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Critica del testo

VIII / 3, 2005

viella
Gaia Gubbini

La ponha d’amor e la cadena:


ferite e catene trobadoriche tra Jaufre Rudel,
Raimbaut d’Aurenga e Bertran de Born

Amare
crucior,
morior
vulnere, quo glorior.
Eia, si me sanare
uno vellet osculo,
que cor felici iaculo
gaudet vulnerare!
Estas in exilium, CB 69

Nella lirica rambaldiana Un vers farai de tal mena [BdT 389,


41] il rimante gaug, termine chiave del lessico trobadorico della
fin’amor, si ripete, sovrano, dilagante, al terzultimo verso di ogni
cobla1. Se gaug può adombrare, come è stato rilevato2, una “gioia”
di tipo corporeo, carnale – analogamente forse a quanto avverrà per
la gioia guittoniana3 –, e se per di più in alcuni versi della lirica
rambaldiana il rimante non a caso si inserisce in sintagmi, contesti
che sembrano alludere esplicitamente alla richiesta del “compi-
mento” amoroso, una “frattura” interiore sembra tuttavia percorrere

1. Riprendo e sviluppo alcuni temi affrontati nella mia tesi di laurea, discus-
sa il 18 luglio 2002, dal titolo Il Tatto amoroso nella lirica trobadorica, relatore il
prof. R. Antonelli, correlatore il prof. P. Canettieri.
2. Cfr. Ch. Camproux, Le joy d’amour des troubadours, Montpellier 1965;
cfr. anche M. L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. Ricezione e riuso dei testi
lirici cortesi fino al XIV secolo, Torino 1992, p. 77.
3. Cfr. L. Leonardi, Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti d’amore del
codice Laurenziano, Torino 1994, in part. cfr. p. XXXIX.

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l’intero testo di Raimbaut: quella fra desiderio, anzi eccesso di de-


siderio, e compimento dello stesso, come emblematicamente mo-
strano, immediatamente dopo i due versi iniziali, i vv. 3-5: «mas
tant ai rica entendensa, / per que n’estauc en bistensa / que non po-
sca complir mon gaug»4.
Ossimori e paradossi costituiscono le fibre stesse del testo
rambaldiano Un vers farai de tal mena, come esemplarmente mo-
strano le immagini della pena che salta e danza – cfr. vv. 15-16:
«Per o si·n sofre’eu gran pena / qu’ins e mon cor sal e tresca» –,
oppure il gran desiderio che frena il cuore che “pesca senz’acqua”
– cfr. vv. 50-51: «Mas ben grans talans afrena / mon cor que ses
aiga pesca». Spiccano, nel mezzo della lirica, due strofe, intera-
mente dedicate ai temi della ferita e della catena amorose, rappre-
sentate rispettivamente ai vv. 22-28 e subito dopo ai vv. 29-32:

Ben m’a nafrat en tal vena


est’amors qu’era·m refresca,
don nuls metges de Proensa
ses lei no·m pot far garensa
ni mezina que·m fassa gaug:
ni ja non er que escriva
lo mal que ins el cor m’esconh
Qu’amors m’a mes tal cadena
plus doussa que mel de bresca:
quan mon pessars encomensa,
pois pes que·l dezirs me vensa5.

Questa stretta contiguità fra l’elemento del vulnus e quello del


laqueus richiama alla mente l’analoga progressione dei primi due
gradi dell’amore-caritas nel De quatuor gradibus violentae carita-
tis di Riccardo di S. Vittore:
4. Si cita da L. Milone, El trobar ‘envers’ de Raimbaut d’Aurenga, Barcelo-
na 1988, pp. 103-107; per la lirica Aissi mou un sonet nou cfr. Id., Cinque canzoni
di Raimbaut d’Aurenga (389, 3, 8, 15, 18 e 37), in «Cultura neolatina», 64 (2004),
pp. 7-185, in part. pp. 7-47; per il testo En aital rimeta prima si cita invece ancora
da W. Pattison, The Life and Works of the Troubadour Raimbaut d’Orange,
Minneapolis 1952, pp. 72-75.
5. Cfr. Milone, El trobar ‘envers’ cit., pp. 103-107. Miei i corsivi in tutto il testo.
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Ecce video alios vulneratos, alios ligatos, alios languentes, alios deficientes;
et totum a caritate. Caritas vulnerat, caritas ligat, caritas languidum facit, ca-
ritas defectum adducit.(…) Vultis audire de caritate vulnerante? Vulnerasti
cor meum, soror mea, sponsa, in uno oculorum tuorum et uno crine colli tui.
Vultis audire de caritate ligante? In funiculis Adam traham eos in vinculis
caritatis. (…) Caritas vincula habet, caritas vulnera facit6.
Primum enim gradum diximus qui vulnerat, secundum qui ligat7.
Il vulnus e il laqueus sembrano quindi configurarsi come ele-
menti fondanti l’aspetto patiens8 del discorso amoroso – di quello
sacro, come di quello profano – e, per così dire, della corporeità
nella lirica trobadorica: a partire dal luogo rambaldiano in questio-
ne, proviamo a seguirne alcuni snodi lirici.
Raimbaut d’Aurenga sembra essere fra i primi ad impiegare
il verbo nafrar9. In particolare, l’attestazione del lemma nafrar e
del tema della ferita nella lirica rambaldiana Un vers farai de tal
mena sembra possedere una dimensione assolutamente “corpo-
rea”, come ben mostra il raro rimante vena10, luogo dello strazio
6. Riccardo di San Vittore, De quatuor gradibus violentae caritatis, a cura di
M. Sanson, Parma 1993, cap. 4, p. 64; si veda inoltre l’introduzione della curatrice
al trattatello di Riccardo per le analogie con la lirica trobadorica.
7. De quatuor gradibus cit., cap. 7, p. 70.
8. Si utilizza qui la formula “aspetto patiens” per indicare la sfera dolorosa e
patita, subìta dall’io lirico, con un valore simile a quello posseduto dall’espressio-
ne «tratto patico», impiegata da Paul Ricoeur a proposito della memoria storica:
«Prima di parlare, il testimone ha visto, sentito, provato (…), insomma è stato
“impressionato”, colpito, choccato, ferito, in ogni caso raggiunto e toccato dal
fatto. Ciò che il suo dire trasmette è qualcosa di quell’esser-impressionato da; in
questo senso si può parlare dell’impronta del fatto anteriore, anteriore alla testi-
monianza stessa, impronta di una certa foggia trasmessa dalla testimonianza, che
comporta una faccia di passività, di páthos (…). Questo tratto “patico” si ritrova
al livello della coscienza storica nella forma dotta assegnatale da Gadamer, quan-
do parla della “coscienza dell’effetto della storia” (Wirkungsgeschichtliches
Bewußtsein), espressione che possiamo tradurre con l’esser-impressionato dalla
storia» (cfr. P. Ricoeur, Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen –
Verzeihen [1998], tr. it. Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato,
Bologna 2004, p. 18).
9. Indagine condotta sul database Trobadors. Concordanze della lirica tro-
dadorica, a cura di R. Distilo, Roma 2001.
10. Il rimante vena compare infatti solo 4 volte, di cui due in contesto schiet-
tamente amoroso: cfr., oltre all’attestazione rambaldiana, l’occorrenza di Bernart
Marti, Amar dei, v. 35 «tant ha blava vena», in F. Beggiato, Il trovatore Bernart
Marti, Modena 1984, pp. 53-64.

