn e i funghi «è come dire che un topo è un pollo solo perché entrambi sono animali»16. Non
stupirà quindi sapere che l’utilizzo di questo cibo “nuovo” è stato collegato a numerose reazioni
negative, fra cui disturbi gastrointestinali17.

Come SPC e TVP (vedi il paragrafo sopra), il quorn è un alimento poco naturale e altamente
lavorato, di dubbio valore nutrizionale.

Per riassumere
Il quorn va evitato.
Frutta secca e semi

Alcuni tipi di frutta secca, come noci, noci pecan, anacardi, nocciole e mandorle, sono
relativamente ricchi di proteine e poveri di carboidrati. Si dice che la frutta secca faccia
ingrassare, ma come abbiamo visto nel capitolo 6 si tratta di una convinzione infondata. Non
solo: spesso è vero proprio il contrario.

La frutta secca è ricca di nutrienti come magnesio, potassio, rame, vitamina E e grassi
monoinsaturi, tutte sostanze benefiche per la salute del sistema cardiovascolare. Un maggiore
consumo di frutta secca è associato, benché solo negli studi epidemiologici, a un minor rischio
di attacco cardiaco18 e “morte improvvisa cardiaca”19.

I semi (per esempio, di zucca, sesamo, girasole) non sono stati ufficialmente studiati per vedere
i loro effetti sulla salute. Tuttavia, essendo molto simili alla frutta secca sul piano nutrizionale, è
ragionevole pensare che portino analoghi vantaggi.

La frutta secca si può mangiare cruda o tostata. Si può salare senza problemi, purché non si
abbia la pressione alta o si sospetti di averla.

EFFETTI COLLATERALI DELLA FRUTTA SECCA

In alcune persone la frutta secca provoca problemi intestinali, come gonfiore e diarrea. La colpa
probabilmente è di sostanze come le lectine, gli inibitori enzimatici e i fitati di cui abbiamo
parlato nel capitolo 14.

In base alla mia esperienza, questi fenomeni si verificano meno frequentemente di quanto non
accada con i cereali (soprattutto il grano). Però non possiamo negarne l’esistenza: cosa fare,
quindi?

Mettere a bagno la frutta secca cruda e poi farla seccare neutralizza le sostanze in grado di
provocare disturbi digestivi. Bisogna tenerla immersa per tutta la notte in acqua salata e poi
farla seccare in forno (a temperatura bassissima e/o con lo sportello semiaperto da un
cucchiaio di legno o un turacciolo). Un’alternativa consiste nell’acquisto di un essiccatore per
alimenti.

Per riassumere
Frutta secca e semi si possono mangiare liberamente, meglio se crudi o tostati. Ove
necessario, si possono mettere in ammollo prima di seccarli.
Oli da cottura

Molti oli “vegetali”, come quelli di girasole, soia e mais, sono ricchi di omega-6, che in genere
abbondano nell’alimentazione. Un’opzione più sana è rappresentata dagli oli di oliva,
macadamia, avocado (tutti ricchi di grassi monoinsaturi) e cocco (ricco di grassi saturi).
Quest’ultimo ha l’ulteriore vantaggio di mantenersi generalmente stabile ad alte temperature
(di conseguenza, è ottimo per la cottura). Inoltre è ricco dei cosiddetti “acidi grassi a catena
media” (fra cui l’acido laurico e l’acido caprico). Si è scoperto che tali sostanze contribuiscono a
proteggere il corpo dalle infezioni dovute a organismi come batteri, virus e lieviti.
L’olio di sesamo, che contiene in parti più o meno uguali omega-6 e grassi monoinsaturi, può
essere usato con moderazione.

Per riassumere
Gli oli di oliva, avocado e cocco si possono usare liberamente.
L’olio di sesamo può essere utilizzato con moderazione.
Gli altri oli vegetali vanno evitati.
Burro e margarina

Le singole caratteristiche di burro e margarina sono state analizzate nel capitolo 12, in cui si è
visto come il burro esca nettamente vincitore dal confronto. Oltretutto, è anche più buono.

Per riassumere
Il burro si può mangiare liberamente.
La margarina va evitata.
Latticini

Oltre al burro (vedi sopra), i principali prodotti caseari sono latte, formaggio, yogurt, panna e
gelato.

Nel capitolo 16 abbiamo visto come, anzitutto, i latticini abbiano scarsa influenza sulla salute
delle ossa. Abbiamo inoltre appreso che sono una causa comune d’intolleranza, che si può
manifestare con una vasta gamma di sintomi fra cui disturbi digestivi e aria nell’addome, asma,
eczema, congestione nasale/sinusale e muco/catarro. Fra tutti questi prodotti, quello tollerato
peggio è solitamente il latte (in particolare, pastorizzato), mentre i derivati di capra e pecora
sono in genere più facili da digerire di quelli vaccini. I prodotti “crudi” sono di solito tollerati
meglio rispetto a quelli pastorizzati.

Sul piano dei pro, latticini come yogurt intero, panna e formaggio sono relativamente ricchi di
proteine e grassi. Come avrete letto nel capitolo 16, è stato appurato che i latticini possono
anche coadiuvare la perdita di peso, malgrado stimolino la produzione d’insulina.

Ritengo che lo yogurt greco sia un’ottima scelta, poiché il processo di filtratura lo rende
“concentrato” (e quindi più sostanzioso come cibo) ed elimina anche una parte dello zucchero.
Se decidete di mangiare lo yogurt, vi consiglio di scegliere quello intero, perché ne trarrete
maggiore soddisfazione. Bisogna invece evitare lo yogurt aromatizzato e “alla frutta”, che di
solito contiene moltissimo zucchero aggiunto e/o dolcificanti artificiali. Si può rendere lo yogurt
bianco più gustoso e nutriente con l’aggiunta di frutti di bosco, frutta secca e semi.

Il formaggio e la panna vanno consumati con moderazione.

Il gelato e il frozen yogurt sono sconsigliati, soprattutto a causa dell’elevato tasso di zucchero.
Il secondo, in particolare, è spesso addolcito con lo sciroppo d’agave. Questa sostanza è
considerata un dolcificante sano, ma di fatto è ricca di fruttosio e quindi va evitata.

Per riassumere
Il latte e il gelato sono da evitare.
Lo yogurt zuccherato naturalmente o dolcificato artificialmente va scartato.
In caso di consumo di latticini, optate per quelli interi.
Lo yogurt bianco intero si può mangiare liberamente.
La panna e il formaggio si possono consumare con moderazione.
Cereali
In linea generale, i cereali come grano, avena, segale, orzo, riso e mais sono sconsigliati, poiché
hanno Ig e Cg elevati. Inoltre questi cibi, anche se a chicco intero, hanno ben poco da offrire sul
piano nutrizionale. In genere sono meno nutrienti della frutta e della verdura, oltre a contenere
fitati che ostacolano l’assorbimento delle sostanze nutritive. I cereali, oltretutto, provocano
spesso intolleranza.

Per riassumere
I cereali sono da evitare.
Cibi con zucchero aggiunto

Dolciumi, pasticcini, budini, biscotti, torte, ciambelle e affini vanno evitati per via dell’alto tasso
di zucchero. Molti di questi alimenti contengono una gran quantità di farina raffinata (dall’Ig
alto) e grassi di origine industriale. Sono quindi alimenti da escludere.

Un dolce che può trovare posto nella dieta è il cioccolato fondente (con il 70 percento di cacao
o più). Ulteriori informazioni si trovano nel capitolo 17.

Per riassumere
I cibi con zucchero aggiunto vanno evitati, con l’eccezione del cioccolato fondente, che
si può mangiare con moderazione.
Altri alimenti

I cibi contenenti dolcificanti artificiali (vedi capitolo 19), glutammato monosodico (vedi capitolo
17) o grassi parzialmente idrogenati e insaturi (vedi capitolo 12) sono da evitare. L’anno scorso
il Parlamento europeo ha approvato le modifiche alla legge in vigore, in base alla quale è
obbligatorio indicare sull’etichetta la presenza o meno di queste sostanze.

La tabella 8 fornisce un riassunto delle linee guida riportate in questo capitolo. Piccolo
memorandum: è meglio evitare i cibi della lista “con moderazione”, a cui tuttavia si può
attingere quando è difficile scegliere in quella “da mangiare liberamente”, oppure in casi
eccezionali, quando proprio avete voglia di qualcosa di diverso.
Per ottenere buoni risultati iniziali, forse è meglio partire evitando il più possibile gli alimenti da
consumare “con moderazione” e adottando un approccio meno rigido nel momento in cui il
peso comincia davvero a calare. In linea generale, consiglio di consumare una piccola dose di un
cibo utilizzabile “con moderazione” (per esempio, una porzione di lenticchie o un pezzetto di
formaggio come spuntino) non più di una volta al giorno. Ma ricordate che, a lungo termine,
l’obiettivo è di fare in modo che la maggior parte della vostra alimentazione (80 percento o più)
sia costituita da cibi provenienti dalla lista di quelli che si possono “mangiare liberamente”.

Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton


Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 19

PENSIERO LIQUIDO

La perdita di peso e una salute ottimale non dipendono solo da ciò che mangiamo, ma anche da
ciò che beviamo. In questo capitolo faremo una carrellata sulle principali bevande presenti
nell’alimentazione odierna, allo scopo di valutarne l’adeguatezza in riferimento sia al controllo
del peso, sia al benessere generale. Cominceremo con l’acqua e poi dedicheremo la nostra
attenzione a caffè, tè, succo di frutta, bibite e bevande alcoliche. Come nel precedente capitolo,
specificheremo se la bevanda va assunta liberamente, con moderazione o evitata del tutto.

L’acqua: il nutriente dimenticato

Il corpo di una persona adulta è composto per circa due terzi da acqua: questo semplice fatto ci
fa capire che ruolo importante abbia per la salute e il benessere. In effetti, tutti i nostri processi
biochimici, fisiologici e neurologici dipendono in misura maggiore o minore dall’acqua. Per
esempio, favorisce la circolazione ed è importante anche per il corretto funzionamento del
cervello e del sistema nervoso.

Dato che l’acqua svolge un ruolo essenziale nei processi più basilari del corpo, la disidratazione
si può manifestare in mille modi diversi. La letargia (corporea e/o mentale) è un sintomo
comune, come il mal di testa e la stipsi. Per mantenere la salute e il benessere a livelli ottimali,
conviene fare il pieno di acqua.

BRUCIA-GRASSI?

Le diete “detox” vengono spesso raccomandate all’interno di un percorso di dimagrimento.


Uno degli elementi fondamentali di tali regimi è l’acqua. Anche se può sembrare improbabile
che il solo fatto di bere una maggiore quantità di acqua possa aiutare a diventare più magri,
sembra ci siano riscontri scientifici a sostegno di tale tesi.

Si è scoperto, per esempio, che le cellule disidratate non assorbono il glucosio in maniera molto
efficace1, cosa che può rallentare il metabolismo. Gli studi dimostrano inoltre che quando il
sangue è più diluito, il rilascio di grasso da parte delle cellule adipose (lipolisi) migliora2,3. I dati
sembrano dunque dimostrare la fondatezza della teoria secondo la quale mantenersi bene
idratati aiuta a perdere peso.

Di quanta acqua abbiamo bisogno?

Il nostro fabbisogno idrico dipende da svariati fattori, tra cui tendenza a sudare, struttura fisica,
tipo di attività svolta, temperatura, umidità e quantità di acqua che si riesce ad assumere, per
esempio, attraverso frutta e verdura. È dunque difficile dare consigli generali riguardo al
consumo: meglio basarsi su indizi individuali del proprio stato d’idratazione.

Molte persone valutano il proprio bisogno di bere in base alla sete. Ma il problema è che,
quando subentra tale sensazione, il corpo è già piuttosto disidratato.

Un indizio migliore è il colore dell’urina4. In sostanza, più l’urina è chiara, più siamo idratati.

L’obiettivo è quello di bere abbastanza acqua da averla sempre di un color giallo pallido per
tutto il giorno.

Se l’urina ha un colore più scuro e comincia a emanare un odore forte, ci sono ottime
probabilità che il nostro corpo sia disidratato. In situazioni del genere, bere più acqua di solito
basta a migliorare il livello di energia e il benessere generale del corpo nel giro di mezz’ora
circa.

TENERE DELL’ACQUA A PORTATA DI MANO

A molte persone l’idea di bere due o più litri d’acqua al giorno sembra quasi un’impresa. L’unico
consiglio che posso darvi è questo: tenetela a portata di mano. In tal modo, si tende a bere
molto più di quanto si faccia se si è costretti ad andare a prenderla più volte in frigo o nel
distributore in fondo al corridoio.

Se fate giardinaggio, tenetevi accanto una bottiglia d’acqua. Mettetene una sulla scrivania in
ufficio e assicuratevi che durante una riunione ci sia sempre dell’acqua a disposizione. Tenete
una bottiglia in auto e una nella valigetta, nello zaino o nella sacca da ginnastica quando siete in
giro. Se l’avrete con voi, probabilmente ne assumerete in quantità giusta (in caso contrario,
no).

Per riassumere
Bisogna bere acqua in quantità sufficiente da avere l’urina di color giallo pallido per tutto
il giorno.
Tisane alle erbe e alla frutta

Le tisane sono un’alternativa all’acqua per chi desidera mantenere un buon livello
d’idratazione. Alcune di queste bevande, inoltre, possono avere un effetto terapeutico sul
corpo. Il finocchio e la menta, per esempio, aiutano la digestione, mentre la camomilla
favorisce un sonno ristoratore.

Per riassumere
Le tisane alle erbe e alla frutta si possono bere liberamente.
Il tè

Il tè è sostanzialmente di due tipi: nero (normale) e verde. In pratica, il primo si ottiene


sottoponendo a ossidazione il secondo (attraverso la fermentazione). Entrambi i tipi di tè
contengono caffeina e altre sostanze stimolanti, oltre a componenti con un effetto protettivo
sulla salute, i “polifenoli”, dall’azione antiossidante. In parole povere, sono in grado di
neutralizzare gli effetti di molecole dannose per la salute, i cosiddetti “radicali liberi”. In linea
generale, il tè verde contiene meno caffeina e ha un maggior potere antiossidante rispetto a
quello nero.

La ricerca ha individuato un nesso fra il consumo di tè nero e un minor rischio di disturbi


cardiaci: tre o più tazze al giorno sembrano la dose giusta5. Il tè nero è stato inoltre associato a
un minor rischio di colpo apoplettico negli uomini6.

Anche il consumo di tè verde comporta una ridotta incidenza di disturbi cardiaci7. In questo
caso, i benefici per la salute sembrano dovuti, perlomeno in parte, a un “polifenolo” presente
nella bevanda, l’“epigallocatechina gallato” (EgCg), che fa parte del gruppo di molecole dette
“catechine”. Si è poi scoperto che l’EgCg ha numerose proprietà anticancerogene, fra cui quella
di inibire gli agenti chimici che provocano tale malattia.

Un consumo regolare di tè verde sembra dunque associato a un minor rischio di sviluppare


alcune forme di cancro7.

IL TÈ VERDE AIUTA A BRUCIARE IL GRASSO?


Alcune ricerche hanno esaminato il ruolo che riveste il tè verde nel metabolismo del grasso
corporeo. In uno studio è stato somministrato ad alcuni uomini dell’estratto di tè verde (che
contiene 350 mg di EgCg)8: il metabolismo del grasso è aumentato del 17 percento. In un altro9,
somministrare 350 mg di EgCg ad alcuni uomini sovrappeso per soli 2 giorni ha stimolato il
metabolismo del grasso dopo il pasto. Altre ricerche hanno scoperto che bere regolarmente del
tè ricco di catechina per 12 settimane porta a una significativa riduzione di peso corporeo,
girovita e massa grassa, rispetto a quanto avviene bevendo un tè che contiene poca catechina10.
La quantità di catechina era di 690 mg al giorno, che equivale a circa 5 o 6 tazze di tè verde.

In uno studio analogo11, alcune persone hanno bevuto ogni giorno, per 12 settimane, una
bevanda contenente 625 mg di catechina. Era stato detto ai partecipanti allo studio di praticare
tre o più ore alla settimana di attività fisica moderatamente intensa. Alla fine queste persone
hanno rilevato una significativa riduzione del grasso addominale rispetto a chi ha assunto una
bevanda “di controllo” con poca catechina.

Avvertenza: è dimostrato che i componenti del tè verde possono inibire l’azione del farmaco
antitumorale bortezomib (Velcade)12. Chi assume questo farmaco dovrebbe consultare il
medico riguardo all’uso di tè verde.

Caffè

Il caffè non gode di buona fama per quanto riguarda la salute, principalmente a causa dell’alto
contenuto di caffeina. D’altro canto, è ricchissimo di sostanze “antiossidanti” benefiche per la
salute, fra cui i cosiddetti polifenoli. In effetti, il consumo di caffè è associato a un minor rischio
di diabete13-15 e sindrome metabolica16. Negli uomini, bere caffè riduce il rischio di avere un
colpo apoplettico17,18. Per quanto epidemiologiche, tali prove corroborano la tesi secondo cui il
caffè contiene sostanze benefiche per la salute.

UNA BOTTA DI VITA

Il tè e il caffè contengono caffeina e altri stimolanti che hanno effetti potenzialmente nocivi per
la salute, fra cui disturbare il sonno. La tolleranza alla caffeina varia molto da individuo a
individuo. Alcuni sentono una “botta” subito dopo avere assunto la caffeina e devono prestare
particolare attenzione al consumo di questa sostanza se vogliono dormire bene. Altri possono
mandar giù un caffè lungo dopo cena e dormire come angioletti.

Se avete una certa sensibilità alla caffeina, forse è meglio che beviate tè e caffè decaffeinati. Ma
il processo di decaffeinizzazione comporta l’uso di solventi chimici che è meglio evitare. Forme
di decaffeinizzazione più naturali, e preferibili, sfruttano l’acqua (noto anche come metodo
“svizzero”) o il biossido di carbonio. Occorre leggere con cura le etichette per trovare le marche
giuste.

Avvertenza: eliminare bruscamente la caffeina può provocare emicrania (tra parentesi, questa è
una delle cause tipiche del “mal di testa da week-end”). L’emicrania di solito compare nel
giorno in cui non si assume la caffeina e passa nel giro di un paio di giorni. Eliminandola
gradualmente, tali disturbi non si manifestano.

Da tener presente

Alcune ricerche collegano il consumo di caffè a un minor rischio di demenza, e in particolare del
morbo di Alzheimer19,20. È possibile che gli antiossidanti contenuti in questa bevanda
contribuiscano a proteggere le cellule cerebrali dai danni provocati dai cosiddetti “radicali
liberi”. Il consumo di caffè è associato anche a una minore incidenza del diabete, un fattore di
rischio per quanto riguarda la demenza. È altresì possibile che il caffè ci protegga da tale
malattia grazie alla capacità di immettere la caffeina in circolo.

Uno studio ha mostrato che la caffeina migliora le funzioni cerebrali di topi affetti dal morbo di
Alzheimer21. Riduce inoltre la produzione della proteina beta-amiloide, i cui depositi sono un
marker nel cervello dei malati di Alzheimer.

