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QUALIFICARE LE CITTÀ, RIGENERARE LE PERIFERIE

A cura di STEFANO STROCHI

Introduzione STEFANO BOERI


Albertina Soliani
Presidente Istituto “Alcide Cervi”

Abitare in un luogo, città, è riconoscersi in esso, di essere parte di una cultura e di tradizioni,
ricevendone in cambio possibilità e ricchezza simbolica. Il bisogno innato dell’uomo di sentirsi a
casa, di tornare alla propria casa, sia essa ubicata in un centro storico o in una periferia, indica
quanto l’abitare rappresentati per ognuno di noi una grande condizione di benessere con noi stessi e
con l’esterno. La periferia è uno dei principali luoghi dell’uomo del nostro tempo (è un termine
“potente” come lo definisce Stefano Boeri, politicamente potente culturalmente potente,
urbanisticamente potente). Per questo la nostra migliore urbanistica oggi guarda alle periferie non
come luogo di degrado, di disagio e sofferenza e di assenza di servizi, ma luogo dell’abitare
secondo il vero significato della parola.
Questo volume dà voce all’impegno che l’istituto “Alcide Cervi”, con ANCSA (Associazione
Nazionale Centri Storici Artistici), ANCI Emilia-Romagna e Ordine degli architetti, pianificatori,
paesaggisti e conservatori della provincia di Reggio Emilia, Parma e Modena, ha dato vita alla
realizzazione della Scuola di Governo del Territorio, sono qui raccolti a testimonianza di una
riflessione che continua nel tempo e che accomuna voci diverse per una elaborazione urbanistica
orientata alla qualità di vita delle persone e a una urbanistica che non pone al centro il tema del “
tecnicismo”, ma quello del cittadino. I saggi sono lo sforzo per confrontarsi e riflettere sul grane
tema dell’abitare e del vivere in periferia con dignità, umanità, progettualità e futuro. Idee e
interventi concreti, riflessioni e trasformazioni, azioni tecniche e politiche che devono
necessariamente modificare i contesti di vita di spazi “periferici” e promuovere condizioni di
umanità di scambi e relazioni.
Stefano Storchi
Coordinatore della Scuola di Governo del Territorio “Emilio Sereni”

Nel dibattito che attraversa oggi l'urbanistica, un elemento centrale è rivisto da ruolo delle periferie,
intese quali tessuti in cui si coagulano i conflitti e le contraddizioni che prevedono i cittadini e la
società. Un’esigenza irrinunciabile per la scuola di governo del territorio di Emilio sereni che ha
dedicato la Scuola di Governo del Territorio “Emilio Sereni” che ha dedicato la proprio attività del
2017 al tema “Qualificare le città, rigenerare le periferie”.
Periferie declinate al plurale a indicare la molteplicità di condizioni formali sociali che questo
termine contiene. Assume come proprio obiettivo centrale la costruzione di una città capace di
assicurare una migliore qualità di vita per i suoi abitanti.
Nel momento in cui l'istituto “Alcide Cervi”, l’ANCSA, ANCI, gli ordini professionali hanno
attivato la Scuola di Governo del Territorio “Emilio Sereni”, hanno avuto la consapevolezza di
come questi percorsi devono essere accompagnati da uno sforzo costante di confronto di
aggiornamento, aperto a tutti coloro che operano nel campo. Il far convergere materie della Scuola
all'interno di una pubblicazione per portare i risultati all'attenzione di un pubblico esteso a cui far
conoscere l'esperienza, con tanti esperti, stiamo costruendo. A conclusione di questo volume
abbiamo deciso di riprendere uno stralcio della relazione messa a punto dalla “commissione
parlamentare” che si tratta di un documento che analizza alcune situazioni italiane ed europee che
propone politiche di intervento per la rigenerazione. C’è parso che quel testo venisse ad integrare a
completare le nostre riflessioni, permettendo di valutare meglio i percorsi che tecnici, politici,
amministratori oggi stanno proponendo per conseguire a pieno l'obiettivo che è sintetizzato nel
titolo di questo volume.

Periferie. Luoghi e situazioni urbane


Introduzione di Stefano Boeri
In Europa, ci sono città disperse e frammentate i cui tessuti urbani aumentano ogni anno la propria
estensione; città in cui “centro” e “periferia” sono parole dure e difficile da definire. Non perché
non ci siano centri non ci sono periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e per la
polivalenza di cultura che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile ad
una semplice opposizione centro/periferia. “Periferia” è un giudizio peggiorativo, la denuncia di
uno stato di degrado, ha una valenza negativa; È un termine che utilizziamo in modo superficiale
con fortissima grado di generalità per parlare di uno spazio, di un quartiere, a volte di parti
importanti della città.
Quindi spesso usiamo in modo generico parole che faticano a individuare degli spazi precisi,
talmente pieni di connotazioni da rendere difficile un loro utilizzo in modo “proprio”. Quando
parliamo di periferia, così come quando parliamo di spazio pubblico, è necessario fare una serie di
considerazioni e di specificazioni. Per questo propongo tre caratteri per precisare la connotazione,
la condizione di periferia che osserviamo e che in qualche modo siano interessati a descrivere e
individuare.
La prima definizione del connotato di “perifericità” si lega alla “distanza dal centro”. Ma se è vero
che “periferia” è un termine generico è altrettanto vero che anche la nozione di “centro” oggi si
presenta con una grande grado di ambiguità. La distanza è misurabile in termini geografici e può
essere in qualche modo declinata in relazione ad una grande questione urbana che è l’accessibilità.
Se pensiamo al secolo scorso, ai grande complessi edilizia economica e popolare costituiti in
Europa, nate come politiche di risposta all’emergenza abitativa. Sistemi urbani pensati per essere in
qualche modo autonomi dal centro, per ceti di basso reddito. Non hanno mai avuto una connessione
attiva con la vita urbana e dunque sono rimasti a tutti gli effetti dei nodi di “periferia” dove
l’elemento della distanza ha determinato gravi difficoltà.
Un secondo esempio + complesso e problematico riguarda le periferie distanti dal centro sono il
caso esemplare delle banlieue parigine. Un progetto politico ha portato a realizzare una fascia
disposta a “ciambella” intorno alla città, situata a grande distanza dal centro storico e caratterizzata
da interventi edilizi promossi dallo Stato francese con la compartecipazione di enti locali e privati.
Questa fascia ha accolto popolazioni dal reddito medio, immigrati e della condizione di distanza dal
centro che non è semplicemente geografica, ma profondamente legata alla mancanza di mobilità
sociale. Chi vive nelle banlieue non solo fatica a pensare all’accesso al centro città in tempi rapidi,
ma fatica anche a individuare potenzialità di mobilità social nelle propria vita, a pensare che i propri
figli possano uscire da una caratteristica di perifericità” che in qualche modo diventa ineluttabile.
Una periferia lontana da quello che continuiamo a considerare il nucleo originario, quello che
definiamo il luogo di accessibilità massima. Allora in questo caso il concetto di perifericità in
antitesi alla nozione di “centro” è certamene fortissimo; il concetto di distanza non è +
semplicemente di tipo geografico, ma è legato all’accessibilità ai servizi, ci accorgiamo di come la
“periferia”, intesa puramente in quanto distanza dal centro, abbia in sé una grande fragilità.
È chiaro che le aree di disagio e di sofferenza non siano quelle di ultima costruzione o di margine
delle nostre città. Pensiamo al caso dell’Italia in cui è diffuso un modello di “periferia di disagio”
con pochi servizi, con una qualità della vita insufficiente e forme di degrado avanzate, anche in aree
geograficamente centrali.
Negli anni ottanta e novanta si crearono dei modelli di città fatte per pochi, che cercavano il
massimo confort possibile, ma che danno vita a vere e proprie “Anticittà”, ovvero qualcosa che
cresce parallelo alla città, dentro di essa, come un corpo separato, ne rappresenta una declinazione
particolare. Un movimento interno, e insieme distruttivo, del fare città.
Quando parliamo di una periferia non + descrivibile a partire dal requisito di “distanza”, ma
connotata da una carattere di “assenza”, non descriviamo + una “ciambella”, quanto un
“arcipelago”. Le nostre città sono luoghi in cui riconosciamo aree di degrado e di abbandono dovute
all’assenza di servizi essenziali al cittadino, collocate in punti diversi.
Una terza potenziale connotazione di “perifericità” non + dovuta alla “distanza” e neppure
“all’assenza”, ma ad una modalità di costruzione, di riuso dello spazio che chiamerei “diluizione”.
Siamo in grado di descrivere la caratteristica di perifericità quando misuriamo la distanza fra il
centro antico e certi quartieri ad esso esterni.
Per chiarire cos’è la diluizione utilizzo le considerazioni di un sociologo americano Robert Putnam,
che ha introdotto il termine “capitale sociale” che aiuta a capire come in una condizione di
multiculturalità il loro rapporto si possa giocare sul rafforzamento dei legami interni alla comunità
stessa. In questo modo, il “capitale sociale” diventa un elemento che opera per rendere + forte e per
strutturare le relazioni interni a una comunità; ovvero come ponte per scambiare risorse che sono
essenzialmente di natura culturale. È importante capire che nessun gruppo di individui può fare a
meno del “capitale sociale”, perché se perdiamo l’elemento forte di riconoscimento della nostra
identità originaria, perdiamo la capacità di accettare il rischio dello scambio. Ma se accettiamo il
rischio dello scambio con le altre comunità, quella forma particolarissima di empatia che permette
di ricostruire le nostre identità. Allora quando parlo di periferia come “diluizione”, parlo di
situazioni urbane dove questa caratteristica di scambio, basato sulla presenza di gruppi sociali e
culturali che hanno un’identità riconoscibile forte, si perde o si diluisce.
Questa è la città: la densità degli spazi e la varietà delle culture abitative. È qualcosa che potremmo
riassumere attraverso il concetto di intensità. Ci sono situazioni dove abbiamo un sistema di
“diluizione” che ha alterato il senso della città, perché non ha generato densità, perché la
frammentazione individualista ha ucciso sul nascere anche la possibilità che ci sia un “capitale
sociale” legato all’identità di gruppo. Questa è periferia; una condizione che possiamo trovare i
quartieri ricchi, in zone esterne alla città, ma anche in zone centrali: non è + “l’arcipelago” della
periferia del degrado né la “ciambella” della periferia dell’assenza, ma una “periferia
caleidoscopica”. È un terzo modo di intendere la periferia, che tuttavia è molto importante perché le
politiche urbanistiche non possono oggi non fare i conti con questo grande problema. Non è + un
problema di “assistenza” o di “distanza”, è un problema di “diluizione dell’intensità” del fare città.
Concludo sottolineando come questi 3 modi di concepire la periferia abbiano tutti e 3 le ottime
ragioni per essere utilizzati; quindi non intendo stabilire fra loro nessuna gerarchia di valori. Al
contrario, affiancare le 3 forme di visione e di concettualizzazione della nozione di periferia si
rileva utile per cercare di essere + precisi nell’individuare possibili soluzioni all’interno delle
politiche urbanistiche, culturali, del bilancio e del territorio.
Oggi il pericolo non arriva tanto dalle periferie geografiche, quanto dai luoghi a bassa intensità;
sono le zone in cui si annidano i rischi maggiori: zone caratterizzate da miseria e degrado, dalla
mancanza di servizi, dall’assenza di relazioni. Non necessariamente povere economicamente, ma
senza dubbio, povere socialmente, in cui non c’è possibilità di scambio e di incontro fra le persone.
Le politiche urbane non possono semplicemente ridurre le distanze centro-periferia, o intervenire
localmente per realizzare nuovi sevizi. È necessario un’azione + complessa, che miri a promuovere
condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni. Si tratta di creare, da un lato, spazi di
aggregazione di cui le singole comunità possono appropriarsi e dall’altro, di creare spazi di
interazioni, dove le stesse comunità possono incontrarsi. Un esempio in questo senso sono le piazze
italiane, da sempre luogo dove tutto può accadere, contribuendo in questo modo a “fare città”.