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metaforico: «Ben m’a nafrat en tal vena / est’amors qu’era·m re-


fresca»11.
Il precedente di tale dimensione “corporea” della ferita – forse
non sul piano lessicale, ma con ogni probabilità in termini espres-
sivi – sembra essere Jaufre Rudel, forse il primo ad introdurre nella
lirica cortese dei trovatori il motivo della “ferita gioiosa”, presente
anche nella coeva produzione mediolatina: non pare infatti di poter
annoverare fra le “ferite cortesi” né quelle inferte dal gatto rosso al
falso pellegrino del testo guglielmino Farai un vers, pos mi sonelh,
né le punture marcabruniane dell’amars12, in contesti, quindi, ri-
spettivamente ironico e moralistico.
In particolare, Jaufre Rudel, in due luoghi molto importanti del
suo corpus lirico, verbalizza il tema della ferita attraverso i termini
ponha, ponher, colps, ferir, espina. Segnatamente, abbiamo colps,
ponha, e ferir in Non sap chantar qui so non di, vv. 13-8:

Colps de joi me fer, que m’ausi,


e ponha d’amor que·m sostra
la carn, don lo cors magrira;
et anc mais tan greu no·m feri
ni per nuill colp tan no langui,
quar no conve ni no s’esca. a a

e il participio presente ponhens congiuntamente al lemma espina in


Quan lo rius de la fontana, vv. 22-28:

De dezir mos cors no fina


vas selha ren qu’ieu plus am,

11. Raimbaut d’Aurenga, Un vers farai de tal mena, vv. 22-23, in Milone, El
trobar ‘envers’ cit., pp. 103-107.
12. Cfr. Farai un vers, pos mi sonelh, vv. 69-70 in Guglielmo IX, Poesie, ed.
critica a cura di N. Pasero, Modena 1973, pp. 113-155. Cfr. anche Marcabruno, Dire
vos vuoill ses doptanssa, v. 65, in Marcabru. A critical edition, by S. Gaunt, R. Har-
vey and L. Paterson, Cambridge 2000, pp. 237-263. Per la ponha d’amor rudelliana
rispetto alle “punture” del moralista Marcabruno cfr. L. Spitzer, L’amour lointain de
Jaufré Rudel et le sens de la poésie des troubadours, Chapel Hill 1944, in part.
p. 48, luogo del saggio già commentato da C. Bologna, Da Poitiers a Blaia: prima
giornata del pellegrinaggio d’amore, Messina 1991, p. 34.
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e cre que volers m’enguana


si cobezeza la·m tol;
que plus es ponhens qu’espina
la dolors que ab joi sana:
don ja non vuoill c’om m’en planha13.

In entrambi i casi, risulta evidente il legame con la sfera della


corporeità, forte, in particolare, nella ponha che sostra / la carn14;
si tratta però di una presenza “corporea” inserita in una dimensione
“sospesa”, incantata, astratta. L’ossimoro del colps de joi, per cui è
stato richiamato il concetto di “telefismo”15, sembra poi incremen-
tare tale stato paradossale e avvicinare sul piano stilistico la verba-
lizzazione rudelliana della ferita – come del resto magistralmente
rilevato da Spitzer che parlava appunto per Jaufre Rudel di «amour
chrétien transposé sur le plan séculier»16 – alla mistica cristiana. Se
infatti Amore ferisce da sempre, fin da Ovidio, che raffigura Amo-
re come pharetratus puer17, la ferita sembra però divenire un male
ricercato, amato, desiderato – e probabilmente necessario – in par-
ticolare dopo l’avvento del cristianesimo; sembra ovvero costituirsi
una “mistica della ferita” che stinge anche nella lirica amorosa pro-
fana, analogamente a quanto ricostruito da Erich Auerbach per lo

13. I passi di Jaufre Rudel si citano dall’edizione a cura di G. Chiarini, Il


canzoniere di Jaufre Rudel, L’Aquila 1985; in particolare per i due componimenti
menzionati cfr. rispettivamente pp. 55-63 e 73-84.
14. Sulla ferita inguaribile di Jaufre cfr. Bologna, Da Poitiers cit., pp. 42-48.
Sull’influenza della mistica sulle ferite rudelliane cfr. L. Lazzerini, La trasmuta-
zione insensibile. Intertestualità e metamorfismi nella lirica trobadorica dalle ori-
gini alla codificazione cortese, in «Medioevo romanzo», 18 (1993), 2, pp. 153-
205, in part. p. 192; 3, pp. 313-369.
15. Cfr. Bologna, Da Poitiers cit., pp. 33-35.
16. Cfr. Spitzer, L’amour lointain cit., pp. 1-2.
17. Ov., Met. X, 525. Cfr. H. Unger, De Ovidiana in Carminibus Buranis
quae dicuntur imitatione, Argentorati 1914, per la ripresa di temi ovidiani nella
lirica mediolatina. Per l’onnipresenza di Ovidio nella letteratura medievale e in
particolare nella lirica trobadorica cfr. Au. Roncaglia, Carestia, in «Cultura neola-
tina», 18 (1958), pp. 121-137, in part. p. 131; L. Rossi, I trovatori e l’esempio o-
vidiano, in Ovidius redivivus. Von Ovid zu Dante, a cura di M. Picone e B. Zim-
mermann, Stuttgart 1994, pp. 105-148; L. Rossi, Ovidio, in Lo spazio letterario
del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, volume III La ricezione del testo, Roma
2003, pp. 259-301, in part. pp. 265-276.

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sviluppo semantico del termine passio nel breve e illuminante sag-


gio Gloria passionis. Lo studioso scorgeva infatti la radice del-
l’evoluzione semantica del lemma passio nell’influenza della mi-
stica della Passione «col suo accostamento fra passio ed estasi»18, e
concludeva: «Ciò che a mio giudizio passio-Leidenschaft ha attinto
dalla mistica della passione è l’approfondimento del contenuto
“sofferenza” in un senso polare, per il quale essa può significare in
pari tempo rapimento ed entusiasmo»19.
Ma è possibile rintracciare per la ferita “gioiosa” rudelliana se
non delle fonti puntuali, almeno dei paralleli più circoscritti in am-
bito religioso e patristico? Varrà forse la pena di soffermarsi sulla
questione con un rapido excursus, prima di riprendere la nostra in-
dagine all’interno del trobar.
Di recente Lino Pertile, analizzando il sintagma dantesco la
punta del disio di Paradiso XXII, v. 26, ha stringentemente chia-
mato in causa Gregorio Magno, in particolare in espressioni quali
compunctio amoris, desiderio compunctus20. L’analisi di Pertile
prosegue poi nell’esame di termini quali acies, stimulus in S. Ber-
nardo, e nella traduzione latina dell’opera di Origene; ancora, torna
indietro, fino alla tradizione classica del motivo “puntura d’amore”
– di cui rileva l’impiego in senso «del tutto negativo»21 –, per riap-
prodare, infine, alle presenze dantesche del tema.
Mi sembra invece non sia stato sinora rilevato, se ho visto be-
ne, che alla compunctio amoris di Gregorio Magno sembra forte-
mente avvicinarsi la rudelliana ponha d’amor. Sarà tuttavia oppor-
tuno non fermarsi alla quasi sovrapponibilità dei sintagmi ponha
d’amor / compunctio amoris, e provare invece a indagare se vi sia-
no altri paralleli fra le attestazioni delle ferite del corpus lirico di
18. Cfr. E. Auerbach, Gloria passionis in Literatursprache und Publikum in
der lateinischen Spätantike und im Mittelalter (1958), tr. it. Lingua letteraria e
pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 1958, pp. 68-79, in
part. p. 79.
19. Ibid.
20. Cfr. L. Pertile, La punta del disio. Semantica del desiderio nella Com-
media, Fiesole (Firenze) 2005, pp. 164-166. Per i due sintagmi di Gregorio Magno
ricordati cfr. Ep. VII XXIII 58; Moralia IX LVII 60.
21. Pertile, La punta del disio cit., p. 166: «Ma, impiegando lo stilema con
connotazione positiva, cioè facendone appunto un ossimoro, i mistici stravolgono
il senso, del tutto negativo, che esso ha nella tradizione letteraria classica».
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Jaufre Rudel nei luoghi già menzionati e l’opera di Gregorio Magno,


