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LA SALVEZZA DELL’ANIMA

Introduzione
Dio ci ama e ci vuole felici.
Dice infatti Gesù: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà... Chiedete e otterrete,
perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,23-24) e “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il
mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17,23).
Dio ci ama come solo Dio può amare: con amore infinito, totale, gratuito e soprannaturale, e ci vuole felici
della sua gioia soprannaturale (cfr Gv 15,11).

Dio, che ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi “usa pazienza… non volendo che alcuno perisca ma che
tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9).
Per cui è da ritenere che Dio conceda a tutti i peccatori, soprattutto prima della morte, grazie particolari di
salvezza e, a chi vive in stato di grazia, grazie specialissime di perseveranza.
Se così non fosse, infatti, non userebbe pazienza, e se usa pazienza per salvarci, lo fa perché, attraverso la
pazienza, dona grazie di salvezza.

I segni e le manifestazioni dell’amore di Dio per gli uomini sono innumerevoli: questo opuscolo, perciò, non
si prefigge di elencarli tutti. Anzi, ne illustrerà pochi perché, per dirla col Vangelo di Giovanni, tutta la Terra
non basterebbe a contenere i libri che si potrebbero scrivere sulle grazie che Dio elargisce perché gli uomini
si salvino e quello che è stato scritto è: “perché crediate” al suo amore “e perché, credendo, abbiate la vita
nel suo nome” (Gv 20,31).

Dio ci ama
Insegna Papa Giovanni Paolo II: “La fede della Chiesa culmina in questa verità suprema: Dio è amore!”.1
Infatti, se “Dio è amore” (1Gv 4,16), cioè se la stessa sostanza di Dio e la stessa sua natura è amore, la verità
suprema della nostra fede non può che essere che la rivelazione dell’amore di Dio.

Tutto parla dell’amore di Dio per noi, un amore dimostrato con dei fatti sconvolgenti, che arrivano
all’Incarnazione di Dio stesso attraverso il Figlio e culminano con la sua offerta totale sul Calvario.

Dice Sant’Agostino che “Dio è più intimo a noi di noi stessi”: un’affermazione che dimostra un amore di
Dio nei nostri riguardi che è inconcepibile e che comporta delle conseguenze che vanno al di là di ogni
nostra immaginazione.

Noi non capiamo l’amore di Dio, ma se contempliamo la Croce, come non cominciare a comprenderlo?

Dio è amore infinito e misericordioso. Lo dice la Scrittura, la Tradizione, il Catechismo della Chiesa
Cattolica e tutto il Magistero della Chiesa. Non possiamo averne il minimo dubbio.
Basta riflettere su questo e rimarremmo stupiti.

Non solo: Dio fa tutto per salvarci. La prova è Gesù.


Solo noi possiamo dannarci, ma occorre la nostra volontà piena e la nostra ostinazione.
Il Purgatorio dimostra che Dio non limita la sua salvezza ai “santi”, ma salva anche i “normali”, se così ci si
può esprimere.

L’amore di Dio si manifesta nella Chiesa, che è depositaria della grazia santificante e che, non rinunciando
minimamente ai principi della fede e della morale, mette al primo posto il cuore.

La grazia, attraverso la Chiesa, si “incarna” così tanto nell’umanità, che si manifesta in un equilibrio
dottrinale che stupisce.
1
Giovanni Paolo II, Roma, 2 Ottobre 1985, Udienza Generale.
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Un equilibrio che non è frutto di un “dosaggio” di ingredienti, ma che è espressione di radicalità totale:
amore infinito di Dio, senza rinunciarne neanche a una minima parte, e verità piena, senza alcuno sconto.

Esempi dell’equilibrio dottrinale della Chiesa e della sua sollecitudine materna, sono dati: dalla cura nella
risoluzione dei dubbi pratici di coscienza, dalla praticità concreta per la risoluzione dei casi di nullità
matrimoniale, dal potere di supplire certi limiti umani, dalla risoluzione degli scrupoli di coscienza...
E’ stupefacente come nella Chiesa il divino si manifesti attraverso l’umano.

Il Vangelo ci parla di un uomo che aveva un figlio indemoniato a cui Gesù domandò se credeva che lui
potesse liberarlo.
Il padre del ragazzo, che non credeva con una fede che sa già in anticipo che ciò che chiede sarà certamente
esaudito, ma credeva per chiedere la fede, disse a Gesù che sì, credeva, ma che lui lo aiutasse nella sua
incredulità (cfr Mc 9,19-24).
Forse non aveva la fede necessaria, ma ne aveva tanta quanto bastava per chiedere quella necessaria o,
almeno, per sperare in Gesù.
Forse aveva la fede per credere che Gesù era il Messia promesso, ma non la confidenza necessaria per
credere che Gesù avrebbe certamente “ubbidito” alla sua richiesta come avrebbe fatto un amico fidato, ma
aveva comunque abbastanza confidenza per ardire di chiedere la fiducia che gli mancava.
La fiducia è importante, perché chi ha una sincera fiducia in Gesù, crede, o comunque crederà, anche alla sua
dottrina.

Noi non siamo come lui ci vuole, eppure ci ama, così come non i suoi discepoli, che spesso rimproverava,
non erano come lui li voleva, ma li amava e li custodiva.
Anche se imperfetti, limitati e peccatori, se non siamo contro di lui, siamo già per lui, perché un principio di
grazia è in noi.

Anche se non capiamo il suo amore, Dio non ci vuole nella paura, ma egli sa che è meglio per noi vivere nel
timore e salvarci l’anima, che vivere sereni e andare all’inferno.
Ma proprio perché Dio ci ama, ci vuole felici e tranquilli già in questa vita, così come afferma nel Vangelo di
Giovanni.
Se perciò non siamo già da ora felici e tranquilli, non dipende da lui, ma dal peccato che ci condiziona:
originale e attuale (nostro e altrui).

Per questo occorre fare in modo di non commettere peccato, soprattutto quello grave, ma se lo commettiamo,
dobbiamo fare in modo che si trasformi in un’occasione per avvicinarci più a lui.
Non che la colpa sia necessaria, come dicono gli eretici, anzi va evitata perché ci allontana da Dio ma, una
volta compiuta, può e deve diventare strumento per avvicinarci a Dio.

E’ in questo senso che potremmo fare nostro, anche nei confronti del peccato attuale, il concetto di “felice
colpa” espresso da Sant’Agostino riguardo al peccato originale: non perché la colpa sia in se stessa
necessaria, ma perché può trasformarsi in un’occasione di pentimento e di amore, e perciò di grazia!
Se pure la Madre di Dio è la dimostrazione che la Misericordia “funziona” meglio senza peccato, Dio, che
non ci vuole scoraggiare, ci assicura che usa perfino il peccato e il male a fin di bene!

Possiamo perciò dire, se così ci si può esprimere, che Dio preferisce correre il rischio di essere considerato
lassista riguardo il peccato (cosa che non è affatto), che non rigorista, duro e insensibile.
Non a caso Gesù ci ha detto di chiamare Dio Padre: “Abba”, cioè Padre, proprio come lo chiama lui!

Per la mistica e Beata Madre Speranza di Gesù, è come se Dio non potesse essere felice senza gli uomini!
Non solo: egli vuole essere conosciuto come un Padre pieno di bontà.
Ma, dice Madre Speranza, l’amore di Dio non è ancora conosciuto dagli uomini.

La misericordia di Dio: carità nella verità

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Scrive l’evangelista Giovanni: “Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto
da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla
vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con
l'asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,3-7)
La lavanda piedi manifesta la realtà dell’amore misericordioso di Dio.

La misericordia di Dio non è altro che il suo stesso amore in azione, è l’opera dell’amore di Dio in nostro
favore, che arriva fino a far sì che Dio si faccia nostro servo!

Gesù nei Vangeli, e soprattutto nel Vangelo di Luca, ci parla della misericordia di Dio con grande chiarezza.
Dio si comporta con noi esattamente come il Buon Pastore della parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e
ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi
con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un
peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. (Lc 15,3-5).

Dio ci ama così tanto che non ci vuole perdere e non ci abbandona mai.
Il suo amore “possessivo”, anche se totalmente rispettoso di noi e della nostra libertà, lo troviamo ovunque.
Anche se ci dovessimo stufare della sua presenza, così “appiccicosa” anche quando sembra ci abbia
abbandonato, al momento opportuno Dio si manifesta come “più intimo a noi di noi stessi”, attirandoci a lui.