APPUNTI E RIFLESSIONI
Tra piani e progetti nel tempo della crisi
Tra piani e progetti nel tempo della crisi di Simone Ombuen
Perdura l'effetto di perdita di senso nella lettura e nella comprensione della forma della città. La
stessa città storica, che ancora rimane depositaria della quasi totalità dell’identità, deve la sua
vitalità per lo più a flussi esterni e alla permanenza di alcune funzioni direzionali e che non a
corrispondenze fra luogo e identità collettiva.
Ciò che appariva allora come "separazione" fra gli statuti della città storica e moderna e quelli della
città contemporanea si è rivelata essere una "divergenza" storica. Si è sostanzialmente interrotto il
processo incrementale di costruzione dello spazio urbano, in Italia plasticamente rappresentato dalla
persistenza dei centri storici e dalla loro dialettica con le periferie storiche, sorte fino alla metà degli
anni Settanta. Il processo metropolizzazione si sviluppa oggi lungo i reticoli infrastrutturali fino a
dar luogo a nuovi e variabili fenomeni insediativi.
Entro tale trasformazione la città contemporanea tende sempre più ad abbandonare il paradigma
della prossimità, che tiene insieme le persone e lo spazio fisico nella costituzione dei luoghi per
sostituirlo con il paradigma dell'accessibilità. Il luogo si trasforma così in "spazio attraversato”, non
più luogo dell'incontro, ma dell'intersezione delle traiettorie. Con la nascita della società in rete e la
pervasività del "digitale in movimento, si compie un ulteriore salto nella trasformazione:
l'accessibilità viene distinta dall'ordine spaziale. Basta avere l'indirizzo e accendere un navigatore
per giungere dappertutto. In precedenza lo spazio fisico era il veicolo di accesso alle informazioni,
lo sviluppo di sistemi di rappresentazione del mondo fisico iniziò a produrre navigazioni basate
sulle informazioni anziché sull’osservazione diretta, ma tali sistemi erano per pochi. Ora, con la
diffusione di massa del web in mobilità, l'accesso alle informazioni è divenuto lo strumento di
indirizzamento all'interno dello spazio fisico. E il significato stesso della spazialità che muta. La
definizione del luogo viene sempre più connessa al concetto di esperienza. "Alla base di questa idea
pervasiva di esperienza c'è una concezione secondo la quale ciò che rende 'grande' un luogo è la sua
capacità di renderci diversi nell'attraversarlo, e di produrre un'esperienza dopo la quale non siamo
più gli stessi".
Alcune conseguenze sulla progettazione urbanistica e sul governo del territorio
Ormai con gran rapidità nelle zone economicamente più attive del Paese, assistiamo a un
progressivo spostamento delle maggiori dinamiche di trasformazione dall'interno delle città verso i
territori della dispersione insediativa, dove sono più alti il consumo di suolo, il tasso di
motorizzazione, l'incremento degli spostamenti intercomunali. Per far fronte a tali fenomeni occorre
anzitutto che i sistemi di pianificazione si dotino di una progettualità alla scala intercomunale e
dell'area vasta, a carattere essenzialmente strutturale, conformativa del territorio ma non della
proprietà, in grado di costruire gli scenari di lungo periodo relativi anzitutto ai sistemi a rete,
occorre costruire le condizioni di sostenibilità dello sviluppo.
Il passaggio dalla dimensione della dotazione quantitativa di standard ad una visione qualitativa e
performativa della trasformazione dei contesti insediativi chiede attività di ascolto e partecipazione
delle comunità urbane molto più impegnative che in passato. Di conseguenza, all'interno di esse,
occorrerà una definizione degli obiettivi d'interesse pubblico non scontata o rituale, in grado di
promuovere e valorizzare i beni comuni attorno ai quali avviene il processo di identificazione di
comunità e di sviluppo del senso di appartenenza.

Una particolare attenzione allo spazio pubblico


Nelle migliori esperienze di progetto urbano la qualità e l'incremento di valore si generano negli
ambiti della trasformazione intensiva ma è la rete degli spazi pubblici che svolge il compito
essenziale di redistribuire le qualità e l'accesso ad esse dalla generalità della condizione urbana, ed
alla molteplicità dei soggetti e degli attori che la animano. Per questo occorre uscire dalla logica
della perimetrazione dell'area d'intervento e cominciare a ragionare in termini di reti degli spazi
pubblici e di flussi ed intensità che su tali reti gli attori urbani sviluppano.
Lo sviluppo delle dinamiche e delle modalità di relazione sociale nella società della conoscenza e
dell'informazione sta cambiando in modo radicale le relazioni fra beni pubblici e beni privati, con lo
sviluppo di forme di condivisione del capitale fisso nella cosiddetta economia collaborativa, che
sposta le condizioni di sviluppo dal possesso all'accesso. Tali processi, possibili grazie alla società
in rete avvengono essenzialmente nello spazio pubblico come luogo dei nuovi e diversi modi
dell'incontro dei soggetti e di spazio d'elezione per la ricombinazione dei valori, luogo della
produzione di nuovo valore sociale.
Solo la corretta individuazione di tali elementi potrà consentire di non disperdere ulteriormente il
contributo civile di chi si propone, e di ritarare il rapporto fra metabolismo sociale e ruoli
istituzionali nel governo dei processi di sviluppo del territorio. E la pianificazione urbanistica, che
ne è storica componente principale, in tale contesto di profonda trasformazione è fortemente sfidata
a trovare le forme e i modi di una sua complessiva ridefinizione.

La forma della città nel pensiero di Bendano Secchi


Di Stefano Storchi
Il senso stesso di “periferia” è mutato in questi anni, sfuggendo ad una definizione geografica per
assumere un significato rapportato alla qualità della vita urbana, dello spazio collettivo, delle
relazioni fra gli individui.
La chiave di lettura morfologica e sociale della città sembra oggi l’unica in grado di generare nel
pensiero e nella prassi urbanistica, aprendo una riflessione sulla forma del costruito e relazione fra
gli individui e facendo così leva su due elementi fondamentali. Portare l’attenzione sul progetto
significa abbandonare il primato della norma che ha indirizzato per decenni la prassi della
pianificazione, con il risultato tangibile di un perdurante degrado qualitativo delle nostre città.
Ridare centralità al cittadino evita il rischio autoreferenziale.
Questo è stato uno dei principali fattori di crisi dell’urbanistica e del piano, sempre meno
rispondenti a un’idea di città e sempre + costretta a misurarsi con tecniche valutative che si sono
trasformati in strumenti da mettere in atto indipendentemente dagli obiettivi concreti, in una sorta di
primitivo della procedura rispetto al contenuto.
La città divisa, ghettizzata, non è fenomeno di oggi, trovando le radici nelle vicenda millenaria che
ha separato, al suo interno, funzioni e classi sociali.
Per analizzare tutto questo è utile richiamare i saggi di Bernardo Secchi che sui temi della forma
urbana ha riflettuto a lungo, cercando risposte per un’urbanistica innovativa, all’altezza delle sfide
che la città propone. Fra “città porosa” e “città policentrica” esiste una stretta connessione, perché
proprio il policentrismo urbano rappresenta il motore di una crescita di parti insediate gravitanti su
alcune polarità forti che si disseminano nel territorio e fungono da catalizzatrici e generatrici di
nuovi tessuti edilizi.
Queste modalità di accrescimento hanno generato una porosità urbana dovuta alla discontinuità dei
tessuti nei quali permanevano ambiti agricoli sovente coltivati; così da determinare veri e propri
cunei che il tempo talora si è incaricato di colmare. Di certo ciò è avvenuto nell’età preindustriale.
Oggi le porosità sono legate a una molteplicità di fattori.
Siamo a quella che Bernardo Secchi ha definito la “città frattale”: “un arcipelago, un mosaico mai
completato, composto da piccoli pezzi accostati l’uno all’altro e tra loro disuguali”. Le discontinuità
e le criticità non investono solo la struttura fisica della città, bensì anche il suo assetto funzionale e
sociale. Certamente la diffusione dei servizi rientra nelle previsioni del piano; ma la loro efficienza
e il loro grado di funzionalità sono conseguenza di scelte politiche e gestionali.
Dunque, il tema della “porosità sociale” si connette direttamente al governo della città; con
l’esigenza di superare le contraddizioni e i conflitti che al suo interno si generano e di gestire
efficacemente le dinamiche legate al riproporsi della rendita urbana come fattore di
contrapposizione fra le componenti della comunità locale.
Diverso significato assume la “porosità fisica”, che occorre affrontare sul piano + squisitamente
tecnico, a partire però da alcune discriminanti. La prima riguarda la prospettiva secondo cui
osservare la città porosa: e non vi è dubbio che, al bivio fra saturazione e conservazione dei vuoti
urbani. Allora la chiave del problema consiste nella qualità del disegno della “città pubblica”, che
passa attraverso la valorizzazione dell’esistente, ma anche attraverso un progetto della “porosità”;
queste non possono essere considerate un bene in sé, ma vanno valutate per il ruolo che possono
svolgere nella città futura.
La “città porosa” rappresenta, dunque, un’opportunità da riconoscere e valorizzare; con l’obbiettivo
di sottrarre i vuoti alla speculazione immobiliare e di considerarli come uno dei fattori di
redistribuzione della ricchezza sociale che l’urbanistica deve perseguire.
La tecnica attraverso la quale la valorizzazione delle “porosità” si può attuare è stata approfondita
dallo stesso Bernardo Secchi in interventi e scritti in cui tratta di operazioni di “scuci-cuci” urbano,
consiste nel “progetto di suolo”. L’attenzione per lo spazio aperto, che è anche principalmente
spazio pubblico, e che consente di raccordare le trasformazioni al contesto non solo quello prossimo
ma anche quello allargato della città. E in effetti, era proprio Bernardo Secchi a sottolineare che: Il
progetto di suolo pone il disegno degli spazi pubblici , le loro relazioni con la città al centro della
propria attenzione. Il progetto di suolo, in altri termini, (..) li considera materiali con i quali
costruire la parte + propriamente pubblica e collettiva della città e per questo dà loro una posizione
preminente.
E, tuttavia, è l’impianto quantitativo del piano (generale e attuativo) a dover essere rivisitato, a
partire dal superamento della rigidità delle sue previsioni funzionali; a fronte di dinamiche
economiche che vedono una consistente dilatazione dei processi di trasformazione urbana e
territoriale. Meglio allora individuare e applicare meccanismi + flessibili, dotati di una maggiore
adattabilità a realtà dinamiche e mutevoli. Proseguendo questa riflessione, si approda
inevitabilmente all'esigenza di attenuare il ruolo dell'urbanistica "normativa" a favore di
un'urbanistica "progettuale", capace di aderire pienamente all'idea di città che oggi occorre
perseguire: una città integrata, relazionale, inclusiva e accessibile; una città rispettosa della storia,
proiettata verso una crescita senza espansione, attenta alla propria qualità intrinseca. Per conseguire
simili obiettivi occorre tuttavia un'urbanistica che affermi il primato del governo rispetto alla
norma; che tenda a prefigurare il futuro e non si limiti a disciplinare il presente. Dovremo iniziare a
parlare di una "urbanistica dolce", più attenta al vivere dei cittadini e alla possibilità di fruire di una
città inclusiva, bella e accogliente per tutti.

