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Come muore un violino

(la musica ultima di Bruno Barilli)

anno dopo anno i fiumi invisibili si riversavano nel lago


sotterraneo dell’odio (...) presto le fontane dell’odio
zampilleranno ovunque dai buchi neri che si aprono nei nostri
lustri prati rasati. Eppure noi continuiamo a prendere il tè a
giocare a tennis, a guidare l’automobile e a essere umilmente
salutati.
Nescio, Vae victis, 1918

1. Caveaux provisoires Inhumations Règlements des convois Embaumements


Venti(due) anni dopo. Incontrare il te stesso di un remoto passato. Un’elettricità intima – che si
accumula e non sfoga – brucia, folgora, carbonizza. Ti riconoscerai (vi riconoscerete)?

Venti(due) anni dopo la creazione – vasta distesa di silenzio creativo –, Bruno Barilli viene
condotto – da quel caso beffardo che indossa spesso l’ingannevole finanziera di un provvidente
destino – a riascoltare una messinscena della sua prima opera – il frutto degli anni di apprendistato
compositivo, il melodramma intitolato a Medusa. Viaggio – doloroso, eccitante, perigliosissimo –
nel labirinto del tempo perduto (con la sua proliferazione – medusea – di possibili inattuali),
l’avventura attraverso lo specchio della (propria) musica avvicina Barilli ad un altro Barilli. Chi
(che cosa?) era diventato?

La musica, «ombelico di vetro», gli permette di osservare (come dall’esterno) il trentenne che porta
il suo nome – e, certamente, i capelli, già arruffati per non «sembrare pettinato» (secondo maligna
descrizione di Gian Francesco Malipiero). Era tornato, senza (ancora?) amare se stesso, da una
Monaco prebellica (avvertita priva di alcuna novità, ad eccezione del suo arrivo, celiava?), dove
aveva compiuto con Felix Mottl – maestro wagnerianissimo (eppure sempre venerato) – gli studi in
composizione e direzione, intrapresi nel conservatorio, classe di violoncello, della sua Parma
verdianissima (perciò sempre venerata).
Un «autre Barilli», però, si rivela (dolorosamente?) in quelle note. Da fuori (dal tempo del dopo), si
misura l’alterità irreversibile rispetto al «di dentro di me giovane». O, solo, delle circostanze e delle
occasioni che hanno mutato la strada segnata (sognata)? cinque anni dopo – nell’imminenza tragica
del primo conflitto mondiale – a Medusasarebbe seguita un’opera seconda, Emiral, su libretto
proprio, premiata da Giacomo Puccini, auspicio di carriera (e di una eredità raccolta a non lasciar
morire il paese del Melodramma). Poi: il silenzio («c’era la guerra», appunto: forse non solo quella
esterna che si sarebbe più o meno conclusa in mezzo lustro, ma quella interna, inconcludibile e
senza speranze di pace).

Pausa, in partitura (della vita); con corona, che dura ventotto anni.
Se Barilli avesse potuto incontrare, quella sera dell’esecuzione – riesumazione? – di Medusa,
insieme al più giovane Barilli che l’aveva composta, il Barilli futuro, affacciato sul baratro del
fatale Millenovecentoquarantatré, avrebbe riconosciuto, dietro le marcate discontinuità delle
personae, le ragioni segrete di uno stesso desiderio – negato, esorcizzato, intimamente fondante,
affiorante (all’improvviso) nelle faglie dell’esistenza a saldare le epoche – a compiere
definitivamente l’inaugurale vocazione – a creare finalmente il compositore che sarebbe potuto
(voluto, dovuto) essere. Ma il Barilli in attesa di riascoltare Medusa avrebbe anche conosciuto
(ancora una volta) la tragica coazione al fallimento del Barilli che, negli anni a venire, abbandonata
ogni altra professione, con l’entusiasmo commovente e disperato di un primoamore (fatalmente,
finalmente) ritrovato (con la coscienza di una definitiva ultima occasione, di primavera sperata
nell’autunno) si accinge alla composizione della terza opera – un ulteriore (posteriore,
postumo) Barilli ne svelerà, dolente, i preparativi, il rituale rivelato inane: l’affitto della stanza a
Siena, l’acquisto del pianoforte, della «carta da partitura» –; fino ad assisistere alla scomparsa
«prima di nascere». Con congedo cerimonioso di quel Barilli viaggiatore del possibile – che non fu
né sarebbe stato (riconosciuto) compositore – dal Barilli che ne scrive con risentito, acre, iroso e
impermalito, rancore: «niente più composizione e musica nella mia ultima vita».

E tuttavia la musica permase. Anche nell’ultima vita. Non solo forse, come «argomento quotidiano
della penna», non solo come esercizio penitenziale di «acuta nostalgia».1

L’interpretazione offerta da Gian Francesco Malipiero al «caso Barilli», deliba una spietata
acutezza, una tagliente penetrazione. Duro polemista, critico nei confronti del potere dei critici
(assoluto, di onori senza oneri), Malipiero dichiara che la critica di Barilli (in particolare l’attacco
alle sue Sette canzoni del 1929) non avrebbe potuto ferirlo – semplicemente perché (come avrebbe
argomentato Giuliani) non si trattava di critica, bensì di «pretesto per una delle sue immagini,
stavolta non suggerita nemmeno indirettamente dalla musica, ma dal bisogno di scrivere una pagina
barilliana». Dunque: nonostante le subite stroncature; Malipiero non avrebbe provato alcun
«rancore per questo geniale prosatore». La sua lettura della pagina barilliana, tuttavia
(esemplarmente sui Capricci), difficilmente avrebbe potuto raggiungere la luminosa intelligenza
delle sue forse più segrete ragioni, senza la spietata capacità di analisi (autoptica?) che solo l’odio
concede a chi sa maneggiarlo con genio.
La lettura di Barilli suscita, oltre all’ammirazione, una sincera commozione (Malipiero vorrebbe
dire – crudelmente? –: compassione) per la «tristezza» che pervaderebbe la sua opera, per il segreto
«tormento», di «scrittore dalle due penne, una feconda e l’altra sterile». Ma proprio l’inconsolabile
tragedia del suo fallimento come musicista costituirebbe, in sé, ragione del suo successo di poeta:
come la bruciante ferita di amori infelici, mancati o conclusi, aveva ispirato i versi più alti della
tradizione lirica, così la «bellezza» della scrittura di Barilli, per Malipiero in affondo di stoccata (e
inappellabile giudizio), nello stesso modo aveva a concepirsi: «perché la musica non gli si è mai
concessa».2