Dio è come uno “stalker” che, però, nella sua insistenza non stalkerizza, cioè ci rispetta così profondamente
da farsi subito da parte se non lo accogliamo.
Insomma, la pecora smarrita sarà certamente cercata e trovata dal Buon Pastore, e sarà caricata sulle spalle:
può sfuggire alla sua presa solo se lo morde, atteggiamento non certo conforme alla sua natura di animale
mansueto.
Deve, cioè, compiere direttamente un atto contro di lui.

L’amore di Dio si rivela stupendamente anche nella parabola del padre misericordioso e del figlio prodigo:
“Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il
figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo
figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al
dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,20-24).

La cosa che colpisce in questa parabola, oltre all’amore del padre che si manifesta nel correre incontro al
figlio, è la sovrabbondanza di beni che egli offre rispetto alle aspettative del figlio.
Beni tanto grandi da stupire perfino il fratello maggiore che, pur avendoli a disposizione, non ne aveva mai
tenuto conto, tanto che il ritorno del figlio prodigo si manifesta come un’occasione di misericordia anche per
il figlio maggiore.

Non che la sovrabbondanza di beni offerta dal padre sia dovuta al peccato del figlio, ma il peccato ha
evidenziato il bisogno che il figlio ha del padre e della sua casa.
Il ritorno dal peccato è per il figlio prodigo come una nuova scoperta dell’amore del padre.

Di conseguenza, non ci può essere vera misericordia senza conversione.


Le parole di Gesù: “Chi non è contro di voi, è per voi”, non annullano l’altra sua affermazione: “Chi non è
con me, è contro di me”: la grazia è offerta a tutti, ma richiede una decisione a favore di Gesù e, perciò,
anche riguardo ai suoi Comandamenti.

Per cui gli assoluti morali esistono e obbligano.


Il fatto che si può non conoscerli tutti, non significa che non si è obbligati a cercare la verità e, con l’aiuto
della grazia, adeguarsi a essa.
E se chi non crede in Cristo senza averne colpa può ottenere la grazia della salvezza attraverso un battesimo
di desiderio anche solo implicito, il desiderio, anche solo implicito, comporta la CONVERSIONE, in modo

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che, se si conoscesse pienamente tutta la fede della Chiesa, si opererebbe, sotto l’influsso della grazia, per
seguirne le esigenze.

La misericordia divina nella pietà cristiana


Indipendentemente se l’anima, al momento della morte, non si stacca immediatamente dal corpo, come
affermano dei santi e dei teologi, è certo che Dio moltiplica le grazie di conversione proprio in concomitanza
del momento della morte, dando così tempo all’uomo di aprirsi alla grazia speciale che Dio offre in quel
momento.

Di fatto, poiché la Bibbia dice che Dio rialza chi è caduto e Santa Bernardetta ha detto che peccatore è
colui che AMA il peccato, non solo si può presupporre che in quei momenti estremi molti peccatori si aprono
alla grazia divina, ma anche che coloro che hanno passato la vita in stato di grazia, anche se interrotta da
cadute gravi più o meno frequenti, in quel frangente ricevono la grazia di una sincera contrizione dei loro
peccati gravi, così come hanno assicurato varie anime sante.

Infatti, se Dio in quei momenti offre il perdono a chi ha volontariamente vissuto nel male, per cui a chi si è
quasi connaturato col peccato, come non presupporre che, a maggior ragione, non offra a chi, pur essendo
caduto, non si è incallito nel male ma con buona volontà si è sempre rialzato, la stessa grazia di salvezza?
Come presupporre che chi in vita dopo ogni caduta si è rialzato, proprio nella sua ultima ora e proprio
quando Dio manifesta in modo speciale tutto il suo amore per lui, decida di scegliere il male?
Se in teoria la cosa è ancora possibile, visto che l’uomo è libero, in pratica si può ritenere che, almeno
ordinariamente, sia impossibile (non in senso assoluto, ma di fatto), in quanto chi ha sempre cercato Dio è da
ritenere che non smetta di farlo proprio nel momento della sua morte.

Gesù, apparendo a Suor Josefa Menendez, più volte le ha detto che ciò che più lo ferisce non sono i peccati,
neanche i peggiori, ma il non riconoscere il suo amore. 
Il peggior peccato contro la fede, infatti, è il non credere nell’amore di Colui che è amore e che si è rivelato
come amore. Un peccato che è anche contro il cuore dell'uomo, che anela all’amore.

Questa testimonianza di Suor Josefa Menendez si riallaccia alle parole di Gesù per cui tutti i peccati saranno
perdonati, perfino tutte le bestemmie contro di lui, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo, cioè il rifiuto
fino alla FINE dell’azione dello Spirito Santo che agisce illuminando la coscienza, non sarà perdonata.

La mistica Marthe Robin disse che, se qualcuno ha scelto Dio e poi cade, per Dio vale il sì già detto.
Cioè: chi cade e sempre si rialza, non morrà senza essersi rialzato un’ultima volta.
Che l’abbia detto a causa di una particolare rivelazione e per una speciale profezia, visto che tali doni in lei si
manifestavano frequentemente?
In ogni caso per Marthe Robin Dio concede sempre, a chi cade ma ha l’intenzione di rialzarsi, il tempo
necessario e la grazia necessaria per farlo.

San Giovanni Calabria quando assolveva diceva spesso: “Che sia la penultima volta!”. Diceva, infatti, che
per Gesù nessuna caduta è la caduta finale.

Se Gesù nel Vangelo dice di non giudicare, un motivo ci sarà (cfr Mt 7,1).
Il non giudicare infatti è il primo atto di misericordia che siamo chiamati a fare, ed è un vero comandamento
che, come dice san Paolo, deve valere anche verso noi stessi.
Perciò non bisogna giudicare la coscienza nostra e altrui, in quanto Dio solo, che è più grande del nostro
cuore e che conosce tutto, può giudicare le coscienze fino in fondo.

Per alcuni nel Medioevo si sarebbe vissuto nel terrore di Dio. Nulla di più falso.
Nel Duomo di SPOLETO si venera la SANTISSIMA ICONA, una tavoletta bizantina dell’XI secolo che
rappresenta la Madonna con un cartiglio, cioè un “biglietto” con scritto:
“Cosa chiedi, o Madre?”
“La salvezza dei viventi”

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“Mi provocano a sdegno”
“Compatiscili, Figlio mio”
“Ma non si convertono!”
“E tu salvali per GRAZIA”

Ciò dimostra che la MISERICORDIA di Dio non è una scoperta di oggi.


Oggi si parla tanto di misericordia, ma spesso lo si fa come fosse una cosa normale, cioè umana, che non
c’entra nulla con il peccato e la salvezza eterna.
Oggi la misericordia è spesso presentata più come una licenza che come una grazia, tanto che a volte può
essere percepita come una specie di invito allo “sciogliete le righe”. Ma non è così.

Gli ETIOPI fin dall’antichità hanno sviluppato un culto verso la Madonna e un senso della misericordia
divina profondissimo.
Forse lo esprimono con linguaggio mitologico, ma come si sa il mito nasconde una radice di verità.
Di fatto la devozione degli etiopi per la Madonna non si spiega se non con un’ESPERIENZA che essi hanno
avuto del suo amore.
Essi sono convinti che Gesù e sua Madre abbiano stabilito con loro una PATTO DI MISERICORDIA, per
cui l’Etiopia è ormai un feudo di Maria e chiunque pregherà Gesù in nome di Maria, o anche solo invocherà
il suo NOME di Maria, sarà salvo.

Dice Santa Faustina Kowalska che: “Dio concede anche alle anime più lontane da lui un’ultima grazia per
convertirsi: basta il minimo cenno di buona volontà e sono salvate”.
E anche che, per santificarsi, basta anche solo un briciolo di buona volontà.
E Padre Pio ci assicura che il desiderio di amare è già amare e che nessuno si perderà senza saperlo.
E per Santa Teresa di Lisieux la santità, più che nel non cadere mai, consiste nel rialzarsi sempre.

Naturalmente chi vive consapevolmente e con ostinazione nel vizio e nel peccato, tende a “conformarsi” al
peccato. Vivere in peccato, infatti, non è più una caduta, ma uno stato abituale.
Per costoro la salvezza è più difficile, perché lo stato di peccato in questa vita, anche se non ancora
definitivo, assomiglia e prelude allo stato di un’anima all’inferno.
Ciò però non toglie che, soprattutto negli ultimi istanti della vita, il Signore tenta un ultimo prodigioso sforzo
per salvare l’anima, mandando grazie speciali.
Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio, ha detto Gesù.

Questo però non significa che gli sforzi divini avranno automaticamente successo, ma manifestano l’infinita
misericordia di Dio che è disposto a perdonare e giustificare anche i suoi nemici più grandi, se solo gli danno
un appiglio.

