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Per ragioni di Business. Gli intrecci tra
guerra, industria, finanza e politica
di Osservatorio Globalizzazione (sito)
venerdì 7 agosto 2020
di GIUSEPPE GAGLIANO
Ci sembra superfluo sottolineare come questa narrazione venga oggi riformulata da Donald
Trump e da Mike Pompeo in relazione alla proiezione di potenza cinese in prima battuta e,
in seconda battuta, a quella della Russia. La ricerca di un nemico al quale contrapporsi è,
non solo, fondamentale all’interno di una interpretazione della politica internazionale di tipo
realistico ma è altrettanto fondamentale per la crescita dell’industria e del mondo della finanza.
Sia sufficiente pensare all’allargamento dell’Alleanza atlantica a paesi dell’est che ha
notevolmente incrementato l’industria militare americana.
Proprio per questa ragione lo studioso americano ricorda come già Thomas Jefferson
ammoniva i cittadini a non perdere d’occhio gli affari pubblici altrimenti il governo ben
presto si sarebbe trasformato in un branco di volpi e – aggiungiamo noi – anche di lupi.
Sia a causa del segreto di Stato sia a causa dei privilegi dei poteri dell’esecutivo di non
informare né il congresso né tantomeno la società civile fu possibile per lungo tempo condurre
la guerra in Vietnam. Non a caso proprio Kissinger riuscì a gestire la politica estera in modo
rigidamente accentrato lontano da sguardi indiscreti. Proprio per evitare tutto ciò è
fondamentale l’esistenza della stampa libera come altrettanto fondamentale è tutelare il
Primo emendamento. Quanto più la stampa è imbavagliata da intimidazioni o anche solo
dalla concentrazione del potere e della ricchezza tanto più sarà difficile accertarsi della verità.
Per tutti coloro che sono al potere – sottolinea lo studioso americano – appare ovvio che la
società civile vada solo blandita e manipolata, terrorizzata e tenuta nell’ignoranza in maniera
tale che le oligarchie dominanti possano operare senza remore nell’interesse della nazione
cioè nel loro interesse come d’altra parte aveva esplicitamente affermato Lippmann nel saggio
“L’opinione pubblica”. Come ebbe modo di ricordare opportunamente Rumiz nel saggio
“Maschere per un massacro” ciò che si trasforma in carne da cannone è lo stesso
imbonimento, la stessa inerte apatia e la stessa acquiescienza che ci porta a comprare lo
stesso prodotto o a votare in massa il primo sciocco che scende in campo promettendoci
di risolvere tutti i nostri problemi in cambio del nostro voto.
Proprio grazie all’uso della stampa libera e facendo proprio il motto latino – caro a Kant
– sapere aude non dobbiamo mai scordare che la guerra è sempre stata un business per il
mondo dell’industria e per quella della finanza. Proprio per questo diventa fondamentale
rivolgere l’ attenzione alla spartizione e alla occupazione dei posti chiave e delle commesse
strettamente legate alla ricostruzione e allo sviluppo economico a conclusione di una guerra.
In altri termini in modo molto brutale ma altrettanto realistico dobbiamo domandarci quando
inizia e si conclude una guerra: chi ci ha guadagnato e chi ci guadagnerà?
Alludiamo per esempio all’Iraq dove, dietro esplicita richiesta americana, gran parte della
spartizione del bottino è stata riservata agli amici degli amici (per usare una espressione
tratta volutamente dal gergo mafioso). Da un lato non possiamo non osservare gli stretti
legami tra determinati ruoli istituzionali e le grandi corporations finanziarie come nel caso
della famiglia Bush e del gruppo Carlyle. In secondo luogo esistono stretti legami tra i ruoli
istituzionali e determinate imprese multinazionali come nel caso del consigliere per la
sicurezza nazionale Rice e la Chevron. In terzo luogo una delle costati delle guerre attuali è
il legame stretto tra incarichi militari e industria bellica: si pensi a tale proposito al fatto
che Gordon England, già executive della General Dynamics Corp., principale contrattista della
marina, è stato segretario della marina militare. Oppure pensiamo a James Roche già
executive della Northrop Grumman e segretario della Aeronautica. Od ancora a Pete Aldridge
già sottosegretario alla difesa per l’acquisizione di armamenti per il Pentagono e divenuto poi
membro del consiglio di amministrazione della Lockheed Martin. Oppure cosa dire dei legami
tra società di sicurezza private e ruoli istituzionali come nel caso di Dick Cheney già
amministratore delegato della Halliburton e Vice presidente degli Stati Uniti? O che dire
degli stretti legami tra incarichi ufficiali all’interno dell’esercito e i ruoli dirigenziali
all’interno delle PMC come nel caso di Carl Vuono, già capo di stato maggiore americano e
presidente della Mpri-Military Professional Resources Incorporated? Per quanto queste
osservazioni possono risultare provocatorie in realtà rientrano nella tragica normalità della
Storia. Pensiamo al fatto, per esempio, che i campi di concentramento erano amministrati
secondo una logica di tipo aziendale. Infatti Auschwitz fu un centro economico di produzione
dove operavano a stretto contatto alcune fra le più grandi industrie della Germania e cioè la
Krupp, la Siemens, la Deutsche Ausrustungswerke e la IG Farbern. La ditta Topf per esempio
fece costruire gli enormi crematori multipli dei lager e il colosso IBM non si fece tanti scrupoli
nel commerciale con il paese nemico ma svolse un ruolo cruciale nella organizzazione
dell’Olocausto come ha dimostrato il giornalista investigativo americano Edwin Black nel
saggio “L’Ibm e l’olocausto. I rapporti fra il terzo Reich e una grande azienda americana“.