Se il compositore (post)verista – accortosi (coscientemente o meno) che la sua opera, intelligente e


seduttiva, anche, non possedeva però la forza di opporre significativamente la sua pretesa di
ingenuità alla complessità sentimentale dei tempi estremi (di nuove albe che decretavano un
irrevocabile tramonto, o almeno una astrale rivoluzione, dell’idea di tradizione) – aveva ceduto il
passo (soprattutto: la penna) al corrosivo, urticante critico musicale, 3 delizia dei lettori e croce di
1
Così Fedele D’Amico in un ritratto partecipato e appassionato della figura Barilli (Barilli, o la caducità del miracolo,
in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, p. 141); D’Amico esaminate (con generosità) le
partiture «indubbiamente più vicine alla Weltanschauung di un Mascagni che non a quella di uno Schönberg», p. 138,
conclude che «del tutto in errore sono coloro che negl’inni di Barilli alla tradizione hanno fiutato la pigrizia del
ritardatario, la servitù a un insieme di convenzioni, le convenzioni di una certa epoca» e individua nella scrittura di
Emiral, cui «non dette seguito», più che la riesumazione (che ci si sarebbe potuti attendere) della celebrata tradizione
melodrammatica (da Rossini a Verdi), una personale pronuncia del linguaggio della scuola verista, con un «candore»
capace di mantenerla «piacevolmente lontana dagli eccessi, dalle bravate sentimentali così frequenti in quella», pp. 149-
150. Probabilmente, per quegli anni di apocalissi (di storie e di estetiche): non abbastanza.
2
Gian Francesco Malipiero, La Cornacchia di Asolo (a Mario Labroca), 1962, in Il filo d’Arianna. Saggi e fantasie,
Einaudi, Torino, 1966, p. 151 [corsivo mio].
3
Per un simpatetico Enzo Siciliano, Barilli rappresenta, in picciola compagnia di Savinio e Schumann (e signorilmente
taciuto, egli stesso), uno degli «apici del narrare musica», di quell’impervio «volo di Pegaso» che consiste nel «mettere
in parallelo musica e parole», Carta per musica. Diario di una passione, da Mozart a Philip Glass, Mondadori, Milano
2004, p. 9. Contro la posizione di Fedele D’Amico, che commenda la sicura profondità del giudizio personale di Barilli
(anticipando in intuizione i risultati migliori della esecrata – da Barilli – musicologia scientifica), il novissimo Alfredo
Giuliani,Vagabondo in se stesso, in Autunno del Novecento. Cronache di Letteratura, Feltrinelli 1984, pp. 27-28,
interpreti ed autori – guastatore decorato di (quasi) ogni forma di modernità sonora –, il musicista
potenziale (che, della compagnia vila-matasiana dei Bartleby dell’autocensura, mantenne fino
all’ultimo l’impegno di non vergare note sui pentagrammi) si sarebbe trasformato, attraverso la
sperimentale (sofferente) traduzione della musica in parola, in uno dei più struggenti irregolari – o
perturbanti clandestini – della scrittura letteraria novecentesca.

2. où serait-ce ta beauté si tout le monde la refuse?


Se molti (e differenti: tra «vices» e «pureté – désespoir et félicité») appaiono i brunobarilli (in atto
ed in potenza) che, nell’esistenza di amata «misère» e «grandeur exaspérée», si incontrarono e
scontrarono intorno all’inappagato desiderio di quella Mus(ic)a che si approssimava loro per
disvanire tra le mani, sulla scena – incantata (come solo l’opera ottocentesca aveva saputo sognarsi)
– della sua immaginifica4 scrittura si rappresenta un corteo di maschere (anonime, romanzesche,
reali, storiche) a evocare (plasmare, inventare)5 la sua stessa identità, composita e molteplice.

