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Per mostrare le differenze di metodo tra Croce e Contini, possiamo analizzare il diverso giudizio
che essi ebbero in merito all’opera di Giovanni Pascoli.
Croce, nel suo saggio del 1907 “Giovanni Pascoli”, ne diede un’interpretazione negativa mentre
Contini, nel suo del 1955 “Discorso sul linguaggio di Pascoli” ne diede un’interpretazione positiva,
cogliendo la novità dello stile pascoliano, anticipazione della temperie novecentesca.
Questo studio di Contini ha segnato una svolta fondamentale nella storia della critica pascoliana,
proponendo una sistemazione delle componenti del linguaggio poetico di Pascoli che è rimasta
esemplare.
Contini prende in considerazione quei poeti che erano stati messi sotto il torchio Crociano.
Tipico esempio ne è il Pascoli. Egli infatti era stato stroncato dalla lezione Crociana.
Stroncato perché presentava delle parentesi anomale, una corrente strana per il periodo.
Per il Croce (che aveva un gusto essenzialmente classico) la poesia era ORGANICITA’, ARMONIA,
ISPIRAZIONE STRUTTURATA INTORNO AD UN CHIARO CENTRO LIRICO, e perciò DIFRONTE ALLA
POESIA TORMENTATA E FRANTUMATA DEL PASCOLI ebbe una reazione negativa.
Secondo il Croce la poesia pascoliana mancava di unità e perciò non era vera poesia, dal momento
che in essa si mescolano curiosamente spontaneità e artificio, genuinità e affettazione; la poesia
compare solo in brevi frammenti e, in quei casi, è di ispirazione idillica, quindi ristretta e limitata.
Perciò Croce definisce Pascoli “un grande-piccolo poeta”, o se si preferisce, “un piccolo-grande
poeta”.
Per il Croce, sbagliano coloro che hanno definito la concezione della vita di Pascoli come una
forma di romanticismo, accomunandolo alle grandi sensibilità di Leopardi e Manzoni, anime
tumultuose ma grandiose nelle loro depressioni. Per Croce questo parallelismo non sussiste.
Pascoli, infatti, ha a suo avviso un’ispirazione idillica, dal momento che ama le piccole cose e la
quotidianità; un idillio doloroso, visto che la sua poesia non riesce mai a staccarsi dai fantasmi dei
suoi morti, i quali ritornano sempre in tutta la sua opera (persino nei Poemi Conviviali e negli Inni,
che sono tentativo di poesia civile). E tuttavia, secondo Croce, questo tema non sfocia mai in
poesia, non acquista unità artistica ed armonica. Pascoli è un piccolo-grande poeta.
La lettura del Contini sul Pascoli ha implicato una rivisitazione dell’opera stessa dell’autore ma
anche una nuova collocazione nella storia della letteratura italiana.
Pascoli è un poeta fortemente proiettato verso la lirica moderna e che anticipa il 900.
Egli permette a tutte le cose, a tutte le parole, a tutti i termini di entrare a far parte della poesia.
Pascoli va a scardinare totalmente la struttura metrica; da un punto di vista stilistico è sicuramente
un rivoluzionario.
Inserisce segni di interfunzione che appartengono alla forma dialogica (punti interrogativi,
esclamativi). Usa un endecasillabo sciolto che finora non era mai stato utilizzato con tanta libertà.
In questo saggio Contini sottolinea la novità sorprendente del linguaggio di Pascoli (novità che
sembrava scandalosa all’epoca per coloro che lo analizzavano sulla norma della tradizione,
arrivando così facendo a giudizi negativi, come nel caso di Croce): Pascoli rompe con la norma e
con la tradizione, pur trattando la tradizione, proponendo così una “innovazione nella tradizione.”
Secondo Contini, Pascoli;
-Continua la cultura post/tardo-romantica (simbolismo e decadentismo di Mallarmè, Verlaine,
D’Annunzio)
- Anticipa i caratteri della poesia successiva, aprendo le strade alla poesia del 900.