TÈ E CAFFÈ NELLA DIETA PRIMITIVA

È difficile immaginare i nostri avi intenti a bere un espresso o a sorseggiare tè intorno a un falò.
Tuttavia l’elemento costitutivo di queste bevande è l’acqua. E non dimentichiamo che il caffè
deriva da un seme e il tè da una foglia, entrambi prodotti naturali. Benché abbiano un aspetto e
un sapore diversi, sono tutti e due ricchi di princìpi benefici per la salute. Dal momento che tali
sostanze passano nell’acqua d’infusione, non deve stupire che le bevande che ne risultano
siano a loro volta salutari.

Per riassumere
Tè e caffè si possono bere con moderazione.
Tè e caffè decaffeinati si possono assumere liberamente.
Bevande zuccherate

Questo tipo di bevande in genere contiene zucchero sotto forma di sciroppo di mais con alti
livelli di fruttosio, benché in alcune lo zucchero predominante sia il glucosio e/o il saccarosio.
Abbiamo analizzato i possibili effetti nocivi dello zucchero, compreso il fruttosio, nel capitolo
15. Uno dei problemi principali di queste bevande riguarda il modo in cui lo zucchero entra in
circolo nel corpo. Inoltre, ci fanno assumere grandi quantità di zucchero in brevissimo tempo,
aggravando il problema.

Per riassumere
Le bibite zuccherate devono essere evitate.
Bevande dolcificate

Dato che sono sostanzialmente privi di calorie, i dolcificanti artificiali sono spesso elogiati come
un’alternativa “sana” allo zucchero, soprattutto per chi desidera perdere peso. Nel capitolo 17
abbiamo visto che i dolcificanti artificiali tendono a stimolare l’appetito, mentre nel capitolo 15
abbiamo menzionato uno studio in cui animali nutriti con cibo artificialmente dolcificato li
portava a mangiare di più e a ingrassare.

Oltre a questi effetti legati al peso, è dimostrato il legame che c’è fra dolcificanti artificiali e
rischi per la salute. In un esperimento22, alcuni ricercatori italiani hanno somministrato ai ratti
aspartame a varie dosi, in un arco di tempo abbastanza lungo. Già negli animali che lo hanno
assunto a dosi inferiori a quelle approvate per l’uomo il rischio di sviluppare varie forme di
cancro è sensibilmente aumentato. L’aspartame è stato inoltre collegato a una serie di effetti
nocivi sulla salute, fra cui emicrania23,24 e depressione25.

I produttori di tale sostanza, oltre alle società commerciali e ai ricercatori che li rappresentano,
citeranno ovviamente i numerosi studi che certificano in apparenza la sicurezza dell’aspartame.
Ma ce ne sono altrettanti a sostegno della sua pericolosità per la salute. Un articolo relativo a
tali studi26 mostra che mentre ogni singolo test finanziato dall’industria giunge alla conclusione
che l’aspartame è sicuro, la stragrande maggioranza delle ricerche e dei report indipendenti vi
individuano un potenziale fattore di rischio. Per quanto mi riguarda, consiglio di evitare i
dolcificanti artificiali.

Per riassumere
Le bevande dolcificate artificialmente devono essere evitate.
Succhi di frutta e frullati

I succhi di frutta sono spesso considerati bevande salutari, più o meno equivalenti, in termini
nutrizionali, al frutto vero e proprio. Tuttavia, nel processo di spremitura, molti elementi
nutrizionali della frutta (soprattutto le fibre) vengono eliminate. Inoltre, la concentrazione
zuccherina dei succhi di frutta (anche quelli non zuccherati) è spesso uguale, se non superiore, a
quella delle bevande industriali.

I frullati, fatti con frutta fresca, sono spesso più salutari dei succhi. Ma anche essi sono
ricchissimi di zucchero e vanno consumati con cautela. Suggerisco di berli con moderazione, e
solo quando siete prossimi a raggiungere i vostri obiettivi di peso e salute. Deve moderarne il
consumo anche chi soffre di insulinoresistenza, sindrome metabolica e diabete di tipo 2. Un
altro motivo per evitare i frullati è che sono molto dolci e possono quindi perpetuare il
desiderio o il “bisogno” di zuccheri nell’alimentazione.

Per riassumere
I succhi di frutta devono essere evitati.
I frullati vanno consumati con moderazione.
L’alcol

Le bevande alcoliche sono in genere fonte di carboidrati che, ricordiamolo, sono i principali
responsabili dell’aumento di peso. Non stupisce quindi che numerosi studi mostrino un legame
fra un rilevante consumo di alcol ed elevato peso corporeo. Molte ricerche hanno inoltre
scoperto che un alto consumo di alcol è connesso a un maggior rischio di obesità addominale27-
29.

A pari quantità di alcol, la birra contiene molti più carboidrati del vino (guarda caso, i forti
bevitori di birra si riconoscono dalla pancia sporgente). In linea generale, il vino rosso contiene
meno carboidrati rispetto a quello bianco. Di conseguenza, se il vostro obiettivo è perdere
peso, bevete alcolici il meno possibile e, se proprio ne sentite la necessità, limitatevi a un
bicchiere di vino rosso a cena.

In determinate circostanze, tuttavia, i liquori possono rivelarsi un’opzione migliore del vino
rosso. Pur avendo una pessima reputazione per quanto riguarda la salute, in realtà contengono
pochissimi carboidrati per quantità di alcol. Il vero problema dei superalcolici riguarda gli altri
liquidi con cui vengono mescolati: succhi di frutta, acqua tonica, limonata e Coca-Cola
apportano molto zucchero e/o dolcificanti artificiali.

Vodka e soda con una scorzetta di lime (o perfino un pizzico di liquore al lime) rappresenta una
buona opzione per chi vuole concedersi un cocktail. La vodka ha il vantaggio di essere un
liquore puro che in genere non dà i classici postumi da sbornia la mattina dopo.

È sano bere con moderazione?

Bere con moderazione è considerata un’abitudine “salutare”, soprattutto perché un bicchiere


di vino ogni tanto riduce il rischio di problemi cardiaci. Ma uno dei difetti degli studi
epidemiologici è che non sempre tengono conto di fattori ambigui, in base ai quali bere alcol
sembra più sano di quanto non sia in realtà. Per esempio, gli astemi a maggior rischio di disturbi
cardiaci possono essere ex alcolisti o aver smesso di bere a causa di una diagnosi di una
patologia del cuore. Per una valutazione più adeguata, bisognerebbe inserire nel gruppo dei
non bevitori solo le persone astemie da sempre.

Un’altra grossa pecca di gran parte delle ricerche sull’alcol è che spesso si focalizzano solo sui
problemi cardiaci. Si è riscontrato un legame fra alcol ed effetti nocivi sulla salute, fra cui un
maggior rischio di ammalarsi di cancro. È dunque più logico valutare il rapporto dell’alcol con il
rischio complessivo di morte.

Nei casi in cui i ricercatori si sono focalizzati sulla mortalità globale, è emersa un’immagine
leggermente diversa rispetto a quella attesa in base al motto: “Il vino fa buon sangue”. Uno
studio condotto su uomini al di sotto dei 34 anni ha rilevato che non si dovrebbe assumere
alcol30. Lo stesso studio dimostra come il consumo in età più avanzata dia qualche beneficio: la
dose ottimale è di circa un’unità (pari a un bicchiere di vino o a una lattina di birra di media
gradazione) al giorno. Poiché io stesso mi concedo un bicchierino ogni tanto, non sono affatto
contento di dare questa notizia: tuttavia pare proprio che i “vantaggi” dell’alcol siano
sopravvalutati.

METODI FACILI PER BERE MENO SENZA SACRIFICI

Benché sia convinto che i “benefici” dell’alcol siano stati un po’ sopravvalutati, credo altresì che
non tutto ciò che mettiamo in bocca debba per forza essere sano. Sicuramente c’è un motivo
per mangiare cibi tutt’altro che salutari, ma rimane il fatto che un consumo appena più che
moderato di alcol può nuocere alla salute e vanificare gli sforzi per perdere peso. Occorre
dunque imparare a tenerne sotto controllo il consumo senza patirlo come un sacrificio.

Una tattica che dà ottimi risultati consiste nell’abbinare ogni bevanda alcolica (per esempio, un
bicchiere di vino) a una pari quantità d’acqua. In genere, questo aiuta a bere meno e a limitare
gli effetti negativi dell’alcol. Non solo: l’acqua in aggiunta fa sicuramente bene al corpo.

Un altro modo per limitare il consumo consiste nell’evitare la disidratazione e la sete prima di
cominciare a bere. Non è difficile capire che, quando si ha sete, si tende a bere di più e questo
vale anche per l’alcol.

Oltre alla sete, vi consiglio di evitare anche la fame. Ho scoperto che è uno dei principali motivi
che spinge a bere, soprattutto a inizio serata. Molte persone, anche inconsciamente, usano
l’alcol come sostituto del cibo quando hanno fame, soprattutto se il livello di zucchero nel
sangue è colato a picco.

Vino o birra?

Il vino rosso, più di qualsiasi altra bevanda alcolica, viene spesso definito “sano”. Molte ricerche
scientifiche si sono concentrate su una sostanza contenuta nell’uva rossa, il “resveratrolo”, la
cui azione spiegherebbe i presunti benefici del vino rosso sul cuore.
Tuttavia, se analizziamo meglio i dati, vediamo che i bevitori di vino, in confronto a chi assume
birra e alcolici, tendono a mangiare in modo più sano e a fumare meno31-33.

Di fatto, questi studi dimostrano che non è il vino rosso in sé, bensì sono gli altri fattori
collegati al suo consumo a determinarne i presunti “vantaggi”.

Per riassumere
L’alcol dev’essere consumato con moderazione.
A causa del contenuto generalmente basso di carboidrati, il vino rosso e i liquori sono da
preferire a quello bianco e alla birra.
COSA SIGNIFICA “MODERAZIONE”?

La regola “con moderazione” vale sia per il mangiare, sia per il bere: laddove è possibile, optate
per bevande quali l’acqua, le tisane a base di erbe e di frutta e, ovviamente, caffè o tè
decaffeinati. Nelle fasi iniziali del vostro nuovo regime alimentare attingete alla lista “con
moderazione” non più di una volta al giorno. A lungo termine è ammessa qualche eccezione,
ma fate in modo che almeno l’80 percento dell’apporto di liquidi sia costituito da bevande che
si possono assumere in quantità illimitata.

Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton


Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 20

A TAVOLA!

Fin qui, abbiamo esaminato le basi scientifiche di una sana perdita di peso, traducendole in
consigli nutrizionali. In questo capitolo trasformeremo tali informazioni in suggerimenti pratici
per pasti e spuntini. Cosa quindi è opportuno mangiare?

Colazione

Molte persone pensano che, saltando la colazione, sia difficile fare scelte alimentari corrette nel
resto della giornata. Per alcuni, ma non per tutti, una colazione adeguata “tiene a bada”
l’appetito durante il giorno e rende abbastanza facile scegliere un buon pranzo e una buona
cena.

Al giorno d’oggi, velocità e praticità sono l’imperativo mattutino di moltissima gente.


Un’opzione valida, dal nostro punto di vista, è una colazione a base di yogurt. Il mio consiglio è
scegliere quello greco, con l’aggiunta di frutti di bosco (fragole, mirtilli o lamponi freschi,
oppure frutta surgelata scongelata) e frutta secca (per esempio, noci e mandorle tritate).
Poiché alcuni frutti di bosco (come il ribes) sono un po’ aspri, si può aggiungere una punta di
miele.

E, tranne che per quest’ultimo alimento, non c’è alcun bisogno di limitare le dosi.

Uno dei lati positivi di questo tipo di colazione è che si può portare facilmente in giro. Chi deve
mettersi in viaggio per andare al lavoro può uscire di casa prima ancora di avere fame. Il mix di
yogurt può essere messo in un apposito contenitore e mangiato sia lungo la strada, sia sul
posto di lavoro.

Un’altra scelta valida fuori casa è costituita da un’omelette o una frittata a base di formaggio di
capra e salame, oppure formaggio di capra e spinaci. Un’alternativa consiste nel preparare in
anticipo le “breadless Scotch eggs”: bisogna avvolgere della carne macinata di maiale (o di altro
genere) intorno a un piccolo uovo sodo, mettere in frigo e poi saltare in padella o friggere. O,
più semplicemente, un’omelette al prosciutto.

Nel week-end consiglio in genere una colazione o un brunch caldi. Salmone affumicato e uova
strapazzate sono una buona combinazione, o anche uova in camicia con funghi e pomodori
saltati. In questo caso, gli spinaci al burro sono un valido contorno. Lavatene alcune foglie,
asciugatele e mettetele in padella con il burro fuso, continuando a girare finché non si sono
ammorbidite. Aggiungete un po’ di pepe (se vi piace) e servite.

Se siete in vena di esperimenti, potete cimentarvi con la salsa olandese. Ecco un modo semplice
e rapido per realizzarla: prendete due tuorli d’uovo, aggiungete del succo di limone e mischiate
con un mixer, aggiungendo a poco a poco burro fuso bollente.

Un’altra soluzione praticabile è la cosiddetta colazione “all’inglese”; se si è in albergo,


privilegiare quella internazionale (evitando, però, pane e brioche).

Alcune persone non hanno bisogno di mangiare molto di mattina: si accontentano di un po’ di
frutta secca o di un frutto a metà o in tarda mattinata. Se queste abitudini alimentari non
comportano carenze di energia e assicurano una buona funzionalità cerebrale per tutta la
mattinata, senza che ci si ritrovi con una fame da lupi all’ora di pranzo, non c’è nulla di male ad
assecondarle.
Pranzo

Se pranzate a casa e avete gli alimenti giusti a portata di mano, avete a vostra disposizione
moltissime ricette facili. Per esempio:

Omelette e insalata.
Costolette o pesce alla griglia con insalata.
Carne in umido o stufato.
Ragù di carne con parmigiano grattugiato e insalata, o adagiato su un letto di
“tagliatelle” di cavolo (cavolo sminuzzato e cotto a vapore).
Brodo di carne (comprato o fatto in casa).

Una delle maggiori sfide per chi pranza fuori casa consiste nell’evitare i panini.

Un’alternativa è costituita dall’insalata: molti locali e tavole calde ne hanno alcune miste già
pronte. Se non siete vegetariani, vi suggerisco di scegliere quelle con carne o pesce: in questo
modo, avrete energia per tutto il pomeriggio. Se siete vegetariani, optate per un’insalata che
contenga uova, formaggio o avocado, così da avere il necessario apporto di proteine e grassi.

Oltre ai panini, alcuni locali offrono anche zuppe e minestre a base sia di carne che di verdura.
Anche in questo caso, a meno di non avere buoni motivi per non farlo, vi suggerisco di optare
per la varietà a base di carne.

Ricordate che è molto importante non arrivare troppo affamati all’ora di pranzo: un appetito
moderato permette di evitare facilmente il pane e altri cibi ricchi di carboidrati (come
cioccolato, barrette ai cereali e patatine fritte).

Ricordate inoltre che il cibo ingerito a pranzo non deve necessariamente bastare fino all’ora di
cena; se vi viene di nuovo fame, potete sempre mangiare un po’ di frutta secca (o magari un
frutto e due quadratini di cioccolato fondente) nel tardo pomeriggio o a inizio serata.

COME, NIENTE DOLCE?

I dessert, per la loro stessa natura, sono dolci e ciò in genere comporta la presenza di
moltissimo zucchero o di dolcificanti artificiali: nessuna di queste sostanze deve trovar posto in
una dieta che si dica sana. Inoltre mangiare dessert abitua il palato ai sapori dolci,
perpetuandone il desiderio. Sulla lunga distanza diventa più facile (per non dire salutare)
rinunciare al dessert, riservandolo a occasioni eccezionali come un pranzo di festa, o se vi
trovate in un ristorantino dall’ottima cucina e volete concedervi uno sfizio. In questo caso,
godetevi il dolce e non sentitevi in colpa. Basta inquadrare l’episodio nel contesto complessivo
della vostra dieta e lo vedrete subito perdere d’importanza.

Cena

I piatti citati in precedenza vanno tutti bene anche per la cena, che generalmente è più facile da
gestire. Anche in questo caso il segreto è pensare in termini di dieta “primitiva”. Un’altra
opzione rapida e facile è costituita dalla carne fredda (per esempio, pollo o roastbeef) e/o dal
pesce (come salmone affumicato, trota affumicata, sgombro al pepe), serviti con insalata o
crudité, magari con un po’ di hummus e olive. A chi generalmente termina la cena con qualcosa
di dolce (gelato o yogurt) consiglio un paio di quadratini di cioccolato fondente.

Se siete al ristorante e dovete decidere fra due portate, l’antipasto giusto è un piatto a base
d’insalata (per esempio, insalata con petto d’anatra affumicato, insalata con salmone
affumicato, insalata di avocado, caprese). In seguito ordinate un piatto di carne o pesce con
verdure (escludendo le patate). Se siete vegetariani, optate per un piatto di verdure alla griglia
e un’insalata, o semplicemente per un’insalatona, magari con avocado e formaggio, contenenti
le proteine e i grassi fondamentali per il nostro benessere. Come al solito, fate in modo di non
arrivare all’ora di cena troppo affamati. Continuo a sottolinearlo poiché la gente tende a
trattenersi col cibo quando sa che deve andare a cena fuori, per “compensare” il prevedibile
maggior apporto di calorie. L’aspetto ironico della situazione è che si finisce per patire la fame
nel giorno in cui si mangia di più. Tenere l’appetito sotto controllo quando si va al ristorante
aiuta a vincere la sfida di non cedere ad alimenti come pane, riso, pasta o patate cucinate in
ogni modo.

Alcune persone si preoccupano del fatto di mangiare tardi la sera. Personalmente credo che il
vero problema non sia mangiare troppo tardi, bensì mangiare troppo e troppo tardi. Ci sono
ottime ragioni per consumare una cena più frugale di quanto normalmente non avvenga. Anche
in questo caso, moderare la fame è fondamentale: mangiare bene durante il giorno e
concedersi uno spuntino nel tardo pomeriggio o a inizio serata è fondamentale.

Spuntini

Di solito si consiglia di scegliere la frutta per un eventuale spuntino, ma la mia opinione è ben
diversa. Come ho detto nel capitolo 17, la frutta spesso non basta a placare la fame (inoltre, è
molto ricca di zucchero e inadatta ad alcune persone).

Ecco alcune opzioni ideali per uno spuntino:

Frutta secca.
Semi (per esempio, quelli di zucca tostati).
Olive.
Carne essiccata.
Carne fredda (per esempio, pollo o roast-beef).
Uova alla coque.
Omelette al prosciutto.

LONTANO DAGLI OCCHI...

Alcuni si domandano quanta frutta secca si possa mangiare come spuntino e cosa si intenda per
“porzione”. Avrete notato che in tutto il libro non ho mai parlato di dosi, quantità o peso del
cibo. Il motivo è semplice: purché non si arrivi all’ora del pasto troppo affamati e si segua
un’alimentazione naturale e nutriente, non c’è rischio di mangiare troppo. In altre parole, ci si
può basare sul proprio senso di sazietà per regolare automaticamente l’apporto di cibo, senza
bisogno di restrizioni caloriche.