Barilli, il bohémien6 insoddisfatto, «martire del dolce far niente», i cui risultati giungono «come in
sogno», «dalla dissociazione mentale», dopo «sforzi accaniti e senza frutto», pigro «come una pera
che matura» (da lasciare sul ramo «giorno e notte, inverno, primavera, estate fin che il suo frutto
evocando Savinio – nella concezione (anche questa tutta pro domo sua) di una critica la cui funzione (per nulla
ancillare) si rivendica essere quella «di inventare» (una critica che non aspira a «farsi capire» ma che si impegna a «far
immaginare i lettori») –, liquida senza pietà né appello il Barilli critico musicale – «mediocre e abbastanza ovvio» (nei
gusti e nelle posizioni) – per magnificare il Barilli scrittore che «usa la musica; vi si aggrappa, la deride, la sconcia e se
ne estatasia; ne fa la materia prediletta della sua scrittura (...) la musica è il paesaggio, l’aneddoto, il mercato delle pulci,
la riserva di immagini dello scrittore Barilli». E chiude in boutade, «La sua buona musa è la cattiveria», con
argomentazione a carico del lettore: in che cosa consista cioè, questo (metafisico? accidentale? genetico?) rapporto tra
musica e crudeltà.
4
Mario Lavagetto indaga sul «bisogno, quasi fisiologico» per Barilli «di pensare per immagini, di costringere ogni
‘idea’ a passare attraverso spessori concreti e a comportarsi secondo il codice che ai poeti aveva prescritto, in anni
lontani, John Keats: razza di camaleonti, diceva, capaci di assumere il colore delle foglie in mezzo a cui si trovano a
passare», Introduzione, in Bruno Barilli, Il sorcio nel violino, Einaudi, Torino, 1982, p.VI. D’Amico precisa
l’indipendenza di Barilli da ogni tentazione dannunzieggiante (pur riconoscendo la lezione stilistica e anche,
certamente, l’analogo riferimento mimetico al musicale in ogni dimensione del testo), assumendo una specie di
«urgenza fisiologica totale» nella creazione di immagini: «era il solo modo di affrontare il mondo, anche negli aspetti
più pratici e quotidiani, e insieme il solo modo di vivere la sua propria combustione interna», Barilli, op. cit., p. 136
[corsivo mio].
5
Per Lavagetto, la creazione letteraria del personaggio di se stesso definisce «la prima, fondamentale e straordinaria
invenzione di Barilli da cui conseguono, da cui vengono rigorosamente dedotte e a cui sono rigorosamente riconducibili
tutte le altre: le scelte linguistiche (...) il moltiplicarsi degli aggettivi che sembrano nascere dalla ripetuta scomposizione
di un organismo monocellulare», in Bruno Barilli, Il sorcio nel violino, op. cit. p. VII (sintetizzato nella formula
esemplare di Enzo Siciliano: Barilli scrive Barilli). Fedele D’Amico, tuttavia, notava quanto l’aspetto di questo
personaggio Barilli si specchiasse in ogni figura modellata dalla sua penna; cosicché, le celebri pagine dedicate a
Bottesini potessero intendersi pienamente come autoritratto in vesti altrui: «e non solo un ritratto dell’uomo (...) ma del
poeta (...) infine, e soprattutto, (...) della sua poetica; che nell’immaginario concerto del virtuoso ottocentesco è
inseguita punto per punto, culmine quella definizione-chiave della barocca architettura che crolla precipitosamente,
distrutta da una sequela di tonfi mistificatori», Barilli, op. cit., p. 135. Rilancia e generalizza Alfredo Giuliani: «È bene
leggere gli scritti musicali di Barilli come un autoritratto. Già, Barrili è un po’ Bottesini, a pensarci bene, un po’ Casella
e un po’ Maria Barrientos. Il delirante creatore di metafore s’ è composto la sua musica strappando le parole alle
musiche che echeggiavano nei teatri», Autunno del Novecento, op. cit., p. 29.
6
L’indicazione di Contini su Barilli come uno dei pochissimi bohémiens perduranti in pieno Novecento viene
ripetutamente ripresa: «Barilli era davvero un bohémien, di quelli che dovrebbero stare a Parigi, sotto cieli bigi, e non
già a Roma fra barocco e scirocco; e forse nemmeno a Vienna fra Sarastri e disastri», scrive Alberto Arbasino, Ritratti
italiani, Adelphi, Milano 2014, p. 53, componendo un ritratto acido – «E perché ostinarsi a scrivere in un mélange di
italiano e francese (così incantevole, nel ‘parlato’ di certe vecchie dame eleganti, come la sempre rimpianta Mimì
Pecci), quando nel francese non si sa se va peggio l’ortografia o la grammatica?» – quanto (ancora una volta) mimetico
e partecipe – quasi come se tutti quelli che scrivono di Bruno Barilli aspirassero a fare (farsi) Barilli: «Ma da scartafacci
e ‘paperoles’ emergono fra stracci e ‘strass’ tanti brillantini aforistici da Léataud borrominiano a Sant’Andrea delle
Fratte. Frammenti di una antistoria della cultura italiana del Novecento che mai entrerebbe nei volumi rilegati e ufficiali
per gli intellettuali e le scuole», Ivi, pp. 53-54.
rotola a piè dell’albero e si apre»), il «nocchiuto ‘ecce homo’ davvero», «terribile vagabondo», che
procede «senza zaino, senza bastone, senza cappello, senza denti, un bel fiore all’occhiello», pronto
a disfarsi, scomporsi (decomporsi) gradualmente nel cammino – autarchicamente, ogni suo osso
pronto a «staccarsi dal «resto di se stesso»; disperatamente ogni dente si perde impietoso –; il
Barilli – beckettiano Malone, in apocalittica attesa di una «fine del Mondo» forse già arrivata,
immerso in una sporcizia che è condizione metafisica di rifiuto (e l’elogio della sudiceria si legge
ancora nell’emblema ossessivo dei denti in rovina); il Barilli, che vive «per burla», esiste solo «per
virtù d’un giuoco interno di luci allusive»: perché per lui la vera e reale esistenza non è che
«tremula rifrazione», forse solo «fioco riverbero».7

Nella completa permeabilità, nell’indiscernibile confusione di moi e lui – in un avviticchiato spazio


borgesiano di eccentriche pieghe e imprevedibili, collassanti, mutazioni (e mutuazioni) tra
personaggio e personaggi, dove ognuno si deforma ad essere brunobarilli – gli io si proiettano e
scambiano nel diorama delirama: Barilli Joyce («materia cerebrale che cola dal foro di una ferita
mortale»); Barilli Bottesini («un aspetto lunare e corroso, sciupato e assonnato, insomma un artista
dal sangue guasto e dalle abitudini dissolute», che «faceva volentieri della parodia», «distrattamente
al di là di ogni limite» al suo «posto solitario» di «istrione, disseppellitore di effetti sempre più rari
e pericolosi», incontentabile, capace di tutto mettere a «soqquadro per stanare, scuotere e risvegliare
il mostro sedentario»); o Barilli Naïf il sincero (il «vecchio disertore della baraonda collettiva», che
«due cose non ha saputo fare mai – e cioè: obbedire, o comandare –», che si chiamava «lontano»,
«voleva tutto o niente» e non conosceva frontiere, che «sorpassava i limiti» – e per questo «non
conosceva il giuoco» –, che «aveva torto dappertutto – con tutti e contro tutti», che «andava via,
tirava dritto per la sua strada, evasivo, bello, fiero, magari stracciato», la cui «esistenza è un abuso»
e così «muore sulla croce senza saperlo», scompare «come un fumo», lasciando soltanto «il suo
dispetto»).8

Questa teoria di maschere che conducono in processione l’effigie di Barilli segue dappresso la
lezione degli eteronimi musicali di una personalissima trascrizione letteraria (ed esistenziale) del
Carnaval schumanniano – così: in lettere danzanti e scènes mignonnes. L’autoritratto composto di
ritratti (Arcimboldo o Cindy Sherman?), «da appendere – pendre – impiccato – senza cornice», è
dipinto su una tela ardente, con colori di fuoco «che continuano a bruciare fin che non sarà più che
cenere» – e le opere bruciano o dovrebbero bruciare come la vita -: questa tela, certamente, e i suoi
colori, che si consumano (e consumano il tempo), possiedono la sfuggente materia dei suoni – che
dell’effimero fluire fanno sostanza, permanenza (di idea, emozione)–: ombre cupe, provenienti «dai
tasti di un pianoforte», alati fremiti «che un vento leggero rapisce a un’arpa eolia». 9 Musica, prima
di tutto. La musica di Barilli, che parla di lui – come Barilli scrive (di) sé –, perchè, in definitiva e
sempre, parla solo «d’un musicien».10