Si può capire la misericordia divina solo a partire da un giusto concetto del peccato e della grazia.
Perciò, se non si comprende la gravità del peccato, non si può comprendere bene né la misericordia, né la
grazia di Dio. Il Vangelo, infatti, va preso integralmente, senza “scomporlo” in tanti altri messaggi parziali
che, isolati dal contesto, diventano ideologie, come nel caso del cosiddetto “misericordismo”.

E’ vero, Dio perdona sempre (se il pentimento è vero e se c’è il proposito di non peccare più), ma è anche
vero che il peccato è un “dramma” e non un gioco.
Così ha sempre insegnato la Chiesa e così lo hanno sempre vissuto i santi.
Basta leggere le lettere di Paolo, ma anche di Pietro, Giovanni, Giuda… e risulta chiaro come per la Chiesa
al tempo degli Apostoli il peccato (grave), dopo la conversione a Cristo, era quasi inconcepibile.
Di fatto nella Chiesa primitiva, dopo il Battesimo, veniva permessa una sola Confessione nella vita, cioè solo
una seconda possibilità di perdono.
Ma col tempo si è capito che l’uomo è fragile e che la misericordia divina, che la Chiesa ben conosceva, non
poteva essere sminuita dal senso dell’orrore del peccato.

Perciò, sia la misericordia che il senso dell’orrore del peccato risalgono al tempo degli Apostoli e, di
conseguenza, ambedue devono animare un’equilibrata pastorale della Chiesa.

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La misericordia deve essere sempre approfondita e riscoperta con senso di stupore, ma la garanzia che sia
autentica misericordia cristiana è che non si separi mai dal senso dell’orrore del peccato.
Questo senso anima tutte le definizioni del Magistero riguardo alla misericordia divina.

Senza l’orrore del peccato non esiste la gioia della salvezza, la misericordia non è efficace e la si banalizza
scambiandola col blasfemo misericordismo che, presupponendo la salvezza, se perseguito con ostinazione
fino alla fine, si configura come una sorta di bestemmia contro lo Spirito Santo al pari della disperazione
finale.

E’ commovente la storia che si è verificata in Spagna, a Furelos, nella Galizia, che vede per protagonisti un
peccatore che si confessava sempre dello stesso peccato, un sacerdote che, dopo averlo assolto numerose
volte, gli disse che, se tornava a confessarsi dello stesso peccato, non lo avrebbe assolto, e il Crocifisso che,
quando il sacerdote rifiutò l’assoluzione, schiodato un braccio dalla Croce, assolse il penitente, dicendo poi
al sacerdote che ara stato lui, Gesù, a morire per quell’uomo.
Evidentemente ogni volta che il penitente andava a confessarsi, era sinceramente pentito e addolorato, e
faceva il proposito di non peccare più.
Nella sua incostanza, era costante nel tornare a Gesù, e questo è ciò che più conta.

L’amore di Dio e l’inferno


Molti si chiedono: “Ma se Dio è amore, perché c’è l’inferno?”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che l’inferno è conseguenza di una “avversione volontaria a
Dio (peccato mortale) in cui si persiste fino alla fine” (n. 1037).
Essendo l’avversione, oltre che grave, anche volontaria, ne consegue che, almeno a livello di coscienza, chi
pecca gravemente e persiste nel suo peccato, sia consapevole che va all’inferno.

Dice infatti la Sacra Scrittura che Dio ci ha predestinati: “a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù
Cristo” (Ef 1,5).
Noi perciò siamo predestinati al Paradiso, cioè siamo stati creati per andare in Paradiso, così come una
rondine è stata creata per volare e una lampadina è stata costruita per illuminare.
Se noi ci comportiamo secondo la nostra natura che, nonostante il peccato originale e gli ostacoli che da esso
scaturiscono, tende a orientarci alla ricerca del bene attraverso la coscienza, ci salveremo.
Per non salvarsi occorre agire volontariamente in contrasto ai dettami che obbligano gravemente la coscienza
(compreso il consapevole e grave rifiuto a formarsi una coscienza retta).

Noi non sappiamo quali sono le persone che si salvano e quelle che vanno all’inferno, perché possiamo
giudicare solo certi fatti esteriori, per cui il nostro giudizio è parziale, ma Santa Teresa di Gesù Bambino ci
assicura che in Paradiso ci saranno molte sorprese.

La Salvezza operata da Cristo è offerta a tutti, dice San Paolo, specialmente a coloro che credono (cfr. 1Tm
4,10), perciò la Chiesa insegna che tutti coloro che cercano sinceramente la verità e seguono i dettami della
propria coscienza, possono in qualche modo essere raggiunti dalla grazia divina che travalica i confini
visibili della Chiesa. Gesù infatti ha detto agli Apostoli: “Chi non è contro di voi, è per voi” (Lc 9,50).

Per cui, anche se la via ordinaria per ottenere il Paradiso passa per il Battesimo e la fede, il giusto che senza
colpa non crede in Cristo, può essere incorporato alla Chiesa e salvarsi attraverso le misteriose vie dello
Spirito Santo, che possono configurarsi anche come un battesimo di desiderio implicito.

L’inferno è, in qualche modo, conseguenza ed espressione dell’amore divino, che è misericordioso e giusto:
comprendendo quest’amore si comprende anche l’inferno.

Santa Caterina da Genova, grande mistica, nel Trattato del Purgatorio, dice, al capitolo settimo, che
quando l’anima di chi muore in stato di peccato mortale lascia il corpo, va direttamente all’inferno

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anticipando il giudizio di Dio: sa che quello è il suo posto. E dice ancora che, se l’inferno non esistesse, i
dannati soffrirebbero ancora di più.
Se non vi fosse l’inferno i dannati si condannerebbero più duramente di quanto permette Dio.

Il rimorso che tormenta i dannati è causato non certo dall’amore, ma dall’odio verso Dio e, di conseguenza,
verso le sue creature, a cominciare da se stessi e dalla propria natura, odio dovuto dall’atto contro natura per
eccellenza: l’andare liberamente contro la propria coscienza.

Di fatto, se in questa vita si può, almeno in parte, imbavagliare la propria coscienza, nella vita futura l’eco di
essa si farà in qualche modo sentire in tutta la sua forza.

All’inferno è come se l’anima dannata si rimproverasse: Dio l’ha creata buona, ed ha scelto il male. Non è
pentita di cuore, ma la sua natura, anche se pervertita, in qualche modo la rimprovera con la sua stessa
perversione.
La natura umana, infatti, in se stessa non è indifferente all’amore: chi decidesse di non lasciarsi coinvolgere
dall’amore è come colui che decidesse di non bere: la sua natura, bisognosa comunque di acqua, lo
tormenterebbe.

Chi non troverà misericordia è chi non l’ha in sé perché ha rifiutato quella che Dio gli ha donato (cfr Mt 5,7).
Misericordia e giustizia, infatti, non si contraddicono e la giustizia si realizza proprio nella misericordia che,
però, può essere rifiutata proprio con un atto di ingiustizia, che consistere nel non voler riconoscere il Dio di
giustizia e di amore e le sue leggi (cfr 1Gv 4,8).

Si potrebbe forse dire che Dio, in chi si affida alla sua misericordia, manifesta la sua giustizia nell’amore
mentre, in chi rifiuta fino alla fine la sua misericordia, manifesta il suo amore nella giustizia: in un certo
senso il fuoco dell’inferno è causato dal fuoco dell’amore divino rifiutato.

L’inferno non nega l’amore di Dio, ma lo afferma: se, infatti, non vi fosse giustizia, l’amore non sarebbe
amore.
Come la mancanza di luce evidenzia la luce, così la giustizia, e perciò l’inferno, evidenzia l’amore.

Dice Gesù ai suoi discepoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e
sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,15-16).
Infatti: “Nessuno può dire -Gesù è il Signore- se non è sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3).
Non si può, perciò, essere neutri all’annuncio del Vangelo perché in esso opera lo Spirito Santo che orienta a
Cristo e suscita la fede. Se infatti si “incontra” Cristo o lo si accetta, o no, e se non lo si accetta, lo si rifiuta.
E’ un po’ come quando davanti al televisore si può vedere un programma televisivo o cambiare canale: a noi
la scelta.

Perciò chi rifiuta la fede che gli è donata o, credendo, rifiuta la signoria di Cristo sulla sua vita o, comunque,
agisce gravemente contro la propria coscienza che lo orienta a cercare la verità, si pone in stato di peccato
mortale. Se muore in tale stato verrà condannato e sarà proprio quella parola di Dio volontariamente e
coscientemente rifiutata, ma che continua a risuonare nella coscienza, il principio dei suoi tormenti.
Il primo giudizio dei reietti avviene nella loro coscienza.