Ma in teoria è possibile eccedere con alimenti come la frutta secca, soprattutto se si è distratti.
Seduti davanti al televisore o al portatile, è facile spazzolarsi un bel po’ di frutta secca senza
neppure rendersene conto. Questo tipo di “abbuffata inconsapevole” può portare alcune
persone a ingerire più calorie del dovuto.

Un semplice rimedio consiste nel tenere la frutta secca sotto mano, in modo da poterla
mangiare quando serve, ma non visibile. Sapete che c’è, ma non potete vederla: non si troverà
certo davanti a voi sulla scrivania o in una ciotola, appoggiata sul bracciolo del divano.

I posti ideali dove tenere gli snack sono una credenza in cucina, un cassetto della scrivania, una
borsa o una valigetta, o il portaoggetti dell’auto. In questo modo, se vi viene un certo
languorino, potrete concedervi una manciata di frutta secca. Vi consiglio di prenderne un po’ e
poi rimettere il contenitore dov’è conservato abitualmente. Se in seguito avete ancora fame,
prendetene ancora un po’. Ma è improbabile che lo facciate, una volta passato il languorino.

Tenere il cibo lontano dagli occhi di solito è sufficiente a prevenire le “abbuffate inconsapevoli”.

IL PUNTO SUL TAKE AWAY

I take away non sono per forza di cose un fallimento sul piano nutrizionale. È possibile
concedersi del cibo take away e mangiare in modo relativamente sano. La prima regola è di non
essere troppo affamati quando si ordina. Fermarsi al take away mentre si rientra a casa tardi
dal lavoro, dopo aver consumato l’ultimo pasto otto o più ore prima, oppure mentre si torna a
casa barcollando dal pub, sono situazioni in cui non si tende a compiere scelte salutari.

Ordinare al take away per voi (e magari per altri) un sabato sera, con lo stomaco che non
borbotta, aiuta a fare scelte più compatibili con un’alimentazione sana. Il trucco è pensare in
termini “primitivi”. Così, per esempio, se avete deciso di ordinare cibo indiano potreste optare
per un curry a base di carne o gamberi, o un pollo al curry con verdure, magari sotto forma di
saag paneer (formaggio indiano e spinaci) e un po’ di dhal (lenticchie). Se non avete troppa
fame, non avrete problemi a evitare riso e pane indiano, che possono mandare a monte la
vostra dieta.

Se invece preferite il cibo cinese, optate per un piatto a base di manzo, gamberi o pollo (per
esempio, carne allo zenzero, gamberi piccanti, pollo con anacardi) e verdure saltate in padella.
Anche in questo caso, lasciate perdere il riso.

Se vi capita di ritrovarvi affamati a tarda notte e avete bisogno di mangiare qualcosa, suggerisco
un shish kebab: carne di agnello, verdura cruda e una quantità accettabile di poco salutari
carboidrati (pane) non creano grossi scompensi nello schema complessivo della vostra dieta.

PREPARARSI AI PASTI PRONTI

Abbiamo più volte sottolineato in questo libro come l’alimentazione debba essere costituita nei
limiti del possibile da cibo naturale, non lavorato. Tuttavia non sempre si ha il tempo di
cucinare con ingredienti freschi ed è uno dei motivi per cui molti di noi sono tentati da cibi e
pasti pronti. Molti di questi, per esempio le lasagne surgelate, vi terranno sempre a chilometri
di distanza dagli obiettivi prefissati in termini di salute e perdita di peso. Eppure ciò non
significa che tutti i cibi pronti siano off-limits.

Un pasto pronto composto da una porzione di pesce o carne con verdure ha, a tutti gli effetti, lo
stesso grado di elaborazione di un piatto analogo preparato in casa.

Forse c’è un po’ più di sale di quanto ne mettereste voi, ma in sostanza non è particolarmente
lavorato: si tratta solo di cibo preparato in fabbrica anziché in cucina. Come nel caso dei take
away, il trucco è optare per pasti pronti costituiti da ingredienti “primitivi”, che rappresentano
un buon compromesso fra alimentazione sana e comodità.

Schema alimentare tipico

Ecco alcuni esempi di schema alimentare quotidiano. Gli spuntini sono a vostra assoluta
discrezione: se non ne avete bisogno per tenere l’appetito sotto controllo, evitateli.
Quando comincia a mangiare in questo modo, la maggior parte della gente si rende conto di
non avere, o quasi, bisogno dello spuntino di metà mattinata, mentre quello del tardo
pomeriggio ha un’importanza cruciale.

Questi schemi alimentari mostrano come mettere in pratica nella vita di tutti i giorni i consigli
forniti nel libro.

Usateli come spunto per compiere le vostre scelte, sulla base delle preferenze individuali.

Proposte per i giorni feriali

Colazione: mix di yogurt, frutta secca e frutti di bosco (mangiati a casa, lungo la strada o al
lavoro)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata

Pranzo: pesce e insalata di avocado (acquistati in precedenza)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata e un po’ di cioccolato fondente

Cena: hamburger e insalata preparati in casa

Colazione: una o due omelette al prosciutto (mangiate lungo la strada o al lavoro)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata

Pranzo: chili caldo con carne e insalata (senza riso)

Spuntino: frutta secca mista e un frutto (per esempio, mela o pera)

Cena: salmone alla griglia con insalata di pomodori, cipolle e coriandolo

Colazione: omelette al formaggio di capra e salame (calda o fredda)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata

Pranzo: brodo di carne o gulash (già pronti)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata e un po’ di cioccolato fondente

Cena: pesce alla griglia con insalata o verdure al burro

Proposte per il week-end

Colazione/brunch: colazione calda (salmone affumicato e uova in camicia, uova e bacon)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata e un frutto

Pranzo/spuntino: formaggio, sedano e affettati

Cena: carne e verdure al forno o stufate

Colazione/brunch: uova strapazzate e salmone affumicato con funghi

Spuntino: frutta secca cruda o tostata e un frutto

Pranzo: formaggio, sedano e carne fredda


Spuntino: frutta secca cruda o tostata

Cena: frutti di mare e insalata

Colazione/brunch: uova in camicia con spinaci al burro e prosciutto cotto (a scelta)

Spuntino: frutta secca cruda o tostata

Pranzo: insalata nizzarda con salmone

Spuntino: mix di frutta secca cruda o tostata e cioccolato fondente

Cena: pollo, manzo o agnello arrosto con verdure

L’AZIONE DEL SALE

Quando si riduce il consumo di carboidrati, i livelli d’insulina in genere crollano. È un elemento


positivo, che tuttavia può avere ripercussioni biochimiche di cui dobbiamo essere consapevoli e
che bisogna saper gestire.

Uno degli effetti dell’insulina è di ridurre la percentuale di sodio eliminata dai reni. Più sodio c’è
nell’organismo, più il corpo tende a trattenere i liquidi. È uno dei motivi per cui le persone che
seguono una dieta ricca di carboidrati si sentono “gonfie”, soprattutto nei piedi e nelle gambe.

Quando si limita l’apporto di carboidrati e i livelli d’insulina crollano, aumenta la percentuale di


sodio (e di conseguenza acqua) espulsa dai reni. Ciò significa che alcune persone si troveranno a
urinare di più per un paio di giorni, e anche i livelli di sodio caleranno. Ma se avete eliminato i
cibi pronti, l’apporto di sodio probabilmente si abbasserà in modo drastico, aggravando il
problema.

Alcune persone manifestano sintomi quali stanchezza, mal di testa, crampi o difficoltà di
concentrazione.

Un modo per contrastare questi inconvenienti è aggiungere del sale al cibo durante la cottura o
in tavola. Ovviamente, non è il caso di dare al cibo un sapore salmastro, ma di fatto più ne
aggiungete, meglio è. Un altro sistema consiste nell’aggiungere un po’ di sale all’acqua che
bevete: fate in modo che abbia un sapore solo leggermente salato.

Con il passare del tempo, il vostro corpo si adeguerà alla nuova dieta e ristabilirà l’equilibrio del
sodio. Ho appurato che si può variare il sodio senza conseguenze gravi per un lasso di tempo
compreso fra le 2 e le 4 settimane.

Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton


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Capitolo 21

UN’AZIONE DECISA

I capitoli precedenti spiegano per quale motivo mangiare più spesso faccia perdere grasso sulla
lunga distanza. Ma forse ricorderete ciò che abbiamo detto nel primo capitolo, ovvero che
abbinare l’attività fisica alla restrizione calorica dà scarsi risultati. In questo capitolo cercheremo
di capire perché.

Ciò non significa che il movimento non abbia alcuna importanza: è indubbio che sia molto
positivo per la salute e il benessere in generale. Gli esercizi di “resistenza”, inoltre, migliorano
nettamente la forza e l’aspetto del corpo. In questo capitolo troverete alcuni consigli pratici su
come trarre concretamente beneficio dall’attività fisica.

Energia da bruciare?

Il tipo di esercizio che in genere si consiglia per controllare il peso è l’attività aerobica: si tratta
in sostanza di sport che si possono praticare per lunghi periodi di tempo, fra cui camminare,
correre, andare in bicicletta e nuotare. Aumentando la quantità di calorie bruciate dal corpo,
l’esercizio aerobico in teoria favorisce la perdita di peso. Eppure, come abbiamo visto nel
capitolo 1, abbinare a una dieta l’attività fisica regolare dà benefici solo marginali (la perdita di
circa un chilo). La scienza è in grado di spiegare perché tale investimento renda così poco?

Immaginate di seguire il consiglio di praticare mezz’ora di sport per cinque volte alla settimana;
30 minuti di jogging, per esempio, fanno bruciare 300 calorie. Ma dato che guardare la
televisione per un lasso di tempo analogo comporta un dispendio di 50 calorie, le calorie
aggiuntive bruciate in mezz’ora di jogging ammontano a 250. Moltiplicando per 5, otteniamo
un totale di 1250 calorie a settimana.

Supponendo che tutte queste calorie siano state bruciate sotto forma di grasso (eventualità
tutt’altro che certa), e che non si mangi di più per effetto del maggior dispendio di energia
(aspetto che approfondiremo tra poco), il jogging settimanale comporterà la perdita di circa
150 g di adipe (ricordate che mezzo chilo contiene circa 3500 calorie). Basta una semplice
operazione matematica per capire uno dei problemi fondamentali del rapporto fra attività
aerobica e perdita di peso: non fa bruciare così tante calorie.

Alcuni affermano che le calorie in più vengono bruciate anche dopo l’esercizio e che si tratta di
un elemento di cui tenere conto. C’è un fondo di verità in questo, ma l’effetto è relativamente
scarso ed è improbabile che influisca in modo significativo sul dimagrimento. Nel caso di attività
moderatamente intensa della durata di un’ora, il metabolismo del grasso nelle ventiquattro ore
successive rimane sostanzialmente uguale, come se non fosse stato praticato nessun tipo di
esercizio1.

Un altro ostacolo alla perdita di peso attraverso l’attività aerobica è la fame che essa induce2:
da qui l’espressione “stimolare l’appetito”. Inoltre, non ci vuole molto ad annullare i benefici di
30 minuti di jogging (bastano 3 biscotti al burro o 750 ml di birra). Senza contare che alcune
persone usano il cibo come ricompensa dopo avere fatto sport (magari succede anche a voi...).

Un altro elemento può spiegare la scarsa efficacia dell’attività aerobica: quando si fa più
esercizio fisico, si tende a diventare maggiormente sedentari in altri ambiti della propria vita3-6.
Un’attività prolungata comporta poi un sensibile innalzamento del livello del cortisolo, un
ormone che, come abbiamo visto nel capitolo 6, predispone all’aumento di peso, in particolare
addominale.

Mettete insieme tutte queste informazioni ed è ovvio il motivo per cui risulta un’impresa ardua
perdere peso con l’esercizio fisico tradizionale.

GLI SCARSI RISULTATI DELL’ATTIVITÀ FISICA POTREBBERO DIPENDERE DALL’AUMENTO DI


MASSA MUSCOLARE?

Una possibile spiegazione del motivo per cui l’attività aerobica non fa dimagrire è che aumenta
la massa muscolare, la quale compensa il peso perso in seguito al calo del grasso. Ma questo
tipo di sport non determina la formazione di una muscolatura massiccia. La conseguenza logica,
dunque, è che l’attività aerobica è piuttosto inutile nell’ottica della perdita di grasso.

Le cose non sono sempre come sembrano

Alcune persone faticano a convincersi che l’attività aerobica non sia particolarmente utile per
perdere peso, anche di fronte all’evidenza dei fatti. Uno dei motivi è l’immagine offerta dagli
individui allenati e in forma: sono palesemente magri. Se guardiamo un fondista professionista
o un ciclista del Tour de France, ci possiamo fare una mezza idea di cosa significhi avere una
percentuale di grasso corporeo inferiore a un certo valore (ovvero molto bassa). L’associazione
automatica è che l’esercizio fisico rende magri.

Ma non potrebbe darsi che persone costituzionalmente magre abbiano maggiori probabilità di
diventare fondisti o ciclisti di professione? In altre parole, non è forse possibile che una naturale
magrezza spinga certe persone a essere più attive, anziché il contrario?

Per quanto l’idea possa sembrare peregrina, non mancano le prove a suo sostegno. Un filone di
ricerca ha esaminato il rapporto fra attività fisica e grasso corporeo nei bambini nell’arco di
oltre tre anni7. Si è scoperto che più sono sedentari, più accumulano grasso.

Un risultato abbastanza prevedibile ma, poiché lo studio si è protratto per un lungo lasso di
tempo, i ricercatori hanno avuto modo di stabilire se la sedentarietà fosse precedente
all’aumento di peso. La risposta è no. In realtà, i bambini prima mettevano su peso e poi
diventavano più pigri. Gli autori hanno sostenuto che questa scoperta «potrebbe spiegare per
quale motivo i tentativi di contrastare l’obesità infantile attraverso l’attività fisica abbiano dato
scarsissimi risultati».

Come mantenere il peso?

Abbiamo visto che l’attività aerobica non è di grande aiuto per perdere peso, ma almeno serve
a mantenere il peso forma? Le prove dimostrano che riuscirci attraverso l’esercizio fisico
richiede tantissimo tempo e moltissima fatica: un importante articolo ha scoperto che servono
da sessanta a novanta minuti di attività quotidiana per aumentare in modo sostanziale le
probabilità di non rimettere su peso dopo averlo perso8. È un investimento di tempo davvero
eccessivo solo per tenere fermo l’ago della bilancia.

Sì all’attività fisica

Ciò che ho appena detto sull’inutilità dell’esercizio fisico per controllare il peso potrebbe darvi
l’impressione che io sia contrario a ogni tipo di sport. Nulla di più lontano dal vero. E tuttavia,
non voglio alimentare il mito radicato dell’importanza dell’attività aerobica ai fini del
dimagrimento. Nel prossimo capitolo presenterò un tipo di esercizio che sembra dare grandi
risultati, oltretutto con sessioni abbastanza brevi.
Pur non essendo molto efficace per quanto riguarda la perdita di peso, sembra che l’attività
aerobica sia in grado di ridurre il rischio di patologie croniche e di migliorare il benessere psico-
fisico.

Una passeggiata liberatoria

Un tipo di attività fisica che trovo particolarmente utile è camminare. Alcune persone sono
convinte (anch’io lo ero) che sia un esercizio troppo blando per portare benefici alla salute. Le
prove dicono il contrario.

In uno studio, per esempio, fu chiesto ad alcune persone di camminare a passo svelto per 30
minuti, 3 o 5 volte alla settimana9. Volendo, avrebbero potuto suddividere quella mezz’ora in 3
intervalli di non meno di 10 minuti ciascuno. Altri partecipanti allo studio non ricevettero alcun
tipo d’indicazione e perciò fungevano da gruppo “di controllo”: i risultati da loro ottenuti
sarebbero stati messi a confronto con quelli dei “camminatori”. La ricerca durò per 12
settimane.

Chi camminava vide migliorare la forma fisica e la pressione sistolica (ovvero la “massima”),
oltre a riscontrare un calo medio del girovita di oltre 2,5 cm. Ricordate: basta camminare per
ottenere tutti questi risultati.

CAMMINARE STIMOLA LE FUNZIONI CEREBRALI

Un altro ambito della salute che può trarre grandi benefici dall’esercizio fisico è quello inerente
le funzioni cerebrali. In uno studio si è valutata la funzionalità cerebrale di un gruppo di persone
di mezz’età e anziane, in seguito randomizzate (assegnate a caso) a una delle seguenti attività:
camminare (al loro passo) per 40 minuti 3 volte alla settimana, oppure fare regolarmente
stretching ed esercizi di tonificazione10.

Un anno dopo, rispetto a chi aveva praticato stretching ed esercizi di tonificazione, i


“camminatori” mostravano miglioramenti nei test cognitivi, soprattutto quelli relativi ai
cosiddetti “compiti di controllo esecutivo” (ovvero pianificazione, programmazione, gestione
dell’ambiguità e multi-tasking). Per inciso, si tratta delle competenze in cui si tende più ad
arrancare a mano a mano che l’età avanza.

Quanto bisogna forzare?

È generalmente assodato che l’esercizio fisico dev’essere di una certa intensità, se si vuole
trarne beneficio. La frequenza del battito cardiaco è un modo per valutarne l’intensità. In
teoria, il valore massimo della frequenza cardiaca corrisponde a circa 220 meno l’età di una
persona. Si ritiene che, per trarre beneficio dall’attività fisica, il battito sotto sforzo debba
essere pari al 60-75 percento della frequenza massima.

Per esempio, una frequenza del 70 percento di un cinquantenne equivale a 0,7 x (220 – 45) =
circa 120 battiti al minuto. Se non avete modo di controllarvi il polso o usare un monitor per la
frequenza cardiaca, puntate a un livello d’intensità tale da rendervi un po’ affannati, ma ancora
in grado di sostenere una conversazione. Se riuscite a cantare (sempre che ne abbiate voglia),
probabilmente non vi state impegnando abbastanza.

Se camminate a passo davvero spedito, è quasi certo che vi state esercitando con l’intensità
giusta. Se non ce la fate, prendete in considerazione altri tipi di attività fisica come una blanda
corsa, la bicicletta o il vogatore.
Quanto è “abbastanza”?

Il mio consiglio è quello di porvi come obiettivo una mezz’ora di esercizio fisico intenso più volte
alla settimana, diciamo in totale circa tre ore. Vi sembra tanto? In realtà è meno del 2 percento
del vostro tempo.

Per quanto siate occupati, la maggior parte di voi non avrà problemi a ritagliarsi del tempo per
praticare sport. Ecco alcuni suggerimenti:

Evitate di accendere il televisore di sera e riducete il tempo complessivo trascorso


davanti alla tivù.
Alzatevi prima (il segreto è andare a letto un po’ prima).
Evitate di controllare e leggere le e-mail in continuazione: ponetevi come obiettivo di
farlo da una a tre volte al giorno, solo a certi orari. Se necessario, impostate una risposta
automatica in cui spiegate a quali orari controllerete la posta, e come vi si può
contattare in caso di questioni davvero urgenti.
Non passate lunghe ore a navigare su Internet.
Non comprate il giornale: anche se non si acquista la dose giornaliera di carta stampata,
non si corrono grandi rischi di perdersi qualcosa di veramente importante.
Stilate un programma quotidiano: all’inizio di ogni giorno o settimana pianificate ciò che
intendete fare, scrivetelo sul vostro diario e impegnatevi a rispettarlo come se fosse un
appuntamento o una riunione.