3. en amour on est toujours exposé à la jalousie

7
Bruno Barilli, Il ritratto, Taccuino LXV, 44 bis, Tempo che fugge, in Il paese del Melodramma, op. cit., p. 83; Il
concerto, Capricci di vegliardo, in Capricci di Vegliardo, Einaudi, Torino, 1989, pp. 318-319, 335-336.
8
Bruno Barilli, Taccuino XXXIV, 15, Bottesini, in Il paese del melodramma, op. cit., pp. 56, 58-59, Naïf il sincero, in
Capricci di Vegliardo, op. cit., pp. 329, 331, 333-334.
9
Bruno Barilli Il ritratto, Taccuino LXV, 44 bis.
10
«Je parle de moi, parceque je parle d’un musicien», Bruno Barilli, Taccuino LVIII, 179.
Nella segreta storia dell’invidia patita dalla letteratura nei confronti della musica, 11 nel capitolo
dedicato agli scrittori-musicisti mancati (o sublimati: da Hoffmann a Kundera, da Montale a
Rosselli)12 si legge il travagliato, sussultorio, percorso artistico di Barilli – con le fertilissime
ambiguità del suo desiderio mancato.
Se la musica non è (almeno non è di necessità) letteratura, è la letteratura che «doit devenir de la
musique»13: il programma, espresso con lucida (visionaria) chiarezza si attua nel giuoco una specie
di prassi medianica – di scrittura «sotto dettatura». Al di là del senso e della riflessione cosciente, la
scrittura è sensuosa quasi automatica reazione; come «chi balla al suono della musica», Barilli
(tra)scrive («al buio, in poltrona») le immagini che la musica evoca e proietta («e alla fine della
recita ritiro la mia lastra come un fotografo») – e significativamente, il prodotto finale è un
«pezzo»14 (non già pezzo giornalistico, come si potrebbe credere, quanto, assai più, pezzo vocale o
strumentale).15

Il defatigante esercizio di seduzione della pazza (come la chiamava Savinio), dirottato dal canale
proprio della composizione musicale verso impervie strategie metaforiche (mistificatorie) di
composizione letteraria – la metamorfosi di una frustrazione in irresistibile slancio creativo –,
moltiplica gli sforzi di traduzione (trascrizione, appunto) in lettera, sperimentata a livelli di
astrazione crescente.
La composizione letteraria principia dall’ascolto del suono della parola – dalla parola come suono
(che determina il significato, non viceversa). Questa dimensione timbrica della scrittura di Barilli –
a scardinare le tradizionali categorie di genere, a sfumare le distinzioni chiare tra prosa e poesia,
secondo lezione novecentesca (al tutto assimilata) di vocazione all’ibrido – 16 si riconosce nella cifra
stilistica di un’insistita (all’ossessione) ricerca paronomastica.17

11
Giorgio Manganelli, che si sentiva (e definiva) «assassino potenziale di musicisti», in una irresistibile conversazione
radiofonica con Paolo Terni, Una profonda invidia per la musica, L’Orma, Roma, 2014, denunciava «l’onta del
significato» di quella letteratura, che, al contrario, nella musica, ammirava una condizione infinitamente più libera e più
inventiva, più «naturalmente fantastica»: fondamentale, quindi, perché capace di porla di fronte alla «straordinaria e
raggelante ironia della forma pura» – in sua compagnia, Fleur Jaeggy, postulando una relazione stretta che non sa
spiegare, racconta la sua fondante invidia per «l’esercizio mentale» della musica (intervista ad Antonio Monda,
‘Repubblica’, 2 agosto 2015).
12
Alberto Savinio, come Barilli, aveva iniziato compositore; come Barilli dalla composizione avrebbe presto abdicato.
La decisione di un precoce addio, dettata dalla «paura» di perderne il controllo, rimananendole sottomesso («perché la
musica stupisce e istupidisce», Nostri rapporti con la pazza, in Scatola sonora, Einaudi, Torino, 1977 p. 8) – ragioni di
incompatibilità tra musica e intelligenza (unica cifra definitoria e definitiva della sua personalità indefinita e
indefinibile: in realtà, forse, dalla lucida coscienza di una insufficienza creativa, da una risentita inattualità) – si allenta,
tuttavia, successivamente – procedendo con astuzia, con leggerezza e ironia (vocaboli perno dell’universo estetico di
Savinio), a non prendere la questione «di petto e sul serio» – in vocazione al «flirtare», necessità di uno sguardo «di
sbieco», atto a rubare alla «misteriosa signora», alla «non mai conoscibile», «piacevoli accenti». Tra ritrattazioni e
regressioni, l’altalenante ritmo del desiderio – in continua distrazione del medium artistico d’elezione – conduce
irresistibilmente alla consapevolezza che la dea musica (dea dell’estraneità) non è cosa da essere trattata dai (mortali)
musicisti (in Maria Savinio, Con Savinio, Sellerio, Palermo, 1987, pp. 92-93).
13
Bruno Barilli, Taccuino LXVI, 5.
14
Bruno Barilli, Taccuino XVIII, 9-11.
15
Alle dichiarazioni di questa precisa vocazione mimetica prestano fede i lettori più simpatetici, da Riccardo Bacchelli
– che indicava sapidamente nell’articolazione sintattica di Barilli una costruzione ‘a orecchio’, una sensibilità armonica
da musicista, esercitata nelle possibilità di risonanza più che non nelle ragioni della logica –, a Eugenio Montale – con il
suo celebre giudizio sullo stile di Barilli che «nato alla musica (...) torna a risolversi in musica; il suo periodo è la
battuta, e nell’intervallo dei suoi improvvisi la nota del basso continuo ci ricorda che s’è entrati qui nella zona eminente
e insensata della musica pura. Non dunque l’urto dei concetti ma delle sfere: pitagorica zona da cui si evade con un
sospiro di sollievo», Il secondo mestiere. Arte musica società, Mondadori, Milano, 1996, p. 914.
16
Rispecchiata e moltiplicata nell’indiscernibile fusione nella scrittura Barilli, di narrazione e saggismo,
autobiografismo e finzione.
17
Dalla quale discende l’attenzione (che consuona, ancora una volta, saviniana) alle potenzialità espressive – ma
soprattutto: esteticamente conoscitive – del lapsus.
La sostituzione dei rigidi legami di pensiero con la fluida vaghezza di riferimenti «echeggianti forse
solo nel suono» – meccanismo di creazione immaginifica – conduce ad una personale tecnica di
punteggiatura «sparsa nell’aria» (e più in generale di orchestrazione tipografica «nella successione
e nella trasparenza degli spazi»), fraseggio il cui «pulsare rorido e nativo» non irreggimenta ma apre
all’evocazione, rappresentando sulla pagina «il suono e il ritmo di quel che non ha altro di se stesso
da mostrare che la propria evidenza ed esistenza».18
Musica si intende, quindi, nel silenzioso concerto degli elementi narrativi, 19 che apre la linearità
della prosa alla trama polifonica delle risonanze, alla reversibilità temporale del lavoro motivico di
ripetizione e variazione – l’utopico sogno simbolista di Mallarmé che avrebbe generato il mostro
del romanzo modernista joyceano-proustiano –; in musica (come musica) si viene a concepire la
forma (e soprattutto: forma di forme):20 erratica e composita, modulante, virtuosistica, analogica
(secondo il modello di capriccio) – a ridefinire in pratica e in idea (a rompere, cioè e ricreare su
nuove basi) la tradizionale categoria di unità dell’opera letteraria.21