Chi nega volontariamente l’azione dello Spirito Santo che rivela Cristo, in un certo modo è come chi, pur
essendo abbagliato dalla luce, anche se non è cieco, nega l’esistenza del Sole. Egli non compie un atto
neutro, ma compie un atto contro la fede, un vero atto di disprezzo per la salvezza.

Un disprezzo come quello manifestato dal servo malvagio della parabola evangelica che, pur avendo avuto
dal suo signore l’incarico di far fruttare del denaro, non lo ha rispettato.
E il signore prima di emettere la condanna gli dice: “Perché allora non hai depositato il mio denaro alla
banca? Al mio ritorno lo avrei ritirato con l’interesse” (Lc 19,23).
Bastava solo depositare il denaro in banca, ma il servo malvagio non ha fatto nemmeno questo: non si è
minimamente sforzato di ubbidire nonostante sapesse benissimo la volontà del signore.

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E’ questo il vero motivo della sua paura.
E questa scelta per il male, in quanto consapevole, è la vera stoltezza (cfr. Mc 7,22).

Gesù ha detto: “Chi non è con me, è contro di me”, ma ha anche detto: “Chi non è contro di voi, è per voi”
(Mc 9,40).
Cioè: chi dopo aver conosciuto la sua volontà non vuole seguirla, di fatto è contro di lui, ma chi non è contro
di lui e contro la Chiesa in modo consapevole, ma cerca la verità, allora in qualche modo è con la Chiesa.
Il non essere con Gesù evidenzia una scelta e il non essere contro la Chiesa evidenzia la sincera ricerca della
verità, che non delude chi la cerca anche se ancora non ha la consapevolezza dove sia.

Ha detto Gesù: “Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo
Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato; ma la bestemmia
contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro” (Mt 12,30-32).

Ciò significa che il non credere in lui come Dio e Signore a causa di una mancanza o inadeguatezza
dell’annuncio, o a causa di insuperabili condizionamenti che Dio può permettere a determinate condizioni,
non è necessariamente un ostacolo insormontabile alla salvezza, ma il rifiutare l’azione dello Spirito Santo
nella propria coscienza è un peccato che pone fuori dall’opera della Redenzione.
Chi persevera in questo peccato fino alla fine, sarà condannato: il suo peccato rimarrà non rimesso.

Il Vangelo mostra come Gesù, pur esigendo la perfezione (cfr. Mt 5,48), non disprezzava neanche il più
piccolo progresso spirituale: chiedeva il bene maggiore ma non rifiutava il bene effettivo. A volte
rimproverava anche chi lo seguiva (cfr. Mt 7,11) e gli stessi apostoli (cfr. Mc 4,40), ma accoglieva tutti
coloro che venivano a lui.
Gesù guarda soprattutto al cuore, che vuole semplice.
La grande mistica Santa Faustina Kowalska scrive che è necessaria una cosa sola: che il peccatore apra:
“almeno un po’ le porte del suo cuore ai raggi della divina misericordia: Dio farà il resto”.2

Dio fa di tutto per salvare le anime, soprattutto in punto di morte.


Scrive l’evangelista Matteo: “Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una
gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva
dato loro questo segnale dicendo: -Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!-. E subito si avvicinò a Gesù e
disse: -Salve, Rabbì!-. E lo baciò. E Gesù gli disse: -Amico, per questo sei qui!-” (Mt 26,47-50).
Come lo sguardo di Gesù e le sue parole di amicizia verso Giuda sono un tentativo di offrire al traditore il
perdono e la salvezza, così anche nel momento della morte Dio ha certamente tentato di tutto per salvare
Giuda.

Scrive in proposito Santa Faustina Kowalska: “La misericordia di Dio talvolta raggiunge il peccatore
all’ultimo momento, in modo singolare e misterioso. All’esterno a noi sembra che tutto sia perduto, ma non
è così; l’anima illuminata dal raggio di una vigorosa ultima grazia divina, si rivolge a Dio all’ultimo
momento con un tale impeto d’amore che, in un attimo, ottiene da Dio (il perdono) delle colpe e delle pene.
All’esterno però non ci dà alcun segno né di pentimento né di contrizione, poiché essi… non reagiscono più
alle cose esterne… Ma, orrore! Ci sono anche delle anime che respingono volontariamente e
consapevolmente tale grazia e la disprezzano. Sia pure durante l’agonia, Iddio misericordioso dà all’anima
un lucido momento interiore, in cui, se l’anima vuole, ha la possibilità di tornare a Dio. Però talvolta nelle
anime c’è un’ostinazione così grande, che scelgono consapevolmente l’inferno, rendendo vane tutte le
preghiere che altre anime innalzano per loro a Dio e gli stessi sforzi di Dio”.3

Fiducia in Dio
La più grande delle devozioni? In un certo senso potremmo dire che è la fiducia in Dio e nel suo amore.

Ci assicura l’Apostolo Giovanni: “Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i
2
Diario di suor Faustina Kowalska, Libreria Editrice Vaticana, 1992, pag. 501.
3
Diario di suor Faustina Kowalska, Libreria Editrice Vaticana, 1992, pag. 558 – 559.
8
peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1Gv 1,9).
Chi con fiducia in Dio, invece di sminuire la gravità del peccato, si riconosce peccatore e, con l’aiuto della
grazia, opera con sincerità per non cadere, o non cadere più, sarà salvo.
Chi è disposto, con l’aiuto della grazia, a lottare contro il peccato anche a costo di sentirsi continuamente
mancante e povero, invece che cercare la falsa tranquillità che dà il sentirsi nel giusto, sarà salvo.

Scrive ancora l’Apostolo Giovanni che, se amiamo con i fatti (con le opere) e nella verità (secondo la
dottrina della fede), davanti a Dio “rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è
più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20).

La Misericordia di Dio è l’Amore di Dio che opera. E’ la Verità che opera.


Tutto ciò che opera Dio è Misericordia divina.
La Misericordia di Dio supera ogni comprensione, per questo la giustizia di Dio va oltre il dato raccolto dal
giudizio dell’anima su se stessa.
Rispetto al giudizio che l’anima ha, in coscienza, di se stessa, è come se Dio le “regalasse” un di più di
bontà.
Non che Dio considera buono ciò che non lo è, ma vede il buono anche dove l’uomo non riesce a vedere e, in
un certo senso, lo “espande”, perché egli è più grande del nostro cuore.

Il giudizio che l’anima fa in coscienza di se stessa, di fronte a Dio è condizionato da ciò l’uomo è, mentre il
giudizio di Dio, che è dovuto al suo amore (che per meglio comprenderlo potremmo definire come
“eccessivo”), non è condizionato che dall’“eccesso” di essere Dio.
Ma in realtà, quello che a noi pare “eccessivo” nell’amore di Dio, si configura come una condizionalità che
supera tutti i nostri condizionamenti.
Quello di Dio è un amore non solo infinito, ma operante in modo libero e originale, e perciò infinitamente
sorprendente, a cui mai potremmo abituarci senza rimanerne meravigliati.
Possiamo solo farne esperienza vitale, come ha fatto l’Apostolo Giovanni.

E’ come se il dubbio che l’anima ha su se stessa, proprio perché dubbio, non è perseguito: Dio lo “abbuona”.
Possiamo pensare che la volontà dubbia è perdonata, è la volontà “contro” che non può essere perdonata,
perché non offre appigli, perché è certa nel male, perché è una scelta perseguita fino alla fine.

San Paolo afferma: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di
Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).
Solo noi, con un atto di volontà consapevole e fermo, possiamo separarci dall’amore di Dio.
Non le tentazioni, non i dubbi non voluti e non accettati, non le debolezze…

Gesù ha detto alla mistica a Suor Josefa Menendez: “Poco mi importa delle debolezze, quello che voglio è
la fiducia”, mentre Suor Consolata Betrone riferisce che un giorno Gesù gridò nel suo cuore:
“Confidenza!”. E a Suor Benigna Ferrero Gesù ha detto che la confidenza è la chiave per aprire il tesoro
della sua stessa misericordia.

Non credere a questo amore salvifico di Dio è la più grande delle bestemmie! Una bestemmia che, se
veramente voluta e ostinata, si configura come una bestemmia contro lo Spirito Santo: imperdonabile.