Si possono suddividere gli esercizi?

Alcuni studi hanno valutato se i vantaggi dell’attività fisica rimangano gli stessi nel caso in cui,
poniamo, mezz’ora di esercizio venga suddivisa in periodi più brevi. La buona notizia è che non
cambia nulla. Un test, per esempio, ha mostrato come 3 sessioni da 10 minuti di movimento
abbassino il livello dei grassi nel sangue (trigliceridi) e la pressione esattamente come mezz’ora
di cammino senza interruzioni11.

In un altro studio, alcune donne hanno svolto esercizi per un totale di 30 minuti al giorno, più
volte alla settimana. In un gruppo si trattava di mezz’ora di esercizio continuativo, in un altro di
2 sessioni da un quarto d’ora nel corso della giornata, in un terzo di 3 sessioni da 10 minuti. In
tutti e tre i gruppi si è riscontrato un miglioramento degli indicatori della forma fisica12.

I test dimostrano quindi che svolgere attività fisica in modo più parcellizzato e gestibile equivale
a fare sport senza interruzioni.

Camminare di più con un contapassi

I contapassi sono piccoli dispositivi a pila, in genere molto economici, che si mettono sulla
cintura e si usano appunto per calcolare quanti passi si fanno. È dimostrato che l’uso di tale
strumento favorisce un’attività fisica più intensa, soprattutto quando ci si è posti come
obiettivo un dato numero di passi al giorno. Oltretutto, pare che aumenti di un quarto il tempo
dedicato alla camminata13. Dal mio punto di vista, si tratta di pochi euro investiti decisamente
bene.

Opporre resistenza

Oltre all’attività aerobica, l’altro genere principale di esercizio fisico è quella di “resistenza”. La
resistenza si distingue da attività aerobiche come la corsa e il nuoto per il fatto che comporta
maggiore impegno e quindi la sua durata dev’essere limitata. L’intensità degli esercizi di
resistenza è ciò che permette di migliorare la forza e il tono dei muscoli in modo totalmente
diverso dall’attività aerobica. Sollevare pesi è un esempio di esercizio di resistenza, benché
siano importanti anche quelli “liberi” come le flessioni e gli addominali.

GLI ESERCIZI DI RESISTENZA SI SPOSANO CON UNA DIETA RICCA DI PROTEINE?

È dimostrato che una dieta ricca di proteine, abbinata a esercizi di resistenza, sia un efficace
strumento per dimagrire. In uno studio si sono sperimentati due regimi alimentari (uno con un
tenore di proteine più elevato rispetto all’altro) in un gruppo di persone sovrappeso e obese
affette da diabete di tipo 214.

Le calorie fornite da carboidrati, proteine e grassi erano così ripartite:

Dieta tradizionale: 53, 19, 26


Dieta ricca di proteine: 43, 33, 22

Ogni gruppo fu ulteriormente suddiviso in due, in cui uno solo dei sottogruppi era impegnato in
esercizi di resistenza: 3 volte alla settimana. Lo studio durò 16 settimane.

I soggetti che ottennero i risultati migliori furono quelli che avevano seguito la dieta ricca di
proteine e praticato gli esercizi di resistenza; persero in media 11,1 kg di grasso e 13,7 cm di
girovita. In confronto, chi non aveva praticato gli esercizi e aveva seguito la dieta più povera di
proteine era calato in media di 6,4 kg di grasso e di 8,2 cm di girovita.

Limitare le perdite

Quando si perde peso, c’è sempre il rischio che, oltre a eliminare il grasso, si brucino anche i
muscoli. Forse non stupirà sapere che gli esercizi di resistenza limitano tale pericolo.

In uno studio, alcune persone hanno seguito una dieta ipocalorica. Il gruppo è stato poi diviso in
tre: il primo sottogruppo era impegnato in esercizi di resistenza, il secondo aveva un
programma di attività aerobica, mentre il terzo faceva solo la dieta. Tutti hanno perso peso, ma
gli appartenenti al sottogruppo impegnato negli esercizi di resistenza hanno bruciato una
quantità nettamente inferiore di massa muscolare15.

Gli autori di un articolo su come preservare al meglio la massa muscolare e il metabolismo


basale durante il dimagrimento hanno sottolineato l’importanza di un allenamento incentrato
sulla resistenza16. Hanno evidenziato inoltre l’importanza fondamentale di consumare la giusta
dose di proteine.

Ovviamente un altro motivo per preservare i muscoli è quello di migliorare la loro, e la vostra,
forma. Da questo punto di vista, gli esercizi di resistenza si rivelano essenziali.

Un allenamento completo in 12 minuti

È possibile migliorare significativamente l’aspetto e le condizioni del corpo in maniera rapida e


semplice, e senza perdere tempo. Quello che propongo è un allenamento adatto a uomini e
donne, e non comporta alcun rischio di apparire con i muscoli troppo gonfi: uno spauracchio
per molte persone, e soprattutto per il gentil sesso.

Si tratta di un programma di 12 minuti basato su esercizi di resistenza: richiede un


equipaggiamento minimo e si può eseguire anche in casa, in uno spazio non più grande di un
telo da mare. La sessione è costituita da due parti di 6 minuti ciascuna. I primi 6 si focalizzano su
esercizi di resistenza per la parte superiore del corpo. I secondi 6 sono concepiti per far lavorare
le gambe, in un mix di esercizi aerobici e di resistenza.

EQUIPAGGIAMENTO SPECIALE

Ci sono soltanto due accessori che dovreste acquistare.

1. Fascia elastica (o un accessorio analogo)

Si tratta sostanzialmente di una grossa banda elastica lunga circa 1 m e larga 10 cm. Ce ne sono
in vari colori, a seconda del grado di resistenza. Piccola e leggera com’è, è un accessorio
perfetto per chi viaggia o rimane lontano da casa per lunghi periodi, e vuole mantenersi in
forma ovunque si trovi.

2. Manubri

Un set di manubri può essere un ottimo investimento. Sceglietene uno in cui si possa variare la
quantità di peso. Ovviamente non si può mettere in valigia, ma è un attrezzo molto utile per chi
vuole esercitarsi a casa.

Iniziate lentamente

Dovrete svolgere questi esercizi in maniera continuativa per un minuto (o finché ce la fate). Se
siete fuori forma e non avete mai praticato esercizi di resistenza, iniziate con un carico di lavoro
non troppo intenso. Scegliete la fascia elastica adatta e variate la lunghezza in base alla
necessità.

Nel caso dei manubri, cominciate con pesi moderati e piano piano aumentateli.

I primi 6 minuti

I primi 6 minuti della sessione sono suddivisi in blocchi di un minuto, ognuno dei quali è
concepito per far lavorare un muscolo principale o un gruppo di muscoli.

Si tratta di:

Petto
Schiena
Spalle
Bicipiti
Tricipiti
Addominali

QUANTO DEVO IMPEGNARMI?

L’obiettivo finale è eseguire l’esercizio in modo “deciso” per un minuto intero. Al tempo stesso,
al termine del minuto, potreste aver voglia di ripeterlo ancora. In tal caso, adeguate il peso dei
manubri o la tensione della fascia elastica, oltre alla velocità delle ripetizioni. A mano a mano
che andate avanti, potrete aumentare le variabili da aggiungere al carico di lavoro.

Le flessioni complete sono piuttosto difficili da eseguire. Forse è il caso di cominciare con
versioni meno intense di questo esercizio (medie e base), valutando poi se passare
gradualmente alle flessioni complete.

1. Petto
Le flessioni sulle braccia esercitano e rafforzano numerosi muscoli fra cui pettorali (petto),
deltoidi (intorno alle spalle) e tricipiti (dietro la parte superiore del braccio).

Esse, inoltre, fanno lavorare i muscoli sulla zona laterale e posteriore del busto.

Potete scegliere fra tre opzioni:

Flessioni complete: tenete cosce e ginocchia in linea. Le mani vanno posate a terra
all’altezza delle spalle. Abbassatevi piegando i gomiti finché il petto non arriva a circa 10
cm dal pavimento. Risollevatevi. Oltre a esercitare i muscoli elencati sopra, le flessioni
complete favoriscono la core stability, ovvero aiutano a rafforzare i muscoli
dell’addome, della regione pelvica e della zona lombare.
Flessioni a gambe piegate: simili a quelle complete, ma con le ginocchia appoggiate a
terra e gli stinchi sollevati.
Flessioni in ginocchio: simili alle precedenti, ma con le ginocchia perpendicolari alle
anche e gli stinchi a terra.

Durante l’esecuzione delle flessioni, si può tenere un asciugamano piegato sotto le ginocchia.

2. Schiena

L’esercizio è concepito per esercitare i muscoli della schiena, soprattutto il muscolo grande
dorsale (che si trova sul fianco) e i romboidi (che vanno dalla scapola alla spina dorsale). Fa
lavorare anche la parte superiore del braccio.

Per eseguire la vogata con un solo braccio, mettetevi in piedi con la parte sinistra rivolta verso
un divano o un letto, su cui appoggerete il ginocchio sinistro. Chinatevi in avanti e mettete la
mano sinistra sul divano o letto. Tenete il piede destro sul pavimento. Prendete un manubrio
nella mano destra con il braccio teso verso il basso. Sollevate il manubrio verso l’alto, fino
all’altezza dell’ascella, poi fate una pausa e riabbassate il manubrio con movimenti controllati,
non a scatti.

Ripetete per 30 secondi e poi cambiate lato, proseguendo per altri 30 secondi con il braccio
sinistro.

Si può eseguire l’esercizio con una fascia elastica, da tenere ferma con il piede destro quando si
fa lavorare il braccio corrispondente. Idem per il lato sinistro.

3. Spalle

Lo shoulder press è un esercizio che fa lavorare principalmente il deltoide, il muscolo più


importante della spalla.

Per eseguire lo shoulder press, sedetevi comodi su una sedia rigida tenendo la schiena diritta.
Prendete un manubrio con ciascuna mano e portateli davanti al petto, con i palmi rivolti in
avanti. Sollevate i manubri sopra la testa, fate una breve pausa e con un movimento controllato
riportateli nella posizione originaria.

L’esercizio si può eseguire con una fascia elastica. Sedetevi sopra la fascia e prendetene
un’estremità in ogni mano. In alternativa, si può compiere l’esercizio stando in piedi con
l’elastico sotto i piedi. Forse sarà necessario legarne due insieme per ottenerne uno della
lunghezza giusta.

4. Bicipiti
Il bicipite è il principale muscolo anteriore della parte alta del braccio. Per eseguire questo
esercizio, state in piedi con un manubrio in ciascuna mano e tenete le braccia tese verso il
basso, con i palmi rivolti in avanti. Sollevate entrambi i manubri verso le spalle, fate una breve
pausa e con un movimento controllato riabbassate i manubri.

L’esercizio si può eseguire con una fascia elastica, che in questo caso va tenuta ferma sotto i
piedi.

5. Tricipiti

Il tricipite è il principale muscolo posteriore della parte alta del braccio. Per svolgere questo
esercizio occorre una sedia. Posizionatela con la seduta dietro di voi. Appoggiateci sopra i palmi
delle mani, con le dita rivolte in avanti. Piegate le ginocchia e tenete i piedi “a martello” sul
pavimento. Caricate il peso sulle braccia e piegate lentamente i gomiti a novanta gradi,
abbassando le anche verso il pavimento. Poi tornate nella posizione originaria.

Per tutta la durata dell’esercizio tenete la schiena diritta e appoggiata alla sedia.

Se non avete una sedia adatta e non siete in grado di compiere l’esercizio, non preoccupatevi:
anche le flessioni (vedi sopra) fanno lavorare i tricipiti a sufficienza.

6. Addominali

Sdraiatevi supini sul pavimento, con le ginocchia piegate e i piedi a martello. Mettete la mano
destra sulla coscia destra e la mano sinistra dietro al collo. Sollevate la spalla sinistra dal
pavimento utilizzando i muscoli addominali. Ruotate la parte superiore del busto mentre vi
sollevate verso il ginocchio. Spostate la mano lungo la coscia finché il polso non arriva all’altezza
del ginocchio. Mantenete brevemente la posizione e poi riabbassatevi verso il pavimento con
un movimento controllato.

Per tutta la durata dell’esercizio mantenete la parte bassa della schiena aderente al pavimento
e non fate forza sul collo o sulla testa con la mano di sostegno.

Eseguite i movimenti per 30 secondi e poi di nuovo per altri 30 usando la mano destra per
sostenere il collo.

Una volta completati gli esercizi per la parte superiore del corpo, è giunto il momento di
dedicarsi alle gambe.

I secondi 6 minuti

Ora vi attende un mix di corsa sul posto (attività aerobica) ed esercizi di resistenza per le gambe
sotto forma di piegamenti.

1. Corsa sul posto

Lo scopo non è quello di compiere balzi o saltelli, bensì di fare passi relativamente piccoli,
sollevando il piede a circa 10 cm dal pavimento. Per alcune persone la corsa sul posto è un
esercizio troppo intenso, difficile da eseguire per 6 minuti di fila. Un’alternativa è la marcia sul
posto: in questo caso le gambe vanno sollevate di 30 cm dal pavimento. A mano a mano che
sarete più in forma, potrete introdurre gradualmente la corsa sul posto finché non diventerà un
esercizio abituale.

2. Squat
Allargate le gambe finché non saranno a una distanza appena maggiore di quella delle spalle e
tenete le punte dei piedi rivolte leggermente all’esterno. Abbassatevi finché le cosce non sono
più o meno parallele al pavimento (le anche dovranno trovarsi più in alto delle ginocchia).
Mantenete le ginocchia parallele alle caviglie e allargate le braccia mentre vi accucciate, in
modo da non perdere l’equilibrio. Rialzatevi e ripetete l’esercizio.

Iniziate la seconda sessione da 6 minuti correndo sul posto per 75 passi: contatene uno ogni
volta che il piede sinistro tocca il pavimento. In seguito, effettuate subito dieci squat. Ripetete
la sequenza finché non sono trascorsi i 6 minuti.

È un programma relativamente breve, ma piuttosto impegnativo, soprattutto per chi non è


abituato all’esercizio fisico e magari si sente debole, incapace di reggere lo sforzo. Non siate
dunque sorpresi se vi sentite a pezzi al termine della sessione. Potrà rincuorarvi il fatto che, nel
corso del tempo, il programma diventerà progressivamente più facile da eseguire.

Questo allenamento di 12 minuti comporta un gran lavoro di resistenza per le parti superiore e
inferiore del corpo, con un pizzico di attività aerobica. Il tutto comodamente a casa o in una
stanza d’albergo, senza bisogno di attrezzature particolari se non una banda elastica o un paio
di manubri.

Ogni quanto devo farlo?

Dopo avere lavorato, i muscoli hanno bisogno di tempo per riprendersi. È in questa fase che si
allungano e diventano più forti: da qui la convinzione che non bisognerebbe sollecitare i gruppi
muscolari più di una o due volte la settimana. È un consiglio che si riferisce in genere agli
esercizi in cui un solo gruppo di muscoli ha lavorato per un’ora o più in palestra. In quest’arco di
tempo è possibile che ci siano stati danni anche gravi: non c’è dunque da meravigliarsi che
occorra almeno una settimana per recuperare.

In confronto, eventuali danni muscolari provocati dall’allenamento di 12 minuti sono


decisamente minori. Ogni gruppo muscolare è impegnato per un solo minuto, con carichi di
lavoro di tutto rispetto ma non tali da provocare “cedimenti” (per esempio, se proprio non ce la
fate a ripetere l’esercizio). L’intensità consigliata vi aiuta sicuramente a fare progressi, ma non
comporta giorni e giorni di recupero.

Quando inizierete il programma, se siete fermi da un bel po’ probabilmente vi sentirete


indolenziti il giorno seguente, e magari per altri due o tre. All’inizio programmate la sessione
successiva proprio sulla base del senso di indolenzimento. Non appena i vostri muscoli non
saranno più tanto doloranti, potrete ricominciare. In principio ciò comporterà un intervallo di
due giorni o più fra una sessione e l’altra. Ma quanto più forti e in forma sarete, tanto più
rapida sarà la ripresa.

Alla fine dovreste riuscire a esercitarvi ogni giorno senza provare più alcun senso
d’indolenzimento fra una sessione e l’altra.

DIETE POVERE DI CARBOIDRATI ED ESERCIZIO FISICO

La dieta relativamente povera di carboidrati presentata in Dimagrisci subito mangiando può


sembrare agli antipodi rispetto a quelle ricche di zuccheri così spesso consigliate agli atleti.
Alcuni di voi avranno sentito parlare del cosiddetto carb-load, un “pieno” di alimenti come
pasta e riso da effettuare prima di dedicarsi a un’attività fisica prolungata. Alcuni affermano che
con una dieta povera di carboidrati i muscoli rischiano di ritrovarsi a corto di glicogeno (un tipo
di amido), con conseguente calo di energia e scarse prestazioni.

Non ho il minimo dubbio che chi è impegnato in un’intensa attività fisica debba assumere più
carboidrati rispetto a chi conduce una vita più sedentaria. Ma gran parte del problema è che
molti di noi mangiano come maratoneti, pur trascorrendo la maggior parte del tempo seduti.

Tuttavia, anche se non siamo del tutto sedentari, non dobbiamo includere troppi carboidrati
nella nostra dieta. Vediamo un po’ di numeri.

Come abbiamo osservato in precedenza, 30 minuti di jogging fanno bruciare 250 calorie.
Supponiamo che, durante la corsa, 150 di queste calorie provengano da zucchero e glicogeno (il
resto dal grasso). Poiché ogni grammo di carboidrati contiene 4 calorie, in teoria avete bisogno
di 40 g di carboidrati per compensare il glicogeno perso durante l’esercizio. È più o meno la
quantità presente in un paio di mele.

In altre parole, per la maggior parte degli individui impegnati in sport d’intensità media,
l’esaurimento del glicogeno non sembra affatto un problema, a meno che il consumo di
carboidrati non sia ridotto ai minimi termini. Ma anche quando i livelli sono quasi a zero, non
dimenticate che il corpo è in grado di sintetizzare queste sostanze nel fegato. Si è stimato che
l’organismo possa produrne in questo modo circa 200 g al giorno.

Così, nel corso del tempo, l’organismo di chi riduce i carboidrati si abitua a ricorrere sempre di
più alle riserve di grasso (alcuni lo definiscono “adattamento chetogenico”). In tal modo, si
dipende meno dai carboidrati per ottenere energia durante l’attività fisica rispetto a quanto
poteva avvenire in precedenza. Un importante articolo sull’argomento trae la seguente
conclusione: «[...] si potrebbero ottenere buoni risultati nelle attività di resistenza anche con
l’esclusione dei carboidrati dall’alimentazione umana»17.

Poiché l’adattamento chetogenico può richiedere da alcuni giorni a qualche settimana, non è
una buona idea passare a una dieta povera di carboidrati se state per cimentarvi in una gara
sportiva per competere al meglio delle vostre possibilità.