In Pascoli Contini individua non un uso grammaticale della lingua (ossia un uso letterale, comune e
codificato), ma 2 elementi nuovi che trascendono la norma della lingua comune e di tradizione
letteraria:
1) ELEMENTI PRE-GRAMMATICALI o A-GRAMMATICALI, ossia elementi estranei alla lingua, come
il fonosimbolismo e le onomatopee ( “videvitt” “scilp” “trr trr trr terit tirit”).
Le onomatopee pascoliane sono particolari, perché l’autore gioca sull’equivoco tra LINGUAGGIO
NON SEMANTICO e SEMANTICITA’ DEL LINGUAGGIO, tramite due processi:
- O, conferisce a elementi privi di semanticità (come interiezioni, onomatopee) la semanticità
(elementi asemantici usati semanticamente) come “Finch… Finch… Finchè non vedo” (da poesia Il
Fringuello cieco, Canti di Castelvecchio) → l’onomatopea diventa la congiunzione finchè
- O, viceversa, dota elementi semantici di un valore non semantico (elementi semantici usati con
valore non semantico) come “V’è di voi chi vide…vide…videvitt” (da poesia “Dialogo”, Myricae) →
il verbo gradatamente sfuma in onomatopea. “anch’io anch’chio chio chio chio chio” ( da “Il
fringuello cieco, Canti di Castelvecchio)
In questo modo Pascoli sopprime la barriera tra GRAMMATICALITA’ DELLA LINGUA e
EVOCATIVITA’ DELLA LINGUA.
Nell’uso del pregrammaticale è un innovatore, ed è precursore di molte parti degli esperimenti
europei successivi.
2) ELEMENTI POST-GRAMMATICALI, ossia l’uso di lingue speciali, come i termini tecnici e la
nomenclatura.
Ciò che rende nuova l’esperienza pascoliana è che egli esperisce (sperimenta)
contemporaneamente i settori pregrammaticale, grammaticale / post-grammaticale.
Contini individua la radice del linguaggio pascoliano: quando un linguaggio è normale vuol dire che
dell’universo si ha un’idea sicura e precisa; questo uso particolare della lingua rivela, invece, la
caduta dell’interpretazione logica del mondo.
Contini analizza il rapporto tra Pascoli e tradizione, contestando coloro che, come Croce, valutano
negativamente la sua poesia perché frenata dai limiti della tradizione.
Non si può a suo avviso misurare il linguaggio pascoliano con le categorie della letteratura
tradizionale o ragionare come se Pascoli fosse un fallito applicatore della poetica classica (come ha
fatto Croce, che giudica Pascoli sulla base di una poetica che non gli è pertinente).
Per Contini Pascoli non è rigorosamente un poeta rivoluzionario (visto che include
necessariamente nella sua produzione un omaggio alla tradizione), ma il suo temperamento è
decisamente anticlassico, è un innovatore della tradizione.
Pascoli (come i suoi contemporanei francesi) ricorre alla tradizione, perché sente la necessità di un
discorso grammaticale, solo perché esso permette di attuare una sintesi tra determinato e
indeterminato: in lui convivono insieme la componente classica e la componente romantica.
Per mostrare questa presenza classica in Pascoli, e vedere al contempo la sua novità, Contini
esamina:
- LA METRICA. Pascoli usa metri tradizionali e anche i metri che Carducci chiama barbari (ossia
quelli che imitano la fabbricazione del verso greco- latino) ma lo fa in modo nuovo.
L’esametro pascoliano presenta una fissa posizione dell’accento; perciò ha un ritmo nuovo rispetto
alla tradizione italiana, ma che obbedisce rigorosamente a regole fisse e predeterminate.
- IL TONO. Pascoli mescola aulicità e umiltà nello stesso tempo, cosa che non era prevista nella
tradizione.
Infine Contini si sofferma sulle altre caratteristiche del linguaggio pascoliano (che rappresentano
tutte novità rispetto alla tradizione). Esse sono:
1) NO GENERI: Pascoli non è rinchiuso nei confini dei generi e degli istituti letterari → in questo è
anticlassico
2) POESIA SENZA UOMINI: Vero soggetto è la natura. L’uomo è presente ma in forma astratta e
generale, come IO, come UMANITA’. Sono la natura e le cose a parlare (espressionismo)
3) POESIA FRAMMENTATA E IMPRESSIONISTICA.