Per Santa Teresa di Gesù Bambino basta la buona volontà per santificarsi.
E chi ne avesse tanto poca da manifestarla solo sporadicamente?
Allora basta che ne abbia un minimo per avere fiducia e speranza.
Chi rifiuterebbe qualcosa a un figlio che ha sinceramente fiducia di essere sempre accolto dai genitori
nonostante gli errori? Che ogni volta vuole ricominciare da capo confidando nei genitori più che in lui?
Figurarsi Dio!

La parabola evangelica del padre misericordioso ci manifesta il cuore di Dio.


Come già accennato, quando il figlio prodigo torna dal padre, questi lo accoglie con tenerezza.

9
Dio non è affatto un “duro” di carattere: al contrario di tanti “retti” tutti di un pezzo, quando il figlio minore
decide di lasciare la casa, lo rispetta e non ha nemmeno nulla da eccepire sull’eredità che il figlio rivendica,
sebbene ne immaginasse un uso non conforme alla giustizia.
Allo stesso modo quando il figlio ritorna, lo accoglie senza condizioni, ma, al contrario di molti buonisti, non
acconsente minimamente al peccato, ma solo accoglie il figlio, e lo può accogliere con tanta sollecitudine
proprio perché ha lasciato il peccato e la vita dissoluta ed è tornato a casa, dove, evidentemente, non potrà
più fare la vita di prima.

Pregare per la salvezza


Dice Gesù: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7), e: “Se dunque
voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito
Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). E ancora: “Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la
farò... Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14,13-14).

Occorre perciò chiedere la salvezza ogni giorno.


Chi ha fiducia nell’amore di Dio, chiede la salvezza a Dio con fiducia, sapendo per fede che se la chiede in
tal modo, ne otterrà la grazia.
Se la nostra preghiera è sincera possiamo considerarla esaudita, in quanto Gesù mantiene sempre le sue
promesse. Dobbiamo solo perseverare nella preghiera sincera.
E la fede richiesta per credere nelle promesse di Dio, promesse che si trovano nel Vangelo e che sono
ribadite dalla dottrina della Chiesa, non è la fede dei miracoli, ma è la stessa che occorre per essere cristiani,
è quella stessa fede che si proclama nel Credo. Basta solo un po’ di buona volontà e… crederci.

Scrive San Paolo: “A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare,
secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3,20).
Dice la Chiesa che anche il peccatore, anche se non ha la grazia, può impetrare e può farlo anche con fiducia,
desiderio e dolore, anche se imperfetti.

Famosa è una frase di Sant’Alfonso Maria dè Liguori, che il Catechismo della Chiesa Cattolica ha fatto
propria: “Chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna”.
Naturalmente la preghiera deve essere sincera.

Santa Teresa d’Avila, mistica e Dottore della Chiesa, afferma: “Mi pare che perdere la strada altro non sia
che perdere totalmente l’orazione”. Mentre a Santa Faustina Kowalska Gesù ha espresso il desiderio di
voler riempire di grazie tutte le anime e sono se mai esse, le anime, che non vogliono riceverle, perché
trovano tempo per tante cose, ma non per lui.

Sull’importanza di pregare per i beni dell’anima insiste anche la santa mistica Mariam d’Aubellin, che
scrisse a Papa Pio IX che, chiunque invoca lo Spirito Santo e ne è devoto, non morirà nell’errore.
Un giorno Gesù le disse che: “coloro che invocheranno lo Spirito Santo, mi cercheranno e mi troveranno”.

Per San Tommaso d’Aquino il SS. Nome di Gesù, tra le altre cose, ottiene la fiducia nella salvezza, e Santa
Caterina da Siena dice che chiunque, giusto o peccatore, abbia la Madonna in debita riverenza, sarà salvo.
Mentre per San Bernardo chi pensa alla Madonna non sbaglierà.

Il valore impetratorio della preghiera si fonda sulla fiducia, per cui il peccatore può ottenere senza meritare
(mentre il giusto può meritare senza ottenere).
Dice San Tommaso d’Aquino che l’orazione devota e perseverante di chi chiede qualcosa di necessario per
la propria salvezza, ottiene infallibilmente.
Anche se imperfetta la preghiera ottiene sempre molte cose.
San Giovanni Crisostomo assicura che non c’è niente che non si si ottiene con la preghiera continua, anche
se si è pieni di peccato e, allo stesso modo, Sant’Alfonso Maria de Liguori afferma che la preghiera fatta
con umiltà, confidenza e costanza, ottiene (quando si impetra ogni giorno per la propria salvezza, come non
farlo con umiltà e confidenza?)
10
Tutti perciò possiamo e dobbiamo pregare per la nostra salvezza.

La Chiesa insegna che, se c’è un merito di giustizia (De Condigno), che dà il diritto alla grazia per la
promessa di Dio, ma c’è anche un merito di convenienza (De Congruo), che è una certezza di ottenere la
grazia che si basa sulla misericordia di Dio.

Non solo: il peccatore può sperare che, in considerazione delle opere buone che ha compiuto anche da
peccatore, la bontà di Dio gli conceda grazie speciali di conversione (che devono essere accattate).
Per cui anche lui deve compiere delle opere buone.

Dio ci vuole felici e tranquilli


Dio ci vuole felici e tranquilli.
Fin da ora ci vuole dare la sua pace (cfr Gv 16,33) e la gioia piena (cfr Gv 15,11) e non vuole che il nostro
cuore sia turbato e si sgomenti (cfr Gv 14,27).
Perché la nostra gioia sia totale, ci vuole dare quello che gli chiediamo: “Chiedete ed otterrete, perché la
vostra gioia sia piena” (Gv 16,24).

Perciò, poiché il cristianesimo non è per un’elite, la pace, la gioia e la tranquillità sono per tutti e, di fatto,
sono accessibili a tutti con facilità.
Ma poiché il peccato originale, con tutte le sue conseguenze, ha minato la nostra conoscenza di Dio anche
nella percezione psicologica, Gesù ha insistentemente evidenziato l’aspetto della gioia, invitandoci a
perseguirla.
E poiché nell’uomo la gioia che sta alla base di ogni gioia dipende dalla salvezza, dire che la gioia e la
tranquillità sono facilmente accessibili a tutti, equivale a dire non solo che la salvezza è facilmente
accessibile e a tutti, ma anche che tutti possono averne la certezza morale, cioè la piena fiducia umana, se
sperano in Dio e pregano costantemente per essa.

La Venerabile mistica Suor Maria Consolata Betrone, dice che Gesù considera stolto il timore della
dannazione perché: “all’inferno ci va chi vuole, chi vuole andarvi veramente”.
E Padre Pio scriveva: “… proibisco la soverchia sollecitudine anche nelle cose sante… Conviene prima di
ogni altra cosa di vivere tranquilli nello spirito”.4

Come detto, la tranquillità che Dio ci vuole dare riguardo alla salvezza consiste in una certezza morale, cioè
una certezza umana, che non appartiene all’ordine soprannaturale e della Rivelazione, anche se la
Rivelazione la promette a tutti coloro che la desiderano veramente.

Cioè: le promesse di Dio riguardo alla salvezza, che sono di fede in quanto riportate nel Vangelo, sono
facilmente ottenibili per tutti, ma poiché occorre che noi aderiamo alla grazia divina, la nostra salvezza non è
materia di fede perché dipende anche da noi che, se non vogliamo salvarci non ci salviamo, e che non
sappiamo quello che vorremo al momento della morte (anche se sappiamo che chi ha sempre cercato Dio è
quasi impossibile che lo rinnegherà volontariamente proprio alla fine).
Ma poiché, sebbene la nostra psiche non sia certa del nostro stato interiore, la nostra coscienza ne ha
“coscienza”, non possiamo che essere tranquilli di ottenere ciò che avremo scelto e ciò a cui più aneliamo.

Perciò è di fede che ci si salva se ci si affida a Dio ma, soggettivamente, la certezza può essere al massimo
solo morale, perché noi possiamo rifiutare la grazia: se vogliamo davvero salvarci, ci salveremo, ma non è un
dogma che persevereremo in questa volontà, anche se se ne può avere, appunto, la certezza morale.

Dichiara il Concilio di Trento: “Nessuno sa con certezza di fede, incompatibile con ogni errore, se sia in
stato di grazia”. Cioè: nessuno, per fede rivelata, può dirsi certo del proprio stato di grazia, ma si può
raggiungere la certezza morale del proprio stato di grazia così come la Chiesa stessa ammette nella sua
dottrina sulla Confessione, che ci assicura del perdono dei peccati.