in particolare, sulla scorta delle fondamentali riflessioni di Jean
Leclercq, nell’analisi gregoriana della compunctio22.
Gregorio Magno opera una distinzione fra compunctio timoris
e compunctio amoris:
Sed quia sub altaris nomine de compunctionis flamma sermo se intulit, ne-
cessarium puto quae sit diversitas ejusdem compunctionis ostendere. Alia
quippe compunctio est quae per timorem nascitur, alia quae per amorem,
quia aliud est per supplicia fugere, aliud praemia desiderare23.
Coloro che, liberi dai vizi carnali, sono “compunti d’amore”,
ardono di desiderio per la patria celeste:
Alii vero, a carnalibus vitiis liberi, aut longis jam fletibus securi, amoris
flamma in compunctionis lacrymis inardescunt, coelestis patriae praemia
cordis oculis proponunt, supernis jam civibus interesse concupiscunt24.
Questo ardente desiderio, risvegliato dalla compunctio amoris,
sembra riecheggiare, seppur riferito ad un amore profano, in alcuni
versi della lirica rudelliana Quan lo rius de la fontana, vv. 22-28,
dove sembra possibile ritrovare alcuni tratti comuni al passo di
Gregorio Magno anche sul piano lessicale; in particolare si segnala,
oltre al verbo ponher avvicinabile alla compunctio, il termine cobe-
zeza che si può confrontare con il concupiscunt gregoriano, e infine
dezir, da accostare a desiderare:
22. J. Leclercq, L’Amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux au-
teurs monastiques du moyen âge, Paris 1957, in part. cfr. pp. 34-35: «La com-
ponction devient une douleur de l’âme, une douleur qui a, simultanément, deux
principes: d’une part le fait du péché et de notre tendance au péché – compunctio
paenitentiae, timoris, formidinis –, d’autre part le fait de notre désir de Dieu, et
déjà de notre possession de Dieu. S. Grégoire, plus que d’autres, a mis l’accent sur
ce dernier aspect: possession obscure, dont la conscience ne dure pas, et dont, par
conséquent, naissent le regret de la voir disparaître et le désir de la retrouver. La
“componction du coeur”, “de l’âme” – compunctio cordis, animi, – tend donc tou-
jours à devenir une “componction d’amour”, “de dilection” et “de contemplation”
– compunctio amoris, dilectionis, contemplationis. La componction est une action
de Dieu en nous, un acte par lequel Dieu nous réveille, un choc, un coup, une “pi-
qûre”, une sorte de brûlure. Dieu nous excite comme par un aiguillon: il nous
“point” avec insistance (cum-pungere), comme pour nous transpercer. L’amour du
monde nous endort; mais comme par un coup de tonnerre, l’âme est rappelée à
l’attention à Dieu».
23. Gregorius I, Homiliae in Ezechielem, PL 76, col. 1070.
24. Ibid.

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De dezir mos cors no fina / vas selha ren qu’ieu plus am, / e cre que volers
m’enguana / si cobezeza la·m tol; / que plus es ponhens qu’espina / la dolors
qu’ab joi sana: / don ja non vuolh qu’om m’en planha25.
Ancora, non sarà immotivato rilevare che, congiuntamente agli
altri elementi rinvenuti, anche il motivo del fuoco – rappresentato
con insistenza nei passi gregoriani in esame attraverso la doppia
presenza del termine flamma, e del verbo inardescere – è reperibile
nella rudelliana Quan lo rius de la fontana, vv. 109-110: ‹‹Pois del
tot m’en falh aizina, / no·m meravilh s’ieu n’aflam››; pur trattando-
si di motivo topico e già ovidiano, l’attestazione rudelliana sembra
costituire una delle prime presenze “cortesi” del tema in ambito
trobadorico.
L’altro luogo rudelliano della ferita ci ripresenta la ponha
d’amor, congiuntamente al colps de joi:
Colps de joi me fer, que m’ausi, / e ponha d’amor que·m sostra / la carn,
don lo cors magrira; / et anc mais tan greu no·m feri / ni per nuill colp tan no
langui, / quar no conve ni no s’esca. a a26.
Come è possibile notare, in entrambi i passi del corpus rudel-
liano specificamente dedicati al motivo del vulnus, un elemento
fisso è quello della “puntura”, verbalizzato attraverso i lemmi ponha
e ponhens, e corroborato dal paragone con l’espina; le altre com-
ponenti centrali sono il colps de joi e la dolors qu’ab joi sana; an-
che qui sembra possibile trovare un parallelo in alcuni passi di
Gregorio Magno, sia in termini lessicali, nella presenza “pungente”
di termini come iaculum e spiculum, avvicinabili alla ponha e
all’espina rudelliane, sia in termini concettuali, come segnalano il
motivo della ferita che sana27:
Occidit enim ut vivificet, percutit ut sanet; quia idcirco foras verbera admo-
vet ut intus vulnera delictorum curet. Aliquando autem etiam si flagella exte-
rius cessare videantur, intus vulnera infligit, quia mentis nostrae duritiam
suo desiderio percutit, sed percutiendo sanat, quia terroris suo iaculo tran-
sfixos ad sensum nos rectitudinis revocat. Corda enim nostra male sana sunt,

25. Quan lo rius de la fontana, vv. 22-28.


26. No sap chantar qui so no di, vv. 13-18.
27. Nel primo dei due luoghi gregoriani che si vanno ad esaminare sembra
rilevante, congiuntamente agli altri elementi segnalati, anche la presenza dei mo-
tivi della peregrinatio e del desiderio di “vedere”, entrambi aspetti centrali, come
è persino inutile ricordare, della celeberrima lirica rudelliana Lancan li jorn.
La ponha d’amor e la cadena 789