Alcuni pensano che serva una dose lievemente superiore di carboidrati se ci si impegna in uno
sport veloce e intenso. Se è il vostro caso, vi sconsiglio di riempirvi di pane, pasta e riso. Non
solo tali cibi hanno in genere un effetto dirompente sui livelli di zucchero nel sangue, ma hanno
anche scarso valore nutrizionale. Tipi di carboidrati più nutrienti e che rilasciano zucchero più
lentamente si trovano in vari tipi di frutta e verdura, per esempio tuberi come la patata dolce.

In sintesi
Spesso si incoraggia chi deve perdere peso a svolgere esercizi aerobici, ma gli studi
non ne avvalorano l’utilità.
In linea generale, l’attività fisica non fa bruciare molte calorie.
Chi pratica uno sport intensamente tende anche a mangiare molto.
L’esercizio fisico può spingere le persone a essere più sedentarie quando non praticano
sport.
Periodi prolungati di attività fisica provocano un rialzo significativo del cortisolo, un
ormone che predispone all’obesità addominale.
Pur non contribuendo alla perdita di peso, l’esercizio aerobico è associato a una vasta
gamma di benefici per la salute e a un miglior funzionamento cerebrale.
Si è scoperto che camminare apporta benefici notevoli alla salute.
La ricerca ha dimostrato che i vantaggi legati all’attività fisica permangono anche se si
pratica sport in sessioni multiple, più brevi.
Gli esercizi di resistenza scolpiscono, tonificano e rafforzano i muscoli, migliorando
l’armonia e la forma del corpo.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 22

ANCORA PIÙ GIÙ

Mettendo in pratica i consigli forniti finora in questo libro, avete ottime chance di constatare
grandi cambiamenti in termini di salute e benessere, il tutto senza la ferrea determinazione che
credevate necessaria per raggiungere tali obiettivi. Tuttavia so per esperienza che non tutti i
corpi reagiscono nello stesso modo alle strategie indicate in questo libro. Una minoranza di
persone avrà problemi a perdere peso anche se i chili in più sono ancora parecchi. Altri
dimagriranno moltissimo (anche in maniera abbastanza veloce), rimanendo però inchiodati a
un peso inaccettabile rispetto al loro ideale.

Questo capitolo offre due possibili soluzioni a tali problemi, una basata sulla dieta e una
sull’attività fisica. Entrambe sono leggermente più intense rispetto a quelle che consiglierei alla
maggior parte delle persone. Ma quando ci vuole, ci vuole! Esaminiamo a fondo tali strategie, a
cominciare dal cosiddetto “digiuno intermittente”.

Quando “meno” può diventare “più”

Uno dei temi fondamentali del libro è che il grasso corporeo non è solo questione di più o meno
calorie, ma dipende in gran parte dal sistema ormonale. L’insulina svolge un ruolo chiave,
poiché alti livelli di questo ormone portano a ingrassare. È per questo che siamo a favore di una
dieta relativamente povera di carboidrati, concepita, fra le altre cose, per abbassare i livelli di
insulina.

Questi si possono riequilibrare intervenendo non solo su ciò che mangiamo, ma anche su
quando mangiamo. Poiché il corpo secerne insulina in relazione al cibo, i livelli di tale ormone
tendono a essere alti durante il giorno e relativamente bassi durante il sonno. In teoria,
aumentare le ore quotidiane in cui l’insulina è bassa dovrebbe aiutare a perdere peso. In
sostanza, è questo l’obiettivo del digiuno intermittente.

Ne è un esempio il cosiddetto “digiuno a giorni alterni”. In pratica, si tratta di stare alcuni giorni
senza cibo mentre in altri si mangia ciò che si vuole. In forme diverse di digiuno intermittente si
restringe la “finestra” quotidiana in cui è permesso mangiare. Nella forma classica la finestra va
dalle 4 alle 8 ore. Non preoccupatevi se l’idea di [non] mangiare per 16 ore o più vi sembra un
po’ esagerata: ci sono modi molto meno estremi per mettere in pratica il digiuno intermittente,
di cui parleremo in seguito.

Poiché tale concetto è relativamente nuovo, le ricerche in questo ambito sono scarse. Tuttavia i
pochi risultati disponibili sono in genere positivi. In uno studio, per esempio, alcune donne
sovrappeso e obese hanno seguito un regime di restrizioni caloriche, continuo o intermittente,
per un periodo di 6 mesi1. Nella metà dei casi, potevano assumere 1500 calorie al giorno. Le
donne che seguivano il regime intermittente, dal canto loro, assumevano 650 calorie per 2
giorni alla settimana (mentre nei restanti erano libere di mangiare quanto volevano). In
entrambi i gruppi di donne, la limitazione calorica era identica (circa il 25 percento delle calorie
normalmente assunte).

Entrambi i gruppi non solo hanno perso peso, ma hanno visto un netto miglioramento di
parametri quali stato infiammatorio e pressione sanguigna. I livelli d’insulina sono crollati e la
sensibilità a quest’ormone è aumentata molto di più nelle donne sottoposte al regime
intermittente. La maggiore ricettività all’insulina è un fattore positivo che, nel corso del tempo,
dovrebbe tradursi in una facilità superiore a perdere peso e in un minor rischio di diabete di
tipo 2. È stato inoltre riscontrato un legame fra digiuno intermittente e mantenimento della
massa muscolare, a differenza di quanto accade con le diete ipocaloriche2.

In linea generale credo che, nella maggior parte dei casi, tre pasti al giorno siano essenziali per
restare in buona salute, poiché mangiare in modo regolare aiuta a tenere l’appetito sotto
controllo e rende più facile alimentarsi in modo sano. Malgrado ciò, anche il digiuno
intermittente può rivelarsi positivo; se si riesce a non perdere il controllo sull’appetito e a non
patire inopportuni attacchi di fame, è sicuramente un’opzione da considerare. Benché non sia
la panacea di ogni male, l’esperienza mi ha insegnato che il digiuno intermittente spesso
accelera la perdita di peso e aiuta le persone in cui il dimagrimento si è bloccato.

NON PER TUTTI

Il digiuno intermittente ha sicuramente i suoi meriti, ma non è per tutti. Per prima cosa, anche
se il vostro stato di salute è buono, vi consiglio di non sperimentarlo prima di essere sicuri di
riuscire a tenere sotto controllo l’appetito e stabilizzare i livelli di zucchero nel sangue. Segnali
eccellenti sono: essere in grado di saltare un pasto senza patire i morsi della fame, non morire
dalla voglia di mangiare un certo alimento e sentirsi pieni di energia per tutto il giorno. Poche
settimane di questo regime alimentare aiuteranno anche il corpo a diventare “chetogenico”,
ovvero più capace di trarre energia dalle riserve di grasso e meno dipendente dal cibo (vedi
sotto).

Fra chi dovrebbe evitare il digiuno intermittente segnaliamo le persone con un passato di
disturbi alimentari (anoressia o bulimia) e i diabetici di tipo 1. Anche i diabetici di tipo 2 devono
prestare attenzione, poiché probabilmente sarà necessaria una modifica nel dosaggio dei
farmaci, che va fatta sotto controllo medico.

Anche chi è genericamente “stressato” o soffre di sindrome da affaticamento cronico dovrebbe


evitare il digiuno intermittente. Lo stress può indebolire i surreni (organi che si trovano sopra i
reni), i quali intervengono nel metabolismo e nell’equilibrio glicemico nel sangue. Sul lungo
termine, una funzionalità surrenale compromessa può determinare affaticamento e stanchezza
cronica. Il digiuno intermittente provoca ulteriore stress alle ghiandole surrenali e per questo
motivo è meglio evitarlo.

Chi desidera migliorare le proprie performance sportive dovrebbe accostarsi con cautela al
digiuno intermittente, in particolare se impegnato a rafforzare la muscolatura. È opportuno
lavorare con un istruttore di fitness che abbia esperienza nell’ambito del digiuno intermittente.

Benché la capacità di stare senza cibo vari da persona a persona, ecco due princìpi generali che
ritengo validi.

Quando si è appena iniziata una dieta povera di carboidrati, in genere si ottengono


scarsi risultati con il digiuno intermittente.

La transizione metabolica da una dieta ricca di carboidrati a una più povera non è immediata (in
genere, occorrono da pochi giorni a tre settimane), fondamentalmente perché il corpo ha
bisogno di un po’ di tempo per abituarsi a usare il grasso come fonte di sostentamento. In tali
circostanze, il corpo sviluppa una forte dipendenza nei confronti del mantenimento dei tassi
glicemici nel sangue e di un’alimentazione regolare.

A mano a mano che ci si abitua a un regime meno ricco di carboidrati, la capacità di


stare senza cibo e di praticare il digiuno intermittente migliora.
Una volta che si è abituato a usare il grasso come fonte di energia, il corpo dipende sempre
meno dal cibo. Quando il corpo “mangia il grasso”, la capacità di stare senza cibo e non provare
fame, stanchezza o problemi legati al funzionamento cerebrale migliora sempre di più. Ho visto
molte persone che, dopo svariate settimane di alimentazione low-carb, si stupiscono di quanto
riescono a restare a digiuno senza provare fame o accusare sintomi quali stanchezza, debolezza
e perdita di concentrazione.

Cosa fare?

Tenendo conto che i livelli d’insulina sono generalmente bassi durante la notte, un modo per
mettere in pratica il digiuno intermittente consiste semplicemente nel saltare la colazione o il
pranzo. Quale dei due è meglio? Il consiglio è di scegliere quello di cui sentite di poter fare a
meno con più facilità.

Se in genere avete molta fame in mattinata e l’appetito cala a fine giornata, vi consiglio di
saltare la cena. Se invece non avete molta fame al mattino, per voi è meglio lasciar perdere la
colazione. In genere, da un punto di vista sociale, penso che per la gente sia più facile saltare il
primo pasto della giornata. Molti di voi vivono in un contesto culturale in cui la colazione non è
un evento familiare o sociale come il pranzo.

Non c’è neppure bisogno di seguire in maniera rigida i dettami del digiuno intermittente. Se
tendete a saltare la colazione, ma una mattina vi capita di sentirvi affamati, il mio consiglio è di
mangiare qualcosa. In maniera analoga, se di solito cenate, ma una sera non avete fame,
coglietela come un’ottima opportunità per saltare il pasto.

LA MIA ESPERIENZA CON IL DIGIUNO INTERMITTENTE

Ho sperimentato di persona il digiuno intermittente. Poiché ne avevo sentito parlare molto


bene, ho deciso di provare. Ne avevo anche parlato con una donna che aveva perso quasi 45 kg
seguendo i consigli alimentari (dieta povera di carboidrati) e i pratici esercizi contenuti nel mio
libro precedente, Waist Disposal. Ma poi la perdita di peso si era fermata e lei cercava qualcosa
che la facesse ripartire. Le suggerii il digiuno intermittente e mi offrii di sperimentarlo insieme a
lei.

Benché abbia raramente saltato la colazione nel corso degli anni, di mattina in genere ho meno
fame che non di sera. Di conseguenza, ho deciso di fare a meno del primo pasto della giornata,
ma con gradualità: ho lasciato passare sempre più tempo dal risveglio prima di mangiare
qualcosa. In genere mi alzo abbastanza presto (sei e mezzo, sette del mattino) e, dopo un paio
di settimane, sono riuscito ad arrivare alle tredici, o anche oltre, senza sentire lo stimolo della
fame.

Va precisato che non m’imponevo di non toccare cibo prima di questo orario: semplicemente
non avevo fame. Non ho sentito neppure particolari cali di forze, anzi la situazione è migliorata,
soprattutto per quanto riguarda l’energia mentale, la concentrazione e la chiarezza d’idee.
Inoltre, ma non è detto che sia collegato al cambio di regime alimentare, ho scoperto di aver
bisogno di meno ore di sonno.

La mia “compagna di dieta” ha ricominciato a perdere peso. Anch’io sono dimagrito. Nel giro di
un mese ho perso circa 3 kg e più o meno 2,5 cm di girovita. Ritengo che il peso giusto per me
sia 63,5 chili, e di solito oscillo intorno ai 67. In tale contesto, perdere circa 3 kg è un risultato
piuttosto significativo. Il girovita è calato sensibilmente e questo mi ha fatto pensare che buona
parte del peso perso fosse grasso. Al momento di scrivere questo libro, mangio ancora solo due
volte al giorno.

Ora che abbiamo esaminato la strategia alimentare per accelerare la perdita di peso, vediamo
da quale tipo di attività fisica può essere accompagnata.

Esercizio intermittente ad alta intensità

Nel capitolo precedente, abbiamo visto che l’attività fisica aerobica è ottima sotto molti aspetti,
ma non per quanto riguarda la perdita di peso. Negli ultimi anni, tuttavia, ha suscitato sempre
più interesse un tipo di attività fisica denominata “Esercizio intermittente ad alta intensità”
(High-intensity Intermittent Exercise, HIIE) che secondo la ricerca scientifica è un tipo di
esercizio più adatto, fra le altre cose, a sciogliere il grasso.

Lo HIIE, come dice il nome, comporta fasi relativamente brevi di attività intensa intervallate da
altre di relativo recupero. Un allenamento tipico prevede uno “sprint” di trenta secondi sulla
cyclette intervallato da fasi di “recupero” di tre-quattro minuti. Di solito una sessione è
composta da 4-6 singoli cicli e dura in totale circa 20 minuti. Durante gli “sprint” le persone
fanno ricorso in genere al 90 o 100 percento del loro potenziale.

90 secondi ad alta intensità sono duri anche per una persona molto allenata. Di conseguenza,
un’attività così intensa è sconsigliata a chi non è particolarmente in forma o ha problemi di
salute che precludono l’esercizio fisico ad alto impatto. Un programma standard prevede sprint
di otto secondi intervallati da fasi di recupero di 12 secondi per un totale di 20 minuti (60 cicli).

Oltre alla cyclette, altri tipi di attività fisica riconducibili allo HIIE comprendono remare (di
solito su un vogatore) e correre. Al termine del capitolo, fornirò alcuni esempi di regimi adatti.

Gli effetti dello HIIE sono stati comprensibilmente oggetto di studi approfonditi3. Si è scoperto
che questo tipo di attività migliora la forma fisica, perfino nell’arco di sole 2 settimane.

Una delle scoperte più importanti riguarda il miglioramento della ricettività all’insulina, in una
misura che va dal 19 al 58 percento. Non sorprende che tale parametro sia risultato maggiore
nelle persone affette da insulinoresistenza (per esempio, i diabetici di tipo 2). Il recupero della
ricettività all’insulina dovrebbe accelerare la perdita di peso e ridurre il rischio di sviluppare nel
tempo patologie croniche.

È importante sottolineare un altro aspetto emerso da queste ricerche, ovvero il fatto che lo HIIE
stimoli il metabolismo del grasso e il dimagrimento, soprattutto nelle persone che devono
perdere peso.

HIIE o esercizio costante per perdere peso?

Fra gli altri vantaggi, lo HIIE contribuisce ad accelerare la perdita di peso. Ma come si pone
rispetto all’esercizio costante?

Uno studio ha visto alcune donne impegnate nello HIIE o nell’esercizio costante (cyclette) per
15 settimane. Tale pratica prevedeva 40 minuti di attività continuata. Lo HIIE, invece, consisteva
in sprint di 8 secondi intervallati da fasi di recupero di 12 secondi, per un totale di 20 minuti. Le
sessioni avevano luogo 3 volte alla settimana4.

Nel corso dello studio, le persone che praticavano lo HIIE hanno perso in totale 2,5 kg.
Viceversa, quelle impegnate con l’esercizio costante non hanno perso nemmeno un grammo.

Non dimenticate che le donne del gruppo HIIE si esercitavano per un lasso di tempo minore
della metà dell’altro.

Maggiori benefici anche per la salute

Un altro studio interessante inserito nell’articolo ha messo a confronto lo HIIE con l’esercizio
costante in persone affette da sindrome metabolica5. Metà del gruppo doveva eseguire 4
minuti di esercizio al 90 percento di capacità massima, seguiti da 3 “di recupero”, per un totale
di 4 cicli. Il resto del gruppo doveva esercitarsi in modo continuo al 70 percento di capacità
massima per lo stesso arco complessivo di tempo.

La forma fisica è migliorata in entrambi i gruppi, ma circa due volte in più nel gruppo HIIE
rispetto a quello dell’esercizio costante. Lo HIIE si è rivelato inoltre più efficace nel far regredire
i sintomi della sindrome metabolica.

In un altro studio condotto dallo stesso team di ricercatori, ad alcuni adolescenti sono state
assegnate a caso due tipologie di attività fisica: HIIE o un approccio “multidisciplinare” che
comprendeva sport, consigli alimentari e sostegno psicologico6. Dopo un anno, si è scoperto che
il gruppo HIIE, rispetto all’altro, mostrava un netto miglioramento della forma fisica e del
sistema circolatorio (uno dei marker delle patologie cardiovascolari). Inoltre si è riscontrata una
perdita di 7 cm nel girovita degli appartenenti al gruppo HIIE, mentre non ci sono stati
cambiamenti di rilievo negli appartenenti a quello multidisciplinare.

Come fare

Poiché lo HIIE è molto impegnativo, in genere è meglio procedere in modo graduale. In questo
modo si evitano scompensi all’organismo e si riduce il rischio di farsi male.

Analogamente al digiuno intermittente, lo HIIE non è adatto a tutti. Le persone affette da


patologie cardiovascolari, polmonari o da altre gravi malattie dovrebbero procedere con
cautela, dedicandovisi solo dopo avere avuto il permesso dal medico.

Se non siete abituati all’esercizio fisico, è meglio che partiate da un livello base anche se siete in
buona salute. Come sottolineato nel capitolo precedente, camminare a passo veloce è un buon
inizio, e allo stesso modo lo è il programma di resistenza da 1-2 minuti riportato nel capitolo.

È inoltre possibile stabilire un livello-base costituito da jogging di bassa intensità, cyclette o


vogate. Dopo 3 o 4 settimane di esercizio regolare a intensità ragionevole, si può pensare allo
HIIE.

Come abbiamo detto, lo HIIE è impegnativo e all’inizio sarà difficile che riusciate a sostenere lo
sprint per più di 10 secondi. La durata degli scatti si può modificare nel tempo, ma per chi è
proprio agli inizi ecco alcuni esempi di come potrebbe essere strutturato lo HIIE.

Corsa

Riscaldamento con un po’ di jogging per 2 minuti.

Sprint di 10 secondi a circa l’80-90 percento d’intensità massima.

Corsa leggera per 30 secondi.

Ripetete il ciclo per un totale di 6-10 sprint.

Corsetta di recupero per 2 minuti.


Cyclette

Riscaldamento per 2 minuti.

Sprint a circa l’80-90 percento d’intensità per 12-15 secondi.

Pedalate lentamente per 45-48 secondi (in modo da ottenere 1 minuto in totale di sprint più il
“recupero”).

Ripetete lo schema sprint-recupero per 6-10 volte.

Pedalate lentamente per rilassarvi per 2 minuti.

Vogatore

Vogate piano per 2 minuti per riscaldarvi.

Vogate energicamente per 10 battute.

Vogate più piano per 10 battute.

Ripetete il ciclo per 6-10 volte.

Rilassatevi vogando lentamente per 2 minuti.