4
Renzo Allegri, Il catechismo di padre Pio, Mondadori, 1996
11
Che i nostri peccati sono stati perdonati non ce lo può assicurare un dogma, ma la nostra coscienza che,
sebbene sia compatibile con l’errore, sa che, se ci affidiamo a Dio con amore e fiducia, egli ci salva.

Come noi siamo umanamente certi che, chiudendo un circuito attraverso un interruttore, si accende la
lampadina collegata, così siamo umanamente certi che, se vogliamo veramente la salvezza, affidandoci a Dio
che ci ama più di noi stessi, la otterremo. Questa certezza morale ci dona la tranquillità, anche psicologica.

Essa si basa sulla ragione illuminata dalla fede, che è moralmente sicura dei propri risultati perché è di fede
che la ragione non può contrastare con la fede.
E’ vero, la ragione dopo il peccato originale è più limitata ed è fallace ma, per quanto riguarda le cose di
fede, se è illuminata dalla fede stessa, allora raggiunge una certezza morale.
Naturalmente non la si può considerare infallibile nel senso in cui si considera infallibile la Rivelazione, ma
anche se la certezza morale non impegna la fede, impegna però la ragione, che in se stessa non è contraddetta
dalla fede, e questo è sufficiente a renderci tranquilli. Anzi, tranquillissimi.

Come sapere se siamo in grazia di Dio oppure no?


Dice San Paolo: “Ciascuno esamini se stesso” (1Cor 11,28).
E: “Lo Spirito attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,16).
E’ l’amore “coi fatti e nella verità” che ci fa conoscere che siamo in Dio e che rassicura il nostro cuore
davanti a lui anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa (cfr 1Gv 3,18-20).

E’ vero, a livello psicologico l’uomo può crearsi delle scuse, ma la coscienza sa ciò che veramente vuole.
Non sa tutto, può sbagliare in tanti giudizi, può perfino confondere, colpevolmente o incolpevolmente, il
bene col male, ma nel profondo dell’anima l’uomo sceglie e, se sceglie, sa la direzione in cui voleva portare
quella scelta.
L’uomo, cioè, ha coscienza se vuole il bene o il male, indipendentemente se sa o no con esattezza dove si
trova il bene e dove si trova il male.

Si può anche non ascoltare la propria coscienza perché è come addormentata per incuria colpevole, che la
distoglie dalla sua naturale tensione verso la verità e, soprattutto, dalla voce di Dio che misteriosamente si fa
sentire, ma in realtà la coscienza sa se si è intorpidita per propria colpa.
Non “sente”, ma sa che non sente perché ha scelto di vivere senza sensi di colpa anche quando c’è colpa (ci
sono sensi di colpa che allontanano da Dio, in quanto falsi, e ci sono sensi di colpa che sono ordinati a Dio,
in quanto veri).

La nostra coscienza perciò sa. Ma la fede ci dice che Dio, che “conosce ogni cosa” (1Gv 3,20) ed è
infinitamente buono e misericordioso, è ancora più grande del nostro cuore (cfr 1Gv 3, 20).

Se Gesù nel Vangelo, la Chiesa, maestra sicura di fede, e i santi, testimoni autentici della verità, ci invitano
alla pace e alla tranquillità, vuol dire che la tranquillità è voluta da Dio e si può avere, per cui va ricercata.
Non parlo di una falsa tranquillità che addormenta la coscienza e deresponsabilizza, ma di una tranquillità
che tranquillizza e che, perciò, ci permette “liberati dalle mani dei nemici” di servire Dio: “senza timore, in
santità e giustizia” (Lc 1,74-75).

San Giovanni Bosco diceva a San Domenico Savio che ciò che turba e toglie la pace non viene da Dio.
Sant’Antonio abate diceva che il mezzo più efficace per sbaragliare i demoni è la gioia spirituale che
esclude gli scrupoli.
Sant’Ignazio di Loyola raccomandava di: “non fare quello che dà angoscia” .
San Francesco di Sales, Dottore della Chiesa assicura: “L’amore si trova solo nella pace”.

Scrive infatti San Paolo che: “Il frutto dello Spirito… è amore, gioia, pace…” (Gal 5,22).

Per le anime scrupolose

12
Gli scrupoli, essendo una manifestazione patologica della psiche, non danno una corretta percezione
psicologica della realtà dell’amore di Dio che agisce in noi.
Così le anime scrupolose, anche se continuano sempre a sperare, non sono psicologicamente nella pace.
Hanno però la fede di credere che la Chiesa, che è madre e maestra, con la sua autorità raccomanda di stare
tranquilli, e questa consapevolezza cambia “colore” alla patologia che si manifesta con gli scrupoli, non
spegnendo la speranza anche in mezzo alla prova più dura.

Perché gli scrupoli se agisce la grazia?


Gli scrupoli sono i sintomi di una vera patologia che, come tutte le patologie, la grazia può guarire, ma che,
come per tutte le patologie, la guarigione non è scontata.
E se non avviene, la grazia non è che non agisce: agisce ugualmente, ma rispettando la natura, che è malata.
A questo punto l’anima scrupolosa deve affidarsi, per come può, alla Chiesa, che ha sviluppato nei riguardi
degli scrupolosi una serie di regole e una pastorale improntate all’amore e alla misericordia, e perciò
estremamente realiste e concrete.

Dice la Chiesa che gli scrupolosi devono impiegare poco tempo nell’esame di coscienza e devono
occuparsene solo poco prima di cominciare la Confessione e, poi, devono affidarsi al confessore e ubbidirgli
in modo cieco e assoluto.

Inoltre, ma questo vale per tutti, la Confessione va compendiata senza scendere in tante particolarità e
circostanze, a meno che le circostanze non facciano cambiare SPECIE al peccato.
Perciò non ci si deve dilungare nei dettagli, se questi non cambiano il genere del peccato e, se i dettagli sono
turpi, non vanno neanche specificati: va confessata l’essenza del peccato.
La Confessione in se stessa deve essere essenziale e in genere deve durare pochi minuti al massimo.
Naturalmente per la direzione spirituale (specialmente gli scrupolosi è bene che abbiano un direttore
spirituale), così come per chi ha bisogno di particolari consigli, il discorso cambia.

Per riottenere la grazia divina dopo un peccato mortale basta un atto di contrizione perfetta (o semplicemente
contrizione), ma per accostarsi di nuovo alla Comunione occorre prima la Confessione.
Ma già l’atto di contrizione dona la giustificazione davanti a Dio.

La contrizione perfetta, che consiste nel pentimento dei peccati dovuto all’amore per Dio e non alla paura
dell’inferno, è facile da ottenere: occorre desiderare la grazia e chiederla sinceramente.
Basta perciò fare proprie con la volontà (non necessariamente col sentimento) le parole dell’atto di dolore.
Basta un atto sincero di volontà.

La contrizione perfetta non esclude quella imperfetta (o attrizione), che da sola, senza la Confessione, non
ottiene la grazia divina in quanto non è dovuta all’amore, ma al timore. Anzi, in gran parte dei casi sono
presenti ambedue le specie di contrizione: quella perfetta e quella imperfetta.
L’attrizione non va vista come una cosa negativa, perché predispone alla contrizione.

Se la contrizione perfetta dei peccati mortali, cioè il pentimento dovuto, almeno in parte, all’amore verso
Dio, ridona la grazia santificante, la contrizione perfetta dei peccati veniali aumenta la grazia santificante
nell’anima.

Come si può essere moralmente certi della propria contrizione?


Per molti moralisti di sicura dottrina basta che si trovi in se stessi i segni della contrizione, e cioè il dolore
per i peccati passati (il dispiacere di averli commessi, che può sussistere, come detto, anche col timore) e il
proposito di non peccare più, che non esclude né il dubbio, né il timore, né una certa previsione che in futuro,
data la propria fragilità, si possa ricadere.

Molto importante per gli scrupolosi è sapere che la Chiesa dice che, per peccare coi pensieri, in genere
occorre che ci sia proprio la volontà manifesta di voler peccare.
L’intenzione remota, infatti, precede i moti.
I “moti primi” sessuali, inoltre, non sono mai nemmeno peccato veniale.

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Un monaco del deserto diceva al suo discepolo: “Che il tuo pensiero vada dove vuole, ma che il tuo corpo
rimanga nella cella”.
Perseverare nella cella rappresenta una scelta, mentre il pensiero non è una scelta. Che esso vada pure dove
vuole: se il combatterlo toglie la tranquillità, è volontà di Dio lasciarlo andare dove vuole.
L’importante è la scelta interiore che non lo si accetta, anche se non lo si combatte, visto che il
combattimento in caso di anime scrupolose è sconsigliato dai grandi moralisti.