Spazio pubblico e benessere nella città contemporanea


di Fabrizio Toppetti
Raggiusi Venezia, per partecipare a un convegno sulle trasformazioni dell'habitat urbano, per
ascoltare Bernardo Secchi. Le ricerche di quegli anni andavano nella direzione della città dispersa
delle nuove forme di urbanità, distesa e "ascalare", che egli, tra i primi in Italia, aveva portato
all'attenzione della comunità scientifica. La bellissima relazione di Secchi si concluse puntando
l'attenzione sullo spazio pubblico e sul tema del progetto di suolo, con un'affermazione che allora
mi parve un po' asfittica: "Ripartiamo dai marciapiedi".
Dieci anni più tardi per la qualificazione del parco della Rocca a Todi ricevetti come secondo
incarico quello di ridisegnare la passeggiata pedonale, si trattava di un marciapiede. Dedicai molta
cura alle connessioni, alla scala urbana, al disegno dei dettagli, alla scelta dei materiali,
all'esecuzione dei lavori. Ripartiamo dunque da un diritto basico del cittadino che è quello alla
"camminabilità" della propria città. Sono moltissimi i motivi per i quali spesso scegliamo di non
andare a piedi. Camminare bene e in spazi adeguati è diventato, paradossalmente, un lusso e invece
è uno dei parametri fondamentali per definire e misurare la vivibilità dello spazio pubblico. Una
città bella è, prima di tutto, una città dove si vive bene. Il rapporto con la salute e l'ambiente sono
all'origine dell'urbanistica moderna, tuttavia se fino ai primi decenni del secolo scorso le
preoccupazioni riguardavano l'igiene e il comfort, oggi è l'eccesso di comodità a generare
disfunzioni. I principali problemi di salute nel mondo occidentale sono mutati da patologie infettive
a malattie croniche generate spesso da stili di vita inadeguati. Se per stare in salute dobbiamo
muoverci e per migliorare le condizioni d'inquinamento ambientale e di congestione da traffico
dobbiamo puntare sui mezzi pubblici e sulla mobilità dolce, appare evidente che le due cose
debbano essere affrontate congiuntamente. Moltissime amministrazioni hanno adottato misure
integrate per incoraggiare l'attività fisica e la mobilità dolce, inaugurando una nuova cultura del
muoversi in città. Il disegno di percorsi ciclabili e pedonali, la definizione di una rete
"multimodale", la progettazione di ambiti dedicati allo sport sono azioni che influenzano le
abitudini, e contestualmente agiscono sulle forme della città. È necessario ripensare anche l'assetto
delle città ed è questo il contributo essenziale che può portare l'architetto. Tra le linee d'azione
individuate dalle amministrazioni, il rilancio della pedonalità è al primo posto.
Lavorare sul tema della "camminabilità significa rendere piacevole, sicuro e conveniente spostarsi
a piedi, naturalmente su distanze significative insieme al mezzo pubblico.
Sono evidenti le criticità nella città che non ci consentono di muoverci agevolmente, in sicurezza,
con tempi certi, su percorsi e itinerari piacevoli. II contesto è quello della città di Roma, l'ipotesi è
quella di costruire sistemi di percorsi sicuri, riconoscibili, attrezzati che possano scoraggiare l'uso
del mezzo privato per spostamenti modesti ma anche per percorsi di lungo raggio rispetto ai quali
viene agevolata la complementarietà con il mezzo pubblico. Si prevede la riqualificazione dei
percorsi che connettono casali e aree archeologiche, la realizzazione di percorsi ciclabili e pedonali,
l'allestimento di aree attrezzate per la vita attiva all'aperto.
La persistente attualità della perequazione urbanistica Appunti da una riflessione
di Stefano Stanghellin
1. Vorrei dare avvio a una provocazione: la "perequazione urbanistica" serve ancora?
"La perequazione urbanistica per segue l'equa distribuzione fra i proprietari degli immobili
interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica”,
scritto nella legge regionale dell'Emilia-Romagna. Aggiungo a tal proposito che la Regione
Toscana, in occasione della revisione della propria legge urbanistica, ha ritenuto di dover sostituire
il termine "diritti” - che può essere frainteso - con "facoltà", mettendo così in evidenza il carattere
possibilistico che la pianificazione offre di edificare; La finalità principale della perequazione
urbanistica era quella di superare la disparità di trattamento fra i proprietari di immobili vincolati
alla realizzazione delle dotazioni territoriali dai proprietari di immobili ai quali era data la
possibilità di edificare appropriandosi della rendita fondiaria urbana. E quindi l'obiettivo di fondo
che giustifica il principio della "perequazione urbanistica" è tuttora attuale, perché essa afferma un
principio di equità. E infine: “ll RUE stabilisce i criteri e i metodi per la determinazione del diritto
edificatorio spettante a ciascun proprietario in ragione del diverso stato di fatto e di diritto in cui si
trovano gli immobili al momento della formazione del PSC”.
2. Allora l'obiettivo del principio del contenimento del consumo di suolo sposta l'attenzione
dell'amministrazione urbanistica dai cosiddetti "terreni urbanizzabili" dismesse, agli immobili da
riqualificare. Non dimentichiamo che molto spesso le amministrazioni definiscono "perequazione"
gli accordi fra "pubblico e "privato" che, a partire dalla previsione di una trasformazione
urbanistica, calcolano il plusvalore che ne deriva e ne assegnano parte al privato e parte alla
collettività. A mio modo di vedere, tuttavia, questa non è "perequazione"; si tratta piuttosto di un
accordo di ripartizione del plusvalore creato dalle scelte pubbliche fra pubblico e privato.
3. Lo spostamento del focus dalle aree urbanizzabili ai complessi urbani fatiscenti comporta
l'evoluzione delle tecniche perequative. Io credo che l'amministrazione di una città, non possa non
dotarsi di criteri, di regole come riferimento generale per tutti gli operatori e che siano condivise
dalla comunità. Ne consegue che ai modelli di valutazione è richiesto non solo di discernere i suoli
già incorporati nei tessuti urbani da quelli agricoli destinati all'edificazione, ma anche di cogliere le
differenze che sussistono tra le consistenze dei complessi edilizi, la loro destinazione, lo stato di
conservazione: tutto ciò ha a che fare inevitabilmente con le analisi sullo "stato di fatto e di diritto".
Questo modello ha funzionato, perché l'indice garantiva ai terreni periurbani di Ravenna un valore
fondiario leggermente superiore a quello stabilito da un mercato che già aveva incorporato una
rendita di attesa. Un'analoga modalità applicativa, basata sui trasferimenti, le cessioni e le
premialità, si dovrebbe sperimentare anche in contesti più complessi soggetti ad interventi di
riqualificazione urbana, senz'altro più difficili da analizzare e da pianificare. In sostanza,
concludendo il ragionamento sulle modalità applicative della perequazione, occorre essere
consapevoli che è necessario puntare a una decisa evoluzione delle tecniche perequative,
compensative e premiali.
4. Il terzo aspetto del problema è occorre accertare il grado di fattibilità delle scelte urbanistiche
affidate alla perequazione urbanistica per quanto attiene sia alle previsioni private, sia alle
previsioni pubbliche. L'obiettivo della fattibilità chiama in causa, il legame fra la perequazione
urbanistica e la rendita fondiaria, perché sappiamo che quando attribuiamo degli indici,
riconosciamo ai terreni determinate quote di rendita. Penso che questa criticità non riguardi tanto la
perequazione urbanistica in sé, quanto lo stesso piano urbanistico e quindi la capacità del piano di
promuovere la trasformazione della città, nelle sue componenti private e pubbliche. Vorrei ricordare
che il piano urbanistico è stato creato proprio per governare la formazione, la distribuzione e
l'appropriazione della rendita fondiaria urbana. Non si può non constatare come negli ultimi anni, in
cui il peso della rendita si è molto attenuato, le amministrazioni abbiano molto ridotto la loro
iniziativa nel campo del rinnovamento degli strumenti urbanistici e conseguentemente la
produzione di nuovi piani urbanistici sia drasticamente calata. Si potrebbe arrivare alla conclusione
che non è superata tanto la perequazione urbanistica come principio quanto il piano urbanistico.
Penso che questa sarebbe una conclusione assurda, perché ogni città, ogni comunità ha bisogno di
un progetto per il proprio futuro, e perché comunque la formazione e l'appropriazione rappresentano
un nodo della trasformazione urbana ancora attuale. Alcuni la ritengono scomparsa, ma io credo che
essa si sia solo affievolita, poiché la sua esistenza è legata alla domanda di beni scarsi, quali sono
appunto i suoli urbani. La rendita si forma quando esiste la domanda e dunque, nelle attuali
condizioni economiche italiane, essa si è attenuata, perché la domanda è molto debole. Ma quando
la situazione economica del nostro Paese avrà superato lo stato di depressione che ha vissuto negli
ultimi anni, la domanda tornerà a presentarsi, seppur in termini molto più selettivi che in passato, e
con essa la rendita. E quindi penso che prima o poi la rendita si ripresenterà con forza anche nel
nostro Paese.
5. A mio avviso in una fase di domanda debole da parte delle famiglie e delle imprese, con scarse
risorse finanziarie per gli investimenti e una rendita molto contenuta, per incentivare la
riqualificazione urbana penso che si debba lavorare al margine, conseguendo piccole modifiche.
Per quanto riguarda i valori immobiliari da creare con gli interventi di riqualificazione urbana, a
mio avviso le principali leve sono rappresentate dagli investimenti in opere pubbliche e dalla qualità
del progetto. Benché le "premialità" siano un dispositivo utile, dobbiamo aver presente che negli
ultimi anni si è affievolita la rendita è diminuito anche il loro valore, non possono essere utilizzate
in modo acritico. Ebbene, nelle città quali Perugia e Assisi con valori immobiliari molto elevati, la
"premialità" sarebbe risultata funzionale all’incentivazione degli interventi di recupero, ma per
ottenere lo stesso effetto incentivante in città con valori immobiliari più bassi sarebbe stato
necessario attivare quantità edificatorie premiali molto alte, con conseguenti effetti distorsivi
nell'assetto urbanistico e nel mercato immobiliare. Oltre agli investimenti pubblici, importante è la
qualità del progetto, perché non c'è dubbio che, in condizioni di risorse scarse, in molti casi essa
rappresenti un fattore decisivo ai fini dell'innalzamento del valore finale degli edifici realizzati.
6. L'altro aspetto rilevante sul fronte della fattibilità è quello dei costi. Se per un verso si rende
necessario operare per innalzare il valore degli edifici da realizzare, per l'altro occorre ridurre i costi
da sostenere. Al riguardo, mi sembra che le difficoltà attuali stiano spingendo il settore delle
costruzioni, ad operare un sensibile contenimento dei costi di costruzione. Anche i costi di
manutenzione e di gestione, in passato ignorati, oggi rientrano nel calcolo economico della
fattibilità e chiedono al progetto e alle nuove tecnologie di provvedere alla loro riduzione. Spesso la
riqualificazione di complessi urbani degradati è però ostacolata dalla frammentazione della
proprietà immobiliare e dai conseguenti "costi frizionali". Per mettere d'accordo i proprietari di più
immobili occorre, infatti, svolgere un'impegnativa opera di intermediazione di convincimento e di
individuazione di contropartite, la quale, oltre a richiedere molto tempo, risulta anche molto
onerosa. Quando il piano urbanistico vincola l'attuazione degli interventi di riqualificazione urbana
alla formazione del comparto, i singoli proprietari cercano di affrancarsi dal comparto al fine di
operare in modo autonomo ed evitare i "costi frizionali". Eppure il comparto urbanistico è un
istituto fondamentale per l'applicazione della perequazione urbanistica, poiché la sua attuazione
consente di realizzare la riqualificazione di parti di città tanto per le componenti private quanto per
quelle pubbliche. Dunque l’eliminazione dei sovra costi è essenziale non solo per l'efficacia della
perequazione urbanistica, ma per la stessa riqualificazione di parti di città.

Deserti urbani e deserti commerciali


di Angelo Patrizio
Contrastare i fenomeni di desertificazione commerciale e vitale per evitare quelli di
desertificazione urbana. Un modo per guardare ai fenomeni localizzativi e mettere a fuoco
interventi per le città e per le attività di "terziario di mercato". Lavorare su questo permette di
osservare che al centro della crisi finanziaria e sociale che stiamo attraversando ci sono le città.
Dentro di esse si concentrano gran parte di quelle attività economiche che vanno via via
assottigliandosi costringendoci a 'stimare" percentuali molto alte di spazi inutilizzati o dismessi.
Questione che tocca l'assetto o il destino dei sistemi commerciali e quindi il destino stesso delle
città. Si tratta di una sorta di tumore che obbliga a ricordare quello su cui Furio Colombo rifletteva a
proposito della scomparsa del commercio urbano in molte città statunitensi, l’articolo dal titolo "A
luci spente le città muoiono" egli scriveva:
La prima frase: 'State attenti alla brusca caduta dei consumi. I commercianti ne soffrono. Vuol dire
che troppa gente è fuori dal mondo della produzione. La seconda: 'Se si spengono le luci dei negozi
qualcosa scompare per sempre, finisce la vita urbana cosi come l'abbiamo conosciuta per secoli.
La bottega è luogo in cui un mondo minimo si conoscono, si scambiano notizie e cultura, e sono il
luogo piccolo in cui si forma la vita sociale della città'. Determinato strade cieche e deserte adatte
alla microcriminalità e al fiorire di mercatini illegali e rischiosi che sostituiscono quelli legali.
Soprattutto svuotano di negozi i quartieri, privano i più giovani e i più anziani, che non guidano, di
quel luogo di incontro e di scambio che è il piccolo punto di vendita. Non sto soltanto riflettendo le
ansie degli operatori minori, sto pensando all'esperienza americana. A luci spente le città non
vivono. Il danno è la cancellazione dell'identità stessa della città, che nessun ipermercato può
restituire. Una volta chiusi i negozi, una civiltà sen'è andata.
Parlare di relazione binaria è fondamentale giacché ritengo che solo all'urbs (lo spazio fisico) non è
sufficiente se non si ha la capacità di porre attenzione anche alla comunità dei cittadini dalla quale
prende corpo la polis e la capacità di generare strumenti di governo della città, dell'economia. Per
porvi rimedio bisognerebbe saper agire positivamente sia sulla qualità della vita degli abitanti sia
sulla competitività dei sistemi produttivi; e avviare processi di rigenerazione urbana utili ai cittadini
e ai city users. Amo parlare di "sistemi commerciali urbani "anziché di “centri commerciali
naturali”. E per “sistema commerciale urbano" intendo quell' articolato sistema costituito:
-punti commerciali: le singole attività sparse sul territorio cittadino;
-linee e fronti commerciali;
-centri commerciali naturali;
-sistemi mercatali su aree pubbliche o private.
La valorizzazione dei "sistemi commerciali urbani deve costituire, pertanto, un obiettivo di lavoro
finalizzato a costruire politiche di intervento che si pongano lo scopo di:
-predisporre interventi per promuovere il commercio cittadino e che rispondano alle necessità dei
cittadini e degli operatori economici;
-dare spazio ad azioni a programmi e progetti di intervento finalizzati a migliorarne la forza di
attrazione da essi esercitata nelle varie articolazioni che li caratterizzano.
Siamo davanti a vere e proprie condizioni di necessità per realizzare scenari articolati che non
possono essere delegati al singolo, ma devono essere frutto di un dialogo costante tra cittadini e
imprese, tra associazioni e municipalità. É dallo stare insieme, infatti, che stanno emergendo
interessanti risposte a temi fondamentali per la relazione tra città ed economia urbana e per
strutturare risposte a questioni veramente fondamentali quali:
1. L’attrattivitá e il mix merceologico dei sistemi commerciali urbani.
2. l'accessibilità e la sosta.
Sono questioni strategiche per migliorare l'efficienza del sistema commerciale.
Per tanto si deve partire dal considerare che:
-il commercio e l'artigianato di servizio vivono in relazione allo spazio pubblico e alle possibilità di
mobilità e sosta che vengono garantite al cittadino
-il turismo rende opportuno garantire mobilità, accessibilità, sosta ed elevati livelli di accoglienza e
orientamento urbano, turistico, culturale;
-I servizi, volgendosi sia al singolo cittadino sia alle imprese, richiedono prioritariamente un'elevata
qualità delle condizioni di mobilità in un quadro di ottime condizioni di accessibilità e sosta;
-le attività professionali richiedono il funzionamento di un "sistema città "ove trasporto pubblico e
privato si integrino con maggiore incisività e si configuri elevata la dotazione e la qualità delle
infrastrutture destinate alla circolazione e alla sosta.
3. la qualità architettonica e ambientale del contesto urbano. Porre attenzione alla qualità dello
spazio fisico della città rappresenta una priorità.
4. La qualità architettonica del sistema dei negozi.
5. l'attivitàdi animazione.
6. l'attivitàdi promozione.
Utili a far considerare che, per vivere bene in una comunità, è necessario guardare al
soddisfacimento di tre esigenze sociali fondamentali dell'uomo: la convivialità, la religiosità e la
politica e che al soddisfacimento di queste tre esigenze va sempre aggiunta una base economica che
impone di saper creare e prestare attenzione a una quarta attività comune fondamentale: gli scambi
e il commercio.