4) POETICA DI TUTTE LE COSE E DOPPIA DIMENSIONE (SUBLIME /DEPRESSO).
Pascoli rompe con la tradizione, che trattava solo di oggetti privilegiati, e estende il diritto di
cittadinanza in poesia a tutti gli elementi della realtà (“democrazia letteraria”).
5) IL LATINO DI PASCOLI. Pascoli scrive in latino (D’Annunzio lo definì “l’ultimo figlio di Virgilio”),
ma il suo latino non è imitazione, riproduzione di una lingua morta: per Pascoli il cimitero
linguistico è un insieme di elementi che furono vivi e che perciò il poeta deve restituire alla vita.
Questo emerge in “Un poeta di lingua morta” del 1898, un discorso in cui Pascoli parla di Diego
Vitrioli: in esso Pascoli si pone il problema della lingua e della sua vitalità.
SAGGIO DI LUIGI BLASUCCI “DI CONTINI SU MONTALE” IN G.CONTINI 20 ANNI
DOPO; IL ROMANISTA, IL CONTEMPORANEISTA
Contini sostiene che la critica che ha preso in esame la poesia di Montale ha compiuto un errore
“equivoco”, ossia quello di dare un rilievo quasi esclusivo al sentimento d’una vita “petrosa”,
analizzando la filosofia sottesa a questa concezione.
Dopo questa constatazione, Contini parte con la sua analisi. Dapprima espone le caratteristiche
dell’opera:
1) DISCORSO DI TONO FAMILIARE. Come si evince dalle numerose apostrofi ad un “tu” ( ad es.
“Ascoltami / hai ben ragione tu …”) che presuppongono un interlocutore.
2) IL PASSAGGIO DA UN RITMO AD UN ALTRO. Il ritmo si modula e si trasforma sulla base della
dialettica dei sentimenti.
Tuttavia prevale l’idea dei Immobilità e di Irripetibilità: un tempo fermo, visto che il futuro non si
prospetta, ma si parla di un passato (nel ricordo e nella memoria) che non è rinnovabile, che è il
tempo del non ritorno.
3) ECHI E RICHIAMI DELLA LETTERATURA. Si ritrovano infatti reminiscenze neoclassiche, da Dante
a Leopardi a D’Annunzio, o reminiscenze del linguaggio pascoliano e crepuscolare.
C’è il plurilinguismo.
4) DETERMINISMO / LINGUAGGIO DETERMINATO. Ossia il ricorrere costantemente a parole
precise, a scene individuate, che per Contini esprimono un “contenuto amorfo”, indeterminato.
Nelle poesie c’è un pullulare di oggetti.
Il linguaggio poetico del Montale è per il Gargiulo eccessivamente DESCRITTIVO.
Contini in questo saggio ribalta completamente il giudizio del Gargiulo.
Egli parte dall’analisi dell’OGGETTUALITA’, di questo RETICOLATO OGGETTUALE presente nelle
poesie del Montale, e connota in maniera positiva (a differenza del Gargiulo) questo ingorgo di
oggetti, poiché è proprio grazie a questo ingorgo di oggetti che è possibile l’evocazione di immagini
poetiche. La
critica tradizionale vedeva nella LIRICA MONTALIANA una LIRICA eccessivamente PESANTE e di
LINGUAGGIO POCO LIRICO, un LINGUAGGIO che si addiceva molto di più alla PROSA e quindi alla
DIMENSIONE PROSASTICA.
Secondo il Contini in ogni poesia (maggiormente negli “OSSI DI SEPPIA”, ma poi gradualmente si
individua anche nelle “OCCASIONI”) c’è un FANTASMA SALVIFICO, un fantasma che apre uno
spiraglio di luce e dunque dà speranza.
È la storia di un’amicizia, una delle più affascinanti della letteratura italiana del Novecento: quella
sorta fra Eugenio Montale, allora trentasettenne, e Gianfranco Contini, un critico letterario poco
più che ventenne.
Nel 1933 quest’ultimo dedicò al poeta degli “Ossi di seppia” uno dei suoi primi scritti.
Quel saggio brillante non mancò di colpire profondamente Montale, che l’8 giugno così scriveva al
suo sconosciuto ammiratore:
“Ho chiesto e avuto da Falqui il Suo indirizzo, e posso così ringraziarla. Lo faccio proprio di cuore.
