Sei sulla pagina 1di 26

La storia del Tibet

1. Introduzione
Il libro inizia con la prima comparsa del Tibet sulla scena mondiale, nel VII secolo, e termina con
l’indagine di che cosa significhi essere tibetani nel XXI secolo.
Il posto dedicato ai libri sul Tibet nelle librerie e nelle biblioteche e in continua mutazione, prima si
colloca nella sezione dedicato alla Cina, poi si crea una sezione intitolata Tibet per poi cancellarla e
scriverci “Cina” questa situazione rispecchia fedelmente quella che è ancora oggi la complicata
situazione del Tibet. Lo stesso accade nella creazione di una cartina geografica, per abitudine, si
tende a suddividere fra “Tibet politico” che sarebbe l’area collocata all’interno dei confini della
Regione autonoma del Tibet e “Tibet etnografico” cioè le aree politicamente appartenenti alla Cina
dove però vi è un linguaggio e una cultura riconosciuta come tibetana. I tibetani invece distinguono
fra “Bon” (pronunciato Bo) riferendosi grossomodo alla regione autonoma del Tibet e del “Grande
Tibet” facendo riferimento all’ampia cultura tibetana che si estende al di la dei confini della
regione.
Lo scontro su queste due contrastanti correnti di pensiero politiche divenne acceso nel 2009 quando
il Dalai Lama fuggì in India a seguito dell’invasione cinese. Il giorno della fuga fu considerato dai
cinesi “il giorno della liberazione degli schiavi” mentre in esilio il governo tibetano si impegnava a
liberare il Tibet dalla dittatura comunista cinese. E’ quindi chiaro che la complessa situazione in
Tibet è nata da questo forte contrasto fra due punti di vista opposti.
Il Tibet, come affermano alcuni, prima dell’arrivo dei cinesi era considerato un “paradiso in terra”
dove la spiritualità si era preservata intatta e il territorio era privo di peccati mentre per i cinesi era
“l’inferno in terra” dove vigeva ancora una mentalità medievale basata sulla gerarchia feudale.
Il 1959 è diventato la linea di confine fra bene e il male, come lo yin e lo yang, in base alla
posizione di colui che parla.
Gli stereotipi sul Tibet sono spesso errati: il fatto che la religione dominante nel paese fosse il
buddhismo e che possedessero i santi più ispiratori di ogni tradizione religiosa, ciò non toglie che il
Tibet fosse anche un paese violento e pericoloso. In Tibet la violenza si tramandava di generazione
in generazione in un vortice di incessante vendetta. In più la società tibetana era fortemente
stratificata in una minoranza di aristocratici e una maggioranza di contadini e nomadi.
Quando si afferma che il Tibet sia stato un paese isolato durante i secoli, ci si sbaglia, perché i loro
legami stretti con paesi anche lontani (Persia, Corea e Nepal) lo rendono il paese che è oggi. A
Lhasa il flusso di mercanti e pellegrini era così copioso e vario che per vari secoli crearono per fino
una comunità musulmana. Dunque, il Tibet è pieno di divergenze, tensioni e connessioni con il
mondo esterno e ciò lo rende un paese in costante mutamento.
2. La comparsa del Tibet [600-700]
I tibetani nel 763 conquistarono Chang’an, una città dell’impero Tang della Cina di grande fama
culturale. Quando i cinesi furono attaccati non avevano neanche idea di chi fossero i tibetani. La
conquista non fu violenta i tibetani attirarono il nemico nelle province occidentale e prima che
facessero ritorno le truppe si impossessarono della capitale, ciò fu possibile anche perché una
fazione si sollevò contro la corte e appoggiò gli invasori, fu proprio un ribelle cinese ad aprire le
porte della capitale. I ribelli furono ricompensanti mettendo sul trono il loro leader che presto
proclamò una nuova dinastia. In realtà i tibetani non erano interessati a governare la Cina, presto il
vecchio ordine tornò ma i tibetani allargarono i propri confini fino a qualche centinaio di chilometri
da Chang’an, lasciando al vecchio imperatore un impero dimezzato e fu anche costretto inoltre a
La storia del Tibet

firmare dei trattati di pace che isolavano la Cina dall’Occidente. Il tibet entrò a far parte della scena
mondiale un secolo prima grazie a un re: Songtsen Gampo, il figlio divino. Questo re era
predestinato, già il padre, secondo i tibetani era la personificazione del divino, e quest’ultimo
sapeva vestirne bene le vesti. Si narrava che provenisse dai Tsenpo, divinità che vivevano fra gli
uomini ma che erano costantemente collegati con il celo attraverso una corda celeste di luce che si
sprigionava dalla loro testa. Tuttavia i capi clan supportavano il Tsenpo quando gli era conveniente
e se ne liberavano quando non lo era più. La storia di questa dinastia infatti è piena di cospirazioni.
Il carattere divino e il coraggio, del padre si Songtsen, gli portò varie vittorie sugli altri clan fino ad
allargare l’impero al sud del Tibet sino ad arrivare a includere buona parte del Tibet centrale. Il
padre fu avvelenato quando Songtsen aveva solo 13 anni e si trovò ad ereditare uno dei più grandi
regni che il Tibet avesse mai visto. Salito al trono giustiziò il traditore di suo padre e cavalcò con il
suo esercito per andare a sopprimere le ribellioni dei vari clan e per difendere i confini del Tibet
attaccati e saccheggiati da un popolo nemico. Al centro del regno del nuovo re vi era la capitale:
Rasa, che quando l’impero acquisto più potere, cambiò nome in Lhasa – “La città divina”. Seppur
era considerato il centro del Tibet, il tsenpo insieme alla sua corte, fedele alla tradizione nomade, si
spostava costantemente per il suo regno in grandi accampamenti.
Geograficamente il paese è cinto dalle montagne più alte del mondo: A ovest Karakoram, a nord il
Kunlun, a sud ed est la più imponente delle catene montuose: l’Himalaya. Songtsen aveva grandi
progetti: cominciò a creare alleanze con i popoli circostanti, prima unendosi in matrimonio con la
figlia di Zhangzhung, re di un regno ad ovest che confinava con la potente Persia. In realtà la
principessa, poi diventata regina del Tibet, divenne una pedina politica per attuare un piano: quello
di uccidere il re e di impadronirsi del suo regno. Il piano riuscì alla perfezione. Un’altra grande
opportunità gli si presentò quando il re del Nepal fu spodestato e mandato in esilio con tutta la sua
corte, esilio che trascorse a Lhasa, dove ci fu un grande intercambio culturale fra tibetani e nepalesi
che diede origine al primo tempio buddhista del Tibet, seguendo il modello nepalese. Il Jokhang
ancora oggi è in piedi ed è meta di milioni di pellegrini. Nel VII secolo il re nepalese si rimpossessò
del suo regno però con un esercito tibetano, ciò significava che era un vassallo di Songtsen. Ed ecco
come il sentiero si aprì verso la Cina ai tibetani. Nonostante i vari tentativi di Songtsen di richiedere
in sposa una principessa cinese, la Cina considerava il Tibet un regno minore e quindi non degno.
Così il tsenpo inviò un esercito e presto inglobò i territori a nord-est del Tibet, confinanti con la
cina, nell’impero tibetano. Così Songtsen richiese di nuovo la mano della principessa minacciando
stavolta di attaccare la Cina in profondità, a causa di questa minaccia l’imperatore cinese inviò delle
truppe cinesi per dare una lezione ai tibetani che però sconfissero facilmente le truppe cinesi. A
questo punto il braccio destro del re e primo ministro Gar Tongtsen andò nuovamente alla corte di
Taizong a Chang’an.
L’imperatore cinese Taizong, che apparteneva alla dinastia dei Tang, era anche lui un grande
imperatore e condottiere della Cina. Prima la Cina era divisa in tante piccole dinastie, ma grazie a
Taizong finalmente la Cina vide una dinastia unita e compatta, per questo la storia cinese lo ricorda
come un eroe.
Quando il primo ministro tibetano arrivò il re cinese tentò di stupirlo con un’elaborata cerimonia
che facesse intimorire Gar e fargli comprendere la superiorità della dinastia Tang. Il re cinese
interrogò personalmente Gar e rimase impressionato dalla sua umiltà e capacità diplomatiche. Sia
gli storici cinesi che i canti tibetani descrivono questo ambasciatore dotato di una natura piena di
risorse. Così il re cinese accettò e la principessa fu scortata in Tibet dove si sposò con Songtsen
creando un’alleanza pacifica fra cinesi e tibetani che godettero di un periodo di scambi culturali
fruttuosi. Secondo la tradizione tibetana la principessa cinese diede un grande contributo alla
La storia del Tibet

diffusione del Buddhismo in Tibet portando con se una statua di Buddha, la prima ad essere
introdotta in Tibet, attualmente conservata nel tempo di Jokhang.
Una capitale culturale
Con i proprio antenati i tibetani sono autodenigratori, li chiamano “barbari dal volto rosso” per la
tradizione, che ancora oggi si svolge in alcune zone del Tibet, di dipingersi il viso di rosso. Il mito
sull’origine Tibetano parla di un unione sessuale fra una scimmia e un’orchessa, da cui nacquero 6
figli, il padre li collocò in una foresta dove si nutrivano dei frutti degli alberi e li lasciò lì.
Tornarono i genitori dopo tre anni e trovarono i propri figli moltiplicati che morivano di fame allora
disperati chiesero aiuto ad una divinità buddhista che sparse delle granaglie sul terreno in modo da
sfamare i figli del padre scimmia. Nel tempo le code si accorciarono, i peli del corpo diminuirono,
impararono a parlare e in fine divennero uomini. Questo mito induce i tibetani a dividere la loro
popolazione in due parti: coloro che assomigliano alla madre orchessa e coloro che assomigliano al
padre scimmia, in base a questa suddivisione cambia anche la loro personalità.
Lhasa, il centro dell’impero, era una capitale che pullulava di cultura, i tibetani che comunque
avevano una identità culturale propria erano molto curiosi di conoscere altre culture e di imparare
cose nuove da queste ultime. Così appresero dal Nepal, dalla Cina, dall’India e dalla Persia. Dai
cinesi appresero i segreti della carta e dell’inchiostro così da poter finalmente trascrivere un sistema
di scrittura completo per la lingua tibetana, con un alfabeto basato sulla scrittura del Nepal e
dell’india settentrionale. La grande importanza che il re diede alla cultura portò a grandi sviluppi,
come l’invenzione di un alfabeto tibetano, che resero Songtsen uno dei re più apprezzati nella storia
del Tibet.
Per quanto riguarda la società, per garantire il funzionamento di un simile regno, c’era bisogno di
controllo. La società era divisa in una rigida gerarchia con il re al vertice che veniva seguito dal
primo ministro poi dalla corte e alla base vi erano i contadini e i nomadi che mantennero una
posizione sociale invariata fino al XX secolo.
Tsenpo viene ricordato come il maggiore re buddhista che riuscì a conciliare potere politico e
religioso, ad essere un leader costruttore di un forte impero e allo stesso tempo compassionevole.
Meta a cui ambirono tutti i suoi successori che vedevano l’ideale di un governo basato sull’unione
di stato e chiesa.
Nel 648, dato che la Cina aveva instaurato buoni rapporti con Harsha, un imperatore indiano, si
recarono nel suo regno, dove scoprirono che in realtà era morto e fu sostituito da un signore della
guerra indiani che uccise tutti i delegati cinesi giunti in India, tranne due che chiesero esilio in Tibet
e Songtsen gli offrì aiuto militare. Dopo qualche giorno di combattimenti, il grande signore della
guerra fu fatto prigioniero e una parte dell’India cadde così in mano ai tibetani.
Songtsen morì nel 649 senza eredi perciò il primo ministro Gar si fece avanti. Prima di ciò avvenne
il solenne funebre del re che fu accompagnato da grandi rituali funebri la salma fu riposta in
sarcofago e riposto in una tomba che ancora oggi è conservata ed è un monumento colossale alto
ben 13 metri perché i tibetani pensavano che l’anima del defunto continuasse a vivere all’interno
della tomba quindi si costruiva con il massimo del comfort nei casi di morti reali. Nei tempo
antichi, i ministri che avevano giurato fedeltà al Tsenpo dovevano sacrificarsi e seguire il proprio re
nella morte. Ai tempi della morte di Songtsen non vi era più questa usanza mai ministri erano
costretti a vivere nell’area sepolcrale e a dedicare la propria vita alla cura della tomba. La tomba era
sigillata con un pilastro di roccia caratterizzata da una forte spiritualità. Infatti ancora oggi in Tibet
si trovano mucchi di pietre per rappresentare le divinità del cielo.
La storia del Tibet