In silloge o centone potrebbero concepirsi i capricci letterari – raccolta di pezzi scelti, sul modello
della saggistica musicale di Delirama, Il Paese del Melodramma, Il Sorcio nel Violino ? – : nessuna
continuità narrativa, di eventi, personaggi o trama. Una t rama, tuttavia, emerge progressivamente
alla lettura; di intimi legami (tra elementi da riconoscersi in differente grana, piano o articolazione
del testo) a intrecciare un tessuto, composto sui suoi molteplici livelli, a riprese e risonanze – forma
fluida di scrittura, insieme aperta e coesissima. Il dettaglio descrittivo evocato in un brano può
svilupparsi come figura piena nel successivo, la digressione eccentrica di una pagina trasformare la
metafora filata della precedente, lo sfondo di paesaggio farsi emblema allegorico di poetica: così
– attraversando teorie di bislacche maschere metafisiche, acri riflessioni puntillistiche (affilate
quanto sanguinanti armi di un’offesa che si intende sempre, in ultimo, disperata difesa),
contemplazioni di notturni spazi infiniti (siderali, surreali), sequenze di onirici ambienti urbani
interrogati (e soprattutto ascoltati) come corpi sonori –, emerge, proiettato sulla superficie unica
della scrittura, l’apparire e il disvanire (a vari strati di funzionalità testuale: da accompagnamento a
tema, da armonia a melodia) di motivi: della luna, del Colosseo, dei bottoni. Costruendo in parole
l’architettura aerea dei cicli schumanniani – la profondità semantica della forma, scoperta effetto del
suo ritmo (respiro) sintattico –, la lettura impegna a percorso indiretto, laterale, a scarti e ritorni:
non per l’occhio, per l’orecchio – perché «c’est un labirinte et son envoi doit arriver à l’âme qui est
la station terminus».22

4. on n’est plus le joueur – on devient le jeu lui-même


18
Bruno Barilli, Tipografia, Taccuino 42 bis-44 bis: si pensi al possibile rapporto con la concezione degli spazi metrici,
all’origine della poesia di Amelia Rosselli. La «tastiera del tipografo» permette allo scrittore-compositore di ritrovare «i
tasti come sul pianoforte», Taccuino LXVII.
19
Come scriveva Savinio nella prefazione dell’Achille innamorato (1938), Adelphi, Milano, 1993: «questo libro non
può essere inteso da chi non ha studiato il pianoforte (...) qui però la bellezza della musica clementina vuol essere
considerata al modo pitagorico: non per il suono, ma per la grafia», p. 5.
20
«E la scrittura deve reggersi su un gioco complesso e cangiante di simmetrie, ricco di contrappunti, di richiami interni
in grafo di collegare e fondere unitariamente i segmenti narrativi (...) Le raccolte «musicali» (...) costruite con
l’orecchio del compositore attento a riprodurre le partizioni interne del poema sinfonico, gli adagi, i piano, i pianissimo
si alternano ai crescendi, agli andanti, agli allegri con brio. E questa particolare sensibilità investe non solo la struttura
della raccolta, ma si estende alla dimensione armonica della pagina e alla sonorità timbrica del periodo», Andrea
Cristiani, Introduzione in Capricci di Vegliardo, op. cit., pp. 291, 294.
21
Per Alberto Savinio, Nuova enciclopedia (1941/1948, 1977), Adelphi, Milano 2011, se «UNITÀ è il più grosso errore
che l’uomo abbia mai inventato», l’unità dell’opera letteraria non può considerarsi, rispetto alla contemporaneità, se non
come «imitazione di un concetto decaduto. Occorrono altre parole a spiegare perché oggi non si scrivono più romanzi
nella forma unitaria e conchiusa della Chartreuse de Parme, dei Promessi Sposi, di Madame Bovary, e perché quegli
autori poco illuminati che oggi ancora si esercitano a scrivere romanzi in ‘quella’ forma fanno opera pompiera, cioè a
dire morta?», p. 385.
22
Bruno Barilli, Taccuino LII, 162.
Così  – come precipitato (alchemico) della sua prosa – Bruno Barilli conservava quell’antica arte
del comporre forme di suoni, che la vita (e la storia) gli avevano sottratto, sinistramente evaporata
tra le mani. La ricerca letteraria dell’esperienza musicale si compì, tuttavia, in una dimensione
ulteriore – e tutta, unicamente sua. Avvicinandosi ad essa, la complessa storia bibliografica dei suoi
testi, la tettonica che rende dinamicamente fluidi i confini tra strati e ordini di creazione (uno stesso
magma di immagini, pensieri, parole si muove attraverso spazi di scrittura interni, privati, riservati,
condivisi, esterni: placche che scorrono, collidono, si sollevano o allontanano) – l’avventura infinita
di ricollocazione editoriale delle stesse pagine in contesti e ordini cangianti (taccuini, giornali,
plaquettes, libri) comparabile solo (e non a caso) all’inquieta mobilità delle pubblicazioni di Paul
Valéry – rivela dietro l’apparente accidentalità delle occasioni (o le contingenze di riciclo), una
profonda sostanza di poetica:23 la sua musica più intima.

