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Nuraghi a Barumini

Il complesso nuragico di Barumini è il più importante sito archeologico della


Sardegna e si trova nei pressi di Barumini, in provincia di Medio Campidano.
Riconosciuto dall’UNESCO quale sito patrimonio dell’umanità, “Su Nuraxi” di
Barumini è l’esempio più completo e meglio conservato di nuraghe e al tempo
stesso testimonia un uso innovativo e fantasioso dei materiali e delle tecniche
disponibili, da parte di una comunità preistorica.
Il villaggio di Barumini con il suo nuraghe “Su Nuraxi” dimostra che questo territorio
è stato abitato fin dall’età del Bronzo. I nuraghi erano torri difensive a forma di
tronco di cono realizzate con grossi macigni a secco, dotate di sale interne. Nel caso
del villaggio di Barumini, il nuraghe è posto all’interno di un recinto costituito da
torri più piccole, collegate da muri massicci.
Intorno a queste costruzioni principali si trovava il villaggio con piccole case a pianta
circolare. Si possono trovare anche altri ambienti destinati a specifiche attività
domestiche o rituali. Le capanne del villaggio nuragico risalgono al VII-VI sec. a.C.,
quando il territorio era sotto la dominazione punica e romana.
La cortina muraria esterna, invece, è ancora più antica e presuppone l’insediamento
di altre popolazioni nell'età del Ferro (tra il nono e l’ottavo secolo a.C.). Questa
cortina è essa stessa una modifica ad un antemurale (ossia un muro di prima difesa)
che ingloba il più antico settore del villaggio risalente addirittura all’età del Bronzo,
tra i secc. XI e X a.C..

La particolarità di Barumini è che si può visitare non soltanto una semplice torre di
avvistamento, seppur antichissima, ma si può anche passeggiare tra i resti di un
intero villaggio di migliaia di anni fa.
I trulli
I trulli sono famosi nel mondo per la loro caratteristica bellezza ed unicità e
rappresentano uno degli esempi più straordinari di architettura popolare italiana. In
un periodo storico in cui si impediva la costruzione di fisse dimore, gli abitanti di
queste terre dimostrarono una grande capacità di adattamento e una eccezionale
ingegnosità, “inventando” i Trulli, case precarie costruite con la sola pietra locale.
Dalla precarietà all’abitabilità: il processo di trasformazione e di recupero nel pieno
rispetto dell’originalità dell’opera ha fatto conquistare ad Alberobello, in Puglia, ed
ai suoi Trulli il riconoscimento di Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Nelle Murge
sud-orientali e precisamente nella Valle d’Itria, queste costruzioni sono sparse in
tutto il territorio, dal quale spiccano con le loro bianche mura e i famosi tetti a cono.

Alberobello è universalmente conosciuta come la capitale dei trulli, ognuno con


forma e dimensioni diverse. Spesso sono a costruzione unica, oppure accostati in un
complesso di abitazioni comunicanti. Alcuni raggiungono i due piani. La maggior
parte ha il tetto grigio a forma di cono che termina con una palla o una semisfera.
L’interno, a camera unica, raccoglie nicchie per il camino, il letto e i vari arredi. La
struttura permette un’ottima climatizzazione interna: fresca d’estate e accogliente
d’inverno.
La nascita dei primi trulli risale all’epoca preistorica. Già in questo periodo, infatti,
erano presenti nella Valle d’Itria degli insediamenti e iniziarono a diffondersi i
tholos, tipiche costruzioni a volta usate per seppellire i defunti.

Tuttavia i trulli più antichi che troviamo oggi ad Alberobello risalgono al XIV secolo:
fu in quel periodo che ciò che appariva, ormai, come una terra disabitata venne
assegnata al primo Conte di Conversano da Roberto d’Angiò, principe di Taranto e
poi re di Napoli dal 1309 al 1343. L’appezzamento di terra costituiva il premio del
nobile rampollo angioino per i servigi resi durante le Crociate.
La zona venne quindi popolata di nuovo, spostando interi insediamenti dai feudi
vicini come quello di Noci.