Se certi peccati non li abbiamo commessi perché non ci si è presentata l’occasione, è perché Dio ci ha
preservato. Non bisogna perciò chiedersi come ci saremmo comportati se vi fosse stata l’occasione.
Del resto Dio dona la grazia attuale solo al momento del bisogno per superare le prove.

Per la Chiesa l’interpretazione a favore del soggetto è da allargare, mentre quella che è a sfavore, è da
restringere, perché il primo compito della legge è di servire al bene dell’uomo, non di costringerlo e
limitarlo.

Per San Francesco di Sales le anime scrupolose devono considerare il loro confessore come il loro superiore
legittimo, per San Bernardo il più grande rimedio contro gli scrupoli consiste nell’ubbidienza al confessore
e per il Beato Enrico Susone, Dio non imputa agli scrupolosi le cose fatte per ubbidienza.

Non è che per gli scrupolosi la legge di Dio è diversa, semplicemente loro percepiscono la legge divina in
modo diverso da come è e da come ce la presenta la Chiesa con la sua autorità che deriva da Dio stesso.

Per questo molti santi padri e santi teologi dicono che gli scrupolosi non solo non sbagliano a ubbidire al loro
direttore spirituale, ma sono obbligati a farlo, a disprezzare gli scrupoli e ad agire secondo libertà anche in
presenza di dubbi.
Gli scrupolosi devono sempre ubbidire al direttore spirituale a meno che il precetto del direttore spirituale
non sia MANIFESTAMENTE un peccato.
Questa è la dottrina tradizionale della Chiesa e perciò è dottrina sicura, perché la tradizione della Chiesa non
sbaglia. Parola della Chiesa, che non sbaglia.

Non solo: la Chiesa dice che è lecito agire in contrasto con la coscienza scrupolosa anche se si teme di
commettere peccato. Il timore infatti in tal caso non forma un vero dettame di coscienza.
Gli scrupolosi possono essere certi di aver commesso un determinato peccato solo se hanno quella
CHIARISSIMA sicurezza per cui possono attestarlo con giuramento davanti a Dio.
Se non hanno questa certezza, sono esentati dall’accusa del fatto in Confessione.
Di fatto nello scrupoloso che ha dubbi, è quasi impossibile che si abbia la certezza CHIARISSIMA di aver
peccato gravemente. No fosse altro perché di chiaro ha ben poco.

Dice il grande teologo Jean Gerson che, quando agli occhi del confessore è certa nello scrupoloso la volontà
abituale di non voler peccare gravemente, è anche certo che, se anche opera nel dubbio, non pecca.

Per Padre Pio il timore che un’anima ha di offendere Dio, è la prova che non lo offende.

San Filippo Neri VIETAVA agli scrupolosi di confessarsi spesso, e quando nel confessionale i penitenti
manifestavano degli scrupoli, li mandava alla Comunione senza ascoltarli.

La confessione è obbligatoria prima della Comunione quando la coscienza rimprovera un peccato mortale
VERO e CERTO.

Perché il peccato sia grave, occorre che CONTEMPORANEAMENTE vi siano queste tre condizioni:
materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che il timore, la violenza, e altre circostanze, attenuano il peccato
che, perciò, può anche cambiare di “specie”, cioè diventare veniale.

14
Se, con la ragione illuminata dalla fed, c’è il dubbio che un peccato sia grave, la Chiesa non obbliga alla
confessione, in quanto presuppone che, mancando la piena avvertenze e il deliberato consenso, il peccato
non sia grave.

Come non tutti i peccati sono mortali, così non tutte le norme della Chiesa obbligano gravemente: questo è
molto importante da sapere per un’anima scrupolosa.

Inoltre, la legge dubbia non obbliga.


La Chiesa, a parte casi particolari, ammette anche il sistema morale del Probabilismo, per cui quando è
incerta l’esistenza o l’interpretazione della legge, può essere seguita qualunque opinione, purché, secondo il
consenso di una persona prudente, abbia delle probabilità, anche se minoritarie, che sia la scelta giusta.

Bisogna agire secondo la certezza umana dell’uomo prudente.


Per cui, se sorge il dubbio che il sacerdote abbia veramente assolto, o se il Battesimo sia veramente
avvenuto, ecc., se non ci sono motivi veramente seri e ragionevoli per dubitarne, allora occorre agire come se
fossero avvenuti, perché così è e, comunque, anche non fosse, così vuole la Chiesa.
Come si dice: “Supplet Ecclesia”: supplisce la Chiesa.

I Primi nove venerdì del mese


San Giovanni della Croce, dottore della Chiesa, dice che la fede, per rimanere pura, deve appoggiarsi alla
dottrina della Chiesa e non alle rivelazioni private, e dice anche che, delle rivelazioni private, si deve
ammettere solo ciò che è conforme alla ragione e al Vangelo. Per cui l’approvazione delle rivelazioni private
è molto importante, sia riguardo alla sicurezza del messaggio, che alla corretta ricezione di esso da parte del
popolo dei credenti.

Naturalmente se una rivelazione privata è autentica, lo è anche prima di essere approvata, ma con
l’approvazione la Chiesa “traduce” il senso della rivelazione per il popolo di Dio secondo un sicuro
linguaggio dottrinale, indicandone la corretta interpretazione.
In tal senso la rivelazione privata può dare il suo contributo all’approfondimento della dottrina.

La norma di comportamento riguardo alle rivelazioni private è la prudenza (che non è sinonimo di chiusura),
in modo da non essere creduloni. Satana infatti può travestirsi da angelo di luce, e Gesù stesso, nel Vangelo,
ci dice di non credere ai falsi messia e ai falsi profeti.

Perciò il riconoscimento di una rivelazione privata da parte della Chiesa lo rende più sicuro e, anche, ne
rafforza l’efficacia, perché Gesù ha detto agli Apostoli: “tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato
anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18,18).
Un po’ come se la rivelazione privata fosse rivelata agli uomini due vote: prima attraverso il profeta, poi
attraverso la Chiesa, che, è da credere, ne “allarga” il canale in cui scorrono le grazie.

L’Apostolo Giovanni ci rassicura: “Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il
timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore” (1GV 4,18).
Ma se l’amore è sempre perfetto, noi siamo imperfetti e perciò viviamo imperfettamente l’amore di Dio, per
questo Dio ci viene in soccorso anche attraverso delle rivelazioni private, come quelle del Sacro Cuore di
Gesù: egli ci vuole rendere perfetti nel suo amore che è sempre perfetto.

Gesù ha detto che avrebbe continuato la sua opera attraverso i suoi discepoli (Gv 14,12-14) manifestando
opere ancora più grandi di quelle da lui operate durante la sua missione terrena (Gv 5,20).
Ciò significa che il Vangelo continua oggi non finendo mai di stupire, sia sotto l’aspetto della sua
comprensione, sia attraverso le sue opere sempre originali.

Perciò, come le opere di teologia dei santi non aggiungono nulla al Vangelo, ma prendono dal Vangelo e lo
spiegano, così avviene delle opere che manifestando la Misericordia divina. Ad esempio, la devozione al
Sacro Cuore di Gesù e la pratica dei Primi nove venerdì del mese raccomandata dal Sacro Cuore.

15
La promessa di salvezza eterna fatta dal Sacro Cuore di Gesù a chi si comunica, con lo scopo di soddisfare a
tale promessa, il primo venerdì del mese per nove mesi consecutivi, detta Grande promessa, non è forse
conseguenza della volontà di Gesù, espressa nel Vangelo, che l’uomo chieda a Dio, ottenendoli, soprattutto i
beni più grandi? E non è forse quasi una conseguenza della promessa di salvezza di Gesù al Buon ladrone?

Perché la Grande promessa? E’ un mistero, ma qualche considerazione si può fare.


Ad esempio che la nostra durezza di cervice, opponendosi alla comprensione dell’amore di Dio che si
manifesta nel Vangelo, ci ostacola nel credere come si deve alle promesse di Gesù riportate nel Vangelo.
Di conseguenza, attraverso la Grande promessa, è un po’ come se Dio ci invitasse a rileggere il Vangelo
attraverso quella chiave di lettura, per scoprire quanto è grande ed efficace il suo amore.
La Grande promessa in un certo senso ci “rivela” meglio la Rivelazione e manifesta il Vangelo che si fa
storia di salvezza attraverso una grazia speciale (quella della Grande promessa) ordinata alla grazia
santificante.

Se pure la salvezza non è un diritto acquisito una volta per tutte, il Sacro Cuore ci dimostra che, come dice la
Chiesa, attraverso un qualche tipo di rivelazione privata (personale come quella avuta da San Francesco, o
offerta a tutti per mezzo di un profeta o un veggente), possiamo ottenere una sicurezza morale della salvezza
che, anche a livello umano, ci può dare la tranquillità che il nostro cuore agogna.