Guerrieri dai volti rossi lungo la Via della Seta


Gar si dimostrò un valido sostituto del precedente re. Una volta salito al trono schiacciò la
popolazione azha che tormentava i tibetani da 50 anni. Questo popolo subì un processo di
tibetizzazione fino ad assimilare la lingua e la cultura tibetana.
Nel VII secolo la Cina possedeva la famosa Via della Seta ma Gar, che sancì un’alleanza con i
turchi, riuscì a conquistare Kashgar, recidendo il collegamento della Cina con la Via della Seta.
Nella conquista della Via della Seta i tibetani non si crearono una buona reputazione deturpando le
usanze e la religione di Khotan, una città ricca di cultura e fortemente buddhista. L’immagine di un
esercito tibetano privo di rispetto per la religione buddhista di Khotan sembra incredibile ma è
comprensibile in un tempo in cui la religione buddhista risultava importante solo nella stretta
cerchia della corte. Gar si impadronì dei possedimenti occidentali cinesi e delle loro vie di
commercio con la Persia e L’india. Nel 667 Gar morì e il Tibet fu diviso fra i suoi figli. Il controllo
dell’impero nelle mani del clan Gar non durò molto. I membri del clan furono , dopo varie sconfitte
inflitte dai cinesi, sostituiti dal pronipote di Songtsen: Dusong. Era il 692, il Tibet era ormai
diventato un impero immenso immerso nella scena mondiale con Lhasa che era protagonista di
influssi culturali e dimora di aristocratici nepalesi e cinesi. Inoltre, grazie alla conquista della Via
della Seta, i tibetani avviarono il loro commercio mondiale di spezie, seta, schiavi, etc.
3. Il sacro impero buddhista [700-797]
Nel tentativo di sancire un pace fra Cina e Tibet vi fu un altro matrimonio con la giovane figlia
dell’imperatore cinese e il Tsenpo del Tibet che all’epoca aveva solo otto anni. La giovane
Jincheng, principessa cinese, avvilita dalla lontananza della famiglia in una terra straniera,
nonostante tutto il lusso che ricevette non era soddisfatta e concentrò tutte le proprie attenzioni sul
Buddhismo ripristinando il tempio della principessa che l’aveva preceduta moglie di Songtsen. Con
la morte di suo padre, sul trono cinese vi fu un altro re, contrario al buddhismo, espulse monaci e
nomadi buddhisti che cercavano riparo e lo trovarono in Tibet grazie alla principessa Jincheng. La
crescita di profughi buddhisti incitò la costruzione di nuovi monasteri per dare alloggio a questi
profughi. A causa di questi immigrati provenienti da differenti zone dell’Asia si scatenò a Lhasa
una forte epidemia che provocò molti morti fra cui la stessa principessa. Il risentimento dei tibetani
allora per gli stranieri a Lhasa uscì allo scoperto e i monaci stranieri furono cacciati da Lhasa in cui
negli anni ’40 del VIII secolo regnò di nuovo la pace. L’immagine del buddhismo a causa di questo
episodio era ormai contaminata e priva di rispetto da parte dei tibetani, tanto che furono emanate
leggi contro questa religione.
Prima che il buddhismo facesse la sua comparsa in Tibet, questo paese era il risultato di varie
influenze religiose: persiane, indiane, turche, etc. Le divinità montane erano particolarmente
venerate. La più importante di tutte le vette era Yarlha Shampo, da cui erano discesi i progenitori
degli Tsenpo. I tibetani credevano in spiriti, demoni e divinità e vi erano delle figure rilevanti che
erano in grado di trattare con questo ultra-mondo. Ai tempi dell’impero erano i Bon e Shen che
tenevano a bada i demoni tramite una croce di asticelle di legno composta da fili colorati, ancora
utilizzata al giorno d’oggi in Tibet, così come la riproduzione in miniatura di persone, case, oggetti
per deviare i demoni. Secondo questa religione ogni persona era dotata di un’anima (la) che dopo la
morte continuava a vivere nella tomba per ricevere le offerte. Perfino in vita si aveva paura di poter
perdere la propria anima, infatti vi era uno specialista che la riportava indietro in caso accadesse.
Anche se spesso in alcuni manuali questa specie di religione viene ricordata come religione Bon,
non dobbiamo confonderci perché, come abbiamo detto precedentemente, il Bon è un sacerdote o
un rituale, non una religione.
La storia del Tibet

Secondo i tibetani esistevano due tipi di religioni: quella degli dei e quella degli uomini. La prima
era competenza dei ritualisti che mantenevano contatti con il mondo degli spiriti la seconda era di
poeti e narratori. Nulla di tutto ciò è mai scomparso in Tibet, anche quando prese il sopravvento il
buddhismo, fu quest’ultimo ad adattarsi a questo universo di spiriti. Inoltre, i tibetani utilizzavano
questi riti per riuscire a mantenere l’ordine sociale, per questo l’inaspettato arrivo di tutti quei
monaci buddhisti allarmò i tibetani, per un possibile pericolo di caduta del sistema sociale.
Presto l’impero tibetano si trovò in difficoltà a causa delle lotte interne per il potere e l’impero Tang
che rivendicava il suo potere sulla Via della Seta. Ma grazie all’alleanza con gli arabi e a un
indebolimento della dinastia Tang, il Tibet allargò i suoi confini fino quasi alla capitale Chang’an
grazie al nuovo Tsenpo Trisong Detsen che salì altro trono nel 756. Anche la capitale cinese rimase
in mano ai cinesi, questi ultimi però avevano perso una gran parte del loro impero. In tutti i territori
cinesi la lingua tibetana divenne la lingua del governo, degli affari e della legge. Le rivolte non
erano rare e spesso i governatori tibetani venivano uccisi. Dopo di che, la Cina, rendendosi conto
che la dinastia Tang non avrebbe più riconquistato l’antico splendore, decisero di firmare un trattato
di pace con il Tibet e di liberare i prigionieri tibetani, in risposta anche l’imperatore tibetano fece lo
stesso e nel 783 le due parti ufficializzarono la pace. Ma questa pace fu solo apparente Tibet e Cina
continuarono a giurarsi guerra e a portare avanti battaglie lunghe e sanguinose. Ma la Cina non
riconquistò i propri territori per oltre mille anni, in cui la Via della Seta era ormai nelle mani
dell’impero tibetano.
Il re del dharma
Il re Trisong Detsen aveva cambiato definitivamente l’equilibrio di potere nel continente asiatico, e
si apprestava a cambiare anche la società tibetana adottando il buddhismo come religione ufficiale.
Fu un atto coraggioso perché come abbiamo detto l’antica religione tibetana era anche ciò che
conferiva tanto potere agli Tsenpo. Gli storici però hanno voluto approfondire questa
contraddizione di Trisong. Alcuni credono sia una decisione presa successivamente ad una
conversione, altri invece vedono questa decisione come una mossa politica per emarginare i ministri
che erano anti-buddhisti. Un altro motivo era la volontà di coesione che spinse il re a convertire il
proprio impero che man mano inglobava culture sempre più diverse ma la maggior parte erano di
fede buddhiste, perciò aderire a questa religione era il modo più adeguato a mantenere insieme il
suo esercito.
I missionari tibetani buddhisti scrissero degli opuscoli per convertire le persone aderenti all’antica
religione, opuscoli che insistevano sul karma (“azione”) che è il pilastro della dottrina del Buddha
di causa e effetto. Secondo questa credenza la nostra vita attuale è il risultato delle nostre azioni
precedenti e se vogliamo migliorare il nostro futuro dobbiamo migliorare le nostre azioni. Ciò era in
netto contrasto con ciò che credevano i tibetani: cioè la felicità si raggiunge placando l’ira di
demoni e spiriti. Anche la concezione semplice tibetana dell’aldilà felice o infelice fu cambiata con
la concezione del samsara e del nirvana. Gradualmente i tibetani si convinsero dell’efficacia degli
insegnamenti buddhisti e il buddhismo divenne una religione popolare in Tibet.
Trisong superò i successi di tutti i suoi predecessori, per i buddhisti tibetani nei tempi a venire
l’epoca del suo impero era una sorta di mito di fondazione, un’epoca idealizzata fatta di aspirazioni
religiose. Tuttavia, non bisogna negare che all’inizio dell’impero di Trisong il buddhismo era una
religione ripudiata. Vi è una storia famosa in tibet che riguarda un nobile tibetano chiamato Ba
Selnang. Il nobile perse due figli e chiede a un monaco di far in segreto un rito funebre buddhista,
quando il monaco chiese come avrebbe voluto che i suoi due figli sarebbero rinati, la madre voleva
che si reincarnassero nei suoi figli e il padre in divinità, allora il monaco mise una perla metà rossa
La storia del Tibet

in bocca al figlio che sarebbe dovuto rinascere uomo e quando la coppia ebbe un bambino, questo
nacque con un dente metà rosso, da allora Ba Selnang si convertì al buddhismo e lo praticò con
molta devozione in segreto. Quando poi il buddhismo diventò religione nazionale e Trisong cercava
qualcuno che andasse alla ricerca di un grande maestro buddhista, il nobile si fece avanti e arrivò
fino in Nepal trovò un maestro buddhista chiamato Shantarakshita e lo portò con sé in Tibet dove
diffuse gli insegnamenti del Buddha. Un’altra figura importante fu Padmasambhava, un maestro del
buddhismo tantrico che placò l’ira degli spiriti tibetani e insegnò i potenti metodi tantrici. Egli,
inoltre, si dimostrò particolarmente bravo nell’individuare nuove sorgenti d’acqua e nell’insegnare
nuovi metodi d’irrigazione. Nonostante ciò la corte non vedeva lo stregone di buon occhio e insinuò
il dubbio nella mente del re, che chiese a Padmasambhava di tornare in Nepal. Nonostante ciò
venne ricordato come il “maestro prezioso”. Durante la permanenza di questi due maestri nepalesi
si erano cominciate le costruzioni di un’imponente tempio buddhista costruito secondo il modello
indiano. Chiamato Samye, il tempio è ancora oggi visibile nella valle del fiume Tsangpo.
Trisong, per apprendere gli insegnamenti del Buddha si rivolse all’India e alla Cina. I buddhisti
cinesi fedeli alle dottrine dello Zen tentarono di insegnare questa scuola di pensiero in Tibet, ma
non furono ben visti dai maestri indiani che incolpavano i cinesi di insegnare una forma di
buddhismo non pura. Allora per evitare uno scontro su larga scala Trisong programmò un dibattito
fra le due parti: la fazione indiana e quella cinese. Il dibattito fu vinto dai maestri indiani, di
conseguenza respinse i maestri zen e dichiarò che da quel momento le scritture buddhiste
provenienti dall’india avrebbero avuto la priorità.
4. I custodi della fiamma [797-1054]
Quando Trisong abdicò in favore del figlio, qualcosa andò storto: il nuovo re morì dopo un anno. Fu
posto sul trono allora un altro figlio: Senaleg. Egli seguì le orme del padre e continuò alla diffusione
del buddhismo che sotto al suo regno penetrò in profondità nella cultura tibetana. Per quanto
riguarda la politica i tibetani erano in guerra con gli arabi ma in tregua con i cinesi, l’ultimo trattato
di pace era stato sancito nel 822, con l’edificazione di tre monumenti per ricordarlo, uno dei quali
sorge a Lhasa.
Nel frattempo, salì al trono un altro Tsenpo: Tritsug Detsen. Egli spese tutte le ricchezze del Tibet
nell’edificazione dei monasteri che divennero i più grandi proprietari terrieri del Tibet. Ovviamente
ciò provocò il dissenso locale e degli aristocratici che intervennero in segreto. Al fianco del re vi era
il potente monaco-ministro Palgyi che presto fu esiliato dal re dopo che l’aristocrazia avvelenò la
sua mente di varie dicerie. Palgyi fu brutalmente ucciso. Ralpachen, come veniva chiamato Tritsug,
era ormai debole e non riusciva più a governare così le decisioni cominciò a prenderle suo fratello:
Darma Wudunten, un uomo carismatico. Nel frattempo, i nobili complottavano l’uccisione di
Ralpachen e così fu. Ciò risultò essere l’inizio della fine dell’impero tibetano.
Darma divenne il nuovo re, ma era più interessato a bere e alla caccia,mentre i nobili cominciarono
a tagliare le spese del buddhismo, a chiudere le scuole che formavano i traduttori delle sacre
scritture e a fermare i lavori per i nuovi monasteri. La vita religiosa divenne sempre più difficile,
allora i monaci che vedevano in Darma la loro rovina edificarono un piano per ucciderlo. La
differenza fu che questa volta ad assassinare un re fu un monaco buddhista. La storia tibetana però
evidenzia il fatto che fece quest’atto estremo per difendere la dottrina del Buddha facendo
riferimento al fatto che nella tradizione un Bodhisattva poteva uccidere per salvare altre vite.
Con la morte di Darma e l’assenza di un erede, vi era una forte minaccia di una guerra civile per la
successione al trono. Vi erano due pretendenti al trono, provenienti da due diversi clan reali, quando
La storia del Tibet