cum nullo Dei amore sauciantur, cum peregrinationis suae aerumnam non
sentiunt (…). Sed vulnerantur ut sanentur, quia amoris sui spiculis mentes
Deus insensibiles percutit, moxque eas sensibiles per ardorem caritatis red-
dit. (…) percussa autem caritatis eius spiculis, vulneratur in intimis affectu
pietatis, ardet desiderio contemplationis et miro modo vivificatur ex vulnere
quae prius mortua iacebat in salute. Aestuat, anhelat et iam videre desiderat
quam fugiebat28.
e il tema della compunctio che suscita in moerore laetitia:
Sed hoc inter se utraque haec differunt, quod plagae percussionum dolent, la-
menta compunctionum sapiunt. Illae affligentes cruciant, ista reficiunt, dum af-
fligunt. Per illas in afflictione moeror est, per haec in moerore laetitia29.
In conclusione, sembra si possa ipotizzare nella corporea ponha
d’amor che sostra / la carn di Jaufre Rudel una stratificazione di
materiali di diversa provenienza: l’originaria accezione medica del-
la compunctio, in cui essa «désigne les élancements d’une douleur
aiguë, d’un mal physique»30, ed il suo reimpiego in senso mistico –
soprattutto nella compunctio amoris di Gregorio Magno, «posses-
sion obscure, dont la conscience ne dure pas, et dont, par consé-
quent, naissent le regret de la voir disparaître et le désir de la re-
trouver»31 – appaiono infatti aleggiare sulla ponha d’amor e sulla
dolors plus ponhens qu’espina del corpus rudelliano.
L’attestazione del vulnus presente nella lirica rambaldiana Un
vers farai de tal mena da cui siamo partiti al principio – e cfr. in
particolare i vv. 22-23 «Ben m’a nafrat en tal vena / est’amors
qu’era·m refresca» – sembra, nella sua dimensione “corporea”, una
possibile “erede” in termini espressivi delle ferite rudelliane32. Ma,
al di là di tale sfera comune ad entrambi i testi, è possibile indivi-

28. Moralia, VI XXV 2-26, PL 76, col. 752. Questo passo di Gregorio Magno
è segnalato, sulla scorta delle osservazioni di Jean Leclercq, anche da L. Pertile ne
La puttana e il gigante. Dal «cantico dei Cantici» al Paradiso Terrestre di Dante,
Ravenna 1998, in part. p. 99, a proposito dell’analisi della “ferita d’amore che sa-
na” nell’opera dantesca.
29. Gregorius I, Moralia, PL 76, col. 275.
30. Cfr. Leclercq, L’Amour des lettres cit., pp. 34-35.
31. Ibid., p. 35.
32. Nella lirica in esame di Raimbaut d’Aurenga, Un vers farai de tal mena
– come vedremo fra poco più distesamente – sarà invece la cadena, subito dopo
l’attestazione del vulnus, ad essere in particolare definita doussa: «Qu’amors m’a
mes tal cadena / plus doussa que mel de bresca» (vv. 29-30).

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duare nella lirica rambaldiana un vero e proprio “alone” rudelliano


che sembra circondare l’intero segmento lirico dedicato al tema
della ferita, come segnala ai vv. 24-26 il riferimento insistito al-
l’ambito semantico del medico e della medicina: «don nuls metges
de Proensa / ses lei no·m pot far guirensa / ni mezina que·m fassa
gaug», che trova un suo parallelo lessicale, come già rilevato33, nel-
le liriche rudelliane Pro ai del chan essenhadors, vv. 55-56: «e
d’aquest mal mi pot guerir / ses gart de metge sapien» e Quan lo
rius de la fontana, vv. 10-11: «e no·n posc trobar meizina /si non
vau al sieu reclam». Così come, allargando lo sguardo, sembra ben
rudelliano l’andamento “ossimorico” dei versi subito seguenti il
motivo della cadena – cfr. vv. 33-34: «don per que torn en plor
mon gaug / e vau cum fai res pessiva?»34– nonché, come invece già
notato35, la posizione “forte” del rimante lonh36, alla fine della co-
bla esordiale.
Ritornando all’impiego rambaldiano del verbo nafrar, si se-
gnala che il lemma viene utilizzato da Raimbaut d’Aurenga anche
in un’altra lirica interessante per il motivo della ferita, ossia in Ais-
si mou un sonet nou: tale attestazione rambaldiana del vulnus appa-
re ancora una volta fortemente rudelliana per la presenza, come è
già stato segnalato37, del sintagma de loing, nonché per il riuso del
termine colps, su cui, come s’è visto, già insisteva per ben due vol-
te nel giro di 5 vv. la ferita “gioiosa” della lirica di Jaufre Rudel
Non sap chantar qui so non di:

33. Cfr. le osservazioni di Milone, El trobar ‘envers’ cit., p. 203. Sulla ferita
di Jaufre cfr. Bologna, Da Poitiers cit., pp. 42-48.
34. Milone, El trobar ‘envers’ cit., p. 105. Si segnala una tenue memoria ru-
delliana anche al v. 28 di Un vers farai de tal mena: «lo mal que ins el cor
m’esconh» che sembra infatti richiamare il v. 30 della lirica di Jaufre Pro ai del
chan essenhadors: «ves l’amor que ins el cor m’enclau».
35. Cfr. Milone, El trobar ‘envers’ cit., introduzione, p. 29 ss.; cfr. ancora
per l’influenza di Jaufre Rudel sulla lirica rambaldiana Aissi mou un sonet nou
p. 131, nota ai vv. 18-19 e p. 133, nota al v. 32.
36. Per la centralità ben “rudelliana” dell’aggettivo lonh nella lirica rambal-
diana Un vers farai de tal mena cfr. ibid., p. 201. Sul valore della parola-rima lonh
nella lirica rudelliana cfr. Au. Roncaglia, L’invenzione della sestina, in «Metrica»
2 (1981), pp. 3-41, in part. pp. 16-17.
37. Cfr. Milone, El trobar ‘envers’ cit., p. 201.
La ponha d’amor e la cadena 791

Amors, rim co·s voilla prim


pos m’es de latz
en que poing, qu’ab colp de loing
son pres nafratz38.

Si deve rilevare che l’elemento rudelliano del colps avrà un’im-


portante diffusione nel trobar. Lo seguiranno infatti, oltre a Raim-
baut d’Aurenga, anche Bernardo di Ventadorn, con l’evocazione del-
la lancia di Peleo in Ab joi mou lo vers e ·l comens, ai vv. 45-48
«c’atretal m’es per semblansa / com de Peläus la lansa, / que del seu
colp no podi’ om garir / si autra vetz no s’en fezes ferir»39, nonché
Arnaut Daniel nella celeberrima sestina, al v. 15 «que plus mi nafra ·l
cor que colp de verja»40 – dove sembra notevole l’eco rambaldiana,
nella compresenza di nafrar e colps 41–, per menzionarne almeno le
occorrenze centrali nella lirica trobadorica entro il XIII secolo.
Raimbaut d’Aurenga riutilizza poi il verbo nafrar anche in En
aital rimeta prima, vv. 23-26, di nuovo in co-occorrenza, come
nell’attestazione appena esaminata, con il verbo dell’ardore rimar
che qui però si affianca all’altro verbo del fuoco amoroso, ardre:

e· rosinhols s’estendilha
qe·m nafra d’amor tendilh,
si que ·l cor m’art, mas no·m rima
ren de foras, mas dinz rim42

Anche questa compresenza e vicinanza lessicale fra la ferita e


l’ardore amoroso – nonostante, come ormai ben noto, dopo i rilievi

38. Raimbaut d’Aurenga, Aissi mou un sonet nou, vv. 25-28, in Milone,
Cinque canzoni cit., pp. 57-61.
39. Ab joi mou lo vers e·l comens, vv. 45-48, in C. Appel, Bernart von Ven-
tadorn: seine Lieder mit Einleitung und Glossar, Halle 1915, pp. 1-10.
40. Lo ferm voler qu’el cor m’intra, v. 15, in Arnaut Daniel. Il sirventese e
le canzoni, a cura di M. Eusebi, Milano 1984, pp. 128-136.
41. Sull’influenza rambaldiana in Arnaut Daniel cfr. P. Canettieri, Il gioco
delle forme nella lirica dei trovatori, Roma 1996, in part. pp. 110-112 e 190-194.
42. Raimbaut d’Aurenga, En aital rimeta prima, vv. 23-26, in Pattison, The
Life and Works cit., pp. 72-75. Sulla lirica rambaldiana cfr. Canettieri, Il gioco
delle forme cit., pp. 191-194.