Il pezzo conclusivo dei Capricci porta il fascinoso (misterioso) titolo – programma, forse – di
Loterie clandestine, offerto nei Taccuini a diversi frammenti: riflessioni (borgesiane) sulle relazioni
di persona del gioco letterario (tra io biografico, posizioni d’autore, io narrativi, personaggi – i lui,
gli altri: tutti i clandestini scoperti – non creati – nella casualità del tempo), 24sulle maschere della
finzione (sospesa indiscernibilmente tra anonimia, apocrifia, autografia), 25 appunti per una poetica
delle coincidenze verbali, di svolte e ritorni (di lotteria, appunto, come stemma di letteratura), 26
dichiarazioni d’innamorato insofferente odio per la scrittura, per la letteratura, alla ricerca del suono
giusto, esatto, il suono della vita, del tempo che si china su stesso – e chiude, come appare nella
desolata età estrema (ancora e sempre: di lotteria si tratta).27
23
«L’itinerario compiuto dai singoli nuclei che si aggregano gli uni con gli altri o si decantano o tornano nuovamente a
disgregarsi e a produrre – intorno a sé – ‘corone’ differenziate (...) una pioggia di frammenti, che vengono di volta in
volta attratti o respinti da diversi campi magnetici (...) quella specie di caparbio e misterioso accanimento ad utilizzare
ripetutamente alcune carte fisse e, nello stesso tempo, a servirsi di un ‘mazzo’ relativamente povero (...) assistere ai
tentativi ripetuti di risolvere un gioco di pazienza, di cui non conosciamo le regole e che, pure, ad alcune regole
sotterranee sembra attenersi, dal momento che le stesse figure vengono giocate e rigiocate e inserite, di volta in volta, in
universi modificati», Mario Lavagetto, Introduzione in Bruno Barilli, Il sorcio nel violino, op. cit., p. XXVIII.
24
«Loterie clandestine. Pour me comprendre tout à fait bien et ne pas me juger mal il faut supposer que ce n’est pas à
moi ce poème, que c’est anonime sa dérivation. La locution lui et moi ce sont des pauvres diables quelconques de notre
bas entourage, ennuyeux comme il y en a partout, qui font les jeux: imaginaires et ignorés – je les ai trouvé, ces
clandestins – je les ai trouvés – en hasard – dans le carnet du Temps des Temps», Taccuino LXVI, 9; « Loterie
clandestine. (...) il faut supposer que ce n’est pas moi le promoteur de cette loterie et que c’est anonyme sa dérivation.
À qui donc cette petite loterie? À moi? Et par quelle attribution? Non. Et d’où vient son émorcellement biografique? Et
le «je» et les «il», ce sont deux pauvres diables quelconques – comme il y en a partout dans ce bas monde: imaginées et
ignorées personnes. On les a trouvés (on pourrait dire) dans les déchirures di hasard – épars, par ci par là, dans les vieux
carnets du temps des temps», Taccuino LXVI, 15.
25
A rendere la complessità del gioco: uno dei frammenti narrativi integralmente trasferito nella partitura della Loterie
(il personaggio buñueliano che «girava su e giù per la camera come un pazzo tenendo in mano una pistola. Ci vide e con
un gesto disperato gridò: j’ai perdu la tête et je la cherche pour y loger une balle») appare, nei Taccuini, come Ritratto
di Barilli, Taccuino XXVIII, 33.
26
«Loterie clandestine. Madame... qu’est que c’est cette loterie? – C’est un grêle jeu des coïncidences verbales. Détour
et retour de quelques détails et de quelques mots. Niaiseries sans importance qui suivent l’advertance, il avait l’air
d’une femme qui n’a pas eu d’enfants. Evasive destination – troublante attribution, ce lui... il va de soi que vous ne
penseriez pas à moi, ni à qui ce soit à propos de cette loterie. Personne n’y est, dedans ou dehors, compromis. Drôle
n’est pas: tous simples, petits profits, devolus à une absence clandestine», Taccuino LXVI, 14 [il corsivo verrà utilizzato
in epigrafe del testo pubblicato].
27
«Loterie clandestine. Ne pensez pas à moi, ni à qui ce soit. Personne n’y est dedans – on l’a perdu, on l’a retrouvé,
une centaine de fois – alors il n’y a plus aucune possibilité d’allusions. D’abord ce n’est pas à moi, cette loterie laissons
là. De moi il n’y a rien d’autre que le dégoût qui m’inspire l’écriture – et la littérature à coté – surtout elle aussi»,
Taccuino LXVI, 21. «La loterie clandestine. Non ci sono confessioni. Sono solo noterelle impersonali (ricuperate qua e
là nel fallimento) (che mi sono accorto) che fanno circolo – come sassate nell’acqua – di quando ero ragazzo. Insomma
sono ragazzate di un vecchio gentiluomo», Taccuino LXVII, 45-46. In un altro appunto intitolato Come papà, il
sintagma è associato a Senilità, e in tale direzione si sviluppa: «Raggiunge una corda unica che dà un suono giusto e che
si trova sul passo della morte. (...) Il tempo da non perdere, prezioso, nulla passato, vuoto avvenire e il presente: un’ora
vale una lira, i minuti uno scudo d’argento, i minuti secondi son tanti marenghi d’oro», Taccuino LXVII, 9 bis.
Pubblicata nel 1948 come plaquette autonoma (in ottantanove esemplari numerati) per l’édition de
l’Hommage,28 la Loterie raccoglie, ritaglia, rimonta in collage, integra e sviluppa frammenti
pubblicistici (da articoli apparsi, tra il 1943 e il 1947 su ‘Il popolo d’Italia’, ‘Il Selvaggio’,
‘Costume politico e letterario’) e letterari (già autonomamente editi) 29 – secondo pratica di
compilazione (composizione) dei saggi musicologici per riciclo e gemmazione (uno nell’altro,
dall’altro, dentro l’altro).
Ripresa a conclusione dei testamentari Capricci di Vegliardo, la Loterie proietta il suo gioco di
risonanze sul piano esteso della composizione motivica dell’opera, 30 a porre nuovi legami di
analogia – echi, risposte, varianti  – nel concerto degli elementi (in proliferante germinazione –
sorprendente rigenerazione – di significati e connotazioni).