decisero di dividersi i possedimenti, l’impero si frantumò. Presto persero la Via della Seta che fu
riconquistata dalla Cina nell’848. In tutto il paese le persone saccheggiavano le tombe reali, i
monasteri e i monaci furono destinati a vagabondare per il paese. Il Tibet stava entrando in un era
oscura, i vari clan reclamavano un ritorno al potere, ma ciò significava ricreare un paese di poteri
frammentari e instabili.
Alcuni monaci decisero di rimanere fedeli alla fede buddhista, di spostarsi al di fuori del Tibet
centrale e di continuare a praticare la religione del Buddha nei templi che fece costruire Tritsug
fuori dal centro. Uno dei monaci più famosi che preservò il buddhismo fu Gewasel da cui si
recavano i locali per incontrare il celebre monaco. Gewasel fu uno delle personalità più rilevanti per
tentare di riportare il buddhismo al suo antico splendore. Due cugini aristocratici inviarono un
gruppo di giovani alla ricerca di un lignaggio di autentici monaci buddhisti e quello di Gewasel era
il più famoso. Furono istruiti da quest’ultimo e rinviati in Tibet dove ricevettero le chiavi dell’antico
famoso monastero Samye.
Nello stesso periodo un’altra rinascita religiosa stava avvenendo nel Tibet occidentale. Un bambino,
nato nel 958, a soli due anni cominciò a tracciare nel terreno sillabe sanscrite e a stare in silenzio
per un lungo periodo con le mani giunte. A soli tredici anni prese i voti monastici e ricevette il
nome di Rinchen Zangpo. Decise di intraprendere un viaggio verso l’india per approfondire i suoi
studi buddisti. In India cominciò a studiare le sacre scritture in sanscrito e ad ampliare le sue
conoscenze sul buddhismo tantrico. Fece ritorno in Tibet dopo ben 30 anni. Dopo un po’ si sparse la
voce su un maestro che si professava “re della stella del Buddha” così Rinchen si recò nel luogo in
cui professava per smascherarlo e quando gli punto un dito contro il falso re fini a gambe all’aria.
Questo evento divenne famoso fino a giungere a corte di quell’area (Tibet occidentale), dove
all’epoca vi era il re Yeshe O, il quale ordino che i suoi sudditi avrebbero dovuto praticare il
buddismo, in modo adeguato. Nel buddismo tantrico l’obbiettivo era lo stesso del buddhismo
Mahayana, cioè il nirvana, solo che i tantra possedevano vie più brevi per raggiungerlo. La
differenza risiedeva nella dottrina della vacuità, la quale affermava che nulla esiste in sé per sé.
Allora tutti i precetti buddisti che dicevano di non uccidere, di non rubare, divennero nulli, e furono
incitate tali attività per distruggere la dualità della realtà fenomenica. Allora utilizzarono tale
dottrina per giustificare ogni attività trasgressiva.
Yeshe o , preoccupato non solo per le attività malsane che si svolgevano nel suo paese, si
preoccupava maggiormente per la stabilità sociale tibetana minacciata dal tantrismo. Lo stesso
motivo, spinse gli Tsenpo in passato a tener segreta questa dottrina. Questa dottrina preoccupava
anche i maestri più rigorosi, perché insegnava a distruggere la gerarchia fra discepolo e maestro. Ma
in realtà ciò di cui non si rendevano conto le persone era che le oscenità racchiuse nei tantra
avevano bisogno di un’interpretazione, che era compito proprio del guru (“maestro”).
C’era bisogno quindi di una persona che insegnasse la pura dottrina del buddismo e Yeshe O ,
essendo venuto a conoscenza dell’accaduto fra il falso re e Rinchen , nominò quest’ultimo come
precettore di corte. In realtà i re del Tibet occidentale videro nel buddismo l’opportunità di
consolidare il loro potere. Richen Zangpo si mise a lavoro con un gruppo di maestri indiani per
tradurre le sacre scritture, tanto che venne ricordato come il “Grande traduttore”.
Yeshe O fu sostituito da suo nipote che seguendo le sue orme si dedicò al buddismo e sua figlia fece
costruire il primo monastero femminile. Ma il Tibet occidentale vide i suoi successi nel tardo X
secolo quando un giovane principe chiamato Jangchup O chiamò dall’india un maestro buddista
conosciuto come Atisha. Restò 3 anni in Tibet istruendo i monaci tibetani sul buddismo tantrico.
Quando Atisha attraversò il Tibet si rese conto dell’agitazione che regnava in quel paese che era in
La storia del Tibet

più in pieno fermento religioso dalla quale cominciavano ad emergere le prime scuole del buddismo
tibetano. Quando Atisha morì un suo discepolo, Dromton, costruì un piccolo monastero a nord di
Lhasa chiamato “Radreng” dedicato ai suoi insegnamenti. I predicatori di questi insegnamenti,
semplici e diffusi utilizzando il linguaggio della gente comune, divennero noti come “Kadampa”
seguaci delle scritture del Buddha “Ka” e dei consigli di Atisha (dam). Il cuore di questa scuola era
una tecnica conosciuta come “addestramento della mente”, sono delle pratiche semplici per
rimpiazzare l’egoismo con la compassione. I kadampa enfatizzavano il fatto che l’egoismo non ci
rende felici, insegnando al contrario che era l’altruismo la chiave per la felicità di se stessi e degli
altri. Una tecnica in particolare diventò famosa in Tibet: “inviare e ricevere” in questa tecnica il
meditatore immagina di accumulare la sofferenza degli altri esseri per inviargli indietro la felicità.
Una delle più grandi famiglie di Ngagpa (gli iniziati tantrici) era il clan Zur. Zur il vecchio, dopo
aver studiato per diversi anni, diede vita ad una comunità religiosa nella “valle del gufo” dove
venivano accolti sia coloro che volevano dedicarsi alle sacre scritture, sia quelli che volevano
dedicarsi ai riti. Quando Zur il vecchio raggiunse una certa età cominciò ad istruire suo nipote, Zur
il giovane. Egli si specializzò nell’illuminazione e seppur radunò attorno a sé molti discepoli e
diventò famoso per il suo sapere spirituale, purtroppo viveva in un epoca molto competitiva e in
costante mutamento religioso la gente cominciava a chiamar i lignaggi aristocratici, come quello dei
Zur, “gli antichi”.
I viaggi di Marpa
Marpa Chokyi, dopo aver ricevuto l’educazione adatta sugli insegnamenti tantrici decise, dopo
essersi reso conto di quanto oro ricevesse in cambio un maestro, di intraprendere un viaggio verso
l’India. Lì studiò con il famoso Naropa e quando tornò in Tibet guadagnò molto oro in cambio dei
suoi insegnamenti. Nelle biografie di quel periodo, i frequenti riferimenti alle miniere d’oro, fanno
capire che nel XI secolo il Tibet ne fosse ricoperto. Quando Marpa si trovava in India vi erano due
pratiche differenti: dell’adempimento e della generazione. La seconda richiedeva la visualizzazione
di sé come una divinità e la recitazione di mantra dedicata a quest’ultima, la prima invece
richiedeva la manipolazione delle energie interne al corpo. Marpa diffuse in Tibet la prima pratica.
Come la maggior parte dei maestri buddisti laici Marpa desiderava creare un lignaggio familiare,
ma nessuno dei suoi figli dimostrò interesse.
I canti di Milarepa
Questa è una delle biografie religiose importanti del Tibet se non del mondo. è stata tramandata
oralmente da generazioni a generazioni per questo non dobbiamo meravigliarci se il suo contenuto
storico non è fedele. Ma questa figura rimane importante perché rappresenta un eroe culturale e un
ideale di pratica religiosa a cui tutti i tibetani devono aspirare. Milarepa nacque nel 1040 in
un’antica famiglia aristocratica tibetana. Il padre morì e secondo la tradizione tibetana la madre
avrebbe dovuto risposarsi con un nipote del defunto, la madre si rifiutò e la famiglia la caccio.
Allora la madre incitò Milarepa affinchè apprendesse le portentose arti distruttive. Milarepa
attraverso queste arti provocò danni alla famiglia, ma ciò non fu abbastanza. Andò allora alla
ricerca di un maestro che potesse insegnargli potenziamenti tantrici e fu allora che diventò
discepolo di Marpa. Il maestro trattava malissimo Milarepa costringendolo a lavori forzati,
picchiandolo e insultandolo ma nonostante ciò Milarepa continuava ad eseguire gli ordini. La sua
determinazione è per i tibetani un esempio della giusta devozione che serve nel buddismo tantrico.
Così dopo molte difficoltà Milarepa ricevette i potenziamenti da Marpa. Per poter praticare senza
distrazioni si recò a vivere in una grotta. Molti canti , attribuiti a Milarepa stesso, narrano la vita che
conduceva in quelle grotte. I canti di Milarepa sono importanti perché sono un mix di Doha (canti
La storia del Tibet

indiani che parlano della natura della mente) e di antichi versi tibetani carichi di forme dirette e
drammatiche. Questi componimenti sono l’esempio migliore e più amato di tutti i canti religiosi
tibetani. Contemporaneamente alla scuola di Marpa e di Milarepa sorse un’altra scuola che, in
futuro, avrebbe ottenuto non solo il predominio religioso ma anche il potere politico su tutto il
Tibet: Sakya.
I Sakya sono l’ultima scuola del buddhismo tibetano i cui leader fanno parte della stessa famiglia
aristocratica, il clan Khon.
Il più importante esponente di questa famiglia fu Khon Konchog Gyalpo, contemporaneo di
Milarepa. Egli costruì un centro di ritiro a Sakya, valle del Tibet meridionale. Questa collocazione
fu di proprietà dei Khon fino all’installazione comunista del XX secolo. La valle conferì il nome
all’intero lignaggio.
Lama e imperatori
Nel X secolo quando la potenza dell’impero tibetano crollò, i tangut, un popolo appartenente allo
stesso gruppo etnico dei tibetani, che però erano fuggiti nel nord per scampare all’epoca degli
Tsenpo, ritornarono per rivendicare i vecchi possedimenti. Instaurarono un piccolo impero sulla Via
della Seta e cominciarono a seguire le orme dell’impero tibetano: crearono una propria lingua
scritta, che però a differenza di quella tibetana attingeva ad un modello cinese e non indiano, e
cominciarono un opera di traduzione dei libri sacri tibetani, cinesi e indiani nella loro lingua.
Questo progetto continuò per ben 200 anni. Nel XII secolo, lama provenienti dal Tibet (che è la
traduzione di “guru”) prendevano spesso parte alle corti tangut, diventandone i precettori imperiali.
Il potere dei Tangut però non fu duraturo, presto furono spazzati via dai Mongoli nel 1225 quando
morì il re dei Tangut nel mezzo di una campagna militare. Non soddisfatti i mongoli nel 1240
varcò il confine del Tibet che chiaramente in pieno declino non seppe difendersi. Come
rappresentante dei tibetani alla corte mongola fu selezionato un discendente del clan Khon, grazie
alla sua profonda conoscenza del sanscrito e della cultura indiana fu soprannominato “Sakya
Pandita”. Fu proprio egli che scrisse, nel 1246, una lettera firmata che imponeva a tutti i capi dei
diversi clan di piegarsi al potere mongolo. Sakya Pandita morì nel 1251 e il Tibet fu diviso in
distretti amministrativi noti come “miriarchie”, mentre i vari membri della famiglia reale mongola
divennero responsabili ciascuno di un diverso clan buddista.
La vita sotto i mongoli (La dinastia Yuan)
I mongoli come abbiamo visto non erano realmente interessati a inserire il Tibet all’interno del loro
impero, preferivano piuttosto utilizzare la strategia delle così dette “regioni di confine”, ovvero ogni
regione aveva un reggente locale, che però fosse fedele al re mongolo, affinché si potesse
mantenere l’ordine. Fin quando le tasse punitive giungevano in tempo alla corte mongola dei Khan,
essi erano soddisfatti. Secondo alcuni il periodo di dominio mongolo fu la prima grande annessione
del Tibet alla Cina, informazione assolutamente errata. I mongoli che si impadronirono del Tibet nel
XIII secolo provengono dall’impero mongolo orientale di Kubilai che non equivale alla Cina. Solo
per beneficio dei loro sudditi cinesi, decisero di professarsi come i successori della sconfitta dinastia
Song, dando il nome dinastico di “Yuan”. Ma mantennero fino alla fine una chiara distinzione fra il
loro impero e i loro sudditi cinesi. Il Tibet non fu mai una delle provincie amministrative
dell’impero di Kubilai, ma un territorio in cui i mongoli governano in quanto tali, utilizzando il
tocco leggero che preferivano utilizzare per le proprie colonie. In Tibet, la maggior parte degli
amministratori erano tibetani, solo alcuni erano mongoli e nessuno era cinese. Gli storici tibetani
tradizionali e coloro che sostengono l’indipendenza del Tibet dalla Cina, sostengono che i rapporti
La storia del Tibet

fra Tibet e mongoli fosse solo di stampo religioso, che i mongoli in cambio degli insegnamenti
tantrici degli Sakya concessero alla scuola di governare il Tibet. Ma questa è una semplificazione,
se è vero che i tibetani a livello locale avessero una certa indipendenza, non bisogna dimenticare
che al vertice dell’amministrazione tibetana vi erano i mongoli. Un’altra semplificazione è
l’affermazione che la relazione fra Sakya e mongoli riunificò il Tibet sotto un potere unitario per
più di un secolo. Ma non fu così perché sin dall’inizio, casate reali tibetane, fra cui Drigung e
Pagmodru, si impegnarono a far crollare l’alleanza fra i Sakya e i mongoli, ciò avveni nel 1353.
Sono noti inoltre noti gli aiuti culturali dati ai mongoli da parte dei tibetani: il buddhismo tibetano
divenne la religione principale nella corte mongola, gli insegnamenti tantrici furono offerti insieme
alla raffinatezza della filosofia indiana, in più i Sakya donarono all’impero una sua forma di
scrittura. Anche i mongoli lasciarono innovazioni ai tibetani come il sistema di tassazione, quello
postale molto efficiente e l’idea che in Tibet fosse possibile ricreare una forma di autorità centrale.
5. L’età dell’oro [1315-1543]
Jangchub Gyaltsen proveniva dal clan Pagmodru e divenne governatore che seppur era un onore
perché significava possedere l’altisonante titolo di miriarca, era comunque in secondo piano e
dominato da Sakya. Il giovane Jangchub voleva ridare al suo clan la gloria di un tempo. Presto
scoppiò una guerra civile, seppur l’esercito di Jangchub era numericamente minore, i suoi guerrieri
erano fortemente motivati e per questo vinsero e avanzarono per riprendersi i territori perduti in
passato. Nel 1353 conquistò Lhasa. Era ormai chiaro che l’equilibrio del potere in Tibet stava
mutando: il dominio dei Sakya e l’influenza dei mongoli era giunto al termine. Partì così un lavoro
di rigenerazione e rimodellazzione del Tibet. Jangchub lasciò in pace le istituzioni di Sakya, ma le
privò di qualsiasi potere, in più non chiese l’indipendenza del Tibet dai mongoli ma smise di
preoccuparsi di ciò che accadeva a Pechino. Come prima cosa rimpiazzò la legislazione mongola,
considerata troppo severa, e ripristinò quella dell’antico impero tibetano. Il suo tentativo era quello
di edificare il nuovo regime seguendo il modello degli Tsenpo. Tutti i mongoli furono rimossi dalle
posizioni di potere e i tibetani gradualmente si ripresero il loro paese. Jangchub fu denominato
“grande tutore” appellativo che ancora oggi viene dato al Lama più elevato della scuola Karma
Kagyu, che possiede la peculiarità di essere la scuola con il lignaggio di lama reincarnati più
duraturo nella storia del Tibet. E’ tradizione del buddhismo tibetano la pratica di selezionare il
successore al rappresentante di un seggio monastico attraverso la ricerca del bambino (tulku) in cui
fosse rinata la sua coscienza. Tutte le forme di buddismo ritengono che la mente continui ad esistere
dopo la morte e che faccia ritorno in un altro essere senziente. I tulku non sono esseri illuminati
infatti vengono sottoposti a rigidi programmi di studio e di meditazione.
Questa scuola buddista, Karma Kagyu, possedeva grande rispetto alla corte mongola dei Khan,
tanto che si istallarono a Pechino per insegnare alla famiglia reale mongola i segreti tantrici e i
fondamenti del buddismo. Era il 1358 il Tibet era libero e Jangchub non era contrario a questo
scambio religioso-culturale fra I Karma Kagyu e i mongoli.
La dinastia Ming.
Nel frattempo, in Cina stavano nascendo movimenti popolari per rovesciare il potere mongolo. Il
capo di queste sovverte, contadino fin dalla nascita, si auto-proclamò nuovo imperatore della
dinastia Ming e i mongoli furono spinti nei loro antichi territori del nord. I Ming non erano
interessati a possedere il Tibet piuttosto erano interessati ai loro cavalli e al buddismo e al contrario
i tibetani adorava il thè cinese, allora iniziarono questi scambi fra i due paesi. In quanto al buddismo
parve che la dinastia Ming ereditò dai mongoli il loro gusto per il buddismo tibetano, anche perché
dato che in india scomparve il buddismo, per la corte cinese, adesso era il Tibet il centro
La storia del Tibet