Critica del testo, VIII / 3, 2005


792 Gaia Gubbini

della Picchio Simonelli43, sia Bernardo di Ventadorn il trovatore


che impiega il motivo con maggiore intensità – sembra avvicinare
il passo rambaldiano alla rudelliana Quan lo rius de la fontana dove,
come abbiamo già visto, proprio qualche verso prima del vulnus, si
trova una delle prime presenze “cortesi” del tema del fuoco d’amo-
re in ambito trobadorico44.
Sembra poi corroborare in senso più generale la presenza rudel-
liana – che fin qui è sembrato di rinvenire in particolare a proposito
del tema della ferita – nelle due liriche rambaldiane Aissi mou e Un
vers farai de tal mena, oltre alla ripetizione del rimante lonh in posi-
zione “forte”, come già si ricordava, anche il riuso della rima –onh, a
quest’altezza cronologica utilizzata solo da pochi trovatori, ossia da
Jaufre Rudel nella celeberrima Lanquan li jorn, dallo stesso Raim-
baut d’Aurenga nelle due liriche in questione, da Garin lo Brun ne
E·l tremini d’estiu, da Giraut de Bornelh nella lirica Ans que veina·l
nous frugz tendres, e infine da Peire d’Alvernhe in Bel m’es plazen45.
Ma il raffinato cesello che Raimbaut opera sulla rima in -onh non ha
pari: in Aissi mou un sonet nou la rima in questione gioca sulla ripe-
tizione dei rimanti loing: poing: soing: joing; in Un vers farai de tal
mena i rimanti coinvolti, oltre al nostro lonh, sono invece sonh:
ponh: esconh: bezonh: peronh: vergonh: jonh.
Nel trobar abbiamo quindi un momento fondativo del motivo
della ferita, ed è quello rudelliano, probabilmente stratificato di ri-
ferimenti alla ferita mistica e, più in particolare, alla compunctio
amoris, soprattutto per come intesa da Gregorio Magno; un mo-
mento fondativo, quello di Jaufre Rudel, la cui memoria a livello
lessicale, rimico, espressivo sembra fortemente influenzare alcuni
passi del corpus rambaldiano.

43. M. Picchio Simonelli, Il “grande canto cortese” dai provenzali ai sici-


liani, in «Cultura neolatina» 42 (1982), pp. 201-238, in part. cfr. pp. 217-218.
44. Cfr. ancora Riccardo di S. Vittore per il tema dell’ardore amoroso nel-
l’amore-caritas: «Hic autem gradus non sicut ille superior aliquam interpolatio-
nem recipit, sed acute febris more, continuo ardore animum urit jugique desiderii
sui estu incendit, nec die nec nocte animam quiescere sinit» (De quatuor gradibus
cit., cap. 8, p. 72).
45. Cfr. A. Fratta, Peire d’Alvernhe, Poesie, Manziana 1996, pp. 40-46. Dati
tratti dal Rimario trobadorico provenzale, II Dalle origini alla morte di Raimbaut
d’Aurenga (1173), a c. di P. G. Beltrami e S. Vatteroni, Pisa 1994.
La ponha d’amor e la cadena 793

Subito dopo i versi sulla ferita, la lirica di Raimbaut d’Au-


renga Un vers farai de tal mena presenta, come già si ricordava, un
altro elemento fondamentale del lato patiens della fin’amor, il mo-
tivo del “laccio d’amore”, verbalizzato attraverso il rimante raro
cadena46.
Il rimante cadena è infatti impiegato in tutto il trobar solo 11
volte47; fra le prime attestazioni possiamo annoverare quella ram-
baldiana nella lirica in esame Un vers farai de tal mena, nonché
quella contenuta in una tenso – dall’incipit Amics Bernartz de Ven-
tadorn – tra, appunto, Bernardo di Ventadorn e un certo Peire, mol-
to probabilmente da identificare, come sostenuto prima da Appel e
poi da Fratta48, con Peire d’Alvernhe.
Queste due attestazioni sembrano poi essere di segno opposto:
dove infatti nell’occorrenza rambaldiana abbiamo un’esaltazione
della tortura-catena del desiderio, resa irresistibile dalla sua dulce-
do – cfr. vv. 29-32: «Qu’amors m’a mes tal cadena / plus doussa
que mel de bresca: / quan mos pessars encomensa, / pois pes que·l
dezirs me vensa»49 –, nella tenso fra Peire e Bernardo si assiste in-
vece ad una sorta di reprobatio amoris: Bernardo loda Dio per es-
sersi liberato della cadena che invece tiene ancora avvinti gli altri
amanti «en la follor» (cfr. vv. 12-14: «Dieu lau, fors sui de cadena /
e vos e tuich l’autr’amador / etz remasut en la follor»)50.
Per cogliere la stratificazione del concetto del “laccio” nella li-
rica amorosa bisognerà forse, sulla scorta di quanto già rilevato da
Roberto Mercuri, ricordarne la matrice biblica, patristica, cristia-
na51. In genere il laccio di cui si discorre è quello del peccato, il la-

46. Segnalo che il lemma cadena è qui rappresentativo di un ambito seman-


tico più vasto, comprendente i verbi lassar, liar, i sostantivi corda e soprattutto
latz che, nel loro insieme, sembrano costituire un parallelo “profano” e positivo
del religioso laqueus. Il parallelo proposto fra la cadena amorosa e il laqueus pa-
tristico non vuole quindi porsi su un piano strettamente lessicale, ma vorrebbe
piuttosto segnalare un’affinità, sia pure per opposita, di area concettuale.
47. Come risulta dal database Trobadors cit.
48. Cfr. Fratta, Peire d’Alvernhe cit., p. 17.
49. Un vers farai de tal mena, vv. 29-32.
50. Fratta, Peire d’Alvernhe cit., p. 21.
51. Fondamentale per il tema e per la presente analisi del laqueus nella patri-
stica R. Mercuri, Semantica di Gerione, Roma 1984, p. 47 ss. Sull’analisi di libido
e luxuria cfr. S. Conte, Libido e Luxuria dal latino alle lingue romanze: elementi