Cominciate con una di queste sessioni a settimana. A mano a mano che la forma fisica
migliorerà, potrete pensare a raddoppiare la frequenza delle sessioni. Sulla base dei progressi
fatti, si può anche pensare di renderle più impegnative. È possibile modificare numerosi
parametri, per esempio:

Mettere maggiore impegno nello sprint (per esempio, 90-95 percento del potenziale
individuale).
Aumentare il numero di sprint totali (indipendentemente dalla loro durata, intensità e
lunghezza delle fasi di recupero).
Aumentare la durata degli sprint.
Ridurre il periodo di “recupero”.
Aumentare la durata totale della sessione.

Il vostro obiettivo dev’essere un progresso graduale, nel corso di settimane e mesi. L’impegno
profuso darà sicuramente ottimi frutti in termini di riduzione della massa grassa, forma fisica e
in generale della salute.

HIIE E FAME

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, uno dei motivi per cui l’attività aerobica non è
particolarmente utile per perdere peso è la sua tendenza a stimolare la fame.

Benché non ci siano studi ufficiali in merito, molte persone raccontano di non aver visto
sostanziali modifiche nell’appetito dopo una sessione di HIIE, rispetto a quanto invece accade
con un’attività fisica più prolungata.

In sintesi
Il digiuno intermittente e lo HIIE sono strumenti che aiutano a velocizzare la riduzione
della massa grassa e riattivano la perdita di peso dopo una fase di stallo.
Uno dei principali obiettivi del digiuno intermittente è di mantenere bassi i livelli d’insulina
il più a lungo possibile.
Una versione pratica e “fattibile” del digiuno intermittente consiste nel saltare la
colazione o la cena.
Per le persone non abituate a una dieta povera di carboidrati sarà più difficile praticare il
digiuno intermittente rispetto a chi ha già adottato da un po’ questo tipo di alimentazione
e probabilmente si è abituato a trasformare il grasso corporeo in energia.
Sembra che lo HIIE arrechi maggiori benefici di salute e peso rispetto all’esercizio
costante.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 23

A LUNGO ANDARE

Uno dei principali obiettivi di questo libro è d’interrompere il circolo vizioso dell’effetto yo-yo e
della continua lotta con il peso, che molti di noi conoscono bene. I consigli offerti sono basati su
ciò che la scienza e l’esperienza ci dicono su come dimagrire in maniera sana e fattibile.
Siccome tale “sistema” non comporta patire la fame, controllare le porzioni o fare ginnastica a
vita, le persone di solito scoprono che vivere in questo modo è davvero più facile e divertente
di tutte le cattive abitudini che in passato le hanno condannate al sovrappeso. È proprio così: si
ottengono risultati migliori con molta meno fatica.

Ma ovviamente, di tanto in tanto, la vita si diverte a scombinare le nostre sane abitudini e


talvolta ci porta lontano dalla retta via. A meno di non finire fuori strada troppo a lungo, questo
non è un problema grave. Nel presente capitolo vedremo quali sono gli strumenti e i trucchi che
possono aiutare a raggiungere e mantenere buone abitudini alimentari, peso forma e un’ottima
salute.

Controllo della mente

Molte persone credono che adottare e mantenere abitudini sane richieda “forza di volontà” e
“disciplina”. Quando sento la gente usare queste parole in relazione allo stile di vita, ho un tuffo
al cuore. Il fatto è che, con l’approccio giusto, non si dovrebbe aver bisogno di una
determinazione ferrea. Se una persona apprezza ciò che mangia, non patisce la fame e svolge
un’attività fisica che rinvigorisce, anziché esaurire, perché mai non dovrebbe andare avanti
così?

Di fatto, credere che compiere scelte salutari comporti un autocontrollo e sforzi sovrumani è
sbagliato e rende solo le cose più difficili. Un atteggiamento positivo è un’opzione decisamente
migliore.

Sono convintissimo che le abitudini e le convinzioni personali abbiano un ruolo determinante in


ogni ambito della vita, compresa la salute. Uno degli esempi più eclatanti è costituito
dall’effetto placebo. In pratica, un numero significativo di persone che assume un’innocua
pillola (placebo), anziché un analgesico, manifesta comunque un miglioramento del sintomo
doloroso. Sembra che aspettarsi il sollievo dal dolore sia in grado di stimolare l’autoguarigione.
È possibile che lo stesso principio valga per il peso e la salute in generale?

In uno studio, 84 cameriere di un albergo sono state suddivise in 2 gruppi1. A uno è stato detto
che il lavoro svolto costituiva un buon esercizio fisico, in accordo con i dettami ufficiali per
mantenersi in salute. All’altro, invece, non è stato detto nulla.

Le donne sono state monitorate per un periodo di 4 settimane, durante il quale i livelli di
attività sono rimasti uguali in entrambi i gruppi. Ma a quelle a cui era stato detto che l’attività
costituiva un buon esercizio si sono registrati miglioramenti in numerosi parametri, come
pressione, peso e percentuale di grasso corporeo, rispetto al gruppo di controllo. Le donne
hanno sperimentato vantaggi fisici evidenti solo perché hanno creduto di fare qualcosa di
positivo per se stesse.

È meglio crederci

Le seguenti tecniche sono concepite per migliorare gli effetti dei cambiamenti positivi che
applicherete al vostro stile di vita.
Vedere

È importante avere in mente un’immagine chiara dei vantaggi e miglioramenti che volete
ottenere mettendo in pratica i consigli riportati in questo libro. Il concetto è muoversi
positivamente verso l’obiettivo desiderato, per esempio una riduzione del girovita, un migliore
stato di forma o un’impennata di vitalità.

L’approccio mentale che suggeriamo non equivale a non voler essere più grassi, inadeguati o
stanchi. Un vecchio proverbio dice: “Chi la dura la vince”. Restate focalizzati su obiettivi positivi
e createne un’immagine mentale chiara.

Chi ha da perdere molto peso (diciamo oltre i 20 kg) può sentirsi un po’ scoraggiato
dall’enormità del compito che lo attende. Un trucco utile consiste nel focalizzarsi su un
obiettivo intermedio, per esempio riuscire a entrare in abiti o pantaloni di una taglia inferiore.
Una volta raggiunto, si può passare al successivo.

Sentire

Dopo aver creato un’immagine positiva dei cambiamenti che intendete realizzare, fate entrare
in gioco le emozioni. Immaginate come vi sentireste se raggiungeste il vostro scopo e
affrontate l’impresa con entusiasmo.

Essere

Il passo finale consiste nell’agire in accordo con la versione migliorata di voi stessi, quello che
volete diventare. Mangiate i cibi salutari che il “nuovo voi” mangia. Impegnatevi in attività a cui
secondo voi prenderebbe parte la vostra versione più leggera e sana. Fate tutto ciò che è tipico
della persona che intendete diventare.

Pensare e agire positivamente nell’ambito di peso e salute può essere un grande incentivo al
cambiamento. Ma non c’è motivo di fermarsi qui: si può applicare infatti un approccio analogo
a fattori esterni, compreso il cibo che mangiamo.

Fate pace con il cibo

Se si vuole usare il cervello in direzione costruttiva, bisogna mantenere un atteggiamento


mentale positivo. Applicarlo alla dieta è particolarmente importante, poiché molti di noi
costruiscono forti barriere mentali nei confronti del cibo. Tanti hanno la sensazione che il cibo
sia stata la propria rovina, anche a causa dei messaggi che riceviamo sui pericoli connessi al
consumo di determinati alimenti. Sono pronto ad assumermi le mie responsabilità: nel libro vi
ho messo in guardia contro ogni sorta di cibo, fra cui lo zucchero raffinato, i farinacei, la
margarina, i grassi lavorati, il glutammato monosodico e i dolcificanti artificiali.

Vi sconsiglio di soffermarvi sui meriti o demeriti di tali cibi: è molto meglio, invece, focalizzarsi
sui piatti sani. È vero che alcuni alimenti sono stati in apparenza la vostra rovina, ma allo stesso
modo altri possono rappresentare la vostra salvezza.

In breve, concentratevi non su ciò che non potete, bensì su ciò che potete mangiare.

LOW-CARB: UN NOME, UN PROGRAMMA

Il tipo di dieta perorato in Dimagrisci subito mangiando ricade senz’altro nella categoria low-
carb. Ma i regimi alimentari con pochi carboidrati, come abbiamo visto in precedenza, non
godono di grande reputazione in certi ambienti. Di conseguenza, alcuni pensano che tale
alimentazione sia tabù.

Una conversazione che ho avuto con una dietologa ne è un ottimo esempio. Ci stavano
intervistando in un programma della TV inglese a proposito della Atkins (che è una low-carb) e
io ne parlai in toni entusiastici. La dietologa, invece, espresse il solito scetticismo. Tuttavia, fuori
onda, mi disse che un medico dell’ospedale universitario di Londra dove lavorava prescriveva
abitualmente una dieta povera di carboidrati ai suoi pazienti diabetici. Subito si affrettò a
specificare che il dottore voleva che rimanesse un segreto, per timore di quel che ne avrebbero
pensato i colleghi.

Uno dei motivi della pessima fama delle diete low-carb è la propaganda negativa che le viene
fatta da gruppi all’interno dell’industria alimentare e dai loro sostenitori. Il fatto è che la
popolarità di una dieta povera di carboidrati costituisce una minaccia per chi si arricchisce con
la vendita di cibi che contengono molti carboidrati. Perciò non fui sorpreso (ma un po’
scioccato, sì!) di ricevere un’e-mail offensiva e piena d’invettive da parte del responsabile delle
comunicazioni dell’organizzazione Flour Advisory Bureau.

Tuttavia, tralasciando la politica nutrizionale, credo che uno dei motivi per cui la dieta low-carb
non goda di una reputazione eccelsa sul piano alimentare sia da cercare nel suo stesso nome. Il
termine low-carb suggerisce infatti un regime di per sé sbilanciato: è più che palese che in esso
manchino i carboidrati.

Ma come abbiamo visto, la necessità di assumere carboidrati di fatto è pari a zero, e quindi non
abbiamo veramente bisogno di includerli nella nostra dieta. Ho citato molte volte in questo
libro l’alimentazione low-carb, ma ciò non significa che una dieta di questo tipo ci lasci privi di
sostanze nutrienti essenziali e comprometta la nostra salute. Ricordate: la ricerca dimostra che
mangiare in questo modo non solo favorisce la perdita di peso, ma comporta un netto
miglioramento dei marker della salute.

Non c’è motivo di essere rigidi

Inizialmente vi suggerisco di seguire alla lettera i consigli contenuti nel libro. Ma immaginate di
fare da un paio di settimane la vostra nuova vita: siete più leggeri, forse il girovita è calato di
alcuni centimetri, da tempo non vi sentivate così sani e in forma. Ciò significa che dovete
assolutamente fare a meno del panino a pranzo mercoledì, o di un bicchiere o due di vino rosso
sabato sera? Se il venerdì è dedicato a una pizza con i bambini, è il caso di rinunciarci? Quando
si celebra un’occasione speciale, non è bello concedersi una fetta di torta o uno squisito
dessert?

Occasionali strappi alla regola non possono sviarvi. Sulla lunga distanza conta ciò che mangiate
per la maggior parte del tempo, non una volta ogni tanto: è questo a influire sulla composizione
del corpo e sulla salute. La cosa importante è non permettere a tali incidenti di percorso di
offuscare il quadro generale. Un semplice approccio mentale vi può essere di grande aiuto: si
tratta di pianificare le vostre uscite. Per esempio, se sapete che il venerdì sera è dedicato alla
pizza, accettate il fatto che venerdì sera mangerete pizza, ma anche che, a partire
dall’indomani, riprenderete la solita alimentazione. Mentre scrivevo questo libro, ho
partecipato a un week-end incentrato su bevute e golf (due attività in cui non mi distinguo). Il
venerdì, mentre guidavo verso il luogo designato, mi sono fatto un appunto mentale: il lunedì
successivo avrei ricominciato a mangiare e bere nel solito modo.

Inoltre, è molto utile focalizzarsi non sui singoli pasti o sulle bevute occasionali, bensì sulla
globalità della vostra alimentazione. Inquadrate ciò che mangiate nel contesto complessivo
della dieta. Fate in modo che, a lungo andare, almeno l’80 percento del cibo e delle bevande sia
costituito da prodotti della categoria da “consumare liberamente”: carne, pesce, uova, verdura
a foglie verdi e frutta secca, frutti di bosco, acqua, caffè e tè decaffeinati.

PERCHÉ UNO STRAPPO ALLA REGOLA NON FA NECESSARIAMENTE INGRASSARE

Può capitare che le persone che prendono scrupolosamente nota del proprio peso rimangano
inorridite di fronte a un aumento repentino (nell’ordine di un paio di chili) dall’oggi al domani.
Ma è altamente improbabile che la causa sia un accumulo di grasso. Mezzo chilo di grasso
contiene 3500 calorie. In teoria, per mettere su un chilo di grasso, il surplus calorico necessario
ammonta a 7000 calorie. Nello spazio di una sera o anche di un giorno, sarebbe un’impresa
anche per chi volutamente si rimpinzasse del peggiore cibo spazzatura.

Una causa più probabile di un simile aumento di peso è correlata con l’accumulo di carboidrati
e acqua. Un regime alimentare low-carb comporta in genere che il corpo abbia minori scorte
di un carburante chiamato glicogeno (un tipo di amido), che si trova principalmente nel fegato e
nei muscoli. Mangiando un piattone di carboidrati, il corpo trattiene del glicogeno e dell’acqua
in più (una molecola di glicogeno attrae e ne porta con sé quattro di acqua). Un pizzico di sale
aggiunto non contribuisce a migliorare la situazione, poiché favorisce la ritenzione idrica.

In sostanza, uno strappo alla regola determina un improvviso aumento di peso. La notizia
positiva è che non appena si ricomincia a mangiare in modo sano, tale aumento scompare con
la stessa velocità con cui era apparso.

Via libera all’esercizio fisico

L’esercizio fisico, come il cibo, è un ambito verso cui si possono sviluppare degli “anticorpi
mentali”. Per esempio, magari siamo cresciuti in un ambiente scolastico dove l’attività fisica era
usata come punizione. O forse abbiamo praticato degli sport che ci hanno sfinito o addirittura, a
causa loro, ci siamo fatti male. Se avete alzato delle barriere mentali nei confronti dell’attività
fisica, la buona notizia è che la musica è cambiata.

Indipendentemente dalle vostre esperienze passate, rallegratevi del fatto che una camminata di
20-30 minuti all’ora di pranzo non può farvi che bene. Neppure l’allenamento di 12 minuti
illustrato nel capitolo precedente deve provocarvi un tuffo al cuore. In effetti, con il passare del
tempo, è probabile che vi farà molto piacere notare i progressi fatti grazie a quei 12 minuti.
Anche se decidete di andare oltre e dedicarvi, per esempio, all’HIIE, il segreto è di vedere lo
sport sotto una luce positiva, considerarlo un’attività divertente e fattibile.

TENETE UN DIARIO

Un metodo efficace per mantenere le buone abitudini alimentari consiste nel tenere un diario.
Scrivete quotidianamente sul computer o sul telefonino ciò che avete mangiato e bevuto nel
corso della giornata. Questo semplice atto basterà a farvi sentire più responsabili delle vostre
azioni, rendendo meno probabile una ricaduta nei vecchi errori. Un altro modo per tenere
conto dell’apporto quotidiano di cibo è di fotografare tutto ciò che mangiate e bevete.

Contemporaneamente, è opportuno prendere nota dell’attività fisica svolta. È davvero una


grande soddisfazione, nonché una spinta ad andare avanti, leggere in seguito il resoconto dei
vostri sforzi.

“Dieta” è una parola di cinque lettere


A molte persone la parola “dieta” fa venire in mente l’immagine di regimi alimentari privativi,
insostenibili, che possono andar bene al massimo per un paio di giri nel grande valzer della
perdita di peso. Vi esorto caldamente a non considerare una “dieta” i consigli nutrizionali forniti
in questo libro. Si tratta, invece, di un modo di alimentarsi fondamentalmente sano che
rispecchia la dieta con cui ci siamo evoluti ed è in accordo con la fisiologia del nostro corpo. È
un approccio che permette di controllare il peso e migliorare la salute, senza restrizioni
caloriche, controllo delle porzioni o attività fisica massacrante, quali forse avete sperimentato
in passato. Se metterete in pratica tali princìpi, non c’è motivo per cui i vantaggi di cui godrete
non debbano durare per sempre.

Però non c’è bisogno di esagerare. So che molti di noi non si decidono a cambiare sul serio
finché non vedono dei risultati tangibili. Di conseguenza, vi consiglio di fare un esperimento
della durata di trenta giorni: sono più che sufficienti per vedere i vantaggi collegati allo stile di
vita illustrato in questo libro. Spetta a voi giudicare i progressi compiuti, ma fra i possibili
cambiamenti rilevabili troviamo:

Riduzione del girovita.


Taglia e forma dei vestiti, oltre al fatto che riuscirete a indossare abiti che prima vi
andavano stretti.
Chili persi.
Sensazione di maggior energia e vitalità.
Una migliore forma fisica, evidente soprattutto quando siete in movimento o praticate
sport.
La soddisfazione provata di fronte al netto cambiamento del vostro aspetto fisico.
I complimenti degli altri, che noteranno il miglioramento del vostro aspetto.
Maggiore autostima.
Più fiducia nella vostra capacità di avere il controllo del peso e della salute.

In base alla mia esperienza, la maggior parte della gente che salta il fosso rimane
piacevolmente sorpresa dal miglioramento riscontrato e dai progressi compiuti nel giro di un
mese, oltretutto con facilità incredibile. Da quel momento in poi, mantenere la rotta diventa in
genere un gioco da ragazzi.

Andando avanti, siate certi che mangerete nel modo che in fondo avete sempre voluto. Una
dieta ispirata al nostro passato nutrizionale è ciò che rende questo tipo di alimentazione a
prova di futuro. Le diete alla moda vanno e vengono, ma potete contare sul fatto che la vostra
alimentazione è basata non solo sulla scienza, ma anche sul buon senso.

In sintesi
Un atteggiamento positivo porta dei benefici concreti al corpo in termini di peso e salute.
Vedere e percepire i cambiamenti positivi che desiderate, agendo in accordo con loro,
accelera i progressi.
Non preoccupatevi di saltuari scivoloni e strappi alla regola: è ciò che mangiate per la
maggior parte del tempo che conta.
A lungo termine l’80 percento della vostra dieta dev’essere costituito da cibi “concessi
liberamente”.
Anche considerare il cibo e l’attività fisica sotto una luce positiva contribuisce al
processo di cambiamento.
Non considerate i nostri consigli come una “dieta”, bensì come un approccio provato e
sperimentato per perdere peso e migliorare il benessere generale, che si può applicare
per sempre.
Questo ebook appartiene a Gabriella Tuninetti - sentierodorato@gmail.com Edito da Newton
Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
Capitolo 24

DIMAGRISCI SUBITO MANGIANDO… IN PILLOLE

Dimagrisci subito mangiando contiene molti consigli e informazioni. Per facilitarvi le cose, ho
riassunto tutto il libro in questo capitolo, che funge da promemoria dei concetti essenziali
presentati nel testo, suddivisi in “da fare” e “da evitare”.