Per Barilli, la musica (il suo mistero di arte che nascendo dal nulla nel nulla finisce) si offre sempre
come esperienza incompiuta – ben lo sapeva la coscienza del Verdi più barilliano –: incompibile per
vocazione. Perché l’emozione, l’interesse vengono prodotti dalla sua capacità di rappresentare la
caducità31 («tutto quello che dovrà subire la legge fatale del ritorno» nello spettacolo che offre
«quando si stacca e s’inalza»), 32 di esprimere l’occasione. Per Barilli, poeta della vecchiaia 33 (con la
sua tragica, dionisiaca coscienza – tutta nel corpo e del corpo –34 di un tempo che (si) disfa e
decompone), l’esperienza musicale, quindi, più che in progetto (in occhio e in idea) si sperimenta in
spettacolo (in orecchio e in prassi) – come epifania della presenza (che in suono si incarna, in suono
si dissolve). Il suo genio (ineffabile) è genio del momento – che «parte in verticale, va su dritto, e

28
«E chissà dove erano andate le litografie di De Chirico e Maccari accluse alla plaquette La loterie clandestine (titolo
di Barilli...) che mi arrivò con una sola lito di Savinio, una testa alla Magritte con la nuca sopra giacca e cravatta, e col
numero 88 che la designa penultima in una tiratura di 89. In quarta di copertina, una silhouettina di Barilli stesso in
fracchettino filiforme da ‘maudit’ notturno, secondo il cliché ‘hoffmanniano’ che anche Beniamino Dal Fabbro (...)
sarebbe andato presentando nel quartiere di Brera», Alberto Arbasino, Ritratti italiani, op. cit., p. 52.
29
Per la bibliografia genetica di Loterie, v. Bruno Barilli, Capricci di vegliardo, op. cit., p. 347.
30
Il brano Comme la lune, pubblicato autonomamente dal Concilium Litographicum, Roma, 1945 ed entrato nella
composizione della Loterie, all’interno dei Capricci si ascolta (e moltiplica) in variazione, giocando musicalmente
sull’attraversamento e la modulazione dei livelli testuali: dal dettaglio minimo di una similitudine – nell’attacco alato
delle riflessioni autobiografiche (?) nel capitolo omonimo della raccolta («Lungo questi due ultimi anni di miserie
infinite (...) essendo nel mio tetro caso scaturite le più inattese e disperate deduzioni, quasi fatuo color di luna, dal
fondo buio e mortale ove io senza moto mi giaccio», Capricci di vegliardo, op. cit., p. 335) – al più ampio sviluppo in
figura autonoma – Con la luna, eccezionale pagina in cui il surrealismo onirico novecentesco si riappropria e strania lo
stupore metafisico della poesia cosmica di Giordano Bruno e Leopardi.
31
Nell’ermeneutica musicale di Fedele D’Amico si riconosce al la scrittura di Barilli il valore di «tutto ciò che fosse
passibile di divenire, una volta trasferito nell’immagine verbale, simbolo di una presenza vitale immediata. Ma a una
condizione: che questo qualcosa alludesse, nell’atto stesso di presentarsi, alla sua irrimediabile caducità. Nella poesia di
Barilli una realtà vale soltanto a condizione che si dia, eroicamente, come moritura, che bruci nel tempo la sua
apparizione, che gridi la sua verità senza cedere alla tentazione di permanere oltre il miracolo della sua nascita. Ciò che
Barilli addita e glorifica, è soltanto l’apparizione miracolosa. E il miracolo è un lampo, non dura», pp. 138-9 [corsivo
mio].
32
Bruno Barilli, Il paese del Melodramma, op. cit., p. 36.
33
Tra le pagine acute e dolorose, tra gli aforismi più sapidi e dolenti, dedicati all’auscultazione attenta del sentirsi
(diventare) vecchi (della perdita, dello smarrirsi tra le pieghe del tempo – dove le età collassano le une sulle altre e i
sessantatré anni sembrano seguire immediatamente i venti – , l’«Orfeo senza denti», «in ciabatte, e papalina», dedica,
nei suoi taccuini una palinodia assai rivelativa per gli Artisti vecchi, gli uomini che hanno attraversato «galleggiando» le
onde delle generazioni, i «naufraghi sonnolenti di un’epoca ormai finita», perché, nella loro sofferenza dimenticata, nei
segni duraturi e nobili di luce e passione, «costituiscono très souvent une révélation retrospettive, par moment e a tratti
vivante du passé, autant vivante que peut être la révélation du futur», Taccuino LXIII, 52-53 [corsivo mio].
34
Proprio questa incapacità di sentire la fisicità dell’esperienza estetica condanna, nell’invettiva prepotente di Barilli, le
giovani generazioni di artisti, nutriti «non più di carne e di sangue come prima, ma di aria, d’incenso, di mosche e di
speranze» ad essere inghiottiti dal baratro «tumultuoso e informe»: «i pantani tenebrosi dove guazzano i coccodrilli
accolgono i loro resti miserevoli», Il Paese del Melodramma, op. cit., p. 25.
arriva più presto e accende tutto»; che (in paradosso solo apparente) precede, non segue, la
«concezione» –: «il momento, è un accento – è la voce del sangue».35