Periferie. Fra disagio e riscatto


di Alessandro Bosi
I concetti di "centro" e "periferia" rischiano di riconsegnarci allo schematismo città/campagna. Da
tempo, quel modo di ragionare sembra inadatto a interpretare la nostra epoca. Se parliamo di
riscatto, possiamo farlo senza riferirci ai centri storici? Ho seri dubbi, al riguardo.
La città come "luogo"
Benché il termine venga usato in modo generico, società non è una qualsiasi forma di vita collettiva.
Non è una famiglia, un parentado, una comunità. La società non richiede uno spazio misurabile,
piuttosto di un luogo che sia il "contenitore" in grado di conformarsi al suo “contenuto” per come
viene definendosi nelle trasformazioni storiche e geografiche. È l’antica concezione della polis, la
condizione stessa dell'ospitalità per cui si ospita da chi si è ospitati. La società comprende e
contiene le molteplici diversità del vivere collettivo nel luogo della polis e rende l'uomo adatto a
vivere politicamente la sua relazione con gli altri. Il termine polis è abitualmente pronunciato per
ricordare che è la radice di "politica". La polis non fu una porzione di "spazio esteso e misurabile",
ma fu luogo in quanto contenitore che si adatta al suo contenuto, la "democrazia" come ricerca della
miglior forma di vita collettiva dove vivere nel rispetto della legge conformandosi al modificarsi
della storia e delle condizioni geo-ambientali.
Un residuo dell'epoca industriale
Ci limitiamo a considerare la città industriale quella che + profondamente ha innovato i caratteri
della polis. Spostamento di popolazioni dalla campagna alla città che ne conseguì, è questo il dato
da cui partire per comprendere i cambiamenti cui la città industriale si è adeguata per corrispondere
ai modi di vivere nell'era industriale.
In generale, ogni tipo di relazione sociale è ora situata in un luogo e ha la durata di un tempo
definito; nella vita in campagna, il contadino era solito immettersi e uscire da relazioni che avevano
una loro durata con una relativa indipendenza dalla sua presenza. La famiglia patriarcale, che nel
mondo contadino corrispondeva alla maggior parte delle esigenze di vita in una visione
essenzialmente autarchica, ora, trasformatasi in famiglia nucleare, delega a questi contenitori
funzioni essenziali all'economia, all'educazione, alla cura e all'assistenza dei singoli componenti.
Negli anni successivi la città deve far fronte al crescente numero di auto che si riversa nelle sue
strade. L'intervento urbanistico per realizzare queste condizioni ha di conseguenza cambiato
profondamente gli assetti urbani, e i problemi connessi alla viabilità sono diventati una questione
permanente in ogni agglomerato urbano. Il passaggio dalla "città-piazza” alla "città-strada" segna
anche il cambiamento delle relazioni sociali che, nello spazio urbano, da relazioni comunicative
diventano relazioni funzionali alla rapidità dello spostamento. La città corrisponde a questa
crescente domanda di movimento cercando periodicamente di razionalizzare il traffico e il
parcheggio delle auto adattando le strade, migliorando le regole della viabilità, introducendo sistemi
di segnaletica intelligenti, costruendo più generosi parcheggi e spazi di sosta. La concezione politica
e urbanistica delle città ha cosi mutuato, dall'organizzazione fordista della fabbrica, l'idea di
movimento simultaneo di ingenti masse in tempi e luoghi definiti per corrispondere esigenze di tipo
funzionale. È in questo modo che la città si afferma come infrastruttura del sistema produttivo, dei
consumi e del divertimento, identificandosi con la funzione che ha svolto per consentire un certo
tipo di sviluppo economico e sociale.
“illimite" contra sprawl
Nell'epoca della cultura digitale, la città industriale, è un residuo del passato e costituisce un
impedimento al cambiamento sociale. Se nei servizi e nei consumi il singolo fosse considerato un
cittadino e non un suddito, si corrisponderebbe alle sue esigenze senza imporgli continui
spostamenti. Questo tipo di logica nell'era della cultura digitale sarebbe perseguibile. Né
mancherebbero i mezzi per muoversi, senza ricorrere a veicoli, a motore o elettrici, comunque
inquinanti e tali da sottrarre spazio pubblico. Dell'era industriale si potrebbero conservare le
metropolitane sotterranee, dove sono state realizzate, e superare i veicoli, pubblici e privati. Queste
condizioni, riduzione del movimento e superamento dei mezzi meccanici di tradizione industriale
sono ai nostri giorni obbiettivi realizzabili. La città divenuta infrastruttura del sistema produttivo,
dei consumi e del divertimento, essendosi identificata con la funzione che ha svolto per consentire
un certo tipo di sviluppo economico e sociale è invece spazio misurabile in vista di interessi
economici. È a tutti evidente che la citta non cresce in ragione di bisogni da soddisfare, ma cresce
per nutrire la stessa bocca che la divora come un cancro. Il concetto di sprawl, cui si fa ricorso per
denunciare l'espansione della città e il conseguente consumo di suolo, è insufficiente per descrivere
la situazione. Nell'epoca industriale ha tolto spazio agli umani nella dimensione che essi stessi si
erano costruiti per celebrare il riconoscimento dell'umanità e il suo diritto a vivere nel mondo.
Grazie alla tecnologia dell'industrializzazione l'appartamento diventava progressivamente uno
spazio autosufficiente. Al suo nascere, la città industriale richiede spazi dove alloggiare gli
immigrati dalla campagna. Le periferie occupano il territorio della città, in un primo momento
misurabile ed estendibile, assai presto diventa incontenibile. In periferia il processo di
privatizzazione della vita nell'appartamento accessoriato dei condomini è assai più rapido di quanto
avvenga nei centri storici. È con l’"illimite" della città che occorre misurarsi, col suo procedere
fuori e dentro di noi. La città che si è identificata con il "mezzo", che è stata in una sua fase storica,
dovrà tornare a confrontarsi con il suo "fine" e riscoprirsi in quanto "luogo e "misura" del vivere
sociale. In quanto tale, la città è “paesaggio”. Quando si parla dell'identificazione di una comunità
col paesaggio, non se ne richiama soltanto la reciproca relazione, ma anche il legame che li unisce
con una terza presenza, quella del “cippo”, un valore immateriale che rimanda all'originaria scelta
collettiva, alla decisione, niente affatto arbitraria, di istituire un ambiente che conferisca a una
popolazione la forma considerata più adatta alla sua storia futura, che ne sia la morfologia. Nell'atto
di situarsi, di eleggere un sito come il proprio, l'individuo è paesaggio e, modificandosi nella
propria storia di vita, contribuisce a modificare l'ambiente essendone condizionato dall'ininterrotto
processo del pangere, da come il pagus viene modificandosi in modi che sono anche indipendenti
dalla sua individuale volontà. L'appartenenza a un luogo, a una storia, a una comunità, non
trasforma ogni singolo individuo nel proprietario di questi beni. Chi appartiene al luogo ospita le
altrui condizioni materiali e immateriali per definire insieme l'ambiente in cui vivere il futuro. In cui
essere entrambi ospitati dall'ambiente che si è contribuito a definire. La ricerca di questa
relazionalità è una sola cosa con la ricerca della visione di città. Nella dimensione del paesaggio
cadono le contrapposte nozioni di 'centro" e "periferia" e con esse, idea che la città degli uomini
consista in un territorio da misurare per edificarlo.