Varie cose da evitare aiutano a capire perché le diete tradizionali basate sulle calorie si rivelano
così poco efficaci e perché vi hanno deluso in passato. Tenete ben presenti queste trappole, ma
non perdeteci troppo tempo.

Il mio consiglio è di dedicare i vostri sforzi alle cose “da fare”: quando ci si concentra su ciò che
funziona, non c’è bisogno di preoccuparsi di quello che non va.

Da evitare

Non riducete volontariamente le calorie

Una conseguenza di questo approccio è, nel tempo, un rallentamento del metabolismo che
rende sempre più difficile dimagrire, anche quando il peso è ben superiore a livelli accettabili
per la salute. Un altro effetto collaterale della restrizione volontaria delle calorie è la fame, che
rende tale pratica virtualmente insostenibile sulla lunga distanza.

Non seguite un regime ipolipidico

Il grasso in sé non fa necessariamente aumentare di peso e le diete ipolipidiche si sono


dimostrate poco efficaci per quanto riguarda il dimagrimento.

I regimi poveri di grassi pongono l’accento sui carboidrati, i quali stimolano la produzione di
insulina, l’ormone maggiormente responsabile dell’accumulo di grasso nel corpo.

Non arrivate a soffrire troppo la fame

Molti pensano che la fame sia un requisito necessario per perdere peso. In realtà, rende difficile
compiere scelte salutari e pregiudica il successo dei tentativi di perdere peso.

Non impegnatevi in un’attività aerobica prolungata

L’esercizio aerobico (come correre, andare in bicicletta, vogare) è positivo per la salute, però ha
un esito limitato sulla perdita di peso. Queste attività, in effetti, non comportano un consumo
rapido di calorie e oltretutto tendono a stimolare la fame.

Non giudicate il peso sulla base dell’indice di massa corporea (IMC)

L’IMC indica il rapporto tra peso e altezza, ma non dice nulla sulla composizione del corpo o
sulla distribuzione dei chili. Il vero problema è l’eccesso di grasso dentro e intorno all’addome
(obesità addominale).

Non concentratevi sul livello di colesterolo

A questo fattore è stata attribuita un’eccessiva importanza.

Non date retta a messaggi pubblicitari scorretti o fuorvianti

State alla larga da cibi definiti “light”, “a basso contenuto di grassi”, “colesterolo zero”, “con
poche calorie” eccetera, di fatto estremamente sospetti. Si tratta di messaggi ingannevoli ed è
molto improbabile che questi cibi possano aiutarvi a raggiungere il vostro obiettivo.

Non andate a fare la spesa con un buco allo stomaco

Questo significa proprio andarsela a cercare!

Non colpevolizzatevi per qualche saltuario strappo alla regola

Inquadrate queste incursioni nei cibi nocivi nel complesso della vostra dieta.

Un’alimentazione sana non significa “o tutto, o niente”.

Non chiamate “dieta” le modifiche apportate nella vostra alimentazione

Nella maggior parte dei casi, la parola “dieta” evoca immagini di restrizione, fame, privazione e
insostenibilità, idee che in questo contesto non hanno ragione di essere.

Da fare
Focalizzatevi non sulla quantità di cibo ingerito, bensì sulla qualità.
Fate in modo che minimo l’80 percento della vostra alimentazione consista in cibi
“primitivi”, naturali e non lavorati, come carne, pesce, uova, frutta secca, semi, verdura
priva di amidi e alcuni tipi di frutta.
Date più importanza ai grassi e meno ai carboidrati, a differenza di quanto
tradizionalmente consigliato.
Tenete sotto controllo l’appetito: su una scala di dieci, la fame dev’essere a livello sei o
sette.
Ricordate che, meno siete affamati, più chili riuscirete a perdere.
Mangiate con attenzione, masticate con cura e assaporate il cibo.
Restate ben idratati: tenere sempre dell’acqua con sé aiuta molto.
Camminate regolarmente, aggiungendo brevi sessioni di esercizi di resistenza.
Per velocizzare la perdita di peso, prendete in considerazione il digiuno intermittente e
l’HIIE.
Visualizzate un’immagine positiva dei risultati che volete raggiungere e agite di
conseguenza.
Considerate i cambiamenti fatti per ciò che sono: scelte piacevoli e praticabili in grado di
avere un effetto positivo sul peso e sul benessere generale.
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Capitolo 25

STORIE DI VITA VERA

Le prime due settimane di applicazione dei consigli dietetici del dottor Briffa sono state le più
impegnative, poiché ho dovuto diminuire drasticamente l’apporto di carboidrati, che
costituivano il grosso della mia alimentazione. Ma il mio corpo si è adattato in fretta e le
porzioni sono calate a una velocità incredibile. Nelle 6-8 settimane di applicazione dei consigli
dietetici del dottor Briffa sono passato da circa 86 kg a circa 75 kg. Sono dimagrito soprattutto
nella parte superiore del corpo e in particolare nel girovita (calato di 7,5 cm).

Non è soltanto la perdita di peso a rendere valido questo modo di mangiare: ho molta più
energia e anche il sonno ne ha giovato. Parenti e amici sono stati i primi a notare quanto fosse
migliorato il mio aspetto fisico: non solo ero dimagrito, ma i miei occhi avevano un’altra luce.
Non mi sono mai sentito meglio, a livello psico-fisico, da quando sono diventato adulto.

Calum Beatt

Mangiare come suggerisce il dottor Briffa mi ha portato a essere più vigile, oltre a migliorare
concentrazione e determinazione. Ogni mattina salto giù dal letto con entusiasmo, pronto ad
affrontare una nuova giornata.

Due mattine alla settimana frequento un corso di spinning che ha migliorato la mia forma fisica
e un problema al ginocchio. Ma sarò sincero: senza questa disposizione d’animo più
propositiva, probabilmente me ne sarei rimasto a letto.

Consiglio anche agli altri ciò che sto facendo io. Ho un amico che ha deciso di “mettere su
massa” e così ha iniziato a fare moltissimi esercizi con i pesi in palestra. Gli è venuta una fame
da lupi, ha mangiato quintali di carboidrati ed è ingrassato. Ho fatto una chiacchierata con lui e
gli ho mostrato le foto del prima e del dopo; credo di averlo convinto che eliminare i carboidrati
e liberarsi del grasso per mostrare tutta la sua muscolatura tonica sia la via giusta.

Gareth Irvine

Da ragazzo, sono sempre stato alto e magro, quasi uno spilungone; un tipo, per intenderci, alla
Rupert Everett. Non ho mai praticato troppa attività fisica, benché mi piacesse camminare e
andare in bicicletta. Mangiavo in un modo che ritenevo equilibrato, bevevo alcol con
moderazione, e peso e girovita erano stabili: 80 kg circa e 80 cm. Non posso dire di aver mai
dato grande importanza al peso, alla dieta e al mio benessere in generale.

Questa situazione è andata avanti fino ai 35 anni, più o meno. Quando ho cominciato a usare di
più la macchina, molto meno a camminare e ad andare in bicicletta. Ho iniziato ad allargare la
cintura, a comprare vestiti più ampi e sempre più spesso dovevo sedermi per allacciare le
stringhe delle scarpe!

Verso i quarantacinque anni avevo un bel salvagente intorno alla vita e il doppio mento. Il peso
era schizzato fino a 95 kg e portavo la taglia cinquantasei di pantaloni (con la pancia che
sporgeva oltre la cintura!).

All’epoca non ero affatto felice. Mi sentivo spesso apatico, privo di forza e motivazione, anche
se paradossalmente dormivo male. Di notte soffrivo di indigestione, al minimo sforzo mi
mancava il fiato ed ebbi un calo della libido. Ma l’aspetto forse più preoccupante, per me e la
mia famiglia, erano gli sbalzi di umore e l’irritabilità. A un certo punto, mi resi conto che era
necessario agire e cambiare, benché fossi riluttante all’idea di dover fare diete e rinunce.
Sperimentai i soliti percorsi “pochi grassi e poche calorie”, oltre a iscrivermi più volte in
palestra, ma senza risultati. Questi tentativi diedero scarsi risultati, se non lasciarmi affamato,
stanco e depresso, mentre la pancia restava lì dov’era. Mi convinsi dunque che si trattava di
cambiamenti inevitabili legati alla mezza età.

Poi un giorno lessi su un quotidiano un articolo del dottor Briffa sulla perdita di peso. Poiché le
sue tesi mi sembravano convincenti e corroborate da un’ampia base scientifica, andai ad
acquistare uno dei suoi libri. Trassi nuova fiducia dalla spiegazione dei motivi per cui le
precedenti diete non avevano funzionato.

Decisi che avrei fatto almeno un tentativo. Ma il cinico che c’è in me voleva anche mettere alla
prova questa dieta: seguii scrupolosamente le modifiche alimentari suggerite nel libro, ma non
feci nulla sul piano fisico e non eliminai del tutto l’alcol. Lasciai perdere la birra, ma continuai a
bere vino, soprattutto rosso.

Be’, i risultati furono impressionanti: con pochi sforzi e senza veri sacrifici, passai dai 95 kg
iniziali a circa 80 in sole 5 settimane. Persi quasi solo grasso addominale, benché i risultati si
vedessero in tutto il corpo. Per quanto fosse bello notare che il grasso era diminuito e l’ago
della bilancia era sceso, i veri benefici per me sono a livello molto più profondo.

Mi sento più energico, più a mio agio “nella mia pelle” rispetto a prima. Il feedback, i commenti
e i complimenti da parte degli altri hanno accresciuto la mia autostima. Mi rendo conto che
l’umore è migliorato e mi sento più tranquillo, meno irritabile; inoltre ho un atteggiamento
generalmente più positivo nei confronti del prossimo. Oh, anche i problemi sotto le lenzuola
sono spariti!

Non penso di avere una particolare forza di volontà, ma i risultati ottenuti con questo sistema
mi hanno spinto a continuare. Si tratta di un approccio semplice, intuitivo e facile da seguire.
Senza contare che non mi considero affatto “a dieta”.

Paul O’Rourke

È solo da poco più di un anno che abbiamo deciso di seguire i consigli alimentari del dottor
Briffa (non riusciamo proprio a chiamarli “dieta”) e non vediamo per quale motivo dovremmo
smettere. Non si tratta di una dieta nel senso tradizionale del termine: non ci sono rinunce,
porzioni ridotte, pasti da saltare, ma soprattutto non si patisce la fame.

All’inizio è stata un po’ una sfida riempire il vuoto lasciato dalle patate nel piatto e dal pane
fatto in casa, ma ci siamo riusciti. In effetti, adesso abbiamo un menu più sano e creativo. A
questo punto, il problema non si pone neanche più.

Mio marito Geoff ha perso 6 kg e 8 cm di girovita in circa 6 mesi senza nessun’altra modifica al
suo stile di vita. Dal canto mio, non avevo bisogno di perdere peso: ho deciso di cambiare
perché gestire la situazione sarebbe stato più facile se avessimo mangiato entrambi le stesse
cose. Non potevo immaginare quali miglioramenti avrei sperimentato in termini di energia e
anche di umore. Niente fiacca, niente gonfiore, zero sonnolenza dopo pranzo.

Dal punto di vista sociale è più facile di quanto non sembri. Abbiamo viaggiato senza problemi
in Germania e negli Stati Uniti, ci siamo goduti una vacanza in Portogallo e perfino un cenone
natalizio in stile irlandese (eccetto le patate arrosto).

Una volta entrati nel ritmo, è davvero facile e ci si sente spronati a continuare. Questo
approccio è una soluzione brillante al “crollo” della mezza età: è semplice e lo consigliamo a
tutti.

Ursula e Geoff Kirk

Avendo combattuto con il sovrappeso per gran parte dei miei cinquantacinque anni, mi ero
quasi rassegnato al fatto che il mio destino fosse quello: non proprio obeso, ma senza dubbio
sovrappeso e in genere privo di forza. Essendo un pilota, ogni anno dovevo sostenere una visita
medica: all’ultima, mi trovarono la pressione a 138/96 e un peso di quasi 110 kg. Mi
consigliarono di mangiare meno e fare più esercizio.

Poco dopo lessi un articolo sul giornale che parlava dei risultati ottenuti grazie ai consigli
alimentari del dottor Briffa.

Concentrandomi su ciò che mangiavo, fu chiaro che, pur essendo un’alimentazione “sana”
(niente cibo spazzatura, né bevande zuccherate), comprendeva grandi quantità di pane, pasta e
patate. Bastò eliminare i carboidrati per due giorni per sentirmi subito molto meglio: fu una
assoluta rivelazione. Pur non avendoli eliminati del tutto, i carboidrati hanno molta meno
importanza nella mia dieta.

Non ebbi problemi a seguire questo regime alimentare. 3 mesi dopo, avevo perso quasi 20 kg e
il girovita era passato da 110 a 88 cm. La pressione era scesa a 121/84.

Ormai ho cambiato alimentazione da 9 mesi e il mio peso oscilla intorno ai 90 kg, ma lo


controllo solo una volta al mese. Se sgarro, me ne accorgo subito dai vestiti e, se percepisco di
essere sulla strada sbagliata, mi limito a correggere la quantità di cibo, oppure evito quel
bicchiere in più di vino.

Fra gli effetti positivi che ho notato, riesco a dormire meglio e mi sveglio più riposato; quel
senso di torpore che credevo facesse parte del mio corredo genetico è scomparso. E poi è
davvero bello sentire i complimenti di persone che, non vedendomi da un po’ di tempo, notano
quanto sono dimagrito e come sto bene.

John

A trentotto anni ero grassa come mai prima. Gli amici ci scherzavano su, ma dentro di me stavo
malissimo e pensavo che non ce l’avrei mai fatta a dimagrire. Dall’età di undici anni ho provato
innumerevoli diete; alcune comprendevano sessioni in palestra, alcune erano drastiche e altre
francamente stupide, ma ero disposta a sperimentare qualsiasi cosa pur di non essere la
“grassona”. Ogni dieta funzionava nell’immediato, ma nulla di ciò che sperimentai si rivelò
davvero utile. Ero vittima del tipico effetto yo-yo: perdevo un po’ di peso, poi ne rimettevo su
altrettanto e pure qualcosa in più, fino a ritrovarmi “patologicamente obesa” e molto, molto
infelice.

Un giorno, in libreria, mi ritrovai fra le mani un volume del dottor Briffa: lessi al volo alcune
pagine e lo comprai.

All’inizio confesso che sentii la mancanza di pane, pasta, patate, eccetera, ma nel giro di poco
tempo il desiderio di questi cibi scomparve; inoltre, scoprii di sentirmi meno stanca. Soffrivo
anche di terribili bruciori di stomaco, che tuttavia scomparvero non appena cambiai
alimentazione. Ero davvero sorpresa di non avere fame: ogni dieta sperimentata in precedenza
mi faceva stare malissimo, come se mi portassero via il cibo.
Non sono mai stata una patita della palestra: lo sport mi ha fatto sempre sentire a disagio, fuori
posto. Adesso, sulla base dei consigli del dottor Briffa, scenderò a una fermata prima della
metropolitana mentre vado al lavoro: è una camminata di un quarto d’ora all’inizio e al termine
della giornata.

Ho perso in totale oltre 50 kg, che equivalgono a meno 50 cm di girovita, 25 cm di seno e 25 cm


di fianchi. Sono molto più felice, ho la sensazione di essere io a tenere sotto controllo la mia
alimentazione e non più viceversa.

Dal punto di vista medico, so che questa perdita di peso comporta numerosi vantaggi, ma
essendo una donna che tiene all’aspetto fisico, il beneficio aggiunto di poter comprare abiti nei
negozi normali (e non più solo, quelli per taglie forti), di guardarmi allo specchio e pensare “mi
piaccio proprio” ha portato la mia autostima alle stelle. Molta gente mi fa i complimenti per i
chili che ho perso, e per me è una vera gioia sentirli. Mi sono fotografata nel giorno in cui ho
iniziato a seguire i consigli del dottor Briffa e ora, quando guardo indietro, la foto mi dice quanti
passi ho compiuto e mi aiuta a puntare a un futuro all’insegna della magrezza, della forma fisica
e della salute.

N.C.

Quando i miei figli hanno cominciato a chiamarmi “panzone”, ho capito che le cose dovevano
cambiare. Un Natale ho avuto una di quelle illuminazioni che ogni tanto mi colgono quando mi
capita di guardarmi allo specchio. Sapevo di aver messo su un bel po’ di peso, ma non mi ero
mai reso conto di quanto fosse drammatica la situazione. Io l’avevo ignorata a lungo, ma i miei
figli no.

Non avevo nessuna intenzione di eliminare il cioccolato, mettermi a dieta o andare in palestra
due volte per poi non tornarci più. Mi capitò fra le mani il libro del dottor Briffa, lo comprai e ne
rimasi folgorato.

M’imbarcai nel nuovo regime alimentare partendo da un peso di 101 kg e un girovita di 101 cm.
Dopo pochi mesi, avevo perso 10 kg e 10 cm in vita.

Ho cambiato definitivamente il mio modo di mangiare e bere, e mi piace moltissimo poiché non
mi sento in alcun modo limitato (ogni tanto mi concedo ancora una pizza o un sacchetto di
patatine). Ho più forza, soprattutto a metà pomeriggio, mentre prima mi capitava di essere
fiacco più o meno verso le quattordici.

È stato bellissimo capire come il corpo metabolizza i vari cibi e rinnegare molte delle mie
passate convinzioni, in modo da ristabilire un rapporto sano con il cibo.

Nel complesso, si è rivelato un viaggio fantastico. Tutti hanno notato il mio dimagrimento, io mi
sento alla grande e ho più energia. Ma soprattutto, i miei figli non mi chiamano più “panzone”.

Matt Edmundson

Scoprire i consigli alimentari del dottor Briffa e metterli in pratica ha rappresentato una svolta
epocale nella mia vita. Ho abbracciato le sue idee fin dal primo giorno. In particolare, mi
piaceva il fatto di non dover limitare il cibo (pur lasciando perdere i carboidrati) e di non patire
la fame.

I precedenti tentativi di seguire una dieta erano miseramente falliti quando comparivano gli
attacchi di fame, che annientavano la mia forza di volontà. Decisi che questa volta le cose
sarebbero andate altrimenti e m’imposi l’obiettivo di perdere almeno 9 kg e 8 cm di girovita.
Nel giro di tre mesi, raggiunsi entrambi i traguardi.

Sono molto contento del mio peso, delle misure del girovita e di come mi sento in generale. Mi
godo il cibo e non provo alcun senso di rinuncia. All’inizio mi preoccupava l’idea che la grande
quantità di grassi presenti nella mia dieta, sotto forma di uova, carne e formaggio, potesse
avere effetti negativi sul colesterolo, ma così non è stato, anzi: sono migliorati!

Oltre a dimagrire, ho visto un miglioramento in termini di energia e benessere. In precedenza


giocavo di tanto in tanto a golf e, dopo diciotto buche, mi sentivo esausto. Ora faccio lo stesso
numero di buche due volte alla settimana senza avvertire alcuna stanchezza. Per quanto mi
riguarda, non intendo tornare indietro.