La forza (fisica e insieme metafisica come la musica sa essere) di questa voce – danza commovente
e disperata sull’abisso del vuoto, che, con il suo sonoro movimento d’aria, essa sola rende
percepibile, che essa sola può dire – era stata ascoltata (e amata) nell’«equilibrio prodigioso» e
fragilissimo del melodramma ottocentesco (il «combustibile» che s’accendeva «per confricazione
fra ribalta e platea») poi si era irreversibilmente smarrita (per sempre, per il Novecento, per lui?): la
«molla magica» si era «spezzata, gli spiriti (...) fuggiti dalle nostre terre». 36 Barilli non seppe
ricreare in note la rivelativa esperienza dell’incanto effimero del momento. Per questo scacco
d’angoscia, seppe Barilli inventare una letteratura di «creazione e ricreazione incessante», 37 mobile
ed aerea, che continuamente si scompone e ricompone – si scrive e riscrive, si esegue, cioè, in
processo infinito –, strategia resistenziale, che si appropria sghembamente del sogno di quella
musica evanescente – strumento, unico possibile, per portare sulla scena il tempo nudo,
contemplarne il fantasma: e tenere, infine, «alla gola» quella morte che «alla gola» lo tenne (e tiene
tutti noi) – all’ultimo respiro.

**************
Bruno Barilli
La lotteria clandestina

...a trentacinque anni aveva l’aria di una donna che non aveva avuto figli.

Amore e gelosia

In amore si è sempre esposti alla gelosia.


È come in guerra – per distrazione si leva la testa e si riceve una pallottola: verità, calunnia?
Ecco che l’estrazione del proiettile diventa dolorosa.
Bisogna lasciarla passeggiare nel nostro corpo fino alla fine dei nostri giorni?

Malattia

Non si sa cosa sia.


Non c’è più certezza fisica.
È un trapasso abulico che mena dall’uno all’altro mondo.
Dice il responso medico:
Muore
per atassia

35
Bruno Barilli, Un metodo – I metodisti – Emiral, Taccuino LXVI, 15.
36
Bruno Barilli, Il Paese del Melodramma, op. cit., pp. 24, 114.
37
Bruno Barilli, Taccuino XXVII, 19.
alle corde vocali
e al cuore.
ossia
come un violino
*
Insonnia, delirio, fame,
Vizio, furore, vecchiaia.
La morte mi tiene alla gola
Io tengo alla gola la morte

Amministrazione dei funerali

Loculi provvisori
Inumazioni
Regolamento dei convogli
Imbalsamazioni
*
La sua testa era così perduta
come una bottiglia nel mare
– con il suo segreto di avvelenamento
e di follia
*
«Non sono più io.
Sono profondamente sfigurato.
Non c’è nulla che non abbia perduto.
Non discuto più.
Per me tutto è finito.
Ne ho abbastanza della storia del mondo.
Se mi cercano, mi troveranno
bocconi nel fango »

Ritratto

Quando entrai aveva una pistola in mano – e girava come un pazzo nella stanza, in mezzo alle sedie rovesciate.
Appena si accorse di noi, emise un grido e un gesto di disperazione. «Ho perduto la mia testa e la cerco per depositarvi
una pallottola...»
*
Aveva un debole per l’amore inattivo – per l’amore delle prostitute che in un batter d’occhi si levano la camicia e si
gettano su di te con un sorriso goloso e delle mani carezzevoli
*
Levò la mano dai corperchi: il vapore lo circondava.
Il suo braccio alzato fumava come un ramo resinoso che ha preso fuoco
*
... Due fili di sangue nero agli angoli della bocca, secchi
... pallido davanti allo specchio quasi una maschera di gesso crepata
*
Ormai il suo sangue si raffreddava d’aver troppo bollito e bruciato. Un soffio scappò della bocca, sibilando come
l’ultimo getto di vapore di una marmitta che per mancanza di liquido si crepa e fonde sulle braci.
*
È da lei che aveva contratto ‘l’abitudine’ pericolosa.
– Dico contratto, perché era peggio di una malattia – una malattia ci spinge verso la morte – questa abitudine ci spinge
oltre la morte
*
– «È finita» non ci si muove più.
– Frenesia immobile; si assiste senza paura: gli occhi spalancati, le orecchie vibranti come campane – si contempla,
tutta al di fuori di noi, la vita
*
Tutto si rapporta a noi: i battiti (inquietanti) del nostro cuore, le ombre (precipitose) degli abiti appesi all’attaccapanni.
La luce (della lampadina) sempre più grande, come un sole.
Schegge fiammeggianti dello specchio – scosse – le smorfie dell’armadio – tutto il fondo su di noi, con un
ravvicinamento terribile
– Storia dell’impazzire
– Vetrosa e solenne angoscia
*
Non si è più il giocatore – si diventa il gioco stesso.
Tutto si rapporta a noi: i colpi alla porta da basso, la donna nuda che si piega su te, che ti spia, gli occhi stralunati. I
passi lontani sulla strada, lo scalpiccio di una pattuglia che si ferma – tutto, tutto... con un ravvicinamento sempre più
terribile
*
Rigida notte ansante.
*
Questo ti gira la testa alla rovescia.
Vedrai, per la prima volta, tutto quanto è dietro di te...
*
Ci voglion molti vizi per fare una virtù

Allora...

Come mantenere il tuo diritto se tutto il mondo ti accusa?


Dove sarà la tua bellezza se tutto il mondo la rifiuta?
– a questo punto l’innocente ha orrore del suo delitto.

Come la luna

... Sono come la Luna.


Come la Luna ho i miei quarti, le mie metà e le mie pienezze...
Quando sorgo sono rosso, davanti al tramonto del sole: rosso come la Luna – ma passa – mi slancio nel cielo. E poi
divento pallido, leggero e lucente come la luna.
...Come la luna mi nascondo dietro le nuvole – ma sono le nuvole che mi nascondono.
... è ho l’aria di viaggiare ma sono immobile, sempre immobile – sono le nuvole che viaggiano.
Sono ignorante, come la Lune.
E mi interrogano... ma allora?
Sono che io che vi interrogo – come la Luna...

Cari amici

Amo la mia miseria e la mia esasperata grandezza, i miei vizi e la mia purezza
– disperazione e felicità, cari amici,
– Muoio dopo aver vissuto.

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