internazionale di questa religione. Nonostante ciò i tibetani non si dimostrarono interessati a far
visita alla corte dei Ming, fu solo con l’imperatore Ming Yongle, che uno dei lama di rango più
elevato si mise in viaggio per la corte cinese dei Ming. Ming Yongle è ricordato come un
importante imperatore, anche perché fu proprio lui ad edificare durante il suo impero la famosa
“città proibita” ancora oggi esistente a Pechino.
Dunque, con l’abbandono delle terre tibetane da parte dei mongoli si poté affermare un periodo di
indipendenza del Tibet nel XIV secolo. Da questo momento, dati i buoni rapporti con i Ming,
decisero di dedicarsi alla religione buddhista che aveva trovato dimora nel Tibet dopo essersi
perduta in India. Furono riuniti tutti i testi tradotti dal sanscrito al tibetano in grandi collezioni
canoniche. In questo periodo prendono vita: il canone ortodosso diviso in Kangyur (parole del
budda) e Tengyur (commentari), la raccolta dei tantra e la raccolta delle scritture Bonpo. Furono
messi per iscritto i famosi testi di medicina, seguendo una forma utilizzata ancora oggi. La maggior
parte dei pensatori e la cui opera determina tutt’ora i temi della cultura e della religione tibetana si
concentra proprio in quest’epoca, il periodo classico della cultura tibetana, definita “età dell’oro”.
Una di queste illustre figure era Longchenpa, che però era esiliato nell’attuale Bhutan per aver
accettato come discepolo un rivale di Jangchub. Il nome, Longchenpa, significa “la vasta distesa”.
Egli decise a soli 12 anni, essendo orfano, di diventare un monaco. Dopo un tentativo di studio in
un monastero prestigioso, si rese conto della falsità e della ristrettezza mentale dei suoi compagni di
studio e presto abbandonò gli studi per dedicarsi alla meditazione con un guru spostandosi
continuamente fra una valle e l’altra. Dopo due anni, ottenne il permesso di impartire gli
insegnamenti appresi. Egli fu autore di innumerevoli poesie, istruzioni di meditazione e trattati
filosofici. I suoi scritti sono un mix di studi universitari di logica e filosofica e di poesia della
Grande perfezione, introduzione diretta alla via della mente, per questo vengono considerati ancora
oggi uno degli apici della letteratura tibetana. La sua fama crebbe così tanto che alcuni Sakya come
Lama Dampa divennero suoi discepoli. Quando però scoppiò la guerra civile e Jangchub prese il
potere cominciò a sospettare di Longchenpa di essere coinvolto in intrighi politici e così fu esiliato
nel Bhutan dove lasciò un profondo segno grazie agli insegnamenti che lì lasciò.
I rivelatori (Terton)
Al tempo di Longchenpa in Tibet cominciarono a fuori uscire rivelatori, chiamati Terton che si auto
dichiarano i prescelti da Padmasambhava, maestro indiano che venne in Tibet per istruire i tibetani
sui fondamenti del buddismo, che dovevano essere loro a ritrovare i così detto “terma” (tesori) che
il maestro indiano aveva sparso sul territorio durante il suo ritorno in India. I Terma potevano essere
sia oggetti rituali che scritture sacre oppure profezie del maestro.
All’interno di questi terma si fa riferimento alle dakini, ovvero spiriti femminili che devono guidare
il rivelatore ai terma. Infatti per questo motivo i terton spesso lavorano a stretto contatto con donne
in carne ed ossa con cui hanno rapporti sessuali perché si credeva che attraverso queste pratiche si
giungeva al giusto stato mentale adatto alle rivelazioni visionarie.

Uno dei terma più importanti, diventato famoso anche in Occidente, è il libro tibetano dei morti
(Bardo Todrol, “liberazione attraverso L’udire nel bardo”) si tratta di una poesia che si deve recitare
ai morenti o ai defunti per guidare la mente nella direzione corretta. I tibetani credevano che la
mente fosse dotata di un moto prestabilito sulle nostre azioni passate (karma), ma grazie a questa
guida era possibile reindirizzare la mente, i più grandi meditatori riuscivano a guadagnarsi
l’illuminazione mentre altro evitavano di rinascere in un animale o in uno spirito degli inferi.
La storia del Tibet

La religione Bon
Una figura rilevante di questo periodo (XIV secolo) fu Loden Nyingpo un Terton che crebbe in una
cultura leggermente differente da quella buddhista: egli era infatti in Bonpo. Secondo alcuni l’antica
religione tibetana pre-buddhista era chiamata “Bon” ma è inverosimile che i tibetani avessero una
chiara e ordinata religione prima del buddhismo, infatti fu con la rinascita del buddismo del XI
secolo che le scritture Bonpo cominciarono a fare la loro comparsa.
Loden era uno dei Terton più influenti grazie anche alla sua scoperta del terma “la brillantezza” ,
scritto che conteneva la leggendaria biografia del fondatore della religione Bonpo. Il suo nome era
Shenrab, egli viaggio molto per questo molto e oltre, ebbe una diatriba una volta con il principe dei
demoni che riuscì a convertire. i Bonpo credono che la loro religione sia più antica del buddismo e
odiano i Tsenpo che perseguirono la loro religione. Per questo motivo il buddismo è visto come la
“perversa preghiera di un demone” ed è attribuita al buddismo anche il primo declinino del grande
impero tibetano.
I Terton Bonpo sono visti come degli eroi che salvano l’antica religione dalle tenebre.In realtà
questa antica religione a cui si fa riferimento non è altro che una nuova religione, un’unione degli
antichi rituali pre-buddhisti e gli insegnamenti buddisti. (Venivano infatti chiamati Sutra e Tantra i
testi della religione bon). L’arte Bon utilizzava la svastica, simbolo di vita eterna. In più i Bonpo
effettuavano la circumambulazione in senso antiorario, al contrario dei buddhisti.
Molti buddisti consideravano questa religione una semplice copia del buddismo con tratti differenti,
ma affermare ció sarebbe ingiusto perché la letteratura Bonpo possiede centinaia di migliaia di
pagine che contengono rituali, preghiere, tecniche meditative, storia e spiegazioni cosmologiche.
Furono scritti proprio da Loden che trasse spunto dalle proprie visioni e dai rotoli trovati sottoterra e
fra le rocce. Il messaggio dei Bonpo affermava che tecniche tibetane come la divinazione,
l’astrologia e il dominio degli spiriti dovevano far parte del percorso spirituale tanto quanto le
pratiche buddiste. Dopo la breve esistenza di Loden si cominciarono a costruire templi di religione
Bon nel Tibet centrale. Monaci in vesti color zafferano praticavano rituali quotidianamente e
miravano alla liberazione proprio come i buddisti. persino agli inizi del XX ancora era discussa la
questione di quale fosse la religione legittima del Tibet, se il buddismo o la religione Bon.
Negli anni ‘50 il Dalai Lama dichiarò che i Bonpo facevano parte delle scuole del buddismo
tibetano anche perché ormai i Bonpo erano diventati parte fondamentale e apprezzata nel
patrimonio culturale del Tibet, anche perché possedeva qualcosa di marcatamente tibetano e
differente da qualsiasi altra religione del mondo.
Gli eredi spirituali di Dalai Lama
Il quarto Karmapa nel suo viaggio di ritorno dalla corte mongola nel 1359 si imbatté in un bambino
dalle grandi doti intuite già in precedenza dai suoi genitori e dai monaci locali. Questo bambino
divenne poi successivamente noto nel Tibet centrale come Tsongkhapa “l’uomo di Tsongkha”
(Tsongkha era il suo luogo di appartenenza). Fu una figura che scosse la religione in Tibet, mentre i
suoi eredi spirituali, i famosi Dalai Lama, ne cambiarono la vita politica. Il giovane monaco partì
dalla sua terra d’origine per intraprendere un viaggio nel Tibet centrale dedicando la sua vita
all’apprendimento degli insegnamenti del buddismo tibetano. Intraprese vari studi filosofici presso i
monasteri Sakya, che seppur avevano perso potere politico erano ancora dotati di grande fama
La storia del Tibet

spirituale. A trent’anni cominciò ad insegnare a creare il suo gruppo di discepoli che erano noti per
il loro aspetto caratteristico. Tsongkhapa e i suoi studenti univano vari brandelli e creavano le loro
vesti come in antichità facevano i discepoli del Buddha in India. Durante i svariati anni di
vagabondaggio incontrò diversi maestri del buddismo tibetano, man mano si rese conto di voler
creare una nuova formulazione del sentiero buddista. Ebbe così origine il suo testo “La grande
esposizione degli stadi della vita” un insegnamento inspirato alla scuola del grande maestro indiano
Atisha unito con un’interpretazione personale della filosofia del Madhyamaka, una dottrina
filosofica buddista fondata da un filosofo indiano chiamato Nagarjuna. Scrisse successivamente “La
grande esposizione del mantra segreto” ritenendo che questi due testi riuscissero a ricoprire
interamente il sentiero buddista. Fu proprio questo grande maestro a dar vita al famoso Grande
festival, un festival della preghiera che si teneva ogni nuovo anno a Lhasa. Questa usanza fu
mantenuta fino al XX secolo, quando poi i comunisti lo proibirono. Quando Tsongkhapa morì
all’età di 60 anni ebbe inizio la sua influenza nella storia politica e religiosa del Tibet. Fu creato dai
suoi discepoli, in suo onore, un monastero chiamato Ganden (“gioioso”). Presto questa scuola fu
assorbita dalla più antica scuola dei Sakya. I discepoli di Tsongkhapa fecero di tutto per rivendicare
l’originalità e l’indipendenza della scuola del loro maestro Una delle strategie utilizzate fu quella di
cambiare il colore del copricapo dei monaci, dal rosso, prediletto dai Sakya, al giallo. Infatti i
Gandenpa (nome che fu dato ai discepoli di Tsongkhapa) furono ricordati come “Cappelli gialli” in
Tibet.
Nonostante ciò le loro pratiche tantriche provenivano comunque dalla scuola dei Sakya, i quali ne
rivendicavano la paternità. Uno dei discepoli di Tsongkhapa, Khedrup, importante figura all’interno
di questa scuola di pensiero, disse che le pratiche enunciate dal suo maestro erano frutto delle sue
meditazioni che l’avevano portato in contatto con Manjushri, bodhisattva della saggezza e che fosse
stato proprio quest’ultimo a dichiarare legittima la sua filosofia. Ciò fu considerato del tutto
innovativo, era la prima volta che una scuola parte dalle idee filosofiche di un tibetano e non di un
indiano. Presto ciò divenne il pilastro dell’identità di questa scuola.
Furono edificati altri due templi, Drepung e Sera che vennero a formare insieme a Ganden (tutti e
tre costruiti nei pressi di Lhasa) la triade di imponenti monasteri che avrebbero dominato la vita
religiosa e politica del Tibet Centrale per secoli.
In Tibet, prima dell’arrivo dei comunisti, la maggior parte della popolazione tibetana era composta
da monaci, fu definito da alcuni studiosi moderni “uno dei più ambiziosi e radicali esperimenti
sociali e psicologici della storia umana”. La vita monastica in Tibet, inoltre, non era restrittiva, se i
rapporti eterosessuali erano proibiti, al contrario quelli omosessuali erano parte integrante della vita
monastica questo perché dato che in questo contesto questo rapporto sessuale non implicava la
penetrazione, essa non era considerata contro le regole. Una figura importante erano i dob-dob,
mantenevano l’ordine nel monastero, ed erano delle vere e proprie guardie del corpo dei lama, se
era necessario, per la protezione dell’istituzione, erano pronti a combattere. Prima degli anni ’60 del
XX secolo i monasteri possedevano la maggior parte dei beni terrieri e svolgevano, come i
monasteri europei medievali, attività di commercio.
6. L’ascesa e la caduta dei Dalai Lama [1543-1757]
Il ritorno dei Mongoli – Primo (terzo) Dalai Lama
Il potere in Tibet continuava a frammentarsi sempre di più e ciò risultava un punto a favore dei
mongoli che stavano facendo ritorno sui territori tibetani. Quando i mongoli invasero nuovamente il
Tibet cominciarono ad istaurare rapporti con i tibetani. La relazione più importante che nacque fu
La storia del Tibet