ESPERIENZE E POLITCHE URBANE


Torino. Fra revisione del piano e cura dei "beni comuni". Appunti per una riflessione
di Guido Montanari
1. Parlare di urbanistica, per me, significa affrontare temi assolutamente concreti: la riduzione del
consumo di suolo, la qualità dell'ambiente, i ritorno a una pianificazione controllata dal "pubblico",
l'attenzione ai rapporti fra architettura e paesaggio. Sono stato nominato Assessore all'Urbanistica
della Città di Torino con l'obiettivo di riprendere quella prassi di buona amministrazione del
territorio. La gestione di Torino è ispirato alla "urbanistica contrattata"; cioè l'urbanistica decisa dai
privati, poi seguita dal "pubblico". L'esempio più eclatante da cui si è originata questa prassi è la
ristrutturazione e riuso del complesso del Lingotto: un’architettura industriale realizzata secondo
modelli americani di grande interesse tecnologico e costruttivo. In questo caso la FIAT ha deciso di
trasformare non solo l'edificio, ma l'intero quartiere in totale indipendenza dagli strumenti di
pianificazione urbanistica al tempo vigenti. Su questa scelta ci fu una divisione su chi sosteneva
questo percorso e chi no. A prevalere fu la componente che riteneva l'intervento privato l'unica
risposta possibile alla carenza di risorse pubbliche. Vigeva l’ideologia “iper liberista" secondo la
quale qualsiasi investimento del capitale privato deve essere accolto positivamente. La politica
urbanistica oggi non riesce a modificare questo teorema, sia per le sue debolezze intrinseche, sia per
le risorse pubbliche, sia per la complessità normativa e per l’inerzia burocratica, cause di tempi di
attuazione lunghissimi.
2. Alcune considerazioni preliminari.
Oggi, sul piano metodologico e linguistico siamo soliti utilizzare per l'urbanistica termini ripresi da
altre discipline come "rigenerazione", "resilienza", "sostenibilità”: certe volte però questi termini
tendono a slittare nei loro contenuti semantici. "Rigenerare, in biologia, significa ricreare
esattamente quel che c'era; spero che l’urbanistica non lo intenda in questi termini, ma piuttosto nei
termini di eliminazione di tessuti degradati e nella loro riproposizione "sana". Talvolta ci
rivolgiamo ad altre discipline, mentre dovremmo usare qualche termine nostro per non rischiare
"scivolamenti concettuali" che diventano poi anche ideologici e politici.
La seconda riflessione riguarda il fatto che oggi si parla molto del “fine dell'urbanistica", forse
perché l'urbanistica, come possibilità da parte del potere pubblico di disegnare il paesaggio, sembra
dimenticata. Ho sempre pensato che la città fosse il luogo della ridistribuzione delle opportunità e
della ricchezza, anche se questo approccio che l'urbanistica ha in sé si sta perdendo; ma se non ci
sono più risorse pubbliche per garantire i servizi, gli standard, allora, in effetti, è la fine
dell'urbanistica. Ripartire da questi elementi semplici è necessario quando parliamo di città, di
paesaggio, di territorio, perché la parola d'ordine secondo cui "non si può fare diversamente”, “non
ci sono risorse”, sul piano politico non è accettabile. Il problema è che la ricchezza non è
ridistribuita, non ci sono politiche fiscali a favore dei ceti sociali più poveri e si sta abbandonando il
concetto di tassazione progressiva, in poche parole non ci diamo gli strumenti per costruire
attraverso politiche fiscali e progettuali una città "giusta".
3. Se riportiamo la riflessione sulla città di Torino, negli ultimi decenni, ampi settori della città e
della popolazione sono stati esclusi da politiche di ridistribuzione della ricchezza. Attualmente il
problema riguarda le modalità con cui invertire questo stato di cose. Per quanto riguarda le periferie
abbiamo adottato la prospettiva di "città diffusa", "policentrica", che richiede una nuova politica
non solo dei servizi, ma anche della riqualificazione. Per quanto riguarda il programma di
riqualificazione di queste periferie, la scelta effettuata è stata quella di non realizzare poche grandi
opere, ma tanti interventi puntuali: quasi una "agopuntura urbana" che consiste in una manutenzione
minuta del territorio che credo sia più utile per i cittadini tendendo al miglioramento diffuso della
qualità dello spazio pubblico.
4. È in corso anche il progetto Co-City che si basa sulla gestione pubblica dei beni comuni:
abbiamo deciso che in ogni quartiere le associazioni dei cittadini saranno chiamate a scegliere le
aree dove dare attuazione a questo contratto fra pubblico e privato, in cui il privato è rappresentato
da gruppi organizzati per gestire spazi della città in abbandono, zone verdi in cattivo stato di
manutenzione, edifici pubblici inutilizzati, ecc. Per quanto riguarda l'edilizia sociale che pure incide
sulla qualità delle periferie, occorre sottolineare che Torino ha un importante patrimonio di alloggi
pubblici che viene dagli anni passati. Abbiamo avviato per 600 alloggi vuoti, un processo per il
recupero di 400 di essi attraverso opere di media entità; gli altri 200 alloggi presentano invece
problemi più gravi tanto da richiedere interventi pesanti e dispendiosi che faranno parte di una
seconda tranche di investimenti. Ancora, sul tema della periferia non si può dimenticare il
patrimonio degli orti urbani e aree agricole. Dunque il food in relazione alla città è un tema
importante per le eccellenze agricole e gastronomiche del territorio con l'obiettivo di puntare ad una
relativa autonomia alimentare.
5. La leva importante su cui stiamo agendo per attuare questo nuovo governo del territorio è la
revisione generale del Piano Regolatore Generale. Il piano del 1995 nasceva in un momento assai
diverso da quello che oggi viviamo e metteva in gioco grandi aree di trasformazione su cui la
proprietà ha avuto ampie possibilità per decidere cosa realizzare. I suoi esiti sono stati sbilanciati a
favore dell'interesse privato, a fronte di una città che passava dall'essere company town, a una fase
di deindustrializzazione accelerata, con la chiusura, nel giro di pochi anni, delle fabbriche più
importanti: dalla FIAT Lingotto alla Michelin, dalla Paracchi alla Westinghouse, dalla Nebiolo alla
Incet, per citare solo le più note. A fine anni Ottanta Torino era sull'orlo di una crisi sociale ed
economica molto severa, cosicché non me sento di condannare la strategia di un piano che ha fatto
della trasformazione delle aree industriali abbandonate un elemento motore che, se non ha risolto
definitivamente i problemi di disoccupazione, quanto meno li ha tamponati. Torino in questi
vent'anni è passata dall'essere città dell'automobile a una città in cui vivono centomila studenti
universitari, in cui sorgono musei straordinari forse unici nel mondo, con un importante paesaggio
urbano storico valorizzato dalle sue relazioni visive della montagna e del fiume; una città che ha
mantenuto un alto livello di ricerca e di innovazione, in particolare nei settori dell'automobile,
dell'aerospaziale, del biomedicale: ricchezze che oggi sono vitali per la città. Questa sinergia fra
aspetti produttivi, ricerca tecnologica scientifica offerta culturale è un elemento di forza su cui
puntare per evitare quel tracollo che qualcuno aveva ritenuto prossimo. Da qui occorre ripartire per
la revisione del PRG. Sarebbe stato forse più utile redigere un nuovo piano, ma sappiamo che i costi
della progettazione i tempi dell'approvazione sono tali da sconsigliare questa scelta. Verrà operata
una "manutenzione" del PRG orientata alla riduzione del consumo di suolo, al mantenimento delle
aree produttive, all'attrazione di capitali che propongano attività non semplicemente legate alla
cultura o all'industria del divertimento, ma al ripensamento dei criteri commerciali e alla riduzione
delle quantità previste, senza ridurre i servizi e le presenze culturali, storiche e identitarie della città
e dei quartieri. Occorre ripensare anche ai quattro milioni di metri quadrati per i quali il piano
prevede la trasformazione, ma di cui non si può più ipotizzare semplicemente la demolizione
dell'esistente e l'insediamento di funzioni residenziali e commerciali. Per contro, a Torino c'è una
tradizione di mercati all'aperto e mercati di quartiere; tuttavia queste realtà, se non adeguatamente
sostenute, entrano in sofferenza nel rapporto con la grande distribuzione. Ci sono quartieri dove la
cosiddetta movida è un elemento problematico, che crea conflitti tra diversi settori di popolazione,
ma che ha frenato alcuni fattori di crisi aiutando il piccolo commercio (come residence e di ostelli).
Quindi temi sono tanti e forse la semplice revisione di un piano non potrà essere in grado di
risolverli per intero, ma è una sfida che intendiamo portare fino in fondo.
6. Intendo concludere sottolineando l’impegno per la formazione di una visione strategica rivolta
al futuro. Torino è stata interessata da tre Piani Strategici. Soprattutto il primo (2000) ha preso atto
della trasformazione epocale della città e ha individuato coinvolgendo ampi settori della città, le
priorità sulle quali puntare: cultura, ricerca scientifica, paesaggio, ambiente. Occorre riprendere
quell’impostazione, perché i Piani successivi sono stati sviluppati un po' sull'onda "modaiola, per
definire tematiche più astratte. Su questa strada saremo supportati dall'Urban Center che lavorerà
sulla partecipazione dei cittadini alla revisione del piano, aprendo il dibattito sulle trasformazioni
urbane e centrando l'attenzione su un punto assai rilevante che riguarda l'uso dei "beni comuni".
Voglio portare solo due esempi per fare intendere di cosa si tratta. Il primo, riguarda il Palazzo del
Lavoro di Nervi per celebrare i cento anni dell'Unità d'Italia: è un edificio che ha vissuto un lungo
periodo di semi-abbandono e recentemente è stato privatizzato. La prima proposta riguardava un
grande centro commerciale, con alcuni requisiti di sostenibilità. Il modello commerciale pensato
inizialmente è stato sostituito da una "galleria commerciale", con negozi che si affacciano, su una
sorta di grande piazza coperta, una parte della superficie verrà adibita a Museo della Scienza, della
Tecnica e dell'Industria. Il secondo esempio riguarda la Cavallerizza. Anch’esso ha una storia assai
problematica. Questo monumento, facente parte dei siti classificati dall'Unesco ha dunque rischiato
la totale privatizzazione e destinazione a residenze di lusso. L'occupazione da parte di un gruppo di
artisti e intellettuali che ne rivendicano il ritorno in mano pubblica ha stimolato la nostra
amministrazione ad elaborare un progetto per farne un centro internazionale delle arti, della cultura
per i giovani, ma non abbiamo le risorse per attivarlo. I due esempi dimostrano che è venuta meno
in passato la sensibilità e l'attenzione per i beni pubblici, per i "beni comuni”, il cui abbandono
provoca degrado e iniziative private che rischiano di perderne il significato e le potenzialità
profonde come ricchezze collettive e orientate alla crescita civile della società. Forse proprio a
partire da una nuova gestione collettiva e partecipata dei beni comuni sarà possibile progettare la
riqualificazione della città presente e quella futura, più sostenibile e più inclusiva.