Raramente l’opera mia è stata esaminata con tanta intelligenza e tanto amore. Lei m’era ignoto
fino a poco tempo fa; ciò accresce il mio interesse e la mia riconoscenza”.
Né Contini né Montale potevano lontanamente immaginare che quella lettera avrebbe decretato
un sodalizio destinato a durare quasi mezzo secolo.
Contini fu per il poeta una sorta di acutissima coscienza critica, sempre attentamente ascoltata, e
insieme un fedele compagno di vita.
A Montale dedicherà i saggi di “Una lunga fedeltà”, il cui titolo richiama proprio la dimensione
“umana” del loro rapporto.
Inizia una corrispondenza privata fra i due uomini, nel periodo che va dal 1933 al 1978.
Le lettere che si scambiarono sono state pubblicate da Adelphi nel novembre del 1997, col curioso
titolo di “Eusebio e Trabucco”, classici soprannomi montaliani.
Ricostruire il contesto delle missive è complicato.
Esse risultano così enigmatiche da sembrare talvolta scritte in codice.
Inoltre, non tutte sono state conservate, quindi nella lettura fra una e l’altra si avvertono dei vuoti
temporali.
La scrittura di Montale in questo carteggio si fa più libera, a volte diventa quella di un adolescente,
mentre Contini conferma la sua fama di critico e di osservatore attento della storia.
Curiosa la lingua in cui i due si scrivono, con frequenti italianizzazioni di parole straniere.
A partire dagli anni Cinquanta le lettere si fanno più rare e talora più fredde, per poi tornare fitte
nel decennio successivo.
L’eredità lasciata da Contini nell’ambito della critica letteraria e più in generale della letteratura
italiana è immensa: sia per la scoperta e il patrocinio di scrittori espressionistici (tra cui spicca il
nome di Gadda), sia per la metodologia fondata sullo studio della lingua e delle fasi costitutive del
testo.
Indimenticabili e indimenticate a tutt’oggi sono le sue eccezionali qualità di maestro della parola,
sia orale che scritta, e la profondità del pensiero critico.
La maggior parte dei CRITICI LETTERATI hanno accolto l’EREDITA’ CONTINIANA.
L’hanno accolta perché il metodo Continiano è INELUDIBILE, ed ha aperto, attraverso questa
rivisitazione e rilettura linguistica, nuovi orizzonti di ricerca, illuminando parti sia della storia della
letteratura, ma anche parti dell’opera dello stesso autore fino a poco prime eluse e non
considerate.
MENGALDO in questo saggio riconosce a quest’ultimo e al suo metodo stilistico e critico grandi
meriti.
Per MENGALDO nell’ambito della critica e degli studi letterari dell’Italia del Novecento si possono
distinguere due fasi distinte: PRE-CONTINI e DOPO-CONTINI (ossia dopo la morte di Contini), dal
momento che il suo metodo ha fatto scuola.
Consideriamo il DOPO CONTINI negli anni 80-90.
Le caratteristiche del Contini che sono rimaste nel DOPO CONTINI sono:
1) LA CIRCOLARITA’ di FILOLOGIA, LINGUISTICA, CRITICA LETTERARIA e STORIOGRAFIA;
2) La tensione verso l’OGGETTIVITA’;
3) L’ATTO CRITICO PASSA DA INTUIZIONE A DIMOSTRAZIONE;
Il giudizio critico non deve essere soltanto frutto di un’INTUIZIONE, ma è frutto di una
DIMOSTRAZIONE che il critico deve fare passando al setaccio tutto il materiale che ha contribuito
a generare l’opera d’arte.
Mengaldo poi descrive quelle che sono stati i punti salienti della metodologia di Contini:
- LA CRITICA DELLE VARIANTI, espressa a partire dal saggio ariostesco del 1937.
- L’idea di COLLEGARE LA CRITICA TESTUALE CON QUESTIONI CRITICHE E STORIOGRAFICHE PIU’
AMPIE.
Per Contini il pensiero linguistico è sempre integrato con i problemi stilistici, perché dalla lingua è
possibile arrivare all’autore, al suo pensiero e ai contenuti. Egli mostra anche l’interesse per la
storia della cultura.