La pratica dei Primi nove venerdì del mese è come una “regola” che fa riottenere la giustificazione anche se
si dovesse cadere gravemente: se tenersi pronti per la venuta del Signore è una garanzia di salvezza per la
nostra anima, i Primi nove venerdì del mese sono una garanzia che, almeno al momento giusto, saremo
pronti.

La Grande Promessa di Gesù afferma: “Io ti prometto, nell’eccessiva misericordia del mio Cuore, che il suo
amore onnipotente accorderà a tutti coloro che si comunicheranno per nove primi venerdì consecutivi, la
grazia della penitenza finale. Essi non morranno nella mia disgrazia, né senza ricevere i sacramenti, perché
il mio cuore diventerà il loro sicuro asilo in quell’ultimo momento”.

L’unica cosa richiesta è, perciò, quella di fare la Comunione eucaristica il primo venerdì di nove mesi
consecutivi a motivo della Grande promessa.
E’ superfluo dire che le Comunioni devono essere fatte, come tutte le Comunioni, in grazia di Dio e, in caso
di peccato mortale, dopo essersi confessati.

Per ottenere gli effetti delle promesse del Sacro Cuore e in particolare della promessa legata alla pratica dei
Primi nove venerdì del mese, non occorre un fervore particolare, come invece è condizione richiesta da altre
promesse del Cielo fatte attraverso rivelazioni private, perché il Sacro Cuore non ne parla.
Le promesse del Sacro Cuore richiedono, oltre alla fede ordinaria, una fiducia umana nella Promessa del
Sacro Cuore, analoga alla fede soprannaturale che viene richiesta per credere nella Presenza reale di Gesù
nell’Eucaristia.
Non è perciò necessaria la fede che ottiene i miracoli che, ovviamente, se c’è, è meglio.

Come la fede va creduta soprannaturalmente, così come dice la Chiesa, le rivelazioni private vanno credute
umanamente, così come dice la Chiesa (anche se non si è obbligati). Con lo stesso “stile”, anche se sono cose
diverse, cioè anche se sono due tipi di certezze diverse, una soprannaturale e l’altra naturale.

Come la fede è un assenso della ragione a una proposta soprannaturale di Dio, così il credere alla Grande
promessa è un assenso della ragione alla più certa delle rivelazioni private, che si manifesta come una
speciale profezia data attraverso un’esperienza mistica a una santa.

Come le rivelazioni private del Sacro Cuore di Gesù sono state le più esaminate e vagliate dalla Chiesa, la
Grande promessa, tra tutte le promesse del Sacro Cuore, è stata la più esaminata e la più vagliata.
La Chiesa perciò invita a credervi. Non come fosse un dogma, ma con la più convinta fede umana.

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Perciò la Grande promessa è la rivelazione privata più sicura, e i frutti spirituali che ne provano l’efficacia
appaiono evidenti.

Se fosse possibile, se qualcuno rifiutasse la salvezza in punto di morte si dannerebbe anche avesse fatto i
Primi nove venerdì del mese, ma Gesù ha detto che non sarà così semplicemente perché, chi li ha portati a
termine con le giuste disposizioni, non rifiuterà la salvezza. Egli sa tutto e sa che è così.
A chi rifiuta la salvezza Dio non permette che adempia tale pratica: egli è il Signore anche della storia.
Dio è onnipotente e perciò può conoscere il destino di tutti senza intaccarne la libertà, ma, anzi, stimolandola
al bene, come fa attraverso la Grande promessa. E’ un mistero che in Paradiso ci stupirà.

La Chiesa, che ha trovato la Grande promessa conforme al cuore stesso del Vangelo, se ne è addirittura
“appropriata”, tanto che, pur non obbligando a credervi, non solo la propone come la devozione in assoluto
più degna di essere creduta e ha canonizzato Santa Maria Margherita Alacoque che l’ha ricevuta, ma l’ha
diffusa anche attraverso atti di Magistero papale!

Come detto, le rivelazioni avute da Santa Maria Margherita Alacoque, e in particolare le 12 promesse del
Sacro Cuore, sono state meticolosamente esaminate dalla Sacra Congregazione dei Riti e approvate
totalmente. Approvazione poi confermata nel 1827 da Papa Leone XII.
Successivamente Papa Leone XIII, nella sua Lettera Apostolica datata 28 giugno 1889, ha invitato a
rispondere alle esortazioni del Sacro Cuore di Gesù in vista delle “ammirabili ricompense promesse”.

La dodicesima promessa, cioè la Grande promessa, dopo essere stata attentamente vagliata dalla Chiesa, fu
approvata nonostante che, nel 1753, la Santa Sede avesse condannato tutte le pratiche e le devozioni che
promettevano la perseveranza o la conversione finale.
Una presa di posizione straordinaria, tanto più che il Concilio di Trento aveva dichiarato infallibilmente che
nessuno può essere certo della propria salvezza in modo assoluto “senza una speciale rivelazione”.
Di conseguenza la Grande promessa è riconosciuta dalla Chiesa come una speciale rivelazione, valevole per
tutti, capace di dare la certezza umana più grande e perciò di donare tranquillità e aumentare il fervore.

Il Mese del Sacro Cuore fu solennemente approvato dalla Santa Sede il 21 luglio 1899.

Da allora i Papi, coloro che Gesù ha detto che detengono le chiavi del regno, hanno incoraggiato la pratica
del Primi venerdì innumerevoli volte, e Papa Benedetto XV volle autenticare la Grande promessa nel modo
più solenne riportandola testualmente e interamente nella Bolla Apostolica di canonizzazione di Santa Maria
Margherita Alacoque (Acta Ap. Sedis 2 novembre 1920 – vol. XII – pag 503).
Dubitare di questa promessa sarebbe temerario.

La Madonna, presso la Grotta delle Tre Fontane, a Roma, disse a Bruno Cornacchiola che la sua salvezza era
dovuta ai Primi nove venerdì del mese fatti da giovane.

Come aveva vissuto Cornacchiola questa pratica?


Sicuramente con sincerità, ma quando ancora non poteva definirsi un cattolico “stabile”.
Infatti Cornacchiola la portò a termine prima dell’apparizione della Madonna e della sua conseguente
conversione, per compiacere alla moglie.

A quel tempo Bruno Cornacchiola, comunista e protestante, cercava di convertire la moglie al


protestantesimo anche attraverso maltrattamenti, ma inutilmente. Allora la moglie gli propose un patto:
confessarsi e comunicarsi e praticare i Primi nove venerdì del mese. Se, alla fine, fosse rimasto protestante,
ella avrebbe abbandonato la Chiesa, ma se lui avesse cambiato idea, sarebbe tornato nella Chiesa.
Egli accettò e, se così si può dire, tornò momentaneamente cattolico per poter praticare i Primi nove venerdì
del mese.

Ma alla fine di tale pratica Bruno Cornacchiola non “sentì” nulla e riprese a essere protestante, e la moglie lo
seguì. Questo finché non gli apparve la Madonna.

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Cornacchiola era confuso, ma praticò i Primi nove venerdì del mese di cuore: con la fede ancora vacillante
che aveva e con la fiducia umana nella Grande promessa. Ed è bastato.
Dio, che guarda alla sincerità del cuore e viene sempre incontro all’uomo, ha così considerato validi i Primi
nove venerdì del mese di Bruno Cornacchiola!

Successivamente Cornacchiola, vedendo che quello che gli aveva promesso la Madonna durante
l’apparizione alle Tre Fontane tardava a realizzarsi, tornò a vacillare, arrivando a minacciare di sterminare la
famiglia e uccidersi, ma come su Davide lo Spirito di Dio era sceso e, nonostante i peccati, vi rimase per
sempre (2Sam 7,4-17), così su Cornacchiola.

E questo grazie ai Primi nove venerdì del mese, una devozione non solo facile da farsi e autenticata dalla
Chiesa, ma anche efficacissima, cioè ricolma di grazia divina più di altre devozioni.
Grazia che, oltre a garantire la salvezza dell’anima, agisce per aumentarne il grado di santificazione
“secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno” (Rom 12,3).

INDICE
Introduzione

Dio ci ama

La misericordia di Dio: carità divina nella verità

La misericordia divina nella pietà cristiana

L’amore di Dio e l’inferno

Fiducia in Dio

Pregare per la salvezza

Dio ci vuole tranquilli

Per le anime scrupolose

I Primi nove venerdì del mese

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