quella fra il principe mongolo e il Lama Gelug che egli chiamò “Dalai”. Il giovane lama fu
chiamato alla corte mongola per istruire il principe e la corte ai fondamenti del buddismo. Il
giovane lama era il più brillante esponente della scuola religiosa di Gelug sostenitori della famiglia
reale Pagmodru.
Al ritorno con il suo incontro reale lo aspettava una vita piena di responsabilità. La sua residenza
era il famoso palazzo Ganden, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Era inoltre tutore personale
del sovrano Pagmodru in U. Lama Gelug, ovvero Sonam Gyarso, tornò a far visita alla corte
mongola all’età di trent’anni sotto l’invito di Altan Khan, colui che aveva sottomesso i vari gruppi
tribali mongoli e l’esercito della dinastia Ming. Altan voleva rigenerare il rapporto che l’impero
Kubilai manteneva con il Tibet, ma per farlo aveva bisogno di un fedele monaco tibetano che
impartisse gli insegnamenti buddisti al paese e che facesse acquistare prestigio alla corte mongola.
Si istaurò quindi fra Altan e Sonam un rapporto di sacerdote e patrono. Gli fu dato un titolo
impronunciabile che significava “il meraviglioso detentore del Vajra, eccellente, splendido Oceano
di merito” che fu abbreviato in “Dalai”. Sonam Gyarso fu il primo a ricevere questo merito, ma
dato che era il terzo di un lignaggio di rinascite, fu considerato come il terzo Dalai Lama. Anche
quando morì Altan fu sancito lo stesso rapporto con il figlio e il Dalai Lama cominciò a vagare per
la Mongolia convertendo i sudditi al buddismo. Quando morì il D.L. si resero conto di dove
risolvere il problema di discendenza perché questo rapporto sancito era conveniente per l’impero
mongolo. Con una mossa astuta e rapida, fu dichiarato tulku il nipote di Altan stesso, purtroppo
però non era dotato di buona salute e morì ancor prima di compiere i trent’anni. Yonten Gyatso, il
quarto Dalai Lama, seppur non ben visto agli occhi dei tibetani dato che era nato e cresciuto in
Mongolia, viene ricordato come l’unico Dalai Lama d’origini mongole. Sfruttando il momento di
fragilità di potere dopo la morte del Dalai Lama, il sovrano dell’altra casata reale tibetana Tsang si
autoproclamò re del Tibet centrale. Riuscì a riunificare il Tibet come avvenne ai tempi dei legami
fra i mongoli e Sakya, ma a differenza di questi ultimi non si servì di un esercito straniero. Tsang
proibì ai Gelug di nominare un altro Dalai Lama, ciò ovviamente provocò delle ribellioni che si
conclusero pacificamente grazie alla mediazione del Panchen Lama, primo di un lignaggio di lama
che in futuro in Tibet avrebbe ottenuto un grande potere, fece si che fosse individuato il quinto
Dalai Lama che fu convolto nella vita politica sin dalla tenera età. Dopo vari anni da fuggitivo per
sfuggire alla sottrazione dei mongoli, il bambino su portato al palazzo Ganden dove il Panchen
Lama gli conferì il nome di Losang Gyatso, quinto Dalai Lama. Iniziò così la tradizione secondo
la quale i Dalai e Panchen lama agirono nelle loro successive rinascite come precettori l’uno
dell’altro.
Nel frattempo, un’altra tribù mongola stava giungendo alla ribalta: i qoshot. Il loro sovrano, Gushi
Khan, nel 1637 si fece strada al di là dei confini del Tibet per incontrare il Dalai Lama, il Dalai
Lama fu colpito dalla devozione e dalla tenacia di Gushi e così gli conferì il titolo di “re del
dharma” dando vita ancora una volta alla relazione sacerdote-patrono. Colui però realmente
impegnato nei rapporti con il Khan mongolo fu il braccio destro del Dalai Lama, chiamato Desi
(“governatore”). Il quale diede il permesso ai mongoli di spingersi fino al Tibet centrale, mossa
azzardata, dato che i mongoli erano guerrieri violenti non solo con i guerrieri ma anche con i civili.
Irruppero nel 1641, come ricordiamo quell’area era sotto l’influenza del re Tsang che però fu
sconfitto poco dopo. In un incontro significativo sul campo di battaglia Gushi donò il Tibet in
regalo al Dalai Lama. Ma vi era ancora una grande potenza da schiacciare: la scuola di Karma
Kagyu, alleati della dinastia Ming e dei principi tibetani Rinpung. Le due figure più importanti di
questa scuola erano il Karmapa e lo Shamar che vagabondavano fra i vari monasteri in un vasto
accampamento ricordato dai tibetani come “L’Accampamento”. Le tende di questi monaci furono
La storia del Tibet

circondate e qualsiasi monaco si ribellasse venne ucciso, il decimo Karmapa riuscì a figure nel
Bhutan. Insieme a loro schiacciarono ogni possibile minaccia o ribellione. Fu così che nel 1642,
Losang Gyatso, divenne sovrano di tutto il Tibet. La residenza del Dalai Lama fu il palazzo Ganden
fino al XX secolo.

I mancesi
La dinastia Ming fu sconfitta dai mancesi che conquistarono Pechino nel 1644 instaurando una
nuova dinastia chiamata Qing che durò fino al XX secolo. Quando il Dalai Lama ne fu a
conoscenza inviò una lettera di convenevoli al nuovo re firmata, significativamente, sia da lui che
dal suo alleato Gushi Khan. Ovviamente i mancesi, essendo a conoscenza del pericolo di questi due
forti personaggi, decisero di sancire un rapporto di patrono-sacerdote con il quinto Dalai Lama.
Quest’ultimo andò in visita alla corte dei Qing nel 1654, questa viene considerata dagli storici cinesi
moderni un simbolo di sottomissione del Dalai Lama alla Cina, ma questa prospettiva non è
condivisa dagli storici tibetani e cinesi dell’epoca. Per il Dalai Lama fu la conferma del suo status di
unico re del Tibet e un’occasione per diffondere la sua scuola in Cina. Dal suo ritorno in Tibet il
Dalai Lama lasciò le faccende politiche nelle mani del suo governatore Desi, dimostrandosi così un
uomo di religione passò la maggior parte della sua vita in meditazione.
Quando il quinto Dalai Lama morì, nel 1682, il Tibet dopo due secoli di guerre civili era finalmente
unito con al centro la città di Lhasa e come potere religioso la più recente scuola buddista: Gelug.
Questo in sostanza fu il Tibet fino al XX secolo grazie al quinto Dalai Lama che viene ricordato dai
tibetani semplicemente come il “Grande Quinto”.
Desi (Sangye Gyarso) la pupilla del quinto Dalai Lama, si ritrovò da solo a gestire l’intero Tibet e
mise in scena uno degli imbrogli più ingegnosi di tutti i tempi: non dichiarò la morte del Dalai
Lama per ben 15 anni e quando i mongoli insistettero per vederlo ingaggiò un vecchio monaco che
apparentemente gli somigliava e costringeva questo monaco a nascondersi fra le mura del palazzo
per riutilizzarlo quando lo necessitava.
Nel frattempo, in totale segretezza andarono alla ricerca del sesto Dalai Lama che trovarono nel
Bhutan. La morte fu annunciata nel 1696, quando il sesto D.L aveva ormai 16 anni. Il Panchen
Lama gli diede il nome di Tsangyang Gyatso (“oceano del canto divino”), ma crescendo volle
rinunciare ai voti monastici, era attratto da altre cose fra cui il bere e le donne. Cominciò a vestirsi
come un nobile, pieno di gioiello e con i capelli lunghi, cominciò inoltre a scrivere poesie che sono
note come rari esempi di poesia tibetana d’amore. Il potere del Desi sul Dalai Lama era nullo, allora
come ultimo tentativo decise di uccidere uno degli amici più cari del Dalai Lama, ma quest’ultimo
accorgendosi dello stratagemma fece cambiare di vestiti il suo amico e uno schiavo e a morire fu lo
schiavo, da questo momento i rapporti con il Dalai Lama si inasprirono. Desi rinunciò ad
addomesticare il Dalai Lama e si dedicò alla scrittura e all’educazione di suo figlio come prossimo
Desi. Seppur andò in una “pensione” apparente, Sangye continuava a governare il Tibet senza tante
limitazioni e dando sempre meno importanza ai mongoli. Per questa ragione stava per scatenarsi
una guerra che però fu placata, costrigendo Sagye ad andare in pensione e riconfermando il titolo di
“re del Tibet” al sovrano mongolo. Ciò portò il Tibet alla rovina, Lajang Khan, re dei mongolì
invase il Tibet e uccise lo stesso Sagye. Ora toccava al Dalai Lama. Lajang si alleò con i mancesi ed
ebbe l’appoggio della scuola Gelug che dichiarò assente l’illuminazione nel sesto Dalai Lama.
L’esercito di Lajang rapì il Dalai Lama ma ciò provocò una feroce guerra e vedendo le disastrose
La storia del Tibet

conseguenze Tsangyan si consegnò al re mongolo. Il sesto Dalai Lama però morì prima di poter
raggiungere Pechino nel 1706 a soli 24 anni. La sua reincarnazione era stata predetta in uno dei suoi
scritti poetici, dove il Dalai Lama scrisse “ passerò appena per Litang e sarò di ritorno”. Infatti il
settimo Dalai Lama fu individuato proprio nel distretto del Litang.

Gli zungari – un falso aiuto


Però, il re mongolo, dichiarò di aver lui trovato la vera reincarnazione, in un giovane che , da
quando si vociferava, forse era proprio suo figlio. Sia i mongoli che i tibetani non apprezzavano
questo nuovo falso Dalai Lama, così come la scuola di Gelug che appoggiava la reincarnazione del
Dalai Lama di Litang. Un potere crescente in mongolia, gli zungari, divennero alleati dei monaci
Gelug che inviarono i propri monaci affinché fossero addestrati come soldati per sconfiggere
Lajang. Ben presto i zungari conquistarono Lhasa e nel 1718 sconfissero definitivamente il re
mongolo. Ma ciò non fu un beneficio per il Tibet, questa tribù mongola comincio a sterminare e a
saccheggiare i territori tibetani uccidendo migliaia di monaci. Tutti si resero conto di quanto questi
nuovi sovrani mongoli fossero di gran lunga peggior dei precedenti. Il Tibet indifeso, preda di
questi guerrieri mongoli che si trasformarono in semplici gruppi di banditi armati, fu aiutato dal re e
dall’esercito mancese, che insieme al settimo Dalai Lama, varcarono le porte di Lhasa nel 1720
finalmente la minaccia mongola fu sterminata.
L’esercito mancese portò una breve pace, perché già nel 1722 quando morì il sovrano, suo figlio,
Yongzheng non era interessato alla costruzione di una vasto impero come il padre quindi lasciò
Lhasa insieme al suo grande esercito.
Il consiglio Tibetano crollò nel caos costituito da nobili provenienti da diverse parti del paese che
non avevano interessi comuni. Si sfociò così in una guerra civile che durò un anno. La situazione fu
risolta da un ritorno dell’esercito mancese che assieme ad un nobile Tibetano di grande rilievo nel
paese, chiamato Pholhane riordinarono il Tibet. Si suggerì al Dalai Lama di lasciare Lhasa e partire
per il Tibet orientale in modo tale che non fossero fomentate altre ribellioni di cui sarebbe stato il
punto di riferimento. Nel tentativo di equilibrare il potere fra Dalai Lama e Panchen Lama, i
mancesi elevarono la figura di quest’ultimo dandogli il controllo sullo Tsang e sul Tibet
occidentale. Sotto la guida dell’impero mancese, che governò fino al 1747, ci fu un periodo di pace
dove Pholhane, ricordato come uno dei grandi statisti del paese, confrontava sempre i bisogni dei
tibetani con le richieste della corte mancese.
Quando morì P. suo figlio lo succedette ma con scarsi risultati dato che era dotato di un’instabilità
mentale che lo rese impopolare e odiato dalla maggioranza, così fu presto assassinato. Seppur non
era amato dal popolo era pur sempre un uomo tibetano che era stato assassinato da mancesi e ciò
provocò la furia di molti tibetani. La rivolta fu placata dall’armata mancese e l’imperatore decise di
ridare l’antico ruolo del Dalai Lama a capo del governo. Così ci fu una riorganizzazione del
governo tibetano: il Dalai Lama al vertice, sotto la sua supervisione un consiglio di 4 ministri (due
monaci e due laici) chiamato Kashag. Il Tibet era amministrativamente parlando indipendente,
aveva un governo proprio, una lingua e una religione propria, erano liberi dalle tasse mancesi.
Questa riorganizzazione durò fino all’invasione comunista. Il settimo Dalai Lama (Kelzang
Gyatso) fu un politico incredibilmente astuto ma destinato a governare solo in Tibet centrale con un
potere al quanto limitato così come i suoi successori. Fino al XX secolo nessun Dalai Lama esercita
un potere incontrastato sul Tibet.
La storia del Tibet