- IMPOSTAZIONE STRUTTURALISTA E CARATTERE ANTINARRATIVO DEL DISCORSO.
Il suo discorso è un montaggio di micro sequenze autonome, è discontinuo, pur seguendo un
chiaro filo concettuale. Perciò il suo stile è antiaccademico e saggistico.
Inoltre usa stili diversi.
- NON CREDE ALLA STORIOGRAFIA NARRATIVA ma PREFERISCE I TAGLI PARZIALI.
- METODO DI COMPARAZIONE, ossia confrontare le opere di un periodo con quello di un altro,
trovando le affinità e le differenze tra vari autori
- ASSENZA DI AUTOBIOGRAFICITA’
SAGGIO SU GIUSEPPE UNGARETTI: “UNGARETTI, O DELL’ALLEGRIA”,ESERCIZI DI
LETTURA, G.CONTINI
Ungaretti si forma ad Alessandria D’Egitto e si forma sui classici (Dante, Petrarca, Boccaccio),
mentre per quanto riguarda i contemporanei le sue letture preferite sono quelle Leopardiane.
L’opera di Ungaretti si articola fondamentalmente in più fasi.
La prima è segnata dalla raccolta “IL PORTO SEPOLTO” del 1916 che, subendo una metamorfosi
editoriale, diventa “ALLEGRIA DI NAUFRAGI” nel 1919 ed infine “L’ALLEGRIA” nel 1931, alla quale
Ungaretti fornisce ulteriori modifiche.
Questa raccolta si presenta come un’opera abbastanza varia a livello tematico, sia per la sua
ampiezza sia per le modifiche e le aggiunte subite negli anni.
E’ sicuramente segnata dall’esperienza della guerra, con l’apporto di chiare influenze futuriste, ma
ricorda anche alcuni momenti della vita privata dell’autore.
Il titolo dell'opera esprime la gioia che l'animo umano prova nell'attimo in cui si rende conto di
aver scongiurato la morte, drammaticamente contrapposto al dolore per essere uno dei pochi
sopravvissuti al "naufragio": questo sentimento si esprime con particolare intensità durante il
periodo al fronte, ma attraversa tutta la raccolta e si concretizza nell'ossimoro del titolo.
Possiamo dedurre dunque una delle caratteristiche della poesia ungarettiana, quella del
VITALISMO, dell’ansia di vita che si manifesta anche e soprattutto nelle condizioni più difficili ed
estreme, quali una notte in trincea accanto al cadavere di un compagno (come in “Veglia”) la
percezione della precarietà della vita (come nella celebre “Fratelli”) o il dolore indicibile per i lutti
della guerra (“San Martino del Carso”).
Ma la tensione vitalistica emerge anche nella riflessione su di sé e sul senso della propria esistenza,
come ne “I fiumi”, nella malinconia dei pochi istanti di pace, come in “Stasera”, o nella riflessione
sulla morte, come in “Sono una creatura”.
“L’Allegria” obbedisce così ad un proposito di poetica molto importante per Ungaretti:
la ricerca, anche attraverso il dolore, del nucleo originario e assoluto dell’identità umana,
attraverso cui riscoprire e ricostruire una fratellanza al di là della sofferenza.
L'elemento comune a tutti i componimenti è soprattutto quello autobiografico:
Ungaretti stesso definiva” L'allegria” un diario.
Prova ne è la scansione in capitoli dell’opera (rispettivamente: Ultime, Il porto sepolto, Naufragi,
Girovago, Prime), come a narrare un romanzo in versi dell’autore dalle prime prove poetiche fino
all’esperienza della guerra, che caratterizza contenuti e stile della prima stagione ungarettiana.
Protagonista principale e indiscussa di tutta l’opera ungarettiana è sempre la PAROLA, definita
“PURA”, considerata dal poeta un veicolo fondamentale nella riscoperta dell'Io.
Ungaretti, come gli altri ermetici, cercarono di purificare la parola da ogni scopo didascalico,
oratorio o legato a fini politici e morali, per ricondurla all’essenzialità espressiva.