Secondo alcune ricerche, tuttavia, già verso l’anno Mille sorsero degli insediamenti
rurali da entrambe le parti del fiume che adesso scorre sotterraneo. Le abitazioni a
poco a poco si accorparono fino a formare dei veri e propri villaggi, in seguito
soprannominati Aja Piccola e Monti.

La costruzione a secco, senza malta, dei trulli, venne imposta ai nuovi coloni di modo
che le loro abitazioni potessero essere smantellate in fretta: un metodo efficace per
evitare le tasse sui nuovi insediamenti imposte dal Regno di Napoli e di certo anche
buon deterrente per i proprietari riottosi. La maggior parte degli storici tuttavia
concorda che questa tecnica edilizia fosse dovuta, innanzitutto, alle condizioni
geografiche del luogo, che abbondava della pietra calcarea utilizzata nelle
costruzioni.

A metà del XVI secolo l’area di Monti era già occupata da una quarantina di trulli ma
fu solo intorno al 1620 che Alberobello acquisì la fisionomia di un insediamento
indipendente dalla vicina Noci, arrivando a contare circa 3500 persone verso la fine
del XVIII secolo. Nel 1797 il villaggio ottenne dal Re di Napoli Ferdinando IV di
Borbone il titolo di città reale. Il nome attuale deriva dal latino medievale della
Regione, “silva arboris belli”.

Venere di Savignano
E’ stata ritrovata nel 1925 da Olindo Zimbelli in località Prà Martin di Savignano sul
Panaro durante i lavori di scavo per le fondamenta di una casa. Venne poi acquistata
da Giuseppe Graziosi, che, capendo la sua importanza archeologica ed artistica, la
regalò al Museo Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma dove si trova anche
attualmente. Furono fatti altri scavi nel luogo in cui fu ritrovata la Venere ma non si
riuscì a capire bene a quale epoca storica appartenesse. Per la sua forma venne
attribuita al Paleolitico superiore. Oggi però si pensa che la Venere di Savignano sia
stata fatta nel Neolitico anche perché a quel periodo appartengono altri reperti
ritrovati a Savignano.
Si tratta di una scultura a tutto tondo eseguita in materiale serpentinoso alta 22 cm.
Le braccia sono soltanto accennate e sembrano ripiegarsi sul petto, le gambe
terminano unite senza accenno dei piedi, mancano completamente i lineamenti del
volto ed al posto della testa vi è un’appendice conica che ripete la forma delle
gambe e che fa assumere un aspetto fusiforme al tutto.
Seni, ventre e glutei sono molto sviluppati.
La statuetta è lunga 22,1 cm, larga 5 cm, spessa 5,5 cm; il peso è di 585 grammi ed è
stata realizzata in serpentino, di colore variabile da bruno a verdastro. Questo tipo di
roccia è presente nelle formazioni ofiolitiche dell’Appennino Modenese e potrebbe
essere stata trascinata a valle dal trasporto fluviale.
La figura femminile è rappresentata in piedi; la testa non presenta particolari
anatomici realistici, è di forma piramidale allungata, fortemente stilizzata, e si unisce
al tronco senza collo né spalle. I seni sono voluminosi e ai loro lati sono
rappresentate, soprattutto nella parte superiore, le braccia; gli avambracci sono
meno riconoscibili e sono assenti le mani. Il ventre è sporgente ed è ben
riconoscibile l’ombelico, il triangolo pubico è in rilievo, i glutei sono molto
accentuati, le gambe sono unite e distinte da un solco, che scompare verso
l’estremità inferiore, conformata a cono. La statuetta è caratterizzata da una
marcata simmetria longitudinale e bilaterale, data dalle due estremità coniche, dai
seni e dai glutei, e da un forte contrasto tra il verismo di alcune parti del corpo e la
stilizzazione di altre.
La sequenza di fabbricazione della Venere è iniziata da una sgrossatura tramite
percussione seguita da una picchiettatura molto regolare della pietra che ha dato la
forma voluta al manufatto. Tutta la superficie è stata poi levigata fino a cancellare la
picchiettatura dalle zone più esposte, mentre le zone concave ne conservano
maggiore traccia. Sono state trovate anche tracce di piallatura, probabilmente
utilizzando un’altra roccia, e infine la statuetta è stata lucidata con una più fine
levigatura.

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