Critica del testo, VIII / 3, 2005


794 Gaia Gubbini

queus diaboli, che tiene l’uomo legato al mondo materiale e terre-


no, non permettendogli di elevarsi al cospetto divino. Spesso il la-
queus è legato alla cupiditas che, nella citazione che segue, è para-
gonata anche al gladius:
Cupiditas laqueus est diaboli, non solum laqueus, sed etiam gladius: per ipsam
miseros capit, per ipsam captos interficit52.
Quali i vari tipi di lacci che il nemico tende all’uomo?
Est enim nobis laqueus in otio, pecunia, ambitione, lascivia. Haec praeten-
duntur, haec blandiuntur, haec fallunt: sed ab his omnibus voluntas nostra est
referenda53.
Di tutti questi lacci quello che più ci interessa, ai fini della presen-
te indagine, è ovviamente quello della lussuria; così recitava il VII dei
Proverbi, commentato anche da Ambrogio nel De Cain et Abel:
Oculus meretricis, laqueus peccatoris.
Più analitico l’Ecclesiaste:
lustravi universa animo meo ut scirem et considerarem, et quaererem sapien-
tiam et rationem et ut cognoscerem impietatem stulti et errorem impruden-
tium; et inveni amariorem mortem mulierem, quae laqueus venatorum est et
sagena cor eius vincula sunt manus illius qui placet Deo effugiet eam qui
autem peccator est capietur ab illa54.
Il laqueus è trappola da evitare, esca che attrae e poi “cattura”
il collo in Agostino:
Ibi est ergo esca, ibi est laqueus; frena desiderium, et non cades in laqueum:
si autem vicerit te desiderium escae, mittit tibi collum in laqueum, et capiet
te anceps animarum55.
Salomone, sempre in Agostino, è il chiaro exemplum di come
la cupiditas sia pericoloso laccio:

per la ricostruzione di una evoluzione di significato (Orosio e L’Histoire ancienne


in If 5, 55-57), in Lessico, parole-chiave, strutture letterarie nel medioevo roman-
zo, a c. di S. Bianchini, Roma 2005, pp. 399-451.
52. Fulgentius Ruspensis, Sermones, in PL 65,739.
53. Hilarius Pictaviensis, Tractatus super psalmos, in PL 9, 678.
54. Liber Ecclesiastes, 7, 26-27, Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem,
Stuttgart 1969.
55. Augustinus Hipponensis, Enarrationes in Psalmos, in PL 37, 1810.
La ponha d’amor e la cadena 795

Nam ipse Salomon mulierum amator fuit, et reprobatus est a Deo: et usque
adeo laqueus fuit illa cupiditas, ut a mulieribus etiam idolis sacrificare coge-
retur, sicut de illo Scriptura testis est56.
Il laqueus par excellence sarà, molto più tardi, in Marbodo di
Rennes, la donna stessa:
Innumeros inter laqueos, quos callidus hostis
Omnes per mundi calles camposque tetendit,
Maximus est et quem vix quisquam fallere possit,
Femina, triste caput, mala stirps, vitiosa propago57.

Dunque, nella Bibbia e nella Patristica il laqueus si inscrive


nell’idea “peccato = prigione”, e a sua volta nella concezione del
corpus carcer, di matrice già classica, poi adottata dalla corrente
dotta della Patristica (quella di Ambrogio, Agostino, Girolamo,
Boezio, in parte influenzata anche dal Neoplatonismo)58. Come poi
già si ricordava, l’immagine dell’uomo captivus, legato da vincula,
trova un’interessante applicazione nella mistica di Riccardo di
S. Vittore, e in particolare nel suo trattato De quatuor gradibus vio-
lentae caritatis, dove il secondo grado dell’amore-Caritas incate-
na senza scampo, con calzanti analogie con l’amore terreno59, come
segnala la trobadorica metafora dell’innamorato-captivus, come
ricorda la celebre immagine del Lai d’Aristote.
Tornando al trobar, si segnala che fra la tenso Amics Bernartz
de Ventadorn e la lirica rambaldiana Un vers farai de tal mena i
rimanti in comune sono solo due, ovvero: pena: cadena60.
56. Augustinus Hipponensis, Enarrationes in Psalmos, in PL 37, 1667.
57. Marbodo di Rennes, Liber decem capitulorum, III. De muliere mala, in
Marbodo di Rennes, De ornamentis verborum. Liber decem capitulorum. Retori-
ca, mitologia e moralità di un vescovo poeta (secc. XI-XII), a cura di R. Leotta,
Firenze 1998, p. 38.
58. A tal proposito cfr. almeno I. Tolomio, «Corpus carcer» nell’Alto Me-
dioevo. Metamorfosi di un concetto in Anima e Corpo nella Cultura Medievale,
Atti del V Convegno di studi della Società italiana per lo Studio del Pensiero Me-
dievale (Venezia, 25-28 settembre )1995, a cura di C. Casagrande e S. Vecchio,
Firenze 1999, pp. 3-19.
59. Riccardo di S.Vittore, De quatuor gradibus cit., cap. 7. Cfr. anche Pertile, La
punta del disio cit., cui si può ricorrere anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
60. Cfr. A. Comes, Troia, Elena, Paride: un mito per le rime, in «Studi me-
diolatini e volgari», 44 (1998), pp. 195-212.

Critica del testo, VIII / 3, 2005


796 Gaia Gubbini

È invece con un’altra lirica, posteriore, che entrambi i testi


sembrano legarsi per mezzo di un lavoro di ripresa e di riuso: si
tratta della canso di Bertran de Born61 Casutz sui de mal en pena,
che presenta al v. 4 «Car mes m’a en tal cadena» il rimante cadena
in comune con gli altri due testi, inserito in un sintagma quasi so-
vrapponibile a quello presente nella lirica rambaldiana Un vers fa-
rai de tal mena, v. 29: «Qu’amors m’a mes tal cadena». Si segnala
poi un altro rimante comune ai tre testi, ovvero pena. Il testo di
Bertran de Born condivide inoltre con la lirica rambaldiana il ri-
mante mena, e infine, con la tenso Amics Bernartz de Ventadorn, il
binomio arena: carantena: su quest’ultimo rimante mi riservo di
tornare più avanti.
Ma quale la ratio delle riprese? Quello che subito appare evi-
dente è il “tono” della lirica di Bertran de Born, che sembra avvici-
narsi al testo rambaldiano e invece contrapporsi alla “rinuncia”
bernardiana della tenso Amics Bernartz de Ventadorn: dove, infatti,
come già ricordato, ai vv. 12-14 Bernardo afferma: «Dieu lau, fors
sui de cadena / e vos e tuich l’autr’amador / etz remasut en la fol-
lor»62, ai vv. 5-9 della lirica Casutz sui de mal en pena Bertran in-
vece sostiene: «Car mes m’a en tal cadena / Don mailla no-is de-
scontena, / Car m’atrais / Ab un esgart en biais / Una gaia, fresca
Elena»63, sottolineando così l’inalterabilità del sentimento d’amore
e quindi la persistenza della cadena.
E proprio a quest’ultimo elemento – l’ineluttabilità dell’inossi-
dabile catena amorosa – sembrano alludere ancora i vv. 3-4 «Don
ja mais / No-m descargarai del fais»64. In particolare, la cooccor-