Per riconoscerle autonomia e libertà, Ungaretti sceglie di comporre sempre liriche molto brevi e
“scarne”, inframmezzate da pause che tendono a focalizzare l'attenzione sul singolo vocabolo, per
sottolinearne l'impatto semantico e la forza comunicativa, il superfluo viene così costantemente
accantonato.
La preferenza per la “parola nuda” spiega quindi l’abolizione radicale della punteggiatura,
l’assenza di accostamenti di immagini diverse e il ricorso allo spazio bianco sulla pagina, che isola i
versi e spezza le misure classiche.
L’uso del verso libero smonta dall’interno le strutture metriche tradizionali.
Si tratta di tecniche che Ungaretti capta dal Simbolismo francese ma che costituiscono anche una
importante novità nella lirica italiana e che quindi influenzeranno in maniera significativa la poesia
dei decenni successivi.
A partire dagli anni ’30 possiamo delineare una seconda fase, che vede come esperienza
dominante nel panorama poetico italiano l’Ermetismo, tendenza letteraria che nasce a Firenze
caratterizzandosi come una forma di reazione al dominio culturale fascista.
Non si tratta di un vero e proprio movimento organico, ma di un atteggiamento di alcuni autori nei
confronti della poesia e delle sue possibilità espressive.
I poeti ermetici prediligono dunque una poesia dal carattere oscuro e complesso, ricca di analogie
e di figure dalla difficile interpretazione.
Centrali nella poesia ermetica sono i temi della terra d’origine, dei ricordi dell’infanzia, della
solitudine, espressi spesso attraverso una patina surrealista e onirica, e sempre stilisticamente
sostenuta e"letteraria".
Da una parte viene rappresentato e rimpianto nostalgicamente il passato, dall’altra il futuro viene
visto in maniera angosciosa.
Componimento emblematico di questa seconda stagione, caratterizzata da scelte più misurate e
classiche, è “SENTIMENTO DEL TEMPO” del 1933.
Con questa raccolta viene ripristinata la metrica tradizionale, i temi classici e un lessico nobilmente
letterario.
Il sentimento attesta quindi nel poeta il bisogno di riconquistare il proprio passato, di recuperare il
tempo e la storia attenuando lo smarrimento dell’uomo solo.
Nella tarda produzione ungarettiana vi fu “IL DOLORE”, libro scritto negli anni orribili e tanto
amato poiché ruota attorno alla tragedia personale durante la guerra.
Lui vuole appunto esprimere solidarietà e pace.
SAGGIO IMPLICAZIONI LEOPARDIANE, VARIANTI ED ALTRA LINGUISTICA,
G.CONTINI
La querelle fra GIUSEPPE DE ROBERTIS e GIANFRANCO CONTINI intorno alle varianti di “A Silvia”
occupa una posizione importante nell'ambito della nostra storia della critica.
L'intervento di Contini sulle IMPLICAZIONI LEOPARDIANE non solo fu determinante per la
costituzione della VARIANTISTICA come disciplina autonoma, ma svolse un ruolo fondamentale
per l'affermazione della critica strutturale in Italia.
È quindi del tutto ovvio che, soprattutto la STORIA DELLA CRITICA DELLE VARIANTI DEI CANTI,
risulti segnata in modo determinante dall'intervento di Contini, che si impone come costante
riferimento.
Nell'analisi di Giuseppe De Robertis sull'autografo del canto «A Silvia», prevale quella concezione
della poesia come riuscita assoluta, somma di punti luminosi che sono compresi nella sua
formazione vociana di critico e letterato di «tradizione umanistica e "frammentaristica".
L'esame di De Robertis consiste in un'analisi “caso per caso” con I’occhio costantemente rivolto
all'acquisto (o "guadagno") locale, interpretato per lo più in chiave di perfezione formale.
Stimolato dalla lettura dell'articolo di De Robertis, Gianfranco Contini interviene con il saggio
IMPLICAZIONI LEOPARDIANE, in cui, muovendo dalla sua formazione linguistico-filologica,
propone' fin dal titolo un mutamento del punto di vista che è in realtà un vero e proprio
ribaltamento della prospettiva di approccio al testo.
A differenza di De Robertis cerca di dinamizzare la materia, di cercare spostamenti all'interno di un
sistema, modalità in cui una correzione può generarne un'altra.