Firenze. Esiti della riqualificazione dell'area di Novoli


di Scilla Cuccaro
Novoli e la piana fiorentina: un rapporto controverso
Gli argomenti centrali di tutto il dibattito intercorso dai primi tentativi di piani del dopoguerra fino
agli anni Sessanta erano rivolti alla tutela del centro storico di Firenze e alla difesa della collina, al
decentramento dei servizi e alla formazione dello spazio periferico verso la piana, l'unica parte sulla
quale si poteva indirizzare l'espansione della città.
Lo scenario rappresentato dal piano Detti, porta ad una riorganizzazione complessiva dello sviluppo
della città: ogni parte viene ad assumere un ruolo specifico (aree residenziali, aree produttive, aree
verdi) con l'obiettivo prioritario e necessario del "decentramento" delle funzioni. É un cambiamento
epocale che però tralascia e non valorizza quelle zone periferiche cresciute "spontaneamente" come
aree industriali o di espansione residenziale e che si troveranno ad essere quasi dimenticate dai
propositi di sviluppo: è il caso di Novoli, un'ampia zona che si affaccia verso la piana già con
destinazione ad "area industriale". Novoli è stata considerata, sia per la sua posizione verso la piana,
il "naturale bacino" dell'espansione urbana delle città, sia per la vicinanza con la città stessa, da
sempre area a destinazione industriale e zona dedicata alle abitazioni per gli operai delle fabbriche.
In quell'area si insediarono la FIAT decise di trasferire a Novoli la sua produzione aeronautica e la
Carapelli, nota azienda olearia, che impiantò il suo stabilimento. L'area di Novoli è una zona
"trascurata” e abbandonata ad uno sviluppo caotico e confuso che renderà la meno appetibile ed
esclusa da ogni relazione e contatto fra la città e la pianura aperta. L'area industriale della FIAT a
Novoli aveva subito nel tempo una riconversione, proiettandosi verso attività manifatturiere di altro
genere e negli agli anni Settanta risulterà idonea ad accogliere nuovi insediamenti con un ulteriore
ampliamento intorno. Quest'area, dopo essere stata considerata per anni più come area di “raccolta”
di emergenze urbanistiche piuttosto che come area da recuperare e riqualificare in "una visione più
ampia" della città. Nel 1985 Novoli viene individuata come un'area destinata a subire una radicale
riqualificazione e ad ospitare, tra l'altro, il nuovo Palazzo di Giustizia. L'insieme del progetto è
ambizioso: si richiede una forte idea d'integrazione tra il parco urbano, i nuovi edifici e la città.
Bruno Zevi sarà incaricato dall'amministrazione comunale di sovrintendere alla redazione del piano
particolareggiato di Novoli e della variante al PRG. Per questa sfida Zevi invita moltissimi
architetti, urbanisti e paesaggisti che né la parte destra dell’Arno e ne Novoli, (zone diverse che
richiedono interventi diversi), si impegneranno per definire lo sviluppo di una vasta zona ma con
l'intento di "distinguerla” da quella della città consolidata. Nel corso di tre anni vengono organizzati
diversi seminari e si giunge al disegno definitivo del piano. Zevi alla fine se ne dissocia criticando
aspramente i risultati conseguiti. Dopo i tre lunghi e appassionati workshop, con la partecipazione
dei più famosi architetti dell'epoca, l'intero progetto viene "bloccato e gettato via". La nuova
amministrazione comunale vuole terminare il piano e chiama a coordinarlo l'architetto Vittorini che
realizza una "Variante di tutela" che lascerà in sospeso la parte quantitativa dell'area che sarà decisa
solo nel 1993.
Novoli, da periferia a città
Nel periodo "zeviano" si prospettava un lavoro a grande scala di trasformazione di parte della piana
in un progetto che univa FIAT proprietà Fondiaria e nel quale il Parco diventava elemento centrale
del piano di recupero dell'area FIAT. Il progetto, però, viene bloccato e si ricomincia tutto da zero,
cambia quadro politico, arrivano i Verdi, che non "digerivano" la visione urbanistica di Zevi. Il
"verde" Giannozzo Pucci diventa presidente della commissione urbanistica e chiama Léon Krier a
redigere un "piano guida” per l'intera area. L’obiettivo è definire un metodo una disciplina "al fine
di riformare la periferia". Sull'area erano già state compiute elaborazioni progettuali orientate al
modello dei "centri direzionali" di matrice anglo-americana e Krier si ispira a queste: mantiene al
centro della scena la "grande cattedrale" del Palazzo di Giustizia" già progettato e organizza,
intorno a questa, un quartiere completamente pedonale, strade strette e tortuose, piazze "a misura
d'uomo" e un grande parco con parcheggi pubblici e privati collocati nel sottosuolo. É un progetto
"antimodernista" che cerca di affrontare un dialogo con la città consolidata con un percorso in cui la
residenza accetta di mescolarsi con altre funzioni, non ci sono blocchi isolati ma si stabilisce un
rapporto di condivisione degli stessi spazi in cui, nelle strade e nelle piazze, le auto non sono
ammesse. Oramai, l'area di Novoli è destinata ad assumere il ruolo di "fulcro di una nuova centralità
urbana" In questa convenzione si definiscono gli interventi infrastrutturali e di urbanizzazione a
carico del pubblico e del privato. Si riprendono i progetti elaborati e alcuni lotti vengono assegnati
ad altri professionisti. Nell'estate del 2001, Aimaro Isola suggerisce alla proprietà di affidare ad
alcuni giovani architetti italiani il compito di realizzare i corpi di fabbrica che dovranno sorgere
nell'area ad ovest. Nel giro di pochi anni il cantiere di Novoli sfornerà una cittadella universitaria e
un variegato quartiere che "dialogherà con il residenziale e con il commerciale", un grande parco di
quartiere e un variopinto centro polifunzionale, "cuore" delle attività ludiche, commerciali e
sportive di tutto il quartiere.
Novoli, da riqualificazione a rigenerazione
A Firenze si avverte, più che in altre città, un salto qualitativo molto netto tra l'organizzazione
urbana del centro storico e quella della periferia "moderna". I programmi di promozione urbana
avviati a Firenze dagli anni Ottanta in poi hanno cercato di "spostare" il peso di funzioni specifiche
verso la periferia con l'obiettivo di un rallentamento progressivo della pressione sul centro.
Questa "rigenerazione" funzionale ha riguardato soprattutto Novoli, una periferia già consolidata
nella quale manca del tutto la ricerca di integrazione fra le parti, e nella quale risultano essere
dissonanti tra loro non solo gli edifici, ma anche le recinzioni, le pavimentazioni stradali, le
alberature, i marciapiedi. Per circa venti anni si è cercato di porre rimedio attraverso una
progressiva riqualificazione dell'area. I piani comunali hanno cercato di attenuare il distacco tra la
città storica e questa periferia cosi "imperfetta" attraverso interventi che creassero un nuovo centro
in grado di dialogare con la città storica. La storia di Novoli è esemplare per leggere questi
"intenti", perseguiti anche tenacemente, sia dal pubblico che dal privato, con obiettivi di grande
spessore culturale e ambientale, ma che purtroppo non hanno dato i risultati auspicati. Pur avendo
tutti gli elementi necessari per essere il "volano" del rinnovamento in un rapporto così stretto con la
città storica, il progetto complessivo dell'area, tuttavia, rimane un episodio concluso e circoscritto
all'interno del perimetro assegnato. Diversi sono gli aspetti che hanno limitato gli effetti positivi
della riqualificazione dell'area: i conflitti nel processo decisionale per le funzioni da insediare e
soprattutto il succedersi di amministrazioni diverse che hanno anche rimesso in discussione scelte
consolidate da quelle precedenti. Tuttavia, il processo di trasformazione è andato con una
disomogeneità nei tempi e nei modi che limita gli "effetti" di riqualificazione dell'area di intervento.
Nel disegno urbanistico definito dal piano Krier si riprogetta completamente la distribuzione delle
nuove funzioni e si riconfigura il nuovo quartiere, rispettando nelle "forme" urbane un'ispirazione al
tessuto medievale. In realtà si è creato un quartiere "introverso" che si chiude rispetto al tessuto
urbano e non presenta, al suo interno, episodi in cui ciascuna delle nuove architetture possa
diventare il protagonista di un tratto di strada, o elemento qualificante di una piazza. Anche il centro
"polivalente", collocato tra il polo universitario e la vecchia centrale termica, ha subito la
sospensione dei lavori e quindi ritardi nella sua realizzazione definitiva. L'edificio costituisce una
corte ellittica articolata su tre livelli distribuisce attività commerciali, un multisala e luoghi dedicati
al fitness, ed è avvolta da un grande muro che ne segna gli accessi e le aperture. Edificio che ha
assunto una caratteristica introversa" e sarà la sua piazza interna a relazionarsi con le varie funzioni
e i servizi. La sua eccezionalità sta nell'essere collocato vicino ad un tessuto urbano già consolidato
e è frequentato anche nelle ore serali e quindi protetto da un pericoloso isolamento1o. Se il parco
doveva essere una centralità che "interagiva" con la parte consolidata e con quella del nuovo
quartiere, il verde doveva compenetrarsi nell'urbano, ma questo non si è realizzato. Bisogna
precisare che il lento decollo dell'intervento di recupero dell'area è stato ostacolato anche dalla
lunga carenza di efficaci collegamenti con il centro della città e la nuova tramvia, che passerà lungo
la via di Novoli, si spera possa dare un'adeguata risposta alla nuova mobilità cittadina indirizzata
verso la nuova area e decongestionare il traffico verso il centro storico. Novoli, così come era stato
definito nella relazione del piano, può "costituire le premesse per una successiva propagazione di
dinamiche evolutive nelle zone adiacenti e, teoricamente, Novoli “investita” completamente nel
ruolo di "motore dinamico" per tutta l'area nord-ovest, ha tentato di perseguire questi obiettivi, di
cogliere questa opportunità, soprattutto attraverso le nuove funzioni dell'area. Forse la visione
troppo ristretta del progetto architettonico come elemento risolutore di contraddizioni e
problematiche apparentemente insanabili, insieme alla mancanza di coordinamento nei tempi di
realizzazione, ha certamente rallentato l'integrazione dell'area nelle dinamiche di sviluppo della
città. Questa periferia ha subito varie trasformazioni, dalle fabbriche e gli alloggi operai, fino a
giungere ad un nuovo tessuto socio-economico urbano più attraente. La rigenerazione urbana deve
partire dal riscontrare nella periferia, che accoglie queste nuove funzioni, un sistema di
comunicazione e sensibilizzazione tra i residenti e le parti pubbliche che conduca entrambi a
riflettere sul senso del "bene pubblico", una "partecipazione" volta alla gestione delle criticità e a un
miglioramento della vita nel quartiere e delle relazioni con il centro della città, ma anche punto di
forza dell'amministrazione comunale nel confronto con gli interessi privati che insistono sul
territorio.
Bologna. Dal piano alla città e ritorno: per una qualità urbana diffusa
di Francesco Evangelisti
Il tema della Scuola di Governo del Territorio 2017 è "Qualificare le città, rigenerare le periferie";
questi sono termini importanti, ma utilizzati in maniere molto diverse. Le periferie vengono intese
come luoghi/condizioni da riprogettare, per riaffermare l'importanza della dimensione collettiva
della città, utilizzando nuovi strumenti concettuali e tecnici. L'obiettivo di questo contributo è
quindi quello di presentare un'esperienza concreta di governo della città.
Un'idea di qualità urbana
Gli strumenti di governo del territorio comunale approvati nel 2008- 2009, quindi Piano Strutturale
Comunale (PSC) Piano Operativo Comunale (POC) e Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE),
lavorano sul tema della qualità urbana da differenti punti di vista:
-nel PSC è tracciato un disegno complessivo della ristrutturazione urbana a venire, che fa
riferimento a una nuova immagine della città e che quindi comporta in maniera esplicita e implicita
la proposta di una declinazione del concetto di qualità urbana
-i POC producono il salto di scala necessario tra la visione strategica e la concretezza delle
trasformazioni progettate, finalizzandole alla produzione di spazi che siano caratterizzati dalla
qualità
-il RUE detta regole per la qualità delle trasformazioni, dei materiali, dei processi, traguardando
principalmente gli interventi realizzabili in maniera diretta, non mediati da successivi livelli di
precisazione progettuale. L'insieme di queste indicazioni restituisce l'immagine e l'idea di una città a
due velocità/dimensioni: quella delle trasformazioni più grandi e rilevanti che guardano "oltre i
confini" e quella della città quotidiana, abitabile dai cittadini che la animano.
Cittadinanza (attiva)
Nel 2014 il Comune di Bologna ha approvato il Regolamento sulle forme di collaborazione tra
cittadini e amministrazione. L'idea di questa operazione è quella della condivisione della
responsabilità nella cura del territorio, un rapporto di impegno reciproco. I "patti" coprono un'ampia
tipologia di interventi. La città "rigenerata" è quindi quella curata, bella, pulita, adatta alle esigenze
relazionali di una popolazione che cambia.
Un "piano per l'innovazione urbana".
L'amministrazione eletta nel 2016 ha avviato da subito un percorso di carattere progettuale che ha
l'obiettivo di raccordare le scelte e i progetti dell'amministrazione con le potenzialità e le reti che
nascono dall'impegno diretto dei cittadini ben esemplificato dalla prima stagione dei "patti di
collaborazione". Gli assi progettuali individuati derivano da un'idea di "immaginazione civica.
Questo piano nel suo insieme ha l'ambizione di costituire un tessuto connettivo di queste
trasformazioni, altrimenti destinate ad avere esiti puntuali e parziali, riqualificando il patrimonio
pubblico come opportunità di sviluppo della comunità, affidando un nuovo ruolo ai Quartieri e
affidando all'ufficio "per l'immaginazione civica" la regia complessiva delle azioni. I Laboratori di
Quartiere sono lo strumento progettato per mappare, ascoltare e consultare, permettere la
partecipazione e la coprogettazione con i cittadini, vero e proprio "strumento attuativo" del piano.
Attraverso I Laboratori si è potuta proporre e realizzare una prima esperienza coprogettazione sul
nuovo bilancio partecipativo, che ha finanziato un progetto per ognuno dei sei quartieri, scelto dai
cittadini con il voto on line. I grandi problemi dell'inquinamento non possono essere disgiunti da
quelli dell'efficienza del sistema infrastrutturale, in un quadro in cui le reti verdi e blu sostengano le
caratteristiche di resilienza della città. La nuova legge urbanistica regionale appena approvata,
individua nella Strategia per la qualità urbana e per lo sviluppo sostenibile, un campo d'azione
decisivo per il nuovo piano urbanistico generale: all'interno di questo le istanze volte al
rafforzamento della dimensione collettiva della città e alla costante attenzione al ridisegno della
città pubblica dovranno necessariamente integrarsi alle politiche per la resilienza urbana per
produrre un nuovo piano adeguato alle sfide della città-ambiente.

Reggio Emilia. II riuso della città


di Andrea Rinaldi ed Elisa lori
La condizione attuale ci dice che la tecnologia dell'informazione ha portato enormi cambiamenti
negli ultimi decenni. Anche l'urbanistica ha le sue responsabilità: l'eccessiva pianificazione del
territorio al costante inseguimento della rendita fondiaria, ha generato conurbazioni di luoghi
disfunzionali e sempre più lontani dal quel senso di comunità che ha strutturato i quartieri storici
delle città italiane. Diviene necessario rivedere con umiltà e intelligenza il nostro modo di
progettare la città. Il riuso temporaneo non va confuso con il restauro, né con la riqualificazione o il
recupero che hanno come obiettivo un intervento a lungo termine. Il riuso temporaneo è un nuovo
ciclo di vita di un edificio, una terra di mezzo vecchi e nuovi usi, in attesa di risorse economiche
che permettano di agire in modo definitivo, che consente di rigenerare porzioni di città dimenticate,
recuperare spazi, riattivare processi economici. Ma può originare anche dei rischi come il pericolo
che il riuso temporaneo venga strumentalizzato dalle istituzioni e altro rischio, il peggiore, l'assenza
di idee e di una metodologia di progetto rischia di generare spazi inospitali o inadeguati.
Con una manifestazione di interesse pubblico, a Reggio Emilia, sono stati individuati sia gli edifici
privati sia i possibili riutilizzatori. É stato attivato un workshop di progettazione che coinvolgesse
gli ordini e i collegi tecnici di Reggio Emilia. Provare a generare spazi ad alta qualità di vita a costi
limitati era l'obiettivo principale del workshop. Il risultato è stato quello di progetti semplici, esatti,
costruiti in parte con tecniche realizzabili in autocostruzione. Qualità e costo sono i temi principali
di un progetto per il riuso temporaneo, condizionati da una serie di fattori quali la durata prevista, il
programma di riuso, lo stato di manutenzione dello spazio, oltre che, dagli attori del processo. Un
approccio che parte dal principio che ogni cosa è temporanea, ma le sue conseguenze sullo spazio
urbano circostante, sono permanenti. Il ciclo di prestazione dei prodotti deve essere definito
circolare, dove dalla materia prima si passa al prodotto, al suo uso e in ultimo al suo riuso,
generando nel corso del processo una quantità di rifiuto irrisoria. Abbiamo bisogno di pensare il
progetto della città come una progettazione rigenerativa. Concepire il progetto della città e
dell'architettura come dialogo critico con le condizioni al contorno e non come disciplina isolata o
"incessante novità senza necessità". Nel riuso non si progettano oggetti, che sono già disponibili,
ma nuove relazioni che l'oggetto è in grado di produrre.
Cambiare il modo di vedere le cose
Come architetti possiamo fare molto di più che costruire, possiamo cambiare le cose. La semplicità,
molto diversa dalla semplificazione o dall’appiattimento, è un modo per invitare a restituire
necessità ed essenzialità al mestiere dell'architetto e renderlo meno esercizio decorativo o
rappresentativo. II concetto di semplicità dal latino: Piegato una sola volta. É raro che le cose siano
effettivamente semplici come sembrano, soprattutto oggi dove il troppo è diventato normale e il
senso della misura e dei limiti qualcosa di arcaico. Ridurre il superfluo, usare di meno per ottenere
di più, è un principio etico (oltre che economico) a ogni livello di vita. Ridurre significa lavorare sul
concetto di minimo, significa concentrare la percezione sulle cose gerarchicamente più importanti
incorporando le altre, significa evitare di mostrare ciò che non è utile al raggiungimento
dell'obiettivo. Semplice in questo caso è il contrario di eccessivo: corrisponde all'idea di un ordine
ragionato, di limite.
Servire a uno scopo
Per riscoprire l'utilità di un progetto di architettura e necessario partire dal perché lo facciamo e
riuscire a rispondere a questa domanda in modo esatto. La crisi dell’energia e i cambiamenti
climatici degli ultimi anni ci hanno fatto capire che la qualità di vita dipende molto di più
dall'energia e dal le risorse disponibili di ciò che credevamo in passato. Ricerca dell'esattezza vuol
dire, in questo caso, coniugare l'efficacia del progetto con l'efficienza delle condizioni tecniche.
Definire e scegliere ciò che è utile e ciò che è inutile al risultato finale e riuscire a costruirlo in
modo efficiente.
Innovare nel progetto
Costruire significa anche dare un ordine tecnico alle cose, sperimentare nuove tecnologie e
metodologie costruttive, forzare i limiti della conoscenza per ampliarli e innovarli. Nel frattempo la
tecnologia ha compiuto passi da gigante. La tecnica deve riappropriarsi del suo ruolo per rafforzare
i concetti di contemporaneo, di durata, di adattabilità e flessibilità. Una progettazione per strati ha
un carattere semplice e immediato ed è concepita per durare ed essere reversibile nel tempo, è
flessibile perché capace di adattarsi ai diversi mezzi esistenti, è coerente perché crea un senso di
appartenenza e di riconoscibilità, è chiara perché nota a tutti gli attori coinvolti. Ogni strato ha una
sua funzione, una sua durata nel tempo, una sua incidenza economica. Da questi principi deve
passare una nuova metodologia di progetto per il riuso della città: usare il passato per ricostruire il
presente guardando al futuro.