7. L’esercizio della diplomazia [1757-1904]


Nel 1774 l’impero britannico stava facendo dell’india una delle loro migliori conquiste coloniali.
Warren Hastings, il governatore generale delle indie orientali, ricevette una lettera dal sesto
Panchen Lama in cui quest’ultimo chiedeva con umiltà che i suoi connazionali lasciassero perdere
le ostilità con il sovrano del Bhutan, assieme a questa lettera furono inviati doni pregiati, motivo per
cui Hastings cominciò ad interessarsi ad eventuali rapporti commerciali con il Tibet: per la seta,
l’oro, l’argento e il muschio. Così cominciò una missione per il Tibet, dove però il generale inglese
non ottenne quanto sperato, pero in cambio sancì un’amicizia e un intercambio culturale con il
Panchen Lama. Tornò in India nel 1775.
Il Panchen Lama per il compleanno del re dell’impero mancese, Qianlong, che fu uno degli
imperatori mancesi più fedeli al buddismo tibetano e il più generoso nei riguardi di questa religione.
Una volta giunto alla capitale cinese ricevette moltissimi doni, cerimonie di benvenuto e moltissimi
devoti si presentarono alle sue porte. Nelle varie conversazioni con l’imperatore fece anche accenno
ai possibili rapporti commerciali che si potevano intraprendere con le indie orientali britanniche ma
ciò non avvenne mai. Purtroppo, il Panchen Lama si ammalò di vaiolo e morì.
Alla fine del XVIII secolo la vitalità culturale tibetana si spostò verso est, in Kham, un’area che non
è mai stata annessa a nessun impero, E che durante i secoli ha fornito meditatori buddisti al Tibet,
infatti nel Tibet occidentale vi era un numero elevato di monaci Khampa. Fu in questa regione che
si dice sia nato Gesar, famoso eroe guerriero khampa tibetano. Per secoli le sue gesta furono narrate
da cantori e tramandate da una generazione all’altra. La sua storia infatti è ricordata come uno dei
più grandi poemi epici al mondo.
Nel Tibet orientale vi era l’antico regno di Derge, governato da re che facevano discendere il loro
lignaggio dal clan Gar. Durante l’impero mongolo di Kubilai si convertirono al buddismo tibetano
di Sakya, devozione che durerà fino al secolo XX. Nonostante ciò i re del Derge erano molto
tolleranti e abbracciavano ogni tipo di scuola buddista o religione. Questa tolleranza, questo
atteggiamento non settario in realtà era diffuso in tutto il tibet durante l’età dell’oro del XIV secolo
quando Longchenpa e Tsongkhapa studiarono con maestri appartenenti a diverse scuole di pensiero.
Le guerre cominciarono con il contrasto fra Kagyu e Gelug fra il XVI e il XVII secolo che
rappresentò la fine degli idea non settari.
Il regno di Derge era però minacciato dall’invidia che i monaci Gelug provavano nell’essere in
minoranza anche in Tibet orientale, dove, come abbiamo detto, vi era una maggioranza di monaci
khampa. Infatti, l’indipendenza e l’atteggiamento non settario di questo regno presto furono
spazzati via, schiacciati dalle pressioni di Lhasa e Pechino.
Nel frattempo, in India l’impero britanno prendeva sempre più potere e non passò molto tempo
prima che questo forte impero occidentale reclamasse anche il proprio potere sul Tibet. Giovani
inglesi venivano incitati a partire per l’oriente con la promessa di acquisire, una volta in India, titoli
onorevoli, territori e beni preziosi. Inoltre, i filosofi di quell’epoca diffondevano il pensiero secondo
il quale era dovere dell’impero britannico addomesticare le “razze inferiori”, ideale folle a cui molti
giovani aderivano e sostenevano. Curzon, politico importante britannico, decise che era arrivato il
momento di riuscire lì dove le generazioni precedenti di inglesi non erano riusciti: creare una
connessione commerciale in Tibet. Il Dalai Lama non lesse mai le varie lettere che Curzon gli inviò
e ciò ferì profondamente l’orgoglio degli inglesi fanatici.
Così nel 1903, l’impero britannico mise su un esercito di più di 2,000 uomini e invase il Tibet. Per
evitare ulteriori massacri fu firmato nel 1904 un trattato di pace dove il Tibet si impegnava a non
La storia del Tibet

sancire nessun tipo di accordo con paesi stranieri (come ad esempio la Russia, nemica
dell’Inghilterra, sospettata di aiutare il Tibet nella resistenza, cosa che, in modo imbarazzante, gli
inglesi scoprirono esser falsa.) e di lasciare che gli inglesi istaurassero una postazione commerciale
a Gyantse. Tutto ciò fu accettato e le truppe inglesi lasciarono il paese. In realtà questo trattato fu di
poco valore, le truppe inglesi al confine del Tibet durarono solo tre anni e presto fu deciso che la
Cina poteva rivendicare diritti sul Tibet.
8. Indipendenza [1904-1950]
Nel 1904 il tredicesimo Dalai Lama arrivò nella capitale mongola mentre il suo braccio destri
Dorjiev partì per San Pietroburgo per chiedere allo zar una mano per liberarsi dalla dominazione
britannica. Nel frattempo. Il Panchen Lama, in assenza del Dalai Lama, tentò di governare il Tibet e
incontrò il viceré dell’India britannica nel 1906. Ciò allarmò i cinesi che avvertirono che se stesse
complottando con i russi sarebbe stato deposto. In realtà durante tutto il XIX i Dalai Lama ebbero
un potere molto ridotto, l’ultimo predecessore in grado di esercitare un grande potere politico fu il
5° Dalai Lama. Nonostante ciò il 13° Dalai Lama possedeva alcune caratteristiche del 5°: fu il
primo del lignaggio Gelug a ottenere il più elevato titolo accademico e ad avere visioni del famoso
maestro Padmasambhava. La vita del 13° Dalai Lama però non fu facile, era in costante
preoccupazione che qualcuno lo uccidesse, infatti tentarono un omicidio nei suoi confronti con
scarsi risultati. Per questo motivo restò alcuni anni a Urga, e rimase nelle terre mongole per un
lungo periodo ma poi fu presto “invitato” ad andarsene. Sostò per più di un anno in un monastero
Kumbum, dove lo stesso Dalai Lama si fermò per giungere dall’imperatore secoli prima di lui.
La colonizzazione
Quando i cinesi vennero a sapere della sottomissione del Tibet all’impero britannico, si rese conto
che avrebbero dovuto far qualcosa altrimenti sarebbe toccato presto anche alla Cina. Decisero così
di riprendere il controllo sul Tibet: un guerriero ricordato come “Zhao il Macellaio” per il grande
numero di civili e monaci che uccise nel tentativo di colonizzare la regione del Kham. Da allora il
Tibet cadde sotto l’influenza dei mancesi, dovendo seguire le leggi e pagare le tasse del governo
cinese. Non potevano indossare i loro indumenti ne portare i capelli come erano abituati a portarli,
ma dovevano adottare abitudini e abiti cinesi. Era una vera e propria colonizzazione.Il Dalai Lama
tentò di parlare con l’imperatore mancese ma non vi furono versi, egli non era visto agli occhi
dell’imperatore come un rappresentate di un paese indipendente. Anzi i titoli onorevoli che gli
furono dati in passato furono sostituiti con il titolo “sinceramente obbediente”.
Lhasa era cosparsa di manifesti che annunciavano la venuta delle truppe cinesi che avrebbero difeso
il popolo tibetano dagli invasori stranieri. Nel 1910 i cinesi marciarono su Lhasa, togliendo ogni
forma di potere al Dalai Lama che rimase solo con la sua influenza spirituale. Era in realtà una
trappola, ben presto i cinesi avrebbero catturato il Dalai Lama, che però sospettoso decise di fuggire
in India, nella speranza che vi fosse una nave per la Cina per portare il suo caso davanti
all’imperatore.
L’indipendenza
Si fermò però in india dove riscoprì il popolo britannico in cui vedeva un possibile alleato contro la
Cina. Ma l'Inghilterra non volle immischiarsi. Ma nel 1911 scossa da una serie di ammutinamenti,
la dinastia mancese crollò e il Dalai Lama inviò uno dei suoi più giovani ministri però coordinare
una possibile guerra per riprendersi il proprio paese. Ma in Tibet vi erano alcuni favorevoli alla
presenza dei cinesi, come il Panchen Lama, e altri non, come ad esempio i monaci del monastero
Sera. La guerra fu sanguinosa si concluse però con la sconfitta dei cinesi nel 1912: i cinesi furono
La storia del Tibet

deportati in Cina, mentre, i ministri tibetani che avevano collaborato con i cinesi furono giustiziati.
Così emanò l’indipendenza tibetana, riconfermando il suo vecchio ruolo all’interno della politica
Tibetana e dichiarando da adesso il rapporto patrono-sacerdote fra Cina e Tibet sciolto. Da questo
momento la Cina era vista come un nemico da cui difendersi e non come un protettore, ma dato ciò
il Dalai Lama doveva assicurarsi amici potenti. Chiese così aiuto all’Inghilterra e alla Russia
preoccupato per la crescente repubblica cinese che aveva idee alquanto preoccupanti sulla probabile
unione della Repubblica e del Tibet come se fosse un’unica famiglia. Il Dalai Lama desiderava che
vi fossero a Lhasa rappresentanti sia inglesi che russi. L’impero britannico non voleva che ci fosse
un rappresentante britannico a Lhasa ma era disposto a condurre trattati di pace fra Gran Bretagna,
Cina e Tibet, infatti progettò un incontro a Shimla fra i tre paesi. Nel tentativo di definire i confini
fra Cina e Tibet ci furono accese discussioni. Si arrivò dunque alla decisione di dividere il Tibet in
due zone “L’interna” gestita in modo elastico dalla Cina, e la regione ad ovest “l’esterna” che era
autonoma e indipendente a tutti gli effetti. La linea di confine, tracciata fra Cina e Tibet, fu
chiamata “linea McMahon”, sarà uno dei motivi che porterà il Tibet e la Cina di nuovo in discordia.
Nonostante ciò e nonostante il fatto che la gran bretagna in quel trattato di Shimla si impegnò a non
interferire più negli affari fra Tibet e Cina, quando il Dalai Lama, ancora non convinto di un
possibile e futuro attacco da parte della cina, chiese agli inglesi delle armi e un’istruzione sulla
guerra moderna, gli inglesi accettarono. Ovviamente per sostenere tali spese speciali il Dalai Lama
dovette spremere i nobili e le ricchezze dei monasteri per riuscire a sostenerle. In più con il tempo si
rese conto delle attività poco morali che portavano avanti i monaci e limitò così le attività
commerciali che erano possibili per i monaci incitandoli a studiare.
Le tensioni dunque erano inevitabili e raggiunsero il suoi apice nel 1921 quando un rappresentante
inglese di nome Bell si recò a Lhasa. Quest’ultimo non era ben accetto dai monaci buddisti e
vennero affissi in giro manifesti che incitavano il suo assassinio. La rivoluzione fu presto sedata ma
Lhasa si stava trasformando gradualmente in una città europea dove vi erano alcolici, abiti
tradizionali europei e dove erano diventate comuni le sigarette, specialmente nell’aristocrazia. Il
Dalai Lama stava convertendo il Tibet inconsapevolmente in una colonia inglese. I monaci
credevano che il suo modo di fare fosse molto lontano dalle tradizioni tibetane.
Parlando del Panchen Lama, che ha sempre goduto di una certa indipendenza, ora era per il Dalai
Lama un ostacolo, per il suo grande progetto: quello di portare il Tibet sotto il suo unico potere. Il
9° Panchen Lama era in realtà un uomo umile non interessato alla politica e con scarse capacità
diplomatiche, ordunque una pedina politica perfetta nelle mani di britannici e cinesi, sia durante la
sua visita in India, sia durante l’esilio del Dalai Lama in India.
Quando però il Dalai Lama impose una pesante tassa, per il nuovo esercito tibetano, alla corte del
Panchen Lama, questi ultimi non accettarono e in più coltivarono il sospetto che il D.L. volesse
usare quest’esercito contro di loro. Il Dalai Lama esagerò nel contrasto con il P.L. tentò anche di
riconciliare la situazione ma era troppo tardi ormai. Il Panchen Lama fuggì in Cina e diventò un loro
alleato, o per come alcuni dicono, un loro prigioniero. Il Dalai Lama capì che l’indipendenza del
Tibet dalla Cina non era una causa comune per tutti, e che i monaci, non comprendendo la politica
del XX secolo non capivano perché era così importante per il loro capo supremo dichiarare questa
indipendenza dalla Cina.
Fra gli interessi del Dalai Lama vi era però anche il buddismo di cui era fervente seguitore. Fece
così ideare uno dei più grandi canoni del buddismo, così grande che ci vollero ben 7 anni a
terminarlo. Nonostante fosse legato alla vita spirituale, anche duranti i suoi ritiri in solitudine,
continuava a mantenere le redini del suo paese.
La storia del Tibet