Contini sottolinea come le redazioni appuntate interagiscono in un momento attivo e creativo con
la lezione base.
Per Contini la scrittura di Leopardi è un sistema ricco di nessi con gli elementi che lo compongono.
Il saggio in questione è molto importante, perchè Contini si occupa per la prima volta non soltanto
di un autore dell’800 (Leopardi), ma per la prima volta abbiamo l’analisi specifica e particolarizzata
delle varianti.
Per la prima volta si parla di scartafacci. Per la prima volta un critico letterario va a frugare nel
cestino dell’autore e incomincia a passare all’analisi delle varie correzioni, che non sono uno sterile
studio tecnico.
Non sono uno sterile tecnicismo perché da questa analisi posso dedurre e formulare dei giudizi
critici, delle valutazioni critiche, che implicano anche un’analisi diversa.
Dalle correzioni viene fuori un elemento importante per comprendere la poetica dell’autore e cioè
le ragioni che vi sono alla base della produzione di un verso.
Lo studio più famoso, quello che simbolicamente riesce a fotografare il METODO CONTINIANO è
proprio lo studio dell’OPERA DI LEOPARDI.
Contini non parte dalla poetica leopardiana, dalla natura dell’Io Poetante, dalla temperie
romantica ma parte dall’analisi del testo e prende in considerazione le poesie più famose (come “A
SILVIA”, “ALLA LUNA”, “L’INFINITO”).
Gli studi di Gianfranco Contini hanno mostrato come Leopardi elaborò sul testo di “A Silvia” una
serie di correzioni.
I cambiamenti avvennero in due direzioni: Leopardi sostituì la desinenza dell’imperfetto
-EVA in -EA;
Leopardi cambia infatti “SPLENDEVA” in “SPLENDEA” e “VOLGEVA” in “VOLGEA”.
Ci sono delle ragioni. La desinenza EVA è PROSASTICA.
Tutto ciò che viene fuori quasi in maniera immediata di PROSASTICO Leopardi lo cambia, cercando
di raggiungere una dimensione illustre.
SPLENDEA è molto più vicino alla lirica. SPLENDEVA è prosastico, inadatto alla nobiltà della
contemplazione.
Contini considera questa tipologia di scrittura un’USUS SCRIBENDI (modo di scrivere) di Leopardi.
Leopardi intendeva scrivere non un SETTENARIO ma un’ENDECASILLABO, poiché permette un
maggiore dinamismo nella versificazione, ma permette anche un dinamismo fonico.
Egli inoltre lavorò su alcuni termini del campo semantico della memoria, un tema fondamentale
nella sua poetica, attraverso ripetuti aggiustamenti del verso iniziale “Silvia, rimembri ancora”.
Il termine SOVVIENTI presente nella prima edizione dei Canti, venne sostituito più tardi da
RAMMENTI (nell’edizione Starita) e infine da RIMEMBRI.
”RIMEMBRI”, che è la stesura finale e definitiva, incomincia ad essere impregnato di significato.
Leopardi sceglie “RIMEMBRI “perché appartiene a un registro alto ma allo stesso tempo rinvia ad
una dimensione carnale e sensuale che Silvia suscita nel poeta.
“RIMEMBRI” accontenta l’intenzione di alzare il registro linguistico ed è connesso alla volontà del
Leopardi di comunicare la sensazione ed anche la dimensione erotico-sensuale che Silvia gli
procura.
Leopardi cercò di evitare le ripetizioni ricorrendo a volte ad espedienti puri, come le sinonimie.
In Leopardi è debole l'invenzione verbale ma è predominante la ricerca della perfezione fonica,
la musicalità, attraverso la quale riusciva ad arrivare alla sublimità della poesia.
SAGGIO ONOMASTICA MANZONIANA, VARIANTI ED ALTRA LINGUISTICA,
G.CONTINI
Fra gli aspetti linguistici del romanzo “I PROMESSI SPOSI” occupa un posto importante lo studio
dell’IMPIANTO ANTROPONIMICO dell’opera.
Sono molti gli studiosi che si sono cimentati, con alterne fortune, nell’ANALISI ONOMASTICA del
testo manzoniano.