Mantova. La città è una grande opera


di Lorenza Baroncelli
Oggi, nonostante gli avanzamenti tecnologici che rendono possibile ciò che sarebbe stato
inconcepibile secoli fa, siamo abituati a parlare del nostro patrimonio edilizio unicamente in ambito
di proteste, scandali, corruzione, o per lamentarci del degrado, dello sgretolamento delle strutture,
degli scheletri abbandonati.
Il simbolo per eccellenza di quello che sta accadendo oggi è la Maison Domino, ossia il sistema
costruttivo che per la prima volta utilizzò il calcestruzzo armato nell'edilizia. Fu progettata da Le
Corbusier e si passò da un sistema molto rigido, composto da pareti portanti, a un sistema molto
flessibile, composto da solai e pilastri. Quel sistema costruttivo si è affermato via via in Europa
meridionale. Oggi quel sistema rappresenta il simbolo del boom economico degli anni Sessanta, ma
anche l'emblema dell’abusivismo" che divora le nostre coste aree suburbane.
La Maison Domino è passata da simbolo di democrazia, flessibilità, innovazione, ricchezza, a luogo
di concentrazione di povertà, degrado, abbandono, spaccio, prostituzione, malavita organizzata.
L'incompiuto: lo stile architettonico del Mediterraneo
Oggi ci troviamo ad affrontare un vero e proprio "sistema di opere incompiute": migliaia di edifici
pubblici e privati, costruiti in calcestruzzo armato, iniziati e mai conclusi. Una delle cause dipende
dall'industrializzazione tardiva dei paesi del Mediterraneo. A Roma la tutela dei beni monumentali
impone la generazione di nuovi spazi per soddisfare nuove funzioni che affacciano nella società.
Nei sistemi caratterizzati da un importante patrimonio monumentale e con organi di tutela molto
rigidi è, ancora, economicamente più conveniente lasciare un edificio abbandonato piuttosto che
rigenerarlo. Sebbene oggi si stiano avviando processi revisione, o ristesura, degli strumenti di
governo del territorio, che contengano misure sul consumo di suolo e la rigenerazione urbana,
queste misure non hanno ancora la capacità di sradicare il "sistema Mediterraneo delle opere
incompiute"
Mantova e la demineralizzazione urbana
Quello che è stato avviato a Mantova è un vero e proprio processo di demineralizzazione" urbana",
che interessa interventi di “demineralizzazione” e rigenerazione del patrimonio edilizio esistente ma
anche di revisione degli strumenti di governo del territorio. Ovviamente i tre approcci
(rigenerazione, demolizione, legislazione) sono legati in un unico processo, ma per semplicità
narrativa li racconterò attraverso tre progetti: quello di Mantova Hub, che rappresenta un tipico
esempio di rigenerazione urbana; Ponte Rosso, che racconta un primo esperimento di
decementificazione; e Colle Aperto, che descrive un tentativo di interpretare in forma innovativa
l'applicazione degli strumenti urbanistici.
Mantova Hub: rigenerazione urbana
Nel 2016, il Comune di Mantova ha aderito al bando del governo sulla rigenerazione delle periferie
con un progetto intitolato Mantova. Mantova è stata una delle poche ad aver candidato un progetto
organico e non una serie di interventi spezzettati già inseriti nel piano triennale delle opere
pubbliche. In un'era in cui le città stanno attraversando una fase di rarefazione della domanda,
trovare una funzione nuova, capace di rilanciare una città in un contesto europeo, è fondamentale
per far diventare un etto di rigenerazione urbana un processo di successo. Quello che oggi è
diventato fondamentale per il pubblico è la capacità di generare la domanda più che trovare le
risorse per dare risposte. Intuire che a Mantova possa esserci terreno fertile per creare la prima
scuola di specializzazione in Europa sulla neurobiologia applicata all'urbanistica permetterà di
rifunzionalizzare un'area periferica della città e di rilanciare l'economia urbana nel suo complesso.
Ponte Rosso e la decementificazione
Una periferia urbana agghiacciante: speculazioni. Per metà l'area di Ponte Rosso è residenziale, uno
dei peggiori esercizi di architettura degli anni Novanta, e per il resto è occupata da due padiglioni
abbandonati con destinazione commerciale. Due scheletri mai terminati perché la società è fallita..
Attraverso un complesso processo di interpretazione e revisione del PGT, l'amministrazione
comunale di Mantova ha deciso di utilizzare i soldi della fideiussione per risolvere i problemi reali
più che rispettare delle previsioni erronee. In particolare, è stato escluso qualsiasi tipo di intervento
destinato ai capannoni commerciali attraverso una variazione del PGT approvata dal Consiglio
Comunale. É stato quindi rimosso l'asfalto del parcheggio (un altro) per costruire un parco lineare,
illuminato e con le telecamere, garantendo, cosi, un diaframma di sicurezza che dividesse la strada
dalla ferrovia. Più abitanti ci sono lì, più c'è controllo sociale, cura del territorio e più diminuisce la
delinquenza. Oggi rispettare la legge avrebbe significato aumentare il degrado e la desolazione. Se
una cosa è inutile va eliminata, bisogna restituire suolo permeabile, superfici libere da funzioni.
Bisogna cominciare a considerare il verde come un valore sociale anche se non ha valore
economico. Dopo 10 anni la società falli e fu comprata all'asta da una agenzia immobiliare. La
proprietà qualche anno fa chiese il cambio di destinazione d'uso dell'area che divenne residenziale,
operazione che portò a scarsi risultati visto che nella città non c'è mercato. Il problema è che sono
almeno vent'anni che gli abitanti di Colle Aperto convivono con il degrado generato da quel
monumento dell'abbandono ma non esistono procedure ammissibili per risolverlo: il privato è
fallito, non ha soldi, e non può far altro che aspettare che qualcosa cambi nel mercato immobiliare e
qualcuno si decida a comprarlo. Allo stesso tempo, qualunque quantità di denaro che
l'amministrazione dovesse spendere per risolvere la situazione sarebbe passibile di danno erariale.
Sebbene non sia legalmente ammissibile, l'unico modo risarcirà i cittadini le quella situazione,
sarebbe comparare il costo urbanistico con il costo sociale.
La città è una grande opera
Per cambiare, una città si deve rigenerare. Rigenerare significa "fare città", partendo dal tessuto
urbano esistente. Significa non limitarsi all'urbanistica, ma occuparsi anche di cultura, innovazione,
welfare, educazione. Significa restituire all'amministrazione un ruolo nel processo di negoziazione.
Significa non solo costruire un edificio, ma soprattutto garantirne la gestione economica, sociale e
funzionale a medio e lungo termine. Significa sviluppare una visione strategica basata sugli interessi
della collettività, sulla valorizzazione del patrimonio comune, sulla sostenibilità. Significa
partecipare a bandi regionali, nazionali ed europei. Significa ricominciare a progettare la bellezza.
Parma. Le Società di Trasformazione Urbana
di Isabella Tagliavini
Per comprendere se le Società di Trasformazione Urbana (STU) servono ancora, credo sia
importante in primo luogo delinearne succintamente le origini e le caratteristiche.
Le STU nella situazione italiana
L'innovazione normativa che ha introdotto tale tipo societario risale al 1997, ed è contenuta nella
legge n. 127. L'oggetto sociale, implicitamente, conteneva anche la collocazione sul mercato
immobiliare ovvero la commercializzazione di quanto realizzato. Tale disposizione è stata poi
integralmente recepita nell'articolo 120 del nuovo Testo Unico degli enti locali..Il dato saliente è
che viene sancita e resa corrente la compartecipazione del capitale privato per i grandi progetti di
rinnovo e riqualificazione urbana di matrice pubblica. Le
STU sono "società di scopo" a cui si può ricorrere quando si vogliano realizzare interventi di
riqualificazione urbana particolarmente complessi. Le STU sostanzialmente curano le seguenti
attività:
a) acquisizione preliminare delle aree di intervento
b) progettazione di varia scala degli interventi
c) costruzione/realizzazione degli interventi
d) collocazione sul mercato immobiliare di tutto o parte delle volumetrie realizzate.
In definitiva non c'è dubbio che la STU sia uno strumento notevolmente innovativo rispetto ai
tradizionali percorsi amministrativi dell'edilizia, specificamente su tre aspetti:
1. l'individuazione da parte dell'ente locale di un obiettivo ritenuto strategico per la collettività
amministrata, ma al contempo non facilmente raggiungibile con risorse autonome;
2. L’acquisita consapevolezza che per il raggiungimento di tali obiettivi può risultare indispensabile
il concorso dei privati;
3. il superamento di ogni pregiudiziale, non solo ideologica, al riconoscimento di un concreto
vantaggio per i privati che sono chiamati a realizzare anche l'obiettivo pubblico.
In molti casi la STU è stata richiesta per finalità improprie, senza sfruttare le potenzialità di
innovazione nelle modalità di intervento, o semplicemente per accelerare interventi ordinari.
Il caso di Parma
Il caso di Parma si segnala perché unico comune in Italia ad aver dato vita contestualmente a ben tre
STU:
- la STU "Authority", per la nuova sede dell'Autorità Europea per la Sicuezza Alimentare;
- la STU "Area Stazione", per la nuova stazione ferroviaria;
- la STU "Pasubio per la riqualificazione di un'area di archeologia industriale.
C'era un disegno di riqualificazione urbana forte e ambizioso dietro questa scelta: quello cioè di
riattivare tutta una fascia di brown fields per riconnettere zone urbane rimaste marginali e
degradate. I tre comparti, infatti, sono tutti posti lungo l'arco a nord del centro storico a ridosso
dell'asse ferroviario. il caso di Parma è un esempio delle tante criticità del modello STU:
1. aspetti finanziari
- l'investimento iniziale ha creato velocemente situazioni di tensione finanziaria che hanno quasi
immediatamente rallentato le attività;
- la rilevanza degli oneri finanziari si è rivelata del tutto sottovalutata in fase di pianificazione
preliminare degli interventi;
2. aspetti immobiliari
- la scelta di dar vita a tre interventi di riqualificazione urbana contigui ha però creato una
concorrenza esasperata, abbattendo di fatto i valori di redditività attribuibili agli interventi
immobiliari e allontanando cosi l'interesse del capitale privato;
- la lentezza dei tempi operativi mal si è coniugata con i ritmi di un mercato immobiliare quanto mai
volatile;
- le stesse scelte progettuali, quasi sempre declinate dal preliminare urbanistico fino all'esecutivo
architettonico dai medesimi progettisti, si sono rivelate scarsamente attente alle richieste del
mercato immobiliare.
3. aspetti di competenza
- la complessità dei tre progetti avrebbero presupposto un team gestionale dotato di competenze
diverse. Ma non fu così. Questo è stato particolarmente evidente per l'aspetto della pianificazione e
gestione finanziaria delle tre operazioni;
- la scarsa consapevolezza da parte di chi interloquiva con le tre STU circa il ruolo esatto di queste
ultime, ha penalizzato moltissimo i tempi delle iniziative.
Considerazioni conclusive
L'istituto delle STU ha solo vent'anni; sembra dunque troppo presto per definirlo inutile o superato.
É invece rilevante sottolineare come esso sia stato solo parzialmente studiato e dunque oggi manchi
alla disciplina urbanistica una disamina critica ed obiettiva di quanto attuato. Volendo comunque
trarre un primo bilancio, si possono evidenziare alcuni temi:
- In particolare, non sempre le aree prescelte e i progetti di riqualificazione messi a punto
possedevano caratteristiche tali da generare attrazione da parte di possibili investitori;
- il nodo finanziario si evidenzia particolarmente cruciale, laddove troppe iniziative ambiziose sono
state avviate con una disponibilità di investimenti di partenza assolutamente inadeguata;
- l'assoluta rilevanza rivestita dai ruoli e le competenze impiegate per dar vita ad interventi così
rilevanti. Spesso le strutture tecniche comunali si sono limitate a togliersi la casacca del "settore
lavori pubblici" per indossare quella di ufficio STU", migrando procedure, comportamenti, approcci
ai problemi. L'aspetto più rilevante che la legittimazione della collaborazione privato avrebbe
invece dovuto portare con sé riguardava l'implementazione di modelli gestionali e organizzativi a
forte impronta privatistica, ovvero la chiara definizione di organigrammi e modalità decisionali, il
controllo dei tempi, la pianificazione dei costi. Messe in evidenza le tante inadeguatezze, vorrei
però anche ricordare la capacità che il nuovo strumento ha avuto nel portare le amministrazioni
pubbliche su un piano progettuale più alto e ambizioso rispetto alla consueta gestione urbanistica,
ha costituito una suggestione potentissima per guardare alle città con occhi innovativi, capaci di
concepire progetti anche di grande complessità, ma di straordinario significato urbano e sociale.
Non sono dunque superate le STU; che anzi potrebbero vedere applicazioni nuove: dalla
ricostruzione delle zone terremotate alla riqualificazione delle aree ambientali compromesse.
Occorre però avere la capacità di trarre un bilancio analitico di quanto. Ma occorre farlo in fretta;
altrimenti davvero tra qualche tempo le STU saranno definitivamente superate.