61. Su Bertran de Born cfr. almeno P. G. Beltrami, Bertran de Born poeta ga-
lante: la canzone della dompna soiseubuda, in Ensi firent li ancessor. Mélanges de
philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, Alessandria 1996, I, pp. 101-117;
M. Mancini, Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, Bologna 1993, pp. 133-
161 e il recente contributo di S. Asperti, L’eredità lirica di Bertran de Born, in «Cul-
tura neolatina», 44 (2004), 3-4, pp. 475-525, cui ricorrere anche per ulteriori riferi-
menti bibliografici.
62. Cfr. Fratta, Peire d’Alvernhe, cit., p. 21.
63. Bertran de Born, Casutz sui de mal en pena, vv. 5-9 dall’ed. a cura di G.
Gouiran, L’amour et la guerre. L’oeuvre de Bertran de Born, Aix-en-Provence
1985, pp. 55-72
64. Cfr. Un vers farai de tal mena, vv. 3-4, ed. Gouiran cit., p. 56. Cfr. per
sintonia concettuale, nonché per la presenza del verbo descargar, Arnaut Da-
La ponha d’amor e la cadena 797

renza del verbo descargar con il lessema fais65 presente nel testo di
Bertran de Born appare modellata sulla lirica rudelliana Belhs m’es
l’estius e ·l temps floritz, vv. 54-56, e probabilmente per opposita,
dal momento che Jaufre affermava: «E sapchatz tug cominalmen /
qu’ie·m tenc per ric e per manen, / car soi descargatz de fol fais»66.
Che poi Bertran si richiami direttamente a Jaufre Rudel in questo
luogo sembra ipotizzabile a partire dal seguente dato: la lirica ru-
delliana e quella bertrandiana sono gli unici due testi, congiunta-
mente ad un’attestazione più tarda di Folquet de Lunel in una can-
zone religiosa67, a presentare la co-occorrenza del verbo descargar
e del lessema fais in tutto il trobar. La ripresa di matrice rudelliana
operata da Bertran, seppur cambiata di segno, potrebbe quindi es-
sere funzionale, congiuntamente alla contigua immagine della ca-
dena / don mailla no-is descontena, all’affermazione di un amore
“totalizzante” da parte del cantore delle armi.
Un amore totalizzante e totale, che pone al centro il corpo,
come emerge dall’originale e appassionata descriptio puellae che
investe i vv. 25-36:
niel, Si·m fos Amors de joi donar tan larga, vv. 43-44: «qu’ieu non ai cor ni
poder que·m descarc / del ferm voler que non es de retomba» (cito da M. Euse-
bi, Arnaut Daniel. L’aur’amara. Paradossi e rituali dell’amor cortese, Parma
1995, pp. 145-153).
65. Per un’analisi del termine fais in Guglielmo IX cfr. S. Bianchini, Scon-
venienti convenienze. Sondaggi guglielmini, Roma 2000, pp. 49-63.
66. Su questa ripresa di matrice rudelliana in Bertran de Born cfr. Mancini,
Metafora feudale cit., pp. 143-144. È molto probabilmente a questo luogo rudelliano
che Marcabruno si rivolge polemicamente in Ans que·l termini verdei, vv. 21-22:
«Ben es cargatz de fol fais, / qui d’amor es en pantais» (cito da Marcabru. A critical
edition, ed. by S. Gaunt, R. Harvey, L. Paterson, Cambridge 2000, pp. 108-116),
come è stato rilevato da L. Topsfield, Troubadours and Love, Cambridge 1975, p.
57, e poi precisato da L. Paterson, Marcabru’s rhetoric and the dialectic of trobar.
“Ans que·l termini verdei” (PC 293.7) and Jaufre Rudel in Conjunctures: Medieval
Studies in Honor of Douglas Kelly, ed. K. Busby and N. J. Lacy, Amsterdam and
Atlanta 1994, pp. 407-423, in part. pp. 416-421. Difficile invece dire se nel passo
menzionato di Bertran de Born sia ravvisabile un’eco del «tema abelardiano», pre-
sente nella lirica rudelliana Belhs m’es l’estius e ·l temps floritz, e poi riemerso nella
rambaldiana Lonc temps ai estat cubertz secondo la proposta interpretativa di Bolo-
gna, cui si rimanda (Bologna, Da Poitiers cit., pp. 23-42).
67. Cfr. Folquet de Lunel, Dompna bona bel’e plazens, v. 35, in F. J. Oroz
Arizcuren, La lírica religiosa en la literatura provenzal antigua, Pamplona 1972,
pp. 126-133.

Critica del testo, VIII / 3, 2005


798 Gaia Gubbini

Ren de beutat non galia


Ni-n fai nuilla fantaumia
Lo joios,
Joves, gens cors amoros;
E genssa, qui la deslia;
Et on hom plus n’ostaria
Garnizos,
Plus en seria enveios,
Que la nuoig fai parer dia
La gola, e qui-n vezia
Plus en jos,
Totz lo mons en gensaria68.

Un tratto, questo, che del resto coinvolge anche altre descri-


zioni muliebri nel corpus lirico di Bertran de Born, come ad esem-
pio i vv. 12-17 della lirica bertrandiana Rassa, tan creis e mont’e
poia, passo su cui si è soffermata recentemente Maria Luisa Mene-
ghetti, rintracciandovi un riferimento alla leggenda di Melusina e
ricostruendone il milieu storico-culturale69.
Al pari di Raimbaut d’Aurenga70, la cui «oltranza del deside-
rio»71 sembra continuamente minacciata e messa in dubbio dal no
poder 72, nella lirica bertrandiana Casutz sui de mal en pena si dubita
della realizzazione amorosa: e analogamente al signore d’Aurenga

68. Casutz sui de mal en pena, vv. 25-36, da Gouiran, L’amour et la guerre
cit., pp. 55-72, passo già esaminato in Beltrami, Bertran de Born cit., p. 104.
69. Cfr. M. L. Meneghetti, «Nutz en ma camisa». Idéologie et métaphore ve-
stimentaire dans la poésie des troubadours, in Le corps et sa parure/The Body
and its Adornment = «Micrologus» 15 (2007), pp. 157-172, in part. p. 171.
70. Sull’influenza di Raimbaut d’Aurenga su Bertran de Born, anche se più
da un punto di vista formale che concettuale, cfr. C. Appel, Raimbaut d’Aurenga
und Bertran de Born, in «Studi medievali», n. s., 2 (1929), pp. 391-408, in parti-
colare cfr. p. 391: «In der Tat aber ist in der Formen seiner Lieder kein anderer so
deutlich als Vorbild Bertrans zu erkennen wie Raïmbaut d’Aurenga»; cfr. anche
W. D. Jr. Paden, T. Sankovitch, P. H. Stäblein, The Poems of the troubadour Ber-
tran de Born, Berkeley-London 1986, p. 49.
71. Cfr. Milone, Cinque canzoni cit., p. 45.
72. Sul no-poder cfr. L. Milone, Retorica del potere e poetica dell’oscuro da
Guglielmo IX a Raimbaut d’Aurenga, in Retorica e poetica, Atti del III Convegno
italo-tedesco (Bressanone, 1975), Padova 1979, pp. 149-177.
La ponha d’amor e la cadena 799

uno snodo fondamentale sembra essere la “questione della nobiltà”,


intesa sia in senso propriamente sociale, sia in senso morale.
L’aristocratico Raimbaut – che altrove discute in tenzone con
Giraut de Bornelh intorno alla fruizione e ai destinatari della poe-
sia73, difendendo chiaramente una linea anche socialmente elitaria –
nel testo Un vers farai de tal mena dubita della buona riuscita del
suo desiderio amoroso in ragione dell’eccessivo pregio di midons,
come mostrano rispettivamente i vv. 3-5 «mas tant ai rica entenden-
sa, / per que n’estauc en bistensa / que non posca complir mon
gaug» e i vv. 48-49 «qu’ill es tant nominativa / tem, si·ll o dic, no
m’en vergonh» della lirica rambaldiana in esame. Bertran de Born in
Casutz sui de mal en pena porta l’atteggiamento rambaldiano alle
estreme conseguenze: la donna amata non sarà mai del poeta; la sua
eccellenza le permette infatti di scegliere «Delz plus pros / Castellas
o rics baros»74, con un esplicito riferimento, quindi, al rango sociale.
Anche i vv. 49-50 «Ja mais non er cortz complia / On hom non
gab ni ria» della lirica di Bertran de Born sembrano richiamare il
passo in cui Bernardo di Ventadorn allude a Raimbaut d’Aurenga
attraverso il senhal Tristan, nella lirica Amors, e que·us es vejaire?,
vv. 61-64: «Ma chanson apren a dire, / Alegret; e tu, Ferran, / porta
la·m a mo Tristan, / que sap be gabar e rire».
Infine, come già si accennava, il v. 10 della lirica bertrandiana
Casutz sui de mal en pena «Faicha ai longa carantena» è quasi so-
vrapponibile al v. 40 «Faich ai longa carantena» della tenso fra
Peire d’Alvernhe e Bernardo di Ventadorn Amics Bernartz de Ven-
tadorn, testo con cui, come già ricordato, la lirica bertrandiana
sembra porsi in rapporto di ripresa intertestuale, dal momento che
ne riutilizza, oltre a carantena, anche altri rimanti in –ena, ossia
arena, pena e soprattutto cadena. La quasi identità del verso fra la