CESARE ANGELINI è stato uno dei primi ad occuparsi dell’argomento con apprezzabili risultati.
In uno dei suoi vari interventi, egli contesta in modo garbato, ma deciso, le argomentazioni di
FILIPPO CRISPOLTI, che suggerisce una apparente spiegazione alla base della scelta di PERPETUA
per il nome della serva di Don Abbondio.
Il Crispolti ritiene di aver individuato la fonte onomastica del Manzoni in un’ordinanza della Curia
saluzzese del secolo XVII, in cui il vescovo prescrive a un parroco “expellenda perpetua ancilla”.
Il Manzoni avrebbe avuto sott’occhio il documento (soprattutto l’aggettivo PERPETUA), e
cacciando il sostantivo ANCILLA, abbiamo avuto il nome.
L’Angelini però non era affatto convinto della spiegazione fornita dal Crispolti; basta infatti
proseguire nella lettura del suo contributo per rendersene conto.
Partendo da premesse diverse, convergono verso il medesimo approdo le ricerche di
ORNELLA CASTELLANI POLLIDORI, che trova nella preghiera «Nobis quoque peccatoribus» una
lista di santi, con i nomi di tre personaggi principali, LUCIA, AGNESE e PERPETUA;
quello d’un personaggio secondario ma ugualmente di rilievo perché legato a un episodio di alto
valore poetico, CECILIA; e infine quelli di due comparse, STEFANO, un compaesano di Lucia, e
FELICITA, la servetta del dottor Azzeccagarbugli in Fermo e Lucia.
Più avanti, si ipotizza un’attenzione di pari intensità prestata da Manzoni
al «MESSALE AMBROSIANO», che comprende un elenco parzialmente diverso, del quale fa parte
anche TECLA, antroponimo assegnato alla moglie di Tonio.
In quest’altra lista, però, Lucia e Agnese non si susseguono immediatamente, come in quella
romana. Ancora una volta, dunque, si individua nel messale la fonte onomastica del romanzo.
Un contributo molto importante, almeno per quanto concerne l’identificazione del messale come
fonte onomastica del Manzoni, è un breve scritto di CONTINI.
Il testo di Contini prende l’abbrivio dalle considerazioni di ANTONIO BALDINI a proposito delle
incertezze di Manzoni in fatto di nomi.
Anche Contini rileva la presenza del binomio Lucia-Agnese nella medesima fonte già individuata da
Angelini e dalla Castellani Pollidori, ma va oltre, tentando di spiegare «come mai la bambina si
precisa in Cecilia e come mai si modifica in Perpetua la Vittoria del Fermo e Lucia.
Per farlo, parte da un mutamento definito «in negativo», ovvero dal caso della domestica
dell’Azeccagarbugli nel Fermo e Lucia, cioè FELICITA, che diventa innominata nei Promessi sposi.
Facendo ancora riferimento a Baldini, Contini spiega come Felicita sia un personaggio contiguo al
male e quindi portatore di un nome incongruo, e perciò da modificare o sopprimere, soprattutto
se messo a confronto con quelli inclusi nel «canone onomastico di sante» fra le quali rientra invece
a pieno titolo il personaggio della piccola CECILIA.
Per quanto concerne le possibili obiezioni a proposito della “santità” di Agnese e di Perpetua, si
sottolinea come non ci sia alcun dubbio che l’autore le collochi dalla parte dei giusti.
Non si esclude una “categoria di sacralità” nemmeno per l’onomastica maschile, a proposito di
Lorenzo-Renzo.
Contini prova anche a sondare le ragioni per le quali l’originario sagrestano Lorenzo scala ad
Ambrogio. Prima di far notare che il nome Lorenzo compare sia nella preghiera Communicantes,
sia nelle Litanie dei santi, l’autore accenna a due ipotesi complementari.
Egli segnala infatti il possibile «abbandono del color locale» nel passaggio da Fermo, nel quale
sembra essere «un aroma lombardo e anzi lariano», a Lorenzo, maggiormente diffuso in tutta la
penisola, senza dimenticare l’ipotesi formulata dal Baldini, ovvero che «Lorenzo, festeggiato il dieci
agosto, succeda al santo del giorno precedente», San Fermo.