DOSSIER
Report della commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato
di degrado delle città e delle loro periferie (2017)
Intervenire sulle periferie come strategia nazionale
Le periferie urbane non sono più definibili semplicemente come ambiti lontani dal nucleo storico
della città o come polarità opposta alle aree centrali, ma come una condizione trasversale che
riguarda l'espansione fisica delle città, ma che comprende tutte quelle zone più densamente
popolate, dove sono riscontrabili fenomeni di degrado di marginalità, di disagio sociale, di
insicurezza e di povertà. Pertanto ogni iniziativa volta a migliorarne le condizioni dovrà collocarsi
all'incrocio fra diverse azioni, da quelle per la riqualificazione territoriale alle politiche per l'abitare,
alle politiche sociali e per la sicurezza. La strategia di fondo è quella della rigenerazione urbana,
ovvero di programmi complessi che privilegiano l'intervento in comprensori già costruiti al fine di
rendere vivibile e sostenibile lo spazio urbano, di soddisfare la domanda abitativa e di servizi, di
accrescere l’occupazione e migliorare la struttura produttiva metropolitana, di assicurare la maggior
parte della popolazione che risiede proprio nelle aree periferiche. Nelle aree periferiche sono
riscontrabili diversi fenomeni di illegalità, a partire dall'insediamento di clan della criminalità
organizzata. Le periferie rischiano inoltre di alimentare il conflitto sociale tra ceti deboli, fra italiani
impoveriti migranti senza collocazione certa. Le politiche per la sicurezza tendono a coinvolgere le
istituzioni locali offrendo il massimo della collaborazione. In definitiva, per accrescere la vivibilità
dei quartieri periferici e la sicurezza dei cittadini è opportuno integrare misure che esaltino il valore
della legalità come bene comune. Nelle periferie esistono problemi di degrado ed insicurezza, ma
alla stesso tempo le periferie sono i luoghi dove sono localizzati gran parte degli spazi produttivi e
di lavoro, dai grandi complessi per uffici ai centri logistici e industriali, alle aree di ricerca e
innovazione, ai poli commerciali, inoltre ci sono iniziative culturali che costituiscono punti di
riferimento di grande interesse per creare circuiti virtuosi di riqualificazione urbana. In questo
ambito, un progetto di politiche a favore delle aree periferiche dovrà superare un approccio
sperimentale, individuare con chiarezza le aree critiche su cui si intende operare in modo che i
soggetti destinatari dell'intervento possano costruire progetti innovativi, non sempre efficace per
raggiungere gli obiettivi voluti.
La periferia nei nuovi processi di urbanizzazione
La realtà dei territori metropolitani va esaminata con grande attenzione, in quanto si sovrappongono
situazioni di degrado. In più di un terzo dei territori metropolitani è elevata l'incidenza di giovani fra
15 e 29 anni fuori dal mercato del lavoro e fuori dalla formazione con quote più rilevanti nel
Centro-Nord che si attestano fra il 10-12 %. A delineare una condizione di marginalità territoriale
vanno, infatti, considerate le distanze relative fra le varie zone urbane in una stessa grande città. La
periferia non è più definibile come ambito urbano geograficamente lontano dal nucleo storico o
contrapposto geometricamente a un "centro", anche se non si può negare una specificità territoriale
legata all'espansione e integrazione degli spazi urbani. Le periferie di una città metropolitana
possono corrispondere a piccoli comuni trasformati in quartieri residenziali, ma anche a centri con
un'identità propria, località turistiche, importanti realtà portuali, distretti industriali ad alta
produttività, centri medi e piccoli comuni in spopolamento. Delle prime dieci aree metropolitane
più popolose d'Europa ben tre sono italiane- Milano, Roma e Napoli. A differenza di altri paesi,
tuttavia, in Italia la maggiore attrattività metropolitana non ha prodotto i fenomeni di declino della
rete delle città intermedie che, al contrario, restano un importante presidio territoriale del nostro
sistema insediativo. Anche per questo la più recente riforma istituzionale riguardante le autonomie
locali ha varato dopo decenni le Città metropolitane, come specifico livello di governo del territorio.
Bisogna considerare che una grande metropoli genera un Pil paragonabile a quello di uno Stato, e
ciò vale anche per quelle italiane. Se confrontiamo il valore assoluto del prodotto metropolitano con
i valori pro capite o con misure di produttività, emerge una diversa gerarchia basata
fondamentalmente sulla qualità del tessuto produttivo.
La realtà periferica
Secondo le valutazioni Eurostat riguardanti i livelli di urbanizzazione delle aree vaste, l' 83 % dei
cittadini metropolitani italiani vive in periferia dove è comunque presente una parte importante
dell'apparato produttivo e persino circa il 15 % delle attrazioni culturali. La crisi ha messo a dura
prova le condizioni di vita nelle periferie metropolitane. Nelle città metropolitane vanno
riconosciute le diversità, le stratificazioni e le specifiche vocazioni, per riattivare la percezione dei
luoghi riconoscendo anche "la bellezza che si nasconde nelle periferie"(Renzo Piano). Bisogna
interrogarsi su quali siano i fattori fisici, sociali e culturali d'innesco e procedere a sollevare un
interesse verso i luoghi dove si vive la quotidianità. Molto schematicamente possiamo ripartire la
"maxopoli" in almeno quattro grandi aggregati: il centro storico delle città principali, le aree
centrali, le periferie urbane (intermedie e più esterne) naturale espansione del nucleo originario e le
nuove periferie di tipo metropolitano, fuori dai confini amministrativi della città principale, che
costituiscono la più recente espansione.
Rigenerare e integrare: una strategia di intervento per le aree urbane periferiche
La rigenerazione urbana fa seguito ad un'esperienza consolidata di politiche per la riqualificazione
del patrimonio esistente. Non solo spazi funzionali ma luoghi dove recuperare la complessità dei
valori dell'oggi: da quelli estetici, alla sostenibilità energetica e ambientale, alla rispondenza ai
bisogni primari come sicurezza o sobrietà. Quello di privilegiare l'intervento nei comprensori già
costruiti è il principio che si è affermato in tutta Europa nei decenni più recenti, come meccanismo
principe per soddisfare la domanda residenziale e di servizi, per accrescere l'occupazione e il
prodotto interno metropolitano, per rendere più vivibile e sostenibile lo spazio urbano. Il processo
economico e di investimento sotteso alla rigenerazione del territorio funziona, innanzitutto, se
comporta la rimessa in circolo di complessi edilizi degradati, non utilizzati, abbandonati, attraverso
progetti di riqualificazione e ricostruzione che rispondano a un completo ridisegno dell'area
d'intervento. Quindi non si tratta di un processo statico, ma di una reinterpretazione e uno di
completo rifacimento di luoghi non più idonei all'abitare o al lavorare.
Governance, partecipazione e politiche pubbliche
Una vera e propria stagione di rinascita per le città investite da ampi programmi di riqualificazione
delle aree periferiche. Soprattutto le realizzazioni internazionali rendono implicito un modello
attraverso cui, nel rinnovo delle periferie metropolitane, si possono ritrovare i sistemi più efficaci
per valorizzare effettivamente il patrimonio culturale. Principi possono essere così sintetizzati:
- la scala sia territoriale che dell'investimento deve essere sufficientemente ampia per poter
contemperare più funzioni e un modello operativo economicamente sostenibile;
- i sistemi di mobilità interna devono essere ispirati alla sostenibilità ovvero a una significativa
riduzione delle emissioni;
- un'edificazione che contempli alte densità e che sia in grado di concentrare domanda sufficiente ad
alimentare un sistema di trasporto pubblico a basso impatto di emissioni;
- la progettazione va improntata a una reinterpretazione dei luoghi e della loro memoria storica;
- una varietà di funzioni e l'attuazione degli interventi più appropriati per trasformare il degrado in
decoro e sicurezza attraverso l'abbattimento e la ricostruzione, il recupero e la progettazione di un
verde urbano "attivo"
- vanno infine individuati i luoghi di socializzazione dove concentrare l'istruzione pubblica e
l'offerta di servizi per il lavoro.
La metropoli ormai senza limiti e confini può trovare una nuova metrica solo se unisce storia e
modernità, se innova profondamente nella morfologia dei nuovi progetti e nel montaggio delle
fattibilità economiche, il tutto sotto la guida e regia delle istituzioni.
Un processo in linea con le politiche internazionali
Le politiche pubbliche rivolte alla partecipazione diretta delle periferie urbane e metropolitane allo
sviluppo sostenibile e inclusivo. L’esperienza italiana suggerisce flessibili e innovativi orientamenti
di governo con nuovi strumenti di programmazione, pianificazione e governance per rendere
strategicamente e coerentemente integrati decisori e utilizzatori dello spazio pubblico. Abitare in
sicurezza è, inoltre, per il Paese, l'opportunità e il mezzo per la diretta partecipazione alle sfide
globali imposte dal cambiamento climatico e dalle migrazioni. In questo quadro, non poteva
mancare un riferimento ai vecchi e nuovi strumenti strategici che trasformano le periferie in parti di
città connesse, aperte, capaci di sfidare, senza confini, l'integrazione di cui sono fatte oggetto.
Oggetto di attenzione da parte dell'Unione dal 2011, le periferie sono oggi destinatarie di politiche
pubbliche ed investimenti privati, programmi e progetti tematici e intersettoriali, i cui obiettivi
possono essere riassunti in pochi punti:
1. riprogettare e modernizzare funzionalità e servizi;
2. praticare l'inclusione sociale per segmenti di popolazione fragile e per aree e quartieri disagiati;
3. creare un mercato del lavoro locale (soprattutto giovanile) attraverso il rafforzamento della
capacità delle città di attrarre filiere prouttive pregiate, globali e competitive;
4. rigenerare l'habitat insediativo adeguandolo, tecnologicamente, ai moderni standard di qualità
della vita, garantendo nel contempo un aumento delle relazioni sociali e l'inclusione;
5. rendere "sicura" la vivibilità degli spazi pubblici attraverso azioni di contrasto alla criminalità
con il supporto di cittadini e cittadinanze, ricostruendo fiducia nel ruolo dello stato e di una
pubblica amministrazione che dimostri efficacia ed efficienza (capacity building).

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