Nel XX secolo in Tibet ci fu un grande comunicatore religioso, Pabongka. Mentre la maggior parte
dei monaci si tenevano lontani dai civili, lui passava il suo tempo fra di loro e diventò famoso per la
sua figura chiara e carismatica. Quando morì nel 1933 il Dalai Lama, Pabongka si recò ad est, nel
tentativo di portare in quelle terre gli insegnamenti della scuola di Gelug, di cui lui faceva parte. P.
nel 1935 stabilì una relazione con un signore della guerra cinese che aveva invaso il Kham, e
rompendo la tregua con Lhasa, estese i suoi territori fino al fiume Yangtze. Pabongka cercò di
instaurare con lui un rapporto di patrono-sacerdote, per assicurarsi la diffusione della sua scuola,
probabilmente per Pabongka l’ideale di un Tibet indipendente aveva scarsa importanza. In realtà
questo aiuto da parte di Liu non arrivò mai, al contrario quest’ultimo, che fu da sempre un politici
opportunista, si schierò con i cinesi comunisti che, appena si resero conto che i monaci khampa
erano ostili al governo di Lhasa e potevano facilmente unirsi a loro, decisero di fare il loro ingresso
in Tibet.
Di tutti i Dalai Lama, perfino più del quinto, egli fu in grado di riunire sotto la sua influenza sia la
sera politica che quella religiosa. Ma quando purtroppo arrivò la sua ora, la Repubblica cinese vide
la sua morte come un’ottima occasione per imporre di nuovo la loro influenza sul Tibet. Già il Dalai
Lama, in passato, aveva predetto un possibile arrivo dei comunisti in Tibet, avendo sentito cosa
stesse accadendo in Russia con Stalin. Affermò che il comunismo in Tibet avrebbe abbattuto la
tradizionale unione politica e religiosa che si portava avanti sin dai tempi degli Tsenpo. Comunque
sia, quando ciò avvenne, il tredicesimo Dalai Lama sarebbe già morto. Fra la morte del 13° D.L. e
la ricerca del 14° il governo tibetano era fragile senza un leader capace di imporsi. A causa di tutte
queste lotte interne il Tibet non si rese mai realmente conto della minaccia cinese incombente,
pronta a prendersi con la forza il paese. Solo quando nel 1949 Mao dichiarò la vittoria del Partito
comunista i tibetani si resero conto della serietà della situazione e cominciarono a chiedere aiuto ai
loro possibili alleati internazionali: britannici, indiani, americani, ma tutti negarono gli aiuti al Tibet
che si ritrovò a combattere da solo. Nel giorno di Capodanno la Radio Pechino annunciò che, per
quell’anno, i compiti dell’esercito di liberazione popolare sarebbero stati liberare Taiwan e Tibet
dagli imperialisti americani e inglesi. In realtà, era tutta una farsa, in Tibet non vi erano inglesi, fatta
eccezione da Ford che era l’unico britannico che si trovava a Lhasa, che fu inoltre l’unico europeo a
diventare un funzionario tibetano. Mao era convinto, così come i suoi predecessori, che egli avrebbe
dovuto riunire le “cinque razze” sotto un’unica madre patria. Nonostante la totale assenza di
stranieri in Tibet, i comunisti cinesi erano convinti del fatto che la posizione indipendentista del
Tibet fosse stata un’imposizione esterna e quando furono cacciati i rappresentanti cinesi dal Tibet
ne furono convinti ancora di più. Non fu solo l’ideologia comunista a dare alla “liberazione” del
Tibet la priorità ma anche l’orgoglio nazionale che era stato schiacciato dai britannici e dai tibetani
durante i secoli precedenti. La resa era l’unica soluzione.
In realtà, all’inizio non sembrava una cosa negativa l’occupazione cinese. I soldati cinesi
pattugliavano le strade e i muri erano tappezzati di manifesti che assicuravano ai tibetani che l’ELP
(Esercito di Liberazione Popolare) era lì per aiutarli a liberarsi dall’oppressione imperialista, che i
lama e i templi non sarebbero stati danneggiati e che non sarebbero stati apportati cambiamenti al
governo tibetano né all’esercito. Tutto ciò faceva parte del piano di Mao per conquistare il Tibet i
soldati erano stati ben istruiti e si comportavano con eccezionale decoro.
Le trattative, inizialmente pacifiche, con il Tibet furono gestite da Ngapo, una figura molto rilevante
all’epoca all’interno del governo del Tibet, che convinto dal comportamento dei soldati cinesi, tentò
di convincere anche il Dalai Lama a scendere a patti con la cina. Il tredicesimo Dalai Lama, che
aveva solo 16 anni, in realtà non è mai stato convinto dal falso comportamento gentile dei cinesi,
infatti decise di rifugiarsi in una città al confine con il Sikkim. Ngapo insieme ad un gruppo di
La storia del Tibet

intermediari si recarono a Pechino per concludere le trattative di pace. La situazione era curiosa: i
leader spirituale del Tibet inviò Ngapo a decidere il futuro del Tibet nella lontanissima Pechino.
Ngapo durante il suo viaggio verso Pechino, in un atto simbolico, si tagliò i capelli per affermare il
suo passo avanti verso la modernità e il definitivo abbandono del passato tradizionale del Tibet. Le
negoziazioni non andarono come i tibetani speravano, secondo i cinesi il Tibet ha sempre fatto parte
della Cina storicamente parlando. Fra i vari punti che furono costretti ad accettare vi era: lasciare il
passaggio libero all’ELP senza opporsi e l’affermazione del definitivo ritorno del Tibet nella grande
famiglia della madre patria: la Repubblica popolare cinese. Gli altri punti erano a favore dei
tibetani: non sarebbero avvenuti cambiamenti sul governo e sulla religione, il Dalai Lama avrebbe
conservato il suo ruolo e tutte le riforme sarebbero arrivate gradualmente. Questo documento fu
vidimato nel maggio del 1951.
La resa
Gli osservatori internazionali sbalorditi della decisione del Tibet ipotizzarono che il governo
tibetano avesse firmato questo accordo con consenso. Tutti la vedevano in questo modo, meno gli
americani. Gli Stati Uniti, che non volevano la diffusione del comunismo, promisero al Tibet un
aiuto miliare e asilo in America se avessero ripudiato l’accordo firmato con la Cina. Però
rifiutandosi di firmare delle documentazioni ufficiali di tutto ciò. Ciò che per gli americani non
compresero era che in realtà la maggior parte del governo tibetano era favorevole a questa unione
con la Cina. Essi conoscevano la propria storia, da sempre quando una grande potenza si era recata
in territorio tibetano, i leader buddisti erano scesi a compromessi: l’esempio del Quinto Dalai Lama
con Gushi Khan oppure di Pholhane con l’imperatore Qianlong. In ogni caso, questi leader stranieri
garantirono l’autonomia al Tibet e così pensavano sarebbe successo con la Cina. Così il Dalai Lama
stesso decise di accettare i 17 punto dell’accordo relativo alle misure per la pacifica liberazione del
Tibet. Così l’indipendenza del paese, per cui aveva combattuto il 13° Dalai Lama, fu abbandonata.
Nel frattempo, nacque un movimento di resistenza, chiamato in modo ironico “Partito popolare
Tibetano”, attorno i due primi ministri tibetani in carica. La situazione degenerò nel 1952 quando,
nel tentativo di cambiare le strutture di potere tradizioni tibetane, fu installato un quartier generale
militare nell’area tibetana. Il vicepresidente fu Ngapo. Ciò fece scoppiare uno scontro fra soldati
tibetani e soldati cinesi fuori l’abitazione di Ngapo. I soldati cinesi a questo punto riportarono la
situazione a Pechino ma Mao, sorprendentemente, affermò che le riforme erano avvenute troppo
velocemente e che dovevano ritirarle. I soldati, non sentendosi sicuri a Lhasa, minacciarono il Dalai
Lama, che se non avesse deposto i due ministri tibetani che erano la causa di queste ribellioni, allora
loro avrebbero presentato delle accuse nei suoi confronti. Il Dalai Lama e il Kashag, che fino ad ora
rimasero neutri, dovettero fare una scelta e fu quella di deporre i due ministri tibetani, dichiarando
illegale il Partito popolare Tibetano. Il Dalai Lama, che fu sempre più coinvolto nella vita politica,
si affidò ai consigli Ngapo, che anche se era odiato dai tibetani perché si era venduto ai cinesi, si
rivelò un ottimo mentore. Il Dalai Lama, che si informava e interessava su quali fossero le difficoltà
dei tibetani, si convinse che il Tibet aveva davvero bisogno di rinnovarsi. Così insieme a Ngapo
cominciò a migliorare la vita dei tibetani costruendo scuole, cambiando il sistema del governo, etc
Nel frattempo, Mao continuava con il suo astuto piano, di legare il Tibet alla Cina gradualmente per
poi successivamente negargli ogni forma di autonomia: vennero costruite autostrade, scuole
pubbliche, venne finanziata la religione, fu costruito un ospedale moderno a Lhasa, banche e molte
altre cose moderne. Tutti cominciarono a cambiare idea sulla Cina, ritenendoli degli amici e non più
dei nemici. Ngapo stesso fu artefice di grandi cambiamenti che resero più facili le vite dei contadini,
La storia del Tibet

cercando di dare l’esempio agli aristocratici tibetani si sbarazzò dei suoi possedimenti e liberò le
famiglie a lui sottoposte.
Nel 1954 il Dalai Lama e il Panchen Lama fecero visita a Mao a Pechino in occasione di un evento
politico molto importante, dove volevano presentarsi come rappresentanti del Tibet. L’incontro
andò molto bene, Mao sfruttò questa prima occasione che ebbe di incontrare il Dalai Lama nel
tentativo di conquistarlo. Si dimostrò gentilissimo e molto più rispettoso nei suoi confronti che in
quelli del Panchen Lama. Ciò inasprì i rapporti fra il D.L. e il P.L. già precedentemente tesi. Il Dalai
Lama fu colpito dal Partito comunista, tanto che ne chiese di farne parte ma la sua richiesta fu
gentilmente respinta. Egli si dichiarava metà marxista e metà buddista, dichiarando che gli ideali
comunisti erano vicini quelli di un bodhisattva. L’illusione del Dalai Lama fu presto ridotta in
polvere quando nel 1955 egli tenne un banchetto a Pechino per il capodanno tibetano e Mao a fine
di una loro conversazione affermò “La religione è veleno”. Seppur rimase scioccato da tale
affermazione non volle credere che un uomo tanto gentile come si era dimostrato Mao potesse
distruggere il buddismo in Tibet. Credeva che il Tibet potesse diventare un paese socialista
moderno senza perdere le proprie tradizioni.
Le nuove riforme cinesi non piacevano alle genti del Kham, le quali ognuna di loro portava con se
un’arma da fuoco, considerata come un reliquario di famiglia e dal valore inestimabile, quando fu
emanata la sentenza ai khampa di consegnare tutte le armi da fuoco questi ultimi ne furono
oltraggiati.
Le tensioni scoppiarono nel 1955 quando i khampa cominciarono ad uccidere generali cinesi.
Quando arrivò l’EPL i khampa si erano rifugiati in un monastero impenetrabile ma che fu presto
bombardato e ridotto in rovine. Il bombardamento del monastero di Sampeling nel 1956 fu visto
come il momento in cui i cinesi presero il controllo in Tibet. Presto un altro monastero fu ridotto in
polvere e migliaia di laici e monaci morirono. L’atteggiamento del partito comunista nei confronti
del buddismo fu alquanto complesso. Nel 1956 addirittura alcuni delegati cinesi diedero la colpa
all’arroganza dei soldati cinesi che non rispettavano la popolazione locale. Era infatti opinione
comune che le riforme dovessero avvenire gradualmente e nel rispetto della sensibilità culturale. Ma
queste considerazioni sembravano valere solo per il Tibet centrale, per i tibetani che vivevano al di
fuori di questi confini questi ideali sembravano annullarsi. Tutti i sopravvissuti ai bombardamenti
cominciarono a migrare a Lhasa che ben presto raggiunse un numero di abitanti molto elevato e ciò
provò disordine pubblico e reazioni negative da parte dei soldati cinesi. Si creò inoltre un
movimento anticinese, “L’Assemblea popolare”, facendo eco a quella precedente del partito
popolare tibetano, la differenza fu che questo non era un gruppo di aristocratici ma di commercianti
sostanzialmente. Presto però il Kashag convocò i capi dell’organizzazione e lì mise in prigione
punendoli per aver messo in pericolo i rapporti fra Cina e Tibet. La rivolta in Kham non cessava e il
Partito, esausto, disse al Kashag che fosse di sua competenza farla cessare. Così furono cacciati dal
Tibet centrale i vari khampa che vi erano rifugiati e ciò non fece altro che aumentare i risentimenti
di questo popolo che si vide abbandonato dai tibetani stessi. Nacque così il movimento di resistenza
chiamato “quattro fiumi e sei monti” che era un nome utilizzato precedentemente per il territorio del
Kham, creato da un ricco commerciante del Kham che aveva fruttato le reti di collegamenti, che
aveva creato per dare vita ad una raccolta fondi per la creazione di un trono per il Dalai lama, per
dare vita a questo esercito di opposizione composto da ben 16 mila uomini. Perfino la CIA diede il
suo appoggio a questi soldati, istruendoli a Taiwan a cominciare dal 1958 e fornendogli armi da
fuoco. Presto la ribellione in Kham si tramutò in una ribellione tibetana su vasta scala.
La storia del Tibet