Liam Ward

Quando adottai il regime alimentare del dottor Briffa, rimasi stupito dal fatto di non provare
fame e di non ritrovarmi con il cervello in pappa. Un altro effetto palese fu la scomparsa dei
bruschi cali di energia a metà mattina e metà pomeriggio, che mi spingevano a mangiare
qualcosa di dolce per tirarmi su. Le mie forze erano molto più stabili e concordai in pieno con
l’idea di non arrivare affamati all’ora del pasto. Ogni giorno cerco di mangiare della frutta secca
intorno alle undici del mattino, per essere certo di non abbuffarmi a pranzo. Non sento affatto
la mancanza dei pesanti pasti ricchi di carboidrati; adesso, se mi capita di mangiarne, mi sento
gonfio, stanco e apatico.

Alimentarmi in questo modo equivale ad avere molta più energia e nessuno dei momenti di
stanchezza che mi colpivano prima. Non sono mai stato realmente grasso, ma ho perso peso a
livello dell’addome e ho un atteggiamento più positivo, più fiducioso. Il mio lavoro comporta
molti incontri e presentazioni: sentirmi più leggero ha migliorato anche la fiducia in me stesso.

Concordo appieno con l’affermazione che “questa non è una dieta”. Dal mio punto di vista, le
diete sono inutili e “essere a dieta” dà l’idea di un vicolo cieco. La maggior parte delle diete
semplicemente non è fattibile, soprattutto quelle sperimentate dai miei amici. Questo è un
cambio di stile di vita e l’ho abbracciato in toto. Non mangio più pane, pasta e riso, ma non ho
voluto sentire ragioni per quanto riguarda una birra ogni tanto. Non sono un gran bevitore, ma
la pinta del venerdì sera ci vuole! Ho dovuto stamparmi in mente che, se talvolta si sgarra e si
mangiano carboidrati – impossibili da evitare al ristorante o a cena a casa di amici – non c’è
nulla di cui preoccuparsi. Basta seguire il regime alimentare per almeno l’80 percento del
tempo.

Mark Sumner

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Compton Editori Acquistato il 18/10/2013 0.16.44 con numero d'ordine 535804
NOTE

Capitolo 1
1 M.L. Skender et al., Comparison of 2-year weight loss trends in behavioral treatments of

obesity: diet, exercise, and combination interventions, in «J Am Diet Assoc», 96, 1996, pp. 342-
346.
2 T.A. Wadden et al., Exercise and the maintenance of weight loss: 1-year follow-up of a
controlled clinical trial, in «J Cons Clin Psych», 66, 1998, pp. 429-433.
3 R.R.Wing et al., Lifestyle intervention in overweight individuals with a family history of
diabetes, in «Diabetes Care», 21, 1998, pp. 350-359.
4 H.K. Brekke et al., Long-term (1- and 2-year) effects of lifestyle intervention in type 2 diabetes
relatives, in «Diabetes Res Clin Pract», 70, 2005, pp. 225-234.
5 T. Wu et al., Long-term effectiveness of diet-plus-exercise interventions vs diet-only
interventions for weight loss: a meta-analysis, in «Obesity Reviews», 10, 2009, pp. 313-323.

 K. Shaw et al., Exercise for overweight or obesity, in «Cochrane Database of Systematic
6

Reviews», 2006, n. 4. Art. No.: CD003817.

Capitolo 2
1 Prospective Studies Collaboration. Body-mass index and cause-specific mortality in 900,000

adults: collaborative analyses of 57 prospective studies, in «Lancet», 28, 373 (9669), 2009, pp.
1083-1096.
2 T. Pischon et al., General and abdominal adiposity and risk of death in Europe, in «NEJM», 358
(20), 2008, pp. 2105-2120.
3
 K.M. Flegal et al., Cause-specific excess deaths associated with underweight, overweight, and
obesity, in «JAMA», 298 (17), 2007, pp. 2028-2037.
4 H.M. Orpana et al., BMI and mortality: results from a national longitudinal study of canadian
adults, in «Obesity», 18 (1), 2010, pp. 214-218.
5 A. Berrington de Gonzalez et al., Body-mass index and mortality among 1.46 million white
adults, in «N Engl J Med», 363 (23), 2010, pp. 2211-2219.
6
 A. Tamakoshi et al., BMI and all-cause mortality among Japanese older adults: findings from
the Japan collaborative cohort study, in «Obesity» (Silver Spring), 18 (2), 2010, pp. 362-369.
7 J.M. Kvamme et al., Body mass index and mortality in elderly men and women: the Tromso
and HUNT studies, in «J Epidemiol Community Health», 14 febbraio 2011 [pubblicato in ebook
prima che in cartaceo].
8 L. Flicker et al., Body mass index and survival in men and women aged 70 to 75, in «Journal of
the American Geriatrics Society», 58 (2), 2010, pp. 234-241.
9 K.M. Flegal et al., Reverse causation and illness-related weight loss in observational studies of
body weight and mortality, in «Am J Epidemiol», 173 (1), 2011, pp. 1-9.

 O. Bouillanne et al., Fat mass protects hospitalized elderly persons against morbidity and
10

mortality, in «Am J Clin Nutr», 90 (3), 2009, pp. 505-510.


Capitolo 3
1 A. Onat
et al., Measures of abdominal obesity assessed for visceral adiposity and relation to
coronary risk, in «Int J Obes Relat Metab Disord», 28 (8), 2004, pp. 1018-1025.
2 S. Feller et al., Body mass index, waist circumference, and risk of type 2 diabetes mellitus, in
«Dtsch Arztebl Int», 107 (26), 2010, pp. 470-476.
3 D. Canoy, Distribution of body fat and risk of coronary heart disease in men and women, in
«Curr Opin Cardiol», 23 (6), 2008, pp. 591-598.
4 T. Pischon et al., General and abdominal adiposity and risk of death in Europe, in «NEJM», 358
(20), 2008, pp. 2105-2120.

 T.L. Berentzen, Changes in waist circumference and mortality in middle-aged men and
5

women, in «PLoS One», 5 (9), 2010, parte II, e13097.


6 R.A. Whitmer et al., Central obesity and increased risk of dementia more than three decades
later, in «Neurology», 71 (14), 2008, pp. 1057-1064.
7 D. Tanne, Impaired glucose metabolism and cerebrovascular diseases, in E.Z. Fisman e A.
Tenenbaum (a cura di), Cardiovascular diabetology: clinical, metabolic and inflammatory
facets, in «Advances in Cardiology», 45, 2008, pp. 107-113.
8 A. Seneff et al., Nutrition and Alzheimer’s disease: the detrimental role of a high carbohydrate
diet, in «Eur J Int Med», 22, 2011, pp. 134-140.

Capitolo 4
1 A. Keys et al., The Biology of Human Starvation, 2 voll., The University of Minnesota Press,

Minneapolis 1950.
2
 M. Apfelbaum et al., Effect of caloric restriction and excessive caloric intake on energy
expenditure, in «Am J Clin Nutr», 24, 1971, pp. 1405-1409.
3 R.L. Leibel et al., Changes in energy expenditure resulting from altered body weight, in «N
Engl J Med», 332, 1995, pp. 621-628.
4 A.G. Dulloo et al., Adaptive reduction in basal metabolic rate in response to food deprivation
in humans: a role for feedback signals from fat stores, in «Am J Clin Nutr», 68 (3), 1998, pp. 599-
606.
5 A. Astrup et al., Low resting metabolic rate in subjects predisposed to obesity: a role for
thyroid status, in «Am J Clin Nutr», 63 (6), 1996, pp. 879-883.
6
 B.E. Wolfe et al., Effect of dieting on plasma leptin, soluble leptin receptor, adiponectin and
resistin levels in healthy volunteers, in «Clin Endocrinol (Oxford)», 61 (3), 2004, pp. 332-338.
7 L.M. Redman et al., Metabolic and behavioral compensations in response to caloric
restriction: implications for the maintenance of weight loss, in «PLoS One», 4 (2), 2009, e4377.
8 C. Weyer et al., Energy metabolism after two years of energy restriction: the biosphere 2
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hedonic wanting for food, in «Physiology & Behavior», 97 (1), 2009, pp. 62-67.
3 M.I. Goran et al., Endurance training does not enhance total energy expenditure in healthy
elderly persons, in «Am J Physiol», 263, 1992, pp. 950-957.
4 E.P. Meijer et al., Effect of exercise training on total daily physical activity in elderly humans,
in «Eur J Appl Physiol Occup Physiol», 80, 1999, pp. 16-21.
5 B. Morio et al., Effects of 14 weeks of progressive endurance training on energy expenditure
in elderly people, in «Br J Nutr», 80, 1998, pp. 511-519.

 E. Manthou et al., Behavioral compensatory adjustments to exercise training in overweight


6

women, in «Medicine & Science in Sports & Exercise», 42 (6), 2010, pp. 1121-1128.
7 B.S. Metcalf et al., Fatness leads to inactivity, but inactivity does not lead to fatness: a
longitudinal study in children (EarlyBird 45), in «Arch Dis Chil», 96 (10), 2011, pp. 942-947.
8 V.A. Catenacci et al., The role of physical activity in producing and maintaining weight loss, in
«Nat Clin Pract Endocrinol Metab», 3 (7), 2007, pp. 518-529.
9 G.J. Van der Heijden et al., A 12-week aerobic exercise program reduces hepatic fat
accumulation and insulin resistance in obese, Hispanic adolescents, in «Obesity» (Silver Spring),
18 (2), 2010, pp. 384-390.
10 M.W. Voss et al., Plasticity of brain networks in a randomized intervention trial of exercise
training in older adults, in «Frontier in Aging Neuroscience», 26, 2010, p. 2.
11 M. Miyashita et al., Accumulating short bouts of brisk walking reduces postprandial plasma
triacylglycerol concentrations and resting blood pressure in healthy young men, in «Am J Clin
Nutr», 88 (5), 2008, pp. 1225-1231.

 W.D. Schmidt et al., Effects of long versus short bout exercise on fitness and weight loss in
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overweight females, in «J Am Coll Nutr», 20 (5), 2001, pp. 494-501.

 D.M. Bravata et al., Using pedometers to increase physical activity and improve health: a
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systematic review, in «JAMA», 298 (19), 2007, pp. 2296-2304.


14 T.P. Wycherley et al., A high-protein diet with resistance exercise training improves weight
loss and body composition in overweight and obese patients with type 2 diabetes, in «Diabetes
Care», 33 (5), 2010, pp. 969-976.

 A. Geliebter et al., Effects of strength or aerobic training on body composition, resting
15

metabolic rate, and peak oxygen consumption in obese dieting subjects, in «Am J Clin Nutr», 66
(3), 1997, pp. 557-563.
16  P. Stiegler et al., The role of diet and exercise for the maintenance of fat-free mass and
resting metabolic rate during weight loss, in «Sports Med», 36 (3), 2006, pp. 239-262.
17  S.D. Phinney, Ketogenic diets and physical performance, in «Nutr Metab (Lond)», 1, 2004.

Capitolo 22
1 M.N. Harvie et al., The effects of intermittent or continuous energy restriction on weight loss

and metabolic disease risk markers: a randomized trial in young overweight women, in «Int J
Obes (Lond)», 5 ottobre 2010, 118 (5), pp. 111-125.
2 K.A. Varady, Intermittent versus daily calorie restriction: which diet regimen is more effective
for weight loss?, in «Obesity Reviews», prima pubblicazione on line: 16 marzo 2011.
3 S.H. Boutcher et al., High-intensity intermittent exercise and fat loss, in «Journal of Obesity»,
12 (7), 2011, pp. e593-601.
4 E.G. Trapp et al., The effects of high-intensity intermittent exercise training on fat loss and
fasting insulin levels of young women, in «Int J Obes (Lond)», 32(4), 2008, pp. 684-691.
5 A.E. Tjønna et al., Aerobic interval training versus continuous moderate exercise as a
treatment for the metabolic syndrome: a pilot study, in «Circulation», 118 (4), 2008, pp. 346-
354.
6 A.E. Tjønna et al., Aerobic interval training reduces cardiovascular risk factors more than a
multitreatment approach in overweight adolescents, in «Clinical Science», 116 (4), 2009, pp.
317-326.

Capitolo 23
1 A.J. Crum et al., Mind-set matters: exercise and the placebo effect, in «Psychol Sci», 18 (2),

2007, pp. 165-171.

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RINGRAZIAMENTI

Voglio ringraziare Robert Kirby, il mio fantastico agente, perché è una persona meravigliosa con
cui lavorare e un vero amico.

Il dottor Peter Robbins, Nicky Chapman, Glenn Whitney e Sara Neill, ciascuno dei quali ha fatto
commenti di valore inestimabile ed estremamente apprezzati sulle bozze del libro. Il risultato
finale è decisamente migliore grazie ai loro suggerimenti.

Richard Collins, il mio editor, per aver dato al libro un ultimo tocco davvero necessario.

Chris Williams, Chris Swain, Charlie Cannon e Matt Blakely, per l’aiuto e i consigli relativi agli
esercizi proposti nel capitolo 21.

I miei genitori – il dottor Joseph Briffa e la dottoressa Dorothy Burgess – per l’amore, il
sostegno e l’incoraggiamento inesauribili.

E Sandra, per l’amore, la gentilezza, il sostegno e la comprensione.

Vorrei inoltre ringraziare i ricercatori, scrittori e blogger che hanno dato il loro contributo al
tema, ampliando il mio grado di conoscenza e comprensione.

Nella sezione Fonti trovate un elenco degli autori e dei blogger che leggo regolarmente e
consiglio.

Contatti:

Il dottor Briffa risponde ai seguenti recapiti:

Woolaston House

17-19 View Road

Highgate

London

N6 4DJ

UK

Tel: +44 (0) 208 341 3422

Fax: +44 (0) 208 340 1376

Email: john@drbriffa.com

Sul suo sito (www.drbriffa.com) ci sono oltre 1000 blog post e podcast.

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FONTI

Mi piacerebbe che tutte le idee esposte nel libro fossero farina del mio sacco, ma in realtà si
tratta del compendio di una serie di princìpi provenienti da varie fonti. Alcune sono scaturite
dalla lettura dell’opera di autori e blogger specializzati.

Quello che segue è un elenco, senza un ordine particolare, dei blog che ho letto e seguito con
maggior regolarità.

Non posso dire di essere d’accordo con tutto quel che dicono, ma li ho trovati una grande fonte
di informazioni e ispirazione.

Dottor William Davis

Bill lavora come cardiologo negli Stati Uniti. Pur focalizzandosi sul corretto funzionamento del
cuore, il suo blog tratta una vasta gamma di argomenti inerenti la salute.

www.trackyourplaque.com/blog

Mark Sissons

Oltre a essere un ex maratoneta, Mark è uno strenuo sostenitore dello stile di vita “primario”,
in particolare per quanto riguarda dieta ed esercizio fisico. Il suo sito web è una grande fonte a
trecentosessanta gradi per chi cerca di tenere sotto controllo la propria salute.

www.marksdailyapple.com

Petro (Peter) Dobromylskyj

Peter è un veterinario che tiene un blog molto profondo e apprezzato, con un particolare
accento sulla nutrizione. È stato Peter ad aprirmi gli occhi sull’idea che un dimagrimento
efficace possa placare l’appetito e aiutare le persone a perdere peso senza patire la fame.

www.high-fat-nutrition.blogspot.com

Robb Wolf

Robb è autore di La paleo dieta (Sonzogno, 2011) e fautore di uno stile di vita che ricalchi
quello delle nostre origini.

www.robbwolf.com

Dottor Stephan Guyenet

Stephan svolge ricerche nel campo della neurobiologia, della regolazione del grasso corporeo e
dell’obesità. Il suo blog è ben documentato e piacevole da leggere. Il suo lavoro mi ha fatto
capire l’importanza della leptina nel controllo del peso.

www.wholehealthsource.blogspot.com

Jimmy Moore

Jimmy è un convinto sostenitore dell’alimentazione low-carb: i suoi blog e podcast mi hanno


fornito tantissime informazioni, oltre a farmi conoscere l’opera di altri blogger e ricercatori.

www.livinlavidalowcarb.com
Dottoressa Emily Deans

Emily è una psichiatra alla ricerca di «soluzioni evolutive ai problemi di salute mentale e
generale del XXI secolo».

www.evolutionarypsychiatry.blogspot.com

Angelo Coppola

Angelo è il responsabile dei podcast del blog Latest in Paleo, dove a intervalli regolari offre
informazioni utili e divertenti sulla dieta e sull’esercizio fisico.

È sempre interessante ascoltarlo.

www.latestinpaleo.com

Tom Naughton

Oltre a essere un attore, Tom è regista e sceneggiatore del documentario Fat Head.

Trovo che il suo blog sia divertente e istruttivo quasi in egual misura.

www.fathead-movie.com

Professor Richard Feinman

Richard è professore di Biochimica al Downstate Medical Center (SUNY) di New York. Le sue
pubblicazioni scientifiche mi sono state particolarmente utili per capire la potenziale capacità di
alcune diete di offrire vantaggi metabolici (vedi capitolo 7).

www.rdfeinman.wordpress.com

Gary Taubes

Gary è un pluripremiato autore scientifico, a cui si devono fra l’altro i best-seller Good Calories,
Bad Calories e Why We Get Fat.

www.garytaubes.com

Denise Minger

Denise ha cominciato a scrivere il suo blog per «confutare alcune false credenze sulla salute in
relazione all’alimentazione vegana e al crudismo». A mio parere, oltre a svelare alcune
menzogne, Denise conduce un’analisi puntuale ma divertente dei princìpi nutrizionali.

www.rawfoodsos.com

Chris Masterjohn

Chris si diverte a svelare la disinformazione e i falsi miti nel campo della nutrizione. Il suo è uno
sguardo obiettivo e sempre attento alla ricerca.

www.cholesterol-and-health.com

Richard Nikoley

Il blog di Richard, bello e irriverente, tratta di nutrizione ed esercizio fisico.


www.freetheanimal.com

Dottor Mike Eades

Mike è coautore (con sua moglie) del best-seller Protein Power. Il suo blog è una grande fonte
d’informazioni e di analisi delle prove relative a tutti gli aspetti della dieta e della nutrizione.

www.proteinpower.com

Todd Becker

Todd ha un passato da ingegnere e tiene un blog intelligente e provocatorio su una vasta


gamma di questioni inerenti la salute, fra cui la nutrizione.

www.gettingstronger.org

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INDICE

Copertina

Collana

Colophon

Frontespizio

Avvertenza

Come funziona questo libro: una panoramica

Introduzione

Come usare questo libro

1. Le diete non funzionano

2. Il paradosso dell’obesità

3. Il pericolo del girovita

4. Una questione “scottante”

5. Diete e fame

6. False credenze sulle diete povere di grassi

7. Una caloria è una caloria?

8. Placare la fame

9. Il ruolo dell’infiammazione

10. Diete alla prova

11. La dieta primitiva

12. La verità sui grassi

13. Il problema del colesterolo

14. Un briciolo di verità

15. Agrodolce

16. La vacca sacra

17. Fame di cambiamento

18. Il combustibile primario

19. Pensiero liquido

20. A tavola!
21. Un’azione decisa

22. Ancora più giù

23. A lungo andare

24. Dimagrisci subito mangiando… in pillole

25. Storie di vita vera

Note

Ringraziamenti

Fonti

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