73. Cfr. Erich Köhler, Zum “trobar clus” der Trobadors, in «Romanische
Forschungen», 64 (1952), pp. 71-101, poi in Id. Sociologia della Fin’Amor. Saggi
trobadorici, Padova 1976, pp. 163-193, in part. cfr. p. 187; cfr. recentemente
R. Antonelli, Oscurità e piacere, in Obscuritas. Retorica poetica dell’oscuro, Atti
del XXVIII Convegno Interuniversitario di Bressanone (12-15 luglio 2001), Tren-
to 2004, pp. 47-58, in part. pp. 55-56.
74. Casutz sui de mal en pena, vv. 43-44. La lirica di Bernart de Ventadorn,
Amors, e que.us es vejaire, vv. 61-64 si cita da Appel, Bernart de Ventadorn cit.,
pp. 20-27.

Critica del testo, VIII / 3, 2005


800 Gaia Gubbini

lirica bertrandiana Casutz sui de mal en pena e la tenso ci pone di


fronte ad un elemento centrale: il verso v. 40 di Amics Bernartz de
Ventadorn «Faich ai longa carantena» è stato infatti chiamato in
causa da Di Girolamo75 all’interno della discussione sulla questione
Carestia76. Senza entrare nella complessa vicenda, ci si vorrebbe
limitare ad osservare anche per il nostro verso bertrandiano quanto
già rilevato da Luciano Rossi sul quasi identico verso della tenso,
ossia che «la carantena n’est pas tout à fait assimilable à la care-
stia»77: in carantena infatti la dialettica non sembra giocare fra “ab-
bondanza” e “penuria”, ma fra astinenza e, seppur minima, “frui-
zione”. Tale sfumatura di significato sembra del resto attagliarsi al
luogo della lirica bertrandiana in analisi, dove la richiesta amorosa
consiste in un doutz bais salvifico, che tuteli dalla morte78.
Una delle attestazioni più prossime al nostro passo bertrandia-
no, dopo il verso presente nella tenso fra Peire d’Alvernhe e Ber-
nardo di Ventadorn, sembra poi reperibile in Arnaut Daniel79, e se-
gnatamente nella lirica Autet e bas, ai vv. 39-40: «qu’anc, pus

75. C. Di Girolamo, Tristano, Carestia e Chrétien de Troyes, in «Medioevo


romanzo», 9 (1984), pp. 17-26, in part. cfr. p. 21. Viene segnalata alla nota 15,
p. 23, l’attestazione di Bertran de Born in questione.
76. Sulla questione cfr. M. Delbouille, Les «senhals» littéraires désignant
Raimbaut d’Orange et la chronologie de ces témoignages, in «Cultura neolatina»,
17 (1957), pp. 49-73; Roncaglia, Carestia cit.; Di Girolamo, Tristano cit.; Id., I tro-
vatori, Torino 1989, in part. cfr. pp. 120-141; Meneghetti, Il pubblico dei trovatori
cit., pp. 101-108; L. Rossi, Chrétien de Troyes e i trovatori: Tristan, Linhaura, Ca-
restia, in «Vox romanica», 46 (1987), pp. 26-62, in part. p. 33 e p. 55; Id., Carestia,
Tristan, les troubadours et le modèle de saint Paul: encore sur D’Amors qui m’a
tolu à moi (RS 1664), in Convergences médiévales. Epopée, lyrique, roman, Mélan-
ges offerts à Madeleine Tyssens, Bruxelles 2000, pp. 403-419; L. Lazzerini, L’«allo-
doletta» e il suo archetipo. La rielaborazione di temi mistici nella lirica trobadorica
e nello Stilnovo, in Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni, a
cura di L. Coglievina e D. De Robertis, Firenze 1998, pp. 166-167; R. Antonelli,
Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca in «Vaghe stelle dell’Orsa». L’«io» e il
«tu» nella lirica italiana, a cura di F. Bruni, Venezia 2005, pp. 41-75.
77. Rossi, Carestia, Tristan cit., p. 417.
78. Mi permetto di rimandare, per l’analisi del dous baizar e del plus in Bernardo
di Ventadorn, al mio lavoro Il tatto e il desiderio in una querelle trobadorica: Ber-
nardo di Ventadorn e Marcabruno in «Critica del testo» VIII/2 (2005), pp. 281-313.
79. Cfr. anche Raimbaut d’Aurenga, Ara non siscla ni chanta, v. 29, in Patti-
son, The Life and Works cit., pp. 113-115. Sul rapporto intertestuale fra Arnaut Da-
niel e Bertran de Born cfr. Canettieri, Il gioco delle forme cit., in part. pp. 205-240.
La ponha d’amor e la cadena 801

sainh Paul fe pistola / ni nuls hom dejus caranta»80. Si segnala che


nella stessa lirica arnaldiana, come del resto e ancor più puntual-
mente avveniva nella tenso Amics Bernartz de Ventadorn, si ripre-
senta il tema del “laccio” del desiderio – ma in Arnaut verbalizzato
attraverso i termini liar e corda: «qu’ab lieis qu’al cor plus
m’azauta / sui liatz ab ferma corda»81 –, motivo che sembra quindi
legare, congiuntamente alla presenza di carantena / dejus caranta,
i tre luoghi lirici menzionati.
Quello che si è tentato di seguire, anche se parzialmente, e a
partire dalla lirica rambaldiana Un vers farai de tal mena, è il per-
corso di due motivi centrali nella lirica dei trovatori, quello della
ferita d’amore e quello della catena amorosa, temi su cui mi ripro-
pongo di tornare in uno studio più analitico e diacronicamente este-
so. L’aspetto patiens della lirica dei trovatori sembra infatti altret-
tanto importante e fondativo del trobar quanto la sfera del deside-
rio carnale immaginato: entrambi gli elementi, complementari,
sembrano infatti costituire il dittico “gioioso-doloroso”82 della cor-
poreità e sensorialità lirica.

80. Autet e bas entre·ls prims fuelhs, vv. 39-40, in Arnaut Daniel. Il sirven-
tese cit., pp. 49-54.
81. Ibid., vv. 17-18.
82. Cfr. P. Bec, La douleur et son univers poétique chez Bernart de Venta-
dour, in ‹‹Cahiers de civilisation médiévale››, 11 (1968), pp. 545-571.

Critica del testo, VIII / 3, 2005

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