All’inizio del 1957 Mao affermò che la Cina comunista aveva bisogno di critiche, di voci
contrastanti e una delle sue frasi fu “lasciate che cento fiori sboccino” così cominciarono le prime
critiche al Partito comunista fra cui anche l’insensibilità nei confronti della cultura tibetana. Poi,
quando le critiche non cessavano, Mao fece un’inversione di marcia, dove schiacciò questi “cento
fiori” che lui stesso aveva incitato a sbocciare. Questa campagna si fece ben presto sentire anche in
Kham dove un’illustre comunista tibetano, Punwang, fu imprigionato e lasciato in prigione per ben
20 anni.
Nel 1958 Mao attuò la manovra politica del “Grande balzo in avanti” in cui voleva superare Gran
Bretagna e America in produzione e prosperità: si rivelò in fallimento. Provocando povertà e morte
prematura a 35 milioni di persone. La politica utopistica di Mao colpì anche il Tibet, dove
l’instabile situazione si portò all’esasperazione. Sempre più persone cominciavano a chiedere
l’indipendenza del Tibet, anche le persone comuni, mai prese in considerazione ne dai cinesi ne
dallo stesso governo tibetano, cominciarono a far sentire le proprie voci. Le persone non erano
arrabbiate solo con i cinesi ma anche con gli stessi loro connazionali che avevano venduto il proprio
paese ai cinesi comunisti. Tant’è vero che i tentativi di uccidere lo stesso Ngapo furono
innumerevoli da parte dei manifestanti. Dato che i manifestanti, si appellavano al Dalai Lama, che
vedevano come loro rappresentante sia politico che spirituale, quest’ultimo fu costretto a
nascondersi dai cinesi che stavano complottando per assassinarlo in modo da lasciare i manifestanti
senza un punto di riferimento. Così il Dalai Lama fuggì in direzione dell’India. La rivolta sfociò in
una sanguinosa battaglia che durò vari giorni e si concluse con la vittoria dei cinesi che innalzarono
la bandiera rossa all’interno del grande monastero Jokhang. Quando finalmente il Dalai Lama arrivò
in india fu accolto da migliaia di giornalisti che erano curiosi di sapere la situazione tibetana e la sua
fuga in india. Nehru, il primo ministro indiano, assicurò al Dalai Lama che fosse il benvenuto e che
i rifugiati tibetani in fuga dalla repressione cinese avrebbero potuto trovare esilio in india. Questa
coraggiosa decisione ruppe definitivamente i rapporti fra India e Cina. Anche gli aiuti internazionali
cominciarono a farsi sentire soprattutto da Svizzera e Stati Uniti. Il Dalai Lama, approfittando di
questo momento di visibilità, cominciò a rilasciare conferenze stampa e a organizzare incontri con
ambasciatori stranieri per mostrare la difficile situazione tibetana sotto il comunismo cinese. Presto
la Cina fu accusata dalle varie ONG di violare i diritti umani dei tibetani e i tibetani, dal 1960,
crearono un governo in esilio nel nord-ovest dell’India da cui tentarono di rendere il Tibet un paese
indipendente e libero. Non erano assenti però problemi interni a questo governo in esilio. La
maggior parte dei ministri del Kashag non vedevano di buon occhio il fratello del Dalai Lama che
negli ultimi anni si occupava di affari esteri e investiva grandi somme di denaro che
successivamente sparivano senza una convincente spiegazione. Il problema era che i ministri
rappresentavano un sistema politico che non era mutato per ben due secoli, mentre il fratello del
Dalai Lama e i modernisti all’interno del governo tibetano erano desiderosi di introdurre metodi e
ideali comunisti nel governo tibetano. Il comunismo si stava rapidamente diffondendo che anche
molto in India erano convinti che fosse la via da seguire per l’Asia postcoloniale, lo stesso primo
ministro indiano Nehru ne era convinto.
Durante gli anni successivi, i vecchi ministri del Kashag diedero le dimissioni lasciando posto a
giovani che sapevano confrontarsi con il mondo moderno.
Nel 1962 i rapporti fra Cina e India si ruppero definitivamente per la questione del confine, la
famosa linea McMahon, che fu concordata nella convenzione di Shimla anni prima, per Nehru era
valida, per i cinesi no, anche perché avrebbe voluto dire ammettere che il Tibet fosse stato
indipendente prima del 1950. Scoppiò così nel 1962 la guerra sino-indiana per il Tibet. Gli indiani
La storia del Tibet

furono duramente sconfitti dall’ELP, fu detto di cessare il fuoco ma non si raggiunse un accordo sul
confine, ancora oggi visto come un problema politico.
La situazione in Tibet era disastrosa. Vi era un governo gestito dal Panchen Lama e da Ngapo ma
con un potere molto limitato, perché ormai il Tibet era totalmente sotto l’influenza cinese. In poco
tempo furono spazzati via secoli di tradizioni e molti monaci furono uccisi o portati in campi di
lavoro forzato. Il Tibet era diviso fra persone che sostenevano i cinesi, che erano per lo più
contadini che erano stati liberati dall’antico sistema feudale, ma allo stesso tempo privati della loro
cultura e della loro tradizione. La maggior parte dei terreni in Tibet erano dei monaci e delle
monache che per sostenere delle strutture così ampie e per garantire una vita ai monaci che li
abitavano imponevano tasse sui tibetani. Quando questo sistema fu distrutto dai comunisti i
monasteri si ritrovarono senza sostentamenti e dunque costretti a chiudere. Il Partito comunista fece
terminare il predominio delle istituzioni monastiche in Tibet. Il Panchen Lama tentò di porre
rimedio a questa situazione e nel 1962 scrisse delle critiche nei confronti del Partito comunista e lo
inviò a Mao. Ovviamente fu imprigionato e sottoposto a torture fisiche e psicologiche. Ngapo era
rimasto solo. Da quel momento, con la Rivoluzione culturale, un movimento in cui tradizione e
cultura della Cina e ovviamente anche del Tibet venivano totalmente annullati. Mao spiegò questo
movimento come l’eliminazione dei “quattro vecchiumi” vecchie idee, vecchia cultura, vecchie
abitudini e vecchi comportamenti. La Guardie Rosse erano truppe che condussero una campagna di
terrore e distruzione per tutta la Cina, erano truppe violente, crudeli e trattavano Mao come una
figura semidivina. Questo movimento manipolava i giovani che erano frustrati per il loro sistema
educativo e le loro scarse opportunità limitate, così nacquero in tibet movimenti analoghi. Delle
guardie rosse cinesi e tibetane irruppero nel più grande monastero del buddismo, il Jokhang, e
distrussero sacre scritture, statue,ect. Questo fu solo l’inizio del vandalismo che sorprendentemente
fu portato avanti dai tibetani stessi, seppur ispirati e coordinati dai cinesi. Qualsiasi forma di
ribellione era brutalmente repressa. Tutto ciò che caratterizzava il Tibet fu proibito: vestiario,
canzoni, danze, i colori delle case furono ridipinti tutti di grigio e rosso , simbolo del socialismo,
etc. Mao divenne come una divinità , tutte le famiglie dovevano avere una sua foto e un libretto di
sue citazioni. Una fase ancora più sanguinosa della Rivolta culturale in Tibet si verificò quando fu
emanata la creazione di enormi comunità agricole che imponevano limitazioni ai contadini ancora
più grandi rispetto al precedente sistema feudale, allora rivolte popolari cominciarono a nascere in
diverse aree del Tibet. La più importante che viene ricordata fu quella capeggiata da una monaca
che dichiarava di essere posseduta dallo spirito di un importante guerriero epico tibetano: Gesar. Lei
e i suoi seguaci cominciarono ad uccidere in modo spietato e a utilizzare le stesse pratiche sadiche
delle guardie rosse, come costringere una persona a scavare la propria fossa in cui l’avrebbero
seppellito vivo. Dicevano che avrebbero liberato il Tibet ma furono imprigionati 1969.
Nel frattempo, Mao decise di complottare con gli Stati uniti contro il loro nemico comune: l’Unione
Sovietica. Il presidente Nixon era interessato a riallacciare i rapporti con Pechino, infatti nel 1972
andò ad incontrare personalmente Mao. Ciò ovviamente ebbe come conseguenza l’abbandono dei
tibetani da parte della CIA.
Tentativo di una rigenerazione del Tibet in esilio
I tibetani in esilio tentarono di creare movimenti che incitavano la preservazione della cultura e
della religione tibetana: dato che negli anni ‘60/’70 in America nacque un movimento denominato
“hippie” che si voleva ispirare alle dottrine esotiche orientali, i buddisti tibetani videro in questo
movimento l’occasione per fa rifiorire la loro religione. Rimasero profondamente delusi quando
scoprirono che quello degli hippie era uno spiritualismo da supermercato e che quando tentavano di
La storia del Tibet

fargli avere un approccio più serio alla loro religione, facendogli tagliare i capelli e l’abbigliamento
hippie, questi ultimi si rifiutavano.
Il Dalai Lama nel frattempo intraprese un viaggio in Europa, andando in visita dal papa, in
Inghilterra, anche se rifiutava di rispondere alle domande dei giornalisti, dichiarando che il suo era
un viaggio religioso più che politico, probabilmente il leader tibetano stava cercando alleati dopo
esser stato abbandonato dagli Stati Uniti, che avevano tradito il Tibet per riallacciare i loro rapporti
con la Cina.
Nel 1976 Mao morì e sua moglie fu arrestata con l’accusa di essere una delle colpevoli delle
brutalità effettuate negli ultimi decenni dal Partito comunista. A rimpiazzare Mao ci fu Deng che si
affrettò a apportare cambiamenti per dimenticare l’orrore degli anni in cui era Mao il leader della
Cina. Come prima cosa tentò di ricostruire i rapporti con il Dalai Lama e con il governo in esilio,
per dimostrare la sua buona fede liberò vari prigionieri politici fra cui il Panchen Lama che, volendo
invitare il Dalai Lama in Tibet, creò una missione d’inchiesta per andare a vedere la situazione
attuale in Tibet.
Quando la prima missione partì alla volta del Tibet, fra i vari rappresentanti vi era anche Lobsang
fratello del Dalai Lama, i cinesi gli consigliarono di non farsi vedere perché le persone erano furiose
e desiderose di ucciderle. La realtà era ben diversa da quella che descrivevano i cinesi, migliaia di
tibetani accorrevano per circondare i veicoli dei rappresentanti tibetani, tutti piangevano e urlavano
“lunga vita al Dalai Lama”. Lonsang decise di camminare fra le persone comune ascoltò i loro
racconti raccapriccianti sulla repressione cinese per ben cinque ore consecutive. Dopo questa visita,
la delegazione comprese che dietro le menzogne delle dichiarazioni cinesi del progresso socialista
vi era miseria e tragedie personali. Il governo cinese però, nonostante i 20 anni di indottrinamento
forzato, non erano riusciti a distruggere l’identità tibetana e la loro fedeltà al Dalai Lama.
Apparentemente il Tibet sembrava ormai senza identità ma in realtà dietro l’omogenia apparenza di
un’assenza culturale giaceva un forte e perdurante senso d’identità culturale.
Il segretario del Partito Hu decise dunque di fare un viaggio d’indagine in Tibet e quando vide
anche lui la miseria in cui erano costretti a vivere i tibetani dichiarò che l’autonomia autentica del
tibet doveva essere necessaria. Allora attuò una serie di cambiamenti: cancellò le restrizioni che
impedivano ai tibetani di indossare i propri abiti e di professare la loro religione, affermò che i 2/3
del governo tibetano doveva essere formato da tibetani e che i funzionari cinesi che lavoravano
nell’area tibetana avrebbero dovuto imparare la lingua.
Anche Ngapo riprese parte alla vita pubblica scrivendo un introduzione di un libro europeo in cui
celebrava l’unicità del Tibet e le atrocità a cui era stato sottoposto negli ultimi decenni. Inoltre,
intraprese una campagna per l’insegnamento della lingua originale tibetana rigettando la forma
semplificata che era stata imposta precedentemente dai cinesi comunisti.
Improvvisamente vi fu un’altra inversione di marcia tipica del partito comunista il quale concedeva
al Tibet un’autonomia limitata molto simile a quella offerta durante il trattato di Shimla nel 1914,
ciò non poteva essere accettato dal Dalai Lama, tutto ciò che gli veniva proposto se fosse stato
accettato sarebbe stato come una resa. Il Dalai Lama si recò negli Stati Uniti nel 1987 e a
Washington in un congresso per i diritti umani dichiarò le atrocità effettuate in Tibet che violavano i
diritti umani e che erano simili ad un olocausto.
L’eco dell’appello del Dalai Lama cominciava a farsi sentire anche in Tibet dove la popolazione
insorgeva in rivolte che venivano represse dai soldati cinesi. In più, quando Hu morì gli studenti
La storia del Tibet

cinesi favorevoli alla democrazia scesero in piazza a protestare. La repressione portò alla morte di
alcuni studenti e ciò macchio l’immagine del Partito comunista all’estero.
Nel 1989 fu assegnato il Nobel per la pace al Dalai Lama il quale sfruttò l’occasione per tenere un
discorso pubblico sulla situazione in Tibet. Così con la Cina sconvolta, il popolo tibetano in rivolta
e la causa del Dalai Lama che raccoglieva sempre più sostegno internazionale, la causa del Tibet
sembrava avere una speranza.
Quando successivamente il Panchen Lama morì il Partito e il Dalai Lama sembravano fare a gara a
chi trovasse prima un sostituto: i cinesi volevano , come accadeva dal 18° secolo, eleggere un
Panche che bilanciasse il potere del Dalai Lama, ma nel 1995 il Dalai Lama annunciò
pubblicamente la scelta del Panchen Lama, ma ciò non fu accettato dal Partito cinese il quale presto
fece scomparire il ragazzo nominando l’ufficiale undicesimo Panchen Lama. Un’altra manovra del
Partito fu quella di incoraggiare i cinesi a trasferirsi in Tibet: sempre più cinesi si recarono a Lhasa
per aprirvi attività commerciali, presto tutto fu in mano ai cinesi. Oltre ciò fu costruita con una
velocità lampo una linea ferroviaria diretta per Lhasa per sfruttare al meglio le risorse naturali del
Tibet a danno della natura dato che a causa di ciò molti altipiano si trasformarono in deserto. Ogni
speranza dell’indipendenza del Tibet fu distrutta dalla Repubblica cinese. Anche il fatto che la Cina
cominciò a diventare un alleato economico indispensabile giocò un ruolo importante.
L’ultima grande ribellione da parte dei tibetani si verificò nel 2008 quando dei monaci chiesero che
i loro compagni imprigionati fossero rilasciati e che le politiche imposte ai monasteri fossero
cambiate, questo movimento iniziato dai monaci fu allargato successivamente anche da persone
laiche.
Ciò che lamentano i tibetani è la privazione della loro identità culturale che non è un fatto
infondato: L’istruzione in lingua tibetana è garantita solo alle elementari, all’università non si può
accedere se non si parla fluentemente cinese, così i genitori tibetani sono di due tipologie: si
sottomettono e mandano i propri figli in università cinesi, mentre altri, inviano i loro figli in viaggi
pericolosi e illegali fino in India dove possono essere educati dagli esuli tibetani.

Potrebbero piacerti anche